La coscienza avversa

di LawrenceTwosomeTime
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Risveglio ***
Capitolo 3: *** Il quarto piano ***
Capitolo 4: *** Il terzo piano ***
Capitolo 5: *** Il secondo piano ***
Capitolo 6: *** Il primo piano ***
Capitolo 7: *** Piano terra ***
Capitolo 8: *** Il seminterrato ***
Capitolo 9: *** Capolinea ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Era da molto che sognavo di prendermi una lunga sessione di ferie; staccare dal lavoro, dalla vita quotidiana…persino dalla famiglia.
Fuggire dalla civiltà? Suvvia, non esageriamo! Chi ci riesce a sopravvivere senza una presa scart e un mobile bar?
E poi, lassù alle Isole Vergini il sole picchia che è una bellezza.

Perciò eccomi qui, nella mia lussuosa suite arredata con principeschi arazzi, arabeggianti ghirigori dorati a smaltare le finestre ed un letto a dodici piazze profumato alla cannella in cui ho rischiato di affondare innumerevoli volte.
La vista è impagabile (o meglio, è considerevolmente pagabile, ma tenuto conto che ho scelto l'ultimo piano sono soldi ben spesi), copre un'abbondante sezione della costa e lascia vagare l'occhio fin quasi oltre i confini del mare. Ogni mattina mi sveglio, bagnato da una luce morbida, scosto le tende e mi colpiscono le palliducce tinte ocra cous cous della sabbia, il canto della verzura frusciante, i bagliori inquieti e glaciali dell'orizzonte. Gli esquimesi si tengano pure la loro Aurora, nel cielo che mi sovrasta potrei leggere il canto di mille anime…

Sarebbe tutto perfetto (perfetto? che significa "perfetto"?) se mi ricordassi chi sono. O che ci faccio qui. O come ci sono arrivato.
O cosa c'è al di là del mare.
"Attento a ciò che desideri", non era così il detto?

La porta della mia suite è chiusa a chiave, non so nemmeno io da quanto tempo, e non esistono stratagemma o invenzione che la convincano ad aprirsi.
Ferie, lavoro, famiglia, sono concetti vuoti. Ogni turbolenza del cervello è priva di peso, il mio passato rifulge meno dei pomoli d'ottone di questo letto.

Tra le molte cose che ho perso, annovero il senso del tempo. I miei capelli si sono protesi a toccare le spalle, i peli della barba virano al bianco, e qualche ruga beffarda segmenta porzioni della mia pelle una volta piatte. Qui dentro non scorre niente, temo che persino il sangue mi si sia cristallizzato nelle vene; unico testimone della ruota che gira, questo corpo stanco.

E perché la parola "testimone" mi instilla nel cuore una paura arcana?




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Capitolo 2
*** Risveglio ***


Rileggendo le righe che ho pescato nel taschino della giacca, non serbo nessun dubbio sull'ineluttabilità di quello che mi avrebbe riservato il destino. Avrei continuato ad invecchiare senza mai realmente deperire, avrei avuto fame e sete senza tuttavia morirne…e infine, una parte di me si sarebbe spenta per sempre, ma io non l'avrei mai saputo. Avrei continuato a vagare fino alla fine dell'eternità per 60 metri quadri di tappezzeria amaranto e soffici cuscini, dimenticando persino il dolore fisico. Il mio Inferno privato.

Ma andiamo con ordine. Dove mi condurrà la sorte è ancora cosa da definirsi, ma so per certo di aver trovato un sistema per scavare un'uscita che mi porti fuori da questa prigione, seppure io sia psicologicamente agli sgoccioli e manchi di un solo punto di riferimento che non sia la mia ragione.

Quel momento (perché di giorni non si trattava, e nemmeno di parentesi tra loro differenziate), stavo dicendo, sarebbe durato ad libitum, se la possibilità di un cambiamento non mi avesse fatto visita nelle sequenze del crepuscolo.
Sotto forma di un cardellino. "Ben strano, vedere un cardellino su un'isola tropicale", pensai vedendolo bussare col becco alla finestra. Ed il fatto che provassi stupore fu già una svolta. La bestiola era piuttosto minuta, si manteneva in volo a stento, e ciononostante perseverava nel picchiettare il vetro. Mi scossi finalmente dai residui di catarsi e ruotai per metà la maniglia della finestra. Salvagenti di ragionamento mi imposero di riflettere: com'era possibile che un uccellino mi invitasse ad un gesto di cortesia? Era forse una creatura ammaestrata? E se gli avessi aperto? Si sarebbe messo a gironzolare per la camera? Mi avrebbe parlato? Ogni cosa era possibile. Di certo non sarebbe stata meno bizzarra della situazione in cui mi trovavo.
Così mi decisi ad aprirgli.
E sapete cosa fece quell'affarino?

Volò via. Se ne andò da dove era venuto.
Mentre riflettevo sull'insensatezza della cosa, mi sovvenne un particolare nuovo: finora, non ero mai riuscito a sbloccare gli infissi.
Guardai giù: ero libero!

No no no…Libero un corno. L'albergo contava solamente cinque piani, ma di certo 30 metri di caduta su un soffice pavimento di terra battuta non sarebbero stati magnanimi con le mie ossa. Mi bastò una sbirciata oltre il parapetto per capire che non c'era modo di calarsi giù, ne di strisciare lungo un ipotetico cornicione che, a tutti gli effetti, non c'era.

Stavo per richiudere le imposte, amareggiato (per modo di dire, dato che ero diventato talmente insensibile da non distinguere nemmeno tra amarezza astratta e amarezza papillifera), quando mi balzò all'occhio un piccolo oggettino di metallo giacente sul davanzale. Luccicava.

Lo presi: era una chiave.
Una chiave per cosa? Per i cassetti di marmo sotto il lavabo del bagno? Per la cassaforte sopra il terzo scaffale a partire dal basso dell'armadio a muro? Per le paure infantili, abbandonate come relitti sul fondale della mia coscienza?
"Al diavolo!", mi dissi, "sono rimasto qui dentro troppo a lungo per vedermi soffiare la libertà da una crisi di pedofobia…"; tornai sui miei passi quasi correndo, m'infilai un paio di sdrucite braghette di lino, una camicia che ricordava vagamente il bianco e una giacchetta verde palude, inserii la chiave nella toppa della porta e…girai, strappandole un lamento secco.

Il mio naso emerse come una pinna di pescecane nel corridoio deserto.
Poi venne la testa, furtiva, e infine il corpo.
Un tappetaccio smangiato arrancava fino alla fine del piano, dove una coltre di buio innaturale impediva di scorgere cosa vi fosse al di là. Ebbi un fremito guardando la tappezzeria: una simile scelta d'arredo appariva decisamente fuori luogo in un posto simile (già, in che posto mi trovavo? non ne ero proprio sicuro), e quei motivi zigrinanti mi ricordavano…

un tappeto di casa mia

…qualcosa che aveva a che fare con me. Le lampade montate ai lati erano troppo familiari, tanto da mettermi i brividi. Ebbi la sensazione di trovarmi in un mausoleo in cima al mondo in cui fosse giunta l'ora del risveglio.
Ebbene, ero talmente immerso nelle mie elucubrazioni che notai a malapena un movimento alla mia sinistra.

La porta della mia camera sbatté con un violento schianto. Qualcuno l'aveva chiusa dall'interno! Ma chi?
Quasi non mi stupii nel constatare che la serratura era sparita, e non c'era traccia della maniglia.

Sempre più inquietato dalla piega che stavano prendendo le cose, conscio che la via di ritorno era ormai preclusa e niente affatto scontento della cosa, mi incamminai verso la fine del corridoio. Filari di porte scorrevano alle estremità del percorso, le degnavo di uno sguardo fugace senza osare immaginare cosa si celasse oltre…
Man mano che avanzavo, l'oscurità si diradava, ritirandosi gradualmente (o forse mi ci stavo semplicemente immergendo a capofitto, senza manco accorgermene). Ciò che mi trovai di fronte, imbarcazione semisolida in una bufera di presagi, fu un ascensore.

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Capitolo 3
*** Il quarto piano ***


Pigiai il bottone argentato, una spia rossa si accese. Le porte si aprirono subito dopo. La cabina era alta e stretta, sgraziata, disagevole, si sarebbe detto che l'avesse illuminata un architetto egiziano sadico.
Uno sguardo alla pulsantiera mi confermò che non ero pazzo: cinque piani, grazie al cielo la matematica esisteva ancora.
Premetti il pulsante del piano terra.
L'ascensore non si mosse.
"Non sono pazzo", considerai, "è questo posto che non funziona secondo le regole".
Premetti in successione gli altri pulsanti, ancora e ancora, finché non successe quello che avevo sospettato: il mio dito si ritrovò solo soletto a fronteggiare il numero quattro. Che naturalmente fece partire l'ascensore. Scesi (scendemmo).

"Perché un piano alla volta? Che cos'è, un maledetto gioco a premi? Un videogame? (gioco a che? videocosa?)"

Un tling debilitato mi annunciò che il viaggio era finito. Le porte scivolarono nei loro alvei e… Rimasi accecato dalla luce del sole. Non era una giornata del tutto serena, qualche nube intralciava il chiarore e una leggera foschia appesantiva l'erba. Erba bagnata e brillante, le cui radici spuntavano fin sotto la tromba dell'ascensore.
Strisce bianche di pittura si estendevano fino all'infinito, disegnando semicerchi, mezzelune, parabole. Due gabbie di ferro spiccavano nella pianura, lontanissime.

Un campo da calcio, molto molto grande.
C'era della gente che giocava. Passato lo sbigottimento iniziale, misi a fuoco una figurina che correva verso di me. Non una figurina del calcio, che diamine: un essere umano.
Quando mi raggiunse lo riconobbi: Giovanni Pozzobon, mio amico dai tempi dell'asilo. Era un po' più pelato rispetto a come me lo ricordavo, ma non aveva perso un centimetro in altezza.

"Vieni a giocare in difesa?", mi chiese. Aveva la voce rude, amichevole ma schietta, del tipo "sei il benvenuto tra noi ma non tirarla per le lunghe".
Mi azzardai a chiedere, con la voce un po' arrochita: "Siamo in paradiso? Qu…quell'ascensore era il mio tramite per uscire dal purgatorio?"
Giovanni fece una smorfia: "Paradiso, inferno, giudizio divino…", sputò a terra, "…La sai una cosa, Dave? Non mi è mai piaciuto andare a messa: troppi panegirici, troppa poca azione"
Mi guardò come in trance.
"Allora, stai in difesa?"
"N-no, mi dispiace, io…", "Lascia stare", mi interruppe alzando una mano, "lo so che il calcio non ti interessa…Ma siamo tra amici, perciò…casomai ti andasse, noi siamo qui"
"Grazie, Giovi. In difesa faccio comunque schifo". Esitando: "Ci si becca in giro, allora"
"Certo, certo…", disse lui, più a sé stesso che a me, "dovresti farti vivo più spesso. Sono anni che non mi chiami", e ripiegò in direzione della piccola folla che si contendeva il pallone.

Mentre ritornavo frastornato al mio ascensore, meditai: "Sto correggendo gli errori che ho commesso in vita? No, non è possibile…mi rifiuto di credere che questa sia la morte".
Mi infilai nella cabina.
Un sorrisetto fece capolino assieme ad una lacrima.
"Giovanni…ti ho lasciato indietro perché eri un sempliciotto. Ma vai a trovarne, di sempliciotti come te…".
Avevo superato il quarto piano senza incappare in mani divine o punizioni fisiche – più che altro, un vago senso di nostalgia – ma chi avrebbe scommesso (scommettere?) che il terzo si sarebbe profilato allo stesso modo?



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Capitolo 4
*** Il terzo piano ***


Stavo ancora ripensando alla prateria, a come sarebbe stato bello far contento Giovanni e giocare in difesa (ala sinistra, zona porta), quando un trillo paurosamente gaio ed efficiente mi annunciò che eravamo giunti al terzo piano.
Lo shock di 16 riflettori a 5000 watt puntati su di me, odore di sudore mascherato da profumo costoso, lucido per scarpe, permanenti…Odore di créme, crème cittadina.
Quando posai il primo sandalo sul tappeto rosso che si inerpicava tra schiere di poltroncine scarlatte, un migliaio di paia d'occhi si puntarono su di me. Non mi sentivo a mio agio. C'era troppa gente; c'erano centinaia di calzini, di occhiali, di dentiere…di cui avrei fatto volentieri a meno. E poi non avevo nemmeno il vestito adatto.

Provvidenziale e del tutto inattesa, una manina inguantata di signorina mi trasse via dal cuore di quel carnaio, trasportandomi dietro le quinte.
"Ma che fine aveva fatto, signor Coletti? E guardi quella camicia, le pare il modo di…?".
Sembrava più tesa di me, animata dal tipico contegno di chi sa di avere una pesante responsabilità nei confronti di un animaletto irreprensibile. Compostamente irritabile.
Si ravviò una ciocca di capelli biondi; il suo nasino alla francese stava già diventando lucido.
"Meglio darle una ripulita".
Mi "ripulirono" modificando il mio guardaroba (guarda-roba …che termine volgare): la vecchia giacca migrò verso lidi sconosciuti, sostituita da un gessato grigio-fumo, una cravatta blu elettrico e mocassini di camoscio. Ripulita la barba, spazzolati e legati in una coda i capelli, mi posizionarono in un angolo vicino al quadro comandi del palco, da cui si vedeva perfettamente la pedana su cui sarei dovuto salire.

"Mi scusi", accennai alla signorina, con un timbro imperioso poco convincente, "perché diavolo mi trovo qui?".
Mi scrutò con un'espressione indecifrabile.
"La pianti con gli scherzi. E non si azzardi a ripensarci! Stasera lei andrà là fuori, spiegherà a quella gente la nuova politica dell'azienda e risponderà alle domande dei giornalisti".
"G-giornalisti?". Deglutii.
"Non si preoccupi, il discorso che ha preparato è a dir poco convincente, e poi l'ha provato così tante volte che potrebbe addirittura recitarlo a memoria!", sorridendo.
Io feci una smorfia che sapeva di bile, e un attimo dopo venni spinto fuori.

"Signore e signori, Davide Coletti"

Sentir pronunciare il mio nome mi diede una certa sensazione di vertigine. Non un titolo, non una qualifica. Chi ero veramente io?
Nessun applauso accolse la mia entrata. La tribù che, dal cratere della platea, seguiva con gli occhi i miei movimenti, aveva tutta l'aria di voler cominciare a mangiarmi senza lasciare che profferissi verbo.
Abbassai lo sguardo sul leggio. Il mio discorso stava lì, un foglietto bianco simile ad una lista della spesa. Vedevo le parole un po' sfuocate, ma le vedevo. Mi schiarii la gola. Il microfono fischiò. La mia mente era vuota, paurosamente pulita. Lessi:
"Buonasera a tutti, onesti imprenditori e munifici lavoratori del nord. È un onore per me vedere qui riunite tante brave persone: famiglie, famiglie che si sostengono l'un l'altra, famiglie che…sostengono il nostro bilancio. Ognuno di voi rappresenta un acquisto andato a buon fine, un acquisto di cui non ci siamo pentiti, che siamo fieri di annoverare nel nostro equipaggio. È dunque per me fonte di immenso dispiacere comunicarvi le ultime strategie di taglio del personale…"
Un ometto si alzò in piedi: "Strategie! Voi volete solo accaparrarvi i nostri dividendi! Ci avete comprati per poi mandarci in mezzo alla strada!" (sicurezza! come mai la sicurezza non faceva nulla?)
"…La nostra non è solo una scelta tattica, ma altresì etica…Riteniamo più onesto dirvi le cose come stanno con mesi di anticipo, consentendovi di riorganizzare le vostre priorità, anziché…"
Una vecchia megera sputò a terra.

Iniziai a vacillare.
Tutta quella gente, quei fari puntati addosso…Le poltrone sembravano tante gocce di sangue, seggi sacrificali…E la biondina mi faceva segno di continuare.

"…lasciarvi lavorare nella certezza illusoria di non essere un peso per la società".

La folla cominciò a mutare aspetto.
I grugni giallognoli non furono più semplici grugni; le mascelle ghignanti si esibirono in qualcosa che valicava il disprezzo; vapore salì dalle grate e il soffitto iniziò a trasudare melma.
Ogni angolo della stanza era pregno di muffe intestine, anguille nerastre guizzavano sulle pareti.

Gente che non era più gente cominciò ad arrampicarsi sul palco, vomitando accuse, sbraitando che non ero altro che un manichino, un feticcio, un pupazzo di carne. Le madri partorivano aborti dalle braccia remiganti, pronti a stanarmi. Vomitavano piante, alberi genealogici, i vecchi scioperanti ;ticchettando col bastone l'ora della mia morte.

Balzai alla disperata sul corridoio, muovendomi come al rallentatore. Mi sottrassi all'abbraccio di cancrene e coccodrilli lacrimosi. Mi tuffai nell'ascensore e premetti il pulsante del secondo piano.

Dopo qualche momento, smisi di udire i colpi furiosi e le grida che intimavano di aprire le porte. Il mio cuore pompava di agitazione e di vergogna. Mi guardai la camicia: bagnata di secrezioni verdi.
"Questo non è l'Inferno, non può essere l'Inferno", mi ripetevo. Ed era una sensazione recondita, e non la logica, a suggerirmelo.
"E non può essere nemmeno un sogno. È troppo denso, troppo vero".
Familiare come solo la mia mente poteva esserlo, lucido come il delirio che anticipa la morte.



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Capitolo 5
*** Il secondo piano ***


Il secondo piano mi accolse con uno scampanellare languido e risonante.
Vapori da bagno turco invasero la cabina. Incespicai, titubante, sorpreso dalla sensazione di affondare.
Era una saletta rivestita di tendaggi, accogliente e soffocante.
Non riuscivo a valutarne con esattezza le dimensioni, perché ogni angolo traboccava di cuscini spessissimi e antichi, arazzi cupi e infiniti si intersecavano in ciascuna zona d'ombra, e una luce soffusa, calda e morente si propagava da un lampadario di cristallo di fattura angosciante, che sembrava perennemente sul punto di allungarsi e staccarsi dal soffitto.

Un'ombra si profilò sul muro, rubandomi un sussulto. Fu seguendola che scoprii che la stanza aveva un'uscita.
Facendomi largo tra le stoffe, mi intrufolai in un passaggio foderato di pannelli ingozzati di tessuti, il cui gonfiore sembrava contrarsi ad ogni mio respiro. Il tunnel rivelò un'altra stanza, simile alla precedente, che differiva solo per qualche variazione di tono nella tappezzeria, peraltro cupissima con le sue tinte violente e malate.
Fu questa scoperta a svelarmi la vera natura di quel luogo: mi trovavo in un labirinto.
Ora sapevo che altre quattro "uscite" mi attendevano agli angoli della stanza, e che di certo non avrei più saputo ritrovare la strada dalla quale ero venuto.
Solo l'ombra poteva aiutarmi a fuggire da quel posto, oppure chissà…trascinarmi nel cuore di una follia più grande di me.
Inquietudine e fascino si fusero in me man mano che mi addentravo in quella cava uterina e decadente.
Seppi di essere approdato alla foce quando giunsi in un tugurio punteggiato di specchi oblunghi.
Alcuna strada portava più in nessun luogo.
E tra le sabbie mobili dei tappeti, mimetizzata come un rettile nel fogliame, c'era una donna.

"È da molto che aspetto, tesoro"
I suoi occhi brillavano come soli morenti. Una cascata di capelli color castagno, simili a vermi di seta, vestivano le sue nudità, intrecciandosi ai peli del pube e avvolgendo le sue forme prorompenti.

"Non sta bene far aspettare una signora. Non è da gentiluomini"

Mi parve issarsi oltre i manti pregiati, come una sirena si arrampica sugli scogli emergendo dal mare. Quando mi toccò ebbi un'erezione, e ricordai quasi con imbarazzo di avere un pene. Lei sembrò accorgersene, e iniziò a strusciarsi su di me come una gatta, languida per il mio gesto di gradimento. Mi slacciò la cravatta, mi spogliò del completo e della camicia…Mi gettò con furia contro una poltrona grande come un trono. Poi si arrampicò su di me, a quattro zampe. I pantaloni sfilarono via dalle mie cosce. Un riccio, un riccio profumato e irto di spine, bagnato di salsedine, si richiuse caldo sul mio membro. Spire di carne lo avvolsero, piangendo gemme di sangue.

Umide pesche mi baciarono il volto, pistilli d'avorio lo graffiarono.
Da qualche parte in quel tumulto, ossa e tendini e muscoli e nervi dovevano muoversi all'unisono per dare vita ad un prodigio che non aveva nulla di umano.

Stimolato dal tocco di troppe mani, riaprii gli occhi su una foresta di corpi.
Quella donna si era incarnata in decine di copie di sé stessa. Guardai gli specchi: dentro le lastre, identiche figure, ombre sfuggenti, danzavano come un sol corpo, come bamboline incatenate a un piedistallo; poi si scuotevano dal loro limbo, si staccavano dal bozzolo e muovevano i primi, incerti passi fuori dallo specchio. Il processo non si fermava. (PROCESSO?!?)

Fissai sbigottito quella marea di gemelle.
"Cosa ti prende, amore?", disse una, "Non sai distinguere il vero dal falso?", continuò una seconda. "Forse perché ognuna esiste come riflesso dell'altra", "Siamo le facce dello stesso diamante", "Siamo una attraverso molte", "E tu avevi giurato di scegliere quella giusta", "Perché allora hai condannato la donna sbagliata?", "Condannando lei, hai condannato tutte noi".
"Io non ho condannato nessuno..."
Tutte mi fissavano con gli stessi occhi beffardi, tutte mi riempivano di promesse carezzevoli.
Ma una di loro aveva il volto duro, contrito. Una cicatrice le scendeva, da una tempia, fino al mento, tagliandole di netto la guancia.
Si teneva in disparte, guardandomi senza veramente vedermi.
Quando parlò, il suo tono suonò sciupato:
"Qui dentro, il mio verdetto vale più di tutte le tue congetture. Sconterai qui la tua pena, per il tuo bene. È solo questo che vogliamo: il tuo bene".

Chissà come mai, la parola "bene" - come pure la parola "pena" - giunsero deformate alle mie orecchie, assumendo un significato del tutto allarmante.
Mi riscossi, allontanando a fatica mani, seni, capelli soffocanti come viticci.
Infine mi scrollai di dosso quelle sanguisughe. Sentivo freddo ai genitali; mi guardai e li vidi incrostati di ghiaccio; il mio organo era cerchiato da ferite profonde, e solchi di morsi che non appartenevano certo ad una bocca lo costellavano dalla base alla punta.
La seduttrice dalla voce gualcita strisciava sotto il tappeto, fiutando il mio odore, mentre le copie si divincolavano in una scomposta ammucchiata e la loro bellezza si scrostava come intonaco vecchio.

Non volli vedere. Con la coda dell'occhio, captai arti disciolti, denti brulicanti, corollari convulsi di orrore innominabile.
La strega era prossima a raggiungermi.
"Non uscirò mai di qui".
E, consapevole di questa dolorosa verità, tirai un pugno allo specchio più grande.

Mi ritrovai nell'ascensore, nudo come un verme.
Le orecchie mi fischiavano, dalla mano destra pendevano dei cocci insanguinati.
Troppo estenuato per pensare, invocai la clemenza del destino e pigiai il bottone del primo piano.



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Capitolo 6
*** Il primo piano ***


La discesa fu lenta, e prolungata oltre misura.
Qualche brivido mi attraversava la spina dorsale di tanto in tanto.
Iniziai a tremare, scosso da una risatina isterica: in realtà, non mi ero mai mosso dalla stanza del secondo piano. Era bastato fare violenza sullo specchio per disciogliere le sfumature di quell'incanto. E nemmeno io sapevo quello che stavo facendo: era il mio istinto a muovere per me, a correggere errori che non sapevo di aver commesso. Come giocare bendati una partita a scacchi.

Una campanella logora e un po' stridula, ma accogliente, annunciò il primo piano.

Una camera. Non era la mia suite, e nemmeno una stanza qualunque.
Era la mia cameretta.
Appesa ad una gruccia, vidi una piccola vestaglia giallo limone. Mi affrettai ad indossarla: mi andava un po' stretta, ma era pur sempre meglio che viaggiare nudi.
Fuori era notte. La luce della luna si adagiava in rigagnoli squadrati sulla trapunta, sui poster sparsi a terra…fin quasi agli scaffali colmi di libri. Enciclopedie traboccanti di piante e animali, probabilmente. Di insetti, forse.
Proprio allora, iniziai a domandarmi se fosse veramente notte. Di cosa fosse fatta quella notte. "Fuori era notte" è un modo molto semplice e insieme molto esaustivo per descrivere un momento della giornata; ma laggiù che senso aveva?
Dalla porta semichiusa della stanza filtrava un bagliore dorato. Dal piano di sotto giungeva addirittura il rumore ovattato della televisione. L'odore stagnante della cena (lasagne e fagioli in umido) aleggiava a tre spanne da terra.
Da qualche parte, una civetta mandò il suo richiamo acuto.

E se avessi aperto la finestra? Avrei trovato un cosmo vivo e pulsante oltre l'oscurità programmatica del cielo e quel cerchio bianco lassù, quell'affare che sembrava la luna?
Cosa mi attendeva, una volta scese le scale? Sagome di cartone? Un registratore a simulare sbrigativamente peti e canzoni, rutti e litigate? A imitare la vita?
Oppure non mi era concesso neanche di essere caduto nell'alveo rassicurante della finzione? Forse, oltre quelle quattro mura di ricordi estranei, c'era soltanto il vuoto nero dell'amnesia, l'ottundimento infinito della zona oscura del subconscio?

Dal pianterreno giunse una voce:
"Davide? Sei sveglio?".
Mio padre.
Rumore di passi.
Ricordavo esattamente cosa mi aspettava.
Quel pomeriggio, mentre tornavo a casa da scuola, i miei compagni mi avevano picchiato. Ero uno sporco ebreo, me lo meritavo.
Secondo me, papà non se l'era presa abbastanza a cuore. Aveva borbottato qualche parola di conforto, frasi di routine, e mi aveva promesso che l'indomani sarebbe andato a parlare con i padri di quei ragazzi.
Ero andato a letto con un occhio talmente pesto che a momenti non ci vedevo più.
E ora lui sarebbe salito in camera mia, mi avrebbe fatto un discorso serio, "da uomo a uomo", per "calmare le acque"…Senza minimamente sospettare che io avevo già preso una decisione, una decisione più grande di me e di lui. Quando fossi diventato grande, io…

Non volevo rivederlo. Non volevo rivedere neanche mia madre, che ci avrebbe raggiunti poco dopo, stordita dai tranquillanti; barcollava come una mummia. Si sarebbero trasformati in dei mostri, avrebbero cercato di stritolarmi, di affogarmi nelle coperte, perché io ero una vergogna per la famiglia, mi ero coperto di ridicolo e non sarei mai più potuto tornare a casa!

Nell'istante in cui la porta della camera si aprì, le porte dell'ascensore si richiusero. Lasciai che quel ricordo continuasse senza di me.

Il piano terra si fece pregare, dovetti prendere a pugni il pannello perché l'ascensore si decidesse a partire. Le nocche palpitavano ancora per i cocci dello specchio.



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Capitolo 7
*** Piano terra ***


Nessun campanello annunciò il piano terra.
Rimasi basito per quell'incongruenza.
Misi piede su un gelido pavimento di marmo lucido e avanzai nella hall dell'hotel. Non avevo mai visto quel posto in vita mia, e se mai l'avevo visto, non me lo ricordavo. Ciò non fece che accrescere la mia apprensione nei confronti della presunta genesi soprannaturale dell'albergo.

Il piano era deserto, ma, escluso questo piccolo particolare, aveva un'aria assolutamente normale. Sulla sinistra, una piccola sala con pianobar e pianoforte annesso, da cui si accedeva ad una terrazza in finto avorio, che a sua volta dava sulla spiaggia e sul mare. Il mare.
Quando rividi il cielo azzurro far capolino dalle doppie porte dell'atrio, e la costa che ammiccava con le sue onde spumeggianti, recuperai parte della mia baldanza: quell'edificio aveva sicuramente un'uscita, e certamente esisteva un mezzo di trasporto con il quale avrei potuto andarmene.
Corsi come un disperato in direzione del litorale e tirai una testata poderosa contro un muro invisibile.

Ricaddi con una bestemmia (be-stem-mia), tenendomi il naso che aveva già iniziato a sanguinare. Protesi una mano. Nessun muro invisibile: un vetro. E parecchio spesso a giudicare dal suono che produceva picchiandoci la testa.
Le porte erano stolidamente serrate, e non ne volevano sapere di aprirsi.
Intontito e assalito da un principio di capogiro, non mi diedi per vinto. Mi appropriai di un estintore che stava appeso accanto alle toilette e tentai di sfondare l'ostica barriera.
Lo brandetti a mo' di mazza, lo lanciai, provai addirittura con una sedia di mogano, ma il vetro pareva indistruttibile.

Sfinito, esasperato, quasi divertito dall'assurdità di quella situazione, giacevo in una pozza di schiuma e schegge di legno. Ero come un uccellino chiuso in gabbia (un cardellino); un minuscolo insetto intrappolato in una bolla di…vetro.

Nella mia testa iniziò a farsi strada l'ipotesi che mi ci fossi cacciato da solo in quel guaio, e che ora stessi tentando di tirarmene fuori senza veramente volerlo. Prigioniero consenziente.

Giunto a quel punto, feci ciò che fanno tutti gli ospiti rispettabili quando hanno un problema: mi recai alla reception.

Come prevedibile, nessuno mi accolse (e del resto, il fatto che nessuno avesse protestato dopo tutto il frastuono che avevo fatto nell'atrio, diceva tutto).
Torturai con gioia sadica il campanello poggiato sul bancone, finché, di contro alle mie più rosee aspettative, spuntò un addetto alle prenotazioni. Spuntò da dietro il banco, come un fungo, facendomi prendere un colpo.

"Desidera, signore?"
Mezzo infartuato, grugnii: "Vorrei che sbloccasse quella porta".
"Quale porta?", mi chiese, sinceramente stupito.
"La porta che da sul terrazzo", risposi, come se fosse una cosa ovvia.
"Non si può"
"…"
"…"
"Non si può perché la Direzione lo vieta, oppure è solo lei che non vuole aiutarmi?"
"Ah ah ah! Non faccia il furbo con me. Non si può e basta. Sarebbe come chiedermi di spegnere il sole"
"D’accordo. Allora mi dica dove si trova l'entrata"
"Qui non esiste nessuna entrata. C'è solo l'uscita"
"…"
Quel ragazzo stava cominciando a farmi perdere la pazienza.
"Senta, io ho sceso tutti e cinque i piani, perciò pretendo di uscire da qui!"
"Sai che fatica, lo fanno anche gli altri clienti…"
Iniziai ad assumere un colorito rossastro.
"Si sente bene? La informo che le nostre strutture offrono assistenza agli ospiti che vogliono disintossicarsi, qualunque sia la sua dipendenza: droghe leggere, droghe pesanti, alcool, sit-com della domenica mattina…"
"Diamine, io me ne voglio andare! Non esiste un modo per fuggire da questo posto?"
"Fuggire? Diamine…", mi fissò di sbieco, "si direbbe proprio che lei sia sceso dal cielo…e sia entrato dal tetto"
Stavo accarezzando l'idea di andare a cercare un altro estintore, per fracassargli la testa, quando rispose alla mia domanda:
"In effetti, un modo c'è. Lei non può andarsene, e non può nemmeno risalire…Però può scendere ancora"
"Scendere ancora?"
"Cos'è, mi sta facendo il verso?"
"No, no, è che…sull'ascensore che ho preso, non ho notato piani interrati, o cose del genere" "Certo, perché quello è l'ascensore per i clienti. Lei dovrebbe usare quello del personale" "E dove porta, questo ascensore?"
"E io come faccio a saperlo? È lei che lo deve prendere!"

Non avevo molta scelta.
Il giovane, che si chiamava Gabriele e aveva folti capelli rossi e residui di lentiggini, mi fece vestire con una tuta da facchino, a strisce bianche e nere (sembravo più un evaso di galera), così da "ingannare i responsabili del personale di servizio".
L'ascensore era nascosto dietro la reception, così piccolo che sembrava progettato per una coppia di nani. La porta era di legno, obsoleta, del tipo che si chiude a mano.

Prima di lasciarmi, Gabriele mi diede la mano. Solo allora notai che gli mancavano tre dita.
Al mio sguardo imbarazzato replicò con un sorriso cattivo: "L'assicurazione mi avrebbe anche pagato i danni, se quello stronzo del giudice non avesse dato ragione al mio capo. Si, perché la verità è che sono un vile truffatore, e per di più autolesionista".

Fui ben felice di chiudere la cabina.

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Capitolo 8
*** Il seminterrato ***


Sulla pulsantiera c'erano solo due opzioni: "Seminterrato" e un tasto bianco. I pulsanti erano quadrati e incrostati di ruggine.
Sospirai.
"E va bene. Se proprio dobbiamo scendere, andiamo a dare un'occhiata a questo seminterrato". Non avevo ancora premuto il bottone, che la fune che reggeva l'ascensore sembrò spezzarsi: precipitai, prima con un contraccolpo violento, poi riacquistando stabilità, cadendo sempre più veloce, sempre più veloce, velocissimo.
Oltre il vetro smerigliato della porta, vedevo susseguirsi ad un ritmo pauroso delle luci rotonde simili a quelle che si usano nelle miniere, e poi sparirono anche quelle, sostituite da un indefinito rossore che non presagiva nulla di buono.
L'aria fischiava, i sostegni crepitavano. Il pozzo rispondeva, ululando in lontananza.

E poi ci fermammo, incontrando una sorta di vuoto d'aria. Ebbi la sensazione di galleggiare nello spazio, quando finalmente l'ascensore toccò terra traballando e sollevando nugoli di polvere.
Mi rialzai, protendendo una mano ad afferrare la maniglia, unico sostegno in un mondo ancora pencolante.
Con un cigolio sofferto, la porticina si aprì.
Un lezzo di cenere profumata m'investì le nari. Di fronte a me, una navata rischiarata a tratti da massicci candelabri conduceva ad un altare torreggiante; incastonate nell'abside, scintillavano vetrate viola, fonti di una luce spettrale che colorava le propaggini dell'altissimo soffitto.
Misteriosi rilievi coronavano le nerborute colonne spiraliformi, tatuaggi rupestri di arcana fattura.
Non c'erano dubbi: il seminterrato era una chiesa.

Una nenia solenne echeggiava tra le arcate, prodotta da un organo che si stagliava nella zona più remota dell'edificio. Non riuscivo a distinguere l'esecutore, ma solo le sue mani, che danzavano sulle tastiere come tarantole affamate.

Mentre avanzavo, un timore nuovo si impadronì di me: c'era qualcosa, in quella chiesa, qualcosa di formicolante, che sussurrava melliflue reverenze all'antro più remoto della mia anima. Come se temessi me stesso anziché Dio.
Non ero mai stato un buon credente: per questo non mi sottraevo agli istinti bestiali che muovono talvolta gli esseri umani, anzi…Li incoraggiavo. Chi è guidato dalla fede tende sempre a fornire una giustificazione per le bassezze più atroci, reprimendo e occultando quella che è la sua vera natura, mentre io…

io non so nemmeno cosa sto dicendo

…Io continuavo ad avanzare, e man mano che procedevo mi si profilava sempre più chiara la figura del Cristo, che pendeva esangue dalla croce e possedeva tratti tanto femminei e tanto plastici da sembrare quasi vivo.
Altri due passi, e mi accorsi che c'era un'altra croce, più piccola, affiancata alla prima.

Altri tre passi, e distinsi le catene che sorreggevano quel macabro affresco.

Poi vidi il sangue. Il sangue colava, blandamente scarlatto, sopra l'altare, e discendeva a cascatelle per i gradini…Si era raccolto in una pozza alla base della tavola liturgica; in parte ristagnava, secco, attorno alle panche disposte a semicerchio tutt'attorno. Qualche rivolo superstite fluiva in delle grate rotonde.

Ciò che vidi mi estirpò il cuore dal petto.
Appese a quelle croci, c'erano una donna e una bambina.
Mia moglie e mia figlia.

Non ebbi il tempo di accasciarmi in ginocchio, perché fui sommerso da una folla di fedeli.
Strisciavano fuori dalle ombre come scarafaggi: vecchi, bambini, uomini, ragazzi…
Una signora attempata mi offrì il capo perché lo benedissi. Un moccioso sui dieci anni mi pregò di prenderlo in spalla: ero il suo eroe. Padri di famiglia si congratulavano con me, stringendomi la mano. Oneste casalinghe mi guardavano, sospirando.

Riuscivo ancora a scorgere, oltre il muro della folla vociante, i corpi nudi e straziati dalle frustate di mia moglie e della mia bambina; erano mezzo asfissiate, ma respiravano ancora. Gli occhi non guardavano più, erano stati spolpati dai corvi.

"Che cos'è…tutto…QUESTO?!?", gridai.
Le urla della folla si spensero.
Ripresi a farmi largo tra i fedeli, sbraitando: "Perché l'avete fatto?! Perché proprio loro e nessun altro?! Dite di adorarmi, eppure mi avete strappato le cose più care che ho!!".

Un uomo dalla fronte alta e stempiata mi posò una mano sulla spalla, comprensivo, e disse: "Noi non adoriamo te, ma quello che tu rappresenti"
Ebbi un conato, quando mia figlia cominciò a vomitarsi addosso una pastoia gialla.
"E…cosa rappresento…io…per voi?"
Una ragazza entusiasta declamò:
"La Giustizia!"
Il gruppo esultò di approvazione.
"Tu raffiguri il prototipo perfetto del Dio Lavoro!", "Tu sei colui che più di tutti ha sacrificato la propria vita per decidere delle vite degli altri!", "Tu separi il Bene dal Male, come Mosè a suo tempo separò le acque del Mar Rosso!".

"No…no…"

"Questi cadaveri si sono immolati per te! Perché tu compissi la tua missione fino in fondo! Fino alla fine!!"
"NOOO!!!".

In molti mi fissarono, stupiti, ondeggiando dietro il velo delle mie lacrime.

Una bambina mi accarezzò la fronte.
"Allora…non vuoi?"
"No…non voglio"
Una pausa.
"Se ho deluso le vostre aspettative, me ne rammarico grandemente…Fate di me ciò che volete. Ma risparmiate loro", e indicai le due creature sofferenti sospese sopra l'altare.

"Guarda che non sono veramente loro, se tu non vuoi", disse la bambina. Somigliava vagamente a mia figlia: gli stessi occhi verdi, lo stesso caschetto di capelli bruni.

"Non sono…veramente…loro?", chiesi allibito.
"Beh, questo non è proprio esatto", disse un anziano vestito con un'elegante cardigan di cachemire, "Lo saranno fino a che tu rimarrai qui dentro. Quando te ne sarai andato, sarà come se loro non fossero mai venute qui".

Mi sollevai in piedi, asciugando il sudore e le lacrime, e dissi: "E come faccio ad uscire di qui? Il mio ascensore ha raggiunto il capolinea".
Una ragazza col volto devastato dall'acne mi indicò un punto imprecisato sotto le salme dei miei famigliari: "Da quella parte". Sorrideva sadicamente.
"Voi", accennai con un ghigno da pazzo, "voi vorreste costringermi a subire una cosa simile?"
"Noi non c'entriamo niente", replicò la ragazza, "sei tu che hai stabilito le regole".

La folla si aprì per lasciarmi passare.
Rivolto un ultimo sguardo a quei volti scavati dal dolore, cominciai a salire la gradinata.
Le suole delle mie scarpe bianche si istoriarono di motivi floreali. La base dei pantaloni venne inzaccherata da goccioline color fragola.

Passai, lentamente, oltre un leggio che ospitava un codice penale. Chiusi gli occhi.
Avvertii un debole picchiettare sulle spalle.

Feci una doccia di sangue, per un secondo.

Riaprii gli occhi. Mi si erano sciolti i capelli, ondeggiavano fradici sulle mie spalle.
Alla mia destra, una sorta di scuro scavato nel pannello di salice che delimitava la cripta, era stato lasciato aperto per me.
Mi ci infilai dentro, abbracciando l'ignoto.

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Capitolo 9
*** Capolinea ***


Ed ecco come sono giunto fin qui; dove ho continuato a narrare a voi, spettatori invisibili, la mia discesa.
Vagando per una buia scala a chiocciola, con un sudicio muro come unico appiglio, ho raggiunto la porta più insignificante, proprio perché la più importante, l'ultima.
E sono sbucato nel mio studio.
Non è esattamente come me lo ricordavo: le persiane sono abbassate, e questo acuisce la sensazione che sia grande solo la metà di come realmente è. Il soffitto è arcuato e molto basso, proprio come quello di una cripta.
Oltre a questo, c'è un casino che ne snatura l'usuale impeccabilità.
Appoggiata ad una sedia scorrevole, ho ritrovato la mia vecchia giacchetta di tela verde, e sopra la scrivania, un biglietto scritto con la mia calligrafia, che dice: "Guarda nelle tasche della giacca, contengono le risposte a molte domande".

Nella tasca sinistra c'era un foglietto ripiegato, dove ho letto, scarabocchiato con una biro rossa, il monologo che trovate all'inizio di questa storia. Evidentemente, la mia mente non vuole perdersi nulla.

Nella tasca destra, c'è la pagina che non ho ancora letto. E sinceramente ho paura a farlo.
Statemi vicino.

"Caro Signor Giudice, è Davide che ti scrive dall'Oltretomba.
Sta tranquillo, non sei morto!
Io lo sono, e già affermare questo è ben strano, perché significa che in fondo lo è anche una parte di te: hai decretato la mia dipartita nel momento esatto in cui hai messo piede in questo ufficio. Da tuo acerrimo rivale, ti faccio le mie più sincere congratulazioni (tu fammi le tue condoglianze, sii equo). Si sa: il nostro Io è più sfaccettato di un diamante imperfetto, la signorina del secondo piano dovrebbe avertelo insegnato…
E a proposito della tua scampagnata solitaria: avevi ragione a metà quando pensavi che in questo casino ti ci eri messo da solo; diciamo che ti è bastata una piccola "spinta" dall'esterno. Messa a tacere per un po' insieme ai suoi ricordi, la parte più debole di te (Tu) ne ha approfittato per scaturire una piccola sommossa.
Oh, era rinchiusa, certo, ma questo non vuol dire che non potesse ricevere appoggio da fuori.
Il cardellino che ti ha portato la chiave eri tu, così come quello che ti ha richiuso la porta in faccia – nel caso ti passasse la tentazione di fuggire, immagino.
Non hai vissuto una sarabanda di ricordi. Io trovo che tu abbia rivisto le tue priorità, più che altro.

Hai 30 anni, di mestiere fai il giudice, assolvi e punisci a tuo piacere. Sei un corrotto, e non esiteresti a rinnegare i tuoi cari per sposare il tuo lavoro.
Gli amici d'infanzia? Dimenticati.
Ne hai fatte così tante senza tenere conto delle conseguenze, che hai pensato bene di tornarci su: hai recitato la parte di quell'imprenditore accusato di frode fiscale (assolto), e – PUM! – quella femme fatale indagata per aver ucciso il marito che la violentava ha turbato i tuoi sogni…bastò una piccola donazione da parte della famiglia di lui per far pendere la bilancia a suo sfavore.
Quella notte in cui tuo padre ti parlò del concetto di giusto e sbagliato, tu progettavi già di diventare il Giustiziere Imperituro…legalmente, certo. Il fatto che appartenessi ad un popolo di perseguitati ti facilitò la decisione.
E quel povero facchino! Quante risate! Tu l'hai dimenticato, ma non riuscì nemmeno a pagarsi delle cure mediche adeguate, la ferita si infettò e dovettero amputargli il braccio.

E ora sei qui, assurto a nuova vita. Fatico ancora a credere che una zona così infima del tuo subconscio si sia mobilitata a tal punto.
Questa volta il caso era grosso: ti eri invischiato in questioni politiche. Agli avversari del tuo imputato non andava giù il tuo verdetto, così hanno pensato di farti un po' di pressione. Ti hanno messo sotto con l'auto, una Ford nera del '97, e sei andato in coma.

Trauma cranico, forse.

Ora il resto spetta a te, ma non azzardarti a credere che rimarrò morto per sempre.
La vita non è così semplice, non esistono solo il Bene e il Male: quando uscirai di qui, non sarai più solo te stesso. Saremo tutti in uno. E questo uno darà ampia libertà di scelta al suo nuovo preferito, ovvero te. Non approfittartene.

Il varco si trova poco oltre gli archivi.
Ricorda: devi scavare parecchio, se vuoi raggiungere la superficie
"

Segue la mia firma.

Cammino senza veramente camminare in questo corridoio bianco, in cui sembra scorrere finalmente un po' di luce vera e qualche residuo di astrazione a compensare il vuoto.
Mi sento leggero, leggerissimo, eppure incredibilmente cosciente, forse perché in me sta tornando a soffiare l'alito della vita.


Mi sveglio in un letto d'ospedale.



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