Clouds.

di coldnight
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Primo: Feels like forever. ***
Capitolo 3: *** Secondo: Missing moments. ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre: Heather? ***
Capitolo 5: *** Capitolo quattro: Numb. ***
Capitolo 6: *** Capitolo cinque: Where there's too light, the shadow is more dark. ***
Capitolo 7: *** Capitolo sei: Smile. ***
Capitolo 8: *** Capitolo sette: Blood of my blood. ***
Capitolo 9: *** Capitolo otto: Black and white. ***
Capitolo 10: *** Capitolo nove: Hold me. ***
Capitolo 11: *** Capitolo dieci: Immortals. ***
Capitolo 12: *** Capitolo undici: Memories and bravery. ***
Capitolo 13: *** Capitolo dodici: Happiness. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Prologo.
 

    Fece rumore giocando con la mozzarella che giaceva nel suo piatto, martoriata dalla forchetta che la spintonava da una parte all’altra, talvolta lambendola. Odiava le mozzarelle, sia di colore, che di sapore, che di consistenza. Le uniche accettabili erano quelle a lunga scadenza, che rimanevano compatte. Altre, invece, si scioglievano in bocca, lasciando troppa acqua nella lingua. Gli davano il voltastomaco. Ed erano così bianche, così lucide. Non gli piacevano nemmeno un po’. « Austin, finisci di mangiare e poi sparecchia, per favore. Sto andando al lavoro » si perse negli occhi nocciola di sua madre, annuendo. Non era molto diversa da lei: stessi capelli, stesso portamento, stesse lentiggini, ma occhi diversi. Gli sarebbe piaciuto avere gli occhi di sua madre, erano scuri ma non troppo, dolci ed espressivi.
    Tornò alla sua mozzarella, insultandola mentalmente. Era solo un inutile latticino, non sarebbe di certo finito nel suo stomaco. Aspettò che sua madre varcò la soglia di casa, dopo di che la gettò nella spazzatura. Era uno spreco, e un po’ si sentì in colpa, ma quell’alimento che sembrava creato dal demonio non avrebbe mai trovato il suo palato. Non durante quel giorno, comunque. « Ho scordato le chiavi, scus- Austin » la voce improvvisa di sua madre gli fece cadere il piatto, che si ruppe in vari pezzi sul pavimento. Diciannove anni e ancora aveva una paura tremenda dei rimproveri di sua madre. « L’hai buttata anche oggi. Austin, io non so davvero cosa fare con te. Si può sapere il motivo per cui ancora ti rifiuti di mangiarle? Mi pareva che l’avessi superata » gli chiese, avvicinandosi e guardandolo intensamente. Tuttavia le diede la schiena, raccogliendo i cocci del piatto rimasti ed evitando gli sguardi compassionevoli e al contempo irritanti. Ed ecco che sua madre ripeteva il solito discorso, tentando di fargli tornare su un morale che mai era esistito, facendola arrivare in ritardo all’ospedale e urlandogli dalla porta di salutare Heather da parte sua.
    Stupida mozzarella, pensò, dirigendosi in camera della sua sorellina. Almeno lei riusciva ad avere sogni tranquilli, con gli occhi chiusi e l’aria serena. Si chiese se stesse sognando, toccandole delicatamente i capelli. Le diede un bacio sulla fronte, notando che teneva stretto tra le braccia un portafoto. Lo sfilò dalle sue mani, preoccupato potesse svegliarla. Gli occhi grandi di suo padre lo fissavano sorridente, circondato dalla sua famiglia: la mamma, Heather, e lui, Austin. I capelli neri erano spettinati e il viso esposto al sole. Suo padre gli mancava come l’aria, e a quanto pareva non solo a lui. Gli occhi di Heather nella foto erano chiari, come i suoi, come quelli di suo padre. Erano tutti così felici e spensierati. Invidiò molto il bambino con i capelli rossi e gli occhi acquamarina, con la faccia imbronciata e un braccio attorno al piccolo corpicino della sorella.
    Il corpo di Heather non era cambiato poi così tanto, ma lei sì: era cresciuta, maturata. Guardandola in quel momento, così tranquilla ed innocente, gli venne da sorridere. Le accarezzò una guancia, stando sempre attento a non svegliarla, studiando ogni centimetro del suo viso. Sorrideva spesso, Heather, e rideva a crepapelle, fino alle lacrime. Fino a quando gli occhi non le facevano male, così male da piangere di dolore. Sua madre le diceva sempre che i suoi occhi avevano un pezzo di cielo, che aveva preso da suo padre. La mamma si era innamorata del signor Reed, suo padre, soprattutto grazie a quegli occhi.
    « Amore, adesso nei tuoi occhi si vedono anche le nuvole, sai? » sussurrava la mamma, agli inizi dei suoi pianti silenziosi, baciando entrambi gli occhi della sua bambina. Non troppo tardi le nuvole sovrastarono completamente il cielo, promettendo tempesta, una tempesta che mai sarebbe finita. La cecità non era una cosa facile da combattere.
    Era costretta ad affinare gli altri suoi sensi, a non distinguere i colori, a vivere nel buio. I primi mesi furono un vero strazio, Heather era come isolata dal resto del mondo, dentro una bolla personale nella quale nessuno riusciva ad entrare. Piangeva spesso, troppo spesso, e gli occhi le facevano sempre più male.
Il suono dei singhiozzi continui della sua sorellina fece sentire ad Austin un sapore amaro in bocca. Era così piccola, e così fragile. Ma era anche molto bella. Si sentiva un po’ come un combattente pronto per andare in missione, cercava di smorzare sempre più la tensione. D’altronde erano solo due anni che non vedeva più nulla, e alcuni malintesi potevano sempre capitare. Si faceva forte di fronte agli altri, e più il tempo passava più la sicurezza, pensò lui, le sarebbe entrata nelle ossa, compensando agli occhi spenti ed inutili.
    La cosa di cui Heather aveva più paura era dimenticare il volto dei suoi cari, gli oggetti che la circondavano, i posti che frequentava. Prendeva sempre in mano le foto, tastava la superficie liscia e cercava di ricordare in che posizione erano: a destra o a sinistra, che facce facevano, le loro espressioni, se avevano gli occhi chiusi oppure no. E Austin l’aiutava, quasi giocando insieme.
    « Sei tu? » chiese lei con la voce impastata dal sonno, stringendo la mano che Austin sbadatamente aveva poggiato nel suo viso. Si scusò, sedendosi accanto a lei. « Che ore sono? Hai mangiato? » chiese, girandosi dalla parte opposta al suo viso, dandogli le spalle. Sorrise, cogliendo la sua ingenuità. Le diede un colpetto nella spalla sinistra, facendola voltare nella sua direzione, vedendola arrossire. « Mi giochi sempre qualche scherzo, tu » rise, allargando le braccia per stringersi nel suo petto. Austin annuì, attirandola a sé.
    « Mi suoni qualcosa? » gli chiese, alzandosi di scatto. Quelle domande lo lasciavano sempre perplesso. Non tanto per il fatto di vergognarsi o di non riuscire a suonare bene in presenza di qualcuno, non era un suo problema. Ma per lei. Aveva paura di poterla farla piangere, in qualche modo. Di ricordarle quando era lei a suonare per lui. « Vorrei che non suonassi la chitarra, però » aggiunse, stringendo le lenzuola. A quel punto rimase interdetto, a metà tra l’alzarsi ed il rimanere seduto, con parole morte in gola e lo sguardo perso nel vuoto. Sussurrò di non saper suonare nessun’altro strumento, risedendosi al suo fianco. Rimasero in silenzio, uno a guardare le sue scarpe rosse e l’altra a voler strappare il lenzuolo, sull’orlo delle lacrime.  « Devi smetterla » disse d’un tratto, facendolo sussultare. Il suo tono era pacato, ma l’affermazione era inaspettata.
« Non chiedermi di fare cosa, Austin, perché lo sai benissimo. Devi smetterla, e subito. Non per me, non per mamma. Per te » sospirò le ultime due parole, lasciando andare le lacrime. « E se ci tieni, anche per papà » aggiunse, infine.



Angolo autrice:
eccomi, con questo parto  questa storia appena sfornata: Clouds.
Sembrerà un po' strano il fatto che questa storia si apra parlando di mozzarelle, eppure una mente contorta come la mia ha sognato una scena molto simile, ed ora eccola qui.
Come riportato nella trama, Austin Reed è un ragazzo che ama la musica, che durante la sua vita ha cambiato idee parecchie volte, che ha conosciuto avvenimenti belli e brutti, come penso capiti a ciascun essere umano. Sono molto affezionata al personaggio di Austin, un po' perché è il primo personaggio maschio tra le mie storie e un po' perché è grazie a lui se sono riuscita a voler pubblicare qui questa storia, poiché Austin rappresenta una persona molto importante.
Heather Reed è una ragazzina di cui ancora l'età non è specificata, ma si scoprirà presto. Non vedente, il suo cielo è continuamente offuscato dalle nuvole. A tal proposito, spero che il paragone sia attinente al discorso, poiché sarà importante nella storia.
Spero possa piacervi, essendo un prologo non dice molto, e la fine è inconcludente. Chiedo venia: è da molto tempo che non scrivo, il capitolo è corto e devo riprendere bene.
Accetto le critiche poiché sono sicura mi aiuteranno parecchio, e se volete o potete vi prego di lasciare una recensione: ne sarei molto felice. 
Bene, vi saluto. Un abbraccio,
Haruka.

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Capitolo 2
*** Primo: Feels like forever. ***


Feels like forever.
 

“If I could find the words, if I could shake the world,
If I could turn back time would you still be there?
If I could find the words to say,
If I could shake the world to break you down,
Then would you still be there?”
 


    La batteria ritmava incessantemente, mentre la chitarra dettava la melodia e la voce intonava le parole, dando forma alla sua canzone preferita che arrivava nitida alle sue orecchie. Poteva distinguere il tocco deciso della grancassa ed il picchiettio del charleston, gli accordi suonati con energia e la gola che sprigionava vita; voglia di fare musica. Quella band lo faceva letteralmente impazzire, poteva quasi sentire il sangue pompare nelle vene più voracemente del normale, sfrecciando il più lontano possibile, riempiendo i tessuti ed inondando i muscoli, per poi tornare al cuore e ripetere tutto il giro, instancabilmente.
    Pestava la punta delle scarpe rosse sul pavimento dell’autobus, a tempo; sentiva come se la canzone potesse penetrare nelle ossa e sconvolgere tutto il suo organismo. Prese un bel sospiro, guardando fuori: pioveva. Le gocce s’infrangevano nella vetrata del veicolo, ricoprendola poco a poco di particelle trasparenti. Guardava il solito paesaggio passargli davanti agli occhi, l’aria ancora un po’ assonnata e la voglia di suonare incastrata nelle dita. Diede un’occhiata alla custodia con dentro la sua, come gli piaceva chiamarla, piccoletta, come a chiederle se fosse pronta. Quando suonava la chitarra pizzicava le corde con delicatezza, quasi a non voler farle del male, suonando non solo grazie a lei, ma per lei. Continuò a fissarla, sorridente: quello strumento l’aveva soccorso molto più di quanto lui potesse credere. Ormai era una cosa naturale: quando si cimentava, leggendo gli spartiti e riproducendo le note in musica ci metteva un’energia quasi palpabile. Pensò addirittura che la sua voglia di vivere fosse nascosta lì, dentro la cassa armonica della piccoletta.
    Uno squarcio di luce si aprì in cielo, rivelando un sole debole ma ancora esistente. La pioggia era leggera, le gocce infrante erano più sottili, le foglie degli alberi si muovevano piano e i colori della cittadina si accendevano un poco. Le strade trafficate, i rumori dei passi, le grida della gente, i clacson e le case variopinte gli erano mancate. Forse quello che gli era mancato più di tutto era prendere il bus per andare all’accademia, dato che usava quasi sempre lo scooter, e godersi così, in modo tranquillo, quello che considerava un panorama. Viveva non poco distante da Londra, a Mitcham, superava il Ravensbury park e continuava dritto, superando incroci e fermate varie. La strada liscia e bagnata dalla tipica pioggerellina londinese, il sole che ogni tanto si degnava di dare la sua presenza e gli edifici che si susseguivano uno dietro l’altro. Nonostante tutto gli piaceva quell’aria fredda e composta, dava quasi un senso di tranquillità.
Arrivato alla sua fermata scese, sistemandosi zaino e custodia nelle spalle, urtando persone un po’ a caso e chiedendo sottovoce di perdonarlo, con un sorriso impacciato nelle labbra. Capitava spesso, ma non era colpa sua. Sospirò, giunto sul marciapiede, aspettandosi qualche urla disumana o un agitare di mani velocissimo, quasi invisibile a occhio nudo. Il suo sguardo si poggiò sulla fermata, sulla strada che si era appena lasciato alle spalle, sulle ragazzine che, con borse, giubbotti, cellulari e cappelli tra le mani, correvano, probabilmente in ritardo. La scuola ricominciava per tutti, e un po’ gli era mancata, anche se non lo avrebbe mai ammesso a nessuno. Gli mancava il suo posto vicino alla finestra, con quel spaccatimpani affianco, o la ragnatela all’angolo sinistro della classe, che ogni tanto disegnava sul quaderno di storia, o l’armadio che sapeva di muffa dove nessuno voleva mai cercare qualcosa. La sua scuola era antica, ma nonostante tutto curata. Le ragnatele e la muffa potevano anche esserci, ma si cercava sempre di far trovare tutto al proprio posto per gli studenti. Ovviamente dipendeva dal personale, perché se si aveva Lucinda come bidella di corso allora sì che si era nella merda, e lui, ovviamente, quella fortuna l’aveva.
    Diede uno sguardo al cielo, sentendosi umido per via delle goccioline quasi invisibili che cadevano dalle poche nuvole rimaste, spazientendosi. E poi eccolo lì: capelli biondi come il grano, occhi chiusi e labbra piene a formare quel suo solito disarmante sorriso. Era certo avrebbe potuto far invidia a una stella, talmente brillava. Era quasi invidioso della dentatura del suo migliore amico, sebbene anche lui non avesse denti storti o sporgenti ovunque. Aveva un sorriso carino, solo che non era abituato a mostrarlo troppo, ecco tutto. D’altronde nove anni di apparecchio erano pur serviti a qualcosa, no?
    Vide la mano del ragazzo salutarlo vistosamente, le gambe correre e due braccia avvolgerlo completamente. « Sei sempre la solita mozzarella, Austin » gli urlò all’orecchio, facendolo sobbalzare. Rinchiuso fra quelle braccia enormi riusciva a sentire il calore familiare dell’amico e non poté che esserne felice. Arrossì, un po’ per l’imbarazzo e un po’ per il nervoso. Si slegarono, mentre il biondino continuava a sorridere. « E tu sei sempre il solito rozzo e impulsivo, Nathan » rispose piccato. Gli passò per la testa di fargli la linguaccia, ma aveva diciannove anni – non sette – e un orgoglio da difendere. Notò che il suo compagno di banco era cresciuto visibilmente in altezza, quasi superandolo. Sbuffò internamente: quell’anno non avrebbe potuto sfotterlo. Lo guardò negli occhi blu, notando la tipica espressione luminosa e contenta, che mai lo abbandonava, e sorrise. Quelle sensazioni sarebbero passate presto, d’altronde erano solo tre mesi che non si vedevano, e soprattutto entrambi sapevano che, da quel momento in poi, non si sarebbero più chiamati con il nome proprio. In effetti avevano uno strano modo di essere amici, troppo complicato da poter spiegare agli altri, e a loro andava bene così. Nathan era come il fratello che Austin aveva mai avuto, un amico importante, e anche se non riusciva a dirlo apertamente era certo che lui sapesse.
     « Non ci credo, non sei davvero andato al mare? Nemmeno una volta? Sembri un cadavere » gli chiese, sbalordito. Cominciarono a camminare, dirigendosi verso la scuola. L’edificio si notava anche da una notevole distanza, con la tonalità di rosso e bianco che quasi faceva splendere il quartiere. Fiumi di ragazzi camminavano, proprio come loro, verso l’entrata. Il portone era in legno, doveva misurare qualche metro. Esternamente non sembrava nemmeno una scuola, con le finestre bianche da un’aria gotica, i vetri grandi e vicini l’un l’altro. Era imponente, con i merletti sul tetto a farlo sembrare un castello. Austin lo vedeva un po’ come la sua fortezza, lì dentro riusciva a concentrarsi e a dare il meglio di sé. « No, non mi andava. Tu invece sembri un africano, deduco che ci sei andato » sorrise ironico, osservandolo. Nathan lo spostò con la mano, agitandola nell’aria dicendogli di togliersi di torno, corrucciando il viso. « Tutta invidia. Mi sono divertito da matti » rispose, guardando dritto davanti a sé. Susanne, la ragazza cui andava dietro da tre anni, gli era appena passata di fronte e gli aveva rivolto un cenno con la mano, salutandolo. Austin gli diede una gomitata, vedendo l’espressione imbambolata e la bocca socchiusa dell’amico, che subito si mise ad agitare un braccio convulsamente. Il rosso sospirò ad alta voce, guardandolo con gli occhi socchiusi. Poteva davvero essere così imbranato? Sembrava una quindicenne davanti al ragazzo più ambito della scuola, con tanto di piercing anche negli occhi e cappellino da vero uomo crudele. Pensò di vederlo sull’asfalto come pozzanghera: si stava sciogliendo, e lo paragonò ad un budino alla vaniglia, di quelli gelatinosi e dannatamente morbidi. La bile gli salì in gola. Che schifo.
    « Deduco anche che a livello sentimentale sei rimasto al punto di partenza » tossicchiò, prendendolo in giro. Ricevette in cambio un pugno nello stomaco che gli fece un po’ male, ma non tanto da piegarlo in due o da sputare sangue. Nathan lo guardò contradditorio, e mise su un broncio che Austin avrebbe definito adorabile, se solo non avesse avuto la sua età. « Ti avrei detto tutto, se avessi trovato qualcuno » sputò velenoso, per poi girarsi nella direzione opposta. Il prato della scuola era sempre curato nei minimi dettagli, e i giardinieri erano sempre gli stessi. Quasi li riconosceva tutti. Quando andavano a fumare durante le ore di grammatica nel retro dell’edificio il signor Markus – capelli neri, occhiali tondi e spessi, naso all’insù e pancia esageratamente grande – si soffermava e chiacchierava con loro, parlandogli di come fosse noioso restare per mattinate intere a tosare cespugli o siepi di una scuola. Secondo lui la tosatura era un’arte, e in una scuola dovevano crescere solo alberi d’abbellimento, come le querce. Austin rimaneva affascinato dal ciliegio in mezzo al giardino, l’albero più grande e con indubbiamente i fiori più belli. All’ora della pausa si sedeva sul tronco e disegnava sino a quando il sonno non gli giocava qualche brutto scherzo, o più che il sonno il suo caro compagno di stanza: Nathan.
    « E quindi siamo sempre alle solite. Susina ti ha proprio folgorato » sorrise pensando al nomignolo che tre anni prima gli era venuto in mente. Le stava a pennello: i capelli erano di un viola strano, proprio simile al frutto, inoltre era formosa e slanciata. Quell’anno i capelli li portava rosa confetto, le lentiggini erano più scure del solito e gli occhi verdi risplendevano alla luce del sole poco sole rimasto. Indubbiamente non passava inosservata, così come tantissime altre ragazze alla Royal. « Non chiamarla così » sussurrò, le gote arrossate per l’imbarazzo. Austin rise, toccandogli le guance con fare giocoso. « Pooovero piccolo » canzonò, sfottendolo. « Davvero divertente, micio. Non sarai mica geloso? » il biondo continuò, rispondendo alle suddette provocazioni. « Oh certo, io sono tanto geloso. Dio, ma ti ricordi quando abbiamo finto di stare insieme per toglierti di torno Alexandra, al primo anno? Tutti ci hanno preso seriamente, e dicevano che stavamo bene insieme » al ricordo delle loro mani unite per i corridoi, dell’imbarazzo che non ne voleva sapere di passare, allo sconcerto della ragazzina invaghita di Nathan, Austin scoppiò a ridere, seguito dal ragazzo affianco. « Siamo stati degli attori formidabili »
    Entrati nell’atrio la calca di gente spintonava per entrare, alcuni prendevano le scale, altri l’ascensore, molti si recavano in aula magna e altri ancora cercavano i propri amici. Pensò che, effettivamente, anche lui doveva cercare i suoi. S’incamminarono verso la classe, soffermandosi sulle due rampe di scale che li attendevano. Austin sorrise. Stava per ricominciare l’avventura, lo sentiva sotto la pelle, così come i brividi gli facevano venire la pelle d’oca. Era adrenalina. Strinse la custodia con dentro la sua piccoletta, guardò Nathan negli occhi ed entrambi si diedero ad una corsa sfrenata: quell’anno gli ultimi posti vicino alla finestra sarebbero appartenuti a loro, così come ogni anno, e sarebbero stati disposti a tutto pur di prenderseli. 



Angolo autrice:
eccomi, con il primo capitolo di Clouds.
La canzone sopracitata è degli Of mice & men - Would you still be there, che tra l'altro io amo. Oltre ad essere stata la prima canzone loro che ho ascoltato, devo dire che il significato è sempre bello da leggere, capire, e cantare. Ve la consiglio. Inoltre credo di provare le stesse emozioni che il malpelo prova in questo scritto.
E quindi, mi cimento a parlare del capitolo. Conosciamo Nathan, il migliore amico, fratello e vecchio amore di Austin. No, scherzo. Questi due teppistelli ne faranno delle belle, ve lo posso assicurare, ma non si metteranno insieme. Ho in serbo molte altre novità per loro.
Ci tengo a precisare che la Royal Academy of music esiste davvero a Londra, nonostante qualcosa me la sia inventata (ad esempio il fatto che l'esterno sia riempito da siepi e che nel mezzo del giardino si trovi un ciliegio). Chiedo scusa per la poca descrizione nell'ambiente esterno riguardante l'edificio, prossimamente cercherò di spiegare bene com'è fatto, in modo tale da immaginarlo correttamente.
Spero che il carattere del protagonista stia venendo bene, tengo molto all'aspetto mentale dei personaggi perché credo sia una delle cose più importanti, anche più di quello fisico. Inoltre spero che anche il personaggio di Nathan sia apprezzabile, poiché anch'esso molto importante.
Nel secondo capitolo vedremo tutta la ciurma, tra amici e conoscenti, di cui Austin e Nathan fanno parte.
So che ho trascurato il personaggio di Heather, ma non vi preoccupate, sarà presente.
Perdonatemi per eventuali errori.
Bene, spero che vi sia piaciuto. Ringrazio chi ha recensito, messo nei preferiti/seguite la storia di cuore, e ringrazio anche i lettori silenziosi: fate sempre piacere. Inoltre vi invito a recensire, anche giusto per qualche appunto.
Grazie infinite di nuovo. Un abbraccio,
Haruka.

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Capitolo 3
*** Secondo: Missing moments. ***


Capitolo due: Missing moments.


« Should I? Should I?
Maybe I’ll get drunk, again
I’ll be drunk, again, I’ll be drunk, again
To feel a little love again »
 
   
       La distesa di nuvole rimaneva sospesa, leggera. Sembravano quasi aggraziate da quel punto di vista, quando abbracciavano il cielo, coprendolo completamente, e accarezzando i tetti delle case; ridendo a crepapelle per via dei grattacieli. Una metafora fantasiosa – pensò – ma attinente. Le ricordavano lo zucchero filato durante la fiera del paese, il sapore dolce e i vari fiocchi che gli si scioglievano nella lingua. Era un sapore che amava. Ma quelle nuvole, dopotutto, gli davano fastidio. Alcune erano bianche, lucide, e lasciavano intravedere qualche spiraglio di luce azzurra: il cielo combatteva per farsi notare, come sempre. Il tempo non era mai stato una cosa di cui andare fieri, a Londra, eppure lui continuava a sperare.
   I piccioni volavano da una parte all’altra nel tetto dell’abitazione che vedeva dalla finestra, tutta colorata di arancione, rosso e giallo. Era una casa particolare, sembrava quella che Heather da piccola usava per giocare con le sue bamboline e che lui poi andava a decapitare, facendola piangere. Si morse la lingua, pentendosi del pensiero “Era stato divertente, comunque” che gli volò nel cervello. Il sonoro battito d’ali lo distraeva: i piccioni volavano liberi di andare dove volevano da una parte all’altra, appollaiandosi a prendere quei pochi raggi del sole esistenti, mangiavano quello che volevano e oziavano, ripetutamente. Non gli invidiava – non erano animali belli o potenti, erano solo insulsi piccioni – ma avere un paio d’ali e una pancia piena, in quel momento, non gli sarebbe di certo dispiaciuto.
     Lo stomaco di Nathan lo risvegliò dai suoi pensieri, facendogli venire l’acquolina in bocca. Non ne poteva più. Aveva voglia di incontrare i suoi amici in mensa, di correre tra i corridoi inseguendo il biondino esagitato che aveva per compagno di banco e magari sputare in un occhio al professore di solfeggio. Ah, e mettere qualcosa sotto i denti, fosse stata anche carta. No, no, la carta no. Voleva un panino, o una piadina, con dentro più salumi, insalata e pomodoro possibili. Il suo stomaco stava implodendo in ginocchio, contorcendosi su sé stesso meglio di un professionista. Aveva troppa fame. Vide il suo amico sbattere la testa contro il banco, lamentandosi continuamente. « Io questo qui non lo sopporto più. Ed è il primo giorno, Austin Reed. È solo il primo fottuto giorno di scuola e questo calvo di merda mi ha già preso alle palle. Austin Reed, io… Io… » cominciò sibilando, sbattendo i pugni debolmente sul banco e guardandolo con occhi sgranati. La tonalità di blu si era accesa magicamente, rendendo il suo sguardo ancora più incatenante. Si chiese se anche i suoi occhi facessero lo stesso effetto alle altre persone.
    « Reed, Johnson, visto che avete tanto di cui discutere credo vorrete coinvolgere tutta la classe insieme a voi, o sbaglio? Questa scala di basso non vi allieta abbastanza, signori? » domandò retorico, abbassando di qualche millimetro gli occhiali nel suo naso chilometrico. Pensò che da quel “coso” ci si potesse fare il bunjee jumping. Sorrise sardonico. « O forse preferite essere sbattuti fuori » continuò, con un sorriso che non ammetteva repliche. Purtroppo, a quanto pareva, il biondo non era del suo stesso avviso: si alzò a schiocco di dita, prendendo per le spalle il rosso. « Possiamo davvero andare fuori? » chiese, con una vocina che faceva invidia alle bambine di sei anni. Austin avrebbe voluto morire, piuttosto che stare nel mezzo tra l’essere fucilato con lo sguardo dal professore che odiava di più o strozzare mettendo fine alla sua giovane vita il suo migliore amico.
      
Il professore scosse la testa disperato, non sapendo che dire. Si sedette, pregando i due di abbandonare l’aula, il che rese il più basso dei ragazzi la felicità in forma umana. I corridoi erano identici a come se li ricordava: l’intonaco marrone eccellentemente pulito, il parquet delle aule lucidato, gli armadietti che sapevano di buono nonostante fossero fatti di metallo. Lucinda ed il resto del personale facevano un lavoro ottimo, dopotutto. Non poteva ancora andare a vedere la sua nuova camera, dato che quell’anno molte cose erano cambiate, e moriva dalla voglia di sapere su cosa dava la sua finestra, di che colore erano le mura, se il letto fosse comodo e se il bagno fosse abbastanza grande per lui e Nathan. Pensò di portare lo scacciapensieri con i piccoli soli che gli aveva regalato Heather due anni prima: l’aveva ancora dentro una scatola e non sapeva come usarlo. Ne avrebbe approfittato.
       
Le mani in tasca e il cappuccio in testa, Austin seguiva il biondo come un fedele cagnolino: era sempre stato così. Lui correva spedito, saltellando da una parte all’altra della scuola, andando a controllare che tutto fosse come lo aveva lasciato. L’aula di disegno era sempre la stessa, le cucine pure, il laboratorio di chimica aveva un armadio in più. La palestra era enorme, impolverata e buia. Trasmetteva tranquillità in quel momento, e se solo ci fosse stata una luce adatta Austin avrebbe impugnato un carboncino e si sarebbe messo a disegnare senza freno. Subito pensò alla sua chitarra, lasciata in classe, e il panico si riversò su di lui. Non poteva lasciare la piccoletta in balia del mostro. « Non ti preoccupare, non la toccherà. E poi è con tutti gli altri strumenti, compreso il mio flauto. Se prova solo ad avvicinarsi gli taglio la testa e ci faccio lo spezzatino » lo rassicurò coraggiosamente il suo amico.
       
La mensa era esageratamente grande, come sempre gli era apparsa. Si ricordò quando la vide la prima volta, a sei anni. Pensò che lì dentro potevano rimanere eserciti interi, gli sembrava quasi impossibile che lì dentro mangiassero solo studenti. Era solo un bambino pieno di cose da scoprire, con una madre che lo prendeva in giro per la sua ingenuità, una sorellina troppo piccola per parlare e un padre che lo avvolgeva stretto tra le braccia, spiegandogli che lì dentro si sarebbe svolto il suo futuro. Aveva ancora la custodia del violino tra le mani, all’epoca. Il ricordo gli fece venire il magone: il nodo stringeva, faceva male. Sospirò: suo padre gli mancava tantissimo. 
       
Il tempo insieme a Nathan sembrava volare: quando apriva bocca e faceva uscire due parole cominciava un vero e proprio fiume di discorsi. Il termine “noia” non esisteva nel suo vocabolario così come nella sua vita. Era una persona genuina e da scoprire, perché nonostante a primo impatto desse l’idea di essere un perfetto coglione – e intelligente poi così tanto, a dirla tutta, non lo era – era un ragazzo normale, con dei pesi da affrontare e una vita da quasi adulto da gestire. Lui sorrideva sempre, qualsiasi cosa accadesse. Mostrava i suoi bellissimi denti e tutto il resto spariva, perché quel sorriso riscaldava il cuore di tutto il resto del mondo, anche se involontariamente. Austin sentiva che senza quel calore non sarebbe mai riuscito a vivere, e anche se era consapevole di non aver mai detto una cosa del genere al ragazzo che ora davanti a lui parlava di quanto fossero cresciuti i capelli di Susina, lui quelle parole le pensava davvero. Nathan era il sole che brillava nel suo cielo scuro.
       
Si chiese se mai, un giorno, sarebbe stato lui il sole di qualcuno. I cieli delle persone possono essere di vari colori: azzurri e gialli, limpidi e accesi, radiosi, come probabilmente era quello del suo migliore amico; rossi, pieni di passione, che davano all’arancione; grigi, come era sempre stato il suo; neri, ricchi di turbini e tempeste; bianchi, invisibili, come quello di Heather, dove le nuvole rischiano di risucchiare via tutto. Si morse le labbra, pensando che illuminare le giornate di qualcun altro doveva essere un lavoro importante. Chissà se Nathan era a conoscenza della sicurezza e dell’aiuto che gli donava.
     
« Malpelo! Da quanto tempo! » una voce roca lo fece sussultare: era già l’ora di pranzo? Quanto tempo era passato? Sentì la mano di Christian posarsi sulla sua spalla sinistra, stringendola. Rivedere il viso abbronzato del suo amico lo fece tornare coi piedi per terra, scacciando via quei pensieri fin troppo filosofici. La cicatrice rossa sulla guancia sinistra, i canini sopraelevati che lo rendevano un perfetto vampiro, gli occhi cangianti e i capelli ordinati sulla testa. Christian sostava al suo fianco, la mano ancora ben salda attorno alla sua spalla e l’aria birichina in volto. « Credo che quest’anno ti potrei chiamare armadio, talmente ti sei ingrossato » sorrise, dandogli uno schiaffetto nella coscia. « Non dire così TinTin, sembri mia madre » un’altra voce lo sorprese: così come vedere gli occhi blu e i capelli lunghissimi raccolti in una coda bassa di Natalie, la sorella di Nathan, seguita da altre tre ragazze che non conosceva e i suoi due cari amici Leo e Makoto.
      
Non gli sembrò vero di vederli lì, intorno a lui. Erano passati solo tre mesi, eppure gli erano mancati davvero un sacco. Stare senza di loro per tutto quel tempo era diventato pesante, la cecità di sua sorella e il cercare di distrarre sua madre dai troppi doveri, talvolta aiutandola, l’aveva oppresso a tal punto da farlo quasi impazzire. Aveva bisogno di uno svago, di sentirsi un fottutissimo diciannovenne coi controcoglioni, avrebbe detto il suo migliore amico, alzando l’indice al cielo e intonando la voce in modo sicuro e fiero. Sorrise, un sorriso sincero e solare. L’aria famigliare che solo quella compagnia gli dava lo faceva sentire quasi protetto, come se tante braccia lo stessero avvolgendo, riscaldandolo. Come se suo padre fosse stato lì, fiero di lui, a guardarlo con le lacrime agli occhi e il sorriso di chi non sa come esprimere la felicità tra le labbra.
     
Natalie era identica a Nathan, stessi occhi, stessi capelli, quasi lo stesso nome, persino gli stessi nei. Sembrava un po’ più seria rispetto al fratello, ma in realtà era una bomba atomica che se decideva di avere qualcosa l’aveva in qualsiasi modo possibile, che scattava al primo segnale e che non stava ferma nemmeno per un secondo. Poteva essere considerata anche come terremoto, effettivamente. Spazzava via tutto insieme alla sua allegria, e soprattutto insieme alla sua risata, che faceva venire i crampi alla pancia a tutti gli altri. L’avevano accettata subito nella loro cerchia soprattutto per i suoi modi di fare: il suo essere mascolino ma dolce allo stesso tempo, il gesticolare continuo e quella particolare risata che scoppiava dal cuore. Era bello stare insieme a lei, nonostante fosse più piccola.
    
Leo era di origine italiane, con i capelli neri e gli occhi castano nocciola, che al sole diventavano quasi gialli. Avrebbero voluto denominarlo come “gatto” diverse volte, ma Austin aveva preso il posto di “Micio” da Nathan tempo prima, quindi si doveva accontentare di essere paragonato al re della foresta: il leone, appunto. Il suo senso dell’umorismo era fuori dal comune, sapeva fare delle battute che facevano stendere tutti sul pavimento in preda a spasmi impossibili da frenare. Era divertente la sua compagnia, poiché la sua ironia accoglieva ogni cosa con delicatezza, senza andare nel personale e offendere. Leo era diligente e sapeva quello che faceva, diplomatico e intelligente. Era un asso nella logica, e tutti lo invidiavano per quel motivo (e per il 10 periodico in matematica che nemmeno lui, Austin, riusciva a prendere).
      
Makoto, invece, era un ragazzo giapponese con gli occhi a mandorla e un sorriso impacciato, tenero. Se sapeva innumerevoli parole giapponesi doveva tutto a lui, almeno sapeva come insultare Nathan in modo originale e, soprattutto, senza che lui capisse quello che diceva, il che rendeva tutto più divertente. Oltre ad avere una “r” pietosa e al mangiare robe improponibili come miso o brodo con pasta o qualunque cosa fosse, era un ragazzo disponibile e che riusciva a dare il giusto consiglio al momento giusto. Valutava sempre tutto quello che svolgeva, rendendolo al meglio. Se compiva qualche sbaglio si rilassava, meditava bevendo chissà quale tisana o bevanda del genere, respirava a fondo e cercava di capire quale fosse il problema. Austin pensò che al suo posto sarebbe già andato su tutte le furie, impazzito e che avrebbe rotto qualcosa in testa a qualcuno.
     
Erano una banda un po’ strana, composta da poche persone, ma unita. E probabilmente era quella la cosa fondamentale. Perché Austin insieme a loro stava bene, si sentiva circondato dalla sensazione più bella del mondo, quella stessa sensazione che da bambini ci danno le coperte e il loro tepore durante l’inverno. Era un esempio stupido anche quello, e forse nemmeno attinente, ma lui si sentiva così. Più guardava i suoi amici sfottersi e parlare tra loro, più sentiva un groppo nel cuore che faceva male, che gli contorceva le viscere. Quanto gli erano mancati? Tanto, troppo.
    Il suo panino arrivò dopo due ore dalla richiesta, e non appena vide il salame misto a maionese, insalata e pomodoro pensò di piangere dalla gioia. « Ovviamente lo dividi con noi, vero? » chiese il giapponese, sorridendogli. Austin rimase interdetto per due secondi, non sapendo cosa rispondere, mentre il suo stomaco gorgogliava senza ritegno. Pensò stesse per morire dalla fame, eppure erano solo sei ore che non mangiava. Ci pensò un momento, guardando Nathan abbuffarsi come un maiale e gli altri guardarlo con apprensione. « Mh » mugugnò, mordendo il primo pezzo di panino. Si sentì nel paradiso, tanto che gli venne da chiudere gli occhi per bearsi di quella sensazione di appagamento. « Dai Micio, fai da bravo e condividi il tuo cibo » lo prese in giro Nathan, guardandolo di sottecchi. « Non credo proprio. Fottetevi tutti quanti » rispose, addentando ancora una volta il pane. « E, tanto per la cronaca, mi siete mancati » aggiunse.


Spazio autrice:
sono consapevole di aver pubblicato il secondo capitolo un po' in ritardo rispetto al previsto, dato che pensavo di pubblicarne almeno uno a settimana, e mi dispiace parecchio. Sfortunatamente tra periodo dei pagellini - e dunque verifiche su verifiche - e sport, e il Natale che si avvicina (insieme alla mia felicità) non riesco a scrivere molto. Spero possiate capire.
Venendo al capitolo, so che può sembrare di passaggio, e che Austin possa sembrare la persona più pallosa smielata di questo mondo, ma per me era importante far capire quanto lui tenesse alla sua compagnia. Queste persone, appena presentate, saranno molto importanti per lui e ci tengo che si capisca. La musica l'ha salvato, è vero, ma lo è anche il fatto di avere delle spalle su cui piangere e delle orecchie su cui confidarsi. E lui ne ha ben quattro paia, togliendo sua madre e Heather.
Tutti questi personaggi svolgeranno delle funzioni molto importanti, mi piace differenziare il genere e i tipi di persone (come credo si sia visto) e mi farebbe piacere avere un vostro parere a riguardo. Perdonate eventuali errori.
Se vi può interessare la canzone sopracitata è di Ed Sheeran - Drunk, una delle mie preferite tra l'altro. V'invito di ascoltare anche questa.
Spero che la storia stia prendendo una giusta piega, nonostante sia solo all'inizio. Presto si scopriranno molte più cose, ed entrerà nella vita di Austin il personaggio più importante, dopo Nathan.
Bene, credo di aver detto tutto. Per eventuali dubbi o incomprensioni non esitate a chiedere. Grazie mille a chi mette nelle seguite o nelle preferite, grazie mille a chi recensisce e anche ai lettori silenziosi.
Un abbraccio,
Haruka.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo tre: Heather? ***


Capitolo tre: Heather?
 
“Lost and insecure... you found me, you found me
Lying on the floor... surrounded, surrounded
Why'd you have to wait? Where were you? Where were you?
Just a little late... you found me, you found me...”
 
    Alzarsi la mattina lasciando il suo letto caldo gli sembrava un sacrilegio. Sentire il tepore delle coperte era una sensazione paradisiaca e privandosene faceva un torto a sé stesso non indifferente. I brividi gli scivolarono su tutto il corpo, avvolgendolo. Era così scosso, una volta alzato, che cominciò a battere furiosamente i denti, con il respiro mozzato e l’aria che pareva ghiaccio. Era come se tanti spilli lo stessero trafiggendo, e realizzò che per una volta nella sua vita non avrebbe odiato l’ora di educazione fisica delle nove del mattino. Pensare a tutto quello che avrebbe dovuto fare quel giorno gli faceva solo venire il mal di testa. Elencava mentalmente tutte le azioni e proprio quando pensava di aver terminato almeno altre cinque cose si aggiungevano alla lista. E dire che non era passato nemmeno un mese dal primo giorno.
    Inciampò sui suoi stessi piedi, con gli occhi socchiusi e lucidi. Sentiva ancora il sonno arrugginirlo, e pensare di doversi lavare – o meglio, ustionarsi – il viso con l’acqua congelata di quel dannatissimo lavandino bianco desiderò di morire. Qualcuno, pensò, aveva sentito ed esaudito la sua richiesta, poiché sbatté la testa contro la porta del bagno. Si chiese come diamine avesse fatto a non vederla.  « Sei proprio messo male, Micio » la voce roca ed il viso ancora abbronzato del suo migliore amico gli si presentarono davanti, sfottendolo con noncuranza. Austin sbuffò, mandandolo mentalmente a quel paese, troppo infreddolito per essere capace di esprimere quel pensiero con parole.
    Sentì l’acqua intorpidirgli il viso, i brividi cominciarono a ripercorrergli convulsamente la base della schiena. La tuta da ginnastica come sempre gli stava troppo larga dal cavallo e troppo stretta dalle caviglie, mandandolo in bestia. Odiava quella materia, ogni anno si chiedeva perché mai non fosse facoltativa. Non che non fosse bravo, ma sentirsi appiccicoso e umido in ogni porzione di pelle, con la maglietta – volutamente dagli insegnanti – bianca che gli si appiccicava al petto e alla schiena, lasciando poco spazio all’immaginazione, non gli piaceva. Aveva un bel fisico, ma con quel filo di stoffa sopra si sentiva quasi imbalsamato, nemmeno fosse un faraone. Uscì dal bagno, guardando Nathan già pronto e profumato, con i polsini e le gomitiere neri a sigillargli le braccia. Non la pensava esattamente al suo stesso modo per quanto riguardava le scienze motorie, anzi, prendeva quella disciplina molto seriamente.
    La palestra, immensa come al solito, era illuminata dalle luci a neon. I muri erano di un opaco grigio perla, il pavimento verde e consumato, i cestoni con i vari attrezzi sportivi disposti negli angoli. I canestri imponenti e non poi così tanto alti. La prima volta che aveva messo piede lì dentro, gli erano sembrati un qualcosa di fenomenale, irraggiungibile. Poi suo padre lo aveva preso sulle spalle, e dopo essersi messo in punta di piedi gli aveva fatto toccare la rete spessa e bianca dell’anello del canestro. Austin aveva riso, continuando a toccare quei fili intrecciati, mentre suo padre lo sollevava sempre di più. Quel ricordo gli fece un po’ male. Non era come gli altri, ma più significativo, poiché dopo la morte di suo padre, o meglio, a causa della morte di suo padre aveva abbandonato sogni e desideri, e come se il dolore fosse stato troppo poco la cecità di Heather arrivò imminente, spiazzandolo. Quando seppe che gli occhi di sua sorella si sarebbero oscurati per sempre pensò di essere morto. Non sentiva gli arti, i polmoni prendere e lasciare aria, quella stessa aria che bruciava; il cuore battere.
Palleggiò insieme ad un ragazzo mai visto prima e di cui nemmeno ricordava il nome, talmente era preso dai suoi pensieri. Forse Sam, Sean, o Shoan, o Stephan? Sebastian, ecco come si chiamava. Il suo nome gli venne in un lampo di secondo, ricordando la voce calma e incolore del ragazzo che si trovava difronte. Non era scarso, fletteva le ginocchia al punto giusto e lanciava la palla a strisce verdi, bianche e rosse nel giusto modo. Doveva di sicuro aver giocato a pallavolo, prima di allora. Sebastian portava i capelli lisci e lunghi fino alle spalle in ciuffi scomposti davanti agli occhi, la pelle era candida quasi quanto la sua e gli occhi erano scuri, profondi. A differenza sua, Austin aveva giocato a pallavolo sì e no una decina di volte, e le sue alzate erano doppie, storte e talvolta troppo lunghe o troppo corte. Si scusava almeno ogni volta in cui la palla sfioravano le sue mani grandi e tremendamente bianche, mettendolo in imbarazzo. « Non preoccuparti » gli sorrise il moro, fermando la palla. L’osservò per qualche secondo, lanciando un’occhiata alle sue dita lunghe e affusolate, e poi rilanciò la palla. Il rosso non disse nulla, continuando a fare del suo meglio.
    « Tu non suoni il pianoforte, vero? » chiese, smorzando la voce quando saltava per spingere meglio la palla verso di lui. « No, suono la chitarra. Tu? » chiese, flettendo le ginocchia e restituendo il pallone con un bagher piuttosto storto. Si scusò ancora una volta, accennando un sorriso timido.  « Per me possiamo anche cambiare sport, è uguale » rise, come a prenderlo in giro. « Suonavo il violino, e tu eri nella mia classe, solo che l’anno in cui io sono arrivato ti sei trasferito nella classe di chitarristi. Tutti dicevano che era un vero peccato e che erano dispiaciuti per te. All’inizio non capivo, poi ho saputo di tuo padre e mi dispiace » continuò, con lo stesso tono incolore. Austin sgranò gli occhi, schiuse le labbra e rimase qualche secondo in silenzio, non sapendo cosa dire. « Non… importa. Figurati. Ormai è successo » bisbigliò, fissando le scarpe da ginnastica con qualche laccio a destra e a manca. Sospirò. «Volevi dirmi questo fin dall’inizio? » chiese poi, concentrandosi sui suoi occhi. Potevano anche essere profondi o spenti, ma non avrebbero comunque avuto vittorie contro i suoi: freddi, congelanti. Il suo sguardo sembrava assente e minaccioso, o almeno questo era quello che tutti i professori dicevano a sua madre, nonostante lui fosse una persona dolce e gentile.
    Sebastian scosse la testa, accennando una risata. Il rosso non seppe il motivo ma quel ragazzo si trovava in un baratro, nella sua mente: da una parte cominciava a dargli sui nervi, dall’altra lo incuriosiva. « Ti ho sentito suonare la chitarra, una volta, e sei parecchio bravo. Solo che mi piacerebbe sentirti suonare anche il violino, tutto qui. All’inizio non ti avevo nemmeno riconosciuto, ma dato che ora ci siamo… » disse pacato, alzando la braccia come a voler dire che quella era una situazione del tutto naturale. Era come se stessero parlando di lezioni e professori. Ad Austin era mancata quella sensazione: parlare di suo padre normalmente, senza vedere sguardi afflitti o dispiaciuti. Sebastian rimaneva per le sue, dicendo la propria opinione ma senza far trapelare emozioni, senza farsi scalfire da storie tristi. E anche lui voleva sentirlo suonare. Sua madre, Heather e quel cretino di Nathan l’avevano pregato fino ad inginocchiarsi di suonare il violino per loro, almeno una volta, e lui aveva sempre declinato l’offerta. Il cuore prese a battergli nel petto all’impazzata. « Perché vorresti sentirmi suonare, Sebastian? » chiese, socchiudendo le palpebre e raggelando, se possibile, ancora di più lo sguardo. « Ci manca il primo violinista, quest’anno, e io voglio che sia tu. L’anno è appena iniziato e tu sei bravo. Sono arrivato qui che avevo quindici anni, dopo tre anni di riformatorio, è la prima occasione che possiedo di suonare in un’orchestra come si deve e voglio avere un violinista che mi sappia accompagnare » la sua voce era ferma, sicura, non aveva alcuna paura della reazione che Austin avrebbe potuto avere, anzi. Probabilmente pensava che lui avrebbe accettato su due piedi, in quel momento, con un sorriso sulle labbra e le iridi a forma di cuore.
    Al rosso scappò una risata sguaiata, dovette tenersi la pancia da quanto facevano male quelle risate, quelle parole, e prima che le lacrime potessero scendere libere sulle sue guance si morse il labbro a sangue, fermandole. Suonare quello strumento, entrare in quell’aula, sentire il profumo del legno racchiuso dentro la custodia era tassativamente vietato nel suo cervello. Lui non poteva più permetterselo, altrimenti i ricordi sarebbero tornati, e così il dolore e tutto il resto. Lui aveva dimenticato tutte le cose successe da quei quattro anni, facendosi forza delle sue spalle e comportandosi da uomo di casa, aiutando sua madre e la sua piccola sorellina. « Tu non capisci, amico, davvero. Io quello strumento non lo suonerò mai più » sussurrò, guardandolo negli occhi, forse mostrando parte della sua debolezza. Era da tanto che nessuno gli faceva quel discorso, e sentirlo da un ragazzo di cui conosceva a malapena il nome era strano ma toccante. Apprezzava le sue parole, ma in cuor suo sapeva che non avrebbe più potuto suonare quelle melodie che il suo papà gli aveva insegnato. Avrebbe fatto troppo male.
    Sebastian lo fissò con un velo di delusione nello sguardo. Sapeva che avrebbe rifiutato, ma non in quel modo. Lo squarcio di dolore in quegli occhi azzurri si stava man mano espandendo, quasi colmando anche lui nella desolazione che quel ragazzo si portava dentro. Era quasi palpabile. Il professore fischiò per tre volte, segno che la lezione era terminata, e tutti tornarono nelle loro classi. « Allora concedimi di sentirti suonare la chitarra » si avvicinò ad Austin, allungandogli una mano, che l’altro strinse volentieri. « Quando vuoi » disse, recuperando allo sguardo perso e triste che aveva in precedenza. Osservò il ragazzo dai capelli corvini di fronte a sé venir spintonato da una ragazza ansante, con il volto pallidissimo e gli occhi neri, vuoti. Non erano spenti, ma peggio. Era come se iride e pupilla si impastassero, e quella ragazza non potesse vedere ciò che la circondava. Pensò immediatamente ad Heather. La mano di Sebastian che si agitava verso di lui lo fece tornare con i piedi per terra, e dopo aver ricambiato notò che la ragazza lo stava fissando. I capelli le arrivavano fino alla base della schiena, era lunghi e ondulati. La pelle era nivea e le labbra completamente screpolate, quasi spaccate, dettaglio notevole persino da qualche metro di distanza.
    Una pallonata alla nuca da parte del suo biondo lo fece ridestare, e si chiese per quanto ancora voleva rimanere incantato come un manichino, sembrando pure un idiota agli occhi degli altri. Nathan lo prese sottobraccio, cominciando a raccontargli di quanto fosse stato bello fare dei passaggi con Susina, e che era stata una fortuna averla in coppia con lui. Muoveva la bocca in modo velocissimo, talvolta mangiandosi le parole. Gesticolava per evidenziare le azioni, e quando parlò del sorriso che Susanne gli rivolse divenne tutto rosso come un bambino. Gli fece tenerezza. « Quando hai intenzione di chiederle di uscire? » domandò il malpelo, scrutandolo. L’anno prima poteva vantarsi di farlo dall’alto al basso, ma in quel momento Nathan era alto quasi quanto lui, e rammentò che i suoi divertimenti erano terminati. Persino chiamarlo con il suo simpatico appellativo non aveva più un senso. « Non lo so, forse questa settimana le chiedo di pranzare insieme. Solo che quando mangio sembro un maiale, vero? » piagnucolò il biondino, imbronciandosi come al solito. « Sì piccoletto, fai davvero schifo mentre mangi » Austin rise, scompigliandogli i capelli e correndo a più non posso pur di non farsi acchiappare da quella piccola peste con la zazzera chiara e gli occhi cristallini.
    Dopo essersi rincorsi per quasi tutta la scuola, essere scappati da una Lucinda furiosa che minacciava di denunciarli ed essersi cambiati per andare alla lezione di fisica, i due passarono verso quella che loro chiamavano la via principale, poiché in quel corridoio si affacciavano aule di pianoforte, percussioni, chitarre, violini e strumenti a fiato, oltre che alle aule normali. Ce n’era per tutti i gusti, ed era bello vedere fogli di spartiti di qualsiasi tipo e genere svolazzare da un’aula all’altra. Era molto bello vedere anche collaborazioni tra flauti e pianoforti vari, o tra contrabbassi e violoncelli, poiché il suono era migliore ed elegante. D’un tratto sentì una melodia famigliare, tasti neri e bianchi che si univano insieme, ed una ragazza che sembrava di conoscere seduta su uno sgabello di fronte ad un pianoforte a coda, con un’altra ragazza al suo fianco. Doveva essere un quattro mani, eppure solo una delle due suonava.
    Quasi si strozzò con la propria saliva quando, aguzzando bene la vista e mettendo meglio a fuoco, riconobbe i capelli castani e le spalle fini di sua sorella. Pensò inizialmente di essere pazzo, e sudando freddo si avvicinò. Eppure quella canzone lui la conosceva, Heather la suonava sempre prima di cena o dopo aver terminato i suoi compiti. Non era possibile, però: lei non poteva essere lì. Lei era a casa, e aspettava il sabato per vederla. Riconobbe anche la ragazza con i capelli ondulati e neri di prima starle accanto, incitandola e dettandole il ritmo. Deglutì a fatica, notando gli sguardi di tutti gli altri puntarsi sulle due ragazze, quasi ammaliati. Si avvicinò ancora alla tastiera di quel pianoforte nero e laccato, su cui poteva specchiarsi. E le vide. Le dita piccole e sottili muoversi senza freno, con l’andamento del busto che andava avanti e indietro, e il piede che schiacciava il pedale in un ritmo calmo e tranquillo. Quella melodia dava pace e spensieratezza, una signora con un grosso chignon e un vestito tremendo a fiori teneva gli occhi chiusi, come a volersi lasciar trasportare in balia delle note.
    Nathan lo raggiunse, sbarrando anch’esso gli occhi. La canzone finì, lasciando posto ad uno scrosciare di applausi. Quando la pianista, aiutata dall’altra ragazza, si girò verso il suo viso, Austin sentì la terra mancargli sotto ai piedi. Pensò stesse sognando, poiché non era una cosa possibile. Vide Sebastian dirigersi verso di lui, sorridente. « A quanto pare la signorina ha più palle di te » lo sfotté, di nuovo, guardando con orgoglio la ragazzina piccola e sorridente che ora era stretta tra le braccia dell’altra ragazza, quella che le stava accanto.
« Heather? » sussurrò, ancora incredulo.


Angolo autrice:
sono in un ritardo c-a-t-a-s-t-r-o-f-i-c-o! Chiedo umilmente perdono, davvero.
Finalmente sono in vacanza e da ora in poi potrò concentrarmi di più su questa storia, che spero stia prendendo una buona piega. Nonostante tutto sono di corsa, e quindi questo spazio sarà breve. Inoltre ho pubblicato il capitolo in fretta e furia, dunque se ci dovessero essere errori perdonatemi, vedrò in seguito di rileggerlo e di riparare ai danni.
Spero che questo racconto stia procedendo bene e che si stia facendo sempre più chiarezza sul dolore di Austin. Inoltre qui si conoscono altri due personaggi: Sebastian e la ragazza dai capelli ondulati, inoltre Heather è alla sua scuola, e suona. Il che fa leggermente impazzire il nostro piccolo malpelo.
Mi dispiace, so che non è il massimo e che non ha una conclusione decente, spero che possa comunque essere di vostro gradimento.
Mi fermo due secondi anche per augurarvi delle buone feste e che possiate passarle in salute e in felicità.
Un bacione, ancora scusate, Haruka.

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Capitolo 5
*** Capitolo quattro: Numb. ***


Capitolo quattro: Numb.

“I've become so numb
I can't feel you there
Become so tired
So much more aware
I'm becoming this
All I want to do
Is be more like me
And be less like you”
 
    Saltare l’ora di storia era una cosa normale, dopo tutti quegli anni. Nathan, Austin e Heather se ne stavano nell’appartamento dei due ragazzi, con il malpelo che camminava da una parte all’altra della stanza, il biondo che sospirava e la più piccola che stringeva le lenzuola. Era stata beccata in flagrante, e voleva cancellarsi dalla faccia del pianeta. Aveva promesso a sua madre di parlare con il fratello prima di prendere decisioni avventate e soprattutto spaventarlo, così come era successo. La decisione di andare a scuola l’aveva presa all’improvviso, una volta che Austin aveva ricominciato a frequentare l’accademia. Si era fatta avanti, aveva parlato con sua madre e l’aveva lasciata a bocca aperta, tanto da farla piangere. Heather era stanca: stanca di restare sola dentro la sua stanza, stanca delle coperte che profumavano di detersivo, stanca dello stesso odore, stanca dello stesso buio, stanca delle stesse e identiche nuvole nel suo cielo troppo poco luminoso. Sapeva di dover ripetersi, cosa che lei odiava, ma era per il suo bene: solo spiegandosi ed esponendo quello in cui credeva avrebbe migliorato la situazione.
    Allungò le braccia, a cercare le mani di suo fratello che arrivarono dopo qualche istante. Le strinse, facendolo avvicinare e sedersi al suo fianco. Poggiò una tempia sul suo petto, inspirando profondamente e ascoltando il battito del suo cuore. « Mi piace tanto il tuo battito, fratellone » sussurrò, accennando un risolino. Erano secoli che non lo chiamava in quel modo. « So di averti spaventato e so che tu non mi vorresti qui. So che per te è difficile vedere la tua piccola e un po’ stupida sorellina » « Non penso che tu sia stupida, Heath! » « Lasciami finire, per favore. Dicevo, so che per te è difficile considerarmi una ragazza pari alle altre perché è vero, io non lo sono e mai più potrò esserlo. Non voglio fare la vittima, ma è così Austin, io sono cieca e tu questo lo sai meglio di me. Non posso capire appieno cosa hai passato, ma ci provo, davvero. Io… Io ti voglio un bene dell’anima » sussurrò le ultime parole, lasciando scivolare una lacrima. Non le importò di sembrare debole o di ottenere il suo consenso con delle lacrime, voleva semplicemente spiegare, fargli capire le sue ambizioni.
    « Probabilmente se fosse successo a te quello che è successo a me io non ce l’avrei mai fatta a reagire come hai fatto tu. Sai che per me sei un eroe: lo eri quando facevi i calcoli matematici velocissimi, quando mi lanciavi in aria e mi riprendevi tra le braccia al posto di papà, lo eri quando suonavi. Lo sei anche ora, quando suoni, ma sai benissimo cosa intendo. Io voglio solo essere a mia volta un’eroina per te e per gli altri. Voglio vivere Austin, perché è vero: io non posso vedere, ma posso sentire, toccare, annusare, assaporare. La vista è probabilmente uno dei sensi più importanti, lo so, ma ho la fortuna di avere te come guida » la voce le si ruppe per un momento, e le mani grandi del maggiore la strinsero forte, facendola sentire piccola e protetta. Nel frattempo Nathan era uscito dalla sottospecie di appartamento, per lasciare ai due fratelli la possibilità di parlarsi senza convenevoli. « Basta Heath, ho capito, davvero » biascicò poi, lui, stringendola ancora più forte.
    « Aspetta Austin, lasciami finire, perché ora viene il punto. Tu mi hai sempre fatto da guida e sono sicura che continuerai a farlo, ma voglio ricambiare a tutto questo. Non devi sentire il peso della morte di papà su di te, non devi sentire il peso della mia cecità su di te, non devi sentire il peso di ogni cosa negativa che può capitare – perché sì, può capitare – in questa famiglia su di te. Ora voglio essere io a guidare te, Austin, e voglio aiutarti a smetterla di caricarti di tutto questo. Non sei solo, non lo sarai mai, capito? Hai me, hai mamma, hai Nathan. Hai altri amici che ti vogliono bene, così come io ho Natalie. Spero di fare nuove conoscenze, quest’anno, per sentirmi parte di un gruppo e per cercare di essere Heather Reed, non una povera ragazzina vittima di un dispiacere. E voglio suonare, Austin, voglio suonare come mai ho fatto » disse alzando la voce e mettendosi in piedi, stringendo sempre più le mani del più grande. Esitò per un momento, dopo di che sollevò le palpebre, mostrando le iridi ormai completamente bianche, come a volerlo guardare in viso per davvero. Austin sgranò gli occhi, non aspettandosi niente del genere, sentendoli pizzicare. « Voglio suonare per dimostrare a tutti quello che valgo, senza dover fare scenate o intenerire la gente. Voglio studiare, se con aiuti o meno non importa, ma voglio imparare nuova musica e metterla in pratica. E voglio aiutare te a farti tornare la cazzo di voglia di vivere e di essere un ragazzo di diciannove anni. Non intendo arrendermi, Austin Reed, dico sul serio » e gli sorrise, un sorriso radioso che gli scaldò le membra, il cuore, ogni misera parte di corpo.
    Pianse, Austin Reed, pianse stringendo il corpicino della sua sorellina ormai cresciuta, probabilmente anche più di lui. Pianse cercando di dire qualcosa di sensato, di poterla ringraziare, mentre lei accarezzava i suoi capelli fin troppo rossi. In quel momento si sentì debole, poiché Heather era davvero maturata e sapeva quello che voleva, mentre lui era rimasto indietro, insieme alle paure ed ai pensieri. Sarebbe stata una spinta, quella? Un vero aiuto verso quel mondo che si era abbandonato alle spalle? Forse non avrebbe suonato il violino, ma avrebbe ascoltato le melodie che quel ragazzo strano - Sebastian - produceva? E forse le avrebbe fatto conoscere nuove persone, avrebbe sorriso in modo radioso anche lui, avrebbe studiato insieme a lei innervosendosi quando pretendeva di aver ragione? Pensò a Nathan, doveva ringraziare anche lui che in quegli anni lo aveva sopportato come un pazzo, con i suoi cambi d’umore e i suoi sguardi seri. Le cose non sarebbero cambiate da un giorno all’altro, ogni cosa a suo tempo, ma quel cambiamento che sua sorella stava compiendo avrebbe scosso qualcosa in lui, e in cuor suo lo sapeva benissimo.
    Dopo essersi ripreso le descrisse la stanza che lui e il biondo schizofrenico condividevano: i pavimenti bianchi, le mura rosse e le tende arancioni. Si addiceva molto al suo compagno di stanza, effettivamente. Il bagno era di grandezza normale: a loro andava bene. Ci tenne a descrivere la tendina della doccia con girasoli e pesci rossi, che Nathan aveva portato da casa e che Austin usava per sfotterlo. Heather rise, notando il tono scettico del fratello su come il fiore e l’animale non azzeccassero per niente. Dopo di che lei lo portò nella sua, di stanza. Gli disse che la sua compagna, Natalie, l’aveva già descritta per lei, quindi più o meno ne aveva un’idea e Austin realizzò fosse carina: le tende erano blu, così come i muri e i mobili. Persino i copriletto, il water e il lavandino erano blu. La loro tenda aveva solamente delle onde disegnate, il che era molto meglio di avere “robe strane”, come lui le definiva.
Non appena uscirono incontrarono Nathan e Natalie urlarsi contro e spintonarsi, lui che l’additava dandole della stupida e lei che rispondeva ringhiandogli le peggio cose. Quella scena era ormai abituale per i due, che sospirarono e si avvicinarono allo scontro. Avevano un rapporto molto diverso dal loro: si volevano bene, certo, ma trovavano qualsiasi cosa su cui discutere, persino il tempo. A quel proposito Austin si mise a guardare il cielo dalla grande finestra del corridoio, che si affacciava proprio all’esterno. Le camere da letto si trovavano nella parte ovest dell’intero edificio, al contrario della presidenza che era all’ultimo piano all’estremo est. In quel modo poteva osservare i colori dell’atmosfera come meglio credeva. Il cielo era chiaro, di un blu intenso: gli ricordava gli occhi del suo migliore amico, che ora stava sbraitando addosso alla sorellina.
    Natalie e Heather erano diventate molto amiche da subito, non appena si videro. In realtà era una cosa di famiglia, quella di essere amici, che veniva tramandata da diverse generazioni, figli con figli. Poteva sembrare una cosa divertente, eppure loro ci tenevano particolarmente. Infatti i quattro si erano promessi di presentare ognuno i propri figli, sapendo da sé che sarebbero diventati amici. Una volta che però il biondo lo vide lasciò perdere la sorellina isterica, lo prese sottobraccio e lo guidò nell’aula di biologia dove avrebbero dovuto sezionare rane e lucertole, roba che solo a pensarci gli diede il voltastomaco. Si chiese cosa ci fosse d’interessante nelle interiora di un minuscolo rettile e di uno schifosissimo rospo. Insomma, non potevano lasciarle nei laghetti di ninfee o farle scorrazzare in cerca di sole nel giardino? Perché privare una vita così inutilmente? In genere non si sarebbe mai interessato di salvaguardare i giorni ormai contati delle bestiole, ma la bile gli saliva in gola sempre più velocemente. « Il signor Brian se non ci trova in classe subito rischia di farci sospendere, lo sai » disse, strattonando il malpelo da una parte all’altra del corridoio. Entrambi pregarono internamente di non vedere Lucinda, poiché per una cosa o per un’altra li avrebbe interrotti con i soliti rimproveri, talvolta inesistenti.
    Il professore di biologia era un uomo con pochi capelli, soprattutto nella nuca, di un colore grigio fumo, gli occhi castani e il naso all’insù. Aspettare gli alunni in ritardo era una cosa che odiava più di ogni altra, difatti gli studenti alla sua ora dovevano essere tutti presenti, altrimenti si rischiava la sospensione. Era un uomo parecchio esigente e, secondo Nathan, un grandissimo rompipalle. Ovviamente lo aveva preso di mira, spostandolo sempre da Austin e facendolo lavorare da solo, sapendo quanto facesse schifo nella sua materia, per poi riprenderlo davanti a tutta la classe. Quel giorno però parve essere più buono, poiché lasciò tutti al proprio posto. Dispose i cassettoni con le rane e lucertole morte a ciascuno, con dentro bisturi e attrezzi vari all’incisione, che solo a guardarli il conato si faceva sempre più spazio in gola. « Dici che se gli vomito in faccia mi scomunica da Londra? » sussurrò all’amico, facendolo scoppiare a ridere, cosa che provocò un certo irritamento nel professore. Austin tornò subito serio, dando un’occhiataccia al suo amico. Poi sospirò, fregandosene dell’uomo che aveva difronte. Diede una gomitata al biondo, bisbigliandogli che aveva urgente bisogno di raccontargli ciò che la sorella gli aveva riferito, ma che rimanendo uno affianco all’altro non avrebbe potuto.
    « Professore, posso sistemarmi dietro Johnson? In questo modo eviteremo di disturbare. Posso anche stare solo » chiese, dopo aver alzato la mano destra. « Può venire con me » disse una voce che già aveva sentito, ma che non ricordava. Appena vide il sorriso storto e le ciocche di capelli che cadevano sugli occhi di un ragazzo con spalle larghe e gli occhi scuri, riconobbe Sebastian. Sarebbe stato meglio di quello che si aspettava, o forse peggio? « Grande genialata A, come pensi di spiegarmi tutto con lo spettro affianco? » sussurrò Nathan, con una voglia pazzesca di alzare gli occhi al cielo dopo avergli tirato un pugno in testa. Sebastian non gli stava antipatico, ma lo conosceva ancora, e poi stava troppo addosso ad Austin. Pensò lo turbasse con tutta quella faccenda sul violino, e Austin aveva già troppe grane per la testa, soprattutto dal momento in cui aveva scoperto la sua sorellina suonare nell’aula di musica. Il rosso gli diede un pizzicotto sulla mano, come a dirgli di fidarsi, dopo di che si sistemò vicino al moro.
    Come aveva previsto era perfettamente dietro Nathan, quasi nascosto dalla sua testa. L’idea di star diventando pari d’altezza cominciava a piacergli, soprattutto in quella situazione. Lentamente, mentre Brian spiegava l’inizio della lezione e cosa esattamente avrebbero dovuto fare coi poveri cadaveri degli animali, il malpelo si avvicinò all’orecchio dell’amico, cercando di non farsi beccare. In quel modo nessuno dei due avrebbe seguito, ma si sarebbero arrangiati. « Mettiti più verso sinistra, così la bocca è eclissata dalla sua testa » sussurrò Sebastian, dando un cenno con il mento verso il biondo. Effettivamente era geniale, in quel modo non l’avrebbe mai visto. « Seguo io per te, Reed. Basta che domani pomeriggio alla pausa mi fai sentire come suoni la chitarra, e magari ascolti qualche pezzo al violino. Chissà che ti torna la nostalgia » continuò, facendogli l’occhiolino. Ogni cosa a suo tempo, giusto? Sì, col cazzo, si disse. Era ovvio che il compagno di banco volesse qualcosa in cambio. Sospirò, ringraziandolo e accettando l’invito. Sebastian era ancora un grande punto interrogativo nella sua mente: voleva aiutarlo o forzarlo inutilmente? Sarebbe servito? Aveva bisogno di tempo, diamine. Lo guardò, osservando gli occhi neri attenti sul professore, le labbra chiuse a formare una linea dritta e lo sguardo tranquillo, sereno. Si morse       l’interno guancia a sangue, decidendo di fidarsi della sua parola.
    Dopo aver raccontato tutto a Nathan, cercando sempre e comunque di non farsi vedere dal professore, cominciò a tagliare il busto della rana. I guanti gli facevano prudere le mani e l’idea di sventrare un animale non gli dava chissà quale benessere. Gli faceva un po’ senso, più che altro. « Comunque non lo so, piccolo, non riesco a capire il suo comportamento così repentino. Lei è così piccola e fragile, sai quanto le voglio bene. Sento verso di lei un senso di protezione molto, forse troppo, alto. Mi ha detto che per lei sono sempre stato un esempio ma ora fa l’esatto opposto di quello che penso o faccio io. Qualcuno le ha montato la testa, non ne ho idea, ma non dovrebbe stare qui » spiegò con la testa bassa e il fiume di pensieri che gli usciva dalle orecchie. Se avesse potuto l’avrebbe segregata in casa, come d’altronde aveva già fatto, ma sarebbe stato giusto? Heather stava diventando sempre più grande, cresceva ed il tempo passava, ma era già pronta per affrontare quello che la vita aveva in serbo per lei? Significava così tanto per la sua adorata sorellina ritornare a scuola e affrontare gli studi? Confrontarsi con gente diversa e pretendere sempre più da sé stessa? Avrebbe avuto il coraggio di combattere quella faticosa battaglia? E lui? Lui sarebbe rimasto indietro o avrebbe combattuto con lei?
    Sospirò ad alta voce, aspettando una risposta da parte del suo migliore amico che in quel momento si girò un poco, sorridendo. Poi prese il bisturi, lo poggiò sull’incavo tra il medio e l’anulare e conficcandolo nella carne lo trascinò sino al polso in un gesto veloce, quasi abituale. Il malpelo quasi urlò, domandandosi cosa passasse per la testa del ragazzo di fronte a sé. Nathan gemette di dolore, alzando prontamente la mano ferita. « Professore, credo di essere un incapace come dice lei: posso andare in inferm- » chiese, per poi cadere su un fianco, simulando uno svenimento. Austin perse quattro o cinque battiti, mentre la classe rimase sbigottita, alcune ragazze gridarono e il professore gli urlò di portarlo immediatamente in infermeria per essere medicato. Allora, con l’aiuto di Sebastian, Nathan riuscì ad alzarsi in piedi strisciando con le scarpe, trascinato dai due. Non appena fuori dalla porta nessuno fermò il rosso da dargli un manrovescio tanto forte da sentirsi lo schiocco. « MA CHE CAZZO SEI IMPAZZITO? » gli urlò addosso, facendo sorridere l’altro. L’avrebbe massacrato se solo avesse potuto. Sebastian si congedò, sorridendo e facendo il solito occhiolino al biondo, cosa che fece rimanere il protagonista interdetto.
Nathan lo prese come al solito sottobraccio, tenendosi la mano ferita che un po’ doleva, incamminandosi verso la porta bianca con una croce rossa sopra, al piano inferiore. « Ero d’accordo con il cadaverico » spiegò, alzando le spalle. « E, Austin Reed » si fermò per un secondo, e a quel nome il rosso sentì come se insieme a loro si fosse fermato tutto il mondo, compreso il suo cuore, tanto che giurò di non sentirlo più. « Promettimi una cosa » cominciò, avvicinandosi all’amico e guardandolo negli occhi. « Fidati. Fidati di lei, fidati di me e dei ragazzi, anche di Sebastian. Fidati di noi. Aggrappati alla vita, vivi Austin Reed, anche per tuo padre, come mai hai fatto prima d’ora. E fatti aiutare, perché piangere continuamente, e urlare, e saltare, e essere sbattuti fuori alla prima ora di lezione, e ridere sino ad avere i crampi allo stomaco nonostante la risata di merda, e ricordare, e gesticolare come fessi, e aver bisogno di un abbraccio – anche muto – non significa essere deboli, ma umani. E per quanto tu possa sembrare un androide sappi che sei un cazzo di diciannovenne, nonché stronzo e migliore amico di uno pseudo-idiota con i capelli talmente biondi da far invidia a un finlandese, modestamente. Quindi comportati da tale e ora fatti abbracciare come un bambino, su! »  Non appena Nathan finì di parlare e allargò di poco le braccia il malpelo si fiondò su di lui, ringraziandolo mentalmente mille volte per le belle parole. Non era molto convinto di saper lasciarsi andare così facilmente, ma ci avrebbe sicuramente provato.
    Non appena l’infermiera Johanne gli fasciò la mano, entrambi sentirono la campanella dell’inizio pausa, sentendosi liberi. In realtà avevano affrontato solo tre ore di scuola, poiché avevano saltato grammatica e grazie all’idea folle del biondino avevano lasciato anche l’aula di biologia, ma non importava, si era sempre contenti per la pausa. « Dobbiamo andare al solito posto. Mi sono permesso d’invitare altra gente con noi oggi, così magari ti metti a disegnare qualcos’altro, o chi lo sa, magari non disegni proprio! » scherzò il biondo, dandogli una sonora pacca sulla spalla. Austin scosse la testa ripetutamente in senso di diniego: era proprio impossibile stare tranquilli con quel ragazzaccio. Arrivati davanti all’albero di ciliegio i due si ritrovarono circondati da tutti i loro amici più qualche “superstite”. Il malpelo notò immediatamente i capelli rosa confetto di Susanne e si chiese cosa ci facesse. Dopo di che si chiese se il suo migliore amico non si fosse finalmente dichiarato, così gli diede un pizzicotto issando la domanda con lo sguardo, che all’altro arrivò immediatamente. Se c’era una cosa che adorava del rapporto che aveva con Nathan era proprio quello: capirsi al volo nel verso senso della parola. Il biondo sorrise ammiccando, e spostando lo sguardo azzurro da un’altra parte: era forse imbarazzo, quello? Sembrava anche carino. Rise, un po’ per sfotterlo e un po’ per la contentezza. “Qualcuno" aveva decido si tirar fuori le pall- No, forse era un commento un po’ troppo ambiguo, e che lo fece scoppiare a ridere ancora più forte.
    Spostò lo sguardo verso la combriccola: Heather era seduta in mezzo a Natalie e Susanne in una panchina, i capelli lunghi raccolti in una treccia che le cadeva graziosamente sulla spalla destra, dandole se possibile un’aria ancora più bambinesca. Era così piccola e dolce. Si sforzò di pensare che non fosse fragile, quando andò a baciarle la fronte. Makoto, Leo, Christian, Sebastian e la ragazza pallida come un lenzuolo erano in piedi. « Eccolo, il neo-violinista » lo salutò con un cenno Sebastian. « Come va la mano? » chiese poi, a Nathan. « Bene, grazie. E comunque credo che per il momento il tizio qui resterà un chitarrista. Anche se, chi lo sa, no Micio? » gli sorrise il biondo. Subito dopo Austin, armato di carboncini e blocco da disegno, si sedette sotto il suo amato albero. Pensò avrebbe fatto persino a botte pur di assicurarsi quel posto. Generalmente disegnava paesaggi, strumenti musicali, personaggi di anime o manga che seguiva o di sua fantasia, natura morta o vari momenti della vita. In ogni disegno, comunque, cercava di lasciare qualcosa di suo: un passaggio, come a dire che lui c’era strato, che era opera sua. « E meno male che non suoni il violino. In genere tutti quelli che lo fanno sono degli scellerati » avrebbe dovuto essere un tono scherzoso, quello della ragazza, ironico quasi, ma si dimostrò solamente incolore e spento. Non si era nemmeno reso conto che si erano avvicinati a lui. Mio padre non era uno scellerato, pensò. Subito dopo sorrise, notando il broncio di Sebastian. Non seppe dire se i due fossero fratelli o fidanzati.  « Ti presento Rachel. Stronze di prima classe come lei non le incontrerai mai, te lo garantisco » le fece la linguaccia, mentre lei rispose alzando un dito medio, senza lasciar trasparire alcuna emozione. Le fece quasi paura. « Austin » sollevò una mano come a salutarla. « Puoi chiamarmi solo Ray, Austin » disse, sorridendogli lievemente e poggiando le labbra nella sua fronte. Quel gesto lo scosse: non se l’aspettava, tuttavia fece di tutto per rimanere impassibile, imitandola.
Balzò del tutto sul posto quando la ragazza, con uno scatto degno di un ninja, gli prese il suo amato blocco e si allontanò a passo svelto, facendo scoppiare a ridere i suoi amici. Il suo sé interiore urlò e pianse agitandosi come un matto, mentre esternamente rimase immobile, con gli occhi sbarrati e le labbra socchiuse. « Ah, non preoccuparti, non li rovinerà » gli sorrise Heather, gli occhi bianchi aperti e le guance un poco rosate. La guardò con un misto tra incertezza e preoccupazione, non si era ancora abituato a vedere le sue iridi, a sbattere il viso contro la sua cecità in modo così diretto. « È meglio così » rispose semplicemente lei, come se avesse potuto vederlo per davvero. « Sei molto coraggiosa, Heath, sai? » la guardò con ammirazione Sebastian, accarezzandole i capelli. Austin lo guardò storto, ma lasciò perdere vedendo la sorellina tranquilla e ancora sorridente. Respirò sommessamente, lasciando perdere l’aspetto da fratellone iperprotettivo per un momento e ripensando ai suoi amati disegni. Rachel non gli aveva nemmeno lasciato un foglio per permettergli di scribacchiare qualcosa.  « Entro domani li riavrai, non temere » lo rassicurarono Makoto e Leo, mentre Christian se la rideva apertamente. « Mh, Sebastian, se ti dico che sia tu che lei siete fottutamente strani non ti offendi, vero? » chiese.
    E Sebastian rise di cuore, ammirando la spontaneità del ragazzo che aveva di fronte.



Angolo autrice:
come al solito sono in ritardo, fra feste, regali arretrati e compiti da cominciare nemmeno per le vacanze ho avuto modo di scrivere. Pensare che gran parte di questo capitolo l'ho scritto la notte del 31 dicembre potete ben immaginare che razza di vita sociale io possegga, ma pazienza, quest'anno è andato via così. E a proposito, auguroni a tutti e buon 2015! Essendo realista so che in fondo non cambierà un accidente, ma ci speriamo lo stesso.
La canzone è Numb - Linkin Park, legata a quello che vuole essere Heather, non vuole più nascondersi ma prendere la sua vita di petto e sfoderare tutto il suo coraggio, cosa che a mio parere le fa onore. So che in questo capitolo Makoto, Leo e Christian si vedono poco, effettivamente sono dei personaggi secondari, ma non preooccupatevi: non spariranno.
Nell'ultima parte del capitolo invece si scopre chi è Rachel, personaggio che personalmente adoro. Molte cose sembrano cambiare per Austin ma non montatevi troppo la testa: ogni cosa a suo tempo, e lo è per davvero, anche se Sebastian tende ad insistere (e a mio parere fa bene).
Se qualche parte non è chiara vi prego di esporre i vostri problemi, se ci sono errori scusatemi ma ogni tanto mi possono scappare. Spero che non sia esageratamente lungo e che vi possa piacere come i precedenti.
Grazie mille per le scorse recensioni e scusatemi ancora per il ritardo: spero di farmi perdonare in seguito.
Un abbraccio, ancora auguri, Haruka.

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Capitolo 6
*** Capitolo cinque: Where there's too light, the shadow is more dark. ***


Capitolo cinque: Where there is too light, the shadow is more dark.
 
« And when the shadow fades and goes away,
the lights begins shadow for other light.
And the same for your freedom,
when it breaks the chains,
begins herself a chain of one bigger freedom  »
 
     Camminavano verso la mensa con passo spedito, Austin all’estrema sinistra seguito da Nathan, Christian e Makoto. Tutti e quattro un po’ trafelati e con i capelli scompigliati uscivano dall’aula di solfeggio, dove il loro cervello perse gran parte della propria lucidità. Quel professore sapeva essere terribile, quando voleva. Soprattutto con una materia come quella. Perché, insomma, chi mai digerirebbe due ore di seguito di solfeggio? Al solo pensiero al malpelo parve di svenire. Non vedevano l’ora di mettere qualcosa sotto i denti e riempire lo stomaco, avrebbero accettato anche la poltiglia che preparava la signora con il grembiule rosa strano – di cui ancora non avevano imparato il nome – che tra l’altro faceva davvero schifo. Era passata una settimana, e la vita di Austin non era cambiata di una virgola se non per l’entrata di Heather nell’istituto. Infatti spesso l’aiutava con i compiti esclusivamente orali, aveva conosciuto la sua insegnante di sostegno e rimase contento poiché le pareva molto calma e gentile. Probabilmente era una sottospecie di psicoterapeuta, oltre che un’insegnante, poiché dava una tranquillità quasi spaventosa. Il suo tono era dolce e calmo, soave, e sapeva spiegare davvero bene. Per quanto riguardava il suo blocco da disegno, invece, non ne aveva visto nemmeno l’ombra, così come non aveva più visto Rachel e Sebastian.
     Nathan prese a parlare con il suo solito tono alto e arzillo – spaccatimpani insomma – mentre gesticolava animatamente e talvolta lasciava cadere pezzi di panino in tutto il tavolo, sotto lo sguardo disperato di Austin. Pensava che non avesse la sua età, non era possibile, era troppo stupido per poter essere nato nel suo stesso anno. A guardarlo con la bocca piena, gli occhi vispi e le guance piene gli venne da ridere. « Natalie nemmeno mi rivolge la parola, adesso. Abbiamo litigato la settimana scorsa e mi lancia occhiate infuocate. È una bambina, non la sopporto » borbottò, alzando gli occhi al cielo pensando al comportamento di sua sorella. « Ma che strano, non litigate mai! » Christian prese a sfotterlo, con un sorriso sghembo sulle labbra, mentre Makoto gli chiese il motivo per cui ci fosse tutto quell’astio tra loro. « Ma che ne so, stavamo parlando e ad un certo punto mi ha detto che sono un idiota, che non capisco nulla di quello che lei intende. Mi stava sicuramente dicendo qualcosa quando è passata Susanne, così l’ho salutata e lei ha continuato dicendo che per me è trasparente, che non conta niente e che vorrebbe diseredarmi, quando non potrebbe mai farlo essendo la minore » alzò le braccia alla fine, come per arrendersi, e gli altri tre scoppiarono a ridere. Natalie era gelosa della relazione che suo fratello stava cominciando? Non era un comportamento adatto ad una come lei, ma in fondo poteva sembrare una cosa carina.
     « A proposito, Nacchan, come va con Susina? » chiese il giapponese, con un sorrisetto ambiguo che fece arrossire il biondo-tutto-pepe. Incavò il collo tra le spalle, imbarazzato, con le guance che gli si coloravano di un tenue rosso. « Siamo usciti e ci stiamo frequentando. Spero vada bene, nel senso, a me lei piace tanto » sussurrò le ultime parole come se lo stesse dichiarando a lei, mentre le sue orecchie diventavano color porpora, per poi grattarsi convulsamente la nuca. Era proprio un caso disperato. « Nacchan si è innamorato! » esclamò poi Makoto, passandogli la mano tra i capelli e scompigliandoglieli più del dovuto, facendo morire di vergogna l’altro. Austin pensò fosse adorabile, e anche se Susina non gli piaceva nemmeno un po’ si ficcò nella testa che non la conosceva bene per giudicarla, e che magari sarebbe stata la ragazza perfetta per il suo migliore amico. Sapeva di non dover essere così protettivo, eppure era il suo fratellino, una uragano biondo che travolge e stringe senza lasciarti andare più. Avrebbe conquistato Susanne proprio come aveva conquistato tutti coloro che gli stavano intorno: con la sua innocenza e spontaneità, perché Nathan era quello e nient’altro. Lui era il braccio, quello che svolgeva le azioni impulsivamente e senza pensarci nemmeno una volta. Gli sorrise calorosamente, convinto potesse farcela. « Mi raccomando però, quando verrà il momento usa le precauzioni » gli fece l’occhiolino, per poi ridere.
     Il tempo scivolò dalle sue dita, la pausa era terminata e l’aria si faceva pesante: le nuvole vorticavano a spirale nel cielo, accompagnate da un forte vento. Le ragazze imprecavano in giardino per via dei capelli sparsi ovunque, mentre a lui dava un senso di pace e tranquillità. Il vento era come un compagno che cercava di renderlo vivo, secondo il suo parere, e che faceva di tutto pur di rinfrescargli le idee. Durante l’inverno era l’unica cosa che faceva capire quanto la natura fosse viva. Pensò fosse l’agente atmosferico per eccellenza, mentre i ciuffi di capelli rossi si alzavano quasi danzando all’aria che li avvolgeva. In quel momento stranamente gli venne in mente Sebastian. Non seppe il motivo per cui pensò proprio a lui, ma ce lo vedeva benissimo correre dietro a Rachel che non gli dava tregua, girare su sé stesso mentre l’altra rideva a crepapelle, e il vento che faceva loro da compagno e amico. Si morse la lingua pensando alla promessa non ancora mantenuta: Austin non aveva ancora sentito il moro suonare il violino, e in quel momento si chiese se mai sarebbe riuscito a superare il blocco che sentiva all’altezza del petto.
Decise di saltare un’ennesima ora che avrebbe recuperato quella stessa notte. Si sarebbe messo a leggere qualche spartito che teneva di riserva in fondo alla borsa, per poi magari raccattare la chitarra e cominciare a suonare. Fortunatamente la portava sempre con sé, alla pausa. Non avrebbe commesso l’errore di lasciarla di nuovo nell’aula di solfeggio in balia di quella serpe-professore. Quell’uomo era davvero odiabile, la lingua biforcuta non poteva essersela solo immaginata, così come la pelle dannatamente pallida – più della sua – e gli occhi chiari da far paura. Il suo sguardo lo metteva in soggezione, mentre spiegava, e il tono apparentemente calmo gli dava sui nervi. Poi quando s’infuriava per la poca attenzione era tutto un altro paio di maniche. Sospirò, tentando di non pensarci mentre si sedeva sotto il ciliegio, la chitarra ben stretta tra le mani e i fogli degli spartiti sparsi sul terreno, noncurante di sporcarli. Lesse le prime note, incespicando un poco. Nonostante facesse musica da quando aveva pronunciato il primo vagito la lettura delle note non gli era mai riuscita. La trovava una cosa che faceva perdere del tempo: perché leggere se poteva imparare il brano a memoria? Si sistemò meglio, segnando con la matita i do, re e fa.
     « Sei un baro, Occhi-Blu » la voce ferma e composta gli arrivò immediatamente alle orecchie e, quando si girò, il viso al contrario di Rachel lo scrutava con il solito cipiglio serio. Pensò che quella ragazza potesse essere apatica, con quegli occhi scuri che lasciavano trasparire solo il buio. Nonostante tutto ci si perse, non riuscendo a spostare lo sguardo, come incatenato. « Non ci troverai molto di particolare, qui dentro » disse poi, indicando le iridi. Restava sospesa su uno dei tanti rami dell’albero, tenendosi solo con i piedi, come la migliore delle equilibriste o dei ninja. Era veloce, sicura, non provava emozioni: sì, era sicuramente una di loro. Le mancava solo una divisa strana, una spada che Makoto chiamava katana e un copri-fronte con un strano simbolo sopra. Sorrise, immaginandosela conciata in quel modo. I capelli pensò sarebbero stati meglio sciolti, come in quel momento: le onde nere cadevano a sfiorare il terreno, lasciando la fronte candida scoperta. Era indubbiamente una bella ragazza. « So che tu e i tuoi compari tenete molto alla strana storia dei nomignoli. Nessuno ti ha mai chiamato Occhi-Blu, giusto? Insomma, quello che sembra Naruto Uzumaki ti chiama Micio e questo lo so, ma degli altri ancora non ne ho idea. Tra l’altro quello con i canini assurdamente grandi mi fa paura » chiese, mettendo le braccia conserte. Effettivamente Nathan era esattamente identico al protagonista del manga, al che scoppiò a ridere. Immaginò lui, stavolta, vestito di arancione e nero con tre graffi (o baffi, non lo aveva mai capito) sul viso e un pollice alzato per ogni azione che compiva. « No, nessuno mi chiama così » rispose poi, alzando di nuovo lo sguardo verso di lei che, con un balzo, si era seduta accanto a lui.
     Rachel prese qualcosa da una borsetta a tracolla di cui fino a quel momento non aveva visto neanche l’ombra. Guardò i suoi disegni con aria adorante. Pensò di poter addirittura piangere, al che si diede del cretino. Stava per prendere l’intero blocco, quando la ragazza gli mise un dito davanti agli occhi. Doveva seriamente aspettare ancora? « Prima di lasciarteli definitivamente ti devo dare una mia opinione. Non che mi importasse molto prima, mi piace vedere i disegni degli altri, ma non darne un parere. Con questi invece sì, ecco » lei stessa sembrava un po’ imbarazzata, cadenzava le parole per come le venivano in mente, abbandonando il tono serio e sicuro. Forse non era poi così apatica. Si ripeté per l’ennesima volta che lei e Sebastian erano due ragazzi fottutamente pazzi. Nemmeno strani, ma proprio fuori di testa. Gli piacevano. « Ti avrei detto tutto da lì sopra perché fa più figo, ma mi stava salendo il sangue al cervello » alzò le spalle, una volta ritornata seria, prendendo in mano qualche foglio. « Nei tuoi disegni, oltre quelli di personaggi di manga o anime che siano, c’è dolore, Austin. Sei molto bravo, l’ho sentito persino io. E, sai com’è, dopo un po’ che lo provi inizi a capire cosa voglia dire sentirsi talmente male da voler morire per via del troppo dolore. So che hai perso qualcuno d’importante, ma perché sei rimasto a crogiolarti nel completo malessere? Questi disegni, per come sei, non dovrebbero esistere » continuò, poi.
     Non lo conosceva, alla fine. Sapeva solo che suo padre era morto, che lui era stato parecchio male per questo, ma allora perché gli faceva quella domanda? Che significava il dolore, per lei? La guardò nuovamente negli occhi, osservandoli quasi a volerci entrare dentro, e lo vide. Lo vide, il nero totale, che lo avvolgeva e non lo faceva più uscire. « Tu lo sai meglio di me » sussurrò solo, avvicinandosi ancora alle sue iridi, facendo rispecchiare l’azzurro ghiaccio contro l’oscurità completa. Bianco e nero. Luce e ombra. Eppure quelle tenebre erano così fitte che pensò di non poterci più respirare. Rachel aprì la bocca come a voler dire qualcosa, ma la richiuse immediatamente, alzandosi ed andandosene solo dopo avergli accennato un tenero sorriso, senza nemmeno avergli dato il suo parere. No, non era apatica, lei le emozioni le provava, ma non le faceva trasparire in alcun modo. Si chiese quando fosse stata l’ultima volta che avesse pianto. Respirò affannosamente, come se avesse corso per miglia e miglia. Quei discorsi lo lasciavano sempre perplesso e con la bile in bocca. Si passò una mano sul viso, sapendo cosa fare.
     Una volta messi da parte gli spartiti poggiò la schiena contro il tronco dell’albero, seguendo con lo sguardo le onde color pece dei capelli di Rachel infuriarsi con il vento, andando da una parte all’altra, inseguendosi. In quel momento pensò fosse bellissima. Prese il blocco, una matita e l’ispirazione celata da troppo tempo in una parte remota del suo cervello. Fece uno sfondo scuro, nero, ed un piccolo spiraglio di luce bianca al centro, deciso a colorarci sopra con l’azzurro. Ci volle quasi una buona mezz’ora per terminare la bozza e cominciare a colorare, eppure stava venendo discretamente. Passò il carboncino nero nello sfondo, per poi lasciare quello che doveva essere lo squarcio abbagliante in bianco, colorandolo in modo estremamente delicato con il celeste. Il suo celeste, quello del cielo, dei suoi occhi, dello spiraglio che forse poteva aprire nel nero eccessivo di quelle iridi troppo belle per essere così spente. Non negò che Rachel lo incuriosiva, e che avrebbe parlato il prima possibile ai suoi amici di ciò che gli aveva chiesto, ma era anche sicuro che avrebbe trovato presto una risposta da darle insieme a quel disegno. Probabilmente aveva trovato qualcuno da far splendere insieme a lui. Poteva ricambiare quello che Nathan aveva da sempre fatto con lui. Sorrise, guardando le nuvole grigie: non erano spaventose come pensava, solo un po’ tetre, e si augurò che, almeno per poco, il sole si facesse vivo il prima possibile.



Spazio autrice:
sono da picchiare, pestare, linciare, uccidere amaramente. Lo so, lo so. Scusatemi, scusatemi, scusatemi, scusatemi e ancora, vi prego, scusatemi. 
Sono esattamente tre settimane che non aggiorno, quasi un mese - mannaggia a me! - e sono consapevole di essere uccisa nel peggiore dei modi perché il capitolo oltre che mezzo schifoso è anche abbastanza corto. Spero che abbiate un po' di pietà per me, in ogni caso mi preparerò a schivare pomodori, patate o carciofi virtuali, lo prometto. Mi dispiace così tanto: avrei dovuto pubblicare prima, solamente che con la chiusura del primo quadrimestre non ho avuto un attimo libero per poter mettermi a scrivere. A scuola ogni tanto ci provo, ma le idee non escono nemmeno a pagarle, quindi a causa del poco tempo ho potuto pubblicare il quinto capitolo solo oggi.
Vi ringrazio comunque per le scorse recensioni che adesso andrò a rispondere, siete sempre molto carini.
Comunque sia, bando alle ciance. Venendo al capitolo. La frase iniziale stavolta non fa parte di nessuna canzone ma è una citazione di Kahlil Gibran, che appena ho visto ho subito pensato fosse attinente al discorso tra Rachel ed Austin, catene comprese. Credo non ci sia molto da dire, voglio solo far capire che il rapporto tra i due è molto particolare e lo sarà ancora di più nei prossimi capitoli (che, promesso, cercherò di aggiornare il prima possibile).
Per chi non lo sapesse la katana è una tipica spada giapponese che viene nominata maggiormente in anime o manga vari di cui io sono parecchio fissata, e credo si noti anche dalla presenza del paragone Naruto-Nathan.
A proposito del biondino, nel prossimo capitolo centreremo bene i suoi sentimenti  verso Susina, aiuterà come sempre il nostro Nathan e poi succederanno tante altre cose. Spero sia tutto chiaro, se ci sono incomprensioni non esitate a chiedere.
Spero in qualche vostra recensione e spero con tutto il cuore di poter aggiornare al più presto. Perdonate gli eventuali errori.
Un bacione, Haruka.

 

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Capitolo 7
*** Capitolo sei: Smile. ***


Capitolo sei: Smile.
“And since that day,
you stole my heart
and you're the one to blame,
and that's why I smile”
 
    La lezione di storia della musica, in un modo nell’altro, le era sempre piaciuta. Molto spesso si sedeva al primo banco e rimaneva a fissare i muscoli facciali, gli occhi, le labbra ed il colorito roseo della professoressa. La vita dei più grandi pianisti, che venivano descritti come piccoli prodigi, era molto interessante, così come ascoltare le loro prime composizioni con lo stereo e cercare di memorizzare le note senza visualizzare il pentagramma. Era parecchio difficile ma al contempo divertente: tutti gli alunni si disponevano in cerchio attorno alla cattedra, pendenti dalle note che fuoriuscivano dall’aggeggio elettronico e che si affievolivano nell’aria come se al loro fianco ci fosse stato davvero un fantomatico Mozart o Chopin in miniatura.
    Quel giorno, mentre sentiva spiegare per l’ennesima volta la storia di Beethoven, la sordità e nonostante questo problema il suo ultimo brano, decise di lasciar perdere la lezione e di dedicarsi ad un libro che Sebastian le aveva ficcato in borsa prima di farla uscire dalla loro stanza urlandole quanto fosse bello. Non che non fosse interessata alla spiegazione, ma a casa ne aveva sentite di tutti i colori sulla storia di quell’artista e su come avesse inciso nell’umanità. Difatti quando sentì per la prima volta che una persona riuscì a terminare uno spartito da sordo pensò la stessero prendendo in giro. Eppure lui, per l’appunto un prodigio, ci riuscì e magnificamente. Sorrise ripensando al tono arzillo di suo fratello, e soprattutto al fatto finalmente si stesse dedicando alla lettura. Vivere con Sebastian non era così terribile, fare la donna di casa e sistemare la camera di tanto in tanto le risultava quasi naturale, e poi il sorrisone del moro tentava sempre di tenerle il morale alzato.
    Leggendo le prime righe si accorse di quanto quel romanzo fosse serio. Si azzardò a pensare che il suo compagno di stanza avesse commesso un errore scegliendo quello sbagliato. Si soffermò un momento, curiosa, sulla copertina: mostrava un volto colmo di lentiggini e due occhi color nocciola che la scrutavano con intensità, le labbra piene e le sopracciglia arcuate a formare un arco perfetto. Si chiese se la persona ritratta fosse un ragazzo o una ragazza, dato che i capelli non erano inseriti nell’immagine. Più rimaneva ad osservarla più si convinceva che il sesso era impossibile da capire. Riprese a leggere, cercando di distrarsi dalla voce alta dell’insegnante e dai bassi mormorii dei compagni di classe. Immaginò i protagonisti descritti, i luoghi e le voci, imprimendoli nella mente. Arrivò a pagina 45 senza nemmeno accorgersene, incosciente di quanto tempo fosse passato. Quando vide la professoressa Rose – ormai si era abituata a chiamare tutti i docenti per nome – poggiare lo stereo e cassette varie sulla scrivania sbuffò interiormente, conscia del fatto che avrebbe dovuto rimandare la lettura.
    D’un tratto il libro le fu preso dalle mani, sfogliato un poco e poi chiuso di getto con un sonoro schiocco. I capelli biondi raccolti in una alta cosa di Natalie le solleticarono la base del collo, estremamente in contrasto con i suoi di pece. « Secondo me è un ragazzo, anche se i tratti sono fin troppo delicati. Se mi lasci carta e penna saprò spiegarti le mie ragioni » disse sedendosi al suo fianco seguita da Heather che, tastando la sedia, prese posto poco dopo. Rachel le passò un foglio ed una penna come richiesto, dopo di che la vide scrivere con una velocità impressionante ed un lieve sorriso a contornarle le labbra. Quando l’insegnante le richiamò, Heather e Rachel si avvicinarono insieme agli altri – eccetto Natalie che non faceva parte della classe di pianoforte – alla cattedra. Immediatamente vari brani intitolati in tedesco con parole di cui non aveva mai sentito nemmeno una vocale arrivarono alle sue orecchie, pensando che fosse riconosciuto così tanto non a casa. Ogni volta che ascoltava le composizioni dei più grandi artisti esistenti il sangue le ribolliva nelle vene tanto da sentirlo quasi uscire fuori con tante bollicine scoppiettanti. Quando la musica le arrivava dritto al cuore chiudeva gli occhi, cercando di capire come meglio poteva le note, e di mimare con le mani i movimenti nonostante non avesse nessun pianoforte a portata di mano. Si era abituata così: ognuno dei presenti aveva un suo metodo. La ripetente tutta in nero con la faccia che sembrava il pagliaccio di un circo pestava ripetutamente il piede sinistro a tempo, il ragazzo con i capelli arancioni – a suo parere tinti – spostava la testa da una parte all’altra, mentre i due gemelli facevano combaciare gli indici uno con l’altro, in una strana danza di dita.
    Quando la professoressa disse loro di provare a ripetere le note vide Heather irrigidirsi, dopo di che strinse a pugno le mani tanto da sbiancare le nocche, reggendo il tessuto del suo maglioncino grigio. Ripeté le note come se avesse avuto uno spartito sotto agli occhi, con la voce sottile e quasi sussurrando. Tutti i presenti restarono immobili, ammirandola. Non vedeva eppure riusciva ad azzeccare ogni, o quasi, nota senza tremore. Non aveva paura del giudizio degli altri, di esporsi, di farsi notare nonostante il suo problema. Non si metteva scrupoli e non pensava di far pena a nessuno. Quando il quarto brano terminò ognuno aveva un sorriso imbarazzato nelle labbra. Rachel era convinta stessero pensando di essere stati superati da una ragazza non-vedente, ma non era quello il punto. Per ripetere le note andando ad orecchio ci vuole per l’appunto l’udito, e quella ragazzina era riuscita ad eccellere nel suo lavoro. Dentro di sé l’invidiò profondamente, non tanto per il fatto di essere riuscita a dire correttamente le note, ma per la sua disinvoltura. Heather Reed era quasi da imitare.
    Quell’ora le sembrò essere passata in un’infinità di minuti, piuttosto che sessanta. Si diresse verso la bionda, che scrutava pensierosa il foglio non più bianco ma ricco di scarabocchi ovunque. « Lie, sei ancora qui! Pensavo fossi andata a lezione di flauto » la sgridò, toccandole una spalla. Cercò Rachel, sperando non se ne fosse ancora andata. « Ho quasi finito lo scritto, se ti va te lo porto poi in camera. Ci tengo davvero tanto a questo genere di cose. Comunque no, oggi a lezione non vado, così almeno non incrocio quel coglione di mio-Nathan » si corresse subito, mordendosi la lingua. Quell’impiastro/ciclone/uragano/tsunami o qualsiasi cosa di distruttivo che esista al mondo – e ora che ci pensava si era dimenticata il tornado – non l’avrebbe vinta tanto facilmente. Sentì il nervoso crescere nelle sue viscere, se solo lo avesse avuto davanti lo avrebbe ammazzato di botte sino a farlo sanguinare. Si morse la lingua, notando che il suo subconscio le suggerì di star esagerando.
    Rachel le prese il foglio dalle mani, cosa sbagliatissima dato che ancora non aveva terminato, ma non curante dell’accaduto cominciò a leggere tra le righe e notò che il ragionamento non faceva una piega. Difatti Natalie era sicura che il libro parlasse di due protagonisti, per l’appunto un ragazzo ed una ragazza, il quale destino inevitabilmente si intreccia e termina per l’unirsi. In quel caso la copertina indicava sia il personaggio maschile che femminile e che, sempre inevitabilmente, rappresentava l’essenza del libro, il fatto che due caratteri diversi potessero unirsi in “un’unica essenza.”, così diceva l’ultima parola scritta. Pensò potesse andare benissimo così, come rappresentazione delle proprie convinzioni o come voleva chiamarla, ma vedendo la tenacia della ragazza decise di restituirle il foglio. La risposta era che la figura della foto non era altro che una retorica: né un uomo né una donna, ma l’insieme dei due protagonisti.
    Mentre tornava nella sua stanza vide Sebastian circondato dagli amici di Austin, anche se lui mancava all’appello. Vide Nathan e i suoi capelli scompigliati, i canini spaventosamente giganti di Christian e gli occhi dolci di Makoto. Si fermò davanti al sangue del suo sangue, fissandolo negli occhi. « Secondo te è maschio o femmina? » chiese poi, prendendo dalla borsa il libro. « Per me è una ragazza » rispose il biondo, mettendosi subito in mezzo. « Anche per me » agitò una mano, Christian. « Non saprei, forse un maschio? Tu che dici? » chiese Makoto, inclinando la testa di lato. « Nessuno dei due, o entrambi » sussurrò Sebastian, sorridendo sghembo alla sorellina, dopo di che le depositò un bacio sulla fronte e tornò insieme alla compagnia sui suoi passi. Rachel sentì le lacrime pungere negli occhi: erano passati quattro anni dall’ultima volta. Strinse forse il libro, quasi convulsamente, e si morse le labbra a sangue.
    A testa bassa accelerò il passo verso la sua stanza, lo sguardo annebbiato. Finì con lo sbattere su un petto ampio ed in quel momento incredibilmente caldo. Non si scansò immediatamente, cosa che non fece nemmeno lui, bensì le passò due braccia intorno alla schiena e le fece alzare il viso, mentre una lacrima segnava il suo volto. « Un altro giorno, Reed » bisbigliò accarezzandogli un braccio, dopo di che lo spostò e si diresse verso la camera 501 e le sue lenzuola gialle, l’unico posto in cui sognava ancora quei capelli neri esattamente come i suoi e gli occhi castani più belli che avesse mai visto nella sua vita. Austin rimase per qualche secondo a fissare la sua schiena e le sue meravigliose onde che l’accompagnavano nei movimenti come le fossero state donate. Era passato nella sua camera proprio per lasciare il disegno. Sorrise un poco, immaginando una sua reazione, dopo di che tornò dai suoi compagni. Quella giornata era stata pesante, l’ora di storia era risultata più lunga del previsto e la fin troppo grossa supplente aveva trattenuto la classe per venti minuti buoni, tagliandoli dalla pausa. Aveva ascoltato Sebastian suonare da lontano, e nonostante il senso di rigetto si era imposto di continuare ad ascoltare, mentre il sapore ferroso del sangue che fuoriusciva dal suo interno guancia faceva sempre più schifo al suo palato.
    Rachel, una volta entrata nella sua stanza, vide un foglio sul suo letto. Inizialmente pensò a Sebastian, poi a Natalie, ma pensò che la seconda fosse impossibile dato che l’avrebbe sicuramente incrociata. Si avvicinò lentamente asciugandosi le poche lacrime rimaste, osservando il nero di quel foglio. Si sfregò un occhio, come faceva sin da bambina: odiava piangere, arrossare gli occhi e far colorare la sua pelle di un rosa che non le si addiceva per niente. Prima di prestare la sua totale attenzione al disegno lesse il biglietto che riportava dietro. La calligrafia era pendente verso destra, elegante ma allo stesso tempo bambinesca. “Rachel Holden, sei una strana e matta ragazza. Lo sei sul serio, nel senso, penso che tu abbia qualche rotella fuori posto o qualche neurone solitario che ormai funziona poco. Sei comunque molto intelligente, e so benissimo che questa è una contraddizione e che io faccio davvero cagare a scrivere, ma ci tenevo a dirtelo. Alla fine non mi conosci, sai solo che sono un po’ depresso perché mio padre è morto e mia sorella non vede più se non nero, lo stesso nero che circonda anche te. Solo che lei c’è costretta a viverci, tu no. Vorrei ti mettessi nei suoi panni e ti vergognassi un po’ per il tuo egoismo, perché se vorresti potresti riuscire a vedere ogni colore e invece ti lasci sopraffare dalla tristezza che esiste in questo mondo.
Un giorno il mio migliore amico, qualche mese fa, mi ha detto di cominciare a vivere. Mia sorella mi ha detto che non sono solo, e probabilmente è vero. Le persone morte non lo sono del tutto se le ricordiamo, ed io mio padre lo ricorderò sempre. Io non so per quale motivo tu sia circondata da tutto quel nero, ma spero che potrò ad essere uno spiraglio di luce nella tua mente offuscata e adombrata. Mi sembra giusto che anche tu possa riuscire a vedere decentemente tutto quello che ti circonda. Vorrei esserti d’aiuto, Rachel, così come Nathan, Heather, mia madre, mio padre e anche Sebastian stanno facendo e so continueranno a fare. Ti conosco da due mesi cagati, facciamo proprio che non ho idea di chi tu sia, ma sei interessante. Questo lo so, Rachel. Lo sappiamo tutti. Credo che il celeste sia un bel colore: è come il cielo, il mare, gli occhi della gente. Spero che come primo colore ti possa andare bene, e che il tuo cielo possa prendere un po’ della sua tonalità. Sono una persona un po’ strana, ma credo che ognuno di noi possegga un proprio cielo. Il mio adesso è un po’ variopinto, spero che il tuo da nero possa passare almeno al blu. Mi impegnerò in questo. Lo squattrinato dai capelli color ravanello, Austin Reed.”

    Sorrise, stringendo stretta al petto quel foglio, per poi appendere il disegno sulla parete accanto a delle foto sue e di Sebastian. Uscì di corsa dalla stanza per dirigersi a lezione di pianoforte, sempre con il sorriso nelle labbra. Aveva dimenticato gli spartiti nella borsa lasciata malamente tra le lenzuola, ma non aveva importanza. Incrociò Austin e scoppiò a ridere, pensando di poterlo chiamare Ravanello, al posto di Occhi blu. Lo abbracciò di nuovo, stringendogli le braccia al collo e facendosi stringere a sua volta, mentre ancora continuava a ridere. E Austin sentì che il suo cuore avrebbe potuto battere a ritmo di quella splendida melodia mai sentita prima di allora.



Angolo autrice:
capitolo dimmerda ad un orario altrettanto dimmerda, eccoci presenti! So benissimo che tutto questo può sembrare affrettato e non coerente con la storia, ma a prescindere che questa long non avrà mille capitoli e che questi due prima o poi dovranno innamorarsi sappiate che la scelta di far capire quanto Austin tenga a lei è mirata a varie azioni che si verificheranno in seguito.
La canzone è Smile, di Avril Lavigne.
Sono quasi sicura che ci siano degli errori di battitura dato che non ho riletto - ho gli occhi che si chiudono da soli dalla stanchezza - quindi perdonatemi, domani vedrò di correggere tutto.
In questo capitolo si cominciano a verificare i sentimenti e la tenacia dei personaggi. Se ci dovessero essere problemi o se trovate il capitolo troppo non coerente con il resto non esitate a farmelo sapere: sono qui per migliorare. La stanchezza sfortunatamente gioca brutti scherzi su un corpicino anemico come il mio.
Bene, credo sia meglio andare. Buonanotte, un abbraccio, Haru.

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Capitolo 8
*** Capitolo sette: Blood of my blood. ***


Capitolo sette: Blood of my blood.
 
“Hope that you spend your days
And they all add up
And when that sun goes down
Hope you raise your cup
I wish that I could witness
All your joy
And all your pain
But until my moment comes
I’ll say I did it all”
 
    In quei giorni prendere sonno e dormire rilassandosi era un vero e proprio calvario. Erano passati cinque mesi dall’inizio della scuola, la fine del semestre stava arrivando più velocemente del previsto, le scappatelle per saltare l’ora di fisica o di latino non erano più concesse e aveva scoperto di proprio pugno cosa volesse dire avere una crisi di sovraccarico. Solamente a vedere il libro di letteratura, o peggio ancora di solfeggio, pensava di svenire vomitando tutta la sua disperazione accumulata. Passava ogni notte, da un mese a quella parte, a girarsi nel letto fino alle quattro del mattino, fin quando alle sei i fringuelli gli facevano da sveglia personale, ed in quel momento avrebbe davvero voluto morire. Quella sera comunque, dopo aver salutato Susanne, era corso in camera senza nemmeno aver cenato e, sentendo Austin solfeggiare varie note e provarle con la chitarra, si addormentò. Sognò che Susanne piangeva mentre decideva di abbandonarlo al suo destino, mentre sua sorella ghignava ed il suo flauto insieme ai tomi scolastici lo sfottevano ridendo sguaiatamente mentre lo accerchiavano e gli giravano in tondo.
    Dopo l’ennesimo spostamento irruento delle coperte e le eccessive gocce di sudore che gli colavano dalla fronte, il suo cervello decise che era arrivato il momento di svegliarsi. Ringhiò ad alta voce, non curante di svegliare il suo compagno di stanza: doveva mostrare a tutti la sua frustrazione. Avrebbe tanto voluto avere la sua ragazza con sé, in quel momento. Chiuse nuovamente gli occhi, sospirando, per poi girarsi di fianco alla sua destra. Una volta aver sollevato le palpebre, due occhi blu identici ai suoi lo osservavano scrutandolo attentamente, sorridenti, e per poco non ci lasciò le penne. « MA CHE CAZZO CI FAI TU QUI? » urlò, cadendo giù dal letto mentre il cuore correva come un pazzo per tutto il corpo. Pensò di vederlo uscire dalla cassa toracica e schizzare in faccia a sua sorella. Natalie scoppiò a ridere vedendo lo strano pallore andare ad espandersi nelle guance del biondo disteso sul pavimento. « Ciao anche a te, fratellone » lo salutò calorosamente, come mai aveva fatto, sottolineando l’ultima parola. « Piantala di chiamarmi così. Che diamine vuoi, Natalie? Non mi parli da settimane e adesso ti presenti così nella mia camera » sbuffò scocciato, accompagnando e rafforzando con un gesto il “così”.
     « Oh avanti, dormivamo sempre insieme quando eravamo piccoli, ricordi? Quando c’erano i temporali e i tuoni erano assordanti avevo una paura matta, e tu mi dicevi che le tue braccia erano talmente forti da non farmi sentire nulla. E dire che a me sembrava di non averla davvero più, la paura. Che montato che eri » sorrise con un velo d’amarezza nello sguardo. Prima che i loro genitori si separassero  lei e Nathan erano davvero molto uniti, quasi quanto Heather ed Austin. Poi, una volta giunta la separazione, Natalie si era ritrovata tra le braccia del papà mentre Nathan restò con la madre. Aveva visto la sua figura materna ed il suo fratellone scivolarle tra le dita come sabbia. Suo padre, a carica di un’importante impresa, ne aveva approfittato per stare con lei e portarla in giro per il mondo, facendole osservare posti nuovi, usi e culture diverse, cibi dai sapori più improbabili e abiti variopinti, sorrisi dolci e talvolta finti, abitudini strane e strutture di tutti i generi. Suo padre la portò in giro per il mondo, facendole trascorrere parte dell’adolescenza da un posto all’altro, e non avendo mai rapporti con il fratello maggiore, tanto meno con i ragazzini che incontrava da paese a paese.
    Ogni fine settimana piangeva al telefono sentendo la voce della madre ed i suoi: « Nath è uscito con i suoi amici, sai, oggi è sabato.. Ma chiede spesso di te, sai? » titubanti. I primi anni ci credeva, tra una scusa ed un’altra pensava davvero che il suo fratellone si preoccupasse per lei, ma crescendo si rese conto di tutte le cazzate che aveva sentito senza nemmeno accorgersene. Avevano sei anni quando si salutarono l’ultima volta, coccolandosi in un caldo abbraccio, convinti di vedersi l’indomani. Non dimenticò mai quel pomeriggio, lo riviveva ogni volta che provava quella nostalgia che le faceva incrinare il cuore e che la investì proprio in quell’istante. Pensandoci erano stati ingenui, ma infondo erano solo due bambini. Quando Natalie tornò a casa, dopo gli svariati anni di viaggio, Nathan le aveva sorriso ed era uscito di casa subito dopo. Non un abbraccio forte, non un’attenzione da parte sua, e lei si era sentita morire. Quella stessa notte poi i tuoni avevano invaso il cielo, lei lo ricordava benissimo. La distanza aveva attenuato la sua paura, un po’ perché ci era costretta ed un po’ perché cresceva, eppure quella notte pianse, mentre mordeva con forza il cuscino in preda alle lacrime.
     « Ah, già » disse solamente. « Ne è passato di tempo. Sono cambiate parecchie cose, noi più di tutte » disse Nathan, sistemando le coperte una volta che lei si alzò. La minore rimase a fissare il vuoto. La piega che stava prendendo il discorso non le piaceva per niente. Prese a guardarlo, gli occhi azzurri che ruotavano in ogni dove della stanza, evitandola. Avrebbe voluto prenderlo a testate e poi magari uscire dalla stanza come se niente fosse. Nonostante tutto rimase lì, in piedi, senza perdere nessuno dei suoi movimenti. « Natalie, penso sia inutile continuare a fare quello che stai facendo. Siamo troppo grandi ormai. Le cose non mutano in un soffio » quelle parole sussurrate le sembrarono grida di dolore che le corrodevano la pelle, i tessuti e gli organi. Non avrebbe pianto, ma la delusione che stava provando era troppa per passare inosservata. « Io pensavo solo di aiutarti » deglutì rumorosamente, cercando quelle iridi così simili alle sue, trovandole risplendere di una tonalità mai vista prima. « Mi puoi aiutare solo facendo finta di nulla ed uscendo di qui. Senti, io non ce l’ho con te, ma ormai non si può tornare indietro. Non più. E a me sta bene così, io in fondo non ti conosco » concluse con un’alzata di spalle, la voce talmente ferma che non sembrava nemmeno la sua.
     Austin, segregato dentro al bagno per non disturbare la delicata conversazione, avrebbe tanto voluto strappargli la lingua e darla in pasto a dei lupi, o più semplicemente buttarla nello scarico del gabinetto seguito da Nathan stesso. Eliminò dal cervello il pensiero di poter arrivare troppo tardi a lezione proprio quando il suo migliore amico si trovava in una situazione complicata. Ma ormai il soggetto dei suoi pensieri era rimasto solo in camera, ed un « Fanculo » seguito da un calcio all’armadio fece capire al malpelo di essere rimasti soli. Uscì dal bagno bello che pronto, la tuta per fare educazione fisica indosso e un piccolo broncio sulle labbra: era preoccupato. Nathan stava seduto sul pavimento con le braccia conserte, la testa poggiata ad esse ed un velo di tristezza che gli girava tutto intorno. Si sedette accanto a lui, sospirando. « Troppo stronzo, vero? » chiese, alzando il capo e scrutandolo con gli occhi arrossati dalle lacrime. Vedere Nathan piangere era sempre strano. Le lacrime erano così insolite in quel volto pieno di luce e sorrisi genuini da poter essere considerate estranee. « Direi… Un po’. Ha pianto, alla fine? » chiese, ricordando il tono tentennante di Natalie. Vide il biondo annuire, socchiudendo le palpebre.
 
[…]
 
     Il cielo era plumbeo, preannunciava tempesta. Le nuvole vorticavano leggiadre; quel grigio piombo non gli piaceva particolarmente. L’ora di storia stava diventando talmente pesante che le sue palpebre sembravano chiudersi da sole. Pestò la fronte sul banco, probabilmente facendo troppo casino poiché la professoressa lo squadrò in malo modo. Tra tutte le materie che doveva studiare, proprio storia gli doveva capitare alla prima ora? Non poteva andare insieme al rosso per fare due tiri a canestro? Maledì il martedì e l’orario che da quasi metà anno si portava dietro. Non solo odiava il modo cadenzato e terribilmente noioso della professoressa, in più i suoi compagni sembravano pendere dalle sue labbra e prendevano appunti fino alla morte, quando lui non capiva un’acca di quello che la donna sputava dalla bocca. Si chiese quale problema avesse, grattandosi furiosamente la testa e scompigliandosi i capelli più del dovuto. Avrebbe tanto voluto gridare, in quel momento. Quando la campanella suonò un tuono squarciò il cielo, facendo vibrare le finestre. Nathan sospirò, mentre la sua mente proiettava l’immagine di Natalie.
     Si avvicinò alla cattedra, il che lasciò perplessa la donna dai lunghi capelli biondi. « Johnson? Avrei giurato fossi stato il primo ad uscire dall’aula » chiese, rivolgendogli uno sguardo curioso. « Prof., secondo lei questo temporale durerà per tutta la giornata? » non seppe il motivo per cui pose quella domanda con un tono velato dall’assoluta tristezza o preoccupazione, ma la donna sorrise, come se sapesse. Annuì, per poi dargli le spalle e continuare a raccattare le sue cose. « Probabilmente anche tutta la notte, Johnson » e a quelle parole Nathan uscì, sapendo cosa fare. Ma prima si diresse verso la classe di Susanne, e trovandola davanti all’aula le si avvicinò correndo per di fiato, la fece girare verso sé e premette le labbra contro le sue, sentendo il suo sapore. Finalmente, pensò, mentre le sue guance si dipingevano di rosa. « Ciao » gli sorrise dolcemente, e credette che fosse la cosa più bella dell’universo, e tutta sua. La ribaciò, fin troppo preso dall’impulsività. « Ti va alla pausa di accompagnarmi a fare un giro? Devo chiedere una cosa alla mini-Reed » e, vedendo Susanne annuire con il capo, le posò un bacio sulla fronte e corse alla lezione di solfeggio: era già in ritardo.
      Nel frattempo Austin si dirigeva insieme a Sebastian verso l’aula di musica numero cinque, un’aula particolare e che racchiudeva molti suoi ricordi. L’odore del legno che si sentiva solamente varcando la soglia gli inondò le narici, dandogli un senso di nostalgia. Era davvero da troppo tempo che non entrava lì dentro, quasi non gli sembrava vero. Si guardò per un attimo intorno prima di uscire, conscio del fatto che quel pomeriggio l’avrebbe passato lì dentro ascoltando vari ragazzi suonare quel meraviglioso strumento. Sorrise, notando che non era cambiata poi così tanto. E mentre i ricordi riaffioravano nella sua mente pensò che non facevano poi così paura. Inoltre Rachel riusciva a distrarlo da ogni timore. In cuor suo sapeva che quella ragazza contava davvero qualcosa.
     Per Natalie quella giornata passò fin troppo lentamente, le lacrime sembravano non voler cessare e ogni cinque secondi tirava su con il naso. Saltò tutte le lezioni e non mangiò nulla a parte una mela, sotto lo sguardo preoccupato di Heather che la faceva sentire ancora più in colpa. L’aveva avvisata che quella sera sarebbe andata a dormire da Austin, e l’invidiò. Rimase a letto con l’abat-jour accesa, i tuoni non facevano altro che sembrare più forti ed impetuosi, mentre lo scrosciare della pioggia la distraeva dalla quantità di pensieri. Si coprì fin sopra la testa, rannicchiandosi su sé stessa. Le lacrime erano cessate ma il senso di vuoto che dalla mattina l’infastidiva non sembrava voler andarsene. Sbuffò, arricciandosi una ciocca di capelli. Pensò che, probabilmente, se avesse fatto di tutto per restare con suo fratello non si sarebbe ritrovata in una situazione del genere. Tra l’altro non aveva mai pensato di voler passare del tempo con Nathan – bè insomma, era pur sempre lui: un cretino con un sorriso largo quanto una capanna e con il cervello proporzionale alla sua voglia di fare attenzione in classe – come se fosse stato qualcosa di estremamente importante, eppure vedere la sua migliore amica ed il suo fratello maggiore le aveva acceso come una minuscola lampadina nel cervello, fulminata da troppo tempo. Si disse che forse era la mancanza delle risate tremende di suo fratello, del suo temperamento eccentrico anche solo all’età di sei anni, quando lei ne aveva appena la metà e non capiva nulla di quello che diceva, eppure aveva sempre pensato di puntare a lui come ad un esempio. Fin quando non crebbe e capì quanto fosse stupido.
      Le venne da ridere a quel pensiero: aveva mille quesiti contrastanti e nessuna risposta. La sua mente vagava senza meta tra i “se”, i “ma” ed i “resterà un coglione sempre e comunque”. Però, anche se era difficile ammetterlo, lei aveva bisogno di quel coglione nella sua vita. Avrebbe solamente voluto sapere perché se ne fosse accorta così tardi. Perché non quando andò in Austria? O a Parigi? Perché non mentre assaggiava piatti assurdamente schifosi o giocava in parchi grandissimi? Si disse che aveva ragione sua madre: l’aspetto critico di una persona sviluppa nell’età tra i sedici ed i diciassette anni, proprio la sua età. Che se ne fosse accorta proprio per quel motivo? Che finalmente fosse in grado di saper criticare sé stessa per aver quasi abbandonato suo fratello? Poi però si disse che anche lui poteva farsi vivo, e che la colpa era di entrambi, non solo sua. E che, ovviamente, lo avrebbe preso a schiaffi il prima possibile. Si ritrovò ad urlare esasperata non sapendo cosa fare. Realizzò infine che le ragazze amano mettersi troppi problemi e si sistemò meglio sotto il tepore delle coperte, mentre i lampi squarciavano il cielo ed illuminavano la sua stanza facendola rabbrividire.
      Vide la porta aprirsi: Heather era l’unica ad avere la chiave della loro stanza e di sicuro si era dimenticata qualcosa. « Heath, ma sei sola? Austin non ti ha accompagnata? Hai bisogno di aiuto? » chiese, scoprendo il volto e aspettando una risposta, di spalle alla porta. Odiava farsi vedere in condizioni pietose, e sperò vivamente che il malpelo fosse insieme a lei. Conoscendolo, poi, non l’avrebbe mai fatta andare da sola, quindi aspettò quei secondi con pazienza. « Sì, cazzo. Ho bisogno che ti tappi quella fogna » quello che doveva sembrare un bisbiglio uscito male le fece accapponare la pelle: quella non era sicuramente la voce di Heather. Così, decisa a picchiare chiunque si fosse intrufolato nella loro stanza e facendo del mare alla sua coinquilina, si mise a strillare. « TI SEI RINCOGLIONITA? » due braccia le serrarono la vita, stringendola forte contro un petto grande e caldo. Riconobbe la sua voce spaccarle il timpano destro e rimase zitta, immobile, se non fosse stato per il battito cardiaco si sarebbe data per morta. Avrebbe tanto voluto spaccargli la faccia, soprattutto perché si sentì così contenta di averlo lì da piangere di nuovo. « Stronzo » si girò verso di lui, accucciandosi nell’incavo del suo collo. Nathan la strinse un po’ più forte, quando un tuono si fece sentire pesantemente. « Stronzo » sussurrò Natalie, stringendolo ancora e facendosi stringere a sua volta, mentre le lacrime ormai bagnavano anche lui. 




Spazio autrice:
eccomi qui, stranamente puntuale. Spero in ogni caso di rendervi contenti. Ho cominciato a scrivere questo capitolo da giovedì (stranamente) a scuola, pur non ascoltando le lezioni ma pazienza, a volte può capitare. Avevo detto che avrei scritto qualcosa su Nathan e, un po' perché sono sadica e mi piace far penare i personaggi, un po' perché come fratelli questi due mi piacciono tantissimo, ho deciso di tirar fuori questa storiella per lui e Natalie. Spero che possa essere di vostro gradimento.
Per quanto riguarda il tempo sono passati cinque mesi e qualcosa di più, l'anno va a semestre dunque ci saranno altri tre mesi di scuola dato che il sesto sta per terminare. Nel prossimo capitolo vedremo come Austin ha reagito nell'aula di musica numero cinque, le sue emozioni e tutto il resto. Ritornerà anche Rachel che, come al solito, sarà di vitale importanza. Inoltre il suo segreto verrà svelato a breve.
Penso che al massimo una decina di capitoli e poi questa storia terminerà, aimè.
Bene, credo sia giunto il momento di andare. La canzone sopracitata è I Lived - One Republic, che se inizialmente non mi prese tanto adesso non mi esce dalla testa. Inoltre il significato è mostruosamente bello, quindi ve la consiglio.
Perdonate gli eventuali errori che sono sicura ci saranno dato che non ho fatto in tempo a rileggere.
Ci sentiamo la settimana prossima, un bacione.
Haruka.

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Capitolo 9
*** Capitolo otto: Black and white. ***


Capitolo otto: Black and white.
 
“ We don’t miss where we started
Looking back, I see a setting sun
And watch my shadow fade into the floor
I am left standing on the edge
Wondering how we got this far. ”
 
    L’odore del legno, misto a quello dei vari strumenti, gli ricordava parti di sé che pensava di aver dimenticato. La sala era grande, tonda, a forma d’ovale. Gli spartiti erano posati a casaccio nella scrivania e gli ricordavano casa, quando era lui a mischiare e talvolta perdere – maledicendosi – per le varie stanze i famosi brani di Bach, Baillot e Joachim. Ricordava i fogli senza nemmeno uno spazio bianco per via di tutti gli appunti presi a matita, i vari disegni e frazioni per indicare la durata del tempo, i quarti, la posizione del braccio ad angolo retto, la schiena rilassata ed il mento poggiato delicatamente sullo strumento. Aveva preso la strana abitudine di segnarsi ogni cosa, facendo sorridere i suoi, al tempo, compagni. L’insegnante sostava al centro dell’aula aspettando l’arrivo dei suoi alunni. Le tapparelle sollevate, le gocce di pioggia che s’infrangevano contro il vetro della finestra; le credenze ricche di fotografie e premi importanti fissate alle pareti. Austin rimase fuori dall’aula per circa un’ora, osservando quello che lo circondava mentre la sua vecchia maestra programmava la lezione.
    Sentiva il cuore battere all’impazzata dentro la gabbia toracica mentre combatteva il desiderio di andarsene scappando a gambe levate e quello di restare, osservando come probabilmente sarebbe diventato se solo avesse avuto più coraggio, o se solo suo padre non fosse morto. Già, il suo papà. La prima volta che mise piede lì dentro aveva la mano stretta a quella di suo padre. Aveva conosciuto la musica grazie a lui, quando lo sentiva suonare con estrema eleganza il violino, ammirandolo mentre sedeva nel grembo di sua madre. Era il suo eroe. Strinse a pugno la mano destra, pensando a quanto il destino, la fortuna o chissà quale divinità fosse stata ingiusta con lui. Strinse più forte, ricordando il viso sorridente di suo padre mentre lo prendeva tra le braccia e lo lanciava in aria, e lui, sciocco, urlava ridendo ed incitandolo: «Più in alto papà, ancora più in alto! Voglio mandare via tuutte le nuvole! ». E gli venne voglia di piangere, arrabbiato, perché non avrebbe dovuto lasciarlo solo da così piccolo.
    Le nocche ormai bianche vennero allentate da dita fredde e sottili. La presa perse la sua stretta mentre la mano si avvolgeva a quella della ragazza che ora lo stava guardando attentamente, gli occhi onice e lo sguardo apparentemente assente, tipico, che ormai la caratterizzava. « È strano vederti qui. Con cosa ti ha ricattato quel cretino? » chiese, alludendo al fratello. Gli venne l’espressione idiota che aveva assunto una volta scoperto il rapporto di parentela tra i due. E lui, sciocco, che pensava stessero insieme. Sorrise involontariamente, continuando ad immergere gli occhi blu in quelli senza fondo, neri. Le accarezzò il pollice con il proprio. « Gliel’ho promesso da tanto, direi che è ora di smetterla di scappare, no? » si appoggiò allo stipite della porta, mentre l’albina continuava a fissare la paura che in una minima parte rimaneva nei suoi occhi. « Ne sei sicuro? Sei ancora in tempo per scappare, se ti va » gli sorrise lievemente dopo essersi guardata intorno: Sebastian poteva essere ovunque. Il malpelo l’avvicinò a sé, scuotendo la testa. Era il suo dovere, così, trascinandola all’interno dell’aula prese posto in una delle tante sedie.
    Le tempie pulsavano a furia di voler cacciare da qualche parte remota del cervello i ricordi, che imperterriti fondevano nella sua mente. Non si sentì affatto coraggioso, ebbe paura di poter scoppiare a piangere di fronte a tanti ragazzi che non conosceva, magari passando per debole. E poi c’è lei, cazzo. Sospirò ad alta voce, tenendo ancora la mano unita a quella della ragazza, che continuava a sorridergli. Si chiese se ci avesse fatto l’abitudine, oramai. Era felice per lei, certo, ma sembrava che lo volesse sfottere ad ogni ora del giorno e della notte. La vide prendere posto su una pianola malconcia ma funzionante non poco distante dall’ammasso di sedie, per poi cominciare a strimpellare qualcosa. Sembrava quasi che le dita accarezzassero i tasti, mentre la schiena dritta si muoveva un poco avanti ed indietro, come un metronomo. Il polso roteava delicatamente in senso orario, permettendo alle dita di arcuarsi e raggiungere ogni tasto. Il suono che ne usciva era vera e propria musica, di certo non bello come quello di un pianoforte vero e proprio, ma ugualmente emozionante.
    Non si accorse nemmeno di esserle andato vicino e di essere rimasto qualche minuto ad ammirarla, nonostante lei avesse finito e l’aula si fosse riempita, con lui in piedi, l’unico fra tanti. Rachel sorrise, mostrando i denti bianchi, come la sua pelle, come i sentimenti che non aveva, un po’ come lui. Tutto di lei era così candido, faceva quasi contrasto con l’abbigliamento scuro che portava. Pensò fosse proprio come i tasti di un pianoforte: un susseguirsi di bianco e nero che s’incastrava perfettamente mostrando come lei fosse. Si sentì importante perché fu l’unico, a suo parere, ad essere riuscito a trovare quella parte celata del suo carattere. Lei voleva a tutti i costi creare un muro d’indifferenza di fronte agli altri, ma il suo azzurro, lui stesso, quello squarcio di luce cerulea aveva fatto largo a qualcosa di più profondo quasi quanto i suoi occhi. Avrebbe varcato quel suo cancello, abbattuto il muro e l’avrebbe vista faccia a faccia, grigia, proprio come lo era lui.
    Si sedette al suo fianco, dopo essere vistosamente arrossito. « Bene, miei cari ragazzi. Prima di cominciare con la lezione vera e propria vorrei presentarvi un nostro ospite nonché mio ex alunno. Si chiama Austin, ha la vostra età e suona la chitarra. Prima suonava il violino ed era davvero eccellente, quasi quanto il suo papà » la donna gli sorrise teneramente, cercando di dargli conforto. Quello che provò Austin però fu fastidio, perché se davvero voleva lasciar perdere la questione poteva semplicemente rimanere zitta e non nominare il suo vecchio. Riconobbe alcune facce che ora lo guardavano con un’aria triste e colma di pena, e sentì il nervoso corrodergli ogni arto. « Come sta tua sorella, Austin? » chiese poi, avvinandosi ed accarezzandogli i capelli con fare materno. Si ricordò di quel tocco, lo faceva sempre con tutti i suoi allievi. « Oh andiamo, prof, siamo qui per suonare. A me non importa un cazzo se sua sorella è cieca, devo far vedere a quello stronzetto come si suona davvero il violino » la figura alta e composta di Sebastian si fece largo tra le sedie, dirigendosi verso il centro dell’aula e sorridendo apertamente ad Austin che pensava di avere quasi varcato la soglia della pazienza.
    Rachel scosse la testa, guardando il fratello maggiore pavoneggiarsi come un marmocchio. Austin ringraziò il ragazzo con lo sguardo cristallino dalle lacrime trattenute. Non bastava suo padre, adesso anche Heather. Si memorizzò di dover stampare un pugno in faccia a Sebastian per il falso menefreghismo nei confronti della sua sorellina, mentre stringeva per l’ennesima volta le mani in una presa ferrea. Sebastian prese con grazia il violino e, una volta sistematosi, cominciò un motivo triste e tremendamente emotivo. Alle prime note un senso di vuoto s’impossessò dello stomaco dei presenti, ed Austin sentì Rachel strozzare un gemito di spavento. La vide mettersi una mano come a tapparsi la bocca e gli occhi sgranati velarsi. Sebastian muoveva l’archetto sopra e sotto, a destra e sinistra, arcuava un poco la schiena e poi riprendeva, gli occhi chiusi e le labbra strette tra loro. Quella canzone lasciava un senso di nostalgia misto a dolore, un dolore celato, ed Austin giurò di non aver mai sentito niente del genere composto da un violino. Pensò fosse davvero bravo e che avesse capacità fuori dal comune, proprio come suo padre sperava che lui diventasse, e a quel pensiero un senso di nausea s’impossessò della sua gola facendolo sussultare.
     Rachel abbassò la testa, probabilmente per non far vedere le lacrime che le solcavano il viso. « Basta » sussurrò, prendendo una mano di Austin fra le sue. Il ragazzo la guardò preoccupato, ovviamente c’era qualcosa che non andava in tutto quello. La bravura di Sebastian era quasi palpabile, ma l’effetto che stava facendo sugli spettatori era assurdo. Probabilmente gli avrebbe stretto la mano, non appena ebbe finito, se solo non stesse così emotivamente male. Chiudeva gli occhi e vedeva suo padre, gli occhi di Heather scomparire, il peso sulle sue spalle, sua madre, la stanchezza, il violino che giaceva per terra, i pianti e la coscienza che lo faceva impazzire. Gli venne voglia di urlare e, proprio quando stava per uscire dall’aula, Sebastian si fermò. Solo dopo si accorse che aveva gli occhi bagnati e lucidi.
    « Non sei l’unico che soffre per qualcosa, Reed. Ricordatelo. Mi scusi, vorrei uscire un attimo » disse infine, poggiando a terra lo strumento e lasciando ancora più sconcertata la professoressa. Non l’aveva mai sentito suonare un qualcosa di simile, tanto meno con un viso talmente concentrato e pieno di passione e dedizione su quel che stava facendo. Sebastian sembrava maturato tutto in una volta da quando lo aveva conosciuto. Da bambino era un pelandrone, si lamentava per tutto ed eseguiva solo quello che gli piaceva, ma l’espressione che aveva avuto in quel momento la lasciò senza fiato. In quell’aula si udiva qualcosa di strano, era tutto così opprimente che quasi non si riusciva a respirare. Gli altri alunni restarono interdetti, mentre Rachel correva fuori dalla porta seguito dallo sguardo esasperato di Austin.
    « SEI UN COGLIONE, SEBASTIAN! » urlò lei, in mezzo al corridoio, facendo voltare i presenti. Gli si avvicinò, notando come la sua schiena fosse serrata e le sue gambe andassero spedite. Nemmeno la prendeva in considerazione. « Questa non è una lotta a chi soffre di più, capisci? Abbiamo sempre detto che avremmo fatto finta di nulla e così faremo. Non fare mai più una cosa del genere, mi hai capito? » chiese, dopo averlo voltato bruscamente. La sua voce si era incrinata all’ultima domanda, e non poté far altro che volgere lo sguardo contro il basso; gli occhi ancora umidi. Sebastian la strinse forte, inglobandola con le braccia, proprio come era abituato a fare lui con entrambi. « Siamo in due ad averlo perso, Seb » sussurrò lei, poi.
     Nel frattempo Austin era rimasto per qualche secondo a guardare in un punto fisso di fronte a sé, non aveva capito un cazzo di quello che era successo, aveva voglia di grattarsi la testa fino a perdere i capelli dal nervosismo, urlare, pestare i piedi a terra e magari rompersi la fronte sbattendola ripetutamente sul muro. Nel giro di qualche minuto sarebbe impazzito. Non avrebbe mai pensato che per “farti ascoltare qualcosa” Sebastian intendesse straziare la giornata a tutti i suoi compagni di classe, a lui, a Rachel e addirittura alla sua insegnante che adesso tremava un poco. Si scusò lievemente, per poi uscire anch’egli dall’aula. Aveva bisogno di parlare con Nathan, ma non seppe dove trovarlo, era confuso. Sentiva ancora la terribile sensazione che gli contraeva lo stomaco, e pensò di rimetterci sul serio. Ricordando la concentrazione di Sebastian pensò che gli sarebbe piaciuto essere così bravo. Avrebbe reso fiero suo padre, in quel modo. Si morse la lingua: ormai era tardi.
    Incontrò Rachel e Sebastian, presi a braccetto, nel corridoio. Gli occhi di entrambi erano arrossati ed il malpelo poté notare un vago rossore anche nelle guance del violinista. Difatti gli si avvicinò, impacciato. « Sono stato un coglione. Pensavo che in questo modo avresti potuto tornare a suonare il violino e invece non ho fatto altro che fare male a me e agli altri » rise un poco, ironico. « È stato un qualcosa di pessimo gusto, mi spiace » concluse, stringendo un po’ più forte la sorella. Tutto quello per tornare a suonare il violino? Austin rimase interdetto, lo guardò per qualche secondo e poi scoppiò a ridere, lasciando basiti i due. « Suppongo che chiedermelo avrebbe significato un grosso e grasso no. Credo che tu abbia trovato un buon metodo, sei un ottimo violinista » disse a fatica, ingoiando il groppo che la nausea gli aveva formato al centro della gola. Avrebbe davvero voluto vomitare, in quel momento. Vide il moro rilassarsi e battergli un debole pugno nella spalla, scusarsi ancora una volta e poi andarsene. Rachel, invece, rimase.
    « Scusa anche me, sono corsa via » gesticolò un poco, facendo esplodere un rosso vivo nelle gote, colore che fece sorridere il protagonista. Il colore dei suoi capelli le donava. Era incredibile quanto, se solo si emozionasse un poco, le sue guance cambiassero colore. « Quando ti andrà di raccontarmi sai dove trovarmi » le sorrise, per poi baciarle la guancia, in direzione dell’angolo delle labbra, azione che se possibile la fece arrossire ancor di più. « Eeehi Micio, non ti facevo mica così intraprendente! Ciao Spettro, salutami lo spettro maggiore! » li salutò Nathan, mentre prendeva il malpelo con sé. Rachel rise, erano proprio una bella accoppiata. « Proprio te cercavo » sospirò Austin, indicandolo. « E allacciati bene la camicia, ho capito che tu e Prugna, no scusa, Susina, ci date dentro, ma non sono tua madre, va bene? » rise, sfottendolo.






Angolo di quella che deve essere uccisa malamente:
Mi preparo a schivare patate, melanzane, zucchine e anche asini volanti se necessario, sono pronta. Sono consapevole di non scrivere da più di un mese, e so anche che nessuna motivazione potrà scusarmi, solo che non sapevo proprio che pesci prendere per questa storia. L'ispirazione non veniva nemmeno a pagarla, per tutto il mese ho avuto interrogazioni e verifiche e per fortuna le ho date tutte (eccetto tedesco, ma questa è tutta un'altra storia).
Spero con le vacanze di Pasqua di riuscire a scrivere almeno tre capitoli, in modo tale da portarmi avanti nel caso non avessi più ispirazione, come appunto è successo.
Mi dispiace davvero tantissimo, spero possiate perdonarmi per il ritardo.
Avrei anche voluto cancellare la fan fiction e ripubblicarla in seguito - il ritardo dovrebbe essere bandito, eppure io sono una maestra in esso - ma, un po' perché mi mancava, un po' perché ho seguito il consiglio di Francesco (che ringrazio tanto) finalmente oggi ho pubblicato.
Non ho riletto, dunque è molto più che probabile che ci siano degli errori. Vedrò di eliminarli in seguito.
Questo capitolo è abbastanza strano, spero di non avervi deluso.
Ancora scuse per tutto, spero di avere ancora qualche recensione, nonostante non me le meriti.
Un bacione,
Haruka.
 

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Capitolo 10
*** Capitolo nove: Hold me. ***


Capitolo nove: Hold me.

“Hold me in your arms
Your heart’s against my chest
Lips pressed to my neck
I’ve fallen for your eyes
But they don’t know me yet”
 
    Mettevano in ordine la propria roba: il venerdì era l’unico giorno in cui potevano uscire dell’istituto e tornare entro la mezzanotte, coprifuoco inutile dato che non veniva mai preso in considerazione. Austin e Nathan generalmente uscivano con la loro mandria, seppur piccola, di amici, e quel giorno tutti si sarebbero dovuti incontrare al ciliegio come da programma. Nathan sceglieva con cura se indossare la maglia rossa o quella nera, mentre Austin pescava qualcosa dalla borsa alla cieca: quello che sarebbe uscito avrebbe messo. Non badava molto alla moda, ai pantaloni a vita bassa, ai boxer che arrivavano all’ombelico nemmeno fossero perizoma, al risvoltino sopra la caviglia. A lui bastavano un paio di jeans e una maglia bella larga. Aveva un bel fisico, ma sentire il tessuto appiccicato alla pancia gli dava fastidio ed un immenso prurito.  Si guardò allo specchio e vide le profonde occhiaie che gli tagliavano le guance. In quei giorni aveva chiuso occhio sì e no per non più di cinque ore. Tra esami e la lezione di violino il suo cervello stava per fare sciopero di troppi pensieri. Si sentiva collassare e avrebbe tanto voluto dormire, quel pomeriggio. Aveva avuto l’occasione di parlarne con Nathan ed era stato molto utile: l’aveva ascoltato, si era addormentato lasciandolo di stucco e con la voglia di svegliarlo a suon di testate nei denti ferma in fronte, poi si era svegliato e gli aveva detto il suo parere.
     « Allora amore mio, pronto? » chiese il biondo, incrociando le braccia al petto. Austin fece volare un dito medio davanti al suo viso, provocandogli una risata. Uscirono in fretta, dopo di che il compare andò a prendere la sua ragazza dagli strambi capelli. Austin, rimasto solo, pensò di passare un attimo dal suo insegnante di chitarra per chiedergli una spiegazione su uno spartito particolarmente difficile. Non riusciva ad eseguire l’accordo che susseguiva il ritornello, stonando l’intera canzone. Quando non riusciva a posizionare decentemente le mani sui capotasti gli veniva voglia di prendere la chitarra e sbatterla da qualche parte fino a farla arrivare ai mille pezzi. Invidiava Nathan e la sua calma: ogni qualvolta sbagliava nota e stonava faceva un respiro profondo, segnava l’errore e pur di eseguirlo trecentodue volte lo ripeteva fino a farlo correttamente. La sua pazienza non avrebbe mai retto. Sospirò, sentendo poi tasti di pianoforte suonare armoniosamente. Riconobbe la melodia non ricordando dove l’avesse già sentita. Probabilmente un film, si disse. Entrò nell’aula, notando sua sorella uscire impetuosa e il suo insegnante di chitarra raccogliere alcuni spartiti. Nella stanza c’erano solo loro tre più Rachel, che suonava con il suo strano modo di tenere la schiena dritta ma di muoverla avanti e indietro, come a volersi dare il tempo.
     Heather chiese scusa, arrossendo lievemente. La sentì poi annusare l’aria con fare buffo, ed in quel momento realizzò che l’aveva riconosciuto. « A-Austin? » sussurrò, stringendosi le mani l’una contro l’altra. In tutta risposta il maggiore le diede un bacio sulla fronte, sorridendole. La salutò, per poi chiedere al signor Morgan come poter eseguire il brano correttamente. Si diede dello scemo per non aver portato con sé lo spartito. Il docente gli fece segno di rimanere in silenzio, indicando con la testa la ragazza che suonava. « Diventa decisamente temibile quando la si interrompe. Ne parliamo lunedì in classe, puoi aspettare? » gli bisbigliò. Non pensava che a Rachel potesse dar fastidio essere interrotta. Lui si distraeva per qualsiasi cosa, poi riprendeva, si rifermava, leggeva qualcosa al telefono, risuonava. Spesso riusciva a suonare anche in contemporanea con Nathan: a nessuno dei due dava fastidio. Quando dovevano suonare avevano una concentrazione tale che anche se al di fuori fosse cascato il mondo loro non se ne sarebbero accorti. Gli venne da ridere, immaginando una Rachel color cremisi che inveiva contro di lui urlandogli di tutto e di più. Annuì, avvicinandosi allo strumento a coda, notando come i mattoncini battessero sulle corde, provocando quel suono dolce ma anche forte, deciso. Le mani della ragazza si muovevano con una dolcezza tale da voler quasi accarezzare i tasti, passavano dolcemente da bianco e nero mentre la melodia si faceva più veloce ed un crescendo avvolgeva la stanza, facendo diventare il suono forte e chiaro, quasi duro, ma sempre melodioso. Lo stomaco del rosso si contrasse a lungo, facendogli male. Il viso concentrato, gli occhi fissi sulla tastiera del pianoforte, le dita che l’esploravano con saggezza e le labbra strette tra loro mentre la schiena andava e veniva.
    Senza accorgersene si ritrovò senza fiato e con le ginocchia molli, mentre la canzone era ormai giunta al termine. Vide Rachel fare un respiro profondo e poi alzarsi, guardandolo dolcemente. « Ho sbagliato qualcosa, ma spero non si sia notato. Ti è piaciuta? » chiese, un briciolo di speranza nella voce. Austin continuò a fissarla passando da un occhio all’altro, perdendosi nelle pozze nere che erano velate da quella piccola luce che sognava tanto di vedere. « Credo di sentirmi male » sussurrò, sedendosi sul pavimento. Di conseguenza l’albina sbiancò, se possibile, e lo accorse chiedendogli se andasse tutto bene. Quelle emozioni, quella sensazione nella bocca dello stomaco, l’aria che mancava dai polmoni. Non ricordò di averle mai provate prima di allora. Prese dei respiri profondi, sentendo il sangue scorrergli di nuovo nelle vene. Quella ragazza non aveva grandi capacità di espressione ed integrazione, quello lo aveva capito fin dall’inizio. Credeva fosse una un po’ per le sue, simpatica ma riservata, che teneva tutto ciò che le passava per la testa unicamente per sé. Si chiese se non impazzisse mai, ogni tanto. Come riusciva a non parlare delle sue sensazioni, dei suoi desideri, delle sue constatazioni? Lui esponeva sempre a tutti i suoi problemi: si lamentava, sbatteva i piedi, urlava, spaccava oggetti in preda alla frustrazione o stritolava tutti per la contentezza.
    Poi si rispose, guardando quello strumento. Era solo quello, il suo capo espiatorio. Erano quei tasti, quei mattoncini e quelle corde che le permettevano di esprimere tutto ciò che sentiva. Austin si rialzò, osservandola. Capì la sua agitazione, e capì perché odiava essere interrotta. Era come se facesse un soliloquio: parlava con sé stessa. Mentre suonava riusciva finalmente ad aprirsi con gli altri senza farlo vedere, nascondendosi. Eppure il risultato era magnifico. Sembrava nata per suonare in quel modo. Sembrava che la sua chiusura interiore fosse fatta apposta per permetterle di suonare così bene quei pezzi. Continuò a guardarla sorridendo imbarazzato. « Sei bellissima, credo. E-E anche bravissima, certo, però non so, insomma » incespicò sulle parole, la salivazione ancora alta e le parole che uscivano liberamente. Si diede del cretino, assumendo un’espressione spaventata e che fece scoppiare a ridere l’altra. « Sei proprio un bambino, Austin » lo prese in giro. « Quel pezzo era stupendo, e tu sei bellissima » ripeté con voce ferma lui, incastrando lo sguardo sicuro in quello dell’albina, che adesso lo guardava con un leggero rossore nelle guance. Sono ancora un bambino adesso, mh? si disse, orgoglioso. Un bellissimo sorriso gli tagliò il viso, mostrando i denti bianchi e perfetti, mentre lei arrossiva un altro poco.
    « È la colonna sonora del film Amelie, s’intitola Comptine d’un autre été » sussurrò, puntando lo sguardo nella punta delle sue scarpe, con indifferenza. Austin ricordò di aver visto quel film anni addietro. « La suoni in modo particolare, cioè, suoni tutto in modo particolare » se ad Austin quel commento sembrò naturale, per Rachel fu come un pugno in piena faccia. Quella frase l’aveva già sentita, e tante volte. La vide sgranare gli occhi e rimanere immobile per qualche secondo, lo sguardo perso nel vuoto. Poi sorrise. « Già » un sorriso lieve, quello che riusciva a fare. Nonostante tutto rimaneva piuttosto insicura, sotto quella corazza nera dura e spessa. Sapeva di averla aiutata, in qualche modo, eppure sentiva che non era abbastanza. Pensò che farsi carico dei pensieri di una persona fosse un compito complicato, ma forse ce l’avrebbe fatta. In quei giorni la sua testa chiedeva pietà, ma avrebbe resistito, almeno un po’, no? La forza di volontà non mancava. E poi voleva vederla sorridente. Si morse un’unghia, pensando a cosa fare. Cosa poteva essere quel “di più” che doveva raggiungere?
    La vide torturarsi le labbra con i denti, prendere i lembi di carne e strapparli, per poi passarci la lingua. Probabilmente sapevano di sangue. Continuò a guardarle le labbra, avvicinandosi a lei, cosa che la fece mettere all’erta. « Rachel » la chiamò, e se avesse potuto lei si sarebbe cancellata in quell’istante. In quel timbro c’era una sicurezza insolita, come quando prima le aveva dichiarato quanto bella fosse. Eppure lei non si sentiva così, non era una brutta ragazza ma non faceva risaltare le sue forme e la sua femminilità. Semplicemente non ci badava, e non piaceva per quel motivo. Lo guardò, osservando il ceruleo dei suoi occhi. Austin incrociò le braccia al petto. « Se ti baciassi adesso dopo subirei un bel calcio nelle palle? » chiese, inclinando la testa con fare bambinesco. Eccolo, era tornato quello di sempre, si disse lei. Rise, toccandosi la pancia e arcuando la schiena all’indietro, i capelli che oscillavano. Con le lacrime agli occhi e i denti in risalto risultava ancora più bella, ed Austin si chiese come diamine fosse possibile. Rachel lo attirò a sé di scatto, facendo combaciare le proprie labbra in modo casto. Si staccarono quasi subito, solo dopo un misero contatto.
    Il malpelo la guardò alzando un sopracciglio, scettico. « E questo tu lo chiami un bacio, davvero? » l’ironia nella sua voce le fece venire ancora più voglia di baciarlo senza alcun gioco, eppure si ritrovò ad annuire. Risero, dopo di che si baciarono ancora una volta. Le mani sul collo, sui fianchi, sulla schiena; le labbra si mordevano mentre le lingue si sfioravano. Si stavano dicendo tante cose, in quel bacio, ed Austin pensò che forse anche lui poteva essere un capo espiatorio dei suoi pensieri. Ripresero fiato e, ancora vicini, immersero uno lo sguardo nell’altra. Era incredibile quanto fossero diversi. Rachel lo strinse forte, chiudendo gli occhi per lasciarsi trasportare dalle sensazioni che sentiva. Era bello sentirsi apprezzata da qualcuno, soprattutto se quel qualcuno era Austin. Sorrise, dandosi della stupida e dimenticando per un secondo tutto il buio che lo circondava. Le sembrò quasi che il sole splendesse, in quell’istante, dentro di lei.
**
    Il ciliegio era in fiore, il freddo stava man mano lasciando spazio al caldo tepore, il verde cresceva ovunque e i fringuelli riempivano l’aria cinguettando. Nathan trovò il tutto magnifico, mentre stringeva a sé Susanne, che guardava il cielo. Qualche nuvola resisteva sempre, il sole era debole, ma l’azzurro era ben visibile. Le piaceva avere quei momenti di solitudine e pace insieme a Nathan, sapeva che in quel modo riuscivano a rilassarsi e a dirsi mille cose anche senza parlare. Il biondo salutò i suoi amici, che arrivavano correndo come dei matti. « Finalmente una giornata come si deve » urlò Makoto, girando su sé stesso e provocando la risata degli altri. « Ragazzi poi devo andare a prendere il mio cane così gli faccio fare un giro. Mi manca parecchio » disse Christian, grattandosi la nuca con fare imbarazzato. « Lo porti in giro equivale a dire che lo porti a cagare, vero? » sospirò Leo, con fare disperato. Odiava quel cagnaccio più di ogni altra cosa al mondo: ogni qualvolta capitasse l’occasione di uscire con lui gli veniva addosso ringhiandogli contro e saltando ovunque come un canguro. « E tu a cagare non ci vai mai? » gli urlò contro, Christian. « Vuoi che ti prendo a pedate nel culo?» rispose immediatamente pronto a far cominciare una rissa, l’italiano. « Sei crudele, Leo » rise Susanne. Ormai conosceva bene gli amici di Nathan: ognuno aveva una sua caratteristica, e poi lui ne parlava spessissimo. Ci teneva molto e si vedeva, inoltre era contenta di venire accettata da tutti loro poiché riteneva importante far parte della cerchia di persone che volevano molto bene al suo biondo tutto pepe. Indubbiamente lo amava, era mesi che stavano insieme, inoltre sapeva che lui le andava dietro da un bel po’ di tempo. Dargli un’occasione le era sembrato il minimo, vista la spontaneità e la sincerità del ragazzo. Per non parlare del suo magnifico sorriso e del suo modo di suonare il flauto, che solamente a pensarci le veniva la pelle d’oca. Nonostante fosse un ragazzo e si pensi che quel tipo di strumento sia più adatto a delle ragazze, lui era molto più bravo di lei. Lo ammirava tanto, e si faceva aiutare spesso.
    Heather arrivò a braccetto di Natalie, seguite da Sebastian e infine da Austin e Rachel. Una volta che tutti si furono salutati, s’incamminarono per le vie della cittadina. « L’ultima volta che sono passato nella via principale per raggiungere la piazza ho visto sul marciapiede delle uova rotta per sette volte di fila. Erano tutte disposte in modo diverso. Chi cazzo è che fa cadere le uova di proposito? Che spreco, sono così buone » si lamentò Nathan, accarezzandosi la pancia. I suoi compagni alzarono gli occhi al cielo, mentre dei « Sì, Nathan, va bene » e le risa delle ragazze si libravano nell’aria. 





Angolo autrice:
finalmente posso considerarmi puntuale. D'altronde dopo l'attesa infinita ci voleva proprio un po' di sana puntualità!
Questo spazio sarà breve (per una volta) dato che tra poco andrò a vedere Fast and Furious 7 e sono parecchio elettrizzata all'idea.
In ogni caso, in questo capitolo finalmente i due pidocchi si baciano! Che carini. D'altronde non potevo farli penare ancora, dovranno pur rialzarsi. Probabilmente sto correndo troppo, se per caso la storia sta prendendo una piega troppo ripida e non sta seguendo bene il suo filo notandosi in una maniera inadatta siete liberissimi di farmelo sapere. Vorrei fare le cose per bene e non all'acqua di rose.
La canzone è Kiss me - Ed Sheeran. Fate santo quell'uomo.
Non dovrebbero esserci errori dato che ho ricontrollato, ma in caso ci fossero perdonatemi.
Un bacione e grazie infinite per la vostra eterna pazienza e disponibilità. Siete degli angeli.
Haruka.

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Capitolo 11
*** Capitolo dieci: Immortals. ***


Capitolo dieci: Immortals.
 
“I’ll try to picture me without you but I can’t
'Cause we could be immortals, immortals
Just not for long, for long
If we meet forever now, pull the blackout curtains down
Just not for long, for long
We could be immortals, immortals,
Immortals”
 
   L’assenza di una persona cara causa una ferita irreparabile, e questo lo sapevano bene entrambi, mentre si guardavano negli occhi. Avevano visto le chiazze ormai secche delle uova sparse per il marciapiede che Nathan voleva tanto far vedere loro. Si erano persino messi a ridere, vedendo la faccia schifata di Natalie. Quel bambinone biondo non sarebbe mai cambiato, mai. Il sorriso genuino e lo sguardo limpido. Vederlo triste era davvero strano. In un modo o nell’altro lui sapeva brillare. Da bambino pareva quasi un angioletto, con i capelli d’oro e gli occhi oceano. Eppure era un tale casinista. Correva da tutte le parti, scendeva e saliva le scali a velocità impressionante e delle volte ci rotolava fino a farsi veramente male. Però al posto di piangere rideva: era divertente capitombolare da lassù. Austin scosse la testa, vedendo i suoi compagni dall’altra parte del fiume, in particolare il ragazzo preso in considerazione che stringeva tra le braccia la sua ragazza. Prese a guardare Rachel, al suo fianco, con le ginocchia al petto e la testa poggiata ad esse. Avevano intenzione di andare al cimitero, così lei avrebbe spiegato, gli disse. Quella passeggiata sarebbe stata strana, se lo sentivano. Rivangare i ricordi, ricomporli, sentirli. Se avesse dovuto raccontare di come si sentiva dopo che suo madre venne a mancare probabilmente non avrebbe saputo cosa dire.
   « Pronta? » chiese, porgendole una mano. Lei annuì, accettandola con un sorriso mesto in viso. Tremava leggermente a dover raccontare tutto così, di getto. Però le sembrava giusto. L’aveva baciata, e sentire il suo sapore nelle labbra le fece credere che quello fosse il momento giusto. Conoscendo Austin da mesi aveva capito che non era un ragazzo semplice. Probabilmente se l’avesse visto da lontano l’avrebbe spacciato per omosessuale. Le venne da ridere, segnandosi a mente che in un momento meno delicato avrebbe voluto fargli quella confessione per godersi le espressioni del suo viso. « Posso prenderti per mano? » chiese poi. Il malpelo allacciò le dita a quelle della ragazza, leggermente teso. Non sapeva cosa diamine aspettarsi. Gli altri li aspettavano sempre nella solita panchina, li salutavano con la mano e poi: « Non fate robacce, siete in un cimitero! » Nathan intervenne. « Coglione » commentò Austin, preoccupato che Rachel non se la fosse presa. Con sua sorpresa la trovò a ridacchiare. « Oh, non preoccuparti. So di essere al sicuro insieme a te » gli fece l’occhiolino e gli parve di sentire le guance colorarsi un poco. Come al solito si diede del cretino.
     Dopo aver camminato un po’ Rachel si fermò su una lapide bianca, con raffigurato il volto di un bambino. Leggendo la data di nascita e morte Austin capì avesse dodici anni. Rachel si sedette, invitando lui a fare lo stesso. Prese un respiro profondo, dopo di che i suoi occhi si inumidirono. « Lui è » si fermò un secondo. Austin strinse più forte la sua mano, chiedendosi se non fosse abbastanza. Vide gli occhi neri puntarsi nei suoi, una domanda celata al loro interno. « No » rispose, con voce ferma. « Non mi faresti mai pena, Ray » aggiunse. La ragazza sospirò ancora, per poi proseguire. « Lui è Aaron. Era il mio fratellino. Parlare di lui fa tanto male, ma so che ti sei aperto molto con me. Hai cercato di distrarmi dal buio e.. e tutte quelle cose. Ti ringrazio tanto per questo, Austin » gli accarezzò i capelli, scompigliandoglieli un poco. « Soffriva di SLA, Sclerosi Laterale Amiotrofica. Inizialmente è arrivata quando aveva sei anni. Credo che tu sappia cosa comporta questa malattia, in ogni caso è neurodegenerativa. Porta ad una degenerazione di precisi neuroni e che portano alla paralisi totale. Io l’ho visto prosciugarsi poco a poco, Austin » nonostante il tono fosse quello freddo, di sempre, una lacrima era scesa fino alla guancia.
     « Non ci sono cure, ma la medicina sta andando avanti. Si fa di tutto pur di tenere in vita il paziente, solo che poi arriva un momento in cui bisogna mettere fine. Credo che la morte gli abbia fatto bene, lui ora sta bene. Anche se vorrei averlo qui. Sai, aveva la fissa di darmi i baci sulla fronte. Vedeva che papà lo faceva sempre con la mamma in segno d’amore, e dato che io ero la sua sorellina doveva proteggermi e quindi darmi amore » strinse forte i pugni, al ricordo delle sue labbra pallide toccare la sua fronte e poi sorriderle flebilmente. Dopo gli anni era lei che doveva inchinarsi al letto per concedersi quel dolce tocco, ma non importava, lui c’era. « Rideva molto, Aaron. Ad ogni battuta squallida di Sebastian, anche quelle in cui avrei tanto voluto picchiarlo a sangue » abbozzò un sorriso, ed Austin ne fu felice, perché in mezzo in quelle lacrime non c’era niente di meglio. L’avvicinò un po’ di più a sé, in silenzio. Non c’era nulla da dire, bastava ascoltare, e la ragazza gliene fu grata.
     « Gli siamo sempre stati vicini, io e Sebastian. Anche se credo che quello che abbia sofferto di più sia lui. Voleva insegnargli a giocare a calcio, a suonare qualche strumento, a svagarsi e a fare il buffone proprio come lui. Poi però le visite mediche ci misero in pericolo della malattia, e man mano la sua massa muscolare andava via a seccarsi. Era fine di suo, d’altronde era solo un bambino, eppure vederlo così inerme in quella carrozzina lo faceva sembrare proprio… malato » sussurrò le ultime parole, stringendo le palpebre. Rivide gli occhi scuri del suo fratellino scrutarla, mentre in viso aveva un’aria assente, quasi morta. Non muoveva nulla, i polmoni artificiali, il dolore che cresceva nel petto. E lei che le stava vicino, in qualsiasi modo possibile. « Gli parlavamo il più possibile, lui veniva a dormire sempre nella mia stanza e a volte ci veniva pure Seb. Ci abbracciavamo stretti e parlavamo della giornata trascorsa. Lo portavamo spesso in giro per permetterli di osservare il mondo e tutto ciò che aveva intorno. Abbiamo fatto una vacanza per vari paesi europei e abbiamo cercato di farlo divertire il possibile.
     Quando era cominciata la salita per restare in vita avevo tredici anni e Sebastian quindici. Ci eravamo messi a vendere oggetti e cianfrusaglie varie che non avremmo più usato, a volte anche i giocattoli vecchi di Aaron. Vendevamo limonate e muffin, cercavamo di ricavare soldi il più possibile, creavamo campagne per poterlo tenere in vita il più possibile. Eravamo in pochi, ma in un modo o nell’altro ci siamo arrangiati. Eravamo abbastanza fieri del lavoro svolto, e siamo riusciti a tenerlo in vita un altro anno. Mi è morto tra le braccia, durante un’ennesima visita all’ospedale. Sebastian era uscito per prendere dell’acqua, e io ho sentito i battiti rallentare sempre più. Ormai non teneva più gli occhi aperti, sembrava morto eppure per me, per noi, non lo era. Affatto. Lui era con noi, la sua presenza anche se dolorosa da comprendere era inevitabile. E anche se i suoi amici non se la sentivano di andare a trovalo lui aveva noi. Come noi avevamo lui » fissò l’immagine nella lapide: l’espressione delicata e tranquilla. Si ricordava perfettamente quando scattò quella foto: era seduto nella sua sedia, tranquillo, in silenzio. Faceva così male.
    « Si sente in colpa, lui » proseguì, riferendosi al fratello maggiore. « Pensa che se non fosse andato a prendere quell’acqua probabilmente sarebbe riuscito a chiamare qualcuno in tempo per salvarsi. Ma ormai era un dato di fatto: Aaron sarebbe dovuto morire, e prima ti ho detto che probabilmente Sebastian è quello che ha sofferto di più proprio per questo motivo. Lui non aveva ancora realizzato l’idea di perderlo. Non era ancora maturato a quel punto e semplicemente non poteva realizzarlo. Quella canzone che ha suonato l’altro giorno la suonava sempre per lui. E lui ascoltava, si sforzava sempre di tenere gli occhi aperti, anche solo una fessura, anche se non poteva, mentre l’ascoltava. E Sebastian dopo l’esecuzione piangeva come un matto, perché non era giusto. Era piccolo, e dolce. Era la persona più buona del mondo, e allora perché a lui? » strinse ancora più forte le nocche, facendole sbiancare, mentre Austin le faceva poggiare il capo sulla sua spalla. Le diede un bacio sulla tempia, così vicino a dove era Aaron a darle i baci, che le venne da singhiozzare. Arpionò la schiena del malpelo in un abbraccio disperato, rimanendo in silenzio, con le lacrime che rigavano ininterrottamente le guance.
    « Aaron suonava il pianoforte, aveva cominciato poco prima di ammalarsi. Diceva di amare quello strumento perché riusciva a fare qualsiasi cosa, parole sue. Ed effettivamente è così. A me non piaceva l’idea di suonare uno strumento, ma se adesso sono qui è solo per lui. Durante le esibizioni se suono è solo per immaginarmi il suo volto che sorride, le sue grida di gioia e il suo sguardo dolce. Mi manca così tanto » bisbigliò sulla sua spalla, sperando che l’altro avesse capito ogni parola. « Sono dell’idea che dimenticare sia una brutta cosa, in ogni caso. E non mi comporterei mai come ti sei comportato tu per quanto riguarda la storia del violino. Prendila come una provocazione, ma davvero, secondo me dovresti ripensarci. Non sei un debole, anzi. Cerchi di nascondere i tuoi problemi aiutando gli altri ma a mio parere dovresti anche cercare di essere tu, l’aiutato. So che detto da me potrebbe essere considerata una presa in giro, ma se ho quest’aspetto serio, questo tono serio, questo sguardo altrettanto serio, è solo per il suo ricordo. Lui non poteva muovere un muscolo della faccia, e allora non lo muovo nemmeno io. So che è una cosa stupida, ma in un modo o nell’altro è come se fosse più vicino a me » concluse, guardando Austin negli occhi.
     « Facciamo così » disse lui, sfregandosi le mani nelle cosce avanti e indietro, in segno di agitazione. « Tu piantala di avere quella faccia da morto. Io sono sicuro che lui non vorrebbe che tu smettessi di ridere come ha fatto lui. Anzi, se fossi in Aaron me la prenderei tantissimo, perché è come se ti stessi confrontando con lui, con uno sfortunato che ha dovuto patire chissà quali pene dell’inferno. Tu puoi muoverti, ridere, gonfiare le guance, sollevare le sopracciglia, puoi persino sbattere le ciglia per attrarmi! » la vide sorridere, e di nuovo un peso si liberò dal cuore. « Puoi muovere arti e caricare pesi. Lui non poteva fare niente di tutto questo, quindi dovresti usufruire di questi doni proprio perché lui non ha potuto. Così come io dovrei suonare il violino, per far capire a mio padre quanto potrei sorprenderlo, una volta che lo rincontrerò » sollevò le spalle con fare impacciato, e Rachel non poté far altro se non baciarlo delicatamente. I loro sapori si mischiavano un’altra volta, e gli stomaci si contraevano dolorosamente. Un dolore stranamente piacevole. Avrebbero voluto rimanere così, stretti l’uno all’altra, sempre.
      Quando si staccarono per riprendere fiato Austin la baciò sulla fronte, delicatamente, proprio come faceva Aaron. « Va bene, minore degli Holden, adesso mi occupo io di lei se non ti spiace » esclamò rivolgendosi alla foto del bambino raffigurato. A Rachel parve quasi che il sorriso del fratellino si fosse allargato un po’ di più, a quelle parole. Baciò delicatamente la lapide, per poi dirigersi verso l’uscita. « Un giorno di questi ti porto anche da mio padre, francamente adesso non ho voglia di altre depressioni. Sono storie che vanno ricordate, ma con i giusti tempi. Parlarne troppo fa sentire male davvero. Adesso vorrei solamente che quello spaccacoglioni di Nathan ci rallegri un po’ » le passò un braccio attorno alle spalle, stringendola a sé. Rachel sorrise, rivolta verso il cielo. Sorrise genuinamente perché finalmente era riuscita ad aprirsi con qualcuno che non fosse Sebastian. Probabilmente più avanti avrebbe raccontato la sua storia anche alle sue nuove amiche, ma ci sarebbe stato tempo per tutto: aveva ancora un anno e qualche mese a disposizione. La scuola stava per finire e i saggi da preparare erano vicini: si sarebbe dovuta concentrare al massimo, per lui, per lei.
    Continuò ad osservare il cielo sperando che in un modo o nell’altro Aaron la stesse guardando. Era felice, lo era davvero. Non riusciva a smettere di sorridere. Probabilmente l’indifferenza e la serietà non le erano mai appartenute davvero, e la teoria di Austin non faceva una piega. Prese a guardare quello che ormai considerava come il suo ragazzo. Già, il suo. Aveva voglia di scoprire ogni cosa su di lui, conoscerlo bene, capirlo, sentirlo in ogni modo. Sperò di fare sempre il giusto, di sentirsi più libera dopo essersi tolta quel grosso peso. Di saper brillare proprio come faceva Aaron, di essere invincibile come lui, e di non dimenticarlo mai perché se le persone non vengono dimenticate non muoiono mai e poi mai. Di tenerlo immortale, dentro sé. 




Spazio autrice:
lo so, lo so, sono per l'ennesima volta in ritardo. Sabato scorso sono partita in gita per Torino e non ho avuto il tempo di scrivere nulla perché mi preparavo bene per la verifica di tedesco (è andata benone, mi sono assicurata un nove, anche se a voi non importa nulla), mentre appena sono tornata a casa - martedì - mi sono presa la febbre e adesso sono sotto antibiotici, areosol e via dicendo dato che anche una bella tracheite ha deciso di venirmi incontro. La mia salute potrebbe essere considerata come un castello fatto di carte, e già.
In ogni caso, il capitolo. Finalmente si scopre che succede a Rachel, qual è il suo problema, la sua assenza. Mi sono immedesimata molto nel suo personaggio perché anche se non allo stesso modo ho perso un fratello anch'io. Pensavo fosse dura all'inizio ma poi il tutto è venuto da sé. Spero di non essere stata ripetitiva o noiosa con le descrizioni o sensazioni. Ribadisco che a mio parere sono importanti per far capire meglio il personaggio, ma se dovessero dar fastidio non esitate a dirmelo.
Potrebbero esserci errori di qualsiasi tipo dato che ho ancora un mal di testa martellante e una nausea assurda a furia di tossire, quindi quando sarò più lucida vedrò di correggere.
Spero che non sia una cagata, nonostante ci siano molti dialoghi.
Bene, io mi dileguo. Scusatemi ancora per il ritardo.
Un bacio, Haruka.

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Capitolo 12
*** Capitolo undici: Memories and bravery. ***


Non so come io possa presentarmi, dopo svariati mesi, ancora qui.
Però ci sono. Spero solo che la delusione non sia troppa.
Mi scuso anticipatamente per il ritardo.

Per chi non ricordasse: nello scorso capitolo Rachel ha rivelato ad Austin il motivo della sua chiusura e sofferenza, ovvero suo fratello Aaron.
Da adesso in poi i ragazzi dovranno affrontare gli esami e la vita nuova che aspetterà loro con ansia.



 
Capitolo undici:
Memories and bravery.
 
           Gli esami si avvicinavano sempre più velocemente, insieme all’estate. L’aria fresca seguita dal venticello gli scompigliava i capelli, mentre tutti stavano seduti intorno a lui; Rachel al suo fianco che poggiava la testa su una sua spalla. I capelli neri gli solleticavano il collo, facendogli sentire il buon profumo di lei. Le cose sembravano andare leggermente meglio per entrambi, dopo la famosa chiacchierata. Mangiavano in silenzio, ogni tanto interrotti dal masticare rumoroso di Nathan. Era una bella giornata, il sole per quanto possibile era alto in cielo, qualche nuvola lo decorava e i fiori sbocciavano a vista d’occhio negli alberi e nel prato. Il ciliegio si riempiva di gemme, e Austin non vedeva l’ora di ritrarlo. Sentì un fastidio alle mani, quasi sentissero la mancanza dei carboncini e dei fogli. Sorrise. Si sentiva tranquillo, nonostante tutto. Stava studiando parecchio per l’ultimo anno. Doveva darsi da fare, altrimenti non ne avrebbe cavato piede. Dedicava il suo tempo ai libri in modo quasi maniacale: ripeteva mentre si lavava, faceva ginnastica, tentava di accordare lo strumento.
              Non si poteva dire la stessa cosa di Nathan che, dal canto suo, se la spassava. Susan cercava perennemente di ricordargli degli esami, ma lui stava in un mondo tutto suo e avrebbe fatto all’ultimo, arrovellandosi il cervello fino allo sfinimento. E gli avrebbe reso la vita impossibile, ovviamente, chiedendogli di interrogarlo e di passargli l’infinità di appunti che aveva accuratamente preso mentre lui se la dormiva. Sbuffò mentalmente. Gli era passato tutto il buon’umore. Però sarebbe andato tutto bene, in un modo o nell’altro se la sentiva. Inoltre aveva deciso di prendere parte al saggio di fine anno non solo da chitarrista. Più guardava le nuvole e più pensava all’espressione serena di suo padre. L’arrivo in quella scuola, la spiegazione dei vari plessi, gli strumenti. Tutto sembrava essere già affar suo, nonostante fosse stato un piccolo marmocchio. Suo padre aveva così tanta fiducia in lui, e infondo non lo aveva mai abbandonato. Rachel aveva ragione: si stava comportando da codardo. Non avrebbe mai voluto smettere di suonare. Eppure più ci pensava, più il dolore si faceva sentire nel petto. Era un dolore sordo, ma allo stesso tempo assordante. Sicuramente non sarebbe stato facile da superare, ma pian piano si poteva fare tutto. Doveva. Per lui, per la sua mamma, per Heather.
                  La campanella suonò, e fu il turno di alzarsi e raggiungere le proprie aule. Grazie al cielo che poteva avere un’ora di tranquillità: il professore di metrica mancava. Andò in segreteria con il cuore che saliva fino in gola. Non sapeva proprio che cosa fare. Non poteva tirarsi indietro, ma più si avvicinava alla porta verde, più sentiva le gambe appesantirsi e i piedi fatti di piombo. Che fosse troppo anche per lui? Strinse forte i pugni, cercando di regolarizzare il respiro. Era la sua battaglia e l’avrebbe vinta. Bussò, per poi entrare. «Buongiorno» bisbigliò. «Prego» la segretaria picchiettò con le unghie smaltate di un viola accesso sul bancone, mentre masticava a bocca aperta una gomma da masticare. Gli stava per venire il voltastomaco. Intanto il cielo cominciava a coprirsi in modo più fitto, e le nuvole stavano per formare una lunga distesa grigiastra. Sospirò pesantemente, sbattendo le mani sul banco e per poco non fece prendere un infarto alla signora. «Senta, io devo partecipare al saggio di fine trimestre come violinista» buttò fuori, con gli occhi chiusi all’inverosimile. L’aveva detto. Ce l’aveva fatta. «Impossibile, ragazzo. Ormai è un po’ tardi, non credi? La scuola è iniziata sei mesi fa, avresti dovuto pensarci prima» disse quella, schioccando con la lingua nel palato.
                   «Lo so che è strano, ma devo partecipare per forza. La professoressa sarà d’accordo» sbottò, allargando le braccia. «Allora fammi parlare con la professoressa e poi segneremo il tuo inizio delle lezioni come violinista» lo mandò via con una mano, e Austin non poté far altro se non mandarla al diavolo. Uscì non senza sbattere la porta, per poi cercare Sebastian in lungo e in largo. Lui avrebbe fatto parte di quel corso e nessuno glielo avrebbe vietato. Soprattutto ora che si era finalmente convinto.
 
               «Così. Ottimo lavoro, Heath. Di questo passo per il mese prossimo avrai finito anche questo brano e per la festa di fine anno potrai portarne almeno tre» le accarezzò una spalla con fare amorevole, mentre la vedeva sorridere soddisfatta. Una cosa che colpiva tantissimo Rachel, era proprio il modo tranquillo e gentile di Heather. Sembrava essere sicura di ogni cosa che faceva. E, soprattutto, riusciva a fare il tutto nel modo giusto. Ci metteva costanza ed impegno, raggiungo sempre il suo obiettivo. Stare insieme a lei era sempre un piacere, soprattutto quando le raccontava certi aneddoti di lei ed Austin da bambini. Per esempio quando lui piangeva perché la mamma gli imboccava le mozzarelle di proposito. Perché ad uno come lui, con mancanza di calcio – e lì cercava proprio di imitare la voce di sua madre – i latticini facevan solo del bene. Quindi doveva sforzarsi e mangiarli. Eppure lui no, non le digeriva. Si immaginò un piccolo bimbo dai capelli rossi gonfiare le guance e sbattere i piedi a terra mentre negava la testa da una parte all’altra per evitare l’accesso della mozzarella nella sua boccuccia. Le scappò una risata.
                  «Dici che riusciamo a fare un quattro mani? Mi piacerebbe tantissimo, soprattutto se insieme a te. Mi hai aiutata così tanto» la vide stringere le mani nella gonna della divisa, mentre si voltava verso di lei. Un’altra cosa particolare di Heather era che cercava sempre di dirigere lo sguardo verso il suo interlocutore. S’impegnava con tutta sé stessa per cercare di far notare il meno possibile il suo handicap, e questo non poteva che farle onore. La trovava molto coraggiosa. Austin era molto fortunato ad avere lei come pilastro. A volte avrebbe voluto avere la sua stessa tenacia per aiutare Sebastian durante il suo periodo di chiusura. Ma la verità era che lei aveva il suo stesso problema, se non peggiore. Vedeva suo fratello appassire al suo fianco, non rendendosi nemmeno conto di quanto lei stessa stesse male. Ed era proprio a causa di quel malessere che non era riuscita ad aiutarlo. Troppo concentrata sulla perdita, sul vuoto che sembrava non voler cessare. Era la sensazione più brutta che avesse mai provato. Vedere il lettino vuoto, dover immaginare quel piccolo sorriso che le regalava tante soddisfazioni. Aaron.
                          «Va tutto bene, Rachel?» Heather le prese una mano, incespicando un poco sulla sua coscia prima di riuscire ad afferrarla. «Certo, e mi piacerebbe un sacco suonare con te» le sorrise, sperando che riuscisse almeno ad immaginarselo. Non pensava di riuscire a legare tanto con lei o con Natalie. Erano due persone fantastiche, piene di luce. Così solari e carine. Non si rese nemmeno conto della lacrima solitaria che percorreva il suo viso. Si ritenne fortunata. Ringraziò mentalmente Austin, ricordano il bel disegno che era perennemente impresso nella sua memoria. Finalmente quello squarcio bianco si stava allargando, espandendosi su tutto il foglio; su tutta la sua vita. «Ti va di suonarmi qualcosa?» chiese Heather, alzandosi in piedi. Aveva ancora gli occhi aperti. Non si era ancora abituata a quello strano candore che colorava i suoi occhi. Un’ennesima cosa strabiliante di Heather era quella di non avere paura di mostrare la sua cecità. Sì, cercava di sminuirla, ma non se ne vergognava. Tanto che, ogni qualvolta decideva di sedersi e toccare la tastiera, li teneva aperti, come se stesse realmente seguendo le note dello spartito. Le metteva i brividi, eppure era una cosa così bella.
                   Rachel annuì, prendendo il suo posto. Cercò qualcosa tra i fogli, per poi trovare una vecchia melodia che ascoltava sempre qualche anno prima. Era dolce, ma allo stesso tempo calda. Quando l’ascoltava – specie d’inverno, sotto le coperte – sentiva come se qualcuno la stesse abbracciando fortissimo. Era una sensazione piacevole. Così si svegliava, andava in camera di Sebastian, si creava il suo spazio nel letto nonostante le lamentele dell’altro, e gliela faceva ascoltare, per poi abbracciarlo di getto. Le possenti braccia, lei, le aveva. Sorrise nostalgicamente. Ora non avrebbe mai fatto un qualcosa di simile. Il loro rapporto era diventato più freddo e scostante. Non avrebbe mai smesso di trattarlo come il fratello noioso e irritante, ma era sempre il suo fratellone. Senza di lui non sarebbe andata da nessuna parte. Pensò proprio a lui, oltre che ad Aaron – come suo solito fare, mentre toccava i tasti del pianoforte. La mescolanza tra il nero e il bianco era una sensazione più che piacevole. Quando suonava sentiva il cuore batterle fortissimo, era un’emozione che non riusciva mai a controllare, nonostante ormai fosse sua abitudine. Cercava di dare sé stessa, mentre suonava. All’esterno sembrava quasi che si fondesse con lo strumento, e non c’era cosa più bella. Premere con decisione i tasti ma dare l’impressione di starli sfiorando.
                    Emettere quelle note così dolci, ma cariche di tutte quelle parole mal celate e quelle espressioni che non sfuggivano agli occhi. Si ritrovò con le palpebre serrate, mentre i ricordi si facevano vivi e la sensazione delle due braccia forti a stringerla ancora viva in lei. Mosse un poco il bacino, per dare lo slancio alla melodia in fase di conclusione. Ogni volta suonare era un’esperienza quasi del tutto nuova. Poteva essere il medesimo pezzo, ma l’emozione cambiava sempre. Perché quel pentagramma diventava cosa viva, fra le sue dita, e non c’era convinzione più piacevole. Sentiva il mondo farsi un po’ più grande solo per lei, mentre arcuava i polsi e stendeva le braccia. Illuminarsi, mentre le nuvole del suo cielo sparivano quasi completamente. Quello strumento era qualcosa di meraviglioso.
                       «Mi sono commossa, al solito» Heather batteva delicatamente le mani, mentre l’ombra di qualche lacrima appariva nel suo pallido viso. Gli occhi ormai chiusi, l’espressione felice e il tenero sorriso la rendevano più piccola di quel che era. Sembrava così indifesa, ma al contempo così forte. «Sono contenta che ti sia piaciuta» sorrise di rimando. «Come potrebbe essere altrimenti?» la sentì ridere. La prese a braccetto, per poi accompagnarla verso l’aula dove avrebbero svolto la lezione di matematica. Per la loro felicità. Sbuffarono entrambe, per poi ridacchiare.
 
                Si sentì sbattere contro l’armadietto, per poi sentire il panico investirlo tutto in un colpo. Si rilassò quando vide il viso familiare di Austin scrutarlo attentamente. «Hai visto Sebastian?» aveva il fiatone, doveva aver corso. Negò con la testa. «Non l’ho visto da nessuna parte. Ehi amico, perché sei così agitato?» lo sentì imprecare. Era proprio fuori di testa. Eppure non sembrava così in preda all’ansia, a pranzo. «A quanto pare non deve proprio succedere, eh» questa volta sbuffò, facendogli davvero saltare i nervi. «Si può sapere che succede?» «Succede che devo trovare a tutti i costi Sebastian per chiedergli dove cazzo è la sua insegnante di violino» sbatté un piede a terra, in preda ad un accenno attacco d’isteria. Gli venne da ridere a vederlo così. Poi realizzò. Insegnante di violino. Stava davvero per? «Oh cazzo, Micio» sussurrò, per poi gettarglisi al collo. Quell’altro per poco non soffocò. «Ecco perché non volevo ch-che lo sapessi» tossì, impacciato e rosso come non mai. «Andiamo a cercare l’uomo morto, foorza!» cantilenò, prendendosi Austin a braccetto e facendolo svolazzare da una parte all’altra alla ricerca di Sebastian.
                      Il rosso, dal canto suo, pensò che se non sarebbe riuscito a diventare un violinista la colpa sarebbe andata per certo al suo migliore amico, causa: soffocamento in preda ad un attacco acuto di vivacità. «Morirò» sussurrò frustrato. 









Angolo autrice:
volevo premettere le mie più risentite scuse all'inizio della pagina, nonostante questo non significherà niente.
Sono mesi che non aggiorno e mi dispiace, perché avevo promesso di non farlo. Non con questa storia, che rappresenta molto per me. Mi sono affezionata ai personaggi, ai loro avvenimenti, alle loro storie.
Mi sono affezionata a voi, che mi sopportate perennemente.
Se ci sarà un calo di recensioni lo capirò perfettamente. Non sono stata costante, mi dispiace tantissimo. Spero potrete perdonare questo lunghissimo ritardo.
Venendo al capitolo, inizio con il dire che gli spazi bianchi sono delle ellissi. Poi, il giovane Austin ha deciso di tirare fuori le balle e ricominciare. Vuole dare il tutto per tutto e affrontare questa vita, questi esami, questa sfida che lo attende. Solo lui e il violino, niente di più. Riuscirà a trovare Sebastian? Probabilmente.
Ho voluto mettere anche uno squarcio fra Rachel e Heather, che mi sembrano adatte per fare una bella accoppiata. Vorrei sentire anche il vostro parere.
So che come capitolo è molto corto, ma l'orario è quello che è e non avevo possibilità di farlo più lungo.
Spero riusciate a superare il ritardo e ricominciare insieme ad Austin e a me in questo cammino che ci porterà alla conclusione di questa storia.
Grazie a tutti, dal primo all'ultimo.
Un bacione,
Haruka-chan.

(Perdonate eventuali errori)

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Capitolo 13
*** Capitolo dodici: Happiness. ***


Capitolo dodici

Happiness. 




           Aveva deciso di trasformare quella stanza rendendola propria: colorandola, riempiendola di cornici stracolme di foto, di scritte, di ricordi dolci e amari. Il celeste gli piaceva abbastanza come colore, così un giorno si era messo d’impegno e, ottenuto il permesso della presidenza, aveva preso pennello e pazienza e aveva cominciato a pitturare. Era venuto proprio un bel lavoro, a guardarlo in quel momento. Le foto erano di varie forme ed inclinazioni. Poteva ricordare molti momenti della sua vita con un sorriso, amaro o dolce che fosse. Gli piaceva proprio, la sua camera, perché nonostante tutto il casino che aveva in testa lì dentro poteva sentirsi in pace ed isolato dal resto del mondo. La cosa migliore del mondo, però, era il suo stereo nero. Era il suo trofeo per essere entrato in quella scuola e lui non poteva esserne più felice. Poteva ascoltare tutta quello che voleva senza alcun problema, grazie alle porte insonorizzate.
 
          Quando diceva di adorare il metal tutti lo guardavano con uno sguardo stralunato. Sbarravano gli occhi come se avesse detto una bestemmia. Lui semplicemente alzava le spalle, sorrideva con il suo pseudo-sorriso storto e pensava “sì, adoro gli scream e tutta quella roba strana”. Che poi dire di ascoltare il metal vero e proprio sarebbe stata una bugia. Lui adorava tutto ciò che avesse una chitarra che spaccasse i timpani, una batteria che li fracassasse e le magnifiche urla che riuscissero a calmarlo da se stesso. Apprezzava anche la musica rap, in realtà, proprio questo motivo il suo gruppo preferito erano i Linkin Park. Erano tutto quello che cercava dalla musica unito insieme. Non solo i testi erano magnifici, ma riuscivano a creare combinazioni fra l’elettronica ed il rock. Ed era fenomenale. Quanto doloroso. Perché quella band l’aveva conosciuta grazie ad una persona a lui non indifferente.

         Si morse l’interno di una guancia. A volte le cose non vanno come dovrebbero. A partite dalla morte di suo fratello, al trasferimento, all’allontanamento dall’unica persona che era riuscita a non portarlo nel baratro della depressione. Cosa che invece era capitata a Rachel. Sospirò, fermandosi a guardare l’immagine di loro tre insieme, prima che Aaron morisse. Erano proprio una bella squadra, che si era trasformata poi in cenere. Si morse sempre più forte, sentendo il sapore del sangue nel palato. Gli faceva davvero schifo, quel sapore. Prese il suo portafogli dalla giacca posteriore dei pantaloni, guardando una foto sua e di lei insieme. Le stava dando un bacio nella guancia, mentre lei sorrideva teneramente. Gli piaceva da impazzire quel sorriso, ma pensò che tutto era inutile, mentre faceva sparire i ricordi dalla mente, insieme alle carezze, ai baci ed ai gesti affettuosi che aveva fatto per lei, e lei per lui. La malinconia è una cosa che non si può curare. A volte si cerca di dimenticarla, di nasconderla in una parte remota del cuore, ma lei sarà sempre lì, sempre presente. E in ogni caso non si fa mai nulla per eliminarla del tutto, perché l’uomo è masochista, e anche se apparentemente va avanti, in realtà non si muove di un passo. Resta immobile ad aspettare che il tempo passi, e con questo anche il proprio di essere. Inutile e deludente.

             È questo quello che pensa mentre un Austin Reed trafelato, con i capelli scompigliati e il respiro mozzato, seguito da un Nathan raggiante e apparentemente pieno di energie, sfondano la porta della sua camera, facendolo spaventare a morte. «Buongiorno?» chiede Sebastian, incerto e con uno sguardo divertito, cercando di nascondere la piccola parte di fastidio che i due gli hanno causato. Non ce l’aveva con loro, semplicemente stava rimuginando su molti, parecchi, pensieri. Avrebbe preferito che non lo disturbassero, ecco. Ma ormai era tardi per arrabbiarsi. «Mi dispiace, dico davvero, io-» provò a scusarsi il rosso, interrotto subito dal migliore amico. «Non ci dispiace per nulla, invece. Di essere entrati così un pochino, forse, ma necessitiamo il tuo aiuto» gli spiegò Nathan, con un sorriso a trentadue denti così tirato da fargli venire le rughe sotto gli occhi. Si ritrovò a sospirare. Ormai faceva parte di quella gabbia di matti, non poteva farci nulla. «Di cosa si tratta?» «Bè, umh, ecco,» cominciò Austin, torturandosi le unghie con i denti. «Devo partecipare al saggio, e, diciamo…» prese un respiro profondo per cercare di dire le ultime parole. Non seppe perché, ma non riusciva a dirlo. Era così strano dover riprendere tutto daccapo, lasciare il dolore che teneva sepolto nei meandri del suo cervello e tenerlo lì, solo, senza più nessuno. Perché ormai aveva capito di dover dare una svolta, di dover lasciar perdere tutto quanto. Lui amava suonare il violino, solamente che c’era voluto troppo tempo prima di rendersene conto. Sospirò, schiaffandosi i fianchi con fare nervoso, come per convincersi che parlare era l’unica via d’uscita. Ed effettivamente lo era.

                «Devi fare il saggio, certo Austin, come tutti» provò ad aiutarlo Sebastian, cercando di guardare la sua espressione e capire cosa volesse dire di così difficile. Poi gli venne in mente tutto quanto. Era stato sciocco a non pensarci prima. «Muoviamoci» disse subito dopo, notando la gratitudine nel suo sguardo. Avrebbe preferito restare da solo, era vero, ma il ragazzo di sua sorella e soprattutto un suo amico – poteva definirlo così? – gli stava chiedendo il suo aiuto per un qualcosa molto più grande di lui. Era stato coraggioso, forse un po’ in ritardo, ma la professoressa Williams avrebbe sicuramente accettato di farlo suonare con loro. «Ti ammazzerà di lavoro, lo sai vero?» cercò di fare un sorriso in grazia di dio, nonostante fosse ancora scosso dai ricordi. Nella sua mente c’erano immagini confuse di lui e lei, della professoressa, di Austin, di suo padre. Avrebbe tanto voluto sfogarsi suonando qualcosa, in quel momento.

                Il malpelo lo prese per una spalla, fermandolo. Lo vide dare uno sguardo d’intesa con Nathan, per poi tornare su di lui. Alzò un sopracciglio in riflesso a quell’atteggiamento. «Che hai?» gli chiese in coro, nemmeno l’avessero fatto apposta. Rimase di sasso. Strinse forte le labbra tra loro. «I-io? Che diavolo… dobbiamo andare dalla Williams, no? Sono agitato per te» balbettò Sebastian. «Oh cazzo, andiamo, sei identico a tua sorella quando fai cosi. Adesso andiamo da quella dannata donna, ma poi devi sfogarti altrimenti diventi verde oltre che pallido come un morto. E sinceramente mi piaci di più versione fantasma che zombie» Nathan alzò le braccia in segno di resa, facendolo ridere. Annuì, facendo loro strada. Probabilmente sì, erano diventati loro amici. Poteva fidarsi.

                Bussò alla porta dell’aula professori, cercando la sua insegnante preferita ma vedendo solo il sadico docente di solfeggio. «Cercavamo la professoressa Williams» «E perché mai? Holden, non dovresti frequentare certe compagnie» rispose l’uomo, dando un’occhiataccia a Nathan, al quale venne automatico alzare gli occhi al cielo. Si trattenne, però. Voleva evitare certi convenevoli. «Emh, è molto importante. Sebastian mi sta aiutando, è stato molto gentile» s’impicciò Austin, cercando di venire al dunque. Doveva trovare quella professoressa al costo di andare a prenderla a casa sua. Cominciò a venirgli l’ansia e si sentì la testa leggera alla paura di non trovarla. Doveva partecipare a quel saggio sia come chitarrista che come violinista. Voleva far capire a sua madre e ad Heather che era cambiato, che poteva farcela. Voleva che fossero fiere di lui come mai prima di allora. Voleva che suo padre lo sentisse sino al più alto dei cieli e che si congratulasse con lui da chissà dove. Voleva semplicemente far capire quanto valeva; sentirsi fiero, avere l’adrenalina nelle vene.

         «È nella sua aula, sta insegnando ai ragazzi del primo anno. Sbrigatevi e cercate di non interrompere troppa lezione. Reed, lieto che il suo cervello si sia messo a posto, nonostante certi elementi presenti nella sua vita» rispose il docente, lanciando l’ennesima frecciatina a Nathan con un sorriso furbo. Il ragazzo rispose sorridendo. Quell’uomo quando voleva non faceva poi così schifo. Si diressero velocemente verso l’aula in cui la donna insegnava, che Sebastian conosceva quasi meglio della sua stessa camera. Sentivano l’ansia nelle ossa, tremanti: Austin avrebbe finalmente ripreso a suonare il suo strumento. Si precipitarono nell’aula assegnata senza nemmeno bussare. Sebastian aprì la porta come se avesse dovuto sfondarla, ancora ansimante dalla corsa lungo i corridoi. Si disse che non l’avrebbe fatto per nessun’altro. «Professoressa!» si accorse di aver alzato troppo la voce e di aver fatto una pessima figura solo quando gli alunni lo guardavano con un cipiglio divertito in volto.

          La donna uscì, leggermente spaesata, chiedendosi cosa ci facessero proprio quei tre nella sua aula e soprattutto perché erano piombati in quel modo. «Prof senta, io devo partecipare al saggio come violinista e dalla segreteria mi dicono che hanno bisogno di una sua conferma, io so che ormai è tardi ma vede io devo partecipare, ne ho bisogno perché non posso fare altrimenti e-» «Reed, respira, d’accordo? Passo io in segreteria a firmare il permesso. Tu parteciperai al saggio anche come violinista, non temere. Mi avete fatto spaventare tantissimo, ragazzi, per lo più per una sciocchezza simile. Potevi anche svegliarti prima, mio caro!» lo rimproverò, mostrando quanto in realtà non fosse arrabbiata – al contrario – con un sorriso materno. Austin sospirò felice: tutto sarebbe andato per il meglio. Quasi gli venne da prenderla in braccio e farle fare mille giravolte. Sentiva una forza scorrergli addosso che era sparita da troppo tempo.

          La ringraziò più e più volte, dopo di che prese Nathan sulla schiena e, non dopo aver abbracciato affettuosamente Sebastian e aver ringraziato anche lui un’infinità di volte, si mise a correre urlando per tutto i corridoi la sua contentezza. Causando, ovviamente, i rimproveri della bidella. Oramai non c’era più nulla da fare: erano un caso perso. Austin si sentiva sicuro di sé e di quello che stava facendo. Non se ne sarebbe pentito. Avrebbe dovuto pensarci prima, così come avrebbe dovuto avere una figura importante come Rachel da subito nella sua vita. Pensò a quanto volesse vederla in quell’istante, baciarla, accarezzarla, passare il tempo con lei. Le mancava anche se non era da tanto che non la vedeva. Le stava entrando sotto pelle, pian piano stava creando uno spazio proprio dentro il cervello di Austin che non poteva far altro se non disconnettere il resto del mondo per dedicarsi unicamente a lei, ai suoi occhi neri e alla sua pelle spaventosamente bianca.
       Sorrise. Era così felice.




Spazio di quella che deve essere picchiata dolorosamente:
Chi non muore si rivede, così dicono.
Per fortuna o per sfortuna io sono ancora qui a tormentarvi con i miei aggiornamenti sempre più lenti. Mi faccio attendere, insomma.
Stavolta non è stata colpa mia: non avevo wifi sino ad oggi, per tutto questo tempo. É stato un suicidio. Ho i capitoli pronti e penso di finire presto a pubblicare la storia. Ne ho anche una in corso che spero possa piacervi. La pubblicherò appena sarà terminata.
Spero di non deludervi più. Lo spero con tutto il mio cuore.
Volevo augurare un felice Natale, un buon anno - che sta per arrivare - e spero che possiate passare queste festività per il meglio.
Perdonate eventuali errori.
Un bacione,
Claudia.

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