A cosa pensano i prigionieri?

di _Gia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Diverted mind - Annie ***
Capitolo 2: *** Little parrow without wing - Flavius ***
Capitolo 3: *** Little wet paper - Johanna ***
Capitolo 4: *** Maybe, last rainbow - Octavia ***
Capitolo 5: *** Loaves of happiness - Peeta ***
Capitolo 6: *** Blonde aquamarine straw - Venia ***
Capitolo 7: *** The value of freedom - Epilogo ***



Capitolo 1
*** Diverted mind - Annie ***


Cercavo di identificare, in ogni passo pesante che sentivo da dietro le sbarre di metallo, la sua andatura elegante e sicura. Cercavo di individuare, nelle loro mani violente, il suo modo dolce che aveva nell’accarezzarmi, quasi mi sfiorasse per paura di rompermi. Cercavo di trovare, in quel totale abisso che era la mia mente, lo spiraglio di luce, di salvezza, che, nei giorni miei, il suo sorriso aveva sempre costituito.
Erano le parole, le parole a colpire più duro di un pugno, più repentinamente di uno schiaffo. Le loro labbra eseguivano le torture peggiori che un cuore innamorato avrebbe potuto subire.
Ma a me non importava, sapevo che il loro era solo uno sporco gioco.
Ed io, di sporchi giochi, ne avevo affrontati molti più di loro.
Presto, molto presto, sarei riuscita a trovare in quei passi, in quelle mani, la dolcezza e l’amore con le quali Finnick mi aveva sempre viziata.
Qualunque cosa dicessero, qualsiasi cosa facessero, non mi importava.
Avrebbero potuto torturarmi nei modi più disumani, ma mi sarei sempre rialzata.
Distrutta, ma in piedi. Sempre.
Perché lui sarebbe venuto a prendermi, a salvarmi.
E questa, era una consapevolezza che neanche la più deviata delle menti avrebbe mai potuto eliminare. 

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Capitolo 2
*** Little parrow without wing - Flavius ***


Mi sentivo in trappola, come un orso finito in una tagliola, come una tigre dietro il vetro di uno zoo.
Ma forse, dopo tutto quello che mi era stato fatto, la similitudine che più mi si addiceva era quella con un variopinto pappagallino, privato dei suoi sgargianti colori, dell’allegria che essi gli conferivano. Un pappagallino a cui era stata strappata via un'ala, rinchiuso in una gabbietta troppo piccola, senza poter spiccare il volo, privato della propria libertà.
Eppure, durante ogni supplizio, ogni pena, un pensiero andava a lei.
Lei, dal viso spigoloso, magra e fragile come un ramoscello secco, che contornava le labbra con un’apposita matita ma senza poi colorare il loro interno, nella fedele riproduzione di una moda uscita di vigore anni e anni prima, ma che col tempo avevo iniziato ad apprezzare, semplicemente perché era il contorno del mio sorriso preferito.
Lei, che mi aveva donato l’amicizia e l’affetto più sinceri che chiunque potesse desiderare.
Conoscendola, ci avrebbe scherzato un po’ su, se solo ci fosse stata, se solo avesse potuto.
Avrebbe detto qualcosa riguardo al colore del mio occhio livido, un viola acceso che ricordava i completi che per anni avevo sfoggiato, come: « Quantomeno, adesso nessuno potrà dire che non hai il trucco abbinato ai vestiti ».
Una lacrima, una preghiera, era sempre per lei, che sapevo non se la passasse meglio di me, nella sua lurida cella non degna di una principessa del suo livello.
Egoisticamente, invece ,se proprio non potevo sperare nella sua libertà, avrei voluto che fosse con me.
Almeno, in due, il dolore lo avremmo sopportato di più.
Perché ogni volta che Octavia non era con me, una parte del mio cuore smetteva temporaneamente di battere.

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Capitolo 3
*** Little wet paper - Johanna ***


Avevo quasi dimenticato la sensazione di inettitudine che si provava dinanzi alla paura.
Era tutto così disonorevole, che a morire mi sarei vergognata di meno.
Così come una naufraga che, respirando con affanno, uscita dal mare aperto e giunta sulla riva, guarda con terrore l’oceano in cui aveva rischiato la vita, così io dinanzi ad una quantità d’acqua che superava quella che era possibile contenere in un bicchiere.
Perché l’acqua?
Mille erano le cose di cui avrebbero potuto servirsi per eseguire supplizzi ben peggiori, perché scegliere proprio quello all’apparenza più innoquo?
 Forse volevano solo ripagarmi con la stessa moneta , come quando anni addietro, per aggiudicarmi il titolo di Vincitrice, finsi di essere la più innoqua gazzella, per per poi rivelarmi la più letale dei leoni.
O forse l'acqua era semplicemente ciò che loro avrebbero voluto che fossi: limpida, trasparente, dosabile nel comportamento, così che risultasse sempre a loro favore.
Avrebbero voluto che fossi acqua, semplicemente perché così avrebbero potuto modellarmi a loro piacere, cambiandomi appena di recipiente.
Un po' come un principiante degli origami, troppo abituato a dare ai normali fogli la forma da lui desiderata, per riuscirci con quelli un po’ più piccoli.
E forse, Snow non era poi così bravo con gli origami, mentre io ero decisamente un foglio di carta troppo piccolo, per crearne i suoi soliti omini tutti uguali che, senza volto né personalità, si davano la mano in una lunga catena senza sogni né speranza.  

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Capitolo 4
*** Maybe, last rainbow - Octavia ***


Sentii il rumore del ferro che scricchiolava, sbatteva, tirato dietro da chi fino a qualche minuto prima mi aveva selvaggiamente picchiata.
Quel rumore aveva decretato la fine della minaccia, ma non dello strazio.
Quello era appena iniziato, tenuto vivo dal lancinante dolore che le ferite infertemi provocavano.
Conati di vomito mi scuotevano, di cui solo qualcuno si tramutava in rigetto effettivo, la quale pozza mi faceva da giaciglio.
La mia carnagione, pallida come quella di un fantasma, era animata solo da violacei ematomi, sul volto la solita traccia di verdastro, non per mia volontà ma per il reale malessere che provavo.
Un po’ come una salvietta aromatizzata, di quelle che utilizzavo per struccarmi, a macchie di vari colori mischiati, strisce di tonalità diverse, utilizzata ma non gettata, lasciata lì a marcire, a perdere il suo fresco profumo e privata della sua bellezza originale.
Le infezioni si espandevano, le lacrime si mescolavano col vomito, e col sangue, in una pozza di terrore e desolazione.
Intanto, il pesante ticchettio della pioggia contro l’alta finestrella era cessato,  facendo posto ad un totale e frustrante silenzio, mentre un raggio di sole filtrava attraverso la grata ed andava ad infrangersi contro il mio volto deturpato, che nulla concedeva alla bellezza e alla gloria di un tempo, come a penetrarmi nella mente, facendomi chiedere se davvero avrei mai potuto rivedere, e perché no riacquistare, la gloria di un arcobaleno. 

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Capitolo 5
*** Loaves of happiness - Peeta ***


Lentamente, il mondo intorno a me riacquistava vigore, concretezza, abbandonando il precario equilibrio mentale che giornalmente mi veniva scombussolato.
Al termine di tutto, l’unica cosa che la mia mente era in grado di elaborare era il desiderio, il più puro e semplice desiderio, di una normale esistenza, fatta di poverà ma di ricche certezze.
L’odore del pane appena sfornato sostituiva l’odore pungente di dolore e candeggina che impestava la cella, mentre nella mia mente si apriva uno scenario di umile felicità, ora così innarrivabile da farmi provar disgusto di tutte quelle volte in cui l’avevo stupidamente ripudiata, disdegnata.
Il lavoro al Forno era una tangibile certezza, certezza che avrei rivoluto indietro e che era stata tale fino al giorno della Settantaquattresima Mietitura, fino all’arrivo di Katniss Everdeen, la quale, con la sua arroganza, aveva portato via ogni cosa di ciò che la mia vita aveva di normale. E di bello.
In un attimo sentì dolore, sordo dolore in tutto il corpo, partendo dal cervello.
Avvertivo il bisogno di urlare,  e lo feci, così forte da farlo rimbombare il tutto il piano. Lacrime di odio mi inumidivano gli occhi, rendendomi la vista completamente appannata, distorta. Tutto intorno a me era praticamente irriconoscibile, se non l’odio che provavo per Katniss.
Un’ ulteriore voce, oltre le mie urla rotte dal pianto, fendettero l’aria, distraendomi da tutto quell’astio, quella follia. Era una voce più dura, ferma, ma con una nota di bonarietà che mi fece ammutolire e sgranare gli occhi, quando mi accorsi che era stata solo un’invenzione della mia mente malata.
La risentii, ancora, mentre iniziava a spiegare la corretta cottura del pane, un procedimento che io avevo già appreso, un discorso che mi era già stato fatto.
Chiusi gli occhi, riappoggiando la schiena al pavimento, accorgendomi solo in quel momento di averla alzata durante il corso della crisi, sentendomi di nuovo padrone del mio corpo, della mia mente, nonostante il dolore persistesse, nonostante le premurose parole di mio padre avrebbero voluto fargli da medicina.
Fu con l’odore delle mie prime pagnotte di pane appena sfornate, con i dolci complimenti da parte di mio padre e con il ricordo della mia felicità, che caddi nel più profondo e terribile degli incubi: un sonno senza sogni.


 

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Capitolo 6
*** Blonde aquamarine straw - Venia ***


L’odore di sangue, di sofferenza, aleggiava nell’aria.
I miei capelli biondi, sfumati di azzurro, apparivano come paglia, scompostamente adagiati sul pavimento sporco di vomito e lacrime. I miei occhi verde bottiglia avevano perso la loro luce, il proprio splendore, aperti ma privati del loro solito luccichio, della loro consueta spensieratezza.
Mi avevano scaraventata contro un muro, ed io ci ero andata a sbattere contro, cadendo a terra come se fossi stata un sacco vuoto.
Fissavo un punto indefinito, le lacrime agli occhi, il respiro flebile, le ferite fresche sgorganti fiotti di sangue.
Il freddo mi penetrava nelle ossa, pesanti brividi mi attraversavano il corpo per tutta la sua lunghezza, ma senza esser capaci di scuoterlo.
Nel petto, un’estranea e preoccupante tranquillità.
Pensai: '' Si può esser vincitori anche senza vincere '', esalando il mio ultimo respiro, l’attimo prima di percepire il mio ultimo battito, ripensando a quanto avessero vinto tutti coloro che gli Hunger Games li avevano persi.
Come chi alla ricerca dell’argento trova solo ferro, io cercavo popolarità, e avevo trovato la morte.

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Capitolo 7
*** The value of freedom - Epilogo ***


Epilogo


La stanza si riempì di fumo, che immediatamente Flavius associò al vapore presente nelle numerose saune a cui aveva preso parte. Passi decisi, ma al contempo  incerti, risuovano forti sul piano. Passi diversi, più cauti rispetto alla sicurezza e alla prepotenza usuale dei carcerieri, passi che destarono Annie dal proprio sonno, che le diedero la forza per alzarsi in piedi e, balcollando, arrivare alle sbarre, al quale si appese per trovare sostegno. Non si avvertiva altro che circospette presenze avvolte nel fumo.
Non il rumore di un arma, né di nessuno che opponesse resistenza.
 Johanna, come una barchetta di carta, si sentì libera di poter vagare tra le acque, pur sapendo che il suo destino sarebbe stato ad ogni modo inevitabile, pur sapendo che prima o poi la carta di cui era costituita, a contatto con l’acqua, si sarebbe sgretolata, dissolta, nell’infinita vastità del Oceano.
Octavia sentì il rumore del ferro che scricchiolava, violentemente strattonato da chi doveva aprire quella cella ma senza essere in possesso della chiave, da chi forse non aveva alcun diritto o autorità per farlo.
Flavius, come in un battito di ciglia, sentì su di se la leggerezza della libertà, come se il pappagallino precedentemente ferito fosse stato curato e, adesso, avrebbe potuto nuovamente spiccare il volo verso quell’arcobaleno che, Octavia, si rese conto avrebbe potuto rivedere ancora, nonstante le sarebbe apparso molto diverso, ora: ancora più felice, dai colori e dal significato inestimabile della libertà.
Annie sentiva il metallo freddo contro la sua pelle, contro il suo volto, mentre l’ombra imponente del suo salvatore, del suo eroe, le faceva riscoprire la dolcezza delle carezze.
Felici di quella libertà tanto agoniata, si godevano la freschezza dell’aria che si andava ad infrangere sui loro volti.
Tutti, meno che Peeta.
Lui sarebbe stato libero solo e soltanto nel momento in cui avrebbe ucciso Katniss Everdeen.

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