Peaceful

di Marinaoceano
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Anni prima / Tornare a Peaceful ***
Capitolo 2: *** Disperato bisogno (Canzone per la sirena) ***
Capitolo 3: *** Il secondo fratello (L'altra faccia di Giano) ***



Capitolo 1
*** Anni prima / Tornare a Peaceful ***


 

Storia nata qualche mese fa, a lungo dimenticata nel pc. Revisionata da Angel51, che come sempre ringrazio!
Sarà di quattro capitoli + epilogo, che ho già scritto. Pubblicazione a scadenza settimanale.
[Quando avrò finito Peaceful, riprenderò la Bambola, visto che mi sento ispiratissima! Il potere di una telefonata...].

Buona lettura,
Marina

 





0.

Anni prima

(La festa e la ragazza)


 

Bonnie sorrise oltre il vetro della libreria, indicò l’orologio dorato al proprio polso ed incrociò le braccia.

Appoggiati una pila di libri allo scaffale di legno scuro, guardai Pilgram seduto comodamente alla cassa sfogliare l’ultimo numero del Times.

« Non c’è più nessuno ».

« Se vuoi andare a prepararti, Caroline, non devi fare altro che correre a casa. Ho saputo da fonti nonnesche che sei a capo del ballo scolastico, quest’anno. Ti faccio i miei più sentiti ed entusiastici complimenti ».

Pilgram chinò appena il capo, guardandomi da sopra gli occhiali sottili. 

« La nonna…? »

« Trabocca d’orgoglio come una pentola a pressione di vapore acqueo. A domani, Caroline. E salutami la giovane Bennett » mormorò Pilgram, lanciando a Bonnie un’occhiata. 

« Si può sapere perché quel vecchio mi odia tanto? »

La strada cittadina era bagnata dal sole primaverile, e c’era un buon odore. Qualche turista - avevano già iniziato ad invadere Peaceful nei fine settimana, ed oggi era venerdì: il venerdì perfetto - camminava lungo i marciapiedi sottili su cui si affacciavano le vetrine lustre dei negozi.

« Non ti odia, Bonnie! »

« Mi guarda sempre. Lui sa. Non capisco come, visto che non poteva vedermi mentre mangiavo ».

« Fa parte delle sue regole d’oro: nessuno può ingerire cibo di qualsivoglia genere o forma nelle sacrali prossimità di un libro. Come va con il cielo stellato? »

« Regge alla perfezione, capitano Forbes! »

« E le lanterne? »

« Pronte ad essere accese a mezzanotte meno un minuto ».

« Musica? »

« Oh, cavoli. Chi aveva il compito di ritirare i CD? »

« Cosa? » dissi, bloccandomi sul marciapiede.

Bonnie rise. « Scherzavo, tranquilla. Musica affidata a Matt Donovan che, tra parentesi, ho appena visto provare uno smoking divino. Sarete il Re e la Regina più votati di sempre… ed al primo anno, assurdo! »

Cercai di fare mente locale. Tutto sembrava soddisfare gli obbiettivi prestabiliti. 

« Spero che… »

« Sì, Caroline. Credimi: un mese come tuo Secondo in Comando e posso affermare con certezza che tutto andrà bene ».

« Lo so, lo so. In fondo lo so ».

La lugubre notizia raggiunse l’addobbata palestra scolastica intorno alle undici e trenta, subito dopo l’incoronazione. Io e Matt stavamo ballando, circondati da altre coppie in vestito elegante, adornati entrambi da due corone di cartoncino dorato. Non era mai accaduto nulla del genere, non a Peaceful, né si sarebbe mai ripetuto negli anni a venire - nessuno ne avrebbe davvero parlato. Era colpa dei turisti, niente aveva a che fare con la buona gente locale. 

L’accaduto serpeggiò ed esplose sopra la musica, rischiando di rovinare la mezzanotte. Gli insegnanti si raccolsero in un angolo, gesticolando e scuotendo con forza il capo. Per un attimo non capii.

« Ma che succede? »

Matt s’informò, poi disse:

« Una turista è morta in spiaggia. Dicono sia affogata ».

Solo più tardi scoprimmo che la notizia era arrivata in modo frammentario, e che la verità nascondeva una seconda faccia ben più inquietante. La lessi il mattino seguente sulla prima pagina del giornale gettato da Pilgram nel cestino ed iniziai ad intuire perché il libraio non avesse domandato nulla del ballo, chiudendosi in una muta, pallida solitudine nel gelido deposito retrostante il negozio.

Una ragazza di diciassette anni, in vacanza con la famiglia, era annegata la sera precedente. Una fotografia in bianco e nero inquadrava il suo volto sorridente ed un frammento bagnato della lettera che le avevano rinvenuto in tasca. Leggendo collegai le due cose, senza davvero comprendere: quella ragazza, di pochi anni più grande di me, si era tuffata nelle acque gelide di Peaceful. Per la prima volta incontrai un particolare termine, in forza del quale l’articolo sembrava dare già per accreditata l’agghiacciante ipotesi del suicidio: depressione clinica.

 

 

 

1. 

Tornare a Peaceful

(E restarci)

 

 

Alla deriva in mari deserti
facevo del mio meglio per sorridere
fino a che le tue dita e i tuoi occhi ridenti
non mi hanno attirato verso la tua isola
e tu cantavi:

[…]

 

Ho sempre odiato i viaggi in autobus.

Per prima cosa, a differenza dei treni, il tragitto di un autobus contiene una media di curve decisamente superiore. Si è poi costretti a considerare il traffico come una variabile; per quanto, durante quel viaggio, l’idea di fare tardi non mi disturbasse affatto. Ma è il panorama ciò che più detesto: nelle trasferte di media lunghezza si ha una non trascurabile probabilità che sia l’autostrada, a farti compagnia. Con i treni questo non capita quasi mai.

Ed il fatto che quel giorno di novembre fossi salita su un autobus per tornare in New Hampshire tra le braccia di mia nonna, nella minuscola città natale dal nome tanto ridicolo da risultare grottesco per la sua fedeltà, moltiplicava il mio nervosismo per molte decine di numeri. 

Avevo fallito. Senza mezzi termini, senza scusanti, senza la minima possibilità di costruirmi una difesa decente: a poco più di un anno dalla mia partenza in pompa magna, ecco che facevo ritorno all’ovile tra i volti di chi mi aveva augurato buona fortuna, con la testa bassa e la coda tra le gambe. E ciò che più disprezzavo di me stessa in quelle ore di viaggio era che, a riprova del mio scarso valore come persona, non riuscivo ad esentarmi dall’immaginare ciò che avrebbe detto la gente. “Caroline Forbes! Ma sì, quella che è tornata da New York.” Tremavo all’idea che sarei per sempre stata un eterno ritorno. Nonostante le bugie che avrei potuto inventarmi per addolcire la mia sconfitta, una cosa che non sarei mai riuscita a cambiare era il tragitto di quell’autobus. 

Tornare. Dio, come me lo ero immaginata diverso! La settimana della partenza, l’insegnante di lettere del liceo che era venuta a salutarmi si era detta malinconicamente sicura che, negli anni a venire, casa sarebbe stata per me una modesta via di fuga dalla celebrità. Avrei reso famosa la sconosciuta cittadina di Peaceful, New Hampshire! Mia nonna ci aveva creduto. La vicina di casa, il panettiere, il postino, i miei amici, lo zerbino davanti alla porta: tutti avevano creduto che sarei presto stata una grande scrittrice. E tutti meritavano di essere odiati per aver fomentato la mia insana fissazione - se non altro, per la solitaria durata di quel viaggio in autobus. 

Al college ero una di quelle che i professori definivano “con carte in regola per emergere”. A quanto pareva, emergere si era concretizzato nel diventare qualcuno senza più un soldo in tasca e con un sogno accantonato: proprio il genere di personaggi di cui solitamente scrivevo. 

“I suoi racconti sono molto interessanti, signorina Forbes.” “Grazie.” “Sì, ma, ecco... vede, il problema è che quest’anno le azioni sono andate a ribasso e la nostra casa editrice non se la sente di rischiare. Lei è giovane, capirà.” “Non capisco, invece. In otto mi hanno già…” “Per lo stesso motivo! Apra un giornale: il mercato è crollato. Tutti ne risentono.” “Ed io cosa dovrei fare?” “Non si deve abbattere! Ritenti tra un anno o due, mi creda. Andrà meglio. Resti a New York, si trovi un lavoro sporco. Aiuta molto con tutta la faccenda dell’ispirazione.” “Io non ho problemi d’ispirazione, signore. Ho problemi di soldi.” Discorsi simili ne avevo sentiti a decine, finché non ero scesa a più modesti esempi di editoria che parlavano di auto pubblicazioni di cui mai mi sarei potuta sobbarcare. 

A New York, durante quell’anno, avevo lavorato come cameriera: la paga non era male, ma l’affitto stellare di quel tugurio che spacciavo per appartamento prosciugava quasi tutte le mie entrate. In più, stavo cercando di saldare il debito universitario, di cui certamente non avrei permesso a mia nonna di farsi carico. E quando ad ottobre il locale aveva operato tagli consistenti al personale, sempre per colpa di quel marcato in crollo, io mi ero ritrovata senza lavoro, con le rate del prestito da saldare ed un rifiutato, pesantissimo manoscritto di cinquecento pagine nello zaino. 

Riuscivo già ad intravedere la mia lapide: Caroline Forbes, zitella con sei gatti e scrittrice mancata. Che riposi in pace. E tutta Peaceful avrebbe gorgogliato: Amen

Fortunatamente, parte di quel viaggio in autobus ebbe luogo di notte; sognai sensi di colpa e struzzi con la testa sotto la sabbia umidissima della spiaggia che costeggiava Peaceful. Poi, alle otto e trenta del mattino, dopo una serie di fermate intermedie nelle città più popolose del New Hampshire che svuotarono l’autobus, arrivai a destinazione. Riconobbi i colori che amavo, il profumo di salsedine e di freddo, le prime case dai tetti con le assi di legno bianche e dalle verande spaziose e accoglienti e dai giardini curatissimi. Riconobbi la tranquillità eterna e irreale che cullava l’aria di Peaceful, e l’asfalto lucido di pioggia. Infine, quando il conducente aprì le porte, riconobbi mia nonna. 

Scesi i pochi scalini di metallo, trascinandomi sotto il peso di borse e valigia. Mi sembrò che la nonna si fosse vestita come il giorno della partenza. 

« Tesoro! Come stai? Vieni, andiamo. Devi avere fame, sei così spropositatamente magra. Ma a New York hanno il cibo? »

« Ciao, nonna. Sì, a New York hanno il cibo ».

« Ne dubito, guardati. Ah! Dobbiamo subito rimediare, Caroline. Ti cucino una bella torta di mele, eh? Ti va, tesoro? »

« Non ho molta fame, nonna. Magari domani ».

« Hai cenato ieri sera, giusto? » chiese. « Ho letto un articolo su TheDream, qualche settimana fa, sulle donne di New York. L’ottanta percento, c’era scritto, mangia insalata. Insalata, capisci? Per pranzo, un’insalata. Tu mangiavi insalata, Caroline? »

« Cosa? Non lo so, nonna; qualche volta, forse. Non credi che dovremmo parlare del fatto che abbia fallito con la storia del romanzo? »

« Fallito, fallito! Che parola inutile. Te l’hanno insegnata a New York, scommetto. Ah, ma ora ti cucino una torta di mele di quelle che fanno invidia alla signora Perkins. E la smetterai all’istante di mangiare insalata. Sei depressa, tesoro? »

Eravamo ormai arrivate alla sua automobile. Caricammo la valigia e le borse nel bagagliaio, ci sedemmo e lei mise in moto, senza partire.

« Sei depressa, Caroline? »

Appoggiai la fronte al vetro gelido del finestrino e chiusi gli occhi. Ero depressa? Non ancora, forse; ma lo sarei divenuta presto. Sentivo la tristezza adombrare pian piano tutti i colori della mia vita. « Ho solo sonno ». 

« Scommetto che a New York non avevi un buon materasso. Vero? I materassi sono enormemente importanti per il rendimento giornaliero ».

« Nonna… perché non partiamo? »

Lei mi appoggiò una mano sulla spalla. « Credevo che volessi piangere. Con tutta quell’aria da patibolo che hai messo su ». 

« Aria da patibolo? »

« Ma sì, ma sì. Tesoro, vuoi piangere? Se vuoi piangere lo sai che non devi farti problemi ». 

« Non voglio piangere! »

Sorridendo, mia nonna mise finalmente in moto. Imboccammo la strada principale che attraversava Peaceful, dirette al limitare ovest della città. 

« Ancora non capisco come tu possa aver mangiato solo insalata. Avrai perso cinque chili, Caroline, a dire poco. Cinque! Ma adesso lo so io, cosa fare… »

Quando incrociammo l’auto dell’unico meccanico in città, l’uomo aprì il finestrino e mi fece un gran sorriso. Iniziai a sospettare che la nonna avesse istruito tutti su come rapportarsi a me dopo il fallimento. Dopotutto, quel meccanico non mi aveva mai sorriso da che vivevo a Peaceful. 

A riprova dei sospetti, la vidi lanciarmi un’occhiata. Controllava che avessi abboccato? Dovevo avere un’aria davvero annichilita, perché lei tornò a guardare la strada gonfiandosi come uno stratega il cui mirabolante piano è andato in porto.

« In città è arrivato un così bel ragazzo, Caroline… » partì all’attacco, mentre io mi chiedevo quale, tra gli abitanti della spensierata Peaceful catechizzati da mia nonna, sarebbe stato il primo a tradire i suoi comandi sbattendomi in faccia l’amara verità.

L’eterno ritorno sarebbe cominciato presto.

 

*

 

In due settimane diedi vita alla mia nuova routine: svegliarsi alle sette e trenta, caffè e tre fette di torta di mele, chiacchierare con la nonna fino alle otto e quindici, riordinare la casa e poi cedere completamente al torpore che avvolgeva il mio corpo e che, giudicai dalla totale incapacità di reagire che dimostravo, necessitava di essere soddisfatto. In parole povere, guardavo la televisione e ascoltavo musica, spesso dormendo. Ero stanca e totalmente confinata nel coma che mi stordiva dal viaggio di ritorno. Non avevo neppure voglia di lavarmi i denti o di pettinarmi, figuriamoci di indossare qualcosa di diverso dal pigiama. Dopotutto, non vi era stata occasione di mettere piede fuori casa.  

Svuotando la valigia, avevo nascosto tutto ciò che avrebbe potuto ricordarmi New York: il computer, il manoscritto, i vestiti che avevo acquistato per tirarmi su di morale, i libri letti negli ultimi mesi. Durante il giorno cercavo con tutta me stessa di non pensare; ebbi talvolta un discreto successo, grazie alla nuova modalità stand-by acquisita dal mio cervello. 

Capii presto di essermi portata l’insonnia da New York, legata a filo doppio con le mie delusioni; la notte, le energie accumulate durante il giorno scoppiavano come fuochi d’artificio mandando a tutto gas i motori intorpiditi dei miei neuroni, che partivano ai cento all’ora verso un’autostrada impolverata di sensi di colpa e attacchi di panico. Di questi ultimi soffrivo ormai da due anni; andavano e venivano, talvolta lasciandomi incolume per mesi interi. Ma non rimasi stupita quando, alle tre di notte del decimo giorno, il cuore mi salì in gola ed iniziai a tremare, impregnando le lenzuola di sudore. La certezza che avevo coltivato in quei giorni, ovvero che la mia vita si sarebbe protesa lenta e insoddisfacente fino alla morte più triste che fossi riuscita ad immaginare - seguita dal funerale più mediocre mai organizzato a Peaceful -, scoppiò come un geyser nel cuore della notte, inondando tutto il mio corpo con la certezza che quella morte sarebbe avvenuta ora. 

Sopravvivere agli attacchi era un sollievo - ma la mattina, se cercavo di chiedermi perché, non trovavo risposte convincenti. Sentivo d’essere addormentata come il panorama che scorgevo dal vetro azzurrino della finestra: la terra intirizzita, infruttuosa, ricoperta di neve. Ero diventata la crescita interrotta degli alberi, gli animali in letargo, il mare così nero da credere impossibile che dentro vi fosse vita. 

Il quattordicesimo giorno lessi la bolletta della luce, dimenticata da mia nonna sul tavolo della cucina. Capii di dovermi trovare un nuovo lavoro: questo significava che avrei dovuto mettere il naso fuori casa e vedere gente, rispondere alle domande dei molti che mi conoscevano, fissarli negli occhi mentre parlavo. Avevo lavorato per Pilgram, l’unico libraio della città, ma scartai subito l’idea. Decisi di provare da Patty&Sue’s, la tavola calda più nota di Peaceful. A New York avevo capito che servire ai tavoli di un locale non lascia molte possibilità di perdersi in riflessioni e, magari, sgobbare mi avrebbe liberata un po’ dall’insonnia.

Questo riuscì a conferirmi una scintilla di energia: lavata e vestita, provai un discorso allo specchio - indugiando peraltro poco sulla parola fallimento - e dissi alla nonna che sarei andata in centro a piedi. 

« Ma fuori si gela, Caroline. Lascia che ti dia un passaggio. Non vorrai ammalarti ».

Ero entusiasta di poter prendere una decisione dopo quindici giorni di stato vegetativo. « Vedi » sventolai un giaccone, « con questo non sentirò freddo ». 

Lei storse il naso; per un attimo temetti che stesse per chiedermi di nuovo se ero depressa. O se volessi suicidarmi alle sette e trenta del mattino, a Peaceful, New Hampshire, rovinando per sempre l’immacolata reputazione degli autoctoni.

« Dove vuoi andare? »

« Da Patty&Sue’s ».

I suoi occhi si illuminarono. « Hai un appuntamento? Così presto? »

« No… » Ci misi un po’ a capire. « No, non ho nessun appuntamento. Vado per un lavoro ».

« Sai che non devi mentirmi, tesoro. Se hai conosciuto uno di quegli uomini che la mattina presto… »

« Mio dio, nonna. E’ una tavola calda, non un motel ».

« Suvvia, non scandalizzarti. Alla tua età ero già fidanzata con tuo nonno e tu sei una splendida ventitreenne. Lui com’é? »

« Chi? »

« L’uomo, Caroline, l’uomo. Sono passati anni dall’ultima volta in cui Matt Donovan è entrato in casa nostra. Che ragazzo educato! Ti ricordi? Chiedeva sempre “permesso”. Molti pensavano fosse gay. Ci portava ogni domenica dei dolci buonissimi… li faceva sua madre, ovviamente, ma che gentile! »

« Avevamo sedici anni, nonna » dissi. « Come fai a ricordartelo? …no, non importa. Non parlarmi di Matt Donovan ».

La sentii sbuffare mentre imboccavo la porta di casa. 

« Ah, certo che non te ne parlo! Si è sposato, Caroline. Con quella Mandy, la figlia del macellaio. Hanno avuto un bambino. Sai com’è, quando ti sposi incinta… non era poi così gay come si pensava, evidentemente. Aspetta, devo chiederti un’ultima cosa ». 

La nonna abbassò la voce, facendo segno di avvicinarmi.

« Non è che per caso non ti piacciono gli uomini? Ho letto che è tremendamente modaiolo fare outing a New York. Hai fatto outing, tesoro? Sai che puoi dirmelo. O forse ti è capitato al college? Lì si fanno certe esperienze! Sei diventata lesbica al college, Caroline? »

 

*

 

Patty&Sue’s era un locale dalla facciata azzurra, luminosa, con le tendine alle finestre e gli infissi color ostrica. Riproponeva l’eleganza delle tavole calde nelle località vacanziere e d’estate, quando i turisti invadevano Peaceful, era motivo di vanto per le proprietarie: due donne di quarant’anni, figlie delle fondatrici originarie. Le conoscevo da sempre. Quando entrai infreddolita alle otto precise, il locale era già colmo di chi si affrettava a consumare la prima colazione. C’era odore di pancakes, di burro e di bacon. Tutti stavano parlando, tutti si sorridevano a modo loro. La televisione nell’angolo annunciava i centimetri di neve che sarebbero caduti quel giorno e di cui nessuno si sarebbe stupito. Il fatto che Peaceful si fosse concentrata in una stanza - l’agitazione mattutina allegra e non esagerata, l’abitudine tranquillizzante del quotidiano - fece apparire la mia entrata più definitiva e importante di quanto avessi previsto: eccolo, l’eterno ritorno!

« Forbes… ma sei tu? »

Una ragazza paffuta sedeva al tavolo più vicino alla porta. Eravamo state amiche al liceo. Mi chiese se fossi tornata per trascorrere le vacanze a casa. 

« No, mi sto prendendo una pausa ».

Fortunatamente lei non indagò oltre. Una mezza bugia, come inizio, non era poi così male, concordai con me stessa; se qualcuno si fosse davvero interessato a me, non avrei esitato a pronunciare la parola fallimento. Ma contavo che Peaceful ci sarebbe arrivata da sola, quando non mi avesse vista prendere nuovamente il largo.

La fretta che avevano tutti di prima mattina fu dalla mia parte: i saluti si sbrigarono brevemente, le banalità si dissolsero nel profumo della colazione. Cinque minuti dopo ero davanti a Patty. 

« Quindi, vuoi un lavoro ». 

« Sì ».

« Ma in tutti questi anni non hai mai lavorato qui, Caroline. Neppure alle feste di Natale o ai matrimoni. Sei certa che sia adatto a te? »

Mi strinsi nelle spalle. 

« Ho già svolto un’impiego come cameriera di ristorante ». Non specificai volutamente dove e quando. « Qui non può essere molto diverso… »

Patty arricciò la punta del naso e parte del volto floscio, sistemandosi gli occhiali dalla montatura rossa. Sembrava così sicura di sé infagottata nell’uniforme da titolare.

« Caroline, tesoro. Sai che apprezzo la sincerità e che non amo perdermi in fronzoli ». Mi fece segno di aspettare un minuto. Una ragazzina ci passò di fianco reggendo un vassoio. « Per la miseria, Amber, non vedi che il caffè trabocca dalla tazza? » Tale Amber ci fissò terrorizzata. « Una figlia miope mi dovevano dare. Vai a sistemare, stupida! » Patty si stirò l’uniforme con due manate. « Non credo che questo lavoro sia adatto a te, Caroline ». 

« Perché? Voglio dire… » Il cuore iniziò a corrermi dal petto alla gola. « C’è qualcosa che non va? »

Lei smise di guardarmi in faccia. « Insomma, lo sai, tesoro ». 

« No, invece ». 

« Ma sì, ma sì. Sei una scrittrice, no? Con la testa tra le nuvole e tutto il resto ». Avrei voluto chiederle quando, di preciso, avesse diagnosticato la mia presunta incapacità di concentrazione e in cosa consistesse tutto quel resto di cui non sapevo di essere colpevole. « Noi » (lei e Sue? Il locale? I clienti? Tutta Peaceful? Sul momento non trovai risposta), « non facciamo per te, tesoro ». 

Boccheggiai, realizzando subito di essere totalmente impreparata a quel genere di rifiuto. Dio!, tutto si ripeteva. E a Peaceful! Come avrei potuto dirlo alla nonna? Con cosa avrei pagato le bollette e le rate del prestito? 

« Oltre a ciò, ho da poco assunto Vicky Donovan. Hai presente, no? La sorella di Matt. Voi due uscivate insieme secoli fa, se ben mi ricordo ». Patty indicò con un’occhiata il salone, in cui le cameriere - ne contai quattro - sfrecciavano da un tavolo all’altro. « Come vedi, siamo al completo ».

In un flash mi passò davanti il misero curriculum lavorativo che l’anno precedente avevo stilato: decine di mani diverse avevano scritto, le une sopra le altre e coprendo l’intero foglio, la sigla fallimento. I miei genitori, per primi, a seguire Matt Donovan ed il genere maschile, le case editrici, il ristorante. Ed ora Patty.

« Caroline, tesoro! Non c’è bisogno che tu ti metta a piangere ». 

Notando l’espressione stupita di Patty, che si era illuminata come il cielo la notte di capodanno, mi accorsi di avere gli occhi lucidi. 

« Grazie lo stesso » esclamai, girandomi e scappando dal locale.

 

*

 

« Non potrei pagarti più di trecento dollari al mese, Caroline. Sei così disperata? » domandò Pilgram. 

Ci eravamo incontrati in Sunrise Road, la strada di Peaceful occupata prevalentemente da negozi, bar e saloni di bellezza. Mentre mi allontanavo dalla tavola calda di Patty, avevo pensato di entrare e tingermi i capelli, o di comprare il costosissimo vestito esposto nell’elegante vetrina di una boutique. Faceva molto “o tutto o niente” spendere soldi quando si è stati liquidati. 

La nipote di Pilgram avrebbe compiuto quindici anni la settimana successiva e l’anziano libraio, come mi disse quando l’incrociai per strada, era alla disperata ricerca di un regalo adeguato. Sembrava felice di vedermi (benché con Pilgram non si potessero mai pronunciare con certezza frasi simili: i suoi occhi azzurri, vividi seppur miopi, davano l’idea che vi fosse uno specchio ribaltato tra ciò che pensava e ciò che lasciava intendere).

« Scommetto che hai già provato da Patty&Sue’s » sorrise, guardandomi da sopra gli occhiali dalla montatura dorata. « Ah, quindi sono solo una seconda scelta ».

« Dubito che tu possa avere bisogno di me, in libreria… cioè, so che non hai bisogno di me. Dio, fa come se non te l’avessi mai chiesto. Trecento dollari non mi basterebbero mai ».

Lui scosse la testa e guardò il soffitto. Chiacchierando, eravamo entrati in un caffè. Aveva detto di voler offrire. Sembrava che sapesse già molto di New York (forse per intuizione, forse grazie alla nonna) e non si era alterato quando gli avevo francamente domandato se sarebbe stato disposto ad assumermi di nuovo. 

« Caroline, Caroline » cantilenò. « Sappiamo entrambi che è un lavoro da liceali. Certo, un lavoro che tu eri molto brava a svolgere ». 

« Quando non rubavo i libri ».

« Vero. Ma ne avevi… com’era? Un disperato bisogno… » Appoggiò il cucchiaino nella tazza ormai vuota. Mi guardò serissimo. « Sei sempre stata bisognosa ».

« Che vorresti dire? »

« Quello che ho detto ». Ridacchiò. « Come un cagnolino, o un gattino. Bisognosa…» 

« E’ la cosa più orribile che tu mi abbia mai detto ».

Si alzò in piedi ed io lo seguii. Quando fummo usciti dal caffè, uno di fronte all’altra sul marciapiede umido di neve, Pilgram mi strinse la mano. 

« Purtroppo, il mondo è fatto di cose orribili. La vita è orribile. Invecchiare con i propri ricordi è orribile. Essere traditi, denigrati, dimenticati, sorpassati. Fa tutto parte dell’orribile, Caroline. Mia nipote compie quindici anni e sua madre mi ha pregato di non regalarle un libro. Orribile ». Sospirò. « Tutto è di per sé orribile. Non è per questo che scriviamo? »

Per la prima volta, sospettai che anche quel vecchio ingrigito e un po’ gobbo fosse stato giovane; possibile che avesse scritto o, non ci avevo mai pensato, che ancora scrivesse? Lo immaginai nascondere centinaia di fogli fitti d’inchiostro nella cassaforte della libreria, proprio dietro allo scaffale - lo sapevo - dei bestseller americani degli ultimi anni. 

« Orribile ».

« Solo quando ci pensi » commentò Pilgram, girandosi ed andando via. Lo sentii ridere come un uomo spensierato. Fu terribile.

 

*

 

Cercai di non abbattermi più del necessario. Come disse la nonna quella sera, Patty era una signora di facili costumi probabilmente analfabeta. Il marito l’aveva abbandonata dopo due anni di matrimonio, scappando (si era poi scoperto) con degli amici sul retro di camion diretto in Messico. La vita era stata sufficientemente meschina con lei da liquidare ogni risentimento. 

Giudicando la mia anima ormai salva dall’odio - era, a detta di tutti, molto importante che a Peaceful le persone non si odiassero -, il giorno seguente la nonna invitò a pranzo Sam Sornoby, cinquantenne a capo delle risorse umane dell’unico studio legale in città. L’argomento lavorativo fece la sua comparsa sapientemente condita e studiata dalla nonna tra l’arrosto e le patate. Sam Sornoby venne ingrassato come i tacchini nel periodo antecedente al Ringraziamento e, alla fine, abbattuto dall’ultima cucchiaiata di dolce. Con l’occhio un po’ smorto di chi vorrebbe concedersi una lunga dormita, mi chiese che facessi al momento. Risposi: « niente ». La nonna aggiunse: « si è fatta venire in mente di voler lavorare! ». Sam Sornoby fanticò ad alzarsi; i bottoni della camicia turchese tremavano. 

Disse: « Ah, i giovani ».

Mi ricordai che il suo unico figlio si era arruolato l’anno precedente nei Navy SEAL e ciò fu sufficiente a bloccarmi la digestione e a desiderare che Sam Sornoby si dimenticasse per sempre di quel pranzo. 

Quando era ormai alla porta, Sam Sornoby mi consigliò di mandare in ufficio il mio curriculum. 

« Ecco, è qui » disse la nonna. 

« Bene, bene, bene… » 

« Dice che può andare? »

« Certo. Non deve fare granché. Fotocopie, roba simile ». Gli scappò un basso rutto che cercò di mascherare. « Ti chiamo domani, Caroline ».

Tre giorni dopo iniziai a lavorare come segretaria. 

La mia vita era ufficialmente finita.

 

*

 

Nei trecento giorni che seguirono feci esattamente tre cose: fotocopiare, mangiare merendine e scrivere. Intascavo una modesta somma di denaro, che fu però sufficiente ad estinguere più di tre quarti del prestito. La stabilità che ne derivò e che avrebbe dovuto spingermi verso orizzonti più rosei, riuscì a confinarmi in un placido angolo di universo fatto di tranquilla apatia. Con calma iniziai ad ingrassare, fortunatamente senza mai raggiungere il modello governante; ero diventata dipendente dal cioccolato. Guardando le altre segretarie dello studio, capii però che era un vizio comune che ognuna di loro rintanava in un cassetto della scrivania. 

Gli attacchi di panico si diradarono, purtroppo lasciandosi dietro l’insonnia. Ad un certo punto di una imprecisata notte recuperai il computer e aprii un nuovo file. Le parole uscirono rapide, benché secche e dure come cortecce di alberi morti. Abbandonai ogni aggettivo di troppo, ogni genere di condimento. Raccontai di un cieco che scappa dal nord del mondo perché non può più sopportare la gentilezza di chi, guardando l’aurora boreale, tenta di descriverla; e di una donna ricchissima schiava della propria infanzia vissuta in una povertà di cui i genitori le dicevano di andare fiera. Immagino che raccontai di me quando narrai l’amicizia tra una giovane ragazza ed un uomo che nessuno, a parte lei, è in grado di vedere. La mia anima, la parte più profonda della mia anima, si chiedeva la ragazza ogni mattina, è destinata a rimanere appannata, silente, infinitamente intrappolata qui dentro? 

Storie brevi, senza finale. Un modesto risultato che giudicavo inutile, non utilizzabile, da liceale. Che amarezza! Che delusione ero diventata! Tutta quell’assenza di sogni, di orizzonti, ed un’àncora arrugginita ben affondata nella sabbia a tenermi ferma, in apnea sott’acqua. 

Era tornato l’inverno. Durante l’anno avevo recuperato qualche amicizia, benché la maggior parte avesse lasciato Peaceful (troppo tranquilla, civilizzata, omogenea, circondata dalla natura e dai pregiudizi della gente di paese, con i prati tagliati all’altezza giusta - non favorevole all’ispirazione, alla frenesia giovanile, allo sballo alcolico da Beat Generation). Camminando sulla spiaggia grigia, sempre umidissima in quella stagione, tentavo di soffocare ogni reflusso d’infelicità. Mi sarei adeguata a Peaceful. Magari domani, o il giorno dopo; tra un anno o due, nella peggiore delle ipotesi. Come mia nonna, e sua madre prima di lei; come il vecchio Pilgram. Mi si stava chiedendo solo di sopportare. Ci sarei riuscita, giusto? A ridimensionarmi, a diventare come tutti gli altri spensierati cittadini ridenti, soddisfatti, lavoratori agiati, che vedevano nei propri sogni giovanili un ricordo buffo, un’assurdità che…

Peaceful mi depurerà, pensai. Un vento freddo e sferzate mi graffiava le guance, mentre sprofondavo i piedi nudi nella sabbia gelida. A qualche centinaio di metri da me, tre uomini stavano ormeggiando un piccolo peschereccio all’estremità del pontile. L’alba non si era vista quel giorno, e la nebbia colorava tutto di un bianco lattiginoso. Mi sembrò un miraggio. Eppure, eccoli là! Pescatori, marinai semplicissimi. Dovevano essere felici, qualche volta. Per forza. Si erano abituati, loro

Uno lanciò due funi ai compagni scesi a terra. Assicurarono il peschereccio. Le corde, le boe e persino la vernice della barca mi sembrarono ricoperti di brina. Rimasi ferma a fissarli, incurante che mi potessero notare. Probabilmente li conoscevo. Eravamo tutti gente comune, gente di Peaceful. Dopo una decina di minuti li vidi percorrere il pontile, poi risalire la spiaggia, verso la città. Trascinavano del pesce in due grosse reti. Dissi “Buongiorno” quando mi raggiunsero, ma non udii risposta; dovevano essere sordi per la stanchezza della notte trascorsa in mare. Proseguirono.

« Buongiorno ».

Una persona stava camminando verso di me. Un uomo, a giudicare dalla voce. 

« Buongiorno » ripeté, quando mi raggiunse. 

« Buongiorno ». 

« Ma non ha freddo ai piedi? »

« Un po’ ».

« Già. Mi scusi, non volevo spaventarla ». 

Negai con la testa. Non ero spaventata. 

« Lei è di qui? »

« Di Peaceful? Sì, certo ». 

Indossava un giaccone lucido, imbottito, con il cappuccio a proteggerlo dalle folate di vento, ed un passamontagna rosso sportivo che lasciava scoperta una parte del naso, gli occhi. Un ciuffo di capelli. 

« Posso aiutarla in qualche modo? »

« Sì, lo spero. Sono arrivato stamattina… » 

« Oh ». Mi sforzai di sorridere. « Non capita molto spesso, in questa stagione… »  

« Che arrivi qualcuno? »

« Già ». 

Parve soppesare l’informazione, guardando il panorama. Deglutii, infilai le mani in tasca e mi dondolai sulle piante dei piedi mentre mi osservava. Fu un esame rapido. 

« Devo raggiungere… » Estrasse il cellulare da una tasca del giaccone. « Concorde Road, numero otto. Ma il mio navigatore pare essere inutilizzabile. E il telefono… »

« Non sempre c’è internet, qui ». 

« Sta scherzando? »

« No, no. Magari. Purtroppo capita. Assurdo, eh? »

« … » 

« Comunque. Per Concorde Road deve proseguire lungo la costa, da quella parte, poi prendere la prima a sinistra e raggiungere Market Street… e… sì, poi giri vicino alla chiesa e vada avanti finché… saranno cinquecento metri, al massimo. Finché sulla destra non incrocia un ferramenta dalla facciata rossa. Imbocchi quella strada e… mmm ».

« Ha qualche dubbio? »

« Sì, mi dispiace. Non ricordo se a quel punto si debba svoltare a destra o a sinistra. Scusi. Ha davvero interpellato la persona meno adatta a fornire indicazioni. Ma, per quanto riguarda il resto, può tranquillizzarsi, credo sia corretto ». 

« … »

« Troverà qualcuno a cui chiedere, a quel punto. Ne sono sicura. Peaceful pullula di persone cordiali, che non aspettano altro se non l’ora di poter aiutare uno sconosciuto smarritosi in città… mio dio, mi scusi. Però è la verità ».

« Lei è una ragazza sardonica, vedo » ridacchiò.

« Sarcastica ».

« No, no. Sardonica. Ha presente? »

Accusai la sua sicurezza come si accusano le sorprese. 

« Ho presente, sì. Forse ha ragione lei. Sardonica ».

« … »

« Non che mi piaccia, come aggettivo ». 

« Ah, no? »

« No ».

Non gli vedevo davvero la bocca, ma il contorno, l’ombra e la carne delle labbra erano lasciati intuire dal sottile passamontagna rosso. Mi stupii scoprendo che le parole non vi uscivano ovattate, bensì forti e piene.

Mi chinai ad infilare le scarpe, osservandolo di sfuggita mentre controllava il telefono. La conversazione era giunta al termine ed io sentivo il bisogno di tornarmene a casa. 

« Perché è qui così presto? »

« Come, scusi? »

« In spiaggia, la domenica mattina. Sono appena le sette. Non mi sembra in tenuta sportiva ». 

« Ma senti un po’… » 

« Non volevo dire che non ha il fisico da sportiva ». 

« Meditavo. Sì, stavo meditando. Intensamente ». 

« Ecco spiegati i piedi nudi ».

« Poi è arrivato lei e… » Feci un gesto con le mani, mimando una bomba che esplode. « Addio trascendenza ». 

« Sta scherzando. Bene. Mi era sembrata così seria ».

« … »

« Mentre guardava i pescatori. Stavo solo cercando di capire se era una persona o una statua » disse. « Non volevo spiarla ». 

« Ah ».

Mi strinsi nella giacca. La conversazione che stava portando avanti e che sembrava tentare di avermi come oggetto mi disturbava - mi imbarazzava - più di quanto avessi desiderio di fargli notare. Sperai che se ne andasse. Volevo essere lasciata in pace. Le chiacchiere con uno sconosciuto non si adattavano affatto, non si mischiavano minimamente, erano olio con acqua; quindi dissi:

« Spero che trovi la strada. Ora devo tornare a casa, è stato… »

« Sì, certo. Grazie dell’informazione » mi salutò. 

Mentre lo sentivo allontanarsi in direzione del parcheggio asfaltato retrostante la spiaggia, fui tentata di spiarlo. Mi ero ridotta ad osservare la vita da lontano! Un’incapace, inabile, inadatta. Eppure, mi voltai.

L’uomo si stava effettivamente dirigendo verso il parcheggio e manteneva un’andatura cadenzata tra la camminata e lo scatto. Sembrava uno sportivo, sì. Un’auto nera metallizzata era tutto ciò che riuscivo ad intravedere. Riluceva nonostante l’assenza di sole. Poi, mentre scompariva con lui all’interno lenta e silenziosa, svoltando lungo la costa, intravidi il bagagliaio al di là del vetro: vuoto, nessuna valigia in vista. Chissà cos’era mai venuto a fare, in gennaio, a Peaceful.

Inventando improbabili ragioni e conclusioni come da mia abitudine, percorsi la spiaggia per la sua placida e morbida lunghezza, diretta verso casa.

 

*

 

« Nonna, sono qui. Hai già fatto colazione? »

Mi sfilai le scarpe, ricercando con le piante dei piedi il calore del riscaldamento che intiepidiva il pavimento dell’intera casa. Sentii la televisione mormorare. C’è puzza di fumo, pensai.  

« Nonna? »

« Oh, Caroline, sei qui! Finalmente, stavo per mandare qualcuno a cercarti… »

Una brace ormai morta, ingrigita e fumosa, giaceva abbandonata a spegnersi nel caminetto. 

« Hai lasciato che il fuoco… »

Non ci fu risposta, se non uno “shh”. La nonna sembrava mummificata su di una sedia in cucina; di rado permetteva che la televisione la ipnotizzasse. 

«…Sono evasi ieri sera dal carcere di… Successivamente ad una forte esplosione che ha investito l’edificio centrale… La stima dei latitanti è ancora da confermarsi… Informiamo tutti i cittadini della massima pericolosità di alcuni tra questi individui e chiediamo collaborazione… Le unità di tutto il Paese sono state avvertite e sono pronte ad intervenire… Purtroppo, si crede che la maggior parte abbia già lasciato lo Stato… Si stanno monitorando le frontiere con il Canada… Non indugiare nel caso… Chiamare il numero… Ogni informazione in vostro possesso potrebbe rivelarsi utile…»

Il volto truccato della conduttrice sfumò nello schermo, mentre la telecamera si lanciava ad inquadrare decine e decine di primi piani, alcuni in bianco e nero. Uomini, ragazzi, vecchi, poche donne; di fronte, di profilo. Con quei cartelli.

«…Le fotografie segnaletiche sono disponibili sul sito internet… Le trasmetteremo nuovamente ad ogni servizio… Un evento senza precedenti…»

« Nonna. Ma cosa…? Mio dio. Dove… qui? »

« No, vicino a Boston ».

Si crede che la maggior parte abbia già lasciato lo Stato… 

Il Massachusetts, realizzai. Mi appoggiai al tavolo, incapace di commentare, i pensieri sfilacciati ma elettrici. Quante miglia tra Boston e…? 

Un evento senza precedenti… 

« Quanti… quanti sono? »

« Non lo hanno ancora comunicato con certezza. Pensano intorno al centinaio, Caroline ».

La brace del camino sparse l’ultima, calligrafica linea di fumo. Infine si spense e la cucina, l’intera casa, Peaceful tutta fu percorsa da un brivido ghiacciato.

«…Si tratta della più ingente evasione di massa nella storia degli Stati Uniti d’America…» ci informò la voce fuori campo della conduttrice.

Guardai la nonna afferrare il telecomando e spegnere il vecchio televisore, che emise un suono acuto, squittendo.

« Moriremo tutti » commentò.

 

*

 

Il mattino seguente mi fu possibile constatare quanto, per tutta la vita, avessi in realtà sottovalutato la pacifica cittadina in cui vivevo, che si stava di colpo rivelando un più che preparato centro di addestramento militare - quasi pensai di tornare a New York. In poche ore si organizzarono pattuglie, scorte, raccolte di fondi per finanziare pattuglie e scorte, e veglie (il cui senso e utilità sfuggivano proprio a tutti, ma a cui nessuno si mostrò meno che ben disposto a prendere parte), mentre nell’aria friggeva costantemente la futuristica domanda: sono già tra noi?

« Un branco di deficienti ».

« Caroline » disse Pilgram, da sopra la propria tazza di caffè. « Parla a bassa voce. Nutro il sospetto che siano perfettamente in grado di organizzare un rastrellamento… »

« Non ridere. Mia nonna è a casa che cucina torte di mele, come se burro e zucchero potessero fermare un’orda di criminali. Cristo ».

Il vecchio Pilgram, seduto al bancone del bar, scrutò attentamente la sala gremita alle sue spalle. 

« Stanno organizzando una marcia ». 

« Perché sembri così entusiasta? Patty sta… aspetta. Ha appena citato Ufficiale e Gentiluomo? Non posso crederci ».

Pilgram alzò le spalle, quasi giovialmente. 

« Capisco » dissi. « Io ne ho abbastanza. Telefonami se iniziano a imbracciare torce e forconi ».

Smontai dallo sgabello e mi diressi alla cassa. Due minuti dopo, finalmente lontana dal caos locale, respirai l’aria pulita dell’esterno. C’era ancora molta neve sui marciapiedi asfaltati ed il freddo penetrava frizzante nel cappotto. Iniziai a camminare, scoprendo Peaceful simile ad una città fantasma. Ogni attività era stata sospesa e chi non stava palesemente perdendo la ragione nei luoghi di ritrovo sembrava essersi rintanato in casa. Senza accorgermene, iniziai ad imitare il divertito sorriso di Pilgram.

Proseguii per circa due miglia, scrutando le saracinesche abbassate dei negozi vuoti. C’era una pace. A Peaceful non si superano i seimila abitanti, eppure, come è ovvio, avevo trovato molta più tranquillità la mattina presto in certi vicoli stretti e sgombri di New York. Iniziai a giocare con l’idea che a Peaceful, dopotutto, la gente avesse paura del silenzio. 

« Lei sta rischiando la vita ».

« Ma che… » Tra i bidoni argentati che ingombravano il lato destro del supermercato cittadino, un uomo, in piedi, sembrava pacificamente intento a fumare. Ci separavano pochi metri d’asfalto bagnato.

« Non si ricorda? » disse. « Devo presumere che sardonica non sia l’unico aggettivo in grado di definirla, dunque ».

« Oh… buongiorno ».

Fu lui a raggiungermi. 

« Credevo di essere sola ». 

« Dove sono tutti? »

« A blaterare di marce, rastrellamenti e ronde. Sa com’è ». 

L’uomo arricciò il naso, lanciando una rapida occhiata alla strada deserta. Del passamontagna rosso non c’era più traccia, per cui mi attardai ad osservargli il volto. Scoprii che non aveva il genere di viso, tratti somatici e tutto il resto, che capita talvolta d’incontrare alla fermata di un autobus, in coda alle Poste o che so io. 

« Come sta? » esordii.

« Bene ». 

« Presumo che abbia trovato Concorde Road, alla fine… » 

Non ero esageratamente felice di averlo rincontrato. La mia voce suonava più entusiasta e scherzosa di quanto avrei voluto. Cercai di dare un senso a quella conversazione; lui non doveva conoscere quasi nessuno, in città, dopotutto.

« È stato più facile di quanto pensassi. Non è un tale disastro come crede, nel dare indicazioni ». Si portò la sigaretta alle labbra. Aspirò a lungo, gustandosi quel veleno come si gustano le caramelle. « E lei, mi dica, perché non è al sicuro a casa? »

« Non crederà veramente che cento detenuti si stiano dirigendo qui! » 

Ridacchiò. Aveva un modo naturalmente inaspettato di farlo.

« Potrebbero essere già arrivati. Qualcuno, se non altro ». 

« A Peaceful? »

« Perché no? Dopotutto è una città sull’oceano ». 

« Solo un pazzo potrebbe sperare di attraversare l’oceano in pieno inverno, con le barche che abbiamo a disposizione. E » dissi, interrompendo le sue rimostranze « le coste, se non sbaglio, sono controllate… »

Annuì, poi mi guardò negli occhi. I suoi erano chiari e privi della minima traccia di sangue nella sclera bianchissima. Ebbi l’intuizione che volesse giocare.

« Quindi, secondo lei li prenderanno tutti ». 

« Lo spero. Devono farlo. È gente ignobile ».

« La maggior parte » disse. Gettò in un bidone argentato la sigaretta, poi ne estrasse un’altra dalla tasca esterna del giaccone. « Vuole? »

« No, no ».

« Mmm… »

« Cosa? »

« Nulla » asserì. « I giudizi morali e i suoi occhi ».

« Che vorrebbe dire? »

« Non si offenda, avanti ».

Scossi la testa. « Non mi piace fumare, tutto qua… »

« … »

« In verità, ho intenzione di morire senza aver mai preso in bocca una sigaretta ».

L’uomo parve colpito, ma non come avrei voluto. Non sorrise né niente.

« Rimarrà tanto a Peaceful? »

« Un paio di settimane ».

Lo guardai rimettere la sigaretta nel pacchetto. Sembrava pensieroso.

« Sono qui per lavoro ».

« Capisco… »

Aspettai che esplicitasse che “genere” di lavoro come tutti si mostrano sempre ben contenti di fare, ma l’attesa si dimostrò infruttuosa e precipitò la conversazione in una voragine gelida. Sorrisi, infilando le mani in tasca, pronta a lasciarlo tra i bidoni. Ero la prima a saper apprezzare la solitudine.

« Mi chiamo Klaus ».

« …come? »

« Klaus ».

« Oh! »

« Sta per dire che nome strano? »

« No, no. Cioè, un pochino… » 

« La vedo in difficoltà ». 

« … »

« Posso farle lo spelling, se preferisce… »

« È norvegese? Europeo? »

Lui mi squadrò.

« Sa, i lineamenti del suo viso… »

« I miei genitori » spiegò. « Ma io sono nato in America ».

« Capisco. Suona… interessante ».

Un ragazzino in bicicletta ci sfrecciò di fianco, incurante del ghiaccio lungo la strada. Lo seguiva un vento freddo. Avrà avuto tredici anni e sembrava divertirsi più di chiunque altro in quella insperata e anarchica solitudine. 

« Lei non ha intenzione di dirmi come si chiama, vedo ».

« Caroline » dissi, ma lentamente. Guardavo ancora il ragazzino, ormai una sagoma lontana e colorata.

« Caroline ».

« Caroline, sì… nome proprio di persona, femminile, singolare ».

« Sardonica come sempre ».

Sorrisi senza guardarlo, perché quel gioco iniziava a piacermi più di quanto desiderassi fargli notare.

« Ora devo andare » dissi, retrocedendo di un passo. 

« È stato un piacere ».

« Arrivederci, allora… »

« Arrivederci ».

Mi voltai decisa, lasciandolo alle spalle. Decisi improvvisamente di entrare nel supermercato e, per farlo, dovetti percorrere il lato destro dell’edificio, verso l’entrata sul davanti. Cercai di controllare l’andatura: non volevo mettermi a correre né procedere troppo lentamente o ingobbire le spalle. Santo cielo, pensai. Che ragazza di provincia! Eppure mi sentivo così leggera. Da quanto non succedeva? Cosa, poi, non avrei saputo dirlo.

Perdendomi in quei pensieri giocosi e di una consistenza che sapevo essere invisibile, non mi accorsi neppure della neve che, come spesso accade in quella stagione, senza preavviso era tornata a cadere. Uscii oltre le porte scorrevoli del supermercato deserto con un misero acquisto nella borsa di plastica: dentifricio.

Raggiunto il lato opposto e solitario della strada, voltandomi appena, cercandolo per la prima volta, infine lo trovai: là dove lo avevo lasciato, immobile tra i bidoni lucenti; le braccia così aperte, tese a sforzarsi di raccogliere il gelo e la neve nell’aria. Le palpebre chiuse, chiarissime, il volto quasi cristianamente rivolto al cielo nuvoloso - Klaus (che nome strano!), assurdamente, inspiegabilmente, silenziosamente rideva.





 

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Capitolo 2
*** Disperato bisogno (Canzone per la sirena) ***




Ed ecco qui il secondo capitolo. Quasi in anticipo. Spero vi piaccia!
Chiedo, nel caso, di dirmi che ne pensate :) Adoro, come tutti, scoprire le reazioni dei lettori.
Essendo una storia breve, si svolge più velocemente; spero comunque di aver reso le reazioni ed i pensieri dei personaggi. Spesso trovo tremendamente difficile rimanere fedele al Klaus di TVD - TO. 

Buona lettura,
Marina

 





2.

Disperato bisogno

(Canzone per la sirena)

 

[…]

« Fai vela verso di me
fai vela verso di me
lascia che ti stringa tra le mie braccia
io sono qui
io sono qui
ti sto aspettando per averti »

[…]

 

Ai principi di febbraio i latitanti assicurati alla giustizia superavano già il cinquanta percento degli evasi. Il che, naturalmente, rassicurò l’America e smentì chi, soprattutto all’estero, dipingeva la nostra organizzazione nazionale come un sistema ormai prossimo alla decadenza. La media contava tre arresti al giorno; Boston, Washington e New York sembravano i ricettacoli scelti dalla maggior parte dei criminali - uno si era spinto fino alla frontiera con il Messico, però. 

C’era una calma metodica negli arresti, una naturalezza rassicurante. Tutto tornava normale - non a Peaceful, con mio sommo disgusto. Tra ronde, pattuglie e cittadini che s’improvvisavano agenti di polizia sotto copertura disseminati in ogni angolo di strada, pronti a scattare al minimo fruscio, le occasioni di panico non mancavano. Matematicamente la mattina, camminando lungo la spiaggia, vedevo apparire losche figure incappucciate al mio fianco, qualche metro più indietro, o addirittura di fronte: è per la sicurezza, dicevano. Potresti incontrare un malvivente, o peggio. Potresti essere tu, il malvivente.

« Non ce la faccio più. È tutto così ridicolo! »

Appoggiai una pila di fogli bianchi sulla fotocopiatrice, quindi cercai il pennarello rosso che tenevo in tasca: “NON FUNZIONANTE”, scrissi, ricalcando due volte. 

« A chi lo dici. Stamattina, mentre facevo jogging… »

« Al parco? »

« Sì ».

« Te la sei andata a cercare, allora… »

La segretaria con cui stavo sbrigando le ultime mansioni, una donna sulla trentina, annuì. Parlavamo a bassa voce ormai da un anno, ma non avrei saputo dire se mi considerasse davvero un’amica. 

« Io finisco qui e poi vado… » 

Segnai gli appuntamenti e le telefonate degli avvocati, controllai il computer, osservai l’orologio: le sette e trenta. La libertà era a portata di cappotto.

Dieci minuti dopo, infagottata e stanca, chiudevo dietro di me il portone d’entrata. L’aria ghiacciata della sera che fischiava in rapidi turbini di vento mi gelò il naso, le guance e le mani. Iniziai a camminare tra i mucchi di neve lentamente. Inoltratami nel centro città venni distratta da qualche macchina, alcuni conoscenti, ed un brulicare di studenti che scoppiavano a ridere senza preavviso, ma con una certa puntualità. 

Era venerdì sera ed io cercavo di non pensarci troppo, preferendo una noia placida come un ansiolitico alle fitte dolorose di un’agenda sgombra di appuntamenti. Voltai la faccia quando raggiunsi il cinema. Infine decisi di procedere lungo un sottile sentiero sterrato, lucente di neve e di ghiaccio, che sapevo poco frequentato per la troppo fitta e sporgente ramificazione di sempreverdi. Costeggiando Peaceful, mi avrebbe portata a casa.

Sotto il cielo di febbraio, procedendo oltre il limitare del sentiero, pensai alle ragazze delle favole. Poi alla nonna, che mi aspettava - dunque ero Cappuccetto Rosso?

« Buonasera, Caroline ».

Sobbalzai. Erano giorni che coltivavo una marea di parolacce. Come una Erinni mi voltai, aprii la bocca e presi fiato:

« Non me ne frega niente della sicurezza cittadina, per me potete andare tutti al diav… Klaus. Oh ». 

« È alterata, vedo ».

« … »

« E un po’ rivoluzionaria ». 

« Mi scusi. Non volevo… »

« Aggredirmi? »

« Già ».

« Immagino l’abbiano sentita fin giù in città. Il messaggio era chiaro ».

« …dio ».

Lui mi squadrò. 

« Non credevo fosse ancora a Peaceful » dissi, tentando di tranquillizzare la voce. « Non l’ho più vista… »

« Lavoro molto ». 

Annuii ricordando come, settimane prima, in un’inaspettata conversazione tra i bidoni, non avesse svelato la natura della propria occupazione. I giorni erano passati, uno dopo l’altro, finché una sera non avevo ripensato all’uomo che rideva nella neve - e mi ero dittatorialmente imposta di non… Fantasticare? Su cosa, poi?, riflettei guardandolo in piedi, serio e tranquillo in quel bosco di rovi. Un bel viso dai lineamenti nordici, l’arguzia che non tentava di nascondere, la gentilezza e (ti ricordi, Caroline?) quando aveva riso, che sorpresa… 

« Che follia… »

« Come, scusi? »

« Nulla » dissi. « Devo… stavo andando a casa ». 

« Perché si guarda i piedi mentre parla? »

« … »

« Allora? »

« Questa è una domanda molto crudele ». M’imposi di sorridere e fui sollevata quando gli occhi di lui fecero lo stesso (eppure, solo per un attimo).

« L’imbarazzo non le si addice, Caroline ».

Se gli avessi detto che non gradivo quel genere di “vicinanza verbale” sarei apparsa come una zitella brusca e acida? Nel dubbio, alzai lentamente le spalle.

« Ma se preferisce, me ne sto in silenzio e la lascio procedere sola, nonché libera da ogni imbarazzo, lungo questo losco sentiero. Sappia però che certamente mi sentirei in colpa se le capitasse d’incontrare un latitante appostato nell’ombra… »

« Ancora crede che Peaceful sia nelle mire dei serial killer? »

« Strenuamente ». Infilò le mani in tasca, da cui estrasse un paio di guanti. « Li indossi, non vorrei che perdesse le dita ». 

Guardai i guanti con sospetto. Li afferrai in silenzio, perché le mani quasi mi bruciavano in quel freddo, stando comunque attenta a non toccare le sue, nude. Inspiegabilmente mi sembrò di aver firmato un lungo contratto.

« Grazie » dissi, mentre li indossavo e immaginavo i suoi occhi che studiavano quel gesto. « Per fortuna il suo cappotto ha le tasche… ecco fatto! »

Klaus sembrò non sentirmi. « Per di là, allora? » 

Dunque, mi aveva davvero portata a firmare qualcosa. Tentai di esiliare l’incertezza: era solo un miglio.

« Sì » sussurrai, superandolo.

Iniziammo a camminare. Klaus procedeva lento, con un’abitudine che non compresi, nel buio torbido dell’inverno. Forse gli era già capitato di attraversare quel tratto di boscaglia.

« Così… guanti di pelle. Non crede siano un po’ sospetti, in questi giorni? »

« Tremendamente sospetti. Perché cammina sola a quest’ora della sera, Caroline? »

« La prego! »

« No, no. Serial killer o meno, è pur sempre una città… »

« Si chiama Peaceful. Faccia due più due ».

« Non è mai scomparso nessuno? 

Annuii. « Solo morti naturali, che io sappia. In tarda età ». 

Lui parve soppesare l’informazione; non sembrava del tutto convinto e mi dissi che, probabilmente, stentava a credermi. 

« Ma non ha la macchina? »

« Ehm… sì. Beh, più o meno ». Tentennai. « In condivisione… »

Vedendo che mi guardava, quasi fermo, sperai che la notte fosse abbastanza nera da coprire ogni rossore; non avevo alcuna voglia di nominare la nonna. Klaus attese per qualche secondo. Io accelerai il passo.

« Capisco » disse, gelandomi appena. « Dunque, ama camminare da sola. E guardare il mare da sola, all’alba, la domenica mattina. Interessante. Verrebbe quasi da pensare ad un’asocialità cronica, Caroline… »

« Elementare, Watson » risi.

Ora il buio era così intenso da abbracciarci completamente, oscurando i rispettivi volti. Distinguevo a malapena il bianco assoluto dei suoi occhi. Mi avvicinai, sfiorandogli involontariamente il cappotto. 

« Siamo quasi arrivati. Abito laggiù, vede…? La casa con le luci natalizie in veranda ». 

Immaginai che stesse aguzzando lo sguardo. Davanti a noi, a cinquecento metri, la strada principale faceva la sua comparsa come unico tratto non innevato; il lato destro, opposto alla baia, era ingombro di poche, praticamente invisibili villette con giardino, quasi spettrali da così lontano. Mi rammaricai che il buio ne coprisse l’eleganza. Improvvisamente desiderai essere sola.

« Le luci a febbraio? »

« A mia nonna… » Serrai le labbra, cercando di deglutire l’evidentemente innegabile incontinenza verbale da cui ero affetta. Perché diavolo gli avevo permesso di accompagnarmi? « È che mi piacciono. Anche se non è Natale e tutto il resto ». 

Non lo guardai, chinando mollemente la testa; mi sembrò comunque di vedere il suo profilo annuire. Tutto gridava imbarazzo; finalmente compresi in quali abissi mi avesse confinata il fallimento: ero una vigliacca. A ventiquattro anni vivevo con mia nonna, avevo relegato la mia passione ad un pallido hobby notturno, svolgevo un lavoro che non mi entusiasmava, non riuscivo ad essere felice come-e-con tutti gli altri e, dio, mi vergognavo di me stessa. Povera, povera Caroline…

D’un tratto sentii due dita sollevarmi il mento. Inspirai forte. Klaus aveva le mani fredde.

« Non abbassare gli occhi. Sembra quasi che tu voglia nascondere qualcosa ».

Indietreggiai, scuotendo la testa. Avrei potuto mistificare, mentire, correre via - certo non volevo dare inizio ad una conversazione a cuore aperto con uno sconosciuto.

« Sono solo stanca. Tutto qui. Non nascondo proprio nulla ». 

« … »

« Davvero » dissi. « Ora devo andare. Torna pure indietro, non serve che mi accompagni ».

« Caroline… » 

« No ».

« Aspetta ».

« … »

« Aspetta, Caroline… »

Sospirai, cercando di ragionare. Avevamo improvvisamente iniziato a darci del “tu” - era stato lui, ricordai. Klaus inclinò appena il viso. Non disse niente. Il che, naturalmente, mi spinse quasi ad aggredirlo. Riconsiderai la fuga. 

« Non ho bisogno di uno psicologo » dissi.

« Non sono uno psicologo. Odio gli psicologi ». 

« Bene. Bene ». 

« Sai, Caroline » ricominciò « vorrei chiederti una cosa. Chiamiamolo un favore professionale. Una specie di favore professionale… »

« …come? »

Non sembrava affatto turbato. Invidiabile sicurezza, ecco cos’era. « Riguarda il mio lavoro… »

« Ah, giusto. Non ho idea di che lavoro sia perché non hai specificato alcunché ».

« Ho le mie ragioni ».

« Sentiamola, allora, questa specie di favore professionale. Sono curiosa ».

Davanti a quel picco di acidità, Klaus parve tentennare. Capii quanto poco gli piacesse - e me ne fregai.

« Mi dispiace non averlo detto prima, ma non credevo ti interessasse. Dovresti imparare a chiedere ».

« Grazie per il prezioso consiglio » borbottai. « Allora? »

Klaus prese fiato. « Il mio lavoro ha a che fare con… oserei dire, con l’arte. Dipingo quadri, li vendo quando piacciono, e ne dipingo altri. Stranamente mi consente di vivere ».

« … »

« Ho dipinto qualche paesaggio del New Hampshire su commissione, negli ultimi tempi. Non dipingevo da un po’ ». Attese, forse ripensando a quella confessione. « Ciò che più amo è ritrarre persone… Benché raramente riesca a vendere i risultati ».

« … »

« Persone come te, Caroline ».

Tacqui lasciando affondare le sue parole, ora ingombranti e riverse sulla terra innevata che ci separava. Poi tacqui ancora, e ancora, e ancora. Guardavo Klaus - che stranezza era mai quella? Quest’uomo, un pittore. Un pittore… un mio ritratto?

« No » dissi. « No, mi dispiace. Sei gentile, e tutto ciò è molto interessante e ammirevole, ma non credo che… no ». 

« Perché? »

Alzai le spalle. Nonostante il cappotto avevo freddo. « Perché sarebbe… sì, beh, sarebbe assurdo… io in un quadro… no, davvero. Non credo riusciresti a… ed io non riuscirei di certo… no. No. Proprio… no ».

Klaus si avvicinò. Non sorrideva; lo avrei detto perplesso. Ancora una volta, riconsiderai alla fuga.

« Perché sarebbe assurdo? »

« Perché… non lo so. Ma lo sarebbe! » 

« Tu dipingi? »

« Cosa? No… »

« Allora, con tutto il rispetto, lascia che sia io a stabilire i limiti dell’assurdo. Avanti, non sono Modigliani » rise. « Ma la tua mancanza di fiducia a priori mi offende. Corri il rischio, Caroline ». Poi aggiunse, pungolandomi: « Ti sfido ».

Mi sforzai di ridere a mia volta, ma ne uscì uno squittio isterico. Avrei voluto dirgli che io lo avevo corso, quel maledetto rischio, mille maledette volte - ecco il risultato!

« No ». Sorrisi educatamente, per porre fine alla questione. « Ora devo proprio… »

« In tutto ciò » m’interruppe « non mi hai ancora chiesto perché desideri dipingerti. Strano, no? Voglio dire, una tale ferma convinzione e nessuna domanda… »

« È che non mi interessa. Ma sei gentile e ne sono lusingata, perché mai avrei pensato che… beh, hai capito. Però non mi interessa… »

« Un paraocchi, dunque ».

« Oh… » 

« … »

« Klaus, smettila di guardarmi! » 

Lui abbassò lentamente gli occhi, mentre io già mi pentivo di aver parlato. « Caroline… »

« Dico solo che non fa per me. I perché non mi interessano… »

« …perché hai paura? » concluse, curioso.

Non risposi. Mi voltai, dandogli le spalle, scappando in un silenzio sordo. 

« Sei bella, Caroline. Per questo vorrei vederti in uno dei miei quadri » disse la sua voce, quando mi raggiunse dopo pochi metri. « Mi piaci ».

Non mi fermai, non alzai lo sguardo, non respirai. Vedevo solo il buio e la neve bianca che calpestavano i miei piedi.

Poi realizzai. Io gli piacevo. Interdetta, frenai quella fuga.

« …come? » Ma mi ritrovai a conversare con il sentiero buio dietro di me, immensamente gelido e tetro: di Klaus non c’era traccia.

Per tutta la notte che seguì non riuscii a chiudere occhio, cedendo terreno a fantasie di cui la mente mi ricordava d’essere indegna, inadeguata, non pronta: ogni fantasia era una schiena nuda ed ogni mentale rigetto la sua frustata.

Io gli piacevo.

Io.

Che follia, mi dissi quando l’alba raggiunse le persiane; non aveva forse capito con chi aveva a che fare?

 

*

 

Entrai nella locanda a testa bassa, volenterosa a non incrociare gli occhi di nessuno. La colazione del sabato mattina era una di quelle tradizioni che avrei felicemente estirpato dalla nostra vita familiare. Ciò che mi aveva sempre frenata negli anni era che, a dispetto della sua ottima salute, una parte di me credeva ancora che la nonna ne sarebbe stata sopraffatta. Ed uccidere un parente rimaneva, come sempre, un’opzione fuori programma.

« Caroline, smettila con quel muso lungo. Hai dormito, stanotte? »

Ci sedemmo. Sbadigliai.

« Sì, sì. Per me caffè… nerissimo. E una ciambella ».

« Ciao, Vicky, è un piacere rivederti! Scusa mia nipote, crede sia concesso essere sgarbati se non si ha dormito a sufficienza ».

« Ma io ho dormito ».

Vicky Donovan mi lanciò un’occhiata. Era magra e bella come hai tempi del liceo, ma decisamente meno selvaggia infagottata nel grembiule bianco da cameriera. 

« Ti ho vista, sai, con la luce accesa. Crede che sia stupida » disse la nonna, ora rivolta del tutto a Vicky. Riconsiderai la gravità di un omicidio.

« Come sta tuo fratello, Vicky? »

« Oh, Matt sta bene. Il bambino lo occupa molto, ma lui e Mandy se la cavano ». 

« Salutamelo, cara… » 

Mia nonna mi guardò di sbieco; iniziai ad intuire una certa rabbia vendicativa, in lei. « Tu non mandi i tuoi saluti a Matt, Caroline? »

« Certo » sorrisi. « Salutamelo tanto, Vicky. E digli anche che sì, effettivamente non ho dormito molto bene stanotte ». 

« Oh, Caroline! »

« A lei cosa porto, signora? »

La nonna commiserò il menù in plastica con uno sguardo, poi disse: « Il solito, cara ». 

E finalmente Vicky Donovan trotterellò via, ad una velocità che giudicai di molto superiore agli standard della Cameriera Modello. 

« Era proprio necessario? »

« Sai che non tollero bugie in casa mia, Caroline ». 

« Oh, guarda. Mandano un’altra cameriera a portarci l’ordinazione. Vuoi seviziare anche questa? »

Mia nonna sorrise, prima a me e poi alla cameriera, infine incrociò gli occhi di Patty in fondo alla sala ed alzò un sopracciglio.

« No, per ora mi limiterò a sorseggiare questo buonissimo tè. E tu, tesoro, dovresti fare lo stesso ».

« Sei sempre così poco interessata… » continuò.

« Questo non è vero ». 

« Non esci mai! »

« Cosa hai mangiato ieri sera… cianuro? » dissi, addentando la ciambella. Non riuscivo ad individuare Pilgram nella sala. 

« Lo dico per te, bambina mia. Lo sai. Vorrei tanto vederti felice… un ragazzo, degli amici da invitare a pranzo… è crudele da parte tua negarmi queste cose, Caroline ». 

« Non credevo fosse necessario specificare che la mia vita è una preoccupazione circostanziata a me soltanto ».

« Ecco che ricominci ad usare questi termini. Lo fai sempre, e solo per mettermi in difficoltà ».

« …è crudele da parte mia, sì ».

« Proprio ora che stiamo rischiando tutti la vita, Caroline! » 

Tossii.

« La vita? »

« La vita! » disse lei con ardore. « Prima o poi qualcuno sparirà, è solo questione di tempo… ma no, a te non interessa! Che importa se la nonna muore… »

« … »

« Non ti dai neppure la pena di memorizzare le fotografie segnaletiche. Non leggi i giornali! »

« Perché nessun criminale sano di mente cercherebbe rifugio in una città di seimila abitanti. E posso garantirti che nessuno, nonna, ha la minima possibilità in uno scontro a fuoco con te ».

Lei tacque, stringendo le labbra in una linea biasimevolmente insoddisfatta. Ingurgitai la ciambella, decisa a scappare il più lontano ed il prima possibile.

« Sai che c’è stato un furto, Caroline? » disse, mentre chiudevo i bottoni del cappotto e tentavo di masticare. 

Deglutii. « Oh, guarda, nonna. Laggiù c’è la signora Perkins… ecco, ci ha viste! »

« Buon dio, la Perkins. Ascoltami, Caroline. Un furto! »

« Buongiorno, signora Perkins ».  

« Caroline, è un piacere vederti… » 

« Mary, dillo anche tu. Mia nipote non crede che ci sia stato un furto in città! »

Mary Perkins mi sorrise calorosamente. « È tutto vero, cara ». Si accomodò al mio posto. « Nel negozio di dischi del signor Abbott… Quel povero vedovo! »

Mia nonna annuì a tutta forza. « Non se lo meritava proprio… » 

« Una rapina a mano armata? » domandai, sgomenta. A Peaceful non succedeva dal… beh, probabilmente non era mai successo. 

« Ma no, cara! »

« Ciò che Mary vuole dire, tesoro » saltò su mia nonna « è che il signor Abbott si è semplicemente accorto che mancava un disco. Quell’uomo ha una mente contorta, sadicamente precisa; una volta mi telefonò a casa per un errore di pochi centesimi… una zecca! »

Mary Perkins sembrava ugualmente persuasa.

« Tiene certi registri curatissimi! Segna la minima cosa… che vita grama, eh? »

Indietreggiai senza sapere che dire. Una parte di me si chiese se il futuro mi avrebbe vista rassomigliare a queste due vecchiette. Cercai di sembrare neutrale, quando parlai. « Se non vi dispiace, vi lascio ai vostri… alla vostra colazione ».

« Ma Caroline! Hai sentito quello che… »
« Signora Perkins; nonna » salutai, dando loro le spalle. Incrociai Patty e distolsi lo sguardo per non notare il suo sorriso di circostanza. Peaceful mi sembrava fatta di ovatta e lanugine; ogni persona un pupazzo con gli occhi a bottone. 

« Non è sempre stata così » sentii dire.

« Già, già. Me la ricordo bene. Le manca l’interesse, mmm? »

 

*

 

Non ero effettivamente sempre stata così - tetra, depressa, insicura e genericamente infelice. Esisteva una precedente versione di me stessa, una Caroline 1.0 spensierata, giovane e speranzosa, reginetta delle feste a tema ed amante dello shopping. C’era stata una Caroline felice, pochi anni prima. Ridente, competitiva, tenace, interessata. Forse quasi bellissima, e con una certa forza d’animo - incredibile, no?

Il college aveva ingrassato i miei sogni spingendomi a cantare come le cicale, di pura gioia: sono viva! Il mondo è mio! Ce la farò! 

Ero così sicura - il resto lo si può immaginare. In gioventù avevo anche ipotizzato che vi fosse una qualche bellezza nella disillusione. Bugie. Era come morire, solo pian piano, un arto alla volta, una convinzione dopo l’altra. 

Quindi, eccomi: io, dopo un’altra settimana di neve, nella sperduta cittadina di Peaceful, blindata nel minuscolo ufficio senza finestre di Sam Sornoby, a tentare di capire cosa esattamente volesse comunicarmi alle otto e trenta del mattino.

« Dobbiamo ridurre i costi… »

« Capisco ».

« Caroline, non sai quanto mi dispiace. Nessuno vorrebbe mandare via proprio te. Io non vorrei » disse, seduto dietro la scrivania. « Ma, in quanto capo delle risorse umane, tocca a me scegliere. E tu sei l’ultima arrivata ».

« Certo ».

« Non voglio che tu dica “certo”, Caroline. Devo ancora rivelarti una cosa: ad essere sincero, non ho preso una vera e propria decisione, e non sono del tutto convinto che licenziare te sia il bene dello studio. Sei estremamente giovane, fresca, intelligente… »

« … »

« …Jenna ha trentacinque anni. Camille cinquanta ». 

« … »

Sam Sornoby borbottò in tono pratico: « Potrei facilmente scegliere una di loro ».

« Non capisco… »

Sam Sornoby, stretto nella camicia gessata, allentò la cravatta. Sudava appena, sotto il naso e sulla fronte - c’era sempre un che di umido in lui. Seguii la traiettoria dei suoi occhi, che ora si stavano spostando dal mio viso verso… oh. Per un po’ pensai di aver visto male.

« Se tu dimostrassi… se tu avessi voglia di dimostrare il tuo eccellente valore… a me, s’intende… io potrei… ». Balbettò qualcosa. « Potrei fare un’eccezione, Caroline, e sostenere con gli altri quanto tu sia indispensabile. Io sono colui che può aiutarti. L’ho già fatto una volta, assumendoti senza chiedere nulla in cambio. Ricordi, vero? » Rinforzò appena la voce, quasi fosse più sicuro. « Ricordi quando non avevi niente ed io sono venuto a pranzo e tua nonna era così disperata? Ti ho aiutata ». Mi coprii il petto con le braccia; avrei voluto non avere il seno. In verità, una parte di me stava semplicemente desiderando di non essere donna. « Lo sai bene, Caroline… il mondo non funziona così. Dove c’è un dare, c’è sempre un avere ».

Sentii un tonfo gigantesco, come di un’àncora che precipita tra le rocce; non poteva essere vero. Non poteva star capitando a me. A Peaceful. Un vento gelido mi paralizzò. Pensai di avere la gola troppo secca per ribattere. Non sapevo neanche più che punto fissare in quell’ufficio claustrofobico.

« Quindi, Caroline… » continuò Sam Sornoby, allontanando lentamente la sedia dalla scrivania così da avere qualche metro libero. « Perché dovrei decidere di tenere proprio te? »

 

*

 

Sentivo un fischio e sapevo con certezza di essere l’unica, in quella strada delimitata da marciapiedi affollati a loro volta contornati, solo su un lato, da piccole montagne di neve ammuffita, a poter udire quel suono. Stavo camminando come una macchina contromano in una corsia riservata ai camion, urtando spalle e collezionando ammaccature, graffi, insulti. 

Procedetti lungo la strada principale che tagliava Peaceful a metà, parallela alla costa; avevo freddo, senza cappotto com’ero - uscire dall’ufficio di Sam Sornoby dopo aver pronunciato una sola parola (bastardo) ed aver udito una sola sussurrata risposta (puttana) non era stato molto diverso dall’avere un attacco di panico. Pensare, ragionare e organizzarsi erano al di là del possibile; ascoltavo il mio stesso respiro rantolare, arrotolarsi e soffiare rumorosamente come quello di un animale imprigionato. 

Ero ormai stanca quando riconobbi Concorde Road: periferica ed innevata, fu un lampo tra le onde che mi tiravano a fondo. Individuai subito il numero otto, un portone piccolo e scrostato e in ombra. Ripensai a Klaus; appoggiai il dito al campanello senza dare ascolto alla coscienza. Presto vidi la porta scostarsi; prima appena uno spiraglio ed infine, dopo qualche secondo d’attesa in cui osservai una parte del volto di Klaus, spalancarsi bruscamente. 

« Caroline ».

« Ciao! » 

Guardai i suoi occhi e l’incomprensione che contenevano e capii di essere pazza. « Scusami, non volevo… non volevo disturbare. Non lo avevo programmato. Faccio fatica a spiegarmi, al momento, però… oh, dio. È che mi sono ricordata l’indirizzo… passavo di qua e non sapevo neppure se tu fossi ancora a Peaceful, ma… »

« Entra » disse soltanto, facendosi rapidamente da parte e chiudendo la porta dietro di me. La stanza in cui accedetti era piccola, infossata e scarsamente illuminata, se non per un lato - ma, grazie al cielo, riscaldata. Trovai davvero difficile cogliere i dettagli; c’era molto disordine. 

« Siediti. Senza cappotto » osservò. « Vuoi…? »

« No, grazie, sto bene così ».

Il divano era logoro e consumato e mi sfregò le calze. Klaus si accomodò su una sedia, una di quelle artigianali in pino tipiche del New Hampshire. Era la prima volta in cui lo vedevo confuso.

« Sinceramente… » esclamai « …questa casa è proprio un casino! »

Lui arcuò le sopracciglia.

« … »

« Va tutto bene, Caroline? »

« Sì, sì. Certo che sì. Le solite cose… » Anche se seduta ero isterica, ansiosa. « Perdere il posto di lavoro senza apparente motivo, scappare dall’ufficio. Va tutto davvero benissimo ».

Ci separava un tavolino rotondo con il ripiano in vetro lucido; abbassai gli occhi e osservai il riflesso colorato di Klaus. Poi li chiusi.

« Questa è proprio una piazzata in piena regola, io che mi presento qui senza motivo. Spero tu… » Ma non ebbi la forza di chiedergli scusa un’ennesima volta. « Che stupida ».

« Non credo che tu sia stupida ». 

« Gli ho urlato in faccia. Al mio capo… » Alzai lo sguardo. « Non urlavo in faccia a qualcuno da un sacco di tempo. Anni ».

Klaus sorrise, come non credevo avrebbe fatto. « Ti sei già dimenticata dell’altra sera, dunque… ».

« Oh ». 

« Sai, Caroline, più ti vedo e più mi sembri… predisposta alle scenate ».

« Mi prendi in giro? »

« No, no… »

« Sì, invece! »

Tornai a guardare il tavolino e, pochi secondi dopo, lui fece lo stesso. Iniziai a fissare il riflesso degli occhi bianchissimi di Klaus che fissavano i miei dal vetro.

« Se vuoi raccontarmi… »

« No ».

« Bene ».

Passò un minuto, lento e pesante. Poi dissi: « Io ti piaccio ». E vidi il corpo di Klaus riscuotersi appena.

« … »

« L’hai detto l’altra sera ». Tossii; stesi una mano infreddolita sul tavolino, lontana dai nostri riflessi. « Hai detto proprio “Mi piaci, Caroline”. Poi sei sparito ». 

« … »

Erano anni che non facevo qualcosa di simile. « Ho… ho bisogno che tu mi dica il perché. Ne ho… » Mi ricordai di Pilgram. « …un disperato bisogno ». 

Non avevo ancora alzato gli occhi dal riflesso di Klaus quando vidi la sua mano, la prima cosa viva e corporea insieme alla mia su quel ripiano di vetro, accostarsi al mio palmo. Non lo accarezzò se non appena, con la punta di un dito. Lo sentii espirare con forza. Iniziai a sbattere le ciglia senza volerlo.

« E mi crederai? » chiese, circospetto.

« Non lo so. Spero di sì ».

« … »

« Ci proverò » ribadii.

« Bene. Erano venti minuti che ti osservavo » cominciò. «Quella mattina, dal parcheggio vicino alla spiaggia ».

« Cosa? »

« Eri arrivata dalla costa, sola. Non ti eri mossa per un sacco di tempo ed avevo cominciato a credere che volessi farti… Caroline, qualcosa di male ».

« … »

« E… »

« Pensavo avessi bisogno di me ».

« Non esattamente ».

« Conoscevi già questo indirizzo, quindi ». Klaus annuì. Capii che non si sarebbe scusato. « Continua » ordinai.

« Riuscii a farti ridere. Sai, Caroline, non ci si aspetta mai nulla di diverso da ciò che ci si aspetta. Sembravi una ragazza… »

Rabbrividii appena, chiudendo gli occhi e riaprendoli, guardandomi le ginocchia. 

« Quella mattina ho scoperto un genere curiosamente diverso di persona ».

« Scoperto? Nemmeno mi conosci… »

« È irrilevante » liquidò, pratico. Non aveva ancora interrotto lo sfioramento immobile di mani sul tavolino. « Ma mi sei sembrata forte mentre te ne stavi dritta sulla spiaggia a fronteggiare il mare, i piedi nudi ancorati nella sabbia. Eroica. Incurante del vento e del freddo come l’albero maestro di una nave ».

« Non prendermi in giro, Klaus ».

« Un po’ schiva sul finale » mi sorrise. « Certo non del tutto sgombra dalla tristezza. Ciò che conta è che lo eri in modo diverso da quanto avessi creduto. E settimane dopo, tu che camminavi ancora una volta in solitudine… Una ragazza non dovrebbe essere inquieta per la maggior parte del tempo » disse. « E indipendentemente da tutto ciò che tu credi di essere, e in forza di tutto ciò che io suppongo tu sia in realtà, nonché per altri miei personalissimi motivi, Caroline, mi piaci ».

« … »

« Ho risposto alla tua domanda? »

« Non lo so ».

Avvicinai la mano alla sua, abbassando gli occhi. « Qualche anno fa, forse… ed è… non esiste più davvero nulla di quello che… Klaus. Io non sono proprio eroica ».

« Sei solo dalla parte sbagliata della prospettiva, tesoro ».

« Non c’è nessuna prospettiva! » esclamai, ingombrando la stanza della mia voce.

« Sentiti, Caroline. Sei rabbiosa »

« … »

« Che cosa c’è che non vuoi che veda? Lo difendi così strenuamente. Sei un’ottima combattente, Caroline ». Sembrava parlasse della qualità più rara al mondo. « Questo mi piace ». 

« …seriamente? » 

« Non mi credi, dunque » disse, più offeso di quanta mi aspettassi. Qualcosa che avevo involontariamente nutrito in quelle settimane si crepò di netto. Mi dispiacque. Klaus fece per alzarsi dalla sedia ed il dispiacere si trasformò in panico.

« Aspetta, Klaus ».

Inspirò quando feci naufragare la mano nel suo palmo. D’un tratto e senza alcun motivo pensai all’odore dell’autunno e alle scosse elettriche e a due braccia che stringono e a quanto sarebbe potuto essere bello che quest’uomo assurdo e palesemente vittima di un abbaglio avesse continuato a parlare di me in quel modo.

« Ne voglio ancora » dissi, pianissimo. Poi alzai gli occhi e vidi la bocca di Klaus aprirsi appena. Capii che aveva capito, perché s’immobilizzò per un attimo davvero lungo e mi guardò più intensamente di quanto avesse mai fatto prima. Non disse niente ed entrambi ci alzammo in piedi. Fu lui a circumnavigare il tavolino; io coprii soltanto gli ultimi passi che ci separavano. « Bene » dissi, respirando il suo fiato. 

« Allora? »

« Credo che tu sia sincero. Non che quella che dici sia la verità ». Klaus alzò gli occhi al cielo, con reale esasperazione. « Ma… »

« Ma? »

« Ma mi piace il modo in cui la dici, e ne voglio… » La voce mi tradì, sprofondando. 

« Bene » concluse più duramente lui.

Lo facemmo su quel divano, quasi del tutto in silenzio, ed io lo abbracciai talmente forte che più di una volta Klaus, mentre mi baciava mi accarezzava mi stringeva e mi guardava, fu costretto a sussurrarmi all’orecchio che andava tutto bene.

« Sei così… » sorrise infine, stendendosi di fronte a me, il suo petto pallido contro i miei seni e le sue braccia a tenerci uniti ancora. « Ma sembra che tu lo abbia dimenticato ».

Il sesso con Klaus fu dolce e spontaneo e necessario come il respiro di un annegato che emerge dalle onde. Ora, però, i suoi occhi mi ponevano una domanda.

Perché?

Per un po’ tentai di non sentire; lui era troppo vicino.

« Perché? » chiese. Era curioso e crudele insieme, mentre mi stringeva a sé, e poneva quella domanda, e non si curava di imbarazzo o ritrosia.

« … »

« Perché te lo sei dimenticata, Caroline? »

Imbrigliata, il mio nome suonò come un richiamo severo. Se quella era l’unica occasione di spontanea sincerità che Klaus aveva intenzione di concedermi, ne valeva la pena? 

« Perché ho fallito » dissi. « Ho scritto un romanzo che era un sogno, al college. Sono andata a New York per realizzarlo… » Strinsi i pugni e chiusi gli occhi. « Oggi vivo con mia nonna, svolgo… svolgevo un lavoro noioso, e trovo del tutto impossibile essere felice come il resto di questa folle cittadina che, tra parentesi, si sta dimostrando farcita di più idioti di quanti credessi ». Pensai a Sam Sornoby ed un pugno mi colpì la pancia. « Poco importa chi ero prima o chi sia in realtà, Klaus: ho fallito a piedi pari e me ne vergogno, e non ne parlo per pura vigliaccheria, e non riesco a dormire perché domani sarà uguale ad oggi ed io sarò sempre una che è tornata senza… una che ha preferito tornare. In così tanti ci credevano… ».

« … »

« Non sono più in grado di creare dei legami con le persone, e… dio. Sono così stanca di essere me stessa che se esistesse un interruttore per spegnere la luce lo premerei. Va bene? »

« … »

« Perché posso continuare. Soffro di attacchi di panico, ansia, questo è il rapporto più intimo che… »

« Caroline ».

« Non voglio… che tutta questa roba… stia in un quadro… » dissi con voce nasale.

 

*

 

« Meglio? »

Ridacchiai, ma sembrò che singhiozzassi. « Sì., grazie ».

« Credevo volessi allagare l’appartamento. Ha giusto bisogno di una pulita ».

« Questo è senza dubbio vero. Mmm. Si sta bene qui ».

Mentre raccontavo, Klaus aveva fatto scivolare una gamba tra le mie cosce, ed io una sul suo fianco; ora le sue dita stavano seguendo linee inesistenti lungo le mie braccia.

« Hai freddo? »

« Sto bene così, non muoverti ». 

« Ti andrebbe di raccontarmi qualcosa? »

Klaus tacque. Alzò la testa per guardarmi negli occhi. « Che cosa? »

« Quello che vuoi. Ho parlato solo io… »

« … »

« Avrai per forza qualcosa da dire. Una storia… » Sorrisi. « Sì, ecco. Voglio una storia, per favore ».

« Ma non sono io lo scrittore, tra i due… »

« Ti prego ti prego ti prego, Klaus, non tocchiamo più questo argomento. Neppure per sbaglio. Il solo pensiero mi dà la nausea! »

« Una volta, quando avevo sei anni… »

« Hai già iniziato? »

« La storia è in corso di svolgimento ». 

« Sei così pomposo… »

Klaus sorrise. « Dicevo, prima di essere tanto maleducatamente interrotto, che una volta, quando avevo sei anni e la mia famiglia era un caotico agglomerato di serenità, quando vivevamo ancora nel sovraffollamento di una villetta all’aria aperta del Midwest, precisamente nella verde periferia di Chicago, una domenica i miei due fratelli maggiori decisero che era giunto il momento di rendermi partecipe di uno fra i più sacri arcani dell’arte sportiva: il baseball ». Klaus sbuffò. « Fu un vero disastro. Ero il bambino meno portato in tutto il campetto, e disgraziatamente loro erano due fenomeni. Giocammo per ore e per ore non riuscii a colpire una singola palla, neppure quando chiesero in prestito una mazza adatta alla mia altezza. La sera mi sentivo morire e, benché nessuno di noi tre avesse intenzione di andare a raccontare in giro la tragedia appena scoperta, sapevo già che a cena sarebbe strisciata fuori dalla bocca di qualcuno: dalla mia, assurdamente - non aspettai neppure la prima portata. Andai dritto da mio padre, sinceramente prossimo ad un attacco di pianto, e dissi: a baseball faccio schifo. Scoppiò una lunga conversazione a cui ciascuno si sentì in diritto di prendere parte. Eravamo davvero rumorosi a quei tempi. Hai chiuso gli occhi, Caroline… »

Li aprii. Avevo appoggiato la testa al braccio di Klaus.

« Mi aiuta a… affari miei. Potresti continuare senza più interruzioni? »

« … »

« Grazie ».

« Vediamo… Finn, il maggiore, disse che non c’erano speranze di miglioramento. Elijah si dimostrò disposto ad allenarmi ogni mattina prima delle lezioni, dalle sei alle otto, per due mesi. Mia madre, una donna molto decisa e del tutto avversa allo sport, disse che si trattava senza dubbio di una benedizione per la mia carriera scolastica. Mio padre taceva a capo tavola, serio in un modo pazzesco, come se nessuno intorno a noi stesse parlando. Tu che ne pensi?, mi arrischiai a chiedere alla fine. Avevo i pugni così stretti intorno al tovagliolo che la carta si strappò. Dobbiamo trovarti uno sport in cui tu possa essere il campione, Klaus, disse. Quando parlava lo prendevamo tutti sul serio: era un uomo massiccio, un capofamiglia che portava il peso della vita sulle spalle ed un padre che adoravamo. Così iniziò una lunga, frenetica ricerca che durò per tutto l’autunno. Sei mai stata nel Midwest d’autunno, Caroline? »

« No ».

« L’autunno è la stagione più lunga dell’anno, là. Inizia prima e finisce dopo, ed i colori sono così intensi che anche il cuore più duro si commuove. Milioni di foglie, ragazzini che scattano in bicicletta lungo questi viali larghissimi, alberi dappertutto, e casette sugli alberi, e riunioni segrete, e compiti da copiare e madri che sfornano dolci alla zucca. Così fu anche quell’autunno in cui i miei fratelli si presero l’onere di trascinarmi di qua e di là: campi da tennis, football, piscine, lacrosse, basket, golf, rugby… poi venne il giorno. Un pomeriggio di novembre, dopo la scuola, seguii alcuni miei compagni in una palestra speciale, per soli pugili. Allenavano ragazzini dai dieci anni, anche di meno se eri bravo, fino al diploma; nessuno nella mia famiglia aveva mai preso in considerazione uno sport che tutti giudicavamo tanto violento. Chiesi al responsabile di provare… fu folgorante. Disse che ero abbastanza veloce, che sapevo scattare e che, contro il sacco, benché non avessi ancora uno straccio di muscolo, nutrivo buone speranze di miglioramento. Puoi immaginarti la gioia e lo stupore che provai quel pomeriggio ». Klaus deglutì qualcosa di molto grosso e spigoloso, chiudendo gli occhi. « Inforcai la bicicletta, pedalando a tutta velocità e tagliando lungo i giardinetti dei privati per arrivare il prima possibile. Casa mia era piccola e in angolo, l’ultima della via. Lasciai la bici a ridosso del cancello e superai lo steccato, corsi per il vialetto tra i rododendri piantati da mia madre e spalancai la porta con tutta la forza che avevo nelle braccia. Gridai Diventerò il più grande pugile che abbiate mai visto… e la vidi: china a terra, in ginocchio, come mai avevo pensato si potesse mettere una madre. Stava piangendo. Entrai con il sorriso ancora fossilizzato sulla bocca, solo di un passo… e lui mi si parò davanti. Più tardi avrei scoperto che era ubriaco. Credevo che stesse scherzando, che avesse già in qualche modo saputo del pugilato e volesse mettermi alla prova - ma allora perché lei era in ginocchio e piangeva? »

Sgranai gli occhi. « Klaus… »

« Quella fu la prima volta in cui mio padre mi schiaffeggiò e l’unica di cui non ricordo il dolore. Ero troppo sorpreso e faceva così male che il mio giovane cervello ebbe la lungimiranza di cancellare ogni sensazione immediatamente. Certe volte capita; la chiamano auto-conservazione ». Klaus mi strinse, appoggiò le labbra al mio collo e tacque per un po’. Non mi accarezzava più. « La mia vita era cambiata per sempre e nemmeno riuscivo ad accorgermene. Disse che ero un bastardo e che lei, lei là a terra, era una puttana. Disse che non era mio padre, ed io ne piansi. Tutte le volte in cui mi ha colpito, più avanti negli anni, non furono nulla in confronto a quella sola, incomprensibile e violenta accusa: non ero suo figlio ».

« Mio dio ».

« Dopo un anno ci trasferimmo a Brooklyn e tutto cambiò. Mi odiava in un modo feroce, mitragliante. Imparai a camminare leggero sui piedi e ad uscire sempre prima di lui, a cenare a casa di amici e ad allenarmi fino a notte fonda. Miglioravo mese dopo mese, ma era una bravura inerme e disperata. I miei fratelli mi aiutavano come potevano; ben presto, però, iniziai a sentirmi nervoso quando erano vicini ».

Klaus mi accarezzò una spalla con le labbra e rimase immobile. Sentivo il suo peso, nonché il peso di ciò che aveva appena detto, gravare sopra di me e per un po’ davvero non seppi che fare per aiutarlo. Tutto, in quella piccola stanza illuminata dalla luce bianca del mezzogiorno invernale, sembrava fatto di polvere. Mi baciò con urgenza, per se stesso, e in poco più di un minuto ci ritrovammo a rifare sesso.

« Caroline… » disse, dopo.

« Non ti scusare. Non ci provare nemmeno… »

« Ho sbagliato storia ».

« Le storie non si sbagliano mai… »

Mi sistemai contro di lui.Chiudemmo gli occhi: ero certa che Klaus non stesse dormendo. Il cuore gli batteva forte nella cassa toracica, contro cui avevo appoggiato l’orecchio. Mi sembrava assurdo: un’altra vita, un’altra Caroline; ero lì, non sola, non più protagonista di un dolore inesprimibile, eppure così vicina al dolore. Mi ritrovai a baciargli il petto ad occhi chiusi, scoprendo di voler partecipare al suo rammarico.

 

 

*

 

« Da quanto sono qui? » sbadigliai.

Sentii un bacio sulla scapola, ed il palmo ruvido di una mano scendere lungo l’incavo della spina dorsale. 

« Dormi, Caroline ».

Sorrisi contro la tela del divano.

« Sai che soffro d’insonnia? Da sempre… » Quando lo dissi mi sembrò strano. « Cioè, non da sempre sempre, ma da molti anni. Volevo dire questo ».

La mano di Klaus aveva raggiunto e sostituito la bocca, coprendo la scapola sinistra come un bacile per raccogliere e contenere l’acqua. Non riuscivo ad immaginarmi la sua espressione.

« Da quando? »

« Oh… » dissi.

« Da quando, Caroline? »

D’un tratto lo sentii scendere dal divano e mi riscossi, girandomi, sedendomi sul cuscino. Lo guardai camminare nudo fino alla piccola cucina; era alto, pallido. « C’è un po’ di rosso nei tuoi capelli » dissi. « Non me n’ero accorta ».

Tornò con un pacchetto di sigarette e un accendino. Si sedette di fronte a me, dall’altro capo del divano. Sorrise.

« Oh, devi proprio fumare? » 

Stese le gambe a toccare le mie.

« Caroline… »

« Dico solo che il fumo rovina tutto ». 

Klaus appoggiò la sigaretta al bracciolo del divano. Sapevo che si aspettava qualcosa in cambio e per un attimo fui tentata di scherzarci su. Lui sembrava attento, ma forse era solo una facciata.

« Perché vivi con tua nonna? ».

« Sei furbo… » sorrisi. « I miei sono morti quando avevo quattro anni ». Fissai il copri divano azzurro, che sembrava un cielo torbido, lontanissimo eppure pesante, invernale. Battei due dita sul ginocchio senza produrre suono. « Non avevo parenti oltre alla nonna…vivevamo in un altro Stato. Io e la mia famiglia ». Annuii senza motivo, guardando di sfuggita Klaus. « Virginia… ma in una piccola città ». 

Mi toccò una caviglia. « Vieni qui ». Mi tirò appena per convincermi e, quando lo raggiunsi, non fece altro che sistemare la mia schiena contro il suo petto. Apprezzai che non mi volesse abbracciare. 

« Mio padre era omosessuale. Aveva un compagno al lavoro. Credo che mia mamma lo abbia scoperto per caso; lui non lo avrebbe mai detto… » Ridacchiai. « Lei era lo sceriffo. Aveva la pistola… fa tanto soap opera dirlo in questo modo ».

« Li ricordi? »

« Quasi per nulla. La nonna ha qualche foto, immagini di quando venivamo a trovarla. Mi ricordo i vestiti di mia madre, quelle poche volte in cui non indossava la divisa. E i suoi capelli… » Chiusi gli occhi. « Sono morti in un incidente d’auto… un tale classico! »

Mi sembrava che tutto, in quella stanza, stesse per crollare.

« Non so perché ti sto dicendo tutte queste cose ». 

Klaus mi toccò con una mano aperta la pancia, accarezzandola. 

« Voglio sentirle, Caroline » confessò, quasi nel mio orecchio. « Voglio sentire… » L’ultima parola si perse sulla mia pelle.

« È un po’ di tempo che non sento » aggiunse Klaus, serissimo, spingendo la testa contro il mio palmo.

« L’insonnia… è che mi ricordo ».

Klaus attese un minuto intero; poi si mosse rapido dietro di me. Accompagnò il mento con la mano che aveva sul ventre, portandomi a guardarlo negli occhi.

« Eri in macchina con loro? » Aveva le palpebre spalancate. 

Annuii. « Non mi sono fatta niente. Potevamo morire tutti e tre… siamo finiti contro un albero, di notte. Guidava mio padre. In quel periodo litigavano sempre, ma… avevamo passato una bella giornata, mi pare… » Poi aggiunsi: « Forse questa è una bugia ».

Klaus mi occhieggiava, immobile come una statua di sale.

« Va tutto bene? »

Allora lui parve riscuotersi da un sogno; abbassò la testa. D’un tratto capii di avergli ricordato qualcosa. 

« Va tutto bene » disse, spingendomi improvvisamente lunga distesa contro il divano e salendo su di me. I suoi occhi rivelavano. Incredulità, forse.

« A cosa stavi pensando, poco fa? » chiesi.

« A niente » rispose. « Ora stai ferma, Caroline… »

Credetti che stessimo per fare di nuovo sesso, ma Klaus si limitò a baciarmi: con più forza e un’esigenza strana, roca, a possederlo. Decisi che avrei ottenuto più tardi una risposta.

« La sigaretta… » gli ricordai, vedendo l’oggetto cadere dal bracciolo. Lui si voltò a controllare, fissandola per qualche secondo, poi guardò me.

« Senti, adesso? » mi azzardai a chiedere. Chiudemmo entrambi gli occhi: avremmo potuto dormire per un giorno intero su quel vecchio divano.

 

*

 

 Mi rigirai, scoprendo una sorprendente abbondanza di spazio a disposizione. Nella penombra accarezzai una coperta di pile e capii di essere rimasta sola. 

Alzandomi, guardai con attenzione l’appartamento, che ora comprendevo essere un’unica stanza trapezoidale. C’era una porticina piccola e in legno: forse il bagno. Non avevo idea di quante ore avessi dormito e la luce che scarsamente penetrava oltre le persiane semichiuse non riuscì a suggerirmi alcunché. Chissà se Klaus trascorreva le notti sul divano.

« Klaus? »

Cercai i vestiti: giacevano ripiegati sul tavolino di vetro. Li indossai in fretta, senza sapere bene cosa pensare. 

« Klaus? » ripetei fievolmente. Iniziai a camminare per la stanza ed ogni passo mi sembrò qualcosa per cui sarei potuta essere rimproverata. C’era un mobile marrone scuro con le ante scassate, una piccola cucina a gas dalla vernice scrostata, una poltrona coperta da un telo a quadri e quattro mensole spesse; nessuna televisione; il divano, il tavolino e la sedia. Tutto era sormontato da un sottile e grigiastro strato di polvere. Toccai un giradischi vecchio, vuoto, che aveva tutta l’aria di essere lì da sempre. Al suo fianco giaceva un unico disco, lucido e nero, immune alla polvere; per non prenderlo in mano avvicinai la testa, leggendo i titoli al centro… Un rumore riempì la stanza.

Guardai Klaus fissare il divano e chiudere veloce la porta.

« Caroline ». Alzò appena un braccio, mostrando un sacchetto di plastica. « Ho preso qualcosa da mangiare… Spero che il cibo congelato non ti faccia schifo quanto a me ».

« Oh… è okay ».

« Bene ».

« Che ore sono? » chiesi, allontanandomi dal giradischi ed andando piano verso di lui. Presi la busta mentre si toglieva il cappotto e la sciarpa (grigia e spessa, che non avevo mai visto). 

« Le due » disse. « Non volevo svegliarti ».

Annuii senza sapere che dire; aprii la busta di plastica, scoprendo una pizza congelata. Odiavo la pizza congelata. Mi domandai se cibo e appartamento fossero indizi di un portafogli a secco. 

« Accendo il microonde… » 

« Grazie » disse. « Giusto per prepararti, Caroline: ho solo piatti di plastica ». 

Finalmente riuscii a ridere. « Ed io che credevo fossi pomposo… » Camminai fino al giradischi, sollevata. Non percepivo il bisogno di commentare il sesso; mi chiesi se era così che accadeva, quando l’intesa con una persona superava il normale. 

« Tim Buckley… » lessi sul disco. 

« Non lo conosci? » domandò Klaus, guardandomi di sbieco mentre apparecchiava il tavolino basso.

« Ed ora dirai che è il più grande cantante di tutti i tempi e che la mia cultura musicale rasenta il melodramma ».

Si avvicinò. « Ascolta » disse, posizionando il disco ed accendendo il giradischi. Mi sedetti a gambe incrociate sulla poltrona: le molle arrugginite cigolarono. Klaus rimase in piedi, guardandomi con attenzione; il cantante, su una morbida melodia di chitarra, iniziò a… Conoscevo il brano. 

« Non sapevo fosse sua ». 

Klaus si sedette sul divano. « Oltre al pugilato, da adolescente dedicavo molto tempo alla musica. Vivevamo vicino ad un negozio di dischi ».

« A New York? »

« Sì » disse. « Alla deriva in mari deserti facevo del mio meglio per sorridere… nuota verso di me, nuota verso di me, lascia che ti stringa tra le mie braccia… ti sto aspettando per averti » sussurrò, senza coprire la canzone. « Questo mi piace. Non c’è salvezza finché si rimane soli, Caroline ».

Il microonde emise un suono acuto. Osservai Klaus alzarsi ed estrarre la pizza, che tagliò in due parti e appoggiò sui piatti. La voce di Tim Buckley intonò un’altra melodia, ma non riuscii a concentrarmi: pensare a ciò che avevo appena fatto con Klaus ora sembrava inevitabile. Parte dell’entusiasmo s’inabissò. 

« Buon appetito ».

« Sì… grazie ». 

Per un po’ mangiammo in silenzio, entrambi apparentemente riflessivi. Non sentivo neppure il sapore della pizza, tanto stavo cercando di spiare l’uomo al mio fianco. Mi sembrava che qualcosa si fosse rivelato prima di un indefinito tempo.

« Credevo che casa tua fosse piena di pennelli… e roba del genere » dissi. Lui sorrise appena.

« Ho tutto in macchina » spiegò.

« Quando hai imparato? » 

« Intorno ai quindici anni. Vivevamo già a Brooklyn, e a scuola c’era questo corso di pittura ». Lo guardai, più ansiosa di quanto avrei voluto. « Dovevo occupare il tempo ».

« Musica, pugilato, pittura… non si può dire che tu non abbia interessi » mormorai, finendo la mia fetta di pizza. « E di uno ne hai fatto il tuo lavoro ».

Klaus si raddrizzò. « Non come credi tu, Caroline » Abbassò gli occhi per qualche secondo. « Con i quadri è più facile ».

« Non dire queste cose, Klaus. Non mi servono delle scuse ». Scossi la testa. « Il mio libro non è piaciuto, tutto qua ». 

« E questa non sarebbe una scusa? » disse, serio. « Rimanendo a Peaceful non saprai mai se… »

« Basta ». Mi alzai, presi il mio piatto e lo gettai nel cestino. Mi sembrava che fossimo sul punto di rovinare ogni cosa e non sapessimo neppure come ci eravamo finiti. D’un tratto capii di non avere idea di che cosa stessi facendo, e quasi mi vergognai: fuggire dall’ufficio, reagire allo schifo in cui ero precipitata andando a letto con uno sconosciuto, raccontargli i miei problemi ed ascoltare i suoi. L’intera situazione mi sembrò molto più “da manuale”; non c’era nessuna speciale forma d’intesa tra noi.

« Caroline » chiamò la voce di Klaus, vicina. Mi voltai e lo trovai a pochi centimetri da me. Evitai di guardarlo, ma anche sul pavimento mi sembrò d’intravedere l’azzurro dei suoi occhi. 

« Io devo andare, adesso ».

Mi accarezzò i fianchi, senza stringere; mettermi le mani sulle spalle doveva sembrargli troppo amichevole - e, dopotutto, avevamo appena scopato.

« Caroline… »

« Mmm? » mugugnai, senza spostarmi.

« Andrai a casa? »

La sua domanda mi riscosse. Dove credeva che sarei andata? Alzando gli occhi, notai un’ansia strana sul suo volto. Fu lui, allora, a distogliere lo sguardo.

« Certo ».

« E tornerai qui? »

Invece di rispondere, annuii. 

« Vorrei leggere qualcosa di tuo, allora » disse. « E non per farti sentire meglio ». Quindi appoggiò le labbra sulle mie, bloccando ogni commento; ci baciammo per un po’. Klaus baciava lentamente, soprattutto all’inizio, quasi il bacio stesso fosse qualcosa di tremendamente fragile; caramelle da non consumare troppo in fretta.

« Un capitolo » disse, con il fiato corto. Mi allontanai appena, mentre lui andava alla porta. 

« Perché non apri le persiane? » domandai, guardando la finestra ombreggiata. 

Klaus alzò gli occhi al cielo e, per un attimo, mi parve d’intravedere una patina d’irritazione nei suoi gesti. Mi amareggiò così tanto che ingobbii le spalle. Cosa voleva da me? Ma, soprattutto: cosa potevo dargli? Cercai conforto nel pensiero che, magari, si sarebbe accontentato: uno squallido appartamento, una squallida pizza…

« Un racconto, forse » accordai a bassa voce, scappando dalla mestizia dei miei pensieri e da lui.

Quando sentii la porta chiudersi, respirai a pieni polmoni: l’aria fresca mi era mancata quasi quanto la luce del sole. Sorrisi al cielo ed iniziai a camminare, mentre nella testa le ore appena trascorse apparivano sfilacciate come fiotti d’energia elettrica. Solo dopo pochi metri mi accorsi di un uomo che, immobile al centro del marciapiede, guardava dritto verso di me; non lo avevo mai incontrato prima e l’abito elegante, la pettinatura alla moda nonché quella certa perfetta inadeguatezza che ha la gente di città nei luoghi di vacanza, denunciavano a gran voce il suo non appartenere alla comunità locale. Uno straniero.

Decisi di proseguire, ma involontariamente abbassai lo sguardo. Quando lo raggiunsi fu come penetrare un campo magnetico respingente; lo sentii spostarsi lontano da me, in direzione opposta, veloce come un vento freddo.

Continuai a camminare risalendo l’intera via; all’incrocio mi voltai… credetti di non vedere bene per la distanza, la luce e la neve che rifletteva i bagliori di ogni cosa. Eppure, lo straniero aveva bussato al numero otto di Concorde Road… e, sì, colui che gli stava aprendo la porta, mostrando una parte del volto e celando il resto, colui che stava attendendo un breve attimo d’immobilità prima di farsi da parte e nascondere nuovamente ogni cosa, era Klaus.

Perché non apri le persiane?, ricordai come un’eco sbiadita, ancora ferma all’incrocio. Passò un’automobile, lenta e pacifica, a suo agio nel reticolo di strade innevate: era Matt Donovan, che mi salutò al di là del finestrino e proseguì. Dandomi dell’idiota e sentendo per la prima volta d’appartenere anch’io alla Peaceful più calcolatrice e paesana, feci lo stesso.




 

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Capitolo 3
*** Il secondo fratello (L'altra faccia di Giano) ***


 

Ed ecco qui il terzo capitolo, appena in tempo! Presto scoprirete anche che... è molto più corto! Solo di cinquemila parole, invece delle solite ottomila. Chi ha detto che i capitoli devono essere tutti della stessa lunghezza? :) 
Ho deciso di spezzare le azioni. Perché amo tagliare le cose. E perché ho paura della noia. 

Grazie a chi ha recensito, apprezzato, letto e commentato su faccialibro il capitolo precedente. Spero che anche questo fratellino vi piaccia.

Buona lettura e buona domenica sera,
Marina.


 




3.

Il secondo fratello

(L’altra faccia di Giano)

 

[…]

È stato un sogno o tu sognavi me?
Eri tu la lepre ed io ero la volpe?
Ora la mia stupida barca sta accostando
Innamorati infelici (si sono) infranti suoi tuoi scogli
perché tu canti « non toccarmi, non toccarmi, ritorna domani »
Oh il mio cuore, oh il mio cuore rifugge dal dolore

[…]

 

Klaus era un pittore; per di più, un pittore realizzato - quindi, un artista: conoscendo intimamente la categoria, potevo benissimo credere che soffrisse di qualche sotto-genere di paranoia. Avevo sentito parlare di una certa sindrome a New York, diventata famosa negli ultimi anni, battezzata “disturbo evitante di personalità”: quella, o una delle diecimila altre ansie di cui gli artisti pretendono d’essere affetti, era probabilmente l’origine del suo comportamento schivo, riservato, indipendente. 

Continuando ad incedere lenta, rielaborai ogni singola occasione che si era infine trasformata in un incontro con lui: in spiaggia (solo nel parcheggio), tra i bidoni di una città deserta, lungo un sentiero sperduto ed ignoto ai più, in un polveroso, periferico appartamento foderato d’ombra. Avevo ormai raggiunto la libreria di Pilgram quando il volto di Klaus si sbiadì in quello di un altro uomo. Lo straniero.

L’intensità con cui mi aveva guardata appariva così astiosa da spingermi ad immaginare: un orecchio teso, accostato al legno brunito della porta, quindi una voce di donna; un uomo che si allontana furibondo per l’imprevisto ed attende che tale noia evapori nell’aria invernale. Un uomo - chi? Un cliente metropolitano spintosi sino alle gelide porte dell’oceano per i propri quadri? Un amico in visita, forse.  

« Caroline Forbes » chiamò d’un tratto una voce alle mie spalle. Intrappolata com’ero in quei pensieri, non riuscii a celare la sorpresa agli occhi di Pilgram, e proruppi in una colorita esclamazione. 

« Sei l’unica persona che, quando sembra tranquilla, ha sempre, al cento per cento delle probabilità, una guerra in atto dentro di sé » replicò il libraio.

« Sciocchezze » tossii. « Io non ho alcuna guerra in… »

Una macchina sfilò veloce: sobbalzai. « Cosa ci fai qui, comunque? Credevo avessi una libreria da mandare avanti! »

« Se tu sapessi mentire, Caroline, saresti una persona decisamente peggiore. Ti consiglio di non provarci mai » mormorò, iniziando a camminare. Mancavano circa duecento metri alla vetrina traslucida della libreria; procedendo, notai un ragazzino magro, in giaccone e sciarpa e scarponi, che tentava di scrostare il marciapiede dal nevischio ghiacciato prossimo all’ingresso. Mi ricordai di quando ero io a svolgere l’ingrato compito. 

« Si chiama Charlie Abbott » disse Pilgram. Si voltò e mi sorrise con goliardia. « Lavora molto meglio di te e per un prezzo inferiore ».

« Devi esserne davvero fiero, allora… »

« Ovviamente lo sono: grattare il ghiaccio è un’operazione alquanto biasimevole, ma guardalo! Non un lamento! » Il sorriso di Pilgram si dissolse così com’era venuto. « Purtroppo, Charlie odia di un odio feroce e per me incomprensibile la parola scritta. Ogni parola scritta, Caroline. Verso Natale ho tentato di regalargli alcuni fumetti - inestimabili, per giunta: li ho rinvenuti il giorno seguente nel bidone sul retro ». 

Quando entrammo, Charlie Abbott alzò la testa e ci salutò con una semplice occhiata; quindi si chinò e riprese a strofinare il marciapiede. C’era una rabbia avversa, un voler sconfiggere il glaciale nemico che io ero abbastanza certa di non aver mai posseduto. 

« Apprezzo che abbia avuto l’umanità di non stracciarli. A suo modo gentile, non credi? »

Nel negozio, legnosi scaffali traboccavano volumi dai titoli dorati; inspirai profumo secco e avvolgente. « Ecco » macerò Pilgram, sedendosi alla scrivania e facendo segno di accomodarmi « quello il ragazzino non lo fa mai ». 

« Prima Charlie ed ora il ragazzino. Se continui così inizierò a pensare che tu voglia riassumermi… »

« Buon dio, no ». Stiracchiò le mani ed appoggiò la schiena alla sedia, quindi mi guardò dritta negli occhi, in un modo che, un tempo, era stato capace di farmi paura. Ora percepivo una singola, leggera fitta nella parte bassa e periferica dello stomaco: ero propensa a giudicarlo un grande miglioramento. 

« È un interrogatorio? » 

« Non amo negare l’evidenza: potrebbe esserlo ». Tossì appena la tosse secca e affaticata dei vecchi. « Noto che hai dimenticato il cappotto, dolce Caroline… »

« Perché non avevo freddo. Siamo quasi in marzo… »

« Non ricordarmi lo scorrere del tempo, Caroline! »

Non sentivo alcun bisogno di raccontare a Pilgram di Sam Sornoby: appariva losco e sudicio, eppure lontano diecimila anni dal luogo in cui mi trovavo ora. Ricordai Klaus, per un momento, ciò che avevamo fatto, ed indugiai su un’idea precisa; perché mi sembrava di aver già esorcizzato paura e disgusto, quella verbale molestia, il sudiciume? 

« Pilgram, tu credi che una persona possa… »

« Mmm? »

« Che possa sinceramente aiutarne un’altra? »

« Mettiamo che ci siano due persone » iniziò lui dopo un attimo, « e che una sia più bisognosa d’aiuto dell’altra, e che quell’altra decida coscientemente di salvare per puro altruismo la compagna, e che tale compagna sia disposta a farsi aiutare; mettiamo che, in un mondo in cui ogni individuo ha almeno un problema, e quindi tutti gli individui hanno problemi contemporaneamente, una persona scelga di guardare al di là del e non solo il proprio… »

« Per altruismo? » 

Pilgram scosse la testa.

« Così lo percepisce l’aiutato, o la gente intorno a loro, o nessuno, in certi casi. Il vero motivo lo sa o lo immagina solo chi aiuta: egoismo, orgoglio, bisogno di trovare un senso alla vita che imbrogli, ai propri occhi, lo scorrere del tempo… riscatto personale, drammi irrisolti, prevaricazione sull’aiutato e, dunque, se è una donna, sull’altro sesso, mentre se è un uomo, su un suo simile, e viceversa. Quanti aiutano il prossimo celando fini d’inimmaginabile bassezza, Caroline? » 

La frase echeggiò nell’intera libreria. « Così è tutto molto più orribile » borbottai. « E indubbiamente squallido ».

« Non immaginavo certo che credessi nella pura bontà ».

Lo guardai un po’ persa. « Nutrivo una speranza per la gentilezza senza tornaconto… »

Pilgram sorrise. « Non volevo negarne l’esistenza. Bensì ammettere la certezza di una singola cosa. Per rispondere alla tua domanda: sì, una persona può aiutarne un’altra - ma non c’è mai niente di univocamente sincero in tutto questo ». 

« Capisco ». La stanchezza dell’intero giorno mi crollò addosso. Pilgram mi osservava dalla sedia, attento e cordiale. « Tu perché sei sempre così disposto ad aiutarmi? »

« Perché adoro i biasimevoli drammi che affliggono gli altri! …nonché, com’è ovvio, perché la tua compagnia mi rende gioviale invece che burbero, Caroline » disse. « Come vedi, persino io ho il mio personalissimo tornaconto ».

Sembrò che Pilgram, d’un tratto, stesse osservando la mancata convinzione che mi gravava. 

« Caroline, non credere che una persona abbia un tornaconto per una scelta oltremodo cosciente: chi ti ha aiutato, forse neppure sa perché ha sentito il bisogno di farlo ».

« Sciocchezze » liquidai, alzandomi in piedi. 

« Dunque è così… ah! » disse Pilgram. « Dovevo immaginarlo ».

« … »  

Pensai alla spiaggia e ad un uomo che aiuta una donna. « Devo andare a casa, adesso » decisi.

« Vuoi il mio cappotto? »

« E questo che genere di aiuto sarebbe? Esplicitare il tornaconto, per favore ».

« Tutta la città ti vedrebbe sfilare con il mio soprabito, taglia L, dagli inconfondibili bottoni rossi: ho sempre desiderato essere protagonista del pettegolo cicaleccio cittadino, come tu ben sai ».

La porta si aprì mentre ancora stavamo ridendo; il giovane Charlie Abbott entrò trascinando i piedi, il naso rubizzo. Si avvicinò sicuro, guardando soltanto Pilgram. « Ho vinto » proclamò, occhieggiando l’orologio appeso alla parete. « L’ingrasso è pulito e non sono ancora le quattro ».

Osservai Pilgram estrarre una banconota da dieci dollari dal taschino. « Per un pelo. Come da accordi, aggiungili al tuo regolare stipendio, piccolo Eracle ».

« Come mi ha chiamato? » 

Sorrisi. « Meglio non chiedere, se non desideri che ti venga regalato qualche libro sulla mitologia greca… » 

Charlie Abbott inorridì. 

« Per l’appunto » brontolò Pilgram, tornando a sedersi. « Del tutto incomprensibile ».

« Che cosa ti piace, Charlie? »

« Non i libri »

« Ma dai! » intervenne Pilgram.

« La musica ». 

« Un giovane Orfeo, dunque! »

« … »

« Che ha detto? » 

« Pilgram, gradiremmo entrambi che la smettessi ». Tornai a guardare Charlie che, nel mentre, aveva guadagnato qualche centimetro in direzione della porta. « Tuo padre è l’Abbott del negozio di dischi, giusto? »

Charlie arrossì. « Quello è mio nonno! » Parve soppesare un’informazione. « Tutti ne parlano perché pochi giorni fa ha subito un furto ». 

Pilgram alzò la testa da un vecchio volume che aveva iniziato ad esaminare. « Un furto? » 

« Al negozio di dischi. Un vinile… uno di quelli rari! » Charlie sembrò gonfiarsi: « Dicono sia stato uno dei galeotti in circolazione ».

« Sono felice che tu conosca una parola tanto ricercata, Charlie ». Ero arrivata al punto di non ritorno: odiavo con ogni fibra del mio essere l’argomento evasione

« Un vinile? Un galeotto? Che genere di musica? Forse dovrei aspettarmi che vengano a rubare anche qui… buon dio, la biografia di Charles Manson! » 

« Pilgram! Ti supplico… »

Ora Charlie Abbott appariva sinceramente confuso: potevo vedere come iniziava a sospettare una qualche forma di senile demenza nel libraio.

« Il mio è solo interesse, Caroline… dicevi, giovane Ermes? »

« … » 

« Ermes è il messaggero degli Dei e Pilgram ti sta prendendo in giro ».

« Dice? » domandò Charlie. Parve sul punto di scappare, ma qualcosa, probabilmente la buona educazione, gli inchiodava i piedi al pavimento. Pilgram andava matto per quel genere di giochi: capii che Charlie Abbott non sarebbe sopravvissuto facilmente - non senza leggere almeno un racconto… un racconto!

« Io devo proprio andare ». 

Il ragazzino si fece da parte, lasciandomi passare. Mi fermai alla porta  per salutare entrambi; fu allora che Charlie Abbott ammiccò compiaciuto e disse: « Un vinile di… Bruckley, mi pare, signore. Barkley… non l’ho mai ascoltato, ma mio nonno lo adora. Non si chiama così, però… »

Qualcosa si spezzò - forse la spina dorsale, perché rimasi paralizzata.

« Ah, vuoi dire Buckley! »

« Sì, signore » disse Charlie Abbott. Mi guardò di sottecchi. « Non esce, lei? »

Cercai di sorridere, ma non riuscii a farmi da parte.

« Tim Buckley? » continuò Pilgram. Guardai Charlie annuire deciso. « Deve essere stato un adulto a rubarlo… non c’è un ragazzo in tutta Peaceful che ascolti quel genere di musica, potrei giurarci! Forse qualche anziano affetto d’Alzheimer, il vecchio O’Brian, per esempio. L’estate scorsa si è portato a casa una trilogia erotica senza passare alla cassa… pazzesco, una trilogia! A novantadue anni! Ho sempre sospettato che  potesse essere stata pura e semplice vigliaccheria, a quell’età… non vorrei offenderti, Charlie, ma mi sembra che la teoria del galeotto, per quanto divertente e fantasiosa e teoricamente possibile, sia leggermente immaginifica. Se avessi l’accortezza di leggere Sherlock Holmes… Caroline, va tutto bene? »

Poco più tardi mi sarei accusata di aver smarrito la benché minima  traccia di capacità cognitiva in quell’improvviso frangente - ne avrei riso imbarazzata, anche, nell’accaldata corsa a rotta di collo verso l’appartamento numero otto di Concorde Road. Eppure, davanti ai quattro occhi che mi fissavano, fu impossibile non eruttare la sorpresa: 

« Mio dio ». M’aggrappai alla maniglia della porta, fredda come la neve caduta là fuori. « L’ho ascoltato poco fa a casa di… » 

Charlie Abbott spalancò la bocca. « Era l’unica copia! » esclamò. « Da chi l’ha ascoltata? Nessuno ha mai comprato quel disco, in città… era lì da anni e d’un tratto è sparito! Da chi… »

Pilgram si fece avanti. « Sei certa di quello che…? » 

Annuii velocemente. Lo stomaco mi pesava come se qualcuno vi avesse sparato dentro proiettili di piombo. 

« È di Peaceful? »

Abbassai lo sguardo sul pavimento. « No, no. Mi ha detto di essere qui per lavoro. Qualche settimana… il disco potrebbe essere suo; cielo, probabilmente lo è! » Sorrisi a Charlie, paonazzo in viso. « Capisci, Charlie: lo avrà portato da casa… è una semplice coincidenza, non avrei dovuto dirlo ».

« Ma potrebbe non essere così! Potrebbe averlo rubato! Dobbiamo controllare la copia… »

« No, ragazzo. Non così » intimò Pilgram, toccandogli una spalla. « Chi possiede quel disco non ha nessuna colpa. Giusto? »

« … »

Guardai la mano di Pilgram sulla spalla di Charlie.

« Giusto » accordò in fretta il ragazzino. « Ma se… E se… »

Mi affrettai a risolvere la matassa di fili che avevo ingarbugliato: scacciare un’idea dalla testa di un ragazzino mi sembrava, d’un tratto, più complesso che trovare l’uscita del più vasto tra i labirinti. 

« Ascoltami, Charlie. Facciamo così: non si può andare in giro ad accusare la gente di furto, quindi parlerò io con chi possiede quel disco. Subito, va bene? » gli sorrisi.

« Ma negherà! Anche uno stupido negherebbe… » 

« Mi farò prestare la sua copia, allora » dissi. « Te la porterò e potrai controllare se è quella scomparsa. Ma deve essere una cosa veloce, chiaro? Tuo nonno deve aver stilato alcuni registri… non ti sarà difficile controllare il codice ».

Charlie acconsentì; ancora sospettoso, agitato e palesemente pronto all’azione, sembrava però non sapere più che ribattere.

« Charlie rimarrà qui con me fino a sera, Caroline ».

« Cosa? No! » 

« Passa prima delle sei e andremo tutti a controllare ».

Annuii, più confusa che battagliera. Sentii la colpa abbassarsi come una spada sul mio collo; chissà di quale accusa mi avrebbe tacciata Klaus, se Charlie… no, Charlie non avrebbe detto nulla, sembrava assicurarmi l’espressione solida di Pilgram.

« Corro, allora. A dopo » salutai, uscendo nel gelo appuntito dell’esterno e sentendomi nuda. Udii la voce ovattata di Charlie: « E se il disco fosse quello del negozio? »

Mi allontanai senza neppure sapere che direzione prendere; temetti di scivolare sulla neve. Tutto mi era ostile e, sopra ogni cosa, gli occhi freddi della gente. Iniziai a correre in una Peaceful che sembrava un labirinto. Guarda cosa hai combinato, Caroline!, continuavo a ripetermi. Guarda!

 

*

 

Impiegai meno tempo di quello che avevo previsto e non sbagliai mai strada, nonostante l’ansia e il ricordo di Charlie Abbott; dove c’era sempre stato l’asfalto bagnato calpestavo voragini di sabbie mobili, e mine inesplose, e una terra fatiscente. Ma eccola là - Concorde Road; ecco la piccola porta ed il numero otto, cariato di ruggine. Impossibile stabilire se dentro vi fosse vita, tanta era l’alacrità nel celare e sbarrare. Disturbo evitante di personalità.

Abbozzai un sorriso nell’avvicinarmi e sistemai i capelli arruffati; rallentai, accorgendomi di avere la fronte umida di sudore. Mancava meno di un metro, la distanza di un braccio dal campanello. Fu allora che li udii:

« …una pazzia! »

« …e tu avresti qualcosa da suggerire? »

« Niklaus… se ti trova… »

« Smettila di parlarmi come se fossi uno dei tuoi stupidi sottoposti. Io so, io voglio, io pianifico…! »

M’immobilizzai. Non dovevo essere lì. Non dovevo stare lì. Guardai da una parte all’altra aspettandomi pericoli incombenti. Niklaus. Un pugno d’aria fuoriuscì dai miei polmoni. Risentii dunque le voci, piene e maschili e ruvide; pensai cosa fare - ci pensai almeno tre volte, ma ogni proposizione sbiadì mentre un urlo cresceva:

« Come ti permetti di dire a me…? Io che… se non fosse stato per… lui… » 

« Non ti basta? …deve pagare per quello che ha fatto, Elijah! »

Elijah. Lo straniero? Al ricordo fui percorsa da un brivido. Eppure mi sembrava di conoscere quel nome; avvicinai l’indice. Se avessi suonato il campanello sarei stata intonsa.

« Io voglio che mi trovi! » insisté l’unica voce che riconoscevo.

« E poi cosa? »

Una luce immaginaria mi rischiarò: Elijah, il fratello di Klaus, il giocatore di baseball, il maggiore! Me ne aveva parlato, certo che lo aveva fatto! Che sciocca a dimenticarlo. Era venuto in visita, dunque.

« Poi porterò a termine ciò che ho cominciato sette anni fa. Lui sa che sono qui… »

« Avrei dovuto capire perché volevi le chiavi della mia auto. Sai che mi hai reso complice di un crimine? L’hanno ritrovata sul fondo del… »

Riconobbi la risata di Klaus. Ormai non ero più padrona di me stessa - eppure qualcosa mi sibilava d’andarmene via. Il ricordo dello scalpitante Charlie Abbott, d’altro canto, tuonava. Dovevo rimanere lì e risolvere la questione, portarmi via il vinile prima che…

« Hai abbastanza soldi per corrompere, tacitare ed ammonire. E quei tuoi modi eleganti… »

« Ti sembra il caso di fare dello spirito? »

« Oh, perché no? Dopotutto me la sto passando bene. Niente più controlli periodici, orari da rispettare, braccialetti alle caviglie che suonano non appena metto piede fuori casa… »

« Hanno interrogato Finn e Kol. Abbiamo tutti negato di sapere, rischiando… »

« Per questo non dovresti essere qui, Elijah! Se ti avessero seguito, io… »

Mi guardai le mani, rosse e secche per il freddo, piegandomi appena.

« Violare i domiciliari, rischiare altri anni in galera per… »

« Avrei dovuto attendere che mi venisse a cercare a New York? »

« La polizia avrebbe potuto proteggerti… io avrei potuto! »

Qualcosa si ruppe fragorosamente, risuonando in piccoli suoni acuti; non ebbi il tempo di spaventarmi.

« La polizia avrebbe protetto anche lui da me! » Silenzio da entrambe le parti. « Mikael deve pagare, fratello. Qui, dove lei… lui lo sa! Ma è troppo codardo per venire, o almeno così inizio a credere ».

Inciampai retrocedendo sul marciapiede, scivolando a terra e battendo il sedere. Quindi una consapevolezza mi squarciò senza sangue, ricavando un’ansa ed una breccia - e quel sibilo basso che avevo dentro eruttò: Klaus, polizia, domiciliari, violare, anni di galera… scappa, Caroline! 

« Caroline, cosa stai facendo lì per terra? » urlò Matt Donovan, da una macchina immobile nella corsia sgombra. Aveva una voce allegra e tonante, cordiale. « Ti senti bene? Aspetta, vengo a… »

Udii il silenzio piombare nella casa, al di là della porta; un silenzio che era un taglio. Alzai gli occhi a Dio: il legno scomparve velocemente e, invece di Dio, mentre Matt Donovan si avvicinava a grandi passi, ecco comparire il volto pallido di Klaus.

Non disse nulla. Non dissi nulla. Io tremavo, lui no: sorpresa, incomprensione e dispetto si susseguirono nei suoi occhi, mentre stringeva la mascella. Assurdamente pensai di essere un danno collaterale: come se io stessa fossi diventata lui, il suo punto di vista, le sue ragioni.

« Cosa…? » 

« … »

Klaus si chinò e mi sollevò con praticità da sotto le ascelle, stringendomi le braccia.

« Lasciami andare! » gridai. La voce mi ricordò la carta vetrata, quando la si sfrega. 

Klaus strinse forte. Da sopra la sua spalla vidi apparire il volto del fratello, Elijah, che si fece subito da parte e scomparve.

« Caroline » disse Matt, ora al mio fianco. « Stai bene? » 

« Sono caduta… » iniziai, prima di Klaus. « Cioè… sono scivolata a terra e… »

Klaus mi fulminò come mai aveva fatto e incontrai crudeltà nei suoi occhi. Una rabbia che non provavo da anni mi bruciò le viscere, le mani, ogni terminazione nervosa.

« Mi fai male » ebbi il coraggio di dire. Vidi Matt guardare Klaus, l’incomprensione che si trasformava in monito. Dopo essere rimasto un attimo a sopracciglia alzate, Klaus mi buttò tra le braccia di Matt. Si voltò.

« Vieni, Caroline, andiamo. Ti porto a casa… » disse Matt. « Ma… il cappotto? » 

Mi strinse un braccio attorno alla schiena ed iniziò a camminare. Con gli occhi della mente, benché ci fossimo ormai voltati, vedevo ancora Klaus dietro di noi: tra le mani un bastone, i passi leggeri, il volto sicuro oltre quello spettrale, e in ombra, del fratello maggiore. 

« L’ho dimenticato ».

In pochi passi raggiungemmo facilmente la macchina. Matt mi aiutò a salire e mise in moto: accolsi il rombo del motore con un fremito. Partimmo piano.

« Allora, Caroline, è un po’ che non parliamo, io e te! »

Fissai una piccola foto che ritraeva Matt e Mandy sorridenti ai lati di un bambino in fasce, senza davvero vederla mentre fluttuava appesa nell’abitacolo. Il cuore mi pulsava in testa.

« … »

« Caroline? »

« Già, già… da Natale. Come sta…? »

« Marcus. Alla grande! Cresce così in fretta… »

Guardai lo specchietto al mio fianco, oltre il finestrino. Una macchina scura ci seguiva, spuntata da chissà dove.

« … »

« Vicky mi ha detto di aver visto tua nonna la settimana scorsa, da Patty&Sue’s… »

« … » 

« Conoscevi quel tipo? » 

Matt si voltò a guardarmi. Mi sentii perduta. Scossi la testa.

« Affatto ».

L’unica cosa che sapevo era che Klaus aveva mentito; e questo non volevo dirlo a Matt. Sarei andata a casa e avrei chiamato la polizia, dicendo che sospettavo che in città… Di colpo la macchina scura ci superò, sconfinando nell’altra corsia, al di là della striscia gialla. Matt bestemmiò, le mani ben salde sul volante, dunque si voltò a sorridermi. 

« Caroline, sei così pallida… »

Guardai la macchina accelerare come un bolide futuristico, sorpassare altre auto e sfrecciare, dissolvendosi in un’incrocio che era anche l’orizzonte. Era lui? Sentii una presa torcermi lo stomaco come un pugno che si apre e si chiude. Klaus stava scappando?

« Matt, riusciresti ad andare più veloce? » dissi. « Oppure potresti prestarmi il cellulare… ho dimenticato il mio al lavoro, insieme al cappotto e… ». Tacqui. « Puoi? »

« Certo ». Lo guardai frugare la tasca dei jeans per qualche secondo, infine battersi una mano sulla fronte. « Mi dispiace, ma devo averlo lasciato nel baule dietro. Vuoi che ci fermiamo? »

Osservai la strada davanti a noi, semi sgombra di auto; non mancavano che cinque minuti. Matt mi lanciava rapide occhiate, in attesa.

« C’è un telefono pubblico vicino a… dovremmo tornare indietro… ».

Scossi la testa. « No, no. Grazie lo stesso » dissi, deglutendo un macigno d’ansia. « Andiamo a casa ».

« Ormai non manca molto » mi sorrise Matt, sterzando in direzione della costa. « Ecco il faro. Ti ricordi quando ci siamo arrampicati…? »

Annuii mentre Matt raccontava; non riuscivo davvero ad ascoltarlo, né a sperare che non se ne accorgesse. Sentivo la testa pesante, i pensieri ronzanti ed inafferrabili come magri insetti notturni. 

Avrei dovuto provare pietà?

 

*

 

Abbandonai il calore dell’abitacolo: lungo la costa aveva preso a soffiare un vento freddo, che spingeva il mare in ritirata e ne appiattiva la superficie in piccole onde divergenti, contrarie rispetto alla marea che sarebbe presto risalita. La neve scricchiolò sotto i miei piedi, segno che era vecchia e dura.

« Sicura di voler scendere qui? »

Salutai Matt con la mano. La sua testa spuntava oltre il finestrino dell’auto.

« Sì, tranquillo. Più avanti non riusciresti a fare manovra… troppo ghiaccio. Non voglio dover chiamare un carro attrezzi ». 

Matt annuì, il motore ancora acceso e caldo. « Vado, mi si appannano i vetri. Spargi del sale » disse, dando un’occhiata all’asfalto lucente.

Aspettai che uscisse dalla via in retromarcia. L’ansia che avevo provato non si era ancora dissipata; sapevo di dover fare qualcosa.

La nonna era in casa: dalle due finestre della cucina si spandeva una luce. Durante il tragitto avevo progettato di non svelarle niente, ed evitare così la probabile crisi di nervi che sarebbe conseguita all’idea di aver ospitato un criminale in città per intere settimane, e nelle mutandine di sua nipote. Per prima cosa avrei avvertito la polizia, dunque Klaus - Niklaus sarebbe stato segnalato e… m’immobilizzai nel vialetto. Respirai a pieni polmoni.

Klaus aveva violato gli arresti domiciliari. L’avevo udito distintamente e non c’erano bugie che potessi inventare per proteggerlo. Non era vero niente.

Sentii la forza di volontà colmare i vuoti. Avrei collaborato con la Giustizia e quella, ora, mi appariva come la prima cosa vera in settimane: un obbiettivo.

A grandi falcate raggiunsi gli scalini e presto fui in veranda. Estrassi le chiavi ed aprii la porta.

« Nonna ». Il sottile atrio rettangolare era vuoto, illuminato da troppe luci; ne spensi la metà. « Nonna? » 

Camminai fino alla porta della cucina, socchiusa e in ombra; dallo spiraglio sfuggiva la lieve luminosità della stanza che celava. La spalancai con il palmo aperto. « Nonna, non possiamo permetterci di accendere così tante… »

« Eccoti, finalmente. Eccola, eccola, signor… come ha detto che si chiama? Oh, non importa, sono vecchia e non mi ricordo niente. Quest’uomo, tesoro… è di una casa editrice di New York! »

Sentii le ossa della gamba scricchiolare meccanicamente mentre il piede raggiungeva il pavimento della cucina. Poi tutto fu coperto dal frastuono che produsse mia nonna nello spostare la sedia, alzarsi da tavola e venirmi incontro. Disse qualcosa come « Vi lascio soli », quindi mi sorrise e, superandomi a fatica, lasciò la cucina. 

« Non ho intenzione di fare niente » chiarì subito l’uomo seduto all’altro capo del tavolo, senza alzarsi. « Respiri, Caroline ».

Mentre il cuore mi barcollava nel petto, urtando rumorosamente gli organi vicini, notai come la realtà si fosse accartocciata in se stessa; quel volto pallido, ora alla luce, mostrava le forme solide di un incubo.

« … »

« Respiri » ripeté il fratello di Klaus. Mi guardava con attenzione; indossava ancora l’abito elegante di pochi minuti prima.

« Cosa… ». Pensai di precipitarmi alle sue spalle, dove il telefono a muro occupava la parete tra il frigorifero ed il mobile dell’argenteria. 

« Si sieda ». 

« … ». 

Feci un passo indietro. Potevo fuggire dalla cucina, recuperare la nonna e scappare in macchina con lei; cercai le chiavi dell’auto e guardai il fratello di Klaus individuarle prima di me, sulla mensola vicina al lavello.

« Non lo ripeterò un’altra volta, Caroline. Si sieda ».

« Cosa ci fa qui » esclamai, in quella che avrebbe voluto essere una domanda. « Se ne vada o chiamo… »

« La polizia? Immagino lo avrebbe fatto in ogni caso. Non sarei venuto qui per parlarle, altrimenti. Al contrario, Caroline, io voglio parlarle » disse l’uomo in un pacato tono monocorde. 

« … »

« Allora? »

Udii mia nonna canticchiare al piano di sopra, camminando sulle assi scassate del pavimento. « Come si è permesso di venire qui e mentire spudoratamente ad una… »

Lo vidi estrarre dalla tasca interna della giacca un contenitore argentato. Sfilò un foglietto bianco che fece scivolare sul tavolo. Mi avvicinai.

M. Review, un indirizzo ed un numero telefonico, un nome, New York.

« Mi chiamo Elijah Mikaelson » disse. Il bigliettino appariva pretenziosamente costoso. « Una rivista non è una casa editrice, ma ho consegnato a sua nonna il medesimo biglietto e… ».

« Non dica una parola su mia nonna ».

« Certo ».

Guardando l’individuo da quella distanza, notai quanto in realtà apparisse poco a proprio agio; stonava in modo burlesco con le pareti smorte della cucina e l’arredo vecchio, sbiadito, che faceva risaltare la stoffa del soprabito. 

« Sono qui per il bene di Niklaus ».

« Il bene di Niklaus non è tra i miei interessi ».

« Lui sperava nel contrario ».

« Ha cinque minuti prima che chiami la polizia » sussurrai.

Elijah mi sorrise. Una parte di me registrò la pallida somiglianza con il fratello minore.

« Quello può tenerlo lei. Come garanzia ».

« Cosa mi dice che non si è portato anche…? Che non ci farà del male? »

« Immagino niente, Caroline. Ma, se posso permettermi, vorrei rassicurarla sul fatto che nessuno, in questa stanza ed al suo esterno, nutre la minima intenzione di fare a lei e a sua nonna alcun male ».

« … »

« Niklaus è in macchina. E, mi creda, è stato estremamente faticoso convincerlo a non seguirmi. I suoi modi sono più… chiassosi ».

La gola mi si strinse, mentre percepivo l’incombere di un vero e proprio attacco di panico. Chi era Niklaus in realtà? 

« Non siamo assassini, galeotti o quant’altro possa essersi immaginata ».

« Io non mi sono immaginata nulla ». Temevo che la nonna potesse tornare da un momento all’altro. « Io ho sentito ».

« Che cosa? » Il fratello di Klaus controllò l’orologio al proprio polso, dunque mi guardò con impazienza. « Lo dirò io, se non le dispiace. Mio fratello Niklaus ha violato i domiciliari settimane fa. La notte dell’evasione di massa a Boston, pochi minuti dopo aver appreso la notizia, è salito sulla mia auto e si è dato alla fuga. Mi ha riferito di averla incontrata la mattina successiva, appena arrivato in città ».

« … »

« La mente di Niklaus… »

« Non vorrà dirmi che è pazzo » proruppi.

L’uomo si fermò ancora ad osservarmi. Fui colta da un’ansia imbarazzata; mi domandai quanto gli avesse raccontato il fratello.

« Niklaus non è certamente pazzo, benché io creda che entrambi potremmo concordare sulla sua imprevedibilità ».

Mi allontanai dal tavolo. 

« Se è di questo che voleva parlarmi, può anche andarsene ».

Camminai sino ad una delle due piccole finestre quadrate. Non scorsi alcuna vettura al di là del vetro spesso, nel panorama ormai ombreggiato del tardo pomeriggio.

« Eravate voi » mormorai. « La macchina nera che ci ha superato ».

« Sì, certo ».

« Posso sapere dove è stata parcheggiata? »

« Prima della via, vicino alla strada principale ».

Mi voltai appena. Appoggiai le mani al lavello umido e metallico dietro di me.

« Non l’ho vista. Dovete averla nascosta bene ».

Elijah arretrò appena con la sedia, senza produrre frizione. 

« Posso continuare? »

Abbassai appena lo sguardo. Le luci della stanza, solitamente così calde e rassicuranti, splendevano più artificiali che mai. Tutto riluceva teatralmente e odorava di disagio - persino il mio corpo, ed il camino, che giaceva innaturalmente spento.

« Cosa si aspetta da me? »

« Solo che ascolti, Caroline. Dopo potrà decidere lei cosa fare, se è questo che le interessa chiarire ».

« … »

« Caroline? »

« D’accordo ».

« Posso alzarmi? » 

« No, preferisco che rimanga fermo; seduto. L’ascolto ». Una parte di me, al di là di ogni riserva ed incertezza, fremeva di curiosità; era ovvio quanto Elijah desiderasse distogliere il mio interesse dall’avvertire la polizia.

« Questo è nostro padre ». Il mio interlocutore aveva estratto una pagina di giornale dalla giacca. « La redazione del Times è stata così accorta da pubblicare le foto di tutti gli evasi. Ecco, guardi. Questo qui ».

« Cosa…? »

« Non ho molto tempo, Caroline. Vorrei che mi ascoltasse senza fare domande ».

« … »

« Nostro padre era rinchiuso nel carcere di Boston, fino a qualche settimana fa, con una condanna di dieci anni. So che Niklaus le ha riferito qualcosa a riguardo della sua condotta violenta ».

« Silenzio » dissi, sentendo mia nonna scendere le scale. « Così non funziona. Non voglio che lei ci senta… »

« … »

« Vada subito al dunque ». 

Elijah sbiancò. Allora udii la porta della cucina aprirsi, e capii che i rumori non erano stati prodotti da mia nonna. Arretrai nella stanza, in preda ad un panico solido. 

« Caroline » disse Klaus, gli occhi rossi e spiritati. 

Fu Elijah a parlare per primo. Si alzò in piedi e camminò sino al fratello, superandomi. « Cosa ci fai qui? Avevamo… »

Klaus alzò le mani. « Vai in macchina. Arrivo tra cinque minuti ».

« No ».

« Adesso, Elijah ».

Non appena capii che Elijah aveva ceduto, corsi al telefono. Digitai il numero della polizia senza guardarmi le spalle, e gemetti ad alta voce quando la mano di Klaus si posò sul ricevitore. 

Lo fissai atterrita quasi quanto lui, che non sembrava più arrabbiato come quando mi aveva scoperta ad origliare. Il suo volto era foderato d’ombra. 

« Non mi fido di te » esclamai. 

Klaus alzò gli occhi al cielo. « Caroline… »

« Non mi fido di te e voglio che tu te ne vada ».

Strinse il ricevitore tra le mani. « Non posso ».

« Aspetterò qualche ora prima di chiamare la polizia. Così potrai andartene. Nasconderti da qualche parte. Lo giuro ».

Abbassò la testa. « Perché sei tornata all’appartamento? »

« … »

« Caroline ».

Distolsi anch’io lo sguardo. « Fottiti, Klaus. Fottiti e basta ». 

« … »

Mi allontanai a grandi passi. A metà della cucina sentii le lacrime riempirmi gli occhi. « Vai fuori da casa mia! » gridai. « Fuori! »

Allora ebbi davvero paura di lui. Klaus mi arrivò addosso, le mani come uncini, e mi afferrò per le braccia. 

« Che stai facendo? » continuai.

« Sta zitta o ti ammazzo, Caroline. Prendo quel coltello e te lo pianto in gola. Lo giuro » sibilò. Inspirò forte la mia paura. Mi sembrò un pazzo, e allo stesso tempo vittima di un vicolo cieco. Non sentivo più nulla provenire dal mio corpo. Ci riduciamo a spiriti quando le emozioni sono troppo forti. « Giuro che ti ammazzo ».

« … »

« … »

« Non fare del male a mia nonna. Ti supplico… »

La bocca di Klaus si spalancò, ma non disse niente. 

« ...vattene ».

Strinse più forte la presa, poi gemette qualcosa e mi lasciò andare. Prima che potessi accorgermene le sue labbra raggiunsero le mie. Non sentii il sapore di quel bacio; mi divincolai ancor prima che divenisse tale, in verità.

« Vattene, Klaus ».

Era più bianco di quanto fosse mai stato, mentre mi guardava dall’alto. Sembrava sul punto di arrabbiarsi di nuovo, o di esplodere. Poi scosse la testa e si incamminò verso la porta, mentre io scivolavo a terra.

« Non volevo farti del male » sussurrò. « Sei un danno collaterale, Caroline… ».

Mi voltai. Klaus era sulla porta, le spalle curve e l’espressione scura. 

« I danni collaterali non si scopano » esclamai, smettendo di guardarlo. « Sei un bugiardo ». Mi asciugai gli occhi e riuscii ad alzarmi. Non volevo sembrargli più debole di quanto già non fossi stata in sua presenza. « Ed io non avevo bisogno di un bugiardo ».

« Capisco » disse dopo poco. Ero certa di averlo offeso e avevo voglia di vomitare, per quella che l’agente Kinney mi avrebbe svelato essere adrenalina. Klaus se ne andò prima che potessi pregarlo ancora. Guardai il telefono attaccato al muro, la cornetta dimenticata appesa al filo. Mia nonna canticchiò al piano di sopra e sentii il rombo di un’auto in lontananza. Quando digitai il numero della polizia ero certa di fare la cosa giusta. 

 

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