Chasing stars

di lulubellula
(/viewuser.php?uid=192261)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***



Capitolo 1
*** I ***


Chasing stars
 
Il sole illuminava fiocamente la sua stanza, spoglia come non lo era mai stata, ormai lui aveva tolto tutto quello che la facesse sembrare ancora sua.
Un misero letto in ferraglie arrugginite e delle lenzuola che certamente avevano visto tempi migliori e un cuscino, almeno quello comodo –così  soffocherai i singhiozzi con quello e io potrò lavorare in santa pace! –ancora le sembrava di sentirgli ripetere quelle parole.
Ancora le sembrava di sperare che lui le avesse donato un cuscino per dormire più comoda e non per metterla a tacere.
Ormai non ci sperava più.
Erano passati i giorni e poi le settimane da quella notte magica, per la precisione sei settimane, cinque giorni e undici ore.
Ed erano sei settimane, cinque giorni e undici ore che lui la stava evitando come la peste, evitava di incrociare i passi e gli sguardi con lui, la trattava con freddezza mista a indifferenza e noncuranza.
Lei era ferita dal suo comportamento, per la prima volta da quando viveva nel castello oscuro si era sentita una prigioniera, schiava di quelle mura fredde e buie, schiava di quelle finestre di nuovo scure e minacciose, con delle tende pesanti che impedivano l’entrata della luce del sole, quelle tende che lui aveva provveduto a inchiodare di nuovo.
Provò a scacciare quei pensieri dalla mente e ad alzarsi controvoglia dal letto, aveva le solite faccende quotidiane da sbrigare, pulire, spolverare, preparare i pasti e …
Tentò di alzarsi e venne colta da un capogiro, si appoggiò al muro per non cadere a terra ma non fu abbastanza svelta e cadde.
Il pavimento era di materiale grezzo e lei si graffiò le ginocchia, i gomiti e, quello che la spaventava di più, anche parte del volto.
I graffi alle ginocchia e ai gomiti si potevano nascondere sotto ai vestiti, quelli al volto no.
Trattenne una lacrima e si rialzò in piedi, poi si sedette sul bordo del letto e riprese fiato.
Doveva restare calma e non lasciare che un avvenimento senza troppa importanza come quello le rovinasse la giornata; gli affanni di quei giorni erano già abbastanza senza che lei provasse ad aggiungerne altri.
Si avviò verso la sua piccola scrivania e prese la spazzola iniziando a sistemarsi i capelli castani, nello specchio vide il suo riflesso, la sua pelle bianca, le occhiaie pronunciate, gli occhi tristi e quei due o tre graffi che si era appena accidentalmente procurata.
Era un tale disastro!
Finì di ravviarsi i capelli e li legò lasciandoli ricadere su un lato, poi indossò il suo vestito preferito, quello azzurro e bianco, semplice e pratico, adatto alle sue incombenze da domestica.
Controllò l’orologio, mancavano pochi minuti alle sette e lei non era ancora scesa nelle cucine a preparare la colazione per Rumple.
Indossò in tutta fretta le calze e le scarpe e si avviò con una certa fretta verso la dispensa.
Prese il bollitore e lo riempì d’acqua, poi lo mise sul fuoco e nell’attesa iniziò a preparare le uova e la pancetta.
Poi si dedicò all’impasto per i pancakes che servì in un vassoio con abbondante frutta fresca tagliata a fette e sciroppo d’acero.
Animata dai profumi e dai sapori dell’abbondante colazione, tolse il bollitore dal fuoco e mise in infusione il tè, poi adagiò tutto quanto su un carrellino nell’attesa di portarlo in sala da pranzo.
Nonostante i silenzi di Rumple e le occhiatacce che erano seguite a quell’avvenimento, i pasti erano rimasti qualcosa di sacro per lui, in particolare la colazione e il tè delle cinque, per cui continuava a permetterle di consumarli a quello stesso tavolo in sua presenza.
Tuttavia lei aveva smesso da tempo di farlo, preferiva mangiare qualcosa nelle cucine da sola, oppure in camera sua.
La presenza di Rumple la metteva di nuovo a disagio e si sentiva del tutto un pesce fuor d’acqua, sapeva che quello che era successo quella sera era stato forse avventato, forse impulsivo, forse un po’ egoista, ma non sbagliato, non qualcosa di cui vergognarsi, non qualcosa da dimenticare.
Per questo non ce la faceva a stare seduta allo stesso tavolo con lui, non riusciva più a guardarlo negli occhi, a sentire la sua risata echeggiare nell’aria, anche se a dire la verità, quella sua risata si era spenta quella sera e non l’aveva sentita più.
Fece qualche passo al tavolo tenendo la testa bassa e cercando di non avvicinarsi troppo al cibo: i pancakes che fino a qualche istante prima trovava tanto invitanti ora le davano la nausea.
Arrivata nel salone, trovò Rumple già seduto a capotavola e si apprestò a servirgli la colazione.
Prese tra le mani il vassoio con le uova, la pancetta e i pancakes e li appoggiò sul tavolo, facendo ben attenzione a non sporcare la tovaglia e a non rovesciare nulla a terra.
Le mani le tremavano leggermente e quella brutta sensazione di malessere non accennava a quietarsi.
Prese fiato.
“Avete preparato cibo a sufficienza per un esercito. State forse cercando di farmi mangiare fino alla morte?” chiese lui con una nota di sarcasmo nella voce.
Erano le prime parole che le rivolgeva da giorni e non erano un granché, ma lei aveva imparato che dietro alle sue battute spesso si celava un disperato tentativo di ricucire gli strappi procurati dai suoi comportamenti rudi.
Belle non alzò lo sguardo, sapeva che se lo avesse fatto sarebbe stato un disastro.
“Devo avere esagerato. Mi dispiace” disse con la voce strozzata.
Prese l’altro vassoio, quello con la teiera e le tazze e lo sollevò a fatica, le mani avevano preso a tremarle con maggior vigore.
Cercò inutilmente di tenere il tutto in equilibrio ma fu tutto inutile: tazze, piattini, zuccheriera e teiera caddero a terra e il liquido bollente le scottò le gambe e le braccia.
Si lasciò sfuggire un gemito di dolore che mise a tacere mordendosi il labbro inferiore.
Aveva combinato un disastro!
Rumple le si avvicinò preoccupato e la aiutò a raccogliere i cocci.
“Fammi vedere, Belle, ti sei ferita?”.
Belle non osò dire nulla e continuò a raccoglierli e a cercare di asciugare il pavimento come meglio poteva, provando a non pensare al dolore delle scottature, alla nausea, alla testa che continuava a girarle e al ronzio nelle orecchie.
Aveva solo bisogno di pulire quel pasticcio, di bere e mangiare qualcosa e di prendere una boccata fresca, mentì a se stessa.
“Belle, guardami!”.
La sua voce era diversa dal solito, non era adirata né colma di rimprovero, tutt’altro, se solo non fosse stato impossibile pensarlo in quel momento, Belle avrebbe creduto che lui fosse preoccupato.
Alzò gli occhi verso di lui e gli mostrò il suo giovane volto ferito, c’erano i graffi, certo, ma era qualcos’altro a preoccuparlo: aveva gli occhi colmi di lacrime, sembrava spezzata.
Lui l’aveva spezzata.
“Cosa ti è successo?” le chiese sfiorando il suo volto con i polpastrelli e asciugandole gli occhi.
Era un gesto così intimo e inaspettato che lei rimase senza parole per qualche istante.
Sarebbe bastato poco, così poco per arrivare a lui, per sfiorare le sue labbra e accarezzare il suo collo, così poco per perdersi di nuovo in lui e lui in lei.
Ma non accadde nulla di ciò.
Erano sei settimane, cinque giorni e undici ore dall’ultima volta che si erano baciati, dall’ultima volta che si erano persi l’uno nell’altra e si erano amati senza freni, senza paure, senza imbarazzi.
Sei settimane, cinque giorni e undici ore dall’ultima volta e dalla prima.
Lei non poteva dimenticarselo e nemmeno lui.
Ma non poteva nemmeno scordarsi i silenzi di Rumple, il suo sguardo di rimprovero e neanche il letto e la casa vuoti la mattina successiva.
Se n’era andato.
La scusa era quella di sbrigare vecchi affari lasciati in sospeso, ma era appunto questo: una scusa.
Lui l’aveva gettata via come un vestito smesso, come un giocattolo che non ti diverte più, come una cosa senza troppa importanza.
No, non poteva passare sopra a tutto questo, non ora almeno.
Spostò con forza la mano di lui, portò via il servizio da tè, quello che ne restava almeno, e tornò verso le cucine senza voltarsi indietro.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II ***


Chasing stars
 
Calde lacrime le rigavano il volto: era una situazione disastrosa e insostenibile!
Non era più sicura che la scelta che aveva compiuto nemmeno un anno prima per salvare suo padre, il suo regno e i sudditi di Avonlea (e forse un po’ egoisticamente per sfuggire a quella vita insulsa e priva di avventure e emozioni forti) fosse del tutto sensata ora.
Tuttavia non poteva rimangiarsi la parola data a Rumple: un accordo era pur sempre un accordo, un patto, una promessa a cui tenere fede e lei aveva tutta l’intenzione di mantenere vivo questo intento.
Camminò a passo spedito verso le cucine e cercò di non pensare al dolore pungente delle scottature che aveva sulla pelle, le sembrava di bruciare dal fastidio che le causavano.
Arrivata nella stanza, gettò i cocci in un secchio smaltato e uscì a prendere un po’ d’acqua fredda al pozzo, nella speranza che affievolisse e lenisse il bruciore.
Indossò la sua mantella verde muschio e si preparò ad uscire in giardino, aveva con sé un paio di secchi molto capienti e una massa ingarbugliata di pensieri che le occupavano la mente stanca e provata dagli eventi degli ultimi mesi.
Avrebbe fatto meglio a mangiare qualcosa quel mattino e anche la sera precedente, si sentiva totalmente senza forze e persino il viaggio d’andata, quello che sarebbe dovuto essere il meno faticoso visto che viaggiava senza il peso di diversi litri d’acqua a pesarle sulle sue braccia stanche, fu una fatica immane per la giovane.
Una volta giunta al pozzo, lasciò a terra i catini e si appoggio alle pareti del pozzo a riposare qualche istante, era sfinita e probabilmente la spossatezza che aveva tentato invano di ignorare era causata dalla febbre.
Ignorando il dolore che sentiva alle mani e alle gambe, finì per addormentarsi con le spalle contro le vecchie pietre ricoperte di muschio dell’antico pozzo dei desideri.

Intanto, nel castello dell’Oscuro, Rumple stava filando, trasformando un mucchio di paglia in oro zecchino, quel gesto così abitudinario e meccanico aveva da sempre un potere curativo sulla sua mente e sul suo corpo come un balsamo capace di curare anche la peggiore delle malattie.
Tuttavia non pareva che stesse funzionando più di tanto, continuava a pensare alla scena di quella mattina: alla sua domestica che lasciava cadere a terra il vassoio e l’intera colazione e che, nonostante il dolore fisico che certamente aveva provato a contatto con l’acqua bollente e con i cocci di vetro, se n’era andata senza dirgli nemmeno una parola.
Non aveva avuto nemmeno il coraggio di seguirla quando lei se n’era andata, era stato il solito codardo di sempre, anche ora che era il Signore Oscuro, rimaneva lo stesso Zoppichino a cui era stato intimato di baciare lo stivale sporco del comandante dell’esercito amico durante la guerra degli orchi.
La stava allontanando inesorabilmente da lui, era tutta colpa sua: prima le aveva permesso che gli si avvicinasse troppo ed avevano oltrepassato un limite che mai e poi mai avrebbe dovuto permetterle di valicare e poi l’aveva rinnegata, relegata, dimenticata fingendo che nulla fosse accaduto.
Eppure qualcosa era accaduto: quei baci non se li era immaginati e nemmeno quelle dita che sbottonavano le loro rispettive vesti, per non parlare del dopo, degli istanti che ne erano seguiti e anche di quelli dopo ancora, dei momenti in cui erano rimasti, felici e appagati, a stringersi senza parlare, perché in effetti non ce n’era bisogno, del suo respiro sulla sua spalla quando si era addormentata e dei suoi capelli che profumavano di rose che gli accarezzavano il volto e sui quali si era assopito per qualche minuto.
Gli era sembrato di essere nel bel mezzo di un bellissimo sogno, un sogno dal quale non era poi così sicuro di volersi risvegliare.
Si era alzato per andare a chiudere le imposte, era quasi la fine di settembre e nella foresta incantata l’arrivo dell’autunno cominciava a farsi sentire, regalando notti più fresche e giornate meno assolate.
Nel raggiungere la finestra era passato accanto ad un vecchio specchio dalla cornice consumata dal tempo e dalla polvere, dapprima lo degnò di un’occhiata veloce e noncurante, ma in seguito si fermò a guardare la sua immagine riflessa con maggiore attenzione.
Qualcosa aveva ridestato in lui una profonda e immensa preoccupazione.
“La mia pelle!” si toccò il voltò e constatò che c’era qualcosa di diverso dal solito, qualcosa che non vedeva da molto tempo, il colore della sua pelle, quello originario, da comune mortale, da umano.
La linea di confine che divideva quello che era stato da ciò che era diventato uccidendo il precedente Oscuro Signore si stava facendo sempre più labile e lui stava indietreggiando al suo stato di uomo qualunque e non poteva permetterselo.
Non poteva accettare di essere di nuovo mortale, senza potere, senza ricchezze, di avere solo una manciata di anni per ritrovare suo figlio e di non poterci comunque riuscire senza l’ausilio della magia.
Si voltò a guardare Belle che dormiva profondamente sul suo letto a baldacchino con un’espressione serena dipinta sul suo volto e sentì il suo cuore, quello che ne restava almeno, infrangersi in mille pezzi al pensiero di ciò che sarebbe stato costretto a farle.
“L'amore ha ucciso molto più di qualsiasi guerra” ripeté mentalmente pensando che una parte di lui stava per morire inesorabilmente, quella più vulnerabile e più legata alle debolezze umane, quella che ancora sapeva ridere e amare.
Tuttavia era necessario che tornasse sui suoi passi e la allontanasse; lei ne avrebbe sofferto, ne era più che certo, ma alla fine avrebbe sostituito l’amore che sentiva per lui con l’odio e avrebbe cominciato a stare meno male.
Del resto c’è un confine labile tra l’odio e l’amore e lui l’avrebbe accompagnata fino ad immergerla completamente se fosse stato necessario.

La mattina dopo se ne sarebbe dovuto andare dalla stanza da letto prima del risveglio di Belle e avrebbe dovuto evitarla completamente per i primi giorni o, all’occasione, trattarla con tutta la freddezza e la bruschezza di cui era capace e che non gli sarebbe costata un grande sforzo (o almeno questo era ciò che si ostinava a ripetere nella sua testa).
Quando la lasciò da sola, in quella camera che in quell’ istante gli era parsa così spoglia, sentì qualcosa colargli lungo al mento ma diede colpa agli spifferi del castello che lasciavano entrare occasionalmente gocce d’acqua che arrivavano dal tetto.

Intanto, a distanza di poco più di sei settimane, nel giardino del castello, una febbricitante Belle era precipitata in un sonno agitato e abitato da incubi, era il principio di novembre e l’aria era fredda e pungente.
Erano passate almeno un paio d’ore da quando si era addormentata e sembrava non avere la minima intenzione di risvegliarsi tanto presto e non sarebbe stata una situazione pericolosa se solo lei non fosse stata ammalata e se fuori la temperatura non avesse cominciato a farsi rigida.
Folate di vento scuotevano le alte chiome degli alberi che costeggiavano il parco donando ai pochi avventori che transitavano nelle vie traverse al Castello Oscuro brividi di freddo e di paura, omuncoli imbacuccati nelle loro vesti da straccioni si stringevano addosso poveri cenci e allungavano il passo nella speranza di tornare al più presto nelle loro misere case, ammassi fangosi di paglia, pietra e legna marcia.
L’ennesimo spiffero svegliò Belle dal torpore in cui era crollata e la riportò alla realtà, sentiva brividi scorrere lungo tutto il corpo, aveva la mente annebbiata e le dolevano gli arti.
Si era addormentata senza accorgersene e ora di certo Rumple se la sarebbe presa con lei e l’avrebbe scacciata in malo modo dal castello, costringendola a tornare ad Avonlea e a sposare Gaston.
Al solo pensiero le venne la nausea.
Scosse i vestiti per eliminare i residui di terra e aghi di pino secchi e raccolse i catini da riempire d’acqua, dopotutto aveva fatto tutta quella strada proprio per procurarsela e forse e soprattutto per schiarirsi un po’ le idee.
Riempì sino all’orlo il primo secchio e lo mise a terra, sollevò il secondo e ripeté l’azione, poi si fece coraggio e si caricò del peso dei contenitori e si avviò verso casa.
Era molto affaticata e ogni passo le costava uno sforzo quasi inumano, dovette fermarsi più volte per riposare e riprendere fiato e, nonostante il pozzo facesse parte del parco del Castello Oscuro, seppure in un luogo distante rispetto alle cucine, il viaggio di ritorno si rivelò una vera e propria odissea per la giovane.
Le scottature le dolevano ancora, di un dolore acre e pungente, i graffi che aveva sul volto, a contatto con l’asprezza del vento le bruciavano come non mai e il suo corpo, anzi ogni singola fibra del suo corpo si stava opponendo ad ogni passo, ogni respiro, ogni movimento delle sue braccia che trasportavano un peso greve.
Sapeva che non si sarebbe dovuta allontanare quella mattina, se lo sentiva, sin dal primo capogiro che l’aveva fatta aggrappare al bordo del letto e poi il vassoio, quello era stato davvero l’ultima goccia.
Era stata una sciocca e ora l’unica cosa che aveva voglia di fare era sedersi su di una roccia e mettersi a piangere, a dirotto, come una bambina che non teme il giudizio altrui.
Si fece forza e coraggio e continuò a camminare nonostante la sete, il freddo, la febbre e la voglia di piangere (anche se a dire il vero stava già piangendo da qualche minuto, in silenzio).
Quello che le era sembrato un viaggio di ritorno interminabile giunse al compimento e lei tornò nelle cucine. Si ritrovò a buttare malamente all’ingresso i secchi colmi d’acqua lasciando che parte del liquido fuoriuscisse e lei si lasciò cadere sullo sgabello più vicino.
Dimenticatasi dei cocci e delle stoviglie da lavare, delle scottature e della nausea che l’aveva afflitta nei giorni precedenti, fu colta da un improvviso e irrefrenabile attacco di fame acuta e diede un morso generoso ad uno dei pancakes avanzati dalla colazione.
Noncurante del fatto che fosse freddo e senza nemmeno una spolverata di zucchero a velo, finì il primo e ne iniziò un secondo e un terzo, poi la sua attenzione fu catturata da un avanzo di crostata risalente al giorno prima e anche a questa toccò la stessa sorte dei dolci precedenti.
Soddisfatta, ma ancora stanca e febbricitante, si ricordò delle stoviglie da lavare e si alzò in piedi.
Forse un po’ troppo in fretta, tanto che venne colta da un altro capogiro, il secondo nel giro di una manciata di ore.

“Belle!”.
Alle sue spalle udì una voce famigliare, fin troppo a dire il vero.
“R-Rumple” si schiarì la voce.
Lui fece finta di non essere preoccupato per la scena a cui aveva assistito e in generale per il comportamento insolito della sua domestica e prosegui: “Credevo che tu fossi sparita, ti ho cercata dappertutto”.
“Ero solo andata a prendere dell’acqua per lavare le tazze della colazione, tutto qui”.
“Sei andata sino a Camelot e ritorno, per caso? Sei stata via delle ore!”.
“Come mai tutto questo interessamento, così, di punto in bianco?”.
Il tono di voce di Belle era palesemente di sfida, il suo sguardo era dritto verso Rumple, era chiaro che non stessero discutendo semplicemente di ritardi e di secchi d’acqua.
“Nessun interessamento, voglio solo avere tutto ciò che mi appartiene sotto controllo”.
“Io non ti appartengo, questo lo sai? Anche se ho stretto un patto con te per salvare il mio regno e la mia famiglia resto pur sempre una donna libera”.
Dovette fermarsi un momento e prendere fiato.
Forse quella colazione tardiva e troppo abbondante non era stata una buona idea.
Corse fuori dalle cucine, verso gli esterni, con Rumple che la seguì dapprima solo con lo sguardo e poi anche con i gesti.
Belle si aggrappò al muricciolo fuori dalle scuderie e si sentì male, sentì lo stomaco contorcersi più volte e si maledisse per aver mangiato.
Rumple provò ad avvicinarsi a lei e a cercare di capire cosa lei si sentisse, ma senza mostrare la sua preoccupazione e imponendosi di rimanere distaccato e freddo, la solita Bestia.
La giovane rientrò nelle cucine senza dire una parola, aveva la fronte pallida e sudata, prese uno straccio e si bagnò il volto e i polsi, poi si lavò i denti.
Erano secoli che non si sentiva così male.
Rientrato nelle cucine, Rumple se la trovò di fronte e non poté nascondere la propria angoscia per le condizioni della donna, la sua Belle.
Lei iniziò a sciacquare le tazzine fingendo di non curarsi della presenza dell’uomo e, dato che il fuoco era spento, si ritrovò a lavarle direttamente con l’acqua ghiacciata del pozzo, che, a contatto con le sue mani, la fecero rabbrividire.
“B-Belle, insomma, forse non è il caso che …”.
Finse di non aver sentito.
Continuò a pulire ostinatamente le posate e le tazze, stavolta con le mani tremanti e un’espressione stanca e provata dipinta sul volto.
“Belle!”.
Si voltò e lasciò ricadere nell’acquaio le posate insaponate, si sciacquò le mani e le asciugò sul suo grembiule bianco.
“Cosa c’è?”.
“Stavo per chiederti esattamente la stessa cosa”.
“Ah, sì?” Belle finse una risata sarcastica, di quelle che riuscivano tanto bene a lui.
“Hai qualcosa da dire oppure no?”.
“Niente, neppure una parola”.
Il ronzio nelle orecchie le stava ritornando e sentiva le gambe farsi sempre più molli.
“Non ti credo, non credo nemmeno ad una parola di quello che mi stai dicendo”.
“Fai male allora, perché io non ho davvero un bel niente da raccontarti”.
La vista si faceva sempre più annebbiata e mettere a fuoco gli oggetti stava diventando difficile.
“Ascoltami Belle, non ho intenzione di sottoporti all’incantesimo della verità, potrei, ma non voglio, se non in caso di estrema necessità. Ti sei coalizzata forse contro di me insieme a qualcuno? A Regina per caso?”.
“R-Regina?” domandò lei confusa, mettendo insieme con estrema difficoltà quel semplice nome.
“Sua Maestà. Devo saperlo, Belle! Le hai detto di noi? Di quello che c’è stato tra noi due?”.
Rumple stava visibilmente perdendo la pazienza con quella donna che sembrava essersi cucita le labbra.
Belle cercò di trovare una via d’uscita da quella situazione impossibile ma era troppo poco lucida per pensare qualcosa di sensato.
“Rumple, io …”.
“Tu, cosa, Belle?”.
Fece giusto in tempo a porre la domanda alla donna che costei svenne tra le sue braccia, solo allora, solo in quel momento, l’uomo, o meglio la bestia che ancora possedeva le sue spoglie una volta mortali, si accorse che lei aveva la febbre alta e le mani fredde, come di ghiaccio.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III ***


Chasing Stars
 
La prese in braccio appena in tempo per impedirle di cadere rovinosamente a terra e battere la testa contro lo spigolo del tavolo e il pavimento.
Aveva le mani fredde e bianche, quasi di marmo, il suo corpo era diventato esile, più di quanto lui ricordasse e aveva il volto pallido e caldo.
Rumple cercò di ritrovare un bagliore di lucidità di fronte allo spavento per quello che stava accadendo a Belle, la sua Belle, le avvolse le braccia attorno al collo e la avvicinò a sé nel tentativo di trasportarla in camera della donna di modo che potesse riposarsi e che lui potesse pensare a qualcosa di sensato per farla stare meglio.
Non appena il corpo di Belle aderì al suo, lui sentì il profumo dei capelli della giovane inebriargli i sensi, quel misto di rosa canina e profumo di carta stampata lo avvolse in un turbinio di emozioni e ricordi tale per cui gli ci volle un attimo per riprendersi.
Avanzò verso la stanza della giovane cercando di fare il più piano possibile, non voleva infatti che lei si sentisse ancora peggio, preferiva di gran lunga tentare di risvegliarla non appena lei si fosse trovata su di una superficie morbida e non nel bel mezzo di un locale pieno di potenziali oggetti con i quali si sarebbe potuta ferire.
In quei momenti la casa gli era sembrata tanto grande e tanto vuota da fargli mancare il respiro, la sua risata e i suoi maldestri tentativi di pulire e riassettare gli avevano riempito le giornate e le serate degli ultimi due inverni, gli avevano regalato un’ombra di gioia e serenità che ormai non aveva nemmeno più sperato di provare.
Una volta arrivato nelle camera da letto di Belle si accorse di quanto fosse diventata spoglia e vuota, oltre al letto, allo specchio e ad una scrivania sghemba non vi era molto altro e questo non era altro che colpa sua.
Colpa sua e della sua stramaledetta idea di prendere le distanze da lei, colpa sua e di quella notte a causa della quale lui le aveva fatto passare i sorci verdi in quelle ultime settimane come se amarsi fosse stato sbagliato, come se amarla per la prima volta fosse stato quasi un approfittarsi della sua bellezza, della sua gioventù e della sua ingenuità di donna che non ha vissuto abbastanza per essere navigata di fronte alle brutture del mondo esterno.
Adagiò Belle sul suo letto e le rimboccò le lenzuola, poi avvicinò la mano sulla fronte della giovane e la ritrasse qualche istante dopo preoccupato per la febbre alta.
Il corpo della donna fu scosso da brividi e lei cominciò a lamentarsi in preda allo stato di malessere che sembrava attanagliarle i sensi.
Rumple, preoccupato, fece comparire dal nulla un catino colmo di acqua e ghiaccio e dei fazzoletti che si apprestò a inumidire e a porre sulla fronte di Belle, ripetendo quella stessa azione più e più volte e sperando con tutte le sue forze che funzionasse.
Belle sembrò trovare un relativo giovamento dal rinfresco donatole dagli impacchi freddi ma appariva ancora molto stanca e ammalata e i fazzoletti diventavano tiepidi in breve tempo a contatto con la sua pelle.

Rumple decise di lasciarla riposare per qualche ora e di ripetere gli impacchi in tarda serata se fosse stato necessario e andò a consultare alcuni libri in biblioteca nella speranza che potessero offrirgli qualche indicazione per aiutare Belle a combattere la febbre.
Ricorrere alla magia sarebbe stato troppo pericoloso, c’erano di mezzo i sentimenti e mischiare amore e potere sarebbe stato ancora peggio, la cura sarebbe stata peggiore del malanno in sé, meglio non rischiare.
I libri della biblioteca che aveva regalato a Belle dicevano tutto e niente, consigliavano di far bere molto e di non coprire troppo la persona con la febbre alta, impacchi di acqua fredda e riposo, esattamente quanto lui aveva già fatto.
Chiuse uno di quei libroni con troppo forza, gettandolo a terra per la rabbia che aveva preso possesso del suo intelletto e se andò fuori dalla biblioteca sbattendo la porta.

Decise che lasciare Belle nella sua stanzetta non fosse indicato per le sue condizioni e la trasportò nella sua camera da letto dove avrebbe trovato un letto più ampio e una stanza più adatta ad accoglierla.
La sistemò sul letto e tolse le coperte lasciandole solo un sottile strato di lenzuola a coprirla e provò a farle bere un po’ di brodo caldo.
La donna, aiutata da Rumple che la aiutò a sollevare leggermente il busto, aprì faticosamente gli occhi e lo guardò con la vista annebbiata; sul volto dell’uomo si dipinse per qualche istante un’espressione sollevata.
“Belle – le disse piano – prova a bere un po’ di brodo, anche solo qualche sorso, sei troppo debole, devi cercare di rimetterti in forze”.
Lei annuì piano e aprì leggermente la bocca a contatto con il cucchiaio, bevve qualche sorso a fatica e poi scosse la testa per far capire a Rumple che non avrebbe più potuto sopportarne nemmeno un’altra goccia.
Le ronzavano le orecchie, le sembrava di avere un intero sciame d’api piantato nel cervello, era insopportabile, tutto quel ronzio le dava la nausea e la faceva stare, se possibile, anche peggio.
“Ok, ok, non preoccuparti, è già qualcosa” le disse Rumple, ponendole un altro impacco, l’ennesimo, sulla fronte e cercando di tranquillizzarla.
Belle iniziò a piangere in preda allo sconforto, si sentiva strana, distrutta, come se il suo corpo non fosse più davvero suo ma di qualcun altro e lei non potesse farci proprio un bel niente.
“Belle”.
Rumple non sapeva che cosa fare, era da troppi anni il Signore Oscuro, troppi per potersi ricordare che cosa volesse dire essere un uomo, fatto di carne, di sangue, di sentimenti, di compassione verso il prossimo.
“Vediamo se posso fare qualcosa per farti stare un po’ meglio”.

Si avvicinò per rimboccarle nuovamente le lenzuola e sentì qualcosa, non seppe dire cosa o come o perché fosse accaduto, ma percepì una presenza nell’aria o comunque in mezzo a loro.
Si ritrasse turbato e andò a prendere una boccata d’aria.
Non poteva essere, insomma, era del tutto impossibile che lo fosse, continuò a ripetersi in modo quasi ossessivo.
In cuor suo sapeva benissimo quello con cui aveva a che fare: magia, un essere magico.
Era da tutta la vita, anzi, da buona parte della sua vita che la magia occupava un posto ingombrante nello scorrere dei suoi infiniti giorni in quella terra, l’aveva sedotto, lusingato, castigato e lui l’aveva respinta, cercata, bramata e questa volta era stata proprio lei, la magia, a ritrovarlo.
A venire a prenderlo a calci nel sedere e a ricondurlo da qualche parte, ma dove? E da chi?
E se questa fantomatica presenza magica non proveniva da lui, perché ne era certo, e nemmeno poteva essere Belle, lei era una principessa senza arti magiche al seguito, allora chi poteva esserne la fonte?
“Non può essere –nella sua mente si stava facendo strada un’idea che sino ad allora non aveva trovato nemmeno un briciolo di spazio tra le altre elucubrazioni – non può essere” continuò a ripetere con la voce tremante di chi aveva il panico e la gioia che si stavano facendo largo nella sua anima contemporaneamente, che lo bruciavano fino ad arderlo completamente, come il fuoco brucia l’olio e ne trae luce finché questo non si esaurisce e tutto si spegne e diventa buio.
Erano passate sei settimane e quasi sei giorni da quella notte e solo in quell’istante Rumple si rese conto che non avrebbe mai più potuto far finta che non fosse successo nulla tra lui e Belle perché la prova era lì, evidente agli occhi di tutti, ai suoi almeno e stava per cambiare per sempre le loro vite, in un modo del tutto inaspettato e che gli faceva un’enorme, incredibile, immensa paura.
 

Angolo autrice:
Spero che abbiate gradito questo capitolo e che vogliate leggere anche i prossimi. Questa storia mi frullava in testa da un bel po' ma non avevo mai trovato tempo/voglia/ispirazione per metterla nero su bianco, speriamo che ora sia la volta buona.
Ringrazio di cuore Alice che mi punta una pistola alla tempia incoraggia a scriverla con suggerimenti e con buoni consigli.
Al prossimo capitolo
lulubellula

 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** IV ***


Chasing stars

Capitolo IV

 
Quella notte Rumple non riuscì a chiudere occhio. Un pensiero spaventoso e meraviglioso lo tormentava come un tarlo e gli si stava piantando nel cervello alla stregua di un chiodo appuntito e corroso dalla ruggine. Ancora non poteva credere a quanto aveva realizzato solo una manciata di ore (o forse erano solo poche decine di minuti?) prima.
Non riusciva a pensare lucidamente e questo lo mandava in Bestia, se in quegli anni c’era stato qualcosa che lo aveva contraddistinto dai comuni mortali, oltre alla vita eterna e ad un potere che non conosceva confini, era proprio la sua capacità di ragionare in modo critico e freddo di fronte agli eventi.
Ma a chi voleva darla a bere? Riusciva ad essere lucido solo quando non era punto sul vivo, quando non venivano tirati in mezzo gli affetti più cari, sua moglie Milah in un tempo che era ormai andato e suo figlio Baelfire, sempre e comunque; in quei casi non c’era pensiero razionale che reggesse, era un tumulto di carne, nervi, cuore, pancia, muscoli che ragionavano laddove la sua materia grigia non era in grado di giungere.
Ed ora c’era Belle, la dolce, innocente, testarda, fiera, Belle e lui non sapeva che fare.
Rinunciare al potere e a ritrovare suo figlio, un figlio che con tutta probabilità lo odiava oppure a Belle e a …
Dannazione, non era nemmeno capace di pronunciare quella parola, più ci pensava e meno riusciva a farsene una ragione. Sperava che la luce del sole gli avrebbe portato consiglio, lui che fino a qualche mese prima nemmeno poteva sopportarlo e che cercava di evitarlo, con ogni fibra del suo essere, coprendo le finestre con ampi e pesanti drappeggi dai colori scuri.
Anche questo era merito di Belle.
Lui forse aveva ridato al popolo di Avonlea un regno senza guerra e senza fame, ma lei, dal canto suo, gli aveva restituito la vita, il sorriso, la speranza.
L’aveva reso un uomo diverso e lui, in cambio, le aveva fatto conoscere la Bestia, l’egoismo, il buio e il freddo del suo cuore, le aveva portato via la gioventù, la grazia e la bellezza dei suoi anni in fiore e le aveva restituito la vecchiaia e la morte di un’anima incattivita dalla solitudine e dalla diffidenza verso il prossimo.
Non avrebbe mai più potuto dormire sereno, mai più.
Il pensiero di quel fascio di magia che aveva percepito aleggiare nella sua stanza, sul suo letto, nella (sua) Belle, lo avrebbe ucciso, dilaniato, condotto all’insanità mentale.
Non c’erano precedenti e perciò non aveva idea di come le cose si sarebbero potute evolvere, non era mai accaduto prima di allora che il Signore Oscuro si innamorasse di una comune mortale e concepisse un figlio con lei; quindi non aveva la più pallida idea di quello che sarebbe successo.
Avrebbe avuto un figlio con tre teste, un occhio di vetro e una gamba di legno?
Sarebbe nato un bambino apparentemente normale, ma con dei poteri straordinari?
Il fanciullo avrebbe ucciso sua madre non appena venuto alla luce, dopo averle strappato con forza, un pezzo alla volta, tutta la sua energia vitale di povera donna umana e senza poteri magici?
Le prospettive che si stavano affollando nella sua testa erano l’una più raccapricciante dell’altra e in nessuna di queste Belle faceva una bella fine, anzi, nel migliore dei casi, la gravidanza l’avrebbe condotta allo stremo fisico e mentale e ad un futuro incerto e tormentato dalla follia.
Cercò di mettere da parte quei cattivi pensieri per qualche istante ed entrò nella sua stanza, dove al momento giaceva nel suo letto, l’oggetto delle sue preoccupazioni e dei suoi timori, purtroppo fondati.
Si avvicinò al bordo del letto e si sedette piano, cercando di non svegliarla di soprassalto; la donna dormiva profondamente e si lamentava di tanto in tanto per poi quietarsi da sola dopo aver esalato qualche debole e flebile suono.
Rumple attese qualche momento prima di convincersi a fare ciò che andava fatto; poi raccolse tutto il coraggio che gli era rimasto e scostò con attenzione e cura le coperte che aveva rimboccato quella sera alla donna.
Con qualche incertezza avvicinò le mani tremanti al ventre della giovane e chiuse gli occhi, lasciando un paio di centimetri di spazio tra le sue dita e la stoffa leggera della camicia da notte che le aveva fatto indossare prima di metterla a letto.
Si focalizzò sul suo respiro, in modo da lasciare fuori tutto il resto, la paura, le preoccupazioni, le ansie, l’orrore di quello che lui, stolto, avrebbe potuto causare con la sua avventatezza.
Quello che percepì, di lì in poi, fu difficile da comprendere, persino ad un uomo che aveva visto ben oltre l’umana immaginazione, eppure cercò di non scomporsi e continuò a cercare di captare il più possibile.
Sentì la magia di quella creatura in divenire fluire tra le sue dita e ne contemplò la forza, la prepotenza e la vitalità che ne scaturiva, ma non ne colse alcuna malvagità o ombre oscure.
“Non è malvagia, non è malvagia, non è malvagia” ripeté quasi sussurrando, gli occhi iniziarono a brillargli in un moto di commozione che durò solo per qualche istante.
“Non sarà un mostro come suo padre – pensò – ma sarà pur sempre una creatura magica e forte, preziosa quanto un’arma invincibile, poiché frutto della magia più oscura spezzata dall’amore, la magia di luce più potente di tutti i reami”.
Con questo pensiero spaventoso e rassicurante insieme, Rumple decise di lasciare la sua stanza e di andare in una delle tante camere per gli ospiti, sempre vuote e tristi, che Belle spolverava periodicamente per evitare che venissero soggiogate da polvere e ragnatele.
Non aveva sonno e mille pensieri tormentavano la sua mente, tuttavia sentì il bisogno di togliersi i vestiti più pesanti e ingombranti, levarsi le scarpe e mettersi sotto le coperte come un qualunque essere umano, da Agrabah ad Arendelle, era solito fare.
Nonostante le tribolazioni e i dubbi, Morfeo gli appesantì dapprima e chiuse poi le palpebre, facendolo calare in un sonno profondo e privo di sogni.
Quando si risvegliò notò per prima cosa che il cielo era plumbeo e scuro e che l’aria era fredda e pesante, come a preannunciare un’abbondante nevicata.
Visto che il tempo non era favorevole, Rumple pensò che fossero solo le prime ore del giorno e, stanco e spossato per gli stress del giorno precedente, ritornò a dormire.

Nel frattempo, poche stanze più in là della camera degli ospiti, Belle aprì gli occhi e li richiuse dopo qualche istante, poiché sentiva la testa pesante e greve e aveva un mal di testa che avrebbe fatto impazzire anche quella buon’anima di Mago Merlino.
Sentiva le ossa indolenzite e le ferite del giorno prima avevano ripreso a farle male, ma cercò di ignorarle e di tentare di alzarsi in piedi e iniziare una nuova giornata lavorativa.
Quando riaprì gli occhi, si accorse di non essere nella sua camera e realizzò con orrore che quelle pesanti tende color senape lei le aveva già viste, anche se solo per una volta, dato che Rumple le aveva impedito espressamente di entrare nella sua stanza da letto.
Per un attimo cercò di quietare i suoi timori cercando di fare mente locale sul perché si trovasse nella camera del suo padrone, con indosso una camicia da notte che sicuramente era di gran moda ai tempi della sua bisnonna e con un mal di testa di proporzioni epiche.
Niente, nella sua testa aleggiava il vuoto misto a una profonda confusione, si sentiva come se le ultime ventiquattro ore fossero state cancellate dalla sua mente. Aveva paura di quello che poteva esserle accaduto e del perché si trovasse proprio in quella stanza al suo risveglio.
Lei e Rumple non si parlavano da settimane ormai e svegliarsi proprio lì metteva in discussione tutto quanto.
Doveva esserne felice, lusingata, imbarazzata?
Doveva esserne furiosa, adirata, umiliata?
Non ne aveva la più pallida idea, ma sapeva che l’unico modo per uscirne era alzarsi in piedi e affrontare la giornata a testa alta.
Si alzò dal letto velocemente e venne colta da un capogiro improvviso che la costrinse ad aggrapparsi ai bordi del letto.
Ok, forse non così in fretta, meglio agire a testa alta, ma con calma.
Prese un profondo respiro e si rialzò in piedi con meno foga, i passi le riuscirono più facili, anche se molto incerti e dovette lottare contro un senso di oppressione allo stomaco, tipico di quando era in forte ansia o agitazione per questo o per quello.
Si incamminò così verso la sua stanzetta e, seppure con qualche esitazione, la raggiunse alcuni minuti dopo; giunta di fronte al suo letto si sedette per riprendere fiato.
“Probabilmente avrò preso freddo e avrò la febbre, non mi sento un tale straccio da parecchio tempo” pensò mentre avvicinava lo specchio al volto.
“Volto pallido e guance arrossate, gocce di sudore lungo la fronte che risulta bollente al tatto. Sì – sospirò – ho una brutta influenza”.
Si alzò per andare verso la toeletta e versò dell’acqua fresca dalla brocca direttamente nella bacinella, prendendo un asciugamano color cremisi, imbevendolo e tamponandoselo leggermente sulla faccia, sul collo e sulle spalle.
La sensazione di andare a fuoco si allentò appena e quello che prima era un semplice mal di stomaco, peggiorò fino a sfociare in un malessere che aumentava in crescendo. Cercò di fare dei respiri profondi e di non iperventilare, ma non le fu di aiuto. Allora si fece coraggio e andò verso il corridoio, sperando che fare due passi la avrebbe aiutata a stare meglio, ma nemmeno questo servì a molto. L’unica cosa che riuscì a fare, nel disperato tentativo di non sentirsi male nel bel mezzo di un salone dell’ala ovest del castello, fu appoggiarsi ad una mensola e lasciare maldestramente cadere un antico vaso cinese con annessi una fila di preziosi suppellettili che si infransero rovinosamente sul pavimento.

Poche stanze più in là, Rumple fu svegliato di soprassalto dal rumore provocato dalla caduta degli oggetti e scese di corsa dal letto, correndo in direzione della sua camera, che trovò vuota.
Preoccupato per la mancanza di Belle, corse a perdifiato da una stanza all’altra finché non la trovò nel salone, vicino alla Biblioteca che aveva creato appositamente per lei.
Era pallida e sembrava spaventata, non avrebbe dovuto alzarsi dal letto così presto e di certo, non senza chiedere il suo aiuto; anche se lei ancora non ne era al corrente (o forse sì, Rumple non ne aveva la certezza matematica), dentro di lei stava formandosi un esserino magico e il suo corpo mortale stava subendo un forte stress.
“Belle, cosa ci fai qui? Hai avuto la febbre alta tutta la notte e sei svenuta solo ieri sera, dovresti essere al caldo, sotto alle coperte”.
Si avvicinò alla giovane che aveva davvero un aspetto poco rassicurante e la sorresse tra le sue braccia.
“Rumple, credimi, mi sento male e credo che tra qualche istante vomiterò e non sarà un bello spettacolo. Mi serve una bacinella e che tu te ne vada”.
Anche durante i momenti di “debolezza”, Belle si dimostrava fiera e indipendente, ma Rumple era fermo nelle sue intenzioni e non aveva nessuna voglia di lasciarla sola.
Fece comparire un secchio e delle pezze fredde e stette vicino a lei mentre la donna stava male e piangeva, la aiutò come poté e avrebbe scambiato volentieri i ruoli per non vederle soffrire così tanto.
Le massaggiò la schiena e le raccolse i capelli dietro alla nuca, poi le pulì la bocca con un asciugamano freddo e le asciugò il sudore dalla fronte, aspettando che il malessere si affievolisse e le permettesse di ricondurla in camera.
“Ti senti ancora male?” le chiese piano.
Erano ormai seduti sul tappeto da un po’, con il secchio di poco lontano e con Belle accoccolata attorno al suo corpo in una posa del tutto naturale e innaturale al tempo stesso.
La giovane azzardò un timido no, anche se non corrispondeva esattamente alla realtà.
La nausea era quasi del tutto svanita, ma la febbre le stava facendo perdere la poca lucidità rimastale e faceva fatica a mettere a fuoco gli oggetti attorno a sé, tanto che la stanza sembrava quasi muoversi vorticosamente.
“R-rump, falla smettere” mormorò, biascicando le parole.
“Smettere cosa, Belle?” le chiese preoccupato.
“Smettere di girare, ho le vertigini!” rispose in un lamento.
Rumple la fissò preoccupato e incerto sul da farsi.
Rifletté qualche istante e decise che la mossa più saggia fosse quella di riportarla a dormire.
Si alzò, la aiutò a lavarsi i denti e il volto e la condusse in una camera, stavolta non nella sua, ma in una che possedeva un caminetto e un’esposizione sul parco favorevole anche durante i lunghi e rigidi inverni.
La donna rabbrividiva per il freddo e per la febbre e siccome questa non accennava a diminuire, fu costretto a mantenere una temperatura non troppo alta nella stanza per non peggiorare la situazione e a levare le coperte per far sì che scendesse.
Era quasi mezzogiorno ed erano più di ventiquattro ore che la donna stava male e lui conosceva la ragione del suo malessere, ma non riusciva a trovare il coraggio per parlarne con lei. Era il Signore Oscuro, il peggiore dei mali, un essere sempiterno, ma in quell’istante non era altri che un codardo, un vile codardo che stava per diventare padre e non aveva la più pallida idea di come affrontare tutta quella situazione.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3222536