Sacrifice & Life

di Avenal Alec
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Eccomi qui, nuovamente a seccarvi con una nuova Long. Devo essere sincera, era molto indecisa se pubblicarla o meno, diciamo che sapere della messa in onda il 21 gennaio della 3° stagione ha decisamente destabilizzato i miei progetti. Questa Long doveva accompagnarvi fino all' inizio della nuova stagione e, invece, si andrà a sovrapporre. Che dire...spero vi piacerà. Alcune notarelle subito: sebbene sia Bellarke inside, questa Long avrà un carattere diverso e sarà più generale inserendo anche altri personaggi e le loro storie. Mi sono "divertita" a vedere cosa sarebbe successo ai nostri due eroi con l'arrivo della primavera. Mi scuso se questi primi capitolo saranno un po' introduttivi, diciamo che dovevo tirare le fila delle tante situazioni rimaste in sospeso dopo il termine della 2x16 e dopo il finale della long che ho pubblicato quest'estate. :)...ma, magari, se avrete un po' di pazienza, spero che questa storia con l'andare del tempo vi appassionerà. Ok, ho finito la mia solita introduzione...come al solito spero in un vostro commento e un vostro giudizio. Buona lettura a tutte!!




SACRIFICE &LIFE
 
 
“Dalla Chesapeake Bay sarebbe sorta la nazione che avrebbe posto fine all’impero Powhatan” così profetizzarono i sacerdoti della confederazione Powhatan.
Poco prima del 1607 la confederazione Powhatan spazzo via la tribù Chesapian. Non ci furono sopravvissuti secondo gli annali eppure, la storia spesso mente…

 
(pezzo liberamente ispirato ad una nota presente su “L’histoire di Travaile in Virginia Britannica” di William Strachey)
 

PROLOGO
 
Negli stessi giorni in cui si disputava il torneo al campo Jaha, il resto del mondo a loro conosciuto faceva i suoi piani. L’inverno presto sarebbe terminato e, con la primavera, la Terra avrebbe definitivamente cambiato volto.
Presto una nuova Era avrebbe avuto il suo inizio.
 
 
7 febbraio Kelleys Island
 
Erano una donna e due uomini.
I due maschi sedevano comodamente su poltrone Luigi XVI originali, sorseggiando rilassati in bicchieri tulipano in cristallo di Baccarat del cognac invecchiato oltre 100 anni. La donna dai lunghi capelli corvini era accanto ad una delle immense vetrate che davano sul giardino del retro della casa bianca in stile coloniale. Le finestre erano chiuse, una coltre bianca di neve racchiudeva ogni cosa in un ovattato silenzio.
“Finalmente il momento è giunto” disse la donna bruna mentre il suo sguardo non si staccava dal panorama fuori dalla casa.
“Sarà in primavera” replicò l’uomo seduto su una delle poltroncine. Il viso non era più segnato dall’esperienza del deserto e dalla fame. Le ferite inferte dalla Terra erano solo un vago ricordo. Indossava un cardigan grigio fumo, una camicia bianca perfettamente inamidata e un paio di pantaloni neri d’alta sartoria. Un vezzo che cominciava ad amare.
“Si, per la primavera tutto sarà pronto” rispose l’altro uomo, non indossava più alcuna divisa, ma il taglio corto di capelli e il portamento lasciavano trasparire il suo passato militare.
“Saremo pronti per l’Esodo quando il segnale si attiverà” replicò l’uomo in cardigan poi, volse lo sguardo verso la quarta figura, discosta dagli altri, uno zaino ai suoi piedi. Era vestita di stracci, erano gli stessi che aveva indosso la prima volta che era approdato sull’isola.
“Quando partirai?” chiese “Il tuo compito è fondamentale, sarai i nostri occhi e le nostre orecchie.”
Il ragazzo annuì, nello sguardo l’espressione folle di chi crede di seguire un nuovo Messia “partirò ora e domani sarò già in viaggio verso il territorio dei clan.”
“il Kraken?” chiese il militare
Il ragazzo rabbrividì al ricordo del mostro marino che avevano incrociato all’inizio della loro traversata, lo odiava ma era uno dei protettori di quel luogo.
“È stato sfamato, il mio sarà un viaggio senza imprevisti e l’inverno non mi spaventa.”
L’uomo in cardigan si alzò dalla sua poltrona e si avvicinò al ragazzo. Appoggiò una mano sulla sua spalla.
“Che la tua missione abbia successo.“ l’uomo scrutò negli occhi il ragazzo cercando qualche incertezza, qualche sintomo di un possibile tradimento ma la determinazione che vide nei suoi occhi lo rassicurò.
“May we meet again John Murphy.” concluse quindi l’uomo.
“May we meet again Thelonious Jaha” replicò il ragazzo annuendo e voltandosi per cominciare la sua missione.
Jaha rimase alcuni istanti a osservare il ragazzo che percorreva il grande atrio che portava all’uscita principale della casa.
“Ti fidi di lui?”
“No Emerson, non mi fido di chi ha già tradito, ma è meglio che sia là fuori senza conoscere l’intero piano piuttosto che saperlo qui a seguirci come un’ombra.”
L’uomo annuì poi si alzò in piedi, un cenno di saluto alla donna bruna che, per tutto quel tempo, era rimasta immobile accanto alla finestra. La luce che filtrava rendeva più evidente l’incorporeità dell’ologramma.
Passò accanto a Jaha. “Domani mattina partiremo per New Heaven, un lungo lavoro ci attende” e uscì.
“Finalmente il momento è giunto” disse A.L.I.E.
Jaha scosse le spalle infastidito. In momenti come quello, in cui l’ologramma continuava a ripetere frasi preconfezionate dal vago sapore drammatico, l’uomo si rendeva conto della follia di tutto quello che stavano vivendo e preparando, dell’assurdità di farsi comandare da un computer. Era una scintilla, un istante che cacciava in fondo alla parte più nascosta dei suoi pensieri. Il resto del tempo si sentiva il Messia, l’uomo che avrebbe finalmente portato il popolo dell’Arca sulla Terra, nel luogo profetizzato, com’era stato loro promesso. Perché loro erano l’unico popolo che sarebbe dovuto sopravvivere, l’unica vera civiltà in grado di riportare la Terra ai fasti di un tempo, all’impero che erano prima che tutto svanisse.
Lasciò la stanza senza rispondere all’intelligenza artificiale, la bruna si sarebbe smaterializzata appena lui se ne fosse andato. Sarebbe tornata solo una serie di stringhe all’intero della memoria di un computer, nulla di più.
 
Polis
 
Fiaccole accese illuminavano la stanza. Ai lati della locale 12 seggi in legno, 12 come i clan dei territori del nord. Ogni scranno in quel momento era occupato da un comandante, il capo del proprio clan, dietro di essi due guardie del corpo, una per ogni lato. Erano disarmati ma questo non bastava per cancellare la ferocia nel loro sguardo, la minaccia nelle loro posture.
Al centro della stanza una figura era inginocchiata, lo sguardo rivolto a terra, una posizione da supplice eppure, anche per un estraneo, era evidente l’alterigia che si sprigionava da quel corpo.
Di fronte a lei, su un palco di legno, 7 posti erano occupati dal consiglio dei venerabili. Uomini e donne che avevano scelto di abbandonare i vessilli delle loro tribù per diventare la memoria storica del popolo del nord. Discosti dalle questioni ordinarie erano interpellati quando le diatribe fra i clan o problemi più grandi potevano mettere in pericolo l’equilibrio dell’intero popolo.
“Comandante Lexa ti abbiamo dato un enorme potere quando ti abbiamo permesso di unire tutti i clan sotto un unico vessillo per combattere gli uomini della montagna e gli sky people. Molti di noi ora sono scontenti delle scelte che tu hai preso. Hai molto da spiegare” disse l’uomo al centro del palco.
Era vecchio, molto vecchio soprattutto per un mondo come il loro. Appariva fragile e piccolo su quell’enorme scranno eppure, la sua voce, era forte e chiara. “Ti abbia dato quasi tutto l’autunno e l’inverno per riflettere. Ora è giunto il momento che tu chiarisca le tue ragioni” concluse.
Il silenzio pervadeva ogni angolo della stanza, la giovane donna al centro prese un respiro poi alzò lo sguardo e puntò i suoi occhi verdi sull’uomo che aveva parlato. Erano freddi come il ghiaccio, duri come la pietra, non c’era l’ombra di paura nel suo sguardo.
“Venerabile consiglio, mi dolgo al pensiero che le mie azioni non abbiano ottenuto il vostro consenso. Gli uomini delle montagne non saranno più un problema, ho salvato la nostra gente e il numero di vittime è stato trascurabile.”
La giovane donna sentiva in sottofondo un mormorio di dissenso. Sapeva cosa ognuno di loro pensava, lo percepiva in quei mormorii. Era conscia delle scelte che aveva fatto. Avrebbe fatto di nuovo le stesse scelte, solo una cosa avrebbe cambiato. Strinse le labbra a quel pensiero.
Una voce fra i capi si sollevò fra le altre, riconosceva quell’accento e la sua padrona. Una donna che odiava per ciò che le aveva portato via.
“Le azioni che hai compiuto ci hanno disonorato.” Disse la comandante del clan dei ghiacci.
“Eppure tu sei qua a parlare Echo” rispose sferzante Lexa.
“Non per quello che tu hai fatto, gli Sky people ci hanno liberato. Avrei preferito morire in combattimento contro gli uomini della montagna piuttosto che subire l’onta del tradimento” Ribatté quindi la donna che era stata liberata a Mount Weather da Bellamy.
“Ho fatto delle scelte per il mio popolo, per la loro salvezza. Ho ottenuto il risultato prefissato” rispose testarda Lexa
“No!” intervenne Caradoc capo del popolo dei fiumi “Avresti ottenuto la salvezza per tutto il popolo del nord se avessi sterminato non solo gli uomini delle montagne ma anche gli sky people. È stato accettabile l’azzardo di fare un patto con gli uomini del monte e credere che la donna bionda avrebbe fatto il lavoro sporco per te. Non è ammissibile che essi siano ancora vivi e in procinto di stringere un’alleanza con il popolo delle barche. A questo bisogna porre rimedio”
Lexa strinse le labbra, sapeva che ciò che gli veniva imputato non era aver tradito un alleato ma averlo poi lasciato vivere. Lei sapeva che la sua era stata una debolezza.
“Allora attaccheremo a primavera, tutte le tribù del popolo del nord unite. Il campo Jaha diventerà una tomba per tutti quelli che si metteranno contro i popoli del nord. Il popolo delle barche ci temerà, la sua leggenda morirà e noi domineremo su questi luoghi.”
Proclamò decisa il comandante alzandosi in piedi e guardando negli occhi tutti gli uomini riuniti. In molti di loro leggeva la sua stessa decisione in altri, come Echo, vedeva solo disgusto.
Uscì dalla stanza senza voltarsi dietro. Il consiglio dei venerabili aveva un certo potere ma era stata lei a prendere in carico il Garatogh diventando così il nuovo Comandante dei popoli del Nord dopo oltre vent’anni.
Echo osservò la donna uscire. Il suo popolo non aveva mai voluto un’alleanza con i Tree People, era il momento di fare una scelta diversa per il suo clan. Gli Sky people erano guerrieri onorevoli e una stupida ragazzetta in amore come Lexa non avrebbe fatto morire altra gente per i suoi ottusi errori. Il suo sguardo intercettò quello di Indra, il vice di Lexa. Le fece  un cenno con il capo al quale il vice rispose prima di uscire. Dopo il comportamento ignobile durante quella notte a Mount Weather, sapeva che molti non amavano il nuovo comandante e non condividevano le sue idee; Quella sarebbe stata la loro forza e forse, entro breve, la pace sarebbe realmente regnata nei loro territori. Erano troppi pochi per continuare a morire come mosche. 


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NOTA: Kellyes Island esiste veramente...mi sono divertita a dare una posizione geografica a molti dei luoghi e...la casa dove Jaha incontra A.L.I.E. a differenza di quello che pensate, si trova sui grandi laghi. Molto a est rispetto a Mount Weather e Camp Jaha. New Heaven è il nome che ho dato al Raven Rock Mountain Complex che si trovo non molto distante da Washington e Mount Weather. Insomma ho voluto un po' sbizzarirmi e trovare dei luoghi interessanti e diversi. Anche il pezzo della profezia esiste veramente ma, ovviamente...scoprirete il resto più avanti ;)

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1
 
 
10 Marzo  Campo Jaha
 
Clarke camminava lungo i corridoi della navetta del campo Jaha senza guardarsi attorno, intenta, per l’ennesima volta, a controllare la lista per il viaggio che avrebbe dovuto intraprendere, poi, il suo sguardo fu attratto dalla luce esterna: si trovava vicino alle vetrate che davano sul retro del campo, a distanza si vedeva la collina su cui era morto Finn ormai più di sei mesi prima.
Sentì l’ormai noto dolore al petto, una sensazione con cui aveva imparato a convivere. Un momento di tristezza, come sempre accadeva, ricordando le persone scomparse ma, ora, aveva capito come andare avanti senza farsi travolgere da quelle emozioni.
Lasciò vagare lo sguardo sul declivio, così diverso rispetto a quella notte da incubo. La primavera stava arrivando, lo si percepiva dalle giornate più calde, più lunghe, dalla profumo nell’aria, dai germogli  di un verde intenso che sembravano apparire, sempre più numerosi, durante la notte.
Tutti i ragazzi e molti degli abitanti del campo passavano gran parte delle loro giornate all’esterno, a volte anche solo per raccogliere mazzi di crocus bianchi e viola che punteggiavano le radure attorno al campo. Più spesso per seguire Laudria che stava insegnando loro a riconoscere e raccogliere le prime erbe primaverili.
Il luogo inospitale che li aveva accolti al loro arrivo stava diventando un posto ricco di sorprese e possibilità.
Clarke non vedeva l’ora di poter vivere la loro prima primavera sulla terra. Chissà come sarebbe stato!
Sorrise, immaginò il momento in cui avrebbe fatto dei pic nic in qualche radura nascosta, sola con Bellamy.
Loro due e nient’altro che le piante in fiore attorno.
Si lasciò cullare da quel pensiero e, come se fosse stato chiamato da quei sogni, sentì una presenza dietro di sé.
Si sentì avvolgere dalle sue braccia.
Il suo mento, come era solito fare, appoggiarsi sulla sua testa.
“Buongiorno principessa!” un sussurro prima di stringerla più forte contro il suo petto.
Clarke sorrise, non aveva bisogno di voltarsi per sapere chi era.
“Ben svegliato” rispose lasciando che la sua schiena aderisse al torace di Bellamy.
“Avrei preferito svegliarmi con un tuo bacio” mormorò lui poggiando poi le sue labbra sul suo capo.
Clarke si lasciò cullare, il cuore colmo di felicità, un sereno appagamento che mai avrebbe pensato di provare. Era talmente forte la gioia che provava ogni giorno che spesso le capitava di dover combattere con il senso di panico. Con il terrore che qualcosa avrebbe potuto rovinare tutto. Era atterrita all’idea di poterlo perdere; In quei momenti aveva imparato a respirare, concentrarsi e rilassarsi.
Pensava a Bellamy, alle sue carezze, le sue battute, al modo in cui la guardava e faceva l’amore con lei e sentiva il corpo scaldarsi e trovare nuovamente la quiete. Aveva imparato a non farsi sommergere dalle paure e a godersi gli attimi.
Si mosse fra le braccia di Bellamy, un tentativo di sentirlo ancora più vicino.
“Mi stai sfidando a riportarti in camera Principessa?”
Clarke si lasciò andare ad un mugolio di assenso poi si girò verso di lui, circondò con le sue braccia il collo del ragazzo. Si sollevò in punta di piedi e lo baciò, incurante della gente che passava lungo il corridoio. Ormai nessuna faceva caso a loro.
Appena tornati dalla loro “vacanza” al rifugio, tutti al campo sapevano. Quando li avevano visti c’erano state battute, risolini. Per tutti al campo loro erano tornati dalla spedizione come una coppia e, da un mese, vivevano come tale. Non c’era stato alcun impaccio e, sua madre più di tutti, sembrava felice per lei.
Quando si staccarono Bellamy le sussurrò fra le labbra “È un sì?” Clarke leggeva il desiderio nei suoi occhi, lo stesso dei suoi.
“Maam…” mormorò Clarke strusciandosi contro di lui “sarebbe bello, ma non posso, ci sono tante cose da fare prima della mia partenza di domani”
Bellamy sospirò. Ovviamente Clarke aveva ragione.
Prese un bel respiro nel vano tentativo di spegnere l’ardore che si era impossessato di lui, poi le sorrise.
“Ok Principessa, andiamo a fare colazione” disse dandole un bacio sul naso.
Si staccò da lei, le prese la mano e s’ incamminarono verso l’area mensa.
“Hai parlato con tua madre di quella cosa?” .
Clarke si volse verso di lui  “Ti terrorizza proprio eh?” replicò sorridendo.
“Diciamo che non mi sento molto sicuro e questo non sarebbe un buon momento” rispose Bellamy.
Era chiaro che fosse preoccupato, lo si notava dalla mascella rigida, dal sguardo fisso davanti a sè. Clarke lo amava per questo.
“Allora.. ho parlato con mia madre, ho fatto persino le analisi e ti confermo, quello che ti avevo già detto: ci vorrà almeno un anno prima che le donne e gli uomini dell’arca possano essere fertili, sebbene gli innesti sottocutanei per il controllo ormonale qui sulla Terra non funzionino più, il cambio di vita ha creato una serie di scompensi e ci vorrà tempo prima che i nostri corpi si adeguino. Soddisfatto ora?” chiese sorridendo.
Lo sguardo di Bellamy si adombrò un istante.
Clarke capì immediatamente “Bellamy, ti conosco, so che nel tuo cuore c’è spazio per una famiglia e amo questo lato di te, non stai rinnegando nulla di quello che c’è fra noi. Quindi stai sereno” terminò di Clarke accostandosi a lui per baciarlo.
 
Bellamy la strinse forte a se prima di lasciarla andare. Consapevole una volta di più di quanto Clarke lo conoscesse. Quando era sull’Arca e poi sulla Terra non aveva mai realmente pensato ad una famiglia sua, c’era Octavia a cui pensare prima, i 100 dopo, ma ora, accanto a Clarke, aveva sentito questo strano impulso. Passare ogni notte con lei, amarsi come si amavano loro lo aveva spinto a riflettere, a sognare il loro futuro insieme. Era stato in quell’istante che aveva provato un’improvvisa paura. Se Clarke fosse rimasta incinta, cosa sarebbe successo, come avrebbe potuto proteggerli entrambi?. Il pensiero lo aveva tormentato per giorni fino a quando la ragazza non lo aveva affrontato di petto. Parlare con lei lo aveva rasserenato, avevano entrambi capito, una volta di più, quando profondo fosse il loro amore e l’ultimo chiarimento aveva fatto ormai svanire qualunque dubbio.
 
“Finalmente ti vedo sorridere” disse Clarke interrompendo le sue riflessioni.
Bellamy annuì, una serena spensieratezza illuminava il suo viso.
“Come farò senza di te per le prossime settimane” chiese quindi.
Clarke sospirò. Nemmeno lei voleva partire ma era una cosa che doveva fare, faceva parte del patto con il clan del popolo delle barche. Il giorno dopo sarebbe partita con altri membri del campo alla volta del villaggio di Miramar dove la Matriarca Luna la stava aspettando. Una mera formalità secondo Laudria. Un colloquio che avrebbe sancito definitivamente l’alleanza.
Bellamy non sarebbe partito: Abby aveva bisogno di supporto ma sentiva il cuore pesante all’idea di doverlo lasciare, anche solo per poche settimane. Certo la loro separazione era poca cosa rispetto a tutto quello che avevano dovuto passare l’anno precedente, si sarebbero potuti sentire alla radio eppure l’ansia non l’abbandonava mai. Lo aveva appena trovato e non voleva ancora lasciarlo.
Di getto chiese “Ci sentiremo ogni notte vero?”
“Ogni notte aspetterò la tua chiamata Principessa” rispose Bellamy poi la prese fra le braccia e la baciò di nuovo.
Entrambi, da quando avevano aperto i loro cuori non potevano fare a meno di cercarsi di continuo come se, solo insieme, potessero essere realmente se stessi.
 
Miramar
 
Nelle stesse ore a sud una figura osservava le onde infrangersi sulla spiaggia, gli occhi persi nell’immensità del mare, sentiva l’odore salmastro, i profumi della terra che si risvegliava: il cambiamento che la leggenda aveva narrato e quasi sterminato la sua gente era alle porte. Presto la ragazza dai capelli biondi sarebbe arrivata e il tempo avrebbe ricominciato a scorrere. La sua stirpe finalmente avrebbe trovato la pace, il destino si sarebbe compiuto e una nuova Era sarebbe cominciata. 

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Nota: Lo ammetto questo capitolo è nato un po' come scommessa con un amico. Guardando le prime puntate della serie ci siamo trovati a "discutere" sulla spensierata allegria dei ragazzi scesi sulla terra, senza mai pensare alle conseguenze che tale spensieratezza potesse portare...ecco Anto!!...spiegato il mistero...come vedi per un po' non avranno problemi aaah.

Tornando a cosa più serie: Come per la precedente long cercherò di aggiornare con continuità e credo tornerò alle due pubblicazioni alla settimana sempre il Martedì e il Venerdì salvo imprevisti :).

Grazie ancora a tutti ...alla prossima!!

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2
 
11 Marzo Campo Jaha
 
L’attività ferveva nello spiazzo di fronte alla navetta, il gruppo era ormai pronto per partire, gli ultimi saluti e poi la spedizione sarebbe stata pronta per raggiungere Miramar. Quella che secondo tutti sarebbe diventata la loro nuova casa.
Jasper si accigliò al pensiero, ingoiò per l’ennesima volta l’acre sapore della rabbia. Non sarebbe andato con loro, né ora, quando Caris era venuta a cercarlo per chiedergli se sarebbe partito, né mai.
Miramar non sarebbe mai potuta essere la sua nuova casa, loro non erano più la sua famiglia.
“Sicuro di voler partire così?” chiese Monty accanto a lui.
Jasper aveva cercato di partire senza avvertire nessuno, ma Monty lo conosceva troppo bene. Aveva visto il cambiamento che era avvenuto in lui dopo Mount Weather.
Dopo Maya.
Una stretta al petto al ricordo del viso, del sorriso e del suo corpo morente fra le sue braccia.
“Si, partirò! Questo posto non fa più per me”.
Il ragazzo asiatico vicino a lui osservava il movimento al campo.
Entrambi facevano finta di rivolgere tutta la loro attenzione sulla gente pronta a partire.
Conosci che per loro quel momento era un addio.
“Dove andrai?” chiese spezzando il silenzio Monty.
Jasper scrollò le spalle. “Non so. L’importante è andarsene via da qui”
“Là fuori è pericoloso”
“Mai quanto quello che abbiamo già subito quest’autunno” ribatté indifferente Jasper.
Monty non ne poté più e si girò verso Jasper, parandosi di fronte a lui.
“Perché lo fai? non riesco proprio a capirlo”
“Non potrai mai capire cosa significhi vedere l’amore della tua vita morire davanti ai tuoi occhi e sapere che sarebbero bastati pochi istanti e nulla sarebbe successo. Non sai cosa significhi vedere ogni giorno il volto delle persone che lo hanno ucciso, vederli felici quando tu hai perso ogni cosa. L’inverno mi ha bloccato al campo Jaha ma, ora che la primavera è arrivata, nulla mi trattiene. Nemmeno tu” scrollò la testa poi mesto lo guardò negli occhi.
“Mi dispiace Monty, sento che la rabbia che provo potrebbe esplodere da un momento all’altro, potrei compiere delle azioni meschine solo per vedere la gente attorno a me ferita come lo sono io. Non sono quel tipo di persona Monty, lo sai vero?” domandò avvicinandosi a lui, cercando negli occhi del suo migliore amico una conferma.
Il ragazzo moro lo guardò, un sorriso appena accennato sulle labbra.
“Si, so chi sei veramente Jasper.”
Prese un respiro “Va ora e cerca la tua strada. Spiegherò io tutto” concluse ammiccando verso il campo Jaha.
Jasper superò la distanza che normalmente i due amici tenevano. Un’intimità che vibrò fra loro.
“Mi dispiace non essere ciò che desideri” disse prima di sfiorare le labbra di Monty con le sue.
Lo guardò intensamente “May we meet again” sussurrò poi gli volse le spalle e si incamminò verso i boschi.
Istintivamente il Monty alzò il braccio, un futile gesto per fermarlo, poi la riabbassò consapevole che nulla avrebbe potuto fermare Jasper, non la loro amicizia e tantomeno ciò che lui provava.
Chiuse gli occhi, alzò il viso verso il sole, respiro a pieni polmoni l’aria frizzante della primavera, poi scese dalla collina da cui avevano osservato il gruppo in partenza cercando di scacciare il peso che sentiva al cuore.
 
“Baderai a lei vero?” chiese Bellamy parlando a Karel poco distante mentre cingeva con un braccio le spalle di Clarke.
“Ehi guarda che so badare a me stessa!” risposte piccata Clarke spostandosi di lato ma senza allontanarsi troppo dal calore del corpo di Bellamy.
“Lo so, però..” il ragazzo moro non riuscì a terminare la frase. La stava osservando, impegnato ad imprimersi una volta di più i lineamenti della giovane nella sua mente. L’istinto di protezione che provava nei suoi confronti aveva raggiunto livelli che non pensava gli appartenessero.
Clarke sorrise, lo conosceva bene ormai “Non mi succederà niente, il viaggio sarà tranquillo e poi…” voltandosi verso il guerriero del popolo della barche  “Ci sarà lui accanto a me”.
Sapeva che Bellamy aveva bisogno di quella sicurezza. Per quanto Clarke fosse allenata e forte, non aveva le stesse capacità di Karel.
Saperlo vicino durante il viaggio faceva sentire più sicuro non solo Bell, ma anche lei.
“La proteggerò con la mia stessa vita se fosse necessario” rispose Karel osservando i due giovani.
Gli scambi fra i due innamorati lo lasciavano sempre un po’ interdetto, erano così diversi dalla prima volta che li aveva visti.
Più simili a lui all’epoca, così diversi ora.
Liberi come lui non si era mai permesso di essere.
Quella era la reale differenza fra loro, non il fatto che venissero da luoghi completamente diversi ma quel modo di reagire alle cose. Forse era quello il motivo per cui la loro matriarca aveva auspicato quell’alleanza.
Sentì Laudria accanto a se. Osservava la coppia dirigersi verso il cancelliere, un accenno di sorriso sulle sue labbra.
“Potranno insegnarci molto” sussurrò rivolto solo a lui.
“Non ne sono certo, sembrano deboli” replicò Karel perplesso.
“Sono stati fragili, potrebbero sembrare deboli ma non lo sono” rispose sibillina Laudria.
Karel stava per rispondere quando la voce del sergente Miller, il padre di Nathan, richiamò la loro attenzione sul piccolo palco allestito per l’occasione. il Cancelliere era pronta per fare un discorso, la figlia e Bellamy accanto a lei.
 
Clarke osservava la gente del campo Jaha riunita. Per tutti loro quel giorno segnava la svolta. Osservava i loro visi segnati dalle passate esperienze e leggeva nei loro occhi la speranza.
Erano in molti, secondo il censimento quasi 453 persone si erano salvate dopo il naufragio e avevano superato l’inverno. Poco superiori a coloro che, 97 anni prima, avevano creato l’Arca.
E fu proprio con quelle parole che Abby cominciò il suo discorso.
Clarke la osservava mentre parlava alla folla riunita e raccontava loro ciò che avevano dovuto passare e quali erano le loro aspettative per il futuro.
Spiegò loro che le 50 persone che sarebbero partite quel giorno non erano altro che l’avanguardia poi, tutti loro, si sarebbero spostati in luoghi più pacifici sotto la protezione del popolo della barche.
Quel giorno sarebbe stato ricordato come la vera data di un nuovo inizio e, con quelle parole, terminò il discorso.
Fra gli applausi abbracciò la figlia che avrebbe, assieme al guerriero del popolo delle barche e un piccolo contingente armato, accompagnato agronomi, biologici e costruttori verso la loro nuova casa.
 
Clarke avrebbe voluto rimanere, scegliere di partire con un gruppo armato significava indebolire le difese del campo Jaha ma non poteva essere fatto in maniera differente. Volse lo sguardo verso i suoi compagni di viaggio che stavano salutando i loro cari, poi guardò il suo ragazzo che la stava osservando poco distante.
La testa inclinata, il ciuffo quasi sugli occhi, quel sorriso sfrontato fra le labbra.
“Pronta Brave Princess?” chiese.
Clarke sorrise e annuì decisa.
“Si sono pronta!”
Si lasciò abbracciare, si baciarono un’istante.
Quando si staccarono Bellamy le scostò i capelli dal viso.
“May we meet again brave princess”
“May we meet again Bell”
Un ultimo bacio poi Clarke partì dando così il segnale a tutti per la partenza.
Non si volse mai indietro, sarebbe stato ancora più difficile abbandonare il campo.
La prima volta che li aveva lasciati era stata una via di fuga, questa volta avrebbe portato loro la sicurezza che avevano sempre cercato.
 
Bellamy osservava la colonna allontanarsi, rimase immobile fino a quando anche l’ultimo del gruppo non ebbe superato la fascia boschiva. Gran parte della gente del campo era già tornato alle sue incombenze.
“Il viaggio andrà bene” disse ad altra voce più a se stesso che alla presenza dietro di se.
“Si il viaggio andrà bene” rispose Laudria “Altro però ci attende, i tempi ormai sono maturi”.
Bellamy si volse verso la giovane guaritrice.
Il suo sguardo era perso verso nord scrutando un punto lontano.
“Ce la faremo?”
Laudria abbassò il volto verso il giovane.
“Solo la Dea lo sa, noi possiamo fare del nostro meglio per essere pronti”
Il ragazzo moro sospirò, diverse volte nelle ultime settimane era stato sollevato il problema dei clan. Non sapevano ancora come avrebbero reagito alla scoperta dell’alleanza e del loro trasferimento.
Un problema che, volente o nolente, presto avrebbero dovuto affrontare.
Bellamy volse un ultimo sguardo verso il luogo in cui aveva perso di vista il gruppo poi si incamminò verso il campo Jaha.
“Allora vediamo di essere pronti” disse determinato.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3
 
12 Marzo in mezzo al nulla…

Camminava ormai da giorni, da tempo aveva capito di aver perso completamente il senso dell’orientamento. Il deserto che avevano attraversato all’andata aveva cambiato completamento volto durante l’inverno, la neve sui declivi quando aveva raggiunto la zona boschiva aveva poi fatto il resto, nascondendo alla vista dei punti di riferimento precisi.
Vagava fra i boschi cercando di seguire una direzione, ma la speranza di avvicinarsi ad un luogo conosciuto ormai era ridotta al lumini.
Quando era partito sapeva che Jaha lo aveva mandato a morire. Lo aveva capito dal suo sguardo, dalle sue parole. 
Da subito, appena arrivati alla casa sulla collina e aver conosciuto A.L.I.E., Murphy aveva tentato di lottare per far ragionare Thelonious ma, giorno dopo giorno, sembrava sempre più un invasato e l’arrivo di Emerson aveva dato il colpo di grazia.

L’uomo era arrivato un giorno d’autunno, stanco dal viaggio ma vigile. Quando aveva percepito la loro presenza nella casa le sue prime parole erano state:
“Allora non tutto è perduto” poi aveva raccontato dei misteri celati dietro ad A.L.I.E e Mount Weather. 
L’orrore del racconto e delle intenzioni di Emerson si erano mostrate in tutta la sua lucida follia.
Gli abitanti di Mount Weather avevano sempre saputo della loro esistenza, avevano sempre controllato ogni loro movimento, persino quando ancora l’Arca esisteva e orbitava attorno alla Terra. Il popolo del monte non era altro che l’avamposto sulla terra della nuova civiltà. Se non fosse stato per le radiazioni che li avevano indeboliti il progetto New Heaven sarebbe partito molto prima. 
Quando l’intelligenza artificiale aveva sancito la loro inutilità perché non adeguati a creare la nuova civiltà, Cage Wallace aveva cominciato a progettare un modo diverso per vivere sulla Terra. 
Con sempre maggior raccapriccio Murphy aveva scoperto ciò che era stato fatto ai suoi amici, il tradimento dei clan e l'ecatombe perpetrata da Clarke e Bellamy.
Era rimasto sconvolto, in pena per ciò che avevano dovuto passare gli altri, conscio, più di molti, della portata delle loro scelte.
Quando poi aveva compreso che Emerson, con l’aiuto di Jaha, voleva portare avanti il progetto di A.L.I.E. aveva capito che non poteva far parte di quella cosa. 
Aveva tentato in tutti i modi di nascondere l’orrore che provava e, in parte, grazie alla sua passata esperienza, sapeva di esserci riuscito ma, con altrettanta sicurezza, sapeva che l’ex-cancelliere non si fidava di lui e lo aveva fatto partire con la speranza che durante il viaggio di ritorno verso il campo Jaha sarebbe morto.
Ed era proprio il desiderio di raggiungere il campo e raccontare quel piano che lo spingeva ad andare avanti, passo dopo passo, giorno dopo giorno. 
Non si sarebbe arreso, non come era già successo in passato. 
Avrebbe lottato per i suoi compagni come mai non era stato capace di fare prima.
Era questa determinazione che faceva muovere le sue gambe ma, ormai, era allo stremo delle forze.
Fu proprio la stanchezza che gli fece mettere in fallo un piede. Stava camminando accanto ad un pendio particolarmente scosceso, l’unica strada che aveva trovato per poter raggiungere la valle di un fiume che stava seguendo. Il suo piede aveva perso l’appoggio, la debolezza aveva rallentato i suoi riflessi ed era scivolato già lungo il pendio, cadendo malamente contro i massi sparpagliati sul letto del fiume. Un rumore netto, aveva sentito il crack dell’osso della gamba ancor prima del dolore lancinante, poi il nulla.

Si risvegliò lentamente, un dolore pulsante alla gamba e alla testa. Ogni cosa nella penombra del luogo in cui si trovava appariva sfumata, l’odore di legno bruciato gli pizzicava le narici e grattava la gola. 
Sentiva il suo corpo ricoperto di sudore.
Tentò di muoversi ma un peso sopra di se gli impediva qualsiasi movimento. 
Si divincolò preso dal panico ma ciò che lo bloccava non sembrava muoversi e questo aumentava il suo terrore. 
Non sapeva dov’era ma di certo non era un posto che poteva chiamare casa, niente in quel luogo, negli odori gli e la ricordava.
Il dolore alla gamba aumentava ad ogni suo sforzo di liberarsi, eppure non riusciva a controllarsi e i suoi movimenti stavano diventando sempre più scomposti. Poi, una lama di luce lo colpì in pieno volto.
Si bloccò, un ombra di fece avanti attraverso la luce poi, tornò il buio. 
Capì che qualcuno era entrato in quel luogo. 
Un grounder.
I suoi  movimenti divennero sempre più frenetici. Era già stato loro prigioniero, sapeva cosa significava essere torturato e, il dolore alla gamba, in rapporto sembrava una passeggiata.
La figura si avvicinò. Allungò una mano verso il suo viso. Toccò la sua fronte. 
Parlò nella sua lingua ma Murphy non riusciva a capirla, era diversa rispetto a quella che aveva sentito dai Tree People.
“Stai calmo! Hai la febbre e una gamba rotta” disse nella lingua degli Skypeople la voce femminile. “Non ti faremo niente se tu starai fermo e ti lascerai curare”
Murphy sentì il forte accento terrestre della giovane. Non riusciva a vederne le fattezze nella penombra della stanza. Istintivamente avrebbe voluto scappare ma il modo premuroso con cui gli spostava i capelli dal viso e puliva dal sudore dal suo viso lo rilassarono. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare da quelle cure che non aveva mai ricevuto da quando i suoi genitori erano morti molti anni prima. Lentamente scivolò nel sonno. 

La seconda volta fu risvegliato da uno strano raschiare, un suono ritmico e fastidioso. Aprì gli occhi e fu subito colpito dalla luce che inondava la stanza. Proveniva da una porta aperta verso l’esterno. 
L’aria nella stanza non era più calda come la prima volta che si era svegliato. Tentò di muoversi e, sebbene il male alla gamba fosse ancora persistente, non si sentì bloccato come la prima volta. La consapevolezza gli diede la forza di alzarsi ma, non aveva previsto la debolezza che lo assalì subito dopo e che lo costrinse a distenderti nuovamente. 
Il rumore che lo aveva svegliato s’interruppe di colpo e senti del tramestio nella camera. Una figura si alzò dalla sua destra, si diresse verso la porta e urlò qualcosa nella lingua dei grounders, poi rientrò e tornò nel posto che aveva lasciato poco prima.
Murphy tentava di riconoscerne la fisionomia ma il terrestre si era messo nel angolo più in ombra. 
Odiava essere osservato e, in un moto di ribellione, volse il viso dall’altra parte, trovandosi ad osserva solo un muro scrostato.
Chiuse gli occhi e concentrò la sua attenzione al proprio corpo cercando di localizzare i vari dolori che sentiva. Il peggiore era quello alla sua gamba destra mentre i restanti sembravano semplice indolenzimento.
Venne distratto da un movimento della luce che gli passò davanti alle palpebre chiuse. Aprì gli occhi di colpo.
Una figura femminile si avvicinò a lui. 
Era vestita da terrestre, sembrava giovane. Riusciva a distinguere poco dei suoi lineamenti nascosti sotto una massa di capelli neri e ricci. 
“Stai meglio vedo” disse. Allungò la mano verso il suo viso. 
John tentò di spostarsi ma questo non fece desistere la ragazza che riuscì comunque a toccare la sua fronte.
“La febbre è passata, sei stato svenuto per diversi giorni mentre la gamba guariva” mormorò e, senza troppe cerimonie, spostò le coltri di pelliccia che avevano impedito la volta precedente a Murphy di muoversi.
Il freddo della stanza colpì immediatamente il ragazzo che si accorse di essere nudo, tentò di voltarsi ma le mani della ragazza, che si dimostrò più forte del previsto, lo tennero fermo.
“Fermo o ti farai male” esclamò la terrestre.
Poi cominciò ad osservare la gamba, annuendo e mormorando qualcosa fra se e se.
Poi si alzò e lo coprì di nuovo.
Si volse verso la porta ma prima di uscire si inchinò e disse qualche parola alla figura che, per tutto quel tempo, aveva continuato a fare quel rumore ritmico.
Murphy rimase perplesso da quella scena, era rimasto imprigionato per diversi giorni in un campo grounder ma non aveva mai notato simile deferenza. 
Volse nuovamente lo sguardo verso la persona cercando di distinguerne i tratti. 
Aveva sentito parlare da Emerson di Lexa, il comandante dei grounder, era lei quella figura?.
La corporatura sembrava delicata ma oltre a quello non riusciva a intravedere altro. Concentrò l’attenzione sui suoi gesti, sembrava che stesse sfregando un lungo bastone o era una spada. Il ruvido rumore che sentiva gli ricordava quello che lo aveva tormentato quando, nell’altro campo terrestre, i guerrieri affilavano le armi.
Si, stava affilando un’arma, si rese conto Murphy. Era un modo per intimorirlo?, una minaccia? Non ne era del tutto certo, perché altrimenti curarlo invece di lasciarlo morire sul greto del fiume? Volevano che diventasse nuovamente un’ esca per i suoi amici? Beh, se fosse stato così non lo avrebbe permesso una seconda volta. Era diverso da ciò che era quando erano scesi sulla Terra.
Avrebbe voluto alzarsi nuovamente ma si rese conto che far finto di essere più debole forse avrebbe giocato a suo favore; Decise di rimanere fermo in attesa degli eventi e sfruttare il momento opportuno per scappare o uccidere qualcuno di loro. 
Chiuse gli occhi cercando di riposare, ma il rumore gli stava perforando il cervello.
“Smettila” esclamò con voce tagliente. Alla faccia di non farsi notare, pensò subito dopo. 
Il rumore si interruppe e per un’istante John credette di aver vinto ma, pochi attimi dopo, il rumore riprese infastidendolo ancor più di prima.
Sentiva la mascella irrigidirsi, stava cominciando ad odiare quel rumore con tutto se stesso, avrebbe voluto fare qualcosa per farlo tacere quando la giovane donna che lo stava curando riapparve sulla porta.
“Dovrò medicarti nuovamente la gamba quindi stai fermo”.
Murphy avrebbe voluto dire di no per il puro desiderio di contestazione e infastidirla poi, si rese conto quanto fosse stupida l’idea così annuì.
Senza troppe cerimonie spostò le coperte, Murphy si sentì in imbarazzo per la sua nudità. Sensazione che passò in un istante quando si rese conto che la guaritrice non lo stava nemmeno osservando. Era intenta a mescolare qualcosa all’interno di una ciotola in legno poi spostò il panno che ricopriva la sua gamba destra. Murphy tentò di guardare, vide solo che l’arto era bloccato ai due lati da delle aste di legno legate fra loro, quando cercò di guardare oltre la guaritrice parlò.
“Non guardare, non serve, l’osso davanti della tua gamba è rotto, l’ho rimesso a posto e sta guarendo, non ci sono infezioni. Solo questo ti deve interessate.” 
Per spirito di contraddizione John avrebbe voluto guardare cosa fosse diventata la sua gamba, non si fidava della medicina terrestre, ma gli occhi ambrati della guaritrice fissi su di lui lo bloccarono.
Sembrano gli occhi di un gatto pensò incantato da quella strana vista. Per alcuni secondi si scrutarono, una battaglia di sguardi. Ben presto però la posizione scomoda che stava tenendo e il disagio serpeggiante che sentiva, mise fine a quel giochetto.
“Fai pure, non mi interessa” esclamò Murphy poi, voltando il viso verso il muro mormorò “Tanto vi ucciderò tutti alla prima occasione”.
“Non sarà così facile straniero” disse una voce provenire verso il fondo della stanza.
Murphy si girò di scatto, impallidendo all’idea che avesse sentito.
“Voi skypeople a volte siete veramente sciocchi, parlate troppo e quando non serve, è una strategia che non funziona” disse la grounder avvicinandosi.
Ora John poteva finalmente osservarla, era una donna, poco più vecchia di lui all’apparenza. Era vestita come altre donne terrestri, aveva lunghi capelli castani e occhi scuri. Un viso deciso sottolineato dal naso pronunciato che donavano fascino e alterigia a quella ragazza ancora giovane.
I suoi occhi lo stavano scrutavano, si sentì ancora più nudo sotto quello sguardo, lo stava soppesando e un brivido di paura serpeggiò lungo la spina dorsale. Quella donna era pericolosa, molto pericolosa.
Una stilettata di dolore interruppe quel contatto, strinse i denti mentre la guaritrice maltrattava la sua gamba. Respirò profondamente cercando di controllare il dolore. 
Sapeva che quella donna, un capo sicuramente, lo stava pesando in quel momento. Aveva cominciato a capire la mentalità di quei barbari. 
Pochi istanti dopo sentì qualcosa poggiarsi delicatamente sulla sua gamba poi la guaritrice si alzò e lo coprì. Disse alcune cose alla donna che annuì poi la guaritrice uscì dalla stanza.
La donna si accovacciò davanti a lui obbligandolo in questo modo a guardarla dritto negli occhi. 
Apparentemente una posizione di parità, ma Murphy capì che il suo obiettivo era ben altro. Voleva che John la osservasse attentamente e comprendesse esattamente quello che la donna gli stava per dire. Lo capì dagli occhi cupi e dalla mascella decisa.
“Tu sei degli Sky people, appena la nostra guaritrice lo acconsentirà, ti porteremo vicino all’accampamento della tua gente. Voglio che tu trovi una persona e che gli dia un messaggio da parte mia.”
Murphy la scrutò cercando di capire cosa stesse succedendo. Si morse la lingua per non parlare. Fissò i suoi occhi celesti sulla donna sperando di farla cedere ma questa per contro gli lanciò un sorriso di scherno. 
“Vuoi tornare dai tuoi amici straniero?”.
Il ragazzo rifletté, aveva la possibilità di tornare e avvertire il campo Jaha, ma non voleva rischiare di diventare nuovamente un’esca o il portatore di qualche strana malattia.
Il comandante sembrò leggere dentro di lui e capire le sue incertezze.
“Non voglio fare male alla tua gente, sono qui per aiutarli”
Murphy strinse gli occhi confuso, si rese conto che c’era in gioco qualcosa di più dei piani folli dell’ ex-cancelliere.
 “Cosa vuoi dalla mia gente”
La donna annuì soddisfatta dalla piega della conversazione.
“Quando arriverai al campo dovrai cercare un ragazzo, credo si chiami Bellamy. Digli che ci incontreremo la prima notte senza luna al vostro vecchio campo.”
Murphy strinse le labbra, ciò che la donna gli stava dicendo non chiariva nulla.
“Cosa vuoi da lui?”
“Evitare una guerra e restituire un favore” rispose la donna prima di alzarsi.
 “E di grazia” chiese quindi Murphy “da chi dovrebbe provenire questo messaggio?” il tono chiaramente sarcastico non fece nessun effetto sulla donna che rispose “Digli che sono la grounder che lo ha aiutato ad uccidere una guardia quando eravamo prigionieri dentro Mount Weather” 
“E se lui non volesse credermi?” replicò Murphy.
“Allora sarete tutti morti entro la prossima luna” rispose la donna prima di uscire e lasciarlo solo nella stanza.

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Nota: Prima di tutto spero che questa storia vi stia piacendo o che per lo meno cominci ad incuriosirvi :). Come vedete questo capitolo è dedicato a Murphy. Inizialmente doveva essere solo un pezzo di passaggio, Murphy è un personaggio ancora un po' oscuro per me, odiato con ferocia nella 1° stagione, nella prima puntata della 2° stagione ha mostrato un lato inaspettato che ha fatto cambiare totalmente prospettiva su di lui. Non credevo di scrivere molto di lui eppure, mentre le parole scorrevano, mi sono accorta di divertirmi parecchio quindi, ahimè forse, ve lo beccherete spesso. Gli altri personaggi sono sempre molto cupi e seri mentre con lui ho trovato una verve diversa. Spero apprezzerete ;). Fatemi sapere :)

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4
 
16 marzo Verso Miramar
 
Clarke osservava ipnotizzata il mondo che la circondava, così diverso rispetto ai difficili sentieri a cui era abituata fra le montagne in cui erano atterrati. Da quado erano partiti avevano superato molti boschi ma il terreno era diventato collinare, inoltre, con suo sommo stupore, avevano trovato delle strade che avevano retto il passaggio del tempo. Fra le cime degli alberi svettavano città ancora in piedi, ruderi certo, ma gli imponenti grattaceli non ancora demoliti dall’incuria del tempo, rappresentavano forse l’elemento più particolare del paesaggio.
Città mai conosciute, ricordi di un lontano passato. Avevano un che di lugubre, echi della guerra che era stata eppure tutti loro rimaneva stupiti ogni volta che li notavano. Alcuni degli ingegneri della spedizione avevano chiesto più volte di rallentare, affascinati dalle costruzioni: finalmente vedevano il mondo che avevano solo letto nella biblioteca digitale dell’arca, ma, con loro sommo sconforto, la missione era arrivare il prima possibile a Miramar.
Clarke sorrideva e ricordava loro che avrebbero avuto l’intera vita per fare di nuovo conoscenza con la Terra. Questo però non toglieva il piacere di sentirli raccontare, durante gli accampamenti serali, delle grosse arterie stradali che stavano percorrendo o sulle tecniche edilizie utilizzate per costruire gli edifici. Era divertente vedere, attorno al fuoco, i botanici rubare la parola ai costruttori per raccontare loro degli alberi che avevano classificato e dell’uso che ne avrebbero potuto fare.
Per Clarke quei momenti serali erano speciali, rappresentavano ciò che stavano raggiungendo, del futuro sempre sognato da quando erano sull’ Arca. I loro occhi brillavano alla luce del fuoco, pieni di aspettativa, pronti a iniziare, a progettare e a creare qualcosa di nuovo e duraturo. 
Karel aveva cercato di sottolineare più volte che quel viaggio poteva rivelarsi pericoloso: molti animali di grossa taglia si nascondevano nei boschi, ma questo non era riuscito a scalfire l’eccitazione degli abitanti del campo Jaha che, finalmente, potevano vedere il meglio del mondo in cui vivevano.
Clarke sorrise al pensiero dei tentativi infruttuosi del grosso guerriero che faceva loro da guida di controllare tutto quell’entusiasmo e, forse proprio richiamato da quegli stessi pensieri, lo sentì affiancarsi a lei.
“Presto arriveremo a Miramar”
La ragazza annuì, dopo aver conosciuto Laudria e Karel, dopo le chiacchiere con Bellamy, non vedeva l’ora di vedere il villaggio del popolo delle barche ma, soprattutto, di ammirare il mare. Quando era sull’Arca aveva spesso immaginato cosa fosse il mare, toccare quel liquido salato fra le sue labbra, sentire sulla pelle il piacevole refrigerio dell’acqua, di certo meno gelida di quella dei torrenti a cui erano abituati. Voleva vedere il villaggio, conoscere i suoi abitanti e incontrare la loro matriarca.
Le Mari, la madre, come loro la chiamavano nella loro lingua.
Laudria le aveva spesso parlato di lei, della sua saggezza, delle sue conoscenze e della forza spirituale che si percepiva in sua presenza.
Più che dalle parole era rimasta colpita dal profondo rispetto e totale devozione che la giovane guaritrice mostrava nei confronti della matriarca Luna.
Nel suo cammino, da quando era scesa sulla Terra, aveva conosciuto molte donne forti: Anya, Lexa, Indra e persino la nuova Octavia eppure sentiva, dai racconti dei due giovani del popolo delle barche, che Luna era qualcosa di ancora diverso.
“Cosa succederà appena arriveremo a Miramar?” si ritrovò a chiedere Clarke.
 “Ovviamente vi verrà dato il benvenuto e probabilmente vi saranno date delle capanne per potervi ristorare e ripulire dalle fatiche del viaggio.” Disse Karel  “Domani certamente ci sarà la festa ufficiale e potrete fare conoscenza con il villaggio. Dai giorni successivi comincerà il vero lavoro.”
Clarke fremette all’idea di poter finalmente riposare in un luogo chiuso, era stanca di bivaccare sotto le stelle.
Karel osservò il cielo limpido sopra le loro teste, solo qualche morbida nuvola bianca lo punteggiava, poi il suo sguardo si puntò all’orizzonte.
“Vedi laggiù, quella collina?”
La ragazza guardò verso la direzione indicata dal guerriero e annuì.
“Quando arriveremo là potrete finalmente potrete ammirare il mare. Ci fermeremo per mangiare, poi continueremo scendendo verso la palude.”
Bellamy gli aveva parlato di una zona paludosa nelle vicinanze dei territori del popolo delle barche. L’idea di attraversare quel luogo l’affascinava.
“Cosa troveremo poi?” Karel aveva già risposto spesso a queste domande ma, con infinita pazienza, aveva raccontato loro dei suoi luoghi natii.
“Prima troveremo la palude, in questo periodo dell’anno sarà un po’ più difficile percorrerla per le piogge e lo scioglimento dei primi ghiacci. È sempre stata la nostra prima difesa contro gli altri clan. La palude si trova in una specie di sacca, poi il terreno comincerà a salire nuovamente, gli alberi cominceranno a diradarsi per dare spazio alla vegetazione più bassa. Comincerete a vedere colori che non avete mai visto e infine, di colpo, il terreno si aprirà davanti ai vostri occhi e potrete ammirare Miramar, abbarbicata su una scogliera.”
Clarke con l’occhio della mente s’immaginava quei luoghi ma niente sarebbe stato come vederli.
Continuarono a camminare in silenzio fino a quando finalmente non raggiunsero la sommità della collina che aveva menzionato Karel.
Inizialmente rimase delusa dalla visione, solo altri alberi, una marea di alberi di un verde brillante e il cielo cristallino sopra di loro.
Dov’era il mare che il guerriero le aveva promesso?
Si volse verso il guerriero che la stava fissando intensamente, un sorrisetto divertito stampato in volto.
“Dov’è?” riuscì solo a chiedere impaziente Clarke.
Karel si avvicinò, la superava abbondantemente di tutta la testa, le poggio una mano sulla spalla poi si piego verso di lei indicando con l’altra mano l’orizzonte.
“Guarda più attentamente” le sussurrò.
Clarke si sentì a disagio per quel contatto ma la curiosità ebbe il sopravvento. Scrutò il punto che il guerriero gli stava indicando e finalmente i suoi occhi registrarono quella sottile linea dell’orizzonte in cui il cielo baciava il mare. Venne assalita dallo stupore.
 La vista la riempì facendole venire la vertigine.
Era abituata all’infinito senza alcun punto di riferimento dello spazio, ora, la vastità del panorama sconfinato si mostrava in tutta la sua bellezza. La catapultava direttamente nell’immensa grandezza del mondo in cui abitavano. Non più una sfera vista dall’oblò dell’Arca o la limitata visione fra le montagne, ma la Terra sconfinata.
Un tocco sulla sua guancia la fece spostare di scatto, la mano sospesa di Karel vicino al suo viso, i suoi intensi occhi chiari puntati sul suo viso.
“Deve essere bello emozionarsi per una visione del genere” mormorò prima di allontanarsi da lei.
Clarke tocco le sue guance, erano bagnate dalle lacrime, la sublime bellezza di quel scenario per un’istante l’aveva estraniata da ogni cosa scalfendo la sua anima indurita dalla vita. Una sensibilità che pensava di aver completamente perso vivendo sulla terra e che ora era riemersa con tutta la sua forza.
Scrollò la testa, si pulì le lacrime dal viso poi si voltò verso i compagni di viaggio che, come lei, si erano lasciati incantare dalla visione.
“Ci fermeremo qui a mangiare” avvertì mentre passava fra le persone. Alcuni avrebbero voluto continuare per raggiungere il mare ma Clarke bloccò le rimostranze sul nascere: il pezzo successivo sarebbe stato impegnativo e dovevano essere in forze.
 
Miramar diede il suo benvenuto tra i colori del crepuscolo che dipingevano con le loro  tinte fiammeggianti ogni angolo dello scenario che si apriva ai loro occhi quando arrivarono sul ciglio della scogliera. La baia sottostante era ricoperta da dune sabbiose e, quasi mimetizzate dai colori della sabbia e le sterpaglie, vide delle piccole capanne di paglia e legno. Il silenzio del luogo era intervallato dal rumore della risacca.
L’incanto di quella visione riempì nuovamente di un inaspettato stupore l’intera spedizione. Clarke era consapevole che avrebbe potuto vedere altri tramonti come quello eppure, nel suo cuore, quella sarebbe stata l’immagine che avrebbe per lei rappresentato l’arrivo e la sua vita a Miramar. Qualunque cosa fosse successa, non avrebbe mai dimenticato quegli attimi.
Un pensiero sfuggente la spinse a comprendere che sarebbe valsa la pena vivere quella vita anche solo per quell’attimo. Poi sorrise al pensiero di Bellamy, della loro futura esistenza.
L’istante passò, i colori si persero nei colori violacei della notte e le prime stelle della sera apparvero nel cielo.
L’attenzione della ragazza fu attratta da un movimento alla sua sinistra, nella penombra della sera riusciva a distinguere il promontorio che chiudeva la baia. Fuochi si accendevano sulle pareti rocciose e si rese conto che, non le case sotto di loro, ma quella montagna che lambiva il mare era Miramar.
Alcune luci cominciavano a spostarsi nella loro direzione, un serpente luminoso che costeggiava la scogliera e veniva verso di loro.
Clarke era indecisa, avvicinarsi al popolo delle barche o aspettare che fossero loro ad invitarli. La gente attorno a lei si muoveva a disagio, alcuni di loro avevano estratto dalle loro sacche delle torce, altri stavano cercando di creare delle piccole torce.
Cercò Karel che, come se avesse compreso la sua indecisione, parlò “Li aspetteremo qua” parlò ad alta voce affinché il gruppo lo sentisse. “Ci accompagneranno loro verso il villaggio, non sprecate le torce.”
Rassicurati dalle parole del guerriero attesero, rapiti dalle luci tremolati dei fuochi che si riflettevano sulla superficie del mare. La luna appena sorta illuminava ogni cosa con il suo ovattato bagliore e donava al luogo un’atmosfera incantata che rinfrancò i loro animi stremati dalle lunghe giornate di cammino.
Miramar aveva mostrato loro il suo aspetto magico.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5

 

17 marzo Miramar

Clarke si svegliò di soprassalto e il ricordo della serata precedente si fece strada nella sua mente ancora confusa dal sonno.

Erano stati accolti dagli abitanti di Miramar, Marcus ed Anne, l’infermiera che lo aveva accompagnato, fra i primi ad abbracciarli.

Non ricordava molto, troppo frastornata dalle parole e le presentazioni, poi, con una velocità quasi inaspettata -Clarke era certa di dover subire qualche strana presentazione formale-, era stata accompagnata nell’alloggio dove si trovava e che ora condivideva con Caris. Alcune donne avevano portato loro delle tazze piene di una tisana fumante che avevano lasciato vicino al fuoco acceso. Karel era entrato subito dopo mostrando l’angolo dove avrebbero potuto trovare delle giare piene di acqua per risciacquarsi e aveva augurato loro un buon riposo.

Clarke l’aveva guardato perplessa, era strano per lei essere spedita a dormire in quel modo, l’aveva anche detto al guerriero ma, quello, era scoppiato a ridere.

Le aveva chiesto di quante persone si ricordasse la faccia o il nome.

Clarke era ammutolita.

Karel aveva quindi detto loro che il miglior benvenuto che la sua gente potesse dare, era lasciarli riposare per quella notte, il giorno dopo ci sarebbe stato tutto il tempo per rendere più formali le presentazioni.

Clarke aveva accettato di malavoglia, era certa di non avere alcuna voglia di dormire, troppe novità, troppa adrenalina nel suo corpo.

Ora, appena svegliata, Clarke si sentiva risposata e si rese conto della gentilezza intrinseca nel loro benvenuto.

Si guardò attorno ed ebbe il tempo di osservare con più calma il luogo in cui si trovava: la luce filtrava dall’esterno rischiarando la stanza nella caverna e, una serie di torce, collocate strategicamente, aiutava ad illuminare ogni angolo della stanza. Notò con interesse le pellicce lavorate che, appese su pannelli divisori, fungevano da pareti per la stanza. Lo spazio all’interno della grotta era molto ampio e quei paraventi creavano ambienti più piccoli che concedevano una certa privacy. I pannelli non raggiungevano il soffitto della caverna e questo permetteva il passaggio della luce e l’uscita dei fumi.

Karel aveva spiegato loro che quella in cui si trovavano era la caverna più grande, dove d’inverno si svolgevano le attività della comunità. Era stata trasformata per l’occasione in un luogo confortevole per il loro arrivo, sarebbe stata la loro casa fino a quando non avrebbero costruito degli alloggi più comodi.

Volse lo sguardo verso Caris che, nel giaciglio accanto a lei, continuava a dormire. Svegliarla o lasciarla riposare?

Non le era chiaro che ore fossero, non sentiva rumori provenienti dall’esterno così decise di vestirsi e uscire per dare un primo sguardo a Miramar alla luce del giorno.

Si accorse che vicino alle braci ancora calde del fuoco c’era una tazza con del liquido, lo annusò, il profumo era buono e decise di assaggiarlo. Le tolse subito il sapore del sonno dalla bocca e la scaldò. Benchè il luogo fosse coperto, non era caldo quanto la navicella al campo Jaha.

Uscì dalla stanza ricavata nella caverna e si trovò in quella che doveva essere l’area centrale della caverna, a diversi metri di distanza poteva scorgere l’ingresso. Come per la sua stanza anche quell’apertura era chiusa fino ad una certa altezza da pannelli di legno.

 Il silenzio, intervallato solo dal rumore di chi stava dormendo, permeava l’intera caverna. Non c’erano abitanti del popolo delle barche.

Poi la sua attenzione fu attratta da delle risate che provenivano dall’esterno.

Si diresse verso quei suoni e uscì dalla grotta.

Di fronte a lei si aprì l’inaspettato panorama dell’insenatura di Miramar. Venne assalita dal profumo di acqua salmastra che profumava l’aria circostante. In quel momento si mescolava con l’odore del legno bruciato nei vari bivacchi.

La ragazza era ad una certa altezza sopra il livello del oceano. Il pianoro si sviluppava di alcune decine di metri proprio davanti a lei creando uno spiazzo che correva lungo tutto il promontorio. In basso la spiaggia fatta di sabbia e lastroni lisciati dal tempo era in fermento. Molte delle capanne che aveva visto la sera precedente erano occupate mentre altre venivano ancora allestite. Diverse donne e uomini erano impegnati in molteplici attività  in tutta l’insenatura.

Continuò ad osservare ogni cosa incuriosita, notando come, a dispetto alla diversità del luogo, i movimenti della gente, le mansioni erano comunque così simili a quelle che si svolgevano ogni giorno anche nel campo Jaha.

 “Ben svegliata Clarke, sono felice di rivederti” la giovane si volse di scatto riconoscendo la voce e di slancio abbracciò il nuovo arrivato.

Quest’ultimo rimase per un istante per perplesso poi sorridendo strinse la giovane in un abbraccio altrettanto caloroso.

Clarke si sciolse, leggermente in imbarazzo per essersi fatta trasportare in quel modo, poi noto lo sguardo di comprensione negli occhi dell’uomo e si rinfrancò.

“Ci sei mancato al campo Jaha, Marcus!”

L’uomo sorrise “Di certo siete riusciti a cavarvela bene”

“Abbiamo fatto quello che si poteva, ma ora essere qua” disse spostando lo sguardo verso la spiaggia “ ci ripaga di tutte le fatiche e tu devi raccontarmi tutto di questo luogo.”

“e tu dovrai dirmi tutte le novità al campo. Come sta tua madre?”

Sulle labbra della giovane spuntò un sorriso “Sta bene, ma credo che tu gli sia mancato.”

L’uomo osservò la ragazza che continuò “Una parte di lei, quella che è sempre stata seduta nel consiglio dell’Arca, fa fatica ad accettare che noi giovani siamo così importanti per la salvezza della colonia. Sento che a volta ha bisogno di confidarsi di qualcuno” Clarke si bloccò tentando di trovare le parole giuste “ più grande e con esperienze simili alle sue. Spesso la sento incerta. Vuole fidarsi di noi ma, in cuor suo, crede che non siamo preparati”

Marcus rise “beh per lei rimarrai sempre la figlia da proteggere. E comunque” continuò “puoi dirlo che siamo vecchi, perché effettivamente per questo mondo siamo vecchi. Anche qui a Miramar non sono tantissimi gli adulti della nostra età. La vita è difficile, ogni cosa inizia così presto qui. Questo villaggio è un oasi felice rispetto al mondo che abbiamo conosciuto sull’Arca o nei territori dei clan del nord, ma è comunque un mondo in cui la sussistenza è il principale obiettivo.”

Clarke si adombrò ricordando le parole che Karel si era lasciato sfuggire quando le aveva asciugato la lacrima.

Marcus se ne accorse “Ma non pensiamoci ora, vedrai, questo posto e le persone che lo abitano sono straordinarie e le conoscerai tutte ma prima, ti va di fare colazione?, Anne ci sta già aspettando. Come me anche lei vuole sapere tutte le novità da casa.” disse mentre le faceva strada verso uno dei fuochi accessi fuori dalle grotte.

La ragazza annuì sollevata e lo seguì felice della distrazione.

 

Le prime ore del giorno passarono così, incontrando persone, esplorando il piccolo villaggio in cui tutto il campo Jaha si sarebbe trasferito. Parlava molto con Marcus che le mostrava ogni cosa, i progetti in corso e i futuri. Sarebbe stato un impegno importante per tutti visto che la popolazione di Miramar era leggermente superiore a quella del campo Jaha e tutti si erano chiesti se il piccolo villaggio avrebbe sopportato quella invasione pacifica. Clarke lo ascoltava affascinata, le persone che incontravano erano amichevoli e, nel loro modo di fare le ricordavano molto Laudria. Era rimasta affascinata dal numero di bambini presenti che si muovevano a frotte lungo tutto il costone impegnati a giocare o in qualche commissione. Marcus le aveva raccontato che i bambini a Miramar erano cresciuti dalla comunità. Per il primo periodo della loro vita stavano con i genitori ma, ben presto, verso i 5 anni cominciavano a vivere in piccole comunità dove, a turno, gli adulti li controllavano e insegnavano loro il loro sapere. Per loro era stato strano all’inizio ma poi avevano compreso che questo rendeva più saldi i rapporti non solo fra i bambini ma anche fra gli adulti che si sentivano tutti altrettanto responsabili della loro crescita e formazione.

Clarke era rimasta colpita dalla cosa e si chiese se lei stessa avrebbe avuto il coraggio di lasciare suo figlio/figlia nelle mani di altri per farli crescere. Fu un pensiero fuggevole ma che la confuse, fino a quel momento, a differenza di Bellamy, non aveva mai pensato di avere un figlio ma in quella piccola comunità tutto sembrava possibile.

Stavano passeggiando in riva al mare quando Karel venne loro incontro.

“Clarke, la matriarca chiede se sei disponibile a parlare con lei”

La ragazza lo guardò sbalordita, per tutto il giorno aveva pensato all’incontro con la matriarca chiedendosi quando sarebbe avvenuto, di certo non si aspettava una richiesta così informale.

Salutò Marcus e si incamminò con Karel. Si aspettava di rientrare verso il promontorio delle caverne ma il guerriero prese la direzione opposta, costeggiando la riva del mare e inerpicandosi sul sentiero che si snodava dall’altra parte dell’insenatura.

L’accompagnò per un tratto, Clarke avrebbe voluto fargli delle domande, rompere in qualche modo il silenzio che si frapponeva fra loro due ma, qualcosa la bloccava. Il guerriero camminava accanto a lei, il suo sguardo concentrato scrutava di fronte a se, non sembrava intenzionato a rivolgerle la parola dando a quella passeggiata un valore ben più importante e, man mano che i passi la allontanava da Miramar, l’ ansia cresceva.

Il sentiero che stavano percorrendo costeggiava la scogliera alla loro sinistra mentre alla loro destra la bassa sterpaglia occupava gran parte del pianoro fino al limitare dei boschi che cominciavano alcune decina di metri oltre.

Stavano superando un solitario albero che cresceva proprio al limitare della scogliera quando Karel si fermò.

“Da qui dovrai proseguire da sola, al termine del sentiero incontrerai la matriarca” poi le fece un inchino e si voltò per tornare sui suoi passi.

Clarke continuò incerta il sentiero, si volse diverse volte per vedere la figura di Karel che spariva in lontananza.

Lentamente i bassi arbusti stavano cedendo il passo ai boschi, superò una curva e di fronte a se notò che il sentiero cominciava a salire verso un promontorio roccioso.

Faceva attenzione a dove metteva i piedi, lo strapiombo, che nel frattempo si era alzato alla sua sinistra le faceva venire le vertigini. Il rumore della mare che si scontrava contro gli scogli era molto più forte, le acque più turbolente. Ogni tanto osservava la cima per controllare a che punto fosse.

Le ci volte parecchio tempo per raggiungerla ma finalmente conquistò anche quel pezzo di sentiero.

La prima cosa che vide una volta superata la cime fu una figura distante da lei alcune decine di metri. Si stagliava imperturbabile di fronte alla vastità del mare, la brezza del vento si muoveva fra le vesti della donna gonfiandole e facendole sbattere contro quel corpo femminile.

Era longilinea e minuta ma sembrava che la forza del vento non avesse alcuna forza contro di lei, era immobile, granitica, come la roccia sotto i piedi di Clarke.

Man mano che si avvicinava alla Matriarca, una fetta sempre maggiore del mare davanti a lei si manifestava, sull’intero mare erano disseminati massi, come se un gigante li avesse lanciati per gioco nel mare. Ma, lentamente, mentre copriva la distanza che la separava dalla figura femminile Clarke si accorse che quei massi avevano una forma troppo regolare, linee troppo dritte per essere naturali. Con sgomento crescente si rese conto che quello che aveva di fronte ai suoi occhi era un cimitero navale. Decine di resti di navi sfregiavano il mare. In un lampo di consapevolezza Clarke comprese il vero significato del nome che usavano gli abitanti per definire se stessi. Ognuno di loro, da quando avevano sentito nominare quel popolo da Lincoln, avevano sempre creduto che esso fosse legato alla loro vicinanza al mare e alla loro bravura come pescatori, o qualcosa di simile. Ora si rese conto che avevano sbagliato, ma perché né Bellamy, Marcus o persino Laudria e Karel avevano fatto menzione di quel luogo? Si chiese Clarke.

“E così ora conosci uno dei nostri segreti” parlò la donna vicino alla scogliera. Clarke sobbalzò alle sue parole, non si era accorta che, calamitata dalla visione di quei relitti incagliati nei bassi fondali, si era avvicinata alla matriarca.

La ragazza annuì senza sapere cosa dire, cercando di capire che luogo fosse.

Il rumore della risacca spezzava il silenzio fra di loro.

“Prima che l’ultima guerra mondiale iniziasse, laggiù” cominciò la donna indicando l’orizzonte alla sua destra dove si scorgevano a malapena delle lievi alture “Si trovava una delle più grandi basi navali di questi territori, Norfolk era il vecchio nome di quei luoghi, e quelle che vedi sono le vestigia della guerra che è stata, per noi sono la memoria di ciò che è accaduto.”

Avere la certezza di quello che aveva solo intuito fu un pugno allo stomaco per Clarke. Poteva vedere davanti ai suoi occhi ciò che era stata il conflitto di cui aveva solo sentito parlare e che li aveva costretti sull’Arca per quasi cento anni,. La sua mente volò a Mount Weather, ad altri morti e si chiese se anche lei, in qualche modo, si fosse trasformata nello stesso tipo di mostro che aveva distrutto quelle navi.

La matriarca Luna le stava facendo vedere l’altro volto di Miramar, Clarke fu consapevole per l’ennesima volta che nessun luogo poteva essere il paradiso che avevano sempre immaginato fosse la Terra, eppure in cuor suo sperava che i territori del popolo delle barche, più di altri, lo sarebbero stati.

Avrebbe voluto dirlo alla donna, ringraziarla per ciò che stava facendo per loro e lo stava per dire quando la matriarca parlò “Ancora prima, oltre 500 anni fa,  tutti questi luoghi appartenevano alla mia tribù i Chesapian, furono quasi tutti sterminati da un’altra tribù, ma i miei avi non sono morti quel giorno, sono fuggiti e si sono ripromessi, un giorno, di tornare. Quando tutto è cominciato, i pochi superstiti della mia tribù sono tornati in questi luoghi perché sapevano che, quello che stava avvenendo era solo la fine di un’Era e che presto noi saremmo tornati agli antichi splendori.”

Clarke rimase sbigottita da quelle parole e un acre sapore le investì la bocca. Odiava quel tipo di discorsi, le ricordavano quelli di Lexa prima e quelli di Cage Wallace poi. Il suo popolo cercava solo un luogo in cui stare in pace e non vivere con altri personaggi con idee megalomani.

La donna si volse di lei, un tenue sorriso sulle labbra. Clarke rimase spiazzata dal quel dolce sorriso, dai suoi occhi scuri così franchi. Appariva così materna in quel momento eppure le sue parole erano state chiare.

“So cosa stai pensando Clarke degli Skypeople, che io, noi, siamo come tutti coloro che hai incontrato in passato quando sei scesa sulla terra. E, in qualche modo, è vero: vogliamo il nostro spazio in questi territori, i nostri guerrieri sono sempre pronti per combattere e cresciamo le nostre guaritrici in modo che siano sempre pronte a salvare la vita eppure, sai cosa ci differenzia dagli altri?” chiese.

Clarke non sapeva rispondere, osservava quella donna che sembrava poco più vecchia di sua madre, lunghe trecce nere con qualche filo grigio le incorniciavano un volto che appariva ancora giovane, le rughe che le segnavano gli occhi e la bocca sembrano dovute più al riso che alla rabbia o alla responsabilità di chi comanda. La scrutava eppure non trovava risposte, si obbligo a fare un cenno di diniego con la testa.

“Dopo che la grande guerra che ha sconvolto il nostro pianeta era terminata e le terre superficiali erano di nuovo vivibili la mia gente ha scelto di percorrere una via pacifica, accogliendo tutti coloro che venivano da noi in cerca di un rifugio e combattiamo solo se costretti. Abbiamo costruito Miramar in un luogo difficilmente accessibile e che rendesse la sua conquista ardua. Abbiamo cercando di instaurare rapporti con le altre tribù insegnando l’arte della guarigione che molti degli altri clan non possedevano. Non abbiamo mai tentato di prendere più di ciò che ci serviva ma, sapevano, perché le leggende tramandate lo narravano, che ben presto con la rinascita del nostro popolo una nuova era sarebbe cominciata. Un nuovo mondo da vivere secondo leggi sacre che molto si discostano da quelle che hanno portato alla rovina della civiltà precedente.”

“Quindi con il nostro aiuto volete conquistare e sottomettere gli altri clan” si ritrovò a chiedere Clarke infastidita.

La dona la scrutò attentamente poi le chiese “E se così fosse?, noi vi abbiamo dato un posto sicuro dove stare, vi abbiamo accolto e vi abbiamo insegnato i segreti delle erbe, vi stiamo insegnando a vivere in questo mondo.”

Clarke rifletté, il popolo delle barche aveva dato loro molto e si chiese per la prima volta se un’ultima guerra contro le altre tribù era la strada da intraprendere. Un conflitto che, una volta per tutte, avrebbe risolto ogni minaccia che ancora pendeva sulle loro teste. Poi scosse il capo, era una strada che non aveva più intenzione di percorre se non costretta. Aveva ormai compreso che l’odio generava solo odio e non era ciò che voleva per la sua gente.

Incontrò gli occhi della matriarca che stava aspettando una sua risposta.

“No, se questi sono i termini dell’alleanza non posso accettarli. Siamo venuti sulla Terra per trovare un luogo in cui vivere pacificamente non per affrontare altre guerre e piangere altri morti.”

Il comandante del clan della barche annuì a quelle parole. Poi le fece un cenno.

“Vieni con me Clarke del popolo del cielo, ti mostrerò cosa il destino ha in serbo per te e per i nostri popoli.” 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6
 
Un caldo fagotto fra le braccia,
un figlio di pochi mesi.
Il buio della notte rischiarato dal fuoco,
urla strazianti di morte.
Deve andare a salvare la sua famiglia,
sua madre, suo padre, i suoi fratelli.
Una mano la trattiene
sa che non può fare nulla per loro
accanto i gemiti di altre donne piagenti,
sente le lacrime bruciarle gli occhi
Per loro, per chi era morto, deve sopravvivere,
lei, il figlio piccolo fra le braccia e quello che porta in grembo,
devono scappare,
andare in esilio,
nascondersi dal mondo fino a quando non sarebbe giunta l’ora.
 
Palazzi, macchine, la folla che si dirige al lavoro,
Vite che vengo vissute,
i tacchi delle sue scarpe ticchettano sul marciapiede,
una valigetta ventiquattro ore in una mano,
un rombo forte sopra la sua testa,
il deflagrare assordante lontano a est
i grattacieli tremano,
il fumo sale.
La gente scappa,
la guerra è arrivata, il mondo sta per cambiare.
 
I corridoi di cemento
Presto saranno pronti per uscire dal rifugio che li ha trattenuti per anni,
ora sono pronti per tornare,
riprendere possesso dei territori dal quale la sua gente era stata esiliata
Il cielo stellato sopra di loro,
l’orbita di una navicella spaziale,
un popolo in fuga che sarebbe tornato.
Una nuova civiltà da ricreare.
 
Urla e litigi attorno ad un fuoco,
inni di guerra fra la gente,
osservo di nascosto,
vedo una donna parlare di guarigione,
armonia, amore e condivisione,,
gli uomini che vogliono la guerra contro gli altri,
le donne che gemono,
non è quella la via che gli è stata insegnata.
La mamma, la matriarca, mia madre che si impone,
non è quella la strada che percorreremo afferma,
non vogliamo più essere mostri,
arriverà il momento in cui , forse dovremmo prendere la armi,
ma sarà alla fine, solo quando anche l’ultima parola sarà vana.
Arriverà chi porterà la pace,
colei che dalle stelle sfiderà i clan,
sfiderà le debolezze e vincerà,
darà la propria grazia e ogni cosa prenderà il giusto cammino.
Gli uomini mormorano
Ma è della donna l’ultima parola,
aspetteranno la venuta della gente del cielo
allora ogni cosa si compirà
Proclama la matriarca, la madre.
 
Esco fuori, osservo il cielo,
vedo la stella in movimento.
“Loro ci porteranno alla nuova era”
“sei sicura mamma”
“Si piccola Luna”
“Noi cammineremo affianco al loro destino e
ogni cosa troverà il proprio posto”.
Osserva il cielo
Osservo il cielo
 
Sono un’aquila che vaga
Volo lontano verso luoghi che conosco,
il campo Jaha, la gente in fermento
Vedo Lexa con la sua gente, sono pronti alle armi
Vedo un uomo che si inerpica sul lato della montagna,
non è Mount Weather, mi volta le spalle,
una porta in metallo nascosta dal fitto sottobosco.
Si volta, alza lo sguardo.
L’ex-cancelliere sta tornando.
In guerra o in pace?.
 
Clarke si svegliò di colpo madida di sudore. Si trovava in una capanna di pelle, al centro un focolare di pietra scaldava dell’acqua che sprigionava un odore pungente di erbe.
Si ricordò che la matriarca Luna l’aveva guidata verso uno stretto sentiero, a quella capanna nascosta nella boscaglia. L’aveva fatta spogliare poi erano entrate in quel luogo, il caldo e l’umidità l’avevano subito assalita.
“Ora faremo un viaggio” le aveva mormorato la donna mentre lasciava cadere dentro un contenitore fumante delle erbe “Vedrai il passato, il presente, il futuro..poi parleremo ancora”.
Clarke si ricordò che il suo primo istinto era stato quello di scappare, poi trattenuta dal dovere, dalle responsabilità era rimasta. Si era fatta guidare dalle parole, dai canti della donna, aveva chiuso gli occhi.
Ora non era certa di cosa avesse visto, era stato solo un sogno, un allucinazione o realmente aveva potuto vivere uno scorcio del passato e del presente.
Chi erano le donne di quel passato. Aveva visto la matriarca, come era possibile? E le altre?.
Venne assalita da un’irrazionale panico.
“Respira Clarke, respira.”
La donna aveva aperto leggermente la porta, rischiarando l’ambiente e diradando l’umidità che avviluppava ogni angolo della tenda.
Man mano che il vapore usciva, Clarke diventava più lucida e il sogno sembrava svanire nel nulla.
Si sentì assalire dai brividi, il sudore le si stava asciugando addosso.
La donna le passò una coperta “Tieni, ti terrà caldo”
Clarke la prese volentieri.
Rimasero in silenzio per alcuni minuti, mille domande si susseguivano nella mente della giovane.
Avrebbe voluto parlare ma la matriarca la bloccò.
“Aspetta, non è mai cosa buona parlare a stomaco vuoto e chiusi in una tenda del sudore. Usciremo, mangeremo e solo allora parleremo.”
Clarke annuì e aspettò, sempre all’erta.
Poco dopo la donna la invitò ad uscire.
Dietro la capanna alcuni ceppi erano posizionati attorno ad un fuoco che stava scaldando qualcosa che aveva un profumo decisamente gradevole e che le faceva sentire i crampi della fame.
Si sedette dove la donna le indicò poi si trovò fra le mani una ciotola in legno piena di stufato fumante.
Sebbene la primavera non fosse ancora arrivata, quel sole delle prime ore del pomeriggio la stava riscaldando e lo stomaco pieno le stava donando una serenità gradita dopo l’allucinazione della capanna.
“Cosa ho visto?” si chiese Clarke prima di rendersi conto di aver parlato ad alta voce.
Luna sorrise “Hai fatto un viaggio, attraverso il tempo, hai per un attimo visto il nostro passato e cosa il futuro ha in serbo per te”.
Clarke la osservò perplessa, frammenti di immagini scorrevano nella sua mente “Cosa è successo alla tua gente”
La matriarca si fece cupa “Secoli orsono, quando questo continente apparteneva alle nostre genti, come in ogni luogo ed epoca lottavamo fra noi anche se il nostro popolo era fra i più pacifici. Non si poteva dire lo stesso dei Phatwan. I loro sciamani decretarono che se non avessero distrutto la nostra tribù, il popolo dei Phatwan sarebbe stato distrutto, il loro capo non ci pensò due volte e rase al suolo i nostri villaggi, uccidendo tutta le gente. Solo pochi di noi riuscirono a salvarsi scappando nella notte, donne e bambini per lo più. Diventammo un popolo in esilio, in attesa del momento in cui saremmo potuti tornare a casa perché, come i loro sciamani avevano profetizzato la nostra fine, così i nostri sapevano che prima o poi saremmo risorti e avremmo portato l’umanità ad una nuova Era con l’aiuto di un popolo proveniente dalla stelle. E così sarà.”
“Ma noi non vogliamo lottare” ribattè di getto Clarke.
“Non lotteremo, finchè non sarà necessario, useremo le parole e la comunione del nostro destino per parlare ai loro cuori. Dovremmo fare dei sacrifici. Ogni grande trasformazioni porta con se dei sacrifici ma non saremmo mai portatori di morte. Questo te lo prometto sulla mia stessa stirpe” concluse serie la donna guardando negli occhi Clarke.
La giovane percepì tutta la sua decisione in quelle parole e in quelle che aveva sentito nel discorso della madre prima di lei e accettò quello che il destino le avrebbe riservato.
Allungò la mano verso la matriarca del popolo delle barche sancendo così un patto a cui avrebbe tenuto fede fino alla morte. Voleva credere fermamente che quel popolo antico avesse le risposte che anche lei cercava.
La donna prese la mano di Clarke fra le sue, un sorriso le si dipinse sulle labbra.
“Grazie Clarke del popolo del cielo, la tua fiducia mi rende onore”
Altre volte la giovane si era fidata dei grounders, ma i dubbi l’avevano sempre tormentata. Questa volta non ebbe esitazioni.
L’intreccio delle mani si sciolse “E ora..” disse alzandosi e cominciando a coprire le braci del fuoco “torniamo a Miramar, così potrai vedere dove è nostra intenzione costruire gli alloggi per accogliere i tuoi compagni”
Un tarlo però divorava Clarke “Cosa faremo con il resto, con gli altri clan”
“I segni arriveranno e quando sarà il momento saremo preparati. Ciò che doveva essere fatto è stato fatto, il resto sarà solo la conseguenza delle nostre precedenti azioni”
Clarke avrebbe voluto chiedere altro, quella risposta sibillina non le diceva molto eppure decise, per ora di lasciar perdere.
Tornarono verso Miramar dallo stesso sentiero da cui erano venuti e passo dopo passo Luna raccontava la storia del suo popolo e di quei luoghi.
 
Oltre, a est, in una roccaforte nascosta dentro una montagna due uomini osservavano ciò che avevano innescato, il luogo che sarebbe diventata la loro casa era ormai prossimo ad essere abitabile anche nelle situazioni peggiori. Ogni cosa procedeva secondo i piani.
Osservarono dagli spessi vetri della centrale di controllo il giardino dell’Eden che era stato creato per il loro popolo, la Serra, arrivata intatta, come era stato predisposto da sempre, era una giungla ricca di vegetazione punteggiata da aree brulle che avrebbero ospitato le coltivazioni di piante da frutto e ortaggi. Un polmone di aria pura all’interno della montagna. Il reattore nucleare e l’energia geotermica avevano dato corrente e illuminato i tunnel delle coltivazioni idroponiche. Le pompe pescavano l’acqua dalle sorgenti nelle profondità della Terra. New Heaven aveva prosperato per cent’anni preparandosi ad accogliere il nuovo popolo.
“Il momento è giunto” disse l’ologramma a forma di Donna.
Jaha, per l’ennesima volta, alzò gli occhi al soffitto, quando A.L.I.E. parlava in quel modo lo indisponeva in un modo che non aveva immaginato.
“Si, ora attiveremo il conto alla rovescia e non si potrà tornare indietro. Il popolo eletto troverà riparo in questi luoghi in attesa che la Terra ripulita dalle mutazioni sarà di nuovo un posto dove vivere.” Disse Emerson.
Jaha annuì.
Insieme, ognuno in una specifica console, schiacciò dei pulsanti in una perfetta e ormai collaudata danza, le loro dita correvano sui tasti. Entrambi dovevano fare la loro parte.
Al termine dell’operazione un display colorato lampeggiò e apparvero delle cifre: 30 giorni, 23 ore 59 minuti 30 sec..29, 28. Il timer era stato attivato e il conto alla rovescia era partito.
Jaha si rese conto per la prima volta che non sarebbe più tornato indietro, aveva 30 giorni per portare in salvo tutta la sua gente prima che venisse sterminata dalle bombe nucleari che sarebbero state sganciate in tutti i territori abitati del pianeta.
Volse lo sguardo verso Emerson. Anche lui era giunto alla stessa conclusione.
Il militare di Mount Weather si avvicinò a lui sorridendo, era chiaro che fosse soddisfatto per il lavoro fatto. Allungò la mano per stringere la mano all’ex-cancelliere.
Fu un’istante, il bagliore metallico di una lama lampeggiò nella stanza. Il gorgoglio di un uomo in fin di vita.
Emerson crollò a terra, un pugnale era conficcato poco sotto il suo costato.
I suoi occhi guardarono Jaha, una domanda inespressa nel suo sguardo.
L’ ex-cancelliere si piego accanto al corpo del morente.
“Hai adempiuto perfettamente ai tuoi compiti ma, non posso concederti di vivere”
Uno strascicato perché uscì dalle labbra assieme ad un rivolo di sangue.
“La tua gente ha ucciso i miei ragazzi, li hai messi in pericolo quando sarebbero potuti essere salvati. Non posso lasciarti in vita. Lo devo a mio figlio e a tutti loro”
Detto ciò prese fra le mani l’impugnatura del coltello e lo affondo ancora più profondamente nel corpo dell’ uomo.
Un lampo di dolore passò negli occhi della ex-soldato di Mount Weather poi, i suoi occhi si fecero vitrei.
Jaha prese il corpo e lo trascinò verso il condotto che portava all’inceneritore e lo fece scivolare dentro. Pulì il sangue che aveva macchiato il pavimento in cemento.
Per tutto quel tempo, la figura immobile, simili ad un fantasma osservava ogni cosa.
“Poteva essere ancora utile alla nostra causa” disse.
Jaha però fece finta di non sentirla e continuò la pulizia del pavimento.
Si alzò poi in piedi e guardò dritto verso A.L.I.E.
“Ora io partirò e fra meno di un mese tutto il mio popolo raggiungerà New Heaven. Fa che ogni cosa sia pronta.” Concluse, poi prese uno zaino e uscì dal complesso attraverso una piccola porta di servizio in acciaio temprato. Era nascosta dalla boscaglia e nessuna l’avrebbe potuta vedere se non avesse saputo l’esatta collocazione.
La chiuse dietro di se.
Era pronto per raggiungere il campo chiamato in suo onore, avrebbe finalmente potuto tornare da loro e mostrare a tutti loro che realmente esisteva una possibilità di vita pacifica su questo mondo e che la città della luce non era solo leggenda.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7
 
19 marzo Campo Jaha

Sinistro, destro, sinistro.
Destro, sinistro, destro.
Goccioline di sudore gli imperlavano la faccia ma Bellamy non ci faceva caso. Concentrato a sfogare la rabbia e la delusione che sentiva circolare in corpo.
Un velo di paura di sottofondo che stava tentando di tenere a bada.
Si volse di scatto quando sentì qualcuno chiamarlo.
“Ehi campione, tranquillo, sono solo io” disse Raven alzando le mani in segno di resa. “Non pensavo che Clarke ti mancasse già così tanto”. Il tentativo della ragazza di fare un po’ di umorismo cadde nel vuoto più assoluto. Gli occhi di Bellamy erano incollati sul suo viso ma il meccanico si rese conto che non la guardava, perso chissà in quale paranoia.
“È stata una sua scelta Bellamy, non torturati per questo” continuò la ragazza.
Il giovane irrigidì la mascella, si deterse il viso dal sudore e chiese “Raven cosa vuoi?”
La ragazza scrollò le spalle, se era così che voleva ragire Blake, lo avrebbe lasciato fare ancora un per un po’ ma, la nuvola nera che alleggiava sulla sua testa, stava cominciando ad innervosire tutti. Jasper se ne era andato, ok, era stato un fulmine al ciel sereno ma era una sua scelta, non c’era altro da dire.
“Allora?, cosa volevi?” chiese spazientito Bellamy osservandola cupo.
“Ehi, ero solo venuta ad avvisarti che fra dieci minuti potremmo collegarci con Miramar, pensavo volessi saperlo” concluse tagliente la ragazza prima di voltarsi e allontanarsi zoppicando verso l’uscita.
In quel momento il giovane si rese conto di quanto fosse stato stronzo con Raven
“Scusa” urlò all’indirizzo delle spalle della ragazza che fece solo un lieve cenno con la mano.
Prese un asciugamano dalla panca per detergersi dal sudore e mentre si preparava per raggiungere Raven alla stazione radio pensò agli ultimi giorni.
Bellamy sapeva di essere diventato intrattabile da quando aveva saputo della partenza di Jasper. Nemmeno le chiacchiere con Clarke tramite la radio riuscivano a togliergli l’angosciante sicurezza che sarebbe successo qualcosa di brutto. In fondo al cuore riusciva perfettamente a capire la scelta del ragazzo, ora che sapeva cosa significava amare una persona oltre ogni altra cosa, il solo pensiero di perderla gli distruggeva l’anima. Se il sentimento che Jasper aveva provato per Maya era anche lontanamente simile al suo, allora erano tutti in grave pericolo. Se qualcuno avesse fatto del male a Clarke, lui sarebbe stato in grado di uccidere quelle persone con le sue stesse mani. Ed era questo pensiero, questa certezza che gli facevano temere il peggio. Jasper aveva dovuto vivere per mesi sotto il loro stesso tetto, aveva visto come il loro rapporto era cambiato e questo doveva aver acuito la rabbia, la mancanza di Maya. Erano state le loro decisioni a ucciderla. La sua scelta di andarsene era stata coraggiosa ma Bellamy erano anche convinto che il passare del tempo e la lontananza non avrebbe fatto altro che far aumentare l’astio nei loro confronti, un fuoco sotto la cenere, pronto a divampare e bruciare ogni cosa. Presto il campo Jaha avrebbe dovuto fare i conti con dei grandi cambiamenti e Jasper era un’ incognita pericolosa da non sottovalutare. Una persona tradita e distrutta era capace di fare qualunque cosa.
Quei pensieri cupi lo accompagnarono fino alla stazione radio dove, oltre a Raven erano presenti anche Laudria e Abby. Ormai la routine di quelle chiamate erano una cosa consolidata. Prima le cose importanti da decidere poi, il piacere di qualche chiacchiera.
 
Raven era già impegnata a prendere i primi contatti con Miramar, fra le scariche elettrostatiche sentiva la voce di Marcus che cercava, come Raven, di diminuire le interferenze e amplificare il segnale. Non sarebbe stato tutto perfetto ma era già un ottimo risultato. Mantenere una linea stabile con una stazione così lontana da loro era un traguardo senz’altro ragguardevole.
Bellamy osservò la giovane e si rese conto che forse molti di loro non sarebbero mai potuti sopravvivere a tutto quello che era successo senza di lei. Il suo sguardo cadde sui tutori per le gambe. Aveva perso tanto sulla terra, più di quanto lui stesso e molti di loro avevano perso eppure, indomita, ce l’aveva fatta e ora sembrava aver trovato un po’ di serenità e di questo ne era veramente grato.
Ripensò allo strano modo con cui era iniziata la loro amicizia e sorrise.
In quell’istante Raven si girò verso di lui, alzò le sopracciglia con fare interrogativo. Lui scosse la testa, sorrise e le sillabò uno scusa.
Per contro lei sussurrò “idiota” che  lo fece scoppiare in una risata a stento trattenuta.
La continuò ad osservare per tutto il tempo che impiegarono ad ascoltare le informazioni che Marcus stava dando loro. I piani stavano procedendo come previsto e la Matriarca aveva accettato ufficialmente di accogliere tutti gli abitanti del campo Jaha a Miramar.
Bellamy si chiese cosa avesse dovuto dire o fare Clarke per rendere ufficiale quella decisione. Le loro ultime conversazioni erano state molto brevi e non avevano avuto occasioni di parlare di tutto quello che era successo durante il viaggio e all’arrivo nel villaggio del popolo delle barche.
Quanto le mancava, pensò il ragazzo sentendo il cuore farsi pensate. Non si era reso conto di quanto profondamente fossero uniti fino a quando, una volta partita, non aveva cominciato a sentire la mancanza dei suoi mezzi sorrisi, del suo volto serio quando i suoi pensieri erano persi lontano. L’amava più di ogni altra cosa e si resa conto, in un lampo di consapevolezza, che non gli e lo aveva mai detto.
Beh presto rimedierò e si lasciò andare, per la prima volta a dei veri pensieri romantici.
Cosa che per un attimo lo mise persino a disagio.
Sensazione che lo fece ridere di se stesso.
Il filo dei suoi pensieri fu interrotto da Raven che gli stava passando il microfono. “Bellamy, Clarke vuole parlare con te”
Si avvicinò immediatamente e prese fra le mani la ricetrasmittente. La stanza attorno a lui si era svuotata e Raven si stava alzando per lasciar loro una certa intimità.
“Vado a finire alcune cose, avvertitimi quando avete finito” gli sussurrò prima di allontanarsi verso l’altro capo della stanza.
 
“buongiorno brave princess, come stai” disse Bellamy aprendo la comunicazione.
“mi sei mancato Bell” fu l’immediata risposta di Clarke.
“anche tu” rispose in un sussurro “anche tu” ripetè ad alta voce sapendo che le sue prime parole non erano riuscite a superare la distanza e le interferenze. “Come va lì al campo? Hai conosciuto Luna? Ti sei goduta il mare?” chiese a raffica Bellamy, desiderava sentirla parlare, crogiolarsi nelle sue chiacchiere.
“Wow, beh, direi che il mare è una visione assolutamente unica, Miramar e i suoi abitanti sono meravigliosi e Luna beh ..” lasciò in sospeso la frase. Bellamy era consapevole di quanto fosse difficile riuscire a definire la Matriarca del popolo delle Barche. Lui stesso era rimasta colpito da quella donna ma per Clarke era ancora qualcosa di più. Il popolo delle barche rimaneva comunque una struttura di tipo matriarcale e solo una donna avrebbe potuto cogliere e capire i segreti più profondi di quel posto.
“Luna è una donna straordinaria e in questo luogo c’è molto di più di quello che ci possiamo immaginare.” Un’altra frase in sospeso. Bellamy si fece più attento, si rese conto che doveva essere successo qualcosa a Clarke in quei giorni, qualcosa che non voleva o non poteva condividere con lui.
“Cosa c’è Clarke?” chiese preoccupato Bellamy.
“È difficile da spiegare, questo luogo nasconde storie, leggende, segreti. Ho parlato a lungo con Luna” il ragazzo riuscì a percepire la preoccupazione nelle parole di Clarke, attese con la speranza che si aprisse con lui e gli raccontasse consa la stava angustiando.
Per alcun secondi si sentirono solo le scariche elettrostatiche poi la voce della ragazza “Bell, presto succederà qualcosa, non so ancora cosa, ma presto arriverà e dovremmo essere pronti”
“Clarke di cosa stai parlando”.
“Non lo so di preciso, Luna mi ha fatto vedere il passato e ho scorto qualcosa del futuro. Presto i clan attaccheranno e anche Jaha ritornerà. Bellamy sono preoccupata.” Terminò la ragazza.
Il ragazzo era sempre più confuso ma sentiva che non avrebbe ricevuto risposte in quel momento che Clarke era frustrata quanto lui.
“Clarke, sai vero che affronteremo insieme tutto quello che succederà, lo sai”
“Si, Bell affronteremo tutto ma non mi piace, vorrei solo che tu fossi qua con me, mi manca sentirti vicino. Questa lontananza mi sta facendo impazzire e questa è tutta colpa tua lo sai vero?”
Bellamy rise di gusto “Stai provando esattamente quello che provo anch’io. Presto vi raggiungeremo e nessuno mi staccherà da te tanto presto”
“È una promessa vero?” ribatté subito Clarke.
“È una promessa Principessa” rispose Bellamy.
Entrambi consci come non mai della distanza che li divideva. Guardavano di fronte a loro la radio, immaginando l’espressione dell’altro, sognando il momento in cui finalmente si sarebbero potuti rivedere.
Fu un attimo poi Bellamy sentì Raven schiarirsi la voce dietro di lui.
Si volse, sapeva cosa gli stava dicendo, dovevano chiudere la conversazione.
“Clarke, dobbiamo chiudere” disse a malincuore.
“Si, dobbiamo…” rispose Clarke “Ci sentiamo domani Bell”
“A domani Principessa” rispose Bellamy prima di chiudere la conversazione, consci entrambi di non essere riusciti a dire tutto quello che avrebbero voluto.
Il ragazzo appoggiò il microfono sul tavolo e si lasciò andare contro lo schienale della sedia, confuso da quella chiamata. Un serpeggiante disagio gli corse lungo la schiena ricordando le parole su quello che sarebbe dovuto accadere. Era consapevole che primo o poi sarebbero arrivati ad un confronto con i clan ma aveva vissuto gli ultimi mesi con la speranza che non accadesse nulla e loro avessero vissuto tranquilli e pacifici a Miramar.
Clarke aveva spezzato anche quella speranza.
Sarebbe stata guerra, la ragazza non l’aveva detto, eppure era ciò che lui aveva percepito in quelle parole.
Respirò profondamente prima di girarsi verso Raven ancora accanto a lui.
Lo stava osservando. Leggeva nei suoi occhi la certezza che avesse sentito molto della loro conversazione.
“E così niente paese dei balocchi” disse il meccanico.
Bellamy scosse la testa.
“Devo farti sentire una cosa. Spostati” disse quindi la ragazza obbligandolo ad allontanarsi dalla radio.
“Cosa c’è?” chiese il ragazzo spostandosi.
Raven non lo ascoltò, aveva messo le cuffie e stava trafficando con i vari pulsanti delle frequenze radio.
Bellamy attese. Il corpo della ragazza era proteso in avanti, intenta a cogliere qualcosa, il suo viso concentrato. Il moro cominciava ad essere agitato.
Alla fine Raven si rilasso, tolse lo spinotto delle cuffie dalla radio lasciò che il rumore che aveva ascolto fino a quel momento invadesse la stanza.
Il ragazzo venne investito dai suoni che provenivano dalla radio, il volume era molto alto e istintivamente Bellamy si coprì le orecchie urlando “Vuoi farmi diventare sordo, abbassa”.
La ragazza scosse il capo. Sulle sue labbra Bellamy lesse la parola “Ascolta”.
Benchè la cosa fosse abbastanza assurda decise di seguire l’indicazione che Raven gli aveva dato.
Fu nuovamente investito da quei suoni ora acuti, ora gravi. Si concentrò su di essi, sembravano solo scariche elettrostatiche e rumore di sottofondo. Lentamente però si accorse che sembrava esserci una sequenza in quei suoni.
“Che cos’è” si ritrovò ad urlare Bellamy osservando Raven.
La ragazza abbassò il volume e finalmente il silenzio conquistò la stanza.
“Non lo so, è apparso in questi giorni” la ragazza si accorse dello sguardo perplesso di Bellamy “Ogni giorno monitoro le varie frequenze, un’abitudine che ho preso quando siamo arrivati sulla Terra e che non ho mai perso, non dopo l’esperienza con quelli di Mount Weather. Di solito oltre alle nostre conversazioni, non ho mai percepito altri tipi di comunicazioni fino a quando non è apparso questo. Pensavo fossero solo interferenze poi mi sono accorta che in quei suoni c’era uno schema. Una sorta di codice”
“Sai di cosa o chi lo sta mandando”.
“No, per ora non ho ancora capito molto e non sono ancora riuscita triangolarlo. Ci sto lavorando con Monty”
“chi lo sa?”
“A parte Monty e ora tu, nessuno. Speravo di trovare almeno la sorgente prima di parlare ma, dopo le parole di Clarke, ho deciso di dirtelo” rispose la ragazza.
Bellamy annuì “Tu che ne pensi?”
Raven lo scrutò “Niente di buono, non credo che i clan abbiano la tecnologia per fare questo..” lasciò in sospeso la frase, non volendo dire ad alta voce ciò che pensava.
“Jaha” si ritrovò a dire Bellamy “forse ha trovato la città della luce.”
“forse..” ripetè Raven non del tutto convinta.
“Continua a lavorarci su, se hai bisogno di altro aiuto avvisa ok? Io ne parlerò subito ad Abby.” Concluse.
Stava per aggiungere altro quando sentirono dei passi affrettati arrivare dal corridoio.
Era Wick, decisamente trafelato “Stanno portando dentro John Murphy, l’hanno trovato al limitare del bosco con una gamba rotta.”
“Dov’è?”
“In infermeria. Lo stanno curando”
“Grazie” rispose il ragazzo allontanandosi verso il centro medico.
Troppe novità in poco tempo, qualcosa si sta muovendo, pensò mentre superava la gente.
Troppe novità.

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Nota: mi scuso per il ritardo con cui ho postato questi ultimi capitoli ma le festività si sono messe in mezzo inoltre, a causa della vita reale, non potrò garantire la pubblicazione due volte alla settimana e nei giorni prefissati. Mi scuso di questo disguido e spero che comunque questo non vi porti ad abbandonare la storia che state leggendo :(. Spero vi stia affascinando abbastanza da lasciare prima o poi un commento :). 
Alla prossima...

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8
Campo Jaha

-Cazzo, potevano per lo meno abbandonarmi un po’ più vicino quegli idioti- Pensò Murphy mentre veniva trasportato verso il centro medico. Il dolore lo stava uccidendo. La gamba gli stava pulsando come una dannata e la confusione della gente che lo attorniava non faceva che peggiorare il mal di testa che non lo aveva mai abbandonato da quando, uno scossone dopo l’altro, era stato trasportato fino a qualche centinaio di metri dal campo Jaha. 
Quegli idioti dei grounder avevano preso alla lettera le indicazioni del loro comandante e lo avevano abbandonato a qualche decina di metri dal limite della foresta. Era stato costretto a zoppicare con delle stampelle di fortuna fin oltre gli alberi prima che qualche guardia del campo Jaha lo individuasse e allertasse tutti. 
Ora non aspettava altro che qualcuno gli piantasse un po’ di morfina nelle vene per poter dimenticare il dolore e tutto quanto. 
Sentiva la gente attorno a se agitarsi, era stato portato al centro medico del campo.
Stava per urlare che qualcuno gli portasse qualcosa quando nel suo campo visivo entrò il viso di una Grounder. Non l’aveva mai vista, era strana.
“Chi cavolo sei tu?” gli sfuggì.
La ragazza sorrise, un lieve movimento delle labbra che le ricordava la guaritrice che l’aveva curata al campo del popolo del ghiaccio. -Le faranno con lo stampino ste guaritrici- si ritrovò a pensare.
“Tranquillo, ora ti daremo qualcosa per dormire e poi starai meglio” 
Al solo pensiero che qualcuno potesse finalmente dargli un antidolorifico o qualunque medicinale che lo facesse crollare nell’oblio del sonno era il benvenuto. “Già mi piaci” ribatte con un sorriso sfrontato.
La ragazza rise poi si spostò lasciando spazio alla madre di Clarke che con gesti esperti gli fece un’iniezione. Pochi secondi dopo Murphy crollo nell’agognato oblio. 

Il risveglio fu meno traumatico del previsto, appena aprì gli occhi, nella penombra riconobbe il luogo, l’ infermeria era così simili a quella dell’Arca che per un’istante pensò di essere ancora nello spazio. Una sensazione che passò immediatamente e il ricordo degli ultimi giorni tornò pressante. Il dolore alla gamba era diminuito e ora era ragionevole da sopportare.
Si guardò attorno, era stato messo su un lettino e separato dagli altri da un paravento che rappresentava l’unica forma d’intimità. Per il resto, ciò che lo circondava, gli ricordava da vicino una qualunque postazione sull’Arca.
Sentiva la bocca riarsa, tentò di alzarsi per prendere un bicchiere d’acqua lì vicino ma, al primo movimento, la testa cominciò a girare e sbuffando si lasciò nuovamente cadere sul materasso.
“C’è nessuno?” chiese alzando un po’ la voce.
Sentì dei lievi passi nella stanza e un’ ombra superare il divisorio.
Era nuovamente la grounder che aveva scorto appena arrivato in clinica. Quella che aveva riso.
I suoi modi, come la volta precedente erano calmi e pacati. Un lieve sorriso sembrava incresparle sempre le labbra. In quei mesi aveva visto molti grounder eppure lei sembrava così strana, forse era il colore dei suoi capelli e della sua pelle, in netto contrasto con gli occhi verdi. O era quella serena calma che l’avvolgeva in ogni suo movimento.
Si chiese come fosse fare sesso con lei, ma scaccio subito quel pensiero. 
“Ben svegliato” disse avvicinandosi a lui e porgendogli una tazza “Bevi ti aiuterà a sentirti meglio”
John osservò per un istante la tazza, annusò il contenuto indeciso, poi la sete prese il sopravvento e si scolò tutto il liquido.
“Come ti senti? Parecchie persone vorrebbero parlare con te” dissi Laudria scrutandolo attentamente. 
“Ci credo!” rispose Murphy. Per un istante si sentì invadere da un motto di fastidio nei confronti di tutto e di tutti. Il suo valore lì dentro, come in ogni altro luogo in cui era stato da quando era nato, era sempre il medesimo: numero, pedina, esca, capro espiatorio o messaggero come in quel caso. Etichettato sin dall’inizio.
“Posso farli chiamare?” chiese la giovane guaritrice. C’era una sorta di indecisione “sempre se ti senti in forza”.
Muprhy sorrise, -strano- pensò, era la prima volta che qualcuno non lo obbligava a fare qualcosa. Si sentì accondiscendente “Si chiamali pure”. La ragazza annuì e si stava  già allontanando quando il ragazzo la bloccò “Come ti chiami?”
La giovane si volse “Laudria del popolo delle barche”
Murphy annuì “John”.
“Piacere John” replicò la ragazza, “se mi vuoi scusare chiamo gli altri”
Il giovane la lasciò andare pensieroso.

Abby, Bellamy, Octavia, Lincoln e la stessa Laudria non lo fecero aspettare troppo.
Fra loro intravide anche Raven, era da mesi che non la vedeva e, a quanto sembrava, si era rimessa. Era felice per lei, si sentiva ancora in colpa per ciò che le aveva fatto. 
Li scrutò uno ad uno cercando di vedere quanto fossero cambiati dall’ultima volta che li aveva visti. Rughe di preoccupazione segnavano il viso della madre di Clarke, mentre gli occhi degli altri erano cupi. 
Non trovò fra loro la giovane Griffin, ma era certo che sarebbe stata la prima ad arrivare. 
“Felici di vedermi spero” si lasciò sfuggire in un gesto di scherno. Per quanto avessero collaborato durante la ricerca di Clarke, i loro rapporti erano stati completamente compromessi da quello che era accaduto prima.
“Cosa ti è successo?” chiese Bellamy con voce dura. Di certo non lo aveva ancora perdonato per averlo quasi ucciso e ferito gravemente Raven.
“Non aspettiamo la biondina?” replicò sapendo che avrebbe fatto solo infuriare di più il gruppo. Non capiva come mai quelle situazioni tiravano fuori sempre il peggio di lui.
“Non serve, non è qua” rispose sempre Blake.
Murphy annuì valutando attentamente quelle parole. Non sapeva esattamente cosa stesse succedendo e spiattellare tutto quello che sapeva gli sembrava un po’ precipitoso.
“E qui cosa mi sono perso?” chiese guardandosi in giro indifferente e puntando alla fine gli occhi sulla ragazza che si era presentata come una del clan del popolo delle barche.
Vide il giovane Blake stringere la mascella e serrare i pugni. Lo stava facendo decisamente irritare e questo lo divertiva. 
Spesso si era chiesto come mai avesse questo atteggiamenti da bastian contrario nei confronti del mondo e di tutti ma non lo aveva ancora capito. Forse era fatto male. Chi lo sa.
“Murphy, ti abbiamo trovato al limitare del bosco. Laudria dice che sei stato curato dal popolo dei ghiacci. Cosa ci facevi con loro? Cosa ti è successo in questi mesi?”
Murphy osservò con attenzione la guaritrice. Come faceva a sapere così bene chi gli aveva salvato la vita.
“Chi sei?, e sai a cosa mi riferisco” disse rivolgendosi alla ragazza. Nei suoi occhi non c’era più ironia o boria ma solo il freddo calcolo di chi sta cercando risposte per poter proteggere al meglio la sua gente.
“Lei è con noi Murphy, non sei tu …” cominciò Blake ma la guaritrice lo bloccò.
“Il mio popolo vive più a sud rispetto queste zone, siamo un popolo pacifico di guaritori e le nostre conoscenze sono la nostra moneta di scambio con gli altri clan di questi territori per mantenere la pace. La nostra matriarca ha deciso di accogliere il vostro popolo fra le nostre genti e Clarke è con lei in questo momento. L’intero campo Jaha si sta preparando a trasferirsi a Miramar il nostro villaggio.” Rispose con tranquillità Laudria “ho risposto alle tue domande?” chiese quindi.
John annuì, la sua mente in febbrile movimento. 
“non sarà così semplice” mormorò più a se stesso che alla gente presente. Poi alzò gli occhi e cominciò a raccontare del viaggio verso la citta della luce, di come erano morti gli altri compagni, dell’arrivo sull’isola e l’incontro con A.L.I.E., un mormorio sconcertato si diffuse fra i presenti e notò uno scambio di sguardi fra Blake e Raven.
Per alcuni istanti fu incerto se parlare anche di Emerson ma si rese conto che non era il momento, dovevano digerire già troppe cose e non aveva ancora parlato del popolo del ghiaccio. 
Quindi narrò del suo viaggio di ritorno, di quello che Jaha gli aveva chiesto di fare e l’incontro con il capo del clan.
A quel punto si volse verso Blake.
“Ho un messaggio per te da una tipa che hai salvato e che ti ha salvato quando eri imprigionato a Mount Weather. Vuole vederti.”
Il ragazzo moro lo osservò, diverse domande giravano nella sua testa. Murphy lo vedeva dal modo in cui lo stava scrutando.
“Come fai a sapere di Mount Weather?”  chiese a quel punto la madre di Clarke. Era la prima volta che interveniva.
“Quando il moro qua e la biondina hanno deciso di far fuori tutti quelli di Mount Weather, hanno lasciato vivo uno di loro, un certo Emerson che sta aiutando Jaha nei suoi piani”
Un silenzio agghiacciato si diffuse nella stanza.
“Cosa ti ha detto di preciso la donna?” chiese Bellamy. 
Murphy si rese conto che il ragazzo sapeva esattamente di chi stesse parlando. Questa certezza lo sollevò. Fino alla fine non era stato certo di cosa volesse da lui e se stesse facendo bene a riferire le sue parole.
“Le parole precise non le ricordo. Ha detto semplicemente che tu  la conosci, che ha un debito con te e che vi dovete incontrare alla prima notte senza luna al vecchio campo base se vogliamo che una guerra venga evitata.”
“Clarke aveva ragione”, rivolgendosi agli altri, “molte cose si stanno muovendo”. Poi rivolto a Linclon chiese “Quando sarà la prossima notte senza luna?”
“Stanotte!” rispose il guerriero.
“Allora dobbiamo muoverci e dobbiamo parlare anche con Clarke.” Replicò Bellamy prima di rivolgersi nuovamente a Murphy. “Ok, so che non ci fidiamo l’uno dell’altro ma Emerson e Jaha possono essere realmente pericolosi per noi e il campo.?”
Murphy rifletté attentamente sulle parole da dire. Poi fissò negli occhi Bellamy.
“Si, possono essere pericolosi. Jaha sembra un invasato convito di aver trovato la chiave per far sopravvivere la nostra gente in questo mondo e, ve lo dico, non è niente di buono”.
Un nuovo silenzio attonito piombò nella stanza poi tutti cominciarono a parlare insieme, bombardandolo di domande. Un lacerante mal di testa cominciò a sopraffarlo.
“Silenzio!” comandò la guaritrice ottenendo subito il silenzio dei presenti. “così non otterrete niente” continuò la sua voce melodiosa, una panacea per le orecchie di Murphy “John ha già risposto a molte delle vostre domande. Ora deve riposare, non può continuare così”
Con la coda dell’occhio notò Blake sbuffare ma la guaritrice gli lanciò un’occhiataccia. Il moro alzò le mani in segno di resa, poi uscirono dalla stanza. Nemmeno un saluto nei suoi confronti. Stronzi!. Ecco perché non li sopportava.
“Scusami” le disse la guaritrice avvicinandosi al lettino. “Se avessi immaginato ciò che dovevi raccontare, avrei aspettato”.
“non fa niente” rispose di getto Murphy. “era una cosa che doveva essere fatta”
Laudria annuì “Si, ormai le cose si sono messe in movimento. Grazie per aver parlato con noi”
John alzò le spalle. Per quanto fossero degli stronzi erano comunque la sua gente e lui non era scevro di colpe. “Era mio dovere” rispose.
La giovane guaritrice gli sorrise, gli sfiorò una mano con la sua “Sei una brava persona John Murphy” Il ragazzo spostò di scatto la mano a disagio “no, non lo sono” mormorò.
Laudria gli sorrise comprensiva poi replicò “Riposati ora, ne hai bisogno per i prossimo giorni” e si allontanò lasciando Murphy perso nei suoi pensieri. 

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9

“Sai che può essere una trappola vero?, Veramente ti vuoi fidare di Murphy?”
“Si Octavia, so che potrebbe essere una trappola” rispose spazientito Bellamy mentre nell’armeria del campo Jaha continuava a controllare il necessario da portar via con se.
“non hai nemmeno parlato con il consiglio e non abbiamo nemmeno avuto la possibilità di parlare con Mirmar” continuò imperterrita la sorella.
“Basta!” replicò il ragazzo sbattendo lo zaino che teneva fra le mani contro il tavolo accanto a lui. “Octavia, so perfettamente tutto questo, me lo stai ripetendo da quando abbiamo lasciato l’infermeria.”
Bellamy stava fissando la sorella furioso. Sapeva che era un azzardo, che poteva essere pericoloso ma doveva essere fatto. Ricordava la donna di cui aveva parlato Murphy, gli aveva salvato la vita. Aveva visto il suo sguardo sconcertato e furioso quando aveva scoperto che la scelta di Lexa li aveva obbligati ad andarsene senza poter uccidere gli uomini che per mesi li avevano tenuti in gabbia e torturati. Era quel ricordo, i suoi occhi pieni di rabbia che lo spingevano a credere nelle parole di Murphy. Sarebbe andato a quell’incontro e non avrebbe perso l’occasione di scoprire cosa avrebbero fatto i clan e, soprattutto, se la tribù del ghiaccio fosse un possibile alleato.
Sapere che Jaha progettava qualcosa di pericoloso, che con la primavera Lexa e i suoi si sarebbero mossi, gli metteva fretta e qualunque persona fosse stata dalla loro parte era ben accetta, compresa una donna che aveva visto un paio di volte in vita sua. 
“Io andrò” disse deciso alla sorella “Potete scegliere se rimanere qui o seguirmi.”
La sorella lo studiò un istante poi lentamente annuì “Avverto Lincoln che si parte fra mezz’ora, fra un paio di ore il sole tramonterà e voglio essere al vecchio campo il prima possibile. Chi viene con noi?”
“Saremo solo noi tre, non voglio sguarnire il campo ulteriormente visto che già molti sono partiti”.
“Ok” confermò la sorella “Ci vediamo all’ingresso della navicella”. 

Bellamy prese un respiro profondo e ricominciò preparare le cose necessarie per la spedizione. Era intento a caricare una pistola quando sentì una presenza dietro di se.
“Come sta Murphy?”    
“Sta riposando.” Rispose la guaritrice osservandolo.
Bellamy annuì senza alzare lo sguardo su ciò che stava facendo.
Fu Laudria a interrompere il silenzio “Sai che verrò con voi”
“Perché dovresti? Potrebbe essere pericoloso e se venissi ferita sarebbe ancor più difficile spiegarlo alla tua gente” rispose il ragazzo.
La ragazza rise “E tu credi che questo basti per fermarmi?”.
Si avvicinò a lui, lo obbligò ad alzare il viso e a guardarla “Abbiamo aspettato questo momento da sempre, sapevi che sarebbe accaduto prima o poi. Il mio popolo deve sapere cosa succederà con i clan del nord.”
Bellamy osservò la guaritrice. Sapeva che aveva ragione ma temeva che la sua presenza potesse indispettire il comandante del popolo del ghiaccio.
“Non succederà, li conosco, non so chi sia attualmente in comando ma ho accompagnato io stessa la nostra guaritrice che ha scelto di andare con loro.”
Il ragazzo non fece nemmeno caso al fatto che la guaritrice, una volta di più, fosse stato in grado di leggere i suoi dubbi, ma si chiese per l’ennesima volta quante cose ancora non sapessero del popolo della barche.
“Quindi è vero che siete stati voi a insegnare l’arte della guarigione negli altri clan” 
“Si, è così che abbiamo conosciuto Lincoln. A volte qualche Clan manda da noi i loro giovani per imparare, altre volte, dei nostri guaritori decidono di partire e conoscere il resto del mondo. Le nostre conoscenze e la nostra neutralità negli scontri ci hanno permesso di sopravvivere.”
“Quindi, forse c’è ancora qualche possibilità di pace” rifletté ad alta voce il ragazzo.
“No Bellamy” ribatté subito Laudria “Noi cercheremo quella strada ma ormai gli equilibri sono rotti. Se loro ci percepiranno come una minaccia allora sarà la guerra.”
Rimasero in silenzio dopo quelle parole, ognuno alla ricerca di qualcosa da dire.
La voce di Laudria ruppe il silenzio “È meglio che vada devo prepararmi” e uscì dalla stanza lasciando Bellamy immerso in pensieri ancora più cupi.

Arrivarono al vecchio campo quando il sole era ormai tramontato da almeno un ora. Il cielo era un tripudio di stelle, una scia di polvere luminosa sul loro capo..
La foresta era silenziosa attorno a loro e la spettrale presenza della navicella di metallo semi nascosta dall’edera incombeva su di loro. Il gruppo, di comune accordo, si divise. Lincoln e Octavia sarebbero rimasti all’esterno di guardia, nascosti fra la vegetazione, mentre Laudria e Bellamy avrebbero controllato l’interno della navicella.

Il ragazzo scrutò l’interno, era grigia e spoglia come se la ricordava, non erano più tornati in quel luogo da mesi e alcuni oggetti dimenticati erano ormai coperti di polvere. La pioggia e il vento avevano lasciato segni sul pavimento e aumentavano lo stato di abbandono. Accese una piccola luce, sarebbe stata praticamente impossibile da scorgere ad un occhio che non sapeva dove cercare poi e, accompagnato da Laudria, cominciarò a perlustrare i piani superiori quando furono distratti da alcuni rumori provenienti dall’esterno.  
Il comandante del clan del ghiaccio era arrivato. Camminava attraverso lo spazio di fronte all’ingresso della navetta, seguita da due guerrieri.
Octavia e Lincoln si fecero avanti ai lati del campo, alzando le mani e mostrandosi ai nuovi venuti.
Lo stesso Bellamy fece un passo oltre e superò la tenda che chiudeva l’ingresso lasciando che un po’ della luce della lanterna illuminasse il campo, subito dietro di lui lo seguiva Laudria.
Fu un attimo poi vide la guaritrice parlare nella sua lingua e slanciarsi verso il gruppo in arrivo. Bellamy, confuso, si allungò per fermarla, quando si accorse di una figura femminile, nascosta fino a quel momento dai guerrieri, sbucare di lato e raggiungere la guaritrice del popolo delle barche e abbracciarla ridendo.
Bellamy era sconcertato dalla scena che doveva aver disturbato anche il comandante del clan dei ghiacci che impartì alcuni comandi e le due donne ripresero un certo contegno anche se, invece di sciogliersi dall’abbraccio, si presero per mano e gli vennero incontro sorpassando anche il comandante del popolo delle barche che, a quel gesto, sbuffò infastidita.
Bellamy sorrise, non era l’unico che si sentiva stranito da quell’incontro e, le due guaritrici, perché tale doveva essere anche la ragazza arrivata con il popolo del ghiaccio, non sembravano particolarmente intimorite dalla quella reazione.
Solo quando furono quasi vicine a Bellamy, la guaritrice si rese conto dell’etichetta che aveva infranto.
Disse qualcosa in un sussurrò a Laudria che annuì. La giovane si spostò lateralmente per poter lasciar passare il suo comandante che annuì a quel gesto.

 “John Murphy ha mantenuto la sua promessa a quando vedo. Sono Echo, comandante del clan del popolo dei ghiacci delle tribù del Nord. Sul mio onore ti ringrazio per aver salvato la mia vita e quella della mia gente rinchiusa dagli uomini delle montagne.” Terminate quelle parole, il comandante si inchinò di fronte a Bellamy che rimase decisamente sconcertato.
Il vuoto della mente, senza sapere cosa dire poi replicò con una formula altrettanto formale “E io Bellamy Blake ringrazio te per avermi salvato la vita e aiutato nel momento del bisogno.” Si fermò senza sapere cos’altro dire. Non era preparato ad un incontro del genere, non dopo gli incontri pieni di tensioni con il popolo delle foreste e il comandante Lexa.
Laudria, conscia del suo impaccio, prese le redini della conversazione. 
“Accomodatevi all’interno dove potremmo parlare con più tranquillità” e facendo un segno con la mano invitò la piccola delegazione del popolo della barche.
Uno dei guerrieri, notò Bellamy ,rimase fuori e con un cenno la stessa cosa fece Lincoln.
Le due guaritrici del popolo delle barche cominciarono a tirare fuori alcune cose dai loro zaini. Probabilmente Bellamy avrebbe dovuto dire qualcosa ad Echo ma era troppo sorpreso dagli eventi e curioso di capire cosa stessero facendo le due donne che stavano predisponendo, a quanto sembrava, una specie di rinfresco davanti a loro.
Avevano steso delle coperte e tirato fuori alcuni involti che, una volta aperti, si mostrarono essere cibo, pane e qualche pezzo di carne secca. Estrassero anche delle ciotole e delle borracce.
Con la coda dell’occhio Bellamy osservò il comandante e si rese conto che stava guardando con un certo disinteresse la scena, più interessata ad analizzare i dettagli della nave.
Quando ogni cosa sembrava essere di loro gradimento, le due guaritrici si sedettero in ginocchio, una accanto all’altra e indicarono ai presenti di sedersi a terra.
Bellamy tentennò un istante, lanciò uno sguardo di sfuggita alla sorella che rispose  con una scrollata di spalle e una smorfia confusa. Il ragazzo decise quindi di seguire l’esempio di Echo e si sedette sui tessuti. Il guerriero non si mosse dalla sua posizione di guardia dietro al comandante e Octavia fece la medesima cosa.
Laudria annuì soddisfatta e fece un cenno alla giovane di accanto a lei che cominciò a distribuire il cibo e le bevande.
“Per il nostro popolo, niente è meglio che buon cibo per rompere il ghiaccio e parlare con tranquillità”
Echo annuì e si servì. Bellamy era ormai decisamente oltre al confusione e nuovamente si lasciò guidare da Laudria che sembrava perfettamente a suo agio nel ruolo da anfitrione e, infatti, prese nuovamente la parola.
“Vi ringrazio Echo per aver permesso alla mia cara Merua di essere presente a questo incontro. Spero che le sue capacità di guaritrice siano all’altezza delle vostre aspettative”.
Echo annuì. “Il mio popolo vi ringrazia, Merua è stata un risorsa impareggiabile in questi mesi, molti dei nostri sarebbero morti senza le sue cure.”
Bellamy notò la giovane guaritrice arrossire per quei complimenti e sul viso di Laudria un moto d’orgoglio.
“i motivi che però ci vedono qui riuniti sono di altro genere” continuò poi Laudria, dimostrando l’abile capacità di andare direttamente al sodo.
Echo annuì e fisso i suoi occhi castani direttamente su Bellamy.
“Presto i vostri popoli potrebbero subire un attacco da parte dei clan del Nord” disse senza peli sulla lingua la comandante.
“Niente che non ci aspettassimo e, se sarà necessario, saremo pronti” rispose Bellamy con una sicurezza che non sentiva del tutto.
La comandante rise “Mi dispiace straniero ma non sai cosa ti aspetta. Non potete farcela” rispose sprezzante.
“Eppure è grazie a noi che siete stati liberati dal Mount Weather e non sono più un problema” replicò piccato Bellamy. Sentì la guaritrice accanto a lui trattenere il respiro.
Echo lo osservò un’instante “di certo la presunzione non manca a voi skypeople. Ma questo non basterà per tenervi in vita, e nemmeno l’alleanza con il popolo delle barche.”
La donna si sporse verso di lui, fissandolo negli occhi “Quello che è successo fin’ora non è niente rispetto a quello che potrebbe succedere se tutti i clan dei popoli del nord si riunissero per combattervi.”
Bellamy si rese conto della minaccia sottesa a quelle parole ma non abbassò lo sguardo. “E noi saremo pronti!”
“Pronti alla morte, al massacro, volete una fine onorevole per il vostro popolo?” chiese sprezzante la donna “Se è per questo che siete pronti, allora è questo che otterrete”
Bellamy si rese conto che non stavano andando a parare da nessuna parte. Decise quindi di cambiare tattica. Fin’ora non aveva scoperto nulla che valesse quell’incontro e che non sapesse già.
“Perché hai voluto questo incontro Echo!” chiese quindi.
Un sorriso si dipinse sulle labbra della giovane, che apparve per la prima volta affascinante.
“Il mio popolo non vuole questa guerra e, come me, altri clan. Lexa non è un comandante degno di tale nome e le sue decisioni porteranno alla rovina tutti i popoli del nord. Sono venuta qui per sancire le basi di un’alleanza”.
Bellamy prese un respirò, annuì impercettibilmente. Un conto immaginare una cosa del genere, un conto sentirla dire.
“Perché dovrei fidarmi di te, Lexa ci ha già tradito una volta”
Vide il comandante del popolo del ghiaccio serrare le labbra e l’ira fiammeggiare nei suoi occhi.
“Lexa ci ha disonorato. Ha disonorato il nostro codice d’onore. È stata una codarda e debole perché non ha terminato il suo compito.”
Il ragazzo corrugò le sopracciglia “Che sarebbe stato…?”
“Sterminare gli uomini delle montagne e voi. Questo era il suo compito. Distruggere ogni possibile minaccia al nostro popolo. Anya prima di lei non c’era riuscita e Lexa doveva terminare il lavoro. Si è tirata indietro. E ora ci troviamo qui”
“E questo dovrebbe rassicurami” domandò Bellamy “noi vogliamo vivere pacificamente, lontano dai vostri territori e non crearvi alcun problema”
“La vostra stessa esistenza è un problema, non lo capisci straniero” spuntando quasi le ultime parole “ma..” disse poi rilassandosi “le cose cambiano e non si può tornare indietro. Una guerra con voi e con il popolo delle barche non porterebbe a nulla di buono e avete dimostrato più volte il vostro valore. È l’unica cosa che realmente vale in questo mondo. Siete qua, potremmo combatterci fino alla morte ma, alla fine, cosa rimarrebbe? Niente, solo morti e devastazione.” Nei suoi occhi il dolore per le  perdite del passato.
Echo riprese a parlare, la decisione traspariva dalla sua voce “ Quando hai salvato me e la mia gente, ho visto dentro di te, ho capito che tipo di guerriero tu fossi. Ho accettato il vostro diritto di vivere in questo mondo e sul mio onore giuro che questo diritto vi verrà riconosciuto.”
In quel momento Bellamy comprese che, forse, c’era una speranza per tutti loro di sopravvivere e trovare una vera casa. Annuì e allungò una mano verso il comandante del popolo del ghiaccio.
Una nuova alleanza era stata sancita. 

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NOTA: Grazie a tutti quelli che stanno seguendo la mia storia, che l'hanno messa fra le preferite e ricordate. Guardate che non mi arrabbio se mi lasciate un piccolo commento, anche solo per sapere come vi sembra la storia, se vi piacciono i personaggi e lo sviluppo!! Fatemi sapere ;)


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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10
 
21 marzo Miramar
 
Secondo il calendario terrestre universale, quel giorno, sulla terra sarebbe finalmente entrata ufficialmente la primavera.
Clarke, seduta su uno scoglio piatto lambito dalle onde del mare, osservava l’orizzonte chiedendosi che sapore avesse quella stagione. Molti degli abitanti del popolo della barche dicevano che quell’anno sarebbe arrivata con una luna di ritardo e avrebbero dovuto aspettare ancora qualche settimana prima di vedere il mondo nel suo momento di massimo splendore.
La ragazza si lasciava cullare da quei pensieri, dalle ferventi attività nel villaggio. Tentava in tutti i modi di non lasciarsi sopraffare dalle cupe novità di quei giorni. Luna le aveva parlato dei futuri conflitti, i suoi sogni parlavano la stessa lingua e, solo poche ore prima, Bellamy aveva confermato i suoi presentimenti più foschi.
In un loop la sua mente continuava a chiedersi come muoversi, come agire ma soprattutto se sarebbe stata in grado di affrontare tutto ciò senza perdersi nuovamente.
Sapeva di non essere sola, eppure, un’irrazionale terrore le faceva temere nuovamente il peggio. Se avesse dovuto affrontare realmente Lexa cosa sarebbe successo? Poteva fidarsi del popolo del ghiaccio solo per le parole di una donna che Bellamy conosceva? E il popolo delle Barche era quello che diceva di essere? Cosa voleva Jaha da loro, cosa sarebbe successo?
Domande su domande che non trovavano risposta.
Avrebbe voluto partire subito per raggiungere la sua gente, ogni giorno di ritardo poteva essere decisivo ma, non poteva ancora farlo.
In un motto di stizza di rese conto che non sopportava l’idea di dover aspettare le decisioni della matriarca sulle sue scelte.
Si era trattenuta solo perché Marcus l’aveva fatta ragionare.
Era questione di ore, un giorno al massimo e poi sarebbero partiti.
Avevano bisogno dei consigli della matriarca, era una donna saggia che conosceva i popoli del nord.
-Ma non conosceva Jaha e i suoi intenti-. Aveva ribattuto Clarke per convincere l’uomo. Ma lui non aveva ceduto. Non potevano basare tutto sulle parole di un ragazzo, chiaramente psicotico, con della morfina ancora in corpo.
Alla fine Clarke si era arresa e, ora si trovava lì, ad osservare il mare tentando infruttuosamente di mettere ordine nella ridda dei suoi pensieri.
Con la coda dell’occhio colse un movimento, il guerriero del popolo delle barche si stava avvicinando a lei.
La giovane si alzò in piedi sperando che l’avesse raggiunta per chiamarlo e avvertirla che Luna era pronta a parlare con lei ma, osservando il suo viso, ogni speranza andò in fumo.
Si risedette con un tonfo aspettando che Karel la seguisse.
“Niente vero?” chiese tanto per essere sicura.
“No, non so quanto tempo ci vorrà” rispose pacato il giovane anticipando la successiva domanda.
“Cosa pensi che succederà” chiese quindi Clarke. Karel aveva sentito tutta la conversazione con il campo Jaha.
Il ragazzo non rispose subito. Osservava il mare di fronte e i gabbiani volteggiare sull’acqua.
Clarke osservava di sottecchi il suo profilo, il naso leggermente aquilino gli donava un aspetto altero. Il taglio degli occhi, leggermente allungato, rendevano lo suo sguardo più acuto. Quando i suoi occhi verdi si posarono su di lei, Clarke si era sentita scrutata fino nel profondo. Una sensazione che l’aveva messa spesso a disagio.
“Non credo ci sia molta scelta” disse il guerriero con la sua voce bassa e roca.
Clarke lo osservò apertamente, volgendo il viso verso di lui.
“Questa situazione non si fermerà senza morti. Quanti, sarà solo il fato a deciderlo.”
La ragazza odiò quella risposta.
Era fin troppo vera.
“Sarà la guerra quindi, e voi, sarete con noi”
Karel si schernì “non devi chiedere a me queste cose, sarà Luna a decidere.”
“E tu seguirai le sue decisioni anche se questo dovesse portare alla tua morte o a quella delle persone a cui tieni?”
“Si” rispose Karel deciso fissandola intensamente “Se il mio, il loro sacrificio servirà a tenere in vita gli altri allora sarà un onore per me sacrificarmi”
“Anche se non fosse giusto?” chiese di getto Clarke, i fantasmi del suo passato sembravano essere riemersi.
“Ho fiducia nella nostra madre e la fede che lei ripone in te. Questo mi basta” concluse il guerriero prima di alzarsi e porgergli una mano “Vieni, raggiungiamo gli altri, stare da soli richiama la compagnia del passato.”
Clarke osservò quella mano alzata, si ricordò il ragazzo che si era fatto prende a pugni solo per permetterle di combattere con i demoni che la tormentavano.
Accettò quella mano che voleva aiutarla ad alzarsi un’altra volta.
Si incamminarono verso il promontorio, verso le decisioni che una donna con un antico retaggio avrebbe preso per tutti loro.
 
 Quando arrivarono vicino a Miramar si resero conto che il villaggio era in fermento. Entrambi affrettarono il passo.
Karel fermò il primo guerriero che passava
“C’è Isal sucedut”
“Le mari al ha decidut, o lin al camp Jaha. une clape, vinčh
  di nu, Iè, plui le furtate del popul del ciel*”
Karel osservò il ragazzo andare.
“Beh, volevi una risposta, eccola!” disse quindi alla ragazza “Partiremo per il campo Jaha appena saremo pronti. Una guardia d’onore, la matriarica verrà con noi”.
Clarke rimase senza parola.
“Ti accompagno da lei. Immagino vorrai parlare.”
La giovane annuì soltanto mentre veniva accompagnata alla dimora di Luna.
Era già stata nella casa, se così si poteva chiamare la semplice stanza allestita all’interno di una delle caverne scavate dalle intemperie e dagli abitanti.
Come nell’intero villaggio, anche nella casa della Matriarca c’era un certo trambusto. Alcune donne del villaggio erano intente a preparare tutto quello che serviva per la partenza. Luna in un angolo stava rovistando fra le erbe essiccate in un angolo della stanza. Le annusava, annuiva e poi le impacchettava per metterle in una sacca molto simile a quella di Laudria.
Quando si accorse della sua presenza. Le fece un cenno poi si rivolse ad una delle donne.
“O prepari be sole le mi sache, o torni tra pouc”**
la giovane annuì e continuò i suoi lavori.
“Viene Clarke, vorrai avere delle spiegazioni” tornando a parlare nella lingua degli skypeople.
Uscirono dalla caverna e, costeggiando il pianoro, si avvicinarono alla punta estrema che dava sul mare.
Un sedile di roccia accuratamente scolpito era disposto proprio di fronte all’oceano, concedendo a chi si sedeva una vista di quasi 360° su tutto il territorio circonstante.
“Avrai già saputo che partiremo, forse avrei prima dovuto avvertirti ma, sapevo che indipendentemente dalle mie parole, tu ci avresti lasciato comunque per raggiungere i tuoi.” Cominciò la donna. “Non mi è ancora chiaro cosa avverrà, ma è giunta l’ora che il popolo delle barche non si nasconda più in questi luoghi. Dovremo affrontare i popoli del nord, cercare un punto dì incontro o essere pronti alla guerra se sarà necessario ma, niente può essere fatto da Miramar. Partirò con una guardia di 20 guerrieri e ti seguirò al campo Jaha, se per te va bene”
Clarke annuì, avere Luna al campo non avrebbe risolto i problemi ma sarebbe stato un grosso aiuto per affrontarli.
“E ora, se per te va bene, è ora di finire di preparare il necessario per la partenza. Se siamo fortunati partiremo nelle prime ore del pomeriggio. Entro una settimana al massimo voglio arrivare al tuo campo” concluse alzandosi e avviandosi nuovamente verso le caverne.
Clarke osservò il mare di fronte, era ormai diventa una presenza constante delle sue giornate e l’idea di sperarsene per tornare fra le montagne le metteva addosso un certa malinconia. Si chiese se ci sarebbe mai stata l’occasione di ritornarci o se ogni cosa sarebbe finita da lì a poco.
Karel aveva parlato di sacrificio e vita, sarebbe stata in grado di sacrificare se stesse e le persone che amava per un bene più grande? Aveva tentato già una volta di fare le cose migliori per la sua gente e aveva sbagliato.
Scrollò la testa tentando di allontanare quei cupi pensieri.
Si allontanò dal mare con un ultimo saluto. Un unico desiderio ora, tornare dalla sua gente, da Bellamy. Farsi avvolgere dalle sue braccia e sentirsi protetta e sicura.
Era quel pensiero che la sosteneva.
Questa volta ogni cosa sarebbe stata diversa, lei non era più sola.
 

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*: “C’è Isal sucedut”
“Le mari al ha decidut, o lin al camp Jaha. une clape, vinčh
  di nu, Iè, plui le furtate del popul del ciel*”
 
“Cos’è successo?”
“La madre ha deciso, andiamo al campo Jaha, una squadra, venti di noi, lei e in più la ragazze del popolo del cielo.
 
**“O prepari be sole le mi sache, o torni tra pouc”
Preparo da sola la mia sacca da viaggio, torno fra poco

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


CAPITOLO 11


21 marzo – Campo Jaha

 

Bellamy entrò nella sala del consiglio al campo Jaha fra gli ultimi, era rimasto in contatto con Clarke il più possibile prima che partisse.

Era furioso con se stesso, aveva percepito la preoccupazione nelle parole di Clarke, aveva sentito, come un eco arrivato dal passato, discorsi che la giovane aveva già fatto, quando si sentiva colpevole per ogni cosa che era capitata loro da quando erano scesi sulla Terra. Si chiese se sarebbe mai arrivato il momento in cui quegli incubi sarebbero stati finalmente chiusi nel passato per non riemergere più. Cercava di credere che una speranza ci fosse, nell’alleanza con Echo, nell’arrivo della matriarca del popolo delle barche eppure, la sicurezza che Jaha avesse piani si tutti loro, era un pensiero che non riusciva a scacciare. Non erano pronti per vivere un nuovo Mount Weather o peggio che l’arrivo dell’ Ex-Cancelliere potesse influenzare la gente del campo. Per molti lui rappresentava colui che li aveva salvati con il suo sacrificio facendoli arrivare sulla Terra, era riuscito a sopravvivere alla distruzione dell’Arca e, infine, prima di partire, aveva parlato di trovare un luogo di pace per tutti loro, una città che tutti potessero chiamare casa. Se fosse tornato, sarebbe tornato come colui che aveva mantenuto la promessa e questo avrebbe potuto dividere il campo. Non lo poteva permettere si rese conto Bellamy, ma non sapeva ancora cosa fare. Questo pensiero angustiava lui come tutti coloro che erano attorno a quel tavolo. Sebbene Murphy fosse quello che era, si fidava delle sue parole e di certo non avrebbe fatto l’errore di sottovalutare quello che aveva confidato a loro. Aveva scelto di tornare, di affrontare l’inverno per avvisarli e questo gli e lo doveva.

 

Perso nei suoi pensieri non si accorse che la riunione era cominciata e lui era l’unico rimasto in piedi. Si accomodò accanto a Laudria che, date le circostanze, era stata invitata ad essere una di loro. Notò poco discosta la presenza di Raven, senza dubbio aveva scoperto qualcosa dal segnale che avevano captato.

“Come sapete oggi ho sentito Clarke e Marcus” cominciò il Cancelliere “entrambi ritorneranno al campo Jaha ma, è di poco la notizia che saranno accompagnati dalla Matriarca e da un gruppo di guerrieri.” Un mormorio si diffuse nella sala. “So che non era stato previsto questo evento ma, visti gli sviluppi degli ultimi giorni e la minaccia grounder, il capo del popolo delle barche ha ritenuto necessario raggiungere il campo Jaha per consolidare la nostra alleanza”

“E secondo te questo dovrebbe cambiare qualcosa?” chiese Raven

“Si” rispose Abby “sappiamo che il consiglio e le tribù hanno delle riserve sul comportamento del comandante in capo Lexa. L’intenzione della matriarica, grazie ai suoi rapporti pacifici con le diverse tribù, è quella di parlare al consiglio e dimostrare che noi siamo sotto la sua protezione e non siamo un pericolo per loro.”

“E secondo te le crederanno?” domandò Octavia che, in cuor suo, sapeva come ragionavano i tree people.

“Di certo l’ascolteranno” rispose Laudria prendendo la parola “Le Mari è una figura riverita fra le genti, le sue conoscenze, le sue capacità diplomatiche e l’aiuto che ha sempre dato a tutte le tribù del nord avranno un peso non indifferente all’interno del consiglio. Se, come ha detto Echo, non tutte le tribù sono contro gli skypeople e, sapendo l’influenza che hanno avuto le nostre guaritrici e chi ha imparato l’arte della guarigione a Miramar, c’è una possibilità.”

“Sempre che il comandante del clan del Ghiaccio non ci abbia mentito” riflettè Raven.

“Io credo in lei” rispose Bellamy “Presto ci incontreremo di nuovo e vedremo cosa succederà”

Molti attorno al tavolo annuirono, non c’era altro che potessero fare se non aspettare. Le poche informazioni che avevano non permettevano loro di fare veri piani tra cui l’evacuazione del campo. Era un’eventualità che avevano preso in considerazione appena saputo della possibile minaccia grounder ma si erano resi conto che non era applicabile , avrebbe allertato i clan e spostato la guerra verso Miramar, ultima cosa che volevano fare.

“Jaha è un problema” Lincoln parlò per la prima volta. Non parlava molto durante le riunioni ma questa era un’altra situazione “Se i clan del nord venissero a sapere che oltre a noi c’è un’altra possibile minaccia, sarebbe la fine. Nemmeno la matriarca potrebbe fare qualcosa per noi. Dobbiamo assolutamente sapere cosa quell’uomo ha in serbo per noi e per il campo”

Il silenzio si protrasse per alcuni minuti.

“Dovremmo parlare ancora con Murphy e cercare di capire cosa ci attende” disse Abby dando voce al pensiero di tutti.

“Siamo obbligati a farlo anche se, affidarmi a lui, non mi piace” rispose Bellamy pensieroso.

“Voglio sapere da lui tutto il possibile” si intromise Raven “ per capire quanto sa del segnale e se ci può aiutare a rintracciare la fonte” concluse a ragazza prima di spiegare le poche cose che avevano scoperto. “Il segnale sembra rimbalzare da un luogo e l’altro, creando distorsioni e nuove sorgenti.” Spiegò alle persone attorno al tavolo.

“Cosa potrebbe essere? Tu e Monty vi siete fatti un’idea?” chiese quindi Abby

Raven scosse la testa, una smorfia insoddisfatta sul viso “No, siamo solo certi che si sia attivato qualcosa. Non sappiamo cosa però.”

“Dovremmo accogliere Jaha come se fosse uno di noi e cercare di capire cosa voglia fare e se ha qualcosa a che fare con quel segnale” disse Bellamy rivolto agli altri. “non possiamo permettere di fargli intuire che sappiamo qualcosa.”

“Muprhy sarà uno dei nostri?” chiese il cancelliere. Non conosceva abbastanza quel ragazzo e, quel poco che sapeva di lui, non la rassicurava.

“Non lo so” rispose Bellamy scuotendo la testa. Era un interrogativo a cui non riusciva a dare risposta. Non sapeva cosa gli era capitato in cui lunghi mesi e, quello che era successo prima, non lo faceva ben sperare. Più di altri odiava i terrestri per le torture che aveva subito. Era partito con Jaha credendo di trovare un luogo sicuro. Ora era tornato ma, sebbene in cuor suo si fidasse del ragazzo, toppo era successo in passato per credergli completamente “gli parleremo il prima possibile, vedremo cosa succederà”

E, con quelle parole, il consiglio si sciolse senza un vero dato di fatto e l’ansia per i giorni che li attendevano.

 

Uscendo dalla sala Bellamy si accostò a Laudria, Raven poco dietro di loro.

“Murphy può parlare con noi o anche questa volta ci fermerai?” chiese il ragazzo alla guaritrice.

La ragazza si volse a fissarlo, non riusciva a capire quell’astio nei confronti del malato. Si chiese cosa fosse successo fra i due per aver incrinato i loro rapporti in quel modo. Sapeva molte di ciò che era avvenuto ma qualcosa gli sfuggiva.

“Se lui se la sente e tu ti comporterai civilmente con lui allora potrai parlarci” rispose decisa la giovane ma, il ragazzo, a quelle affermazioni sbuffò infastidito.

“Senti” Laudria si fermò di botto e lo obbligò a fermarsi “È un mio paziente e, fino a quando sarà sotto  la mia tutela, tu non ti devi permettere quell’atteggiamento verso si lui. Merua mi ha raccontato delle cicatrici sul suo corpo, torture grounder. Ha passato un intero inverno là fuori, non so nemmeno come ce l’abbia fatta. Ha lottato per venire qua e questo gli e lo devi?”

Le labbra di bellamy si strinsero in una linea sottile, infastidito dal modo in cui la guaritrice del popolo delle barche difendesse Muprhy “Tu non lo conosci, non sai cosa è in grado di fare!” rispose caustico.

“So solo che nessuno merita di essere trattato come stai facendo tu, qualunque cosa abbia fatto” rispose decisa Laudria.

“Anche se avesse portato al suicidio una ragazzina di 12 anni, portato un’epidemia al campo,  tentato di uccidere me, reso invalida Raven e chissà cos’altro?, certo avrà tentato di cambiare, è stato utile, ma è sempre Murphy” sputò fuori Bellamy poi rivolgendosi a Raven “diglielo anche tu che non ci si può fidare” Ma, con sua sorpresa, vide la ragazza esitare e abbassare gli occhi. “non so Bellamy, io credo che sia cambiato” disse infine esitante.

Il ragazzo la osservò poi se ne andò furioso.

Raven osservò Bellamy allontanarsi, turbata da quella rabbia. Volse lo sguardo verso la guaritrice che, accanto a lei, stava scrutando con attenzione il ragazzo.

“Perché si comporta così?” mormorò.

Laudria rimase un istante in silenzio “Fantasmi, fantasmi che tornano a bussare alla sua porta” poi, prese una decisione, salutò Raven prima di seguire Bellamy. Sapeva già dove trovarlo.

 

Bellamy osservava le colline e i boschi. Poggiato con la schiena alle pareti esterne della navetta cercava un po’ di tranquillità e, come aveva sempre fatto, era uscito dal lato posteriore della nave, dove raramente la gente sostava. Non capiva perché ce l’avesse così tanto con Murphy o perché avesse risposto male a Laudria. Sapeva. Era certo della genuina onestà del ragazzo eppure al solo pensiero di dover parlare con lui, vederlo, cominciava a infastidirsi e a non sopportarlo.

Per un istante aveva persino pensato di essere geloso  dell’istintiva protezione che Laudria dimostrava nei confronti del ragazzo, ma aveva scacciato subito quel pensiero così meschino. La guaritrice era così con tutti. Avrebbe dovuto chiederle scusa riflettè.

“Scuse accettate”

Bellamy si volse di scatto. Accanto alla porta c’era la giovane guaritrice che osservava il panorama di fronte a se.

“Dovresti toglierti quest’abitudine di leggermi nel pensiero” rispose sorridendo Bellamy.

“E perché?” chiese Laudria guardandola “Così tolgo l’ impiccio alla persone”

Risero entrambi, poi il silenzio calò fra loro. Era sereno, come lo era sempre stato, gli screzi di poco prima dimenticati.

“A te piace Murphy?”

Ludria ridacchiò “È divertente, non lo nego, ma non lo sto difendendo per chi sa quale motivo, io lo vedo per quello che è, sei tu che non riesci a farlo! Perché non credi che anche lui possa fare ammenda del suo comportamento passato?”

Bellamy sospirò “Perché forse, se non fossi stato quello che ero, lui non si sarebbe comportato così e molte che cose non sarebbero successe.” Rispose.

Laudria lo osservò, scosse la testa poi guardò di fronte a se. “Devi smetterla, tu e Clarke, dovete smetterla di sentirvi colpevoli per ogni cosa. State togliendo agli altri il diritto di scelta, di scegliere come vivere la propria vita e prendersi le proprie responsabilità. John ha scelto di comportarsi in un determinato modo e, ora sembra stia tentando di fare la cosa giusta. Dagli l’opportunità di farlo.” Concluse tornando a guardarlo. “È lo stesso errore che stai facendo pensando a Jasper, non so cosa succederà o cosa deciderà di fare, ma sarà sempre una sua scelta, nel bene o nel male e voi agirete di conseguenza per la salvaguardia di tutti”

“Quindi pensi sarà un problema?” chiese angustiato all’idea di doversi scontrare con lui prima o poi.

“Non lo so Bellamy, dipende chi incontrerà lungo il suo cammino e cosa troverà nella sua ricerca”

“Come al solito non mi dai risposte” rispose Bellamy frustrato.

“Non è mio compito” esclamò Laudria “e ora, andiamo a parlare con John.”

 

 

Si stava definitivamente annoiando, vedeva la gente camminare avanti e indietro, qualche saluto di circostanza eppure si sentiva invisibile. Dopo poche ore dal suo arrivo e l’agguato da parte di Bellamy e gli altri del consiglio non aveva visto anima viva. Avrebbe dovuto disinteressarsi della cosa eppure, sotto sotto, sentiva un gran peso allo stomaco. Un nodo che non voleva andarsene.

L’infermiera gentilmente gli aveva alzato lo schienale  del lettino e questo gli permetteva di avere una miglior visuale di ciò lo circondava ma, di certo, non migliorava il suo stato d’animo. La gamba, secondo la guaritrice, si sarebbe rinsaldata perfettamente e avrebbe dovuto usare le stampelle per pochi mesi.

Con lo sguardo teneva sempre sott’occhio la porta con la speranza che entrasse la guaritrice, era l’unica fra i tanti che non lo stava giudicando e che si era comportata gentilmente con lui. Certo probabilmente lo fa con tutti, pensò Murphy ma questo non toglieva il piacere di vederla e la sensazione di benessere che lo invadeva quando gli lanciava uno dei suoi dolci sorrisi.

Quando vide un’ombra passare davanti alla porta pensò subito si trattasse di Laudria invece era Raven. Notò la sua camminata e non potè fare a meno di voltare il viso da un’altra parte. Il rimorso per ciò che le aveva fatto continuava ad avere un sapore acre nella sua bocca.

“’Giorno Murphy” la giovane si era avvicinata al suo lettino.

“Raven” rispose il giovane facendo finta di guardarla ma senza focalizzarsi sui suoi occhi.

Una fuga da codardo.

“Come va la gamba” chiese la giovane.

Murphy scrollò le spalle, i suoi occhi corsero ai pantaloni che non riuscivano a nascondere la forma dei tutori.

Si sentì la bocca secca.

“Bene” riuscì a mormorare.

Raven vedeva il disagio negli occhi del ragazzo, sapeva che con il pensiero riandava a quello che le aveva fatto. Ma, come lei conviveva con il suo dolore, così avrebbe dovuto imparare a fare Murphy.

“Ho bisogno di sapere cosa sai del piano di Jaha, ti ha parlato di attivare qualcosa o una roba simile?” chiese, sperando di capire il mistero celato dietro ai segnali che percepiva alla radio.

Il ragazzo la guardò confuso “Cosa vuoi dire?”

Raven stava già per ribattere quando vide Murphy guardare oltre la sua spalle. Si girò, era arrivati Bellamy e Laudria.

“Gli stavo chiedendo di Jaha” disse Raven voltandosi verso Bellamy.

“E…” chiese il ragazzo

“E stavo per rispondere che non so a cosa si riferisca quando voi siete arrivati” rispose per Raven Murphy.

“Cosa puoi raccontarci” si intromise la guaritrice con il suo caldo sorriso rassicurante.

John la osservò un’istante poi si rivolse agli altri due.

“Quello che so di sicuro è che Jaha e Emerson pianificavano di trasferire tutta la gente dell’Arca in un posto sicuro e che avrebbe dato loro sostentamento per i prossimi decenni”

“Sai dove si trova il posto?” chiese subito interessata Raven.

“no, non si fidavano di me abbastanza per dirmelo” rispose con uno sbuffo Murphy.

“Almeno sai che caratteristiche aveva?” chiese Bellamy a quel punto.

John cercò qualcosa nella sua memoria, un indizio qualunque cosa per comprendere quale fosse la località di cui parlavano.

“Non era molto lontana dal campo Jaha” mormorò incerto “li sentivo dire che l’Esodo sarebbero durato pochi giorni, al massimo una settimana”

Vide la guaritrice annuire a quelle parole e questo gli diede maggior forza.

“Dicevano che era un posto sicuro. Non Mount Weather ma qualcosa di simile, inespugnabile per i clan e che li avrebbe protetti anche quando i clan sarebbero stati sterminati”

Le ultime parole lasciarono i presenti attoniti, in cuor loro non volevano credere che l’ex-cancelliere avrebbe scelto di fare una cosa del genere.

John comprese le emozioni che stavano provando gli altri, erano state le sue medesime.

“Quando Emerson ha raccontato ciò che era successo a Mount Weather, cosa avevano fatto i grounder e, cosa eravate stati costretti a fare voi, e andato completamente fuori di testa. Ha cominciato a vaneggiare sul fatto che questo non era il mondo con cui i nostri antenati avrebbero voluto il nostro ritorno sulla Terra, che bisognava porre fine a qualunque ostacolo affinchè il sogno e i desideri di coloro che si erano sacrificati per la vita dell’Arca non fosse vano. Insomma cose del genere ..” concluse Murphy guardandosi le mani che continuava a tormentare.

Il silenzio si protrasse per alcuni secondi.

Raven fu la prima a parlare rivolgendosi a Bellamy “La prima cosa che dobbiamo fare e cercare delle basi militari o dei rifugi sulle montagne che possano avere quelle caratteristiche. A occhio direi in un raggio non superiore ai 100 km dal campo Jaha. Dovremmo chiedere a Jakson di spulciare, se sarà possibile, nei vecchi archivi digitali, qualunque cosa pur di sapere se oltre Mount Weather ci sono altre zone che erano state predisposte per l’arrivo dell’Arca. Forse la sorgente del segnale è lì.”

Bellamy annuì, ma non credeva che quella sarebbe stata una soluzione.

Si rivolse poi a Murphy c’era solo una soluzione.

“Jaha verrà qua vero?”

Il giovane annuì “Per la verità pensavo di trovarlo già qua, parlavano delle primavera”

“Immagino che quando ti hanno spedito, l’intenzione era spiarci, far germogliare nella gente l’idea che avrebbero potuto avere un futuro migliore seguendo Jaha, che al suo arrivo avrebbe protetto tutti dai terrestri” chiese Bellamy.

Murphy annuì.

“Bene, dovrai fargli credere che, anche se arrivato da poco, dopo l’esperienza con i terrestri, dopo aver saputo del popolo delle barche credi fermamente in lui. Devi aiutarci a capire dove si trova il rifugio.”

“E voi cosa farete?”

Bellamy strinse le labbra “Lo accoglieremo come il figliol prodigo, colui che ci aiuterà a trovare la via e ci salverà dei grounder” rispose deciso il ragazzo.

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


CAPITOLO 12
 
26 marzo...nei boschi

Immaginava che stare fuori sarebbe stata dura, si chiese per un istante come avesse potuto Clarke vivere da sola per due interi mesi prima di decidere di tornare a casa. Di sfuggita si domandò se qualcuno avrebbe avuto la stessa costanza di Bellamy. Tutti al campo l’avevano saputo sin dall’inizio che quelle spedizioni non erano di perlustrazione ma la via di fuga di un animo tormentato e ferito dalle scelte di un’amica.
Il ragazzo in cuor suo sapeva che nessuno sarebbe andato a cercarlo, avrebbero compreso le sue scelte e lo avrebbero lasciato trovare la strada di casa da solo, nemmeno Monty, il suo migliore amico, avrebbe fatto qualcosa. Non perché non tenesse a lui tutt’altro, ma perché fra loro c’erano dei limiti e Monty non li avrebbe mai superati. Jasper li aveva cacciati tutti fuori dalla sua vita e ora era lì, in quella caverna che aveva trovato.
Distante meno di un giorno di cammino dal campo Jaha, lontana dai territori dei Tree People, nella direzione opposta di Mount Weather, sperava fosse abbastanza lontana dai territori degli altri clan.
Quella vita solitaria era difficile, specialmente le notti quando il ricordo di Maya e dei suoi amici si faceva più pressante. Laggiù in mezzo al nulla aveva trovato una sorta di apparente pace nella routine di ogni giorno.
Durante il giorno girovagava, mai troppo lontano dalla caverna, cercava cibo e il resto del tempo lo impiegava per costruirsi qualcosa, oggetti che potevano essere utili. Era un’attività che gli teneva impegnata la mente, lo stimolava fino all’arrivo della sera quando i fantasmi del passato bussavano alla sua porta.
Demoni, che giorno dopo giorno, diventavano sbiaditi come i ricordi di Maya, come i sentimenti che provava. Possibile che quello che avevano vissuto fosse solo un’emozione passeggera. Si odiava, si sentiva tradito dal suo stesso cuore.
Queste sensazioni lo facevano sentire ancora più meschino e volubile.
Ogni tanto cercava di aggrapparsi a ciò che era avvenuto negli ultimi istanti di vita di Maya, ciò che aveva perso a causa di Clarke e Bellamy e le ultime parole della ragazza gli tornavano alla mente “nessuno di noi è innocente”. Quelle parole che come un loop erano state il suo mantra per fomentare l’odio che riempiva la voragine della sua anima cominciavano ora ad assumere un diverso significato. “Nessuno di loro era innocente” ma “nessuno di loro era del tutto colpevole.” Quel mondo li aveva cambiati o semplicemente forgiati. Prima avrebbe accettato quella realtà, prima forse sarebbe riuscito a venire a patti con se stesso e la sua perdita.
Giorno dopo giorno stava cominciando a perdere se stesso senza trovare una strada da seguire.
 
Quella mattina stava raggiungendo la riva di un ruscello quando venne distratto da un uccello che aveva spiccato all’improvviso il volo.
Si immobilizzò.
Percepì la presenza di qualcuno. Con il tempo si era abituato ai rumori della foresta e cominciava a carpire qualunque suono diverso.
In quel momento era seminascosto da crinale che delimitava il ruscello. Silenziosamente si spostò quanto gli serviva per osservare oltre i ciglio.
Un uomo veniva verso la sua direzione. Si abbassò di colpo, poteva essere un grounder.
Prese un respiro, sentiva i passi avvicinarsi.
Cercò una zona più riparata dal quale osservarlo.
Alzò di nuovo il capo con la speranza che non riuscisse ad individuarlo in mezzo alla sterpaglia che cresceva sul argine del ruscello.
L’uomo dalla carnagione scura si aiutava con un bastone, sembrava anziano. Il suo viso era rivolto al terreno impegnato a vedere dove metteva i piedi.
I suoi vestiti erano sdruciti come quelli di chi ha viaggiato tanto.
Jasper nello stesso istante si rese conto che non era un terrestre ma uno di loro.
Un lampo di riconoscimento.
Thelonious Jaha, il loro cancelliere.
Era vivo.
Aveva saputo, come tutti i ragazzi sopravvissuti, l’epopea che aveva portato l’Arca sulla terra e la scelta dell’ormai Ex-cancelliere di partire alla ricerca della leggendaria citta della Luce.
Che l’avesse trovata, si chiese Jasper sorpreso.
Non gli passò nemmeno un’istante di seguire l’uomo o aspettare prima di mostrarsi.
La prima cosa che fece fu quella di alzarsi e farsi riconoscere.
L’uomo si bloccò di colpo poi una voce sussurrata raggiunse il ragazzo
“Jasper Jordan”.
Un sorriso di gioia si aprì sul suo volto che venne subito ricambiato dal ragazzo.
Si vennero incontro e, cosa che mai sarebbe potuta accadere sull’Arca o anche solo al campo Jaha dove le reminiscenze del passato erano ancora potenti, si abbracciarono.
“È bello rivederti giovanotto, è bello rivedere un viso amico” esclamò l’uomo appena sciolto l’abbraccio. Poi il suo occhi scrutarono i dintorni, in cerca di altri.
“Ci sono solo io” disse il ragazzo notando lo sguardo. Si scostò e abbassò gli occhi, non era in grado di sopportare domande.
L’uomo parve capirlo ma non potè fare a meno di chiedere inquieto “C’è ancora il campo Jaha, gli altri stanno bene?”
Jasper sorrise amaramente “Si, il campo esiste ancora e tutti stanno più che bene”.
Quelle parole furono un sollievo per l’uomo ma, allo stesso tempo, insinuarono una certa preoccupazione.
Si scrutarono, la deferenza che una volta c’era stata, la distanza delle esperienze, era difficili da superare.
“Daresti qualcosa a quest’uomo stanco da un lungo viaggio?” chiese l’ Ex-cancelliere tentando di rompere così il silenzio.
Jasper sorrise e fece strada all’uomo verso il luogo che, in quei giorni, era diventata la sua casa.
Ravvivò il fuoco e mise a scaldare dell’acqua nel quale disciolse alcune erbe che aveva trovato.
Jaha osservava i movimenti del ragazzo, il profumo di pino si sparse nell’aria. Respirò a pieni polmoni quella deliziosa fragranza.
“Cos’è?” chiese curioso mentre il ragazzo gli passava la tisana e della carne di scoiattolo arrostita avanzata dalla sera prima.
“Una tisana con germogli di pino e abete bianco. Una delle tante cose che ci ha insegnato Laudria” rispose sorridendo Jasper prima di snocciolare le proprietà benefiche di quella bevanda.
L’uomo rimase sorpreso, assaggiò cauto la tisana. Il suo sapore forte e balsamico fece subito effetto.
Si godette la bevanda, dopo giorni di semplice acqua spesso dal vago sapore stantio, quell’infuso aveva un aroma celestiale.
Si chiese per la prima volta quanto fosse in realtà cambiato il campo dopo la sua partenza. Un piccolo tarlo si insinuò nella sua mente,  fino ad allora aveva sempre immaginato il campo identico a quando era partito e, se non fosse stato così?.
“Chi è Laudria?”.
“È una guaritrice del popolo delle barche”. Il ragazzo notò lo sguardo confuso. Si rese conto che l’uomo era lontano da troppo tempo per sapere cosa fosse successo in tutti quei mesi e così cominciò a descrivere la vita al campo, dei piani per il futuro.
“ E tu, perché non sei con loro?” chiese incuriosito l’uomo quando Jasper terminò di parlare.
Il ragazzo abbassò lo sguardo e mormorò “non era più il mio posto”
Jaha, sapeva da Emerson cosa era accaduto durante la prigionia dei ragazzi a Mount Weather, le ferite che avevano subito in quel periodo erano molte, si rese conto l’uomo, ci sarebbe voluto molto tempo prima che guarissero.
“Ho trovato un luogo” cominciò a raccontare “Un posto dove potremmo essere al sicuro da ogni pericolo, dove potremmo vivere la vita che ci aspettavamo quando siamo scesi sulla Terra. Ho viaggiato a lungo fino a trovarlo. Sono tornato per questo. Per portarvi tutti là come avevo promesso quando sono partito.” Concluse l’uomo osservandolo.
Leggeva negli occhi il dubbio e la confusione ma anche speranza.
“Accompagnami fino al campo Jaha” chiese l’uomo senza esitazione.
Jasper avrebbe voluto rispondere negativamente, indicargli solo la strada eppure, nel suo intimo, sapeva che rimanere là fuori non lo stava aiutando, forse era un debole, forse aveva bisogno di un altro mondo da vivere, una speranza per poter relegare ciò che era avvenuto ad un incubo del passato.
Annuì esitante poi vide l’uomo sorridergli e questo lo conquistò.
Forse le cose potevano ancora cambiare per lui. Forse c’era ancora una speranza.
 
Camminarono a lungo per tornare al campo, il silenzio inframezzava i racconti della vita al campo e quello che aveva trovato l’ex-cancelliere. Raccontava al ragazzo dei giardini, delle piante, della cupola ancora integra che faceva filtrare la luce e innondava gli spazi. Lasciava che il ragazzo riempisse i buchi con la sua immaginazione, creando davanti ai suoi occhi il paradiso che quel luogo rappresentava e, nel frattempo, sottilmente cercava di farsi un’idea di quello che avrebbe trovato arrivati al campo. Mascherò il disappunto quando seppe dell’accordo con il popolo delle barche, annuì soddisfatto quando seppe della preoccupazione nei confronti degli altri clan. Un problema sul quale sperava di fare leva sugli abitanti del campo. Comprese, parlando con il ragazzo, che Murphy non era mai riuscito ad arrivare al campo, si chiese che fine avesse fatto e, nel caso fosse apparso, se sarebbe stato un problema o meno.
Quando era partito credeva in lui ma, un sottile senso di sfiducia non lo aveva mai abbandonato. Forse ucciderlo sarebbe stata la soluzione più semplice eppure, no, non lo avrebbe fatto. Non ora che erano sulla Terra, altri sarebbero dovuti morire, gli altri, non i suoi, a meno che, non si mettessero in mezzo.
Man mano che le ore passavano e si avvicinavano al campo Jaha cominciava a fare piani, capire fino a che punto si sarebbe potuto spingere per parlare con Abby e i ragazzi che, a detta di Jasper, avevano cominciato ad aiutare il nuovo cancelliere nella gestione del campo.
 
Arrivati al limitare del bosco, ormai vicini al campo Jasper si bloccò. Parlare con Jaha lo aveva in qualche modo rinfrancato, ma lì, in sottofondo, sentiva ancora un rumore, non tutto sarebbe stato così facile, avrebbe affrontato di nuovo tutti loro. Sarebbe riuscito a guardarli in faccia senza che qualcuno pensasse alla sua superficialità. Stare da solo era stata una prova, seppure breve che forse non era riuscito ad affrontare. Oppure, tornando si sarebbe nuovamente reso conto che quel mondo, il campo, gli amici non erano più la stessa cosa per lui?.
Jaha vide da lontano il campo, era cambiato molto da quando lo aveva lasciato mesi prima, “Saranno felici di vederti, ne sono certo” disse alla ragazzo alle sue spalle “Andiamo” ma, quando si girò Jasper era scomparso fra gli alberi. L’uomo scosse la testa poi si incamminò verso il campo.
 
Alle luci del tramonto l’ex-cancelliere Thelonoius Jaha varcò le soglie del campo Jaha fra lo stupore e la gioia dei presenti.
Tutti gli si fecero vicino, ognuno di loro con mille domande o solo per osservare il cambiamento che quei lunghi mesi lontano da loro aveva apportato.
Fra la gente scorse Abby, lo aspettava all’ingresso del relitto della nave, le braccia conserte. Un sorriso di benvenuto sulle sue labbra, una luce diffidente nei suoi occhi.
Venne accolto come un eroe di ritorno da una grande impresa, con tutti gli onori. Osservava i volti sorridenti e sereni della gente, le casupole che erano state costruiti nel campo, i ragazzi allenarsi, i laboratori allestiti per le varie attività. Le guardie non indossavano più le divise, le armi e giravano rilassati fra la gente.
No, non sembravano un popolo in Esilio in cerca di una casa e per la seconda volta nello stesso giorno Jaha ebbe un motto di paura e si chiese se ciò che aveva fatto era stato giusto. 


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NOTA: Grazie a tutti quelli che mi seguono, mi dispiace per questo ritardo ma, lo ammetto, ieri sera l'ho passato a commentare la 3x01 di The 100, come tutte voi immagino....straordinario inizio, finalmente l'attesa è finita e ne è valsa la pena...spero comunque che la mia storia vi stia piacendo abbastanza da seguirla ancora :)

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


AVVISO PER CHI STA SEGUENDO QUESTA FF: Come temevo la sovrapposizione con la messa in onda della 3° stagione si è fatta sentire. Sebbene la FF si pressochè conclusa, non riesco più mentalmente a metterci mano, almeno per ora...sono troppo presa dagli sviluppo della 3° stagione :( ....quindi per un po' stopperò la pubblicazione di questa long. La riprenderò in mano quando finirà la 3° stagione o quando ritroverò lo stimolo. Mi scuso di cuore per questo disguido. Spero capirete :). Un bacio a tutte e vi assicuro che, anche per rispetto nei vostri confronti, una fine Sacrifice & Life lo avrà :) Quindi questo per un po' sarà l'ultimo capitolo pubblicato.
CAPITOLO 13
 
28 Marzo
 
Si sentiva osservato, la sensazione era qualcosa di serpeggiante che non lo abbandonava.
Ormai tutti i giorni al pomeriggio, mentre le attività del campo rallentavo per lasciare lo spazio alla tranquillità della sera, Bellamy prendeva la via dei boschi e perlustrava le zone attorno al campo.
Niente di impegnativo, una farsa in realtà, usciva per andare a caccia ma, come pochi sapevano, aspettava un segnale dal clan dei ghiacci.
Un incontro per capire finalmente quanti clan numericamente erano dalla loro parte e scoprire qualcosa di più dei piani di Lexa. Ora che anche Jaha era arrivato al campo era necessario affrettarsi. Non avrebbero avuto le forze necessarie per affrontare due problemi di tale portata senza avere qualche certezza.
L’ex-cancelliere sembrava semplicemente quello che era, un uomo tornato da un lungo viaggio che aveva scoperto un luogo meraviglioso in cui poter vivere lontano dai clan. Tutti coloro che lo avevano ascoltato erano rimasti incantati.
Ma, ogni volta che il consiglio aveva tentato di chiedere delle indicazioni specifiche, era rimasto sul vago senza dare alcun suggerimento e permettere a Raven di capire se il segnale provenisse da quei luoghi.
Bellamy si sentiva frustrato, Clarke gli mancava, aveva bisogno della sua presenza e, quei giorni di attesa, si stavano trascinando uno dopo l’altro. La ragazza era in ritardo, uno dei passaggi che avevano usato all’andata era franato e questo aveva obbligato l’intero gruppo proveniente da Miramar ad deviare e perdere un paio di giorni di cammino.
Bellamy era nervoso e stufo di dover aspettare. Voleva rivederla, baciarla e tenerla fra le sue braccia. Confrontarsi con lei su quello che stava avvenendo. La lucidità mentale con cui la giovane tentava di affrontare le cose era uno degli aspetti che amava di Clarke e che lo rassicuravano. Si sentiva completo solo quando lei era con lui.
Perso in quelle riflessioni sentì troppo tardi il rumore di un ramo spezzarsi.
Fu un’istante e sentì il peso di una persona contro la sua schiena. Un braccio bloccato.
Perse l’abbrivio sotto i suoi piedi quando l’aggressore  gli fece lo sgambetto.
Rovinò a terra e, nell’arco di un attimo, si ritrovò pancia a terra e una lama a pochi centimetri dal suo occhio sinistro.
Avrebbe voluto divincolarsi ma quel coltello a pochi millimetri dal suo occhio lo stavano persuadendo nel modo migliore.
Il suo aggressore chiaramente sapeva il fatto suo, era riuscito a bloccare le sue braccia.
“Se questo e il modo in cui siete pronti, forse ho fatto un errore con voi” sentì una voce sussurragli all’orecchio.
Bellamy riconobbe la voce di Echo.
Stava per reagire quando sentì la pressione del corpo della donna scomparire dalla sua schiena.
La sentiva sghignazzare.
Si mise a carponi, alzò sguardo verso la donna, un mezzo sorriso soddisfatto gli segnò il viso quando si accorse che la ragazza aveva calcolato male le distanze.
Con un guizzo su allungò verso il comandante del popolo del ghiaccio, agguantò la sua gamba facendole perdere l’equilibrio.
L’istante successivo era sopra di lei. Le posizioni invertite.
Il braccio di Bellamy faceva pressione sulla trachea della donna. Il suo peso la teneva bloccata a terra.
“Non saremo pronti ma sappiamo riprenderci” disse Bellamy senza staccare gli occhi dalla ragazza.
La vide sorridere, un lieve cenno del capo in segno di approvazione. Poi i suoi occhi si fecero cupi.
“Puoi lasciarmi andare ora” c’era una nota di fastidio nella voce, notò il ragazzo.
Rimase ad osservarla, cercando di decifrare quella ragazza che gli aveva salvato la vita e che ora era dalla loro parte.
Si chiese ancora una volta cosa nascondessero quegli occhi.
“Allontanati, prima che ti faccia male” il tono tagliente della sua voce lo spinsero ad obbedire e si spostò di lato lasciandole lo spazio di sedersi.
 “Novità?” chiese Bellamy.
“Tante da entrambe le parti a quanto so” rispose la donna osservandolo.
Il ragazzo annuì.
“Domani sera ci incontreremo oltre quel declivio” disse indicando con un punto un basso rilievo davanti a loro, oltre, sul fianco, c’è una caverna, ci darà l’intimità necessaria da occhi indiscreti. “Vieni con la tua guaritrice e la bionda” rispose alzandosi.
Bellamy la seguì perplesso “Non è ancora arrivata” rispose.
La comandante del popolo del ghiaccio lo guardò e sorrise.
“Arriveranno fra qualche ora, forse meno. I miei li hanno avvistati poco oltre quelle cime” rispose la giovane prima di lasciarlo.
Bellamy sentì un brivido freddo corrergli lungo la schiena: quanto ancora non conoscevano di quei popoli ma soprattutto quanto in realtà erano in pericolo.
Nemmeno la certezza che Clarke sarebbe presto arrivata riuscì a dargli conforto.
Ebbe paura, paura di perdere ogni cosa in pochi istanti come Echo gli aveva dimostrato un attimo prima e con le sue ultime parole.
La angoscia si annidò nel suo cuore, portatrice di sventure che nemmeno lui si sarebbe immaginato.
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Mancavano poche ore e finalmente avrebbe potuto riabbracciare Bellamy, ero questo pensiero che l’aveva tenuta concentrata durante tutto il lungo viaggio e che le aveva permesso di non farsi sopraffare dall’incertezza. Le cose si stavano muovendo troppo velocemente. E, ogni passo che faceva, il terrore del ripetersi di situazioni come l’anno precedente la stava lentamente sopraffacendo.
Superarono una curva e in lontananza Clarke vide finalmente casa, tutto appariva come lo aveva lasciato un paio di settimane prime. Solo il verde sembrava aver preso possesso ormai dei campi davanti alla navetta nascondendo le cicatrici dell’atterraggio. I fumi dei bivacchi, le  minuscole figure che si muovevano la rassicurarono.
Era stato difficile sapere le cose solo attraverso la radio, quelle brevi chiamata la lasciavano sempre insoddisfatta.
Avrebbe potuto parlare con loro, vedere con i propri occhi e, specialmente, avrebbe potuto nuovamente sentire quel senso di protezione che provava quando guardava Bellamy o si faceva avvolgere dalle sue braccia.
Agognava quel contatto e questo la spinse a voltarsi indietro per controllare a che punto fossero gli altri. Era andata avanti con Marcus, anche lui, come lei, era spinto dall’urgenza di ritornare, era stato via tanto tempo.
“Bello vero? Era come te lo ricordavi”
“Non so” rispose Marcus pensieroso “Ho passato così tanti mesi a Miramar che per me quella è diventa casa, questo luogo mi ricorda solo ciò che eravamo, non ciò che siamo diventati, però..” continuò guardando Clarke negli occhi “non vedo l’ora di incontrare tutti e raccontare loro di Miramar, del luogo che diventerà casa nostra” La ragazza sorrise, conosceva quella sensazione, lei stessa ogni giorno, durante la permanenza al villaggio del clan delle barche aveva immaginato tutto ciò che avrebbe fatto con Bellamy, come sarebbe potuta essere la loro nuova vita ma, tornando di botto al presente, si rese conto che avrebbero dovuto affrontare ancora molte cose.
Dietro di loro sentirono avvicinarsi i passi degli altri.
Li attesero, desiderosi di vedere lo stupore dei loro occhi quando avrebbero visto i resti dell’Arca.
Per quanto distrutta la sua visione restava comunque imponente, aliena ai loro occhi.
La sorpresa nei loro occhi non tardò ad arrivare quando li raggiungessero sul ciglio dello strapiombo che dava sulla valle sottostante. I guerrieri, specialmente i più giovani, la indicavano bisbigliando fra loro la loro meraviglia.
Clarke cercò Luna, curiosa di vedere la sua espressione ma ne rimase delusa. La conosceva abbastanza per sapere quanto amava le novità, quanto fosse curiosa. In quel momento invece osservava il campo Jaha con distaccato disinteresse, i suoi occhi saettavano oltre lo spazio, sulle colline. Scrutavano i cielo, sembravano intenti a carpire i segreti di quei luoghi, persa in chi sa quale strano sogno.
Le si avvicinò.
La donna sentendo la sua presenza volse lo sguardo verso di lei, le sorrise rassicurante ma, Clarke, non si sentì affatto rincuorata.
 
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Quando sentì bussare alla porta Murphy si aspettava l’arrivo della guaritrice, o forse Raven che, stranamente, continuava ad andare da lui anche dopo aver saputo tutto ciò che le poteva interessare. Gli altri non si erano più presentati.
Non sapeva se essere contento o meno.
Avrebbe voluto sapere cosa stava avvenendo, quali provvedimenti erano stati presi ma, meno sapeva meglio era. Non essere coinvolto, vedere in che modo sarebbero girate le cose, forse era il modo migliore per rimanere vivi.
Era un pensiero che lo disgustava ma, del resto, che altro avrebbe voluto fare.
Il bussare si fece più forte e si ritrovò ad urlare spazientito “Avanti”.
Sulla porta non apparvero le ragazze ma l’ex-cancelliere.
Un sorrisetto ironico apparve sulle labbra di Murphy.
“Te la sei presa comoda mentre io ero bloccato qua” disse senza mezzi termini.
L’uomo lo scrutò un’istante prima di entrare poi chiuse la porta dietro di se.
Si accomodò su una sedia accanto a letto in cui era disteso il giovane.
“Sono contento che tu sia sopravvissuto”
Murphy avrebbe voluto sputar fuori una risposta salace ma si trattenne.
“Sono stato fortunato” rispose senza sbilanciarsi.
“La guaritrice grounder sembra molto competente”
Murphy alzò le spalle senza negare o confermare.
“Quest’alleanza potrebbe essere un problema” continuò Jaha.
“Come in tutte le alleanza ci possono essere dei punti deboli” rispose Murphy “Sono sempre dei grounders” concluse facendo una smorfia disgustata all’ultima parola.
“Possiamo farcela” chiese Jaha.
Una domanda, un’affermazione, Murphy cercò di interpretare le parole dell’ ex-cancelliere. Voleva realmente un suo parere o voleva solo una conferma che lui era ancora il suo uomo.
“Si possiamo farcela. La gente è agitata, l’arrivo della primavera potrebbe portare un’offensiva da parte dei clan delle montagne” rispose quindi il ragazzo. Anche un idiota sapeva che quella era una possibilità e voleva capire quali fossero i piani di Jaha. Era il suo compito.
L ex-cancelliere annuì a quelle parole. “La vita sembra pacifica però qua, molto è cambiato da quando sono andata via e la gente sembra essere contenta di partire verso Miramar”
“Beh è ovvio” rispose Murphy sprezzante “È l’unica possibilità che conoscono, la loro unica speranza ma, ora che tu sei arrivato, hai mostrato una nuova via, sicura, in un mondo che appartiene realmente a loro. Chi seguiranno a quel punto? Dei grounder che potrebbero sempre tradirli o l’uomo che li ha salvati con il suo sacrificio sull’Arca? Basta dar loro un motivo per seguirti, mostra loro un’altra possibilità” rispose protendendosi verso l’uomo. Voleva che Jaha vedesse i suoi occhi, scrutasse la sua anima e capisse che gli stava dicendo la verità.
Vide negli occhi del ex-cancelliere insinuarsi il dubbio.
“Cosa gli hai raccontato?”.
Il ragazzo si riappoggiò ai cuscini, il suo solito sorrisetto fastidioso sulle labbra “La verità” rispose scrollando le spalle “che ti ho seguito mi sono stufato perché non credevo in te. Che ho tentato di tornare indietro ma l’inverno mi ha colto impreparato e mi sono perso. Ho vissuto di stenti fino a quando non mi hanno trovato e salvato.” Concluse.
“Era un’altra la storia che dovevi raccontare” gli disse subito Jaha.
“Naa” rispose il ragazzo “nessuno mi avrebbe creduto, nessuno avrebbe creduto che John Murphy, il delinquente menefreghista, si sarebbe fatto una scarpinata solo per dire che c’era da qualche parte una vita migliore, che lui l’aveva trovata. Cosa avrei dovuto rispondere quando mi avrebbero chiesto dove si trovasse questo luogo? A mesi di cammino dal campo, in mezzo alle montagne e oltre un deserto.”
Jaha annuì. Sapeva che l’idea di spedirlo via non serviva ad avere una spia al campo ma solo una persona in meno che conosceva il suo progetto.
“Ti hanno creduto?” chiese quindi.
“Perché non avrebbero dovuto farlo, ogni volta che le cose si mettevano male sono sempre tornato nei luoghi che conoscevo” concluse.
Abbassò gli occhi per un istante, vergognandosi di se stesso e di ciò che aveva fatto da quando era sceso sulla terra. Era quello che tutti vedevano di lui e nulla avrebbe mai cambiato quell’impressione.
“Sei diventato un bravo soldato John Murphy” disse l’uomo, credendo alle sue parole  equivocando la sua espressione afflitta.
Murphy avrebbe voluto urlargli contro che non era una soldato, che tutta quella conversazione era una farsa. In quel momento avrebbe voluto uccidere con le sue stesse mani Jaha. Tentò di respirare, calmarsi.
“Cosa c’è” chiese Jaha preoccupato.
“sono onorato delle sue parole Cancelliere ”rispose mentre quelle parole lasciavano un acre sapore nella sua bocca.
Jaha annuì, i suoi occhi brillarono sentendosi chiamare con l’appellativo che gli era sempre appartenuto.
“Cosa faremo ora?” chiese il ragazzo.
L’uomo stava per rispondere quando un sommesso bussare li interruppe.
Guardarono entrambi la porta
“Chi è?” chiese Jaha al ragazzo.
“La guaritrice probabilmente, passa ogni tanto per farmi bere qualche stupido intruglio.” Rispose infastidito dall’interruzione. “Devo lasciarla entrare”
L’uomo annuì “Parleremo ancora John Murphy” e con quelle parole uscì lasciando entrare la guaritrice che sostava davanti alla porta.
Appena l’uomo uscì, il giovane si lasciò andare sui cuscini lasciando andare il respiro che, in qualche modo, aveva trattenuto per tutto quel tempo. Il braccio a coprire il viso, avrebbe voluto rimanere solo. Quel confronto era stato difficile e di certo la vicinanza della guaritrice che sembrava riuscire a leggere il suo animo così bene non era ciò che desiderava in quel momento.
Sentì la porta chiudersi e la guaritrice avvicinarsi a lui, percepì il suo peso sul letto quando gli si sedette accanto.
“Come stai John?”
Il ragazzo conosceva quel tono, lo usava ogni volta che Laudria voleva parlare con lui, lo percepiva.
“Se fossi arrivata cinque minuti dopo sarebbe stato meglio” rispose, sperava che quel tono infastidito la allontanasse, aveva bisogno di spazio, aveva bisogno di sparire, annullarsi e non sentirsi così fragile.
“La prossima volta cercherò di leggerti nel pensiero attraverso la porta, se per te va bene” rispose noncurante la giovane.
Murphy sposto il braccio e la guardò in cagnesco, tutti di solito quando lui si rivolgeva a loro con quel tono si infastidivano e lo lasciavano in pace o gli rispondevano innescando una lite. Il modo migliore per non pensare e invece, con Laudria, non succedeva e tirava fuori sempre delle risposte salaci.
“Beviti questa e vedi di riposare, da domani comincerai ad uscire, sei rimasto troppo tempo chiuso qui dentro”
John si tirò su e bevve la tisana che la guaritrice gli porgeva.
Quando la tazza fu vuota gli e la porse.
“ti lascio riposare ore” disse alzandosi.
Il ragazzo annuì ma, prima di uscire disse “avverti Blake che Jaha crede ancora che sia dalla sua parte”.
Laudria fece un cenno poi chiuse la porta dietro di se lasciando il ragazzo a far pace con i suoi fantasmi.

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