The hanging train

di madelifje
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In cui i nostri eroi prendono un treno ***
Capitolo 2: *** In cui inizia a fare caldo ***



Capitolo 1
*** In cui i nostri eroi prendono un treno ***


Autore: idkrugens/madelifje
Fandom: Sherlock BBC
Titolo: The hanging train
Rating: giallo
Personaggi: Sherlock, John, un po’ tutti
Genere/Avvertimenti: Romantico, avventura
NdA:
- Il titolo è un gioco di parole con un riferimento neanche tanto velato ad Hunger Games
- Ho fatto delle ricerche sulla Ferrovia Transcontinentale. Non c’è tantissimo. Per quanto riguarda i tempi di percorrenza: stando a wikipedia, per NY-Sacramento ci voleva una settimana. Omaha è un po’ più a est della metà della tratta, quindi ho approssimato a quattro giorni. Per la struttura dei treni, mi sono basata sui film western che ho visto.
- La storia dovrebbe durare circa cinque/sei capitoli

Pacchetto Far West:

1) Uno dei protagonisti è un cacciatore di taglie (famoso o improvvisato), l'altro è il bandito che va catturato.

2) presenza di una scena ambientata su un treno (che sia tutta la storia, due secondi, un flashback non conta, basta che siano presenti sullo stesso trenoentrambi i protagonisti)

3) “They're gonna hang me in the morning, before the night is done... they're gonna hang me in the morning, I'll never see the sun...” (canzone tratta dal film “Quel treno per Yuma”)



Questa storia è un esperimento. Mi sto divertendo tantissimo a scriverla, mi sono documentata e ho cercato di mettere quanti più riferimenti al canon possibile. Voglio restare abbastanza fedele all'opera originale, ma la trama è completamente inventata da me. Spero che vi piaccia :)

 


 


The hanging train
 
 


CAPITOLO UNO:  In cui i nostri eroi prendono un treno
 
 
 
Il sole picchiava sulla stazione di Omaha, Nebraska, così forte che John Watson cominciava a chiedersi a quale temperatura il corpo umano iniziasse a fondersi. L’orologio che teneva tra le dita era incandescente, nonostante si trovasse nell’unica striscia di ombra della banchina, e probabilmente s’era anche rotto: il suo treno avrebbe dovuto essere lì già da quaranta minuti buoni. Era impossibile, vero?
John Watson odiava i ritardi.
Le uniche tre panchine del binario erano occupate rispettivamente da una coppia di anziani, tre ragazzi sui vent’anni e una donna con due bambini. Evidentemente pensavano che il bastone da passeggio di John fosse lì per bellezza, perché a nessuno era venuto in mente di fargli posto. Spostando il peso per l’ennesima volta, John sospirò. L’uomo in piedi accanto a lui lo metteva a disagio. Teneva le gambe lunghe divaricate, le mani affondate nelle tasche del cappotto scuro e il mento leggermente inclinato verso l’alto. Pareva totalmente insensibile al caldo. John non ricordava con esattezza da quanto fosse in quella posizione, ma di certo era impossibile che non si fosse ancora mosso.
Per assicurarsi che respirasse ancora, decise di attaccare bottone. Fingendo di sgranchire le gambe, si avvicinò un poco allo strano personaggio.. «Perdonatemi, signore» gracchiò, imprecando mentalmente. Si schiarì la gola. «Sapreste dirmi che ore sono?»
Questa volta la voce gli era uscita abbastanza sicura, eppure l’uomo non diede segno di averlo udito.
«Temo mi si sia fermato l’orologio» continuò.
Iniziava seriamente a credere di trovarsi davanti a una statua, quando l’altro sospirò. Un sospiro molto profondo, quasi inopportuno, che fece inarcare un sopracciglio a John.
«Funziona».
«Come dite?»
«L’orologio» scandì l’individuo, «funziona perfettamente».
Sempre più stranito, John lanciò un’occhiata al quadrante. Effettivamente la lancetta dei minuti si era spostata, ma l’uomo non aveva modo di saperlo, non avendo mai distolto lo sguardo dalle rotaie.
«Grazie per l’informazione» borbottò. Di solito John era una persona gentile, quando i treni erano in orario, la temperatura sotto i quaranta gradi e gli estranei con almeno un minimo di educazione. Siccome nemmeno uno di quei parametri era rispettato, John si sentiva autorizzato a essere un po’ meno gentile del solito.
«Purtroppo però credo che vostra sorella vi abbia mentito: l’orologio non è in vero argento». John, già sul punto di allontanarsi, si bloccò. Doveva aver sentito male, si disse, per forza.
«Prego?»
«Quando ve l’ha regalato, vostra sorella deve averlo spacciato per vero argento. Purtroppo non lo è, mi dispiace».
Le iridi quasi trasparenti erano ancora fisse sulle rotaie, non un muscolo di quell’uomo si era mosso.
«E voi come lo sapete, di grazia?»
Altro sospiro esasperato. «Come so che non è d’argento o che si tratta di un regalo di vostra sorella?» Non attese risposta e continuò, come se stesse parlando con l’ultimo degli idioti. «Sul retro c’è un incisione. Una dedica, a giudicare dalla scrittura corsiva. È troppo nuovo perché possiate averlo ricevuto in eredità e nessuno comprerebbe mai un orologio già inciso, dunque si tratta di un regalo. Un regalo personale, proviene da una persona che vi è molto vicina. Voi però non siete sposato – non portate la fede, uomini come voi la terrebbero anche in segno di lutto – perciò non si tratta di una moglie. Qualcuno di sesso femminile, però, non è il genere di regalo che farebbe un uomo. Un’amica sarebbe sconveniente, quindi siete imparentati. Che si tratti di vostra sorella e non di vostra madre, ho tirato a indovinare. Devo spiegarvi come so che l’orologio non è d’argento? Vi avverto, è semplicemente lampante».
«Geniale!» squittì John, perdendo anche l’ultimo briciolo di dignità. Avvampando, simulò un colpo di tosse. «Volevo dire… geniale». Lo strano individuo lo osservò per alcuni secondi con un’espressione indecifrabile, poi tornò a scrutare le rotaie. John lo imitò. Il sole dava fastidio agli occhi, all’orizzonte i binari deserti sembravano tremolare leggermente per il caldo. John avrebbe venduto un braccio per un po’ di vento.
«Arriva il treno» annunciò l’individuo misterioso. John pensò che fosse una domanda, perché lui non vedeva proprio nulla. Dopo una manciata di secondi, tuttavia, la sagoma scura di una locomotiva comparve in lontananza. Fece per dire qualcosa allo sconosciuto ma, quando si voltò, questi era sparito.
 
 
 
«Sherlock! Si può sapere dov’eri finito?»
«Passeggiavo». A suo fratello non interessava veramente ricevere una risposta, per cui non indagò oltre. Un facchino era impegnato a far entrare i loro pesanti bagagli nella cabina, Mycroft non muoveva un dito per aiutarlo e l’uomo iniziava a sudare. Sherlock si chiese quale sarebbe stata la sua reazione se gli avessero rivelato il contento della valigia più pesante. Probabilmente non ci avrebbe creduto.
«Ho avvistato il vecchio Lestrade nel vagone ristorante» annunciò, mentre Mycroft accendeva l’ennesimo sigaro. Suo fratello non sembrò particolarmente colpito. Era sicuro che il cacciatore di taglie stesse andando a catturare il Capo, non poteva sapere che i fratelli Holmes viaggiassero sullo stesso treno, men che meno che con loro ci fossero anche duecento grammi di diamanti sudafricani da otto carati. Non disse quest’ultimo dettaglio ad alta voce, per ovvie ragioni, ma non ce ne fu bisogno. Il facchino aveva completato il lavoro e guardava Mycroft in attesa di ricevere la mancia. Quando fu chiaro che non sarebbe successo, fece un piccolo inchino e si dileguò. I due fratelli entrarono finalmente nella cabina e si lasciarono cadere sulle cuccette. I materassi non erano il massimo della comodità, ma avevano visto di peggio.
«Ci sarà da divertirsi» commentò Sherlock.
«Puoi dirlo forte». L’altro annuì e per un po’ nessuno dei due parlò.
«221B» lesse Mycroft distrattamente. «Che numerazione bizzarra, ho contato solo quindici coppie di cabine».
 
 
 
John Watson aveva sistemato i suoi bagagli al 220A e poi si era diretto immediatamente alla volta del vagone ristorante. Nel suo messaggio, Lestrade aveva specificato che si sarebbe fatto trovare lì e John non voleva di certo farlo attendere.
Quando lo avvistò, il suo vecchio amico stava leggendo distrattamente una copia del Whashington Post. Dovette percepire di essere osservato, perché improvvisamente chiuse il giornale e guardò dritto dalla sua parte. «John Watson!» Lestrade sorrise. «Vi ricordavo più alto».
«Sono contento di rivedervi, Gregson». Si sedette al suo tavolo e chiese a un cameriere che gli venisse servita una tazza di te. «È incredibile, vero? Le coincidenze della vita!»
«Io non credo nelle coincidenze, amico mio. È merito del Destino se voi e io ci siamo ritrovati su questo treno». L’espressione maliziosa sul volto di Lestrade mise John in allarme. Aveva capito dove volesse andare a parare e no, questa volta non si sarebbe fatto coinvolgere.
«Fatemi indovinare: non è un viaggio di piacere».
«Temo di no».
«E l’unica ragione per cui non me l’avete detto prima è che avevate in mente di tirarmi dentro a questa faccenda sin dall’inizio».
Il sorriso sul viso del vecchio Greg si allargò. «Precisamente. So che dal vivo non rifiutereste mai».
«Che diamine, Greg, sto andando a Sacramento per il matrimonio di mia sorella!»
Menzionare Harriet gli fece tornare in mente l’incontro con quello strano uomo sulla banchina. Chissà se si sarebbero rincontrati. Fu questione di un attimo, perché Gregson aveva ripreso a parlare.
«Abbiamo catturato uno dei suoi e siamo riusciti a farlo cantare come un uccellino. Il vecchio Charles entrerà in possesso di un carico di diamanti tra quattro giorni e tre notti a Sacramento. Grazie all’informatore, abbiamo ottime ragioni di credere che i diamanti si trovino a bordo di questo treno. Purtroppo non conosciamo l’identità del corriere».
Diamanti, un classico.
John giurava di avere smesso. Dopo quell’incidente nei pressi del Canyon, quello in cui per poco non ci aveva rimesso la gamba, aveva deciso che da quel momento i banditi sarebbero stati il problema di qualcun altro. Per cinque anni era riuscito a mantenere il proposito; aveva aperto un suo studio, era diventato un medico piuttosto bravo e aveva addirittura frequentato delle donne. Aveva quasi iniziato ad apprezzare la sua vita lontana dal Midwest, fino a quando non era arrivato il telegrafo di Lestrade.
Aveva fissato un incontro fingendo di non sapere nulla, quando in realtà aveva già capito.
Il problema era che John Watson amava il suo vecchio lavoro.
«Mi serve il vostro aiuto, John. Come ai vecchi tempi».
John Watson non si fece pregare.
Perquisire tutti i bagagli sarebbe stato controproducente: non avrebbero trovato il bottino e si sarebbero fatti scoprire. No, i due cacciatori di taglie avrebbero dovuto essere molto discreti.
«Conosciamo Magnussen» commentò John, «potrebbe trattarsi di chiunque».
 
 
Il capostazione richiamò per l’ultima volta i passeggeri diretti in direzione Sacramento. Sarebbero partiti prima, spiegò a una giovane donna, per cercare di recuperare un po’ del ritardo che si era accumulato. La ragazza ascoltava distrattamente, facendo vagare lo sguardo tra i passeggeri ritardatari che si accingevano a salire sul treno. Il capostazione stava ancora parlando, quando lei si allontanò. I facchini stavano trasportando le loro valige a bordo, sotto gli occhi attenti della sua amica. La ragazza si affrettò a raggiungerla, leggermente a corto di fiato.
«Non li ho visti» disse distrattamente, come se stesse parlando del tempo. Il caldo era veramente infernale.
«Saranno già saliti» fu la risposta. «Li conosco, quei due, sempre dannatamente puntuali».
«Quindi è tutto secondo i piani?»
«Assolutamente».
 
 
Il treno lasciò la stazione di Omaha con un ritardo di trentacinque minuti. Se Dio voleva, in quattro giorni avrebbe raggiunto la California.
Era il quattordici giugno 1875.

 

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Capitolo 2
*** In cui inizia a fare caldo ***






CAPITOLO DUE:  in cui inizia a fare caldo

 
 

Anche tempo dopo, John Watson non avrebbe saputo dire come fosse finito in quella situazione.
Era sempre stato quello previdente, lui. Alcuni suoi conoscenti avrebbero probabilmente scelto la parola “catastrofico”, ma il senso era quello. Gli piaceva dare consigli e fare previsioni; gli altri però non sempre lo ascoltavano ed era un peccato - la maggior parte delle volte John aveva ragione.
Aveva trascorso abbastanza nottate nel deserto da non doversi più lamentare per il resto della vita,  soprattutto del cibo, ma i piatti serviti dal vagone ristorante erano ben al di sotto della soglia del mangiabile. I passeggeri si scambiavano occhiate allarmate alla vista delle portate e i camerieri si defilavano abilmente per sfuggire alle eventuali domande.
Gregson Lestrade, al contrario, sembrava divorare qualsiasi cosa gli capitasse nel piatto e inizialmente il dottore aveva ammirato il suo coraggio. Dopotutto la sua, di cena, era stata a base di pane. Quando però era stata servita quella che spacciavano per una vellutata di piselli, non aveva saputo trattenersi.
«Greg, io, quella, non la mangerei».
«Mh?» John aveva indicato gli inquietanti corpi arancioni che galleggiavano nella vellutata.
«Suvvia, John, saranno carote».
Le proverbiali ultime parole famose.
Dopo circa mezzoretta Gregson Lestrade aveva assunto un colorito allarmante. Prima che venisse servito il dolce, aveva annunciato di dover usare urgentemente la toilette, ci era rimasto per un quarto d’ora di orologio e poi si era rintanato nella sua cabina. John Watson era rimasto solo con i suoi pensieri.
Non per molto, comunque.
 
 
 
 
Sherlock Holmes aveva fatto un viaggetto al vagone ristorante perché non ne poteva più della vicinanza di Mycroft. Incredibilmente suo fratello aveva dichiarato di non avere fame: detestava mescolarsi con la massa anche più di Sherlock e, per una volta, era stata una benedizione. Se avesse immaginato la piega che avrebbe preso la serata, probabilmente si sarebbe chiuso a chiave nella sua cabina. O forse no.
Era entrato. L’odore di cibo scadente l’aveva infastidito così tanto che per un po’ aveva accarezzato l’idea di girare sui tacchi e andarsene. Ma solo per un po’.
Era entrato. Era stato lì lì per andarsene. Proprio all’ultimo secondo aveva visto l’uomo dell’orologio. Sedeva solo a un tavolo sulla destra, proprio dietro a una fetta di torta giallognola ancora intatta. Aveva sollevato la testa al momento giusto e i loro sguardi si erano incrociati.
 
Era sempre stato quello riservato, lui. Suo fratello avrebbe scelto la parola “sociopatico”, ma il senso più o meno era quello. Gli dava sui nervi il genere umano e la sua stupidità e mai e poi mai avrebbe iniziato spontaneamente la conversazione con uno sconosciuto. Difatti non lo fece neanche quella sera, ma si limitò a dare inizio alla serie di fortunate coincidenze. In seguito avrebbe giurato di essersi limitato a passare accanto al tavolo dell’uomo con l’orologio in finto argento. Di fatto capitò nei pressi del summenzionato tavolo, si bloccò, infilò le mani nelle tasche del giaccone e prese a fissare con intensità l’essere umano alla sua destra. Quest’ultimo lasciò passare un lasso di tempo a dir poco imbarazzante prima di accorgersene, per poi accogliere Sherlock con un brillante “anche voi qui?”.
«Mi pare sia l’unico vagone ristorante del treno» osservò Sherlock.
«Oh» rispose questi, in un altro colpo di acume.
«Esatto».
«Sono John Watson». L’uomo gli tese la mano, con un sorriso sincero che gli fece quasi pena. La osservò. Avrebbe dovuto stringerla, lo sapeva, era la prima regola della convivenza sociale. E lo fece. La stretta durò un po’ più del necessario, ma servì a rassicurare John Watson.
«Siete solo anche voi?»
«Sì».
«Allora perché non vi sedete qui? Non aspetto nessun altro».
 
 
Qualcuno chiuse la porta del 2219B con due mandate di chiave. Una coppia di respiri affannati, di corpi accaldati, di parole sprecate. Solo una notte.
L’aveva mai fatto su un treno? No? Non sapeva cosa si perdeva. Ne valeva la pena, assolutamente.
Diceva sul serio?
Certo che sì. Voleva provare?
Che ridere, non sapeva proprio con chi avesse a che fare.
Le parole non servivano. Anzi, se stavano zitti era anche meglio.
Molto meglio.
Già che c’erano, però, poteva fargli una domanda?
Tutto quello che voleva.
Benissimo. Dov’erano nascosti i diamanti?
 
 
 
Il newyorkese del tavolo a fianco si era portato dietro un mazzo di carte. Nessuno avrebbe saputo dire come, ma finirono tutti a giocare a poker. L’uomo della banchina, che a quanto pare si chiamava Sherlock, stava stravincendo. Il suo viso non mostrava la benché minima espressione e probabilmente era in grado di leggere nel pensiero, perché era impossibile che riuscisse a vincere anche con carte oggettivamente pessime. Però ci riusciva. John aveva sempre fatto schifo a poker, quindi vedeva sempre di ritirarsi il prima possibile. Sua sorella gli avrebbe sicuramente dato del codardo. Dopotutto, lei lo batteva da quando aveva dodici anni. Tale strategia, seppur vigliacca, gli aveva dato modo di osservare meglio il comportamento di Sherlock Holmes.
Aumentava la posta in gioco solo se costretto, scrutava le mani dei suoi avversari e non emetteva suono. Ogni tanto perdeva di proposito la partita, tanto per non destare sospetti, ma si rifaceva sempre alla mano successiva. Imbrogliava? Era l’uomo più fortunato del globo? O era semplicemente bravissimo? John non avrebbe saputo dirlo. Sta di fatto che nel giro di un’ora rimasero tutti al verde, perciò il piccolo gruppetto iniziò a dileguarsi. Dopo una sfilza di scuse poco credibili, al tavolo c’erano solo loro due.
John moriva dalla voglia di sapere di più sul suo conto, ma strappargli delle informazioni sembrava quasi impossibile. Lui, d’altro canto, finì per raccontare la storia della sua vita. Gli parlò di Harriet, del matrimonio imminente, delle pochissime volte in cui aveva incontrato il futuro cognato, dell’impiego come medico, della sua passione segreta per la scrittura, di come gli sarebbe piaciuto lavorare in un giornale. Omise soltanto il suo passato da cacciatore di taglie, perché ricordare l’avrebbe sicuramente messo di cattivo umore e John non voleva. Stava bene. Quella sera, su quel treno, dopo del cibo pessimo e un’infinità di partite a poker perse, John Watson si sentiva bene.
Sherlock parlava poco. Era difficile capire cosa gli passasse per la testa, difficilissimo, ma ogni tanto gli occhi chiari tradivano qualcosa. Stupore? Tristezza? Meraviglia? Nostalgia? Non era sicuro.
Il cameriere continuava a servire vino e lui a parlare. Intanto il tempo passava.
Finirono per alzarsi, un po’ barcollanti, un po’ spaesati, assurdamente allegri. Attraversarono il vagone ristorante diretti verso le rispettive cabine, che scoprirono essere vicine.
Quando si trovarono sullo spazio aperto che collegava i due vagoni, John fu colto da un capogiro.
Cercò di aggrapparsi alla ringhiera, la mancò e finì contro Sherlock. Quest’ultimo un po’ non se l’aspettava e un po’ era instabile di suo, perciò barcollò all’indietro, rischiando di cadere.
Il vento fece volare via il suo ridicolo cappellino.
Rimasero fermi a fissarsi intensamente, ubriachi, storditi, sorpresi, nella notte.
Viaggiavano sulla ferrovia Transcontinentale, erano un cacciatore di taglie e un bandito, entrambi lì per una ragione ben precisa. Ma mica lo sapevano.
Assurdamente, Sherlock Holmes scoppiò a ridere.
Era una risata assurda, profonda, John era sicuro di non aver mai sentito un suono simile in vita sua. Sarà anche stato ubriaco, ma gli piacque. Parecchio.
 
Finirono nella cabina del dottore. Le labbra di Sherlock Holmes contro le sue erano come fuoco. Bruciavano, lo bramavano, lo affascinavano e lo intimorivano nello stesso momento. Lo esploravano come non gli era mai successo prima e diamine quanto era bello.
 


Le labbra di Sherlock Holmes erano come fiamme.
Le stesse fiamme che divampavano in una cabina poco più in là, al 218B. Nel giro di un’oretta, l’odore di bruciato avrebbe allarmato qualcuno.
La mattina seguente uno dei tirapiedi di Mycroft sarebbe stato trovato impiccato al lampadario, tra le ceneri.
 
Quella notte però esistevano solo loro.
 
 


 

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