Scars

di Silvianap
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


---> PICCOLA PREMESSA: Questa è la mia prima storia ed è la prima volta che mi cimento nella scrittura, quindi spero davvero che vi piaccia quello che ho creato, anzi, che sto creando. Grazie in anticipo! P.S.: grazie a Carol e Stefania che mi hanno ispirata ed aiutata!
-Silvia- 
 

SCARS – Capitolo 1
 

L’ho sognato.

Ho sognato di nuovo quel momento. La mia mano sulla sua schiena. È successo mesi fa ma è come se fosse marchiato a fuoco dentro di me.

Nel sogno salgo le scale dell’enorme casa in cui viviamo, non so nemmeno io bene il perché. Probabilmente sono alla ricerca del bagno. Questa casa è davvero troppo grande per i miei gusti. Appena arrivo nel corridoio del piano superiore noto subito che tutte le porte delle camere da letto sono chiuse tranne una che, essendo socchiusa, fa filtrare un leggero raggio di sole sul parquet del corridoio.
Parquet... pavimento da ricchi.
Ovviamente.
Queste case sono state costruite per i ricconi di Washington a cui piaceva fare la bella vita nella seconda, o terza, o quarta casa in campagna. Questo è quello che penso mentre mi avvicino alla porta socchiusa, attirato da quel raggio di sole. Perché le porte sono tutte chiuse tranne questa? Spingo appena la porta, rivelando una stanza vuota. Non lo so, mi sento come se fossi attirato da qualcosa, come se quel raggio di sole fosse un segnale, ma evidentemente mi sbaglio.
Poi però, proprio in quel momento, dalla porta della camera dietro di me proviene un leggero rumore e subito dopo un’imprecazione.
Riconoscerei quella voce tra mille.
Una scintilla nella mia testa si accende appena sento la sua voce e mentre mi giro per aprire la porta mi accorgo che anche questa è socchiusa e che riesco a vedere all’interno senza doverla aprire completamente. Perché diavolo non mi sono accorto che anche questa porta era aperta? Probabilmente perché pochi secondi fa non lo era.
Mi avvicino un po’ e guardo all’interno della stanza. La posizione in cui mi trovo chiaramente non mi permette di avere una panoramica completa, ma non ne ho bisogno perché anche così la vedo.
Vedo Carol. È in piedi davanti ad uno specchio, di spalle alla porta… e non indossa la maglietta. Questo mi provoca immediatamente una brusca vampata di calore e un formicolio in tutto il corpo.
Sposto lo sguardo altrove, anche se trovo la cosa estremamente difficile da fare. Respiro profondamente e ritorno a guardarla. Osservo il suo riflesso nello specchio e mi accorgo che si sta medicando una ferita sulla spalla sinistra, un taglio non troppo profondo, ma dalla sua espressione capisco che deve farle male comunque.
Abbasso lo sguardo, imponendomi di restare fermo e di lasciarla fare senza intromettermi. Riprendo il controllo di me stesso e, la terza volta che la guardo, però, mi si gela il sangue nelle vene. Sulla parte destra della sua schiena vedo dei segni che prima mi erano sfuggiti. Conosco bene quei segni e so anche cosa potrebbe averli provocati. Il cuoio di una cintura usata come una frusta sulla pelle umana può lasciare dei segni così netti, così marcati, che anche a distanza di molti anni, riguardandoli, potrai sentire il dolore perpetrarsi su ogni centimetro del corpo. Ora riesco davvero ad immaginare che razza di figlio di puttana fosse suo marito. Lo stesso genere di figlio di puttana che era mio padre.
Sono così scioccato da non accorgermi di essermi appoggiato allo stipite della porta e di essere quasi totalmente entrato nella stanza. Continuo a guardare le sue cicatrici, così stonate sulla sua pelle chiara. Ho i brividi al pensiero del dolore che quelle frustate le possano aver provocato.
Non so quanto tempo sia passato quando mi rendo effettivamente conto che sono rimasto fermo immobile a fissarla, come un cazzo di maniaco. Ma lei sa. Sa che stavo guardando le sue cicatrici perché quando il mio sguardo incrocia il suo, riflesso nello specchio, sembra essere quasi mortificata. Comincio a muovermi verso di lei, piano, spinto da non so quale impulso. Nonostante indossi il reggiseno, si copre con entrambe le braccia e tiene le mani ancorate ai suoi bicipiti.
Mentre mi avvicino il suo sguardo si abbassa e quando sono ad un passo dalla sua schiena, la mia mano destra corre dritta verso la cicatrice più bassa, tra il fianco e le costole, e la percorre per tutta la sua lunghezza. Carol alza la testa di scatto e la inclina verso di me tenendo alto il mento e chiude gli occhi. Mi accorgo di avere la mano sinistra congelata, probabilmente lo sarà anche la destra e il mio freddo sulla sua pelle così sensibile le provoca i brividi. La mia mano percorre la lunghezza di tutte le altre cicatrici sul fianco e sulla schiena e poi torna su quella più bassa. A quel punto appoggio interamente la mano sul suo fianco e la stringo un po’. Lei, che nel frattempo aveva riaperto gli occhi, riprende a guardarmi attraverso lo specchio.
Non dice niente, e nemmeno io. Non servono parole.

Nella realtà, stavo davvero cercando il bagno e mi imbattei nella porta socchiusa della sua camera perché ci passai davanti, la vidi, e tutto accadde esattamente come nel sogno. Non avevo mai vissuto qualcosa di così intenso con una donna in vita mia fino a quel momento.
Da quel momento in poi, invece, l’intensità non è mai mancata. Il modo in cui lei mi guarda, mi tocca, mi bacia… mai provato nulla del genere prima.
Mi sono risvegliato nel suo letto stamattina, dopo aver passato la notte con lei. Mi piace stare lì con lei, dormire con lei, mi piace guardarla addormentarsi e mi piace osservare il suo viso e le sue leggere espressioni involontarie quando è evidente che sta sognando.
In queste calde notti estive solitamente mi sistemo fuori, sulla veranda. È un po’ umido, ma posso resistere una o due ore, il tempo necessario perché tutti nella casa si addormentino e io possa rientrare e salire al piano superiore senza essere visto né sentito. E lei è sempre lì, sveglia nel suo letto così grande anche per due persone, in attesa che io arrivi per la notte per poi andarmene poco prima del suo risveglio. Lei è lì, ed è una delle poche certezze che mi restano in questa merda di mondo.
Ma stamattina mi sono risvegliato nel suo letto e lei non c’era. Cazzo! Significa che in casa sono tutti svegli. Mi rivesto, esco dalla stanza e scendo le scale diretto verso la porta. Non ho intenzione di rispondere alle domande di nessuno né di essere il soggetto di sguardi curiosi o di commenti di alcun genere. Ho il pomello della porta in mano e sto per aprirla, quando dal divano arriva una voce.
“Buongiorno Daryl”.
Un senso di panico mi assale e mi volto lentamente verso il divano. Vi è seduto Rick, che mi fissa mentre tiene in braccio la Piccola Spaccaculi, quasi addormentata sul suo petto. Lui sembra quasi avere un’espressione divertita.
“Ehi..” rispondo sollevato appena lo vedo. Non mi preoccupo di Rick, penso che sia sempre stato a conoscenza di quello che c’è tra me e Carol, sin da quando sono corso da lei dopo averla rivista fuori dall’inferno di Terminus, dopo che ci aveva salvati tutti.
Mi osserva per qualche secondo e poi dice “Sai, non devi sgattaiolare dentro e fuori casa come se fossi uno sconosciuto. Che cos’hai da nascondere? Sono anni che abitiamo qui e a volte ancora ti comporti come se questa non fosse anche casa tua”. Fa una breve pausa per studiare la mia espressione, che al momento non ho idea di quale sia, e poi riprende a parlare. “Quella è camera tua, camera vostra. Nessuno farà commenti o ti chiederà nulla, se è di questo che ti preoccupi. Sta’ tranquillo”.
Dopo aver sentito tutto ciò non so cosa dire ma sono sicuro che lui non si aspetta nessun genere di risposta da parte mia, quindi faccio un breve cenno di assenso con la testa. Rick risponde allo stesso modo e poi rivolge di nuovo l’attenzione verso sua figlia. Cresce in fretta, credo che abbia quasi tre anni ormai.
Mi chiudo la porta alle spalle e mi ritrovo a pensare a quello che Rick mi ha appena detto: potrei davvero cominciare a dormire in casa normalmente come tutti gli altri? Non lo so. L’unica cosa che so è che, mentre riprendo la balestra e mi avvio verso il garage, mi rimbombano nel cervello due determinate parole: CAMERA VOSTRA.

 
                                                                                                   *****
 

Sto controllando le scorte nella dispensa con Olivia da ore e mi rendo conto che servono altri viveri. Urge andare in ricognizione entro questa settimana e insisterò per essere presente, non mi va di stare con le mani in mano. Mentre sistemo alcuni barattoli, mi sento osservata. Non è una bella sensazione. Giro appena la testa verso destra e mi accorgo che Olivia si è avvicinata a me e mi fissa stranita.
“Hai dei segni rossi sul collo, Carol. Sembrano dei graffi. Stai bene?”.
Mi porto d’istinto una mano al collo mentre un flash della notte scorsa mi appare nella testa.
“Oh, si! Non preoccuparti!”, le rispondo sorridendo. “Zanzare. Con questo caldo sono insopportabili, soprattutto di notte”.
Lei ci casca in pieno. “Non me ne parlare. Sto seriamente pensando di scappare in Alaska” dice, e ritorna a contare altri barattoli dall’altra parte della dispensa.
Zanzare. Come diavolo mi è venuto in mente di tirare in ballo le zanzare? Sorrido tra a me e me pensando che l’unica zanzara con cui io abbia avuto a che fare stanotte in realtà era umana, appassionata e bella come il sole.
Come ogni notte sono rimasta sveglia mentre aspettavo che Daryl salisse in camera. Quello è l’unico momento della giornata in cui riesco a vederlo senza balestra. Tutti sappiamo che la balestra è parte di lui, e non mi avrebbe affatto sorpresa se avesse voluto portarla con sé anche per dormire, ma a quanto pare non lo fa. Non lo fa mai, la lascia fuori sulla veranda dove si siede la sera prima di venire da me, certo del fatto che la ritroverà lì la mattina dopo. Conoscendolo però, penso che sia anche una specie di diversivo. Nessuno qui ad Alexandria immaginerebbe mai Daryl senza balestra e, viceversa, nessuno immaginerebbe mai la balestra senza Daryl quindi, secondo il ragionamento comune, se la balestra è sulla veranda significa che lui è lì nei paraggi. E nessuno potrebbe mai sospettare che in realtà non è lì, ma sta dormendo affianco a me.  Lo so, è un pensiero assurdo e parecchio contorto, ma sono praticamente certa che sia così. Non ha intenzione di sentire alcun genere di commento riguardo a quello che c’è tra noi due e così cerca di tenere la cosa nascosta come può.
A differenza sua, a me non interessa nulla di quello che potrebbero pensare o dire le persone. Esistono cose più importanti al mondo rispetto ai commenti della gente. Purtroppo Daryl è parecchio suscettibile, odia queste cose, evita proprio che si manifestino e questa cosa mi dispiace, ma la rispetto. È una sua scelta, e il bello di noi è proprio il senso del rispetto verso le situazioni e le scelte dell’altro. Noi stiamo bene insieme. Il senso di sicurezza e protezione che mi dà, il suo coraggio e il suo senso del dovere, la sua fierezza, le sue attenzioni e poi il modo in cui mi guarda, anche e soprattutto quando crede che io non me ne accorga.
Io amo Daryl. Punto. Chiunque può pensare quello che vuole.

Io e Olivia usciamo dalla dispensa poco prima del tramonto e ognuna di noi va per la sua strada. So che lei sta tornando a casa ed è quello che dovrei fare anche io, ma invece mi dirigo verso il garage, dove so che Daryl ha passato tutto il giorno a sistemare alcuni pezzi della moto.
Qualche passo a piedi e poco più avanti trovo l’entrata del garage, dall’interno arrivano rumori di attrezzi all’opera. Mi affaccio e la prima persona che vedo sulla destra è Aaron, vicino ad un tavolo, intento ad oliare alcune parti di un motore. Attirato forse dal mio movimento, alza subito lo sguardo verso di me e fa per salutarmi, ma lo anticipo portandomi un dito alla bocca per chiedergli di fare silenzio e poi rivolgo la mia attenzione a Daryl, accucciato vicino alla sua moto dall’altra parte della stanza, sulla sinistra. Dalla sua prospettiva lui non riesce a vedermi, ma io riesco a vedere lui e voglio prendermi del tempo per osservarlo senza che lui se ne accorga. Aaron segue il mio sguardo e guarda Daryl, poi ritorna a guardare me, sorride apertamente e continua il suo lavoro. Mi piace Aaron, è una persona davvero in gamba e con i piedi per terra. Sembrano passati solo pochi giorni dal nostro primo incontro non tanto amichevole con lui in quel fienile e invece sono passati quasi due anni..
A quanto pare la sua parte di lavoro è finita perché si allontana dal tavolo, prende un vecchio, sudicio straccio da una sedia lì vicino e mentre si pulisce le mani, si rivolge a Daryl.
“Ehi, ho finito per oggi. Vado a cercare Rick, stamattina ci siamo incontrati e ha detto che voleva parlarmi. Ci vediamo domani” dice, poi torna a guardare verso di me per sondare la mia reazione. Ho capito benissimo che se ne sta andando apposta perché vuole lasciarci soli e la cosa mi fa ridacchiare.
Daryl risponde con un classico: “D’accordo” e Aaron si incammina fuori dal garage, dalla parte opposta a dove mi trovo io e prima di allontanarsi si gira brevemente e mi saluta con una mano. Io rispondo sorridendo e quando penso che ormai sia ora di entrare, aspetto qualche secondo prima di fare il mio ingresso nel garage. In tutto ciò continuo a guardare Daryl e l’impegno che ci mette nel sistemare cavi e pezzi vari. Pare proprio che abbia smontato la sua moto da cima a fondo e che ora la stia costruendo d’accapo.
Mi dirigo verso quella sedia dove c’è il vecchio straccio e la giro in modo da sedermici a cavallo, così da poter poggiare le braccia sullo schienale. Lui non alza mai lo sguardo, ma parla.
“Avevi intenzione di continuare a fissarmi ancora a lungo, lì fuori?”.
Oh cavolo, allora mi ha vista! È proprio un ottimo segugio, a volte lo dimentico.
“No, infatti ho appena cambiato prospettiva ed ora ti sto fissando da qui dietro” gli rispondo divertita. E devo dire che il ‘qui dietro’ mi regala davvero una bella visuale di lui di spalle, accucciato mentre i muscoli delle sue braccia risaltano mentre lavorano, il sudore che gli scende dal collo lungo la schiena ha creato linee bagnate lungo la sua camicia e la posizione in cui si trova fa in modo che i suoi pantaloni siano un po’ calati e lascino intravedere l’inizio delle curve dei suoi glutei.. Mio Dio, devo guardare altrove! Mi sforzo di chiudere gli occhi e fare un respiro profondo, rivolgendo la faccia verso la strada.
Forse il respiro è troppo profondo perché Daryl si gira a guardarmi.
“Stai bene?” mi chiede. Torno a guardarlo e annuisco.
Lui posa a terra una matassa di strani fili, si rialza, viene verso di me e prende lo straccio poggiato sullo schienale della ‘mia’ sedia e la sua mano arriva a pochi centimetri dalle mie braccia. Si allontana di tre passi, camminando all’indietro e continuando a guardarmi.
“Perché non mi hai svegliato stamattina quando sei uscita?” mi chiede.
Gli rispondo nel modo più banale esistente al mondo, tenendo gli occhi fissi sulle sue mani che si puliscono nello straccio.
“Stavi dormendo così bene.. Avevi un’aria così serena che non ho voluto disturbarti”.
Lui mugugna una risposta che non capisco e di colpo blocca le mani. Alzo lo sguardo verso i suoi occhi per capire il motivo del suo improvviso stop e mi accorgo che mi sta fissando in modo strano. Si avvicina di nuovo e la sua mano prende il mio mento in modo da spostarmi piano la testa verso sinistra cosicché la parte destra del mio collo sia ben esposta alla sua vista. La parte dove ci sono i graffi, i suoi graffi.
“Che ti è successo?” mi chiede preoccupato.
Non rispondo, non finché lui non mi lascia andare il mento, e anche dopo averlo fatto rimango per qualche secondo in silenzio a fissarlo, credendo che magari gli serva solo un attimo per ricollegare i miei graffi a stanotte. Ma quando vedo la preoccupazione aumentare nei suoi occhi, alimentata anche dal mio silenzio, gli prendo la mano sinistra e lui la stringe sulla mia, probabilmente si sta preparando a confortarmi per un mio eventuale sfogo. Ricambio brevemente la stretta e poi, sempre continuando a guardarlo, abbasso la presa sul suo polso, portandomi sul collo la sua mano aperta e facendola scivolare lentamente lungo i graffi.
Sento le sue dita lasciarsi dietro un velo di unto a causa dell’olio del motore. Vedo la sua espressione passare dalla preoccupazione al panico in un secondo non appena si rende di conto di cosa voglio fargli capire. Tira via il polso dalla mia presa e si allontana, continuando a guardarmi il collo.
“Sono stato io?” mi chiede quasi scioccato mentre continua ad indietreggiare e arriva a sbattere la schiena contro il muro dietro di sé.
Mi alzo velocemente dalla sedia, vado da lui e per tranquillizzarlo gli prendo le mani tra le mie.
“Ehi, Daryl! Daryl guardami..” gli dico quasi supplicando. Daryl ha lo sguardo fisso a terra, si rifiuta di guardarmi. Allora gli prendo il viso tra le mani e glielo ripeto più dolcemente.
“Guardami”.
E quando lui finalmente mi guarda, capisco che è pronto per una sfuriata rabbiosa che gli addossi tutta la colpa per avermi lasciato i graffi sul collo. Lo guardo negli occhi e… e il resto del mondo scompare, il mio cuore accelera i battiti e appoggio il mio corpo al suo mentre mi faccio più vicina.
Poi lo bacio, chiudo gli occhi e lo bacio piano. Lui è rigido, fermo, immobile ma le mie labbra sono ancora sulle sue quando lo sento rilassarsi un po’ ed inizia a ricambiare il bacio. Sento le sue mani appoggiarsi sulla mia schiena e stringermi ancora un po’ di più addosso a lui ed io faccio scivolare le mie dietro al suo collo, per poi intrecciare le braccia e stringerlo, in modo da fargli capire che lui non ha nessuna colpa e che non ce l’ho con lui, cosa che evidentemente ancora pensa, posso capirlo dal modo in cui mi sta baciando.
Ogni bacio che Daryl mi dà riesce a trasmettermi emozioni, ovviamente, ma riesce anche a trasmettermi quello che lui prova, e in questo momento le uniche cose che sento sono senso di colpa e tristezza.
Mi stacco di pochi centimetri da lui per guardarlo negli occhi, ma i suoi occhi sono chiusi e la sua espressione è turbata. Appoggia la sua fronte alla mia e allora anche io chiudo di nuovo gli occhi, riporto le mani sul suo viso e vivo profondamente questo momento nel silenzio che c’è attorno a noi, o forse siamo così tanto in sintonia che ho isolato qualsiasi altro rumore che non sia il suo respiro o il battito del suo cuore. Ma non mi sento del tutto tranquilla finché non preciso una cosa. E appena gli sussurro “Non mi hai fatto male”, lui aumenta la stretta delle sue braccia attorno a me. E allora continuo a sussurrare, so di avere la sua attenzione.
“Ehi.. Non mi hai fatto male.. Io non me ne sono nemmeno accorta.. Daryl, non fa niente..”.
Sento scivolare via la sua fronte dalla mia e al suo posto arrivano le sue labbra, che mi danno un lieve bacio. Appoggio le mani sul suo petto poco prima di sentire di nuovo la sua voce.
“Mi dispiace tanto”. Un brivido mi percorre la schiena ma l’istinto mi spinge ad essere audace. “A me no” dico sinceramente dopo qualche istante, “mi piacciono questi graffi”.
Daryl si irrigidisce di nuovo e mentre si scosta un po’ da me per guardarmi bene in faccia, probabilmente per confermare a se stesso il fatto che io sia improvvisamente impazzita, spalanca gli occhi e assume un’espressione sbigottita. Io lo guardo e poi sorrido.
“Mentre eravamo insieme stanotte è stato come se il resto del mondo si fosse completamente annullato e fossimo rimasti solo io e te. Ed eravamo così coinvolti l’uno dall’altra che abbiamo perso la cognizione dello spazio e del tempo… figurarsi il controllo dei movimenti! Non guardarmi come se fossi diventata pazza, Daryl” dico subito dopo aver visto il transito di almeno venti diverse emozioni nei suoi occhi.
“Ho detto che mi piacciono questi graffi perché è vero. Sai... per essere arrivato al punto di graffiarmi senza nemmeno accorgertene significa che eri totalmente preso da quello che stavamo facendo… e per come la penso io al cinquanta per cento è anche merito mio, quindi ne vado fiera”.
Sono convinta di quello che dico e penso che lui l’abbia capito, ma non posso non scoppiare in una risatina allegra per il senso di goduria e soddisfazione che sto provando dopo aver detto quell’ultima frase. Daryl sta sicuramente pensando a quello che ho appena detto perché abbassa lo sguardo, ma dopo pochi secondi fa una cosa quasi inaspettata. Lo vedo sorridere e unirsi a me nella risata, scrollando via finalmente tutti i sensi di colpa e gli strani pensieri che erano affiorati e si erano aggrappati nella sua mente. Continuiamo a ridacchiare per qualche secondo, come due ragazzini.
Fuori il sole sta tramontando e la luce arancione del sole illumina Alexandria. E anche noi due, dentro e fuori.
 

                                                                                               *****
 

Rick vuole solo pochi di noi per la spedizione di oggi destinata alla ricerca di scorte di cibo, medicine o qualsiasi altra cosa che possa esserci utile, quindi ora siamo qui per decidere come organizzarci. È da poco sorto il sole e siamo già riuniti intorno al tavolo della cucina a casa di Aaron, alcuni in piedi, alcuni seduti. Oltre me, Rick e Aaron ci sono Carol, Michonne e Carl. Sul tavolo è aperta la grande mappa che usiamo da ormai molto tempo per organizzare le spedizioni. Ogni posto già controllato è segnato da una grande X rossa mentre invece le parti ancora da controllare sono cerchiate a matita. E di matita ne vedo ben poca. Questo significa che d’ora in poi saremo costretti a spingerci sempre più lontano.
“È qui che dobbiamo andare oggi” dice Rick, indicando col dito uno dei cerchi. Uno dei punti più vicini ai bordi del foglio. Sembra un quartiere residenziale, molto ad ovest rispetto ad Alexandria.  
“È lontano” dico semplicemente, e quasi tutti gli altri annuiscono in silenzio.
Rick alza un po’ lo sguardo e riprende a parlare. “Si Daryl, è lontano. Ma abbiamo forse altra scelta? Riusciremo ad organizzarci e a partire il prima possibile per riuscire a tornare a casa a notte non troppo inoltrata”. Posa lo sguardo su tutti noi adesso, probabilmente per vedere come stiamo reagendo alle parole ‘notte non troppo inoltrata’. Quando riprende a parlare, torna anche a guardare la mappa.
“Una volta arrivati qui, ci divideremo in due gruppi per coprire un’area più vasta. Carl e Aaron, voi verrete con me. Michonne e Carol con Daryl. Avete tempo mezz’ora per prepararvi, poi partiamo”.

Usciamo tutti insieme da casa di Aaron. Lui sta andando con Carl in uno dei garage a controllare che l’auto sia a posto prima della partenza, Carol e Michonne si allontanano in direzione di casa nostra e io seguo Rick verso l’armeria.
L’avevo già notato prima in casa, ma adesso è evidente che qualcosa non va. Rick è strano, cammina spedito senza parlare, i suoi passi sono pesanti. Non gli chiedo nulla, probabilmente non si accorgerebbe neanche che gli sto chiedendo qualcosa e soprattutto non sono nemmeno sicuro che si sia accorto che sto camminando proprio dietro di lui perché arrivati all’ingresso dell’armeria, apre la porta e appena entra se la richiude subito alle spalle.
Resto qualche secondo fuori, fermo immobile davanti alla porta chiusa. Mi assale un’improvvisa voglia di accendermi una sigaretta ma non è il momento adatto, prima devo capire cos’ha Rick che non va, che problemi ci sono. Stringo i pugni, poi apro la porta ed entro, chiudendomela poi alle spalle.
L’armeria è alla mia destra e all’interno non vi è altri che Rick. È di spalle e sta riempiendo una sacca con ogni genere di pistola che trova davanti a sé, ne prende una dopo l’altra e le infila automaticamente dentro, senza nemmeno controllare se siano cariche o no.
“Rick” lo chiamo, ma lui non risponde. Sta continuando a riempire la sacca con le scatole dei proiettili.
Riprovo. “Rick” lo chiamo provando ad alzare un po’ la voce ma niente, lui continua a fare quello che sta facendo, come una sorta di robot.
Ne ho abbastanza.
“RICK!” urlo quasi, e Rick sembra come uscire improvvisamente da uno stato di trance, facendo cadere a terra la scatola di proiettili che teneva in mano. Si gira a guardarmi imbambolato e meravigliato allo stesso tempo, probabilmente sta cercando di capire se la voce che l’ha chiamato fosse davvero la mia. Questo conferma che non si era proprio reso conto del fatto che stessi venendo con lui qui dentro.
Abbassa lo sguardo e si accorge del casino che ha creato facendo cadere la scatola dei proiettili e si china per raccoglierli uno ad uno. Mi avvicino e lo aiuto, nel silenzio più totale. Quando abbiamo sistemato tutto e ci rialziamo nello stesso momento, Rick sembra come spaesato.
“Che c’è che non va? È successo qualcosa?” gli chiedo, appoggiandomi a braccia conserte allo stipite della porta. Lui mi rivolge di nuovo le spalle e si mette a controllare tutte le pistole che ha messo nella sacca.
“In tutto questo tempo non siamo mai andati così lontano da Alexandria per una spedizione” dice improvvisamente a bassa voce, “e… ho una strana sensazione, come se dovesse accadere qualcosa di brutto mentre noi siamo lontani da casa e…”.
Lo interrompo subito. “Cosa dovrebbe accadere, Rick? Tutti noi sappiamo benissimo i rischi che corriamo andando lì fuori e non c’è assolutamente nessuna differenza tra un posto vicino o lontano da casa perché vaganti e pericoli sono ovunque”.
Rick chiude la sacca, si volta verso di me e mi fissa. “Sto portando con me in questa spedizione solo voi quattro perché siete le persone più adatte e più esperte, anche Carl ormai lo è” dice, caricandosi su una spalla il peso della sacca piena, “e ho dovuto chiedere anche ad Aaron di partecipare perché è l’unico tra di noi a conoscere quelle zone”.
Mentre lui mi passa affianco e fa per uscire dall’armeria, io mi stacco dallo stipite per prendere un paio di fucili e ripenso a quello che ha appena detto.
“Aaron conosce quelle zone quindi non stiamo andando in una spedizione alla cieca ed è già qualcosa”.
Usciamo dalla porta, saliamo gli scalini per tornare in strada e ci dirigiamo verso il garage dove si trova l’auto.
“Sei preoccupato per chi resterà ad Alexandria? Non penso che ce ne sia bisogno. Heath e gli altri terranno sott’occhio la situazione mentre noi non ci saremo” dico con calma, forse troppa.
“Si” risponde Rick “si, hai ragione. Faremo in fretta e ci toglieremo il pensiero”.
Nessuno dei due dice più niente.
Mi accendo la sigaretta che non ho acceso prima e aspiro il fumo avidamente.
Non mi piace la piega che sta prendendo questa giornata.
 

                                                                                                *****
 

Vengo svegliata da una leggera pressione al ginocchio destro. Riesco a capire che l’auto è ancora in movimento dal lieve senso di nausea che provo appena apro gli occhi. Aaron sta guidando e affianco a lui, sul sedile del passeggero, c’è Rick. Stanno parlando tra loro.
Oddio, non posso credere di essermi addormentata!
Mi accorgo di avere la testa poggiata sulla spalla sinistra di Daryl, che è seduto affianco a me sul sedile posteriore e di sicuro è stato lui a svegliarmi toccandomi il ginocchio. Dall’altro lato è seduta Michonne e sul piccolo sedile reclinabile dietro di noi c’è Carl. Povero ragazzo, si trova praticamente nel porta bagagli insieme agli zaini e alle armi, ma ricordo che poco prima di partire, lui e Michonne stavano giocando a ‘Carta-Forbice-Sasso’ per decidere chi di loro due avrebbe fatto il viaggio di andata sul sedile posteriore e chi invece sul sedile nel porta bagagli. Si divertono sempre con questa sorta di piccole sfide e scommesse e invidio molto la loro capacità di vivere con leggerezza anche situazioni tese e nervose come una spedizione.
“Aaron ha appena detto che mancano pochi minuti all’arrivo” mi dice Daryl a bassa voce. Annuisco mentre mi strofino la faccia per cercare di svegliarmi meglio.
“Quanto ho dormito?” gli chiedo.
“Mmm un paio d’ore” mugugna.
Un paio d’ore? Credo di essere stata sveglia per tre ore di viaggio prima di assopirmi e poi addormentarmi… questo significa che il viaggio sta durando più di cinque ore, più del previsto. È quasi pomeriggio, dunque.
Spero davvero che questa spedizione non duri molto, mi sento davvero stanca, ma non potevo dire di no a Rick visto che due giorni fa sono stata proprio io ad informarlo sull’urgenza di uscire a cercare provviste. Probabilmente dovrei soltanto provare a dormire un po’ di più durante la notte ma la verità è che non posso e non voglio, perchè una delle cause principali della mia stanchezza è seduta proprio affianco a me. Ed osservandolo bene anche lui sembra stanco, ma ovviamente non lo dà a vedere.

Impieghiamo altri venti minuti per arrivare a destinazione ed il paesaggio che ci troviamo davanti non è dei migliori. Il quartiere residenziale non è molto grande e alcune case sono andate addirittura a fuoco, ma dobbiamo tentare comunque.
Aaron parcheggia la nostra auto vicino ad altre vetture ormai fuori uso per cercare di confonderla tra loro e devo dire che il risultato è abbastanza convincente visto che è quasi più sporca e ammaccata la nostra di tutte le altre tre messe insieme.
Ci carichiamo in spalla zaini e armi e tutti e sei insieme ci avviamo verso quella che sembra una piccola piazzetta al centro di tutto, dove convergono tutte le strade del quartiere. Rick è davanti a noi mentre camminiamo e appena si ferma al centro della piazza, noialtri ci disponiamo intorno a lui.
“D’accordo, allora” dice, rivolgendosi a tutti, “come abbiamo detto stamattina, ci divideremo in due gruppi”. Fa una breve pausa per guardarsi un po’ intorno, poi riprende a parlare. “Io, Carl e Aaron andremo da questa parte” dice indicando le case alla sua sinistra, “Michonne, Daryl e Carol voi andrete a destra e ci ritroveremo qui appena tramonta il sole, ok?”.
Annuiamo tutti.
“Se vi trovate in difficoltà, non esitate a sparare un colpo di pistola per avvertirci.. anche se questo potrebbe attirare altri pericoli, voi fatelo, arriveremo di corsa” dice Rick deciso.
“Fate lo stesso anche voi” gli dice Daryl.
Rick annuisce e subito dopo cerchiamo di lasciare la piazza e dividerci in gruppi, se non fosse per una piccola mandria di vaganti che sta per arrivarci addosso da dietro una delle case. Come una sola persona, tutti e sei contemporaneamente ci armiamo di coltelli, balestra, machete e spada e ci prepariamo al loro arrivo.
Qualcosa dentro di me mi spinge a partire per prima e ad abbattere uno dei primi vaganti della mandria, conficcandogli la lama del coltello dritta nella tempia con forza. Il suo corpo cade ai miei piedi, lo scavalco e vado avanti abbattendone un altro, mentre anche tutti gli altri adesso sono intorno a me per abbattere il resto della mandria. E lo fanno, senza nemmeno sforzarsi troppo.
Restiamo per un attimo immobili tra i cadaveri, fermi dove siamo e ci guardiamo, protagonisti di un silenzioso discorso di incoraggiamenti reciproci e convincimenti a farci forza per cominciare la spedizione per la quale abbiamo fatto tutta questa strada.
Ci voltiamo per ritornare verso gli zaini che abbiamo letteralmente buttato via poco prima di cominciare a difenderci e ce li carichiamo di nuovo in spalla. Mi sistemo meglio lo zaino sulle spalle e poi alzo lo sguardo verso gli altri, specialmente verso Daryl.
Daryl, che ha uno sguardo preoccupato mentre mi punta la balestra contro.
Mi si gela il sangue e mi blocco all’improvviso mentre tutti gli altri non si sono accorti di nulla. Fa un passo verso di me e prende meglio la mira, io faccio un passo indietro ed ho soltanto la forza di alzare le mani davanti a me e sussurrare terrorizzata “Daryl” poco prima di sentire, a pochi centimetri dall’orecchio, il fischio della sua freccia appena scoccata seguito da un tonfo.
Mi volto di scatto e ricomincio a respirare mentre vedo il corpo del vagante appena abbattuto poco dietro di me. Comincio un po’ a tremare, sicuramente a causa della tensione accumulata in…quanto? Dieci secondi?
Sento la stretta salda di Daryl sulla mia spalla e mi rilasso subito.
“Cosa diavolo credevi? Che stessi per ucciderti? Davvero?” mi chiede a bassa voce, cosicché solo io possa sentirlo. Probabilmente mi sente tremare perche appoggia anche l’altra mano su di me, sul mio braccio sinistro e io appoggio quasi totalmente il mio peso contro di lui, respirando ad occhi chiusi.
Cosa diavolo credevo? Che stesse per uccidermi? Assolutamente no. Ma vedersi puntare addosso una balestra improvvisamente non è per niente una bella cosa, anche se effettivamente non era puntata proprio addosso a me.
In tutto ciò, però, la cosa che mi sconcerta di più è il non aver assolutamente sentito quel vagante arrivarmi così vicino.
Devo decisamente svegliarmi un po’.
Non mi piace la piega che sta prendendo questa giornata.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


-----> PICCOLA PREMESSA: Ringrazio tutti i miei lettori per la pazienza che hanno avuto nell'aspettare questo secondo capitolo! Vi assicuro che non è facile scrivere una storia originale! >.<
Ringrazio le mie colleghe e amiche dello staff di "Caryl Italia" per i consigli e l'assistenza! (Mezza pagina di descrizione solo per una porta xD)

E Samantha, dopo aver letto il capitolo, ti prego non odiarmi! :/
Buona lettura!

-Silvia-


SCARS – Capitolo 2


Cinque case.
Abbiamo ispezionato cinque case prima di quella che abbiamo di fronte ora, ma il nostro bottino lascia un po’ a desiderare e la stanchezza si fa sentire ora come non mai. Io, Daryl e Michonne siamo seduti all’interno di un giardino, sulla bassa staccionata bianca che circonda l’ultima casa del nostro giro e siamo decisamente esausti. Nelle case che abbiamo controllato c’erano parecchi vaganti, che abbiamo eliminato senza troppa fatica, ma ritengo che per un giorno solo abbiamo superato la linea di ‘sopportazione di uccisione dei vaganti’, soprattutto dopo la mandria che abbiamo abbattuto appena arrivati. Ci resta però quest’ultima casa, una piccola villa bianca a due piani. Mi faccio forza e mi alzo dalla staccionata.
“Vado a fare il giro della casa, probabilmente c’è anche un ingresso sul retro. Ci vediamo dentro” dico a Daryl e Michonne, e mi avvio senza nemmeno aspettare che loro rispondano. Sono determinata a finire queste ispezioni il prima possibile, tornarmene a casa e andare a dormire. E manca poco al tramonto del sole.
Da dietro di me sento Michonne rivolgersi a Daryl, divertita. “Coraggio pappamolle, non vogliamo stare qui per tutta la notte! Recupera le tue freccette e andiamo a giocare al tiro al bersaglio!” e sento poi lui rispondere “Freccette? Col tuo spiedino forse ci infilziamo un’oliva da cocktail” e così via in un susseguirsi di prese in giro che io non riesco più a sentire perché ormai sono sul retro e la porta posteriore è proprio davanti a me, socchiusa. Devo solo salire tre scalini ed entrare.
E così faccio.

La porta cigola. Classico. Chissà per quanto tempo è rimasta così socchiusa…
Mi guardo intorno, mi accorgo di essere capitata in una piccola cucina e mi fermo a fissare una piccola lavagnetta appesa al muro sulla mia destra dove ci sono scritte varie date e cose da ricordare, probabilmente. C’era la stessa identica lavagnetta anche nella mia vecchia casa, prima di tutto questo. Improvvisamente mi appare davanti agli occhi la scena di me e Sophia, nella nostra piccola cucina molto simile a questa, che prepariamo dei bagagli pesantissimi e stracolmi di cose e poi corriamo fuori casa dove Ed ci aspetta con l’auto accesa. E sono certa di una cosa: se io e Sophia non avessimo avuto i bagagli con noi, Ed non sarebbe mai rimasto ad attenderci fuori e ci avrebbe abbandonate al nostro destino, salvando solo il suo culo. Scappammo appena capimmo che l’epidemia aveva cominciato a diffondersi in tutto il paese e, ripensandoci adesso, assolutamente non ricordo se lasciai la porta aperta nella fretta di correre via.
Mi risveglio da questo salto nel passato con fatica e comincio a controllare tutti gli scaffali e gli sportelli che si trovano intorno a me, senza badare troppo al rumore che sto facendo. E forse tutto questo rumore è un bene perché, avendo chiuso la porta sul retro, eventuali vaganti arriverebbero soltanto dalla porta alla mia destra, dritti dritti in bocca al mio coltello.
Dalla ricerca ottengo soltanto un barattolo di fagioli, e mi sembra un miracolo. Era stipato così in fondo in uno degli sportelli in alto che l’ho toccato per caso con la punta del coltello che tenevo in mano. Sentendo un rumore metallico mi sono insospettita, mi sono arrampicata sul piano di lavoro per controllare ed ora eccomi qui a contemplare un semplice ma utilissimo barattolo di fagioli, che poco dopo infilo nel mio zaino. Apro il frigo per vedere se la fortuna gira ancora dalla mia ma purtroppo è vuoto, ovviamente.
Esco dalla cucina e capito in un soggiorno abbastanza grande, dove sembra che l’apocalisse non sia mai arrivata. A parte lo spesso strato di polvere e qualche ragnatela che ricoprono un po’ tutto, c’è un ordine surreale. Nelle case che abbiamo perlustrato finora c’era il caos tipico di tutte le altre case in quest’apocalisse: sedie a terra, sportelli aperti, oggetti vari sparsi dappertutto... E invece il divano e le due piccole poltroncine ai lati sono lì, immobili al centro della stanza vicino ad un piccolo tavolino, un tappeto segna l’ingresso dall’altra entrata e una credenza non tanto alta, credo sia in legno di noce, regna sovrana sulla parte opposta alla porta. È tutto fermo al suo posto, ogni soprammobile, ogni quadro… fa quasi paura tutto quest’ordine.
Improvvisamente avverto uno scricchiolio dalle assi del soffitto sopra di me.
Poi un altro.
Poi un altro ancora.
Questi sono passi.
Vagante, me lo sento. Ce n’è di sicuro uno al piano di sopra, o forse più di uno. Devono essersi accorti di me a causa del rumore che ho fatto rovistando gli sportelli della cucina. Impugno meglio il coltello nella mano ed esco dalla porta del soggiorno. Sulla mia destra c’è l’ingresso, sulla mia sinistra due rampe di scale che portano al piano di sopra. Decido di salire molto cautamente mentre il rumore degli scricchiolii del soffitto continua ma si allontana, invece che avvicinarsi alle scale. Strano. Forse i vaganti sono stati attirati da qualcos’altro, qualche altro rumore, anche se io non ho sentito nulla. Arrivo sul pianerottolo tra una rampa e l’altra e tengo fisso lo sguardo di fronte a me, pronta a reagire a qualsiasi movimento. Salgo l’ultimo scalino.
Ci sono solo tre porte sulla mia destra e la prima e la terza sono aperte. Senza nemmeno entrarci vedo chiaramente l’interno della prima stanza, dove è situato un piccolo bagno, e punto subito lo sguardo su dei piccoli mobiletti in un angolo. Devo subito tornare a rovistare lì appena avrò fatto fuori i vaganti.
Con la coda dell’occhio percepisco un movimento e volto la testa di scatto verso il fondo del corridoio. Dalla terza porta si vede chiaramente il riflesso della luce del sole che sta tramontando e  ad intervalli è interrotta dall’ombra di qualcuno, o meglio ‘qualcosa’, che si muove all’interno della stanza.
Bene, i vaganti sono lì. Percorro a passi felpati la distanza che mi separa dall’ultima porta e sbircio all’interno per un attimo, comincio ad alzare il braccio, pronta per colpire in testa il primo vagante, sperando che un eventuale secondo non mi salti subito addosso, affamato. Entro spedita nella stanza puntando alla testa davanti a me, sento un urlo e poi succede tutto così in fretta che subito dopo mi ci vogliono alcuni secondi per capire cos’è successo.

Daryl tiene saldamente ferma in aria la mia mano armata di coltello a pochi centimetri dalla testa di Michonne. Una Michonne sconvolta, esattamente come me. Lascio cadere il coltello a terra nell’istante in cui capisco quello che stava per succedere e subito dopo Daryl mi lascia andare il polso. Anche lui è incredulo.
“Oh mio Dio, Michonne…” riesco solamente a dire. Mi ero completamente dimenticata di loro due… com’è possibile? Quanto tempo è passato da quando ho fatto il giro della casa per entrare sul retro? Oh mio Dio… non credo a quello che stavo per fare. Sono sconvolta. Sono senza fiato pur non avendo fatto nessuno sforzo particolare e sento chiaramente la paura scorrermi nelle vene. Che cosa diavolo mi sta succedendo? Possibile che il sonno e la stanchezza mi stiano distruggendo e offuscando così? Non riesco a muovermi, le mie gambe si rifiutano di muoversi e una grande confusione si è impossessata della mia testa. Mi porto le mani sul volto per coprire la vergogna e la paura che sto provando in questo momento, ma con scarsi risultati.
Stavo per uccidere Michonne… Se non ci fosse stato Daryl a fermarmi, ora in che diavolo di situazione saremmo? Di sicuro ha sentito i miei passi mentre salivo le scale ed ascoltava i miei movimenti aspettandosi il mio ingresso qui, dove stavano perlustrando. Non posso fare altro che ringraziare i suoi riflessi allenati e i suoi sensi acuti.
“Ok… è tutto a posto” mormora Michonne, apparentemente più calma rispetto a poco fa. “Carol, stai bene?” mi chiede mentre mi appoggia una mano sulla spalla.
Esco allo scoperto e lascio che lei e Daryl mi guardino in faccia. Lei è visibilmente preoccupata per me, lui… è impenetrabile, immobile, la sua espressione è quasi severa. Lo guardo negli occhi e un brivido mi percorre il corpo. Probabilmente ce l’ha a morte con me in questo momento, e non lo biasimo. Trovo la forza di tornare a guardare Michonne.
“Mi dispiace tanto… io… io non so che cosa mi sia preso…” tento di giustificarmi. “Ho sentito dei passi dal piano di sotto, pensavo che fossero dei vaganti… oh mio Dio, scusami tanto…”.
Si, sono decisamente sconvolta e non faccio che ripetermi. Michonne mi guida verso il bordo di un piccolo letto su un lato della stanza e mi fa sedere, sedendosi poi accanto a me. In tutto questo casino non mi ero nemmeno accorta di essere capitata in una camera da letto. Per qualche motivo sconosciuto Daryl finalmente reagisce e si avvicina velocemente ad uno dei borsoni che abbiamo portato da casa, lo apre, prende una borraccia e me la porge.
“Bevi… calmati” mi dice. La prendo e bevo un sorso d’acqua che in effetti mi calma un po’.
“Anche noi abbiamo sentito dei passi poco prima di salire quassù” mi spiega Michonne, la sua mano ancora sulla mia spalla, “e siamo venuti direttamente a controllare in quest’ultima stanza, visto che nel bagno all’inizio non c’era nessuno, ma non essendoci niente nemmeno qui, di sicuro se c’è qualcosa è nella stanza accanto”. Mentre dice queste ultime parole si alza e sfodera la spada, poi si rivolge a Daryl.
“Vado a controllare, così ci leviamo il pensiero”. Detto questo esce dalla camera e si richiude la porta alle spalle. Rimaniamo solo noi due adesso qui dentro. Daryl si avvicina al letto e siede dove prima era seduta Michonne, alla mia sinistra.
“Che ti succede? Cos’hai?” mi chiede, e la preoccupazione nella sua voce è evidente. Non so cosa rispondere, in realtà. È colpa della stanchezza? Del sonno? Di entrambi? Di nessuna delle due cose? Scelgo la stanchezza, perché è così che mi sento: stanca, troppo. “La stanchezza gioca brutti scherzi a quanto pare” gli rispondo afflitta. Lui mi guarda per qualche secondo, chissà a cosa sta pensando. Poi porta una mano sulla mia guancia e col pollice mi accarezza uno zigomo.
“Basta piangere, non è successo niente di grave per fortuna” mi dice.
Piangere? Sto piangendo e non me ne sono resa conto? Mi tocco le guancia libera e le dita si bagnano. Ecco cosa l’ha fatto scattare prima quando mi ha preso la borraccia dal borsone, mi ha vista piangere… Torno a guardarlo e nel frattempo inclino la testa e premo il viso sulla sua mano che è ancora ferma dov’era, chiudo gli occhi e respiro profondamente.
Vorrei poter rimanere qui per il resto della sera e della notte, a dormire su questo letto con Daryl che mi accarezza il viso e mi tranquillizza, ma purtroppo questa è una cosa impossibile e a ricordarmelo sono i tonfi che arrivano dalla stanza affianco. Michonne deve aver abbattuto i vaganti che a quanto pare erano davvero presenti in questa casa. E questo significa anche che il nostro lavoro è terminato, significa che dobbiamo tornare al punto di partenza ed incontrarci di nuovo con Rick, Carl e Aaron e significa che potrò dormire di nuovo sulla spalla di Daryl tra non molto. E non vedo l’ora.
 
                                                                                         *****
 
Ho appena fermato Carol dall’uccidere Michonne.
È una cosa folle, ma la fortuna ha voluto che io avessi sentito Carol salire le scale e avvicinarsi a noi e che fossi rivolto verso la porta, aspettando che entrasse nella stanza. Non so nemmeno io come ho fatto a fermarla in tempo.
Penso e ripenso allo sguardo che aveva prima che io la bloccassi. Era come se fosse totalmente assente, come se la sua mente stesse viaggiando altrove, lontano.
Ci sono certi momenti in cui vorrei così tanto entrare nel suo cervello e scoprire a cosa pensa...
E quelle lacrime… ha cominciato a piangere senza essersene resa conto? Probabilmente stava piangendo per lo shock avuto appena si è resa conto di quello che stava per fare a Michonne. Oppure piangeva per quello a cui stava pensando poco prima di scambiarla per un vagante? Vorrei tanto scoprire anche questo, ma sarà difficile. Carol non si lascia sfuggire quasi mai un pensiero personale, nemmeno quando è da sola con me.
Quando le ho poggiato la mano sul viso ho sentito un fremito leggero, ma costante.
Stava tremando e ci sono voluti alcuni minuti perché si calmasse e smettesse di piangere.
Dopo essersi scusata almeno un centinaio di volte con Michonne, ora sembra che si sia calmata e sia tornata la Carol di sempre.
Sembra.
Non la perderò di vista fino a che non saremo tornati a casa.
Michonne invece sta bene, nonostante il grande spavento che ha preso è riuscita subito a reagire e a continuare a setacciare la casa. Sono sicuro che anche lei si è accorta dello sguardo perso che aveva Carol, per quello si è subito preoccupata di farla tranquillizzare.
In tutto questo una sola cosa è certa: dobbiamo tornare a casa. Il caldo e la stanchezza di oggi ci hanno annientati.

Prima di uscire definitivamente da questa casa, decidiamo di dare un’ultima occhiata in giro.
La seconda stanza al piano di sopra, dove Michonne ha abbattuto un paio di vaganti, era una seconda camera da letto. E dopo ricerche accurate, non abbiamo recuperato niente neanche da lì. Merda. Non abbiamo recuperato niente in quasi nessuna delle case che abbiamo controllato finora, se non fosse per dei vestiti ed una borraccia. Vuota.
“Ho trovato soltanto un barattolo di fagioli nella cucina al piano di sotto” ci annuncia Carol mentre cominciamo a scendere le scale.
“Davvero? Wow, sempre meglio di niente” dice Michonne, rubandomi le parole di bocca. “Potremmo dividercelo per cena durante il viaggio di ritorno” suggerisce Carol.
“Con la fame che ho potrei mangiare anche la latta del barattolo e la carta dell’etichetta” dico spontaneamente. Entrambe scoppiano a ridere, ma io ero serio mentre lo dicevo. Se avessimo più tempo potrei fare un giro nel bosco qui intorno per cercare qualche scoiattolo, ma fuori il sole ormai è tramontato e dobbiamo tornare in fretta a casa.
Arrivo per primo al piano di sotto e mi volto aspettando che Carol e Michonne scendano dietro di me. Non so perché, ma lo sguardo mi va automaticamente verso il sottoscala, dove apparentemente non c’è niente. Ma mi avvicino perché voglio guardare meglio, c’è qualcosa che non va in questo muro. Passo una mano sulla carta da parati e avverto come una sorta di taglio netto verticale, è finissimo, ma lo sento. Poco più avanti, a circa un metro dal primo taglio, ce n’è un altro e scopro che sono dei tagli lunghissimi, collegati tra loro da un altro taglio orizzontale più in alto. Due tagli verticali e uno orizzontale… come se stessero ad indicare una porta.
Aspetta un attimo…
“Ehi, venite a darmi una mano!” dico in direzione di Carol e Michonne che ormai erano già fuori casa. Comincio a strappare la carta da parati e al di sotto si rivela esserci davvero una porta, una di quelle porte filo muro, invisibile, di cui non potrai mai accorgerti se non sei il padrone di casa e non sai esattamente dove si trovi perché a malapena si distingue dove finisce il muro e dove inizia la porta. Dovrebbe aprirsi a pressione, visto che non c’è nessun genere di pomello.
Carol e Michonne arrivano e mi aiutano a strappare bene tutta la carta attorno, poi provo a spingere, ma non succede niente. Provo di nuovo, ci metto più forza. Niente. Proviamo tutti e tre insieme e solo allora comincia a sentirsi qualche scricchiolio.
“Ho un’idea” dice Carol mentre estrae il suo coltello dalla cintura e prova ad infilare la lama in uno dei lati della porta, facendo pressione. Estraggo il mio coltello e faccio lo stesso, inserendo la lama poco più in alto della sua. “Michonne spingi verso destra! La porta si sta muovendo!” esclama Carol con fatica e Michonne fa esattamente quello che le viene detto. Dopo pochi secondi riusciamo ad aprirla, molto lentamente. A quanto pare non è stata mai aperta negli ultimi anni.
Rimaniamo per qualche istante immobili a guardare all’interno, in silenzio. L’unica che riesce a dire qualcosa è Carol, anche se effettivamente si tratta solo di un “Oh”.
C’è soltanto una piccola nicchia, delle dimensioni esatte della porta, contenente uno scaffale.
Uno scaffale pieno zeppo di ogni genere di cose di cui siamo stati alla ricerca oggi.
“Tre scatole di proiettili, tre pistole, delle corde, un coltello, due torce con relative batterie… e due, quattro, sei, otto, nove! Nove barattoli di carne e fagioli in scatola! Non ci posso credere!” esclama Michonne, cominciando a prendere le prime cose per metterle nello zaino.
Fuori si sta facendo buio e senza luce del sole non riusciamo più a vedere chiaramente, quindi  Carol si arma di torcia e si avvicina allo scaffale per aiutare Michonne, ma poco dopo si ferma a fissare un punto in alto. Il suo viso si anima e la sua mano libera si muove verso di me, arrivando a toccarmi il braccio.
“Ehi Daryl, guarda lì” dice, indirizzando il fascio di luce della torcia verso l’ultimo ripiano dello scaffale. Una faretra piena di frecce viene illuminata dalla luce. Mi avvicino subito per prenderla ed esamino ogni singola freccia.
“Vanno bene per la tua balestra?” mi chiede lei.
“Penso di si” rispondo, e sono decisamente soddisfatto. Ma… siamo proprio sicuri che questa casa non sia abitata da nessuno? Com’è possibile che dietro a questa porta ci sia così tanta roba utile abbandonata? Un brivido leggero mi scorre sulla pelle, nonostante il caldo. E se qualcuno ci stesse osservando? Se questa fosse una trappola?
La parte razionale dentro di me sta pensando che no, non è possibile che sia abitata. Questa piccola porta era nascosta e abbiamo faticato molto per aprirla, a dimostrazione del fatto che non veniva aperta da anni, e poi comunque per tutto il tempo che siamo rimasti qui dentro a controllare le stanze, non si è fatto vivo nessuno. Quindi non c’è pericolo e possiamo prendere e portare via tutto quello che c’è nello scaffale con calma.
La parte istintiva dentro di me, invece, sta urlando. Urla di andarsene, e alla svelta.
Appoggio per un attimo la balestra a terra mentre carico la faretra su una spalla, lo zaino sull’altra e aspetto che Carol e Michonne finiscano di svuotare lo scaffale. Sto all’erta, riprendo la balestra in mano, carica e pronta all’uso in qualsiasi momento.
“Bene, abbiamo preso tutto! Possiamo andare”  annuncia Michonne mentre chiude il suo zaino, e tutti e tre usciamo dalla casa. Finalmente.
Dobbiamo ripercorrere la strada fatta all’andata e passare davanti a tutte le villette che abbiamo controllato oggi. Ormai è sera, ma la luce della luna è così chiara che non serve nemmeno accendere le torce per vedere la strada. Tanto di guadagnato, attireremo meno l’attenzione di chiunque ci stia osservando, semmai ci stiano osservando.
Un vagante solitario viene verso di noi ma non ce ne preoccupiamo molto perché Carol è già pronta, coltello alla mano, e lo abbatte senza troppa fatica. E continuiamo la strada verso il punto di partenza. Sembra che stia meglio rispetto a prima, ma dentro di me so che non sta affatto bene, lo capisco dal modo in cui si comporta adesso, cammina davanti a noi a passi decisi e si gira solo ogni tanto per controllare se dietro di lei va tutto bene.
“Sai, devo dirti che sei stato davvero bravo a trovare quella porta” mi dice Michonne. “Io non l’avrei mai vista”.
“Questione di vista allenata” le rispondo. “Se stai sempre attento ai dettagli, poi i dettagli ti si rivelano da soli”.
“Siamo filosofici, eh?” scherza, dandomi una pacca sulla schiena.

E poi succede tutto all’improvviso.

Il suono di un colpo di pistola arriva da lontano. Poi altri due. Poi un altro.
Ci fermiamo di botto in mezzo alla strada per capire bene da dove siano arrivati i colpi, ma sappiamo bene tutti e tre che possono essere arrivati solo dall’altra parte del centro residenziale.
“Rick...” sussurra Michonne, nel panico e senza fiato. Comincia a correre, sorpassa Carol, che era poco più avanti di noi, e appena si accorge che il peso dello zaino che ha sulle spalle la sta rallentando, lo lancia via e riprende la corsa.
Io e Carol ci guardiamo increduli e non serve dire nulla. Nello stesso momento ci muoviamo e cominciamo a correre anche noi. Mi fermo un attimo per recuperare lo zaino di Michonne e poi corro, corro più veloce che posso, nonostante il peso dei carichi che ho sulla schiena.
Superiamo la piazza da dove abbiamo cominciato la spedizione e ci dirigiamo verso la fine della strada. Come se non bastasse, vari vaganti si avvicinano alla strada sbucando fuori da dietro le case, attirati ovviamente dagli spari di poco fa.
“Cazzo!”. Punto la balestra e ne abbatto uno. È il momento giusto per provare le nuove frecce. Ricarico l’arma e mi rivolgo a Carol, che è poco più avanti di me, anche lei bloccata dai vaganti. “Ehi! EHI! Tu va avanti, ci penso io a farli fuori!”. Lei sembra avere da ribattere, ma riesco a precederla. “VAI! CORRI!”.
È combattuta, vuole aiutarmi, ma sa meglio di me che deve andare ad aiutare Rick e gli altri, non avrebbero sparato se non fosse stato necessario.
Abbatte un altro vagante, si gira a guardarmi e io sostengo il suo sguardo. Vedo la rassegnazione prendere possesso dei suoi occhi e poco dopo si volta e ricomincia a correre.
Io resto qui, circondato dai vaganti.
 
                                                                                              *****
 
Vedo sangue.
Vedo Michonne inginocchiata vicino ad un corpo a terra.
Un altro corpo è appoggiato alla staccionata della casa.
Mi si gela il sangue nelle vene.

Sono senza fiato, le gambe mi fanno male così come la schiena, dolorante sotto il peso del borsone e del fucile. Non ho il coraggio di avvicinarmi per vedere a chi sta rivolgendo le sue attenzioni Michonne, ma è di sicuro qualcuno dei nostri. Non avrebbe senso prendersi cura di un vagante o di una qualsiasi altra persona.
Appoggiato alla staccionata c’è Aaron, con il volto coperto dal sangue proveniente da una brutta ferita alla testa. È privo di sensi. Spero.
Mi avvicino velocemente a lui e mi assicuro che respiri, poi mi chino per controllare la ferita. Bisogna fermare il sangue immediatamente. Nello zaino ho dei vestiti trovati in una delle case setacciate oggi, ne prendo alcuni e li premo con forza sulla sua testa.
“Aaron! Ehi! EHI!” provo a chiamarlo, dandogli piccoli schiaffi per cercare di rianimarlo.
Alle mie spalle sento Michonne piangere e subito dopo urlare. “ANDIAMO, RICK! SVEGLIATI!”.
Oh no, Rick…
Spero che non sia…
Dov’è Carl? Mi guardo attorno, ma nei paraggi non c’è.
“Michonne! Rick sta bene? È vivo?” trovo il coraggio di chiederle.
“Si, si è vivo, ma non si sveglia! Non so che fare!” dice tra le lacrime. “Sto provando a fermare il sangue!”.
“Bravissima!” la incoraggio, poi riprovo a svegliare Aaron. “Svegliati! Dai, dai svegliati!”.
Ce la faccio, Aaron reagisce. Lentamente, ma reagisce. Prova ad aprire gli occhi ma la testa deve fargli davvero male, perché non ci riesce.
“Carol… Sei tu, vero?” sussurra.
“Si, si sono io. Tieni gli occhi chiusi, non sforzarti”. Non dovrebbe sforzarsi, ma deve assolutamente dirci che cosa è successo. “Cos’è successo, Aaron?”.
Geme dal dolore, ma riesce a tenere gli occhi aperti, sembra abbastanza lucido.
“Ci hanno attaccati, ma non so cosa volevano” fa una pausa per appoggiarsi meglio alla staccionata e solo ora mi accorgo della pistola che tiene stretta in mano.
“Hai sparato tu quei colpi? Appena li abbiamo sentiti siamo corsi subito qui” gli spiego.
“Si, e credo anche di aver colpito uno dei due ad una gamba”.
“Quindi erano due uomini?”.
“Si, erano due. Ci hanno attaccati all’improvviso e hanno subito colpito Rick alla testa con violenza, io  ho sparato e anche Carl ha provato a sparare, ma-”.
Michonne lo interrompe subito. “Che gli è successo? Che gli hanno fatto?”.
“L’hanno portato via” le risponde rassegnato. “Ho visto che colpivano anche lui subito dopo aver colpito me, ma io sono riuscito a rimanere sveglio per un po’ e ho visto che uno di loro se l’è caricato in spalla e… e poi sono scappati da quella parte” e fa segno verso sinistra, dopo la fine della strada.

Rick è quasi morto, Aaron è ferito, Carl è stato rapito da degli sconosciuti, Daryl è rimasto indietro per bloccare i vaganti e Michonne è in pieno attacco di panico. Devo agire. E alla svelta.

“Aaron, riesci a tenere premuto questo panno sulla tua testa? Voglio aiutare Michonne” gli chiedo, sperando che ci riesca.
Lui fa segno di si con la testa e porta la mano sul bendaggio improvvisato. Corro subito vicino a Rick e Michonne, che probabilmente è sotto shock, ma che nonostante questo riesce a tenere premuta sulla testa di Rick una delle magliette che abbiamo trovato oggi. Ma ormai è intrisa di sangue. Deve averla presa dal mio zaino quindi rovisto ancora sperando di trovarne un’altra.
E ci riesco.
“Tieni”, la porgo a Michonne, “usa questa”. Lei la prende e alla svelta la sostituisce a quella sporca.
Stringo il polso di Rick. È debole, ma è ancora con noi. Dobbiamo fare in modo che rimanga tale.
“Dov’è Daryl?” mi chiede Aaron.
‘A salvarci la vita’ rispondo dentro di me.
Prima che possa rispondergli davvero, mi accorgo che un paio di vaganti si muovono verso di noi.
No. Basta. Ne ho abbastanza per oggi. Sono stravolta, non riesco nemmeno ad alzarmi per affrontarli. Potrei usare la pistola ma non posso, ne attirerei altri. Sono stanchissima ma devo assolutamente cominciare a cercare Carl. Cerco dentro di me la forza di sfoderare il coltello e rialzarmi.
Ma non ce n’è bisogno.
Il primo vagante che stava per avvicinarsi cade a terra, non molto lontano da noi, con una freccia conficcata in testa.
Non sono mai stata così felice di vedere una freccia in vita mia.
Una delle sue.
Il secondo vagante va incontro alla stessa sorte poco dopo, mentre da lontano vedo Daryl correre verso di noi, sporco di sangue, spero non suo.
La sua espressione cambia ad ogni passo che fa verso di noi. Ansia, sgomento e infine paura. Quella paura che ti annebbia il cervello e ti blocca. Daryl si ferma a pochi passi da noi, sconvolto nel vedere Rick e Aaron ridotti in queste condizioni, la balestra che penzola dalla sua mano e cade a terra. Guarda verso Aaron, poi verso di noi e rimane così, immobile. La sola cosa che mi fa capire che è vivo è il fiatone dovuto alla corsa. Provo ad incrociare il suo sguardo e so che anche lui sta guardando me, ma la sua mente è altrove.
Finalmente però, dopo alcuni instanti, trova il coraggio di chiedere l’inevitabile. “È morto..?”.
“No” risponde Michonne, sembra essersi calmata un po’.
Decido di spiegargli tutta la situazione prima che faccia un’altra domanda. Gli costerebbe non poca fatica. Mi alzo da terra e mi avvicino a lui.
“Sono stati attaccati da due uomini..” gli spiego “..che hanno colpito Rick per primo, poi Aaron ed infine Carl, e l’hanno portato via scappando oltre la fine della strada”.
Daryl guarda a terra mentre parlo, sta metabolizzando tutto quello che gli dico. Ma appena alza gli occhi e mi guarda, la luce nei suoi occhi è diversa. Riflette determinazione.
“Bisogna riportarli subito a casa” dice, e poi si abbassa a riprendere la balestra.
Si avvicina a Rick e, insieme a Michonne, cerca di alzarlo. Si caricano le sue braccia dietro al collo e lo trascinano a peso morto dirigendosi verso l’auto. Io recupero il mio zaino e ritorno da Aaron, lo aiuto ad alzarsi e a camminare per tutto il tragitto che ci riporta all’auto.
Sto pensando ad un modo per dire a Daryl che voglio, no anzi, devo rimanere a cercare Carl mentre lui riporterà gli altri a casa sani e salvi, ma non riesco a trovare una via che non porti poi ad un litigio. Insisterà per farmi tornare a casa mentre lui cercherà Carl.
Mi preparo psicologicamente a questa discussione.

Arriviamo alla macchina e Michonne sale sul sedile posteriore e, insieme a Daryl, carichiamo Rick in modo che per metà sia sdraiato e per metà sia in braccio a lei, che continua a tenergli premuta la maglietta sulla testa. Aiuto Aaron a sedersi sul sedile anteriore del passeggero mentre Daryl carica in fretta gli zaini sul retro, chiudiamo gli sportelli contemporaneamente e ci ritroviamo faccia a faccia vicino allo sportello del guidatore.
“Forza, sali! Non potete aspettare ancora molto, avete molto strada da fare!” mi dice con urgenza.
Ci siamo.
“Resterò io a cercare Carl, tu vai! Guidi molto più velocemente di me!” gli dico.
Mi guarda come se fossi impazzita all’improvviso. “Che diavolo stai dicendo? Non puoi restare qui, da sola, di notte a cercare Carl! Levatelo dalla testa!”.
“Ma Daryl, io-”.
“CAROL!” grida.
Non mi chiama quasi mai per nome, se l’ha fatto vuol dire che sta davvero perdendo il controllo.
Apre lo sportello del guidatore con rabbia e mi fa segno di entrare, lo sguardo fisso a terra. Potrei dirgli le stesse identiche cose che lui ha appena detto a me, ma so che sarebbe inutile. Nemmeno io voglio che lui resti qui da solo di notte, soprattutto dopo quello che è successo agli altri, ma sono sicura di una cosa a cui poco fa non avevo pensato, e che non mi impedisco di chiedergli ora.
“Se io rimanessi, rimarresti anche tu… non è così?” gli chiedo, e la mia voce si spezza.
Il suo sguardo si alza lentamente e incrocia il mio. Nessuno dei due parla.
Ma non c’è tempo, non più. Rick rischia la vita.
Salgo nell’auto, accendo il motore. Daryl fa un passo verso di me e sussurra in modo che solo io possa sentire. “Mi dispiace…”.
Gli occhi mi bruciano mentre tiro un lembo del suo gilet per farlo avvicinare e lo abbraccio forte, lui mi stringe allo stesso modo e nascondo la testa nell'incavo del suo collo mentre mi impedisco di piangere. Oh no, non di nuovo… mi ha già vista piangere una volta, oggi. Non era mai successo.
Mi scosto un po’ per dargli un bacio sulla guancia e poi, appena ci guardiamo, un bacio sulle labbra, che lui ricambia, nonostante ci troviamo in mezzo ad altre persone, ma la situazione è quella che è, e non è delle migliori.
Appena ci separiamo, Daryl chiude la portiera e io abbasso il finestrino.
“Tornerò a prendervi” gli prometto.
“Non tornare da sola” mi avverte.
Comincio a guidare mentre lui continua a guardarmi e resta fermo dov’è.
“Mi hai capito?!” chiede ad alta voce per farsi sentire, mentre la macchina comincia ad allontanarsi.
Continuo a guardarlo dallo specchietto mentre ci allontaniamo finché non diventa un puntino nel buio della sera.
Le sue parole mi rimbombano nella testa.
‘Non tornare da sola’.
Probabilmente sapeva anche lui che erano parole al vento. Tornerò, ovviamente, ma non coinvolgerò nessun altro se non è necessario. E non penso che sia necessario.
Tornerò.
Per lui e per Carl. 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


----> PICCOLA PREMESSA: Scusate per l'attesa, è stato un capitolo particolarmente lungo e difficile da scrivere! Per il quarto capitolo...beh, già sapete che bisogna aspettare!
Vi ringrazio molto per l'affetto che state dimostrando nei confronti di questa storia! Ed un ringraziamento particolare a Stefania! Spero di non deludervi!
- Silvia -




SCARS – Capitolo 3

 

Rick se lo sentiva.
Prima di partire per la spedizione sentiva che sarebbe successo qualcosa, me l’ha detto nell’armeria.
E io cosa gli ho risposto?

Ripercorro la strada fino a dove gli altri sono stati attaccati e mi fermo a guardare le macchie di sangue. A terra c’è una maglietta appallottolata e zuppa di sangue. Mi abbasso e la prendo tra le mani. Questo è il suo sangue.
Cerco di farmi tornare in mente le parole esatte che gli ho detto prima di uscire dall’armeria. Gli ho detto… gli ho detto che non sarebbe accaduto nulla e che non c’era differenza tra un posto e un altro perché vaganti e pericoli sono ovunque…
Sento la rabbia assalirmi e, alzandomi di scatto, scaravento la maglietta lontano.
Un brivido mi percorre il corpo con violenza al pensiero di quello che potrebbe accadere a Rick, di quello che potrebbe accadere a Carl…
Se non riuscirò a trovare Carl, Rick non me lo perdonerà mai…
Io non me lo perdonerei mai…
Non posso perdere altro tempo, devo cominciare a cercarlo.
Con la coda dell’occhio vedo delle piccole macchioline scure dirigersi verso il grande prato che segna la fine della strada del centro residenziale.
Aaron ha detto a Carol che le persone che li hanno attaccati erano due e che sono scappati oltre la fine della strada. Vado esattamente in quella direzione seguendo la scia di macchie di sangue che si protrae per molti metri sull’asfalto, anche se faccio davvero fatica a vederla. La luce della luna è chiara, ma stavolta non è abbastanza. Cazzo, la luce del sole mi aiuterebbe di sicuro.
Cerco nello zaino la mia torcia per illuminare la scia di sangue che continua anche sull’erba del prato. Senza torcia sarebbe impossibile vederla perché l’erba è così alta da arrivarmi quasi alle ginocchia.
È probabile che questi maledetti abbiano aspettato la notte di proposito, per attaccare e poi andarsene via indisturbati, senza lasciare traccia. Hanno rubato tutti gli zaini e le provviste che gli altri avevano con loro… ma perché rapire Carl?
Arrivo alla fine del prato, di fronte a me un altro prato, ma c’è un sentiero abbastanza grande che li divide e lì la scia si interrompe.
“Figli di puttana” sussurro.
Sono sicuramente scappati in auto, ci sono i segni delle ruote sul terreno. Ma da che parte? Destra o sinistra? Mi metto le mani nei capelli, non so che fare.
A destra il sentiero continua parallelo ai prati. Cammino per qualche metro in quella direzione, ma dopo un po’ l’unica cosa che vedo è erba, erba e ancora erba, e all’orizzonte non vedo niente di preciso, il sentiero si perde nel buio.
A sinistra, invece, il sentiero si inoltra in un bosco. E forse si sono inoltrati proprio nel bosco, che può aver dato loro protezione e magari un nascondiglio. Spero che questo sentiero mi conduca dove sono loro esattamente.
Quindi sinistra. Ho deciso.
Mi affido alla luce della torcia, ai miei sensi e a tanta fortuna.
Lo troverò.

 
                                                                                             *****
 

Sono stanca.
Così stanca che le palpebre mi si chiudono da sole.
Vorrei tanto dormire, ma non posso assolutamente.
Sono seduta fuori casa, in veranda, dove di solito è seduto lui…
Osservo le mie mani rosse di sangue mentre ripenso a quello che è successo finora.
La mandria, le perlustrazioni, l’ultima casa, io che per poco non uccido Michonne…
Gli spari, l’attacco… Rick e Aaron feriti, Carl scomparso…
Ho lasciato Daryl da solo a non so quanti chilometri di distanza per cercarlo, di notte…
Potrebbe succedergli qualsiasi cosa, potrebbero attaccare anche lui, ed è lì da solo! Oh mio Dio…

Il viaggio di ritorno è stato frenetico, non credo di aver mai guidato così velocemente in tutta la mia vita, ma era necessario. La fortuna ha voluto che Aaron, nonostante la grave ferita alla testa e l’evidente confusione, si ricordasse bene la strada per tornare a casa in modo da aiutarmi nel viaggio. Michonne si è presa cura di Rick per tutto il tempo, tenendolo stretto a sé, curandolo come meglio poteva, cercando di fermare il sangue, pregando e piangendo per lui e sicuramente anche per Carl. Mentre guidavo la osservavo dallo specchietto retrovisore e immaginavo la sofferenza che stava provando per non essere potuta rimanere lì a cercare Carl e allo stesso tempo la sofferenza che stava provando nel vedere Rick ridotto così.
E il silenzio in quell’auto era profondo, disturbante, insopportabile. Ogni tanto incitavo Aaron a spiegarmi meglio la strada per riuscire a farlo rimanere sveglio, ma soprattutto per riuscire a far rimanere sveglia me.
Abbiamo impiegato poco meno di cinque ore per tornare, era ormai notte fonda. Sasha era di guardia su una delle torrette, ha aperto lei il cancello. Invece di andare a parcheggiare l’auto, ho guidato dritta fino all’ingresso dell’ infermeria, e questo l’ha subito allarmata. Mentre scendevo dall’auto l’ho vista correre nella nostra direzione, confusa.
“Cos’è successo?” mi ha chiesto.
“Aiutami!” è l’unica cosa che sono riuscita a dirle.
Ho aperto lo sportello del passeggero per far scendere Aaron, che ancora si reggeva sulla testa il bendaggio di fortuna creato con quella vecchia maglietta. L’ho aiutato a salire le scale mentre dietro di me sentivo che uno degli sportelli posteriori dell’auto veniva aperto e appena mi sono voltata per tornare indietro ho visto lo shock che repentinamente prendeva possesso di Sasha. È rimasta immobile mentre io e Michonne provavamo a trasportare Rick giù dal sedile.
“Sasha! Aiutami!” l’ho chiamata, svegliandola da chissà quali pensieri.
Ha reagito subito, fortunatamente, e in tre siamo riuscite a trasportare Rick in infermeria, facendo non poco rumore. Le persone nelle case attorno hanno cominciato a svegliarsi e da lì in poi, sinceramente, non ho capito più molto. Mi ricordo di aver visto Heath correre da Aaron per accertarsi che stesse bene. Maggie e Rosita che sono corse da noi poco dopo. Poi il nulla.
Ho parlato con persone e risposto a domande che non ricordo, ero lì, ma era come se non ci fossi. In quel momento, quando ho finalmente fatto in modo che Rick e Aaron fossero sotto le cure di qualcun altro più capace di me, i miei pensieri si sono rivolti solo e soltanto a Daryl e Carl.
Daryl e Carl. L’eco dei loro nomi rimbombava prepotente in infermeria, e ogni volta che rimbombava, il mio cuore sentiva una fitta dolorosa.
Non riuscivo più a respirare lì dentro, così sono venuta a rifugiarmi qui, dove di solito si rifugia Daryl, ma non è cambiato poi molto.
Non sopporto l’idea di saperlo lì fuori, da solo. Così mi sono seduta a terra, esattamente come fa lui, per fare il punto della situazione e capire cosa fare e come farlo. Maggie mi ha raggiunta poco dopo, offrendosi di prepararmi una tazza di caffè e portarmi dell’acqua per ripulirmi e sistemarmi. Ho accettato volentieri, soprattutto per il caffè.

Ed eccola che torna da me, con una grande tazza di caffè fumante in una mano e una ciotola con acqua una spugna nell’altra. Mi porge la tazza, poi poggia la ciotola e la spugna a terra vicino ai miei piedi e si mette seduta accanto a me.
Inalo l’odore del caffè e già mi sento più sveglia, o almeno è quello che voglio far credere a me stessa, quindi mi affretto a berlo. Non posso perdere altro tempo.
“Rick è stabile. Dicono che ci vorrà un po’ prima che si svegli, per via di tutto il sangue che ha perso” mi dice pensierosa “ore… giorni… non lo sanno, ma si riprenderà”.
Menomale. Dopo queste parole sento un piccolo peso sparire dal cuore.
“Cos’hai intenzione di fare, Carol?” mi chiede dopo qualche minuto di silenzio.
“Io… devo tornare là” le dico semplicemente.
“Non andrai da sola, vero?”. La preoccupazione nella sua voce aumenta.
“Non voglio coinvolgere nessun’altro” le rispondo dopo aver finito anche l’ultimo sorso di caffè. Sento la caffeina che comincia a farmi effetto. Comincio a ripulirmi le mani con la spugna e poi mi sciacquo la faccia. L’acqua è fresca, piacevole, e a poco a poco si tinge di rosso.
“Posso venire io con te” si offre “e anche Michonne poco fa mi ha detto che vuole assolutamente tornare per cercare Carl”.
“Non essere sciocca! Tu devi rimanere con tuo figlio! Michonne è troppo scossa, deve rimanere a prendersi cura di Rick e io mi muoverò meglio se non avrò altro a cui pensare” le dico in tutta fretta mentre mi alzo da terra. “Lì troverò Daryl, non sarò da sola”.

Maggie si rialza con me e insiste. “E come farai a tornare? Ti ricordi la strada?”.
No, in realtà non ricordo la strada. All’andata ho dormito per più di metà viaggio e al ritorno la mia mente era troppo occupata per ricordarsi dove dovevo svoltare e dove invece dovevo andare dritta. Ma poi mi fermo a guardarla per un po’ e mi viene un’idea.
“Vuoi davvero aiutarmi?” le chiedo, e lei fa subito segno di si con la testa.
“Trova una mappa, poi vai da Aaron e inventati una scusa per farti dare le indicazioni stradali per tornare lì. Una volta che le avrai ottenute, portamela. Probabilmente mi troverai nel garage, devo cercare un’auto con cui tornare indietro”.
Ha lo sguardo un po’ sconfitto, ma annuisce lo stesso. Si volta e comincia a camminare, ma mi viene in mente un’altra cosa molto importante.
“Maggie!” la chiamo.
Lei si gira a guardarmi, sicuramente sta sperando che io abbia cambiato improvvisamente idea sull’andarmene da sola, ma devo deluderla.
“Ti prego procurami anche un termos pieno di caffè”.    
                                                                         
 
                                                                                           *****
 

Ho la nausea. La testa mi fa male e mi gira.  
Sono ferito? Provo a portarmi una mano sulla fronte dove sento una fitta atroce, ma non ci riesco. Mi rendo conto di essere sdraiato a terra su un pavimento di marmo, con le mani legate dietro la schiena. Cos’è successo? E soprattutto dove sono? Dove sono tutti gli altri?!
Ricordo che qualcuno ci ha attaccati subito dopo che avevamo finito di setacciare l’ultima casa del centro residenziale. Hanno colpito mio padre alla testa, non so nemmeno con cosa. Ho provato a reagire, a sparare, ma mi hanno bloccato e poi hanno colpito anche me.

“Papà..?” provo a chiamare. La mia voce è roca. Da quanto tempo sono qui?
“Papà!” riprovo più forte. Nessuna risposta.
Provo a tirarmi su e a sedermi e appoggio la schiena al muro dietro di me per evitare di ricadere sdraiato a terra.
Mi trovo in una stanza un po’ buia, non troppo grande. È una biblioteca. Un’imponente libreria inizia dal muro alla mia sinistra, passando per quello di fronte, dove circonda una piccola finestra quadrata, e termina proprio accanto a me, sul muro alla mia destra. È piena zeppa di libri ed è di un legno così scuro che quasi mi da fastidio guardarla… ma forse è solo l’effetto della botta in testa. Al centro della stanza ci sono una scrivania e una sedia fatte dello stesso legno. A giudicare da tutto quello che c’è intorno a me, questa casa apparteneva a persone facoltose.
Più mi abituo al buio che c’è qui dentro e più il buio sembra scomparire. Dalla finestra comincia ad entrare la luce del sole che sta sorgendo. Oh no, è già mattina? Significa che sono passate almeno nove o dieci ore da quando siamo stati attaccati.
A pochi passi alla mia sinistra c’è una porta, col buio che c’era poco fa non l’avevo notata.
Devo assolutamente uscire da qui e capire che cosa diavolo sta succedendo!
Provo ad allentare un po’ la corda che mi stringe i polsi ma niente, è troppo stretta. Dovrò camminare con le mani legate. Punto saldamente i piedi a terra davanti a me e mi spingo contro il muro con tutta la forza che ho, mentre pian piano provo ad alzarmi, rimanendovi attaccato. Per fare tutto questo impiego quasi dieci minuti, credo.
Sono finalmente in piedi, ma aspetto qualche secondo prima che la testa smetta di girarmi così vorticosamente. È una cosa fastidiosissima.
Rimanendo sempre con la schiena contro il muro, mi avvicino alla porta e, una volta arrivato lì, prendo il pomello tra le mani e provo a girarlo, sperando che la porta si apra. Giro a destra, poi a sinistra, ma purtroppo non si apre, sono chiuso dentro.
Mi lascio ricadere a terra, rassegnato, ma non del tutto, e resto appoggiato alla porta. Solo adesso che ho smesso di muovermi faccio caso al rumore di sottofondo che proviene da fuori.
Sono voci. Sono persone. Due.
Sono lontane, ma si capisce ugualmente cosa dicono.
“Cazzo, Devian! Fai piano! Fa malissimo!” esclama la prima voce.
“Sta’ fermo, coglione! Non riesco a vedere il proiettile!” ribatte la seconda.
Si sentono rumori di attrezzi vari, poi delle urla, e sembra che ad urlare sia la prima voce che ho sentito. Poi più niente, finché proprio dietro di me, pochi minuti dopo, comincio a sentire rumore di passi. Si fanno sempre più vicini alla porta a cui sono appoggiato. Più veloce che posso mi sdraio e rotolo lontano, ritornando all’angolo da dove sono partito, vicino alla libreria.
Sento una chiave che viene infilata nella serratura e la porta subito dopo si apre verso l’interno. Fa il suo ingresso nella stanza un uomo alto, magro, con indosso vestiti strappati e sporchi di terra e sangue. I suoi capelli sono neri come il legno presente nella stanza e, appena entra e guarda nella mia direzione, mi accorgo che ha degli occhi chiarissimi… che non mi ispirano nulla di buono ovviamente, altrimenti non credo che sarei legato qui dentro, da solo.
“Ah! Ti sei svegliato” mi dice, mentre si richiude la porta alle spalle. Va a prendere la sedia che si trova dietro la scrivania, la posa ad un paio di metri da me e ci si siede, i gomiti appoggiati sulle ginocchia. Mi osserva senza dire niente, aspetta che parli io.
“Dov’è mio padre?” gli chiedo di getto. È l’unica cosa di cui mi importa davvero, al momento.
“Mmm vediamo… tuo padre, dici? Quale sarebbe? Quello che abbiamo ammazzato per primo o quello che abbiamo ammazzato per secondo?”. Sorride.
Il cervello mi sta esplodendo. Mio padre non può essere morto. Comincio ad agitarmi, devo e voglio uccidere quest’uomo.
Dalla cintura lui sfodera velocemente una pistola e me la punta contro. “Ah ah! Sta calmo ragazzo, non muoverti altrimenti farai una brutta fine” mi minaccia. “Abbiamo preso solo te, gli altri non ci servivano, così li abbiamo messi fuori dai giochi! Da qualcuno dovevamo pur cominciare” continua.
“Vi servo per cosa?” chiedo con rabbia.
“Per torturarti” dice, con una calma e un’ovvietà che mi mettono i brividi.
Trattengo il respiro appena lo sento dire quelle parole. “C-cosa?” riesco a dire soltanto.
“Cosa c’è? Ti ho spaventato?” mi chiede sorridendo, per poi scoppiare a ridere. “Vogliamo sapere molte cose da te! Per esempio dove si trova il vostro accampamento”.
Rimette la pistola a posto e si rimette comodo sulla sedia. E ricomincia a parlare.
“So che non me lo dirai, non sei stupido. È per questo che avremo bisogno di torturarti… i ragazzi sono i più deboli in un gruppo, cedono più facilmente e ci rivelano tutto quello che di solito vogliamo sapere”.
Mi guarda, studia le mie reazioni. Poi si alza e viene verso di me. Per difendermi provo ad alzare le gambe, ma con le braccia bloccate è difficile e soprattutto inutile. Lui si difende un po’ ma poi mi blocca le gambe a terra con le sue e mi spinge sulla faccia un panno umido.
Mi gira la testa, di nuovo. Poi la stanza si fa buia, di nuovo.
 

                                                                                            *****
 

Non vorrei stare fermo qui, eppure devo starci. Non riuscirei a fare ancora un altro passo, devo recuperare un po’ le forze. Il sole è ormai sorto e ancora non ho trovato Carl.
Pensavo che quel bosco nascondesse un qualsiasi tipo di nascondiglio, qualche indizio... invece nascondeva solo vaganti. Se avessi avuto anche un minimo dubbio sarei tornato indietro, invece qualcosa mi diceva di andare avanti, di proseguire fino alla fine.
Ho seguito i segni delle ruote sul terreno per ore, attraversando tutto il bosco, fermandomi ogni tanto a guardarmi intorno e riprendere fiato, provando a tenere spenta la torcia per un po’, cercando di andare avanti senza luce, per risparmiare la carica.
Ho abbattuto tanti vaganti, troppi. Sembrava come se la notte avesse trovato il modo di farli moltiplicare. Più ne abbattevo e più ne arrivavano altri. Quando non era necessario abbatterli, mi sono semplicemente spostato dal loro cammino, evitando di fare rumore, fino a che un gruppo di loro, troppo numeroso, stava per bloccarmi tra gli alberi. Me la sono davvero vista brutta. Ho usato tutte le frecce della faretra che abbiamo trovato ieri sera, per salvarmi il culo. Sfortunatamente sono riuscito a recuperarne solo tre ma non ho nessuna intenzione di tornare indietro a riprendere le altre, potrei avere altri spiacevoli incontri e non sono abbastanza armato. Non voglio usare il fucile o la pistola, non voglio attirare l’attenzione. E comunque non ho abbastanza tempo per tornare indietro nel dannato bosco, devo ricominciare la ricerca.
Sono riuscito ad uscire dal bosco non molto tempo fa e mi sono imbattuto in questa vecchia quercia, enorme, che in qualche modo delimita il confine tra il bosco e la strada. A sua volta, la strada divide a metà il bosco.
Mi sono seduto qui sotto, all’ombra, tra il tronco e la strada, provando a riprendere fiato, e perché no, magari anche ad aspettare Carol, visto che questa è la stessa strada che abbiamo percorso per arrivare qui ieri mattina. Se tornerà, dovrà per forza passare da qui.
Carol… certo che tornerà. E qualcosa mi dice che ritornerà da sola, ne sono praticamente certo, nonostante io l’abbia avvertita di non farlo, prima che portasse in salvo Rick e Aaron. Non vorrà coinvolgere nessuno e se qualcuno si offrirà spontaneamente di aiutarla, lei devierà il discorso oppure scapperà via senza farsi notare. Sicuramente andrà così. Oppure è già andata così, perchè forse è già in viaggio. Spero che almeno si sia riposata, prima di partire.
Meglio tornare verso il centro residenziale, così quando tornerà, riusciremo ad incontrarci facilmente. Ho un sacco di strada da fare. Mi ricarico in spalla lo zaino e il fucile, riprendo in mano la balestra e riparto, camminando sul ciglio della strada.

Solo dopo diversi chilometri il bosco comincia a diradarsi e si vedono chiaramente le prime case del centro residenziale.
Fa caldo, ho finito tutta l’acqua che avevo e la stanchezza di certo non collabora a farmi stare meglio. Credo di essere sveglio da quasi trenta ore…
E a quanto pare adesso ho anche le allucinazioni.
Nel parcheggio dove abbiamo lasciato l’auto ieri, oltre la nostra, c’erano altre tre auto. Sto camminando proprio verso quel parcheggio e di auto ne vedo quattro. Ci sono le tre di ieri più una che da qui non riesco a vedere bene, devo avvicinarmi di più.
C’è qualcosa che non va. Più mi avvicino al parcheggio e più non capisco.
Ma poi la vedo.
Una delle nostre auto.
Vuota, chiusa. Carol è già tornata?
Tocco il cofano anteriore per capire se il motore è ancora caldo. È caldo ma non troppo, significa che non è arrivata da molto. Mi guardo intorno in cerca di movimento, in cerca di lei. Ma non c’è nessuno qui. Probabilmente sarà tornata dove è avvenuta l’aggressione, quindi mi incammino verso quella direzione.
A passi veloci ripercorro tutta la strada, osservo tutti i corpi dei vaganti che ho abbattuto ieri sera prima di correre a vedere cos’era successo a Rick e agli altri. Arrivo sul luogo dell’aggressione, ma non c’è nessuno. Mi starà cercando? Sarà andata anche lei oltre la fine della strada?
Seguo di nuovo la scia di sangue che porta al prato, lo supero e mi ritrovo di nuovo sul sentiero da dove ho cominciato a cercare Carl. A terra ci sono ancora i segni delle ruote, le mie impronte che vanno sia a destra che a sinistra e una nuova fila di impronte, più piccole, dirette a destra.
Le sue. Ormai le conosco meglio delle mie.
Come immaginavo, è venuta da sola. Ed è andata a destra. Cazzo. Devo trovarla subito, non posso permettere che si cacci in qualche guaio.
Sento i battiti del mio cuore accelerare prepotentemente.
“Dannazione, Carol!” è l’unica cosa che riesco a dire.
E a pensare.
 

                                                                                             *****
 

Le impronte di Daryl sul sentiero andavano sia verso sinistra che verso destra. O almeno credo che fossero le sue. Ma appena sono ritornata al centro residenziale non l’ho trovato da nessuna parte, quindi sono abbastanza convinta che quelle impronte fossero sue. Così le ho seguite, svoltando a destra. Penso però che alla fine si sia inoltrato nel bosco, visto che le sue impronte verso destra terminavano dopo diversi metri e tornavano indietro.
Stavo per fare esattamente la stessa cosa, ero determinata a trovarlo, ma poi, in lontananza, aldilà degli immensi prati che avevo davanti agli occhi, qualcosa ha attirato la mia attenzione. È stato quasi un flash, per un attimo, ma l’ho visto. Qualcosa ha riflesso la luce del sole per un istante e il riflesso è arrivato fino ai miei occhi.
Ma il riflesso di cosa? Di un’auto? Di una finestra?
Non ho fatto in tempo a pensare che volevo proprio scoprirlo, che ho sentito i miei piedi muoversi da soli verso quella direzione.
Ed ora eccomi qui, sto attraversando i campi d’erba e proverò ad arrivare nel punto in cui ho visto il riflesso. Non so perché, ma qualcosa mi dice che lì potrebbe esserci Carl.
E lo spero davvero.
Non molto lontano vedo un raggruppamento di alberi. Non è proprio un bosco, non è abbastanza grande, ma è ampio abbastanza da nascondere… un rifugio? Una casa?
Mi avvicino più velocemente che posso, attraversando i molti metri di prato che mi separano dai primi alberi. Comincia a fare davvero caldo. Mi fermo un attimo per prendere la mia borraccia dallo zaino e bere.
E proprio da dove mi trovo ora vedo chiaramente che l’intero albereto è attraversato da un sentiero molto simile a quello dove ho visto le impronte di Daryl. Chissà se questo sentiero si ricollega proprio a quello… beh, ovviamente attraversare i prati mi ha fatto guadagnare tempo. Se avessi seguito il sentiero probabilmente sarei ancora molto lontana da qui.
Non faccio in tempo a rimettermi lo zaino in spalla e ad avvicinarmi ai primi alberi che all’improvviso sento il rumore di un veicolo proveniente proprio dall’interno dell’albereto. Devo nascondermi! Provo a sdraiarmi a terra ma l’erba non è abbastanza alta da nascondermi completamente, così provo a strisciare verso gli alberi e rimango immobile, sdraiata nell’erba, tra gli alberi. Il rumore si avvicina e, poco dopo, scopro quale veicolo sta letteralmente sfrecciando sul sentiero. È un pick-up, verde scuro, ma da dove mi trovo io purtroppo non riesco a vedere né chi lo guida, né se all’interno siano presenti altre persone oltre al guidatore. Riesco però a vedere che sul retro non trasporta nulla. 
Aspetto pazientemente che il rumore del motore si allontani, e anche quando si è allontanato, aspetto ancora. Non so quanto tempo sia passato esattamente, ma quando decido finalmente di alzarmi non sembra esserci anima viva intorno a me. Anime morte invece ce ne sono eccome, dannazione. Cerco di armarmi velocemente di coltello e abbatto tre vaganti che si stavano avvicinando a me, probabilmente attirati dal rumore di prima.
Poi decido di inoltrarmi tra gli alberi, rimanendo però alla larga dal sentiero, non si sa mai. Cammino all’ombra degli alberi, il che, con questo sole e questo caldo, è davvero piacevole.

A quanto pare le mie supposizioni si sono rivelate vere. Dopo alcuni metri, proprio davanti a me, gli alberi cominciano ad aprirsi in un’enorme radura dove sono presenti tre case, due più piccole, ad un piano solo e la terza più lontana, più grande, enorme direi, a due piani. Tutte e tre sono di legno bianco e tutti e tre i tetti sono verde chiaro. Devo provare ad avvicinarmi di più senza farmi notare da un eventuale persona, o più di una, a guardia della casa.
Rimango distante dalla radura ma, allo stesso tempo, faccio il giro verso sinistra, attraverso svelta il lato opposto del sentiero e mi ritrovo a guardare il retro della casa più grande. Ci sono molte finestre, alcune grandi, altre più piccole, da cui potrei controllare cosa accade all’interno, sperando di non farmi beccare, e c’è anche una porta. Potrei entrare senza farmi vedere, ma non ho idea di cosa, né di chi, ci sia all’interno.
Non passa molto tempo prima che un movimento attiri la mia attenzione. In basso a destra rispetto alla porta, c’è una piccola finestra rettangolare che si trova poco sopra il terreno. Sicuramente sarà l’unica fonte di aria e luce per un piano sotterraneo. Beh, quella finestra è stata appena aperta. E dall’interno provengono rumori e grida che mi accapponano la pelle.
Poi una voce che sovrasta le grida.
“Parla!” urla un uomo.
“No! NO! Ti prego! Ti ho già detto tutto! Non so altro!” urla una voce femminile. La stessa voce che subito dopo manda un grido agghiacciante, che si ripercuote fin dentro alle mie ossa.
Guardo attentamente ovunque per assicurarmi che non ci sia nessun vagante che possa essere stato attirato dalle grida e per assicurarmi che non ci sia nessuno di guarda, poi comincio ad avvicinarmi al retro della casa. Devo assolutamente guardare attraverso quella finestra e scoprire cosa succede. Potrebbe esserci anche Carl lì dentro.
Mi avvicino di lato, così chi è dentro non si accorgerà di me. Mi accuccio vicino alla finestra, la faccia contro il muro. Dall’interno non provengono più urla ma solo voci, che non riesco a capire bene cosa dicono, e dei rumori metallici. Poi il silenzio. Mi abbasso ancora un po’ finché non mi ritrovo quasi sdraiata a pancia in giù tra la porta e la finestra, e finalmente mi avvicino per guardare all’interno.
La prima cosa che mi colpisce è il forte odore di stantio. E sangue.
Forse hanno aperto la finestra proprio per far andare via quell’odore. La stanza è lunga, i muri sono formati da grandi pietre color grigio scuro. E, attaccate all’unica parete che riesco a vedere bene dalla mia posizione, vedo catene, dalla lunghezza regolabile, che terminano con una sorta di manetta. Ce ne sono quattro, due in alto per le braccia e due in basso per le gambe, suppongo.
Sto osservando una vera e propria prigione. E non ho ancora visto tutta la stanza.
Provo a spostarmi un po’ sulla destra per migliorare la mia visuale e comincio a vedere delle persone, o almeno le loro gambe. Sei gambe, quindi tre persone.
Ma quella è l’ultima cosa che vedo perché improvvisamente mi sento tirata indietro, in piedi, e un forte colpo mi arriva sulla fronte. Il dolore è atroce e mi sento mancare.

Da lì in poi, il buio.
 

                                                                                                  *****
 

Riesco ad aprire l’occhio, anche se a fatica, e sento la mia testa che gira.
Ancora.
Non lo sopporto.

Mi ritrovo con la schiena appoggiata contro delle pietre, scomode, e davanti a me ci sono altre pietre. Tutte le pareti della stanza sono fatte di pietra. Sulla parete di fronte a me, però, ci sono quattro catene che penzolano minacciose. Non mi piace questa cosa. Non mi piace niente di tutto quello che sta succedendo, in realtà.
Provo a muovermi ma mi accorgo di essere ancora legato, ma stavolta completamente, con altre catene che mi bloccano braccia e busto.
“Ehi, calmo” mi dice una voce non molto distante da me, “già ti manca un occhio, vuoi anche segarti a metà?”. La voce proviene dalla mia destra, quindi devo girare la testa per poter vedere con l’occhio sinistro.
Legati al muro come me ci sono due ragazzi.
La ragazza che mi ha parlato è la più lontana. Potrebbe avere la mia età. Ha lunghi capelli castani, profonde occhiaie, molti lividi tra gambe, braccia e viso. E mi sta guardando.
Il ragazzo seduto tra di noi è più grande, si vede subito. Non mi guarda, ha la testa abbassata, ma nonostante questo, riesco a vedere perfettamente che la metà inferiore del suo viso è completamente ricoperta di sangue, così come i suoi vestiti. Si vede che non è fresco, ma il suo colore scuro mi mette a disagio ugualmente.
“È inutile che provi a liberarti. Queste catene sono a prova di fuga” mi dice lei.
Mi parla con una tale tranquillità che mi mette ancora più a disagio.
“E cosa dovrei fare?” le chiedo io, “arrendermi e rimanere prigioniero?”.
“Se dovessi soltanto essere prigioniero, non avresti nulla di cui preoccuparti…” mi dice, abbassando il tono di voce, e poi guarda altrove.
Provo di nuovo a forzare le catene. Niente.
“Dove siamo? Perché siamo incatenati qui?” chiedo. Non riesco a stare fermo.
“Siamo in un qualche posto sperduto nelle campagne e sei incatenato qui perché loro vogliono qualcosa da te” mi dice lei, guardando dritto davanti a sé. “Probabilmente vogliono farti parlare” dice più a se stessa che a me.
“Cosa? E cosa dovrei dire?” chiedo, in totale confusione.
“Basta domande! Non ho idea di cosa ci fai qui! Non sono la tua consulente psicologica!” mi urla contro, poi si volta di nuovo. Il ragazzo, intanto, si anima un po’.
Lei ha ragione, ma la situazione è pazzesca e non sto capendo nulla. Loro sono ridotti molto peggio di me.
“Scusami” dico soltanto. Proverò a cercare informazioni in modo diverso. “Come ti chiami?”.
Lei aspetta un po’, fa un respiro profondo e poi torna a guardarmi. “Tu come ti chiami?”
“Io sono Carl” dico soltanto.
“Tracy. E lui è mio fratello, Cody” mi dice. “Non aspettarti grandi discorsi da lui, perchè non parlerà”. Dice quest’ultima frase con così tanto dolore da mettermi i brividi.
Prima che possa chiederle il perché, Cody alza la testa e guarda verso di lei, ma ovviamente non riesco a vedere la sua espressione. Poco dopo lo vedo annuire e poi si gira verso di me, rivolgendomi un debole sorriso.
Nello stesso momento, Tracy comincia a spiegarmi la situazione. “Gli hanno tagliato la lingua. Secondo loro ‘non aveva più niente di interessante da dire’, aveva detto abbastanza”.
Detto questo comincia a piangere, ma continua comunque a parlare.
“Quando vogliono un’informazione da te, sono disposti a farti di tutto… e una volta che hanno ottenuto quello che vogliono, non ti lasciano andare… potresti sempre ritornargli utile…”. Fa una pausa e poi ricomincia. “Ti faranno dire tutto sul tuo accampamento e la tua gente. Hanno sfruttato a pieno il fatto che siamo fratelli, per torturarci…”.
“Oddio…”, non so cos’altro dire. Mi chiedo se mi faranno le stesse cose che hanno fatto a loro due. “Ma chi sono queste persone?” chiedo poi, ho bisogno di saperlo.
“Dei grandi figli di puttana!” dice Tracy, ovviamente con rancore.
Cody si gira di scatto verso di lei, come per rimproverarla per il linguaggio scurrile e lei, dopo qualche secondo, sussurra un timido “scusa”, poi torna a parlare con me.
“Sono quattro” dice. “Il capo si chiama Devian, è quello che ti ha portato qui stamattina, e poi ci sono i suoi tre scagnozzi. Devian è la mente, non si sporca le mani con noi, lui fa solo domande. Lui vuole sapere”.
Di sicuro Devian è quello che è venuto a minacciarmi in biblioteca e che poi mi ha fatto svenire. Per ora ho visto solo lui.
“Non riesco nemmeno più a contare quante volte mi hanno costretta ad assistere mentre minacciavano e torturavano Cody con i coltelli che sono lì, su quel tavolo” e con la testa indica l’altissimo e grandissimo tavolo situato alla sua destra. “Lo riempivano di pugni, di calci…” mi racconta, mentre altre lacrime cominciano a rigarle le guance.
“E a te cos’hanno fatto..?” le chiedo d’istinto.
Cody chiude gli occhi e china di nuovo la testa, Tracy continua a piangere e mi guarda, ma non sta realmente guardando me. Il suo sguardo è vuoto, perso.
“Non vuoi saperlo davvero…” sussurra.
Rimango a guardarla per un po’.
Posso immaginare cosa le hanno fatto.

All’improvviso la porta si apre ed entrano due uomini, due degli scagnozzi di Devian, di sicuro.
Sobbalziamo tutti e tre al rumore della porta.
I due vanno dritti addosso a Tracy, sganciano le catene che la bloccano, la prendono e la spingono addosso al muro di fronte a noi. Io non so davvero che fare, riesco solo a stare immobile.
Cody si dimena affianco a me, ma anche per lui vale lo stesso discorso che valeva per me: le catene che ci bloccano sono a prova di fuga.
I due riescono a tenere ferma Tracy facilmente. Lei è magrissima, loro sono imponenti, dei veri bruti. La legano alle catene che penzolano sulla parete e poi le tirano, affinché lei risulti bloccata e completamente inerme.
Solo a quel punto Devian fa il suo ingresso nella stanza. “Che odoraccio che c’è qui” dice.
Ha un’aria così fiera e saccente, così insopportabile. Semmai riuscirò ad uscire da qui, mi assicurerò di averlo ucciso, prima.
“Esci, Kurt. Per ora mi serve solo Holsey” dice Devian, rivolto ad uno dei suoi due scagnozzi.
Kurt esce e si chiude la porta alle spalle.
Mentre Devian si posiziona esattamente di fronte a Tracy, il tizio che si chiama Holsey va verso il grande tavolo, si arma di un solo coltello, uno di quelli piccoli, appuntiti ed affilati, e quando ritorna indietro, indirizza direttamente la punta contro il braccio sinistro di Tracy, che comincia a sanguinare. E lei comincia ad urlare. E a dimenarsi.
Più la lama va in profondità, più le urla diventano acute e più le catene sbattono contro il muro violentemente. Non riesco a guardare la scena, sto male io per lei.
Credo che Cody, qui affianco a me, stia piangendo.
“Forza, Tracy. Facciamola breve. Dimmi quello che voglio sapere” dice Devian, mentre si avvicina all’unica piccola finestra sulla parete di destra, e la apre.
Holsey continua a torturare Tracy, che a sua volta continua a gridare.
Improvvisamente Devian perde la pazienza, torna indietro e dà uno spintone al suo scagnozzo, gli leva il coltello di mano e in un impeto di rabbia si butta addosso a Tracy e glielo punta dritto verso la gola.
“Parla!” urla lui.
“No! NO! Ti prego! Ti ho già detto tutto! Non so altro!” urla lei, tra le lacrime.
Devian spinge il coltello sulla sua gola e lei urla più forte che può, l’unica cosa che può fare, come se questo potesse in qualche modo salvarla. Il suo grido rimbomba nella mia testa, figurarsi nella testa di Devian, che si allontana da lei e fa cadere a terra il coltello.
“Cazzo!” esclama, dopodiché fa un cenno ad Holsey, che si attiva subito per andare da lei, sganciarla dalle catene, bloccarla e riportarla dov’era prima, incatenata affianco a suo fratello, che la guarda sconvolto e preoccupato. Lei non ha più forze per reagire, si lascia manovrare e incatenare come un burattino.
“Parlerai… prima o poi” dice Devian, guardandola a braccia conserte. Il suo sguardo si sposta su Cody e poi su di me, e a quel punto sorride. Poi apre la porta ed esce dalla stanza, seguito dall’altro uomo.
“Tracy? Tracy, stai bene?” le chiedo subito dopo che la porta si è chiusa.
“Si, Carl. Non preoccuparti, sono stata peggio” mi dice, “ma mi fa decisamente male la gola, se vuoi saperlo”.
Non so perché, ma questa cosa mi fa sorridere, anche se la situazione è decisamente troppo sbagliata per poter sorridere.

Poco dopo, da fuori, proviene la voce di qualcuno.
“Ehi Devian! Holsey! Venite a darmi una mano!”. Di sicuro è l’altro scagnozzo, Kurt.
Tutti e tre tendiamo l’orecchio verso la finestra, provando a capire che succede. Dovranno abbattere dei vaganti?
“Ma che cazzo..?” dice un’altra voce. Holsey?
“E questa da dove diavolo è saltata fuori?” chiede poi Devian.
“Non lo so” dice Kurt, “l’ho trovata che stava spiando il sotterraneo dalla finestra e l’ho messa k.o.”.
“Bene”. Di nuovo Devian. “Portiamocela, visto che era tanto curiosa! Holsey prendi il suo zaino”.
E poi, più niente. Né da fuori, né da qui dentro. Nessuna voce, nessun rumore. Tutti e tre aspettiamo in silenzio che la porta del sotterraneo si apra.

E quando si apre, sento il panico scorrermi violentemente nelle vene.
Carol.
Devian e Kurt la trasportano, svenuta, e la poggiano seduta affianco a me, la legano come siamo legati noi tre e poi se ne vanno.

Adesso le cose cominciano a mettersi peggio di quanto mi aspettassi.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


----> PICCOLA PREMESSA (forse non proprio piccola): Vi chiedo umilmente perdono. Perdono. Perdono. Perdono. Perdono. 
Sono cosciente del fatto di avervi fatto aspettare 2 mesi per questo 4° capitolo e credetemi, ho sofferto un sacco!
Questo capitolo è stato lunghissimo e difficilissimo da scrivere ed ho finito giusto qualche minuto fa! Più scrivevo e più mi venivano in mente altre cose da scrivere! Purtroppo devo confessare che non ho avuto ispirazione per un sacco di tempo, anche (o forse soprattutto) a causa degli episodi della seconda parte della sesta stagione di "The Walking Dead" e a causa di quello che è successo a Daryl e Carol, singolarmente. Ho dovuto aspettare che finisse la stagione per ritrovare una sana 'modalità zen' per proseguire e concludere questo capitolo. E la storia continua, questa non è la fine! Quindi spero che avrete ancora altra pazienza per attendere l'ultima parte di questo racconto e, intanto, spero che resterete soddisfatti da questo 4° capitolo! Grazie a tutti quelli che mi hanno sempre supportata, vi voglio bene! 
PS: se non ricordate bene cosa è successo nei capitoli precedenti, vi consiglio (per aiutarvi, se avete tempo) di rileggerli e poi leggere questo. 
- Silvia




SCARS – Capitolo 4

 
Mi muovo così velocemente che quasi non mi accorgo di stare realmente correndo.

A passi svelti, ho seguito le sue impronte attraverso i prati, mi sono diretto verso l’albereto, ma nel fitto degli alberi non l’ho trovata. Ho trovato delle case in una grande radura, proprio tra quegli alberi ed ho deciso di girarvi intorno da destra, invece che da sinistra come ha fatto lei, così da non spaventarla arrivandole alle spalle.
Ma quando ho sentito quel grido… non ho capito più niente.
Ho cominciato a correre, spinto dalla paura. Era una voce femminile, ma non era la sua. In quel momento non sapevo se esserne grato oppure no. Non importa. Il pensiero che possa succederle qualcosa tra questi alberi mi sta facendo impazzire.
Devo raggiungerla subito, ovunque lei sia.

Avrei dovuto incrociarla qui, sul retro delle case, ma lei non c’è.
Un senso incredibile di panico mi coglie all’improvviso. Perché non c’è? Ero sicuro che l’avrei incontrata, prima o poi.
Mi appoggio per un attimo ad un albero e cerco di riprendere fiato mentre fisso due piccole case bianche, seguite da una più grande, enorme. Mi accorgo che quella più grande ha anche una porta sul retro.
Carol starà esplorando una di queste case? Se è così, spero che siano vuote. Quando all’inizio dell’albereto ho attraversato il sentiero per passare da una parte all’altra, ho visto segni recenti di ruote dirigersi fuori, quindi queste case non sono disabitate, ma possono essere vuote al momento, o almeno è quello che spero.
Il rumore di un ramo spezzato arriva da dietro di me.
Mi giro all’istante sperando di vedere Carol, sperando che finalmente mi abbia trovato, qui tra questi alberi. L’unica cosa che mi ritrovo davanti, però, è un vagante solitario che probabilmente è stato attirato dal rumore dei miei respiri affannosi.
Sono distrutto, i miei polmoni bruciano, le gambe mi fanno male, ma devo trovare comunque la forza di estrarre il coltello dalla cintura per abbatterlo.
Aspetto che lui si avvicini a me, sono pronto a colpirlo. Due metri… un metro… e quando finalmente mi è quasi addosso, lo colpisco dritto alla tempia sinistra, ma la lama del coltello resta incastrata nel suo cranio e il suo peso morto mi attira a terra e casco esattamente sopra al suo corpo. La puzza del cadavere si abbatte così forte addosso a me che non posso fare altro che tossire e cercare di spostarmi.
Lo zaino che ho sulle spalle sembra pesare tonnellate mentre sono in questa posizione e quindi, appena riesco ad estrarre il coltello dal cranio del vagante, non riesco subito a rimettermi in piedi.
E forse è meglio così.
Sento da lontano il rumore di un’auto che sia avvicina e decido di tenere sott’occhio la situazione fermo nella posizione in cui mi trovo, nascosto tra erba e alberi, con una visuale abbastanza chiara della porta sul retro della casa più grande.
Un pick-up verde scuro fa il suo ingresso nella radura e si ferma nello spazio che si trova tra una delle case piccole e la casa grande.
Il motore si spegne e a scendere dalla vettura è un uomo alto, biondo, abbastanza corpulento. La prima cosa che noto di lui è che ha una vistosa fasciatura alla gamba destra e le bende bianche sono macchiate di sangue. Probabilmente è quella la causa del suo zoppichio.
La seconda cosa che noto è che va di fretta, decisamente, tanto da lasciare aperto lo sportello del pick-up. Nonostante non riesca a camminare, sembra quasi che voglia correre. Gli è successo qualcosa, di sicuro. Si dirige più veloce che può verso la porta sul retro della casa più grande, la apre e se la richiude alle spalle.
Anche se il senso di preoccupazione mi sta quasi soffocando, ho appena deciso che restare qui per un po’ ad osservare la situazione potrebbe farmi capire cosa sta succedendo. Quel tipo che è appena entrato non aveva armi visibili, né pistole, né fucili, e questa è una buona cosa. Anche se possedesse dei coltelli e incontrasse mai Carol lì dentro, ovunque lei sia, si ritroverebbe sicuramente con una pallottola in qualche parte del corpo e non avrebbe modo di utilizzarli.
Trovo finalmente un po’ di forza per allontanarmi da questo cadavere schifoso. Rotolo sulla schiena e provo a mettermi seduto tra gli alberi. L’erba non è molto alta, ma finché resto seduto e immobile, nessuno si accorgerà di me.
Ogni cosa che noterò potrebbe portarmi da Carol, da Carl, o da entrambi.
 

                                                                                              *****
 

“Carol! Carol, ti prego, svegliati!”.
Sento queste parole rimbombarmi nella testa appena riprendo conoscenza.
Sento anche dei piccoli colpi alla caviglia destra.
Pian piano riprendo possesso dei miei sensi e un’ondata di dolore mi colpisce. La testa mi fa malissimo e mi gira. Provo ad aprire gli occhi, ma non riesco a tenerli aperti per più di tre secondi senza provare una forte nausea.
“Oh, bene. Sei sveglia!” dice una voce familiare.
Devo impormi di aprire gli occhi, devo capire che cosa succede.
Capisco di essere legata e di non potermi muovere bene perché appena provo a portarmi una mano dove la testa mi fa male, non ci riesco. E capisco anche di essere seduta e appoggiata ad un muro, quindi appoggio la testa all’indietro, sperando che magari questo mi aiuti a farla smettere di girare.
Provo a riaprire gli occhi, sembra che vada meglio.
Sono in una stanza piuttosto buia, le cui pareti sono formate da pietre. Mi bastano pochi attimi per realizzare di essere intrappolata nella stessa stanza che stavo spiando poco fa.
O almeno credo che fosse poco fa.
“Carol? Stai bene?” mi chiede… Carl?
Giro la testa di scatto verso la mia destra, andando di nuovo incontro ai giramenti di testa che si erano appena placati. Chiudo di nuovo gli occhi.
“C-Carl?” cerco di chiamarlo, con voce roca. Provo a schiarirmela un po’. “Ti ho trovato…” gli dico, realizzando davvero dentro di me il fatto di averlo trovato.
Provo a riaprire gli occhi e, come avevo capito spiando nella stanza prima che venissi colta in flagrante, vedo gli altri due ragazzi legati affianco a Carl. Sono conciati malissimo e sembrano davvero molto scossi.
“Dov’è mio padre, Carol? Come sta? Dove sono tutti gli altri?” mi chiede velocemente, con preoccupazione.
Come faccio a dirgli che suo padre è quasi morto? Prima di ripartire, Maggie mi ha detto che la sua situazione di Rick era stabile e che presto si riprenderà…
Non voglio dare false speranze a Carl dicendogli che va tutto bene, quindi gli dirò esattamente quello che Maggie ha detto a me.
“Tuo padre e Aaron sono stati feriti quando tu sei stato portato via, lo sai, vero? Aaron mi ha detto che hai provato a reagire e che ti hanno colpito per ultimo” gli spiego, provando a sondare il terreno.
“Si” mi risponde semplicemente. Poi riprende a farmi domande. “Ora come stanno? Dove sono?”
“Aaron sta bene, ha preso una bella botta in testa, esattamente come noi. Tuo padre…”, mi fermo per prendere un respiro profondo, poi mi faccio forza e proseguo. “Anche lui è stato colpito alla testa, ma è stato ferito più gravemente. Però si riprenderà, sta tranquillo! Anche se non sappiamo quanto tempo ci vorrà, si riprenderà” gli dico subito, appena lo vedo impallidire. “Ho guidato io stessa per riportarli a casa. Michonne ovviamente è rimasta con tuo padre, poi..”. Mi concedo un attimo per farlo riprendere e un altro attimo per maledirmi per questa piccola bugia. Una volta saputo che Rick era vivo e al sicuro, Michonne sarebbe tornata indietro con me se solo non fossi partita da sola, non cercando nessuno.
Sembra che Carl si sia tranquillizzato un po’. “E Daryl?” mi chiede.
Daryl… una fitta dolorosa si protrae attraverso il mio corpo. Dove sarà, adesso?
“Lui… è rimasto a perlustrare la zona tutta la notte, per cercarti, ma quando sono tornata indietro stamattina, non ci siamo rincontrati…” gli spiego, la mia voce è più bassa, più disperata. E i miei pensieri viaggiano altrove, veloci.
“Ehi” mi dice, toccandomi di nuovo una caviglia con un piede per attirare la mia attenzione.  “Starà bene. È Daryl, per la miseria! Non preoccuparti per lui”.
Lo guardo, tenendo appoggiata la testa al muro. “Adesso sei tu che consoli me?” gli chiedo con calma, ma sorpresa. Ormai non è più un ragazzino. Forse non lo è mai stato.
Lui sorride leggermente e mi ricorda tanto suo padre.
“Consoliamoci a vicenda e capiamo come uscire da questo posto” mi dice.
“Ah! Buona fortuna!” esclama, quasi sprezzante, la ragazzina seduta più lontana da me, senza nemmeno guardarci.
L’altro ragazzo si gira verso di noi e dalla sua espressione capisco che sta cercando di scusarsi in qualche modo per quello che ha appena detto la ragazza. Che siano parenti? Fratelli, magari?
“Non sai niente di noi, come puoi sapere che non riusciremo ad uscire da qui, in un modo o nell’altro?” dice Carl alla ragazza, poi torna a guardare verso di me.
“Sei stata tu ad urlare prima, vero?”. Decido di rivolgermi direttamente a lei.
Lei mi guarda in modo strano, sembra spaesata. “Come..?”.
“Come lo so?” la anticipo io. “Ero tra gli alberi qui fuori perché stavo cercando Carl, e l’ho sentito. Mi sono avvicinata alla finestra per controllare se il grido provenisse da qui, ma poi mi hanno scoperta e mi hanno messa k.o.”.
“La stavano torturando…” mi dice Carl a bassa voce.
Lo immaginavo. Urla del genere sono quasi anormali, ma quando si tratta di torture, penso che siano giustificabili.
“Che vi hanno fatto?” chiedo cauta ad entrambi i ragazzi, ma entrambi si irrigidiscono e non si voltano nemmeno.
“Carl?” provo a spronare lui a parlare, sperando che sappia qualcosa.
Carl fa un respiro profondo prima di parlare. “Non ho idea di cosa gli abbiamo fatto prima che io venissi catturato, ma so bene che stiamo parlando di cose orribili”. Fa una pausa, poi si gira a guardare i ragazzi. “Se Tracy non avesse urlato così forte, credo che a quest’ora non avrebbe più il braccio sinistro”.
Non smetto di guardarli mentre Carl mi dice questo, voglio catturare ogni loro singola reazione, qualsiasi cosa che possa aiutarmi a capire con chi abbiamo a che fare e come liberarcene.
Il ragazzo tra Carl e Tracy si gira verso di lei e, senza parlare, le dà dei piccoli calcetti alla gamba, forse per attirare la sua attenzione, e quando la ottiene, le fa un cenno con il mento, indicandole il braccio. Lei alza il braccio sinistro, catene permettendo, e mostra una ferita abbastanza profonda all’interno dell’arto. Sta sanguinando. Basta un solo sguardo per capire che una ferita del genere deve fare male davvero, ma lei sembra non lamentarsene più di tanto. Che abbia patito dolori peggiori?
Oh mio Dio… cosa diavolo hanno fatto a questi ragazzi? E perché?
Mi chiedo come mai il ragazzo non abbia parlato per attirare l’attenzione di Tracy, ma poi noto che la sua bocca, il suo mento e i suoi vestiti sono ricoperti di sangue… e solo allora capisco.
Non ha parlato perché probabilmente non può più farlo.
Chiudo istintivamente gli occhi per isolarmi da tutto questo dolore. Non ce la faccio.
Ieri mattina avevo la testa poggiata sulla spalla di Daryl, dormivo serenamente.
Adesso ho la testa poggiata al muro di una camera di tortura, così duro da far male, e la serenità è andata a farsi fottere.
 

                                                                                      *****

 
Sto per chiedere a Carol se ha qualche idea su come agire quando sentiamo tutti il rumore di un’auto, che arriva da fuori e, poco dopo, le voci dei nostri aguzzini provenire da qualche parte della casa. Non devono essere molto lontani da noi perché all’inizio, quando parlano e basta, si sente un brusio impreciso, ma poi, quando urlano, si capisce benissimo tutto.
“Che cazzo stai dicendo, Janson?!”. Questo è Devian.
“Si, casa tua! La dispensa era vuota! E i tuoi sono stati abbattuti!” urla un’altra persona in risposta. Sarà questo Janson?
C’è qualche attimo di silenzio e poi cominciano dei passi svelti, pesanti, che si avvicinano alla porta della stanza dove ci troviamo noi. Aspettiamo immobili che qualcuno faccia il suo ingresso, ma non entra nessuno, e i passi continuano, per poi fermarsi poco dopo. Anche le voci continuano.
“Holsey! Portami lo zaino di quella donna!” urla Devian.
Con la coda dell’occhio vedo Carol reagire immediatamente a quelle parole. Prova a muoversi e fa sbattere le catene che la bloccano mentre a bassa voce dice “Merda!”.
“Che c’è nel tuo zaino?” le chiedo sottovoce.
“Nell’ultima casa che abbiamo setacciato ieri, abbiamo trovato un po’ di tutto. Cibo, armi, munizioni… e io, Daryl e Michonne abbiamo riempito i nostri zaini! Ci servono quelle cose!”.
 
Non passa molto tempo prima che un’imprecazione rompa il silenzio che si era appena creato.
Devian è fuori di sé. “Brutta figlia di puttana! Kurt! Valla a prendere e portala da me!”.
Oh no.
Carol, invece di agitarsi ancora di più, si immobilizza e fa un respiro profondo. Si sta preparando a quello che la aspetta? Ma cosa la aspetta?
Mi faccio prendere dall’agitazione, ma nello stesso momento nella mia mente si fa strada un’idea, un aiuto che, con un po’ di fortuna, potrebbe risparmiare molte sofferenze ad entrambi.
“Carol, ascoltami!” le dico svelto, mentre i passi che ascoltiamo avvicinarsi stavolta si dirigono davvero verso di noi.
Lei, ovviamente, non mi ascolta. “Carl non preoccuparti per me! La cosa più importante è che tu riesca ad uscire da qui! Farò qualsiasi cosa per farti uscire!”.
Io insisto. Deve ascoltarmi. “No Carol, ascoltami!  Qualsiasi cosa dovessero chiederti, o se dovessero provare ad estorcerti delle informazioni, non dirgli che io e te ci conosciamo! Hanno ridotto Tracy e Cody così perché sono fratelli! E quando questi bastardi l’hanno scoperto, non hanno avuto pietà  ed hanno sfruttato questo fattore a loro vantaggio! Io e te non dobbiamo conoscerci! Potrebbero usare te per provocare me! Facciamo in modo di sopravvivere!”.
Lei mi ascolta quasi con paura e, quando capisce che quello che le ho appena detto è una cosa di vitale importanza, annuisce con convinzione e consapevolezza. Poi sussurra “Promettimi che se dovessero fare o chiedere qualcosa anche a te, tu farai lo stesso”.
Faccio appena in tempo ad annuire e poi la porta si apre e Kurt entra e si dirige proprio da Carol che, nonostante sappia che non può fare niente contro di lui, cerca di respingerlo lo stesso, provando a prenderlo a calci. Io vorrei provare a fare lo stesso, per quanto possa essermi possibile, ma so che, se lo facessi, Kurt capirebbe che io e Carol ci conosciamo e manderei a monte la promessa che ci siamo appena fatti.
Quindi mi impongo di rimanere fermo. Sofferente, ma fermo.
E quando Kurt riesce a bloccare le gambe di Carol con il suo peso, a coprirle interamente il volto con un panno, probabilmente zuppo di cloroformio, e lo tiene premuto, lei crolla dopo pochi secondi, svenuta. Lui poi scioglie le catene che la bloccano, la prende e se la carica in spalla, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Poi esce dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.

Il mio occhio brucia, da morire. Per una frazione di secondo rendo grazie al destino per avere solo l’occhio sinistro. Sto piangendo, e dalla mia posizione Tracy e Cody non possono accorgersene. Menomale.

“La porterà sicuramente nella biblioteca” dice Tracy a bassa voce, più a sé stessa che a me. “Vuole solo interrogarla, non le farà niente, lì. Quello è il suo luogo tranquillo.”
La biblioteca. Dove mi sono risvegliato io stamattina.
Questa è una cosa che mi consola, almeno ho quasi la certezza che a Carol non accadrà nulla.
Ma a me, invece?
 

                                                                                               *****
 

Nulla. Più di un’ora di nulla.
Continuo ad osservare verso la casa in cerca anche soltanto di un piccolo movimento, qualche dettaglio che mi faccia capire se Carol sia lì, sia viva e stia bene. E che mi faccia sperare che con lei ci sia anche Carl, così la situazione si potrebbe risolvere tutta in una volta.
Ma purtroppo, da quando quell’energumeno è arrivato in auto ed è entrato nella casa più grande, non è successo niente, o almeno non nei pressi della casa. Io qui ho abbattuto un paio di vaganti, il che ovviamente è una cosa stupida, ma grazie a quei cosi schifosi ho avuto modo di non lasciarmi andare alla stanchezza e di restare sempre vigile.
In tutto il tempo che ho passato nascosto tra questi alberi ad osservare queste case, ho rivissuto le sensazioni di un ricordo passato, quasi un senso di dejà-vu, che non avrei mai voluto rivivere. Il pensiero di Carol rapita ed esposta a chissà quale pericolo…
È successo molto tempo fa, ma non potrò mai dimenticare la rabbia che mi assalì quando sapemmo che lei e Maggie erano state rapite e, soprattutto, non potrò mai dimenticare la sensazione di sollievo che provai quando riuscimmo a ritrovarle e ad accertarci che stessero bene. Non potrò mai dimenticare quel velo di orgoglio che provai nell’apprendere che si erano salvate da sole, con le loro forze, la loro astuzia, che ce l’avevano fatta, anche riportando vari danni, fisici e soprattutto psicologici.
Non potrò mai dimenticare la paura che provai, anche se solo per un attimo, nel pensare che ci fosse la possibilità di non rivederla più. E purtroppo è la stessa paura che vuole impossessarsi di me adesso. Anche se ovviamente niente finora mi ha fatto intendere che lei possa essere stata rapita oppure no, l’unico pensiero che mi rimbomba nella testa è quello.
Cazzo! Dentro quella casa c’è solo Dio sa cosa, io sono bloccato qua fuori, da solo, sull’orlo dello sfinimento e stare fermo adesso non mi aiuta di certo. Non riesco a fare niente e di sicuro le circostanze non mi aiutano.
Sto decisamente impazzendo.
Torno di nuovo in me e mi ritrovo in piedi appoggiato ad uno degli alberi. Non mi sono nemmeno reso conto di essermi alzato.
Avverto uno strano sapore metallico in bocca. Sangue?
Passo la lingua sul labbro inferiore e mi accorgo che il sangue esce da lì. Sono così teso e penso così tanto che non mi sono nemmeno accorto di essermi morso un labbro.
Sputo a terra per cercare di cancellare questo fastidioso sapore, poi proprio da terra riprendo lo zaino e la balestra. È ora di agire e darsi una mossa, non posso più stare fermo qui a fissare il vuoto. Non ho notato nessun movimento, nessun segnale. Il mio disagio sale, come la voglia di capire. E di agire.
E poi, neanche a farlo apposta, proprio in quel momento la porta sul retro della casa più grande si apre di scatto e ad uscirvi è di nuovo quel tizio con la gamba ferita che era arrivato prima.
Si dirige proprio al pick-up, dove per la fretta aveva lasciato lo sportello aperto. Da dove mi trovo io, riesco a vedere che sta cercando di recuperare alcune borse dall’abitacolo e non sembra avere molta fretta stavolta, visto che ha lasciato la porta della casa aperta.
Un attimo… la porta della casa è aperta.
Devo muovermi, ora o mai più.
Lascio di nuovo cadere lo zaino a terra, per essere più libero nei movimenti, e afferro meglio la balestra con entrambe le mani. Prendo la mira, il mio cuore accelera i battiti, il suo rumore mi pulsa nelle orecchie. Anche se il bersaglio è in movimento non sarà difficile colpirlo.
Scocco la freccia.
Prima che l’idiota riesca a rientrare in casa, dopo aver richiuso il pick-up, viene colpito dalla mia freccia, che gli trapassa il cranio da parte a parte. Il suo corpo senza vita cade a terra immediatamente, poco distante dalla porta, circondato dai due borsoni che stava trasportando.
Aspetto un po’. Se c’è qualcuno in giro, potrebbe essersi accorto di quello che è successo.
La situazione però sembra calma e quindi, non appena recupero di nuovo lo zaino da terra, mi dirigo veloce verso la casa. Mi appoggio al muro, la porta aperta è alla mia sinistra.
Lo sguardo mi cade sul cadavere non molto lontano da me. Guardo la mia freccia conficcata nella sua testa e per un attimo la titubanza mi assale. Ma in questo mondo ci siamo noi, e non possiamo essere minacciati da nessuno. Mi avvicino al corpo e recupero la freccia. Poi con calma mi dirigo verso l’entrata e controllo se c’è movimento all’ingresso, ma sembra tutto calmo.
Così entro, con la balestra pronta, in cerca di lei.
 

                                                                                       *****
 

Nuovi dolori mi colpiscono appena riesco a riprendere i sensi.
Mi fanno male i polsi. Mi fanno male le caviglie. Mi fa male il collo.
Il dolore alla testa, che era presente già  da prima, è aumentato.
Mi piacerebbe tanto capire quando finirà quest’agonia. Se mi hanno catturata, perché non mi uccidono e basta?
Appena riprendo completamente il controllo su me stessa e riesco finalmente ad aprire gli occhi, capisco la causa di tutti quei dolori. Il collo mi fa male perché ho la testa china sul petto da chissà quanto tempo. Le caviglie e i polsi bruciano perché sono legati saldamente alle gambe e ai braccioli di una sedia. Con fatica alzo la testa, provo a ruotarla e, nonostante non riesca subito ad aprire benissimo gli occhi, posso vedere l’ambiente che mi circonda.
Mi trovo in una stanza piuttosto buia, ma lo sarebbe ancora di più se non ci fosse questa piccola finestra circondata da un’enorme libreria, sulla mia destra. Tre pareti su quattro sono occupate da questa libreria scura, immensa e piena di libri. Sulla parete alla mia sinistra, invece, è presente soltanto una porta.
La cosa che però mi inquieta maggiormente è la presenza di un’altra persona qui dentro. Un uomo alto, magro, con dei vestiti alquanto trasandati è in piedi davanti a me, appoggiato all’angolo tra la parete libera e la libreria. Ha le braccia conserte e mi osserva con aria calma, ma sveglia. È astuto, riesco a capirlo dal suo sguardo. Quel suo sguardo che mi mette i brividi.
Non è la prima volta che mi trovo letteralmente trapassata da uno sguardo del genere, e i ricordi che ne scaturiscono mi spaventano. Non conosco quest’uomo e lui non conosce me, ma sono assolutamente certa di essere di fronte ad una versione più giovane e sicuramente più sveglia e subdola di Ed.
Sosteniamo i nostri sguardi a vicenda finchè lui non dà un piccolo calcio al muro dietro di sé per riacquistare l’equilibrio e avanza di qualche passo verso di me. Poi comincia a parlare.
“Beh, mia cara, credo che tu sia capitata in un bel casino”.
Un piccolo sorriso spunta su quel suo viso affilato. “Come ti chiami?” mi chiede.
Io non ho proprio nessuna voglia di fare conversazione, soprattutto non prima di aver capito le sue intenzioni. Scelgo il silenzio, voglio vedere fino a che punto vuole arrivare, con tutte queste carinerie.
“Non vuoi parlare? Molto bene, allora sceglierò io un nome per te. Non ho nessuna intenzione di entrare in confidenza con una persona di cui non so nemmeno il nome”. Detto ciò, si siede a terra a gambe incrociate, proprio davanti a me e, grazie a quel movimento, da sotto la sua camicia riesco a vedere una pistola.
Purtroppo il mio sguardo rimane fisso su quella pistola forse un secondo di troppo e lui se ne accorge. Con finta innocenza si guarda la cintura in cerca del punto di mio interesse.
“Che c’è? Guardi questa?” mi chiede con curiosità mentre indica l’arma. “Oh, non preoccuparti, non mi servirà. Di solito non ricorro a vie così repentine per concludere un discorso”.
“Di solito?” mi lascio sfuggire, sinceramente interessata ai suoi metodi. Voglio capire che cosa mi aspetta.
“Ah! Allora parli! Finalmente puoi dirmi il tuo nome” dice con soddisfazione.
“Non ti dirò il mio nome. Non hai bisogno di entrare in confidenza con me, per minacciarmi” dico con voce tagliente.
“Oh andiamo! Così mi offendi!” dice. Sta recitando una parte, si vede. La parte del curioso, calmo, premuroso e ragionevole che però stona totalmente con il fatto che mi abbia legata ad una sedia.
Lui sospira pesantemente e poi riprende a parlare.
“Mmm ok… ho deciso il nome. Miranda. Va bene? Non è il tuo vero nome, vero? Sarebbe paradossale!” mi dice, ridacchiando.
“No, non lo è” mi limito a rispondergli.
“Io mi chiamo Michael, Michael Devian, e sono tanto, davvero tanto ansioso di raccontarti una storia, mia cara Miranda”.
Mi osserva. Continua ad osservarmi con quei suoi occhi blu.
Sento freddi brividi attraversarmi la spina dorsale. Se non mi ricordasse così tanto Ed, non penso che avrebbe la capacità di mettermi così in soggezione. Eppure lo sono, più di quanto mi aspettassi.
Michael fa una breve pausa, forse aspettandosi qualche risposta da parte mia, ma non vedendone arrivare nessuna, comincia a raccontare la sua storia.
“Allora… uno dei miei uomini è andato in perlustrazione stamattina e quando è tornato mi ha riferito una cosa che mi ha fatto davvero molto male, sai?”.
Appena si riferisce al suo uomo in perlustrazione, mi torna in mente il riflesso di luce che ho visto stamattina dal sentiero, mentre seguivo le impronte di Daryl. Quel riflesso poteva decisamente essere una macchina, dunque.
“Qualcuno è entrato nella mia vecchia casa, ha ucciso i miei genitori e ha svuotato la mia dispensa” dice, senza troppi giri di parole.
Mentre parla, si rialza e comincia a camminare per tutta la stanza, anche dietro di me, dove non riesco a vederlo.  Il suo tono di voce cambia e si inasprisce sempre di più, rivelando finalmente la vera persona chiusa con me qui dentro.
“Mi hai sentito?! Qualcuno ha ucciso i miei genitori e ha svuotato la mia dispensa!”.
Sento le sue mani che con violenza si poggiano sulle mie spalle, i suoi pollici affondano sul retro del mio collo.
“E sai la parte bella di questa storia qual è?” mi chiede, abbassando la voce soavemente, avvicinandosi al mio orecchio destro. “Controllando nel tuo zaino, ho trovato alcune delle mie cose”.
Non so se è per quello che dice oppure per la sensazione che mi provoca avere le sue mani e il suo respiro addosso, ma violenti brividi mi colpiscono e non riesco a fermarli.
Nel profondo di me stessa, però, realizzo che quello che mi ha appena rivelato non mi meraviglia affatto. Ovviamente si sta riferendo all’ultima casa che io, Daryl e Michonne abbiamo controllato ieri sera. Ero rimasta quasi sotto shock vedendo l’ordine dei mobili in quella casa, soprattutto nel soggiorno. Era praticamente identico a quello della mia vecchia casa in Georgia. Prima dell’Apocalisse. Prima di tutto questo.
No. Non mi meraviglio affatto.
E i genitori di cui parla dovevano essere i due vaganti che Michonne ha abbattuto al piano superiore, prima che scoprissimo la dispensa nascosta.
Quest’uomo…
Questo Michael…
È come se mi trovassi di nuovo di fronte ad Ed…
Mio Dio. Sto rivivendo un incubo.
 Lui continua a rimanere così, chino su di me, con la sua bocca vicina al mio orecchio.
“Era quasi impossibile aprire la porta della dispensa. Io e mio padre conoscevamo il modo per farlo e ogni volta dovevamo farlo insieme. C’era bisogno di forza, per farlo…”.
Sento la sua mano sinistra che lascia la mia spalla.
“…quindi non puoi aver fatto tutto il lavoro da sola…”
Sento il rumore della lama di un coltello che viene sfoderato.
“…e questo significa che non potevi essere da sola”.
La sua mano appare davanti ai miei occhi, armata di quel coltello. Coltello che si piazza proprio sulla mia gola, poi.
Provo a restare calma. Chiudo gli occhi.
“Sai, Miranda, ieri sera i miei uomini hanno colto in flagrante alcune persone che si stavano impossessando di cose che non gli appartenevano, proprio nella stessa zona in cui è situata la mia vecchia casa”. Fa una pausa brevissima per impugnare meglio il coltello.
“Oh, lo so! Adesso mi dirai che il mondo ormai è cambiato e si lotta per la sopravvivenza. E ne sono consapevole”.
Spinge un po’ la lama verso la mia pelle. Devo cercare di restare immobile, ma mi risulta alquanto difficile.
“Ma loro avevano sconfinato nel mio territorio… Erano due uomini e un ragazzo. Abbiamo ucciso gli uomini e catturato il ragazzo”. Un’altra pausa. Studia le mie reazioni? Non so nemmeno io cosa devo fare, ormai.
“Beh, ma forse non c’è nemmeno bisogno di dirtelo, perché tu lo sai già, vero? Erano del tuo gruppo, no?”.
Un senso di panico mi assale e apro istintivamente gli occhi.
Grazie alla sua mano destra ancora appoggiata sul mio collo, probabilmente avverte che le mie pulsazioni stanno accelerando e che quindi mi sto seriamente agitando.
Come potei non farlo? Sa che io e Carl ci conosciamo. Merda.
Ma fortunatamente non ha nominato né Daryl né Michonne.
“Dovrei ucciderti”, sussurra, “non solo per il semplice fatto che hai oltrepassato la soglia di casa mia, hai ucciso i miei genitori e ti sei impossessata delle mie cose, ma anche perché a quanto pare ci stavi spiando prima, qui fuori”.
Il coltello sulla mia gola comincia a fare male, probabilmente sto incominciando a sanguinare.
Nonostante il bruciore, trovo la forza di sfidarlo.
“Non avevi detto che di solito non concludi un discorso in modo veloce?” dico, riferendomi al suo modo di usare il coltello contro di me. la mia voce è quasi irriconoscibile, strozzata.
Michael ridacchia e avvicina ancora di più le labbra verso di me, per quanto sia possibile.
Lo sento toccarmi, annusarmi. Vecchi e dolorosi ricordi vengono a bussare alla porta della mia anima e cerco in tutti i modi di respingerli.
“Parlavo della pistola, prima. Non mi stavo di certo riferendo ad un semplice coltello”.
Improvvisamente lui si stacca da me e, nello stesso momento, io lascio cadere la testa in avanti, respirando forte. Non mi ero resa conto di stare trattenendo il fiato. Tossisco.
“E comunque…” riprende il discorso con disinvoltura, andando ad appoggiarsi alla scrivania accanto a me, “…il nostro discorso non è affatto concluso”.
Ho la testa ancora china quando gli rispondo con aria di sfida. “Cosa vuoi ancora da me?”.
“Da te? Niente!” esclama, con sfacciataggine. “Non adesso, almeno”. Questo suo modo di fare mi fa innervosire da morire, esattamente come succedeva con Ed.
Fa passare un po’ di tempo e, quando ricomincia a parlare, si rigira il coltello tra le mani e lo fissa, pensieroso. O almeno finge davvero bene di esserlo.
“Ho controllato nel tuo zaino ed ho trovato alcune delle mie cose. Ho controllato negli zaini dei tuoi compagni morti e in quello del ragazzo, ma non ho trovato niente di mio. Allora, a questo punto, mi domando una cosa”. Le sue mani si fermano. “Se il mio uomo mi ha riferito che la mia dispensa era vuota, dove sono finite le altre cose?”.
Oh no.
“C’erano altre persone con voi, non è così?” mi chiede, la rabbia si impossessa di lui, ma comunque rimane immobile.
“Puoi anche uccidermi, maledetto! Non avrai nessuna informazione da me!” urlo, quasi.
Lui mi fissa e poi il suo viso si apre in un sorriso. Un sorriso pauroso.
“No, infatti. Non da te” dice semplicemente.
Lo fisso cercando di capire cosa intende.
E nel momento in cui capisco, mi si gela il sangue nelle vene.
“Ho dato ordine ai miei uomini di… come dire? Prendersi qualche libertà con il ragazzo”.

Nello stesso momento, dal piano di sotto, rimbomba un urlo.
 

                                                                                      *****
 

Siamo passati attraverso pericoli peggiori di questo.
Abbiamo sopportato l’insopportabile.
Ma allora perché sono così tanto nervoso? Non può finire tutto dentro una dannata casa nelle campagne, senza che io possa almeno provare a reagire, no?

C’è troppo silenzio.
Qui. Fuori da qui.
Questo non mi aiuta.
Penso a Carol e il mio disagio aumenta. Devo provare a pensare ad altro, per quanto sia possibile.
“Ehi” mi rivolgo a Tracy. “Come va il braccio?”
“Fa male, parecchio. Se solo smettesse di sanguinare…” dice lei, guardandosi la ferita.

“Come vi hanno catturati?” le chiedo all’improvviso, dopo qualche minuto.
Lei muove un po’ la testa verso di me, quel tanto che basta per farmi capire che mi ha sentito, ma non mi sta guardando. Guarda a terra.
“Eravamo in esplorazione. Noi due e altri tre del nostro gruppo. Eravamo convinti che la zona nei pressi dei nostri accampamenti fosse sicura, anche se era molto vasta. Ne eravamo estremamente convinti… forse troppo”.
Fa una breve pausa e la sua espressione cambia, probabilmente i suoi ricordi la stanno torturando.
“Quanti accampamenti avevate?” le chiedo, cercando di non risultare troppo curioso e abbastanza rispettoso.
“Due” risponde lei, e stavolta si gira a guardarmi definitivamente. Mi guarda come se avesse il desiderio di raccontarmi tutta la loro storia, così io non parlo più, le faccio un cenno di assenso e rimango fermo ad ascoltare tutto quello che dice, dopo che si è fatta forza.
“Kurt, Janson e Holsey comparvero dal nulla, dal bosco attorno a noi. Uccisero due persone a sangue freddo e, prima ancora che ce ne accorgessimo, minacciarono noi sopravvissuti. Non avemmo il tempo di reagire, loro continuavano a tenerci puntate le pistole contro e noi non avevamo modo di reagire”. Fa una pausa e sbatte gli occhi ripetutamente. Occhi che cominciano a brillare di lacrime.
“Ci hanno minacciati, disarmati, legati e poi addormentati per portarci qui. Eravamo del tutto impotenti. Quando ci siamo risvegliati eravamo già legati qui e al tuo posto, accanto a Cody, c’era una nostra compagna, Joy…”.
“E cosa le è successo?” chiedo quasi con paura.
“Non ha resistito” sussurra Tracy, semplicemente. “Dopo alcuni giorni di prigionia e le prime torture, lei crollò e confessò alcune delle cose che Devian voleva sapere, ad esempio il fatto che avevamo due accampamenti, come erano strutturati e dove era situato uno dei due… Credo che fosse convinta che parlare l’avrebbe salvata, in qualche modo”.
“Quindi poi loro trovarono il vostro primo accampamento” dico, più a me stesso che a loro. Entrambi annuiscono con un cenno della testa.
“Quel giorno fu orribile” dice lei, le lacrime che cominciano a scorrere veloci sul suo viso. “Ci legarono e ci chiusero in un’auto, ci bloccarono sui sedili e poi, quando arrivammo ai confini del nostro accampamento, ci fecero assistere al degenero umano!”. Detto questo, Tracy scoppia a piangere e abbassa il viso sul suo petto, a contatto con le catene che la bloccano, non riuscendo più a continuare a parlare.
Cody si dimena un po’, vedendola così, e prova ad allungare una gamba per arrivare a toccare le sue, per provare a consolarla nell’unico modo in cui può farlo.
“Ok, Tracy. Basta così… Non c’è bisogno che continui a raccontare. Calmati…” le dico, per provare ad aiutarla.
“No! No… devi sapere a cosa andate incontro, tu e la tua amica” mi dice, alzando di nuovo la testa e tornando a guardarmi. Dopo qualche minuto di pausa, riprende il discorso da dove si era interrotta.
“Quell’accampamento non era molto grande quindi, anche se Devian e i suoi erano solo in quattro, riuscirono ad uccidere cinque dei nostri compagni, riuscirono a prendere quello che gli serviva e poi bruciarono tutto. Dopodiché, uccisero anche Joy e gettarono anche il suo corpo tra le fiamme… Non dimenticherò mai le parole che Devian disse in quel momento. ‘Hai fatto il tuo dovere’ disse, e poi si fermò a guardare le fiamme come un conquistatore straniero su una terra indigena…”.
A stento riesco ad immaginare la sofferenza che stanno provando in questo momento, Tracy nel raccontarmi tutto questo e Cody nell’ascoltarlo, ma voglio provare a chiederle altre cose, sperando che riesca a continuare a parlare.
“Siete imprigionati qui da quel momento? Come siete sopravvissuti per tutto questo tempo?”.
Cody sospira pesantemente e fa un mezzo sorriso, che io interpreto come una sorta di ‘Non ne hai davvero idea’. Tracy guarda suo fratello e poi me. “Siamo qui dentro da così tanto tempo che non ricordiamo più la differenza tra il vivere e il sopravvivere. Anche se vivevamo in tende e capanne, isolati nei boschi, il nostro gruppo ci ha sempre fatto sentire a casa. Questa invece è una vera e propria prigionia. Una volta al giorno ci fanno mangiare, una volta al giorno ci portano al bagno, una volta al giorno ci slegano e ci fanno alzare, per qualche minuto… Tutto questo sempre con le pistole puntate addosso”.
“Ma cosa vogliono ancora da voi?” chiedo frustrato.
“L’unica informazione che ancora non hanno... e cioè-” dice Tracy.
“Dove si trova in vostro secondo accampamento!” completo la frase prima di lei.
Lei annuisce e mi guarda. Continua a piangere, di tanto in tanto. Ha gli occhi gonfi e rossi, ma allo stesso tempo, il suo sguardo trasmette determinazione.
“Hanno provato molte volte ad estirparci informazioni e noi non abbiamo mai ceduto. Mi hanno-”. Si blocca di colpo e chiude gli occhi, poi però fa un respiro profondo e trova la forza per continuare. “Mi hanno violentata per far parlare Cody, e quando qualche giorno fa lui ha detto loro che il nostro secondo accampamento, senza l’appoggio del primo, di sicuro a quel punto doveva essere già stato raso al suolo dai morti, loro non gli hanno creduto e Devian ha dato l’ordine di tagliargli la lingua, definendolo ‘un inutile bugiardo’…”.
Le gambe dei ragazzi sono ancora intrecciate, per cercare di consolarsi a vicenda. “Non l’hanno ucciso perché torturando lui, loro torturano anche me. Anche se siamo forti, prima o poi crolleremo, ne sono certa” mi dice.
“Ma non era vero. Voglio dire, il secondo accampamento in realtà è ancora in piedi?” chiedo.
“Non lo sappiamo, Carl. Ovviamente speriamo di si…” sussurra Tracy. “C’era nostro padre lì, l’unica cosa che ci resta”.

Due fratelli a cui resta solo il padre.
Chino la testa pensando a me e a Judith. Nostro padre è stato per molto tempo l’unica cosa che ci era rimasta della nostra famiglia.
Michonne e tutti gli altri ormai fanno parte di questa grande famiglia, ma il nostro sangue, il sangue Grimes, scorre soltanto nelle nostre vene. È una cosa solo nostra.
Mi torna subito in mente quello che Carol mi ha detto prima, che mio padre è ferito gravemente, ma che è vivo. Devo tornare da lui, devo tornare da Judith, da Michonne e da tutti gli altri. Devo tornare dalla mia famiglia.
“Usciremo da qui” dico poi, a voce abbastanza alta per farmi sentire sia da Tracy che da Cody.

Non faccio in tempo a finire la frase che la porta si apre ed entrano gli scagnozzi di Devian, Kurt e Holsey. Kurt punta dritto verso di me e mi slega dalle catene, poi mi tiene bloccato mentre mi sbatte al muro e mi lega mani e piedi alle catene penzolanti. In tutto ciò, Holsey mi tiene una pistola puntata contro.
“Allora, ragazzo…” mi dice Holsey, con un vocione minaccioso “…cominciamo subito mettendo in chiaro che se non ci dirai la verità, la tua amica al piano di sopra farà una brutta fine”.
Mi stavo dimenando per il fastidio delle catene, ma appena capisco cosa quella frase voglia davvero dire, mi fermo. Come hanno scoperto che io e Carol ci conosciamo? Glielo avrà detto lei? Stanno torturando anche lei? L’avranno uccisa?
Il mio corpo è bloccato. Non riesco a non pensare a cosa possa essere successo a Carol.
Holsey mi si para davanti, la pistola sempre puntata verso di me, ferma nella sua mano. Kurt si para alla mia destra, davanti alla porta aperta, bloccandomi la visuale sul corridoio all’esterno.
“Dunque, adesso dovrai dirci alcune cose-” comincia a parlare Holsey, ma nello stesso momento Kurt cade improvvisamente a terra, sulle ginocchia, portandosi le mani sul mento.
Sono incredulo, decisamente. Forse sto avendo delle allucinazioni?
Vedo delle piccole piume gialle spuntare da dietro il suo collo. Sangue rosso scuro sgorga dalla ferita alle sue mani e, quando prova a rialzare la testa verso Holsey, vediamo chiaramente che una freccia gli ha trapassato la gola, toccando sicuramente anche la carotide.
Dopo qualche attimo, Kurt cade faccia a terra. Morto.
Holsey alza lo sguardo verso la porta prima di me mentre lancia un urlo inferocito e spara in quella direzione.
Io, ascoltando l’urlo, mi rianimo e a mia volta giro di scatto la testa verso la porta, riuscendo ad intravedere di sfuggita soltanto un’ombra. L’ombra di qualcuno che si nasconde dietro il muro, sulla sinistra, per evitare lo sparo.
Quella che ha ucciso Kurt non è una freccia qualunque. Ormai quelle frecce mi sono familiari.
È di Daryl.
È riuscito a trovarci.
Usciremo da qui, come prevedevo.
Un senso di assoluto sollievo si impossessa di me, nonostante i guai non siano ancora finiti.

Holsey è fuori di sé dalla rabbia ma, invece di correre dietro a Daryl, si appoggia con la schiena alla porta, aperta all’interno della prigione e, con piccoli passi verso l’esterno, prova ad affacciarsi nel corridoio guardando dietro di sé, a sinistra, dove ho intravisto l’ombra di Daryl un attimo fa. Una volta arrivato nel bel mezzo del corridoio, Holsey gira su se stesso e tiene la pistola ben salda in entrambe le mani quando comincia a camminare alla ricerca di Daryl.
Io non sopporto di essere legato qui, impotente, sapendo di non poter far nulla per aiutare Daryl a fare fuori questi bastardi. Lui è uno contro… quanti? Due? Tre?
I miei pensieri vengono interrotti dal rumore di uno sparo, poi altri rumori di sottofondo, dei passi veloci, dei tonfi. Poi un altro sparo, che rimbomba nell’ormai vuoto corridoio.
Poi, il silenzio.
Continuo a guardare fuori, con la speranza di vedere apparire qualche volto familiare, ma più passa il tempo e più il senso di sollievo che avevo poco fa si trasforma in un macigno, ed il suo peso aumenta ogni secondo.

Smetto di guardare verso il corridoio e guardo in basso, dove c’è il cadavere di Kurt. È morto da poco, ma nessuno può calcolare quanto tempo ci metterà a risvegliarsi.
Appena penso a questa cosa, d’istinto guardo Cody e Tracy, legati alla parete di fronte a me, e credo che anche loro, in qualche modo, stiano pensando a quello che penso io. Tutti e tre siamo legati e quando Kurt si risveglierà, ci mangerà vivi. Certo, loro due hanno le gambe libere, ma con la loro debolezza non potrebbero contrastarlo comunque, probabilmente.

Di nuovo, un movimento nel corridoio attira la mia attenzione, ma stavolta la fortuna gira dalla nostra parte.
Daryl si avvicina pian piano alla porta, armato di balestra.
“Daryl!” esclamo, e finalmente mi rilasso. “Lo sapevo che non potevi essere morto!”.
Ha un’aria stanchissima ma non mi meraviglio, non credo che abbia avuto tempo di dormire da ieri. Ha anche un graffio abbastanza grande sulla fronte, e sta sanguinando. Ha avuto un incontro ravvicinato con un coltello, di sicuro.
“Ehi, ragazzo! Ci vuole ben altro per farmi fuori. Ho mandato all’altro mondo quel bastardo con la sua stessa pistola, dopo essermi beccato questo” dice lui, indicandosi il taglio e venendo verso di me per sciogliere le catene che mi bloccano alla parete. Non ci riesce subito, quindi si avvicina al grande tavolo che si trova nell’angolo della stanza, afferra vari attrezzi e prova a rompere le catene come meglio può. Appena riesce a liberarmi, prendo dalle sue mani quello che mi capita e mi fiondo subito di fronte a me, per liberare i due fratelli.
“Daryl, anche Carol è qui dentro! Un altro uomo la tiene in ostaggio, al piano superiore” gli dico con urgenza. “Troviamola e andiamocene da qui!”
“Ci puoi giurare” mi risponde lui con un tono nervoso, mentre aspetta di guardia alla porta che il nostro piano di fuga fili liscio. Non vede l’ora di rivedere Carol, è chiaro anche solo dal tono della sua voce.
“E anche loro due tornano a casa con noi…” gli dico poi, mentre finalmente riesco a sciogliere le loro catene “…perché hanno bisogno urgentemente di essere curati”.
“D’accordo” mi dice, venendo da noi e aiutandomi a far alzare Cody da terra.
“No, ehi! Noi dobbiamo tornare a casa!” dice Tracy aggressiva, stringendomi un braccio.
“Tuo fratello va curato immediatamente! Non vuoi vederlo morire, no?” le chiedo, quasi con rabbia. So di aver toccato il tasto giusto per farla cedere e infatti lei fa un passo indietro e poi annuisce. “Dai, aiutami” le dico, mentre entrambi prendiamo Cody sottobraccio e lo aiutiamo a rimanere in piedi.
“Quanti di quei bastardi vivono qui dentro?” chiede Daryl.
“Quattro” risponde Tracy.
“Tu quanti ne hai uccisi?” gli chiedo io.
“Tre. Significa che l’ultimo è quello che sta di sopra…” conclude Daryl.
Riflette un attimo sul da farsi, poi comincia a darci delle dritte. “Allora, vi accompagnerò all’uscita e poi tornerò dentro. Voi tre aspettate nel pick-up che è parcheggiato qui fuori, con quello poi torneremo alla nostra auto, al centro residenziale. Carl, se stai bene, guardati intorno e prova a cercare qualcosa che può esserci utile, ma sta attento. Prova anche a nascondere il cadavere dell’uomo che è lì fuori, non si sa mai. Tutto chiaro?”.
Annuiamo tutti e tre e cominciamo ad avviarci verso l’uscita.
“Ah! Aspetta, Daryl! Assicurati che Kurt, qui…” glielo indico con un piede “…non torni a farci visita. Così avrai una grana in meno a cui pensare quando rientrerai a salvare Carol”.
 

                                                                                                *****
 

Ho lasciato lo zaino a Carl per avere un peso in meno, gli ho lasciato anche una delle due pistole che avevo, visto che era disarmato. Sono ritornato indietro, sono salito al piano superiore e l’unica cosa che è presente qui è un silenzio surreale.
Davanti a me si diramano tre corridoi.
Uno a sinistra, breve ma senza porte.
Uno dritto, dove è presente una sola porta chiusa, e che termina con una finestra.
L’altro sulla mia destra, dove ci sono due porte. Quest’ultimo corridoio, a sua volta, si dirama in altre direzioni.
Ma quanto cazzo è grande questa casa? Molto più di una delle case più grandi che abbiamo ad Alexandria.
Decido, comunque, di dirigermi sulla destra dove, dopo pochi passi, mi accorgo che tutte e due le porte di tutte e due le stanze presenti lì sono aperte e che non c’è nessun segno di vita.
Arrivo alla prima diramazione, svolto l’angolo e mi trovo di fronte ad un vicolo cieco, senza porte, e alle mie spalle lo stesso. Torno indietro nel corridoio principale, ma non avverto subito lo scricchiolio che arriva dalle assi del pavimento davanti a me, e non sono abbastanza veloce nel buttarmi a terra e nascondermi in uno dei vicoli ciechi perché, appena sento lo sparo, la pallottola mi colpisce al braccio sinistro e solo dopo riesco a ripararmi dietro alla parete a destra.
La ferita all’inizio pulsa e basta, poi comincia a fare un male bestiale.
Mi stringo forte il braccio al corpo e provo a controllare quanto è grave. Sembra che sia solo un colpo di striscio, per fortuna. Ma non ci voleva.
Stanchezza, rabbia ed impazienza non vanno assolutamente d’accordo con ‘perdita di sangue’.
“Vieni fuori, amico! Fatti uccidere per bene!” urla il coglione che mi ha sparato.
‘Coraggio, manca solo questo stronzo e poi sarà finita’ dico a me stesso.
Poggio la balestra a qualche passo da me. Questi non sono affari che si risolvono con armi bianche.
Rimanendo sempre seduto a terra, mi armo di pistola e, il più velocemente possibile, mi giro e mi affaccio dietro l’angolo, sparando un colpo. Soltanto dopo, però, scopro che quel figlio di puttana nel corridoio non c’è più.
Potrebbe essersi nascosto in una delle stanze dove le porte erano aperte, o potrebbe essere tornato indietro per ripararsi sulle scale oppure nel corridoio che proseguiva dritto. Insomma, potrebbe essere ovunque, e può giocare su di me il vantaggio di conoscere ogni centimetro di casa sua.
Sento la sua risata da lontano, il che mi irrita ancora di più. Ma, essendo lontana, mi fa capire che non è nascosto nelle stanze vicine. E questo già mi aiuta.
“Amico, dobbiamo muoverci a risolvere la situazione, sai? Ho un’ospite che attende il mio ritorno, e non bisogna mai far aspettare le signore” dice, beffandosi di me.
Il sangue pulsa veloce nelle mie vene e so, lo so, che si sta riferendo a Carol.
Cosa diavolo le starà facendo?
Provo a bloccare tutti gli strani pensieri e le sensazioni che stanno cercando di trascinarmi nella sconfitta e nella disperazione e provo a rimettermi in piedi, a reagire. Per lei.
Metto da parte la stanchezza atroce che mi sta uccidendo. Metto da parte il dolore che questa ferita al braccio mi sta facendo provare. Mi concentro su ogni minimo rumore che sento e cerco di camminare il più silenziosamente possibile mentre torno indietro nel corridoio, passo davanti alle stanze con le porte aperte e, come immaginavo, scopro che lì non c’è nessuno.
Mi appoggio allo stipite di una delle porte col braccio ferito, poi lo provoco.
“Ho fatto fuori tutti i tuoi uomini, tutti e tre! Ti aspetta lo stesso destino!”.
La sua risposta arriva veloce, fredda e potente. “Posso sopravvivere anche da solo! Posso uccidere persone e impossessarmi delle loro cose anche per conto mio!” grida.
E quelle parole arrivano dal corridoio dritto davanti alle scale. E poi…
Una porta sbatte.
Passi veloci. Tanti.
Punto la pistola il più velocemente possibile davanti a me e appena vedo un movimento, sparo.
Uno sparo, però, arriva anche nella mia direzione e, nello stesso momento, un terzo sparo mette fine a tutto.

Ho chiuso gli occhi di riflesso, aspettando che un altro colpo mi raggiungesse in mezzo a tutto questo casino. Ma questo colpo, addosso a me, non è mai arrivato.
Riapro gli occhi e mi guardo attorno.
Vedo che la pallottola che doveva colpire me, in realtà ha colpito la parete affianco alla porta e mi ha mancato di pochi centimetri.
Vedo che sull’angolo finale della parete opposta a quella dove mi trovo io, c’è un foro… quindi anche lo sparo che è partito dalla mia pistola non è arrivato a destinazione.
Poi però guardo a terra, davanti alle scale, e c’è il corpo di quel bastardo. Mi avvicino e vedo che è stato colpito da uno sparo, dritto in mezzo agli occhi.
“Ma che cazzo…” dico a bassa voce, mentre continuo a camminare verso il cadavere.
E continuo a non capire, finché dalle scale non sento dei passi e Carl non appare davanti ai miei occhi, la pistola ancora in mano.
“Mi ero ripromesso di ucciderlo dal primo istante in cui l’ho visto” dice, guardando prima il morto a terra e poi me. “Ehi, ma sei ferito!” urla quasi, guardando il mio braccio.
Non ho il tempo né di ringraziarlo, né di rispondergli che sto bene, perché siamo interrotti da un rumore ed entrambi ci blocchiamo. È una specie di mugolio, insistente, che diventa sempre più forte. Ci guardiamo ed entrambi, nello stesso momento, scattiamo verso la porta chiusa che si trova nel corridoio di fronte alle scale.
Carl arriva per primo e prova ad aprirla, ma è chiusa a chiave. Prova a dare un paio di spallate, ma non riesce a sfondarla.
Io gli afferro la maglietta appena dietro al suo collo e lo tiro indietro, punto la pistola verso il pomello e, sparando, lo faccio saltare. Insieme apriamo la porta e ci ritroviamo in una stanza piuttosto buia, grande, quasi completamente foderata da libri e librerie e, quasi al centro, c’è Carol, legata mani e piedi ad una sedia ed imbavagliata, ma vigile e reattiva, nonostante la situazione in cui si trova. Ha un grosso taglio sulla gola, ma non sembra molto grave.
I nostri sguardi si incontrano subito e, nel suo, vedo il riflesso delle mie stesse sensazioni: paura, seguita dal sollievo e poi dalla frustrazione. E poi arrivano le lacrime.
Io e Carl corriamo da lei. Lui si occupa dei lacci sulle sue caviglie, io di quelli sui suoi polsi, anche se non riesco a muovere bene il braccio sinistro e quindi mi trovo un po’ in difficoltà. Appena slego il primo, lei da sola prova a togliersi il panno che le blocca la bocca, ma non ci riesce finchè non le libero anche l’altra mano.
Poi prova ad alzarsi e le sua braccia si stringono intorno al mio collo mentre affonda la testa nell’incavo della mia spalla, e nonostante le sue lacrime mi facciano male al cuore, questo abbraccio è la sensazione più bella che io potessi provare. Lei è viva, è salva, è qui con me. Il resto può andare a farsi fottere.
Le stringo forte la schiena con il braccio destro e lei lascia andare il suo peso addosso a me, ma sono così stanco che le mie gambe non riescono a reggere il peso di entrambi e quindi pian piano scivoliamo a terra, tenendoci abbracciati.
Cerco Carl con lo sguardo, in giro per la stanza, e appena lo trovo ci facciamo un cenno di assenso a vicenda, come per dirci ‘Stiamo bene, è tutto ok’. È proprio il figlio di suo padre, devo ammetterlo.
Lui esce dalla stanza e io e Carol restiamo da soli.
Rimaniamo ancora per un po’ a terra, poi troviamo la forza di rialzarci.
“Stai bene?” le chiedo, ed è l’unica cosa che mi interessa sapere.
Lei mi guarda e non dice niente, poi fa qualcosa di totalmente inaspettato. Mentre continua a piangere, comincia a sbattere i pugni sul mio petto e ad urlare.
“Sei uno stupido! Potevi farti ammazzare! Guarda come ti hanno ridotto! Non dovevi salvarmi! Dovevi lasciarmi qui!”
So che non pensa davvero quello che sta dicendo e che sta solo sfogando tutta la paura che ha provato, quindi la lascio fare, la lascio prendermi a pugni fino a quando non si stanca.
Dopo che mi ha colpito per l’ultima volta, tiene le mani aperte sul mio petto, dove poi appoggia anche la testa.
“Mi dispiace…” sussurra, così piano che faccio quasi fatica a sentirla.
“Lo so. Sono qui ora” le dico, sussurrando a mia volta, per non disturbare il senso di calma che ha raggiunto, sfogandosi. Porto la mia mano sul suo fianco e stringo un po’.
Lei rialza la testa e mi guarda, i suoi grandi occhi azzurri sono arrossati e ancora lucidi. Passa le mani tra i miei capelli e poi le ferma sul mio viso e io, d’istinto, chiudo gli occhi e appoggio la fronte alla sua. Solo dopo qualche secondo, o forse qualche ora, mi bacia. Io ricambio, totalmente inconsapevole, fino a pochi istanti fa, di quanto avessi bisogno di un suo bacio.
Un bacio gentile, morbido, che si trasforma e man mano diventa necessità, più profonda, più sofferta.

Dovrei dirle che è stata una stupida a tornare indietro da sola, le avevo detto di non farlo.
Dovrei dirle che dovrebbe darmi retta più spesso, visto il guaio in cui si è cacciata.
Tutto quanto, però, muore sulle sue labbra e sul mio bisogno egoista, personale, di sentirle sulle mie.  
 

                                                                                                     *****
 

Dal panno che Michael aveva usato per imbavagliarmi, ho ricavato una benda piuttosto fittizia per la ferita che Daryl ha sul braccio, ma in qualche modo dovevo fermare il sangue.
Il dottor Carson avrà molto da fare, quando torneremo a casa. Si sta già occupando di Rick, tra poco arriveranno almeno altri tre pazienti.
Forse è stato un caso, forse solo fortuna o forse il destino non è sempre contro di noi, ma Maggie, venutaci a trovare da Hilltop, oltre a suo figlio ha portato con sé Jesus e Harlan Carson, il loro medico. Si, beh, decisamente la fortuna ha girato dalla nostra parte.

Dopo aver recuperato armi e zaini, io e Daryl usciamo dalla casa.
Vedo Carl venirmi incontro e ci abbracciamo brevemente.
“Da quello che ho saputo, a quanto pare devo ringraziare soprattutto te, per avermi salvato la vita” gli dico, appena sciogliamo l’abbraccio.
Lui sorride e abbassa lo sguardo, evidentemente in imbarazzo. Mentre io mi avvio verso il pick-up che so che useremo per tornare alla nostra auto, sento Carl rivolgersi a Daryl.
“Daryl, io e Tracy abbiamo perlustrato un po’ le case qui attorno e anche l’interno di questa più grande. Abbiamo recuperato alcune cose, ma penso che sia il caso di tornare tra qualche giorno, con più persone, per recuperare tutto quello di cui potremmo avere bisogno. Una delle case piccole funge da orto, ed è stracolma di verdura. Che ne pensi?”.
Parla come se fosse un vero leader, deciso e democratico.
Mi fermo e mi volto anche io verso Daryl per vedere la sua reazione. Lui mette una mano sulla spalla di Carl e fa un cenno di assenso. “Va bene, amico” gli dice, e poi insieme vengono verso il pick-up.
Mi avvicino allo sportello del guidatore e sento la voce di Daryl dietro di me, quasi divertita.
“Cosa credi di fare?” mi chiede.
“Guidare”.
“No”.
“No? Mi stai prendendo in giro? Tu non sei in grado di guidare con quella ferita” gli dico, severa.
“Tu sei troppo scossa, non ti lascerò guidare” mi dice, mentre mi sposta delicatamente dal fianco dello sportello per cercare di aprirlo e salire al posto di guida.
“Guido io!” dice Carl, dietro di noi.
Io e Daryl ci giriamo a guardarlo nello stesso momento. Le nostre facce devono essere davvero molto perplesse perché lui ci guarda con un'espressione strana.
“Oh andiamo! Lo so benissimo che ho un occhio solo, ma tutti voi mi avete insegnato a guidare, in questi mesi. Non faccio così schifo, no?” chiede, soprattutto rivolto verso Daryl. Anche lui, insieme ad altri, ha insegnato a Carl come guidare.
Daryl lo fissa per qualche secondo, poi si allontana dallo sportello. “Guiderai solo fino al centro residenziale, poi vedremo” gli dice.
Il pick-up è fornito solo di tre posti nell’abitacolo, quindi Tracy e Cody si sono seduti sul retro, con le schiene contro l’abitacolo, tra gli zaini e alcune cose che abbiamo recuperato, da portare a casa.
Carl è salito al posto di guida e Daryl è già seduto affianco a lui nell’abitacolo, li sento parlare.
Prima di salire a mia volta, mi appoggio sul retro del pick-up e mi rivolgo ai ragazzi. “Il viaggio per tornare a casa nostra sarà abbastanza lungo. Resistete, e se avete bisogno di qualcosa non esitate a chiedere”.
“Grazie, signora” dice Tracy. “Lei si chiama Carol, vero? Mi pare che Carl abbia detto il suo nome quando eravamo legati laggiù”.
“Si, esatto” le dico, con un piccolo sorriso. Sto per salire sul pick-up, quando sento la mano di Tracy sopra la mia. Mi riaffaccio sul retro, in attesa che parli.
“Suo marito è veramente una forza, sa? Ci ha salvati lui da quella prigione” mi dice, con ammirazione.
Io sorrido. Non mi pare davvero il momento di stare qui a chiarire il fatto che io e Daryl in realtà non siamo sposati, quindi l’unica cosa che posso fare è annuire e risponderle.
“Lo so”.

Abbiamo raggiunto la nostra auto al centro residenziale.
Abbiamo caricato il bagagliaio di tutti gli zaini e le varie provviste recuperate.
Siamo in marcia verso casa, adesso. Io e Carl abbiamo fatto a turno per un po’ alla guida, sempre sotto l’occhio vigile di Daryl.
Daryl, che ora è seduto affianco a me sul sedile del passeggero, dorme profondamente. La sua mano ancora poggiata sul mio ginocchio destro, dove la teneva stretta prima di crollare addormentato. Mi fa piacere che dorma, vuol dire che si sente al sicuro, che è tranquillo.
So già che, quando saremo a casa, mi chiederà di parlare con lui di quello che è successo ieri con Michonne, di quello che è successo oggi, dentro quella casa. Mi chiederà, nel suo classico modo silenzioso e assolutamente non invasivo, di aprirgli la mia mente e i miei pensieri. E so già che non potrò dirgli di no, che non ci riuscirò, e che non riuscirò semplicemente a voltarmi e ad andarmene, perché lui insiste sempre con me, sempre, e vuole assicurarsi che io stia bene.

Anche Tracy e Cody dormono, sul sedile posteriore.
Non sappiamo niente di questi ragazzi. Quando arriveremo a casa, mi aspetto che qualcuno venga a dirci che non siamo stati attenti e che dovevamo lasciarli al loro destino.
Ma per un giorno lo abbiamo condiviso, il destino, e questo è bastato, sia me che a Carl, per aiutarli.

Il sole sta tramontando e il mio sguardo va allo specchietto retrovisore.
Cerco gli occhi di Carl. Mi aveva detto che si sarebbe rimesso alla guida prima del calar del sole, ma a quanto pare si è addormentato anche lui.
Non ci credo, sono circondata da persone che dormono. Beh, comunque tra non molto mi fermerò e lo sveglierò, perché anche io sono stanca morta.
Guardando di nuovo nello specchietto mi viene da sorridere, e mi torna in mente una cosa, un dettaglio.
Finalmente Carl si è guadagnato il suo posto sul sedile posteriore, senza giocare a ‘Carta-Forbice-Sasso’ con nessuno.
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


---> PICCOLA PREMESSA: come sempre vi chiedo perdono per tutto il tempo che impiego ad aggiornare i capitoli e vi ringrazio per tutte le recensioni e le visualizzazioni! Siete davvero tantissimi e questo non può che farmi un piacere immenso!
Non so ancora bene quanti capitoli scriverò, uno o due, non sono ancora sicura. Quello che è sicuro è che questo non è l'ultimo e spero che continuiate ad avere la pazienza che avete avuto finora nell'attendere il prossimo aggiornamento!
Grazie ancora, soprattutto alle mie colleghe Carol, Sam e Ste per le assistenze tecniche e gli aiuti nell'ispirazione! 
- Silvia
 

SCARS – Capitolo 5
 

Come prevedevo.
Persone bisbigliano negli angoli dell’infermeria, guardando verso Tracy e Cody.
Provo ad osservare proprio quegli angoli con la coda dell’occhio mentre il dottor Carson mi fa tenere alta la testa cosicché la mia gola sia ben esposta alle sue cure.

Il taglio che il mio aguzzino mi ha arrecato col suo coltello, brucia. Ogni volta che viene anche solo sfiorato e soprattutto ogni volta che provo a girare la testa, manda fitte di bruciore brevissime ma molto intense a fior di pelle in tutto il mio corpo.

Sono stata l’ultima ad essere curata, in questa lunga notte.
Ovviamente, Carson ha adempiuto al suo dovere medico in ordine di gravità.
Il braccio sinistro di Daryl, ancora abbastanza sanguinante a causa dello sparo, è stato ricucito con uno spesso filo nero che mi ha messo i brividi. Proprio lui ha chiesto espressamente di farsi mettere i punti a crudo, per non usare ‘invano’ l’anestetico. Altruista fino al midollo, come al solito. Tenevo la sua mano mentre si sottoponeva a quella tortura e in certi momenti sembrava che stessi soffrendo più io di lui. Per ovvi motivi, immagino. Dopo essere stato preso a cinghiate da bambino, la soglia del suo dolore deve essersi decisamente alzata.
D’accordo col dottore, mi occuperò io più tardi della ferita che Daryl ha sulla fronte. Essendo, tra le altre, la ferita meno grave di tutte, potrò pensarci io con tranquillità.
Poi è stata la volta del taglio nella parte interna del braccio di Tracy, la causa dell’urlo con cui tutto è cominciato. Nel viaggio di ritorno, Daryl mi ha detto che ha sentito anche lui il suo urlo e, pur avendo capito che quella non era la mia voce, ha comunque corso come un pazzo per controllare cosa stesse accadendo. E di nuovo torna in gioco l’altruismo.
Per Tracy, l’anestetico è servito eccome. Ha coperto tutti i dolori fisici che provava in quel momento. Per quelli psicologici… beh, per quelli non esiste medicina.
Mentre aspettavamo il nostro turno per la visita, Carl mi ha raccontato tutta la storia che Tracy gli aveva rivelato poco prima che Daryl li trovasse legati laggiù e li liberasse. Povera ragazza. Sono certa del fatto che nessuna delle persone presenti qui dentro riesca davvero a capire quello che lei sta provando in questo momento… non quanto potrei capire io.
La lingua di Cody ha richiesto l’attenzione maggiore. Secondo il dottore, è stata tagliata così di netto che sembrava quasi essere opera di un chirurgo e che quindi, col tempo, sarebbe guarita da sola. Ha dovuto però comunque pulire la ferita, disinfettarla e, anche questa volta usando l’anestetico, apporre dei punti.
Sua sorella non lo ha lasciato solo nemmeno per un secondo. È una fortuna per entrambi il fatto di non trovarsi da soli in questa situazione. Possono darsi forza a vicenda e possono contare sull’appoggio di qualcuno che conoscono.
Anche la ferita alla testa di Carl ha necessitato di qualche punto. Tuttavia, secondo quanto ha detto Carson, la sua era nettamente meno grave rispetto a quelle di Aaron e Rick, fortunatamente.
Appena abbiamo fatto ritorno a casa, Carl è letteralmente volato fuori dall’auto, in cerca di suo padre. Non ha fatto i conti, però, con i capogiri che la sua ferita avrebbe potuto causargli e così, dopo non molti passi di corsa, è caduto a terra proprio sulla soglia dell’infermeria. Una preoccupatissima Michonne gli è corsa incontro e, tra le lacrime, lo ha aiutato a rialzarsi per poi abbracciarlo.
Ci sono persone che ogni tanto ancora hanno da bisbigliare sulla relazione tra Rick e Michonne, nonostante siano passati anni. Una donna che, in tempi come questi, sacrifica se stessa per amore di un uomo e che si occupa dei suoi figli è ancora considerata una pazza, a quanto pare. Questa epidemia avrà anche ucciso una miriade di persone, ma non ha di certo ucciso il bigottismo, non qui almeno. Probabilmente il mio giudizio è di parte, ma quando vedo Michonne relazionarsi con Carl oppure occuparsi di Judith, non riesco davvero a vedere la differenza tra loro e una madre con i suoi figli naturali.

Bisbigli, di questo si tratta. Gli stessi bisbigli che avverto adesso, negli angoli, finché il dottore non si rivolge a me mentre ancora controlla la mia ferita.
“Mmmh Carol, questo taglio non è abbastanza profondo per apporre delle suture, ma non è nemmeno un graffietto da niente. Abbiamo finito i cerotti di grande taglia quindi, appena disinfetterò tutto, preparerò una fasciatura, d’accordo? Ti circonderà il collo, spero che non ti dia fastidio...”
“Non preoccuparti, Harlan. Fai quello che devi” gli rispondo con calma.
Carson disinfetta e fascia il mio collo nello stesso momento il cui Daryl esce dalla stanza in cui si trova Rick, una delle stanze da letto che si trovano qui in infermeria.
Mentre si avvicina a noi, provo ad incrociare il suo sguardo, ma non ci riesco perché sta fissando la mia medicazione, quasi con dolore. Conoscendolo, in questo momento dentro di sé si starà dando la colpa di tutto quello che ci è capitato dentro quella casa. Si starà dannando l’anima pensando di non aver agito in tempo per salvaguardare la sicurezza mia e di Carl. Senza contare il dolore che sicuramente sta provando dopo aver visto Rick in quello stato e per il fatto che non si sia ancora risvegliato. Probabilmente preferirebbe essere lui al suo posto, piuttosto che vederlo così.
Testardo ed altruista. Quali aggettivi migliori per descriverlo?
La mia seduta di medicazione è terminata. Ringrazio Harlan e poi afferro una garza, un cerotto di medie dimensioni e del disinfettante. Mi giro verso Daryl e gli chiedo di seguirmi, a voce bassa, cosicché solo lui possa sentirmi.
Voglio allontanarmi da quei bisbigli quindi mi dirigo verso una delle stanze libere. Voglio stare per qualche minuto sola con lui. Soltanto noi. Io e Daryl.
Lo faccio entrare davanti a me, mi richiudo la porta alle spalle e lo faccio sedere sul piccolo letto di cui questa camera è provvista. Mi posiziono in piedi tra le sue gambe e controllo la sua fronte.
“Sta fermo”.
Tengo una mano sulla sua tempia sinistra per tenergli spostati i capelli e con l’altra avvicino la garza imbevuta di disinfettante al taglio che ha sulla fronte.
Curioso… il taglio che ha ricevuto stava quasi per sovrapporsi alla cicatrice di una vecchia ferita.
Passo il pollice su quella cicatrice, ripensando a quando Andrea per sbaglio gli sparò, scambiandolo per un vagante.
Lo stesso giorno in cui, dopo essere andato a cercare mia figlia tra i boschi intorno alla fattoria, tornò indietro con la sua bambola.
Lo stesso giorno in cui riuscii a vedere alcune delle sue cicatrici sulla schiena e cominciai a capire davvero chi fosse Daryl Dixon.
Penso a quanto la mia vita sia cambiata da quel periodo, a quante cose sono successe…
Sembra una vita fa.
Forse lo è.
“Ehi?”.
Daryl, vedendomi imbambolata, immobile con la garza in mano, mi dà una piccola spinta sulla gamba col ginocchio e mi riporta alla realtà, al presente.
Ecco. L’unica cosa che non è cambiata. L’unica costante presente nella mia vita, da allora.
L’uomo che in questo momento è seduto vicino a me.
Mi distacco un attimo da lui per guardarlo negli occhi, per rendermi davvero conto di cosa rappresenta Daryl per me. Faccio scivolare la mano sinistra sul suo viso e lui ricambia il mio sguardo in modo curioso, ma confuso.
Gli rivolgo un breve sorriso, poi riporto l’attenzione al taglio sulla sua fronte e comincio a disinfettarlo lentamente.
“Ah!” esclama piano Daryl. Probabilmente il disinfettante pizzica.
“Scusa” sussurro io, velocizzando il processo ma mantenendo comunque dei tocchi lievissimi. Avverto che comincia ad irrigidirsi ed innervosirsi e non mi meraviglio. Daryl è abituato ad essere libero di fare quello che vuole, e anche una cosa semplice come essere costretto a rimanere fermo per cinque minuti a farsi medicare è una tragedia per lui, quindi diventa nervoso.
Senza rendermene conto, ho cominciato ad accarezzargli la testa, aspettando che il disinfettante si asciugasse. Un riflesso involontario per farlo tranquillizzare un po’.
Appongo il cerotto sul taglio e ricopro tutto con i capelli che avevo spostato inizialmente. Non tolgo le mani dalla sua testa, però. Rimango ferma così per qualche momento, accarezzando i suoi capelli, percependo il modo in cui si sta rilassando pian piano sotto le mie carezze. E io con lui.
Daryl appoggia la testa addosso a me, all’altezza dello stomaco, e porta le mani sui miei fianchi. Poi, dopo non molto, alza lo sguardo. Fissa prima sulla fasciatura che ho attorno al collo e poi, con estrema fatica, i suoi occhi continuano il percorso in salita fino ad incontrare i miei.
E conosco questo suo sguardo, lo sguardo con il quale indaga i dolori della mia anima. Lo sguardo con il quale chiede punizione e perdono, allo stesso tempo. Come prevedevo, si ritiene responsabile di quello che mi è successo, nonostante la colpa sia la mia. Lui mi aveva detto di non ritornare da sola a cercare Carl e io non gli ho dato retta. Quella che dovrebbe sentirsi colpevole delle ferite dell’altro sono io. Ed effettivamente, mi ci sento eccome.
Non riesco più a reggere questo sguardo spento quindi chiudo gli occhi e appoggio la fronte alla sua, portando le mani ai lati del suo viso. Un lungo sospiro lascia le mie labbra poco prima che io cominci a parlare.
“Oh Daryl… non puoi prenderti tutte le colpe del mondo, soprattutto se non sono tue…”.
Lui stringe un po’ più forte le sue mani su di me. Ho toccato un nervo scoperto, lo sapevo.
Sostituisco la mia fronte con le mie labbra e gli do un bacio, stando attenta a non toccare il cerotto. Ma non c’è bisogno che io stia attenta per molto perché sento la sua fronte scivolare via verso l’alto e le sue labbra raggiungono le mie per baciarmi in modo quasi disperato.
Lo sento tremare sotto di me e vorrei riuscire a staccarmi da lui per parlargli, per chiedergli di sfogarsi, ma proprio non ci riesco. Le sue labbra sono come calamite per le mie.
Un lieve bussare alla porta ci fa staccare un pochino e mentre Daryl appoggia di nuovo la fronte sul mio stomaco e mi circonda totalmente la vita in un abbraccio, io porto le mani tra i suoi capelli e lo stringo per un momento.
“Si?” dico con un tono di voce non troppo alto, ma comunque udibile al di fuori della stanza.
La porta si apre quel tanto che basta per scorgere il viso di Maggie. 
“Ehi… oh! Scusatemi, non volevo interrompere nulla…” dice con una voce flebile, ma colpevole, e fa per andarsene.
“No, non preoccuparti. Abbiamo finito di incerottarci” le dico per farla restare. Io e Daryl avremo di nuovo modo di stare da soli più tardi. Spero.
Maggie entra nella piccola stanza, si chiude la porta alle spalle e vi si appoggia contro, di spalle.
Io provo molto delicatamente a divincolarmi dall’abbraccio di Daryl ma lui non ha la minima intenzione di lasciarmi andare. La cosa che mi meraviglia, e non poco. È sempre molto restio ai gesti d’affetto, soprattutto quando non siamo da soli, eppure eccolo qui, che mi abbraccia come se niente fosse e resta immobile così com’è, con il volto sepolto su di me.
Visto che la situazione non cambierà, riprendo ad accarezzargli i capelli per tranquillizzarlo e poi mi volto verso Maggie. Faccio un piccolo cenno d’assenso con la testa per farle capire che sono pronta ad ascoltarla.
“State bene?” ci chiede semplicemente.
“Si. Si, stiamo bene. Abbiamo passato di peggio” le rispondo con un piccolo sorriso.
Lei lo ricambia e poi riprende a parlare. “Ho parlato con molte persone tra ieri e oggi e tutti pensiamo che sia più che necessario un giorno di riposo generale. Prendiamoci una pausa dal mondo e riposiamo… Che ne dite?”.
Io non posso che essere d’accordo, sono così stanca…
“Sono decisamente a favore di questa idea” le dico con convinzione, sollevata dalle sue parole. Guardo un attimo in basso verso la testa di Daryl e vedo che la sta muovendo su e giù, un movimento quasi impercettibile che mi fa capire che anche lui è d’accordo. Questo suo modo di comportarsi, così fanciullesco, non può che farmi sorridere.
“Siamo decisamente a favore di questa idea” dico a Maggie, enfatizzando la parola ‘siamo’.
Lei sorride di nuovo, ma non mi sfugge la tristezza che per un attimo le attraversa gli occhi. E quella tristezza è esattamente il motivo per cui volevo allontanare Daryl da me, poco fa. Sono quasi sicura che vederci abbracciati e così in sintonia, le ricordi in qualche modo Glenn.
Abbasso lo sguardo quando una fitta di dolore torna a ricordarmi il destino a cui è andato incontro quel povero ragazzo. Per fortuna, però, è proprio Maggie quella che mi porta indietro da quel pensiero.
“Daryl?” chiede, con un po’ di incertezza.
Lui mugugna una specie di ‘Mmmh’ per farle capire che la sta ascoltando, ma non si muove dalla sua posizione.
“Le persone con cui ho parlato in giro per Alexandria mi hanno anche detto che…” e si blocca per un attimo, credo che stia cercando le parole giuste per un discorso importante. Discorso che riprende subito dopo. “Nessuno sa quali siano esattamente le condizioni di Rick, nemmeno Harlan ne è ancora sicuro, e sono tutti così spaventati… così spaventati da dirmi, di loro spontanea volontà, che vorrebbero te come leader, se Rick non dovesse farcela”.
Sento Daryl irrigidirsi di colpo e ne ha tutte le ragioni. Mai ci saremmo aspettati che il discorso prendesse una piega simile.
Maggie guarda a terra per tutto il tempo, anche lei sa bene che questo è un tasto delicato. Siamo tutti preoccupati per Rick e ci facciamo forza a vicenda, ma dentro ognuno di noi aleggia il pensiero che lui non possa farcela.
Finalmente Daryl si discosta un po’ da me e si gira a guardare Maggie. Io faccio un passo indietro per appoggiarmi ad un piccolo comodino mentre aspetto un impeto di rabbia da parte sua, che però non arriva.
“Perché?” chiede invece. Semplicemente una domanda. “Perché me lo dici adesso?”
“Perché preferisco che tu lo venga a sapere da me e che tu sia pronto a tutto quello che potrebbe accadere” dice Maggie con sincerità.
Daryl sospira pesantemente e non smette di tormentarsi il mento con la mano, segno evidente del suo nervosismo. Poi alza lo sguardo verso di me. “Che ne pensi?” mi chiede.
Aspettavo che chiedesse il mio parere, lo fa sempre quando si tratta di situazioni importanti.
“Io… io non lo so” dico spontaneamente. “Insomma, non è quello che vorresti, giusto?” gli chiedo, conoscendo già la risposta, dentro di me. Il solo pensiero di Daryl come nuovo leader mi fa alterare, decisamente alterare.
“Non fa per te prendere decisioni a nome di tutti oppure assumerti responsabilità che non vorresti! Questo non sei-” mi blocco e mi appoggio di nuovo al comodino dietro di me, il taglio alla gola mi brucia da morire. In reazione al bruciore, chiudo gli occhi.
“Ehi!”. Daryl afferra velocemente la mia mano sinistra tra le sue, per cercare di calmarmi. “Non abbiamo ancora deciso nulla” dice a bassa voce.
Quando riapro gli occhi, mi accorgo che Maggie si è avvicinata, probabilmente per assicurarsi che io stia bene. Daryl continua a restare seduto sul piccolo letto, la mia mano ancora stretta saldamente tra le sue.
“Carol, calmati. Troveremo una soluzione tutti insieme” mi dice Maggie dolcemente. In un impeto di franchezza, mi lascio sfuggire un pensiero che soltanto per un secondo ha occupato la mia mente.
“Sarebbe meglio trovare soluzioni tutti insieme sempre, come quando eravamo alla prigione…”.
L’espressione di Maggie cambia radicalmente, facendomi capire che quello che ho detto non le era proprio passato per la mente. Daryl, come lei, è perso nei suoi pensieri.
“Potrebbe essere davvero quello di cui avremo bisogno. Un consiglio di poche persone, esattamente come abbiamo già fatto”. Maggie è pensierosa ma mi guarda mentre lo dice, di sicuro si aspetta che le dica anche chi dovrebbe far parte del consiglio.
Poco dopo guarda sia me che Daryl con una luce diversa negli occhi. Eccoci. Maledetta me.
“Voi due e Sasha siete tutto quello che rimane del vecchio consiglio…” dice lei, stando ben attenta a non nominare né Hershel, né Glenn. “Potremmo chiedere ad Heath di aggiungersi oppure ad Abraham. Michonne sarebbe troppo scossa per farsi carico di queste cose”.
“Maggie, è ancora presto per parlarne” dico io sottovoce, ma il mio tono lascia intendere benissimo che non è proprio il momento adatto per fare un discorso del genere, non quando Rick sta ancora lottando tra la vita e morte in una delle stanze accanto a quella dove ci troviamo adesso.
“Si… si hai ragione. Perdonatemi, volevo solo prepararvi a quello che potrebbe succedere stasera” dice Maggie, avvicinandosi alla porta per uscire dalla stanza.
“Stasera?” chiede Daryl, perplesso proprio come lo sono io.
Lei si gira di nuovo verso di noi. “Oh giusto, non ve l’ho più detto, il discorso ha preso una piega diversa. Stasera Harlan visiterà Rick e potrà accertarsi delle sue condizioni. Dopodiché, sapremo cosa fare e come agire. Per adesso riposatevi, ok?”.
Detto questo, Maggie esce dalla stanza e ci lascia di nuovo soli.
Io e Daryl ci guardiamo per qualche secondo, un pensiero in più che grava su entrambi.
La stanchezza causata da tutto quello che abbiamo vissuto, però, si fa sentire come un macigno all’improvviso e un piccolo sbadiglio mi sfugge dalle labbra.
“Stai dormendo in piedi” mi sussurra lui, portando via entrambi da chissà quali pensieri. Nessuno dei due ha la forza, né tantomeno la voglia di continuare il discorso di poco fa.
In effetti, rendendomi conto di come realmente sto, non ricordo di aver mai avuto le palpebre così pesanti in vita mia. Non ho nemmeno più la forza di parlare e così, con una mezza risata, annuisco con un cenno della testa.
“Abbiamo bisogno di dormire” dice Daryl, mentre si stiracchia un po’, stando sempre attento alla fasciatura che ha sul braccio. Cerca i miei occhi con i suoi per afferrare una qualsiasi reazione alla sua affermazione, ma stavolta trovo la forza sia di parlare che di muovermi.
“Andiamo a dormire, allora” dico con una certa ovvietà, lasciando la sua mano e avviandomi verso la porta, ma poi mi volto e vedo che lui non mi segue e resta seduto lì dov’è.
“No io intendevo… io voglio restare qui. Non voglio allontanarmi…” dice con un tono piuttosto cupo. Mi ci vuole un attimo per capire il suo desiderio di restare qui in infermeria, pronto ad agire, qualsiasi cosa dovesse accadere.
Mi riavvicino a Daryl e gli prendo le mani tra le mie. “Va bene” gli dico. Lui si sdraia sul letto, col braccio destro prova a darsi una spinta per spostarsi e farmi posto. Io però lo blocco subito, non ce la faccio a restare qui, devo assolutamente allontanarmi dall’infermeria.
Decido di inginocchiarmi e di poggiarmi sul letto quel tanto che basta per avvicinare il mio viso al suo. Voglio essere sincera con lui, non inventerò una storiella per andarmene, una a cui lui comunque non crederebbe. “Ma io non ce la faccio a rimanere qui” dico, molto vicina alle sue labbra. A Daryl basta uno sguardo per capire che non mi sento assolutamente a mio agio qui dentro e, quando fa per alzarsi, la mia mano afferra subito il suo fianco per farlo stare fermo.
“Tu resta qui. Io ho assolutamente bisogno di una doccia e non appena avrò riposato un pochino, tornerò qui da te, d’accordo?” gli dico dolcemente.
“D’accordo” sussurra. Non appena riesco a trovare la forza di alzarmi di nuovo, mi chino su di lui e gli do un piccolo bacio sulla punta del naso. Mentre sento ancora i suoi occhi su di me, mi avvio verso la porta, poi esco dall’infermeria e mi dirigo verso casa.
La luce del sole comincia a spuntare all’orizzonte dando vita ad un nuovo giorno. Un giorno diverso, il giorno della verità.

 
                                                                               *****
 

Questa è una delle sensazioni più brutte che una persona possa provare.
Aspettare senza avere certezze e non poter fare nulla è straziante, mi sta mandando lentamente fuori di testa.
Cammino avanti e indietro nella stanza dove mio padre è incosciente, ma non essendo questa molto grande, dopo aver fatto qualche passo sono costretto a sedermi di nuovo su questa maledetta poltrona che sto cominciando ad odiare, per poi rialzarmi qualche minuto dopo.
Michonne è stata accanto a lui per tutto il tempo, da quando Carol l’ha riportato a casa, e poco fa ho insistito perché andasse a rinfrescarsi e a riposare. Ha fatto un po’ di resistenza inizialmente, ma poi sono riuscito a convincerla.
In realtà anche io dovrei riposarmi, ma proprio non ci riesco.
Ho provato a dormire un po’, ma il pensiero di mio padre bloccato in questo letto, privo di sensi e con una grave ferita alla testa, non mi ha fatto chiudere occhio. Quindi sono venuto qui, a fare… niente. Non faccio niente, se non camminare per la stanza o stare seduto e guardare verso il letto ogni tanto, in cerca di un movimento o di un qualsiasi segnale che mi faccia capire che lui è vivo, reattivo e sta bene.
Questo però non accade.

Mio padre si è trovato nella stessa situazione in cui ora mi trovo io per ben due volte, a causa mia. Le mie mani vanno automaticamente a toccare il fianco destro, dove attraverso il tessuto leggero della maglietta posso sentire lo spessore della cicatrice causata da un colpo di fucile mentre guardavo un cervo, nei boschi vicino casa di Hershel, anni fa. In quell’occasione persi spesso i sensi, me lo ricordo, ma non ci misi molto a rimettermi.
Quando invece, durante l’invasione di Alexandria da parte di un’orda di vaganti, Ron sparò il colpo che mi face perdere l’occhio, rimasi senza sensi per molti giorni e solo adesso posso davvero capire quello che mio padre poteva provare in quei momenti. Solo adesso mi rendo davvero conto di quanto la mia vita potrebbe cambiare se mio padre morisse qui, in questo letto. Solo adesso mi rendo davvero conto di quanto mi mancherebbero tutti i momenti che passiamo insieme…
La mia vita cambierebbe radicalmente così come quella di Michonne. Lei è sempre, sempre accanto a mio padre, appoggia le sue scelte e lo aiuta in qualsiasi situazione. Ogni tanto discutono, soprattutto in situazioni non facili, ma è normale, succedeva anche con mia madre. Il rapporto che lui e Michonne hanno, però, è diverso da quello che mio padre aveva con mia madre, totalmente. Ma, col senno di poi, posso affermare che lui era destinato a finire insieme a Michonne, lo è sempre stato.
Il discorso, invece, sarebbe diverso per Judith. Lei sta crescendo con le cure di tutta la nostra grande famiglia e, se nostro padre non dovesse farcela, lei non risentirebbe della sua mancanza. È ancora troppo piccola per comprendere come funziona realmente il mondo.

No, non ce la faccio. Sento il bisogno di alzarmi di nuovo e di camminare, come se questo mi aiutasse a non pensare. Provo ad affacciarmi alla piccola finestra, aperta per far entrare un po’ d’aria in questa stanza così piccola e satura di odori tipici di un ospedale, alcool in primis. Odio l’odore dell’alcool.
Fuori è nuvoloso, ma il caldo che ci sta opprimendo in questi giorni non accenna a diminuire.
In giro per Alexandria non c’è nessuno. So che per oggi è stata indetta una giornata di riposo per tutti, ma probabilmente è la paura di ciò che potrebbe accadere che ha spinto le persone a prendersi un giorno di calma. La morte di mio padre graverebbe su di me, su Michonne e su tutta la nostra famiglia, ma sarebbe un duro colpo anche per tutti gli abitanti di Alexandria. La perdita del loro leader porterebbe al caos, di sicuro.
In realtà, non voglio nemmeno pensare a cosa potrebbe succedere in quel caso perché mio padre si risveglierà, lo so, ma in questo momento ha solo bisogno di un momento di stallo.
Mentre mi rigiro a guardarlo, ho come la sensazione di vivere un dejà-vu. Io in piedi al capezzale di mio padre, svenuto e ferito gravemente. Questa volta però non gli urlerò contro tutta la rabbia né la paura che sto provando. So che lui ha davvero bisogno di questa pausa dal mondo, lo capisco, quindi faccio un cenno d’assenso con la testa per fargli capire che per me va bene, che non ce l’ho con lui per nessun motivo in particolare. Improvvisamente però, mi ricordo che lui non può vedermi, quindi l’unica cosa che posso fare è parlargli, sperando che possa sentirmi.
“Va bene, papà. D’accordo. Solo… svegliati. Ok?”.
 

                                                                                 *****
 

Mi sono appena risvegliata da un sonno profondo e per niente riposante. Anzi, mi sento quasi più stanca di prima, per quanto sia possibile. Non appena sono tornata a casa, stamattina, mi sono sdraiata per qualche secondo sul letto, poi non ricordo più niente. Ero così stanca che sono crollata a dormire immediatamente, con le gambe a penzoloni fuori dal bordo.
Il collo mi fa ancora male, ma è un dolore un po’ più leggero rispetto a quello che la ferita mi provocava stamattina.
Mi alzo e guardo fuori dalla finestra, ma non c’è anima viva. L’unica cosa che noto è che è quasi sera. Quanto ho dormito? Devo sbrigarmi a farmi una doccia e andare di nuovo in infermeria, sperando che la situazione lì dentro sia migliorata.


La porta dell’infermeria è aperta. Non so se prendere questa cosa come un cattivo o un buon segno. Entro e trovo Carson che sta sistemando alcune bende e medicazioni, probabilmente le sta preparando per Rick. È di spalle, ma deve avermi sentita entrare perché si gira quasi subito.
“Ehi Carol! Se ti stai chiedendo perché la porta sia aperta, la risposta è che sono appena tornato. Ero a visitare la signora Miller. Come va la ferita?” mi chiede gentilmente.
“Meglio. Va un po’ meglio. Rick?” chiedo velocemente.
“È ancora tra noi. Stavo giusto preparando il necessario per visitarlo e cambiargli le bende”.
“Bene… e Daryl? L’ho lasciato dormire in una delle stanze. Sai se è ancora lì?”.
“Credo di si, non avendolo visto in giro, ma in realtà ho avuto parecchie cose da fare oggi quindi non ne sono certo”.
“Non preoccuparti, andrò a controllare di persona” gli dico, mentre mi avvio verso la porta chiusa della stanza in cui Daryl è voluto rimanere a dormire stamattina.
Busso leggermente, ma non ricevendo risposta comincio ad aprirla, piano.
La stanza è vuota, Daryl non c’è.
Non mi faccio prendere dal panico perché posso benissimo immaginare dove si trova. Mi avvio verso la stanza di Rick, sicura di trovarci dentro anche Daryl. So bene che è estremamente preoccupato per lui e che vuole tenere sotto controllo la situazione da vicino, uno dei motivi per cui è voluto rimanere a riposare qui.
Mi avvicino alla porta socchiusa e sento il rumore di voci che parlano, bassissime. Faccio il mio ingresso nella stanza e la prima persona che vedo è Carl, addormentato sulla poltrona nell’angolo.   Daryl, appoggiato al muro opposto, parla con Michonne, che è seduta in fondo al letto di Rick. Entrambi si girano verso la porta vedendomi entrare, contemporaneamente sussurrando un “Ehi”.
“Ehi” rispondo al loro saluto, appannando leggermente la porta per poi incrociare subito lo sguardo di Daryl.
Ci basta guardarci negli occhi e subito tra noi scatta una conversazione silenziosa. Nel tempo che impiego a raggiungerlo e ad appoggiarmi al muro accanto a lui, entrambi abbiamo compreso dagli occhi dell’altro che stiamo bene, ma anche che ovviamente potremmo stare meglio.
“Come ti senti?” mi chiede Michonne, sempre sottovoce.
“Meglio, ti ringrazio. Com’è la situazione qui?” le chiedo io, mentre sposto le mie attenzioni verso Rick, immobile nel letto. La fasciatura sulla sua testa è così vistosa che a vederla è quasi disturbante.
“Non migliora e non peggiora. Non vedo l’ora che Harlan lo visiti per bene, così da darci qualche novità” dice lei, portandosi poi le mani sul viso, sospirando.
“E tu come stai? Hai provato a riposare un po’, oggi?” le chiedo preoccupata. La stanchezza che Michonne ha addosso si percepisce a miglia di distanza.
“Si. Carl ha insistito per farmi andare a casa a dormire, o almeno a provarci…” dice lei, girandosi per qualche secondo a guardare Carl, con un sorriso triste dipinto sul volto.
“Tosto come sempre, il ragazzo… sa il fatto suo” dice Daryl, con una nota di ammirazione nella voce. “Mi ha salvato la vita, là fuori”.
“Noi dovevamo salvare lui, ma alla fine è lui che ha salvato noi” dico io, guardando prima Carl e poi girandomi lentamente verso Daryl, finchè la ferita al collo irradia una fitta di dolore nel mio corpo.
Chiudo gli occhi di scatto e a quanto pare a Daryl non sfugge il dolore che provo. Porta una mano sul mio braccio e me lo stringe lievemente. Io non posso che fare un piccolo cenno d’assenso per fargli capire che va tutto bene.
Dalla porta socchiusa fanno il loro ingresso Maggie e Abraham.
“Oh bene, ci siete anche voi…” sussurra Maggie appena si guarda intorno.
Io  Daryl salutiamo Abraham con un cenno e poi, mentre i nuovi arrivati si avvicinano per parlare con Michonne, ci allontaniamo e ci avviciniamo alla finestra.
“Ti prego, dimmi che almeno hai dormito un po’…” mi dice subito lui, mettendomi una mano al lato del viso. “Le tue occhiaie fanno paura” sussurra, mentre passa delicatamente il pollice sotto il mio occhio sinistro.
“Grazie per il complimento… ” gli rispondo ridacchiando “…e si, ho dormito un po’, ma sono ancora molto stanca”.
Lui mi guarda con un misto di tristezza e comprensione e poi torna a fissare la fasciatura intorno al mio collo con una nota di dolore nello sguardo, quella nota di dolore che mi trafigge, così lascio andare il peso della testa sul palmo della sua mano e chiudo gli occhi. Non voglio essere testimone di altro dolore da parte sua, non ora.
Non molto tempo dopo l’arrivo di Maggie e Abraham nella stanza, Harlan fa il suo ingresso chiedendoci di uscire per prendersi tempo e spazio per visitare attentamente Rick, così non ci resta che svegliare Carl, uscire e aspettare. Sono passate quarantotto ore da quando siamo stati attaccati al centro residenziale, il tempo sufficiente, secondo il medico, per capire bene le condizioni di Rick e cosa potrebbe succedere nel prossimo futuro.
Attendiamo il responso della visita fuori dall’infermeria, tutti quanti in silenzio, seduti, o appoggiati al muro, o camminando avanti e indietro. Il tempo sembra non trascorrere mai, è una cosa snervante. Ogni tanto ci lanciamo sguardi preoccupati, chiedendoci se tutta questa attesa sia normale, se sia un buon segno.
Vedendoci aspettare fuori dall’infermeria, altre persone ci hanno raggiunti, chiedendoci informazioni, attendendo con noi. L’ultimo arrivato è Gabriel, che si è unito a noi mentre stava passeggiando per le strade con Judith. Guardando la piccola mentre corre e chiacchiera un po’ con tutti, non posso che provare compassione per lei. Ha perso sua madre, poi ha avuto la fortuna di trovarne una acquisita… ma non ha avuto molto tempo per rendersi conto dell’amore che il suo nuovo nucleo familiare prova per lei perché quel nucleo familiare rischia di sgretolarsi.
Il buono in tutto questo è che la sua spensieratezza e la sua allegria ci distraggono mentre siamo qui fuori in attesa. Ogni tanto chiede dov’è il suo papà, ma Carl e Michonne sono sempre pronti e preparati per distrarla e deviare il discorso, per quanto possibile.

Dopo un’ora, forse poco meno, Harlan appare sulla soglia dell’infermeria e con un umilissimo cenno di assenso e un piccolo sorriso, ci fa capire che andrà tutto bene, che Rick sta bene e che sopravvivrà.
Il sollievo che provo in questo preciso istante è una di quelle sensazioni che negli ultimi anni non ricordo di aver mai provato, se non in un paio di occasioni. Chiudo gli occhi mentre un sospiro lascia il mio corpo, e con quel sospiro scompaiono tutti i pensieri e le preoccupazioni che erano nati in me nelle ultime ore. Tutto il discorso che Maggie stamattina ha fatto a me e a Daryl non ha più valore e, sinceramente, non potrei esserne più contenta.
Intorno a me, gli altri si abbracciano, ridono e si scambiano pacche sulle spalle, si avvicinano a Carl e Judith. Michonne va verso Harlan e lo abbraccia, ringraziandolo. Lui ricambia il gesto e la invita a seguirlo nella stanza di Rick.
Non passa molto tempo prima che Carson ritorni fuori e ci raggiunga, probabilmente per spiegarci alcune cose.
“La tempestività con cui avete curato Rick sul luogo dell’incidente è stata di grande aiuto. La ferita è davvero brutta, ma grazie al vostro aiuto lui ce la farà” dice, e ovviamente è rivolto soprattutto a me, Daryl e Aaron. Quest’ultimo è proprio accanto a me e mi stringe il braccio, sorridendo. Per un attimo ci scambiamo uno sguardo sereno, rendendoci davvero conto che l’unione fa la forza, e mai come adesso potremmo esserne più consapevoli.
Maggie ci raggiunge, seguita poco dopo da Daryl, che si avvicina di più a noi con uno sguardo visibilmente più rilassato, ma non ancora tranquillo… qualcosa ancora lo sta tormentando. Fa ad Harlan una domanda quasi banale, ma a cui nessuno ancora aveva pensato.
“Tra quanto tempo si sveglierà?”.
Pone la domanda in modo che solo noi quattro in questo gruppetto possiamo sentirla e Harlan risponde con lo stesso tono di voce, assecondando la richiesta silenziosa di Daryl di non agitare gli animi di nessuno con la risposta che ci darà. “Non qui”.
Il medico poi si guarda intorno per qualche secondo e ci fa cenno di seguirlo all’interno dell’infermeria. È esattamente quello che facciamo e ad ogni passo che mi conduce dentro, il mio cuore accelera i battiti. Perché tutta questa segretezza? C’è qualcosa che non ci dice?
Aaron entra per ultimo e si chiude la porta alle spalle.
“Posso dirvi che si risveglierà e che probabilmente non avrà serie conseguenze alla ferita… ma non so dirvi quando succederà” ammette Carson, guardandoci uno ad uno.
“Ma tu sei assolutamente certo che si risveglierà?” chiede Daryl con urgenza. Il dubbio lo sta consumando pian piano.
“Si, si assolutamente. Ma io penso che sia meglio non alimentare false speranze sul fatto che questo possa avvenire in tempi brevi..” risponde Carson. “Potrebbero volerci minuti, ore oppure giorni”.
Cala un silenzio di tomba tra noi, ma con la consapevolezza che Rick si sveglierà, prima o poi, questo silenzio non è assolutamente disturbante.
“Domani torneremo ad Hilltop, vero Maggie? Quindi ho fatto vedere a Michonne quello che deve fare e come deve comportarsi non appena Rick si sveglierà. Può farlo vedere anche a voi, nel caso lei non sia presente quando accadrà” riprende a parlare il medico.
“Dov’è lei adesso?” chiede Maggie, guardandosi intorno.
“Sta cambiando la fasciatura a Rick, le ho fatto vedere come fare anche quello”. Harlan poi sorride e poco dopo riprende a parlare. “Gli avete salvato la vita, ragazzi”.
Questa frase ci fa decisamente bene, e si vede. Una risatina nervosa parte da Aaron, contagiando Maggie me e persino Daryl, che a modo suo sorride e prova a rilassarsi. Vederlo sorridere mi fa stare decisamente meglio, è così bello quando lo fa.
Harlan si unisce alla nostra risata e poi, mentre si avvicina ad un mobile per sistemare alcuni flaconi di medicinali, si rivolge di nuovo a noi. “Vorrei suggerirvi di tenere più persone sempre presenti qui, cosicché non appena Rick si sveglierà, ci sarà chi si occuperà di lui e chi invece farà il giro di Alexandria per avvisare le persone del suo risveglio”.
“E se invece dovesse risvegliarsi di notte? Non possiamo di certo svegliare tutti quanti e non è un bene che tante persone restino sveglie per rimanere qui in infermeria” dico io spontaneamente.
Il medico si guarda un po’ intorno e dopo non molto si ferma a fissare una lampada all’angolo della stanza. Si avvicina a quell’angolo, prende la lampada e la poggia su un tavolino vicino ad una delle finestre. “Se dovesse risvegliarsi di notte, chi si troverà qui accenderà questa luce e chiunque sia sveglio in giro per Alexandria, dopo il tramonto, saprà che Rick è di nuovo tra noi. Che ne pensate?”.
Noi tutti ci troviamo a fissare quella lampada e annuiamo. Io non posso fare altro che pensare a quanto sembriamo degli animali, in questo momento. Delle falene.
Siamo falene perse nel buio, in attesa della luce.
 

                                                                                *****
 

Cenere.
Davanti ai miei occhi non c’è nient’altro che cenere.
Osservo i resti di quelle che potevano essere capanne. Tra la cenere si riescono ancora a vedere alcuni dei ferri che probabilmente reggevano in piedi delle tende da campeggio. Sono sparsi sul terreno, anneriti dalle fiamme.
Diversi corpi, o almeno quelli che una volta erano dei corpi, si nascondono tra i detriti. Sono soltanto carne carbonizzata, ormai. Ne conto cinque, sei con quello che abbiamo trovato poco distante da qui, tra gli alberi.
Dietro di me sento i passi degli altri che mi stanno raggiungendo in questa radura desolata e dimenticata da Dio. Carl, Heath e i due ragazzi che abbiamo salvato pochi giorni fa. Questo, una volta, era uno dei loro accampamenti.
“Joy…” sussurra la ragazza, fermandosi a guardare i resti del corpo che si trova al limitare degli alberi. Suo fratello si avvicina a lei e le stringe leggermente il polso.
Heath si ferma a parlare con loro mentre Carl si avvicina al punto in cui mi trovo io, praticamente al centro di questo grande buco nero tra gli alberi.
“Pensi che il loro secondo accampamento sia ancora in piedi? Che troveremo qualcuno ancora vivo?” mi chiede a voce così bassa che perfino io faccio fatica a sentirlo.
“Mmm non lo so. Dipende tutto dal loro senso di sopravvivenza e dai guai in cui sono capitati. Potrebbe essere successa qualsiasi cosa all’altro accampamento, in tutto il tempo che loro due sono rimasti legati in quel sotterraneo. Ti sei mai chiesto come mai nessuno del loro gruppo sia partito per cercarli?” gli rispondo, facendo un lieve cenno verso i ragazzi.
“Già… ma forse l’hanno fatto. Come possono saperlo loro se sono rimasti chiusi lì sotto?” chiede Carl, più a se stesso che a me, poi si volta e si rivolge agli altri. “Tracy? Quante persone erano presenti nell’altro accampamento l’ultima volta che siete stati lì?”.
La ragazza alza lo sguardo verso di lui e indurisce la sua espressione, cercando di ricordare. “Sette persone”.
“Perché vi siete divisi in due gruppi? Non potevate rimanere tutti insieme in un unico accampamento? L’unione fa la forza, di questi tempi” fa Heath, rivolto ai ragazzi.
Il ragazzo, Cody, abbassa immediatamente la testa e tira un calcio nella cenere, alzando una nuvola di detriti. Tutti noi guardiamo verso di lui e poi spostiamo l’attenzione sulla sorella, per delle spiegazioni. Spiegazioni che non tardano ad arrivare.
“Nostro padre è perennemente in conflitto con il leader del nostro gruppo. Ogni volta che prova a suggerire qualche idea, viene schernito e per niente considerato. Il nostro leader è un figlio di puttana di prima categoria…”.
Il ragazzo prova a dare una gomitata alla sorella appena la sente usare quelle parole, ma lei schiva il colpo e alza la voce con lui. “Non fare così! Lo sai anche tu che ho ragione!”.
“E perché vi siete divisi?” chiedo io, continuando a guardarmi intorno, sentendo strani rumori.
“Quel genio, Harris, ha delle manie di grandezza allucinanti. Ci ha fatto dividere in due gruppi affinché popolassimo più territorio possibile e ‘facessimo vedere a più gente ostile possibile di che pasta siamo fatti’, così disse quella volta, giusto?” chiede la ragazza al fratello. Lui annuisce, la sua espressione totalmente scocciata da quel racconto.
“Nostro padre si oppose, ovviamente, dicendogli esattamente le stessa cosa che hai detto tu poco fa: ‘Non possiamo dividerci, diventeremo deboli’. Tutto inutile” dice lei, rivolta ad Heath. Poi torna a parlare a tutti noi. “Lo stronzo gli puntò addosso una pistola, minacciandolo di morte se non si fosse zittito subito. Il giorno dopo eravamo già divisi ed accampati in due zone opposte”.
I rumori che continuo a sentire si stanno avvicinando. Sono sicuramente vaganti.
“Forza! Sbrighiamoci a lasciare la zona e a riprendere il viaggio o presto saremo circondati dai vaganti!” dico a tutti, camminando tra di loro per tornare indietro tra gli alberi e ritrovare le nostre tracce che ci ricondurranno all’auto. Gli altri mi seguono, in silenzio.

A quanto pare, non impieghiamo molto tempo a raggiungere il limitare del bosco in cui, inoltrandoci, troveremo questo secondo accampamento.
Ed è proprio quello che facciamo, inoltrarci.
Inizialmente lascio che Tracy e suo fratello ci indichino la strada, li lascio camminare davanti a noi. Sento la ragazza parlare, a bassa voce. “Voglio accertarmi che nostro padre stia bene. Ricordi com’era strano quando l’abbiamo visto l’ultima volta? Qualcosa lo tormenta, a volte non sembra nemmeno più lui… voglio parlargli, ma so che sarà difficile. Mi aiuterai?”.
Il ragazzo guarda davanti a sé per tutto il tempo e poi annuisce verso la sorella. Dopo non molto, Carl lo chiama e lui si ferma per aspettare che noi lo raggiungiamo.
Io velocizzo i miei passi per arrivare al fianco della ragazza, davanti agli altri. La aiuto ad orientarsi e ogni tanto provo a farmi spiegare alcuni dettagli che possano facilitare il nostro arrivo a destinazione.
Ripenso a tutto quello che ha detto poco fa a Cody. Il padre era strano, tormentato, irriconoscibile… mi ricorda decisamente qualcuno.
È passata quasi una settimana da quello che ci è successo con i rapitori e, per un motivo o per un altro, non sono più riuscito a parlare con Carol, non seriamente. A volte, di notte, la trovavo già addormentata, altre volte ho addirittura creduto che mi stesse evitando. Lei finge bene, davvero bene che tutto sia a posto, ma so benissimo che qualcosa ancora non va e che il crollo che ha avuto in quella casa che stavamo perlustrando non era affatto casuale. L’unico modo per farmi dire cosa è successo quel giorno sarà metterla alle strette, e so già che non sarà un bel momento.
Ripenso anche a tutta la storia che la ragazzina ci ha raccontato riguardo al loro leader. Non posso non chiedermi alcune cose… alcune cose a cui lei potrebbe rispondermi, magari.
“Perché non l’avete ucciso?”.
“Cosa?” mi chiede, sorpresa, non aspettandosi di sentirmi parlare.
“Il vostro leader. Perché non l’avete ucciso?”.
Lei mi guarda di sottecchi, con un’espressione confusa. Che diavolo, ragazzina! Perché vuoi farmi scendere nei dettagli della domanda?
“Prima hai detto che quello stronzo non ascolta le opinioni di nessuno e che, facendovi dividere, vi ha praticamente condannati a morte. Allora perché non l’avete fatto fuori? Se la maggioranza di voi è contro di lui, cosa può fare una persona contro più di dieci?”.
“Non potevamo ucciderlo, né allontanarlo e presumo che non possiamo farlo ancora adesso. È lui che ci tiene in vita. Ci aiuta a cacciare, ci protegge…” mi risponde lei, la sua voce trema un po’. Cosa diavolo la spaventa così tanto?
“Mi stai dicendo che dopo tutti questi anni dall’inizio dell’epidemia, il vostro gruppo ancora non sa badare a sé stesso e vi affidate ad una sola persona? È impossibile!” e mentre lo dico rallento i miei passi, stupito.
“Te l’ho detto prima” mi spiega lei, continuando a camminare. “Ha manie di protagonismo e il suo potere è forte. Nessuno deve prevalere su di lui”.
“Proprio per questo motivo sarebbe da eliminare all’istante” dico, più a me stesso che a lei. So che tanto non mi sta ascoltando.
Gli alberi cominciano a diradarsi, probabilmente ci stiamo avvicinando e se n’è accorta anche lei.
“Noi non siamo come voi…” dice a bassa voce, e io mi fermo di botto mentre lei prosegue. Che cosa crede? Che noi siamo degli assassini? Che per noi è piacevole uccidere persone e lo facciamo a cuor leggero? Oh no, non è per niente così! E voglio assolutamente spiegarglielo e farglielo entrare bene in testa, ma mi accorgo che c’è qualcosa non va. Se siamo nei pressi dell’accampamento, perché non ci sono vedette? Perché nessuno si accorge che noi siamo qui?
Carl, Heath e Cody si avvicinano. Mentre osservo bene la zona, Carl e Heath si fermano accanto a me, l’altro ragazzo segue sua sorella verso la presunta radura.
“Troppo silenzio” dice Heath a bassa voce, impugnando meglio il fucile.
“Mmmh si” gli rispondo, cominciando a muovermi di nuovo.
E non passa molto tempo prima che delle urla rompano il silenzio. La voce di Tracy è disperata.
“NOOOOOOOOO! PAPÁÁÁÁÁÁÁÁÁ!”.
Corriamo tutti più veloci che possiamo per vedere cosa sta succedendo e appena raggiungiamo l’accampamento, lo spettacolo che si apre davanti ai nostri occhi è atroce.
I corpi di dieci persone occupano l’intera area, alcuni supini, altri capovolti. Alcuni riconoscibili, altri no. Tra le persone, o almeno resti di persone, ci sono alcuni vaganti.
Entrambi i ragazzi sono a pochi passi da noi, in lacrime. Cody è in ginocchio vicino al corpo su cui Tracy è sdraiata, il corpo di quello che presumo sia il loro vecchio. Metà del suo viso è stata divorata dai vaganti, così come la carne delle braccia.
“Non dev’essere successo da molto, i corpi hanno appena cominciato a decomporsi” dice Carl, con una freddezza nella voce che fa alzare lo sguardo sia a me che a Heath. Si sta guardando intorno, probabilmente in cerca di qualche indizio. Poi inizia a muoversi per la radura.
Heath si avvicina ai ragazzi, provando a consolarli.
“Mi dispiace, davvero. Resterete con noi, d’accordo? Non vi lasceremo da soli”.
Carl si china vicino ad uno dei corpi delle vittime dell’accampamento e con la mano lo sposta lentamente, osservando la testa. Io mi avvicino a lui, mi carico la balestra su una spalla e mi inginocchio al suo fianco.
“Guarda qua” dice, ed indica la tempia del cadavere. Attraverso il rosso scuro del sangue, riesco a vedere il foro di un proiettile. Sposto lo sguardo sulla testa di un altro corpo poco distante da noi e anche lì vedo una ferita simile. L’istinto mi fa alzare immediatamente e comincio ad innervosirmi. C’è qualcosa che non va. Comincio a muovermi per la radura per controllare ogni cadavere. Dieci in totale, tre sono vaganti.
Tutti quanti sono morti a causa di una ferita da arma da fuoco.
A pochi centimetri dalla mano di uno degli ultimi corpi che controllo, c’è una pistola. Controllo il caricatore. Vuoto.
Mi rialzo per guardarmi intorno e comincio a capire cosa potrebbe essere successo. Questa persona ha sparato a tutti, poi si è suicidata. Non c’è altra spiegazione. I vaganti morti potrebbero aver fatto irruzione nel campo durante la sparatoria attirati dal rumore, e anche loro, come le altre vittime, hanno trovato la loro fine qui.
I ragazzi sembrano essersi ripresi un po’, dopo questo duro colpo, ma in realtà non si riprenderanno mai del tutto. Heath sta passando loro dell’acqua, Carl sta provando a calmare Tracy e, appena ci riesce, le chiede quello che anche io ho bisogno di sapere per confermare le mie teorie.
“Ehi Tracy… chi di loro era il vostro capo?”.
Lei non parla neanche, fa solo un cenno con la testa verso il corpo che si trova ai miei piedi. Come sospettavo. Ripensando a quello che proprio lei ci ha detto stamattina riguardo alle manie di grandezza di questo figlio di puttana, tutto torna. Qualcosa deve essere sfuggito al suo controllo e la situazione è degenerata.
Heath viene verso di me, poi guarda i ragazzi. “Dovremmo seppellire almeno il padre, che ne pensi?” mi chiede.
“Si, penso che anche loro siano d’accordo. Aiutami, per favore”.  

Abbiamo trovato un posto tranquillo tra due alberi che formano un arco, incontrandosi. Abbiamo creato una croce utilizzando due piccoli rami e una corda. Tracy ha trovato dei fiori nei pressi della radura e Carl adesso si avvicina ai due ragazzi con uno pezzetto di legno, dopo aver rovistato nelle tende dell’ormai ex accampamento.
“Come si chiamava vostro padre? Inciderò il suo nome sulla tavola e lo fisseremo alla croce”.
I ragazzi, che ora si trovano entrambi in ginocchio nei pressi della tomba, si guardano e ovviamente poi è Tracy a parlare. “Scrivi soltanto Emmett H”.
Carl scrive quello che gli è stato detto e fissa il nome alla croce.
Cody si alza, aiutando la sorella a fare lo stesso, e nel frattempo fissa in lontananza, con quello che definirei odio ardente, il corpo dell’uomo che una volta era il loro leader. Poi si avvicina a me, continuando a guardare nella stessa direzione. Appena mi guarda, mi fa cenno con la testa verso la direzione dalla quale siamo arrivati. Vuole ritornare indietro, vuole andarsene da qui.
Io lo assecondo facendo un breve cenno d’assenso e lui comincia ad incamminarsi, seguito da Heath. Capisco il dolore del ragazzo, ha appena scoperto che suo padre è stato ammazzato dalla persona a cui, per quanto ne so, ha affidato completamente la sua sicurezza e la sua vita. Ma in quello sguardo non c’era solo odio, c’erano ribrezzo e dolore, c’era rabbia. C’era cattiveria.
Ci avviamo di nuovo tra gli alberi per tornare indietro e poco distanti da me camminano Carl e Tracy.
“Stai bene?” chiedo alla ragazza, che cammina a testa bassa seguendo solo le nostre ombre con la coda dell’occhio.
“Mmh mmh” risponde lei, ma ovviamente non sta dicendo la verità e questo è chiaro a tutti.
Faccio passare ancora qualche minuto prima di provare a fare chiarezza su un dubbio che mi assale da quando ci siamo allontanati dalla tomba.
“Ehi… capiamo benissimo come vi sentiate in questo momento, davvero… ma tuo fratello… non… non lo so… ” non faccio altro che bloccarmi durante la frase perché non riesco a trovare una cazzo di spiegazione allo sguardo del ragazzo.
“Non potremo mai accettare quello che è successo…” dice lei a bassa voce.
Io e Carl la guardiamo. “Certo che no, non sarebbe naturale. Sarebbe difficile per chiunque accettare una cosa del genere. Le persone si fidavano di Harris e invece lui ha ucciso tutti quanti…” dice Carl, quasi con ovvietà, ma rispettando comunque il suo dolore. “Qualunque sia stato il motivo scatenante, non ci sono scusanti per lui”.
Ma poi Tracy torna a parlare ed entrambi non possiamo fare altro che bloccarci di colpo.
“Non ci sono scusanti a prescindere perché nostro padre… lui era suo fratello”.
Emmett H.
Emmett Harris.

Ecco quali sono gli effetti di questo mondo. Può portare una persona ad ucciderne altre sei, compreso suo fratello. Può portare due ragazzini a scoprire che il loro padre è stato ucciso dal loro zio. Qualunque sia la situazione, nei momenti in cui il mondo ti sputa in faccia e ti prende a calci nel culo, una persona dovrebbe fare del suo meglio per coalizzarsi con le persone che ha intorno e costruire una famiglia per risputare in faccia al mondo e riempirlo a sua volta di calci nel culo.
Nel nostro caso, diventare una famiglia ci ha salvati.
Col tempo, faremo in modo che Tracy e Cody si sentano parte di qualcosa di più grande, qualcosa per cui vale la pena vivere e lottare, qualcosa per cui a volte si è costretti ad uccidere. Una famiglia.
E adesso torniamo proprio da quella famiglia.
Torno con la speranza che Rick si sia risvegliato.
Torno con la speranza di poter parlare con Carol e vederla stare di nuovo bene per poter prendere di nuovo il mondo a calci nel culo.


 

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