The Carillon

di feffyna22
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO 1b - The Carillon ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO 2b - I miei occhi ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO 3b - Sempre ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO 1b - The Carillon ***


CAPITOLO 1b - The Carillon





Non so dove mi trovo, non riesco a svegliarmi.
Non ricordo nulla, tutto quello che c’è nella mia testa è l’immagine di questo soffitto grigio. Non ricordo nemmeno il suono della mia voce.
Non so chi sono: mi appartiene questo corpo, disteso e immobile. Ecco, sono solo fisicamente qui.
Non ho altro, non un’emozione, un pensiero, una sensazione.
Sono il Vuoto. Sono un involucro, una scatola.
Cosa sono io?
Un tempo volteggiavo, volteggiavo.
Ora nella mia testa c’è solo questo soffitto grigio.
 
“Signorina Everdeen”.
Sollevo appena la testa al suono di quel nome così familiare eppure così lontano.
“E’ ora di tornare a casa, signorina”, mi dice la grassa infermiera davanti al mio letto. Potendo ucciderla, avremmo campato almeno due mesi con tutta quella carne.
“Mh”, è tutto ciò che riesco a dire.
“Non deve preoccuparsi. Vede, nell’Arena a causa dei gas tossici e delle violente allucinazioni ha subìto alcuni danni in aree molto delicate del cervello”, a quelle parole sgrano gli occhi e provo ad alzarmi dal letto. Mi rendo conto di essere immobilizzata, delle cinghie mi stringono i polsi e le caviglie.
Digrigno i denti ed inarco la schiena, urlo.
Ricordo Gale e Cato e Finch, non ricordo molto altro, non ricordo nemmeno tutto. Ricordo che sono morti, che forse erano legati a me o forse no.
“Si calmi, la prego”, nel frattempo entrano due dottori, vorrebbero iniettarmi qualcosa nel braccio. Non vedo più nulla, anche il mio udito mi sta abbandonando.
“No! L’intervista…Fermi!”, è tutto ciò che sento.
 
Quando riapro gli occhi, ritrovo sempre il grasso cervo a fissarmi. Ha capito che la osservo come si osserva una zuppa: ha lo stesso sguardo degli scoiattoli, quando la mia freccia sta per conficcarglisi in mezzo alla fronte.
“Che mi succede?”
“Ha una leggera amnesia. I ricordi torneranno, con il tempo. Probabilmente noterà anche una lieve alterazione delle emozioni, ma anche questo dovrebbe migliorare con il tempo”
“Chi sono?”
“Sei Katniss Everdeen”
“Cos’è questo posto?”
“E’ un ospedale. Hai vinto gli Hunger Games”
Non ho idea di cosa stia parlando. E perché la baldraccona mi dà del tu?
“Hai perso tuo padre molto tempo fa, hai una madre ed una sorella, Prim. Nell’arena hai perso il tuo ragazzo, Gale. Ricordi qualcosa?”
Scuoto la testa: non ricordo nulla, nessun volto, nessun legame.
Sarebbe perfetto, se non fosse per le immagini di morte che ritornano nella mia mente.
“Guarda”, mi porge uno specchio. Resto diversi minuti in silenzio mentre esamino la mia immagine riflessa.
“Non mi riconosco”
“E’ normale, stai tranquilla”
Mi volto verso di lei e sento la prima vera emozione da quando mi sono svegliata: dolore.
Provo a riappropriarmi della mia immagine, ma non riesco a vedere me stessa in quel riflesso.
Verso sera, delusa, l’infermiera si alza ed esce dalla stanza.
Torna poco dopo, accompagnata da un uomo sulla cinquantina, i baffi ritti e i capelli di colore viola scuro, pettinati all’indietro.
“Salve Katniss, io sono il dottor Aurelius e sono qui per aiutarti”.
Sorrido appena, gli basta.
“Andrà tutto bene”, dice, ma io non gli credo.
 
Per due giorni, lui e il cervo lottano per ridarmi un poco di sanità mentale, ma senza successo. I ricordi che riesco a riportare in superficie sono orribili, crudi, cattivi. Ed io continuo a non provare assolutamente nulla, se non alcune fitte allo stomaco.
Mi mostrano molte foto e altrettanti video di persone che non ricordo. Ed è la cosa che ripeto per tutto il tempo: io-non-ricordo.
Ma quei due non mi danno ascolto e, sinceramente, non mi innervosisco nemmeno.
Il terzo giorno. Oh, il terzo giorno è stato una vera merda.
Iniziano a mostrarmi volti selezionatissimi, che dovrebbero sconvolgermi nel profondo. Non me l’hanno detto, ma è impossibile non notare con che meticolosità ordinano le foto sul tavolino.
Iniziano da mio padre, dicono che è mio padre. Mi fanno scivolare la foto tra le dita, come fosse un sottilissimo velo o una bomba pronta ad esplodere, sono carichi di entusiasmo. La osservo per diversi secondi, si aspettano che esploda in un pianto o qualcosa del genere, non lo so.
“Non mi ricordo di lui”, dico tendendo la fotografia con due dita.
Non dicono nulla, ma lo so che si stanno arrendendo.
Mi passano la foto di…mia sorella? Mamma? Gale? Gale me lo ricordo. Cioè, mi ricordo il suo sangue sulle mie dita, ricordo di aver pianto. Vedo quel momento, ma è come se stessi spiando la memoria di qualcun altro, non mi trasmette nessuna emozione.
Continuano a farmi vedere volti e immagini e interviste.
Mi auguro che abbiano altri assi nella manica.
Un'altra foto, un’altra, un’altra ancora.
Senza sosta, nemmeno mi chiedono più se ricordo qualcosa.
Così, non si accorgono subito dell’espressione sul mio viso.
“Cosa c’è, Katniss? Ricordi?”
Li guardo, mentre alcune lacrime mi rigano le guance, senza nessun controllo.
“Papà”, dico.
Il dottore si avvicina al mio letto e osserva la foto, corrugando la fronte.
L’infermiera, che intanto stava ricontrollando le altre immagini sparse sul tavolino, cerca gli occhi del dottore.
“E’ Haymitch Abernathy”, dice lui.
“E’…è vivo?”, chiedo impaziente.
“Sì, è vivo. Ma si trova nel tuo distretto. Nessuno può sostare a Capitol City per più di dieci giorni dopo la fine dei Giochi.”
“Quanto tempo è passato?”
“Due settimane. Cosa ricordi di lui?”
“Nulla”
“Ok, prova a riposare adesso”, il dottore richiama con lo sguardo l’infermiera ed escono dalla mia stanza, lasciandomi da sola, con troppe domande nella mia testa.
Ma ad una ho risposto.
Mi è chiaro adesso, che non sarà più come prima.
Non so cosa c’è stato prima, ma tutto ciò che ero non tornerà più.
L’ho capito quando ho visto la foto di mio padre. Mi sono resa conto che dovrei davvero conoscere anche tutti gli altri volti, ma non è così.
Immagino che esista un modo per recuperare certe cose importanti, ma sono piuttosto sicura che la maggior parte siano ormai perdute per me.
Sono il Vuoto. Sono un involucro, una scatola.
Sono il carillon rotto di mia mamma, ricordo solo le sue mani.
Lo caricava per farmi addormentare quando ero piccola, mi divertiva il momento in cui lo apriva e si sollevava una piccola ballerina. Volteggiava, volteggiava.
Un giorno, lo scaraventò sul pavimento e la ballerina si ruppe in mille pezzi. Anche la molla per caricare la musica si era rotta. Rimase solo quella delicata cassettina celeste. E non ci sono molte differenze tra me e lei adesso.
Cosa sono io?
Forse, un tempo volteggiavo, volteggiavo.
Ora nella mia testa c’è solo questo soffitto grigio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** CAPITOLO 2b - I miei occhi ***


CAPITOLO 2b  -   I miei occhi




 
Dev’esserci ancora un senso di me, altrimenti non si spiega la rabbia che provo ogni volta che quei due entrano nella mia stanza.
E poi ho queste percezioni: percepisco, ad esempio, che nessuno sta facendo quello che fa per il mio bene.
Quindi, la mia capacità di giudizio è più che conservata.
Poi, sì, non riconosco il mio viso nello specchio. Una gran bella rogna, non faccio che spaventarmi ogni volta che vedo il mio riflesso nel vetro delle finestre.
Dato che non sto migliorando, hanno cambiato strategia. Dicono che hanno bisogno di me, che il presidente ha bisogno di me. Che è passato un mese dalla fine dei giochi e mai nella storia si è atteso tanto per vedere la vincitrice.
Quindi, per fare un piacere al presidente in persona, devo rimettermi in pari. Mi mostrano alcuni filmati delle passate edizioni degli Hunger Games. Per loro è divertente, ridono e scherzano e spettegolano a volontà. Mi è chiaro che li disturbo ogni volta che vomito o che mi lamento, costringendoli ad interrompere la visione. Ma non so impedirlo, veder morire tutti quei ragazzi in modi così violenti mi dà la nausea.
 
Oggi ho visto finalmente l’ultimo filmato, i miei giochi. La grassona dice che è stata la parte facile della mia riabilitazione. Che riabilitazione non è, perché non mi ricordo un cazzo.
Ecco la parte difficile: passerò le prossime quarantotto ore a collegare nomi alle foto di gente che dovrei conoscere.
Ma parliamo di Caesar Flickerman: per la prima volta nella storia ha concesso al vincitore di conoscere le domande dell’intervista con ben due giorni di anticipo. Una leccornia. Gli avranno detto che mi si è bruciato il cervello.
Permetterà così ai due ebeti di insegnarmi cosa dire e quali espressioni adottare davanti al pubblico. Per non sembrare proprio completamente matta.
Non sono molto preoccupata per le quattro frasi che imparerò a memoria, quanto più per l’intensità dei miei sguardi. Da quando mi sono risvegliata ho provato due o tre emozioni al massimo. E nessuna di quelle compare sul mio viso, teso in un’unica, prevedibile espressione.
Mi insegnano quali muscoli facciali muovere per sorridere, come governare le rughe della fronte, da corrugare nei momenti drammatici.
L’idiota aveva ragione, è davvero difficile. Nonostante ciò, in due giorni sono pronta. Devo dire che è molto semplice esistere adesso: non mi è chiara la storia degli hunger games, non ci capisco molto di politica e non sono convinta di ricordare tutte le cose che hanno detto sul mio passato, ma non me ne importa nulla. Perché non conosco davvero nessuno, nemmeno me stessa. Così, mentre dietro le quinte lo staff sa e teme, io salgo sul palco spavalda e, credetemi, è stata una delle interviste migliori di sempre. L’hanno detto tutti.
 
Ammetto di esserci rimasta male, in stazione nel distretto 12 trovo solo altri pacificatori ad attendermi. Ma, siccome la nuova me è nata quindici giorni fa, posso dire di aver creato con loro il rapporto più intimo ed intenso che ho mai costruito in tutta la mia vita.
Stucchevoli pensieri, proprio mentre mi spintonano nella mia casa nuova di zecca. Mi buttano a terra e richiudono la porta. Molto intimo.
Trovo una lettera da parte del capo del distretto, molte parole di conforto. Su un bigliettino a parte, un piccolo elenco dei miei morti. Riconosco di sfuggita quello che dovrebbe essere il nome di mia madre, non provo nulla ma non voglio comunque sapere: lascio cadere il biglietto per terra ed inizio a guardarmi intorno.
Il giorno dopo i pacificatori mi scortano in comune, mi viene letto il nuovo regolamento del distretto.
A pranzo mi mettono in mostra davanti a tutta la piazza ed io faccio la parte della brava capitolina, pronunciando con cura ogni singola parola del discorso preparato da Effie. Nemmeno l’arrivo di Haymitch riesce a distrarmi.
Perfetta.
Sono perfetta.
E arriviamo a me. Al presente. A cosa è successo adesso.
Sì, insomma. Scendo da quel palco e torno a casa.
Brividi squassanti e il delirio e il calore sulla fronte.
Non so cosa sia, so solo che è il mio biglietto per poter, con molto molto dispiacere, rinunciare alla festa del villaggio.
Davvero un peccato.
Sì, la festa mi preoccupava: voglio dire, rivedere in massa tutte quelle persone che pensano di conoscermi, di aver condiviso qualcosa con me in passato.
E sono piuttosto convinta, dopo aver visto il video dei miei giochi, di non essere stata prima molto diversa da come sono adesso.
Detto ciò, appunto, il presente.
Nonostante il coprifuoco e la mia disciplinata condotta, mi ritrovo alle quattro del mattino davanti alla panetteria del villaggio.
Ora, potrei dilungarmi su come ho fatto ad eludere l’attenta sorveglianza di quei due carciofi secchi delle mie guardie, ma invece la vera domanda è: perché sono qui?
E’ come quando mi viene in mente una cosa da dire e la dimentico all’improvviso. La cerco, la cerco e la ritrovo solo se ripercorro i miei passi. Ma a volte l’ho persa e basta, mi resta la sensazione sgradevole per qualche minuto e poi scompare.
Se sto qui, davanti alla porta del retro della panetteria, è per ripercorrere i miei passi o mi sono già smarrita?
E’ una faccenda buffa, quella della speranza. Parlo a non so chi, non ho un ricordo né un guizzo di genuino interesse verso gli altri. E, nonostante tutto, penso davvero di poter recuperare ciò che ero.
Ero qualcosa in questo posto.
Ma forse non sono pronta ad affrontare questa parte di me, me ne rendo conto all’improvviso, mentre sento il rumore della porta aprirsi e vedo comparire un uomo sulla quarantina nel cortile della casa. Mi guarda e, dopo qualche secondo di rigidità, mi corre incontro.
“Katniss!”, urla, “Katniss!”, ancora. Ne parlate tutti, ma io non so perché mi chiamate così.
Appena incontro i suoi occhi, sento i miei roteare all’indietro e cado a terra.
“Aiutatemi! Portiamola dentro!”
 
“Ciao”, mi dice. Non è la voce di prima.
 Ho gli occhi aperti ma non riesco a vedere nulla.
“Non vedo”, dico senza agitazione. E davvero non sono agitata: insomma, per essere spaventata dovrei avere qualcosa da perdere.
“Dove sono?”, continuo.
“Sei a casa, ti abbiamo portato prima che il sole sorgesse, i pacificatori temevano di essere puniti per essersi addormentati durante il turno di guardia, non diranno nulla. E’ venuto il dottore a visitarti poco fa, dice che è colpa delle sostanze inalate nell’arena, che devi disintossicarti. Va tutto bene?”
Me lo chiede perché non dico una parola? Me lo chiede perché sono innaturalmente tranquilla? O forse perché ha notato che il mio torace si abbassa e si innalza con sorprendente regolarità?
Non so se è davvero pronto, ma io così proprio non ce la faccio. Cerco nel vuoto il suo viso.
Lui comprende le mie intenzioni e mi porta una mano sulla sua guancia. Inizio ad esplorare, scopro una lieve peluria sul mento ed intorno alle labbra, avverto i lineamenti spigolosi della mandibola sui polpastrelli, accarezzo le tempie e sfioro appena i capelli.
Sento che sorride e so che gli calpesterò il cuore.
“Chi sei?”, sussurro.
Lui si irrigidisce e, dopo qualche secondo, sento la sedia graffiare il pavimento. E sento i suoi passi. Allontanarsi.
Il signor Mellark, evidentemente presente nella stanza già da prima, si alza immediatamente e chiude la porta. Si avvicina al mio letto e si presenta. E anche il nome della sua famiglia non mi dice nulla.
E’ molto gentile, mi accorgo che per tutto questo tempo ho avuto ragione e che non ho mai avuto a che fare con persone gentili da quando mi sono risvegliata.
Mi chiede molte cose ed io anche gli pongo qualche domanda. Siamo entrambi sinceri e tendo l’orecchio in un certo momento, quando mi sembra di avvertire addirittura un poco di commozione nella sua voce.
Comunque, ricevo molte più risposte in questi minuti che non nell’ultimo mese.
Ed ecco che, mentre l’uomo inizia a parlarmi di mia madre, di com’è stata giustiziata e della morte di mio padre, torna uno dei miei ricordi, uno di quelli che proprio non riuscivo a recuperare.
 
Rivolta
 
E’ solo una parola, la pronuncio sottovoce. Ma basta questo, lui non parla più e trattiene il respiro.
Mi accarezza i capelli ed io spontaneamente ricerco ancora la sua mano, anche se il mio cuore continua ad essere addormentato o morto.
“Provo a convincere Peeta a tornare da te, ok?”
“Ok.”
Sa che non me ne importa, un ok mi sembra un’ottima risposta.
Peeta.
Uno dei ragazzi che mi avevano mostrato in foto?
Non una persona importante, non secondo la grassona: altrimenti ricorderei il suo nome. Ricordo a memoria i nomi delle persone che dovrei amare.
Però, è da Katniss proteggere i suoi cari e poi mi sono ritrovata in panetteria per una qualche ragione. Sono quasi del tutto convinta che Peeta potrebbe davvero essere importante per lei, a questo punto.
Sento altri passi e mi rendo conto che è tornato.
“Mi dispiace”, dico, ma non lo penso sul serio. Cioè, non provo dispiacere, ma Katniss di sicuro sì. Le farei un torto se non glielo dicessi. E fare un torto a Katniss, a quanto ho capito, equivale a farne uno a me stessa.
“So che non ti dispiace. Mio padre mi ha detto tutto.”
Ah, è il padre.
“Immagino che a Katniss sarebbe dispiaciuto”, dico senza troppi giri di parole. E la risposta che ricevo mi congela il sangue.
“Cazzo. Com’è possibile che non ti rendi conto che sei tu Katniss?”
Bella domanda.
Bella domanda.
“Bella domanda.”
Così smetto di fingere. E non so se sia, almeno in parte, paragonabile ad un’emozione. Di certo, mi sembra di non aver mai finto con lui. Di essere sempre stata Katniss. Ed è molto strano, perché non ho la più pallida idea di chi siano, lui e Katniss.
Mi parla, mi chiede delle cose, mi rivela dei segreti.
Lui sa che mi rilassa.
E davvero sono più serena adesso, mentre mi accarezza il viso e i capelli.
Quando la sirena del coprifuoco suona, tutta la casa si accende. Si alza, mentre il padre ci raggiunge salendo le scale velocemente. Lo richiama e scappano entrambi giù dalle scale.
Avverto per la prima volta un nodo alla gola, mi rendo conto che mi sento sola, una sensazione che conoscevo bene e che riscopro solo ora.
In men che non si dica, piombo nel mio disgustoso silenzio, vorrei almeno poter immaginare il sole sorgere. Dicono che sia uno spettacolo stupendo. Ma non ricordo com’è l’alba, l’ho vista solo nei filmati. Non è strano che sia arancione? E la luce che filtra appena attraverso le finestre? Non è una cosa davvero bizzarra? E non è strano che, anche se non me la ricordo, io lo so che è bellissima?
 
Sono sola.
 
E poi, la portafinestra, l’altra porta, le assi del pavimento, le scale, la mia stanza, il suo respiro. Alzo gli occhi.
Dio, quanto vorrei poter vedere adesso.
Lui si china su di me, mi bacia sulle labbra.
Ha l’affanno, il suo alito è caldo e vivo. Ed io, allora, lo sono: allora io sono viva!
I suoi capelli ricadono sulla mia fronte e la punta del suo naso incrocia il mio, lasciandomi una lacrima o forse una goccia di sudore. Ricordo che non dovrebbe trovarsi qui ed un’ondata di ansia e paura si impossessano dei miei muscoli.
Lo ricaccio indietro, concentrando tutte le mie forze sulle braccia.
“Non devono trovarti qui, non devono!”, urlo e mi dimeno, perché (e non so il perché) è fondamentale che non lo trovino qui. E’ fondamentale per me e per lui e Peeta sa che non mento. Così lo sento correre via, di nuovo.
Scompare ogni cosa di lui ed io decido di non pensarci più.
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** CAPITOLO 3b - Sempre ***


CAPITOLO 3b  -   Sempre






Sono passati due mesi.
Mi sveglio, faccio colazione, arriva la grossa, grassa infermiera che mi perseguita da quando mi sono risvegliata. Continua con questa storia che prima o poi dovrò pur recuperare un qualche ricordo. Siamo praticamente inseparabili, la detesto.
Puzza di sudore, i suoi passi sono pesanti e percepisco la sua immensa massa di lardo muoversi in giro per casa.
“Mi complichi il lavoro!”, mi ha detto dopo che ho perso la vista. Dice che secondo lei non è colpa dell’arena, ma è tutta opera mia, del mio cervello malato. E’ tutta una cosa psicologica, insomma.
Devo ammettere che, nonostante sia davvero un’idiota, ogni giorno se ne inventa una per farmi ricordare qualcosa. E’ di sicuro molto più difficile adesso, dato che non posso più concentrarmi sulle foto.
Ma devo confessare che, se davvero è questo ciò che la mia mente desidera, meglio di così non poteva andare: finchè non divento abbastanza brava a muovermi col bastone, resto confinata a casa. E poi, se incontro qualcuno o se ricevo visite, non devo più fingere di riconoscere quei volti tutti uguali.
Comunque, dopo pranzo la trippona se ne va al diavolo ed io mi godo un poco di aria fresca. Mi sposto sulla veranda con la sedia a rotelle, resto lì per qualche ora. Verso sera, un’ora prima che scatti il coprifuoco, il ragazzo del pane viene a trovarmi. Mi bacia sulla fronte, posa in cucina il cestino con le pagnotte e trascina una sedia vicino alla mia. Di solito, parla solo lui. Mi rende serena, non si aspetta nulla e non ha mai provato a stuzzicare la mia memoria, anche se so che muore dalla voglia di farlo.
Mi ascolta, anche se non parlo. Ed io mi perdo nei suoi racconti, nella gente che incontra e che adesso mi sembra davvero di conoscere.
A volte, penso di essere molto fortunata, penso che a poche persone è concesso di vivere due volte l’infanzia. In fondo, quello che vivo adesso non è la stessa cosa?
Ed è molto strano quello che provo quando so che lui sta per arrivare, quando sento i suoi piedi camminare nella mia direzione, quando se ne va e temo che non rinnovi la silenziosa promessa di tornare da me il giorno dopo.
Non mi sento meno vuota di prima, nonostante tutto. Ad un certo punto, meglio così. La cosa che mi punge è la mia totale mancanza di empatia.
Cioè, mi spiego: non provo amore ma vorrei riconoscerlo.
Forse non potrò più provare rabbia o tristezza o gelosia, ma desidero con tutta me stessa sapere che effetto fa sentirsele addosso.
Invece io non me le ricordo proprio, io non so che cosa si prova ad amare, ad odiare, ad essere gelosa, ad essere felice, non so che cosa dovrei sentire per dire “Ho paura!”.
Quel ragazzo me le descrive come meglio può, ogni volta che chiedo nuove spiegazioni, stremata. Lui si sforza di trovare nuove parole ed io ne sono affascinata, ma non è che riesco a sentirle.
Così, non riconosco le battute, non capisco quando sono offensiva o quando dico qualcosa di inopportuno. Mi insegnano gli argomenti di cui è meglio non parlare in pubblico, il tipo di linguaggio da adottare in ambienti formali. Insomma, la vacca si dà un gran daffare e anche l’altro non scherza.
A volte, come poco fa, il panettiere fa il simpaticone e mi mette a dura prova: “Dì il mio nome!”
“Dai su!”
“Dillo! Oppure domani ti scordi le focaccine al formaggio!”
“Non potresti!”
“Sfidami!”
“E’ uno scherzo, giusto?”
“Ah! Ci risiamo! Si arriva sempre a questo punto!”
“Quale punto?”
“Che se ti dico che non scherzo, ci credi e mi tocca comunque dirti che scherzo!”
“Quindi domani avrò le mie focaccine?”
“Sissignora! Ma ora dì il mio nome!”
“Sai, vero, che non provo alcun tipo di dispiacere?”
“Bè, ma sai che se non lo dici ci rimango male!”
“Ma io non so che effetto fa!”
“E’ come quando ti sei bruciata l’indice due giorni fa!”
“Fa male!”
“Sì…”
E restiamo in silenzio, perché a quanto pare abbiamo trovato un modo per capirci. Il ragazzo del pane ha trovato un modo per farmi sentire quello che prova.
Forse perdo una lacrima, penso per l’adrenalina che sale all’idea di sapere che effetto fa la sofferenza. Fa male.
Me lo chiede di nuovo, ora un po’ forse per testarmi. Me lo chiede: “Dì il mio nome!”.
 
Peeta
 
Ho passato gli ultimi due mesi ad evitare quel nome. Perché, immagino, ripeterlo vorrebbe dire che c’è un qualche legame tra di noi, che però io non sento. Perché significherebbe che, in mezzo ad una folla, io potrei riconoscere i suoi occhi, il suo sorriso, almeno la sua voce. Ma non mi sembrava una cosa possibile.
Ora è molto diverso, mi ha insegnato la mia prima emozione. E’ quasi più intimo della prima parola pronunciata da un bambino.
E penso che anche lui pensi la stessa cosa, perché mi sfiora la mano e non parla più.
Restiamo qualche altro minuto in silenzio e poi ricomincio a fare mille domande, sul mondo, sul distretto, sulle persone.
“Dov’è mio padre?”
“Tuo padre è morto nell’esplosione delle miniere, quella di cui ti ho parlato molte volte.”
“No, no!”
“Calmati, Katniss!”
“No, ti assicuro che non è morto, te lo assicuro! Lo ha detto anche il dottore, che non è morto! E’ qui! Dovrebbe essere qui ma non è mai venuto a trovarmi! Dov’è?”
“Calmati, calmati! Cosa ricordi di lui?”  -Un bel niente-
“Ricordo che mi hanno fatto vedere una foto prima di tornare qui, che ho detto che era mio padre.”
“Non ricordi l’uomo nella foto? Ricordi qualcosa del suo viso? Potrei aiutarti a riconoscerlo!”
“No, so solo che è mio padre, ma per il resto mi sembra uguale a tutti gli altri.”
“Non hai nessun ricordo?”
“Ricordo la mia mano nella sua, fuori da scuola. Non c’era nessuno, solo io e lui e un’altra persona che non ricordo proprio e il terriccio per terra e sulle mie scarpe nere. Mi ha portato in un posto importante, ma non so che posto era. Lui era molto alto, quindi sarò stata una bambina. Comunque, per quel che ne so, potrebbe essere stato anche soltanto un sogno.”
Ci pensa un poco su, entra in casa e sento che cerca qualcosa, spostandosi da una camera all’altra.
Esce poco dopo e mi dice che ha preso il quaderno dei miei progressi, la balena ci stava scrivendo qualcosa su un giorno che era venuto a trovarmi prima che lei se ne andasse. Lei lo aveva messo da qualche in parte in soggiorno e poi se ne era andata.
Mi chiede il permesso di leggerlo, poi cerca qualche indizio. Immagino le sue mani sfogliare il libro e dei brividi corrono lungo la mia schiena. Scaccio quella strana sensazione, non so bene cosa sia e non mi sembra il caso di aggiungere altra carne sul fuoco. Ma forse il mio viso mi tradisce, sento Peeta ridacchiare e decido di ignorarlo del tutto.
Ad un certo punto, sento che si raddrizza sulla sedia: “Ecco! Cazzo, è Haymitch!”
“Sì, lui! Dov’è? Non è mio padre?”
“No, bè, io non lo so…penso di no. Comunque, vive due case più in là!”
“Anche ora sta lì?”
“Sì!”
“Non è mai venuto a trovarmi?”
“No.”
“Immagino che dovrei sentirmi come quando mi sono bruciata il dito.”
“Mi dispiace.”
“Non mi vuole bene?”
“Non lo so, penso di sì! Cioè, da quello che ho visto negli anni e durante gli Hunger Games, penso che te ne voglia molto!”
“Lo rivedrò?”
“Potresti andare da lui!”
“Ma non me lo ricordo!”
“Pensaci su, forse ti aiuterebbe!”
Annuisco, poi se ne va, come ogni sera. Dopo dieci minuti sento la sirena del coprifuoco, torno in casa e, barcollando da una parte all’altra, prendo al volo due focaccine, mi porto al piano di sopra e me le gusto sentendo della musica che Effie mi ha consigliato. E’ musica classica, penso di aver sottovalutato quella donna.
 
 
 
Non l’ho detto a nessuno, ma qualche ricordo ce l’ho. Cioè, è come se fosse un sogno: è tutto in bianco e in nero e, se non mi concentro abbastanza, il ricordo sfuma velocemente e non riesco a riacchiapparlo più.
Ricordo un ballo e un nastro blu. Delle mani piccine e dei capelli biondi. Se mi sforzo moltissimo, penso di poter quasi assaporare il profumo di legno e lavanda di una cassapanca. Ci sono occhi color ghiaccio e mani sporche di carbone, nei miei ricordi. E lucciole.
Mi corteggiano nel dormiveglia, poco prima di alzarmi. Ma siccome stamattina ha piovuto moltissimo, mi sono svegliata di soprassalto e me li son persi tutti.
Sono molto incazzata con il mondo per questo risveglio, perciò mi alzo e metto la tuta. Esco con il bastone del cazzo, la pioggia cade fitta e giuro su tutto quello che sono e che ero, su tutto quello che ho amato e che c’è in qualche spazio recondito della mia mente, io vi giuro, giuro a tutti e a tutto il mondo che non vorrei altro se non rivedere il cielo grigio e le luci dei lampioni accese.
Lo voglio! Voglio il cielo grigio! Voglio ritrovare quel colore, voglio non dimenticarmi dei loro occhi! Gale! Oddio, Gale è morto! E’ morto! E’ morto! Non rivedrò più Gale!
-Chi cazzo è Gale?-
Sento queste fitte, dentro.
Corro veloce, sento le guardie dell’ingresso del villaggio che mi salutano. Le supero e mi dirigo verso i miei boschi.
Ogni tanto qualcuno mi riconosce, li evito. Sto ben attenta a non sollevare lo sguardo: per quel che ne so, in pochi sanno del mio stato fisico. Inciampo nella melma, cado ogni cinque passi, ma mi rialzo e mi trascino dietro quel coso inutile. Non capisco come riescano a pensare che davvero un bastone possa sostituire i miei occhi.
Sono stufa, di tutto questo.
Ignoro le urla che sento dietro di me, non voglio ricordare, non voglio più ricordare nulla.
Sono una matta, sono fuori di testa, non sono più nulla.
Arrivo ad un ponticello, è quello che mi separa dalla solita entrata, ma è troppo stretto. Decido di gattonare prudentemente per raggiungere il lato opposto.
Sto quasi per raggiungere la recinzione quando sento più chiaramente le sue urla: “Katniss! Katniss, no! Katniss, c’è l’elettricità!”
Così mi fermo, indecisa se proseguire o meno.
“Ti prego, Katniss!”
Mi dirigo verso il ponticello e provo maldestramente a ritornare da dove sono arrivata.
“Prendi la mia mano!”, mi dice.
Ed io lo faccio.
E nel momento in cui lo faccio, percepisco più chiaramente le gocce della pioggia sul mio viso, sul mio naso, sui miei occhi. Le sento, trasparenti e limpide, mi ovattano il mondo intero. Chiudo gli occhi, lascio che scivolino via. Quando li riapro, la luce mi colpisce in pieno viso, ma non urlo.
“Katniss?”, sento, ma nessuno dei due si muove.
Accarezzo il mio viso con una mano, mentre con l’altra stringo le dita forti che ieri sera sfogliavano le pagine di un quaderno. Le riconosco.
Apro gli occhi, gli apro più che posso, il nulla sbiadisce e il verde degli alberi è il primo colore che mi riscalda il cuore.
Il secondo è il celeste dei suoi occhi.
Lui, ancora dubbioso e preoccupato, mi guarda. Quando si accorge che, per la prima volta, riceve un mio sguardo in risposta, mi trascina verso il suo petto e mi abbraccia.
Non mi lascia andare, neanche quando dopo un poco sento le mie gambe intorpidirsi. E alla fine non oppongo resistenza.
Ne approfitto per alzare gli occhi verso il cielo, le nuvole sono belle, proprio come immaginavo. E mi ricordano quel colore intenso, che non saprei dire da quale anfratto della mia mente sono andata a pescarlo.
E’ un incanto.
Peeta raccoglie il mio viso tra le sue mani e mi bacia ed io lo attiro a me e provo a comunicargli quanta più gratitudine posso. Passa le dita tra i miei capelli e, quando si stacca, lo fa per osservarmi bene, per riprendersi quello che cercava da tanto e che io gli avevo portato via. E’ serio e languido, anche questo penso di riconoscere.
Mi fa alzare, la sua bocca si spande in un sorriso caldo ed io, ipnotizzata, mi sento davvero come se fossi solo una bambina. Lascio che mi guidi verso casa.
Tolgo i vestiti bagnati e ne indosso alcuni asciutti, presi a caso da un cassetto. Torno nel soggiorno, dove lui mi aspetta davanti al camino. Gli passo un asciugamano ed una felpa. Mi ringrazia e si sfila quella bagnata. Non so se lo metto in imbarazzo, ma io non smetto di fissarlo per tutto il tempo.
Si siede sul divano al mio fianco e mi accarezza il viso. Vorrei riprendere il controllo del mio corpo, ma non sembra che io ne sia in grado. Devo sembrargli davvero stupida.
Suonano alla porta.
 
“Devo andare.”
“Torni?”
Sempre.” 

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