Asfodelo d'Autunno

di The DogAndWolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Voci e sorprese ***
Capitolo 2: *** Duelli magici ***
Capitolo 3: *** La figlia rifiutata ***
Capitolo 4: *** Litigio notturno ***
Capitolo 5: *** L'Erede di Corvonero ***
Capitolo 6: *** Estate Babbana ***
Capitolo 7: *** Alleati inaspettati ***
Capitolo 8: *** La fobia di Joan ***
Capitolo 9: *** Di cani e volpi ***
Capitolo 10: *** La Fortuna e la lettera ***
Capitolo 11: *** Rabbia cieca ***
Capitolo 12: *** Morte ai Sanguemarcio ***
Capitolo 13: *** Rancore e rimorso ***
Capitolo 14: *** La Profezia ***
Capitolo 15: *** L'ultimo Black ***
Capitolo 16: *** Lutto passato, futuro terrore ***
Capitolo 17: *** Senza maschera ***
Capitolo 18: *** Tra le spire del Serpente ***
Capitolo 19: *** La fuga del Principe e della Volpe Rossa ***
Capitolo 20: *** L'ultimo canto della Fenice ***



Capitolo 1
*** Voci e sorprese ***


Era passata quasi una settimana dal travagliato arrivo di Harry a Hogwarts e, nonostante la quantità di novità che aveva portato quel sesto anno, non riusciva a smettere di avvampare al ricordo del viaggio in treno e di come Malfoy lo avesse umiliato. Le cose che lo occupavano di più al momento erano la scoperta del Principe Mezzosangue e il primo appuntamento nello studio di Silente quella sera.
Harry guardò l’orologio e rimise in fretta il libro nella borsa.
«Sono le otto meno cinque, è meglio che vada, o arriverò in ritardo da Silente.»
«Ooooh!» rantolò Hermione, alzando subito lo sguardo.
«Me n’ero quasi dimenticata!» aggiunse poi sbattendosi una mano sulla fronte.
«Non vi preoccupate… mi sa che ci metterò un po’, quindi non aspettatemi svegli!» disse Harry ai suoi due più grandi amici.
Hermione fece una risatina nervosa affermando: «Non se ne parla proprio! Ti aspetteremo, siamo troppo curiosi di sapere cosa ti dirà Silente! Vero Ron… Ron?»
Diete una gomitata al ragazzo con i capelli rossi che si trovava seduto al suo fianco, intento a fissare il fuoco del camino con un’espressione addormentata. Sentendo il gomito di Hermione tra le costole si riscosse subito ed esclamò: «C-certo! Troppo curio-…» a questo punto, però, si lasciò scappare uno sbadiglio enorme procurandosi un’occhiataccia da parte della ragazza. Harry sghignazzò scuotendo la testa e se ne andò, lasciando i suoi amici ad un’accesa discussione sul panorama delle tonsille che il ragazzo aveva (secondo Hermione) disgustosamente mostrato.
Nel tragitto dalla Sala Comune di Grifondoro all’ufficio del Preside, Harry non incrociò nessuno. Quando fu davanti ai gargoyle sussurrò, sovrappensiero, la parola d’ordine che gli aveva dato Silente e raggiunse la porta dello studio.
Si fermò appena un attimo prima di bussare, con la mano a mezz’aria: aveva udito una voce di donna mai sentita prima dire qualcosa ad alta voce. Accostò quindi l’orecchio alla porta, incuriosito.
«Perché Albus? Dammi un solo buon motivo a sostegno di quello che hai fatto!»
La donna stava quasi urlando e sembrava anche parecchio arrabbiata.
«Sai bene che non devi uscire.»
«Dannazione, Albus! Gli hai persino fatto fare un-…»
«Quella non è stata una mia idea.»
Silente era calmo come sempre, ma la sua voce si era fatta grave e ferma. Harry riuscì ad immaginare perfettamente i suoi occhi azzurri trapassare quelli della sconosciuta sopra agli occhiali a mezzaluna.
«Certo, perché questa possibilità non ti è mai balenata in quel tuo cervello a detta di tutti impressionante, vero? Potrebbe morire per colpa tua! Morire, capisci?» nell’ultima frase la voce femminile si incrinò leggermente.
«Non ho detto di non aver mai considerato questa ipotesi e-…» Harry si domandava come Silente potesse rimanere così impassibile sentendo tutto il rancore che c’era nell’altra voce.
«Questo è un piano suicida! E inutile: spiegami, di grazia, come un ragazzino di sedici anni riuscirebbe a fare quello che secondo te dovrebbe fare.»
Harry sobbalzò, sentendosi preso in causa. Non aveva pronunciato il suo nome, ma qualcosa gli diceva che la donna si stesse riferendo proprio a lui e a quelle lezioni segrete che doveva seguire con il Preside.
Sentì Silente sospirare a fondo, un sospiro che lo invecchiò di cent’anni, e osservò mestamente: «Sei proprio come tua madre; intelligente e sensibile.»
Harry si allontanò bruscamente dalla porta, assordato dall’urlo irato della donna: «NON OSARE! NON OSARE NOMINARLA, ALBUS!»
Il silenzio che seguì ferì ancora di più i timpani del ragazzo di quanto non avesse fatto il grido di poco prima. Quindi si riavvicinò alla porta per cogliere un minimo rumore, uno qualsiasi. Sentì un respiro pesante, probabilmente della donna, che cercava di calmarsi. Poi un tonfo sordo, come se qualcuno fosse crollato su qualcosa di morbido: evidentemente si era abbandonata su una sedia.
«Io… non intendevo. Non volevo urlarti contro» era la voce femminile, sinceramente dispiaciuta e leggermente seccata. Forse dal suo poco autocontrollo, pensò istintivamente Harry.
«È solo che… Albus, so che ti hanno già tolto tutto una volta, come a me. Non riesco a capire perché hai intenzione di togliermi di nuovo tutto. Sarebbe come morire per me, lo sai.»
Questa volta la voce della sconosciuta non tremò nemmeno una volta, restò impassibile e triste.
Quella di Silente, al contrario, si addolcì un poco e iniziò: «Joan, sai benissimo che hai una famiglia che-…», ma si interruppe come per un segnale muto.
«Credo che tu abbia una visita, Albus!» esclamò la sconosciuta, mettendo fine alla discussione e alle possibilità di Harry di far finta di passare di lì per puro caso.
La porta si spalancò facendo sbilanciare il ragazzo in avanti, che recuperò l’equilibrio grazie ad una mano che lo trattenne con forza per la spalla. Il ragazzo era ancora così sorpreso dalla velocità con cui la proprietaria della voce avesse aperto la porta che restò totalmente muto alla vista della ragazza che lo stava ancora puntellando dalla clavicola.
Non aveva che due o tre anni in più di lui, ma la sua voce era già da adulta e Harry le arrivava più o meno al naso. Aveva i capelli molto lunghi, corvini, legati in una treccia elaborata che le arrivava quasi alla vita; la carnagione era scura, anche se sembrava avere qualcosa di malaticcio. Le labbra ben disegnate ed abbastanza carnose erano severamente strette in un’espressione seria, quasi arrabbiata. Il naso era leggermente adunco, la forma degli occhi nerissimi aveva qualcosa di orientale e brillavano di un fuoco che non riuscì bene a decifrare.
Harry arrossì quando si accorse che la sconosciuta lo stava fissando. Però c’era qualcosa fuori posto… qualcosa di incredibilmente spiazzante per il ragazzo nella persona che aveva davanti. Era certamente attraente, ma una voce nella mente di Harry, quella che gli ricordava Hermione, lo avvertì che non doveva pensarlo.
Indossava una semplice veste nera con un mantello verde dai colori cangianti della corazza di uno scarabeo.
La ragazza, Joan l’aveva chiamata Silente, inclinò la testa con fare curioso ed educatamente lo salutò: «Buonasera, Harry!», poi si girò verso Silente lanciandogli un’occhiata indecifrabile e commentò: «In effetti mi chiedevo chi aspettassi a quest’ora, Albus! Chi poteva essere se non il famoso Harry Potter
Harry sobbalzò colpito da un dejà vu imprevisto. Per uno strano scherzo della sua mente quelle esatte parole lo riportarono ad anni e anni prima, alla sua prima lezione di Pozioni, quando Severus Piton l’aveva umiliato davanti a tutta la classe per la prima volta.
La ragazza sembrò leggergli la mente, lo guardò dritto negli occhi e disse, con un sorriso amichevole: «Scusa, in questi giorni sono nervosa: non prendere nessuna mia battuta sul personale, è un consiglio che ti do di cuore.»
Harry le sorrise di rimando, senza incertezza, con un impacciato: «Figurati!»
«Oh, non mi sono presentata!» esclamò raggiante la ragazza, per poi allungare la mano verso il ragazzo e dire, con un’espressione imperscrutabile: «Mi chiamo Joan Piton.»
Lo studio fu pervaso da un silenzio denso di attesa e preoccupazione: nemmeno Silente sembrava allegro e spensierato come al solito.
Ma quel momento passò, ignorato, e Harry esclamò sbalordito: «Piton? Sei parente di P-…»
La ragazza ritirò la mano, chiudendola lentamente in un pugno e distendendo il braccio lungo al fianco, muovendosi con la circospezione di un animale pronto a scappare o ad attaccare.
«Sono la figlia di Severus Piton, il tuo professore di Difesa Contro le Arti Oscure» mentre lo diceva socchiuse gli occhi e sembrò prestare la massima attenzione alle reazioni di Harry.
«A-ah! Io… ehm… non sapevo che Pit-… cioè, il professor Piton avesse una…» iniziò il ragazzo, scioccato ed estremamente imbarazzato.
«Non ti preoccupare: nessuno lo sa. Severus preferisce tenermi nascosta: dice che sarebbe meschino mostrarmi a tutti come se fossi un trofeo… e, credimi, sarei proprio un ottimo trofeo da mostrare!»
La sua risata era cristallina e sincera e fu accompagnata da un occhiolino amichevole.
Harry notò due cose strane: quella ragazza chiamava il padre per nome. In secondo luogo era troppo simpatica con lui per essere la figlia di un uomo che lo odiava a morte.
Scosse la testa e si disse che ognuno può chiamare il proprio padre come vuole e che anche lui era molto diverso dal padre, che andava in giro a fare il bullo alla sua età.
Sorrise a Joan, tendendo la mano e dicendo brevemente: «Piacere di conoscerti, Harry Potter!»
Lei rispose al sorriso e gli strinse la mano, Harry notò che la ragazza aveva una presa molto forte e sicura. Sciolsero la stretta e Joan augurò loro, allegra: «Allora tolgo il disturbo e buona serata!»
Inaspettatamente, Silente parlò: «Ti consiglio di non provare più a cambiare quello che è fatto e a concentrarti sul futuro, Joan!»
Lo disse come se stesse parlando del tempo.
Harry guardò allibito la furia nei lineamenti della giovane donna che si girò lentamente verso il vecchio Preside e lo squadrò con espressione severa. Sembrò voler dire qualcosa, poi ci ripensò, la tensione nel suo volto sembrò sciogliersi, anche se una vena le pulsava sulla tempia in modo spiacevole, e si congedò con un breve cenno del capo, forse troppo preoccupata da quello che poteva uscirle dalla bocca se l’avesse aperta.
Silente le sorrise cordialmente e le rispose, gioviale: «Buona serata anche a te, Joan.»
Harry, mentre mormorava un saluto in risposta, notò che la ragazza aveva i pugni così serrati da farsi diventare bianche le nocche e i suoi occhi neri lampeggiarono pericolosamente di un’ira repressa controllata a stento, rendendola identica a Piton quando veniva sopraffatto dalla collera. Il ragazzo ebbe il tempo di rabbrividire per la somiglianza.
Alla fine quel momento di tensione passò, Joan si avvicinò alla porta e, appena prima di uscire, si girò per l’ultima volta e rivolse a Silente lo sguardo più enigmatico che Harry avesse mai visto: conteneva troppe emozioni per poterle decifrare tutte. Era sia una supplica che una minaccia, il tutto sottolineato da una tristezza sconfinata.
Joan annuì mestamente ad un segnale che solo lei aveva ricevuto, cercando di affogare la rabbia di poco prima nei due pozzi neri che aveva per occhi, poi guardò Harry ed esclamò sincera e sicuramente più serena: «È un piacere averti conosciuto, Harry. Fammi il favore di non raccontare a nessuno del nostro incontro, grazie! Almeno fino a quando non ci vedremo di nuovo… e ti assicuro che sarà prima di quanto tu creda» e se ne sparì silenziosamente nel buio di Hogwarts.
Harry stette zitto per un bel pezzo, poi si accorse di avere gli occhi azzurri di Silente puntati in faccia, concentrati in quella sua espressione imperscrutabile che aveva sempre quando sembrava che gli leggesse il pensiero attraverso i suoi soliti occhiali a mezzaluna.
Il ragazzo si guardò impacciato attorno e si schiarì la voce, ma Silente non accennò ad abbassare lo sguardo e, proprio quando Harry stava per chiedergli cosa avrebbero fatto, per rompere quel silenzio imbarazzato, il Preside parlò gentilmente ma con voce ferma, che non ammetteva repliche.
«Joan ha ragione. Non devi parlare con nessuno del vostro incontro né di queste lezioni che faremo d’ora in poi. A parte con la signorina Granger e con il signor Weasley, naturalmente! Voglio la tua parola, Harry…»
Il ragazzo diede la sua parola e quella fu la prima sera in cui s’immerse insieme a Silente in ricordi altrui per conoscere l’uomo e il ragazzo che c’erano prima di diventare un mostro nominato Lord Voldemort.
 
Dopo la lezione con Silente, Harry ritornò nel dormitorio di Grifondoro sentendosi come se stesse perdendo man mano il contatto con la realtà, tanto era immerso nei propri pensieri.
Appena varcò il ritratto della Signora Grassa, fu subito assalito dalle domande di Ron e Hermione sull’incontro con il Preside. Quindi iniziò a spiegare, tenendo per ultimo il meglio. Raccontò del ricordo che aveva visto per poi esclamare quasi distrattamente: «Ah, non indovinereste mai cosa ho scoperto su Piton!»
«Piton? Che c’entra con Tu-Sai-Chi?» chiese Ron scartando una Cioccorana e ficcandosela intera in bocca.
«Beh, a dir la verità nulla. Quando sono entrato nello studio di Silente, non era solo: c’era una ragazza con lui, avrà avuto al massimo tre anni in più di noi. Li ho sentiti discutere animatamente, poi sono entrato e la ragazza si è presentata. Si chiama Joan Piton e, beh… è la figlia di Piton!» sussurrò concitato Harry.
Mancò poco che Ron si strozzasse con il cioccolato che aveva in bocca mentre Hermione spalancava gli occhi in un’espressione esterrefatta.
Il primo non poté fare a meno di sbottare, dopo aver deglutito, con le lacrime agli occhi per la Cioccorana che gli era quasi andata di traverso: «Figlia di Piton? Chi potrebbe mai essere la povera sciagurata che ha dato alla luce la figlia di Piton?»
La seconda lo squadrò infastidita: per quanto lo odiassero, Piton era pur sempre un loro professore.
Harry, invece, scoppiò a ridere per la battuta di Ron e rispose: «Non lo so, ma almeno Joan ha avuto la fortuna di prendere certamente dalla madre per l’aspetto…»
Poi si bloccò, accorgendosi improvvisamente di una cosa: «In effetti non ha detto nulla sulla madre. Chi potrebbe essere?»
«Magari Piton l’ha voluta nascondere perché la madre di sua figlia è una Babbana, no?» disse Hermione aggrottando le sopracciglia.
Harry, osservando le facce scioccate dei suoi amici, si disse che era davvero strano parlare della figlia di Piton; poi osservò: «No, non credo! Penso che sua madre fosse una strega e che sia morta. Silente ad un certo punto le ha detto che gli ricordava sua madre! Doveva essere una strega perché la conoscesse, no? A quel punto, però, Joan si è arrabbiata e gli ha urlato contro.»
Gli mancarono le parole per descrivere il senso di pericolo che la rabbia della ragazza gli aveva provocato in quel momento, quindi ci rinunciò e stette a rimuginare sulle sue ipotesi.
Guardò Hermione e Ron nel silenzio, finché la ragazza non espresse a voce la domanda stampata sui loro volti: «Per cosa stavano litigando?»
Harry fissò il fuoco mentre rispondeva: «Non sembrava un litigio vero e proprio. Era come se Joan avesse scoperto qualcosa, forse un piano di Silente che coinvolge qualcuno. Sembrava molto preoccupata perché riteneva che avrebbe portato alla morte di una persona. Ha detto anche che era un piano inutile e suicida e che un sedicenne non avrebbe mai potuto affrontare questo piano. Lui è stato irremovibile, allora lei l’ha quasi pregato dicendogli che questa persona era tutto per lei.
«Silente le ha risposto di ricordarsi che aveva ancora una famiglia oltre a questo qualcuno. Immagino si riferisse a Piton. E poi… uhm… mi hanno scoperto fuori dalla porta…» concluse Harry, ancora leggermente imbarazzato per l’accaduto ed escludendo il sospetto di essere quel sedicenne senza speranze.
«Wow! Non augurerei mai a nessuno di avere come famiglia Piton. Pensate che orrore averlo vicino ventiquattr’ore su ventiquattro!» disse Ron sinceramente dispiaciuto per la ragazza.
«Beh, è pur sempre suo padre. Presumo che si vogliano bene, no?» disse Hermione in un tono suo malgrado scettico e poco convinto.
«Piton voler bene a qualcuno? Sì, certo! Infatti a Natale distribuisce tante caramelle a tutti i suoi amati studenti!» sbottò con una smorfia Ron.
Hermione gli rispose, infastidita: «Oh, andiamo! Noi lo conosciamo solo come professore. Non sappiamo come sia nell’ambito… ehm… privato
Harry e Ron si guardarono perplessi: nessuno dei due riusciva a immaginare come Piton potesse condurre una vita privata.
Ron sospirò e dichiarò: «Comunque sono molto dispiaciuto per quella povera ragazza! Com’è Harry? Scommetto allegra quanto Mirtilla Malcontenta e solare quanto un Thestral!»
«Stranamente no. È molto gentile, invece! E penso sia anche simpatica, anche se non sono riuscito ad inquadrarla molto bene… almeno non mi ha mai fissato la cicatrice come tutti gli idioti degli ultimi tempi.»
Ron e Hermione lo guardarono stupefatti, poi il ragazzo esplose in una risata sguaiata ed esclamò: «Beh, allora credo sia più probabile che Piton l’abbia rapita da un’altra famiglia di maghi!»
Il suo migliore amico si unì alla risata di Ron, mentre Hermione fece una smorfia ignorata dagli altri due. Poi Harry ricordò le espressioni di Joan, del tutto identiche a quelle di Piton.
«No, penso sia proprio suo padre. Ho notato alcune somiglianze a dir poco… raggelanti. Quando ha fissato Silente per un attimo era come se fosse fuori di sé per la rabbia e… beh… era uguale a Piton quando ha scoperto che Sirius era scappato tre anni fa, ve lo ricordate?» sussurrò Harry guardando Ron e Hermione annuire e rabbrividire allo stesso tempo e ignorando la fitta allo stomaco che aveva spiacevolmente accompagnato il nome del padrino. Avevano scritto sulle facce che uno spettacolo così spaventoso non l’avrebbero mai dimenticato.
«Comunque Joan mi ha detto di non rivelare la sua esistenza a nessuno finché non ci incontreremo di nuovo. Chissà cosa avrà voluto dire…» rifletté Harry perplesso.
«Magari prenderà il posto di Piton come insegnante di Difesa Contro le Arti Oscure!» esclamò speranzoso Ron.
Hermione scosse la testa replicando: «E tu credi che dopo tutto questo tempo che chiede quella cattedra a Silente passi il testimone alla figlia? Ma per favore, Ron!»
Harry alzò le spalle e concluse il discorso con un: «Magari lo assisterà in qualche lezione o forse abita semplicemente a Hogwarts.»

 
*****
 
NdD&W: Salve a tutti, nuovi e vecchi lettori! Ripropongo questa fanfiction riaggiornandola completamente e modificando così sostanzialmente la trama che non aveva senso non ripubblicarla. Sarà a pubblicazione settimanale, quindi controllate ogni domenica per un nuovo capitolo.
Note sulla traduzione: ho preferito usare la prima traduzione italiana perché ho letto Harry Potter per la prima volta in quella traduzione. Riguardo il disastro tra Half-blood e Mudblood, invece, ho preferito il termine usato da quest'ultima edizione (cioè Sanguemarcio invece del mio solito Sanguesporco). Se preferite i nomi originali non esiterò a cambiarli, ditemi voi :D
Note sul rating: sicuramente più avanti il rating passerà da giallo a, come minimo, arancione. Non ho potuto metterlo subito arancione perché non ha senso a questo punto della storia.

Fatemi sapere che ne pensate, mi raccomando!

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Capitolo 2
*** Duelli magici ***


La risposta al dilemma dei tre ragazzi non si fece attendere molto. Cinque giorni dopo, Harry, alzando lo sguardo dal suo pranzo, intercettò due occhi nerissimi alla sinistra di Piton.
Era Joan. Gli rivolse un grande sorriso sincero, per poi voltarsi subito verso suo padre e iniziare a parlare sottovoce con lui. Sembravano entrambi nervosi e preoccupati per qualcosa, impegnati in una fitta conversazione inudibile.
Harry tirò una gomitata a Ron, distraendolo dal suo pasticcio di carne, per dirgli: «Guarda, c’è Joan!»
Il suo amico guardò verso il tavolo dei professori e spalancò la bocca esclamando, esterrefatto: «Per mille gargoyle! Sembra una Veela al confronto di Piton, Harry!»
Proprio in quel momento arrivò Hermione, che sbuffò, contrariata: «Scusate, ero in biblioteca a cercare notizie sul Principe. Chi è che sembra una Veela al confronto di Piton, Ronald? A parte la maggior parte del genere femminile, ovvio.»
Il ragazzo, senza nemmeno staccare gli occhi dalla figlia di Piton e notare l’acidità di Hermione, le indicò il nuovo volto vicino al loro professore di Difesa Contro le Arti Oscure. «Ah, quella è Joan? Avevi ragione Harry: sembra molto più amichevole di Piton» esclamò Hermione.
«Cavolo! A vedere quanto è venuta bene, mi sa che la madre era davvero una Veela!» sbottò Ron.
«E secondo te una Veela si metterebbe con uno come Piton?» gli rispose Harry con espressione scettica.
Ron fece una smorfia e, dopo aver ragionato un po’, replicò: «Magari l’ha addormentata o le ha somministrato un filtro d’amore, no?»
I due ragazzi si guardarono, cercando di immaginare Piton mentre faceva un filtro d’amore e lo faceva bere a una Veela mezza svenuta. Scoppiarono a ridere insieme per l’impossibilità della situazione. Smisero appena lo sguardo di Piton si posò su di loro, fulminandoli con odio come sempre.
«Ma è ovvio che non fosse una Veela: la carnagione di Joan è troppo scura! Le Veela sono descritte come bellezze diafane…» intervenne Hermione, evidentemente seccata dalla scarsa attenzione che i due ragazzi prestavano ai libri di testo.
Ovviamente non erano i soli ad aver visto Joan, ma, a giudicare dal mormorio interrogativo, erano gli unici a conoscerne l’identità.
D’un tratto Harry notò una cosa molto bizzarra. «È una mia impressione o anche gli altri professori sono spiazzati dalla presenza di Joan?» sussurrò a Ron e Hermione indicando la McGranitt e Vitious che confabulavano tra loro dando l’impressione di essere più che vagamente confusi e la Sprite che lanciava delle occhiate interrogative alla ragazza. Hagrid, al contrario, non sembrava essersi accorto di nulla e salutò il trio sventolando con il suo solito buonumore la manona gigante.
«Hai ragione. Gli unici non sorpresi sembrano essere Silente e Piton!» confermò Hermione dopo che ebbero risposto al saluto di Hagrid con un cenno.
«Che cosa strana… pensate che Piton l’abbia tenuta segreta anche ai propri colleghi?» domandò Harry, perplesso.
Seamus interruppe il loro discorso, chiedendo loro: «Sapete chi è la ragazza seduta vicino a Piton?»
Harry lo osservò: stava decidendo se rispondergli o meno, quando Silente si alzò senza preavviso e nella Sala Grande calò automaticamente il silenzio totale. Tutti erano attenti ai suoi movimenti, sperando di comprendere chi fosse la sconosciuta.
«Come avrete sicuramente notato a questo tavolo c’è un volto nuovo…» iniziò il Preside con tono gentile e allegro. Tutti gli occhi si puntarono su Joan, che arrossì lievemente sotto la pelle olivastra. «Permettetemi di presentarvi Joan Piton!» disse Silente in tono gioviale indicando con la mano aperta la ragazza alla sinistra di Piton.
Nella Sala Grande risuonò un mormorio stupefatto e incredulo. Gli unici ad applaudire furono Harry, Ron, Hermione, Silente e Piton: tutti gli altri erano troppo confusi. Ma Joan sembrò prenderla bene, perché azzardò un sorriso verso Harry.
Silente fece un cenno con la mano per sedare l’incessante mormorio e proseguì: «Ho deciso di riaprire il Club dei Duellanti. Chiunque si voglia iscrivere dovrà comunicarlo al Direttore della propria Casa». A questa notizia ci fu qualche sparuta reazione eccitata, ma gli studenti più anziani sbuffarono annoiati.
Tutti avevano ancora bene impresso nella mente il vecchio Club di Allock: gli unici momenti eccitanti erano stati provocati da Piton, quando aveva Disarmato il loro vecchio professore di Difesa Contro le Arti Oscure facendolo schiantare contro una parete, e da Harry, quando si era messo a parlare Serpentese.
«Considerando l’ascesa di Lord Voldemort e la scarsezza dell’insegnante di Difesa delle Arti Oscure che avete avuto l’anno scorso, ho ritenuto opportuno far sì che la signorina Piton vi insegni le delicate pratiche del duello magico e il metodo più adeguato per sopravvivergli. Le lezioni si terranno nella Sala Grande tutti i venerdì a partire da domani.
«Visto la complessità delle cose che vi verranno insegnate, questi incontri saranno solo per gli studenti dal quinto al settimo anno.»
A questo punto un mormorio triste si levò dagli studenti più giovani, sfidando l’assoluto silenzio che era caduto dopo il nome di Colui Che Non Deve Essere Nominato. Harry poté sentire chiaramente il disappunto nella voce del più giovane Canon sopra le altre.
«Il tempo per le iscrizioni non scadrà e sarà possibile partecipare al Club per tutto l’anno scolastico. Detto questo, potete tornare alle vostre classi e continuare la vostra routine scolastica!» concluse Silente risedendosi al proprio posto.
Mentre la Sala Grande si svuotava, Harry si voltò verso i suoi amici, esclamando: «Sembra essere interessante! Ci andiamo?»
Ron annuì energicamente mentre Hermione rispose, alzando le spalle: «Beh, imparare qualcosa in più sui duelli non fa mai male!»
 
Gli altri insegnanti non presero molto bene il fatto che Piton avesse nascosto loro di avere una figlia. Infatti lo evitavano più che mai e non gli rivolgevano più la parola a tavola, fatta eccezione della professoressa Burbage, di Babbanologia, che non sembrava essersi accorta di nulla e continuava a parlare ai due in tono molto gentile, offrendo spesso Tuttigusti +1 e Api Frizzole a Joan. Ma lui non sembrava preoccuparsene minimamente: se ne andava per i corridoi con Joan ed erano costantemente immersi in una fitta discussione seria, quasi grave.
Harry trovò tutto questo davvero irritante, perché avrebbe voluto parlare con la ragazza o almeno avere il tempo di salutarla. A quanto pare non era l’unico ad essere intimorito dalla presenza di Piton: notò altri studenti, in prevalenza maschi, che scrutavano cupi il loro professore di Difesa Contro le Arti Oscure ogni volta che lo vedevano con la figlia. Primo fra tutti Ron, ovviamente.
«Ma che ha paura che venga rapita da qualcuno?» sbottò esasperato, dopo aver cercato di parlare con Joan per la quinta volta in un giorno durante le ore buca. «Davvero, è inquietante! La segue ovunque!» continuò tetro, sedendosi al tavolo di Grifondoro per la cena, non senza squadrare Piton.
«Oh, per favore, Ron. Avranno da preparare la prima lezione, no?» ribatté Hermione alzando appena lo sguardo dal libro che si era portata a tavola.
A quelle parole Harry rovesciò il suo succo di zucca sulla tovaglia candida. «Come sarebbe a dire preparare la prima lezione?» chiese sbigottito a Hermione.
La ragazza alzò leggermente le spalle e rispose: «Probabilmente al Club dei Duellanti sarà presente anche Piton, non credi? Dopotutto è il nostro professore di Difesa Contro le Arti Oscure ed è il padre di Joan.»
Harry e Ron si guardarono orripilati: nessuno dei due aveva pensato a quella possibilità.
«Vuoi dire che ci toccherà un’ora in più alla settimana con Piton?» sbottò Ron con una smorfia di disgusto.
Hermione rivolse loro uno sguardo esasperato e sbuffò: «Non ditemi che non ci avevate pensato.»
«Oh, fantastico! Così, visto che non è riuscito né ad avvelenarci né a seppellirci vivi sotto una montagna di compiti, potrà provare a ridurci a pezzetti duellando contro di noi!» esclamò Ron attaccando il suo arrosto con malumore.
 
«Buonasera a tutti!» salutò Joan con la bacchetta puntata alla gola per amplificare la voce e un sorrisetto nervoso gli studenti davanti a sé. Con il riverbero che c’era nella stanza Harry non si sorprese di riconoscere a fatica la sua voce così distorta.
La Sala Grande era abbastanza vuota: c’erano solo i Grifondoro del sesto anno e alcuni del quinto (tra cui Ginny), pochi Tassorosso, qualche Corvonero (tra cui Cho Chang e il suo gruppo di amiche e Luna Lovegood) e praticamente tutti i Serpeverde dal quinto al settimo anno. Nel mezzo era stato montato lo stesso palco sul quale Piton aveva un tempo Disarmato Allock, facendolo finire di sotto.
Ron si lasciò scappare un gemito d’orrore perché aveva ragione, come sempre, Hermione: anche Piton era sul palco, alla destra della figlia, un po’ in disparte con la sua solita espressione imperscrutabile, come se volesse lasciare a lei l’onore di fare il discorso d’apertura o volesse mettere ben in chiaro che l’autorità maggiore in questi corsi era quella di sua figlia.
«Bene, so che avete già fatto un’esperienza di Club dei Duellanti e so anche che non si è conclusa molto bene. Sia per voi che per il professor Allock…» continuò Joan, scoccando un’occhiata divertita a Piton, che però non diede segno di averla notata, anche se l’angolo destro della sua bocca si increspò in un ghigno soddisfatto.
«Ecco… vorrei dirvi di dimenticarvi di quell’esperienza, perché quello che faremo in queste lezioni non ha nulla a che fare con quello che avete fatto con il professor Allock quattro anni fa» a queste parole, gli sguardi degli studenti si illuminarono di curiosità.
«Il professor Piton si è gentilmente offerto di aiutarmi a mostrarvi un vero duello tra maghi esperti, ma prima desidererei testare di persona le capacità di alcuni di voi! Ci sono domande?» concluse adocchiando, quasi con timore, la sparuta folla che la guardava. Si sollevò un lieve brusio incuriosito.
«Beh, almeno lei non l’ha chiamato il mio assistente!» sghignazzò Ron a mezza voce. Harry gli rivolse un sorriso divertito al ricordo dell’espressione omicida che Piton aveva rivolto ad Allock quando aveva pronunciato quelle fatidiche parole.
In quel momento Malfoy chiese, sprezzante: «Perché non ci fate prima vedere voi, professori
Gli occhi di Joan lampeggiarono pericolosamente di una strana luce, ma ritornarono normali così velocemente che Harry pensò di esserselo immaginato. «Per non allarmarvi troppo, Draco» rispose asciutta Joan, con un riflesso divertito in faccia all’espressione confusa di Malfoy.
«Bene, se non ci sono altre domande, possiamo incominciare. Chi vuole essere il primo? Accetto volontari!»
La Sala sprofondò in un silenzio di tomba. Joan si guardò intorno sperando di vedere una mano alzata, proprio quando stava per decidere lei chi prendere, una persona si fece avanti dal gruppo di Corvonero. Era Luna Lovegood.
«Oh, eccellente! Luna, vero? Sì, puoi metterti lì davanti a me… ecco, così!» esclamò Joan decisamente più contenta.
«Bene! Ora l’etichetta impone un inchino all’avversario, cosa che sconsiglio vivamente se avete davanti qualcuno che non è un vero e proprio gentiluomo.»
La battuta di Joan strappò qualche sorriso e una risata da parte di Harry e Ron.
«Naturalmente, in questa prima lezione useremo solo incantesimi di Disarmo e per atterrare il nemico, nulla di pericoloso. Dovrete semplicemente cercare di farmi volare via la bacchetta dalla mano. Io non farò altro che difendermi e rimandarvi indietro i vostri stessi incantesimi. Per rendervi un po’ più motivati, chi riuscirà a Disarmarmi guadagnerà venticinque punti per la propria Casa. Ok, possiamo iniziare, Luna!» concluse, sorridendo alla ragazza bionda che aveva davanti. Abbassò la bacchetta e Harry notò che l’impugnava con la mano sinistra.
Fecero entrambe un inchino profondo ma senza svolazzi superflui. I muscoli facciali di Joan erano rilassati e sorrideva spensierata. Luna attaccò all’improvviso, scandendo decisa: «Expelliarmus
Joan, con un semplice movimento del polso, deviò l’incantesimo; ma Luna non si fece cogliere alla sprovvista e scartò di lato per poi lanciare due altri incantesimi a breve distanza tra loro.
Mormorò velocemente, con la faccia estremamente concentrata: «Stupeficium. Rictusempra», ma Joan glieli rimandò entrambi indietro, anche se non riuscì a colpirla.
Luna fece una mezza piroetta su se stessa per evitare a fatica l’ultimo incantesimo ed esclamò, con un guizzo di felicità, intravedendo una falla nella difesa di Joan: «Impedimenta. Expelliarmus
Trattennero tutti il fiato mentre il primo incantesimo sembrò colpirla in pieno e la videro distintamente cadere in avanti. Ma Harry si accorse del movimento fluido della ragazza. Il sortilegio non l’aveva sfiorata: Joan si era tuffata in avanti per evitare l’incantesimo e rotolò sulla schiena per fronteggiare il secondo getto argentato.
Anche Luna lo notò e provò a sussurrare: «Prote…», ma era già troppo tardi. Il suo stesso Incantesimo di Disarmo le aveva fatto volare via la bacchetta dalla mano.
Era successo tutto così velocemente che gli altri studenti ci misero un po’ a capire cosa fosse capitato e solo quando videro Joan rialzarsi dalla sua posizione accucciata senza nemmeno un po’ di affanno, gli studenti esplosero in un applauso spontaneo.
«Davvero eccellente, Luna. Mi hai fatto faticare non poco! Complimenti, brava!» esclamò Joan, rivolgendo un sorriso amichevole alla ragazza bionda che stava recuperando la propria bacchetta, con la voce di nuovo amplificata.
Dopo di Luna, si presentò una studentessa di Tassorosso che Harry conosceva, Hanna Abbott. Lei durò molto di meno di Luna. Fu disarmata dal suo secondo incantesimo.
Dopo Hanna fu il turno di Cho, poi di Dean Thomas, Ernie Macmillan si fece pomposamente avanti, facendo un occhiolino a Harry così eloquente che gli sembrò di sentire: «Per noi compari dell’ES…»
Infine alcuni ragazzi dell’ultimo anno di Serpeverde che non conosceva salirono sul palco. Vennero tutti liquidati con pochi semplici movimenti di polso quasi annoiati della ragazza.
«Benissimo! Direi che c’è ancora tempo per tre di voi. Chi vorrebbe provare ancora?» chiese Joan, entusiasta di come stesse andando la sua prima lezione.
Hermione alzò la mano, con sguardo sicuro. Subito dopo, sotto gli sguardi sbigottiti di tutti e accolto da un versetto sarcastico di Piton, Neville si fece avanti. Per ultimo, Malfoy ghignò e annunciò, in un sussurro ben udibile: «Se lo fanno una Sanguemarcio e un Magonò posso di certo farlo anch’io!», alzando anche lui la mano, sempre con un’espressione beffarda e il suo tono sprezzante e strascicato.
Joan si irrigidì all’insulto e il suo sguardo lampeggiò ancora in maniera pericolosa mentre guardava Malfoy e scandì lentamente, quasi in un sussurro amplificato dal solito incantesimo, in tono gelido: «Cinque punti in meno a Serpeverde. E se intendi continuare a usare quel linguaggio puoi anche andartene subito, Draco.»
Il ragazzo boccheggiò dalla sorpresa, ricordando molto a Harry quella volta che Hermione lo aveva schiaffeggiato. Quella ragazza era la figlia di Piton, come poteva togliere dei punti a lui?
«Ma… ma lei non può…» farfugliò confuso Draco, guardando Piton in cerca di appoggio. Ma il professore non si voltò nemmeno dalla sua parte e continuò a fissare con espressione truce la figlia, gli occhi bui stretti in un rimprovero muto.
Joan, senza una parola, fissava Draco con uno sguardo di fuoco. Aveva la stessa scintilla d’ira repressa che Harry le aveva visto negli occhi quando era nello studio di Silente.
Un bisbiglio di approvazione si diffuse nella Sala Grande quando le flebili lamentele di Malfoy scemarono nel silenzio. Joan lo sovrastò con un deciso ma gentile: «Prego, Hermione!»
La ragazza la guardò con nuova stima e salì velocemente sul palco.
Fecero l’inchino e Hermione attaccò subito. Fu il duello più lungo di tutti e il primo completamente silenzioso.
Dalla Grifondoro provenivano getti di tutti i colori, che Joan le rispediva indietro, ma Hermione li deviava ogni volta e nessuno dei suoi incantesimi la colpì.
Nonostante tutto, Joan aveva ancora un’espressione rilassata in volto e non una goccia di sudore solcava la sua fronte mentre quella di Hermione divenne lucida dopo poco tempo. Ma nessuna delle due sembrava intenzionata a demordere.
A un certo punto un Expelliarmus di Hermione sembrò colpire in pieno Joan, che si girò verso sinistra fermandosi per un attimo in quella posizione, poi, inaspettatamente, fece una piroetta su se stessa e lo rimandò al mittente.
La prima, convinta di averla Disarmata, si accorse troppo tardi del getto argentato che le stava venendo contro. La bacchetta della Grifondoro disegnò un mezzo arco per aria, per poi cadere a terra alcuni metri più indietro.
Joan guardò Hermione con un sorriso smagliante e decretò: «Semplicemente sensazionale! Davvero ottimo!»
La ragazza rispose con un sorriso incerto e, dopo aver recuperato la bacchetta, ritornò al proprio posto vicino a Harry e Ron con la faccia rossa per la fatica e l’imbarazzo di venir salutata da un lungo applauso a cui i Serpeverde non parteciparono.
«Ora è il tuo turno, Neville!» esclamò Joan gioviale quando calò nuovamente il silenzio.
Mentre il ragazzo saliva sul palco tremando con un’espressione sconvolta e stupita in volto (come se si stesse chiedendo perché diavolo si fosse fatto avanti), un verso sprezzante provenne dall’angolo in cui si trovava Piton e parlò per la prima volta, senza ricorrere ad incantesimi per amplificare la voce. «Stai attenta! Non vorrei mai che Paciock si confondesse e ti lanciasse la sua bacchetta in un ultimo disperato tentativo di colpirti nell’occhio, Joan. Visto che è l’unica cosa che possa e sappia fare» l’avvertì Piton con una nota di divertimento maligno nella voce e un ghigno in volto. Neville si bloccò di colpo e guardò con timore il professore e la sua faccia si accese improvvisamente di rosso.
Joan sorrise soave a Piton e gli rispose con tono neutro, sempre la voce distorta dal riverbero: «Non ti preoccupare, Severus, sono certa che tu stia esagerando.»
Il professore scrollò le spalle, come a declinare ogni responsabilità, ma il ghigno malvagio non sparì dalle sue labbra e gli occhi neri rimasero incollati alla faccia di Neville, che faceva di tutto per evitarli.
«Bene, Neville. Puoi raggiungere la postazione, ora» lo invitò Joan a salire sul palco.
Neville le ubbidì e si inchinarono. Il duello non fu certo lungo quanto quello di Luna, né lontanamente paragonabile a quello di Hermione, ma ebbe una durata discreta.
«Molto bene, Neville! Devi solo cercare di sveltirti un po’, ma oltre questo direi che va bene!» annuì Joan incoraggiante al Grifondoro ancora rosso dall’imbarazzo che stava scendendo dal palco.
Successivamente la ragazza si rivolse ghignante verso Malfoy dicendo: «E come ultimo Draco. Vediamo se sarai veramente all’altezza di Hermione e di Neville come hai dichiarato prima.»
Malfoy arrossì sotto i capelli biondi quasi bianchi, ma salì sul palco guardandosi intorno con la sua solita espressione beffarda e a testa alta, salutato da un’ovazione da parte di Serpeverde.
Lui e Joan si guardarono per un attimo negli occhi, poi si inchinarono. Malfoy andò più giù del normale e si rialzò facendo un ironico gesto svolazzante con la mano. L’espressione di Joan era rigida e imperscrutabile: sembrava più che mai suo padre.
Il Serpeverde iniziò ad attaccare, ma Joan deviava ogni volta i suoi incantesimi con un movimento del polso quasi annoiato e, a ogni sortilegio che il ragazzo le lanciava, il ghigno che aveva in faccia si allargava sempre più.
«Che c’è, Malfoy? È tutto quello che sai fare?» sbottò Joan con una scintilla negli occhi che aveva un qualcosa di estremamente inquietante e il sorriso malvagio sempre più largo sulla bocca.
Draco arrossì ancora di più e iniziò ad avanzare, continuando a pronunciare incantesimi verso la giovane donna. Joan aspettò che Malfoy si avvicinasse, sempre deviando gli incantesimi del ragazzo. Poi, quando Draco le si trovo a poco più di un metro di distanza, la ragazza parò un Expelliarmus e, facendo un passo in avanti, glielo rimandò indietro senza alcun preavviso, centrandolo in pieno petto.
Malfoy fu sbalzato all’indietro per una distanza considerevole prima di atterrare sulla schiena con un tonfo sordo e doloroso. Proprio in quel momento, Joan sembrò ritornare in sé, abbandonò il ghigno malefico e si avvicinò a Malfoy con aria pentita e colpevole. «Oddio! Scusa, Draco. Mi sono lasciata leggermente andare…» mormorò, sinceramente dispiaciuta, al ragazzo a terra.
Joan raccolse la sua bacchetta e si chinò su di lui, tendendo la mano per aiutarlo. Malfoy la guardò per un attimo, paralizzato. Poi qualcosa nello sguardo di Joan sembrò rassicurarlo, perché prese la mano che gli veniva offerta e si alzò con il suo aiuto.
«Mi dispiace. Stai bene?» gli ripeté preoccupata la ragazza. Malfoy annuì con un’espressione truce, anche se non ebbe il coraggio di aprire la bocca di nuovo, e Joan gli rivolse un sorriso amichevole. «La prossima volta vedi di non usare più quel linguaggio, è una cosa che mi fa imbestialire» gli consigliò in un sussurro che Harry udì a stento. Il suo volto era nuovamente sereno e rilassato, la furia del duello sembrò passata.
Malfoy annuì di nuovo, con più forza di prima, anche se un’ombra gli attraversò il volto tormentato. Harry osservò bene il ragazzo di Serpeverde. Gli sembrava molto dimagrito dall’ultima volta e ancora più pallido del solito.
Joan gli porse la bacchetta e disse: «Molto bene, Draco! Hai solo bisogno di fare un po’ più di attenzione e di non badare alle provocazioni.»
Malfoy se ne tornò al proprio posto, salutato da un’alta ovazione dei Serpeverde.
«Eccellente. Alcuni di voi mi hanno veramente stupita! Infatti assegnerò dieci punti a Grifondoro per Hermione, cinque a Corvonero, Serpeverde e Grifondoro per Luna, Draco e Neville.»
Neville si guardò attorno spiazzato mentre i suoi compagni di Grifondoro gli battevano pacche sulla schiena: la figlia di Piton gli aveva appena assegnato dei punti!
«Ora che ho visto un po’ di voi duellare e mi sono fatta un’idea del vostro livello io e il professor Piton vi mostreremo un duello vero e proprio!» esclamò Joan entusiasta mentre l’uomo prendeva posto davanti a lei con espressione neutra.
«Naturalmente non mireremo a ferirci gravemente, ma solo a Disarmarci o a Schiantarci l’un l’altro. Quindi non preoccupatevi e godetevi lo spettacolo» concluse la ragazza con un sorriso e una luce di gioia selvaggia negli occhi per il combattimento che stava per affrontare.
Joan e Piton si guardarono per un attimo poi, nello stesso momento, invece del solito inchino, piegarono leggermente le teste, in un gesto che aveva qualcosa che sapeva inequivocabilmente di complicità. Il sorriso della ragazza venne subito rimpiazzato da un’espressione estremamente concentrata. Il professore, d’altro canto, aveva la sua solita aria indifferente, anche se una contrazione impercettibile della mandibola tradiva la sua tensione.
Cominciarono senza preavviso, con una violenza tale che tutti gli studenti trattennero da subito il fiato. Anche Harry, Ron e Hermione fissarono stupefatti Joan e Piton mentre lanciavano una miriade di incantesimi a velocità forsennata, senza pronunciare una singola parola.
Gli occhi di entrambi ridotti a due fessure fissati l’uno nell’altro e le espressioni sempre tese dalla concentrazione, come durante una partita di scacchi tra professionisti.
Dopo circa tre minuti di duello ininterrotto, in cui nessuno dei due sembrava essere in vantaggio sull’altro, Piton puntò la bacchetta contro Joan e lanciò un incantesimo proprio in una falla della difesa della ragazza. Il getto la colpì in pieno e fu sollevata dal piede, come se un filo invisibile la tenesse sospesa per la caviglia.
Harry riconobbe subito l’incantesimo: era lo stesso che suo padre aveva usato molto tempo prima in quella stessa scuola per importunare l’adolescente Piton.
Nessun altro sembrò farci caso, erano tutti troppo impegnati a trattenere il fiato e a fissare Joan mentre si liberava velocemente dall’incantesimo agitando la bacchetta e cadeva supina sul pavimento di legno con un gemito scocciato e forse un po’ dolorante. Piton, nel frattempo, le si era avvicinato molto, era a due passi da lei, e tentò di Disarmarla, ma la ragazza deviò l’incantesimo da terra, diede un colpo di reni e ritornò agilmente in piedi. Prima che il professore avesse il tempo di lanciare un altro incantesimo, Joan fu su di lui con un balzo.
L’intera Sala Grande fissò sbigottita le due figure in piedi l’una a poca distanza dall’altra, immobili e ansanti sul palco. La bacchetta della ragazza era puntata contro la faccia del professore, mentre quella di Piton era premuta sul cuore di Joan. Di colpo ghignarono e abbassarono le bacchette, contemporaneamente.
Solo allora gli studenti iniziarono ad applaudire, tutti troppo esterrefatti per parlare.
«Questo sarebbe un vero duello tra maghi esperti. Naturalmente ci siamo andati piano con gli incantesimi: un vero duello finisce spesso con la morte di un avversario, raramente con un semplice Disarmo e, ovviamente, mai con un pareggio come quello che avete appena visto» esclamò Joan, ancora senza fiato, alla folla davanti a lei e si fece scivolare in tasca la bacchetta.
«Spero che questo primo incontro vi sia piaciuto e che tornerete la settimana prossima più numerosi di oggi» concluse Joan con un sorriso smagliante, palesemente sollevata che la lezione fosse finita.
Gli studenti si dispersero in fretta, parlottando tra di loro con entusiasmo. A giudicare dalle chiacchiere Joan Piton sembrava, a differenza del padre, piacere a tutti quanti.
Ron e Hermione si avvicinarono all’uscita, ma Harry esitò.
«Vado a parlarle un attimo» disse ai suoi due amici indicando Joan, che si era appena voltata verso il palco, dopo aver osservato brevemente l’ultimo gruppetto di ragazzi (Corvonero in questo caso) uscire dalla Sala. Se avessero fatto più attenzione, avrebbero visto un’espressione triste e sconsolata nello sguardo di Joan, ma non ci fecero caso e anche quell’occhiata divenne presto indecifrabile.
Ron, vedendo che Piton si accingeva a ritornare nei sotterranei lasciando la figlia indietro a riordinare, annuì e seguì Harry, trascinando Hermione dietro di sé.
In quel momento c’erano solo loro tre e Joan Piton nella Sala Grande. La ragazza era intenta a smontare il palco con l’ausilio della magia, quindi non notò i tre ragazzi che le si avvicinarono finché non li sentì alle proprie spalle. Joan fece scomparire quello che era rimasto delle assi di legno con un ultimo gesto della bacchetta e si girò verso il trio.
«Harry!» lo salutò con un sorriso radioso, per poi guardare Ron e Hermione e aggiungere: «Hermione Granger e, senza dubbio, Ronald Weasley… vero?»
Le orecchie di Ron si accesero di rosso mentre annuiva, stupefatto. Hermione e Harry risposero al sorriso di Joan.
«Gran bella lezione, profess-…» iniziò a dire Harry, in imbarazzo, senza sapere come rivolgersi a lei. Ma la ragazza si mise a ridere e lo interruppe dicendo: «Professoressa? Chi, io? Starai scherzando, spero! Joan va più che bene! E dammi del tu, per la barba di Merlino!»
Harry notò che, al contrario di tutte le altre persone che avesse mai incontrato, lo sguardo di Joan non era mai salito alla sua cicatrice a forma di saetta. Infatti, lo guardava sempre dritto negli occhi quando gli parlava.
«Ehm… ok, Joan! Volevo solo dirti che la lezione è stata proprio fantastica, mi è piaciuta molto!» concluse Harry con un sorriso.
Ron e Hermione annuirono con vigore. Poi la ragazza di Grifondoro non poté più trattenersi. «Come ha… volevo dire… hai… come hai fatto a fermare il mio Expelliarmus prima? Ero convinta di averti Disarmata» chiese Hermione con ammirazione.
«Era proprio quello che volevo farti credere, Hermione!» ghignò Joan, per poi proseguire: «Era un incantesimo di Rallentamento seguito da uno di Scudo. Ho dovuto spezzare il ritmo del duello per vincere, altrimenti saresti durata ancora un bel po’. È uno stratagemma utile per guadagnare un po’ di tempo e, se si è fortunati, vincere.»
Hermione rimase senza parole per poi esclamare: «Ma è geniale. Non ci avevo pensato!»
«Che forza quella bacchetta! Non ho mai visto nulla di simile!» la interruppe bruscamente Ron, adocchiando la bacchetta che aveva Joan nella mano sinistra.
Harry la osservò per un momento. In effetti era singolare: molto elegante, chiarissima, quasi bianca, con delle curiose e sottili striature più scure, dritta e un po’ più corta di quella di Ron.
«Ti piace, Ronald? È una creazione di Olivander. Lunga dieci pollici e un quarto, di legno di salice con anima di peli di Unicorno. Olivander l’ha definita flessibile e ottima per gli Incantesimi» esclamò Joan allegra, mostrando la propria bacchetta ai tre ragazzi davanti a lei. Poi, inspiegabilmente, il suo sguardo s’incupì di colpo guardando qualcosa alle spalle di Harry, Ron e Hermione. Qualcosa… o qualcuno.
«Non vi sembra il caso di ritornare nella vostra Sala Comune? Oppure andare a fare un giro fuori, è una giornata così assolata… o, ancora, iniziare la relazione sugli Incantesimi di Scudo che vi ho assegnato per lunedì?» disse una voce così gelida che i tre ragazzi rabbrividirono violentemente.
Si voltarono lentamente sperando di non aver riconosciuto la voce. Invece, con loro grande orrore, incrociarono lo sguardo di Severus Piton che li osservava con una sorta di disgusto rabbioso rivolto specificamente a Harry.
«N-noi stavamo solamente p-parlan…» farfugliò Hermione nel panico, ma fu immediatamente zittita da un’occhiata di fuoco di Piton.
«Li ho fermati io! Mi hanno aiutato a smontare il palco» dichiarò Joan con indifferenza, venendo in aiuto della Grifondoro. Piton le rivolse uno sguardo sorpreso, inarcando il sopracciglio.
Padre e figlia si squadrarono per un po’ sopra le teste dei tre ragazzi.
«Bene, direi che è venuto il momento di salutarci. Devo andare a rivedere la lezione della settimana prossima. Harry, Ron, Hermione, passate buon pomeriggio!»
La gentilezza di Joan non si incrinò come il sorriso tirato che rivolse loro, per poi uscire dalla Sala Grande in gran fretta. Piton scoccò loro un ultimo sguardo fulminante, ma non disse nient’altro, e se ne andò anche lui, seguendo la figlia.
 

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Eccomi qua con un nuovo capitolo :D Nemmeno San Valentino mi ferma, ahahahahah! Spero vi piaccia!
Fatemi sapere che ne pensate e se avete pareri o impressioni su Joan o sulla storia.

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Capitolo 3
*** La figlia rifiutata ***


La bambina si strinse le ginocchia al petto, cercando di non piangere. Qualsiasi cosa succedesse, lei non avrebbe pianto. Se l’era ripromessa più e più volte.
Sentì il motore di un’auto avviarsi e si costrinse a non ipotizzare che quella macchina fosse il SUV dei suoi genitori. O meglio della coppia che per sette anni si era presa cura di lei.
Non capiva come fosse possibile: l’avevano scelta all’orfanatrofio quando non aveva ancora un anno, l’avevano tenuta per sette anni esatti, l’avevano trattata esattamente come la loro figlia biologica, sua sorellastra Julie, che era nata due anni dopo di lei. Poi era avvenuto il primo incidente e si erano spaventati, ma l’avevano considerata una strana coincidenza. Si erano detti fortunati di avere una figlia così.
Allora era arrivata la lettera che spiegava alla famiglia chi avevano in casa. E i genitori ne furono terrorizzati.
La paura nei suoi confronti era aumentata di incidente in incidente, finché non avevano scritto una lettera di scuse al Preside della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, qualsiasi cosa fosse, confessando di non poter crescere una figlia con doti simili.
Non volevano una figlia che sapesse far ammalare gli altri bambini, che facesse sparire gli animali dei vicini, che ferisse i bulli della sua scuola smontando improvvisamente giostre o rompendo rami di alberi sotto cui stavano passando.
Lei aveva ripetuto più volte che non sapeva cosa farci, che gli incidenti capitavano e basta, spesso lasciandole solo un profondo senso di colpa. Avevano provato di tutto per farla smettere, dalle punizioni ai discorsi lunghi e importanti, ma un mese prima si era ammalata anche la loro perfetta e normale Julie.
Inizialmente non era niente di serio: si era presa il morbillo, come normale per la sua età. Aveva finito la malattia e il giorno dopo le era tornata. E così a seguire fino a che i signori Foster non avevano preso la decisione più difficile della loro vita: rinunciare a una delle loro figlie per il bene dell’altra.
Quella mattina l’avevano presa e portata a fare una gita in macchina, ma Joan si era subito detta che c’era qualcosa che non andava. Innanzitutto non l’avevano mai portata in giro lasciando Julie in casa da quando era nata, men che meno quando era così malata. In secondo luogo non le avevano nemmeno detto dove sarebbero andati. Infine, entrambi i signori Foster erano pallidi e meno sorridenti del solito.
Joan cercò di ricordarsi a memoria la strada, anche solo per capire dove la stessero portando, ma presto perse ogni riferimento geografico. Si fermarono davanti ad una triste costruzione in una via dimenticata di Londra: si trattava dell’orfanatrofio di Lapworth Court, ma questo Joan non poteva saperlo.
Una signora dall’aria severa e il carattere freddo come l’inverno inglese la venne a prendere dalla macchina senza dirle una parola, guardando con disprezzo i suoi genitori.
Scese senza protestare perché pensò ad un campeggio o qualcosa del genere, ma appena salì alla sua minuscola camera con solo un triste letto, un armadio e un comodino con sopra un fiore che stava per seccarsi in un vaso, vide dalla finestra un omone che scaricava la sua valigia, il suo zaino e le sue cose e gliele portò in camera mentre i suoi genitori piangevano.
A quel punto capì e si rifiutò di spendere un altro sguardo per loro, rannicchiandosi nel letto spoglio e freddo che ora era la sua nuova casa.
Per ore e ore non si mosse, riuscendo solo a pensare alla favola di Hansel e Gretel.
Quando sua madre Angela gliel’aveva raccontata lei aveva obiettato che erano stati stupidi a ritornare dove non li volevano e aveva chiesto perché sprecare del pane per rintracciare casa propria quando c’erano tantissime pietre sui sentieri di montagna. Non riusciva a smettere di pensare che, invece, avrebbe dovuto chiedere a sua madre come Hansel e Gretel si erano subito resi conto che il padre li stesse portando a perdere.
 
Verso sera Joan era ancora lì, immobile, senza aver detto una parola a nessuno, con gli altri bambini che si fermavano alla sua porta aperta, si presentavano e, non ricevendo alcuna risposta, ritornavano nelle proprie camere borbottando e bisbigliando cose malevole su quella bambina così stramba.
Aveva persino ignorato la direttrice quando le aveva annunciato che il pranzo era pronto. Quella se n’era andata brontolando qualcosa sul fatto che avrebbe mangiato quando se la sentiva.
I lampioni si stavano accendendo in strada per combattere il buio invernale quando Joan sentì distintamente un rumore totalmente diverso da tutti quelli che aveva mai sentito in vita sua. Proveniva dalla strada, sembrava qualcosa di secco che si spezza o una crepa nel terreno che si apre.
Incuriosita e spaventata guardò fuori dalla finestra e ad una prima occhiata non vide nulla di strano. Si girò per sbirciare fuori dalla porta della propria camera, ma nessuno sembrava aver sentito quel crack preoccupante che aveva sentito lei. Quindi corse di nuovo alla finestra e lì lo vide per la prima volta.
Distinse il suo consunto cappotto nero dalla notte solo perché passò sotto un lampione. Era un adulto con la pelle pallida e i capelli, appiccicati alla testa e al volto, forse più neri della notte intorno a lui. Sembrava stranamente a disagio nei propri vestiti scuri.
Sembrò sentirsi osservato perché si fermò e guardò proprio in direzione della piccola bambina di sette anni, che ormai lo stava fissando con il naso attaccato al freddo vetro della finestra.
I suoi occhi neri come pozzi sopra al naso aquilino si alzarono in quelli di Joan e, senza una ragione, seppe che era venuto per lei. Il sollievo sciolse il nodo che aveva al cuore, certa che quello sconosciuto l’avrebbe salvata da quel posto a cui non apparteneva. Sapeva istintivamente che l’avrebbe portata nel modo magico perché anche lui ne faceva parte.
Infatti, dopo pochi minuti se lo ritrovò davanti all’uscio della sua camera.
Il silenzio tra loro era pesante mentre si studiavano a vicenda, in attesa di un segnale per una prima mossa. L’uomo aveva la fronte corrucciata e il suo sguardo sembrava cercare avidamente qualcosa che Joan non poteva comprendere. Puntò su di lui gli occhi intelligenti e parlò per prima, chiedendogli educatamente ma senza timore: «Sei Albus Silente?»
L’ingenuità dei suoi sette anni e la pura curiosità le permisero di non addossare la colpa a quell’Albus Silente per averle rovinato la vita, ma il tono era comunque circospetto.
L’uomo, sorpreso dalla sua furbizia, la squadrò da capo a piedi, scuotendo appena il capo in risposta. Smise di cercare sul suo volto quel qualcosa che Joan ignorava, senza dare cenni né di resa né di averlo trovato.
La sua espressione rigida e impassibile nascondeva un’insicurezza abissale sulle basi dell’approccio da avere con una bambina di sette anni. Decise quindi di presentarsi: «Sono Severus Piton.»
Joan gli sorrise per la prima volta nella sua vita, gli occhi le si accesero di calda speranza. Guardò dietro di lui, controllando fuori dalla porta se c’era qualcuno all’ascolto.
Vedendo diversi bambini curiosi fissare la schiena di quello sconosciuto, si alzò dal letto, gli prese la mano e lo condusse con determinazione dentro la sua stanza e chiuse la porta dietro di loro.
«Mamma mi ha detto di non parlare con gli sconosciuti, ma io so chi sei.» Parlava velocemente in un sussurro, con la voce piena di eccitazione. «Tu sai fare magie. Anch’io le so fare. Mamma mi dice sempre di non farle, mi ha detto lei che sono magie. Penso che si sono spaventati» aggiunse con aria colpevole, abbassando il capo. «Si sono spaventati perché non sono come me…»
La pioggia di parole colpì Piton, che si ripeté quanto quella bambina fosse intelligente mentre guardava l’amara comprensione nel volto della piccola Joan.
«Ma tu sei come me. Lo so perché sei apparso là dove prima non c’era niente» indicò un punto imprecisato alle sue spalle alla finestra, i suoi occhi ora stavano valutando avidamente e speranzosamente l’adulto. Sembrò esitare, poi esalò, trattenendo il respiro per l’emozione: «Sei venuto a portarmi via, vero, signor Severus?»
Le annuì cauto, stando attento a quello che diceva.
Quindi Joan gli rivolse di nuovo un sorriso enorme e pieno di gioia e si sedette sul letto, ora molto più rilassata, e, in uno slancio di fiducia, fece posto a quello sconosciuto tanto atteso, incrociando le gambe.
Piton la osservò, per poi puntare gli occhi neri sulle lenzuola candide del letto, stranito di non metterla in soggezione con il suo solo aspetto da pipistrello troppo cresciuto. Decise di getto e si sedette accanto a lei, anche se la posa rigida non poteva nascondere il disagio.
«Cos’è successo con i tuoi genitori adottivi?»
Joan trattenne le lacrime e si esibì in una sincera smorfia contrita. Parlò con attenzione, come scegliendo con cura le parole: «Hanno paura, te l’ho detto. Julie, mia sorella, si è ammalata per colpa mia.»
Piton le diede tempo di aggiungere altro, in silenzio, sempre studiandola.
«E non guarisce. Era stata cattiva come me, è vero… aveva detto che sono… che sono un mostro, ma io non voglio che muoia» scosse la testa e guardò istintivamente in alto per fermare le lacrime.
«Guarirà, non ti preoccupare. E non è stata affatto gentile con te» la rassicurò in fretta Piton, forse un po’ troppo bruscamente, senza saper bene che tono usare, ma miracolosamente Joan sembrò percepire del calore in quelle parole perché gli puntò gli occhi pieni di lacrime nei suoi pozzi neri e al mago sembrò di vedere della gratitudine nel volto della bambina. Subito si trasformò in rimorso, mentre diceva: «Ha detto che sono un mostro perché ho fatto male a Anthony, il suo fidanzatino.»
Sembrò temere che Piton cambiasse improvvisamente idea su di lei, perché alzò lo sguardo su di lui e gli confessò alla velocità della luce: «Io l’ho fatto solo perché mi ha tirato la gomma nei capelli e mamma me li ha dovuti tagliare… e non so come è successo, ma l’ho guardato e lui ha urlato di dolore e… io ero tanto arrabbiata e lui piangeva…»
Ammutolì per l’orrore, scoccò un’occhiata di sottecchi all’adulto di fronte a lei e poi cercò qualcosa intorno a loro che potesse convincerlo a portarla via; quindi saltò giù dal letto, facendo sobbalzare un poco Piton, e si diresse verso il piccolo comodino. Tolse il fiore dal vaso, una rosa rossa malridotta, e lo portò con sé di nuovo sul lettino.
«Io non so fare solo cose brutte, però. Io so fare anche cose belle: guarda!»
Il fiore si aprì lentamente, in tutta la sua bellezza, per poi richiudersi di nuovo e ripetere il tutto ancora e ancora sotto lo sguardo stupefatto di Piton.
La faccia di Joan era concentrata per far andare il processo sempre più veloce, perché voleva far capire a quello sconosciuto che poteva diventare la sua nuova famiglia, che lei non era un mostro.
Piton chiuse delicatamente una mano sulle sue minuscole che reggevano la rosa e subito lo sguardo di Joan scivolò nel suo. La poté sentire trattenere il respiro, quindi, visto che le sue prossime parole significavano così tanto per lei, le scelse con estrema cura: «La tua magia è molto bella, Joan. Diventerai una bravissima strega e non devi permettere a nessuno di insultarti.»
Piton riuscì persino ad accompagnare quelle parole con un nervoso sorriso sincero che Joan non trovò nemmeno lontanamente spaventoso, nonostante le labbra tirate sui denti.
Per la prima volta Joan si sentì completamente accettata. Ripose attentamente la rosa di lato e gettò le braccia al collo a quello che non aveva mai sentito come sconosciuto. Solo allora pianse, ma pianse di pura gioia, senza infrangere la sua promessa di non piangere per i suoi genitori adottivi.
Nonostante l’imbarazzo, Piton ricambiò goffamente l’abbraccio, stringendola delicatamente e promettendole: «Non sarai più sola, ti porto via da qui.»
 
*****
Ok, sono un po' in ritardo rispetto al solito, me ne scuso.
Spero che questo capitoletto introspettivo vi sia piaciuto :D
Ecco qui la scoperta che Joan è stata adottata da Piton. Ma è davvero tutta la storia? Perché Severus l'ha nascosta alla comunità magica per tutto questo tempo? Ma, soprattutto, perché se Joan è adottata assomiglia così tanto a Severus? E se Piton è davvero il padre biologico, chi è la madre di Joan?
Mi raccomando, fatemi sapere che ne pensate!

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Capitolo 4
*** Litigio notturno ***


Dopo cena, mentre stavano salendo al Dormitorio, Ron non aveva ancora smesso di lamentarsi per il comportamento di Piton.
«Oh, andiamo! È da psicopatici. Ed è inquietante. È ossessionato dal fatto che sua figlia scappi con il primo a cui parla!» sbottò, per l’ennesima volta, il ragazzo.
«Non hai mai sentito parlare di gelosia paterna, Ron?» gli replicò infastidita Hermione, alzando gli occhi al cielo.
«Gelosia paterna? Ma quella è pazzia schizofrenica, non semplice gelosia paterna» ribatté sconvolto Ron.
«Il Principe!» esclamò Harry all’improvviso, con il fiato in gola. Ron e Hermione si girarono allibiti verso il loro migliore amico.
«Capisco che sei fissato con quel Principe Mezzosangue, Harry… ma non ti sembra di esagerare un po’ ora?»
Ron lo guardò come se indossasse i famosi Spettrocoli di Luna Lovegood.
«No, intendevo il libro! L’ho dimenticato nell’aula di Pozioni! Devo assolutamente andarlo a riprendere» esclamò Harry, alzandosi e maledicendosi contemporaneamente.
«Ma il coprifuoco è già scattato da un po’, Harry! Non è meglio aspettare domani mattina per prenderlo?» suggerì Hermione assumendo il suo solito cipiglio severo da studentessa modello.
«Sì, certo! Così Lumacorno potrà scoprire che era il Principe a fare tutte le pozioni… tranquilla, prenderò il Mantello» concluse risoluto, ignorando la faccia preoccupata di Hermione.
Andò di sopra e, dopo essersi assicurato che i suoi compagni di camera dormissero, si mise il Mantello addosso.
 
Stava attraversando il corridoio del quarto piano quando sentì una voce sgradevolmente familiare.
«E cosa credevi di fare oggi?» sbottò Piton, irritato.
Harry lo vide solo in quel momento. Era alla sua destra, in mezzo al corridoio e davanti a lui c’era l’inconfondibile figura di Joan. Il ragazzo la riconobbe prima che parlasse, anche se gli dava le spalle: solo lei seguiva ovunque Piton. Avrebbe voluto essere in qualsiasi altro posto; gli sembrava scorretto e meschino origliare una discussione tra padre e figlia. E diventava anche molto pericoloso se c’era Piton di mezzo.
Ma le scale erano proprio oltre loro due, pensò disperato. Poi si ricordò di un passaggio segreto che portava al primo piano, quindi si girò indietro per raggiungerlo.
«Ok, lo ammetto: con Malfoy ho perso la pazienza, ma non succederà più» gli rispose Joan in una voce che era curiosamente seccata e dispiaciuta insieme.
«Non stavo parlando di Draco, mi riferivo a Potter.»
A queste parole Harry si paralizzò sul posto. Anche Joan sembrò essere sorpresa perché non parlò, ma rimase semplicemente a fissare il padre con espressione allibita.
«Sai benissimo che non voglio che tu parli con Potter!»
Suo padre aveva parlato con una voce gelida e piena di rancore. Joan alzò gli occhi al cielo per un momento, replicando, con un gesto di noncuranza della mano: «Ho la situazione sotto controllo, devi solo fidarti di me.»
Il professore non si mosse e continuò, avvertendola: «Lo sai che è estremamente pericoloso…»
Gli occhi neri della ragazza si puntarono in quelli identici del padre mentre sussurrava: «Cosa dovrei fare? Ignorarlo quando mi parla? Rispondergli male per allontanarlo? Comunque se non fosse pericoloso non saremmo a questo punto, Severus.» Il professore abbassò lo sguardo a quelle parole e il tono di Joan si fece molto più dolce quando gli mormorò, sfiorandogli il braccio con le dita della mano destra: «So benissimo che ti preoccupi per me e che stai cercando di proteggermi e so altrettanto bene quanto debba stare attenta e quello che stiamo rischiando. Ma devi tranquillizzarti: nessuno sa niente a parte noi due, Silente e il Signore Oscuro. Ho tutto sotto controllo, come sempre.»
Harry trattenne bruscamente il fiato sentendo l’appellativo con cui aveva chiamato Voldemort. Solo i Mangiamorte, in genere, si rivolgevano a lui in quel modo. Per fortuna nessuno dei due sembrò notarlo da tanto erano concentrati sulla discussione.
Piton ritornò a guardarla, gelido, e sibilò, la rabbia trattenuta a stento: «Nessuno? Ne sei proprio sicura?»
La voce della ragazza tremò un poco di insicurezza quando gli chiese: «Cosa intendi?»
L’uomo avvicinò repentinamente il volto livido di rabbia a quello di Joan e Harry sentì a stento il nome che sussurrò.
«Rebecca Raeburn.»
Sua figlia impallidì e spalancò la bocca, senza riuscire ad emettere alcun suono né a guardare in faccia suo padre. Allora Piton continuò: «Sei ad un passo dal farti scoprire, te ne rendi conto, vero?»
Finalmente Joan riacquistò la parola, balbettando: «Come… come hai fatto a…»
Il professore la interruppe, ringhiando: «Ti avevo detto di non parlarle già un anno fa. E invece cosa scopro stamattina? Raeburn disattenta a lezione perché pensa a quello che le hai scritto!»
La ragazza scosse la testa, infastidita e rossa di imbarazzo o rabbia, e gli rispose a tono, puntandogli contro un dito che voleva essere minaccioso: «Non hai il diritto di usare la Legilimanzia sugli studenti, Severus!»
«Pensavi che non mi fossi accorto delle tue uscite notturne? Pensi che sia uno stupido sprovveduto?»
Il sibilo di Piton fu duro e fermo quanto il suo sguardo.
Lo scudo furioso di Joan si disintegrò davanti a quell’affermazione e la ragazza abbassò gli occhi umidi di lacrime, non riuscendo più a dire nulla: quelle parole sembravano averla sconvolta. Nel silenzio pesante Harry sentì Joan tirare debolmente su con il naso, vedendola nascondere le lacrime nel buio.
Il professore rimase contraddetto dalla reazione della figlia e, dimentico della rabbia, cercò di consolarla nell’unico modo che conosceva, un po’ a disagio: «Perché piangi? Avanti, prima o poi l’avrei scoperto. È inutile piangere, Joan.»
«Mi dispiace. Volevo dirtelo, non volevo che lo scoprissi così. Avevo paura che ti arrabbiassi e… che mi considerassi un mostro. Io… dimmi che non sei arrabbiato con me perché non ti ho mai detto nulla, ti prego» singhiozzò la ragazza, senza riuscire a guardarlo negli occhi. Improvvisamente divenne la bambina così bisognosa di approvazione da correre a prendere una rosa rossa per fargli vedere che sapeva fare anche cose belle, oltre che fare del male agli altri.
Suo padre sussurrò immediatamente in risposta, ritrovando il suo tono neutro e logico: «Ti sto rimproverando per aver messo in pericolo il piano, niente di più. Non sono arrabbiato con te per quello che hai fatto, ti sto solo dicendo di fare più attenzione. Ormai quello che è fatto è fatto, ora dobbiamo solo pensare al futuro.» Piton sollevò il volto della figlia accarezzandole la guancia, per permetterle di vedere i suoi sinceri occhi neri che confermavano le parole appena dette. E si sentì in dovere di aggiungere un fermo rimprovero: «E non ti considererei mai un mostro.»
Joan ritrovò il sorriso in un umido sospiro tremolante di sollievo e gli lanciò le braccia al collo, mentre suo padre la stringeva a sé in un gesto insicuro e un po’ goffamente protettivo.
Harry, immobile dalla sorpresa, lo osservò compiere gli unici gesti di tenerezza che gli avesse mai visto fare, senza capire più niente del loro discorso.
La ragazza sciolse l’abbraccio e, asciugandosi le lacrime con la manica destra, annuì, concludendo: «Hai ragione, dobbiamo pensare a quello che succederà e fare in modo che niente vada storto. In fondo penso che il piano funzionerà.»
Piton la guardò negli occhi, facendole un breve e sicuro cenno di assenso. Poi, senza dire più nulla, sparirono nel corridoio, nella direzione opposta a quella del ragazzo sotto il Mantello dell’Invisibilità.
Harry rimase a fissare il vuoto per un bel po’ e a rimuginare con le orecchie tese per captare ogni minimo rumore. D’un tratto si mosse, come in trance. Arrivò fino all’aula di Pozioni, prese il libro del Principe Mezzosangue e ritornò alla Sala Comune di Grifondoro senza incontrare nessun altro e ripetendosi all’infinito le stesse domande.
Piton lo riteneva davvero un pericolo per sua figlia? Perché mai? Da cosa voleva proteggerla? Va bene che lo odiava, ma Piton non avrebbe mai ritenuto Harry un pericolo per Joan solo in base all’odio. Oppure lo riteneva un pericolo per la riuscita del fantomatico piano?
Che genere di piano era? Era loro, di Silente o di Voldemort? E cosa sapevano tutti loro? C’entrava forse con il misterioso compito di Malfoy?
Ma, il mistero più grande, cosa c’entrava Rebecca Raeburn in tutto questo? Cosa sapeva Rebecca di così importante da poter mandare a monte il piano di cui parlavano Joan e suo padre? E qual era il collegamento tra lei e Joan? Perché Joan era costretta ad uscire di nascosto per vederla?
Harry decise di iniziare le sue indagini proprio da quella ragazza misteriosa.
Mormorò la parola d’ordine alla Signora Grassa ed entrò nel buco dietro al ritratto, andando a dormire presto per ignorare qualsiasi domanda dei suoi due migliori amici sulla sua espressione.
Quando si stese nel suo letto a baldacchino guardando il soffitto, il sonno non sopraggiunse subito e gli permise di maturare l’ultimo dubbio inespresso che aveva.
Joan era una Mangiamorte come il padre? Magari faceva il doppiogioco come lui.
Dovette aspettare che Ron andasse a dormire prima di riuscire a scivolare in un sonno agitato, fatto di Marchi Neri che spuntavano dai posti più impensabili e da Hermione che lo sgridava perché aveva origliato una discussione così importante che diventava Joan che lo guardava con così tanto disprezzo che divenne presto il padre che gli urlava contro fuori di sé dalla rabbia.

*****
Eccomi qua, ad un orario improbabile, ma spero di trovare ancora qualcuno di voi sveglio.
Il mistero di Joan si infittisce, cosa significa veramente il litigio a cui ha assistito Harry?
Fatemi sapere cosa ne pensate e se vi piace come sta andando la storia, mi raccomando :D

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Capitolo 5
*** L'Erede di Corvonero ***


Harry aveva tenuto per sé la discussione tra padre e figlia, un po’ perché si vergognava di essere rimasto lì a sentire e un po’ perché non voleva rivelare a Ron e a Hermione quanto l’avesse turbato il fatto che Piton lo considerasse un pericolo per sua figlia. Però era deciso ad andare in fondo alla faccenda.
L’unica Rebecca Raeburn che Harry conosceva era una Corvonero del settimo anno. Harry la conosceva solo di vista e non le aveva mai parlato ma si salutavano dal quinto anno del ragazzo, in memoria del periodo in cui stava con Cho Chang. A dire la verità Rebecca era l’unica ragazza Corvonero dell’anno di Cho che non gli avesse tolto il saluto quando lo incrociava per i corridoi.
Gli era sempre sembrata una ragazza gentile ma introversa. Se ne stava, infatti, sempre un po’ in disparte, con lo sguardo blu perso nel vuoto. Non era affatto alta, con i capelli corvini lunghi fino alla vita spesso raccolti in un’elaborata treccia, il grazioso volto sottile e affilato era coperto di fitte lentiggini sulla carnagione pallida.
La trovò seduta da sola sul prato in riva al lago una settimana dopo il litigio, nonostante il freddo invernale. Harry si accorse della facilità con cui l’aveva trovata da sola, ricordando i problemi che aveva avuto con Cho. Mentre si avvicinava, pur non capendone nulla di acconciature femminili, notò la somiglianza tra la treccia della ragazza e quella di Joan.
«Ciao!» la salutò Harry, con un po’ di insicurezza, senza sapere ancora come porle la questione.
«Ciao Harry!» rispose Rebecca al ragazzo, rivolgendogli un sorriso spento, con gli occhi blu stranamente tristi.
Il silenzio che seguì si riempì velocemente di imbarazzo mentre Harry cercava un modo per introdurre l’argomento. Quando lo sguardo della bruna passò da semplice curiosità a sospetto, il Grifondoro iniziò a parlare: «Ti ho vista al Club dei Duellanti l’altro giorno.»
Rebecca, senza riuscire a nascondere un po’ di perplessità, replicò: «Sì.» Visto che Harry non aggiunse nulla, la Corvonero continuò: «Mi ha convinta Cho, non volevo andarci dopo lo spettacolo pietoso di Allock di quattro anni fa.»
«Allock! Mai avuto un professore più scemo» ridacchiò Harry, felice di aver trovato un argomento in comune.
Lo sguardo della ragazza si perse per un attimo in ricordi di anni prima. Rise genuinamente scuotendo la testa: «Anche con voi ha cercato di domare dei Folletti della Cornovaglia?»
«Oh, ma certo che sì!» sorrise Harry al ricordo, aggiungendo: «Alla fine abbiamo dovuto rimetterli a posto noi. Se non fosse stato per Hermione saremmo ancora lì!»
«Hermione Granger? Oh, le devo la vita per degli appunti di Aritmanzia che mi ha passato di lezioni che avevo perso due anni fa!» annuì per poi ritornare cupa come prima.
Harry fu spiazzato da quel cambiamento repentino di umore, quindi, per cambiare argomento, le chiese: «Come è andata la tua estate?»
Rebecca fece uno scatto con la testa, come se volesse scuoterla, ma si bloccò. L’espressione peggiorò mentre rispose con una sincerità disarmante: «Male, non voglio parlarne.»
Harry divenne paonazzo per quella rivelazione, maledicendosi per le parole che le aveva rivolto e per non aver prima chiesto a Luna o a qualcun altro di Corvonero come approcciarla. Stava per scusarsi quando Rebecca scosse la testa, con quello che voleva sembrare un sorriso, e gli disse: «Non ti preoccupare: non lo potevi sapere.»
Scrollò le spalle e, venendo in soccorso di Harry che non sapeva più cosa dire, cambiò velocemente argomento, fornendogliene uno in territorio neutro: «Non vedo l’ora che sia sabato prossimo per l’uscita a Hogsmeade!»
Il Grifondoro le sorrise, grato di poter continuare una chiacchierata su un piano più consono: «Sì, anch’io non vedo l’ora! Ci andrò con Ron e Hermione.» Poi fu colpito da un’idea e aggiunse in fretta: «Se vuoi puoi venire anche tu per… per ringraziare Hermione!»
Rebecca si ammutolì e scrutò con attenzione il volto di Harry, come a voler smascherare i suoi veri intenti. Indecisa su come interpretare l’espressione colpevole e imbarazzata di Harry, gli chiese, con sospetto: «Cho ti ha detto qualcosa su di me?»
Harry scosse la testa, ritenendo opportuno precisare: «Non ci parliamo dall’anno scorso.»
Rebecca parve stranamente sollevata dalla notizia.
Proprio in quel momento arrivarono Ron e Hermione che lo stavano aspettando per andare a pranzare insieme.
«Harry? Si può sapere che stai facendo qui al gelo quando sto per morire di fa-… oh, ciao!»
Ron sorrise imbarazzato alla ragazza sconosciuta seduta sul terreno gelato, lanciando un’occhiata interrogativa a Harry.
Hermione, invece, la salutò con un sorriso forse un po’ troppo caloroso per risultare normale, evitando di guardare Harry: «Ciao Rebecca! Tutto bene?»
La Corvonero agitò piano la mano, anche se il suo sorriso si fece più naturale di prima, ma evitò accuratamente di rispondere alla domanda dell’amica.
«Dai, Harry, andiamo a mangiare!» concluse il tutto Ron, non potendo più sopportare il brontolio del proprio stomaco e trascinò via l’amico.
«Ciao! Ci sentiamo per sabato prossimo, allora!» ebbe ancora il tempo di urlarle Harry, per poi andare via con i suoi amici.
«Sabato? Hai per caso un debole per le Corvonero?»
«Cos… ma no, Ron. L’ho invitata ad uscire ad Hogsmeade con noi perché… perché mi sembrava sola.»
Hermione rallentò il passo scrutando l’amico, per poi lanciare un’occhiata torva a Calì e a Lavanda che bisbigliavano tra di loro additando Rebecca in lontananza. Harry non mancò di notare il suo comportamento e le chiese, speranzoso: «La conosci, vero? Sai qualcosa su di lei?»
Hermione si arrestò del tutto, guardando Harry negli occhi. Sembrava profondamente a disagio.
«Io… ehm. Non la conosco così bene. Mi ha chiesto degli appunti di Aritmanzia su una cosa che non aveva capito una volta, ma… oh, Harry, è meglio se la lasci perdere se ti interessa. Non avresti un minimo di possibilità.»
«Oddio, Hermione. Non mi interessa in quel modo, come devo dirvelo? Volevo solo… fare una gentilezza» mormorò Harry, certo che la sua bugia era stata colta dalla brillante amica.
Dopo un altro po’ di bugie abbozzate si arrese e raccontò tutto ai due, facendo attenzione che nessun altro sentisse la storia sussurrata, tralasciando la parte dove Piton lo considerava un pericolo perché non l’aveva ancora digerita.
«Ma perché la ignorano? È successo qualcosa?» chiese ad Hermione alla fine del suo discorso, senza dar loro la possibilità di contestare la sua spiegazione, principalmente perché aveva paura di sentirsi dire di essere stato insensibile per aver origliato quella discussione privata.
Hermione arrossì, combattuta. Alla fine decise che Harry e Ron non avrebbero usato quell’informazione per nuocere alla ragazza e rivelò loro, nell’imbarazzo: «Beh, dalla settimana scorsa quell’idiota di Marietta ha fatto girare la voce che Rebecca sia, beh… che le piacciano le ragazze, ecco.»
«Ma come è possibile? È carinissima!» commentò Ron, deluso.
Con uno scatto pieno di stizza, Hermione gli rispose secca: «Perché? Non possono esistere lesbiche carine, Ronald?»
Le orecchie di Ron si accesero di rosso fuoco e lui si affrettò a ritrattare tra borbottii incoerenti.
«Ma scusa… Marietta come fa a saperlo?» chiese Harry perplesso, pur sapendo che il collegamento tra Joan e Rebecca assumeva una sfumatura completamente diversa alla luce di quei fatti. Ed era persino comprensibile la paura che Joan aveva avuto a confidarlo a suo padre e perché fosse costretta ad uscire di notte per vederla.
Hermione sospirò, preparandosi ad andare contro a quello che secondo lei era un principio chiave della convivenza civile, e riportò il pettegolezzo che aveva sentito da Lavanda e Calì a tavola una settimana prima: «L’ha sentita parlare nel sonno. Diceva di amare una certa Lily e dal suo tono non sembrava parlasse di gigli.»
Dopo un lungo momento di silenzio imbarazzato Harry si ritrovò a dire, senza un apparente senso logico: «Mia madre si chiamava Lily.»
Il tono di Hermione divenne gentile e premuroso, mentre ricordava a Harry: «È un nome abbastanza comune.»
Il bruno la guardò senza vederla e le rispose in fretta: «Sì, lo so che non c’entra niente, è solo la prima cosa che mi è venuta in mente! Comunque questa ragazza dovrebbe essere in età da Hogwarts, no?»
«Ma perché ti interessa tanto?» chiese curioso Ron, per poi aggiungere speranzoso rivolto ad Hermione, per recuperare punti dopo l’uscita precedente: «Cioè, se sta con una ragazza saranno fatti suoi, no?»
Ma la loro amica lo ignorò e rispose velocemente: «Beh, da quello che ne sappiamo potrebbe essere persino una Babbana. O qualcuna che non può vedere mentre è a Hogwarts, magari una ragazza più grande oppure che si è ritirata. Oppure Marietta è semplicemente cretina.»
Harry vide Joan che scendeva a pranzo nella Sala Grande, per una volta senza padre al seguito; sembrava accigliata, ma quando lo vide gli sorrise allegra e lo salutò con un breve cenno della mano. Harry rispose al saluto, la mente che lavorava febbrile: «O magari è qualcuna che non si è mai vista ad Hogwarts, che le ha dato un falso nome per proteggere la propria identità e che una settimana fa ho sentito litigare con suo padre riguardo uscite notturne per incontrare Rebecca.»
La testa di Hermione scattò verso Joan, che salutò calorosamente anche lei. La Grifondoro le rispose con un cenno forse un po’ troppo entusiasta. Harry considerò con un sorriso che non era proprio brava a spettegolare quanto le sue compagne di Hogwarts.
«Fammi capire. Secondo te è Joan che si è presentata come Lily a Rebecca perché non voleva essere riconnessa a suo padre o perché sapeva di dover venire ad Hogwarts prima o poi? E poi cosa? Non si è fatta vedere da Rebecca per abbastanza tempo in modo che dimenticasse la sua faccia? Perché non l’ha riconosciuta?» obiettò Hermione con piglio logico.
Ma Harry ormai era convinto che quella fosse l’intuizione giusta e se Hermione voleva fare finta di nulla come per la sua teoria “Malfoy è un Mangiamorte” a lui non importava. Rispose pronto: «Pozione Polisucco.»
«Con i capelli di chi, scusa? Ora mi dirai che Piton ha rapito una ragazza dell’età di Joan e le prendono i capelli ogni volta che hanno bisogno?»
«Forse è una Metamorfomagus?» suggerì debolmente Ron.
Prima che Hermione potesse rispondere quanto, come e perché la sua ipotesi fosse assurda, Harry disse: «Forse conosce gli incantesimi di Trasfigurazione necessari a modificare il proprio aspetto o forse l’ha fatto Piton.»
«Ma se Joan pensava che Piton non ne sapesse nulla di Rebecca! Secondo me hai frainteso» concluse Hermione, accigliata.
«Tu hai qualche idea su cosa potessero significare le parole di Joan?» le sussurrò Harry, cercando di non lasciar spazio nel suo tono per il risentimento.
Hermione strinse le spalle, facendogli notare: «Tutto quello che sappiamo è che Joan le ha parlato in un imprecisato passato e che le ha scritto di recente. Le sue uscite possono anche essere state semplicemente per mandarle le lettere. Non abbiamo nemmeno prove che si siano mai viste! Magari la reazione di Piton è stata esagerata e non me ne stupirei visto come l’ha pedinata durante le prime settimane a Hogwarts. Penso che si sia semplicemente fatta sfuggire qualcosa o che abbia rischiato di farlo. Comunque Joan ha ragione: Piton non dovrebbe usare la Legilimanzia sugli studenti.» E con questo si immerse nella lettura di un libro, lasciando intendere che per lei il discorso era chiuso.
Il ragazzo stava per insistere con la sua teoria, ma quando riaprì la bocca notò l’entrata nella Sala Grande di Rebecca, che aveva aspettato apposta quell’ora per scendere a pranzo in modo che ci fosse meno gente che potesse additarla quando passava. Non se n’era accorto in quella settimana perché si era abituato a evitare la folla indistinta di studenti, per non incappare nei tanti, troppi che ancora lo fissavano e indicavano quando passava. Un brusio la seguì per la maggior parte di tutti i tavoli, escluso quello di Serpeverde, a cui la voce non era ancora evidentemente arrivata, finché non si sedette all’angolo estremo del tavolo di Corvonero, completamente sola, evitando accuratamente lo sguardo di Marietta, che si sporse subito per dire qualcosa all’orecchio di Cho al suo fianco.
A Harry sembrò di intravedere qualche lacrima trattenuta negli occhi blu della ragazza. Guardò istintivamente verso Joan e intercettò uno sguardo iroso diretto verso il tavolo di Corvonero, ma svanì così in fretta che considerò l’ipotesi di esserselo immaginato.

 
*****
Eccomi qua con un po' di ritardo! A proposito: avevo detto a tutti quelli che hanno recensito "ci vediamo sabato!" per poi accorgermi che il vero giorno di pubblicazione di questa fan fiction è la domenica. Lapsus freudiani rulez.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che il personaggio di Rebecca abbia destato la vostra curiosità. Ci vediamo la settimana prossima con il prossimo capitolo.
Buona serata a tutti quanti!

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Capitolo 6
*** Estate Babbana ***


Le due ragazzine si guardarono negli occhi, sedute sull’erba calda di un pomeriggio d’estate.
«Aspetta, ma se hai dodici anni come me… allora perché non ti ho mai vista ad Hogwarts?» chiese la più bassa, incuriosita.
L’altra si passò una mano tra i capelli corti, rivelandole: «Beh, studio a casa. Mio padre mi insegna tutto quanto. Lui è un mago molto capace, sai?»
La prima si illuminò, dicendo: «Ma allora forse i miei genitori lo conoscono! Chi è?»
La dodicenne interrogata deglutì pesantemente e, per prendere tempo, le rispose: «Ma non penso…»
Con lo sguardo vagò per il parco e si fermò su un gruppetto di ragazzi con pochi anni in più di loro, per evitare che le potesse vedere la bugia negli occhi.
«Probabilmente l’hanno conosciuto ad Hogwarts.» insistette la bruna.
«Mh, sì… puoi chiedere ai tuoi. È Tobias Prince. Ma in che Casa erano i tuoi?» si affrettò a chiedere, per prolungare la chiacchierata con lei, mentre si perdeva a fissare i suoi capelli corvini al vento.
«Corvonero entrambi, come me. Mio papà è un discendente dei Ravenclaw, sai?» annunciò gonfiando il petto, tutta orgogliosa.
«Oh! Mio padre, invece, era Serpeverde» rivelò l’altra, convinta che i genitori della ragazzina davanti a lei non avrebbero mai potuto conoscere tutti i Serpeverde del loro anno, essendo in Case rivali.
«Ah!» esclamò la bruna, senza sapere cos’altro dire, facendosi improvvisamente guardinga.
«Serpeverde è una bella Casa!» si affrettò ad aggiungere, gonfiando il petto in una difesa orgogliosa della sua Casa preferita: «Sai che Merlino era Serpeverde? E poi la Sala Comune è bellissima: le finestre si aprono sul lago, si vede spesso la piovra gigante e le sirene e i kappa. Lo sapevi che le sirene e i tritoni li tengono come animaletti domestici?»
La bruna, giocando nervosamente con i propri capelli, si prese un attimo di tempo per decidere se dirle quello che sapeva sui Serpeverde, poi optò per indorarle un po’ la pillola, perché quella sua coetanea le stava proprio simpatica: «Beh, sembra molto carina! Però io soffro un po’ di claustrofobia. Preferisco la nostra Sala Comune. Ha delle finestre enormi che danno sulle montagne attorno, penso sia il posto più luminoso di tutta Hogwarts, sai? Poi alcuni Serpeverde non sono stati molto carini con me sul treno quest’estate… E il loro direttore, Severus Piton, non fa che togliere punti a caso alle altre Case durante le sue lezioni.»
L’altra ragazza sussultò vistosamente al nome del professore di Pozioni, quindi la Corvonero si affrettò ad aggiungere, pensando che fosse un amico di famiglia: «Ma è comunque bravo come professore, eh. Vorrei solo che fosse un po’ meno di parte. Vitious non fa così con noi, anche se non è rigido come la McGranitt con i Grifondoro.»
Però la dodicenne che aveva appena conosciuto non sembrò sollevata da quella notizia e rimase mogia a fissare qualcosa in lontananza, rimuginando.
La bruna si pentì di aver infranto ogni sogno di gloria della sua nuova amica sulla Casa del padre, quindi si alzò, si piazzò davanti a lei e le tese la mano, dicendo con un sorriso: «Dai, andiamo a fare merenda a casa mia, così mia mamma ti potrà raccontare un po’ di più su Hogwarts, visto che non l’hai mai vista.»
La dodicenne le afferrò la mano con il volto illuminato dalla gioia e si alzò, ma ritrattò: «Ehm, mio padre non vuole che vada a casa di gente che non conosce, sai è un po’ paranoico… ed è meglio non farlo arrabbiare. Però possiamo andare a comprarci un gelato!»
La bruna alzò gli occhi nei suoi e si avvicinò ulteriormente e subito la sua nuova amica divenne paonazza e abbassò gli occhi, ma lei non sembrò farci caso e sussurrò: «Però io non ho soldi Babbani…»
L’altra ragazzina si riprese, con un gran sorriso e le disse: «Oh, non ti preoccupare, ne ho io!»
Detto questo frugò in un portamonete frusto, facendo attenzione a non mostrare quanti pochi soldi ci fossero dentro, ma la bruna se ne accorse comunque e non commentò. Finalmente le mostrò degli spiccioli che sarebbero bastati per un cono a testa e insieme si avviarono verso la gelateria migliore della città.
Pochi minuti dopo stavano passeggiando per il viale alberato con due minuscoli coni gelato in mano, scherzando e ridendo tranquillamente, senza notare che il gruppo di ragazzi più grandi veniva proprio nella loro direzione.
«Io non camminerei vicino a quella stramba» proruppe una voce maschile indirizzata alle due dodicenni, che si girarono a vedere chi avesse parlato.
La più alta studiò velocemente la situazione: erano in cinque ragazzi, probabilmente sui quattordici o quindici anni, tutti Babbani e su delle bici nuove di zecca. Quello che aveva parlato, probabilmente il capo vista la stazza, iniziò a girare velocemente attorno alle due dodicenni, facendo cerchi sempre più stretti.
«Piantala cretino! Lasciaci in pace!» gli urlò dietro la bruna, che stava cercando di controllare la voce ma sembrava spaventata perché non vedeva nessuna via d’uscita da quella situazione.
Con una risata il capo della banda di Babbani puntò la bici proprio contro di lei e l’avrebbe presa in pieno se la sua nuova amica non l’avesse tirata verso di sé appena in tempo. Per un attimo non capì cosa fosse successo, poi alzò lo sguardo sulla coetanea di parecchi centimetri più alta, che la teneva stretta a sé e vide l’espressione di pura ira sul suo volto. Ebbe improvvisamente e illogicamente paura di lei.
Poi successe tutto troppo velocemente perché la bruna se ne rendesse conto appieno.
La sua nuova amica diede un calcio poderoso ai raggi della ruota posteriore della bici nuova di zecca del bulletto capo, ammaccandoli tutti. Il quindicenne perse il controllo e si schiantò a terra, scorticandosi braccia, faccia e gambe sulla ghiaia. Prima che qualcuno del suo gruppo potesse venirgli in soccorso si sentì un poderoso crack e un grosso alveare di vespe cadde proprio in mezzo ai quattro rimasti in piedi accanto alle loro bici. Subito un grosso sciame uscì dall’alveare ormai spezzato a terra e inseguì i ragazzi urlanti, pungendoli ovunque.
La bruna si sentì prendere la mano libera dalla sua amica e venne trascinata esattamente dove era caduto l’alveare e corse con lei, saltandolo con un balzo mentre le vespe non le sfiorarono nemmeno, e la seguì fino a delle siepi del parco in cui si erano incontrate.
Con il respiro pesante si fermarono infine all’ombra delle siepi, in modo che nessuno potesse vederle, e si guardarono negli occhi, ancora mano nella mano. Scoppiarono entrambe a ridere e, vedendo che i gelati si erano rovesciati addosso ai loro vestiti, risero ancora più forte, accasciandosi al suolo tra le lacrime.
Passato l’eccesso di risa la più alta delle due si imbronciò improvvisamente, guardandosi il petto.
«Oh, per la sottoveste di Morgana, mi sono appena accorta che è la maglia nuova!»
L’altra ragazzina si accigliò, dispiaciuta, mentre guardava il bel maglione color verde bottiglia. Stava a pennello all’amica, anche se era privo di qualsiasi marca e sicuramente comprato in saldo in qualche piccolo negozio poco costoso nella città.
Poi si strinse nelle spalle come se si fosse pentita di aver mostrato tanto dispiacere per un maglione, cercando di sdrammatizzare: «Mio padre non è molto bravo con gli incantesimi domestici.»
«Beh, dallo a me. Chiedo a mia madre di pensarci. Ci metterà un attimo, è diventata un’esperta con quegli incantesimi visto che mi macchio sempre!»
«Davvero lo faresti?»
«Tu mi hai salvata da quei bulli, no?» la bruna si chinò in un gesto pomposo, prendendole una mano e declamando: «Ti sarò per sempre debitrice.»
L’amica avvampò, ridacchiando e, mormorando un «Ma figurati, che vuoi che sia?», si tolse la maglia. Ebbe un momento di esitazione quando si accorse di stare per dare il suo maglione preferito ad una totale sconosciuta e immaginò cosa le avrebbe detto suo padre se l’avesse saputo. In qualche modo, come solo i bambini sanno intuire, dal primo capo di abbigliamento che suo padre le aveva comprato, aveva capito quanto per lui fosse importante che avesse sempre dei vestiti puliti, adatti a lei e che le piacevano. Certo, non avevano i soldi per dei vestiti di marca o fatti a mano, ma lei li adorava comunque.
Quel momento passò appena guardò negli occhi blu della sua coetanea, le sorrise e le mise in mano il maglione. Qualcosa in quella ragazzina le ispirava una profonda fiducia; anche se si erano appena incontrate, in un qualche modo misterioso sapeva che difficilmente avrebbero fatto a meno l’una dell’altra negli anni che sarebbero seguiti.
«Ci vediamo domani alla stessa ora?»
«Puoi scommetterci, Beck!»
Rebecca sorrise al soprannome che aveva appena inventato e la salutò: «A domani, Lily.»
La dodicenne la osservò tornarsene verso casa con un sorriso sognante e lo sguardo illuminato da una luce radiosa, ancora incredula di quanto fosse andata bene quella giornata. Era da tanto che provava ad approcciarsi a quella bassa ragazzina con le lentiggini e nemmeno con le più rosee speranze aveva mai creduto che il loro primo incontro potesse andare così bene.
Un alito di vento gelido le accarezzò le braccia nude, ricordandole che stava diventando sera. Quindi, stringendosi in un abbraccio per riscaldarsi, imboccò la strada verso il fiume e ritornò a casa.

 
*****
Eccomi qua con il nuovo capitolo. Questo flashback rischia di confondere ancora di più le idee sull'identità di questa Lily, su Rebecca e sul misterioso personaggio di Joan.
Spero vi sia piaciuto, fatemi sapere che ne pensate e le vostre teorie!
Buona serata a tutti.

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Capitolo 7
*** Alleati inaspettati ***


La prima uscita ad Hogsmeade arrivò lentamente tra montagne di compiti, l’ormai certezza che Silente si allontanasse dal castello per giorni consecutivi e la scoperta di molte piccole fatture e altrettanti utili incanti che sembravano proprio di invenzione del Principe.
In quelle settimane sembrava che anche Joan si defilasse spesso da Hogwarts perché nessuno la vedeva più al di fuori dai pasti e dalle lezioni programmate, che erano sempre più utili e non era più assistita dal padre, con enorme sollievo della maggior parte degli studenti. Questo provocò grandi defezioni da parte dei Serpeverde e sempre più gente delle altre Case si iscriveva al Club dei Duellanti. Joan li divideva in coppie e li faceva duellare, poi girava tra di loro e mostrava loro gli errori che facevano, facendo provare le nuove fatture che insegnava a dei volontari direttamente contro di lei per evitare incidenti spiacevoli.
Harry si era accordato con Rebecca per incontrarsi fuori dai Tre Manici di Scopa, ma se ne dimenticò appena comprese che Mundungus stava vendendo la roba di Sirius. Dopo la scenata, in cui Mundungus riuscì a Smaterializzarsi, Harry fu accompagnato da Ron, Hermione e Tonks nel caldo e pulito locale dei Tre Manici di Scopa. Tonks aveva proseguito la sua ronda gelida e Harry era andato avanti ad urlare irato per quello che era successo.
Prima che Hermione gli dicesse di calmarsi e gli ricordasse che erano in un luogo pubblico e molto affollato, vicino a loro spuntò Rebecca, che salutò il trio, preoccupata: «Ciao! Tutto a posto, Harry?»
Il Grifondoro riuscì a calmarsi concludendo la questione con un: «Ne parlerò con Silente.» Poi sorrise alla Corvonero e le rispose: «Scusa, ho appena incrociato uno che vendeva cose di mia proprietà.»
«Oh» esclamò Rebecca, senza sapere bene come rispondergli.
Lieta che Harry si fosse calmato e per evitare altre esplosioni da parte sua, Hermione propose con un sorriso nervoso: «Prendiamo un tavolo?» Poi chiese loro cosa volessero e sparì a prendere le quattro Burrobirre.
Harry si prese del tempo per osservare Rebecca. Sembrava ancora più pallida della settimana precedente, aveva delle borse scure sotto gli occhi che aveva cercato di mascherare con il trucco, senza riuscirci appieno, e gli occhi blu erano sempre più tristi, ma gli rivolse comunque un bel sorriso sincero, per poi lanciare un’occhiata di sottecchi a Ron, forse per studiarlo mentre era preso a fissare Madama Rosmerta.
Hermione ritornò al tavolo prima che qualcuno di loro parlasse e appoggiò le Burrobirre davanti ai suoi compagni di scuola, che aveva portato al tavolo facendole levitare davanti a sé. Quando servì Rebecca, una voce sgradevolmente conosciuta le urlò: «Attenta a non starle troppo vicina, Granger!»
Hermione si girò di scatto e Harry considerò di averla vista poche volte così arrabbiata.
«Ti si legge ancora “spia” in faccia, Marietta. Ti consiglio una bella Pozione Scacciabrufoli, se non l’hai ancora provata!»
Marietta impallidì al sorriso cristallino di Hermione e fu sotterrata da una valanga di risate da parte degli studenti di Hogwarts attorno a lei, Cho a parte. Uscì di corsa mentre la sua migliore amica, dopo aver lanciato un’occhiata di fuoco alla Grifondoro, la seguì nel gelo della strada di Hogsmeade.
«Grazie» mormorò riconoscente e stupita Rebecca «Tra l’altro quella fattura era davvero spettacolare, Hermione: per mesi non ho potuto guardarla in faccia senza mettermi a ridere. E io ero sua amica.»
La Corvonero fece una smorfia divertita e Hermione arrossì leggermente al complimento, borbottando qualcosa che suonava come: «Una cosa da niente.»
Il volto di Rebecca si rabbuiò quando aggiunse: «Mi sa che ha ragione lei, non vi conviene starmi vicini: attiro tutti i pettegolezzi più infimi.»
«Sono curioso di sapere cosa potrebbe mai venire dopo “pazzo visionario e disturbato”» commentò Harry con un grande sorriso.
Hermione e Ron scoppiarono a ridere alla sua battuta e la Corvonero ridacchiò: «In effetti non c’è mai stato nessuno a Hogwarts peggio di Rita Skeeter.»
«Piton a parte, forse» aggiunse Ron in un brontolio.
Questa volta Rebecca si concesse una vera e propria risata.
«Ma lo sapete che un mesetto fa, durante una delle prime lezioni, quel pipistrello troppo cresciuto mi ha tolto punti solo perché stavo zitta a fissare il libro di Difesa? No, davvero, mi ha chiesto che stessi facendo, gli ho risposto che leggevo il capitolo che ci aveva assegnato, mi ha guardata negli occhi, si è improvvisamente arrabbiato e mi ha tolto dieci punti!»
Persero allegramente un buon quarto d’ora ad insultare il loro ex-professore di Pozioni e ora di Difesa Contro le Arti Oscure, con Hermione che non sapeva bene cosa dire, trattandosi di un loro professore e quindi per lei facente parte delle persone intoccabili.
Harry attese un attimo di silenzio, per poi commentare, in tono che si augurava essere indifferente: «Meno male che la figlia, Joan, è molto meglio di lui!»
«Davvero? Non ci ho mai parlato. Cioè, mi ha corretto la presa della bacchetta sullo Schiantesimo, ma a parte questo non abbiamo mai scambiato una parola. Comunque sembra molto gentile: l’ho adorata quando ha tolto punti a Malfoy per averti chiamata in quel modo orribile, Hermione.»
Harry si sorprese della sincerità della ragazza e si convinse che Joan l’avesse incontrata con un altro aspetto. In fondo aveva anche dato un nome falso, quindi era sensato. Il difficile stava nel capire come potesse aver fatto.
«Già, è stata favolosa! Avete visto la faccia che ha fatto quando ha tolto punti a Serpeverde? Me la ricorderò per sempre» sorrise Hermione, felice di poter finalmente interagire anche lei nel discorso.
Mentre erano passati ad insultare allegramente Malfoy e Ron si accingeva a fare la sua imitazione quando nel primo anno era dovuto entrare nella Foresta Proibita, la porta dei Tre Manici di Scopa si spalancò ed entrò Joan Piton. La salutò con un cenno e gli venne un’idea: voleva testare la reazione di Joan davanti a Rebecca.
«Vi dispiace se chiedo a Joan di unirsi a noi?» propose Harry.
«Sì: volevo imitare Malfoy ancora per un po’» rispose Ron, offeso.
Rebecca scoppiò in una risata di cuore e scosse la testa, troppo impegnata ad asciugarsi le lacrime per rispondergli.
Hermione occhieggiò Harry, certa che stesse cercando di mostrare la propria teoria a discapito delle due ragazze. Quindi alzò le spalle in un gesto neutro, un po’ infastidita dalle sue macchinazioni.
«Arrivo subito.»
Harry sparì tra la folla e raggiunse Joan al bancone.
«Ciao, Joan.»
La ragazza alzò gli occhi neri nei suoi verdi e il sorriso che gli rivolse fu un po’ forzato, ma divenne subito caloroso e la sua voce, tanto roca da essere irriconoscibile, fu piacevolmente sorpresa: «Ciao Harry!»
In quel momento arrivò Rosmerta e le mise in mano un bicchiere di Vino Elfico che Joan pagò prontamente, per poi girarsi nuovamente verso Harry. E, superata una crisi di tosse grassa, riuscì a dire: «Tempo orribile, eh?»
«Già! Vuoi venire al tavolo con noi?»
Joan scoccò uno sguardo di sottecchi al tavolo da cui era arrivato, ma Harry non riuscì ad interpretarlo e considerò l’ipotesi che l’avesse già visto con Ron, Hermione e Rebecca mentre stava entrando.
«Certo, Harry! Però ho poco tempo: devo andare da Madama Chips a prendere uno dei suoi Decotti.»
Harry la condusse al tavolo e Hermione e Rebecca fecero posto in mezzo a loro. Joan fece comparire dal nulla un’elegante sedia di mogano (completamente fuori luogo nel locale) con un rapido movimento della bacchetta. Non guardò alla sua destra, quindi non poté accorgersi che Rebecca aveva fissato la sua bacchetta con un’espressione strana per qualche istante, fin quando non l’aveva riposta nella veste nera.
Joan rivolse un sorriso enorme a tutti quanti, anche se sembrava molto rigida sulla sedia, e li salutò con voce gracchiante: «Vi state godendo la prima uscita a Hogsmeade?»
«Oddio, Joan, tutto bene?» Hermione le mise una mano sul braccio, osservandola preoccupata per la voce. Si soffermò sul naso screpolato e rosso e sulla lucidità degli occhi che poteva essere segno di febbre. «Non dovresti andare in giro con questo tempo» la rimproverò la Grifondoro, le labbra sottili come quelle della McGranitt.
Lei fece un gesto di noncuranza, le spalle sempre rigide, come se la sedia che aveva evocato non fosse abbastanza comoda.
«Tranquilla, sono solo un po’ influenzata e non ho ancora avuto tempo di andare in Infermeria. Un Decotto di Madama Chips e ritornerò come nuova!» Sorseggiò un po’ di liquido scarlatto che aveva nel bicchiere.
«Scusi…»
Joan interruppe la Corvonero con un gran sorriso divertito, dicendole: «Ricordati che sono allergica al lei! Non sono una professoressa e ho solo pochi anni in più di voi.»
Rebecca arrossì, ma non distolse lo sguardo dagli occhi neri e si corresse, con un sorriso timido: «Scusa, non potresti fartelo tu un Decotto Tiramisù? Dovresti essere brava con le pozioni.»
Suo malgrado, anche Hermione la fissò per studiarne la reazione. Con grande sorpresa di Harry, Joan Piton scoppiò a ridere e subito la sua risata si trasformò in un breve eccesso di tosse.
«Lo sono, ma questo implicherebbe andare a chiedere a Lumacorno gli ingredienti. Sai cosa darebbe per avermi in una delle sue cenette raccapriccianti? No, grazie, preferisco evitarlo finché posso e soffrire stoicamente fino all’Infermeria.»
Tutti risero, a parte Ron, che fece una smorfia che doveva somigliare ad un sorriso. Harry gli lanciò un’occhiata non capendo come facesse a desiderare l’attenzione di Lumacorno, ma appuntandosi mentalmente di cambiare discorso al più presto.
«Ha tentato di reclutare persino me sul treno quest’anno! Mi sono rinchiusa nel bagno dell’Espresso e sono rimasta lì fino a quando non siamo arrivati ad Hogwarts.»
«È stato solo sesto senso o qualcuno ti ha avvertita?»
«Aveva tentato di aggiungere al Lumaclub anche mio padre, Hermione, in quanto discendente dei Ravenclaw; lui è fuggito dopo due cene. Così mi ha consigliato di tenermi alla larga da lui.»
Joan, che ora sembrava molto più sciolta nella postura, notò l’espressione triste e sconsolata di Ron e decise che fosse meglio cambiare argomento: «Discendente dei Ravenclaw?»
Rebecca si strinse nelle spalle e commentò, scura in volto: «Già, immagino che il Cappello Parlante mi abbia messa in Corvonero solo per questa ragione.»
«Pensa che io non so nemmeno in quale Casa dovrei essere: non ho mai fatto lo Smistamento.»
A quelle parole Rebecca le rivolse un altro sguardo strano, che questa volta Joan intercettò e si affrettò a bere un altro sorso di Vino Elfico perché non sapeva cosa aggiungere o forse maledicendosi per un errore commesso. La Corvonero sembrò voler dire qualcosa, ma poi ci ripensò.
«Beh, lo puoi chiedere al Cappello. È nell’ufficio di Silente.»
Joan osservò Harry con una scintilla di desiderio negli occhi mentre gli altri lo guardavano sorpresi. Il Grifondoro badò bene a non rivelare come avesse acquisito quell’informazione, fingendo di aver solamente notato il Cappello durante uno dei suoi incontri con il Preside. Joan aveva sempre voluto sapere a quale Casa sarebbe appartenuta se fosse andata ad Hogwarts.
«Dici che se me lo mettessi in testa mi Smisterebbe così su due piedi?»
Harry fece il vago e, con una scrollata di spalle, le rispose: «Perché no?» E ignorò con tutte le sue forze lo sguardo sospettoso di Hermione.
Joan alzò le spalle e, finendo la sua bevanda, esclamò con lo stesso entusiasmo di un’undicenne: «Ci proverò. Spero di finire in Serpeverde!» Poi notò le espressioni dei quattro ragazzi attorno a lei e ridacchiò: «Ok, ora mi dovete spiegare l’odio che tutti hanno per Serpeverde.»
«Sono malvagi.»
Il primo a parlare era stato Ron. Harry aprì la bocca e guardò negli occhi Joan, pensando alla sua primissima lezione di Pozioni, senza ricordarsi che aveva davanti la figlia del suo professore.
«Nulla che c’entri con mio padre, per favore. Sarebbero troppe informazioni da poter gestire» lo interruppe Joan con uno sguardo duro, ma un sorriso lieve. Harry, confuso, chiuse la bocca di colpo, ritrovandosi a interrogarsi sulle doti da Legilimens della ragazza.
«Molti di loro fanno scherzi di pessimo gusto ai più giovani e si divertono a tormentarli» rivelò Rebecca giocando nervosamente con i capelli corvini. Joan sembrò irrigidirsi nuovamente a quelle parole, particolarmente a disagio.
«La maggior parte di loro è fissata con la purezza del sangue.»
Le parole di Hermione furono le più pesanti e le più amare.
Joan finì il Vino Elfico in un sorso e annunciò pomposamente: «Dopo essere passata in Infermeria sgattaiolerò nell’ufficio di Silente e mi proverò il Cappello. Così sarò la prima studentessa di Serpeverde decente che voi abbiate mai conosciuto.»
Dopo che le risate provocate dalla sua battuta si furono spente, Joan si alzò e li salutò gentile, dando loro appuntamento alla sua prossima lezione del Club di Duellanti.
Uscì dai Tre Manici di Scopa mentre due studentesse di Grifondoro entravano, si strinse nel mantello contro il freddo intenso. A pochi passi dal locale, si puntò contro la bacchetta e tutti i segni del presunto raffreddore svanirono nel nulla. Joan pensò a lungo a quell’incontro e si interrogò sulle reali intenzioni di Harry, chiedendosi sgomenta perché lui, Ron e Hermione fossero diventati amici di Rebecca Raeburn.
In pochi minuti, grazie alla sua camminata dal ritmo quasi militare, era arrivata al castello, ma non poté nemmeno bearsi del caldo della Sala d’Ingresso che si diresse verso i gelidi sotterranei, controllando l’orologio da mago che aveva al polso, regalatole da suo padre al compimento dei diciassette anni. Scosse la testa, infastidita dal proprio ritardo e accelerò ulteriormente il passo, dirigendosi verso la parte più fredda di Hogwarts.
Davanti alla parete di pietra che nascondeva l’ingresso della Sala Comune dei Serpeverde c’era un ragazzo pallido che alzò il volto affilato verso di lei.
«Ce ne hai messo di tempo.»
Il commento sprezzante della voce strascicata la fece infuriare, ma soffocò ogni fuoco nel proprio petto e gli sorrise affabile, senza lasciar trasparire nulla. Osservò il volto di Draco Malfoy sotto i capelli biondi quasi bianchi. Non sembrava certo essere pieno di salute e la sua aria altezzosa era intaccata da piccoli segnali di puro nervosismo. Come il tic all’angolo della bocca, il guardarsi costantemente intorno e lo spostare il peso da un piede all’altro.
«Non qui, seguimi.»
L’ordine era fermo nella voce della ragazza, ma fu l’espressione gentile a convincerlo a seguirla. Vagarono per i corridori dei sotterranei senza incrociare nessuno, fino ad imboccare un passaggio segreto sconosciuto al Serpeverde. Sbucarono nei pressi del terzo piano e Joan lo condusse in un’aula vuota. Dopo aver fatto qualche incantesimo non verbale alla porta per non essere né ascoltati né interrotti, finalmente parlò: «Mi è stato chiesto di continuare l’addestramento che tua zia Bellatrix ha iniziato quest’estate.»
Draco le rispose con uno sbuffo impaziente a metà tra l’esasperato e il divertito.
«Come se non sapessi che sei qui per spiarmi per conto di tuo padre o di mia madre.»
«Non ti interrogherò sui tuoi intenti e ti mostrerò come mettere al sicuro i ricordi che non vuoi che veda prima di iniziare.»
Draco la osservò con un’espressione di puro sospetto mentre estraeva dal mantello tante piccole fiale di vetro vuote.
«Perché non mi addestra tuo padre?»
«Perché se uno dei suoi migliori studenti prendesse ripetizioni nella sua materia risulterebbe sospettoso. E anche perché credo che tu non glielo permetteresti.»
«Cosa ti fa credere che con te sarebbe diverso? Mi volete tutti rubare la gloria del mio compito.»
Gli occhi grigi erano ormai stralunati in un’espressione fanatica.
«Il Signore Oscuro ha altri piani per me. Piani a mio parere molto più decisivi per il compimento ultimo della nostra missione.» Joan strinse gli occhi in un rimprovero muto mentre concluse, gelida: «Cosa pensi che interessi di più al tuo signore? Un vecchio ad un passo dalla morte o Harry Potter?»
Davanti a quella logica cristallina, Draco non seppe subito cosa obiettare, quindi optò per lamentarsi debolmente: «Ho già detto a mia madre di smetterla di provare ad aiutarmi.»
«L’ordine non viene da tua madre, ma direttamente dal Signore Oscuro» sussurrò la ragazza con un filo di voce. Poi la sua espressione si addolcì e gli rivelò con un sorriso triste: «Pensi di essere l’unico a venire messo alla prova dal nostro signore, Draco?» Abbassò lo sguardo e la paura prese possesso della sua voce mentre mormorava: «La mia vita è a rischio quanto la tua.»
«Stronzate!»
Draco sfoderò la bacchetta dalla furia e delle scintille rosse scoppiettarono dalla punta mentre le gridava contro: «Tuo padre non lo permetterebbe! Lui è il suo preferito!»
Una lacrima corse sul volto pallido di Joan e il suo stomaco fu colpito da forti crampi. Non riuscì ad alzare lo sguardo in quello del ragazzo quando gli domandò con risentimento: «Come credi che vada avanti un uomo che è vissuto di menzogne per anni? Cosa credi che faccia andare avanti un mago che cerca di sopravvivere a discapito di tutti e tutto?» Alzò gli occhi neri piena di rabbia e odio e sputò con un ghigno orrendo che sembrava un ringhio muto: «L’affetto paterno? L’amore che prova per una figlia che non ha mai voluto? Per quella che è stato obbligato a crescere da Silente?»
In quel momento Draco scoprì l’empatia per la prima volta nella sua vita, vedendo specchiata la propria ira e il proprio terrore in quegli occhi neri. Quella ragazza era abbandonata da tutti con un compito più grande di lei che poteva fagocitarla da un momento all’altro, esattamente come lui. Si accorse con una stretta al cuore che l’unica differenza tra di loro era che lui aveva la fortuna di avere una famiglia che lo amava.
Dopo un lungo silenzio passato a guardarsi negli occhi, Draco fu il primo a parlare.
«D’accordo. Insegnami Occlumanzia, ma se scopro che stai cercando informazioni sulle mie intenzioni dovrai spiegare tu al nostro signore perché non sei stata in grado di portare a termine il tuo compito.»

 
*****
Eccomi un po' in ritardo con il settimo capitolo :D
Gli inganni di Joan si svelano man mano e i sentimenti per suo padre sorprendono, ma possiamo essere sicuri della sua abilità in Occlumanzia, visto che Voldemort stesso le ha chiesto di allenare Draco. Già, perché Joan segue gli ordini di Voldemort.
L'appuntamento è sempre di domenica, alla prossima settimana!

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Capitolo 8
*** La fobia di Joan ***


Joan fece un movimento aggraziato con la bacchetta e il palco iniziò lentamente a roteare, riprendendo la sua posizione originale.
«D’accordo. Per oggi basta così. Ci vediamo la settimana prossima.»
Mentre Ron trotterellava verso l’uscita al fianco di Lavanda, facendo un cenno a Harry, lui ed Hermione, come d’abitudine, ne approfittarono per avvicinarsi a Joan per scambiare due parole, nel mentre che l’aiutavano a mettere a posto i vari cuscini in giro per la Sala Grande.
«Sono riuscita a provarmi il Cappello» esordì Joan con un sorriso compiaciuto mentre faceva sparire nel nulla il palco con un altro sventolio della bacchetta.
Gli occhi dei ragazzi si animarono di curiosità e Harry fu il primo a chiederle: «In quale Casa sei stata Smistata?»
Joan si strinse nelle spalle mentre il sorriso si spegneva.
«In realtà non so ancora. Ci ha messo troppo a decidere e ho dovuto toglierlo per non fare brutte figure con Silente.»
Harry fece sparire l’ultimo cuscino con un gesto un po’ troppo brusco e quello esplose in mille piume, distraendoli per qualche minuto. Quando rimediò al proprio disastro, le chiese: «E cosa ti ha detto?»
Joan gli lanciò uno sguardo nervoso e si rigirò la bacchetta tra le mani, guadagnando tempo, poi la ripose con cura in una tasca interna della sua veste nera.
«Era indeciso tra due Case.» Gli sguardi insistenti di Harry e Hermione la spronarono a continuare. «Non sapeva se Smistarmi in Serpeverde o in… Grifondoro.»
Harry la osservò, sorpreso: era lo stesso dubbio che il Cappello aveva avuto con lui. Nell’incredulità generale scoppiò a ridere, commentando: «Beh, ora sappiamo che l’unica Serpeverde decente che conosciamo è mezza Grifondoro!»
Joan scosse la testa, rassegnata, ma gli regalò comunque un sorriso.
«Se il Cappello riuscirà a decidersi ve lo dirò! Ma cosa mi raccontate, piuttosto?»
Hermione iniziò a parlare con entusiasmo della prima lezione di Smaterializzazione che avrebbe avuto luogo quel sabato. Joan annuì, stranamente silenziosa a tutte le informazioni che le stavano dando lei e Harry, chiaramente impazienti di cominciare a Smaterializzarsi.
«Sono un po’ preoccupata di non riuscire a prendere la patente al primo tentativo…»
Un brivido le corse per la spina dorsale al ricordo della sensazione soffocante che si provava durante ogni Smaterializzazione e rivelò bruscamente: «Non ho mai preso la patente per Smaterializzarmi.»
I Grifondoro si ammutolirono a quella risposta e si accorsero dell’estremo pallore che aveva assunto la ragazza. Nel silenzio diedero tempo a Joan di rispondere alle loro domande inespresse.
«Alla mia prima Smaterializzazione congiunta mi sono Spaccata.» Sospirò, cercando di trasformare il respiro tremulo in una risata debole e nervosa, specificando: «Sembrava un film dell’orrore. Anzi, di guerra. Come se fossi saltata a piè pari su una mina antiuomo babbana.»
Hermione si avvicinò debolmente una mano alla bocca in un’espressione orripilata.
Joan guardò il vuoto per qualche istante, persa in ricordi raccapriccianti, rivelando con un’alzata di spalle: «Ma è tutto confuso. Mi ricordo solo la sensazione di soffocamento, tanto dolore, sangue e le urla di Severus al cretino che voleva Smaterializzarsi con me senza nemmeno spiegarmi in cosa consistesse. Avrò avuto otto o nove anni ed è stata l’unica volta che ho visto il San Mungo in vita mia. Ero convinta di morire.»
Harry deglutì a fatica, cercando di non immaginarsi una testa di bambina che urlava di dolore e terrore tra le proprie interiora.
Lo sguardo distante di Joan ritornò al presente e si affrettò ad aggiungere con un sorriso nervoso: «Comunque non accadrà a nessuno di voi. O meglio, non così. Io non avevo mai visto nessuno farlo e non mi avevano mai spiegato che si potesse fare. Poi ero solo una bambina…»
Per la prima volta Hermione era senza parole davanti a chi insegnava loro qualcosa, guardò Harry per fargli capire di dire qualcosa di consolante, ma nemmeno lui seppe trovare qualcosa da dire. Avevano entrambi ancora la bocca mezza aperta dalla sorpresa e dall’orrore per il racconto.
Alla fine Joan cambiò bruscamente argomento, chiedendo loro: «Avete visto Rebecca? Oggi non è venuta e ho sentito che da un po’ di tempo salta le lezioni.»
Harry sperò intensamente che lo sguardo accusatorio di Joan non fosse per rimproverargli di non stare abbastanza vicini ad una loro amica, ma non poté impedirsi di arrossire con espressione vagamente colpevole. Le rispose, nonostante tutto felice di cambiare discorso: «Le avevo mandato un gufo per venire insieme qui al Club, ma non si è fatta vedere né mi ha risposto.»
Joan annuì pensierosa, per poi chieder loro: «Come siete diventati suoi amici?»
«Amicizie in comune!»
La risposta pronta era arrivata inaspettatamente da Hermione, anche se abbassò lo sguardo mormorando qualcosa di indistinto quando Joan le rivolse uno sguardo sorpreso.
«Da quello che ho sentito ha veramente pochi amici ultimamente. Mi raccomando di starle vicini in questo periodo: non sembra passarsela molto bene.»
Aveva parlato lentamente, soppesando con attenzione ogni parola, evitando il contatto visivo dei due i ragazzi accanto a lei. Gli occhi neri lampeggiavano di qualcosa di indefinito.
Il gruppetto era arrivato all’entrata della Sala Grande e, prima che qualcun altro dicesse qualcosa, una figura scura si fece largo tra la folla di studenti nell’Ingresso, creando scompiglio, urtandone molti.
Prima che sparisse verso i bagni femminili, Harry riuscì a riconoscerla dalle lentiggini, dagli occhi blu e dai capelli corvini. Guardò nervoso Hermione, che aveva osservato la scena molto turbata, per poi alzare gli occhi su Joan.
La sua espressione non sembrava minimamente mutata, anche se Harry poté notare una minima contrazione della mandibola, come se stesse digrignando i denti con violenza.
«La sua amante segreta l’avrà lasciata!»
L’acido commento di Marietta fu ben udibile a tutti e le risate esplosero intorno a lei. Harry notò con piacere che Cho era una delle poche Corvonero che non stavano ridendo e forse l’unica del gruppo ad aver notato l’espressione di Joan.
«Edgecombe.»
La voce della giovane donna fu una sottile lama di ghiaccio nel chiacchiericcio della folla. Tutto tacque a quel tono così simile a quello di suo padre. La furia e il disgusto si mescolavano in egual misura negli occhi neri di Joan quando li posò su Marietta, ma la voce era gelidamente controllata.
«Con me dal Preside.»
Harry sobbalzò a quelle parole perché non sembravano essere uscite dalle labbra di Joan. C’era qualcosa nella differenza tra il suo terribile aspetto e il tono che aveva usato che lo turbò profondamente.
Marietta sembrò sul punto di protestare, ma poi incrociò gli occhi bui come pozzi della ragazza e ogni lamentela le si soffocò in gola. Abbassò il capo, alzandosi il colletto della camicia in un riflesso istintivo che aveva sviluppato da quando era stata magicamente sfigurata dalla fattura di Hermione, e si affiancò obbediente a Joan nel silenzio dell’Ingresso.
Quando sparirono dalla vista degli studenti Harry si voltò verso la sua migliore amica per discutere delle sue teorie su Joan e Rebecca, ma Hermione scosse la testa senza aprire la bocca. Sembrava sconvolta da quello che aveva appena visto.
«Non puoi dirmi che questo non prova niente!» sussurrò con rancore alla ragazza.
«Ha ragione lei.»
Gli occhi castani della Grifondoro traboccavano di un fuoco che Harry conosceva bene.
«Dobbiamo stare vicini a Rebecca. Non possiamo usarla solo per provare una teoria. Siamo diventati i suoi unici amici e adesso è una nostra responsabilità.»
Il discorso di Hermione lo fece vergognare così profondamente che non riuscì a replicare, nemmeno per difendere le proprie idee. Il senso di colpa per aver manipolato quella ragazza in un suo periodo buio lo pugnalò dritto tra le costole e si ritrovò ad annuire mestamente alle sagge parole dell’amica. Pensava genuinamente che ci fosse qualcosa sotto, ma l’importanza di quel qualcosa era appena stata messa in dubbio, come anche il fatto che potessero essere anche solo lontanamente fatti suoi. Si era avvicinato a Rebecca per l’egoismo di trovarsi nella ragione, ma non pensava fosse umano continuare a essere sua amica per quello stesso egoismo. Era come se durante il proprio quinto anno qualcuno fosse diventato suo amico solo per indagare sulla sua sanità mentale e sull’effettivo ritorno di Voldemort. Si promise di non ficcare più il naso nella ragione che faceva soffrire così tanto la Corvonero e si ricordò che l’unica cosa che potesse fare fosse starle vicino come amico, visto che ormai le restavano solo più loro.

 
*****
Eccomi qui persino a Pasqua.
Spero che questo capitolo e la maturazione di Harry vi siano piaciuti. Seguendo lo schema che ho tenuto fin dall'inizio il prossimo capitolo sarà un flashback e si intitolerà "Di cani e volpi".

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Capitolo 9
*** Di cani e volpi ***


La risata identica ad un latrato risuonò per le stanze del numero 12 di Grimmauld Place.
Sirius Black squadrò l’uomo che odiava di più al mondo davanti a sé, i denti digrignati in un sorriso che voleva essere beffardo. Poi, non potendo più sopportare quella vista per il bene del proprio stomaco, fissò lo sguardo su Albus Silente, l’uomo più saggio e intelligente che aveva mai conosciuto, che in quel momento non sembrava altro che un vecchio folle per le sue parole.
«Non starete dicendo sul serio, vero?»
Severus Piton scrollò appena la testa, come se fosse stato attraversato da un brivido di puro disgusto, e sibilò, gelido: «L’ho detto dall’inizio che questa idea era senza senso, Silente. Torniamocene ad Hogwarts, avanti.»
Il Preside della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts era l’unico ancora comodamente seduto nella cucina di casa Black. Era sereno e spensierato come sempre e stava scandendo un ritmo molto lento e appena accennato con l’indice destro sul tavolo in legno massiccio.
«Cioè, non mi state prendendo in giro?»
Sirius fissò Piton ad occhi spalancati con un’espressione di sconcerto che sfiorava la maleducazione, come se lo vedesse per la prima volta in vita sua. L’allora professore di Pozioni aveva assunto un colorito spiacevole color mattone e sussurrò a volume sempre più ridotto, udibile a stento tra i denti giallastri: «Silente, andiamocene subito. Non intendo essere insultato oltre.»
«Sedetevi, per piacere.»
Entrambi gli uomini erano così sconvolti che obbedirono istantaneamente all’ordine dell’anziano mago, quasi come se le gambe di entrambi avessero ceduto all’affronto. Si guardarono male, ma in silenzio, aspettando che Silente parlasse. Ma lui non disse nulla e, in tutta risposta all’attesa dei due maghi, fece un movimento misurato e preciso con la bacchetta.
In piedi tra Piton e Silente, Joan sentì la familiare sensazione di caldo scenderle giù per la spina dorsale che significava che l’Incantesimo di Disillusione doveva essere stato tolto dal Preside. Rimase paralizzata a fissare gli occhi grigi ancora spalancati del mago davanti a lei.
«Ma allora è vero!»
Un milione di battute gli erano appena state servite su un piatto d’argento per insultare il suo arci-nemico dai tempi della scuola, ma per la prima volta in vita sua la priorità di Sirius Black era un’altra.
Si alzò deglutendo a vuoto, avvicinandosi a Joan con fare sospetto, studiandone ogni minimo dettaglio. Dagli occhi bui ai capelli corvini, dal naso leggermente aquilino alla pelle che aveva quel non so ché di malaticcio che era stata materiale ottimo per gli insulti rivolti a suo padre.
«Sono Joan Piton.»
Severus si agitò impercettibilmente sulla sedia, pronto ad impedire a Black di avvicinarsi a sua figlia, ma Silente gli sfiorò leggermente il braccio in un chiaro segnale che doveva stare tranquillo.
Joan, dopo qualche attimo di sorpresa iniziale, sorrise un po’ dubbiosa allo sconosciuto e lui le sorrise di rimando, ancora scioccato ma sincero. La ragazza sperò con tutta se stessa che il padre non potesse sentire i battiti accelerati del suo cuore nell’incrociare finalmente quegli occhi grigi di cui aveva sentito tanto parlare: non gliel’avrebbe mai perdonato.
Di Sirius Black aveva sentito più che altro brutte cose, raccontatele dal padre, ma si era fatta un’idea tutta sua di come potesse essere quell’uomo che aveva passato dodici anni ad Azkaban per vendicare i suoi migliori amici. Era lacerata tra la visione che aveva suo padre di lui e l’immagine di fedeltà fino alla morte che aveva di lui. Ora doveva solo studiarlo attentamente per confermare l’una o l’altra ipotesi.
«Come ti abbiamo detto prima, Sirius, abbiamo bisogno del tuo aiuto.»
L’ultimo erede maschio della nobile e antichissima Casata Black guardò prima Silente, poi la ragazza che confermò le parole del Preside annuendo con un sorriso finalmente caloroso.
Dopo un pesante silenzio in cui Sirius cercava di capire perché quella ragazza gli stesse simpatica a pelle, visto le sue parentele, domandò infine: «Perché io?»
«Hai ragione Black! Perché distrarti dai molteplici e vitali compiti che svolgi per l’Ordine quando io e Silente possiamo accantonare i nostri impegni frivoli e…»
«No, Moc… Piton. Intendevo perché devo insegnarle io? Avete bisogno che nessuno lo sappia, vero?»
Severus fu spiazzato da quella domanda, soprattutto perché Sirius non aveva colto l’occasione di iniziare a litigare, come aveva sempre fatto. In effetti sembrava che si stesse concentrando con tutto se stesso per non iniziare una lite con lui.
«Sì, sarebbe preferibile che nessuno sappia nulla di me, signor Black.»
«Sirius, solo Sirius, per favore. Mi sento già abbastanza vecchio di mio!»
 
«Expecto Patronum» scandì chiaramente Joan.
La solita nebbiolina argentata si materializzò davanti alla sua faccia concentrata, quasi paonazza ormai. Non aveva mai avuto difficoltà così grandi con nessun altro incantesimo, stava per calciare la massiccia gamba del tavolo per la frustrazione quando Sirius comprese cosa stesse sbagliando.
«A cosa stavi pensato?»
Joan lo squadrò sospettosa. Per quanto lo ammirasse era davvero difficile liberarsi di ogni pregiudizio inculcatole dal padre.
«Non voglio farmi gli affari tuoi, ma penso che tu non abbia scelto un ricordo abbastanza felice, ecco tutto.»
La ragazza sospirò, chiudendo gli occhi per un attimo.
«Quindi se il mio Patronus è un orso bruno è stato tutto inutile, vero?»
Sirius studiò Joan e il suo ghigno divertito.
«Beh, non è detto che il Patronus sia identico alla tua forma da Animagus, ma nella maggior parte dei casi è così. E se si tratta di un animale grosso sarà difficile che ti serva per nasconderti.»
Joan si chiese che animale potesse mai essere, ma aveva sempre avuto estreme difficoltà nel descriversi, probabilmente perché non aveva molti coetanei con cui confrontarsi: nella sua vita c’erano per la maggior parte Severus e Silente. Certo, senza contare…
«Ti giuro che questa è la parte più noiosa. Poi verrà l’emozionantissima esperienza di tenersi una foglia di mandragola sotto la lingua per un mese intero.»
Joan riaprì gli occhi e li spalancò per la sorpresa, scoppiando a ridere per l’espressione di Sirius. Non riuscì a comprendere se stesse scherzando per quanto riguardava la foglia di mandragola, ma decise di non chiederglielo affatto.
«Come faccio a decidere il ricordo giusto?»
«Semplice: prendi il tuo miglior ricordo. Non deve essere solo un ricordo felice. Deve essere il ricordo felice. Poi lasciati inondare da quello che hai provato in quel momento.»
Mentre il mago parlava, a Joan venne in mente il ricordo perfetto. Pensò a quando Severus era venuto a prenderla per toglierla da quell’orfanotrofio babbano. Sentì la stessa speranza, lo stesso calore nel petto per aver finalmente trovato una famiglia che la voleva, un padre che, nonostante i suoi mille difetti, l’amava sinceramente.
«Expecto Patronum!»
Due orecchie appuntite e argentate vennero fuori dalla solita nebbiolina, un piccolo muso intelligente le seguì, poi una folta pelliccia e una coda ancora più voluminosa.
Joan guardò il Patronus correre attorno a lei in scatti fluidi e rapidi. Si accorse di aver le lacrime agli occhi per l’emozione e per la prima volta realizzò quanto fosse importante per lei sapere il proprio Patronus, trovare qualcosa che la definisse con chiarezza.
E, come ciliegina sulla torta, era abbastanza piccolo per valer la pena di addestrarsi da Animagus.
Tirò un sospiro di sollievo perché aveva seriamente creduto di non vedere più Sirius dopo quel giorno. Era la sua prima lezione e interrompere così prematuramente le faceva stranamente male: voleva molto più tempo per studiarlo in tutti i suoi particolari per farsi finalmente un’idea sua su quel vecchio avversario di Severus. Inoltre l’istintività che quell’uomo emanava da tutti i pori era una boccata d’aria fresca comparata al rigido controllo che le era stato insegnato ad esercitare sulle sue emozioni, molto spesso con il risultato di esplosioni di rabbia che facevano paura pure a se stessa. Questa ira non era mai verso Severus né verso Silente né verso nessun altro che conosceva. Erano più esplosioni senza senso né obiettivo, ma aveva sempre trovato il modo di arginarle senza far preoccupare le poche persone che erano attorno a lei. Con il carattere di Sirius le si presentava una prospettiva completamente nuova: imparare ad usare questa istintività come valvola di sfogo.
Gli sorrise solare, facendo sparire il Patronus con un gesto rapido della bacchetta.
«Beh, possiamo affermare con certezza che non è un orso bruno!»
Scoppiarono entrambi a ridere alla battuta di Sirius, come se fossero vecchi compagni di scuola che si ritrovavano in una rimpatriata quelli che paiono secoli dopo.

 
*****
Eccomi finalmente con il nuovo capitolo. In estremo ritardo, lo so, scusate, ma è stata una settimana un po' così: senza ispirazione, tra contest completati sul filo del rasoio e un po' di spiacevole influenza. Ma sono ritornata più raffreddata... ehm volevo dire in forma. Più in forma che mai.
Battute a parte, spero che questo capitolo vi piaccia e vi comunico che prevedo un ritardo per il capitolo di questa settimana, visto che teoricamente dovrei pubblicare tra due giorni e non ho nulla di scritto. Non temete, miei lettori, un giorno o l'altro ritornerò puntuale, ve lo prometto solennemente! ù____ù
 

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Capitolo 10
*** La Fortuna e la lettera ***


Harry spalancò il pesante portone d’ingresso del castello senza alcuna fatica, per niente sorpreso che Gazza si fosse dimenticato di chiuderlo a chiave quella sera.
Trotterellò giù dalle scale, diretto al funerale di Aragog, come la Felix Felicis gli aveva suggerito. Prese la strada per l’orto, sempre attento ai consigli della pozione, e, per qualche ragione, trovò particolarmente interessante il suolo su cui stava camminando. Dopo pochi passi scoprì perché: notò una serie di impronte nella terra smossa da poco per piantare i nuovi semi di stagione. Le impronte erano state occultate alla bell’e meglio, come se chi le aveva lasciate non avesse avuto il tempo di fare un lavoro migliore o semplicemente fosse troppo sconvolto per farlo; erano di un piede piccolo, quasi certamente femminile, e si allontanavano dall’orto, costeggiando la Foresta Proibita.
Ci vollero pochi minuti di camminata prima che Harry sentisse dei singhiozzi sommessi. Rivolse la testa verso quel rumore e vide una scena a cui, se non avesse bevuto la Fortuna Liquida, si sarebbe vergognato di assistere.
Rebecca Raeburn se ne stava seduta su un masso ricoperto di muschio, ben nascosto alla vista dell’orto dagli alberi attorno.
Nelle ultime settimane lui, Hermione e Ron si erano sforzati di stare accanto all’amica quanto più potevano, accompagnandola in Biblioteca e per i corridoi tra una lezione e l’altra. Vederla piangere da sola nella Foresta sorprese Harry perché il suo umore era decisamente migliorato da quando Joan aveva trascinato dal Preside Marietta Edgecombe per il suo commento su Rebecca. Nessuno, infatti, aveva più osato insultarla o deriderla in pubblico da quell’episodio e si vociferava che Vitious le avesse dato la più severa punizione in tutta la sua carriera da insegnante di Incantesimi.
Rebecca aveva voluto ringraziare Joan per essere intervenuta in suo favore, ma la giovane donna sembrava essere più sfuggente che mai. Infatti lei, Harry, Hermione e Ron (quando si liberava di Lavanda Brown) non erano più riusciti a fare due chiacchiere tranquille con lei, nemmeno dopo le sue lezioni al Club dei Duellanti. Harry si era fatto l’idea che li stesse evitando per una qualche ragione, ma non si era soffermato a fare ipotesi che riguardassero Rebecca per amor della promessa che aveva fatto ad Hermione. Sembrava, inoltre, che Joan Piton si assentasse sempre più frequentemente dal castello per commissioni che Harry poteva solo immaginare.
Eppure ecco lì Rebecca che stava piangendo quanto più silenziosamente poteva, stringendo qualcosa nel pugno della mano destra. Qualcosa che sembrava distintamente un foglio di pergamena.
La Felix Felicis suggerì chiaramente a Harry di aspettare qualche altro minuto, quindi si appoggiò ad un tronco spezzato lì accanto. Proprio quando mise in dubbio per la prima volta la pozione che aveva ingerito, un fruscio accanto a lui catturò la sua attenzione.
Un lampo rosso gli zampettò accanto, proseguendo con scatti nervosi ma fluidi e Harry non riuscì ad osservare bene l’animale nonostante la vicinanza, anche se era sicuro che fosse completamente innocuo.
La volpe rossa frustò l’aria con la cespugliosa coda, il muso ritto in direzione della studentessa di Corvonero, che impiegò qualche istante prima di notarla.
La sorpresa fu sufficiente a fermare le lacrime di Rebecca. Quando anche gli ultimi singhiozzi le morirono in gola, la volpe si avvicinò prudente ma senza mostrare alcun segno di insicurezza.
Da dove si era messo Harry riuscì perfettamente a sentire le parole di Rebecca, anche se sussurrate.
«E tu cosa ci fai qui?»
La volpe rispose con un gorgoglio basso ma vivace e iniziò a saltare allegramente attorno al sasso su cui era seduta la ragazza. Così Harry la riuscì a studiare, registrandone ogni particolare.
Era una volpe di grandezza normale, con il pelo rosso estremamente arruffato, come se fosse appena fuggita da un’azzuffata con qualche altro animale selvatico. Aveva due grandi occhi di un verde brillante e il Grifondoro si chiese se questo fosse possibile, visto che aveva sempre sentito parlare di volpi dagli occhi gialli, ma concluse debolmente che la poca luce della Foresta lo stava ingannando.
Rebecca ridacchiò all’entusiasmo della volpe e a tutti i rumori acuti che emetteva.
A quel suono la volpe si immobilizzò e puntò gli occhi in quelli blu della Corvonero.
Si guardarono in silenzio per un po’, poi la volpe iniziò ad avvicinarsi a lei, senza più nessun verso, semplicemente fissandola.
Rebecca si agitò leggermente sullo scomodo sasso, cercando di interpretare le intenzioni dello stupendo animale, senza sapere come reagire per non spaventarlo o alterarlo in qualche modo.
Ma la volpe sembrava sicura delle proprie azioni e si affiancò alla Corvonero, appoggiandole il muso appuntito in grembo. Rebecca rimase rigida a quel movimento, come se si aspettasse un attacco dall’animale selvatico, improvvisamente pentendosi di averla fatta avvicinare così tanto a sé.
Alla fine si decise ad alzare lentamente una mano, senza scatti né movimenti bruschi.
«Per favore, non mi mordere.»
Non era mai stata un portento in Cura delle Creature Magiche e, di norma, tutti gli animali, magici o meno che fossero, non provavano simpatia per i suoi modi goffi di trattarli, ma quella volpe non sembrava assolutamente preoccupata dalla sua presenza e nemmeno intenzionata ad attaccarla.
Poggiò le dita sulla testa della volpe e quella non si mosse, anzi gorgogliò felice. Allora, con un sorriso, Rebecca affondò la propria mano nella soffice pelliccia rossa e arruffata, cercando inutilmente di lisciargliela un poco.
Harry si alzò di botto, ma la volpe non lo sentì muoversi, certo che quello che voleva fargli vedere la pozione fosse finito. Quindi girò le spalle alla scena quanto mai bizzarra e ripercorse i propri passi fino a tornare all’orto, dove trovò, come ad aspettarlo, Lumacorno e la Sprite che parlavano amabilmente.
 
L’ultimo exploit della Felix Felicis gli riportò alla mente l’incontro di Rebecca e la volpe e, mentre si stava affrettando a raggiungere il castello, una folata di vento gli spinse proprio sotto il piede un pezzo di pergamena malridotto. Grazie ai riflessi addestrati dal Quidditch, Harry afferrò al volo il foglio e lo lesse velocemente alla luce della bacchetta.
 
Rebecca,
ritengo sia più opportuno non incontrarci più.
Lily.
 
Il Grifondoro dovette rileggere il corto messaggio per altre due o tre volte prima di afferrarne completamente il significato.
Subito la sua mente si affollò di domande che sapeva di non poter condividere con i propri migliori amici, perché tecnicamente lui non avrebbe dovuto saperne nulla. Ma sul momento fu preso da un’euforia troppo forte per poterla ignorare su due piedi.
Stringeva tra le mani la prova che Lily esisteva e che lei e Rebecca avevano effettivamente avuto una relazione. O no? In ogni caso si erano sicuramente incontrate.
Non c’erano indizi su chi fosse questa Lily o come Rebecca la conoscesse, anche se ora Harry poteva dire di conoscere la sua scrittura, a qualsiasi cosa servisse. Era una scrittura tonda e ordinata, anche se forse un po’ troppo minuta.
Ma perché Lily aveva lasciato Rebecca? O comunque non voleva più vederla?
Le era giunta voce da Hogwarts che era innamorata di lei e quindi pensava fosse meglio non incontrarla più? Oppure era davvero un messaggio con cui l’aveva lasciata?
Harry considerò brevemente che non avrebbe mai lasciato nessuno in quella maniera fredda e impersonale e improvvisamente provò un’istintiva antipatia per quella Lily.
Si accorse, inoltre, che era la prova che la ragazza del mistero era una strega: quanti Babbani usavano la pergamena per la corrispondenza?
Si disse che il passo successivo era quello di vedere i registri della Guferia per capire quante volte Rebecca aveva preso in prestito un gufo dalla scuola, visto che non ne possedeva uno; poi scosse bruscamente la testa, ricordandosi le parole di Hermione e quello che le aveva promesso.
Dopo qualche istante di indecisione non poté resistere ad intascarsi il pezzo di pergamena e, mentre riprendeva la strada verso il castello, gli venne in mente un’altra cosa: la volpe gli era passata accanto per andare da Rebecca, quindi proveniva dall’esterno della Foresta e non dall’interno. Quante volpi avrebbero preferito cacciare in bella vista in un orto invece che al sicuro nella foresta?
Confuso da tutti quegli indizi come da una manciata di pezzi di puzzle che non volevano incastrarsi tra di loro, Harry ritornò al castello per dirigersi verso la torre di Grifondoro, promettendo a se stesso che non avrebbe fatto parola di quello strano incontro che aveva avuto nella Foresta con nessuno, vista la vergogna che provava ad essere rimasto lì a spiare una sua amica piangere.

 
*****
Ricordate ieri quando vi ho detto che domenica non avrei pubblicato? Ecco... mentivo. Ahahahahahah!
Battute a parte, sono contenta di aver recuperato la puntualità :D E ora raccogliamo un po' i pensieri su tutti gli indizi che vi ho sparato addosso in questo capitolo.
Finalmente sappiamo che Lily esiste! Ma come interpretare quel biglietto? Lily ha veramente lasciato Rebecca? E quella volpe? Era davvero Joan? Ma soprattutto: Lily e Joan saranno la stessa persona o no?
Su questi quesiti amletici vi lascio e vi auguro buona serata :D
L'appuntamento è sempre di domenica.

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Capitolo 11
*** Rabbia cieca ***


La stanza finemente decorata e il bambino biondo platino che vi stava giocando al centro con il proprio modellino di scopa volante svanirono velocemente dalla mente di Draco.
Il ragazzo alzò lo sguardo accusatorio e frustrato su Joan Piton davanti a lui. L’espressione che vide fu terribile: un misto di ira e di disappunto che sfiorava le delusione aveva irrigidito i suoi connotati a discapito della sua solita bellezza.
«Ancora troppo facile, Draco. Preparati di nuovo.»
Draco, paonazzo in volto, esausto da quell’allenamento costante e pieno di rancore nei confronti di quella strega, le voltò le spalle in risposta e calciò con rabbia una sedia che gli si trovava accanto. Poi, mentre quella abbassava la bacchetta, si girò nuovamente verso di lei, fissandola con odio.
«Piantala.»
Joan strinse gli occhi scuri come la notte in quelli grigi e freddi del ragazzo.
«Come, scusa? Non penso di aver sentito bene, Draco.»
«Ti ho detto di piantarla!»
Questa volta aveva urlato e Joan non poté più fingere di non aver sentito.
Erano state settimane particolarmente dure per lei e la sua pazienza per l’arroganza di Draco Malfoy si era notevolmente assottigliata a seguito di tutte le lezioni che gli aveva impartito. Inoltre era decisamente nauseata da tutti i ricordi da bambino viziato che era stata costretta a vedere.
«Come osi parlarmi in questo modo?»
La voce di Joan era ferma e apparentemente calma, ma ogni singolo muscolo del suo corpo era in tensione, per impedirsi di lanciare qualche incantesimo su quell’odioso ragazzo che stava mettendo a repentaglio i suoi piani o forse per prepararsi a farlo.
Ma Draco, tremante di rabbia e più pallido che mai, fu il primo ad esplodere dei due, ignorando quello che rischiava: «No, come osi tu! Non credere che abbia capito il tuo gioco, Piton.»
Joan fu spiazzata da quelle parole, ma riuscì a mascherarlo abbastanza bene da chiedergli in tono fermo: «Cosa diamine stai dicendo, Malfoy?»
Con un verso sprezzante riacquistò un po’ di compostezza, ribattendole con espressione indagatoria: «Stai cercando di indebolire la mia mente perché Silente comprenda i miei piani, vero?»
Tutta l’ira di Joan fu spazzata via da quelle parole e, dopo un attimo di esitazione, scoppiò a ridere. Era una risata di scherno, cattiva e tagliente, che non le apparteneva affatto.
Draco, in una mossa dettata dall’istinto e dal rancore, si alzò la manica sull’avambraccio sinistro, scoprendo un orribile tatuaggio di un teschio con la bocca aperta, da cui usciva un serpente. Tra i denti digrignati, mostrandole il Marchio Nero, le sputò addosso: «Credi sia divertente prenderti gioco di me? Vuoi che lo chiami?»
Joan lo squadrò da capo a piedi, scuotendo lentamente la testa con un ghigno malvagio, sussurrandogli: «Non sei così stupido, Draco. Sai benissimo di non potertelo permettere e se non vorrai il mio aiuto non ti costringerò. Non verrò punita per aver fatto il possibile con te.»
Con uno scatto ferino la donna gli afferrò il polso e lo trascinò verso di sé. Fu così improvviso che Draco non riuscì nemmeno a sfoderare la bacchetta che si ritrovò a pochi centimetri dal volto di Joan e ormai era troppo tardi per divincolarsi dalla sua stretta ferrea.
«Draco, non mentire a te stesso. Tu non conti nulla. Lui ti ucciderà quando non gli servirai più. E ucciderà i tuoi genitori per punirli del tuo fallimento. Io non ho alcun bisogno di sabotare i tuoi piani. Se non ci fossimo io e Severus il piano sarebbe fallito già da tanto tempo. E questo perché sei destinato a fallire, nemmeno il Signore Oscuro pensa che tu abbia una possibilità: ti ha mandato a morire.»
Aveva parlato in un tono dolce, basso e cadenzato, quasi come un’amante che sussurra al suo amato, ma Draco lesse un’ira sconfinata in quegli occhi, nessuna pietà né empatia per lui, solo disgusto e odio. Il rancore che quella giovane strega aveva in corpo eclissava quello che Draco aveva provato in tutta la sua vita. Per la prima volta fu terrorizzato da Joan Piton e comprese che per quante risposte saccenti poteva dare, per quanto si potesse atteggiare da Mangiamorte, quello non avrebbe mai potuto essere il suo ruolo. Le persone che più si addicevano alla Magia Oscura erano quelle come la donna che aveva davanti, il cui odio non aveva confini.
Draco riuscì a liberarsi il polso o forse fu proprio Joan a lasciarlo andare. Con un colpo di bacchetta aprì la porta e corse via da quella classe vuota, con l’urgenza di mettere tra lui e quella strega la maggiore distanza possibile.
Joan si guardò attorno, cercando di riprendere fiato. All’inizio inghiottì grosse boccate d’aria, ma non la fecero sentire affatto meglio. Aveva le viscere accese di un fuoco malsano, un’ira che temeva di non riuscire più a soffocare nel proprio petto.
Senza una parola, puntò la bacchetta contro un banco addossato alla parete e quello esplose con un botto fragoroso, ricoprendo di schegge di legno il pavimento e gli altri banchi accanto.
Poi si concentrò a reprimere la furia che sentiva dentro, ma fu come cercare di placare il mare in tempesta armati solo di un remo. Chiuse gli occhi e regolò la propria respirazione come aveva imparato in tutti quegli anni. Sotto le palpebre c’era solo buio e nelle sue orecchie aveva forzato il silenzio per recuperare meglio la calma. Perse la cognizione del tempo, finché, qualche minuto dopo, una voce spiacevole non la riportò alla realtà.
«Signorina Piton? Tutto a posto?»
Aprì gli occhi e si ritrovò davanti Gazza, aveva delle chiazze rosse sulle guance cadenti e sembrava che avesse corso per la maggior parte della strada per arrivare lì. Non rispose, sondando le proprie emozioni e ritrovando la rabbia di prima che si era trasformata in una sorda irritazione. Perse ancora qualche secondo a decidere quanto fosse innocuo quel sentimento.
«Ho sentito un rumore, sono arrivato appena ho potuto. Cosa è successo?»
«Pix.»
Joan lasciò quelle tre lettere arrotolarsi lentamente sulla sua lingua in un breve sussurro. Non aspettò una risposta dal custode, che si era illuminato di felicità, e uscì dalla stanza, urtandolo con malagrazia.
Le sue gambe si erano mosse automaticamente, reclamando il bisogno di passeggiare senza pensare alla destinazione. Si impose di non rimuginare sui ricordi e sui pensieri che ultimamente la tormentavano. Avrebbe voluto raggiungere la Foresta Proibita per diventare ancora una volta la bellissima volpe dal manto fulvo e correre, lasciandosi dietro i rimorsi e i sensi di colpa così umani in favore di un vagare molto più istintivo di quanto potesse mai fare in quella forma.
Non aveva bisogno di schiarirsi le idee: necessitava qualcosa con cui allontanarle perché non potessero ferirla e renderla vulnerabile.
Era nei pressi del sesto piano quando, sulle scale, una marea di studenti concitati la travolse. Erano per la maggior parte Tassorosso e sembravano tutti spaventati da qualcosa.
«È appena successo.»
«Non credevo che Potter potesse fare una cosa del genere.»
«Ma secondo te l’ha ucciso?»
Attirata da quelle parole, Joan si rivolse bruscamente allo studente più vicino, un ragazzo minuscolo del primo anno.
«Cosa è successo?»
Lo studente squittì, nervoso: «Harry Potter ha ucciso qualcuno nel bagno dei maschi là in fondo.»
Joan non si concesse che una frazione di secondo per impallidire pesantemente e si mise a correre a perdifiato lungo il corridoio, verso la direzione indicatale.
Arrivò sulla porta del bagno e la scena che le si presentò davanti le fece saltare un paio di battiti.
In una pozza di sangue stava riverso a terra Draco Malfoy, poté riconoscerlo chiaramente dai capelli biondi, e sopra di lui c’era Severus Piton che cercava di richiudere l’enorme squarcio sul petto che il ragazzo aveva. In un angolo notò Harry, pallido e sconvolto da quello che stava succedendo. Si avvicinò a lui, ignorando il fantasma di Mirtilla Malcontenta che singhiozzava da una parte, senza perdere tempo e tutto quello che il Grifondoro riuscì a mormorarle fu un: «Io non volevo.»
Appena gli occhi verdi incontrarono i pozzi neri di Joan, comprese immediatamente da dove avesse imparato il Sectumsempra, l’incantesimo che suo padre aveva inventato quando era stato studente ad Hogwarts. Altri pensieri sconnessi passarono per la mente di Harry in pochi istanti ed era così atterrito che non si accorse nemmeno che Joan stava usando la Legilimanzia contro di lui.
Vide distintamente un arazzo familiare e comprese dove Harry intendesse nascondere il libro del Principe Mezzosangue.
Dopo pochi minuti Severus riuscì a rimettere in piedi Draco e si ritrovò davanti alla figlia.
«Porto Draco in infermeria. Stai qui con Potter, Joan.»
Riconobbe ogni sfumatura della furia gelida nel tono di suo padre, che sembrò chiederle con lo sguardo perché Draco non fosse con lei in quel momento, e lo osservò uscire dal bagno.
Aiutò Harry a rialzarsi, sulle gambe tremanti e scacciò via Mirtilla con un ordine fermo che non ammetteva repliche.
Mentre il fantasma spariva nel proprio water, il silenzio crebbe tra Joan e Harry. Il ragazzo non riusciva a smettere di fissare le macchie di sangue sul pavimento bagnato.
«Non lo sapevo che…»
«Risparmiamelo.»
Harry alzò lo sguardo su Joan al tono freddo e distaccato che aveva usato. Vi trovò una maschera di disappunto e delusione che non riuscì a sopportare. Il ragazzo stava per aggiungere qualcosa, ma Piton ritornò nel bagno e iniziò l’interrogatorio.
Il solito disgusto nelle domande del professore era sottolineato dallo sguardo fisso di Joan nei suoi occhi e Harry si ritrovò presto a uscire dal bagno di corsa per andare a nascondere il libro del Principe Mezzosangue.
Severus si voltò lentamente verso Joan, domandandole: «Cos’è successo con Draco?»
La ragazza si strinse nelle spalle, mormorando: «Non è il momento di parlarne.»
Il padre strinse le labbra, contrariato, ma decise di lasciar perdere la questione, almeno per il momento.
«Stai bene?»
Gli occhi neri di Joan scivolarono in quelli identici di suo padre, colpita da come riuscisse sempre a comprendere quando ci fosse qualcosa che la turbava, e lei scosse brevemente la testa, ma gli angoli della sua bocca si incurvarono in un sorriso dolce.
«Vai, penso io a lui.»
Pensò di chiedergli di non trattare troppo male Harry e di dirgli quello che aveva in mente di fare con il libro, ma tutto quello che le uscì dalle labbra fu: «Grazie, Sev.»
 
Devo nascondere un oggetto.
Dopo più di dieci minuti passati davanti alla Stanza delle Necessità, finalmente Joan riuscì a trovare il modo giusto di formulare il pensiero.
Si fermò sulla soglia di una stanza enorme, trattenendo il respiro per la quantità di cose nascoste nel corso dei secoli dagli studenti di Hogwarts.
«Accio libro di Pozioni Avanzate.»
Il volume di testo le atterrò in mano con un rumore leggero. Lo sfogliò subito, per controllare che fosse quello giusto. Vedendo la scrittura del padre da adolescente, sorrise felice.
Si forzò a chiudere il libro che suo padre credeva di aver perso per sempre e uscì dalla Stanza delle Necessità stringendolo in un abbraccio, finalmente in pace dopo la lunga giornata.

 
*****
Eccomi qui, leggermente in ritardo, ma sono fuori casa in questi giorni! Spero vi sia piaciuto questo capitoletto con il caratteraccio di Joan come protagonista! :D

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Capitolo 12
*** Morte ai Sanguemarcio ***


Una nebbia gelida si era abbattuta su Spinner’s End ormai da tre giorni. La ciminiera che si ergeva minacciosa continuava a vomitare fumo nero nell’aria, ma l’odore acre che impregnava la città di Cokeworth non poteva entrare dalla porta Imperturbabile della modesta casa più vicina alla fabbrica, ormai resa sudicia dagli effluvi.
Nulla avrebbe suggerito che il periodo natalizio era arrivato anche in quella casa, dato la mancanza di un albero, di decorazioni e di ghirlande, a meno che non si guardasse sotto il letto di una delle due persone che vi abitavano. Lì erano gelosamente custoditi un regalo male impacchettato in una carta marrone scuro e due regali con carte di colori sgargianti, tutti e tre di modeste dimensioni.
Il primo era stato comprato e incartato con mani malferme da Joan per l’uomo che due anni prima l’aveva portata via dall’orfanotrofio Babbano in cui pensava di stare per sempre: era una nuova penna d’oca, per niente cara, ma particolare, nera con striature bianche. Uno dei due pacchetti colorati era da parte di Albus Silente, dalla forma non si capiva cosa fosse e Joan non vedeva l’ora di scoprire cosa le avesse regalato il Preside della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. E l’altro da parte di Piton. Si era stupita quando aveva preso il sottile pacchetto tra le mani perché era sicura di ricevere un libro da parte sua, ma si era imposta di non scartare i propri regali fino alla mezzanotte di Natale, che sarebbe arrivata in una manciata di ore, probabilmente per rimanere fedele alla tradizione della famiglia Foster.
La bambina stretta nell’alta poltrona che torreggiava nel salotto non era più così piccola da sembrare di sparire dentro alla fodera da un momento all’altro, inghiottita da tutto quel nero. Stava sfogliando con molto interesse un vecchio manuale di Storia di Hogwarts, frusto e ricoperto di appunti scritti con la calligrafia stretta e ordinata di Piton adolescente. Ad un certo punto, nel capitolo che parlava della causa della rottura di Salazar Slytherin con gli altri fondatori, Joan s’imbatté in una scrittura che non aveva mai visto prima. Era spigolosa e sgraziata, come se chi l’avesse scritto volesse inciderlo sulla pagina. Dopo un paio di secondi riuscì a decifrare il messaggio, che recitava: “Morte ai Sanguemarcio”.
Fissò attonita Sanguemarcio, più disturbata dal fatto che qualcuno ne volesse la morte che dal fatto di non comprenderne il significato.
Si schiarì la voce alzando il volto dalla pagina del libro all’uomo che stava leggendo il giornale sul divano accanto a lei. Piton non rispose, troppo preso a leggere un articolo sulla Gazzetta del Profeta con espressione accigliata.
«Severus?» chiamò la bambina in un sussurro.
«Sì?» rispose l’uomo, distratto dalla lettura.
«Cos’è un Sanguemarcio?» chiese con la voce bassa per la soggezione, come se sapesse di pronunciare una parolaccia.
Piton alzò la testa di scatto, l’articolo aveva d’un tratto perso ogni attrattiva. Joan si disse che non avrebbe mai dimenticato l’espressione dell’uomo per tutta la sua vita. Per la prima volta vide un’ira sconfinata nei suoi occhi neri, le labbra pallide tirate sui denti come in un ringhio muto. Per la prima ed ultima volta Severus Piton le fece paura.
Ma fu un momento e passò.
«È una brutta parola» iniziò a spiegarle con difficoltà, non sapendo bene come proseguire o forse per lui era difficile parlarne con il groppo in gola che quella parola gli provocava sempre.
«Vuol dire Nato Babbano, non devi usarla perché è un brutto insulto. Dove l’hai letta, Joan?» allungò una mano verso la bambina, che gli diede il libro che una volta gli era appartenuto, indicandogli la scrittura quasi illeggibile.
«Mulciber» sussurrò pensoso Piton, riconoscendola.
«E perché vuole la loro morte?»
L’uomo si ritrovò senza parole davanti all’innocenza della domanda. Incespicò nei propri pensieri, esitando a lungo prima di parlare.
«Certe persone li odiano perché sono figli di Babbani.»
Gli occhi della bambina brillarono di confusione per un istante. Poi misurò ogni parola come Piton aveva fatto fino a quel momento.
«È diverso se si è figli di Babbani?»
Piton boccheggiò come colpito da uno schiaffo. Chiuse il libro tra le sue mani con un’espressione indecifrabile, si alzò e ripose nello scaffale del salotto il vecchio volume di testo, con movimenti lenti e misurati, come per prendere tempo. Joan non protestò nemmeno, troppo incuriosita dalla strana reazione di Severus, che le aveva dato le spalle perché non vedesse l’espressione sul suo volto.
Non lo aveva mai visto in quello stato. Qualsiasi cosa succedesse pensava fermamente che Piton avrebbe trovato le parole per ribattere ad ogni situazione in pochi secondi, ma si dovette ricredere mentre lo osservava sedersi stancamente sul divano. Nel silenzio la guardò, gli occhi neri si soffermarono prima sui suoi capelli, poi sugli occhi e infine si fissarono sul volto della bambina.
«Molti cercheranno di convincerti che è diverso, ma non credere mai a quello che dicono, Joan.»
Prese fiato per aggiungere qualcosa, aprì la bocca, ma non riuscì ad articolare nessun altro suono. Rivolse lo sguardo sul fuoco del camino per nasconderle i fantasmi del passato che abitavano i suoi occhi neri come la pece. Quando ritenne di aver ripreso il completo controllo delle proprie emozioni, la guardò di nuovo.
«Che ne dici se scartiamo i regali adesso?»
Osservò compiaciuto il sorriso che si aprì sulle labbra della bambina.
«Non dobbiamo aspettare la mezzanotte?»
Joan aveva parlato in tono insicuro, adocchiando l’orologio da parete che segnava le dieci di sera.
«Solo se ne hai voglia.»
Dopo un attimo di indecisione, la bambina annuì vigorosamente e sparì subito nella sua camera al piano di sopra.
Tornò stringendo tutti i regali a stento tra le braccia e li appoggiò, aiutata da Severus, sull’anonimo tavolo della cucina. L’uomo indicò il pacchetto marrone scuro e le chiese: «E quello che cos’è?»
Joan trattenne brevemente il fiato, cercando di interpretare il tono che aveva usato, ma senza riuscire a percepire nulla oltre alla sorpresa. Tutta orgogliosa, lo prese tra le mani e glielo porse con un sorriso enorme.
«È il tuo regalo!»
Severus rimase immobile a studiare l’ammasso informe di carta e scotch davanti a lui, per la seconda volta in breve tempo senza parole. Joan gli mise il pacchetto in mano, continuando a sorridere, felice di aver ottenuto l’effetto di stupore desiderato.
La bambina lo guardò finché lui non si decise a scartarlo. In pochi movimenti precisi tolse la carta marrone e si ritrovò tra le mani la penna d’oca striata. Si ricordò con un sussulto che l’ultimo regalo di Natale che aveva ricevuto risaliva al suo quinto anno ad Hogwarts.
Alzò lo sguardo su Joan, che snocciolò, impaziente: «Ti piace? Volevo prendertene un’altra ma non avevo abbastanza galeoni, però anche questa è bella, vero?»
«È perfetta!»
La bambina rimase estasiata da quel commento e i suoi occhi brillarono di gioia, quasi si dimenticò dei propri regali. Infatti dovette ricordarglieli Severus, con un: «Ora tocca a te, Joan»
Prese velocemente i due pacchetti e si avventò subito su quello di Severus, impaziente di vedere cosa fosse. Dopo qualche secondo di lotta con la carta colorata, riuscì a scartarlo e qualcosa di morbido le cadde fluidamente in grembo.
Era un mantello dai colori cangianti, ora verde smeraldo e ora di un verde cupo da far invidia allo stemma di Serpeverde.
Joan rimase senza parole, in ammirazione del regalo. Mai si sarebbe aspettata da Severus Piton un regalo del genere. Senza dare il tempo a suo padre di chiederle se le piacesse, si avventò su di lui, abbracciandolo con tutte le sue forze.
«È stupendo, Sev. Grazie!»
Piegò con cura maniacale il suo nuovo mantello, resistendo alla forte tentazione di provarselo in quel momento. Sentiva che il suo primo indumento da strega meritasse un’occasione speciale per essere indossato la prima volta.
Lo appoggiò con attenzione accanto a sé sul tavolo e prese in mano lo strano pacchetto che le aveva inviato Albus Silente in persona. Lo tastò prima di aprirlo, volendo indovinare cosa fosse, ma la forma spigolosa e la consistenza rigida non le furono d’aiuto.
Infine si arrese e lo scartò.
Guardò con aria sorpresa la piccola ciotola di legno intagliata con rune e simboli a lei sconosciuti. Notò uno strano liquido fumoso nella ciotola e la rovesciò per istinto, credendo che ne sarebbe uscito qualcosa; invece rimase attaccato al fondo di legno, senza perderne una goccia.
Rivolse uno sguardo interrogativo a Severus, le cui labbra si erano nuovamente fatte sottili e una contrazione alla mascella tradiva una qualche irritazione.
«È un Pensatoio, Joan. Sono molto rari e servono per custodire dei pensieri o dei ricordi che non vuoi avere in testa per un motivo o per l’altro. Inoltre li puoi visitare a tuo piacimento.»
Gli occhi della bambina si illuminarono di stupore, felice che quello fosse il suo primo oggetto magico. Poi li sollevò di nuovo su Severus e gli chiese, timida, porgendogli il Pensatoio: «Mi puoi far vedere come funziona?»
Piton fu sul punto di dire di no, poi qualcosa nello sguardo di Joan lo spinse ad acconsentire con un breve cenno d’assenso. Riuscì persino a fargli incurvare le labbra in un sorriso appena accennato.
Si portò la bacchetta alla tempia destra mentre la bambina lo osservava con interesse, come faceva sempre quando lo vedeva compiere una magia. Joan trattenne rumorosamente il respiro quando un filo argentato si staccò dalla sua pelle, rimanendo impigliato nella bacchetta.
Il mago lo accompagnò con un gesto fluido nel contenitore e lì si riversò come un liquido, diede una breve mescolata a quello che c’era nel Pensatoio e si rivolse alla bambina con un’espressione indecifrabile.
«Questa è la prima volta che ho conosciuto tua madre. Vuoi vederla?»
 Il fiato si mozzò nella gola di Joan. Severus le aveva parlato di sua madre solo una volta e lei si era sempre trattenuta dal chiedergli qualcosa, visto che quell’unica volta le era sembrato tormentato da qualcosa di non molto piacevole. Inoltre non aveva mai visto sua madre in nessuna foto perché Piton non ne possedeva.
Con un deciso cenno di assenso, Joan si immerse nei ricordi di Severus Piton per vedere per la prima volta il volto di sua madre. Quello fu il Natale migliore di tutta la sua vita.
 
*****
Eccomi qua, finalmente.
Scusate per queste due settimane di silenzio stampa, ma è stato un periodo di scarsa ispirazione. Qualcuno di voi chiederà: perché ora pubblichi il mercoledì? Semplice: ho deciso di pubblicare due volte a settimana! Una di mercoledì e una tra sabato e domenica. Fatemi sapere che ne pensate :D
Vi lascio con un'ultima questione. Volevo cambiare titolo a questa long, anche perché pensavo di chiudere la storia alla fine del sesto anno. Tranquilli, la trama andrà avanti anche al settimo (and beyond xD), però volevo fare due long separate, visto che cambierà completamente la struttura. Poi metterò tutte le storie di questa saga in un'unica raccolta, in modo che saranno facilmente reperibili. Non ho ancora deciso un titolo principalmente perché non sono molto brava con i titoli in generale, ma volevo avvisarvi per non farvi prendere degli infarti se non troverete più questa storia sotto questo titolo. Quindi vi consiglio vivamente di mettere la storia nelle seguite per evitare drammi del genere xD
Detto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto e ci vediamo sabato o domenica con il prossimo capitolo!

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Capitolo 13
*** Rancore e rimorso ***


I pomeriggi si stavano facendo caldi e lunghi, annunciando l’entrata in scena dell’estate. I ragazzi si stavano godendo gli ultimi giorni prima del ripasso folle per gli esami, anche se molti studenti del quinto o del settimo anno si erano già rinchiusi nel castello a ripassare, approfittando della quiete per prepararsi ai G.U.F.O. o ai M.A.G.O.; Ginny Weasley non era tra quest’ultimi. Stava passando con Harry uno dei suoi rari e ultimi pomeriggi liberi prima degli esami.
Stavano ridendo felici, seduti uno accanto all’altra, indicando i tentacoli della piovra gigante che uscivano dall’acqua e cercavano di raggiungere qualche studente che aveva da mangiare per lei.
Ad un certo punto un movimento attrasse l’attenzione di Harry, allenato dal Quidditch.
Distinse chiaramente Joan passeggiare sul confine con la Foresta Proibita, probabilmente era appena uscita da lì, nonostante la distanza era inconfondibile con la sua camminata militare e il suo mantello verde dai colori cangianti.
Harry osservò rapito i capelli rossi di Ginny e i suoi occhi castani, rimpiangendo le sue prossime parole.
«Scusa un attimo, devo solo dire una cosa a Joan.»
 Si alzò sentendo che stava rubando dei momenti preziosi al proprio rapporto con Ginny, ma lei annuì decisa, conoscendo la situazione tra i due ragazzi. Harry le aveva infatti raccontato quanto gli pesasse il comportamento di Joan da quando aveva usato il Sectumsempra su Malfoy.
Ogni volta che era stata costretta a parlargli l’aveva fatto in tono incolore, una maschera rigida al posto del volto, tenendo il più possibile le distanze da lui. Harry non aveva insistito perché gli era sembrata in collera, con ogni probabilità con lui per aver utilizzato quell’incantesimo. Joan non era più uscita né con il gruppo di Harry né con Rebecca. Harry, Hermione e Ron avevano seguito il suo consiglio e la coinvolgevano la ragazza in molte uscite e passeggiate intorno ad Hogwarts, si fermavano spesso a parlarle anche quando era al tavolo dei Corvonero, lanciando sempre occhiatacce a Marietta Edgecombe come per sfidarla a dire qualcosa alla loro amica. Non era più successo: si limitava a girarsi dall’altra parte, senza nemmeno scambiare qualche commento malevolo con le proprie compagne. Qualunque punizione le avesse dato Vitious aveva funzionato splendidamente.
Comunque Joan non si era più avvicinata a lei e Harry non la sorprendeva nemmeno più a guardarla durante i pasti in Sala Grande. Sembrava tenere le distanze da tutti e il Grifondoro non capiva perché: in fondo l’episodio accaduto nel bagno dei maschi era stato provocato solamente da lui, quindi perché allontanare anche gli altri?
Costeggiò la Foresta Proibita, senza farsi vedere da Joan e, quasi correndo, riuscì a recuperarla, nonostante la sua camminata veloce, proprio quando svoltò nuovamente dentro alla Foresta. Prima che riuscisse a salutarla, lei si voltò in uno scatto felino puntandogli la bacchetta a pochi centimetri dalla faccia.
Harry sollevò istintivamente le mani, spaventato da quella brusca reazione. La sorpresa incrinò la maschera che aveva costruito per la prima volta da quando l’aveva trovato nel sangue di Draco.
Mentre Joan abbassava la bacchetta, il Grifondoro lanciò uno sguardo furtivo al lago, cercando Ginny. Notò che da quell’angolazione nessuno dal lago riusciva a vederli: nonostante i rami fossero radi riuscivano comunque a nasconderli.
«Non arrivarmi mai più alle spalle in quel modo.»
Harry abbassò le braccia, sentendosi stupido in quella posizione di resa, e studiò Joan. Era pallida, gli occhi neri scattarono per due o tre volte verso l’interno della Foresta prima che riuscisse a costringerli fermi in quelli verde smeraldo del ragazzo; non aveva ancora messo via la bacchetta, anche se era puntata al terreno, e si grattò con la mano sinistra l’avambraccio destro in un gesto nervoso o forse solo infastidito.
«Vuoi dirmi qualcosa?»
«Scusa.»
Gli occhi bui come pozzi senza fondo si strinsero sospettosi in quelli di Harry alla sua semplice risposta rauca, ogni traccia di nervosismo era già sparita e Joan si era nuovamente nascosta dietro quell’espressione rigida e immutabile.
Harry si schiarì la gola per combattere l’improvvisa secchezza della sua bocca e si sforzò di spiegarsi meglio, riprendendosi un poco dalla paura della minaccia di essere attaccato da Joan.
«Volevo scusarmi per aver ferito Draco Malfoy.»
Un sorriso appena accennato, sarcastico, che non le arrivò agli occhi comparve sulle sue labbra sottili.
«Ti scusi con me per quello che hai fatto a Malfoy? Non ha alcun senso.»
Il ragazzo cercò in tutti i modi di non mostrarsi alterato per come si stava comportando: sembrava decisa a rendergli la cosa quanto più difficile poteva.
«Volevo spiegarti che cosa è successo, Joan. Penso che tu debba saperlo.»
«E pensi che possa migliorare la tua situazione?»
Con una breve risata amara gli impedì di rispondere, gli voltò le spalle e concluse: «So già cosa è successo. Hai provato un incantesimo che non conoscevi e stavi per uccidere un tuo compagno.»
Harry si fece coraggio e le rivelò, prima che potesse andarsene: «Sì, ma non è tutto.»
Dopo un lungo sospiro quasi impercettibile, Joan si girò di nuovo verso di lui e ripose la bacchetta in tasca con un gesto fluido. Lo invitò a proseguire sollevando appena le sopracciglia, in attesa.
«All’inizio dell’anno ho trovato un libro di Pozioni Avanzate tra quelli usati. Il proprietario ci aveva preso molti appunti, tra questi c’erano anche degli incantesimi che non avevo mai sentito. Probabilmente li ha inventati lui stesso. Ne ho provati degli altri, ma quello era il solo di Magia Oscura.»
«E non c’era scritto nient’altro vicino a quell’incantesimo? Magari una descrizione di cosa facesse?»
Harry la osservò, ritrovando la speranza per il tono incalzante che aveva usato: tradiva l’interesse estremo che provava per quella faccenda.
«C’era solo scritto “Contro i nemici”.»
Joan annuì, sul volto un’espressione piatta e un sorriso tirato: «Era l’unico incantesimo con un appunto del genere?»
La giovane donna ascoltò la risposta affermativa di Harry, che già si era aspettata visto che aveva letto ogni singola pagina di quel libro molto attentamente.
«Ricapitolando… Hai provato delle magie scritte su di un libro di chissà quanti anni fa scritte da qualcuno che senza dubbio si appuntava questi incantesimi solo per se stesso. E non ti è nemmeno passato per il cervello di non prendere con leggerezza l’unica avvertenza che ha annotato?»
Harry arrossì violentemente per il tono che aveva usato Joan, sembrava che parlasse ad un bambino di cinque anni.
«Come potevo sapere che rischiavo di ucciderci qualcuno? Mi sembra un po’ riduttivo scrivere solo “Contro i nemici”!»
Con la risata fredda esplose anche l’ira che aveva cercato di tenere a bada in quelle settimane.
«Certo, perché dovevi preoccupartene? In fondo non è un compito che si addice al coraggioso e fortunato Harry Potter. Tanto tutti sono nati per aggiustare ogni tuo errore, vero?»
Anche gli occhi verdi di Harry brillarono di furia in quelli neri.
«Fortunato? Veder morire delle persone per un tuo errore secondo te vuol dire essere fortunati?»
Sembrava che Joan avesse aspettato proprio quel segnale per potersi sfogare completamente. Gli corse incontro e lo spinse contro un albero, tenendogli un braccio premuto sul petto in modo che non si potesse muovere. Dopo di quello iniziò a sputare veleno sibilando tra i denti digrignati.
«Non sei l’unico a soffrire per quelle morti, ci hai mai pensato nel tuo egoismo? Sei fortunato ad essere ancora vivo. Sei fortunato perché molte altre persone ti hanno protetto nel corso degli anni, salvandoti dalle conseguenze dei tuoi errori. E se non sei grato per quello che hanno fatto, sei solo un ragazzino viziato che dà per scontato tutto quello che ha.»
«Tutto quello che ho? Sono grato di essere vivo, ma posso contare su pochissime persone e vivo nel terrore di perderle tutte, una dopo l’altra, per colpa di Voldemort o di qualche altro mio errore. Ti sembra una vita tranquilla e senza nessuna preoccupazione di un ragazzino viziato?»
Joan gli premette ancora più forte il braccio sul petto con una spinta e Harry si chiese se volesse spezzargli delle costole, con il fiato mozzato in gola e gli occhi che gli luccicavano di lacrime di rabbia e rimorso, poi gli urlò a pochi centimetri dalla faccia: «Tu hai tutto!».
Si scostò con il respiro pesante, come se avesse corso i cento metri, allontanandosi di due passi, continuando a guardarlo con quegli occhi folli. Prima che Harry potesse recuperare la voce per farle presente di essere orfano, Joan parlò di nuovo, in un tono così basso che fece fatica a sentirlo, con un rancore corrosivo ben distinguibile nel suo volto: «Tua madre si è sacrificata per te, mia madre mi ha abbandonata appena sono nata, non ne so il motivo e non potrò mai chiederglielo perché è morta. Tuo padre è morto per te, il mio non sapeva che esistessi. I tuoi zii ti hanno accolto a casa loro per quindici anni, la famiglia Babbana che mi ha adottata mi ha restituita al mittente come se fossi un pacco con sopra l’indirizzo sbagliato. Hai trovato una casa, degli amici e una ragazza che ami ad Hogwarts, io qui mi sento un’estranea come in ogni altro luogo, non ho mai avuto degli amici della mia età e non posso nemmeno dichiararmi a chi amo. Tu sei stato al sicuro per tutta la tua vita, hai affrontato Voldemort e gli sei sempre sopravvissuto da quando avevi un anno. Sei amato e benvoluto dalla maggior parte del mondo magico, io ho unicamente mio padre e mi sento protetta e amata solo quando sono con lui. Hai tutto e nemmeno te ne accorgi.»
Dopo quella sfuriata iniziò a prendere boccate d’aria sempre più freneticamente, ma qualsiasi cosa facesse non riusciva a farle scendere nella gola. Guardò gli occhi di Harry, quegli occhi verde brillante così familiari, e la sua furia s’incendiò nuovamente, come un violento fuoco di ritorno.
Senza un’altra parola, si girò e iniziò a correre via, verso il centro della Foresta Proibita perché sapeva di aver appena fatto un errore imperdonabile. Non poteva esplodere così, non poteva mostrare tutto il suo risentimento verso Harry Potter, ma ormai era troppo tardi e doveva allontanarsi per non darsi modo di peggiorare la situazione.
Corse per una manciata di minuti, non osando prendere forma animale perché sentiva ancora nelle orecchie la voce del Grifondoro che chiamava il suo nome. Si andò ad accucciare contro un albero, sentendosi sfinita dopo tutta quella rabbia. I suoi pensieri riuscirono a raggiungerla dopo quella breve fuga e cominciò a piangere silenziosamente nella Foresta. Pianse così a lungo che si ritrovò a combattere una nausea crescente e faceva fatica a riprendere a respirare normalmente.
Allora iniziò a ripetersi mentalmente l’unico nome che riusciva a calmarla, come un mantra senza capo né coda. Lentamente funzionò e riuscì infine a regolarizzare la respirazione.
Quasi senza accorgersene si ritrovò a ripetere in un ultimo sussurro quel nome nel silenzio della Foresta, lo stesso nome che così tante volte l’aveva calmata durante le sue crisi più forti.
«Rebecca Raeburn.»

 
*****
Eccomi qua con il nuovo capitolo. Spero che questa Joan che si sbilancia molto di più su quello che vuole e che odia vi piaccia quanto piace a me scriverne :D
A mercoledì con il nuovo capitolo!

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Capitolo 14
*** La Profezia ***


Joan guardò con nervosismo le statue dei gargoyle, valutando seriamente se ignorare l’invito del Preside nel proprio ufficio. Era la prima volta in vita sua che non aveva voglia di vedere Albus Silente.
Il ricordo del litigio con Harry era ancora vivido anche se risaliva ad una settimana prima ed era certa che le avesse dato appuntamento proprio per quell’episodio.
«Allora? Guarda che non ho tutto il giorno!»
«Certo che hai tutto il giorno: sei una statua» rispose piccata Joan all’esclamazione brusca del gargoyle sulla destra. Quello le lanciò un’occhiataccia e si girò a confabulare con il suo gemello in una lingua ignota che sembrava fatta di una cascata di sassolini che rotolavano gli uni sugli altri.
Gli occhi neri della giovane donna si persero sulla pelle marmorea dei due gargoyle, ma la sua mente era altrove. Si abbandonò ai propri pensieri, immaginandosi la reazione di Silente. Era arrabbiato? Si accorse di non averlo mai visto in collera e si chiese se avrebbe urlato. Decise di no, non l’avrebbe mai fatto. Senza contare che non erano esattamente affari suoi, pensò stringendo con forza la mano in un pugno.
«Pallini Acidi.»
Ignorò i commenti poco gentili che fecero i gargoyle a mezza bocca, anche se non poté fare a meno di sentire qualcosa che aveva a che fare con una “marmocchia pallida e malaticcia” che finalmente si era decisa.
L’alta scala a chiocciola comparve davanti a lei, fece due passi sui primi scalini e quelli iniziarono a salire, portandola con loro. Si ritrovò davanti all’ufficio di Silente senza aver ancora preso una decisione, quando la decisione fu presa per lei.
La porta di legno massiccio si spalancò di botto e la persona che vi uscì quasi la travolse con la sua puzza di sherry. Joan si scostò appena in tempo per lasciar passare la professoressa Cooman, paonazza in volto, i grandi occhiali tondi di traverso e gli scialli con le perline che si agitavano in un rumore fastidioso. Sembrava furente e il suo tono di solito mistico e sognante era un lontano ricordo.
«Silente, è l’ultimo avvertimento! Sbattimi fuori dal tuo ufficio in questo modo ancora una volta e io me ne vado da Hog-… oh, scusa cara!»
Joan stava per risponderle con quanta più cortesia le fosse possibile in quel momento, quando, in un breve rantolo agonizzante, Sibilla Cooman rovesciò gli occhi all’indietro, fermandosi così bruscamente che le gambe le tremarono per qualche istante.
La ragazza si preparò a sorreggerla perché sembrava sul punto di cadere, quando la Veggente alzò lo sguardo bianco su di lei e, con un altro sospiro roco, esalò in una voce dura che non le apparteneva:
«Di Leone, Serpe, Aquila e Tasso
sarà la Guerra che verrà.»
Joan fissò la professoressa di Divinazione, non capendo le sue parole. Cercò con lo sguardo Silente, dietro di lei, che sembrava essersi irrigidito poco dopo essersi alzato dalla sedia della sua scrivania. La professoressa Cooman continuò imperterrita, con la stessa voce terribile:
«Sincero è il loro amore,
a uno sarà rubato;
tutti loro sono amati,
a uno costerà il titolo;
tutti loro ne avranno l’occasione,
uno tradirà per la prima volta.
Di Tasso, Leone, Aquila e Serpe
sarà la Guerra che verrà.
Uno morire dovrà
perché chi non ha magia ucciderà chi ne ha.
Solo allora l’amore verrà restituito,
la vittoria otterrà chi perse il titolo
e il pentimento arriverà.
La Guerra avrà inizio
quando una scintilla si mostrerà
in chi magia non ha.
Di Aquila, Serpe, Leone e Tasso
sarà la Pace che verrà,
perché la soluzione arriverà
a chi legato a tutti loro sarà.»
Joan si accorse che la professoressa le stava artigliando il braccio solamente quando, con un verso a metà tra un colpo di tosse e un grugnito, la Cooman riprese la sua solita voce, dicendole, come se non fosse successo nulla: «Scusa, cara, devo essere inciampata.»
La lasciò e si avviò verso l’uscita, scendendo le scale a chiocciola accompagnata dal puzzo di alcool, promettendo al Preside: «Silente, tra noi due non finisce qui!»
Joan, senza riuscire a spiccicare parola, sollevò lo sguardo allarmato su Silente, che sembrava rimuginare su un’incomprensibile traduzione di Antiche Rune.
«Interessante» commentò, per poi fare un gesto gentile alla ragazza e dirle: «Entra pure e fammi la cortesia di chiudere la porta, Joan.»
Ancora frastornata da tutte le informazioni criptiche che le erano piovute addosso, la giovane donna accettò istintivamente l’invito del Preside, si tirò dietro la porta e si abbandonò sulla sedia imbottita davanti alla scrivania.
«Sai perché ti ho chiamata, Joan: dobbiamo discutere del tuo rapporto con Harry.»
«Non hai intenzione di dire altro sulla follia a cui abbiamo appena assistito, Albus?»
Joan gli rivolse un mezzo sorriso sarcastico, studiandone il comportamento.
«Oh, beh…», Silente rispose al suo sorriso con uno educato e complice e aggiunse: «Diciamo che è la terza profezia che sento da Sibilla Cooman e penso di essere sul punto di abituarmici.»
Suo malgrado, la ragazza non riuscì a trattenere una risata di cuore all’espressione serena del vecchio mago.
«Pensi si riferisse alla Guerra Magica che sta per scoppiare?»
Silente scosse brevemente la testa, sovrappensiero: «Siamo già in guerra, Joan. Temo parlasse di una guerra futura.» Alzò lo sguardo penetrante in quello intelligente di Joan e mormorò, abbattuto: «Mi rincresce non avere il tempo necessario per parlarne, ma il lusso di perdersi nel passato o nel futuro non può appartenere a chi, come noi, affronta un presente così pericoloso e delicato.»
«Lo affronteremo quando verrà l’ora, Albus.»
Gli occhi azzurri del Preside si bagnarono velocemente di lacrime per la sicurezza con cui l’aveva detto e la testarda convinzione che mostravano i suoi occhi neri.
«Sai bene che io non ci sarò.»
In un lampo Joan adocchiò la mano annerita del vecchio mago che per tutti quegli anni era stato suo consigliere e a cui era affezionata come se avessero un legame di sangue e fu il suo turno di combattere per trattenere le lacrime.
«Perché l’hai fatto?» chiese in un sussurro per timore che la voce le si spezzasse, rivolta alla mano, senza il coraggio di alzare gli occhi.
Quando riuscì finalmente a guardarlo in volto, Silente le sorrise in un modo che lo fece invecchiare di almeno cent’anni, ma allo stesso tempo fu il sorriso più umano e dolce che gli avesse mai visto sulle labbra.
«Perché sono solo un folle perso nel passato anche se non voglio ammetterlo», il suo sguardo si fece più duro a queste parole, «e non voglio che tu finisca come me.»
Joan non seppe cosa rispondere: nonostante il loro rapporto fosse molto stretto, Silente non le aveva mai fatto confidenze. Si limitò a sorridergli tristemente. Dopo un silenzio in cui l’anziano mago soffocò il proprio passato negli occhi azzurri, si mise a posto il occhiali sul naso adunco, spezzato anni prima da un pugno di suo fratello, l’unica cosa che si era concesso di portarsi dietro per sempre come ricordo della propria famiglia.
«Ora, se non ti dispiace, parliamo di Harry. Cosa è successo?»
Davanti all’incombente morte che aleggiava su una figura così importante nella sua vita, Joan si vergognò per la prima volta della litigata con l’ultimo membro della famiglia Potter. Ora che aveva visto la giusta dimensione del diverbio e del proprio rancore, si sentiva stupida per essersi comportata in quel modo.
Le guance pallide si accesero di uno spiacevole colore mattone, ma riuscì a mantenere il contatto visivo con Silente, per quanto i suoi occhi fossero penetranti, e la sua voce fu ferma quando rispose: «Non ho scusanti. Ho perso la calma e l’ho provocato finché non mi ha dato il pretesto per urlargli addosso», poi si sentì in dovere di aggiungere frettolosamente: «Comunque non gli ho rivelato niente.»
Silente non parlò, si limitò a guardarla, come se aspettasse che finisse il racconto.
Dopo una manciata di secondi di silenzio Joan non riuscì più a sopportarlo e si sentì in dovere di continuare: «Severus mi aveva avvertita fin dall’inizio di quanto borioso, viziato e poco maturo potesse essere.»
«Sì, è vero, Severus non fa che ripeterlo a chiunque voglia ascoltarlo» confermò il Preside sorridendo gioviale, «ma io voglio sapere che ne pensi tu. Come ti sembra Harry?»
Il silenzio si allargò fragile tra di loro come una bolla di sapone soffiata da un artista di strada.
«Era venuto per scusarsi con me» ricordò improvvisamente Joan, «Era venuto a spiegarmi cosa fosse successo in quel bagno con Malfoy e io non ho fatto altro che attaccarlo. Era sconvolto quando ha visto Draco in quello stato, non ha usato la Magia Oscura consapevolmente. Certo, è stato ingenuo da parte sua provare un incantesimo sconosciuto, ma non l’avrebbe mai usato se non per difesa.»
Un sospiro pesante le fuggì tremolante tra le labbra, quasi le costasse smentire tutti i pregiudizi di suo padre in quel modo: «In tutto l’anno non l’ho mai visto provocare qualcuno o iniziare un litigio solo per il gusto di farlo. Non si lascia schiacciare dal peso di essere il Prescelto né se ne vanta o approfitta della sua fama per ottenere quello che vuole, è coraggioso e determinato. Si preoccupa molto per i suoi amici, persino per chi conosce da poco…»
«Come Rebecca Raeburn.»
Un lampo di terrore passò negli occhi neri di Joan e l’ira che si portava sempre appresso come una bestia sonnolenta si risvegliò in tutta la sua ferocia sentendosi attaccata. Si alzò di colpo, sbattendo il pugno sul tavolo, urlando quanto si sentisse ferita da quel tradimento: «Non aveva il diritto. Severus non doveva raccontarti di Rebecca!»
«Non l’ha fatto, l’ho scoperto da solo. Siediti, Joan, e parliamone.»
Il senso di colpa per aver accusato ingiustamente l’unica persona che mai l’avrebbe tradita e di cui più si fidava la pugnalò tra le costole, mozzandole il respiro. Si sedette sulla comoda sedia davanti alla scrivania del Preside, mordendosi il labbro inferiore fino a farlo quasi sanguinare.
«Di che cosa vuoi parlare, Albus?» si arrese Joan.
«Sono preoccupato per te. Sei stata trascinata in qualcosa di molto più grande di te e di questo mi scuso perché è solo colpa mia.»
«È troppo tardi per tirarmene fuori.»
«Lo è.»
«È troppo tardi da quando mi hai regalato quel Pensatoio, vero?»
Silente abbassò lo sguardo, non riuscendo più a reggere quello di Joan, una lacrima gli cadde dalle ciglia perdendosi nella lunga barba bianca.
«Mi dispiace. Potrai mai perdonarmi?»
Joan si irrigidì, ma rispose istantaneamente: «Avrei percorso questa strada anche senza il tuo intervento, Albus. Sarei chi sono anche se non ci fossimo mai incontrati, anche se avessi scoperto il mio passato per caso. Odierei Voldemort e lo combatterei con tutte le mie forze comunque, tu mi hai solo dato un ruolo preciso nella sua caduta. È rischioso, è vero, e ho dovuto fare molti sacrifici per arrivare qui e ne farò ancora fino alla fine della guerra, ma è tutto quello che voglio.»
Silente scosse la testa lentamente: «Non lo è. Tu ti meriti una vita al di fuori di questa follia, una vita da passare con chi ami. Per questo mi preoccupo per te. Non puoi permetterti di allontanare le poche persone che hai vicino, Joan.»
«Quello che non posso permettermi è il lusso di trattenerle, Albus, lo sai bene», Joan si alzò dalla sedia, quasi arrabbiata con il Preside per aver voluto a tutti i costi discutere quell’argomento.
Il mago annuì e le rivolse nuovamente quel sorriso così triste da non sembrare nemmeno suo: «Devi mettere a posto le cose finché hai tempo oppure il rimorso ti tormenterà per tutta la vita.»
Joan si irrigidì a quelle parole. Volle chiedere a Silente cosa lo spingesse a farle tutte quelle raccomandazioni, un dubbio nacque dentro di lei e si chiese fino a che punto lei e il Preside di Hogwarts fossero simili. Cosa aveva passato per parlare così?
Aprì la bocca ma nessun suono uscì e la sua unica occasione di domandarglielo sfumò quando Silente si congedò gentilmente da lei senza darle il tempo di chiedergli nulla.
 
Harry aveva seguito il consiglio di Hermione e non aveva più provato a parlare con Joan, l’amica aveva ipotizzato che avesse bisogno di tempo per smaltire la rabbia verso di lui. Aveva, inoltre, notato quanto strana fosse stata la sua reazione: nessuno di loro si sarebbe mai aspettato un’esplosione simile da Joan. Rebecca aveva aggiunto che gli attacchi d’ira di quel tipo spesso giungono immotivati, ma nessuno le aveva chiesto come fosse così informata su comportamenti di quel tipo.
La Corvonero aveva ricominciato a seguire il Club dei Duellanti con i tre Grifondoro e ad ogni lezione sembrava sempre più interessata a Joan e la osservava attentamente, quasi cercasse qualcosa sul suo volto e nelle sue movenze.
Alla fine della penultima lezione dell’anno, Harry, Ron, Hermione e Rebecca si stavano avvicinando alla porta della Sala Grande per fare un giro nel parco di Hogwarts approfittando del bel tempo, quando Joan tagliò loro la strada con il suo solito passo militare e si fermò davanti a loro.
«Harry? Potrei parlarti in privato?»
Il Grifondoro guardò perplesso i propri amici. Hermione lo incoraggiò annuendo appena; Ron gli rivolse uno sguardo spaventato, deglutendo vistosamente; Rebecca non aveva gli occhi puntati su di lui, ma su di Joan, era attenta ad ogni suo minimo particolare. Joan, d’altro canto, non aveva occhi che per Harry.
«Certo!»
Ron fece per seguire il suo migliore amico, ma Joan lo trapassò con i suoi occhi neri che sembravano senza fondo, quindi Harry gli fece cenno di aspettarlo fuori.
Appena i due ragazzi furono soli, Joan andò a chiudere la porta dietro a Rebecca, che fu l’ultima ad uscire. Non aveva usato la magia perché aveva bisogno di raccogliere per qualche istante i pensieri e tutto il coraggio che aveva per riuscire a dire quello che voleva.
«Ti devo chiedere scusa.»
Si girò a guardarlo negli occhi e Harry vede la sua maschera indifferente infrangersi in innumerevoli frammenti. Per la prima volta ebbe la certezza di vedere esattamente Joan e quello che provava, senza sotterfugi o parole taciute.
«Non dovevo provocarti né urlarti contro. So che non hai usato quell’incantesimo apposta, non potevi conoscere le conseguenze.»
Il Grifondoro aprì la bocca e la richiuse senza sapere cosa risponderle, mentre Joan si avvicinava a lui con passi lenti e misurati. Con la mano sinistra lo prese gentilmente dalla spalla, la destra salì sulla sua fronte a rassettargli la frangia, scoprendo la sottile cicatrice a forma di saetta.
Harry avvampò per quel contatto inaspettato, ma un calore piacevole lo inondò, un calore del tutto simile a quando la signora Weasley gli dedicava attenzioni e tempo.
Il pollice di Joan passò delicatamente sulla sua cicatrice, poi gli prese il volto con entrambe le mani, fredde e tremanti, gli occhi neri non erano mai stati così luminosi quando si persero in quelli verdi così familiari, il sorriso che si era allargato sulle sue labbra era allo stesso tempo molte cose, tutte sincere. Era triste, protettivo e profondamente grato. Guardava a lui come una persona in cui credere, forse persino per cui combattere e morire.
«Mi perdonerai, vero, Harry?»
Quel momento si perse nel rumore della porta della Sala Grande che si aprì cigolando. Joan si allontanò da lui come se si fosse scottata, voltandosi verso chi aveva osato rubare quel poco tempo che era loro soltanto, quello che poteva essere l’ultimo che rimaneva.
Severus Piton le ricambiò lo sguardo con quegli occhi così simili ai suoi, che non erano mai stati così diversi. Alla sua espressione di disgusto e al richiamo traboccante d’ira: «Potter, fuori di qui!» Harry non fu l’unico a sobbalzare, anche Joan sussultò accanto a lui.
Il ragazzo si girò verso di lei per un istante prima di uscire, ma Joan stava fissando suo padre, come pietrificata dal riflesso di un Basilisco. Si richiuse la porta alle spalle e si avviò verso il Dormitorio con una quantità così impressionante di domande che rischiavano di soffocarlo.
Joan, appena Harry fu fuori dalla stanza, non riuscì più a trattenersi e le lacrime le sfuggirono una dopo l’altra sulle guance, silenziosamente, mentre guardava Severus. L’uomo sentì un dolore acuto al petto perché costretto a vederla in quello stato. Mandò all’aria ogni segretezza e si avvicinò con ampie falcate a sua figlia.
«Puoi ancora fuggire da tutto questo, non sei costretta a sopportarlo.»
In un sospiro tremolante Joan si asciugò le lacrime con gesti secchi.
«No, non posso.»
«Ma…»
I suoi occhi trovarono nuovamente quelli del mago con decisione incrollabile.
«Non scapperò, Sev.»

 
*****
So che avevate perso le speranze e, invece, eccomi qua :D Scusate per il ritardo imperdonabile, ma ho dovuto a tutti i costi complicarmi la vita aggiungendo la Profezia che non era assolutamente prevista nei miei piani originali.
Ho due piccole comunicazioni per voi: la prima è che la pubblicazione torna ad essere settimanale perché la sessione estiva è oscura e piena di terrori. La seconda notizia è più lieta: dal prossimo capitolo cambierò il titolo alla storia come preannunciato qualche tempo fa, ho voluto avvertirvi per non prendervi alla sprovvista xD
Detto questo spero che questo capitolo vi sia piaciuto e mi piacerebbe molto conoscere le vostre ipotesi su Joan e tutto quello che le sta attorno.
Buona serata a tutti voi!

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Capitolo 15
*** L'ultimo Black ***


Fierobecco inclinò la testa all’uggiolio felice della volpe rossa davanti a lui. La osservò con superiorità e diffidenza mentre saltava in giro freneticamente, come cercando qualcosa sotto le assi del pavimento.
Un abbaio profondo e autoritario la fece immobilizzare e il grande cane nero davanti a loro si trasformò in un mago dall’aria affascinante, dai lunghi capelli neri e gli occhi grigi.
La volpe si sedette in una posizione rigida, gli occhi puntati sull’uomo e le orecchie dritte, esaminandolo con attenzione. D’un tratto fece un’espressione concentrata, quasi umana, e al suo posto comparve una sorridente ragazza alta, dai capelli neri come l’inchiostro raccolti in una treccia ordinata.
«Andiamo, Sirius, non mi fai nemmeno divertire un po’? In fondo mi sono trasformata per la prima volta solo qualche giorno fa!»
«È importante contenersi nei primi giorni: sono i più cruciali. Potresti perdere te stessa e rimanere per sempre un animale.»
Allo sguardo serio e severo che mostrò l’adulto, Joan scoppiò a ridergli in faccia. Con una smorfia che divenne presto un ghigno, Sirius si sedette accanto a Fierobecco, domandando: «Ho davvero così poca credibilità?»
Con un sorriso enorme e furbo Joan gli si sedette davanti a gambe incrociate, stando bene attenta a mantenere una distanza di sicurezza appropriata dall’ippogrifo, rispondendogli: «Probabilmente ancora meno di quella che credi.»
Scoppiarono a ridere insieme, estremamente divertiti.
«Non è colpa mia. È Silente che mi ha costretto in questo ruolo di figura autorevole!» borbottò lamentoso, lanciando un topo all’ippogrifo, che lo prese al volo.
«Povero pazzo…» commentò ironicamente accigliata Joan.
La ragazza si concentrò su Fierobecco, abbassò il capo in un inchino solenne e gli lanciò un furetto morto. L’ippogrifo lo ignorò completamente e quello andò a rimbalzare tra le sue zampe, dopodiché fece scattare nervosamente il becco verso Joan, come a rimproverarle qualcosa e le diede le spalle.
«Tu sai perché mi odia?»
Sirius alzò lo sguardo su di lei, intenta a fissare con desiderio le piume argentate dell’ippogrifo, come se non volesse fare altro che affondare le mani nel suo soffice manto, anche se sapeva perfettamente che quel gesto le sarebbe costato le dita.
Soffocò la prima risposta che le era salita alle labbra, avendo a che fare con la sua infausta parentela con Piton, per poi dirle sinceramente: «Non ne ho idea. Di solito va d’accordo con tutti. Le uniche persone che non sopporta siete tu, Molly e Tonks. E tu non mi sembri né rossa né così rumorosa.»
Sghignazzò accompagnato, anche se con un breve ritardo, da Joan.
La ragazza alzò le spalle, commentando: «Probabilmente non gli piacciono le volpi.»
«Comunque non mi spiego assolutamente la tua forma da Animagus, sai?»
«Mi stai dicendo che non sono abbastanza furba?» scattò con falso orgoglio ferito Joan.
Sirius ridacchiò scuotendo la testa.
«Intendevo che non assomigli fisicamente alla tua forma da Animagus, non avete nessun segno caratteristico in comune.»
«Dovresti vedermi quando ho i capelli corti: sono spettinata nella stessa identica maniera» lo contraddisse velocemente lei, per poi sorridergli, «per questo li tengo sempre legati.»
Sirius rispose al sorriso, poi il suo sguardo si perse nel vuoto e si incupì di botto. Joan lo osservò, incuriosita da quel cambiamento così repentino di espressione.
L’uomo si alzò e sfoderò la bacchetta per togliere le piccole ossa degli animali che Fierobecco aveva recentemente divorato. Con uno sventolio di bacchetta la maggior parte dello sporco sparì dal pavimento, ma il suo movimento fu così brusco che una delle assi si crepò con un rumore secco.
L’ippogrifo gridò il proprio disappunto per il suono forte e andò a rifugiarsi in un angolo della camera.
Joan riparò la tavola con un tocco di bacchetta e si rivolse gentilmente a Sirius: «C’è qualcosa che non va?»
Il mago scrollò bruscamente le spalle e uscì dalla stanza con la ragazza alle spalle. Mentre erano nel corridoio, senza voltarsi verso di lei, le rispose amaramente: «Questa era la nostra ultima lezione, Joan. Ora potrò ritornare alla mia solitaria inutilità per chissà quanti anni.»
La giovane donna si fermò a qualche passo dalla porta chiusa di quella che una volta era la camera da letto di Walburga Black.
«Ho sempre saputo che tu fossi lento di comprendonio, Black, ma non pensavo fino a questo punto.»
Sirius si girò di scatto e la guardò torvo perché il tono saccente e sarcastico gli aveva ricordato Severus Piton in persona. Infatti il cipiglio della ragazza era esattamente identico a quello del padre quando si prendeva gioco di lui.
«Per chi mi hai presa? Non ci penso nemmeno a non venirti a trovare mai più, Sirius, nemmeno se dovessi sgattaiolare via di nascosto da Sev e Silente messi insieme!»
Il volto del mago si distese in un ghigno sollevato e, a modo suo, grato.
«Sai che anni fa conoscevo una persona irritante quasi quanto te?»
«Parli di Severus, la tua sempiterna nemesi?»
«No, parlo di Lily Evans, la moglie del mio migliore amico.»
Il cuore di Joan saltò qualche battito a quella confessione inaspettata e inspirò a vuoto una grande boccata d’aria. Per sua fortuna Sirius era troppo occupato a fissare il vuoto ricordando qualcosa lontano negli anni per accorgersene.
«Mi punzecchiava e poi faceva queste uscite troppo carine perché io potessi prendermela seriamente con lei, proprio come hai appena fatto.»
Sorrise triste, perso nel passato, mentre Joan cercava qualcosa da dire, qualsiasi cosa con cui potesse cambiare argomento. Deglutì silenziosamente quando i suoi occhi neri incontrarono quelli grigi di lui. Aprì automaticamente la bocca e le parole le sfuggirono tra le labbra, troppo veloci per essere fermate: «Sirius, ti devo dire una cosa.»
«Sirius!»
La voce di Remus Lupin risuonò in tutta la sua urgenza per le scale. Sirius, senza esitare, riaprì la porta della camera di sua madre e, ignorando i versi irritati di Fierobecco, mise in mano a Joan della Metropolvere e accese il camino dimesso con un rapido colpo di bacchetta.
«Parleremo domani, Joan. Remus sta salendo, sbrigati!»
Istintivamente la ragazza saltò nelle lingue di fuoco verdi, scandendo bene: «Spinner’s End» e l’ultima cosa che vide prima di precipitare a velocità forsennata tra gli incalcolabili camini fu il sorriso di Sirius Black.
 
Era rannicchiata sull’alta poltrona nera e aveva gli occhi gonfi di sonno e rossi di lacrime puntati sulla porta di casa. Ogni tanto era ancora scossa da qualche singhiozzo vuoto, ma non perdeva mai di vista il legno scuro della porta d’ingresso. L’edizione straordinaria della Gazzetta del Profeta era accartocciata alla sua destra, sul pavimento, dove l’aveva lanciata qualche ora prima, non senza averla fissata per quelle che le sembravano ere.
Sulla prima pagina in un trafiletto si poteva vedere una foto di un sorridente Sirius Black molto più giovane di quello che aveva conosciuto lei, così diversa dalle foto segnaletiche che fino a quel momento aveva visto in giro. L’aveva fissato per ore alla luce della lampada mentre si aggiustava i capelli con il suo solito fascino naturale che chiunque gli avrebbe invidiato. Infine non era più riuscita ad ignorare il titolo e si era sciolta in lacrime, gettando via il giornale.
I primi raggi di luce stavano schiarendo il salotto, rendendo inutile la lampada accesa, quando finalmente un secco crack si udì da dietro la porta chiusa e quest’ultima si spalancò rivelando Severus Piton.
Si bloccò sulla soglia lanciando uno sguardo torvo a Joan.
«Non dirmi che sei rimasta sveglia per tutta la notte.»
La ragazza si alzò in piedi, aggredendolo in un ringhio: «Dimmi che non è vero.»
Severus strinse gli occhi nei suoi, non capendo a cosa si riferisse. Lo sguardo cadde sul giornale appallottolato accanto alla poltrona mentre si chiudeva la porta alle spalle.
«Stai parlando di Black?»
Le lacrime inondarono di nuovo gli occhi di Joan e il groppo in gola le impedì di parlare, quindi annuì senza una parola.
Davanti al pianto della ragazza, Severus misurò ogni parola, anche se non comprendeva cosa la sconvolgesse così tanto.
«Per una volta il Profeta dice la verità.»
Joan si sentì mancare la terra da sotto i piedi per la seconda volta nell’arco di sei ore e questa volta sarebbe caduta se Severus non l’avesse afferrata per un braccio e sorretta.
Il mago fece per accompagnarla sul divano, ma lei si divincolò dalla sua presa.
«Cosa è successo?»
«C’è stata una battaglia tra l’Ordine e i Mangiamorte al Minist-…» iniziò lui cauto.
«Questo l’ho letto, Severus. Quello che voglio sapere è perché cazzo si trovasse lì.»
Severus si irrigidì al tono e all’espressione che aveva usato Joan, cercando in tutti i modi di tranquillizzarla. Le appoggiò la mano sulla schiena, invitandola ancora una volta a sedersi, preoccupato che potesse avere un altro giramento di testa.
«Non voglio sedermi. Voglio sapere perché era lì. E perché nessuno mi ha detto nulla? Ti rendi conto che l’ho saputo dalla fottuta Gazzetta del Profeta?»
Prima che potesse accorgersene, Severus fece un passo falso: «Non pensavo te ne importasse così tanto.»
«Solo perché tu odi una persona non vuol dire che non me ne debba importare nulla della sua morte, Severus» voleva aggiungere altro, ma un singhiozzo le soffocò le parole in gola. Cercò di respirare a fondo per riuscire a parlare e sussurrò con uno sguardo pericoloso: «Sulla Gazzetta c’è scritto che è stata Bellatrix Lestrange. È vero?»
«Sì, ma non pensare di fare qualche follia per vendicarlo. Black non ne vale la pena.»
Joan spalancò la bocca in un’espressione attonita e disgustata. Severus comprese solo in quel momento quanto l’avesse ferita involontariamente, solo perché si era sentito sminuito nel suo ruolo di figura paterna nella vita della ragazza, per mera ripicca.
Senza una parola e con gli occhi pieni di lacrime, Joan scostò con una spallata il mago adulto senza lasciargli il tempo di scusarsi e corse fuori nelle prime luci dell’alba, ignorando il vento freddo mattutino che le scompigliava i corti capelli e con esso la voce che portava.
«Joan!» la chiamò più volte Severus, inseguendola, divorato dai sensi di colpa. Riusciva a malapena a respirare per il timore di aver perso anche lei per delle parole di troppo.
In una manciata di minuti, la perse di vista e non poté fare altro che rientrare in casa e sperare che almeno lei ritornasse da lui.

 
*****
Eccomi qua dopo il mio solito ritardo! Scusate ancora, ma penso che ormai ci siate abituati, ahahahah! Comunque non vi abbandono, non temete!
Come avrete notato ho finalmente cambiato il titolo, fatemi sapere cosa ne pensate! :D
Questo era il penultimo flashback della storia e spero vi sia piaciuto quanto è piaciuto a me scriverlo :D
Grazie per aver letto e per seguire fedelmente questa storia! Alla prossima!

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Capitolo 16
*** Lutto passato, futuro terrore ***


La pallida luce argentata, l’unica nel buio ufficio, dava un aspetto spettrale al volto di Joan. Proveniva da una ciotola di legno intagliata, sui cui bordi si intrecciavano rune spigolose che sembravano appartenere ad un’altra era. Ma la ragazza era più interessata al contenuto del Pensatoio piuttosto che alla sua forma o alle decorazioni su di esso incise.
Seduta alla scrivania del padre fece di tutto per soffocare i singhiozzi che la stavano scuotendo: se Severus l’avesse scoperta a quell’ora della notte a perdersi nei ricordi dell’ultima volta che aveva visto Sirius Black si sarebbe arrabbiato e avrebbe sicuramente detto qualcosa di imperdonabile che non aveva intenzione di dire. O, almeno, non davanti a lei.
Era la prima volta che vedeva quei ricordi ed era quasi passato un anno dalla morte di Sirius. Joan cercò di non cercare significati nascosti in quel suo gesto, che aveva sicuramente a che fare con la morte prossima di un’altra persona a cui era legata.
D’un tratto piccoli passi affrettati e una voce che urlava chissà che cosa la distrassero dal Pensatoio e, una volta capito che si stavano dirigendo proprio verso di lei, nascose la piccola ciotola in una tasca della veste e la stanza piombò nell’oscurità più totale.
Afferrò la bacchetta dove l’aveva abbandonata sulla scrivania, accese una candela lì accanto e si asciugò le ultime lacrime giusto in tempo per l’entrata del piccolo professor Vitious.
«I Mangiamorte! I Mangiamorte sono qui!»
Con un colpo di bacchetta, Joan fece richiudere la porta dietro al professore di Incantesimi, lievemente frastornata dalle sue parole. Il piano di Draco aveva quindi funzionato? Come era riuscito a farli entrare sotto il naso di tutti? Dovette ammettere di aver sottovalutato quel sedicenne viziato e codardo per tutto l’anno scolastico.
Si girò verso la porta che dava sulla stanza del padre, chiamandolo: «Sev!», ma lui era già sulla soglia, vestito di tutto punto e niente indicava che si fosse appena svegliato.
«Dove?» chiese Piton in tono urgente.
«Vicino alla Torre di Astronomi-…»
Il professor Vitious crollò a terra per lo Schiantesimo di Joan. Guardò il padre negli occhi e vide la stessa risolutezza che sentiva dentro. Senza una parola, entrambi più pallidi del solito, si avviarono verso l’uscita dell’ufficio, con un movimento di bacchetta Joan attirò a sé il suo amato mantello verde cangiante e lo indossò senza perdere tempo. A qualche passo di distanza dall’ufficio, Severus si fermò di botto e Joan rischiò di finirgli addosso.
Si voltò verso chi stava guardando e riconobbe Hermione e Luna Lovegood. Joan lo vide stringere la mano intorno alla bacchetta sotto il mantello nero, quindi si affrettò a suggerirgli un altro modo più sottile per superarle. Velocemente trovò la familiare mente del professore, come sempre chiusa ad ogni intrusione, e gli comunicò il ricordo dell’agitazione di Vitious.
Allora Severus disse, rapido, alle due studentesse: «Il professor Vitious si è sentito male nel mio ufficio: è svenuto per l’agitazione. Portatelo in Infermeria.»
Joan, dietro di lui, suggerì loro: «Poi non uscite di lì, mi raccomando. Fate attenzione.»
Vedendo la faccia amichevole della ragazza, Hermione si azzardo a chiedere, preoccupata: «Cosa sta succedendo?», ma lei e Piton erano già spariti di corsa nel corridoio senza degnarla di una risposta.
Nel tragitto Joan domandò curiosa a Severus: «Eri già sveglio?»
Lui si strinse brevemente nelle spalle e disse a mezza voce, superando degli studenti di Tassorosso spersi al terzo piano: «Non riuscivo a dormire.»
Con un respiro tremolante Joan riuscì solo ad aggiungere: «È iniziata, vero?»
Gli occhi neri dell’uomo che l’aveva cresciuta scivolarono nei suoi identici e l’occhiata che si scambiarono fu più che sufficiente a sottolineare la gravità della situazione.
Conoscevano i propri compiti, conoscevano il fardello che avrebbero dovuto portare nei seguenti mesi, se non anni. Sarebbero stati odiati da tutti, ma il loro ruolo era cruciale nel corso della guerra alle porte. Joan rimpianse solo di non aver detto addio a tutti quelli a cui avrebbe voluto dirlo.
Severus sembrò voler dire qualcosa, probabilmente per ricordare a Joan che era ancora in tempo a scappare da tutto quello, ma poi tacque e si concentrò sulla strada più breve da prendere e lei gliene fu grata.
Salirono scale su scale, evitarono studenti urlanti, incrociarono altri professori, ma non si fermarono per nessuno di loro. Proprio appena Joan spinse delicatamente suo padre in un passaggio segreto che conosceva dalle sue esplorazioni notturne della scuola, sentì una voce familiare provenire dal corridoio perpendicolare a quello in cui erano. Forse sarebbe riuscita a dire addio almeno ad un’altra persona oltre che ad Harry Potter.
«Danny! Ecco dov’eri finito! Forza, torniamo alla Sala Comune.»
«Oh, ma non c’è fretta, puoi fermarti un altro po’…»
La voce maschile che aveva risposto a quella femminile trasudava divertimento sadico.
Solo in quel momento Joan realizzò di trovarsi vicino alla Torre di Corvonero, quindi chiuse il passaggio dietro a Severus, rivolgendogli un’ultima occhiata significativa, sperando di non tardare troppo, dirigendosi verso chi aveva parlato.
«Danny, stai dietro di me!»
Svoltò l’angolo da cui provenivano le voci e si ritrovò alle spalle di un Mangiamorte sconosciuto che aveva intrappolato in un corridoio senza via d’uscita Rebecca e un piccolo Corvonero che tremava dai capelli alla punta dei piedi dietro a lei.
Senza perdere tempo, Schiantò silenziosamente lo sconosciuto, che cadde a terra con un gemito soffocato, e lo legò con un Incarcerarmus non verbale. Rebecca la vide e il ragazzino del primo anno che era con lei si divincolò dalla sua presa e corse a rotta di collo verso la loro Sala Comune senza che ci fosse il bisogno dirglielo.
«Joan!»
Tutta l’urgenza di raggiungere la Torre di Astronomia svanì quando sentì il proprio nome sulle sue labbra e gli occhi blu di Rebecca la intrappolarono come in una sorta di scherzo magnetico. Presto, quegli stessi occhi si riempirono di lacrime e la Corvonero la abbracciò.
Joan trattenne rumorosamente il fiato a quel contatto e alle parole che le rivolse.
«Grazie, Joan! Se non ci fossi stata tu, non so cosa ci avrebbe fatto.»
Probabilmente perché sconvolta, Rebecca non notò nulla di strano nella sua posa rigida o nel fatto che le braccia le penzolavano ancora accanto ai fianchi, senza la forza di ricambiare l’abbraccio.
Proprio quando si staccò da lei, Joan si mosse e le accarezzò il volto con la mano destra. Rebecca alzò lo sguardo nel suo buio, trovandovi una familiarità che fino a quel momento aveva solo sospettato.
Prima che potesse fare altro o dire qualcosa, Joan posò un bacio sull’angolo della bocca della Corvonero, con tanta delicatezza da sembrare di aver paura di farlo. Fu breve, quasi sfiorato, ma Joan si ritrovò gli occhi bagnati di lacrime quando finì.
Rebecca la guardò, stordita da quel gesto inaspettato e da quello che poteva significare. Cercò di parlare, ma dalle sue labbra non uscì alcun suono.
«Mi dispiace, Beck. Perdonami.»
Non le diede il tempo per fermarla né per reagire e si voltò di scatto, correndo via nel corridoio.
Si infilò nel passaggio segreto che aveva indicato poco prima al padre e si lanciò a rotta di collo per quella strada, sperando di arrivare in tempo. Riuscì a recuperare Piton proprio sotto alle scale per la Torre di Astronomia.
Il mago si diresse senza guardarsi attorno all’entrata della Torre, mentre Joan si perse per qualche istante a contemplare le espressioni sollevate dei membri dell’Ordine nel vederli. Anche se non conosceva nessuno di loro, si sentì accettata e benvoluta, attesa. Fu una pugnalata al cuore notare tutte quelle piccole cose, perché sapeva che non sarebbero durate. Sarebbe presto ritornata ad essere quella sospettata, perfino ricercata. Senza potersi godere ulteriormente quella sensazione piacevole, seguì suo padre su per le scale della Torre di Astronomia con il cuore in gola.

 
*****
Eccomi qua con il sedicesimo capitolo! Scusate il mese di ritardo, ma la sessione estiva è oscura e piena di terrori. Non so quando aggiornerò di nuovo, spero la prossima settimana, ma con le vacanze estive di mezzo non posso esserne sicura.
A presto! :D

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Capitolo 17
*** Senza maschera ***


Quando Joan oltrepassò senza difficoltà la barriera si ritrovò in cima alla Torre di Astronomia accanto a Severus. Il cuore le batteva così forte che quasi non sentì le parole che rivolsero loro i Mangiamorte.
Mentre il padre lanciò uno sguardo a tutta la scena, lei individuò subito Silente e non gli distolse gli occhi neri da dosso. Si impresse nella mente ogni minimo particolare di lui: la stanchezza sul viso, le rughe che gli attraversavano il volto, la lunga barba bianca e i lunghi capelli, gli occhiali a mezzaluna e maledisse per l’ultima volta il suo braccio annerito colpito da una maledizione mortale. Ma gli occhi azzurri non stavano guardando lei.
«Severus…»
A sentire la sua voce così vulnerabile le venne da piangere, ma non distolse lo sguardo da quell’uomo che conosceva da quando aveva sette anni. Combatté le lacrime come se la sua vita dipendesse da quello e, in un certo senso, era così.
Percepì suo padre farsi avanti tra tutti i presenti, intimoriti dalla sua sola presenza.
Joan non aveva paura di lui, come poteva? Conosceva ogni sfumatura di quell’uomo e sapeva cosa significasse la sua espressione e ogni suo gesto, conosceva la lotta interiore che stava scuotendo il suo animo e cosa celasse il profondo disgusto del suo volto.
Silente le rivolse lo sguardo per un istante così breve che credette di essersi immaginata quell’ultimo lampo azzurro e lei rimpianse improvvisamente di non avergli domandato nulla durante il loro ultimo incontro. Si ritrovò sommersa da domande e cose che avrebbe voluto dirgli e si rese conto di non essere pronta a lasciarlo andare, di non essere pronta a tutto quello che sarebbe successo.
Eppure non aveva più scelta né tempo.
«Severus… ti prego…»
L’impulso di fermare suo padre l’attraversò come un fulmine, ma si costrinse a rimanere immobile al suo fianco quando lui alzò la bacchetta e fu la cosa più difficile che Joan avesse mai fatto.
Iniziò a tremare incontrollabilmente, ignorata da tutti i presenti, mentre la sua mente brillante cercava una via d’uscita alternativa a quella situazione, senza trovarla. Non c’era un’altra soluzione possibile.
«Avada Kedavra!»
Mentre il corpo di Silente si sollevava in aria con leggerezza per poi scivolare oltre alla merlatura della Torre di Astronomia, Joan si piegò in due con un mugugno di dolore. Per un secondo temette di rimettere il contenuto del proprio stomaco sulle scarpe, poi si accorse che il dolore era di altra natura: sembrava che qualcuno l’avesse presa a pugni in faccia.
Il suo respiro si fece corto e irregolare mentre si osservava le mani. La sua carnagione cambiò da olivastra a pallida e fu come se un numero indefinito di aghi le attraversassero la pelle durante quella trasformazione. Severus l’aveva avvisata che sarebbe stato doloroso una volta morto Silente, ma nulla avrebbe potuto prepararla a un dolore del genere.
Sollevò lo sguardo offuscato al cielo, impedendosi di urlare e di piangere, mentre tutti i presenti la fissavano, chi affascinato, chi inorridito.
Una fitta sembrò mozzarle le gambe mentre la sua altezza si riduceva di qualche centimetro, costringendola ad accasciarsi a terra a carponi.
Con uno spiacevole crack gli zigomi si spostarono e Joan, tenendosi la faccia tra le mani, abbandonò la propria bacchetta con un grido acuto. Ci pensò Piton a raccogliere la sua bacchetta, tagliando così la visuale a Harry, che non capiva cosa stesse succedendo alla ragazza ed era ancora paralizzato da tutte le emozioni che aveva in corpo.
A Joan sembrò che qualcuno le strappasse con gesti decisi ciocche di capelli mentre la lunga treccia nera si accorciò in un taglio corto il cui disordine appariva indomabile, mutando il proprio colore in un rosso scuro.
Con un altro crack il naso adunco si rimise a posto, tornando dritto e lungo.
Gli occhi cambiarono per ultimi, la trasformazione fu accompagnata da una fitta lancinante che la rese cieca per qualche istante.
Rimase immobile per una manciata di secondi, temendo che il processo non fosse completato, stupendosi di non ritrovarsi circondata dal proprio sangue per il dolore che aveva provato. La sua fronte pallida era imperlata di sudore, le guance accese di porpora, il fiatone sembrava destinato a non passarle mai più.
A fatica, recuperò il ritmo regolare del respiro tra le esclamazioni di stupore dei Mangiamorte accanto a lei, riuscendo a calmare un poco anche il battito cardiaco.
Joan notò il tremore delle proprie braccia e chiamò debolmente, con la sua solita voce: «Sev…»
Piton la aiutò a rimettersi in piedi con movimenti veloci e precisi, per poi porgerle la bacchetta. Lei l’afferrò con la mano sinistra e si passò la mano destra tra i capelli corti e rossi con un gesto che nella propria adolescenza Severus aveva odiato con tutto se stesso. Puntò i proprio occhi verdi nei pozzi senza fondo di suo padre con un’espressione determinata che significava che indietro non si poteva più tornare.
Quando fece due passi, uscendo dalla cerchia di Mangiamorte che si erano stretti attorno a lei, finalmente Harry poté vedere Joan per la prima volta. Inebetito da quello che vedeva, una sola cosa echeggiava nella sua testa. Era un nome.
Lily Evans Potter.
Era il nome di sua madre.

 
*****
Eccomi qui, cari lettori e lettrici! No, non sono morta! Siete sorpresi, eh? Quanto mi è mancata questa storia <3
Scusate per questa assenza interminabile ma la mia ispirazione era volata via senza mandare nemmeno una cartolina. Cercherò di ritornare alla pubblicazione settimanale di sabato, in caso andassi più veloce diventerà una volta ogni due settimane.
Spero che siate contenti di poter leggere la continuazione di questa fanfiction. Mi raccomando, scrivetemi cosa ne pensate di questa ultima rivelazione sull'identità di Joan.
Il prossimo capitolo, come da tradizione, sarà un flashback, che sarà poi seguito dai due conclusivi di questa prima parte.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Alla settimana prossima!

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Capitolo 18
*** Tra le spire del Serpente ***


Tutto era fumoso attorno a lei, l’unica cosa che riusciva a vedere nella mattina inglese era una figura dai lineamenti sfuggenti che teneva in braccio un fagottino di coperte, diretta chissà dove.
Dal fagottino arrivò un pianto forte quando si avvicinarono ad una porta di un edificio grigio e indefinito. La persona che portava la neonata citofonò a quella portina e lasciò la piccola urlante sugli scalini dell’orfanatrofio, ben avvolta nella coperta che la ospitava e si voltò in grande fretta, senza guardarsi indietro.
Il dolore pulsante alla testa aumentò quando la memoria fu forzata a cambiare.
Questa volta era tutto chiaro e a colori. Si vide da bambina, davanti allo specchio, mentre la sua madre adottiva, la signora Foster, cercava disperatamente di domare la sua criniera rossa con un pettine bagnato, senza aver molto successo.
Un altro strappo nei suoi ricordi, quasi infastidito, e chi frugava tra le sue memorie trovò quella che gli serviva.
Era a scuola e vide Anthony, il fidanzatino di Julie, mentre la prendeva in giro per i capelli corti. Una lacrima di rabbia comparve sul volto della bambina e all’improvviso Anthony si ritrovò a terra, piangendo dal dolore. Ricordò la paura che aveva provato subito dopo, quando aveva capito di non riuscire a fermarsi; ma quello non interessava a chi stava invadendo i suoi ricordi, quindi, con un’altra fitta, il mondo attorno a lei cambiò di nuovo.
La piccola bambina con i capelli rossi alzò i propri occhi verdi sull’adulto che le teneva una mano. Severus Piton la accompagnò fuori dall’orfanatrofio.
L’ennesimo lampo di mal di testa, l’ennesimo ricordo. Finalmente aveva trovato quello che voleva.
Silente si avvicinò alla ragazza dai capelli rossi, più giovane di qualche anno della sua versione presente, e le spiegò: «Dovrò rinnovare questo incantesimo di mese in mese e solo io posso toglierlo. Quando sarai nel mondo dei Babbani non vedo la necessità di trasfigurarti, ma nel mondo dei maghi devi sempre tenerlo, d’accordo Joan?»
Si guardò annuire con determinazione, quindi il Preside di Hogwarts iniziò a recitare incantesimi sottovoce, il volto saggio concentrato, la bacchetta puntata sulla giovane. Ricordò lo strano formicolio che aveva provato durante la magia, seguito dalla strana sensazione di non essere più nel proprio corpo: perfino la forma della propria bocca le sembrava estranea. In una manciata di secondi, il vecchio mago completò la trasfigurazione e Joan si poté guardare allo specchio con un po’ di timore.
«Ti abituerai» le sussurrò Severus stringendole una spalla.
Il ricordo svanì in un turbinio nauseante e Joan riuscì miracolosamente a non cadere per il capogiro.
Fece del suo meglio per nascondere il malessere provocato da quel lungo frugare nei suoi ricordi e, finalmente, distolse gli occhi neri non suoi da quelli rosso fuoco di Lord Voldemort, abbassando la testa con deferenza.
«E cosa ci dovrei fare con lei, Piton?»
Aveva parlato con la sua solita voce alta, fredda e sgradevole, quasi con fastidio.
«Vuole servirla, mio Signore. Entrambi lo vogliamo.»
«Servirmi!»
Un lampo fulmineo provenne dalla sua bacchetta e Severus si inginocchiò davanti a lui, urlando di dolore.
Joan provò l’impulso di soccorrerlo, ma era stata addestrata a starsene immobile in quel caso e a rispondere a Colui Che Non Deve Essere Nominato solo se interrogata. Era una questione di vita o di morte, lo sapeva. Tenne però d’occhio il serpente gigante che si avvicinava sempre più a loro.
Voldemort terminò la maledizione Cruciatus e sibilò, infuriato: «Vuoi servirmi come hai fatto in questi anni, Piton? Facendo la spia per Silente?»
«La mia fedeltà è sempre e solo sua, mio Signore. Se così non fosse sarei fuggito come quel traditore di Karkaroff.»
Voldemort annuì riconoscendo: «Sarebbe stato più furbo da parte tua, certo. Ma allora perché non ti sei mostrato due ore fa? Perché non sei venuto quando ti ho chiamato?»
«Abbiamo aspettato due ore per dare a Silente l’illusione di spiare per conto suo.»
A quella risposta il Mago Oscuro più potente in vita abbassò la bacchetta, senza distogliere lo sguardo da quello del professore di Pozioni di Hogwarts, che resse egregiamente quegli occhi rossi inumani.
«E Silente non ha mai sospettato, in tutti questi anni?»
Un cenno di diniego da parte di Piton fu sufficiente.
«Allora come faccio a sapere dove è risposta la tua lealtà?»
La voce di Severus non tremò quando affermò: «Per quello che le porto in dono, mio Signore. Ho quattordici anni di informazioni sull’Ordine, su Silente e su Harry Potter.»
Una risata fredda e vuota scosse appena il corpo di Voldemort: «Dammi una sola ragione per cui non dovrei estrapolarti queste informazioni e ucciderti seduta stante.»
Nagini sibilò eccitata a quella prospettiva.
Joan deglutì a vuoto, gli occhi che le pizzicavano per le lacrime trattenute provocate dal mal di testa.
«La fiducia di Albus Silente.»
Quest’affermazione riuscì a zittire Voldemort, quindi Piton si permise di aggiungere: «Si fida di entrambi probabilmente più di tutti i membri dell’Ordine. Ha rivelato solo a me l’identità di Joan e io le porto in dono anche questo segreto, mio Signore. Entrambi desideriamo servirla.»
L’attenzione di Voldemort si focalizzò nuovamente sulla sedicenne.
«Perché vuoi servirmi?»
La mano simile ad un pallido ragno artigliò violentemente il volto di Joan, per costringere nuovamente gli occhi neri in quelli rossi, in cerca di qualche menzogna. Quello che non sapeva è che non ne avrebbe trovata nessuna, viste le abilità da Occlumante della ragazza, sviluppate con una preparazione che durava dalla maggior parte della sua vita.
«Mio padre mi ha raccontato le sue gesta, il suo potere, la nobile causa dell’epurazione del sangue magico e io voglio farne parte.»
La risata di Voldemort risuonò spiacevolmente nelle orecchie della ragazza.
«Non è tuo padre. Sei figlia di una Sanguemarcio e di un traditore del proprio sangue.»
«Io non ho alcun legame con loro. Mi hanno rifiutata e abbandonata nel mondo Babbano e io li odio per questo. Nelle mie vene scorre sangue Purosangue e io voglio onorarlo, mio Signore.»
Il Mago Oscuro lesse sincerità assoluta nell’ardore degli occhi di Joan mentre la fronte della ragazza si imperlava di sudore.
Le lasciò il volto con un gesto un po’ troppo rapido, come se si fosse scottato. Gli occhi rossi si strinsero nei due pozzi bui della ragazza, attenti ad ogni singola reazione, e Voldemort iniziò a raccontare con vuoto divertimento e una smorfia che voleva essere un sorriso ferino: «I tuoi genitori sono stati due idioti. Si potevano unire a me, ma non l’hanno fatto. Potevano sopravvivere entrambi, ma dovevano a tutti costi proteggere il loro prezioso bambino.
«Il primo a morire è stato tuo padre. Quello sporco traditore non ha avuto nemmeno il cervello di prendere la bacchetta per fronteggiarmi. Non che avesse speranze, certo… Poi sono andato nella camera di loro figlio, tuo fratello. Tua madre si è messa in mezzo, nemmeno lei aveva la bacchetta. Mi ha pregato, mi ha supplicato di risparmiare suo figlio. Le ho dato l’occasione di salvarsi la vita, ma non ha voluto. James e Lily Potter sono morti da stupidi, ma nessuno piangerà per una Sanguemarcio e un traditore del proprio sangue, giusto?»
L’odio e l’ira traboccavano dallo sguardo di Joan, asciugando le lacrime che fino a quel momento avevano minacciato gli occhi neri, e Voldemort, non trovando prove che quei sentimenti fossero diretti verso di lui, si convinse che erano per i genitori che l’avevano abbandonata da neonata, che le avevano negato una vita nel mondo magico. Il Mago Oscuro che un tempo era stato Tom Riddle si convinse che, come lui, anche quella ragazza provasse un odio viscerale per i propri genitori mai conosciuti.
«No, mio Signore, nessuno ne piangerà la morte. Hanno avuto ciò che si meritavano.»
 
«Tutto bene, Joan?»
La ragazza non rispose, lo sguardo verde puntato fuori dalla finestra. Era tornata al suo aspetto originale, era stata l’unica richiesta che aveva fatto a Silente una volta tornati dalla missione. In realtà non aveva detto altro da quando Lord Voldemort li aveva congedati.
Severus stava per insistere, quando, all’improvviso, Joan parlò.
«Non finirò per pensarlo sul serio, vero?»
Piton chiuse la bocca e strinse gli occhi in una muta espressione di rimprovero; non diretto alla ragazza, ma verso se stesso che aveva permesso a Silente di fare quello che voleva e trascinarla in quella follia quando avrebbe dovuto opporsi con tutto se stesso ad un piano del genere e fare quello che aveva promesso sulla tomba della donna che amava: proteggere Joan Lily Potter a costo della vita.
«Tu conosci la verità su tua madre. Era una delle streghe più brillanti che io abbia mai conosciuto, il sangue non ha importanza e lo sai.»
Gli occhi verdi, gli stessi occhi di Lily Evans, lo trafissero con rabbia. Joan ignorò il fatto che non avesse parlato di suo padre, perché Severus non lo faceva mai. Era cresciuta con sole notizie di sua madre, il suo tutore non gli aveva mai parlato di suo padre. Le poche volte che gli aveva chiesto qualcosa su James Potter si era accorta dell’espressione di puro odio di Severus, quindi, malgrado la curiosità, aveva smesso presto di insistere.
«Perché mi hanno abbandonata? Perché non sono mai venuti a cercarmi?»
Severus non seppe cosa risponderle. Si era aspettato quelle domande e sapeva cosa avrebbe dovuto dirle, ma non aveva senso. Niente di quello che le era accaduto sembrava avere senso: Lily Evans non avrebbe mai allontanato sua figlia per nessuna ragione al mondo, lui lo sapeva.
«Parli di mia madre come se fosse una santa, Severus, ma la verità è che mi ha abbandonata. Mi ha abbandonata e non si è guardata indietro. Poi è morta per proteggere Harry Potter. Senza nemmeno che le passasse per la testa di avere un’altra figlia a cui badare. Perché l’ha fatto?»
«Lei… ti sapeva al sicuro nel mondo Babbano. Sapeva che il Signore Oscuro non ti avrebbe mai raggiunta lì.»
Joan tirò un sospiro umido, tutta l’ira che aveva in corpo si sciolse in lacrime silenziose e testarde e finalmente arrivò al nocciolo della questione che più le premeva, sentendosi vulnerabile come quando era solo una bambina abbandonata in un orfanatrofio Babbano.
«Quello che voglio sapere è perché rinunciare a me per proteggermi dalla guerra e poi nascondersi con Harry come se nulla fosse successo. Perché non hanno abbandonato anche lui? Potevano cercarmi quando è nato, quando hanno deciso di tenerlo. Potevamo vivere almeno un anno come una famiglia. Un anno mi sarebbe bastato, Severus.»
«Ma il Signore Oscuro ti avrebbe uccisa.»
«O magari sarei sopravvissuta con mio fratello e avrei avuto una vita normale.»
Piton divenne di uno spiacevole color mattone, serrò la mandibola e una vena iniziò a pulsargli violentemente sulla tempia. Joan si accorse di averlo appena ferito con quelle parole, quindi cercò di recuperare con un mormorato: «Sai che non intendevo…»
«No, non lo so, Joan. Cosa intendevi dire?» scattò Severus con un sussurro feroce, puntando gli occhi neri accusatori in quelli verdi, colpevoli e bagnati di lacrime.
Prima che Piton potesse girare i tacchi e andarsene fuori casa per impedirsi di dire qualcosa di sgradevole alla ragazza che riteneva una figlia e mettere ordine alle idee, Joan si aggrappò alla sua manica e bisbigliò con voce rotta: «Tu sei la mia famiglia, Sev. Non Harry Potter, James Potter o Lily Evans. Tu. Lo sarai sempre e non c’è niente che mi possa rendere più felice.»
La furia del mago sfumò nel nulla a quella confessione e un sorriso inesperto si delineò sulle sue labbra, incerto e un po’ imbarazzato come ogni suo sorriso.
Joan lo strinse a sé ricevendo in risposta un abbraccio rigido ma affettuoso, mentre le lacrime continuavano a scorrerle in volto, finendo sulla veste nera dell’uomo.
«Vorrei solo averli conosciuti.»

 
*****
Eccomi qua con l'ultimo flashback di questa storia.
L'origine di Joan è svelata, ma i misteri dietro al suo abbandono da parte dei Potter si moltiplicano alla luce dei fatti.
Un appunto per chi mi ha chiesto di spiegare la trasfigurazione di Joan: Silente ha la Bacchetta di Sambuco, quindi può fare qualsiasi magia dieci volte meglio di qualsiasi altro mago, praticamente. Il dolore che la ragazza ha provato alla morte di Silente è dovuto al fatto che l'incantesimo si è spezzato innaturalmente e, quindi, il brusco cambiamento del suo corpo le ha provocato qualche dolorino di troppo rispetto a quanto sarebbe successo se fosse stato tolto volontariamente dal mago. Visto che in tutto Harry Potter non c'è un episodio del genere, sì, sono andata di fantasia!
Spero vi sia piaciuto e vi do l'appuntamento per questa domenica con il penultimo capitolo di questa prima parte. Visto che questo è l'ultimo flashback ne approfitto per comunicarvi che la seconda parte (che spero non subisca ritardi) sarà totalmente priva di flashback e ad uscita settimanale. Ma non temete: inizierò, infatti, un'altra storia (anche questa ad uscita settimanale) che tratterrà solo del passato di Joan, Rebecca e Severus, in modo da non farvi mancare una slice of life di questi personaggi!
A domenica!

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Capitolo 19
*** La fuga del Principe e della Volpe Rossa ***


«Una Potter tra i nostri ranghi, il Signore Oscuro deve essere impazzito!» commentò Amycus Carrow con una smorfia.
Quelle parole attraversarono Harry come una pugnalata, paralizzandolo ancora per qualche secondo sul posto. In un istante tutto quanto acquistò un senso e gli piovve addosso schiacciandolo inesorabilmente.
Joan non poteva saperlo, ma il gesto che aveva appena compiuto per spettinarsi i capelli era un tic che era appartenuto a James Potter. Gli occhi verdi, il colore dei capelli e il volto erano di Lily, anche se il naso leggermente più lungo della media era chiaramente quello dei Potter, che Harry non aveva ereditato. L’altezza era modesta, in qualche anno Harry l’avrebbe sicuramente raggiunta e forse superata di poco; la sua bellezza era pari a quella di Lily alla sua età, anche se i capelli corti spettinati e l’espressione dura le donavano un’aria selvaggia e feroce che Harry non ricordava di aver mai visto in sua madre.
Joan rivolse uno sguardo di disgusto al mago che aveva parlato, suggerendo: «Dovrei informare l’Oscuro Signore di quello che osi dirgli alle spalle, Carrow.»
Mia sorella riuscì a concludere Harry, fissandola attonito.
«Fuori di qui, sbrigatevi» ordinò Piton in tono secco, mettendo fine al diverbio e ai pensieri del ragazzo nascosto sotto il Mantello dell’Invisibilità.
Prese per il colletto Malfoy, scioccato dalla trasformazione della ragazza (pareva fosse l’unico a non conoscere il vero aspetto di Joan) e dalla morte di Silente, e lo spinse giù per le scale, in testa al gruppo. Joan seguì Piton lanciando un’ultima occhiataccia al gemello Carrow.
La ragazza seguì l’uomo che l’aveva cresciuta, mentre la battaglia imperversava attorno a loro, impedendole di concentrarsi su altro. Tra urla, incantesimi e feriti arrivarono alla fine del corridoio, finché Piton urlò agli altri Mangiamorte: «È finita, andiamo!»
«Lily!»
Joan sentì a malapena la voce conosciuta chiamarla sopra il fragore dei duelli magici, quella voce che avrebbe riconosciuto tra mille altre.
Si voltò di scatto verso Rebecca, che si fece strada nella battaglia per raggiungerla. Si guardò attorno, esitando per qualche istante sul da farsi e notò Harry che spuntava dalle scale della Torre di Astronomia, saltando un Mangiamorte pietrificato. Realizzò che aveva assistito a quello che era successo nell’istante in cui gli occhi verdi trovarono la loro copia esatta in quelli del ragazzo.
Joan imboccò il corridoio parallelo a quello che aveva preso Piton, per guadagnare tempo sulla loro indecisione.
Rebecca si fiondò all’inseguimento della ragazza senza nemmeno darsi tempo di pensare; mentre Harry, dopo un attimo di indecisione, si gettò a rotta di collo dietro a Piton e Malfoy, cercando di allontanare ogni pensiero su Joan. La cosa che importava in quel momento era trovare Piton, facendo questo avrebbe raggiunto Silente, lui lo sapeva.
«Lily!»
Sorda ai richiami disperati di Rebecca, Joan si concentrò sul raggiungere al più presto il gruppo di Mangiamorte da cui si era separata. Sapeva cosa doveva dire a Rebecca, ma voleva evitarlo a tutti i costi.
Scostò studenti e professori con spallate incuranti, saltò corpi stesi a terra, senza riconoscerli, senza darsi modo di capire se fossero ancora vivi, attenta a non scivolare sulle scale ricoperte di sangue.
La bassa Corvonero non aveva il fiato per starle dietro, ma un’altra forza le venne in aiuto in quella corsa che le sembrò infinita: raggiungere quella ragazza era l’unica cosa che importava. Perché si sarebbe risolto tutto quanto e sarebbe ritornato tutto come prima, lei lo sapeva.
Joan raggiunse il portone e lo spinse con tutte le proprie forze, ma questo la rallentò inevitabilmente e Rebecca riuscì ad afferrarle la manica della veste mentre usciva nella fredda notte.
Rischiarono di cadere entrambe sui gradini all’entrata della scuola, ma Joan recuperò l’equilibrio e sorresse istintivamente Rebecca, ritrovandosi faccia a faccia con quest’ultima, i volti più vicini di quanto avrebbe voluto in quel momento.
«Lily…»
Fu poco più di un sussurro quello che uscì dalle labbra della bruna mentre gli occhi blu cercavano con insistenza, quasi freneticamente, qualcosa, un segno nei lineamenti di quella ragazza che aveva creduto di conoscere.
La rossa si scostò velocemente da lei, scendendo gli scalini a due a due, gli occhi puntati su due figure distanti che correvano nel buio.
«Lil-…»
«Joan!»
Senza accorgersi aveva urlato il proprio nome, con rabbia, rivolta verso la Corvonero davanti a lei. Gli occhi verdi accesi da una follia incomprensibile a Rebecca, un’ira che tante volte aveva visto e che era sempre riuscita a placare. Ma non questa volta.
«Il mio nome è Joan Potter.»
La seconda esplosione fu più controllata, anche se delle scintille rosse provennero dalla punta della bacchetta bianca striata di nero, che non si era nemmeno resa conto di aver sfoderato.
Gli occhi blu di Rebecca si appannarono di lacrime: non capiva e non voleva capire cosa e chi avesse davanti agli occhi. Si rifiutò categoricamente di pensare che la ragazza che amava le avesse mentito per tutto quel tempo. Ci doveva essere sicuramente un errore, non poteva accadere.
«Ma… cosa sta succedendo?»
Mosse un passo verso la persona che pensava di conoscere di più al mondo, ma Joan mosse con uno scatto felino la bacchetta, come un colpo di frusta, e un segno si delineò ai piedi di Rebecca, bruciando l’erba al passaggio dell’incantesimo.
«Stai indietro. Non seguirmi.»
La voce era ferma, il volto una maschera, aveva recuperato il controllo: la chiave era non dimostrare alcuna emozione.
Rebecca cercò freneticamente nel verde di quegli occhi, ma li ritrovò vuoti. Due pozzi neri senza fondo addestrati a mentire.
Fu allora che qualcosa scattò nella Corvonero, proprio quando Joan fece per voltarsi e scappare, scappare e agire secondo i piani. Riuscì a vedere tutto il tempo che avevano passato assieme come se fosse una spettatrice oggettiva ed ebbe un’intuizione. Un’intuizione che presupponeva qualcosa di gigantesco dietro a tutte le azioni di Joan, più grande del loro destino, più grande di tutto quello che aveva attorno. Un’intuizione che parlava di un bene superiore che prescindeva tutto quanto, persino la sincerità dell’amore che Joan provava nei suoi confronti. Perché sapeva quanto fosse sincero.
Rebecca alzò la bacchetta e un incantesimo scaturì dal nucleo di peli di Unicorno fino alla punta di noce nero, senza che lei pronunciasse una sola parola. Non era mai riuscita a fare un incantesimo Non Verbale prima d’ora, men che meno contro un’altra persona. Non era mai nemmeno riuscita a scagliare un Impedimenta in tutta la sua vita. Ma non poteva permettere a Joan di fuggire, non quando era così sicura di aver trovato la verità dietro al passato e al presente che stava vivendo.
L’Impedimenta colpì Joan al fianco sinistro e la scagliò di faccia nel fango, due metri più in là.
La rossa alzò immediatamente la testa e si rese conto di avere ancora la bacchetta nella mano sinistra, quindi la fece scivolare istintivamente nella propria manica destra, frastornata dal colpo ricevuto, aspettandosene un altro.
«Voglio sapere cosa sta succedendo, Lily.»
Joan conosceva i piani e sapeva cosa avrebbe dovuto fare, ma questo non le rese più facile abbandonarsi ad una risata vuota, canzonatoria.
«Ti ho già detto che mi chiamo Joan.»
Individuò le due figure che stava seguendo davanti a lei, due ombre che si stagliarono improvvisamente sullo sfondo del fuoco appiccato alla capanna di Hagrid.
Riconobbe la voce di Harry nella fredda notte, ma non comprese cosa stesse urlando.
«I piani dell’Oscuro Signore si completeranno grazie a noi fedeli servitori. I Sanguemarcio e i traditori periranno.»
Joan si alzò tenendo le mani in alto, in segno di resa. Si girò con tutta la lentezza di cui era capace in quel momento verso Rebecca e vide il dubbio nascere sul suo volto. Un dubbio che intaccò la determinazione che le aveva permesso di usare la magia contro di lei.
Le rivolse un ghigno e sentì il sapore metallico del sangue che proveniva dal suo labbro superiore, che doveva essersi spaccato nella caduta.
«Puoi ancora salvarti. Unisciti a noi e salvati, Beck.»
Il suo tono era mellifluo e dolce, ipnotico come una melodia magica.
Lentamente sollevò la manica destra della veste, impugnando la bacchetta al di sotto di essa con la mano sinistra, rivelando un tatuaggio orribile in inchiostro nero. Ritraeva un serpente che usciva dalla bocca di un teschio: lo stesso simbolo che sovrastava la Torre di Astronomia in quel preciso momento.
Le certezze di Rebecca Raeburn crollarono davanti al Marchio Nero che Joan le stava mostrando e abbassò senza rendersene conto il braccio armato mentre la disperazione cresceva in lei, il dubbio sgretolava in un battito di ciglia la sua determinazione. Scosse lentamente la testa con un’espressione d’orrore in volto, incapace di parlare o agire.
Joan, con velocità fulminea, sfoderò la propria bacchetta dalla manica e il suo Schiantesimo silenzioso colpì in pieno petto la Corvonero, che perse all’istante i sensi cadendo supina a terra.
Allora si avvicinò al corpo esanime e si lasciò andare ad un lungo sospiro tremante fissando il volto della ragazza Schiantata e abbandonò le braccia accanto ai fianchi senza più alcuna forza.
Si immaginò miliardi di soluzioni per evitare quella situazione, si perse in un mondo alternativo in cui era libera di fare quello che voleva, senza piani, intrighi o obblighi verso niente e nessuno. Un mondo in cui poteva essere felice senza preoccuparsi di un fantomatico bene superiore.
Un mondo su cui Albus Silente le aveva mentito, convincendola che avrebbe potuto essere reale e tutto quello che bastava per renderlo tale era una sua scelta. Una scelta che non aveva mai avuto.
Delle urla la riscossero dai suoi pensieri e vide l’ombra di una bestia gigante attaccare Severus Piton. Riconobbe Fierobecco e, senza darsi il tempo di ragionare, si trasformò in una volpe per raggiungere il più velocemente possibile l’uomo che l’aveva cresciuta, l’unica persona al mondo che nonostante tutto sarebbe sempre rimasta dalla sua parte.

 
*****
Eccomi finalmente qui con il penultimo capitolo! Scusate la lunga assenza, ma ho fatto veramente fatica a concluderlo: non si voleva proprio scrivere!
Spero che vi sia piaciuto, fatemi sapere cosa ne pensate e vi do appuntamento a domenica per l'ultimo capitolo di questa fanfiction.
A presto!

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Capitolo 20
*** L'ultimo canto della Fenice ***


Una musica triste e sublime la circondava, rendendo più caldo e accogliente il buio in cui era. Il dolore che provava era attutito da quel canto ultraterreno che sembrava essere dentro di lei.
Si stava lentamente svegliando, poteva sentire un gruppo di persone parlare attorno a lei senza capire cosa dicessero, ma aveva paura di aprire gli occhi e di ritrovarsi nella stessa realtà che aveva lasciato qualche minuto prima.
«Silente è morto…»
Era una voce di un uomo che conosceva, ma lontana nel tempo. Furono le parole a farle sbarrare gli occhi dall’orrore. La luce e i colori dell’Infermeria la stordirono per qualche istante, ma Rebecca cercò comunque di mettersi a sedere, ignorata dai presenti.
Qualcuno parlò di nuovo, in tono asciutto, ma a lei non interessava cosa avesse da dire.
Aveva la bocca impastata e riuscì a malapena a sussurrare: «Silente… morto?»
Pochi presenti individuarono la fonte di quel sibilo e Madama Chips si affrettò a bloccare la ragazza nel letto, costringendola a sdraiarsi, borbottando: «Dove credi di andare, Raeburn?»
Harry incrociò il suo sguardo blu disorientato e triste e tutto quello che la sua mente aveva cercato di ignorare fino a quel momento gli ripiombò addosso. Fino a quel momento avevano parlato di Piton, ma non un solo pensiero era andato a Joan perché era il suo il tradimento che più lo feriva.
Rebecca riuscì a divincolarsi dalla presa ferrea di Madama Chips e a chiedere al ragazzo: «Chi… Harry! Lily è…»
«Lo so.»
La risposta secca di Harry aveva zittito ogni cosa, l’ira nelle sue parole aveva raggelato l’atmosfera e, per un attimo, Rebecca temette il peggio.
Alla sua espressione Harry si affrettò a spiegarle: «Non è stata lei. È stato Piton.»
Lacrime di sollievo appannarono la vista della Corvonero, che si portò le mani al volto, sciogliendosi finalmente in un pianto liberatorio e silenzioso.
Prima che qualcuno potesse chiedere di cosa stessero parlando, Hermione trattenne bruscamente il fiato, esclamando: «Joan era con lui! È andata via con i Mangiamorte, vero? Ma dal suo ufficio non l’ho più vista…»
In risposta ebbe solo un singhiozzo strozzato da parte di Rebecca, quindi, intuendo quello che ci fosse dietro, si sedette accanto a lei, mettendole una mano sulla schiena in muto supporto.
«Piton ha trascinato sua figlia in tutto questo?» commentò orripilato Lupin.
Harry fece un movimento nervoso, infastidito, Ginny se ne accorse e gli rivolse uno sguardo interrogativo. Il ragazzo si accorse di non poter più rimandare la rivelazione che aveva avuto sulla Torre di Astronomia, sebbene volesse ancora custodirla ancora per un po’, per metabolizzarla, studiarla e poterla infine accettare.
«Non è sua figlia.»
Tutti i presenti coscienti lo guardarono, persino Rebecca smise di piangere e sollevò lo sguardo su di lui. Harry odiò ogni singolo istante di quella situazione che aveva desiderato essere privata.
«Joan è mia sorella. È una Potter.»
Il silenzio gli sembrò soffocare ogni cosa.
«Harry, avanti, cosa stai dicendo? Non può essere la figlia di…» Lupin tacque improvvisamente, come se avesse improvvisamente ricordato qualcosa.
Prima che qualcun altro potesse negare le sue parole, Harry spiegò: «Silente l’aveva Trasfigurata in modo che sembrasse simile a Piton. Quando lui… l’incantesimo si è spezzato e Joan ha ripreso il suo aspetto originale. È uguale a mia madre, Lupin, non ci sono dubbi.»
A quella rivelazione Lupin si abbandonò pesantemente su una sedia, lo sguardo stralunato perso nel vuoto. Harry cercò di non pensare a quanto le parole che gli rivolgevano sempre sarebbero state appropriate, per uno scherzo dell’ironia.
Hai gli occhi di tua madre… anche Joan aveva gli stessi identici occhi.
«Ma perché Silente avrebbe dovuto Trasfigurarla?» chiese Hermione, senza capire.
«Pensava di proteggerla da Voldemort. Nessuno sapeva della sua esistenza.»
Harry fissò Lupin, perso nei propri pensieri, aspettando che continuasse a parlare.
«Lei… Harry, i tuoi genitori… Lily aveva perso un figlio.»
Lupin deglutì a vuoto, alzando lo sguardo allibito su Harry.
«Non ho mai saputo se maschio o femmina, ma James una volta ha detto a me e a Sirius che Lily aveva perso un bambino. Non te l’ho mai detto perché non pensavo fosse importante. Era rimasta incinta durante il nostro settimo anno ad Hogwarts e… non so i particolari, ma James mi aveva detto che…»
La sua voce si spense quando si mise una mano sul volto per l’orrore della scoperta.
Nel silenzio generale Harry parlò, con voce roca: «Quindi Silente ha ritrovato Joan e l’ha affidata a Piton per tenere nascosta la sua identità. E Piton l’ha convinta a tradire Silente e a passare dalla parte di Voldemort raccontandole chissà cosa.»
«È una Mangiamorte» il sussurro di Rebecca fu udito da tutti. Con un filo di voce aggiunse debolmente: «Mi ha mostrato il Marchio Nero. È sul suo braccio destro.»
 
Tutti i loro compagni di Grifondoro erano andati a letto dopo il funerale di Silente, ma Harry, Ron e Hermione fissavano da ore tutte le forme che il fuoco scoppiettante della Sala Comune disegnava, sentendosi come destinati a non poter dormire mai più.
Hermione, infine, spezzò il silenzio pesante domandando una cosa ad alta voce, non potendo più trattenersi.
«Harry, cosa intendi fare riguardo a Joan?»
Gli occhi verdi del ragazzo abbandonarono controvoglia i riflessi scarlatti del fuoco per posarsi sulla sua migliore amica.
«È una Mangiamorte, Hermione, hai sentito Rebecca. Joan ha fatto la sua scelta e ha scelto di stare dalla parte di Voldemort: è una nostra nemica.»
«Scelta? Harry, non puoi parlare di scelta! Piton è come un padre per lei, crede a qualsiasi cosa le dica. Vuoi davvero incolpare qualcuno per voler stare con la propria famiglia?»
«Non è la sua famiglia.»
Gli occhi di Harry brillarono d’ira, ricordando il litigio che aveva avuto con Joan nella Foresta Proibita, disarmato da come tutto quanto acquistasse un senso.
Sono io la sua famiglia quel pensiero gli diede la nausea e gli scaldò il petto per un momento. Si ricordò un tempo lontano e spensierato in cui avrebbe dato tutto per incontrare un altro membro della famiglia Potter, ma nel presente non c’era più spazio per quel ragazzino di undici anni che aveva visto tutti i propri parenti nello Specchio delle Brame.
«È in grado di fare le proprie scelte, Hermione. Aveva il Marchio Nero, quindi ha fatto la sua scelta ed è una sua responsabilità. Era con Piton quando ha ucciso Silente. Ha Schiantato Rebecca ed è scappata con gli altri Mangiamorte.»
Ron deglutì, non sapendo cosa dire, rifiutandosi di distogliere lo sguardo dal fuoco. Forse pensava che in quel modo potesse riavvolgere il tempo, che se avesse ignorato abbastanza a lungo tutto quello che era accaduto, il giorno dopo sarebbe tornato tutto alla normalità: Silente sarebbe sceso per la colazione come ogni mattina, Joan (la Joan che conosceva, quella gentile e amichevole) li avrebbe salutati con un sorriso e suo fratello Bill avrebbe ancora avuto una faccia priva di morsi di licantropo.
Un sospiro tremante sfuggì dalle labbra di Hermione e rivolse uno sguardo dispiaciuto e triste al suo migliore amico, mormorando nel silenzio: «Harry, lo so che ha le sue responsabilità e che dovrà rispondere delle sue scelte. È solo che…»
Il Grifondoro la fissò, come sfidandola a continuare a parlare.
Hermione si armò di tutto il coraggio che aveva in corpo e terminò la frase: «Non voglio che tu faccia sciocchezze di cui potresti pentirti. È tua sorella, in fondo…»
Perdendosi in quegli occhi castani che conosceva così bene, la rassicurò, in tono stanco: «Hermione, gli Horcrux hanno la precedenza su tutto quanto. Non mi metterò ad inseguire Joan o Piton per chissà quale vendetta. Però faresti bene a ricordare che se ci capiteranno davanti non si faranno scrupoli ad ucciderci o a portarci da Voldemort. Loro sono dei Mangiamorte.»
Hermione annuì, visibilmente sollevata dalle sue parole.
 
Harry osservò il rosso sgargiante dell’Espresso per Hogwarts, cercando di ignorare la morsa di nostalgia profonda che gli strinse lo stomaco al pensiero che quello fosse l’ultimo viaggio che avrebbe mai fatto su quel treno. Si voltò verso la sparuta folla sulla banchina del binario 9¾, individuando i propri zii per inerzia.
Proprio quando stava per salutare Ron e Hermione, una bassa ragazza comparve in mezzo a loro. Rebecca Raeburn li osservò per qualche istante, con gli occhi blu sbarrati in un peculiare sguardo deciso e spaventato assieme.
«Voglio aiutarvi: state pensando di fare qualcosa dal funerale di Silente e qualsiasi cosa sia voglio venire con voi.»
Harry la osservò, spiazzato da quella confessione.
Dopo pochi istanti scosse la testa, dichiarando in tono fermo: «Non se ne parla nemmeno.»
«Perché no? Voglio avere delle risposte. Pretendo delle risposte dopo tutto quello che…» la voce della Corvonero si spezzò.
«Rebecca, senti, mi dispiace. Mi dispiace veramente tanto, ma non puoi venire con noi. Adesso non ti posso dire perché né cosa intendiamo fare, ma tu devi startene al sicuro a casa tua senza contattarci. L’ultima cosa che vuoi è farti vedere con me, te lo garantisco.»
«Ma io posso aiutarvi! Non vi rallenterò, non ho nemmeno bisogno di sapere cosa dovete fare, io…», un brivido le percorse il corpo e sussurrò: «Io devo trovarla.»
«È pericoloso, Rebecca, noi…» cercò di farla desistere Hermione.
«Pensi non lo sappia?» l’aggredì in un ringhio, continuando in tono più ragionevole: «Lo so che è pericoloso, Hermione, ma io devo… devo fare qualcosa. Non posso tornare a casa senza provare a fare qualcosa!»
«Rebecca, siamo noi che non ti possiamo aiutare: noi non cercheremo Joan, abbiamo altro da fare» decise di rivelarle Harry, appoggiandole gentilmente le mani sulle spalle.
La Corvonero si guardò attorno, smarrita, mormorando: «Ma… ma è tua sorella, io pensavo che…»
Fece un lungo sospiro, guardando in alto per trattenere le lacrime. Poi incrociò gli occhi di Harry, che ora capiva perché le erano sempre parsi così familiari e affidabili, e il ricordo di quegli occhi verdi le fece quasi male. Annuì, quindi, abbassando lo sguardo a terra, sussurrando: «Grazie per non aver detto niente a nessuno di me e… beh, grazie.»
Fece un sorriso triste e timido al trio, poi aprì velocemente la propria valigia in mezzo alla strada, recuperando un pezzo di pergamena, dell’inchiostro e una penna, vi scrisse qualcosa e porse il biglietto a Harry, dicendo: «Questo è il mio indirizzo. Scrivetemi un gufo se sapete qualcosa di lei, se la incontrate o se succede qualcosa che la riguarda, vi prego. C’è ancora tanto che non capisco in tutta questa faccenda e non posso fare finta di niente. Sono sicura che ci sia qualcos’altro dietro, sono sicura che non sia tutto come sembra.»
Harry prese il pezzo di pergamena e aprì la bocca per dire qualcosa, ma Rebecca lo zittì: «O, almeno, è quello che ho bisogno di credere.»
Il ragazzo rinunciò a quello che voleva dirle e annuì, riuscendo solo a rispondere al suo saluto e ad augurarle meccanicamente una buona estate, quando sapeva che l’estate che sarebbe seguita sarebbe stata tutt’altro che buona per tutti quanti loro.
Ancora una volta raggiunse il pensiero del matrimonio di Fleur e Bill e si aggrappò a quello, rallegrandosi per l’esistenza di qualcosa di così positivo e normale nel mondo, che riusciva ad andare avanti nonostante tutto quello che fosse capitato. Fu l’unico pensiero positivo che riuscì ad avere sapendo di non poter mai più tornare ad Hogwarts e, almeno in quel momento, bastò a rincuorarlo e a dargli la forza necessaria per affrontare quello che sarebbe venuto.

 
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Ed eccoci qua, giunti alla conclusione di questa fanfiction, la prima di questa serie.
Spero vi sia piaciuta Joan, la sua storia e che seguirete la sua prossima storia con la stessa curiosità e fedeltà che mi avete donato finora.
La prossima fanfiction sarà ambientata durante l'arco narrativo del settimo anno di Harry e amici e ci sarà una slice of life parallela con Joan, Rebecca e Severus come protagonisti. In questi giorni farò una revisione completa di Asfodelo d'Autunno e solo dopo pubblicherò il primo capitolo della nuova fanfiction, quindi non so ancora di preciso quando pubblicherò, ma l'idea sarebbe di mantenere la come giorno di pubblicazione del seguito e ll mercoledì come giorno di pubblicazione della slice of life.
Vi ringrazio di cuore per avermi seguito fino alla fine di questo viaggio e vi assicuro che questo è solo l'inizio <3

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