Sometimes Bad Guys Are The Only Good Guys You Get.

di Mayth
(/viewuser.php?uid=660321)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Level 1: what the fuck are you doing? ***
Capitolo 2: *** Level 2: what the fuck am I doing? ***



Capitolo 1
*** Level 1: what the fuck are you doing? ***


Erik Magnus Lehnsherr è assolutamente certo di essere il miglior incidente che possa accadere a qualunque essere umano sulla faccia della terra. Charles ha un ego tanto grande da poter rivaleggiare, ma la sua esasperazione non ha eguali.
[ cherik; from friendship to love; sorry not sorry ]

 
*
 
Level 1: what the fuck are you doing.
 
Ci sono quel genere di persone, a questo mondo, che molto diligentemente si scelgono i propri amici, e altrettanto diligentemente allontanano chi su quel nome si fa una grossa risata — vuoi per errore, vuoi perché posseggono un’insensata necessità di autodistruzione intrinseca nel DNA, — comunque non ha importanza, queste persone portano rispetto verso se stesse e non permettono a nessuno di rovinare la loro boriosa quotidianità. E poi c’è Charles Francis Xavier. Alle tre del mattino o poco più, con ancora la camicia del pigiama a righe blu e bianche sotto una felpa troppo larga di Cambridge, un paio di pantaloni sgualciti – trovati al momento nell’armadio – e le scarpe non allacciate, che corre a perdifiato lungo le vie trafficate di New York e impreca mentalmente, tanto che nella tomba sua madre si starà rigirando su se stessa in preda ad una disperazione tale da trascendere le linee del mondo dei morti con quelle dei vivi. C’è Charles, che di amicizia ne coltiva una soltanto ed è probabilmente la peggiore che si sia mai vista sulla faccia dell’universo. Credetegli, lui e il suo migliore amico sono come cane e gatto, e non si parla di quelle coppie di cagnolini e gattini che si appisolano l’uno al fianco dell’altro e si leccano a vicenda il pelo sudicio; no, si parla di quelle coppie di maledetti diavoli che mettono a soqquadro l’intero quartiere rincorrendosi per ore – e si dice ore intendendo settimane di lunghi litigi e sedie lanciate contro un muro – per finire in seguito senza più aria in corpo e con l’ultima, inevitabile opzione di dover sventolare per il momento bandiera bianca. Per il momento. Quella è la parola magica.
 
Non equivocate. Se Charles lo ha chiamato migliore amico una buona ragione ci sarà. Se gli permette di entrare in casa sua indisturbato, di mangiare il cibo che tiene nel frigorifero, di prendere tutti i DVD che desidera e di sprofondare quel suo maledetto culo che si ritrova sul suo divano per settimane, una buonissima ragione ci sarà. Solo che a questa buona ragione talvolta piace giocare a nascondino e in situazioni come queste, in cui corre per le strade sicuro che l’indomani morirà di broncopolmonite nei migliori dei casi, ecco, è in queste situazioni che Charles vorrebbe rivalutare le sue scelte di vita e cancellare un certo Erik Magnus Lehnsherr dai suoi imprevisti divenuti consuetudine.
 
Si lancia sulla destra per superare il retro di un ristorante cinese dalle insegne funzionanti per metà e sbuca dal lato opposto dove un drappo di macchine della polizia sosta di fronte ad un pub. Vede Erik accartocciare la fronte e fulminare con lo sguardo un tizio in uniforme. Se fosse una di quelle persone tanto intelligenti, Charles girerebbe i tacchi e se ne tornerebbe a casa, in pace nel suo letto, protetto dal calore delle lenzuola al sapore di lavanda. Purtroppo vede il suo corpo avanzare nonostante le proteste, e una volta che Erik alza lo sguardo sa che il sogno di ritornare fra quattro mura e sotto un tetto è decisamente un’utopia. Ruota gli occhi. Erik osserva le sue falconate con aria di sfida.
 
“Che diamine hai fatto questa volta?”
 
Dice questa volta perché dovete conoscere un particolare piuttosto rilevante di Erik Magnus Lehnsherr. Erik Magnus Lehnsherr è il re indiscusso del ficcarsi nei casini, e non si parla di sfiga, no, lui se li va proprio a cercare, con insistenza quasi, e se non ne trova se li fabbrica da sé. Una volta rivelò a Charles che questa sua attitudine aveva tutto a che fare con l’adrenalina, necessitava di spaccare cose, nasi di persone, vetrine di negozi; e quando ciò non bastava allora si sfogava con lui. Forse è per questo che Erik non considera la loro amicizia un’amicizia, bensì un’inimicizia. Uno la nemesi dell’altro. Eppure una nemesi non si presenterebbe alle tre del mattino per passare sottobanco qualche banconota da cento ai poliziotti e fare in modo che la sua nemesi non trascorra in prigione la notte. Un’altra volta. Ma cosa dovrebbe saperne Charles di amicizia? O di avere una nemesi, davvero.
 
“Che tu mi creda o no, Charles, e punto tutti i miei risparmi sulla seconda opzione, non ho incominciato io questa volta.”
 
“Sì, ma che diamine hai fatto?”
 
Lo prende per una manica e lo trascina lontano dal pub. Il proprietario sta con le braccia piegate al petto di fronte all’entrata e li guarda come i ratti della società che in quel momento sono. Charles alza una mano per salutarlo, il vecchio Billy, ma lui digrigna i denti e gli gira le spalle per poi entrare in quella bettola che chiama bar. Non vale mezza cicca come persona, si dice, non è una perdita sostanziale.
 
Al suo fianco, Erik riacquista un volto neutrale. Solleva le spalle e abbassa gli angoli della bocca, come per dire: “Neanche me lo ricordo più, perciò non ha importanza.”
 
Charles insiste con un’occhiataccia muta alla Xavier. Tranquilli, imparerete a conoscere i suoi effetti immediati.
 
“Mi ha chiamato mutante,” risponde allora Erik. “E parlando di te ti ha chiamato gay.”
 
“Ma Erik-” il suo sguardo si fa vacuo, “tu sei un mutante. E io sono gay.”
 
“Lo so. Non mi piaceva il tono con cui lo aveva detto.”
 
È un po’ questo che dovete capire di Erik. Prende tutto come una sfida. Charles è quasi certo che la scazzottata avrebbe potuto risolversi con una buona chiacchierata e una stretta di mano, ma per Erik non ci sono vie di mezzo. O è nero o è bianco. Le pedine grigie stanno solo nella fantasia.
 
Ah, ma bisogna rivelare un dettaglio estremamente fondamentale, vitale, quasi: Charles ed Erik sono mutanti. Charles, Erik e qualche altra manciata di miliardi di persone sono mutanti.
 
A un certo punto della loro vita un gene X ha visto bene di attivarsi ed ora eccoci qui, Charles telepate ed Erik il Master of Magnetism, come molto poco egocentricamente si è rinominato. Insomma, governa le leggi fondamentali dell’elettromagnetismo, e per le persone che non hanno afferrato, beh, muove il metallo.  Ma non cercate mai di spiegare i suoi poteri così, s’incazza come un toro da corrida.
 
Continuando a seguire questo flusso di pensieri sull’essenzialità delle loro persone, Charles dirige Erik verso le scale della metropolitana. Lui fischietta una di quelle sue canzoni heavy metal che ascolta sempre a volumi inimmaginabili con l’I-pod, cammina a tempo di musica e dondola di qua e di là il capo, noncurante dell’esasperazione che Charles prova nei suoi confronti per averlo chiamato alle tre maledette ore del mattino e con una voce piatta e funzionale avergli detto: “Mi vogliono mettere in prigione”.
 
Ditegli poi se il desiderio di trasferirsi su Marte di Charles non è del tutto legittimo.
 
“Pensa,” dice Charles mentre ignora lui che lo ignora. “Quando sarò vecchio potrò ridere su queste situazioni e più precisamente su di te. Mi dirò: oh sì Lehnsherr, ah-ah, me lo ricordo bene. È da tempo che la mia vita tranquilla e monotonamente pacifica non viene interrotta da arresti, accuse di vandalismo o poliziotti sullo stipite della porta che mi chiedono non garbatamente se sto nascondendo il fuggitivo Erik Lehnsherr nella camera degli ospiti.
 
“Quella volta non mentisti. Non ero nascosto nella camera degli ospiti ma in camera tua.”
 
“Non è questo il punto-” si passa umano sul volto, poi fra i capelli. Esasperazione, vi dico io, ma quello che Charles prova ogni qualvolta che viene confrontato con le cazzate che Erik mette in atto è di tutto un altro livello. Non lo hanno ancora inventato il vocabolo che spieghi alla perfezione l’irritazione, la rabbia, lo sconforto, la tristezza, l’amarezza, la consapevolezza che nulla cambierà perché tanto lo perdonerà sempre e lo sdegno che prova. “È notte inoltrata, domani ho l’università, potresti anche chiedere scusa.”
 
Erik lo guarda, alza gli angoli della bocca, alza le mani e dice: “Scusa”.
 
Beffa, signori e signore, è il suo terzo nome.
 
*
 
Alle proteste di Erik di voler tornare nel suo appartamento Charles non risponde. Lui lo segue, avendo bevuto pinte di birra a partire dalle dieci di sera quel poco di cervello rimastogli conviene con lui che tornare a casa da soli è del tutto fuori luogo. Arrivati al palazzo dove alloggia Charles lo guarda traballare sugli scalini d’entrata per poi richiamare con un gesto volativo della mano l’ascensore. Mentalmente Charles lo ringrazia per far funzionare le cose ad un ritmo molto più veloce, di fronte a lui però continua a sfoggiare un’aria annoiata. Erik è quell’essere tanto intelligente da non biascicare discorsi da ubriachi, appoggia la testa sulla superficie fredda dell’abitacolo e lascia che il movimento metallico dell’ascensore lo culli fino a destinazione. Charles s’insinua fra le pieghe della sua mente e fa altrettanto. Una volta arrivati al piano prestabilito lo prende sottobraccio e lo trasporta, finché entrambi non raggiungono il divano.
 
“Smaltisci qua la sbornia. Il bicchiere di acqua e la pastiglia per la testa sono sul comodino alla tua destra, non vomitare sulla moquette ma corri in bagno e cerca di non fare rumore, voglio dormire”.
 
Non fa neanche in tempo a voltarsi, che Erik già russa, la bocca aperta e un rivolo di saliva che gli scende sul mento. Disgustato, Charles storce il naso.
 
C’è una parte di Erik che tutti conoscono, ed è la parte regale che mostra ad ognuno indiscriminatamente e che manifesta in lui il leader mutante della sua generazione. Poi ci sono i rimasugli di personalità, quella vera, quella che compare una volta arrivato a casa e che sai ti rappresenta davvero, quella che fuoriesce quando sei da solo o con persone che non ti giudicheranno, tanto poco perfette anche loro, e che dimostra un lato di te del tutto umano. Ad Erik piace cucinare, piace leggere, piace il fuoco che scoppietta nel camino, gli piacciono i film di Gorge Clooney e i popcorn molto salati. Passa le domenica a guardare i documentari registrati della National Geographic e gli occhi dei pesci morti gli fanno impressione.
 
Charles sa tutto questo, e probabilmente è l’unico al mondo.  
 
*
 
L’indomani mattina si sveglia con un macigno di spossatezza che gli pesa sulle spalle. Dalla stanza affianco sente che qualcosa sta andando sui fornelli. Forse è il suo cervello ad andare sui fornelli. Quando si alza e attraversa il salotto per arrivare in cucina Erik è più o meno sulla sua stessa lunghezza d’onda. Ha fatto il caffè e i pancake. Cerca di togliersi dalla bocca il saporaccio causato dai postumi col super amaro e il super dolce. Charles lo guarda apparecchiare la tavola, vede le sue occhiaie e sorride fra sé e sé, si avvicina e si siede, per nulla incline ad aiutare. Erik gli lancia uno dei suoi sguardi semi infuriati ma che in realtà non vogliono dire proprio nulla quando si tratta di Charles. Lui gli apostrofa un grazie con le labbra e si versa una copiosa quantità di caffè nella tazza. E, oh, è la sua tazza preferita, quella che quando ci versi qualcosa di caldo la batteria disegnata sulla superficie si carica.  
 
“Come funziona la testa?” chiede quando anche i pancake arrivano ad ornare la tavola.
 
Erik lo guarda.
 
Erik alza un sopracciglio e lo guarda.
 
“Non ti aiuterò a farlo passare coi miei poteri. Questa è la tua punizione.”
 
Erik continua a guardarlo.
 
“Chi rompe paga,” dice. “Hai voluto la bicicletta e ora pedala.”
 
“Se vuoi mi metto a rompere cose in casa tua e a farmi un giro in bicicletta nel tuo salotto.”
 
Ecco, ragione numero mille e cinque sul perché non si dovrebbe essere amici di Erik: il. Suo. Maledetto. Sarcasmo.
 
“Puoi restare qua fin quanto desideri, una regola: non disturbare i vicini.”
 
Erik si limita a sbuffare e andare in bagno. Charles mangia con gusto la sua colazione e mentalmente ripassa la lezione scorsa sull’ingegneria genetica. Si appunta di dover comprare il giornale non appena uscito e di comprare i sacchi della spazzatura una volta tornato dall’università. La sua lista to do s’interrompe, con suo nervosismo, a causa dei bip insistenti che Erik riceve sul cellulare abbandonato affianco al piatto.
 
Allunga la mano e lo afferra. Non perché generalmente gl’interessi farsi gli affari suoi, anzi, onestamente preserverebbe meglio la sua sanità se di Erik conoscesse il meno possibile, tuttavia la curiosità è una brutta bestia. Ed è la sua bestia.
 
Quando Charles raccontava di non avere amici se non Erik, sottintendeva che anche Erik non avesse amici se non Charles. Nessuno scrive ad Erik. Nessuno vuole uscire con Erik. Ci sono persone che lo rispettano, ma nessuna persona sana di mente intratterrebbe con lui un qualsivoglia rapporto stretto. Tranne Charles, s’intende. Quindi nessuno mai gli scrive. E nessuno gli scriverebbe, soprattutto al mattino.
 
Tranne, a quanto pare, una persona.
 
Tranne, l’ultima persona al mondo che Charles vorrebbe scrivesse ad Erik.
 
Tranne lei.
 
“Erik…” dice nel sentirlo tornare dal bagno. Erik non arriva fino al tavolo, si ferma a qualche metro di distanza dalla sua schiena. “Erik.” Ripete nuovamente.
 
“Cosa fai col mio telefono in mano.” Soffia lui fra i denti.
 
Charles si gira di scatto, legge: “Come si è concluso il tuo geniale piano di ieri sera? Se non mi rispondi sei stato arrestato, se mi rispondi suppongo che Charles ti abbia nuovamente salvato il culo. – Raven.” Fa un attimo di pausa.
 
Inspira.
 
Espira.
 
Chiede: “Raven?”
 
Erik si allunga e gli sfila il telefono di mano. Non sblocca lo schermo, non risponde al messaggio. Lo fissa semplicemente negli occhi attendendo qualcosa – qualcosa che neanche Charles sa.
 
“Raven.” Ripete. La rabbia tangibile.
 
“Raven,” dice lui con calma. “Tua sorella.”
 
“Mia sorella?”
 
“Non fare l’idiota, Charles. Ti si addice solo per metà.”
 
“Da quanto tempo? No, aspetta, conoscendoti da sempre. Sono sei mesi che non parlo con mia sorella, sono sei mesi che mi sveglio col groppo in gola al pensiero di lei partita con nulla in mano, niente soldi, nessuna possibilità. Ha lasciato la scuola e se ne è andata. E io, preoccupato, la chiamo invano, la cerco invano, senza sapere che tu – tu, Erik – messaggi con lei da mesi!” non gli interessa di avere il volto rosso, gli occhi lucidi, punta un dito contro il petto di Erik e grida: “Dammi il suo numero di telefono, ora.
 
“No.”
 
“No?”
 
“Mi ha fatto promettere di non dartelo.”
 
“È mia sorella-” sibila Charles.
 
“Sarà,” alza le spalle Erik, “Non significa che sia di tua proprietà.”
 
“Potrebbe essere ovunque. Con chiunque. Dio, Erik, non riesci a vedere la gravità delle sue azioni? Lei è una mia responsabilità.”
 
“Ne parli come se fosse un dovere, uno dei tanti lavori che devi assolvere,” Charles lo vede fare un lungo sospiro e vorrebbe lanciargli i suoi stramaledetti pancake dritti in faccia, ma si ferma. Lo ascolta. “Senti,” continua Erik. “Lei sta bene. Me ne sono accertato. È fantastica, proprio come dicevi tu. Se la sa cavare da sola e sta vivendo la sua vita. Cerca di essere comprensivo.”
 
“Comprensivo,” lo sbertuccia Charles. Erik continua a guardarlo dall’alto in basso.
 
“Sai che non ti permetterò di contattarla. Fattene una ragione.”
 
Si guardano negli occhi per un’infinità di secondi, l’uno lo specchio della rabbia dell’altro. Charles alza un braccio e poi gli indica la porta d’uscita.
 
“Vattene.” È l’ultima cosa che pronuncia prima di barricarsi in camera e aspettare di sentire la porta dell’appartamento chiudersi alle spalle di Erik.
 
*
 
Erik Magnus Lehnsherr è la cosa peggiore che potesse mai essere capitata a Charles Francis Xavier.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Level 2: what the fuck am I doing? ***


Level 2: what the fuck am I doing.
 
Charles si sveglia in uno di quei giorni post milionesima litigata con quel fenomeno di Lehnsherr e la prima cosa che vede nell’aprire un occhio al suono della sveglia è una bottiglia di scotch ai piedi del letto. La consapevolezza che sia vuota è rafforzata dall’opprimente martello che gli pressa le tempie. Sono passate circa due settimane dall’ultima volta che ha visto Erik — e il fatto che ci pensi di primo mattino non significa che ne percepisca la mancanza, tutt’altro, è in realtà la spiegazione del come sia riuscito a concludere in tempo un lavoro di università, a ritagliarsi un momento per una corsa in biblioteca e a isolare un po’ di ore al fine di aprire l’armadietto degli alcolici e festeggiare una nuova puntata di Game of Thrones.
 
Se Erik fosse stato presente negli ultimi quattordici giorni, probabilmente avrebbero trascorso ore a discutere ­— o a designare il vincitore della disputa giocando a carte o a scacchi o, in assenza di questi, a qualsivoglia gioco motociclistico per piattaforma digitale, malgrado l’idea di amalgamarsi con le abitudini di un qualunque adolescente sulla faccia del pianeta provochi ad entrambi un lieve senso di nausea.
 
Fate attenzione, però, non c’è nulla di amichevole nel cercare di porre fine ad un litigio coi metodi sopracitati, non quando a praticarli sono Charles ed Erik. Non quando a praticarli sono quelli stessi Charles ed Erik che a causa di una partita a poker, con la quale si sarebbe dovuto enunciare chi avesse ragione in relazione all’utilizzo di soppressori per ragazzi mutanti incapaci di controllare il loro potere, una volta finirono al pronto soccorso con un occhio nero e un naso rotto. In conclusione, se volete saperlo, avevano dichiarato parità, sicuri che prima o poi — molto prima che poi — avrebbero riportato a galla il problema e la partita a poker inconclusa.
 
In virtù di ciò, Charles è felice che Erik non si sia fatto vivo a seguito di quanto accaduto, o non è accaduto, con Raven, e che abbia preferito rinchiudersi in uno sdegnato mutismo, sicuro di sé e delle proprie ragioni, permettendo a Charles di godersi la pace della calma e del silenzio.
 
Oltretutto, non è come se questa sia la prima volta in cui Charles ed Erik non si parlano per settimane — che ben presto saranno mesi — e nel silenzio abbiano entrambi deciso che la loro non amicizia si sia definitivamente conclusa. Fine. Stop. Charles, all’alba dei suoi diciannove anni e qualche mese, è decisamente grande abbastanza per chiudere una relazione a beneficio del proprio benessere psicofisico.
 
Una volta sua madre gli aveva detto, un giorno in cui Charles era particolarmente infastidito a seguito di un diverbio con Raven: “Le persone ti abbandonano e ti tradiscono,” con un tono di voce sfumato in parte dal vino, in parte da un dolore profondo. “Puoi solo alzare il mento e tenere il passo.”
 
Charles, forse perché nato in una famiglia in cui aveva sempre avuto tutto e allo stesso tempo niente, aveva sollevato un sopracciglio e detto: “O affogare nell’alcol e cercare di dimenticare i problemi. Come sta andando per te, madre?” Sua madre aveva alzato un braccio e gli aveva piantato uno schiaffo su una guancia. Lui si era voltato con gli occhi colmi di lacrime più per la vergogna che per altro, e lei aveva aggiunto: “Si va avanti, Charles. Tutti noi lo facciamo.”
 
Eccetto che Charles ha sempre avuto problemi con l’andare avanti.
 
Eccetto che Charles ha sempre avuto problemi con l’essere solo.
 
In particolare, Charles ha sempre avuto problemi con l’andare avanti in solitudine, e potrebbe sembrare un paradosso, certo, in quanto una grande porzione della sua vita è composta da lui soltanto e una pila di libri filosofici.
 
E per quanto disprezzi, nonostante lo trovi comprensibile, il metodo di sua madre, tutto quel che può fare per non piangersi addosso in questo momento, con un non-amico del cazzo e una sorella scomparsa, è catapultarsi sul lavoro, e in mancanza di esso sull’alcol.  
 
Il suono della sveglia si ripete. Perché le sveglie sono invenzioni orribili, che competono con l’esistenza delle zanzare, e se non pigi immediatamente il pulsante o non scorri il dito sullo schermo, allora queste continuano a trillare fra una pausa di dieci minuti e l’altra. Invenzioni davvero, davvero tremende. Charles si allunga e pianta una mano sul suo cellulare, spegnendo il suono con meno grazia possibile. Si trascina giù dal letto come un cadavere, raggiunge la macchinetta del caffè e osserva il liquido pece calare nella propria tazza. Il primo sorso è vera e pura salvezza disciolta. Si lancia sul divano coi piedi che penzolano oltre al bracciolo, la testa ben incastonata fra due cuscini che non ricorda di aver comprato, sennonché, mettendoci un po’ di buona volontà, rammenterebbe che è stato Erik, diversi anni prima, a procurarseli e ad abbandonarli là per comodità personale.
 
Accende la televisione con l’intenzione di passare un buon pomeriggio di ozio. Un sorriso gli decora la faccia.
 
*
 
Ovviamente, nulla va secondo i piani.
 
Perché nulla va mai secondo i piani, se di nome fai Charles Xavier.
 
E nulla va mai secondo i piani, se il tuo non migliore amico di nome fa Erik Lehnsherr.
 
*
 
“Per l’amor del cielo, accendi il telefono e richiamami!”
— Voicemail sent to Erik Lehnsherr, Tuesday, April 4, 2016, 02:13 P.M.
_
 
CFX: Pronto?
 
EML: (Incomprensibile)
 
CFX: Erik? Puoi sentirmi?
 
EML: Charles?
 
CFX: Finalmente ti sei degnato di accendere il telefono.
 
EML: Non è il momento, Charles.
 
CFX: Non è mai il momento. Non so neanche perché mi sono preso la briga di chiamarti, quando evidentemente non serve a nulla parlare con te. Che cosa stai facendo?  
 
EML: Aspetto che si calmino le acque.
 
CFX: Per un problema come te non si calmeranno mai le acque.
 
EML: Adesso è questo che sono, un problema?
 
CFX: Voglio dire, sei su tutti i telegiornali, Erik.
 
EML: Quanto credi che ci vorrà prima che questa storia diventi solo una barzelletta?
 
CFX: Non so, non credo ti abbiano preso seriamente. Dove sei, comunque?
 
EML: (Incomprensibile) – in fondo ci sono miliardi di mutanti. Perché dovrei essere sospettato proprio io? (Incomprensibile).
 
CFX: Cosa sono tutti questi rumori di sottofondo?
 
EML: Ho bisogno di un posto dove stare. (Incomprensibile).
 
CFX: Erik?
 
EML: Ah, sai dove trovarmi.
 
(FINE CHIAMATA)
_
 
Edizione straordinaria del telegiornale. Trascrizione di una chiamata al 911 da parte di Julie Smith, 4 Aprile 2016.
 
911: 911, qual è l’emergenza?
 
Smith: C’è una macchina volante.
 
911: Come, scusi?
 
Smith: C’è una macchina volante. Una macchina che vola in cielo, le dico!
 
911: Una macchina — volante?
 
Smith: Sì, una macchina. In cielo.
 
911: Signora, è cosciente del fatto che gli scherzi telefonici al 911 sono punibili per legge?
 
Smith: Non è uno scherzo telefonico! Per chi mi ha preso, non mi permetterei mai. Una macchina che vola, le dico. Sono uscita a prendere la crostata che avevo lasciato a raffreddare sul davanzale della finestra e poi l’ho vista, proprio lì, sulla mia testa, qualche metro più in alto del tetto di casa mia. Una macchina!
 
911: Signora, qualcuno è ferito? Lei sta bene?
 
Smith: Ferito? No, no.
 
911: Sta chiamando per denunciare un incendio? Il fumo causato da un incendio potrebbe originare delle allucinazioni— oppure… che cosa ha ingerito nelle ultime ventiquattro ore?
 
Smith: Cosa? No, non sto chiamando per un incendio! Sto chiamando perché c’è una stramaledetta macchina volante. E, per l’amor di Dio, non sono fatta!
 
911: Mi scusi signora, a questo punto non saprei come aiutarla. Le consiglio di chiamare il dipartimento di polizia locale e denunciare l’accaduto se necessita dell’assistenza della polizia.
 
Smith: Oddio, ma cosa possono fare? Non bisognerebbe chiamare l’FBI, la CIA? No, io-
 
911: Signora?
 
Smith: No, guardi, non si preoccupi, devo essermi sbagliata. Sarà stato un aeroplano!
 
(FINE CHIAMATA)[1]
_
 
(02.43 PM)
Una macchina volante! CFX
 
(02:51 PM)
Cosa posso dire? Sono abile con la fantasia. EML
 
(02:51 PM)
Ti odio ancora di più di quanto già non facessi prima. CFX
 
(03:03 PM)
Ed io che pensavo ti piacesse Harry Potter. EML
 
*
 
A Charles ci vogliono complessivamente otto secondi e una manciata di millesimi per decidere di raccattare un borsone, infilarci dentro qualche maglione, dei jeans e l’intimo, per poi chiudersi la porta di casa alle spalle e dirigersi a chiamare un taxi.
 
Come fa a sapere dove si trova Erik? Semplice: Erik non ha nessun posto dove andare se non casa sua, ovviamente fuori opzione, casa di Charles, che a quanto pare è troppo distante da ovunque lui sia al momento, e la villa di Charles — 1407 Graymalkin Lane, Salem Center, Westchester County, New York, — che per ora è sicuramente divenuta il suo luogo di nascondiglio.
 
Inoltre, l’immensità della villa permetterebbe a Charles d’ignorare molto più facilmente Erik, ora non solo per la questione “hai sempre saputo dove si trovasse mia sorella, ma non me lo hai mai detto”, bensì anche per essersi ubriacato e aver deciso di svolazzare con un’Audi Q5 sui tetti della gente comune, con un cartellone attaccato dietro che recitasse: humans suck. The master of magnetism rules.
 
Interiormente, Charles ride come un isterico. Se lo poteste vedere al momento, con le labbra tormentate dai morsi autoinflitti e il viso corrugato dall’esasperazione, ecco, se lo poteste vedere, lo credereste l’uomo più infuriato del pianeta. Non tanto perché Erik si sia messo nei guai, quelli, in fondo, sono affari suoi, quanto per il fatto che ad andarci di mezzo sono sempre le case di Charles ed il suo buon cuore.
 
*
 
Villa Westchester appare immacolata come lo è sempre stata durante le estati che Charles vi trascorreva con la famiglia. Il grosso cancello all’entrata, nonostante le intemperie di quell’inverno e la costante pioggia, risplende come nuovo sotto i raggi del tardo sole pomeridiano. Charles scende dal taxi e ringrazia l’autista con una generosa mancia, e percorre la via lungo l’entrata principale a grandi falconate.
 
Nel tirar fuori le chiavi dalla borsa e aprire l’imponente portone in legno, qualcosa nel suo stomaco fa uno strano balzo. Sono passati poco più di sei mesi dall’ultima volta che era stato lì, prima di iniziare il suo ultimo anno di università, e nello spazio di quei pochi giorni che lui e Raven avevano trascorso fra le vecchie mura della villa, sua sorella aveva deciso di partire e non farsi più sentire — o per lo meno, di non farsi sentire da Charles. L’ultimo ricordo che ha della casa è di lui, occhi lucidi e mani tremanti, dritto sullo stipite della porta, intendo ad ascoltare due agenti della polizia che con una scrollata di spalle dicevano: “Proveremo a fare il possibile, ma se come dice lei, signor Xavier, il mutante in questione-”
 
“Raven. Il suo nome è Raven.”
 
“Sì, ecco, la signorina Raven è un mutaforma, sarà per noi difficile rintracciarla.”
 
Charles fa un profondo respiro prima di spingere il pomello ed entrare in casa. A salutarlo c’è l’ordine ineccepibile sfoggiato grazie al lavoro della servitù. Senza troppi preamboli Charles sale le scale due a due, raggiungendo nell’ala est inizialmente la sua camera (e lì abbandonandovi il borsone), per poi attraversare il corridoio e di seguito giungere al vecchio studio di suo padre.
 
È lì che trova Erik, abbandonato su una delle due poltrone di fronte al camino spento, con una pedina degli scacchi (la regina nera, nota più tardi) che gli scorre fra le dita.
 
“Nessuno ti ha mai detto che entrare in casa di altri senza il loro permesso è illegale?” dice Charles alle sue spalle.
 
“Io sono al di sopra della legge, amico mio.” Risponde Erik con tono canzonatorio.
 
“Oh, certo, perché in virtù del tuo DNA mutante puoi compiere qualunque azione ti aggrada.”
 
“In caso di necessità.”
 
Charles raggira il tavolino in legno e si siede dirimpetto all’amico. Non alza lo sguardo per incontrare i suoi occhi, né tantomeno si preoccupa di essere ospitale e offrire qualcosa. Sua madre, nel vederlo, ne sarebbe inorridita. “Anche al tuo peggior nemico offri sempre un bicchiere di vino, Charles. L’alcol e i soldi sono i nostri migliori amici in ogni conversazione.” Diceva.
 
“E dimmi, quale necessità in particolare richiedeva le tue mirabolanti acrobazie con una macchina,” continua imperterrito Charles, per poi ripensarci e sventolare una mano. “No, lasciamo perdere.”
 
“Quello è stato-” chiarisce ugualmente Erik, e malgrado Charles non voglia vederlo, è sicuro che stia sorridendo. “Non mi trovavo nelle facoltà appropriate per rendermi conto di ciò che stavo facendo.”
 
“Ci scommetto.” Charles ruota gli occhi.
 
Un lungo silenzio satura la stanza. Charles nota un braccio di Erik entrare nel suo campo visivo e con delicatezza riappoggiare la pedina sulla scacchiera. Decide allora di alzare il mento e con lo sguardo incontrare a metà strada gli occhi di Erik. Prolungano la quiete per alcuni secondi, dopodiché, d’improvviso, come se non aspettasse altro sin dall’inizio, Erik si fa sfuggire un rantolo e scoppia a ridere. Charles si pressa una mano sul volto nel tentativo di nascondere il proprio sorriso.
 
“Dio mio, Erik. Una macchina volante.
 
“Dovevi vedere le loro facce, Charles,” continua a ghignare Erik. “Sconcertate è dir poco.”
 
“Ma come hai fatto,” chiede, una nota di ammirazione del tutto non voluta gli decora la voce. “Non pensavo ne fossi capace. Dev’essere stato un grande sforzo.”
 
Erik alza le spalle e corruccia la fronte.
 
“Non saprei,” risponde. “Non ricordo molto di quello che è successo. Non credo che in questo momento riuscirei a rifarlo.”
 
Charles esita giusto un istante prima di domandare: “Dov’è la macchina che hai rubato?”
 
Erik lo guarda.
 
Charles ricambia lo sguardo.
 
Passa ancora una manciata di secondi prima che Charles apra le braccia così da mostrare la propria esasperazione e dire infine: “Qui, Erik, davvero? E se la trovasse la polizia? È questo che vuoi, che io sia tuo complice?”
 
“Non pretendo niente da te, Charles.” Scuote la testa Erik.
 
“E faresti bene,” sbuffa lui. “Dopo tutto quel che hai fatto.”
 
Il nome di Raven è una presenza che aleggia silenziosamente fra di loro. Charles decide di alzarsi e senza dire altro si congeda.
 
Avrà bisogno di una buona distrazione per superare quest’altra cavolata.
 
*
 
Quella sera salta la cena, incapace di buttar giù nello stomaco anche solo un minuscolo pezzo di pane. Invece decide di sedersi alla propria scrivania in camera sua, deliberatamente ignorando l’idea di Erik seduto in qualche altra stanza ad architettare solo lui sa che cosa, e tira fuori il vecchio taccuino di suo padre. Era da anni che non gli dava un’occhiata. Le pagine sono tutte macchiate d’inchiostro, alcune così colme di appunti che il bianco del foglio pare essere scomparso, le parole che più si ripetono, come “mutazioni geniche”, “mutazione germinale”, “DNA” e “Charles”, sono sottolineate più e più volte. Charles non ricorda quale sia stata la sua prima reazione nello scoprire, all’età di tredici anni, di essere stato l’esperimento più importante per suo padre. Dovrebbe odiarlo, si dice sempre quando ripensa a lui, ciononostante si ritrova incapace di poterlo fare. Nella sua mente, suo padre ricopre il ruolo di figura pressoché perfetta. Austero, ma pur sempre disposto a condividere un sorriso caldo, con gli occhiali appoggiati sulla punta del naso e le forti braccia capaci di sollevare Charles fino a fargli cogliere le mele da uno degli alberi in giardino.
 
Vicino a suo padre, Sharon Xavier sorrideva. Vicino a suo padre, persino i pensieri di Kurt Marko potevano essere ignorati. Vicino a suo padre, Charles era stato certo che non sarebbe mai rimasto solo.
 
Ora sfiora il rivestimento in pelle sgualcito dal tempo e si chiede come sarebbe stata la sua vita se Brian Xavier non fosse morto. Se Marko lo avesse salvato dalle fiamme invece di guardarlo bruciare. Se sua madre avesse rinnegato le avances di quest’ultimo e si fosse salvata dal dolore delle percosse e degli errori. Se Cain Marko non fosse entrato nella sua vita, e Charles non avesse dovuto utilizzare i propri poteri per convincere tutti che Raven era sempre stata presente al suo fianco.
 
“Raven,” spiegava. “È mia sorella.” E tutti gli credevano in un istante.
 
Tutti credevano alla maschera di una bella bambina bionda con le guance rosee e i capelli biondi.
 
Tutti credevano alla maschera di un ragazzino modesto con gli occhi azzurri e il peso di un potere divino sulle spalle.
 

[1] Mi sono ispirata a SELECTED DOCUMENTS – CIA FILE MM34519865-2D di listerinezero ( x )

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3449918