Dandelion In The Spring

di feffyna22
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO - Un ponte tra di noi ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 1 - Katniss Everdeen ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 2 - La scuola nel distretto 12 ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO 3 - Il villaggio dei vincitori ***
Capitolo 5: *** CAPITOLO 4- La mietitura ***
Capitolo 6: *** CAPITOLO 5 - Capitol City ***
Capitolo 7: *** CAPITOLO 6 - Countdown ***
Capitolo 8: *** CAPITOLO 7 - L'arena ***
Capitolo 9: *** CAPITOLO 8 - POV PEETA prima parte ***
Capitolo 10: *** CAPITOLO 9 - POV PEETA seconda parte ***
Capitolo 11: *** CAPITOLO 10 - White rose prima parte ***
Capitolo 12: *** CAPITOLO 11 - White rose seconda parte ***
Capitolo 13: *** CAPITOLO 12 - White rose terza parte ***
Capitolo 14: *** CAPITOLO 13 - Notte ***
Capitolo 15: *** CAPITOLO 14 - Delirium ***
Capitolo 16: *** CAPITOLO 15a - Addio ***
Capitolo 17: *** CAPITOLO 15b - Addio FINALE ALTERNATIVO ***



Capitolo 1
*** PROLOGO - Un ponte tra di noi ***


PROLOGO  -  Un ponte tra di noi 





Esco di casa al mattino prima che Prim e mamma si sveglino. Gale mi aspetta vicino al tronco dove nascondo il primo arco che mi regalò papà.
“Grande giorno!”, mi dice.
E’ un grande giorno, infatti. Ieri sono finiti i settantaduesimi Hunger Games, per un anno possiamo dimenticarcene e vivere come se non esistessero.
Alla fine dei giochi, i distretti festeggiano tutto il giorno. A Capitol festeggiano i vincitori, nei distretti dei favoriti si commemorano le dignitose e molto onorevoli morti dei tributi. Da noi si festeggia la vita: non celebriamo i giochi di morte, ma i giorni che ci separano dalla prossima mietitura.
Le scuole sono chiuse e sono certa che la mia paperella starà già in piedi quando tornerò a casa, in attesa di uscire con me o di giocare con le amichette e andare in giro per il distretto.
La sera si organizzerà una festa in piazza e, a malincuore, brinderemo e ci rimpinzeremo con il cibo comprato dai genitori dei tributi morti. Così funziona qui, che se muori nell’arena, il presidente Snow per mettere a tacere il dolore invia ai genitori un bel po’ di soldi. Cioè, per noi sono un bel po’, ma sono certa che a Capitol coprono appena il costo di un dopobarba.
Comunque non importa, sono finiti, no?
 
Di solito resto nei boschi per almeno un paio d’ore, ma da un mesetto caccio insieme a Gale. Lui è sempre rilassato, invece io sono piuttosto in apprensione.
Se ne accorge ogni volta, sorride con fare sarcastico e immagino il perché: ogni ragazzina del villaggio gli va dietro ed è considerato uno dei ragazzi più belli del distretto. Ma, sinceramente, io lo trovo un poco troppo presuntuoso per i miei gusti.
Comunque sia, lui pensa queste cose, pensa che me ne sono invaghita, e mi innervosisce parecchio.
Così, se ho già un paio di scoiattoli, non me ne curo e faccio dietrofront, senza dirgli una parola.
Le prime volte restava a fissarmi senza rendersi bene conto di quello che succedeva. Poi ha iniziato ad essere ostinatamente invadente. Un sacco di: “Ma perché vai via?”, “Aspetta ti accompagno!”, “Dai su, possiamo piazzare ancora un paio di trappole”.
 Lo fa anche oggi, mi dice qualcosa mentre io già sto rimettendo a posto l’arco.
“No.”, gli dico.
Di nuovo quel sorriso beffardo, mi sento arrossire e lui di sicuro ne sarà ancora più compiaciuto. Ma sono rossa di rabbia, lui non capisce. E poi, davvero me ne importa qualcosa? Di dare spiegazioni, a lui?
“No.”, dico di nuovo. Non a lui ma a me stessa. Filo verso casa, mentre mi urla dietro di farmi bella per la sera.
 
Prim freme dalla voglia di uscire, esattamente come avevo ipotizzato. Mi lavo e ci sbrighiamo a raggiungere la piazza. Il distretto è piccolo ma il quartiere del Giacimento è proprio dall’altra parte rispetto alla via dei negozi.
Per questa giornata, conservo sempre qualche moneta che mi arriva con le razioni di cibo quando mi iscrivo ai giochi.
Oggi comprerò qualcosa di bello per me e per Prim, di sicuro le piacerebbe una spilla o qualche dolcino della panetteria.
Camminiamo strette strette e non riesco a placare il suo entusiasmo. Mi coinvolge e rido anche io ogni volta che mi fa notare qualche cosa di buffo.
 
Giriamo tra i negozi, in merceria le compro un cerchietto con una piccola rosa lilla e lei insiste affinché io compri per me un fiore da mettere tra i capelli.
Prendo per mamma un bracciale con delle pietre verdi e ci fermiamo come ultima tappa in panetteria.
Oggi la fila è tanto lunga che dobbiamo aspettare fuori dal negozio, restiamo lì una decina di minuti per poi riuscire, dopo un bel po’ di tempo, a farci strada per arrivare al bancone.
“Cosa prendete?”, mi dice un ragazzo biondiccio. Ha gli occhi marroni e profondi. Gli sorrido e dico a Prim di scegliere. Le prendo due biscotti a forma di farfalla, la glassa è tutta colorata e so che per Prim doverli mangiare sarà un vero peccato, tanto sono belli.
“Ci sono quelle focaccine al brandy?”
“Sì, appena sfornate!”
“Ne prendo due!”
 Usciamo da lì facendoci largo tra la grande folla che non smette di generarsi, impieghiamo altri dieci minuti per riuscire ad arrivare in strada.
E’ l’ora più calda e dopo aver combattuto per uscire mi sento sudata e in disordine. Aggiriamo la panetteria e quando arriviamo sul retro ci fermiamo a prendere un poco d’aria. Prim ride e mi aggiusta un ciuffo di capelli che si è liberato dalla treccia e padroneggia sulla mia fronte.
“Ciao!”
Alzo gli occhi e incontro i suoi, blu.
“Ciao!”, ricambio. Prim tira fuori dalla bustina il primo dei due biscotti e l’addenta, Peeta prende la palla al balzo.
“Hai visto che macello nel negozio?”
“Sì, per poco non ci seppellivano vive!”
“Ti piacciono i biscotti?”, chiede a Prim che annuisce.
“Li decoro io, sai?”
Prim sgrana gli occhi e mi guarda con meraviglia. Le accarezzo la guancia e le sorrido dolcemente.
“Stasera ci sarai in piazza?”
“Sì, ci vediamo lì!”
“Ci spero!”, alza la mano e va verso la porta sul retro.
Resto qualche secondo a guardare, a ricordare quando, un paio di anni fa, mi lanciò il pane e ci salvò da quella morte orribile.
Non provo vergogna, ripensandoci. Anche se molto spesso sì. Ma non ora.
 
“Lo sapevi che è lui che decora i biscotti?”, mi chiede Prim mentre trotterella al mio fianco.
“Sì, lo sapevo!”.
Prima di ritornare a casa, ci fermiamo al villaggio dei vincitori. I pacificatori mi dicono che Haymitch è tornato ed io ho molta voglia di rivederlo e ho pure paura che lui non voglia per niente.
Ha fatto da mentore ad un ragazzo di sedici anni e ad una ragazzina di quattordici e sono morti entrambi.
“Resta fuori, Prim!”, le dico rendendomi conto che le finestre sono serrate e non si sente nessun rumore provenire dalla casa.
La mia paperella si siede sugli scalini, proprio come avevo fatto io quando papà mi ci aveva portato la prima volta.
“Haymitch!”, lo chiamo senza ricevere risposta. Un tentativo andava pur fatto.
Lo trovo disteso sul divano, lo scuoto ma non si sveglia. Prendo uno strofinaccio e lo bagno con un poco di acqua. Gliela passo sulla fronte e lui pian piano si desta. Mi aspetto un sorriso, invece sgrana gli occhi e mi allontana urlando.
“Vattene! Vattene, ho detto!”, urla.
Le lacrime gli si accumulano agli angoli degli occhi ed iniziano a rigargli il viso, che è contratto in una smorfia di dolore.
Mi attanaglia le braccia e mi spinge verso la porta. E’ troppo forte, mi sento come nel mezzo di una bufera e nemmeno mi rendo conto di essere già fuori dall’uscio con un piede.
Raccolgo le forze e mi giro, lui si blocca ed io gli porgo la busta con le focaccine.
Prim si alza, un poco spaventata e gli tende una margherita bianca.
Haymitch allenta la presa sulle mie braccia e raccoglie il fiore. Mi guarda con occhi tristi, ancora lucidi: “E’ di famiglia, eh?”.
Sorride debolmente, io prendo la mano di Prim e me ne vado via. Lo so, so quello che prova, so ogni cosa: sta soffrendo, mi allontana perché soffre, lo so. Ma vorrei solo…
Io l’avrei allontanato? Se fossi stata io il mentore e lui il tributo? No, io non l’avrei fatto. Avrei sofferto, fino in fondo, ma non avrei allontanato Haymitch. O forse è che, lui mi ha detto, non capisco davvero. Tutto il dolore e l’ansia e la paura. Ed è vero e spero di non capire mai del tutto.
Mi sento un po’ in colpa. Ma mi butta via, mi caccia, mi ferisce. E’ incostante. E’ quasi un padre, ma non davvero un padre. Quasi un amico ma non proprio. Quasi un mentore ma spero che non lo sia mai davvero. Ed io ora l’ho fatto di nuovo, gli ho chiesto di essere quasi un padre, quasi un amico, quasi un mentore e lui non vuole essere nulla per me. Mi sento vulnerabile di fronte ad un suo rifiuto, mi sento più nuda e più povera di com’ero quando mi ha visto il ragazzo del pane, quando piangevo per la fame.
Io non voglio sentirmi così, vorrei papà. Lui non mi ha mai fatto sentire così.
“Katniss”, mi richiama dal mio torpore Prim, “Ti vuole bene.”
Penso che Prim abbia una specie di dono. Penso che ci completiamo, che io la nutro e lei mi nutre, in modi diversi.
Corre a giocare con delle amiche vicino a casa, mentre io sorprendo mamma con il bracciale. Vorrei che fosse rimasta. Avrei voluto ancora un suo bacio prima di dormire. Avrei voluto, forse ancora di più, la sua presenza. Ma lei non c’è più, c’è un fantasma di lei.
 
Prim la convince in qualche modo a prestarmi uno dei suoi vestiti più belli per la festa della sera. Mi sento sempre molto a disagio quando devo indossare delle gonne o degli abiti, non sono abituata a scoprire la mia pelle, mi irrita sentirmi così esposta.
Ma Prim ride e mi posiziona il fiore bianco tra i capelli, dopo che mamma li ha intrecciati.
Usciamo di casa poco dopo il tramonto, la piazza è già piena e delle grandi lanterne colorate oscillano al vento sulle nostre teste.
Incontro Madge, una mia compagna di classe. Mamma mi fa segno di andare, stringendo con una mano quella di Prim.
 
“Sei bellissima!”
“Anche tu Madge!”
Raggiungiamo il centro della piazza, dove si balla e si canta, mentre ai lati, tutt’intorno, grandi tavolate servono abbondanti porzioni di purè di patate, zuppa, frutta di stagione e si diffonde nell’aria l’odore di focaccine al formaggio.
Madge mi prende per mano e mi convince a danzare, “Vorrei avere un ragazzo con cui ballare!”, dice sognante.
Ci riposiamo dopo qualche canzone, prendiamo un bel piatto di zuppa e raggiungiamo il gruppo della classe. Madge è amica di tutti, io invece non parlo con nessuno.
Non saprei spiegare il motivo, forse perché non mi fido o forse perché non mi va. Non mi va proprio. Ma sono io l’unica a vedere quanto sia inutile?
Di solito, quando penso queste cose, mi rendo conto di estraniarmi dal mondo, per diversi minuti. Quando torno in me, mi sento molto a disagio, ho perso il filo del discorso e faccio fatica a sembrare realmente interessata quando la gente mi parla. Anzi, mi sembra di stare in fondo ai miei occhi, che loro guardano ma io sto dietro. Io sto dietro ai miei occhi, non sono realmente presente. Sono come mia madre, io. Sono come Haymitch, io. Abbandonerei Prim, forse. Forse abbandonerei pure me stessa.
Così, mi alzo e corro via. Lo faccio ogni volta e so che pensano tutti che io sia una tipa strana.
Lo pensano loro, ma al Forno mi rispettano, perché (checché ne dica Haymitch) nonostante la mia età, qualcosa in più di quei ragazzi io la so.
Mi ritrovo a camminare in una stradina ripida, la festa è lontana e la via è deserta. Mi sento in colpa per aver festeggiato, non dovrei festeggiare ora che papà non c’è più.
“Ehi”, mi giro verso quella voce così familiare.
“Peeta”, cerco i suoi occhi, sono rassicuranti, come il modo gentile con cui posa lo sguardo su di me, quasi impercettibile.
Forse c’era anche lui prima, mentre stavo con Madge e con gli altri.
Non mi chiede nulla e non dice nulla e non sembra voler fare altro se non tenermi per mano, guidandomi non so dove.
Mi porta al confine del quartiere industriale, da qui al Giacimento è un attimo, ma la strada che fa da collegamento è saltata nell’esplosione in cui è morto papà. Ci sono delle case diroccate e lui entra in una di queste.
L’edificio è prigioniero dell’edera e del glicine e profuma di muschio. Saliamo al piano superiore e mi fa guardare da una finestra: è collegata da un ponte alla finestra della casa di fronte.
 
Saliamo sul ponte, è in legno massiccio, stabile e largo e ci sediamo a metà, nascosti dall’edera che ne ricopre per intero la struttura.
C’è una luce tenue, un lampione che dalla strada ci illumina quanto basta per leggere le nostre espressioni.
“Perché sono qui?”, chiedo spavalda.
“Avevi bisogno di venire qui. Tutti hanno bisogno di un posto.”
“Io ho un posto, che è solo mio.”
“Ma questo è diverso, questo è il mio posto. Questo posto non sarà mai tuo, ma ci sarà quando ne avrai bisogno.”
“Io non ho bisogno di niente.”
“Allora diciamo che quando non avrai bisogno di niente, potrai venire qui.”
“Il mio posto mi basta.”
“Nessun posto basta. Nessuna casa è abbastanza casa e nessun posto è abbastanza tuo. Tu appartieni per qualche tempo ai posti, ma poi non ci saremo più e altri noi avranno bisogno di questo ponte.”
“Tu che ne sai? Tu non hai perso nulla.”
“Ci credi davvero?”
“No.”
Si avvicina e mi bacia sulle labbra, mentre con la mano mi accarezza i capelli.
Chiudo gli occhi, mi abbandono a quel bacio dolce che non sapevo di desiderare così tanto. Ma lo desidero. Desideravo da molto ritrovarmi seduta a gambe incrociate su un ponte, mentre un ragazzo mi bacia dopo avermi capito fino in fondo.
Così piccola, non mi sentivo così piccola da tanto tempo.
Lui preme le sue labbra con più vigore contro le mie ed io istintivamente le schiudo e ci accarezziamo con la punta della lingua.
Ho quasi paura che questo bacio finisca, lui lo avverte e quando sta per staccarsi, ci ripensa e mi bacia ancora.
Non so quanto tempo passa, so che quando riapro gli occhi il lampione è spento e siamo circondati da lucciole.
Rido e le cerco con la mano mentre Peeta mi osserva per la prima volta così da vicino, senza nessuno e nessun imbarazzo ad allontanarci.
 
“Devo tornare a casa.”, dico con un filo di voce. Non ho nessuna voglia di tornare a casa. Di pensare a papà, a mamma, ad Haymitch.
Mi guarda con un sorriso dolce e mi prende la mano, mi avvicina e mi abbraccia, avvolgendomi. Le sue braccia sembrano proteggermi, riaccendono un bisogno viscerale, che avevo dimenticato dopo l’ultimo abbraccio di papà. Il bisogno di abbandonarmi un poco, di cedere qualche minuto appena, di non dover occuparmi di qualcosa, di qualcuno.
“Domani sarà tutto diverso.”, mi dice. Tra di noi? Non lo so, ma mi eccita quello che dice. Mi eccita vedere la mia vita attraverso i suoi occhi, riscoprirmi così bambina e così donna allo stesso tempo.
Mi sfiora il viso e riunisce ancora le nostre labbra ma in un bacio più intenso. Suscita in me un brivido che risale lungo la schiena e tremo cercando ancora le sue labbra. Avvicino la mia mano al suo viso, lui esita un istante e poi si lascia andare alle mie carezze.
Con riluttanza, ci stacchiamo e ci alziamo per tornare alla festa. Le voci in lontananza, prima rumorose, si sono affievolite. Quando arriviamo in piazza sono rimasti solo i più anziani, che ricordano i vecchi tempi e che ridacchiano mentre attraversiamo la piazza.
Peeta insiste per accompagnarmi a casa, ma arrivata al Forno, lo convinco che posso proseguire da sola. Mi stampa un bacio sulla fronte e se ne va.
 
Quando torno a casa, non faccio in tempo ad entrare che mamma mi piazza uno schiaffo sul viso. Le urlo tutto il male che mi ha fatto. Il senso di colpa le compare sul viso dopo un paio di frasi ma io non mi fermo finchè non l’ho giudicata fino in fondo.
Non mi sento in colpa per averle detto quelle cose, non verso di lei almeno. Dopo qualche minuto ha già la stessa espressione vuota che mi indica che lei lì non c’è.
Prim invece ascolta tutto. Avrei dovuto fermarmi, almeno per lei. Ma non meritavo quello schiaffo, non dopo che Haymitch mi ha mandato via, non dopo questa serata perfetta. Avrei dovuto fermarmi, ma non sono riuscita a controllarmi. Raggiungo la mia paperella e la stringo forte, mi scuso per quelle brutte parole che ha sentito e le dico che era bellissima questa sera.
Le racconto una bella favola e si addormenta come un sasso.
 
Il giorno dopo a scuola attendo con ansia l’arrivo di Peeta. Mi ha detto che sarebbe cambiato tutto ed io mi sento davvero una stupida ad aspettare qui. Spero che non pensi che lo desidero così tanto, che qualcosa cambi nella mia vita. Così, sto ferma all’ombra della grande quercia in giardino. Che non è una grande quercia. Non è nemmeno grande, ma da bambini sembrava enorme e noi la chiamammo così.
Assopita nei miei pensieri, neanche me ne rendo conto.
“Katnip!”, salto appena dallo spavento.
“Ti odio, Gale!”
“Non ti ho visto alla festa.”
“Nemmeno io, meno male!”, gli dico mentre provo a guardare dietro le sue spalle se arriva Peeta.
“Spiritosa! Aspetti qualcuno?”
Non so perché questa domanda mi sconvolge così tanto, “No, no, assolutamente!”.
Faccio qualche passo verso l’entrata della scuola mentre Gale mi gira e mi bacia con desiderio. Lo allontano quasi subito, dopo un paio di secondi che mi servono per realizzare che cosa sta facendo. Istintivamente guardo verso la strada della panetteria. Peeta non è ancora arrivato. E penso che ora Gale si sia reso conto che stavo davvero aspettando qualcuno.
 
Vorrei correre via, ma sembrerei una stupida agli occhi di tutti quelli che si sono fermati a godersi lo spettacolo. Così, semplicemente, me ne vado a passo lento. Gale prova di nuovo a raggiungermi ma lo fulmino e si allontana con uno sguardo triste che non mi scalfisce minimamente.
 
In aula sento un vociare continuo e sguardi rivolti verso di me che mi rendono nervosa. Mi ha baciato davanti a tutta la scuola! Perché lui ovviamente deve fare le cose in grande, deve in qualche modo essere sempre sulla bocca di tutti.
Peeta arriva quando la lezione sta per cominciare. Entra con una delle ragazze che ha visto la scena.
Mentre attraversa la classe si gira verso di me e mi guarda con occhi gelidi e delusi. Sono certa che se gli parlassi, magari non ora, magari tra qualche giorno, quando sarà più calmo, sono sicura che capirà.
Dovrei parlargli. Dovrei spiegargli. Non mi va proprio. Aspetterò qualche giorno. Sì, un paio di giorni e poi gliene parlerò.
Lo farò.
 
La solita storia. La solita me. Di nuovo io.
Non cambierà nulla.


 



 

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 1 - Katniss Everdeen ***


CAPITOLO 1 - Katniss Everdeen



Apro gli occhi, la luce filtra attraverso la finestra. Il freddo pungente mi aiuta a svegliarmi del tutto. Mia madre e Prim dormono ancora, do un bacio sulla fronte della mia sorellina. Indosso la giacca di pelle di mio padre ed esco, mi dirigo verso i boschi.
Nessuno di noi può cacciare nei boschi, ma sono anni che non passa più elettricità attraverso la rete elettrificata che circonda il distretto 12. Scivolo furtivamente attraverso un profondo taglio nella rete e mi allontano in punta di piedi verso gli alberi. Dopo alcuni metri mi sento già più tranquilla, vado alla ricerca del tronco in cui ho nascosto uno degli archi che mio padre mi ha lasciato.
Mio padre è morto in un’esplosione nelle miniere. Di questo ci occupiamo qui nel 12, di carbone. Alimentiamo la grande macchina di Capitol City e la grande città ci ripaga con non so bene cosa. Dicono che ci ripagano, dicono che dopo i Giorni Bui questo è l’odore della libertà. Eppure, dopo la morte di mio padre, siamo quasi morte di fame. E non è una cosa strana, da queste parti, morire di fame.
Mi accorgo di stringere i pugni, porto una mano alla bocca, mi assicuro di non aver sussurrato nulla e mi guardo intorno: devo stare attenta. Domani sarà il giorno della mietitura e il distretto sarà già pieno di pacificatori, potrebbero perlustrare i dintorni e già sarei in grossi guai se mi scoprissero qui fuori.
Sì, il giorno della mietitura: domani verranno sorteggiati in ogni distretto un ragazzo e una ragazza tra i 12 e i 18 anni che parteciperanno agli Hunger Games, i giochi per ricordare la fine dei Giorni Bui e la potenza di Capitol City. I ragazzi combattono tra di loro in un’arena, finché uno solo di loro sopravvive. E solitamente quelli del mio distretto non vincono, mai. Solo in un’edizione vinse un ragazzo, Haymitch.
 
Una volta, quando avevo 5 anni, andai con mio padre al Forno, il mercato nero. Comprò una bottiglia di liquore e ci dirigemmo verso il villaggio dei vincitori. Non avevo mai visto case così ben curate e, tuttavia, il villaggio era del tutto disabitato, se non per una casa, in cui appunto viveva Haymitch.
Rimasi sulle scale della veranda mentre mio padre gli parlava in cucina, ogni tanto dalla finestra arrivava una risata o il suono di stoviglie che s’infrangevano sul pavimento.
Mio padre uscì dopo qualche minuto e salutò l’uomo con affetto.
Haymitch incuteva timore, aveva una folta barba incolta, i capelli biondi e disordinati, puzzava di vomito e alcool e il suo sguardo era sanguigno. Eppure mi fidavo molto del giudizio di mio padre, mi insegnava a vedere oltre la pelle scura dei minatori, oltre gli abiti ampollosi che sfoggiavano in tv gli abitanti di Capitol. Insisteva affinché io riuscissi ad essere giudiziosa e attenta.
Così (io non lo ricordo, ma mio padre lo raccontò molte volte) gli porsi una margherita bianca e penso che fu da quel momento che Haymitch provò una certa simpatia per me.
Dopo la morte di mio padre, decise di allenarmi un pomeriggio a settimana e spesso insistette per passarci dei soldi o del cibo, che lui aveva in abbondanza grazie alla vincita degli Hunger Games. Ma da mio padre avevo di sicuro ereditato l’orgoglio e anche mia madre fu piuttosto ferma su questo punto, non accettai mai altro da lui, se non la sua compagnia.
 
Mi muovo tra gli arbusti e mi rendo conto di essere diventata davvero molto brava: sono silenziosa, mi viene già l’acquolina in bocca all’idea di grossi scoiattoli arrostiti per cena.
Noto una trappola per conigli, è di Gale. Sarà qui, da qualche parte. Lui ha 18 anni, due più di me. Ci siamo conosciuti quattro anni fa, avevo trovato una delle sue trappole e cercavo con delle corde che avevo portato con me di riprodurla. Lui mi sorprese e da quel giorno decidemmo di cacciare insieme, io gli insegnai ad utilizzare l’arco e i coltelli e lui mi aiutava a costruire le trappole.
Non è proprio un’amicizia. Non esistono queste cose, qui. Non esiste l’amicizia o l’amore. E nessuno si fida di nessuno. Qui nel 12 è un po’ come negli Hunger Games, siamo tutti alleati finché non si arriva allo scontro diretto. Ecco, io e Gale siamo alleati.
Anche a scuola è così. O forse non è così per tutti, lo è per quelli che hanno sofferto di più. Ed io ho sofferto molto, lo riconosco. In quei momenti per me non c’era nessuno, perché a nessuno importava di me, della fame, della mia salute. Neanche a mia madre importava. Mia madre: restava lì, stesa nel letto, a crogiolarsi nel suo dolore mentre le sue figlie masticavano foglie di menta. La depressione non è un lusso che possiamo permetterci qui. A nessuno importava di me, c’era solo Haymitch per me.
E il ragazzo del pane.
Basta, il ricordo mi urta.
 
Gale mi guarda con quel suo sorriso beffardo: “Ciao Catnip”, quanto lo odio, gli avrò ripetuto il mio nome un centinaio di volte e continua a chiamarmi con quel nomignolo. Gli rivolgo una smorfia e lo seguo fino alla collina, abbiamo trovato un arbusto di more e ne mangiamo alcune.
“Ho sentito che Madge è disperata, in lacrime tutto il giorno, tutti i giorni”, rompo il silenzio. Madge è l’unica persona con cui parlo a scuola, l’unica ragazza con cui io sia riuscita ad instaurare un certo tipo di legame. Lei è sempre gentile con me ed io a modo mio lo sono con lei. E’ la figlia del sindaco, ha qualche privilegio, di sicuro lei non ha mai rischiato di morire di fame. Non provo invidia. O almeno, non provo invidia per la sua ricchezza, ma per la leggerezza con cui riesce ad affrontare la vita: da qualche settimana vive di drammi adolescenziali dopo che lei e Gale si sono baciati. Ma Gale, a quel che ne so, ha baciato molte ragazze del distretto, me inclusa.
“Che ci vuoi fare, è il mio fascino”, dice. A quelle parole mi viene da vomitare e lui coglie il disgusto sul mio viso e inizia a ridere, divertito.
Arrivano dei rumori dalla piazza, stanno montando il palco per la mietitura.
“Quanto odio Capitol City, odio gli Hunger Games, odio tutto questo”, urla Gale, liberandosi. Io sono completamente irrigidita, non avrei mai quel coraggio, nemmeno qui nei boschi. Sono una codarda, sono terrorizzata. Mi riprendo dopo qualche secondo, mi alzo in piedi e vado a recuperare le trappole. Gale mi raggiunge, fa per dire qualcosa, ma la rabbia dentro di me esplode: “Come fai, proprio tu, a dire queste cose? Non pensi alla tua famiglia? Non mi importa! Io penso alla mia, allontanati da me quando ti viene voglia di urlare certe cose! Allontanati o ti ficco una freccia nel collo!”. Ovviamente non lo farei mai, mi godo il suo sguardo spaventato. Questo, comunque, è uno dei motivi che mi hanno sempre tenuto lontana da Gale.

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 2 - La scuola nel distretto 12 ***


CAPITOLO 2 - La scuola nel distretto 12



Ritorniamo a casa con tre scoiattoli e un coniglio ciascuno. Mi lavo e mi preparo per la scuola. La scuola è un casermone, un tempo molto più accogliente di com’è adesso. In classe parlo solo con Madge, che è molto popolare ed è il mio unico ponte con gli altri.  Anche il ragazzo del pane è nella mia classe. Peeta.

Quando mio padre morì, passarono alcuni mesi prima che potessi iscrivermi per la prima volta agli Hunger Games e ricevere così la razione premio per la mia iscrizione. Alcuni giorni non avevamo davvero nulla di cui sfamarci e più volte mi ritrovai a cercare degli avanzi nell’immondizia. Molto spesso mi cacciavano via e passavo il tempo per strada, tanto mi doleva tornare a casa senza nulla da mangiare.
Un giorno, frugai nel bidone della spazzatura della panetteria del distretto. La moglie del fornaio mi sorprese, minacciò di chiamare i pacificatori e mi allontanai in fretta. Mi ritrovai sul retro del negozio ed iniziò a piovere con insistenza. Mi accasciai vicino ad un albero e piansi. Ad un certo punto, mi accorsi che un ragazzo mi stava osservando da dietro la porta finestra. Scomparve e sentii delle urla, il ragazzo tornò indietro e aprì la porta portando sotto il braccio delle pagnotte. Aveva molti segni rossi sul viso ma non se ne curò. Iniziò a lanciare il pane ai maiali sotto lo sguardo vigile della madre. Quando ella si allontanò, lui si avvicinò appena e mi lanciò due pagnotte. Le raccolsi e corsi verso casa, erano ancora calde ed un po’ bruciacchiate. Quella sera Prim ed io andammo a dormire con la pancia piena.
Il giorno dopo tornando a casa da scuola, vidi per terra un dente di leone e capii che era tornata la primavera. Provai un senso di rinascita e mi resi conto che ce l’avevamo fatta, che ero sopravvissuta e anche la mia sorellina era salva. Sarò per sempre riconoscente al ragazzo del pane.
Sono in debito con lui, l’unica volta nella mia vita in cui ho accettato la carità di qualcuno. Ed è questo il legame più profondo che io sia mai riuscita a creare con qualcuno al di fuori della mia famiglia.
Non ci siamo mai parlati. Ci siamo salutati, a volte. A volte mi guarda, ma io distolgo lo sguardo.
Mi odio per questo, per pensarci così tanto spesso.
 
“Si vede che ti piace”, esclama Madge. A lei questi drammi piacciono molto ma la fulmino con lo sguardo e si placa subito.
Purtroppo mi hanno messo all’ultimo banco, lui è due file più avanti e, volente o nolente, non riesco a distogliere lo sguardo dai suoi capelli biondi e dalla sua schiena robusta.
“Hai parlato con Gale?”, chiede con curiosità Madge.
“Sì, dovresti togliertelo dalla testa.”, dico e so di aver fomentato i drammi del prossimo mese. Forse dei prossimi due.
Mi risponde con una smorfia e poi energicamente, non so come, ritrova il sorriso.
 
Abbiamo una pausa di quindici minuti dopo le prime due ore di lezione, di solito le trascorro con Gale in cortile, progettando nuove trappole, ma oggi non mi va. Resterò qui seduta al mio banco. Sento già l’ansia per domani e sono molto preoccupata per Prim, per lei sarà il primo anno. Mi incanto ad osservare dalla finestra Peeta chiacchierare con un gruppo di amici, lui ne è pieno. E’ molto amato dagli altri, riceve attenzioni molto diverse da quelle che riceve Gale, attenzioni che non capisco, ma che apprezzo.
“Non smetti proprio mai, eh?”, Madge si becca un libro sullo stomaco. Ben le sta.
“Gli ho parlato, sai? Mi ha detto che domani passate a portarmi le fragole!”. Ancora con Gale. Sospiro e appoggio il mento sulla mano.
“Ti ho preso questi”, tira fuori dalla borsa dei nastri colorati, si alza e inizia a farmi una treccia laterale con il nastro rosso. Incomprensibilmente, è una delle sensazioni più rilassanti che io abbia mai provato negli ultimi tempi. Quando ha finito la treccia, intorno ai nostri banchi altre tre ragazze scherzano con Madge e me ed elogiano la bravura di Madge e la bellezza della treccia e dei miei capelli. Non ricevo mai complimenti, mi sento un po’ a disagio. Ma poi, a sorpresa, una delle ragazze imita Gale con maestria e scoppio in una fragorosa risata. Fragorosa risata? Io? Così pare, un po’ per la tensione accumulata, un po’ per l’odio profondo che nutro per Gale, inizio a ridere e ad imitarlo a mia volta.
Non mi accorgo che mentre rido e scherzo, rientra in classe Peeta con gli altri ragazzi del suo gruppo. Madge mi fa segno con lo sguardo e, ancora con le lacrime agli occhi ed un grande sorriso, mi giro verso l’entrata della classe e lo vedo, fermo immobile, anche lui sorridente e un po’ sorpreso. Torno seria e sfido il suo sguardo senza distogliere il mio, così da eliminare dalla sua mente l’idea della Katniss sorridente e frivola. Ma lui, insopportabile, sorride in modo più dolce e se ne va al suo posto.
“Sei rossa!”, dice Madge.
“Sei morta”, dico io e le pianto una gomitata nello costole.
 

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Capitolo 4
*** CAPITOLO 3 - Il villaggio dei vincitori ***


CAPITOLO 3 - Il villaggio dei vincitori



All’uscita da scuola corro verso l’aula di Prim, la prendo per mano e torniamo a casa. Il pomeriggio di solito il mio umore peggiora, pensieri cupi mi invadono e la notte prima di dormire si sfogano tutti insieme e mi ci vuole molto tempo per riuscire ad addormentarmi. Oggi sarà tutto ancora più intenso, già dopo pranzo sono così nervosa che rispondo a mia madre urlando ogni volta che mi chiede qualcosa.
Alla fine non resisto, esco di casa sbattendo la porta dietro di me.

Vado al Forno e scambio i nastri colorati (tranne quello rosso che ho ancora tra i capelli) e un po’ di formaggio della pecora di Prim con una bottiglia di rum.
All’entrata del villaggio dei vincitori i pacificatori mi perquisiscono e mi chiedono a cosa mi serva la bottiglia.
“Mi serve per produrre alcune lozioni per mia madre, li produciamo da Haymitch”, sanno che mento ma ho un buon rapporto con i pacificatori, a volte comprano anche alcune delle mie prede. Mi lasciano passare senza troppi problemi.
Le finestre della casa di Haymitch sono tutte serrate e le persiane abbassate. Un fracasso continuo si sente dalle stanze, busso con forza, mi apre la porta completamente sbronzo.
“Odio vederti così”, dico.
“Lo sai”, si scusa nascondendosi con il braccio il viso. Metto l’altro braccio intorno al mio collo e lo accompagno nel soggiorno e ci sediamo sul divano.

Lo so, so cosa vuol dire per lui. I vincitori degli Hunger Games diventano automaticamente mentori per i ragazzi del distretto che vengono estratti successivamente a loro. Ed io ho visto Haymitch affezionarsi ad alcuni, sperare nella loro vittoria e poi col tempo l’ho visto combattere per non affezionarsi più a nessuno. E so che ogni volta che nessuno faceva ritorno dai giochi, Haymitch mi allontanava per qualche mese, nella speranza di non avere più bisogno di me e di non sentire più il bene che ci univa.
Persino io ammetto che c’è del bene tra di noi, io che non accetto nulla da nessuno e che di nessuno mi fido, mi rendo conto che tra me e quell’ubriacone di mezz’età c’è un filo che ci lega. E non combatto più. E quando mi allontana, io aspetto pazientemente.
Lo so.

Non abbiamo bisogno di dire nulla, ma lui sentenzia: “Mi ricordi sempre di più tuo padre”. Sorrido, mi piace pensare di essere come lui.
“Non c’è bisogno”
“Sono serio, Kat. So che non serve che te lo dica. Ma lo sei, è una tua conquista. Nessuno può toglierti questo”.
 
 
Domani c’è la mietitura, la tensione si diffonde e nessuno dopo il tramonto ha il coraggio di uscire di casa. Dovrei essere agitata anche io, invece mi riscopro serena mentre aspetto uno dei riti portafortuna che da sempre io e Prim onoriamo: abbiamo seccato alcune delle fragole che ho raccolto e alcuni fiori e spezie, Prim ne ha fatto una tisana che sorseggiamo sul divano, raccontandoci storie.
 

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Capitolo 5
*** CAPITOLO 4- La mietitura ***


CAPITOLO 4 - La mietitura



Mi sveglio di buon’ora, mi vesto e mi preparo per la caccia, indosso gli scarponi ed esco prestando ancora più attenzione del giorno prima. Mi ritrovo con Gale vicino al solito arbusto di more, me ne lancia una e mi dice: ”E possa la fortuna...”

Io la prendo al volo e concludo: ”…sempre essere a nostro favore!”.

Dopo un’ora dobbiamo tornare a casa per prepararci.
“Sei pensierosa”, dice.
“A volte penso ad una cosa strana…”, mi guarda in modo diverso ora, sempre divertito ma senza quell’aria presuntuosa che si porta dietro, “…a volte penso a come sarei stata se non ci fossero mai stati i giochi. So che sarei stata una persona migliore. Ma Loro hanno scelto per me, sono cresciuta in questo mondo e non potrò mai essere migliore. Mi detesto per questo”.
“Non sei così male”
“Ah, non sono così male…”, lo guardo con uno sguardo minaccioso.
“Bè, una parte di te vale qualcosa. Se un giorno avrai dei figli, spera che ereditino solo quella parte, loro potrebbero essere la versione migliore di te.”
“Io non avrò mai dei figli, non in questa realtà. Te l’ho detto, non conoscerò mai il meglio di me”.

 
♦ ♦ ♦
 
 
Mia madre è molto in ansia, sono in ritardo e devo ancora lavarmi. Faccio fatica a togliere il fango incrostato tra i capelli e sotto le unghie. Mamma mi regala uno dei suoi vestiti. Lei viveva nella parte più benestante del distretto, ma per mio padre rinunciò ad ogni cosa e lo seguì in questa casa modesta. Portò con sé i suoi vestiti, li ha custoditi gelosamente per anni ed ora è qui, davanti ai miei occhi, con un vestitino celeste con del merletto intorno al colletto.
Con cura mi intreccia i capelli.
 

♦ ♦ ♦

 
La piazza è già quasi piena, siamo tutti lì. Madge corre al mio fianco, mi ringrazia per le fragole che le abbiamo portato prima. Gale si trova dall’altro lato della piazza, ci guardiamo ed io indico con l’indice il mio cuore. E’ un segno segreto che facciamo tra di noi, vuol dire: se scelgono me, bada tu alla mia famiglia.
Lui ricambia e mi sento un poco più tranquilla.
 
Mentre gli sorrido, noto Peeta qualche metro più dietro, il mio cuore pesa, l’ansia mi torna prepotente e mi si contraggono i muscoli della pancia. Ho paura per lui? Per me? Per Prim!
Effie Trinckett sale sul palco, indossa una parrucca lilla, ha il viso bianco di cipria e il trucco degli occhi è bizzarro: le ciglia lunghissime, decorate con cristalli rosa, sembrano spiegarsi ogni volta che sbatte le palpebre, come se fossero delle farfalle. Il vestito è fucsia ed eccentrico e le scarpe sono vertiginosamente alte, tanto che è costretta a camminare a piccoli passi veloci.
“Salve a tutti”, inizia. L’accento di Capitol è ridicolo quanto le loro mode. Guardo Prim, ride, probabilmente ha pensato le stesse cose che ho pensato io.
Presenta il solito video per ricordare i Giorni Bui e la pace portata da Capitol, si parla dei 13 distretti e della distruzione del tredicesimo che ha condotto la rivolta.
Alla fine del video Effie applaude con enfasi, ma il resto della piazza cala in un rigido silenzio.
“Proseguiamo con l’estrazione. Come sempre, prima le donne… Katniss Everdeen!”
Il mio nome.

Sto sudando, sento il calore pervadere il mio corpo.
Madge mi stringe la mano, ma io la lascio, guardo Prim, guardo Gale. Indice sul cuore, per me è finita ma per loro no.
Salgo le scale e resto ferma in piedi vicino ad Effie. Mi accoglie con un sorriso caldo e accogliente, che non mi aspetto. Evita di prendermi per mano e, nascondendo il disgusto dietro ad un abile sorriso, mi sfiora i polpastrelli con le punte delle unghie lunghissime e mi conduce al centro del palco.
“Bene, ora il ragazzo…Rory Hawthrone”
“Mi offro volontario”, è Gale.
“Oh, bene, non abbiamo mai avuto un volontario dal distretto 12”
E’ tutto così surreale. Non capisco più nulla. Le braccia ciondolano mollemente lungo i miei fianchi e guardo Peeta tra la folla. Non ti rivedrò mai più.
 
♦ ♦ ♦
 
 
“Come ha potuto farlo? Le nostre famiglie moriranno di fame, come ha potuto? Offrirsi volontario! Avrei protetto Rory! Non sarebbe morto nell'arena. E sarebbero sopravvissute le nostre famiglie e invece ha fatto di testa sua! Ci ha condannato tutti, moriremo di fame! Come ha potuto! Lo odio! Lo odio!”.
Ma Haymitch non ascolta, è distrutto dall’estrazione del mio nome, sta davanti a me e non fa che biascicare qualcosa che non capisco. O forse prova a ricordarmi che solo uno sopravvive. Che non avrei potuto salvare Rory senza rinunciare alla mia vita. Ma io non posso morire, la mia famiglia ha bisogno di me.
Finiscono così i nostri due minuti di visita prima di partire, ma tanto avremo modo di parlare sul treno per Capitol. Lui ora è il mio mentore.
Esce ed aspetto la prossima visita, mi hanno dato a disposizione una sala del comune.
“Katniss!”, Prim mi corre incontro e mi abbraccia, mamma invece resta sulla soglia, trattenendo le lacrime.
“Mamma…”
“Sarò forte.”
Non le credo e, da come mi guarda, so che ha capito di non avermi convinto. Mi ha perso molto tempo fa. Non potrò contare su di lei.
Pensa, Kat, pensa.
Anche il loro tempo è finito. Entra Madge, mi dà una spilla d’oro con una ghiandaia imitatrice.
“Oh no, Madge”, ma lei insiste.
 “Vado da lui”, chiude la porta dietro di sé.
 
 “Non so bene cosa dire”, dice Peeta.
Non ha senso che sia venuto a trovarmi, non ci siamo mai nemmeno parlati da quando...
Avrei preferito andare via senza rivederlo, ai miei occhi lui è ogni bella e giusta possibilità di cui il mondo mi priva da sempre. Cioè, io so bene cosa saremmo potuti essere, ma non siamo niente ora. E lui comunque non se ne va, sta fermo lì ad aspettare qualcosa da me.

O forse lui non vuole nulla, forse anche per lui è lo stesso.
Trasalisco.
Non so fermare il pianto, i singhiozzi. Con una mano raccolgo il viso e appoggio l’altra da qualche parte, per reggermi in piedi.
Tiro in dentro la pancia e mi viene da vomitare. Provo ad alzare gli occhi ma ho perso ogni controllo ed il mio pianto diventa straziante al pensiero di incontrare il suo sguardo.
Non provo nessuna vergogna, perché non provo nessuna vergogna?
 
Sta già passando, ho smesso di frignare. Dio, quanto mi odio.
Da quanto tempo sto così? Per terra, tra le sue braccia e il suo respiro sul mio collo. Il suo corpo è caldo e le sue mani mi stringono con più forza. “Mi occuperò io di Prim”, dice con un sussurro. Per la prima volta nella mia vita, sento di andare bene così, debole e disperata. Non ho bisogno di dimostrargli nulla, nemmeno la mia gratitudine.
Guarda, ammira, Kat: quello che sareste potuti essere, tu e lui.
 
Bussano con veemenza, mi bacia sulla fronte e senza voltarsi esce dalla stanza. Io resto sul pavimento, ora che sono da sola tutte le mie angosce tornano più feroci di prima.

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Capitolo 6
*** CAPITOLO 5 - Capitol City ***


CAPITOLO 4 - Capitol City



Il treno è molto più che lussuoso. Ci servono cibo in abbondanza, pietanze mai assaggiate prima. Effie inizia a decantare il lusso di Capitol City dopo aver notato il mio interesse per un lampadario di cristalli. Eppure l’unica cosa a cui penso è alle case illuminate da lampade ad olio nel nostro distretto. L’elettricità da noi arriva con i Giochi e se ne va quando finiscono. Avevo già visto in tv tutte queste cose, ma non mi ero resa mai conto che erano reali.
E’ tutto vero, tutta questa ricchezza. Come può un uomo essere così ricco e godere della povertà di altri uomini? Chi sono queste persone? Non sono come me, io non ucciderei nessuno. Dovrò farlo, mi costringeranno. Come può un essere umano costringere altri uomini ad uccidersi per gioco? Cosa mi succederà quando ucciderò per la prima volta? Sarò sconvolta? Potrebbe piacermi? No, io non sono granché ma sono una brava persona, so quanto vale una vita.
Quello che sono non cambia, non nel distretto 12, non a Capitol City, non in un’arena. Devo crederci, devo credere che sia così.

Siamo partiti da meno di un’ora e già sento venir meno ogni mia certezza. Vorrei potermi scaldare tra le braccia di Peeta o stringermi nella giacca di mio padre.
Io e Gale non ci rivolgiamo la parola. Haymitch è ubriaco, gli urlo contro ogni possibile insulto e lo convinco a riprendersi e a smettere di bere almeno fino alla fine degli Hunger Games.
Sparisce per tutto il viaggio e, a malincuore, illustro a Gale quanto ho imparato da Haymitch negli anni.
Gli spiego ogni cosa: che gli Hunger Games sono uno show, in quanto tale, più sei brillante più sponsor ottieni. E gli sponsor fanno la differenza tra la vita e la morte: se ti amano a Capitol e tu sei in difficoltà nell’arena, ti invieranno tutto ciò di cui hai bisogno.
Mi rendo conto, mentre gli spiego queste cose, che nonostante io sia preparatissima nella teoria, sono esattamente la persona che a loro non piacerà per niente.
Io non piaccio.
Io non amo la gente,
Alla gente io non piaccio.
 
Il viaggio dura terribilmente poco. Arriviamo in stazione, Haymitch ancora non si vede e Gale saluta tutte le ragazze, ammiccando. Ecco, sono fottuta.
I tributi alloggiano in un grattacielo nel centro di Capitol, spetta un piano per ogni distretto, noi siamo il 12 e abbiamo l’attico.
Ci conducono subito dai nostri stilisti, ci preparano per la sfilata dei tributi.
Di solito gli abiti ricordano l’occupazione dei distretti e quelli del 12 sono vestiti sempre da minatori, difficile attirare sponsor con la fuliggine sul viso ed una torcia sulla fronte.

Il mio stilista è Cinna, lo conosco dopo torture di bellezza a cui non mi sono mai sottoposta. Mi tolgono ogni pelo superfluo, anche quelli che io non ho mai considerato tali. Mi lavano e spazzolano i capelli con molta attenzione.
Cinna è molto diverso dagli altri abitanti di Capitol, niente capi sfarzosi, solo un accenno di eyeliner dorato sulle palpebre.
“Sei molto bella”, sorrido.
“E’ il mio primo incarico. Ho scelto questo distretto perché ho molte idee. Non ti vestirò da minatrice.”
 
Sono molto agitata, ho un trucco leggero ed una tuta nera e mi rendo conto che anche Gale ha la stessa tuta. Il suo fisico prestante è enfatizzato dall’aderenza del tessuto al suo corpo. I capelli corvini sono in netto contrasto con gli occhi celesti e grandi. E’ bellissimo.
Saliamo sul carro, siamo tutti e due in equilibrio, mi sento oscillare, così non va. Riusciamo a bloccare i piedi in qualche modo. Stiamo per uscire davanti a migliaia di persone, non sono pronta a questo. Passiamo sotto ad un ponte ed arrivano incessanti le urla dagli spalti. Istintivamente, appena le luci mi accecano, rivolgo il mio sguardo a Gale. Probabilmente, aveva intenzione di ammiccare spavaldo verso le ragazzine sedute in prima fila, ma anche lui non ce la fa. Passiamo così metà della sfilata, guardandoci negli occhi, dandoci forza e, in un certo senso, riappacificandoci. Ormai quello che è stato è stato, siamo alleati: in fondo io avrei fatto lo stesso per Prim, senza pensarci due volte. Mi sento più sicura, porto il dito sull’indice e poi punto verso l’alto, Gale fa la stessa cosa. Acclamati dal pubblico, ecco che le nostre tute prendono fuoco. Ci lanciano rose. Alzano la mano, come noi, indicando le stelle con l’indice. Ci inquadrano da vicino e la nostra sfilata viene proiettata su due grandi monitor. Mai prima d’ora ci si era soffermati tanto sul distretto 12 durante la sfilata. Aggiusto un po’ lo sguardo, provo ad apparire quasi divertita. Funziona.
Di fronte ai miei occhi, in alto, il Presidente Snow saluta i tributi.
 
Due settimane di allenamento, è un modo per conoscere i tributi, ognuno di noi nasconde i propri punti di forza. Alcuni sono giovanissimi. Dal primo e dal secondo distretto, che sono i più ricchi, arrivano i favoriti, coloro che hanno più probabilità di vincere i giochi. Vengono allenati da piccoli e molto spesso si offrono volontari.
Non parlo con nessuno, si formano le prime alleanze, ma io non sono interessata a nulla di tutto ciò. Mi fido solo di me stessa. Forse di Gale. E poi, anche se non ho intenzione di farlo, sarò costretta ad uccidere, ad un certo punto. Ed è meglio che non esiti in quei momenti, una qualsiasi alleanza potrebbe costarmi la vita. La maggior parte di noi non supera i 16 anni, mi ricordano di Prim, di Madge, di Peeta. Con che coraggio potrò mai uccidere uno di loro? Indifesi come me, spaventati come me.
Non ci pensare, Kat.
 
Il giorno prima delle interviste abbiamo la possibilità di essere convocati in privato davanti agli Strateghi per mostrare le nostre abilità. Danno un voto ad ogni tributo, da 1 a 12, che sarà il punto di partenza per le scommesse dei capitolini. Ovviamente il numero corrisponde a ciò che ci si può aspettare da ogni tributo ed è fondamentale partire almeno da 8. Ma nessuno, a parte i favoriti, ha abbastanza soldi per accedere alla convocazione.
Di solito, i voti per quelli degli altri distretti vengono decisi in base agli allenamenti pubblici, dove uno non dà mai il massimo, così ci si ritrova con un 5 o un 6 e gli sponsor perdono rapidamente interesse per noi.
Non quest’anno.
“Ti ho comprato otto minuti lì dentro, Kat!”, mi dice Haymitch.

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Capitolo 7
*** CAPITOLO 6 - Countdown ***


CAPITOLO 6 - Countdown



Resto a bocca aperta. Chissà Gale come prenderà questa notizia.
“Non ho potuto comprartene altri, già così ho speso due anni di vincite, il resto ti servirà nell’arena”, è sudato e agitato, visibilmente scosso dall’astinenza e vestito di tutto punto con uno sfarzoso frac capitolino color menta. Si è tagliato la barba.
“Farò di tutto per farti uscire da lì viva!”, sto piangendo di nuovo. Lui sembra soddisfatto e mi abbraccia.
“Non ti avrei mai chiesto tanto”, dico io. E vorrei fargli capire che non me ne importa di quello che sarà di me, ma che vederlo lì, sobrio, curato… “Promettimi che, qualsiasi cosa accada, troverai sempre un ideale per cui combattere”, gli dico. Lui sembra capire, “Bambina”, dice, “Tocca a te combattere adesso!”.
 
Arrivo completamente impreparata, so usare coltelli e arco ma so che anche con un centro perfetto potrei ottenere ugualmente solo un voto mediocre, il che vuol dire che nessuno mi noterebbe. Non posso competere con i favoriti.
Chiamano il mio nome.
Ci sono dei bersagli e ogni possibile arma. Mi dicono che ho tutto il tempo per concentrarmi.
Ma io non ho tempo. Ho otto minuti. E poi sono stata scelta per gli hunger games, sanno già che non ho più tempo. Fanno finta di niente, mi illudono con il loro modo di fare che io possa davvero vincere.
Lo sanno che noi tutti moriremo in quell'arena. Come possono non rendersene conto? Li fisso inclinando la testa da un lato, li guardo brindare con calici di cristallo e penso alla povertà evidente sul mio corpo prima di partire. Ci hanno fatto rimpinzare per eliminare ogni sofferenza sul viso.

Questo è davvero il mio mondo? Non lo sento mio, non sento nulla di mio qui. E se dovessi vincere? Cosa guadagnerò? Non riavrò nemmeno me stessa, sarò di loro proprietà. Mi costringeranno a sottopormi ad interventi di chirurgia estetica, che qui va molto di moda. Mi tingeranno i capelli e dovrò dire una quantità infinita di idiozie nei talk show, non mi faranno più tornare a casa. Sinceramente, Kat, hai qualcosa da perdere? Se anche Peeta riuscisse a sfamare Prim e la mamma, quanto mai potranno resistere? Sono già morte.
Potresti vivere come una regina se vinci questi Giochi. Ma, ancora, io non vincerò. E se anche vincessi, uccideranno la mia famiglia, come hanno fatto con Haymitch.
Haymitch, hai buttato via due anni delle tua vincita. Ed io sto sprecando ogni minuto. Potrebbero addirittura riversare la loro furia su Peeta.
Io non ho nulla da perdere. E perché penso a queste cose adesso? Anni di allenamenti, di strategie e non ho la minima idea di quello che sto facendo. 


Basta
Haymitch, perdonami.
A quel punto è un attimo, lancio un coltello verso gli strateghi, si conficca con precisione nella mano del tale che durante la sfilata mi aveva definito "una bimbetta niente male".
E poi mano e coltello si conficcano nel muro e quello sta lì fermo che urla con la mano alzata mentre fiotti di sangue inondano la tavola imbandita.
Nessuno sa cosa fare, stanno lì imbambolati a fissarmi. Mi inchino ed esco fuori dalla sala.

Torno nell'attico, si aprono le porte dell'ascensore dopo qualche minuto ed Haymitch e Cinna sono davanti a me, mi ributtano nel vano dell'ascensore ed iniziano ad urlarmi contro.
"Cosa hai fatto? Cosa?!"
"Sei stata convocata dal Presidente Snow! Nessuno è mai stato convocato dal presidente dopo la prova!"
Mi riempiono di parole, prendo consapevolezza un poco alla volta. Mi rendo conto di cosa ho combinato, ho rovinato tutto. Ho calpestato il mio istinto di sopravvivenza. Non ho lottato. Ma lottare non sarebbe servito a nulla. Onore e gloria a Gale, li ucciderà tutti.
"Ho lanciato un coltello contro Templesmith".
Cala il silenzio, nessuno in tutta Panem potrebbe mai indovinare cosa ne sarà di me adesso. E pensare che fino a pochi minuti fa il mio destino sembrava già scritto.
Un bel modo di rimettersi in gioco.
 
Arriviamo nell'atrio della villa presidenziale.
"Lo so", dice Haymitch. Lo guardo e riconosco sul suo volto la stessa rassegnazione che imperava sul mio mentre lanciavo quel coltello.
"Sbagli, Kat. Avresti vinto questi Hunger Games".
Cosa? Ora mi legge nella mente?
"È il filo che ci unisce", penso. Ci abbracciamo, ricaccio dentro di me il senso di colpa per quegli otto minuti sprecati e seguo una senza-voce che mi conduce davanti alla porta dello studio del presidente.

 
 
♦ ♦ ♦
 
 
“Signorina Everdeen”, mi accoglie il presidente sorridendomi. “E’ stata molto insolente”. Sento le guance gonfiarsi e sento il mio sangue concentrarsi sul viso. Il pulsare delle vene sul collo mi distrae e non mi sento davvero lì, mi sento al di sopra o al di fuori da me.
 
Immagino un coltello recidermi la gola.
Immagino un proiettile mortale dritto in testa.
Immagino la prigionia e la tortura.
Immagino un cappio intorno al mio collo.
Non
Voglio
morire
.
 
Fuori dalla finestra i rami di un albero vengono scossi dal vento. Ricordo il mio dente di leone, mi rendo conto di quanto non conosco della vita e di quante cose desidero conoscere e vivere. Pensavo di essere pronta a morire, ma non lo sono.
Sono assente.
Si aspetta forse che io dica qualcosa, ma non ci sono più.
Continua: “Mi ha messo in una scomoda posizione, lei comprende. Purtroppo, secondo il regolamento è necessario che lei prenda parte ai giochi –alzo lo sguardo- e non è ammessa una sua sostituzione. Tuttavia il suo atteggiamento non resterà impunito. Dovrà seguire le mie istruzioni o le assicuro che la sua famiglia ne pagherà le conseguenze.”
Sbuffo e mi lancio contro la scrivania alla quale siede, ma due pacificatori mi trattengono dalle braccia, di nuovo il senso di abbandono vince e non oppongo resistenza.
Il presidente ride e si diffonde un odore ferroso di morte nella stanza. Solo a quel punto mi accorgo delle rose bianche che circondano lo studio: il loro profumo innaturalmente forte raggiunge le mie narici quando ancora non sono riuscita a liberarmi della puzza di sangue. Il tanfo mi risveglia: non sto per morire. Sento la mia anima alleggerirsi. Non ho mai parlato di anima in vita mia, ma in quel momento io l’ho percepita. Ho percepito l’eterno sospiro della sopravvivenza.
Non mi ucciderà oggi.
“Le verrà consegnata una fiala. Ne ingerirà il contenuto prima di salire nell’arena. Vede, non posso ucciderla, ma con un poco di fortuna esploderà per via delle mine che circonderanno la sua pedana molto prima del minuto che la separerà dall’inizio dei giochi. Sia convincente nell’intervista di domani, sfoggi il suo miglior sorriso. Nessuno deve sospettare nulla, neanche il suo mentore. Spero le sia chiaro adesso che ogni azione è seguita da una giusta conseguenza.”.
Mi ucciderà domani.
Di nuovo, sento il mio cuore pesante. Sono confusa.
Penso a mia madre, a Prim, a Peeta. So che non mente, in fondo è la stessa persona che ogni anno ci uccide, ventiquattro alla volta. Non ho scampo.
Non ho detto una parola. Sarò raggiante.
 
Haymitch ha capito qualcosa. Io non sono mai raggiante. Meglio così, in un certo senso l’ho avvertito, sarà vigile, nemmeno lui è al sicuro. Effie e Cinna esultano e decantano la benevolenza di Snow ed io fingo una buona quantità di sorrisi. Ci ritroviamo sul divano, attendendo i voti. Gale ha terminato il suo ultimo allenamento, non sa ancora nulla, ma già dopo i miei primi due sorrisi ha capito che qualcosa non va.
Caesar saluta i telespettatori e si rammarica per l’assenza di Templesmith, “Aveva forse un ultimo ritocchino da fare prima del grande giorno, voi che ne dite?”, ammicca. Il pubblico esulta mentre io penso all’equipe di medici che adesso starà provando a curare in fretta e furia la profonda ferita inferta dal mio coltello.
La classifica scorre senza intoppi, i tributi dai primi due distretti ricevono voti altissimi. Hanno sguardi feroci persino nelle foto di presentazione. Eppure non li temo. Tra l’altro, morirò in meno di qualche secondo, neanche dovrò mai affrontarli.
Una ragazza del 5 con i capelli rossi ha preso 8 e, piacevole sorpresa, anche la bambina dell’11, Rue.
“Gale Hawthrone…11!”, esultano tutti, esulto anche io. Raggiante. “Hai fatto colpo, eh?”, ammette Haymitch con falso entusiasmo.
Gale solleva un sopracciglio, ammiccando con il suo solito sguardo presuntuoso. Quindi bastava questo. Bene.
“Katniss Everdeen…cosa? Ok, non era mai successo prima, 1!”
La folla sussulta ma Caesar cambia rapidamente argomento e dopo qualche pettegolezzo chiude la diretta.
 
Restano tutti in silenzio per diversi istanti. Non ho la forza di sorridere adesso.
“Un voto così basso ti farà avere più sponsor di un 12, almeno”, esclama Haymitch. Adesso lo fissiamo tutti. “Che c’è? E’ vero! Insomma, tutti amano le cattive ragazze. E tutti hanno seguito gli allenamenti di Kat, è chiaro che è allenata molto di più di qualsiasi altro tributo… –Gale sbuffa- …ehi, senza offesa, ma quello che sai fare con i coltelli e l’arco lo devi a lei, lo sai!”.
 
Arriva la cena e continuiamo a parlare per il resto della serata di varie tecniche di sopravvivenza e di come apparire domani all’intervista. Che spreco di tempo.
 
E’ il giorno dell’intervista e ho la nausea.
Haymitch continua a dirmi che sono fantastica, che ho molte buone qualità. Ma so che mente. Passo tutta la giornata fingendo che lui sia Caesar, ma lui storce il naso ad ogni mia battuta. Che novità, io non sono una persona divertente.
“Potremmo farti bionda, il biondo riscuote molto successo!”, propone Haymitch.
Ma mi innervosisco. “Scherzo”, mi urla dietro, ma io sono già andata via.
 
 

♦ ♦ ♦
 

“Ti adoreranno per come sei, non sei stupida, non dire certe cose ma per il resto sii te stessa”, l’ultimo consiglio di Cinna, lui starà tra il pubblico.
Caesar Flickerman è il presentatore dei giochi, mette a proprio agio i tributi e aiuta nei momenti più imbarazzanti.
“Katniss”, mi sorride con allegria, “Sei splendida! Lo è davvero, voi che dite?”, il pubblico risponde con applausi. Le luci mi accecano ed io non vedo nulla, mi limito a sorridere ed immagino i fastosi personaggi, stretti nei loro outfit improbabili.
Non mi è chiara l’idea che si sono fatti di me, non so cosa dicono di me mentre mi alleno, mentre guardano le interviste dei miei parenti e dei miei amici. A parte che quasi nessuno mi conosce davvero nel distretto. Prim avrà detto meraviglie. Mia madre avrà pianto. Madge avrà svolto il suo ruolo alla perfezione: lei al centro dei riflettori, sarà stata tutto un “Oddio, non posso pensare davvero che non la rivedrò più!”.
 
La sorella maggiore, Katniss.
La figlia perduta, Katniss.
La migliore amica, Katniss.
 
E Peeta? Avranno intervistato anche lui? Spero di no, spero che nessuno si accorga di lui o sarà in pericolo, senza neppure rendersene conto. Ok, non è molto ma è un buon punto di partenza. Sii raggiante e proteggili.
 
“Grazie Caesar, ma ho ancora molto da imparare, in fondo sono arrivata pochi giorni fa, insomma è tutta una novità. Non mi aspettavo che Capitol City fosse così bella, la tv non le rende giustizia, non sembra nemmeno reale, tanto è bella. E lo siete anche voi, siete bellissimi. Non ho mai conosciuto così tanto affetto da quando… -prendo un respiro, fingo una lacrima- …da quando ho perso mio padre”.
Forse con la storia di mio padre ho un po’ esagerato.
 
Applausi scroscianti. Sono nata per stare in televisione, pare.
“Oh Katniss, ti ha lasciato quando eri molto giovane, non è vero? Sembra che ti manchi ancora molto!”.
“Oh, Caesar, non passa un momento senza che io non ci pensi. Eppure con me la vita è stata abbastanza gentile da farmi incontrare Haymitch, che per me è molto più di un mentore. Insomma, da sobrio è più simile ad un padre per me di quanto egli stesso sospetti”, adesso Haymitch ha abbastanza riflettori su di sé da avere la vita in salvo almeno fino alla fine dei giochi, a prescindere da quello che succederà a me. “Il problema è che è abbastanza difficile trovarlo completamente sobrio!”, rido. Ridono tutti. Allargo il sorriso e devo asciugare alcune lacrime. Le scambieranno per ilarità, ma sono lacrime di paura e di tristezza infinita.
“A proposito del tuo mentore, Katniss. Sappiamo che ti ha finanziato il colloquio privato. Cosa ti ha detto al termine della prova? Come ben sapete –fa una smorfia e abbassa il tono della voce- Katniss ha preso 1 per la prima volta negli Hunger Games. Oso chiederti se puoi darci qualche piccolo indizio su quello che è successo!”, ammicca.
“Sarò per sempre grata ad Haymitch per molte cose. E’ stata una sorpresa, ma anche se l’avessi saputo prima, so che non avrei avuto alcun modo di oppormi. Grazie Haymitch!”, lo cerco tra la folla, lo inquadrano nuovamente. Perfetto. E’ visibilmente imbarazzato da tutta quell’attenzione, alza la mano in segno di saluto. Ormai ha capito che qualcosa non va. Noto il mio sguardo assente nello schermo, torno a sorridere immediatamente.
Ci penserai dopo, concentrati.
“Per il resto non posso rivelarvi nulla della prova”.
“E noi non vogliamo che il Presidente Snow si indispettisca!”
“Non io!”, faccio una smorfia, accavallo le gambe, mi metto a mio agio e sento il volume delle risate salire.
“Parlando, invece, della sfilata”, mi dice Caesar ricomponendosi, “La ragazza in fiamme! Non si parla d’altro!”
“Volete rivederle? Le indosso anche oggi!”
La sorpresa coglie impreparati i capitolini, molti si alzano in piedi ed iniziano ad applaudire, in coro mi incitano a mostrare loro le mie fiamme.
Mi alzo in piedi ed inizio a volteggiare. Il vestito prende fuoco e sento lo stupore rincorrersi tra il pubblico.
Ma io non vi vedo. Questa intervista è stata una passeggiata. Con la luce bianca puntata dritta negli occhi, mi sembrate più falsi e distanti di quanto già non lo siate.
Caesar mi saluta ed io scendo finalmente le scale.
Incontro lo sguardo di Gale, anche lui in tensione.
 
“Gale! L’uomo del momento”
“Caesar!”
“11! Un voto degno dei preferiti! E devo dire che durante i tuoi allenamenti era difficile pensare ad un voto inferiore!”
“Grazie, non sono bravo con le parole. –stringe le labbra- Il vostro affetto per me… –solleva gli occhi e punta dritto alla telecamera- …significa tutto!”
“Che ragazzo meraviglioso, non lo pensate tutti? E ricordiamo che ti sei offerto volontario al posto di tuo fratello, non è vero?”
“Sì. Lo farei altre mille volte, i miei fratelli sono tutto ciò che ho.”
“Dicono che ogni fanciulla del distretto 12 e di Capitol City cada ai tuoi piedi! Possibile che non hai ancora trovato la tua anima gemella?”
“A dir la verità, Caesar, Non proprio tutte cadono ai miei piedi. Da molto tempo ormai una ragazza mi dà un bel po’ di filo da torcere.”
“Impossibile!!!”
“Oh, beh, ormai non ha senso parlarne.”
“Ma ora siamo curiosi, vogliamo sapere! Chi è?”
“Lei è l’altro tributo”.
Quindi ora lui passa per santarellino ed io per stronza?
 
Attendo che scenda le scale, sono imbizzarrita, ma provo a mantenere la calma. Haymitch ha preparato a lungo anche lui, di sicuro non avrà lasciato nulla al caso. Spiegazioni. Ok, stanno arrivando tutti e due. Spiegazioni, voglio spiegazioni. Devo capire, devo sapere.
“Kat, è tutto ok, avevamo progettato tutto!”, dice Haymitch e basta questo per tranquillizzarmi.
“Ok, ma ora cosa penseranno di me? Ho preso 1, spezzo il cuore dei bravi ragazzi…”
“E penso che sia la tattica migliore che hai al momento!”
“La storia d’amore incuriosirà tutti, qui a Capitol queste cose sono molto seguite!”, aggiunge Gale. Ci rifletto un po’ su. Hanno ragione.
 
Non ho molta fame, ma non so come sarà l’arena domani, quindi mi abbuffo finchè non sento di stare sul punto di scoppiare.
“Vado a chiamare Madge!”, mi alzo e vado in camera. Per la prima volta da quando sto qui, posso finalmente utilizzare il telefono. Solo il sindaco ne possiede uno nel suo studio, per le comunicazioni necessarie durante i giochi. In questi giorni la linea è sempre stata occupata: ho parlato con una certa signora Wilson che mi ha detto di richiamare la sera dopo l’intervista. Avrebbero lasciato il telefono a Madge per qualche minuto.
 
“Pronto?”
“Madge sono io!”
“Katniss! –l’energia iniziale nella sua voce si placa improvvisamente- Abbiamo poco tempo. Come stai?”
“Non lo so. –sono già morta- Come stai tu? Prim? Mamma?”
“Stiamo bene, volevo farti parlare con loro ma glielo hanno proibito. Tua mamma sta lavorando molto e Prim è un po’ giù di morale, ma qui le vogliamo tutti bene. Puoi stare tranquilla, non le mancherà nulla.”
“E Peeta?”
Ma non risponde.
“Madge?”, incalzo io.
“Peeta si è fidanzato con Delly da un paio di giorni”.
 
“Katniss, ci sei? E’ finito il tempo, devo chiudere. Devo portare un tuo messaggio?”
“Abbraccia Prim”, inventati qualcosa, Kat. Non si abbandona una sorella in un posto del genere così, con un abbraccio. “Dille che rivivrò nei denti di leone che spuntano in primavera”.
“Katniss…”, cade la linea.
 
Peeta fidanzato.
Domani a quest’ora non esisterà nessuna Katniss Everdeen. Come può farmi soffrire così tanto l’idea di aver perso Peeta e così poco la morte? Perché a me? Perché tutto questo a me? Perché non bastava la morte di mio padre? Perché anche i Giochi? Perché Peeta?
Amo Haymitch, il mio cuore era sincero quando parlavo di lui durante l’intervista.
Amo Prim, è un fiorellino delicato, un quadro ancora tutto da dipingere.
Ma Peeta è molto di più, Peeta è la testimonianza di come si può crescere forti e incorrotti anche ricoperti da cenere e cicatrici. Perché anche Peeta?
Sarebbe stato più difficile morire domani, sapendo che quel suo abbraccio era riservato a me e a me soltanto e che quelle dolci promesse di felicità erano destinate a perdersi con la mia partenza.
Ma ora, ora sarà facile morire. Non c’era alcun futuro per noi, mi è tutto chiaro ora. Ero predestinata a questo, a morire in un’arena, svuotata di ogni emozione. Di cosa mi meraviglio? Era un segno la morte di mio padre. Lo era la poca considerazione che mia madre aveva per me. E non sono mai stata come le altre bambine, io. Non ho mai fatto progetti per il mio futuro. Non sono mai stata come gli altri.
Non è stato un caso che sia stata scelta per questi giochi. O forse sì, ma sono contenta che sarò io a morire e non una delle ragazze che conosco.
Loro meritano di vivere, di avere dei figli, di essere felici.
Io non ho mai nemmeno voluto avere dei figli. Non sono mai stata felice.
Peeta non sarà mai mio, io non esisto già più.

Questa camera mi soffoca, sono insofferente al profumo di lavanda, non me ne ero accorta prima ma è ovunque.
Gli specchi, è pieno di specchi qui.
Devo uscire, vorrei morire già oggi. In questo istante.
In punta di piedi raggiungo il terrazzo.
 
“Bambina”, anche Haymitch non riesce a dormire, “Come stai?”.
Non rispondo, si vede tutta Capitol da qui, i giochi di luce che provengono dalle ville mi emozionano. Il vento è caldo e mi accarezza i capelli. Sto già meglio. Ma non riesco a parlargli, non riesco a guardarlo negli occhi.
“Non ci si può buttare da qui, c’è un campo di forza che ti ributta su. Al massimo ti ritrovi con qualche frattura, ma sappiamo bene che ti conviene entrare nell’arena in perfetta salute”.
Maledetto filo!
Prendo coraggio, “Era tutto vero quello che ho detto prima, di te”. Mi abbraccia e versa molte lacrime. Ma che ho fatto? Dicono che a volte quando uno sta per morire, si riprende per qualche momento per dire addio ai cari. E’ questo? Quello che sento? Quello che mi sta succedendo? Mi vergogno delle cose che dico, mi sento sciocca e vulnerabile. E’ sempre stato così, tranne che con Peeta.
“Haymitch”, ci guardiamo negli occhi, lui ancora piange ed io anche sento di non potermi più trattenere, “Lui non mi ama”. Che cosa ho detto? Io? Tra i singhiozzi ed il pianto magari non ha capito, magari non se n’è accorto. Magari mi ama ma sa che sono già morta. Niente, non riesco a non pensare a Peeta.
Mi distacco dalle mie emozioni ma Haymitch, so che lo sente, mi riacchiappa e mi fa sfogare ancora un po’, finchè non ho più lacrime.
 
Ci calmiamo. “Non ne farai parola con nessuno, spero”, mi chiede asciugandosi il viso umido di pianto.
“Che sia reciproco”.
“E’ Gale?”, chiede con dolcezza, evitando il mio sguardo per non mettermi in imbarazzo. Lo apprezzo e decido di essere sincera con lui. La vedo come un’eredità, a qualcuno dovrò pur lasciare il malloppo.
“Fammi il piacere!!!”, gli dico sorridendo. Torno seria, “E’ Peeta Mellark”.
Haymitch ci pensa un po’ su e poi sentenzia, “Non lo conosco”. Prevedibile, dato che non è mai uscito dal villaggio se non per la mietitura.
“E’ un bravo ragazzo? C’è mai -tossisce- c’è mai stato qualcosa tra di voi?”.
Ok, questa mi è nuova. Haymitch si sta perfettamente calando nel suo ruolo paterno. Forse senza questi giochi non avrebbe mai detto nulla di tutto ciò. Ma la mietitura, la paura della morte, il Presidente Snow che mi convoca dopo la prova… le nostre emozioni sono esposte e le sensazioni si fanno più intense. Forse non avrei nemmeno sofferto tanto per Peeta se non fossi certa di avere una manciata di ore di vita appena. Non sono abituata a tutto questo, ma più ci rifletto, più non trovo risposte.
“E’ fidanzato. Si è fidanzato due giorni fa, mi ha detto Madge stasera. Non c’è mai stato nulla, ho frainteso la sua gentilezza. È molto gentile ed io temo di essere troppo rovinata per una persona così. Se sopravvivo all’arena –imbroglio- sarò ancora più sciupata di come sono adesso. Io non vorrei mai amarmi.”
 
“Non so se è così gentile come pensi, nemmeno io ho conosciuto molta gentilezza. Le persone che lo erano, che erano gentili, lo sai, le ho perse tutte. Quindi forse hai ragione a pensare che in un certo senso non avete lo stesso destino. Ma ti dico questa cosa, -mi prende il viso tra le mani- voglio che mi ascolti bene e che non dimentichi queste parole. Voglio che te le ricordi fino a quando vivrai e quando sarai triste o stanca o amareggiata, anche solo perché un ragazzo non ricambia i tuoi sentimenti, voglio che in quei momenti ti ricordi quello che sto per dirti”.
Non continua finchè non prometto con convinzione.
“Forse non esiste nemmeno un nome per le qualità che hai. Ma io sono qui, sobrio e con la barba in ordine e ti amo moltissimo, come se fossi mia figlia. Non so che qualità sia questa, ma nessuno ti dimentica. Non è un’eccezione quello che hai creato con me: è solo che di me, non so quale Dio ringraziare per questo, ti sei fidata. Non ti uccideranno in quell’arena. Ci proveranno, ma nessuno ti lascerà morire lì”.
Restiamo a guardare le luci per qualche momento ancora e poi il mio mentore mi costringe a riposare fino al mattino. Chi sono io per rifiutare l’ultima notte in un letto king size tutto per me?

 
 
 

 ♦ ♦ ♦


Sono le 10 del mattino, Cinna mi porge il completo di questa edizione degli Hunger Games. Le tute svelano molto dell’ambientazione dell’arena, Cinna ed io apriamo con trepidazione il pacco.
Mi aspettavo una tuta termica oppure dei pantaloni mimetici. Invece trovo un paio di jeans, una maglietta a maniche corte dai colori sgargianti, un golfino celeste e delle scarpe da ginnastica.
Richiudiamo tutto.
Saluto Gale ed Haymitch, velocemente, che mi viene da vomitare al pensiero di quello che sta per succedere.
Ci dirigiamo nei sotterranei dell’arena.
“Tremi”, mi dice Cinna. Tremo da quando ho aperto gli occhi. Vorrei rispondere ma so che se aprissi la bocca anche la mia voce tremerebbe. A quel punto, senza alcuna difesa, inizierei a piangere.
Mi iniettano il chip per conoscere la mia posizione nell’arena.
Il camerino è spoglio, essenziale. Mi cambio e Cinna aggiusta la mia treccia.
“Mi raccomando, evita la Cornucopia, ci sarà il solito bagno di sangue. E…”
“…Trova l’acqua”, dico io. Cinna sorride, compiaciuto. Lui ed Haymitch hanno ripetuto questa frase a me e a Gale da quando siamo arrivati a Capitol City.
Fa per mettermi la spilla di Madge, con la ghiandaia imitatrice, ma io la allontano, “Preferirei che tornasse a lei”.
Cinna approva e ci dirgiamo vicino all’ascensore di vetro che mi porterà nell’arena.
A quel punto il nostro sguardo si posa sulla mensola che fiancheggia il muro.
Un supporto rettangolare di cristallo giace proprio accanto all’entrata dell’ascensore. Al di sopra, come sospesa, una piccola fiala a forma di goccia. Elegante e letale.
Mi avvicino e la osservo. Vista così, la morte non fa paura. Non pensavo che Snow mi concedesse una morte rapida. Sono quasi più fortunata dei ragazzi nell’arena.
No, non lo sono. Io non sono come loro. Loro potranno lottare per la loro sopravvivenza. Io no.
 
“Katniss, non so se questa devi prenderla ora o dopo nell’arena, probabilmente l’avranno tutti. Esco a chiedere a qualche organizzatore”. Ma io non gli rispondo e la sua espressione, già preoccupata, lascia sfuggire una nuova ruga di paura.
“Kat?”
Ma io non so fingere oltre. Mi giro verso di lui e non riesco a celare un principio di pianto. Piego leggermente la testa da un lato e lui comprende che io già sapevo.
 
“30 secondi”, annunciano. Il countdown è iniziato ed io devo sbrigarmi.
“Kat, non puoi”, ci lanciamo entrambi sulla fiala, lui è più veloce di me.
“Cinna, ucciderà mamma e Prim!”, urlo con disperazione.
“20 secondi”
Il suo sguardo si fa comprensivo e triste, mi accarezza una guancia, “Ci uccidono lo stesso, Kat”. Ha ragione.
“15 secondi”
“Non puoi farmi vivere con questo senso di colpa, non può dipendere da me se delle persone vivono o muoiono!”, provo a convincerlo, disperata.
“10 secondi”
Tre pacificatori irrompono nella stanza, Snow li avrà inviati per accertarsi che assumessi il veleno.
“Infatti non dipenderà da te”, dice Cinna e butta per terra la fiala che s’infrage in mille pezzi.
A quel punto è un attimo, mi getta nell’ascensore –5-, si chiudono le porte di vetro infrangibile -4-, i pacificatori gli sparano nella pancia e lui si accascia per terra -3-, provano ad aprire le porte ma ormai è troppo tardi -2-, l’ascensore sale -1-.
Perché ti sei sacrificato per me, Cinna?
 

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Capitolo 8
*** CAPITOLO 7 - L'arena ***


CAPITOLO 7 - L'arena



L’ascensore sale, provo a mettermi in piedi, sono sconvolta. Barcollo, potrei morire subito anche senza avere assunto alcun veleno.
 
Siamo tutti in cerchio, Gale è al polo opposto, riesco a riconoscerne solo il contorno.
Mi guardo intorno ma sono completamente disorientata, mi accorgo che molti di noi lo sono. Hanno fatto le cose in grande quest’anno.
Nessun bosco, nessuna campagna, nessun luogo esotico.
Siamo al chiuso, sarà l’edizione più cruenta nella storia degli Hunger Games.
Riconosco un Hovercraft un poco lateralmente a noi e mi rendo conto che quello è la nostra Cornucopia e che noi ci ritroviamo in un hangar. Cerco le uscite, ci sono 10 pesanti porte di metallo, ma non sono sicura che siano tutte aperte. E soprattutto non ho la più pallida idea di dove conducano.
In più, 5 di queste porte possono essere raggiunte solo attraverso delle scale, chiunque le salirà sarà totalmente esposto alla furia dei favoriti.
Al di sotto dell’hovercraft ci sono molte armi che, via via che ci si allontana dall’aereo, sono sempre meno imponenti e mortali, fino ad arrivare a semplici zainetti e a buste da lettera che giacciono a pochi metri da ogni tributo.
Non mi è chiaro il ruolo dell’hovercraft in tutto questo, il mio primo pensiero è che sia una via di fuga, ma comprendo subito che è un’idea stupida, nessuno può abbandonare l’arena prima della fine dei giochi. E’ la regola.

Il countdown parte, sento di trovarmi nel mezzo di qualcosa di molto più grande di me. Vorrei avere la certezza di fare la cosa giusta. Abbandonarmi al sacrificio di Cinna è per me molto più facile, in fondo potrei mentirmi e dirmi che ha scelto lui. Eppure sono ancora in tempo, potrei suicidarmi senza alcun motivo apparente e finirla qui.
“Ci uccidono lo stesso, Kat”. Le parole di Cinna risuonano chiaramente nella mia testa.
 
No –non sprecare il sacrificio di Cinna.
Salvati, elevati, combatti per Katniss.
 
Tre
Due
Uno
 
-Evita la cornucopia, acqua-
Il ragazzo dell’11 prende al volo una delle buste, uno zaino ed un coltello, corre verso le scale: nel 10 raccolgono la frutta sugli alberi, si arrampica ed in poco tempo è già sparito dietro una delle porte. Provo a fissare nella mia testa da dove è uscito, se non dovessero essere tutte aperte, mi servirà saperlo.
Cerco Gale, scatto verso la porta sulla destra ma un calcio sul fianco mi fa rotolare sul pavimento gelido. Non avverto alcun dolore, sarà l’adrenalina. Con la gamba faccio cadere per terra la ragazza che mi ha colpito di non so quale distretto, striscio fino ad uno degli zaini, ma lei ripiomba con rabbia su di me, sarà uno dei favoriti e ha già una spada in mano. Provo di nuovo a svincolarmi da lei, mi slancio in avanti e afferro uno dei coltelli più piccoli.
Vorrei urlarle di fermarsi, che non ho intenzione di ucciderla, che non deve morire lì. Vorrei dirle di combattere, ma non contro di me.
Io non ti voglio uccidere, ma devo difendermi. Lo devo a me stessa.
Sento che si sta lanciando su di me, mi giro e le pianto la lama nell’addome mentre la sua spada mi si conficca nella treccia.
Restiamo tutte e due per qualche secondo a bocca aperta. Sono un mostro.
Strappo i capelli dalla spada, metà della mia treccia resta puntata lì per terra. Mi alzo e mi guardo intorno, provo a cercare Gale –non posso stare ferma-, a qualche metro da me vedo i favoriti avventarsi sui tributi più giovani ed ingenui. Istintivamente, inizio a correre verso una delle porte.
Sento una mano sulla spalla, mi giro con ferocia e paura e punto il coltello ad un centimetro dal naso di Gale.
E’ sporco di sangue.
“Sei ferito? Corri!”, provo a trascinarlo via ma lui resiste.
“Kat, aspetta”.
Aspetta? Aspettare cosa? Noto una mannaia nella sua mano ricoperta di sangue. Probabilmente, non è suo. Probabilmente, non lo è nemmeno quello sui suoi vestiti.
“Alleanza”, mi dice indicando i favoriti. “Ho detto che voglio anche te e hanno accettato”.
Non ho sentito una parola, fisso le mani di Gale, rosse di morte.
“Non sono pronta”, dico terrorizzata.
“Andiamo, non possiamo stare qui in mezzo”, mi dice rigido e con fare rassicurante, quasi senza ascoltarmi. Ma il sangue è ovunque, anche sul suo viso.
Mentre lui si gira per raggiungere i favoriti, io mi getto su una delle buste lì per terra, corro verso una porta: è aperta.
 
Sto correndo da diversi minuti e non ho più fiato.
Questi corridoi sono tutti uguali e sembrano non finire mai.
Ogni metro e mezzo un faretto sul soffitto illumina la moquette blu. Attendo il momento in cui sarò nuovamente accecata dalla  luce del sole e tremo all’idea di non rivederla. Per quel che ne so potrei essere già morta, correre all’infinito per questi cunicoli potrebbe essere il mio personalissimo inferno.
E invece, senza alcun preavviso, il corridoio si apre in un locale immenso, sulla destra il muro è sostituito da vetrate che si affacciano sulle piste d’atterraggio.
Sono in un fottuto aeroporto!
Non ne ho mai visto uno, nemmeno in tv. Viaggiare in aereo dopo i Giorni Bui è concesso ai capitolini e unicamente per raggiungere mete oltreoceano, ma i viaggi sono così costosi che non è un lusso concesso a tutti.
Gli abitanti di Capitol saranno entusiasti dell’arena, gli altri distretti ne saranno terrorizzati: forse per la prima volta nella storia degli hunger games si avvertirà nelle piazze la stessa tensione che provo io adesso, circondata da una realtà che non conosco.
Mi avvicino al vetro della finestra più vicina e comprendo che uscire da qui sarà impossibile: fuori imperversa una bufera, la neve cade così fitta che nessuno potrebbe sopravvivere lì fuori senza venire sepolto in meno di un minuto.
 
Riconosco i metal detector, sono gli stessi attraverso cui ci fanno passare quando dobbiamo riscuotere le razioni di cibo dopo esserci iscritti ai giochi.  
Li eludo facilmente. Non ho la più pallida idea di dove andare. Un rumore dal soffitto attira il mio sguardo. E’ una telecamera, segue i miei movimenti. Immagino i capitolini prenotare già da ora le visite guidate dell’arena, per quando i giochi saranno ormai conclusi. Istintivamente, regalo al pubblico un dignitoso dito medio e ricomincio a camminare.
Altri corridoi, questi molto più illuminati dei precedenti. La moquette lascia il posto ad un pregiato marmo color avorio.

La cornucopia dev’essere lontana, perché non sento alcun rumore già da molto tempo, ma continuo a non sentirmi tranquilla e se trovassi qui in mezzo un nascondiglio sarebbe per pura fortuna.
Alcune barriere girevoli mi separano da androni costeggiati da vetrine, tutte vicine le une alle altre.
Non ci sono finestre, ma questo particolare penso che non si colga facilmente: tutto sembra eccessivamente curato, come a voler distogliere lo spettatore occasionale dall’assenza di qualsiasi cosa di autentico. Ma io, che ricercavo il fuori e la luce da quando ho messo piede nell’hangar, sto soffrendo i grossi, grassi lampadari di cristallo che penzolano sulla mia testa. Il silenzio è profondo e con difficoltà provo a muovermi senza generare alcun suono.
Trovo una grande mappa di vetro tra due panchine, devo capirci qualcosa.
Quindi, è un aeroporto senza entrata, non l’hanno proprio costruita. L’uscita tecnicamente esiste ma è un suicidio preannunciato. Ci sono tre livelli di negozi, uno dei quali con un supermercato, due livelli di parcheggi, il tetto. Tutto si sviluppa intorno ad un blocco centrale di forma quadrata e in corrispondenza dei quattro lati del blocco ci sono delle scale che portano ai piani superiori o inferiori.
Faccio un giro rapido, per provare ad orientarmi: destra, destra, destra, ancora una volta a destra. Dovrei ritrovarmi al punto di partenza, invece ho davanti a me una vetrina con manichini bianchi, senza volto, le mani rigide a novanta gradi, vestiti di tutto punto. Mi inquietano, bianchi e lucidi, privi di qualsiasi nota di calore umano. Così reali nelle loro pose estreme. Provo ad aprire la porta ma è bloccata. Sospiro.
 
Ding.
Ding.
Ding.
 
Tre tintinnii si diffondono dagli altoparlanti. Alzo lo sguardo, mi aspetto una comunicazione da un momento all’altro. Invece si spengono improvvisamente tutte le luci, si accendono dei piccoli faretti d’emergenza che emettono un fioco raggio verde. Sto ferma in piedi, vorrei scappare, ma non so dove. Sento suoni penetranti intorno a me, non li riconosco. Avverto come un tenue graffiare nel mio orecchio destro, mi volto di scatto ed un urlo acuto e stridulo mi rimbomba nell’orecchio sinistro. Mi fa come da scia, si va affievolendo man mano che gli vado incontro. Perché gli vado incontro?
Nessun essere umano urlerebbe mai a quel modo.
Avverto qualcosa dietro di me, come un mantello ma più simile ad un respiro che ad un mantello. Che cosa dico?
Tornano le luci, mi riscopro ferma, immobile. Ho immaginato tutto? Eppure nelle mie orecchie avverto ancora le urla sovrumane di prima, seppure più flebili.
Aggrotto la fronte, le urla stridule si fanno terrene, reali, terribili. Le inseguo: arrivata davanti al negozio, comprendo che non c’è nulla che io possa fare per salvare il ragazzo dell’11. Disorientato dai rumori e dalle allucinazioni, dev’essersi fatto prendere dal panico. Lo trovo conficcato nel muro sulla destra da una moltitudine di lame lunghissime e affilate, probabilmente scattate dal muro opposto in seguito al passaggio del tributo. Sensori di movimento, quindi. Me li aspettavo.
 
La parete si apre, con un meccanismo che ho colto appena, il muro con il ragazzo viene ingurgitato all’indietro, mentre al suo posto compare un nuovo muro, identico a come doveva essere quello sostituito prima che la trappola scattasse. Probabilmente, l’avranno già riattivata.
Noto sull’uscio del negozio una delle buste da lettera. La apro ma mi rendo subito conto che è vuota. Me la rigiro tra le mani e provo a pensare a cosa fare, quando un luccichio sul pavimento attira la mia attenzione. Chiavi, ecco cosa contengono le buste.
Il ragazzo aveva probabilmente trovato il mazzo di questo negozio. Le raccolgo, sono tre.
Mi tolgo le scarpe da ginnastica, mi stendo sul pavimento e procedo un poco alla volta, lanciando prima davanti a me le scarpe per vedere se si attiva qualcosa. Il mio sguardo si posa su una piccola serratura sul pavimento, nascosta da un carrello di giacche. Provo ad inserire tutte e tre le chiavi, giro la serratura con l’ultima del mazzo, compare una piccola luce verde, adesso dovrei aver disinnescato la trappola.
Mi alzo in piedi, afferro una maglietta, pulisco le mie mani dal sangue del tributo che ho ucciso, la appallottolo e la metto nello zaino. Ne prendo un’altra e asciugo la pozza di sangue del ragazzo dell’11. Chiudo a chiave l’entrata. Spero che nessuno noti le macchie rimaste. Vado nel magazzino e prego affinché, guardando attraverso la vetrina, il negozio appaia immacolato.
 
Sento delle voci euforiche provenire da fuori, riconosco tra tutte quella di Cato, il tributo del 2, l’unico oltre a Gale di cui io ricordi il nome. Forse perché è biondo e mi ricorda i capelli del ragazzo del pane, quando durante le ore di scuola la luce filtrava attraverso le finestre e i suoi capelli si arricchivano di mille riflessi diversi. Non pensarci, Kat. Non ora. Concentrati.
Chiudo con la serratura la porta del deposito e aspetto che le loro voci si dileguino. Trattengo il respiro e resto in silenzio finché non sento più nulla.
Tasto il muro alla ricerca di un interruttore, lo trovo. La luce fredda illumina il mio corpo ricoperto di sangue che non mi appartiene. Quello della ragazza si è ormai seccato ma quello del ragazzo no, delle gocce scivolano lungo le mie dita, istintivamente me le asciugo sulla maglia. Rabbrividisco. Provo a distogliere la mia attenzione da quell’odore pungente che mi ricorda l’incontro con Snow. L’immagine di mamma e Prim massacrate mi colpisce come un fulmine. Con difficoltà lascio che scivoli via ed inizio ad esplorare. Con grande sorpresa trovo, nascosto da alcuni scaffali, un passaggio per un secondo vano. Davanti a me, una di quelle macchinette automatiche che vendono cibo e bevande. Provo a guardarmi intorno, alla ricerca di una cassetta degli attrezzi. Potrei infrangere il vetro ma rischierei di attirare tutti qui in pochissimo tempo. E comunque non trovo altro che un cacciavite arrugginito.
Studio per qualche minuto la macchina, ma rinuncio in fretta.
 
Mi siedo per terra e decido di scoprire cosa sono riuscita ad acchiappare nell’hangar. Apro la busta che ho raccolto prima: anche in questa ci sono tre chiavi. Una per aprire uno dei negozi. Una per disinnescare la trappola. La terza?
Un lampo improvviso emerge nei miei occhi.
Mi precipito verso la macchinetta, cerco la serratura, la trovo. La chiave gira e un piccolo schiocco di ingranaggi mi fa capire che ho aggirato il meccanismo.
Premo un paio di numeri, prendo delle merendine e una bottiglia di acqua. Soddisfatta, mi rimetto seduta sul pavimento e ricomincio a curiosare tra le mie cose. Apro lo zaino: trovo un pacco di fazzoletti, un blocco con una penna, una saponetta, un plaid, del latte liofilizzato. Il bottino è misero ma non credo che per gli altri sarà molto diverso: per la prima volta nell’arena c’è ogni cosa che ci serve, vogliono spingerci ad andare a prendercele. Tutti noi resisteremo, ma ad un certo punto dovremo uscire da qui. Lo scontro sarà inevitabile e il presidente avrà lo spettacolo che cerca.
Avverto la sensazione sgradevole della maglietta bagnata di sudore sul mio corpo. Provo nuovamente fastidio per avere addosso tutto quel sangue. Ho caldo, ma tremo. Il golfino puzza. Io puzzo.
Prendo la bottiglia di acqua e  la saponetta e mi lavo dietro ad una tendina improvvisata con il plaid –fa così caldo qui dentro che non penso che mi servirà-.
Lo uso anche per asciugarmi. I capelli, ormai corti ed ingestibili, mi arrivano alla base del collo. Provo ad acconciarli in qualche modo, ma è una sfida persa in partenza. Immagino Effie inorridire.
Mangio alcuni crackers e poi con un paio di giacconi che ho trovato in uno scatolone costruisco un giaciglio improvvisato.
Mi metto a dormire. Ho molto a cui pensare, ma non oggi. Oggi lascio i pensieri al limite del mio cervello, dimenticati in luoghi reconditi della mia mente. Domani, al mattino, ne pagherò il prezzo e il senso di colpa mi peserà con più vigore sul petto. Ma oggi no, proprio non ce la faccio.
 
Non so che ore sono, ma non penso che sia mattina. Mi sveglia di soprassalto un rumore che poi riconosco essere uno spot pubblicitario. Dopo qualche minuto, altri suoni a me nuovi mi destano definitivamente.
Il centro commerciale prende vita.
Un brivido corre lungo la mia schiena non appena sento delle voci, sono ovunque. Il negozio dev’essere pieno di gente.
Li sento all’improvviso anche nel magazzino e mi rannicchio in un angolo.
 
Le voci stanno per trovarmi.
Le voci si muovono verso di me.
Le voci sono sopra di me.
Le voci si allontanano da me.
 
Sono registrazioni.
Il panico passa ed io ritorno in Katniss.
Il panico ritorna e mi allontano da Katniss.
Così tutto il tempo. Finchè mi rendo conto che le voci non cesseranno mai fino alla fine dei giochi. Un regalino degli strateghi, in questo modo non avremo la possibilità di basarci sui nostri sensi, una volta usciti dai nostri nascondigli. In più, l’incessante chiacchiericcio da un lato non dà modo ai nervi di placarsi e dall’altro deforma ulteriormente questo luogo desolato rendendolo, se possibile, ancora più inquietante.
Impazzirò o mi abituerò a questo via vai di passi, di risate, di porte che s’aprono e che si richiudono, di parole tratte a caso da conversazioni- tra chi?
 
Mangio una barretta e mi copro le orecchie con le mani e inizio a riordinare le idee, ne ho davvero bisogno.
A quest’ora Snow mi avrà già punito. In che modo? Chi ha pagato per le mie colpe? Prim? Non voglio nemmeno pensarci. Non considererò nemmeno per un secondo questa possibilità. Mia madre, lei non può abbandonare mia sorella. Me lo ha promesso. Immagino che al primo sospetto di pericolo, sarà fuggita con Prim verso la casetta sul lago, fuori dalla recinzione. Papà mi ci portava spesso ed era il mio posto segreto, ci tornavo quando mi sentivo molto sola. Una volta mi raccontò che lì le chiese di sposarlo. Mamma mi ha assicurato di ricordare la strada, che per certi posti esistono mappe speciali, ti tornano in mente appena decidi di andarci. Mamma e Prim sono vive.
Anche Haymitch, sarà al centro dei riflettori ora, Snow ha le mani legate e mi auguro solo che il mio mentore non sia tanto sciocco da restare a Capitol a combattere per la mia sopravvivenza. Alzo lo sguardo alla ricerca della telecamera. Ne trovo una in un angolo, la osservo per qualche secondo, “Haymitch”, dico mentre soffoco con difficoltà le lacrime. Mi manca moltissimo. Vorrei, almeno un’altra volta, abbracciarlo e lasciarmi avvolgere dall’affetto che prova per me. Non ho mai riflettuto molto sulla qualità dei legami che una persona può creare, dicono che il vincolo di parentela sia quanto di più stretto possa esistere tra due persone. Eppure, sento di essere sua figlia più di quanto io non lo sia mai stata per mia madre.
Non hanno alcuna idea di quello che provo per Peeta, poi è fidanzato –deglutisco a fatica-, Peeta è salvo.

Quindi sono tutti vivi? Improbabile. O magari sì, sono tutti vivi. Vorrei illudermi, ma sento una voce nella mia testa, un fastidio allo stomaco. Io sono stata punita. In qualche modo, io sono stata punita alla fine di quei sessanta secondi.
Quanto sarà lunga la lista dei cadaveri alla fine di questi giochi?
Cinna è in cima all’elenco. Aggrotto la fronte, alla ricerca di una valida spiegazione. Perché Cinna si è sacrificato per me? Era gentile, certo. Ma mi conosceva appena. Io, al suo posto, non avrei mai rischiato la mia vita. Per Prim? Certo, per lei sì. Ma per lei e basta. Il ricordo di lui che cade per terra mi verrà a cercare la sera, prima di dormire, per il resto della mia vita. Ancora una volta, ho come la sensazione di stare nel mezzo di qualche grande progetto, che non capisco.
E Gale? Avrà ingannato i favoriti, accanendosi su qualche cadavere, o avrà realmente svelato le sue carte di letale guerriero? Non mi sono mai fidata di lui. Ma proprio mentre mi dico queste cose, ricordo la rabbia nella sua voce mentre, senza paura di essere scoperto, condannava i giochi con parole d’odio verso Capitol. Sì, lui condannava i giochi, non ha ucciso nessuno. Comprendo che alla fine uno di noi due morirà. E’ la prima volta che ci rifletto su. In fondo, pensavo di essere stata condannata a morte, non avevo minimamente concepito l’eventualità di arrivare fino a questo punto dei giochi.
 
Silenzio improvviso, nessuna voce nessuno spot.
 
Sento il motivetto dei giochi e scopro che il soffitto è una specie di schermo formato da grossi quadrati: le immagini dei tributi morti si susseguono. Ne sono morti 12. Il soffitto si spegne, il motivetto cessa e provo a dormire rifugiandomi tra gli strati dei giacconi, mentre le voci e gli annunci pubblicitari ritornano ad invadermi le orecchie.
 

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Capitolo 9
*** CAPITOLO 8 - POV PEETA prima parte ***


CAPITOLO 8 - POV PEETA    prima parte



Delly mi raggiunge, manca poco all’inizio dei giochi. Mi stampa un bacio sulla guancia e mi abbraccia, prova a darmi un po’ di forza.
In questi giorni non ho fatto altro che restare davanti alla tv, ho la testa piena di tutte le parole che hanno detto su di lei. Cioè, stava sempre insieme a quel Gale, anche a scuola si vociferava che quei due fossero fidanzati. Ma non ho mai voluto crederci e poi Delly mi diceva che sorprendeva un po’ troppo spesso Katniss a guardarmi, diceva sempre che avrei dovuto trovare il coraggio di parlarle. Ma non mi sentivo alla sua altezza, all’altezza di una ragazza di sedici anni che, ormai da molto tempo, provvede alla sua famiglia. E così, distoglievo i miei pensieri da lei, convincendomi di essere davvero attratto da qualche altra ragazza.
Non le ho mai parlato e forse è meglio così: Gale ha finalmente svelato la verità.

“No, non è vero, ha detto che non riesce a farla cadere ai suoi piedi, non vuol dire che stanno insieme!”, mi dice Delly ogni volta che capisce che ci sto pensando.
Era bellissima durante l’intervista. Era anche innaturalmente rilassata e loquace. O forse è sempre stata così, naturalmente. Forse per tutto questo tempo l’ho solo idealizzata, restavo lì ad immaginarmi le cose che diceva e che pensava, ma non l’ho mai conosciuta davvero.
Morirà.
No! Non morirà! Non può morire!
Forse è tutto nella mia testa. Forse non c’è nessun filo che ci unisce e comunque ha senso parlarne adesso? Ora che lei sta lì, per salire nell’arena, mentre io guardo, impotente, attraverso lo schermo Gale che la protegge?

Ci dirigiamo in piazza, non voglio stare a casa. Mia madre dalla sera della mietitura è sempre più nervosa e aggressiva, neanche si cura della presenza di Delly, che mi urla parole d’odio.
In piazza i pacificatori nelle loro tute bianche circondano gli spettatori. Ci sediamo sugli scalini di una bottega, quasi tutti i ragazzi del distretto si sono raccolti lì intorno. Alla fine della diretta passerò da casa di Katniss, Prim e la madre hanno deciso di non vedere i giochi. C’è uno strano clima di tensione che circola tra la gente, molto più evidente che negli anni passati e mi rendo conto che è dovuto alla massiccia presenza di pacificatori. Ma perché mai dovrebbero averne inviati così tanti? Delly nota la mia espressione corrucciata, mi accarezza la mano e mi dice che andrà tutto bene, ma lo vedo nei suoi occhi che mente.
Madge sfila davanti a me, raggiunge alcune sue amiche poco lontano. Mi alzo e le vado incontro, lei è visibilmente colpita quando mi vede: “Madge –mi faccio coraggio, sono stato zitto troppo a lungo, non ha più senso fingere che non ci sia nulla- l’hai sentita? Hai sentito Katniss ieri, non è vero? Ho sentito che ne parlavi ieri mattina a scuola, che ti avrebbe chiamato. Come sta?”, non sembra per nulla sorpresa dalle mie domande.
“Oh, beh, non abbiamo parlato molto…”.
Continua: “Peeta, io…ecco, lei mi ha lasciato un messaggio per Prim, ma io non me la sento davvero di andare a casa sua. Non ce la faccio proprio, capisci? Non lo so se capisci, ma non ce la faccio proprio. Sono…insomma, dalle questo”, mi porge un biglietto stropicciato con poche parole scritte su. Mi dà l’idea di nascondere qualcosa, ma sono distratto dal maxischermo che si accende e dal messaggio inaugurale del presidente Snow. Quando mi volto, lei ha già salutato il suo gruppo.
Vado a sedermi di nuovo vicino a Delly, sono arrivati anche
gli altri.
Rigiro tra le mie mani il foglietto e decido, vinto dalla curiosità, di leggerlo.
 
Rivivrò nei denti di leone che spuntano in primavera –Kat”.
 
Cosa significa? Sento il sangue accalorarmi il viso, Delly mi chiede che cosa succede ed io non so dirle nulla.
Katniss si è già arresa.
Una fitta allo stomaco, un dolore lancinante nel petto e trattengo la disperazione dietro ad una smorfia di dolore.
La mia Katniss, la Katniss di nessuno.
La bambina che cantava in classe, la ragazza a cui ho lanciato il pane.
Non m’importa se non è come me la immagino, non proverò per nessuno quello che provo per lei. Il desiderio che mi prende quando la studio di nascosto mentre guarda fuori dalla finestra ed assapora l’idea dei pomeriggi nei boschi. La preoccupazione che provo quando il suo sguardo s’incupisce. La voglia di essere tutto ciò di cui lei ha bisogno. Io non lo so che cosa mi vincola a lei, ma un giorno è arrivato, qualcosa.
E non se ne andrà più.
Ed io lo sento, che non ho scelta, che lei è la mia unica scelta.
 
Il viso del presidente Snow è sostituito dalle prime immagini dell’arena, Caesar dice che ha tutto l’aspetto di un hangar e l’hovercraft sembra confermarlo. Una telecamera esterna mostra la bufera che blocca i tributi in una delle arene più sadiche di sempre. Per la prima volta, i ragazzi si affronteranno al chiuso in un posto in cui orientarsi sarà praticamente impossibile: le piste d’atterraggio coperte dalla neve, una veloce carrellata delle immagini di ogni piano del palazzo…le voci si rincorrono e Caesar si domanda se l’arena non sia un aeroporto. Nessuno di noi ne ha mai visto uno, il commentatore spiega ai distretti che di sicuro ci saranno più hangar raggiungibili e che ogni aeroporto a Capitol è dotato di un imponente centro commerciale. Non ho idea di cosa sia, guardo con aria interrogativa Delly, che di rimando mi risponde con la stessa espressione confusa.
Caesar ride sonoramente, gli fanno notare che probabilmente molti distretti non ne hanno mai sentito parlare prima. Ci spiega che i centri commerciali sono grandi corridoi circondati su entrambi i lati da negozi. Non abbiamo capito granché.
I tributi emergono dal pavimento. La telecamera indugia sui favoriti. Il countdown inizia.
Ad un certo punto, inquadrano Katniss e tutta la piazza sussulta: è visibilmente sconvolta, pallida in volto e le guance sono segnate da lacrime. Non sta dritta come gli altri, ha le ginocchia un poco piegate e si tiene in equilibrio con le braccia, come se avesse difficoltà a stare in piedi. Si vede che prova faticosamente a respingere la smorfia di paura che s’impone sul suo viso. Ed io probabilmente ho la sua stessa smorfia adesso, mentre la paura mi pervade e prego con tutto me stesso che Katniss non si lasci esplodere in aria.
 
15-10-5-4-3-2-1.
 
E’ ancora viva.
I giochi iniziano, non la perdo di vista nemmeno per un secondo. Vedo da lontano Clove, il tributo del 2, lanciarsi con rabbia su di lei.
Combatti!
Combatti!
Non lasciare che ti uccida!
Prendi quel coltello, prendilo!
Combatti, non morire!
Kat afferra il coltello e glielo pianta nella pancia. La piazza è caduta in profondo silenzio.
 
Ogni mio muscolo si scioglie, non ho alcun controllo sul mio cuore, che ora batte ancora veloce, ma il mio respiro si placa. Sento di nuovo di appartenermi, sento di poter ancora essere felice. Sento che non si arrenderà ed è questo, lo giuro, ciò che più desidero.
 
Le fanno un primo piano, non se n’è accorta ma sta ricominciando a piangere. Sono lacrime di rabbia? Sono lacrime di paura?
Hanno tutti capito, che è stata costretta a farlo.
Sei stata brava, Kat. Non starci a pensare, ora scappa!
Ti prego, torna da me!
Riprendono Gale: salva Cato del distretto 2 dal ragazzo del 6, che uccide con un rapido colpo di mannaia. La piazza mormora, mandano un replay, il tributo ucciso da Gale aveva due frecce che gli trapassavano il torace, sarebbe morto comunque.
Katniss sta liberando i capelli dalla spada conficcata da Clove sul pavimento.
Gale la raggiunge, sporco di sangue. Parlano, lui si gira e lei scappa via.
Sono completamente preso dalla visione, non starò tranquillo finchè il bagno di sangue non giungerà al termine.
 
Sono passati sì e no cinque minuti dall’inizio dei giochi, i pacificatori sollevano i fucili ed iniziano a sparare alla cieca sulla folla. Mi butto per terra e proteggo Delly con il mio corpo. Striscio verso l’ingresso strettissimo di una stradina appena visibile, collega la piazza al Forno. Aspettiamo la fine delle scariche di proiettili, scivoliamo nel vicolo e corriamo finchè non sbuchiamo nel bel mezzo del mercato nero, oggi chiuso.
“Corri a casa, Delly! Io vado a prendere Prim e sua madre!”, le dico urlando. Sto per ricominciare a correre, lei mi tira per una manica, “Portale da me, le nascondiamo in cantina”. Faccio un cenno di assenso con la testa e mi precipito a casa di Kat. Non un rumore, la casa sembra vuota. Vigile, entro lentamente. “Prim!”, chiamo. Nessuna risposta.
“Prim!”, alzo la voce.
Sento dei rumori provenire dal soggiorno, il vecchio orologio a pendolo si apre, la sorellina timidamente tende le mani verso di me e mi abbraccia senza riuscire a controllare i singhiozzi.
“Dov’è la mamma?”, chiedo con dolcezza.
“L’hanno…l’hanno portata via”, piange più forte.
“Prim…Prim, ascoltami. Devi essere coraggiosa adesso –la fisso negli occhi, sembra un piccolo pulcino spaventato- dobbiamo andare via, sei pronta?”.
Lei fa un cenno con la testa, stiamo per raggiungere l’ingresso quando vediamo dei pacificatori avvicinarsi.
 
Piano B.
Corriamo su per le scale, raggiungiamo il balcone della camera da letto. Mi pervade, per un secondo appena, l’odore di Katniss. Seguiamo i soldati dalla finestra, appena scompaiono alla vista, usciamo sul balcone. Li sento entrare in casa, dobbiamo andare via da qui. Le chiedo di salire sulla mia schiena, lei lo fa e si ancora al mio collo. Decido di saltare, saranno al massimo un paio di metri. Mi calo dall’inferriata del balcone e mi lascio cadere e rotoliamo per qualche metro, ma riesco a proteggere la bimba. Prim soffoca un urlo, ma nessuno di noi due si è fatto male e l’erba incolta ha attutito il rumore. Due soldati sono rimasti di guardia alla porta, sento che stanno per perlustrare anche il retro della casa. Dobbiamo correre.
Strattono Prim verso la recinzione, mi assicuro che sia spenta e, trovata una delle molte interruzioni, ci passiamo attraverso. Costeggiamo il villaggio nascondendoci tra gli alberi e i cespugli, fortunatamente anche la casa di Delly dista pochi metri dalla recinzione. Cammino avanti io, temo le trappole per gli orsi e per gli scoiattoli, con un bastone mi assicuro che il terreno sia sicuro e ordino a Prim di seguire i miei passi.

Delly freme davanti alla finestra, si vedono delle sagome dietro di lei, ma sono sicuro che non siano i pacificatori. Tuttavia, non posso averne la certezza, lei vive da sola con il padre ed il fratellino e di sicuro c’è più di una persona in casa. Ad un certo punto, la porta di casa si apre e sulla soglia compare…mio padre?

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Capitolo 10
*** CAPITOLO 9 - POV PEETA seconda parte ***


CAPITOLO 9 - POV PEETA  seconda parte



Sono molto sorpreso, ma mi riprendo in fretta ed esorto Prim ad uscire dal nascondiglio.
Mio padre ci vede e ci indica il punto in cui la rete è troncata. Passa prima la ragazzina, poi passo io. Sono quasi completamente strisciato fuori, quando delle scintille mi colpiscono alle caviglie. Stringo i denti per il dolore, corro verso casa di Delly, entro in casa e mi fanno sedere. A quanto pare, la recinzione è nuovamente elettrificata. La mia caviglia brucia da morire, sento pulsare i vasi intorno all’ustione. “L’avevano appena riattivata, l’intensità non era al massimo. Se lo fosse stato saresti morto!”, dice il padre di Delly. Prim apre la sua borsetta –non mi ero accorto che ce l’aveva con sé- ed inizia a tirare fuori piccole fialette, che dispone in ordine sul pavimento.
“Bisogna disinfettarla”, dice e intanto spalma un unguento che rende più intenso il dolore. Mi vuole fare una puntura di morfamina, ma rifiuto. Devo restare sveglio.
 
Ci mettiamo intorno al tavolo in cucina. Riesco a malapena a camminare, mi sento molto inutile. Mio padre, in piedi dietro di me, discute di come fare a raggiungere la piazza.
Il padre di Delly, intanto, mi aggiorna: “Hanno allestito una seconda piazza da cui invieranno delle false immagini del distretto, penso”.
“Dov’è mamma?”, chiede Prim.
“L’hanno portata in piazza”, dice.
Restiamo tutti in silenzio, vorrei sapere molto di più, cosa sta succedendo? Perché i pacificatori hanno iniziato a sparare sulla folla? Perché cercare Prim e mrs. Everdeen? Ha a che fare con Katniss? Se pure fosse, perché accanirsi su tutti gli altri? Sto per chiedere queste cose quando, ad un certo punto, papà inizia: “Peeta”, continua mentre io corrugo la fronte, “Per la prima volta dai Giorni Bui stiamo organizzando una ribellione nel distretto”. Delly e Prim alzano lo sguardo, sono sbigottite, ma non io. Vorrei solo capire perché proprio ora e se Katniss ha o meno un ruolo in tutto questo. Mio padre coglie ogni mio interrogativo, è in procinto di rispondermi quando sentiamo le sirene del 12.
 
Suonano per richiamarci in piazza.
“Ci uccideranno?”, chiede Delly, dando voce alla domanda a cui tutti e tre stavamo pensando.
“No, dipendono da noi, dal nostro lavoro. Non sarebbe una scelta saggia. Vogliono spaventarci. O, almeno, spero”, dice mio padre mentre il signor Cartwright stringe la spalla della figlia, intimandole di alzarsi.
Ci mettiamo tutti in piedi.
Barcollo, anche se l’ustione già fa meno male di prima. A fatica, cammino addossandomi a mio padre. “La mamma e gli altri stanno bene”, sussurra e vorrei potermi rilassare pensando a loro, ma il mio pensiero va a Katniss, era appena fuggita dal bagno di sangue ma non sono tranquillo, vorrei avere la certezza che si trovi al sicuro.
Il padre di Delly conduce Prim in cantina, le dà una piccola candela, un pezzo di pane con del formaggio e una brocca d’acqua. Starà bene. Le intimiamo più e più volte di non fare alcun rumore.
Incontriamo mia madre e i miei fratelli, ci vengono incontro e, senza fiatare, sciamiamo con la folla lungo la strada.
 
In piazza si sentono solo concitati rumori di passi, mentre i pacificatori ci dispongono intorno ad un palco con tre traverse e delle corde di circa sei piedi legate alla fine. Il silenzio è devastante. Abbiamo capito tutti cosa sta per succedere e nessuno di noi riesce a dire una parola, fisso quello scenario di morte e sento una lacrima solcare la mia guancia. Tutti noi sappiamo, nessuno di noi può fare nulla.
Un pacificatore sale sul palco seguito da due donne ed un uomo incappucciati, con le mani legate dietro la schiena e la fila si chiude con un secondo pacificatore che punta il fucile contro il dorso dell’uomo.
Il primo pacificatore, rapido, con le estremità delle corde forma dei cappi. Il secondo toglie il cappuccio dai condannati: Mrs. Everdeen, Sae la Zozza –cuoca improvvisata del mercato nero-, il sindaco.
Mio padre ed io ci stringiamo e sento la sua mano premere con forza contro il mio fianco, è sconvolto.
La madre di Kat piange senza emettere alcun suono, mentre il cappio viene stretto attorno al suo collo.
“Morte a Capitol City! Morte al presidente Snow!”, urla, accompagnata dalle voci degli altri due e le botole si aprono sotto i loro piedi.
I corpi restano lì a penzolare. Non credo di aver realizzato cosa sta succedendo, mi riscopro sudato e sconvolto. Nessuno di noi può ancora abbandonare la piazza, avvertiamo la presenza dei soldati intorno a noi.
Il maxischermo, spento dall’inizio della sparatoria, si accende e compare il presidente Snow, serio, seduto alla sua scrivania.
 
“Panem è un ingranaggio meraviglioso, una promessa, un pensiero che abbiamo perseguito per anni, soffrendo noi tutti, Capitol e i distretti, insieme. Con difficoltà la pace è stata raggiunta. Conosciamo il malcontento di alcuni gruppi terroristici che diffondono idee di alterata giustizia tra alcuni distretti. Ebbene, sappiate che sono idee di morte e che i paladini di questi ideali fittizi sono anch’essi destinati alla morte. Obbedire alla giustizia è un impegno a cui nessuno può sottrarsi. Panem combatte in prima linea per rieducare le menti distorte e per garantire l’asservimento legittimo che i distretti onorano verso Capitol City. Vi diranno che la pace e la morte sono concetti distanti, che potete pretendere di più di quanto ricevete. Sono menzogne, la guerra porta la morte. Rinunciate alle armi e consegnate i ribelli all’autorità. Dimostrate la vostra fede verso Panem e siate consapevoli che Capitol abbraccerà chi, con coraggio, schierandosi contro i rivoltosi, condannerà con dolore quelli che ritenevano essere veri amici”.
 
Lo stemma di Capitol compare sul maxischermo per qualche secondo, per poi riprendere con la diretta degli Hunger Games. Inquadrano Katniss, fissa con orrore la vetrina di un negozio, si vede uno dei tributi infilzato contro un muro, mentre il sangue copioso si accumula in una pozza.
Restiamo a guardare i giochi per quattro ore, finchè un pacificatore sale sulla forca, dove ancora giacciono i cadaveri.
 
“E’ stato istituito il coprifuoco: chiunque sarà trovato fuori dalla proprio abitazione dopo le 8 di sera senza permesso scritto, sarà incarcerato e interrogato.
Inoltre, sarà punito:
Chiunque organizzerà o parteciperà a riunioni non approvate dal nuovo consiglio d’amministrazione.
Chiunque nasconda i ribelli o i loro familiari nelle proprie abitazioni. Per garantire la sicurezza del distretto, dalle 8 di sera alle 10 di sera ogni casa del villaggio sarà perquisita da almeno due pacificatori.
Chiunque non si recherà presso la piazza principale dalle 12 del mattino alle 3 del pomeriggio e dalle 6 del pomeriggio alle 7.30 del pomeriggio, per la diretta e le interviste degli Hunger Games.
Chiunque sia trovato sprovvisto del chip di localizzazione. Per garantire la sicurezza del distretto, ogni uomo, donna e bambino dovranno recarsi presso il palazzo comunale per l’impianto del chip. I cittadini saranno divisi in gruppi secondo la prima lettera del proprio cognome. I cittadini sono invitati a registrarsi presso gli sportelli istituiti nel palazzo di giustizia, al primo piano. Per il giorno e l’ora di ciascun gruppo, è bene consultare la lista completa dal pomeriggio di oggi a partire dalle 6.
Chiunque sarà sorpreso a commerciare illegalmente cibo, bevande o qualsiasi altro bene.
Pro Bono Pacis.
Capitol City”.
 
Torniamo silenziosamente verso casa, sono le 7.30, tra pochi minuti scatterà il coprifuoco. Papà raccoglie un bel po’ di pagnotte che porta a casa di Delly, vorrei andare anch’io con lui, ma la ferita sulla mia caviglia mi rende nuovamente insofferente. Mia madre, spaventata da quello che sta succedendo, si chiude in camera. I miei fratelli mi aiutano a cambiare le fasciature, ormai inutili.
 
Papà torna pochi minuti dopo. Va qualche momento da mamma, mentre noi tre lo seguiamo con lo sguardo, aspettando con trepidazione spiegazioni.
Quando torna, apparecchia la tavola e prepara la cena, ci dice che per le nove arriveranno i pacificatori a perquisire la casa, trovarci intorno ad un tavolo a parlare potrebbe sembrare sospetto.
Nel frattempo, decido di accendere la tv. La diretta si concentra su Rue, la bimba dell’11, che si è rifugiata tra le travi del soffitto di uno dei piani del centro commerciale e sui favoriti tra i quali, a quanto pare, figura anche Gale.
“Ragazzi”, ci chiama papà. Ci mettiamo in cerchio intorno alla tavola, mentre lui porta un piatto di zuppa di pomodori e fagioli a mamma.
Si siede a tavola e tamburella sul legno con una mano, mentre guarda fuori dalla finestra il viale deserto.
“Vi ricordate dell’esplosione nelle miniere di qualche anno fa, vero?”, noi tutti annuiamo, “Bene”.
Resta in silenzio per qualche secondo.
“Quasi tutte le famiglie del 12 hanno perso qualcuno in quell’esplosione. Noi abbiamo perso il nonno, vi ricordate? Bene, bene”, annuisce e si prende del tempo. Era molto legato al nonno, lo ricordo.
“Voi sapete che dai Giorni Bui le cose vanno in un certo modo qui da noi. Sì, insomma, non so spiegarmi…voi lo sapete com’è che si vive qui”, ci vede disorientati, “Per voi è sempre stato così, lo era anche per me. I Giochi, le impiccagioni, le miniere e tutto il resto. Ma non è sempre stato così, se ci pensate non è passato nemmeno un secolo da quando sono stati istituiti i Giochi. E, come voi sapete bene, sono stati istituiti dopo la rivolta dei distretti, capitanati dal 13, che è stato distrutto. Ma queste cose le sapete già. Quello che non sapete è cosa ha spinto i ribelli all’epoca. Ed io non saprei descrivere a parole quello che spinge il nostro distretto adesso, però è la stessa cosa. E’, penso che sia il modo più semplice di porvela, la speranza”.
Siamo un po’ intontiti da quelle parole. Mio fratello sta per dire qualcosa ma mio padre lo blocca e continua.
“Siete…siamo nati in un mondo in cui l’amore, l’amicizia, la speranza, qualsiasi alto e nobile ideale non hanno senso accanto a parole come arena, pacificatori, coprifuoco. E’ la nostra realtà e per voi non sarà davvero facile capire. Da quell’esplosione qualcosa è cambiato, il desiderio di rivincita si è insinuato in molti del distretto. In segreto, in questi anni ci siamo riuniti, organizzandoci. Sapete che i distretti non possono comunicare tra di loro, ma a quanto pare il malcontento non si è diffuso solo qui da noi e, faticosamente, abbiamo trovato contatti un po’ ovunque. Alcuni dei portavoce della ribellione sono essi stessi abitanti di Capitol. Ora, io non mi aspetto in alcun modo che prendiate parte a questa rivolta, nonostante non mi opporrei se decideste di supportare la nostra causa. E’ molto importante, però, che non ne facciate parola con nessuno, dato che non tutto il distretto ne è al corrente. Soprattutto, vi prego di non denunciarmi alle autorità”.
Ridiamo, ma lui ci guarda con un’espressione seria, “Potreste ad un certo punto avere molta paura. Non ve ne avevo parlato prima perché temevo di metterci in pericolo, ma ormai non ha più senso nascondervelo.
A Capitol non avevano idea di questo movimento, ma uno dei portavoce e due dei nostri migliori soldati sono spariti da qualche giorno, pensiamo che Snow abbia estorto con qualche tortura tutto quello che voleva sapere.”
“Katniss?”, domando, “Lei sapeva?”.
“No, Snow deve aver usato lei come pretesto per punirci.”
“Il mentore?”
“Nemmeno lui sa niente, che io sappia, ma stiamo provvedendo ad informarlo della situazione”.
 
Parliamo ancora per un’ora circa, quando due soldati bussano alla porta. Dopo una decina di minuti se ne vanno. Penso a Delly e a Prim, mi auguro che anche loro stiano bene. Sto in piedi, vicino alla finestra. Guardo fuori e mi sostengo con le mani, dato che la gamba pulsa ancora. Mio padre mi raggiunge, mi stringe una spalla.
“Papà, voglio partecipare alla rivolta”, gli dico senza distogliere lo sguardo. Lui non risponde, in fondo c’è poco da dire.
 
Salgo in camera, i miei fratelli già dormono. Mi siedo sul letto, indugio su certi pensieri per qualche momento. Penso a mio padre in modo diverso adesso. Penso ad ogni cosa in modo diverso adesso.
Ricordo una poesia, una delle poche dei tempi antichi che a scuola ci fanno leggere. Mi ripeto uno dei versi nella mente, pensando a Katniss.
 
Non andartene docile in quella buona notte”.* Speranza.









* Dalla poesia "Non andartene docile in quella buona notte" di Dylan Thomas
 

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Capitolo 11
*** CAPITOLO 10 - White rose prima parte ***


CAPITOLO 10 - White rose



Mi sveglio avvolta da un silenzio tombale, sento pulsare il mio sopracciglio sinistro, fino alla tempia. Sto ancora nel dormiveglia, quando mi rendo conto che il pavimento è ricoperto da almeno quattro dita d’acqua. Nel sonno devo essermene accorta, perché non sto più stesa per terra, ma seduta contro un muro.
Le voci? Gli annunci? Nulla.
 
Mi alzo in piedi, avverto un flebile e continuo battito di piccole ali. Provo a vedere da dove arriva, cerco tra gli scaffali, quando mi sembra di averlo quasi raggiunto, mi rendo conto di essermene allontanata.
Cerco per qualche minuto, mi ritrovo a fissare un punto sul muro, sono certa che arrivi da lì. Premo con forza: apro un piccolo cassetto con un contenitore d’acciaio.
“Gli sponsor!”, penso.
Gli anni passati gli aiuti arrivavano tramite paracadute, ma in arene all’aperto.
Lo apro, sperando di leggere un messaggio di conforto da parte di Haymitch. Invece, trovo una rosa bianca.
Nessun messaggio.
Snow!
Prim. Mamma. Le ha uccise. Oppure vuole solo farmi crollare. Vorrei rassegnarmi, indugiare sul mio dolore. Ma non lo farò, non prima di essere fuori di qui. Se sono morte, le vendicherò. La rabbia, lascio che sia lei a prendere il sopravvento. Uscirò da qui, mi farò giustizia da sola, come ho sempre fatto.
 
Abbasso lo sguardo e noto che l’acqua mi arriva quasi al ginocchio adesso. Devo andarmene via. E’ una trappola.
Prendo lo zaino, le chiavi, una merendina e torno nel magazzino, sento l’acqua cadere incessante, probabilmente dal negozio.
Appena tolgo la serratura dalla porta del deposito, la forza dell’acqua mi sbalza indietro, facendomi cadere. Probabilmente, la porta del magazzino era stata ideata apposta per stanare il tributo dal nascondiglio, solo quando il livello era tale da concedergli pochi minuti per salvarsi.
Provo ad alzarmi in piedi ma non tocco il pavimento, la maggior parte dei ragazzi sarebbe già morta: nessuno sa nuotare, a parte i tributi del 4 che si occupano di pesca. Ma mio padre mi insegnò a tenermi a galla nel nostro posto segreto, fuori dalla recinzione. Immagino che nessuno, nemmeno Haymitch, si aspettava che sapessi nuotare.
Mi dirigo nel negozio, provo a rompere il vetro della vetrina ma è infrangibile, il mio coltello non riesce minimamente a scalfirlo.
Pensa, Kat, pensa.
Mi guardo intorno, vedo in alto la grata dell’aerazione. Con un po’ di fatica riuscirò a passarci. Nuoto fino a lì e mi accingo a far saltare le quattro viti con il coltello, quando sento picchiare sul vetro.
I favoriti.
Spaventata, mi rigiro e alzo il coltello, sono decisa a uscire da qui prima che loro possano farmi prigioniera.
Ancora più forte, sento battere sul vetro.
Mi giro istintivamente e vedo Gale dimenarsi e colpire con foga con entrambi i pugni sulla teca.
Si ferma e mette un braccio in obliquo sul petto. E’ il nostro codice di caccia, vuol dire che la recinzione elettrificata del 12 è attiva. Ma non siamo nel 12. Indico la grata, mi fa segno con la testa di sì.
Questo vuol dire due cose: uno, devo cercare di togliere l’elettricità dal negozio per passare attraverso la grata; due, a giudicare dalla velocità con cui il negozio si sta riempiendo, avrò circa dieci minuti prima che l’acqua la raggiunga. E a quel punto, non uscirò da lì viva.
Ma fritta.
 
Gale mi indica il magazzino, indica il pavimento. Faccio un cenno con la testa e mi rituffo in quella direzione.
Cerco tra gli scatoloni, li butto via con i piedi, scopro sul pavimento il pannello del negozio, è ricoperto da un vetro trasparente e probabilmente è touch screen. Non avevo mai conosciuto prima questo tipo di tecnologia –non avevamo nemmeno la corrente elettrica nel Giacimento-, ma ricordo il telecomando della tv che c’era nell’attico, funzionerà più o meno allo stesso modo.
Mi tuffo e con una mano mi ancoro al fondo, mentre combatto le mie gambe che si sollevano verso la superficie. Vedo il tasto di accensione, lo stesso del telecomando. Lo premo ed il quadro si attiva, mostrandomi varie luci, verdi e rosse, con diverse sigle sotto ad ogni spia. Mi manca il respiro. Torno in superficie, prendo una boccata d’aria. Quanto tempo sarà passato? Non ne ho idea.
Mi immergo di nuovo, non ho più tempo.
Spengo tutte le spie verdi, quando il quadro appare completamente rosso, lo spengo e nuoto velocemente verso la grata. Non vedo più il gruppo dei favoriti, il livello dell’acqua è salito ancora.
Mi giro verso la griglia, con pochi colpi la faccio saltare, entro più o meno facilmente, ma devo rinunciare allo zaino. Prendo le chiavi della mia busta e le infilo nella tasca del pantalone, il coltello lo infilo nella cintura.
L’acqua sta entrando anche nel condotto, mi trascino con i gomiti e le ginocchia, il passaggio è stretto e mi manca il respiro. Sento il panico, ad un passo da me.
Ti prego, non ora, dammi ancora un momento”, gli dico.
Proprio mentre inizio a sentire i miei muscoli irrigidirsi e il calore diffondersi dalla pancia, vedo una luce a pochi metri da me.
Gale mi chiama ed io mi slancio con forza in avanti. Raggiungo l’apertura, “Forza, Kat!”, mi dice Gale.
Mi calo dallo sbocco, mi ritrovo davanti alla vetrina del negozio, ormai completamente pieno d’acqua. Neanche mi accorgo di Gale che mi abbraccia, penso solo a quella rosa bianca e ai ragazzi dell’1 e a Cato che, da dietro alle spalle di Gale, mi guardano con occhi feroci. Rispondo al loro sguardo, con la loro stessa espressione stampata sul mio viso e li minaccio con il coltello, ora ben saldo nella mia mano. Passano alcuni momenti, Gale si stacca, deve essersi spaventato molto, ma non ho tempo per questo adesso. Prova a farmi abbassare il braccio teso che impugna l’arma. Lo fisso con la coda dell’occhio, impassibile.
“Siamo alleati, Kat, abbassa il coltello! Non sarei mai riuscito a salvarti senza di loro!”
“Cazzate, ci uccideranno!”
Abbassa la voce, “Non prima di aver ucciso tutti gli altri. Su, Kat, che possibilità abbiamo ora?”
“Io non voglio uccidere.”
“Nessuno ti costringerà a farlo.”
Rimetto il coltello nella cinta e mi metto in piedi. I favoriti mi fronteggiano per qualche secondo e poi si allontanano, si fermano ad alcuni metri di distanza da noi ed iniziano a ridere e a scherzare tra di loro.
Noto solo ora la ragazzina del 5, Finch. Sta seduta in un angolo e guarda per terra. Alza ogni tanto gli occhi per scrutarmi, ma distoglie subito lo sguardo. “Nel distretto 5 si occupano di elettricità, è stata lei a scoprire i pannelli negli altri negozi”, dice Gale.
“Grazie”, le sorrido. Mi risponde sorridendomi a sua volta, un sorriso timido, mi ricorda Prim, anche se dev’essere più grande. Tredici o quattordici anni, penso.
 
“Ehi, dolcezza”, mi urla Marvel, il ragazzo dell’1, e mi indica una seconda vetrina aperta.
Li raggiungiamo, il negozio che indicava espone vestiti femminili. In effetti, se resto con i vestiti fradici rischio di ammalarmi.
Non sarei più facile da eliminare se mi ammalassi?
Cerco una risposta negli occhi di Gale, mi accompagna nel negozio e mentre mi cambio la maglia e i pantaloni, mi parla da dietro ad un carrello di vestiti. “Non penso che sia nel loro interesse farti morire adesso. Sono molto presuntuosi, probabilmente pensano di avere il controllo della situazione e, per quel che ne so, finchè sai usare delle armi e ti comporti da alleata, a loro servi.”, sbuco da dietro il carrello e trovo Gale con un arco e delle frecce, me le porge.
Accarezzo l’arco, “Vorrei poter tornare nei…”, mi blocco, è proibito andare nei boschi, non posso dirlo qui nell’arena, “…prati del distretto”.
Gale mi sorride, “E’ stata la parte migliore di ogni mia giornata nel 12, andare nei prati insieme”. Alzo gli occhi per incrociare i suoi. Per me è sempre stato solo un alleato, pensavo fosse così anche per lui. Poi le cose che ha detto nell’intervista. Forse non mentiva o forse mente adesso, davanti alle telecamere.
Gli sorrido e usciamo da lì.
 
Dall’altra parte del corridoio c’è il supermercato, il gruppo sta in tondo a discutere con una mappa che hanno disegnato.
“Dobbiamo raccogliere le provviste e stanare quelli del 3!”. Annuisco.
Cato mi guarda, poi si rivolge agli altri: “Facciamo fare a lei e a quell’altra il giro di ricognizione, no?”
“Non va da nessuna parte senza di me”, interrompe Gale.
“Tu ci servi”
“Va bene, Gale”, dico io. Finch scatta in piedi e si nasconde dietro di me.
“Allora, fate un giro completo e tornate qui. Non esplorate gli altri piani, non sono sicuri”, mi dice Gale.
 
“Ieri ho provato a fare un giro, ma non tornavo al punto di partenza.”
“La mappa non è completa, in alcuni punti ci sono dei bivi.”, mi porge il disegno del centro commerciale, “Alcuni sono vicoli chiusi, altri fanno da ponte tra i diversi corridoi”.
Sgrano gli occhi, è un labirinto.
“Abbiamo passato tutta la notte percorrendo i passaggi di questo piano, non siamo sicuri di aver trovato tutte le trappole. Quindi stai attenta e non fare di testa tua!”, ammicca. Quanto lo odio quando ammicca!
“Sai che ore sono?”, provo a scansare quel suo fare impertinente.
“Le nove del mattino del secondo giorno.”, poi ripete: “Attente alle trappole!”. Ci lancia una bottiglietta d’acqua e uno degli zainetti, lo apro e dentro ci sono delle scatolette di carne e una corda.
“Ne avrete ancora per molto?”, dice Lux seccata, mentre accarezza i capelli di Gale. Mi giro e me ne vado. Anche nell’arena è sempre il solito, ma che mi aspettavo?
 
Abbiamo appena girato l’angolo quando uno scenario di distruzione si apre davanti ai nostri occhi. Il pavimento è crollato in alcuni punti ed in altri ha lasciato il posto a macerie. I negozi sono tutti bui e molte luci sono saltate o s’accendono e si spengono creando un’atmosfera spettrale. Uno dei due grandi lampadari di cristallo si è schiantato al suolo, trascinando con sé una parte di alcune scale, ormai inutilizzabili. L’altro è spento e alcuni cavi cadono fino a terra, emettendo scintille. Si agitano da soli nell’aria, rendendo ancora più difficile il passaggio.
Ripercorriamo i passi dei favoriti, hanno usato delle travi per attraversare i vuoti creati nel pavimento. Ci sono dei buchi di almeno due metri, il legno scricchiola sotto i piedi, guardo giù e mi rendo conto di stare ad almeno 6 metri di altezza. Prego ogni volta di non perdere l’equilibrio. Finch, invece, è davvero una piccola volpe, saltella qua e là con maestria e quando le faccio notare che è davvero brava, arrossisce di nuovo e mi sorride.
Sono già sudata e mi rendo conto che abbiamo percorso solo il primo corridoio, quando sento un “click".

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Capitolo 12
*** CAPITOLO 11 - White rose seconda parte ***


CAPITOLO 11 - White rose     seconda parte



Dietro di noi sentiamo un boato e delle fiamme si alzano fino al soffitto.
Un pendolo di oltre cinque metri di lunghezza scende a pochi passi da noi. E’ massiccio, sarà largo almeno tre metri e si assottiglia verso l’estremità. Va da una parte all’altra conficcandosi nel soffitto e tirandone giù buona parte. Fende l’aria e ritorna verso di noi. Conto quattro secondi per ogni oscillazione. E’ ricoperto di gemme preziose colorate e il sostegno di metallo è lilla. Semplice ma perfettamente in linea con la moda capitolina.
E, perché no, immagino già le bambine rincorrersi con il modello giocattolo.
Dobbiamo superarlo.
Correndo, ci condannerei a morte certa.
“Strisciamo.”, mi dice la ragazza e si sdraia avvicinandosi al pendolo. Ma non sono convinta. C’è qualcosa che non va.
“Aspetta.”, le dico o forse lo penso soltanto.
Scruto quell’arma così semplice e sento un sottile ronzio.
Sgrano gli occhi e mi getto su Finch.
Sento che il laccio della faretra viene reciso, lo afferro al volo.
Il pendolo passa sopra di noi e mi scortica via la pelle dalla spalla più e più volte. Gemo ed intimo a Finch di tornare indietro appena il pendolo sale. Ci riesce ed io mi rotolo subito dopo.
“Lame rotanti.”, le indico il pendolo e ora le nota anche lei, appena visibili.
Mi sdraio sulla schiena e ruggisco per il dolore. E poi lo vedo. Prendo una delle tre frecce esplosive che mi ha rimediato Gale e la tendo quanto più mi è possibile farlo. La scocco. Il muro esplode e i calcinacci si riversano su di noi, scoprendo l’enorme, perfetto ingranaggio di morte che regola la trappola. Scaglio un’altra freccia che si conficca esattamente nel mezzo, bloccando l’oscillazione.
“Corri!”, grido e ci ritroviamo all’angolo tra il primo e il secondo corridoio.
Anche il secondo è inframmezzato da numerose buche.
Ci fermiamo qualche momento per terra a riprendere fiato. Il mio sguardo indugia su quell’arma pacchiana.
Le gemme si staccano, rotolano sul pavimento, ognuna ricoprendo una precisa porzione della corsia ed iniziano a lampeggiare.
“Sono delle bombe!”, urlo. In quello stesso momento le prime due esplodono, seguite subito dopo dalle altre.
Finch mi abbraccia nascondendo il viso sotto il mio braccio ed io inizio ad avvertire il dolore sulla schiena.
Provo ad allontanare una gemma con il piede, ma è ancorata al pavimento con degli uncini.
Costringo Finch a scappare.
Facciamo qualche passo ed esplode scaraventandoci in avanti.
Prendo la mano della ragazza al volo.
“Finch!”, cerco i suoi occhi mentre il suo corpo oscilla nel vuoto in una profonda crepa del pavimento.
“Finch!”, chiamo ancora. Alza l’altra mano e ne afferra saldamente una più piccola e scura. Mi giro e trovo Rue, il tributo dell’11. Tiriamo con forza e riusciamo a sollevarla quel poco che basta per aiutarla a salire.
La bimba corre via e si arrampica fino quasi a raggiungere il soffitto.
Mi rendo conto che sto sanguinando copiosamente.
 “Dobbiamo tornare indietro”, mi incita. Ma le fiamme infuriano ancora. Faccio una smorfia nella loro direzione e anche lei rinuncia subito all’idea.
“Ti servono dei punti! Io non so metterli!”
“Io sì!”, una voce dall’alto: la piccola Rue.
Sta lì ad osservarci, attende la promessa che non le faremo del male. Le sorrido.
“Non ti farò del male”, giuro. Poi guardo Finch, imbambolata con la faccia in su, mentre fissa quella bambina che è riuscita ad arrampicarsi così in alto.
“Nemmeno io!”, urla ridestandosi dalla meraviglia.
“Prima siamo passati da qui e nessuno si è accorto di lei”, mi confida.
In poco tempo, è già da noi. L’adrenalina mi aveva annebbiato i sensi, ma ora il dolore è pungente e vomito sul pavimento il poco cibo che avevo consumato al mattino.
Finch mi tiene le mani mentre Rue corre verso uno dei negozi bui. Le dico di fermarsi ma lei non si gira e velocemente apre la porta con fare sicuro con una delle chiavi.
Ritorna in pochi secondi, portando con sé un amo da pesca e del filo trasparente. Sento il golfino inzupparsi di sangue ed iniziano a mancarmi le forze.
Rue, senza perdere tempo, infila l’amo nella mia pelle. Il dolore è fitto, incessante, inguaribile, sento la mia carne riunirsi poco a poco, mentre il fuoco divampa tra le mie membra. Provo a stare rilassata, ma ad ogni passaggio del filo, i miei muscoli s’irrigidiscono, incontrollabili. E più lo fanno, più il dolore si acutizza. Provo a non urlare, a stringere le mani di Finch, che è intimorita e prova a liberarsi dalla mia presa. Mi rendo conto nel mio delirio che le ho conficcato le unghie nella carne. Le lascio subito le mani e provo a scusarmi ma non riesco a parlare, Rue a quel punto rientra nella mia schiena e non riesco più a trattenere le urla. Dopo diversi minuti strazianti, svengo.
 
Mi risveglio poco dopo, il dolore alla schiena mi toglie il piacere dei pochi secondi di dormiveglia, in cui ancora non mi rendo conto di dove sono.
Provo a tirarmi su, ma le spalle non riescono a sostenere il mio peso. Sento delle braccia sollevarmi, Rue e Finch mi sorridono e mi chiedono come sto. Nemmeno ho il tempo di rispondere che vomito nuovamente, questa volta solo saliva e succhi gastrici.
“Serve la tintura per disinfettare i punti, altrimenti avrai l’infezione. Ma non so dove trovarla!”, Rue sembra davvero dispiaciuta.
“Catnip!”, la voce di Gale mi raggiunge e mi rassicura, nonostante ciò mi butto su Rue e mi giro puntandogli una freccia tesa sul mio arco.
“Kat!”, dice con fare calmo. “Chi è lei?”, indicando la bimba dell’11.
“Lei è Prim.”
“Cosa?”
“Lei è Prim. E Rory. E Vick. E Posy. Lei è Prim e non le faremo del male”, gli dico seria, mentre fingo di non provare alcun dolore e proteggo con il mio corpo Rue.
“Lo so, non le avrei fatto del male. L’avevo già notata prima.”
Lascio andare l’arco e mi accascio a terra, “Bene, perché non avrei potuto fingere ancora a lungo.”
Mi prende tra le sue braccia e sento che parla con le ragazze, che gli raccontano ogni cosa. Ma io non sento nulla, ogni rumore mi sembra ovattato e dopo poco perdo di nuovo conoscenza.
 
“Catnip! Sveglia dobbiamo andare! Catnip!”, sono ancora tra le sue braccia. Arrossisco e distolgo lo sguardo ma il dolore di prima torna a dilaniarmi, tanto meglio: così non ci penso più. Ci alziamo in piedi, Rue torna ad arrampicarsi in alto, non prima di aver preso tutte le mie scatolette di carne. Anche Finch vorrebbe privarsene, ma lei è più piccola e ha bisogno di mangiare.
Gale mi aiuta a mettermi in piedi e lentamente camminiamo nel secondo corridoio. I baccelli esplosi hanno squarciato completamente il viale, formando una parete di macerie. Con queste ferite avrò molta difficoltà a superarlo.
Gale ci indica un varco, a circa tre metri di altezza. Sono amareggiata alla sola idea di dovermi arrampicare fin lì.
Anche lui si rende conto che non sarà una passeggiata. Provo ad utilizzare solo il braccio sinistro ma le ferite pulsano e sento i punti tendersi. Non posso farcela.
“Ehi Capitol!”, urla Gale, “Non si tratta così la numero 1!”.
Gli sorrido. Una delle sue battute migliori.
Dopo qualche secondo sento lo stesso sbattere di ali di prima. Lo sentiamo tutti. Rovistiamo dalle macerie, finchè Finch non ci corre incontro con il pacchetto in mano.
 
La numero 1, esci da lì sana e salva. Gale, futuro comico, - H.
 
Speravo di trovare un unguento, invece trovo due pillole. La prima è rossa, la prendo subito.
Dopo qualche secondo sento nuovo calore e nuova forza pervadermi. Non so cosa sia ma vedo Finch sorridere dalla sorpresa e guardare Gale, altrettanto felice.
“Sei rosa! Eri così bianca ma ora sei rosa!”, mi abbraccia la dolce volpe.
“Cos’era?”, domando. Gale scuote la testa. Anche Finch non ha nessuna risposta. Decido di prendere anche la seconda, magari fa passare il dolore.
Ma il dolore non passa, chissà se è servita a qualcosa.
Comunque non potrò passare attraverso il varco, mi stendo a riposare mentre Gale aiuta Finch a passare dall’altra parte e nel frattempo elabora un piano.
Mi sembra quasi di poter stare tranquilla, quando sento una morsa allo stomaco e l’immagine della rosa bianca mi riporta prepotentemente nell’arena.
 
“Kat! Forse abbiamo trovato un modo!”
Mi sento molto meglio, ma non riesco a sollevarmi da sola. Gale mi corre incontro e mi aiuta. Mi accompagna fino al muro, dopodiché chiama: “Adam! Butta la corda!”.
Sbuca il viso rotondo di un ragazzino con i capelli folti e ricci, ha le lentiggini e anche lui non deve avere più di quattordici anni. Mi sorride e butta la corda.
“Chi è?”
“E’ l’altro tributo del 5. Pensavo fosse morto nel bagno di sangue.”
Non serve che io gli chieda se posso fidarmi o meno. Dopo molti anni di caccia insieme se Gale si fida, mi fido anch’io. Mi lega la corda intorno al piede, impugno la fune con le mani. I due tributi del 5 tirano, lui si arrampica dietro di me.
Arrivati al varco, restiamo qualche secondo fermi in attesa di un’illuminazione, che però non arriva.
“Hai detto che avevate trovato un modo.”
“Per farti salire, non per farti passare attraverso il buco.”
Spudoratamente sarcastico fino alla fine. Gli sorrido, non se lo merita ma le sue battute migliorano.
“Meglio se fai passare prima la schiena.”
“Ti aiutiamo noi dall’altra parte!”, urla Finch.
 
Ma non riesco ad allungare le braccia, ogni movimento stuzzica le ferite.
“Gale, basta, non ce la faccio! Torno indietro dall’altra parte!”
Scendiamo.
Si rabbuia per qualche secondo.
“Resto con te!”
“No! Ricorda quello che mi hai detto! Ci tengono in vita solo perché per loro siamo utili!”
Mi toglie i capelli dal viso, ma mi infastidisce. Sospira e se ne va.
Solo a quel punto mi torna in mente la mappa. C’è un passaggio, ma per raggiungerlo dovrei comunque ripassare dal pendolo.
Rifiuto l’idea di dover superare di nuovo quella trappola.
Seguo l’indicazione per la toilette, i ragazzi hanno perlustrato anche qui. Raggiungo una curva, mi conduce sulla sinistra, verso i bagni.
Eppure qualcosa non quadra.
Istinto.
Inizio a battere sul muro, ascolto il rumore sordo che mi rimanda la parete. Mi sposto verso destra, finchè il rumore cambia e capisco che dietro potrebbe celarsi un accesso.
Prendo dalla mia faretra la seconda delle tre frecce esplosive, l’esplosione alza una nube di polvere, mi proteggo con un braccio, anche se riesco a sollevarlo appena. Intravedo un varco.
Ci potrebbero essere delle trappole. Ma restare ferma qui? Snow mi indurrà a muovermi, a raggiungere gli altri. Oppure potrebbe sfruttare questi momenti per farmi fuori.
Meglio andare avanti.
La galleria è completamente buia. Decido di attendere qualche secondo sulla soglia, affinché i miei occhi si adattino all’oscurità. Cammino lentamente, vorrei appoggiarmi al muro ma temo trappole inesplose. Lancio davanti a me dei ciottoli per attivare eventuali baccelli. Mi affido ad ogni mio senso. Una pietra attiva dei coltelli che cadono conficcandosi per terra. Tutto qui? Troppo facile.
Arrivo alla fine del passaggio e percepisco sotto i polpastrelli il freddo del metallo. Una porta. Abbasso la maniglia.
Il pavimento si accende e il fuoco illumina l’ambiente.
E’ un forno.
Provo a tornare indietro ma un muro di cemento, prima inesistente, mi imprigiona qui dentro.
Picchio la porta ed urlo con tutta la voce che ho in corpo, ma chi può sentirmi adesso?
Mi allontano e lancio la terza freccia esplosiva, anche se non riesco ad allargare le braccia come vorrei, per il dolore e per lo spazio che si riduce sempre di più.
Colpisco la porta, la freccia esplode ma il metallo non sembra accusare alcun danno.
Sto per morire. Le fiamme rendono incandescenti le grate del pavimento e sento che le mie scarpe si stanno fondendo. Il fumo mi invade le narici e annaspo senza riuscire ad acchiappare l’aria con la bocca. Alcune vampate di calore vanno a tormentare le mie ferite. Sto per morire. Chiudo gli occhi e aspetto, mentre mi metto di lato, sperando in un miracolo. Ma non arriva nessun miracolo. La temperatura sale sempre di più e sento il sudore e la paura. Sento la voce di mio padre nella mia testa. Credevo di averla dimenticata, invece lui torna ad accarezzarmi con le sue parole. Sto per morire. Non c’è più aria, non c’è più spazio. Sto per morire.

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Capitolo 13
*** CAPITOLO 12 - White rose terza parte ***


CAPITOLO 12 - White rose  terza parte



Sento Gale urlare e delle braccia trascinarmi via.
“Non ti avevo detto di non fare di testa tua?”, è scosso e agitato, mi urla molti insulti mentre io annaspo ed ingoio l’aria. Gli occhi mi bruciano e il dolore alla spalla si fa pungente.
“Abbiamo sentito un’esplosione nel muro. Lo abbiamo buttato giù e abbiamo trovato una porta a tenuta stagna. C’era una manopola ma era bloccata, abbiamo fatto appena in tempo.”
Le mani di Gale sono distrutte dai graffi.
Lo guardo negli occhi mentre ancora non mi sembra vero di essere ancora viva.
Adam e Finch restano in un angolino, alzando appena gli occhi. Mi giro a guardare questo terzo corridoio, la copia esatta dei primi due ma con una gigantesca palla di ferro chiodata che ne occupa buona parte.
 
Ci fermiamo qualche minuto, Rue ha dato a Finch precise indicazioni per la cura delle ferite.
“Si sono riaperti dieci punti, Katniss.”, so già cosa vuol dire.
Prende ago e filo e prova a fare lo stesso movimento di Rue, ma tentenna e la sua indecisione mi costa non poche fitte di dolore.
“Lo faccio io”, dice Gale, con un tono più dolce. La ragazza gli spiega come fare e lui segue alla lettera, preciso e veloce.
 
Finch insiste affinché io e Gale ci dividiamo almeno una delle sue scatolette. Accetto, ho molta fame e dai Giorni Vuoti non faccio troppi complimenti.
Ne dà una anche ad Adam, che mangia voracemente. Ci confessa di non essere riuscito né a mangiare né a bere da quando è entrato nell’arena. Mi meraviglio di come non abbia perso il sorriso. Quello che ricordo dei Giorni Vuoti è che non riuscivo a smettere di soffocare i crampi nella pancia. Ma io avevo anche perso papà. Ho smesso di sorridere da quando lui e la mamma se ne sono andati.

“Cosa c’è?”, Gale mi scuote dai miei pensieri.
“Nulla.”
“Devi ammettere che lo spot del dentifricio Dentamint ha una musichetta accattivante!”, sorride.
“Sarà la decima volta che l’hanno mandata da quando sono ricominciati. Chissà perché solo gli spot e non le voci.”
“Ho come la sensazione che stia per succedere qualcosa, ma non so se dipenda da questo o dal fatto che siamo chiusi nell’arena.”
“Come avete fatto a sopportare le voci stanotte?”
“Tappi per le orecchie!”
“Che?”
“A quanto pare si usano per eliminare i suoni esterni. Ho avuto molta difficoltà ad orientarmi senza l’udito, ma almeno non sono impazzito. Hai presente quella delle parrucche cambiacolore con l’umore? Quella è la peggiore.”
La sua ironia è pungente e sottile, a Capitol rideranno a crepapelle di quelle battute. Ma io so quello che lui pensa di questo posto, di Capitol, della gente che ci abita e di questi Giochi. E so che capiranno anche a casa e che si stringeranno ancora di più per sostenerci.
Dopo molti anni insieme, io e Gale non abbiamo bisogno di molte parole per comprenderci.
“Grazie.”, ancora non gliel’avevo detto.
“Catnip, nella cornucopia io non ho…”
“…ucciso nessuno.”, completo io e lui resta senza parole.
“Il ragazzo del 6 aveva due frecce nel torace, sarebbe morto in poco tempo e stava aggredendo Cato. Ho pensato che sarebbe stata una buona occasione per creare un’alleanza.”
“Loro non sono come noi. Loro non si sentono in debito verso gli altri. Non portano rispetto. Loro giocano e noi siamo le loro prede. Potrebbero ucciderci nel sonno, sgozzarci all’improvviso. Non so di cosa stanno parlando adesso, ma potrebbero essere piani di morte.”
Adam e Finch mi guardano spaventati e Gale sta per sdrammatizzare con un’altra delle sue battute, quando lo sento di nuovo.
Ding
Ding
Ding
E poi improvvisamente il buio.
 
Come ieri, solo poche luci verdi accese. Ci mettiamo in piedi, stringendoci in cerchio.
“Avete idea di cosa sta succedendo?”, chiedo.
“Penso che rilascino nell’aria dei potenti allucinogeni. Tutto quello che vedete o sentite non è reale.”
Ho molti dubbi e pochi secondi per riflettere.
Non ho nemmeno il tempo di riordinare le idee.
 “Lì!”, Finch indica una figura tra le travi del soffitto. Una sagoma, un’impronta. Non dice nulla e noi restiamo fermi, senza sapere bene cosa fare.
Quanto tempo passa? Mi sento lontana e molle. Il ronzio del neon si fa intollerabile.
Senza una parola, l'uomo si lancia nel vuoto.
 
Siete solo degli ipocriti! Cagne e prostituti! Morirete nel mio inferno!
Li ho uccisi tutti!
 
Sono solo registrazioni, penso. Messaggi di morte e di odio. Non l’avranno fatto apposta, ma mi sembra che l’ipocrisia delle voci nella luce sia stata smascherata.
Rido, mi sento drogata, ho gli occhi socchiusi e il fiato esce dalla mia bocca in modo impercettibile.
Resto ad ascoltare, immobile per non perdere l’equilibrio.
Un pianto di neonato irrompe nelle orecchie, mi piego in due dal dolore.
Smette all’improvviso e adesso le voci ci sommergono, una sull’altra, infinite e deliranti. Mi sento come in un mare in tempesta. Non ho mai visto il mare, ma così dev’essere quando uno annega. Le voci mi rivoltano, mi avvolgono, mi attirano lontano da me e poi mi risospingono a riva.
Vedo Finch e Adam vomitare dal disgusto mentre le immagini di morte penetrano nella nostra mente. Non riesco a togliermele da davanti agli occhi.
Mi vedo uccidere Gale, mi vedo uccidere Prim. Il loro sangue caldo scorre sulla mia pelle e sento di non riuscire a trattenere l’urina per la paura. La vergogna mi riporta in me, ritrovo un attimo di lucidità.
Sento le mani di Gale, in un istante ci ritroviamo a correre mentre giriamo nel terzo corridoio. Ci inseguono? No, non ci inseguono eppure sento qualcosa, sento qualcosa. Quella sensazione, quel brivido dietro la schiena, quell’istinto primordiale che ci costringe ad andare oltre.
 
Ci ritroviamo di fronte al negozio che avevo notato all’inizio. Stento a riconoscerlo, è lo stesso posto ma non è più lo stesso posto.
Il sangue e la muffa ricoprono le pareti della vetrina distrutta e di tutto il negozio stesso. I manichini sono sempre lì, bianchi, rigidi, senz’anima, orrendamente puliti. Per terra i frammenti del vetro sono sporchi di brandelli di pelle e capelli.
Sangue secco, l’immagine di un massacro avvenuto molto tempo prima. Dalle pareti del corridoio una melma nera scende ricoprendo il pavimento di detriti.
Gale mi strattona.
 
Ma proprio nel momento in cui ci spostiamo in avanti, vedo una mano bianca articolarsi.
Un piede si sloga nel movimento storto di una gamba.
Le schiene s’inarcano in scatti bizzarri.
Non hanno volto ma non smettono di fissarmi.
Mi fissano.
Mi fissano.
I senza volto mi fissano.
Loro sanno.
Sanno che cosa ho fatto, a Gale e a Prim.
Loro sanno, mi fissano.
 
“Sono solo allucinazioni!”, urla Gale, mentre mi tira il braccio.
Evito le buche, sono reali? Sto per raggiungerlo, tendo esageratamente la spalla, la sento spezzarsi, osservo il mio braccio paralizzato in una strana posa sul pavimento.
Sono caduta? Avverto la guancia affidata al suolo.
 
“Non preoccuparti!”, ma non è la voce di Gale!
Urlo mentre mi ricuciono con dei vermi sottili, li vedo passare lentamente vicino al mio collo, li sento strisciare nei punti sulla schiena, si dimenano costretti tra la mia carne.
Sento Adam urlare.
“Avevi detto che erano solo allucinazioni! Lo avevi detto!”, grida Finch.
Il buio si dissolve. Le luci, gli spot, le voci registrate. Tutto come prima.
“Kat!”, urlano. Ma io li sento appena. Mi accascio per terra e perdo ancora una volta i sensi.


 




Spazio autrice

 
Ringrazio tutti coloro che leggono la mia storia!
Ringrazio anche tutti coloro che l'hanno commentata e che la stanno seguendo!
Come già molti di voi sanno, questa è la mia prima fan fiction e devo dire che sono molto contenta che a tanti lettori sia piaciuta.
Con questo capitolo si conclude White rose, in cui mi sono divertita a fingermi stratega e ad inventare trappole e ad arricchire l'arena. Mi era sempre piaciuta l'idea di ricreare un'arena al chiuso, dato che nei libri non se ne parlava.
Purtroppo, con gli esami alle porte devo interrompere momentaneamente la pubblicazione dei capitoli, ma ne prometto uno per San Valentino. I toni cambieranno e mi concentrerò molto sul rapporto tra Gale e Katniss. Sono una fan dell'Everlark, ma voglio comunque approfondire i rapporti tra i vari personaggi, mi piacerebbe soffermarmi sul rapporto tra loro due.
Ci sono anche molte sorprese che ho preparato e che spero vi piaceranno. Sappiate che come voi, anche io non aspetto altro che il ritorno di Kat da Peeta!
Grazie al cielo, ho quasi ucciso tutti i tributi!
Da come parlo, non vi sembro una piccola Snow? Muahahahah
Chiudo con i ringraziamenti che più mi stanno a cuore. Ringrazio Lucia Aversano, amica, collega e coinquilina, nonchè seconda stratega in carica nella mia fan fic! Un terzo delle idee contenute in questa fan fic sono state partorite dalla sua mente brillante ed io non ho fatto altro che elaborarle e pubblicarle qui. Innumerevoli consigli e pomeriggi passati a leggere e leggere e leggere e rileggere e confrontarci su ogni singola frase. 
Ringrazio infinitamente Giacomo Meucci, il mio Peeta, mio grande amore e uomo a cui mi ispiro per arricchire l'immagine di Peeta. Un terzo delle idee contenute in questa fan fic sono state partorite da quest'altra mente brillante. L'altro terzo è davvero mio :D
Vi assicuro che nulla mi ha ispirato di più del mio ragazzo, che per me è oro e che io spesso sento di non meritare. 
Detto ciò, vi saluto con la speranza che anche quest'ultima parte vi sia piaciuta!
Vi auguro una buona settimana,
Baci a tutti.
Federica
 

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Capitolo 14
*** CAPITOLO 13 - Notte ***


CAPITOLO 13 - Notte




Sono passati due giorni.
Il primo non ero cosciente, il secondo l’ho passato a metà tra gli incubi nella mia testa ed il pavimento lurido di un bagno.
Ho i piedi fasciati. “Sono ustionati”, mi ha detto Gale.
Non mi ha mollato un secondo, nonostante anche lui sia ridotto piuttosto male.
La schiena è quasi completamente guarita: a quel che ho capito, molti di noi sono rimasti feriti. E per noi intendo il gruppo dei favoriti. Il solo pensiero di trovarmi lì in mezzo mi disgusta. Comunque sia, Cato ha ricevuto un unguento per delle ferite e, malvolentieri, l’ha ceduto anche a noi.
Ma le ustioni mi preoccupano, così conciata sono più lenta degli altri e non siamo rimasti in molti. Dai gabinetti si sprigiona un tanfo di fogna a cui nessuno, a parte me e Gale, è abituato, rendendo tutti molto irrequieti.
“Chi manca?”, sussurro appena all’orecchio di Gale.
“I due del tre.”
Quindi anche Rue se n’è andata. Sento la rabbia pervadere il mio corpo, ma stringo i denti: non ho più tempo.
So bene cosa vuol dire questo per noi. L’alleanza sta per finire.

Finch sta rannicchiata in un angolo, mi sembra che stia per crollare. “Non preoccuparti”, mi dice Gale, sorridendomi. Le porta qualcosa da mangiare. Mentre lui torna da me, la bimba mi saluta con la mano ed io le sorrido. "Ha bisogno di stare un pò da sola...sai...Adam", mi dice.
Gli altri sonnecchiano dall’altra parte del bagno. Provo a non crollare nemmeno io, provo a non pensare che morirò qui dentro o che morirò più tardi, fuori di qui, sola.
Mi rendo conto che i motivi per continuare a vivere diminuiscono man mano che il tempo passa.
Abbiamo consumato le scorte di cibo, quando decideranno di andare a prenderne altro si renderanno conto di quanto sono ormai inutile in questo stato.
Le piastrelle del bagno si fanno trasparenti e parte il solito inno degli Hunger Games seguito dall’annuncio di chi è ancora in vita.
“E’ notte!”, dice Lux, “Domattina andremo a fare nuove scorte”.

Gale annuisce e si alza di nuovo, gli tremano le mani. Non ho mai visto le sue mani da cacciatore tremare. Lo seguo con lo sguardo mentre raggiunge il contenitore dell’unguento, prende delle bende pulite e si siede sul pavimento davanti a me. Adesso comprendo perchè la frase di Lux l'ha innervosito tanto. Non sono l'unica, qui in mezzo, a sapere che ridotta così non andrò lontano.
Ha paura, di perdere me.
Ha paura, di rimanere da solo.
Ha paura di perdere me?
Mi rimuove le garze del giorno prima, stringo i denti, la pelle si è attaccata e ogni volta che ne srotola un pezzo, spontaneamente il dolore mi si scioglie in lacrime.
Mi spalma la crema con delicatezza e cura. “Non so se può servire a qualcosa, di certo male non farà. Stanno già molto meglio di prima”, dice ma non gli credo. Ha un’espressione sofferente ed entrambi proviamo sollievo quando ricopre le piaghe con le nuove fasciature.
Sta per posare la crema, ma l'afferro al volo, ora tocca a me. "Non basterà per entrambi!", sussurra con convinzione. Ma non mi lascio convincere e imito quello che ha fatto prima con i miei piedi e gli cambio le medicazioni sulle mani e intorno al polpaccio. Ha un profondo taglio sull’addome, mi applico per rimettere un paio di punti che sono saltati.
Io non sono mai stata brava in queste cose, non sono come mamma e Prim e con fatica resisto al fastidio che provo quando faccio passare l’ago tra i lembi di pelle di Gale.
Lui me lo legge in faccia e mi restituisce una strana espressione che associo ad una qualche forma di gratitudine.
E’ a quel punto che ricordo tutto quello che aveva detto durante l’intervista, mi faccio prendere dal panico e lo allontano sbuffando, colpendolo senza rendermene conto e causandogli una smorfia di dolore. Non gli chiederò scusa, nascondo il mio imbarazzo guardando altrove.

Mi tranquillizzo mentre lui intanto riordina i pochi medicinali che abbiamo.
Penso che forse avrei potuto flirtare un po’, magari ci avrebbero inviato una pomata per le ustioni. Ma io non sono così. Sapevo che questo momento sarebbe arrivato, che l’arena mi avrebbe portato a scegliere quale strada seguire, che persona essere. Ho ucciso, ho già ucciso. Ho già messo in dubbio me stessa. Continuerò a ripetermi fino alla fine che ho ucciso per salvarmi, che non c’era altro modo e nella mia testa sentirò comunque l’altra parte di me urlarmi che avrei potuto trovare un altro modo. Per salvare lei e per salvare me stessa.
Poco male, non la conoscevo, in fondo. Ma Gale? Non ho mai pensato che fossimo realmente amici, eppure molte cose ci uniscono. E forse, è vero, non l’ho mai pensato ma alla fine conta davvero quello che penso? Perché, a dirla tutta, se contano le azioni e non i pensieri, allora devo dire che sono fottuta, che devo considerare Gale mio amico, uno dei più stretti. Non che faccia molta differenza, cioè io non ho molti amici.
Quindi è mio amico adesso? O è la confusione dell’arena che mi confonde a sua volta?
Di sicuro, Gale comunque merita la mia onestà. E’ deciso? Così pare. Devo assolutamente smetterla di parlarmi da sola. Ho sempre pensato che questo fosse il primo segno di squilibrio mentale. Lo è?
Ripetiamo tutto, Rue è morta, mamma e Prim no, no per forza. Haymitch mi guarda, Gale è mio amico, Peeta è fidanzato, io sono tra i favoriti e se domani riuscirò a fare due passi potrò ritenermi molto fortunata.

“Tutto ok?”, mi chiede Gale mentre mi riscopro ad accanirmi contro le mie non più perfette unghie smaltate.
“Non deve avere un buon sapore.”
"Perchè ti sei già dimenticato della zuppa di Sae".
Sorridiamo, si siede al mio fianco ed inclino la testa per posarla sulle sue spalle. Lui mi abbraccia e mi accarezza i capelli.
Restiamo così per qualche tempo, mentre gli altri dormono. Questa è la sottile linea che ci separa, quindi. Che ci uccideremo domani, ma oggi si fidano di noi e dormono mentre facciamo il turno di guardia. Penso a queste cose e penso ai boschi, perciò quando mi parla sento solo un flebile sospiro, eppure mi basta per non avere dubbi. So esattamente che cosa mi ha detto.

“Ti amo, Katnip.”, sussurra.
Alzo gli occhi e resto ferma per una manciata di secondi mentre mi specchio nelle sue iridi color ghiaccio.
Mi sollevo con una mano e non provo alcuna vergogna quando ritrovo i suoi occhi.
“Non mi ami, Gale”, gli dico. Lì per lì ne sono abbastanza convinta.
“Cosa ne sai tu?”, mi risponde nervoso, scorgo nei suoi gesti agitati i pensieri che devono avergli invaso la mente alle mie parole.
“Perché è così, non mi ami.”
“Cosa ne vuoi sapere, tu, di quello che provo io?”
“Perché so tutto di te, perché tu sei come me”, compare tra le sue sopracciglia la stessa ruga di dolore che ricordo sul volto di mio padre quando tornava dal lavoro dopo una giornata faticosa. L'avevo vista qualche volta anche sul viso di mamma, nei Giorni Vuoti.
Lui sta per allontanarsi ma io lo blocco e lo avvicino. Mi accoccolo tra le sue braccia e quando sento il suo cuore rallentare, riprendo a parlare.
“Ho sempre pensato che l’amore sia l’unico modo per sfuggire alla morte. Che quando trovi l’amore, anche se continuano a succedere cose tristi, tu non smetti di sentirti vivo. Che quando ami, trovi in un abbraccio qualche istante di pace. Ma con te non è così, io quando ti guardo non smetto di pensare a mio padre. Ai nostri fratelli, alla fame. Non ci riesco. E quando mi stringi provo molto affetto per te, ma non trovo la pace. E so che anche per te è così.”, attendo una sua risposta, ma lui sta zitto. Mi guarda e mi sorride, capisco che non è ferito, che forse è solo un po’ sorpreso dalla mia franchezza. O almeno lo spero.
Non smette di stringermi e poi mi dice: “Ti proteggerò sempre.”
“Anche io.”
Dopo un poco mi fa: “Ti piace quel biondino, eh?”, arrossisco e gli do una gomitata. Se l’è cercata.
Sentiamo il rumore di piccole ali, Gale si mette subito alla ricerca della fonte del rumore, esce dal bagno e si dirige verso il corridoio. Torna poco dopo con una fialetta, “Per le ustioni!”, dice mentre il viso gli si illumina di felicità e mi passa il biglietto che la accompagnava.
Sono lì con te, bimba. – H.
Forse, anche se non ci siamo promessi amore eterno, in televisione dev'essere piaciuto molto il nostro momento di intimità.

Gale si dà subito da fare e mi toglie nuovamente le bende. Appena applica il liquido denso mi sento subito meglio. Prima di rimettersi al mio fianco mi fissa per qualche secondo. Non ho esitazioni, avvicino le mie labbra al suo viso. Le poso quasi impercettibilmente sulle sue. E' un bacio soffice, mi tiene ancorata a questa arena, mi aiuta a non perdermi nella mia mente. Ma non mi porta via di qui. E mi chiedo se per lui è la stessa cosa o se magari adesso è tra i cespugli dei boschi, con un buon odore di menta tutt'intorno. Magari per lui è così, ma per me c'è solo lo sporco del bagno e il pungente odore di sangue.

Passiamo il resto della notte riposando vicini, ogni ora Gale ricontrolla le mie ferite e applica altra medicina. Ogni ora mi posa un bacio sulla fronte o sulla guancia. E’ rude nei movimenti, ma gentile e mi sembra di tremare poco prima che un’altra ora finisca, perché me ne aspetto altri. Altri baci rudi e gentili. E mi sembra di desiderarli. Li desidero?
In fondo, cosa ne so io dell’amore? 

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Capitolo 15
*** CAPITOLO 14 - Delirium ***


CAPITOLO 14 - Delirium
 
Spazio Autrice

Ciao a tutti!
Vi ringrazio per leggere la mia storia! Grazie anche a tutti coloro che la recensiscono! Stiamo quasi per arrivare alla fine dei 74esimi Hunger Games, spero che la storia vi stia piacendo.
Buona lettura!
Federica

 




Sento le voci di Marvel e Cato, mi ridesto completamente dal mio dormiveglia, ma resto ferma e con gli occhi socchiusi. Mi rendo conto, da come gesticolano e da come ci guardano, che parlano di noi, che probabilmente stanno decidendo in quale momento e in che modo ucciderci. Al solo pensiero, sento la testa girare.
Stringo gli occhi in una smorfia e decido di alzarmi. Appena si accorgono di me, smettono di parlare ed iniziano a fissarmi. Apro una bottiglietta d’acqua e la sollevo leggermente in aria, come per salutarli. Quante volte mi ha salutato così Haymitch, ubriaco fradicio, con una fiaschetta tra le mani. Quante cose mi ha insegnato, senza nemmeno accorgersene. Quasi un padre, sì.
Gale dorme ancora. Mi avvicino a Finch, anche lei dorme. Le accarezzo dolcemente la fronte e apre un poco gli occhi. Le sorrido e le avvicino la bottiglietta d’acqua. Beve avidamente e, quando ha finito, le do una merendina.
“Riesci a camminare?”, mi chiede sottovoce con espressione seria.
Nemmeno ci avevo fatto caso, le ustioni devono essere quasi guarite. Faccio sparire in fretta dal mio viso l’aria sorpresa, “Sì, gli sponsor mi hanno mandato il farmaco per curarle”.
“Avete dormito abbracciati tutto il tempo!”, dice ridendo mentre con lo sguardo mi indica Gale, si è svegliato ora e sta mangiando qualcosa.
Mi guarda e mi fa un cenno con il viso, allora mi rigiro e torno a guardare Finch: “Sei un po’ troppo curiosa, volpetta!”, le dico scompigliandole i capelli, mentre lei continua a ridere di gusto.
“Dobbiamo andare”, alzo lo sguardo ed incontro gli occhi vuoti di Cato.
Prendo la mano di Finch e ci riuniamo intorno a Gale, che si è occupato di contare le munizioni a nostra disposizione. Riprendo l’arco e la faretra, passiamo diversi minuti a parlare di dove andare a rifornirci e di dove abbiamo più possibilità di trovare i ragazzi del 3.
Alla fine decidiamo di dirigerci subito verso il supermercato.
“Dovrebbe essere vicino, di sicuro è sullo stesso piano”, dice Gale.
Intuisce forse i miei pensieri e aggiunge: “Se dovesse esserci di nuovo la nube tossica, la supereremo come le altre volte. Stai tranquilla”.
Bastano queste frasi a calmarmi, le prendo per vere.
E’ la prima volta che mi fido di Gale senza mettere in dubbio le sue parole. Ma sono troppo stanca, non ho la forza per riflettere su quello che è successo, su quello che sta per succedere, su quello che penso e sulle parole sue. Ha detto di stare tranquilla. Mi ha detto queste cose. Di stare tranquilla. Inizio a ripetermelo nella mente, forse per crederci un poco di più.
“Lei va avanti”, esordisce con voce gelida Marvel, indicando Finch.
“E’ solo una bambina!”, gli dico disgustata. Ma i favoriti sono tutti d’accordo, così mi porto avanti anch’io.
Le tengo la mano mentre camminiamo in un silenzio innaturale, del tutto diverso dal frastuono che ha imperversato in questi giorni.
Prima di arrivare nell’antro del centro commerciale dobbiamo attraversare il corridoio buio che lo divide dai bagni.
Intravedo la luce dai negozi. Mi sembra che la vomitino nell’aria.

Stiamo sulla soglia, Finch stringe con più forza la mia mano, portiamo i piedi in avanti e nel momento stesso in cui li poggiamo sul pavimento, le voci e gli spot pubblicitari ricominciano.
Il volume è talmente alto che tutti noi ci pieghiamo dal dolore. Intravedo Lux piangere.
Cato apre lo zaino con difficoltà, riesco a vederlo appena. Trema dal dolore e si ferma quando sente di stare sul punto di esplodere.
Armeggia con le bende rimaste, le divide e se le ficca nelle orecchie, poi le passa a tutti noi.
Va un po’ meglio, ma continuo a proteggere con una mano almeno l’orecchio sinistro.
Impulsivamente, cammino piegandomi sulle ginocchia e guardandomi intorno con attenzione, Finch e Gale mi imitano. Penso sia un’abitudine da cacciatrice, non posso più contare sull’udito, mi concentro sugli altri miei sensi.
E’ allora che la vedo.
Non so come si chiama, è la ragazza del 3. Spingo Finch di lato, ci buttiamo su alcuni massi crollati dal piano di sopra. I favoriti, sorpresi dal mio repentino salto, fanno appena in tempo a nascondersi.
Tranne Lux.
Una lancia le trafigge il torace e si conficca sul bordo di uno dei buchi disseminati sul pavimento. Dopo qualche secondo, il bordo crolla e lei precipita.
Non passa nemmeno un secondo, vedo Marvel con gli occhi rigati dalle lacrime che urla e lancia tutti i suoi pugnali verso l’alto, cercando di raggiungere il tributo. Si ferma poco dopo, si gira e dalla sua espressione capisco che non è riuscito ad ucciderla.
Cato lo raggiunge subito dopo, ci fa segno di muoverci.
“Ci rivediamo qui tra un’ora!”, dice.
“Non fate scherzi!”, ringhia l’altro.
 
Ci dividiamo, io e Finch seguiamo Gale che corre verso il reparto di giardinaggio.
Urlo per richiamare la sua attenzione, ma inutilmente: io stessa non riesco a sentire la mia voce, tanto è alto il volume degli spot.
Si ferma ad un certo punto e mi fa segno di raggiungerlo.
“Ho un piano!”, urla.
“Vai a prendere lo zucchero e delle candeline per torte di compleanno. Hai capito quali? Quelle che si mettono sulle torte, le abbiamo viste ogni tanto nelle vetrine!”
Annuisco, non capisco che cos’ha in mente, ma gli affido Finch e intanto provo ad orientarmi tra i vari reparti.
Mi viene da vomitare alla vista di tutto questo cibo, di tutto quello di cui avevamo bisogno e che non abbiamo mai avuto. Non riesco a trattenerlo e mi appoggio con una mano ad uno scaffale, mentre rimetto il poco cibo che avevo consumato al mattino.
Ricomincio subito a correre, trovo in una decina di minuti le cose che mi ha chiesto Gale.
Quando torno indietro (e non è davvero una passeggiata, questo posto è immenso), lo trovo alle prese con un tubo di metallo.
“Dov’è Finch?”, gli urlo preoccupata e mi aiuto gesticolando. Indica dietro di me, mi giro e la vedo arrivare con un sacco di non so cosa, grande la metà di lei.
“Apri le candeline, togli la cera. Mi serve la miccia”.
Eseguo i suoi comandi: mi indica una presa e mi chiede di collegare il saldatore, così l’ha chiamato. La bimba intanto gironzola tra gli scaffali, le ho detto di restare nei paraggi e lei, che è proprio brava, non si allontana.
Non so cosa stiamo facendo, non so perché sa fare queste cose. A me non piace non sapere, lui indovina i miei pensieri.
Non mi dice nulla, un gesto solo: BOOM!
Apre le mani, come per indicare un’esplosione e capisco che sta fabbricando una bomba.
Sono sorpresa.
Sono senza parole, resto ferma a guardarlo per qualche secondo. Fremo dal bisogno di avere  risposte, gattono verso di lui.
Alza lo sguardo verso di me e si avvicina al mio viso. Il suo respiro sul mio collo mi agita e mi eccita, sento i capelli spostarsi ad ogni sua parola. Così ci metto un po’ per comprendere ciò che mi ha detto: “Nel 12, rivolta”.
Lui sta ad un centimetro dal mio naso, i suoi occhi sono vivi, irrequieti, elettrici. La sua mente è attiva, eccitata. Il suo corpo segue i pensieri ed io mi ritrovo a pensare che sia splendido.
I miei occhi mi tradiscono e lui mi prende il viso con una mano e mi bacia con passione.
Le nostre bocche si uniscono e si staccano e si riuniscono e s’aprono e si spingono l’una verso l’altra. Sento il mio corpo giocarmi un brutto scherzo. Lo sento scivolare via da ogni mio controllo e adagiarsi nelle sue mani. Perdo ogni potere e ogni decenza con un unico bacio e, quando mi allontana, mi sento sospesa e molle.
Lui continua a lavorare alla bomba e, intanto, Finch torna con una tavoletta di cioccolata che ha pescato da qualche parte.
 
“Fatto!”, dice Gale.
Mette la bomba nello zaino e andiamo a prendere da mangiare. Stiamo per avvicinarci a succulenti prosciutti, quando le voci cessano di colpo. Ci guardiamo per qualche istante e ci togliamo le bende dalle orecchie, le conserviamo: non faremo lo stesso errore fatto con i tappi, chissà dove li abbiamo lasciati.
“Dai, prendiamo del cibo e usciamo da qui!”, incito.
Ma dopo meno di un minuto, sentiamo un boato.
Due.
Tre.
Sempre più vicini.
“Stanno facendo esplodere tutto!”, urla Gale, mentre mi strattona da un polso.
Corriamo veloci, mentre sotto di noi sentiamo il pavimento tremare e poi cedere.
Riusciamo per un pelo a raggiungere l’entrata e, quando ci giriamo, ci rendiamo conto di quello che sta accadendo: è esploso tutto, il supermercato, i negozi. Non c’è più cibo, non c’è più acqua, ci spingono verso l’ultimo scontro.
Vediamo Cato e Marvel correre verso di noi, “Hangar!”, urlano.
Ripercorro ancora una volta tutti i corridoi, adesso sembrano familiari, adesso mi sembrano diversi.
 
L’hangar è buio, c’è un odore metallico nell’aria. Per terra è tutto pulito, non c’è un corpo, una goccia di sangue, un oggetto fuori posto. Vederlo da qui, mi dà la sensazione di vedere dall’alto me stessa qualche giorno fa, mentre combattevo per scappare dal massacro. Ha tutto un altro aspetto, da qui. E comprendo, forse, che cosa devono aver provato tutti quelli che l’hanno visto in tv. Mi chiedo che cosa provano ora, mentre sto ferma in piedi, a guardare il nulla.
Ma il nulla non è il nulla, io lì ho ucciso una ragazza. Però questo fanno a Capitol, ti fanno credere che non sia realmente successo, che è davvero un gioco, perché non c’è nulla che provi il contrario.
Ma il nulla non è il nulla.
Una rivolta.
Il pensiero mi fulmina, mentre scendiamo le scale. L’avevo rimosso, dopo quel bacio, dopo le esplosioni, dopo essere tornata qui. Una rivolta, esattamente ciò di cui Panem ha bisogno. Ma i giochi non servono a ricordare che è inutile? Che Capitol vince? Non sto morendo per questo?
Eppure non muoio ancora.
Troppo, è troppo tutto questo. Mi prometto di pensarci se mai uscirò da qui. Ma adesso, fino alla fine, non penserò più a nulla. Ma il nulla non è il nulla.
 
Finch sale sull’hovercraft, Cato e Marvel le ordinano di farlo funzionare, poi vanno a riordinare le provviste e le armi.
La ragazzina dà il meglio di sé e mi dà l’idea che, se l’arena fosse stata un grande computer, ci avrebbe fottuto tutti.
Mi siedo dietro di lei su un divanetto dell’hovercraft, Gale mi raggiunge e si siede al mio fianco, abbracciandomi e tirandomi a sé, in modo brusco ma deciso.
“Sei tranquilla?”
Mi sorprende che il suo primo pensiero sia sapere se sto bene. Mi limito ad annuire e poi prendo coraggio.
“Non capisco più chi sei, prima eri in un modo, nel distretto, come quel giorno a scuola. –meglio evitare i dettagli- Era facile odiarti prima. Adesso non capisco più”.
“Non…io…è difficile capirti, Katniss. Capire cosa vuoi e come vuoi che ci si comporti con te. Ero anche più piccolo…”
E’ in difficoltà, comprendo che si sta scusando, in modo molto impacciato, ma io non saprei fare di meglio. Così spingo un poco la testa verso la base del suo collo, sollevo i piedi e lui smette di parlare. Spero che capisca che va bene così.
 
E’ un attimo, un coltello si conficca nella testa di Finch. Prendo una freccia, l’arco, preparo la freccia e proprio quando Marvel compare davanti ai miei occhi, la scocco e quella si conficca con precisione in mezzo agli occhi, molto prima che lui possa lanciare un altro coltello.
“Non conveniva più continuare con la storia dell’alleanza. Eravamo addirittura tre contro due”, dice Gale. Ci nascondiamo dietro ai sedili, restiamo in silenzio, aspettando di sentire un passo, un gesto, un respiro di Cato.
Dopo qualche minuto decidiamo di andare via dall’hovercraft. Evito di guardare il corpicino di Finch. Una fitta di dolore mi fa inciampare mentre scendo le scale. Sono confusa.

L’hangar è deserto, ma non è possibile, giusto?
Non importa, prendiamo al volo le provviste e, di nuovo, ci allontaniamo dalla cornucopia, ripercorrendo, spero per l’ultima volta, gli infiniti corridoi.
 
Le esplosioni hanno ridotto in macerie l’intero edificio, dobbiamo ritornare all'hovercraft?
“Stiamo andando avanti e indietro, non ha senso!”, sa che ho ragione. Ci guardiamo intorno e notiamo una porta, entriamo senza difficoltà, è un ufficio. Ci chiudiamo dentro con la chiave che troviamo all’ingresso.
E’ piccolissimo, un quadrato, cinque metri per cinque. Una scrivania nera occupa il centro della stanza, dietro c’è un mobile basso e lungo e, a lato, un bottiglione d’acqua. Ci stanno un piccolo divano e due sedie da una parte e un altro mobile e una pianta dall’altro.
Ci sediamo per terra e mangiamo qualcosa.
Le pareti della stanza s’accendono e parte il bilancio dei morti.
I due del tre sono andati, probabilmente vittime delle esplosioni o della furia di Cato.
Ci siamo solo noi tre in gioco adesso.
“Cosa faremo quando…”, provo a chiedergli ma lui mi blocca, “Prima eliminiamo Cato”.
Ha ragione, non ha senso parlarne adesso.
Così il resto del pomeriggio lo passiamo a ricordare i giorni di scuola nel distretto e a parlare di come e dove piazzare la bomba.
 
E’ un attimo. Cato apre la porta con un calcio, come ha fatto a sapere che stavamo qui? Gale si fionda su di lui. Provo ad inseguire il movimento di Cato con l’arco, ma rischio di ferire Gale, non mi sento tranquilla.
Non posso fare nulla e mi sento avvampare, sento le lacrime rigarmi il viso e una strana paura addosso.
Sono inutile, mi sento lontana, indifesa. Vedo del sangue sul pavimento, chi è stato colpito?
 
Gale si accascia al suolo, lo accompagno con lo sguardo.
Alzo gli occhi, incontro quelli di Cato. 
Scappa.
Lo inseguo per un pò.
Poi torno indietro da Gale.
 
“Catnip”, è un soffio appena. Mi siedo sulle ginocchia e lo aiuto a sollevarsi, si mette seduto con la schiena contro la scrivania. Mi alzo e chiudo la porta, la fermo con una sedia.
“Kat, vinci per me”, lascio che mi dica tutto quello che vuole ed io mi sforzo per ricordare ogni parola.
“Kat, prenditi cura di loro, ti prego! Lo so che non sono la tua famiglia, ma ti prego, ti prego”. C’è disperazione nella sua voce, ha davvero paura per loro, più della sua morte.
“Sono fratelli miei”, gli dico e lui sembra rasserenarsi subito.
“Mi dispiace, non dovevi perdermi”, lui sa. Come Haymitch sa. Come tutti sanno, che non supererò anche questo. Non prova nemmeno a convincermi che ce la farò. Lui sa. O forse sa che lui non ci sarebbe riuscito, se fossi morta io.
Gli tampono con alcune bende la ferita, nei cassetti trovo del nastro adesivo, con questo blocco altre bende all’estremità di una gamba di legno, che ho rotto ad una delle sedie.
Le accendo con l’accendino che Gale aveva preso. Lui capisce.
Quando avvicino il fuoco alla pancia, urla di dolore. Il sudore gli bagna il viso e si mischia alle lacrime di prima e a quelle nuove che versa adesso.
Non so se è inutile, ma farò il possibile per salvarlo.
Sviene e ne approfitto per cucirgli la ferita con il filo e gli ami rimasti.
Non ho nulla con cui poter disinfettare. Aspetto.
 
Passa un giorno così, quando si risveglia mi rendo conto che non è completamente presente. Sputa sangue, ha le labbra bianche e la sua fronte scotta.
Non ho nemmeno l’unguento.
Mi chiede insistentemente di bere, so che non è un buon segno.
Così, quando lui mi guarda e mi sospira “Ti amo”, io gli rispondo: “Anch’io”.
Inizio a singhiozzare, mi nascondo il viso tra le mani, lui non ha la forza per raggiungerle, così mi avvicino io al suo viso e lo bacio, piangendo come una bambina. E anche lui piange, perché sa che non è giusto.
Ti amo”, gli dico ancora. Non mento, in qualche modo lo amo. In qualche modo, senza di lui non sarò mai più la stessa.
“Ti prego, non lasciarmi”, gli dico tra i singhiozzi, ma lui è sempre più lontano. Non riesce più a dire nulla, mi guarda con occhi tristi e comunque pieni d’amore. Mi guarda come mi guardava Peeta sul ponte, con la stessa dolcezza, non c’è più nulla di rude in lui.
Cosa ne so io dell’amore?
Mormora un grazie, poi se ne va.
Se ne va.
Gale non è più qui.
Nemmeno io sono qui, nemmeno io.
Lo urlo, urlo che nemmeno io sono qui.
Mi alzo e mi appoggio alla parete e guardo dritto verso tutti gli angoli della stanza, finchè non la trovo, finchè non trovo il portale tra me e tutti.
Ma sono più vicina a Gale che a voi.
Urlo ancora. Urlo e basta.
Cado a terra, vicino al corpo di Gale insanguinato. Mi terrorizza, mi disgusta, con i piedi mi porto in un angolo, il più possibile lontana da lui. Vomito e mi porto le mani sulle orecchie.
Non riesco a smettere di piangere, anche se non ho più lacrime.
Guardo ancora in alto.
“Portami via! Portami via! PORTAMI VIA!”, urlo con quanto fiato ho in corpo.
Haymitch, vienimi a prendere! Vienimi a prendere!
Non posso uscire da qui, non posso rivederlo. Non posso uscire da qui, non posso.
Puoi venire a prendermi, sto ancora qui fuori che ti aspetto.
Le senti le sirene? Me lo avevi detto tu, avevi detto che se avessi mai sentito le sirene, non avrei dovuto fare altro che aspettarti.
E tu sei arrivato e mi hai portato via.
Le senti le sirene adesso, Haymitch? Papà è morto, papà è morto. Non posso uscire da qui, non voglio vederlo.
Non voglio morire o sono morti tutti.
Sono morti tutti e posso uccidermi.
Posso uccidermi.
Sono sempre stata sola, lo vedo adesso. Lo vedo, che sono sola. Che sono morti tutti.
Li vedo, il sangue e la colpa. Sono morti tutti.
Sarà morto anche Peeta. Che strano, mi è così lontano, adesso.
Sì, Peeta è lontano, non è parte di me, è altro.
Non è qui e non verrà qui e non ci sarà Haymitch, sono sola.
Sono
Tutti
Morti.
 
No. Cato è vivo.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 16
*** CAPITOLO 15a - Addio ***


CAPITOLO 15a - Addio
 


 
 
 
E’ ancora vivo.
Cato è ancora vivo.
 
Nessuno di voi può capire. In fondo, non esistete, non siete mai esistiti.
Sto parlando a chi?
So che non capirete, lo so.
Quello che provo: è tutto veloce, è tutto lento. E’ tutto nebuloso, sono molto lucida.
Fluttuo nell’aria, mi muovo ma non mi muovo davvero. Mi capite? No, no che non capite.
Mi vedo correre, vedo chiaramente i muscoli delle mie gambe contrarsi nei pantaloni.
I miei capelli, mentre mi sposto in avanti.
Le mie mani, il sudore e il sangue.
Mi vedo.
Sono il fantasma di me stessa.
Lo zaino quasi vuoto si alza e si abbassa sulla schiena ad ogni mia falcata.
Sento la bomba muoversi, sbattere contro le pareti della borsa, ripiombare sul coltello di Gale e stridere, mentre i metalli scivolano l’uno sull’altro.
Il rumore delle mie scarpe sulle rovine dell’arena, un rumore soffice, non percepibile da nessuno, solo da me e da Gale.
Per questo mi giro cercando il suo viso, perché siamo a caccia, perché Cato deve morire.
Ma quando mi volto non ci sono i miei boschi. Non c’è Gale. Gale è morto e non lo vedrò mai più.
E Cato morirà per questo, morirà per averlo ucciso.
Lo rivedo nella mia mente, lo rivedo mentre lo pugnala, mentre alza lo sguardo su di me con una smorfia di soddisfazione e stanchezza.
Vuole vincere.
Desiderava vincere fin dall’inizio.
Fanculo i Favoriti!
Mi blocco di nuovo.
Lui non ha altra scelta.
No.
Sì, Snow ci ha messo in un’arena. Snow ci vuole morti, tutti tranne uno.
Cato vivo o Cato morto.
Sento gravare su di me la scelta.
Meglio morire, uccidersi è un soffio.
Uccidersi dev’essere una bella sensazione adesso.
Io o Cato?
Lui non ha altra scelta, nemmeno io.
Io non ho altra scelta e lui ha ucciso Gale, ho un motivo in più.
Ma io ho ucciso quella del suo distretto.
Ma lei stava per uccidere me.
E noi stiamo qui perché Snow lo ha deciso.
 
Rivolta
 
Mi interessa?
No.
Sì.
Cato vivo o Cato morto?
Prim è morta.
No.
No.
No.
Non ci penserò finchè non sarò morta.
O finchè non sarò fuori da qui.
Sento entrare l’aria nelle narici, i peli rizzarsi e il freddo invadere il cervello. La bocca aperta, il cuore battere. Ecco, la mia preda.
Mi acquatto per terra, apro senza far rumore lo zaino e prendo il coltello, la bomba e il nastro adesivo.
Uno sguardo verso l’alto. La telecamera mi punta. Chiedo perdono, lo chiedo con gli occhi e spero che, anche se non siete nella mia testa, anche se non riuscite a sentire quello che penso, mi perdonerete.
Sono veloce.
Mi avvicino all’angolo del corridoio, il respiro di Cato è calmo e rilassato, devo colpire: adesso.
Gli pianto il coltello nel braccio. Lui si lancia verso di me, non se l’aspettava e l’adrenalina deve ovattargli il dolore. Lo colpisco ancora, gli trafiggo una coscia e lui inciampa e rotola sul pavimento.
Lo trascino fino ad un palo ed inizio a bloccarlo con il nastro adesivo. Lui blatera qualcosa ma non ascolto, le sue parole sono veleno.
Gli blocco con un pezzo di stoffa la bocca. Così quando tiro fuori la bomba, sgrana gli occhi ed inizia ad urlare in modo buffo. Ma non implora la mia pietà.
Non lui.
Non un favorito.
Non morirà nel disonore, per lui è chiaro che sto per ucciderlo.
Non chiuderà gli occhi, non mi chiederà di essere rapida.
Lui farà la storia degli Hunger Games, sarà ricordato per sempre.
Cato, mio eroe.
Gli sputo sul viso e lui si dimena, inutilmente.
Ecco, sta per finire tutto.
La cerco ancora, cerco la telecamera, è la fine.
 
“Avete ucciso Gale! Ci avete ucciso tutti! Nessuno vivrà, nessuno!”, Cato si agita di più, mentre io accendo la miccia e mi stringo a lui.
“Addio”, gli dico, senza troppo rancore. Per la prima volta i nostri occhi si incontrano senza nessuna difesa, nessuna maschera, nessun distretto a dividerci.
A quel punto, quando metà della miccia si è consumata, la voce di Crane piomba su di noi.
“Gettala! Gettala e sarete entrambi vincitori! Getta la bomba! Ripeto, getta la bomba!”
Io e Cato ci guardiamo ancora, Crane continua ad urlare, teme forse che non abbiamo sentito, ma lo sentiamo e non è facile tornare a scegliere la vita. Non so cosa succede tra di noi ma ci comprendiamo.
La getto, alla fine, in uno dei buchi che lacerano il pavimento. Esplode sotto di noi, mentre io impugno il coltello e lo punto contro Cato. Se non terranno fede alla loro promessa, ci ucciderò lo stesso.
“Ecco a voi i vincitori della settantaquattresima edizione degli Hunger Games!”
Sentiamo la folla esultare.
 
Passano diverse ore, non ho intenzione di slegare Cato finchè non sarò sicura di uscire da qui sana e salva. Gli libero la bocca, solo perché stare da sola adesso mi fa paura. Mi fanno paura i miei pensieri e le mie azioni.
Eppure non dice una parola. Che mi aspettavo? Ed è comunque un’ottima compagnia.
 
Ci vengono a prendere dopo molte ore, arrivata sull’hovercraft cado per terra.
Katniss Everdeen è rimasta lì, nell’arena. Chi sono io? Non Katniss.
 
Addio.
 
 
 
 
Spazio autrice
 
Ringrazio tutti coloro che hanno letto la mia fan fiction, mancano due capitoli alla fine e devo dire che inizio già a sentirne la mancanza! Vi scrivo per chiedervi un parere: una volta finita questa storia, vorrei continuare con l’edizione della memoria, seguendo la divisione dei libri della Collins. Mi piacerebbe creare un secondo finale, in cui Katniss uccide Cato e semplicemente non sarà più il simbolo della rivolta.
Vorrei quindi realizzare due finali da cui prenderanno origine due storie diverse e ovviamente ognuno potrà scegliere la storia che preferisce. Cosa ve ne pare? Vi sembra una buona idea?
Grazie!!!
Un abbraccio a tutti!
Fede
 
 
 
 
 
 

 
 
 

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Capitolo 17
*** CAPITOLO 15b - Addio FINALE ALTERNATIVO ***


CAPITOLO 15b - Addio
 
 
 
 


E’ ancora vivo.
Cato è ancora vivo.
 
Nessuno di voi può capire. In fondo, non esistete, non siete mai esistiti.
Sto parlando a chi?
So che non capirete, lo so.
Quello che provo: è tutto veloce, è tutto lento. E’ tutto nebuloso, sono molto lucida.
Fluttuo nell’aria, mi muovo ma non mi muovo davvero. Mi capite? No, no che non capite.
Mi vedo correre, vedo chiaramente i muscoli delle mie gambe contrarsi nei pantaloni.
I miei capelli, mentre mi sposto in avanti.
Le mie mani, il sudore e il sangue.
Mi vedo.
Sono il fantasma di me stessa.
Lo zaino quasi vuoto si alza e si abbassa sulla schiena ad ogni mia falcata.
Sento la bomba muoversi, sbattere contro le pareti della borsa, ripiombare sul coltello di Gale e stridere, mentre i metalli scivolano l’uno sull’altro.
Il rumore delle mie scarpe sulle rovine dell’arena, un rumore soffice, non percepibile da nessuno, solo da me e da Gale.
Per questo mi giro cercando il suo viso, perché siamo a caccia, perché Cato deve morire.
Ma quando mi volto non ci sono i miei boschi. Non c’è Gale. Gale è morto e non lo vedrò mai più.
E Cato morirà per questo, morirà per averlo ucciso.
Lo rivedo nella mia mente, lo rivedo mentre lo pugnala, mentre alza lo sguardo su di me con una smorfia di soddisfazione e stanchezza.
Vuole vincere.
Desiderava vincere fin dall’inizio.
Fanculo i Favoriti!
Mi blocco di nuovo.
Lui non ha altra scelta.
No.
Sì, Snow ci ha messo in un’arena. Snow ci vuole morti, tutti tranne uno.
Cato vivo o Cato morto.
Sento gravare su di me la scelta.
Meglio morire, uccidersi è un soffio.
Uccidersi dev’essere una bella sensazione adesso.
Io o Cato?
Lui non ha altra scelta, nemmeno io.
Io non ho altra scelta e lui ha ucciso Gale, ho un motivo in più.
Ma io ho ucciso quella del suo distretto.
Ma lei stava per uccidere me.
E noi stiamo qui perché Snow lo ha deciso.
 
Rivolta
 
Mi interessa?
No.
Sì.
Cato vivo o Cato morto?
Prim è morta.
No.
No.
No.
Non ci penserò finchè non sarò morta.
O finchè non sarò fuori da qui.
Sento entrare l’aria nelle narici, i peli rizzarsi e il freddo invadere il cervello. La bocca aperta, il cuore battere. Ecco, la mia preda.
Mi acquatto per terra, apro senza far rumore lo zaino e prendo il coltello, la bomba e il nastro adesivo.
Uno sguardo verso l’alto. La telecamera mi punta. Chiedo perdono, lo chiedo con gli occhi e spero che, anche se non siete nella mia testa, anche se non riuscite a sentire quello che penso, mi perdonerete.
Sono veloce.
Mi avvicino all’angolo del corridoio, il respiro di Cato è calmo e rilassato, devo colpire: adesso.
Gli pianto il coltello nel braccio. Lui si lancia verso di me, non se l’aspettava e l’adrenalina deve ovattargli il dolore. Lo colpisco ancora, gli trafiggo una coscia e lui inciampa e rotola sul pavimento.
Lo trascino fino ad un palo ed inizio a bloccarlo con il nastro adesivo. Lui blatera qualcosa ma non ascolto, le sue parole sono veleno.
Non ho ancora finito di legargli le gambe che lui, non so come, si libera i polsi e mi tira i capelli. Li sento spezzarsi, il dolore è terribile. D’impulso porto una mano sulla testa e tiro la ciocca tra le mani di Cato in direzione opposta.
Gli pianto un calcio tra le gambe e lui molla la presa.
Mi alzo in piedi e raggiungo il coltello. Proprio mentre mi sto per girare, Cato si lancia su di me.
Con quasi metà del torace sporgo in una delle spaccature del pavimento.
Lui stringe le sue mani intorno al mio collo e sento la mia schiena inarcarsi.
Quindi finirà così, io morirò qui.
Sento le mie palpebre calare, pesanti.
 
Poi non so cosa succede, non so descrivervi il movimento del mio corpo.
Ma Cato precipita ed io sono sull’orlo della voragine.
Ho l’affanno.
Mi prendo un paio di secondi per capirci qualcosa.
Lui sta fermo, a pancia in giù. Sotto il suo corpo una pozza di sangue si espande pian piano, ma non arriva nessun avviso da Capitol.
Mi rendo conto che è ancora vivo.
Non sopravvivrà a lungo, potrei sedermi qui da qualche parte e aspettare. Ma il respiro si blocca e non so perché mi torna in mente mio padre.
Mio padre non l’avrebbe mai fatto, mio padre non l’avrebbe lasciato lì.
Poi, questa cosa è ancora più strana, penso ad Haymitch. Penso alle margherite. Penso al mio distretto.
Penso al sole caldo quando è primavera. Al sapore delle fragole selvatiche.
Se sarò abbastanza fortunata, rivedrò ogni cosa.
Ma non Cato.
Così, istintivamente cerco la mia faretra, ma non l’ho portata con me. Ho lasciato tutto lì, nell’ufficio, con lui.
Prendo la bomba, la accendo.
Mi incanto ad osservare il fuoco consumare la miccia.
Quando si è quasi consumata tutta, la getto sull’ultimo tributo.
Esplode.
Con lei esplode ogni mia emozione.
Con lei muore il resto di me.
 
“Ecco a voi la vincitrice della settantaquattresima edizione degli Hunger Games!”
Sento la folla esultare.
 
Mi vengono a prendere dopo molte ore, arrivata sull’hovercraft cado per terra.
Katniss Everdeen è rimasta lì, nell’arena. Chi sono io? Non Katniss.
 
Addio.
 
 
 

 
Spazio Autrice
 

Ciao a tutti!
Ho deciso di concludere con un poco di anticipo questa fan fiction, dato che ora darò il via a due storie parallele.
Spero vi piaccia anche il secondo finale alternativo e spero che continuerete a leggere il seguito, che sto già scrivendo.
Ringrazio soprattutto: Luc_y, Fizbo, JackiLoveCatoniss4ever, the dreamergirl, CamYagamii95, pandafiore, Ball00n e MaRy9o per aver letto e recensito la mia storia.
Ringrazio anche tutti coloro che hanno aggiunto la mia storia alle preferite, alle seguite e/o alle ricordate.
Grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Grazie!
E’ la mia prima fan fiction, è difficile riuscire a spiegare quanta soddisfazione e quante emozioni diverse e bellissime provo nel concludere questa storia.
Vi abbraccio,
Federica
 

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