Memories

di Medea00
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima di Magnus ***
Capitolo 2: *** Prima di Alec ***
Capitolo 3: *** Quella notte ***



Capitolo 1
*** Prima di Magnus ***


Capitolo 1

Prima di Magnus

“Non ordinare i piatti delle fate” – disse Jace guardandola da dietro il menù. – “Tendono a mandare fuori di testa gli umani. Un minuto prima ti stai ingozzando di prugne fatesche e un minuto dopo ti ritrovi a correre nudo lungo Madison Avenue con delle corna di legno che ti spuntano dalla testa. Non – aggiunse immediatamente – che questo sia mai successo a me.”
Alec scoppiò a ridere. – Ti ricordi… - iniziò, e si lanciò in una storia che conteneva così tanti nomi di cose e creature misteriose che Clary non cercò nemmeno di seguirla. Ne approfittò per osservare Alec mentre parlava con Jace.C’era in lui un’energia cinetica quasi febbrile che non aveva prima. Era qualcosa in Jace ad attivarla, ad accendere quella scintilla. […] Mentre Alec parlava, Jace guardava in basso, sorridendo leggermente e tamburellando con le dita sul suo bicchiere d’acqua. Clary sentiva che stava pensando a qualcos’altro.  Provò un improvviso lampo di solidarietà nei confronti di Alec. Non doveva essere facile voler bene a Jace. […]
Jace sollevò lo sguardo al passaggio della cameriera. – Credi che prima o poi ci arriverà un po’ di caffè?  - disse ad alta voce interrompendo Alec a metà di una frase. Alec si spense, come se avesse finito le energie.
Città di Ossa, Capitolo 11.



Jace era di fronte a lui, i capelli scompigliati e visibilmente stanco, ma vivo. Alec gli aveva appena salvato la vita, trafiggendo con la sua spada angelica un demone in procinto di attaccare Jace alle spalle. Si era dissolto in una nuvola simile alla cenere, dall’odore di zolfo.
“Grazie”, gli disse Jace, gli occhi dorati pieni di ammirazione, luminosi. “Non saprei cosa fare senza di te, Alec.”
E Alec sorrise, senza la minima ombra di imbarazzo, mentre con fare spavaldo riponeva la spada nella fodera. Era stato un eroe, il suo eroe. Era una bella sensazione, lo faceva sentire bene.
“Siamo parabatai, dopotutto”; Jace si fece più vicino e con voce soffusa aggiunse, “Non vorrei essere il parabatai di nessun altro. E non solo perché sei un guerriero eccezionale, Alec.”
Il cuore di Alec cominciò a battere più forte. Cosa stava succedendo? Cosa stava per dirgli?
“Devo dirti una cosa”, lo sentì confessare, tanto che Alec fece un passo verso di lui e rispose “Anche io. In effetti, dovevo dirtelo da tanto tempo…”
Erano così vicini. Così vicini. Bastava solo bisbigliarlo. Due parole, un soffio di vento, un battito di ciglia…
 

Doveva smetterla di fare certi sogni.
Alec si svegliò nel cuore della notte con uno scatto, la maglietta sgualcita bagnata di sudore e i pantaloni che gli si erano incollati alle gambe. Le lenzuola erano umide, accartocciate tra di loro, le mani tremavano mentre stringeva il cuscino.
Sembrava che avesse appena avuto un incubo, da quanto era spossato; non poteva essere più lontano dal vero. Alec aveva sognato quello che desiderava da troppo tempo, ormai, e che dentro di sé sapeva di non poter avere.
Perché Jace non lo vedeva affatto in quel modo, e non gli avrebbe mai rivolto parole simili a quelle del sogno.
… Giusto?
La porta risuonò con due tonfi secchi, che lo fecero sussultare e perdere la concentrazione dai suoi stessi pensieri. Si chiese che ore fossero, il sole era ben alto nel cielo da quanto poteva intuire attraverso le tapparelle.
“Alec! Che stai facendo? La colazione è pronta da venti minuti, muoviti!”
Sua sorella Isabelle non aveva mai avuto una gran pazienza, e ne aveva ancora meno quando si trattava di dover tirare giù dal letto gli altri; di solito era lei la ritardataria, lei la noncurante che, con un cenno della testa atto solo a smuovere i suoi lunghi capelli, si giustificava dicendo “siete tutti uomini, non potete capire le esigenze di una donna”.
Per fortuna Alec era dotato di abbastanza pazienza per entrambi. Imprecò sottovoce, conscio del suo visibile ritardo, e scattò fuori dal letto con leggerezza. Si sarebbe fatto la doccia dopo l’allenamento mattutino, pensò, anche se forse era proprio il caso di raffreddare gli spiriti con una doccia fredda.
Hodge aveva già mangiato e si era chiuso nella biblioteca, come era suo solito fare; Alec ormai era abituato alla sua presenza-assenza, così come era abituato a quello stile di vita, a tal punto da amarlo: dopotutto, cosa poteva chiedere di più? Sebbene talvolta avvertisse in modo più cocente la mancanza dei suoi genitori e del suo fratellino Max, vivere con Jace e Isabelle, loro tre contro il resto dei demoni, era tutto ciò di cui aveva bisogno. Li avrebbe protetti, come sempre aveva fatto; li avrebbe consigliati, specialmente quando l’impulsività di uno dei due avrebbe preso il sopravvento; ma, soprattutto, ci sarebbe sempre stato per loro. In ogni occasione.
Non desiderava altro: non voleva essere il più abile spadaccino tra gli Shadowhunter, come Jace; non voleva essere il più affascinante, come Isabelle. Semplicemente voleva essere tutto ciò di cui avessero bisogno.
Quando arrivò in sala da pranzo, Isabelle era già in tenuta da allenamento, un reggiseno sportivo e dei leggins aderenti, mentre Jace era vestito più o meno come lui, pantaloni e t-shirt nera, con la sola differenza che gli abiti di Jace sembravano meno deteriorati dei suoi. Si sedette davanti a lui, scambiandosi un “buongiorno” un po’ trascinato. Alec pensò che era affascinante anche così: un po’ assonnato, con i suoi capelli biondi che gli cadevano pigramente sugli occhi, chino a inzuppare un cornetto nel suo caffè.
“Hai visto l’Angelo?” Chiese Jace. Alec si destò dal suo momento di trance sbattendo più volte le palpebre: “Ho visto cosa?”
“Hai un’espressione strana. Che hai sognato stanotte?”
Per l’Angelo, a volte odiava il loro legame parabatai, che permetteva a Jace di osservarlo così attentamente; oppure, forse, il legame non c’entrava niente. Forse era solo lui ad essere un libro aperto con le espressioni, e quella cosa era decisamente un’arma a doppio taglio.
“Non ricordo”, mentì spudoratamente, facendo finta di essere concentrato a spalmare la marmellata sul pane, “Mi ha svegliato Isabelle di soprassalto, ecco perché sono così.”
“Ringraziami che l’ho fatto!” Ribatté lei stizzita; Alec le rivolse un sorriso comprensivo, e la sorella gli fece una linguaccia, come per far capire che non fosse davvero offesa.
Finirono la loro colazione parlando del più e del meno; o meglio, Isabelle e Jace parlavano, e Alec ascoltava come suo solito, sorridendo, a volte accennando ad una risata quando Jace diceva qualcosa di particolarmente divertente. Non era mai stato un ragazzo loquace, e non voleva esserlo: era seriamente convinto che un suo intervento, in qualsiasi conversazione, non avrebbe apportato nessun tipo di contributo. A volte, però, gli capitava di voler attirare l’attenzione di Jace. Di stabilire un legame, come per ricordargli che lui c’era, era lì.
Si allenarono come ogni mattina e, dopo la doccia, andarono a mangiare qualcosa da Taki, perché nessuno dei tre aveva voglia di cucinare. O meglio, Isabelle sì, ed era proprio quello il motivo per cui decisero di andare da Taki; Alec non si era ancora ripreso dall’ultimo “risotto” della sorella.
Il pomeriggio ricevettero una segnalazione di alcune pixie dispettose a Central Park, che scatenavano mulinelli dal niente e li scagliavano contro i passanti. Fu paradossalmente più spossante di dover uccidere dei demoni-drago: le pixie sono piccole, agili e fastidiose. Alec sperò soltanto che i suoi fratelli mantenessero la calma abbastanza a lungo da non incendiarle per uno scatto di rabbia.
Isabelle fu la prima a perdere la pazienza con una di loro, abbandonando il retino in favore della sua amata frusta; Alec dovette parare un colpo con il suo stesso braccio, per evitare che uccidesse quella fatina ridacchiante. In fondo non c’era bisogno di ricorrere alla violenza estrema, non in quel caso. Jace invece abbandonò il tentativo dopo la prima ora, scagliando armi e retini a terra e annunciando “Non le sopporto più queste nane malefiche, io vado a farmi un hamburger”. Alec non gli aveva dato retta, sapeva che il suo parabatai sarebbe tornato. E così infatti fece, dopo nemmeno dieci minuti, perché sotto sotto gli dispiaceva lasciare Alec a cavarsela con quell’orda di pixie volanti, e non lo avrebbe mai lasciato solo. Raccolse le sue cose, rimettendo tutto apposto tranne il retino, si avvicinò ad Alec e disse soltanto: “Così non funziona, non possiamo fare gli apicoltori per tutto il giorno.”
Alec si fermò un attimo, raccogliendo la sua quinta pixie e mettendola in un barattolo magico, destinato alla regina Seelie. Rifletté con calma, mentre una pixie tentava di colorare i capelli di Jace di rosa, e lui la stava scacciando come si scaccia una mosca.  Alec ridacchiò, gli sarebbe piaciuto vedere Jace in rosa, non tanto per il colore ma per vedere il suo volto contratto dalla rabbia. Decise di porre fine alle sue sofferenze ed ebbe un’idea: chiamò Isabelle, che si era già allontanata da tanto, e le ordinò di portare una cosa. Jace non capì immediatamente a cosa si riferisse, fino a che non vide la sorella tornare con una busta di bacche fatate di Taki, dall’odore delizioso.
“Mi sono fatta dare le migliori che aveva.”
“Ottimo sorellina”, disse Alec, dopodiché posizionò le bacche in una zona un po’ appartata del parco, dove i mondani non passavano spesso. Anche se fosse, avrebbero solo visto una insolita folata di vento. Prese i retini dei suoi fratelli e li strappò, per farne uno più grande e capiente. A Jace si illuminarono gli occhi, cogliendo finalmente il punto della situazione. Aiutò Alec a sistemare il retino e si nascosero dietro a un cespuglio; Isabelle salì sull’albero sopra le bacche, nascosta tra le foglie.
Le pixie non ci misero molto ad arrivare, attirate dall’odore pungente del loro frutto preferito. Quando erano tutte raccolte a mangiare, i tre sbucarono di colpo, formando un cerchio e catturandole un po’ con le mani, ma per la maggior parte con il retino gigante, che impediva a loro di muoversi tramite una runa di pietrificazione.
Spedirono le pixie alla corte del regno fatato, che ovviamente non si degnò di ringraziarli per il lavoro svolto. Dal loro punto di vista, probabilmente, erano solo stati d’intralcio; ma a loro non interessava granché di ricevere lodi forzate.
 

Le porte dell’ascensore si chiusero alle loro spalle, quando finalmente erano tornati all’istituto. Isabelle e Jace brontolarono di avere una gran fame, e Alec era dietro di loro, le braccia conserte, gli occhi che gli si chiudevano malamente per la stanchezza: voleva solo lavarsi la giornata di dosso e dormire per almeno dieci ore, in modo da recuperare un po’ del sonno della notte prima.
Jace si voltò verso di lui, rivolgendogli un’occhiata intensa. Alec inarcò un sopracciglio, chiedendosi cosa gli volesse dire.
“Senti… mi dispiace se oggi ho perso la pazienza. Non volevo veramente lasciarti lì da solo.”
“Lo so”, disse Alec. Si fidava ciecamente di Jace. “Figurati.”
“È solo che quelle pixie sono così-“
“Snervanti.”
“Esatto”, ammise, rilassando le spalle e sorridendo al suo amico. Era bello come si capissero in un attimo. Ad Alec cominciò a battere il cuore un po’ più forte; tutto quello gli ricordava il suo sogno, il modo con cui erano vicini, la voce di Jace un po’ imbarazzata per parlare di sentimenti… ma Jace gli rivolse un sorriso sghembo, e riprese a parlare con il suo solito tono beffardo. Gli diede una pacca sulla spalla, come un fratello: “Tutto apposto quindi? Bene, vado a cucinare prima che ci provi Isabelle.”
Alec fu costretto a ricomporsi un secondo, come destatosi da un dejà-vu. Non era per niente come nel suo sogno. Jace non lo aveva guardato pieno di sentimento e ammirazione. Si limitò a sussurrare un “Tutto apposto”, ma Jace era già andato via.
Come sempre. Non aspettava mai una risposta, o che finisse un discorso; quando Jace voleva finirlo, lo faceva e basta. Non era cattiveria, la sua, era solo geneticamente portato a non saper trattare le persone con un’infinita pazienza. E con Alec, a volte, ci voleva. Perché Alec non era come lui, non riusciva a dire le cose senza riflettere nemmeno un secondo. Gli venne voglia di urlare il suo nome, di richiamarlo lì, di dirgli “mi hai fatto una domanda, quanto meno abbi la decenza di aspettare una risposta ”. Magari avrebbe anche aggiunto che gli piace. Così, su due piedi.
Certe volte voleva solo essere ascoltato. Niente più.
Ma il suo scatto d’ira terminò così com’era nato: interiormente, con velocità, perché non poteva davvero essere arrabbiato con Jace, non con lui. Di tutti quei pensieri, restò soltanto un’espressione imbronciata, un po’ spenta; un Alec chiuso, silenzioso, che se ne stava in disparte con Isabelle e Jace che litigavano su chi avesse la meglio sui fornelli, quella sera. Ma una parte di sé si era quasi rassegnata all’idea che avrebbe avuto questa cotta per Jace per sempre, e che lui non ne sarebbe mai venuto a conoscenza. Che in fondo andava bene così, che era giusta così, la sua routine quotidiana: colazione, allenamento, qualche chiamata d’emergenza, struggersi per un Jace che non si sarebbe mai accorto di lui. Non come lui voleva.
Poteva farlo, pensò Alec. Poteva andare avanti così per i prossimi anni. Era felice, dopotutto.
Nonostante tutto.
Isabelle gli chiese che tipo di pasta volesse, e lui si strinse nelle spalle, mormorando un “quello che volete voi”. Jace la prese di peso, spostandola dai fornelli e mettendosi lui al posto suo. Con una mano dosava il sale nell’acqua bollente mentre con l’altra teneva Isabelle a dovuta distanza, facendo finta di non sentire le sue lamentele.
Alec rideva, certe cose non cambiavano mai, e dentro di sé era davvero grato che il suo parabatai si stesse imponendo sulla cucina, perché aveva davvero fame e non aveva voglia di mandare giù a forza il cibo bruciato della sorella. Si stiracchiò sulla sedia, congiungendo le mani dietro la testa, e si rilassò cullato da quell’atmosfera familiare, solida, imperturbabile nel tempo.
Amava la stabilità del loro trio: era convinto che niente e nessuno l’avrebbe minacciata.
Non avrebbe mai creduto a quante cose potessero cambiare in così poco tempo, con l’avvento di una sola, semplice, mondana dai capelli rossi. E l’incontro con uno stregone.


***
Angolo di Fra:
scusate, non mi ero accorta che prima EFP dimmerda aveva tagliato la fine. Ecco qui! Oggi nuovo aggiornamento!

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Capitolo 2
*** Prima di Alec ***


Capitolo 2
Prima di Alec
 

 

Questa è la somma segreteria del sommo stregone di Brooklyn. Non sono in casa o, anche se lo fossi, ci sono cose decisamente più interessanti che richiedono la mia totale attenzione, come per esempio la maratona di Masterchef su SkyUno. Vi prego, quindi, di lasciare un messaggio in segreteria, e sarete richiamati quando più mi aggrada.

“Magnus Bane? Sono il signor Tobias, l’avevo chiamata un paio di giorni fa. Mi servirebbe quell’incantesimo per la mia frutta, non mi ha più fatto sapere se è disponibile.Volevo parlarle di persona, quando è disponibile. Arrivederci.”
La voce metallica riecheggiava nel loft dello stregone, in modo sordo e inespressivo. Magnus era di fronte al piccolo mangianastri, e lo osservava compiaciuto; pensò che non era stata una così cattiva idea comprarsi una segreteria anni ’90, era così elegante, nel suo scorrere placido, mentre la voce degli interessati si faceva viva e senza disturbarsi di dover rispondere nell’immediato. I cellulari erano così sopravvalutati, pensò: sì, era davvero soddisfatto del suo ultimo acquisto, tanto che si ritrovò a sorridere a se stesso e ad ammiccarsi allo specchio posto sopra la segreteria. Era anche soddisfatto di essersi concesso una vacanza di un paio di giorni, per esplorare New York, riscoprire posti che non vedeva da secoli e dormire in compagnia di una graziosa signorina, dopo una serata passata in un moderno disco-pub.
Gli piaceva tornare a casa e trovare messaggi da ascoltare. Con la sua vestaglia di seta cinese e i capelli neri perfettamente sistemati, si sentiva un po’ il protagonista di Sex and the city. Soltanto che lui era molto più alto, abbronzato e – ovviamente - affascinante di Carrie Bradhaw.
Quel Tobias chiedeva un banalissimo incantesimo per rendere le sue mele più buone. Magnus sbuffò all’idea, un’idea che perfino uno stregone di otto anni era in grado di fare; evidentemente l’industria americana doveva essere davvero in crisi, se gli imprenditori ricorrevano a pagar fior di quattrini per quelle cose. Ma la vita di Magnus era così piena di impegni, certo non poteva assecondare i desideri di ogni singolo mondano che chiedeva i suoi servigi. Insomma, c’erano tanti, a New York, che avrebbero svolto quel compito per una parcella molto meno pretenziosa di quella del Sommo stregone di Brooklyn. Senza troppe esitazioni passò al messaggio successivo.
“Ciao Magnus, sono Richard. Quel licantropo, sai alla festa… mi ha fatto molto piacere conoscerti. Mi richiami?”
“Richard?”
Magnus si accarezzò il mento con l’indice, guardando con aria perplessa il suo adorato gatto. Presidente Miao era appollaiato sulla poltrona che aveva giustappunto trovato da un nuovo negozio di antiquariato, sulla quindicesima Avenue. Certo, “trovato” non era proprio il termine più adatto, diciamo solo che quella mattina si era messo a sfogliare il catalogo, gli era piaciuta e aveva deciso di farla comparire magicamente nel suo salotto. Non se ne sarebbe accorto nessuno, suvvia. E poi, faceva pendant con la sua nuova segreteria telefonica: praticamente quella poltrona lo aveva supplicato di essere presa.
Design d’interni a parte, non aveva la più pallida idea di chi fosse quel Richard. Passò in rassegna le ultime feste che aveva dato, ma non aveva nessun ricordo di un licantropo di nome Richard. Edward, forse. Ah no, quello era un vampiro. Un attimo: c’era quel ragazzo biondo con cui aveva avuto un affare, nel bagno del Pandenomium, di venti minuti massimo…? Ma non ricordava di averci fatto niente, con lui. Niente che degnasse una telefonata sulla sua preziosissima segreteria, s’intendeva. Nel frattempo, questa era passata al messaggio successivo senza troppi indugi: appena sentì le prime tre parole, a Magnus venne voglia di spegnerla.
“Sono Ragnor Fell.”
Tic.
Magnus interruppe il messaggio premendo sul tasto “stop” con il suo indice decorato da un paio di anelli. Il dolce suono del silenzio; era probabilmente l’unico modo a sua disposizione per zittire il suo caro amico Ragnor Fell. Ma il tasto era un po’ arrugginito dal tempo, quindi scattò in alto senza il permesso di nessuno, e la voce di Ragnor riprese a riecheggiare nel suo loft anni ’90.
“Innanzi tutto, sappi che questa storia della segreteria è profondamente ridicola.”
Magnus continuò a premere ripetutamente su quel dannato tasto, tentando in tutti i modi di interrompere il messaggio.
Tic
Tic
Tic
“Seconda cosa, se hai così tanto tempo libero, per dirla alla buona, e se non hai un cavolo da fare, per dirla alla me, qui all’Accademia Shadowhunters ci sarebbero tantissime cose che potresti fare.”
Magnus cominciò a premere tutti i tasti della scatoletta, in modo frenetico.
 “Ad esempio, un bel seminario sulla magia. Lo potrei tenere io, ma credo che ai ragazzi faccia bene avere un punto di vista diverso dal mio. E si sa, tu lo hai molto diverso dal mio. Perché non ci pensi? Non dirmi che hai altre cose da fare, perché so tutto sullo stile di vita che stai conducendo, Magnus. Raphael mi ha detto tutto.”
Tic Tic Tic Tic Tic Tic Tic Tic Tic Tic Tic Tic
“È vero che stai rifiutando offerte di lavoro, in cambio di… niente? Ho sempre pensato che la tua pigrizia un giorno avrebbe preso il sopravvento, ma credevo che non sarebbe successo prima dei seicento anni. Ti devo ricordare quanti anni ho io, Magnus? E Catarina? Eppure siamo sempre indaffarati. Questa cosa ti sta davvero sfuggendo di mano.”
Perché quella dannata segreteria non si ammutoliva?!
“Senti, capisco che a volte le giornate sembrano non passare mai. Ci sono passato. Poi tu sei sempre stato uno che si faceva trascinare dai sentimenti, e non essere coinvolto emotivamente da qualcuno per tanto tempo può…”
Ragnor che gli dispensava consigli alla C’è posta per te. Non ce la poteva fare. Dal momento che quell’arnese non si azzardava a eseguire i suoi ordini, Magnus decise di fare quello che faceva di solito, quando il suo amico lo martellava di consigli faccia a faccia: ripensò a una o due canzoni dell’epoca, che erano orecchiabili quanto assuefacenti, in un certo senso, e iniziò a canticchiarsele nella mente. Le canzoni degli anni duemila erano come dei tarli: insistevano a rimanerti in testa fino a non uscirne più. Era abbastanza facile, quindi, farsi partire una playlist mentale; dopotutto non aveva bisogno di uno che gli ricordasse il suo raffinato, aitante stato da single. Certo, erano passati tanti anni dall’ultima volta che aveva provato un sentimento più forte del semplice interesse, e il ricordo di Etta, a dirla tutta, non era nemmeno più così ardito nella sua mente. Era stata una bella storia, intensa, ma in un certo senso Magnus sentiva che avesse seguito un percorso ben definito, da un inizio a una fine. Si erano amati tanto, ma non rimpiangeva quei giorni di balli lenti e night club, in una New York anni cinquanta.
Non rimpiangeva nemmeno i suoi pomeriggi correnti, passati tra una maratona di programma trash e film on-demand. Non si sentiva affatto solo.
“… Quindi chiamami, quando ti senti troppo solo. Non fare l’orgoglioso, non hai mai imparato a gestire l’eternità in solitudine.”
Finalmente, il messaggio terminò. A Magnus sembrò come quando, ventidue anni fa, il prete di quella piccola chiesa di Lyone aveva detto “andate in pace”.  Non mise mai più piede in una chiesa, e non perché, essendo per metà demoniaco e per metà umano, si fosse sentito leggermente fuori luogo: semplicemente, era stata l’ora più lunga della sua vita. Da un lato ammirava la forza di volontà degli umani a subire quel supplizio tutte le settimane.
Mancava un solo messaggio da ascoltare. Magnus era ancora convinto che quella della segreteria telefonica fosse stata un’idea carina.
“Ciao Magnus, sono Catarina, ricordi? La tua migliore amica, la persona che ti supporta e sopporta continuamente?”
Era stata un’idea pessima. Orripilante. Cosa diavolo gli era saltato in mente, aveva fornito ai suoi amici più stretti un canale per dare libero sfogo alle loro polemiche. Iniziò a guardare torvo l’aggeggio telefonico, contemplandone l’esplosione.
“Ho ricevuto una chiamata insolita da Ragnor.”
“Sono tutte sue supposizioni”, replicò Magnus, come se potesse sentirla; la voce di Catarina, ovviamente, aveva continuato a parlare: “Siccome non hai tanto da fare, potrei venire a trovarti; mi prendo qualche giorno di permesso dall’infermeria e sto qualche giorno da te. Magari andiamo un’altra volta in Perù, che ne dici?”
In effetti, aveva proprio voglia di tornare in Perù, pensò Magnus compiaciuto. Un attimo dopo si ricordò di essere stato esiliato previa pena di morte, e lo ricordò anche Catarina.
“Ah, giusto, non puoi più andarci. Beh, comunque, non è da te stare lì nel tuo loft a non fare niente.”
Il messaggio finì di colpo, ma Magnus non se ne stupì; Catarina andava sempre dritto al sodo ed era sempre stata troppo indaffarata per chiudere degnamente una telefonata. Lanciò un’ultima occhiata alla segreteria, e questa si accartocciò in una manciata di secondi, assomigliando sempre di più a uno strano kubo di Rubik.
Andò in camera da letto e risfoderò il cellulare dal cassetto; in fondo gli anni novanta erano passati da tanto tempo, e lui non aveva mai apprezzato veramente i pantaloni a zampa di elefante.
Osservò Presidente Miao, che nel frattempo era sgattaiolato in camera e aveva cominciato a fargli le fusa su una gamba. “Tra poco è il tuo compleanno, no?” Domandò al gatto che, come se lo avesse sentito, lo guardava con fare incuriosito. “Dovremmo fare una grande festa. Una bellissima festa. Tre anni non si fanno tutti i giorni, mio caro.”
Il gatto miagolò un po’ annoiato, come se, del suo compleanno, non gliene importasse niente. Magnus si sentì un po’ offeso dal suo atteggiamento: “Mi ringrazierai un giorno”, si limitò a dire. Con fare spavaldo, si chiuse la vestaglia e con uno schiocco di dita comparvero un centinaio di volantini, tutti colorati e pieni di glitter, come piacevano a lui. Ne avrebbe fatti recapitare un po’ all’hotel Dumort, e un po’ nei locali dei Nascosti: tutti erano abituati alle feste di Magnus, e tutti sapevano un po’ come fare.
Avrebbe voluto vedere la faccia dei suoi due amici stregoni quando, giusto il giorno dopo, si sarebbero presentati dozzine e dozzine di individui pronti a festeggiare il Presidente Miao insieme a lui. “Visto?” Gli avrebbe detto, “Sono pieno di cose da fare. Sommerso di cose da fare.”  Giusto per rimarcare ancora di più il concetto, decise anche che avrebbe richiamato quel Tobias e avrebbe reso le sue mele di stagione le più buone di tutto lo stato. Con i soldi della ricompensa, si sarebbe comprato un nuovo portafogli, magari uno di Varvatos. E lo avrebbe incantato in modo da incendiarsi ogni qual volta venisse sottratto a lui.
“Visto?” Ripeté di nuovo a se stesso, di fronte a degli immaginari Catarina e Ragnor Fell. “Sono ancora pieno di cose da fare, e pieno di idee.” Chissà come mai, perfino nella sua mente i suoi amici non sembravano così tanto convinti. Poco male; lui non doveva convincere nessuno dello stile di vita che stava conducendo, e aveva tutto il diritto di lavorare - e non lavorare - quanto gli pareva.
Parlando di lavorare, si chiese se Jocelyn Fairchild avesse ritrovato la figlia; sapeva benissimo che l’incantesimo di occultamento della memoria richiedesse una certa costanza, sia di metodi che di termini, e quindi se ancora non si era presentata alla sua porta non era un buon segno. Si strinse nelle spalle, sedendosi sul divanetto e coccolando Presidente Miao, seduto sulle sue gambe: c’era qualcosa, nell’aria. Non riusciva ancora a capire cosa, ma i suoi sensi lo avvertivano. C’era una strana tensione, tra le strade di New York: i Nascosti, con un infelice giro di parole, si stavano nascondendo; i vampiri erano più cauti e civili del solito. Perfino i Nephilim erano stranamente spariti, come se avessero altro di meglio da fare.
Tutto questo non gli tornava; e gli incubi che aveva durante le notti non lo rincuoravano affatto.
Scosse la testa, i suoi occhi da gatto che si chiusero insieme a un sospiro, le spalle più rilassate e il viso meno preoccupato; ma sì, si stava preoccupando troppo, come suo solito. Forse avevano ragione Ragnor e Catarina, forse doveva davvero trovarsi qualcosa da fare, altrimenti la sua mente ne avrebbe risentito: era troppo giovane per fare la fine del vecchio Aldous. Insomma, lui era ancora giovane, prestante e-
Con i nuovi pantaloni di Armani rovinati: il suo gatto ci aveva appena vomitato sopra una palla di pelo.
“Ho bisogno di una vacanza.”
 



 ***
Angolo di Fra
Questi due capitoli erano un po’ una “introduzione”! Adesso inizieranno i veri missing moments del libro.

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Capitolo 3
*** Quella notte ***


Capitolo 3
Quella notte

 
-Quindi ti ha rimesso a posto Magnus?- disse Clary. –Ha detto Luke…
-Cavoli se lo ha rimesso a posto!- Intervenne Isabelle. –È stato fantastico. È arrivato, ha detto a tutti di uscire dalla stanze e ha chiuso la porta. In corridoio continuavano a esplodere scintille blu e rosse e il pavimento tremava.
-Io non ricordo niente- disse Alec.
-Poi è stato seduto al capezzale di Alec fino al mattino per assicurarsi che al suo risveglio stesse bene.- aggiunse Isabelle.
-Non ricordo neanche questo- Si affrettò a dire il ragazzo.
Le labbra rosse di Isabelle si curvarono in un sorriso. –Chissà come ha fatto a venirlo a sapere Magnus. Gliel’ho chiesto, ma non me l’ha detto.-
Città di ossa, Epilogo.
 


“Allora, stregone, che cosa desideri da me?”
Il demone che aveva appena evocato sembrava insolitamente gentile. Magnus pensò che fosse piuttosto strano, considerando che venisse da uno degli inferni più tenebrosi di tutti. Si chiamava Agares e, sebbene il suo aspetto non fosse ben definito, in mezzo alle fiamme bluastre, assomigliava un po’ a Donald Trump.
“Ti facevo più... non so, dispettoso? Sai, un po’ demoniaco, con membra cadenti, voce minacciosa e tutto il resto, che si rifiuta di assecondare la mia volontà a meno che non lo obblighi.” Disse semplicemente, e la risata del demone riecheggiò in tutto il loft. Presidente Miao si posizionò tra le gambe di Magnus, più per curiosità che per paura.
“Chiederò comunque un pagamento. Ma non tutti i demoni sono come tuo padre”, si limitò a dire Agares, e a quella risposta Magnus capì di cosa si trattasse: era uno dei tanti demoni che sottostavano a suo padre, e che non avevano nessuna voglia di mettersi né contro di lui, né contro suo figlio. Per sua fortuna, quel demone minore ignorava i veri rapporti tra lui e il demone che lo aveva “generato”, altrimenti non sarebbe stato così accondiscendente. Magnus non aveva nessuna intenzione di rivelarglielo.
“Capisco” disse, dopo un tempo veramente troppo lungo. Il demone minore si limitò a mormorare in modo indistinto e chiedere: “Allora, stregone?”
“Ho una richiesta da dei miei clienti, mondani. Hanno perso loro figlio e vogliono che torni a casa, costi quel che costi. So che puoi farlo”, aggiunse, troncando qualsiasi giustificazione sul nascere, “Sei il demone dei terremoti, delle fughe e dei ritorni da casa giusto?”
“So anche fare delle omelette deliziose”, cinguettò, come se lo avesse riempito di complimenti; a Magnus non interessavano le sue doti culinarie. Anche se, in effetti, a parlare di cibo gli era venuta fame.
Si guardò intorno, in cerca di un pezzo avanzato di pizza, o una busta di patatine.
“Se hai un po’ di farina e latte posso cucinarle io”, continuò a dire il demone, come se fosse del tutto normale che un ologramma fiammeggiante potesse mettersi ai fornelli e cucinare per lo stregone che lo avesse soggiogato nel suo salotto.
“Non cucino dal millenovecentotrentanove”, rispose Magnus, “Dubito che troverai ingredienti commestibili, qui.” In realtà non era vero, ma una bugia a fin di bene poteva concedersela. Insomma, non mentiva mai lui. “E poi. Non ti ho invocato per un brunch.”
“Ah giusto, giusto… il ragazzo perduto. Potrei farlo tornare, sì.”
“Vivo”, precisò Magnus. Il demone, a quella specificazione, sembrò un po’ contrito. “Costerà di più.”
“Che cosa potrebbe mai costare? Perfino i gatti e i cani sanno trovare la via di casa.”
“Perché non chiedi a loro allora?”
Magnus odiava i demoni che si credevano indispensabili, perché non lo erano. Gli era già passata la voglia di quell’incarico, stava per bandirlo e preparare un discorso da dire alla famiglia, della serie “mi dispiace, vostro figlio si sta facendo gli affari suoi”. Ma la paga era esageratamente buona. Fece un profondo respiro e tentò ancora.
“Andiamo. Che cosa vuoi in cambio?”
“Un terremoto. Piccolo piccolo. Qualche trentina di morti, non di più.”
Magnus si massaggiò le tempie, mentre rispondeva con calma: “Non te lo posso lasciar fare.”
“Una dozzina?”
“Puoi far accadere un terremoto qui.”
Il demone sembrò guardarlo torvo: “E quale sarebbe il divertimento?”
“Pensaci: daresti fastidio al sommo stregone di Brooklyn, figlio di Tu-Sai-Chi. Se sei fortunato potresti anche uccidermi. Non voglio orrende cicatrici sulla fronte, io.” Sperò che cogliesse il riferimento a Harry Potter, ma ovviamente non fu così. Il demone, tuttavia, sembrò ponderare l’idea. Magnus si chiese quanto ci volesse a prendere una decisione.
Non si era accorto che, nel frattempo, davanti ai suoi occhi era comparso un foglio bruciacchiato: si era materializzato come dal nulla, lasciandosi ondeggiare placidamente fino al pavimento. Presidente Miao, pensando che fosse un giocattolo per lui, cominciò a stropicciarlo.
“Il tuo gatto”, disse il demone, e Magnus fu tanto confuso che alzò un sopracciglio e, come gesto automatico, lo prese in braccio, come per proteggerlo. “No eh! Il mio gatto non è in vendita! Prenditela con quelli della tua stazza, vile vigliacco!”
“… Volevo dire”, precisò il demone, quasi offeso, “Che il tuo gatto stava mangiando il tuo messaggio di fuoco.”
Oh.
In effetti c’era un pezzo di carta a terra, o meglio, i resti di tale. Magnus si chinò a ricomporlo allontanando Presidente Miao da quella che non doveva essere la sua cena. Il demone osservava la scena un po’ divertito.
Il messaggio sembrava scritto di fretta, con una calligrafia molto disordinata. Riconobbe immediatamente la firma e, un attimo dopo, riuscì a interpretare meglio il suo contenuto:

 
Valentine è tornato. Shadowhunters feriti, Alec Lightwood.
Mi dispiace.
Hodge

 
Hodge. Quel “mi dispiace” fece intuire a Magnus qualcosa, e assottigliò lo sguardo. Non si immischiava negli affari Shadowhunters da un bel pezzo, e ora più che mai ponderò l’idea di continuare a non farlo. Perfino per un mortale la distanza di tempo trascorso dalla battaglia contro il Circolo era sin troppo breve: diciannove anni.
Magnus avrebbe potuto scappare; rifugiarsi da qualche parte, come durante le guerre mondiali dei mondani; sarebbe ricomparso mezzo secolo dopo, con acque più tranquille. Certo, poteva farlo, e nessuno lo avrebbe biasimato. Si trattava di Valentine, colui che già una volta ha decimato la sua specie, che non si faceva scrupoli, che adesso, se fosse stato in possesso della Coppa Mortale – come Magnus temeva -, avrebbe creato un esercito di Shadowhunters pronto ad uccidere lui e tutti i Nascosti. Cosa ancora più grave, non poteva far affidamento sul Conclave, né ora né mai.
Erano tutti motivi validi, lo sapeva benissimo quello; ma.
C’era sempre un “ma”. Un “ma” che molte volte lo aveva portato ad una situazione ancora più pericolosa, al pericolo, al fare cose di cui in altri momenti si sarebbe assolutamente pentito; c’era sempre stato quel “ma” per Magnus, e non importava quanto impossibile o assurda fosse la situazione, lui era quello che si era messo a imparare il Charango solo per compiacere un uomo di cui si era follemente invaghito.
Perché spesso quel “ma” riguardava proprio una persona. E quella persona, adesso, era Alexander Lightwood. L’ultima persona a cui avrebbe mai immaginato di tenere.
Si domandò se Hodge sapesse di questo piccolo segreto; se ci fosse stata una spia, la notte della festa per il Presidente Miao, che avesse notato come Magnus avesse guardato Alec, e come Alec avesse sorriso a lui. Un sorriso semplice, pulito, senza malizia o rimorsi. Un sorriso che Magnus pensò fosse così bello e puro da stonare con i tratti da Shadowhunters del ragazzo. E poi, c’era tutta la storia degli occhi. Quegli occhi.
Non sapeva cosa fosse peggio tra l’essere preoccupato per uno Shadowhunter, o l’esserlo per un Lightwood in particolare. Dio, proprio di un Lightwood. Sì, sicuramente era peggio la seconda.
“Mi sembri turbato, stregone”. La voce del demone lo destò dal turbinio dei suoi pensieri, scuotendolo come da un sogno. Magnus si ricompose subito, rimettendosi in piedi con la sua postura eretta e stringendo il foglietto tra le mani.
“Sono stato chiamato altrove. Parleremo dopo dei tuoi… servigi.”
“Cosa potrebbe distrarre uno stregone dal suo lavoro?”
“Un altro lavoro”, disse lui brusco, ma da come armeggiava con il foglietto si capiva che fosse nervoso. Al demone non sfuggì quella nota nella sua voce, che lo induceva a terminare le cose in fretta.
“Sembra interessante”, commentò quindi, “Allora io scatenerò un terremoto tra mezz’ora su di te, esattamente dovunque tu sarai.”
“Non è il momento per mettersi a giocare con me, stupido demone”.
“Non sto giocando. È il mio accordo. Prendere o lasciare. Quel povero ragazzino, disperso e spaventato chissà dove…”
“Va bene. Va bene, quello che ti pare, ma adesso sparisci!”
Il demone emise un piccolo sogghigno, prima di scomparire con una nuvola di zolfo. Magnus tossì solo un paio di volte, mentre correva in camera a prendere una scatola di utensili che potevano tornare utili. Sperò solo che quei secondi sprecati a discutere con il demone non fossero stati letali.
 


A Magnus non era permesso entrare all’Istituto, non senza una runa apposita. Per sua fortuna non ci fu bisogno di chiamare nessuno, perché non appena giunto all’ingresso principale Isabelle aprì il portone di scatto, sorpresa quanto lui di vederlo lì.
“Magnus Bane?”
“Dimmi solo dove si trova.”
La ragazza sembrava visibilmente provata da una lunga lotta. Non aveva i capelli fluenti come al solito, ma legati e increspati di sangue. Sembrava accaldata, con la giacca sbottonata e le gote rosse, e i suoi occhi erano spalancati da un velo di paura. Magnus capiva lo shock della ragazza, e in parte la compativa, ma non c’era tempo per quelle cose. Stava per chiederle di farlo entrare, quando avvertì una vibrazione diversa, come se quella zona fosse priva di energia.
“Le difese dell’Istituto sono cadute?”
Lei annuì, come ammettendo una gravissima colpa.
“Molto bene.” Magnus entrò senza altri convenevoli; di nuovo, aveva solo perso tempo. Non era nella sua indole correre per raggiungere un posto, ma in quel momento desiderava tanto farlo.
Non faceva altro che pensare al messaggio di Hodge, ad Alec, alle condizioni in cui si trovasse, se fosse troppo tardi.
“È stato avvelenato da un demone”, spiegò in fretta Isabelle, raggiungendolo con ampie falcate. “Abbiamo combattuto contro un demone Abbadon e-“
“Non mi serve sapere altro.” Entrò nell’infermeria: c’erano alcuni Shadowhunters lì, membri del Conclave, tutti intorno ad una brandina. Coprivano la sua visuale, e fu improvvisamente colto da un moto di nervosismo in corpo.
“Andate via, ci penserò io a lui. Ho bisogno di stare da solo.”
“Ma-Chi sarebbe questo stregone?” Disse uno ad una donna, che riconobbe essere Maryse Lightwood. Un altro aggiunse: “Non vorrete lasciare vostro figlio nelle mani di un Nascosto!”
Mamma ti prego”, stavolta fu Isabelle a intervenire, ma non aggiunse altro, vedendo tutti gli sguardi dei suoi superiori puntati su di lei. Magnus fu meno indulgente, anche perché, dei giudizi degli Shadowhunters su di lui, gli importava davvero molto poco. Si era già avvicinato al letto, e finalmente vide Alec.
Dovette trattenere il respiro, per non lasciar trapelare emozioni.
Alec era sdraiato di schiena, con un enorme taglio dal collo fino alla vita da cui sgorgava del sangue nero. Le sue rune, che Magnus in altre occasioni avrebbe definito affascinanti, adesso sembravano spaventosamente scure, come infette, e l’intero corpo del ragazzo sembrava bruciare dall’interno. Alec ansimava, gli occhi sbarrati, non sembrava davvero cosciente, ma nemmeno troppo poco da permettergli di svenire. Il ché rendeva le cose ancora più difficili, per lui.
“Ho detto fuori. Tutti.”
Stavolta il suo tono non lasciò spazio a discussioni. Gli Shadowhunters lasciarono la stanza, sebbene con molte riserve. Ma a lui non importava, anzi: come per accompagnarli fuori, si diresse anche lui verso la porta, e la richiuse alle sue spalle una volta che finalmente si trovò solo.
In meno di un secondo era di nuovo su Alec. Sembrava peggiorare a ogni battito di ciglia.
“Alexander”, sussurrò lui. Non pretendeva che lo sentisse, ma non poteva nemmeno pretendere a se stesso di non sentirsi preoccupato a morte. Il ché era ridicolo, di per sé: non lo conosceva nemmeno. Si erano parlati due volte.
Ma c’era qualcosa, in quel ragazzo, per cui Magnus si trovò a desiderare ardentemente non morisse. Forse, proprio perché era ancora troppo presto, troppo poco il tempo passato con lui.
“Farà molto male”, lo avvertì, e con uno schiocco di dita comparve una pozione; la versò sulla ferita, da cima a fondo, e con l’altra mano accarezzò dolcemente ogni singolo centimetro. Alec cominciò a urlare, a balbettare cose incomprensibili, e Magnus sperò davvero che quel supplizio finisse, perché la voce disperata di quel ragazzo gli spezzava il cuore. La ferita sembrava non rimarginarsi, e Alec sembrava stare sempre peggio.
Magnus dovette impegnarsi di più: ricorse a tutto il suo potere. Non gli importava di finirlo, non gli importava che dopo sarebbe stato costretto ad accasciarsi al suolo anche solo per respirare, per via della stanchezza, lo avrebbe fatto.
Fu in quel momento che accadde la prima scossa di terremoto. Magnus imprecò trai denti.
“Quel diavolo di vecchio barbuto.”
I demoni sapevano davvero come trarre il peggio da una situazione davvero di merda. Avrebbe voluto invocarlo di nuovo solo per ucciderlo. Quella scossa, però, fece svenire Alexander, e Magnus ne fu molto sollevato, perché le sue urla erano una distrazione per il suo cuore.
Per molto tempo, gli unici rumori nella stanza furono i mobili spostati dalle scosse e la magia di Magnus, che illuminò le pareti di rosso e di blu.
L’antidoto sembrò funzionare, alla fine. La ferita di Alec cominciava a rimarginarsi.
“Era l’ora”, commentò Magnus, con delle gocce di sudore che gli imperlavano la fronte, e le mani tremanti per la fatica compiuta: adesso, finalmente, poteva tirare un sospiro di sollievo.
La ferita era ancora profonda, ma la magia stava facendo il suo corso, cicatrizzandola lentamente. Magnus si sedette su una sedia accanto al letto, quasi accasciandosi su di essa. Aveva voglia di dormire per venti ore, ma non ce l’avrebbe mai fatta a distogliere lo sguardo da Alec, finché non sarebbe stato del tutto fuori pericolo.
E Magnus lo fissò per ore. Fissò le sue ciglia nere, così lunghe ed eleganti. Fissò la ciocca di capelli che cadeva sul viso; la spostò, come senza pensarci, e si ritrovò ad accarezzare una guancia molto pallida, ma morbida.  Il respiro di Alec era flebile, ma palpabile. Magnus si soffermò soprattutto sulle sue labbra carnose che, sebbene contratte in una smorfia, ebbe voglia di baciare.
E fu allora che pensò che Alec fosse, semplicemente, bello. E quell’aggettivo non era scelto a caso: c’era qualcosa, in lui. Non era come gli altri Shadowhunters, la quale bellezza e grazia erano ostentate fino a diventare quasi costruite. Alec era bello perché non si sforzava ad esserlo; forse non lo sapeva nemmeno.
Si promise di dirglielo, un giorno, quando si sarebbe svegliato e lo avrebbe rivisto in una qualche occasione insolita. Perché doveva essere sincero con se stesso, e Magnus era troppo vecchio per abbandonarsi ai sogni ad occhi aperti: Alec era uno Shadowhunters e, da quanto aveva capito, era anche molto fiero di esserlo. E nessun Shadowhunter avrebbe mai guardato uno stregone nello stesso modo con cui Magnus stava guardando lui: non era mai successo, in più di trecento anni. Magnus doveva farsene una ragione; era contento di aver salvato la vita a quel ragazzo, ma era anche consapevole che lo avesse fatto più per se stesso. Così, un giorno, avrebbe avuto occasione di fissare di nuovo quei bellissimi occhi azzurri.
“Aiuto-“
Alec si svegliò di colpo. Aprì gli occhi di scatto, guardandosi intorno, e strinse le lenzuola madide di sudore mentre cominciava ad agitarsi, a muoversi. Sembrò che il dolore fosse comparso tutto d’un colpo, trafiggendolo come una lama.
“Demon…Clary…Isabelle…Jac-“
“Stanno tutti bene”, cercò di dire Magnus, decifrando quelle poche parole che riuscì a captare. E si sorprese di sentire quei nomi: anche in punto di morte, Alec continuava a pensare più agli altri che a se stesso; a Magnus si riempì il cuore di commozione, tanto da farlo alzare e accarezzargli di nuovo una guancia, con il tentativo di calmarlo.
“Mi hai sentito? Stanno bene, Alexander, e anche tu. Va tutto bene.”
Fu allora che Alec lo guardò dritto negli occhi. Sembrava aver riacquistato un frammento di lucidità: passarono diversi secondi, ma alla fine pronunciò il nome di Magnus. E fu dolce, nel dirlo, come se non si aspettasse di vederlo lì; come se non si aspettasse che Magnus avrebbe letteralmente fatto un patto col diavolo, pur di salvargli la vita.
“La ferita era molto grave, ma ti ho rimesso in sesto io.” Commentò lo stregone, con una punta di orgoglio. “Ora, però, devi riposare.”
“Dove…dove sono…”
Shhh. Dormi ora. Ci penserai dopo.” Magnus gli posò l’indice sulle labbra. Alec sembrò sorridere, a quel gesto; socchiuse gli occhi, come per godersi quel piccolo momento. Quando li riaprì, il suo sguardo sembrò un po’ più timido: “Resterai qui con me?”
Lo chiese con un tono così dolce, così rassegnato. Come per dire:  so che non sono nessuno, so che hai altre cose più importanti da fare, ma ci terrei tanto che tu rimanessi qui con me.
A Magnus venne voglia di inchiodarsi alla sedia e non smuoversi da lì per un altro mezzo millennio.
“Non vado da nessuna parte”, gli disse. Alec inspirò a fondo, un po’ più sollevato. Non fece in tempo a ringraziarlo: si addormentò prima, con la mano di Magnus appoggiata delicatamente sul suo collo, la sua voce calda che ancora riecheggiava nelle sue orecchie.
Magnus decise di rimanere lì, tutta la notte. Se ne sarebbe andato all’alba, senza dare nessuna spiegazione a Isabelle, né tantomeno al resto della sua compagnia. Senza sapere se Alexander si sarebbe ricordato di lui: di quella notte, di quello che gli aveva chiesto.
Probabilmente no.
Meglio così, pensò Magnus: Alexander Lightwood doveva percorrere la sua vita, e sapeva benissimo che in quella vita uno stregone era leggermente di troppo.
Magnus si poteva accontentare di quella notte, decidendo che ne avrebbe conservato gelosamente il ricordo; non sarebbe tornato dallo Shadowhunter, né lo avrebbe ricercato i giorni successivi. Non lo avrebbe più rivisto.
Meglio così. Alexander Lightwood non era minimamente interessato a lui, dopotutto.



***


Angolo di Fra
Eccomi! Scusate il ritardo ma sono tornata in Slovenia e il viaggio mi ha un po' rallentata nella scrittura. Spero vi piaccia il primo "vero" incontro Malec secondo me! :D Grazie a tutti per seguire e leggere la mia storia :)

 

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