Il corpo di chi ti ama

di Dolores Haze
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La prima notte ***
Capitolo 2: *** John ***



Capitolo 1
*** La prima notte ***


Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Sir Arthur Conan Doyle, di Steven Moffat e Mark Gatiss. Riferimenti ad altre storie pubblicate su questo sito sono puramente casuali e involontari. Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.

 

 

 

La stanza era piccola e squallida. Mycroft aveva impartito poche istruzioni prima di interrompere frettolosamente la comunicazione, dandogli un altro appuntamento telefonico per il giorno successivo. Erano trascorse solo poche ore dal falso suicidio, e il rischio di essere intercettati era ancora altissimo.

Sherlock sedette sulla brandina rigida, scrutando incupito le pareti ingiallite, il pavimento dissestato, la sporcizia coagulata negli angoli. La piccola lampadina pendente dal soffitto diffondeva una luce fredda e intermittente: la finestra era piccola e collocata troppo in alto perché potesse aprirla e scrutare fuori. Allungò una mano per toccare il guanciale, ma dovette ritrarla immediatamente, perché il tessuto era viscido e umido. Sospirò.

Che fare? Si chiese. Non aveva con sé i suoi libri, le sue provette o il suo portatile: sebbene il suo telefono cellulare fosse abilitato per navigare in internet, si sentiva troppo annichilito per poter condurre delle ricerche che potessero tornargli utili in qualche modo. La voce straziata di John continuava a perseguitarlo, dandogli l’impressione di essere trapassato parte a parte da un lungo coltello. “Lasciatemi passare, per favore, è mio amico. È mio amico… Oh, Dio, no. No.”

Si maledisse per aver rievocato quel momento con tanta chiarezza: ebbe uno spasmo, lo stomaco gli si contrasse, strinse d’istinto i pugni e gli occhi gli si riempirono di lacrime. Ecco il grande Sherlock Holmes, pensò con rabbia, vulnerabile come un bambino dato in pasto alla guerra. Perché questa è una guerra e non posso fare a meno di combatterla, sebbene desideri solo una delle tazze di tè di Mrs. Hudson e la compagnia di John sulla poltrona accanto alla mia…

Nonostante la certezza di essere riuscito ad avere la meglio su Moriarty e la consapevolezza del fatto che il suo allontanamento da Londra fosse temporaneo, quella notte si sentiva talmente svuotato e addolorato da non riuscire a far prevalere la forza della sua granitica razionalità su quella dei suoi sentimenti. I suoi pensieri si susseguivano senza posa, assemblandosi tra loro come tessere di un puzzle secondo un criterio non logico quanto emotivo. In un attimo si rese conto che quella era la prima notte, dopo tanti anni, che trascorreva in completa solitudine, senza la vicinanza di John o di Mrs. Hudson. E che sarebbe stata la prima di una lunga serie di notti senza conforto.

Il dolore si intensificò a tal punto che dovette alzarsi di scatto. Pensò cupamente a come sarebbe stato molto più facile se i sentimenti e le emozioni fossero state delle appendici, propaggini accessorie, da indossare come la sua sciarpa solo nei momenti più opportuni. Commetti un errore concettuale, si disse, avviandosi verso la scrivania consunta posizionata di fronte alla brandina. Le emozioni sono stati mentali associati a modificazioni di natura psicofisiologica. Anche volendo, non potresti mai indossarle come un cappello, perché sono parte di te…

Sedette sulla sedia sgangherata. La scrivania era libera, eccezion fatta per una pila di fogli e un paio di penne troppo nuove per essere parte dell’arredamento. Doveva esserci lo zampino di Mycroft. Ne impugnò una e tracciò una linea dritta sul primo foglio. L’inchiostro era nero e gradevolmente odoroso. Ebbe l’impulso di annusare la carta. Era nuova, candida, di buona fattura. Proveniva senza dubbio dalla stampante di Mycroft.

Pensò di scrivere una lettera, un testamento, di riassumere i passaggi del caso Moriarty, in modo da avere uno schema della situazione da arricchire con i dettagli che avrebbe raccolto in seguito. Aveva già deciso come impostarlo, quando si rese conto che la sua mano, come dotata di volontà propria, aveva tracciato alcune linee curve che ricordavano una capigliatura maschile.

Sherlock osservò accigliato il foglio, la penna, la propria mano. Il flusso di pensieri operativi sembrò arrestarsi nuovamente. Questi sembrano i capelli di John, si disse. Quando ci siamo conosciuti erano molto più corti, poi li ha lasciati crescere.

Che senso ha disegnare John? Si chiese. Posso incontrarlo in qualsiasi momento nel palazzo mentale, basta creare le condizioni giuste. E come lui posso vedere Mrs. Hudson, Molly, Lestrade. Ma la sua mente, frenetica, aveva già trovato la risposta.

Forse, se li trasferissi sulla carta così come li ricordo e li visualizzo nel palazzo mentale, potrei sentirli… più vicini. Forse, evocando ogni loro singolo dettaglio e incarnandolo nell’inchiostro, riuscirei a colmare il vuoto della loro assenza. Potrei guardarli ogni qualvolta lo desideri, potrei sistemare i loro fogli sotto quell’orribile cuscino, o nasconderli nella mia giacca. Incontrarli nel palazzo mentale significherebbe adoperare delle energie che potrei investire in altri modi… ad esempio per smantellare la rete di Moriarty e fare ritorno a Londra il prima possibile.

Quel pensiero lo rinfrancò. Scrutò più attentamente il foglio. John ha un piccolo ciuffo di capelli che gli attraversa quasi completamente la fronte…

Riprese a lavorare sulla capigliatura, poi tracciò, poco più in basso, una linea curva che delimitava la mandibola e il mento.

Si sentì immerso in una frenesia nuova, pulsante. Avvertì un senso di calore propagarsi negli arti, nell’addome, sotto lo sterno. Per la prima volta in quella giornata, le sue labbra si distesero in un piccolo, esitante sorriso.

Lo schema può attendere, si disse.

 

 

Buon pomeriggio a tutti!

Come preannunciavo nell’introduzione alla storia, si tratta di un qualcosa che ho buttato giù di getto in seguito ad un’ispirazione (o follia, chissà che i due aspetti non si rassomiglino) momentanea. Il tutto è ambientato nell’intervallo di tempo tra la seconda e la terza stagione. Sarà una raccolta di shots eminentemente descrittive, più che narrative: se questo capitoletto introduttivo è più lungo, può darsi che i successivi lo saranno molto meno. Lo scopriremo solo vivendo, come diceva Lucio Battisti! Un grazie anticipato a chi vorrà leggere e lasciare un commento su questa (ennesima) stramba storia!

Un bacio, a presto,

Denirose

 

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Capitolo 2
*** John ***


Le linee di John, a dispetto del suo portamento militare, sono molto aggraziate. Ha occhi chiari e intensi, diretti, specchio della sua schiettezza, della sua moralità, del suo esistere limpido. Sono difficili da rendere con questa penna tanto nera. Orecchie appena sporgenti, proporzionate rispetto alle dimensioni del volto. Labbra sottili, semplici da disegnare, naso che credo si definisca “a patata”, nel linguaggio comune – perché poi si chiama così? John. Ti ho raffigurato con un’espressione seria, corrucciata, – ecco, aggiungo due segni tra le sopracciglia – la stessa che hai quando sei concentrato sul tuo blog, su un passaggio particolarmente difficile di un caso, o quando ripensi al passato, all’Afghanistan, seduto nella poltrona di fronte alla mia, mentre io muovo con rabbia l’archetto del violino, e sono saturo, sporco di accidia. Tu mi guardi ma non mi vedi, io lo so e taccio, o fingo di non saperlo e continuo a riempirti di parole sciocche, vuote, indispensabili per sopravvivere. Come puoi saperlo, Sherlock? Lo so e basta, John, l’ho sempre saputo.

Quando distendi la bocca ti compaiono delle fossette agli angoli delle labbra, incantevolmente puerili. Non ci ho fatto spesso caso, ma quando me ne sono reso conto sono rimasto folgorato: le linee del volto si spianano, i tuoi occhi si ingrandiscono, sembri più sereno, più forte, come se i demoni fossero silenti e tu fossi soltanto tu. Ridi in maniera aperta, spontanea, contagiosa, irresistibile.

John, nonostante mi piaccia il tuo sorriso, la cordialità della tua espressione quando il tuo tono dell’umore è maggiormente elevato, quando accogli un cliente o la tua nuova ragazza, quando dormi per otto ore di fila e ti sgranchisci scrutando divertito il mio patetico, frenetico arrancare dietro i mille pensieri che affollano la mia mente dopo una notte insonne trascorsa dietro il microscopio, nonostante mi intenerisca il delicato rispetto con cui ti rivolgi a Mrs. Hudson, è nel tormento del tuo volto segnato che ritrovo il vero John, il John primordiale, vulnerabile, il John simile a me, pronto a saltare giù dalla poltrona e a seguirmi ovunque. Devo confessartelo, anche se sto parlando ad un foglio, devo dirtelo, in qualche modo, fartelo sapere.

Il tuo collo è semplice da disegnare. Forse ogni collo lo è: due linee morbide, snelle, uno spazio solcato dalle pieghe del muscolo sternocleidomastoideo. Una zona vulnerabile, esposta a qualsiasi pericolo. Il tuo collo mi spaventa, John, mi spaventa e mi attrae, perché è sul collo che affiora con maggiore chiarezza il polso carotideo, segno vitale indispensabile, l’ultimo a scomparire in condizioni di gravità tali da avvicinare il paziente alla morte.

Ho immaginato di toccare il tuo collo, John, premere la pelle delicata, sentire la vita parlarmi, rispondermi attraverso i tessuti e le cellule. Questo pensiero diffonde una tranquillità benefica nelle mie vene esauste. Altre volte, suggestionato dal mio stesso orrore, ho temuto di accompagnare il tuo battito con le mie dita, prigioniero della mia stessa aura di impotenza, sino a sentirlo affievolirsi, sino a sentirlo dileguarsi… mentre mi comprimevi il polso con una forza bruta, disperata, sconosciuta, oggi, e supplicavi che non stesse accadendo davvero, ho rivisto con lucida chiarezza quella scena dipinta dalle pennellate del mio masochismo, immaginando il tuo dolore, immaginando il dolore che avrei provato io, e ho lottato per non gridare. John, potrai mai perdonarmi?

Ma ecco le spalle… le tue clavicole sottili e affusolate. Sai, John, pur possedendo una fioritura di muscoli tonificati dall’attività fisica, le tue braccia appaiono esili. Sono sicuro abbiano ingannato molte donne. La mia penna corre, corre, insegue delle linee proporzionate, gradevoli, come se stesse ritraendo il frutto di qualche fantasia recondita, inestimabile, e invece sei tu, John, reale come il polso carotideo, come il sangue che palpita nelle vene, come le tue dita armoniose, curate, dalle chiare unghie rotonde…

Il tuo petto, John, è ampio, oltremodo rassicurante. Il tuo torso sembra una dichiarazione intima, troppo imponente perché si possa celare sotto gli abiti: lì dove emergono i grandi muscoli pettorali, ciascuno orlato da un capezzolo rosato, dove si fa strada l’addome liscio, interrotto solo in un punto dalla cavità ombelicale, è lì che si annida il tuo vero io, l’io di ognuno di noi. Non siamo che una continuità di tessuti, di pori, di bulbi e fibre, ma la tua continuità, John, per qualche impensabile ragione, è per me più amabile, più armoniosa, più meritevole e degna di quella di molti altri.

Devo fermarmi. Raccogliere le tempie tra le mani. Ti osservo, per un attimo, sbozzato dalla mia mediocrità, come un pulcino senza piume, rassomigliante alla categoria, ma non del tutto al vero se stesso: sono un pessimo disegnatore. Ciononostante, John, rincorrere i tuoi dettagli, fermarli sulla carta… come se ti avessi scattato più fotografie, come se avessi estrapolato le mie immagini mentali di te che cammini, che riposi, che esci dalla doccia, che giaci sulla poltrona con il computer in grembo… riconoscere la trama della tua pelle, della peluria chiara che fiorisce sulle braccia, sulle gambe, ripercorrere il passaggio delle tue linee, delle scanalature… è stato come incarnarti in me, incarnarmi in te. Un atto talmente remoto e impensabile da sorprendermi, da appagarmi, eppure da non lasciarmi ancora saziato, contorto e rattrappito come sono nella mia miserabile solitudine.

 

 

Ancora, come sempre e per sempre, la mia più profonda gratitudine va a chi legge e a chi recensisce, in particolar modo a emerenziano, che riesce sempre a cogliere il significato più profondo (e che a volte sfugge persino a me stessa) di quanto scrivo, a Paranoicasociale e a Ayreon: mi inorgoglisce sapere che le follie generate dal mio cervellino instabile riescano a fare breccia nel cuore di qualcuno. Spero di non deludervi, alla prossima!

Denirose

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