Figlie della Spada

di Red Raven
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 0 - Il Pazzo ***
Capitolo 3: *** Capitolo uno: Asso di Bastoni - L'inizio. Moony ***
Capitolo 4: *** Capitolo uno: Asso di Bastoni - L'inizio. Boudica ***
Capitolo 5: *** Capitolo uno: Asso di Bastoni - L'inizio. Roland ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



Prologo



A lungo aveva dormito. A lungo aveva riposato. A lungo aveva riguadagnato le forze perdute.
Era ora di svegliarsi.
Si alzò, a fatica, dal suo scranno di pietra. Stiracchiò le braccia e le gambe, dando nuova vitalità agli arti indolenziti.
Si alzò in piedi, con cautela, incespicando. Il suo stesso equilibrio era compromesso: ciò non era un buon segno. Il suo risveglio forse era giunto appena in tempo.
Si guardò intorno: il suo amante e nemico di un tempo non era presente, ma poteva sentirlo. Sentiva i suoi borbottii come tuoni e i suoi scatti d’ira come lampi. Non sarebbe stato d’aiuto in quello stato. Attraversò la sala velocemente, la veste che scivolava sul pavimento di pietra: la luce delle stelle penetrava appena dalle finestre ampie. Passò nei corridoi, guardando distrattamente le miriadi di stelle oltre le finestre stendersi in ogni dove, fin sotto la fortezza. Fuori, lo spazio profondo era silenzioso, come sempre. Non perse tempo a osservare un panorama fittizio che conosceva già a memoria.
Si inoltrò nella fortezza fluttuante, corridoio dopo corridoio. Ogni tanto sentiva la struttura tremare, e lontani ruggiti echeggiavano tra le pareti. In quei momenti incespicava un poco, aggrappandosi al muro più vicino.
Fu solo dopo molto tempo che arrivò alla sua destinazione: una piccola stanza circolare, priva di finestre, se non per un’unica apertura al centro della volta. Da essa un fascio di luce fioca illuminava un tavolino circolare, semplice, adornato con una tovaglia di seta bordeaux. Su di esso stava un bacile di marmo nero ricolmo d’acqua.
Si avvicinò al mobile: l’acqua rifletteva la luce creando effetti sulle pareti di pietra. Guardò dentro il bacile: in principio l’acqua, limpida e trasparente, mostrò solo il nero del marmo. Passò una mano, e l’acqua mostrò ciò che voleva vedere: una landa desolata, attraversata dai venti freddi del nord. Un gesto, e il paesaggio mutò: al suo posto comparve un’immensa città bianca con alte torri, circondata dal mare. Le mani si mossero di nuovo, più volte, e più paesaggi si susseguirono sulla superficie dell’acqua: una solitaria nave dalle vele rosse, la periferia di una grande città, una metropoli sovrastata da alte montagne, un castello ritto sul vertice di un monte, una valle nascosta, un'oasi nel deserto, un bosco luminoso. Le immagini si susseguivano tanto velocemente che era quasi impossibile distinguerle.
Portò le mani alla cinta, sulla scarsella: dalla tasca, estrasse un mazzo di carte bianche. Le scorse, e su ognuna di esse, per un attimo solo, appariva una figura diversa: uomini, donne, animali, paesaggi terrestri e celesti.
Ne scelse ventidue in tutto: non sembravano diverse dalle altre. Ora l’acqua nel bacile rifletteva di nuovo la luce delle stelle. Prese le carte, e le lasciò cadere nell’acqua, una per una: le carte affondarono nel bacile e sparirono. Quando l’ultima sparì nell’acqua splendente, un ruggito possente scosse le pareti della fortezza.
Lei sorrise. Vieni a prendermi.




Note di Red: sono emozionata. E’ la prima volta che pubblico questa storia, a cui sto lavorando a qualcosa come anni, e che, tra l’altro, non ho ancora finito.
E’ un libro, non una fanfiction, o un racconto. E’ un vero e proprio libro, e di quelli lunghi, oltretutto. Ci sto mettendo una cura maniacale che manco Dante con la Divina Commedia.
Indi per cui, mi serve il vostro aiuto: recensite. Sono seria, ragazzi, ci tengo a questa storia, e ho bisogno di tutti i consigli possibili, quindi se pensate che si potrebbe migliorare in qualsiasi punto, ditemelo e vi lovverò per sempre <3
Parlando del capitolo, non vi lasciate ingannare: la lunghezza media dei capitoli sarà molto di più di questo prologhino striminzito. E’ che è difficile rendere un’atmosfera solenne per tre pagine. Mea culpa ç_ç
Spero che comunque la storia vi intrighi: voglio cercare di tenere gli aggiornamenti piuttosto regolari (ho già pronte parecchie pagine, ma come vi ho detto, sarà una cosa epopeica, e anche complicata).
Detto ciò, vi lascio, spero di avervi incuriosito e recensite!
Hasta la vista!

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Capitolo 2
*** 0 - Il Pazzo ***



0 – Il Pazzo



Camulia si stava risvegliando: era quasi l'alba, e la luce grigiastra che la precedeva dava alla città un aspetto quasi pacifico. Le finestre del castello erano chiuse, le bandiere rosse e viola penzolavano inerti dai pennoni, sulle torri le guardie notturne lasciavano il posto ai loro commilitoni, pregustando una buona colazione e un sonno ristoratore. Il cancello della cinta muraria era ancora chiuso, le donne non erano ancora uscite dalle loro case per lavare i panni alla fontana, i venditori ambulanti non erano ancora usciti dalle loro bettole in cerca di un posto dove commerciare. Ariel camminava per le vie della periferia: non c'era nessuno a passeggiare come lei per le strade sterrate, solo qualche carrettiere infreddolito che portava la farina ai forni. Non aveva freddo: aveva indosso gli stessi, logori stracci che portava da sempre, la maglietta di lino senza maniche e la gonna ormai sopra il ginocchio. Nonostante tutto, Ariel stava bene. Stava talmente bene che si era messa a ballare: roteava le braccia intorno a sé, piroettava saltando su un piede solo, girava in tondo lasciando che i capelli sporchi si sollevassero in aria, come per magia. Ariel sorrideva mentre ballava, batteva le mani a un tempo immaginario, muoveva i piedi scalzi sulla strada lastricata. Non c'era nessuno per strada, a camminare tra i mucchi di neve sporca, ma lei non ci faceva caso. Quello che Ariel vedeva era un salone, enorme e risplendente di luce, con mille persone venute lì solo per lei, per godere della sua compagnia e della sua bellezza: perchè lei era bella lì, non indossava stracci consunti e grigiastri, ma un lungo vestito di raso e velluto, color borgogna, i suoi capelli non erano sporchi, ma puliti e splendenti come l'oro, e tutti si beavano della sua vista, come se fossero angeli che si beavano di fronte alla loro dea. Ariel sorrideva, e ballava: ballava con un giovane dai capelli neri, e anche lui sorrideva.
Camulia si stava risvegliando: poco lontano, vicino al porto, dei pescatori intonarono una canzone mentre si preparavano a salpare. Ariel sentiva la musica e ballava: e conosceva la canzone, non sapeva dire perché, forse gliel'aveva cantata la mamma quand'era piccola, ma non importava, lei la conosceva, e quindi si mise a cantare:
“Ventun carte stanno sopra il drappo,
sotto lo sguardo di una Dea nascosta,
ventuno, ventuno, la mano lancia il sasso,
prendi una carta e gioca la tua mossa”
Ariel ballava, e cantava: ballava con un giovane dai capelli neri, e anche lui sorrideva, mentre la gente intorno a lei ballava con loro, e la musica continuava, e lei continuava a cantare:
“Ventuno è il Mondo, grande e rotondo,
la fine e l'inizio di quello che sei tu,
la bimba giocava, giocava al girotondo,
prendi una carta e il Mondo non c'è più”
Ariel cantava e ballava in tondo: per strada non c'era nessuno, a parte qualche marinaio infreddolito che andava al porto. Ma lei non aveva freddo.
“Venti è il Giudizio di quelli che son morti,
freddi e dolenti sotto il cielo blu,
un mago vagava, vagava per i porti,
prendi una carta e il Giudizio non c'è più.”
Ariel cantava e ballava: era in un salone splendente di luce, e le persone erano venute lì solo per vederla, perché lei era bella lì, e loro si beavano come angeli davanti alla loro dea.
“Diciannove è il Sole, caldo e splendente,
regna supremo su nel cielo blu,
un uomo dannava un salice piangente,
prendi una carta e il Sole non c'è più.”
Ariel cantava e ballava, anche se la strada cominciava a riempirsi e qualcuno la strattonava per un braccio, e le diceva qualcosa, era un uomo vestito con un'armatura di ferro e una tunica rossa e viola, e sembrava arrabbiato, e indicava i suoi stracci sporchi, troppo leggeri per quella mattina d'inverno. Ma lei non aveva freddo.
“Diciotto è la Luna, bianca e misteriosa,
aveva una figlia di nome Marilù,
la donna aspettava in una stanza chiusa,
prendi una carta e la Luna non c'è più.”
Ariel cantava, mentre il giovane dai capelli neri le parlava, e sembrava preoccupato, ma lei non capiva cosa stava dicendo, stava cantando, e lui le aveva messo le mani sulle spalle e la guardava sempre più spaventato e la scrollava e le parlava, ma lei non voleva capire.
“Diciassette son le Stelle, piene di speranza,
ridono e giocano sopra il mare blu,
la principessa aveva un abito d'organza,
prendi una carta e la Stella non c'è più.”
Ariel cantava, mentre l'uomo vestito di ferro la trascinava per un braccio, e la gente intorno parlava, e lei cantava, e l'uomo la strattonava, le stava facendo male al polso, voleva chiedergli perchè, ma lui continuava a tirare e lei continuava a cantare.
“Sedici è la Torre, per chi non ha coraggio,
cade in pezzi sotto un lampo blu,
la donna era un uomo, un uomo molto saggio,
prendi una carta e la Torre non c'è più.”
Ariel cantava, e il giovane dai capelli neri ammutoliva, e indietreggiava da lei, spaventato, gli occhi azzurri dilatati, ma forse non era spaventato, forse era arrabbiato, era furioso, con lei, anche se lei non sapeva perchè.
“Quindici è il Diavolo, signore dell'Inferno,
paura e terrore governano laggiù,
la donna non teme il gelo dell'inverno,
prendi una carta e il Diavolo non c'è più.”
Ariel continuava a cantare, ma l'uomo vestito di ferro aveva smesso di strattonarla, si era fermato, sembrava preoccupato, aveva sguainato la spada e l'aveva nascosta in un angolo, le aveva detto qualcosa, ma lei non aveva capito, forse voleva che lei rimanesse lì, e se n'era andato via, e lei era rimasta.
“Quattordici è la Temperanza,
mischia le acque quando cadon giù,
una ragazza conosce la speranza
prendi una carta e la Temperanza non c'è più.”
Ariel cantava, e sentiva il sangue correre dentro di sé, sentiva le mani formicolare, mentre il giovane dai capelli neri era di fronte a lei e gridava, gridava, e la sua rabbia cresceva, e il sangue correva dentro di lei e il suo canto si alzava.
“Tredici è la Morte, destino di ogni razza,
lo scheletro galoppa dentro a un buco blu,
la Morte, la Morte, ha il viso di ragazza,
prendi una carta e la Morte non c'è più.”
Ariel cantava e restava nascosta, mentre l'uomo correva nella strada con la spada sguainata, e c'erano altre persone, e avevano dei bastoni, e alcuni facevano fuoco, e l'uomo andava verso di loro e gridava, e gli altri uomini sghignazzavano e gridavano anche loro, e sembravano tutti arrabbiati.
“Dodici è l'Appeso, un tipo molto strano,
vede il mondo girato a testa in giù,
Una ragazza parlava con la mano,
prendi una carta e l'Appeso non c'è più.
” Ariel cantava sempre più forte, mentre il giovane dai capelli neri si allontanava da lei, era arrabbiato, furioso, e dalle sue mani scaturivano lingue di fuoco, e i suoi occhi bruciavano, e la gente intorno era sparita, erano solo loro due, adesso, ma lei era forte e non lo temeva, non temeva il giovane dai capelli neri.
“Undici è la Giustizia, vigile e severa,
vede il vero con i suoi occhi blu,
una ragazza si ergeva al cielo fiera,
prendi una carta e la Giustizia non c'è più.”
Ariel cantava sulle note delle lame, all'uomo vestito di ferro se ne erano aggiunti altri, e avevano le spade mentre gli altri avevano i bastoni e alcuni facevano fuoco, ma erano di più e quindi avevano cominciato a lottare, e le spade entravano e uscivano dai corpi che si afflosciavano spruzzando sangue, e i bastoni si abbattevano sulle teste che si spaccavano e si afflosciavano anche loro.
“Dieci è la Ruota, la Ruota della Sorte,
gira e rigira, una freccia che va su,
un nano rubava, rubava nella corte,
prendi una carta e la Ruota non c'è più.”
Ariel cantava e il giovane dai capelli neri cercava di colpirla con le sue lingue di fuoco, gliele scagliava contro come sassi, ma non la colpivano, scivolavano intorno a lei e non la bruciavano, e il suo canto era sempre più forte, e lui cercava di colpirla e non ci riusciva e si arrabbiava ancora di più.
“Nove è l'Eremita, studioso di cent'anni,
cerca il vero del tempo che fu,
lo gnomo bruciava, bruciava quattro panni,
prendi una carta e l'Eremita non c'è più.”
Ariel cantava e gli uomini morivano, altri ne erano arrivati, alcuni le erano passati di fianco ma non l'avevano vista, e morivano anche loro, e gli uomini vestiti di ferro erano aumentati e gli uomini coi bastoni erano diminuiti, e il fuoco divampava e qualcuno gridava e piangeva, e il fumo le pizzicava gli occhi e sentiva caldo, e nascosta nel suo angolo continuava a cantare.
“Otto è la Forza, la Forza di un leone,
solleva montagne e massi fin lassù,
una ragazza cadeva da un loggione,
prendi una carta e la Forza non c'è più.”
Il giovane dai capelli neri urlava e urlava, e scagliava vampe di fuoco come fossero sassi, e a un suo gesto il vento si sollevava e diventava un tifone, e si buttava verso di lei e cercava di inglobarla, ma appena la raggiungeva le scivolava addosso e passava oltre, e il suo canto si faceva sempre più forte.
“Sette è il Carro, il Carro del trionfo,
trainato da sfingi con il cuore blu,
un ragazzo cadeva con un tonfo,
prendi una carta e il Carro non c'è più.”
Gli uomini combattevano, di fronte a lei una casa bruciava, il fuoco che usciva dalle finestre verso il soffitto di paglia, un fragore di muri che crollavano, grida di donne intrappolate e bambini spaventati, grida sempre più alte e spaventose e inumane e il fuoco che divorava tutto e il fragore della battaglia e di muri che crollavano.
“Sei son gli Amanti, due e un solo cuore
, bacio e promessa di non lasciarsi più,
due elfi, due elfi si parlan con amore,
prendi una carta e gli Amanti non ci son più.”
Il giovane dai capelli neri era fermo, il tifone era scemato ma i suoi capelli si muovevano lo stesso anche senza vento, i suoi occhi bruciavano, le lingue di fuoco si erano spente ma le sue mani rilucevano, tutto il suo corpo era avvolto da una debole luce azzurra, la terra cominciava a tremare, sussultava sempre più forte e stavolta lei lo sentiva, lo sapeva che l'avrebbe colpita e le avrebbe fatto del male e quindi il suo canto crebbe, fino a riempire il salone e a sovrastare il rombo della terra.
“Cinque è il Papa, servo del Divino,
vestiva di bianco con un anello blu,
un uomo pregava, pregava nel mattino,
prendi una carta e il Papa non c'è più.”
Il fuoco divampava, ora gli uomini avevano smesso di lottare tra loro, si accanivano contro qualcosa che non riusciva a vedere ma che li stava facendo a pezzi uno dopo l'altro e il fuoco cresceva, e la gente urlava, e la creatura sembrava fatta di fuoco stesso e ruggiva e uccideva e faceva a pezzi, arti strappati che venivano lanciati qua e là, sangue che stava per terra come pozzanghere dopo la pioggia, e la creatura si mosse e lei la vide e vide che era un drago enorme e che l'aveva vista e che stava aprendo le fauci per sputare fuoco.
“Quattro è l'Imperatore, signore della terra,
dal trono lui guida chi resta laggiù,
un uomo tremava, tremava nella serra,
prendi una carta e l'Imperatore non c'è più.
” Il suo canto era più forte, sempre più forte, e la luce azzurra intorno al giovane si faceva sempre più forte, fino a risplendere, e il salone rimbombava del tremore della terra e della sua voce piena e cantava, mentre il giovane portava le mani davanti a sé, e cantava, mentre lei faceva altrettanto, e cantava, e il canto si trasformò in potere e lei lo scagliò e la luce azzurra venne verso di lei, e i due poteri si scontrarono e tutto si illuminò.
“Tre è l'Imperatrice, signora degli oceani,
Il fuoco l'avvolgeva, il calore la consumava
nel grembo, nel grembo forse ci sei tu,
La luce l'accecava, il rumore la stordiva
una ragazza solcava quegli oceani,
Sentiva le grida disperate del giovane
prendi una carta e l'Imperatrice non c'è più.
Vedeva il drago sovrastarla e un cavaliere sopra di esso
Due è la Papessa, figlia del Tridente,
Udiva donne chiedere aiuto
vergine anziana, vestiva di blu,
Vedeva uomini morire smembrati
una donna pregava, pregava verso oriente,
Sentiva il fuoco bruciarle i vestiti e la carne
prendi una carta e la Papessa non c'è più.
Sentiva le grida del giovane farsi più acute
Uno è il Bagatto, tavolo e riscatto,
Lo sentiva condannare tutti gli dei esistenti
l'anello che c'era ora non c'è più
compresa lei
un ragazzo lisciava il pelo al gatto,
E vide tutto diventare buio.
prendi la carta e il Bagatto non c'è più.”

L'uomo vestito di ferro la stava scrollando: era vivo, nonostante lei lo avesse visto morire. Lo vide scuotere la testa e andarsene, capì che l'aveva riportata dove doveva stare. Il salone, il drago, il giovane erano scomparsi, e lei si stese per terra, c'era dell'erba fresca sotto di lei, si stese e continuò a cantare sommessamente, mentre le lacrime le rigavano le guance e cominciava a tremare per il freddo.
“Zero carte stanno sopra il drappo,
sotto lo sguardo di una Dea nascosta,
zero, zero, la mano lancia il sasso,
guarda il drappo e osserva la mia mossa.
Zero è il Pazzo, il figlio della Spada,
vede le cose e pazzo non è,
una ragazza ballava per la strada,
Ventuno se ne vanno, il Pazzo solo è.”
Il drago e il giovane erano scomparsi, e l'uomo se n'era andato: Camulia si stava risvegliando, mentre il sole saliva nel cielo e la sua luce illuminava le stanze del castello dalle finestre aperte, le bandiere rosse e viole che cominciavano a muoversi in una leggera brezza, le guardie che si davano il cambio e andavano a fare colazione. Il cancello della cinta muraria veniva aperto, le donne si recavano chiacchierando alla fontana per lavare i panni, i venditori ambulanti cominciavano a sistemare i loro carretti agli angoli delle strade.
Il salone e il giovane e l'uomo e il drago se n'erano andati, ma Ariel c'era ancora.
E adesso sapeva cosa doveva fare.


Note di Red: io lo so che voi mi state odiando.
Ho mischiato tre cose contemporaneamente: la canzone, la visione del salone e quella del drago. Sì, sono due visioni diverse, sì, sono alternate, sì, la canzone fa schifo. Ragazzi, questo capitolo è una specie di incubo per me. La canzone (a proposito, il ritmo dovrebbe essere qualcosa tipo i sea shanties, ma non so se si era capito) non mi convince appieno, quindi potrebbe cambiare in corso d’opera, in caso vi avviso perché è importante!
Ora come ora ho pronto il primo capitolo vero e proprio (diviso in tre parti) e parte di quello dopo (sì lo so, ci lavoro da anni. Tendo a ricominciare spesso da capo, che ci volete fare?). Noterete che tutta la storia è basata sulle carte dei Tarocchi, non sono per i nostri Eroi, ma anche per la struttura. Vedrete meglio la settimana prossima. Intanto, come sempre, vi invito a recensire selvaggiamente, e ringrazio calorosamente naghree per averla messa tra le preferite, Morigami per averla messa tra le seguite e anche tutti coloro che l’hanno letta senza dire verbo (49, vi vedo, mascherine! XD).
Vi saluto e ci vediamo la settimana prossima con un nuovo capitolo.
Hasta la vista!

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Capitolo 3
*** Capitolo uno: Asso di Bastoni - L'inizio. Moony ***



Capitolo 1
Asso di Bastoni – L’inizio


Moony

Moonlight immerse un piede nell'acqua e si costrinse a lasciarcelo: era bollente e le faceva sentire il bisogno di grattarsi, ma se avesse aspettato non si sarebbe comunque raffreddata, quindi tanto valeva abituarsi. Quando smise di sentire prurito, immerse l'altro piede: di nuovo, aspettò con pazienza seduta sul pavimento freddo a bordo vasca. Con cautela, un pezzo alla volta, scivolò completamente nell'acqua bollente, fino a lasciare fuori solo la testa.
Sospirò, rilasciando la tensione accumulata in giorni di viaggio: appena arrivata a Silmar, la prima cosa che aveva fatto era stata mollare i bagagli ai servi, prendere giusto un vestito di ricambio e un paio di ancelle che glielo portassero e precipitarsi alle terme di Benitte, per godersi un lungo e meritato bagno. Chiuse gli occhi e appoggiò la testa al bordo: si sentivano gli schiamazzi degli uomini dalla stanza accanto, ma la sua era vuota, a parte lei, e colma di un silenzio benedetto. Di solito la stanza riservata alle donne era molto meno piena degli uomini, erano giusto due o tre le ragazze che si recavano ai bagni pubblici, in quella parte della città, ma quel giorno lei non aveva voglia di condividere quel momento con anima viva: era bastato tirare fuori un bel sacchetto d'oro e dire che Eva Cecile Jackson – Lloyd non desiderava essere disturbata per riservarle la stanza per l'intera giornata.
Moony fece una smorfia: odiava il suo nome, le ricordava troppo progetti mondani e aspettative non richieste. Per questo, da quando aveva cominciato quel lavoro, preferiva farsi chiamare Moonlight, o Moony.
Comunque, doveva ammettere che essere membro della seconda famiglia più importante della città aveva i suoi vantaggi, che non si esaurivano con il potersi riservare l'intera zona femminile delle terme più care della città.
“Lady Moonlight?”
Seconda, appunto.
“Cosa c'è?” fece seccata.
“Il re desidera vedervi, milady” disse la donna.
Moony trattenne il respiro ”Desidera vedermi? Stasera?”
La donna annuì ”Ho ordine di accompagnarvi da lui immantinente.”
Moony espirò a fatica: il momento era finalmente giunto? Non osava sperarlo.
Si alzò in piedi, rabbrividendo per l'aria gelida sulla pelle bagnata: con cautela uscì dalla vasca e prese l'asciugamano dalle mani della donna.
“Ha spiegato il motivo di tanta urgenza?” chiese, tanto per andare sul sicuro.
“ No, milady” fu la prevedibile risposta.
Moony annuì di nuovo e si avviò verso lo spogliatoio, dove l'attendevano le sue ancelle: si mise al centro della stanza, a braccia aperte, e attese che le due la asciugassero, la vestissero e le sistemassero i capelli in una acconciatura alta che le lasciasse scoperto il viso. Mentre le ancelle si muovevano indaffarate attorno a lei come api su un fiore, lei si guardò allo specchio: tirò su le spalle per evidenziare il seno prosperoso, chinò la testa prima da una parte, poi dall'altra, fece un sorriso a mezza bocca e socchiuse gli occhi azzurri in un'espressione seducente, chinò un po' di più la testa, i capelli biondi che le ricadevano su un occhio, e lanciò uno sguardo contrito alla sua immagine riflessa, tirò su la testa, naso per aria, e inarcò un sopracciglio sottile con un certo disprezzo. Alla fine si raddrizzò, e fece un sorriso allo specchio: perfetta.
Il vestito che aveva recuperato era modesto, rispetto al resto del suo guardaroba, e di ciò si rammaricava non poco. Ma non aveva tempo di andare a recuperarne uno più adatto a una visita al re e sua Maestà pareva avere una certa fretta di vederla: sperò che non la imbruttisse troppo e si avviò alla carrozza, seguita dalle ancelle e dalla messaggera.
La carrozza dondolava appena mentre percorreva le vie lastricate di Silmar. Moony guardò fuori dal finestrino: la città scorreva davanti ai suoi occhi come un nastro, le botteghe si alternavano alle ville e alle locande dalle cui finestre già usciva una luce soffusa. Il sole del tramonto lanciava i suoi ultimi raggi, dando una tonalità aranciata alle strade e agli edifici. La carrozza saliva sulla strada in pendenza, scendeva per un paio di metri in quella successiva, per poi salire nuovamente. La giovane lasciò che lo sguardo vagasse sui giardini rigogliosi dei nobili e si preparò ad ammirare la seconda opera più imponente di tutto il regno dall'alto delle colline che la circondavano. Contò fino a dieci e guardò giù, attraverso lo spazio lasciato dagli alberi: il mercato si estendeva per almeno dieci chilometri nel punto più largo. Di forma circolare, era alto almeno cinquanta metri, con quattro piani di loggiati e come tetto il cielo aperto: l'unica copertura per i giorni di pioggia era un telo steso grazie a un complicato sistema di pulegge. Era una costruzione immensa, posta al centro esatto della città, cuore pulsante del regno. Moony cercò di abbracciare l'intero paesaggio con lo sguardo: ormai il sole era quasi del tutto calato, e le luci di Silmar si estendevano per tutte le sette colline su cui era costruita la città. Era una città ricca, una città di mercanti, dove la nobiltà non era data dal diritto di sangue ma dalla quantità di denaro posseduto. E lei, di denaro ne aveva parecchio.
La strada fece una svolta e riprese a salire e lei poté finalmente vedere la loro destinazione: il palazzo reale, sede della corte di Silmar e di alcuni fra i senatori, un enorme castello in pietra a pianta rettangolare. Da quello che poteva vedere, le finestre della sala del trono erano buie, ma la stanza personale del re era illuminata. Forse intendeva riceverla lì? Fece un sospiro e sentì il cuore batterle più forte.
Man mano che si avvicinavano alla reggia, cominciava a comparire all'orizzonte il profilo scuro delle montagne, e con esso, le poche luci delle fiaccole degli uomini a guardia del Valico. Moony si sforzò di individuare nel buio i contorni dell'immenso cancello che chiudeva l'unica via di accesso all'Impero dei Signori dei draghi: quel cancello era la ragione della ricchezza e della potenza di Silmar, nonostante le sue modeste dimensioni come regno.
Sin dagli albori della loro fondazione, i due grandi imperi di Lance, il regno di Heilig a sud e il regno di Khratev a nord, si erano sempre trovati in stato di guerra, alternata a momenti di pace armata. Divisi dalla triplice catena montuosa dei Monti Barriera, si erano dati reciproca battaglia attraverso l'unica strada percorribile di tutta la catena montuosa, ossia il valico del monte Silmar. A quei tempi il valico era un campo di battaglia perenne: ora proprietà di un regno, ora dell'altro, i suoi abitanti erano vissuti subendo un'angheria dopo l'altra, un sopruso dopo l'altro, imparando a lottare per sopravvivere. Poi era comparso George Lloyd.
Rimasto orfano, George fu cresciuto da una famiglia di gnomi delle montagne. Gli fu insegnato il significato di parole come libertà, giustizia e coraggio e fu addestrato a combattere. Era un visionario e un temerario, ma con l'aiuto di un manipolo di coraggiosi e del suo migliore amico, Devid Kessler, riuscì a sconfiggere gli heiliani, allora signori di quelle terre, e a cacciarli dal valico. Poi, secondo la leggenda, in una sola notte avevano costruito i due cancelli a guardia del valico e ci si erano barricati dentro. Resistettero lì dentro per cento giorni, continuando a rinforzare i cancelli contro gli assalti dei due regni. Sembrava che la guerra fosse giunta a un punto di stallo, e che l'unico modo di uscire da quella situazione fosse un accordo diplomatico. Poi, all'alba del centounesimo giorno, comparvero nel cielo i draghi.
“Siamo arrivate, milady”
Moony si riscosse dai suoi pensieri: la carrozza si era fermata nel vasto cortile del palazzo e i paggi stavano già provvedendo a portare cibo per i cavalli.
E' il momento pensò. Si lisciò la gonna, si sistemò i capelli, prese un gran respiro e si avviò all'interno del palazzo.

Re Hans III Kessler sedeva al tavolo nel centro dei suoi appartamenti privati e la osservava, una guancia appoggiata alla mano, il gomito appoggiato al tavolo. Lo aveva interrotto mentre mangiava: arrosto di piccione in crosta, da quello che poteva vedere. Lui adorava il piccione.
Moony deglutì, sentendosi irragionevolmente in colpa: lui l'aveva chiamata con tutta quella fretta, era logico pensare che si non aspettasse di finire la cena.
“ Eccomi, Vostra Maestà” esordì, facendo un piccolo inchino.
“Moonlight. Vedervi è un vero piacere” disse Hans, uno scintillio negli occhi da cerbiatto.
Moony cercò di non svenire: vedervi è un vero piacere! Lo aveva detto davvero!
“Perdonatemi, ho interrotto il vostro pasto” disse chinando la testa.
“In effetti” disse lui ”il mio pasto è stato interrotto” inclinò la testa da un lato, mostrando il bel collo” ma non certo da voi”.
Si alzò in piedi e si avvicinò, prendendole le mani. Moony non poté fare altro che osservarlo dal basso in alto: i lucidi capelli castani, gli occhi verde scuro, i muscoli appena accennati sotto la camicia di raso bianca. Era bellissimo.
Lui le circondò il viso con le mani, causandole un altro piccolo infarto: ”Non avete nulla da farvi perdonare” disse a un soffio dal suo viso.
Moony non osava neanche respirare: solo sentire il suo odore le stava dando alla testa. Chiuse leggermente gli occhi, in attesa.
Lui le staccò mani dal viso e si allontanò così velocemente che lei se ne rese a mala pena conto. Rimase a osservarlo inebetita, mentre si risedeva al tavolo e le faceva cenno di avvicinarsi. Lei si riscosse, corrugò la fronte in un'espressione scocciata, si avvicinò a passo di marcia e tirò indietro la sedia con tanta violenza che strisciò sul pavimento con uno stridio terribile. Si sedette, incrociò le braccia e le gambe e attese in un ostinato silenzio.
Lui le offrì un bicchiere di vino come gesto di pace. Lei esitò, ma alla fine lo prese: era impossibile resistere a quegli occhi.
“Allora, avete fatto quello che vi ho chiesto?” disse il re.
La ragazza si morse un labbro e chinò la testa: ”Maestà, io“ deglutì ”perdonatemi, vi ho deluso, Maestà. Non sono riuscita a vedere la regina” concluse a voce bassa.
Hans non disse nulla, e lei non osò alzare lo sguardo per vedere la sua espressione.
“ Come mai?” fece lui, con voce incolore.
“E' troppo protetta, Maestà” spiegò Moony, quasi tremando ”E' sempre chiusa nei suoi appartamenti, non esce mai e nessuno può entrare se non il Gran Sacerdote. Persino entrare nel palazzo è stato quasi impossibile” rispose.
Il re annuì, piano. “E durante le cerimonie ufficiali?” le chiese ”Non è la regina a benedire i semi per il raccolto e altre corbellerie religiose di questo genere?”
“Velata, Maestà, e nessuno può avvicinarla.” Lei trattenne il fiato e alzò la testa, prima di tirare fuori l'unica informazione utile che era riuscita a ricavare: ”Inoltre, quella non è la vera regina” disse.
Hans si voltò a guardarla negli occhi: ”Perdonami?”
“ La celebrazione della nascita di Heil” esordì, facendo finta di non notare la lieve smorfia di disgusto che era comparsa sul volto del re, al solo nominare il dio supremo di Heilig” è stata il mese scorso, Maestà, durante la mia permanenza nel regno” affermò.
” Sono riuscita a infiltrarmi tra le sacerdotesse, e ho visto quella che dovrebbe essere la regina, ma da quello che ho dedotto dai loro discorsi” lo fissò negli occhi, come a sfidarlo a mettere in dubbio le sue deduzioni ”quella era solo una sostituta.”
Il re si massaggiò il pizzetto e la fissò di rimando, in silenzio: ”Perché il regno di Heilig avrebbe bisogno di occultare colei che lo governa?” chiese.
“Non ne sono sicura” gli rispose, tremando appena quando gli occhi verdi dell'uomo incontrarono i suoi ”ma ho formulato un'ipotesi”.
S’infilò una mano nel corpetto e tirò fuori le due pergamene che vi aveva infilato in precedenza. Si alzò in piedi e le porse al re. Lui la fissò di sottecchi, poi rivolse la sua attenzione ai due pezzi di carta: uno era la proclamazione dei festeggiamenti in onore della fine del millennio, un altro era un decreto di tributo straordinario per tutte le provincie del regno, datato 1625 (1). Il re guardò di nuovo Moony, aspettando una spiegazione.
“Maestà, voi sapete da quanto tempo è sul trono l'attuale regina?” chiese la ragazza.
“Da più di mille anni” rispose lui.
Moonlight annuì: ”I sacerdoti continuano ad asserire che è stata benedetta da Heilig ed è per questo che continua a regnare su di loro. Ma la mia opinione è” s’interruppe, scuotendo la testa” che la cosa sia molto diversa da come ce la mostrano”.
Fece un cenno con la testa in direzione dei documenti ”Osservate le firme”.
Hans riportò di nuovo l'attenzione sulle pergamene: in entrambi, nell'angolo in basso a destra, subito sotto il sigillo rosso con il grifone a due teste, stava scritto Gordiana. In uno, la firma aveva una leggera inclinazione verso sinistra, nell'altro le a terminavano con un piccolo ricciolo.
“Spiegami” ordinò Hans, continuando a fissare le pergamene.
“Credo che si tratti di due persone distinte, Maestà” rispose Moony ”Le differenze sono minime, è vero, ma ho visionato altri documenti, e molti portavano nelle firme simili diversità.”
“Che cosa pensi che significhi?” le chiese, fissandola negli occhi.
Moony arrossì e abbassò lo sguardo: ”Non lo so, maestà. Prima di poter scoprire altro mi hanno trovata nell'archivio e sono dovuta fuggire” concluse, senza osare guardarlo negli occhi.
Hans non emise un fiato, ma lei poteva sentire la sua delusione come se le avesse sferrato un calcio nello stomaco.
”Hai altre prove di quello che affermi?” chiese infine.
“Solo i miei occhi, sire”
Il re sospirò a fondo e tacque.
“Eva” Moony ebbe un sobbalzo a sentire il suo vero nome ”tu sei la migliore delle mie spie.”
“Grazie, sire” disse lei, sentendosi ancora peggio nell'udire quell'elogio.
“Ciononostante” proseguì lui, dando segno di non averla sentita ”proprio per questo non posso risparmiarti la punizione che spetta a chi fallisce” pronunciò l'ultima parola assaporandola, come un cucchiaio di miele.
Moony impallidì, suo malgrado: ” Vostra Maestà, io comprendo perfettamente, tuttavia” si umettò le labbra secche ”vi prego, Maestà, concedetemi un'ultima possibilità.”
Hans prese a massaggiarsi il mento e a passeggiare per la stanza, avanti e indietro: ”E se fallissi di nuovo?”
“Non succederà, mio signore” Moony prese tutto il coraggio che aveva e lo guardò negli occhi ”Ve lo giuro.”
“E farai” si avvicinò a lei tanto che sarebbe bastato sporgersi un po' perché i loro nasi si toccassero ”qualsiasi cosa?”
“Qualsiasi” affermò lei.
Fu solo per un attimo, ma Moony avrebbe potuto giurare di vedere qualcosa simile al trionfo nello sguardo del suo re: un secondo dopo, lo sguardo di Hans era di nuovo stanco e rassegnato.
“D'accordo” disse con un sospiro ”ti concederò un'altra possibilità.”
Lo sguardo di Moony s’illuminò per un istante, prima che lui riprendesse a parlare: ”Voglio che ti infiltri tra i repubblicani.”
Moony spalancò la bocca” Cosa?”
Non poteva credere che glielo stesse chiedendo davvero: infiltrarsi tra i repubblicani voleva dire mescolarsi alla feccia, a degli ingrati che non facevano che ordire congiure e cospirare contro il re e tutto ciò che rappresentava. Erano su tutto un altro piano, rispetto a lei e al modo in cui era cresciuta. Non poteva dire sul serio.
“ E' la tua ultima occasione” disse. Era anche troppo serio.
“ Sei libera di rifiutare, naturalmente.”
No che non lo era, ma avrebbe tanto voluto poterlo fare.
Moony chiuse la bocca e s’inchinò rigidamente: ”Come Vostra Maestà comanda” disse, prima di dirigersi alla porta a grandi passi.
“Moonlight” la fermò con la mano sulla maniglia ”sai cosa accadde, quando comparvero i draghi alla battaglia del Valico?”
Moony fece un sospiro.
All'alba del centounesimo giorno, comparvero nel cielo i draghi.
“Sì, Maestà.”
E riversarono il loro fiato bollente sul Valico, facendo strage di chiunque vi si trovasse.
“Allora cerca di non fare l'errore del tuo antenato” disse Hans, risiedendosi davanti alla sua cena ormai gelida ”non asserragliarti dietro i muri delle tue convinzioni.”
Moony si voltò e gli fece di nuovo l'inchino. Poi varcò la porta, senza guardarsi indietro.
Hans sorrise, mentre osservava i documenti che la sua spia gli aveva portato e notava che quella grafia così slegata e a tratti spigolosa sembrava quasi quella di una bambina.

(1)Anno 85 secondo il calendario di Silmar

Note di Red: innanzitutto mi scuso per il ritardo: dovevo aggiornare ieri ma ho avuto un po’ da fare e non sono stata molto bene, quindi ho rimandato a stasera (perché sì). Anyway, sono ancora incerta sul lasciare a Moony l’onore di aprire le danze, perché mi rendo conto che in questo capitolo è veramente odiosa. Tipo Mary Sue spocchiosa, se avete presente. Ovviamente l’effetto è voluto (conto di farle fare un minimo di percorso psicologico che dovrebbe migliorarla, ma ehi, non garantisco niente. Potrei ucciderla al secondo capitolo e pace, muahahahah), c’è da dire che metterla già all’inizio è un bel rischio. Non so, ditemi che ne pensate.
E comunque Hans è tipo un figo (avete presente Matt Smith? Ecco, lui. Non mi venite a dire che non è da infarto quell’uomo.)
Detto ciò, vi è piaciuto? Non vi è piaciuto? Volete sposare Hans? Prendere Moony a vangate sui denti? Lasciatemi un commentino lì sotto, fate un’autrice felice!
Alla prossima settimana!

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Capitolo 4
*** Capitolo uno: Asso di Bastoni - L'inizio. Boudica ***



Capitolo 1
Asso di Bastoni – L’inizio


Boudica

Il mare era inquieto. Le onde si gettavano sugli scogli con fragore, la schiuma che ricadeva sulle rocce con un suono come di pioggia.
Boudica sedeva sul prato, ascoltando. Il vento era freddo e tagliente, e spazzava la scogliera con la sua voce lamentosa. Ma il sole era caldo, per una volta: o almeno, caldo come poteva esserlo così a Nord. La ragazza sedeva sul prato, in cima alla scogliera, e ascoltava. Non che avesse mai potuto fare altro.
“Si sta bene, oggi” disse una voce accanto a lei.
Boudica annuì e sorrise: allungò una mano in direzione della ragazza di fianco a lei e il suo sorriso si spense quando incontrò la sua pelle nuda. “Niamh, dovresti coprirti. Questo vento è gelido”
“Ma il sole è caldo, sorella” disse Niamh con una risata “Non sento freddo, davvero”
Boudica non disse nulla, ma cercò la coperta e la pose sulle spalle della sorella. Anche Niamh non disse nulla, ma si limitò a uno sbuffo di rassegnazione.
Restarono in silenzio per un po’, mentre il mare continuava a mugghiare sotto di loro.
“Boudica?”
La ragazza mugugnò.
“Ti devo dire una cosa.”
Boudica non si mosse, ma sua sorella sapeva che era attenta.
“Ieri, mentre non c’eri, è venuto Taranis.”
La più grande sussultò violentemente ”E’ successo qualcosa? Ti ha fatto del male?”
“No, no” disse Niamh “è stato gentile”
Boudica non disse nulla, ma si accigliò: dubitava fortemente che quella patetica imitazione di uomo fosse in grado di essere gentile.
“Mi ha chiesto di sposarlo.”
La ragazza piegò la testa verso la sorella: non aveva capito bene. “Scusa?”
“Taranis mi ha chiesto di diventare sua moglie.”
Boudica rimase in silenzio, cercando di assimilare quell’informazione. “E tu cosa hai risposto?”
“Che ci avrei pensato.”
La più grande sbuffò con forza: ”Quell’uomo non mi piace.”
“Lo so”
Restarono in silenzio per un po’. Alla fine Boudica disse “Si è fatto tardi. Meglio rientrare”
“Sei arrabbiata?”
“Vuoi che sia sincera?” “Sì.” Il tono di Niamh era mortalmente serio.
“Non capisco perché non hai rifiutato e basta. Che bisogno hai di pensare?”
“Perché, Boudica” disse l’altra a bassa voce ”ho paura. Paura di rimanere sola.”
“Hai me!”
“Boudica, hai capito cosa intendo. Voglio avere dei figli un giorno, sempre di esserne ancora in grado…”
“L’anziana ha detto…”
“So cosa ha detto l’anziana, ma se si sbagliasse?”
“Metti in dubbio la sua parola?” esclamò la più grande, sconvolta da quell’affermazione.
“In questo caso sì.”
Mai come in quel momento Boudica aveva desiderato non essere come era. Non poter vedere il volto di Niamh era una tortura straziante.
“E’ tutta colpa mia.”
“Smettila sorella, è stato un incidente”
“Se io non fossi così…”
“Ma lo sei, lo sei sempre stata, ed io ti giuro che non vorrei una sorella diversa.” Niamh allungò la mano a toccare la guancia dell’altra ragazza: “Non è tua la colpa, sorella mia, e lo sai.”
Boudica non disse nulla, ma spinse il viso verso la mano della giovane, cercando di percepirne il calore e la morbidezza: “Niamh, promettimi che non farai sciocchezze”.
Niamh sorrise e baciò la guancia della sorella più grande: “Te lo prometto.” Boudica non poteva vedere il sorriso di Niamh, non poteva vedere niente di lei, ma sapeva quando sua sorella stava mentendo, e questa era una di quelle volte.
“Rientriamo” disse alla fine “è quasi l’ora dell’assemblea”.
Boudica prese la sorella in spalla, le gambe della più giovane che ciondolavano come pezzi di legno, e cominciò a ridiscendere il pendio verso il villaggio, con la voce di Niamh come guida.

L’aria si era fatta notevolmente più fredda quando arrivarono all’accampamento sul promontorio: le migliaia di tende dei clan di Dulam erano sparse attorno all’albero sacro fino alle rive a strapiombo di Capo Foca. Ovunque, Boudica sentiva le voci degli uomini e le donne del Nord, roche, quasi gutturali, le risate squillanti dei bambini, i suoni di lame da allenamento che si scontravano, i tonfi e i gemiti dei partecipanti alle risse tra clan, l’odore del cibo sul fuoco, della birra versata e degli escrementi dei pochi cavalli presenti. Sentiva inoltre un odore di affumicatura molto familiare.
“Viene dalla nostra zona o sbaglio?” chiese alla sorella. Senza attendere risposta si avviò decisa in direzione del fumo.
“Rallenta, non posso guidarti se vai così veloce!”
“E’ un allenamento, sorella mia! Vediamo se riesci a evitare che ci capitomboliamo!”
In realtà non ce ne fu bisogno: al passaggio di Boudica, già abbastanza possente di suo, gli uomini si scostavano automaticamente, alcuni fischiando e altri inneggiando alla “Leonessa”, per poi scoppiare in alte risate di scherno.
“Ti stanno prendendo in giro” disse Niamh, lanciando sguardi di fuoco a quelli che si comportavano così.
“Lasciali fare, Niamh, non è il momento di litigare” disse la più grande, continuando imperterrita nella sua marcia.
Alla fine giunsero all’accampamento del clan Dykon, ma Boudica non rallentò: si precipitò diretta al falò, dove un uomo possente dalla folta chioma grigia stava affumicando del pesce.
“Ne è rimasto per noi, maestro?” chiese la ragazza, leggermente senza fiato.
L’uomo rise: “Lo sapevo che il profumo di questo sgombro avrebbe funzionato meglio di qualsiasi richiamo!” disse, arricciandosi i baffi grigi, folti come i suoi capelli “Su, sedetevi e mangiate, prima che torni la carica dei barbari.”
Boudica non se lo fece ripetere due volte: mise delicatamente la sorella su un sedile di tela e legno, si assicurò che fosse alla giusta distanza dal fuoco, prese gli spiedini di sgombro dalle mani del suo maestro, ne diede uno a Niamh e infine si sedette per terra a mangiare di gusto. Il tutto con una tale velocità e sicurezza che un estraneo avrebbe detto che ci vedeva benissimo.
“Vedo che il tuo addestramento migliora” disse l’uomo “riesci a mangiare senza scottarti” e rise, ricevendo per tutta risposta una stecchinata in testa da parte dell’allieva.
“Maestro Kaleb, ci sono novità?” chiese Niamh, mentre Boudica si serviva di un’altra porzione di sgombro affumicato.
“Nulla di certo, e di sicuro nulla che verrebbe detto a questo povero vecchio” fece l’uomo, con un sorriso mesto “Qualsiasi sia il motivo per questa riunione straordinaria, ci verrà detto stasera. A meno che tu non voglia chiedere alla tua cara Cygna…”
Niamh scosse la testa: “No, non vorrei disturbarla” disse.
“Perché no?” chiese Boudica, stupita “Sono sicura che ti risponderebbe.”
“Ma tanto lo sapremo comunque tra poco” fece Niamh, con l’aria di voler chiudere la questione.
Kaleb osservò la discussione delle due ragazze molto attentamente, e decise di intervenire: “E per quanto riguarda Taranis?” chiese, con un sorrisetto.
“In che senso?” chiese Niamh, allarmata.
“Corre voce che abbia chiesto la tua mano” la informò l’uomo, lisciandosi i baffi.
“Io non ho mai sentito questa voce, e ho l’orecchio più fino di tutto il villaggio” disse Boudica, lo sguardo fisso ma le orecchie rizzate sulla loro conversazione.
“Boudica, le tue bugie sono buone quanto i tuoi occhi” la redarguì Kaleb, ridendo.
Boudica rise sommessamente: “Allora starò zitta” disse alla fine, abbracciandosi le ginocchia e continuando ad ascoltare, il viso nascosto.
“Allora?” insistette Kaleb.
“Allora cosa?” ripeté Niamh.
“Ti ha chiesta in sposa o no?” incalzò l’uomo.
“Ma perché v’importa tanto? Siete forse diventato un vecchio pettegolo?” esclamò Niamh piccata.
Kaleb si accigliò appena: “Ascoltami bene, signorina, non m’interessa minimamente quello che fate voi ragazzi, ma Taranis è un mio allievo, e come tutti i miei allievi è come un figlio per me, esattamente come tua sorella. Se ha domandato la tua mano prima di farne parola con il consiglio del villaggio lo vorrei sapere” spiegò l’uomo con una certa foga.
“Io continuo a non capire perché il consiglio del villaggio deve immischiarsi in queste cose” borbottò Niamh “perché non si fanno gli affari loro e basta?”
“Niamh!” esclamò Boudica a quelle parole.
“Niamh, non cambiare discorso” disse Kaleb, guardandola negli occhi.
Niamh tacque. Boudica poteva sentire a mala pena il battito del suo cuore, il suo respiro affannoso: non era una bella situazione.
“Va bene, facciamo finta di non aver mai parlato di queste cose. Ma voglio che tu sappia questo, Niamh: non importa che tu sia una storpia, non è giusto che tu spezzi il cuore di quel ragazzo, non se lo merita. Quindi, nel caso dovesse farti questa domanda, attenta alla risposta che darai” disse alla fine il guerriero, per poi alzarsi e allontanarsi nell’accampamento.
“Intendeva che dovresti dirgli di sì?” chiese Boudica.
“Forse. O forse che dovrei dirgli di no” rispose Niamh.
Le due ragazze rimasero in silenzio, riflettendo.
“Comunque” disse Boudica alla fine “io continuo a pensare che sia un pessimo partito.”
Niamh rise e le tirò addosso il mantello. In quel momento suonò il corno dell’adunata.

L’albero sacro era stato adornato di lanterne magiche, simili a candele: il loro scopo, ben lontano da quello di semplice decorazione, era permettere, anche a chi si fosse trovato più in fondo, di vedere i sacerdoti Godar che in quel momento si affaccendavano intorno al tronco. Nel cielo, la prima luna d’autunno splendeva sottile come un’unghia. Il vento freddo aveva portato via le nuvole, e la notte si prospettava limpida.
Boudica non aveva mai visto né la luna, né il cielo, né l’albero sacro: nella sua mente erano solo parole associate a suoni, come la voce di Niamh che glieli descriveva, o il verso di un animale notturno, o i rumori di quattordici clan riuniti insieme, lo stormire delle foglie dell’albero, il calore degli umani, il freddo del vento.
Era nata cieca: tutto ciò che si trovava nella sua mente erano suoni, sensazioni, odori. Contorni di oggetti che aveva toccato, che per lei sì, è così che è fatto, colori che non sapeva descrivere, chissà che cosa è vero per gli altri.
Boudica si lasciò trasportare da quello che sentiva: la voce di Niamh era calda e dolce, e ogni tanto alzava il tono quando vedeva qualcosa di nuovo o divertente, e la sua risata esplodeva argentina. Era in quei momenti che Boudica si sentiva davvero bene.
“Oh, ecco la Vitkona” si sentì dire dalla folla.
Un brusio si levò dai clan: se era arrivata una strega a presiedere la riunione, la cosa era davvero grave.
“Niamh” disse Boudica alla sorella appollaiata sul marsupio sulle sue spalle “descrivimela.”
“Non te la ricordi più?” si stupì la ragazza: sua sorella si era trovata faccia a faccia con la Vitkona non più di un anno prima.
“Nessuno mi ha mai detto com’era” rispose Boudica.
La più giovane si sporse leggermente da sopra la testa della sorella: “La sua testa penso arrivi ai tuoi seni…no, al tuo ombelico: ha capelli lunghi come i tuoi, ma sono sciolti e…sembra che non abbiano mai visto un pettine o un sapone.”
“Neanche io, se è per questo” ridacchiò la più grande, sistemandosi meglio il marsupio sulle spalle.
“Smettila, scema, fammi finire. Dicevo, ha un vestito di lana bianco…no, grigio. Tiene un bastone in mano. E ha un mantello di pelle di orso aperto…lo sta facendo svolazzare in giro. Per la Tempestosa, che melodrammatica!”
“Niamh! Porta rispetto” la sgridò la più grande sottovoce. Niamh per tutta risposta ridacchiò.
“Ecco, è entrata nel cerchio dei capi” disse invece, osservando la Vitkona prendere posto al centro del cerchio formato dai quattordici capi tribù, davanti al’albero.
“Guerrieri del Nord” disse la Vitkona “avete risposto alla chiamata. Gli dei si compiacciono”
Boudica avvertì un brivido lungo la schiena: non sentiva quella voce da più di un anno, ma l’avrebbe riconosciuta ovunque. Forte, piena, trasudante potenza a ogni sillaba, ogni volta che la Vitkona apriva bocca Boudica si sentiva piccola come un uccellino spaurito.
“Gravi fatti avvengono nella nostra terra. Fatti che molti di voi già conoscono, e che altri ancora ignorano. Siete stati chiamati per unirci, perché solo insieme potremo sopravvivere” disse ancora la Vitkona, muovendosi nel cerchio e guardando i capiclan uno a uno.
“Capo Sven” disse, puntando il bastone contro il capoclan degli Oolastine, i Gabbiani di Dulam “cosa è successo nelle vostre terre?”
Il capo Sven si alzò in piedi: in confronto ad altri capi, era più piccolo e smilzo, ma sembrava tenace come un giunco in una tempesta: “I ghiacci si sciolgono, Vitkona” disse il capo, scuotendo i lunghi capelli biondi “Il mare avanza. Siamo stati costretti a spostare il villaggio verso la terra, piacendo agli dei.”
“Piacendo agli dei” gli fece eco la Vitkona, che si allontanò di nuovo “Capo Khydu” disse, indicando stavolta il capo del clan Frosjen “cosa è accaduto agli Squali di Dulam?”
“Il ghiaccio ha ceduto sotto di noi” disse capo Khydu, un omone grosso con gli occhi a mandorla “Un’intera capanna è precipitata in acqua. Mio fratello e i suoi figli sono morti annegati.”
“Capo Edel” la Vitkona si rivolse a una donna alta e robusta con i capelli rossi “che ne è dei guerrieri Jmyr?”
“Morti in mare, Vitkona. Una tempesta forte come non se n’era mai viste li ha portati al cospetto dello Scuotitore” disse la donna, capo delle Volpi di Dulam.
“Capo Odhin” Boudica e Niamh sobbalzarono, vedendo la Vitkona rivolgersi al loro capo clan “quanti Orsi di Dulam sono stati vittime dei loro fratelli animali?”
Capo Odhin era grosso due volte un uomo normale, aveva capelli ispidi e una barba intrecciata neri come il carbone. La sua voce era bassa e roca quando rispose: “Quattordici, Vitkona. E chi è sopravvissuto desidera tutt’ora morire. Non ho mai visto così tanti orsi sulla terra ferma prima di quest’anno.”
“Perché non ce ne sono mai stati” esclamò la Vitkona, rivolgendosi ora a tutta l’assemblea “I ghiacci si sciolgono, guerrieri. Il mare avanza e si ribella, la terra cede, gli animali fuggono dal loro regno selvaggio in cerca di cibo e assalgono i cacciatori.”
La folla rimase in silenzio, attonita e perplessa. La Vitkona continuò: “La dimora del Nevoso si distrugge. Cosa faranno i suoi figli, adesso?”
Si rivolse ai capiclan: “Questo è quello che dovrete decidere oggi” enunciò gravemente. Uscì dal cerchio e si sedette ai piedi dell’albero sacro, in attesa.
Per un momento non si udì suono: poi, i membri di quattordici clan cominciarono a parlare tutti insieme.
“Che cosa faremo?”
“Dobbiamo andarcene!”
“Ho appena finito di costruire la tenda…”
“Chi mi ripagherà dei cavalli che ho comprato adesso?”
“Resistiamo!”
“Facciamo villaggi più solidi!”
“Sacrifichiamo i vitelli grassi!”
“SILENZIO!” fu la voce di Capo Odhin a sovrastare la gran confusione che si era venuta a creare. “Fare baccano non servirà a niente. Vitkona, la catastrofe è inevitabile?” chiese.
La Vitkona non disse nulla: si limitò a guardarlo fisso.
“Vitkona, vi prego…”
“E’ così! Non c’è nessuna speranza!” gridò un uomo in mezzo alla folla, in preda al panico.
Uno dei Godar decise di intervenire: “Ciò che la Vitkona vuole comunicarci, figliolo” disse il sacerdote “E’ che la salvezza arriverà a chi si affida agli dei…”
“Non mettermi in bocca parole non mie, vecchio” disse la Vitkona “La verità che il nostro Godar vorrebbe non farvi sapere è che noi non sappiamo niente.
La folla trattenne il respiro. Boudica rimase a bocca aperta: “La Vitkona non riesce a leggere il futuro?”
“Ma tu pensa” le fece Niamh, caustica.
“Di qualsiasi cosa si tratti, gli dei non vogliono che noi ne siamo informati. Temo che l’unica cosa da fare sia obbedire alla loro volontà e cercare rifugio al sud” disse uno dei capoclan.
“Ha ragione”
“Ma dobbiamo andarcene davvero?”
“Io non voglio!”
Niamh nel frattempo rimuginava tra sé: Boudica poteva sentire il suo cervello muoversi come una pignatta sul fuoco. Rimase comunque sorpresa quando Niamh alzò la voce: “E l’Oracolo?”
Quattordici clan di uomini e donne nerboruti e massicci si girarono verso di lei. La Vitkona si alzò in piedi: “L’Oracolo?” disse, perplessa.
“Sì, l’Oracolo. L’Oracolo dei Monti Neri. Qualcuno ha pensato di interpellarlo?” ribadì Niamh, sempre con voce forte e chiara. Boudica era tentata di girarsi e andarsene via, prima che combinasse altri guai.
“Se io e le mie sorelle non siamo riuscite a capire la causa di questo cataclisma, come può riuscirci un tale cialtrone?” chiese la Vitkona con voce molto calma. Boudica cominciò a mettere un piede indietro.
“Non lo so, forse gli dei non ritengono che voi siate degne di saperlo? O forse non siete così brave come volete farci credere? O forse” la voce di Niamh si alzava sempre di più, mentre Boudica bilanciava il peso in attesa del momento buono per fuggire “neanche gli dei sanno cosa sta succedendo?”
“NIAMH!” Boudica si lanciò in avanti nel momento stesso in cui sentì lo spostamento d’aria provocato da primo pugno: afferrò quel polso sconosciuto con entrambe le mani e scagliò l’avversario il più lontano possibile dalla sorella. Poi, senza neanche riflettere, cominciò a correre in direzione (o almeno presumeva che lo fosse) dell’albero sacro, con Niamh sulle spalle che rischiava di sbilanciarsi ogni volta che schivava un colpo o saltava su un corpo steso.
“Odhin!” gridò Boudica “Aiutaci!”
Il colossale capo clan si slanciò in mezzo alla folla, menando fendenti con gli avambracci, liberando un passaggio alle due ragazze e calmando gli animi. Quando le due arrivarono in mezzo allo spiazzo, Niamh vide che dietro di loro si era creato un unico vortice di pugni.
“Che villani” esclamò.
“Mi sembra che tu sia l’ultima persona a poter parlare di villania, Niamh dei Dykon” esclamò la Vitkona dietro di loro.
Niamh rimase in silenzio. La Vitkona fece un sorrisetto: “Vedo che si tratta di un vizio di famiglia…è la seconda volta che ti presenti a quest’assemblea, Boudica dei Dykon.”
Boudica tacque, le guance in fiamme. Niamh insorse: “E’ con me che state parlando, non con lei.”
“Come vuoi, allora. Vuoi sapere se siamo degne di udire la voce degli dei? Io vorrei sapere come pensa di giudicarci una ragazzina che non può neanche camminare” disse severa la Vitkona.
Stavolta fu il turno di Niamh di arrossire: “Penso solo che bisogna valutare ogni possibilità” rispose.
“Dissacrando gli dei? Non ti sembra di valutare possibilità troppo remote?” fece caustica la donna.
“Mia signora” Boudica prese la parola a fatica “mia sorella non intendeva essere irrispettosa. Lei…”
“Parli per tua sorella adesso?” la interruppe la Vitkona.
“Voi non avete risposto alla mia domanda” esclamò Niamh “Perché non interpellare l’Oracolo? Che male c’è a chiedere?”
Ci fu un boato di protesta dalla folla talmente forte che Boudica rischiò di perdere l’equilibrio.
“SILENZIO!” gridò di nuovo Odhin, tacitando gli astanti.
La Vitkona guardò a lungo le due ragazze: Boudica poteva quasi sentire fisicamente il suo sguardo scivolarle addosso, mentre in silenzio meditava la sua mossa.
“D’accordo, allora” disse alla fine la donna “Volete andare a chiedere all’Oracolo? Andate e interpellatelo. Se sarà in grado di fermare il cataclisma che si sta abbattendo sulle Lande Dulam, tornate qui e sarete celebrate come eroine. Ma se neanche lui sarà capace, laddove noi Vitkone abbiamo fallito” guardò Niamh dritta negli occhi “la vostra ricompensa sarà l’esilio dalle terre del Nord.”
Boudica trattenne il fiato: sapeva cosa comportava l’esilio. E non era semplice come cambiare casa. Strinse la mano di Niamh in cerca di rassicurazione.
“Accettate?”
Niamh strinse forte la mano della sorella. Scusa, sorellona.
“Accettiamo”.


Note di Red: amo queste due. Posso dire che amo queste due? Sono fantastiche. Niamh è dissacrante in una maniera incantevole, la lovvo troppissimo.V Anyway, tornando a discorsi più seri: innanzitutto, mi scuso per il ritardo (di nuovo). I soliti problemi di real life (più malesseri vari che mi stanno facendo uscire scema). Come potete notare il pov è cambiato di nuovo, e anche l’ambientazione. Mi rendo conto che sta diventando complicato, ma appena riesco farò un post da qualche parte con informazioni varie che possono aiutarvi a seguire il filo (tipo riassunti dei capitoli, la mappa del continente, schede dei personaggi ecc.) Magari faccio un blog apposta, perché no? Cmq vi farò sapere.
Intanto ringrazio tutti quelli che mi leggono senza dire niente, chi recensisce, Himenoshirotsuki, Applepop, Anubis per aver messo la storia tra le seguite e clo_smile per averla messa tra le ricordate. Spero che la storia vi sti intrigando almeno un po’, e se sì (ma anche se no) fatemelo sapere!
Alla prossima settimana!

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Capitolo 5
*** Capitolo uno: Asso di Bastoni - L'inizio. Roland ***



Capitolo 1
Asso di Bastoni – L’inizio


Roland

Il sole splendeva glorioso su Esthaven: gli uccellini volavano nel cielo azzurro, solcato solo da qualche nuvoletta bianco latte; le fronde degli alberi si muovevano piano nella brezza mattutina e Roland avanzava per la strada portando il suo carretto ricolmo di beni, con stampato in faccia un sorriso a trentadue denti.
Era il gran giorno: finalmente avrebbe mollato quel benedetto carretto, fatto ciao ciao con la manina al suo datore di lavoro e abbandonato per sempre quella schifosa città, partendo alla volta del suo grande sogno. Quel giorno nulla poteva andare storto.
“Ehi, carrettiere, attento a dove vai!”
O quasi.
“Mi scusi, signore!” gridò Roland all’uomo che per poco non aveva messo sotto, e proseguì per la sua strada, fischiettando.
Oltrepassò un manipolo di guardie sfaccendate, rivolgendo loro un rispettoso cenno del capo, accelerò il passo di fronte all’osteria di Madame Chevalier, sia mai che lo vedesse e attaccasse bottone, salutò allegro un gruppo di ragazzi più piccoli che si rincorrevano per i vicoli. Alla fine si fermò: dalla bottega di fronte a lui proveniva l’allegro chiacchiericcio dei garzoni. Roland inspirò a pieni polmoni l’odore invitante di pane appena sfornato: lasciò il carretto di fronte alla porta d’ingresso ed entrò.
“Buon giorno!” disse, pieno di baldanza. Il fornaio si voltò a guardarlo e corrugò la fronte.
“Giovanotto” disse, lanciando uno sguardo ai suoi abiti consunti ”se non hai soldi, ti conviene smammare.”
“Vengo da parte di mastro Fidja” fece il ragazzo, alzandosi in punta di piedi per raggiungere il bancone.
“La mia farina?” fece il fornaio. Roland annuì.
“Ragazzino, ti rendi conto che il sole è sorto da almeno tre ore? Quando dovrei preparare il pane, secondo te, eh?” sbraitò il fornaio in faccia a Roland.
“Mi è stata consegnata in ritardo. Io ho fatto più in fretta che potevo” disse il ragazzino, ergendosi in tutta la sua scarsa altezza e guardando il fornaio dritto negli occhi.
“Non ci crederei neppure se me lo giurasse la Regina in persona!” gridò l’uomo, il volto sempre più paonazzo.
“E’ la verità!” gridò Roland a sua volta.
L’uomo lo squadrò da capo a piedi, gli occhi porcini ridotti a una fessura: ”In ogni caso, ora devi ripagarmi del ritardo, ragazzino. Fila nel retro!” berciò, indicandogli una porta dall’altro lato del bancone.
Roland gli lanciò uno sguardo assassino, ma non disse niente: si limitò a dirigersi nel retrobottega, sbuffando a più non posso.
“Louis! Metti al lavoro questo marmocchio!” gridò il fornaio a uno dei garzoni, un ragazzo alto e smilzo con gli occhi storti, prima di tornare al bancone.
Louis lanciò a Roland una lunga occhiata di disgusto, prima di apostrofarlo con tono seccato: ”Vedi di non esserci d’intralcio, tu”.
Roland continuò a tacere: se si fosse messo a parlare, altro che lavoro nel retrobottega, l’avrebbero ammazzato di botte. In fondo gli era anche andata bene.
Louis non si dimostrò affatto gentile: dopo avergli ordinato di scaricare la farina e di portarla in cucina, lo tartassò per tutta la mattina. “Versa l’acqua”,”Bada al forno”,”Impasta questo”,”Pulisci quello”: non faceva che dargli ordini e prenderlo a sberle sulla nuca se sbagliava qualcosa, e considerata la sua scarsa esperienza, si ritrovò ben presto con un mal di testa tremendo.
“Non prendertela troppo.”
Roland si girò, sorpreso: a parlare era stato un ragazzo, poco più grande di lui, che gli sorrideva con aria scaltra. Quel sorrisetto gli fece venire i nervi: ”Perché non dovrei, scusa?”
Il sorrisetto si allargò: ”Perché sprechi energie e basta: testa bassa e bocca chiusa, ecco quello che devi fare qui. Poteva anche andarti peggio, non credi?”
Roland non disse niente, per non dargli la soddisfazione di sentirsi dare ragione.
“Come ti chiami, amico?” fece l’altro, mentre si puliva le mani nel grembiule.
“Roland” (1)
“Roland, e poi?”
“Roland Lemaire”
“Ah” fece il più grande, sempre con quel sorrisetto sulle labbra, e gli tese la mano ”Joel Martin. Ma puoi chiamarmi Joe” disse, strizzandogli l’occhio.
Roland gli strinse la mano senza dire nulla: quel ragazzo era gentile, certo, ma per qualche motivo lo irritava profondamente.
“Che c’è?” fece Joel.
“Sto cercando di decidere se mi sei simpatico.”
Joel scoppiò a ridere.”Non hai peli sulla lingua, vedo” disse. E riprese a ridere.
Roland decise che no, non gli stava affatto simpatico: si lanciò a testa bassa contro di lui e sferrò un pugno diretto al suo stomaco -solo che non ci arrivò, al suo stomaco: una morsa di ferro si era chiusa sul suo polso e ora lo stava stritolando. Roland spalancò la bocca per il dolore e cercò di divincolarsi: per contro, la presa si fece più forte, strappandogli un gemito.
Guardò Joel: aveva ancora quel sorrisetto in faccia, e gli occhi assottigliati in un’espressione sadica. “Certo che ne hai di fegato” sussurrò “Ma ti consiglio di conservarlo per quando ti servirà davvero.”
Roland sbarrò gli occhi: quel tipo gli faceva paura.
“Che succede lì?”
Louis comparve alle loro spalle all’improvviso, e Joel mollò il suo polso di colpo.
“Non starete mica facendo a botte?” disse scrutandoli con i suoi occhi strabici.
Joel fece un sorriso e inclinò la testa, quasi a sembrare un agnello indifeso “Non potrei mai fare a botte: va contro gli insegnamenti di Heil” disse, riuscendo persino a sembrare convincente.
Roland gli rivolse un’occhiataccia e fece per ribattere, quando Louis lo prese per la collottola e lo trascinò via.
”Forza, moccioso, vedi di darti da fare” gli disse spedendolo dritto contro il forno, tale che quasi si ustionò, e rimanendo dietro di lui a controllarlo. Roland non ebbe altra scelta che obbedire, ma quando, approfittando di un attimo di distrazione del suo aguzzino, si volse verso Joel, questi lo osservò come una volpe osserva una gallina. Con un brivido lungo la schiena, Roland sperò con tutto il cuore di passare indenne quella giornata.
Alla fine rimase in quel forno per tutta la mattinata: verso mezzogiorno andò a portare le ultime pagnotte al fornaio, e questi fece un cenno di assenso.
“ Va bene, ragazzino, ora puoi andare. Ma di’ al tuo padrone che se arrivi con un altro ritardo del genere ti butto nel forno, sono stato chiaro?”
Roland annuì, e stava per andarsene, quando d’un tratto si voltò verso il fornaio, gli sorrise e gli fece una sonora pernacchia.
“Come ti permetti? Brutto…” gridò l’uomo alla scia di Roland, che ormai se l’era svignata.
Roland fece un sorriso al cielo terso: il sole splendeva, gli uccellini cinguettavano, e finalmente nulla si sarebbe più frapposto fra lui e il suo più grande sogno.

“Quindi te ne vai?” disse mastro Fidja.
“Già” fece Roland, intascando gli ultimi denari nella borsa.
“Peccato” sospirò l’uomo, accarezzandosi i baffi “speravo che avessi rinunciato a queste scemenze una volta per tutte.”
“Non rinuncerò mai” gli disse il ragazzo, un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.
Mastro Fidja alzò le mani in segno di resa “Affari tuoi, ragazzo.”
Roland lo ignorò, chiudendo la cinghia della sua borsa.
“Aspetta un secondo” disse il mercante “ho una cosa per te.”
Il ragazzino osservò incuriosito mastro Fidja aprire un cassetto della scrivania ed estrarne una catena d’argento: in fondo c’era un grosso pendente, rotondo, pesante e decorato con un complesso disegno che non riusciva a cogliere. Al centro brillava un grosso rubino.
“Aprilo” gli disse, porgendogli la catena.
Rolando afferrò il pendente: era più pesante di quello che sembrava. Lo aprì con fatica, e all’interno scoprì una fiala di vetro contenente un denso liquido rosso.
“Che cos’è?” chiese il ragazzo.
“Sinceramente, ragazzo, non ne ho idea” disse Fidja “ma a quanto pare ha un certo valore. Io non posso smerciarlo, ma forse può tornarti utile.”
“Perché no?”
“Guarda bene il disegno” disse il mercante con un cenno della testa verso il medaglione.
Roland osservò il complesso intreccio con attenzione: in principio sembrava solo una serie di ghirigori disegnati in modo da intrecciarsi tra di loro senza un reale scopo, quando si rese conto che alcune incisioni erano più larghe di altre. Seguendole con il dito, riuscì, dopo un po’ di tempo, a discernere il contorno di…
“Un drago!” esclamò con gioia.
“Abbassa la voce, ragazzo” bisbigliò il mercante, seccato “non è il caso di farlo sapere a tutta la città.”
Roland continuò a guardare il disegno, estasiato: ora che era riuscito a vederlo, non faceva che balzargli agli occhi.
“Come facevi a sapere…”
“Che vuoi partire per Kratev? Non sei così furbo come credi, ragazzo” fece il mercante lisciandosi i baffi, pur tenendo la voce bassa “Tutte quelle domande sui draghi buttate lì, come per caso…e ho trovato una mappa con le indicazioni per Silmar nello zaino che hai lasciato qui la settimana scorsa.”
Roland non disse niente: si limitò a lanciarsi addosso all’uomo e abbracciarlo stretto.
“Ehi, ragazzo! Mi sgualcirai il vestito!” ridacchiò Fidja, ricambiando l’abbraccio.
“Grazie, capo” fece il più giovane, guardandolo negli occhi.
Il mercante sorrise: “Buona fortuna, giovanotto. E cerca di non farti scoprire a passare il confine.”

Roland amava i draghi da quando aveva memoria.
Quando, da piccolo, suo padre raccontava a lui e ai suoi fratelli le storie delle guerre contro Kratev, mentre gli altri inorridivano di fronte alle crudeltà del conflitto, lui fantasticava su come sarebbe stato vedere un drago da vicino.
I suoi genitori scuotevano la testa ogni volta che lui faceva domande sui draghi: era vero che Heilig e Kratev erano in pace da molti anni, ormai, ma ciò era possibile solo perché Silmar faceva da intercessore. Nessuno dei due imperi aveva contatti diretti ormai da trecento anni, e una vicinanza di qualsiasi tipo all’Impero dei draghi e al suo corrotto stile di vita veniva ancora visto con sospetto.
Inoltre, per quanto ne sapevano loro, i draghi potevano essere tutti morti.
Naturalmente Roland non si curava affatto di questi dettagli da poco: continuava a sognare dei draghi, a disegnarli, a chiedere informazioni a tutti quelli che conosceva, cosa che provocò lo scompiglio del loro villaggio più di una volta.
Con il tempo, il desiderio del ragazzo di vedere un drago non si attenuò: anzi, divenne sempre più forte. Così, in una sera di fine inverno, annunciò alla sua famiglia che partiva.
“Per andare dove? Sei troppo giovane!” gridò sua madre, in preda all’ansia.
“A Esthaven. Sono stufo di stare qui a mietere i campi: in una grande città potrò guadagnare abbastanza da affrontare il viaggio verso nord.”
Contro quella decisione non poterono né le lusinghe, né le minacce: nonostante la giovane età, Roland era irremovibile.
Tentarono allora di fermarlo con la forza: lo chiusero nella sua stanza, nascosero tutte le provviste che aveva raccolto, misero il primogenito di fronte alla sua porta, il secondogenito davanti alla finestra, il terzogenito in fondo alle scale, il quartogenito sul tetto e il quintogenito a dormire nella dispensa. Fu inutile: la mattina dopo, Roland era scomparso chissà come dalla sua stanza, insieme al suo zaino e alle provviste per una settimana. Sul muro della sua stanza, un disegno che lo mostrava salutare la sua famiglia e tanti cuori intorno.
“Almeno ha lasciato un saluto” fece il primogenito, mentre i due genitori si lanciavano in strada al suo inseguimento.
Questa scena si ripeté molte volte: al suo primo tentativo Roland non aveva fatto molta strada e venne preso e riportato in casa. Ma ogni volta che la famiglia cercava di fermarlo, in qualche maniera il ragazzino riusciva a sfuggire alla loro sorveglianza e a riprendere il viaggio verso nord, la mente rivolta a quell’unico sogno che sentiva con la forza di una vocazione.
Al sesto tentativo, i genitori si rassegnarono: gli diedero un po’ di cibo, una lettera di raccomandazione per un lontano parente che avrebbe potuto aiutarlo, e la loro benedizione. E così Roland partì alla volta della capitale.
Ora, dopo sedici mesi di fatiche e duro lavoro, era riuscito a mettere da parte abbastanza da affrontare il viaggio fino a Silmar. E da lì…destinazione: Kratev.
Fu con questi pensieri in testa, che entrò nell’ufficio di Michel Chevalier, il lontano parente a cui i suoi genitori si erano affidati perché lo tenesse al sicuro.
“Michel, dammi tutti i miei soldi!” gridò aprendo la porta.
Michel si girò a guardarlo da dietro la scrivania: era un uomo dall’aria affabile, le spalle larghe come un armadio e grandi occhi grigi che sembravano perennemente tristi. In testa aveva un ciuffo di capelli neri sottilissimi.
“Roland. Non trovo prudente entrare qui dicendo questo genere di cose ad alta voce” disse con tono dubbioso, come se non sapesse bene come spiegare a un ragazzino di tredici anni che urlare certe cose da un banchiere poteva attirargli addosso tutti i ladri della città.
“Hai ragiona, scusa” fece il ragazzino, chiudendo la porta dietro di sé e avvicinandosi a Michel.
“Comunque voglio tutti i miei soldi e le mie cose: partirò domani mattina!” disse, cercando di tenere la voce più bassa ma senza riuscire a contenere l’entusiasmo.
“Sei sicuro? Insomma, non pensi che sia il caso di aspettare e guadagnare ancora un po’, giusto per andare sul sicuro…” comincio a dire il banchiere con titubanza, ma Roland lo fermò.
“Michel, abbiamo già fatto tutti i conteggi possibili e immaginabili, ho preso abbastanza. E comunque, se ci fossero problemi, potrei sempre arrangiarmi lungo la strada” disse con sicurezza.
Il banchiere non replicò: si limitò a prendere un sacchetto di monete, borbottando qualcosa. Alla fine gli porse il sacchetto e un pezzo di carta con un sacco di scritte. Roland lo guardò senza capire.
“Cos’è?” chiese.
“E’ una lettera di cambio: quando arriverai a Silmar, cerca il nostro agente, ti darà il resto dei soldi in cambio di questa” disse annuendo piano, come a rassicurarsi che le cose funzionassero così.
“Ma non puoi darmi tutto adesso?” chiese Roland, un po’ deluso.
“E se per caso li perdi? O ti vengono rubati? Così è più sicuro” disse Michel con gentilezza.
“Se lo dici tu…” replicò il ragazzino, prendendo i soldi e la lettera e avviandosi alle scale, dove c’era la sua stanza.
Cominciò subito a preparare i bagagli, nonostante non avesse ancora pranzato, tanto era agitato: la voce gentile di Michel che lo chiamava a tavola lo colse in uno stato di totale frenesia, tanto che quasi si dimenticò di scendere.
Fu un pranzo strano: tra i due non si era mai stabilita una forte amicizia, nonostante vivessero insieme da più di un anno, e raramente avevano condiviso un pasto. Ciononostante fu piacevole: Michel non si comportava con lui come se fosse suo padre, piuttosto lo trattava, in modo piuttosto incredibile, come se fosse Roland quello adulto e sicuro di sé.
Di lui, Roland sapeva solo che era incredibilmente riservato, che era gentile con tutti e che aveva una sorella che non vedeva mai. E che faceva il banchiere: a parte questo, null’altro.
“Hai già qualche idea su come passare i Monti Barriera?” gli chiese con garbo.
“Ancora non lo so, ma di sicuro troverò un modo. Tu invece che farai, quando me ne sarò andato?” disse Roland con la bocca piena di pasticcio di carne.
“Io…” Michel esitò, con lo sguardo lontano “credo che partirò anch’io.”
“Ah sì?” chiese il ragazzo ancora masticando “E dove andrai?”
“Lontano, penso” fece Michel a voce così bassa che Roland dovette sporgersi per sentirlo. Era tentato di insistere, ma qualcosa, nell’espressione triste del suo padrone di casa, gli fece capire che era meglio evitare.
“Ti auguro buona fortuna, allora” disse con calore.
Michel lo guardò negli occhi e gli sorrise: “Anche a te.”
Finirono la cena in silenzio, lavarono i piatti e si augurarono la buona notte. Roland andò a letto talmente tanto eccitato che non riuscì a chiudere occhio: rimase sveglio tutta la notte, a guardare le stelle dalla finestra e a sognare draghi.


(1): si pronuncia alla francese, quindi Rolàn.


Note di Red: lo so, sono in ritardo sul ritardo. Mea culpa ç_ç Ho avuto una settimana sbalorditiva e non sono riuscita a sistemare il capitolo.
Anyway, questa volta siamo finiti ad Heilig, lo stesso paese dove la nostra Moony aveva tentato di vedere la regina, fallendo miseramente. Non temete, verrano scoperti gli altarini anche su quella questione, intanto vi ho voluto mostrare un’aspetto più quotidiano dell’impero più grande di Lance (ve l’ho detto che il continente si chiama Lance? No? Ve lo dico ora). Anche questo capitolo è piuttosto statico, ma dovevo introdurre una serie di elementi che torneranno nei prossimi capitoli.
E con questo vi annuncio due cose: uno, abbiamo ufficialmente terminato il primo capitolo (yeeeehh!), due, la settimana prossima avremo il grande ritorno di Hans-sono-troppo-gnocco-Kessler, quindi stay tuned! Come sempre ringrazio chi recensisce, chi mette tra preferiti, seguite e ricordate e anche chi legge e basta. Ci vediamo la settimana prossima!

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