In fondo ne vale la pena

di Raykha
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una visita inaspettata ***
Capitolo 2: *** Passato ***
Capitolo 3: *** Presente ***
Capitolo 4: *** Futuro ***
Capitolo 5: *** Rimediare ***



Capitolo 1
*** Una visita inaspettata ***


Non appena Sherlock Holmes entrò in salotto, quella mattina, capì che John era irritato. Era ovvio, dal modo in cui il suo coinquilino leggeva il giornale. Ed era ancora più ovvio osservando il colletto della sua camicia. O almeno, era ovvio per lui. Sherlock fu tentato di catalogare la cosa come "irrilevante", ma si trattava di John, e questo cambiava le cose. Forse. In parte. Sul serio? Quando si soffermava a ragionare sul perché, però, Sherlock cominciava a sentirsi a disagio, e capiva sempre meno i suoi stessi pensieri, così restava lì come imbambolato a fissare John, finché qualcuno, spesso lo stesso John, non reclamava la sua attenzione, proprio come in quel momento.

John fissava accigliato il suo coinquilino che come al solito ragionava su chissà cosa e non degnava niente e nessuno della minima considerazione. Era incredibile che Sherlock se ne fosse dimenticato, una cosa da vero bastardo. Certo, John non era sorpreso che Sherlock dimenticasse le normali convenzioni sociali, catalogasse alcuni aspetti tipici delle interazioni sociali come noiosi o inutili, ma questa volta aveva proprio esagerato. "Andiamo, John, perché te la prendi tanto? - disse una parte della sua coscienza, quella più pratica – Sherlock non ricorda neanche quando è Natale, o che è la terra a girare intorno al sole, perché dovrebbe ricordare una cosa come questa?" Il dottore sospirò. "Perché chiunque dovrebbe ricordare il compleanno del suo unico amico – disse un'altra parte di sé stesso, quella più sentimentale – anche uno come Sherlock Holmes".

Ebbene si, il giorno prima era stato il compleanno di John. Non che si aspettasse chissà cosa, nè da Sherlock né da nessun altro, ma poi Lestrade gli aveva organizzato una festa a sorpresa in un pub che a lui piaceva molto, e aveva invitato proprio tutti, i colleghi di Scotland Yard che avevano lavorato con loro, Sarah e altri colleghi dell'ambulatorio, Molly, Mike, e persino Mycroft e Anthea li avevano degnati di una fugace apparizione. L'unico che non si era minimamente accorto di cosa succedeva quel giorno, era quello stronzo di consulente investigativo con cui divideva casa, che aveva passato l'intera giornata chiuso in quel suo Palazzo Mentale che John stava cominciando ad odiare. Sherlock, come al solito, non si era neanche accorto che John fosse uscito, e quando il dottore era rientrato con i regali che gli avevano fatto i suoi amici, Sherlock aveva detto semplicemente (senza neanche guardarlo): "Sono ore che ti chiamo, John, avevo bisogno del tuo telefono per un caso". E se ne era andato in camera sua senza aggiungere altro. John aveva dovuto contare varie volte fino a dieci per non tirargli qualcosa di pesante, limitandosi a mettere il muso.

Sherlock ancora non capiva perché John fosse così arrabbiato, in fondo non era successo niente di particolare: la cucina non era più in disordine del solito, nel frigo giacevano parti di cadavere non più putrefatte del solito, il soggiorno era stato spolverato pochi giorni prima (dalla signora Hudson ovviamente, Sherlock non perdeva tempo in faccende tanto banali), insomma non c'erano spiegazioni logiche per il comportamento di John. "Buongiorno, John – disse allora il detective – come va?" ma tutto ciò che ottenne in risposta fu solo silenzio. "Ho fatto... qualcosa di sbagliato, John?" il dottore richiuse il giornale che leggeva e lo fissò "No, vostra maestà, non avete fatto niente di sbagliato." Vostra maestà? perché John lo chiamava così? Odiava non capire.

Il medico notò lo sguardo confuso di Sherlock, e la cosa lo fece arrabbiare ancora di più. "Cosa posso fare per soddisfare le vostre richieste, signore? Sono ai vostri ordini, come uno schiavo, come ogni giorno da quando la conosco, signore. Posso fare qualche commissione per voi? - John lo guardò dritto negli occhi - perché tanto è così che funziona, Sherlock, giusto? L'universo deve girare intorno al tuo cervello e dobbiamo stare tutti ai tuoi ordini, pronti a scattare per ogni tuo minino capriccio, mentre tu non degni nessuno della minima considerazione, giusto? - ora John sembrava più deluso, che arrabbiato - Hai mai notato quante cose faccia io per te, e tu non mi hai neanche degnato di uno sguardo? Mi hai mai ringraziato per qualsiasi cosa? Certo che no, sarebbe... Noioso? Inutile? Irrilevante? Beh, ti do una notizia, stupido idiota, alle persone ogni tanto fa piacere ricevere un grazie, un apprezzamento qualsiasi, specie a quelle persone che consideri amici. Buona giornata, Sherlock". Detto ciò, John uscì di casa sbattendo la porta. Sherlock era rimasto immobile, troppo stupito da quella sfuriata improvvisa per dire qualcosa; ancora non capiva perché si comportasse così. Ciò che Sherlock non aveva notato erano le lacrime che rigavano il viso di John mentre usciva.

John aveva bisogno di allontanarsi il più possibile da Baker Street, in quel momento, e quando la signora Hudson lo salutò e gli chiese come stava, lui le rivolse solo uno sguardo triste. E lei capì.

John allora prese il cellulare e chiamò Lestrade, l'unico che conosceva Sherlock abbastanza bene da poterne parlare (oltre a Mycroft, ma John scartò quell'opzione senza neanche pensarci). Greg era l'unico a cui John aveva rivelato della sua infatuazione colossale per quell'idiota con cui divideva l'appartamento.

Greg lasciò che John si sfogasse, che gli raccontasse tutto con calma, e come al solito tentò di distrarlo chiacchierando di altro, proponendogli un caffè da qualche parte. Greg era stato da subito il confidente di John, il quale aveva scoperto che gli veniva naturale confidarsi con lui, che non lo giudicava mai, limitandosi ad ascoltarlo e a fargli tornare il sorriso. Anche Greg considerava John allo stesso modo, e non era raro che fosse invece lui a confidarsi con il dottore per i problemi con la sua ex moglie. John era davvero contento del rapporto che avevano costruito lui e Greg.

Intanto, al 221B, Sherlock venne scosso dal suo torpore da un'arrabbiatissima signora Hudson, che quasi gli tirò addosso una teiera quando Sherlock gli raccontò cos'era successo. "Sherlock, possibile che dopo quasi due anni che vivete insieme, non hai capito ancora nulla? Caro, te lo dico perché ti voglio bene... A volte sei proprio cieco, Sherlock. Com'è che dici sempre a John? Tu guardi, ma non osservi" Il detective si accigliò. "Allora mi aiuti a capire, signora Hudson, mi dica perché John è così arrabbiato con me"

"Ah, no, caro. Non sta a me dirlo, devi capirlo da solo... E metti in ordine la cucina, caro, non sono..." "La padrona di casa, non la governante. Certo, signora Hudson, come sempre".

Lei gli rivolse un sorriso materno, e se ne andò lasciandolo solo con i suoi pensieri. Sherlock passò dunque il resto della giornata a risolvere "Il mistero della rabbia di John", come decise di chiamarlo. Sorrise pensando che in quel momento sembrava John alle prese con un altro dei suoi post sul blog. Dapprima scrisse a Lestrade, dicendo che per quel giorno non doveva disturbarlo neanche per un caso da 8, e chiedendogli se sapeva dove fosse John, al che Greg rispose che non ne aveva idea, che non lo vedeva dalla sera prima. Contattò poi Molly, Mike e Sarah, chiedendo se avessero visto John, ma tutti dissero che non lo vedevano dalla sera prima. "Cos'è successo ieri sera? perché avete tutti visto John?" Sherlock cominciava a irritarsi davvero. Decise di telefonare a Molly.

"Sherlock?" rispose lei dubbiosa. "Molly, ho bisogno di assistenza" disse il detective.

"Tu... non telefoni mai, è successo qualcosa?"

"Evita di sottolineare l'ovvio, per favore, devo chiederti una cosa importante."

"Ok, ehm... Chiedi pure, cosa ti serve?"

"È per John. So che non sai dove sia, ma pare che sia tu che molti altri l'abbiate visto ieri sera."

"Certo che l'abbiamo visto, Sherlock, era il suo... Oh, aspetta, non sai che giorno fosse ieri?"

"Certo che lo so, ieri era il 7 luglio" Sherlock non aveva idea di cosa stesse succedendo, nè del perché Molly continuasse a dire cose ovvie e banali.

"Oh mio dio, non ricordi nulla di importante in questa data?"

"Nulla di rilevante, Molly, come ti ho già detto. Che noia dovermi ripetere, siete tutti così stupidi."

Molly era davvero furiosa con lui. "Sherlock, sei veramente un bastardo"

"Non stiamo parlando di me, Molly, smettila di considerarmi il centro dell'universo. Aiutami a capire perché John è così arrabbiato con me." Possibile che la patologa ancora non afferrasse il concetto? Molly si chiedeva più o meno la stessa cosa, in termini un po' più volgari.

"Non sta a me dirlo, puoi arrivarci da solo Sherlock. Ma lascia che ti dica che a volte sei proprio cieco, signor brillante detective"

"Consulente investigativo"rispose Sherlock in automatico, ma Molly aveva già riagganciato.

Che strano, pensò Sherlock, quasi le stesse parole che ha detto la signora Hudson... Ma perché?

Almeno ora sapeva che aveva qualcosa a che fare con il 7 luglio.

Sherlock allora fece l'unica cosa che gli sembrò sensata in quel momento: chiudersi nel suo Palazzo Mentale. Dunque... Il 7 luglio... Era forse l'anniversario di un importante avvenimento storico? No, John non si sarebbe arrabbiato per questo. Una scadenza importante? Forse, John di solito si arrabbiava per cose noiose come le bollette e tutto il resto. Ma stavolta sembrava personale. Sherlock allora ripensò alla sfuriata di John, quasi come se rivivesse la scena, osservandola dall'alto. Si era arrabbiato perché non gli diceva mai grazie, perché non lo apprezzava. Sherlock dovette dissentire: è vero, forse non diceva mai grazie, in fondo dire grazie è noioso, ma non era vero che non apprezzasse John. Gli aveva anche detto che era il suo unico amico... Oh. Il 7 luglio. Un anniversario... personale. Era il compleanno di John! Quindi John si era arrabbiato con lui perché aveva dimenticato il suo compleanno. Caso risolto. Al ritorno di John si sarebbe scusato e tutto sarebbe tornato a posto. Sherlock riaprì gli occhi, soddisfatto.

"Davvero pensi che sia così semplice far tornare tutto a posto, Sherlock?" disse una voce familiare accanto a lui. "Mycroft, sei tu?" chiese Sherlock alzandosi dal divano. Suo fratello era lì, nel salotto di Baker Street, ma aveva un aspetto decisamente assurdo. Era vestito con un elegante abito vittoriano, portava un monocolo e aveva degli enormi baffi. Al piede aveva incatenata una palla di metallo che sembrava molto pesante, simile a quelle che mettevano alla caviglia dei prigionieri condannati ai lavori forzati che si vedevano nei vecchi film.

"Complimenti, acuta deduzione come al solito, fratello" lo schernì il maggiore degli Holmes.

"Bene – riprese Mycroft – ora che ho attirato la tua attenzione, posso liberarmi di questo ridicolo abito". Con un elegante gesto della mano, gli abiti vittoriani e i ridicoli baffi di Mycroft sparirono in un turbinio di polvere sotto gli occhi di un esterrefatto Sherlock, e Mycroft apparve con i suoi soliti abiti, ma la sfera incatenata al piede era ancora lì. "Sto sognando." Non era una domanda.

Mycroft gli sorrise, un sorriso dolce e sincero come quelli che gli faceva quando era bambino, prima che diventasse Mister MI6, l'Uomo di Ghiaccio.

"Sherlock, ascoltami molto bene, è importante. Potrai anche non crederci, ma io sono uno Spirito. Sono lo spirito di Mycroft, venuto a dirti cose importanti."

"Irrilevante." Detto ciò, il consulente investigativo fece per alzarsi, ma lo Spirito-Mycroft urlò: "Sherlock Holmes, ora tu siederai qui e ascolterai quello che ho da dirti, poiché da molto lontano sono stato mandato!" Aveva una voce strana, lo Spirito-Mycroft, come fosse costituita da una moltitudine di tristi voci urlanti. Sherlock si intimorì e decise di assecondare quel folle sogno.

"Si tratta di John" disse lo spirito con più calma. Ora aveva la completa attenzione di Sherlock.

"So che non sai cosa provi per lui".

"Non provo niente per John. Non provo niente punto e basta. I sentimenti sono un difetto chimico della parte che perde." E il consulente ne era davvero convinto.

"Anche Mycroft ne è convinto. Anzi, è stato lui a convincerti che fosse così – lo Spirito-Mycroft sembrava molto triste – ma non è così. I sentimenti sono importanti, Sherlock. Soprattutto quelli così forti come quelli che tu provi per John. Anche tuo fratello un giorno lo capirà, capirà che ha sbagliato a metterti queste idee in testa. Lui ora è cieco, e sta perdendo tutte le occasioni che la vita gli concede."

"Credevo che tu fossi mio fratello" disse Sherlock, scettico.

"E io credevo che tu fossi più intelligente. Hai detto che questo è un sogno, io ti ho detto che sono lo spirito di Mycroft, ma lui non vuole ascoltarmi, non vuole aprire il suo cuore, perciò io sono stato mandato da te, perché tu hai ancora una strada e una speranza. Ora ascoltami. Questa palla di metallo che ho legata al piede è il simbolo della durezza del mio cuore. Riesci a immaginare quanto pesa la tua, Sherlock? Per tutta la vita sei stato insensibile agli altri. Ma John può salvarti da una sorte simile alla mia. Lui è il tuo... conduttore di luce, tu stesso l'hai definito così. Devi fidarti di lui e del tuo cuore Sherlock, smetti di ascoltare solo la tua mente; tu hai un grande cuore, Sherlock, comincia ad ascoltarlo; o finirai come me, triste e solo, condannato a essere schiacciato dal peso della tua indifferenza. Ora ascoltami attentamente. - l'espressione dello Spirito si fece solenne - Riceverai la visita di altri tre Spiriti, Sherlock. Attendi il primo domani, allo scoccare della prima ora. Attendi il secondo la notte dopo, alla stessa ora. Attendi il terzo la notte dopo ancora, quando l'ultimo rintocco della dodicesima ora cesserà di vibrare. Quanto al rivedere me, non accadrà più."

 

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Capitolo 2
*** Passato ***


"Aspetta, aspetta!" Il detective si ritrovò a urlare al vuoto. Era sul suo divano, a Baker Street, ed era mezzanotte passata. John non era rientrato a casa, non c'erano chiamate né messaggi. Sherlock aveva forse passato tutto il giorno nel suo palazzo mentale? Poi quello strano sogno. Il consulente investigativo prese in mano il violino e intonò una musica triste, ripensando alle volte in cui John appoggiava il libro o il giornale che stava leggendo e lo guardava suonare, con un sorriso dolce e un'espressione serena dipinta sul volto. A Sherlock piaceva molto suonare per John, anche se non aveva mai detto al dottore che spesso lo faceva solo per lui, e aveva imparato a capire quali fossero i suoi pezzi preferiti. John. Pensare a lui provocò in Sherlock quella sensazione di disagio a cui ancora non aveva fatto l'abitudine; smise di suonare e fissò la poltrona di John, ora vuota. In quel momento l'orologio segnò l'una. A Baker Street regnava il silenzio.

D'un tratto, il violino levitò e prese a suonare da solo, animato da chissà cosa. Sherlock lo fissò stranito, ma poi vide materializzarsi la figura che suonava il violino: sua madre. Sherlock la guardò teneramente: era stata lei a insegnargli a suonare il violino, e gli aveva trasmesso la sua passione per la musica e per il ballo.

"Mamma..." mormorò il detective. Il violino smise di suonare, e l'apparizione si girò verso di lui, guardandolo con la tenerezza che solo una madre possiede.

"Sherlock, tesoro. Io sono lo Spirito del tuo Passato, e ho preso le sembianze di tua madre perché è stata la prima ad averti amato. Ora alzati, prendi la mia mano e vieni con me."

"Spirito, sto ancora sognando – ancora una volta, non era una domanda – significa che posso fare qualsiasi cosa, o vedere qualsiasi cosa, senza un ordine logico, per cui..."

"William Sherlock Scott Holmes, per una volta nella vita... sta zitto e fa come ti viene detto". Era stata dolce, ma autoritaria. Sherlock sorrise, era proprio uguale a sua madre. Prese allora la mano che lo spirito gli porgeva, e fu circondato da un alone di luce, alzandosi un poco da terra. Lo spirito si alzò in aria, e uscendo dalla finestra condusse il detective in volo sui cieli di Londra.

Quando atterrarono, Sherlock riconobbe immediatamente la scuola che aveva frequentato da bambino. "Davvero?! Dovrò rivivere il mio passato? Noioso." Sentenziò il detective.

"Sherlock. Lascia che si compia la volontà di chi mi ha mandato. Come spesso accade, hai ragione, queste sono le ombre delle cose che sono state, e io ho il compito di mostrartele. Seguimi."

Entrarono in una classe di bambini vivaci, ma nessuno si accorse di loro. "Queste sono ombre, non possono vederci." Sherlock stava per ribattere "Non è necessario sottolineare l'ovvio, Spirito" ma si trattenne. Si voltò allora verso la classe e vive il suo alter ego bambino che osservava affascinato l'insegnante di scienze. Aveva sempre ammirato il suo insegnante di scienze, era davvero un uomo brillante. La lezione finì, e Sherlock rimase a fissare il microscopio che l'insegnante aveva usato come se fosse fatto d'oro zecchino. "Sherlock – disse l'insegnante – caro ragazzo, la tua passione è ammirevole. Ma ricorda di ascoltare anche il tuo cuore, è il solo che può guidarti verso la felicità. Gli amici e la famiglia sono più importanti di un esperimento o di una teoria".

Di fronte a quella scena, Sherlock provò una strana sensazione, mista di affetto, nostalgia, e tristezza. Un altro bambino fece capolino all'interno dell'aula, e corse incontro a Sherlock. "Myc!" esclamò contento Sherlock-bambino, abbracciando suo fratello. L'insegnante li guardò uscire sorridendo.

"Allora c'è stato un tempo in cui hai voluto bene a tuo fratello" disse lo spirito.

"Sì, prima che diventasse... Insomma... Io... Io gli voglio ancora bene. Ma a volte lo detesto."

Lo spirito rise di gusto "Sherlock, tra fratelli è così. Ora andiamo, abbiamo tante cose da vedere, prima che il mio tempo insieme a te finisca."

Così lo Spirito condusse entrambi alla casa di infanzia dei giovani Holmes, mostrandogli tutte le cose che lui e Mycroft facevano insieme da piccoli, e quanto si divertivano. Sherlock rise di gusto quando vide un piccolo Mycroft che tentava di insegnare a Barbarossa semplici comandi.

"Anche adesso quando è irritato fa la stessa espressione" disse, più a sé stesso che allo spirito.

Le scene successive mostravano la famiglia Holmes in una tranquilla domenica pomeriggio, Sherlock che imparava a suonare il violino, Mycroft e Sherlock che imparavano a disegnare eseguendo l'uno il ritratto dell'altro, le cene di Natale, un'infanzia felice insomma.

"Già, ma non è stato sempre così il mio passato" disse tristemente Sherlock.

Lo spirito allora riprese a volare e lo condusse alla sua vecchia scuola, dove rivide gli anni di prese in giro, i bulli, Mycroft che provava a difenderlo ma senza riuscirci, tutta quella gente che non lo capiva e finiva per avere paura di quel ragazzo con gli occhi grigi che era solo troppo curioso e troppo impertinente. In quel periodo Sherlock pensava davvero di essere, in qualche modo, sbagliato. Pensava davvero che fosse il suo cervello a renderlo sbagliato.

Ci fu un giorno in cui Mycroft era stato picchiato dai bulletti della scuola solo perché aveva parlato con una ragazza. Mycroft allora si era avvicinato a Sherlock e gli aveva detto che in fondo non avevano bisogno di nessuno, che i sentimenti non servivano a persone intelligenti come loro, erano inutili, un difetto che impedisce alla mente di funzionare al meglio. Quel giorno qualcosa si ruppe nel cuore di Mycroft, che con gli anni allontanò anche l'unico che gli era ancora vicino, suo fratello. Sherlock, dal canto suo, aveva reagito all'abbandono esattamente come Mycroft, chiudendosi in sé stesso. "Basta, Spirito, non voglio più vedere queste cose, portami via da qui" Sherlock stava per piangere. "Te l'ho detto, queste sono solo le ombre delle cose che sono state, non posso cambiarle, non devi incolpare me. Ma c'è ancora un altro passato che voglio mostrarti, sbrighiamoci, il mio tempo sta per finire."

Lo spirito mostrò a Sherlock alcuni momenti del passato di John: l'infanzia, fatta di momenti tristi e felici, con sua sorella Harry e i suoi genitori, gli mostrò gli anni dei faticosi studi, in cui il giovane John dovette lavorare per potersi permettere la retta dell'università, date le condizioni economiche della famiglia. Sherlock vide poi i litigi con Harry, sempre più numerosi, la decisione di arruolarsi, tra le lacrime di sua madre e la sua voglia di essere di aiuto dove c'era più bisogno. "Sempre il solito John" pensò Sherlock. Lo vide partire per l'Afghanistan e sapendo quanto avrebbe sofferto in quel posto, a Sherlock venne da piangere. "Oh, John... Mi dispiace così tanto" disse sottovoce. Troppo dolore, troppa sofferenza, meglio chiudere tutto, tristezza e gioia, in un angolo remoto del Palazzo Mentale, non ne valeva la pena.

Sherlock si voltò verso lo Spirito, incapace di assistere al momento in cui spararono a John, ma sentì comunque le sue strazianti grida. Si accorse che la luce che emanava dallo Spirito diventava sempre meno luminosa, e capì che il suo tempo nel Passato era concluso. Mentre volavano nuovamente verso Baker Street, Sherlock continuava a pensare a John e a tutto quello che aveva imparato su di lui, maledicendosi di non aver mai parlato con lui di argomenti così personali prima di allora, nonostante convivessero già da quasi due anni. Aveva dedotto tutto ciò che c'era da sapere su di lui la prima volta che l'aveva visto, ma ora si rese conto che era come se non lo conoscesse affatto.

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Capitolo 3
*** Presente ***


Sherlock aprì gli occhi. Si trovava di nuovo a casa, di John non c'erano tracce. Nell'angolo della cucina, china sul microscopio, Sherlock scorse una figura a lui familiare, che non indossava altro se non il cappotto del detective. "Entra pure, Sherlock" disse La Donna.

"Sei Irene Adler, o solo uno spirito con le sue sembianze?"

"Avvicinati, e vieni a conoscermi - disse con un leggero tono divertito – io sono lo spirito del tuo Presente. Hai mai visto un altro come me prima? Sei mai andato a passeggio con i miei fratelli maggiori?" lo Spirito-Irene lo guardava con lo stesso sguardo enigmatico della vera Irene.

E proprio come succedeva con la vera Irene, Sherlock non riusciva a dedurre nulla da quello Spirito.

"Io... non credo, no. Hai molti fratelli, Spirito?" lo Spirito si mise a ridere "Più di duemila" disse poi. Sherlock era ancora un po'triste, non smetteva di pensare a John. "Spirito, conducimi dove vuoi."

Irene rise ancora più forte, e gli porse la mano, che Sherlock prese. Irene, o meglio lo Spirito, si sporse verso il microscopio e fece uno strano gesto con la mano. Il microscopio sul tavolo della cucina si alzò in aria, volteggiando davanti al volto di Sherlock, e le lenti divennero gigantesche, fino a costituire una specie di enorme schermo che mostrava una panoramica aerea di Londra. "Affascinante" In un altro momento Sherlock avrebbe pensato a come tutto ciò potesse essere reale, e tuttavia potenzialmente utile, ma ora era solo rapito dalla bellezza che lo spirito gli mostrava. Londra, la sua magnifica Londra. "Il mio dovere è mostrarti il Presente, Sherlock, e ora ti mostrerò cosa significa provare qualcosa." "Io non provo niente." replicò il consulente, scettico.

"Sherlock – disse dolcemente lo spirito – non sapere quello che si prova, è diverso dal non provare niente." Il detective ammutolì, capendo che non era il momento delle obiezioni.

Lo schermo mostrò un pub nel centro di Londra, e Sherlock lo riconobbe perché John lo aveva menzionato spesso come uno dei preferiti di Lestrade. Infatti sullo schermo apparvero una dozzina di agenti di New Scotland Yard, che festeggiavano la chiusura di un caso, compresi Donovan, Anderson, e Lestrade.

Videro Greg proporre un brindisi, alzando il bicchiere: "Allora, da dove comincio? Intanto, vorrei brindare alla salute di tutti voi. Siete una grande squadra – Sherlock sbuffò, ma Irene gli diede una gomitata – e sono fiero di essere il vostro capo, e di lavorare con voi. Ma vorrei brindare a un uomo che non è qui. Ragazzi, brindiamo a Sherlock Holmes. Certo, non è l'uomo più simpatico della terra, né il più facile con cui avere a che fare. Ma nonostante tutto, sono contento di averlo conosciuto, perché mi spinge a essere migliore, a lavorare più sodo, e perché mi ha insegnato che non è importante l'apparenza, ma ciò che si nasconde in profondità. Sherlock Holmes è un grand'uomo, e un giorno, se saremo molto, molto fortunati, sarà anche un brav'uomo. A Sherlock!" Seguirono grida e tintinnare di bicchieri. "Greg..." disse Sherlock, un po' sorpreso e un po' lusingato.

"Allora te lo ricordi il suo nome!" lo schernì lo Spirito-Irene. Il detective non rispose.

L'immagine sullo schermo cambiò, e Sherlock si ritrovò a guardare l'obitorio del Bart's. Sherlock sorrise vedendo Molly intenta a compilare una serie di moduli. Lo schermo mostrò al detective tutte le volte che Molly gli aveva fatto un favore sorridendo, come era arrossita quando le aveva fatto un complimento, e come Molly si preoccupasse per lui, quando non riusciva a venire a capo di un problema, e allora lei cercava in tutti i modi di farlo sorridere. Sherlock doveva ammettere che era contento di sapere che Molly stava bene e aveva qualcuno accanto che la rendesse felice (ed era ovvio che avesse qualcuno nella sua vita, insomma, si vedeva dalle mani della ragazza!). Lo schermo mostrò poi Sherlock, intento a pedinare uno dei precedenti flirt di Molly per assicurarsi che non fosse un poco di buono. Sherlock si ricordò che quella volta John, sorpreso, gli aveva detto che aveva fatto una cosa molto carina. All'epoca Sherlock non ci aveva dato molto peso, ma ora...

Fu il turno poi della signora Hudson, e Sherlock la vide mentre ripeteva "Sono la sua padrona di casa, non la sua governante" ma nonostante tutto stava di nuovo preparando thè e biscotti, per assicurarsi che Sherlock avesse qualcosa da mangiare, come faceva sempre. La vide stendere una coperta su di lui, che si era di nuovo addormentato sul divano (dopo aver discusso con John) e rabbrividiva. "Oh, Sherlock caro, se solo sapessi quanto lui tiene a te..." sussurrò la donna prima di uscire dal loro appartamento.

Sherlock era quasi commosso, non immaginava di essere circondato da tanto affetto, né pensava di meritarlo, considerando come lui trattava loro. Ma mancava ancora qualcuno.

"Spirito..." iniziò Sherlock, ma fu interrotto. "Oh, non ti preoccupare – disse lo spirito con uno strano sorriso, che a Sherlock ricordò moltissimo Irene – ho tenuto il meglio per il gran finale!".

Un unico nome occupava la mente (e il cuore) di Sherlock. John.

Una serie di scene comparvero sullo schermo, mentre una lacrima rigava la guancia di Sherlock. Vide John che andava a fare la spesa e gli preparava il thè, anche dopo che lui lo aveva fatto imbestialire, John che gli portava qualcosa da mangiare così che non dovesse alzarsi dalla sua amata poltrona, con un sorriso così dolce da sciogliere anche il cuore più solitario, vide John che si prendeva cura di lui ogni volta che si cacciava in qualche guaio e si feriva, anche se lui si lamentava come un bambino. Vide John che lo ascoltava attentamente ogni volta che suonava il violino, complimentandosi con lui; il detective notò come a John brillassero gli occhi, mentre lui suonava un pezzo che gli piaceva particolarmente. Vide quella volta in cui John aveva letto un'articolo su di loro, chiedendosi irritato cosa i giornalisti intendessero dire con un commento così ambiguo; al detective non sfuggì però il sorrisetto che incurvò le labbra del suo coinquilino mentre rileggeva quella frase.Vide John elogiare ogni sua brillante deduzione, e seguirlo ovunque senza battere ciglio, perché pur sapendo quanto potesse essere rischioso, John di lui si fidava completamente.

E infine, gli fu presentata una scena che il detective giudicò bizzarra: John, insieme a Lestrade, in un pub. Non era strano che fossero insieme, sapeva che uscivano spesso perché erano diventati ottimi amici, ma era strano quello che stavano facendo. John piangeva, e singhiozzando provava a dire qualcosa, e Lestrade gli teneva una mano sulla spalla, senza dire nulla. Prima che Sherlock parlasse, lo Spirito-Irene gli fece segno di stare zitto e ascoltare. Il vociare ovattato del pub e i singhiozzi di John riempirono il silenzio della cucina del 221B.

"John, dai, parlami" disse dolcemente Greg.

"Io... - iniziò John – io credo di... di essere... Ehm..."

"Innamorato di Sherlock?"

"Io non sono gay!" rispose John, quasi in automatico. Era forse la milionesima volta che lo ripeteva a qualcuno che insinuava che loro due fossero una coppia. Ma John non suonava più così convinto.

"John - iniziò cauto l'ispettore - io credo sinceramente che l'amore sia una cosa molto strana. Ti sconvolge, e può cambiare le carte in tavola in modi che fino a un attimo prima non avremo ritenuto possibili. Non ci sono regole. Non lo puoi prevedere... O controllare."

Sherlock vide John pensare intensamente, poi sul suo volto si dipinse una gioia inimmaginabile.

"Hai ragione, Greg. Io sono innamorato di Sherlock Holmes." John disse tutto questo senza esitazione, come ne se andasse fiero (cosa che a Sherlock provocò le farfalle nello stomaco), ma un attimo dopo la gioia scomparve dal suo volto, sostituita da un'emozione molto più negativa. Paura?

"Oh, no, ma questo è un disastro Greg! Io... Io non posso farglielo capire, la nostra amicizia sarebbe rovinata. Dopotutto "I sentimenti sono solo un difetto chimico, John", questo mi risponderebbe. - e lo disse imitando perfettamente il suo atteggiamento - Lui è... sposato con il suo lavoro. E anche se non lo fosse, non mi guarderebbe mai in quel modo. Non posso dirgli niente, o fargli capire niente, perderei la sua amicizia. E preferisco averlo solo come amico, che non averlo affatto nella mia vita." John si coprì il volto con le mani.

"Mi dispiace tanto, John, se posso fare qualcosa..."

"C'è una cosa che potresti fare, Greg. Potresti ospitarmi per la notte? Non posso tornare là."

"No, no John – urlò allora Sherlock, distrutto dallo sguardo triste di John – oh, John, mi dispiace..." Lo Spirito-Irene guardò Sherlock, e gli disse: "Cosa credevi? Che sarebbe rimasto qui a subire la tua indifferenza nei suoi confronti?"

Lo schermo cambiò ancora e mostrò a Sherlock tutte le volte in cui aveva fatto arrabbiare John per niente, tutte le volte che non lo aveva ringraziato dopo averlo disturbato semplicemente per chiedergli una penna, tutte le volte che lo aveva definito un idiota, e infine lo schermo mostrò John che gli diceva che stava uscendo, per la festa del suo compleanno, ma ovviamente Sherlock non ascoltava. Al detective si spezzò il cuore nel vedere lo sguardo avvilito di John. Sentì John sussurrare, uscendo "Stupido io a credere di essere diverso dagli altri, ai tuoi occhi".

"Oh, Spirito, ti prego, io posso cambiare. Non lo farò soffrire mai più, lo giuro. Ti prego, dimmi che non l'ho perduto per sempre. Dimmi che non se ne andrà. Sarei perduto senza... il mio blogger."

"All'angolo del camino, io vedo una poltrona vuota. E la camera di sopra, rimasta senza proprietario. Se queste ombre non muteranno, John se ne andrà per sempre."

L'imagine di John si materializzò d'un tratto nel loro salotto, e Sherlock lo vide, seduto sulla sua poltrona, seduto al posto che gli apparteneva, a casa sua. A casa loro. Sherlock tentò di correre verso di lui, chiamandolo, ma qualcosa lo bloccò e lo fece cadere a terra. Era una grossa palla di acciaio, pesantissima, legata al suo piede, come quella che aveva visto cingere la caviglia dello spirito di Mycroft, ma più grande. Più pesante. Sherlock urlava, si dimenava, chiamava John disperatamente, ma non riusciva a muoversi di un millimetro, e John sembrava non sentirlo.
In un attimo, tutto fu buio.

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Capitolo 4
*** Futuro ***


Quando Sherlock riaprì gli occhi, era sdraiato per terra, a metà strada tra la cucina e la poltrona di John, la cui immagine era scomparsa insieme allo spirito di Irene. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato.

L'orologio battè in quel momento la mezzanotte. La stanza divenne fredda, calò un silenzio di tomba, e Sherlock ebbe improvvisamente paura. Sentì un suono simile a un ringhio e si voltò in direzione del rumore, dove un enorme mastino dagli occhi iniettati di sangue lo osservava, emettendo solo un roco e basso ringhio.

"Sei tu, lo Spirito del mio futuro?" chiese Sherlock, ma non ottenne risposta. Lo spaventoso mastino si limitò a ringhiare più forte, e uscì di casa, fermandosi in strada. Sherlock lo seguì, e uscito dall'appartamento, notò che una densa coltre di nebbia era scesa sulla città, completamente deserta. Il mastino lo condusse attraverso una serie di vicoli che Sherlock non credeva di aver mai visto, nonostante ricordasse ogni strada della sua Londra. Lo spirito non diceva nulla, e Sherlock non trovava il coraggio di parlare; ma doveva farlo, doveva sapere.

"Spirito – iniziò cauto – tu sei quello che più temo. Dimmi, ti prego, ciò che ho visto, ciò che vedrò... È ciò che sicuramente accadrà, o solo ciò che potrebbe accadere?"

Il mastino si voltò di scatto e ringhiò più forte, facendo zittire Sherlock per lo spavento. Arrivarono al Bart's, ed entrati in obitorio videro Greg e Molly, in piedi vicino ad un tavolo, dove giaceva un corpo coperto da un lenzuolo. Si vedeva dai loro volti quanto avessero pianto, per quella persona. Dall'altro lato del tavolo, John, chino sul gelido marmo, teneva la mano fredda del defunto stretta tra le sue, e piangeva. Sherlock non aveva mai visto il dottore così disperato. Sporgendosi verso il tavolo, vide il volto del defunto.

Era il suo.

Era lui.

Coperto di sangue, polvere e cenere, con un grosso taglio che partiva dalla spalla destra e spariva sotto il lenzuolo candido, dove lo accompagnavano (Sherlock lo sapeva anche senza vedere il corpo) una serie indicibile di contusioni, ossa rotte, e ferite; il suo cadavere era su quel tavolo, e nella stanza il silenzio era rotto solo dal pianto di John. Sherlock corse ad abbracciarlo, voleva dirgli che stava bene, che quella era solo una proiezione del futuro, ma che adesso lui era vivo, e che non l'avrebbe mai lasciato solo. Gli sembrò di impiegare una vita per arrivare da lui, e quando tentò di abbracciarlo non ci riuscì, ma attraversò il suo corpo. Lui era un'ombra, e per quanto tentasse non poteva abbracciare il suo migliore amico, né dirgli che stava bene. Il cuore di Sherlock andò in mille pezzi a quella vista. John continuava a stringergli la mano, sussurrando "Solo un altro miracolo, Sherlock. Ti prego."

Il mostruoso mastino ringhiò ancora, ma Sherlock si rifiutò di uscire. Anche se John non poteva vederlo, non l'avrebbe abbandonato. Il cane allora minacciò di morderlo, e Sherlock a malincuore capì che doveva obbedire allo Spirito, e uscì dal Bart's. Si ritrovò chissà come in un cimitero, non sapeva come ci era arrivato. Un gruppo di persone stava intorno a una lapide nera, e non c'era bisogno di essere Sherlock Holmes per capire a chi apparteneva. Tutte le persone a cui voleva bene erano lì a piangere per lui: John, Mycroft, i suoi genitori, Molly, Greg, Mrs Hudson. Persino Anderson e Donovan. Piangevano tutti, gli occhi rossi e gonfi.

John rimase per ultimo davanti alla lapide, dopo che tutti se ne furono andati. Fissava rabbioso la pietra levigata, lo teneva in piedi soltanto la disciplina militare. "Tu una volta mi hai detto che non eri un eroe. A volte non sembravi umano, ma ti voglio dire una cosa. Tu eri l'uomo migliore, l'essere umano... Più umano che abbia mai incontrato. Ero solo come un cane... E ti devo moltissimo. Ti prego, c'è ancora una cosa, un'ultima cosa, un ultimo miracolo, Sherlock, per me. Non. Essere. Morto. Potresti farlo per me? È meglio che la smetti, smetti questa farsa..." Il soldato abbandonò la sua solita compostezza, cadde in ginocchio davanti alla lapide, sussurrando il nome del suo grande amore perduto per sempre. "Non te l'ho mai potuto dire, Sherlock... Non te l'ho mai voluto dire... Temevo di perderti... E ora? Ora ti ho perso per davvero – John rise nervosamente – c'è forse una strana lezione in tutto questo? Non lo so, non mi importa. Niente ha più importanza senza di te. Non ti ho mai detto che ti amo, che amo il caos che regna nel nostro appartamento solo perché è colpa tua, che amo il tuo violino che mi scalda il cuore. Non ti ho mai detto che amo tutto di te, esattamente così come sei. Non ti ho mai detto che non cambierei un solo istante della mia vita, che se tornassi indietro mi farei sparare ancora e ancora, solo perché mi ha portato da te. Ma non ha più importanza ormai. Ma sappi questo, stronzo che non sei altro, io non amerò mai nessuno quanto ho amato te, per colpa tua non sarò mai più felice, perché tu... io... noi..." non riuscì a continuare, i singhiozzi presero il sopravvento.

Sherlock tentò di muoversi, di correre da lui, ma aveva nuovamente la palla d'acciaio legata alla caviglia, e sembrava ancora più grande ora. Tentò di urlare, ma non aveva voce. Era solo un'ombra, che assisteva in disparte a quel dolore straziante, condannata a non poter far nulla.

Poteva solo piangere, e rimpiangere. Rimpiangeva ogni "grazie" non detto, ogni gentilezza non ricambiata, ogni parola sgarbata, ogni gesto non compiuto.

E faceva male.

Male da morire.

Si strinse lo stomaco, cadde in ginocchio, credette di impazzire.

Il mastino ringhiò cupo, come a dire che non era ancora finita. "Ti prego, ti prego Spirito, dimmi che sono ancora in tempo per cambiare il nostro futuro. Ti prego, dimmi cosa devo fare. Qualsiasi cosa sia necessaria per salvare John, la farò. Giuro che non permetterò che soffra così. Giuro che sarò riconoscente di tutto l'affetto che mi circonda. Ti prego, Spirito..."

E tutto fu buio.

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Capitolo 5
*** Rimediare ***


Sherlock non smetteva di piangere, tremava, il dolore era troppo.

Impossibile da contenere, impossibile da rinchiudere.

Da un angolo remoto della sua mente, si fece prepotentemente strada un altro pensiero: oltre al dolore c'era stata anche la gioia, c'era stato anche l'affetto, c'era stato e ci sarebbe sempre stato anche l'amore.

Non era ancora morto, avrebbe aggiustato qualsiasi danno, e cambiato il suo destino, il loro destino.

Non tutto era perduto, non poteva esserlo, potevano ancora essere felici.

Perché, in fondo, forse ne valeva davvero la pena.

E fu con una piccolissima speranza che Sherlock riaprì gli occhi, trovandosi sulla sua poltrona, a Baker Street. La prima cosa che fece fu controllare data e ora.

Erano quasi le 21... del 7 luglio.

Il 7 luglio.

"Questo vuol dire – sussurrò mentre una nuova speranza gli scaldava il cuore – che sono ancora in tempo. Non l'ho perso!"

Sherlock si chiese come fosse possibile. Era stato tutto un sogno? Non ricordava di essere andato a dormire. Gli Spiriti lo avevano riportato indietro nel tempo? Impossibile. Aveva forse... Oh. All'improvviso capì. Non erano passati affatto tre giorni, non aveva sognato, era rimasto chiuso nel suo palazzo mentale per tutto il tempo. Non aveva discusso con John perchè aveva dimenticato il suo compleanno, l'aveva solo immaginato, aveva immaginato tutto, e quelli che a lui erano sembrati tre giorni e tre notti erano in realtà poche ore, trascorse a vagare nei meandri più nascosti della sua mente.

Andò alla finestra, e vide John camminare lungo Baker Street, diretto alla sua festa. Non sapeva se rincorrerlo e baciarlo in strada o se fare qualcosa di ancora più teatrale. Gli serviva un consiglio.

"Signora Hudson! - urlò precipitandosi per le scale - ho bisogno di lei!"

John nel frattempo camminava svogliatamente lungo Baker Street. Poche ore prima, Greg aveva invitato lui e Sherlock a bere qualcosa per festeggiare il suo compleanno (un'ottima occasione per parlare di sentimenti, secondo l'Ispettore), ma ovviamente Sherlock l'aveva ignorato, immerso in chissà quale pensiero.

Come sempre. Ogni cosa sembrava più importante di lui, per il detective. Il dottore sospirò, rassegnato ormai a un amore non corrisposto.

In fondo, cos'altro poteva aspettarsi da Sherlock Holmes?

Dopo una lunga passeggiata (era uscito in anticipo, non ce la faceva più a sopportare l'indifferenza di Sherlock) arrivò al pub indicatogli da Greg, e fu felicemente sorpreso di vedere che lì ad aspettarlo c'erano Greg, mezza Scotland Yard (gli agenti con cui aveva legato di più, o anche solo scambiato qualche parola in quei due anni), Molly (con un nuovo flirt), Mike Stamford, Sarah e altri colleghi dell'ambulatorio, la Signora Hudson, e persino Mycroft e Anthea, e tutti cominciarono a cantare "Tanti auguri a te" non appena lo videro entrare. A John tornò il sorriso, anche se mancava il pezzo più importante per completare il puzzle.

Quella sera al pub suonava una band live, e il concerto stava per iniziare.

"Salve a tutti – disse il giovane cantante – mi dicono che abbiamo un compleanno da festeggiare stasera. Molto bene, facciamo tutti un grande applauso a John Watson, signori e signore!" Un occhio di bue illuminò il dottore, già rosso in vivo, e tutti applaudirono. John sorrise, imbarazzato. Vide poi una figura emergere dal fondo del palco, ma con quella luce non riusciva a capire chi fosse; finché non parlò. Avrebbe riconosciuto quella voce tra mille. "Bene, grazie, ora posso continuare io" disse rubando la scena al giovane cantante. Quando la luce si spostò, a John mancò il respiro. Sherlock Holmes era sul palco, aveva in mano il violino ed era affascinante come non mai. Indossava un paio di aderentissimi pantaloni neri, e una camicia bianca che sembrava disegnata apposta per far risaltare il suo fisico asciutto. La nuvola di ricci corvini era perfettamente disordinata, e aveva il sorriso più bello e dolce che John avesse mai visto sul suo viso.

Le ragazze presenti nel locale, compresa Molly (il cui accompagnatore sembrava decisamente contrariato), sospirarono e applaudirono in direzione del detective, ma lui sembrava avere occhi soltanto per John, che ricambiava intensamente il suo sguardo.

Senza dire nulla, Sherlock cominciò a suonare il violino. Greg, la signora Hudson, e stranamente, Mycroft, fecero segno a John di avvicinarsi al palco. Sherlock suonava una melodia che John non aveva mai sentito, probabilmente un brano originale, ed era la musica più struggente e romantica che avesse mai sentito, triste ma al tempo stesso dolce, perfetta in ogni accordo.

I minuti passarono, e quando la melodia terminò John dovette ricordarsi di respirare. Anche gli altri si erano avvicinati al palco, e guardavano ora lui, ora Sherlock, che sorrideva raggiante.

"John - disse con la voce che tremava per l'emozione - mio caro John... Io... Io..." l'affascinante detective pareva, strano ma vero, a corto di parole, e allora la signora Hudson gli fece segno di respirare, calmarsi, e proseguire. Sherlock si riscosse, e si schiarì la voce, gli occhi fissi su John.

"Signore e signori, perdonatemi. Mi presento, sono Sherlock Holmes, e sono salito su questo palco perché ho un'importante dichiarazione da fare. Io sono il più sgradevole e maleducato degli ignoranti, lo stronzo più irritante che si possa avere la sfortuna di incontrare. Sono incurante delle virtù, inconsapevole della bellezza, incapace di comprendere il volto della felicità. O almeno, lo ero. E per questo motivo, non mi sarei mai aspettato di diventare il migliore amico di qualcuno. Di certo non il migliore amico dell'essere umano più coraggioso, gentile e saggio che abbia mai avuto la fortuna di incontrare. John, io sono un uomo ridicolo. Mi riscattano soltanto il calore e la costanza del tuo affetto - la signora Hudson cominciò a piangere - John, tu mi hai fatto capire l'importanza dei sentimenti, soprattutto di quelli così forti come quelli che io provo per te. Sei il mio migliore amico, il mio blogger, e io ti amo da morire. - Molly e Anthea cominciarono a piangere - Ti amo, John, ti ho sempre amato e ti amerò per sempre. E il mio regalo per te, in questo giorno speciale, è una promessa: John Hamish Watson, io prometto solennemente, davanti a tutti, di impiegare al massimo i miei sforzi per rendere speciale ogni giorno della tua vita che vorrai trascorrere insieme a me, sperando che questo compensi almeno in parte tutto ciò che tu hai dato a me, da quando ci siamo incontrati."

Terminato il discorso, al pub piangevano tutti. John aveva il sorriso più bello che Sherlock avesse mai visto.

Con un movimento fluido il detective scese dal palco e si avvicinò a John. Per loro in quel momento non esisteva nessun altro, non si accorsero nemmeno del grande occhio di bue che gli puntarono addosso. Fu John a rompere il silenzio.

"Sei davvero la regina del dramma, Sherlock" disse ridendo. Sherlock rise insieme a lui.

Il detective prese il volto del suo dottore tra le mani, e lo baciò dolcemente.

Quando si staccarono, John non aveva idea di quanto tempo fosse passato, né di come mantenere l'equilibrio, a giudicare dallo stato delle sue ginocchia.

Tutti applaudivano, e fu Sherlock a suggerire a John che forse avrebbe dovuto prestare attenzione anche agli altri invitati al suo compleanno.

Fu una serata davvero perfetta. Accompagnato costantemente dallo sguardo perplesso e stupito dei presenti, Sherlock si scusò con tutti (beh, non proprio tutti, non con Anderson ad esempio, ma quello sarebbe stato un autentico miracolo!) per il suo comportamento, giurando di avere più rispetto. Abbracciò perfino suo fratello, dicendogli che gli voleva bene. E quando tutti gli chiesero il motivo di quel cambiamento così repentino e inaspettato, Sherlock rispose loro, fingendosi irritato ma in realtà sorridendo: "Oh, Signore, ma non lo capite che il centro della serata stasera è John, e non io!? Siete tutti così stupidi. Cosa c'è nei vostri piccoli cervelli? Deve essere così noioso!"

John pensò divertito che alcune cose non cambiano mai; mentre altre, per fortuna, lo fanno.

Il dottore non era mai stato così felice com'era in quel momento, circondato dai suoi amici più cari e stretto tra le braccia dell'uomo che amava.

"Eh sì – pensò Sherlock osservando le persone intorno a lui – in fondo ne vale davvero la pena."

Fine.


NdA: Fiuuuuuu eccoci arrivati alla fine della storia :) volevo solo ringraziare la mitica DanzaNelFuoco per aver betato la storia, per il "tutorial" e per tutti i preziosi consigli :) e scusa ancora se ti ho rotto le scatole, cara :*
grazie anche a chiunque ha speso parte del suo tempo per leggere tutto ciò, se volete farmi sapere cosa ne pensate o anche solo tirarmi pomodori contattatemi pure o recensite la storia :) baci baci e alla prossima!  

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