Hard to say I'm sorry di Hatsumi (/viewuser.php?uid=11603)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Point Break (Punto di Rottura) ***
Capitolo 2: *** Every body needs time (Bisogno di tempo) ***
Capitolo 3: *** Memories (Ricordando) ***
Capitolo 4: *** Later Days (Ritardo) ***
Capitolo 5: *** Temporary (Temporaneo) ***
Capitolo 6: *** Hidden (Nascosto) ***
Capitolo 7: *** Silent Tears (Lacrime nel silenzio) ***
Capitolo 8: *** Weaknesses (Debolezze) ***
Capitolo 9: *** Demons (Demoni) ***
Capitolo 10: *** Appointmens (Appuntamenti) ***
Capitolo 11: *** Mirror, mirror (Specchio) ***
Capitolo 12: *** Pieces (Frammenti) parte prima ***
Capitolo 13: *** Pieces (Frammenti) parte seconda ***
Capitolo 14: *** The following day (Il giorno dopo) ***
Capitolo 15: *** Explanations (Spiegazioni) ***
Capitolo 16: *** Meeting Strangers (Conoscenze estranee) ***
Capitolo 17: *** Hidings behind a name (Particolari nascosti) ***
Capitolo 18: *** Dates or Appointments? (Incontri o appuntamenti?) ***
Capitolo 19: *** Waking up in a Nightmare (Svegliarsi in un incubo) ***
Capitolo 20: *** Who is what (Chi è cosa) ***
Capitolo 21: *** Living the pain (Vivere il dolore) ***
Capitolo 22: *** Road to Santa Monica (Viaggio per Santa Monica) parte prima ***
Capitolo 23: *** Road to Santa Monica (Viaggio per Santa Monica) parte seconda ***
Capitolo 24: *** Heaven is nowhere (Non c'è paradiso) ***
Capitolo 25: *** Facing Problems (Affrontare i problemi) ***
Capitolo 26: *** Real Intentions (Le Vere intenzioni) ***
Capitolo 27: *** Strange Suddenly Sadness (Strana, improvvisa tristezza) ***
Capitolo 28: *** Just Shocking (Scioccante) ***
Capitolo 29: *** Unexpected Breakdown (Crollo inaspettato) ***
Capitolo 30: *** Waiting for the day (Aspettando quel giorno) ***
Capitolo 31: *** Afraid of changes (Paura di cambiare) ***
Capitolo 32: *** Surprising Party (Festa con Sorpresa) ***
Capitolo 33: *** Goodbye, my Father (Addio, Padre) Parte Prima ***
Capitolo 34: *** Goodbye My Father (Addio, Padre) Parte Seconda ***
Capitolo 35: *** Harsh Words (Parole Dure) ***
Capitolo 36: *** Unsolved (Questioni Irrisolte) ***
Capitolo 37: *** Sorry Couldn't be enough (Scusarsi potrebbe non bastare) ***
Capitolo 38: *** Changing Habits (Cambiare abitudini) ***
Capitolo 39: *** Separate Ways (Strade Diverse) ***
Capitolo 40: *** Letting go (Ti lascio andare) ***
Capitolo 41: *** It's never a goodbye (Non un addio) ***
Capitolo 42: *** Running Out of Time (Corsa contro il tempo) ***
Capitolo 43: *** Don't go (Non andare) ***
Capitolo 44: *** No more wasted time (Basta perdere tempo) ***
Capitolo 45: *** All Comes to an End (Tutto ha una fine) Parte Prima ***
Capitolo 46: *** All Comes to an End (Tutto ha una fine) Parte Seconda ***
Capitolo 47: *** Epilogue (Epilogo) ***
Capitolo 1 *** Point Break (Punto di Rottura) ***
1. Point Break (Punto di
Rottura)
!!! AVVISO !!!!
(Relativo ai primi capitoli)
Ehi, sì dico proprio a te!
Vedo che hai deciso di aprire la mia storia e di questo ti ringrazio. Voglio però farti presente che il testo che stai per leggere è parecchio datato (prima metà 2009) e che ne esiste ora versione migliorata, riveduta e corretta.
Lascio a te scegliere se continuare a leggere questa versione (che qui su EFP rimarrà così com'è) oppure scoprire dove puoi leggere la nuova versione (accompagnata da contenuti "speciali").
Se preferisci proseguire qui ti auguro BUONA LETTURA, in caso contrario, scorri fino ad arrivare in fondo a testo. GRAZIE!
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-Ti voglio immediatamente fuori da questa casa.
Seduto sul letto con i gomiti appoggiati alle ginocchia e il viso
bagnato dalle lacrime nascosto tra le mani, Christian parla con voce
tremante. Rivolge quelle sue parole cariche di un profondo dolore,
proprio all’uomo per il quale ha consacrato la sua vita e
quell’uomo, se ne sta con la schiena appoggiata contro
l’armadio, senza essere in grado di pronunciare una parola,
quel grande uomo, così alto così ben disposto,
sta forse provando paura per la prima volta nella sua vita.
Paura di perdere l’unica cosa per la quale a detta sua fosse
valsa la pena vivere in questo mondo corrotto e malato. Se sapesse, se
ricordasse come si fa, potrebbe persino piangere. Sarebbe tuttavia
fatica sprecata. La fossa in cui sta per essere sepolto se
l’è scavata con le proprie mani.
Vorrebbe avvicinarsi a Christian, sedersi su quello stesso letto che
hanno condiviso per quindici anni, accarezzargli quei suoi finissimi
capelli biondi, cingere quella sua vita stretta e far finta che non sia
accaduto nulla, come altre volte era capitato. Ma questa
volta è diversa dalle altre, questa volta non
verrà dimenticata dopo una notte di amore e lacrime. Questa
volta se la ricorderanno per sempre entrambi e rimarrà
impressa sui loro corpi, come una scritta indelebile.
Jonathan non si avvicina, perché sa che verrebbe scacciato,
che verrebbe rifiutato e non potrebbe esserci dolore più
grande in quel momento di essere rifiutato dal suo uomo nel suo letto,
nella sua casa. Si è sempre trattato di possedere qualcosa
per Jonathan, aveva sempre avuto la smania di possedere tutto quanto
fosse di suo interesse, forse perché convinto che possedendo
una cosa, questa gli appartenesse per diritto e che nulla al mondo
sarebbe riuscito a portagliela via. L’errore più
grande di Jonathan era stato quello di considerare anche Christian una
delle sue proprietà.
Quel giorno nella sua casa, l’aveva aspettato sul suo divano,
il suo Christian con impressa sul viso un espressione di sofferenza e
dolore, accompagnato ad evidenti tracce di pianto. Ed eccoli
entrambi, in camera da letto, con la porta chiusa, dopo
un’ora a chiudere quella discussione nel peggiore dei modi.
-Se hai un po’ di dignità, non te lo farai
ripetere di nuovo.
Christian è irremovibile, Jonathan deve andarsene. Parla di
dignità e nello stesso tempo lo accusa di essere un
vigliacco e a tutti gli effetti del vigliacco ha tutte le
caratteristiche agli occhi di un osservatore esterno. Non parla, non
mostra segni di dispiacere, non cerca nemmeno di giustificarsi.
Si sposta dall’armadio Jonathan, lo apre e prende un lungo
respiro prima di guardare all’interno e riuscire a
distinguere le proprie cose da quelle di Christian. Afferra rapidamente
le prime quattro grucce davanti ai propri occhi dove sono poggiati
alcuni dei suoi completi da lavoro e li getta sul letto alle sue
spalle, a pochi centimetri da Christian che non si è mosso
di un centimetro e cerca di placare il pianto soffocante.
Sentire Christian alle proprie spalle piangere e non dovere, non
potere, non avere il permesso di fare nulla è per Jonathan
uno strazio insopportabile. Sapeva che avrebbe pagato un
grande pegno per la propria colpa ma ciò che aveva
immaginato non era minimamente paragonabile a quello che stava
passando. Doveva radunare le sue cose, perlomeno quelle di
necessità primaria, con la freddezza di un medico di guerra
che medica un soldato ferito, avendone affianco uno oramai in fin di
vita. E quel mezzo cadavere in fin di vita è la sua storia
d’amore con Christian, il loro matrimonio, perché
prima che la proposta N°8 fosse abrogata, avevano potuto
coronare il loro sogno e sposarsi. Avevano potuto vivere
tutte le tappe di una classica coppia uomo e donna, esattamente come
avevano voluto ed ora si trovavano di fronte al declino, senza mai
nemmeno esserselo immaginato. Divorzio.
Aveva parlato anche di quello un’ora prima Christian.
-Voglio il divorzio.
Una frase quasi comune al giorno d’oggi. Quante coppie si
separano, quante coppie divorziano, quanti dei loro amici etero e gay
si erano separati davanti ai loro occhi e quante volte avevano pensato
“A noi non accadrà mai” eppure eccoli
là: a vivere una situazione della quale avevano sempre avuto
esperienze indirette. Dopo aver raccolto lo stretto
necessario, dopo aver preso il portafogli sul suo comodino, accanto
alla lampada dal paralume rosso, dove era spesso stato appoggiato nei
trascorsi quindici anni, Jonathan apre la porta della camera
e senza voltarsi indietro esce. Qualche passo e si avvicina
alla porta d’ingresso, con estrema decisione e
rapidità afferra il pomello freddo ed esce, chiudendosi la
porta alle spalle e sbattendola.
All’udire di quel suono il pianto di Christian si fa sempre
più disperato. E’ stato lui ad ordinare
a Jonathan di andar via, di uscire da quella casa, e lui l’ha
fatto, se n’è andato via.
Appoggiato ad una porta più in là,
anch’esso in lacrime, sta Kyle. Figlio adottivo della coppia,
ha seguito attentamente tutta la discussione dei suoi genitori e sta
soffrendone proprio come loro. Vorrebbe tanto essersi coperto le
orecchie quel giorno, quando per la prima volta dalla bocca
di Christian aveva udito provenire un insulto riferito a Jonathan. Non
era mai successo. Christian non si era mai permesso di insultarlo, non
ne aveva mai avuto modo e ragione.
-Bastardo cinico traditore!
Aveva urlato. E Kyle, ancora intento a fare i suoi compiti non aveva
potuto non sentire. Si era alzato dalla sua sedia e si era seduto a
terra, con l’orecchio teso, appoggiato alla porta, per
seguire, per non perdere nulla o forse semplicemente per essere certo
di aver sentito bene. Fino alla fine, fino allo sbattere della porta
aveva sperato in uno scherzo. Non potevano davvero essersi urlati
addosso in quel modo, non loro, non i suoi genitori. Li aveva
conosciuti per la prima volta a cinque anni, viveva con loro da dieci e
nulla del genere era mai successo.
Come le cose sarebbero proseguite, nessuno era in grado di dirlo.
Com’era possibile fare previsioni riguardo al destino di una
coppia che fino al quel momento era parsa perfetta?
Dopo un’ora, Kyle si mette a letto. Si siede e appoggia la
schiena contro la testiera, ginocchia raccolte, sguardo verso la porta
chiusa e cerca con tutte le sue forze di non sentire Christian
piangere. E’ una cosa che non sopporta, che lo fa star male.
Soprattutto perché sa per quale motivo sta piangendo.
E’ uno sforzo enorme per lui ignorarlo quel motivo.
Ed è ancora più doloroso pensare che non
c’è nessuno al mondo in grado di consolare
Christian e asciugare le sue lacrime, che non sia Jonathan.
Ed ora che è Jonathan la causa di quel pianto disperato, chi
lo aiuterà a riprendersi? Kyle non ne è capace,
non saprebbe cosa dire, non saprebbe da che parte cominciare e non
è nemmeno sicuro di avere il diritto di intromettersi negli
affari privati dei sui genitori.
Toc Toc
Christian bussa alla porta della camera di Kyle poi la apre.
E’ in piedi di fronte a lui, ancora più pallido in
viso, gote lucide dal pianto, occhi arrossati e gonfi. Fa male solo a
guardarlo in quello stato.
-Cosa … mangiamo stasera?
Chiede con un filo di voce, probabilmente cercando di inghiottire un
ulteriore crisi di pianto che gli si legge negli occhi e dal tono
tremante e instabile della voce.
Kyle si trova nella stessa situazione. Ha quasi paura ad aprir bocca.
Scoppierebbe a piangere davanti a Christian e sa bene che
quello non sarebbe affatto un buon modo per confortarlo.
Si limita quindi ad alzare le spalle. Quasi a voler dire
“quello che vuoi”.
-Ti va bene se … ordiniamo cinese?
Kyle fa cenno di si con il capo. Ancora preferisce non dire nulla.
-Bene … allora chiamo. Se ti va intanto che aspettiamo
possiamo … giocare con la play?
Kyle spalanca gli occhi. Christian non aveva mai giocato con la
playstation con lui. Era Jonathan quello che amava i giochi
elettronici, le console … Christian di solito si lamentava
per quanto tempo i due perdessero incollati davanti ad uno schermo a
“rincitrullirsi - per usare le sue parole – con
giochini senza senso”. Il fatto che ora, in quel
preciso momento, gli stesse facendo quella proposta voleva chiaramente
dire che aveva bisogno di lui.
-Va bene.
Kyle si alza dal letto e trova finalmente il coraggio di parlare.
Uno accanto all’altro se ne stanno seduti sul divano. La
televisione è ancora spenta. Christian ha appena chiamato il
take-away del ristorante cinese più vicino.
Ramen, involtini primavera e biscotti della fortuna per due.
Quel due, pronunciato da Christian, aveva qualcosa di doloroso in
sé. Per Kyle era stata una fitta al cuore, una
ferita pungente.
Christian si alza e raggiunge la mensola dove sono appoggiate le
custodie dei numerosi videogiochi di Kyle e li osserva.
-A cosa giochiamo?
Chiede, senza però guardare il figlio negl’occhi.
-Non lo so Chris … a te cosa piace?
Christian osserva ancora per un attimo i videogiochi e poi ne sceglie
uno, probabilmente a caso.
-Questo. che è … “Vampire
Night”. Ti va bene?
Kyle annuisce.
-Bene allora mettilo tu io non sono molto bravo in queste cose.
Kyle si alza dal divano e prende la custodia dalle mani di Christian
che nel frattempo nemmeno lo guarda e va a sedersi sul divano, portando
con se il joypad. Sguardo fisso rivolto verso il mega-schermo ancora
spento. Sta pensando. E’ chiaro.
Kyle fa in fretta ad accendere il gioco. E’ convinto che un
solo istante di troppo speso a pensare, potrebbe far tornare di nuovo
Christian a piangere. Deve impedirlo, cercando di tenergli la mente
occupata, giocando, come lui stesso gli ha proposto.
-Ecco. Possiamo iniziare. Non è difficile giocare. Devi solo
sparare ai vari vampiri che saltano fuori. Io sono il mirino rosso, tu
quello blu. Capito?
Christian annuisce e cerca il mirino blu sullo schermo.
-Ah! Attento! Hai finito le munizioni! Schiaccia R1 e L1 per
ricaricare, presto!
Christian obbedisce meccanicamente a ciò che gli dice Kyle.
Non pare divertirsi molto. A dire la verità, non sembra
neanche si stia rendendo conto di cosa sta facendo.
Dopo pochi secondi di gioco nella sua metà dello schermo
appare la scritta “Game over”. Appoggia
così affianco a sé la manopola e resta a fissare
lo schermo.
-Vuoi giocare ancora? Puoi continuare con il mio se vuoi, tanto io
questo gioco l’ho vinto tantissime volte!
Dice Kyle, mettendo il gioco in pausa e porgendo il proprio joypad a
Christian, che rifiuta e si alza dal divano.
-No, grazie. Tra poco arriverà la nostra cena. Vado a
mettere una tovaglia … almeno quella …
Anche Kyle si alza e raggiunge Christian.
-Ti posso aiutare?
Christian fa un mezzo sorriso, sforzato.
-Kyle, tesoro, sono ancora capace di mettere una tovaglia sul tavolo.
Okay?
Una ventina di minuti dopo, la loro cena viene consegnata.
Christian si siede al suo solito posto, ad un capo del tavolo, con le
spalle rivolte verso la finestra. Kyle si siede sulla sedia al capo
opposto, dove solitamente si metteva Jonathan. Non sa perché
ha scelto di sedersi proprio lì, forse perché
pensa che per Christian vedere quella sedia occupata possa essere meno
doloroso.
Tra i due regna il silenzio. Si sente solo lo sfregarsi della bacchette
di legno ogni tanto e il rumore provocato dai bicchieri di vetro quando
vengono appoggiati sul tavolo. E’ una situazione
strana. Fastidiosa. Eppure così
scontata. Non era certo Jonathan il gran chiacchierone della
famiglia di solito anzi, a dirla tutta è sempre stato il
più silenzioso a tavola. Quello che ha sempre una
parola per tutto, che non sta mai zitto, che parla troppo, è
Kyle. Che per la prima volta da quando ancora si trovava in
orfanotrofio non sa cosa dire.
-Non hai niente da dire stasera Kyle?
Quella domanda irrompe nel silenzio. Kyle apre la bocca ma non esce
alcun suono.
-No.
Dice poi, richiudendola e tornando a chinare il capo sulla scatolina
contenente il ramen che sta mangiando. Christian appoggia le bacchette
sul tavolo.
-Non ci posso credere. Di solito si fa il possibile per farti stare
zitto! E’ davvero raro non sentire la tua voce a tavola! Non
è possibile che di colpo tu non dica niente!
Kyle sospira.
Di nuovo silenzio. Altri interminabili minuti di silenzio. E poi, alla
fine, Kyle parla.
-Ti ha tradito, non è vero?
Ed ecco la bomba. Piazzata tra i due da tutto il pomeriggio,
in attesa di scoppiare proprio in un attimo di massimo
silenzio, allo scopo di far sembrare il tutto più
devastate.
Christian osserva Kyle quasi sconvolto. Spalanca gli occhi, apre la
bocca ma senza parlare.
Kyle chiude gli occhi, stretti. Si aspetta un urlo, da un momento
all’altro.
Non arriva.
Riapre gli occhi e nota che lo sguardo di Christian è
tornato sul contenitore degli involtini primavera. Una mano
regge le bacchette e afferra un involtino, l’altra
è sul tavolo, in un pugno serrato.
“Mi dispiace”
Vorrebbe dire Kyle. Ma non sarebbe opportuno.
-Hai già fatto tutti i tuoi compiti oggi?
Chiede Christian, cambiando totalmente argomento, con tono impassibile.
Kyle non può fare altro se non seguire il suo discorso,
cercando di sembrare naturale.
-Si, tutto quanto …
Continuazione dell'AVVISO in testata:
La novità per HARD TO SAY I'M SORRY per il 2014 è il SITO:
APRIMI!
Troverete oltre ai capitoli già presenti su EFP (riveduti e corretti in modo da renderli più coerenti in linea col mio sitle di scrittura attuale), le schede dei personaggi, alcuni approfondimenti, curiosità e partire dal mese di Aprire un PREQUEL di questa storia (che pubblicherò successivamente anche qui).
Che Aspettate? APRITE SUBITO IL LINK!!!!
---> E alla fine ritorno a scrivere. Ultimamente sto
scrivendo molto O_O e questa storia per me sta diventando "importante".
Spero non subisca le sorti delle precendenti. Due paroline-ine,
curiosità^^ Tutto è nato da quelli che
io chiamo "trip", ossia sono trame "fittizie" che mi invento per
giocare a the sims 2, il gioco per pc si. Mi invento un certo tipo di
personaggio, una storia, e li creo. Un benetto giorno il gioco mi salta
(nulla di nuovo) e per non perdere questo "trip" decido di scriverlo.
Parto dall'idea di scrivere quattro cavolate, giusto per fare qualcosa
e ... puff! In 2 ore ho già scritto dieci pagine. Vado a
letto e afferro il mio iphone ed inizio a scrivere nelle note delle
idee circa questa storia che mi vengono in mente.
Ora sono al 9 capitolo (appena iniziato^^) e beh ... non è
più in "trip" ma una storia!! Dopo 2 settimane mi sono
decisa a postarla qui.
Ah riguardo al titolo ... gliel'ho dato adesso XD
perchè il mio file è nominato "It". Ma non
è un titolo a caso ... infatti mentre scrivevo il primo
capitolo stavo ascoltando proprio questa canzone "Hard to say I'm
sorry". E ho intitolato il file "It's hard to me to say I'm sorry".
Visto che quella canzone secondo me è azzeccata per la mia
storia ... perchè no? ^^!
Ok ... mi fermo qui!! Alla prossima <---
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Capitolo 2 *** Every body needs time (Bisogno di tempo) ***
!!! AVVISO !!!!
(Relativo ai primi capitoli)
Ehi, sì dico proprio a te!
Vedo che hai deciso di aprire la mia storia e di questo ti ringrazio. Voglio però farti presente che il testo che stai per leggere è parecchio datato (prima metà 2009) e che ne esiste ora versione migliorata, riveduta e corretta.
Lascio a te scegliere se continuare a leggere questa versione (che qui su EFP rimarrà così com'è) oppure scoprire dove puoi leggere la nuova versione (accompagnata da contenuti "speciali").
Se preferisci proseguire qui ti auguro BUONA LETTURA, in caso contrario, scorri fino ad arrivare in fondo a testo. GRAZIE!
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2. Everybody needs time (Bisogno di tempo)
Jonathan ha sempre avuto uno strano rapporto con gli alberghi.
Almeno una volta, in ogni fase della sua vita, aveva avuto modo di
vivere in albergo. Quando aveva dieci anni aveva pernottato
quattro in un albergo fuori New York, per motivi di lavoro della
madre. A sedici anni era scappato di casa e aveva vissuto in
un modesto hotel fuori città, da solo. A ventitre anni vi
aveva trascorso ben tre mesi con Jonathan, in albergo. In
attesa la che la casa che avevano comprato, la sua casa fino a quel
momento, fosse ristrutturata. Ed ora a quarant’anni, si trova
di nuovo in albergo, in attesa di trovare una sistemazione alternativa.
E’ trascorsa quasi una settimana da quando è stato
costretto ad andarsene di casa e durante quella settimana non aveva
ancora trovato il tempo o forse la forza, per cercare un posto dove
stare, che non sia un albergo. La sorte aveva voluto che trovasse una
stanza nello stesso hotel dove era stato l’ultima volta con
Christian. Non la stessa camera, certo, ma l’arredamento di
una stanza e l’altra non differisce in molto.
Jonathan è seduto su una poltroncina beige, a fianco della
grande finestra che affaccia su Manhattan. Gambe accavallate, gomito
sinistro appoggiato al bracciolo e sigaretta mezza consumata tra le
dita. Nell’altra mano regge un volantino raccolto in
metropolitana con degli annunci di affitti di appartamenti. Scruta con
attenzione ogni proposta, cercando di trovarne una di suo interesse.
Non trova nulla.
Prende una boccata dalla sigaretta e arriva quasi al filtro.
Sbuffa.
E’ lunedì, il suo giorno libero. Sono le due di
pomeriggio. Non si è alzato da molto. Ha già
fatto colazione. Non c’è un televisore nella sua
stanza, ha già letto il New York Post, che ora se ne sta
piegato ai piedi del letto. Si trova alla sua terza sigaretta
del giorno.Si alza, butta la sigaretta nel posacenere accanto al
comodino e poi si rimette a sedere sulla poltrona. Non ha altro da fare
che starsene seduto a fissare il nulla.
Il suo campo visivo in quel momento comprende il cellulare, accanto al
posacenere. E’ acceso ma nessuno chiama. Non arriva
alcun messaggio.
Jonathan aspetta.
Non sa esattamente cosa. Forse che qualcuno, una persona qualsiasi gli
parli. Gli andrebbe bene anche uno sconosciuto, uno qualunque. Detesta
rimanersene in silenzio.
Osserva l’orologio al suo polso. Un bel Cartier, che si era
voluto regalare due anni prima, durante un viaggio di lavoro in
Svizzera. Jonathan è un amante degli orologi. Li colleziona
e ne possiede tantissimi, che variano dai più costosi, come
quello che in quel momento ha al polso, ai più economici.
Non si sarebbe mai separato dai suoi orologi.
Aveva iniziato a collezionarli all’età di diciotto
anni, il primo era stato un Breitling con il cinturino in pelle
marrone, regalatogli da suo padre il giorno del suo sedicesimo
compleanno.
Per un’intera settimana ha portato quello stesso orologio,
non era mai successo. E’ solito cambiarne uno al giorno,
abbinandolo ai completi. Tuttavia, avendo lasciato la sua casa
così in fretta si era dimenticato persino dei suoi
orologi. Dovevano essere ancora al loro posto, nel primo cassetto del
suo comodino, tutti disposti in ordine in una teca di
legno contenente anche i foglietti di garanzia e i certificati
di originalità per ogni orologio.
Le due e cinque.
-Forse è meglio che inizi a fare qualcosa.
Si alza e si dirige verso la porta. Prende dalla tasca dei pantaloni la
tessera magnetica, la inserisce nella fessura ed esce.
Non sa ancora dove andare. Sono solo le due di pomeriggio, andare a
rintanarsi in qualche bar a bere sarebbe a dir poco squallido e poi,
è una possibilità che si serba per la
sera. Decide quindi di limitarsi a fare una passeggiata per
la città, vedere qualche vetrina e magari comprarsi qualche
vestito.
Gliene è rimasto soltanto uno pulito tra quelli che si
è portato via.
Non ha intenzione di tornare a casa a prendere il resto.
Dopo due ore si trova a ripercorrere la stessa strada nel senso
opposto. Ha fatto acquisti. Dei nuovi completi, un nuovo paio
di scarpe e un altro orologio.
Il tutto dovrebbe bastare per un'altra settimana, non dovrebbe tornare
indietro ancora per una settimana. Gli abiti sporchi li potrebbe
portare in tintoria, per quando riguarda gli orologi potrebbe comprarne
degli altri.
Una volta tornato all’albergo, appoggia le borse a terra e si
getta sul letto. Sospira profondamente e osserva il soffitto. Poi il
suo sguardo torna sulle borse a terra.
Prada, Boss, Todd’s, Cartier.
Non vuole sapere nemmeno quanto ha speso quel giorno.
Decisamente troppo. Non si è nemmeno badato di guardare i
cartellini, ha comprato ad occhi bendati qualsiasi cosa gli
andasse. E tutto questo per cosa?
“Tutto questo per non tornare a casa”
Pensa.
-Tanto prima o poi …
***
Il suono della campanella.
-Finalmente!
Esclama Kyle alzandosi dal banco.
-Non passava più oggi, eh Kyle?
Chiede Morgan, la migliore amica di Kyle.
-Non dirmelo. Tral’altro domani abbiamo il test di algebra
… non sono per niente preparato.
I due ragazzi si incamminano verso l’uscita della scuola.
-Davvero? Non ti aiuta Jonathan a studiare?
Kyle non dice nulla. Morgan lo guarda, con aria inquisitoria. Non sa
nulla della situazione familiare dell’amico, non le ha detto
nulla perché la conosce bene, sa che lo riempirebbe di
domande, che gli manderebbe sms ogni ora per chiedergli come sta, se va
tutto bene. Sarebbe persino in grado di obbligarlo ad andare a dormire
da lei. In quel momento non vuole parlarne con nessuno, vuole starsene
solo.
-No. Lui è … impegnato con il lavoro …
Conclude, cercando di sembrare più realistico possibile.
Morgan continua a scrutarlo. Nota che c’è qualcosa
che non va ma non ne è sicura.
-Uhm …
Si siedono sulla panchina alla fermata dell’autobus.
E’ in ritardo. Kyle guarda l’orologio al polso.
Segna le 3 e un quarto.
-Wow Kyle! Che bellissimo orologio!
Morgan prende il braccio del ragazzo e lo strattona per osservare
meglio l’orologio.
-Ma è un rolex! E’ bellissimo!
Kyle ritira il braccio e sistema il polsino della felpa, quasi per
nascondere il suo orologio. Che proprio suo non è.
-Dove l’hai preso?
Chiede Morgan incuriosita.
-Un regalo.
Risponde Kyle frettoloso.
-Di chi?
Kyle sbuffa.
-Che stress Morgan! E’ un regalo, punto.
Morgan fa una smorfia e decide di smettere di fare domande a
Kyle. In realtà quell’orologio non
è affatto un regalo. E’ un pezzo della collezione
esclusiva di Jonathan. Kyle se n’è
appropriato il giorno prima, in un momento in cui Christian non era
presente. Non sa nemmeno lui perché. Certo, è
indubbiamente un orologio bellissimo, gli piace da molto tempo ma il
fatto di averlo preso così di nascosto sembra essergli
inspiegabile. Anche perché da una settimana non sente
Jonathan, spontaneamente. Lo fa un po’ per rispetto nei
confronti di Christian e un po’ perché
è realmente in collera con lui.
-Non l’avrai mica rubato, vero?
Chiede Morgan di punto in bianco, sull’autobus.
-Ma piantala Morgan! Secondo te!
Rincasando Kyle si trova uno scenario piuttosto strano. La porta di
ingresso è aperta e sulla soglia ci sono due scatoloni
chiusi. Li scavalca ed entra in casa.
-Chris?!
Chiama.
-In camera.
Lo raggiunge e lo trova davanti all’armadio, mentre getta
alle sue spalle, sul letto, tutti i vestiti di Jonathan.
-Cosa …?
Chris smette di fare ciò che sta facendo per dare retta al
figlio.
-Almeno dei vestiti avrà bisogno, non credi?
Spiega, fingendo un sorriso.
-Non dovrebbe venire lui a prenderseli?
Chiede Kyle. Subito dopo si pente di aver parlato. Si era promesso di
non esprimere la proprio opinione riguardo all’intera
faccenda.
-Se non l’ha ancora fatto ci sarà un motivo, no?
Kyle si siede in punta del letto ad osservare Christian. Cercando di
non dire nient’altro. Purtroppo non riesce a
starsene zitto.
-Hai intenzione di sbatterli in giardino?
Christian sbuffa, quasi seccato. Si gira e guarda Kyle.
-Non sono così bastardo. Li metterò uno sopra
l’altro sul pianerottolo. Che se li venga a prendere quando
io non sono a casa.
Kyle non dice nulla. Avverte però risentimento nelle parole
di Christian. In tutta quell’intera settimana il nome di
Jonathan è stato menzionato una volta tra i due. Eppure la
sua presenza si avverte ancora in quella casa. Non mette piede
lì dentro da una settimana ma è come se non se ne
fosse mai andato. Sembra quasi sia presente, seduto da qualche parte e
che Christian e Kyle lo stiano ignorando di proposito.
Vedere quell’armadio mezzo vuoto provoca a Kyle un tuffo al
cuore. Cerca di distogliere lo sguardo dall’armadio e si
ritrova a fissare la specchiera dove è ancora appoggiata
l’agenda di Jonathan, aperta alla pagina del 12 marzo, il
giorno prima che lasciasse quella casa. Inizia a chiedersi per quale
motivo quell’agenda non sia stata chiusa. Non è
possibile che Christian non l’abbia vista. Si chiede anche
come avrebbe fatto Jonathan a lavorare senza la sua agenda.
Per un attimo ha l’impulso di alzarsi e chiuderla.
Allunga il braccio, quasi per raggiungerla. La manica leggera della sua
felpa scivola indietro, scoprendo il braccio quasi fino al gomito e di
conseguenza l’orologio. Kyle se ne accorge e
tempestivamente ritira il braccio e sistema la manica. Non vuole che
Christian veda che porta al polso l’orologio di Jonathan.
Per evitare che lo scopra, si alza e va in camera sua.
Christian ha finito di togliere gli abiti di Jonathan
dall’armadio. Si mette minuziosamente a piegare ogni cosa e
la ripone poi in pile ordinate. Una volta fatto, prende da sopra
l’armadio una valigia, la più grande, quella che
di solito usa per andare in vacanza e sistema tutto quanto
ordinatamente. Al momento di chiuderla respira profondamente.
Allunga la mano verso una delle linguette ed inizia a tirarla verso
sé. La mano quasi gli trema. Fa in fretta e afferra anche la
zip dalla parte opposta e le congiunge, in modo di chiudere la valigia.
Rapidamente la solleva dal letto e trascina anche quella in corridoio,
accanto agli scatoloni. Spinge con le ginocchia gli scatoloni ai lati
della porta e sopra uno di questi appoggia la valigia. Poi osserva
qualche istante. Infine, rientra in casa, chiudendo la porta.
Ha trascorso tre ore di quel pomeriggio a radunare tutti i vestiti
di Jonathan. Ha piegato tutti i jeans, le felpe, le t-shirt,
ha lavato tutto ciò che ancora era rimasto nel cesto della
biancheria e ha riposto tutto quanto con cura negli scatoloni e nella
valigia. Una precisione quasi maniacale.
Era il suo giorno libero quello, lunedì, che normalmente
trascorreva con Jonathan. Era il loro giorno.Averlo trascorso in quel
modo è il segno che qualcosa è seriamente
cambiato dopotutto.
Christian torna in camera da letto. Osserva l’armadio aperto,
appese ora ci sono tante grucce vuote, che ancora oscillano. Il primo
cassetto è aperto e completamente vuoto. E’
rimasta soltanto la carta da pacchi colorata, spostata, che Christian
adagia sul fondo di ogni cassetto per questioni di igiene. Quel
cassetto vuoto è quello di Jonathan. Appena sopra
al suo.
Chiude l’anta dell’armadio e il cassetto poi
sistema il copriletto. Alzando lo sguardo nota sulla specchiera
l’agenda aperta di Jonathan. La guarda ogni giorno, quella
pagina aperta, ormai conosce a memoria ogni dicitura.
Ore 12.30 appuntamento
con Simon Wayne.
Ore 14.30 appuntamento
Mrs.
Wang.
Ore 17.40 appuntamento
rappresentante
farmaceutico.
Ore 19.00 Cena al
ristorante con Chris.
Ed è proprio l’ultima dicitura a fermarlo
dall’idea di chiuderla quella maledetta agenda. Erano stati
al ristorante la sera prima. Il loro ristorante preferito, un posto
appartato e molto elegante chiamato “La
Conchiglia”, specialità italiane. Si
erano trovati bene, loro due soli. Avevano parlato del lavoro, di Kyle,
dei loro progetti di vacanza, sorseggiando del buon Chianti e gustando
dell’ottimo cibo. Una scena piacevole, un quadretto ideale
per la coppia ideale, eppure, la quiete prima della tempesta.
Esattamente ventiquattro ore dopo tutto era cambiato. Niente
più sorrisi, solo grida, imprecazioni, insulti e tante
lacrime. Per poi arrivare alla situazione attuale.
Christian scosta di nuovo lo sguardo dall’agenda. Non la
toccherà nemmeno quella volta. Non ne ha la forza. Si
avvicina all’interruttore, spegne la luce e chiude la porta.
E’ quasi ora di cena.
Kyle è disteso sul suo letto a pancia in giù. Sta
leggendo un libro, o meglio sta studiando, algebra. Non è
mai stato bravo in matematica. Un asso a scuola certo, tranne per la
matematica. E’ riuscito a cavarsela sempre e soltanto grazie
all’aiuto di Jonathan. Senza di lui, il test del giorno
successivo sarebbe andrà sicuramente male. Continua a
fissare quei numeri, potenze, radici. Non capisce nulla.
Allunga il braccio verso la tasca dei pantaloni, si sposta quel
necessario per afferrare il cellulare.
Un messaggio non letto. Di nuovo. Sa già chi è.
Sblocca la tastiera e va a vedere il mittente.
“John”. Senza nemmeno leggere, lo cancella.
Esattamente come i precedenti messaggi ricevuti durante la settimana.
Inizia a temere che Jonathan pensi che sia Christian a non permettergli
di rispondere ai suoi messaggi, a far si che non lo chiami. Non vuole
che pensi così. Non è la verità,
è lui a non volerlo sentire.
Eppure gli manca. E se ne rende conto solo in quel momento.
Sposta la manica della felpa e osserva l’orologio. Con
l'indice destro percorre la circonferenza del quadrante per poi passare
al cinturino in acciaio. Decisamente un gran bell’orologio.
Jonathan ha un certo gusto per gli orologi.
Segna le sette meno dieci. Tra poco sarà ora di cena.
Toglie l’orologio, lo appoggia sul letto e per qualche
secondo rimane a fissare la lancetta rossa dei secondi muoversi
rapidamente lungo tutto il quadrante.
-Kyle! La cena!
Si alza dal letto, prende delicatamente l’orologio e lo
ripone nel primo cassetto del comodino, facendo attenzione a
nasconderlo tra i boxer e i fazzoletti poi chiude il cassetto e
raggiunge Christian a tavola.
Continuazione dell'AVVISO in testata:
La novità per HARD TO SAY I'M SORRY per il 2014 è il SITO:
APRIMI!
Troverete oltre ai capitoli già presenti su EFP (riveduti e corretti in modo da renderli più coerenti in linea col mio sitle di scrittura attuale), le schede dei personaggi, alcuni approfondimenti, curiosità e partire dal mese di Aprire un PREQUEL di questa storia (che pubblicherò successivamente anche qui).
Che Aspettate? APRITE SUBITO IL LINK!!!!
--> Ecco il secondo capitolo! Spiegazione veloce sui titoli. Due
domande che mi faccio e mi auto-rispondo (no, non sono normale) Perchè i titoli sono
due? E perchè quello in inglese non è la
traduzione di quello in italiano?
I titoli sono due perchè esistono due versioni di questa
storia, in inglese e in italiano. La titolatura originale dei
capitoli è in inglese. Ho voluto comunque dare un titolo
italiano, a volte tradotto alla lettera a volte leggermente diverso per
motivi di sonorità. Tutto qui^^
E poi ringrazio Tao per il commento :) <---
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Capitolo 3 *** Memories (Ricordando) ***
!!! AVVISO !!!!
(Relativo ai primi capitoli)
Ehi, sì dico proprio a te!
Vedo che hai deciso di aprire la mia storia e di questo ti ringrazio. Voglio però farti presente che il testo che stai per leggere è parecchio datato (prima metà 2009) e che ne esiste ora versione migliorata, riveduta e corretta.
Lascio a te scegliere se continuare a leggere questa versione (che qui su EFP rimarrà così com'è) oppure scoprire dove puoi leggere la nuova versione (accompagnata da contenuti "speciali").
Se preferisci proseguire qui ti auguro BUONA LETTURA, in caso contrario, scorri fino ad arrivare in fondo a testo. GRAZIE!
3. Memories (Ricordando)
Morgan sbadiglia.
E’ l’ora di arte e come sempre sta ascoltando Kyle
alla
cattedra che spiega alla classe il suo ultimo lampo di genio. Adora le
esposizioni grafiche dell’amico ma quella in particolare
gliela
sta mostrando da quasi in mese. E’ una
rappresentazione
sulla globalizzazione.
Geniale.
Un po’ meno se si è costretti a vederlo ogni santo
giorno per un mese intero.
-Abbiamo di fronte di nuovo una A+!
Esclama la professoressa, facendo compare un sorriso sulle labbra di
Kyle che ritorna al posto con la sua tavola da disegno.
-Eccellente come sempre eh?!
Chiede Morgan.
-Certo! Avevi ragione a dirmi che è geniale Morgan.
Morgan sorride.
-Beh adesso mi devi un premio però!
Morgan appoggia entrambe le braccia sul banco e vi poggia sopra il
capo, leggermente inclinato verso destra, per osservare meglio Kyle.
L’ha visto strano nelle ultime tre settimane. Non ha parlato
molto di sé, ha lasciato sempre che fosse lei a parlare e
raccontare. Non che la cosa le dispiaccia, certo, però
è
strano e raro che Kyle si limiti ad ascoltare.
Ha i capelli arruffati quel giorno Kyle. Probabilmente non li
ha
nemmeno pettinati. Si è limitato a passare una mano veloce
tra
quel suo disordinato cespuglio castano e ha deciso che poteva bastare.
Dopo Kyle è il turno di altri due ragazzi. Morgan
osserva l’amico mordersi il labbro inferiore
durante
l'esposizione di Anthony Edwards, che presenta un lavoro sullo stesso
tema di Kyle, altrettanto brillante. Tra i due c’è
sempre
stata una certa rivalità scolastica. Morgan inoltre
é
segretamente convinta si piacciano.
Non ha mai capito nulla delle preferenze sessuali di Kyle. Fisicamente
è un ragazzo molto delicato, viso sottile e stretto, quasi
scavato, labbra molto carnose e di un piacevole colore rosato, occhi
sottili, lunghi e poco infossati e mani da pianista, con dita lunghe e
affusolate.
Per quello che sa non è mai stato con nessuno, ragazza o
ragazzo che sia. Si conoscono dalle scuole elementari e non ha mai
dimostrato particolari preferenze.
-Kyle, cosa ne pensi del lavoro di Tony?
Chiede, cercando di suscitare una qualche reazione in Kyle che continua
a fissare il ragazzo torturandosi il labbro, ancora poco ed
inizierà a sanguinare.
-Penso che sia dannatamente buono …
Ammette a denti serrati. Morgan sorride. Dice sempre
così dei lavori di Anthony.
All’intervallo Kyle e Morgan, come di abitudine, si siedono
su una panchina nel cortile della scuola, collocata ai piedi di un
albero, per parlare.
-Non posso credere che abbia dato anche a lui il mio stesso voto!
Dice Kyle, notando Anthony nel cortile, mentre gioca a football con un
paio di amici.
Morgan sorride.
-Andiamo, hai detto tu che era un buon lavoro, no?
Kyle sbuffa seccato, senza distogliere lo sguardo dal ragazzo.
-Ha solo tanta fortuna …
Qualche secondo dopo, la stessa palla con cui un attimo primo stava
giocando Anthony, arriva in direzione di Morgan e Kyle,
colpendo
quasi in faccia il ragazzo, che tempestivamente la afferra.
Anthony inizia a correre in direzione dei due.
-Tutto bene?
Chiede, ansimando per la corsa.
Kyle annuisce col capo e gli porge la palla. Mentre Morgan lo attacca.
-Fai un po’ di attenzione a dove lanci le cose Tony!
-Ho detto che mi dispiace, non l’ho fatto apposta. Scusatemi.
Spiega Tony, con gentilezza. Kyle non dice nulla.
-Non ti ho fatto niente, vero?
Kyle fa cenno di no. Nonostante la palla sia arrivata in direzione del
suo viso, la più inviperita è Morgan, che si alza
in
piedi, cercando il confronto con Anthony.
-Voi della squadra di football vi credete i padroni del
giardino soltanto perché pensate che tutti vi amino!
Morgan detesta profondamente la squadra di football da quando
uno
dei ragazzi della squadra di cui si era invaghita si è preso
gioco di lei pesantemente, facendole credere di esserne innamorato,
quando invece i suoi interessi erano ben differenti.
Kyle sorride guardando la piccola ed esile Morgan confrontarsi con
Anthony, di almeno una ventina di centimetri più alto di lei
e
quasi tre volte più grosso.
-Mi dispiace Morgan, ma ho chiesto scusa, cos’altro devo
fare?!
Chiede lui, un po’ seccato dal comportamento della ragazza.
-Basta dai Morgan, non si è fatto male nessuno. Lascia stare
…
Esclama Kyle, interrompendo la discussione tra i due.
-Grazie.
Dice Anthony, tornando a giocare con i suoi amici. Morgan torna a
sedere vicino a Kyle, accavalla le gambe e tiene le braccia conserte.
Sul suo viso una strana espressione, dovrebbe essere
irritata ma Kyle la trova semplicemente buffa.
-Morgan …
La ragazza si gira verso l’amico con tono seccato.
-Che c’è?!
Improvvisamente Kyle si avvicina e le schiocca sulla guancia un
bacetto, rapido ed innocente che la fa arrossire di colpo, togliendole
quell’espressione finto-seccata e dandole un’aria
ancora
più buffa. Kyle scoppia a ridere ma questa volta lei non ha
il
coraggio di ribattere.
***
-E quindi non si è nemmeno presentato per prendere le sue
cose?
Domanda Ronald, collega di Christian.
-No.
Risponde lui, intento a sistemare gli appunti per la lezione che ha
preparato su due piedi pochi minuti prima. Ronald si siede sulla
cattedra, vicino agli appunti di Christian e inizia ad osservarlo
incuriosito. Lo trova molto distratto ultimamente, è
già
la terza volta in due settimane che si dimentica di preparare una
lezione e che gli tocca rimediare in pochi minuti tra un cambio
d’ora e l’altro. Si chiede cosa stia passando per
la testa
del collega in quel periodo.
Raccoglie un foglio a caso tra appunti di Christian ed inizia a
leggerlo o meglio, tenta di decifrarlo. Christian ha una scrittura del
tutto illeggibile, disordinata, confusa, un po’ come sul suo
carattere.
-Winckelmann e la teoria dell’imitazione …
com’è che le tue classi stanno sveglie e le mie
no? Io
insegno arti cinematografiche, mentre tu la noiosissima storia
dell’arte .
Christian non gli da ascolto, è troppo impegnato a leggere e
sottolineare. Gli restano solo pochi minuti e deve riuscire a rendere
quei suoi appunti confusi e vaghi un discorso concreto che
possa
avere anche un minimo senso. Sa già di non farcela e si
prepara
mentalmente ad improvvisare, pregando che non gli venga fatta una
domanda che lo porti fuori tema.
-Tuo figlio sta con te?
Christian alza la testa.
-Chi?
Ronald porta gli occhi al cielo.
-Kyle! Sto parlando di Kyle! Quanti figli hai scusami?
Christian torna con la testa sui suoi fogli e ricomincia a scrivere. La
sua mano corre veloce sul blocco ma non è sicuro di star
scrivendo quello che veramente vorrebbe, ha quasi paura a rileggere
quel testo. Si ripromette di preparare la prossima
lezione la sera stessa, prima di andare a letto, ond’evitare
la
fatica di quel momento.
-Kyle sta con me.
Risponde, dopo qualche secondo.
-Non ha nemmeno cercato di contattare lui? Bel padre.
Christian sospira. Ha quasi finito.
-Senti Ron, non lo so. Non so niente e non voglio sapere niente. Se non
ti scoccia preferirei non parlare di Jonathan anche in accademia, va
bene?
Ronald scende dalla cattedra e si avvicina alla porta.
-Va bene, va bene. Vorrà dire che me lo racconterai stasera
al Candice.
Christian spalanca gli occhi.
-Al Candice? Cielo sono dieci anni che non metto più piede
in quel posto!
Esclama mettendosi le mani tra i capelli.
-Hai bisogno di qualcosa che ti tenga occupato …
Dice Ronald, facendo l’occhiolino.
-Oh no Ron. L’ultima cosa che mi serve adesso è il
sesso
con uno sconosciuto in un bar. Preferisco starmene a casa a guardare la
televisione o leggermi un libro.
Ronald fa una smorfia.
-Oh no, ti sbagli. Stasera ti passo a prendere alle dieci. Fine della
discussione.
***
- Posso comunque confermale che si tratta di una patologia
alquanto comune e facilmente risolvibile. Tuttavia la mia analisi
è soltanto qualcosa di superficiale, quello che intendiamo
scoprire sono i motivi di questa patologia, che dobbiamo curare.
L’uomo di fronte a Jonathan non replica.
-Bene. Detto questo, ci vediamo giovedì prossimo?
Chiede, prendendo in mano l’agenda. Un’agenda nera,
nuova
di zecca, acquistata la settimana precedente. Segna nella
settimana successiva alle ore tredici il nome “Arthur
Collow” poi si alza, stringe la mano al suo paziente e lo
osserva
uscire dalla porta dello studio.
Non appena quest’ultima si chiude, Jonathan si abbandona
sulla
poltrona di pelle nera su cui è seduto, lasciando cadere le
braccia sui braccioli foderati e scivolando lentamente lungo lo
schienale.
E’ venerdì e quella per lui è stata una
settimana
parecchio intensa, diversi incontri, numerose visite e un
sacco
di soldi spesi per scarpe e completi da lavoro. Continua a rimandare il
giorno in cui dovrà andare a prendere le sue cose. Christian
gli
ha dato del vigliacco, del codardo e il suo atteggiamento attuale
inquadra perfettamente quei due aggettivi. Preferisce spendere ogni
giorno più delle metà dei suoi guadagni pur di
dover
affrontare nuovamente il suo sguardo.
Pensando a lui non riesce a togliersi di mente quel bel viso, che lo
strega da sempre, rigato dalle lacrime e ogni volta che apre
il
primo cassetto a sinistra della sua scrivania in ufficio, non
può
fare a meno di avvertire un tuffo al cuore, nel vedere la foto ancora
incorniciata di lui e Christian abbracciati. E' rimasta per otto anni
nello stesso angolo di quella scrivania, un poco inclinata in modo che
potessero vederla sempre oltre a lui anche tutti quelli che entrassero
per un motivo e per l’altro nel suo ufficio. Da quasi un mese
sta
in quel cassetto. Ve l’ha gettata lo stesso Jonathan in un
momento di disperazione.
Sospira.
Con i polpacci fa forza sulla sedia rotata muovendola delicatamente a
destra e a sinistra mentre osserva davanti a sé le due
librerie
piene di libri di psichiatria.
“Psichiatria infantile”.
Un’epigrafe vistosa e dorata appare su un
listello
bordeaux, è l’unica scritta che riesce a
distinguere
chiaramente anche senza portare gli occhiali. Collega il libro a Kyle e
tempestivo tasta nel taschino della giacca per vedere se il ragazzo ha
risposto almeno ad uno dei suoi messaggi. Afferra impaziente il
cellulare ma nota, con non poco sconforto, che lo schermo è
vuoto.
Appoggia il telefono sulla scrivania e sospira di nuovo.
Gli fa male, veramente male. Nemmeno suo figlio vuole più
sapere
nulla di lui. Si sente incredibilmente solo, come mai si era sentito.
Si ritiene disgustoso, deplorevole. Le uniche persone che abbia mai
amato in vita sua gli hanno voltato le spalle e la colpa non
può
che attribuirla a se stesso.
Si massaggia le tempie con l’anulare e sente scivolare in
avanti
la fede. Non ha ancora avuto il coraggio di togliersela. E’
il
filo che ancora lo tiene legato a Christian, la corda che regge il
ponte sul quale si trova e che se venisse tagliata lo farebbe
sprofondare nel baratro nero della depressione. Deglutisce, cercando di
ingoiare anche quel pensiero che gli si blocca in gola e che
pare
non voler scendere.
***
-Promettimi che non andrai a letto troppo tardi Kyle
Ripete Christian per la seconda volta al figlio.
-Si Chris, tranquillo.
Christian è tutto fuorché tranquillo. Non ha
alcuna
intenzione di uscire, vorrebbe solo potersi infilare pigiama e
pantofole e gettarsi sul divano a guardare qualche patetico reality
show in attesa di prendere sonno. Cosa più importante, non
si
sente pronto per tornare in un posto del genere, un posto che gli
ricordi così tanto Jonathan.
-Ti chiamo alle 11 e tu per favore vai a letto. Non fare il furbo Kyle
perché se quando torno scopro che non stai dormendo io
– Kyle
continua la frase –“ … non ti
permetterò
più di stare alzato tardi nemmeno nei weekend.”
Ho capito
Chris, adesso vai!
Il Candice.
Non ci mette piede da almeno dieci anni eppure guardandolo all'esterno
non è cambiato di una virgola. Solito buco,
infilato in un palazzo di triste cemento in periferia, con una fiumana
di gente di ogni tipo e razza ad attendere di entrare.
Si sente un po’ fuori target Christian, osservando i ragazzi
in
coda davanti a lui. Ne riesce a scorgere uno che ad occhio e croce
potrebbe avere al massimo un anno in più di Kyle, inizia a
sentirsi terribilmente vecchio e fuori luogo. Anche
l’abbigliamento ha il suo perché in quei posti;
pantaloni
attillati, magliette trasparenti, di rete o addirittura torsi nudi. Il
tutto per mettersi in mostra, per identificarsi come pezzi di carne da
vendere a tanto al chilo.
Solo dopo un’ora e mezza di fila, Christian e Ronald riescono
ad
entrare. Si fanno spazio tra la gente per raggiungere il bar e cercare
di accaparrarsi i primi due sgabelli disponibili.
Anche l’interno del locale non è cambiato in dieci
anni.
Musica assurda, assordante, odore di sudore, gente
bagnaticcia ed
eccitata che ti prende a spallate. Per non parlare delle luci.
Christian cerca di seguire la nuca corvina di Ronald, cercando di
distinguerla tra le altre ed evitando di farsi ingannare dalle luci ad
effetto slow-motion.
Arrivato finalmente al bancone si chiede per quale motivo abbia
accettato di tornare in un posto del genere. Ronald
è
seduto accanto a lui e gli sta parlando ma non riesce a sentire
esattamente le sue parole, il volume della musica è
decisamente
troppo alto. Sullo sgabello alla sua sinistra si siede un ragazzetto,
all’incirca ventenne, di bell’aspetto, che
sorseggia un
bicchiere contenente un liquido azzurrognolo.
Per un attimo rivede il flashback di se stesso seduto a
quello
sgabello, dieci anni prima, quando la sua testa era ancora vuota,
quando le preoccupazioni erano la metà, quando la sua
relazione
con Jonathan era appena iniziata e camminava per la strada, si muoveva
tra la gente, sempre con il sorriso da ebete sulle labbra, conscio del
fatto di aver trovato finalmente la sua anima gemella.
Ed eccolo anche sul viso del ragazzo quel sorrisino ebete che non
vedeva da anni, che invidia profondamente. Cerca di imitarlo ma non ne
è capace. E’ sicuro che se si osservasse allo
specchio in
quel momento i suoi occhi lo tradirebbero, quel sorriso
forzato.
-Prendiamo da bere?
Chiede Ronald, avvicinandosi all’orecchio di Christian, quasi
urlando.
Christian fa un respiro lungo e profondo poi accetta ed ordina un
cocktail. E' passato ormai il tempo delle ubriacate nei locali, non
è nemmeno sicuro di riuscire a reggere un bicchiere di Coca
& Havana mezzo vuoto, pieno di cubetti ghiaccio.
-Mohito con ghiaccio.
Dice infine al barista. Non ricordandosi nemmeno del sapore
dell’alcolico.
-Allora Chris, com’è tornare alla vita?
Chiede Ronald, sorseggiando il suo drink. Christian ci mette qualche
minuto a rispondere, non è certo aver compreso tutte le
parole.
-Se tu questa la chiami vita.
-Perché tu come la chiami?
Christian si guarda in giro. Tutta quella frenesia, quella strana
adrenalina, quella voglia di divertirsi e nient’alto. Sono
sensazioni
che è certo non proverà mai più.
-Io la chiamo “passato”.
Ronald sorride divertito.
-Andiamo, dimmi che non ti piacerebbe infilarti nel letto di quel tizio
là davanti! Lo vedi, quello appoggiato alla ringhiera?
Christian si gira e cerca di scrutare il soggetto indicatogli da
Ronald. Dopo un paio di tentavi lo inquadra. I colori psichedelici
delle luci non gli permettono di vederlo chiaramente ma riconosce dalla
figura che si tratta di un uomo ben piazzato, probabilmente muscoloso,
di quelli che nella testa non hanno che la palestra. I capelli devono
essere sono scuri, come il colorito della pelle, ma quello è
senza dubbio frutto di sedute al solarium.
-Carino. Il classico pallone gonfiato, ma carino.
Commenta con indifferenza, suscitando una reazione negativa in Ronald.
-Oh andiamo! Come sei noioso! Scommetto che uno così con uno
come ti ci sta sicuramente.
-Ron, basta. Non sono qui per questo. Oltretutto quello andar bene ha
vent’anni! Quando ti ricordo che ho un figlio di sedici. Se
ti
piace così tanto fattelo tu. Io sto benissimo qui.
Ronald prende il suo bicchiere, si alza dallo sgabello e dà
un buffetto sulla spalla a Christian.
-Chris, ti sei perso una grande occasione. Ci vediamo tra …
un’oretta. Divertiti!
Christian osserva l’amico sparire nella folla. Non gli sembra
nemmeno di essere realmente in quel posto. Si vede ancora sul suo
divano, seduto a guardare un qualche spettacolo televisivo. Qualcosa
tipo “Queer As Folk”, con discoteche, bei ragazzi
drogati
fino al midollo e una generale voglia di portarsi a letto chiunque sia
disposto.
E’ tutto così confuso eppure tutti quanti sembrano
così ben amalgamati tra di loro, tutti a loro agio, mentre
lui
se ne sta in disparte sul suo sgabello a sorseggiare poco per volta
quel mezzo bicchiere di alcool che ha paura a gettare tutto
d’un
fiato. E’ quasi spaventato da quella sensazione di
bruciore
e di piacere che provoca l’alcool quando passa di
colpo
dalle labbra alla gola.
Alla fine poggia il bicchiere, non del tutto vuoto, sul bancone e si
alza. Si fa strada tra la folla e cerca insistentemente
l’uscita.
Ronald è indubbiamente impegnato e non
c’è modo che
si accorga della sua assenza.
E’ da poco passata la mezzanotte, si è persino
dimenticato
di telefonare a Kyle, è certo che il ragazzo non
sta
dormendo, è sicuro di trovarlo ancora
alzato, incollato al televisore a guardare qualche squallido
film
d’orrore.
Esce dalla discoteca e prende una boccata d’aria. Fa freddo,
è scesa l’umidità e sta iniziando a
piovigginare.
Si sporge verso il marciapiede e attende l’arrivo di un taxi
per
tornare a casa.
Continuazione dell'AVVISO in testata:
La novità per HARD TO SAY I'M SORRY per il 2014 è il SITO:
APRIMI!
Troverete oltre ai capitoli già presenti su EFP (riveduti e corretti in modo da renderli più coerenti in linea col mio sitle di scrittura attuale), le schede dei personaggi, alcuni approfondimenti, curiosità e partire dal mese di Aprire un PREQUEL di questa storia (che pubblicherò successivamente anche qui).
Che Aspettate? APRITE SUBITO IL LINK!!!!
---> Ta-dah! Ecco il terzo capitolo. Niente da dire sulla storia
questa volta. Sto per partire e beh... ho voluto postare comunque in
tempo ^.^ Colgo l'occasione per fare gli auguri di Buona Pasqua
a chi leggerà questa storia.
E natualmente ringrazio Ytrew_Jezzy
per il commento ^^ Se noti errori clamorosi nel testo fammeli pure
notare, così posso migliorarmi e non ripeterli :)
Alla prossima -m-(^o^)-m- <---
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Capitolo 4 *** Later Days (Ritardo) ***
!!! AVVISO !!!!
(Relativo ai primi capitoli)
Ehi, sì dico proprio a te!
Vedo che hai deciso di aprire la mia storia e di questo ti ringrazio. Voglio però farti presente che il testo che stai per leggere è parecchio datato (prima metà 2009) e che ne esiste ora versione migliorata, riveduta e corretta.
Lascio a te scegliere se continuare a leggere questa versione (che qui su EFP rimarrà così com'è) oppure scoprire dove puoi leggere la nuova versione (accompagnata da contenuti "speciali").
Se preferisci proseguire qui ti auguro BUONA LETTURA, in caso contrario, scorri fino ad arrivare in fondo a testo. GRAZIE!
4. Later Days (Ritardo)
E’ lunedì mattina. Kyle se ne sta accoccolato nel
suo letto tra le coperte, assaporando quella piacevole sensazione di
dormiveglia e riscaldandosi con il piumone azzurro che si è
portato fino alle orecchie. Cerca di non curarsi della radiosveglia che
sta suonando ininterrottamente da circa venti minuti. E’
così bello starsene a letto, vorrebbe non alzarsi mai.
Lasciandosi trasportare eccessivamente si riaddormenta. Quando si
risveglia si rende conto che la sveglia ha smesso di suonare. Inizia a
pensare di essersela sognata. Poco per volta riemerge dal piumone e
allunga il braccio per raddrizzare la sveglia, per vedere meglio
l’orario. I suoi occhi sono ancora semi-chiusi. Sbadiglia e
sbatte le palpebre, accecato dalla forte luce rossa dei numeri sul
quadrante. Non appena è poco più cosciente cerca
di focalizzare quei due numeri.
07.57.
Dovrebbe essere a scuola in tre minuti. Un’impresa del tutto
impossibile. Con un balzo scende dal letto e si sfila il pigiama, apre
frenetico l’armadio e scorre velocemente i suoi jeans,
afferrandone un paio, apparentemente a caso, lo stesso fa con la
maglietta. Raggiunge in fretta il bagno, si lava la faccia e si veste
di tutta fretta. Non ha nemmeno tempo per pettinarsi i capelli, se li
sistema di corsa con le mani.
L’orologio in salone segna le 8.05, il pullman
è passato da tempo. L’unico modo per andare a
scuola è quello di farsi accompagnare da Christian.
E’ lunedì, il suo giorno libero, sta ancora
dormendo, a giudicare dalla porta chiusa della sua stanza. Kyle prima
bussa e poi entra, dperando di trovarlo già sveglio, magari
vestito.
La luce nella stanza è ancora spenta, Christian è
ancora completamente addormentato, non ha nemmeno sentito Kyle entrare.
Il ragazzo si lancia sul letto ed inizia a chiamarlo e dargli spintoni
per farlo alzare.
-Chris! Chris sveglia alzati! Ti prego!
Dopo ben tre minuti, finalmente Kyle riceveve una risposta dal padre.
-Chi …? Cosa …? Kyle. Che ore sono?
Si mette a sedere. Si stropiccia gli occhi, sbadiglia e osserva il
figlio.
-Cosa c’è?
Chiede, con tono ancora assonnato.
-Sono in ritardo! Devi portarmi a scuola!!
Christian si gira per vedere la sveglia, osserva l’orario,
non convinto la afferra e la avvicina di più al viso per
leggerla meglio. Una volta constatato l’orario
spalanca gli occhi, lascia cadere la sveglia sul letto.
-Oh Cristo santo Kyle! Sono le otto e dieci!
Scosta rapido le lenzuola e scende dal letto. Ripete gli stessi gesti
di Kyle, con il doppio della fretta.
-Vai in cucina, versa quattro cereali nella tazza … sei
capace?
Kyle annuisce e si precipita in cucina.
-Le nove meno venti. Ti vale la pena entrare?
Chiede Christian, fermando la macchina davanti all’ingresso
della scuola di Kyle. Ha corso più non posso per arrivare in
un orario decente, rischiando di investire qualche passante e un uomo
in moto.
-Beh sono ancora in tempo per la seconda ora.
Kyle si slaccia la cintura, si sporge verso i sedili posteriori per
afferrare lo zaino ed esce dalla macchina. Christian lo ferma, lo
prende per la manica e lo strattona. Trascinandolo di nuovo dentro.
-Che c’è? E’ tardi!
Si lamenta il ragazzo.
-Aspetta un attimo. Ritardo per ritardo dobbiamo parlare.
Kyle torna a sedersi, chiude la portiera e aspetta.
-Senti, è già la quarta volta che corriamo come
due pazzi a scuola perché non ti svegli. Ti conosco, so che
razza di ritardatario sei. Per favore, da domani mattina punta la
sveglia.
Kyle annuisce ed allunga di nuovo la mano verso la maniglia della
portiera.
-Non ho finito.
Sa dove vuole arrivare Christian, per questo fa il possibile per
andarsene a scuola al più presto.
-Chris ho capito. Le cose sono cambiate. Non c’è
più nessuno a svegliarmi, devo pensarci da solo. Posso
andare?
Christian fa un respiro profondo, si massaggia la fronte.
Ancora una volta la presenza invisibile di Jonathan torna a pesare tra
i due. E’ così grave e pressante quella sua
presenza che pare averli seguiti in macchina, pare quasi sia seduto
dietro ad ascoltare e vivere con loro quella scena. Hanno
cercato di ignorarlo in quel tempo ma lui sembra essere ovunque, in
ogni loro gesto, in ogni loro pensiero. In ogni fase della loro
giornata manca qualcosa, manca una parte senza la quale non possono
andare avanti, senza la quale tutto l’ordine viene sconvolto.
Anche i ritardi a scuola.
Con Jonathan in casa a nessuno era mai concesso ritardare. Aveva sempre
la sveglia puntata, era il primo ad alzarsi e si era sempre preoccupato
di svegliare anche loro due. Da quando ha lasciato quella casa, nessuno
dei due si è più preoccupato di alzarsi in
orario. Basterebbe semplicemente sistemare la sveglia, certo. Eppure
quella di lasciare che fosse Jonathan a svegliarli, con la sua voce
profonda, con le sue frasi di routine, è
un’abitudine dalla quale è dura staccarsi.
Una sciocchezza dopotutto ma evidentemente per Christian e Kyle,
ricopre una notevole importanza.
-E’ giusto quello che stiamo facendo?
Chiede Christian, con un fil di voce. Kyle non sa cosa
rispondere. Fa un lungo respiro. Appoggia ai suoi piedi la cartella che
fino a quel momento hs tenuto in mano. Rimane in silenzio.
-Scendi dai. Tra poco inizia la seconda ora …
Kyle obbedisce, afferra di nuovo la cartella e scende. Si chiude la
portiera alle spalle e senza voltarsi si avvicina con calma verso il
portone d’ingresso della scuola. Mancano ancora cinque minuti
all’inizio dell’ora successiva, può
anche prendersela con comodo.
***
Potrebbe fare quella strada ad occhi chiusi Jonathan.
L’ha percorsa tutti i giorni quella stessa strada negli
ultimi quindici anni. Eppure è un mese che non vi ritorna.
Un mese che senza vedere quel cartello di stop sbiadito dal sole, quel
guard-rail arrugginito, il laghetto alla sua sinistra, fino a qualche
anno prima popolato di papere e anatre, ora vuoto, ridotto ad uno
stagno paludoso e ricoperto d’erba.
La segnaletica orizzontale è sparita da anni su quel manto
stradale, ha scioccamente sperato che l’avessero sistemata
proprio in quel mese di assenza. E invece, anche quella, va a sommarsi
all’insieme di familiarità che gli fanno mancare
quasi il respiro.
Non aveva mai pensato che gli potesse mancare l’ambiente in
cui era solito stare. Non aveva mai pensato di avvertire un colpo al
cuore vedendo quel cartello di stop sbiadito, che in quindici anni non
gli ha fatto il benché minimo effetto. Per poi
arrivare infine al condominio.
Non poter mettere la freccia a sinistra, afferrare il telecomando nel
portaoggetti vicino al cambio, schiacciare il bottone rosso per aprire
la saracinesca del garage, gli fa avvertire una certa mancanza.
Dovrà saltare quei passaggi così automatici, che
non potrà più ripetere.
Se avesse saputo come si sarebbero svolte le vicende, si sarebbe
fermato un istante per godere di tutte quelle quotidianità
che hanno sempre riempito le sue giornate.
Parcheggia l’automobile poco distante dal condominio. Dopo
qualche passo raggiunge lo stabile. Al momento di pigiare il bottone
dell’ascensore si blocca. Un altro gesto meccanico.
Schiaccia il bottone rosso, attende l’apertura delle porte,
entra nell’abitacolo e allunga il braccio sinistro verso la
pulsantiera. Preme il terzo bottone a destra e aspetta che le porte
automatiche si chiudano di nuovo.
Una volta arrivato al pianerottolo della propria abitazione rimane
spiazzato, osservando due scatoloni ai due lati della porta e una
valigia appoggiata su uno di questi. Si chiede se non sia
proprio la sua roba ad essere contenuta in quegli scatoloni.
Si avvicina alla valigia. La riconosce. E’ la solita valigia
scozzese pesante che era solito caricare ogni estate in macchina, per
partire per le vacanze. E’ gonfia e pesante.
La adagia orizzontalmente sullo scatolone su cui è posata ed
apre le due cerniere. Come previsto, contiene i suoi vestiti.
Richiude la valigia, la solleva e la appoggia contro la porta. Apre uno
scatolone e nota che anche in quello sono contenuti i suoi vestiti.
In quel momento non sa più a che pensare.
Dovrebbe essere sollevato dal fatto di non dover affrontare il faccia a
faccia con Christian, di non dover entrare, fare quello stesso lavoro
che ha fatto per lui chissà quanto tempo fa, di non sentire
il suo sguardo addosso e sentirsi ancora più colpevole e
ancora più sporco. Gli basta prendere la sua roba, spingerla
nell’ascensore e caricare tutto sulla macchina, andando in
direzione dell’albergo.
Ma gli manca qualcosa.
Aveva bisogno di vedere Christian. Non gli importava del modo in cui
l’avrebbe accolto, di quello che si sarebbero detti, sarebbe
stato persino pronto a sentirsi addosso di nuovo tutte le sue colpe ma
non poteva resistere ancora senza vederlo. Il timore delle
sue lacrime, di leggere la tristezza nel suo viso, erano svaniti.
In un attimo di tentazione, allunga la mano verso il pomello della
porta. Si blocca. Forse dovrebbe suonare il campanello o bussare. In
fondo ormai non è più quella la sua casa.
Legge il suo cognome sulla targhetta sopra al campanello e non riesce.
Lascia perdere. Forse è meglio così. Si affretta
a radunare le sue cose, deve andarsene subito.
***
Morgan ha visto Kyle entrare in classe a lezione iniziata. Ha saltato
la prima ora e adesso se ne sta seduto in fondo alla classe,
nell’unico posto libero rimasto. Vorrebbe girarsi e
chiedergli il motivo di quel ritardo ma verrebbe rimproverata dal
professore. Decide di aspettare la fine della lezione.
E’ sempre più strano. Si chiede se davvero non gli
sia successo qualche cosa di spiacevole, del quale non
l’abbia messa al corrente. Non ha mai fatto un ritardo a
scuola dalla prima elementare, per quanto si ricordi, mentre in quel
mese è già la quarta che lo vede entrare alla
seconda ora o addirittura alla terza, una volta non si é
nemmeno presentato. Deve assolutamente indagare a fondo sulla faccenda.
L’ora di algebra è senza dubbio la più
noiosa. Pare non finire mai. L’insegnante è la
signorina Hover, una vecchia zitella inacidita, il cui unico
divertimento debr essere torturare i propri alunni con esercizi
complicati e irrisolvibili.
Morgan sbuffa, osservando l’esercizio assegnato. Afferra la
calcolatrice e cerca una matita nel suo astuccio. Si accorge di averla
dimenticata. Decide di approfittare di quell’occasione per
chiederla a Kyle. Prima strappa un angolo dal foglio del proprio
quaderno e scrive un biglietto da consegnare all’amico.
“Ciao. Questa dei ritardi poi me la spieghi
…”
Si gira, si alza e va verso il banco del compagno. Per prima cosa
appoggia il foglietto sul banco.
-Kyle, ho lasciato a casa la mia matita. Hai una 2B anche per me vero?
Kyle inizia a tastare tra le sue cose poi afferra un matita mezza
mangiucchiata e la porge all’amica che prima la osserva
disgustata poi la accetta e se torna al posto.
-Allora Signorino Wallace? A cosa sono dovuti questi ritardi?
Chiede la ragazza, comparendo al fianco di Kyle in corridoio.
-Morgan te l’ho detto, mi sveglio tardi.
Per Morgan quella non è una spiegazione sufficiente.
-No caro! Oggi non te la cavi con così poco. Non ti
è mai capitato di arrivare così tanto in ritardo.
Sputa il rospo, avanti!
Kyle accelera il passo, cercando di lasciarsi alle spalle Morgan. La
ragazza non si dà per vinta e lo rincorre, cerca di
superarlo in velocità e gli si piazza davanti. Allarga le
braccia e gli impedisce il passaggio.
-Non vai da nessuna parte se prima non mi dici la verità!
Kyle cerca di eluderla ma non riesce, stanco di continuare ad andare a
destra e sinistra la spinge, facendola cadere. Poi in fretta
se ne va, lasciandola da sola a terra.
La ragazza si trova spiazzata. Non l’ha mai spinta, neanche
per gioco. Deve esserci un motivo a fronte del suo comportamento e
Morgan è più che decisa di scoprirlo quel giorno,
a costo di farsi spingere di nuovo a terra, a costo di farsi fare male
sul serio.
***
E’ mezzogiorno. Christian ha passato l’intera
mattinata in giro per la città. Ha svolto tutte le
commissioni, ha fatto la spesa, ha portato degli abiti di Kyle in
tintoria. Tutto per poter tenere la mente occupata. Il pensiero di
Jonathan quella mattina si è fatto più
insistente. Doveva fare il possibile per scacciarlo.
Molto probabilmente, non è possibile toglierselo dalla testa
quel giorno.
Rincasando trova il pianerottolo sgombro. Quei due scatoloni e quella
valigia, posti nella stessa posizione per un mese non ci sono
più. Si era quasi abituato a vederli lì fuori,
uscendo di casa,
Jonathan è stato lì, è tornato a casa.
Forse è entrato, e si è preso anche gli oggetti
non impacchettati, durante la sua assenza.
Rapidamente afferra il mazzo di chiavi in tasca, apre la porta, la
spalanca e lascia a cadere a terra le buste di carta della spesa, per
dirigersi verso la stanza da letto. Si inginocchia e apre il comodino
di Jonathan. Non è stato toccato nulla.
Rimane seduto a terra e torna a pensare.
Pensa che probabilmente Jonathan neanche c’è
tornato in casa. Ha solo raccolto le cose che lui stesso gli ha
preparato e se n’è andato via, senza nemmeno farsi
vedere.
Ha ottenuto quello che voleva. O forse no?
***
Kyle si prepara in fretta per uscire da scuola. E’ passato
anche quel giorno. Deve ricordarsi, una volta arrivato a casa, di
sistemare la sveglia, per evitare il ripetersi di quella mattina.
Non ha più visto Morgan dopo averla spinta nel corridoio.
Non era sua intenzione farlo, mentre percorre la strada per il pullman,
spera non si sia fatta male. E’ così magrolina e
delicata Morgan. Dovrebbe chiederle scusa. Afferra il
cellulare ed inizia a comporre un sms.
Vede che il pullman è in anticipo quel giorno, ripone in
tasca il cellulare, lo scriverà una volta seduto il
messaggio. Si avvicina alla scaletta del pullman.
-Alt! Di qua non passi!
Alza lo sguardo e vede Morgan davanti a sé, che gli blocca
la strada, che gli impedisce di salire.
-Allora stai bene.
-Certo che sto bene e non ti faccio passare finché non mi
dici cosa sta succedendo Kyle! Quindi faresti bene a darti una mossa.
Kyle cerca di passare comunque ma non riesce.
-Morgan, spostati per piacere.
Morgan non ha alcuna intenzione di muoversi.
-No che non mi sposto.
Kyle inizia ad infastidirsi.
-Te lo chiedo per favore Morgan, spostati da lì.
Lei non si sposta e non dice nulla.
-Morgan SPOSTATI!
Grida Kyle.
-Tu parla e io mi sposto.
Kyle sbuffa seccato e annuisce col capo.
-Va bene. Lo vuoi proprio sapere cosa non va Morgan?
-Certo che si! Non me lo puoi nascondere ancora …
Kyle fa un attimo di silenzio poi inizia a parlare. Lasciando
scorrere un fiume inarrestabile di parole, pronunciate con un tono di
amarezza e di risentimento.
-I miei genitori si stanno separando. Jonathan se
n’è andato di casa un mese fa e non è
più tornato, mi scrive messaggi che non voglio leggere ma
non si degna di fare una telefonata. La situazione a casa mia
è un schifo. Christian … non ci parlo per non
farlo stare male. Ed io? Beh io lo lascio a te come posso stare.
Morgan rimane a bocca spalancata. Non si aspettava una spiegazione del
genere. Sta ancora cercando di rielaborare quel mucchio di
informazioni che le erano state fornite.
-Adesso mi lasci passare?
Si sposta e lascia salire l’amico. Senza riuscire per il
momento a ribattere in alcun modo.
Continuazione dell'AVVISO in testata:
La novità per HARD TO SAY I'M SORRY per il 2014 è il SITO:
APRIMI!
Troverete oltre ai capitoli già presenti su EFP (riveduti e corretti in modo da renderli più coerenti in linea col mio sitle di scrittura attuale), le schede dei personaggi, alcuni approfondimenti, curiosità e partire dal mese di Aprire un PREQUEL di questa storia (che pubblicherò successivamente anche qui).
Che Aspettate? APRITE SUBITO IL LINK!!!!
----------
---> Eccomi dopo una settimana giusta giusta a postare il quarto
capitolo. Avviso che al momento sono a metà del tredicesimo
e... la fine è lontana xD quindi andrò
avanti ancora per un bel po'^^ per il resto...
Ringrazio di nuovo Tao
per i commenti. Sei stata gentilissima a commentare l'ultimo
capitolo e quello indietro^^ Mi fa piacere che ti
piacciano i miei personaggi, io sono di parte ma li adoro, sono i
migliori che il mio cervellino abbia partorito XD
Ok, that's all!! Alla prossima :) <---
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Capitolo 5 *** Temporary (Temporaneo) ***
5. Temporary (Provvisorio)
-Perché hai aspettato così tanto tempo
a venire da me Jonathan?
Jonathan fa un lungo respiro. Ha lo sguardo fisso nel vuoto. Si
accoccola nella sedia, cercando di rilassarsi. Avrebbe bisogno di una
sigaretta, di una delle sue Lucky Strike, in quel momento.
Sono mesi che non vede Gregor. Gli pare invecchiato. I capelli una
volta brizzolati sono quasi completamente grigi, le rughe sulla fronte
sono solchi più profondi, persino i suoi particolari occhi
grigi sembrano più piccoli, più infossati,
più stanchi. Ha cinquant’anni Gregor ma non
l’ha mai dimostrata la sua età, fino a quel
momento perlomeno. Vorrebbe fargli qualche domanda ma il suo ruolo in
quella situazione non glielo permette, in quello studio, quello strano
studio, il paziente è lui ed è Gregor
l’unico a cui è concesso fare domande.
E’ sempre stato intimorito da quell’ufficio,
così antico, così buio. Libri antichi e polverosi
riposti su enormi librerie, tende scure, quasi nere, dai drappeggi
pesanti, per non parlare del parquet, rosso scuro, rosso sangue.
E’ un ufficio molto vecchio e le pareti sono solide, i muri
sono ben isolati. Jonathan è sempre stato convinto che se
Gregor morisse da solo in quello studio, nessuno se ne accorgerebbe per
mesi.
Nulla di ciò che entra in quel posto riesce ad eludere quei
muri e allo stesso modo nulla può penetrarli.
-Non lo so perché.
Risponde Jonathan, dopo qualche minuto di silenzio.
-Quanti mesi sono che non ci vediamo… tre?
Jonathan lo corregge.
-E mezzo.
Gregor sospira.
-Eppure ti ho sempre detto che uno psichiatra ha bisogno a sua volta di
una visita. O sbaglio?
Jonathan non risponde.
-Bene, dopotutto ora sei qui.
Gregor sposta la sedia un poco lontano dalla scrivania, per poter
essere più comodo e inizia ad osservare Jonathan a braccia
conserte, in attesa che inizi a dire qualcosa. Sono sempre
così le sedute da lui. Se ne sta zitto e lo fissa in attesa
che parli. Sa bene di non dover attendere troppo, perché lui
non è in grado di sopportare il silenzio, lo spaventa, lo
confonde, fa emergere ogni sua paura, il più recondito dei
suoi pensieri.
E quando Jonathan avrà iniziato a parlare,
dovrà soddisfare le esigenze di Gregor che non
parlerà, non dirà nulla, non farà
nemmeno il minimo gesto, finché non avrà ottenuto
le informazioni necessarie, finché non riterrà di
aver saputo tutto il possibile.
Cede, Jonathan.
-Non ce la faccio più Gregor, mi sento in gabbia.
Gregor questa volta parla.
-Per questo saresti dovuto venire da me. Il tuo problema Jonathan
è che tu pensi di poter fare a meno delle persone e poi,
pagando il doppio del prezzo, ti accorgi che non è possibile.
Smette di parlare per qualche secondo.
-Pensi si fare a meno di me e sai che non è possibile.Hai
pensato di poter fare a meno persino di lui nel momento in cui hai
fatto… quello che hai fatto.
Jonathan rimane stupito.
-Quindi hai capito, quindi non c’è bisogno che
parli? Possiamo passare alla fase successiva?
Gregor sorride e scuote il capo.
-Oh no. Se pensi di potertela cavare con così poco, non sai
fare il tuo mestiere.
Avrebbe dovuto aspettarselo. Cala di nuovo il silenzio ed inizia a
parlare.
***
Non sa come comportarsi Morgan, dopo quella rivelazione, dopo quel
fiume di informazioni che Kyle le ha gettato addosso. E’
passata una settimana da quel giorno e ha cercato di non toccare
l’argomento con l’amico. Non saprebbe come
affrontarlo, non saprebbe cosa dirgli né quale reazione
aspettarsi da parte sua.
Lo osserva, è distratto. Ha il gomito destro poggiato sul
banco, il mento posato sul palmo della mano e sta scarabocchiando. Lo
fa spesso quando è annoiato, quando è pensieroso.
Osserva la finestra ogni tanto, studia le gocce di pioggia scorrere sul
vetro.
Poi la direzione del suo sguardo cambia.
Morgan si sporge per osservare meglio ma non riesce a capire.
Deve ritenerlo molto interessante quello che sta fissando
perché dopo qualche minuto di contemplazione comincia a
disegnare frenetico su un foglietto, che strappa con
rapidità da un block notes.
Morgan non riesce a vedere cosa stia disegnando, il foglietto
è troppo piccolo e il braccio di Kyle le copre tutta la
visuale. Cerca di guardarsi intorno per scoprire quale possa essere
l’oggetto d’interesse di Kyle, incrocia lo sguardo
di Antony e decide.
E’ lui, Antony Edwards, il soggetto del disegno di Kyle, deve
esserlo per forza. La ragazza se ne convince, senza voler pensare ad
un'altra possibile alternativa.
E’ seduto in una posizione simile a quella di Kyle, Anthony,
nemmeno lui sta seguendo, ha lo sguardo fisso nel vuoto, pare.
E’ un quarterback, di buona famiglia, un bravo ragazzo, tutto
sommato.A a scuola se la cava egregiamente. Per questo motivo molte
ragazze ambiscono ad uscire con lui e molti ragazzi cercano di entrare
nelle sue simpatie. Fisicamente, togliendo il corpo da atleta,
è un ragazzo comune, nessun particolare che possa
distinguerlo dalla massa, carino nel complesso.
Morgan non riesce a togliersi dalla testa il pensiero che tra lui e
Kyle possa esserci qualcosa. Non sa con precisione quando le sia nata
questa certezza ma giorno dopo giorno è sempre
più convinta. Decide di aver trovato il modo per distrarre
Kyle, per non fargli pensare ai suoi problemi; deve far nascere
qualcosa di concreto tra lui e Anthony.
Per i restanti minuti di lezione cerca di ideare un piano. Le vengono
in mente le idee più strane, più bizzarre, poi,
la campanella suona e si alza per raccogliere le sue cose. Voltandosi
verso Kyle osserva che al suo banco si è avvicinato proprio
Anthony. Comincia a pensare che la fortuna possa esserle amica e che
forse non c’è nemmeno bisogno del suo aiuto per
avvicinare i due.
Dovrebbe andare a lezione di biologia ma non ha intenzione di perdersi
la scena, così svuota la cartella e cerca di sistemare
lentamente i libri, gettando ogni tanto lo sguardo verso i due ragazzi.
-Davvero non ti da fastidio prestarmeli, Kyle?
Chiede Anthony, bandendo il quadernetto degli appunti di Kyle.
-No figurati. Me li hai prestati tu l’ultima volta, prendili
pure.
Risponde Kyle. I due ragazzi si scambiano un sorriso reciproco, di
cortesia, di circostanza. L’unica a vedere della malizia in
quel sorriso è Morgan che ormai, dopo aver spostato per una
ventina di volte gli stessi tre libri nella cartella, decide di
avvicinarsi all’amico per evitare di far scoprire il suo
tentativo di spionaggio.
-Kyle, andiamo a biologia? Oh ciao Anthony!
Esclama, fingendo di non aver nemmeno notato il ragazzo. Kyle si alza
dalla sedia ed inizia frettolosamente a radunare le sue cose.
-Ciao Morgan.
Risponde Anthony.
-Quando te li devo riportare?
Domanda.
-Venerdì… ti va bene?
Chiede. Kyle annuisce.
-Benissimo.
-D’accordo allora… grazie di nuovo, ciao. Ciao
ancora Morgan.
Si allontana, lasciando i due in classe da soli. Dopo qualche secondo
anche loro escono, per raggiungere l’aula di biologia.
Morgan decide di indagare.
-E’ un bel tipo Anthony…
Commenta.
-Pensavo odiassi i ragazzi della squadra di football.
Risponde lui. Non era certo la risposta che Morgan si stava
aspettando. Decide di azzardare di più.
-Infatti non parlavo di me… dico che in generale alla gente
può piacere, un tipo come lui.
Si pente. Ha azzardato troppo. Kyle si è sicuramente accorto
di ciò che vuole sapere. Si morde il labbro e attende di
sentirlo sbraitare.
-Se ti piace il tipo…
Nulla. Non si è accorto di nulla. Morgan tira un sospiro di
sollievo. Decide di fermarsi per il momento, attenderà
venerdì, alla restituzione degli appunti, per fare altre
domande.
***
Christian sta lavorando. Ronald lo guarda. E’ seduto in una
posizione strana, come sempre, è quasi a gambe incrociate
sulla sedia, le sue braccia sono poggiate sul tavolo e sta correggendo
i suoi appunti e i testi propostigli dai suoi studenti.
Non conosce nessuno, Ronald, che abbia la stessa passione per il
proprio lavoro come Christian e dubita di riuscirne trovare al mondo
molti come lui. Lo invidia, lo invidia profondamente. Quel suo impegno
nel lavoro, quel suo amore per quello che fa.
Lo conosce da dieci anni, da quando è arrivato, la sua
passione per l’insegnamento non si è mai scalfita.
Era solo in ragazzino neo-laureato, non aveva mai lavorato in una
scuola, a differenza sua. Stava sulle sue, sembrava non volesse parlare
troppo con nessuno, non si perdeva in confidenze, si limitava a qualche
saluto, qualche sorriso timido. Era rimasto incuriosito Ronald da quel
ragazzo e aveva deciso di seguire una delle sue lezioni, per osservarlo
spiegare. Voleva vedere in quale modo un ragazzo così
giovane fosse capace di spiegare qualcosa di antico, e generalmente
poco divertente, come la storia d’arte classica.
Gli brillavano gli occhi.
Cambiava completamente in aula. Era sicuro di sé, parlava a
briglia sciolta e camminava tranquillamente avanti e indietro per
l’aula, gesticolando di tanto in tanto. A volte indicava uno
dei suoi alunni per fare qualche domanda e sorrideva, sempre, che la
risposta datagli fosse adeguata o meno.
Per Ronald Christian é un attore, il migliore, una star. Le
fredde e austere aule dell’accademia sono il suo
palcoscenico, il luogo dove é in grado di esprimersi nel
migliore dei modi.
Ha una grande abilità Christian, sa coinvolgere i suoi
studenti come nessun professore che conosca è in grado fare
e Ronald, a distanza di anni , continua a chiedersi come ci riesca,
quale sia questa qualità di Christian che lui invece non
possiede.
Si siede anche lui, poco distante da Christian, per evitare di
disturbarlo. Ha un profilo distinto, lineamenti delicati, mascella poco
pronunciata e labbra molto sottili, per non parlare dei suoi occhi
azzurri, dei suoi capelli.
Non è solo la capacita d’insegnamento di Christian
ad attirare Ronald, è attratto da lui, dal suo carattere,
dal suo bel viso, lo è da sempre ma non lo
ammetterà mai, né a Christian né a se
stesso.
Sta sorridendo.
Lo fa spesso mentre corregge gli appunti di qualche suo studente,
quando ritrova scritto nero su bianco ciò che ha spiegato,
quando si rende conto che le sue lezioni sono state rielaborate,
capite, apprezzate. Gli basta questo per farlo sorridere, è
così semplice Christian, ingenuo a volte. Anche Ronald
sorride di riflesso, ha un sorriso particolare quel ragazzo.
-Di’ un po?, cos’hai da sorridere?
Domanda Ronald.
-Uhm?!
È completamente assorto in ciò che legge
Christian, non ha attenzione per altro, non si fa distrarre da nulla,
un’altra dote che Ronald gli invidia.
-Niente, niente… piuttosto, hai da fare questa sera?
Si alza e si avvicina a lui.
-Non so…
Prende la sua agendina rossa ed inizia a scorrere le pagine. Ronald non
sopporta le persone che tengono la propria vita appuntata in un assurdo
giornaletto. Afferra furiosamente l’agenda del collega e la
spinge lontano dalla sue mani.
-Ma quale agenda! Li conosci i tuoi impegni.
Christian annuisce, si alza e raccoglie la sua agenda, finita quasi
all’altro capo del tavolo.
-La verità è che cercavo un modo carino per
rifiutare un tuo invito in un altro squallido bar…
Confessa, con decisione.
- E se ti proponessi qualcos’altro?
Christian si volta.
-Tipo?
Ronald gli sorride.
-Uscire io e te, insieme, da soli.
Christian spalanca gli occhi, lo fissa, senza dire niente. Il suo
sopracciglio sinistro è leggermente alzato, la sua bocca
semi-aperta. Quella strana espressione ha qualcosa di molto divertente
per Ronald, scoppia ridere, confondendo ancora di più il
povero Christian.
-Scherzavo! Scherzavo! Dio dovresti guardarti allo specchio, la tua
faccia è così… ridicola!
Christian porta gli occhi al cielo, raccoglie le sue cose e lo lascia
da solo nella sala.
“Già, scherzavo” pensa, non riuscendo a
togliersi la curiosità di sapere cosa avrebbe risposto
Christian una volta sparitagli dal viso quell’espressione
buffa.
***
-E’ una nuova casa, quello che ti serve.
Così gli ha detto Gregor. Ha ascoltato tutto quanto avesse
da dirgli e poi se n’é uscito con quella frase.
Cammina per il centro Jonathan, sconvolto. Sapeva che non avrebbe
potuto vivere in quella stanza d’albergo in eterno, che non
vi si sarebbe potuto nascondere a lungo eppure, intimamente,
c’aveva sperato.
Durante quel periodo ha guardato i vari volantini, raccolti per strada
o nei metro, riguardanti appartamenti in vendita ma non ha mai trovato
qualcosa che gli interessi o meglio, non ha mai voluto trovarlo.
La sua casa, la casa di Christian, é tutto per lui.
C’é la sua vita, i suoi ricordi. Non poterla
più definire propria, averne un'altra, lo farebbe sentire
perduto, gli farebbe sembrare tutto quanto reale. Durante quel periodo
gli é parso quasi di camminare per aria, non si é
reso bene conto di cosa gli stia succedendo, se ne sta accorgendo solo
ora.
In quella casa lascia la parte migliore di sé, quella che
Christian e Kyle amano, quella in cui si riconosce. Non
potrà riprendersela e portarla con sé, nel nuovo
appartamento ci sarà il Jonathan attuale, il
vigliacco solo e sovrastato dalle colpe di cui si è
macchiato. E' con quella figura che deve convivere ora.
Cammina e calpesta un volantino, l’ennesimo annuncio di
appartamenti, lo raccoglie, lo legge e lo getta di nuovo a
terra.
Prende una sigaretta, l’accende e respira. Quella situazione
temporanea, provvisoria, in cui si è trovato sta diventando
sempre più reale. Non ha la forza ora di pensare a
concretizzarla, aspetterà a cercare
l’appartamento, un altro giorno almeno, lasciandosi il tempo
per dare a quella situazione dai contorni sfuocati delle forme ben
definite.
--> Buondì! Beh sarebbe buonasera visto che sono
quasi le 5... comunque, eccomi con il quinto capitolo! Entra in scena
un personaggio molto strano in questo capitolo, Gregor. Potrete odiarlo
o amarlo ma è un tipo irrimediabilmente "losco" XD Poi... mi
fa molto piacere avere visto aumentare il numero dei commentatori a
partire dal quarto capitolo, sono molto felice, davvero. Vorrei quindi
passare a ringraziare e rispondervi uno per uno.
Mana: Mi fa
piacere che ti piaccia questa storia, sì i dettagli sui
motivi della rottura verranno svelati poco a poco, nello svilupparsi
della storia... vi lascio un po' con la "sorpresa" ^^ Ti
ringrazio poi anche per i consigli sulla forma, ho ingrandito il
carattere a partire da questo capitolo, come si nota e ho anche cercato
di mettere i puntini di sospensione attaccati alla parola. Se noti
altre "imperfezioni" non esitare e farmele notare, mi fa piacere
ricevere "dritte" e poi significa che siete attenti nella lettura ;)
Tao:
Sì,la mia mente contorta ha un talento naturale per la
tortura dei personaggi XD Sono contenta che continui a ritenere
realistica la mia fic, anche nel capitolo 4 che è quello che
personalmente mi è piaciuto di meno.
Felicity89:
Si, come ho scritto a Mana, pian piano avrete tutti i dettagli, ma
proprio TUTTI XD Sì, Johnathan è un personaggio
molto interessante, particolare. Ha anche una serie di "turbe" mentali
e di questo ve ne accorgerete nel capitolo 6...
Ok, detto questo... alla prossima!! <--
|
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Capitolo 6 *** Hidden (Nascosto) ***
6.Hidden (Nascosto)
Sta seduto sulle scale dell’accademia Kyle, osserva il viavai
di studenti muoversi per il corridoio e vede se stesso tra qualche
anno. Ha solo sedici anni ma il desiderio di frequentare il college per
lui è fortissimo. Molto probabilmente perchè ci
è cresciuto in quell’accademia. Lo portava spesso
Christian, agli inizi della sua carriera, in quel posto. Lo lasciava in
biblioteca a leggere libri, a sfogliare volumi. In questo modo
è nata la sua passione per la letteratura e quella per
l’arte.
Il primo libro letto nella biblioteca del college era proprio un volume
parlante di un pittore italiano, Hayzez, appartenente alla corrente
pittorica Romantica. L’aveva sfogliato quasi tutti i giorni
per anni e si era innamorato del dipinto “Odalisca
distesa”, la sua prima copia.
Riflette sul motivo della sua presenza in quel posto, dopo anni. Sono
le nove passate, dovrebbe essere a scuola. Dovrebbe si, ma non
è stato in grado di andarci. È iniziato tutto
qualche ora prima.
A causa di numerosi ritardi a scuola, si era finalmente deciso di
sistemare la sua sveglia per poter fare le proprie cose con calma ed
essere puntuale alla fermata del bus scolastico.
Quella mattina era in anticipo di ben venti minuti. Si era seduto sulla
panchina alla fermata ed aveva iniziato ad aspettare.Venti minuti sono
tanti per non annoiarsi, così aveva deciso di prendere dalla
tasca il cellulare e passare il tempo giocando ad uno di quei giochini
sciocchi, scaricato qualche sera prima.
Aveva quindi afferrato il telefono, per poi notare, leggendo sullo
schermo, che gli era arrivato un messaggio. In realtà, era
dalla sera prima che stava lì. L’aveva notato e
aveva deciso di cancellarlo il giorno successivo e, fino a quel
momento, se n’era dimenticato. Conosceva il mittente;
Jonathan. Aveva ricevuto parecchi messaggi da parte sua, cancellati
tutti quanti. Stava iniziando a chiedersi se fosse giusto ignorarlo in
quel modo, se stesse facendo bene a far finta di niente. Dopotutto in
teoria a lui non aveva fatto nulla e non avrebbe avuto alcun motivo per
ignorarlo.
Annoiato ed indeciso aveva deciso di aprire e il messaggio, l'aveva
letto.
“Ciao tesoro.
Come va? Tutto bene a casa? Ti sono arrivati i miei messaggi? Ho
comprato un nuovo appartamento. Mi piacerebbe venissi a trovarmi. Fammi
sapere se ti va e quando, così ti vengo a prendere. Un
bacio.”
Non aveva capito subito il contenuto alla prima lettura,
così l’aveva riletto una seconda, una terza, una
quarta volta. Risultato; si era pentito di averlo aperto. Avrebbe
voluto tornare indietro. Durante ogni lettura aveva avvertito un colpo
al cuore leggendo parola “nuovo
appartamento”. L’aveva avvolto una strana
sensazione di sconvolgimento. Non sapeva cosa fare, cosa rispondere.
Voleva parlarne con qualcuno. Aveva bisogno di rivelarlo a qualcuno.
Non aveva più voglia di andare a scuola ora, anzi, nemmeno
ci pensava alla scuola. Si era alzato e aveva iniziato a camminare,
dapprima lentamente poi a passo sempre più sostenuto.
Nemmeno lui era a conoscenza della propria destinazione
finchè non vi si era trovato davanti. Non era nemmeno sicuro
di conoscerla quella strada, non l’aveva mai fatta a piedi in
vita sua, vi era sempre stato portato in macchina.
Sono passati degli anni dalla sua ultima visita a quel posto ed era
bello come se lo ricordava. Si era fermato per un secondo, aveva
ammirato l’ingresso finto neoclassico e poi si era gettato
tra gli studenti, confondendosi tra di loro, cercando di ricordarsi la
struttura dell’edificio.
Ora si trova lì seduto. Una mano nella tasca tiene fermo il
cellulare. Ha bisogno di parlarne con Christian, deve saperlo anche
lui. Dopo circa un quarto d’ora di attesa inizia a pensare
che forse quella possa non essere esattamente una buona idea. Quando
Christian lo vedrà gli chiederà sicuramente il
motivo della sua visita, lo rimprovererà per non essere
andato a scuola.
O magari intuirà qualcosa da solo, forse non ci
sarà nemmeno il bisogno di farglielo leggere il messaggio.
Si chiede se non sia solo lui ad ingigantire la cosa, magari a
Christian non importa, magari non la ritiene una cosa così
seria. Considera la possibilità di essere solo lui a
ritenerla una cosa importante.
Si alza. Decide di andare a casa. In quel momento vede Christian nel
corridoio con un suo collega. Sta sorridendo e sembra felice.
E’ così bello e luminoso il sorriso di Christian,
non lo vede da tempo e non gli sembra giusto spegnerlo in quel modo.
Sospira e si vota per andarsene.
È troppo tardi. Christian l’ha visto e lo chiama.
-Kyle, tesoro! Cosa fai qui? C’è qualcosa che non
va?
***
Un’altra
notte insonne. Sono tutte così le notti di Christian da
quando Jonathan ha lasciato quella casa. Non riesce a dormire da solo,
non c’è mai riuscito. Fissa il soffitto e respira.
Non si è ancora abituato ad avere quel letto grande tutto
per sè, rimane ancora accoccolato il quella che è
sempre stata la sua metà del letto, non osa andare oltre.
Non ha il coraggio di allungare le braccia verso l'altra parte.
Dorme in quella precisa posizione finchè non si sveglia di
soprassalto e si accorge di aver invaso la metà opposta del
letto. Le lenzuola ancora piegate e per nulla sgualcite sono
così fredde. Quel freddo gelido gli penetra nelle
ossa, nella carne, non riesce più a prendere sonno. La vista
di quel cuscino così rigonfio lo fa stare male, lo fa
sentire ancora più solo. Gira la faccia dall’altra
parte e cerca di non guardare. Sembra così grande quel letto
ora.
Se ne sta fermo, immobile. È stanco. Non riesce a
sopportare quella situazione. Allunga il braccio e afferra la sveglia
sul comodino. Sono solo le sei ma non fa nulla, si deve alzare.
Arriverà in accademia prima, poco importa,
troverà qualcosa da fare.
Si alza dal letto, sceglie con cura i propri abiti, le scarpe e poi si
concede un bagno caldo di quasi mezz’ora. Si prepara una
buona colazione tenendosi così occupato per una ventina di
minuti circa. Dopodichè va a zonzo per la casa, fino alle
sette. Prima di uscire si affaccia alla porta di Kyle, per vedere se
sta dormendo.
Non l’ha ancora perso quel vizio. Lo fa ogni mattina. Apre la
porta con delicatezza, si sporge leggermente e lo osserva nel buio per
qualche secondo. Poi richiude la porta, prende le sue cose, le chiavi
della macchina ed esce.
Arrivato in accademia nota con piacere di non essere solo.
-Mattiniero oggi Chris?
È Ronald, che sta scendendo dalla sua macchina e lo
raggiunge.
-Si. Tu lo sei sempre eh?
-Non ho niente di meglio da fare…
Entrano entrambi nell’aula insegnanti. Christian prende posto
sulla sedia rossa con le ruote, la sua preferita. Appoggia sul tavolo
la valigetta ed estrae i suoi appunti e le cose da correggere. Ha molto
tempo a disposizione, può preparare la sua lezione con calma.
C’è silenzio. Ronald è in piedi davanti
ad una delle due finestre della sala che sta bevendo un
caffè. Non parla, si limita ad osservare fuori.
Termina il caffè, appoggia la tazza sul tavolo e prende una
sedia. La trascina vicino alla finestra, leggermente spostata, per
poter osservare fuori e allo stesso tempo non dare le spalle a
Christian.
Christian osserva il suo profilo illuminato dalla luce dorata del
mattino.
È una persona strana Ronald. Ha un carattere estroverso,
parla molto, è socievole eppure di sè e della sua
vita non dice mai una parola. Christian lo conosce da dieci anni,
è forse il più caro amico che ha, tuttavia si
rende conto di sapere veramente poco di lui, quasi nulla. Al contrario
Ronald conosce ogni possibile dettaglio della vita di Christian. Non fa
mai a meno di chiedere e di informarsi. È difficile capire
se gli faccia delle domande per pura e morbosa curiosità o
per interesse dovuto ad una sincera amicizia. A volte Christian
vorrebbe girargli le domande che gli pone, per scoprire qualcosa sul
suo conto. Non ne ha mai avuto il coraggio poichè una
risposta da parte di Ronald, non è sicura. Non saprebbe
nemmeno del suo orientamento sessuale, se non l’avesse
invitato per locali nel corso degli anni. Inoltre, parlando con i suoi
colleghi, in particolare con quelli che conoscevano Ronald da
più tempo, si era reso conto che nessuno sapeva di Ronald
qualcosa che andasse realmente oltre ai dati anagrafici.
È quasi immobile su quella sedia, incantato da
ciò che osserva. Non ha tutti i torti. Le finestre in
quell’aula affacciano sul giardino dell’accademia,
un bellissimo parco curato, decorato da meli, peschi, ciliegi e altre
piante dai fiori delicati. È primavera e i petali di
ciliegio e di pesco si librano leggeri nell’aria per poi
cadere a terra creando un bellissimo tappeto rosato. Il vero
protagonista però è il salice al centro, piantato
ad inizio ‘900 dal rettore e fondatore dell'accademia.
Senza rendersene conto, anche Christian si trova ad osservare quello
spettacolo pittoresco. Ha il mento appoggiato alla mano e osserva i
petali agitarsi al vento. Quella vista l’ha distratto, si
rimette a posto e torna a fare il suo lavoro.
-È incredibile, non è vero?
Commenta Ronald, senza girarsi.
-Si… godiamo di un’ottima vista qui…
Finisce il suo lavoro e poi si alza e si mette vicino a Ronald.
-È per questo che vengo così presto. Per godermi
questo scenario in pace. Poi arrivano gli altri, la gente e in queste
finestre non vedo riflessi che loro, i loro discorsi il loro assurdo
agitarsi…
Il tono di Ronald è malinconico, anche quella sua
espressione e quella sua posa lo sono. Christian non ha mai visto
Ronald sotto quella luce. Non conosce quel suo aspetto, gli pare di
quasi di azzardare a definirlo triste.
-Scusami… magari avresti voluto restare solo.
Ronald si gira verso di lui e gli sorride. Un sorriso strano, per nulla
sereno, che conserva una punta di amarezza.
-Oh no… dovresti venire più spesso, scopriresti
molte cose.
Dice, tornando a fissare fuori dalla finestra.
-Per esempio ?
Chiede incuriosito.
Manca poco all’inizio delle lezioni. Si sentono provenire
passi dal corridoio, l’ambiente si affolla di voci e Ronald
non risponde alla domanda di Christian.
È già passata la prima ora di lezione. Christian
percorre il corridoio che porta alle aule. La voce di Ronald alle sue
spalle lo ferma.
-Davvero me lo devi spiegare, come fai a tenere svegli i tuoi studenti.
Io proprio non ci riesco!
Sembra un'altra persona, è il Ronald di sempre. Lo stesso
tono scherzoso, la stessa ironia. Christian sospetta quasi di esserlo
sognato il Ronald malinconico di poco prima. Risponde
all’affermazione del collega ridendo, anche lui sorride.
Camminano nel corridoio fianco a fianco.
Lo sguardo di Christian incrocia due occhi verdi a lui molto
familiari. È Kyle. Non vede il motivo per cui possa
trovarsi in accademia ma non ha dubbi che sia lui. Il ragazzo si gira,
lo chiama.
-Kyle! Tesoro, cosa ci fai qui? È successo
qualcosa?
Lo raggiunge, lo guarda. Apre la bocca ma non gli risponde.
***
È
troppo tardi per scappare, deve dargli una spiegazione. Deve inventarsi
qualcosa alla svelta per motivare la sua presenza.
-Stai bene?
Il collega di Christian lo raggiunge. Kyle lo conosce è
Ronald. Aveva una strana attrazione per lui da bambino. Forse
semplicemente perchè gli porgeva i libri riposti sulle
mensole alte che non riusciva a raggiungere altrimenti.
-Kyle! Accidenti! Sei un uomo ormai. Ti ricordi di me?
Domanda Ronald sorridente.
-Ma si certo, Ronald.
Ronald annuisce.
-Bella memoria!
Christian è nervoso, preoccupato. Vuole una risposta.
-Kyle, rispondi. È successo qualcosa? Non stai bene? Hai
perso di nuovo il pullman? Non posso accompagnarti ho lezione
adesso…
Ronald interviene.
-Posso portarlo io se vuoi.
Christian annuisce.
-Lo faresti?
Chiede.
-Ma certo!
Kyle non sa cosa fare, è paralizzato. Di certo
però, non vuole tornare a scuola.
-No io… non sono andato di proposito.
Christian spalanca gli occhi.
-Che cosa?!
È visibilmente seccato. Kyle non sa come ribattere, cerca di
trovare una scusa in fretta.
-È festa… è il giorno della bandiera!
L’ha sparata grossa e se ne rende conto. Ronald scoppia a
ridere, Christian diventa sempre più furioso.
-Sei cosciente di vivere negli Stati Uniti Kyle? Perchè sai
il giorno della bandiera è il 14 giugno. Sei in anticipo di
giusto tre mesi!
Kyle si morde il labbro. Christian è furioso. Si
è cacciato nei guai e deve trovare un’altra scusa.
Ormai la punizione è imminente deve comunque iventarsi una
motivazione più plausibile.
-Volevo… volevo seguire un corso d’arte serio.
È tutto così noioso a scuola da me!
Christian è sempre più seccato.
-E ti sembra una motivazione valida per saltare la scuola?! Fila subito
a casa! Stasera facciamo i conti!
Christian si allontana in fretta.
-Ai miei tempi eravamo un po’ più furbi quando si
marinava la scuola…
Commenta Ronald, sorridendo.
Sta tornando a casa Kyle, ha seguito il consiglio di Christian. Alla
fine non gliel’ha detto. Si è sicuramente meritato
una punizione per aver saltato la scuola. Se gli avesse detto la
verità, se gli avesse rivelato il vero motivo della sua
visita all’accademia, se la sarebbe risparmiata ma non ha
avuto il coraggio, non se l’è sentita. Forse non
aveva nemmeno il coraggio di dirlo ad alta voce.
Arrivato a casa si chiude in camera sua, si mette sul letto a gambe
incrociate, davanti a sè il cellulare con sovraimpresso sul
display il messaggio di Jonathan. Sono passate diverse ore
dall’arrivo di quel messaggio. Deve dargli una risposta, non
lo può ignorare, non questa volta. Non sa cosa fare. Respira
profondamente. Allunga le dita sulla tastiera ma non riesce a scrivere
nulla. La sua mente è completamente vuota. Si lascia cadere
all’indietro e per qualche secondo fissa il soffitto, chiude
gli occhi e dorme per qualche ora.
È il rumore della porta d’ingresso a svegliarlo.
Sobbalza. Christian è appena tornato a casa, si aspetta di
vederlo irrompere in camera sua da un momento all’altro.
Dopo qualche istante Christian spalanca la porta della sua camera, si
appoggia allo stipite a braccia conserte e lo fissa. La sua ira non si
è placata, glielo legge negli occhi.
-Adesso mi dai una spiegazione.
Dice, con tono rigido.
-Te l’ho detto. Volevo seguire un corso d’arte
serio.
-Kyle…
Christian sbuffa. Si sposta dalla porta, entra, si siede in fondo al
letto di Kyle.
-Tesoro. Io ti capisco, davvero. Posso immaginare che tu sia confuso.
Però...
Kyle lo ferma.
-No. No! È così, è come ho detto! Un
corso d’arte, capisci? Un maledettissimo corso
d’arte.
Christian non gli crede.
-Questa cosa sta prendendo dei risvolti che mi piacciono affatto.
Kyle vuole finire alla svelta quella discussione.
-Ok, l’hai detto. Basta! Dammi la mia punizione e sia finita
qui.
Christian si alza dal letto, fa un respiro profondo.
-Per questa volta passi… ma per favore, non lo fare
più.
Esce e chiude la porta.
Kyle quasi d’istinto prende il cellulare, sblocca i tasti ed
inizia a comporre un messaggio. Non pensa, scrive di getto.
“Tutto bene.
Un appartamento nuovo… verrò a vederlo. Ti faccio
sapere io. Ciao, stai bene.”
Semplice, conciso, vago.
Preme il tasto invio e poi getta il cellulare sul letto.
--> Con un giorno di ritardo, rispetto al solito, eccomi
spuntare con il sesto capitolo!! La storia più lunga mai
postata su EFP!! Non ci credo XD Comunque, il mio ritardo è
dovuto a vari problemi personali, il principale è lo studio,
sono pienissima!! Secondo problema, sto usando il pc portatile da
qualche giorno perchè ho "fuso" il fisso. Scrivere su questa
tastierina ridicola è terribile!! Spero di avere un po' di
tempo per reinstallarmi i vari driver sul fisso e renderlo utilizzabile
XD Più che altro perché questa settimana ho
scritto ZERO e dico ZERO pagine della mia storia!! Ho iniziato a
malapena il capitolo 16 e un po' scoccia... comunque, dopo lo sfogo
(che non interessa a nessuno, tral'altro...) Passo alle risposte... Ma
prima... spero vi abbia incuriosito ancora di più la figura
di Ronald, in questo capitolo. Anche perché (per quel poco
che ho scritto...) è saltato fuori che ha un passato
piuttosto... "interessante"...
Mana.
Prima cosa ti ringrazio ancora per le correzioni. Sto cercando pian
piano di corregere tutto quanto e migliorare i miei difettucci. Spero
che non emergano in questo capitolo altre mie eventuali carenze (e
sarà così -_-). Allora, sul personaggio di
Gregor, potrete intuire qualcosina dal capitolo 8. Anche se
rimarrà un personaggio di margine fino al 15, almeno. Per
ora, vi dico solo che è mooolto legato a John,
come si è forse intuito nel capitolo precedente!! Per
Anthony e Kyle... ti anticipo solo che accadrà qualcosa di
mooolto particolare. Ma, come sempre, dovrete aspettare... e infine per
Chris e Ron... beh non ho ancora deciso bene come sviluppare le cose su
questo fronte XD ma... ne vedrete comunque delle belle!!
Felicity89.
Mi fa piacere ti piacciano le "new entry"... comunque, con
Roger intedevi Gregor, vero? ^^ Per quanto riguarda le "fissazioni" di
Morgan, chissà se sotto sotto non c'abbia visto giusto =P
Bene, è tutto per oggi!! Alla prossima!!!!
<---
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Capitolo 7 *** Silent Tears (Lacrime nel silenzio) ***
7. Silent tears
(Lacrime nel silenzio)
Cammina a passi lenti, Jonathan. È per la prima volta nel
suo nuovo appartamento. Ci sono ancora molte cose da fare. Gli
armadietti sono ancora ricoperti dal cellophane, le pareti hanno
bisogno di essere intonacate, il soffitto necessita qualche stucco.
È stato fortunato tutto sommato, per aver comprato
quell’appartamento a scatola chiusa.
Non lo conosce, è per lui qualcosa di nuovo,
è ancora molto impersonale, ci sono ancora le tracce dei
precedenti inquilini. Presto però lo farà suo.
Non l’aveva mai visto prima d’ora. Durante la
trascorsa settimana si era buttato a capofitto alla ricerca
dell’appartamento. Voleva togliersi quel peso il prima
possibile. Tra i vari alloggi ne aveva scelti due, passando
all’incirca quaranta minuti al telefono con i compratori. La
scelta era ricaduta sull'alloggio più economico. Non gli
importava poi molto di quell’appartamento, lo considerava
soltanto uno spazio da riempire con i propri oggetti personali.
Entrandoci, osservandolo, ha una strana sensazione di
dejà-vu. Non è la prima volta che gli si presenta
una situazione simile, quell’altro, quello in cui ha vissuto
fino ad ora, era ridotto anche peggio il giorno in cui lui e Christian
avevano deciso di acquistarlo. Grazie a giorni di lavoro, di fatica e
parecchi soldi spesi era diventato semplicemente prefetto.
Oggettivamente parlando, la nuova casa potrebbe diventare anche
più bella, con la metà della fatica. Un vero
peccato che a Jonathan non importi, non riesce a considerare quel loft
la sua nuova casa.
Ha due enormi finestre nel salone che affacciano sulla 5th avenue. Le
luci dei palazzi, i taxi incolonnati, le insegne al neon, devono essere
un bello spettacolo, osservati di sera.
Non è ancora sicuro se può affermare di avere
concluso un affare comprando quel loft. Ha sempre desiderato possederne
uno. Ha qualcosa di classe secondo lui, di eleganza. Ed eleganza
è senza dubbio l’aggettivo che calza meglio la sua
personalità.
Si porta al centro della stanza e osserva dalla finestra.
Ha una strana sensazione, si sente confuso. Quel loft affaccia sulla
realtà. Non può più scappare, fare
finta che non sia nulla. Si è lasciato alle spalle
un’altra parte della sua vita. E adesso si trova davanti ad
un libro bianco interamente da scrivere, che lo spaventa.
Si guarda intorno.
Ci sono tante cose ancora fare e non sa da che parte cominciare.
È nervoso.
Prende un pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca e ne sfila
una. Gli trema quasi la mano mentre avvicina la sigaretta alla fiamma
dell’accendino. Ci impiega qualche secondo per accendere poi,
non appena ci riesce, prende una lunga boccata di quella sua droga e
inspira profondamente. Contempla il pacchetto vuoto e scuote il capo.
-Mi ci manca giusto il cancro.
Commenta, con un briciolo di sarcasmo. Se la gode tutta quella sua
ultima sigaretta, non appena si avvicina al filtro si tasta nelle
tasche dei pantaloni per racimolare qualche moneta per comprarsi un
altro pacchetto di sigarette. Dopotutto sono le uniche compagne che ha
in quella piena solitudine.
***
Non parla con Kyle da qualche giorno, precisamente da quando
l’ha incrociato in accademia. Lo vede solo a cena, mangia
poco e se ne torna nella sua stanza, sempre in completo silenzio, al
massimo risponde sintetico a qualche domanda, niente di più.
Ha cucinato il piatto preferito di Kyle quella sera, arrosto con
patate. Ha cercato di prepararlo al meglio possibile per poterlo almeno
vedere sorridere.
Niente.
Si è seduto al suo posto, ha preso la forchetta e ha
iniziato a mangiare, quasi non si fosse nemmeno accorto di cosa
precisamente stesse mangiando. Christian decide a questo punto di
fargli qualche domanda.
-È buono Kyle?
Il ragazzo annuisce, senza parlare, muove leggermente la testa, che non
alza dal piatto. Strano da parte di Kyle. Mangia lento, boccone per
boccone, non si abbuffa.
-La carne è troppo cotta? Le patate non sono abbastanza
morbide?
Chiede Christian, cercando di fargli dire qualcosa.
-No va bene così.
Sempre più meccanico, sempre più freddo. Non gli
sembra nemmeno di avere affianco suo figlio. Gli sembra di cenare con
uno sconosciuto.
-Credevo che fosse il tuo piatto preferito.
Dice Christian, con un poco di delusione.
-Si…
Risponde Kyle, senza riflettere. Anche il gesto di prendere la
forchetta e tagliare un piccolo pezzo dalla fetta di carne nel suo
piatto ha qualcosa di meccanico.
-Non si direbbe…
Commenta Christian.
Kyle non risponde, continua a mangiare. Christian lo osserva meglio, ha
lo sguardo fisso nel vuoto. Quel suo comportamento lo infastidisce, non
lo riconosce. Si alza in piedi e gli porta via il piatto da sotto gli
occhi. Il ragazzo rimane con il braccio alzato, la forchetta impugnata
nella mano, vuota. Alza lo sguardo e osserva gli occhi di Christian,
inquisitori.
-Non ti obbligo a mangiare.
Abbassa il braccio, posa la forchetta sul tovagliolo. Sposta la sedia
dal tavolo, si alza e gira le spalle a Christian che allunga il
braccio, gli afferra il polso e lo tira a sè.
-Però ti obbligo a darmi una spiegazione.
Kyle lo guarda negli occhi, non regge lo sguardo, fissa il pavimento.
Christian gli lascia il polso e appoggia di nuovo il piatto sul tavolo.
-Kyle, se ti ho fatto qualcosa, qualsiasi cosa, per favore dimmelo.
Qualunque cosa ti abbia fatto. Ho bisogno di sentirti parlare! Ho
bisogno di sentire la tua voce. Ho solo te!
Il tono di voce di Christian è quasi disperato, strozzato.
Non era intenzione di Kyle ferirlo, è esattamente
l’ultima cosa che volesse fare.
-Ha un appartamento.
Quasi lo sussurra. Christian non capisce, lo guarda con sguardo
interrogatorio, aspetta che parli di nuovo per spiegarsi meglio.
-Jonathan! Jonathan ha preso un appartamento!
Christian resta immobile per qualche secondo, gli occhi quasi
spalancati, apre la bocca per dire qualcosa ma di fatto non dice nulla.
Torna invece al suo posto, si siede, sistema la sedia.
-Beh… ci ha messo ancora tanto, dopotutto.
Ora è Kyle a rimanere sconvolto. Si aspettava
tutt’altra reazione da parte di Christian. Non può
credere che non gli importi.
-Non ti… non ti importa?
Chiede, sconvolto, sorpreso.
-Kyle, siediti a mangiare. Stai mangiando troppo poco.
Scuote la testa. Non riesce a credere quella sua reazione, non
può non importargliene.
-Come può non importarti?
Christian non risponde.
-Siediti, ho detto che stai mangiando troppo poco.
Ripete.
-E poi… è passato un mese. Ci ha messo anche
tanto.
Commenta, con impassibilità.
Kyle è senza parole. Ha un enorme groppo in gola, gli occhi
gli bruciano, vorrebbe piangere. La bocca è semiaperta, il
labbro inferiore gli trema.
-Non capisci… Tu non capisci cosa vuol dire!
Esclama, urlando.
-Vuol dire che lui non…
La voglia di piangere sta per prendere il sopravvento, spalanca gli
occhi il più possibile, per trattenere le lacrime, per
evitare che gli scorrano lungo il viso. Deglutisce.
- … non abita più qui.
Christian riprende a mangiare.
-Se vuoi andare ad abitare da lui, sei libero di farlo.
Commenta, con una punta di freddezza.
Le lacrime premono pesanti, vogliono uscire scorrere, il suo cuore
batte forte, il respiro si fa più affannoso. Al
desiderio pungente di piangere si unisce un forte sentimento di rabbia.
Kyle non è sicuro quale tra le due sensazioni
prevarrà.
-Come puoi dire una cosa del genere?! Come puoi solamente pensarlo?!
Rabbia.
-Quando è chiaro, ovvio, limpido che voglia stare con te?
Risentimento.
-Perchè… facendo del male, così tanto
male a te…
Considerazione.
-… l’ha fatto anche a me…
Disperazione.
Pianto.
Kyle crolla davanti agli occhi Christian, le gambe non gli reggono.
Piange con disperazione, non riesce quasi a respirare. Le mani
appoggiate sul pavimento di fronte a sè, le lacrime cadono
sul parquet e provocano un tonfo apparentemente impercettibile ma
fastidioso.
Christian si alza, si inginocchia e abbraccia il figlio. Il suo pianto
è sempre più disperato, sembra quasi stia
piangendo le lacrime che ha serbato per un mese.
Appoggia il mento sulla sua spalla, con una mano gli carezza la
schiena, con l’altra i capelli.
-Scusami… scusami tanto. È colpa mia. Avremmo
dovuto parlarne.
Sospira.
-È solo che… arrivato a questo punto, non
più idea di cosa fare.
***
È sera. Jonathan è seduto nella penombra, davanti
ad una delle finestre del suo loft e osserva le luci al neon
all’esterno. Gli fanno quasi male agli occhi ma non riesce a
smettere di fissarle. Pensa che sia arrivato il momento per comprarsi
un televisore, per passare il tempo.
Preme il bottone della corona dell’orologio per illuminare il
quadrante, sono le sette. È ora di cena. Non si è
ancora distaccato dalle sue abitudini. Non sa se le perderà
mai. Di certo i suoi pasti saranno differenti rispetto a ciò
a cui è sempre stato abituato.
“Tanto lo fa Christian”
Ha sempre pensato. E adesso, senza di lui, deve pensare da
solo ai suoi pasti, in un modo o nell’altro.
Un taxi dagli abbaglianti accesi percorre tutta la via sotto la
finestra di Jonathan. Gira la faccia per evitare che il fascio di luce
gli colpisca gli occhi, quel raggio accecante illumina per qualche
istante la stanza in cui si trova, permettendogli di osservarla meglio.
È così grande e così vuota.
C’è così tanto silenzio.
Jonathan si alza. Sente i propri passi sul parquet rimbombare in tutta
la stanza, si ferma una volta raggiunto l’unico bancone non
occupato da scatoloni o borse. Di nuovo silenzio.
Ha sempre avuto paura del silenzio e in quel momento ne è
quasi terrorizzato. Inizia a frugare tra le borse, le scatole e i
cassetti e cerca di prepararsi qualcosa per cena, senza pensare, solo
per tenersi occupato. Spaghetti scotti e collosi. È il
massimo che è riuscito a fare.
Si siede al tavolo e sistema le sue cose. Il tintinnio delle posate
contro il piatto e il bicchiere posato sulla superficie del tavolo sono
gli unici suoni che riesce a sentire. È così
terribile il silenzio.
In quel momento vorrebbe Kyle, seduto a quel tavolo, a
raccontargli del suo ultimo videogioco, della scuola o dei suoi fumetti
o sentire Christian parlare della sua giornata o qualche basso
pettegolezzo.
Vorrebbe si, ma non ha che il rumore delle posate.
Si ferma. Il silenzio è sempre stato il suo peggiore nemico.
Riesce a sentire il dolore delle sue colpe, il loro peso reale, i suoi
pensieri, tutti. Perfino i più nascosti e impronunciabili
emergono e gli sembra di morire. Fuori silenzio e dentro la sua testa
un vociare insopportabile, uno strano ronzio che non vuole decifrare.
Posa la forchetta ed inizia a cercare le sigarette nella tasca della
giacca. Estrae il pacchetto vuoto e si ricorda di non averle comprate
quel pomeriggio. È uscito per quel motivo ma poi
ha visto in una gioielleria un orologio che gli interessava e non ha
saputo resistere. L’ha comprato subito.
Osserva a terra, contro la finestra, la borsa della gioielleria
contenente il Panarei nuovo e per la prima volta forse si pente di aver
acquistato un orologio.
-Ho bisogno di una sigaretta.
Si alza rapidamente dalla sedia e cerca tra i suoi vestiti appoggiati
al divano, nei taschini delle sue giacche, dei suoi pantaloni. Deve pur
averne una avanzata. Non trova nulla. Getta a terra tutto quanto e
torna a sedersi.
Sta a braccia conserte, osserva la borsa della gioielleria e il
bicchiere mezzo pieno, lo afferra. È di vetro pesante. Lo
rigira tra le mani, lo appoggia di nuovo sul tavolo.
Di scatto lo riafferra e lo getta a terra affianco a sè,
frantumandolo.
-Merda!
Impreca. Si alza e calpesta i vetri del bicchiere, prende il cappotto
ed esce.
-->Il capitolo 7... per un po' di tempo (fino alla stesura del
13) è stato il mio capitolo preferito... non chiedete
perchè, non lo so XD E comunque, è di nuovo
domenica... come volano i giorni.
Vabbè... vado a rispondere ai commenti^^
Mana:
Si in effetti la figura dello schizzato l'ha fatta tutta Kyle,
nell'altro capitolo! In questo però penso si chiarisca il
suo stato d'animo... comunque si, hai capito bene. Ho un bel po' di
capitoli pronti. Per ora ne ho scritti 16 e mezzo.Quindi per un po'
posterò con regolarità :) Comunque, sulla
risposta di Ronald... ci vorrà ancora un po' in effetti ma i
"colpi di scena" non mancheranno xD
Felicity89
: Scoprirai molte cose su Ronald, solo... più avanti.
Pazienta xD
E' tutto! Alla prossima, vi avviso che sarà di sabato o
lunedì. Perchè domenica non ci sarò^^
Buona domenica e... buona settimana!!
p.s. Ho alzato il rating... si sa mai.....
|
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Capitolo 8 *** Weaknesses (Debolezze) ***
8. Weaknesses
(Debolezze)
L’eloquenza non è certo una delle caratteristiche
principali di Jonathan. Gregor lo sa bene. Vederlo entrare nel suo
studio e sentirlo parlare a raffica senza doverlo forzare ha un che di
incredibile. Lo ascolta attentamente, gli lascia dire tutto quanto,
senza interromperlo. Ha ascoltato abbastanza e ha intuito la
gravità situazione dal suo sguardo perso e dal modo in cui
è conciato quel giorno.
Capelli spettinati, camicia sbottonata, cravatta assente. Per un uomo
elegante come lui è assolutamente raro. Ha gli occhi
spalancati mentre parla e il suo tono di voce è calante.
-Non so nemmeno se è giusto che continui a
praticare…
Decide in quel momento di fermarlo. Può bastare.
-Finchè sei in grado di ragionare ed ascoltare, non vedo
perchè no. Ti ricordo Jonathan che hai pazienti con gravi
patologie mentali. Se tu li abbandonassi ora… cosa farebbero?
Respira, Jonathan, un respiro lungo e profondo. Lo guarda negli occhi.
-Greg… ho rotto un bicchiere, solo per fare rumore. Non
è normale!
Quasi urla. I suoi occhi chiedono aiuto.
-Non ti passerà mai la paura del silenzio, non è
vero?
Jonathan non risponde. Si adagia meglio sulla sedia, si lascia andare.
-Sono pazzo… completamente pazzo.
Commenta.
Gregor sposta la sedia, aggira la scrivania e si mette dietro a
Jonathan.
-Pazzia? No. Dovresti sapere cos’è la
pazzia…
Gli appoggia le mani sulle spalle. Jonathan getta la testa indietro per
osservarlo.
-Se non sono pazzo, se non morirò della mia pazzia,
sarà per una cazzo di malattia ai polmoni. Sto fumando due
pacchetti al giorno.
L’ha sentito Gregor, ha notato l'intensificarsi dell'odore di
tabacco sulla sua pelle. Ora che gli è più vicino
è quasi fastidioso. Non sopporta il fumo, le sigarette,
Gregor. Non ha nemmeno un posacenere nel suo ufficio e proibisce ad
ogni suo paziente di fumare nel suo ufficio. È una cosa che
non tollera, è la peggiore droga, secondo lui. Eppure
fumatore lo è stato.
-Si, l’ho sentito subito quando sei entrato. Questo odore
acre che ti porti sempre addosso oggi è ancora
più fastidioso.
Gli massaggia le spalle. Jonathan abbassa lo sguardo,
è teso.
-Rilassati. Devi rilassarti…
Gli dice, carezzandogli il viso con una mano. Non si è fatto
la barba quel giorno, le sue gote sono ispide.
-Sai Greg… quella di farmi comprare un appartamento, proprio
adesso, credo sia stata una pessima idea.
Si ferma Gregor.
-No, assolutamente no. Li devi affrontare i tuoi problemi…
più tu li eviti e più loro si rafforzano.
Riprende il suo massaggio, Jonathan si sta lasciando andare, poco a
poco.
-Non so più in che direzione stia andando la mia vita. Non
vedo nessuno all’infuori dei clienti e di quella segretaria.
E questo maledetto silenzio mi divora.
Il massaggio si fa più ampio, diventa più una
carezza. Parte dalle spalle e arriva alla base del collo, al petto per
poi interrompersi.
-Mio John… sembri così forte visto
dall’esterno eppure quando stai con me sei… creta.
È sempre stato così.
Jonathan non risponde.
-Te lo ricordi almeno, cosa ti ho detto quasi vent’anni fa?
Chiede. Jonathan annuisce.
-Che sarei sempre potuto tornare indietro, tornare da te.
Annuisce.
-Esattamente. Perchè solo io posso sapere di cosa hai
bisogno, non è così?
Annuisce di nuovo.
Le mani di Gregor passano dalle spalle al viso. Con i pollici gli
accarezza il mento, con gli indici le tempie. Jonathan socchiude gli
occhi.
-Lascerai che sia io, ad occuparmi di te? Come una volta, come dovrebbe
essere?
Jonathan apre gli occhi e osserva di nuovo Gregor, anche lui lo guarda
negli occhi. Si avvicina di più allo schienale della
poltrona e si china verso Jonathan, con delicatezza. Le sue mani
scendono, fino ad arrivare al petto. Jonathan chiude di nuovo
gli occhi, lo bacia, per qualche secondo, a labbra pressochè
serrate.
Erano anni che non lo baciava, che non accarezzava il suo viso, la sua
pelle.
-Lascia fare tutto a me… e tu non pensare a niente.
Gli sussurra.
***
Morgan sbuffa. Ha freddo, è iniziato da poco a
piovere e si trova in piedi davanti a quella porta da quasi quaranta
minuti. Tra pochi minuti dovrebbe andare a lezione di danza, la scuola
però è troppo distante dal posto in cui si trova
ora per permetterle di raggiungerla in tempo. Ha voluto seguire Kyle,
in quella sua strana idea che ancora non capisce. Inizia a pensare di
aver sbagliato ad andare con lui.
Sta fissando quel campanello da quasi venti minuti ma è
immobile. Guarda la targhetta vuota, non c’è un
nome. Ha un espressione confusa, forse ha paura.
Non riesce a capirlo.
-Kyle, perchè non lo suoni quel campanello una buona volta e
ce andiamo a casa?
Chiede finalmente, stanca di aspettare. Lui non le risponde, forse non
l’ha sentita o sta facendo finta.
-Kyle tra dieci minuti dovrei essere a lezione di danza! Non mi importa
non andarci, se almeno fai qualcosa!
Questa volta l’ha sentita. Si gira verso di lei con la stessa
espressione confusa, enigmatica. Morgan attende che dica qualcosa ma
non lo fa, non dice nulla.
-Allora andiamo. Ho un po’ fame, che ne dici di un pezzo di
pizza? Conosco una pizzeria che-
Le fa cenno di fermarsi, di non parlare.
-Non sono pazzo Morgan, voglio solo vederlo…
Dice lui, quasi sussurrando, in un tono misto tra la disperazione e lo
sconforto.
Morgan si avvicina, gli appoggia una mano sulla spalla e lo guarda con
compassione, gli sorride sperando che lui faccia lo stesso ma abbassa
lo sguardo.
-Voglio vederlo ma non voglio mi veda.
Spiega lui.
-Per questo l’ho seguito e ho aspettato entrasse…
Morgan annuisce.
-Va bene. E ora?
Sospira.
-E ora aspetto che questa porta si apra e poi…
Si blocca.
-… e poi?
Chiede lei, incuriosita
- E poi mi nascondo da qualche parte e lo osservo, poi ti giuro che
possiamo andarcene.
Accetta. Si mette a braccia conserte, si appoggia al muro
dell’edificio e aspetta insieme a Kyle. Non può
certo dirgli di no in quel momento, non si più rifiutare.
Quel comportamento triste di Kyle la fa stare male, la fa stare in
pensiero. Dal giorno in cui ha scoperto da lui cosa é
successo, teme di vedergli quell’espressione sul viso. I suoi
grandi occhi verdi sono lucidi, continua a chiudere ed aprire il pugno
destro e si sta mordendo il labbro inferiore.
Vorrebbe abbracciarlo in quel preciso momento e non sa cosa la fermi
dal farlo. Forse perchè ha paura della sua reazione.
Potrebbe scacciarla oppure potrebbe piangere. Non l’ha mai
più visto piangere dopo i sei anni e non vuole vederlo ora,
trascinerebbe in lacrime anche lei. Hanno sempre avuto una grande
empatia Morgan e Kyle. Quasi in simbiosi, dal giorno in cui si erano
conosciuti all’asilo.
Era arrivato nel suo stesso asilo l’ultimo anno. Piccolo e
pallido, con quegli occhi verdi smeraldo che sembravano ancora
più grandi. Tutto ben vestito, ben pettinato. Era timido,
taciturno e si accontentava di stare a disegnare al tavolo, anche da
solo.
Lei era già una bambina molto estroversa, faceva amicizia
con tutti. Non poteva non essere amica anche di quel nuovo bambino, di
Kyle. Gli si era avvicinata e aveva inclinato il capo, scuotendo quei
suoi due buffi codini biondi e aveva osservato il suo disegno.
L’aveva ingenuamente ritenuto un capolavoro. Erano
semplicemente delle righe colorate e qualche cerchio, niente di
speciale, un disegno di un normale bambino. Per lei era bellissimo.
-Che bel disegno!
Aveva esclamato. E lui, senza guardarla, gliel’aveva dato,
aveva preso un altro foglio ed aveva iniziato a disegnare di nuovo.
-È per me?
Aveva annuito.
-Grazie!! Vieni a giocare con me dai!
L’aveva letteralmente spinto dalla sedia e l’aveva
trascinato con sè. Era nata così la loro
amicizia. Morgan aveva scoperto che Kyle era molto solare, un gran
chiacchierone, un po’ come lei.
-Lui ti ha invitato a casa sua?
Chiede, rompendo il silenzio.
-Si… ma non ci voglio andare. Voglio solo vederlo…
Morgan ha paura a fargli la domanda successiva. Non vuole azzardare
troppo, non vuole passare per curiosa. Ma non resiste.
-Perchè no?
Ottiene il risultato temuto. Kyle si altera e le risponde con tono
astioso.
-Perchè dovrei volerlo? Dopo quello che ha fatto?!
Lei non dice nulla. Non vive quella situazione, non sa cosa si provi.
Non conosce nemmeno bene i fatti e cerca di essere arrogante il meno
possibile.
-Tu lo conosci Christian. Lui è… radioso,
allegro, sorride sempre. Ora è…
Si blocca. Deglutisce.
-… ora è… non lo so più chi
è! Voglio vedere se LUI dopo tutto quello che ha fatto, ha
addosso almeno un po’ di colpa.
Morgan lo guarda, con sguardo sempre più compassionevole.
Riesce a leggergli la disperazione addosso, è un sentimento
così forte che riesce quasi a percepire anche lei.
-Se ce l’ha può darsi che io… forse,
consideri anche l’idea di andarlo a trovare. Altrimenti non
mi vedrà più.
Si avvicina di nuovo Morgan, vuole stabilire un contatto fisico con
l’amico. Allunga il braccio ma lo ritira non appena
ricomincia a parlare.
-Ok… probabilmente prima di giudicare dovrei sentire
entrambe le parti ma credimi, quello che ha fatto, che ha osato
fare, per me a prescindere da ogni cosa è
imperdonabile, inscusabile.
Nessuno parla per almeno due minuti. Kyle fissa il portone, Morgan
fissa Kyle. Entrambi aspettano che uno dei due dica qualcosa. Morgan
non saprebbe cosa dire. Kyle ha semplicemente finito gli argomenti e
non vuole andare avanti a parlare di quella cosa.
-Sono stanco Morgan… andiamo a casa.
Esclama, improvvisamente. Sorprendendola.
-Ne sei sicuro?
Annuisce.
-Andiamo via…
--> Un po' in ritardo lo so, eppure eccomi con il capitolo 8! Ho
avuto molto da studiare, una serie di impegni e non sono riuscita a
postare in tempo. Lo faccio oggi e molto probabilmente il capitolo 9 lo
pubblicherò sabato. Per il resto... nient'altro da dire.
Ringrazio Felicity89
per il commento puntuale^^
Alla prossima!! <---
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Capitolo 9 *** Demons (Demoni) ***
9.
Demons (Demoni)
Era rimasto del tutto
sorpreso quella mattina, da Ronald. Se
ne stava seduto a bersi un caffè e a colloquiare
tranquillamente con qualche
collega fino a quando l’amico non l’aveva raggiunto
e gli aveva letteralmente
sbattuto in faccia quel volantino. C’era voluto qualche
secondo prima che
riuscisse a leggerlo e a capire cosa contenesse.
-Sono sicuro che tu questo
lo puoi vincere!
Gli aveva urlato in
faccia. Gli altri colleghi hanno sul
viso un’espressione enigmatica, si aspettano una spiegazione.
Ronald invece è
tutto sorridente con quel suo volantino in mano in attesa di una
reazione da
parte sua.
È un foglietto
bianco, probabilmente una fotocopia. È po’
sbiadito. Il contenuto però è ben leggibile, si
tratta di una competizione
canora ad un locale alternativo, uno di quei posti pieni di adolescenti
con gli
ormoni a mille, coperti di ferraglia, vestiti di nero e con trucco
esagerato e
assurdo.
Strappa il volantino dalle
mani di Ronald. Lo appallottola e
lo getta nel primo cestino nelle vicinanze.
-Beh allora? Che vuol dire
questo?!
Chiede Ronald, smorzando
il sorriso. Nel frattempo gli altri
colleghi sono tornati a svolgere le loro attività e hanno
iniziato a discutere
tra di loro. Secondo il parere comune l’entrata di Ronald
è stata soltanto una
delle sue sciocche buffonate.
-Ron, per favore, spiegami
cosa c’entro io con quella roba?
Ronald torna a sorridere.
Christian gli volta le spalle e
raccoglie le proprie cose dal tavolo dell’aula docenti per
prepararsi a
raggiungere la sua classe.
-Tu? Oh no tu non
c’entri Christian Simmons Wallace. Ma che
ne dici di… Iron Crystal?
L’ultimo libro
afferrato gli scivola dalla mano e finisce di
nuovo sul tavolo. Si volta di scatto, con gli occhi spalancati e le
sopracciglia aggrottate.
-Cosa sai tu di Iron
Crystal?
Il sorriso sulle labbra di
Ronald si fa sempre più largo.
-Allora lo conosci?
Christian si guarda in
giro. Gli altri colleghi sono usciti
tutti quanti, nell’aula sono rimasti soltanto loro due.
Strattona Ronald fino a
metterlo a schiena contro il muro. L’amico rimane colpito da
quel gesto, strano
da parte di Christian. Il sorriso poco a poco gli scompare dalla labbra.
-Chi diavolo ti ha fatto
parola di… quello?
Chiede. I suoi occhi si
sono fatti più piccoli, lo sguardo è
tagliente e dal tono di voce si direbbe essere infastidito.
-Ehi Chris calma, ok?
Cos’è tutta questa violenza?
Christian lo strattona di
nuovo.
-Violenza? Questa TU la
chiami violenza?
Cerca di strattonarlo una
terza volta ma Ronald lo afferra
per i polsi e lo blocca.
-Senti… non so
quale rotella ti sia saltata in testa in questo
preciso momento Chris ma… riprenditi! Così mi
spaventi.
Christian si dimena per
liberarsi dalla presa stretta di
Ronald ma non ci riesce.
-Non avresti dovuto fare
quel nome Ronald. Non avresti dovuto
nemmeno saperne l’esistenza.
Ronald allenta la presa,
ha paura di fargli male. La pelle
di Christian è chiara e delicata. Basta un semplice pizzico
per farla
arrossare.
-Ok… hai
ufficialmente alimentato la mia curiosità.
Afferma, aumentando il
fastidio di Christian.
-Ronald, per favore, dimmi
dove hai trovato quel nome? Te
l’ha detto qualcuno o…?
Lo stato d’animo
di Christian cambia improvvisamente. I suoi
occhi non sono più piccoli e carichi di risentimento, sono
tornati della loro
forma normale, avvolti un velo di paura, di preoccupazione. Ronald
Inizia a
pensare di aver toccato un tasto dolente.
-Ho visto una vecchia
foto… sul sito di quel locale dove si
svolge la competizione. Il “Nightmare”
ex… “Vampiria”.
Occhi spalancati. La paura
è ora terrore.
-Ci sono delle foto
così… vecchie?
Annuisce Ronald.
-Nell’album
della memoria…
Lo lascia andare. Sa che
la sua reazione ora non potrà più
essere violenta.
-Ho riconosciuto Jonathan
in quelle foto e…
Christian scuote il capo.
-Va bene…
basta. Fai finta di non avere visto niente.
Christian si volta di
nuovo, raccoglie le sue cose e si
affretta ad uscire. Lascia Ronald da solo con un’espressione
a dir poco
confusa.
Percorre il corridoio
senza pensare a ciò che gli è appena
stato detto. In pochi secondi gli tornano in mente immagini che pensava
di aver
cancellato dalla sua mente, immagini che si era forzato ad eliminare.
Quel nome
Iron Crystal, non l’ha mai abbandonato, è rimasto
nel profondo del suo animo.
Nascosto in attesa di essere di nuovo nominato, per poi riemergere con
tutta la
sua esperienza, con tutto ciò che si porta appresso.
Non vede quello che si
trova realmente davanti, vede solo
immagini disgustose, dolorose. Si deve fermare. Si appoggia al muro del
corridoio, respira profondamente. Chiude gli occhi per qualche secondo.
Ronald
ha toccato quella leva, aveva aperto quel mostro teneva segregato nella
sua
memoria, sotto chiave. Sta male. Non è in grado di spiegare
una lezione, non
con lucidità. Non ne ha le capacità in quel
momento. Raggiunge in fretta il
parcheggio, cerca la sua macchina e si siede sul sedile. Preme il
bottone della
chiusura centralizzata. Afferra il volante con due mani, ad auto
spenta, vi appoggia
la fronte. Un turbinio di emozioni sgradevoli lo avvolge. Riemergono
sensazioni
di ribrezzo, disgusto e scherno dopo anni. È passato troppo
tempo e non sa più
come affrontarle.
Il suo cellulare inizia a
suonare nella sua borsa, posata
sul sedile del passeggero. Riesce a sentire quel suono solo in
lontananza,
mille voci, suoni e canzoni, rimbombano nel suo cervello e non
c’è spazio per
altro. Si sta quasi dimenticando cosa faccia in quell’auto,
dove si trovi e
perchè.
E il telefono suona,
vibra, senza sosta.
***
-Dottor Wallace,
è permesso?
Angela, la segretaria di
Jonathan, bussa alla porta aperta e
poi entra.
-Buongiorno Angela. Hai
bisogno di qualche cosa?
Risponde lui sorridente,
mentre finisce di compilare dei
certificati.
-A dire il vero si
dottore. Questa mattina ha telefonato
Mrs. Wang.
Jonathan alza la testa.
È più di un mese che non vede quella
paziente. Aveva quasi temuto si fosse suicidata o peggio.
L’ultimo incontro con
lei l’aveva preoccupato. Aveva suggerito alla sorella della
donna di
controllarla e prestare bene attenzione ai suoi bisogni. Il fatto di
non averla
più sentita gli aveva dato l’impressione che
qualcosa fosse andato storto.
-Grazie a Dio. Avevo quasi
paura per lei. Cosa chiede?
Angela si avvicina alla
scrivania.
-Un appuntamento con lei,
entro la fine di questo mese. Ha
detto che abita fuori città ora e che sarebbe comoda ad
avere un colloquio in
quei giorni perchè è di passaggio…
Jonathan annuisce.
-Va bene. Hai
già fissato l’appuntamento? Se mi dici la data
per favore, lo segno anche sulla mia agenda…
Angela annuisce.
-Il 29 marzo alle 13.15.
Jonathan prende
l’agenda.
-Va bene quindi il 29
marzo… ore 13 e… quindici.
Angela rimane immobile
davanti alla scrivania di Jonathan.
Lui la fissa.
-C’è
dell’altro?
Lei annuisce.
-Veramente si, dottore.
Si lascia andare sulla
sedia, mettendosi più comodo. Poi le
fa cenno di parlare.
-Avanti allora…
Lei deglutisce.
-La cartella della
signora… è… non
c’è. Perchè lei ce
l’ha…
a casa.
Jonathan annuisce.
-Va bene, a casa.
Lei scuote il capo.
-Dottore, non ha capito. A
casa…
Lui annuisce di nuovo.
-Ho capito Angela.
Non ha capito, non ha
capito nulla. Angela sospira.
-Quella casa, dottore.
Jonathan spalanca gli
occhi. Non ci era ancora arrivato. Da
qualche giorno, dopo l’ultimo incontro con Gregor, non pensa
a niente. Si è
immerso completamente nel lavoro.
-Oh… e non ne
abbiamo una copia?
Scuote il capo.
-Quindi io
devo… ?
Annuisce Angela.
-Mi dispiace
dottore… posso andare adesso?
Le fa cenno con la mano di
andare. La donna esce e si chiude
la porta alle spalle.
Ed eccola la conferma che
non può più fare finta di niente.
Ci ha provato seriamente quegli ultimi giorni, ha cercato di andare
avanti e ha
stupidamente pensato che fosse finita lì.
Tornare a casa vuol dire
affrontare faccia a faccia i suoi
problemi. Si mangia le unghie. Non lo faceva da tempo,
l’aveva perso quel vizio
fastidioso e rozzo. Ha i nervi a pezzi. Avrebbe l’impulso di
spingere quella
sedia, alzarsi e prendere a calci qualcosa. Fumerebbe una sigaretta, se
non si
fosse imposto per la propria salute di diminuire la dose. Ne ha fumate
talmente
tante in quel periodo che riesce a sentire l’odore di tabacco
sulle sue dita e
gli da fastidio, gli secca la gola.
Ha ancora tutti i suoi
oggetti a casa, non solo quella
cartella, sapeva che prima o poi ci sarebbe comunque dovuto tornare.
Fino a
quel momento ha ricomperato ogni cosa abbia lasciato in quella casa,
dagli
orologi, alle scarpe, ai profumi, al dopobarba, tutto quanto potesse
riprendere.
Di recente ha acquistato anche un portatile per lavorare.
Doveva per forza aver
lasciato qualcosa che non fosse
rimpiazzabile, di cui non ne potesse comprare una copia. Non era
successo in
quasi due mesi quella necessità, quasi non ci pensava
più. Gli unici demoni ad
emergere nel silenzio pungente che lo avvolgeva al rientro a casa erano
gli
spettri delle sue azione, il suo senso di colpa.
Quella sera la presenza di
Christian, il pensiero di quella
casa e ciò che conteneva, oggetti e ricordi, faranno
compagnia agli altri
mostri che si materializzano nella solitudine, nel silenzio.
***
-Christian, santo dio apri
questa merda di portiera!
Ronald prende a calci la
macchina di Christian nel
parcheggio e cerca di forzare la maniglia. È chiusa a
chiave. Un calcio
particolarmente rumoroso fa girare Christian. Alza la testa da volante
e lo
osserva, con sguardo interrogatorio.
-Ron…?
Ronald osserva che
è cosciente, tira un respiro di sollievo.
-Mi hai fatto prendere un
colpo! Brutto pezzo di… deficiente!
Smette di colpire la
macchina e si china verso il
finestrino.
-La apri questa cazzo di
macchina?
Christian sblocca la
chiusura. Ronald aggira l’auto, apre la
portiera del passeggero, si siede e la richiude.
-Mi spieghi cosa ti sta
accadendo? Hai saltato tutte le lezioni,
ti sto chiamando da un’ora!
Vede la borsa di Christian
al suo fianco, con il cellulare
che sporge, lo afferra, legge lo schermo e lo mostra anche a Christian.
-Lo vedi? Dieci chiamate
perse! Mi hai fatto prendere un
colpo! Dopo quella faccia che avevi in aula insegnanti. Mi hai fatto
invecchiare di dieci anni!
Christian non risponde.
-Sono… sono
corso nel parcheggio per venirti a cercare. Ti
ho visto qui in macchina e… santo Dio! Adesso
però una spiegazione me la devi!
Christian sposta lo
sguardo da Ronald. Inizia a fissare
davanti a sé, nulla in particolare, il vuoto forse.
-Cosa… cosa sai
di Iron Crystal?
Chiede, con tono calmo ma
confuso.
Ronald sbuffa.
-È per questo,
ancora? Cosa so… ma niente! So solo che era
il tuo… “nome d’arte”? Che
cantavi in quel locale. Metal, giusto? E che eri
parecchio bravo… Giuro, non so altro. Se vuoi aggiungere
qualcosa tu…
Christian scuote il capo.
-No, niente.
Non è
sufficiente per Ronald.
-Chris, mi dispiace ma non
mi basta questo tuo “no, niente”.
Ho avuto una fottuta paura del diavolo, mi devi una spiegazione
più completa.
Christian si gira verso
Ronald.
-Devi fartela bastare Ron.
Io non posso proprio dirti altro.
Non farmi dire altro, per favore…
Si arrende, guardando gli
occhi di Christian che sembra gli
implorino pietà, silenzio.
--> Si, lo so. Avrei dovuto postare sabato. Perdonatemi
lettori!! Purtroppo è un periodo no e ho parecchio da
fare... ma vi assicuro che la pubblicazione dei capitoli non si
interromperà!! Allora... in questo capitolo, emerge un
indizio su un segreto di Chris... segreto che sto iniziando a "svelare"
nel capitolo 18... ehe ehe lo so sono terribile con le attese XD
Comunque... ringrazio Dike Nike
per il bel commento, mi ha fatto davvero piacere!! E mi scuso per i
miei vari ritardi... putroppo è un mio difetto, la
puntualità. Dico sempre che devo migliorarmi con i tempi,
prima o poi ce la farò!!
E' tutto, alla prossima!! <--
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Capitolo 10 *** Appointmens (Appuntamenti) ***
10.
Appointments
(Appuntamenti)
Due mesi. Sono trascorsi
due mesi da quando ha dovuto
varcare quella porta, andarsene dalla propria casa, lasciare quella
parte della
sua vita. Mangano pochi giorni alla visita della signora Wang, cinque miseri
giorni. Nella scorsa settimana ha ribaltato da capo a fondo
l’ufficio per
trovare quel fascicolo. Sapeva che non l’avrebbe trovato,
sapeva che sarebbe
dovuto tornare a riprenderselo. Deve
farsi coraggio e trovare la forza necessaria per imboccare
quella
strada, la solita di sempre. Ha paura di perdersi, anzi, ne
è certo. Si perderà
nel sentiero infinito dei suoi pensieri e starà male, al
punto di doversi
fermare per cercare di trovare un briciolo di razionalità
proprio ove è
impossibile trovarla.
Maledice di secondo in
secondo quella sua brutta abitudine
di portarsi il lavoro a casa. Glielo diceva sempre Christian di
perderlo quel
vizio, non sopportava dividerselo con il lavoro anche a casa.
Chissà se
gliel’avrebbe rinfacciato anche in quella sua forzata visita.
Se lo chiede,
Jonathan.
Si è arreso di
fronte all’astinenza. Sta fumando la sua
quarta sigaretta in un’ora e mezza. Ha deciso che lo stress
che sta affrontando
è troppo, che quella forzatura che si è
auto-imposto per il bene della sua
salute, lo farebbe impazzire del tutto. Non gliene frega niente di
quanto male
si stia infliggendo, le sigarette sono un ottimo placebo in certi casi.
Prende una boccata lunga,
arriva a metà sigaretta. La cenere
gli scivola addosso e se la scrolla via dagli abiti con gesti
automatici. Sta
cercando di costruirsi un discorso da fare con Christian, qualcosa che
non
lasci spazio a troppe parole o discussioni. Si rende conto che
è impossibile,
che se anche tacesse Christian non farebbe mai altrettanto e non gliene
fa alcuna
colpa, al contrario, gli da’ ragione.
Osservando in lontananza
la segretaria comporre dei numeri
sulla tastiera del telefono, gli sorge spontaneo valutare
l’opzione di fare una
telefonata per avvisare Christian della sua visita.
A conti fatti, quella non
è più la sua casa e non ha il
diritto di presentarsi senza dire nulla, nonostante abbia la chiave.
Non l’ha
voluta gettare quella chiave o restituire. È rinchiusa in
quel cassetto della
scrivania, insieme alla foto di lui e Christian . Deve essere scivolata
sul
fondo, sotto a tutte le carte e la cancelleria d’ufficio.
È l’unico cassetto
che non ha perlustrato per cercare la cartella medica della signora
Wang. È rimasto
chiuso a chiave. Se per errore la cartella si trovasse lì
dentro, non lo
saprebbe mai.
***
Morgan teneva
d’occhio quell’evento da mesi, ha chiesto
l’autorizzazione ai suoi genitori da tempo e dopo numerose
suppliche c’è riuscita.
Il giorno in cui Debbie
Benson aveva iniziato a spargere la
voce riguardo alla sua festa nella mega villa dei genitori senza
sorveglianza,
aveva esultato di gioia. Certo, non era ancora certa di essere stata
invitata,
Debbie è comunque una delle sue amiche dalle medie e la sua
presenza a quella
festa è quasi scontata.
Debbie è una
delle ragazze più popolari della scuola,
un’ochetta.
Mancata cheerleader per colpa delle scarse abilità atletiche
ma molto ambita
dai ragazzi poiché obbiettivamente molto bella. Non brilla
troppo d’acume ed è
appena simpatica, per questo è inspiegabile la sua amicizia
con Morgan.
Naturalmente Kyle non sa
nulla di quella festa, non è il
tipo e non gli interessa particolarmente. Di questo Morgan si ritiene
fortunata
per un motivo preciso; a differenza sua e di buona parte della scuola,
non
conosce il nome degli invitati sicuri.
Debbie è dalle
medie innamorata non corrisposta di Anthony,
la sua presenza alla festa è quasi scontata. Morgan essendo
presente ha
l’occasione di unire l’utile al dilettevole.
Potrà divertirsi e ubriacarsi
illegalmente come ogni teenager e potrà allo stesso tempo
avvicinare Anthony e
Kyle. Ha pianificato anche questo, tralasciando un piccolo e
insignificante
particolare: deve ancora convincere Kyle a partecipare.
Aspetta di ricevere
l’invito prima di farlo. Alla vista della
bustina rosa glitterata infilata nel suo armadietto decide che
è arrivato il
momento di agire.
-Kyle, hai per caso
sentito qualche bella notizia
ultimamente?
Chiede passando affianco
all’amico in corridoio, cerando di
risultare vaga.
-Riguardo a cosa?
Chiede lui, apparentemente
senza sospetti.
-Mah, non so…
in generale.
Kyle si ferma
all’improvviso, facendo arrestare anche
Morgan.
-Morgan, dove vuoi
arrivare?
Chiede sospettoso.
-Io?! Ma da nessuna
parte!! Chiedevo solo…
Il tono di voce non
è affatto convincente.
-Non
c’entrerà forse la bustina rosa shocking che ti
spunta
dal libro di algebra, vero?
Chiede lui, con tono di
scherno, indicando il libro che
Morgan tiene appoggiato al petto. La ragazza abbassa lo sguardo e
osserva la
busta. La sua copertura è ufficialmente crollata. Tanto vale
essere sincera.
-Va bene, senti.
C’è una festa questo sabato e volevo
chiederti di farmi da… cavaliere!
Kyle ricomincia a
camminare. Sbuffa.
-Morgan, sai bene che non
mi interessa niente di queste cose
da… liceali.
Morgan aggrotta le
sopracciglia.
-Perché tu cosa
sei?
Kyle non risponde.
-Comunque… me
lo devi!
Si blocca di nuovo, questa
volta sull’uscio della classe di
algebra.
-E perché mai?
Si mette a sedere, Morgan
si sistema accanto a lui.
-Perché sono
tua amica, la migliore poi! Non solo un’amica
qualunque!
Kyle fa finta di non
sentirla ed inizia a sfogliare le
pagine del libro di algebra, senza alcuna particolare intenzione. Morgan nel frattempo gli
sta parlando, sta
cercando di convincerlo ad accompagnarlo a quella festa ma lui non la
sente.
-Ciao Kyle, cercavo
proprio te!
Kyle alza la testa e vede
davanti a sé, in piedi, Anthony
che gli sorride. Morgan ha smesso di parlare ma è rimasta a
bocca aperta e sta
osservando il ragazzo. Kyle trattiene una risata e cerca di evitare di
guardare
troppo l’espressione incantata di Morgan.
-Anthony. Hai bisogno di
qualcosa?
Annuisce.
-Si, in effetti. Hai
sentito del lavoro di scienze, il
diorama?
Kyle ci pensa e si ricorda
di aver sentito l’insegnante dire
qualcosa poco prima della fine delle lezioni. Non ha prestato
attenzione, stava
disegnando sul banco o semplicemente fantasticava.
-Si… mi pare di
aver sentito qualcosa del genere.
Morgan ha perso
l’espressione incantata ma non ha smesso di
fissare Anthony.
-Perfetto! Volevo
chiederti, visto che è da fare in gruppo
se hai già un progetto. Se non ce l’hai magari si
potrebbe fare qualcosa
insieme, ti va?
Morgan sorride e cerca di
nascondere quel sorriso brillante
che gli è comparso sulle labbra. È sempre
più convinta di avere la fortuna
dalla propria parte. Sta facendo tutto quanto Anthony, lei deve solo
osservare
e sperare che Kyle non si tiri indietro. Mette la mano sinistra sotto
il banco
e incrocia le dita.
-Si, si potrebbe fare, va
bene.
Dal tono di voce Kyle non
sembra essere convinto della
propria risposta che è comunque un si, Morgan esulta sotto
voce. Ora più che
mai deve convincerlo ad accompagnarla a quella festa.
-Fantastico!
Allora… uno di questi giorni ci si trova in
biblioteca. Ci
metteremo d’accordo. Voi
ci siete alla festa di Debbie?
Morgan sorride e annuisce.
Sta iniziando ad amarlo Anthony,
le toglie ogni fatica.
-Ma certo! Come potremmo
mancare!
Esclama la ragazza,
sperando che Kyle non controbatta e non
lo fa.
-Immaginavo. Tu e Debbie
siete amiche da quel che so. Allora
ci si vede. Ciao!
Morgan alza la mano e lo
saluta.
-Ciao ciao!
Kyle rimane in silenzio.
La professoressa è entrata in
classe ed inizia a spiegare la lezione. Morgan attende una qualche
reazione da
parte del compagno che non dice nulla.
Terminata la lezione si
alza ed è proprio lui a parlare per
primo.
-Verrò a quella
stupida festa ma non pensare che lo faccia
per qualche motivo. Anzi ti faccio un favore, non volevo farti fare
brutta
figura davanti ad Anthony.
Morgan sfoggia uno dei
suoi migliori sorrisi e ringrazia
Kyle. Attende con impazienza sabato.
***
Sconvolto. Non saprebbe
trovare altro aggettivo per spiegare
il proprio stato d’animo. Forse non è nemmeno
abbastanza. Se ne sta seduto sul
divano a fissare la porta. Ha ancora il telefono in mano.
L’orologio di fronte
a sé segna le quattro e mezza, nel giro di pochi minuti Kyle
rincaserà. Dovrà
spiegare anche a lui tutto quanto, raccontargli ogni particolare,
riviverla
quella telefonata.
Osserva il cordless bianco
tra le mani e lo schermo vuoto indicante
la data e l’ora. L’ha riconosciuto quel numero,
come avrebbe potuto
dimenticarlo? L’ha composto per anni. Sempre lo stesso, non
è mai cambiato.
Sperava quasi avesse deciso di cambiarlo proprio in quel periodo
eppure, ancora
le stesse cifre. Per
un attimo è stato
indeciso sul da farsi, non voleva rispondere. Era rientrato da poco e
stava
facendo qualche faccenda di casa, giusto per tenerla in ordine, quando
il
telefono aveva iniziato a suonare.
Era corso come di suo
solito ed aveva allungato la mano per
afferrare la cornetta, fino a quando non aveva intravisto quel numero.
Il cuore
gli si era fermato per qualche secondo. La mano sospesa aveva iniziato
a dare i
segni di un leggero tremore. Aveva quasi iniziato a pensare che non
avrebbe più
visto né sentito Jonathan. Non era nemmeno entrato in casa
il giorno in cui
aveva ritirato sul pianerottolo le sue cose. Ora, senza aspettarselo,
deve affrontare
una telefonata con lui e deve di nuovo sentire la sua voce e
rispondere,
parlare con lui.
L’impulso di
chinarsi e staccare il filo del telefono è
stato forte, ci ha pensato e per poco
non l’ha fatto poi alla fine ha ceduto e ha
risposto. Ha premuto la
cornetta ed ha iniziato a parlare, con voce tremante,
nell’attesa di sentire la
sua voce.
-Sono a casa!
Esclama Kyle entrando e
distraendo Christian dai suoi pensieri.
Sembra felice, ha l’aria un po’ stanca ma deve
essere felice.
-Com’è
andata a scuola?
Chiede di routine.
Kyle getta la borsa contenente i libri a terra e poi lo
raggiunge sul
divano.
-Uhm… tutto ok.
C’è
silenzio per qualche secondo tra i due poi Kyle
ricomincia a parlare.
-Sabato… dovrei
andare ad una festa. Da Debbie Benson credo.
Mi ha invitato Morgan, ma se tu non mi dai il permesso, fa niente!
Christian sorride.
Conosce la repulsione di Kyle per le feste e sa che non
muore di certo
dalla voglia di parteciparvi. Pensa però che gli farebbe
bene una serata fuori
casa tra i suoi coetanei, perchè basta lui in quella casa a
vivere e soffrire
di ricordi.
-Se non ti va di andare
non andare ma se vuoi, per me non
c’è nessun problema.
Kyle fa una smorfia.
-Ah… Wow,
dovrei dire.
Commenta sarcastico
accasciandosi sul divano e tastando
accanto a sé per cercare il telecomando.
Christian gli accarezza i capelli, lui si avvicina di
più e si appoggia
alla spalla di Christian.
-L’hai capito
vero che non ho troppa voglia di andare?
Chiede, alzando gli occhi
per cercare lo sguardo di
Christian, gli sorride. Un sorriso che Kyle ritiene strano, forse
triste. Osserva il
cordless ancora stretto tra le sue
mani e lo guarda intensamente.
-Chris, è
successo qualcosa?
Sapeva che Kyle si sarebbe
accorto che qualcosa non andava.
Non è molto bravo a nascondere le cose. Non sa se dirgli la
verità oppure fare
finta di niente. Dopotutto è sabato il giorno in cui
dovrà rivedere Jonathan e
Kyle sarà a quella festa. Non c’è alcun
bisogno che lui sia presente, che assista
ad un'altra sceneggiata, una e abbastanza.
Cerca di stamparsi sul
viso un sorriso diverso, che possa
trasmettere anche un sentimento simile alla felicità. Sa che
non è possibile.
Gli sembra quasi che siano i muscoli della sua stessa faccia ad
impedirglielo,
sembrano irrigiditi.
-No. Sto solo pensando che
sei cresciuto.
Kyle fa una strana smorfia
poi scuote il capo con
rassegnazione.
-Le solite pallose frasi
da genitori!
Torna a rivolgere
l’attenzione al televisore. È convinto di
ciò che Christian gli appena detto.
***
Aspetta di finire
l’ultima sigaretta del pacchetto prima di
fare ciò che deve. Ha deciso di farla quella telefonata a
Christian. Lo ferisce
nell’orgoglio quel gesto, il fatto di dover telefonare,
magari suonare il
campanello per poter entrare in casa sua distrugge il suo ego. Pensa
alle
chiavi nel cassetto in ufficio. Vorrebbe tanto utilizzarle. Forse
però
Christian ha cambiato le serrature. Ne dubita. Non ne avrà
avuto il tempo, la
voglia, forse la forza. Pensa
che, al
suo posto, quella di cambiare le serrature sarebbe stata
l’ultima delle
preoccupazioni.
Quando l’ultimo
pezzetto di cenere si stacca dalla brace,
prende il mozzicone e lo preme nel posacenere che ha affianco sul
tavolo. Lo
gira per qualche secondo, in modo da assicurarsi che sia completamente
spento o
semplicemente per prendere tempo poi inizia a fissare il cellulare,
poco
distante, appoggiato sul tavolo che aspetta solo di essere utilizzato.
Sposta il posacenere e
allunga la mano verso il terminale.
Si lascia andare sullo schienale della sedia e sblocca la tastiera del
telefono. Compie piccoli gesti, non ha fretta, non vuole averne. In
realtà
vorrebbe fare ciò che deve più rapidamente
possibile, parlare con un solo
fiato, senza fermarsi nemmeno per respirare.
Ha il numero memorizzato
in rubrica, forse è ancora nelle
ultime chiamate, non ha cancellato niente, neanche i messaggi eppure
decide di
comporlo il numero di casa sua. Tasto per tasto, cifra per cifra,
sempre più
lentamente e non appena arriva al cinque finale si ferma prima di
premere la
cornetta verde.
Il cellulare è
al centro del palmo della sua mano, il suo
pollice è appoggiato con delicatezza sul tasto verde,
l’indice su il tasto
rosso, quello per annullare la chiamata. Vorrebbe allungare
l’indice, per
allentare la tensione ma sa che non risolverebbe nulla. Gli tornano in
mente le
parole di Gregor durante l’ultimo colloquio.
“Li devi
affrontare i tuoi problemi. Più tu li eviti e più
loro si rafforzano.”
Deve prendere di petto la
situazione e fare ciò che deve
senza farsi prendere dalla tensione. Non ha parlato a Gregor di quella
visita
forzata a casa, forse avrebbe dovuto farlo. Lo avrebbe aiutato a
trovare
l’energia necessaria per evitare sicuri ripensamenti.
Inizia a pensare di dover
annullare quella chiamata e di
dover comporre il numero di Gregor per parlargliene, per farsi dare un
consiglio se non altro su come affrontare la situazione. Ripensa poi
che
probabilmente, nonostante ogni previsione, gli consiglierebbe di farsi
spedire
a casa da Christian il fascicolo necessario. Non è mai corso
buon sangue tra
Christian e Gregor. Ora che i fatti hanno preso quella piega, Gregor
cercherebbe
di evitare il faccia a faccia con lui.
Essendo proprio quello a
spaventarlo forse è la decisione
migliore. Tuttavia, in preda alla confusione,
all’indecisione, preme la
cornetta verde. Ormai è tardi per ripensarci.
Rimane vigile per sentire
Christian rispondere dall’altra
parte. Il telefono suona a vuoto almeno una decina di volte. Inizia a
credere
che Christian abbia riconosciuto il numero e che si stia rifiutando di
proposito di rispondergli. Non sarebbe l’unico a reagire in
quel modo.
Ormai arreso, allontana il
telefono dall’orecchio. Non
appena lo stacca sente la voce di Christian in lontananza. Riafferra il
cellulare e lo riporta all’orecchio.
-Pronto…?
È Christian e
il suo tono di voce è tranquillo, sembra
tranquillo.
-Pronto Christian
sono…
Risponde al suo posto,
prima che possa farlo lui.
-Lo so.
Quella sua risposta lo
spiazza, deglutisce e cerca di
tagliare corto.
-Avrei bisogno di venire a
ca-
Si blocca, si corregge.
- ...da te. Ho dimenticato
una cosa.
Un pausa.
-Quando?
Il tono di voce di
Christian è cambiato. Sembra quasi
infastidito ma allo stesso tempo rassegnato.
-Ti va bene…
sabato?
Aspetta una risposta da
parte di Christian.
-Prima di cena?
Chiede, con lo stesso tono
di rassegnazione.
-Si, va bene.
Non risponde, non dice
nulla.
-Ci vediamo
allora… ciao.
-Ciao.
Riattacca.
Non era certo il tipo di
telefonata che si aspettava. Quella
reazione non l’ha prevista. Ha pensato tutto il giorno a
quale reazione avrebbe
potuto avere Christian, come si sarebbe potuto comportare. Era pronto a
tutto
fino ad allora.
Quel tono di rassegnazione
che sembrava quasi dire a ogni
frase, implicitamente “fa’ quello che vuoi, non mi
interessa” l’ha ferito. Il
suo orgoglio già smorzato è stato ulteriormente
calpestato. Non ha saputo
tenere testa alla conversazione come avrebbe voluto. Si è
sentito come ogni
giorno, uno schifo, uno straccio. Inizia a chiedersi se sarà
in grado di
affrontarlo sul serio senza impazzire.
--> Ta-dah!! Ecco il capitolo
dieci... Sempre in ritardo di un giorno, non so come scusarmi ragazzi.
Spero che vi faccia comunque piacere che posti XD perdonatemi i
ritardissimi. Allora... questo è uno dei miei capitoli
preferiti tra quelli scritti. Questo e i prossimi due... capirete il
perchè XD c'ho messo anche parecchio a scrivere questo e i
successivi. Spero mi direte cosa pensate^^ Ringrazio twy per il
commento, scusandomi di nuovo per la mia "ritardataggine cronica"
E ora... alla prossima! <--
|
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Capitolo 11 *** Mirror, mirror (Specchio) ***
11.
Mirror Mirror
(Specchio)
-Biondo,
domani
sera si va a ballare e non accetto un no come risposta.
Esclama Ronald, comparendo
alle spalle di Christian che
balza per lo spavento.
-Mi hai spaventato Ron.
Ronald si avvicina a
Christian e si siede sul tavolo sul
quale sono posati i fogli che il collega sta cercando di riordinare. Lo
vede
perso, distratto. Non parla e non risponde alla sua affermazione.
Inizia ad
intuire che gli sia successo qualcosa ma preferisce indagare un poco
prima di
chiederglielo direttamente.
-Allora? Per domani?
Chiede, aspettandosi una
sua risposta che non arriva. Christian
se ne sta con lo sguardo fisso nel vuoto, la mente vaga per
chissà quali mondi
e pensieri e le sue mani sembra si muovano senza precise direzioni,
afferrano
dei fogli, li mettono assieme in modo da farli combaciare e poi li
uniscono
tramite una clip. Hanno qualcosa di robotico i gesti di Christian.
-Ehilà,
c’è nessuno in casa?
Chiede Ronald sporgendosi
verso il collega, che scrolla la
testa. Le sue mani si fermano e osserva Ronald con espressione confusa,
un
sopracciglio leggermente rialzato e la bocca semiaperta. Deve non aver
capito
una parola di quello che gli è appena stato detto . Ronald
allora sospira,
porta gli occhi al cielo e si ripete.
-Ho detto che domani sera
esci con me, si va a ballare.
Christian rimane con
quell’espressione inebetita per almeno
un’altra ventina di secondi, durante i quali Ronald si
prepara a ripetere di
nuovo l’invito.
-No, non ci sono.
Risponde invece, radunando
velocemente tutti i fogli rimasti
sul tavolo e infilandoli alla rinfusa nella propria cartelletta. Ronald
con un
balzo scende dal tavolo e lo segue.
-È
un’altra tua scusa per non uscire con me?
Christian non risponde.
Gli volta le spalle e imbocca il
corridoio. Non ha lezione per almeno un paio d’ore e
probabilmente si sta
dirigendo in biblioteca, Ronald lo intuisce dalla quantità
di fotocopie e di
volumi che porta sottobraccio. Ha velocizzato il passo, inizia a
pensare che
stia cercando di evitarlo, così fa altrettanto e lo
raggiunge.
-Chris?! Allora?
Christian lo guarda, senza
però fermarsi.
-E allora cosa?
Salgono le scale per il
secondo piano, proprio il piano in
cui è situata la biblioteca.
-Voglio sapere se
è una scusa.
Chiede Ronald, tenendo il
suo passo.
-Non lo è.
Risponde lui.
-E allora che hai da fare
di tanto importante?
Christian si ferma,
da’ la schiena a Ronald.
-Jonathan.
Riprende a salire i
gradini come se niente fosse, come se
avesse detto qualcosa di normale, di solito. Ronald rimane qualche
gradino più
in basso è ancora fermo e rielabora
quell’informazione. Non appena riesce a
capire giustifica il comportamento distratto di Christian. Lo raggiunge
e una
volta arrivato al pianerottolo lo strattona, facendolo girare.
-Che cosa
c’è ancora?
Gli chiede lui,
apparentemente seccato. Questo è ciò che
suggerisce il suo tono di voce, l’espressione è la
stessa di poco prima, persa,
vaga.
-Lo dici così?
Chiede Ronald. A
differenza del collega il suo sguardo è
attento, accusatorio. Si aspetta una spiegazione più
dettagliata.
-Ci sono ancora cose sue a
casa…
Risponde, con
tranquillità. È proprio questo che preoccupa
Ronald; Christian è calmo, tranquillo. Se non
fosse per quello sguardo, quegl’occhi blu nei
quali vede il nulla
profondo, potrebbe darla a bere persino a lui. Potrebbe sembrare che
ogni
sentimento, sensazione forte da lui provata fino a qualche giorno, o
forse ora,
prima non gli faccia più effetto, che il fatto di vedere
Jonathan non lo tocchi
neanche.
-Te la senti di
affrontarlo?
Chiede, con
preoccupazione. Suscitando una reazione
inaspettata; Christian si libera dalla presa e ricomincia a camminare,
cercando
di allontanarsi da lui il più possibile.
-Christian, ti ho fatto
una domanda.
Urla Ronald volutamente,
facendo girare tutti i presenti nel
corridoio.
Christian si gira, si
ferma e aspetta di essere raggiunto.
-E se anche non me la
sentissi? Cambierebbe qualcosa?
A poco a poco i suoi veri
sentimenti cominciano ad emergere.
Il primo segnale è la voce, tremante, risentita.
-Cosa posso fare Ronald?
Chiudergli la porta in faccia,
proprio a casa sua?
Il secondo segnale
è lo sguardo, non è più perso nel
vuoto.
I suoi occhi sembrano quasi più chiari, limpidi come il mare
d’estate. Ronald
lo interpreta come un segnale di aiuto inespresso.
-Potevi… anzi,
dovevi, dirgli di passare mentre sei al lavoro. Christian, non stavi
più
pensando a lui. Non è sano che tu lo riveda.
Christian non pensa la
stessa cosa e non lo nasconde. Scuote
il capo in segno di diniego, una strana smorfia compare sul suo viso.
Non è più
confuso o perso, sa bene dove si trova e probabilmente non è
dove vorrebbe
essere.
-Non ci penso
più dici? Certo, come se fosse possibile. Ogni
fottuta cosa lì dentro me lo ricorda. Non ho toccato niente,
è tutto come è
sempre stato. Senza contare le bollette, la corrispondenza. Tutto a
nome suo,
tutto quanto.
Ronald non sa cosa
rispondere ma non vuole restare in
silenzio, vuole dire qualcosa. Deve ribattere in qualche modo.
-Fai come per i vestiti.
Prepara tanti scatoloni e riponici
tutto ciò che gli appartiene. Sarà sempre meno
doloroso di vederlo.
Christian non risponde.
Involontariamente Ronald ha centrato
il punto. Sogghigna, avrebbe dovuto immaginarselo.
-Tu lo vuoi vedere, non
è vero?
Christian non risponde, di
nuovo. Abbassa lo sguardo, non un
gesto, non un segno di voler ribattere.
-Ho capito. Nel tuo
profondo lo vuoi rivedere. Perché
Christian? Perché dopo tutto quello che ti ha fatto?
Christian alza il capo di
scatto e lo guarda di nuovo negli
occhi. La sua espressione è di nuovo mutata, abbozza un
mezzo sorriso.
-Tu non hai mai amato. Non
mi puoi capire. È inutile che te
lo spieghi.
Si sistema il libri sotto
braccio e prosegue per la sua
strada. Lasciando Ronald in piedi al centro del corridoio, senza
parole.
***
Kyle si era dovuto
sopportare per ben due giorni
l’impazienza di Morgan riguardo alla festa. Non faceva che
dirgli quanto si
sarebbero divertiti, cosa avrebbero fatto e quanta gente avrebbero
potuto
incontrare. Ogni ora era la stessa cosa. Come se ciò non
bastasse, il venerdì
pomeriggio era stato letteralmente trascinato dalla ragazza in centro
per
aiutarla a comprarsi un vestito adatto per l’occasione.
Non è un
particolare amante dello shopping Kyle, veste bene
soltanto perché al suo abbigliamento ci pensa sempre
Christian. Fosse per lui
indosserebbe sempre e solo la tuta e il pigiama, per andare a letto.
Morgan è molto
esigente per quanto riguarda il proprio
abbigliamento. Deve essere sempre perfetta sotto ogni punto di vista.
Le piace
spendere, forse un po’ troppo, ed è completamente
ossessionata dai propri
capelli.
Dopo aver girato senza
sosta e senza meta per circa quaranta
minuti ed aver osservato più di una cinquantina di vetrine,
la ragazza decide
finalmente di fermarsi in un negozietto. Kyle tira in respiro di
sollievo, non
ne poteva più delle chiacchiere di Morgan e dei suoi
commenti su ogni cosa.
Entrati nel negozio la perde completamente di vista per qualche
secondo. La
vede ricomparire poco dopo, ha
in mano
una montagna di vestiti che probabilmente intende provare.
-Ecco! Me ne tieni
qualcuno che li provo?
Esclama, rifilandogli
circa una decina di abiti.
-Morgan vuoi veramente
provare tutta questa roba? Ti ricordo
che è solo una stupida festa tra adolescenti! Non
è nemmeno il ballo di fine
anno.
Morgan non gli
da’ il benché minimo ascolto e sparisce nel
camerino con i vestiti che le sono rimasti in mano. Kyle si siede su un
divanetto di fronte al camerino di prova, in attesa che gli chieda di
passarle
anche gli altri vestiti.
Dopo pochi minuti esce con
il primo abito.
Appariscente, decisamente,
troppo.
-Come mi sta?
Chiede, girando su se
stessa. Kyle fa una smorfia.
-Passo.
Esclama.
Lei sbuffa.
-Mi sta proprio
così da schifo?
Domanda, guardandosi.
-Passo!
Ripete Kyle.
Morgan torna di nuovo nel
camerino e prova un altro vestito.
Esce per raccogliere l’approvazione di Kyle. Questa volta il
vestito è
semplicemente brutto.
-Com’è?
Kyle scuote la testa.
-Il prossimo.
Fa marcia indietro e torna
nel camerino di prova. Mette e
toglie in totale una ventina di vestiti. Kyle non ce la fa
più, è seduto su quella
poltrona da più di mezz’ora, in quel momento non
vuole più saperne di vestiti o
feste. Non gli
è rimasto più nessun capo
in mano, spera che l’ultimo sia quello decisivo. Altrimenti
è pronto ad alzarsi
e tornarsene a casa. La sua scarsa voglia di partecipare a quella
festa, se è
possibile, è andata a zero.
-Ok, però
adesso promettimi di non ridere, va bene?
Esclama Morgan da dentro
il camerino.
-Morgan, non ho riso per i
precedenti diciannove vestiti,
perché dovrei ridere per questo?
La porta del camerino
questa volta si apre pian piano e
Morgan esce, con vergogna. Si copre gli occhi e aspetta il giudizio di
Kyle.
-È orribile?
Chiede, scoprendosi pian
piano gli occhi.
Kyle la osserva con
attenzione. È bellissima. Quel vestito
le sta davvero bene. È un abito molto semplice, a differenza
di quelli appena
provati, bianco con delle rifiniture nere, lungo fino sopra il
ginocchio, senza
spalline e con una leggera scollatura interna al vestito.
-Wow!
Esclama Kyle estasiato.
Morgan arrossisce.
-Mi stai prendendo in
giro, vero?
Fa cenno di no.
-Assolutamente no. Fai un
giro su te stessa!
Morgan obbedisce e Kyle la
trova semplicemente meravigliosa.
Quell’abitino è fatto decisamente per lei.
Morgan è di statura piuttosto minuta, forme
leggermente accennate e quell’abito
sembra quasi le sia cucito addosso. Sembra abbia la stessa forma del
suo corpo,
la stessa curva dei suoi fianchi e mette in bella vista le gambe, magre
e
diritte.
-Mi sta veramente
così bene?
Chiede la ragazza,
osservandosi allo specchio del camerino.
-Dovresti comprare questo
Morgan! Ti sta a pennello. Non ti
prendo in giro.
Morgan si lascia
convincere e infine decide di acquistare
quell’ultimo vestito. Kyle è sicuro che
farà un figurone con addosso
quell’abito.
Uscita dal negozio Morgan
è contenta e soddisfatta del
proprio acquisto.
-Sono così
contenta di aver trovato il vestito! E tu non
provarci neanche a darmi buca perché te la faccio pagare!
Minaccia Morgan, agitando
la borsa contenente il vestito.
-Tu pensi che mi sia
sorbito un pomeriggio a vederti
cambiare vestito dopo vestito per poi non presentarmi?
Morgan spalanca la bocca.
-Ma sentilo un
po’! Che razza di amico!
Kyle scoppia a ridere e
poco dopo anche Morgan.
***
Il sabato è
sempre stato uno dei giorni preferiti da
Christian. Non sa spiegarsi il perché, forse questa sua
preferenza risale
ancora ai tempi della scuola, quando non vedeva l’ora che
arrivasse il weekend
per potersi divertire. Di fatto non c’è nulla di
speciale di sabato, da anni
ormai. In pochi lavorano quel giorno e le strade della città
di New York sono affollatissime,
è quasi impossibile passeggiare senza essere strattonati o
calpestati.
Ha sempre evitato di fare
compere il sabato per quel motivo.
Non sopporta la folla, gli da’ uno strano senso di
soffocamento. È capace di
perdersi pur conoscendo la strada, pur avendola fatta più di
un centinaio di
volte. Si è sempre organizzato in modo tale da non dover
uscire di sabato,
preferendo invece restare a casa a dedicarsi ai suoi hobby, a cucinare,
a
leggere.
Se ora si trova a
percorrere la 5th avenue, di sabato
pomeriggio, ad evitare che una decina di passanti gli pestino i piedi o
lo
travolgano, è solo perché ha bisogno di tenere la
mente impegnata. Deve
concentrarsi su dove si trova, su cosa deve fare e comprare. Non ha
tempo per
pensare a nient’altro.
Ha già girato
un paio di negozi. È uscito per acquistare dei
nuovi capi estivi per Kyle, ha dovuto sistemare il suo armadio qualche
giorno
prima e ha deciso che mancava qualcosa, che il suo vestiario era troppo
infantile
per un ragazzo di quasi sedici anni. Aveva anche cercato di portarlo
con sé per
scegliere insieme cosa comperare ma, come prevedibile, si era
rifiutato. Non si
aspettava entusiasmo o partecipazione da Kyle, non è una
cosa di suo interesse
lo shopping.
Osserva le vetrine
attentamente, cerca di trovare quel
particolare capo che possa piacere sia a lui sia a Kyle. Si ferma
davanti ad
una vetrina di un negozio abbigliamento giovane. Osserva i cartellini
dei
prezzi. Non può permettersi di spendere molto,
il suo stipendio è giusto sufficiente per
pagare il cibo e le necessità
primarie. Legge un paio di volte un prezzo assurdamente alto per una
polo
imitazione di Lacoste, alza gli occhi per osservare meglio il
manichino, per
vedere se almeno si tratta di una buona imitazione.
Guarda le maniche bordate,
i due bottoni bianchi sul
colletto e poi si distrae; vede la sua immagine riflessa. Occhiali da
sole
sopra la testa, braccia cariche di borse, capelli decisamente in
disordine.
È da un
po’ che non dedica del tempo alla cura della sua
immagine. Si intravede allo specchio la mattina ma senza guardarsi
veramente. È
come se avesse un poster di sé stesso, risalente a qualche
tempo prima,
incollato sullo specchio, una sua vecchia fotografia che lo ritrae
nella
migliore forma. Gli basta creare nella propria mente
quell’immagine di sé, non
si deve osservare.
Appoggia sul braccio
sinistro, già carico, le borse del
braccio destro e con una mano si
percorre il viso. Scavato,
troppo. Sotto le gote due solchi profondi, sulla fronte due piccole
rughe
espressive iniziano ad essere percepibili al tocco.
Lascia cadere ai suoi
piedi le borse e con entrambi le mani
percorre il viso, affonda il polpastrelli nella pelle per sentire
meglio il
rilievo delle rughe sulla fronte, l’osso della mandibola.
Non si riconosce, si
spaventa.
Decide di tornare a casa.
Si siede allo sgabello
della specchiera in camera, sposta
tutto ciò sia presente sul pianale e vi punta i gomiti. Tra
i palmi delle mani
aperte poggia il viso. Inizia ad osservarsi, a scrutarsi. Contrae e
rilassa il
viso in continuazione poi si avvicina di più allo specchio,
si mette di profilo
e osserva gli zigomi. Gli sembra quasi di vederli spuntare dalla pelle,
di
vederli uscire.
Non sta mangiando
adeguatamente da tempo. Cucina solo per
Kyle e se il ragazzo è fuori a pranzo si dimentica di
preparare qualcosa per sé.
Quel viso incavo ne è la prova.
Dorme poche ore a notte,
si desta di continuo e non riesce a
riprendere sonno. La spiegazione per le occhiaie, due vistosi
semicerchi
violastri resi più evidenti dal suo incarnato color avorio.
Mentre le rughe sono
dovute al tempo o forse allo stress.
Non se le spiega.
Osserva il suo viso nel
complesso, la sua immagine attuale e
se ne vergogna. Inizia a pensare a quali sguardi e pensieri pietosi la
gente
possa avergli rivolto guardandolo. Non sopporta la pietà.
È qualcosa che
non tollera, pensa che le persone
nascondendosi dietro questo sentimento finto buonista si permettano di
giudicare una persona e in qualche modo dispregiarla.
È per questo
che da quel giorno ha cercato di non mostrare
ciò che sta passando, ciò che sta sentendo, non
si è mai espresso con nessuno,
ha tenuto ogni tipo di emozione per sé.
Ha persino creduto di esserci riuscito. Nessuno ha fatto
troppe domande,
nessuno ha detto nulla.
La sua faccia, di cui
è sempre andato fiero, l’ha tradito.
Tutto il dolore, la sofferenza, persino il risentimento che ha provato
e che
prova sono impressi sul suo viso in modo indelebile e sono visibili a
chiunque,
giudicabili da chiunque. Ecco perché nessuno chiede, nessuno
domanda, non ce
n’è bisogno, basta osservare il suo viso per
ottenere una risposta.
Il suo pensiero volge a
Jonathan. Lui conosce bene la sua
faccia, l’ha amata dal primo momento in cui l’ha
vista. Si chiede a cosa penserà
vedendolo ora, in quello stato. Capisce che non sarà
possibile nascondergli i
lividi dei colpi da lui inflitti, che sarà inutile fare
spallucce e fingere di
essere forte. Lui capirà, si renderà conto di
quanta importanza ricopra ancora
nella sua vita e di come gli sia difficile smettere di dipendere da
lui, di
contare sulla sua presenza.
Ripensa quel giorno in cui
tutto era iniziato. Quel giorno
in cui Jonathan era stato cacciato da casa sua, quando la sua mente
l’aveva
supplicato di mandarlo via per non soffrire, mentre il suo cuore
piangeva con
lui e gli batteva forte nel petto, gli rimbombava in gola quasi volesse
impedirgli di parlare per dire ciò che avrebbe dovuto.
-Chris?!
Kyle rincasa e distoglie
Christian dai suoi pensieri.
Dovrebbe ringraziarlo, un solo secondo e avrebbe raggiunto la follia.
-Sono in camera tesoro.
Kyle lo raggiunge.
È felice, sorride.
-Ho visto che hai fatto
shopping!
Commenta il ragazzo.
-È tutta roba
tua. Dagli un’occhiata, magari trovi qualcosa
di carino per questa sera.
Kyle sbuffa.
-Chris, devi smetterla di
comprarmi vestiti. Lo sai che mi
basta quello che già ho nell’armadio e poi ora i
soldi sono-
Christian lo ferma.
-Se mi permetto di
comprarti qualcosa è perché lo posso
ancora fare, Kyle.
Kyle annuisce.
-Va bene, in questo caso
ti ringrazio.
Qualche istante di
silenzio poi ricomincia a parlare.
-Ora… vado a
preparami. La mamma di Morgan passerà a
prendermi tra mezz’ora, a dopo.
Si gira e guarda la
sveglia sul comodino. Sono le sei.
Vede con la coda
dell’occhio Kyle in salone che spacchetta e
osserva i suoi nuovi abiti. Si chiede se abbia fatto bene a non dirgli
nulla.
C’è sempre la possibilità che i due si
incontrino, non sa con precisione quando
Jonathan si presenterà. “Prima di cena”
è molto vago, potrebbe essere lì in
pochi minuti o in due ore.
Come potrebbe spiegare a
Kyle le sue ragioni per non avergli
detto nulla? Christian conosce le proprie motivazioni; non vuole
vederlo
infelice. Stava sorridendo fino a poco prima e non se la sente di
smorzare quel
sorriso. Si dimentica troppo spesso che Kyle è ancora un
ragazzo nonostante
spesso sembri più maturo e deciso di lui. Si è
trovato senza volerlo in mezzo a
quella situazione spiacevole e forse è
proprio lui tra i tre ad averne sofferto di più. Deve
sbrigarsela da solo e
lasciare che Kyle pensi a divertirsi, ad uscire con i suoi coetanei e
fare i
pensieri di un normale adolescente.
Si sistema i capelli
velocemente e si alza.
--> Perdonatemi, perdonatemi
tanto!! Sono in ritardissimo, lo so, scusate. Devo ripetere ancora che
è un periodo particolare, che ho una serie di problemi e
cose da fare. L'appuntamento settimanale è slittato da
sabato a domenica, da domenica a lunedì e oggi è
martedì! Ho mancato una settimana, abbiate pazienza e
continuate a seguirmi^^ la pubblicazione non si arresterà.
Sono riuscita a scrivere il 20esimo capitolo, quindi penso di riuscire
a postare più o meno regolarmente per un'altro po'. Intanto
ringrazio More_More
per il commento all'ultimo capitolo.
Buona settimana, alla prossima
<--
|
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Capitolo 12 *** Pieces (Frammenti) parte prima ***
12.
Pieces
(Frammenti) parte prima
È
quasi limitativo chiamare
l’abitazione di Debbie Benson “casa”. La
villa è situata alcuni chilometri
fuori New York, in un paesino anonimo. Non ci sono molti negozi o
strutture
particolari, si tratta di una cittadina di passaggio, popolata dalle
splendide
proprietà di persone facoltose per le quali è
più interessante esibire la
propria casa che viverla.
È
la prima volta di Kyle in quel
posto e non appena scende dall’auto rimane piacevolmente
stupito osservando
l’abitazione. Si è sempre chiesto dove fossero le
mega-ville che si vedono
spesso nei film e finalmente ne ha trovata una che rispecchi
perfettamente lo
stereotipo. All’inizio del lungo vialetto di ciottolato che
conduce
all’ingresso della casa, c’è un
bellissimo cancello in ferro battuto con
scolpita una “B”. Il sentiero è
illuminato da faretti e bellissime piante dai
rami piangenti.
Si
sente quasi suggestionato Kyle
a percorrere quella strada. A Morgan ormai non fa più alcun
effetto, cammina
con il suo nuovo vestito bianco e le sue ballerine di pelle lungo la
stradina,
con fare da modella.
Kyle
l’ha trovata bellissima
quella sera. Capelli perfetti e raccolti in un fermaglio bianco
brillante,
borsetta coordinata e trucco leggero. Sembra quasi più
grande. Non appena l’ha
vista in macchina, ha pensato di dirle quanto è bella,
quanto è perfetta quella
sera, ma poi per un improvviso attacco di vergogna e di imbarazzo ha
preferito
non dirle nulla, si è limitato a salutarla
per poi continuare ad osservarla in silenzio.
All’altra
estremità del vialetto,
accanto alla porta di ingresso, c’è Debbie che da
brava signorina di buona
famiglia accoglie i suoi ospiti. Un paradosso secondo Kyle.
Tutta
quell’ambientazione lo è a
detta sua. Il tipo di festa, o festino per adolescenti che
avrà luogo da lì a
poco, non ha nulla a che fare con lo scenario nel quale si
svolgerà. È tutto
così elegante, perfetto. Un ballo di gala sarebbe stato
decisamente più
azzeccato.
Anche
l’abbigliamento di Debbie è
un chiaro controsenso. Indossa una versione più lussuosa e
griffata di un
abitino che ha provato anche Morgan il giorno prima. Un tubino di raso
fucsia
con una vistosa scollatura, piuttosto corto. Ha qualcosa di volgare
quel
vestito, su Morgan, su Debbie sta benissimo, è perfetto.
Forse perché
rispecchia precisamente il suo stile.
-Ma
ciao tesoro! Sei bellissima!!
Esclama
Debbie, abbracciando
Morgan. Un saluto, un sorriso e un abbraccio più falsi non
sarebbe stata in
grado di farli.
-Debbie!
Ma tu sei bellissima!
Grazie per avermi invitato, tesoro!
Anche
Morgan è poco sincera. Ogni
parola che rivolge a Debbie sembra una presa in giro. Kyle sorride
vedendole
chiacchierare. Non ha mai capito una cosa delle ragazze; per quale
motivo
fingano a tutti i costi di volersi bene nonostante non si sopportino.
Lui
quando odia qualcuno lo evita e ritiene sia la cosa migliore da fare.
-Oh
sono arrivati Samuel e
Amanda! Abbiate una buona serata cari!
Esclama
Debbie liquidando Morgan
e Kyle.
I
due ragazzi entrano in casa. L’interno
è ancora più elegante; tutto impeccabile,
perfetto, lussuoso.
-E
tu la chiami amicizia quella
che hai con Debbie?
Domanda
Kyle, seguendo Morgan,
che lo conduce nella sala in cui si svolge la festa vera e propria.
Un
salone enorme, con una pista
da ballo in parquet al centro e una serie di tavoli da buffet sui quali
sono
poggiati salatini, del punch e più di un centinaio di
alcolici differenti. C’è
persino una console da dj in quella stanza, senza contare il barman
accanto al
tavolo degli alcolici.
Ci
sono già più di una
cinquantina di ragazzi ma naturalmente ne devono arrivare ancora
altrettanti.
-Per
tutto questo Kyle!
Risponde
lei indicando la sala.
Kyle
continua a non comprenderla,
probabilmente perché quello non è proprio il suo
ambiente. Morgan inizia a
guardarsi in giro e gli parla raccontandogli storie o particolari su
alcuni
degli invitati. Si ferma soltanto quando qualcuno le appoggia una mano
sulla
spalla. Quel qualcuno è Anthony Edwards che sta sorridendo.
È molto elegante
quella sera, capelli ingelati, camicia bianca, jeans neri e mocassini.
È strano
vederlo con abiti diversi dalle felpe della squadra di football.
-Anthony
ciao!! Ma come sei carino
stasera!!
Il
sorriso di Anthony si allarga
ancora di più. Kyle inizia a sospettare che porti un qualche
tipo di dentiera.
I suoi denti sono quadrati, lucidi e perfettamente allineati.
-Sei
bellissima anche tu.
Si
guardano negli occhi e in Kyle
si insinua il sospetto che i due possano piacersi. Se così
fosse, saprebbe
spiegarsi il motivo delle continue domande che gli fa circa lui.
Starebbero
anche bene insieme, formerebbero una bella coppia, a detta di Kyle. Li
fissa
parlare tra di loro macchinando una serie di teorie.
-Scusami
Kyle, non ti ho
salutato. È che Morgan questa sera è…
wow!
Esclama
rivolgendosi a lui.
-Già,
è bellissima, vero?
Anthony
non parla ma lo osserva,
osserva i suoi capelli spettinati, il suo abbigliamento rilassato.
Probabilmente
si sta chiedendo se Kyle sappia cosa voglia dire andare ad una festa o
se ci
sia mai stato.
-Non
ti facevo un tipo da feste
Kyle…
Commenta
alla fine.
-Si,
l’ho capito da come mi stavi
squadrando un secondo fa.
Morgan
spalanca gli occhi e rivolge
un’occhiataccia a Kyle. Le sue risposte pungenti non le
piacciono troppo.
Anthony
si toglie dall’impiccio
sorridendo di nuovo.
-Stavo
semplicemente apprezzando
il tuo modo di essere. Il tuo non importarti degli altri, Kyle.
Kyle
fa spallucce.
-Sai
com’è, sono cresciuto con
due padri. Del parere e del giudizio della gente ho imparato a
fregarmene a sei
anni.
Annuisce.
-È
questo che mi piace di te.
Le
luci si abbassano e il dj
inizia a mettere canzoni e a intrattenere i ragazzi.
-Adoro
questa canzone. Ti spiace
se ti rubo Morgan?
Chiede
a Kyle, mentre sorride
alla ragazza.
-Oh
fai pure. Io sono qui solo
come soprammobile.
Anthony
afferra Morgan per il
braccio e la porta in pista a ballare. Kyle sospira e li osserva a
braccia
conserte.
***
Nonostante abbia cercato
tutto il giorno di non pensarci,
nonostante abbia deciso di affrontare la situazione al momento giusto,
Jonathan
si trova da quasi un’ora a camminare avanti e indietro per il
salone del suo
loft per far passare il tempo.
Si è imposto di
tenersi impegnato, aveva fatto shopping,
letto dei libri di approfondimenti psicologici. Ma nulla. Il tempo
sembra non
passare mai. “Prima di cena” aveva detto. E quindi?
Quando si sarebbe dovuto
presentare? Alle sette forse? O alle sei?
In ogni caso sono le
cinque, c’è ancora molto tempo, troppo.
Si sta sforzando per non fumare. Ha iniziato ad ansimare salendo le
scale e non
gli era mai successo, si è spaventato. Sta fumando troppo.
Si passa una mano
tra i capelli. Ha sempre pensato che sarebbero stati i primi ad
andarsene, che
li avrebbe persi presto. Ogni mattina teme di trovarseli tutti sul
cuscino. È
una strana fobia che ha anni ma che solo ultimamente si è
accentuata. Ha
scoperto leggendo volumi di psicologia che è indice di
stress, ansia,
depressione.
Non gli ci voleva un libro
per determinarlo, dopotutto e nemmeno
grandi abilità psichiatriche. Conosce bene il proprio stato
d’animo.
Si ferma. È
stanco di andare avanti e indietro inutilmente.
Vorrebbe trovarsi qualcos’altro da fare, qualcosa che lo
impegni in qualche
modo e che gli permetta di passare almeno mezz’ora. Ha anche
provato a dormire
ma tutto inutile. Come può riuscirci?
Ogni volta che si sdraia
è un inferno, ogni volta che sta
fermo lo è. Una serie di voci insopportabili sembrano
attendere che si fermi, che
faccia un qualsiasi tipo di sosta per iniziare ad urlargli nella testa,
tutte
insieme ad un volume talmente alto da impedirgli quasi di sentire
qualsiasi
rumore esterno.
Non che ci sia questo
problema nel loft. A volte si trova a
parlare da solo, a dire cose ad alta voce, come se qualcuno lo
ascoltasse. La
delusione è sempre grande ogni volta che si accorge di
parlare al vento perché
nessuno lo ascolta, a nessuno importa più di quello che
dice, tranne i suoi
pazienti al lavoro.
Gli sembra di essere
segregato in una prigione o peggio, di
essere mandato in esilio. Se ne sta nel suo nuovo e bellissimo loft
completamente solo. Non ha nessuno a cui tenga con il quale possa
goderselo,
nessuno a cui possa interessare. Qualche amico certo ma lui non
è mai stato il
tipo da amici. Quelli che definisce tali sono solo conoscenze con le
quali al
massimo condivide un aperitivo il venerdì sera. Niente di
più.
Aveva sperato in Kyle.
Sperava di mostrarglielo un giorno,
aspettava sue notizie per sapere quando sarebbero visti, è passato
parecchio tempo e non sa ancora nulla.
Per questo l’ambiente è ancora pieno di scatoloni,
per questo non ha mosso un
dito per migliorare quel locale. A quale scopo se a nessuno interessa?
Perchè
fare quella fatica, spendere denaro senza avere ospiti, senza avere
qualcuno
che lo apprezzi?
E pensando a questo si
sente di nuovo un esiliato, un
carcerato a cui nessuno vuol far visita. Che rimane solo in qualche
antro da
qualche parte, dimenticato. Per un peccato, una colpa, che ha commesso
e che si
suppone debba scontare.
La punizione funziona, la
sua pena la sta scontando, ci
pensa e ripensa ogni giorno.
Ha comprato uno stereo in
settimana, un Bose. Ne ha sempre
voluto uno a casa ma Christian non gliel’ha mai fatto
prendere, costava troppo.
È vero, il prezzo non è cambiato ma sono cambiate
le sue spese. Prima aveva
molti conti da pagare, ora ha
soltanto
le bollette sul suo conto corrente.
Spinge il bottone di
accensione e lascia che parta il cd che
ha dimenticato nel lettore il giorno prima. I Queen. Ha un
eternità quel disco.
L’ha comprato la sera in cui avrebbe poi conosciuto
Christian. Si chiede come
possa funzionare ancora. Ha passato diverse mensole, diversi stereo.
Eppure non
un graffio, non un segno. Un mezzo miracolo.
Lo stava ascoltando in
macchina quella sera di quindici anni
prima, stava andando al Vampiria. Un locale strano,
“dark”. Non era decisamente
il suo genere, il massimo del rock per lui erano i Queen. Era stato
invitato e
ci stava andando quasi controvoglia. Quella sarebbe stata la serata
più
importante della sua vita, non l’avrebbe mai detto prima di
incrociare
quegl’occhi azzurri contornati
dalla
matita nera.
“Chissà
se esiste ancora il Vampiria …”
Pensa, mentre ascolta la
musica.
Tra poco li
rivedrà ancora quegl’occhi. Sa che li
troverà
bellissimi e malinconici. Quello che ancora non sa è cosa
accadrà di lì a poco
e cerca di non pensarci, lasciandosi trascinare sulle note di
“Bohemian
Rapsody”.
***
Kyle non sopporta
l’alcool. Non ne sopporta l’odore, il
sapore ma soprattutto l’effetto che produce sulla gente.
Trovarsi tra tutti
quei ragazzi ubriachi che molto probabilmente non si rendono conto
delle
proprie azioni è a dir poco snervante per lui. È
appoggiato ad un muro ed
osserva.
Debbie Benson ha aperto la
porta a vetri che affaccia sul
cortile, scoprendo una meravigliosa piscina. Cosa
c’è di più divertente ad una
festa che un bel tuffo in piscina? Gli invitati si dividono tra il
cortile e la
pista da ballo. Lui se ne sta semplicemente ad osservare senza fare
nulla di
particolare.
Morgan ha ballato un paio
di canzoni con Anthony, dopodiché
è stata trascinata da qualche sua amica a parlare e
l’ha lasciato solo in
quell’ambiente per lui fastidioso. Tornerebbe a casa se
potesse, se conoscesse
la strada arriverebbe alla prima fermata del pullman disponibile e si
farebbe
riportare a casa.
-Ti ha lasciato solo, eh?
Commenta una voce accanto
a lui. Si gira e vede Anthony che
sorseggia del punch. Chissà quanto ne ha già
trangugiato in un’ora.
-Ha lasciato solo anche
te, vedo.
Commenta Kyle, con un
pizzico di accidia.
-Si…
Kyle guarda il bicchiere
semi-vuoto che regge e poi guarda
lui.
-Abbandoni i tuoi
dispiaceri nell’alcool?
Chiede, sarcastico.
-Oh? No è
analcolico questo! Senti…
Glielo avvicina al naso e
Kyle annuisce, nessuna traccia di
alcool in effetti. Non se lo aspettava da Anthony.
Inizia anche chiedersi come mai a differenza
degli altri suoi compagni di squadra non sia andato a rintanarsi in
qualche
stanza di quella casa enorme con qualche ragazzina. Forse
perché l’unica preda
che gli interessa è Morgan e lei non è certo il
tipo per quel genere di cose.
-Oh Kyle, scusami se ti ho
lasciato qui! Sarah doveva
parlarmi del suo appuntamento con Howard Hutkins. Ti racconto tutto
più tardi!
è Morgan, che
è tornata in quel momento.
-E con me non ti scusi?
Non ti hanno detto che non si
abbandonano i ragazzi sulla pista senza dire niente?
Morgan sorride.
-È vero,
scusami Tony è che …
Viene interrotta da una
ragazza, una certa Angela, che la
trascina per il braccio e le dice qualcosa nell’orecchio.
-Ehm… arrivo
subito!
Esclama lei, scomparendo
con questa sua amica.
-È molto
popolare Morgan…
Commenta Anthony,
osservandola sparire.
Kyle non risponde ma
l’idea di uscire e andare a cercare la
fermata del pullman più vicina si fa sempre più
allettante. Anthony gli sta
parlando, non lo sta ascoltando. Sta cercando di ricordarsi la strada
percorsa
sull’auto della madre di Morgan. Certo ora è sera
ed è più difficile. Con il buio
tutte le strade sembrano simili.
Inizia a ricordarsi un
incrocio con una rotonda francese,
decorata da un’aiuola. Il problema è che non si
ricorda la sua precisa
collocazione. È inutile, per quanto si sforzi non riesce a
ricordarsi nulla, il
suo senso dell’orientamento è piuttosto scarso.
Certo, potrebbe dire a Morgan
che vuole andarsene ma non gli sembra corretto, lei si sta divertendo
molto,
dovrebbe prendere esempio da lei e fare altrettanto, invece preferisce
tenere
il muso e starsene in un angolo a farsi infastidire da qualsiasi cosa.
Dalla
musica ripetitiva e troppo alta, dal dj stonato che canta e parla
troppo, dagli
urli dei ragazzi che si gettano in piscina, dagli ubriachi per la sala.
Non c’è
una sola cosa che riesca ad andargli bene.
-Potresti almeno fare
finta di ascoltarmi.
Commenta Anthony.
È l’unica frase che riesce a recepire di
tutto ciò che ha detto. Si gira verso di lui e gli risponde.
-Scusa,
se cerchi
qualcuno con cui parlare, questa sera non sono la persona giusta.
Anthony si avvicina di
più.
-Sei arrabbiato
perché Morgan ti ha piantato qui?
Chiede.
-No, sono arrabbiato
perché questo posto mi fa schifo e
voglio andarmene a casa. Magari sei tu quello arrabbiato
perché ti ha lasciato
solo in mezzo alla pista.
Risponde con tono seccato.
-Tu pensi? Sai ho sempre
pensato che Morgan fosse la tua
ragazza…
Kyle sbuffa, è
quasi stanco di starlo a sentire.
-No, non lo è.
Puoi farci quello che ti pare, se è questo
che vuoi da me!
Anthony sorride. Forse ha
centrato il punto. Quindi è davvero
interessato a Morgan. Beh era comprensibile.
-Mi fa piacere e comunque,
no, non è questo che voglio da te…
Kyle lo guarda confuso.
-E cosa vorresti?
Anthony indica la porta
che affaccia sul giardino.
-Usciamo,
c’è meno rumore e possiamo parlare.
Kyle lo segue incuriosito.
***
Suona il campanello.
Si alza di scatto dal
divano e raggiunge la porta. Sono le
sette passate, è lui. Deve essere lui, non aspetta nessun
altro. Quindi il
momento è arrivato. Raggiunta la porta afferra con la mano
sinistra il pomello
e con la destra le chiavi nella toppa.
Fa mezzo giro e poi si
blocca. Ha suonato il campanello, non
se l’aspettava. Si aspettava di vederselo comparire davanti
da un momento
all’altro. Le chiavi non gliele ha restituite, quindi le ha
ancora, se non le
ha buttate. Ha preferito suonare il campanello, come un estraneo. L o è in fondo,
lo è diventato.
Completa il giro di chiave
e prima di aprire la porta fa un
respiro profondo. Il
cuore inizia a
battergli forte, fortissimo. Apre pian piano, vuole smorzare
l’impatto ma
questo non fa calmare i battiti del suo cuore, teme quasi che possa
sentirlo
anche Jonathan al di là della porta.
Alla fine apre ed eccolo
in piedi, davanti a lui, non riesce
a guardarlo negli occhi, abbassa lo sguardo. È segno di
debolezza, lo sa, non
può farci niente, è un riflesso incondizionato.
Apre completamente la porta e
vi appoggia contro la schiena, in attesa che entri.
-Ciao.
Lo saluta e lui risponde
allo stesso modo.
-Ciao.
Stesso tono, forse
leggermente più soffocato.
Jonathan entra e si guarda
attorno. Christian chiude la
porta, afferra la maniglia con una mano, l’altra è
appoggiata alla porta, con
il palmo aperto. Sta cercando di prendere il respiro, di calmare i
battiti.
Chiude gli occhi per qualche secondo. Jonathan è alle sue
spalle, non sente
nessun rumore, è immobile, non fa nulla.
Perché non fa
nulla? La conosce la casa. Perché non cerca il
suo dannato documento e non se ne va e basta?
-La cartella della signora
Wang… ?
Chiede, rapidamente.
-Nel secondo cassetto
della credenza vicino, alla porta
della stanza di Kyle. Esattamente dove l’hai lasciata.
Chiude di nuovo la porta a
chiave e poi si dirige in cucina.
Fingerà di preparare qualcosa mentre lui si
riprenderà le sue cose. Deve solo
far finta che non sia in quella stanza, che non ci sia nessuno oltre
lui. È lì
in cucina e sta preparando la sua cena, come sempre, niente di strano,
niente
di diverso.
Deve ignorarlo, lui non
c’è e non ha idea di dove sia.
Apre il rubinetto
dell’acqua e la lascia scorrere, poi si
abbassa e prende in un mobiletto una pentola che posa sotto il getto
d’acqua.
Si aggrappa con entrambe le mani al lavello.
Azzaro,
pour homme.
Il suo profumo.
È sempre quello.
La scia lasciata
all’ingresso inizia ad arrivare anche a lui
e sente quell’odore forte, così speziato,
entrargli nelle narici. Si sente
quasi mancare. Non riuscirà ad evitarlo finché
sentirà il suo profumo. Si
chiede per quale motivo non l’abbia cambiato. Non gli
è mai piaciuto dopotutto,
lo portava solo perché piaceva a lui. Ora che non deve
più pensare a piacergli
potrebbe cambiarlo. Perché non lo fa?
Piace forse a qualcun
altro? Qualcuno che non sia lui? Non
può essere, era il suo profumo che usava per lui. Nessuno
può portargli via
anche questo.
Si regge con
più forza al lavandino, ha paura di cedere.
Chiude gli occhi stretti.
Jonathan ha chiuso il
cassetto. Forse ha preso ciò che gli
serve, sta per andare via. Deve resistere solo pochi secondi. Si
affaccerà alla
cucina e forse lo
saluterà, quando avrà
chiuso la porta, quando se ne sarà andato potrà
lasciarsi andare, potrà cadere
a terra, svenire.
Basta che lui non lo veda.
Basta che lui non sappia quanto
male gli faccia la sua presenza.
-Stai…
cucinando?
Eccolo. In piedi, sulla
soglia.
Gli rivolge uno sguardo
veloce, riesce a guardarlo solo fino
al mento, non negli occhi. Sembra che i ruoli si siano invertiti che
sia lui il
colpevole e Jonathan la vittima. La verità è fin
troppo semplice; ha paura di
piangere di nuovo, davanti a lui.
Non urlerebbe. Non ne
sarebbe più capace, ha esaurito tutto
quanto quella sera. Ora sarebbe solo in grado di piangere, ancora. E
sarebbe
penoso, ridicolo.
Si regge con sempre
più forza al lavello.
-Si, sto cucinando.
Risponde, dopo qualche
secondo.
-È parecchio
che non mangio qualcosa di commestibile… da
quando …
Si ferma.
-Fermati.
Esclama. Pentendosi poco
dopo.
-Che cosa?
Chiede lui confuso. Si
avvicina, troppo. C’è parecchia
distanza tra i due eppure
per Christian
è troppo vicino, il suo profumo troppo forte lo sta
invadendo completamente.
-A cena.
Completa. Non ha idea di
perché glielo stia chiedendo. Vuole
che se ne vada, che lo lasci solo. Troppo tempo insieme. Si renderebbe
conto di
quanto sia debole, ferito. Patetico.
-Non ti obbligo
ovviamente…
Aggiunge, cercando di
ritornare sui suoi passi. Forse adesso
gli dirà di no, che non se la sente, inventerà
una scusa. Non può essere
l’unico a trovare quella situazione scomoda.
-Va bene, resto.
Resta. Non c’ha
pensato, ha accettato semplicemente.
Christian viene toccato da un pizzico di rabbia. È possibile
che averlo davanti
non gli faccia effetto? Come può non sentirsi colpevole,
sopportare
coscientemente quel faccia a faccia senza pentirsi? Forse è
lui quello che
esagera, forse due mesi sono sufficienti per dimenticare una storia di
quindici
anni, per fregarsene completamente.
Scuote il capo e chiude
l’acqua. La pentola è piena già da
un bel po’ e l’acqua è trasbordata in
abbondanza. Deve pensare a cucinare
qualcosa di buono adesso, il resto è rimandato.
---> In ritardo ma ci sono. Per il momento sono L-I-B-E-R-A!!
Potrò postare regolarmente salvo imprevisti^^ quindi... il
prossimo capitolo lo pubblicherò MARTEDI' prossimo. Vi
lascio anche una bella suspance in attesa del mio capitolo preferito
che è un po' il "punto centrale" della storia. Bene detto
questo, ringrazio twy per
il commento^^
Bene, è tutto, a martedì!!!
EDIT, scusate, ho cambiato il titolo del capitolo. Purtroppo quello di prima era quello della bozza, non del definitivo.
E vi avviso che posterò mercoledì, avevendo letto dello spostamento del server di martedì. scusate di nuovo. <---
|
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Capitolo 13 *** Pieces (Frammenti) parte seconda ***
13.
Pieces (Frammenti)
parte seconda
Morgan inizia a domandarsi
chi abbia deciso e quando che
toccasse a lei fare da cupido della situazione. Durante
quell’intera serata è
stata richiesta da almeno una decina di sue, per così dire, amiche e si è
sorbita descrizioni di ogni tipo,
ha ascoltato non sa quanti viaggi mentali .È stanca. Dopo le
prime due
confidenze ha iniziato a ripetere alle altre le stesse cose, a
dispensare gli
stessi consigli.
Non avrebbe potuto fare
altrimenti, ha solo
quindici anni, la sua vita
sentimentale anche volendo non è molto sviluppata e di
ragazzi sa il giusto
necessario.
Annuisce alla spiegazione
di Angela Wilson, che prosegue da
circa mezz’ora, mentre si guarda attorno per cercare di
scrutare Kyle. Si sente
in colpa nei suoi confronti, l’ha trascinato in quel posto
che chiaramente non
gli appartiene e l’ha abbandonato senza curarsene troppo.
Avrebbe voluto stare
di più con lui, cercare di farlo divertire, purtroppo non ne
ha avuto la
possibilità.
Non riesce a trovarlo, a
riconoscerlo. Perlustra angolo per angolo
ma non lo vede. Forse sta ballando, ci sono tanti ragazzi in pista, non
lo
riconoscerebbe.
Sorride, pensando a Kyle
che balla. Nulla di più
improbabile.
-Perché sorridi?
Chiede Angela,
interrompendo per un attimo il suo monologo.
-Oh? Nulla. Vai avanti a
raccontare…
Risponde lei, fingendosi
interessata.
Escludendo la pista da
ballo e il tavolo degli alcolici Kyle
può trovarsi solo in giardino, in piscina. È
anche quella un’ipotesi piuttosto
improbabile, pensandoci.
Resta comunque
la meno assurda.
Spera che Angela smetta
presto di parlare. La sua voce acuta
la innervosisce ancora più delle sue parole frivole e
ripetitive. Si chiede se
anche Kyle pensi la stessa cosa di lei quando gli racconta delle sue
brevi
esperienze con i ragazzi.
Non avrebbe nemmeno torto,
i discorsi a quell’età sono tutti
uguali, tranne per rare varianti. C’è sempre un
ragazzo di cui si è innamorate
e non si è corrisposte oppure uno per nulla interessante che
non si può
corrispondere oppure ancora il bello e “ribelle” di turno al quale ci si vuole
avvicinare ma si
ha paura.
A volte non vede
l’ora di crescere Morgan, vede sua sorella
di diciannove anni e ogni tanto ascolta qualche sua conversazione con
le amiche,
provando invidia. Sa bene che anche per lei arriverà quel
momento, il momento
in cui si inizierà a parlare di uscite in discoteche vere,
di macchine, di
patenti. Per quella manca poco. Durante l’estate
compirà sedici anni e potrà
guidare la sua prima auto.
La sua mente si perde alla
parola “patente”, si vede a bordo
di un’elegante macchinina nera, magari decappottabile, la cui
direzione è il
mondo. Immagina anche Kyle seduto accanto a sé e torna a
pensare a lui, a
cercarlo nella stanza. Maledice la sua fervida immaginazione, si lascia
troppo
trasportare dai propri pensieri e intanto Angela ha finito di parlare e
la
osserva con i suoi grandi occhi nocciola in attesa di un consiglio, un
commento. Non ha sentito nulla, non ha seguito troppo del discorso e
nemmeno le
interessa. Cerca di improvvisare.
-È una strana
situazione Angela, secondo me tu dovresti
essere più… chiara!
La ragazza annuisce e
ricomincia a parlare, è stata
fortunata Morgan, non ha nemmeno dovuto sforzarsi troppo, ora deve
continuare
ad annuire e fingere di essere interessata. Forse potrebbe ascoltarla
almeno
adesso, non lo fa perchè è sicura che finirebbe
per innervosirsi.
L’occhio le cade
verso l’ingresso e intravede lo scalone
centrale che porta al piano superiore, alle stanze da letto. Kyle sta
scendendo
dalle scale in quel momento, con calma, gradino per gradino. Morgan si
chiede
per quale motivo sia salito. Inizia a temere che possa essersi perso.
Non ha
praticità di quei posti, dei posti affollati in generale,
senza contare che il
suo senso dell’orientamento è piuttosto scarso.
Una volta arrivato ai
piedi delle scale si ferma e si guarda
in giro. È troppo lontano perché Morgan possa
vedere la sua espressione
chiaramente, tuttavia pare essere spaesato, confuso. Forse sta cercando
proprio
lei. Non le interessa nulla di Angela e dei suoi problemi, la liquida
velocemente, senza pensarci troppo.
-Scusa Angela, devo
andare.
Si alza dal divanetto su
cui era seduta e si fa spazio tra
la gente, cercando di evitare di essere travolta dai ragazzi che
ballano in
ogni angolo della sala, sono aumentati nel corso della serata, ci sono
diversi
volti che non ha mai visto, ragazzi anche molto più grandi
di lei.
-Kyle!
Grida, allungando la mano,
con l’intento di farlo girare
nella sua direzione e farsi notare. Il ragazzo si gira di scatto e la
fissa. Lo
raggiunge e conferma la sua impressione, ha uno sguardo perso. Si
spaventa
quasi nell’osservale l’espressione sul viso di
Kyle, è pallido in volto, il
labbro inferiore gli trema. Quello di solito è un sintomo di
spavento da parte
di Kyle. Il modo in cui la fissa, in cui i suoi occhi smeraldo
rimangono
aperti, spalancati, è quasi inquietante.
-Kyle, che cosa ti
è successo?! Mi fai paura così!
Si avvicina di
più a lui e lo afferra per l’avambraccio,
scrollandolo, cercando di fargli perdere quell’espressione
intimorente.
Il tono di voce di Morgan
è tremante, anche i suoi occhi ora
sono spalancati, ha paura. Non ha mai visto Kyle in quello stato. Gli
è
sicuramente successo qualcosa, di spiacevole, terribile. Come
può scoprire
cosa? Non ha quasi il coraggio di fare domande, di approfondire, lui molto probabilmente
non possiede la
lucidità necessaria per darle una risposta esaustiva.
-Voglio andare a
casa…
Afferma , con un filo di
voce. Quasi sussurra.
Morgan glielo fa ripetere.
-Che cosa hai detto Kyle?
Il suo sguardo pian piano
torna ad essere normale, il labbro
cessa di tremare, le ciglia tornano a sbattere.
-Portami a casa Morgan.
Ripete, con la stessa voce
flebile di poco prima.
Morgan annuisce.
-Si certo, chiamo mia
madre e torniamo a casa, va bene?
Kyle asserisce con il capo
ma non parla e non dirà nulla per
tutta la durata del viaggio di ritorno.
***
Una pugnalata.
Ha significato questo per
lui quell’improvviso invito a cena
di Christian. Spiazzato, sconvolto. Questo certo non se
l’aspettava, non se lo
sarebbe mai aspettato e non è pronto. Forse avrebbe dovuto
rifiutare,
improvvisare un impegno, Christian non avrebbe avuto modo di sapere se
stava
mentendo. Non si vedono da due mesi, i suoi impegni possono essere
cambiati.
Un’altra
pugnalata.
Non lo sono. Nella sua
vita non è cambiato niente, o meglio,
niente che Christian non sappia. Certo ha una nuova casa. Ma in fondo,
cosa
cambia? La sua ruotine è sempre la stessa, si alza allo
stesso orario, prende
lo stesso tipo di caffè a colazione, legge lo stesso
quotidiano, frequenta
persino la stessa gente.
Gregor gli ha consigliato
di cambiare vita, di partire
dall’appartamento e poi voltare pagina. Non l’ha
fatto perché non ne è stato
capace ed è questo a infliggergli il colpo, quel senso di
debolezza, di
incapacità, di paura di non riuscirci. È qualcosa
che non sopporta
l’incapacità, ha vissuto la sua vita superando
ostacolo dopo ostacolo con
forza, tenacia coraggio, perché è sempre stato
convito di poter fare ogni cosa,
solo volendolo. Presunzione?
Forse.
O semplicemente fino a
quel momento, fino a quel giorno, le
difficoltà da lui affrontate erano state veramente minime.
Gli è bastato
entrare in quella casa, tornarci, per trovarsi davanti una serie di
ostacoli a
primo impatto invalicabili.
Il primo vero ostacolo,
quello che gli ha precluso ogni
possibilità di andare avanti, è stato Christian.
Gli ha aperto la porta e non
l’ha guardato. Non ha avuto modo di incrociare i suoi occhi
azzurri, di trovare
il suo sguardo, di osservarlo, decifrarlo. Non gli ha dato questa
possibilità,
non gli ha permesso di leggere i suoi pensieri.
Su questo contava
Jonathan. Solo osservando i suoi occhi,
anche per pochi secondi, è sempre stato in grado di capire
cosa gli passasse
per la testa, cosa realmente provasse, senza che aprisse bocca o
facesse
qualsiasi gesto.
Per poter affrontare a
sangue freddo quella situazione,
doveva guardarlo negli occhi, capire il suo stato d’animo e
comportarsi quindi
di conseguenza. Non gli è stato concesso. Così
ora cammina nel buio, a tastoni.
Non sa dove andare e si sente messo alle strette. Non sa se Christian
è ancora
infuriato, se è semplicemente ferito, se non gli importa o
se semplicemente
finge.
Christian sta
apparecchiando la tavola, senza fiatare.
Esegue le sue azioni nello stesso modo di sempre, dopo aver steso la
tovaglia
appoggia i tovaglioli, poi le posate, i piatti, i bicchieri e infine la
bottiglia d’acqua, sempre della stessa marca, stessa
confezione da un litro e
mezzo.
La televisione in cucina
è accesa su qualche canale
musicale, le luci della sala da pranzo sono basse e nell’aria
un buon profumo,
l’odore dolce e gradevole delle spezie che usa Christian per
preparare i suoi
piatti, sempre così buoni e delicati.
Sarebbe tutto come al
solito, come è sempre stato e a
Jonathan non sembrerebbe nemmeno di essersene andato, se non fosse per
quello
strano silenzio. Come unici rumori l’eco del televisore in
cucina, i passi
leggeri di Christian sul pavimento, l’acqua che bolle.
-Io… mi siedo
allora…
Esclama Jonathan, con
insicurezza. Aspetta una risposta di
Christian che prevedibilmente non arriva. Forse non l’ha
semplicemente sentito,
forse i rumori in cucina hanno coperto la sua voce. Pensa
così, mentre si siede
sulla sua sedia. Il gesto di mettersi a sedere proprio in quel posto
non gli è
parso automatico come al solito. Ha fissato la sedia per qualche
secondo poi vi
si è seduto. Si sistema e si posiziona correttamente.
Christian arriva dopo
circa dieci minuti e adagia sul tavolo
due piatti di pasta al ragù, poi si siede, afferra la
forchetta ed inizia a
mangiare.
Jonathan lo osserva a
braccia conserte. Non ha idea di cosa
gli prenda in quel momento. Ha di fronte a sé un invitante
piatto fumante di
pasta e non sente il bisogno di mangiarlo. Ha pregato per settimane di
riuscire
a ingurgitare qualcosa di commestibile ed ora che può farlo
non gli interessa.
Non riesce a smetterla di fissare Christian, ha gli occhi puntati su di
lui.
Spera forse, continuando a fissarlo, che si giri magari infastidito e
che
lo guardi in viso,
anche per una
frazione di secondo.
I secondi passano e
Christian sembra quasi sia isolato in un
altro posto, sembra sia mangiando solo, che non ci sia nessuno nella
stanza con
lui. Motivo per cui non ha bisogno di alzare lo sguardo dal piatto o di
dire
qualcosa.
Jonathan inizia a sentirsi
ignorato. È confuso e si chiede
per quale motivo sia stato invitato da Christian a cena, dato che la
sua
presenza gli pare indifferente.
Avrebbe preferito essere
sbattuto fuori di casa ancora, sentirsi
rivolgere altri insulti. L’avrebbe
sopportata una porta sbattuta in faccia.
Ma
l’indifferenza no.
E di nuovo quel pugnale,
che l’ha trafitto poco prima, si
rigira e penetra più profondamente, con decisione e una mira
ben precisa, la
sua coscienza.
Nessuno si merita
indifferenza. È qualcosa di estremamente
crudele, doloroso. Ignorare una persona, rinnegare
l’esistenza della sua
presenza è forse ciò di più crudele si
possa fare. Più crudele di ogni pena
fisica o morale. Essere rinnegati significa essere cancellati, non
essere
nemmeno presi in considerazione e quando a farlo è qualcuno
che si ama, che si
ha sempre amato, il dolore raddoppia.
Riflette Jonathan su
quanto possa averlo fatto soffrire per
farlo arrivare a comportarsi in quel modo, proprio Christian. Non
è la prima
volta che riflette sulle sue colpe, in verità lo fa ogni
giorno, ogni ora ma in
quel momento è peggio perché ha davanti a
sé la conseguenza di ciò che ha
fatto, qualcosa di orrendo, straziante.
Inizia a sudare. Allunga
una mano per toccarsi la fronte,
sta sudando sul serio. Teme di non essere in grado di sopportare quella
situazione ancora a lungo, presto il suo fisico o la sua mente
cederanno ed ha
paura di cosa potrà accadere. Vuole alzarsi da quella sedia,
deve farlo.
Allunga entrambe le mani verso il bordo del tavolo e fa forza per
spingere la
sedia indietro.
-Non è novelle
cuisine ma è commestibile.
Commenta
Christian,
buttando uno sguardo sul suo piatto, ancora intatto. Jonathan si ferma.
Coglie
l’occasione per spingere la mano verso la forchetta, la
dirige verso il piatto
e afferra una porzione di pasta, che porta in fretta alla bocca.
-Non metto in dubbio che
lo sia.
Afferma, dopo aver
ingoiato il primo boccone, tiepido ma
comunque buono.
-Sembrava il
contrario…
Jonathan smette di nuovo
di mangiare e appoggia la forchetta
al piatto. Forse Christian ha deciso finalmente di iniziare a
parlargli. Deve
ribattere in fretta e cogliere quell’occasione.
-No, certo che no.
Qualsiasi cosa cucinata da te è sempre…
più che perfetta, non solo commestibile.
Forse ha esagerato troppo,
forse quel complimento avrebbe
dovuto tenerlo per sé. Dopo averlo pronunciato gli pare
quasi un patetico modo
per lusingarlo.
-Lo dici perché
hai mangiato male di recente.
Il suo modo di rispondere
è strano. Non è facile descrivere
il suo tono. Sembra abbastanza tranquillo, non c’è
sarcasmo nelle sue parole,
né risentimento o fastidio.
-Può darsi
… immagino che tu conosca le mie abilità
culinarie!
-Se non sono migliorate
nel frattempo, si.
-Oh assolutamente no!
Completo disastro!
Risponde Jonathan, con
rassegnazione.
-Forse è
arrivato il momento di imparare, non credi?!
Anche questa volta il tono
è strano, sembra quasi gli stia
dando un consiglio. Nessuna presunzione o canzonatura, è un
semplice consiglio
spassionato. Qualcosa
che comunque
disorienta Jonathan e parecchio.
-Si, se trovassi un buon
maestro, che non sia tu…
L’ha fatto di
nuovo, è più forte di lui. Ha sempre espresso
apprezzamenti su Christian, gli ha sempre detto ciò che
pensava di lui.
Generalmente un gesto piacevole ma in questo caso, assume un
significato
diverso, suona come una bassa adulazione.
-Non pensavo che usassi
l’adulazione come strumento per…
ottenere qualcosa.
Sarcasmo o forse un
rimprovero. Quella frase ha il tono di
un appunto negativo ma c’è qualcosa di
più. Nasconde qualcosa.
-E infatti non
è così.
Commenta Jonathan. Uno
strano sorrisino compare sulle labbra
di Christian, come previsto. Le sue frasi non sono a senso unico.
Jonathan si
aspetta una reazione animata da un momento all’altro,
probabilmente Christian
sta solo aspettando il giusto spunto. Jonathan ad ogni modo non
risponde,
finisce il suo piatto di pasta e la seconda portata.
Terminato di mangiare
Christian si alza, prende il proprio
piatto e allunga la mano per afferrare anche quello di Jonathan, che lo
ferma e
si alza a sua volta.
-Aspetta, posso
portarlo io di là.
Di nuovo il sorrisino di
Christian.
-Non l’hai mai
fatto in quindici anni convivenza, per quale
motivo dovresti farlo ora?
Pungente ma sincero e
sempre con lo sguardo rivolto verso il
basso. Jonathan vorrebbe ribattere, afferrarlo per un braccio e
imporgli di
guardarlo negli occhi. Non lo fa, non fa niente. Si siede di nuovo al
suo posto
e rimane in silenzio.
-C’è
della torta di mele avanzata da stamattina. Ne vuoi?
Chiede Christian dalla
cucina.
-Si, per favore.
La torta di mele, quel
dolce tipicamente americano, è il
piatto forte di Christian, ciò che sa cucinare meglio,
è anche il cibo
preferito di Jonathan. Da quindici anni ogni sabato a colazione accanto
alla
tazza del caffè trovava una bella fetta di torta a sfoglia,
ripiena di piccoli
pezzetti di mela tagliati a cubetti e di cannella dolce e densa. Una
bella
presentazione per un sapore a dir poco delizioso.
Assapora dolcemente il
primo pezzo staccato dalla fetta abbondante
che gli viene offerta e socchiude gli occhi. Quanto vorrebbe
rimpiazzarla al
solito cornetto scotto di ogni mattina. Sono due mesi che non assapora quel gusto, forse
per quello gli
sembra ancora più buona.
Dopo averla finita prova
una strana sensazione, inizia a
sentirsi a casa, a ritrovare la familiarità di sempre e
avverte una terribile
fitta al cuore, si sente come se qualcuno gli stesse premendo contro il
petto,
con l’intento di fermare i suoi battiti. La torta di mele il
sabato mattina, il
profumo di pasta sfoglia alle sette, è qualcosa di
caratteristico di quella
casa, qualcosa che molto probabilmente è rimasto invariato
nonostante la sua
assenza. È un particolare curioso, una
peculiarità di quel posto che non
ritroverà mai da nessun altra parte. È questo a
farlo star male, il constare
che per la sua mente e per il suo cuore l’unica dimora
è quella, la stessa dove
non ritornerà.
-Se ti è
piaciuta posso metterti ciò che è resta in un
piatto. Io non la mangio, Kyle non regge più di una fetta,
ce n’è parecchia.
Commenta Christian, sempre
in cucina.
Jonathan si alza, prende
il piatto nel quale era contenuta
la torta e glielo porta. Christian vedendolo comparire
all’improvviso sobbalza
e lascia cadere a terra un piatto che va in frantumi.
-Cristo Santo!
Esclama, facendosi
scivolare quel piatto bagnato e ricoperto
di detersivo dalle mani. Jonathan si china per raccogliere i pezzi,
almeno i
più grandi, Christian lo ferma.
-No! Non toccare, lascia
stare!
Gli urla.
-Volevo solo…
Christian scuote il capo.
-No, non fare niente. Stai
lontano.
Commenta Christian,
abbassandosi a raccogliere i cocci.
Jonathan non lo ascolta e si china nuovamente.
-Ti ho detto di stare
lontano!
Ripete, urlando di nuovo.
-Dimmelo guardandomi negli
occhi e lo farò.
Christian non risponde,
non subito. Rimane con il pugno
destro serrato, nell’altro contiene un frammento di piatto
che ha appena
raccolto, stringe anche l’altro pugno, non troppo forte, il
necessario per
evitare di tagliarsi il palmo con il pezzo rotto.
-Perché…
l’ultima volta ti è servito?
Un attimo di silenzio e
poi riprende.
-L’ultima volta
che ti ho guardato con questi stessi occhi,
è servito a qualcosa?
Finalmente alza lo
sguardo, Jonathan osservandolo si
spaventa. Quelle due perle colore dell’oceano gli trasmettono
una grande
sofferenza, un grande dolore, il suo senso di colpa aumenta. Non
è la prima
volta che vede quello sguardo ma l’ultima volta aveva fatto
finta di niente,
aveva guardato altrove, ora non può. È stato lui
a chiedergli di guardarlo e
solo ora se ne pente. Se avesse saputo cosa nascondevano i suoi occhi
non
gliel’avrebbe mai chiesto.
-E allora?
Domanda Christian in tono
d’esasperazione.
-Va bene, mi alzo.
Si alza da terra ma la
direzione del suo sguardo non cambia.
Non vuole incrociare di nuovo gli occhi Christian, vorrebbe girargli le
spalle
e andarsene ma non lo fa, si sente quasi bloccato.
-Stiamo… stiamo
male entrambi.
Afferma, cercando in
qualche modo di discolparsi. Sa già,
mentre pronuncia quelle parole, che è impossibile.
-Ah si? E come lo sai
Jonathan? Sparisci per… due mesi e…
DUE mesi! Te ne rendi conto?
Il tono di Christian
è carico di risentimento e amarezza.
-Ho cercato di contattare
Kyle… ma non mi ha risposto. Ho
quasi pensato che tu gli impedissi di scrivermi…
Christian spalanca gli
occhi.
-Tu hai…
veramente pensato che io potessi fare una cosa del
genere?
Jonathan si rende conto di
avere esagerato. Si, quel
pensiero gli era passato per la testa, tuttavia l’aveva
ritenuto subito una
possibilità improbabile, per quanto infuriato e ferito
potesse essere stato
Christian, non sarebbe mai stato in grado di compiere una simile
bassezza.
-No, no. Ho detto
“quasi”. Non… ci crederei neanche se
fosse
vero.
Christian si alza, chiude
il rubinetto dell’acqua che nel
frattempo ha continuato a scorrere e aggira Jonathan, uscendo dalla
cucina per
andare a prendere una scopa e una paletta per raccogliere i pezzi rotti
del
piatto.
-Probabilmente
l’ho pensato perché… non volevo credere
che
la cosa avesse toccato anche lui.
Afferma Jonathan, seguendo
Christian.
-Beh, una reazione
piuttosto normale. Lui è parte del
nostro… matrimonio o quello che è, che era! Mi
sembra normale che la cosa possa
averlo toccato.
Commenta Christian, con un
briciolo d’asprezza.
-È il fatto
di… non lo so nemmeno io.
Jonathan è
confuso, parecchio. Osserva Christian che sta
immobile a qualche metro da lui.
-Sai cosa mi ha veramente
sorpreso?
Esclama Christian,
improvviso.
-Il fatto che tu non ti
sia fatto scrupoli a presentarti qui
dopo due mesi, di farmi quella telefonata senza il benché
minimo… segno di
debolezza, quando io cretino me ne sto ancora qui, nonostante il tuo
comportamento da bastardo menefreghista, con le lacrime agli occhi.
Jonathan non sa come
ribattere, l’espressione di dolore di
Christian gli fa male, le sue parole lo feriscono profondamente. Non si
vede un
bastardo o un cinico, Christian non sa che anche lui sta soffrendo, non
sa che
sta soffrendo per entrambi. Non vuole che lo sappia, ha uno strano
principio di
orgoglio testardo che gli fa tenere quella facciata apparentemente
composta,
una specie di collante che lo tiene integro, senza il quale crollerebbe
e
finirebbe in pezzi, come il piatto di poco prima. Non l’ha
visto sudare a
tavola, non ha percepito il suo stato di ansia. È riuscito
nel suo intento quindi.
-Mi vedi in questo modo
ora?
Christian annuisce.
-Non saprei in che altro
modo vederti Jonathan. Non ti
azzardare a negarlo, perché chiunque al posto mio la
penserebbe in questo modo!
Chiunque!
Quasi urla, con tono
disperato, calante.
Jonathan si avvicina a
lui, pericolosamente vicino, lo
blocca con la schiena al muro e lo guarda negli occhi. Un momento
intenso per
entrambi. Nessuno dei due distoglie lo sguardo.
-Tu non sei chiunque, mi
aspetto che tu scavi in profondità,
a te non basta la superficie.
Commenta, quasi
sussurrando. Christian apre la bocca un
poco, vuole ribattere probabilmente, ma non esce alcun suono.
Continuano a
guardarsi negli occhi, passano pochi istanti in realtà ma il
tempo sembra
maggiore.
-Scopami.
Esclama Christian
improvvisamente. Jonathan spalanca gli
occhi, è sorpreso, spiazzato. Non è sicuro di
aver ben compreso.
-Che… ?
Christian deglutisce.
-Ti ho detto di scoparmi,
questo dovresti saperlo fare bene.
Jonathan lo fissa per un
instante poi lo afferra per i
fianchi per portarlo a sé, contro il proprio petto e lo
bacia, con passione
decisione. È terribilmente confuso, non capisce
più cosa stia succedendo, gli
pare di vivere in una dimensione parallela, che però gli
piace. Si lascia
trasportare dalla passione e
continua a baciare Christian.
Un bacio carico di
passione, forse un po’ nostalgico.
Jonathan non vuole smetterla, vorrebbe fermarsi per respirare per
riordinare le
idee. La sua testa è un turbinio di pensieri strani, di
parole che vagano senza
un particolare nesso. Alla fine cede e lentamente si allontana dal
bacio. Osserva
Christian, con gli occhi ancora socchiusi.
-Andiamo in… ?
Sussurra dolcemente,
prendendo fiato.
-Si.
Risponde Christian
spostandosi e dirigendosi verso la
stanza, apre la porta. Osservare quella stanza, la sua, con il suo
letto gli fa
provare una strana sensazione. L’ultima volta che vi
è stato l’atmosfera era
così diversa, non vedeva l’ora di andarsene, gli
mancava quasi il respiro. Ora
la situazione è differente eppure nessun peggioramento,
nessun miglioramento.
Si avvicina di nuovo a
Christian e lo spinge sul letto, con
decisione lo raggiunge, si mette al suo fianco. Lo osserva per qualche
istante,
è bello come è sempre stato anzi, bellissimo,
perfetto. Amava, ama e amerà quel
viso per il resto dei suoi giorni. Quasi timoroso si perde in una
carezza
delicata tra i capelli di Christian, per poi passare al suo viso.
Inizia ad avvertire un
preciso desiderio, ora che lo guarda,
ora che è lì a pochi centimetri da lui, sul loro
letto. Sta cercando di
ignorare le voci nella propria testa e arriva
infine a capire che l’unica da fare in
quel caso è accettare l’invito di Christian.
Rapidamente lo scavalca e
in attimo è sopra di lui, bacino
contro bacino, petto contro petto. Nota che il cuore di Christian batte
con la
stessa intensità, si spinge un poco più avanti e
riprende a baciarlo, doveva
l’aveva lasciato, utilizzando il doppio
dell’enfasi. È coinvolto, troppo, ma
non gli importa.
Il bacio diventa sempre
più morboso, Jonathan avverte una
nota di disperazione, da parte di entrambi. Le loro labbra si
congiungono e si
separano quasi con violenza, si sentono colpiti da una strana forza, da
una
carica magnetica che impedisce loro di fermarsi, di pensare.
La mano destra di Jonathan
scorre veloce, lungo la cerniera
della felpa indossata da Christian, senza esitare la apre. Il contatto
con la
sua pelle è qualcosa di terribilmente piacevole, di
familiare. Pelle pallida,
lattea, ma bollente al tatto quasi da bruciarsi. Sa che si
scotterà Jonathan,
che si bruceranno entrambi. Si sfila la maglietta, per ottenere un
contatto più
diretto, più personale, con Christian. Non vuole permettere
nemmeno ad un
semplice pezzo di stoffa di frapporsi tra loro due in
quell’istante.
Il profumo di Christian
è così dolce, di una dolcezza che
ferisce. Jonathan ha gli occhi socchiusi, si sta godendo quel momento,
quella
sensazione che non ha mai dimenticato e che temeva di non poter
più provare. Il
bacio frenetico si arresta, non sono liberi, non completamente.
Jonathan sfila
a Christian i jeans e fa lo stesso con i propri, infine i boxer.
Ora che ogni possibile
impiccio non c’è più rimangono sono
soltanto loro due, nella loro vera natura, niente più a
nasconderli. Un nudo
fisico ma anche e soprattutto psicologico. Christian ha gli occhi
chiusi, il
sospiro affannoso, Jonathan sembra tra i due il più
contenuto, si limita a percorrere
con entrambe le mani il corpo di Christian, partendo dal petto per poi
fermarsi
ai fianchi, sottili, delicati, morbidi, un vortice di sensazioni
piacevoli
poiché note.
-Dove hai messo
i… ?
Chiede Jonathan in un
sussurro.
-Nel primo cassetto del
tuo comodino, dove sono sempre
stati…
Risponde lui, con la
stessa voce flebile.
Non avrebbe desiderato
altro Jonathan. Il suo microcosmo,
rappresentato da quella camera da letto, non ha ricevuto nessuna
modifica. Si
affretta a recuperare ciò che deve e ritorna a Christian,
è il momento perfetto
per entrambi. È arrivata alla fine la fase in cui possono
tornare ad essere a
tutti i sensi un tutt’uno, a fondersi completamente, perdersi
uno nell’altro,
ad occhi chiusi, lasciandosi guidare dalle sensazioni del momento.
L’atto in
sé ha una connotazione drammatica, è tutto
così
disperato, così ricercato. È diverso
dall’ultima volta e da qualsiasi
precedente. È la situazione stessa a renderlo diverso e a
far si che sembri la
prima volta. La violenza del loro bacio, quel mordersi le labbra, la
ricerca
disperata sulla pelle di entrambi per trovare nell’altro
qualcosa che è
mancato, che si ha temuto di perdere.
E poi
d’improvviso tutto finisce. La scena raggiunge il suo
apice drammatico e poi tutto si affievolisce, un breve attimo di pace,
prima di
essere sbattuti di nuovo alla realtà. Sempre fianco a fianco
ma a poco a poco,
il muro che li ha divisi per tutta sera, mattone dopo mattone torna ad
erigersi,
ricostruendosi da capo, dalle macerie.
Jonathan si alza e
recupera i propri vestiti. A
mente fredda, a istinti placati si rende
conto di quanto ciò che è appena accaduto sia
servito ad incrementare il
proprio dolore.
-Non avremmo dovuto farlo.
Commenta, in tono freddo.
Christian si mette a
sedere, scuote il capo con
disapprovazione.
-Te ne penti forse? Di
questo? Con me?
Jonathan respira
profondamente e si rimette la maglietta,
gettata ai piedi del letto.
-No ma…
è tutto troppo assurdo.
Christian fa una smorfia.
-Assurdo? Oh certo! Come
ho potuto dimenticarlo! Per
l’istinto non esiste. Certo, solo se tratta di me. Non
è vero?
Jonathan non risponde. La
discussione sta prendendo una
pessima piega, il momento piacevole ma straziante appena terminato,
sembra solo
un ricordo. Il discorso è ripreso esattamente dove era stato
lasciato prima
dell’interruzione e sta seguendo ora il suo naturale sviluppo.
-Avanti Jonathan!
Psicanalizza tutto, come fai sempre!
Psicanalizza me, il mio modo di implorarti di scoparmi. Fammi una bella
analisi. La aspetto!
Christian afferra i propri
boxer e li indossa. Non si alza
dal letto, sta probabilmente aspettando una risposta da parte di
Jonathan, che
non arriva.
-Anzi, siamo
così… teatrali io e te ultimamente! Esci di
nuovo da quella porta sbattendola, così soddisfiamo il
nostro pubblico, che
dici?
Le parole di Christian
sono lame taglienti. Jonathan cerca
di schivarle per evitare di sanguinare, ancora.
-Chris, per
favore…
me ne sto andando, non farmi andare di nuovo via malamente.
Christian spalanca gli
occhi, le parole di Jonathan l’hanno
in qualche modo infastidito.
-Così la colpa
è mia! È questa la tua analisi?
Jonathan sbuffa.
-Buonanotte Christian.
In fretta raccoglie il suo
fascicolo ed esce, di nuovo.
***
Non ha guardato
l’orario quando Jonathan se n’è andato.
Non
ha guardato l’orologio per tutto il tempo. Non ne ha avuto il
benché minimo bisogno,
l’avanzare delle lancette in quella situazione erano
l’ultima delle sue
preoccupazioni.
Dopo l’uscita di
Jonathan non ha fatto nulla, è rimasto
sdraiato su quel letto, con le ginocchia contro il petto, a pezzi,
completamente. Ha anche pianto, fino ad addormentarsi.
Apre gli occhi lentamente
ed allunga un braccio, teme il
tocco freddo di quell’altra metà del letto che
è rimasta occupata solo quella
sera, dopo tanto tempo. Tocca qualcosa, c’è
qualcuno accanto a lui. Sussulta,
pensando di trovarvi Jonathan. È Kyle, girato di spalle,
nella sua stessa
posizione.
-Kyle, amore. Cosa ci fai
qui?
Chiede Christian a bassa
voce. Il ragazzo è sveglio,
probabilmente si sono svegliati insieme.
-Quando sono tornato a
casa il mio letto era freddo e
intatto. Ho visto il tuo, la porta era aperta e mi sono fermato.
Christian accarezza
amorevolmente i capelli del figlio.
-Lui è stato
qui, non è vero?
Christian deglutisce prima
di rispondere.
-Si.
-Ho sentito il suo profumo.
Il profumo di Jonathan
è dunque qualcosa che sconvolge anche
Kyle e non soltanto lui.
-Chris… mi
manca, mi manca tanto.
Le parole di Kyle
terminano in un singhiozzo.
-Riportamelo a casa Chris,
ti prego!!
---> Ce l’ho fatta.
Con un ritardo a dir poco vergognoso
vi ho postato il tanto nominato (da me) capitolo 13. C’ho
messo parecchio a
scriverlo, specialmente la scena “di sesso”.
Tral’altro non è proprio di sesso…
a conti fatti non descrivo nulla, solo sensazioni, immaginateli pure
avvinghiati come vi pare^^. Ah… se vi può esser
d’aiuto (o se vi interessa)
nello scrivere quella scena mi sono ispirata a “Si tu no
vuelves” di Bosè e
Shakira. Per ispirata intendo dire che l’ho ascoltata alla
nausea e che
immaginavo la musica di sottofondo (senza parole) nella suddetta scena
XD No, non sono
normale. Però vi suggerisco di
ascoltarla su you tube mentre leggete magari vi rende meglio
l’idea… detto
questo. Devo annunciarvi una pausa UFFICIALE, questa volta. Sabato
partirò e
starò via per tre settimane quindi beh… sono
giustificata, in questo caso!
E ora basta… spero mi
seguirete ancora e aspetto commenti su
questo capitolo che per me ha significato davvero tanto e…
beh è da
considerarsi il fulcro della storia. Alla prossima!
Ps. Il capitolo è
assurdamente lungo per disguidi tecnici
-_-“ la prima parte di Kyle sarebbe dovuta essere nel
capitolo precedente ma
avendo l’altra volta modificato la bozza e non il definitivo
ho dovuto metterla
qui… <---
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Capitolo 14 *** The following day (Il giorno dopo) ***
14.
The following day
(Il giorno dopo)
Avrebbe fatto meglio a
restarsene in silenzio. Non avrebbe
dovuto raccontare a Gregor della sua visita a Christian, non avrebbe
dovuto
parlare di ciò che era successo. Sembrerebbe un ragionamento
insensato,
considerando che è il suo psichiatra e che il suo lavoro
è quello di ascoltare
qualsiasi cosa lui si senta di raccontare. La questione non
è così semplice.
-Mio caro John, per quale
ragione hai pensato di non potermi
dire di questa tua necessità?
Jonathan respira,
profondamente. Conosce bene il motivo,
semplicemente vuole essere meno brutale nello spiegarglielo.
-Me l’avresti
impedito.
Non voleva, perlomeno.
Gregor non risponde. Chiude gli occhi
e si massaggia le tempie, prende un respiro profondo e sta in silenzio
per un
paio di minuti. Jonathan fa altrettanto.
-Se te l’avessi
impedito, non sarebbe stato casuale.
Spiega, sempre ad occhi
chiusi.
-Quindi ammetti che me
l’avresti impedito…
Gregor apre gli occhi, si
alza, aggira la scrivania e si
appoggia sul bordo parte opposta, proprio di fronte a Jonathan.
-Si, certo.
Jonathan scuote il capo.
-Perchè?
-John, caro, vuoi uno
specchio per vedere in quale stato ti
trovi?
Jonathan si passa una mano
tra i capelli. Sa che Gregor non
ammetterà mai il vero motivo per il quale, se ne fosse stato
a conoscenza, gli
avrebbe impedito di andare da Christian. È qualcosa che
l’ha sempre
infastidito, quel negare l’evidenza da parte di Gregor.
-Non è questo!
Lo so.
Gregor fa una smorfia,
è evidentemente infastidito.
-Se sai già
tutto, per quale motivo vieni da me?
Scontato, arrogante.
Sempre così, quando si parla di
Christian.
-Perchè spero
sempre che tu lo ammetta e vada oltre, Greg.
Gregor si siede sulla
scrivania, a gambe a penzoloni. È
seccato, parecchio.
-E dimmi… era
così, come dire, impellente la tua necessità
di vederlo? Uh?!
Jonathan annuisce.
-Si, ti ho detto che mi
serviva quella cartella.
Ovviamente Gregor non la
pensa allo stesso modo, continua ad
osservarlo in silenzio, aspettando che sia lui stesso a tirare le
dovute
conclusioni, lo guarda, lo squadra, lo fa sentire quasi a disagio, in
questo è
sempre stato un asso.
-Poteva inviarmela via
posta, faxarmela ecc… lo so. C’ho
pensato.
Gregor annuisce col capo
ma non proferisce parola, è ancora
il turno di Jonathan. Non ha sentito abbastanza. È snervante
questo suo
silenzio. Potrebbe starsene ore e ore a fissare Jonathan senza parlare,
senza
fare il benchè minimo gesto.
-Si, va bene,
d’accordo. Avevo bisogno molto di vederlo.
Di nuovo nulla. Jonathan
si spazientisce, sbuffa
nervosamente e continua a parlare. Si chiede se abbia veramente
intenzione di
dire altro, Gregor.
-Greg, sono pur sempre
quindici anni, quindici anni a vedere
il suo viso ogni mattina! Mi è mancato! È
così difficile da capire?
Gregor annuisce di nuovo.
Si sistema sulla scrivania e accavalla
le gambe. Prima di parlare sulle sue labbra compare uno strano sorriso,
che ha
qualcosa di retorico, di sadico.
-Lo chiedo a te John. Ti
è stato difficile capirlo, quando
hai tradito Christian dopo-
No.
È troppo, sta
andando oltre. Jonathan
non può sopportare che prosegua quel
suo discorso. Quello che sta per dire è qualcosa che non ha
ancora avuto il
coraggio di udire ad alta voce, non vuole che nessuno lo pronunci.
-NO! Basta Greg. Basta
così! Sei scorretto!
Esclama, balzando in piedi
dalla poltrona sulla quale è
stato seduto fino a qualche attimo prima. Il suo cuore ha dato inizio
ad un
battito frenetico, le voci nel suo cervello hanno cominciato a urlare
di nuovo.
Voci strazianti e sgraziate che fanno male bruciano le orecchie,
corrodono la
mente.
-Proprio tu mi parli di
scorrettezza Johnatan? Siediti,
avanti.
Lo intima Gregor.
Sicuramente era il suo intento quello di
vederlo reagire in quel modo. Lo conosce piuttosto bene, sa prevedere
le sue
reazioni, i suoi gesti. Sa quali tasti toccare per ottenere determinati
effetti.
Jonathan si siede di
nuovo, è rigido. La rabbia che lo
appena colto fa fatica a sbollire. Se ne sta accoccolato nella poltrona
in
maniera scomposta, fissa Gregor con asprezza ma non parla.
-Quando ti comporti in
questo modo mi ricordi il ragazzino
quindicenne che ho conosciuto.
Commenta Gregor, con
compiacimento.
-È per questo
che non vengo mai da te Greg, sai troppo di me
e…
È Gregor a
completare la frase.
-…e la cosa ti
fa perdere la pazienza. Ci sono troppi
particolari di te che non vuoi che gli atri vedano, conoscano. Ti piace
avere
quello strano alone di mistero per il quale nessuno potrà
mai sapere veramente
chi sei. Non
è così? Ho centrato il
punto?
L’ha centrato
eccome, in pieno. Jonathan non risponde, non
c’è bisogno che lo faccia. Gregor sa
già di avere ragione.
-Si.
So così tanto di
te, troppo. E credimi, ci sono dettagli che ti riguardano che nemmeno
vorrei
conoscere. Ma che vuoi farci? È così.
Di nuovo silenzio.
Jonathan ha i nervi a pezzi. Il suo stato
d’animo è mutato, non era così quando
è entrato mezz’ora prima. Era confuso,
disorientato. Ora si sente soltanto colpevole. Si attribuisce anche la
colpa
per quanto successo la serata dell’appena trascorso sabato.
-Sei ancora quel
ragazzino, Johnathan Wallace, non sei
cambiato poi molto. Per questo io sono l’unico che
può veramente ricostruire
una mappa della tua essenza, solo io che ti ho conosciuto
così… a fondo.
***
Per l’intero
weekend Morgan si è chiesta cosa possa essere
successo a Kyle il giorno del festino di Debbie. L’aveva
lasciato svogliato e
infastidito in un angolo e se l’era ritrovato confuso,
spaesato, con quello
sguardo strano, che fatica a dimenticarsi. Non ha detto nulla in
macchina nè il
giorno successivo al telefono. È tornato al suo stato
normale, come niente
fosse successo.
Morgan sa che non
è così, vuole sapere cosa gli è
successo
durante la sua assenza quella sera. Non è semplice
curiosità, qualsiasi cosa
gli possa essere accaduto è stato in grado di disorientarlo,
non è una cosa da
poco e sicuramente non se n’è dimenticato.
Sta prendendo appunti o
forse scarabocchia, non è facile
capirlo. Ha sempre la testa china su qualche foglio, la sua mano
è sempre in
movimento. Potrebbe fare l’una come l’altra cosa.
È un enigma Kyle, come il suo
comportamento.
Morgan non fa che
osservarlo per tutta la durata della
lezione, non gli stacca gli occhi di dosso per un istante, è
strano che non si
sia accorto di nulla, è il tipo di persona che si sente
subito gli occhi della
gente puntati addosso. Ad osservarlo esteriormente sembra che la sua
mente stia
viaggiando in una strana dimensione alternativa e che il suo corpo sia
rimasto
invece seduto su quella sedia. Come una sottospecie di viaggio mistico
alla
ricerca del nirvana.
Al suono della campanella
Morgan raccoglie in fretta il
materiale sul banco e lo raggiunge.
-Cosa stai disegnando di
così interessante?
Chiede, puntando lo
sguardo sul foglio utilizzato da Kyle
per tutta la durata della lezione, un foglio a quadretti completamente
scritto.
Ad una prima occhiata sembrano semplicemente una serie di scarabocchi
senza
senso fatti a matita, osservando meglio il foglio
nell’insieme si nota
chiaramente che si tratta di uno schizzo di un murales.
-È un murales?
Chiede la ragazza, dopo
aver inquadrato bene il soggetto del
disegno.
-Si. Ho sempre desiderato
farne uno, chissà magari un
giorno…
Commenta Kyle alzandosi
dalla sedia e radunando i fogli e le
matite rimasti sul banco. Sembra decisamente sulle nuvole, anche il suo
tono di
voce ha qualcosa di strano, sognante forse. Ha un’aria
completamente persa.
Nulla che assomigli allo stato d’animo di sabato ma nemmeno a
quello usuale di
Kyle. Morgan vorrebbe chiedergli direttamente qualcosa ma non ne ha il
coraggio, teme una risposta brusca o il silenzio, che è
ancora peggio.
-Ti vedo pensieroso.
Esclama, optando per una
strada più lunga, per arrivare a
porre la domanda desiderata.
-Uhm? No, non
particolarmente.
Risponde lui pacato.
Naturalmente Morgan se l’aspettava una
risposta simile.
-Hai fatto qualche bel
sogno di recente?
Kyle la guarda
incuriosito. Non deve aver capito le vere
intenzioni di Morgan, tuttavia quella domanda deve parergli strana.
-No, almeno, non penso.
Perchè, avrei dovuto?
Morgan sorride.
-Non so! Di solito hai
quello sguardo quando sei perso nei
tuoi sogni…
Kyle fa
l’indifferente.
-Se lo dici tu…
Si mette in spalla lo
zaino e si dirige verso l’uscita della
classe, Morgan lo segue, frequentano gli stessi corsi quindi vanno
spesso a
lezione insieme. Percorrono il corridoio fianco a fianco, come sempre.
Nessuno
dei due parla, a differenza del solito. Morgan tiene il capo inclinato
in
direzione di Kyle, per osservarlo, lui prosegue dritto davanti a
sé. Si direbbe
che stia fissando un punto ben preciso, il suo sguardo è
rigido.
-Oh! Ecco la troia di
Anthony Edwards!
Esclamano una serie di
ragazzi appartenenti al club di
football. Morgan sente qualcosa ma è troppo impegnata a
fissare Kyle per
distinguere chiaramente significante e significato della parola, quando
lo
capisce uno strano vociare li circonda. Ai ragazzi di football se ne
sono
aggiunti altri.
Un coro di epiteti
sgradevoli e fischi li accompagna per
tutto il corridoio.
-Che hanno da urlare
questi? Ho solo
fatto due balli con Anthony e mi
chiamano troia?!
Esclama, spalancando gli
occhi e fissando Kyle, in attesa di
un commento da parte sua, che non arriva.
-Beh non dici niente?
Kyle fa un respiro
profondo.
-Non ce l’hanno
con te…
Morgan scuote il capo, non
capisce o forse inizia ad intuire
qualcosa ma preferisce chiedere.
-E con chi ce
l’hanno allora?
Il coro prosegue. Una voce
si distingue chiaramente dalle
altre, una frase volgare, crudele ma che contiene le risposte che
Morgan
vorrebbe non aver mai chiesto.
-Avanti Wallace, non farti
desiderare! Con Anthony non l’hai
fatto!
Kyle si ferma, chiude gli
occhi e respira profondamente.
Morgan è quasi
senza parole. Ha capito, vorrebbe non averlo
fatto, non vuole convincersene, continua a fissare Kyle che non la
degna di uno
sguardo.
-Kyle, che
cosa… che cosa hai fatto?
***
Christian ha appena dato
la prima lezione della settimana.
Ha trattato uno dei suoi argomenti preferiti e sembra soddisfatto della
sua
spiegazione. Non vuole pensare a ciò che gli è
accaduto nel weekend, si siede e
si mette a rileggere i propri appunti e i propri testi. Sta cercando di
tenersi
impegnato da tutta la mattinata e fino a quel momento ci è
riuscito. Nella sua
testa ci sono stati soltanto Winckellmann, i Neoclassicisti, Jacques Louis
David e
il Giuramento degli Orazi. Gli argomenti della sua tesi di laurea, che
ascolterebbe, studierebbe e ripeterebbe all’infinito.
Distrattamente lascia
cadere a terra una decina di fogli e
si lascia andare ad una imprecazione poco pertinente.
-Merda!
Immediatamente si alza
dalla sedia e si china per
raccoglierli. Quando raggiunge il pavimento si rende conto che ci ha
già
pensato qualcun altro prenderli; la
cui
mano di questa persona è tesa verso di lui e regge i suoi
fogli. Christian alza
lo sguardo per vedere a chi appartenga quella mano, per vedere chi deve
ringraziare.
-Immagino siano suoi,
professore.
Quella voce e poi quel
viso. Christian spalanca gli occhi e
assume la stessa reazione che avrebbe tenuto se di fronte a lui si
fosse
presentato un fantasma. È come se lo fosse infatti, non lo
vede più da mesi e
non pensava l’avrebbe rivisto nella sua classe. Non voleva
vederlo, questa è la
verità.
-Daniel Owens.
Commenta, prendendo gli
appunti e alzandosi da terra. È
freddo, anzi, gelido. Si dimentica persino di ringraziarlo o forse lo
fa di
proposito. Forse pensa di non aver nessun motivo per ringraziarlo, gli
ha solo
raccolto dei fogli, dopotutto…
-Passavo di qui professore
e ho pensato…
Smette di parlare, tronca
completamente il discorso. Questa
sua interruzione forzata è sicuramente dovuta al modo in cui
Christian lo
osserva, si rende conto di non essere gradito. Christian è a
braccia conserte,
leggermente appoggiato alla cattedra. Sembra nervoso, sicuramente
seccato.
-Hai sentito nostalgia
delle mie lezioni, Owens?
Chiede, tornando a sedere,
togliendogli lo sguardo di dosso.
Il ragazzo, Daniel, sembra sollevato dal fatto di non doversi
più sentire
addosso quegli occhi freddi, glaciali da gelarti il sangue.
-Ve-veramente professore,
ho dato la mia tesi di laurea due
settimane fa. Ora sono un professore anch’io,
come… come lei.
Christian fa una smorfia,
il suo viso assume un’espressione
sprezzante, quasi di odio.
-Hai sempre avuto questa
smania, Owens. Questo desiderio di
assomigliarmi, di essere ciò che sono, avere quello che
ho…
Commenta con asprezza. Una
frecciatina ben precisa, che è
certo Daniel saprà ben cogliere.
Il ragazzo non risponde
alla provocazione ma sa a cosa si
riferisce Christian. Cambia il discorso, di proposito.
-Sto facendo domanda in
un’accademia a Boston. Ho ricevuto
proposte qui ma ho preferito non accettare, per… beh, ho
preferito non
accettare e basta.
Si aspetta un commento da
parte di Christian, un commento
che non arriva. Christian rimane in silenzio, con la testa chinata sui
propri
fogli. Afferra quelli caduti e cerca di sistemarli con gli altri in
modo che
seguano la loro giusta impaginazione. Stando al suo atteggiamento, pare
quasi
che Daniel sia uscito dall’aula quando invece è
ancora davanti a lui in attesa
di una qualche parola da parte sua.
-Pensavo che…
Christian alza lo sguardo,
torna a fissare Daniel, è questo
a bloccarlo di nuovo, ad impedirgli di proseguire la propria frase come
avrebbe
voluto.
-Aspetti che ti dica che
sei bravo, che hai fatto bene? O
miri a qualche banale cliché come: “Almeno hai
ancora buon senso” o “Almeno ti
è rimasta la dignità”?
-Volevo solo ringraziarla
professore, per tutto ciò che mi
ha insegnato…
Christian annuisce.
-Hai già
espresso il tuo ringraziamento, mi sembra…
-Arrivederci professore,
mi scusi per averla disturbata.
Accelera il passo ed esce
in fretta dall’aula, scomparendo
poi nella folla di ragazzi nel corridoio.
Christian torna al suo
mestiere. Un fastidioso principio di
rabbia ha iniziato a percorrergli tutto il corpo, se Daniel fosse
rimasto
ancora qualche istante avrebbe finito per urlargli contro o lanciargli
addosso
la prima cosa che gli fosse capitata sotto mano. Cerca di sopprimere
quell’abbozzo di rabbia e di concentrarsi di nuovo sui propri
appunti.
Senza rendersene conto sta
stropicciando un foglio, lo tiene
stretto nel pugno. Respira e poi lo lascia cadere sulla scrivania. Si
lascia
andare sulla sedia e guarda i banchi ancora vuoti davanti a
sé. Il terzo banco
in prima fila, a partire da destra, era sempre stato occupato da Daniel. Da qualche mese
è vuoto.
Daniel è
l’ultima persona che avrebbe voluto rivedere quella
mattina, l’ultima in assoluto. Dopo la sua visita, neanche
Winckellman o Jacques
Luis David, saranno in grado di garantire la sua integrità.
---> Tornata dopo TANTO TANTO
tempo. Spero che abbiate
letto anche i precedenti capitoli e che non mi abbiate dimenticata o
meglio che
non abbiate dimenticato Jonathan, Christian, Kyle e i loro
problemi… che dire.
In quanto a regolarità sono imperdonabile…
cercherò di postare il prossimo
capitolo appena possibile. Per ora… buon fine settimana!
<---
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Capitolo 15 *** Explanations (Spiegazioni) ***
15.
Explanations
(Spiegazioni)
La campanella è
suonata. Poco per volta il corridoio si
svuota, uno per uno gli studenti si ritirano nelle rispettive classi
per
seguire la lezione successiva. Kyle è ancora fermo,
pietrificato, con gli occhi
di Morgan puntati addosso, in attesa di trovare il coraggio per fornire
una
spiegazione.
Le ha sempre raccontato la
verità, le ha sempre parlato di
tutto quanto, anche dei dettagli più intimi e privati della
propria vita. Quel
preciso particolare però, avrebbe voluto non lo sapesse.
Impossibile.
Si aspettava una reazione
come quella in cui sono appena
stati travolti. Avrebbe decisamente dovuto parlargliene quella stessa
sera,
raccontarle cosa era successo, dirle quanto fosse stato confuso,
sconvolto e di
quanto ancora si senta spaesato. Ha avuto diverse occasioni per
parlargliene,
la sera successiva alla festa Morgan gli ha telefonato per avere sue
notizie e
lui ha fatto finta di nulla, si è creato un sorrisino
fasullo, ha cercato di
modificare il tono della propria voce, sicuro di poter andare avanti in
quello
stato.
Non osa girarsi e
guardarla negli occhi. Rimane a fissare
davanti a sé e rivede tutto ciò che gli
è successo quella sera, ogni singola
sensazione, gli pare quasi di rivivere quella scena.
Anthony si era avvicinato
a lui e aveva iniziato a
parlargli, gli aveva detto qualcosa di cui non aveva capito il nesso,
avevano
poi iniziato una discussione. Aveva seguito Anthony in giardino, per
capire
cosa volesse, cosa intendesse con le parole “Non è
questo che voglio da te”.
Si rivede, appoggiato al
muro esterno della casa, con
l’orecchio teso verso Anthony e lo sguardo che si alternava
tra il salone e la
piscina. Aveva iniziato a trovare divertenti quei ragazzi ubriachi, non
l’avrebbe mai detto.
Se n’era rimasto
in silenzio, lui non aveva nulla da dire ad
Anthony, si era anzi chiesto per quale motivo dovesse volere qualcosa
da lui.
-Mi ascolti, non
è vero?!
Aveva chiesto lui, per
accertarsi di avere tutta
l’attenzione necessaria, probabilmente. Kyle si era limitato
ad annuire con il
capo.
-Bene… ti
faccio una domanda. Perché pensi abbia chiesto
proprio a te di aiutarmi con il diorama?
La risposta gli era parsa
così semplice, era bravo a scuola,
dannatamente bravo e a molti avrebbe fatto piacere la sua
collaborazione, che
avrebbe assicurato quindi un voto più che positivo.
-Perché sono
fottutamente bravo.
Così convinto,
così sicuro di sé. Quando si parla di scuola
Kyle sa di essere un asso. Sfortunatamente Anthony non era
d’accordo su questo
punto, non era quella la risposta esatta.
-Sono bravo quanto te
Wallace, se non di più. Sii più…
fantasioso!
Gli si era avvicinato,
molto, troppo. Riusciva a sentire
chiaramente il profumo che aveva indosso quella sera, un profumo
dolciastro,
che teme non si dimenticherà mai.
-C’entra Morgan?
Che domanda stupida gli
aveva fatto! Se Morgan fosse stata
di suo interesse, sarebbe andato direttamente da lei. Non è
un tipo da farsi
troppi scrupoli Anthony Edwards e pochi istanti dopo
gliel’avrebbe dimostrato.
-E tu ti ritieni bravo?
Non arrivi alle soluzioni più
semplici.
Quella frase gli aveva
chiarito tutto quanto. Quel suo
avvicinarsi improvviso, quel suo trascinarlo fuori, a pensarci bene,
ora, a
mente fredda, si rende conto di quante volte Anthony gli abbia inviato
dei
suggerimenti, degli indizi. La colpa era stata sua, che non aveva
voluto
vederli, che non era stato in grado di scavare a fondo.
-Però Morgan se
n’è accorta, di quello che
c’è tra noi…
Morgan. Non avevano mai
trattato apertamente l’argomento
eppure l’aveva intuita quella sua teoria, secondo la quale
tra lui e Anthony
dovesse esserci qualche strano sentimento, al di fuori della
competizione
scolastica. Gli faceva troppe domande, glielo nominava
troppo… Kyle era
arrivato quindi a due opzioni: o Morgan era innamorata di Anthony
oppure era
convinta che lo fosse lui. Dopo la prima parte di quella serata aveva
confidato
nella prima opzione ma in quel secondo momento, con le spalle contro il
muro e
Anthony quasi addosso impegnato a dirgli quelle parole strane, aveva
iniziato a
capire.
-E cosa ci sarebbe tra noi?
Primo errore. Aveva forse
involontariamente giocato con
Anthony. Non sapeva se veramente fosse interessato a lui, nemmeno aveva
cercato
di chiederselo. Era solo stato al gioco. Quel suo tono, quasi
malizioso, aveva
fatto si che Anthony proseguisse nel suo intento, l’aveva
solo facilitato.
-Non lo so
Wallace… me lo dici tu?
Secondo errore. Non
l’aveva fermato. Era ancora in tempo.
Avrebbe potuto uscire con classe, uscire vincitore. Una risposta
brusca, un
qualcosa come “Assolutamente niente”, seguito da
una sua uscita di scena,
sarebbe stato d’effetto. Anthony se ne sarebbe rimasto solo
in quel giardino,
deluso, sconfitto. E invece, cosa aveva fatto? Era rimasto in silenzio,
peggio,
l’aveva guardato negli occhi fisso, intensamente.
-Qui forse
c’è troppa gente… so che al piano di
sopra ci
sono delle belle stanze, me lo vuoi dire lì?
Terzo errore,
l’ultimo, quello fatale, del non ritorno.
L’aveva seguito. Era entrato volontariamente in quella che
avrebbe
rappresentato la sua prigione, la sua tortura. Non sa spiegarsi
tutt’ora cosa
gli sia balenato in testa. Era cosciente, aveva capito le intenzioni di
Anthony, chiaramente ormai. A guardarla esternamente sembrava quasi che
quella
situazione fosse di suo gradimento, che non gli pesasse affatto esserne
coinvolto.
Una volta entrati entrambi
una stanza, una bella stanza con
decorazioni e mobili di gusto e di classe, Anthony si era seduto sul
letto.
Lui l’aveva
fissato e poi l’aveva raggiunto.
Paradossalmente, riesce a
ricordare persino la sensazione
che aveva provato sedendosi su quel letto, morbido, soffice, pareva
quasi di
essersi seduto su una nuvola, quando invece si era appena gettato tra
le
braccia del suo aguzzino.
Anthony l’aveva
trascinato verso sé e l’aveva baciato, o
meglio, aveva iniziato a baciarlo.
Il suo primo vero bacio.
Se l’era
immaginato diversamente Kyle. Non si era mai
chiesto se sarebbe successo con un ragazzo o con una ragazza, era e
resta
piuttosto confuso riguardo al proprio orientamento sessuale. Gli
è stato insegnato
dai suoi genitori a non dare mai etichette, per questo non si
è mai veramente
posto il problema.
Ad ogni modo, quel primo
iniziale bacio gli era piaciuto,
parecchio. Certo, era l’unico mai ricevuto in vita sua, non
poteva saperne
troppo e si era sentito anche piuttosto impacciato, aveva cercato di
seguire
qualche consiglio dato tra amici, aveva seguito la direzione della
frenetica
lingua di Anthony. Dopo i primi cinque minuti aveva iniziato a
prenderci gusto,
stava iniziando ad abituarsi.
Anthony si era fermato, si
era staccato improvvisamente,
senza dargli in tempo di rendersene conto. Quel gesto però,
aveva bruscamente
segnato la fine del momento piacevole.
-Tu dovresti saperlo, come
si fanno certe cose.
Senza rendersene conto, la
mano di Anthony si è staccata dal
suo viso e si era spostata sulla cerniera dei propri jeans.
-Cosa intendi per
“certe cose”?
Non è
così ingenuo, sapeva bene a cosa si stesse riferendo.
Semplicemente voleva esserne sicuro. Il gesto di Anthony, era
più che lampante.
-Beh, tu hai due padri.
Devi per forza saperle fare certe
cose o almeno conoscerle.
La scena successiva
è quella che vorrebbe rimuovere dalla
propria mente e sa invece che non la dimenticherà mai, che
gli resterà in testa
per anni. Certo, farà meno male con il tempo ma di certo non
se ne
dimenticherà.
-Non sono certo
di…
Anthony gli aveva sorriso,
uno strano sorriso, quasi sadico.
-Ti guido io…
Basta. Scrolla la testa.
Non vuole ripercorrere quell’ultima
parte. Gli fa troppo male. Si sente troppo sporco, se ne vergogna
profondamente. Pensare che tutti quanti sono a conoscenza di quello che
ha
fatto, lo fa stare ancora peggio.
-Kyle io sto aspettando
una tua risposta, lo sai?
Lo intima Morgan,
afferrandolo per un braccio e
strattonandolo.
-Alla festa di
Debbie…
-Si, che cosa?
Un attimo di silenzio.
Kyle deve trovare le parole, è così
semplice dopotutto. Cinque parole, gli bastano cinque parole per
spiegarsi.
Sembrerebbe però troppo rude e non crede sarebbe in grado di
pronunciarle
quelle cinque parole.
-Io e Anthony…
-Tu e Anthony cosa?
La guarda. Vorrebbe avere
il potere di trasmetterle i propri
pensieri in quel momento, per non doverle spiegare, per non doverle
dire a voce
alta quello che dovrebbe.
-Gli ho… gli
ho…
Deglutisce. Le ultime
parole proprio non riesce a dirle.
-Gli ho fatto
un…
Morgan spalanca gli occhi.
Ha capito, con precisione, con
esattezza, lo intuisce dallo sguardo, dall’espressione
sconvolta, quasi
scioccata.
-Un pompino Kyle? Tu? Ad
Anthony Edwards?
Senza rendersene conto
urla, Kyle abbassa lo sguardo. Il
sentimento di vergogna sale, lo invade completamente. Inizia a pentirsi
di
averglielo detto. Si sente terribilmente sporco.
-Dio mio Kyle! Io
pensavo… io credevo vi piaceste, ma…
com’è
successo?
Kyle scuote il capo. Non
ce la farebbe a ripeterlo, a
riviverlo.
-No Morgan, ti prego. Non
me lo chiedere, che ti basti
questo e il fatto che… sto malissimo.
Morgan gli lascia il
braccio, il suo volto diviene scuro.
-Perché non me
l’hai detto sabato, Quando siamo saliti in
macchina? Avevo
capito che c’era
qualcosa di storto ma questo Kyle!
Kyle non ribatte. Non
riesce a capire se Morgan sia
arrabbiata, delusa o entrambe le cose. Spera comunque di poter contare
sul suo
sostegno, è la sua migliore amica. Se anche lei lo
abbandonasse, non saprebbe
più cosa fare.
-Sto malissimo Morgan.
Morgan cambia espressione.
Forse sta iniziando a capire come
possa sentirsi Kyle.
-Vieni, andiamo in
giardino. Tanto ormai questa lezione è
persa…
Gli dà un
buffetto sulla spalla e lo indirizza verso il
giardino della scuola.
Dopo aver parlato con
Morgan, Kyle si sente più forte. Sa di
poter contare ancora una volta sul sostegno della sua migliore amica,
sa che in
ogni caso non sarà abbandonato da lei, solo con Morgan
affianco sarà in grado
di affrontare la situazione a scuola. Solo parlando con lei
riuscirà ad
ignorare le voci, gli insulti.
Arrivato a casa
però, il suo stato d’animo peggiora. Vede
Christian in cucina, ai fornelli. Quella sua attività denota
il suo tentativo
di tenersi impegnato, per evitare di pensare. Ogni volta che ha un
problema,
che qualcosa lo turba, si mette a cucinare, a leggere o studiare per le
sue
lezioni. È così da sempre, ormai ha imparato a
riconoscere i suoi segnali.
Aspetta a raggiungerlo in
cucina. Chiude gli occhi e sente
il buon profumo di minestra. La cucina di Christian e sempre qualcosa
di
sublime, di eccezionale. È qualcosa che fortunatamente non
cambierà mai.
“Sta pensando a
Jonathan.”
Pensa Kyle.
Ovvio, ci pensa sempre,
anche se non lo dà a vedere, anche
se non lo ammette. Quella sua visita di sabato l’ha
sicuramente sconvolto. Si
chiede se Christian
sapesse del ritorno
di Jonathan. L’aveva trovato diverso, prima di uscire. Non
aveva fatto domande,
ha smesso di farne da quando Jonathan ha lasciato quella casa, per
evitare di
far soffrire di più Christian.
“Se lo sapeva
perché non m’ha detto nulla?”
Si chiede. Anche lui
avrebbe dovuto vedere Jonathan, avrebbe
anzi voluto chiamarlo, dopo quanto successo sabato sera.
In macchina, sulla strada
di ritorno, la prima persona alla
quale aveva pensato era stata proprio Jonathan, non riesce a capire
perché,
semplicemente aveva ritenuto che fosse lui la persona adatta, per
consigliarlo,
per confidarsi. Forse semplicemente perché uno psicologo,
oltre che suo padre.
Non lo sa, davvero.
Sa solo che una volta
tornato a casa, alle tre di notte, era
stato invaso dal profumo di Jonathan, quell’odore forte,
particolare, che certo
portano in molti ma che su nessun tipo di pelle assume la stessa
fragranza che
invece rilascia su quella di Jonathan. Aveva in cuor suo sperato di
trovarlo
addormentato abbracciato a Christian, come ai vecchi tempi.
Si era quindi precipitato
nella stanza da letto con la porta
ancora aperta. Vedendo Christian solo, nella propria metà
del letto, aveva
deciso di raggiungerlo e di stendersi sulla metà del di
Jonathan lasciando che
il profumo rimasto impregnato su quelle lenzuola lo avvolgesse, come un
abbraccio, prima di svanire completamente.
-Kyle. Mi sembrava di
averti sentito entrare!
Esclama Christian, facendo
capolino dalla porta della
cucina. In mano regge un paniere, contenente un impasto per torte. La
torta di
mele, il piatto preferito di Jonathan.
Si, sta pensando a lui,
non c’è dubbio.
-->>
ta-da-dah! Tornata!! C'ho messo un po' in effetti. La scusa di questa
volta? L'università >.< no, non è
ancora iniziata ma sono impegnatissima a fare avanti e indietro per le
pratiche e tutta la "burocrazia"! che stress! Tral'altro dovrei finire
il 22esimo capitolo e oggi vi ho postato il 15esimo... cavolo, sono
quasi a pari argh! Comunque... in questo capitolo si svela
ciò che non si è visto nel 13, la parte di Kyle
xD ... magari ho accontentato chi voleva qualcosa tra Anthony e Kyle
chissà... spero che questo capitolo vi piaccia e niente, che
continuate a leggere la mia storia.
Poi in questo spazietto
(che diventa sempre più uno spazione) vorrei ringraziare
Viviana che mi ha mandato una bellissima mail che mi ha veramente fatto
piacere leggere. Avrei voluto rispondere però non so come
>.< sono un po' impedita con i mezzi tecnologici.
Viviana, ti ringrazio davvero. Temevo seriamente che la mia storia
fosse passata nel dimenticatoio ma con le tue parole mi hai fatto
sapere che non è così, grazie di nuovo!! Spero
che tu legga questo mio ringraziamento (ciò significherebbe
che hai letto anche questo capitolo^^).
E ora è tutto... il 28
inizio le lezioni e quindi beh, non posterò tanto presto...
mi impegnerò per farlo ALMENO la prossima settimana... per
il resto buon fine settimana (è giovedì^^)!!
<<..--
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Capitolo 16 *** Meeting Strangers (Conoscenze estranee) ***
16.
Meeting Strangers
(Conoscenze estranee)
-Ha trovato un buon
lavoro, Owens…
Commenta Ronald,
aspettandosi una reazione da parte di
Christian.
-Uhm… si.
Non dice altro. Sta
fissando fuori dalla finestra,
pensieroso. Molto probabilmente non ha nemmeno sentito quello che gli
è appena
stato detto.
Vive nel suo mondo da
quasi due settimane, questo a Ronald
non fa molto piacere, perché non è la stessa
persona con la quale ama parlare e
discutere. Non riesce neanche a chiedergli qualcosa sulla propria vita;
come
stia proseguendo, se gli sia successo qualcosa di piacevole
ultimamente. Nulla.
Non è dell’umore adatto e quindi non gli
risponderebbe, per questo motivo
Ronald si evita la fatica.
Guarda Christian. Si
chiede se si riterrà mai pronto per
uscire con altra gente. Sarebbe un peccato che un uomo bello e
carismatico come
lui rimanesse solo. Può capire come si sia sentito, dopo la
rottura con
Jonathan. Non l’ha mai visto, né ha mai avuto il
piacere di vederli insieme
eppure, da come ne parla, da come si comporta e da quanto la
separazione da lui
l’abbia ferito, riesce ad immaginare quanto importante possa
essere stato e sia
tutt’ora quell’uomo per lui.
È davvero bello
Christian, bellissimo. Davvero un peccato
privarsi così del piacere di conoscere gente nuova, non poter per dare una chance
a qualcun altro per
conquistarlo. Non riesce a capire che bisogno possa aver avuto
quell’uomo, quel
Johnathan, del quale ha giusto una minima idea, di tradirlo. A detta
sua per
lasciarsi andare uno come Christian, bisognerebbe trovare un ragazzo
perfetto,
ideale. Di quelli che sanno fare praticamente tutto, una specie di
robot dal
bell’aspetto e dalle capacità straordinarie.
È davvero
fortunato Jonathan, secondo Ronald, se nella vita
è riuscito a conquistare Christian e poi un altro ragazzo,
ancora meglio di
lui. Pensa sarcasticamente che farebbe bene a conoscerlo
quell’uomo, magari
potrebbe presentarlo anche a lui un ragazzo simile. Non sarebbe male,
per
niente.
Gli basterebbe anche
qualcuno come Christian, non gli importa
nulla della perfezione.
Christian smette di
fissare fuori dalla finestra, raggiunge
la scrivania dei professori e si siede, raccogliendo i propri fogli. Da
qualche
tempo arriva presto a scuola, proprio come lui. Si chiede se anche lui
non
riesca ad addormentarsi.
-Ho iniziato a venire a
scuola presto perché a casa non
riesco mai a dormire. Sai è strano, sono sempre stato uno
che… amava dormire
fino a tardi la mattina. Questo fino a… una decina di anni
fa circa…
Christian alza la testa
dai fogli. Probabilmente ha attirato
la sua attenzione, ne era certo. Non ha mai parlato di sé
con nessuno e non è
mai stata sua intenzione farlo.
-Io abitavo con il
mio… come lo chiamo… “amico
speciale”,
Damian e il mio fratellino di dieci anni. Dovevamo andare ad una fiera.
Qualcosa di stupido. Quelle cose delle casalinghe con oggetti da cucina
e… beh,
quelle cose lì.
Si interrompe, Christian
lo sta fissando, è visibilmente
molto attento a ciò che sta raccontando. Fa un respiro
lungo, profondo. È la
prima volta che racconta quella cosa a qualcuno, ancora non sa
perché tra le
mille cose che poteva dire abbia scelto proprio di raccontare quella a
Christian, in ogni modo, prosegue.
-Eravamo tornati tardi dal
ristorante la sera prima, io
avevo questa abitudine di dormire fino a tardi. Così la
mattina dopo non
riuscii a svegliarmi in tempo. Damian mi chiamò infuriato
dalla stazione del
treno, dicendo che quello che avremmo dovuto prendere era
già passato e che
l’avevano perso per colpa del mio ritardo, che avrebbero
preso il successivo,
quello delle dodici e trenta e che avrei dovuto raggiungerli in auto
alla
fiera, da solo.
Smette di parlare, forse
quella che sta per raccontare, è la
parte più difficile.
-Andai quindi da solo, in
macchina. In collera con Damian
perché sapeva di questo mio vizio. Accesi la radio, stavano
passando una
canzone, qualcosa dei vecchio, i Beatles forse, quando si interruppe
per fare
posto al notiziario. Il treno delle dodici e trenta, che si muoveva in
direzione della fiera, era uscito dal binario e si era andato a
schiantare con
quello in direzione opposta. Così di colpo mi ritrovai a
vivere solo, in modo
che nessuno potesse più lamentarsi del mio vizio di fare
tardi.
Christian ha gli occhi
spalancati. Ronald si rende conto di
avergli involontariamente versato addosso quella confessione
così particolare,
così dolorosa, che l’ha evidentemente scosso. Fa
uno strano sorriso, non sa
proprio fare confidenze alla gente. È passato dal non dire
nulla di sé a
raccontargli tutto questo, davvero un pessimo confidente.
-Oh, Ron io…
non avrei immaginato, mai una cosa del genere,
te lo giuro io…
Ronald gli sorride. Non
vuole che Christian si preoccupi
anche per lui, inizia a pensare di aver sbagliato di grosso ad avergli
raccontato tutte quelle cose.
-Chris! Dai, sono storie
passate.
Christian scuote il capo,
si avvicina a lui.
-Dio mio Ron! E io che ti
ho detto che non sai amare! Non
dovrei aprirla questa mia boccaccia a volte.
Sì, si
ricordava di ciò che gli era stato detto ma non era
quello il motivo per il quale gli aveva raccontato quella storia,
motivo a lui
stesso ancora sconosciuto.
-No… hai
ragione, non ho mai amato. Non come tu ami il tuo
Jonathan, almeno. E poi… dai sono cose vecchie! Parliamo
d’altro.
Cambia discorso, cercando
di non dare a vedere il dispiacere
provocato nel rivivere, raccontando, quel particolare episodio, il
dolore
provato quel giorno, dolore che ancora avverte la mattina quando suona
la
sveglia e la sera quando tornando a casa fiancheggia la stazione del
treno.
Mai e poi mai avrebbe
voluto tirare fuori quella vecchia
storia, parlarne a qualcuno. Il fatto che l’abbia raccontato
a Christian gli fa
intuire quanta importanza abbia poco a poco acquisito Christian per
lui.
Lo osserva sorridere e lo
ascolta mentre gli racconta un buffo
episodio accaduto in classe. È totalmente paralizzato dal
suo sorriso, così
particolare, diverso, luminoso. Conferisce a quel suo viso,
già di per sé
gradevole, una sfumatura più graziosa.
-Potresti fare una
pubblicità del dentifricio col tuo
sorriso Christian!
Un complimento, o meglio,
avrebbe dovuto esserlo. Putroppo
Ronald non è mai stato capace di fare complimenti, non sa
usare l’intonazione
giusta. Così pronunciato pare quasi una canzonatura.
Christian fa una smorfia e
gli risponde a tono.
-E tu con quella barba
lunga potresti fare quella dei rasoi
Gillette!
Si alza Christian,
raccoglie le sue cose ed esce dalla
stanza. Deve imparare a fare un complimento come si deve Ronald, se
vuole
ottenere qualche effetto su Christian.
***
Da una settimana Kyle e
Morgan vengono accompagnati durante
i loro spostamenti da una classe all’altra, da un
insopportabile coretto di
voci, di insulti, sempre riguardanti l’incontro del ragazzo e
di Anthony
Edward, quest’ultimo poi, non si era ancora presentato a
scuola. Kyle durante
quella settimana l’aveva invidiato per quella sua scelta. Un
giorno era quasi
arrivato a mentire a Christian, voleva fingersi malato e convincerlo a
farlo
rimanere a casa. Se non l’aveva fatto era stato per evitare
di perdere qualche
lezione importante e poi perché Morgan l’avrebbe
sicuramente rimproverato.
All’intervallo
Kyle si siede con l’amica, alla solita
panchina in giardino. Non parla, se ne sta semplicemente in allerta per
evitare
qualche brutto tiro da parte dei suoi compagni di scuola, proprio
mentre tiene
la guardia abbassata. Scherzi stupidi e poco originali come attaccare
cartellini dietro alla sua schiena, con la scritta
“frocio” oppure disegni
osceni sopra il suo armadietto.
Cosa che era
già successa e che probabilmente non si sarebbe
ripetuta, grazie a Morgan, che aveva quasi picchiato un ragazzino da
lei
ritenuto colpevole.
-Sai Morgan, forse dovrei
veramente fare come Anthony e non
presentarmi più a scuola…
Commenta, senza guardarla,
con tono vago mentre osserva un
punto non ben definito di fronte a sé. Morgan spalanca gli
occhi, lo fissa
infastidita e gli afferra un braccio scuotendolo.
-Ma stai scherzando?! Non
provare nemmeno a fare una cosa
simile! I senza palle come Anthony lo fanno, tu le palle le hai eccome!
Lascia
perdere questi quattro ignoranti, i loro insulti patetici e scontati
non devono
neanche toccarti, capito?
Kyle non è del
tutto convinto. Non esprime il suo disappunto
per non far infuriare ulteriormente l’amica, tuttavia il
desiderio di andarsene
via, chiudersi in camera e non uscire più è
forte, fortissimo. Lo farebbe se
non dovesse spiegare tutto quanto a Christian. Se
l’è immaginata la sua
espressione una volta sentito tutto il racconto. Rigida, fredda,
aggettivi che
solitamente non hanno nulla a che vedere con Christian.
È una bella
giornata tutto sommato. Giugno è alle porte, il
cielo è azzurro e fa abbastanza caldo. Kyle pensa che
dopotutto manca poco più
di un mese e mezzo alla pausa estiva. Deve sopportare quelle voci
ancora per
poco, una volta passata l’estate sarà qualcun
altro l’oggetto di scherno in
quella scuola, lui potrà rilassarsi, potrà
tornare a godersi la sua vita da
liceale.
Pensa alle vacanze,
all’estate in generale e si perde in
quel pensiero. Non aveva ancora realizzato che quelle saranno le prime
vacanze
solo con Christian. Chissà
quante ce ne
sarebbero state poi… Chissà se avrebbero
trascorso comunque le vacanze fuori o
se semplicemente sarebbero rimasti a casa. In quei dieci anni con i
suoi
genitori, aveva sempre trascorso due piacevoli settimane in un cottage
affittato in montagna, nel Montana. Aveva fatto delle amicizie in quel
posto e
si trovava sempre bene, adorava le passeggiate pomeridiane con
Jonathan, le
partite a carte alla sera con Christian e poi tutti e tre abbracciati
nel
divano letto a scaldarsi.
Gli sarebbe decisamente
mancato tutto quello. Un’espressione
malinconica e dolorosa compare sul suo viso, avrebbe pianto se Morgan
non
gliel’avesse impedito.
-Kyle?! Ehi! Sei andato in
catalessi?
Scuote il capo per
riprendersi e distogliere la mente da
quei pensieri malinconici.
-Scusa Morgan, pensavo
all’estate…
La ragazza non fa in tempo
a rispondergli. Un uomo alto,
elegante e distinto, si avvicina ai due.
-Scusatemi. Sto cercando
Kyle Wallace Simmons.
Kyle prima guarda
l’amica confuso, poi si alza.
-Sono io…
L’uomo in giacca
e cravatta gli indica la strada.
-Ti prego di seguirmi, per
favore.
Kyle è
riluttante. Guarda ancora Morgan in attesa di una sua
reazione ma l’amica pare essere confusa quanto lui.
È sicuro di non
averlo mai visto quell’uomo a scuola. Inizia
ad avere paura, lo segue prima per il cortile e poi per il corridoio
della
scuola, senza avere la benché minima idea di dove lo stia
portando. L’uomo
procede a passi veloci davanti a lui, senza rivolgergli una parola,
senza
nemmeno voltarsi per accertarsi che lo stia realmente seguendo.
Ad un certo punto si
ferma, si gira verso Kyle e gli indica
una porta. È l’ufficio del preside. Kyle non
è mai entrato in quell’ufficio,
certo ha visto diverse volte quella porta passando per il corridoio ma
non ha
mai avuto motivo di entrarci. Inizia a temere che c’entri
ciò che è successo
con Anthony. Deglutisce ed entra.
Il preside, il signor
Harbour, un uomo sulla mezza età,
pelato, leggermente in soprappeso e dalla scarsa avvenenza, lo attende
seduto
alla sua scrivania con le mani conserte e un grande sorriso sulle
labbra,
falso, costruito.
Non appena entra nella
stanza l’uomo che l’ha accompagnato
poco prima chiude la porta, facendo sobbalzare il povero Kyle.
-Vieni avanti ragazzo,
siediti pure su una di queste sedie.
Esclama il preside,
indicando le due poltrone davanti alla
sua scrivania. Kyle affretta il passo e prende posto sulla poltrona di
destra.
-Kyle Wallace
Simmons… due cognomi, molto nobile.
Kyle non risponde, la
figura di quell’uomo lo intimorisce,
lo irrigidisce e il suo disagio è evidente.
-Ti stai sicuramente
chiedendo per quale motivo ti abbia
convocato nel mio ufficio. Non preoccuparti figliolo,
quell’uomo dallo sguardo
truce è semplicemente il mio segretario, Simon. Per quanto
so sei un bravo
studente, un bravo ragazzo. Non crei particolare scompiglio. Eccezion
fatta
per… gli ultimi giorni.
Dopo quella frase Kyle
è sicuro che si tratti della faccenda
con Anthony. Non c’è altra spiegazione.
L’ha detto lo stesso preside, è un
bravo studente, un ragazzo a posto che non va a cercar rogne.
-Ci sono delle voci, per
così dire, che circolano per la
scuola. Voci piuttosto spiacevoli che certamente non voglio riferire e
alle
quali non so che peso dare…
Le parole del preside lo
spaventano. Inizia a temere una
punizione. In quei minuti di silenzio da parte del preside, Kyle inizia
ad
immaginare le ipotesi più assurde. Fortunatamente il
silenzio ha una breve
durata.
-Immagino tu stia
iniziando a capire a cosa mi riferisco…
Kyle annuisce ma non
parla, vuole vedere a che punto ha
intenzione di arrivare il preside.
-So che Anthony Edwards
non si presenta a scuola da… diciamo
l’inizio della circolazioni di queste voci. Non è
affar tuo certo, ma i signori
Edwards sono molto generosi, per quanto riguarda le questioni
riguardarti loro
figlio… Capirai quindi da te che se decidesse di lasciare
questa scuola, il mio
istituto ne risentirebbe...
Kyle spalanca gli occhi.
La paura aumenta. Teme che tra poco
il preside la pronunci quella parola, verrà espulso, ne
è certo. Inizia a
sudare freddo, le mani avvertono un principio di tremore, quello
è decisamente
il peggior quarto d’ora mai trascorso. Si fa coraggio e cerca
di prevedere le
mosse del preside.
-Mi sta quindi dicendo
che… sono sospeso?
Silenzio. Solo qualche
secondo, tempo comunque sufficiente
per alimentare lo stato di terrore che aleggia in Kyle.
-Oh no! Non farei mai
qualcosa del genere!
Sorride. Lo stesso sorriso
falso di quando l’ha accolto.
Kyle non riesce a tranquillizzarsi, per niente.
-Quello che ho in mente
è ben altro. A questo proposito,
vorrei che tu conoscessi una persona.
Terminata la frase del
preside, la porta alle sue spalle di
apre di nuovo. Sente dei passi lenti e pesanti percorrere la stanza,
fino ad arrivare
a lui, non si gira. Non ha idea di chi possa trovarsi davanti,
probabilmente
qualcuno che non conosce. Tuttavia ha quasi paura a constatarlo.
-Voglio presentarti lo
psichiatra Gregor Andrew Northshare.
Si gira e vede finalmente
al suo fianco quell’uomo dal nome
altisonante che gli porge la mano e gli sorride. Deve avere
all’incirca la
stessa età del preside, tuttavia la sua presenza
è completamente diversa. Alto,
fisico ben curato, capelli corti grigi e occhi piccoli e profondi dello
stesso
colore. Bel viso, elegante, fa senz’altro un’altra
figura rispetto al preside.
Kyle allunga la mano e
quell’uomo la stringe, poi si siede
sulla poltrona vuota accanto a lui.
-Quello che
voglio… Kyle, giusto?
Il ragazzo annuisce.
-… è
che tu ti confidi con quest’uomo, che poco per volta
gli racconti cosa è realmente successo. In modo che lui
possa aiutarti e…
aiutare me a trovare un modo per far cessare queste fastidiose voci di
corridoio.
Kyle spalanca gli occhi.
Non è sicuro di aver compreso il
concetto espresso dal preside.
-Quindi mi sta dicendo che
devo raccontare i miei… fatti
privati a quest’uomo che a sua volta li racconterà
a lei?
Il preside annuisce.
-In parole povere, si.
Kyle scuote il capo, sta
tremando. Il sentimento di paura
che l’ha avvolto poco prima non l’ha del tutto
abbandonato.
-Mi scusi, anzi, scusi la
mia presunzione signor preside.
Per quanto ne so, le confidenze fatte ad un dottore sono definite
“segreto
professionale”, quindi quest’uomo non ha alcun
diritto di riferirle ciò che
eventualmente gli dirò.
Il preside non risponde,
è l’altro uomo a farlo.
-Sei un ragazzo molto
intelligente, Kyle. Hai ragione
naturalmente. Tant’è che non una delle parole che
tu dirai a me verrà riportata
alla medesima maniera al preside Harbour, di questo ne puoi stare certo.
Ha una voce profonda
quell’uomo, avvolgente. Osservandolo e
sentendolo parlare, Kyle nota alcune somiglianze con
l’atteggiamento di
Jonathan. Lo stesso mezzo sorriso sulle labbra mentre parla, lo stesso
gesticolare lento, lo stesso inclinare il capo in avanti. Senza contare
quel
tono suadente e quasi rassicurante.
-Certo! È come
ha detto il dottor Northshare!
Conferma il preside,
probabilmente grato all’uomo per averlo
cavato dall’impiccio di una spiegazione scomoda.
-Dovresti accettare questa
opzione che ti offriamo, ragazzo.
Conclude il preside. Kyle
non riesce a staccare gli occhi
dallo psichiatra, si accorge solo ora che svolge anche la medesima
professione
di Jonathan, chissà che non lo conosca.
-E…
e se non lo
facessi?
Ipotizza il ragazzo,
scostando gli occhi dall’uomo e
indirizzando lo sguardo verso preside.
-L’alternativa,
l’hai menzionata tu stesso poco fa…
Kyle spalanca gli occhi,
capisce di non avere alcuna scelta.
Si rende conto di essere messo con le spalle al muro, dovrà
veramente
raccontare a quello sconosciuto tutta la vicenda.
L’uomo accanto a
lui gli prende una mano, con delicatezza,
quasi voglia rassicurarlo.
-Non devi preoccuparti di
nulla. Ti sentirai a tuo agio con
me, vedrai…
Si lascia ingannare. Non
l’avrebbe fatto solitamente. È
colpa di quell’uomo, che assomiglia così tanto a
Jonathan. È così convincente,
così persuasivo. Le sue parole fanno scomparire tutti i
segni di paura fino a
quel momento manifestatisi.
Inquietante, decisamente.
--->
Ed eccomi qua! Dopo un po' di tempo finalmente aggiorno la mia storia.
Questo capitolo è uno di quelli che chiamo "rivelatori", vi
lancia qualche informazione sulla figura di Ronald, che nella mia mente
è parecchio complessa... e ovviamente la "conoscenza
estranea" di Kyle, voi la conoscete già bene XD con questo
capitolo si entra nell'arco della storia che sto scrivendo ora,
cioè c'è la causa che produce l'effetto che sto
delineando in questo periodo. Purtroppo ho veramente
poco tempo tra i corsi, lo studio e altro. Sono riuscita a malapena a
scrivere qualche riga ma, tranquilli! Questa storia
proseguirà fino alla fine. Chris, John e Kyle per me sono
diventati troppo importanti per metterli da parte e abbandonarli per
sempre. La loro storia avrà SICURAMENTE una fine che
sperò vi piacerà (è già
tutto nella mia mente malata) Voglio ringraziare Mana per il commento
e Viviana per
la mail e poi, in generale, tutti quelli che hanno messo come "storia
seguita" la mia fanfiction e che spero continuino a seguire fino alla
fine^^
Detto questo,
alla prossima! <---
|
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Capitolo 17 *** Hidings behind a name (Particolari nascosti) ***
17.
Hidings behind a
name (Particolari nascosti)
L’estate
è la stagione preferita da Jonathan. È nato e
cresciuto in Texas, nei pressi di Austin, abituato al caldo torrido
desertico, alle
temperature eccessivamente elevate. Il trasferimento a New York aveva
significato per lui un grande cambiamento. Aveva visto per la prima
volta in
vita sua la neve, era stato costretto ad acquistare cappelli, sciarpe e
maglioni, variando quindi il suo guardaroba che fino a quel momento
comprendeva
solo capi di genere estivo o primaverile.
Manca ancora del tempo al
solstizio d’estate, quasi un mese.
Sorride osservando dalla finestra del suo ufficio il sole caldo che
illumina la
città e fa risplendere i grattacieli. In questo periodo
solitamente iniziava il
suo giro di telefonate per affittare lo stesso cottage
nel quale era solito trascorrere due
settimane ad agosto con la sua famiglia. Quest’anno
sarà differente, non dovrà
fare, probabilmente, nessuna telefonata, non andrà da
nessuna parte e il suo
ufficio rimarrà aperto durante tutto il periodo estivo.
Gli era balenata in testa
la mezza di idea di invitare Kyle
e trascorrerla solo con lui quella settimana, salvo ricordarsi poi di
non avere
sue notizie da mesi e di aver avuto la conferma da parte di Christian,
il
giorno del loro incontro, dell’intenzione volontaria del
ragazzo di non avere
contatti con lui. Pensa che non avrebbe accettato in ogni caso, molto
probabilmente le avrebbe passate con Christian le vacanze, forse
sarebbero
andati sempre in Montana oppure in California, a Santa Monica, dai
genitori di
Christian.
Il sorriso apparso sulle
labbra di Jonathan, dovuto alla
vista del sole, poco a poco affievolisce, scomparendo poi
completamente. Quasi
automatico afferra un pacchetto di sigarette dal taschino della giacca,
ancora
pieno, acquistato qualche ora prima, estrae una sigaretta e la porta
alla
bocca. Non fa in tempo però ad accenderla, qualcuno bussa
alla porta.
-È permesso,
dottore?
Adam Towens, il fratello
di un suo ex paziente deceduto
qualche settimana prima. Sapeva che sarebbe passato in ufficio a
ritirare la
cartella clinica del fratello, semplicemente non si ricordava di aver
fissato
l’appuntamento proprio quel giorno.
Immediatamente ripone la
sigaretta nella pacchetto, si
sistema ed assume una posizione più educata e composta.
-Buongiorno signor Towens.
Saluta sorridendo, come
è solito fare.
-Avevo fissato
l’appuntamento per questa mattina, dovrei
ritirare le cartelle di mio fratello Samuel…
Jonathan annuisce, si
china ed apre il primo cassetto della
scrivania dove, qualche settimana prima, ha riposto tutte le cartelle
richieste. Porge la cartella all’uomo che immediatamente lo
raggiunge per
prenderle.
-La ringrazio moltissimo
per questo favore che mi fa.
Esclama, non appena prende
possesso dei documenti.
Jonathan gli sorride di
nuovo.
-Si figuri signor Towens,
dovere.
Non conosce bene il
rapporto nel quale si trovassero i due
fratelli tuttavia, a giudicare dall’espressione triste di
Adam, dovevano
comunque avere un buon legame, qualcosa che aveva già
intuito osservandoli
insieme. Una perdita di un familiare è sempre qualcosa di
spiacevole. Jonathan
ne sa qualcosa.
Ha sofferto molto per la
perdita del padre, morto quando
aveva diciotto
anni, proprio mentre si
apprestava a trasferirsi a New York per completare la propria
istruzione, alla
Columbia University. Quanto avrebbe voluto vedere il viso di suo padre,
una
volta laureato. Scuote il capo e riporta l’attenzione ad Adam
Towens, che nel
frattempo gli sta parlando.
-Quindi… io
andrei. Grazie di tutto.
Jonathan si alza dalla
sedia.
-Posso immaginare il
dolore per la perdita di suo fratello.
L’uomo annuisce.
-È stato un
duro colpo per tutti quanti in famiglia.
Immagino sia normale, dopotutto.
Risponde, con tono di
amarezza.
-È naturale. Mi
permetta di offrirle un caffè, le va?
L’uomo annuisce.
-Molto volentieri, dottore.
Dopo aver bevuto una tazza
di caffè caldo al bar accanto
all’edificio nel quale è collocato lo studio di
Jonathan, i due iniziano a
parlare. Buona parte del discorso è incentrato sul defunto
fratello di Adam,
tuttavia poco a poco l’argomento muta.
-Questa sera
dovrò riaprire il mio locale.
Commenta Adam.
-È proprietario
di un locale?
Chiede Jonathan, quasi di
riflesso. In realtà dovrebbe
salutare l’uomo e salire al più presto possibile
in ufficio, avendo fissato
degli appuntamenti a distanza di qualche decina di minuti.
-Si, veramente
è una comproprietà. Il vecchio proprietario
ha avuto una serie di problemi di salute e cercava qualche ragazzo
giovane con
esperienza nelle pubbliche relazioni che lo aiutasse a tenere aperto il
posto.
Spiega.
-Posso sapere il nome di
questo locale? Se esiste da tempo è
probabile ci sia stato. Certo, ora non ho più
l’età per andare per locali ma
sono stato giovane anch’io.
Adam sorride.
-Nightmare. È
un locale piuttosto vecchio comunque, mi pare
che il vecchio nome fosse “Vampiria”.
Jonathan spalanca gli
occhi. Non riesce a crederci. È una
coincidenza troppo strana. Certo,come ha detto, ha frequentato diversi
locali
ed era probabile lo conoscesse se di vecchia data. Tuttavia tra i molti
aveva
nominato proprio quello che per lui aveva significato tanto, il locale
nel
quale aveva conosciuto Christian, nel quale aveva ballato con lui, nel
quale si
era innamorato per la prima e probabilmente unica volta in vita sua.
-Lo conosce?
Chiede Adam, osservando
l’espressione sconvolta di Jonathan.
-Se lo conosco? Si e anche
molto bene… Il vecchio
proprietario è ancora Abraham Dickson?
Chiede, con freddezza.
-Si, esatto. Conosce anche
lui?
Jonathan stringe il pugno
destro. Abraham Dickson è forse la
persona che ha più odiato in vita sua. Ricorda ancora quella
sua faccia rugosa,
quel grugno sul viso, quei suoi modi di fare loschi e viscidi.
È sicuro che se
lo rivedesse tutt’ora, a distanza di anni, sarebbe capace di
prenderlo a botte,
quelle che gli ha risparmiato durante quegli anni di conoscenza.
Senza dubbio
l’essere più spregevole mai incontrato. Non
riesce a ricordare quante volte gli abbia augurato di morire. Eppure
è ancora
vivo. Qualche problema di salute, secondo le parole di Adam, non sa
però di
quale tipo.
È nervoso ora,
continua a stringere il pugno desto con
forza. Non è un tipo che serba particolare rancore,
Jonathan, fatta eccezione
per quell’uomo e i suoi motivi sono ben chiari e precisi.
-Lo conosco? Certo.
Adam avverte
l’ostilità di Jonathan, presentatasi dopo la
pronuncia di quel nome.
-Senta…
immagino adesso lei debba andare. Comunque, se le fa
piacere, posso offrirle io stasera un drink al locale, per il
caffè che mi ha
offerto oggi…
Jonathan annuisce.
-Sono anni che non metto
piede in quel posto…
Adam gli sorride.
-Le assicuro che non
è cambiato molto, a giudicare dalle
foto che ho visto. Insomma, sappia che se le fa piacere, la aspetto
stasera al
locale.
Jonathan annuisce.
-Ci penserò.
Grazie per l’offerta.
***
Kyle è seduto
su una poltrona molto comoda e apparentemente
elegante collocata in una stanza a scuola, della quale non era stato a
conoscenza fino a quel momento. Si trova in quel posto da quasi dieci
minuti,
durante i quali i suoi occhi hanno avuto modo di perlustrare
l’ambiente a
fondo. Doveva essere stato un magazzino in origine, a giudicare dagli
scatoloni
e dai libri apparentemente datati e riposti un po’ ovunque
nella stanza.
Sta aspettando qualcuno,
quello psichiatra che ha conosciuto
un paio di giorni prima. È la sua prima visita da un
psichiatra, non ne sa
molto e nonostante abbia vissuto con Jonathan non gli è mai
stata fatta alcuna
visita. Certo, ogni tanto Jonathan lo sottoponeva a sua insaputa a
qualche
strano test o “giochino” ma niente di
più e quindi non sa cosa aspettarsi da
quell’incontro. Inizia ad agitarsi al pensiero di dover
raccontare a qualcuno,
ad uno sconosciuto, cosa gli è successo. Se il preside non
l’avesse messo con
le spalle al muro, certamente si sarebbe rifiutato di sottoporsi a
quelle
sedute.
Quell’uomo, in
ritardo di qualche minuto, l’aveva messo in
soggezione. Troppe somiglianze con Jonathan, nei modi di fare, nelle
espressioni, nel tono della voce. A lui non era mai riuscito a
resistere, ai
suoi modi così suadenti, così ammalianti. Uno dei
motivi per i quali rimanda il
più possibile il suo incontro con Jonathan è
proprio questo; lui gli
racconterebbe la faccenda della separazione secondo il suo punto di
vista e
sarebbe in grado di ingannarlo, confonderlo, lo ascolterebbe fino alla
fine,
non sarebbe in grado di tapparsi le orecchie, alzarsi e andarsene, come
invece
vorrebbe. Si lascerebbe trasportare in quella sua visione contorta
delle cose,
ne è sicuro.
-Buongiorno. Perdona il
mio ritardo, il traffico a quest’ora
è insopportabile.
Eccolo, lo psichiatra.
È entrato nella stanza quasi di
soppiatto, non l’ha sentito nemmeno aprire la porta.
-E così ci
hanno lasciato uno stanzino delle scope… poco
male, sempre meglio di niente.
Si siede su una sedia di
fronte a Kyle, sempre con abbozzo
di sorriso sulle labbra. Kyle abbassa gli occhi, ha appena rivisto il
sorriso
di Jonathan sul viso di quell’uomo ed è stato come
pungersi con qualcosa di
molto affilato, un ago spesso e lucente.
-Prima cosa, sei mai stato
da uno specialista, Kyle?
Kyle scuote il capo, senza
fiatare.
-Capisco. Va bene, in
questo caso ti dirò come si
svolgeranno le cose con me.
Si mette comodo. Kyle lo
vede con la coda dell’occhio
lasciarsi abbandonare sulla sedia, accavallare le gambe e mettersi a
braccia
conserte. Lo sta fissando, mentre lui tiene lo sguardo basso e cerca di
non
incrociare i suoi occhi.
-Io non faccio domande,
nessuna, mai. Qui in questa stanza
nessuno ne farà. Io voglio semplicemente che tu mi parli.
Argomento? Quello che
vuoi. Io ti ascolto, non intervengo, non ti fermo, sarai tu a fermarti,
quando
ti renderai conto di non aver più nulla da dire. Seriamente
intendo.
Spiega, gesticolando
leggermente e tornando dopo ogni
gesticolo alla posizione originaria. Il cuore di Kyle batte
inspiegabilmente ad
una velocità fuori dalla norma. È tranquillo,
nessuno lo sta obbligando a dire
nulla e ora quell’uomo, il dottore, è in silenzio.
Aspetta che parli. Per Kyle,
con la “lingua d’acciaio”, con in molti
gli hanno detto, dovrebbe essere
facile.
Non lo è.
Si sente la bocca
incollata, gli pare quasi, muovendo le
labbra, di fare fatica, le sente pesanti e la voce fatica ad uscire.
Non riesce
a spiegarsi il perché, non c’è tensione
nell’aria, può dire qualsiasi cosa, non
deve necessariamente sputare fuori l’intera faccenda. Certo,
sa che in un modo
o nell’altro tutto quanto gli verrà estrapolato.
Non conosce bene il metodo
lavorativo degli psichiatri eppure è certo che, quella di
portare le persone a
dire qualcosa che non vorrebbero, è una delle loro
specialità. Ripensa a
Jonathan, non è mai riuscito a tenergli nascosto qualcosa o
mentigli a lungo,
l’ha sempre fatto confessare e più di una volta,
senza nemmeno rendersene
conto. Forse è per questo che ha tanta paura di parlare.
Si sente come un rubinetto
chiuso e ha paura che il fiume di
parole che tiene per sé inizi a scorrere senza controllo,
rendendogli difficile
di fermarsi, di chiudersi di nuovo.
Il silenzio sembra
interminabile, osserva di sfuggita
l’orologio al polso del dottore; non sono passati nemmeno
cinque minuti, sembra
un eternità. Si sofferma sull’orologio stesso,
è molto elegante, quadrante
grande, cinturino in acciaio. Nella posizione in cui è posto
non riesce a
leggere la marcatura ma deve essere un Cartier, riconosce il taglio. Il
suo
cuore ha un balzo improvviso; è simile ad uno degli orologi
di Jonathan, cambia
solo il colore.
Quell’uomo ha
molte cose in comune con Jonathan, troppe.
Alza lo sguardo e osserva la sua espressione rilassata, pacifica. Gli
occhi
sono leggermente pigiati e c’è ancora lo stesso
sorriso sulle sue labbra. È
difficile decifrare cosa stia provando osservandolo. Compassione?
Interesse?
Disgusto? Non riesce a darsi una risposta Kyle. L’occhio gli
cade di nuovo
sull’orologio e comincia a parlare, senza rendersene conto.
-Mi piacciono gli orologi
da polso. Mio… padre, li
colleziona da sempre, immagino. Non saprei dire da quando. Per quanto
sappia li
ho sempre visti. È un Cartier vero? Recente tra
l’altro. L’ho capito dal
cinturino, adesso li fanno tutti così.
Non riesce a smettere di
parlare, vorrebbe ma non ce la fa.
-Un anno a natale io
e… Christian, l’altro mio padre, gliene
abbiamo regalato uno così. Due anni fa penso. Ho ancora la
garanzia da qualche
parte. Ogni natale la guardo. C’è il nome
dell’orologio… sono sicuro di non
comprarne una eventuale “riedizione”, facendo
così. Tral’altro quest’anno
chissà
se ci sarà il Natale…
Il Natale. Non si spiega
come ci sia arrivato, soprattutto
come sia riuscito con facilità a parlare di Jonathan e
Christian. Inizia a
pensare che quell’uomo sappia veramente fare il proprio
lavoro.
-Voglio dire…
Si corregge.
-Il Natale ci
sarà sicuramente, solo non sarà come prima. Ma
si, infondo, le cose stanno in questo modo e così le devo
accettare. Ci sono
delle persone spaventate dai cambiamenti, io sinceramente non saprei
come
vederla. Me ne sono successe tante, tanti cambiamenti insieme a volte
sconvolgono…
Smette di parlare e subito
interviene lo psichiatra.
-Il concetto di
cambiamento è molto relativo. Certe volte si
parla di evoluzione più che di
“cambiamento”. Tanti fatti, tante cose della
vita, portano ad una evoluzione. Lo vediamo come cambiamento solo se
questa
evoluzione è prematura, inaspettata.
Non sa come ribattere,
Kyle.
Non lo fa, continua il suo discorso, così con
scioltezza.
-Evoluzioni…
quindi l’adolescenza è un evoluzione. Immagino
mi risponderà che tutta la vita lo è.
Ma… cosa succede quando si evolve qualcosa
in cui… non ci si sarebbe dovuti evolvere?
Non risponde. Ha detto che
non sarebbero state fatte
domande, da nessuno. Quindi non le accetta? Difficile da dirsi, tiene
la stessa
espressione quasi sorridente e composta.
-Mi chiedo se…
a volte evitare di dare dei nomi dei “titoli”
serva.
Gira completamente il
discorso. Non vorrebbe parlare, la sua
testa gli dice di fermarsi prima che gli sfugga qualcosa di scomodo,
eppure
sembra che la sua bocca si sia scollegata e stia facendo di proprio
punto.
-Mi è sempre
stato insegnato a non dare titoli, che le
etichette sono sbagliate. Eppure mi è capitato ultimamente
di chiedermi se
“etichettare” qualche cosa non serva a volte a
prevenire questi cambiamenti o …
evoluzioni.
Annuisce il dottore ed
inizia a parlare.
-Molti sono della
convinzione che le etichette siano
qualcosa di sbagliato. In realtà lo sono soltanto se in
grado di circoscrivere
una determinata cosa. Sono molto utili invece se danno la
possibilità di
spiegare, di approfondire.
Esauriente, molto. Le sue
parole quasi incantano, il suo
tono di voce pacato, quasi rassicurante ,fa godere appieno chiunque
ascolti. È
un'altra cosa che ha in comune con Jonathan, questo però
Kyle lo nota soltanto
dopo una ventina di minuti, quando ormai la visita è
arrivata al termine.
-Ora che hai finito, ti
comunico che anche la seduta lo è.
Non si è
accorto del passare del tempo, quell’ora è volata,
senza dargli la possibilità di rendersene conto.
-Ci restano ancora quattro
incontri, Kyle. Ci vediamo, buona settimana.
Agghiacciante.
---> Vi sono mancata, o meglio
vi sono mancati John,
Chris e Kyle? Spero di sì =) beh, in ogni caso eccoci qui,
tutti e quattro a
proseguire con la storia. Caspita! Mi sono resa conto che pubblicando,
pubblicando pian piano sto raggiungendo i capitoli fin’ora
completati O.O siamo
già al 17! Sono a metà del 24esimo (beh, sarebbe
25esimo, visto che c’è un capitolo
di due parti…) e spero di riuscire a terminarlo quanto
prima!! Purtroppo il
tempo è quello che è. Comunque, prima di
salutarvi, voglio ringraziare ladynena
per il commento al precedente capitolo, mi fa piacere che Chris e John
suscitino un sentimento odio/amore nei miei lettori
vuol dire che sono riuscita nel mio intento =)
Detto questo, alla prossima!!
<---
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Capitolo 18 *** Dates or Appointments? (Incontri o appuntamenti?) ***
18.
Dates or
appointmens? (Incontri o appuntamenti?)
Riconsiderare
le persone è
qualcosa che Christian fa spesso. Ha come una strana empatia che gli
permette
di stabilire con uno sguardo se una persona potrà piacergli
o meno. Avere la
possibilità di conoscere qualcuno più a fondo, di
scoprire determinati
particolari su quest’ultima tali da poter cambiare la prima
opinione, è
qualcosa che fa sempre volentieri.
Il
primo incontro con Ronald,
dieci anni prima, l’aveva spiazzato. Nel momento in cui aveva
stretto la sua
mano e si erano presentati non aveva sentito niente. Non era riuscito a
capire
se a pelle quell’uomo gli piacesse o meno ed erano rare le
occasioni in cui
capitava qualcosa di simile. Per tutto il periodo di conoscenza Ronald
per lui
era rimasto un mistero.
Si
era chiesto diverse volte se
la sua presenza gli facesse piacere, se fosse una persona con la quale
valesse
la pena trascorrere del tempo al di fuori dell’orario
lavorativo. Non aveva
ancora amici all’accademia e tra tutte le persone alla quali
aveva stretto la
mano, Ronald era stato l’unico non inquadrabile.
Col
passare del tempo si era
ritrovato a parlare con lui, spesso a confidarsi. Questo con
spontaneità e
aveva così dedotto che gli piacesse. Una volta constatato
ciò aveva cercato con
i pochi dati disponibili di fornirgli una descrizione.
Per
Christian Ronald è sempre
stato un uomo riservato, forse un po’ frivolo, amante del
divertimento, uno a
cui piace scherzare, una persona con pochi problemi per la testa.
Evidentemente
si era sbagliato
dall’inizio.
Dopo
il loro ultimo incontro da
soli, la sua idea di Ronald è stata completamente
rivoluzionata. Ha visto della
sensibilità in lui, ha avvertito uno strano bisogno di
confidarsi, di cercare
intimità da parte del collega, i suoi pensieri non avevano
la benché minima
traccia di frivolezza e poi… e poi c’é
sempre lo sguardo malinconico di quella
mattina di un paio di mesi prima, quel Ronald pensieroso seduto davanti
alla
finestra, che parlava con tono flebile e nostalgico.
Christian
è in classe, seduto a fissare
i fogli della lezione appena spiegata e pensa a tutto questo. Pensa che
non ha
mai capito nulla di Ronald, che la persona che si troverà
davanti d’ora in poi
sarà differente. Forse finalmente riuscirà a
stabilire se gli piace o meno.
Spera in cuor suo che le sue preferenze per l’amico non
cambino.
Ha
già dovuto rivalutare qualcuno
di importante negli ultimi mesi e non è sua intenzione farlo
di nuovo, fa
troppo male. La delusione è di dimensioni incommensurabili.
Ci si sente
ingenui, ma non un’ingenuità innocente e naif,
bensì un atteggiamento cieco e
forzato.
La
sua capacità di capire le
persone è sempre stato un punto fermo e sicuro, una specie
di radar naturale
che gli permettesse una cernita superficiale delle persone, qualcosa
che gli
evitasse scottature e delusioni.
Recentemente
ha iniziato a
pensare che il suo radar non abbia mai funzionato a dovere, che forse
dovrebbe
smetterla di basarsi sul proprio istinto iniziale.
Scuote
il capo, non ha voglia e
nemmeno tempo per mettersi a pensare a certe cose. Si trova a scuola e
in dieci
minuti avrà una nuova lezione. È diventato
stremante e faticoso persino
spiegare e dirigersi a scuola. Dopo dieci anni di insegnamento
appassionato
inizia a sentire il peso della fatica.
È
presto, ha solo trentacinque
anni, ne ha altrettanti davanti prima di poter lasciare la professione.
“forse
è solo lo stress del
periodo”, pensa, cercando di giustificare quella sua recente
insofferenza.
Sistema
i suoi fogli, rilegge i
propri testi. Dopo la terza riga si ferma. È stanco delle
solite cose. Appoggia
i fogli sulla cattedra e si abbandona sullo schienale della sedia.
Perlustra
con lo sguardo l’aula, quasi cercasse in qualche angolo la
voglia di lavorare persa
quel giorno. Lo sguardo gli torna sui
fogli appena abbandonati. Sono anni che legge gli stessi testi, gli
appunti
sono ormai consumati.
Provengono
ancora dai sui tempi
all’università, sono scritti ancora in quella
grafia confusa e disordinata che
aveva da studente, oggi migliorata, seppur ancora illeggibile.
Osserva
i banchi di fronte a sé e
si rivede, seduto da qualche parte con la testa china sui block notes,
posizione insolita come sempre, con la mano che scorre veloce sui fogli
imprimendo qualche strano scarabocchio, spesso eccessivamente
abbreviato.
Lo
sguardo si sposta poi verso la
finestra, è una giornata assolata, quasi estiva.
Chiude
gli occhi e respira
profondamente. Tra pochi giorni inizierà il caldo,
l’estate. L’aspetta sempre
con molta impazienza quella stagione. Tranne quest’anno.
È
la prima volta che ci pensa e
di colpo vorrebbe non averci pensato affatto.
Si
alza quasi di scatto ed inizia
a camminare avanti e indietro lungo la cattedra.
Il
miglior rimedio per lo stress
è sempre una bella vacanza, qualcosa che
quest’anno molto probabilmente non
avrà.
Osserva
ancora i banchi e accanto
a lui ragazzo, che non sta più scrivendo ma sistemando,
appare un'altra figura:
Jonathan, anch’egli piuttosto giovane.
Si
siede, gli sorride ed inizia a
parlare con lui. Lo prende un po’ in giro per
l’attaccamento morboso allo
studio e gli indica la finestra, dicendogli che presto
arriverà estate e
torneranno insieme a Santa Monica a prendere il sole, a passare la
notte in
spiaggia fino ad addormentarsi e lasciarsi svegliare solo dalla luce
rosata
dell’alba…
Gira
bruscamente la testa
altrove. È sicuro che si rimanesse a fissare ancora un
secondo in quel punto
smetterebbe di respirare, cadrebbe a terra e non sarebbe più
in grado di
alzarsi, di andare avanti.
Doloroso
constatare quanto sia
facile, anche dal nulla, arrivare al pensiero di Jonathan. Doloroso
quanto inevitabile,
per quanto provi e si sforzi, per quanto non sia sua intenzione,
l’ha sempre
davanti.
Di
scatto allunga un braccio
verso la scrivania, afferra tutti i suoi fogli vecchi e sdruciti e li
strappa
riducendoli a coriandoli. Ha l’improvviso bisogno di
liberarsi del passato e
non potendo liberarsi dell’immagine di Jonathan, fa a pezzi
qualcosa che ha a
portata di mano. Una volta finito, raccoglie i pezzi di carta e li
getta nel
cestino, senza guardare.
Di
lì a poco l’aula si riempie di
studenti. Torna quindi alla cattedra e si rivolge alla sua classe,
sorridendo.
-Buongiorno
a tutti! Oggi avrei
dovuto spiegarvi l’importanza dei miti ellenici
nell’arte neoclassica. Ma… ho
deciso di cambiare! Sarete voi a dirmi cosa sapete, io vi
ascolterò…
Si
siede e respira profondamente,
buttandosi a capofitto nel suo cambiamento.
***
-Dottor Northshare,
Jonathan Wallace ha spostato
l’appuntamento delle 13 alle 17.
Enuncia la segretaria di
Gregor, con tono pacato e timido.
-E tu cosa gli hai detto,
Patricia?
La donna spalanca gli
occhi, è nuova in quell’ufficio e
Gregor la intimidisce parecchio.
-Che va…
bene…?
Sorride, col tentativo di
tranquillizzarla ma non ci riesce,
anzi, quasi peggiora la situazione.
-Jonathan Wallace
è un paziente molto, molto particolare…
per lui tutto è un’eccezione. Puoi andare.
La donna se ne va con
rapidità, mentre Gregor inizia
domandarsi per quale motivo l’abbia assunta. La
verità è che l’altra, Samatha,
aveva ben pensato di sposare un uomo d’affari che le aveva
permesso di vivere
da casalinga, lasciando quel posto vacante.
Vorrebbe essere una donna
a volte, Gregor. Gli piacerebbe
avere un’opportunità simile, lasciare quel lavoro
che non ha mai amato troppo e
potersene stare sdraiato su un letto a fissare il soffitto senza il
benché
minimo senso di colpa.
Non ha mai voluto essere
uno psichiatra e, se non lascia
quel mestiere, è solo perché è
dannatamente bravo nello svolgerlo. La sua
fortuna l’ha fatta con quel lavoro e non è
abituato all’ingratitudine. Questo
da sempre, anche quando i suoi lavori erano molto meno puliti e morali.
Senza contare che, senza
volerlo o fare forzature, Jonathan
l’aveva preso come un mentore e aveva deciso di intraprendere
la sua stessa
carriera, chiedendogli spesso consiglio, qualcosa che sicuramente gli
faceva molto
piacere.
A proposito di Jonathan,
sorride pensando a come facilmente
riuscirà a risolvere i suoi problemi una volta portato a
termine il suo piano
con Kyle.
Oltre ad essere bravo era
sempre stato molto fortunato, il
caso di Kyle gli era capitato in mano senza cercarlo e senza
aspettarselo.
Erano anni che non
lavorava come
psichiatra nelle scuole, un lavoro spesso pesante e mal pagato. Aveva
accettato
la richiesta del preside, suo amico, facendola passare con un favore
d’amicizia, quando il realtà era stato
l’amico a fare a lui un favore grosso.
Doveva risolvere i
problemi di Jonathan ed era già pronto a
scendere a patti con Christian, a parlare con lui e vederlo dopo tanto
tempo,
nonostante l’astio reciproco. Evitare l’incontro
con lui era tutto di
guadagnato.
Non aveva mai avuto modo
di vedere Kyle da quando era stato
adottato da Jonathan e Christian, non gli era nemmeno mai interessato,
fino a
quel momento, appunto. A suo grande dispiacere aveva notato che
c’era molto di
Christian nel carattere e nell’atteggiamento del ragazzo. La
strana diffidenza,
l’ingenuità, sono presenti in lui quanto in
Christian. Tuttavia, ha
con piacere notato delle somiglianze con
Jonathan, ne era certo. Deve
semplicemente far emergere in lui le caratteristiche che
lo accomunano a
Jonathan, per poter arrivare a plasmarlo a suo piacimento.
Ancora un paio di sedute e
il gioco è fatto.
Suona il telefono e
tempestivo si appresta a rispondere, in
pochi hanno il numero diretto del suo ufficio, per la precisione solo
le persone
importanti.
-Pronto?
La voce
dall’altra parte lo sorprende, è qualcuno che non
sente da parecchi mesi.
-Greg, sono Hanna. Avrei
bisogno di parlarti…
-Quando?
-Anche ora, se
puoi…
Gregor si mette comodo,
accende il pulsante del vivace e si
allontana dalla scrivania.
-Ti ascolto…
che coincidenza! Tuo figlio ha appena chiamato
la mia segretaria per spostare un appuntamento…
***
Kyle non ha raccontato a
nessuno con precisione in cosa
consistano le sue sedute psichiatriche con il dottor Gregor, nemmeno a
Morgan,
nonostante l’amica gliel’abbia chiesto
più di una volta e abbia cercato di
farglielo dire tramite qualche trabocchetto.
È da poco
finita l’ora di algebra. È iniziato
l’intervallo,
decisamente i minuti preferiti da ogni studente. Come di consueto Kyle
e Morgan
sono in giardino, sotto il solito albero. Kyle è seduto in
posizione abbastanza
composta, mentre l’amica è distesa sulla panchina,
con le maniche e gli orli
dei jeans rimboccati. Fa piuttosto caldo e sta cercando di prendere il
sole.
Stanno parlando del più è del meno da quando sono
usciti dalla classe, i soliti
discorsi leggeri, iniziati tanto per far qualcosa, per avere un
po’ di
compagnia, niente di interessante.
Kyle ha gli occhi chiusi,
i raggi di sole gli colpiscono il
viso e lo infastidiscono, ogni giorno si ripete che è
arrivato il momento di
comprarsi un paio di occhiali da sole, dimenticandosene poi nel giro di
una
ventina di minuti.
-E quindi tu compreresti
quel videogioco Kyle?
Chiede Morgan, proseguendo
il discorso.
-Sicuro. Perché
non dovrei comprarlo? Ho tutta la saga ed è
uno dei miei preferiti, quindi-
Si interrompe, quando una
voce a lui familiare sovrasta la
sua.
-Kyle, ho bisogno di
parlarti.
Apre gli occhi e rimane
accecato per qualche secondo dalla
luce del sole. Riesce a distinguere solo una sagoma nera dai contorni
alquanto
sfocati. Morgan rapidamente si alza e si mette a sedere, non parla e
non è buon
segno.
Poco a poco la figura
comincia a delinearsi, ecco i capelli,
il viso ovale, è Anthony. Kyle non crede a ciò
che si trova davanti, si
stropiccia gli occhi pensando che la sua vista, colpita dal sole, gli
stia
giocando un brutto tiro.
Non è
così. Anthony è proprio davanti a lui, nel suo
impeccabile ordine, indossa la sua maglietta da quarterback e i suoi
jeans 501.
Kyle non sa se alzarsi e andarsene indignato oppure mettersi ad
insultarlo dal
posto. Senza girarsi cerca di osservare con la coda
dell’occhio la reazione di
Morgan, gesto totalmente inutile, dato che la ragazza è
ancora più confusa di
lui.
-E così ti fai
rivedere adesso…
Commenta Kyle,
temporeggiando, cercando di assumere un tono
superiore e indifferente.
-Si… fino a
qualche giorno fa non avevo il coraggio di
guardarmi allo specchio Kyle, figurati di venire a scuola.
Kyle non sa come
ribattere, semplicemente non lo fa.
-Devi parlarmi, hai detto?
Anthony annuisce.
-Si. Ma non qui, non
adesso. Lontano da tutto e da tutti.
Per un attimo sembra che
Morgan voglia dire qualcosa, che
voglia cantarne quattro ad Anthony, Kyle ci spera, gli risparmierebbe
la
fatica. Purtroppo si limita a sistemarsi sulla panchina, senza fiatare.
-E dove, Anthony?
-C’è
un locale, è fuori città e poco frequentato.
Sicuramente qui non lo conoscono, è il
“Nightmare”.
Kyle è sicuro
di aver sentito quel nome da qualche parte ma
probabilmente se l’è immaginato oppure
è il nome di qualche locale di un
qualsiasi programma televisivo adolescenziale, dopotutto è
un nome molto comune
e poco originale.
-Vorrei sapere che
coraggio me lo chiedi.
Quest’ultima
affermazione non se l’era programmata, gli è
semplicemente uscita di bocca, è qualcosa che doveva
emergere a tutti i costi.
-Per favore Kyle, ti
chiedo questo favore ancora…
Kyle annuisce.
-Va bene. A che ora?
-Nove e mezza.
Kyle accetta.
-Bene, ci vediamo
lì.
--> Dopo poco più
di un messe eccomi di nuovo qui a
postare un nuovo capitolo della mia storia. Voglio innanzitutto
ringraziare
jaryshanny
per il commento. Mi
spiace
che i miei capitoli siano corti, mi rimproverò sempre per
questa cosa ma… che
posso farci è più forte di me >.<
beh, gli ultimi due che ho scritto sono
lunghetti comunque ma… si tratta del 25 e del 25 quindi
c’è tempo! Tornando a
parlare della storia… purtroppo la stesura va a rilento. I
vari impegni
universitari mi uccidono e gli esami si avvicinano
*ahi-ahi*… Cercherò
comunque di postare più regolarmente nella
“pausa”, studio permettendo!
Detto questo alla prossima che
sarà… boh! Vedremo!
P.s. Colgo l’occasione di
augurare ai miei lettori Buone
Feste, nel caso non riesca a postare prima di Natale =) <--
|
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Capitolo 19 *** Waking up in a Nightmare (Svegliarsi in un incubo) ***
19.
Waking up in a
Nightmare (Svegliarsi in un incubo)
-Senti Chris, è
un locale, niente di che.
Esclama Kyle, stufo di
trovare scuse per motivare la sua
uscita settimanale.
Christian è
nervoso ultimamente, parecchio, ed irritarlo è
fin troppo facile. È sempre stato molto interessato alla
scuola di Kyle e al
suo rendimento. Per assicurarsi uno studio continuativo e costante da
parte sua
gli ha sempre proibito di uscire la sera durante i giorni scolastici.
Quando
quel mercoledì, di ritorno da scuola, Kyle gli ha comunicato
senza nemmeno
chiedere che quella sera sarebbe uscito con degli amici di scuola, la
sua
reazione non è stata molto positiva.
Se ne sta sulla soglia
della cucina, con le braccia conserte
e il grembiule con la scritta tipica “Kiss
the cook” ancora addosso, il profumo di
ciò che ha cucinato proviene dalle
sue spalle e l’immagine nel complesso è piuttosto
buffa, quanto lo è la sua
espressione misto tra corrucciata e contrariata. Kyle ha trattenuto a
stento un
sorriso quando l’ha visto mettersi in quella posa, gli ha
ricordato molto una
di quelle mamme robuste ed iper-protettive dei vecchi telefilm anni
cinquanta,
una figura totalmente opposta a Christian, tral’altro.
-Lo sai cosa penso delle
uscite in settimana, Kyle.
Kyle sbuffa. Non sa se ci
tiene veramente a dare luogo a
quell’incontro con Anthony. A dire il vero non ci vuole
pensare perché è sicuro
che finirebbe per crearsi mille e mille supposizioni in testa. Per
tenersi
occupato, intanto, cerca di convincere Christian a farlo uscire.
-Avanti, Chris! Non
tornerò più tardi delle undici,
promesso!
Christian fa una smorfia,
non è del tutto convinto. Dalla
sua espressione però Kyle deduce di essere quasi riuscito ad
ottenere ciò che
vuole.
-E poi la mia media
scolastica è sempre alta. Lo sai che
sono bravo Chris! Per favore…
Cerca di premere sul
discorso “studente modello”, qualcosa
che sicuramente sarà in grado di smuovere la decisione di
Christian.
-Come si chiama questo
locale?
Kyle apre la bocca ma non
parla. Se n’è dimenticato, si
ricorda di aver pensato di conoscere quel locale, nel momento in cui
Anthony
gliel’ha nominato, tuttavia ora non riesce nemmeno a
ricordarselo quel nome.
-Ehm… non mi
ricordo.
Christian scuote il capo.
-Non te lo ricordi o fai
finta di non ricordartene perché in
realtà è un postaccio?
Kyle nega e cerca intanto
di ricordarsi.
-Nightwish
forse…?
Christian aggrotta le
sopracciglia confuso.
-Non è il nome
di un gruppo musicale?
Kyle annuisce.
-Si ma deve essere anche
il nome di quel locale… Senti,
non lo so! È di poco fuori dal nostro
quartiere, tnon ritornerò più tardi delle undici,
te lo ripeto!
Si mette una mano sul
cuore, quasi ad indicare un vero e
proprio giuramento, Christian sorride e rilassa quella sua posa rigida,
poi
sospira e porta gli occhi al cielo.
-Se torni per le undici,
se mi telefoni quando arrivi e
quando stai per tornare e se mi aiuti ad apparecchiare la tavola
adesso, posso
fare un’eccezione solo per questa volta.
Kyle sorride annuendo, ci
sono voluti quasi dieci minuti ma
è riuscito finalmente a convincerlo.
-Si certo Chris, tutto
quello che vuoi!
Alle nove e mezza, dopo
l’ennesima sfilza di “mi raccomando”
da parte di Christian, che spaziano dai “stai attento quando
attraversi la
strada” a “non accettare bevande dagli
sconosciuti”, Kyle finalmente è fuori di
casa e cammina sul marciapiede in direzione del locale.
Il tramonto è
arrivato tardi quel giorno, segno che l’estate
è alle porte, ciò lo rallegra e lo fa sorridere.
Non appena è a
meta strada, però, si blocca rendendosi conto
del motivo per il quale sta prendendo quella precisa direzione. Tra
poco vedrà
Anthony, sempre che non abbia intenzione di giocargli un altro tiro
mancino
decidendo non presentarsi del tutto. Con lui dovrà discutere
di ciò che è
accaduto. È quasi stanco Kyle di dover pensare a quella
faccenda, gli sembra di
essere obbligato a rivivere quel preciso episodio con ogni persona che
incontra.
Vorrebbe soltanto voltare
le spalle e accantonare tutto da
qualche parte, con l’intenzione di non riportarlo mai alla
luce. Vorrebbe quasi
congedare Anthony, senza parlargli e dirgli che non gli importa, che
è acqua
passata, solo per risparmiarsi la fatica di rimuginare su tutto quanto
ancora e
ancora e ancora.
Alza lo sguardo al cielo e
vede la luna, quasi piena,
comparire pian piano e diventare da pallida macchia bianca a splendente semicerchio. Poco dopo
arrivano le stelle ed
un leggero venticello permette alla temperatura del giorno di fare
posto a
quella della notte. Un brivido percorre la schiena di Kyle, non sa se
è per il
vento o per i suoi pensieri, non si pone il problema.
Cammina, quasi in
automatico, finché le luci al neon rosse
dall’altro lato della strada lo bloccano, si gira e legge il
nome “Nightmare”.
Era quello quindi il nome
del locale. C’era andato vicino,
dopotutto. Guarda attentamente prima a sinistra, poi a destra, poi di
nuovo a
sinistra, prima di attraversare in fretta la strada per raggiungere la
parte
opposta. Guarda l’orologio e segna le dieci e un quarto, non
si era reso conto
di aver camminato così a lungo, osserva a qualche metro di
distanza e nota
l’autostrada in fondo, ultimo elemento del suo campo visivo.
Ha poco tempo per
restare nel locale. Se non dovesse tornare per le undici Christian si
infurierebbe con lui.
Si mette in fila. Davanti
a lui ci sono giusto cinque o sei
persone, normale, è mercoledì, non tutti escono.
Lui per esempio non è mai
uscito di mercoledì.
Entra nel locale e si
pietrifica. È qualcosa che non ha mai
visto, ha un che di perverso ed esoterico quel posto. Le pareti sono di
pietra,
o un materiale che gli assomiglia, sui banconi ci sono delle aste, come
nei
locali striptease, in alto tra il soffitto e la parete degli strani
drappeggi
rossi e pesanti scendono a cascata e poco più in
là c’è un palco dove tre
ragazzi dall’aspetto darkeggiante urlano una qualche canzone
metal, qualcosa
tipo Marylin Manson o Cannibal Corpse; decisamente tetro.
Si guarda intorno prima di
accorgersi di Anthony a qualche
metro di distanza, seduto ad un tavolino che gli fa cenno con la mano
di
avvicinarsi. Si sente decisamente stupido e spaesato, raggiunge il
ragazzo e si
mette a sedere sulla sedia vuota davanti a lui.
-Pensavo non venissi
più.
Commenta Anthony, mentre
Kyle si siede.
-Pensavo avessi scelto un
locale più normale…
Ribatte Kyle, con un
po’ d’asprezza.
-Comunque…
voglio arrivare subito al sodo, se non ti
dispiace.
Afferma Anthony, cerando
di attirare completamente la sua
attenzione. Kyle fa cenno di sì col capo.
-Mi dispiace davvero di
non essere più venuto a scuola dopo
quel giorno Kyle. Come ti stavo dicendo oggi, non ho più
avuto il coraggio di
guardarmi allo specchio, di uscire dal letto senza avere il desiderio
di
ritornarci. Sono stati dei giorni… infernali, credimi.
Infernale. È un
aggettivo ancora poco calcato e poco
efficace per esprimere ciò che ha provato lui in quel
periodo di tempo. Gli
insulti, le voci che lo seguivano in corridoio, il colloquio con il
preside.
-Purtroppo ho raccontato
della faccenda a Donald, il ragazzo
di cui era innamorata Morgan e lui… ha ben pensato di
spargere la voce a
scuola.
Kyle sogghigna, se
rivelasse a Morgan adesso chi è la
persona che ha dato il via alle voci a scuola è certo che
ovunque si trovi,
qualunque cosa stia facendo, sarebbe capace di alzarsi e andare sotto
casa sua,
afferrarlo per il collo e urlargli addosso fino a stordirlo.
È un immagine che
lo diverte e lo distrae da ciò che sta ascoltando ora.
-È per questo
che è nata tutta questa storia, è per questo
che… Dio Kyle, quanto mi dispiace!
Anthony sembra veramente
turbato e scosso ma Kyle non sa se
credergli, vede nella sua reazione qualcosa di artificiale, qualcosa di
pompato. Preferisce comunque continuare ad ascoltarlo, non lo
interrompe.
Aspetterà che finisca il discorso prima di fare i suoi
commenti.
-Tutta quella storia dello
psichiatra e degli incontri… è
tutta un’idea di mio padre. Credimi Kyle, se mi dici che non
ti va di farlo, di
raccontare le nostre cose a qualcun altro… dimmelo.
Impedirò a mio padre, per
quanto posso, di portare avanti questo progetto.
Kyle trattiene a stenti
una smorfia. Anthony sta cercando di
mostrarsi come una sorta di principe azzurro, quando invece di
principesco ha
ben poco. Senza contare che il “nostre cose” appena
usato che l’ha fatto
rabbrividire non poco. Si contiene e non dice comunque nulla.
-Però sai Kyle,
ho pensato parecchio in questi giorni e sono
arrivato ad una conclusione…
Kyle si sta distraendo
osservando le pareti e notando che
appese ci sono diverse cornici con delle foto, alcune evidentemente
vecchie,
altre più recenti. I soggetti sono dei gruppi musicali, dei
ragazzi che
ballano, gente al bar e stripper alle aste.
Kyle sta ascoltando solo
con un orecchio ciò che Anthony sta
dicendo, non vede l’ora che la smetta con quelle storielle
melense e false, per
poterlo smentire e tornare a casa in tempo, per evitarsi la sgridata di
Christian.
Sobbalza, non appena si
accorge che Anthony gli ha afferrato
le mani sul tavolo e il suo volto si trova esattamente di fronte al
suo.
Spalanca gli occhi.
-Non mi importa delle
voci, né di nient’altro mi basta stare
con te, Kyle.
Kyle non sa cosa dire,
veramente. Era qualcosa che non si
sarebbe mai aspettato. Gli sembra di colpo di trovarsi in uno scadente
filmetto
per adolescenti e la cosa lo scombussola, non poco. Anthony lo sta
fissando con
quei suoi grandi occhi nocciola, evidentemente in attesa di una
risposta.
Kyle ritira le mani,
sposta la sedia per alzarsi.
-Scusa, dovrei andare un
attimo in bagno. Ti dispiace?
Anthony annuisce.
Kyle si alza in fretta e
cerca il bagno. Intravede la
scritta “toilette” da qualche parte in alto alla
sua destra, cerca andare in
direzione del cartello, passando sotto al palco dove un altro gruppetto
di
ragazzi sta suonando un brano simile a tutti quelli suonati prima.
Girando la testa per
trovare la porta del bagno degli
uomini, incrocia uno sguardo che non aveva occasione di vedere da tempo
ma che
è ancora in grado di paralizzarlo completamente.
-Kyle!
La persona si alza, si
dirige in fretta verso di lui, che
nel frattempo non si è mosso di un millimetro.
-Che cosa ci fai tu in un
posto come questo?
Chiede, quel
bell’uomo affascinante, dallo sguardo caldo,
dal tono rassicurante. È come l’ancora di salvezza
di Kyle in quel posto
così strano.
-John…
Dice lui, con un fil di
voce.
Jonathan.
Non lo vede
da così tanto tempo, non riesce a ricordarsi quante ipotesi
siano create nel suo
cervello riguardo ad un eventuale incontro con lui e in quel momento,
in quella
situazione particolare, non si ricorda niente.
Il suo profumo, lo stesso
che aveva sentito qualche
settimana prima in casa, lo avvolge come ha sempre fatto. Il suo mezzo
sorriso
lo confonde riguardo ai suoi pensieri. Osservandolo così,
dopo tanto, non
riesce ancora a capacitarsi come quell’uomo titanico dalle
mani grandi e il
bell’aspetto sia riuscito a ferire così tanto
Christian e lui, di conseguenza.
-Di tutti i posti in cui
ti avrei potuto trovare, proprio
qui…
Commenta Jonathan,
probabilmente sorpreso e spaesato quanto
Kyle.
-Sei solo?
È
l’unica cosa che riesce a chiedergli. Avrebbe
probabilmente milioni di domande da porgli ma quella è
l’unica cosa che riesce
a dirgli e probabilmente avrebbe potuto evitarlo.
-Come…? Oh si,
certo.
Kyle guarda in direzione
del tavolino dove era seduto poco
prima, vedendo se Anthony è ancora lì e lui
è là, seduto a fissare un punto non
preciso davanti a sé, aspettando che ritorni.
-Tu sei solo o sei con
qualche amico?
Domanda Jonathan, cercando
di osservare nella stessa
direzione del suo sguardo.
-Io… ho un paio
di amici ma… stavo giusto andando a casa.
Mente. Non dovrebbe, anche
perché Jonathan è in grado di
capire se mente o sta dicendo la verità, certo sempre che in
quei mesi di
assenza abbia perso la sua “abilità”.
D’altro canto, a Kyle non interessa
essere scoperto.
A poco a poco i mille
pensieri riguardanti Jonathan
riemergono, l’idillio dovuto dall’averlo rivisto
dopo mesi è durato poco.
Inizia a ricordarsi per quale motivo abbia deciso di ritardare
così a lungo
quell’incontro.
-E così adesso
hai un nuovo appartamento…
È tutto quello
che sa di lui. Non ha voluto sapere altro.
-Si, da un
po’… quando vorrai venire a farmi visita io, beh,
ci sarò.
Sorride ma a Kyle ora non
fa più alcun effetto.
Inizia chiedersi quale sia
la tortura peggiore tra Anthony e
i suoi vaneggiamenti o Jonathan. Avrebbe solo voglia di mettersi a
correre ed
uscire da quel posto, tornare a casa, chiudersi in camera e dormire
fino al
giorno dopo e se non fosse sufficiente, fino alla fine di
quell’incubo che sta
vivendo.
-È una
novità?
Chiede Jonathan irrompendo
nei pensieri di Kyle.
-Come scusa?
Chiede, confuso.
-Il fatto che tu possa
uscire durante la settimana.
Kyle annuisce.
-Solo per oggi.
Lo sguardo di Kyle ricade
verso il polso destro di Jonathan,
porta un orologio nuovo, un Panarei, una delle sue marche preferite. Si
chiede
quanti ne abbia comprati da quando se n’è andato e
inizia a sembrargli strano
che non sia tornato a riprendersi la sua collezione.
-L’ho comprato
un paio di mesi fa
ma non l’ho mai messo.
Commenta Jonathan,
accorgendosi dell’attenzione di Kyle per
l’orologio.
Con l’altra
mano, velocemente slaccia il cinturino
metallico, lo toglie e lo porge a Kyle.
-Non piace neanche troppo.
Se vuoi te lo regalo.
Kyle lo guarda
paralizzato. In tutti quegli anni di
convivenza non gli ha mai regalato un orologio. Certo, ne ha comprato
qualcuno
anche per lui ma regalargliene uno dei propri, non era mai successo.
È qualcosa
di veramente strano, che Kyle non si spiega.
-Dico sul serio, prendilo
se lo vuoi.
“Non voglio
niente da te.”
È una frase che
per poco non gli sfugge dalle labbra, non la
pensa e nemmeno vorrebbe dirla, è semplicemente il rancore
che ha dentro che fa
a pugni per uscire, gli stringe la gola, gli blocca il respiro. Non
potrà
trattenersi per molto.
-No, ti ringrazio. Non li
porto gli orologi, lo sai.
Jonathan si rimette
l’orologio al polso, senza rispondere.
Forse sperava seriamente che Kyle lo accettasse.
-Fino a che ora puoi stare
fuori?
Chiede, cambiando discorso.
-Le undici.
Jonathan controlla
l’orario.
-Sono già le
undici. Dovresti essere a casa.
Kyle spalanca gli occhi.
È tardi. Christian lo chiamerà di
lì a poco, si beccherà una bella sgridata, ne
è certo. Butta un occhio in
direzione di Anthony, si sta alzando in quel preciso istante e
apparentemente
lo cerca nel locale. Lo sguardo di Kyle passa da Anthony a Jonathan e
viceversa.
-Posso portarti a casa io.
Propone Jonathan.
Kyle non risponde lo guarda soltanto, lo scruta anzi,
quasi volesse
leggergli la mente, per trovare un eventuale secondo fine.
-Lo faccio per te. Ti
lascio in fondo al viale, se vuoi.
Eccolo. Non l’ha
persa quell’abilità, ha decifrato i suoi
pensieri in un battito di ciglia. Almeno quello non è
cambiato in lui.
-Va bene.
Accetta.
In fretta raggiunge
Jonathan alla macchina, sale, si
allaccia la cintura e respira profondamente.
-In fondo alla via o
davanti al cancello?
Domanda Jonathan mettendo
in moto.
-Non lo so. Fai quello che
vuoi.
Dice, quasi sussurrando,
con lo sguardo fisso e la testa
altrove. Vorrebbe girarsi e vedere se ci sono ancora i suoi fogli e i
suoi cd
nelle tasche dei sedili posteriori ma non ha il coraggio di farlo. Ha
paura che
Jonathan in un momento di decisione abbia pensato di buttare via tutto
quanto.
Ha paura che dopo il suo atteggiamento freddo, il suo ignorarlo di
proposito,
Jonathan abbia pensato di liberarsi di quei pochi ricordi che gli erano
rimasti
di lui.
-Ho ancora il tuo cd dei
“Death Cab”, se allunghi il braccio
lo trovi.
Kyle chiude gli occhi e
respira. Ancora una volta gli ha
letto nella mente. Non è un caso, non lo è mai
stato. Constatare che nonostante
i mesi di non frequentazione sia ancora in grado di capirlo lo
spaventa, si
sente quasi messo alle strette. Vorrebbe dirgli di fermarsi, slacciarsi
la
cintura e iniziare a correre lontano.
-A scuola come va?
Cambia argomento. Non sa
se ha intenzione di farlo sentire
più a suo agio, se sta cercando un modo di avere un qualche
contatto con lui o
se ha capito che ha qualcosa che non va. L’ultima ipotesi
è decisamente
assurda, è bravo a capirlo ma non è un veggente,
come potrebbe sapere di ciò
che gli sta accadendo?
-Al solito.
-Anche in matematica?
Chiede. Sta solo cercando
un contatto, ne è praticamente sicuro.
È normale.
-Me la cavo. Mi aiuta
Morgan.
Jonathan sorride, quel suo
solito mezzo sorriso.
-E lei come sta?
-Bene direi.
Risponde Kyle, lapidario.
Anche volendo, non riuscirebbe a
superare le due parole.
-L’altro giorno
ho visto che ha ripreso la pubblicazione di
quel fumetto che leggevi, come si chiama … Death Note?
Kyle annuisce.
-Si, l’ho
comprato.
-E…
com’è andata a finire poi? Sua sorella
l’hanno uccisa?
Incredibile che si ricordi
ancora. Jonathan non ha mai letto
quei fumetti, quello che sa gliel’ha raccontato lui, a tavola
o i macchina. Ha
anche una buona memoria.
-No. Però
è morto suo padre…
Jonathan annuisce, senza
parlare. Guarda la strada e
ascolta. Aspetta a parlare, probabilmente spera sia Kyle ad introdurre
qualche
tipo di discorso. Naturalmente Kyle non parla e in fretta arrivano
all’ingresso
del viale che porta verso casa.
-Bene. Ti lascio qui in
fondo alla via?
Kyle scuote il capo, non
lo guarda.
-Vai avanti.
Jonathan annuisce e
prosegue dritto. Arrivati sotto casa si
ferma.
-Siamo arrivati. Quindi ci
sal-
Kyle si gira di scatto.
-Ci
sono dei giorni
in cui mi manchi sul serio e dei giorni nei quali vorrei che tu te ne
andassi
per sempre.
Jonathan rimane spiazzato,
anche Kyle lo è. Avrebbe voluto
scendere, salutarlo e non pensarci più ma sapeva che qualche
frase sconveniente
gli sarebbe scappata, se l’aspettava.
-Dei giorni in cui vorrei
telefonarti e raccontarti cose che
vorrei sapessi solo tu, altri nei quali vorrei ti dimenticassi di me,
che
smettessi di cercarmi.
Jonathan non risponde
ancora. Non è chiaro se non lo faccia
perché realmente non sa cosa dire oppure se sia quella la
sua risposta, il
silenzio.
-Dei giorni in cui mi
ricordo di quando mi portavi al cinema
o al parco e quanto vorrei tornarci per poi pensare che forse, se non
mi ci
avessi portato, ora starei meglio. E…
Si blocca. Senza
rendersene conto ha le lacrime agli occhi.
-… e dei giorni
nei quali mi rendo conto che…
sia tu sia Christian siete soltanto degli
egoisti.
Si slaccia in fretta la
cintura apre la portiera e scende.
Jonathan non lo ferma, sa che è inutile, aspetta
però a partire, aspetta che
entri.
Non appena Kyle
è entrato, parte e se ne va. Il rumore della
macchina fa scorrere le lacrime di Kyle, il ragazzo si siede sul
pianerottolo
dell’atrio, appoggia la schiena al muro e piange. Non sa che
ore sono, sa solo
di essere in ritardo. Christian lo
starà aspettando in salotto furioso, forse si è
giocato la possibilità di
uscire la sera ma in quel momento non gli interessa.
In quel momento vorrebbe
soltanto chiudere gli occhi,
contare fino a dieci, poi riaprirli per scoprire che tutto quanto
è passato che
l’incubo è finito, proprio come faceva da bambino
con i mostri sotto il letto.
--> Ce l’ho fatta!
Ho aggiornato prima di Natale^^ sono
stata brava? Bene. Voglio ringraziare
jaryshanny e twy per le
recensioni puntuali e naturalmente gradite. È anche grazie
ai vostri due
commenti rapidi e interessati che mi sono data una
“mossa” ho deciso di
combattere (per questa volta ^^”) con la mia pigrizia! Spero
che questo
capitolo piaccia. Pian piano ci avviciniamo alla “fase della
storia” che sto
scrivendo ora e, tral’altro, in settimana sono riuscita ad
andare avanti,
yuppi!! Ok, questo è quanto.
Vi auguro definitivamente Buone Feste
e vi do appuntamento
al capitolo 20! <--
|
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Capitolo 20 *** Who is what (Chi è cosa) ***
20.
Who is what. (Chi è cosa.)
Dopo
essersi asciugato le lacrime per quanto sia possibile
per cercare di mascherare un pianto disperato e farlo passare per un
momento di
debolezza, Kyle si alza dalla scala, respira profondamente e guarda le
due
rampe che ancora deve salire prima di raggiungere
l’appartamento. Potrebbe
semplicemente prendere l’ascensore. Non lo fa
perché gli serve tempo per
calmarsi, per riprendersi da ciò che si sente addosso.
Quello
che ha appena detto a Jonathan lo pensa, glielo
voleva dire. Non si pente di esserci riuscito, semplicemente avrebbe
voluto
avere più coraggio, proseguire il discorso e non fuggire in
quel modo così
infantile, quasi colpevole. Sa di non avere nessuna colpa, lo sa bene. Ha tutto il diritto di
dire la sua, quella
situazione non dovrebbe toccarlo personalmente eppure
c’è dentro fino al collo
e non può fare nulla, non può uscirne.
L’unico modo che ha è allentare quel
nodo che gli stringe la gola, liberandosi di tutte le parole e i
pensieri che
si tiene dentro, che lo spaventano.
Sono
già le undici e dieci. Mentre si appresta a salire
tasta nella tasca posteriore dei jeans, estrae il cellulare, preme un
tasto a
caso e aspetta di veder comparire sullo schermo l’avviso di
qualche chiamata
persa, di qualche messaggio non letto.
Nulla.
Si
sorprende. È strano che Chris non l’abbia cercato.
Solitamente l’avrebbe tempestato di messaggi, di telefonate.
Sarebbe uscito,
anche in pigiama, sarebbe saltato in macchina e l’avrebbe
raggiunto, ovunque si
trovasse. Inizia preoccuparsi. Christian è iper-protettivo,
è apprensivo. Un
secondo di ritardo lo preoccupa.
Kyle
velocizza il passo, raggiunge in fretta le scale,
strofinandosi nel contempo gli occhi per eliminare ogni residuo di
pianto.
Arrivato alla porta d’ingresso si ferma. Riesce a vedere uno
spiraglio di luce
da sotto la porta, quindi è in casa e probabilmente in
salone ad aspettarlo.
Deglutisce,
afferra la maniglia e apre lentamente la porta.
Christian è seduto sul divano, alza il capo non appena lo
vede entrare ma non
dice una parola. Kyle si chiude dolcemente la porta alle spalle, senza
distogliere lo sguardo da Christian. Cerca di decifrare la sua
espressione, di
capire a quale livello possa essere la sua rabbia. È strano,
non ha iniziato ad
urlare, non l’ha assalito, c’è
decisamente qualcosa che non va.
Non
sa se parlare e scusarsi oppure semplicemente salutare e
ritirarsi in camera, prima che cambi idea ed inizi una delle sue solite
ramanzine. In ogni caso non riesce a muoversi, i suoi piedi sono come
incollati
al pavimento, il suo sguardo non riesce a fare a meno di staccarsi da
Christian.
-Sono
in ritardo…
Riesce
a dire, con un filo di voce che parte con un tono
moderato per poi finire in un sussurro.
Christian
si limita ad un cenno col capo. È seduto in una
delle sue posizioni strane, il peso del corpo poggia su una gamba,
piegata sul
divano, mentre l’altra è lasciata a penzoloni.
È nervoso.
Kyle
lo intuisce dal piede a penzoloni che si muove
freneticamente, quasi ricevesse scariche elettriche. Un altro indizio
sono i
suoi occhi spalancati.
-Ora
vai a letto.
Esclama
Christian, con un tono di voce neutro. Non è un
rimprovero, un ordine forse. Kyle non riesce però a intuire
nulla.
Si
accontenta della reazione, in parte felice per aver
scampato la ramanzina ma comunque confuso, terribilmente confuso.
Annuisce,
guarda in direzione della sua stanza e poi si muove. I piedi gli
sembrano due
macigni e fa quasi fatica a sollevarli da terra, li struscia lungo il pavimento. Non appena
raggiunge la porta
della camera, la voce di Christian lo blocca.
-Avrei
solo voluto che me lo dicessi, che andavi da lui.
Kyle
spalanca gli occhi, si gira e osserva Christian. Di chi
sta parlando? Di Jonathan o di Anthony?
Christian
si alza dal divano, gli volta le spalle ed inizia
nevroticamente a sistemare i cuscini del divano sui quali era poggiato.
-Eppure
io non ti ho impedito di andare.
Jonathan,
sta parlando di Jonathan. Kyle tira un sospiro di
sollievo. Aveva
temuto per un attimo
stesse parlando di Anthony anche se gli sembra praticamente impossibile
che ne
sappia qualcosa, chi mai avrebbe potuto dirglielo?
-Chris
io non lo sapevo! Non ero lì per lui, io-
Christian
lo interrompe,smette di sistemare i cuscini e si
mette a braccia conserte ad osservarlo e parlargli. Il suo sguardo
è rigido,
impassibile.
-No.
Niente balle Kyle, sai bene che non le sopporto.
Kyle
scuote il capo.
-Non
è una balla Chris, è la verità! Io non
ero lì per lui,
io l’ho incontrato. Chris devi credermi!
Il
cuore gli batte forte mentre parla. Teme di aver ferito
Christian, di aver in qualche modo aumentato il suo dolore. Non voleva
farlo,
non ha pensato a lui in quel momento. Inizia a ritenere se stesso
colpevole di
egoismo, avrebbe dovuto affrontare i suoi problemi con Anthony e
tornare al
tavolo con lui invece di scappare come un vigliacco da Jonathan.
-Era
il “Nightmare” il locale, vero? Stavo scendendo
nell’atrio
ad aspettarti, sarei
venuto a cercarti
ma poi ho visto la sua macchina.
Kyle
si avvicina a Christian,gli afferra un braccio e lo
stringe, con decisione, lo fissa intensamente negli occhi e inizia a
parlargli.
-Io
non lo volevo vedere, Chris! Non mi interessava capisci?!
Io non ero lì per quello!
I
suoi occhi si preparano a riempirsi di nuovo di lacrime,
per la seconda volta nel giro di pochi minuti. Cerca di trattenersi,
chiude gli
occhi e inspira, cercando di arrestare
il processo.
-Non
mi importa Kyle. Hai il diritto di vederlo,
semplicemente non voglio tu mi menta.
Non voglio che nessuno pensi che ti impedisca di vederlo,
perché io
voglio che tu lo veda.
Le
sue parole sono scandite, il suo tono è freddo, rigido.
Sembra stia recitando, sembra che quelle non siano le sue vere parole.
Kyle
improvvisamente lo abbraccia. Il gesto lo coglie di sorpresa, resta
infatti
rigido, non risponde all’abbraccio, non si muove.
-Scusami,
scusami tanto. Io non voglio ferirti, tu non hai
colpe, nessuna! È tutta colpa mia, è sempre colpa
mia!
Esclama,
con disperazione. Christian scioglie l’abbraccio,
afferra il figlio per le spalle e lo strattona.
-Che
cosa stai dicendo?! Santo Dio Kyle, per cosa ti stai
incolpando, spiegamelo! Perché se è per quello
che penso, inizio a temere che
tu non debba più vivere con me.
Kyle
spalanca gli occhi e scuote il capo.
-No,
no Chris! Non è quello.
Riesce
a sfuggire dalla presa di Christian, fa un lungo e
lento respiro prima di riprendere a parlare, prima di cercare di
spiegarsi.
-C’è
qualcosa. Qualcosa che non ti ho detto . Non c’entra
con Jonathan né con te è una cosa…
mia. È un mio sbaglio, un mio errore. Se non
l’avessi fatto…
avrei evitato
accuratamente Jonathan e…
Christian
scuote il capo, e sovrasta la sua voce.
-Questo
non lo devi dire, non è normale che tu-
Kyle
urla, interrompendolo.
-Ascoltami!
Lasciami parlare!
Christian
appare confuso, spaventato forse. È normale che lo
sia, non sa cosa aspettarsi da Kyle e molto probabilmente quello che
sentirà
tra poco lo sconvolgerà, gli farà sospettare di
non avere nemmeno davanti il
suo stesso figlio, di parlare con un’altra persona. Almeno
questo è quello che
teme Kyle, mentre cerca di trovare la forza di guardarlo negli occhi,
di
staccare lo sguardo dal pavimento ma soprattutto di trovare le parole
giuste.
-Possiamo,
per favore, sederci?
Sta
temporeggiando ma questa tattica gli serve a poco.
***
Jonathan
cerca di non pensare alle parole appena dette da Kyle,
evita di volgere lo sguardo verso il sedile del passeggero, dove vede
ancora la
proiezione di Kyle con uno sguardo impaurito, con un espressione
rancorosa che
non gli ha mai visto in viso e che gli pare tutt’ora una
strana maschera che
non gli appartiene.
Ha
sempre compreso al volo suo figlio, tranne poco prima.
Gli è sembrato quasi di parlare con uno strano manichino
senza volto con le sue
sembianze. Era andato a tastoni eppure il suo Kyle era cambiato.
Com’era
possibile? Erano passati dei mesi, certo. Ma come poteva cambiare? Era
così dal
giorno in cui lui e Christian l’avevano portato a vivere con
loro. Non era
cambiato in tutti quegli anni. Qual’era la colpa di quel
cambiamento repentino?
“È
colpa mia.”
Afferma
a chiare lettere una voce nella testa di Jonathan. È
la sua coscienza, è il suo cervello, non può fare
a meno che imputarla a sé
stesso quella colpa, anche quello. Tutto va a sommarsi nella lista
delle pene
da scontare che si fa sempre più lunga e dolorosa.
Non
vuole andare a casa, non vuole tornare in quel buco buio
e silenzioso, ha bisogno di rumore, di distrazioni. Decide di tornare
al
“Nightmare”, troverà qualcuno con cui
parlare, ballare, berrà, e per un attimo
dimenticherà i suoi pensieri. Come un triste omuncolo di
mezza età troppo
vigliacco per affrontare i propri problemi di petto.
Scrolla
rapidamente la testa e sistema lo specchietto
retrovisore, accelera.
Rripercorre al
contrario la stessa strada di poco prima. Occupa lo stesso parcheggio
ed entra.
Nel frattempo il locale si è riempito. Non se lo aspettava,
è mercoledì, un
giorno a metà settimana. La gente lavora, cosa ci
sarà mai di speciale
mercoledì? Non appena entra nota che buona parte dei
presenti nel locale sono
addossati al palco dove un giovane trio sta suonando una qualche
canzonetta
vagamente orecchiabile.
Il
suo sguardo incrocia quello del cantante. È vestito di
nero, pantaloni di pelle nera, maglietta a rete dello stesso colore.
Magrolino,
asciutto, capelli chiari, occhi azzurri.
Un
flash.
È
Christian. Glielo ricorda terribilmente. Si avvicina al
palco, si fa spazio tra la folla con frenesia, cercando di evitare le
gomitate
e i calci della gente, deve raggiungere quel palco. Una volta raggiunto
l’osserva.
È
un ragazzetto alquanto ordinario. Ha ben poco a che fare
con Christian. Occhi azzurri slavati e per niente luminosi, fisico che
lascia
poco spazio all’immaginazione. Non è niente di
speciale. Carino nel complesso,
ad occhio giovane. Non gli piace, non gli piace per niente.
Forse
semplicemente perché non
è lui.
Si
allontana dal palco e si dirige in direzione del bar. Si
pente di aver solamente pensato di paragonare Christian a quel ragazzo
tanto
ordinario. Christian che è così particolare,
così speciale. Forse è stata
semplicemente l’atmosfera ad averglielo ricordato.
L’ha conosciuto in modo
molto simile. I loro sguardi si erano incrociati ed era stata subito
magia. Ma
Christian non era è non mai stato soltanto bello,
c’era qualcosa di più della mera
seduzione del suo sguardo, c’era uno spirito che voleva
essere liberato, uno
spirito irrequieto e acerbo.
Si
siede su uno sgabello al bar e si ritiene piuttosto
sadico. Quel luogo è una camera delle torture. Poco meno di
un’ora prima ha
incontrato Kyle, un incontro che l’ha sconvolto, che ha
inflitto al suo cuore
l’ennesima pugnalata. Ora si trova a rivivere il suo passato,
a rivedere
Christian ovunque.
Deve
essere decisamente pazzo, sadico e malato se non è
riuscito a trovare un posto migliore per procurarsi delle distrazioni.
Ordina
un Jack Daniel’s, è il secondo della serata e
prevede
non sarà l’ultimo. Nel frattempo la musica ha
smesso di fare da sottofondo e il
palco è vuoto, un vociare generale riempie
l’ambiente.
Appoggia
il bicchiere mezzo vuoto al bancone e osserva il
liquido giallognolo. Sta pensando, non sa bene a cosa. Dopo qualche
minuto di
contemplazione afferra il bicchiere e beve tutto d’un sorso
il contenuto.
Non
è possibile distinguere il coro di voci di sottofondo ma
Jonathan riesce a sentirne una, una voce roca, piuttosto profonda, che
sa
riconoscere perfettamente, nonostante il tempo passato.
-Proprio
un bel fighetto il cantante, un colpaccio eh?!
È
questo che dice. Jonathan si volta e a pochi metri da lui
lo vede; è
Abraham Dickson, il vecchio
proprietario del locale. Non è cambiato di una virgola, il
solito maiale grasso
e stempiato, viscido come sempre. Lo sente ridere mentre parla con
altri due
uomini.
Appoggia
con decisione il bicchiere sul bancone e lo
raggiunge.
L’uomo
lo nota arrivare, allarga le braccia.
-Oh,
gente! Guardate chi si vede! Guardate cos’ha sputato
fuori l’Upper East Side questa sera!
Esclama,
rivolto agli uomini con i quali stava parlando poco
prima.
-Abraham
Dickson. Mi sembrava di aver sentito il tuo
grugnire da porco.
Risponde
Jonathan, non appena lo raggiunge.
-Banale
come sempre, Wallace. Signori, voglio presentarvi
Jonathan Wallace,che mi piace definire “il buon
sammaritano”.
I
due uomini sogghignano. Jonathan fa una smorfia.
-Abbiamo
sempre dei conti da regolare…
Commenta
Jonathan seccato.
Abraham
fa una smorfia e allunga un braccio per indicare il
bancone del bar.
-Perché
prima non ti unisci a me e questi signori per fare
una bevuta? Ogni discussione tra veri uomini si risolve davanti un
bicchiere di
scotch.
Jonathan
si lascia convincere e si siede con i tre al bar.
Dopo una presentazione sommaria scopre il nome dei due signori che,
oltretutto,
sono un deputato parlamentare e un dottore del Colubus Hospital. Due
personaggi
alquanto distinti, a quanto pare.
-Ma
dimmi un po’, Wallace, qual buon vento ti porta qui in
questa tana dopo tutti questi anni? Non hai la tua bella mogliettina a
casa che
ti aspetta?
Jonathan
respira profondamente, ogni parola di quell’uomo lo
urta terribilmente.
-Avevo
voglia di bere qualcosa.
Risponde,
rapidamente.
-Oh,
bene. Giusto per
celebrare questa tua visita, mostrerò anche a te
ciò che stavo per mostrare a
questi due signori.
Abraham
alza mano e schiocca le dita. Dopo qualche secondo,
tra la gente, si fa spazio il ragazzo di poco prima, il cantante che
Jonathan
aveva paragonato a Christian che si avvicina ad Abraham.
È
ancora più magro e fragile, visto da vicino. Terribilmente
giovane, sedici, forse diciassette anni.
-Mi
hai chiamato, Big Boss?
Jonathan
avverte un brivido nell’udire ancora quel nomignolo
dopo molto tempo. “Big Boss”, decisamente un nome
adatto a qualcuno con poca
autostima e chiare manie di grandezza.
-Si.
Fatti un po’ vedere da questi signori.
Le
dita grasse e sudaticce di Abraham percorrono il viso
acerbo e sbarbato del ragazzino, che riesce a malapena a tenere gli
occhi
aperti. È
spaventato, terrorizzato.
-Non
è un bel pezzo di carne?
“pezzo
di carne”. Jonathan si trattiene a stento dalla
voglia di sputare in faccia a quell’uomo.
-Cosa
ne pensi Wallace, tu te ne intendi, non è carino?
Il
ragazzino spalanca gli occhi e fissa Jonathan, quasi in
cerca di aiuto. Jonathan non resiste abbassa lo sguardo, gli sembra di
vivere
uno strano dejà-vu.
Abraham
sogghigna, allontana il ragazzino e ordina altro da
bere per i suoi amici.
-Sai
Wallace, hai ragione. Il pezzo migliore è già
andato,
te lo sei preso tu.
Jonathan
stringe forte il pugno destro, il desiderio di
stendere a terra quell’uomo ignobile è fortissimo,
inizia a chiedersi per quale
motivo non l’abbia ancora fatto. Si meraviglia
dell’autocontrollo che sta
avendo.
-Sapete
signori, quest’uomo mi ha strappato Christian Simmons
il mio
“Iron Crystal”, l’affare migliore
che abbia mai concluso. Quello era un ottimo pezzo di carne, perfetto,
faceva
di tutto. La migliore puttana del mio giro.
Jonathan
si lascia scivolare il bicchiere di scotch dalle
mani che cade a terra frantumandosi.
-Hai
qualche problema, Wallace?
Chiede,
viscidamente, osservando i vetri a terra.
-Stai
zitto.
Esclama
Jonathan a denti stretti, scandendo lettera per
lettera.
-Oh,
ti ho offeso? Non dovresti negare la verità, è
quello
che era no? Una puttana che si vendeva bene.
Jonathan non resiste,
non riesce più a trattenersi, sferra un pugno deciso in
piena faccia di Abraham
che cade dallo sgabello.
I
due uomini si rivolgono sguardi increduli e osservano il
padrone del locale steso a terra con la faccia sanguinante e le gambe
per aria.
Jonathan
osserva la mano con la quale ha appena colpito
l’uomo. Non faceva a pugni con nessuno dal tempo del liceo,
è una sensazione
strana, quasi piacevole.
-Sicurezza!
Urla
da terra Abraham. Jonathan alza una mano.
-No,
non c’è bisogno. Me ne vado con le mie gambe.
***
-Di’
qualcosa Chris, ti prego!
Esorta
Kyle, dopo aver finalmente trovato il coraggio per dire
tutto a quanto a Christian. Non ha tralasciato nessun particolare, gli
ha
raccontato tutto quanto e ha visto la sua espressione mutare da
preoccupata a
incuriosita a sorpresa. Non ha detto nulla, non ha fatto un gesto. Si
è
limitato a spalancare gli occhi e ora lo sta fissando, continua a
fissarlo,
nell’attesa che aggiunga qualcos’altro. Sembra
pensare che il discorso di Kyle
debba proseguire. O forse spera che salti fuori con una trova del tipo
“è uno
scherzo!”. È quello che Kyle riesce ad intuire.
-Non
credo di aver capito Kyle.
Afferma
Christian, scuotendo il capo con disapprovazione. Si
sistema meglio sul divano, si mette più comodo forse,
attendendo sempre
qualcos’altro da parte di Kyle, altre argomentazioni.
-Ma
si, certo che hai capito! Io ho fatto ad Anthony
Edwards-
Lo
ferma. Gliel’ha detto una volta a chiare lettere,
probabilmente non sopporta doverlo sentire un'altra volta. Kyle
arrossisce e
abbassa lo sguardo. Se gliel’avesse fatto ripetere,
sicuramente non sarebbe
arrossito.
-Questo
l’ho capito. Non ho capito il problema. Hai fatto
quello che hai fatto, va bene. Non condivido il modo ma…
insomma, pensi che una
cosa del genere potesse scioccarmi in qualche modo?
Kyle
scuote il capo. Cerca di spiegarsi meglio. Ciò che gli
ha appena raccontato, in fondo, è stata la parte
più facile. Sapeva non si
sarebbe sconvolto per così poco. Cose del genere non
dovrebbero toccarlo
nemmeno.
-Il
punto è che… ora non so nemmeno io cosa voglio e
chi
sono. Non so se l’ho fatto per ribellione,
curiosità o… se mi andava di farlo e
basta.
Christian
sospira, forse ha capito. Almeno lo spera Kyle,
spera che Christian lo capisca e che sappia dirgli qualcosa.
-Beh
ma è normale, sei un adolescente. Lo capirai. Era tutto
qui il problema? Era questo che non volevi dirmi?
Kyle
è sorpreso. Sorpreso dalla reazione positiva di
Christian. Sembra che per lui sia una cosa semplice quasi banale e che
non ci
sia alcun problema. Forse ha ragione lui, forse è normale
nell’adolescenza
comportarsi in quel modo.
-Si…
forse hai ragione tu. Però fatto sta che mi sono
cacciato in bel casino.
-Che
casino?
Chiede
Christian, ancora non capendo la situazione.
-Quel
ragazzo, quell’Anthony, a quanto pare non è
così…
“sereno” riguardo alla cosa. I suoi genitori sono
piuttosto importanti a scuola
e hanno considerato la cosa uno scandalo.
Christian
si alza in piedi dal divano.
-Ti
hanno preso in giro?! Si sono permessi di prenderti in
giro?!
Sembra
arrabbiato, seccato. Kyle cerca di calmarlo.
-No
no, Chris. Al contrario, stanno cercando di insabbiare
la cosa. La scuola mi sta facendo avere degli incontri con uno
psichiatra…
Christian
spalanca gli occhi.
-Uno
psichiatra? Perché hai fatto un… una cosa ad un
ragazzino? Ma che razza di criteri sono questi?!
Alla
fine la reazione esagerata di Christian è emersa, non
però nel punto nel quale si sarebbe aspettato Kyle, che
prosegue con il suo
discorso. Ha raccontato quasi tutto a Christian, si senti libero
finalmente,
sente che il peso che l’opprimeva finalmente se
n’è andato. È sicuro di
riuscire all’ultima seduta dallo psicologo di chiarire tutto
quanto. Presto
finirà tutto, potrà finire i suoi ultimi giorni a
scuola in modo sereno.
-Tranquillo,
non è niente di invasivo o strano. Lo psichiatra
è un uomo dai buoni modi, un po’ come… lui.
La
rabbia di Christian si spegne improvvisamente, quasi
qualcuno avesse premuto un interruttore. I suoi occhi spalancati si
socchiudono, tutto il suo corpo irrigidito pian piano si rilassa.
-Si
me lo… me lo ricorda molto. Deve avere giusto qualche
anno in più, si chiama Gregor, se non sbaglio.
Christian
sobbalza, velocemente riassume la posa di poco
prima,la sua bocca rimane semi-aperta i suoi occhi sono spalancati.
È Kyle,
questa volta non spiegarsi questa reazione.
-Cosa
c’è?!
Christian
afferra il figlio per le spalle e lo strattona,
con forza.
-Mi
fai male!
-Lo
psichiatra Kyle… il nome è Gregor Andrew
Northshare?
Kyle
annuisce, continuando a lamentarsi per la presa troppo
decisa del padre e cercando di liberarsi. Christian lo lascia andare.
-Quello
schifoso figlio di puttana.
Kyle
è sorpreso. Non sente spesso Christian imprecare in
quel modo o riferirsi alla gente con quel tipo di nomignolo. Deve
conoscerlo
per forza quell’uomo. Non se l’aspettava.
-Lo
conosci?
Christian
fa una smorfia. È visibilmente innervosito.
-Se
lo conosco? Direi
proprio di si.
Si
morde il labbro. Passa qualche istante prima che riprenda
a parlare, Kyle rimane in attesa, lo fissa. Sa che tra poco
dirà qualcos’altro.
-Quell’uomo…
puoi chiamarlo…
nonno.
Kyle
spalanca gli occhi. Non è sicuro di aver capito, non ha
capito, non può avere detto veramente quello.
-Che…
che cosa…?
Christian
annuisce.
-Già,
nonno.
--> Le vacanze sono finite ed
eccomi qui a postare un
nuovo capitolo della mia storia. È uno dei miei preferiti,
specialmente lo
scontro tra Jonathan e Abraham Dickson. Tral’altro
è anche un capitolo
rivelatorio^^ e dà un indizio sulla figura di
Gregor… Spero
piaccia anche a voi.
Ora passo a ringraziare
jaryshanny e twy per i
commenti.
Saluto e do appuntamento al prossimo
capitolo! <--
|
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Capitolo 21 *** Living the pain (Vivere il dolore) ***
21.
Living the pain (Vivere il dolore)
Non
credeva alle sue orecchie e non può pensare che veramente
quell’uomo sia riuscito ad intrufolarsi di nuovo nella sua
vita. Ha fatto fatica ad allontanarlo da sé, da Jonathan.
Ora probabilmente il suo intento è quello di avvicinarsi a
Kyle. Cammina avanti e indietro per la stanza, incredulo e nervoso. Ha
decisamente perso la pazienza. Avrebbe voglia di infilarsi un paio di
scarpe e andare sotto casa di quell’uomo. Si ricorda ancora
dove abita, gliene direbbe quattro, non gliela lascerebbe passare
liscia, nemmeno questa volta.
Si
mette a sedere sul divano, sta camminando avanti e indietro lungo lo
stesso pezzo di pavimento da mezz’ora, ha paura di
consumarlo. Ha mandato Kyle a letto. Sa che l’indomani o poco
più tardi dovrà spiegargli il ruolo di
quell’uomo che gli ha tenuto nascosto fino a quel momento e
che tanto avrebbe voluto rimanesse tale. Inizia a pensare a cosa possa
avergli ficcato in testa, cosa possa avergli detto. Spera sinceramente
che sia ancora presto, spera non sia riuscito a completare su di lui lo
stesso lavaggio del cervello che aveva fatto a Jonathan.
Già,
Jonathan.
Inizia
pensare che molto probabilmente ha iniziato a vederlo di nuovo, a
frequentare ancora assiduamente il suo studio. Gli vengono i brividi
solo al pensiero di ciò che possa avergli detto. Sa che
Gregor ha un fascino particolare, una strana charme. Sa che
è in grado di incantare la gente e di sedurla. Quando ha
conosciuto Jonathan era in sua balìa, eppure aveva vinto
lui, quella volta. Jonathan
aveva preferito lui a Gregor e non aveva più avvertito il
bisogno di averlo nella propria vita, non l’avevano
presentato nemmeno a Kyle. Questa decisione era stata presa da entrambi
e dopo ciò Christian aveva sinceramente sperato che Gregor
avesse perso su di Jonathan ogni minimo potere.
Per Christian Gregor è semplicemente uno sciacallo ed
infatti è apparso a mangiare i resti del loro rapporto
frantumato nel tentativo di reimpossessarsidi Jonathan, tentando il
colpo anche con Kyle.
Sa
che faticherà a prendere sonno quella notte, non ci riesce
normalmente ed è pressoché certo che di
non riuscire a chiudere occhio dopo quanto saputo. Decide di
andare a fare una doccia per cercare di calmarsi quantomeno il
necessario per evitare di urlare e di impazzire completamente.
Raggiunge il bagno e si siede sul bordo della vasca. Reputa che sia
meglio un bel bagno, con acqua tiepida. Apre i due rubinetti miscelando
opportunamente l’acqua, chiude il tappo e attende che la
vasca si riempia. Respira profondamente, ad occhi chiusi e comincia a
pensare, a ripensare di nuovo. Allunga un braccio per afferrare il
flacone di bagnoschiuma e versarlo nella vasca. Si blocca.
“Jonathan
lo saprà?”
Si
chiede. Per un attimo la tentazione di chiudere il rubinetto, alzarsi e
telefonargli è forte, fortissima. Salvo poi ritrovarsi a
pensare che non saprebbe come spiegarsi, non saprebbe affrontare la
conversazione a sangue freddo. Finirebbe per urlagli contro e,
inevitabilmente, tornerebbero a parlare di loro, del loro rapporto.
Litigherebbero.
Basta
litigare, basta macchinare.
Vuole
solo rilassarsi e passare qualche ora in un posto diverso, dove tutto
questo non lo tocchi, dove possa aver modo di fare qualcosa di
differente. Quando la vasca è piena fino a metà
chiude il rubinetto. Si sveste rapidamente gettando tutto quanto sul
pavimento e si lascia scivolare lungo le pareti della vasca. Respira il
profumo del bagnoschiuma alla lavanda che poco a poco entra a contatto
con la sua pelle. Da tanto tempo che non si concedeva un bagno caldo ed
è sicuro di non essere mai entrato in quella vasca da solo.
Non gli è mai piaciuto fare il bagno da solo, quella vasca
è così grande per una persona sola,
così piena e profonda da affogarci.
Pensa
che non è poi così male, dopotutto. Il piacere di
un bagno caldo è lo stesso, anche se lo si fa soli. Inizia a
ricordare la prima volta che lui e Jonathan hanno condiviso una vasca
insieme, era quella del bagno di casa sua, a Santa Monica. Era
così piccola quella vasca a differenza
dell’attuale e così stretta. Eppure nessuno dei
due s’era lamentato.
Santa
Monica.
-Andremo
a Santa Monica!
Esclama
improvvisamente, quasi si stesse rivolgendo a qualcuno. È
tanto che non torna a casa dai suoi genitori, un paio di estati forse.
Pensa sia giusto che Kyle veda i nonni e pensa anche che in quel posto
potrebbe rilassarsi e distrarsi.
Si,
è deciso, c’andrà.
L’indomani mattina
lo comunicherà a Kyle. Per il momento chiude gli occhi e si
gode il suo bagno.
***
Non
riesce a credere a quello che ha appena fatto. Continua a guardarsi la
mano, le nocche ancora umide e con qualche goccia di sangue. Pensava di
averlo passato da tempo il periodo delle botte, delle risse. Ha sempre
desiderato farla pagare a quell’uomo, a quel verme. Sorride
quasi. È soddisfatto, per la prima volta dopo mesi
è soddisfatto di una sua azione, di qualcosa che ha fatto.
È riuscito a seguire l’istinto ed è
piacevole, terribilmente piacevole.
Prende
un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e si asciuga la mano, afferra
le chiavi dell’auto e si prepara a tornare a casa. Sale in
macchina, si allaccia la cintura e accende l’autoradio
regolando il volume al massimo. Prova una sensazione euforica. Canta a
squarciagola una serie di canzoni degli Eagles passate a rotazione
nello speciale radiofonico dedicato al gruppo. Arrivato a casa
fischietta e canticchia la canzone “Hotel
California”, la sua preferita degli Eagles.
-We’re
all just like prisoners here.. of our own devices…
na na na…
Apre
il portone. Sta sorridendo, un sorriso spontaneo, sincero.
-Chissà
cosa penserà Chris di questo quando…
-
Si
blocca.
Il
sorriso si smorza. Quella breve ondata di euforia è
sfuggita, se n’è andata per sempre. Si rende conto
di aver ottenuto una mezza vittoria, perché non
potrà condividerla con l’unica persona che avrebbe
potuto goderla al suo stesso modo. Lancia furiosamente la giacca sul
divano. Si era illuso per un secondo di poter essere felice, di poter
toccare la felicità almeno con la punta delle dita. Gli
è mancato poco, anzi, gli è mancato qualcosa. In
fondo, la stessa cosa di sempre: Christian. Il suo cosmo gira e ovunque
si muova va sempre a toccare lui.
Si
lascia abbandonare sul divano, appoggia la testa alla spalliera,
socchiude gli occhi e inspira. Gli
tornano in mente le parole avide e crudeli che quell’uomo ha
detto quella sera, una dopo l’altra. L’ha chiamato
buon sammaritano.
“Niente
di più falso.”
Pensa,
mentre afferra dalla giacca accanto a sé un pacchetto di
sigarette ancora nuovo. È riuscito a non toccarle durante la
serata ma sapeva che non avrebbe resistito a lungo. Estrae con le
labbra una sigaretta mentre con una mano cerca l’accendino
nella tasca dei pantaloni. Prende una boccata lunga e lascia che il
fumo gli percorra la gola e i polmoni, chiude gli occhi.
Non
si ritiene un buon sammaritano, per niente. Quando era bambino aveva un
uccellino in gabbia, un bel carino giallo dalle piume soffici. Una
mattina, stanco di vederlo chiuso in quella gabbia, aveva deciso di
concedergli la libertà. L’aveva strappato dalla
sua gabbietta e l’aveva stretto tra le sue mani. Si era poi
avvicinato alla finestra più vicina e gli aveva dato una
spinta verso l’altro, aspettandosi di vederlo librare da un
momento all’altro accanto a sé. Naturalmente
l’uccellino era caduto a terra ed era morto.
Come
avrebbe potuto volare da solo? Non gli era mai stato insegnato, era
stato sempre rinchiuso in quella gabbia senza avere alcuna nozione del
mondo. Ripensa a quell’episodio della sua infanzia e si rende
conto di non averla capita la lezione quella volta, perché
ha fatto lo stesso con Christian. Era arrivato un sabato sera, aveva
puntato gli occhi su di lui e aveva subito deciso che
l’avrebbe portato fuori da quel buco, da quella gabbia di
vermi e di
pervertiti. Era così bello, così giovane, aveva
solo diciannove anni e, nonostante l’audacia che mostrava,
restava sempre indifeso e fragile. Alla fine c’era riuscito,
l’aveva liberato e lo stringeva forte a sé, il suo
prezioso tesoro. Poi
un giorno aveva deciso di lasciarlo andare dalle sue braccia, credendo
che non gli importasse più e che comunque fosse in grado di
andarsene. Eppure, proprio come l’uccellino, Christian era
caduto. Non era capace di cavarsela da solo, di affrontare la
situazione. L’aveva strappato da quel buco così
giovane e aveva trascorso diversi anni insieme a lui, non sapeva come
affrontare le cose per conto proprio, non aveva fatto mai nulla, da
solo. Nasconde il viso tra le mani e scuote il capo con disapprovazione.
-Non
la imparerò mai questa lezione…
***
Christian
non ha voluto che andasse a scuola quel giorno. Non l’ha
svegliato, ha lasciato che dormisse quanto ne aveva voglia ma non si
spiega il perché. È giovedì, un
normale giorno di scuola e non gli era mai stato permesso di saltare la
scuola senza un valido motivo. Per Christian la scuola è
importante e la frequenza è necessaria. Inizia ad intuire
che tutto possa essere collegato a quanto successo la sera prima. Esce
dalla sua stanza e lo trova seduto in sala da pranzo a versare dei
cereali in una tazza di latte. È ancora in pigiama, quindi
probabilmente anche lui non si è svegliato da molto. Kyle si
stropiccia gli occhi, si stiracchia e poi lo raggiunge.
-Buongiorno.
Esclama,
trattenendo un sbadiglio.
-Buongiorno!
Risponde
Christian, stranamente sorridente.
-Stavo
per chiamarti, ti ho preparato la colazione. Mangia e vestiti in
fretta, abbiamo diverse commissioni da sbrigare oggi.
Kyle
si siede al suo posto e afferra il cucchiaio, guardando Christian con
sguardo enigmatico.
-Commissioni?
Chiede. Non
comprende la situazione, gli pare quasi di vivere una realtà
alternativa.
-Sì,
è quello che ho detto. Devo andare al lavoro tra poco ma
tornerò presto. Voglio che tu ti faccia trovare pronto.
Kyle
aggrotta la fronte, non ci sta decisamente capendo nulla. Christian
è terribilmente strano, sta di sicuro macchinando qualcosa
di cui lui e all’oscuro.
-Scusa
Chris, cosa dovremmo fare?
Christian
sorride di nuovo, un sorriso inquietante, artificiale.
-Nel
primo pomeriggio partiamo per Santa Monica.
Kyle
lascia cadere il cucchiaio sul tavolo e si alza di scatto. Non riesce a
credere alle sue orecchie, pensa quasi lo stia prendendo in giro.
-Che
cosa? Santa Monica? Stai scherzando? Ho scuola domani!
Christian
annuisce.
-Lo
so bene.
***
Christian
è in ritardo. Strano, specialmente se ripensa a quell'ultimo
periodo. Ha sempre mantenuto una certa puntualità, arrivando
con quasi un’ora di anticipo. Un quarto d’ora di
ritardo non è da lui.
Ronald è appoggiato allo stipite della porta
dell’aula. Non sa esattamente motivare il suo desiderio di
vederlo, sa solo che la sua prossima ora di lezione inizierà
a breve e che il caffè contenuto nella tazza che regge con
la mano destra è ormai freddo. Era bollente quando
l’ha preparato, la tazza scottava al punto da essergli quasi
scivolata di mano. Ora è alla finestra, in piedi ad
osservare la versione estiva del pittoresco giardino universitario.
Realizza che è la prima volta in dieci anni che prepara un
caffè per Christian, per qualcuno in generale. Non
l’ha nemmeno studiato quel gesto, si è
semplicemente trovato a dosare due filtri di caffè
differenti, uno più carico per sé e uno
più diluito per Christian. A tazza riempita ha aggiunto al
caffè destinato all’amico ben due cucchiai di
zucchero. Non ama particolarmente le cose dolci Christian, tuttavia
detesta quelle amare. Ronald lo sa, è qualcosa che lui
stesso gli ha confessato parecchi anni prima, notando la sua
espressione di disgusto nell’osservare le ricche
quantità di zuccherò che aggiungeva al
caffè.
Si
sposta dalla finestra e raggiunge la porta d’ingresso, si
sporge leggermente per cercare di scorgere l’immagine di
Christian. Comunque lui non sta arrivando e il corridoio nel frattempo
si sta svuotando, dovrebbe affrettarsi anche Ronald, se ci tiene alla
puntualità. Invece di pensare al suo lavoro si chiede se sia
meglio gettare via il caffè ormai imbevibile e
preparargliene dell’altro oppure propinargli quello,
facendogli notare l'importante ritardo. Si ritiene piuttosto infantile,
nell’anteporre tali frivolezze al suo stesso lavoro che, di
norma, svolge impeccabilmente. Scuote il capo e raggiunge la zona
cucina, versa la brodaglia fredda nel lavandino dove poi ripone la
tazza vuota.
Mentre
è con le spalle rivolte verso la porta sente una presenza
avvicinarsi a passo sostenuto, è sicuro sia Christian. Si
gira e lo vede entrare: è di fretta. Non l’ha
guardato, sta cercando qualcosa a quanto pare. Ronald si avvicina a lui.
-In
ritardo Simmons, non ci siamo.
Esclama
in tono quasi rimprovero. Christian si volta di scatto, ha sicuramente
pensato si trattasse di qualcun altro.
-Ron,
senti, hai per caso visto dei fogli grigi e gialli scritti a penna?
Si
comporta in modo frettoloso, non l’ha salutato e gli volta di
nuovo le spalle, essendo impegnato per aprire tutti gli armadietti
della stanza.
-Non
ho idea di che parli. Comunque Chris, non per fare il rompipalle ma la
tua classe ti attende con impazienza da più di venti minuti.
Christian
non risponde, si limita ad un disinteressato
“uh-oh”.
Ronald
scuote il capo. La mente di Christian non è di facile
comprensione e in momento pare essere particolarmente complessa. Dopo
qualche minuto di contemplazione nota che il suo abbigliamento
è curioso e a dirla tutta e nemmeno consono a un professore
universitario. Indossa una camicia a maniche corte rossa di cotone
leggero sbottonata sotto il collo, un paio di bermuda di colore beige
di un tessuto impermeabile e ai piedi porta dei sandali semi-chiusi.
Sembra più un abbigliamento da spiaggia. Qualcosa di
comunque ridicolo, che spiaggia ci potrà mai essere nel
centro di New York?
-Vestito
così mi aspetto che tiri fuori da un momento
all’altro un pallone da spiaggia e una bottiglia di tequila.
La seconda la gradirei particolarmente.
Commenta
Ronald sarcastico, cercando di suscitare una qualche reazione
nell’amico. Anche una smorfia gli andrebbe bene, una di
quelle con le linguacce che gli riserva spesso. Christian comunque non
risponde, continua a frugare alla ricerca di quei fantomatici fogli.
-Seriamente,
a cosa dobbiamo l’abbigliamento?
Chiede,
con tono di voce meno scherzoso. Christian si gira e finalmente gli
risponde.
-Me
ne vado a Santa Monica e senza quei fogli, temo.
Santa
Monica.
Ronald
rimane con un’espressione perplessa per quasi due minuti
prima di trovare il collegamento. Si ricorda poi che Christian
è californiano, probabilmente di Santa Monica.
-Partirò
tra poco e ho chiesto a quell’assistente… Doug, di
tenere le mie lezioni oggi e domani. Tral’altro è
carino, magari è il tuo tipo.
Commenta
Christian, sorridente. Ora Ronald ha una spiegazione
all’abbigliamento casual ma gli rimane comunque oscuro il
motivo della partenza. Lo secca, il fatto Christian non gli abbia detto
nulla del suo viaggio. Pensa che
forse si tratta di una cosa decisa all’ultimo minuto. Non
sarebbe da Christian, perché lui è solito
programmare ogni minimo particolare al dettaglio e possibilmente con
parecchio anticipo. Eppure pare essere di fretta, a suggerirlo sono la
frenetica ricerca dei fogli persi e i suoi capelli, spettinati e
sistemati in qualche maniera.
-E…
come sarebbe questo Doug?
Chiede,
sviando il discorso e sperando che sia Christian a fornirgli dettagli
sul viaggio.
-Giovane
e molto determinato, mi ricorda me qualche anno fa.
Ronald
sorride.
-È
biondo?
Christian
scuote il capo.
-Castano.
-Occhi?
Ci
pensa prima di rispondere, probabilmente non li ha guardati bene.
-Uhm…
marrone scuro.
-Culo?
Christian
ride divertito.
-Oh,
quello lo lascio a te!
Niente
da fare, se vuole sapere qualcosa sul viaggio deve chiedere
esplicitamente. Non vuole risultare invadente o eccessivamente curioso.
Certo, la curiosità è tanta.
-E…
i tipi di Santa Monica come sono?
Christian
allarga le braccia e fa un giro su se stesso.
-Ne
hai uno davanti!
Ronald
sorride.
-Uhm…
dovrei fare un salto laggiù! C’è posto
anche per me?
Chiede,
azzardando.
-Magari
al prossimo giro. Questa è una cosa tra me e Kyle. Voglio
che riveda i nonni e sia mai che trovi un po’ di pace!
È
malinconico Christian nel pronunciare l’ultima parte della
sua frase. Non è stato chiaro riguardo
all’organizzazione del viaggio ma, dato il modo in cui ne ha
appena parlato, ha tutti i presupposti per essere una decisione da
ultimo minuto, una fuga improvvisata. Certo è che dopo
quello che ha passato se lo merita un po’ di riposo.
-Buon
viaggio, allora. Scrivimi una cartolina! Le venderanno ancora quelle
con i bei tipi californiani pompati e sexy?
Chiede,
cercando di sdrammatizzare e di rientrare nella sua parte. Christian
ride, di nuovo.
-Giuro
che guardo! A lunedì, Ron.
Ronald
aspetta che Christian esca poi raccoglie le sue cose e corre verso
l’aula di lezione, è in ritardo.
***
-Eccomi!
Hai fatto quello che ti ho chiesto via messaggio?
Chiede
Christian rincasando e vedendo Kyle trascinare fuori dalla sua stanza
una valigia di piccole dimensioni.
-Sì,
Chris. Sappi però che continuo a ritenere questa tua
decisione una follia!
Esclama
il ragazzo seccato, spingendo la valigia contro il divano.
-Sì,
sì, me l’hai già fatto notare questo.
Senti, poi avrei altro da chiederti.
Dice,
guardandosi attorno per cercare di fare il punto della situazione. Kyle
ha preparato la propria valigia e quella degli indumenti da spiaggia.
Ora non gli resta che preparare la sua e staccare tutte le prese di
corrente.
-Sarebbe?
Chiede
Kyle, innervosito. Si getta in modo scomposto sul bracciolo del divano,
con espressione svogliata. Kyle è un bravo ragazzo,
ubbidiente e rispettoso. Tuttavia quando gli si chiede di fare qualcosa
che non sia di suo gradimento diventa insopportabile.
-Ti
accompagnerò da Jonathan per-
Lo
interrompe. Si alza di scatto e scuote il capo con decisione.
-No.
No, no, NO! Anche questo ora?
Christian
capisce la sua opposizione, sa comunque che quello non è il
comportamento giusto da tenere e il suo ruolo di genitore è
proprio quello di insegnargli la correttezza anche se, nella maggior
parte dei casi, a prevalere è il buonsenso.
-Finché
sei minorenne deve conoscere ogni tuo spostamento. Ti
lascerò sotto casa sua, sai dove abita, no? Ti
verrò a prendere in un’ora.
Kyle
spalanca gli occhi, probabilmente quest’ultimo accordo gli
aggrada ancora meno del viaggio a Santa Monica.
-Quale
sarà la prossima richiesta? Fare il bagno tra li squali a
Santa Monica?
Christian
porta gli occhi al cielo, Kyle sa davvero essere drastico ed esagerato
quando ci si mette d’impegno.
In
circa mezz’ora Christian e Kyle raggiungono
l’appartamento di Jonathan.
-Se
non è cambiato niente il giovedì mattina non
lavora. Commenta Christian inserendo il freno a mano.
-Sì…
Un’ora Chris, hai promesso!
Christian
annuisce e sblocca le portiere. Kyle si toglie la cintura di sicurezza
e fa un respiro profondo prima di aprire la portiera.
-Ah!
Ancora una cosa!
Esclama
Christian, premendo di nuovo il bottone
della chiusura centralizzata.
-A
lui non devi fare una parola di Gregor, nemmeno il più
lontano accenno. Capito?
Kyle
sperava proprio di utilizzare il tempo con Jonathan per ottenere
informazioni su quello che gli era stato etichettato come
“nonno”. Si ricorda un paio di epiteti poco gentili
che ha utilizzato Christian per lui, indizio che l’ha portato
a pensare che tra loro non corresse buon sangue.
-E
perché no?
Chiede,
seccato.
-Perché
lo dico io. Risponderò io ad ogni tua domanda sul suo conto.
Kyle
annuisce e pensa di porgliene subito una.
-Bene.
Per nonno, intendi padre di John?
Christian
scuote il capo.
-A
tempo debito, Kyle. Ora scendi, dobbiamo restare nei tempi.
Non
appena Kyle scende dall’auto, Christian sfreccia a tutto
velocità. Temeva forse in un accidentale incontro con
Jonathan. Da codardo certo, eppure sensato, Kyle avrebbe fatto
altrettanto a ruoli invertiti. Osserva il citofono davanti a
sé e la situazione gli pare uno strano dejà-vu.
Non ha avuto il coraggio di suonare l’ultima volta che si
trovava lì ma ora deve farlo. Respira a fondo e suona.
L’etichetta sopra il bottone è ancora senza nome,
è il suo per forza. Allunga il dito e pigia con decisione il
bottoncino dorato, stessa decisione con la quale ritira la mano, quasi
avesse preso una scossa ad alto voltaggio di corrente.
Non
risponde nessuno.
Kyle
pensa che forse gli orari di Jonathan sono cambiati, inizia a sperarlo.
È pronto a prendere il cellulare dalla tasca e chiamare
Christian per chiedergli di tornare a prenderlo.
-Sì?!
Speranza
infranta. Una voce metallica ma riconoscibile risponde, è
proprio quella di Jonathan.
-Sono-Kyle.
Risponde
frettoloso il ragazzo, facendo sembrare le due parole una soltanto.
-Kyle,
ti apro! Anzi, scendo.
Il
tono di voce di Jonathan sembra sorpreso, di certo non si aspettava una
sua visita, soprattutto dopo l’incontro della sera prima. In
meno di cinque minuti Jonathan è davanti a Kyle. Non deve
essersi alzato da molto. Indossa un paio di jeans lunghi e una
canottiera nera a coste, un paio di infradito dello stesso colore e i
suoi capelli sono spettinati, ogni ciuffo di capelli ha una propria
direzione.
-Non
ti aspettavo.
Afferma,
appoggiandosi allo stipite della porta d’ingresso dello
stabile.
-Non
pensavo di venire. Avrei dovuto chiamare, scusa.
Jonathan
scuote il capo e si sistema rapidamente i capelli con le mani.
-Ma
figurati. Saliamo!
Si
sposta dalla porta permettendo a Kyle di entrare. L’atrio
è molto elegante, ordinato e di buon gusto, non
c’era da aspettarsi di meno da Jonathan.
-Dobbiamo
prendere le scale. L’ascensore è guasto.
Kyle
segue Jonathan lungo la rampa delle scale, in silenzio.
-Come
sapevi dove si trova l’appartamento?
Chiede
Jonathan, senza voltarsi, continuando a salire i gradini davanti a
sé.
Kyle
si blocca. Non è preparato per quella domanda, resta in
silenzio, un silenzio che fa voltare Jonathan.
-Beh…?
Kyle
abbassa lo sguardo.
-Ti
ho seguito, una volta.
Jonathan
annuisce e capisce di averlo messo in imbarazzo, poiché si
volta di nuovo e cambia discorso.
-Hai
già fatto colazione?
Chiede,
forse a corto d’argomenti.
-Sì,
è quasi mezzogiorno.
Risponde
lui, con ovvietà.
L’appartamento
di Jonathan è piuttosto strano e disordinato, a detta di
Kyle. Ci sono molti scatoloni aperti e straripanti appoggiati sul
pavimento, alcuni completi eleganti ancora appesi alle grucce di ferro
della lavanderia a secco e appoggiati in qualche maniera sulla
spalliera di quello che si suppone sia un divano. I muri hanno
l’aria di necessitare una riverniciata e il parquet, per
quanto sia di buon gusto e raffinato, è opaco. Questo luogo
è lontano anni luce da quanto immaginato da Kyle. Ha i
tratti di una sistemazione provvisoria, eppure è abitato da
tempo. Non sembra sporco ma è un caos completo.
-Non
è molto accogliente ma ti assicuro che è pulito.
Esclama
Jonathan, che probabilmente si è accorto
dell’espressione sorpreso-delusa del figlio. Kyle non sa come
ribattere, medita di rimanere in silenzio ma non ci riesce.
-Se
lo vedesse Christian questo posto!
Esclama
trovando poi, a frase pronunciata, pessima l’idea di
nominarlo così spontaneamente e con tanta naturalezza.
Jonathan
comunque sorride, annuisce e ribatte.
-Dio,
no! Se Christian entrasse qui dentro impazzirebbe!
Forse
è il momento giusto per parlargli del motivo della sua
visita, ora che anche l’argomento più scomodo
è stato toccato tranquillamente. Tuttavia non lo fa, non gli
pare cortese. È appena arrivato e comunque
passerà un’ora prima del ritorno di Christian,
anzi, quarantacinque minuti.
-Senti,
per quanto riguarda ieri sera…
Jonathan
lo blocca.
-No,
non importa. Non parliamone, non ce n’è bisogno.
Piuttosto: come hai trovato quel locale, ti è piaciuto?
Mentre
aspetta la risposta si siede sul divano, spostando i vestiti poggiati
su esso e invitandolo a sedersi accanto a lui.
-Sì,
carino, particolare.
Risponde,
sedendosi. Il divano è piuttosto comodo.
Dev’essere costoso e ha una forma elegante che gli
permetterebbe di fare una bella figura sgombro e situato in una stanza
ben ordinata, naturalmente.
-Uh-uh…
Non ti offendere piccolo ma sembravi un po’ fuori luogo
là dentro!
Esclama,
sorridendo. Il suo sorriso è particolare: non è
bello e luminoso come quello di Christian ma possiede un certo fascino,
dovuto forse alla forma quadrata e lineare della dentatura di Jonathan,
il quale ha sempre tenuto parecchio ai propri denti e, a quanto pare, questo
particolare non è cambiato.
-…
come me del resto. Non
era un posto per me quindici anni o poco più fa,
adesso che di anni ne ho quaranta quasi, sfioro il ridicolo entrandoci.
Kyle
inarca le sopracciglia e contrae il viso in un’espressione
sorpresa.
-Ci
eri già stato?
Chiede,
sicuro in quel modo di ottenere una risposta.
-Sì,
si chiamava Vampiria a quei tempi. Nome simpatico, eh?
Risponde
Jonathan sorridendo e lasciandosi scivolare lungo lo schienale del
divano.
-Ho
conosciuto Christian lì.
Prosegue.
Kyle avverte una nota di malinconia nelle parole del padre, data forse
dai ricordi piacevoli in contrasto con la situazione attuale.
-Lui
non ce lo vedrei affatto là dentro!
Esclama
Kyle, trovando Christian il tipo meno indicato per frequentare quel
locale. Non ha mai saputo molto sull’incontro dei suoi
genitori o sulla loro storia d’amore, non gliene hanno mai
parlato e lui non ha nemmeno pensato di chiedere. Sa che stanno, stavano,
insieme da quindici anni e che vive con loro da dieci.
-Non
ce lo vedresti eh?
Jonathan
allunga il braccio destro dietro di lui per afferrare una giacca
vistosamente stropicciata.
-No,
affatto.
Risponde.
Jonathan continua a frugare nelle tasche della giacca, le due esterne e
poi quella interna finché estrae un pacchetto di sigarette
spiegazzato mezzo vuoto e un accendino comune di plastica nero e bianco.
-Cantava
invece. E ballava, in qualche modo.
Afferma,
infilandosi una sigaretta in bocca e accendendola. Kyle spalanca gli
occhi. D’accordo, non sapeva praticamente nulla sul passato
dei suoi genitori eppure l’idea di Christian su un palco a
cantare e ballare gli pare assurda. Lo conosce da dieci anni ed
è sempre stato un tipo tranquillo, pacato. Non esclude che
in gioventù avesse frequentato qualche pub o discoteca ma
cantare in un locale punk-alternativo o chicchessia è fuori
da ogni immaginazione.
-Stiamo
parlando della stessa persona?
Chiede.
Jonathan annuisce. Si alza dal divano e raggiunge il tavolo della sala
da pranzo, su di esso afferra un posacenere di coccio grigio e, dopo
avervi gettato un po’ di cenere, torna a sedere sul divano
accanto a Kyle, appoggiando sul bracciolo dalla propria parte il
posacenere.
-Oh!
Piccolo scusami, mi sono messo a fumare senza chiederti se ti
dà fastidio. La spengo subito.
Piccolo.
Ha
utilizzato ben due volte lo stesso vezzeggiativo per riferirsi a lui. Era
solito rivolgersi a lui con quel nomignolo, lo guardava teneramente con
suoi caldi occhi verde scuro e lo chiamava così, sempre.
Solo lui utilizzava quell’appellativo e solo lui poteva
farlo. Kyle non l’avrebbe permesso a nessun altro. Jonathan
spegne rapidamente la sigaretta nel posacenere e poi si sfrega le mani,
quasi volesse scacciare l’odore acre del tabacco. Qualcosa di
impossibile, quell’odore fastidioso gli è rimasto
impregnato nella pelle. Kyle ne deduce che la sua dose di fumo
giornaliera sia aumentata. Anche a casa, sul balcone o appoggiato al
davanzale della finestra in sala da pranzo, gli capitava di vedergli
una sigaretta tra le mani eppure si era sempre trattato di un vizio,
una sottospecie di abitudine, non certo una dipendenza.
Kyle
inizia a pensare che se avesse vissuto ancora a casa sua, Christian non
gliel’avrebbe mai perdonata la dipendenza, gli rimproverava
sempre quelle due o tre sigarette alla sera, mentre qui si parla di un
numero ben più alto di due o tre. Pensa poi che
probabilmente se non fosse accaduto nulla e se abitasse ancora con
loro, quello del fumo sarebbe rimasto solo un vizio controllabile.
-Comunque,
non solo cantava, era anche bravo. Il migliore, senza dubbio.
Prosegue
Jonathan, con un tono che Kyle definisce sognante.
-Era…
non lo so! Forse solo la cosa migliore che i miei occhi avessero visto
fino ad all’ora. Cantava una vecchia canzone dei
Juda’s Priest, la prima volta che l’ho visto. Non
mi ricordo quale fosse perché non è mai stato il
mio genere, so solo che cantata da lui mi piaceva. O forse era proprio
il fatto che mi piacesse lui a farmela apprezzare.
Malinconia,
parecchia. È come se Jonathan avesse aperto un vecchio
cofanetto pieno di ricordi e glielo stesse mostrando, cercando di
tenere a freno i sentimentalismi. I suoi occhi quasi brillano parlando
di Christian, come se avesse in mente una sua precisa immagine o scena
e la stesse osservando con ammirazione.
-Chris
che canta i Juda’s Priest è fantascienza per me!
Afferma
Kyle sorpreso e in parte coinvolto dalle parole di Jonathan.
-Anche
i Kiss, i Sex Pistols, gli Iron Maiden… Tutte quelle cose
urlate e casiniste.
Precisa
Jonathan con mezzo sorriso sulle labbra.
-Non
avevo mai visto un ragazzo bello quanto lui.
Aggiunge
con lo sguardo sempre più perso e immerso nei ricordi. Kyle
inizia a chiedersi se siano sempre così le giornate di
Jonathan.
-Andiamo
a Santa Monica.
Esclama
dal nulla Kyle, riportando bruscamente Jonathan alla realtà,
strappandolo dal suo mondo di nostalgici ricordi.
-Quindi
il motivo è questo.
Constata
Jonathan, con espressione meno straniata ma più tranquilla e
pacata.
Kyle
non capisce subito ma non chiede, si limita a rivolgere al padre uno
sguardo confuso. Lui gli sorride, socchiudendo gli occhi leggermente.
-Sarebbe
stato fin troppo ingenuo da parte mia pensare che non avessi un motivo
preciso per essere qui ora, non credi?
Il
tono di voce di Jonathan è profondo e rassicurante,
ammaliante in qualche modo. Kyle capisce che, a conti fatti, ha
giustamente sospettato di lui. Potrebbe sentirsi offeso per
l’accusa ma non lo fa. Jonathan pronuncia le parole quasi
volesse insegnare a lui qualcosa, quasi volesse fargli capire qualcosa.
-Christian
ha deciso di fermarsi per il weekend, credo.
Aggiunge
Kyle con tono flebile, quasi infantile.
-Le
persone tendono spesso a rifugiarsi nella propria infanzia se hanno
problemi, questo
forse perché è l’unico periodo
veramente puro e incontaminato che ci viene concesso in vita. La vedo
come una scelta sensata.
Commenta
Jonathan. Questa è quella che Christian ha sempre definito
come la brutta abitudine di inserire il lavoro in ogni cosa. Kyle, dal
canto suo, non è mai riuscito a distinguere
un’analisi da una semplice affermazione.
-Non
ti sto accusando di niente. È già tanto che tu
venga a farmi visita, non posso permettermi di avere delle pretese
riguardo ai fini di essa.
Aggiunge
Jonathan, pungente
o forse sincero. Non è facile capirlo. Il restare del tempo
scorre velocemente. All’una in punto Kyle riceve un messaggio
da parte di Christian che lo invita a scendere. Si alza dal divano,
sorprendendo Jonathan che probabilmente non si aspettava di vederlo
andare via così presto.
-È
già ora di andare?
Chiede,
lasciando trasparire uno tono dispiaciuto.
-Sì,
Chris deve stare nelle sue tabelle che io non conosco nemmeno.
Jonathan
sorride, un sorriso di circostanza o forse semplicemente non sapeva
come ribattere.
-Buon
divertimento, allora.
Kyle
annuisce.
-Già.
Ciao John, ci si vede.
Uscito
dallo stabile a Kyle sembra di essersi liberato di un peso enorme. Non
gli è dispiaciuto quel tempo passato con Jonathan, ha
scoperto dei dettagli sul suo conto dei quali non si sarebbe mai
immaginato. Per prima cosa il disordine, il fatto che in quei mesi non
abbia sentito il bisogno di spacchettare le proprie cose. Per non
parlare della convulsiva ricerca della sigaretta e i ricordi, portati
alla luce con estasi e malinconia.
-Vedo
che sei tutto intero!
Esclama
sarcastico Christian, vedendo Kyle entrare in macchina.
-Spiritoso.
Ribatte
il ragazzo con una smorfia. Si mette a sedere e si infila la cintura.
Guarda dritto davanti a sé, non vuole che lo sguardo gli
ricada sulla palazzina di Jonathan.
-E
lui…?
Chiede
Christian, qualche secondo dopo aver messo in moto l’auto,
irrompendo nel breve attimo di silenzio nel quale Kyle si stava appunto
chiedendo se gli avrebbe posto domande circa la condizione di Jonathan.
-Lui
è…
Si
blocca. Vorrebbe dirgli come l’ha trovato, vorrebbe dirgli
che probabilmente si trova nelle sue stesse condizioni ora, vorrebbe
descrivergli l’appartamento, parlare del suo viso sbattuto,
dei capelli ancora in disordine.
-Immagino
se la passi alla grande nel suo bel loft in centro! Proprio quello che
ha sempre sognato.
Esclama
sprezzante Christian. Kyle vorrebbe ribattere per dirgli che quel loft
non è altro che un buco disordinato e nemmeno gradevole alla
vista, che sicuramente non è neanche lontanamente simile a
quello dei suoi sogni. Fa per aprire la bocca ma non ci riesce. Non sa
perché. Mentre scendeva le scale il suo pensiero era stato
quello di riportare parola per parola, sensazione per sensazione, tutto
quanto fosse accaduto nella passata ora. Eppure
in quel momento proprio non ci riesce.
-No
guarda, non dirmi niente. A che mi servirebbe?
Aggiunge
di nuovo Christian, con più disperazione questa volta.
È curioso e allo stesso tempo ha paura di venire a
conoscenza di dettagli che potrebbero ferirlo ulteriormente.
-Una
cosa però la devo sapere: è solo?
Chiede,
distraendosi per un breve secondo da guida e cercando di catturare lo
sguardo di Kyle. Il ragazzo annuisce.
-Sì,
abita solo.
Christian
asserisce con il capo ma non pronuncia una parola.
“È
ridotto ad uno straccio e convive soltanto con il ricordo di
te.”
Questo
avrebbe voluto aggiungere ma non ce l’ha fatta, non
è riuscito. Forse per rispetto, forse perché non
gli sembra giusto andare a sbandierare ai quattro venti tutto quanto.
Dopotutto a Jonathan non ha parlato di Christian, delle sue notti
insonni, delle sue crisi davanti alle bollette intestate a
“Jonathan Wallace”.
“Se
solo entrambi si potessero osservare per qualche
istante…”
Pensa
Kyle.
-Allora,
pronto per il viaggio?
Chiede
Christian, con forzato entusiasmo.
-Più
pronti di così si muore! A che ora abbiamo il volo?
Chiede,
con una forte intonazione sarcastica.
-Volo?
Non abbiamo nessun volo, andremo in macchina!
Esclama
Christian dando un pacca sul ginocchio di Kyle, il ragazzo spalanca gli
occhi.
-Tu
hai seriamente intenzione di fare New York- Santa Monica con questa
macchina?
Christian
annuisce.
-Sì!
Ora rilassati e goditi il viaggio!
|
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Capitolo 22 *** Road to Santa Monica (Viaggio per Santa Monica) parte prima ***
22.
Road to Santa Monica (Viaggio
per Santa Monica) parte prima
Kyle
se ne sta con il mento appoggiato al palmo della mano, appoggiato al
finestrino della portiera. La cintura lo infastidisce, è
troppo corta. Vorrebbe toglierla e mettersi comodo ma è
sicuro che Christian lo obbligherebbe a riallacciarla, è
sempre stato piuttosto puntiglioso riguardo alla sicurezza. Osserva la
strada scorrere da sotto le ruote della macchina, i segni tratteggiati
delle corsie autostradali sembrano un tutt’uno.
Il
paesaggio fuori è ancora abbastanza monotono, poca natura,
parecchi palazzi, si chiede quando finalmente potrà vedere
quelle belle vallate brulle e quelle montagne imponenti che fino a quel
momento ha visto soltanto nei film.
Sospira. Non aveva voglia di andare a Santa Monica, non ha fatto in
tempo ad avvisare Morgan, sta saltando le ultime lezioni di scuola e
non ha ancora risolto i suoi problemi con Anthony. Non gli è
stato dato nemmeno il tempo per rifletterci. In
quelle ultime quarantott’ore non ha fatto una sola cosa che
realmente intendesse fare.
È
una giornata nuvolosa, almeno nello Stato di New York. Il cielo
è completamente coperto e assume una strana sfumatura
grigiastra. Forse pioverà nel giro di pochi secondi ma
è più probabile che grandini. Fa caldo, troppo
caldo per essere soltanto giugno. Ad ogni modo, il meteo di New York
gli interessa poco dato tra qualche miglia Christian
supererà il confine di Stato e si ritroveranno in
Pennsylvania. È stato sempre un suo sogno quello di
percorrere il Paese in macchina, è un po’ il sogno
di tutti gli americani che adorano viaggiare, dopotutto. Eppure in quel
momento una prospettiva di viaggio seduto per delle ore in compagnia di
Christian e dei suoi assurdi cd di Don McLean, melensi e ormai privi di
sonorità, lo deprime.
Osserva
il padre, con lo sguardo fisso sulla strada, attento e preciso come
sempre. Muove le labbra e canticchia “American
Pie”, la canzone di Don Mclean che sta passando in questo
momento, tamburella le dita sul volante. Canticchia ma a voce
bassissima e non riesce a sentirlo, eppure il volume del cd non
è nemmeno troppo alto. Ora
che ci pensa non l’ha mai sentito cantare in vita sua,
neanche a casa. Ascolta spesso la radio, c’è
sempre un cd nello stereo in salotto eppure non canta mai. Forse per
questo motivo gli è sembrato strano sentirsi dire da
Jonathan che cantava in un locale e per giunta musica rock.
Ora
Kyle è curioso. Non parla con Christian da quasi
mezz’ora. Lui gli ha rivolto un paio di domande, alle quali
ha risposto a monosillabi, forzato e visibilmente infastidito.
Dopodiché Christian ha inserito il cd
nell’autoradio e quel briciolo di conversazione si
è completamente dissolto.
-Ma
ti piace veramente Don McLean?
Chiede,
spostando leggermente lo sguardo su di lui. Christian non distoglie gli
occhi dalla strada, smette semplicemente di canticchiare.
-Certo
che mi piace. Fa parte della storia musicale americana, ogni uomo in
America conosce almeno una canzone di Don McLean e di solito si tratta
proprio di “American Pie”. Che cosa
c’è di più americano della torta di
mele?
Kyle
fa una smorfia. Per un attimo gli è parso di parlare con uno
di quei vecchietti patriottici degli Stati del Sud, con un filo
d’erba in bocca e un cappello da cowboy sulla testa. Sorride
e poi gli pone un’altra domanda.
-Anche
i Judas Priest sono molto americani.
Commenta,
cercando di ottenere ulteriori informazioni oltre a quelle dategli da
Jonathan. Christian scuote il capo, allunga il braccio destro e tasta
per spegnere la radio, impedendo a Don McLean di completare
l’ultima strofa di “American Pie”.
-Non
parlare se non sai le cose.
Kyle
si blocca. L’ha fatto arrabbiare, ne è sicuro. Ora
gli toccherà passare tutto il viaggio in silenzio cercando
di evitare lo sguardo infastidito di Christian, che naturalmente
continuerà a fissare la strada impassibile e non gli
rivolgerà una parola fino al cartello “Santa
Monica”.
-I
Judas Priest sono inglesi, Kyle! Di Birmingham, poi! Sono inglesi puri
quanto quei quattro capelloni dei Beatles o quel cavallo pazzo di Mick
Jagger! Heavy Metal, non penserai veramente che possa essere nato qui
in America? Per carità!
Kyle
spalanca gli occhi, è sorpreso. Ora invece del vecchietto
patriottico si trova davanti un coetaneo, leggermente dark, magari con
dei bei capelli lunghi e uno strano completo di pelle nera. Si ricorda
poi di averlo visto Christian indossare un paio di pantaloni di pelle,
forse non è poi così strano sentirlo parlare di
metal. Forse non era nemmeno una cosa che gli nascondeva e come per la
maggior parte delle cose, gli sarebbe bastato chiedere.
-E
ne deduco che ti piacciano anche i Judas Priest.
Commenta,
forse azzardando troppo.
-No,
non è roba che fa per me.
Kyle
ha l’impressione abbia cercato di liquidare velocemente
l’argomento.
-Sarà!
Però anche a me non piace l’hip-hop eppure non ne
conosco la storia.
Christian
fa spallucce.
-Storia
musicale, tutto qui.
Kyle
non è convito e il suo sospetto di aver introdotto qualcosa
di cui Christian non ha intenzione di parlargli aumenta. Non ha niente
di meglio da fare e la curiosità lo uccide, decide quindi di
continuare a fare domande finché non cederà o si
arrabbierà. I casi sono due ma a questo punto non gli
interessa.
-Ma
tu non hai studiato storia musicale, o sbaglio?
Christian
sbuffa. Si trovano in mezzo ad un ingorgo stradale. Davanti a loro
c’è una colonna di almeno due chilometri di
macchine, praticamente ferma. Distoglie per un momento lo sguardo dalla
strada e osserva Kyle, nell’intento di capire, probabilmente,
dove voglia arrivare.
-Kyle,
mi stai facendo un interrogatorio o hai scoperto qualcosa che non so?
Kyle
sorride, è arrivato il momento di essere diretto.
-Jonathan
mi ha detto che cantavi il metal da solista.
Confessa,
rapidamente, quasi avesse appena confessato una cattiva azione. La
situazione gli ricorda un po’ quando era ancora bambino e
ammetteva di aver mangiato un biscotto di troppo o di aver rotto la
boccetta di dopobarba di Jonathan. Christian spalanca gli occhi, assume
un’espressione quasi impaurita.
-Ti
ha detto, cosa?
-Fondamentalmente
niente, mi ha soltanto detto che cantavi al Nightmare da ragazzo e che
eri bravo. Il genere delle tue canzoni era metal ed eri…
bello.
Christian
si rilassa. Kyle non riesce a spiegarsi quell’improvvisa
preoccupazione di Christian, che sembra comunque essersi dissolta
completamente. Ritorna con lo sguardo fisso sull’autostrada e
sulla congestione del traffico che nel frattempo pare essere
peggiorata. Christian sorride brevemente o almeno è quello
che è parso a Kyle. Il sorriso è durato poco
più di una frazione di secondo e sulle labbra di Christian
è ricomparsa la solita espressione neutra e assente, solita
da quando se n’è andato Jonathan,
s’intende.
Kyle
torna a fissare fuori dal finestrino, chiedendosi quante ore extra
aggiungerà al loro già lungo viaggio
quell’intoppo stradale. Chiude gli occhi e cerca di
rilassarsi, in attesa che la situazione si smuova. Nel frattempo
Christian ha acceso nuovamente la radio, ha tolto il cd di Don McLean
ed si è sintonizzato una stazione radiofonica casuale.
***
Jonathan
è appena arrivato in ufficio, è
giovedì e di solito non lavora di mattina. Se si trova
lì ora è perché non aveva altro da
fare, nessun posto dove andare. La visita di Kyle gli ha fatto piacere,
aveva da tempo perso le speranze di rivederlo e dopo le parole di astio
e di rabbia che gli aveva rivolto la sera prima era sicuro non
l’avrebbe nemmeno avuto sue notizie.
È
buio e non c’è nessuno, nemmeno la segretaria.
Accende la luce dell’ufficio e si guarda in giro:
è vuoto esattamente come il suo appartamento, deserto. Si
chiede se veramente cambi qualcosa a starsene seduto sul divano a
fissare il vuoto, con la televisore lasciata su qualche talk-show
mattutino, dallo starsene in ufficio seduto sulla poltrona.
“Almeno
cambio aria”.
Ha
pensato, una volta lavato, vestito e pettinato. Inizia chiedersi cosa
possa avere pensato Kyle del suo appartamento, del disordine che lo
caratterizza e di lui stesso. Si era sempre ritenuto un uomo
interessante non bello ma affascinante, con dei lineamenti tipicamente
maschili e forti, che con un briciolo di cura potevano donargli lo
stesso sex-appeal di George Cloney o Richard Gere. Ultimamente non gli
interessa proprio di assomigliare ad uno dei due sopraccitati. Si rasa
la barba solamente per non sembrare troppo trascurato, si sistema i
capelli con il pettine e poi si veste. Il tutto non lo impegna
più di dieci minuti. Non vede un scopo per imbellettarsi
visto che se sta chiuso in casa, tranne per le rare visite da Gregor e
gli aperitivi del venerdì sera con i colleghi dello studio.
Vive una vita quasi castigata e non gliene importa o forse non se ne
rende conto. Non è un problema per lui non uscire, non andare
fuori a bere. Si accontenta del suo stato di catalessi perenne, in
balìa delle situazioni che l’hanno travolto
ultimamente.
Non
è mai stato un amante della vita mondana, svolgeva il suo
lavoro e qualche extra e poi se ne tornava a casa per trascorrere la
serata in assoluta tranquillità, magari guardando un film
con la sua famiglia, che altre volte portava fuori a cena. Se quella
sera di quindici anni prima era stato in quel locale, era stato
semplicemente perché il destino voleva incontrasse
Christian, quella che fino a quel momento aveva creduto fosse la sua
anima gemella, la persona con la quale credeva avrebbe trascorso il
resto dei suoi giorni.
Dopo
qualche minuto in contemplazione e in completo silenzio, Jonathan
raggiunge il proprio ufficio, gira la chiave e apre la porta, la
spalanca. Non c’è nessuno che può
disturbarlo e quella porta chiusa lo farebbe sentire soltanto
più solo, più segregato. Fa molto caldo nel suo
ufficio, forse perché è esposto al sole ed
è stato chiuso per tutta la mattinata.
C’è odore di chiuso, di libri, di carta.
C’è sempre odore di carta nel suo ufficio. Carta
di documenti, carta di appuntamenti, carta di impegnative, carta di
libro. È un odore che gli è sempre piaciuto
parecchio quello della cellulosa.
Per
questo non apre la finestra, preferendo accendere il condizionatore. La
sua scrivania è molto ordinata, la donna delle pulizie deve
sprecare ogni sera molto tempo a riordinarla, il disordine è
qualcosa presente nel suo dna, per quanto ci provi o si sforzi ne
è sempre avvolto e ne crea parecchio. Nota subito il
telecomando del condizionatore, ben in vista e appoggiato su un plico
di fogli ancora incartati. Lo afferra e preme il tasto di accensione
abbassando la temperatura di un paio di gradi, sa bene che non
è consigliato farlo eppure mal sopporta il caldo afoso delle
grandi città, ogni anno è un sofferenza.
Si
ripete per la centesima volta di avere bisogno di una vacanza, in
molteplici occasioni è stato tentato di telefonare
ad un agenzia turistica e prenotare il primo last-minute
disponibile in un posto decisamente più fresco. Se non
l’ha ancora fatto è perché non sapeva
se comunicarlo a Christian. Prenotare la vacanza era facile:
una telefonata, un voucher mandato via e-mail e il codice di un
biglietto aereo di Virgin Airlines. La parte difficile sarebbe stata
afferrare di nuovo il telefono, comporre il numero di casa e cercare di
trovare un modo carino per dire a Christian che se ne partiva per il
Canada o l’Alaska, se avesse avuto il coraggio di spingersi
così in là.
“Santa
Monica…”
Pensa,
ricordando quelle parole con lo stesso tono di voce con il quale Kyle
le ha pronunciate quasi un’ora prima.
“Christian
non si è fatto problemi a partire per Santa
Monica…”
Pensa
che nonostante l’abbia informato, non si sia fatto scrupoli a
prendere e andare via e non si è nemmeno preso la briga di
telefonargli lui stesso, ha mandato Kyle. Certo, dopo il loro ultimo e
unico incontro dalla separazione è forse stata la scelta
più saggia.
Sospira,
quasi disperato. Sa quale sarà il prossimo passo, la
sigaretta. Di colpo gli tornano in mente le estati a Santa Monica, in
particolare la prima estate.
Quindici
anni prima…
-Johnatan?
John! Sei venuto!
Christian
in shorts e canottiera bianca gli corre incontro, il sole caldo e
luminoso fa risplendere i suoi capelli dorati ed
illumina il suo viso, ambrato per l'abbronzatura. Ha gli occhi
socchiusi e sorride, è felice, quasi euforico e le sue
guance rotonde sporgono ancora di più dal viso quando
sorride rendendolo, se possibile, ancora più bello.
Jonathan
ha trascorso diverse ore di volo e un paio di treno per raggiunger quel
posto. Si è dovuto accontentare di uno scomodo posto in
classe turistica. Odia volare, lo fa il meno possibile. Non avrebbe
voluto, avrebbe preferito restarsene a casa a guardare
“Beverly Hills” o qualche altro stupido
programmetto per adolescenti che tanto si divertiva a guardare e
criticare. Aveva deciso all’ultimo minuto di prendere i
biglietti e andarsene a Santa Monica, da Christian, il suo Christian.
Per
problemi personali Abraham Dickson, il proprietario, il Vampiria era
rimasto chiuso per tre settimane e Christian ne aveva approfittato per
tornare a casa sua, in California. Fino a qualche ora prima, in
particolare al momento della scoperta di dover prendere un treno a San
Francisco per arrivare a destinazione (poiché Santa Monica
è sprovvista di terminali aeroportuali), continuava a
chiedersi se avesse fatto la scelta giusta e se veramente valesse la
pena presentarsi a casa di Christian, senza un minimo di preavviso. Dopo
averlo visto, dopo essere stato avvolto dal calore e dalla
luminosità del suo sorriso, aveva pensato che tutti quei
chilometri li avrebbe percorsi anche a piedi, se poi al capolinea
avesse trovato lui.
-Non
potevo restare senza di te tutto questo tempo!
Commenta
Jonathan, continuando ad osservare lo spettacolo che ha davanti ai suoi
occhi. Osserva il ragazzo sorridergli, osserva la felicità
nei suoi occhi socchiusi, nelle sue ciglia lunghe, sulle sue labbra
sottili e chiare. Quando poi apre gli occhi e lo fissa vede
l’oceano. I
colori dell’oceano Pacifico sono tutti ben amalgamati nelle
iridi celesti di Christian. Non ha mai visto l’oceano eppure
è certo che deve assomigliare in qualche modo ai suoi occhi.
-Vieni,
andiamo dai miei genitori!
Christian
improvvisamente gli afferra la mano e lo trascina con una forza al di
fuori dal normale, per un ragazzo dal fisico magro e delicato come il
suo. Sente la sua mano e il tocco della sua pelle abbronzata e bollente
a contatto con la propria che invece si sta iniziando a scaldare.
Avverte l’impazienza in quelle dita affusolate e lunghe. Lo
segue, si lascia letteralmente trascinare da lui, senza pensieri, senza
preoccupazioni. Improvvisamente Christian accelera il passo e si
trovano entrambi a correre come due pazzi, fianco a fianco e a
sorridersi, osservando uno negli occhi dell’altro la
felicità, l’euforia e l’adrenalina.
Era
inaspettatamente andato tutto bene a casa di Christian, aveva avuto
modo di conoscere i suoi genitori, gli erano piaciuti e lui era
piaciuto a loro, una fortuna quella di fare una buona impressione con
quelli che poi sarebbero diventati a tutti gli effetti i suoi suoceri.
Dopo cena Christian l’aveva trascinato sulla spiaggia, una
piccola lingua di sabbia, prevalentemente occupata dalle rocce sulla
quale passeggiava ogni tanto qualche coppietta e sulla quale
zampettavano i gabbiani in cerca di cibo.
È
stato in quell’occasione che Jonathan ha potuto ammirare
Christian nel massimo del suo splendore. Se ne sta, come un ragazzino,
in piedi su una roccia con le braccia aperte a respirare a pieni
polmoni la brezza marina, con il sole caldo e rosso del tramonto che
riflette la sua luminosità sul suo corpo e sul suo viso.
Jonathan lo osserva da terra, guarda in alto e pensa che gli sembra di
osservare un bellissimo
animale nel proprio habitat naturale, intento a sfoggiare
inconsciamente la propria bellezza. È quello il suo posto:
all’aperto, con il vento che gli scompiglia i capelli e il
viso dipinto soltanto dalla naturale abbronzatura del sole. Non
è fatto per starsene in quella gabbia buia a New York, con
quei vestiti cupi addosso, con tutta quella gente che lo osserva con
occhi avidi e maliziosi.
-Beh,
dottor Wallace, mi raggiungi qua sopra o… hai paura?
Chiede,
sorridendo e sporgendosi leggermente in avanti per assicurarsi che il
rumore delle onde del mare non copra la sua voce. Jonathan gli sorride,
lo contempla per qualche minuto, si alza e gli allunga un braccio per
farsi aiutare a salire sulla roccia. Sono ora fianco a fianco, le loro
mani sono l’una dentro l’altra, le loro dita si
sfiorano in una stretta leggera.
-Sei
bellissimo.
Commenta
Jonathan quasi in un sussurro, questa affermazione spiazza e in parte
offende Christian.
-Ti
porto in uno dei posti più romantici di Santa Monica a
vedere il tramonto e tu sei capace soltanto di guardare me?
Chiede,
scocciato. Jonathan
inizia a pensare che probabilmente ci tenesse davvero a portarlo con
sé su quella spiaggia, su quella roccia. Lo accontenta e
contempla per qualche minuto il paesaggio, osserva il sole rossastro
che lentamente sparisce dall’orizzonte, osserva il riflesso
dei raggi sull’acque e le onde infrangersi poco a poco la
battigia. Uno
spettacolo bellissimo, poetico, quadro che ogni pittore vorrebbe
dipingere, scenario che ogni poeta o scrittore amerebbe descrivere
eppure, ritenendosi un po’ sciocco, si rende conto di non
riuscire a staccare gli occhi di dosso da Christian, di non fare a meno
di pensare che una meraviglia, un prodotto di quella terra fantastica e
sognata da molti viaggiatori, si trovi al suo fianco.
-Ti
amo, lo sai?
Chiede,
retoricamente. Non sa quante volte gliel’abbia detto, a volte
si ritiene ridicolo, patetico. Da qualche mese a questa parte non fa
che dirgli quanto sia meraviglioso e quanto lo ami.
-Ti
amo anch’io ma… potresti almeno fare finta di
guardare il mare, no?
Jonathan
gli sorride e poi, improvvisamente, con la mano libera gli sfiora il
viso, si avvicina e lo bacia. Voleva
baciarlo dal momento stesso in cui l’ha visto nel campo a
prendere il sole, quando è arrivato stanco e sfinito dal
viaggio ma ci riesce solo ora, cercando con quel bacio di evitare di
risultare troppo melenso e noioso. Stacca lentamente le labbra
continuando a guardarlo negli occhi, sorrisi mezzi accennati, volti
felici e innamorati. Due semplici ragazzi, al pieno della loro
passione, all’inizio della loro storia d’amore.
Il
sole sta calando completamente. Si siedono sulla roccia, per
contemplare quello scenario pittoresco, quasi stessero osservando la
parte finale, o i titoli di coda, di un bel film al drive-in. Christian
appoggia la propria testa sulla spalla di Jonathan, non parla.
È Jonathan a irrompere nel silenzio, solo dieci minuti
più tardi.
-Ti
porterò fuori da quel buco, dovessi pagarlo sulla mia stessa
pelle.
Commenta,
con decisione. Christian sposta la testa dalla spalla di Jonathan, la
inclina leggermente per cogliere il suo sguardo e per trasmettergli un
espressione strana, un misto di paura e di piacere. Jonathan gli
afferra le mani, lo stringe e lo guarda più intensamente
negli occhi.
-
Non mi importa delle conseguenze, non mi importa cosa dovrò
fare, non mi importa proprio di niente.
Fa
una breve pausa e prende fiato, prima di proseguire quel discorso che
ormai sta nella sua testa da quando è entrata in lui la
consapevolezza di amare quel ragazzo anche più di se stesso.
-Sei
mio e resterai tale finché avrò respiro in corpo
per dirti che ti amo.
Christian
sorride.
-Quindi…
finché non moriremo? “Finché morte non
ci separi”?
Jonathan
scuote il capo.
-No,
ci ho ripensato. È troppo poco, non mi accontento. Resteremo
insieme per la durata di un’eternità.
“[…]
resteremo insieme per la durata di
un’eternità.”
Improvvisamente
gli manca il respiro. Una sensazione terribile ed è quasi
certo che il suo apparato respiratorio si sia bloccato, che abbia
deciso di abbandonarlo proprio in quel momento. Si alza di fretta dalla
poltrona e, cercando nel profondo dei propri polmoni un briciolo di
ossigeno, respira affannosamente. Apre le finestre, non gli importa del
condizionatore acceso,ha bisogno di vera aria fresca. Una volta aperta
la finestra appoggia entrambi i palmi della mani sul davanzale, si
sporge quanto basta per inspirare una dose massiccia di aria che gli
permetta di tornare a respirare regolarmente.
Una
crisi di panico. Non ne ha avute per anni, dopo la morte di suo padre.
È già la terza nel giro di un mese. Questa
è sicuramente stata la peggiore, la più
terribile. Forse perché il ricordo che la sua mente ha
voluto fargli rivivere è quello che fino a quel momento ha
tenuto più caro. Le frasi di quel discorso sulla spiaggia
continuano a frullargli in testa.
“Quanto dura
un’eternità? È possibile che sia
già trascorsa senza che ne meno ce ne fossimo accorti?”
Si
chiede guardando fisso davanti a sé, senza comunque vedere
nulla di ciò che si trova di fronte.
Era
giugno, quel giugno di quindici anni prima e da poco aveva
iniziato a lavorare come psichiatra in un ospedale.
-Se
adesso facessi la stessa cosa, mi rivolgeresti ancora quello sguardo e
quel sorriso?
Chiede,
a bassa voce, all’immagine di Christian di quindici anni
prima.
-->
Eccomi di nuovo qui a scrivere in fondo al ventiduesimo capitolo di
“Hard to say I’m sorry. In questo capitolo ho
voluto regalare ai miei lettori un frammento del passato di Jonathan e
Christian, quando erano ancora felici, sperando di darvi
un’idea riguardo alla profondità del loro
rapporto, del loro amore. Spero abbiate notato il contrasto netto tra
questa situazione e quella attuale. Se non l’avete notato
beh, ho fallito nel mio intento, temo…
Voglio
ringraziare miss
yu per
il commento.
Ricordo
che i commenti dei miei lettori mi invogliano sempre più a
postare qui questa storia con regolarità e quindi
condividerla con qualcuno.
Bene
vi do quindi appuntamento al prossimo capitolo o meglio, la seconda
parte di questo! Alla prossima!! <--
|
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Capitolo 23 *** Road to Santa Monica (Viaggio per Santa Monica) parte seconda ***
23.
Road to Santa Monica (Viaggio per Santa Monica) parte seconda
Morgan
è appena tornata a casa da scuola, ha cenato, ha raccontato
a sua madre della sua giornata e poi è salita di fretta in
camera.
Sospira
buttandosi a peso morto sul suo letto, si mette a fissare il soffitto,
è pensierosa. Non ha notizie di Kyle dal pomeriggio del
giorno prima, non era a scuola quella mattina e non ha idea di che fine
possa aver fatto. Ha persino cercato di telefonargli ma il suo
cellulare era spento. Inizia preoccuparsi, spera non gli sia successo
niente di grave, continua prendere in mano il proprio telefono e
controllare lo schermo nella speranza di trovare una chiamata persa o
di un messaggio da ore ormai, eppure niente.
Sa che ha incontrato Anthony la sera prima e il fatto di non aver
ricevuto nel giro di un’ora dall’appuntamento una
telefonata nel quale le venisse raccontato tutto quanto, l’ha
preoccupata. Teme possa essere successo qualcosa con lui, qualcosa di
cui si vergognasse al tal punto di rifiutarsi di uscire di casa.
Incolpa
sé stessa. Si incolpa per essersi ficcata in testa
l’idea dell’ipotetica storia tra i due, di aver
continuato a premere sullo stesso tasto, di aver insistito per farli
incontrare quella sera al ballo di Debbie Benson, quella
stessa sera che gli era costata così tanto. Pensava che
Anthony fosse quasi perfetto e che potesse raggiungere la perfezione
solo con un ragazzo come Kyle accanto. Eppure, evidentemente, si
sbagliava.
Si
è resa conto che non è affatto perfetto, si
è resa conto che non è né
più né meno degli altri ragazzi della scuola,
degli altri ragazzi della squadra di football. Ha evitato
l’argomento con Kyle, non ha mai voluto parlargli di quanto
si sentisse in colpa per quello che era successo eppure, giorno dopo
giorno, si sente peggio. Se non altro per aver aggiunto altre pene ai
problemi familiari di Kyle. Per un attimo è tentata di
comporre il numero di casa sua, nella speranza che almeno là
risponda. Afferra nuovamente il cellulare pronta a cercare quel numero
di telefono, quando questo inizia a squillare. Sullo schermo compare un
numero che la rubrica non riconosce, un numero che non ha mai visto o
composto prima d’ora. Ci pensa qualche secondo prima di
schiacciare il tasto di conferma poi lo preme e risponde.
-Pronto?
Chiede,
con un briciolo di timidezza e con curiosità.
-Pronto,
sei Morgan?
Non
è Kyle come aveva sperato fosse ma è una voce a
lei familiare, è sicura di averla già sentita
prima d’ora, eppure non riesce a riconscere il possessore.
-Sì
sono io, tu chi sei?
Chiede.
-Anthony,
Anthony Edwards.
Lo
conosce, eccome se lo conosce. Certo non si aspettava una telefonata da
lui, non credeva nemmeno avesse il suo numero. Probabilmente deve
averlo chiesto a quel ragazzo della sua squadra di cui si era
innamorata.
-Ah…
Anthony…
Esclama,
senza il minimo interesse. Non vuole parlare con lui, non gli
interessa. Vorrebbe soltanto sentire la voce di Kyle in quel momento.
Il fatto che Anthony le telefoni è piuttosto strano.
-Ti
ho telefonato per chiederti se hai notizie di Kyle.
Nemmeno
lui sa nulla. Vorrebbe
chiudere la chiamata, sbattergli il telefono in faccia e comporre il
numero di Kyle.
-No,
non so niente e se lo sapessi non te lo direi, Anthony.
È
stata dura e fredda. Ne è consapevole, sa che non
è da lei rispondere in quel modo, soprattutto ad Anthony, al
quale ha sempre sorriso e risposto con dolcezza.
-Oh...
Sì,hai ragione. Però se lo senti, gli puoi per
favore dire di dimenticarsi di quello che gli ho detto ieri sera?
Morgan
non sa nulla della sera precedente. Anthony pare dispiaciuto, affranto.
Vorrebbe saperne di più sulla faccenda, vorrebbe chiedergli
altro. Forse è successo veramente qualcosa di
terribile, Anthony sembra sincero, non è arrabbiato
o arrogante, sembra più mortificato. Decide di rischiare e
chiedere.
-E
cosa gli avresti detto?
Il
ragazzo non risponde subito. Sente il suo respiro dall’altro
capo del telefono farsi più profondo.
-Che
sono innamorato di lui, in pratica.
Morgan
rimane a bocca aperta. Una tale confessione non se la sarebbe mai
aspettata, neanche in un milione di anni. Quello che è
sempre stato nella sua testa è diventato realtà.
O forse è sempre stato reale? Forse non era semplice
intuizione, la cosa doveva essere palese. Si chiede però se
il ragazzo sia veramente sincero nella sua confessione. Stando al suo
comportamento, stando a come ha trattato Kyle e a come è
scomparso improvvisamente lasciando l’amico a far fronte
delle conseguenze causate da entrambi completamente solo, non riesce a
crederci.
-Ti
rimangi tutto, quindi?
Chiede,
sempre con asprezza. Non le è venuta in mente nessun altra
parola, nient’altro da dirgli. Non poteva semplicemente
riattaccare il telefono liquidandolo con un lascivo
“Ok.”, non dopo quella confessione, non dopo le sue
riflessioni.
-No,
non mi rimangio niente. Non voglio farlo stare peggio di quanto stia,
di quanto l’abbia fatto
stare.
È
indecisa se dubitare o meno sulla veridicità delle parole di
Anthony. In genere è in grado di riconoscere dalla voce di
una persona se mente o se è sincera. Ascoltando la voce del
ragazzo avverte dispiacere, tormento. Eppure la sua testa,
così complicata e così particolare, le impedisce
di fidarsi delle proprie sensazioni, continuando a proporle esempi del
comportamento ambiguo di Anthony.
-Perché
lui, Anthony?
Chiede,
così, di getto.
-Non
c’è un perché. Non ho scelto io di
innamorarmi di lui. Se avessi potuto scegliere, sinceramente, avrei
scelto te. Sei così dolce, tenera, carina e
soprattutto sei una ragazza.
Le
parole di Anthony la colpiscono profondamente, non tanto per i
complimenti che le ha appena fatto, quanto per la sofferenza insita
stessa. Forse ha sbagliato a giudicare male Anthony, forse
c’è qualcosa che non ha considerato: Anthony ha
chiari problemi con la propria sessualità. È una
cosa strana, che probabilmente buona parte degli adolescenti vive,
eppure per lei è a dir poco assurdo. È cresciuta
con Kyle, che non ha mai dato troppa importanza alle
distinzioni sessuali, perché ha vissuto in un ambiente
familiare dove l’amore era in grado di abbattere ogni
ostacolo, ogni barriera. I suoi pensieri e il suo modo di parlare hanno
fatto sì che anche lei stessa arrivasse a vedere il mondo
nel suo stesso modo. Per questo motivo l’indecisione e la
paura di Anthony riguardo ai suoi sentimenti verso Kyle, un ragazzo,
non gli erano stati chiari. L’ha definito un approfittatore,
un vigliacco, un poco di buono. Senza provare a pensare che dietro alla
sua vigliaccheria ci potesse essere reale sofferenza.
-Scusa.
Quasi
la sussurra quella parola. Non sa che altro dire, si ritiene quasi
stupida. In quel momento vorrebbe soltanto sentire Kyle, parlare con
lui e ascoltare il suo parere al riguardo.
-Non
fa niente. Ora ti lascio a qualunque cosa stessi facendo, grazie per
aver risposto, ciao.
Riattacca.
Morgan
rimane con il cellulare attaccato all’orecchio e lo sguardo
perso nel vuoto. Quella telefonata l’ha sconvolta,
decisamente. Si alza e getta il telefono sul letto. Sono quasi le
quatto di pomeriggio, dovrebbe studiare ma è sicura che se
aprisse un qualsiasi libro, anche quello della sua materia preferita,
non sarebbe in grado di combinare nulla. Decide allora di fare un
po’ di ordine nella propria camera. Non è una
ragazza disordinata, lascia soltanto qualche libro fuori posto e i
vestiti sul letto o sulla sedia della scrivania. Raccoglie un paio di
jeans sulla sedia e li piega minuziosamente, per poi appoggiarli sulla
gruccia da mettere nell’armadio, al posto giusto. Una volta
sistemati i propri abiti si getta nuovamente sul letto, senza pensare a
nulla questa volta. La sua mente è vuota, completamente
vuota. Il suo sguardo si sposta dal soffitto alla sveglia sul comodino.
Dopo qualche secondo si addormenta.
-Morgan!
Morgan, il telefono! Non lo senti?
Viene
svegliata dalla voce della madre, che la chiama dal piano di sotto.
È ancora assonnata e non si rende bene conto di cosa le stia
dicendo. Nella testa le risuona il motivetto di “Wake me up
before you go go” degli Wham!. Si rende conto che la musica
non è semplice frutto della sua immaginazione, si tratta
invece della suoneria del suo cellulare che sta squillando. Gli occhi
faticano ad aprirsi, non è del tutto sveglia. Preme il tasto
verde e risponde, senza guardare lo schermo.
-Pronto?
Chiede,
con un tono di voce piuttosto rauco.
-Morgan
sono Kyle, mi senti?
Si
è svegliata. Di
colpo si mette a sedere, si schiarisce la voce e si affretta a
rispondere all’amico.
-Kyle!
Ma che fine hai fatto? Pensavo ti fosse successo qualcosa! Stai bene?
Oh Kyle io..
-Morgan,
calmati! Sto bene, ti
sto chiamando da un motel a Chicago.
Morgan
spalanca gli occhi. Non sa pensare ad un motivo valido per quale motivo
Kyle si debba trovare in un motel e per giunta a Chicago. Le vengono in
mente le ipotesi più disparate e più assurde.
-Un
motel? Dio Kyle non dirmi che ti sei dato alle marchette?
Kyle
sbuffa, rumorosamente. Morgan si rende conto di aver appena detto
un’idiozia.
-Stai
scherzando? Sono qui con Chris, ci
siamo fermati per cenare e per la notte.
Ancora
qualcosa le sembra strano.
-A
Chicago?
-Sì
e non dirmi nulla. Ha deciso di punto in bianco di andare a Santa
Monica in macchina, ci vogliono quasi due giorni per arrivare,
è un'idea folle!
Concorda.
-Beh,
non ha molto senso.
Sorride
e tira un sospiro di sollievo. È felice di sapere che Kyle
sta bene e che si trova con suo padre. Anche se in questo momento
è a miglia di distanza da lei.
-Avrei
voluto chiamarti prima ma il mio cellulare è scarico e non
trovo il caricabatterie. Ho giusto qualche minuto per parlarti prima
che la tessera telefonica si esaurisca e Christian torni da…
beh, ovunque sia andato a procurarci del cibo.
Morgan
sorride. Kyle non è un tipo che ama le cose improvvise, per
niente. Il fatto che quel viaggio a Santa Monica non sia di suo
gradimento non deve essere certo un mistero nemmeno per Christian. Il
ragazzo non si è mai preoccupato di nascondere al prossimo
il proprio disappunto e lei ne sa qualcosa.
-Tornerai
per la fine della scuola?
Chiede.
-Ma
certo che sì, tornerò lunedì mattina.
Assurdo! Tutte queste ore di viaggio per starsene a malapena un giorno
a Santa Monica e poi partire come ladri, di notte.
Morgan
scoppia a ridere. Kyle le ricorda un vecchietto lamentoso e infastidito
da ogni cosa.
-Non
c’è niente da ridere! Avrei preferito restare a
New York, c’è la scuola e ho delle faccende in
sospeso.
Anthony.
È
Anthony la sua faccenda in sospeso. Vorrebbe digli della telefonata
ricevuta nel pomeriggio ma non lo fa, forse per evitare di rendere
ancora più sgradevole il suo viaggio.
-Oh,
capisco.
Si
limita a dire, fingendo disinteresse.
-Già.
Scusa Morgan, devo salutarti. Vedo Christian arrivare dalla finestra
della stanza! Ci sentiamo, ciao!
Riattacca.
***
Ha
girato per quasi un chilometro prima di riuscire a procurarsi qualcosa
di discreto da mangiare. Quel piccolo motel, ai margini di Chicago non
è collegato proprio a niente, dimenticato da tutti. Le pizze
che ha ordinato sono quasi fredde ormai e probabilmente immangiabili.
È certo che Kyle avrà qualcosa da ridire anche
sul cibo. Non ha fatto che lamentarsi per tutta la durata del viaggio.
Per la musica, per l’auto, per il traffico: tutto. Comincia a
pensare che quella di partire per Santa Monica possa essere stata la
peggiore delle idee mai avute. Eppure gli era sembrata tanto geniale,
tanto accattivante. La decisione di fare un viaggio coast to
coast era per lui la ciliegina sulla torta. Ha sempre sognato
un viaggio del genere e pensava che Kyle fosse il compagno di viaggio
adatto. Evidentemente aveva fatto male i conti.
Varca
la soglia della stanza affittata per quella notte e trova Kyle sul suo
letto a fissare fuori dalla finestra. È alquanto spartana
quella stanza, spoglia e neanche troppo pulita per dirla tutta. Ci sono
due letti , un matrimoniale e un singolo, due comodini e un armadio a
due ante. L’unica fonte di luce è la finestra
rettangolare e piuttosto piccola che affaccia
sull’autostrada. Non è nemmeno dotata di un bagno
personale. Dopotutto è solo una stanza da quindici dollari a
notte, che cos’altro si poteva aspettare?
-Ecco
il padre di famiglia che porta a casa il pane!
Esclama,
cercando di far sorridere il ragazzo e allo stesso tempo cercando di
fingersi allegro e sereno.
-Pizza?
Chiede
Kyle guardandolo e rivolgendogli una smorfia di disgusto.
-Non
ho trovato di meglio e poi, andiamo! Siamo due giovani viaggiatori
all’avventura! Non dovremmo neanche stare qui a mangiare
pizza, dovremmo essere là fuori a raccogliere bacche nei
cespugli!
Ribatte
Christian, indicando là finestra e donando alle sue parole
un tono fin troppo enfatico.
-E…
ti devo ringraziare per non avermi costretto a fare anche quello?
Chiede
Kyle, seccato. Si alza da proprio letto e raggiunge quello di Christian.
-Spiritoso.
Dai, mangia! Non toccheremo cibo per un bel po’ di ore.
Kyle
rivolge un’occhiata malevola Christian poi afferra uno
spicchio di pizza e inizia a mangiarla disgustato. È senza
dubbio la pizza peggiore che entrambi abbiano mai mangiato, fredda,
scotta e gommosa. Eppure nessuno dei due si esprime. Si limitano a
mangiare, senza fiatare, senza commentare. Dopo cena Kyle è
piuttosto silenzioso. Se ne sta sul suo letto, quello accanto alla
finestra, con la schiena al muro, le ginocchia premute contro il petto
e il mento appoggiato sul ginocchio sinistro. Ha lo sguardo perso nel
vuoto. Che non sia troppo felice di trovarsi in quella situazione non
è un mistero, eppure deve esserci qualcos’altro
sotto, qualcosa di più importante.
Il
sole tramonta rapidamente e la stanza presto viene avvolta nel buio. Il
silenzio che regna è a dir poco inquietante. Christian
è disteso a pancia in su ad osservare il soffitto. Nota un
foro sopra la sua testa, dove probabilmente in origine era stato appeso
un lampadario. Si chiede che fine possa aver fatto e sorride al
pensiero che possa essere di colpo caduto addosso ad una coppia di
amanti intenti a dare atto al loro amore proibito.
Sono
solo le nove, è presto. Nessuno dei due ha sonno o meglio,
nessuno dei due se la sente di dormire. Christian chiude gli occhi,
vorrebbe riposare, dovrebbe. Ha ancora parecchie miglia da percorrere
al volante e le autostrade, poco più avanti, sono meno
attrezzate e percorribili di quelle di New York e Chicago.
Dà un’ulteriore sguardo a Kyle che non si
è mosso di un millimetro. Si chiede se non si sia
addormentato in quella posizione assurda.
-Sei
ancora vivo, Kyle?
Chiede.
La sua voce rimbomba nella stanza e si sente quasi intimorito da
quell’eco. Da quasi un’ora nessuno dei due apre
bocca ed è parecchio strano sentire una voce in quella
stanza, anche se si tratta della sua. Kyle non risponde subito, passa
qualche secondo.
-Sto
solo pensando e sperando che tu domattina mi dica: “Sorpresa!
C’è un aereo a Chicago per noi!”.
Christian
sorride.
-Il
viaggio è la componente fondamentale degli USA, Kyle! Il
nostro è un paese di viaggiatori, di immigrati. Non
onoreremmo i nostri avi se ce ne stessimo nel nostro
bell’appartamento a New York a guardare “Ally
McBeal” o quello che è.
Esclama,
con falso patriottismo. Quella frase gli è stata ripetuta
allo stesso modo dal suo insegnante di geografia al liceo.
-Ally
McBeal è finito da anni e comunque…
Kyle
alza il mento e rivolge lo sguardo in direzione di Christian, che si
appoggia su un fianco, per cercare di scorgere nel buio il suo viso.
-…
è inutile che ti fingi entusiasta di questa cosa Chris, non
ci credo, lo sai.
Prosegue.
Christian
lo sapeva, lo sapeva che Kyle avrebbe in poco tempo smascherato
quel suo finto entusiasmo, sperava soltanto facesse finta di niente e
cercasse di godersi il viaggio e magari, trarne qualcosa di positivo.
-È
che il mese prossimo compirai sedici anni, comincerai a fare le vacanze
con gli amici, starai fuori tardi la sera nonostante io te lo impedisca
e ben presto ci troveremo a mandarci al diavolo, senza nemmeno
accorgercene.
Christian
fa una pausa, sospira. Non pensava di dover dire tutto ciò
ad alta voce.
-Avevo
bisogno di questo viaggio, di andare via e di staccare la spina e ho
pensato: “Perché non fare questa cosa?”.
Tutto qui.
Sincero.
Per la prima volta in tutto quel tempo ha aperto il suo cuore a Kyle.
Il ragazzo rimane probabilmente colpito. Resta a bocca aperta con lo
sguardo fisso per qualche secondo, poi si alza dal proprio letto e
raggiunge Christian. Si sdraia accanto a lui, nella sua stessa
posizione. All’inizio lo fissa e soltanto successivamente
inizia a parlare.
-Ci
mandiamo già al diavolo, da tempo!
Esclama,
sarcastico. Entrambi scoppiano a ridere. Una risata strana, tra
complici forse.
-Ti
devo delle spiegazioni, Kyle.
Afferma
Christian con decisione, rompendo il momentaneo idillio.
-No
Chris, quando vorrai. Adesso dormiamo, non c’è
bisogno di-
Christian
lo interrompe. Vuole che lo lasci parlare, gli ha tenuto nascosta
quella storia per troppo tempo. Avrebbe dovuto parlargliene prima
che succedesse tutto. In cuor suo vorrebbe che l’intera
faccenda venisse dimenticata da entrambi, vorrebbe tenere ben chiuso a
chiave l’ennesimo scheletro della sua vita. Sa purtroppo che
non potrà farlo, che non ci sono più lucchetti
per quel segreto. Sono stati infranti, tutti quanti.
-Prima
di dirti chi è Gregor Northshare, devi sapere che provo
parecchio rancore nei suoi confronti e che probabilmente ogni giudizio
che ti darò su lui sarà soggettivo.
Kyle
annuisce col capo, è visibilmente incuriosito e attento.
-Ti
ho detto che puoi chiamarlo “nonno”
perché, beh, è quanto più simile possa
avere Jonathan come padre.
Kyle
spalanca gli occhi.
-Io
sapevo che il padre di Jonathan è morto quando aveva solo
diciotto anni.
Christian
annuisce.
-Si,
esatto. Il suo vero padre è morto tanti anni fa. Gregor era
l’amante della madre di Jonathan, il suo
“compagno”.
Kyle
ascolta, non ribatte. Forse perché non sa cosa dire o
semplicemente perché vuole sapere altro.
-Dopo
la morte del padre di Jonathan sua madre l’ha portato in
casa, presentandolo come compagno ufficiale. Ben presto però
le cose sono cambiate e hanno iniziato ad allontarsi. Questo almeno
è quello che ha fatto passare per vero. La verità
è che lui si è invaghito di Jonathan: se
n’è impossessato, l’ha plasmato e creato
a sua immagine e somiglianza ed è diventato il suo mentore.
L'ha portato via dal Texas e hanno iniziato a vivere insieme a New
York, da dove Gregor proviene.
La
voce di Christian è contratta, quasi digrigna i denti mentre
racconta quella storia. Non può fare a meno di provare una
sensazione di odio e di disprezzo tutto le volte la figura di
quell’uomo gli si presenta in testa.
-Quindi
da padre adottivo di John, è diventato il suo amante?
Chiede
Kyle con tono sorpreso. Sembra confuso ma è normale che lo
sia. Tutta quella storia ha dell’assurdo,
dell’incredibile.
-Esattamente.
Beh non proprio un amante, non stavano insieme nel senso classico della
parola. Però sì, i presupposti erano questi.
Tutto questo finché non sono arrivato io.
Kyle
non sa cosa dire. Vorrebbe fare delle domande e sa che Christian gli
risponderebbe, il problema è che non sa esattamente cosa
chiedere. Tutto ciò che gli è stato detto
è nuovo, inaspettato e curioso. Non ha mai sentito parlare
di Gregor, non ha mai nemmeno sentito Christian e Jonathan parlarne
o riferirsi a lui in qualche modo. Se veramente il legame tra
di lui e Jonathan era così forte, risulta per lui
inspiegabile quel nascondere a tutti i costi la sua figura.
-Perché
io non ne ho mai saputo niente?
Chiede,
senza una particolare sfumatura o intonazione. Non è
infastidito dalla cosa, non si sente tradito o tenuto
all’oscuro. Pura e semplice curiosità. Christian
abbassa lo sguardo. Un qualcosa di strano, da parte sua. Lo fa
raramente in sua presenza. Non gli risponde subito e prende fiato.
-Perché
Jonathan ha scelto me. Volevamo essere solo lui ed io contro il mondo e
Gregor ha subito ostacolato la nostra relazione. Non
parlavamo più di lui già da tempo, da prima che
arrivassi tu e abbiamo finito per non nominartelo mai.
Confessa
Christian, alzando solo alla fine lo sguardo e rivolgendo a Kyle uno
strano sorriso malinconico ed uno sguardo che si direbbe in cerca di
comprensione.
-Ovviamente
so che ogni tanto gli faceva visita, visite di tipo psichiatrico. Non
l'ha più frequentato e per me ha cessato di esistere.
Prosegue
Christian, temendo forse di non essere stato esauriente. Kyle annuisce.
Non è sicuro di capire l’intero discorso, continua
a non spiegarsi la forzata rimozione di Gregor dalla vita dei suoi
genitori. Inizia solo a chiedersi quale genere di ostacolo possa aver
frapposto tra i due e non trova risposta. Decide comunque di
rassicurare Christian.
-Va
bene.
Riprende
poi a parlare.
-Cioè,
non va bene o non lo so! Insomma, mi hai dato una spiegazione e mi
basta. Solo... adesso cosa faccio?
Chiede,
con tono chiaramente confuso.
-Non
lo so.
Risponde
Christian, con tutta sincerità.
-Tu
credi che Jonathan abbia pensato tutto questo, che l’abbia
fatto per spingermi verso di lui?
Lo
sguardo di Christian si fa improvvisamente scuro e il suo tono di voce
è più sentito.
-Non
voglio crederlo, non voglio pensarlo. Voglio
pensare che quel… quel… quell’uomo
abbia fatto tutto di testa sua.
Lo
difende o forse è semplice correttezza, Christian non lo sa
e Kyle non riesce a capirlo.
-Io
direi di andare a dormire, per adesso.
Conclude
Kyle, cercando di risollevare la situazione.
Christian
annuisce.
-Ottima
proposta tesoro, buonanotte.
-->
Tornata con la seconda parte ^^. La parte dedicata al viaggio
è finita, nel prossimo capitolo la location si sposta a
Santa Monica, California! Dopo la rivelazione sulla natura del rapporto
tra Gregor e Jonathan ne verranno delle altre, già a partire
dal prossimo capitolo quindi, non perdetevelo =)
Mi
sento un po’ uno di quegli sciocchi reclame pubblicitari O.o
comunque voglio ringraziare jaryshanny per
il commento al precedente capitolo.
E
penso sia tutto. Mi auguro di aver corretto tutto e… rinnovo
l’appuntamento al prossimo capitolo! <--
|
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Capitolo 24 *** Heaven is nowhere (Non c'è paradiso) ***
24. Heaven is nowhere (Non
c’è Paradiso)
Nei
ricordi da bambino di Kyle, Santa Monica è sempre stato un
parco giochi, un luogo dove poteva mangiare più biscotti del
solito, dove poteva stare alzato fin tardi a guardare il cielo pieno di
stelle, dove poteva cantare a squarciagola le sue canzoni preferite
senza paura che i vicini si lamentassero e senza dove regolare il tono
della voce. A Santa Monica tutto era perfetto, tutto era un paradiso.
Non ci torna da due anni e non è cambiata molto. Il clima
è sempre caldo e le strade sempre affollate da gente in
costume che porta sottobraccio borse da mare o tavole da surf. Il sole
splende a Santa Monica e tutti sembrano essere felici, in quel posto
sembra essere sempre vacanza.
Non
vedeva l’ora da bambino dell’arrivo
dell’estate. Oltre la solita settimana o due in montagna, la
destinazione fissa era Santa Monica. Non aveva mai avuto un gruppo
fisso di amici, gli bastava starsene in riva all’oceano a
fissare l’orizzonte, con la sabbia morbida sotto i piedi. Non
c’era cosa che amasse di più al mondo. Il primo
tramonto che aveva riprodotto era stato ispirato da quelli visti a
Santa Monica. Aveva solo dodici anni e il disegno era alquanto
approssimativo e privo di qualsiasi tecnica eppure lo trova,
tutt’ora, uno dei suoi lavori più belli e lo
possiede ancora in qualche cassetto della sua stanza.
È
mezzogiorno passato di sabato quando finalmente la macchina di
Christian si ferma e imbocca il vialetto che conduce a casa. La casa di
Christian è a pochi passi dal mare, è molto
pittoresca e sembra quelle classiche case da villeggiatura degli
americani filo-borghesi degli anni ’50. Per buona parte
costruita in legno, dotata di un porticato e di un balcone con vista
mare, piuttosto ampio. Il pick-up azzurrognolo e mezzo arrugginito del
padre di Christian è da anni parcheggiato sotto la finestra
della cucina ed è diventato parte fissa
dell’arredamento esterno.
Kyle osserva attorno a sé il paesaggio per controllare se
manchi qualcosa o se sia, veramente, tutto quanto come è
sempre stato.
-Siamo
arrivati, quindi.
Commenta
Christian, sorridendogli.
-Già,
siamo qui.
I
due scendono dalla macchina, sbattendo le portiere involontariamente
con forza. Quel rumore cattura l’attenzione della madre di
Christian che con rapidità esce di casa e si presenta sulla
soglia della porta, con sguardo sorpreso.Kyle deduce
dall’espressione della nonna che quella di Christian sia
un’improvvisata.
-Per
l’amor del cielo! Cosa ci fate voi due qui?
Chiede
la donna, con sincero entusiasmo e chiaro sconcerto.
Christian
allarga le braccia e sorride.
-Sorpresa!
La
donna prontamente corre in contro al figlio e lo abbraccia.
L’ultimo incontro risale al Natale di due anni prima, quando
Angela Simmons, Angie per tutti, era arrivata a New York per
festeggiare il Natale con loro. Dopo aver abbracciato Christian Angie
si getta su Kyle, che stringe con il doppio della forza e il triplo
dell’entusiasmo. Kyle continua chiedersi se quella donna
invecchierà mai. L’ha sempre vista come una nonna
diversa dalle altre, molto giovanile e straordinariamente
all’avanguardia. Anche in quel momento i suoi capelli, in
origine biondi ed ora bianchi candidi, sono raccolti in una coda di
cavallo ben composta. Il suo viso è finemente truccato e
indossa una canotta bianca a tinta unita abbinata ad un paio di jeans
chiari e delle infradito rosse.
-Oh
Kyle, Smettila di crescere! La prossima volta che ti vedo
dovrò prendere uno sgabello per abbracciarti!
Esclama,
accarezzandogli affettuosamente il viso.
-Christian,
non che non sia contenta di avervi qui, ma potevi avvisare, santo cielo!
Esclama,
con un briciolo di disappunto. Christian le sorride. Per
pochi istanti si guardano negli occhi, gli stessi occhi. Senza dubbio
quell’iride celeste limpida e perforante Christian
l’ha ereditata da sua madre.
-Oh,
avanti! Preparerò
la tua stanza. Su entrate e bevete qualcosa di fresco!
Anche
l’interno della casa è sempre uguale e mantiene la
sua principale caratteristica: il disordine. Riviste varie sono sparse
su ogni mobile, senza contare grembiuli, attrezzi da giardino e tanto
altro.
-Ma…
lui dov’è?
Chiede
improvvisamente Angela, facendo cadere di colpo il silenzio. Kyle
credeva che Christian telefonasse regolarmente alla madre, che la
tenesse perlomeno aggiornata riguardo alle novità e quella
della separazione con Jonathan doveva essere una notizia scontata,
ovvia. Poteva veramente non avergliene parlato?
-Non
importa, vi va del the freddo? Ne ho appena preparato un po’
con degli infusi già pronti, venite in cucina.
Esclama
poi Angela, cambiando totalmente discorso e facendo cenno ad entrambi
di entrare.
Dopo
aver bevuto la bevanda amarognola preparata dalla nonna, dalla quale
fortunatamente Christian non ha appreso le abilità
culinarie, Kyle decide di andare a recuperare il suo costume e recarsi
subito in spiaggia. È l’una passata e non ha molto
tempo da trascorrere in spiaggia. Fa molto caldo e alterna i
brevi tuffi in riva al mare alle soste sdraiato sulla sabbia. Non ha
portato con sé una salvietta sulla quale appoggiarsi, lo ha
fatto volutamente. Al contrario di buona parte delle persone, adora
sentire i granelli di sabbia incollarsi sulla sua pelle e sentirli
mescolarsi con la salsedine. Per qualche istante fissa il sole caldo
sopra la sua testa, salvo poi dover distogliere lo sguardo per evitare
di rimanerne abbagliato.
Si
era sempre chiesto, da bambino, se quel sole fosse lo stesso di New
York. La
lieve brezza marina rende quella sua sosta più piacevole e
impedisce che la temperatura elevata produca in lui qualche effetto di
stanchezza. Chiude gli occhi e cerca di lasciarsi trasportare dalla
situazione piacevole. Come sempre, a Santa Monica è libero
di fare qualsiasi cosa voglia. Se anche si trattenesse fino a sera
inoltrata su quella spiaggia è sicuro che Christian non
farebbe storie, che non si lamenterebbe affatto del suo ritardo.
Si
è più volte chiesto e in parte si chiede ancora,
cosa abbia spinto Christian ad andarsene per sempre da quel luogo
idilliaco per gettarsi nella faticosa, affannosa e cupa vita
metropolitana di New York. In fondo Barkley, una delle più
prestigiose università americane, si trova in California.
Avrebbe potuto vivere da pendolare e insegnare là la sua
materia, non c’era motivo che lasciasse così
permanentemente la California. Cosa mai poteva avere di terribile quel
luogo, che l’avesse spinto ad andarsene?
Kyle
non aveva mai trascorso più di due settimane di fila a Santa
Monica eppure, per quanto aveva potuto osservare, la realtà
in quel posto era totalmente differente. Osservava la gente e questa
sorrideva, perché visi abbronzati delle persone a Santa
Monica erano sempre arricchiti da sorrisi brillanti e sereni. Per
Kyle era come se in quel luogo i confini fossero segnati da arcobaleni
colorati e come se i problemi della vita quotidiana e cittadina
rappresentassero solo un ricordo lontano, che non toccasse minimante la
gente del posto. Sapeva che quella sua visione era del tutto irreale e
utopica ma non riusciva a trovare pensieri negativi. Non
c’era una sola cosa in quel posto che gli facesse rimpiangere
casa sua. Certo, sentiva la mancanza di Morgan e negli anni passati le
telefonava spesso. Probabilmente se avesse potuto per una volta portare
Morgan con sé avrebbe deciso di trasferirsi in pianta
stabile a Santa Monica. Persino la questione di Anthony gli sembra
lontana in quella situazione. Non vuole ammetterlo ma forse
quell’idea assurda e improvvisa di Christian non era stata
così malvagia, forse quel viaggio serviva anche a lui.
Si
stiracchia, sbadiglia ed inizia seriamente a rilassarsi, lasciando
scorrere via le preoccupazioni con la stessa rapidità delle
onde dell’oceano.
Apre
gli occhi e si accorge che il sole sta calando e che una bellissima
sfumatura rossastra ha poco a poco preso il posto del cielo azzurro e
limpido di poco prima. Si è addormentato, senza rendersene
conto. Non ha un orologio con sé e non ha idea di che ore
possano essere. A giudicare dalla posizione del sole, non
più tardi delle sette. Si alza, raccoglie le sue cose, si
riveste rapidamente e a passi lenti si avvicina a casa. Si
sente assolutamente rilassato, più leggero e svuotato.
Tornando a casa sente un buon profumo di cibo lungo il vialetto, che
proviene naturalmente dalla casa dei nonni.
“È
sicuramente opera di Christian.”
Pensa,
affrettando il passo incuriosito. Il suo appetito ha iniziato a farsi
sentire dopo aver odorato quel profumo delizioso. Dopo quel pomeriggio
piacevole un’ottima cenetta preparata di Christian sarebbe
l’ideale e gli farebbe scordare della cene a base di pizza
fredda o cibo cinese delle sere precedenti.
Rincasa
e fa per avvicinarsi alla cucina, per scoprire quale gustosa pietanza
stia cuocendo sui fornelli ma si blocca.
-Una
cosa del genere non l’avrei mai immaginata nemmeno in un
milione di anni.
Eclama
Angie, con tono dispiaciuto.
Subito
dopo subentra Christian.
-Tu
pensi che io me l’aspettassi mamma? Dopo che…
Il
suono tono di voce è rotto, spezzato.
Kyle
decide di non entrare ma è curioso, vuole seguire il
discorso e capire se stanno parlando veramente di ciò che
pensa. Lentamente si avvicina alla porta e si lascia scivolare contro
la parete, sedendosi poi a terra, con l’orecchio teso in
direzione della cucina.
-Santo
cielo figlio mio, se solo tu mi avessi detto qualcosa di tutta questa
storia avrei preso il primo volo per New York e vi avrei raggiunti
munita dei soli abiti che avrei avuto indosso!
Commenta
Angie con decisione.
-Sinceramente
mamma, speravo che tutto si sarebbe risolto. Credimi, lo speravo
veramente.
Risponde
Christian, con lo stesso tono amareggiato di poco prima.
-E
adesso? Non ci speri più?
Christian
non risponde, non subito perlomeno. Kyle ha ormai la conferma che, per
l’ennesima volta, si stia parlando di Jonathan.
-No.
Dopo
quella risposta secca e decisa, il cuore di Kyle sobbalza. È
stato per lui come un colpo forte, improvviso e indubbiamente doloroso.
-L’hai
più rivisto?
Chiede
Angela, prontamente.
-Una
volta soltanto.
-E…?
Una
breve pausa. Kyle è piuttosto interessato a quel
particolare. Non ha mai saputo nulla di quel loro unico incontro, non
era stato avvisato e non se n’è mai parlato in
casa. Ancora delle volte si chiede per quale motivo non gli sia stato
detto nulla.
-E
siamo finiti per andare a letto e subito dopo urlarci addosso come
sconosciuti.
L’aveva
immaginato, Kyle. Aveva sentito il profumo di Jonathan in camera,
doveva essere successo qualcosa di simile. Quello che gli interessava,
comunque, era il motivo per cui poi Jonathan se n’era andato
e non era invece rimasto nel posto che gli apparteneva.
-Oh,
Chris! Lasciare che i bisogni fisici abbiano il sopravvento in questi
casi è la cosa peggiore! Dovevate chiarirvi, parlare.
Christian
respira profondamente o almeno Kyle deduce sia lui.
-Mamma,
abbiamo litigato fino a poco prima di finire a letto. Io gli ho dato
del bastardo menefreghista, lui mi ha accusato di aver impedito a Kyle
di fargli visita e poi, perché non ce la facevo
più, perché non volevo piangere altre lacrime,
ancora, l’ho implorato di venire a letto con me.
Un
breve minuto di silenzio, dopo il quale Christian riprende a parlare.
-Mamma,
per favore, non giudicarmi male per quello che ho fatto.
Piange,
Christian. Ancora. Kyle
appoggia il capo contro il muro alle sue spalle e sospira. Da tempo
voleva sapere gli esiti di quell’incontro e, ora che ne
è venuto a conoscenza così, quasi in segreto,
vorrebbe non averlo mai fatto, vorrebbe essere rimasto in spiaggia,
un’altra ora almeno.
Jonathan e
Christian: due uomini testardi e completamente distrutti. Ecco quello
che vede lui, da osservatore esterno e contemporaneamente protagonista
di quello scenario fatto di parole dure e sentimenti feriti.
-Oh,
figlio mio. Non ti giudicherei mai male, lo sai.
Kyle,
si alza, decide che ha ascoltato abbastanza.
-E
Kyle, come l’ha presa?
Si
blocca.
-Beh
puoi immaginarlo, no? Non bene. Si comporta in modo parecchio strano,
la sua solarità e la sua lingua lunga sono scomparse. Non
so, forse è anche perché sta crescendo. Il mese
prossimo compirà sedici anni, piena pubertà.
Commenta
Christian.
-Lui
l’ha più rivisto Jonathan?
Chiede
Angie.
-Sì.
Ho voluto che andasse personalmente a comunicargli della nostra
partenza. È anche lui suo padre ed è giusto che
sappia dove va e cosa fa.
Esattamente
le stesse parole che ha riferito a lui spiegandogli il motivo della
visita a Jonathan, questo per Kyle conferma la coerenza e la
correttezza di Christian.
-Una
decisione giusta. Hai scelto tu che restasse con te?
Christian
esita a rispondere, questo suo esitare alimenta la curiosità
di Kyle.
-No,
è semplicemente successo. Francamente, credo si sarebbe
trovato meglio con Jonathan. Forse resta con me perché
semplicemente gli suscito compassione. La povera mammina tradita, sola
e piagnucolante.
Kyle
scuote il capo. Non è così, non è
così assolutamente. Si ricorda di averglielo anche detto
esplicitamente tempo prima, a ferita fresca. Probabilmente Christian
non c’ha creduto o forse è stato lui stesso a non
essere stato in grado di dimostrarglielo.Ad ogni modo, Angie non la
pensa come lui e alza immediatamente il tono della voce,
nell’esprimere il suo punto di vista.
-No! Non
accetto che tu dica questo Christian. Capisco il tuo dispiacere e la
tua sofferenza ma questo vittimismo represso non è da te!
Hai sempre preso le cose di petto, senza tirarti indietro o startene ad
auto-commiserarti.
Kyle
è indeciso se andarsene o meno. Osserva uno dei tanti
orologi sui mobili dell’atrio e nota che sono già
le sette e venti passate. Christian e Angie pensano naturalmente che
sia ancora in spiaggia e si preoccuperebbero nel sapere che si trova
ancora là. Tuttavia il discorso si sta facendo sempre
più interessante e non riesce a smettere di ascoltare.
-Forse
hai fatto male i conti, mamma. Sono due anni che non torno qui a Santa
Monica e non ti ho ancora chiesto, da quando sono arrivato, notizie su
papà, né sono andato a trovarlo. Oltretutto,
quando i miei problemi a New York hanno iniziato a
schiacciarmi ho deciso di prendere e partire, di andarmene
via. Ti sembra l’atteggiamento di qualcuno che prende le cose
di petto?
Kyle
sente il rumore di una sedia spostarsi dal tavolo. Decide di
avvicinarsi in fretta alla porta d’ingresso e fingere di
entrare, cercando di fare il rumore necessario per farla sembrare una
cosa naturale, evitando di essere beccato ad origliare alla
porta della cucina.
-Kyle?
Sei tornato?
Chiede
Christian dopo qualche secondo, facendo capolino dalla porta della
cucina e strofinandosi freneticamente gli occhi, cercando forse di
nascondere le tracce di pianto. È un gesto che ripete una
volta soltanto, deve sapere che ormai Kyle conosce ogni sfumatura del
suo viso e che non sarà in grado di ingannarlo.
-Si!
È stato un bel pomeriggio di sole, saresti dovuto venire
anche tu.
Esclama
Kyle, cercando di sembrare più naturale possibile. Christian
gli sorride, un mezzo sorriso carico di tristezza che per un attimo
insinua in Kyle la voglia di ammettere di aver origliato il discorso
con la nonna, per evitare ad entrambi altre bugie, altre
falsità.
-Beh,
io la conosco Santa Monica. Da anni non mi fa più effetto.
Risponde,
passandosi nervosamente una mano tra i capelli. Deve sentirsi
estremamente in disagio e in disordine, giudicando dai suoi
comportamenti e dal fatto che il suo sguardo non stia in una decisione
precisa.
-Sento
un buon profumo, che cos’hai cucinato?
Chiede
Kyle, cercando di indirizzare il discorso su un argomento completamente
diverso, qualcosa che possa piacere a Christian e farlo sentire a suo
agio.
-Salmone
ai ferri. Qui il pesce è buono e fresco, ho deciso di
approfittarne.
Kyle
annuisce.
-Ottimo!
Sto iniziando ad avere una certa fame!
La
cena naturalmente è deliziosa. Durante il pasto si
è discusso della enorme differenza tra le abilità
culinarie di Angela e quella di Christian che, dopo anni, ha finalmente
ammesso la superiorità culinaria del figlio. Un momento
parecchio piacevole tutto sommato. Kyle, tuttavia, nota che la sedia a
capotavola e destinata solitamente al nonno è vuota.
Effettivamente non l’ha ancora visto da quando è
arrivato a Santa Monica. Non è strano che stia fuori casa,
è un pescatore, un uomo che ama passare tempo in compagnia
di vecchi amici di gioventù. Eppure non vederlo rincasare a
cena è strano. Si ricorda di aver sentito qualcosa nel
discorso di qualche ora prima di Christian relativo al nonno, eppure
non riesce a ricordarsi bene il frangente, per quanto si sforzi.
Sono
quasi le nove. Non ha fatto molto in quella giornata, eppure
è parecchio stanco. Christian e Angie sono rimasti in casa a
guardare qualche programma alla televisione, mentre lui ha deciso di
mettersi sul dondolo in veranda a respirare la brezza marina notturna e
ascoltare le onde del mare infrangersi sui sassi a riva. Si dondola
lentamente con una gamba, mentre l’altra è piegata
e appoggiata sul seggiolino del dondolo.
-Il
buon vecchio stile di vita americano.
Esclama
Christian, comparendo improvvisamente sulla soglia della porta accanto
a lui.
-Questo
posto sarà sempre un cliché per me. Credo che se
in questo momento qualcuno ci scattasse una fotografia, un osservatore
esterno ci vedrebbe come parte di una scena di qualche film.
Commenta
Kyle, sorridendo.
-Già,
può darsi.
Per
qualche istante nessuno parla poi, Kyle decidere di dare sfogo alla sua
curiosità.
-Non
ho ancora visto nonno Jack, oggi.
Christian
non risponde. Kyle si volta per osservare il suo viso. È
visibilmente sorpreso, di certo non si aspettava quella domanda a
bruciapelo. Kyle prende la reazione come sinonimo di qualcosa di grosso.
-Già,
non è a casa. Hai intenzione di entrare o stai qui ancora
per molto?
Cerca
di sviare l’argomento, certamente non è un buon
segno. Kyle comunque non demorde.
-Rientrerò
non appena mi dirai cosa mi nascondi.
Afferma,
con grande decisione. Una decisione che spiazza e allo stesso tempo
infastidisce Christian, che aggrotta la fronte e cambia completamente
tono di voce.
-Non
ti sto nascondendo niente. Ora, per favore,rientra in casa. La nonna
è andata a letto e anch’io sono parecchio stanco,
devo chiudere la porta.
La
testa di Kyle gli dice di obbedire e fare finta di niente ma il suo
istinto, semplicemente, glielo impedisce. Non riesce a ricordarsi
nessun particolare dalla discussione ascoltata prima di cena e la cosa
lo fa letteralmente impazzire, senza contare l’atteggiamento
ambiguo e sospetto di Christian.
-Dov’è
nonno Jack? Rispondimi.
Inavvertitamente
alza il tono di voce, questo secca parecchio Christian.
-Non
ti permetto di alzare la voce così, Kyle. Fila in casa!
Utilizza
naturalmente il pretesto di una mancanza di rispetto per chiudere
l’argomento. Kyle decide di obbedire, si alza svogliatamente
dal dondolo e passando accanto a Christian fa in modo di rivolgergli
un’espressione di disappunto. Non ha intenzione di lasciar
perdere, gli chiederà di nuovo informazioni più
tardi.
Kyle
raggiunge la stanza da letto, la nonna ha preparato per loro la vecchia
camera da letto di Christian. Il letto è grande e
matrimoniale, quindi è destinato a dormire con Christian
anche questa notte. Decide
di approfittare dell’occasione per ottenere le informazioni
che desidera. Dopo essersi lavato e preparato per la notte, si infila
sotto le coperte. Non spegne la luce e aspetta l’arrivo di
Christian. Non gli rivolge la parola, finché lui non si
mette a sua volta a letto e spegne la luce della stanza, lasciando che
quest’ultima venga avvolta dalla sola luce dei raggi lunari
che filtrano dalle vecchie veneziane di legno.
-Ti
ricordi quanto mi piaceva “Il piccolo principe” da
bambino e quanto spesso me lo raccontavate, tu e John?
Chiede,
improvvisamente.
-Come
posso dimenticarmelo? Ne eri ossessionato, eri arrivato a sperare che
un giorno facesse visita anche a te.
Kyle
annuisce.
-Già…
e ti ricordi anche quell’episodio di sei
o sette anni fa, quando mi dicesti che il nonno, come il Piccolo
Principe, aveva cercato di raggiungere le stelle, lasciando qui il suo
corpo perché era troppo pesante, tanto da impedirgli di
volare?
Kyle
teme di aver fatto infuriare nuovamente Christian, poiché
questi non risponde, non fa neanche il minimo gesto. Non lo sente
muoversi accanto a lui, è semplicemente immobile.
-Mi
ricordo.
Dice,
infine.
Quell’episodio
citato, risale a sette anni prima. In quel periodo tutto andava a
gonfie vele a casa. Mancava qualche giorno al Giorno del Ringraziamento
e a breve tutti e tre sarebbero andati a Santa Monica per festeggiarlo
con i genitori di Christian, com’erano soliti fare da un paio
d’anni circa.
Una
telefonata improvvisa, da parte di Angie, aveva rotto
l’armonia piacevole di quel pomeriggio, dedicato agli
acquisti per preparare il classico pranzo del Ringraziamento. Senza
rendersene conto Kyle si era ritrovato con i suoi genitori su un aereo
con destinazione Santa Monica. L’anticipo di quel viaggio non
gli era mai stato spiegato con chiarezza. Una volta atterrati e
arrivati all’aeroporto Kyle, che allora aveva da poco
compiuto nove anni, aveva deciso di fare chiarezza e chiedere il motivo
della partenza anticipata. Dopotutto non erano riusciti nemmeno a
completare la loro spesa e le borse che avevano portato
sull'aereo contenevano soltanto un paio di sacchetti di frutta secca e
salsa di mirtilli.
Alla
sua semplice domanda, "Perché siamo partiti così
presto?" Jonathan e Christian avevano risposto dapprima con un momento
di silenzio e poi, dopo essersi scambiati un reciproco cenno di capo,
Christian gli aveva sorriso e si era spiegato utilizzando parole che
Kyle non ha mai dimenticato.
-Vedi
tesoro, sai bene che nonno Jack adora guardare le stelle in cielo, con
il suo telescopio su in soffitta. Ieri sera, colpito dalla bellezza di
una stella, ha deciso di provare a raggiungerla.
Kyle,
naturalmente, con l’innocenza e
l’ingenuità tipica di un bambino, aveva chiesto:
-E
l’ha raggiunta?
Christian
aveva scosso il capo.
-No.
Vedi, ha cercato di fare come il Piccolo Principe. Ha capito che il suo
corpo era troppo pesante per permettergli di volare e toccare la sua
stella e ha cercato il serpente che non è stato in grado di
aiutarlo completamente.
Una
spiegazione strana, basata sul libro preferito di Kyle, che conosceva
la storia a memoria in ogni piccolo particolare.
-E
quindi noi stiamo andando a Santa Monica per aiutarlo a cercare un
bravo serpente?
Christian
a quella domanda non era stato in grado di rispondere. Era stato
Jonathan a subentrare e cercare, in qualche modo, di far filare quella
strana teoria.
-No.
Semplicemente andiamo da lui e gli facciamo compagnia. È
molto triste per non essere riuscito a raggiungere la sua amata stella e sicuramente
quando vedrà te tornerà ad essere felice!
-Nonno Jack
aveva tentato di suicidarsi, non è vero?
Chiede
alla fine Kyle, con un tono di voce tremante. Da tempo ormai quel
pensiero era entrato nella sua testa ma non era mai stato in grado di
pronunciarlo ad alta voce, non fino a quel momento.
-Sì.
Risponde
Christian senza troppo mistero.
-Sette
anni fa a nonno Jack è stato diagnosticato un cancro
progressivo al cervello. Non sopportava l’idea di dover
vivere in qule modo e presto o tardi diventare un vegetale,
così ha tentato di suicidarsi.
Confessa
poi, tutto d’un fiato. Kyle non si aspettava una risposa
così rapida, così schietta. Ci aveva messo anni
prima di cercare dei chiarimenti riguardo a quella faccenda
così offuscata e quella verità schiacciante, che
gli è stata letteralmente sbattuta in faccia, lo sconvolge.
Non riesce più a dire altro e spera che Christian non
approfitti di quel momento di silenzio per aggiungere altri
particolari, altri dettagli.
-Si
trova in una clinica da oltre due anni. Ti basta questo?
Chiede,
quasi con astio Christian. Evidentemente non era sua intenzione dire
tutto questo. Kyle percepisce tutto il dolore dato
dall’aver nascosto la cosa e dalla cosa stessa. Si era
chiesto in effetti per quale motivo da oltre due anni non si tornasse a
Santa Monica a trascorrere l’estate. Per non parlare delle
feste, nonna Angela li aveva raggiunti il precedente Natale, lei sola.
Era rimasta poco meno di quattro ore e poi era ripartita per Santa
Monica subito dopo.
Ad
ogni modo Kyle decide di farsi forza, respira profondamente e
dà a Christian una risposta.
-Mi
basta.
Non
vuole sapere altro in quel momento. Tutto quello che gli è
stato appena detto, quella confessione rapida e quasi urlata
l’ha sconvolto. Ci impiega diverse ore per riuscire
addormentarsi, crede che anche Christian fatichi a prendere sonno. Non
ne è comunque sicuro. Lo osserva. È sdraiato di
fianco e gli dà la schiena, in posizione quasi fetale con la
testa sotto il cuscino e le mani, sottili e affusolate premono sul
guanciale per evitare che scivoli. Lo sente respirare, un respiro quasi
affannoso, giurerebbe di averlo sentito piangere o singhiozzare,
durante la notte, la lunga notte.
Alle
tre e mezza finalmente Kyle si addormenta per poi risvegliarsi in uno
strano stato confusionale solo quattro ore più tardi. La
luce dell’alba è tornata ad illuminare la stanza e
un ancora pallido raggio di sole gli illumina il viso, impedendogli di
volgere lo sguardo verso la finestra. Si accorge subito di essere
rimasto a letto solo. Le lenzuola nella parte opposta sono state tirate
indietro in modo scomposto e il cuscino è stropicciato e si
trova ai piedi del letto. Allunga la mano per toccare il materasso e si
rende conto che è freddo, quindi Christian non si
è alzato da poco. Anche
Kyle si alza, infila le infradito lasciate la sera prima ai lati del
letto e scende alla ricerca di Christian. Tutta la casa è
ancora buia ma la porta di ingresso è stata aperta.
Dopo
aver camminato per circa dieci minuti scorge una figura sulla spiaggia,
seduta su una roccia. È senz’altro Christian.
Affretta il passo e lo raggiunge. Nota che è ancora in
pigiama e a piedi scalzi, capelli scompigliati.
-Pensavo
mi avessi lasciato da solo in California Chris…
Commenta
Kyle, cercando di assumere un tono scherzoso.
-Non
lo farei mai.
Risponde
lui, con tono affranto. Kyle si avvicina di più a lui,
si
siede sulla stessa roccia.
-Da
quanto tempo sei qui in spiaggia?
Chiede
Kyle.
-Non
lo so. Ho cominciato a camminare e sono finito qui. Sai, su questa
stess roccia Jonathan mi ha promesso di amarmi per sempre.
Ride
nervosamente. Una risata isterica, malinconica.
-Quante
parole al vento!
Kyle
non sa come ribattere. Non vuole restare in silenzio. Deve
assolutamente dire qualcosa, deve cambiare argomento. Eppure finisce
proprio per non dir nulla, rimane a fissare l’orizzonte
nell’attesa che sia di nuovo Christian a parlare.
-Ho
riflettuto in questi due giorni Kyle e sono arrivato alla conclusione
che è da Jonathan che dovresti stare.
Kyle
spalanca gli occhi e rivolge immediatamente lo sguardo verso Christian.
Scuote il capo.
-No,
no Chris. Cosa stai dicendo?
Christian
non risponde. Kyle gli afferra il polso e lo scuote con forza.
-Non
dire stupidaggini, dai! Guardami e dimmi che è solo
un’idea stupida!
Christian
lo guarda e Kyle si rende conto, da quell’espressione cupa e
stanca, di quanto poco possa aver dormito quella notte. I suoi occhi
sono arrossati e gonfi.
-Che
razza di esempio potrei mai darti Kyle? Come puoi continuare a vivere
con me, che non ho neanche il coraggio di affrontare i miei problemi.
Sono così codardo da scappare via ogni qualvolta le cose si
complichino. Sono scappato da New York perché vedevo
l’ombra di Jonathan dappertutto e non ce la facevo
più.
Tace,
per qualche secondo. Scuotendo il capo.
-…
e ora sono tornato ancora qui e non ho neanche la forza di fare una
visita alla clinica dove è ricoverato mio padre, dove sta
trascorrendo ormai il poco tempo che gli rimane.
Quanto
dolore e quanta sofferenza nelle parole di Christian. Kyle non si
sarebbe mai immaginato nulla del genere. Non biasima Christian nel suo
desiderio di scappare, affatto. Al contrario, è sempre
più convinto che il suo posto sia al suo fianco, ora
più che mai vuole stargli accanto. Lo abbraccia o meglio,
letteralmente gli si getta addosso, stringendolo con più
forza possibile. Il gesto sorprende Christian.
-Non
sei un codardo, Chris. Hai solo paura, è normale avere
paura. Ma io sono qui, accanto a te e non vado da nessuna parte, che ti
vada bene o no.
Christian
respira profondamente poi, con delicatezza, accarezza i capelli
arruffati del figlio.
-Non
mi merito la tua devozione il tuo rispetto, Kyle.
Il
ragazzo stringe più forte, quasi a rimarcare quanto ha
appena detto.
-Sei
mio padre e ti devo rispetto più di a chiunque altro, senza
contare che non c’è nessuno al mondo che mi voglia
bene quanto me ne vuoi tu.
--->
Salve! Poco spazio per i miei “commenti” questa
volta (sono di fretta!). Scrivo giusto per ringraziare jaryshanny che
mi commenta sempre puntualmente. Detto questo, l’appuntamento
è per il prossimo capitolo! <---
|
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Capitolo 25 *** Facing Problems (Affrontare i problemi) ***
25.
Facing Problems (Affrontare i Problemi)
-Ciao
papà.
Un
uomo dal capo bianco come la neve si gira. È seduto su di
una sedia a rotelle, indossa un paio di occhiali sottili che celano
occhi grigi, stanchi e opachi.
-Chi
sei?
Domanda
l’uomo.
-Sono
Christian, tuo figlio.
La
risposta non è accolta positivamente. L’uomo
scuote il capo e continua nel frattempo a scrutare quella figura
abbastanza giovane e di aspetto piacevole, che pare ricordargli
qualcuno.
-Ho
un figlio… sei tu?
Il
tono di voce dell’uomo è perso e sconnesso. Di
sicuro non sa cosa sta dicendo. Pronuncia forse le uniche parole che
siano rimaste nel repertorio del suo cervello, ormai ampiamente
danneggiato. Christian ha timore ad avvicinarsi ulteriormente, ha paura
che l’uomo possa scacciarlo il malo modo. Sa bene che non
sarebbe colpa sua, in ogni caso. Vorrebbe comunque prendergli la mano,
dirgli di guardarlo negli occhi e di cercare di trovare un frammento di
memoria che possa contenere il suo viso. Gli è costato un
grande sforzo, c’è voluto un grande coraggio per
decidersi di mettere piede in quella stanza d’ospedale ben
arredata. Avrebbe voluto tornare a New York con la stessa
rapidità con la quale era arrivato eppure, dopo
l’ennesimo gesto d’affetto e dimostrazione di forza
da parte di Kyle, non ha potuto fare a meno di mettere da pare la
codardia, ha afferrato con decisione il volante della macchina ed
è partito in direzione della clinica, situata pochi
chilometri fuori dai confini di Santa Monica.
Ora
che si trova davanti a lui, sulla soglia della sua stanza, non ha
però il coraggio di fare altro se non starsene impalato a
fissare quell’ombra d’uomo che anche lui stenta a
riconoscere. Sono passati due anni dall’ultima volta che ha
visto suo padre e certamente il tempo e il decorso della malattia non
sono stati generosi con lui. È magro, scarno. La pelle una
volta ambrata per il sole, frutto di lunghe giornate in riva
all’oceano a pescare, è ormai sbiadita. La carne
muscolosa si è afflosciata e ricade mollemente dalle ossa.
L’unica cosa che ancora possiede è la sua folta
capigliatura, ormai bianca. Gli occhiali, che Christian da sempre
ricorda, sono appoggiati pesantemente sull’osso di un naso
smagrito e quasi deformato. Porta
il solito abbigliamento estivo e colorato di sempre, che sembra
eccessivamente grosso ed appariscente per quel corpo deperito.
Una
visione che colpisce gli occhi e il cuore.
Molto
probabilmente Christian avrebbe notato in modo diverso quei
cambiamenti, se fosse stato presente e se si fosse preoccupato di
fargli visita più spesso. Tutto quell’insieme di
terribili mutamenti in una sola volta fanno a pensare a Christian di
trovarsi davanti ad un semplice sostituto che ricorda meramente
l’uomo al quale si ispira.
-Sì.
Risponde,
solo qualche secondo dopo.
Si
guarda attorno. È una stanza molto elegante, sua madre deve
averla scelta e arredata con cura. Tipico di lei, non vuole che nessun
dettaglio venga lasciato al caso. Qualcosa che naturalmente gli ha
trasmesso. Le pareti della stanza sono dipinte di un giallo carico e
forte che dà l’impressione che i raggi che
filtrano dalla finestra, rigorosamente protetta da una persiana, siano
ancora più intensi e calorosi.
Jack,
il padre di Christian, dà segno di volersi avvicinare.
Afferra con decisione entrambe le ruote della carrozzina e inizia a
spingerla con gesti ampi e lenti. Christian non si muove, lo fissa,
fissa le sue mani raggrinzite fare forza su quelle ruote sottili e
osserva la riduzione graduale della distanza che li separa. Quando i
due si trovano più vicini, Jack scruta con più
decisione il figlio, muove il capo a destra e sinistra per cercare di
cogliere ogni angolazione, dopodiché scuote il capo.
-No,
non sei Christian, lui è più bello.
Detto
ciò, afferra di nuovo le ruote della sedia e torna alla
posizione di poco prima, compiendo gli stessi gesti meccanici. La sua
frase in qualche modo ferisce Christian. È doloroso per lui,
non suscitare il benché minimo ricordo nella mente del
proprio padre. L’uomo infatti afferma di ricordarsi di avere
un figlio, del quale però non riconosce il volto.
-Non
lo vedo da anni, mio figlio. Chissà se verrà
prima che muoia…
Afferma
Jack, con non poca malinconia. Quella frase, per Christian,
è un doloroso colpo al petto. Teme che il suo cuore da un
momento all’altro cessi di battere.
Vorrebbe
urlare e dirgli “Sono qui, sono tornato”. Teme
però che servirebbe ben a poco. Se anche glielo dicesse,
l’uomo probabilmente rimarrebbe della propria opinione, anzi
rischierebbe di irritarlo.
-È
impegnato, lui. Ha una famiglia e insegna l’arte. Non ha
tempo per me.
Parole
dure, sicuramente cariche di sofferenza e astio. Vengono tuttavia
pronunciate in uno strano ton o assente e vago. Le parole
vengono scandite e perdono, singolarmente, il loro effetto.
-Sono
sicuro che suo figlio pensa sempre a lei.
Risponde
alla fine. Credendo che dargli retta sia la cosa migliore. Non lo
è comunque per lui. Si sente morire e sente come se la sua
gola cercasse di trattenere ogni parola che intende pronunciare.
-Sì?
Chiede
l’uomo, con tono di voce sorpreso e un’espressione
compiaciuta, simile a quella di un bambino al quale è stata
comunicata una piacevole notizia.
-Ma
certo!
Esclama
Christian, lottando con la sua bocca affinché possa
apparigli un sul volto un circostanziale sorriso.
-E
sai anche se verrà al mio funerale?
Christian
spalanca gli occhi. L’idea di una morte prematura del padre
è il motivo per il quale ha continuo a scappare, uno spettro
dal quale ha cercato in tutti i modi di sfuggire. In quei venti minuti,
o poco meno, l’argomento gli è stato scaraventato
addosso già due volte. La prima volta è riuscito
ad aggirarlo, è riuscito a tapparsi le orecchie e vorrebbe
farlo di nuovo, pronunciare una frase di falso ottimismo come
“Non dire così” o “Non ci
sarà alcun funerale”. Sa però che non
sarebbe di alcun aiuto a lui e che neanche suo padre riuscirebbe a
credergli, non più. Ormai è troppo tardi.
-Certamente.
Risponde
infine, mostrandosi deciso ma crollando internamente con la stessa
rapidità di un castello di carte sottoposto ad una raffica
di vento.
-Ora
devo andare. Arrivederci-
Si
blocca. Vorrebbe dire “papà” ma non
avrebbe alcun senso. Servirebbe solo a confondere ulteriormente
l’uomo e lui stesso. Così, si limita ad aggiungere:
-…
Jack.
Così
facendo gli pare quasi di salutare una persona qualunque, non il
proprio padre.
-Christian!
Grida
l’uomo, facendo voltare di scatto il figlio, già
in procinto di andarsene.
-Così,
si chiama lui…
Aggiunge
in seguito, quasi in un sussurro.
Christian
annuisce col capo per poi riprendere la sua strada. Ha un volo di
ritorno per New York che lo attende.
***
Lunedì
mattina è finalmente arrivato.
Ronald
è curioso o per meglio dire, ansioso, di rivedere Christian.
Spera in cuor suo di vederlo più sereno, più
riposato.
Lo attende da quasi un’ora nel dipartimento di arte e cammina
su e giù per la stanza nervosamente. Sono quasi le otto,
ormai. Christian dovrebbe avere una lezione alle otto e mezza e non si
è ancora presentato. Inizia a temere che abbia deciso di
prolungare la sua vacanza.
-Buongiorno,
Ronald!
Esclama
una voce molto gradita, proprio quella che stava aspettando.
-Oh,
Christian! Bentornato!
Esclama
lui, cercando di contenere, se possibile, l’entusiasmo dato
dall’averlo appena rivisto. È vestito nella solita
eleganza casual di ogni giorno, un abbigliamento totalmente differente
rispetto agli indumenti da spiaggia che gli aveva visto indosso durante
l’ultimo loro incontro.
-Come’è
andato il viaggio, tutto bene?
Chiede
Ronald, avvicinandosi a lui. Christian comunque ha l’aria di
essere piuttosto indaffarato. Senza rivolgergli un ulteriore sguardo si
siede sulla prima sedia libera al tavolone centrale alla stanza, vi
poggia la propria borsa e prende da essa una lucente cartelletta
gialla, dalla quale estrae dei fogli.
-Ti
sei portato il lavoro anche in vacanza, Christian?
Chiede
Ronald. In verità poco sorpreso dalla cosa. Christian
è sempre stato piuttosto ligio al dovere. Non ha mai
dimenticato nulla, ha sempre rispettato ogni scadenza e svolto ogni
mansione con la massima cura e precisione.
-No,
assolutamente.
Risponde
Christian, con lo sguardo fisso sui fogli che ha appena estratto. Con
la mano destra, l’indice, fa scorrere le parole sul foglio
che ha davanti a sé, mentre con quella sinistra tasta nella
borsa, probabilmente cercando di trovare una penna. Ronald cerca di
sbirciare qualche informazione su ciò che sta leggendo,
senza cercare di dare troppo nell’occhio e di far pensare che
si stia facendo gli affari suoi. La sua visuale gli mostra un documento
sottosopra su fogli stampati al computer.
-Ah
finalmente!
Esclama
Christian, una volta estratta una penna dal cappuccio nero dalla borsa.
-Spero
che scriva adesso!
Aggiunge.
-Non
per farmi gli affari tuoi ma… che diavolo stai facendo?
Chiede
Ronald. Christian alza il capo.
-Questo.
Afferra
il primo foglio del plico che ha appena estratto e lo alza, girandolo,
per permettere a Ronald di vederlo.
-È
una richiesta di separazione.
Ronald
spalanca gli occhi. Osserva il documento e legge chiaramente le
diciture tipiche e il simbolo del tribunale.
-Dio
mio Chris, hai trovato marito in California?
Chiede,
cercando di scherzare e sperando di far sorridere Christian.
-No.
Ho semplicemente deciso di prendere in mano le redini della mia vita e
voglio iniziare chiudendo per sempre questa faccenda, prima che mi
risucchi completamente.
Ronald
non sa, forse per la prima volta, come ribattere. Osserva il viso di
Christian mentre gli parla, le sue labbra, i suoi occhi. Si chiede cosa
possa essere successo in quel viaggio per averlo spinto a tanto. Non
riesce a decifrare la sua espressione. Non riesce a capire se sia
veramente deciso in quello che sta facendo, se veramente si stia
rendendo conto di tutto quanto o se semplicemente si stia forzando a
fare qualcosa per cui non è pronto e nella quale non crede
minimamente.
-Ti
apri verso nuovi orizzonti?
Chiede
Ronald. Non sa come altro ribattere. Vuole sapere di più,
verificare le se intenzioni di Christian sono ferme. Sa benissimo di
aver esordito nel modo sbagliato ma è l’unico che
conosce e lo preferisce all'opzione di restarsene in silenzio e
limitarsi ad annuire.
-Nuovi
orizzonti?
Chiede
Christian, facendo una smorfia.
-Sai,
dicono che una nuova storia a volte aiuti. Se è
così io posso… consigliarti…
Christian
lo ferma. Scuote il capo e sbuffa.
-Una
nuova storia? Ronald, quell’uomo si è portato via
tutta la mia vita. Non ho più forze, non ho più
nulla da dare e quel poco che mi rimane, credimi, lo tengo per me.
Questa
volta si limita ad annuire. Una qualsiasi parola dalla sfumatura
azzardata sarebbe di troppo. Ogni volta che Christian parla di
quell’uomo, anche indirettamente, senza nominarlo a chiare
lettere, la curiosità di Ronald di vederlo sale di
più. Vuole sapere com’è fatto, vuole
sentirlo parlare, vederlo muovere.
-Balle.
Tu hai molto altro da offrire.
Dice,
alla fine, in uno strano borbottio.
-No
ho dato tutto a Jonathan, tutto quanto.
Ronald
non sopporta le persone deboli, il vittimismo compassionevole e
l’autocommiserazione. Christian gli piace,veramente,
è una persona intelligente, responsabile.
Quell’atteggiamento vile non gli si addice.
-Quante
cazzate, Christian!
Urla.
Stupendo probabilmente il diretto interessato.
-Vorrei
proprio sapere chi diavolo è questo Jonathan Wallace! Che
razza di persona è in grado di ridurti ad un mollusco senza
palle! Ma ti ascolti quando parli, Christian?
Christian
non è concorde con il linguaggio che Ronald sta utilizzando
per descriverlo. Si alza dalla sedia e picchia entrambi i palmi della
mani sulla scrivania.
-Ronald,
non ti permetto in nessun modo di parlarmi così! Non sei
nessuno per dirmi queste cose. Non ho mai e dico mai capito chi tu
diavolo sia. Mi hai piazzato una confessione un giorno così,
per caso, dopo dieci anni. Non so nient’altro di te e tu
invece ti permetti di giudicami! Chi te lo conferisce questo titolo?
Avanti, illuminami!
Esclama,
gesticolando animatamente. Il suo viso è diventato rosso
dalla rabbia. Non è affatto quello che Ronald intendeva
scatenare in lui.
-Non
ti ho affatto giudicato, Christian. Ma se vuoi, lo faccio adesso.
Christian
aggrotta la fronte, probabilmente non capisce dove Ronald voglia
arrivare con quel discorso. Non parla e lo fissa in attesa della
risposta, in attesta di questo succitato giudizio.
-Non
hai il coraggio di fare quello che stai facendo. La domanda per la
separazione, lì davanti a te, non ci credi minimamente. Sei
ancora del tutto succube di quel tipo, di quell’uomo assurdo.
Christian
scuote il capo.
-Sai
Ronald, non ho mai capito niente di te. Non sono mai stato in grado di
dire se tu mi piacessi o meno. Ora
come ora, mi fai schifo.
Raccoglie
in fretta le sue corse e si dirige a passo rapido fuori dalla stanza.
Nel
frattempo, tre o quattro professori presenti nella stanza che hanno
assistito a tutta la scena tra Ronald e Christian rimangono per qualche
minuto in silenzio, per poi tornare a discutere separatamente dei
propri affari.
Ronald
si lascia cadere su una sedia e sbuffa, nervosamente, con esasperazione.
-Mi
faccio schifo anch’io…
Sussurra
guardando nel vuoto e pentendosi di ogni singola parola detta Christian.
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Capitolo 26 *** Real Intentions (Le Vere intenzioni) ***
26.
Real intentions (Le
vere intenzioni)
Non ha idea di come possa
essere finito il quel posto.
Se ne sta seduto su un
divanetto, piuttosto scomodo, un
martedì sera a mezzanotte quando invece dovrebbe tornare a
casa e riposare per
arrivare l’indomani fresco e pronto al lavoro. È
qualcosa che non gli piace,
perdere ore di sonno. Quando ha qualcosa di fare l’indomani,
qualcosa di
importante come il lavoro o qualche impegno, preferisce non privarsi
delle sue
otto o nove ore di riposo.
-Allora Dr. Jonathan
Wallace, ti stai divertendo?
Chiede Simon. Un vecchio
collega di lavoro che Jonathan ha
avuto modo di incontrare nel pomeriggio in occasione di una
collaborazione
professionale. Lo conosce da diversi anni quel tipo e non è
mai cambiato. Non
lo vedeva da qualche tempo e, dopo il lavoro, ha avuto modo di cenare
con lui
in un modesto ristorantino appena lontano dal suo studio psichiatrico.
-Vorrei sapere Simon, come
tu sia riuscito a convincermi a venire in questo posto.
Chiede, afferrando il
bicchiere di scotch che gli è appena
stato servito e posato davanti.
-Oh, Dr. Wallace! Un
po’ di divertimento serve a tutti, su!
Esclama, mettendogli
inaspettatamente un braccio attorno a
collo e afferrando, con la mano libera, la propria ordinazione: un
bicchiere di
Tequila piuttosto pieno.
È sempre stato
un tipo molto caloroso e affabile Simon,
della stessa età di Jonathan. Abbastanza scialbo di aspetto,
nessun tratto che
lo renda particolare o degno di un secondo sguardo. Corporatura media e
statura
modesta. Era comunque sempre stato circondato da parecchi amici, questo
perché
è da sempre dotato di simpatia e humour, un carattere che
difficilmente porta a
scontri, una persona che è in grado di andare
d’accordo con tipologie
caratteriali differenti.
A Jonathan piaceva, un
tempo, la sua compagnia. Lo conosce
dai tempi del college ed è il classico compagnone
universitario che ama
scherzare e divertirsi, una compagnia piacevole appunto.
Sennonché l’avesse
sempre ritenuto un tipo poco affidabile, qualcuno che racconta delle
grandi
storie e nient’alto.
-Oh finalmente! Eccolo!
Esclama Simon togliendo il
braccio dal collo di Jonathan e
alzandosi dalla sedia. Sta guardando in direzione della porta
d’ingresso e con
la mano fa cenno a qualcuno di avvicinarsi.
-Jackson! Ti aspetto da
quasi un’ora, accidenti a te!
Esclama mentre un uomo,
alquanto avvenente, si avvicina al
tavolo.
-Scusami Simon,
c’era parecchio traffico questa sera.
Risponde
il ragazzo,
prendendo una sedia da un tavolo vuoto e aggiungendola al posto nel
quale sono
seduti Jonathan e Simon.
-Jonathan ti voglio
presentare Jackson Smith, un ragazzetto
che da poco lavora come praticante al mio studio.
Il ragazzo di nome Jackson
allunga la mano in direzione di
Jonathan, che fa altrettanto stringendo quella del ragazzo.
-Piacere.
Esclama, con un sorriso
quasi forzato. Osserva il ragazzo,
piuttosto giovane a dire il vero. Ventidue, forse ventiquattro anni,
media
statura e gradevole nel complesso. Ha capelli corti di colore castano
chiaro e
gli occhi nocciola. Sbarbato, ben curato.
-Finalmente te
l’ho presentato, hai visto Jackson?
Il ragazzo abbassa lo
sguardo e arrossisce senza dire una
parola. Probabilmente aveva richiesto specificamente un incontro con
Jonathan.
Quest’ultimo non riesce comunque a spiegarsi il motivo
dell’imbarazzo di
Jackson.
-Sono così
famoso?
Esclama, scherzando e
sorseggiando un altro goccio di
scotch. Sul viso di Simon compare un largo sorriso, mentre Jackson
tiene ancora
lo sguardo rivolto verso il pavimento e non dà cenno di voler guardare di nuovo Jonathan
in viso.
-Sai, John…
Esordisce Simon, portando
di nuovo un braccio al collo di
Jonathan.
-… Jackie
lavora con me da tre mesi, durante i quali gli ho
parlato di spesso di te. Ammettiamolo, sei uno dei migliori psichiatri
della
zona.
È la prima
volta che Jonathan si sente porgere un
complimento del genere. Nessuno gli aveva dato mai particolari meriti
riguardo
al suo lavoro e non pensava neanche che lo si conoscesse. Svolgeva il
suo
lavoro con impegno e dedizione senza particolare fama di gloria o
desiderio di
riconoscimenti di qualsiasi tipo. Sentirsi definire “uno dei
migliori psichiatri
della zona” è qualcosa di estremamente nuovo per
lui.
-Addirittura? Non pensavo
ci fosse una classifica…
Ribatte, un po’
in imbarazzo a dirla tutta; cercando di
ironizzare la situazione.
Simon ride divertito e
anche Jackson sorride. Il suo
imbarazzo comincia a venir meno, alza lo sguardo dal pavimento e
rivolge delle
fugaci occhiate a Jonathan.
-Mi piacerebbe essere come
lei dottor Wallace,
un giorno…
Commenta timidamente
Jackson, quasi con un filo di voce.
Jonathan lo vede come un ragazzino impaurito e timoroso. Deve
senz’altro
perdere quella timidezza e farsi le spalle grosse, se vuole diventare
come lui.
Se semplicemente vuole riuscire nel suo mestiere, in fondo. Con un
attitudine
così timida e lasciva sarebbe fin troppo facile farsi
mettere i piedi in testa
dai pazienti, ultima cosa da fare nello svolgimento di quella
particolare
professione dove il controllo sul paziente è a dir poco
essenziale.
Vorrebbe dirgli tutto
questo ma preferisce tacere. Non è
affar suo e si tratta di un apprendista di Simon, spetta a lui il
compito di
insegnarli il mestiere.
-Non ci vuole troppo, per
essere come me.
Risponde Jonathan, con la
stessa modestia di sempre. Inizia
ad osservare più attentamente il ragazzo. I suoi gesti sono
rapidi, tocca il
bicchiere di alcool davanti a sé con la sola punta delle
dita, quasi temesse di
scottarsi e non è in grado di reggere uno sguardo per
più di una decina di
secondi. Non pensava che, al giorno d’oggi, esistesse ancora
quel tipo di
ragazzo timido e riservato. Non ne incontra uno da tempo o meglio, uno
l’aveva
incontrato, lo conosceva. Peccato però si fosse rivelato
più sveglio di quanto
sembrasse.
A questo pensiero
Jonathan rabbrividisce. Torna a fissare il ragazzo e cerca
di non andare
oltre alla semplice osservazione. Si chiede dove Simon possa averlo
trovato.
Non sapeva nemmeno che accettasse apprendisti. È una cosa
insolita in effetti.
Lui per esempio non ha mai ricevuto una proposta di apprendistato,
quindi deve
essere stato lo stesso Simon a cercarlo.
-Dimmi un po’,
Jackson. Come mai hai deciso di andare a
lavorare da Simon?
Il ragazzo fa per aprir
bocca, quando la voce di Simon
sovrasta completamente la sua.
-Beh! L’ho
trovato io e…
Jonathan alza la mano
destra in direzione di Simon,
facendogli cenno di smettere di parlare. Non è la sua
spiegazione che vuole
sentire, è quella del ragazzo che realmente gli interessa.
-Ho chiesto al ragazzo, se
non ti dispiace.
Jackson sorride e poco a
poco inizia a parlare, a spiegarsi.
***
Morgan sta aspettando Kyle
all’entrata dell’edificio da
qualche minuto. È arrivata in anticipo a scuola quella
mattina e dopo quel
lungo weekend non vede l’ora di rivedere l’amico.
Hanno potuto parlare soltanto
per una decina di minuti in quei tre giorni, cosa alquanto insolita per
due
amici inseparabili come loro.
Vuole abbracciarlo e farsi
raccontare per filo e per segno
tutto ciò che è accaduto in quei giorni, non lo
lascerà andare finché non avrà
scoperto anche il minimo particolare.
È una tipica e
calda mattinata estiva. Le fronde spesse
lungo il vialetto che porta all’entrata
dell’edificio filtrano dei caldi e
luminosi raggi di sole. Morgan chiude gli occhi e si lascia colpire in
pieno
viso da quei raggi così caldi e avvolgenti. Le piace
parecchio prendere il sole
e non vede l’ora arrivi l’estate per poter
trascorrere dei lunghi pomeriggi in
riva alla piscina pubblica ad abbronzarsi e rilassarsi.
Apre gli occhi, giusto in
tempo per vedere Anthony Edwards
camminare, senza zaino e con abiti alquanto formali verso la sua
direzione,
accompagnato da due uomini adulti, anch’essi dotati di una
certa eleganza. Uno
dei due dovrebbe essere il padre del ragazzo, ha la stessa camminata
rigida e
la stessa corporatura.
I tre raggiungono
l’entrata per poi varcare la soglia.
Anthony, prima di entrare si blocca e guarda Morgan, senza parlare. La
fissa
soltanto. Anche lei fa altrettanto. Poi, dopo qualche istante, il
ragazzo alza
la mano destra, la saluta sorridendo e riprende la sua strada, seguendo
i due
uomini eleganti che ormai sono già all’interno
dell’edificio.
Si chiede, Morgan, cosa
possa essere successo. Quella scena
ha qualcosa di estremamente insolito e a tratti inquietante.
Guardandosi in
giro si rende conto di non essere stata l’unica a fermarsi
per guardare. Almeno
una decina di ragazzi sparpagliati per il cortile scolastico sono fermi
e
fissano nella sua stessa direzione, dove ormai non
c’è più nulla. Morgan sa che
i genitori di Anthony sono più che benestanti e che buona
parte dei fondi
versati in beneficenza provengono dalle loro tasche. Si può
dire che almeno un
quarto di quella scuola sia proprietà degli Edwards. Tutte
le generazioni di
quella famiglia hanno frequentato l’istituto fino ad arrivare
ad Anthony e suo
fratello maggiore Thomas.
La ragazza inizia a
sospettare che in qualche modo possa
essere coinvolto anche Kyle in tutto quello. Trova assurdo che una
semplice
ragazzata possa scaldare tanto gli animi della famiglia Edwards da
creare
qualcosa di grande.
“Ragazzata.”
Inizia a dubitare della
correttezza dell’aggettivo. Si
ricorda della conversazione telefonica con Anthony di qualche giorno
prima.
Avrebbe dovuto riferire il contenuto della conversazione a Kyle, come
le era
stato richiesto da Anthony ma, inspiegabilmente, non l’aveva
fatto. Era finita,
forse per caso o forse volontariamente su tutto un altro discorso e
aveva
lasciato correre.
-È successo
qualcosa?
Chiede, una voce che
aspettava di sentire da qualche giorno
ormai.
-Kyle! Finalmente!
Esclama lei, vedendoselo
davanti. Il ragazzo si sta
guardando in giro, probabilmente insospettito dalla calma generale del
cortile.
-C’è
fin troppo silenzio in questa scuola, o sbaglio?
Domanda lui.
-Si, hai
ragione…
Non riesce a dire altro.
Ancora una volta non riesce a
nominare Anthony in sua presenza. Perché mai? L’ha
sempre fatto. Ha sempre
insistito sulla storia tra i due, ha sempre cercato di farli incontrare
e ora
fa fatica persino a raccontare un episodio che semplicemente coinvolga
la
figura del ragazzo.
-Questo posto è
sempre più strano. Ad ogni modo, è successo
qualcosa durante la mia assenza?
Morgan non sa come
rispondere. A tutti gli effetti, a
scuola, non è successo niente e quindi se anche rispondesse
“Non è successo
nulla” non mentirebbe.
-Niente di niente.
Risponde alla fine.
Tacendo ancora una volta.
-Piuttosto…
raccontami del tuo weekend sono molto, molto
curiosa!
Esclama, cercando di
metterci più entusiasmo e interesse
possibile. Vuole cambiare totalmente argomento, è
l’unico modo per distoglierla
dai propri pensieri.
***
È mercoledì
mattina e
Gregor è già a metà della sua
settimana lavorativa. Come è solito fare ogni
giorno ha sistemato le sue carte, controllato fax ed e-mail e si
è infine
seduto sulla sua poltrona nell’attesa dell’arrivo
del primo paziente. Non ha
controllato la propria agenda il giorno prima e non sa quindi chi si
troverà
davanti di lì a poco.
Improvvisamente la porta
principale dello studio si apre con
decisione, facendolo balzare dalla sedia.
-Gregor, ho assolutamente
bisogno di parlarti! Scusa
l’improvvisata.
Esclama Jonathan,
irrompendo nello studio e avvicinandosi
alla scrivania. Prende posto su una delle due sedie destinate ai
pazienti e
fissa Gregor nell’attesa di una risposta. L’uomo
è ancora abbastanza sconvolto
da quella sua visita, per così dire, a sorpresa e non riesce
a decidersi ad
aprir bocca.
-Certo devo dire John che
nonostante ti conosca da più di
vent’anni la tua capacità di sorprendermi non la
perderai mai.
Afferma poi infine, deciso
ad ascoltare ciò che ha
intenzione di dirgli.
Il suo aspetto
è alquanto singolare, fin troppo disordinato
e i vestiti che indossa sono visibilmente stropicciati. Se non fosse
certo di
quanto tiene alla bella presenza e al suo aspetto, Gregor sarebbe
pronto a
scommettere che stia indossando gli stessi abiti del giorno precedente.
-Ad ogni modo, qual
è il tuo problema?
Chiede Gregor, dandogli il
via libera per parlare.
-Non lo so, per questo
sono qui da te.
Risponde Jonathan con
franchezza. Gregor annuisce.
-Bene. Raccontami qualcosa
allora, avanti.
Si appoggia allo schienale
della sedia, in attesa di una
spiegazione. Non è sicuramente lui il paziente che stava
aspettando quella
mattinata ma vedendolo in quello stato non può assolutamente
scacciarlo.
-Sarò breve.
Ieri sera
sono uscito con un collega. Questo collega mi ha presentato un ragazzo,
vicino
ai trenta credo. Bell’aspetto, persona interessante. Insomma,
mi piaceva. Mi
piaceva al punto di volermelo portare a letto ed è
esattamente quello che ho
fatto.
Gregor inarca le
sopracciglia. Non lo credeva tanto audace e
di certo non si aspettava un simile dichiarazione. Tuttavia sapeva che
prima
poi avrebbe trovato un nuovo compagno, dopotutto il sesso è
un bisogno
fisiologico e, a dirla tutta, lui non si stava impegnando abbastanza
per
tenerlo al suo fianco ed evitare che andasse a sfogare i suoi bisogni
su uno
sconosciuto.
-Non vedo cosa ci sia di
male. L’astinenza non è proprio il
tuo forte, per quel che so.
Jonathan scuote il capo.
-No. Non è
questo il punto.
Gregor non capisce ma non
parla, si limita a rivolgergli uno
sguardo confuso, attendendo che sia Jonathan stesso a fornirgli una
spiegazione.
-Non ce l’ho
fatta. L’ho trascinato in un motel, il primo
nelle vicinanze e… niente l’ho lasciato andare.
Rimane in silenzio per
qualche minuto ma Gregor è certo che
il suo discorso non sia finito.
-L’ho baciato e
ho rivisto in lui l’immagine di Christian.
Era come se lui fosse stato lì, davanti a me. Come se il
corpo di quel ragazzo
fosse stato rimpiazzato dal suo e… non sono riuscito a fare
assolutamente
nulla. Mi sono alzato, rivestito e sono tornato a casa a
piedi…
Lo sguardo di Jonathan
è alquanto enigmatico. Non è
disperato o confuso come nei suoi ultimi incontri con lui. Sembra quasi
rassegnato eppure gli angoli della sua bocca sono inarcati in un mezzo
sorriso.
Gregor non vuole chiedere nulla riguardo al suo stato d’animo
vuole intuirlo,
dalle sue parole magari.
-Sarà il senso
di colpa o… non lo so cos’è! Eppure
l’ultima
volta che l’ho tradito l’ho fatto senza pensarci
due volte e mi è piaciuto. Il
rimorso l’ho avvertito dopo, a fatto compiuto. Mi chiedo solo
cosa sia
cambiato. In fondo all’ora avevo qualcosa da perdere mentre
ora non ce l’ho
più. Non ho più niente, allora perché?
Lo guarda, lo osserva e
gli rivolge uno dei suoi sguardi più
profondi. Sta semplicemente cercando una risposta, una spiegazione ad
un gesto
che trova insensato e assurdo.
-La tua è paura
John. Hai paura di rivivere lo stesso dolore
che hai provato quando hai fatto la tua prima scappatella, non te ne
devi
vergognare.
Gregor sorride. Il caso di
Jonathan gli appare sempre più
interessante e crede che quello possa essere il momento giusto per fare
la
mossa che ha programmato da tempo.
Gli si prospettava una
giornata di lavoro probabilmente
lunga e noiosa. Quella visita improvvisa di Jonathan ha cambiato le
sorti della
sua giornata e dopo aver sentito le sue parole ed aver constato di
essere ormai
tornato la fonte unica ad ogni sua risposta insoluta, decide che forse
è
arrivato il momento per fare ciò che deve.
-Mi vuoi scusare un
secondo?
Chiede. Jonathan annuisce
col capo, senza parlare.
Immediatamente Gregor
afferra il telefono e compone il
numero interno della sua segretaria.
-Patricia, cancelli tutti
i miei appuntamenti per oggi.
Riattacca e torna a
fissare Jonathan.
-Come dicevo, John, la tua
è paura ma… potrebbe esserci
anche dell’altro.
Jonathan non capisce e
fissa Gregor con curiosità.
Gregor si alza dalla sedia
e raggiunge Jonathan all’altro
capo della scrivania.
-Forse quel ragazzo non
era la persona giusta, non credi?
Jonathan annuisce.
-Beh, probabilmente.
Gregor sorride e si
avvicina di più a lui, si siede sul
bordo della scrivania proprio di fronte a Jonathan.
-Lo so io, chi
è la persona giusta per te.
Afferma, tenendo con lui
uno sguardo sempre fisso e
pronunciando le parole in una specie di sussurro.
-E chi?
Chiede Jonathan,
ingenuamente.
-La stessa persona che non
ha mai smesso di amarti in questi
venticinque anni.
Si avvicina ulteriormente.
Quel contatto spaventa e irrita
Jonathan che lo respinge immediatamente.
-Non scherzare Gregor.
Gregor scuote il capo.
È infastidito dall’essere stato
respinto da Jonathan ma non demorde, forse non è stato
abbastanza persuasivo.
-Non sto affatto
scherzando.
Jonathan si alza
immediatamente dalla sedia. Il suo sguardo
è quasi disgustato. Anche Gregor si alza e lo raggiunge.
-Gregor, sono
già abbastanza confuso, evitami queste
sciocchezze per favore.
La voce di Jonathan ora
è fredda, pronuncia ogni parola con
astio e indifferenza. Questo suo atteggiamento inizia ad infastidire
Gregor.
-Lo sai bene che ti amo
John e mi ami anche tu.
Jonathan scuote il capo.
-Non puoi basarti su cose
successe secoli fa Gregor. Ero un
ragazzino e avevo perso mio padre. Questo cercavo in te, un padre e non
di certo
qualcuno da cui farmi sbattere.
Jonathan si passa
nervosamente una mano tra i capelli e
scuote di nuovo il capo con rassegnazione.
-John, ammetti di provare
qualcosa di più di semplice
affetto per me. Sei sempre qui e, se non hai perso la memoria siamo
stati
insieme io e te, non poco tempo fa, proprio in questo ufficio.
Esclama Gregor, con
asprezza.
-Ero sconvolto e il mondo
mi era letteralmente crollato
addosso, non me ne rendevo conto.
Giustifica Jonathan.
-Già, non sono
io la persona che ami è il tuo prezioso
Christian. Uno schifoso spogliarellista, ecco cos’era e cosa
resterà sempre,
una puttana!
Urla Gregor, irritando
John parecchio.
-Cosa? Senti da che
pulpito! Tu! Proprio tu che ti sei messo
con mia madre per arrivare a me!
Il viso di Jonathan
è diventato paonazzo, le sue braccia
sono lasciate lungo i fianchi e i suoi pugni serrati.
-Io… io me ne
vado e ti assicuro che non metterò piede qui
dentro finché non avrai imparato a misurare le parole che
tiri fuori dal quel
buco infernale che hai per bocca.
Dice Jonathan, sbollendo
dalla rabbia e con un tono sempre
astioso ma più tranquillo.
Gregor non può
permettere di farlo andare via, non dopo
tutta quella discussione, quella confessione. Rischierebbe di non
vederlo più.
Deve giocare la sua ultima carta.
-Se ti allontani da me non
hai più nessuno John, da chi
andresti? Lui non ti riprenderà con sé.
Se resti con me, presto anche Kyle ci
raggiungerà.
Jonathan spalanca gli
occhi.
-Cosa c’entra
ora Kyle con tutto questo discorso? Nemmeno lo
conosci!
Gregor fa una smorfia, si
avvicina di più a lui, con fare
malizioso.
-Qui ti sbagli. Per un
fortuito caso ho avuto il piacere di
esercitare la mia professione nella sua scuola e ho tenuto alcune
sedute con
lui. Ragazzino interessante, intelligente. Per certi versi assomiglia a
te. Per
questo mi è stato facile lavorare sulla sua mente. Mi
bastano ancora un paio di
sedute e… vedrai che scapperà da
quell’essere smidollato di Christian e tornerà
tra le tue braccia!
Lo sguardo di Jonathan
è spaventato. I suoi occhi sono sgranati
e la sua bocca semi-aperta. Non è la reazione che Gregor si
aspettava.
-Tu sei pazzo…
completamente pazzo! Stai lontano da mio
figlio e da me!
Rapidamente raggiunge la
porta e la chiude, sbattendola rumorosamente.
---> Eccomi di nuovo dopo
tanto, tanto tempo. Avete
appena finito di leggere l’ultimo capitolo (fin’ora
scritto) della mia storia.
Questa sera ho intenzione di proseguire, qualche pezzo qua e
là l’ho già
scritto. Devo solo mettermi d’impegno e collegare e mettere
in stesura tutto
quanto. Ora che ho terminato gli esami della sessione estiva sono
libera e
spero di riuscire a fare, dopo questo, almeno un altro aggiornamento
prima di
partire per le vacanze. Non vi do date (non saprei cosa dire) ma,
pazientate =)
detto questo alla prossima!
|
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Capitolo 27 *** Strange Suddenly Sadness (Strana, improvvisa tristezza) ***
27.
Strange Suddenly Sadness
(Strana, improvvisa tristezza)
-Cosa? Anthony Edward ha
chiesto il trasferimento?
Afferma una ragazza nel
corridoio. Questa particolare
affermazione coglie l’attenzione di Kyle che si trova in
procinto di
raggiungere l’aula di biologia. Si ferma e decide di chiedere
spiegazioni alla
ragazza, che neanche conosce.
-Scusa ho ascoltato il tuo
discorso, cosa sai del
trasferimento di Anthony Edwards?
La ragazza lo guarda
intimorita. Molto probabilmente le voci
del suo “servizietto” ad Anthony hanno raggiunto
anche le sue orecchie e sembra
incerta nel rivolgere la parola a Kyle. Si limita a fissarlo con la
bocca
aperta e lancia occhiate all’amica con la quale stava
parlando prima che Kyle
la interrompesse, anche lei ammutolita.
-È…
è una voce che circola in corridoio da questa mattina.
Afferma poi, rapidamente e
con non poca timidezza.
-Una voce…
Ripete Kyle.
La ragazza annuisce.
-Bene, grazie per
l’informazione.
Deve vederci chiaro su
quella faccenda. Morgan non frequenta
sua la stessa lezione, si trova in un aula poco distante dalla sua,
deve
raggiungerla e parlare con lei di ciò che ha appena sentito.
Manca poco
all’inizio della lezione di biologia, non ha
intenzione di arrivare in ritardo, ne ha fatti troppi di ritardi e teme
di
incorrere in un punizione nel farne un ulteriore. Non ha intenzione di
passare
i pomeriggi estivi nell’aula delle punizioni.
Corre, senza vedere
ostacoli davanti a sé, noncurante del
divieto di corsa nel corridoio, che potrebbe costargli una punizione
della
stessa gravità di quella conseguibile con un numero elevato
di ritardi.
Durante la sua frettolosa
corsa contro il tempo
incontra, come
prevedibile, un
ostacolo. È una persona di un imponente
statura. Chiude gli occhi e prega di non essere incappato in un
professore, non
potrebbe capitargli nulla di peggio.
-Kyle, ti sei fatto male?
Si, qualcosa di peggio
poteva capitargli, trovarsi faccia a
faccia con Anthony, dover affrontare un incontro per il quale non era
nemmeno
pronto.
-Anthony. No, sto bene.
Scusa, devo andare.
Vigliacco.
Ancora una volta scappa da
lui. Non riesce a fissarlo, a
reggere il suo sguardo per più di dieci secondi e non ha
nemmeno il coraggio di
sopportare la benché minima conversazione con lui.
È un comportamento meschino,
scorretto. Lui stesso odierebbe chiunque gli rivolgesse un trattamento
simile.
-Aspetta.
Anthony lo afferra per un
braccio e lo trattiene. Questa
volta non può scappare, non ci prova perché
è certo che ora, anche se si mettesse
a correre, sarebbe tutto inutile; Anthony lo raggiungerebbe di nuovo.
Senza
contare l’infantilismo del gesto stesso.
-E così te ne
vai…
Esclama di getto. Subito
dopo si porta le mani alla bocca,
quasi volesse evitare un’ulteriore fuoriuscita di parole
indesiderate. Non è la
prima volta che gli capita una situazione simile, non è la
prima volta che le
parole gli scappano di bocca senza riceve alcun ordine da parte del
cervello.
Ormai deve essere arrivato al limite, la sua bocca ha deciso di
prendere
statuto autonomo e di agire di proprio punto senza aspettare un suo
comando.
-L’hai saputo,
eh?
Kyle annuisce. Cerca
timorosamente di alzare lo sguardo e di
guardarlo dritto negli occhi. Nessun gesto gli è mai
sembrato così difficile.
Improvvisamente la
campanella suona, avvisando gli studenti
di entrare immediatamente nelle aule per seguire la lezione. Il suono
forte e
squillante sorprende i due ragazzi che in quel momento credevano quasi
di
trovarsi in un universo occupato da loro due soltanto.
-Se ne sei a conoscenza,
avresti potuto venirmi a salutare,
almeno…
Prosegue infine,
infastidendo Kyle.
-E perché avrei
dovuto?
Risponde aspramente.
Riconsiderando poi il tono usato da
Anthony nel pronunciare la sua ultima frase; gli è parso
sconsolato. Perché mai
dovrebbe essere sconsolato? Una frase del genere, in una situazione
analoga,
lui l’avrebbe pronunciata in modo pungente, chiaramente
sarcastico.
Anthony lo guarda, la sua
bocca è semi-aperta, riesce ad
emettere un mezzo suono. Ha sicuramente qualcosa da dire ma non parla.
Dopo
qualche istante richiude la bocca, serra le labbra e inclina
leggermente il
capo.
-Già, non
c’è motivo. Beh, ti saluto allora.
Afferma, passandogli
affianco per poi andarsene via.
Il corridoio si
è svuotato e tutti quanti sono,
probabilmente, ai loro posti nelle loro aule, tranne Kyle, ancora in
piedi nel
bel mezzo del corridoio a rimuginare sull’ennesimo incontro
insolito con
Anthony.
È tardi per
presentarsi in aula e, in piena onestà, non ne
ha alcuna voglia.
Dopo circa
un’ora di attesa in cortile vede finalmente
Morgan dirigersi verso di lui. I suoi capelli biondi ondeggiano al
leggero
venticello estivo mentre lei si affretta rapidamente a raggiungerlo.
-Kyle! Ho letto ora il tuo
messaggio!
Esclama, con respiro
affannoso non appena si trova davanti a
lui.
-Stai bene? È
successo qualcosa?
Chiede, in una seconda
ripresa.
-Sapevi che Anthony si
è trasferito in un’altra scuola?
Chiede Kyle, ignorando
ogni domanda dell’amica, limitandosi
a porne una lui stesso.
-È una voce che
circola da stamattina ma onestamente non ci
credo. Voglio dire, praticamente è di suo padre questo posto!
Risponde Morgan, con
ovvietà.
-È vero invece.
Ribatte lui, sorprendendo
l’amica che spalanca gli occhi
stupita e si mette subito a sedere accanto a lui.
-Come lo sai?
Chiede infine, con un tono
di live diffidenza.
-L’ho incontrato
poco fa, nel corridoio. Stava andando via…
Risponde Kyle, senza
guardarla, utilizzando un tono vago,
perso.
Mentre parla con Morgan
non riesce a smettere di pensare al
comportamento di Anthony, a quel suo tono flebile. Dopo le sue parole
aspre
stava per dire qualcosa che pareva avere una certa importanza che, a
detta di
Kyle, poco aveva a che fare con le parole utilizzate
nell’esprimere congedo.
-E che cosa ti ha detto?
Kyle non sa cosa
risponderle, ha paura di passare per
paranoico nel riportare le parole del ragazzo, aggiungendovi i propri
dubbi al
riguardo.
-Allora? Cosa ti ha detto?
Chiede ancora lei, con
impazienza, afferrandogli un braccio
e schiacciandolo inconsciamente con troppa forza.
-Ahi! Morgan ma che ti
prende?
Esclama Kyle,
scrollandosela di dosso.
-Scusa. Volevo solo
sapere…
Risponde Morgan, con
mortificazione.
***
Sono
le sette di sera, il sole
non è ancora tramontato, permettendo a qualche debole raggio
di luce di
filtrare dalle finestre.
Jonathan
ha appena terminato la
sua giornata lavorativa, ha congedato la segretaria e sta sistemando le
ultime
pratiche della giornata. È parecchio stanco. Non
è stato in grado di dormire la
sera prima, non dopo l’incontro con Gregor.
Quest’ultimo ha cercato di
chiamarlo svariate volte, sul cellulare e direttamente in ufficio. Il
suo
cellulare ora è spento, sulla scrivania davanti a lui.
“Lui
non ti riprenderà con sè.”
La
frase che continua a
frullargli in testa. Non può fare altro che dargli ragione,
ha maledettamente
ragione. Dopo tutto quel tempo, dopo tutto quello che è
successo, nemmeno lui
stesso, a ruoli invertiti, sarebbe disposto a cancellare tutto quanto.
Sospira
e si lascia andare sulla
sedia. Chiude gli occhi e ripensa a quella sera,
c’è un piccolo particolare che
si era dimenticato di dire a Gregor o forse l’aveva fatto
volutamente. Una
volta lasciato l’albergo era tornato a casa. No, non quello
squallido, sporco,
disordinato e sterile appartamento. La sua casa, quella dalle pareti
azzurro
marino che lui stesso aveva dipinto quindici anni prima, dal tavolo da
pranzo
di vetro, scheggiatosi entrando dalla porta d’ingresso.
Quella
sera, una volta pagato il
conto alla hall del motel, aveva iniziato a camminare, sguardo vacuo,
un grande
peso ad opprimerlo e l’impressione che da un momento
all’altro il cuore avrebbe
smesso di battergli nel petto e sarebbe caduto, a peso morto, su
qualche
marciapiede, dove forse un passante occasionale si sarebbe accorto di
lui. In
quel caso, chi avrebbe chiamato? Chi sarebbe accorso a raccogliere il
suo corpo
esanime? Non aveva più nessuno. Quando tutti quei pensieri
gli si erano
raccolti in mente e urlavano fino a farlo impazzire, aveva alzato lo
sguardo e
si era reso conto di aver, forse senza pensarci, percorso quella strada
a lui
tanto familiare.
-Casa…
Aveva
sussurato e subito il suo
sguardo aveva iniziato a cercare quella finestra, al terzo piano, che
affaccia
sulla strada, quella della camera da letto. La luce era accesa,
Christian era
là. Leggeva probabilmente, com’era solito fare a
letto da sempre. Dopo qualche
minuto di pura contemplazione Jonathan si era reso conto, realmente, di
dove
fosse, aveva scosso il capo e si era immediatamente allontanato. Il
timore che
Christian si fosse potuto affacciare alla finestra, aveva iniziato a
pervaderlo.
Jonathan
apre gli occhi.
Istintivamente guarda il secondo cassetto della sua scrivania e inizia
a
frugare, estrae tutto ciò che non gli interessa e lo getta
sul pavimento. Le
sue mani si muovo frenetiche nella sua ricerca mirata alla posizione
più
profonda di quel vecchio cassetto. Cartelle, fogli, penne mezze vuote
si
ammassano poco per volta sul pavimento, generando un innegabile caos.
Infine
eccolo, in fondo al cassetto, quello che cercava.
La
foto di Christian e lui
abbracciati e accanto a questa, la sua fede. Quel delicato cerchietto
d’oro con
incisa l’epigrafe:
“Insieme, per più di
un’eternità. Christian”
Non
ha il coraggio di
rimettersela al dito eppure la rigira fra le mani, la guarda e la
riguarda. È
un po’ impolverata e opaca. Allunga la mano destra per
afferrare nella giacca,
appesa sulla sedia alle sue spalle, un fazzoletto di stoffa che
dispiega e con
il quale inizia a pulire l’anello, finché non
ritorna a brillare,
completamente.
Infine
passa alla foto,
conservata in una finissima cornice argentata con delicati ricami
dorati, che
prende in mano e osserva. Giace in fondo a quel cassetto da mesi ormai.
Il suo
sguardo sfugge e gli permette di notare l’ammasso di carta e
quant’altro sul
pavimento. Nonostante quel prezioso ricordo sia stato sepolto da quel
ciarpame,
non se n’è mai dimenticato.
Sapeva bene
dove fosse, sapeva bene dove cercare.
Sorte
ingloriosa, per quella
foto, quella di finire a prendere polvere in fondo ad un cassetto
raramente
aperto, dopo anni nei quali veniva orgogliosamente esposta ai pari di
un trofeo
da caccia. Quella stessa immagine, che l’aveva fatto
soffrire, pochi giorni
dopo la separazione da Christian, ora gli arreca un curioso sollievo.
Gli
riporta alla mente quei momenti felici, nei quali i muscoli della sua
bocca
quasi si stancavano di stare tesi, per sorridere. Certo, una foto non
può ben
rappresentare una vita insieme. In quei quindici anni di relazione,
c’erano
stati dei momenti bui, delle discussioni. Eppure riguardando al
passato,
confrontandolo alla situazione attuale, non può fare a meno
che pensare a
quanto fossero sciocchi e insensati i
battibecchi di allora.
Respira
profondamente,
distogliendo lo sguardo dalla fotografia, che le sue mani pare non
abbiano
intenzione di posare. Abbassando di nuovo lo sguardo nota una goccia
sul vetro
della cornice della foto, poi un’altra, un’altra
ancora. Al momento non riesce
a capire da dove queste provengano poi, con non poca incertezza, si
tocca poi
il viso e lo trova completamente bagnato. Sta piangendo. Aveva quasi
iniziato a
credere che i suoi occhi non fossero in grado di secernere lacrime.
Non
riesce a ricordarsi l’ultima
volta in cui ha veramente pianto,
forse per la morte di suo padre o… forse nemmeno allora. È una
sensazione strana. Ha visto Christian
piangere il giorno in cui si sono separati ma lui non ha versato
nemmeno una
lacrima e ora, a distanza di mesi, si trova a piangere, nella
più completa
disperazione, davanti ad una fotografia e un anello. Due elementi
strettamente
legati alla cosa più importante che abbia mai fatto parte
della sua vita:
Christian.
--> Capitolo fresco di stesura
^^ Beh, veramente la parte
di Kyle l’ho scritta mesi fa, quella di Jonathan è
di ieri sera. Non è facile
riprendere in un mano un testo dopo mesi, sapete? Spero di essere
riuscita a
produrre comunque qualcosa di decente. Ho guardato la data del mio
ultimo
aggiornamento e risale ad una settimana fa! Caspita, ho fatto in fretta
per i
miei tempi XD Scherzi a parte, penso che questo sarà
l’ultimo aggiornamento
fino a fine agosto. Questa fine settimana parto e starò via
tre settimane circa…
Il nuovo capitolo è ancora tutto da scrivere ma le idee
(almeno quelle!) ci
sono. Detto ciò vorrei ringraziare per i commenti .
Kiku_san,
new
entry tra i miei “followers” (fa tanto Twitter
questa parola) che ringrazio
anche per i suggerimenti di correzione. In effetti temo di abusare
spesso della
parola “esclama” e mi pare di ricordare di aver
avuto problemi con il termine “lascivo”,
piazzato *ahimè* in mancanza di una parola più
adatta. Ringrazio naturalmente
anche Jaryshanny che mi segue
sempre
e puntualmente commenta. Per
Gregor posso
quasi dirti di stare tranquilla, non credo
ritornerà… non nei prossimi capitoli
almeno! Ma più avanti chissà… XD
Ok, ora è veramente tutto.
Alla prossima =) <--
|
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Capitolo 28 *** Just Shocking (Scioccante) ***
28.
Just Shocking (Scioccante)
Kyle
è a casa. È presto e
Christian non è ancora tornato dal lavoro. Adora i pomeriggi
di trascorrere in
solitudine, ha la casa a sua completa disposizione, può
aprire tutti gli
armadietti, mangiare quante patatine vuole e ascoltare la musica in
salone a
tutto volume, senza che Christian corra ad abbassare lo stereo o gli
strappi di
mano il tubo maxi di Pringles alla paprika.
Entra
nell’appartamento e
richiude a chiave la porta alle sue spalle, Christian non fa che
ripetergli da
anni di chiudersi ben stretto in casa quando è solo e anche
lui si sente più
sicuro dopo i soliti quattro giri di chiave nella porta. Sbatte la
cartella sul
divano, si toglie le scarpe gettandole disordinatamente accanto alla
porta
d’ingresso e si precipita allo stereo. Non ha alcuna voglia
di mettersi a
scegliere un cd dallo straripante contenitore accanto alle casse.
Accende lo
stereo e fa partire il primo cd rimasto nel lettore, la cattiva
abitudine sua e
quella di Christian è quella di spegnere
l’apparecchio senza preoccuparsi di estrarre
il cd ascoltato. Qualcosa che Jonathan ha sempre rimproverato,
inutilmente, ad
entrambi e che è costato nel corso degli anni parecchi cd,
buttati poiché
graffiati o rovinati.
Lo
stereo è parecchio vecchio.
Era stato bello un tempo, super accessoriato. Quatto lettori di dischi,
radio
incorporata, mangianastri e quatto altoparlanti belli grossi e potenti.
Un
gioiellino invidiato, negli ormai passati anni ’90. Il tempo,
l’utilizzo
ripetuto e la polvere l’hanno reso purtroppo un vecchio
catorcio lento e
rumoroso. Nessuno aveva mai pensato di buttarlo o di rimpiazzarlo, aveva servito quella
famiglia da anni, si era
sorbito cd di canzoni di cartoni animati, musica classica, canzoni per
bambini,
musica rock, audiolibri e quanto altro. Non poteva assolutamente essere
buttato! Tuttavia, quel vecchio arnese stava vivendo ultimamente i suoi
ultimi
giorni di servizio. Ci voleva quasi un minuto prima che il cd partisse,
qualunque esso fosse e spesso si bloccava.
Kyle
preme il tasto start e poi
si allontana in direzione della cucina per scegliere lo snack da
consumare quel
pomeriggio. Dopo un attento frugare tra vari pacchetti decide di
scegliere dei
popcorn al caramello. Christian ripone sempre sulla mensola
più alta quel
genere di schifezze e cerca spesso di nasconderli dietro qualche
scatola di
fagioli o piselli, sperando che Kyle non li noti ed eviti di mangiarli.
Speranza, ovviamente, vana. Il ragazzo afferra il pacchetto con due
mani e lo apre,
per poi rovesciarlo in una ciotola più grande.
Sta
canticchiando. Non sa bene
cosa ma quel motivetto del quale non ricorda bene musica e parole ronza
nella
sua testa dall’uscita da scuola. Per quanto si sia sforzato
sul pullman di
ricordarlo, andando anche a cercare tutti i brani dimenticati della
memoria del
suo i-Pod non è riuscito a trovarlo.
Nel
frattempo lo stereo ha
iniziato a funzionare, sente una musica provenire dal salone che non
subito
riconosce. Prende la ciotola dei popcorn, afferrandone subito uno come
primo
assaggio, spegne la luce della cucina e si dirige in sala, dove la
canzone sta
ancora suonando.
“Let's
hear it for the
boy, let's give the boy a hand, let's hear it for my baby, you got to
understand… “
Si
blocca. È proprio quella la
canzone che ronzava nella sua testa. Purtroppo le casse dello stereo
sono mal
funzionanti, il volume
e i toni alti
dell’equalizzatore sono impostati malamente. Decide quindi di
posare sul
tavolino del salotto la ciotola con i popcorn e di avvicinarsi allo
stereo per
regolare lo stereo. Continua a canticchiare mentre si avvicina, allunga
la mano
sul tastino regolatore degli altri e si ferma, un breve flash
ripercorre la sua
mente.
La
sera della festa a casa di
Debbie Benson, sta salendo la scala principale, al suo fianco
c’è Anthony. Le
loro mani sono vicine, quasi si sfiorano. A fare da colonna sonora a
questa
scena a dir poco filmica è proprio la canzone
“Let’s hear it for the boy”,
remixata in modo house dal dj di turno.
Ecco,
dove l’aveva sentita.
Istintivamente preme il tasto “ eject” ed estrae il
cd dallo stereo, cercando
anche nel frattempo di scacciare il motivetto dalla sua testa. Il cd
dal quale
era presa la canzone era la colonna sonora del telefilm
“Queer as Folk”, una
serie tv molto amata in casa e della quale gli era capitato di vedere
qualche
puntata.
Non
ha mai voluto credere alle
coincidenze ma non saprebbe spiegarsi diversamente il fatto di aver
ascoltato
proprio quella canzone, fra tutte.
Si
getta sul divano,
dimenticandosi completamente dei pop corn ed inizia a creare una
improbabile
teoria sulle coincidenze. Fantastica, per quasi dieci minuti per poi
ammettere
che tutta quella sua frenesia, quella ricerca puntigliosa per lo snack
perfetto
non era altro che un modo per non pensare ad Anthony, alla sua
partenza. Quella
notizia l’ha sconvolto e ancora non
riesce a spiegarsi il perché.
Fa
un respiro profondo e guarda l’orologio
da parete di fronte a lui. Manca ancora più di
un’ora al rientro di Christian,
può stendersi per qualche secondo sul divano senza
preoccuparsi di mettere le
scarpe nella scarpiera e di gettare i pop corn al caramello che ormai
non ha
più intenzione di mangiare.
È
passato quasi un mese dall’ultima
volta in cui ha ripensato alla sera della festa, da quando la sua mente
gli ha
fatto ricordare ogni singolo particolare. Ripercorre di nuovo tutta la
scena e
quando arriva alla fine, quando ormai non ha più nulla da
ricordare, sobbalza e
si mette a sedere.
-E
allora?
Dice,
quasi gridando. Si copre
poi la bocca con la mano, sentendosi quasi pazzo a parlare da solo.
Niente,
non ha provato nulla. Non
ha sentito rimorso, non si è morso il labbro, non ha
strizzato gli occhi in
segno di disgusto, come ha fatto nei precedenti mesi. Anzi, sta
iniziando a
chiedersi se fosse stato necessario tutto quel trambusto. Sorride,
quasi
istericamente. Non ci vede nulla di male ora. Come Christian stesso gli
aveva
detto, è stata solo una cosa tra ragazzi, niente
più.
“e mi è
piaciuto…”
Conclude
poi, sorprendendosi.
Dopo tutto quel tempo riesce ad ammettere a sé stesso di non
aver provato così
tanto ribrezzo per la cosa. Aveva intuito le intenzioni di Anthony da
subito,
era stato al gioco, c’aveva flirtato.
Si
era solo spaventato, tutta quella decisione, tutta quella sicurezza di
sé.
Sorride, questa volta è sollevato, felice. Si sente come se
un peso da dieci
chili avesse abbandonato il suo corpo dopo mesi. Deve assolutamente
parlare con
Morgan. Si alza e si mette in fretta le scarpe da tennis, non ha tempo
di
riordinare, semplicemente lascia un biglietto a Christian per fargli
sapere di
essere andato da Morgan. Chiude la porta di casa, inserisce
l’allarme e inizia
a correre giù per le scale, quasi inciampando ad un certo
punto ma non se ne
preoccupa.
Non
ha nemmeno avvisato Morgan
del suo arrivo, non ne ha il tempo e crede non riuscirebbe a formulare
una
parola al telefono. Pensa solo a correre, non vuole
nient’altro in testa al
momento.
***
Sono
le cinque. Christian sta
tornando a casa, ha da poco iniziato a piovere e detesta guidare con la
pioggia. Ha finito prima quel giorno, era parecchio stanco e non aveva
granché
voglia di stare nel suo studio a sistemare le solite scartoffie
burocratiche,
ci penserà l’indomani.
Arrivando verso
il condominio, attraverso ai finestrini appannati per la pioggia nota
davanti
al vialetto di casa una macchina rossa, una Ford, che gli sembra
familiare.
Accanto a questa c’è una persona che gli fa cenno
di fermarsi con le
braccia. Christian, quasi preoccupato,
accosta e abbassa leggermente il finestrino.
Non
appena il suo sguardo e
quello dell’altra persona si incrociano si blocca.
-Christian,
io ti… stavo
aspettando.
-Ronald…
Esclama
Christian. Per circa un
minuto non riesce a dire una parola, si limita a fissare
l’amico. È
completamente fradicio, sicuramente lo aspetta da tempo.
-Cosa
ci fai qui?
Chiede.
-È
una storia lunga da spiegare,
mi faresti entrare in casa, se non ti spiace?
Christian
annuisce.
-Si…
Sali in macchina intanto.
Dopo
aver parcheggiato, Christian
e Ronald si dirigono verso l’appartamento.
-Ci
sono parecchie domande a cui
devi rispondere Ronald, lo sai?
Afferma
Christian, disinserendo l’allarme
e facendo cenno all’uomo di entrare.
-Primo:
come fai a sapere dove abito?
Ronald
chiude la porta alle
spalle ma non si muove dall’ingresso e non risponde.
-e
poi… sono le cinque passate.
Kyle dovrebbe già essere a casa…
Christian
inizia a girare per la
stanza e si accorge dello zaino semi aperto contro la parete
all’ingresso e
della ciotola piena di pop corn sul tavolino della sala.
-Ho
suonato per circa venti
minuti ma non c’era in casa nessuno… non ricordavo
che avessi lezione al
pomeriggio oggi.
Christian
non dà retta a Ronald.
Non si è dimenticato della sua presenza ma è
troppo occupato a chiedersi che
fine abbia fatto Kyle e tutta quella situazione lo sconvolge non poco.
Trova
infine il foglietto lasciato dal figlio, un post-it giallo a forma di
cuore
scritto in una grafia piuttosto abbozzata.
“Sono da Morgan, non so quando torno. Ti
voglio bene, baci.”
Legge,
ad alta voce. Sospira e
rimette il post-it dove l’ha trovato.
-Chissà
cos’ha in mente quel
ragazzino… Beh avrebbe potuto mettere in ordine perlomeno.
Alza
lo sguardo e si accorge di
Ronald, ancora sulla porta, completamente bagnato e gocciolante che lo
osserva
a braccia conserte in attesa di considerazione.
-Santo
Dio! Cosa ci fai impalato
sulla porta? Vieni avanti e togliti quei vestiti, ti prenderai un
accidente.
Ronald
lo guarda confuso, senza
muoversi.
-Allora?
Senti Ronald, sono
ancora in collera con te per quelle…
Si
blocca un secondo, giusto il
tempo per trovare la parola più adatta.
-…
belle parole che mi hai rivolto
l’altro giorno. Non ho idea del perché
tu ti sia presentato qui stasera ma di certo non voglio avere la tua
salute
sulla coscienza quindi, per favore, togliti quei vestiti bagnati.
Christian
si avvicina a Ronald,
per farsi dare i vestiti da mettere in lavatrice, questi si sveste in
fretta e
glieli porge, con non poco timore. Non è da Ronald
vergognarsi per questo tipo
di cose. Il Ronald che Christian conosce avrebbe colto
l’occasione per fare
qualche battuta volgare. Tuttavia da qualche tempo Christian si
è accorto di
non trovarsi più di fronte al Ronald che conosceva.
-Aspetta
ancora un secondo, vado
a prenderti qualcosa
di asciutto da
mettere.
Ronald
annuisce con il capo
mentre Christian getta tutto quanto in lavatrice, impostando anche il
programma
di asciugatura. Sospira ed inizia a guardarsi in giro
nell’intento di cercare
un accappatoio sufficientemente grande per Ronald. Si ricorda poi di
averne
uno, ancora incartato, ottenuto con i punti ritagliati dalle merendine
di Kyle.
Lo prende e lo porta a Ronald.
-Grazie.
Risponde
lui, mettendoselo
addosso. Non dice nient’altro e questo irrita Christian.
-Ora
vorresti per favore
spiegarti? Dimmi qualcosa per l’amor del cielo! Non ti puoi
presentare a casa
mia in questo modo e non dire una parola!
Urla
Christian. Ronald lo guarda,
apre bocca come per dire qualcosa ma non esce nulla nemmeno un suono.
Christian
è pronto a mandarlo al diavolo, non ha intenzione di
tollerare un comportamento
del genere quando lui, improvvisamente, si avvicina e lo bacia.
Un
semplice bacio sulle labbra,
niente di troppo passionale o veloce, sarà durato cinque
secondi eppure è
sufficiente per sconvolgere Christian che spalanca gli occhi in segno
di
stupore.
-Non
saprei spiegarmi meglio.
Aggiunge
Ronald, guardandolo
intensamente negli occhi.
***
Kyle
è arrivato a casa di Morgan,
suona il campanello, sperando vivamente che l’amica sia in
casa. Dopo qualche
istante la madre di Morgan appare sulla porta.
-Oh
Kyle, ciao, che sorpresa!
Esclama
la donna, aprendo il
cancello e facendo entrare il ragazzo.
-Buongiorno
signora, sono venuto
per Morgan. Spero di non disturbare…
Spiega,
cercando di nascondere
tutto il suo entusiasmo e di mostrarsi quantomeno cortese.
-Ma
figurati. Morgan è in camera,
non ho idea di cosa stia facendo veramente ma… vieni dentro,
sta iniziando a
piovere!
Kyle
si pulisce le scarpe sul
tappetino d’ingresso e poi entra.
-Permesso?
-Vieni,
vieni.
Risponde
la madre di Morgan,
facendogli nel frattempo cenno di salire le scale per raggiungere la
camera
della figlia.
Kyle
ringrazia e poi sale le
scale. È stato diverse volte a casa di Morgan e non ha
quindi bisogno che gli
si mostri dove si trova
la sua stanza.
La porta della camera della ragazza è chiusa e
dall’interno non proviene nessun
rumore, Kyle bussa.
-Morgan
ti avviso che sto per
entrare…
Apre
la porta e trova l’amica
seduta alla scrivania, davanti al computer con le cuffie nelle
orecchie. La
ragazza sobbalza non appena lo vede entrare e si toglie subito le
cuffie dalle
orecchie.
-Kyle!
Che sorpresa! Cosa ci fai
qui?
Chiede.
-Chiudi
la porta, per favore.
Aggiunge.
Kyle chiude con
delicatezza la porta alle sue spalle, fa un respiro profondo e inizia a
parlare.
-Sono
venuto qui perché ho
qualcosa di estremamente importante da dirti. Posso… posso
sedermi?
Morgan
annuisce e gli fa cenno di
accomodarsi sul letto, lei intanto gira la sedia con le ruote su cui
è seduta
verso il letto e con un’espressione sorpresa ma anche
preoccupata lo osserva in
attesa di una spiegazione alla visita improvvisata.
-Sono
stato uno stupido,
veramente.
Esordisce
Kyle. Morgan storce il
naso.
-Che
tu sia stupido non ci sono
dubbi.
Kyle
sorride.
-Sapevo
avresti detto questo.
Comunque, ho avuto modo di ripensare alla faccenda di Anthony.
L’espressione
di Morgan cambia.
Quel suo sguardo confuso si fa più scuro, fa respiri lunghi
e non distoglie per
un secondo lo guardo dagli occhi di Kyle.
-Ne
è saltato fuori che… hai
sempre avuto ragione Morgan, su tutto.
Morgan
non capisce.
-Kyle,
sei poco chiaro. Non ho la
più pallida idea di dove tu voglia arrivare.
Afferma,
con tono preoccupato.
-Lo
so, scusami. Voglio dire… tu
pensi non mi sia mai accorto dei tuoi tentavi di farmi mettere con
Anthony. Ho
negato a me stesso tutto quanto, ho fatto finta di niente e non ti ho
mai detto
di smetterla. Solo oggi mi sono accorto che avevi ragione: Anthony mi
piace.
Sospira.
-Ecco,
l’ho detto alla fine…
Morgan
spalanca la bocca, è quasi
scioccata. Una confessione del genere di certo non se
l’aspettava. Aveva
passato tutto il pomeriggio a chattare su Facebook e ad ascoltare
musica, nulla
di tutto questo era nei suoi piani quel pomeriggio. Non sa come
controbattere,
non sa proprio cosa dire.
-Ti…
ti piace?
Chiede,
con tono tremante.
-Se
tu me l’avessi chiesto, che
so, ieri… ti avrei risposto malamente e ti avrei detto che
è una sciocchezza ma
è così. Lo so, è una cosa
sconvolgente, lo è anche per me! Sono corso verso
casa tua come un pazzo perché… dovevo dirlo a
qualcuno!
Morgan
abbassa lo sguardo e non
parla, non saprebbe cosa dire.
-Ho
ripensato a quella sera per l’ultima
volta e ho capito che… non c’era niente di male. E
sai perché?
Morgan
scuote il capo.
-Perché
volevo farlo, Morgan. Io ho
controbattuto alle provocazioni di
Anthony, sapevo a cosa stavo andando in contro. Ero solo, non so,
sorpreso
dalla mia audacia.
Fa
una breve pausa, durante la
quale si sistema composto sul letto, poi ricomincia a parlare.
-Ho
salito quelle volutamente
scale, mi sono seduto volutamente
su quel letto, ho abbassato i
suoi-
-Basta!
Urla
Morgan, interrompendolo. Kyle
arrossice, effettivamente stava andando
oltre.
-Scusa…
Morgan
si alza dalla sedia,
inizia a girare per la stanza, senza rivolgere uno sguardo a Kyle.
-Come
al solito, tu sei un passo
più avanti di me Morgan… l’avevi
già capito. Se solo t’avessi ascoltato prima,
tutto questo disastro non sarebbe successo.
Morgan
annuisce, meccanicamente,
sempre senza guardare Kyle.
-Beh,
grazie per avermi
ascoltato. Dovevo dirlo a qualcuno. Sai, mi spiace solo di una
cosa…
Morgan
si gira di scatto verso di
lui.
-Cosa?
Chiede,
con tono quasi aggressivo.
-Di
aver trattato Anthony così
male… Quella sera al Nightmare l’ho abbandonato al
tavolo, senza dirgli nulla…
stamattina non l’ho nemmeno salutato.
Fa
un respiro profondo e abbassa
lo sguardo. Morgan nel frattempo ha smesso di girare a vuoto per la
stanza e lo
sta fissando, in attesa che dica altro.
-Ma
si... infondo per lui non
devo essere stato poi così importante. Mi sono comunque
tolto un peso dalla
coscienza. Ora sto meglio, tutto sommato.
Si
alza dal letto e sistema il
lenzuolo stropicciato.
-Lui
ti ama.
Esclama
Morgan, quasi d’un fiato.
Kyle alza la testa di colpo, scuote il capo e la guarda con aria
interrogativa.
-E
come lo sai?
Chiede
sorridendo. Sentendosi
quasi preso in giro.
Morgan
esita, non vuole risponde.
Lo sguardo penetrante di Kyle la induce però a parlare,
deglutisce.
-Me
l’ha detto.
Kyle
spalanca gli occhi, non
capisce se le parole di Morgan siano vere o se semplicemente si stia
prendendo
gioco di lui. Si avvicina all’amica che nel frattempo ha
iniziato a piangere.
-Stai
piangendo! Perché Morgan?
Kyle
le prende le mani, per
consolarla. Lei si tira indietro, rifiutando il contatto
dell’amico.
-Quando
sei andato con tuo padre
a Santa Monica mi ha telefonato. Mi
ha
detto che si è innamorato di te ma… che se questo
per te è un problema, di
chiederti scusa…
Spiega,
singhiozzando.
-E
perché non mi hai detto
niente?
Morgan
non risponde, cerca
soltanto di trattenere i singhiozzi.
-Morgan,
rispondimi! Perché non
mi hai riferito il messaggio di Anthony?
Morgan
tira su col naso, si
sfrega gli occhi per far andare via le lacrime e poi, con tono
affranto,
risponde.
-Perché
ti voglio solo per me.
La
confessione di Morgan
sconvolge Kyle. È deluso per il suo comportamento e di certo
non si aspettava
una risposta di questo tipo. È andato da lei credendo di
avere lui la notizia
più sconvolgente eppure, è lui quello
più confuso ora.
-Io
non ho mai creduto che ti
piacesse Anthony. Facevo così solo perché non
volevo pensassi a nessun altro,
se avessi attirato tutta la tua attenzione su Anthony non avresti
pensato a
nessun altro e saresti rimasto con me…
Kyle
non sa come ribattere.
Preferisce non dire nulla, uscirà dalla camera di Morgan e
tornerà a casa.
---> Dopo taaanto
tempo eccomi di nuovo a postare un capitolo della mia storia. Gli
impegni
purtroppo sono tanti, le lezioni universitarie sono ricominciate e il
tempo per
mettermi seriamente a scrivere anche poche righe della mia storia si
è ridotto.
Tuttavia sono sempre intenzionata a continuarla (lo ripeto ogni volta
ormai)
probabilmente passerà ancora tanto tempo prima della
pubblicazione del capitolo
29. Vi chiedo scusa ma non posso fare altrimenti. Questo capitolo
è proprio scritto di fresco, composto interamente questo
pomeriggio. Nel caso ci siano errori di qualsiasi tipo vi chiedo scusa,
anzi, fatemeli pure notare provvederò a correggerli.
Ho fatto una revisione veloce del testo, proprio
perchè ho voluto postarvelo subito senza farvi aspettare
tanto tempo (anche perchè nè domani nè
dopo potrò collegarmi ad internet). Come al solito, spero il
testo sia di vostro gradimento e... alla prossima <---
|
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Capitolo 29 *** Unexpected Breakdown (Crollo inaspettato) ***
29. Unexpected Breakdown
(Crollo
inaspettato)
-Per
l’amor di Dio!
Esclama
Christian balzando
improvvisamente dal divano. I suoi occhi sono spalancati e non
può fare a meno
di toccarsi la bocca, che fino ad un secondo prima si trovava coinvolta
in un
curioso e decisamente improvviso bacio. Anche Ronald si alza di
riflesso e
osserva Christian, senza però guardarlo negli occhi. Si
limita a rivolgergli
fugaci occhiate.
-Avresti
dovuto capirlo…
Afferma
poi, con tono
imbarazzato, camuffato da un’intonazione seccata. Christian
scuote il capo ed
inizia nervosamente a camminare avanti e indietro per il salotto.
-E
come avrei potuto Ronald? A
stento so chi sei!
Quell’affermazione
offende Ronald
al punto di convincerlo, quasi, ad alzarsi e andare via, salvo poi
ricordarsi
di essere ancora bagnato per via della pioggia e di essere sprovvisto
dei
proprio abiti. Sentendosi quasi incapacitato di fare altro si rimette a
sedere
e osserva Christian vagare per la stanza mentre pronuncia una sorta di
monologo.
-Ho
quasi e dico “quasi” pensato
fossi venuto qui per scusarti. Per una frazione di secondo ho anche
deciso di
perdonarti in questa mia testa così… confusa. E
tu cosa fai? Mi baci! Ti sembra
una cosa logica?
Christian
parla per circa cinque
minuti e Ronald riesce a stento a cogliere il significato delle sue
parole. Si
tratta perlopiù di farfugliamenti e ripetizioni di frasi
come “è mai
possibile?” oppure “non è
normale” o ancora “che senso ha?”. Stanco
delle
parole di Christian, lo azzittisce e decide di iniziare a parlare.
-Christian
basta, per favore. Ho
sbagliato, lo ammetto.
Christian
annuisce e apre la
bocca per parlare di nuovo ma Ronald lo blocca.
-Basta!
Adesso parlo io.
Christian
chiude la bocca e
sospira, smette finalmente di camminare e si appoggia contro lo stipite
della
porta della cucina a braccia conserte, batte nervosamente il piede
sinistro
contro il pavimento e si mordicchia il labbro. Ha sicuramente altro da
aggiungere, altro per cui sfogarsi ma si trattiene e si prepara ad
ascoltare Ronald.
Quest’ultimo chiude gli occhi per qualche secondo, il tempo
necessario per
riuscire a formulare un pensiero di senso compiuto. Non è
facile per lui affrontare
questo tipo di conversazione, non è mai stato il suo forte.
-Non
avrei dovuto baciarti, hai
ragione. È solo che…
Si
blocca. Non gli vengono le
parole, anzi, gli vengono benissimo, semplicemente non ha il coraggio
di
pronunciarle. Si sente terribilmente sciocco in quel momento.
Com’è possibile
che una cosa frivola come quella lo imbarazzi così tanto?
-…
dal momento in cui sei
arrivato all’Università, dieci anni fa, mi hai
colpito come nessun altro aveva
fatto mai nella mia vita.
Abbassa
lo sguardo. Non sarebbe
in grado di reggere un qualsiasi tipo di espressione di Christian. Non
tollererebbe una smorfia di sdegno e arrossirebbe ad un suo sorriso.
Dal momento
che il suo discorso non è ancora finito, respira e prosegue.
-Quel
tuo luccichio negli occhi quando
parli della tua materia, quella componente del tuo carattere
così ingenua ma
mai in senso negativo, hanno su di me uno strano, stranissimo potere.
Devi
credermi, non pensavo che certe parole sarebbero state in grado di
uscire dalla
mia bocca eppure, eccomi qui.
Alza
lo sguardo e nota una strana
espressione sul viso di Christian, espressione che non sa decifrare.
Non pare infastidito
ma nemmeno sorpreso, è semplicemente immobile.
-Non
mi aspetto nulla da te
Christian.
Esclama
improvvisamente, cercando
quasi di anticipare qualsiasi commento da parte di Christian.
-Non
ho mai voluto avvicinarmi
perché tu avevi… lui, quel Jonathan senza il
quale, francamente, credo tu non
possa vivere. Mi rendo conto di non avere speranze, volevo solo essere
sincero.
Christian
apre di nuovo la bocca con l’intento di parlare ma non esce
alcun suono. Sospira e torna a sedersi sul
divano accanto a Ronald. Sorride. Ronald, come aveva previsto,
arrossisce e
abbassa timorosamente lo sguardo. Christian si avvicina ulteriormente e
prende
le mani dell’amico, le stringe.
-Ti
ringrazio per la tua onestà
Ron, ma…
Ronald
interviene.
-…ma
non sei interessato, lo so.
Christian
lo corregge. Il tono
della discussione è totalmente cambiato, le parole di
Christian sono pacate e
hanno una strana sfumatura dolce, quasi paterna. Ronald alza lo sguardo
e
incrocia quei due bellissimi occhi blu, carichi di malinconia.
-No,
non è solo questo. Ron, onestamente,
in questo periodo sono veramente troppo confuso. Non è una
scusa, davvero. La
mia vita sta prendendo una direzione che non riesco nemmeno ad intuire
e
veramente, non ho le forze per concentrarmi su altro.
Ronald
annuisce. Le parole di
Christian gli sembrano sincere, tuttavia, una piccola parte di lui
aveva
sperato che Christian ricambiasse, anche se per poco, quel sentimento
che prova
per lui. Non lo ammette, nemmeno a se stesso. Rimane seduto a guardare
il bel
viso di Christian e ad ascoltare quella sua voce incantatrice.
-Sei
una persona speciale Ron, veramente importante. Voglio che resti al mio
fianco, per cui,
dimentichiamo le ultime discussioni e ti prego, riprendiamo tutto dove
l’abbiamo lasciato. Sei l’unica persona esterna a
tutto questo… disastro, su
cui possa veramente contare.
Quegli
occhi grandi e imploranti
non accettano una risposta negativa. Ronald asserisce col capo e
sorride,
nonostante dentro di sé prova un forte sentimento di
imbarazzo e vorrebbe trovare la forza di alzarsi e andare via.
-Ma
si, certo! Tu e tuoi
stramaledetti occhi blu!
Christian
inizia a ridere e pure
Ronald ride. Tutta quella situazione tesa di poco prima pare essersi
dissolta.
Eppure, l’idillio ha durata breve.
A
interrompere il momento è il
rumore dell’ascensore del palazzo. Christian sobbalza.
-Oh,
quel vecchio ascensore!
Dev’essere senz’altro Kyle.
Si
alza dal divano, continuando
comunque a sorridere e pensando nel frattempo all’adatta
punizione per Kyle per
l’assenza a cena, il ritardo e l’uscita
improvvisata annunciata solamente
tramite biglietto. Apre la porta e, a grandissima sorpresa, non
è Kyle la
persona che si trova davanti agli occhi.
Il
respiro gli si blocca per un
istante, gli occhi non riescono a chiudersi e la mano destra sta
stringendo la
maniglia della porta con una forza a dir poco stupefacente.
-Oh,
avrei bussato.
Esclama,
quella voce calda e
avvolgente.
-Jonathan…
Si,
proprio lui. Pensa a lui,
seppur involontariamente, tutti i giorni, Ronald l’ha
nominato poco fa eppure,
trovarselo davanti è qualcosa del tutto inaspettato.
È ordinato, indossa uno
dei suoi soliti completi firmati che fino a pochi mesi prima Christian
stirava
personalmente e poi, il profumo. Quel maledettissimo profumo penetra nelle narici di
Christian dopo pochi
istanti.
-Chris,
tutto bene?
Ronald
si alza dal divano e
raggiunge il padrone di casa alla porta. Non ha mai visto quella
persona prima
d’ora tuttavia lo riconosce subito. Per prima cosa per la
descrizione, Christian
non faceva che descriverlo come un uomo dall’aspetto posato,
dalla notevole
eleganza nonché da un’apparenza assolutamente
piacevole. Non gli chiede di
presentarsi, non pensa di averne bisogno.
-E
tu chi saresti?
Chiede
invece Jonathan. Anche a
lui Christian ha parlato più volte di Ronald, tuttavia deve
essersene
dimenticato o probabilmente ha altro nella testa, che non riguardi
riportare
alla mente ricordi circa descrizioni di possibili conoscenze di
Christian.
-Ronald,
collega di Christian.
Non credo di aver avuto mai l’occasione di presentarmi.
Ronald
porge immediatamente la
mano, in segno di cortesia. Gesto non ricambiato da parte di Jonathan
che
continua a fissare l’ospite a lui sconosciuto per passare poi
a Christian,
completamente immobile e momentaneamente sprovvisto di
capacità comunicative.
-Quello
è il mio accappatoio?
Ronald
ritrae immediatamente la
mano, capisce da subito che Jonathan non ha intenzione di presentarsi e
non ha
alcun interesse di conoscerlo.
-Christian,
mi daresti delle
spiegazioni?
Christian
prende fiato. Distoglie
lo sguardo da Jonathan e si rivolge a Ronald.
-Ron,
per favore, torna in casa.
Ronald
lo guarda, non gli dice
nulla, lo osserva soltanto nell’attesa di una spiegazione.
Non ricevendola
decide di rientrare. Tuttavia, qualcosa lo trattiene. Jonathan allunga
il
braccio e lo afferra per il cappuccio dell’accappatoio, con
forza notevole, trascinandolo quasi fuori dalla porta.
-Chiunque
tu sia, questo lo
rivoglio indietro!
Christian
cerca di parlare e di
dire a Jonathan di smetterla quando questi, fuori da ogni previsione,
sferra un
pugno in pieno viso a Ronald, facendogli perdere sangue dal naso. Christian immediatamente
si precipita
sull’amico, preoccupato. Ronald però lo respinge.
-E
tu staresti con questo pazzo?
Esclama,
pieno di rabbia cercando
di bloccare con le dita l’emorragia proveniente dal naso.
Christian
immediatamente punta gli occhi verso Jonathan che sembra impaurito. Se
non lo
conoscesse così bene lo direbbe spaventato dal suo stesso
gesto.
-Ma
chi cazzo sei?
Esclama
poi, facendosi forza,
mosso da un sentimento di rabbia e disprezzo per quanto ha appena
visto.
-Io…
rivoglio solo la mia roba.
Esclama
lui, rimarcando la frase
pronunciata poco prima, la sola differenza è il tono,
leggermente intimorito.
-Chi
sei tu?!
Domanda
di nuovo Christian,
urlando questa volta.
-Ho
fatto la stessa domanda al
tizio con il mio accappatoio e non mi è stata data risposta.
Risponde
Jonathan, apparentemente
schivando lo sfogo di Christian che non ha invece intenzione di
accantonare la
questione così facilmente.
-Come
ti permetti di presentarti
qui, senza nemmeno avvisare e fare questo?
-Come
ti permetti tu di dare le
mie cose a qualcun altro!
Ribatte
Jonathan, cercando di
replicare il tono collerico di Christian.
-No,
no Jonathan, questo non sei
tu.
Jonathan
non risponde.
-Io…
ancora mi chiedo cosa ti sia
passato per la mente quando hai deciso di tradirmi. Ma…
questo! Tu non sei mai
stato così. Io… vattene!
Esclama,
con un’intonazione che
da collerica passa a delusa.
-Non
era mia intenzione farlo, è
già la seconda volta che lo faccio…
Christian
spalanca gli occhi e
scuote il capo, non può credere alle parole di Jonathan e
non vuole farlo in
nessun modo. Deve assolutamente allontanare quello sconosciuto, quella
persona
dalle sembianze di Jonathan che in nessun modo riconosce.
-Via
di qui!
Chiede,
deglutendo e cercando di
spingere più lontano possibile un singhiozzo che cerca
violentemente di uscire.
-No,
senti Christian io ti devo
parlare…
-VATTENE
fuori di qui! Non ti
voglio più vedere, mai più!
Urla.
Jonathan si guarda in giro
spaventato. La vicina della porta accanto si è affacciata
nel frattempo,
probabilmente preoccupata dalle urla. La situazione è a dir
poco degenerata.
Alla
fine si allontana e in
fretta raggiunge le scale, non ha tempo per aspettare
l’ascensore.
Christian
sbatte la porta e
rientra. Si appoggia con entrambi le mani alla maniglia e respira
profondamente. Chiude gli occhi, li stringe con forza cercando di
cancellare
dalla sua mente ciò a cui ha appena assistito. Ha avuto
paura, parecchia.
Dopo
qualche secondo si gira e
vede Ronald alle sue spalle che si sta alzando dal divano. È
vestito.
-Ron,
perdonami davvero per
quello che è appena successo. Io non sapevo, te lo giuro!
Ronald
scuote il capo. Il naso
non gli sanguina più e i vestiti che ha indosso hanno
l’aria di essere ancora
umidi.
-Ho
preso le mie cose dalla
lavatrice, è meglio che vada.
Non
lo guarda negli occhi,
pronunciando queste parole. Christian non sa che dire, non sa come
scusarsi.
-Scusami,
davvero!
Ronald,
gli passa accanto, sempre
senza guardarlo.
-Non
è colpa tua, capita a tutti
di innamorarsi della persona sbagliata.
Esce,
lasciando Christian
completamente sconvolto.
--->
Tornata. In anticipo rispetto alle mie previsioni! Sorprendentemente ho
avuto un po' di ispirazione e sono riuscita a scrivere di getto tutto
questo capitolo. Finalmente sto per avvicinarmi alla stesura del
capitolo che nella mia testa balena da parecchio tempo! Mi scuso se i
capitoli precedenti sono stati fin troppo discorsivi, dovevo preparare
un po' gli animi e le relazioni per quanto farò accadere a
breve! Ho visto parecchie visite al capitolo precedente, anche se non
ci sono stati commenti... spero che mi stiate ancora seguendo e siate
interessati alla mia storia, seppure la pubblicazione avvenga in
intervalli fin troppo LUNGHI! Bene, detto ciò vi do un
saluto al prossimo capitolo che SPERO di pubblicare a breve. Alla
prossima! <---
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Capitolo 30 *** Waiting for the day (Aspettando quel giorno) ***
30. Waiting for the day (Aspettando quel giorno)
Il
compleanno di Jonathan e
quello di Kyle cadono il medesimo giorno, il 16 luglio. Normalmente per
festeggiare gli avvenimenti si ricorreva ad una serata in famiglia in
pizzeria
per poi andare al cinema o in sala giochi; assecondando i desideri di
Kyle.
Quell’anno, i dettagli riguardanti i festeggiamenti dei
compleanni erano
sconosciuti e nessuno aveva il coraggio di porre ipotesi a riguardo.
Durante la
settimana precedente a
quella data, Christian aveva temuto di ricevere telefonate da parte di
Jonathan. Non si aspettava certo la proposta di festeggiarlo insieme
come ai
vecchi tempi, non lo voleva assolutamente. Pensava comunque che
Jonathan si sarebbe fatto sentire per consultarsi riguardo al regalo
che
avrebbero fatto al ragazzo. Per la prima volta si sarebbe trattato di
due regali
separati. Per il quindicesimo compleanno di Kyle, gli era stata
regalata una
tavola da disegno elettronica, spesso utilizzata e molto apprezzata.
Era
costata parecchio ed erano stati ben attenti a scegliere il modello
migliore e
preferito dagli artisti amanti del disegno computerizzato. Avevano
chiesto
diversi pareri e speso una cospicua somma di denaro. Tuttavia, dopo
aver visto
il sorriso di Kyle, aver ricevuto i suoi baci e suoi abbracci di
ringraziamento, erano stati concordi nel dire che ne fosse
assolutamente valsa la
pena. L’anno prima si era inoltre parlato
dell’ipotesi di regalare una macchina
al ragazzo per il compimento dei sedici anni. Kyle da sempre era
interessato
alle automobili, una passione che gli avevano trasmesso i suoi stessi
genitori che,
denaro permettendo, amavano cambiare l’auto di famiglia (che
generalmente
guidava Jonathan) ogni due o tre anni. Christian non aveva di per
sé
abbastanza denaro da parte per potersi permettere di comprarla lui
solo. Gli
seccava ammetterlo ma la quota più alta per i regali di Kyle
era sempre quella
di Jonathan, il cui stipendio era quasi il doppio del suo. Senza
contare che
per quel giorno Christian doveva pensare anche al regalo di Jonathan
cosa che,
quell’anno, era sicuro non avrebbe acquistato.
Ogni
sera, dopo le sei, nella
trascorsa settimana aveva tenuto l’orecchio teso in direzione
del telefono,
attendendo la chiamata di Jonathan che non era arrivata. Dopo il loro
ultimo
incontro tre settimane prima, dopo l’ennesima delusione,
aveva giurato a se stesso
che avrebbe fatto il possibile per cancellare quell’uomo
dalla propria testa.
L’aveva spaventato. I suoi occhi erano diversi,
ardevano, la sua voce era così
calda eppure così familiare. Non aveva più
davanti l’estraneo di qualche mese
prima, di quella volta che erano finiti a letto, eppure non era nemmeno
quello
che una volta avrebbe chiamato il “suo” Jonathan.
Non era da lui venire alla
mani così facilmente, non l’aveva mai fatto.
Senza sapere
come comportarsi
l’aveva nuovamente sbattuto fuori casa, aveva inveito contro
di lui. Senza
contare tutta la faccenda di Gregor. Tutto ciò che era stato
fatto a spese di
Kyle e sue. Troppo breve il loro incontro per porgli domande a
riguardo, senza
contare che la sua sola presenza ora gli è sufficiente per
andare in panico,
toccare la follia, perdere razionalità. Quando si era
presentato in
comune a fare richiesta per i fogli di domanda di separazione era
deciso, calmo
e pacato. Aveva pensato di inviargli tutto via posta con una sobria e
neutrale
lettera di spiegazioni e condizioni, eventualmente fargli una
telefonata. Aveva
ripassato il discorso anche per quella eppure, una volta trovatoselo
davanti, le
parole razionalità e sobrietà erano divenute a
lui estranee. Tutta la faccenda
del divorzio era stata da lui completamente dimenticata.
Senza
contare che non sapeva come
reagire al pugno in pieno viso inferto a Ronald, senza alcun motivo. Si
era
naturalmente infastidito per il gesto in sé ma parte della
sua reazione era
stata al quanto “solita”. Non poteva certo starsene
come un idiota a guardare
con la bocca aperta tutta la scena. Certo, mettersi a gridare sul
pianerottolo
a quel mondo era stato a dir poco eccessivo. Non sente Ronald da quel
giorno.
Crede che lo eviti in università, lo vede sempre
più spesso rinchiudersi in
piena solitudine nella saletta dove riceve i suoi studenti.
Un paio di giorni prima ha
tentato di parlare con lui; si era alzato dalla sedia sulla quale
sedeva da
quasi un’ora, fissando la porta con il cartellino del nome di
Ronald e con un
rapido scatto aveva raggiunto la porta. Aveva deciso di dare la colpa
del suo
dietrofront all’arrivo di una ragazza che aveva bussato ed
era entrata
nell’aula, anche se sapeva bene che quello era stato soltanto
un pretesto. Si sente sempre più vigliacco.
Vuole bene a Ronald, ritiene il rapporto con lui una sincera
amicizia e non ha intenzione di perderlo. Nonostante la confessione
dell’amico, per quei pochi
istanti che subito ha iniziato a definire come “la quiete
prima della
tempesta”, ha creduto di essere riuscito a risistemare le
cose.
Ad ogni modo,
quella di Ronald in
quel momento è l’ultima faccenda a preoccuparlo.
Ha approfittato dell’assenza
di Kyle per andare in camera sua a fare un giro perlustrazione per
cercare di
farsi venire in mente qualche idea riguardo al regalo da acquistargli.
Entra
nella stanza e non riesce a fare a meno di notare il disordine, in
dieci anni
di convivenza non è riuscito a insegnargli il vero
significato della parola
“riordinare”. Si aspetta, abbassando lo sguardo, di
vedere ancora montagne di
giocattoli spuntare da sotto il letto. Si guarda in giro e non nota
nulla che
già non conosca.
Alle
pareti ci sono appesi i
soliti poster: i Death Cab for Cutie (una band che non ha mai
capito), i My
Chemical Romance, i 30 second to mars e stranamente i Beatles. Reputa a
dir
poco assurda l’idea di comprargli un cd, molto probabilmente
sul suo i-Pod ha
già tutta la musica che gli interessa e può
facilmente scaricare da i-Tunes
tutti i brani che preferisce. Lo rattrista un po’
quell’avanzare della
tecnologia. Prima che arrivassero tutti questi beni
“risparmia-fatica”, come
lui ama definirli, fare i regali era molto più facile; un
cd, un dvd (o una
VHS, andando indietro con i tempi), un puzzle. Si chiede se qualcuno,
che non
sia un appassionato, sia ancora seriamente interessato a passare delle
ore
seduto a fissare pezzetti di cartone apparentemente tutti uguali. A lui
per
esempio quell’hobby non ha mai interessato e dubita che possa
rientrare negli
interessi di Kyle. Sbuffa e si siede sul letto,
appoggia le mani sulle ginocchia sconsolato. Si chiede se tutti quanti
i
genitori abbiano i suoi stessi problemi nel fare un regalo ai figli.
Per un
momento una domanda gli percorre la mente “Lo conosco
abbastanza?”. La risposta
è comunque positiva, sa parecchie cose di lui, conosce i
suoi interessi, la sua
musica preferita, i suoi cibi prediletti. Conclude infine che Kyle
materialmente abbia tutto ciò che gli serve.
-Gli
basterà un piccolo regalino.
Afferma
poi sospirando e
alzandosi dal letto. Meccanicamente sistema la coperta dove si era
seduto,
perseguendo quella sua maniacale ossessione per la perfezione.
Alzandosi, lo
sguardo gli cade nuovamente suoi poster.
-Jonathan
probabilmente gli
regalerà i biglietti per qualche concerto in
città o, perché no? In Europa!
Tanto lui può permetterselo.
Afferma con
asprezza, osservando
i cinque visi smorti e truccati dei My Chemical Romance. Esce dalla
stanza,
quasi infastidito dopo quella frase che gli è uscita
così liberamente dalla
bocca. Richiude la porta della camera e si dirige verso il salone. Si
accorge,
osservando l’orologio in sala da pranzo, di dover iniziare a
preparare il
pasto. Kyle è fuori con Morgan, per quanto sa, e
probabilmente arriverà nel
giro di una ventina di minuti. Dovrebbe aver già preparato
la
tavola e le pentole dovrebbero essere sui fornelli. Tuttavia ha passato
tutta
l’intera mattinata seduto sul divano a rimuginare. Si dirige
in fretta in
direzione della cucina, apre il rubinetto dell’acqua, accende
i fornelli e
cerca nervosamente la pentola per la pasta negli armadietti pensili
sopra la
sua testa.
Posa la pentola sotto il
rubinetto e aspetta che si riempia. Non vuole pensare a niente, per
questo
continua a fissare da un punto imprecisato all’altro la
cucina, cercando qualche
spunto di riflessione o qualche argomento su cui distrarsi e su cui
concentrare
i propri pensieri. Non appena l’acqua raggiunge il livello
desiderato posiziona
la pentola sul fornello, prende il contenitore del sale, ne afferra una
manciata e lo butta, senza neanche guardare, nella pentola. Subito dopo
si
precipita verso l’armadietto dove è solito tenere
la pasta ed inizia a scrutare
le scatole senza particolare criterio. Dopo aver passato ogni scatola
rimasta
decide di prendere le mezze penne, che cucinerà con del
tonno.
L’acqua ha raggiunto
l’ebollizione ed è quindi pronta per ricevere la
pasta, tuttavia, avvicinandosi
alla pentola Christian vede galleggiare nell’acqua degli
strani puntini neri.
Osserva poi bene la pentola e si ricorda di averla messa da parte un
mese prima
con l’intenzione di cambiarla. Si tratta di una tegame
vecchio e la vernice al
suo interno, si è staccata e sta ora galleggiando.
-Ci
mancava anche questa!
Esclama, rendendosi anche conto di
essere in ritardo e di dover rifare tutto da capo. Bruscamente afferra
la
pentola dal fuoco e in un attimo di disattenzione questa gli scivola
dalla mano
rovesciandosi sui vestiti e parte sul braccio, nudo per via della
maglietta a
maniche corte.
-Merda,
merda, merda!
Impreca,
correndo al lavandino
per rinfrescare la parte bruciata dall’acqua bollente. Chiude
gli occhi e
respira profondamente. Cerca di calmarsi, dopotutto non è
successo nulla di
male, è solo un po’ d’acqua. Chiude il
rubinetto e si prepara a prendere
un’altra pentola da mettere sul fuoco, quando si accorge del
calendario,
accanto alla finestra, ancora fermo al mese di Giugno. Si è
dimenticato di
aggiornarlo, a dirla tutta si era completamente dimenticato di quel
calendario. Di
solito ci scriveva degli
appunti, eventuali visite o programmi da registrare alla televisione. Il mese di Giugno
è stranamente candido.
Strappa
la pagina per arrivare al
mese di luglio e il suo occhio lo riporta ad una nota, scritta in
piccolo con
una penna gel blu, in una grafia che, purtroppo, conosce fin troppo
bene. La
data è proprio il 14 luglio. Non vuole leggere ma sa bene
che se non lo facesse
passerebbe il resto della sua giornata pensandoci e facendo ipotesi.
Decide
quindi di esorcizzare i suoi demoni, si avvicina di più e
legge.
“Ricordami che mi ami,
è l’unico regalo che voglio.”
Eccola,
alla fine, la distrazione
che cercava.
***
-Esco.
-Con chi?
-Con… Morgan.
Ecco, quanto
si erano detti lui e
Christian quella mattina, poco meno di un paio di ore prima. Falsi,
entrambi.
Christian gli era sembrato assente, gli aveva posto quelle domande con
una
vuotezza negli occhi da fare spavento, gli era sembrato di fissare due
grandi
sfere di cristallo perfettamente pulite, oltre le quali aveva scorto il
nulla.
Avrebbe voluto indagare, chiedergli se stava bene. Doveva certamente
essergli
successo qualcosa di recente. A cena era freddo, distratto. Aveva
salato la
pasta una volta di troppo, si era dimenticato di mettere in tavola
l’acqua e si
era alzato a fissare fuori dalla finestra, tamburellando nervosamente
le dita
sul davanzale, noncurante dei piatti ancora nel lavandino e della
tovaglia
ancora sul tavolo della sala da pranzo.
Kyle
pensa che forse sia stato
meglio così, se Christian fosse stato in piena forma, libero
da ogni
preoccupazione, avrebbe indagato riguardo a quell’insolita
uscita mattutina.
Non gli aveva mai concesso di uscire la mattina, quella parte della
giornata
era dedicata ai compiti per l’estate, una regola su cui era
impossibile
transigere. Ad ogni modo, la sua vera
destinazione era la casa di Anthony, la vecchia casa, dalla quale di
lì a poco
si sarebbe trasferito. Aveva riflettuto molto nell’ultimo
periodo. C’era stata
la litigata con Morgan, con la quale non si era ancora rappacificato.
Era certo
ormai di provare qualcosa per Anthony e non aveva intenzione di tenersi
tutto
dentro ancora a lungo.
Non
era mai stato a casa di
Anthony, l’aveva sempre incontrato a scuola, in biblioteca o
al parco. Sa bene
che la famiglia di Anthony è benestante, la faccenda che
l’ha spinto a trovarsi
proprio davanti a quel cancello quell’afosa mattina di
luglio, gliene ha dato
un chiaro esempio. C’è fermento nel giardino,
circa una decina di persone
portano avanti e indietro scatole e pacchi più o meno grandi.
Il giardino della casa di Anthony
ha qualcosa di maestoso, ricorda un po’ i giardini signorili
delle ville
tipiche dell’immaginario ottocentesco e, probabilmente,
l’idea di base è
proprio quella. Kyle rimane qualche minuto davanti al cancello
d’ingresso; un
maestoso cancello di ferro, completamente meccanizzato, che
dà uno scorcio
dell'entrata principale dell’abitazione.
Alla
sua sinistra nota il
citofono, dorato e con tanto di telecamera integrata posizionata sopra
l’etichetta che reca il nome “Edwards”.
Quand’era bambino spesso sognava di
vivere in una casa del genere, una casa fuori dal caos della metropoli,
completamente immersa nel verde. La periferia gli è sempre
stata piuttosto
stretta, per questo motivo adorava trascorrere le vacanze a Santa
Monica. Si è più volte immaginato di
intraprendere la carriera di pittore ed isolarsi in una di quelle
ville,
lontano dalla mondanità, lontano dalle strade congestionate
dal traffico.
Sospira mentre la sua immaginazione viaggia irrefrenabile, salvo poi
ritornare
alla realtà. La tentazione di andarsene è forte.
Era parecchio determinato un
paio d’ore prima.
La
sera precedente aveva puntato
la sveglia alle otto per fare tutto con calma ed arrivare davanti alla
casa degli
Edwards prima di mezzogiorno. Christian gli aveva insegnato la buona
educazione
di non presentarsi mai a casa di qualcuno a mezzogiorno.
Tutto era
andato come previsto,
si era alzato regolarmente, aveva trascorso i soliti venti minuti sotto
la
doccia e aveva indossato i bermuda di jeans e t-shirt che aveva
accuratamente
preparato sulla scrivania la sera prima. Si era preparato da solo la
colazione
senza disturbare Christian che, pur essendosi già svegliato,
sembrava ancora in
dormiveglia. Aveva cercato anche di essere abbastanza credibile
riguardo alla
scusa per uscire; in più il giorno prima aveva svolto
qualche esercizio extra
per i compiti delle vacanze, in modo che se Christian avesse deciso di
controllare non avrebbe avuto nulla su cui rimproverarlo. Dopo averlo
visto
così assente, tuttavia, si era reso conto di aver preso fin
troppe precauzioni.
Ad
ogni modo, nel giro di un’ora
era riuscito ad uscire di casa con un foglio alla mano, sul quale si
era
segnato indicazioni stradali e fermate della metropolitana da
rispettare.
Stando ai suoi calcoli la distanza tra casa sua e quella di Anthony era
di
circa un’ora e un quarto, se tutto fosse andato come
stabilito sarebbe riuscito
ad incontrarlo entro le dieci e mezza massimo. Il percorso era
piuttosto
impegnativo: prima doveva prendere un pullman che lo portasse alla
stazione
metropolitana più vicina; una volta raggiunta questa avrebbe
preso una linea
sulla quale sarebbe sceso dopo tre fermate, avrebbe cambiato e avrebbe
effettuato sulla seconda linea altre quattro fermate.
Dopodiché sarebbe dovuto
uscire per prendere un autobus che l’avrebbe portato alla
stazione di sosta più
vicina alla casa di Anthony. Il percorso comprendeva infine due
chilometri
circa da percorrere a piedi per poi trovarsi direttamente di fronte
alla casa
di Anthony.
Kyle non
aveva mollato il suo
foglio per un minuto, ad ogni passaggio non aveva mancato di
controllare e
ricontrollare, per essere sicuro di seguire la strada giusta. Tuttavia,
dopo la
scritta indicante il nome della via da imboccare per arrivare a
destinazione,
non c’era scritto più nulla. Aveva pensato a
tutto, era stato preciso in ogni
minimo dettaglio ma non aveva programmato la cosa più
importante: l’incontro
con Anthony.
Non aveva il coraggio di suonare
il campanello. Sicuramente avrebbero risposto i genitori del ragazzo
che,
stando a tutta la faccenda creata per quella piccola
“vicenda” con tra lui e
figlio, non dovevano certo vederlo di buon occhio. Avrebbe dovuto
pensarci
prima, non avrebbe dovuto agire d’impulso. Tutto quel suo
pianificare non era
servito a nulla; non avrebbe suonato quel campanello. Per
l’ennesima volta ha
mentito a Christian, senza peraltro ricavarne nulla di buono.
Dà un’ultima
occhiata al cortile degli Edwards, in cuor suo spera di avere fortuna,
spera
che da un momento all’altro Anthony esca dalla porta
d’ingresso e noti la sua
figura al cancello. Sa bene che certe cose, certe casualità,
nella vita reale
non accadono mai. Sospira e, perdendo la benché minima
speranza, decide di
riprendere in mano le sue indicazioni e ripercorrere la strada al
contrario. Volge le spalle all’abitazione e sospira. Quanto
tempo sprecato inutilmente!
Avrebbe potuto disegnare, è da parecchio che non lo fa,
precisamente da prima
del viaggio a Santa Monica. Si sente in colpa quando trascura questo
suo grande
dono, si ritiene colpevole d’offesa diretta alla sua vena
artistica. È sempre
stato dell’idea che tutti quanti siano venuti al mondo per
uno scopo preciso,
il suo doveva essere l’arte. Per quanto conosce di
sé, non c’è altro che sia in
grado di fare con lo stesso trasporto e la stessa passione. Pensa a
tutto
questo sulla strada di ritorno, seduto su un sedile della metropolitana
fin
troppo stretto.
"Non ho avuto tempo.”
Adduce,
dando la giustificazione più
semplice alle sue mancanze. La scuola, la
situazione burrascosa a casa e, si, tutta la vicenda che vede
protagonista
Anthony (dalla quale al momento non trova via di fuga) devono averlo
assorbito
al tal punto di non aver lasciato in lui nemmeno quella goccia di
energia
necessaria a mettere in moto la sua voglia di fare. Non è
una scusa totalmente
infondata eppure è convinto che si tratti di una bugia. Sa
di non aver fatto
abbastanza, sa di non aver nemmeno tentato. Il genio di per
sé è inutile, il
virtuosismo vale ben poco se non è combinato ad una grande
forza di volontà e a
un assiduo impegno.
Kyle inizia a
questo punto a
dubitare delle sue stesse abilità. È stato
cresciuto come figlio unico, i suoi
genitori hanno contribuito alla formazione di una buona autostima. Le
sue
abilità sono sempre state lodate, i suoi successi premiati,
le sue doti
incoraggiate. E se tutto non fosse nulla più del risultato
dell’amore
genitoriale? Lo scorso anno, come regalo per il compimento dei suoi
quindici
anni, gli è stata regalata una stupenda tavoletta grafica,
regalo molto
apprezzato, utilizzato più volte nei mesi successivi.
Conosceva bene il prezzo
di quel tipo di apparecchio, si era più volte fermato ad
ammirarne diversi
modelli nei negozi di elettronica. Quel dono era da vedersi quindi come
investimento nel suo talento? Oppure era l’ennesima
dimostrazione d’affetto?
A
questa domanda non sa
rispondere.Tuttavia, una questione che ancora non aveva considerato
fino ad
ora inizia a far capolino nei suoi pensieri. Tra poco meno di una
settimana
sarà il suo compleanno, compirà finalmente sedici
anni e potrà iscriversi al corso
per conseguire la patente di guida.
Fino all’anno passato il giorno
del suo compleanno era un momento che attendeva con ansia. Non vedeva
l’ora di
svegliarsi, la suddetta mattina, e trovare sul tavolo da pranzo il
pacco
contenente il suo regalo. Anche se la cosa divertente era notare i visi
sorridenti di Jonathan e Christian che cercavano di fare finta di
niente,
fingendosi impegnati in altre attività (sempre le stesse
tral’altro, di anno in
anno) mentre impazienti, con la coda dell’occhio, cercavano
di scorgere la sua
reazione. Il suo cuore per un momento sobbalza e si ritrova con la mano
sul
petto a cercare forse di trattenerlo per evitare che, in qualche modo,
riesca a
fuoriuscire. L’idea di non vivere quel meraviglioso quadretto
al quale è
abituato da sempre gli fa mancare il respiro. Non gli importa poi molto
del
regalo, a questo punto. La parte migliore di tutto è
l’amore e l’impegno che
Jonathan e Christian ci mettevano ad organizzare tutto. Il farfugliare
sottovoce nelle settimane antecedenti riguardo al regalo, al luogo in
cui avrebbero
festeggiato il compleanno, inizia a mancargli terribilmente. Il
susseguirsi
degli eventi recenti gli ha permesso di non pensare al suo compleanno
tuttavia
ora, una serie infinita di immagini a cui era abituato e che molto
sicuramente
non potrà rivivere, gli si presentano davanti agli occhi. La
casualità ha fatto
si che il compleanno di Jonathan cadesse nel medesimo giorno.
Cos’accadrà da lì
a una settimana? Quale altro cambiamento sarà costretto a
vivere? Non vuole
pensarci.
--> Supersuper
puntale =D Troppo presto? Spero di no! Sto sfruttando questo periodo di
"vena artistica al lavoro" per scrivere più che posso prima
di iniziare a rinchiudermi in camera (a computer spento) per gli esami
di dicembre/gennaio/febbraio. L'ultima parte del capitolo l'ho scritta
proprio stamattina sul mio blocco degli appunti
dell'università, aspettando la lezione di letteratura
francese. Sono abbastanza soddisfatta di questo capitolo, aspetto
comunque che voi lettori mi diate il vostro parere! Che dire, quella parte della
storia su cui non vedo l'ora di scrivere si avvicina sempre
più. Domani nell'ora buca mi chiuderò armata di
mini-pc in biblioteca di Anglistica e farò funzionare il mio
cervellino per lasciarvi un altro capitolo a breve. Voglio ovviamente
ringraziare per le recensioni jaryshanny,
mi fa molto piacere che tu sia ancora interessata alla mia
storia dopo tutto questo tempo, mi fa sempre piacere leggere le tue
recensioni! E Lal_Rouche,
la tua recensione così ben scritta mi ha colpito molto e
ammetto di averla "usata" come carburante per accelerare la mia vena
artistica e scrivere così rapidamente il trentesimo
capitolo.
Prima di salutarvi vi dico una cosina, anzi vi chiedo una cosina
che ho intenzione di chiedervi dai primi capitoli. Quasi subito
(secondo o terzo capitolo) mi sono messa alla ricerca su google e vari
siti di modelli che rappresentassero il mio ideale di John, Chris,
Kyle, Morgan e Ronald (ancora non ho trovato un Gregor che mi
soddisfi...). Se vi interessa vedere le foto di questi "modelli" per
darvi un'idea di come nascono nella mia mente posso mostrarveli =) Non
ho voluto scriverlo prima perchè quella di scegliere modelli
in carne ed ossa per le storie è una cosa che ho
già visto da altre fanfic e avevo paura di essere accusata
di "plagio". Se volete vederli bene, ve li
mostrerò, altrimenti immaginateli pure come volete e... al
prossimo capitolo!!! <----
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Capitolo 31 *** Afraid of changes (Paura di cambiare) ***
31. Afraid of changes (Paura di cambiare)
Da
quasi una settimana Jonathan
non esce di casa. Ha cancellato tutti i suoi appuntamenti, dandosi per
malato
il più delle volte. A conti fatti è malato, se si
considera che la depressione
sia ritenuta una malattia, uno psichiatra lo sa bene. Dalla sera in cui
si era
presentato a casa di Christian, non è più uscito.
Non è stata una decisione
volontaria, semplicemente, la mattina successiva, il suo corpo si
è rifiutato
di alzarsi. Le gambe erano rigide, gli occhi non davano cenno di
volersi
aprire, il cervello non dava segno di volersi attivare. Per tutto il
giorno
successivo non aveva fatto che stare seduto sul divano a fissare
attraverso la
finestra, passivamente la metropoli vivere davanti ai suoi occhi.
Niente
doccia, niente cambio d’abito o pasti, si trovava in uno
stadio di
catalessi dal quale
non gli è riuscito
uscire fino al giorno successivo. Si era alzato, lavato, vestito e
aveva fatto
colazione. L’azione di prendere il telefono, chiamare la
segretaria e motivare la
sua assenza con una banalissima influenza, gli era parsa
così naturale da non
essersi sentito poi in colpa per aver mentito.
Siede, per il
sesto giorno
consecutivo, sul divano. Non sta guardando fuori dalla finestra, ha
tirato la
tenda il giorno precedente per evitare di rimanere bloccato di nuovo a
fissare.
Non che stia facendo molto altro, ora l’oggetto della sua
attenzione è la
televisione. Non crede essere mai stato davanti ad uno schermo
così a lungo in
vita sua. Ha sempre disprezzato i talk show, li riteneva il classico
agglomerato di fastidios luoghi comuni e situazioni scontate che tanto
fanno
successo in una società bigotta come quella attuale, che ha
la pretesa di
dimostrarsi avanti con i tempi quando invece non dà segno di
volersi scollare
dalle più obsolete tradizioni. Il suo pensiero non
è cambiato ed è comunque
disgustato durante la visione della replica del giorno precedente
dell’Oprah
Winfrey Show. Non riesce tuttavia a fare altro di diverso da starsene
seduto, a
braccia conserte, con una smorfia infastidita sul viso, a fissare.
Gli
è capitato spesso, durante le
giornate precedenti, di rivivere mentalmente dei piccoli attimi del suo
ultimo
incontro di Christian. Faceva tutto il possibile per cancellare
quell’episodio
dalla sua mente, ci riusciva per una, forse due ore ma poi tutto quanto
si
ripresentava in modo sempre più violento. Dopo sei giorni,
non ha più nemmeno
la forza di scacciare via quel pensiero, è costretto a
rifletterci.
Si era
presentato con il
proposito di parlare a Christian. Era ormai arrivato alla conclusione
di non
poter stare senza di lui, era disposto a qualunque condizione,
qualunque cosa
per riaverlo accanto a sé. Non sapeva come avrebbe fatto,
credeva a malapena
fosse possibile un riavvicinamento. Nel peggiore dei casi, aveva
pensato,
avrebbe avuto almeno l’occasione di vederlo. Tuttavia, quando
finalmente
l’aveva avuto davanti ai propri occhi, non sapeva cosa dire.
Non sapeva come
iniziare il discorso, tutta la sua attenzione si era concentrata su
quell’estraneo, il collega di Christian, che aveva indosso il
suo accappatoio e
stava seduto sul divano che lui stesso aveva scelto e comprato per
Christian
tre anni prima. La tensione per l’incontro, la gelosia e
forse l’invidia
diretta a quello sconosciuto, lo avevano portato a reagire
così bruscamente da
dover alzare le mani. Normalmente ritiene la violenza qualcosa di
spaventoso,
un atteggiamento estremamente vile a cui fanno ricorso solo coloro il
cui
vocabolario e la cui intelligenza non sono ampi abbastanza da sostenere
una
tesi che possa reggere. Obiettivamente parlando, non ritiene se stesso
parte
della categoria sopraccitata e non si spiega, quindi, cosa possa averlo
spinto
a comportarsi in quel modo. Non era stato inoltre l’unico
episodio nel quale
aveva fatto ricorso alla violenza nell’ultimo periodo. Pochi
mesi prima aveva
colpito in pieno viso Abrahm Dickson, il vecchio datore di lavoro, per
così
dire, di Christian.
Eppure
quella volta era stato
diverso. Dopo aver sferrato quel colpo si era sentito bene, era
soddisfatto ed
è certo che, tornando indietro nel tempo, lo rifarebbe. La
violenza è sempre
violenza, in qualunque modo la si voglia vedere eppure Jonathan
continua a
sostenere il pugno inferno a Dickson e quello inferto al collega di
Christian
su piani differenti. Senza considerare che la violenza ai danni di
Dickson non
era stata del tutto gratuita, c’era una storia dietro tutto
quanto, sofferenze,
delusioni, sfruttamenti, non mancava proprio nulla nel quadro generale.
Colpire
quell’uomo, invece, non aveva avuto il benché
minimo senso. Semplicemente, una
molla incontrollata nel cervello di Jonathan era scattata, andando a
colpire il
suo buon senso e la ragione. Giustificare la violenza, comunque, non ha
senso.
Si tratta di un atteggiamento sbagliato a prescindere da ogni causa
esterna o
interna. Semplicemente, non avrebbe
dovuto colpire Abrahm Dickson e non doveva colpire quel Ronald.
La
motivazione poi, gli era
ignota. Gelosia? Come poteva essere geloso! Se anche Christian si fosse
visto
con qualcun altro, ne avrebbe avuti tutti i diritti. A conti fatti non
erano
più una coppia e la decisione era stata sua, non di
Christian. Se non avesse
combinato tutto quel disastro, se si fosse comportato da persona
responsabile,
affidabile e rispettabile quale era sempre stato, non sarebbe nemmeno
seduto su
un divano di una casa che a stento ritiene propria, a rimuginare su
comportamenti inspiegabili proprio il giorno precedente al suo
compleanno.
“Il mio compleanno.”
Queste tre parole gli
attraversano il cervello come un lampo e lo colpiscono con la medesima
intensità. Il giorno successivo sarà il suo
compleanno e quello di Kyle.
Quaranta e sedici anni, due numeri molto importanti che meriterebbero
di essere
festeggiati in modo adeguato. Non si è dimenticato delle
ricorrenze, la sua
memoria è parecchio buona e non è il tipo da
dimenticare date e appuntamenti
molto facilmente. La sua memoria è supportata da agende
sempre regolarmente
aggiornate ma raramente aperte. Quello a cui non ha ancora pensato,
tuttavia, è
il regalo di Kyle. Non abitano più sotto lo stesso tetto e,
per quanto possa
sapere, i suoi gusti potrebbero essere mutati completamente. Si
sentirebbe
imbarazzato, presentandosi con il dvd di un film di quello che
è sempre stato
il suo attore preferito o l’ultimo episodio di una saga di
videogiochi con i
quali sovente l’aveva sorpreso giocare e scoprire che, nel
frattempo, nulla di
tutto ciò gli interessa più.
Crede che per quest’anno si
limiterà a dargli del denaro, che lui stesso
potrà poi spendere come meglio
crede. Tuttavia, una volta presa questa decisione, deve pur sempre
considerare
che per dargli il regalo dovrà presentarsi di nuovo a casa,
vedere Christian.
Non saprebbe come affrontarlo. Se evitasse la discussione,
probabilmente
sarebbe Christian stesso a tirarla fuori se invece ne parlasse,
rischierebbe di
essere sbattuto fuori di casa, rovinando un giorno così
importante per Kyle.
Inoltre si ritrova molto indeciso riguardo alla somma da regalare a
Kyle, ha
paura che Christian fraintenda il dono di una cifra troppo cospicua.
Potrebbe
vedere il regalo come un insulto alla sua capacità di
provvedere al figlio.
“Chissà
cosa regalerà lui a
Kyle?”
Pensa
poi. La cosa migliore
sarebbe fargli una telefonata, mettersi d’accordo almeno
riguardo a quel
particolare. In fondo, potrebbe evitare di andare direttamente a casa
da
Christian, gli basterebbe inviare un sms a Kyle invitandolo da lui. Gli
farebbe
anche parecchio piacere averlo tutto per sé per un
po’ di tempo e festeggiare
insieme i compleanni. Scuote il capo.
“Non
sarebbe giusto, nei
confronti di Christian.”
Conclude.
Non potrebbe mai
privare Christian della presenza di Kyle. Sicuramente avrà
programmato di
cucinare qualcosa di speciale, di infornare una delle sue torte
più buone.
Magari ha anche deciso di organizzare lui una piccola festicciola. Non
può
farlo, proprio no. Sospira ed inizia a pensare quanto sia diventata
complicata
e fastidiosa una cosa generalmente insignificante come scegliere il
regalo per
il compleanno del figlio, quando solo un anno fa le cose sarebbero
andate
diversamente…
Un anno prima
-E
se gli regalassimo
quell’affare che sempre si mette a fissare nei negozi?
Chiede
Jonathan, mentre si trova seduto
al tavolo da pranzo a consumare l’ultima enorme fetta di
torta di mele rimasta.
Ne toglie piccoli pezzetti, facendo attenzione di non far fuoriuscire i
cubetti
di mela e la cannella. Christian invece sta spazzando per terra,
precisamente
vicino alla sedia di Kyle immancabilmente circondata innumerevoli
briciole di
pane. Una cosa che fa infastidire parecchio Christian.
-Un
aspirapolvere, forse! Si sa
mai che sia la buona volta che impari a non sbriciolare il pane in
questo modo…
Commenta
Christian a voce alta.
Una volta finito di pulire sistema la scopa nello sgabuzzino e si siede
accanto
a Jonathan. Lo osserva sorridente mentre sta mangiando, si diverte
probabilmente ad osservare la sua espressione soddisfatta. Ha gli occhi
socchiusi e mastica lentamente emettendo dei deboli suoni,
probabilmente di
apprezzamento.
-Neanche
io ti faccio lo stesso
effetto di quella torta.
Esclama
Christian ridendo.
Jonathan posa la forchetta e sorride.
-Vogliamo
provare?
Chiede,
maliziosamente. Christian
scuote il capo.
-Ritornando
al regalo di Kyle…
cosa sarebbe “la cosa che fissa sempre”?
Chiede,
cercando di riportare
l’attenzione del discorso sul regalo del figlio. Jonathan
riprende a mangiare
la tua torna e ne ingoia un altro boccone prima di spiegarsi.
-Ma
si! Quella sottospecie di
palmare gigante che si usa per disegnare!
Christian
annuisce. Si ricorda di
aver notato più volte Kyle interessato a guardare quel tipo
di accessorio.
Tuttavia ha avuto occasione di osservarne i prezzi, indiscutibilmente
proibitivi.
-La
tavoletta grafica costa un
sacco di soldi.
Jonathan
annuisce. Ha finito
tutta la torta e cerca di raccogliere nel piatto le ultime briciole
rimaste e i
pezzetti di mela fuoriusciti.
-Si
quella!
Urla.
Christian gli fa cenno di
abbassare la voce. Sono da poco passate le dieci e mezza di sera e Kyle
è già
andato a letto, approfittando del momento si sono riuniti in salotto
per
decidere riguardo al regalo e alla festa.
-Non
gridare, potresti
svegliarlo.
Jonathan
si alza dalla sedia e
guarda in direzione della porta della camera di Kyle, osserva se
c’è qualche
fascio di luce proveniente dalla stanza ma non nota nulla.
-Sta
dormendo come un ghiro.
Oppure è seduto con l’orecchio teso ad ascoltare
tutto ciò che stiamo dicendo.
Sistema
la sedia e porta il
piatto in cucina.
-A
questo proposito… sarà meglio
che non pronunci ad alta voce frasi compromettenti, quindi
perché non andiamo
direttamente in camera?
Christian
sbuffa ma sorride.
Apprezza l’ironia giocosa di Jonathan.
-Smettila!
Domani andremo a
vedere per la tavoletta ma… la cena?
Jonathan
compare alla spalle di
Christian e lo abbraccia. Appoggia la propria guancia a quella di
Christian
dandogli un bacio molto delicato.
-Solito
ristorante, sala giochi e
poi cinema, magari?
Propone.
Christian annuisce.
-Come
sempre… tutto qui? Abbiamo
già deciso?
Jonathan
dà un altro bacio a
Christian, questa volta sulle labbra, anche
l’intensità cambia.
-Ma
certo! Ora… mi seguiresti in
camera? O te lo devo chiedere un’altra volta?
Christian
sorride e si alza dalla
sedia.
***
Manca
poco meno di un giorno al
compleanno di Kyle. Christian si trova in centro, vaga per i negozi
senza avere
la benché minima idea riguardo
all’entità del regalo. Ha già visitato
più di
dieci negozi di vestiti per poi arrivare alla conclusione di dover
comprare a
Kyle qualcosa di diverso dal semplice abbigliamento. Dopotutto acquista
spesso
per lui capi di vestiario, senza particolare motivo. Vorrebbe tanto
avere il
denaro necessario per potergli regalare ciò che vuole
veramente, tuttavia le
sue finanze sono alquanto misere.
In
preda all’indecisione decide
di provare a cercare qualcosa in un negozio di videogiochi, a Kyle
piace
parecchio giocare ai videogiochi, passa molto tempo in salone davanti
allo
schermo con il joystic. O meglio, passava. Prima di entrare nel
negozio,
Christian si siede su una panchina, posizionata all’esterno.
Riflette, prima di
entrare nel negozio. Non si ricorda di aver visto Kyle giocare da oltre
due
mesi, forse di più. Anzi, a dirla tutta l’ultima
volta che l’ha visto giocare è
stato proprio quella sera di qualche mese prima, quando Jonathan se
n’era
andato. Avevano giocato insieme ad uno di quegli assurdi giochi sui
vampiri o
qualcosa di simile, nemmeno ricorda il nome di quel videogioco. Inizia
a
chiedersi se veramente a Kyle interessino ancora i videogiochi. Ha solo
sedici
anni e quindi trascorrerà diverso tempo prima che abbandoni
definitivamente le
console per altri interessi, è ancora un ragazzino, a
metà del suo percorso
scolastico. Persino il college è lontano. Molte volte
Christian si scopre
ritenere Kyle molto più grande di quanto in
realtà non sia. Alla sua età era
decisamente più immaturo, si divertiva ad andare al cinema
con gli amici, stava
fuori a dormire in spiaggia a Santa Monica, andava nelle sale giochi a
giocare
a flipper o altri giochini preistorici, come lui stesso li definisce,
come
pac-man o tetris. I pomeriggi leggeva i fumetti di Spiderman e Batman e
nient’altro.
Buona
parte di queste attività
rientrano anche in quelle di Kyle o forse, rientravano. Da un paio di
mesi non
gli chiede più denaro per acquistare i suoi amati manga, la
sera è sempre in
casa, anche nei weekend, anche d’estate. Non ha idea di cosa
faccia rinchiuso
in stanza tutta sera, non si è mai nemmeno posto il problema
e si vergogna ad
ammetterlo.
Mentre
pensa e riflette, un
ragazzo di più o meno l’età di Kyle,
accompagnato da un signore, probabilmente
il padre, girano fianco a fianco davanti ai suoi occhi. Il ragazzo
indica
svariate cose nelle vetrine: scarpe, vestiti, orologi, videogiochi,
libri,
tutto. Alla fine entrambi entrano in libreria. Christian immagina come
sarebbe
stato portare Kyle con sé. Forse avrebbe dovuto portarlo e
chiedergli di
scegliere lui stesso il regalo desiderato. Non l’ha fatto
perché non è una cosa
che rientra nelle loro tradizioni. C’è sempre
stata una sorta di “mistero”
attorno al compleanno. Di solito non se ne parla fino al giorno stesso
e i
festeggiamenti vengono annunciati circa venti minuti prima, il regalo
viene
presentato incartato e deve assolutamente essere una sorpresa. Si trova
sciocco, Christian, a rimanere così attaccato alla
tradizione, quando
quest’anno di tradizionale ci sarà ben poco.
Un
anno fa, si sarebbe trovato a
casa a scegliere quale torta preparare, avrebbe tirato fuori il regalo
già
acquistato per incartarlo a regola d’arte non appena il
figlio fosse andato a letto.
Nel frattempo Jonathan avrebbe iniziato a telefonare al ristorante per
prenotare il tavolo, trattando per ottenere il migliore e avrebbe
eventualmente
prenotato i biglietti per il cinema. Senza contare che si tratta anche
del
compleanno di Jonathan. Non dovrà fargli alcun regalo, non
gli deve niente, non
dovrà nemmeno telefonargli. Che senso avrebbe? Non
può certo prendere in mano
il telefono e fare tanti auguri alla persona che l’ha fatto
stare così male,
che ha reso quella situazione così familiare e solitamente
divertente un vero
inferno e un cumulo di dolore. Eppure quella persona è
sempre Jonathan…
Un anno prima
-
Quattrocento dollari? Stiamo
scherzando!
Esclama
Christian, osservando il
cartellino di una delle tante tavolette grafiche in esposizione.
Jonathan non
risponde subito, è troppo impegnato a leggere la scheda
tecnica.
-Non
è nemmeno il prezzo finito,
la penna è esclusa.
Commenta
infine. Christian scuote
il capo.
-Non
possiamo comprargli una cosa
del genere! Andremmo a spendere quanto, quattrocentocinquanta dollari
in tutto?
È troppo!
Jonathan
annuisce.
-Beh
però è compreso il cd, il
manuale che spiega passo per passo le funzioni e poi è
wireless. Ci sono anche
una serie di dati tecnici che non capisco ma sono parecchi!
È una cosa buona,
no?
Christian
non è d’accordo. Si
rende conto che il compleanno è molto importante e che Kyle
merita un bel
regalo, soprattutto perché probabilmente sarà
l’unico che riceverà, non avendo
altri parenti se non loro. Tuttavia è restio riguardo alla
scelta del regalo.
Sa bene che Jonathan potrebbe permettersi di comprarlo da solo, senza
chiedere
a lui neanche un centesimo. Il suo stipendio è
più che buono. Vuole comunque
dargli se non la metà, buona parte della somma che
è comunque molto elevata,
per come la vede lui.
-John,
te lo ripeto, costa
troppo!
Jonathan
si avvicina di più a lui
e gli appoggia una mano sulla spalla.
-Posso
pagarla io, per intero, se
per te è un problema. Siamo sposati, il mio stipendio
è il tuo stipendio.
Christian
scuote il capo. Non era
quello che voleva intendere, non solo quello almeno.
-No,
non capisci! Al compleanno
gli regaliamo qualcosa che costa cinquecento dollari, a Natale mille. E
l’anno
prossimo? Duemila? Non dovremmo viziarlo così tanto!
Jonathan
scoppia a ridere.
-Chris,
guarda che non è una gara
di rialzo!
Christian
arrossisce, si sente
leggermente in imbarazzo. Jonathan lo abbraccia e lo bacia, senza
però smettere
di sorridere.
-Facciamo
così, mi dai una mano a
pagare quest’affare e a me non fai nessun altro regalo. Una
bella torta piena
di schifezze come… cioccolato,panna, crema. Niente di
più, ti va bene?
Christian
alla fine sorride e
accetta.
-->
Eccomi di nuovo ad aggiornare, spero di allietare il vostro weekend
con questo capitolo. Oggi vi propongo ben DUE flashback. La
tecnica narrativa del flashback è qualcosa che mi piace
parecchio, soprattutto se funge da contrasto con i momenti
del presente. Voglio ringraziare per le splendide
recensioni jaryshanny,
nefene e lal_rouche.
Mi fa piacere vi interessi vedere i miei "attori", presto
creero un post sul mio blog con le loro foto e vi metterò il
link. Ancora due parole suella mia storia, vi rivelo di aver
inizialmente avuto intenzione di finirla al capitolo 35, cosa che ormai
mi sarà impossibile visto che ho ancora molto da raccontare.
Ogni volta che inizio a scrivere un capitolo mi sembra quasi che siano
i protagonisti stessi a raccontarmi la loro storia, con più
particolari ogni volta, facendomi produrre capitoli che nella mia mente
erano del tutto... inaspettati! Spero mi sopporterete ancora un po'!
Questo è tutto... alla prossima! <---
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Capitolo 32 *** Surprising Party (Festa con Sorpresa) ***
32. Surprising
Party (Festa con
Sopresa)
Alla
fine, il giorno del
compleanno di Kyle è arrivato. Sono le dieci di mattina e il
ragazzo è ancora a
letto, ad occhi aperti fissa svariati punti nella penombra della sua
camera. La
finestra non è ancora stata aperta, la porta della sua
camera è socchiusa,
esattamente come la trova ogni mattina. All’apparenza
è un giorno come un
altro, proprio questo dà segnale a Kyle che qualcosa sia
irrimediabilmente
cambiato.
Fino
allo scorso anno veniva
svegliato non più tardi delle nove da Christian, che lo
chiamava dall’altra
stanza invitandolo ad alzarsi per fare colazione. In sala poi avrebbe
trovato
la sua sorpresa e avrebbe infine ricevuto gli auguri dei suoi genitori
e dato i suoi a Jonathan.
Sospira
e si mette a sedere, non
vuole accendere la luce, non ancora.
“E se si fosse dimenticato che giorno
è oggi?”
Pensa
intimorito. I suoi pensieri
sono in conflitto; da un lato non vorrebbe festeggiare il compleanno.
La
mancanza di Jonathan e quel clima triste e doloroso rovinerebbero
l’intera
giornata. Dall’altro lato però soffrirebbe se
Christian si fosse dimenticato
della ricorrenza. Dopotutto è pur sempre un ragazzo, ha solo
sedici anni e a
quell’età si ha un irrefrenabile desiderio di
diventare adulti, si pronuncia la
propria età a gran voce e il giorno del compleanno
è troppo importante per non
essere vissuto.
Si
fa forza, punta i piedi a
terra e si alza da letto. Non accende la luce, si avvicina invece alla
finestra
per aprirla. Il clima fuori è tipicamente estivo, caldo
torrido e sole cocente.
Rimane
qualche istante davanti
alla finestra aperta con i gomiti appoggiati al davanzale, ad occhi
socchiusi. Non
pensa a niente e si sente bene, terribilmente bene.
Quel
suo attimo di riposo viene
interrotto dal cellulare, che inizia a suonare. Scrolla il capo e
chiude le
finestre.
Non
si ricorda dove ha lasciato
il telefono la sera prima, è rimasto alzato fin tardi
poiché aveva visto finire
un programma televisivo iniziato in seconda serata. I suoi abiti sono
ancora
sul pavimento: i jeans a tre quarti sono rimasti davanti alla porta, la
t-shirt
è poco distante dal letto. Si sorprende del fatto che
Christian non abbia
raccolto i panni da terra e non li abbia sistemati sulla
sedia, come è solito fare
nella sua visita notturna durante la quale si assicura che Kyle stia
bene e che
stia dormendo. Forse perché è andato a letto
prima quella sera o forse perché
c’è qualcosa che non va.
Kyle
è propenso a sostenere la
seconda ipotesi. Sa bene che Christian è un vero e proprio
maniaco dell’ordine,
ha avuto e ha spesso conflitti con lui riguardo alla sua camera in
perenne
disordine, un singolo calzino fuoriposto lo fa imbestialire. Se non si
è
preoccupato del disordine quando ha avvicinato la porta di Kyle quella
mattina,
probabilmente aveva in testa ben altro.
Ad
ogni modo, il telefono ha
smesso di suonare. Kyle si inginocchia sul pavimento e recupera i
jeans. Inizia
a tastare e lo trova in una delle tasche laterali.
Si
trattava semplicemente di un
messaggio. Prima di leggerlo fa qualche ipotesi riguardo al mittente.
Potrebbe
essere Jonathan. Kyle è sicuro che almeno lui non si sia
dimenticato della
ricorrenza, dopotutto il loro compleanno cade nel medesimo giorno.
Sarebbe
molto strano leggere un messaggio di auguri da parte di Jonathan,
doloroso in
qualche modo. Questo perché Kyle, in cuor suo, spera ancora
di aprire la porta
e trovarlo seduto sulla sua sedia preferita del tavolo da pranzo a
leggere il
giornale, facendo del suo meglio per fingere di ignorarlo e alzando di
tanto in
tanto gli occhi per vedere una sua reazione al pacchetto opportunamente
adagiato sul tavolo.
Tende
l’orecchio verso la sala da
pranzo e non si sente alcun rumore, nemmeno quello delle pentole di
Christian.
“È inutile che mi illuda, lui
non è qui e non verrà.”
Pensa
alla fine, completamente
afflitto e distrutto dall’idea. Piangerebbe se un grosso nodo
in gola non
glielo impedisse. Non si ricorda di aver mai versato una lacrima il
giorno del
suo compleanno da quando vive con Jonathan e Christian. Piangeva ogni
anno
all’orfanotrofio nel quale aveva passato i primi quattro anni
della sua vita. Non
era più successo però da quando Jonathan
l’aveva portato a casa con sé, quel
pomeriggio di dieci anni prima.
Un
altro possibile mittente è
Morgan. Non si parlano da qualche giorno eppure spera di ricevere
almeno un
messaggio d’auguri da parte sua. Dopotutto, è
l’unica amica che ha. Scuote il
capo e decide che è inutile stare a pensare e fare ipotesi,
preme il bottone di
conferma e legge il messaggio. Il mittente è Daniel.
“Ciao Kyle! Tanti auguri di buon compleanno. Sedici
è un gran numero,
festeggiali come si deve mi raccomando!”
Daniel
Owens. Da tanto tempo non
lo sente nominare, veniva spesso a casa sua e per quanto ne sa la
frequentava
da ancora prima che lui stesso vi abitasse. È un ragazzo
otto anni più
grande, a cui Christian dava ripetizioni. Cerca di ricordarsi
l’ultima volta in
cui l’ha visto ma gli è difficile. Di sicuro prima
della separazione dei suoi
genitori. Il suo rapporto con lui era buono, giocavano ai videogiochi
qualche
volta e in passato era capitato che si fermasse a cena da loro. Aveva iniziato a
frequentare meno casa sua
fino a non farsi più vedere. Christian non l’aveva
più nominato, era
completamente scomparso, fino a quel momento.
Ad
ogni modo, risponde al
messaggio ringraziandolo per gli auguri. Vorrebbe scrivergli
qualcos’altro,
chiedergli come se la stia passando e come mai abbia smesso di
frequentare casa
sua. Tuttavia gli sembra fuori luogo, non è si è
preoccupato di lui fino a quel
momento. Se non avesse ricevuto un messaggio da parte sua non
è sicuro avrebbe
riportato alla mente il suo nome tanto presto. Perciò si
limita ad uno scarno
messaggio di ringraziamento. Dopo aver premuto il tasto
d’invio, posa il
cellulare sulla scrivania, respira profondamente e apre la porta,
raggiungendo
la sala da pranzo.
L’intero
appartamento sembra
deserto. Osserva l’ambiente, accorgendosi poi di Christian,
di spalle,
appoggiato al davanzale della finestra accanto al tavolo da pranzo.
Probabilmente è sovrappensiero e non l’ha sentito
entrare in salone.
-Buongiorno
Chris.
Esclama
Kyle, per ricevere la sua
attenzione. Nel frattempo si accorge che sul tavolo non
c’è nulla per lui e il
fatto Christian non si sia precipitato a fargli gli auguri, lo ferisce
terribilmente.
-Oh
tesoro! Buongiorno! Vado
subito a prepararti la colazione, siediti.
Risponde.
A giudicare dalla sua
voce sembra completamente perso. Passa accanto a Kyle e si dirige in
cucina,
senza degnarlo di uno sguardo. Kyle si siede, paralizzato. Non
può credere che
quello sia veramente il giorno del suo compleanno, non è
nemmeno sicuro di
trovarsi nella casa giusta. Aveva temuto di notare qualche cambiamento
ma mai
si sarebbe aspettato qualcosa del genere. Vorrebbe alzarsi e gridare a
Christian:
“Ehi? Mi vedi? Oggi è il mio
compleanno.”
Si
morde un labbro e si ritiene
così superficiale. Non è solo il suo compleanno,
è anche quello di Jonathan.
Christian probabilmente sta soffrendo. Lo capisce, eppure continua a
ritenere
quel comportamento ingiusto. Jonathan non c’è ma
lui è lì, non gli ha voltato le
spalle. Potrebbe almeno sforzarsi di pronunciare un fugace
“auguri”. Non chiede
nient’altro.
Chiude
gli occhi e continua a
scrollare il capo. Gli sembra di essere tornato in orfanotrofio, quando
le
suore erano troppo impegnate a occuparsi dei propri problemi e dei
neonati per
ricordarsi di fargli gli auguri.
-Ecco
qua, latte caldo e la torta
di mele. Perdonami, non avevo gli ingredienti per cucinare altro.
Esclama
Christian, posando una
tazza e un piattino da dessert davanti a Kyle. Sparisce poco dopo e
torna in cucina.
Kyle è spiazzato. Certamente non ha fame, tutta quella
situazione gli ha
completamente tolto l’appetito. In condizioni normali
divorerebbe la torta di
Christian ma in quel caso l’impulso di gettarla a terra e
rinchiudersi in
camera è fortissimo.
-Lo
so che non è molto ma ti ho
preso questo.
Esclama
poi Christian, posando un
pacchetto rettangolare incartato con carta da pacco gialla e blu sul
tavolo.
Kyle fissa Christian, è confuso.
-Per
il tuo compleanno, tanti
auguri tesoro.
Non
sa come rispondere. I
peggiori auguri mai ricevuti in vita sua. L’atteggiamento di
Christian è
alquanto bizzarro.
-Grazie.
Risponde,
con freddezza.
Christian non si è dimenticato del compleanno ma pare quasi
che non gli importi
affatto. Ha posato quel pacchetto sul tavolo con poco riguardo e gli
auguri
hanno dato a Kyle l’idea di essere stati solamente la
spiegazione alla consegna
del pacchetto. Pensa che se si fosse limitato ad aprire il pacco
nemmeno glieli
avrebbe fatti.
Christian
si siede su di una
sedia accanto a lui, sta sorridendo. Probabilmente aspetta che
apra il suo
regalo. Kyle esita, prende in mano il pacchetto e lo fissa.
È di media
dimensione, piuttosto leggero. Solo qualche istante dopo lo apre e al
suo
interno scopre un paio di cuffie vecchio stile nere e rosse per il
lettore mp3.
Le ritiene piuttosto carine, originali. Un oggetto completamente
inutile visto
che non ha intenzione di rimpiazzare le classiche cuffiette bianche in
dotazione con il suo lettore. Tuttavia, per cortesia sorride e finge di
gradire
il regalo.
-Sono
molto particolari, ti
ringrazio Chris.
Christian
annuisce.
-Il
commesso mi ha assicurato che
sono compatibili con il tuo iPod. Immagino tu t’aspettassi
tutt’altro regalo
ma…
Il
tono di voce di Christian
cambia, pare spezzato e affranto. Kyle teme di averlo ferito con suo
apprezzamento visibilmente costruito. Cerca di porre subito rimedio.
-Non
devi preoccuparti di questo
Chris, il regalo va bene, davvero.
Christian
sorride, un sorriso
triste e malinconico che Kyle, per una volta, finge di non vedere.
***
Una
bustina bianca è posata sul
tavolo dalla sera precedente.
Jonathan
l’ha acquistata la sera
prima con l’intento di scrivere un biglietto
d’auguri per Kyle e per infilarci
una banconota, il cui taglio non è ancora stato deciso.
Ancora si chiede quale
possa essere la cifra adatta ad essere ritenuta sufficiente e non
offensiva. Siede
a capotavola e osserva la busta. Non saprebbe nemmeno cosa scrivere sul
biglietto. Sono già due di pomeriggio e ancora non ha fatto
nulla.
Le
sue intenzioni per quella
giornata non erano comunque differenti, si è preso una
giornata libera. Da
qualche tempo sembra quasi che non gli importi più nulla del
lavoro, quando
invece per lui era sempre stato una priorità, messo tante
volte al primo posto,
motivo di diversi litigi e discussioni in famiglia. Christian gli ha
chiesto
più volte di prendersi la giornata libera per festeggiare il
proprio compleanno
e quello di Kyle, in serenità. Non l’aveva mai
fatto, fino a quel momento.
Quella
sua decisione è stata assurda,
perché questo compleanno nemmeno lo festeggerà.
Non ha nessuno con cui uscire e
molto probabilmente non riceverà messaggi o telefonate
d’auguri. È consapevole
del suo stato di solitudine e di certo non era questo il modo in cui si
era
immaginato il suo quarantesimo compleanno.
Non
gli è mai importato molto di
festeggiare il compleanno, da quando Kyle è entrato nella
sua vita poi, il suo
interesse più grande è sempre stato assicurarsi
che lui passasse una bella
giornata. Compiere quarant’anni però è
un passaggio importante, nemmeno lui sa
perché. Molti vedono il compimento dei
quarant’anni come l’inizio dei vari
acciacchi dell’età, Jonathan
non l’ha
mai pensata in quel modo. Il suo malessere è iniziato prima,
da mesi fa fatica
ad alzarsi, la sera passano ore prima chi riesca a chiudere occhio e da
qualche
giorno si è deciso di utilizzare un paio di occhiali da
vista, acquistati qualche
mese prima, per leggere. La causa potrebbe essere imputabile
all’avanzamento d’età,
tuttavia tutto quello che gli è successo deve per forza
avere una piccola parte
di colpa.
Si
alza dalla sedia sulla quale è
seduto da nemmeno lui sa quanto e inizia a vagare per la casa, forse
per
alleviare la tensione. L’ambiente ora è
più ordinato, tutto quel tempo libero
gli ha concesso, ultimamente, di dare una ripulita. Si è
finalmente deciso di
sistemare tutto quanto, forse perché si è reso
conto che difficilmente lascerà
quel posto, nell’immediato futuro. Camminando, nota sul
divano il quotidiano
del giorno, il fattorino del palazzo gliel’ha consegnato
qualche ora fa,
proprio come lui stesso aveva richiesto, una volta trasferitosi nello
stabile.
Si siede sul divano e afferra il giornale. Fa molta fatica a leggere,
riesce a
distinguere chiaramente soltanto la testata e indovina giusto qualche
parola
dei titoli principali. Sbuffa, rassegnato. Se ha intenzione di leggere
seriamente quel giornale deve mettersi gli occhiali, non ha altra
alternativa.
La custodia degli occhiali si trova alla sua sinistra, sul tavolino
accanto al
divano. Li ha lasciati lì la sera precedente. Non gli
piacciono affatto e
detesta indossarli. Se non fosse stato per le difficoltà di
lettura delle carte
al lavoro avrebbe continuato ad arrangiarsi sforzando la vista e
spostando il
giornale sempre più lontano perché da lontano ci
vede benissimo, di fatti è
ipermetrope.
Afferra
la custodia degli
occhiali e li estrae, delicatamente. Si tratta di una montatura
piuttosto
sottile, di colore nero. Non sono particolarmente alla moda. Li ha
scelti solo
perché sono leggeri e può facilmente dimenticarsi
di averli indosso. Perlomeno,
vorrebbe. Non avendo gravi problemi di miopia, si trova ad indossare
una sorta
di gigantesca lente d’ingrandimento, si tratta di occhiali
utili solo per la
lettura ed estremamente fastidiosi se ci si dimentica di toglierli. Una
tortura,
per Jonathan.
Una
volta estratti dalla
custodia, li rigira di mano in mano, quasi li studiasse. Sono
esattamente
identici a quelli che portava suo padre, il suo vero padre; Jonathan
Wallace
Sr.
Voleva
un gran bene a suo padre e
ha sofferto molto per la sua morte, quand’era ragazzo.
Tuttavia ha sempre
vissuto col timore di diventare la sua copia. Non ha mai sopportato il
fatto di
portarne il nome, troppe persone, conoscenti, si aspettavano da lui che
seguisse le orme del padre e che iniziasse la carriera medica, si
sposasse e
tutto quanto.
La
prima volta che ha osservato
la sua immagine allo specchio con indosso i nuovi occhiali si era
spaventato,
aveva fatto cadere le lenti a terra, scheggiandole. Gli era parso di
vedere suo
padre, così tremendamente simile, nonostante
l’avesse sempre negato. Non gli
dispiaceva assomigliare a suo padre, era ovviamente un uomo
affascinante ed
intelligente. Il vero problema era, che ancora una volta, non aveva
retto il
paragone. Dopo la morte di suo padre, era
fuggito da Austin per rifugiarsi nella caotica e rumorosa
New York City.
Lì nessuno l’avrebbe riconosciuto, nessuno se ne
sarebbe uscito dicendo “Ehi,
ma tu sei il figlio di Jonathan Wallace! Gran uomo tuo
padre.”, facendolo
sentire come un pezzo di carta straccia.
Il
test di medicina l’aveva pure
tentato, a New York, non si era nemmeno qualificato. Questa cosa
l’aveva
confessata solo a Christian, ovviamente, parecchi anni più
tardi quando ormai
stava diventando un affermato psichiatra di successo. Mentirebbe se
affermasse
di non aver nemmeno tentato di somigliare a suo padre ma il peso
dell’eredità
era troppo. Così Jonathan, ben conscio dei propri limiti, si
era trovato una
figura paterna più facile da emulare: Gregor. Con lui era
stato molto più
semplice e c’era riuscito, pienamente. Era sempre stato
felice di ciò che era
diventato, della fatica che aveva fatto ma in cuor suo sa bene di aver
deluso
suo padre. Non perché non è diventato medico, non
perché è omosessuale (
suo padre sapeva tutto, da sempre) ma perché si è
macchiato di quella stessa colpa,
catalizzatrice della malattia che aveva condotto suo padre al letto di
morte: l’adulterio.
Jonathan
Wallace Sr. era morto
per via di un lacerante tumore al fegato, che era progredito
velocemente, fino
a strappargli la vita nel giro di cinque mesi. Non aveva lottato, come
i medici
avevano dichiarato, con il male. Jonathan, il figlio, sapeva bene che
era tutta
colpa della relazione tra sua madre e Gregor. Aveva visto suo padre
morire,
svanire lentamente di giorno in giorno davanti ai suoi occhi, corroso
da quel
dispiacere datogli dalla persona che tanto aveva amato per
più della metà della
sua vita. Aveva visto gli occhi vuoti di suo padre, le sue mani ossute
che
carezzavano amaramente il bel viso della donna che gli tanto gli aveva
dato e
altrettanto gli aveva tolto.
Eppure,
non si era fatto scrupoli
dal riservare il medesimo trattamento a Christian.
Immediatamente
ripone gli
occhiali nella custodia e quasi li getta sul tavolino, dove li ha
trovati.
Scosta il giornale, non ha più interesse a leggerlo, adesso.
Si alza dal divano
e dopo essersi accertato dell’orario, prende il cellulare ed
inizia a scrivere
un messaggio per Kyle, nel quale lo invita a casa sua. Una volta
spedito,
prende il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni ed estrae una
banconota da cento dollari, da inserire nella busta di Kyle. Arriva
alla
conclusione che, qualunque sia il taglio della banconota, di certo con
quel
gesto non potrà offendere Christian più di quanto
abbia già fatto.
***
Kyle
si è chiuso in camera. Sa
bene che non ci sarà alcun ulteriore festeggiamento, per
quella giornata. Se
fosse rimasto in sala con Christian avrebbe finito col vedere qualche
tristissimo film in bianco e nero sulla tv via cavo e non era affatto
interessato.
Non
pensava che realmente avrebbe
sentito la mancanza dei festeggiamenti per il compleanno. Forse
perché l’abitudine
è in grado di rendere le cose più belle talmente
comuni da darle per scontate.
È
quasi stanco Kyle di rimuginare
su pensieri di questo tipo. Vorrebbe tanto uscire e fare qualcosa ma
cosa
potrebbe fare? L’unica amica che abbia mai avuto importanza
nella sua vita non
parla con lui da settimane.
I
pensieri di Kyle vengono
interrotti dall’entrata di Christian in camera sua.
-Ti
disturbo?
Chiede,
entrando delicatamente in
camera, distaccandosi di poco dall’uscio. Kyle scuote il capo
e gli fa cenno d’entrare.
Spera che non sia venuto di nuovo per scusarsi riguardo al regalo di
compleanno che in quel momento giace, semi-incartato, sulla scrivania,
accantonato come un pezzo di roba vecchia.
-Non
è proprio il compleanno che
desideravi, vero?
Afferma,
sedendosi sul letto.
Kyle si mette a sedere, a gambe incrociate. Respira profondamente e si
prepara
a trattare quell’argomento così scontato.
-È
solo diverso dagli altri, mi
ci devo abituare.
Risponde,
sperando che Christian
creda a quella sua affermazione e decida di lasciarlo in pace.
-No,
è uno schifo, lo so.
Ribatte,
spiazzandolo.
-Chris,
ti ho detto che va bene!
Dai, è solo una situazione nuova… ci prenderemo
la mano!
Christian
scuote il capo e fa un
mezzo sorrisetto.
-Dovresti
smetterla di parlare da
adulto Kyle.
Kyle
spalanca gli occhi. Non si
era reso affatto conto di aver parlato “da adulto”.
-Vuoi
che ti dica che non sono
felice? D’accordo, non lo sono.
Pronuncia
l’intera frase con lo
sguardo rivolto verso il basso, fissando e giocherellando con le pieghe
del
copriletto.
-E
il regalo ti fa schifo.
Ammetti anche questo.
Kyle
alza lo sguardo ed
inizia a gesticolare.
-Ma
no! No, il regalo mi piace
davvero e poi sono blu, io adoro il blu!
Christian
indica le cuffie sulla
scrivania.
-Non
vedo blu da nessuna parte,
sono rosse e nere.
Kyle,
spalanca la bocca, senza
dire una parola.
-Mi
hai dato una risposta
abbastanza esaustiva.
Kyle
abbassa di nuovo lo sguardo.
Prova vergogna per la terribile figuraccia che ha appena fatto.
-Non
importa, possiamo cambiarle
con qualcos’altro. Dimmi cosa vuoi, davvero.
Almeno il regalo deve piacerti.
Kyle
sospira. C’è qualcosa che
desidera sul serio, profondamente e intimamente. Ci ha riflettuto per
tutta la
giornata ed è stata la prima cosa che ha pensato quella
mattina. Sa bene che
Christian non lo lascerà in pace finché non
parlerà sinceramente, gli conviene
quindi parlare da subito con chiarezza, evitando altre scuse o bugie.
-C’è
una cosa che voglio tanto,
veramente tanto. Non credo di aver mai voluto nulla più di
questo.
Christian
lo osserva. Dal suo
sguardo Kyle deduce abbia inteso a cosa si riferisce ma preferisce
continuare a
parlare. Non ha intenzione di cadere in quella spirale di cose non
dette e date
per intese. Quando ci si riferisce a qualcosa, senza pronunciarlo a
chiare
lettere, ad alta voce, non si fa altro che alimentare la paura della
cosa stessa
che quando emerge, per caso o per sfinimento fa molto più
male.
-Avrei
tanto voluto vedervi
insieme, tu e John, almeno per oggi. Non mi importa come e non avrei
chiesto
baci o finti sorrisi. Mi sarebbe bastato vedervi entrambi seduti in
sala questa
mattina.
Christian
non ribatte.
-Se
solo aveste accantonato per
poche ore tutto quanto, per me, per farmi felice. Beh, avrei avuto il
compleanno più bello. Ecco tutto…
Conclude,
tornando a fissare il
copriletto. Per qualche secondo regna il silenzio. Nessuno dei due osa
parlare.
Probabilmente tutti gli argomenti si sono esauriti. Quel silenzio
terrificante
viene interrotto dalla suoneria del cellulare di Kyle. Il ragazzo si
alza e va
subito a prendere il telefono, posato anch’esso sulla
scrivania. Si tratta di
un messaggio e il mittente è Jonathan. Kyle sospira e poi lo
legge tutto d’un
fiato.
“Ciao piccolo, buon compleanno!
Diventiamo vecchi eh! Che ne diresti di
passare da me dopo cena? Rispondi presto, un bacio.”
-È
lui.
Esclama
ad alta voce Kyle,
squarciando il silenzio con la stessa violenza di un lampo nella notte.
-Jonathan.
Prosegue.
Christian annuisce.
-Avevo
capito.
Kyle
lancia il telefono sul letto
e torna a sedere.
-Mi
chiede di passare da lui, dopo
cena.
Si
aspetta una risposta di
Christian, che arriva solo dopo pochi istanti.
-Mi
sembra giusto.
Si
alza dal letto, sistemando
accuratamente la parte di copriletto sul quale era seduto.
-Vado
a vedere se c’è qualcosa di
bello, in televisione. Vieni con me?
Kyle
scuote il capo.
-No,
credo resterò qui.
Kyle
rimane in camera sua,
leggendo, ascoltando musica e navigando sul web fino all’ora
di cena che
trascorre in modo alquanto placido. Padre e figlio parlano, di
argomenti
piuttosto frivoli.
-Ti
andrebbe un pezzo di torta?
Quella di stamattina.
Domanda
Christian, alzandosi
dalla sedia per sparecchiare la tavola. Kyle annuisce.
-Va
bene. Sai che adoro le tue
torte.
Christian
prende tutti i piatti e
poi sparisce in cucina, riemerge dopo cinque minuti con due piatti. Il
primo
contiene una bella fetta di torta guarnita da una montagnetta di panna
montata
e fragoline di bosco, il secondo piatto e incartato con la carta
stagnola.
-Questa
è per te, l’altra… la
puoi portare a… Jonathan. Ce n’è
parecchia, è un peccato buttarla e…
Kyle
lo azzittisce, facendogli
cenno con la mano.
-Va
bene, grazie.
Sorride.
Quel gesto, seppur di
pura cortesia da parte di Christian, rasserena immediatamente i suoi
pensieri.
-Ti
devo accompagnare io o… cosa?
Chiede, Christian, continuando a
sistemare la tavola.
-Mi
passa a prendere lui, mi
aspetta giù in macchina.
Dopo
aver finito la torta Kyle si
alza da tavola e si dirige verso il bagno per lavarsi i denti. Apre
l’acqua del
rubinetto ma la richiude quando sente un telefono squillare. Pensa si
tratti
del suo cellulare, si accorge poi che si tratta del telefono fisso,
apre
nuovamente l’acqua, salvo doverla richiudere solo qualche
istante dopo.
Christian ha alzato la voce al telefono, teme si tratti
dell’ennesima
discussione Jonathan.
-Che
cosa?! Quando?!
Kyle
esce subito dal bagno e,
tenendo ancora in mano lo spazzolino e il tubetto di dentifricio si
avvicina a
Christian.
-Va
bene, ho capito. Si, ho
capito.
Christian
sta tremando. Con una
mano tiene il telefono, in una specie di morsa strettissima, con
l’altra
stringe il bordo del mobiletto sul quale è posata la base
del telefono. Sembra
quasi si stia reggendo a stenti.
-Domani
mattina, va bene. Ciao.
Riattacca
il telefono e appoggia
entrambe le mani al mobile. Non deve essersi accorto della presenza di
Kyle.
-Chi
era?
Chiede
il ragazzo. La risposta
arriva subito.
-La
nonna. Nonno Jack è morto,
venti minuti fa.
Christian
si gira verso Kyle che si
spaventa nel vederlo. Ha lo stesso sguardo vuoto di un’anima
persa. I suoi
occhi vanno da destra a sinistra senza sosta. Christian si sposta dal
telefono
e va a sedersi immediatamente sul divano, dove si accascia a peso
morto, senza
dire un’altra parola.
-È…
morto?
Chiede
Kyle con voce tremante.
Christian annuisce.
-Chiamo
subito John e gli dico
che non andrò.
Christian
scuote il capo.
-NO!
Urla
ma senza guardare Kyle o
muoversi.
-Farai
quello che devi fare, io
prenoterò un volo per Santa Monica, partiremo domattina.
Pronuncia
l’intero discorso a
bocca quasi chiusa, muovendo appena le labbra. A Kyle sembra quasi non
sia
nemmeno lui a parlare, bensì una voce di qualcun altro,
nascosto da qualche
parte, dietro al divano.
Ad
ogni modo, per evitare di
dargli problemi, decide di obbedirgli, va’ a prendere il
piattino con la torta,
lasciato sul tavolo da pranzo e si prepara a scendere.
-Ci
vediamo più tardi.
Christian
però, non risponde.
***
*Tlac*
Il rumore della chiave infilata
nella toppa
della porta d’ingresso fa sobbalzare Christian.
Dev’essere Kyle, di ritorno da
casa di Jonathan. Osserva l’orologio sopra il televisore e
vede che sono solo
le 21.03. Com’è possibile che sia tornato
così presto?
Si gira in direzione
della porta, per rimproverare Kyle di essere tornato troppo presto o di
non
essere andato affatto, salvo poi vederlo entrare, accompagnato da
un’altra
figura, che conosce fin troppo bene.
-Ha voluto salire
lui, io non ho detto niente.
Esclama Kyle, tutto d’un
fiato, quasi intenda discolparsi. Jonathan chiude la porta
d’ingresso e poi
si avvicina a Christian. Quest’ultimo è
paralizzato e lo osserva, senza dire
una parola.
-Ho dovuto venire.
Afferma Jonathan, posando
una mano sulla spalla di Christian. Kyle teme che da un momento
all’altro questi si alzi ed inizi a sbraitare,
sbattendolo fuori di casa, senza possibilità di
replica. Tuttavia, Christian annuisce e sorride, un sorriso
perlopiù
impercettibile.
-Se non fossi venuto, non
te l’avrei mai perdonato.
---> Ed eccomi qui,
dopo MESI. Evito di accampare le solite scuse (che poi non sono affatto
scuse)
riguardo ai miei impegni universitari. Mi limito a salutare i miei
lettori
(sperando di averne ancora!) augurandomi vi sia piaciuto il capitolo che
avete
appena letto. Eccoci finalmente nella parte finale della storia (no,
non è la
fine, siamo solo nella fase finale!). Questo capitolo e quello che
scriverò a
breve, sono stati a lungo progettati, aspettavo solo l’attimo
giusto per
inserirli =P Detto ciò vi do appuntamento alla prossima, bye
bye! <---
|
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Capitolo 33 *** Goodbye, my Father (Addio, Padre) Parte Prima ***
33. Goodbye, my father (Addio,
padre) Parte Prima
Aveva
dormito sul divano quella
sera, anche se Kyle ha il sospetto che non abbia dormito affatto. Si
era
preoccupato di preparare un the per Christian (unica cosa che sapesse
fare ai fornelli) e l’aveva mandato a letto, assicurandogli
che si sarebbe occupato
lui stesso della prenotazione del volo per la California. Si era
comportato da
vero e proprio capofamiglia, com’era sempre stato. Questo suo
atteggiamento
aveva suscitato in Kyle una tremenda nostalgia. Gli erano venute in
mente tutte
quelle volte in cui Jonathan era rimasto alzato fin tardi per
progettare una
vacanza che piacesse a lui e a Christian. Quando c’era
Jonathan in casa si
poteva stare tranquilli, ogni problema si sarebbe risolto, ogni
desiderio (per
quanto possibile) sarebbe stato esaudito. Ma ora che il problema da
risolvere
era Jonathan stesso, né lui né Christian erano
stati in grado di trovare una
soluzione. Avevano arrancato in qualche modo, fino a quel momento,
alternando
brevi momenti di serenità familiare al più
completo sconforto e desolazione.
Ad
ogni modo, la partenza si era
svolta magistralmente: Jonathan aveva caricato sull’auto la
valigia di
Christian e quella di Kyle, che questi avevano preparato mentre lui era
tornato
nel suo appartamento a prendere quattro cose per il viaggio. Il viaggio
verso
l’aeroporto era stato a dir poco surreale. Christian non
aveva parlato per
tutto il tempo, salvo per chiedere a Jonathan di abbassare di qualche
grado
l’aria condizionata dell’auto.
Mentre
Kyle aveva parlato con Jonathan di qualche programma televisivo o film,
argomenti piuttosto leggeri. A Kyle era sembrato quasi stessero
partendo per le
vacanze estive; anche il clima aveva contribuito e la destinazione,
naturalmente.
Anche
al momento dell'atterraggio Jonathan
aveva preso il controllo delle situazione, aveva fatto sedere Christian
e Kyle
e si era personalmente preoccupato di ritirare le valigie dal nastro.
Essendo
la stazione aeroportuale
di Santa Monica piuttosto piccola, era necessario affittare un taxi o
prendere
una navetta per arrivare a destinazione.
-Il
nostro taxi arriverà qui
fuori non prima di un’ora, c’è
parecchio traffico sull’autostrada di San
Diego.
Esclama
Jonathan, sedendosi su un
seggiolino libero, vicino a Kyle.
-San
Diego? A quest’ora è
impraticabile, avrebbe dovuto prendere la Lincoln Boulevard.
Risponde
Christian, uscendo
apparentemente dal suo stato di catalessi. Sia Jonathan sia Kyle
sembrano
essere sorpresi dal sentire la sua voce.
-Beh,
l’autostrada di San Diego è
la via più breve, se non c’è
traffico… Ad ogni modo, non ci resta che
aspettare. Avete fame?
Christian
si limita a scuotere il
capo.
-Si,
io ho parecchia fame!
Afferma
Kyle.
-Vado
laggiù al self service a
vedere cosa c’è.
Comunica
Jonathan alzandosi dalla
sedia.
-Davvero
non hai fame, Chris? Se
c’è qualche problema, posso andare io a prenderti
qualcosa.
Chiede
Kyle, cercando di
instaurare una comunicazione con il padre.
-Credi
che mi faccia di questi
problemi, Kyle?
Risponde
lui, in tono abbastanza
seccato. Il suo sguardo è perso, fissa un punto da qualche
parte tra il
cartellone delle partenze e la scala mobile che porta allo scalo per i
voli
internazionali.
-Ma
poi un piccolo aeroporto a
Santa Monica c’è, non capisco perché si
sia sempre costretti a scendere a Los
Angeles.
Esclama
Kyle, cercando di
cambiare discorso. Christian non risponde.
-Immagino
che i voli siano
limitati.
Conclude
Kyle, sempre senza avere
risposta da parte di Christian. Mentre osserva il padre, sempre
più distratto,
vede Jonathan tornare dal ristorante self-service con una busta di
carta e
delle lattine di pepsi.
-Eccomi
qua. Ho preso tre panini
diversi: uno con il prosciutto, uno con l’hot dog e
l’altro… credo sia
vegetariano, tofu o roba del genere.
Kyle
sa bene che il panino
vegetariano è stato preso da Jonathan apposta per Christian,
che più volte in
presenza d’entrambi aveva espresso il suo disappunto riguardo
alla pessima
qualità dei panini precotti degli aeroporti.
-Io
prenderò quello con l’hot
dog, grazie!
Esclama
Kyle.
-Io
credo sceglierò quello con il
prosciutto.
Dopo
aver preso il panino,
Jonathan rivolge il suo sguardo a Christian, che sta guardando da
tutt’altra
parte, è girato a tre quarti e ondeggia con il busto, in un
movimento quasi
impercettibile, sguardo perso. I suoi occhi blu sembrano molto
più scuri adesso
e riflettono la disperazione in modo silenzioso e terrificante.
-Ne
avanza uno. Lo lascerò qui,
nella busta di carta, nel caso qualcuno lo volesse.
Afferma
Jonathan, sempre
guardando verso Christian.
Come
previsto, il taxi era
arrivato un’ora
dopo.
È tanto tempo che Jonathan non
mette più piede a Santa Monica. Mentre Christian e Kyle
percorrono a piedi la
strada di campagna che porta alla casa dei nonni, con indifferenza,
Jonathan si
guarda in giro continuamente. Ricordi di ogni genere iniziano a
popolare la
sua mente, rivede sé stesso con Christian anni prima, le
passeggiate nel campo,
i baci, le risate. Scuote il capo e si blocca a metà strada,
per qualche
secondo. Teme che se continuasse a camminare finirebbe per cadere a
terra, in
preda a qualche terribile capogiro suscitato dal mescolarsi di
sensazioni e
rimpianti che avverte in questo preciso momento.
-John?
Tutto ok?
Chiede
Kyle, girandosi.
Christian al contrario non si volta, semplicemente rallenta il passo.
-Si,
tutto ok. Sono solo un po’
stanco, per il viaggio!
Jonathan
fa un respiro profondo e
raggiunge Kyle e Christian.
Angela
è già sulla porta di casa,
sta parlando con qualcuno, che le stringe le mani. È vestita
di nero, i suoi
capelli bianchi sono raccolti in un ordinato chignon. Impeccabile e
perfetta
eppure terribilmente formale, troppo per i suoi parametri.
-Oh,
sono arrivati mio figlio e
mio nipote!
Esclama,
con tono pacato,
intimando implicitamente al suo interlocutore di doversi allontanare.
Quest’ultimo capisce, le sorride e la saluta.
-Mamma…
non so veramente cosa
dire.
Afferma
Christian, quasi a bassa
voce, abbracciando la madre. Un abbraccio intenso e piuttosto lungo.
Subito
dopo è la volta di Kyle, al quale Angela dà un
bacio sulla fronte.
-Oh,
Jonathan!
Esclama
infine Angela, alzando lo
sguardo e accorgendosi di quella presenza per lei così
inaspettata, a
giudicare dal suo tono di voce. Jonathan aveva preferito non
interferire con i
saluti a Christian e Kyle ed è rimasto poco distante a
braccia conserte,
aspettando che Angela si accorgesse di lui.
-Vieni
qui, su!
Esclama,
facendogli cenno di
avvicinarsi. Nel frattempo Christian entra in casa, mentre Kyle si
ferma sul
ciglio della porta, per assistere alla scena. Jonathan si avvicina e
sorride ad
Angela, un sorriso triste, circostanziale.
-Condoglianze
Angela.
La
donna lo abbraccia,
sorprendendolo.
-Preferisco
un abbraccio, Johnny.
Jonathan
ricambia l’abbraccio.
Non si aspettava una reazione di quel tipo da parte della suocera.
Sebbene
avesse sempre avuto con lei un ottimo rapporto, sapeva della visita a
Santa
Monica di Christian e Kyle e temeva che le fossero stati
raccontati fatti tali da farle cambiare idea sul suo conto.
Fortunatamente,
Angela non é facile da condizionare ed è
indubbiamente felice di averli tutti e
tre in quel giorno così importante.
La
casa è in completo ordine.
Anche questo è un campanello d’allarme. Niente
riviste in giro, niente abiti
sulla ringhiera della scala, niente vasi da trapiantare sul portico;
tutto in
ordine, pulito, asettico. L’ambiente più strano
è, senza dubbio, il salone. Il
pavimento è pieno di corone di fiori, mazzi o composizioni,
tutti donati da
conoscenti o amici di Angela e Jack.
Christian
sta seduto sul divano
immobile e fissa l’orologio. Sono le cinque e a breve
l’ospedale porterà la salma
di Jack per la veglia funebre. Angela è impegnata a pulire
il tavolo della sala
da pranzo, dove verrà posata la bara. Kyle gira per la
stanza a leggere tutte
le dediche sulle corone di fiori mentre Jonathan è seduto
fuori sul dondolo
sotto il portico, a fumare. Contempla il paesaggio e neanche per un
secondo
riesce a calmare la corrente di pensieri che gli scorrono in testa.
Davanti a
sé vede il grande salice sotto il quale lui e Jonathan erano
soliti ripararsi
dal sole nelle torride giornate estive.
Spegne
la sigaretta contro il
pavimento e si alza, cammina in direzione dell’albero. Una
volta trovatosi al
di sotto di esso sospira, il profumo della corteccia gli fa quasi
perdere i
sensi, un profumo forte, di resina, che credeva di aver dimenticato.
Sempre ad
occhi chiusi passa una mano tronco nodoso, alla ricerca di quel buco
fatto da
lui tanti anni prima, nel tentavo di incidere le iniziali sue e di
Christian.
Quindici anni prima
-Che
cosa stai facendo?
Domanda
Christian, apparendo
improvvisamente alle spalle di Jonathan. Quest’ultimo
sorride, e interrompe la
sua attività.
-Quando
avrò finito, lo vedrai.
Risponde
infine. Christian scuote
il capo e afferra la mano di Jonathan che tiene uno di quei piccoli
coltellini
tascabili multiuso.
-No,
fermati.
Jonathan
non capisce, aspetta che
Christian si spieghi.
-Stavi
incidendo le nostre
iniziali, non è vero? Beh, non lo fare.
-Perché
no? È una di quelle cose
romantiche da “film” che tu tanti adori!
Esclama
Jonathan, sorpreso.
-Non
è romantico, è dai egoisti.
Scrivere il proprio nome su qualcosa è come prenderne
possesso per forza, non è
giusto!
Risponde
Christian, con tono
serio.
-Ma
non lo stavo facendo per
impossessarmi dell’albero, era solo per esprimere il nostro
amore.
Spiega
Jonathan, in realtà un po’
intimorito dall’accusa di Christian.
-No,
non è così. Il nostro amore
è qualcosa di… nostro, appunto.
Questo albero non c’entra nulla con noi. È come
se tatuassero sulla tua schiena il nome di qualcun altro, ti sentiresti
violato, non sentiresti più quella parte del corpo tua.
Jonathan
sorride. I ragionamenti
di Christian sono così strani, alle volte, eppure riescono
sempre a toccarlo
e, come in quel caso, a dissuaderlo dalle sue azioni. Si chiede
incuriosito da
dove Christian possa aver tratto quel suo paragone del tatuaggio sulla
schiena.
Richiude il coltellino e lo mette in tasca.
***
Jonathan
rientra in casa, il
silenzio è piombato improvvisamente. Dall’entrata
intravede la bara sul tavolo,
chiude gli occhi e deglutisce. Non sarà mai in grado di
affrontare in modo
lucido la vista di un defunto. La prima volta che ne aveva visto uno
era stato
nella primavera dei suoi diciotto anni, suo padre. Sposta lo sguardo,
per scorgere
la figura di Christian ma non lo vede. Nella stanza
c’è solo Angela, seduta su
una sedia, alla destra del feretro. Le sue mani sono posate sul legno
della
cassa e ne ripercorrono delicatamente le venature. Si tratta di una
bella bara
di legno di frassino, ben levigata e lucida, per quanto bella possa
essere una
bara. Si avvicina a lei, facendo il possibile per evitare la vista
diretta con
il defunto, cosa assai dura.
-Posso
fare qualcosa, Angela?
Chiede,
quasi a bassa voce. Non
vuole alzare troppo il tono della voce, lo ritiene un insulto a quella
situazione così gravosa. Angela scuote il capo.
-Vai
da Christian.
Risponde
lei, senza alzare lo
sguardo dalla bara.
-Si
trova in cucina. Kyle invece
è di sopra, ce l’ho mandato io, non voglio che
veda nulla.
Jonathan
annuisce.
-Ah
e… chiudi le porte del
salone, per favore.
Aggiunge,
alzando lo sguardo
fugacemente.
Jonathan
senza fiatare si
allontana, afferra entrambe le maniglie della doppia porta del salone e
la
chiude, con delicatezza. Si
dirige poi
verso la cucina. Christian si trova proprio lì seduto al
tavolo, a capotavola,
con la testa china su dei fogli, sta scrivendo.
-Che
cosa fai?
Chiede,
sedendosi su una sedendosi
su di una sedia alla sua sinistra.
-Scrivo
dei ringraziamenti, per
le corone di fiori e i mazzi.
Risponde
lui con un tono
stranamente tranquillo e pacato.
-Non
devi proprio farlo adesso.
Christian
alza lo sguardo.
Jonathan teme di vedere lacrime su quel viso, di incontrare nuovamente
quell’espressione
distrutta che tanto lo ferisce. Invece, niente. Il suo viso
è pulito i suoi
occhi non sono gonfi, le sue labbra non tremano.
-Sei
venuto per dirmi cosa devo
fare?
Jonathan
apre la bocca per
parlare ma non esce alcun suono. Christian torna a rivolgere
l’attenzione ai
suoi foglietti di ringraziamento, ignorando completamente la presenza
di
Jonathan.
-Posso
fare qualcosa?
Chiede,
infine Jonathan,
sentendosi quasi inutile e d’impiccio in quella situazione.
-No.
Risponde
fermamente Christian,
senza prendersi la briga di guardarlo in faccia o di aggiungere altro.
Jonathan
quindi si alza. Non vorrebbe farlo, vorrebbe trovare un modo per essere
utile a
Christian. Sembrava quasi che avesse così bisogno di lui, la
sera prima. I suoi
occhi imploravano aiuto, i suoi gesti erano disperati. Ora invece
è fermo,
impassibile, inumano.
Sapeva
che sarebbe stato strano
presentarsi così, di punto in bianco, a casa dei suoceri ma
il tipo di reazione
che aveva previsto era completamente diverso. Nessuno l’ha
trattato male o
insultato, nessuno l’ha ignorato. Eppure perché si
sente così inutile, così
estraneo a tutto quello che sta succedendo? Gli sembra quasi che tutti
abbiamo
un posto, tranne lui. Tutti hanno una occupazione, qualcosa da fare,
tranne lui
che non può fare altro se non starsene con le mani in mano a
porgere conforto a
tutti, senza che la sua offerta venga accettata.
Aiutare
gli altri, oltre ad
essere il suo mestiere, è qualcosa che gli riesce bene. Si
è sempre occupato
lui di tutto e non poterlo fare lo rende impotente, infelice e inutile.
Decide
infine di raggiungere Kyle
al piano superiore, temendo che anche lui rifiuti la sua presenza. Il
ragazzo è
seduto sul letto della vecchia camera di Christian e sta sfogliando dei
libri.
-Cosa
leggi?
Chiede
Jonathan entrando nella
stanza.
-Libri
di scuola di Chris.
Risponde
il ragazzo, spostandosi
leggermente in modo che anche Jonathan possa sedersi accanto a lui.
-Parlano
di storia dell’arte.
Alcuni sono interessanti! Non sapevo che Chris sapesse anche disegnare.
Jonathan
annuisce e si siede sul
letto.
-Non
è una delle attività che gli
riescono meglio ma se la sa cavare.
Kyle
chiude il libro, guarda
Jonathan negli occhi.
-Il
nonno è arrivato, vero?
Chiede,
cambiando immediatamente
il tono della conversazione.
-Si.
Risponde
Jonathan, preferendo non
aggiungere altro.
-Com’è?
L’hai visto?
Domanda
il ragazzo, ansioso e
curioso allo stesso tempo. Jonathan, ad ogni modo, non sa come
rispondere. Ha
evitato la vista del cadavere, ha scorto soltanto con la coda
dell’occhio i
suoi vestiti: un bel completo di lino beige con una camicia bianca e
delle
scarpe classiche marroni.
-È…
un defunto, Kyle.
Non
vuole ammettere di non aver
avuto il coraggio di guardare.
-Beh,
io non ho mai visto un
defunto in vita mia, John.
Ammette
Kyle.
-Vorresti
vederlo?
Kyle
scuote il capo. Jonathan avverte
una strana sensazione nel riscontrare negli occhi del figlio lo stesso
sguardo
da bambino impaurito che aveva tanti anni prima. Gli occhi grigi di
Kyle, già
piuttosto grandi, si allargano, le sue narici si dilatano, il suo corpo
si
muove in un tremore.
-John,
perché ai funerali
lasciano le bare aperte?
Chiede
poi, sempre con tono
ingenuo, quasi infantile. Il cuore di Jonathan si stringe nel vederlo
in quel
modo. Ha bisogno delle sue risposte, ha bisogno di lui.
-Beh
Kyle, è un rito. Ci sono
delle persone che vogliono poter salutare per l’ultima volta
qualcuno che se n’è
andato, vederlo.
Kyle
non sembra essere d’accordo.
-Ma
se una persona se n’è andata,
come la si saluta? Che senso ha stare a guardare qualcuno che non
c’è più,
parlare a qualcuno che non può rispondere?
Il
ragionamento di Kyle non fa un
piega e Jonathan si trova pienamente in accordo con le sue parole.
-Non
ha senso, hai ragione.
Tuttavia in queste situazioni, la definizione di
“senso” si perde. Non c’è
qualcosa di giusto o di sbagliato, quando si tratta di dover dire addio
ad una
persona. Si cerca sempre di restare legati, in qualche modo e se questo
comprende dover parlare con un corpo senza vita, va bene lo stesso.
Kyle
si avvicina di più a
Jonathan e appoggia la testa sulla sua spalla. Questo suo avvicinamento
sorprende il padre ma lo rende comunque felice. Non aveva un contatto
fisico di
quel tipo con lui da mesi.
-Tu
l’hai visto… è ancora il
nonno Jack che ricordo io?
Chiede
Kyle. Jonathan è
spiazzato, ancora non ha intenzione di ammettere di non aver avuto il
coraggio
di guardare.
-Non
l’ho guardato bene. Stavo
parlando con la nonna.
Kyle
lo osserva, ancora più
intensamente, forzandolo ad andare oltre.
-Era
comunque malato, Kyle.
Per
qualche istante cala il
silenzio tra i due. A romperlo è Jonathan.
-Non
c’è bisogno che tu lo veda.
Se vuoi parlare con lui, puoi farlo lo stesso. I funerali, le veglie,
sono
tutte cose che noi uomini abbiamo creato, inutili legami con
l’aldilà che non
conosciamo e che per questo ci spaventa. Sei libero di salutarlo come
meglio
credi.
Conclude
il discorso dando un
bacio sulla fronte al figlio.
Nel
frattempo al piano inferiore,
si sentono passi e voci di diverse persone. Devono essere conoscenti e
familiari, venuti per la veglia. Jonathan scende, lasciando Kyle da
solo, a
riflettere. Chiude la porta e raggiunge Angela e Christian nel salotto,
adibito
a camera ardente.
Christian
e la madre stringono
mani, abbracciano gente. Tutto fa parte del solito rito. Jonathan ne
approfitta
per andare a dare uno sguardo alla salma. Kyle è ancora
giovane e non ritiene
necessario forzarlo a vedere il corpo, probabilmente deperito, del
nonno. Lui,
al contrario, ha ormai quarant’anni e crede sia arrivato
ormai il momento di
superare quel suo disagio.
Il
salotto è già pieno di gente,
molti guardano e basta, altri parlano, altri ancora firmano il registro
degli
ospiti. Fa un respiro profondo si china per osservare. La sua reazione
è
piuttosto misurata. Dopo una prima visione fugace, avverte il desiderio
di
voltare lo sguardo ma resiste. Parte dai piedi e nota di nuovo le
scarpe,
marroni con i lacci e molto lucide. I pantaloni di lino beige hanno un
taglio
dritto e hanno una piccola cintura di pelle, della stessa
tonalità delle
scarpe, in vita allacciata al primo passante. Jonathan nota subito un
evidente
dimagrimento di Jack, che era sempre stato un uomo corpulento e in
forma. La
giacca, abbinata ai pantaloni, è molto classica, tre bottoni
di cui solo quello
centrale è allentato. I polsini sono
allacciati per mezzo di due gemelli dorati dalla forma triangolare. Sul
polso
destro si intravede la differenza cromatica della pelle, dovuta al
costante uso
dell’orologio, ora assente.
A
questo proposito Jonathan si
chiede per quale motivo Angela non si sia preoccupata di lasciargli il
suo
solito Rolex dorato al polso. Jack non era un grande amante di orologi,
riteneva infatti strana l’abitudine di Jonathan di
collezionarli. Tuttavia non
si separava mai di quell’unico modello che possedeva. Ad ogni
modo fa un altro
respiro e torna a guadare. La camicia bianca è allacciata
fino al primo bottone
sotto il collo. Un collo magro e sottile, dal quale la pelle ambrata,
nonostante la malattia, ricade mollemente.
Infine
il viso. Osservarlo è una
sorta di shock per Jonathan. Non vedeva Jack da almeno un paio
d’anni, sapeva
della sua malattia, ovviamente. Se l’avesse visto ancora in
vita in quello
stato, dubita l’avrebbe riconosciuto. Un viso così
scarno, ossa così evidenti,
mandibola che ormai non ha più una forma definita e
squadrata, come un tempo. L’unica
cosa rimasta identica sono i capelli, bianchi e folti.
Prima
di andarsene rimane qualche
istante a contemplare la salma.
Avendo
perso il padre così
presto, era abituato a collezionare figure paterne, molto spesso.
Mettendo da
parte Gregor con il quale aveva sempre avuto un rapporto più
che particolare, Jack
Simmons era stato di sicuro ciò che più
si avvicinava ad un padre, per lui. Aveva accettato serenamente la sua
relazione con Christian, l’aveva accolto in casa sua
qualunque volta vi si
presentasse, l’aveva reso partecipe dei suoi hobby, dei suoi
pensieri, gli
aveva persino insegnato a pescare. Tutte cose che non aveva mai avuto
occasione
di fare.
Sorride,
riportando alla mente
ricordi felici di quei giorni trascorsi con Jack. Posa una mano sulla
bara.
-Addio
Jack, grazie di tutto.
-->
I’m back. Questi capitoli
li avevo in mente da parecchio ma, inutile dirlo, non avevo mai il
tempo (e a
volte l’ispirazione) per produrli in modo soddisfacente. Ho
preferito dividere
questo capitolo in due parti, perché voglio dedicare a
questa fase della storia
più tempo e scrivere qualcosa di veramente fatto bene. La
fine si avvicina e non
ho assolutamente intenzione di scrivere qualcosa di affrettato, solo
per il
gusto di postare. Spero capiate la mia decisione e continuiate a
seguirmi,
nonostante la mia incostanza. A questo proposito voglio ringraziare per
le due
nuove recensioni di Ery_87 e September_Days che mi ha fatto molto
piacere ricevere e leggere!
Ora,
vi saluto e vi do
appuntamento alla seconda parte, sperando di ricevere pareri su questa
prima. A
presto (spero!) <--
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Capitolo 34 *** Goodbye My Father (Addio, Padre) Parte Seconda ***
34.
Goodbye, my father (Parte Seconda)
La giornata tutto
sommato é passata in fretta, superati tutti i convenevoli,
gli abbracci,
le parole sprecate al vento. Kyle é rimasto al piano
superiore per tutta la
serata, mentre Jonathan si occupava di accogliere i visitatori.
Christian
l’ha osservato, nelle ultime due ore. Vorrebbe reputarsi
sorpreso della sua
presenza in quella situazione ma non lo è. Sapeva che,
nonostante tutto, si
sarebbe precipitato da lui. Sarebbe rimasto invece sorpreso dal
contrario e se
così fosse stato, forse la sua mente non sarebbe
così lucida in quel momento.
È sorpreso dal suo
auto-controllo, non una lacrima in tutta la giornata, né in
aereo e non si
ricorda neanche di aver pianto a casa. Si aspettava tutto quanto?
Oppure il
meltdown deve ancora arrivare? Non vuole pensarci. Anche sua madre
è
estremamente decisa e composta, il dolore le si legge negli occhi ma sa
che non
la vedrà piangere. Angela Simmons è una donna
forte, non è abituata
a perdere tempo in lacrime, è stata educata da genitori di
vecchio stampo che
le hanno insegnato a reprimere ogni tipo di emozione debole. Quando
anche
l’ultimo ospite è uscito di casa, Jonathan chiude
la porta e si avvicina ad
Angela. Christian è seduto sul divano, spostato contro la
parete destra del
salotto per creare uno spazio più grande nella camera
ardente.
-Quando lo… chiuderanno?
Domanda, sfumando leggermente il
tono di voce pronunciando la parola “chiuderanno”,
forse non voleva che Christian lo sentisse.
-Domattina, prima del funerale.
Risponde Angela, che nel
frattempo ha già afferrato una scopa e sta iniziando a
spazzare il salone per toglier la polvere e la sabbia portata dai
visitatori durante la giornata.
-Mamma lascia stare, faccio io.
Christian si alza, offrendosi di
pulire la stanza al posto della madre, che indossa ancora
quel completo nero elegante e dei tacchi piuttosto alti.
-Oh, figurati Chris. Se non ti
dispiace invece, prepareresti la cena?
Christian accetta e volge uno
sguardo verso Jonathan che in quel momento sta scrivendo qualcosa al
cellulare.
“Avviserà qualche suo
amante di non essere disponibile.”
Pensa, causticamente,
sorprendendosi poi di quel suo pensiero. Proprio in quel momento
Jonathan alza lo sguardo. Christian scuote il capo e si dirige verso la
cucina. Non ha idea del perché quel pensiero gli sia nato
proprio ora. Dovrebbe pensare a tutt’altro, dopo tutto suo
padre si trova, morto, a pochi centimetri da lui. Perché non
può concentrarsi su quello e smetterla di guardare Jonathan?
La cucina di Angela, come al
solito, è terribilmente vuota. C’è
così poco su cui lavorare. Spera di trovare un po’
di pesce fresco nel congelatore ma ci sono solo delle bistecche
sottovuoto e delle scatole di piselli surgelati. Non gli
sarà molto facile cucinare, quella sera.
-Te la senti di cucinare?
Christian sobbalza. La voce di
Jonathan lo fa sussultare, ancora una volta. Si trova a pochi
centimetri da lui, riesce a percepirne la distanza dal suo profumo.
Quella situazione gli ricorda tremendamente il loro ultimo incontro;
quella cena a casa, finita in modo sconsiderato.
-Si.
Risponde, freddamente.
-Posso andare a prendere una
pizza. Farebbe felice Kyle, è di sopra da più di
due ore…
Christian si volta verso
Jonathan.
-Non credo che mia madre sia in
vena di mangiare cibo take away, al momento.
Jonathan si avvicina
ulteriormente, è al suo fianco ormai e lo fissa.
-Avevi avuto occasione di
parlare con Jack, quando siete stati qui l’ultima volta?
Il tono di Jonathan è
pacato e gentile, le sue intenzioni sembrano buone eppure non ha
nessuna voglia di parlare con lui, in quel momento. Ha paura che
iniziando a parlare il suo blocco emotivo potrebbe rompersi e finirebbe
a scoppiare in lacrime. È riuscito a trattenersi
fin’ora e non può e non deve finire in lacrime.
-Non mi va di parlarne.
Risponde, aprendo gli
armadietti, ancora alla ricerca di qualcosa da cucinare.
-Di cosa ti va di parlare?
Christian scuote il capo.
-Di niente, Jonathan. Anzi, se
uscissi dalla cucina mi faresti un favore, grazie.
Il suo tono è
abbastanza grave e aspro. Non era suo intento comportarsi
così ma non ha saputo fare diversamente. Jonathan comunque
non pare colpito dalle sue parole e non si sposta di un millimetro.
-Chris, ascolta…
Viene interrotto da Angela che
compare in cucina proprio in quel momento.
-Mi sono ricordata proprio
adesso che… -
Si blocca.
-Oh, scusatemi, stavate
discutendo?
Domanda, con tono dispiaciuto.
-No, tranquilla.
La donna prosegue a parlare.
-Oh, bene. Dicevo, mi sono
ricordata ora che in casa c’è poco e niente da
mangiare. Dubito che tu riesca a preparare qualcosa.
-Stavo giusto chiedendo a
Christian se gli andasse di prendere una pizza.
Risponde immediatamente
Jonathan, rivolgendo lo sguardo verso Christian che, al contrario, non
lo guarda.
-Non credo che mia madre voglia
mangiare certe schifezze, ti ho detto.
Ripete, con tono seccato.
-Ma no, a me va benissimo.
Jonathan sorride.
-Perfetto, vado a prenderle io.
La cena, insolita come tutta la
giornata, passa velocemente e così la nottata.
Christian ha dormito con sua
madre ma ha puntato la sveglia alle 8, il funerale verrà
celebrato alle undici e ci sono ancora le sedie da ridisporre in
salotto e bisognerà accogliere il reverendo, che il giorno
prima ha annunciato di aver intenzione di arrivare con
mezz’ora d’anticipo per parlare con loro.
Una volta suonata la sveglia si
alza dal letto. Angela dorme ancora e fa ben attenzione a non
svegliarla, chiude delicatamente la porta della stanza e scende le
scale. È una giornata splendida, il sole illumina
completamente la casa, la porta d’ingresso è
aperta e Christian scorge una figura sul portico, di spalle:
è Jonathan. Non ha alcuna intenzione di parlare con lui, ha
da fare. Cerca di muoversi con delicatezza ma una trave
dell’ultimo gradino della scala cigola, facendo
immediatamente voltare Jonathan . Christian, comunque, prosegue nel suo
intento fingendo di non essersi accorto della sua presenza.
-Vedo che sei già
alzato.
Afferma, entrando in casa.
-Così
pare…
Risponde Christian, andando ad
aprire le persiane della camera ardente, non si volta.
-Devi sistemare le sedie?
Chiede Jonathan seguendolo.
-Faccio da solo.
Risponde Christian dirigendosi
sulla pila di sedie sistemate la sera prima. Si tratta di sedie di
plastica bianche, noleggiate per l’occasione. Ne estrae tre e
le appoggia, fa però fatica a sistemarle. Jonathan si
avvicina immediatamente, per aiutarlo.
-Aspetta ti-
Christian non gli dà
il tempo di parlare, con il braccio lo spinge immediatamente lontano da
sé, troppo vicino, troppo insistente, troppo.
-Quale parola della frase:
“Lascia fare a me.” non ti è chiara?
Urla, fissandolo con due occhi
infuocati. Il suo respiro è irregolare, affannato e
gesticola in modo disperato.
-Calmo, volevo solo aiutarti.
Replica Jonathan, pacatamente.
Christian sospira e si siede a
terra, viso premuto contro le ginocchia, respiro sempre più
affannoso.
-Chris… stai bene?
Domanda Jonathan, chinandosi.
Christian tiene il viso premuto
contro le ginocchia.
-Non farmi urlare con mio padre
morto sul tavolo, ti prego.
Jonathan si mette in ginocchio,
vicino a Christian.
-Non era mia intenzione farti
urlare, davvero.
Pronuncia queste parole con tono
dolce, quasi consolatorio. Vorrebbe avvicinarsi di più,
avere un qualche tipo di contatto fisico con lui ma non vuole fare
mosse affrettate.
-Allora, ti prego, stammi alla
larga.
Alza lo sguardo, finalmente.
Jonathan si aspettava di vederlo piangere, invece no. I suoi occhi sono
asciutti, completamente.
-È questo quello che
vuoi?
Christian annuisce.
-Va bene.
Si alza ed esce dalla stanza,
lasciando Christian da solo.
***
-Dieci minuti Kyle, preparati.
Annuncia Jonathan, scendendo
dalle scale. Era salito per vestirsi e sistemarsi per il rito funebre.
Kyle è seduto sul
letto. È già vestito, da quasi un’ora
in effetti. Si è alzato di buon’ora. Non gli
è facile dormire in un letto che non sia il suo, anche se
non è stata la sua prima dormita in quel preciso letto.
Ha dormito con Jonathan, la
scorsa notte. Gli è sembrato talmente strano, irreale. Non
crede di aver mai dormito con Jonathan, da solo. Gli era capitato
più volte con Christian quando era bambino ed era malato.
Jonathan di solito abbandonava il letto per lasciargli posto
è andava nella sua stanza a dormire.
Non è stato niente di
speciale, avevano parlato del più e del meno per circa una
ventina di minuti e poi Kyle si era addormentato. Due ore
prima, al suo risveglio, il posto accanto a lui era già
vuoto.
Si alza dal letto ed esce dalla
stanza. Non scende subito, si affaccia per vedere la gente che entra in
casa e va a prendere posto nel soggiorno. Controlla
l’orologio, che quella mattina ha deciso di mettersi al
polso. Jonathan gli ha comunicato di scendere dopo dieci minuti, tempo
preciso poiché ha voluto così impedirgli di
vedere quello che è sempre il momento più
difficile in un funerale: la chiusura della bara.
A cinque minuti dalla chiusura,
le porte di casa si chiudono. Kyle sospira e aspetta. Non
scenderà finché non sentirà le parole
del parroco.
È il suo primo
funerale, non sa esattamente cosa aspettarsi, non sa come si
svolgerà. A dirla tutta Jonathan e Christian non sono molto
religiosi, di conseguenza nemmeno lui ha avuto occasione di frequentare
chiese o funzioni religiose. Avrebbe voluto chiedere a Jonathan, la
sera prima, quale differenza ci fosse tra l’assistere un rito
funebre e una normale funzione religiosa. Dopotutto, pensa, in un
funerale un parroco recita delle formule con le quali invita un
ipotetico Creatore ad accogliere il defunto nel suo Regno dei cieli.
Quindi, se anche soltanto si hanno dubbi riguardo
all’esistenza del Creatore, a che scopo chiedere di entrare
nel suo Regno? Per Kyle non ha alcun senso.
La religione non è
mai stata un grande problema per Kyle, non gli è stato
insegnato nulla e non ha mai sentito il bisogno di farsela insegnare.
Quando da bambino aveva cercato di chiedere qualcosa ai suoi genitori,
spinto dai discorsi di Morgan, riguardo alla frequentazione della
chiesa, le risposte ricevute non avevano dato adito ad ulteriori
domande.
-Perché noi non
crediamo in Gesù?
Aveva chiesto a Christian.
Questi non c’aveva pensato, aveva risposto immediatamente.
-Perché
Gesù non crede in noi.
Non aveva ben capito il senso di
quella risposta. All’epoca aveva solo sei, massimo sette
anni, eppure quella risposta gli era bastata per non andare
oltre. Non aveva però mai sentito il parere di Jonathan a
riguardo. Pensa di doverglielo chiedere, prima o poi, se capiterà
l’occasione.
***
-È quasi ora.
Esclama il reverendo
avvicinandosi ad Angela, ancora in piedi accanto alla bara del marito.
Vicino lei c’è Jonathan, mentre Christian sta
parlando con alcuni presenti.
-Lo so che in questi casi lo
dicono tutti ma… Jack era proprio un brav’uomo.
Afferma una signora, sulla
settantina, afferrando affettuosamente le mani di Christian.
-Grazie.
Risponde lui sorridente.
È girato di spalle, dietro di lui a qualche metro
c’è la bara aperta. A breve arriverà il
momento che più teme: la chiusura della cassa.
Sa bene che ormai suo padre se
n’è andato, che non c’è
più nulla fare. Sa che quel corpo ridotto ai minimi termini
e infilato in una lucida scatola di legno ormai ha la stessa
utilità di una conchiglia vuota, tuttavia sentire e vedere
un asse coprirgli per sempre il viso resta comunque un dolore
insopportabile. Per evitare, quantomeno di assistere, ha deciso di
andare ad accogliere le persone che seguiranno la funzione; ascoltando
le parole della gente spera di distrarsi in qualche modo.
“tic.”
Primo chiodo.
Sta parlando ancora con la
signora di poco fa ma non sente più nulla.
“tic.”
Secondo chiodo.
Il rumore gli penetra nel
cervello e risuona all'infinito.
“tic.”
Terzo chiodo.
Questa volta colpisce il cuore:
sensazione insopportabile. Sembra quasi che quel chiodo sia stato
inserito nel suo stesso petto. Ne manca soltanto uno.
“tic”
Quarto chiodo.
La fine. Christian si sente
mancare. Batte gli occhi con violenza per evitare che si chiudano. Ci
sono ancora delle persone che stanno parlando con lui, alla signora di
poco prima se n’è aggiunta un’altra ma
non sente nulla, solo il rimbombo terribile dei chiodi, anche il
respiro comincia a mancargli.
Avrebbe dovuto sedersi.
-Mi dispiace interrompervi ma il
funerale sta per iniziare.
Una voce forte, imponente.
Quella l’ha sentita. Con la coda dell’occhio vede
una mano, posata sulla sua spalla: è Jonathan.
-Vieni a sederti.
Sussurra.
Christian annuisce. Sta
ritornando in sé, deve farlo. Segue Jonathan e va’
a sedersi in prima fila, accanto alla madre. Jonathan aspetta che
Christian si sieda, prima di prendere posto. Una volta fatto si
accomoda, lasciando una sedia libera, dove andrà poi a
sedersi Kyle.
Christian osserva la sedia
vuota. Le parole gli escono quasi automaticamente.
-Non lasciare posti vuoti.
Jonathan lo guarda, prima di
muoversi. Evidentemente vuole una conferma.
-Siedi qui.
A quel punto si alza e va a
posizionarsi su quella sedia. Poco dopo arriva Kyle.
Il funerale ha inizio,
regolarmente.
Al momento del discorso degli
elogi funebri, Jonathan si alza. Christian è sorpreso e si
gira immediatamente verso la madre, per avere delucidazioni.
-Gli ho chiesto io di farlo.
Sono certa che saprà utilizzare le parole giuste.
Sussurra
Angela.
-Colgo l’occasione per
salutarvi, di nuovo.
Jonathan è accanto al
leggio dal quale il parroco ha letto poco prima un passo biblico. Prima
di riprendere a parlare si mette a cercare qualcosa nel taschino.
Christian immediatamente pensa che si tratti del discorso,
probabilmente già preparato, se lo aspetterebbe da Jonathan.
Sorprendentemente, invece, estrae una custodia marrone, dalla quale
preleva un paio di finissimi occhiali che, una volta posti sul suo
viso, gli conferiscono uno strano aspetto.
Ad ogni modo Jonathan si
appresta per ricominciare il suo discorso e questa volta estrae dalla
tasca dei pantaloni un foglietto bianco.
-Avrei voluto improvvisare
qualcosa ma… beh, probabilmente non sarei riuscito a dire
molto…
Christian osserva attentamente
Jonathan. Non riesce a non pensare a quanto stonino gli occhiali sul
suo viso. Non che gli stiano male, anzi, tuttavia sembra più
maturo. Inizia inoltre a chiedersi da quanto tempo abbia iniziato a
portarli. Per quanto si ricordi non ne ha mai avuto bisogno o,
perlomeno, non l’ha mai dato a vedere.
-Il mio non sarà il
solito discorso del tipo: “Era un brav’uomo, gli
ho voluto bene. Riposa in pace, fine.” Anche
perché se dicessi di aver voluto bene da subito a Jack,
mentirei. Aveva il brutto vizio di mettermi i
bastoni tra le ruote, dico sul serio.
A quel punto una risata generale
sorge da parte dei presenti. Anche Christian, involontariamente,
sorride riportando alla mente i primi incontri tra Jack e Jonathan.
-Lo faceva, peraltro, in modo
insospettabile. Durante il nostro primo incontro ero convinto di aver
fatto un’ottima impressione e invece no. Non so quanti
“giochetti” o “test” ho dovuto
superare, prima di andargli a genio. Questo perché
aveva anche il brutto vizio di proteggere la sua famiglia.
Jonathan smette di parlare e,
per qualche secondo, il silenzio nella stanza sembra
addensarsi.
-Voleva essere certo che ogni
nuova entrata, ogni nuovo “personaggio”, fosse
sicuro e affidabile. Di conseguenza, però, una volta entrati
nelle sue preferenze ci si trovava come in un porto sicuro.
Si ferma per qualche istante,
deglutisce e apparentemente cerca coraggio per proseguire.
-Ho perso anch’io mio
padre, tanti anni fa. Ero solo un ragazzino a quel tempo e…
avrei avuto bisogno di lui per molto altro tempo. Onestamente credo che
il tempo concessoci con i nostri genitori, per quanto lungo possa
essere, non sia mai abbastanza.
La commozione nella voce di
Jonathan è evidente ma riesce, in qualche modo, a
controllarsi e proseguire.
-Ho detto che non volevo cadere
nei cliché ma credo farò uno strappo alla regola:
in Jack ho ritrovato un padre. Jack mi ha insegnato che… la
famiglia è il più importante dei legami umani,
che si tratti di sangue o di… cuore.
Pronunciando l’ultima
parola si tocca il petto. Christian si trova rapito dalle parole di
Jonathan. I suoi sensi sono confusi ed è pur sempre al
funerale di suo padre… tuttavia crede che anche in
circostanze diverse, nonostante tutto ciò che possa essere
successo tra lui e Jonathan, le parole di quest’ultimo siano
sincere e sentite.
-Non ho avuto mai occasione di
ringraziarlo per tutti i consigli, l’affetto e
l’attenzione che mi ha sempre dato ma so che qualsiasi
ringraziamento lo avrebbe imbarazzato. Jack era così: era un
uomo di vecchio stampo, dalla scorza dura e il cuore grande. Era
perfettamente in grado di accettare la relazione tra me e Christian
ma… che non gli si dicesse “Ti voglio
bene!”
Ancora una volta sale una risata
generale che interrompe, momentaneamente, il discorso di Jonathan,
ormai sul finire.
-Così…
chiudendo il discorso non dirò “Grazie”
a pieni polmoni, perché ho deciso di tenerlo per me,
dirò solo: “Buon
viaggio vecchio mio, stammi bene.”
Prima di mettersi a sedere, si
avvicina alla bara e la accarezza, il suo ultimo vero saluto a Jack.
Non appena torna a sedere, Angela lo guarda sorridente e gli fa una
carezza, poi si avvicina al suo orecchio e, con la stessa dolce premura
sussurra “Grazie
a te”.
La funzione termina dopo circa
dieci minuti e arriva, quindi, l’altro momento insopportabile
nei funerali: la marcia verso il cimitero. Jonathan, essendo robusto e
forte viene immediatamente scelto per essere uno dei quattro portantini
della bara. Dietro alla bara seguono: Angela, Christian e Kyle. Angela
è tenuta sottobraccio da Kyle, mentre Christian cammina
solo, a poca distanza dai due.
Una volta arrivati al cimitero,
il funzionario funebre distribuisce ai presenti le rose rosse, ultimo
omaggio per il defunto. La prima a posarla è Angela che
manda un bacio alla bara, il secondo è Kyle e seguono tutti
gli altri presenti. Christian decide di essere l’ultimo a
salutare il padre e con lui Jonathan, che lo farà poco prima
di lui. Quando tutti ormai hanno posato la rosa, Jonathan si avvicina
alla bara e lascia cadere delicatamente il fiore, dopodiché
indietreggia leggermente, per permettere a Christian di passare. Questi
getta la rosa e poi, sorprendentemente, afferra il braccio di Jonathan,
al quale pare voglia reggersi. Jonathan, sebbene non si aspettasse un
contatto simile da parte sua, cerca di non mostrarsi troppo stupito e
immediatamente mette quello stesso braccio attorno alla sua vita,
portandolo a sé.
La bara scende, lentamente,
accompagnata dal solo cigolio del macchinario che la porta verso il
basso e i singhiozzi di qualcuno dei presenti.
Kyle abbraccia la nonna e
osserva la scena con sguardo fisso e vigile. Christian, invece, non
riesce a sopportarlo e nasconde il viso, premendolo contro il petto di
Jonathan, che subito gli accarezza il capo, nel tentavo di confortarlo.
-Dimmi solo quando è
tutto finito.
Sussurra, quasi
impercettibilmente, irrompendo poi in un singhiozzo disperato.
-Tranquillo.
Risponde Jonathan, con voce
altrettanto bassa, in un certo senso sollevato nel vederlo finalmente
piangere.
---> Non vi
aspettavate che tornassi, vero? Beh intanto spero che qualcuno abbia
tenuto nel cuore la mia storia. L'ho trascurata e non ho scuse. Mi sono
sucesse delle cose (belle, perlopiù) che mi hanno
completamente assorbita, non lasciandomi neanche un briciolo di voglia
di proseguire. Non che non ci pensassi, ovvio, semplicemente ho dato
priorità ad altro e beh... avrei potuto fare l'una e l'altra
cosa. Detto ciò, sono contenta di poter dire che finalmente
ho ripreso in mano questa storia. Al momento sto cercando di collegare
quei (numerosi!) spezzoni che ho scritto in tutto questo tempo di
assenza, per formarne dei capitoli coerenti e soprattutto di senso
compiuto! Proprio oggi ho scritto delle nuove parti, che verranno
immediatamente dopo questo capitolo. Nutro la speranza di pubblicare il
capitolo 35 la prossima settimana, al massimo. Vi ho già
detto che inizialmente avevo progettato di finirla al capitolo 35? Beh
alla fine per forza di cose credo che terminerà al capitolo
40. Non manca molto, no. Quindi se qualcuno ancora legge... chiedo
pazienza, di nuovo! "I'm here to stay", mi verrebbe da dire.
Ad ogni modo due
paroline su questa parte della storia... Un buon 80% è stato
scritto immediatamente dopo la pubblicazione dell'ultimo capitolo,
infatti ho dovuto rileggere e correggere tutto quanto
(nonché riprendere in mano tutta la storia, per evitare di
fare qualche erroraccio!) un 15% è stato scritto lo scorso
autunno e il restante 5%, beh una decina di minuti prima di postarlo
qui su EFP ^^ . Ho cercato di rimanere nei miei "canoni" e spero
abbiate apprezzato questo, ve lo dico, breve idillio tra John e Chris.
I prossimi capitoli (quello dopo si svolgerà ancora a
S.Monica, principalmente) saranno più incentrati su Kyle e
su quello che "ha lasciato in sospeso". Non sono solita anticipare
nulla ma... credo che uno spoiler sano e non troppo rivelatore, possa
aiutare a tenervi "sulle spine". Ecco, ho scritto troppo, perdonatemi.
Ad ogni modo vi saluto e vi do appuntamento al prossimo capitolo. A
presto! <----
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Capitolo 35 *** Harsh Words (Parole Dure) ***
35. Harsh
Words (Parole dure)
È
ormai calato il sole e ognuno occupa uno spazio diverso della casa.
Angela è in salotto a spazzare a terra, a ripulire. I suoi
movimenti sono decisi, quasi drammatici. Pare quasi che con
quell’oggetto desideri spazzare via anche il dolore e lo
strazio della situazione che sta vivendo. Dopo aver ramazzato tutta la
stanza per ben due volte, si ferma in un angolo preciso e si china.
Una macchia scura, una macchia nera, non vuole andarsene dal pavimento.
In quel momento Jonathan, costretto nuovamente a vagare senza una
posizione propria, scende la scala.
-Jonathan ho bisogno di te.
Lo chiama, Angela. Si è accorta di lui semplicemente
riconoscendo il rumore dei suoi passi. Jonatha la raggiunge subito.
-Dimmi pure.
Angela si gira e lo guarda. Non si alza da terra. Ha chiamato Jonathan
per un motivo ben preciso ma rimane qualche istante ad osservarlo,
prima di comunicargli le sue intenzioni. Non si è ancora
cambiato d’abito da dopo il funerale, i suoi capelli sono
spettinati e i primi due bottoni della camicia sono allentati.
Non ha ancora avuto occasione di guardarlo con attenzione, da quando
è arrivato. L’ha sempre ritenuto un uomo dallo
straordinario fascino. Non è una bellezza tradizionale,
forse i suoi lineamenti sono troppo marcati, gli occhi un po’
infossati e la pelle decisamente dimostra la sua età ma la
sua aura ha qualcosa di straordinario, di magnetico.
Non può fare comunque a meno di notare
un’espressione stanca sul suo viso, la curvatura delle sue
labbra verte verso il basso, sembra quasi che i suoi occhi non possano
fare a meno di fissarsi su un punto.
-Avrei bisogno che tu andassi a prendermi secchio e spazzolone,
nell’armadio delle scope in cucina. Ti dispiace?
Jonathan annuisce.
-Vado subito.
Ritorna poco dopo e porge quanto richiesto ad Angela che
ovviamente coglie l’occasione per parlargli.
-Sai… c’è questa brutta macchia nera
che non vuole andare via, la vedi?
Chiede. Jonathan abbassa lo sguardo e osserva nel punto preciso in cui
Angela sta passando lo spazzolone. La macchia è
impercettibile e fatica a vederla, dati i suoi recenti problemi di
vista, tuttavia se ne accorge.
-È molto piccola. Probabilmente si tratta del residuo della
gomma di qualche scarpa.
Conclude.
-Sai Johnny, non esistono macchie impossibili da cancellare.
C’è sempre un rimedio per tutto. A volte
è l’acqua frizzante, a volte è
l’aceto. Un po’ di olio di gomito et voilà,
sparita!
Jonathan sa dove vuole arrivare Angela, con il suo discorso. Sapeva che
sarebbe arrivato prima o poi il momento di confronto. La morte di Jack
non avrebbe occupato interamente i loro discorsi, ne era consapevole.
-Spariscono, dici?
Si siede sul divano. Si aspetta una conversazione piuttosto pesante da
affrontare, sente il bisogno di fermarsi, prima che i muscoli del suo
corpo lo tradiscano.
-Si. Certo, tante volte un piccolo alone rimane e in ogni caso ti
ricordi, il più delle volte, l’esatto punto in cui
hai trovato la macchia. Eppure nulla è assolutamente
indelebile.
Angela si alza e si siede accanto a Jonathan.
-Ora bisogna solo aspettare che asciughi.
Commenta, indicando il punto in cui è stato passato lo
spazzolone.
-Vogliamo smetterla di parlare per metafore?
Domanda improvvisamente Angela, girandosi verso Jonathan. Le sue parole
vengono pronunciate amorevolmente e il suo tono è
materno, come sempre. Angela non è assolutamente
la classica madre o nonna d’altri tempi, eppure nonostante i
capelli ben tenuti, il viso levigato e curato e i vestiti spesso
giovanili, la sua sola voce e il suo sguardo dolce e carico di
compassione, suggeriscono un preminente istinto materno.
-Cosa mi vuoi chiedere?
La risposta di Jonathan arriva istantanea. Angela sorride,
più che espressione di felicità si tratta di un
riflesso incondizionato. Probabilmente si aspettava quel tipo di
risposta da parte di Jonathan.
-Non credo di avere nulla da chiederti, Johnny. Il matrimonio
è qualcosa che si fa in due, mi capisci?
Jonathan annuisce.
-Non mi importa cosa sia successo, nello specifico. Non mi importa chi
ha fatto cosa, veramente. Solo voglio metterti a conoscenza del fatto
che non sopporto di vedervi in questo stato. Siete due manichini vuoti,
senza espressione, senza arti. Mutilati da quello che vi siete fatti.
Il paragone di Angela colpisce profondamente Jonathan che, in quel
momento, non sa come ribattere.
-Voglio anche ripeterti che, nonostante sia a conoscenza dei fatti e
non me l’aspettassi da te, non provo alcun rancore. Ti voglio
ancora un gran bene Johnny. Sei e resterai sempre mio genero e il padre
di mio nipote. Ti parlo come una suocera o come una mamma, se
preferisci.
Jonathan sorride. Sente che le parole di Angela sono sincere, non
c’è nulla di circostanziale in quello che dice.
-A tutto si può porre rimedio, come ti dicevo poco fa: vale
sempre la pena fare un tentativo. Ti dico solo questo. Ah e ovviamente,
per favore, presta attenzione a Kyle, lo sapete entrambi che la vera
parte lesa di tutta questa faccenda è lui.
Angela si alza dal divano.
-Bene, ora credo sia ora di prepararmi per andare a letto. Il salone
è abbastanza pulito. Buonanotte Johnny.
Gli dà un buffetto sulla spalla poi esce dalla stanza.
***
Dopo la conversazione avuta con Angela, Jonathan sente il bisogno di
vedere Christian. Non lo stava evitando, semplicemente aspettava il
momento giusto di trovarsi solo con lui, per potersi confrontare, in
qualche modo.
La giornata appena trascorsa è stata piuttosto pesante e
insolita. Sa bene di non dover considerare quei piccoli gesti positivi
di Christian come un tentativo di riavvicinamento; in situazioni come
quella nulla ha senso e nulla ha un peso.
La serata è piuttosto tiepida, pur essendo luglio. Un lieve
venticello solletica la pelle e provoca dei leggeri brividi, di tanto
in tanto. Jonathan si ferma, prima di scendere alla
spiaggetta. Indossa ancora le scarpe eleganti che aveva per il funerale
e non ha intenzione di rovinarle con la sabbia, ragion per cui si china
e le toglie. Quando finalmente riesce a posare il piede nudo sulla
sabbia chiude gli occhi e sospira. Da tanto tempo quei granelli sottili
non solleticavano i suoi piedi. La sabbia ormai fredda della notte, ha
un che di rilassante.
Cammina, dirigendosi verso la riva, dove sa che troverà
Christian. C’è bassa marea e la spiaggia
è piuttosto vasta. Jonathan scorge uno scoglio verso la
riva, su di esso c’è lui: Christian. Lo raggiunge,
a passo lento, senza dare l’idea di averlo cercato.
-Alla fine sei venuto.
Esclama Christian. Facendo sobbalzare Jonathan che si trova ancora ad
almeno dieci metri da lui. Deve aver riconosciuto i suoi passi,
normale, dopo tanti anni di convivenza. A quel punto smette di fingersi
disinvolto e lo raggiunge.
Sembra un ragazzino, Christian, un coetaneo di Kyle. A differenza di
Jonathan si è spogliato subito dei rigidi indumenti
indossati al funerale. Sta seduto a gambe incrociate e indossa una
felpa a manica lunga nera o forse blu, un paio di shorts di jeans e ai
piedi delle ciabatte infradito, tipicamente estive.
-Da tanto non vedevo il mare…
Afferma Jonathan mentre invece osserva Christian. Christian si volta
verso di lui e lo guarda; un’occhiata fugace, per poi
ritornare a fissare l’orizzonte.
-Dovrai portarlo in tintoria, quel completo.
Jonathan annuisce. Osserva la roccia su cui è seduto
Christian, bella e liscia, sicuramente erosa dall’infrangersi
dalle onde dell’oceano.
-Fastidioso questo vento!
Afferma Jonathan, prendendo coraggio e decidendo di sedersi accanto a
Christian. Quest’ultimo gli degna ancora un rapido sguardo
che distoglie immediatamente.
-Non è vento… è brezza marina.
Ribatte Christian, ispirando profondamente.
-Da quando porti gli occhiali?
Domanda poi, cambiando discorso e tono. Da vago e leggero a serio e
deciso.
-Qualche settimana. Sai, a quarant’anni la vista non
è più così buona.
“Quarant’anni”. Jonathan pensa che non
avrebbe dovuto rimarcarlo, Christian potrebbe prenderlo come una
frecciatina, un rimprovero per essersi apparentemente dimenticato del
suo compleanno.
-Avrei dovuto farti gli auguri …
Jonathan scuote il capo. Esattamente la risposta che si era aspettato e
che non voleva sentire.
-Non ha importanza, sai che non me n’è mai fregato
niente.
Inavvertitamente, appoggiando la mano destra sulla base della roccia,
Jonathan tocca la mano sinistra di Christian, un contatto breve e del
tutto involontario durante il quale gli pare quasi di aver avvertito
una scossa. Al contrario Christian sembra non essersene nemmeno
accorto.
-Sto iniziando ad odiarti John ed è qualcosa che
non avrei mai voluto.
L’affermazione di Christian, dal nulla, colpisce
profondamente Jonathan che lì per lì non
è in grado di ribattere. Osserva il suo interlocutore:
è immobile, nella stessa posizione da circa cinque minuti,
probabilmente anche da più tempo, il suo è
sguardo assente e le sue braccia sono rigide. Dietro alle sue parole
non c’è solo sofferenza, c’è
qualcosa di più grande, di più profondo.
-... questo perché se ti odio vuol dire che ho ancora
qualcosa in sospeso con te.
Prosegue Christian. Il suo discorso ha tutta l’aria di dover
proseguire, per questo Jonathan aspetta a parlare.
-Io… non sarei mai, mai stato in grado di affrontare questa
situazione da solo e ho contato ancora su di te. Quando ho saputo al
telefono della morte di mio padre la prima persona che mi è
venuta in mente sei stato tu, solo tu.
Silenzio.
-La nostra non è una storia che finisce con una porta
chiusa.
Risponde Jonathan. Christian si gira verso di lui e annuisce.
-Ma è quello che vorrei.
Afferma, con un filo di voce. Sembra che gli venga difficile
pronunciare quelle parole, tutto quel discorso. Soffre sillaba dopo
sillaba e Jonathan lo sente, lo vede nei suoi occhi incupiti, nelle sue
sopracciglia arcuate, nelle sue mani incredibilmente salde sul
basamento di quella roccia. Personalmente vorrebbe che Christian
smettesse di parlare.
-Ti voglio e ho bisogno di te, sempre, per ogni cosa. Mi hai abituato
ad essere incompleto John; ogni azione che faccio da solo
l’avverto come fatta a metà.
Jonathan non può che asserire. Lo sapeva, aveva
già riflettuto sull’argomento. La sua prepotenza
ha fatto si che anche nella loro storia d’amore Christian
dovesse necessariamente aver bisogno di lui. Questo
perché così facendo credeva che se lo sarebbe
assicurato al proprio fianco, per sempre. Evidentemente aveva
fatto male i conti…
-Eppure… ora, dopo tutto quello che abbiamo passato, averti
qui vicino per me è un sollievo e una tortura al tempo
stesso.
Il discorso di Christian si fa sempre più insostenibile.
Jonathan teme di non essere in grado ascoltarlo interamente e non
è più sicuro di sapere dove tutto questo
andrà a concludersi.
-È un sollievo perché, erroneamente,
penso: “Bene, ora che c’è lui
il mondo sulle mie spalle peserà meno.” Ed
è una tortura perché ogni volta che mi guardi e
che mi sei vicino, è come se mi afferrassi a mani salde per
la gola, togliendomi anche quel poco di respiro che mi rimane.
Jonathan deglutisce. L’immagine suggerita da Christian
è terribilmente angosciante , troppo.
-Stringi. Non tanto da farmi la cortesia di uccidermi, no,tu
allenti la presa quel che basta per permettermi di assistere a tutta la
mia agonia. Ti piace vedermi soffrire e vuoi che anche io assista. Mi
sbatti contro un muro, mi guardi e non fai altro. La nostra
storia è diventato qualcosa di malato, di insano.
Parole dure, pronunciate con tanta, troppa sofferenza. Parole che
tagliano come pezzi di vetro e si conficcano nel petto fino ad arrivare
al cuore creando solchi sempre più profondi e impossibili da
rattoppare.
“Malato” e “Insano”
sono due aggettivi che mai e poi mai Jonathan avrebbe pensato di dover
accostare alla sua relazione sentimentale, al suo matrimonio.
Dopo quello sfogo straziante e lacerante da lasciarti in brandelli,
Christian rimane in silenzio. Si aspetta una risposta da Jonathan? No.
Sa, deve sapere, che quanto ha appena detto è troppo grande
per essere controbattuto, deve essersi reso conto che benché
abbia a malapena sussurrato la sua voce è parsa a Jonathan
come un grido assordante, la cui eco rimane stridente nel cervello e
tortura come una larva che spinge per arrivare al nocciolo. Il nocciolo
in questione è il buonsenso di Jonathan e la larva ha
già compiuto il suo viaggio, è arrivato a
lacerare la ragione, senza alcuna pietà.
Per circa una decina di minuti nessuno dei due parla o si muove. Dopo
di che Christian si alza.
-È meglio che me ne vada a letto.
Senza dare troppo peso a Jonathan o aspettarsi una risposta si
incammina verso casa.
***
Quel
biglietto gli era capitato tra le mani, quel nome non aveva potuto far
altro se non saltargli all’occhio. Chiunque sarebbe potuto
essere l’intestatario degli altri biglietti, perfino Bin
Laden (no, Jonathan non pensa sia morto veramente) e non se ne sarebbe
accorto ma quel nome é forse più pericoloso di
quello di qualsiasi uomo sulla terra.
Christian si avvicina a lui. Non hanno più parlato dopo la
notte precedente, hanno fatto colazione insieme, si sono passati
accanto diverse volte ma non una parola, non un gesto. Non è
necessario parlare, dopotutto. In quel preciso momento coesistono nello
stesso spazio ma non l’hanno chiesto, sperato, desiderato o
programmato: è successo.
-Hai raccolto dalla posta gli ultimi telegrammi?
Domanda ora Christian, utilizzando un tono puramente formale. Jonathan
non sa se rispondere. Tra quelle lettere, proprio in cima,
c’è la sua. Sa bene di doverla consegnare a
Christian, eppure non vuole farlo.
-Non tutti, tanti sono… pubblicità.
Una risposta esitante, stupida e decisamente poco credibile. Christian
lo osserva con insofferenza, probabilmente non sospetta che gli stia
mentendo oppure neanche se lo chiede più.
-Comincia a darmi questi.
Conclude, porgendo la mano. Jonathan non si muove, è fermo,
impassibile.
-Qual è il problema?
Jonathan ancora non risponde, guarda Christian negli occhi e spera di
convincerlo a non insistere. Non funziona, naturalmente. Christian
afferra con decisione la pila di buste dalle mani di Jonathan che in
quel momento molla la presa, lasciandole cadere a terra.
-Lo trovi divertente?
Domanda Christian aspramente. Jonathan si abbassa per raccogliere le
lettere, prima che lo faccia Christian. Rapidamente scorge quella
indesiderata e la separa dalle altre, che porge poi a Christian.
-Ecco.
Il tentativo goffo e infantile di Jonathan non ha alcun effetto,
Christian se n’è accorto e lo sta scrutando con
aria emblematica.
-E quella?
Jonathan scuote il capo. Sa bene di essere ridicolo e assurdo ma non ha
intenzione di consegnargliela.
-Jonathan non ho cinque anni. Cosa mi stai nascondendo?
Esclama sospirando, esasperato dai gesti apparentemente assurdi di
Jonathan che, alla fine, cede e gli consegna la busta. Abbassa lo
sguardo.
Per un paio di istanti tra i due regna il silenzio, cala il gelo.
Christian è immobile. Nella mano sinistra tiene una decina
di lettere e in quella destra tremolante regge quella, per
così dire, incriminata. Non una parola, non un sospiro, non
un gesto che possa in qualche modo preannunciare quanto dirà
a breve.
-Daniel. Un telegramma da parte di Daniel. Era questo che non
volevi vedessi?
Chiede, sventolando la busta praticamente sotto il naso di Jonathan.
Quest’ultimo non risponde, guarda Christian negli occhi ed
eccola là, di nuovo, la disperazione. La voce strozzata di
Christian rompe il silenzio calato poco prima, con la stessa eco di
gesso che stride su una lavagna e poi di nuovo silenzio. Jonathan non
sa cosa dire. Il suo cervello gli aveva suggerito di impedire che
Christian vedesse quel telegramma ma poi, perché?
-Non volevo che lo vedessi.
Risponde lui, senza inventiva, senza nemmeno sforzarsi di produrre una
spiegazione sensata. Non che non ce ne fosse ragione ma, arrivati a
quel punto, la ragione ha veramente così tanta importanza?
-Perché mai?
Domanda Christian, con tono sempre più esasperato. In cuor
suo conosce la risposta ma vuole sentire la voce di Jonathan. Quel
briciolo di masochismo insito nella sua persona gli impedisce di
fermarsi, deve sentire, la voce di Jonathan deve pronunciare quello che
già si aspetta.
-Non volevo ferirti, di nuovo.
Ecco. Come da copione. Certo Christian probabilmente si aspettava
qualche parola in più ma il resto era perfetto: lo sguardo
colpevole di Jonathan, il suo tono rassegnato. Si,
c’era tutto quanto.
-Perché, ti importa forse?
Jonathan non risponde. Abbassa nuovamente lo sguardo.
-Dimmi un po’: cosa cambia? Se anche tu me l’avessi
dato subito, senza generare tutto questo, cosa sarebbe cambiato?
Domanda Christian passando da un tono collerico ad uno più
straziato.
-Non ti sei fatto scrupoli a…
Si blocca, deglutisce. Per la prima volta dopo mesi sta per affrontare,
con Jonathan, l’argomento.
-… scopartelo.
Perché mai dovresti farteli, proprio ora, quando non
è rimasto più niente?!
Non voleva essere così volgare ma quella parola gli
è quasi uscita di bocca, senza controllo. Sospira, si morde
il labbro. Il suo cuore inspiegabilmente ha iniziato a battere forte,
ha paura di crollare a terra da un momento all’altro o di
piangere e non vuole che lui lo veda in nessuna delle due situazioni.
Cerca di farsi forza, lo guarda dritto in faccia.
-Guardami e rispondi.
Gli dice, invitandolo ad alzare lo sguardo. Jonathan lo
guarda. Questo confronto gli riporta alla mente il loro ultimo
incontro. Allora come adesso sono soli, uno di fronte
all’altro in una casa vuota. Tuttavia, a anche volendo non
saprebbe formulare un discorso di senso compiuto.
-Bene…
Esclama Christian.
-Suppongo e suggerisco che tu abbia un volo da prendere, a breve.
Afferma. Nel frattempo si gira e posa i telegrammi su mobile, il
più vicino a lui. Jonathan sa di doversene andare,
l’invito di Christian è più che palese.
-… credo o meglio, sono certo, che non sarai più
qui quando ritornerò dalla mia… passeggiata.
Jonathan annuisce.
-Si, esatto.
Non può fare altrimenti.
-Saluterò Kyle, da parte tua.
Dopo quest’ultima affermazione Christian si gira ed esce,
più in fretta possibile, cercando di restare calmo, di non
perdere la testa.
Jonathan rimane solo, nel corridoio, completamente
paralizzato. È stato sbattuto fuori, di nuovo.
---> Ta-da-dah! Eccomi ancora. Questo capitolo è
fatto di spezzoni e frammenti ed è stato scritto interamente
lo scorso autunno, già sistemato e corretto, ho solo dovuto
rileggerlo per accertarmi che tutto filasse. Che dire…
Ultimo capitolo a Santa Monica, come avevo preannunciato, finisce
l’idillio e il dolore di Jonathan e Christian riemerge,
più forte che mai. So che sono passati ben tre anni dalla
stesura dalla storia e che forse il “colpo di
scena” sull’identità della
“scappatella” di Jonathan non creerà
così tanto scalpore. Beh è qualcuno che
è già apparso in un paio di capitoli comunque,
prima fisicamente e poi è stato nominato. Vabbè,
è andata così XD Purtroppo lo schema dei capitoli
nella mia testa era questo e decisamente avevo preventivato di finire
la storia in un annetto circa e non tre =/ Diciamo che è
importante che la finisca, dai =P
Ad ogni modo… voglio ringraziare jaryshanny per il
commento: mi fa molto piacere che dopo tutto questo tempo tu sia
rimasta interessata alla mia storia, spero che continuerà a
piacerti.
Bene, direi che è tutto per ora. Alla prossima! =D
<---
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Capitolo 36 *** Unsolved (Questioni Irrisolte) ***
36.
Unsolved (Questioni
Irrisolte)
Jonathan
non avrebbe mai voluto scappare da Santa Monica in quel modo ma non
aveva
scelta. Ancora una volta si era comportato in modo sconsiderato e
doveva
subirne le conseguenze.
È da
poco
atterrato al JFK, si trova in auto e non sente ancora la voglia di
partire, di
tornare a casa, la sua casa. Non è ancora pronto per tornare
al buio, alla
solitudine, al caos. In quella casa vuota ci sono solo lui e il suo
senso di
colpa, col quale non sente la voglia di convivere ulteriormente.
Sospira. Sa
bene di non potersene stare in quel parcheggio a lungo e rimanerci
un’altra
mezz’ora o cinque minuti poco cambierebbero la sua
situazione.
Non aveva
grandi aspettative riguardo all’esito dell’incontro
involontario con Christian
ma sperava, perlomeno, che le cose finissero in modo civile. Credeva
che
sarebbero ritornati tutti quanti sullo stesso volo e che si sarebbero
salutati
non come amici ma neanche come estranei.
Il viaggio
in aereo è stato quanto di più terribile potesse
aver vissuto. Odia volare e
sapersi solo a miglia di distanza dal suolo l’aveva
angosciato ulteriormente,
aveva ingerito un numero spropositato di pastiglie per il mal
d’aereo che,
nonostante la dose massiccia, non gli avevano provocato nemmeno un
minimo di sonnolenza.
Al contrario inizia a sentire dei fastidiosi crampi allo stomaco, vuoto
da
diverse ore e seriamente compromesso da quegli pseudo farmaci.
Ha persino
tentato di accendersi una sigaretta uscendo dall’aeroporto,
spenta poco dopo
perché anche questa non aveva fatto che peggiorare le sue
condizioni fisiche.
Il pacchetto ancora nuovo giace semi-aperto sul sedile del passeggero.
L’ha
gettato, infastidito, salendo in auto.
Si
meraviglia di non aver fumato più di un paio di sigarette a
Santa Monica. Non
ne aveva avuto il bisogno. Da quando è stato mandato via da
casa sua, quella
continua a reputare la sua vera casa, aveva preso l’abitudine
di fumare circa
un pacchetto al giorno. Spera di rimanere nella media delle due
sigarette ma sa
bene che non ci riuscirà. Dopotutto tolte quelle, quale
altra soddisfazione gli
rimane?
Chiude il
pacchetto di sigarette e lo mette nel cruscotto. Deve mettere in moto
l’auto,
deve tornare in quell’appartamento. Prima di farlo
però, torna a riflettere su
quanto è accaduto quel weekend. Non era solo su
quell’areo, no, da Santa Monica
aveva portato con sé la convinzione che lui e Christian non
sarebbero mai più
tornati insieme. Le parole che gli aveva rivolto la sera prima erano
troppo
dolorose e piene di sincera sofferenza. Essendo lui il motivo della sua
sofferenza non è così sicuro che per Christian
sia un bene riprendere i
contatti. Inizia ad avere il timore di fargli ancora del male, qualcosa
di ben
più terribile, da quale potrebbe non riprendersi
più.
Gira la
chiave e parte. Spera che il rumore dell’auto copra quello
dei suoi pensieri.
Il tragitto dall’aeroporto a casa sua è di circa
mezz’ora eppure gli pare così
vicina. Non ha pensato nulla durante il viaggio, anzi, se credesse nel
paranormale, direbbe di aver vissuto un esperienza extracorporea e di
essersi
teletrasportato da qualche parte, in un posto dove non è
concesso pensare.
Senza
nemmeno rendersene conto si trova davanti alla porta del suo
appartamento,
prende la chiave dalla tasca della giacca e la infila nella toppa.
L’odore che
lo pervade, aprendo la porta, è insopportabile.
L’appartamento è rimasto chiuso
per due giorni e l’insieme dato
dall’aria stagnante e il legno dei mobili gli
provoca bruciore alle
narici. Abbandona il trolley sulla porta ancora aperta e si precipita
ad aprire
tutte le finestre, una volta fatto chiude gli occhi e respira.
-Dovresti
imparare a chiudere le porte.
Esclama un
voce alle sue spalle, una voce che riconosce fin troppo bene.
-Che cosa
ci fai tu qui?
Esclama
girandosi, con il sospetto di aver già riconosciuto il viso
appartenete a
quella voce.
-Sto
partendo e anche tu, vedo…
Deduce,
osservando la valigia di Jonathan abbandonata sulla soglia della porta.
Quella
persona è Gregory.
-Ti avevo
che non ti avrei più voluto rivedere.
Ribatte
Jonathan, con disprezzo.
-Oh, non mi
rivedrai. Sto tornando in Texas, da tua madre…
Jonathan
spalanca gli occhi. Non può credere a ciò che ha
appena sentito. Eppure Gregory
sembra molto convinto, è vestito piuttosto bene, curato e
impeccabile, proprio
come quando si è presentato per la prima volta sulla soglia
della sua vecchia
casa, la casa di suo padre in Texas.
-Cosa ti fa
pensare che ti riprenderà con sé?
Chiede
Jonathan, rimanendo sempre a dovute distanze e continuando a scrutare
il suo
interlocutore.
-C’è
bisogno che te lo dica?
Gregory,
rimasto ancora sulla soglia, si avvicina, entra
nell’appartamento ed inizia a
guardarsi attorno.
-Credi
ancora che questa situazione sia qualcosa di passaggio?
Chiede
infine indicando genericamente la stanza. Evidentemente si sta
riferendo agli
scatoloni mai aperti e ai pensili della cucina ancora ricoperti dal
cellophane.
-Non ti ho
detto che potevi entrare.
Esclama
Jonathan, quasi urlando. Quell’uomo è decisamente
l’ultima persona che voleva
vedere in quella giornata così terribile.
-Allora…
non vuoi sapere perché sono così sicuro che tua
madre mi rivoglia?
Anche
Gregor ignora quanto detto da Jonathan. La loro conversazione
è piuttosto
strana, interamente a senso unico, sembra che nessuno dei due voglia
lasciare
l’ultima parola all’altro.
-Io voglio
solo che tu esca da questo posto.
Gregor
sogghigna, fermandosi. Tra i due intercorre una distanza di circa tre
metri
-“Questo
posto”. Quindi
ho ragione, tu ci speri
ancora.
Jonathan
abbassa lo sguardo. Non può ribattere e nemmeno vuole farlo.
-Ad ogni
modo torno indietro perché so che tua madre è
follemente e scioccamente devota
a me.
Jonathan
alza lo sguardo e rivolge a Gregor una profonda occhiata di disprezzo.
La
conversazione è diventata fin troppo fastidiosa.
-Come
pensavo lo fossi tu prima che conoscessi il tuo biondino, il tuo
Christian.
Jonathan ha
sempre ritenuto offensivo il modo in cui Gregor pronuncia il nome di
Christian,
crede che Gregory vi ponga il suo massimo disprezzo.
-Tu non
torneresti mai da me, l’ho capito. Tua madre sì.
Jonathan
non può sopportare oltre. Non sa se sia per colpa del mal di
stomaco,
dell’astinenza da nicotina o dalla rabbia montatagli in corpo
soltanto sentendo
parlare quell’uomo da lui ora così indesiderato.
Vorrebbe spingerlo fuori da
quella casa o magari colpirlo in pieno viso con un pugno proprio come
aveva
fatto con Abraham Dickson e il collega di Christian. Dopo quei due
episodi il
meccanismo della violenza si è innescato in lui e il suo
cervello non chiede
altro.
-Esci
immediatamente da quella porta. Le tue manovre non sono affar mio.
Gli intima
a denti stretti, cercando di trattenere quel suo fortissimo impulso che
lo
spinge ad attaccarlo fisicamente.
-Lo sono,
perché voglio farti riflettere. Ti faccio una sola piccola
domanda: il tuo caro
Christian è così follemente e scioccamente
innamorato, al punto di tornare da
te?
L’autocontrollo
di Jonathan è sempre più forzato, teme di
scoppiare da un momento all’altro.
Preferisce non parlare, non rispondere.
-Non
rispondi? Ma certo che no… perché sai che, sotto
sotto, eri tu quello
follemente innamorato. Andiamo Jonathan, sai bene che ti stava vicino
solo
perché hai portato fuori il suo bel culetto da quel buco per
marchette.
Immediatamente
la rabbia di Jonathan prende il sopravvento, il sangue gli arriva
completamente
al cervello e non è più in grado di ragionare. In
uno scatto raggiunge Gregor e
lo spintona fuori dalla porta.
-Chiudi la
bocca!
Dopo averlo
sbattuto fuori dall’appartamento lo afferra con la mano
destra per il collo della
camicia, la sua bella camicia di seta grigia. Tra il suo viso e quello
di
Gregor intercorrono circa una decina di centimetri e fa ben attenzione
e
guardarlo fisso negli occhi, con uno sguardo penetrante e iracondo, che
Gregory
pare reggere a stento.
-Sei
arrivato all’ultima fase, la violenza.
Ribatte
Gregor, fingendosi poco sbalordito dalla reazione di Jonathan.
-Pensi di
potermi rigirare anche questa volta?
Chiede,
senza mollare la presa. Gregor sogghigna compiaciuto, anche se Jonathan
legge
chiaramente nel suo sguardo l’incertezza.
-Voglio
vedere fin dove riesci ad arrivare.
Ribatte
poi. Jonathan continua a stringere poi, di colpo lo lascia andare,
facendolo
quasi cadere a terra. Questi fortunatamente riesce a reggersi alla
parete
dell’ascensore, dietro di sé.
-Sai cosa
di ti dico? Non vale più la pena di confrontarmi con te.
Va’ dove ti pare, fa’
quel che vuoi.
Gregory lo
scruta. Deve credersi tanto furbo e probabilmente ritiene quella di
Jonathan
una debolezza, anziché un gesto molto intelligente.
-Lascerò
che sia mia madre a sopportarti. Anzi, ti auguro che sia più
brava di me nel
farlo. Buona fortuna!
Esclama,
chiaramente sarcastico. Dopodiché torna
nell’appartamento e chiude la porta.
***
Kyle e
Christian avevano deciso di tornare a casa in aereo, da soli. Jonathan
stando a
quanto aveva detto Christian ha avuto un impegno di lavoro con un
cliente con
urgente bisogno di assistenza psichiatrica ed era partito il giorno
prima.
Naturalmente
Kyle non ci crede. Sa bene che doveva essere successo qualcosa tra i
due,
dovevano aver litigato. Christian era insolitamente tranquillo,
sorrideva
troppo per essere uno a cui è appena venuto a mancare il
padre.
Sull’aereo,
mentre Christian dorme, Kyle inizia a riflettere riguardo a quel giorno
e mezzo
di coesistenza forzata dei suoi genitori. Certo, aveva visto
ostilità e dolore
ma… crede che se non si fosse fermato a riflettere e se il
suo cervello ogni
cinque secondi non gli avesse ricordato: “Non stanno
più insieme”, avrebbe
avuto l’illusione di essere tornato a diversi mesi prima,
quando ancora tutti
gli sconvolgimenti erano lontani, quando tutti erano sereni, o quasi.
Aveva
sempre osservato con invidia e con orgoglio la storia dei suoi genitori; si amavano tanto, si
completavano, davano
l’illusione di una famiglia ideale, nella quale qualsiasi
ragazzino avrebbe
voluto vivere. Aveva sempre sognato di trovare, un giorno , la persona
che lo
completasse esattamente com’era successo a Chris e John e,
dopo la separazione,
non aveva smesso di sognare. Non aveva smesso di desiderare una
relazione come
la loro perché, anche nel dolore, anche nella separazione,
trasmettevano un
sentimento d’amore inossidabile che nonostante gli ostacoli e
le situazioni
puntassero a distruggere, sarebbe rimasto tale per sempre.
A tale
proposito, si ritrova a pensare ad Anthony. Si è lasciato
alle spalle tutta la
situazione, lasciandosi travolgere dagli eventi familiari e, da un
certo punto
di vista, gli aveva fatto comodo. Tornare a pensare ad Anthony
è qualcosa di
estremamente stancante, si tratta di quei ragionamenti che portano ad
una
decisione, qualunque essa sia, che non vuol prendere. Segretamente
spera che
accada ancora qualcosa a lui o nella sua famiglia, che gli permetta di
accantonare ancora tutto quando. Vede quella sua decisione come un
mucchio di
compiti noiosi e impegnativi che deve fare in preparazione di una
qualche
verifica e sa bene si ridurrà a farli la sera prima della
verifica stessa,
compromettendo non poco la valutazione. Sa che verrà
contattato ancora da
Anthony se non avrà il coraggio di farlo lui stesso e che
proprio su due piedi
sarà costretto a prendere una decisione, probabilmente
avventata e data dal
caso e non ponderata e studiata, come invece avrebbe dovrebbe essere.
Sospira, in
preda all’angoscia. Cerca di distrarsi osservando gli altri
passeggeri
sull’aereo, c’è molto silenzio e le luci
si stanno spegnendo, è quasi notte
infatti e pare che sia lui l’unico a non essere in grado di
prendere sonno. Le
hostess si fermano a chiedere ad ogni passeggero, ancora sveglio, se
desideri
qualcosa, che sia essa un cuscino o una bibita. Per desiderio di non
essere
disturbato e soprattutto di non svegliare Christian, si gira verso il
finestrino dando le spalle al corridoio, cercando anche in qualche modo
di riposare.
Al contrario, inizia a riflettere su un’altra questione che
ha lasciato in
sospeso: Morgan. Non le ha più parlato dopo discussione per
Anthony e crede di
esser stato davvero ingiusto nei suoi confronti, considerando anche che
per
motivare il suo gesto la ragazza aveva confessato di avere una certa
attrazione
per lui. Brutto da dire ma Kyle
è certo
di non provare sentimenti diversi dall’amicizia e
dall’amore fraterno per
Morgan. Anche questo è
un discorso
difficile che dovrà affrontare con lei vis-à-vis.
-Kyle,
tesoro, siamo arrivati.
Esclama
Christian, accarezzandogli delicatamente la spalla. Alla fine
è riuscito ad
addormentarsi e ha dormito per circa due ore, a giudicare dal tempo del
viaggio. Si stropiccia gli occhi e annuisce. Evidentemente tutto quel
pensare,
alla fine, è servito a conciliargli il sonno.
Arrivati a
casa, Christian si mette immediatamente a sistemare le valigie e invita
Kyle ad
andare a letto.
-Chris
forse è meglio che vada anche tu a letto, le valigie posso
aspettare.
Ribatte
Kyle, senza avere però alcun risultato.
-Preferisco
farlo subito, sai che non mi piace vedere il disordine. Tu
va’ a letto, dai.
Kyle
annuisce e dopo essersi fatto una bella doccia ed essersi infilato il
pigiama
si mette a dormire.
Una volta a
letto, come già aveva immaginato, fatica non poco a prender
sonno. Sono le 22 e
nonostante la stanchezza causata dal viaggio e da quelle giornate
estremamente
intense, sente che sarebbe perfettamente in grado di vestirsi, uscire e
fare
qualsiasi cosa gli passasse per la testa. Decide però di
prendere il cellulare,
che come al solito si trova acceso ma in modalità
“silenziosa” sul comodino
accanto. Nessun messaggio o telefonata, poco gli importa, dal momento
in cui la
sua intenzione è quella di giocare a qualche giochino
scaricato come “Angry
Birds” o “Tetris”.
Dopo aver tentato e fallito per la terza
volta uno degli ultimi livelli di “Angry Birds” si
arrende e quel breve momento
nel quale il suo cervello gli ha permesso di dedicarsi a cose
così frivole
termina. Ritorna a pensare ad Anthony e a Morgan. Ritiene che sia il
caso di
risolvere almeno una delle faccende al più presto.
Anthony.
Si odia e
vorrebbe non averlo pensato ma in quel momento è
ciò che gli preme di più.
Crede forse che la sua amicizia con Morgan, così longeva e
forte possa
aspettare e che sia comunque possibile recuperarla ma è
molto meno speranzoso
per quanto riguarda la sua possibile infatuazione per Anthony. Se anche
veramente il ragazzo fosse stato interessato a lui dopo quel tempo di
silenzio sicuramente
se ne sarà fatto una ragione. Di getto afferra di nuovo in
mano il cellulare e
inizia a scrivere.
“Dobbiamo vederci al più presto, domani.”
Invia il
messaggio e subito se ne pente. Vorrebbe tornare indietro ed essere
meno
impulsivo. L’impulsività non è
generalmente una delle sue caratteristiche
principale, pensa sempre molto prima di agire, troppo forse.
Scuote il
capo e appoggia il cellulare nuovamente sul comodino. Non si aspetta
una
risposta immediata, non si aspetta una risposta, a dirla tutta. Inizia
a
credere di non volerla quella risposta. Certo, è stato
facile comporre una
frasetta di senso compiuto e premere “Invio” ma non
lo sarà altrettanto
presentarsi e dirgli chiaramente ciò che deve dire. Forse la
non-risposta di
Anthony potrebbe essere una valida alternativa. Si mette a fissare il
soffitto,
sperando di prendere sonno. La porta della sua camera è
semi-chiusa e filtra un
leggerlo fascio di luce proveniente dalla sala, segno che Christian
è ancora
alzato a sistemare o chissà cos’altro. La
maniacale cura per la pulizia e
l’ordine era uno degli argomenti su cui i suoi genitori
dibattevano più spesso.
Jonathan è sempre stato un disordinato cronico ma Christian
ha sviluppato nel
corso degli anni una vera e propria ossessione per la pulizia.
Chissà poi per
quale motivo…
Di colpo,
Kyle nota una luce riflettere sul soffitto. Una luce piuttosto forte,
proveniente dal suo comodino. Lo schermo del cellulare si è
illuminato e può
significare solo una cosa: Anthony ha risposto.
All’improvviso il cuore inizia
a battergli all’impazzata, ad un intensità tale
che lo costringe a mettersi una
mano sul petto nel vago tentativo di rallentare il battito. Si alza e
si mette
a sedere sul bordo del letto. Non riesce bene a capirne il motivo ma
dubita
riuscirebbe a leggere il messaggio stando sdraiato.
Per una
frazione di secondo gli balena in testa l’idea di rimandare
la lettura del
messaggio all’indomani, per poter dormire in pace. Crede che,
in ogni caso, non
dormirebbe comunque così si fa forza e prende il telefono.
Il nome del
mittente, va’ da sé, è Anthony e prima
di premere il tasto “leggi” sospira. Il
messaggio è piuttosto breve, a primo impatto neanche una
riga, dopo questa
veloce considerazione legge.
“Dimmi luogo e ora, ci sarò.”
Ci
sarà.
Questo significa che nel giro di poco meno di 24h dovrà
affrontare la
situazione, per un istante teme di scoppiare a piangere, spinto dal
nervosismo.
Non ha idea di dove possa dare appuntamento ad Anthony. Decide che
lascerà a
lui la facoltà di scelta.
“Per il luogo non saprei, mentre per quanto
riguarda l’ora direi verso le 16.”
Invia il
messaggio e aspetta la risposta, questa volta con meno impazienza, sa
che
riceverà a breve una risposta.
“A circa due isolati da casa tua
c’è un
cinema per film indipendenti, troviamoci lì”
Kyle
annuisce. Si ricorda di aver intravisto dalla strada
l’insegna luminosa del
cinema, il posto sarà perfetto, fa un ultimo sforzo
confermando l’appuntamento,
dopodiché si mette a letto e dopo un grande sospiro, riesce
finalmente a
prender sonno.
L’indomani,
al risveglio, Kyle si trova a casa solo. Christian doveva recarsi in
università
per l’ultima fase della sessione d’esame estiva.
Tutto ciò non fa che
facilitargli le cose, teme non sarebbe stato in grado di nascondere
l’ansia e
la preoccupazione per l’incontro tanto temuto.
La scuola,
inoltre, è finita da un paio di settimane e per quanto ne
sia felice, avere la
possibilità di distrarsi e concentrare la propria attenzione
su qualcosa di
diverso gli sarebbe stato utile. Un’altra cosa che rimpiange
è non poter
raccontare a qualcuno il proprio stato d’animo, i propri
timori. Non è mai
stato facile per lui farsi degli amici, degli amici veri perlomeno.
Parla e
scherza con tutti quanti a scuola ma la sua unica vera confidente
è stata
Morgan, da sempre.
Sbadiglia e
si stiracchia, allungando ogni muscolo del suo corpo. Fa molto caldo in
casa,
Christian deve essere uscito presto e ha preferito lasciare le finestre
chiuse,
ragion per cui la temperatura nell’appartamento è
piuttosto elevata.
Apre le
finestre della sala e viene subito colpito dal sole. È quasi
mezzogiorno, l’ora
più calda. Christian non gli ha comunicato i suoi orari, in
effetti non hanno
più avuto occasione di parlarsi dalla sera prima e a
giudicare dall’ordine
impeccabile della casa, dev’essere andato a letto piuttosto
tardi.
11.45,
l’orario preciso che segna l’orologio digitale
sullo schermino dello stereo.
Troppo tardi per fare colazione e troppo presto per pranzare. Kyle si
limita a
prendere un sacchetto mezzo vuoto di biscotti al cioccolato e si tuffa
sul
divano. Non ha voglia di guardare la televisione, sa di per certo che
non
troverà nulla di suo gradimento a quell’ora, per
questo motivo si limita a
sgranocchiare svogliatamente qualche biscotto.
Dopo aver
quasi finito il pacchetto Kyle guarda di nuovo l’orologio
dello stereo, sono le
11.57 ora.
Sbuffa. Il
tempo sembra non passare e si sorprende di aver divorato almeno una
quindicina
di biscotti in poco più di dieci minuti. Lascia cadere il
pacchetto a terra, il
quale va’ a finire sul tappeto. Non appena si accorge del
danno compiuto, pensa
alla reazione che Christian potrebbe avere davanti alle briciole.
Immediatamente si alza e corre a prendere l’aspirapolvere
manuale, pulisce
attentamente il tappeto e il divano, non vuole sentire
l’ennesima ramanzina sul
disordine e la sporcizia.
Dopo aver
finito di pulire guarda di nuovo l’orologio. 12.01.
È ora
di
pranzo ma non ha proprio fame, non dopo essersi divorato quei biscotti
così
voracemente. Appoggia l’aspirapolvere sul tavolino da
caffè e si getta
nuovamente sul divano, ancora più svogliato. Qualche istante
dopo suona il
telefono, un sollievo per Kyle che spera che dall’altro capo
ci sia qualcuno
seriamente disposto a conversare con lui.
Scatta dal
divano e corre verso il mobiletto dove è situato il
telefono. Prima di
rispondere guarda lo schermino digitale per vedere se riesce a
riconoscere il
numero del mittente, sfortunatamente riesce a leggere solo la scritta
“chiamata
esterna”. Christian deve essersi dimenticato di pagare il
servizio di
rintracciabilità dei numeri di telefono, quel mese.
-Pronto?
Attende con
curiosità la risposta dall’altro capo del
telefono, risposta che arriva solo
qualche secondo dopo.
-Ciao
piccolo.
Jonathan.
-Ciao
John.
Essendo il
telefono un cordless Kyle ritorna a sedersi sul divano, sempre con la
speranza
che la conversazione sia in grado di occupare un po’ di tempo.
-Christian
è in casa?
Chiede Jonathan,
poco dopo.
-No, ha
l’ultima fase della sessione estiva questa settimana.
Risponde
Kyle, che nel frattempo si è sdraiato completamente sul
divano.
-Hai
bisogno di lui?
Chiede poi,
senza lasciare il tempo a Jonathan di parlare.
-Si
ma… non
fa niente.
Il tono di
voce di Jonathan è parecchio strano, sembra quasi
sconfortato.
-Se non
è
qualcosa di privato, posso riferirglielo.
Lo invita
Kyle, decisamente curioso.
-Oh…
nulla
di privato, nulla di importante in verità.
Dopo quella
risposta Kyle decide di desistere.
-Va bene.
È
strano
parlare al telefono con Jonathan. C’aveva fatto quasi
l’abitudine a non averlo
in casa ma la comunicazione telefonica ha
sempre qualcosa di artificioso e di imbarazzante. Vorrebbe
tanto restare
a parlare, chiacchierare come hanno sempre fatto faccia a faccia ma
allo stesso
tempo non vede l’ora che riattacchi.
-Scusami se
sono andato via senza salutarti a Santa Monica, ho avuto un
impegno…
Sospira
Kyle. Sa che non è vero, sa che se Jonathan è
praticamente scappato dalla California,
il vero motivo non può essere il lavoro, stesso lavoro che
ha lasciato senza
troppi problemi per accompagnarli al funerale di nonno Jack.
-Non ti
preoccupare.
Risponde,
cercando di essere più tutt’al più
rassicurante.
-Stavi
facendo qualcosa in particolare?
Chiede
Jonathan, cambiando discorso. Evidentemente anche lui desidera avere
qualcuno
con cui parlare.
-No…
Stavo
aspettando.
Si blocca.
Questa potrebbe essere l’occasione buona per parlare con
qualcuno riguardo alla
sua situazione con Anthony. Potrebbe riceve un consiglio, un
suggerimento o
semplicemente un orecchio disposto ad ascoltare.
-Che cosa?
Domanda,
naturalmente, Jonathan. Kyle riflette ancora qualche istante prima di
dare una
risposta. Pensa che se si sfogasse con Jonathan non sarebbe giusto nei
confronti di Christian. Certo, ha già accennato a Christian
di tutta la vicenda
di Anthony. Beh, non proprio tutta. A ripensarci gli ha solo parlato
della sua
“curiosità” adolescenziale, non era
ancora arrivato a pensare di poter provare
dei sentimenti per il ragazzo.
-…
l’ora di
pranzo.
Conclude,
senza altre mezze parole.
-Ti annoi?
Kyle
meccanicamente sorride.
-Da cosa lo
deduci?
-Dal tuo
tono di voce.
Risponde
prontamente Jonathan.
-Mi conosci
così bene?
Jonathan
ridacchia.
-Perché,
hai forse qualche dubbio, bimbo?
“Bimbo”.
Lo
chiama sempre così quando vuole prendersi gioco di lui.
-No,
affatto!
Ha una
strana sensazione Kyle, di calore, nel petto. Si sente felice e forse
per la
prima volta quella sterile conversazione al telefono è
diventata meno formale.
Per qualche istante gli sembra quasi di averlo lì, accanto a
sé, seduto sul
divano. Ha quasi l’istinto di mettersi a sedere e di
guardarlo negli occhi, per
vedere la sua espressione sorridente e per un secondo il telefono che
ha in mano
non ha la pesantezza di un macigno e quella stanza è meno
vuota.
-Credi che
Christian stia fuori tutto il giorno?
Chiede
Jonathan, cogliendo di sorpresa Kyle.
-Si, non
credo tornerà prima di sera.
Risponde,
candidamente.
-Allora…
non ti andrebbe di venire da me? Possiamo pranzare insieme. Ti
riporterei a
casa per le cinque, ho un solo appuntamento alle cinque e mezza oggi.
Kyle
è
molto felice per l’invito e, senza troppi pensieri, pensa di
accettare. Si
ricorda poi del suo appuntamento con Anthony. Per circa una decina di
minuti
era riuscito a non pensarci. Dovrebbe vedersi con Anthony alle quattro.
-Non…
posso.
Risponde,
con titubanza. Non vuole dire quale impegno abbia realmente, dal
momento in cui
ha deciso di non parlare della sua situazione. Tuttavia teme che
Jonathan
fraintenda.
-Oh,
capisco.
Jonathan
è
chiaramente dispiaciuto, Kyle non fa fatica ad accorgersene.
-Ho da
fare, nel pomeriggio. Possiamo vederci domani, o dopodomani!
Jonathan
non risponde subito.
-Temo di
avere la settimana piena. Troveremo un altro giorno, non importa.
Conclude,
poi.
Kyle prova
un terribile senso di colpa. Vorrebbe tanto vedere Jonathan e passare
del tempo
con lui. Quei due giorni a Santa Monica era stato fantastico poterlo
riavere
con sé e qualche ora in sua compagnia non potrebbe che
rallegrarlo, tuttavia sa
di dovere del tempo anche ad Anthony, se non altro perché
è stato lui stesso ad
organizzare l’incontro.
-Beh, io
andrei a pranzo.
Dice, con
l’intento di chiudere la conversazione. Sa di non riuscire a
proseguire tranquillamente
la conversazione dopo aver rifiutato quell’invito
così sincero.
-Certo!
Mangia qualcosa di sano, mi raccomando.
Risponde
Jonathan.
-Guarderò
bene nel frigorifero! A presto.
Ribatte
Kyle.
-Ciao
piccolo, fa’ il bravo.
Riattacca.
Kyle preme
il bottone di fine chiamata e getta il telefono dall’altro
capo del divano. Non
ha intenzione di guardare l’orologio, sa che ora il tempo
passerà ancora più
lentamente.
Disteso, a
braccia conserte sul divano chiude gli occhi. Non vuole addormentarsi,
ha
dormito abbastanza ma spera almeno di trovare un po’ di pace.
-- >
Tanto
tempo è passato dal mio ultimo aggiornamento, decisamente
troppo, me ne rendo
conto. Mi meraviglierei anche nel vedere qualcuno leggere (e magari
commentare)
la mia storia dopo tutto questo tempo. Non ho una vera e propria
scusa… a parte
problemi personali con quella maledetta università che pare
non voglia finire
mai. Comunque, non voglio ammorbare nessuno con i miei discorsi. Ho
deciso di
finire davvero, questa volta, la mia storia. Buona parte dei capitolo
finali è
già stata stesa e devo solo trovare la voglia e il coraggio
per collegare
tutto.
Mi sono
decisa
perché ieri sera ho iniziato a scrivere una sorta di
“prequel” , che ho
intenzione di pubblicare qui su EFP, per chi vorrà leggerlo.
Quindi per ora
ecco questo 36esimo capitolo che in realtà è
stato scritto ma mai pubblicato la
scorsa estate. Spero che qualcuno ancora si ricordi di Jonathan,
Christian e
Kyle.
A presto (si
spera!) e grazie a chi vorrà leggere ancora. < ---
|
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Capitolo 37 *** Sorry Couldn't be enough (Scusarsi potrebbe non bastare) ***
37. Sorry
couldn’t be
enough (Scusarsi potrebbe non bastare)
Jonathan
è seduto al tavolo da
pranzo del suo appartamento. Tiene ancora in mano il cellulare con il
quale ha
telefonato a casa. Ha appena terminato una strana telefonata con Kyle,
una telefonata
che sebbene fosse stata piuttosto tranquilla, è stata del
tutto inaspettata.
Aveva chiamato per poter parlare con Christian.
A
dirla tutta aveva composto e
cancellato il numero, quel numero,
almeno una decina volte prima di convincersi a premere il tasto
“chiama”. La
verità è che ciò che ha intenzione di
dirgli è grande, troppo grande perché lo
si possa fare a cuor leggero e soprattutto senza avere il diritto di
esitare
per un momento. Davanti a sé ci sono dei fogli, tanti fogli,
probabilmente più
di quanti ne servano. Si tratta dei documenti da compilare per la
separazione
civile.
É passato a
prenderli in mattinata in comune e
ancora si chiede da dove abbia tirato fuori tutto quel coraggio.
Non
avrebbe voluto farlo e quella
decisione così ferma l’ha ridotto, se possibile,
in uno stato di sconforto
sempre più irreparabile. Prima di andare in comune ha
impiegato diversi minuti
ad uscire dal letto e a vestirsi continuando a ripetersi, come un
mantra, che
ciò che aveva deciso di fare era, alla luce dei fatti, la
cosa migliore che
potesse fare, la cosa più saggia.
Non
la più giusta, probabilmente.
Questo perché non ritiene che esista nella vita e
soprattutto nelle relazioni
un metro in grado di giudicare con assoluta oggettività
ciò che sia giusto e ciò
che invece sia sbagliato. Se ascoltasse il suo cuore ancora
irrimediabilmente
innamorato benché sia a pezzi, distrutto e ridotto al
più logoro dei cenci, non
lo farebbe mai. Ha dedotto che il suo cuore non sia il giudice migliore
per
aiutarlo a prendere la decisione più adatta, ha deciso di
affidarsi quindi al
suo buon senso.
Ha
riflettuto molto il giorno
prima circa i suoi ultimi incontri con Christian ed è
arrivato alla conclusione
che, purtroppo, l’unico modo nel quale possa aiutarlo in
questo momento, con il
quale riuscire a dargli un po’ di sollievo
e permettergli
di ricominciare a
vivere da capo, sia quella di farsi definitivamente da parte. Per farlo
deve
separarsi da lui in modo concreto, in modo ufficiale.
Forse
una firma in più su un
foglio scritto che attesti e certifichi che tutto ciò che
avevano, che tutto
ciò che hanno costruito così duramente e con
così tanta fatica sin dal primo
giorno nel quale i loro sguardi si sono incrociati in quel bar fuori
New York
quindici anni prima, non esiste più potranno finalmente
farsene una ragione e
andare avanti.
A
conti fatti non cambia nulla
poiché si tratta solo di una firma eppure, mentre premeva la
penna su quel
foglio per imprimere l’iniziale del suo nome e il suo
cognome, tale è la sua
firma, gli pareva quasi di reggere tra le dita un blocco di cemento. Si
è
dovuto fermare dopo aver impresso un segno che ancora non aveva una
forma
completa, sul primo foglio. Vuole credere che qualche muscolo del suo
cuore o
qualche pezzo della sua anima affranta, si siano fatte forza e siano
uscite dal
suo respiro per poi posarsi contro la sua mano allo scopo di premerla
con forza
o tutt’al più di allontanarla e farla desistere.
Queste
parti di sé devono essere
state davvero troppo deboli perché era riuscito a completare
quella prima firma
e anche le successive, senza avere ulteriori difficoltà.
Arrivato all’ultimo
foglio, il sesto, c’aveva quasi preso gusto, aveva impilato
quell’ultimo
documento sopra gli altri, aspettandosi di trovarne un altro al di
sotto di esso.
fine,
non era del tutto cosciente
di ciò che aveva appena fatto. E di questo se
n’era accorto solo nel momento
nel quale, intenzionato a ordinare i fogli, aveva letto con la coda
degli occhi
la parola “Separazione”.
Lascia
cadere quel piccolo fascio
di fogli sul tavolo. Uno di essi scivola fino a finire per terra, gli
altri
rimangono sul piano, benché scomposti. Porta una mano alla
bocca, quasi tema
che possa uscirne qualche parola sconveniente o patetica, che le sue
stesse
orecchie non hanno intenzione di ascoltare.
Si
toglie gli occhiali, senza i
quali ormai non è più in grado di leggere nulla,
li appoggia sul tavolo e si
sfrega gli occhi con incredulità. La tentazione di prendere
quei fogli,
stapparli e cestinarli inizia a farsi spazio nella sua testa ma non
può farlo
perché se lo facesse rinuncerebbe a compiere
l’azione più nobile e sensata che
abbia deciso di intraprendere da mesi a quella questa parte. Inizia a
pensare
che questa decisione, benché si tratti proprio di mettere il
sigillo ardente e
inapribile della parola “fine” sull’unica
cosa di cui gli sia veramente
importato in vita sua, potrebbe essere ritenuta l’ultimo suo
gesto d’amore, un
gesto che miri a porre fine le sofferenze dell’uomo che ha
amato e che continua
ad amare.
Sono stronzate romantiche, sono fantasie.
Pensa,
colto da una travolgente
ed inarrestabile ondata di realismo. Se è riuscito a
prendere quei documenti, a
firmarli, a decidersi veramente di trovare in fondo a quella sua mente
contorta
e malata la forza per prendere quella decisione, è stata
solo per cercare di
togliersi il proprio senso di colpa, per liberarsi da quei panni da
mostro che
stanno iniziando a cucirglisi addosso quasi come una seconda pelle.
É di nuovo
l’egoismo, il suo fottuto egoismo, a prendere il sopravvento
ed è così forte e
imponente al punto da oscurare qualsiasi cosa o peggio ancora a
distorcerla per
farla sembrare più avvenente, più allettante,
più morale.
Si
alza da quella sedia, divenuta
d’improvviso troppo scomoda e raggiunge in gesti meccanici e
quasi spontanei la
giacca nella quale è certo di trovare le sigarette, unico
placebo per quella
sua disperazione implacabile.
***
Kyle
è appena uscito di casa e, a
passi lenti, sta raggiungendo il luogo nel quale dovrà
incontrarsi con Anthony.
Non l’ha più sentito dopo i messaggi della sera
precedente, pensa che forse
avrebbe dovuto mandargli un ulteriore messaggio per essere certo che
nel
frattempo non avesse cambiato idea, per essere sicuro che si
presenterà. La
verità è che aveva quasi sperato che un avviso di
rinuncia arrivasse, perché
lui stesso avrebbe voluto rinunciarvi ma sa bene che tra i due quello
più
coraggioso, quello che avrebbe avuto effettivamente la forza di farlo,
non
poteva che essere Anthony.
Non
appena scorge l’angolo che
dovrà imboccare per raggiungere quel vecchio cinema,
rallenta fino a fermarsi.
Non ha preparato un discorso sul quale confrontarsi con Anthony, non sa
neppure
se riuscirà a dire qualcosa di concreto e, a questo punto,
se si presenterà.
Perché no, non ne
è sicuro.
Si
sente di vivere una sensazione
di dejà-vu. Gli è già capitato di
tentare di raggiugere Anthony, per poi
ritrovarsi a ripercorrere i propri passi al rovescio, con la coda tra
le gambe,
accumulando sempre più dubbi, sempre più
incertezze.
Non
può farlo di nuovo, non può
permetterselo. La sua situazione a casa è già fin
troppo complessa perché possa
concedersi il lusso di creare altre faccende irrisolte al di fuori di
quelle
mura. Deve cercare di prendere la questione di petto, di crearsi quella
dose di
coraggio necessaria da solo, se proprio il suo animo non è
in grado di
fornirgliela.
Allunga
il passo e prosegue verso
il teatro. Anthony è proprio là davanti ad
aspettarlo, non può essere che lui,
dal momento che non c’è nessun altro. Kyle cerca
di risultare più disinvolto
possibile e di raggiungerlo senza mostrargli la sua esitazione o la sua
paura. Tuttavia
non è in grado di rivolgergli nemmeno un saluto
finché non se lo trova proprio
di fronte e, pure in questo caso, viene preceduto.
-Ciao.
Il
saluto di Anthony è quasi
destabilizzante. Kyle si aspettava di trovarlo infastidito o teso
almeno quanto
lui, in realtà risulta quasi dolce, una reazione verso la
quale sente di essere
del tutto impreparato.
-Ciao…
Ribatte,
facendo il possibile per
non abbassare lo sguardo, per non guardare altrove. Non gli riesce
però con
facilità, dal momento che i penetranti occhi nocciola di
Anthony sono difficili
da sostenere per più di una manciata di secondi.
-Come
stai?
Chiede
di nuovo Anthony con tono
sempre più pacato, sempre più cordiale.
-Bene.
Tu?
Kyle
è molto ermetico nella sua
risposta e cerca di non lasciare che si intraveda alcuna emozione in
particolare. Non sarebbe in grado di emulare la pacatezza di Anthony,
ne
risulterebbe solo qualcosa di confuso e ben poco cordiale.
-Non
male, grazie.
Dopo
quella risposta il silenzio
cala immediatamente diventando il terzo incomodo la cui venuta Kyle
stava
aspettando già dal primo momento nel quale ha posato lo
sguardo su Anthony che,
neanche farlo apposta, diventa di giorno in giorno più
avvenente. Mentre Kyle
si vede ancora come un ragazzino dal viso acerbo e dal fisico esile,
Anthony è
sempre più alto con spalle grandi e robuste e segni di una
mascolinità adulta
più che pronta ad emergere sul suo viso.
-Senti…
c’è un bar qui dietro,
poco popolato dove sono sicuro che potremmo parlare in pace, ti
andrebbe di
andarci?
É
di nuovo Anthony a gettare il
salvagente per evitare che entrambi affoghino in quella situazione
scomoda.
Kyle si limita ad annuire senza aggiungere altro e segue Anthony,
fidandosi di
ciò che ha appena detto.
Il
locale nel quale arrivano è un
piccolo bar malmesso, che pare non essere frequentato da anima viva e
Kyle non
stenta a crederlo, dato l’aspetto così ben poco
accogliente. I due ragazzi si
siedono al primo posto che balza loro agli occhi, non che sia difficile
trovarne uno.
Kyle
ha ordinato una granita al
limone, mentre Anthony un gelato bigusto panna e caffè.
-Ci
sarà da fidarsi a mangiare
queste cose?
Chiede
Kyle, cercando di
instaurare un qualche tipo di comunicazione partendo magari, come ha
fatto, da
discorsi lontani e senza particolari fini.
-Oh,
lo spero!
Esclama
Anthony, assaggiando la
prima piccola cucchiaiata del suo gelato dopodiché appoggia
il cucchiaino sul
tavolo, seguito da una smorfia.
-No,
decisamente, no.
Kyle
sorride, un sorriso
spontaneo che non avrebbe forse voluto o dovuto fare vista la
situazione.
Tuttavia non ha potuto farne a meno.
-Sai,
mi ha sorpreso il tuo
messaggio. Non credevo che mi avresti più
contattato…
Commenta
poi Anthony, gettando
finalmente luce sull’argomento per il quale si trovano uno di
fronte all’altro
in quel caldo pomeriggio di luglio inoltrato.
-Non
lo credevo neanche io,
onestamente. Solo…
Si
blocca. Dal momento in cui si
trova lì, tanto vale essere sinceri.
-Solo
ho già abbastanza casini di
mio, senza che vada a cercamene altri.
Anthony
asserisce col capo, deve
aver frainteso le parole di Kyle a giudicare dalla risposta.
-Quindi
sono un casino da
sbrigare anche io.
Kyle
è decisamente stato troppo
sbrigativo nella sua spiegazione, avrebbe potuto argomentarla un poco
di più ed
evitare di utilizzare dei termini tanto fraintendibili. Non era sua
intenzione
definire Anthony un “problema da risolvere”, a
dirla tutta non è sua intenzione
dare a nessuno un’etichetta del genere.
-No,
non è questo che volevo
dire.
Esclama
prontamente, con il
tentativo di riparare in qualche modo.
-Ma
l’hai detto.
Tentativo
del tutto vano. Il tono
di voce di Anthony è sempre tranquillo ma meno cordiale,
rispetto a poco prima.
Kyle non sa come uscire da quella situazione ed inizia a pentirsi di
aver dato quell’appuntamento
ad Anthony, di essere così impreparato e così
insicuro. Ogni sua parola ha
l’effetto di una mina lanciata in un campo aperto: pronta ad
essere calpestata,
pronta ad esplodere.
-Forse
non è stata una buona
idea, venire qui.
Esordisce
quindi Anthony,
leggendo in parte il pensiero di Kyle. É visibilmente deluso
e il suo
atteggiamento è cambiato, in peggio. Si alza dalla sedia e
si allontana, Kyle
lo segue.
Non
aveva un piano, è vero,
tuttavia di certo non doveva andare così.
-Anthony,
aspetta.
Lo
chiama, sperando che questi si
giri e lo fa, solo ci impiega qualche secondo. È probabile
che fosse
intenzionato ad andarsene, a tirare dritto, ignorando la voce di Kyle.
-A
che proposito mi hai fatto
venire qui, se non avevi nulla da dirmi?
Kyle
non risponde, non sa davvero
cosa dire.
-Avresti
potuto continuare ad
ignorarmi, davvero, non mi avrebbe dato fastidio. Dopotutto non
frequentiamo
nemmeno più la stessa scuola, non avresti neanche dovuto
evitarmi nei corridoi
o fare finta di non vedermi fuori da scuola. Mente così
è stato solo… crudele,
lasciatelo dire.
Kyle
osserva Anthony, la
discussione ha preso decisamente una brutta piega e nella sua mente non
esiste
o meglio, non riesce a concretizzarsi, una risposta o una frase in
grado di
placare la situazione, di riportala in uno stato neutro in modo di
poterla ricominciare
e plasmarla nella maniera più adeguata. Per cui,
poiché è risaputo che le
parole contino più dei fatti, benché rischi di
risultare patetico, scontato o
banale, riduce la distanza tra Anthony e sè e, con non poca
difficoltà data la
loro notevole differenza di statura, si avvicina al suo viso, alla sua
bocca e alle
sue labbra rubandogli un bacio, un bacio puramente adolescenziale, un
bacio
acerbo ma non per questo poco piacevole. Kyle tiene gli occhi socchiusi
un po’
perché crede che l’etichetta in quei casi lo
richieda e un po’ perché teme in
una reazione brusca da parte di Anthony.
Il
bacio dura non
più di una decina di secondi, benché a
Kyle sembrino molti di più. Ai termine dei quali riapre gli
occhi, cercando solo
gradualmente lo sguardo di Anthony.
-Le
parole non sono il mio forte,
sono un artista è vero ma della tela per cui…
Kyle
viene interrotto, questa
volta è Anthony a baciarlo. Lo afferra con un solo braccio
per un fianco e lo
porta contro il suo petto lasciandosi andare in un bacio molto
più intenso
rispetto al precedente, molto più deciso al quale senza
dubbio non è necessario
aggiungere alcuna parola.
***
-Le
do una B, le va bene?
Christian
sta chiudendo l’ultima
interrogazione della giornata, l’ultimo giorno della sessione
di esami estiva.
Ha sempre odiato quella particolare sessione, anche quando era lui a
trovarsi
dalla parte opposta della cattedra. Il ragazzo che ha appena
interrogato era
piuttosto pronto ma non al punto di meritarsi il massimo dei voti.
Firmando
il libretto dello
studente che chiaramente ha deciso di accettare il voto, si chiede se
la sua
scala di valutazione non sia cambiata nel corso degli anni. Si ricorda
che
quando ha iniziato a lavorare come professore associato gli
è capitato più
volte di voler dare delle A+ mentre da qualche tempo a questa
parte gli capita
molto di rado.
Ad
ogni modo, dopo aver stretto
la mano e salutato il suo ultimo esaminando, chiude finalmente il
registro e
raccoglie la sua valigetta. Fa parecchio caldo quel giorno e non vede
l’ora di
andare a casa farsi una bella doccia, soprattutto perché
è uscito molto presto
quella mattina, dovendo iniziare l’appello alle 8.30. La
stanchezza inizia a
farsi sentire e comincia a pensare che essere rimasto alzato fino alle
tre del
mattino per sistemare la casa possa non essere stata una gran mossa.
D’altro
canto non sarebbe riuscito a dormire comunque. Teme di non aver ancora
assimilato la massiccia dose di eventi che gli si sono scaraventati
addosso,
negli ultimi tre giorni. Eventi ai quali non alcuna intenzione di
pensare per
quanto possa risultargli difficile.
Chiude
la porta della sua saletta
di ricevimento e mette la chiave in tasca, sperando di ricordarsi di
lasciarla
in portineria. Gli è successo più volte di
dimenticarla in tasca, di
accorgersene solo a casa per poi dimenticarsela sul mobiletto del
telefono e
dover fare due volte il tragitto casa-università, per andare
a riprendersela.
-Hai
finito anche tu adesso?
Anche
Ronald esce dalla sua
saletta e lo raggiunge.
-Sì,
l’ultimo esame! Sono
ufficialmente libero fino a settembre!
Ronald
sorride.
-Beato
te! Io avevo così tanti
iscritti a questo appello che temo non riuscirò a finire
prima della fine della
prossima settimana.
Commenta,
con rammarico.
-Beh,
buona fortuna!
Ribatte
Christian, cercando di
mostrarsi più spensierato possibile.
-Già…
I
due percorrono il corridoio che
porta alla scala principale dell’università, in
completo silenzio.
-Mi
dispiace davvero per tuo
padre.
Esordisce
Ronald, sorprendendo
Christian.
-Ti
ringrazio.
Ronald
appoggia una mano sulla
spalla di Christian e si ferma, facendo si anche lui si fermi a sua
volta.
-So
di avertelo già detto ma,
proprio in questo momento, vorrei ricordarti che se ti va’ di
parlare, di bere
un caffè o chissà cos’altro io sono
sempre disponibile, ok?
Christian
annuisce. I due
proseguono il loro tragitto, avvolti nel silenzio interrotto solo
appena fuori
dall’entrata principale da Christian.
-Sai,
mi andrebbe proprio un
caffè.
Ronald
è sorpreso dalla richiesta
di Christian ma non per questo si dimostra dispiaciuto né
rifiuta. Al contrario
gli sorride e gli indica un posto nel quale solitamente si concede una
sosta,
uscendo o entrando in università.
-Quindi
è venuto anche lui.
Commenta
Ronald, dopo aver
ascoltato il discorso di Christian, relativo alle giornate precedenti,
al
funerale di suo padre.
-Sì
e credo che sia stata davvero
la cosa giusta da fare, me l’aspettavo da lui.
Confessa
Christian, che non ha
ancora terminato il suo caffè poiché troppo
intento a giocherellare con il
cucchiaino.
-In
che senso “te l’aspettavi”?
Ronald
non conosce, certamente,
Jonathan come lo conosce Christian.
-La
verità è che volevo aspettarmelo.
La
frase mal formulata di
Christian è decisamente poco chiara a Ronald che gli rivolge
un’occhiata di
sconcerto, aspettandosi una spiegazione più chiara.
-Il
Jonathan che conosco e che ho
sempre amato sarebbe venuto. Se anche solo una parte di quella persona
fosse
rimasta nell’uomo che è diventato ora
l’avrebbe di certo spinto a venire,
ignorando i trascorsi, mettendo in pausa tutta questa snervante e
dolorosa
situazione.
Spiega
quindi Christian. Una
spiegazione più che esaudiente, per Ronald.
-Quindi
sei sulla buona strada
per sistemare la faccenda?
Ronald
cerca di non darlo troppo
a vedere e di non utilizzare parole che facciano a capire a Christian
il suo
desiderio di veder chiusa per sempre la sua relazione con Jonathan.
Nonostante
ne abbiano già parlato e, nonostante ci sia stata quella
situazione spiacevole
non molto tempo prima, continua a nutrire un forte sentimento per
Christian.
Non ripeterebbe però il suo gesto avventato e di certo se ne
guarda bene dal
fare di nuovo la prima mossa, è infatti disposto a farla
solo di fronte ad una
situazione certa e stabile. Essere oggetto della violenza di Jonathan
non è
stato affatto piacevole e non ha alcun interesse nel rivivere
l’esperienza.
-No.
Commenta
secco Christian. La sua
risposta è franca ma non per questo priva di emozione.
-Sai,
ho letto l’altro giorno
forse su Facebook o su qualche altro diavolo di social network, una
frase che
mi ha colpito e, in un certo senso, che ben ricalca ciò che
sento al momento.
Non starò a ripeterla, perché potrei non
ricordarmi esattamente le parole, solo
parlava dell’ipotesi di gettare qualcosa per terra e di
romperla. Una volta
gettata questa cosa per terra suggeriva di provare a chiederle scusa ma
chiaramente la cosa rotta sarebbe rimasta comunque rotta, nonostante le
si
abbia chiesto scusa.
La
risposta di Christian ha
colpito Ronald, specialmente per il modo nella quale l’ha
pronunciata: con
chiaro trasporto emotivo e con interesse, interesse che lo capisse.
Ronald non
risponde, è ancora Christian a parlare, per completare o
forse giustificare
quanto ha appena detto.
-Mai
avrei pensato di prendere in
considerazione una frase proveniente dal web, dove di solito si trova
solo
qualche citazione mal scritta e mal di interpretata di Wilde, Bukowski
o
qualsiasi altro mostro della letteratura sia in voga nel periodo.
Solo… questa
cosa in particolare mi è rimasta impressa e mi ha fatto
riflettere, forse più
di quanto avrebbe fatto un discorso più ragionato e con
delle metafore più
complesse e ricercate.
Fa
una piccola pausa, durante la
quale beve tutto d’un sorso ciò che rimane del suo
caffè, divenuto ormai freddo
e quasi imbevibile. La pausa tuttavia non è lunga abbastanza
da permettere a
Ronald di intervenire o forse semplicemente ha preferito lasciare di
nuovo la
parola a Christian.
-Jonathan
non mi ha chiesto
affatto scusa. Forse non è nemmeno il caso che lo faccia ma
se anche fosse, non
servirebbe a nulla. Così come cercare di porre una qualsiasi
pezza sul nostro
rapporto. Non reggerebbe, finirebbe per bucarsi a sua volta.
Questa
volta Ronald interviene,
sicuro che ciò che dirà di lì a breve
sarà in grado di colpire Christian.
-Con
la bocca e probabilmente con
il cervello dici di essere certo che non vi sia rimedio e ti credo
ma… allora
perché non sei pronto a lasciarlo andare? Perché
non hai mai compilato i
documenti per la separazione che da tempo hai chiuso in
chissà quale cassetto
della scrivania?
Christian
che fino ad ora non
aveva chiuso bocca un attimo, che era riuscito a sostenere una tesi e a
mostrarsi quanto più fermo e deciso potesse essere, inizia a
vacillare. Non è
in grado di rispondere a quella domanda provocatoria o forse,
più
semplicemente, non ne ha la forza.
***
Kyle
rientra a casa solo alle
sei. L’incontro con Anthony l’ha sorpreso, le
reazioni che lui stesso ha
provato l’hanno sorpreso.
Prima
di entrare nella portineria
del palazzo di casa si ferma per rivivere ancora un attimo quel suo
piccolo ma
importante atto di coraggio, che gli ha permesso finalmente di
risolvere quella
situazione dubbiosa che aveva con Anthony. Si sente come un ragazzino a
fantasticare sul ricordo di una cosa simile e arrossisce quasi senza
controllo.
Sì,
lui ha solo sedici anni ed è
per definizione un ragazzino. È quindi giusto che viva
questo tipo di esperienze,
che si senta in questo modo,
che si
senta leggero e felice e che non riesca e non voglia pensare ad altro.
Il
punto è che per la prima volta
si sente perfettamente nel “personaggio”, nel
sedicenne alle prime esperienze
d’amore che vive con impaccio ma anche con il cuore in gola,
la situazione del
suo primo vero bacio dato con il cuore. Non essendosi mai trovato in
una
situazione del genere e avendo vissuto, specialmente negli ultimi mesi,
con
sulle spalle molti più anni di quanti effettivamente ne
abbia, si era quasi
convinto che certe cose adolescenziali esistessero soltanto sullo
schermo e che
fosse quindi normale che non gli capitasse nulla di simile.
È più che felice
nel potersi ricredere.
Dopo
essersi calmato, dopo essere
riuscito a scendere da quel mondo dei sogni nel quale libbra da qualche
ora,
sale le scale per arrivare nel suo appartamento. Di certo il realismo
prorompente che aleggia in casa l’avrebbe in ogni caso
riportato con i piedi
per terra, ha però preferito mettere da parte
volontariamente quel suo piccolo
angolo felice, per poi essere in grado di riportarlo alla luce e di
riportarlo
alla memoria, non appena le situazioni saranno tornate ad essere
pesanti ed
insostenibili.
Nota,
abbassando la maniglia
della porta d’ingresso, che Christian è
già tornato a casa. Entra
nell’appartamento e lo trova in accappatoio, appena uscito
dalla doccia. Non
deve essere rincasato da molto.
-Kyle!
Mi stavo giusto chiedendo
che fine avessi fatto.
Kyle
sta sorridendo, un riflesso
involontario del quale si accorge solo osservando con la coda
dell’occhio il
suo riflesso nello specchio sopra al mobile del telefono.
-Ero…
Si
blocca. Stava per raccontare a
Christian tutta la verità ma qualcosa dentro di
sé l’ha spinto a fermarsi, a
chiedersi se sia il caso di farlo. Non vuole mentire a Christian, fin
troppe
bugie sono state dette in quella casa, eppure non è sicuro
di voler condividere
con lui ciò che ha appena vissuto.
-Eri?
Domanda
Christian, chiaramente
insospettito da quella sua frase lasciata a metà.
-Ero
a sgranchirmi le gambe qui,
attorno all’isolato. Sai, ero stanco di rimanere e in casa.
Risponde,
con una fermezza della
quale lui stesso rimane sorpreso. Non è mai stato bravo a
raccontare bugie
eppure, in questa situazione, se
fosse
stato nei panni di Christian avrebbe creduto alle sue parole.
-Oh,
hai fatto bene allora.
Risponde
Christian, dirigendosi
verso la sua camera da letto. Kyle fa un sospiro di sollievo,
dopodiché la
vibrazione del suo cellulare, tenuto nella tasca posteriore dei
bermuda, lo fa
sobbalzare. Afferra il telefono e si tratta proprio di un messaggio di
Anthony.
“Non riesco a dimenticare oggi
pomeriggio. Promettimi che non sarà solo
un episodio isolato.”
Kyle
sorride e si precipita a
rispondere.
“Te lo prometto. Possiamo vederci,
domani?”
Compone
rapidamente il messaggio,
quasi tema che le parole gli sfuggano dalla testa, se facesse
diversamente.
-Tutto
bene?
Chiede
Christian. Si è appena vestito
ed comparso proprio in quell’istante sulla porta della stanza
da letto. Kyle si
affretta a chiudere la discussione con Anthony e, cercando di non
sorridere
troppo, risponde.
-Sì,
benissimo.
Christian
non indaga oltre e Kyle
è ben felice di essere riuscito a tenere per sé
quell’attimo di felicità. Ha
paura forse che parlandone con Christian e introducendo
l’argomento in casa, questi
potrebbe guastarsi e trasformarsi in qualcosa di spiacevole e, davvero,
non
potrebbe sopportare che ciò accadesse.
--->Eccomi
di nuovo qua! Non sembra vero neanche a me ma ci sono e più
carica che mai! Posto eccezionalmente DUE volte questa settimana per
farvi sapere che questa volta non vi libererete di me :D "I'm here to
stay", croce sul cuore. Dunque ho visto di aver ricevuto comunque un
alto numero di letture nonostante il capitolo precedente l'abbia
pubblicato più di un anno fa. GRAZIE!
Grazie
anche al commento di Kae_dark
angel. Sì. l'episodio precedente è
stato statico in questo invece Kyle FINALMENTE si è deciso.
Ora tocca a Jonathan e Chris ti assicuro che definire anche solo
"tempesta" ciò che accadrà a loro dai prossimi
capitoli in avanti è davvero riduttivo ;)
Dunque
chiudo con due comunicazioni GENERALI:
1.
Posterò una volta a settimana il SABATO. Sì,
posterò ogni sabato in una fascia oraria compresa tra le 14
e le 16. Non predendete impegni, eh? ;)
2.
Ho creato un SITO della mia storia e sto pian piano sto modificando e
riadattando i primi capitoli. Infatti se andrete a riaprire i primi
capitoli (i primi quattro al momento) troverete il link. Ovviamente il
sito non comprende solo quello. Vi troverete anche dei contenuti
speciali: curiosità, schede dei personaggi (vedrete i
prestanome che ho scelto per i miei personaggi!!) informazioni,
approfondimenti e da APRILE il prequel del quale vi ho
già parlato nel commento all'episodio precedente.
Al
momento non c'è granché per i lettori
più navigati ma se volete iniziare dare un'occhiata e magari
rinfrescarvi la memoria con i primi capitoli, ecco a voi:
APRIMI, SONO BELLO!
Molto
presto diventerà ricchissimo, ve lo posso giurare.
Bene,
ho finito (per fortuna) per oggi. Ci vediamo sabato prossimo, a
presto!! <.---
|
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Capitolo 38 *** Changing Habits (Cambiare abitudini) ***
38. Changing habits (Cambiando Abitudini)
-Buongiorno!
Esordisce
Kyle, uscendo dalla sua
stanza da letto e notando che Christian è ancora seduto al
tavolo da pranzo, a
fare colazione.
Sono
da poco passate le dieci ed
è parecchio strano che Christian non sia già
impegnato a lavare qualcosa o a
spolverare qualche suppellettile. È ancora in pigiama e
sorseggia la sua tazza
di caffelatte.
-Ehi!
Risponde
Christian sorridendogli.
Sembra essere tranquillo. Kyle si siede vicino a lui al tavolo da
pranzo e lo
osserva.
-Ho
qualcosa che non va?
Domanda
Christian accorgendosi
della sua inquietante insistenza.
-Scommetto
che questo è il tuo
primo giorno di ferie!
Esclama
Kyle con entusiasmo.
-Da
cosa l’hai capito?
Domanda,
terminando la sua
bevanda e asciugandosi poi gli angoli della bocca con un tovagliolo,
che è
solito appoggiare sotto le tazze della colazione per far sì
che non restino dei
segni sul tavolo.
-Dal
fatto che siano le dieci e
tu te ne stia ancora beato a far nulla!
Ribatte
Kyle, che fin troppo bene
conosce le abitudini del padre.
-Beh,
è quello che fanno le
persone in ferie, no?
Domanda.
Si alza e afferra tazza
e tovagliolo, per poi dirigersi in cucina e preparare la colazione per
Kyle.
-Sì
ma tu lo fai soltanto il
primo giorno, la prima mattina. Già dal pomeriggio inizi a
trasformarti in un
nazista delle pulizie!
Prosegue
Kyle.
-Esagerato!
Ribatte
Christian dalla cucina.
Kyle si alza e lo raggiunge. Sta già lavando la sua tazza
della colazione e, a
giudicare dalla direzione del suo sguardo, il prossimo oggetto della
sua
pulizia sarà il pensile nel quale di solito vengono riposte le stoviglie
ad asciugare.
-Oh
sì è proprio sporchissimo, io
lo laverei!
Esclama
Kyle, prendendolo
affettuosamente in giro e avvicinandosi a lui. Gli indica un punto
preciso, che
in realtà non è per nulla sporco, invitandolo a
pulirlo. Christian rimane
sorpreso da questo suo ritrovato atteggiamento scherzoso e, per
ribattere, gli
dà un buffetto sulla nuca.
-Che
impertinente!
Commenta
poi sorridendo. Kyle si
sente di buon umore quel giorno, non può fare a meno che
scherzare, ridere e
giocare. Christian se ne accorge e la cosa lo fa sentire davvero
felice.
Finalmente dopo così tanti mesi è tornato a
riemergere il vero Kyle: chiassoso,
spontaneo e con quella voglia di scherzare sempre, di non prendere mai
le cose
sul serio fino in fondo.
-Cosa
vuoi per colazione?
Domanda
Christian, senza smettere
di osservarlo. Non vuole perdersi nemmeno per un attimo la scintilla di
spensieratezza che arde nei suoi occhi quel giorno.
-Uhm…
pancakes!
Risponde
Kyle, pensandoci un po’
prima.
-Pancakes?
Vuoi veramente che mi
metta a fare i pancakes alle dieci e mezza del mattino?
Kyle
annuisce e sorride,
dopodiché osserva Christian sbattendo le ciglia, in modo
volutamente esagerato.
Ha voglia di leggerezza quella mattina ed è certo che
farà bene anche a
Christian.
-Sì,
ho capito. Dai, va’ a
sederti.
Kyle
va’ a sedersi al tavolo da
pranzo e Christian lo raggiunge solo dieci minuti dopo, recando con
sé un
piatto contenente una pila di almeno una decina di pancakes.
-Ti
bastano?
Gli
chiede compiaciuto, non
appena lo vede strabuzzare gli occhi.
-Ma
sono tantissimi!
Ribatte
lui, già pronto ad
assaporarli.
-Sì
e devi mangiarli tutti,
adesso.
Risponde
Christian, sedendosi
vicino a lui. Kyle si sfrega le mani come gesto propiziatorio,
dopodiché
comincia a mangiare, con rapidità e con gusto. Christian
rimane ad osservarlo
in silenzio, si sente quasi incantato. Si chiede cosa possa essergli
successo
di recente per averlo reso così spensierato. Il fatto di
vederlo tanto sereno
lo tranquillizza, durante gli ultimi sei mesi ha temuto che il buon
umore e il
carattere vivace di Kyle sarebbero spariti per sempre. Aveva avuto il
sospetto
e il timore di aver spento troppo presto la fiamma della sua
adolescenza, di
averlo involontariamente gettato in situazioni per le quali non era e
non doveva
essere pronto.
Kyle
si accorge solo dopo qualche
istante dei suoi sguardi e, ancora con le guance piene di pancake, si
blocca
per rivolgergli la parola.
-Che
c’è?
Chiede,
in modo buffo e in
maniera quasi incomprensibile.
-Mi
è mancato davvero questo lato
di te.
Risponde
Christian con dolcezza.
Kyle deglutisce e gli indirizza uno sguardo confuso.
-A
cosa ti riferisci?
Christian
si permette di
scrutarlo ancora un attimo, di guardarlo per bene negli occhi, prima di
motivare la sua affermazione.
-Ti
vedo contento, davvero
contento.
Kyle
si blocca. Non ci aveva
riflettuto ma probabilmente il suo atteggiamento, una volta considerato
normale, deve essere risultato insolito a Christian. Non crede
sarà in grado di
tenergli nascosta la sua appena nata relazione con Anthony,
né il loro
incontro, né tutto il resto. È troppo agitato e
troppo eccitato per tenere un
comportamento contenuto, troppo euforico per essere in grado di serbare
per sé
quel segreto.
-Deve
essere l’estate! Sai che
adoro l’estate! Sono nato a luglio dopotutto, sono un segno
di fuoco io!
Christian
scuote il capo.
-Sei
del cancro, il cancro è un
segno d’acqua…
Kyle
fa spallucce.
-Meglio
ancora! Io sono come il
mare, come la marea che travolge…
Christian
lo ferma.
-Va
bene, va bene, ho capito!
Kyle
torna a finire i suoi
pancakes. Christian si alza e mette a posto la sedia. Sono quasi le
undici e
in effetti non ha ancora fatto nulla, come Kyle gli ha fatto notare
poco
prima. Essendo luglio la giornata è molto calda, troppo.
Generalmente
il weekend
successivo alla fine della sessione estiva era intento a preparare le
valigie,
pronto a partire per le vacanze. Le destinazioni erano Santa Monica o
la
montagna, negli ultimi anni. Pensa che, comunque, una vacanza lui e
Kyle
soltanto non sarebbe una cattiva idea.
-Ti
andrebbe di andare da qualche
parte?
Chiede,
improvvisamente.
-In
che senso?
Chiede
Kyle, che nel frattempo a
finito tutti i suoi pancakes e si sta stiracchiando sulla
sedia.
-Una
vacanza.
Risponde
prontamente Christian.
-
Di nuovo?
Domanda
Kyle, non nascondendo un
nota di sconcerto.
-Sì,
siamo stati a Santa Monica
ma non è stata esattamente una vacanza. Pensavo di andare da
qualche altra
parte, in montagna o all’estero. Non c’è
poi molto da fare a New York in questo
periodo e l’afa è davvero insopportabile.
Risponde
Christian, con sempre
più convinzione.
-Oh…
va bene! Solo promettimi che
andremo in aereo e non in macchina!
Esclama,
ricordando quasi con
orrore l’ultimo loro viaggio in auto da costa a costa. Di
certo
era stata un’esperienza piacevole, dal punto di
vista emotivo. Avevano trascorso
quelle
ore a stretto contatto l’uno con l’altro, avevano
parlato molto e Christian era
riuscito a rivelargli delle verità alle quali era sempre
stato tenuto
all’oscuro. Tuttavia è stato stancante, in maniera
innecessaria.
-Oh,
dai! Non è stato poi tanto
male quel viaggio.
Ribatte
Christian, in sua difesa.
-“Non
è stato tanto male”?
Abbiamo passato una notte in un motel dell’orrore, neanche
fossimo due
ricercati! Ho tenuto l’orecchio teso tutto il tempo per la
paura di sentire
qualche sparo o di essere coinvolto in una rissa!
Christian
scoppia a ridere.
-Sei
sempre il solito esagerato!
Si
sporge verso il tavolo per
raccogliere piatto, posate e tovagliolo utilizzati da Kyle.
-Comunque,
per correttezza,
dovresti chiederlo anche a Jonathan. Magari anche lui ha in programma
qualcosa
da fare con te…
Aggiunge,
cercando di mostrarsi
in modo più neutrale possibile.
-Beh,
potrei sempre farmi due
vacanze! Non sarebbe tanto male!
Christian
rimane sorpreso da come
Kyle abbia preso la cosa con filosofia, deve essergli successo qualcosa
di
veramente speciale. È certo che se avessero sostenuto la
medesima conversazione
qualche giorno prima non si sarebbe mostrato tanto disponibile.
-Giusto!
Ora che mi ci fai
pensare ha telefonato ieri mattina, Jonathan. Cercava te.
Christian,
sulla soglia della
cucina, si blocca.
-Oh…
Non
riesce a dire altro.
-Sì,
scusami, me ne sono
dimenticato.
Ribatte
Kyle, un po’ dispiaciuto.
Christian continua a fare ciò che stava facendo, cercando di
non mostrarsi
sorpreso o scosso. Appoggia le stoviglie sporche nel lavandino ma non
apre
subito il subito il rubinetto dell’acqua.
-Ti
ha detto per caso cosa avesse
bisogno?
Chiede.
-Uhm…
no. Abbiamo finito per chiacchierare
e basta.
Risponde
Kyle.
Christian
apre finalmente il
rubinetto. Si appoggia al lavello, iniziando a chiedersi che cosa
volesse
ancora Jonathan da lui. L’ultimo loro accomiato era stato
tutt’al più
disastroso e davvero non riesce a capire con quale forza e soprattutto
con
quale coraggio desideri parlargli di nuovo. Dopo così poco
tempo, oltretutto.
Respira
profondamente, dopodiché
afferra detersivo e spugna ed inizia a lavare le stoviglie, cercando di
concentrarsi esclusivamente su di esse.
-Forse
dovresti telefonargli tu…
Commenta
Kyle apparendo in quel
momento in cucina e cogliendo Christian di sorpresa.
-C’è
un motivo particolare?
Chiede
Christian senza girarsi,
continuando a fare con fermezza ciò che sta facendo. Kyle
esista nella sua
risposta.
-No.
Solo… non ha voluto dirmi di
cosa si trattasse, forse è qualcosa di cui ha bisogno di
parlare solo con te.
Ribatte
il ragazzo. La sua
risposta è titubante, insicura, quasi si fosse sentito
accusato dalla domanda
di Christian.
-Va
bene.
Conclude
Christian, non sapendo
cos’altro dire e non volendo promettergli di farla davvero,
quella telefonata.
Quel
pomeriggio Kyle ha
intenzione di uscire con Anthony. Dovrebbero trovarsi di nuovo davanti
a quel
vecchio cinema, che essendo poco frequentato dà a loro la
certezza di potervi
sostare in libertà, senza il pericolo di incappare in occhi
indiscreti ai quali
dover spiegare e motivare qualsiasi cosa accada.
Sono
da poco passate le tre e
Kyle è già pronto per uscire, si è
cambiato. Non sa per quale motivo ha
ritenuto che una semplice canotta a coste e un paio di bermuda di
cotone non
andassero bene. Ha ritenuto una scelta migliore una t-shirt e dei jeans
a tre
quarti. Dopo essersi cambiato, però, teme che Christian
sospetti qualcosa.
Si
siede un secondo sul letto a
pensare, prima di uscire dalla sua stanza. Inizia ad immaginare quali
possano
essere i motivi per i quali una persona, un ragazzo, debba cambiarsi
d’abito a
metà pomeriggio. Motivi che non includano incontri con
ragazze o ragazzi, s’intende.
Non
gli viene in mente nulla.
Tuttavia
è troppo tardi perché
riesca a pensare ad una soluzione. Potrebbe portarsi uno zainetto nel
quale
infilare i vesti che ha indosso, uscendo con ciò che si
è appena tolto. La
trova comunque un’idea stupida, dal momento che uno zaino
darebbe di sicuro
nell’occhio.
Sospira
e con rassegnazione si
prepara ad uscire, sperando di trovare una scusa nel caso Christian
mostrasse
qualche sospetto.
-Io
esco!
Esclama.
Avvicinandosi
rapidamente alla porta d’ingresso. Non vi è alcuna
risposta e la cosa lo
preoccupa.
-Chris?
Ho detto che esco.
Ancora
nessuna risposta. Riesce
poi a scorgere un’ombra sul balcone, la cui porta
è solo avvicinata e non
chiusa. Si avvicina e la apre, sicuro di trovarlo lì.
Dopotutto l’appartamento non
è molto grande e non ci sono poi troppi posti nei quali
nascondersi.
-Chris,
ti ho chiamato due volte.
Esclama,
vedendolo seduto sul
pavimento con un libro tra le mani. Indossa gli occhiali da sole e un
paio di
shorts. Apparentemente si sta abbronzando.
-Oh
scusa, ero sovrappensiero.
Commenta.
-Cosa
ci fai qui fuori?
Chiede
Kyle con tono preoccupato.
Non crede di aver mai visto Christian seduto sul bacone a prendere il
sole .
Pensandoci bene, in casa nessuno ha mai usufruito del balcone che
comunque è
piuttosto piccolo, stretto e ben poco comodo.
-Prendo
il sole.
Ribatte
Christian, quasi si
trattasse della cosa più normale del mondo, quasi fosse una
delle sue
abitudini.
-Non
l’hai mai fatto.
Risponde
Kyle.
-C’è
sempre una prima volta, no?
Kyle
è bloccato, non sa davvero
come controbattere. La fermezza di Christian gli crea il sospetto di
essere lui
quello in errore, di essere lui l’unico a vedere nel gesto di
suo padre
qualcosa di incredibilmente sbagliato e assurdo.
-Credevo
di trovarti sul tappeto
in cucina con spazzolino e sapone a pulire l’argenteria della
credenza.
Christian
sorride. Kyle continua
a non capire.
-A
tutti piace fare qualcosa di
nuovo ogni tanto, qualcosa che magari gli altri vedono strano. Come in
questo
momento io trovo strano che alle porte di agosto tu abbia deciso di
indossare
dei jeans.
Kyle
si blocca. Si era
dimenticato dei dubbi relativi al proprio cambio d’abito, la
verità è che il
comportamento di Christian l’ha sconvolto al punto da non
farci più caso.
-Sai, siamo a New
York.
Questo
è tutto ciò che riesce a
dire e, di certo, non è sufficiente.
-Sì,
lo so. E allora?
Kyle
sorride, sperando in quel
modo di chiudere la discussione.
-Non
ti facevo una “fashion
victim”.
Commenta
Christian, tornando a rivolgere
l’attenzione verso il suo libro.
-Non
lo sono! Sto uscendo a fare
quattro passi e a New York ti guardano male se giri
con la canotta e i
pantaloni della tuta!
Christian
trattiene a stento una
risata.
-Avresti
dovuto accorgertene
quella volta in cui siamo andati a mangiare giapponese e hai indossato
la divisa
arancione di Goku.
Kyle
si era dimenticato di quel
particolare e, in effetti, se ne vergogna. Soprattutto
perché si tratta di un
episodio relativamente recente.
-Beh…
è stato qualche anno fa.
-L’anno
scorso.
Commenta
Christian, con rapidità,
sempre senza staccare gli occhi dal suo libro.
-Comunque
vado, ci vediamo per
cena.
Taglia
corto Kyle, non essendo
più intenzionato a seguire quella discussione. Dopo essere
uscito, dopo aver
chiuso la porta, Christian sospira profondamente, un sospiro lungo e
carico di
apprensione.
Si
sfila gli occhiali e li
appoggia accanto a sé, alla sua sinistra. Questo
perché la sua destra, la parte
più prossima al muro, è già occupata
dal cellulare, fisso in quella posizione
da quasi un’ora. Si è messo fuori, sul balcone,
perché non voleva che Kyle sentisse
la telefonata che avrebbe voluto fare
a
Jonathan e che poi, forse per codardia, forse per evitarsi
l’ennesima sofferenza,
ha deciso di rimandare.
Il
libro che ha posato sulle
gambe è stato semplicemente una scusa, non l’ha
letto veramente. Si tratta del
primo che gli sia balzato all’occhio, uscendo. Passa
rapidamente una mano tra i
capelli, un gesto nervoso, quasi convulsivo e dà un rapido
sguardo al
cellulare.
Non
crede che Jonathan avesse
seriamente bisogno di lui il giorno precedente, dal momento che non ha
trovato
nessun messaggio e nessuna chiamata. Se fosse stato urgente avrebbe
insistito.
Perlomeno è quello che avrebbe fatto lui. Non ritiene dunque
che sia il caso di
telefonargli, benché nel suo profondo sia curioso ed
è certo che non si darà
pace finché quella telefonata non avrà luogo.
Colto
da un’improvvisa ondata di
coraggio afferra il cellulare e compone il numero, neanche
c’è bisogno di
dirlo, a memoria. Subito dopo aver premuto il tasto
“chiama” vorrebbe non
averlo fatto ma non sa bene come riesce ad ignorare quella voce
vigliacca e
debole nella sua testa, che lo invita a riattaccare. Il telefono fa
diversi squilli,
prima che Jonathan risponda.
-Pronto?
Christian
esita. Chiude gli
occhi, prende fiato. Fa il possibile per mantenere lo stesso tono
freddo e
imparziale che ha avuto nel momento in cui, a Santa Monica,
l’aveva invitato a
prendere il primo volo diretto a New York e di andarsene.
-Kyle
mi ha detto che mi hai
cercato.
Schietto
e dritto al punto. Non
era il caso di girarci attorno e ormai non c’è
più spazio e non c’è più
tempo
per le frasi di circostanza, per le frasi di rito.
-Sì…
però al momento sono occupato.
Risponde
Jonathan, con tono
incerto.
-Sei
con qualcuno?
La
domanda di Christian è
volutamente provocatoria e supponente.
-Sono
con un paziente.
Christian
si blocca. In effetti
non aveva pensato che Jonathan potesse essere ancora al lavoro. Ha
sempre
chiuso lo studio a luglio, allo scopo di partire per le vacanze. Il
fatto che
non vi sia in progetto alcuna vacanza, non con lui perlomeno, fa
sì che non
abbia bisogno di chiudere lo studio, né di smettere di
prendere appuntamenti
fin tanto che lo riterà necessario.
-Ti
richiamo non appena mi
libero. Va bene?
Propone
subito Jonathan, in tono
frettoloso.
-Va
bene.
Ribatte
Christian, riattaccando.
Passa poco più di un’ora prima che Jonathan
richiami Christian e quest’ultimo,
vedendo il suo nome comparire sullo schermo, ha per un istante
l’istinto di non
rispondergli. Sarebbe solo un gesto infantile, stupido e del tutto
senza senso,
dal momento che è stata sua l’ultima telefonata e
che, così facendo, non
risolverebbe proprio nulla e continuerebbe a torturarsi con ipotesi e
teorie
più improbabili.
-Allora?
Chiede
con bruschezza, subito
dopo aver aperto la telefonata.
-Allora,
non posso parlarti per
telefono.
Risponde
Jonathan, per nulla
sorpreso dai toni franchi di Christian.
-Se
le cose stanno così, per quale
diavolo di motivo mi hai telefonato ieri mattina? Dicendo a Kyle di
cercare
proprio me, per dipiù.
-Non
lo so…
L’ultima
incerta risposta di
Jonathan infastidisce Christian che però fa il possibile per
calmarsi e
mantenere il controllo.
-Abbiamo
già perso abbastanza
tempo, Jonathan. Per cui se davvero non hai null’altro da
dirmi io direi che
sia il caso di riattaccare.
-No.
Il
“no” di Jonathan risuona
fastidioso nell’orecchio di Christian. Fastidioso e
preoccupante.
-Ho
detto che non si tratta di
qualcosa della quale posso discutere via telefono, non ho detto di non
avere
nulla da dirti.
-Oh…
e cosa ci sarebbe di così
importante, da non essere adattabile ad una telefonata?
Christian
inizia a lasciar
trasparire il suo senso di fastidio e di irritazione. Jonathan, al
contrario,
sembra molto pacato.
-Domani
chiuderò lo studio, per
le ferie. Se non hai degli impegni potrei passare nel pomeriggio.
Christian
vorrebbe dire di no,
vorrebbe rifiutarsi. Tuttavia sente che rimanderebbe soltanto,
poiché qualsiasi
cosa Jonathan voglia dirgli, cascasse il mondo, gliela dirà.
È sempre stato
così, è nel suo carattere, nella sua natura.
-È
proprio necessario?
Tenta,
ancora una volta.
-Sì.
La
fermezza di Jonathan preoccupa
Christian che non può far altro se non acconsentire.
-E
domani sia.
--->
Ciaooo! Allora, avete dato uno sguardo al sito :) ? NOOOO Che aspettate?
ECCOLO
Proprio
ieri sera ho completato le modifiche più "grandi" e ho
inserito le schede con il contenuto dei cassetti dei personaggi. I link
sono ancora tutti da aggiungere ma i presta volto ci sono. Andate a
dare un'occhiata e magari lasciatemi qui un parere. Voglio sapere se vi
soddisfano, se li immaginavate diversi e magari chi avreste scelto al
posto loro. Ci tengo, eh ;)
Comunque,
due parole sull'episodio che
avete appena letto. Devo ammettere che non mi convince fino in fondo.
Non tanto quello che accade, perché è il solito
"preambolo" a qualcosa di MOLTO grande (eh già....)
più che altro ho avuto problemi con lo stile e la forma.
L'ho letto tre volte e
tre volte l'ho modificato. Sono sicura che se lo riaprissi aggiungerei
altre modifiche. Comunque anche se questo è un po' "fiacco",
il prossimo non lo è di sicuro. TRUST ME.
Va
bene, è tutto. Ci vediamo sabato prossimo!
<----
|
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Capitolo 39 *** Separate Ways (Strade Diverse) ***
39.
Separate
Ways (Strade Diverse)
Jonathan è nel
suo studio.
Il suo ultimo paziente
della giornata se n’è andato da quasi
un’ora, mentre lui è ancora seduto alla sedia
della sua scrivania. Sono
ufficialmente iniziate le ferie ma, per la prima volta, non gli importa
nulla.
Se ha deciso di chiudere lo studio l’ha fatto soltanto per
abitudine. Non farà
nulla quell’estate, non ha progetti né ha
intenzione di farne.
Ha entrambi i gomiti
puntati sulla scrivania, mento poggiato
sul palmo della sua mano sinistra e pensa. Pensa a molte cose ma
principalmente
all’incontro con Christian. Sa che prima o poi
dovrà uscire da quell’ufficio,
chiudere a chiave e guidare fino a casa, a casa di Christian.
La separazione
renderà tutto quanto molto complicato dal
momento che quasi ogni cosa, a partire dall’appartamento, sia
intestata a lui.
Quella decina di firme, che impiegano poco tempo e il minimo sforzo,
daranno
inizio ad una serie interminabile di pratiche burocratiche. Sta
pensando anche a
quello ma al momento non è la sua priorità. Sa
che una volta trovato il
coraggio per affrontare Christian e consegnargli quei documenti, la
strada sarà
in discesa.
Osserva la valigetta dove
ha riposto i documenti quella
mattina, prima di uscire. Ha deciso che sarebbe andato direttamente da
Christian, senza passare prima per il suo appartamento. Tutto questo
per
evitare ripensamenti. Era stata una decisione dell’ultimo
momento, presa tra il
caffè e la prima sigaretta della giornata. Inizialmente
aveva preparato i
documenti sul tavolo, deciso di
passare a prenderli nel primo pomeriggio, proprio dopo
quell’ultimo
appuntamento. Ne era convinto, al punto da essere già
vestito e sulla soglia,
pronto per andare al lavoro.
Nel momento in cui aveva
inserito la chiave nella toppa
esterna, però, aveva cambiato idea. Doveva portarli con
sé, per accorciare le
procedure. Non poteva permettersi di perdere tempo né aveva
intenzione di
crearsi vie di fuga. La decisione era stata presa e doveva arrivare
fino in
fondo. Non è mai stato uno che si arrende, ha sempre portato
a termine
qualsiasi cosa avesse iniziato, nel bene o nel male. Non vuole fare
eccezione
proprio adesso, per quanto male possa farlo sentire ciò che
deve fare.
Si alza dalla sedia,
raccoglie la valigetta ed esce dallo
studio. Compie ogni suoi movimento con molta calma, nonostante dentro
di sé
regnino la disperazione e il caos. Sale in auto e, straordinariamente,
riesce
ad arrivare senza alcun problema fino all’appartamento di
Christian.
È proprio
lì che si blocca.
Sente come se qualcuno
avesse schiacciato sulla sua testa il
pulsante “pausa” e che l’avesse tenuto
premuto fino a quel momento nel quale
invece era stato rimpiazzato con il tasto “avanti
veloce”. Ha
percorso quasi mezz’ora di strada senza la
benché minima esitazione ma ora, a nemmeno cento metri dalla
meta, non si
reputa in grado di andare avanti. Solo allungare il braccio e prendere
la
valigetta gli risulta impossibile, impensabile.
Inizia a guardarsi
attorno, augurandosi che nessuno l’abbia
visto. Non
c’è anima viva nei paraggi,
può girare la chiave, ingranare la marcia e tornare
indietro. A Christian
racconterebbe una scusa. Che differenza farebbe una bugia in
più, arrivati a
questo punto? Sospira, gira la chiave e appoggia la mano sulla leva del
cambio.
“No.
Basta stronzate.”
Pensa, vergognandosi di
sé stesso e di quello che stava per
fare. Spegne
nuovamente il motore
dopodiché, quasi con rabbia, afferra la valigetta ed esce
dall’auto, sbattendo
la portiera.
Ancora appoggiato alla
macchina chiude gli occhi e si prefigura
uno schema da seguire durante il suo incontro con Christian. Sa che
dovrà
sembrare autoritario, fermo e risoluto. Deve concentrarsi, farsi forza
e
cercare di apparire convinto. Probabilmente stramazzerà a
terra dopo
quell’incontro, sicuramente il suo cuore lo
abbandonerà ma non gli importa,
deve farcela, deve superarlo.
Entra nell’atrio
del palazzo e sale le scale, a passi lunghi
e rapidi. Arriva davanti alla porta e, senza concedersi il tempo di
fare
ulteriori ponderazioni, suona il campanello.
***
Kyle
si trova con Anthony in un
parco non troppo lontano da casa. Sono seduti sul prato a prendere il
sole ma
non hanno parlato molto da quando sono arrivati. Non perché
non avessero nulla
da dire e nemmeno perché fossero insicuri. Semplicemente
avevano ritenuto
sufficiente la reciproca presenza per poter star bene. Sono seduti uno accanto
all’altro ma non al punto da
destare sospetti ad occhi indiscreti.
Kyle
sa bene quanto la sua
relazione con Anthony possa essere pericolosa, benché si
tratti di qualcosa di
ancora incerto, di adolescenziale e che potrebbe risultare alla fine
una bolla
di sapone. Quella “ragazzata” fatta qualche mese
prima, generata da un’ingenua
curiosità adolescenziale, era costata molto cara ad
entrambi, trascinandoli in
situazioni fin troppo eccessive, portandoli a dover affrontare
conseguenze del tutto
innecessarie. Probabilmente se i genitori di Anthony venissero a
scoprire di
loro rischierebbero di non vedersi più, per sempre.
Anthony
a partire dal prossimo
settembre frequenterà una scuola differente da quella di
Kyle il che li porterà
a potersi vedere di meno, molto meno. Kyle è consapevole di
dover approfittare di
quei due mesi di vacanza per stare insieme, cercando di assaporare ogni
piccolo
istante, senza privarsi di nulla. Questo perché a settembre
inevitabilmente
qualcosa cambierà. Comunque due mesi sono un tempo
sufficiente per potersi
godere senza rimpianti e senza rinunce le gioie date dai primi momenti
di una
relazione appena nata.
Kyle
intende trascorrere durante
quei due mesi ogni suo singolo momento libero in compagnia di Anthony,
pur sapendo
di non potersi concedere attimi di leggerezza e spensieratezza che di
solito
caratterizzano gli amori adolescenziali.
Ogni
loro incontro avviene il più
lontano possibile da casa di Anthony e dai luoghi che lui e
specialmente il
suoi genitori sono soliti frequentare. Questo significa però
dover ripiegare
su posti ben poco gradevoli o difficili da raggiungere, come il parco
nel quale
si trovano in quel momento che di parco ormai ha ben poco, essendo
stato
abbandonato da almeno un paio di anni ed essendo conseguentemente
divenuto
ritrovo serale per spacciatori o per incontri che di romantico non
hanno alcuna
caratteristica.
Quella
distesa abbandonata non
dista però molto dalla casa di Kyle. Questo
perché sebbene Kyle non abbia
intenzione di parlare a Christian di Anthony, sa che se fosse proprio
lui a
vederli non accadrebbe nulla di grave. Il tutto probabilmente si
risolverebbe
con una chiacchierata il cui esito non sarebbe certo
l’imposizione di porre
fine alla loro relazione. Spera in ogni caso non essere visto ma si
è trattato di
optare per la soluzione meno rischiosa.
Anthony
indossa degli occhiali da
sole neri e inclina il viso in direzione di sole, lasciando che ogni
singolo
raggio riscaldi il suo incarnato già olivastro. Kyle lo
guarda e si concede qualche
secondo per osservarlo, dopodiché si guarda attorno.
Sono
soli.
Decide
di azzardare un piccolo
atto di tenerezza. Lentamente avvicina la sua mano destra a quella
sinistra di
Anthony e la sfiora. Sulle labbra di Anthony compare immediatamente un
sorriso
e poco dopo intreccia le proprie di dita con quelle di Kyle, tenendole
strette.
Si
tratta di qualcosa di ingenuo
ed innocente ma comunque sufficiente a scaldare il cuore di Kyle, che
inizia a
battere con lo stesso ritmo di un martello penumatico. Si sente tanto
bene che
per un attimo si dimentica dell’ambiente circostante, degli
ostacoli, dei
problemi, persino della sua disastrosa situazione familiare. Per quella
breve
frazione di secondo esistono lui ed Anthony soltanto, in un piano
astratto,
raggiungibile solo da loro.
Non
si sentiva così tanto felice
da tempo e comunque la felicità provata precedentemente era
diversa da quella
che sta vivendo ora. Sospira e spera che Anthony, che ancora stringe la
sua
mano, non riesca a percepire i battiti impazziti del suo cuore, se ne
imbarazzerebbe.
Sente
però di non essere
all’apice della felicità, che gli manca qualcosa.
Sin da piccolo gli è stato
insegnato che un momento felice, un successo, una vittoria, sono
vissuti solo
in parte se non vengono condivisi. Deciso di non poter parlare del suo
stato
d’animo a Christian (al quale comunque troverebbe
imbarazzante descrivere
determinate sensazioni), non ha nessun altro con cui confidarsi.
Morgan.
Il
collegamento al suo nome è
pressoché immediato così come il ritorno alla
realtà. Kyle ritrae la mano,
allarmando anche Anthony.
-Tutto
bene?
Chiede,
girandosi verso di lui.
-Sì,
tutto bene.
Risponde
Kyle, con ben poca
convinzione.
***
Jonathan bussa alla porta
e aspetta che Christian gli apra.
-Non era necessario che
bussassi.
Afferma lui, comparendo
sulla soglia e accostandosi il
necessario per permettergli di entrare. Aspetta che sia in casa
dopodiché
chiude la porta, alle sue spalle.
Jonathan indossa un
completo da lavoro e ha con sé una
valigetta. Probabilmente non si è fermato nel suo
appartamento prima di
presentarsi da lui. Deve aver finito di lavorare tardi.
Rimane in piedi, fermo, in
attesa di ricevere indicazioni da
parte di Christian.
-Hai intenzione di
startene in mezzo alla stanza come uno
stoccafisso?
Domanda bruscamente
Christian. Lo osserva con sguardo
severo, a braccia conserte. Al telefono il giorno prima sembrava
preoccupato,
sembrava che ciò di cui aveva assolutamente bisogno di
parlargli a quattr’occhi
fosse una faccenda complicata e di un certo rilievo. Eppure non mostra
alcun
segno di agitazione e pare non aver alcuna fretta nel parlargli.
-Prima devo sapere una
cosa: Kyle è in casa?
Chiede Jonathan,
diventando tutto d’un tratto piuttosto
serio. Il suo sguardo è fermo e deciso. Christian che per un
attimo aveva
sperato di rilassarsi, augurandosi che il motivo della visita di
Jonathan fosse
in realtà meno grave di quanto avesse annunciato, piomba in
uno stato di
angoscia e di preoccupazione.
-No.
Risponde secco.
L’agitazione e l’ansia gli scorrono
sottopelle e vorrebbe soltanto urlare a Jonathan di sputare il rospo,
di
scoprire le sue carte e di comunicargli, senza troppi preamboli,
ciò che deve.
Non lo fa perché non ha voglia di urlare, non se la sente.
Se inizierà ad
urlare già da subito probabilmente la discussione avrebbe
una durata troppo
breve, esattamente come è successo durante i loro ultimi
incontri.
-C’è
una possibilità che torni a breve?
Domanda ulteriormente
Jonathan, lasciando Christian in uno
stato di destabilizzante incertezza.
-Non lo so, non credo.
Si aspetta che ora, dopo
quella domanda, che finalmente
parli ma lui non lo fa. Rimane ancora immobile con lo sguardo sempre
più fermo,
sempre più duro. Christian lo osserva cercando di dedurre da
ogni particolare
del suo comportamento, da ogni respiro lungo ad ogni rapido battito di
ciglia,
cosa possa ancora volergli dire.
Si è torturato
la notte precedente, nel tentativo di
indovinare ciò che avrebbe potuto sentirsi dire
l’indomani e non è praticamente
venuto a capo di nulla. Avrebbe tanto voluto trovare una risposta per
potersi
preparare adeguatamente ma non ci è riuscito.
-Hai finito con le domande?
Chiede, prendendo
coraggio, decisamente stremato da quella
situazione ambigua e indefinita.
-Credo sia il caso di
sedersi.
Propone Jonathan,
indirizzandosi verso il tavolo da pranzo.
Christian non si muove, rimane nello stesso punto della stanza, sempre
a
braccia conserte. Segue i movimenti di Jonathan con minuzia: si
avvicina al
tavolo e su di esso posa la valigetta, con molta cura.
Dopodiché appoggia
entrambe le mani sullo schienale di una sedia, quella che era sempre
stata la sua sedia. La presa che
tiene sullo
schienale è piuttosto ferma e decisa, Christian giura di
averlo visto esitare
un secondo, prima di spostare la sedia dal tavolo e sedervisi. Una
volta seduto
appoggia entrambi gli avambracci sul tavolo.
Trascorre qualche istante a fissare un punto imprecisato
davanti a sé,
dopodiché si gira in direzione di lui e lo fissa.
Ogni suo gesto ha dato a
Christian l’impressione di essere
stato studiato, costruito. Non una singola azione, dal momento in cui
ha
dichiarato di volersi sedere al tavolo ad ora, è parsa
naturale. È quasi come
se Jonathan si fosse scritto un copione e si stesse preoccupando di
interpretarlo alla lettera. Questo suo atteggiamento provoca in
Christian un
brivido lungo la schiena, involontariamente sussulta.
-Puoi sederti, per favore?
Lo invita infine Jonathan.
Anche il tono della sua voce è
impostato. Christian fa’ ciò che gli viene detto,
si sente incredibilmente in
soggezione e, ora più che mai, non ha idea di cosa
aspettarsi. Si siede, anch’egli
sulla sua solita sedia, guarda
Jonathan
nell’attesa che parli, che dica qualcosa. Lui,
però, distoglie lo sguardo e
allunga il braccio destro in direzione della cartelletta, che apre.
Estrae per
prima cosa una custodia, quella degli occhiali, li indossa.
L’ha
già visto al funerale di suo padre con gli occhiali e
ha già avuto modo di chiedergli informazioni al riguardo.
Tuttavia continua a
trovarli strani sul suo viso, che ai suoi occhi pare diverso e quasi
distorto. Non pensa
che gli stiano male solo non è abituato o meglio, non ha
avuto il tempo di
abituarvisi.
-Sono venuto per questo.
Afferma, dopo aver posato
sotto gli occhi di Christian
alcuni fogli stampati che sembrano essere dei documenti. Christian,
senza
nemmeno aver bisogno di leggere, impallidisce e di colpo tutto gli
è più
chiaro. Gli basta scorgere il logo del municipio
per intuire e per ritenere se stesso tanto sciocco e tanto
ingenuo per
non aver inserito tra le ipotesi della visita di Jonathan proprio
quella.
Non ha il coraggio di
leggere perché sa che tutto diverrà
più concreto non appena lo farà. Si concede
qualche attimo di smarrimento,
qualche momento nel quale attende che il suo cuore si fermi, lo sente
debole,
irrequieto e pronto ad abbandonarlo da un momento all’altro.
Cercando di non
dare a vedere nulla di tutto ciò a Jonathan, abbassa lo
sguardo, chiude per un
istante gli occhi e deglutisce. Quando
li riapre inizia a leggere, velocemente. Ha già visto quei
documenti, infatti
una copia esatta giace nel cassetto della credenza lì
accanto al tavolo,
proprio alla sinistra di Jonathan, infilato in una vecchia guida del
telefono.
Non gli serve leggere
ciò che c’è scritto, conosce
già le
parole e sa già cosa gli si chiede di fare. Per un attimo si
irrigidisce
pensando a quanto sangue freddo possa aver avuto Jonathan nel decidersi
di fare
il primo passo.
Lui non c’era
riuscito.
Il suo tentativo era
miseramente fallito e per quanto in
questo momento possa provare rancore, risentimento e collera nei
confronti di
Jonathan è pressoché sicuro che a ruoli invertiti
non sarebbe stato in grado
di sbattergli sotto il naso quei fogli. Si sente ferito e tradito,
ancora una
volta. Sa di essere
lui la parte più
lesa e quel gesto sarebbe dovuto partire proprio da lui eppure non ne
ha avuto
il coraggio.
È cosciente di
essere stato lui stesso sei mesi prima, nel
giorno nel quale tutta quella situazione si era creata, a chiedergli la
separazione. Sì, aveva urlato a gran voce di volersi
separare da lui. Eppure non
credeva che Jonathan sarebbe arrivato a tanto, non credeva che sarebbe
in grado
prendere quella decisione e portarla avanti.
La persona che conosceva, che ha amato e sposato non
l’avrebbe fatto,
ecco perché la sera precedente riflettendo sui motivi di
quell’incontro, non
aveva inserito quello per cui tanto ora si sta arrovellando. Il suo Jonathan non si sarebbe spinto a
quel punto.
Pensa che probabilmente se
qualche mese prima avesse avuto
lui stesso il coraggio di consegnargli quei documenti, questo
Jonathan sarebbe stato in grado di firmarli, senza opporre
resistenza. Se
l’avesse fatto ora non si
troverebbe lì, tutta la sofferenza sarebbe cessata molto
prima, perché
lui non si sarebbe più fatto vivo. Non
sarebbe però andato con loro a Santa Monica al funerale di
suo padre né gli
avrebbe sussurrato che andava tutto bene nel momento più
doloroso di tutta la
sua vita, fino ad ora.
Si sente mancare. Tutto
quel pensare gli fa girare la testa.
Alza lentamente gli occhi, per paura che lo sguardo duro e impassibile
che
Jonathan ha tenuto fino a quel momento gli dia il colpo di grazia.
Tuttavia non
succede perché lui non lo sta guardando, i suoi occhi sono
fissi sui fogli. Fa
fatica a vedere esattamente la sua espressione ma di certo qualcosa
è cambiato
rispetto a poco prima: è vuoto, spento.
-Non credo sia necessario
che ti dica di cosa si tratta.
Le parole di Jonathan
pongono fine a quel sofferto attimo di
silenzio. Smette di fissare il foglio e torna a guardarlo, mettendo
Christian
in una posizione disagiata.
-So leggere.
Si limita a ribattere, non
essendo stato in grado di trovare
nulla di più pertinente.
-Credo che ora tu capisca
il motivo per il quale non ho potuto
parlartene al telefono.
Aggiunge Jonathan che
sembra intenzionato ad affrontare la
faccenda alla larga, con le pinze. Sembra voler dare
l’impressione di non
esserne direttamente toccato.
“O
forse non è solo un
impressione?”
Pensa Christian, dubbioso.
Lui stesso non è sicuro di
sentirsela di approfondire, di fare domande, di chiedergli dove sia
riuscito a
trovare il coraggio per fare ciò che sta facendo e
soprattutto quale sia stato
il movente colpevole di averlo spinto ad andare fino in fondo.
-Puoi consegnarmeli quando
vorrai. Prenditi tutto il tempo
che ti serve, non c’è nessuna fretta. Quando avrai
fatto potrai spedirmi il
tutto via posta, senza il bisogno di incontrarmi.
Aggiunge con un
indifferenza che fa davvero male a
Christian. Dopodiché lo vede togliersi li occhiali e riporli
di nuovo nella
loro custodia e infine nella valigetta.
Si alza.
Mostra tutte le intenzioni
di volersene andare. Forse
puntava a “sganciare la bomba” per poi andarsene
via in tutta fretta, senza
essere costretto a voltarsi e ad osservare la desolazione da essa
creata. Di
primo acchito Christian si sente propenso a lasciarglielo fare.
Gli lascia prendere la
valigetta, sistemare la sedia sotto
il tavolo e allontanarsi, fino ad arrivare al salotto ed è
proprio lì che
decide di non essere disposto a stare in silenzio, a subire quel
trattamento che di
certo non si merita.
-Non puoi pensare
seriamente di cavatela così.
Esclama, con convinzione.
Jonathan si ferma ma per il
momento non si gira.
-Perché?
Prosegue, Christian.
Rimanendo sempre seduto sulla sua
sedia.
-Perché
va’ fatto. Me l’hai chiesto quasi sei mesi fa,
è fin
troppo tardi.
Risponde Jonathan, di
getto. Per Christian non è ancora
sufficiente.
-No, non è per
questo.
Se così fosse l’avresti fatto subito
dopo essertene andato, non avresti
aspettato.
Jonathan rimane in
silenzio. Christian afferra i fogli e li
osserva, accorgendosi in quell’istante che sono
già stati tutti firmati.
-Faresti bene a darmi una
spiegazione valida perché dopo
tutto quello che mi hai fatto, non mi sogno proprio di concerti il
lusso di
piazzarmi questa merda sotto gli occhi, senza aggiungere nulla.
Esclama, iniziando ad
alzare il tono e facendo sbattere sul
tavolo il plico di fogli. Jonathan in quel momento si gira.
-Le tue parole.
Risponde, con tono
sommesso. I ruoli in quel momento si sono
invertiti: Christian è deciso e risoluto mentre Jonathan
inizia a dare dei
segni di incertezza, di instabilità.
-È stato
ciò che mi hai detto a Santa Monica a portarmi a
questo.
Fa una pausa, durante la
quale pare voglia prendere fiato,
prima di proseguire.
-Mi hai accusato di godere
nel vederti soffrire, hai
definito il nostro rapporto come malato e…
Christian gli fa cenno con
la mano di tacere, di fermarsi.
-Sì, so bene
cosa ti ho detto.
Jonathan prosegue,
ignorando il segnale di Christian.
-…e io non
posso sopportare di farti di nuovo del male, di
essere visto ormai da te non più di un mostro.
Christian vorrebbe
ribattere ma Jonathan non gliene dà modo,
continua a parlare.
-Non sono riuscito a
pensare ad altri modi per poterti porre
fine a questa tua sofferenza, è veramente l’ultima
cosa che io possa fare. Potrà
sembrarti ridicolo ma è per te che lo sto facendo.
Christian scoppia
nervosamente a ridere, una risata quasi
isterica e dalla durata breve.
-“Lo sta facendo
per me”? Sì, hai ragione. Trovo questa tua
risposta ridicola, patetica e banale.
Risponde, con tono sempre
più alto e disprezzante. Non avrebbe
voluto comportarsi in quel modo, sa che anche quella discussione ha
ormai i
minuti contati ma non gli importa, anzi, desidera che finisca.
-Sapevo che avresti
reagito in questo modo e infatti non
volevo arrivare a doverlo dire ma è come la penso. La
verità è che…
Si interrompe.
-Che? Cosa Jonathan?
Cos’altro c’è?
Christian si avvicina si
sposta dal tavolo, riducendo la
distanza con Jonathan.
-Che sono sempre stato io
tra i due ad aver tenuto di più a
questa relazione. Che mai e dico MAI avrei pensato di arrivare a questo
punto e
che se lo faccio è solo perché voglio permettere
a te di stare bene.
Christian non
può sopportare oltre. Quasi senza pensarci si
dirige verso il cassetto della credenza, quello dove ha gettato la sua
copia
dei documenti per la separazione. Prende la guida del telefono nella
quali li
ha infilati. Una volta estratti i fogli, getta quella stessa guida sul
pavimento, con rabbia.
Si avvicina di
più a Jonathan, molto vicino, quasi al punto
da poter sentire il battito del suo cuore.
-Ci sono arrivato io per
primo, lo sai? Ma non ho mai avuto
il coraggio, non li ho neanche firmati perché mi faceva
male, troppo male. Ora
che lo sai avanti, dimmi ancora che lo fai per me e soprattutto dimmi
ancora
che sei tu, quello che ci tiene di più!
Christian stringe i fogli
con forza finché, colto da un
rabbia quasi accecante, li getta in
faccia a Jonathan.
***
-Sei
sicuro di stare bene?
Chiede
Anthony, sulla strada di
ritorno. Sta accompagnando Kyle a casa, perlomeno fino al vecchio
cinema, diventato
il loro punto di incontro.
-Sì,
te l’ho detto.
Conferma
Kyle, ben conscio di
tradirsi.
-Ho
fatto qualcosa che ti ha dato
fastidio?
Prosegue
Anthony, con aria
preoccupata. Dopodiché, in modo del tutto improvviso e
spontaneo, cinge la vita
di Kyle con un braccio, facendolo arrossire.
-No,
no davvero.
Risponde
Kyle, questa volta più
deciso e sincero.
-Sai,
a me andrebbe davvero di
spingermi… più in
là, a volte.
Confessa
Anthony in un misto di
dolcezza e di imbarazzo. Kyle si trova del tutto impreparato difronte a
quella
confessione, al punto da rispondere in modo impacciato.
-Potremmo
anche farlo, ogni
tanto.
Si
rende conto solo dopo aver
pronunciato quelle parole di quanto esse possano risultare ambigue o
allusive.
Cerca di correggersi immediatamente e abbassa lo sguardo, per impedire
ad
Anthony di vedere il colore del suo viso, decisamente alterato.
-Cioè,
essere più spontanei… Più
normali.
Anthony
si blocca, imponendo
anche a Kyle di fermarsi. Sono arrivati ormai davanti al vecchio
cinema, è
arrivata l’ora di salutarsi. Anthony toglie il braccio dal
fianco di Kyle,
prendendolo però per mano e ponendosi di fronte a lui. Kyle
non lo sta
guardano, ha lo sguardo fisso sull’asfalto. Anthony, con la
mano libera, gli
accarezza il viso e lo invita ad alzare gli occhi, a guardarlo.
-Iniziamo
da adesso.
Sussurra
con dolcezza. Dopodiché
si sporge verso di lui per poi baciarlo in modo tenero, innocente. Un
bacio
dalla durata relativamente breve ma potente al punto da riportare
l’umore di
Kyle alle stelle. Dopo quel tenero bacio i due ragazzi si salutano,
dandosi
appuntamento all’indomani. Anthony aspetta che Kyle giri
l’angolo e sparisca
dal suo campo visivo, prima di andare via a sua volta.
Kyle
ritorna a casa a passo
lento. Sono le sette e il cielo sta iniziando ad assumere le romantiche
e
pittoresche sfumature rosse del tramonto. Non ha smesso di riflettere
sull’assenza di Morgan nella sua vita, nonostante la dolcezza
di Anthony,
nonostante quel bel pomeriggio passato ad oziare in sua compagnia.
Ha
accantonato Morgan e per di
più a favore di un ragazzo, di un interesse amoroso. Si
sente malissimo per
averlo fatto. Non era sua intenzione e non sta certo togliendo del
tempo a
Morgan per darlo ad Anthony, dal momento che non le parla. Sospira
profondamente e decide, per quanto ingiusto sia, di rimandare quella
faccenda
ad un secondo momento. Ci sta prendendo gusto a stare in quella
situazione di
pace e di tranquillità. Sente che chiarirsi con Anthony sia
stata la decisione
migliore che possa aver mai preso e un po’ si maledice per
non averlo fatto
prima, per aver lasciato passare così tanto tempo.
Non
gli è però concesso
crogiolarsi nella sua felicità, non quel giorno.
Lo
scenario che si trova di
fronte, una volta entrato in casa, è in grado di smorzare
rapidamente anche il
più resistente dei suoi pensieri felici.
Ogni
finestra della casa è
aperta, compreso il balcone. Le mensole sulle pareti sono vuote,
così come gli
altri mobili e parte della credenza. Per non parlare dei cassetti
rovesciati e
vuoti e della quantità impressionante di fogli sparsi per
tutto il pavimento.
Il suo primo sospetto è quello che qualcuno sia entrato in
casa, allo scopo di
svaligiarla. Pensiero che muta, non appena Kyle si accorge di una voce,
proveniente dalla cucina.
“Someday
love will
find you, break those chains that bind you. One night will remind you
how we
touched and went our separate ways.”
Non
sono semplici parole: è una
canzone, che Kyle però non conosce. Chiude delicatamente la
porta alle sue
spalle, che aveva dimenticato aperta. Si avvicina alla cucina, facendo
attenzione di non calpestare i fogli, la maggior parte dei quali
sembrano
essere dei documenti. Uno in particolare, abbassando lo sguardo, lo
colpisce.
“Richiesta di Separazione”.
Si
blocca. Deglutisce,
improvvisamente un singhiozzo spinge prepotentemente per uscire ma non
può
permetterselo.
Nel
frattempo quella voce, la
voce di Christian, che così poche volte in vita sua aveva
sentito, continua a
cantare.
“If
he ever hurts
you…”
Non
ha il coraggio di andare da
lui, di varcare la soglia della cucina e guardare il suo viso. Sa che
non sarà
qualcosa di piacevole. Si appoggia appena a quel pezzo di parete che
separa la
cucina dal salotto, in attesa di prendere coraggio e allo stesso tempo
si sente
rapito dalla voce di Christian. A parte qualche filastrocca che gli
aveva
insegnato bambino e qualche sigla dei cartoni animati cantata insieme,
non
l’aveva mai sentito cantare.
“True
love won't
desert you…”
Trova
la sua voce unica e
impressionante. Le parole che sta cantando sono cariche di emozione e
risuonano
vivide nelle orecchie di Kyle. D’un tratto riesce a
comprendere ciò che lo
stesso Jonathan gli aveva confessato tempo prima, sulla voce di
Christian. È
una voce che rapisce, che ammalia.
“You know I… I
still… l-love you, you…though we
touched and went our separate ways”
…e
che è in grado, nel caso, di
struggere l’anima. Kyle non può sopportare oltre,
si sposta da quella parete e
si presenta davanti a Christian.
Lo
trova seduto sul pavimento
della cucina, attorno a lui ci sono tutti i pezzi di argenteria e i
vari
suppellettili mancanti. Ha davanti una tinozza piena d’acqua
e indossa dei
guanti di gomma, rossi.
-Chris…
Lo
chiama Kyle, cercando di
attirare la sua attenzione. Christian alza lo sguardo.
Per
Kyle è un colpo al cuore: il
suo viso è sfatto, come non lo vedeva da qualche tempo
ormai. Ha sofferto e sta
soffrendo, sarebbe evidente a chiunque.
-Non
ti avevo sentito entrare.
Commenta.
Con tono perso, che
pare quasi appartenere ad un pazzo, un folle.
-Cosa
stai facendo?
Chiede
Kyle, con ovvietà.
-Quelle
che faccio ogni anno il
mio secondo giorno di ferie. Me l’hai detto tu, no?
Risponde,
indicando la tinozza e
sorridendo in modo quasi grottesco. Kyle è spaventato, non
riesce a vederlo così.
Presenta i tipici sintomi di chi si trova sull’orlo di una
crisi, pronto a
cadere nel baratro buio della depressione da un istante
all’altro.
-Ho
visto un foglio, tra tanti,
là sul pavimento…
Esclama,
ben sapendo che
un’esclamazione del genere potrebbe peggiorare le condizioni
di Christian.
-Oh,
hai ragione! Ho dimenticato di
mettere a posto i cassetti!
Esclama,
balzando immediatamente
in piedi. Gli passa accanto con apparente nonchalance, noncurante delle
gocce
d’acqua provenienti dai suoi guanti. Si getta sulle ginocchia
e comincia a
raccogliere, senza apparente cura, i fogli sul pavimento. Kyle lo
osserva, quasi
incapacitato di fare anche il movimento
più semplice.
Christian
appoggia tutti i fogli
sul tavolo finché non raggiunge proprio quello che ha visto
lui poco prima. Vi
posa sopra la mano, con ancora indosso il guanto bagnato. Rimane in uno
stato
di paralisi per qualche istante, dopodiché lentamente alza
lo sguardo verso
Kyle.
-Me
l’ha portato un’ora fa. C’è
sopra la sua firma, l’hai vista?
Kyle
non si era accorto di quel
particolare. Si era fermato alla testata e non era stato più
in grado di andare
oltre.
-È
finita.
“Finita”
una semplice parola,
capace da sé di perforare il cuore di Kyle. Sapeva che la
situazione dei suoi
genitori era drastica e probabilmente irreparabile. Tuttavia, non
pensava
sarebbero arrivati fino a quel punto. Probabilmente nemmeno Christian,
a
giudicare dalle sue reazioni.
-Finita
davvero, finita per
sempre.
Aggiunge,
abbassando di nuovo lo
sguardo. Con le mani entrambe appoggiate su quell’unico
foglio di carta.
--->
Eccomi di nuovo. Avete visto i personaggi prestavolto? Su, non siete
timidi e andate a vedere e fatemi sapere, dai ;) Non ho null'altro da
aggiungere oggi. Questo capitolo l'ho scritto un paio di settimana fa
(era un "collegamento" mancante) e personalmente mi piace molto. Vi
voglio dire che la canzone cantata da Chris è MOLTO
significativa nelle parole è "Separate Ways" dei Journeys,
se non conoscete bene l'inglese o non siete sicuri vi consiglio di
cercare la traduzione :) Bene, è davvero tutto. Mi aspetto
sempre un parere da parte vostra, manca DAVVERO poco arrivati a questo
punto. Non sono ancora sicura perché i capitoli finali sono
tutti in un unico file al momento e li dovrei suddivicere comunque ho
già pronto il capitolo 40 e credo che MASSIMO
finirò col 45. Ok, basta. A sabato prossimo :D <---
|
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Capitolo 40 *** Letting go (Ti lascio andare) ***
40. Letting go (Ti lascio andare)
Settembre.
Da
diverse settimane Christian ha
iniziato a sentire di non poter resistere ancora a lungo in quel posto,
si è
reso conto che New York in quel punto della sua vita aveva inizia a
stargli
parecchio stretta. Non è passato poi così tanto
tempo dal suo ultimo viaggio a
Santa Monica, un paio di mesi.
Lo
stesso lasso di tempo che è
trascorso dal suo ultimo contatto con Jonathan, dal giorno nel quale
gli aveva
consegnato i documenti per la separazione civile, documenti che non ha
ancora
avuto il coraggio di consegnare, né di compilare. Jonathan
aveva detto in quel
loro ultimo incontro di farlo con calma, quand’ora ne avesse
avuto voglia e,
evidentemente, quella voglia non si è ancora presentata.
La
verità è che ricevere quei
documenti per Christian era stato l’ennesimo colpo al cuore,
l’ennesima ferita
da aggiungere alle altre che, malauguratamente, non hanno mai smesso di
sanguinare. Per i primi momenti ha osservato impaurito quei fogli. La
sola idea
di compilarli e di dare atto ad un “dopo”, a degli
sviluppi ignoti e
sconosciuti per i quali non si sentiva pronto, lo terrorizzava. Mentre
qualche
settimana più in là aveva convenuto che la scelta
meno dolorosa fosse quella di
gettarli nel cassetto insieme a quelli praticamente identici e ancor
più vuoti
che ritirati da lui stesso diversi mesi addietro.
Jonathan dal canto suo non
doveva essere
ansioso che li firmasse, non essendosi più fatto vivo. Due
mesi e non una
parola. Nonostante fosse stata proprio quella la premessa, Christian
non aveva
creduto né sperato che sarebbe arrivato a tanto. Kyle nei
trascorsi due mesi ha
avuto occasione di frequentare il suo appartamento qualche
volta e lo sente quasi tutti i giorni.
Anche
il comportamento di Kyle si
era rivelato insolito e strano nell’ultimo periodo: rincasava
sempre tardi e
salvo argomenti frivoli o di circostanza, non parlava. Christian i
primi
momenti non se n’era preoccupato, perché
nonostante tutto aveva un’aria del
tutto serena e rilassata.
Una sera di fine agosto,
però, dopo aver
tentato di estrapolargli qualche informazione con risultati
tuttalpiù scarsi, aveva
deciso di seguirlo in una delle sue usuali uscite serali. Tutta quella
tranquillità abbinata a risposte incerte e palesemente
campate per aria ogni
qual volta gli chiedesse quale fosse esattamente la destinazione delle
sue
uscite, aveva
innescato in Christian il
dubbio che Kyle si fosse ritrovato coinvolto in qualche stupida e folle
dipendenza come la droga, il fumo o l’alcool.
Quel
venerdì sera aveva aspettato
che uscisse ed era rimasto un
paio di
minuti sulle scale del condominio, in modo da risultare
sufficientemente
distante. Aveva camminato per circa un isolato, poi aveva girato a
destra per
finire di fronte ad un piccolo cinema indipendente, collocato
all’interno di un
palazzo fatiscente, che subito gli aveva riportato alla mente quei
vecchi
cinema pornografici degli anni ’80 dove potevi gustarti un
mucchio di bei
ragazzi eccessivamente dotati riflessi su una parete bianca e magari
terminare la visione di questi “capolavori
incompresi” con un
discutibile rapporto occasionale consumato in qualche stradina
appartata.
Il
nome del cinema era piuttosto
banale: “Les Indipendence”,
probabilmente scorretto e sgrammaticato. Kyle
si era fermato per qualche secondo
all’ingresso poi si era recato alla biglietteria e aveva
acquistato un
biglietto, uno soltanto, per quanto aveva potuto notare Christian.
Dopo
aver lasciato entrare il
ragazzo Christian si era avvicinato, giusto per accertarsi che fosse
realmente
un cinema di film indipendenti e non una copertura dei già
citati cinema
pornografici. L’edificio vantava due vetrine alle quali erano
appesi dei poster
di produzioni cinematografiche provenienti da tutto il mondo. La
maggior parte
delle locandine erano francesi, con titoli non tradotti, i rimanenti
erano
asiatici, forse coreani a giudicare dagli ideogrammi quasi floreali.
Aveva trovato
strano che un ragazzo di sedici anni
non avesse nulla di meglio da fare il venerdì sera se non
andare da solo a
vedere qualche filmetto di serie B . D’altro canto Kyle era
sempre stato un
ragazzo particolare. Mentre tutti ascoltavano Rihanna, Lady Gaga o Katy
Perry
lui amava i Beatles e i Pink Floyd. L’unico gruppo vagamente
contemporaneo
erano stati i “Death Cab”, nome che
aveva letto sui poster in camera. Tuttavia il
loro tempo tra le preferenze di Kyle
era
stato breve, poiché
aveva iniziato a
ritenerli troppo “emo”,
termine del quale Christian non conosceva il significato ed
è tutt’ora poco
interessato a conoscerlo.
Ad
ogni modo, avendo constatato
la destinazione delle uscite di Kyle, si era convinto di poter
rientrare a
casa, con tranquillità. Aveva percorso la strada di ritorno
a passo lento.
Settembre non era ancora iniziato ma il tiepido venticello autunnale
iniziava
già a farsi sentire. L’autunno pareva voler
arrivare in anticipo a New York, le
temperature parlavano forte e chiaro. Era vestito leggero quella sera:
indossava un giacchetto di pelle color biscotto, nel quale si era
stretto con forza,
cercando di ripararsi dal vento e dai colpi d’aria provocati
dal passaggio
delle auto e dei taxi. Proprio in quel momento aveva iniziato a pensare
che
nemmeno la sua adolescenza era stata così tipica. Al
compimento dei suoi 16
anni erano da poco iniziati gli anni ’90 e mentre tutti nella
West Coast erano interessati
al Rap o al Pop delle boy band, lui preferiva il buon vecchio metal
anni ’70,
il suo gruppo preferito rimanevano i KISS e passava tutti i pomeriggi a
cantare
e sfogliare libri d’arte nella sua cameretta di Santa Monica.
Era
stato esattamente quello il
pensiero complice di averlo spinto a credere di sentirsi stretto a New
York.
Quando aveva sedici anni era ancora un ragazzo felice, senza troppe
preoccupazioni per la testa: sognava di studiare
all’università e diventare
professore di arte. Credeva ancora che avrebbe trovato il suo posto in
qualche
scuola in California e che avrebbe studiato alla Berkeley. Non si
interrogava
particolarmente riguardo alla sua sessualità
poiché non aveva alcun interesse
nel sesso o nell’amore, stava semplicemente bene. Non poteva
immaginare che nel
giro di due anni si sarebbe trovato a cantare al
“Vampiria”, costretto a
vendere il suo corpo e i suoi principi per poter studiare nella Grande
Mela,
metropoli dalle grandi aspettative, fulcro del mito del
“American Dream”. Dopo
il suo sedicesimo compleanno tutto era cambiato, tutto era peggiorato.
La sua
sessualità aveva iniziato a chiedergli di essere presa in
considerazione. D’un
tratto la California, che tanto aveva amato, era diventata troppo
libertina per
poter essere da lui vissuta senza commettere sciocchezze, senza essere
trascinato dalla corrente e affogare all’interno di essa.
Aveva deciso che New
York, più caotica ma paradossalmente più
composta, sarebbe stata la scelta
migliore per lui. Di tutto ciò non s’era mai
pentito, fino a quel momento.
Vorrei tornare indietro.
Questo
aveva pensato, mentre
imboccava il vialetto di casa. Avrebbe tanto voluto tornare a
disegnare,
sognare e sperare sdraiato a pancia all’aria su quel lettino,
respirando a
pieni polmoni l’aria dell’oceano entrare dalla
porta finestra, sempre
spalancata. Faceva
sempre caldo a Santa
Monica, anche Settembre, anche a Dicembre.
Devo tornare indietro.
Esclama
ora, balzando dal divano.
Alzandosi si chiede anche, per un instante, da quanto tempo si trovasse
seduto
sul divano a fissare la televisione spenta. Da qualche giorno gli
capitata di
entrare in un assurdo stato di catalessi nel quale perde completamente
la
cognizione del tempo. Stare a New York sia
fisicamente sia mentalmente è diventato un
peso insostenibile. Ogni giorno che passa è sempre
più propenso a credere che
forse sarebbe stato meglio non partire mai. Forse sarebbe comunque
diventato un
professore di successo e forse suo padre non si sarebbe ammalato.
No, sarebbe successo comunque.
Si
corregge, scuotendo il capo.
Iniziare il gioco del “se…” è
sempre interessante ma tante volte si tramuta in
qualcosa di tremendamente irreale, assurdo e doloroso. Certo, se fosse
rimasto
a Santa Monica non avrebbe mai conosciuto Jonathan e senza Jonathan non
ci
sarebbe stato neanche Kyle. Non riesce a pensare ad una vita senza Kyle.
Non riesco a pensare ad una vita senza Jonathan.
No,
non può. Ha sofferto, sta
ancora soffrendo e questa grande, grandissima ferita potrebbe non
rimarginarsi
mai ma sa che non cancellerebbe il passato, che non vorrebbe mai
eliminare
Jonathan dai suoi ricordi. Quello che gli occorre in questo momento
è
semplicemente di staccare la spina, andarsene un po’ da New
York. Non sa per
quanto tempo e non è sicuro di voler trascinare Kyle con
sé. Trova egoistica
l’idea di strapparlo dalla sua quotidianità per
obbligarlo a seguire quella sua
apparente e un po’ precoce “crisi di mezza
età”.
Se la mia mezza età è questa
vuol dire che la mia vita sarà piuttosto
breve.
Pensa
sorridendo nervosamente. Riflette
sugli ultimi due viaggi a Santa Monica ed è sicuro
nell’affermare che non gli
siano serviti a granché. Il secondo era stato qualcosa di
forzato, la situazione
era particolare e in quel caso non era stato felice di trovarsi in quel
posto e
in quel momento, tuttavia si era sentito meglio. Abbandonato il peso
della
città si era sentito un'altra persona. Per questo motivo
pensa che sia
seriamente il caso di riprovarci.
Non
ne è del tutto sicuro, per
cui non è pronto a preparare immediatamente bagagli
né a parlane con Kyle. Non è nemmeno
certo di voler avvisare sua madre. La preoccuperebbe eccessivamente e
non lo
ritiene giusto.
Angela
ha passato quasi metà
della sua vita a prendersi cura di Jack, costretta a convivere con la
scomoda presenza
della sua malattia. Ora, benché stia ancora
affrontando la perdita del marito, è finalmente libera.
Libera di ricominciare,
libera di dedicare finalmente a sé stessa il tempo che fino
ad allora ha
dedicato ad altri, libera dal sentirsi scagliare addosso problemi
altrui.
No,
se decidesse di partire e di
prendersi una pausa, non glielo comunicherebbe. Forse nemmeno ci
tornerebbe a
casa, in quella casa.
Non
lo sa, non sa nulla. Eppure,
anche solo pensarci lo fa sentire meglio.
***
Kyle
è seduto su una poltroncina
del cinema rossa di velluto, piuttosto scomoda e nemmeno troppo pulita,
a dirla
tutta.
-Ti
ha seguito davvero?
Chiede
Anthony, sorpreso. Si
trova seduto accanto a lui ed è anche l’unica
persona presente in sala.
Piuttosto insolito.
-Sì,
per questo ti ho proposto di
entrare separati. Ora penserà che io sia diventato una
specie di relitto
sociale che si conforta con hobby alternativi.
Anthony
ride.
-Pensare
che basterebbe digli la
verità.
Kyle
scuote il capo.
-Te
l’ho detto, è
qualcosa che preferisco tenere per noi al
momento e credo che se gli sbattessi in faccia la nostra relazione si
ritroverebbe a pensare a Jonathan.
Anthony
sbuffa e si mette a
sedere in posizione scomposta.
-Ancora
una volta, spiegami
perché dovrebbe pensarci.
Kyle
deve aver esposto ad Anthony
le sue motivazioni almeno una decina di volte eppure ogni qualvolta si
presenti
l’argomento è costretto a riparlarne, usando
sempre le stesse parole e sperando
ogni volta che il ragazzo capisca e che si decida a non fare
più domande a
riguardo.
-Perché
siamo due ragazzi. Siamo
giovani e siamo come lui, come loro.
Siamo…
Anthony
lo precede.
-Gay.
Kyle
annuisce
-Gli
ricorderebbe di quando erano
giovani e felici lui e John e cadrebbe di nuovo nello sconforto. Non mi
dimenticherò mai di quel giorno nel quale l’ho
trovato per terra a lavare
l’argenteria, con quello sguardo alienato. Da
qualche tempo non lo sta più nominando e io ho
fatto altrettanto. Non
posso entrare nella sua testa e leggere cosa pensa però
credo stia meglio.
Prima
della risposta di Anthony
trascorre qualche minuto nel quale a parlare sono solo le voci roche e
decisamente mal impostate degli attori del film. Entrambi i ragazzi
stanno
fissando lo schermo ma, certamente, nessuno dei due sta prestandovi attenzione. Kyle
riflette sulla
situazione e Anthony si chiede se sia il caso di proseguire il discorso
o se
sia meglio parlare d’altro, lasciando che tutta la questione
riaffiori qualche
giorno più tardi, magari in modo più irruento.
-E
credi anche che sia felice?
Domanda.
Kyle probabilmente non
si aspettava una domanda del genere ed esita prima di rispondere.
Osserva
Anthony intensamente nel tentativo di fargli cambiare argomento,
tuttavia non
ci riesce.
-No,
di quello ne dubito.
Anthony
notando l’imbarazzo di
Kyle gli sorride e afferra la sua mano destra, dapprima accarezzandola
dolcemente e poi stringendola nella sua mano sinistra, in segno di
conforto.
-Guardiamo
il film, dopotutto
abbiamo pagato ben tre dollari per essere qui. In tempo di crisi
è parecchio, sai?
Kyle
sorride e volge per un
istante lo sguardo verso lo schermo.
-Non
ho la più pallida idea di
cosa stiano dicendo.
Afferma.
-Ma
dai, è francese! Chi non
conosce il francese?
Ribatte
Anthony, in tono
canzonatore.
-Io!
E… tu!
Enfatizza
Kyle, puntando poi il
dito verso il petto di Anthony che lo afferra, trascinando il ragazzo
verso di
sé, sufficientemente vicino da stampare sulle sue labbra un
breve ma dolcissimo
bacio, della durata di pochi secondi che fa arrossire Kyle
immediatamente.
-Possiamo
fargli dire quello che
vogliamo, non credi?
Kyle
scuote il capo e osserva
Anthony incuriosito.
-Sì,
per esempio lo vedi quel
tipo con i baffoni neri?
Mentre
parla, con la mano libera,
indica un uomo sullo schermo dai capelli neri laccati e dai lunghi
baffi ancora
più scuri. Il film che stanno guardando è
ambientato nella Parigi degli anni
’30 e, decisamente, la scelta dei costumi è
stereotipata e azzardata.
-Secondo
me sta dicendo qualcosa
tipo: “Se non verrò ricordato per la mia
recitazione, almeno parleranno dei
miei baffi!”
Esclama,
scimmiottando il
personaggio e utilizzando una voce piuttosto buffa che fa
immediatamente
sorridere Kyle.
-Tu
sei pazzo!
Anche
Anthony sorride.
-Ad
ogni modo, anche tu nascondi
ai tuoi genitori i nostri incontri.
L’affermazione
di Kyle colpisce
Anthony che avrebbe preferito continuare a trattare temi molto
più
frivoli.
-A
loro poco importa che io esca
o dove vada, vogliono solo essere sicuri che torni a casa in orario o
che non
mi vada a cacciare in qualche guaio, di quelli che potrebbero rovinare
loro e
soprattutto la loro reputazione.
Non
è esattamente la risposta che
Kyle si aspettava, per questo motivo prosegue con il discorso.
-Credo
che possa essere un loro
problema invece, ti hanno tolto da scuola e mi hanno pagato uno
psicologo solo
perché ti ho fatto un… beh, quello
che ti
ho fatto! Cosa farebbero se sapessero che potrei rifarlo
ancora e se
facessimo qualcosa di… più grosso?
Kyle
arrossisce nel terminare il
suo discorso e immediatamente lancia un occhiata ad Anthony, sicuro di
scorgere
nei suoi occhi il medesimo imbarazzo. Dopotutto hanno deciso di
frequentarsi da
poco e il tema del sesso non ancora stato affrontato o discusso.
Anthony,
invece, pare indifferente.
-Qualcosa
di più grosso, tipo?
Chiede,
con malizia, facendo
imbarazzare ulteriormente Kyle che abbassa lo sguardo e sprofonda
lentamente
nella logora poltroncina.
-Non
era quello il punto del
discorso.
Puntualizza,
a voce bassa.
-Volevo
sdrammatizzare! No
ti sto facendo pressioni, ok?
Kyle
annuisce, sempre senza
alzare lo sguardo.
-E
poi: “Avremo
sempre Parigi” … e i baffi di quel
tizio! Quelli di certo hanno vita
propria…
Kyle
scoppia a ridere e torna a
guadare il film.
***
Con
l’arrivo del mese di
settembre anche le preoccupazioni di Kyle sono tornate ad emergere.
Ha
trascorso due mesi stupendi in
compagnia di Anthony ed è stato così bene con lui
al punto da non trovare per
nulla faticoso il fatto di dover prestare estrema attenzione durante i
loro
incontri, per evitare occhi indiscreti e malelingue.
Non
hanno fatto nulla di speciale
durante l’estate, nonostante spesso avessero fantasticato
circa weekend a Long
Island o da qualche altra parte. Tutto ciò che avevano fatto
era stare insieme,
ridere, scherzare concedendosi di tanto in tanto, se possibile, qualche
momento
di tenerezza. Il parco abbandonato, il vecchio cinema indipendente e
persino il
canale al di sotto del raccordo autostradale, erano parsi ad entrambi
luoghi ben
più romantici di quanto in realtà fossero, per il
semplice fatto che avessero
permesso loro di stare insieme senza paura, senza preoccupazioni.
Da
un paio di giorni Kyle ha
iniziato a notare in Anthony una strana malinconia, una strana
tristezza, che
in nessun modo il suo affetto o le sue parole sembrano riuscire ad
attenuare.
Non ha avuto il coraggio di chiederglielo né di riflettervi
lui stesso, eppure
sa bene che le preoccupazioni e il nascente malumore di Anthony sono
dovute
all’inizio della scuola.
Dovrà
iniziare l’anno, il
penultimo, in una nuova scuola.
Kyle
era a conoscenza di questa
minaccia incombente e per tutta l’estate è
riuscito ad evitare il confronto
diretto con questa preoccupazione, allo scopo di vivere con
più serenità
l’estate con Anthony. Questa sua decisione si è
rivelata però un’arma a doppio
taglio dal momento che quel timore tanto a lungo ignorato si
è presentato con
la stessa travolgente irruenza del mal tempo autunnale.
Le
prime avvisaglie sono stati
proprio i malumori di Anthony e, di conseguenza, quelli di Kyle.
Kyle sta rientrando dalla
sua consueta
uscita serale. Non si sente felice e spensierato come lo è
stato nelle
precedenti settimane. Poco prima, quando si sono salutati dandosi il
bacio
della buonanotte, al posto di quell’avvolgente calore che fino a quel momento sentiva
nel petto, causato
dai battiti accelerati del suo cuore, aveva avvertito una dolorosa
morsa allo
stomaco.
Anthony
l’ha salutato con il sorriso
sulle labbra ma con la tristezza negli occhi. Entrambi
benché non ne abbiamo
mai parlato apertamente sentono le lancette dell’orologio
indicante il periodo
di serenità a loro concesso scorrere inesorabile e ogni sera
è un minuto in
meno che li avvicina a quella loro fatidica buonanotte definitiva.
Potranno
comunque continuare a
vedersi nel weekend. Questa è l’ultima speranza di
Kyle, quella che gli ha
permesso di proseguire quella relazione con il sorriso sulle labbra,
senza il
benché minimo dubbio di voler ritornare sui suoi passi, di
fare marcia
indietro. Non si nemmeno
pentito di aver
rimandato la sua riconciliazione con Morgan, per tutta
l’estate. Al contrario,
per quanto gli risulti doloroso ammetterlo, tornasse indietro farebbe
tutto
esattamente come l’ha fatto.
-Ci
vediamo domani pomeriggio?
Gli
aveva chiesto Anthony,
esattamente come ha fatto nei trascorsi due mesi. Eppure quella volta
è stato
diverso, generalmente il suo tono risuona nelle orecchie di Kyle come
ansioso
ed emozionato. Quel giorno, al contrario, la sua domanda è
parsa più come una
frase fatta, come un’abitudine.
Anche
il bacio è stato più
freddo. Kyle avverte un brivido lungo la schiena sulla strada di
ritorno, non è
sicuro di poter attribuire quel riflesso al venticello
d’autunno o ai suoi
pensieri.
Arriva
a casa e subito nota
qualcosa di insolito. Davanti alla porta della camera da letto di
Christian c’è
una valigia. La luce è accesa e lo sente trafficare con
grucce, cassetti e ante
dell’armadio. Quasi intimorito entra nella stanza e lo trova,
straordinariamente sereno, intento a piegare qualche camicia.
-Ehi.
Si
limita a dire, vedendolo
apparire sulla soglia della porta.
-Ehi…
che stai facendo?
Domanda,
senza nemmeno concedersi
un attimo per tirare ad indovinare. Christian piega
quell’ultima camicia e poi
lo osserva, con espressione seria. Dopodiché fa spazio sul
letto e vi si siede,
invitando Kyle a fare altrettanto.
-Così
mi spaventi.
Confessa,
sedendosi al suo
fianco.
-Ascolta,
non voglio che tu
prenda male quello che ti sto per dire e non pensare che in qualche
modo
c’entri tu.
Anticipa
Christian, sempre piuttosto
serio.
-Mi
hai ufficialmente terrorizzato.
Christian
sorride, un sorriso
quasi compassionevole ma triste. Accarezza con tenerezza il viso del
figlio e
lo contempla per qualche istante, prima di proseguire con il suo
discorso.
-Ho
un volo prenotato per
dopodomani, per San Francisco.
Kyle
spalanca gli occhi. Un misto
di collera e fastidio gli pervade la mente, impedendogli di mantenere
il
controllo, rendendo inevitabile una reazione brusca.
-Di
nuovo Chris, davvero?
Christian
abbassa lo sguardo. Di certo
se l’aspettava questa reazione perché la sua
risposta è ferma e priva del
benché minimo rimorso.
-Sì
e andrò solo, questa volta.
Kyle
si alza dal letto ed inizia
a camminare nervosamente per la stanza.
-No,
non posso crederci. Dimmi
che scherzi.
Esclama,
quasi supplicandolo.
-Sembra
una decisione stupida ma
è la cosa migliore per me, al momento. Non ti sto
assolutamente abbandonando,
tornerò.
Le
parole di Christian suonano
ben poco realistiche e assurde nelle orecchie di Kyle, si chiede se
veramente
c’abbia pensato.
-“Tornerò”?
Riprende
Kyle, sprezzante.
-Non
mi sembra giusto
costringerti a venire via con me perché tra poco inizierai
la scuola e non
posso portarti via dal tuo ambiente, la tua vita per il momento
è qui.
Kyle
non ribatte, non saprebbe
cosa altro aggiungere.
-Non
starò via molto, te lo
prometto. Ho solo bisogno di schiarirmi le idee.
Prosegue
Christian. Kyle questa
volta non riesce proprio a stare in silenzio. Lo guarda, infastidito e
offeso.
-Come
se l’ultima volta in cui ci
siamo stati ti fosse servito!
Ribatte
poi. La sua risposta pare
ferire Christian che lascia trascorrere qualche secondo, prima di
riprendere a
parlare.
-Ho
bisogno di andare in un posto
dove la sua presenza non sia così soffocante. Questa casa e
questa città ne
sono pregne. Solo lontano da lui troverò il coraggio di
firmare quei documenti,
di finirla una volta per tutte.
Christian
si alza, raggiunge Kyle
e gli prende le mani.
-Ti
lascio libero di scegliere
dove stare durante la mia assenza. Ne parlerai tu con lui, io non mi
voglio
mettere in mezzo.
A
quel punto, la collera di Kyle
aumenta al punto da annebbiargli la vista, impedendogli di proseguire
quella
discussione in toni rilassati.
-Io
non ti ho mai abbandonato da
quando tutta questa situazione di merda è iniziata. Io sono
sempre rimasto qui
e sono sempre rimasto dalla tua parte.
Christian
cerca di ribattere ma
Kyle continua a parlare, ad un tono di voce talmente elevato al punto
di essere
difficile da contrastare.
-L’ho
fatto perché ero sicuro
fosse la scelta migliore, perché credevo che anche tu non mi
avresti mai
lasciato.
Christian
riesce questa volta ad
intervenire.
-Non
ti sto abbandonando Kyle,
starò via qualche settimana. Un mese, forse.
Kyle
con rapidità e con forza si
libera dalla presa di Christian e si allontana, uscendo dalla stanza.
Christian
si sente spiazzato e non lo segue immediatamente. Questo
finché lo sente aprire
la porta d’ingresso.
-Kyle,
no! Dove stai andando?
Kyle
esce dalla porta e percorre
le scale dello stabile rapidamente, senza voltarsi e continuando ad
ignorarlo.
Christian non ha la forza di seguirlo. Le parole che gli ha rivolto
l’hanno
fatto sentire colpevole. Non è sua intenzione abbandonarlo,
né metterlo in disparte.
Quando ha iniziato a preparare le valigie, qualche ora prima, si era
sentito
leggero, sicuro e convinto della sua idea. Non per un attimo si
è fermato a
riflettere sulla reazione di Kyle.
Sospira
e torna in casa,
chiudendo la porta.
***
Kyle
ha percorso tutto il viale
di casa di corsa e solo quando il fiato ha iniziato a farsi corto, ha
rallentato il passo. Sente le lacrime scendere copiosamente sul suo
viso ma
senza aver avvertito l’impulso di piangere. Si ferma, una
volta resosi conto di
non aver una destinazione o un posto dover rifugiarsi.
Sono
le undici passate, non può
telefonare ad Anthony. Di sicuro a quest’ora è
già a casa e se uscisse di nuovo
i suoi probabilmente glielo impedirebbero o tutt’al
più si insospettirebbero.
Prende il cellulare, rimasto nel taschino del suo giacchetto di jeans.
Apre
la rubrica, cercando
un’ispirazione. Non vuole prendere in giro se stesso, sa chi
deve chiamare. Non
vorrebbe farlo perché significherebbe intromettersi eppure,
arrivati a quel
punto, che differenza farebbe un intromissione da parte sua?
Apre
il contatto “Jonathan” ed
esita prima di telefonargli. Si è sentito ferito poco prima
dalle parole di
Christian, tradito in un certo senso. L’aveva trovato strano
nell’ultimo
periodo, tranquillo sì ma comunque piuttosto assente. Da un
lato attribuisce a
se stesso la colpa, dal momento che non gli ha parlato molto,
poiché era troppo
assorbito dalla sua relazione con Anthony, dal suo desiderio di viversi
quell’estate tutta d’un fiato, senza alcuna
distrazione.
Christian
gli aveva parlato di
vacanze, un paio di mesi addietro, vacanze che poi non avevano fatto
né erano
state più nominate. Mai però, nemmeno nel momento
nel quale poco prima ha visto
quella valigia, ha sospettato che Christian sarebbe partito, da solo.
Si
era sentito ferito non tanto
perché non lo volesse con sé ma perché
la sua presenza non gli fosse
sufficiente a superare quella situazione, ad andare avanti. Ce
l’aveva messa
tutta per stargli vicino, all’inizio aveva pure ignorato
Jonathan, si era
rifiutato di vederlo e di sentirlo.
Aveva
scelto Christian, come
Christian stesso aveva scelto lui dieci anni prima.
Senza
nulla togliere a Jonathan e
ammesso di amare in egual misura entrambi i suoi genitori, ha sempre
avvertito
una naturale empatia verso Christian. Tra i due è quello con
il quale ha
litigato più spesso, dal quale è stato spesso
punito e messo in castigo eppure
è il suo preferito.
Non
c’è nulla di strano ad avere
un genitore preferito, la maggior parte dei figli ama entrambi i
genitori
eppure ha una simpatia o un empatia particolare verso uno solo dei due.
Per
questo le parole di Christian lo hanno ferito così
profondamente. Non può
sopportare il fatto di non essere “abbastanza”, di
non rientrare nemmeno per un
attimo nei suoi progetti. Si sarebbe opposto all’idea di
partire ma avrebbe
voluto essere incluso, avrebbe voluto essere considerato un elemento
fondamentale al suo processo di schiarimento di idee e non un peso
lasciato a
casa.
Un
peso.
Si
sente proprio in questo modo e
non è una sensazione nuova per lui, dal momento che
l’aveva avvertita e c’aveva
convissuto fin dalla nascita, aveva creduto di potersene liberare solo
quando
era stato adottato da Jonathan e Christian. Loro l’avevano
sempre messo al
centro del loro mondo .
Prende
coraggio e preme il tasto
chiama sotto il contatto di Jonathan. Il telefono suona a vuoto per un
po’, almeno
una decina di squilli, prima che risponda.
-Sì?
Jonathan
deve essere in qualche
locale. Riesce a sentire della musica di sottofondo e del vociare
indistinto.
-John,
ti devo vedere.
Jonathan
non risponde subito.
Probabilmente la musica gli impedisce di capire.
-Aspetta,
non ti sento. Solo un
secondo… Ecco, dimmi.
La
musica non si sente più,
Jonathan è sicuramente uscito da ovunque si trovasse.
-Ho
detto che devo vederti.
Ribatte
Kyle, con tono serio.
-Ti
senti bene? Ti è successo
qualcosa?
Domanda
immediatamente Jonathan,
carico di preoccupazione.
-Non
proprio. Ho bisogno di
parlarti, per favore.
Risponde,
sull’urlo di una crisi
di pianto.
-Sono
in un locale qui a
Manhattan ma arrivo, ti vengo a prendere, dimmi dove sei.
Kyle
si guarda in giro. Non sa esattamente
dove si trovi.
-Non
lo so. Ho camminato e… non
saprei, non credo però di essere molto lontano da casa.
L’ambiente
circostante non gli è
familiare.
-Ci
penso io, non ti muovere.
Faccio in fretta, promesso.
Non
sa esattamente quanto tempo
sia trascorso ma Jonathan riesce a trovarlo. Vede la sua macchina
comparire
all’orizzonte e si avvicina di più al marciapiede
sul quale si trova, per farsi
notare. Jonathan deve averlo visto però in lontananza
perché si ferma subito e
lo fa salire in auto.
-Ehi…
che è successo?
Gli
chiede, appoggiandogli una
mano sulla spalla e carezzandola con dolcezza.
-Possiamo
andare via di qui?
Chiede
Kyle, prima di rispondere.
-Sì,
certo.
Jonathan
mette in marcia. Kyle
non ha il coraggio di parlare, guarda davanti a sé la strada
scorrere e i
semafori lampeggiare.
-Sta
partendo.
Esclama
poi, prendendo coraggio.
Irrompendo con violenza nel silenzio fino ad ora presente in auto.
-Chi,
tesoro?
Domanda
Jonathan, pacatamente.
-Lui,
chi sennò?
Jonathan
non parla, apre per un
momento la bocca con l’intento di dire qualcosa ma non esce
alcun suono. Kyle
si gira verso di lui e lo osserva. Ha gli occhi puntati sulla strada e,
indossando gli occhiali, è difficile vedere correttamente il
suo sguardo.
-Vuole
andare di nuovo in
California e non sa quando tornerà.
Prosegue
Kyle, sperando che
questa volta Jonathan risponda. Speranza, immediatamente, delusa.
Jonathan
continua a guidare, quasi lo ignorasse.
-Mi
stai ascoltando, almeno?
Jonathan
accosta. Spegne il
motore, alza la leva del freno e poi si toglie gli occhiali.
-Sì,
ti ho sentito.
Risponde
poi, senza però
aggiungere altro, senza commentare effettivamente ciò che
Kyle vuole commenti.
-Andrà
lui solo, senza di me. Lo
capisci?
Aggiunge
Kyle, con più decisione
questa volta.
-Lo
capisco. Presumo mi farà una
telefonata per dirmelo di persona, non puoi certo stare a casa solo, se
è
questo che ti ha fatto preoccupare così tanto.
Kyle
scuote il capo incredulo.
Non era questa la reazione che si aspettava da Jonathan.
-No,
non lo farà. Partirà dopodomani
e vuole che decida io cosa fare.
Jonathan
si sfila gli occhi ed
inizia a pulirli con l’angolo della giacca che indossa. Un
gesto chiaramente
nervoso. Kyle sa che si sta contenendo, che non sta veramente
esternando ciò
che vorrebbe. Se ne sta immobile a pulire quei suoi maledetti
occhiali, quasi fosse la cosa più importante in quel momento.
-Lo
fa perché vuole decidersi a
lasciarti andare ma non può farlo finché ti sente
vicino.
Commenta
Kyle, con tono più
tranquillo e più riflessivo.
-Se
è quello che crede giusto…
Le
parole di Jonathan lo
deludono.
-Come
può essere la cosa giusta?
Come puoi permettergli una cosa del genere?
Il
tono di Kyle torna ad alzarsi.
Jonathan smette di pulire gli occhiali e rivolge lo sguardo verso Kyle
che si trova
sorpreso nel non ritrovare nel suo viso alcuna emozione particolare.
Sembra
quasi si sia arreso, è del tutto passivo.
-Io
non ho più il diritto di fare
nulla, Kyle. Ciò che mi interessa ora è solo il
tuo benessere, per cui ti
riporto a casa e ci sentiremo domani o dopodomani per decidere dove
starai.
Kyle
scuote il capo. Ha
intenzione di sentire un discorso differente da lui, quelle parole
deboli e
circostanziali non gli interessano. Non gli ha telefonato per quello.
-Potrebbe
non tornare, lo sai? Ha
parlato di un mese o forse più. Non puoi lasciarlo andare!
Jonathan
rimette in moto l’auto,
senza dire altro. Kyle, preso dalla rabbia, dall’agitazione,
afferra con forza
la leva del freno a mano, alzandola e facendo inchiodare la macchina.
-Ma
che ti salta in testa?
Gli
urla Jonathan, spaventato e
infuriato.
-Volevo
che reagissi.
Risponde
Kyle, senza il benché
minimo rimorso.
-Hai
rischiato di farci
ammazzare, ecco cos’hai fatto.
Ribatte
Jonathan, sempre
furibondo.
-Lo
so che non vorresti che se ne
andasse quindi, per favore, impedisciglielo! Sali in casa, strappa quei
documenti, urlagli che non deve partire. Qualsiasi cosa ma non stare
lì a
guardare, ti prego!
Jonathan
scuote il capo.
-Ho
già fatto qualcosa Kyle, gli
ho dato il modo per allontanarsi da me.
Kyle
cerca di ribatte ma Jonathan
lo interrompe, gli fa cenno con la mano di non parlare, di non
proseguire
oltre.
-Se
per farlo ha bisogno di
andare a Santa Monica un mese o per sempre… che sia!
Starà meglio così.
Kyle
non ha più la forza di
ribattere. La risposta di Jonathan gli è parsa sincera e
carica di dolore.
Continua a credere che non voglia lasciarlo andare davvero, che la sua
intenzione sarebbe quello di fermarlo ma, riflettendoci, comprende il
suo punto
di vista. Non è mai stato concorde con l’idea
secondo la quale se si ama una
persona sia necessario lasciarla andare e continua a non condividerla.
Arrivato
a questo punto, nemmeno
lui sa cosa veramente sperasse di ottenere telefonando a Jonathan.
Forse vive
ancora troppo nel mondo delle favole e nel mondo della fantasia nel
quale
grandi , esagerati ed estremamente possessivi gesti romantici, sono
utili a
porre la parola “lieto fine” anche alle situazioni
più irreversibili.
La
storia d’amore dei suoi
genitori gli era sempre sembrata una bella favola ma solo ora si rende
conto
che pian piano ha assunto le tinte fosche della tragedia. È
la vita reale e i
lieti fine non esistono o non
sono
destinati a durare, Jonathan e Christian ne hanno già avuti
troppi nella loro
storia e, a quanto pare, non ne sono previsti altri.
--->
Eccomi anche questo sabato. Voglio intanto ringraziare jaryshanny
per la recensione, mi ricordo le tue recensioni e mi fa piacere
rivederti di nuovo a commentare. Ringrazio anche per la recensione kiki4ever, mi fa
piacere che tu abbia apprezzato particolarmente l'ultimo capitolo,
è in effetti uno dei miei preferiti, tra quelli fino ad ora
pubblicati.
Voglio
anche ringraziare i lettori silenziosi, siete stati davvero in tanti
questa volta e vedere che questa storia venga letta anche dopo
così tanto tempo, anche dopo le mie assurde latitanze mi
riempie veramente di gioia. Sono sinceramente dispiaciuta del
fatto che ormai siamo agli sgoccioli. Un paio di giorni fa ho iniziato
a revisionare uno degli ultimi capitoli... ci siamo e, davvero,
preparatevi!!Nel prossimo succederà qualcosa di MOLTO MOLTO
grande. Spero che continuerete a leggermi e ad apprezzare questi ultimi
capitoli.
Putroppo
causa studio per gli ultimi esami prima della laurea (ouch!) non ho
avuto molto tempo per aggiornare il sito, ho preferito dedicare il mio
tempo libero alla revisione dei capitoli da pubblicare ma vi assicuro
che prima della fine (e prima della pubblicazione del Prequel)
verrà arricchito.
Grazie
a tutti e... a sabato prossimo! <---
|
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Capitolo 41 *** It's never a goodbye (Non un addio) ***
41.
It's never a "good"bye (Non un addio)
Kyle
non parla con Christian dalla sera prima, da quando è uscito
di casa. Quando Jonathan l’ha riportato a casa ha fatto il
possibile per evitarlo, non che gli sia risultato difficile, dal
momento che nemmeno Christian ha cercato il dialogo.
La situazione nella quale si trova
è del tutto surreale, non gli è mai successo di
mantenere le distanze con lui, non più di un paio
d’ore, nemmeno da bambino quando per punirlo per un brutto
voto in compito o per una bugia gli toglieva la PlayStation o
le piste delle Hotwheels. Si sente morire dentro per questo suo
atteggiamento e vorrebbe tanto tornare a parlargli come se nulla fosse,
eppure una parte della sua testa gli dice che non è giusto,
che non è lui questa volta a sbagliare. Per quanto
presuntuoso e assurdo possa sembrargli Christian si sta veramente
comportando da egoista in quel suo desiderio di scappare via, egoista e
immaturo. Detesta rivolgersi a lui con epiteti del genere ma non
può fare altrimenti.
Sono le dieci del mattino e si trova ancora a letto, nel buio della sua
stanza. Non ha ancora aperto le finestre e non ne sente la
necessità. L’estate ormai è finita e
mal tollera il debole e illusorio sole autunnale. Trova strano che
Christian non si sia presentato in camera per svegliarlo eppure
è felice che non l’abbia fatto, avrebbe finito con
rispondergli male e, almeno questo, vorrebbe evitarlo. Desidera
scioccamente di starsene in quel letto e in quella stanza tutto il
giorno senza fare nulla, senza parlare con lui né trovarselo
davanti eppure sa che non sarà possibile. Sospira
sonoramente e decide di abbandonare il letto, tutto eseguito compiendo
piccoli movimenti.
Appoggia appena i piedi sul pavimento dopodiché si alza e
apre la finestra, facendo attenzione a non fare troppo rumore. Uscendo
dalla sua stanza ha quasi paura a rivolgere lo sguardo a
destra, in direzione del tavolo da pranzo, poiché
è sicuro di trovarvi Christian a leggere il giornale o a
fare colazione.
Non c’è.
Kyle si sente disorientato. Per un attimo teme che sia già
partito, che abbia deciso di andarsene di notte senza dirgli nulla,
abbandonandolo completamente. Poco dopo, però, nota che il
tavolo è apparecchiato con un tovagliolo, un tazza per fare
colazione e un cucchiaio, probabilmente per i cereali. Sopra la tazza
è posato un biglietto, strappato da un foglio di quaderno a
righe.
“Sono
andato in Università, mangia i cereali per
colazione.”
Kyle tiene il biglietto tra le dita e istintivamente lo appallottola
gettandolo per terra. Si siede proprio dove Christian ha apparecchiato
per la colazione. Non ha fame e non crede proprio mangerà.
Il suo unico desiderio in quel momento è quello uscire, di
andar fuori. Si alza immediatamente e si precipita in camera per
vestirsi. Manderà un messaggio ad Anthony, chiedendogli di
pranzare insieme. L’unico modo nel quale crede di riuscire ad
evitare tutta quell’angoscia è stando con lui.
Anthony ha risposto in modo più che positivo al
messaggio di Kyle, lo sta aspettando come di consueto davanti al
vecchio cinema. Diversamente dal solito gli corre incontro non appena
lo vede apparire dietro l’angolo.
-Ehi, tutto bene?
Chiede, con sguardo preoccupato. Kyle fa spallucce, nel
messaggio con il quale gli ha chiesto di incontrarsi non ha specificato
il motivo. Inoltre, al momento non se la sente di raccontare
ad Anthony quanto sia successo nelle ultime dodici ore, non si sente
pronto.
-Mi andava di uscire…
Risponde sommessamente, alimentando i sospetti del ragazzo che continua
a fissarlo con sguardo inquisitorio, nell’attesa che aggiunga
altro.
-Non ho fatto colazione e ho fame, facciamoci un panino da qualche
parte, ok?
Chiede Kyle, tentando probabilmente invano di deviare il discorso che
intende affrontare solo quando si sentirà realmente pronto.
***
Christian
è da poco uscito dallo studio del coordinatore della sezione
di Arte dell’università. È rimasto
chiuso nel suo ufficio per circa un’ora, sostenendo un
colloquio molto difficile e impegnativo. Sta scendendo lo scalone
principale del dipartimento, in modo piuttosto rapido. Vuole
abbandonare immediatamente la facoltà, senza ripensamenti,
senza ulteriori rimorsi. Si sente in colpa per la sua decisione ma non
avrebbe potuto fare altrimenti.
-Oh, non penserai di scappare così!
Christian sospira. Sa a chi appartiene quella voce ma cerca di tirare
dritto perché non ha intenzione di parlare con nessuno, men
che meno con lui. Tuttavia il suo tentativo di fuga viene
immediatamente bloccato.
Si tratta di Ronald, come Christian aveva intuito. L’uomo lo
afferra da dietro per un lembo della camicia, costringendolo a
fermarsi, non lasciandogli altra scelta.
-Ronald, per favore…
Cerca di ribattere in tono seccato. Ronald molla la presa sulla camicia
ma si pone davanti a lui, a braccia conserte, intenzionato
più che mai a ricevere delle risposte.
-È vero quello che si dice da stamattina in Dipartimento?
Domanda infine, con tono serio. Christian cerca di aprire la bocca ma
Ronald, con sorpresa, lo ferma facendogli cenno con la mano di tacere.
-E sappi che non voglio sentirti dire “Che cosa?” o
qualsiasi altra stronzata, la verità Christian.
Christian annuisce e prende fiato, prima di parlare.
-Sto partendo. Gli esami autunnali inizieranno tra un paio di giorni e
i corsi il mese prossimo, non posso andarmene senza avvisare.
Sulle labbra di Ronald appare un sorrisino di sdegno, che subito si
tramuta in una smorfia. Evidentemente ciò che ha appena
detto Christian non è quello che vuole sentirsi dire.
-Ti ho detto: “niente stronzate”.
Aggiunge.
-Non è una stronzata, è la verità.
Ribatte Christian, apparentemente sicuro della sua risposta. Ronald si
concede qualche attimo per scrutarlo, prima di parlare di nuovo.
Benché le parole di Christian possano suonare sincere, il
suo volto lo tradisce.
-E hai bisogno di un anno di congedo? Cos’è, vai
in missione in Congo, per caso?
Christian abbassa lo sguardo e non ribatte. Questo suo atteggiamento
remissivo infastidisce Ronald. Che subito lo afferra per entrambe le
spalle e lo scuote. Christian alza lo sguardo. I due si osservano
intensamente negli occhi, per qualche secondo. Proprio durante quegli
attimi Ronald, avendo analizzato lo sguardo di Christian, avendo
intuito che c’è qualcosa di oscuro nei suoi occhi,
decide di smorzare i toni.
-Qual è la verità?
Chiede, con tono decisamente più pacato.
-Andrò in California per qualche tempo.
Risponde Christian. Ronald sa che c’è
dell’altro ma non glielo chiede, si limita ad osservarlo
negli occhi. Allenta un po’ la presa, appoggiando appena le
mani sulle spalle di Christian che nel frattempo è rimasto
immobile, senza muovere un singolo muscolo.
-L’insegnamento è qualcosa che amo,
qualcosa al quale ho dedicato parte della mia vita. Per me
insegnare, insegnare arte, è quasi come una missione. Dedico
tanto tempo a preparare i miei discorsi e ci metto decisamente
più di me di quanto vorrei e dovrei nelle mi spiegazioni.
Non è solo un lavoro è una passione che va
seguita, che va curata. Nelle condizioni nelle quali mi trovo non sarei
in grado di farlo bene. Per questo ho bisogno di una pausa…
Aggiunge quindi Christian, con voce debole. Le sue parole sono sincere,
Ronald è sicuro nell’affermare che provengano
direttamente dal suo cuore. Quella dedita e profonda passione che
Christian mette nel suo lavoro è qualcosa che conosce, che
ha avuto modo di osservare. Sentendo quella confessione, gli pare quasi
di dialogare direttamente con l’anima di Christian,
un’anima sicuramente candida e innegabilmente tormentata.
Quell’ombra scura che ha notato subito nei suoi occhi non
è un buon presagio, è qualcosa però
riconosce, che ha provato.
-Cosa ti ha fatto, questa volta?
Domanda, sicuro di centrare il punto. Christian scuote il capo.
-Nulla, ha solo deciso di lasciarmi andare.
Ronald spalanca gli occhi, vuole intervenire ma non riesce e, in ogni
caso, Christian parla prima che abbia tempo di formulare anche un
singolo pensiero.
-…e io non sono pronto.
Fa un’altra pausa, più breve, utile probabilmente
a fargli prendere fiato.
-Ho bisogno di starmene per un po’ in un posto dove non lo
veda ovunque. A casa è come se fosse sempre presente:
sdraiato sul divano che abbiamo comprato da Walmart, appoggiato alle
pareti verde acqua che lui ha sempre detestato, seduto sulla sedia del
tavolo da pranzo sulla quale né io né Kyle
abbiamo avuto il coraggio di occupare…
Ronald nota che le parole di Christian iniziano a diventare deboli e
cariche di sofferenza, parole spezzate, che nascondono malinconia,
dolore, disperazione. Non vuole che vada oltre per cui annuisce col
capo in modo deciso, per indicargli che va bene così, che ha
detto abbastanza e che non ha bisogno davvero di andare oltre.
-Va bene.
Aggiunge alla fine, lasciandolo andare. Christian annuisce a sua volta
e si gira, continuando a scendere le scale. Ronald lo osserva andare
via, finché non arriva proprio in fondo,
all’ultimo scalino. Ha qualcosa in fondo alla gola, un
pensiero che vuole uscire e che vuole tanto diventare reale. Sa che non
ne avrebbe il diritto e che probabilmente concretizzarlo non servirebbe
a nulla se non a ferire entrambi, eppure deve farlo. Sente che quelle
parole hanno bisogno di una forma, che hanno bisogno di essere
ascoltate.
-Con me sarebbe andata diversamente.
Esclama, con voce tonante. Non c’è quasi nessuno
nelle vicinanze e i soffitti alti e antichi fanno sì che le
sue parole vengano diffuse in modo più profondo, creando un
eco piuttosto forte, decisamente difficile da ignorare. Christian si
gira.
-Fa’ buon viaggio, biondo.
Aggiunge poi con un sorriso, cercando di sdrammatizzare e di rientrare
più nel suo “personaggio”. Christian
annuisce, gli fa un cenno di saluto con la mano dopodiché
esce dall’edificio. Ronald rimane su quella scala ad
osservarlo, finché la sua immagine smette di avere dei
contorni ben delineati e diventa solo qualcosa di lontano, di
indefinito. Non è solo Christian ad andare via, con lui se
ne va’ anche la speranza di Ronald che quel sentimento che
prova per lui un giorno possa effettivamente concretizzarsi.
L’amore che Christian prova per Jonathan è una
forza inarrestabile. Si tratta di quegli amori travolgenti che
all’apice del loro corso assumono la forma di un angelo, di
una creatura di luce eterea e superiore che avvolge e protegge ma che,
se viene intrapreso il percorso sbagliato, si tramuta in un terribile
demone dagli artigli affilati che si conficcano nella pelle nel
tentativo di strapparla e di non fermarsi fino ad arrivare in fondo,
fino a toccare le ossa per poi frantumare anche quelle, senza
pietà.
Non è un amore dal quale si guarisce facilmente. No, il
processo di guarigione è lento, doloroso e a volte nemmeno
assicurato. L’ha capito solo quando ha visto
quell’ombra scura negli occhi di Christian, la stessa ombra
che ha notato allo specchio nei suoi stessi occhi, dopo aver perso per
sempre il suo compagno, dieci anni prima, in quel fatale incidente
ferroviario.
***
Kyle sta mangiando
il cheeseburger che ha ordinato. Anthony non fa che osservarlo,
aspettando con impazienza il momento nel quale confesserà
finalmente le sue preoccupazioni. Non sembra minimante interessato ad
aprirsi con lui, né a sostenere una qualsiasi discussione,
dal momento che non ha aperto bocca se non per mangiare. Sembra
veramente affamato ed è strano da parte sua. Kyle non
è un tipo con particolari passioni per il cibo, sicuramente
quel suo comportamento serve a mascherare qualcosa, ad aiutarlo a non
pensare a ciò che realmente lo turba.
Anthony non ha per niente fame. Ha ordinato lo stesso panino di Kyle ma
non è ancora riuscito a dargli un morso. La tensione e la
preoccupazione gli hanno chiuso lo stomaco, vorrebbe tanto comportarsi
come Kyle e fare finta di nulla ma non ci riesce. Prende in mano il
panino, nel tentativo di addentarlo. Si concentra particolarmente sulla
forma ben poco armoniosa del pane, sull’odore forte della
cipolla a cubetti, probabilmente presente in dose eccessive e sulla
bistecca contenuta nel panino, di dubbia provenienza. Generalmente
è meno schizzinoso riguardo al cibo. Certo, a casa
è abituato a pranzi ben più prelibati ma non
disdegna un buon cheeseburger né un hot-dog comprato da un
ambulante per strada. Semplicemente è troppo preoccupato
perché la sua mente gli dia un qualsiasi input. Con
rassegnazione appoggia il panino nel piatto di carta dove era stato
fino a quel momento e torna a fissare Kyle.
Si chiede se anche lui non sia preoccupato per l’inizio della
scuola. Manca veramente poco. Tra una manciata di giorni i loro
incontri verranno ridotti drasticamente. Anche appuntamenti strani e
confusi come quello attuale diverranno un semplice ricordo. Dovranno
accontentarsi del weekend, sempre che il carico di studio fornito dalla
nuova scuola non sia eccessivamente impegnativo. Anthony teme che Kyle
abbia deciso di uscire così presto quel giorno per parlare
finalmente di quella questione, che hanno entrambi fino a quel momento
accuratamente evitato.
Si fa forza e ormai stanco di aspettare decide di intervenire.
-Kyle, è arrivato il momento di parlarne.
Kyle alza finalmente lo sguardo e osserva Anthony incuriosito.
-Di cosa vuoi parlare?
Chiede infine, continuando a far finta di nulla.
-Di come cambieranno le cose, tra qualche giorno.
Aggiunge Anthony, con sicurezza. Kyle non ribatte e agli occhi Anthony
risulta confuso, disorientato. Tra i due torna a regnare il silenzio,
rotto solo da Kyle, almeno un paio di minuti dopo.
-Voglio farlo.
Anthony non ribatte, aggrotta la fronte e gli rivolge uno sguardo di
incertezza, del tutto insicuro di ciò che voglia dirgli.
-Che cosa?
Chiede poi, con ovvietà.
-Quello,
esattamente quello che pensi.
Anthony rimane pietrificato dalle parole di Kyle, capisce finalmente a
cosa si riferisca ma non era per nulla ciò a cui stava
pensando. La sua mente, almeno in quel momento, non era stata nemmeno
lontanamente sfiorata dal quel pensiero.
-No, non capisco. Cioè, ho capito cosa vuoi dire
ma… perché tirarla fuori così, di
punto in bianco?
Kyle fa spallucce. Il suo atteggiamento è sempre
più strano, Anthony è sicuro che
quell’affermazione gli sia uscita dalla bocca per caso, che
non sia esattamente ciò che voleva dire o che,
più probabilmente, ci sia dietro dell’altro
-Mio padre, Christian, se ne andrà in California per qualche
tempo. Ho la casa libera, possiamo approfittarne.
In quella frase apparentemente normale, pronunciata con incredibile
indifferenza e spontaneità, Anthony riesce a captare il vero
motivo per il quale Kyle ha sentito il bisogno di vederlo in modo
così urgente. Stesso motivo che deve averlo spinto ad
esprimere quel desiderio, a fargli quella proposta. Kyle ha capito che
Anthony è stato in grado di intuire la verità,
dal momento che non ha ancora aperto bocca. Per questo motivo, lo
anticipa.
-Sì, se ne va. Ma non voglio parlare di quello, davvero.
Voglio parlare di noi, di quello che ti ho detto.
Aggiunge. Anthony non si sente convinto, ha paura che Kyle voglia
utilizzare anche quella cosa come mezzo per non pensare ai suoi
problemi, alle sue preoccupazioni. Non nega che quell’aspetto
lo incuriosisca e che voglia effettivamente farla
quell’esperienza eppure sente che Kyle non ha messo la
questione sul tavolo perché si sente pronto o
perché ne sente il bisogno. Vuole che
quell’esperienza sia spontanea, non cercata e che di certo
non sia un pretesto per dimenticare qualcos’altro. Col
rischio di offendere Kyle, decide di tirarsi indietro.
-No, senti, così non mi va’.
Kyle sembra stupito.
-“Non ti va’”?
Anthony scuote il capo.
-Non così.
Kyle abbassa lo sguardo, senza ribattere. Dopo qualche istante,
però, a seguito di un respiro molto profondo e con il cuore
che batte all'impazzata, prende coraggio.
-Ascolta...
Una breve pausa, necessario ad aiutarlo a raccogliere i pensieri, a
riordinare le idee.
-Hai detto tu stesso che tra poco inizierà la scuola e...
non sappiamo come cambieranno le cose tra noi. Proprio per questo
motivo voglio farlo.
Anthony apre la bocca e cerca di intervenire ma Kyle lo precede. Non ha
finito e vuole che Anthony senta tutto ciò che ha da dire.
-Sì, questa cosa di Christian mi distrugge, è
evidente. Però ti assicuro che non preso la mia decisione
basandomi su questo, al contrario ho cercato di sftruttare la cosa a
mio favore, per quanto negativa possa essere.
Anthony non è ancora convinto. Scuote il capo ma pare non
voglia più ribattere. Kyle allunga la mano sul tavolo,
afferrando la sua, intrecciando le sue dita con quelle di Anthony, una
presa forte.
-Credimi.
Anthony continua a pensare che il ragionamento di Kyle sia condizionato
e ben lontano dall'essere sentito e spontaneo, tuttavia nella stretta
bisognosa della sua mano, nel suo sguardo così ingenuo e
quasi supplichevole, riesce a scorgere una grande richiesta di aiuto,
alla quale non può certo tirarsi indietro.
-Va bene.
Risponde, sorridendo e innescando al tempo stesso il sorriso di Kyle.
***
Il
giorno della partenza di Christian è arrivato.
Sono le sette e il suo volo partirà tra due ore. Kyle
è sveglio, non ha dormito neanche un minuto durante la notte
precedente. Si trova nel suo letto, avvolto dal piumino quasi fino alle
orecchie, è sdraiato su un fianco e parte del suo viso
è affondata nel cuscino. Sta ascoltando da quasi una
quarantina di minuti ogni singolo movimento di Christian: i suoi passi
rapidi, le ruote dei due trolley, persino l'acqua corrente del
lavandino.
Sta cercando di restare calmo ma il suo cuore non glielo permette. Ogni
attimo di esitazione, ogni rumore di passo mancato, teme che sia quello
decisivo, quello dopo il quale Christian uscirà
definitivamente da quell'appartamento. La sera prima non hanno parlato
del trasferimento. La conversazione a tavola è stata
piuttosto strana e sorprendentemente tranquilla, avevano ripreso a
parlarsi quasi come sempre. A Kyle era parso quasi che la partenza di
Christian fosse stata solo un sogno, un frutto della sua immaginazione,
dal quale si era finalmente svegliato.
Questo finché non aveva notato il passaporto di Christian
appoggiato sulla credenza in sala, pronto ad essere utilizzato. Da quel
momento la conversazione aveva iniziato ad assumere per lui i tratti
del surreale, del grottesco. A Kyle era diventato tutto d'un lampo
chiaro quanto Christian si stesse sforzando per far finta di nulla, per
non fargli pensare alla partenza. Deve averlo fatto sicuramente per non
dargli ulteriori turbamenti ma anche per evitare discussioni scomode.
Affrontare l'argomento di nuovo li avrebbe portati sicuramente a
litigare e di certo una lite non avrebbe potuto che aggravare una
situazione già di per sé molto seria.
Tutto d'un tratto, la porta della stanza di Kyle si apre. Christian se
ne sta andando, è pronto, il momento è arrivato.
Kyle non se la sente di parlargli ora, non lo vuole salutare, non ce la
farebbe. Ragion per cui finge di dormire. Non gli è
difficile, ha finto spesso di dormire, solitamente però l'ha
fatto per superare i "controlli" dei genitori e poter tornare a giocare
con il Nintendo DS ancora acceso e in pausa, posizionato sotto il
cuscino.
Kyle deglutisce e cerca di mostrarsi più rilassato
possibile. Christian si avvicina a passi lenti, cerando di non fare
troppo rumore. Kyle non riesce a vedere cosa stia facendo, avendo gli
occhi chiusi ma dal suo respiro, più affannoso di quanto
dovrebbe, sa che è li, davanti a lui, ad osservarlo. Poco
dopo infatti gli accarezza il capo con dolcezza, passando le dita tra
il suo disordinati capelli ricci, una carezza lunga ma molto piacevole
che mette a dura prova le emozioni di Kyle. Un potente e fastidioso
nodo in gola inizia a spingere, pronto per scoppiare in un singhiozzo
ma lui non può permetterselo, deve resistere.
Christian smette di accarezzare i capelli però, sposta una
ciocca dalla fronte di Kyle sulla quale appoggia delicatamente le
labbra, lasciandovi un tenero ed affettuoso bacio. Kyle è
costretto a deglutire, cerca di essere più silenzioso
possibile.
-Ci vediamo presto, amore mio.
Sussurra poi. Kyle è sicuro che si sia accorto che sta solo
fingendo di dormire ma che abbia deciso di non dire nulla, di stare al
gioco, come ha sempre fatto con il Nintendo DS acceso, la cui luce era
impossibile non notare.
Esce dalla stanza, socchiudendo la porta di Kyle. Altri due passi, tre,
quattro e infine esce, chiudendo la porta a chiave. Proprio in quel
momento Kyle si lascia andare, comincia a piangere con disperazione,
fino quasi a perdere il respiro.
---> So a cosa state pensando: Dov'è la cosa GROSSA
che sarebbe dovuta accadere? Nel prossimo capitolo, tranquilli ;)
Questa settimana dubitavo sarei riuscita a postare (infatti sono in
ritardissimo!!!!). Il capitolo che leggete è stata una
"decisione dell'ultimo minuto". La prima parte era prevista mentre la
seconda l'ho scritta proprio ora, per non lasciarvi "a bocca asciutta".
Purtroppo ho avuto una settimana TERRIBILE. Ho iniziato con
un'influenza spezzagambe e ho concluso con l'abbandono del mio pc.
Sto scrivendo tutto direttamente da NVU perché la suite di
Office Starter non si è installata bene dopo il Ripristino
sul mio pc e mi tocca chiamare quindi la Microsoft per capire come
fare. Quindi perdonatemi per eventuali errori ortografici, spaziature
sbagliate, paragrafi "strani". Ho voluto comunque darvi qualcosa da
leggere, spero apprezzerete. Da settimana prossima tutto
tornerà alla normalità, farò il
possibile.
Ringrazio pinkylu
per il commento e... A sabato prossimo! <.---
|
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Capitolo 42 *** Running Out of Time (Corsa contro il tempo) ***
42.
Running out of time (Corsa contro il tempo)
Sono
le 16.30 e Jonathan si è
appena alzato dal letto, dopo una lunga e pesantissima nottata. Deve
aver particolarmente esagerato
col fumo o con l’alcool durante ultime due sere e il suo
stomaco non ha retto.
Praticamente ogni sera dal giorno nel quale ha deciso di consegnare i
documenti
per la separazione a Christian, l’ha trascorsa in bar,
discoteche, pub o
qualsiasi posto affollato e pieno di gente e di distrazioni utili ad
annullare
le voci nella sua testa, soffocare suoi pensieri, lenire la sua
sofferenza. Non è mai stato un
grande frequentatore di locali a parte il
“Vampiria” tanti anni prima, né un
grande bevitore. Regge parecchio bene l’alcol, tutto sommato.
Tuttavia c’è
sempre un limite e lui deve averlo superato.
Sudore
freddo, nausea, vista sempre più
difficoltosa. Aveva quasi temuto di morire da solo sul pavimento di
quel
piccolo vuoto bagno del suo appartamento.
Il
suo cuore aveva iniziato a
battere talmente forte, al punto che aveva creduto fosse pronto a
saltargli
fuori dalla gola. In qualche modo, comunque, deve essere riuscito a
raggiungere
il letto quella sera, perché è lì che
si è svegliato. Le gambe ancora faticano
a reggere il suo peso, lo stomaco è ancora in continuo
movimento e la testa
duole, quasi fosse sotto la costante mira di un martello. Ha dormito
per circa
dodici ore filate e non ha alcuna intenzione di mangiare, non ne
sarebbe in
grado. Si accascia mollemente sul divano.
Dovrebbe
telefonare a Kyle per
decidere insieme come far fronte alla partenza di Christian,
dovrà convincerlo
a venire a casa sua e sa che sarà molto difficile. Non
riesce però a pensarci
in questo momento, è piuttosto tardi per cui se ha aspettato
fino ad ora una
mezz’ora in più non farà certo la
differenza.
“…
questo per ora è tutto, vi
terremo informati circa i superstiti e le condizioni dei
feriti.”
Jonathan
si stropiccia gli occhi
e si rende conto di essersi inavvertitamente seduto sopra il
telecomando del
televisore. Riesce a sentire solo delle voci confuse e non è
ancora in grado di
focalizzare le immagini trasmesse sullo schermo. Istintivamente allunga
il
braccio sinistro e afferra i suoi occhiali. Sono un po’
sporchi ma non ha
intenzione di lavarli per il momento, ragion per cui li inforca e torna
a
fissare lo schermo.
-Incidente
aereo!
Sobbalza,
improvvisamente.
Immediatamente
un flash fa si che
una lampadina si illumini del suo cervello. Una folgorazione improvvisa
gli
permette di acquistare una adeguata lucidità mentale. Ad
innescare tutto il
processo è una paura, che ancora non ha il coraggio di
formularsi nella sua
testa. Rapidamente afferra il telecomando per alzare il volume,
tuttavia in
quel momento il telegiornale è finito. Inizia allora a fare
zapping in maniera
frenetica, alla ricerca di un qualsiasi notiziario che per sua fortuna
non
fatica a trovare.
Alza
di nuovo il volume e ascolta
attentamente ogni singola parola.
“Buonasera,
edizione speciale
delle 16.35 per tenervi informati circa l’incidente aereo che
ha avuto luogo
tra le 9 e le 10.30 di stamattina sulla rotta New York- San
Francisco”
Il
cuore di Jonathan si ferma, le
sue orecchie non sono in grado di sentire altro. Balza in piedi con il
rischio
cadere per terra e raggiunge la giacca, dove la sera prima si ricorda
di aver
lasciato il cellulare. Nessuna chiamata persa, nessun messaggio. Riesce
a
stento a vedere lo schermo ma andando a memoria cerca i tasti cercando
di
comporre il numero di telefono di Christian. Non gli parla da due mesi
ma non
gli importa, deve sapere se sta bene. In cuor suo spera di sentirlo
dall’altro
capo del telefono inveire contro di lui, insultarlo ululandogli addosso
tutta
la rabbia che ha in corpo e sarebbe felice, la persona più
felice della terra.
Tuttavia, alimentando le sue più grandi paure, non risponde.
-Spento.
Commenta
cercando di placare quel
rapido attacco di tachicardia che lo coglie improvvisamente. Sente la
pressione
del sangue salire pian piano, il capo inizia a pesargli. Fa un respiro
profondo
e decide di telefonare a Kyle. Prima di comporre il suo numero cerca di
ordinare
il pensieri e tenta di formulare un discorso conciso ma che al tempo
stesso non
lo spaventi.
-Pronto?
Risponde
Kyle dall’altra parte,
con voce piuttosto tranquilla. Jonathan cerca di calmarsi.
-Kyle,
tutto bene?
Chiede,
non sapendo che altro
dire.
-Sì,
perché?
Jonathan
prende fiato e con la
coda dell’occhio si rende conto che la mano sinistra, quella
non impegnata a
reggere il telefono, sta stringendo in modo piuttosto deciso il lembo
di uno
dei cuscini del divano.
-Dove
sei?
Chiede.
-A
casa.
Risponde
Kyle, in tono poco
convinto. Deve essere una bugia, non è mai stato bravo a
dirle. Tuttavia al
momento a Jonathan non interessa, se ne potrà occupare in un
altro momento.
-Hai…
notizie di Christian?
-No.
Perché, c’è qualcosa che non
va?
Anche
Kyle inizia ad agitarsi.
Esattamente l’ultima cosa che Jonathan avrebbe voluto.
-No,
non lo so. Non hai guardato
il telegiornale?
Ribatte,
facendosi forza.
-No.
È successo qualcosa che dovrei sapere?
Jonathan
cerca le parole per rassicurare
Kyle, impresa alquanto difficile. Al momento le sue condizioni mentali
e
fisiche gli permettono a malapena di stare seduto su quel divano a
parlare al
cellulare. Anche la sola formulazione di frasi a senso compiuto gli
crea
problemi.
-No,
sono sicuro che va’ tutto
bene, tranquillo.
Kyle,
naturalmente non gli crede.
-Non
mi avresti chiamato. Dimmi
cosa è successo!
Jonathan
decide allora di
spiegare cercando di essere più oggetto e tranquillo
possibile, tentando
perlomeno di non trasmettere le sue più grandi angosce e
paure anche a Kyle.
-Dobbiamo
chiamare la nonna!
Esclama
subito Kyle, appena
ascoltata la spiegazione.
-No,
non dobbiamo preoccupare
Angela.
Lo
ferma subito Jonathan. Inizia
a pentirsi di aver telefonato subito a Kyle, dopotutto ha solo sedici
anni e
non è giusto lasciargli gestire una situazione del genere.
Forse avrebbe fatto
meglio ad alzarsi, cercare il numero della compagnia area e informarsi
riguardo
all’accaduto.
-Ma
vedrà il telegiornale!
La
voce di Kyle si rompe in un
singhiozzo. Jonathan inizia a maledirsi per il suo gesto impulsivo.
-No
no, ehi! Lo sai cosa dicono,
no? “Nessuna nuova; buona nuova.”
La
sua sciocca frase fatta non ha
alcun effetto su Kyle, il cui pianto sembra essere se possibile
più disperato.
-Kyle,
ascoltami. Dimmi la
verità, dove sei?
Il
senso e la responsabilità
paterna di Jonathan gli permettono di tornare parzialmente in
sé. È sicuro che
se provasse ad alzarsi le sue gambe lo tradirebbero, facendolo cadere a
terra
senza pietà. Tuttavia inizia a riacquistare una certa
lucidità, perlomeno si
convince di averla riacquistata, per il bene di suo figlio.
-A
casa… con Anthony.
Jonathan
si ricorda di aver già
sentito quel nome ma non gli ricorda nulla di particolare.
-Chi?
Kyle
non risponde subito.
-Kyle,
per favore, chi è Anthony?
Un tuo amico? Voglio sapere se sei in un posto sicuro, con una persona
affidabile.
Jonathan
alza involontariamente
la voce. Se ne pente poco dopo ma non si scusa.
-Il…
il mio ragazzo.
Jonathan
apre la bocca per
parlare ma non ci riesce. Il suo cervello elabora
l’informazione che gli è
stata comunicata con qualche minuto di ritardo. Vorrebbe approfondire
riguardo
alla definizione “il mio ragazzo”. Non ha tempo
però per rimanere sconvolto o
chiedere spiegazioni, non è quello che al momento che gli
interessa sapere.
-Sei
al sicuro? Mi posso fidare?
-Sì,
certo.
Jonathan
sospira.
-Senti…
cercherò di mettermi in
contatto con la compagnia area, con l’aeroporto, chiunque!
Si
passa una mano tra i capelli
in modo nervoso. Al momento non è neanche di grado di capire
dove poterle
reperire quelle informazioni.
-E
se non riuscissi a sapere
nulla?
La
voce di Kyle è ancora
disperata. Sembra che non pianga più, tuttavia il suo stato
d’animo non è
certamente dei più tranquilli.
-Ci
andrò io.
***
Kyle
appoggia il cordless sulla
base e rimane immobile, in completo silenzio. Anthony, seduto sul
divano alle
sue spalle, si alza.
-Cos’è
successo?
Kyle
si gira, lacrime agli occhi,
sta tremando. D’un tratto si sente mancare, le gambe lo
tradiscono, il suo
equilibrio lo abbandona, scivola lentamente su di un fianco. Anthony
prontamente lo prende, impedendogli di finire per terra.
Dopodiché lo adagia
delicatamente sul divano.
Kyle
impiega almeno un minuto
prima di riprendere senno.
-Ti
senti bene?
Domanda
Anthony, seduto accanto a
lui, con sguardo terrorizzato. Kyle non ha il coraggio di rispondere.
Distoglie
lo sguardo e deglutisce, quasi nel tentativo di spingere via anche la
sua
paura, il suo terrore. La telefonata appena terminata con Jonathan
l’ha sconvolto.
Si sente malissimo, avverte una morsa soffocante all’altezza
della gola, si
sente in colpa, terribilmente in colpa. Inizia a credere che se
è veramente
accaduto ciò che teme e che né lui né
Jonathan sono stati in grado di formulare
a voce alta, parte della colpa sia anche sua. Il modo nel quale ha
ignorato
Christian, la loro ultima lite, la sua ostinazione a non volergli
concedere
nemmeno un saluto.
Tante,
troppe cose che non crede
di poter sopportare.
-È
colpa mia.
Riesce
a dire a malapena. Anthony
naturalmente non comprende la situazione e Kyle non riesce a trovare il
coraggio per spiegarsi, si limita a guardarlo, a fissarlo intensamente
negli
occhi sperando che ci arrivi, sperando che capisca da solo.
-È successo qualcosa a tuo padre,
a
Christian, non è vero?
Kyle non conferma, se non con un lieve
cenno col capo. Al momento non ha le forze per fare altro. Mai avrebbe
pensato
che la situazione che stava vivendo fino a qualche istante prima,
giusto una
decina di secondi prima che quel maledetto telefono iniziasse a
suonare,
avrebbe preso quella piega.
Aveva telefonato a Anthony alle dieci
circa, invitandolo a venire da lui nel pomeriggio. Aveva programmato
tutto e
grazie a questo era riuscito a non pensare alla partenza di Christian,
a quello
che vedeva come un abbandono, un’offesa personale. Si era
chiesto se dovesse
prepararsi in qualche modo, occorrente a parte. Si era sentito nervoso,
impaziente un po’ impaurito ma al tempo stesso innegabilmente
eccitato.
Dopotutto una situazione del genere l’aveva già
vissuta con Anthony. Doveva
soltanto cercare di comportarsi come quella volta, con totale
naturalezza,
lasciando che gli eventi seguissero il loro corso naturale.
Quando il campanello aveva suonato il
cuore aveva iniziato a battergli in modo quasi doloroso. Si sentiva un
po’
sciocco, eppure quella felicità che sempre caratterizza ogni
incontro con
Anthony non aveva dato segno di volerlo abbandonare. Dopo un respiro
profondo
aveva aperto la porta e aveva accolto il ragazzo con un bacio,
aggrappandosi
quasi al suo collo con entrambe le braccia. Anthony era rimasto
sorpreso da
tale intraprendenza, del tutto strana per non dire vietata, nei loro
usuali
incontri all’aperto.
-Aspetta almeno che entri!
Gli aveva detto, sorridendogli. Poco
dopo però, come era prevedibile che fosse, tra i due si era
creata una
situazione di imbarazzo, di silenzio. Dopotutto sono entrambi solo dei
ragazzi
alle prime esperienze e tralasciato quel piccolo
“incontro” durante quella
festa sarebbe stata la prima esperienza di quel
tipo per entrambi. Naturalmente
Anthony essendo piuttosto popolare a scuola
ha avuto modo di frequentare alcune ragazze e sperimentare con loro,
Kyle però
non è una ragazza e per quanto la natura dell’atto
sia tutto sommato la stessa,
è da considerarsi una seconda “prima
volta”.
Si
erano seduti sul divano, a
vedere un po’ televisione, con la speranza che questa
riuscisse ad aiutarli a
rompere il ghiaccio o perlomeno il silenzio. Si erano ritrovati a
guardare una
vecchia puntata di “American Dad”, che devono aver
ritenuto estremamente
divertente dal momento che erano scoppiati entrambi a ridere in modo
rumoroso e
quasi incontrollabile. Doveva essere stato l’imbarazzo o la
timidezza
malcelata, fatto sta che Kyle ridendo e osservando Anthony ridere a sua
volta
aveva preso coraggio e si era avvicinato di più a lui,
baciandolo. Il bacio, a
differenza di quello di poco prima sulla porta, era stato spontaneo e
travolgente. Anthony era scivolato lungo il bracciolo del divano e Kyle
si era
posizionato sopra di lui, contro il suo petto. Era riuscito a sentire
il cuore
del ragazzo battere
forte, fortissimo,
esattamente quanto il suo e aveva sorriso, felice che si trovassero in
completa
empatia anche e specialmente in quell’occasione.
Grazie
a quella constatazione
Kyle si era sentito pronto per andare avanti. Aveva interrotto per un
attimo il
bacio per aprire la zip della felpa di Anthony che a sua volta
l’aveva aiutato
a sfilare la sua. Si erano guardati per un istante, fermi, immobili,
quasi
entrambi avessero bisogno della reciproca conferma per proseguire, per
andare
avanti.
Drin
Il
telefono.
Kyle
si era girato, per osservare
l’apparecchio, sperando forse che solo guardandolo avrebbe
smesso di suonare.
Dopodiché aveva osservato l’orologio sul muro,
segnava le 16.40. Sicuramente
troppo presto perché si trattasse di Christian, doveva
essere Jonathan. Aveva
sospirato, arrendendosi all’idea di dover interrompere
ciò che stava facendo e
per il quale stava iniziando a provare sincero piacere.
-Deve
essere Jonathan, dobbiamo
ancora decidere i dettagli della mia sistemazione.
Aveva
detto ad Anthony.
-Beh
dai, rispondi! Così poi
possiamo riprendere…
Aveva
ribattuto maliziosamente il
ragazzo facendo arrossire e sorridere Kyle al tempo stesso. Si era
alzato,
aveva alzato la cornetta e aveva premuto quel tasto verde, quel fatale
tasto
che nella frazione di un secondo era stato in grado di frantumare
irrimediabilmente la sua felicità. Le parole di Jonathan
erano state
sufficienti a fare immediatamente dissipare nel nulla
quell’oasi felice che si
era creato con Anthony e dalla quale non avrebbe mai voluto
allontanarsi.
L’eccitazione adolescenziale, la curiosità, il
desiderio, erano diventate un
pallido ricordo o peggio una colpa, un peccato.
Sì,
perché proprio mentre lui si
concedeva a tali frivolezze poteva essersi verificato
l’irreparabile. Mentre si
perdeva negli occhi nocciola di Anthony, mentre sentiva il suo cuore
quasi
scontrarsi sottopelle con il suo, Christian poteva essere…
Morto.
Pensa,
arrivando di nuovo sul punto
di perdere i sensi. Anthony è ancora lì accanto a
lui. Gli sta tenendo la mano
e lo guarda, con la preoccupazione e l’angoscia negli occhi.
-Un
incidente aereo, potrebbe essere coinvolto.
Riesce
a dire, con estrema
fatica.
-Andrà
tutto bene, non è niente,
vedrai.
Risponde
Anthony, cercando di
rassicurarlo.
***
Jonathan
aveva parlato a Kyle con
franchezza e gli aveva detto sneza pensarci troppo che avrebbe risolto
lui la situazione, quando in realtà brancola nel
buio più profondo. Il suo intento
era quello di rassicurare almeno lui ed è sicuro di aver
fatto il possibile per portarlo a credere che tutto andrà
bene e che
a breve ogni cosa si risolverà, senza grandi complicazioni.
La
verità è che una volta appoggiata
la cornetta del telefono le ginocchia iniziano a tremargli. La sbornia
del
giorno precedente non da’ cenno di volersene andare, sembra
anzi peggiorare di
momento in momento. Jonathan chiude gli occhi, cerca di respirare e di
concentrarsi su altro. Sempre ad occhi chiusi fa mente locale per
capire dove
siano le chiavi e il portafoglio con i documenti. Dovrà
guidare
per un imprecisato numero di chilometri. Al telegiornale si ricorda di
aver
sentito dello scalo a Buffalo e si augura, benché sa di
dover correre come un
pazzo in condizioni del tutto instabili, di trovarlo là,
seduto da qualche
parte.
Apre
gli occhi e tutta la stanza
sembra volergli crollare addosso. Il suo corpo vuole tradirlo ma non
può
permettersi di fermarsi, non in quel momento. Al contrario il suo
cervello sta
elaborando, sta macchinando pensieri sempre più tetri,
sempre più angoscianti.
Morte.
Il
cuore gli batte forte al punto
di fargli male, privandolo di quel poco fiato che ha in corpo. Deve
bere un po’
d’acqua, la sua gola è secca e la bocca
è arida, al punto da far fatica a
separare le labbra. Corre verso la cucina e si regge al bancone,
afferrandolo
quasi con le unghie. Prende la bottiglia d’acqua lasciata
aperta la sera prima
e inizia a bere, a canna. Detesta profondamente bere a canna ma in quel
momento
non gli importa, neanche se ne accorge. Quasi si strozza, per colpa di
un sorso
troppo rapido o forse perché la sua stessa gola, viziata
solo qualche ora prima
dal più scadente e devastate alcolico, ha bisogno di
qualcosa di molto più
forte. Inizia a tossire, l’acqua gli entra nel naso,
creandogli difficoltà
respirare.
Sta
perdendo troppo tempo e non
se lo può permettere. Abbandona la bottiglia
d’acqua sul bordo del bancone e questa
essendo mezza vuota immediatamente scivola sul pavimento, svuotandosi
completamente.
Lo
sguardo di Jonathan cade sul
tavolino vicino al divano dove il simbolo in acciaio lucido della
Mercedes sul
portachiavi dell’auto brilla grazie ai raggi di sole che
filtrano dai due finestroni. Afferra il mazzo e lo mette in tasca dove
fortunatamente ha lasciato il portafogli. Gli manca ancora il
passaporto, deve
portarlo con sé nell’evenienza di dover prendere
un aereo per raggiungere
Christian. Sa che si trova in qualche cassetto nella stanza da letto ma
non è
in grado di ricordarsi quale, così con foga inizia a
trascinare ogni cassetto
nella stanza togliendolo dai binari del mobile e sbattendolo sul letto
o sul
pavimento.
A
prima vista non nota nulla se
non cartacce, vecchi giornali o orologi. Inizia quindi a riversare il
contenuto
dei cassetti sul pavimento, gettandovisi anche lui stesso, in
ginocchio, per
frugare tra quel mucchio di oggetti in quel momento inutili. Qualcosa
deve essersi rotto, ci
sono dei vetri per terra e delle parti plastiche che non sa bene a cosa
appartengano ma non gli importa.
Il
tempo sta scorrendo in modo
impietoso e Jonathan è convinto di doversi muovere, di dover
far presto. Crede
che anche solo una frazione di secondo potrebbe essere utile. Dopo aver
frugato
fra i mucchi di roba si rassegna e teme di dover cercare in salotto
finché,
tentando di alzarsi, il ginocchio scivola in avanti sulla custodia
plastificata
del passaporto. Lo afferra, osserva che è sporco di sangue
che pare
provenire dalla sua mano. Deve essersi inavvertitamente tagliato con i
vetri
rotti sparsi sul pavimento. Non sente dolore, nemmeno un leggero
pizzicore e
probabilmente se non avesse visto il passaporto macchiato non si
sarebbe
accorto di essersi ferito.
Si
alza senza dare al fatto
troppa importanza e si prepara a dirigersi verso la macchina. Ci
impiega
qualche secondo per chiudere la porta di casa. Scatta quasi senza
pensarci
verso l’interruttore dell’ascensore ed inizia a
pigiarlo con forza, salvo poi
ricordarsi che non è ancora stato aggiustato. Fa un respiro
profondo,
preparandosi a scendere le scale.
Arrivato
infine alla macchina
entra nell’abitacolo, aggiusta lo specchietto ed estrae gli
occhiali da vista
dal portaocchiali. Detesta indossarli e in condizioni normali
proverebbe prima
a guidare senza, pur sforzando notevolmente la vista. Tuttavia ora non
vuole,
non può.
Una
volta in auto cerca di
raccogliere tutte le forze e concentrarsi. Sa che sarà dura
guidare e, mentre
inserisce la retromarcia per uscire dal parcheggio, inizia a chiedersi
se la
corsa contro il tempo che sta facendo varrà a qualcosa. Per
un istante si
ferma, proprio nel bel mezzo della manovra, un istante più
lungo di quanto
credesse perché un clacson lo distoglie della sue
riflessioni, facendolo
sobbalzare sul sedile: è in mezzo alla strada e un
automobilista dietro di lui
impreca e gesticola, intimandogli di spostarsi. Immediatamente scuote
il capo
per riprendersi, osserva nello specchietto e alza la mano per un breve
cenno,
con l’intento di scusarsi per la distrazione.
Durante
il tragitto cerca più
volte di telefonare a Christian ma il telefono risulta sempre
irraggiungibile.
Dopo essersi arreso cerca di accendere la radio ma abbassando lo
sguardo per
cercare la stazione radiofonica del notiziario si distrae dalla strada,
rischiando di tamponare la macchina davanti, ferma al casello
autostradale. Si
accorge dell’errore e immediatamente schiaccia il piede sul
pedale del freno,
forse con troppa veemenza poiché la macchina inchioda,
facendolo scattare in
avanti.
Dopo
circa quattro ore riesce ad
arrivare all’aeroporto. Il suo cuore sobbalza quando vede le
macchine della pattuglia
della polizia. L’ingresso al terminal è bloccato,
non c’è un solo parcheggio
disponibile e davanti ha sé ha una colonna di una trentina
di auto.
Jonathan
non è una persona
avventata: è riflessivo e il suo carattere è
pacato eppure più osserva la fila
davanti a sé e più un pensiero nella sua testa
cerca di concretizzarsi. Porta
gli occhi al cielo, si slaccia la cintura, spegne l’auto,
tira con forza il
freno a mano e abbandona il veicolo.
Inizia
a correre. Corre,
noncurante dei clacson che suonano. Arriva in cima alla fila e viene
fermato da
due poliziotti.
-Dove
crede di andare, lei?
Chiede,
uno dei due.
-Sono
qui per l’incidente aereo.
Il volo è partito da qui prima di precipitare, non
è vero?
Chiede,
quasi sbiasciando. Forse
ha parlato troppo velocemente perché il poliziotto ci mette
qualche istante
prima di rispondergli.
-Siamo
qui tutti per l’incidente,
per favore, torni al suo posto.
Jonathan
scuote il capo. Non
vuole saperne di fermarsi.
-No,
io… devo vedere.
Esclama,
cercando di scorgere
qualcosa all’interno dell’aeroporto.
-Vedere
cosa?
Domanda
il poliziotto, sempre più
infastidito.
-Sto
cercando una persona, io… la
prego, mi faccia passare.
Interviene
l’altro poliziotto,
che fino a quel momento era rimasto in silenzio.
-Signore
non c’è nulla da vedere
qui. Ci hanno chiamati semplicemente per interrogare la torre di
controllo che
ha fatto partire l’aereo, a quanto pare l’avaria al
motore è stata riscontrata
allo scalo.
Jonathan
annuisce. Non sa cosa
dire, vorrebbe soltanto correre. Vorrebbe soltanto entrare in quel
grande
edificio che ha davanti a sé e vedere lui, Christian, sapere
che sta bene.
-Ci
sono stati feriti? Io..
arrivo da New York. Per favore, mio… marito era su
quell’aereo, io devo sapere.
DEVO vederlo.
“Marito”.
Non chiamava Christian
in quel modo da così tanto tempo eppure gli era sembrato
così solito, così
naturale. Formulando la frase non era riuscito a trovare una parola
differente,
quella è stata l’unica che il suo cervello gli
avesse suggerito.
-Senta
non siamo autorizzati a
rivelare certi dettagli, specialmente a persone non vicine alle vittime.
Risponde,
aspramente il primo
poliziotto.
Discriminazione, infima e
stupida discriminazione. Eppure a Jonathan in quel momento non
interessa,
sorvola.
-Signore,
sta bloccando il traffico.
Alcune persone non sono decollate, forse suo marito si trova tra quelle.
Risponde
l’altro poliziotto, con
pacatezza.
Jonathan
sorride. Speranza. Poca,
forse inesistente.
-Dice
sul serio?
Chiede,
tremando.
-Sì,
un gruppetto di passeggeri è
sceso dall’aereo durante lo scalo e ha perso il volo.
Jonathan
deglutisce. Non sente
più nulla. Tutto quanto attorno a sé diventa non
più di un brusio. Anche il
poliziotto che continua a parlare con lui è come muto. Vede
le sue labbra
muoversi ma non sente alcun suono. Sogghigna, in modo quasi sinistro e
osserva
l’ingresso.
Non sono più di
duecento
metri, scattando rapidamente dovrebbe riuscire a raggiungerlo.
Deglutisce. Il
cuore inizia a battergli forte, chiude gli occhi e stringe un pugno,
quello
ancora sporco di sangue, che ormai si è seccato.
Scatta
e corre. Vede l’ombra di
un paio di persone dietro di sé ma non gli importa, deve
arrivare, deve
entrare.
È
sempre stato affascinato dalla
caratteristica del corpo umano di sprigionare adrenalina e forza
inaspettate
nei momenti di pericolo o di necessità e sperimentarlo sulla
propria pelle è
qualcosa di sensazionale. Mentre corre si sente leggero e un lieve e
quasi
piacevole senso di pelle d’oca lo pervade.
Ce
l’ha fatta, è dentro.
Si
guarda attorno. Ci sono diverse
persone, diversi poliziotti. Alcuni si girano non appena lo vedono
entrare ma
non è questo che attira la sua attenzione.
Di
spalle: capelli biondi un po’
spettinati, camicia azzurra, jeans scuri. È lui, deve essere
lui.
“Fa che sia
lui, fa che sia lui.”
Pensa,
mentre cerca di trovare
fiato e la forza di pronunciare quel nome.
-Christian!
Urla.
Un urlo così sofferto, così
profondo che la gola gli duole non appena la fonazione cessa.
Non
si gira.
Il
cuore di Jonathan si ferma. Il
corpo torna a cedere.
Cade
ma non smette di guardare
davanti a sé.
“No, non
può non essere lui.”
Le
labbra gli tremano. Sta per
piangere, un pianto che parte dal cuore e sale, su, fino ad arrivare
agli
occhi.
Quando,
improvvisamente, si gira.
È
lui.
-John…
Esclama,
sorpreso.
Jonathan
si alza con fatica e lo
raggiunge. Lacrime agli occhi.
-Sei
tu! Sei proprio tu?
Chiede
Jonathan, con un filo di
voce.
-Cosa
ci fai qui?
Chiede
Christian, osservandolo.
-Ti
prego, dimmi che sei tu.
Urlami addosso, prendimi a schiaffi, fa’ quello che ti pare
ma ti prego, dimmi
che sei tu!
Christian
non risponde, nota però
la sua mano sinistra.
-Certo
che sono io. Cosa… cosa
hai fatto a quella mano?
Jonathan
sospira. Quasi
istintivamente si getta verso Christian e lo abbraccia. Sente il suo
cuore
battere contro il suo petto e d’improvviso tutto il mondo
torna a farsi
sentire: I poliziotti che lo chiamano, gli annunci del terminal, la
musica pop
nelle casse in radiotrasmissione.
-Sarei
morto, te lo giuro. Ci
sono stato vicino, troppo vicino.
Sussurra,
senza lasciarlo andare.
---> Allora? Ve
l'avevo detto che si trattava di qualcosa di grosso :) E non
è finita, se ho fatto bene il mio "dovere" il prossimo
capitolo vi distruggerà. Siamo veramente ad un passo dalla
fine. Ho ancora un bel po' di cose da raccontarvi e da farvi leggere ma
ci siamo. Questo capitolo a me personalmente piace molto,
c'è un po' di azione, c'è sentimeno e riemerge il
VERO Jonathan, come scoprirete nel prossimo capitolo. Riguardo alla
stesura, tutta la parte di Jonathan è stata scritta diversi
mesi fa, tutta d'un fiato assieme a quella successiva. Ultimamente ho
solo aggiunto la parte di Kyle e Anthony.
Vi confesso che avrei
voluto lasciarvi un po' di suspance e tagliare dal punto in cui John
chiama Chris sperando che sia proprio lui. Ma mi sembrava crudele farvi
aspettare una settimana così ve l'ho lasciato
così, sperando comunque che siate interessati di leggere il
seguito.
Bene, ho detto tutto
quello che volevo. Non ho ricevuto commenti ma ho visto che si sono
aggiunti nuovi lettori e ringrazio TUTTI fedeli, new entry... GRAZIE!
Sapere che la mia storia è letta, seguita e apprezzata mi
dà un senso di felicità che nemmeno potete
immaginarvi. Come al solito vi invito a commentare su qualsiasi cosa
vogliate e... vi do appuntamento a sabato prossimo :)
<----
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Capitolo 43 *** Don't go (Non andare) ***
43- Don't go (Non andare)
-Sto
bene, te l’ho detto!
Christian
è al telefono con Kyle
e lo sta rassicurando. È stato Jonathan a prestargli il
telefono, poiché le
valigie di Christian sono andate perse durante l’incidente
aereo, impedendogli
quindi di mettersi in contatto con casa.
-Credo
mi fermerò qui a dormire.
Ci sentiamo domani, buonanotte tesoro. Ti voglio bene anch’io.
Chiude
la chiamata e porge il
telefono a Jonathan, che nel frattempo è seduto su uno dei
seggiolini
dell’aeroporto, ormai vuoto. Anche Christian si siede,
accanto a lui.
-Spero
tu non abbia chiamato mia
madre.
Esordisce
Christian. Jonathan
scuote il capo.
-Bene,
perché non sapeva nulla
del mio arrivo.
Jonathan
non commenta. Il suo
corpo e la sua mente si trovano in uno stato di totale rilassamento, si
limita
ad osservare Christian ringraziando, nemmeno lui sa chi o cosa, per
averlo
ancora lì davanti ai suoi occhi in carne e ossa. Vorrebbe
allungare la punta
dell’indice verso il suo braccio, solo per sentire la sua
pelle, solo per
essere certo che sia davvero vivo e che stia bene.
Mentre
Christian parlava al
telefono la strana idea che tutto fosse un sogno aveva iniziato
balenargli in
testa. Aveva ipotizzato di essersi schiantato contro qualche guardrail
in
autostrada, di trovarsi in uno stato di coma e lì, tra il
sonno e la veglia, in
un mondo a cavallo tra la vita e la morte riuscisse vedere lui, etereo,
come lo
era sempre stato. Nonostante la faccia stanca e nonostante gli occhi
arrossati
era sempre bello, il più bello.
-Credevo
ti avrebbero arrestato.
Jonathan
sorride, finalmente
ritrova il coraggio di parlare.
-E
perché? Non ho fatto nulla di
male.
Christian
sorride.
-No,
hai solo abbandonato l’auto
in mezzo alla strada e sei sfuggito ad almeno una decina di poliziotti,
che
sarà mai?
Commenta,
sarcastico.
-Nulla.
Risponde
Jonathan, prendendogli
la mano. Gesto istintivo, spontaneo. Non gli importa se Christian si
ritrarrà,
non teme un suo rifiuto, aveva semplicemente voglia di toccarlo e di
sentirlo,
per un secondo o per un’ora, poco importa.
Christian
non si ritrae, da’ una
rapida occhiata alla mano di Jonathan e poi allontana lo sguardo, quasi
con
timore.
-Non
mi hai ancora spiegato cosa
hai fatto a questa mano. Sembra sangue…
Jonathan
osserva la mano, senza
però mollare la presa.
-Frugando
in un cassetto devo
aver urtato e rotto il quadrante di uno dei miei orologi, forse un
vetro mi hai
tagliato. Dico “forse” perché in
realtà non ne ho idea.
Annuisce,
Christian.
-Sai…
sei venuto in mio soccorso
ben due volte, in questa occasione.
Jonathan
lo guarda, incuriosito.
-E
come?
Sulle
labbra di Christian appare
un lieve sorriso e osservando i suoi occhi Jonathan nota un leggero
senso
di imbarazzo.
-Stavo
per salire sull’aereo,
davvero. Ero praticamente alla scaletta e mi sei venuto in mente
Quando…
andavamo a Santa Monica, quando Kyle era piccolo e gli dicevi sempre:
“Hai
fatto la pipì? È bene andarci comunque, anche se
non ti sembra di doverci
andare! Il viaggio è lungo…”
Jonathan
annuisce e continua la
frase, assieme a Christian.
-“Meglio
risposare che fare la
coda in bagno!”
Christian
sorride, questa volta
un sorriso più audace, più fermo.
-Già…
Beh, sono andato in bagno e
la coda era lì, invece. Ho aspettato il mio turno. Non avevo
il cellulare con
me e non porto orologi. L’hai sempre avuto tu quindi io,
io…
Si
ferma un secondo, forse per
prendere fiato, poi ricomincia a parlare.
-…non
mi sono mai abituato, ecco.
Fatto sta che quando sono uscito dal bagno l’aereo era
già partito. Credo mi
abbiano chiamato, non lo so. Mi sono trovato qui, spaesato, preoccupato
e ho
iniziato a chiedere al personale dell’aeroporto a che ora
fosse il prossimo
volo quando poi, una volta stampato il biglietto, il mio volo
è stato
cancellato. Mi è stato poi spiegato il perché.
Silenzio.
Le
parole di Christian hanno
suscitato in Jonathan uno strano senso di pace, di
tranquillità. Non ha più
paura che non sia vero, non ha più alcun
dubbio. Lascia lentamente andare la sua mano ma, sorprendentemente,
Christian
lo riafferra.
-Credo
mi fermerò qui questa
notte. Immagino ci sia un piccolo albergo, nei paraggi.
Afferma
Christian.
-Sì,
sicuramente.
Conferma
Jonathan, sorridendogli.
-Tu…
che farai?
Domanda
infine Christian, quasi a
bassa voce, fissandolo poi negli occhi.
-La
strada di casa è ancora
lunga, credo sia il caso che mi fermi anche io.
***
Kyle
può finalmente tirare un
respiro di sollievo. Durante le ultime ore ha passato
l’inferno, le peggiori
scene, le peggiori ipotesi, non hanno fatto che affollarsi nella sua
testa. Ha
trascorso tutto il tempo con l’orecchio teso intimorito ma
allo stesso tempo
speranzoso che quel telefono tornasse a suonare. Anthony aveva fatto
zapping su
qualsiasi canale nel quale trasmettessero il telegiornale per avere
aggiornamenti. Erano riusciti a venire a conoscenza dell'esistenza di
un gruppetto di superstiti, rimasti a terra durante allo scalo a
Buffalo.
Quando
Anthony lo aveva
aggiornato sull’ipotesi aveva iniziato a sperare con lo
sguardo rivolto al
cielo, implorando una qualsiasi entità superiore fosse
disposta ad ascoltarlo e
ad assisterlo. Per una buona porzione di tempo aveva maledetto i suoi
stessi
genitori per non averlo introdotto a nessun tipo di religione,
perché non
avendo alcun appiglio spirituale al quale rivolgersi in una situazione
del
genere si era sentito per la prima volta perso. Aveva già
riflettuto in
occasione della morte di nonno Jack circa l’assenza del
fattore religione nella
sua vita e continua a recitarsi come un mantra la frase di Jonathan: “Noi non crediamo in Dio
perché Dio non
crede in noi”. Eppure
egoisticamente
in quel momento avrebbe voluto crederci, avrebbe voluto che gli fosse
stato
impartito un qualsivoglia insegnamento spirituale, che gli fosse stato
insegnato come pregare e cosa chiedere.
Anthony
non aveva fatto che
rassicurarlo, raccontandogli la più svariate e remote
ipotesi.
Tuttavia nonostante Kyle
avesse apprezzato e
si fosse sentito quasi sopraffatto dalla dolcezza e dalla cura che
Anthony
aveva impiegato in una faccenda tanto delicata, gli era parso che
stesse solo
cercando di arrampicarsi sugli specchi e che in realtà lui
stesso fosse quasi
sicuro che nulla di buono sarebbe risultato da quella faccenda.
Erano
trascorse tre ore, tre ore
che avrebbe voluto e dovuto impiegare diversamente. Tra le colpe che
aveva
iniziato ad attribuire a se stesso figuravano anche quelle di aver
promesso ad
Anthony qualcosa che di certo quel giorno non si sarebbe sentito pronto
a
dargli.
Quando
le ore segnate dalle
lancette avevano iniziato ad accumularsi, aveva iniziato a pensare di
doversi
tenere impegnato e quindi di forzarsi, benché non se la
sentisse, per proseguire
ciò che avevano iniziato e che in fondo avrebbe voluto
continuare, solo non in
quel momento. Tuttavia era ben presto arrivato alla conclusione che il
risultato sarebbe stato scadente, nonché insoddisfacente.
Non vuole sprecare
quell’occasione con Anthony, ha già avuto un
incontro abbastanza
deludente con lui.
Quell’occasione di avere
una seconda “prima volta”, ha intenzione di
coglierla appieno, senza gettarla
via per capriccio o per sconforto. Senza contare che al momento si
sente
appagato anche soltanto dalle attenzioni e l’interesse che
Anthony sta mostrando nei
suoi confronti.
Capisce
nei suoi gesti, nei suoi
sguardi teneri e premurosi che non si sta comportando in quel modo solo
per
circostanza o per raggiungere un secondo fine. No, Anthony ci tiene
davvero a lui
e di questo non fa che averne la conferma, istante dopo istante. È
certo che in un momento del genere, accanto a lui, non avrebbe voluto
nessun
altro.
Nessun altro tranne Morgan.
Ecco
di nuovo quel nome, il nome
della sua migliore amica, che torna a ripresentarsi sotto forma di
ennesima
colpa, di ennesimo rimorso. Ormai stremato, disperato e
senz’altra promessa
alla quale tener fede, aveva giurato a se stesso che
nell’eventualità che tutto
si fosse risolto per il meglio, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe
stata
proprio quella di contattarla e finalmente di porre fine a
quell’assurda e
innecessariamente lunga incomprensione.
Questo
perché solo in
quell’occasione è arrivato a capire che veramente
si è in grado di apprezzare
il valore delle persone e capire quale ruolo e importanza abbiano nella
propria
vita nell'esatto momento nel quale si è così
vicini a perderle. L’ha subito
capito con Christian perché benché sia suo padre
e già sapesse di provare
amore e affetto incondizionati nei suoi confronti, nelle ultime tre ore
non ha fatto che
rimproverarsi per essere stato poco chiaro, per non averglielo detto e
forse
dimostrato in modo che lo capisse, in modo che gli fosse chiaro e che
non
avesse alcun dubbio a riguardo.
Chiunque
l’abbia ascoltato in
cielo o in terra ha fatto sì che il suo desiderio si
realizzasse. Fa fatica a
crederci ma Christian è vivo, sta bene e gli ha appena
parlato. Le lacrime
iniziano a scorrere sulle sue gote ma per un motivo differente: si
tratta di
una liberazione del suo cuore che finalmente ha smesso di far male e
della sua
mente che da offuscata da pensieri nefasti è tornata serena
e limpida.
Ha
appena riagganciato il
telefono, chiudendo quella chiamata con un “ti voglio
bene”, una delle rare
volte nelle quali l’ha detto a cuor leggero, sentendo che era
qualcosa che
veramente voleva dire e che non si trattava di una forzatura o qualcosa
che
“andava detto”. In quella sua dichiarazione di
affetto sono stati rinchiusi
tutti i suoi sentimenti, tutto ciò che ha provato nelle
ultime strazianti tre
ore.
Anthony
non ha nemmeno dovuto
chiedergli conferma, gli è bastato guardarlo con quel
sorriso così felice, per
capire che tutto si è risolto, che tutto è andato
per il verso giusto. Si alza
dal divano dove ha aspettato con impazienza che Kyle terminasse
quell’agognata
telefonata, dopodiché osserva i suoi occhi lucidi giusto per
una frazione di
secondi e lo abbraccia con forza ma senza fargli male, un abbraccio
liberatorio, un abbraccio di supporto, che ha la forma di un grido che
pare
dire: “Ce
l’abbiamo fatta, è andata.”
che Kyle non può che ricambiare e apprezzare, appoggia il
capo contro il
petto di Anthony e rimangono in quella posizione per almeno un paio di
minuti,
in completo silenzio, assaporando ogni attimo e cercando di
riprendere
fiato.
***
Jonathan
e Christian stanno
entrando nella stanza che hanno deciso di affittare per la notte.
Christian
entra per primo e Jonathan lo segue, chiudendo la porta. Si
è fatto parecchio
tardi.
-Ti
spiace se vado prima io a
fare la doccia?
Chiede
Christian, girandosi verso
di Jonathan.
Jonathan
scuote il capo.
-Affatto,
fai pure. Io mi
stenderò un po’.
Jonathan
decide di dormire sul
letto singolo, lasciando a Christian il matrimoniale. Dubita
dormirà, dal
momento che non ha per nulla sonno. Finalmente sta bene, forse troppo
bene.
Potrebbe affrontare un’intera giornata, senza sdraiarsi,
senza nemmeno chiudere
un occhio. Probabilmente la scarica di adrenalina non si è
ancora esaurita. O
forse è davvero sta per morire, al momento ritiene probabili
entrambe le
ipotesi. Non vuole però pensarci, ragion per cui si getta
sul letto,
sospirando.
Christian
entra nel bagno, chiude
la porta alle sue spalle e poi si osserva, allo specchio.
“Meglio di quanto
pensassi.”
Pensa.
Osservando il suo riflesso
nello specchio stenta a credere di avere di fronte a sé il
viso di una persona
che solo qualche ora prima ha schivato per il pelo il terribile spettro
della
morte. Non ci aveva ancora pensato e gli sembra strano di esser
così sereno,
così tranquillo. Sta bene ed è stato
incredibilmente fortunato. Sa che se
continuasse a riflettere sulla faccenda inizierebbe ad agitarsi, sa che
l’angoscia e la paura inizierebbero ad avere la meglio per
cui scuote velocemente il
capo, quasi per allontanare ogni sorta di pensiero negativo e rivolge
lo
sguardo verso la doccia.
Inizia
a spogliarsi e si butta
immediatamente sotto il getto d’acqua calda.
L’acqua
che gli scorre
sulla pelle, il vapore che pervade la stanza; per un attimo crede di
essere a
casa e non in uno dei più scadenti alberghi della zona
aeroportuale. Dopo aver cercato senza risultato una stanza in almeno
tre strutture avevano
deciso di fermarsi in quello, l’unico disponibile e purtroppo
il più spartano.
Avevano,
sì, lui e Jonathan.
Jonathan
che ora si trova
dall’altra parte del muro, sul letto. Aprirà la
porta e se lo troverà davanti,
come era stato per ogni giorno in quegli ultimi quindici anni. Quante
volte
l’aveva chiamato per farsi passare un asciugamano o un
accappatoio perché, con
quella sua testa sempre troppo tra le nuvole, si era scordato di
prenderlo dal
mobile della biancheria.
Chiude
l’acqua e si osserva la
mano, la stessa mano che Jonathan gli aveva stretto. L’ultima
volta che gli era
stato vicino, al funerale del padre, il tocco era stato diverso: un
po’ freddo
e quasi circostanziale. Non che non l’avesse apprezzato,
tuttavia quello di
poco prima è
stato completamente diverso,
come non lo era più da tempo e non gli era sembrato neppure
così insolito. Gli
aveva ricordato quelle sere d’inverno davanti alla tv sul
divano, quando
Jonathan semplicemente gli stringeva le dita e ci giochicchiava, un
po’ per non
restare fermo e un po’ per averlo solo più vicino,
per avere la conferma che
fosse suo e che, forse, lo sarebbe sempre stato.
Esce
dalla doccia, prende un
accappatoio dal gancio sul muro e vi si avvolge dentro.
L’accappatoio sembra
aver assorbito tutto il vapore, al punto di trasmettere alla pelle di
Christian
una sensazione di calore, un tepore quasi rassicurante. Si avvicina
allo
specchio tutto appannato, che decide di pulire con la manica
dell’accappatoio. Non
ha voglia usare l’asciugacapelli, non sa che ore siano ma ha
paura di aver
perso la cognizione del tempo in quella doccia. Tampona velocemente i
capelli
con il cappuccio dell’accappatoio, quel tanto che basta per
non bagnare
completamente la federa del cuscino e poi esce.
-Il
bagno è libero…
Esclama, attirando
l’attenzione di Jonathan, che
probabilmente era sovrappensiero.
-Ok!
Si
alza dal letto e scattante si
dirige verso il bagno. Christian si siede in fondo al letto
matrimoniale,
facendo penzolare i piedi e rimane in uno strano stadio contemplativo,
durante
il quale nella sua mente non passano pensieri particolarmente profondi
o
sensati.
-Credevo
ti fossi già
addormentato.
Christian,
alza lo sguardo.
Jonathan è uscito dalla doccia. L’orologio sul
muro dietro di lui che segna l'una e dieci passata, è molto
più tardi di quanto credesse.
-Credo
di essermi incantato.
Commenta
Christian, non
spiegandosi il suo senso di assortimento.
-Suppongo
sia il caso di riposare.
Se hai bisogno sono… lì!
Esclama
Jonathan indicando il
lettino singolo, dove passerà la notte. Christian, senza
neppure
rendersene conto, afferra la manica del suo accappatoio, sorprendendolo.
-No.
Jonathan
si trova del tutto
spiazzato. Christian gli prende entrambe le mani e lo tira verso di
sè, sul
letto. I loro visi sono così vicini, al punto di non essere
in grado di
distinguere il respiro di uno da quello dell’altro, le dita
delle loro mani
sono intrecciate in modo perfetto, paiono quasi appartenere ad un unico
corpo.
Christian non riesce a distogliere lo guardo dagli occhi di Jonathan
che, al
contrario, osserva le sue labbra. Prende coraggio e si avvicina per
baciarlo.
Christian ricambia il bacio, un bacio dolce e delicato. Il profumo
dello stesso
bagnoschiuma sulla pelle di entrambi da’ ancor più
l’illusione che quell’unione
generi un corpo soltanto, una sola anima, un solo elemento che
finalmente dopo
troppo tempo riesce a completarsi. Jonathan sente il cuore di Christian
battere
forte contro il suo e per un attimo crede siano in perfetta sincronia.
Un
atto d’amore non solo per
passione, una comunione delle anime e non solo dei corpi e non importa
quanto
distanti siano da casa o dove effettivamente si trovino, sono insieme e
in quel
momento quella stanza spoglia e quel letto usurato sono la loro casa.
***
Erano
già le ventidue quando Kyle aveva ricevuto quella
telefonata da Christian. I due
ragazzi erano stanchi e provati e senza neanche rendersene conto
avevano finito
per addormentarsi sul divano senza neanche considerare
l’ipotesi di fare qualsiasi
altra cosa.
È
mattina e Kyle si risveglia
quasi di soprassalto. Le finestre sono chiuse e
c’è ancora buio nella stanza,
ragion per cui non riesce a scorgere bene le lancette
dell’orologio. Osserva
però il piccolo display del dvd player che segna le sei. Si
trova con la testa
appoggiata sulla spalla di Anthony. Si chiede come siano riusciti a
dormire
tutte quelle ore di filato in una posizione talmente scomoda senza
lamentarsi.
Anthony pare essere ancora addormentato, Kyle lo intuisce dal suo
respiro pesante
e dall’aria tranquilla e rilassata sul suo viso.
Vorrebbe
svegliarlo e invitarlo a proseguire il riposo in un posto
più comodo, dove poter
distendere i muscoli che proprio in quel momento iniziano a dolere. Non
vuole
però disturbarlo, a giudicare da quell’accenno di
sorriso che ha sulle labbra deduce che
sta sognando, probabilmente un bel sogno dal quale non vorrebbe essere
destato.
Spera egoisticamente di essere anche lui protagonista di quel sogno.
Dopodiché
appoggia di nuovo la testa sulla spalla di Anthony, con delicatezza,
cercando
sempre di non svegliarlo.
Questa
volta però il ragazzo si
sveglia. Con la mano sinistra, fino a quel momento appoggiata sul
divano,
accarezza dolcemente la spalla di Kyle.
-Ci
siamo addormentati, alla
fine.
Commenta,
ancora ad occhi chiusi.
Kyle non risponde, si limita ad emettere un suono di assenso.
-Credo
che anche metà del mio
corpo sia rimasta paralizzata.
Afferma,
scuotendo energicamente
l’altro braccio sul quale era appoggiato.
-Possiamo
spostarci sul mio letto,
è solo una piazza e mezza ma sicuramente staremo
più comodi che qui.
Risponde
Kyle.
-No,
non dormirei più in un ogni
caso. Tu hai ancora sonno?
Kyle
osserva Anthony e scuote il
capo, dopodiché torna nella sua posizione che, per quanto
possa essere scomoda,
lo fa sentire bene e al sicuro. Quell’attimo di relax e di
tenerezza viene
interrotto da un suono che per un attimo nessuno dei due è
in grado di decifrare.
Dopodiché Anthony, che ha capito, sospira.
-È
la vibrazione del mio
cellulare, l’ho lasciato nella giacca
sull’appendiabiti. I miei genitori devono
essersi accorti che non sono tornato a casa. Ci hanno messo un
po’, eh?
Kyle
sobbalza. Non aveva pensato al fatto che Anthony avesse trascorso con
lui l’intera nottata senza avvisare.
Improvvisamente il suo cuore torna a battere e lo osserva impaurito,
ignaro di
cosa dover dire.
-Perché
mi guardi in questo modo?
Domanda
Anthony, apparentemente
molto tranquillo e noncurante di ciò che quel suo
comportamento potrebbe
innescare.
-Non
ci avevo davvero pensato e
adesso cosa-
Anthony
lo interrompe, posando
delicatamente l’indice sulle sue labbra.
-Non
mi interessa cosa accadrà.
Kyle
non è dello stesso parere.
Abbassa lo sguardo con sconforto, non riesce a credere di non aver
potuto avere
un solo attimo di pace. Dopo tutta quella, fortunatamente, mancata
tragedia non
era stato in grado di calcolare la presenza dei genitori di Anthony che
certamente avrebbero trovato strana la sua assenza di oltre dodici ore.
Dopotutto era stato tutto il tempo con lui a parlargli, rassicurarlo e
a
cercare senza sosta notizie su ogni documentario trasmesso. Non per un
istante
aveva controllato il cellulare né si era preso del tempo per
inventare una
scusa da raccontare ai suoi genitori.
-Se
solo mi fosse venuto in mente
avrei insistito perché li chiamassi…
Si
rende poi conto che avrebbe
potuto fare di più: avrebbe potuto invitarlo ad andare a
casa. Si sente un po’
egoista per averlo quasi obbligato a restare con lui.
-Avrei
dovuto lasciarti tornare a
casa ieri sera…
Ammette
poi, senza guardarlo.
-Ehi,
guardami.
Lo
esorta lui, con tono deciso.
Kyle scuote il capo, senza alzare lo sguardo. Così, Anthony
alza il suo viso
con il palmo della mano, obbligandolo a guardarlo dritto negli occhi.
-Non
me ne sarei andato neanche
se me l’avessi chiesto, lo sai?
Kyle
arrossisce.
-Manca
poco all’inizio della
scuola e ogni giorno rimasto, ogni attimo, lo voglio passare con te.
Che
pensino o dicano quello che vogliono i
miei genitori.
Afferma
Anthony deciso,
imbarazzando ulteriormente Kyle che non è preparato a
sentirsi rivolgere frasi
tanto sincere e dirette. Anche lui la pensa allo stesso modo ma non ha
il
coraggio di dirlo, a differenza sua.
-Mi
diano pure per disperso,
chiamino pure la polizia, tornerò quando ne avrò
voglia o quando tu riterrai
che debba andare via.
Prosegue
Anthony. La serietà
delle sue parole, accompagnate al suo tono di voce già
piuttosto grave, rendono
il tutto più maturo, più adulto. Kyle inizia a
pensare a quanto Anthony sia
maturato negli ultimi mesi, a quanto sia cambiato da quel loro piccolo
incontro
alla festa di Debbie Benson e sorride, felice per avergli creduto, per
avergli
dato la possibilità di dirgli quelle parole profonde e
meravigliose che mai si
era sognato di sentire rivolgere proprio a se stesso, così
presto.
-Io
non ti manderei mai via.
Ribatte
con un filo di voce,
facendosi coraggio e cercando di spingere via quella timidezza che pare
avere
del tutto abbandonato Anthony.
-Allora
non me ne andrò, resterò
qui: esattamente dove voglio restare.
Kyle
non sa come rispondere ma
conosce un modo nel quale ribattere in modo efficace, confermando
ciò che Anthony gli ha appena detto,
dichiarando tacitamente di essere d’accordo. Stringe la mano
che Anthony ha
appoggiato sulla sua gamba e si avvicina al suo viso con delicatezza,
lasciando
intuire le sue intenzioni al ragazzo, dopodiché posa le
proprie labbra sulle
sue per un istante si ferma per guardarlo negli occhi, per cogliere la
nota
dolce nel suo sguardo, dopodiché lo bacia di nuovo con
decisione e dolcezza.
***
Jonathan
si sveglia, allunga il
braccio ed immediatamente nota che Christian non si trova
più accanto a sé. Si
ricorda di essersi addormentato accarezzandogli i capelli, solo qualche
ora
prima. Il suo capo era posato nell’incavo della sua spalla e
i capelli gli
solleticavano la guancia.
Non
sa che ore siano, dando un
rapido sguardo all’orologio però nota che sono le
sei. Non è sicuro di quanto
tempo sia stato in completa estasi, inebriandosi con il profumo di
Christian,
cercando di memorizzare ogni singola parte del suo viso e del suo
corpo.
Alzandosi
lo intravede sul
balcone, seduto sul pavimento e appoggiato al muro. Immediatamente
indossa
l’accappatoio e lo raggiunge.
-Ho
quasi creduto che te ne fossi
andato.
Confessa,
sedendosi a sua volta.
-Sì,
forse avrei dovuto…
Commenta
Christian, girandosi
verso di lui. I pallidi raggi di sole del mattino illuminano i suoi
occhi e li
accendono, portando a quell’iride cerulea ancora
più luce. Jonathan vuole
riuscire ad cogliere quella scintilla ancora un istante, prima di
parlare.
-Immagino
tu ti stia già pentendo
per quanto è successo questa notte.
Christian
scuote il capo.
-No,
non lo pensare. Forse non
avrei dovuto farlo, questo è vero, tuttavia dire che me ne
penta sarebbe una
grossa bugia.
Jonathan
asserisce, apprezza la
sua sincerità ed è contento di aver sentito
proprio quelle parole provenire
dalla sua bocca.
Christian
si mette a sedere
diritto, appoggiando meglio la schiena al muro, prima di parlare di
nuovo.
-Nonostante
tutto, ci sono
momenti come la scorsa notte nei quali qualcosa dentro di me, nel mio
corpo e
soprattutto nel mio cuore, che mi spingerebbe naturalmente tra le tue
braccia.
Quel qualcosa passerebbe sopra a tutto, farebbe finta di nulla e non
esiterebbe
un secondo a mettersi in ginocchio a pregarti di tornare a casa.
Spiega
Christian, giocherellando
con la cintura dell’accappatoio senza, per il momento,
guardare Jonathan
direttamente negli occhi.
-Solo
poco tempo fa mi hai detto
che ogni volta che mi vedi è come se ti mettessi una mano
alla gola…
Ribatte
Jonathan, un po’ confuso.
-Sì,
quella è quell’altra parte,
quella che mi frena, quella che mi fa chiedere se veramente sono
disposto ad
annullarmi, ad accettare tutto quanto, a lasciartela passare liscia
nonostante
le ferite brucino, nonostante il cuore mi faccia male, tanto male da
portarmi a
credere di poter morire, di lì a poco…
Sospira
e poi prosegue il
discorso.
-Se
quest’ultima parte ha sempre
il sopravvento è solo perché, fino alla scorsa
notte, i lati di te che conosco
che ho amato e che amerò per sempre erano come spariti o al
peggio annullati,
così come le prospettive che si sarebbero ripresentati.
Jonathan
non capisce a cosa si
riferisca.
-Quali
lati?
Chiede,
con ovvietà. Naturalmente
Christian si aspettava quel genere di risposta e abbozza un breve
sorriso, che
a stento Jonathan riesce a scorgere.
-Ieri
sera hai preso la macchina,
sei corso come un pazzo, hai abbandonato il veicolo senza troppi
pensieri e hai
rischiato di farti arrestare, solo per correre da me. Avevi
bisogno di me: avevi veramente bisogno
che ci fossi, che fossi ancora vivo, che ti guardassi e ti parlassi.
Questa è
una delle ragioni per cui mi sono innamorato di te, dal primo istante.
Jonathan
rimane a bocca aperta,
stupito. Non gli era parsa gran cosa quella sua corsa in auto verso
l’aeroporto
eppure, sentendoselo dire da Christian, inizia a rivalutarsi.
-Io
ho bisogno che tu abbia
bisogno di me e non mi riferisco al fatto che io ti serva
per… stirarti le
camicie o… prepararti dolci o ancora ricordarti le chiavi di
casa. Tu mi
volevi, anche quando non ero in grado di fare nulla, anche quando tutto
ciò che
avevo era un bel faccino. Volevi me e me soltanto e non
perché fossi un espediente
per darti qualcosa, a differenza di tutti gli altri.
In
quell’istante Christian guarda
Jonathan, aspettandosi una risposta, questa volta.
-Hai
ancora un bel faccino.
Christian
scuote il capo.
-Non
è questo il punto. Ieri notte
ho toccato il tuo braccio sinistro e sotto i miei polpastrelli ho
sentito quel
pezzo di pelle cicatrizzata, molle e irregolare, che ti sei procurato
ormai
dieci anni fa.
Jonathan
annuisce e interviene
nel discorso.
-Mi
sono scottato con il burro
fuso di un padella.
Christian
lo corregge.
-No.
Ti sei volontariamente messo
tra me e la padella che stava andando a fuoco, per evitare che io mi
scottassi.
Non c’hai pensato due volte, mi hai spinto lontano e hai
afferrato il manico
rovente, che ti è praticamente caduto di mano schizzandoti
gocce di burro
bollente sull’avambraccio.
Jonathan
alza la manica e osserva
quel pezzetto di pelle, non più largo di tre dita.
Osservandosi si ricorda
perfettamente la scena, si chiede come abbia potuto dimenticarsene.
-Tu
ti saresti buttato nelle
fiamme dell’inferno per me, saresti morto, lo so, ne sono
certo. Non perché tu
me l’abbia detto ma perché me l’hai
sempre dimostrato, in ogni momento della
nostra vita assieme, in ogni istante ed io… io avrei fatto
lo stesso.
Le
parole di Christian commuovono
Jonathan. Non si sono mai detti quel genere di cose, si sono limitati
ad amarsi
giorno dopo giorno, vivendosi a vicenda, fino a quando non erano
iniziati i
problemi che li avevano portati alla situazione nella quale si trovano
in
questo momento.
-Lo
farei ancora, anche se il
giorno dovesse ripetersi incessante: dovessi correre fin qui o
bruciarmi o
chissà cos’altro per ogni giorno di tutto il resto
della mia vita io lo farei,
per te.
Ribatte
Jonathan. Christian gli
sorride, un sorriso che ha ben poco di felice. I suoi occhi iniziano a
luccicare, fino a riempirsi di lacrime, che immediatamente si affretta
a
tamponare con la manica dell’accappatoio.
-Vorrei
crederti. Vorrei tanto,
tanto poterti credere.
Deglutisce
sonoramente, nel tentativo di
bloccare un singhiozzo. Ha altro da dire e non può
permettersi di lasciarsi
sopraffare dai sentimenti.
-Mi
hai fatto credere che ti
saresti buttato a picco nel vuoto pur di proteggermi, portandomi a
prometterti
lo stesso eppure… io non farei mai a te quello che tu hai
fatto a me. Io non ti
tradirei mai, ancor meno con qualcuno che abbiamo sempre visto come un
figlio.
Sembra
che Jonathan rimanga
spiazzato, eppure interviene, qualche istante dopo.
-Mi
rendo conto di essere stato
un mostro eppure… la nostra relazione ha iniziato ad andare
in pezzi molto
prima che andassi a letto con Daniel. Lo sappiamo entrambi…
---> Ed eccoci di
nuovo a sabato. Questo è un altro dei miei capitoli
preferiti, la frase finale di Jonathan ci porterà a scoprire
cosa realmente sia successo nella relazione tra loro due fino ad
arrivare a pochi istanti prima del famoso tradimento, giusto poche ore
prima del primo capitolo. Siete pronti? Mi auguro di sì
;)
Dunque... ancora nessun
vostro pare questa settimana e ho notato che non tutti avete letto il
capitolo precedente, come mai? Ci siete ancora? Dai, avete fatto uno
sforzo per seguire questa storia per tutti questi anni, resistete per
un altro paio di capitoli (forse 3) ancora. Non siete curiosi di
conoscere l'ormai IMMINENTE epilogo? Io credo di sì, per cui
fatevi sentire!!
Vi avevo scritto nel
commento finale all'ultimo capitolo che qui veniamo a conscenza del
vero Jonathan (che se vorrete seguirmi potrete approfondire nel Prequel
che pubblicherò proprio appena avrò finito questa
storia), le parole che rivolge in questi ultimi 2 capitoli a Christian
sono quelle più SINCERE, lui farebbe davvero qualsiasi cosa
per Christian. L'ha fatto in passato (leggerete nel Prequel.... se
vorrete!) e lo farebbe ancora. Spero solo di aver reso in tutta questa
storia e di aver puntualizzato negli ultimi 2 capitoli quanto veramente
questa coppia si sia amata e si ami, in modo quasi FOLLE.
Ok, non ho risposto a
commenti ma ho fatto tutto io, sperando che vi faccia piacere leggere
questi miei commenti/chiarimenti. A sabato prossimo e mi raccomando,
NON MANCATE ;) <---
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Capitolo 44 *** No more wasted time (Basta perdere tempo) ***
44.
No more wasted time (Basta perdere tempo)
TRE MESI PRIMA DELLA ROTTURA
Jonathan
sta per rientrare a
casa. Non ha avuto molti appuntamenti quel giorno, motivo per cui
è riuscito a
rincasare piuttosto presto. Sono le 17.30, Christian è
ancora in facoltà e Kyle
frequenta un corso d’arte pomeridiano a scuola.
Appoggia
la valigetta sul
pavimento per poter cercare meglio le chiavi, che si ricorda di aver
messo nel
taschino anteriore in della giacca. Quando le infila nella toppa,
però, trova
resistenza. Suppone che ci sia una
chiave inserita nella parte opposta. Si ferma un secondo, pensando se
sia possibile
che Christian sia già a casa. Non dando troppo peso alla
faccenda afferra la
maniglia e apre la porta.
-Chris?
Chiama,
scorgendo una luce in
cucina e intravedendo un ombra attraverso il vetrocemento della mezza
parete
che separa la cucina e il salotto.
-No,
sono io!
Ad
emergere dalla cucina non è
Christian ma Daniel.
-Ehi,
ciao.
Esclama
Jonathan, sorridendo.
Chiude la porta alle sue spalle e appoggia la valigetta sul divano.
-Ti
ho fatto preoccupare? Christian
mi ha lasciato le chiavi, sto preparando la tesi e aspetto che la
revisioni. È
un problema, per te?
Jonathan
è decisamente stupito,
Christian non l’aveva avvisato circa la presenza di Daniel.
-Figurati!
Risponde,
scuotendo il capo.
Guarda poi l’orologio da parete davanti a sé,
sopra il tavolo in sala da
pranzo.
-Non
dovrebbe tardare molto oggi.
Commenta
poi.
Daniel
si avvicina a Jonathan che
lo guarda quasi intimorito.
-La
valigetta…
Rimarca
lui, indicando l’oggetto
con lo sguardo. Jonathan non capisce immediatamente. Daniel scoppia a
ridere,
una risata fresca e fragorosa che subito riempie la stanza.
-Se
la lasci sul divano Christian
se ne lamenterà!
Jonathan
annuisce e si china per
raccoglierla, stesso gesto che compie anche Daniel e per poco i due non
si
scontrano.
-Lascia,
faccio io.
Commenta
il ragazzo. Jonathan
immediatamente lo ringrazia.
-Hai
tagliato i capelli?
Chiede,
avendo occasione di
osservarlo con più attenzione.
-Sì!
Trovi che mi stiano bene?
Domanda
lui, dopo aver appoggiato
la valigetta sulla sedia della postazione da lavoro di Jonathan.
-Sì,
molto.
Daniel
ha iniziato a frequentare
casa loro quando ancora era un ragazzino delle medie, ancora prima che
Kyle
entrasse nelle loro vite. Era uno degli alunni a cui Christian dava
ripetizioni
di vario genere per arrotondare lo stipendio, quando ancora non aveva
ottenuto
la cattedra in università. Ha una decina d’anni in
meno di Christian e per
entrambi ha ricoperto la figura di un fratellino minore o anche di un
figlio,
il più delle volte. Non era raro che dormisse da loro di
tanto in tanto,
specialmente dopo una lite a casa o dopo una sessione intensa di
studio. Da
qualche anno aiuta Kyle a svolgere i suoi compiti, mentre Christian e
Jonathan
sono al lavoro.
Jonathan
lo osserva e gli è
difficile, ora come ora, ritrovare in quel viso l’espressione
fanciullesca che
aveva il primo giorno in cui mise piede in casa loro. A quei tempi, ben
dodici
anni prima, era un ragazzino paffutello con capelli biondo scuri a
caschetto,
vestito in abiti decisamente poco consoni alla propria età,
troppo datati,
probabilmente. Ora è snello, i lineamenti sono
più duri ed è discretamente
avvenente.
-Penso
che mi sfinino il viso.
Commenta
Daniel, toccandosi i
capelli. In quel momento assume un’espressione che causa sconcerto
nei pensieri di Jonathan, che si
ritrova a dover sbattere gli occhi due volte prima di poter confermare
ciò che
ha appena pensato. I capelli biondi corti, gli occhi chiari, il sorriso
splendente. Per un attimo gli pare di rivedere Christian da giovane, il
giorno
in cui l’ha incontrato.
-Che
c’è?
Chiede
Daniel, accortosi
dell’espressione spaesata di Jonathan. Quest’ultimo
sorride, cercando di
mascherare l’imbarazzo. Si toglie la giacca che appoggia
sulla spalliera del
divano e si mette a sedere. Osserva di nuovo Daniel con
un’occhiata furtiva.
Non è la prima volta che trova a paragonarlo a Christian, al
suo Christian,
vergognandosene non poco. Tuttavia in questo momento non prova alcun
senso di
colpa o di vergogna, perché crede sia evidente e innegabile
quanto i due
somiglino, esteticamente. Quel taglio di capelli poi l’ha
reso un sosia quasi
perfetto.
-Sei
proprio un pasticcione, lo
sai?
Jonathan
sobbalza.
-La
giacca va sull’appendiabiti!
Commenta
Daniel, con le stesse
parole che Christian avrebbe usato, solo con un tono decisamente
più pacato, in
un’espressione che ha più di un invito che un
rimprovero, come invece Christian
è solito fare. Jonathan inizia a pensare che tutti quegli
anni passati in
compagnia di Christian devono aver in qualche modo influenzato Daniel.
Dopotutto era poco più di un bambino quando
arrivò a casa loro, non aveva
ancora una personalità formata e il fatto che i genitori
fossero divorziati e
vivesse da solo con la madre dovevano averlo spinto a cercare una
figura
paterna, ritrovata senza dubbio in Christian. Una figura paterna
perfettamente
emulata, in modo quasi maniacale.
Daniel
aveva intrapreso gli
stessi studi di Christian, aveva insistito perché gli
insegnasse a cucinare
(con la scusa di dover badare a sé stesso mentre la madre
cercava un nuovo
compagno) aveva inoltre dimostrato particolare entusiasmo quando
Christian
aveva iniziato a passargli gli abiti usati che non voleva
più indossare e di
anno in anno anche la somiglianza fisica si era fatta importante.
Tutto
questo scatena in Jonathan
emozioni contrastanti: lo inquieta quella strana ossessione per
Christian ma
allo stesso modo, nella sua mente, si fa spazio un altro pensiero
decisamente
pericoloso e a detta sua impronunciabile, una sensazione più
di un pensiero,
che mai avrebbe creduto di provare e che vorrebbe tanto dimenticare ed
eliminare.
Daniel
si siede accanto a lui.
-Ti
vedo strano John, stai bene?
Chiede
Daniel appoggiando la mano
sul suo braccio, che immediatamente ritrae.
-Sì,
probabilmente sono un po’
stanco.
Risponde
rapidamente, distogliendo
lo sguardo, gli risulta però difficile farlo.
D’improvviso il suo cuore inizia
a battere con decisione. Si sposta qualche centimetro più in
là, per paura che
Daniel possa accorgersene.
-La
mia presenza ti infastidisce?
Posso tornare dopo cena, se preferisci.
Domanda
il ragazzo, riducendo le
distanze.
-Lo
stai facendo apposta, non è
vero?
Commenta
Jonathan, decisamente
stanco di far finta di nulla.
-A
cosa ti riferisci?
Chiede
il ragazzo, esibendo un
sorrisetto malizioso.
-Daniel,
per favore, non lo fare.
Ribatte
Jonathan, a questo punto
conscio del fatto che Daniel sappia benissimo cosa sta provando.
-Quindi
gli assomiglio, non è
vero?
Il
cuore di Jonathan per un
attimo si blocca, tornando poi correre all’impazzata. Si
alza, non essendo
probabilmente più in grado di reggere la situazione.
Anche
Daniel si alza e gli
afferra entrambi i polsi.
-Era così
bello, fresco, giovane, spontaneo. Come lo sono io, ora.
Afferma,
fissando con attenzione
Jonathan negli occhi. Jonathan scuote il capo.
-No,
tu non sei la metà di quello
che era… di quello che è, lui!
Daniel
sogghigna.
-Allora
perché sei così agitato?
Jonathan
non risponde. Daniel
sogghigna di nuovo, abbassa poi lo sguardo e scoppia in una risatina.
-..anche
eccitato, direi.
Jonathan
deglutisce e cerca di
liberare i polsi dalla presa di Daniel.
-Credo
che tu debba andare, lo
dico sul serio.
Daniel
stringe la presa.
-Non
lo pensi. Non lo negare,
sarebbe imbarazzante per entrambi.
Ancora
una volta Jonathan non
risponde. Tiene lo sguardo basso, osserva il pavimento. Non ha idea di
come
uscire da quella situazione. Si vergogna per ciò che sta
pensando, per ciò che
sta provando. Vorrebbe o meglio dovrebbe sbattere Daniel fuori di casa
ma non
lo fa.
-Fallo.
Esclama
Daniel.
-Che
cosa?
Chiede
Jonathan, quasi a denti
stretti.
-Quello
che vorresti fare.
Jonathan
scuote il capo.
-Esci
da solo, senza che ti ci
sbatta a calci.
Esclama,
in un misto di rabbia e
disperazione.
-O
lo fai tu o lo faccio io.
Ribatte
il ragazzo, con un tono
sicuro e quasi arrogante, che ancora un volta crea in Jonathan emozioni
contrastanti. Scuote il capo, disapprovando sé stesso e
quello che sta per
fare. Si sente male ma non riesce a fermarsi, è troppo
tardi. Alza lo sguardo e
incrocia gli occhi di Daniel dopodiché, senza pensarci
troppo, si avvicina e lo
bacia.
Un
bacio carico di rabbia, di
vergogna e di una passione malsana e dolorosa. Bacia quelle labbra
morbide e
giovani con foga quasi disumana. Dopodiché si ferma,
poiché avverte un
terribile dolore in gola, come se una spina gli si fosse conficcata
dentro.
Quasi fatica a respirare, non parla.
-Credo
di dover andare, ora. Dì a
Christian che ci vediamo domani e che sono andato a casa
perché dovevo
studiare. Buona serata!
Commenta
Daniel compiaciuto,
lasciando l’appartamento. Jonathan immediatamente crolla sul
divano incredulo
per ciò che ha appena fatto.
***
Jonathan
non ha parlato con
Christian tutta la serata. Non gli è stato difficile; quando
quest’ultimo è
rincasato si è infilato sotto la doccia, rimanendoci per
circa un’ora. A tavola
la conversazione è stata interamente monopolizzata da Kyle,
intento a
raccontare il suo disappunto su qualche fumetto del quale nessuno dei
due
genitori sapeva nulla. Senza contare che, molto probabilmente, neanche
Christian doveva essere stato troppo intenzionato a parlare, gli
è sembrato
nervoso e infastidito.
Jonathan
non sa come affrontare
la questione. Vorrebbe parlare a Christian di ciò che
è successo, cercando di
trovare una pretesto. Allo stesso tempo, però, non trova la
forza né il coraggio
per parlargli. Notare quanto Christian sia nervoso e silenzioso quella
sera di certo
non aiuta. Non parlandogli sarà difficile trovare un
escamotage per introdurre
il discorso.
Dopo
cena Christian si mette a
correggere alcuni saggi dei suoi studenti sul tavolo della sala da
pranzo,
mentre Kyle si ferma un paio d’ore in salone a guardare
qualche strano telefilm
via cavo sugli zombie. Jonathan in tutto questo scenario rimane
assente. Non fa
che pensare a ciò che è successo solo poche ore
prima e soltanto girarsi e
guardare Christian lo fa star male, veramente male. Per un attimo pensa
che
potrebbe semplicemente non dire nulla. Non crede che Daniel intenda
parargliene.
Cerca
di prendere fiato qualche
istante, convito di poter convivere serenamente con quel piccolo
segreto, senza
che questo intacchi il suo rapporto con Christian. È
una stupida illusione; sa che
si ritroverà costretto a rivivere quella scena e a provare
ogni volta quel
tremendo senso di colpa ogni volta nella quale li vedrà
insieme nella stessa
stanza. Non ha mai nascosto nulla a Christian, perlomeno nulla di
grosso o di
serio. Iniziare nascondendogli qualcosa del genere è fuori
discussione.
Prende
la sofferta decisione di
confessare tutto quanto. Ha paura di come reagirà, di
ciò che dirà e di come il
loro rapporto cambierà. Spera però che la sua
sincerità sia un passo avanti per
far capire al suo compagno, a suo marito, che si è trattato
di un piccolo
sbaglio, un errore che chiunque potrebbe aver commesso. Dopotutto, come
è d’uso
dire sempre più sovente al giorno d’oggi:
“errare è umano”. Un piccolo errore
dopo quindici anni sarà pure concesso.
“Oppure
no?”
Teme
Jonathan, questa volta
girandosi ad osservare Christian per diversi secondi. Christian non lo
guarda,
è troppo intento a leggere e scrivere. La sua testa non si
alza neanche un
secondo dai fogli, sembra che in quel momento non gli interessi altro.
Tornando
a fissare la televisione
pensa a cosa succederà a Daniel, dopo che Christian verrà
messo al corrente dei fatti. Dubita che
tornerà a frequentare casa loro, perlomeno nel prossimo
futuro. Lui stesso se
Christian avesse fatto ciò che lui ha fatto non avrebbe
pensato due volte a
sbatterlo fuori, probabilmente con l’auspicio di non dover
mai più incrociare
il suo sguardo.
Ecco
che inizia la fatidica
domanda nella sua testa: “Se fosse stato Christian a baciare
Daniel?”. Si
chiede come lui stesso avrebbe reagito. L’indulgenza verso se
stesso gli fa
dire, di primo impatto, che sarebbe rimasto sì ferito ma che
dopotutto l’avrebbe
perdonato. Si fa poi spazio la voce della verità, dritta dal
suo cuore, che
serba un’opinione nettamente opposta.
Sarebbe
andato su tutte le furie.
Avrebbe urlato, si sarebbe sentito ferito, si sarebbe vergognato di
guardare
Christian in viso.
-Allora,
ti è piaciuto?
Chiede
Kyle, irrompendo nei suoi
pensieri.
-Come?
Kyle
lo guarda confuso.
-“The walking dead”.
Sei rimasto a guardarlo, di solito ti lamenti e
ti metti a fare altro!
Jonathan
sorride.
-Perdonami,
ero assente.
Kyle
sbuffa.
-Figuriamoci!
Jonathan
scoppia a ridere. La sua
risata viene smorzata immediatamente dall’intervento di
Christian.
-Kyle,
vorrei farti notare che sono
le undici passate.
Afferma,
facendo sobbalzare
Jonathan.
-Hai
ragione Chris, vado a letto.
Spegne
la tv, getta il
telecomando sul divano e si alza.
-Lavati
i denti e prepara vestiti
per domani, mi raccomando!
Lo
ammonisce Christian,
facendogli ribaltare gli occhi seccato.
-Sì,
sì… ‘notte John.
Esclama
poi, dando un bacio al
padre, come è consueto fare ogni sera.
-‘Notte
piccolo.
Ribatte
lui.
Jonathan
aspetta che Kyle si
metta definitivamente a letto, prima di decidersi di intavolare un
discorso con
Christian.
-Tu
non vai a letto?
Chiede
poi questi, iniziando ad
ordinare i suoi fogli. Il suo tono di voce è
tutt’altro che gioioso. La frase
che gli ha appena rivolto è del tutto circostanziale.
-No.
Si
limita a rispondere lui.
Aspetta che Christian ribatta ma non accade, al contrario sparisce in
cucina.
Jonathan si fa forza, fa un respiro profondo e lo raggiunge, si trova
davanti
al lavello. Non ha ancora lavato le pentole che ha usato per cucinare,
probabilmente perché le ha lasciate qualche ora in ammollo
con l’intento di
sgrassarle.
-Hai
bisogno di qualcosa?
Chiede
Christian, di spalle,
rivolto verso il lavello. Jonathan esita.
-Sembri
seccato.
Christian
chiude l’acqua e si
gira. L’espressione sul suo viso è seria. In
quell’istante Jonathan inizia a
temere che Christian sia già a conoscenza dei fatti. Non si
spiega come sia
possibile, in quel momento il sospetto che Daniel possa averlo messo al
corrente non gli sembra più tanto improbabile.
-Ma
davvero? Credo tu possa
immaginarlo il perché.
Il
cuore di Jonathan inizia a
battergli all’impazzata. Non riesce a parlare, si limita a
fissarlo con
terrore.
-Perso
la memoria?
Jonathan
rimane pietrificato.
Christian scuote il capo, con disapprovazione. Dopodiché
afferra un asciugamano
e si asciuga le mani, ancora bagnate.
-Sei
un buono a nulla.
Esclama.
Jonathan deglutisce.
Vorrebbe ribattere ma Christian continua a parlare.
-Sono
tre mesi, TRE mesi che ti
dico di rinnovare l’assicurazione della tua auto e tu
l’hai fatto? Ovviamente
no!
Non
sa nulla. Jonathan tira un
sospiro di sollievo. Ad ogni modo, benché Christian non sia
arrabbiato per ciò
che pensa, il suo stato d’animo è tutto
fuorché sereno.
-Questa
mattina ho dovuto
prendere la tua auto perché l’idiota
dell’interno 18 ha parcheggiato davanti
alla mia. Salgo in macchina e caso vuole che venga fermato ad un posto
di
blocco, a un paio di isolati da qui. Mi sono subito una lavata di capo
da un
agente per colpa tua, perché la polizza assicurativa
è scaduta da un mese! Ho
preso una multa, te l’ho lasciata sulla scrivania.
Jonathan
annuisce.
-Spero
che tu almeno abbia la
decenza di comunicare i tuoi dati e assumerti le tue
responsabilità.
Prosegue
Christian,
apparentemente più calmo.
-Lo
farò domattina, senza dubbio.
Risponde,
cercando di restare
calmo.
-Sei
veramente un disastro
vivente Jonathan. Adesso l’assicurazione, la bolletta della
luce il mese scorso
che non hai pagato e grazie alla quale per poco non ci vengono tagliati
i fili!
Christian
esce dalla cucina,
passando nervosamente accanto a Jonathan.
-E
poi, guarda il disastro che
lasci in giro per casa! Giacca sul divano, scarpe in mezzo alla stanza.
Mi
meraviglio quasi di non trovare anche quell’onnipresente
valigetta sul tavolino
o sul tappeto!
Jonathan
osserva la valigetta
sulla sedia della scrivania, sistemata dallo stesso Daniel.
-È
mai possibile che debba starti
sempre dietro a ricordati ogni cosa? Non sono tua madre Jonathan, te lo
devo
forse ricordare? Se è una madre che cercavi, beh…
avresti fatto bene a
tornartene in Texas. Forse saremmo stati meglio entrambi…
Le
parole di Christian feriscono
Jonathan, anche se il dolore nasce da qualcosa di più
profondo. Afferra la
giacca, iniziando a cercare le sigarette. Sente il bisogno
irrefrenabile di
fumarne una.
-Oh,
no! Non ti azzardare ad
accendere una di quelle merde, adesso!
Esclama
Christian, strappandogli
la giacca di mano. La sistema e poi la appende.
-È
tutta stropicciata! Sono stanco
Jonathan, stanco di doverti stare sempre col fiato sul collo per le
cose più
semplici. Stanco di dover passare sempre per il cattivo della
situazione. Tutto
questo perché sei pigro, incosciente e irresponsabile. Mi
chiedo se tu lo sia
sempre stato o se la trasformazione invece sia avvenuta gradualmente.
Christian
si getta sul divano,
palesemente abbattuto. Jonathan non può parlargli di
ciò che è successo, non in
questo momento.
-Ho
baciato Daniel, oggi.
E,
invece, lo fa.
Christian
lo osserva. Spalanca
gli occhi e lo guarda, aspettando che dica altro.
-Tu
mi stai prendendo in giro.
La
risposta di Jonathan non tarda
ad arrivare.
-Vorrei
tanto che fosse così.
Christian
inizia a scuotere il
capo, è visibilmente sotto shock.
-Dimmi
che mi stai prendendo per
il culo Jonathan Wallace, perché se così non
fosse io… veramente non saprei
come reagire.
Jonathan
questa volta non
risponde, lasciando intendere che ciò che ha appena
confessato sia, purtroppo,
la pura verità.
-No.
Non puoi avermi veramente
fatto questo. Non oseresti!
Istintivamente
si allontana da
Jonathan e si chiude in bagno. Jonathan lo raggiunge solo qualche
minuto dopo.
Tenta di aprire la porta ma è chiusa a chiave. Bussa,
sperando che Christian
apra.
-
Ti prego, lasciami parlare.
Christian
rimane in silenzio
qualche istante prima di rispondere, dopodiché apre la porta
e lascia entrare
Jonathan.
-Chiudi
la porta.
Gli
intima, girato di spalle.
Jonathan chiude la porta a chiave.
-
Mi dispiace Chris, tu non hai
idea di come mi senta.
Christian
si gira. Jonathan nota
immediatamente gli occhi lucidi e gonfi.
-Come
ti senti TU?
Ribatte,
rimarcando il concetto.
Dopodiché abbassa il copri tavoletta del wc e si siede.
Poggia i gomiti sulle
ginocchia e nasconde il viso tra le mani.
-Mi
vergogno, mi vergogno
profondamente di ciò che ho fatto.
Commenta
Jonathan, sedendosi sul
bordo della vasca vicino a Christian, che rimane in silenzio e immobile.
-Mi
sento veramente uno schifo
per ciò che ho fatto, non ho riflettuto, non ho pensato
e…
Christian
lo interrompe.
-Non
sperare che mi beva queste
cose. Non credermi tanto stupido, te ne prego.
Commenta,
glaciale.
-Non
voglio farti credere nulla,
ti sto solo dicendo la verità.
Ribatte
Jonathan. Dal momento che
Christian non aggiunge nulla, continua a parlare.
-Non
ho giustificazioni, me ne
rendo conto. Dal canto mio ti posso giurare che è stato solo
un bacio, niente
di più. Non provo nulla per lui, non so neanche cosa mi sia
balenato per la
testa. Se solo potessi…
Christian
alza lo sguardo. Sul
suo viso inizia a farsi spazio un’espressione di dolore.
È visibilmente ferito.
D’altronde, come biasimarlo?
-…
tornare indietro? Ho una
brutta notizia per te Wallace: non si può!
Jonathan
annuisce. Fa un sospiro
profondo.
-È
solo che… era così uguale a te.
Christian
scuote il capo e fa una
smorfia di sdegno.
-È
la scusa più ridicola che
abbia mai sentito! “Uguale a me”?
Il
suo tono è in parte collerico
e in parte affranto. Jonathan coglie immediatamente questa sfumatura e
gli è
difficile dire quanto sta per pronunciare.
-Sì,
com’eri quando ti ho
conosciuto.
Christian
apre la bocca ma non
emette alcun suono, fa un respiro profondo e apre l’acqua
della vasca, gesto
che Jonathan non capisce immediatamente.
-Non
voglio che Kyle senta nulla
di tutto questo.
Jonathan
annuisce.
-Cercherò
di non urlare Jonathan
e credimi, sarà dura. Quello che voglio chiederti questo
momento è: cosa stavi
cercando di ottenere, baciando quel ragazzo?
Chiede
Christian.
-Te
l’ho detto, mi ha ricordato
te com’eri la prima volta che ti ho visto, quando mi sono
innamorato di te.
L’espressione
sul viso di
Christian muta da afflitta a disgustata.
-Ti
facevo più maturo Jonathan.
Sai, le persone invecchiano, crescono. Anche tu non sei più
lo stesso di
quindici anni fa! Te ne rendi conto, non è vero?
Jonathan
scuote il capo. Vorrebbe
che Christian capisse ciò che vuole dire eppure anche a lui
tutto quanto appare
poco chiaro e insensato.
-Non
è questo. Non mi riferisco
all’età, né all’aspetto
fisico. Mi ha ricordato quello che eri,
la persona di cui mi sono innamorato.
Christian
cerca di intervenire.
Ma Jonathan lo blocca, continuando a parlare.
-Avevi
tanti sogni, eri pieno di
speranze e progetti. Eri così semplice, genuino e unico. So
benissimo che Daniel
non è nulla di tutto questo, ciò che ho visto in
lui è semplicemente lo spettro
di te. Prima che ti trasformassi nella copia di una stronza e frigida
casalinga
di alto borgo.
Jonathan
si morde la lingua dopo
aver pronunciato tali parole. Nemmeno le aveva pensate, gli sono
semplicemente
uscite di bocca, senza controllo. Christian è sconvolto,
spiazzato.
-Sai,
se mi avessi detto che
volevi una “scappatella”, probabilmente mi avresti
ferito di meno.
Jonathan
afferra la mano di Christian.
-Non
volevo dire questo, o meglio
non in questo modo. So bene che non c’è scusa per
quello che ho fatto. Ci ho
pensato e ripensato e io stesso non mi perdonerei. Per cui…
non so davvero che
altro dire o fare.
Christian
osserva la mano di
Jonathan sulla sua. Si sente profondamente ferito, avverte un dolore
terribile al
petto. Il fatto che Jonathan abbia baciato quel ragazzo ha avuto il suo
peso ma
la descrizione che gli ha fornito in giustificazione è stata
sicuramente il
colpo di grazia.
-Non
è peggio di quanto io ti
abbia detto poco fa, in salotto.
Commenta.
Per qualche istante tra
i due cala il silenzio. A riempire la stanza il solo rumore
dell’acqua che
scorre incessante nella vasca.
-Speravo
che queste cose non
sarebbero mai successe, non a noi.
Prosegue
poi, poco prima di
scoppiare in lacrime. Jonathan immediatamente si alza, si avvicina
ulteriormente a lui e lo abbraccia.
-Lo
so… l’ho sperato anche io,
credimi.
Per
qualche istante i due
rimangono in silenzio. Il primo a parlare è Jonathan.
-Capirò
se non mi vorrai
perdonare, davvero.
Christian
alza lo sguardo.
-Non
mi importa di quel bacio.
Vorrei solo tornare a stare bene, come lo siamo sempre stati.
Jonathan
annuisce.
-Lo
voglio anch’io.
Christian
cerca di calmare il
pianto, tentando di riacquistare quel briciolo di lucidità
necessaria per dire
ciò che deve.
-Ti
chiedo soltanto di non farlo
più, mai più.
Jonathan
annuisce. Dopodiché
accarezza il viso di Christian, asciugando le sue lacrime.
-No,
te lo prometto: Mai più.
Si
china verso di lui e lo bacia.
PRESENTE, HOTEL DELL’AEROPORTO
Un
impietoso silenziosi è
frapposto tra i due da almeno una decina di minuti. A giudicare delle
espressioni
sui visi di entrambi, devono essere impegnati a riflettere su
ciò che è
successo la notte precedente, su ciò che si sono detti.
Christian ha ancora il
viso rivolto verso il sole, tiene gli occhi semichiusi e
all’apparenza è
immobile. In realtà una serie di immagini si stanno
affollando la sua testa,
immagini di situazioni passate, immagini di gioia, di dolore. Sa che
irrimediabilmente quella nottata trascorsa insieme, quelle emozioni
tanto
sincere che ha provato e ancora sa provando benché provi un
forte desiderio di
distaccarsene e di allontanarsene, porteranno a qualcosa. Dovranno
prendere una
decisione. Non possono più posticipare gli eventi, devono
affrontarli, una
volta per tutte.
Jonathan
non ha staccato gli
occhi da Christian per un istante. Nemmeno lui sa come si
risolverà tutto
quanto e ha paura di non poterlo più guardare con gli stessi
occhi malinconici,
di non poter sentire il suo profumo tanto da vicino, di non poter
ascoltare il
suo respiro né osservare ogni suo piccolo gesto. Sarebbe uno
sciocco se pensasse
che la notte precedente sia stata sufficiente a riparare le cose, uno
sciocco e
un sognatore. Non è mai stato né l’una
né l’altra cosa e teme invece, con tutto
il realismo e il pessimismo che si porta in corpo da fin troppo tempo,
che
quella notte d’amore non possa che aver peggiorato le cose.
Christian
sospira, un sospiro
profondo che scuote tutto il suo corpo. Non si volta ancora,
probabilmente teme
che se guardasse di nuovo Jonathan negli occhi lo scontro sarebbe
inevitabile.
Proprio
in quel momento un aereo
passa al di sopra delle loro teste, essendo l’area
aeroportuale tanto vicina non
è strano che accada. Christian si era quasi dimenticato del
suo volo e del
motivo per quale si trova in quel momento in quel posto.
L’intera faccenda
della partenza per la California e del mancato incidente aereo sono
stati posti
in secondo piano. Fino ad ora non aveva ancora avuto modo di riflettere
e di
decidere se valga o meno la pena di partire. Qualche giorno prima aveva
preso la
decisione di andarsene per trovare il coraggio di firmare quelle carte
di
separazione, voleva allontanarsi da Jonathan e, paradossalmente, non
era stato
così vicino a lui da tanto, tantissimo tempo. Si sente
ancora vacillante e
ferito eppure la presenza di Jonathan, lì al suo fianco, non
gli fa male quanto
credesse.
Si
gira e lo coglie con
espressione statica, di ammirazione. Sapeva di avere i suoi occhi
puntati
addosso, lo sentiva, tuttavia ne rimane colpito. Jonathan non abbassa
lo
sguardo, gli rivolge invece un sorriso quasi impercettibile, che
Christian
oserebbe definire timoroso.
-E
adesso?
Chiede
quindi Christian,
facendosi coraggio. Jonathan prende fiato prima di rispondere.
-Chi
lo sa!
Ribatte,
quasi con rassegnazione.
Cala di nuovo il silenzio tra i due, questa volta però la
durata è
relativamente breve. A rompere la terribile e scomoda barriera di
silenzio è
Jonathan.
-Hai
detto al telefono a Kyle che
l’avresti rivisto l’indomani, cioè oggi.
Presumo quindi che tu non voglia più
partire…
Christian
non risponde, si limita
ad asserire col capo
-Io...
Cerca
poi di parlare ma la voce
gli si rompe in gola. Deve deglutire con decisione, prima di riuscire a
completare la frase.
-Io…
so solo di non volerli
firmare, quei documenti.
Riesce
ad esprimersi tutto d’un
fiato, mangiandosi quasi le parole. Jonathan annuisce,
dopodiché si alza e
porge la mano a Christian, invitandolo a fare lo stesso.
-Andiamocene
a casa. Non saremmo
in grado di prendere una decisione lucida dopo tutto quello che
è successo
nelle ultime ore.
Christian
afferra la mano di
Jonathan e si alza. I due sono di nuovo molto vicini, i loro visi sono
a pochi
centimetri l’uno dall’altro.
-Va’
a casa Chris, riposati.
Dormi una notte, un giorno, quanto ritieni sia necessario per tornare
in te.
Quando sarai pronto vieni da me e vedremo cosa fare.
Suggerisce
Jonathan con dolcezza,
con il solito tono risoluto che ha sempre utilizzato durante tutti
quegli anni
insieme, ogni qual volta Christian esponesse un dubbio, chiedesse un
consiglio
o mostrasse titubanza. Rimangono immobili, uno di fronte
all’altro, in totale
silenzio, aspettando entrambi che l’altro faccia la prossima
mossa.
-Va
bene. Ti voglio chiedere una
cosa però, un’ultima cosa, prima di tornare a casa.
Aggiunge
Christian. Jonathan non
risponde, si limita a fare un cenno col capo, per indicargli di
proseguire, di
spiegarsi.
-Voglio
darti un bacio qui,
adesso, in questo posto dove sei solo il mio Jonathan, quello che io e
solo io
ho conosciuto veramente. Prima che tutto quanto torni ad avere un
senso, prima
che la realtà torni a sopraffarmi, a farmi chiedere quale
sia il vero motivo
per il quale non riesca, per quanto mi sforzi, a separarmi
definitivamente da
te.
L’intero
discorso di Christian,
quella sua strana richiesta, ha un gusto dolce-amaro per Jonathan. Lo
sente
vicino, sente che è il suo Christian a parlargli e che
entrambi, in quel
momento, sono tornati ad appartenersi. Eppure anche lui sa che, una
volta
varcata quella porta, una volta intrapresa la strada di ritorno a casa,
tutta
quella situazione verrà archiviata nel mucchio dei bei
ricordi, quelli che in passato
hanno fatto tanto bene al suo cuore ma che in quel momento, in quelle
circostante, sono insopportabili da sostenere.
-Va
bene.
Risponde,
con un filo di voce.
Christian, senza esitare, appoggia le proprie labbra sulle sue, ad
occhi
chiusi, serrati. Un bacio intenso, lungo, da portare via il respiro. Il
cuore
di Jonathan per un istante si ferma, nel constatare che potrebbe anche
essere
l’ultimo, il tanto temuto bacio di addio.
--->
Sì, lo so, ho saltato una
settimana. PERDONATEMI DAVVERO! Dai, questa volta è stata
solo una settimana,
non un anno e mezzo ;) Non l’ho fatto apposta, lo giuro, solo
mi sono ritrovata
d’un volo a sabato (scorso) e boh il capitolo non era pronto,
io non ero pronta
per revisionarlo e aggiungere gli ultimi dettagli e… ho
rimandato! Volevo
postare a metà settimana ma alla fine ho preferito arrivare
direttamente a
sabato.
Dunque, due parole sul
capitolo…
l’ultima volta vi ho detto che vi avrei mostrato i momenti
prima della rottura *eeeek
risposta sbagliata*.
C’era ancora
un tassello mancante prima di quel momento ed è quello che
avete letto ora.
Dopotutto, non penserete che Christian stia così male per
una scappatellina,
c’è qualcosa sotto di MOLTO più grosso
e, come sempre, il tradimento è solo la
celebre “goccia che ha fatto traboccare il vaso”,
un vaso già all’orlo, come
spero abbiate notato dalla tensione tra i due.
…e arriviamo
al finale, sì.
ECCOCI. Il prossimo capitolo sarà l’epilogo. Siete
pronti? Io NO, decisamente
NO! Tutto è nella mia testa e, devo dire, che il finale non
è MAI cambiato dal
2009 ad oggi. Sapevo dove sarei voluta arrivare, mi serviva solo il
coraggio
per delineare il percorso che avete letto fino ad ora. Probabilmente
saranno
due parti.
Sulla data di
pubblicazione mi
spiace ma non voglio “illudervi”, inoltre settimana
prossima dovrei partire per
qualche giorno e non avrò il pc con me. Magari
riuscirò a pubblicare comunque
sabato prossimo ma non voglio darvi false speranze. Controllate
COMUNQUE, ok ;)
Alla prossima e GIURO
non sarà
tra TANTO. Nel frattempo se volete potete lasciarmi un commento
dicendomi come
vi sentite ora che siamo alla fine. Grazie per le letture, le aggiunte
alle
“storie seguite”, “da
ricordare” e “preferite” e…
Buona Pasqua o Buone Ferie
per chi non festeggia :D <---
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Capitolo 45 *** All Comes to an End (Tutto ha una fine) Parte Prima ***
45.
All comes to
an end (Tutto
ha una fine) Parte Prima
Christian
e Jonathan hanno deciso
di rientrare a New York separati. Dover viaggiare insieme sulla stessa
auto,
quella di Jonathan, li avrebbe portati inevitabilmente a confrontarsi,
a
parlare, a dover trattare quell’argomento
che aspetta solo di prendere
forma e verso il quale entrambi sono trovati
concordi nel non ritenersi pronti. Non dopo quella notte, non dopo quel
turbinio di emozioni forti.
Christian
ha preso il treno e
successivamente un taxi. Il tassista dopo aver comunicato la tariffa e
arrestato il tachimetro scende dal veicolo per recuperare la sua
valigia nel
bagagliaio. Christian esita prima di uscire. Sa che non appena
aprirà quella
portiera, non appena poserà piede sull’asfalto e
alzerà lo sguardo verso allo
stabile nel quale è collocato il suo appartamento, tutto
tornerà ad essere
reale. Il dolore che fino a quel momento si è attenuato si
ripresenterà,
probabilmente con
più forza.
Cerca
di farsi coraggio,
convincendosi che dopotutto ci sarà pur sempre Kyle ad
aspettarlo sulla porta
di casa e il desiderio di riabbracciarlo, di rivederlo, di scompigliare
quel
suo cespuglio di capelli già di per sé
disordinati, gli è sufficiente per
spingerlo uscire da quell’auto e a bucare e quindi ad uscire
da quella bolla di
sapone che fino a quel momento l’ha tenuto
separato dal mondo reale.
Non
appena afferra la valigia il
suo cuore sussulta, eccolo sbalzato di nuovo nella realtà e
la notte precedente
non è più di ricordo. Prosegue verso
l’atrio del palazzo e sale le scale, con
rapidità. Esita prima di posare la mano sulla maniglia della
porta, una volta
raggiunto l’appartamento. Prende
fiato,
si fa coraggio e preme la maniglia verso il basso, aprendo la porta.
Kyle
è proprio davanti a lui,
seduto sul divano. Lo stava aspettando. Senza nemmeno dargli il tempo
di aprir
bocca corre verso di lui e lo abbraccia, con una forza quasi
sovraumana.
Christian lascia andare la maniglia del trolley che fino a quel momento
ha
stretto e ricambia l’abbraccio con la stessa
intensità, sempre senza parlare.
Anche il minimo suono sarebbe superfluo, in questo momento.
Sente
il respiro pesante di Kyle,
che non dà cenno di volersi staccare da
quell’abbraccio che probabilmente
aspettava da fin troppe ore. Christian non ne è dispiaciuto,
chiude gli occhi e
si lascia inebriare dal profumo di Kyle, il profumo della sua pelle,
dolce e
pungente al tempo stesso. Con la mano sinistra accarezza finalmente i
suoi capelli,
spettinati come se li aspettava. Eppure questa volta non ha intenzione
di
rimproverarlo per non essersi pettinato perché fa parte di
lui, del suo essere.
In questo istante ritrovare tutti quei piccoli dettagli di
familiarità lo fa
sentire bene, meglio.
-Non
partire mai più, mai, mai
più.
Mormora
infine Kyle, con un tono
di voce flebile, appena udibile. Christian non risponde subito e lui
insiste.
-Giuramelo,
dimmi che non mi
farai più qualcosa del genere.
Prosegue,
questa volta con più
decisione. Christian non può che rassicurarlo.
-Te
lo giuro.
***
Jonathan
è a casa. In confronto
al viaggio di partenza il rientro gli è sembrato una
passeggiata. Ha sbagliato
uscita autostradale, si era convinto di non essere ancora arrivato a
casa,
quando invece avrebbe dovuto prendere lo svincolo una ventina di
chilometri
prima. Il viaggio di andata era stato una follia, una corsa
adrenalinica
puntata ad evitare una disgrazia che, se fosse stato destino, si
sarebbe
verificata comunque. Jonathan a mente fredda, seduto sul divano del suo
loft,
inizia a pensare a quanto in realtà fosse stato inutile quel
suo gesto.
Se
Christian fosse morto avrebbe
dovuto accettarlo e se fosse stato vivo, come fortunatamente si
è rivelato
essere, sarebbe tornato comunque a casa sano e salvo. Vuole pensare di
aver
avuto un ruolo più o meno rilevante in tutta quanta la
faccenda ma sa bene che
non è stato così. Non ha salvato Christian, non
quella volta. Provando una
forte stretta allo stomaco inizia a pensare che forse, davvero, i
giorni nei
quali poteva vantarsi di assumere il ruolo del cavaliere
dall’armatura
scintillante il cui scopo era quello di salvare il suo amato, siano
ormai
giunti al termine.
Il
suo amato si è salvato da
solo, grazie ad un suo ricordo certo, ma pur sempre da solo. Senza
contare che
se non fosse stato per colpa sua nemmeno avrebbe avuto
l’occasione di salire su
quell’aereo, in principio. Sospira profondamente e nasconde
il viso tra le
mani, con sconforto.
Improvvisamente
sente di nuovo
bisogno di nicotina. Non ha fumato nelle ultime ventiquattro ore, non
ne ha
sentito il bisogno neanche per un istante. Si rende conto di quanto
quegli
infimi bastoncini siano non più di un riempitivo nella sua
vita, gli servono a
colmare un vuoto e, a giudicare dalla massiccia dose di pacchetti
consumati
negli ultimi otto mesi, si è trattato di un vuoto enorme,
praticamente
incolmabile.
E
pensare che è stata proprio una
sigaretta a permettergli di stabilire il primo contatto con Christian,
quella
sera di quindici anni prima fuori dal Vampiria. Ed era sempre stata una
sigaretta a incastrarlo, otto mesi prima.
Tre giorni prima della separazione
Jonathan
fissa la sua immagine
riflessa nello specchio con la cornice dorata che trova davanti a
sé. L’ultima
cosa che vorrebbe fare in quel preciso momento è guardare la
sua stessa faccia,
tuttavia non vi è una parete in tutta la stanza nella quale
non sia appeso uno
specchio più o meno grande, a partire dal soffitto.
Si
trova in un motel poco fuori
da New York e ancora stenta a crederci. È
seduto da solo in quel
momento su quel grande letto a due piazze e
mezza, coperto da un sottilissimo lenzuolo bianco. Abbassa lo sguardo,
avendo
deciso di aver visto abbastanza. Non riconosce la persona che viene
riflessa
non lo specchio, non ha mai visto quella sua espressione maligna e
beffarda.
C’è qualcosa di sbagliato nel viso di
quell’uomo dentro lo specchio. I suoi
occhi ardono di lussuria accompagnati da un innegabile di senso di
compiacimento e per quanto si sia sforzato, non è riuscito a
cogliervi nemmeno
un barlume di colpa, di rimorso. Si
sfrega gli occhi con la mano destra, sperando forse di incontrare
qualche
lacrima.
Non
ha fortuna: i suoi occhi sono
secchi, aridi.
Proprio
come lo è stato il suo
atteggiamento qualche ora prima. Ha telefonato a Christian dicendogli
che per
colpa di un paziente in ritardo aveva dovuto spostare gli appuntamenti
successivi, portandolo a restare a lavoro fino a tardi. Christian gli
aveva
creduto senza dubitare, era quasi sembrato dispiaciuto e preoccupato.
Gli aveva
chiesto se avesse mangiato a sufficienza a pranzo e se fosse in
condizione di resistere
a digiuno fino al rientro a casa. Quella preoccupazione generata dalla
sua
indole quasi materna e apprensiva gli aveva fatto male. Non
è una sorpresa il
fatto che gli abbia creduto, non gli ha mai mentito durante tutti
quegli anni
insieme, al punto di non essere mai riuscito ad organizzargli una festa
di
compleanno a sorpresa senza tradirsi almeno un paio d’ore
prima.
“Hai
mangiato abbastanza a
pranzo? Non il solito panino al salto, intendo.”
Sì.
Quella sua domanda così
tipica e così ordinaria era stata l’unica cosa che
l’avesse portato a chiedersi
se ciò che stava per fare fosse veramente necessario o se
fosse invece poco più
di un capriccio. Non era riuscito a proseguire oltre quella discussione
e aveva
riattaccato, con una scusa. Stava barcollando, stava per cedere.
Non
l’ha fatto.
Dopo
aver riattaccato ha mandato
un messaggio a Daniel, invitandolo a raggiungerlo in un bar, a pochi
passi dal
suo ufficio. Per assurdo, non riesce a ricordarsi più di
qualche frammento
dell’intera serata. A partire dal ritrovo al bar fino ad ora,
nell’esatto
momento in cui si è ritrovato a fissarsi, quasi dal corpo di
un altro, in
quello specchio in un motel eccessivamente costoso considerati i
servizi che
offre. Novanta dollari per quattro ore soltanto e non più
che qualche stupido
specchio dorato sulle pareti e sul soffitto, nemmeno una maledetta
vasca ad
idromassaggio, che si ricorda di aver desiderato ardentemente e
richiesto
all’uomo alla reception, qualche
ora
prima.
Di
questo si ricorda ma tutto il resto è
vuoto, è nulla. Inizia a pensare di essere riuscito in
qualche modo a staccare
la spina del suo cervello, a spegnere il bottone che controlla le
facoltà
cognitive e le sue emozioni. Non saprebbe spiegarsi
l’autocontrollo e il sangue
freddo con i quali ha compiuto tutte quelle azioni. Ha mentito a
Christian per
la prima volta in quindici anni ed è stato per tradirlo.
Aveva ceduto solo un
paio di mesi prima, in occasione del suo compleanno, consegnandogli con
ben una
settimana di anticipo il sacchetto di Alessi contenente
quell’orribile
spremiagrumi manuale a forma di ragno in acciaio, che desiderava da
anni. Un oggetto
tanto inutile e quanto difficile da recuperare, essendo un pezzo
praticamente
fuori catalogo.
Eppure
non ha esitato a mentirgli
in quest’ultima occasione. Gli ha telefonato con sicurezza,
si è quasi finto
stressato e infastidito. Ha recitato bene,
una performance da standing
ovation, se potesse darsi una valutazione.
Il che lo porta a chiedersi quanto i suoi valori siano sbagliati e
quanto,
purtroppo, il gene della lussuria insito in sua madre gli sia stato
tramandato
e fosse quindi rimasto dormiente nel suo essere, per tutti quegli anni.
Non
aveva fatto che incolparla per la sua tresca con Gregor, ritenendola in
parte
colpevole della morte di suo padre. Non sarebbe guarito data la
gravità della
sua malattia eppure si era lasciato andare, non aveva combattuto. A
quei tempi
Jonathan era solo un ragazzo e ne aveva sofferto così tanto.
D’un
tratto si sente come colpito
da un lampo: Kyle si ritroverà a vivere le stesse
sensazioni, le stesse
emozioni, le stesse situazioni che ha vissuto lui. Aveva
all’incirca la stessa
età che ha lui ora ma era un ragazzo completamente diverso.
Non crede che lui
potrà sopportarlo. Kyle
così tenero e
così dolce, Kyle che ne ha già passate tante e al
quale sia lui sia Christian
hanno promesso solo cose belle. Gli avevano promesso che sarebbero
stati una
famiglia felice, una famiglia normale.
Non
ha tradito solo Christian,
non ha mandato in fumo solo la sua relazione, ha distrutto tutta la sua
famiglia, tutta la sua realtà. Con un paio di bicchieri di
Dom Perignon e
qualche colpo di reni ben assestato ha cancellato tutto ciò
che aveva
faticosamente costruito in quindici anni.
Si
sente mancare, si sente
soffocare. Si alza improvvisamente dal letto, noncurante di essere
completamente svestito e apre la finestra della stanza, sporgendovisi
per oltre
metà busto. Ha bisogno d’aria fresca, quella
viziata di quella stanza l’ha
intossicato. Respira affannoso
-Avresti
dovuto davvero provarla,
la doccia.
Commenta
Daniel, uscendo dal
bagno. Ha terminato la doccia che Jonathan si è volutamente
rifiutato di
condividere. Rimane girato di spalle, con le mani salde sul davanzale
della
finestra. Non si sente pronto per guardare di nuovo quel ragazzo negli
occhi.
-Ehi,
ci resta ancora un’ora. Un
altro giro? Magari potrei…
Jonathan
non resiste oltre.
-No.
Ribatte,
rapidamente, senza
permettergli di proseguire il discorso. Senza guardare Daniel raggiunge
la
giacca che ha gettato sul pavimento e recupera dal taschino il suo
pacchetto di
sigarette e lo zippo. Dopo averne accesa una getta il pacchetto quasi
pieno sul
comodino, nella parte non occupata del letto, dove si siede, di nuovo.
-Ehi!
Sembravi apprezzare…
Commenta
Daniel, avvicinandosi a
lui, accarezzandogli maliziosamente l’avambraccio. Jonathan
si scuote,
allontanandolo. In quel momento l’unica cosa che ha
intenzione di fare è fumare
quella maledetta sigaretta e poi andarsene. Benché il
pensiero di tornare a
casa, con tutto ciò che comporterà, lo spaventa.
-Senti,
non è che puoi chiamarmi
e scoparmi così perché oggi la luna ti
è girata in quel modo e poi, una volta
fatto, trattarmi come una merda, ok?
Prosegue
Daniel, visibilmente
infastidito.
-Evita
queste scenate, è stata
solo una cosa di una volta. Non ti ho giurato amore eterno o messo un
anello al
dito.
Ribatte
Jonathan, prendendo una boccata
lunga.
-Wow!
E io che ti credevo una
gran bella persona! Sei solo bravo con le parole.
Jonathan
finisce la sua sigaretta
e spegne il mozzicone nel posacenere sul comodino accanto a
sé. Rimane in
silenzio, a riflettere sul da farsi. Non che ci siano molteplici
opzioni o che
possa fare qualcosa per cambiare in modo sensibile le cose.
-Se
te lo stai chiedendo: No, non
te lo meriti proprio Christian. Non ti meriti nemmeno me, a dirla
tutta.
Jonathan
non può sopportare
oltre. Si alza balzando giù dal letto, raccoglie tutti i
suoi indumenti sul
pavimento e si veste, senza troppa cura o precisione.
Dopodiché afferra il
portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni, estrae un singolo
biglietto
dal taglio di cento dollari e con rabbia lo getta sul letto. Daniel lo
osserva
indignato.
-I
soldi per la stanza. Tieniti
il resto, è ciò che vali.
Dopodiché
esce dalla stanza,
sbattendo la porta, senza degnare Daniel di un ultimo sguardo.
***
Kyle
è seduto al tavolo da
pranzo. Christian lo raggiunge con due tazze di the caldo fumanti. Posa
una
tazza di fronte a Kyle dopodiché si siede, reggendo in mano
la propria. Nessuno
dei due sembra ancora intenzionato a confrontarsi. Kyle afferra la sua
tazza di
the e avvicina appena le labbra al bordo. Gli è sufficiente
per cogliere il
profumo dolce del miele.
Sorride,
Christian non gli
concede mai di mettere dello zucchero o altri dolcificanti nel the o in
qualsiasi altra bevanda calda ma da quando era bambino è
solito preparargli il the
con un paio di cucchiai di miele quando vuole consolarlo.
-Avrei
dovuto prepararlo io il
the questa volta.
Commenta,
con dolcezza. Christian
scuote il capo. Tra i due scende di nuovo il silenzio ed è
ancora Kyle ad
interromperlo.
-Non
sai quanto ti ho maledetto,
quanto mi ha fatto male la tua partenza…
Christian
alza lo sguardo, che
fino a quel momento era rivolto ad un punto imprecisato del tavolo.
Kyle
prosegue con il suo discorso, a giudicare dall’espressione
del suo viso,
piuttosto serio.
-Mi
sono sentito abbandonato,
tradito. Ti ho ritenuto un egoista, un ingrato.
Christian
cerca di intervenire ma
le parole di Kyle lo sovrastano.
-Ma
non appena ho saputo
dell’incidente e di quello che è successo, ho
veramente capito cosa volesse
dire perderti e mi sono sentito morire…
Il
discorso viene interrotto da
un singhiozzo. Christian appoggia la tazza sul tavolo e si avvicina di
più a
Kyle, spostando la sedia. Allunga il braccio e gli accarezza il capo,
con
dolcezza.
-Ehi!
Amore mio…
Kyle,
cerca di trattenersi,
benché le lacrime abbiano iniziato a scorrere inarrestabili
e copiose sul suo
viso, al punto da offuscargli la vista.
-Ho
pensato che fosse colpa mia,
che qualcuno avesse voluto farmela pagare, portandoti
via da me per davvero
e…
Il
pianto si fa più disperato, i
singhiozzi che avevano iniziato ad intervallarsi tra una parola e
l’altra
iniziano a prendere il sopravvento, impedendo al ragazzo di proseguire.
Christian con entrambe le mani gli afferra il viso, indirizzando il suo
sguardo
verso il proprio.
-No,
non pensarlo neanche, ok?
Non devi più dire nulla: basta! Io sono qui, tu sei qui, non
ci serve altro.
Kyle
annuisce e tira sul col
naso, dopodiché prende fiato. Pian piano i singhiozzi
cessando, permettendogli
di bere il suo the al miele.
-Lui
è venuto da te…
Afferma
Kyle, a sorpresa, dopo
aver terminato anche l’ultimo goccio della sua bevanda.
Christian aveva pensato
all’eventualità di doverne parlare con lui ma in
questo momento non se
l’aspettava. Rimane per un attimo bloccato e deve riordinare
le idee nella sua
testa, prima di poter anche solo annuire.
-Mi
ha telefonato e senza neanche
esitare ha deciso di partire e di raggiungerti.
Christian
ancora non ribatte.
-Per
la prima volta dopo mesi,
quando ho parlato con lui al telefono, non mi è sembrato che
ci fosse un
estraneo all’altro capo. Era lui, davvero lui: il nostro
John.
Prosegue
Kyle. Christian sorride
inavvertitamente, dopo aver ascoltato quell’ammissione da
parte di Kyle. Non
era stata dunque solo una sua impressione, anche Kyle si era accorto
che in
quel momento, in quell’occasione, Jonathan era tornato ad
essere ciò che era
sempre stato, un padre un marito, un capofamiglia che prende in mano la
situazione senza rifletterci e che, alla fine, riesce a far
sì che tutto
finisca per il meglio.
-Lo
era davvero.
Conferma
Christian, accendendo
una scintilla negli occhi di Kyle, un barlume di speranza.
-Credi…
che sia tornato?
Chiede
Kyle, con esitazione,
questa volta. Christian fa un respiro profondo, prima di rispondergli.
-Non
lo so…
Kyle
è visibilmente deluso dalla
sua risposta, ragion per cui Christian sa che deve andare avanti,
dirgli tutta
la verità, completare ciò che la sua mente gli
suggerisce di dire, glielo deve.
-Non
è cambiato solo lui, Kyle.
Sono cambiato anche io e… è inutile che mi
nasconda dietro
un dito. Se io non avessi
fatto la mia parte,
non sarebbe successo nulla…
Tre giorni prima della separazione
Christian
è già a letto, sta
leggendo un libro. È
completamente assorto nella lettura e sobbalza non appena
sente dei rumori provenire dalla sala da pranzo. Si tratta della porta
di ingresso,
prima aperta e poi sbattuta con forza.
Osserva
la sveglia sul suo
comodino, segna le dodici e trenta. Non si era accorto che Jonathan
avesse
fatto così tardi.
-Jonathan,
sei tu?
Chiede,
interrompendo per un
attimo la sua lettura. La risposta non arriva subito, Jonathan si
presenta
sulla soglia della porta della camera da letto ma non entra nella
stanza, si
limita ad appoggiarsi allo stipite.
-Chi
vuoi che sia?
Domanda,
seccato da una domanda
che prevede una risposta tanto ovvia, a detta sua. Christian non
ribatte né dà
ulteriori attenzioni a Jonathan. Sistema il cuscino e torna a posare
gli occhi
sul suo libro. Jonathan rimane ancora immobile. Non sembra intenzionato
a voler
mettere piede nella stanza. Sta fissando Christian, che si è
isolato in un
altro modo, come è solito fare da fin troppo tempo. Non
l’ha salutato, gli ha
rivolto a malapena tre parole. Nemmeno si è accorto che non
ha indosso la
giacca, si chiede se almeno l’abbia guardato o se
semplicemente abbia alzato lo
sguardo per forza d’inerzia. Fa un respiro profondo, entra
finalmente nella
stanza e si siede sul bordo del letto.
Sta
pensando, riflettendo. Tutto
ciò che ha fatto è stato orribile, crudele.
Eppure non si sente
così tanto male. Sa di aver sbagliato, di aver
commesso un’azione imperdonabile, che lui stesso riterrebbe
ingiustificabile, a
ruoli inverti. Eppure ciò che avverte è giusto
una leggera fitta allo stomaco,
che potrebbe anche essere dovuta alle lunghe ore di digiuno e a quei
bicchieri
di champagne consumati a stomaco vuoto, ora che ci pensa. Dopo tutti
quegli
anni, dopo tutto quello che ha passato e vissuto con Christian,
dovrebbe
sentirsi dilaniato dal dolore e consumato dai sensi di colpa.
Dovrebbe.
Ha
le spalle rivolte verso
Christian, per cui non riesce a vederlo in viso ma sa di per certo che
non lo
sta guardando. Si chiede come sia possibile essere passati dai baci
tanto
attesi, dall’impazienza di vedersi, dal ritenere difficile
anche soltanto trascorrere
una notte lontani uno dall’altro a quello. Vorrebbe tanto
attribuire quel
raffreddamento del loro rapporto a quel suo primo bacio a Daniel
eppure, benché
non sia sua intenzione togliersi delle colpe, sa che tutto quanto
è iniziato
prima. Entrambi si sono lasciati andare, confidando nella sicurezza e
nella
staticità della routine e del matrimonio.
Hanno
iniziato a darsi per
scontato. Difficile determinare chi sia stato il primo dei due a fare
la prima
mossa. Jonathan sa solo che tutta quella situazione ha iniziato a
stargli
stretta. Non è questo quello a cui pensava quando ha deciso
di iniziare un
nuovo capitolo della sua vita insieme a Christian. La persona che si
trova alle
sue spalle, che ha deciso che qualsiasi cosa ci sia scritto su quel
dannato
libro che sta leggendo sia più importante di lui, non
è la stessa che ha
incontrato al Vampiria e di cui si è innamorato.
Allo
stesso modo, però, nemmeno
lui così fermo, lucido e apparentemente in pace con
sé stesso nonostante
soltanto poche ore prime abbia commesso una delle azioni più
basse e ignobili
che un uomo possa mai commettere, sembra essere lo stesso ragazzo che
quindici
anni prima era rimasto incantato da quegli splendidi occhi color
oceano.
Si
sfrega il viso con entrambi i
palmi delle mani. Il bacio a Daniel non è stato la causa
della loro crisi ma
quell’atto di infedeltà, che nemmeno gli ha
lasciato il senso di appagamento
fisico che aveva sperato di ottenere, sarà di certo la causa
scatenante della
loro rottura.
-Gradirei
che non restassi con i
vestiti sporchi sul copriletto pulito.
Queste
sono le prime parole che
Christian rivolge a Jonathan, sempre senza spostare lo sguardo dalle
pagine del
suo libro. Jonathan si gira, infastidito da quella sua esclamazione. Il
fatto
che continui a non degnarlo di uno sguardo lo rende nervoso, gli
annebbia la
vista.
-Solo
questo sai dire?
Christian
non ribatte, volta
pagina. Il rumore della carta e il silenzio di Christian alimentano il
rancore
che Jonathan sta provando. Con uno scatto d’ira si alza dal
letto, si sbottona
la camicia la getta sulla sedia della specchiera. Questa urta uno dei
flaconi
di profumo di Christian che fortunatamente si ribalta ma non si rompe.
Jonathan
nota che Christian strizza gli occhi e sospira, con fastidio.
-Almeno
guardami in faccia,
cazzo!
Urla,
distogliendolo finalmente
dal suo libro. Christian lo guarda, lo scruta. I segni della rabbia sul
suo
viso sono impossibili da non notare: occhi spalancati, narici dilatate,
respiro
affannoso. Eppure Christian deve aver notato qualcosa di
diverso in quei suoi occhi annebbiati,
qualcosa in profondità. Chiude il libro, lo appoggia sul
comodino dopodiché gli
rivolge uno sguardo di sdegno.
-Hai
la coscienza sporca,
Jonathan?
Chiede,
con fermezza. Jonathan si
blocca, spera che Christian non si accorga della sua esitazione, cerca
di
rimediare rispondendo di getto.
-Perché
dovrei?
Christian
fa spallucce.
-Quando
mi hai telefonato, nel
tardo pomeriggio, mi sembravi abbastanza tranquillo. Mentre poco fa sei
entrato
sbattendo la porta e ti sei messo a sbraitare. Devo dedurre che ti sia
andato
male qualcosa o… il contrario.
Jonathan
non capisce. Teme però
che Christian abbia veramente intuito qualcosa, il suo discorso
è ambiguo e
confuso eppure sembra sulla strada giusta per arrivare alla
verità, verità che
non è assolutamente intenzionato a rivelargli, non questa
volta.
-Cosa
vorresti dire?
Chiede,
iniziando a calmarsi.
-Vorrei
dire che non ho idea con
esattezza di ciò che tu possa aver fatto o meno nelle ultime
ore.
Spiega
Christian, con tono fermo
e deciso.
-Pensi
che ti abbia tradito?
Sbotta
Jonathan, arrivando a mettere
in discussione qualcosa che non sarebbe dovuto uscire dalla sua bocca.
Si trova
a confermare l’ipotesi di non essere in grado di mentire a
Christian. L’ha
fatto qualche ora prima per telefono. Ora però davanti a
lui, sente di essere
sul punto di esplodere.
-Questo
io non l’ho detto.
Ribatte
Christian, provocandolo.
-Non
essere ridicolo.
Jonathan
non è in grado di
aggiungere altro. Ha paura che anche la minima sfumatura del suo tono
di voce,
ora come ora, faccia trapelare la verità.
-Dopotutto
è già successo una
volta.
Aggiunge
Christian. Jonathan
cerca di calmarsi, si sente come in un campo minato, ogni mossa che
farà, ogni
frase pronuncerà, potrebbe far esplodere una mina facendo
saltare in aria tutto
quanto. Inizia a pentirsi di aver costretto Christian a guardarlo in
viso, il
suo sguardo è penetrante e ha tutta l’intenzione
di volerlo
scavare fino in fondo. La
verità che cerca
ormai inutilmente di celare è troppo grossa
perché possa restare nascosta. Sa
che prima o poi salterà fuori.
Ma
non ora.
-Non
sopporto di essere messo
sotto esame per un unico errore fatto in vita mia, come se tu fossi un
Santo,
Christian! Vado a farmi una doccia…
Non
essendo più in grado di
proseguire Jonathan gira le spalle a Christian e si dirige verso il
bagno.
Chiude la porta e vi si appoggia con entrambe le mani. Il respiro
inizia a
mancargli. Crollerà, questione di ore ormai e insieme a lui
tutto quanto.
Proprio in quel preciso istante quel senso di colpa che tanto si era
meravigliato di non aver avvertito a fatto compiuto, lo travolge,
spezzandogli
il cuore. Scivola lungo la porta, inerme con la consapevolezza di
essere ai
pari di un condannato a morte. La parola “fine” si
avvicina inesorabile e non
c’è nulla che possa fare per evitarlo.
***
Kyle
e Christian hanno trascorso
il resto della giornata in modo piuttosto tranquillo, hanno
chiacchierato del
più e del meno, hanno guardato qualche film o telefilm di
tanto in tanto. Una
giornata pigra, che pare non aver nulla di speciale, nonostante sia
iniziata in
modo molto particolare e nonostante non sia mancata una buona dose di
dramma e
di preoccupazioni.
-Sono
le undici. Sai, credo sia
arrivato il momento di andare a nanna, Kyle.
Afferma
Christian, stiracchiandosi
sul divano sul quale entrambi sono seduti da troppo tempo. Hanno anche
cenato
su quello stesso divano. Hanno ordinato una pizza e l’hanno
mangiata
direttamente dal cartone, uno strappo alla regola bello grosso per
Christian.
Sa che se ne pentirà quando il giorno successivo
dovrà cercare di togliere le
gocce di unto dal tavolino e dal divano. Tuttavia in quel momento non
gli
importa, ha condiviso una giornata meravigliosamente normale con Kyle e
se il
prezzo da pagare sarà solo un po’ di olio di
gomito e tanto detersivo, è ben
disposto a farlo di nuovo.
-Oh…ok!
Kyle
dà uno sguardo da lontano al
cellulare, lasciato tutto il giorno in disparte. Non l’ha
guardato neanche per
un secondo ed è parecchio strano, di solito ce
l’ha sempre in mano o in tasca.
Christian ha iniziato a ritenere quell’assurdamente costoso
iPhone parte
integrante del corpo di suo figlio, un terzo braccio o una seconda
testa,
ancora non ha scelto quale possa essere il paragone migliore.
-Ci
sono abituato a vederti con
il cellulare incollato alla mano, potevi tenerlo vicino.
Commenta,
facendolo sussultare.
Era sovrappensiero, intento a fissare in lontananza il cellulare. Kyle
scuote
il capo. Sembra essersi incupito tutto d’un tratto e
Christian non riesce ad
intuirne il motivo. Solo fino a qualche istante prima aveva il capo
appoggiato
sulla sua spalla, un’espressione dolce e rilassata e un
sorriso appena
accennato sulle labbra.
-No,
non ne ho bisogno, è solo
che…
Kyle
fa un respiro profondo che
Christian non può che notare. Probabilmente sta tenendo
qualcosa per sé,
qualcosa che deve avere a che fare con i comportamenti strani e
misteriosi che
ha avuto durante tutta l’estate.
-C’è
qualcosa che vuoi dirmi?
Kyle
lo guarda negli occhi,
intensamente, senza dire una parola. Sul suo viso riesce a leggere la
confusione, l’incertezza. Capisce che Kyle vorrebbe dirgli
qualcosa ma che
forse non ha il coraggio di farlo o non crede che quello sia il momento
adatto.
-Va
bene, possiamo rimandare.
Suggerisce,
sorridendogli,
sperando di rincuorarlo. Kyle annuisce e si alza dal divano,
dopodiché si
volta, in direzione della sua stanza.
Christian
si mette a letto. Come
di consuetudine appoggia il cuscino contro la sponda del letto, si
mette a
sedere, accende l’abat-jour e afferra un libro dal comodino.
Non riesce ad
addormentarsi senza aver letto anche soltanto qualche pagina. Apre il
libro ma
non riesce a leggere più di un paragrafo, poiché
il suo sguardo ricade sulla
radiosveglia. Segna le 23.30.
Sospira.
Ha
voluto non pensarci tutto il
giorno e l’aver passato la giornata con Kyle l’ha
aiutato a tenere la mente
occupata eppure sa che l’indomani dovrà finalmente
confrontarsi con Jonathan.
Gli ha detto di riposarsi, di presentarsi quando si fosse sentito
pronto. Sa
che non si sentirà pronto l’indomani come
probabilmente non lo sarà il giorno
successivo o la settimana dopo. Ciò che gli serve sono
coraggio e volontà. Non
si sente munito però né dell’una
né dell’altra cosa.
Chiude
il libro. Decide di
lasciarsi guidare dall’istinto, l’indomani mattina
si alzerà, preparerà la
colazione per sé e per Kyle dopodiché
uscirà di casa, prenderà l’auto e si
dirigerà verso lo stabile nel quale si trova Jonathan senza
pensarci troppo,
senza riflettere su cosa dire o quale atteggiamento tenere. Pensa di
dover
telefonare a Jonathan per avvisarlo o al limite mandargli un messaggio.
Osserva
il cellulare, spento, anch’esso sul comodino.
Non
sente l’impulso di
afferrarlo, anzi, decide di non dire nulla a Jonathan. L’idea
di dover
concordare un orario, di fissare una sottospecie di appuntamento, lo
rende
nervoso. Sa che se facesse quella chiamata, se fissasse
quell’appuntamento,
tutto quanto diverrebbe più nitido, tutto quanto si
ingigantirebbe facendolo
sentire costretto e soffocato, impedendogli di comportarsi e
di affrontare tutto quanto come realmente
vorrebbe.
Appoggia
definitivamente il libro
sul comodino, per questa sera rinuncerà al suo rituale di
lettura. Allunga il
braccio verso l’interruttore dell’abat-jour per
spegnerla quando sente dei
rumori provenire dalla camera di Kyle, dei passi. Lo sente alzarsi, per
poi
aprire la porta della sua stanza. Si blocca, aspettandosi di trovarlo
sulla
soglia della porta della sua stanza, da un momento all’altro.
Infatti,
pochi istanti dopo,
eccolo là:
aria persa, pigiama
stropicciato e capo chino.
-Chris…
Quella
scena gli è fin troppo familiare,
l’ha vista così tante volte nel corso degli anni.
Senza aspettare che dica
altro, solleva il lembo del lenzuolo ancora piegato, nel lato del letto
che è
sempre stato di Jonathan, dopodiché
tamburellando le dita sul
materasso lo invita a raggiungerlo. Kyle,
sempre a testa bassa, accoglie l’invito e si sdraia
afferrando le coperte che
porta quasi fin sopra alla fronte. Christian scoppia a ridere, Kyle
è così
buffo, non può farne a meno.
-Mi
comporto come un bambino, lo
so…
Mormora,
lasciando scivolare le coperte.
Christian si avvicina e lo
guarda con
dolcezza, dopodiché gli dà un bacio sulla fronte.
-Per
me avrai sempre cinque anni,
non importa quanto il tempo scorra veloce.
Dopodiché
Christian spegne la
luce ed entrambi possono finalmente riposare.
***
Jonathan
si è alzato da poco. Non
ha appuntamenti in mattina, ragion per cui ha potuto concedersi di
restare a
letto più a lungo. Si è fatto una doccia, si
è vestito ed ora si trova seduto
al tavolo da pranzo con l’intento di fare colazione. Non ha
granché fame e quel
caffellatte di fronte a sé è diventato ormai
freddo. L’ha preparato ma si è
dimenticato di berlo, intento a fissare nemmeno lui sa cosa, al di
là del
finestrone principale in sala da pranzo.
Non
ha ricevuto nessuna chiamata
o messaggio da parte di Christian. Non ha idea di quando si
presenterà e il
fatto di trovarsi impreparato al loro ultimo e decisivo incontro lo
rende
estremamente nervoso. Non ha comprato le sigarette il giorno
precedente, l’ha
fatto di proposito. Ha deciso di andarci piano con il fumo e ha versato
nel
lavandino ogni bottiglia presente nell’appartamento che
avesse anche la minima
goccia di alcool. Il viaggio della speranza che ha fatto per arrivare a
Buffalo
deve averlo spaventato, non crede in quei quarant’anni della
sua vita di essere
stato tanto male per una sbornia. Eppure, da ragazzo in Texas, ha
passato le
sue belle serate allo sbando.
Semplicemente
il suo stato
psicofisico in quel momento non era adatto per permettergli di gettarsi
a
capofitto sugli eccessi senza doverne risentire. Si ritrova a fissare
il fondo
di una bottiglia di Jack Daniel sporgere dal cestino della spazzatura,
abbandonato di fronte al lavello della cucina e ad interromperlo
è soltanto il
suono del citofono.
L’orologio
che ha al polso segna le
undici e trenta, si chiede chi possa essere. Si alza e va a rispondere,
con il
sospetto di saperlo, in fondo, chi ci sia al capo opposto.
-Sì?
Chiede,
con esitazione.
-Sono
io.
Risponde
la persona dall’altro
capo, si tratta ovviamente di Christian.
-Ti
apro.
Ribatte,
premendo il bottone del
citofono.
---> Eccomi di
ritorno. Penultimo appuntamento!
Ehm... non lo so XD Ok,
devo confessarvi che sono indecisa se chiudere tutto nel prossimo
capitolo o fare un "epilogo". Vedrò un po' in base al
materiale che riuscirò a produrre nei prossimi
giorni.
Dunque, voglio
ringraziare Kae_dark
angel per la
recensione. Mi hai chiesto se avevo in mente un prestanome per Daniel,
sinceramente è l'unico rimasto senza prestanome ma ci ho
pensato un po' e credo che lui sia perfetto:
DANIEL
Con i capelli un po' più corti, magari!
Dunque... volevo avvisarvi che ho deciso di utilizzare lo spazio che
avrei dovuto riempire con la mia presentazione come calendario. Infatti
già da oggi trovate le date e gli orari nei quali ho
intenzione di aggiornare.
Sì, so che è tardi per "Hard to say i'm sorry" ma
sarà utile anche per il Prequel e successive storie sui
nostri adorati personaggi, per chi vorrà continuare a
seguirmi. (Sì, il prequel non sarà l'unica storia
su di loro!). Vi invito quindi a guardarla tutte le settimane, tutti i
sabati, per sapere quanto pubblicherò.
Oggi ho postato eccezionalmente di martedì perché
vi ho già fatto aspettare molto ed essendo il capitolo
pronto ho pensato fosse giusto non farvi aspettare fino a sabato. Spero
ne siate contenti.
Aspetto vostri pareri e... alla prossima! <---
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Capitolo 46 *** All Comes to an End (Tutto ha una fine) Parte Seconda ***
Due righe prima di iniziare:
Dopo più di 4 anni, siamo
arrivati alla fine. Vi avviso che il capitolo
sarà decisamente più lungo del solito. Avrei
dovuto dividerlo ma non mi andava
di farvi aspettare altro, per cui eccovelo qui. Probabilmente lo
dividerò
quando lo pubblicherò sul sito. Ci vediamo alla fine del
capitolo, come sempre.
BUONA LETTURA.
46.
All comes to and End (Tutto ha una fine) Parte Seconda
Il giorno della separazione, tre ore prima.
Daniel
si trova a casa di
Christian e Jonathan. Lo stesso Christian lo sta aiutando nella
revisione della
sua tesi. Nonostante quell’increscioso episodio del bacio a
Jonathan, ha deciso
di chiudere un occhio per onorare l’impegno da relatore che
si è preso con lui.
Questo
non significa che
Christian abbia deciso di metterci una pietra sopra o di far finta di
nulla. In
realtà concentra tutte le sue forze per non pensarci, per
non pensare che
nessuno potrebbe biasimarlo se decidesse di tagliare tutti i ponti con
Daniel.
Si è trattato di un bacio, di un episodio probabilmente
isolato. Eppure non è
qualcosa che si possa dimenticare con facilità.
Osserva
Daniel con lo sguardo
rivolto verso il pc, intento a inserire nel documento word della tesi
le
indicazioni, le citazioni e le correzioni che Christian gli ha
suggerito.
Daniel è stato per lui e Jonathan un figlio prima che Kyle
entrasse nelle loro
vite, gli ha voluto bene e ha sperato soltanto il meglio per lui.
Mentre ora,
per quanto cerchi di negarlo, inizia ad avvertire nei suoi confronti un
sentimento di collera e di fastidio. Lo
infastidisce vederlo indossare l’orologio che Jonathan gli
aveva regalato per
il suo compleanno un paio d’anni prima. Si tratta in
realtà di un vecchio
orologio di Jonathan che non aveva però più
potuto indossare perché il
cinturino in pelle era diventato troppo stretto.
Christian
ha avuto modo di vedere
quell’orologio al polso di Daniel diverse volte ma solo in
quel momento si
rende conto di quanto gli dia fastidio. Pensa a quanto Daniel tenga a
quell’orologio e collega il suo attaccamento a
quell’oggetto non più ad una
questione di affetto fraterno o paterno, volendo esagerare,
bensì per
un’attrazione probabilmente ben più importante di
quella fisica, verso
Jonathan.
Abbassa
lo sguardo non appena
Daniel gli fa capire di essersi accorto di essere osservato. Fa un
respiro
profondo e cerca allo stesso tempo di scacciare via tutti quei pensieri
maligni
che sembrano non voler abbandonare la sua testa.
-Ecco,
ho finito, vuoi dare
un’occhiata?
Chiede
Daniel. Il ragazzo gira
quindi il portatile verso Christian, in modo che lo legga. Christian
scorre
velocemente le pagine dell’estratto, oggetto principale della
sua correzione.
-Va
bene.
Risponde.
Daniel riprende
possesso del computer dopodiché lo spegne e lo infila nella
sua apposita
custodia.
-Quindi
devo solo consegnare gli
ultimi documenti in segreteria e poi ho finito?
Christian
annuisce. Daniel
raccoglie infine il suo cappotto, appoggiato sullo schienale della
sedia sulla
quale era seduto. Sollevandolo per infilare le maniche qualcosa cade da
una
delle tasche, un oggetto leggero, probabilmente di carta, che
va’ a finire sul
pavimento.
Christian
osserva quell’oggetto e
ci mette qualche istante prima di riuscire a focalizzare di cosa si
tratti o
meglio, prima di voler ammettere a se stesso che ciò che ha
visto non è stato
il frutto di un’allucinazione.
Non
lo è: lì, ai piedi di Daniel,
giace un pacchetto semiaperto di Lucky Strike.
La
stessa marca che fuma
solitamente Jonathan eppure, Daniel non è un fumatore, non
lo è mai stato. Il
ragazzo prontamente si china per recuperare quell’oggetto che
non sarebbe mai
dovuto uscire dalle sue tasche. Christian però lo ferma.
-No.
Il
tono di voce tonante di
Christian paralizza Daniel che rimane ancora chino sul pacchetto con
gli occhi
spalancati dalla paura.
-Lascia
lì quella cosa e vattene.
Gli
intima a denti stretti.
Daniel si alza ma rimane ancora immobile, costringendo Christian a
ripetersi.
-Vattene.
Ripete,
con sguardo fulmineo.
Daniel non se lo fa ripetere di nuovo, prende il pc ed esce in fretta
dall’appartamento.
Christian
si avvicina a quel
tanto temuto pacchetto di sigarette, lo osserva quasi con timore, prima
di
chinarsi a raccoglierlo. Lo tocca con delicatezza, quasi abbia paura di
scottarsi. Ha paura a fare i dovuti collegamenti, ha paura a dover
concretizzare il pensiero che l’ha indotto a cacciare Daniel
fuori casa.
Si
tratta di un comunissimo
pacchetto di sigarette di una marca anche piuttosto famosa. Non vi
è sopra di
esso un’etichetta che possa permettere di risalire al
proprietario eppure, per
Christian è chiaro che sia di proprietà di
Jonathan. Daniel aveva quel
pacchetto di sigarette in tasca, un non fumatore con un pacchetto di
sigarette
di una delle marche più costose. Unica marca che Jonathan
abbia mai fumato, da
quando l’ha conosciuto.
Christian
stringe quel pacchetto
tra le dita ora, quasi lo stritola. Dopodiché, in un impeto
di rabbia, lo getta
con violenza contro la porta d’ingresso.
Presente
Christian
è uscito di casa senza
dire dove sarebbe andato, né quando sarebbe tornato. Ha
soltanto detto “Io
esco.”, senza aggiungere altro. Kyle però
l’ha capito, sa che sta andando da
Jonathan.
Sta
facendo colazione; il
cellulare è posato alla sua destra, vicino alla tazza colma
di cereali. Non ha
notizie di Anthony da un paio di giorni e questo lo preoccupa
infinitamente.
Non si vedono né si sentono dalla mattina dopo il disastro
aereo e si chiede cosa aspetti a
farsi vivo. Sa bene che potrebbe mandargli un messaggio lui stesso ma
non vuole
farlo. È stato lui l’ultimo ad aver iniziato una
conversazione; dopo il rientro
a casa di Christian gli ha mandato un messaggio nel quale confermava di
stare
bene e che Christian era tornato, al quale Anthony aveva risposto con
un
semplice “Ne sono felice.”
Dopo
quello più nulla. Mancano
solo quattro giorni prima dell’inizio della scuola, dopo quel
weekend
ricominceranno le lezioni. Avrebbe voluto trascorrere quegli ultimi
giorni con
Anthony ma teme ormai che non sarà possibile. Non
è riuscito a godersi
completamente la precedente giornata trascorsa in compagnia di
Christian.
Benché il suo desiderio di vedere Anthony e di sapere cosa
stesse facendo fosse
forte, sapeva che quella giornata la doveva dedicare a Christian, non
avrebbe
mai rinunciato alla possibilità di passare qualche attimo
felice e spensierato
con lui, specialmente dopo aver trascorso tutte quelle ore in
apprensione
temendo di non poterlo vedere mai più.
Purtroppo
però le cose non sono
andate esattamente come sperava andassero. Non per un istante si
è sentito
spensierato o tranquillo, non ha fatto che osservare da lontano il
cellulare,
rimanendo con l’orecchio teso nella speranza che potesse
vibrare da un momento
all’altro.
Continua
a scorrere i messaggi
scambiati con Anthony e cerca di ricordarsi mentalmente tutto quanto si
siano
detti nelle ultime quarantotto ore, per riuscire ad individuare ogni
minima
incomprensione, stortura o incertezza ma non riesce a ricordarsi nulla.
Ha
amato e vissuto intensamente ogni attimo trascorso con lui, ripensa
ancora con
il cuore che gli batte forte a come si sia addormentato con
serenità tra le sue
braccia sul divano quella notte. Avverte anche un po’ di
nostalgia per quei
momenti che ormai appartengono al passato.
Prendendo
coraggio posa il
cucchiaio per la colazione nella tazza e recupera il numero di Anthony
dall’elenco delle ultime chiamate. Il suo cuore continua a
battere forte e si
sente quasi intimorito e imbarazzato all’idea dover parlare
con lui al
telefono.
Spento.
Il
telefono di Anthony risulta
spento o scarico, in ogni caso nessuna risposta. Kyle posa di nuovo il
cellulare sul tavolo e d’improvviso si ricorda delle numerose
chiamate perse
dei genitori di Anthony, che sommate al suo non farsi sentire da quasi
due
giorni, potrebbero significare che il loro piccolo segreto sia infine
stato
scoperto, facendo realizzare quella che era stata la paura
più grande da parte
di entrambi dal momento nel quale avevano deciso di diventare una
coppia: la
separazione forzata.
Avverte
un terribile senso di vuoto
alla bocca dello stomaco ed inizia quindi ad osservare i cereali
rimasti nella
tazza con disgusto. Non può credere che non potrà
più vedere Anthony, non così
presto, non senza preavviso. Sapeva che il rischio di non poterlo
vedere per
settimane sarebbe arrivato con l’inizio della scuola,
tuttavia per quella
separazione anticipata e inaspettata no, non è pronto.
Non
è sicuro che siano realmente
quelli i fatti, forse Anthony sta ancora dormendo e ha ancora il
cellulare
spento, forse il giorno precedente l’ha lasciato in pace di
proposito
per permettergli trascorrere
del tempo con
Christian e forse lo chiamerà più tardi non
appena vedrà la sua chiamata.
O
forse i suoi genitori hanno
letto i loro messaggi, scoprendo dove avesse passato la notte
precedente e dove
fosse andato per tutta l’estate ogni
pomeriggio ed ogni sera e, chiaramente infastiditi per la cosa per la
quale si
erano già mostrati sfavorevoli, avessero deciso di
sequestrargli il cellulare,
impedendogli di uscire, di farsi sentire, di contattarlo anche solo per
spiegargli come stanno le cose.
Qualunque
sia l’ipotesi corretta
e Kyle è sicuro che sia la seconda, non può fare
nulla. Non conosce altro modo
per contattare Anthony e non può di certo presentarsi a casa
sua. Si sente
incredibilmente solo e inerme e per la prima volta sente di essersi
messo in
qualcosa di più grande di lui.
Rimane
per un’ora buona seduto
sulla sedia nel tentativo di trovare una soluzione o
tuttalpiù una scappatoia,
senza però chiaramente venire a capo di nulla. Viene
distratto proprio dal suo
cellulare, un messaggio. Con la coda dell’occhio riesce ad
intravedere il nome
“Anthony” sullo schermo e con rapidità
afferra il telefono.
“Vediamoci tra un’ora al
solito
posto.”
Avrebbe
tanto voluto ricevere un
messaggio diverso, un messaggio meno schematico e impersonale, che
potesse in
qualche modo calmare il suo stato d’animo decisamene
inquieto. Al contrario,
quella breve frase di Anthony non fa che alimentare le sue paure.
***
Jonathan
apre la porta e aspetta
in piedi sulla soglia di veder comparire Christian dalle scale.
Benché ci sia
un ascensore nello stabile sa che opterà per le scale,
l’ha sempre fatto e ha sempre
costretto anche lui a farlo, lo conosce fin troppo bene. Eccolo
infatti, poco
dopo, presentarsi di fronte a lui. Sembra tranquillo, non ha
particolari
espressioni in viso né la solita aria di sdegno che
solitamente tiene quando
deve affrontare qualcosa verso la quale non sa assolutamente come
comportarsi.
-Ehi…
Esclama
Jonathan, troppo nervoso
per restarsene in silenzio. Christian non ribatte, si limita a
posizionarsi
proprio difronte a lui, nell’attesa che lo inviti ad entrare
in casa.
-Prego…
Lo
invita quindi ad entrare,
spostandosi dalla soglia il necessario per permettergli di metter piede
nell’appartamento. Christian, sempre senza fiatare, entra.
Vedere Christian
entrare per la prima volta in quello che da diversi mesi a quella parte
è
diventato il suo appartamento, gli provoca inquietudine e al tempo
stesso evoca
in lui una curiosa sensazione di dejà-vu, che nemmeno
è sicuro di poter
definire tale. Si ricorda di quando quindici anni prima
l’aveva portato per la
prima volta in quel suo appartamento appena fuori dall’East
Side, quello che
Gregor gli aveva comprato come copertura e che era finito per essere il
loro
luogo di incontro per circa un anno. Christian osserva e scruta
l’ambiente con
gli stessi occhi curiosi di un tempo ma con un evidente punta di
criticismo che
a quei tempi non possedeva.
Jonathan
sa di per certo che gli
oggetti della sua attenzione sono la pila di scatoloni ancora chiusi e
abbandonati
contro una parete, il cestino dal quale sporge la bottiglia vuota di
Jack Daniels
e i pensili della cucina dai quali non ha ancora tolto la copertura
protettiva
in cellophane.
Jonathan
chiude la porta,
lasciando a Christian il tempo per osservare per bene
quell’ambiente tanto
disordinato e incompleto, che di sicuro non apprezza.
-Sai,
la prima cosa che mi ha
detto Kyle la prima volta che entrato qui dentro è stata:
“Chissà cosa direbbe
Chris di questo posto!”
Esclama.
Jonathan sorride,
sperando che anche lui faccia lo stesso e lo fa, anche solo per una
frazione di
secondo. Intuisce che il suo stato d’animo sia cambiato, lo
nota più nervoso
rispetto a quando ha messo piede nell’appartamento poco
prima. Non vuole che
tutto quanto prenda una brutta piega, per la prima volta dopo tempo il
loro
ultimo incontro, il loro ultimo accomiato, non era stato un completo
disastro e
vuole evitare che in quel momento, nel momento della resa dei conti,
tutto
torni ad essere quell’ammasso di urla, rancore e parole dure,
che ha
caratterizzato gli incontri precedenti.
-“Non
posso credere che tu viva
in un posto del genere!”
Prosegue
Jonathan, imitando in
modo esagerativo il tono di voce di Christian, questi lo osserva, senza
aprire
bocca. Non ha capito se Jonathan lo stia provocando o se semplicemente
il suo
sia un tentativo di rompere il ghiaccio, di arrivare nel modo
più sereno e meno
doloroso possibile al nocciolo del loro spinoso incontro.
-Diresti
così, non è vero?
Christian
annuisce.
-Probabile,
sì.
Jonathan
sorride e asserisce col
capo.
-Avresti
ragione, questo posto è
una vera discarica. Lo puoi dire, non mi offendo.
Christian
sembra intenzionato a
commentare ma poi non lo fa, apre solo la bocca, le labbra, in modo a
malapena
percettibile dopodiché torna a guardare la stanza nella
quale si trova,
distogliendo lo sguardo da Jonathan che proprio non riesce a starsene
in
silenzio. Sente qualcosa muoversi sotto la sua pelle, quasi dei piccoli
elettrodi attivati tutti nello stesso momento, che non vogliono dargli
pace e
non lo lasciano restare fermo, come invece vorrebbe. Si sente agitato e
sente
il bisogno di muoversi, di fare qualcosa, qualsiasi cosa.
-La
verità è che… non mi sono mai
arreso all’idea di dover vivere qui dentro.
Quel
“qualsiasi cosa” comprende
anche il pronunciare mezze frasi che celano confessioni che avrebbe
preferito
tenere per sé o che aveva intenzione di utilizzare in un
momento successivo
durante il quale sarebbero risultate più opportune,
più pertinenti e meno
patetiche. Christian gli rivolge uno sguardo del tutto sorpreso. Non si
aspettava una frase del genere, nessuno se la sarebbe aspettata,
probabilmente
non avrebbe neanche voluto sentirgli pronunciare tali parole. Jonathan
pensa
che abbia compreso da solo ciò che gli ha appena confessato
e che dopotutto non
ci fosse veramente motivo di pronunciarlo ad alta voce, imbarazzandoli
entrambi. Quell’ambiente lasciato al caso parla da solo.
Cerca
di stare in silenzio,
aspettando una risposta, un argomento o una discussione da parte di
Christian
che però sembra non voler parlare mai. Guardandolo si chiede
se abbia ascoltato
il suo consiglio, presentandosi da lui soltanto quando si fosse
veramente
sentito pronto per il confronto.
Non
lo è.
Lui
come Christian non saranno
mai pronti, lo sa. Entrambi stanno giocando in difesa aspettando che
sia
l’altro a parlare per primo, a decidersi ad intavolare
l’argomento. Non ha idea
di quanto ancora riuscirà a sopportare quella situazione. Il
silenzio è
lacerante, la tensione è soffocante e del tutto
insostenibile. Teme che da un
momento l’altro uscirà con un’altra
frase sciocca e del tutto innecessaria.
-Ce
l’hai fatta a comprarti un
Bose, alla fine.
Commenta
Christian,
sorprendentemente, avvicinandosi allo stereo. Lo vede sfiorare
delicatamente
con le dita il logo argenteo dell’apparecchio. Appoggia
appena i polpastrelli,
quasi per paura di prendere la scossa. Christian è girato ma
Jonathan riesce ad
intravedere di profilo un abbozzo di sorriso, sulle sue labbra.
-Sì,
ed è assolutamente inutile.
Ho un solo cd e non ho interesse a comprarne altri.
Risponde.
-“Queen: the
best of”.
Christian
si gira. Jonathan
annuisce. Non ha lasciato la custodia del disco nelle
prossimità dello stereo,
in modo che Christian potesse vederlo ma lui se ne ricorda.
-Esattamente.
Jonathan
deglutisce. I ricordi
provocati anche soltanto pronunciando il nome di quel cd sono
sufficienti a
peggiorare il suo stato d’animo. Si ricorda di aver ascoltato
quel disco quella
sera sulla strada per il Vampiria, la prima volta che ha visto
Christian, la
prima parola che gli ha rivolto la parola e poi a ruota, in
velocità aumentata,
tutte le scene della loro vita insieme fino ad ora. Fa troppo male
rivedere in
modo così vivido quelle immagini, avendo Christian davanti e
sapendo che fin
troppe cose sono cambiate, affinché possa godere di quei
ricordi serenamente e
non con una prevalente tristezza nel cuore. Decide che non
può più sopportare
oltre, fa la prima mossa.
-Senti,
giochiamo a carte
scoperte, ok?
Christian
non ribatte e Jonathan
continua a parlare.
-Non
ho la più pallida idea di
come comportarmi. Vorrei tanto saperlo, vorrei che qualcuno nel mio
cervello mi
consegnasse un copione, un pezzo di carta, delle indicazioni, qualsiasi
cosa
possa aiutarmi. Ma non è così quindi….
Non lo so! Parla, esprimiti, dimmi tutto
quello che non sei riuscito a dirmi, ogni cosa, di ogni genere, in ogni
modo,
vedrò come elaborarla.
Jonathan
pronuncia il suo
discorso tutto d’un fiato, perché ha paura che se
avesse esitato e se avesse
riflettuto meglio su cosa dire probabilmente non sarebbe stato tanto
chiaro né
avrebbe sensibilmente dato una scossa a quella situazione fin troppo
statica.
-Credi
che io sia messo meglio di
te, John? Sei sempre stato tu quello che sapeva cosa fare, quello che
dava le
indicazioni, ricordi?
Ribatte
Christian. Jonathan
annuisce, ciò che Christian ha appena detto è
vero eppure sperava in qualcosa
di più, sperava che cogliesse il suo invito ed iniziasse a
parlare, a
spiegarsi.
-Non
sei stato con me negli
ultimi otto mesi e sono certo che tu te la sia cavata egregiamente per cui-
Christian
lo interrompe con una
risatina nervosa. Scuote il capo e gli rivolge un’occhiata di
fuoco.
-Ne
sei veramente sicuro, sei
veramente sicuro di quello che dici?
Jonathan
si sente con le spalle al muro, non
sa come ribattere. Si limita ad annuire col capo, un gesto rapido.
-John…
veramente non capisci?
Com’è possibile che tu non capisca?
Jonathan
prende un respiro lungo,
si frega il viso con le mani, quasi nel tentativo di schiarirsi le
idee. Teme
che la situazione stia degenerando, non è più
sicuro di poterla tenere sotto
controllo. Gli animi hanno iniziato a scaldarsi e Christian ha iniziato
a
guardarlo con quei suoi occhi tanto espressivi da bloccargli il
respiro.
-Perché
non ci sediamo, magari?
Invita,
indicando il tavolo da
pranzo. Christian lo guarda, dopodiché segue il consiglio e
si siede.
***
Kyle
sta raggiungendo il vecchio
cinema, come gli ha chiesto Anthony nel messaggio. Ha paura di
quell’incontro.
Prima di voltare l’angolo si ferma. Fa un respiro profondo e
cerca di
raccogliere tutto l’autocontrollo possibile per permettergli
di affrontare
qualsiasi cosa gli aspetti dietro quell’angolo.
Ed
eccolo là, Anthony. Non appena
lo vede gli corre incontro. Senza dargli il tempo di capire come stiano
le
cose, di osservarlo e persino di salutarlo, lo afferra per fianchi
sollevandolo
e lo bacia. Un bacio strano che Kyle sicuramente è felice di
ricevere ma che lo
fa piombare ancora di più in uno stato di angoscia e di
insicurezza.
-Per
che cos’era questo?
Chiede
Kyle infine, non appena
riprende possesso delle proprie labbra. Anthony gli sorride.
-Mi
sei mancato! E poi… deve
esserci davvero un motivo?
Ribatte
Anthony, sempre con il
sorriso sulle labbra. Kyle vorrebbe tanto credergli ma
c’è qualcosa nel suo
sguardo, nei suoi occhi, che gli impedisce di farlo. Ha come
l’impressione che
gli stia nascondendo qualcosa.
-Non
ti sei fatto sentire per
quasi due giorni e avevi il cellulare spento questa mattina.
Afferma
Kyle, convinto più che
mai ad ottenere una risposta alle mille domande che si affollano nella
sua
testa.
-Dormivo.
Ribatte
immediatamente Anthony.
La sua risposta è tanto rapida da suggerire a Kyle che se la
sia preparata.
L’atteggiamento di Anthony è fin troppo sospetto.
-No,
non è solo questo. Non è
vero?
Domanda
Kyle più serio e con un
tono di voce più autoritario. Anthony
sembra rassegnarsi, quel sorriso così costruito che ha avuto
sulle labbra fino
a quel momento si spegne. Come Kyle aveva intuito, Anthony ha qualcosa
da
confessargli e a giudicare dall’espressione cupa e di
sconforto che si fa
presto spazio sul suo viso, deve trattarsi di qualcosa di veramente
importante.
-Non
qui. Andiamo al parco
abbandonato, ok?
Kyle
annuisce. I due ragazzi
raggiungono il parco. I giorni precedenti sono stati piuttosto piovosi,
motivo
per cui non possono sedersi sull’erba come hanno fatto
durante tutta l’estate.
Optano per il bordo di una vecchia fontana in pietra, ormai in disuso
da anni e
dentro la quale è cresciuto un cespuglio di erbacce.
-I
tuoi genitori hanno scoperto
di noi, non è vero?
Chiede
Kyle con impazienza. Non
può aspettare che Anthony parli, non può
sopportare di trovarsi in quel limbo
di inquietudine per altro tempo.
-Lo
sapevano già da tempo…
Confessa
Anthony, a voce bassa.
Ha il capo chino e lo sguardo rivolto verso le scarpe, un paio di Nike
Air Max
nere, che frega luna contro l’altra nervosamente.
Kyle è del tutto stupito da
quella risposta. Non sa come reagire, da un lato si ritrova sconvolto e
dall’altro un po’ tradito. Se i suoi genitori
sapevano di loro, perché hanno
sempre dovuto incontrarsi in segreto? Perché ha sempre fatto
finta di niente?
-Come?
Non
riesce a proprio a dire
altro. Prima di fargli tutte quelle domande, prima di lasciare
intravedere il
senso di delusione che sta provando in quel momento, vuole essere
chiaro di
aver capito bene e spera, in cuor suo, che Anthony abbia in servo una
risposta
una valida, una che possa farlo ricredere, che possa farlo quasi
sentire
stupido nell’aver dubitato di lui anche solo per un istante.
-L’hanno
scoperto il giorno
stesso nel quale ci siamo incontrati davanti al cinema, per la prima
volta. Mio
padre mi ha fatto seguire da un suo amico quel pomeriggio.
Risponde
Anthony. La delusione di
Kyle aumenta esponenzialmente. Sentire quella confessione da Anthony fa
male,
fa tanto male.
-Perché
non mi hai detto nulla,
Anthony?
Anthony
non risponde. Kyle, colto
dal risentimento, lo afferra per un braccio e lo scuote, cercando di
farlo
parlare con la forza.
-Rispondi!
Gli
intima, con la voce spezzata
e il cuore che avverte la prima crepa e aspetta solo che questa si
allarghi per
andare in frantumi.
-Perché
ti avrebbero fatto del
male e non potevo, non posso, sopportarlo.
Risponde
Anthony, questa volta
guardandolo negli occhi. Kyle si sente inerme davanti a quel suo
sguardo carico
di sofferenza, di insicurezza. Anthony sta soffrendo più di
lui, da molto più
tempo. Vederlo in quello stato placa per un attimo la collera di Kyle
che lascia
andare il suo braccio, stretto con forza, fino a
quell’istante.
-Mio
padre mi ha detto che ti
avrebbe denunciato accusandoti di avermi molestato, sfruttando anche
l’episodio
della festa. Sarebbe valso a nulla smentire, è un uomo
potente ti avrebbe
incastrato e non potevo permetterglielo. Inoltre… ha detto
di volermi spedire
in un collegio, fino alla fine delle superiori.
Confessa
Anthony. Kyle cerca di
intervenire ma Anthony glielo impedisce, proseguendo il suo discorso.
-Finché
non avrò compiuto
diciotto anni, purtroppo, non potrò fare nulla per oppormi.
Però sono riuscito
a proporgli un accordo.
Prosegue.
-Un
accordo?
Domanda
Kyle, con spontaneità.
-Mi
avrebbe lasciato in pace per
tutta l’estate, permettendomi di vederti e di fare qualsiasi
cosa volessi, alla
condizione che non dessi, parole sue, “Troppo spettacolo di
me” e che non
restassi fuori la notte, con te.
Il
collegamento è immediato:
Anthony ha passato con Kyle la notte dopo l’incidente aereo.
Kyle rimane a
bocca aperta, sconvolto.
-Oh…
Anthony, io…
Anthony
scuote il capo.
-Non
finisce qui. Ma, Kyle, prima
di spiegarti tutto quanto, lascia che ti dica una cosa.
Anthony
afferra entrambe le mani
di Kyle, le stringe forte e intreccia le sue dita con le proprie.
-Devi
sapere che tutto quello che
ho detto, tutto quello che ho fatto è sincero, che la scorsa
notte sono rimasto
con te perché volevo farlo, pur sapendo a cosa sarei andato
in contro. Mi
credi, non è vero?
Kyle
annuisce, non riesce a fare
altrimenti.
-Bene,
perché c’è un’altra cosa
che purtroppo non sono riuscito ad evitare: il collegio, a Chicago.
Partirò
domenica sera dopo cena.
Kyle
lascia andare le mani di
Anthony. Non è certo di aver capito ciò che ha
appena ascoltato, il suo
cervello è annebbiato, i suoi pensieri sono il caos. Sente
il bisogno di
alzarsi, di muoversi.
-Quindi,
abbiamo avuto solo
questa estate? Questo, mi stai dicendo?
Chiede,
confuso. Anthony apre la
bocca ma non esce alcun suono, deglutisce ed asserisce col capo.
-E
tu.. tu lo sapevi? Tu sapevi
dall’inizio che non avremmo mai potuto avere più
di questo?
Anche
Anthony si alza e cerca di
prendere di nuovo le mani di Kyle, cerca di calmarlo. Kyle
però è tutt’altro
che calmo. La situazione si è rivelata essere ben
più dolorosa di quanto avesse
immaginato. Anthony gli ha mentito per tutta l’estate e non
può sopportarlo. Si
è fidato di lui, si è lasciato andare con lui
come non era mai riuscito a fare
con nessuno in vita sua. Credeva finalmente di aver trovato la sua oasi
felice
ma si è trattato soltanto di un doloroso miraggio.
-Tra
averti per un’estate e non
averti affatto ho scelto la prima opzione, sì.
Ribatte
Anthony, sicuro della sua
scelta.
-E
perché non hai pensato di
chiedere anche a me cosa ne pensassi? Perché? Avevi paura
che non accettassi,
che mi tirassi indietro?
Chiede
quindi Kyle, alzando
notevolmente il tono di voce.
-No.
Non ti ho detto nulla perché
ho voluto viverti, viverci, come se non ci fosse una vera data di
scadenza ad
incombere. Ma non ti ho mentito del tutto, sapevi che avremmo iniziato
la
scuola in posti differenti.
Kyle
vorrebbe urlare, arrabbiarsi
con Anthony, esprimere tutto il dolore e il rancore che sta provando in
questo
momento ma non ci riesce. Non ci riesce perché
benché Anthony gli abbia
mentito, benché gli abbia nascosto un particolare tanto
rilevante, riesce a
percepire nel suo tono di voce, nel suo sguardo e nel suo continuo
cercare di
sfiorarlo, di prendere le sue mani, di sentire ancora una volta la sua
pelle
sotto le dita che non deve essere stato facile fare quella scelta,
né riuscire
a portarla avanti senza il minimo vacillamento, fino ad ora.
-Ma
non sapevo che te ne saresti
andato a Chicago, in collegio. Né che ci saresti rimasto per
ben due anni.
Lo
corregge, abbassando i toni e
aggiungendo una punta di amarezza nelle sue parole. Anthony tenta
ancora un
approccio, che questa volta Kyle non gli nega. Lo abbraccia con forza e
con
disperazione. Kyle ricambia quell’abbraccio, che gli fa tanto
male ma verso il
quale prova una forte necessità.
***
Christian
è seduto al tavolo,
come Jonathan ha suggerito e lo guarda, attendendo che dica qualcosa,
che sia
ancora lui ad iniziare il discorso per primo. Solo dopo aver messo
piede per la
prima volta in quel posto, solo quando finalmente
“l’appartamento di Jonathan”
è diventato per lui qualcosa di reale e non soltanto
un’idea senza forma, si è
reso conto che presentarsi da lui senza essere pronto, senza almeno
aver
riflettuto su cosa dire, era stata una pessima idea.
Il
loro incontro ha qualcosa di
strano, è diverso dai precedenti e la cosa lo spaventa. Sa
bene che questa
volta il tutto non si risolverà con uno Jonathan che
abbandona la stanza,
lasciando lui lacrime. Principalmente perché quella non
è la loro casa; è
l’appartamento di Jonathan un luogo in cui Christian si sente
un estraneo e in
cui anche lo stesso Jonathan, come ha confessato poco prima, non sembra
sentirsi a proprio agio. Christian vorrebbe dire qualcosa, vorrebbe
avere
l’impulso di dire qualcosa, non crede che gli manchino gli
argomenti, ci sono
davvero così tante cose che vuole dire a Jonathan ma non ci
riesce. Ha paura
che se iniziasse a parlare di un argomento subito dopo se ne
pentirebbe,
desiderando di aver detto altro.
Si
sente combattuto e tormentato
e Jonathan non deve trovarsi in uno stato migliore del suo, lo vede
muovere
nervosamente la gamba sotto il tavolo, è agitato e
irrequieto e raramente l’ha
visto in quello stato. La frase che Jonathan ha detto poco prima, sul
non voler
considerare quel posto come “casa”, l’ha
stupito. Non tanto per la frase in sé,
perché sa bene quanto Jonathan sia sempre stato attaccato
alle sue cose e
quanto tenesse al loro appartamento. Semplicemente per il modo nel
quale l’ha
detto, nella forma di una confessione forzata.
Troppa
tensione in quella stanza,
troppe aspettative e soprattutto troppo tempo è passato
prima che entrambi si
decidessero a comportarsi da adulti e ad affrontare la questione di
petto.
Christian non mostra segni di inquietudine fisica, riesce a
controllarsi benché
mille voci di mille pensieri differenti stiano urlando nella sua testa
in modo
confuso e aspettino soltanto che lui porga l’orecchio per
ascoltarsi e
distinguerli uno ad uno. Così, a sua stessa sorpresa, si
ritrova a parlare per
primo.
-Ti
ho detto tante cose, John.
Inizia,
facendo sussultare
Jonathan che probabilmente era immerso nei propri pensieri in quel
preciso
momento.
-Ti
ho detto come mi sono sentito
e quello che ho provato. Francamente credo di aver espresso con molta
chiarezza
la mia situazione ma tu… tu non mi hai detto niente. Vuoi
delle indicazioni?
Eccole: parla tu, di’ tu quello che c’è
nella tua testa. Perché fino ad ora
sono sempre stato io quello a parlare e siamo arrivati a questo.
Christian
si rende conto di
quanto ciò che abbia appena detto sia vero solo dopo aver
pronunciato l’intero
discorso. Si chiede come abbia fatto a formulare un pensiero tanto
complesso,
senza nemmeno rifletterci sopra.
No,
la verità è ciò che ha appena
detto è soltanto un frutto di quelle sue tanto ignorate voci
interiori. Da
tempo sa che avrebbe dovuto chiedere a Jonathan di esprimersi, da tempo
sa che
avrebbero raggiunto una soluzione soltanto quando entrambi si fossero
espressi
completamente. Neanche troppo inconsciamente, ha sempre assunto lui il
ruolo di
“voce della ragione”, ha dato per scontato che le
sue sensazioni fossero più
importanti di quelle di Jonathan. Solo perché Jonathan
l’aveva tradito e quindi
solo perché aveva versato lui la goccia che aveva fatto
traboccare il vaso
ormai colmo, secondo Christian il suo pensiero era irrilevante, meno
importante.
E
perché aveva paura. Christian
si sente soffocare nel considerare il fattore della paura. Aveva paura
che
Jonathan confessasse qualcosa, nemmeno lui sa cosa, in grado di
stravolgere
ogni sua certezza. Jonathan aveva sbagliato quella volta, quella
decisiva, per
cui Jonathan doveva essere per assimilazione il colpevole di tutto il
resto.
Jonathan
lo guarda, non parla
ancora. Lo sta scrutando nell’attesa che gli dia conferma di
intendere
veramente ciò che ha appena detto. Christian regge il suo
sguardo, permette che
lo guardi dritto negli occhi, che lo scruti per capirlo, per intuire
ciò che
sente, come ha sempre fatto. Non abbassa gli occhi o il capo ma si
lascia
vedere dentro, dritto nell’anima. Quell’anima
fragile e inquieta che Jonathan
ha sempre compreso, più di quanto lui stesso fosse in grado
di fare.
-Per
troppo tempo mi sono sentito
ospite nel corpo di un altro.
Esordisce
Jonathan, con tono
serio. Christian chiude gli occhi per un istante e prende fiato, sa di
averglielo chiesto lui ma sa anche quanto male proverà per
averlo fatto.
-Ti
ho visto cambiato così, da un
giorno con l’altro. Ho iniziato a chiedermi come avessi fatto
ad innamorarmi di
te.
Le
parole di Jonathan,
pronunciate in modo tanto sincero e conciso, sono per Christian un
dolore
intollerabile. Non se le aspettava, non si aspettava tanta schiettezza.
-Ti
vedevo diverso e non riuscivo
a capirne perché. Speravo ogni giorno di
svegliarmi e di trovarti com’eri prima, come ti ho
conosciuto, come mi piaceva
tu fossi.
Christian
vorrebbe tapparsi le
orecchie, vorrebbe farlo smettere di parlare. Non vuole sentire oltre,
non
crede di essere in grado di sopportare altro.
-Non
mi guardavi più, non ti
interessava più di ciò che facessi o pensassi.
Qualsiasi parola mi rivolgessi
era un rimprovero. Inscenavi liti tremende che duravano giorni per cose
veramente stupide e insignificanti, come non aver sentito suonare il
cellulare
e quindi non averti risposto, oppure essere arrivato in ritardo a cena.
Jonathan
fa una pausa. Osserva
Christian per essere certo che lo stia ascoltando, che stia seguendo il
suo
discorso. Deve essersi accorto di quanto tutto ciò che ha
appena detto l’abbia
profondamente colpito e turbato ed esita prima di proseguire, aspetta
che lui
gli dia una conferma, aspetta che gli faccia cenno col capo di
proseguire.
Perché per quanto lo stia ferendo, per quanto si stia
sentendo umiliato e
toccato nel profondo, Christian deve continuare ad ascoltare.
-Da
lì, ho iniziato a notare
Daniel. Non ero in cerca di un’avventura, né di
un’amante né di qualcosa di
nuovo. Era te che stavo cercando, te soltanto. Quel…
rapporto che ho avuto con
lui non era necessario e credimi, non c’è giorno
che passi senza che mi chieda
cosa mi abbia spinto ad averlo fatto e senza che me ne penta.
Christian,
che fino a quel
momento non aveva potuto far altro che starsene in silenzio, sente il
bisogno
di esprimersi. Non crede che ciò che sta per dire possa in
qualche modo farlo
sentire meglio ma non può proprio rimanere in silenzio.
-Però
l’hai fatto…
Jonathan
asserisce col capo, la
sua risposta, la sua ammissione, non si fa attendere.
-Sì
ed è proprio grazie al quel
mio stupido errore che ho capito.
Christian
aggrotta la fronte e si
lascia sfuggire un’occhiata di sdegno, alla quale Jonathan
immediatamente
replica.
-Può
sembrare una scusa, me ne
rendo conto. Eppure posso assicurarti che è stato
così, perché solo dopo aver
fatto…
Si
blocca per un istante e
deglutisce.
-…quello
che ho fatto, ho
iniziato a capire che anche io ero cambiato e forse anche
più di te. Dopo
quello che ho passato con Gregor e mia madre, non avrei mai fatto una
cosa del
genere a nessuno, men che meno a te. Mi sono anche reso conto che
è stata colpa
mia se tu sei in qualche modo cambiato. Devi sapere che…
soltanto quando ho
visto la disperazione nei tuoi occhi, soltanto quando ti ho visto
rivolgermi
quell’espressione desolante e devastante che rivolgevi a
Dickson, anni fa, mi
sono reso conto di non averti capito. Perché tu eri
lì, eri sempre stato lì.
Semplicemente, io ero diventato troppo cieco e non volevo vederti
né capirti.
Jonathan
interrompe nuovamente il
proprio discorso, solo per osservare di nuovo Christian, per guardare
di nuovo
attraverso i suoi occhi.
La
separazione
Jonathan
sta per rientrare in
casa, sono le sette e mezza. La sua giornata è stata
abbastanza tranquilla:
pochi appuntamenti, poco da fare, una giornata come un’altra
o almeno così
sperava che fosse.
Quando
apre la porta si sorprende
nel trovare Christian ad aspettarlo seduto sul divano. È
piuttosto tardi ed era
certo di trovarlo in cucina a preparare la cena o addirittura pronto a
fargli
la solita ramanzina per essere arrivato in ritardo e non avergli
mandato un messaggio
per avvisarlo. Lo guarda e nota qualcosa di molto strano.
È
a braccia conserte e lo
osserva, senza rivolgergli parola. Questo suo atteggiamento lo mette in
soggezione al punto da aver quasi il timore di parlare lui stesso.
-Qualcosa
non va?
Chiede,
terrorizzato dalla sua
imminente risposta. Christian ancora non parla, si limita ad indicargli
un
punto sul tavolino, di fronte a lui. Jonathan non capisce
immediatamente ma
poi, quando abbassa lo sguardo, realizza tutto quanto.
Lì
davanti a lui c’è un pacchetto
di sigarette. Probabilmente lo stesso pacchetto di sigarette che ha
dimenticato
su quel comodino in quello squallido motel tre giorni prima. Non vuole
sapere
come Christian ne sia venuto in possesso e il suo cervello al momento
si è
congelato, non riesce a pronunciare la benché minima sillaba
e non è quindi in
grado di improvvisare una scusa.
-È
tuo, non è vero?
Chiede
Christian, con voce
tremante. Jonathan ancora non riesce a parlare. Appoggia a terra la
valigetta
del lavoro e abbassa lo sguardo. Non vuole confessare ma non ha di
certo la
forza per mentire. Christian si sporge per prendere il pacchetto di
sigarette.
-Sto
parlando con te, mi senti?
Chiede
Christian alzando il tono
di voce. Jonathan alza lo sguardo e lo scruta con più
attenzione. Guardandolo
bene nota che il suo viso è arrossato e i suoi occhi sono
gonfi, segni di
pianto recente che dà cenno a voler ripresentarsi di nuovo.
Non sa come
reagire, vorrebbe soltanto premere il tasto
“Rewind” e ritornare indietro.
Non
c’è nessun tasto “rewind” al
contrario però sembra esserci il tasto “avanti
veloce” dal momento che gli
eventi, immediatamente, precipitano. Christian gli getta addosso il
pacchetto
di sigarette che va’ a finire ai suoi piedi.
-È
caduto dalla tasca di Daniel,
oggi pomeriggio. Daniel non fuma e aveva la tue sigarette, me lo vuoi
spiegare?
Jonathan
si fa coraggio ed
osserva Christian. Vorrebbe non averlo mai fatto. D’un tratto
gli occhi gli
bruciano, se li sfrega. Quando ritorna a vedere con più
chiarezza, la scena che
ha modo di osservare lo devasta. Christian si è alzato,
è sempre lì davanti a
lui ma non lo sta guardando. Ha il corpo girato verso di lui ma il
volto
indirizzato altrove, lo vede deglutire, strizzare gli occhi e gli
sembra di
rivivere ancora una di quelle sere al Vampiria, quindici anni prima,
quando
Christian veniva chiamato in disparte per essere insultato e
rimproverato
perché non aveva fatto il proprio lavoro, perché
aveva detto “No” o “Basta”.
Purtroppo constata amaramente che la persona che l’ha reso in
quello stato non
è Abraham Dickson ma lui. Lui che era sempre stato al suo
fianco a difenderlo,
a proteggerlo.
-Hai
ancora il coraggio questa
volta di guardarmi negli occhi e dirmi: “Non
ricapiterà più”?
Domanda
Christian, sempre girato.
-Christian…
Jonathan
non riesce a dire altro.
In realtà non avrebbe nemmeno voluto parlare.
-Non
hai neanche le palle per
inventarti una balla! Sei solo un.. bastardo, cinico e un traditore!
Urla
Christian, guardandolo
dritto negli occhi questa volta.
-Non
le tollero più le tue
stronzate, Jonathan. Mi hai fatto fesso una volta, ora basta. Raccogli
la tua
merda e vattene, voglio la separazione.
Presente
Jonathan
nota che l’animo di
Christian si è calmato, il suo sguardo si è
addolcito così come l’espressione
tesa che ha avuto fino a pochi istanti prima.
Si sente più
tranquillo e gli rivolge un debole sorriso, prima di
continuare a parlare.
-Ti
ho portato via da
quell’inferno, decidendo di tenerti per me, tutto per me,
senza chiederti se a
te effettivamente stesse bene.
Ho
comprato quell’appartamento e ti ci ho portato, facendoti
fare più delle volte
il ruolo di “moglie” e non ho neanche voluto
considerare l’ipotesi che tu
volessi altro.
Christian
cerca di intervenire,
riesce a malapena a muovere le labbra, Jonathan lo sovrasta proseguendo
il
proprio discorso. Le sue parole scorrono incontrollabili come un fiume
al quale
sono stati rotti gli argini ma Christian, benché si trovi
nel mezzo di questo
fiume straripante, non sta affogandovi.
-Ti
ho accusato di essere
diventato una casalinga, senza più ambizioni, senza sogni.
Il fatto è che io ti
ho voluto così, io implicitamente di chiesto di diventarlo.
Tu ti sei impegnato
al massimo per cercare di diventare quello che io ti ho fatto intendere
di
volere. Ti fatto credere di dovermi in qualche modo qualcosa
perché ti avevo
salvato da quella situazione.
Si
blocca di nuovo, giusto il
tempo di prendere fiato. Christian questa volta non cerca di
intervenire,
Jonathan non ha finito il suo discorso, è evidente.
-Il
punto è che… io ho salvato
te, nella stessa misura nella quale tu hai salvato me. Tu avevi Abraham
Dickson
ma io avevo Gregor. Io avevo una relazione con l’amante di
mia madre, relazione
che avrei portato avanti per chissà quanto tempo, se non
fossi arrivato tu. Proprio
per questo motivo non era giusto che avessi pretese, che passassi io
per quello
più forte, per l’eroe della situazione. Io non
sono un eroe, non lo sono mai
stato e quello che ho fatto a te, l’ha confermato.
Christian
questa volta sente il
bisogno di intervenire. Il discorso di Jonathan ha preso una piega
inaspettata.
Nota che i ruoli si sono invertiti: ora è Jonathan a
soffrire. Non credeva che
potesse aver sofferto così tanto, a malapena riesce a
guardarlo senza che il
suo dolore gli venga trasmesso.
Crede
non sia necessario aggiunga altro.
-Basta.
Ribatte,
sorprendendo Jonathan
che evidentemente era intenzionato a proseguire oltre.
-Basta
così.
Credo che ora tu debba
ascoltare me, di
nuovo.
***
Kyle
sta tornando a casa. Non ha
ancora deciso come reagire alla confessione di Anthony. Continua a
sentirsi
tradito eppure non può negare di aver vissuto dei momenti
meravigliosi in sua
compagnia. Tutto ciò che hanno provato, tutto ciò
che hanno vissuto è stato
reale e puro.
Anthony
partirà domenica sera e
gli ha chiesto di raggiungerlo poco prima che parta, per poterlo
salutare. Non
è sicuro di voler andare a quell’appuntamento, non
è sicuro di poter sopportare
di dovergli dire addio. Crede che quel loro ultimo abbraccio, poco
prima nel
parco, sia stato perfetto e che davvero non ci sia il bisogno di
aggiungere
altro. Eppure, sente che se non andasse da lui se ne pentirebbe.
Sta
continuando a camminare. È da
poco passato mezzogiorno ma non ha nessuna intenzione di pranzare e
pare non
avere nessuna intenzione di ritornare a casa, dal momento che si trova
in un
quartiere diverso da quello nel quale abita. Ci mette un attimo per
rendersene
conto e deve smettere di camminare per concentrarsi. Si guarda attorno
e
capisce: è il quartiere dove abita Morgan. Non torna da
quelle parti da diversi
mesi, da prima che iniziasse l’estate. Eppure eccolo
lì, senza averlo
esplicitamente deciso, a pochi passi dall’abitazione di
Morgan. Riesce ad
intravedere la sua casa.
Il
suo subconscio deve averlo
condotto lì. Non ha mai smesso di pensare alla ragazza, che
ha sempre ritenuto
essere la sua migliore amica. Tante volte si è ripromesso di
andare da lei e
cercare di parlare, nella speranza di poter recuperare quel
meraviglioso
rapporto che hanno sempre avuto eppure non l’ha mai fatto. Se
ora si trova lì è
perché ha bisogno di sfogarsi con qualcuno e non
c’è nessun altro con cui
vorrebbe farlo, se non lei.
Si
avvicina ulteriormente alla
sua casa, arriva difronte al vialetto e rimane ad osservare
l’abitazione. Non
c’è nessuna auto parcheggiata davanti al garage,
per cui i genitori di Morgan
devono essere al lavoro. Potrebbe non essere in casa neanche lei, Kyle
non la
frequenta da diverso tempo e non è più informato
riguardo ai suoi impegni.
Vorrebbe
tanto avere il coraggio
per raggiungere la porta d’ingresso e suonare il campanello.
Si sente talmente
stupido e imbarazzato. Il suo primo impulso è quello di
correre via, prima che
qualcuno lo noti, prima che Morgan aprendo la finestra o uscendo lo
trovi lì
paralizzato davanti a casa sua. Dopo averci riflettuto decide di
andarsene, dà
un ultimo sguardo alla casa e si allontana.
-Kyle?!
È
troppo tardi. Morgan si è
accorta di lui. Kyle si gira e la guarda. È sulla porta di
casa, ha una borsa a
tracolla e un mazzo di chiavi in mano, probabilmente sta uscendo. Non
riesce a
rispondere, si limita a guardarla. La vede cresciuta, più
grande. Ha tagliato i
capelli, sono piuttosto corti ora, le arrivano appena sotto le
orecchie. Forse
è quel nuovo taglio di capelli a conferirle
un’aria diversa, più adulta. La
ragazza si avvicina e lo guarda incuriosita. Kyle ha paura della sua
reazione:
si aspetta che si metta ad urlare da un momento all’altro,
che gli dica di
andare via, di non farsi più vedere.
Non
lo fa.
-Stai
bene?
Kyle
annuisce. Ancora non riesce
a parlare, l’intera situazione lo imbarazza, non sa come
reagire, non sa cosa
dire. È di nuovo Morgan a parlare.
-Io…
stavo uscendo. Mi trovo a pranzo
con Ethan Warren, ultimo anno, ricordi? Ho iniziato a frequentarlo da
qualche
settimana.
Kyle
non ricorda quel nome. Non
crede di averlo mai sentito e, se anche fosse, al momento il suo
cervello non è
in grado di permettergli di fare qualsiasi collegamento.
-Io…
sto con Anthony. O meglio,
stavo…
L’ha
detto. Così senza pensarci
troppo, ha sputato il rospo che si teneva in gola fino a quel momento,
il rospo
che non gli permetteva di parlare, di pronunciare la benché
minima sillaba.
Morgan gli rivolge uno sguardo di apprensione.
-Stavi?
Chiede.
-Sì,
stavo.
Risponde
Kyle, con voce debole.
Morgan esita per qualche istante dopodiché inizia a frugare
nella borsa e
afferra il cellulare. La osserva comporre un messaggio con
rapidità, le sue
dita scorrono veloci e impazienti sul touch screen del cellulare.
-Mi
vedrò stasera con Ethan. Vuoi
entrare?
Kyle
non sa cosa rispondere ed è
ancora Morgan ad intervenire, questa volta con meno delicatezza, lo
afferra per
un braccio e lo trascina verso di sé.
-Dai,
vieni!
Aggiunge,
senza mollare la presa.
Kyle sorride, constatando che la determinazione che le ha sempre
invidiato, non
è affatto svanita.
***
-Se
non mi fosse stato bene ciò
che tu mi hai offerto, avrei rifiutato.
Afferma
Christian con decisione.
Si ferma, per dare il tempo a Jonathan di elaborare quanto ha appena
detto.
-Mi
stava bene lasciare che
facessi tu quello forte, che pensassi tu a come risolvere le cose,
questa è la
verità. Quando prima hai detto che me la sono cava bene da
solo, in questi
mesi, ti sbagli. Ho impostato tutta la mia vita negli ultimi quindici
anni con
la consapevolezza di avere te dietro le spalle, pronto a prendermi
qualora
cadessi.
Confessare
a Jonathan certe cose
non gli è facile ma sa che deve farlo, come anche lui ha
fatto poco prima. Niente
più segreti, niente sottintesi.
-Svegliavi
me e Kyle alla mattina
quando la sveglia non suonava, tenevi i conti, risolvevi le
incomprensioni e i
vari disguidi tecnici e mi tenevi a terra tutte le volte che con la mia
mente
troppo tra le nuvole iniziavo a costruire chissà quale
castello nell’aria. Ho
continuato a preparare quella maledetta torta di mele ogni sabato
mattina per
mesi, prima di rendermi conto che ogni settimana ne buttavo nel secchio
più
della metà.
Jonathan
sorride, probabilmente
al pensiero della torta di mele. Una cosa tanto sciocca e
insignificante come
la preparazione di quello specifico tipo di torta è sempre
stato una delle
abitudini più importanti durante gli anni di convivenza tra
i due. La torta di
mele il sabato mattina era un rito, un punto fisso nella
quotidianità che non
mancava mai.
-Credi
che per me sia stato molto
più facile? Guarda dove vivo, guarda me, ti sembra veramente
che stia bene? Io
sarò anche stato la tua ancora ma tu sei stato la mia nave
e, dimmi, cosa
diavolo te ne fai di un ancora, senza nave?
Esclama
Jonathan, irrompendo di
nuovo nel discorso di Christian e stravolgendolo. Dopo
fiumi incontrollabili di parole,
confessioni pronunciate con dolore e sofferenza, discorsi dettati
direttamente
dal cuore e dall’anima, scende il silenzio. Sia Christian sia
Jonathan stanno
riflettendo. Stanno entrambi valutando ciò che si sono
detti. Non basterebbe
qualche ora per decidere, non basterebbe un giorno intero a dirla
tutta.
Jonathan
si alza, sospirando.
Christian lo osserva, incuriosito. È tornato ad essere
irrequieto, agitato. Per
la prima volta sembra davvero non essere in grado di trovare una
soluzione o
perlomeno di proporne una. Inizia a camminare nervosamente per il
salotto,
finché non raggiunge il finestrone che affaccia sulla 5th
avenue. Vi si
appoggia con la spalla e guarda fuori. Anche Christian si alza e lo
raggiunge,
rimane accanto a lui, davanti a quella finestra, con le braccia
conserte.
-È
stata dura e, per quanto mi
riguarda, ogni giorno è stata una sfida. Non è
passato un istante senza che
pensassi quanto tutto fosse stato più facile prima, con te.
Afferma
Christian. Un secondo di
pausa, durante il quale i due si scambiano uno sguardo
d’intesa, di complicità.
Anche Jonathan deve essere d’accordo con ciò che
ha detto.
-Eppure
siamo sopravvissuti.
Siamo qui, uno di fronte all’altro, come prima. Il problema
è che ora dobbiamo
prendere una decisione.
Jonathan
annuisce, non sembra ancora
intenzionato a prendere parola, forse perché ha capito che
Christian ha altro
da dire.
-Inutile
girarci attorno, le
scelte sono due: separarci o fare finta di nulla e tornare a vivere
come prima.
Conclude.
Jonathan questa volta
interviene. Gira le spalle alla finestra e appoggia la schiena al
vetro.
-Ma
nulla sarà mai come prima.
Christian
si siede sul tavolino
da caffè, non molto distante dalla finestra, proprio
difronte a Jonathan.
Annuisce.
-No,
mai. Eppure come ti ho già
detto, non ho intenzione di firmare i documenti di separazione.
Jonathan
aggrotta la fronte, per
quanto cerchi di capire, il discorso appena fatto da Christian gli
sembra
contraddittorio. Questi, però, si spiega subito cercando di
fargli comprendere
le sue motivazioni, ancora una volta.
-La
scelta più facile, quella che
farei con il cuore e di getto, sarebbe proprio quella di dirti di
prendere la
tua roba e tornare a casa, immediatamente. Mi sentirei molto
più sicuro, più
leggero. Eppure so anche che continuerei a pensare a te, a Daniel, a
tutto
quello che ci siamo detti, a tutte le mezze parole e le litigate di
questi
ultimi otto mesi. So che ogni cosa che tu faccia, dica o non dica, la
riterrei
sospetta. Non arriverei a fidarmi fino in fondo e mi sentirei un fondo
un po’
morire nell’orgoglio per averti perdonato una cosa simile,
solo per paura, per
insicurezza.
Jonathan
sembra ancora non
capire, scuote il capo.
-Hai
le idee parecchio confuse.
Christian
ride. Non può negare
quanto Jonathan ha appena detto.
-Un
po’… ma
non tanto quanto pensi.
Precisa,
prima di proseguire la
sua spiegazione.
-Io
e te siamo stati per tanto
tempo una cosa sola, come abbiamo entrambi già detto.
Credevamo non saremmo
sopravvissuti l’uno senza l’altro, abbiamo fatto di
questa convinzione il perno
della nostra storia eppure, te l’ho detto, ce
l’abbiamo fatta in qualche modo.
Christian
si alza, appoggia una
mano sulla spalla di Jonathan e l’accarezza, con delicatezza.
-Non
voglio dimenticarmi di te,
né di dirti addio. Tu sei e sarai sempre la mia persona, la
mia anima gemella,
colui che tra tutti mi comprende più. Ma…
Jonathan
ribatte, immediatamente,
sicuro di aver finalmente capito ciò che Christian vuole
intendere.
-Se
vorremmo un giorno tornare ad
essere una cosa sola, dobbiamo prima imparare a vivere come
entità separate.
Christian
sorride. Jonathan non
l’ha smentito, ha compreso esattamente ciò che
volesse dire. Anche Jonathan gli
sorride ed entrambi riescono dopo tanto tempo, a rivedere negli occhi
dell’altro brillare la stessa scintilla d’intesa,
allo stesso tempo, con la
stessa intensità.
***
Kyle
ha appena raccontato a
Morgan tutto quanto, dal giorno nel quale ha deciso di frequentare
Anthony, con
relativi dubbi, fino a quanto è successo solo
un’ora prima. La ragazza non ha
battuto ciglio, ha ascoltato tutto il discorso con espressione
interessata, ha
lasciato che Kyle si sfogasse, che dicesse tutto quello che aveva da
dirle.
Si
trovano in cucina in casa di
Morgan. Entrambi non avevano ancora pranzato, motivo per cui Morgan ha
deciso
di preparare un paio di sandwich. Sono seduti al tavolo da pranzo e a
Kyle
sembra quasi che non ci sia mai stato nessun motivo di discordia tra i
due. Non
si parlano da prima dell’estate eppure sembrano essersi visti
il giorno prima e
quelli precedenti. Durante tutto il suo discorso non ha nominato una
volta la
loro incomprensione, non ne ha sentito il bisogno.
-Io
credo che tu debba andare a
salutarlo.
Suggerisce
lei.
-Davvero?
Chiede
Kyle, non del tutto
convinto.
-Sì.
Mi hai detto di quanto tu
sia stato bene, di quanto Anthony ti abbia reso felice in questi ultimi
due
mesi. Forse gli dirai addio, per un po’ ma… lo
devi fare!
Aggiunge,
con convinzione. Kyle
si sente più sicuro, sente che Morgan ha ragione ed
è certo che senza la sua
conferma non avrebbe avuto il coraggio di prendere quella decisione.
-Sai,
mi sarebbe piaciuto vederti
felice, come dici di essere stato.
Afferma
la ragazza, con una punta
di malinconia. Kyle rimane colpito da questa sua affermazione si sente
dispiaciuto.
-Lo
avrei voluto anche io Morgan,
davvero, mi dispiace tanto per-
Morgan
gli fa cenno con la mano
di fermarsi, di non andare oltre. Non è quello che vuole
sentire, non è per
sentirsi dire quanto Kyle stava per dirle, che gli ha rivolto quella
frase.
-Vedevo
come lui ti guardava dal
banco in fondo. Vedevo come tu lo osservavi pretendendo di odiarlo
quando
esponeva qualche lavoro in classe. Per non parlare di quando giocava a
football, non ti ho visto una volta togliergli gli occhi dosso. Tu non
volevi
rendertene conto e io ho voluto giocare sulla cosa, sperando che non te
ne
rendessi conto mai.
Confessa.
Si ferma un istante,
per bere un sorso d’acqua, dopodiché riprende a
parlare.
-Poco
fa mi hai detto che è stata
la prima persona a regalarti un attimo di spensieratezza dopo mesi.
Proprio per
questo non mi importa esserci persi di vista, perché so che
tu sei stato
felice.
Kyle
sorride. Morgan è una grande
amante delle frasi sdolcinate, delle commedie romantiche e di tutto
ciò che
abbia l’amore e l’amicizia come tema principale.
Eppure non è mai stata il tipo
da pronunciare certe frasi senza arrossire o senza cercare di smorzare
la
tensione buttando il tutto sull’ironia, solo pochi istanti
dopo.
-Ti
voglio troppo bene per
perderti per qualcosa di così stupido, ok?
Chiede
infine. Kyle le afferra
immediatamente la mano sul tavolo e gliela stringe, in segno
d’intesa. I due
scoppiano a ridere divertiti, come sempre.
Kyle
torna a casa ancora un po’
agitato per il suo ormai imminente addio ad Anthony ma al tempo stesso
felice
per essersi chiarito con Morgan. Dopo aver smorzato la tensione, dopo
essersi
chiariti, hanno trascorso il pomeriggio a guardare telefilm e parlare
di
sciocchezze, come avevano sempre fatto. Vede il ritorno a scuola
più sereno e
spensierato, sapendo di avere ancora lei al suo fianco.
Quando
rincasa nota, con
sorpresa, che Christian è già tornato. Lo sente
trafficare in cucina ed inizia
a preoccuparsi. Quella scena non gli è nuova e teme di dover
rivivere quanto ha
vissuto un paio di mesi prima, quando Jonathan gli ha consegnato i
documenti di
separazione. Si fa forza e lo raggiunge in cucina. Sta preparando un
impasto.
-Ciao…
Esclama,
con agitazione.
Christian alza lo sguardo e, al contrario di ogni previsione, ha
un’espressione
serena sul viso. I suoi occhi sono limpidi, il suo viso è
rilassato. Non lo
vedeva così da moltissimo tempo.
-Ehi!
Sto preparando delle
tagliatelle, non le facevo da un po’ di tempo e ho pensato:
perché no! Magari
chiederò a Jonathan se vuole passare a prenderne un piatto.
Afferma,
sorprendendo
Kyle. Ha nominato Jonathan in
modo sereno,
senza stringere i denti, senza cambiare espressione.
-Sei
stato da lui, quindi?
Chiede
Kyle. Christian continua
ad impastare, si limita ad annuire con il capo.
-E
avete deciso di… tornare
insieme?
Domanda,
facendosi coraggio. È
stata l’espressione tranquilla di Christian a convincerlo a
spingersi a tanto e
spera di non aver osato troppo.
-No.
Risponde
Christian. Kyle, che per
un attimo aveva sperato di ricevere una risposta positiva cade nello
sconforto.
Tuttavia, Christian aggiunge qualcosa, qualcosa che potrebbe
restituirgli un
po’ di speranza.
-Non
ora, perlomeno. Ce lo dirà
il tempo, ok?
Kyle
annuisce e improvvisa un
debole sorriso. Si sente in parte più sereno anche se
avrebbe sperato in
qualcosa di più concreto.
-Tu
stai bene?
Domanda
poi Christian.
-Sì
cioè, abbastanza. Problemi
di… ragazzi.
Christian
spalanca gli occhi e
sorride divertito.
-Ragazzi?!
Kyle
arrossisce e ride anche lui,
in modo nervoso.
-Già…
è una storia lunga, te ne
parlerò. Comunque ora fai pure le tagliatelle, sono certo
saranno buonissime.
Io… vado a farmi una doccia.
Kyle
si gira. Christian si
pulisce le mani dalla farina e dall’impasto, sfregandole
contro il grembiule
che indossa in questo momento, dopodiché afferra il figlio
per un braccio,
fermandolo.
-Ehi,
guardami.
Kyle
obbedisce, si gira di nuovo
e lo guarda negli occhi.
-Andrà
tutto bene, ok? È finita e
staremo bene, tutti quanti.
Christian
rivolge al figlio uno
sguardo dolce e gli indirizza parole forti che sente profondamente.
È sicuro di
quanto ha appena detto, ne ha piena fiducia. Non può ancora
sapere come si
svolgeranno le cose in futuro ma è certo di aver fatto la
scelta giusta e vuole
che anche Kyle ne sia consapevole. Benché gli stia
sorridendo, sa che non ne è
del tutto convinto ma sente che, con il tempo, lo sarà.
Dopotutto,
esistono almeno due
tipi di lieti fine. Ci sono quelli da fiaba nei quali con uno schiocco
di dita
tutto torna alla normalità, come lo era al principio, nei
quali non sembra che
nulla sia mai accaduto realmente, che nessuno sia mai stato toccato e
che tutto
il decantato dolore e la sofferenza non siano stati in
realtà più fastidiosi di
una puntura di spillo.
E
ci sono poi quelli più
realistici, nei quali il dolore e la sofferenza sono rimangono
cicatrizzati sul
volto di chi li ha vissuti e probabilmente vi resteranno per sempre.
Eppure
coloro che hanno sofferto sono ancora lì, più
forti e consapevoli di prima,
pronti a combattere contro ogni cosa e ad affrontare ogni cosa il
futuro
serberà
loro, perché sanno
che il peggio
è ormai passato. Queste persone sono dei sopravvissuti, sono
quelli che ce
l’hanno fatta e che si sentono ora rasserenati
per la visione di un barlume di luce incontrato solo dopo interminabili
tempi
di buio, certi che da quel momento in poi quel barlume
diventerà sempre più
intenso e sempre più forte, riportando di nuovo il sole, la
speranza e la
felicità sul loro cammino.
--->
FINE.
È davvero
finita questa volta.
Spero che il mio finale non vi abbia delusi, ho letto in molti vostri
commenti
che speravate in lieto fine e ve l’ho dato, probabilmente non
come avevate sperato. Ho
spiegato nelle ultime righe di chiusura come vedo io la questione
“lieto fine”
e, come vi avevo anticipato, non ho MAI cambiato idea dal primo
capitolo ad
ora. Non volevo che dopo tutto quello che è successo,
dopotutto questo tempo,
Christian andasse da Jonathan e tutto si risolvesse con un
“Ti amo, torna a
casa, dimentichiamo tutto!”. Christian e Jonathan sono
personaggi che ho
cercato di caratterizzare in modo piuttosto realistico e ho voluto
quindi
chiudere questo arco della loro storia in modo più reale
possibile.
Già nel 2009
sapevo che si
sarebbero “ritrovati” dopo un disastro, un
incidente, che li avrebbe portati a
riflettere e tirare le somme in questo modo preciso.
Badate che la risposta
di
Christian a Kyle è stata un: “No (non
siamo tornati insieme), non ora
perlomeno”.
Come spero abbiate letto
nella mia pagina personale qui su EFP ho
scritto che farò un EPILOGO che consisterà in
qualche pagina conclusiva che
però, vi avviso, sarà scritta dal punto di
vista di Kyle e collocata un paio di mesi dopo questo finale.
C’è un motivo ben
preciso per il quale ho deciso di scrivere l’epilogo e lo
scoprirete quando lo
pubblicherò che sarà suppongo non prima di
metà giugno. Voglio lasciarvi il
tempo per riflettere ed elaborare il finale :)
Nel frattempo voglio
ringraziare
TUTTI i miei lettori, TUTTI i miei commentatori e TUTTI i ragazzi che
mi hanno
scritto in privato per complimentarsi o per chiacchierare con me.
GRAZIE per avermi fatto
compagnia,
GRAZIE per aver creduto nella mia storia nonostante l’abbia
lasciata incompiuta
per TANTO tempo.
Vi chiederei di farvi
sentire nei
commenti a questi
capitolo FINALE. Per
salutarci,
per darci appuntamento alla “prossima” o anche solo
per
lamentarvi/complimentarvi per il finale. Ci tengo a sentire che ci
siete, un’ultima
volta ;)
Spero vorrete seguirmi
nella mia
prossima avventura che sarà, come ho più volte
detto, il
PREQUEL di Hard To Say
I’m sorry. Il titolo… non ve lo dico ancora
ma vi do una data:
SABATO 24
MAGGIO
Sempre ore 14/16
Segnatevi la data,
continuate
a controllare la mia pagina personale/bio qui su EFP
e (spero) a presto!
Un abbraccio! <--
|
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Capitolo 47 *** Epilogue (Epilogo) ***
Epilogue
(Epilogo)
Tre mesi dopo, vigilia di Natale
Kyle
è seduto ad un tavolino di
un bar in centro, è solo ma non lo sarà ancora
per molto. Osserva attraverso
l’enorme finestra accanto a sé le persone
camminare frenetiche con buste,
pacchi e sacchetti lungo la Fifth Avenue, tutti stretti nelle loro
giacche e
nei loro cappotti. La temperatura all’esterno è
gelida e l’aria tagliente
suggerisce che una tempesta di neve arriverà a breve. Kyle
ha percorso almeno
un paio di chilometri a piedi per poter raggiungere quel posto e una
bella
bevanda calda sarebbe perfetta in questo momento, ma ha preferito per
educazione e per rispetto aspettare che la sedia davanti a lui
venga
riempita.
Il
locale nel quale si trova è un
piccolo Cafè a Manhattan, principalmente frequentato da
studenti universitari
riconoscibili osservando i loro tavolini coperti da libri
e Macbook. Non ha scelto quel posto secondo un particolare criterio,
gli è solo
sembrato moderno, fresco e piacevole alla vista. Essendo sotto le feste
l’intero ambiente è invaso
dall’atmosfera natalizia: ghirlande decorate da
ghiande di pino e palline dorate decorano il bancone e le finestre, la
tipiche canzoni
natalizie popolari vengono riprodotte a tutto volume e
all’ingresso, su di una
lavagnetta, ha potuto notare un disegno di una renna e una scritta
“EggNog
a soli 2,95$”.
Non
ama particolarmente l’eggnog, perché
l’alcool è l’ingrediente principale e
lui odia
l’alcool, non lo sopporta. Ciò nonostante ha
sempre cercato sempre di berne almeno un
bicchiere alla vigilia o durante il giorno di Natale, semplicemente
perché fa
parte di quelle piccole abitudini Natalizie che si ripetono di anno in
anno,
qualsiasi cosa succeda. Il rapporto di Kyle con il Natale, annessi e
connessi,
è piuttosto lungo e controverso. Non ha mai saputo cosa
fosse realmente durante
il periodo che ha trascorso nell’orfanotrofio, proprio per
questo motivo in
quegli anni di prima infanzia non gli è mai interessato
granché né dei doni
(del tutto assenti in orfanotrofio, ad esclusione di qualche caramella)
né
delle canzoni e tantomeno del significato della festa stessa.
Ovviamente
tutto questo è
cambiato da quando è stato adottato da Jonathan e Christian.
A partire da quel
suo primo Natale in casa Wallace-Simmons, avvenuto solo un paio di mesi
dopo il
suo trasferimento, quella festa per lui aveva assunto un
significato magico, unico. Natale era diventato una bella fiaba grazie
alla
quale tutte le persone diventavano buone, era concesso mangiare dolci
anche più
del solito ed ultimo ma decisamente non meno importante: veniva
trattato come
un principe con doni e attenzioni di ogni tipo. Jonathan e Christian
non gli
hanno mai fatto mancare nulla e hanno sempre fatto il possibile per
rendere ogni Natale,
dal primo all’ultimo indimenticabile, perfetto, portandolo ad
aspettare non
solo la fatidica data con ansia bensì il mese stesso che
d’abitudine era
dedicato alla ricerca dell’albero e degli addobbi.
Quest’anno
però sa che le cose si
svolgeranno diversamente.
I
preparativi si sono concentrati
solo all’ultima settimana e gli addobbi in casa sono stati
ridotti allo stretto
necessario. Ne ha sofferto inizialmente ma poi ha deciso di farsene una
ragione
perché dopotutto, se anche non fosse successo ciò
che è successo durante
quell’ultimo e intenso anno, le cose sarebbero cambiate
comunque. Ha compiuto
sedici anni a luglio di quell’anno e ha ottenuto la patente
recentemente. Inoltre è
certo, avendo intercettato delle fatture da Jonathan, che i suoi
genitori abbiano
deciso di regalargli un auto nuova per Natale.
A sedici anni la strada per la
vita degli adulti diventa sempre più breve, si iniziano ad
abbandonare le
abitudini da bambini, certe cose semplicemente “non sono
più necessarie”.
Eppure Kyle sente in cuor suo che se tutto fosse rimasto esattamente
com’era
sempre stato, gli sarebbe stato concesso altro tempo spensierato senza
doversi
rendere conto così, dall’oggi al domani, di essere
cresciuto.
Sospira.
Non vuole pensarci,
dopotutto sarà sì diverso ma non è
detto che sia terribile, né che sia peggio. Il
vero incubo sembra passato anche se difficilmente tutto
tornerà come prima e,
se fosse, ci vorrà del tempo, molto tempo, prima che le cose
assumano un
aspetto vagamente simile a quello originario. Inoltre tra un paio
d’anni si
ritroverà al college, un periodo che da un lato brama e che
dall’altro teme.
Sarà un ulteriore cambiamento, un grande cambiamento, che
questa volta lo
coinvolgerà in prima persona portandolo ad essere lui stesso
responsabile di
scegliere.
Accanto
a sé, sotto al tavolino,
ci sono due sacchetti: uno nero ed uno rosso. Ha approfittato
dell’uscita per
effettuare alcune compere Natalizie. Il sacchetto rosso contiene una
palette di
cosmetici di una marca molto amata da Morgan, acquistata da Sephora,
per la
quale ha dovuto sorbirsi una fila di quasi mezz’ora.
Raramente gli è capitato
di dover entrare in una profumeria e si ritiene fortunato a
non essere
una donna e quindi non essere soggetto ad interessarsi di cosmesi o
particolari
cure per il corpo, in questo modo è costretto ad entrare in
quei posti
assurdamente affollati, rumorosi e soprattutto odorosi, solo in
limitate
occasioni.
Troppo
distratto ad osservare i
pacchetti accanto a sé, riflettendo se le scelte che ha
fatto si riveleranno o
meno soddisfacenti, non si accorge che la persona che stava aspettando
è
entrata e che in quel momento si trova proprio accanto a lui.
-Ciao.
Si
limita a dire. Kyle si alza di
scatto, rivolgendo ad essa uno sguardo stupito.
-Ciao.
Ripete,
successivamente. Quella
persona è Anthony e vederlo, nonostante aspettasse il suo
arrivo da un momento
all’altro, lo paralizza. Anthony al contrario sembra
piuttosto rilassato, si
siede sulla sedia vuota di fronte a Kyle e prende subito in mano il
breve menù,
che altro non è se una breve
lista su
carta bianca plastificata. Kyle approfitta di quel momento di stallo
per
osservare Anthony. Non ha avuto modo di guardarlo con attenzione quando
è
entrato ma è sicuro, osservando anche l’ampiezza
delle sue spalle e la
lunghezza delle sue braccia, che è diventato anche
più alto dall’ultima volta
in cui l’ha visto. Indossa un cappotto nero classico. Non
crede di averlo mai
visto indossare qualcosa di diverso dall’abbigliamento
sportivo. Tuttavia questa sia versione più classica,
più matura sotto un certo
punto di vista, si addice perfettamente alle forme del suo corpo.
-Credo
prenderò un eggnog! È pur
sempre Natale, no?
Afferma
Anthony alzando lo sguardo
dal menù per indirizzarlo verso Kyle. Uno sguardo strano,
incerto. I suoi occhi,
benché puntati in direzione di Kyle, sembrano voler guardare
altrove e sulle sue
labbra si fa spazio un sorriso debole, a malapena percettibile. Sembra
tranquillo, rilassato e completamente a suo agio eppure il suo viso lo
tradisce: Kyle riesce a scorgere una grande inquietudine dietro ai suoi
occhi e
forse, rassegnazione. Un cameriere arriva al loro tavolo e Anthony
ordina, come
annunciato, una tazza di eggnogg mentre Kyle opta per la cioccolata
calda.
Anthony si toglie il cappotto.
Nel locale in effetti la temperatura è piuttosto alta e Kyle
iniziava a
chiedersi per quale motivo non se lo togliesse. Al di sotto di esso
indossa una
camicia beige, anch’essa un capo piuttosto fuori
dall’ordinario per Anthony.
Questa volta Kyle decide di farglielo notare, utilizzando
l’abbigliamento come
pretesto per rompere finalmente il ghiaccio ed iniziare la
conversazione.
-Noto
che hai cambiato stile.
Anthony
dà un’occhiata alla
propria camicia, probabilmente cercando di capire se Kyle si riferisca
proprio
a quella.
-Sì,
nel mio collegio
l’abbigliamento casual sportivo è concesso solo in
palestra. Mi ci sono
adattato e credo mi stia anche piuttosto bene.
Kyle
annuisce.
-Sì,
lo credo anche io.
Ammette,
con non poco imbarazzo.
Qualche istante dopo sopraggiunge il cameriere che posa sul tavolo le
loro
ordinazioni. Kyle si lascia inebriare dal profumo di cioccolata calda
intenso,
dolce e avvolgente con una delicata punta di cannella, come indicato
sul menù.
Socchiude quasi gli occhi e per un attimo non si trova più
in quel bar con
Anthony ma in montagna, qualche anno prima, nella casetta che Jonathan
affittava per loro tre un paio di settimane a fine agosto.
-Tutto
bene a casa?
Domanda
Anthony con tono pacato.
-Oh
no, assolutamente.
Risponde
Kyle, terminando una
frase con un risolino di rassegnazione. Anthony gli rivolge uno sguardo
dubbioso, esortandolo a spiegarsi, ad andare oltre.
-Diciamo
che va’ meglio di prima:
i miei genitori ora si parlano, John viene spesso a cenare o a guardare
un film
e questo Natale lo passeremo comunque insieme, a casa.
Arriverà anche mia nonna
Angela, da Santa Monica.
Spiega,
in maniera sbrigativa.
-Non
mi sembra che vada così
tanto male.
Afferma
Anthony, di parere del
tutto opposto a quello di Kyle che, effettivamente, ha esagerato. Dando
uno
sguardo al passato, a soltanto un paio di mesi prima, non sarebbe
eccessivo
affermare che Jonathan e Christian abbiano fatto dei passi da gigante
nel
ricostruire e riconsiderare la loro relazione.
-Non
lo so, non se torneranno mai
insieme davvero. Christian oltretutto ha deciso di tenere
l’aspettativa di un
anno dal lavoro che aveva preso per andare a Santa Monica, ha
ricominciato a cantare e
questa sera canterà al centro “Gay e Lesbiche di
NYC”, per beneficenza. Lo vedo
davvero felice e spensierato. Forse restare soli e dedicarsi
completamene a sé
stessi fa bene.
Conclude
Kyle, pensando a quanto
entusiasmo ed impegno Christian abbia messo
nell’organizzazione e nelle prove
di quel piccolo concerto di Natale. Non ricorda l’ultima
volta nel quale è
riuscito a vederlo così felice, così realizzato.
Nemmeno il suo stesso lavoro,
la sua adorata storia dell’arte, avevano su di lui
quell’effetto rilassante.
-
È
questo il motivo per cui non
sei venuto a salutarmi quella sera? Avevi deciso di restare solo per te
stesso?
Le
parole di Anthony servono
prontamente a riportare Kyle alla realtà, avrebbe dovuto
aspettarsela quella
domanda, che ha lo stesso ruolo del fantomatico “elefante
rosa” nella
stanza.
Kyle però non
è pronto per un
faccia a faccia con il suo personale “elefante”,
voleva essere lui ad
introdurre l’argomento, arrivandoci magari alla lontana con
discorsi
apparentemente sconnessi. Anthony è stato improvviso,
brutale e diretto,
caratteristiche che ha sempre ritenuto notevoli in lui. Cerca di aprire
la
bocca ma non gli esce alcun suono, le sue stesse labbra sembrano
essersi
incollate e fatica a separarle l’una dall’altra.
-No
e vorrei…
La
voce gli si spezza in gola,
impedendogli di proseguire. Deglutisce e cerca di farsi forza.
È stato lui ad
invitare Anthony quel pomeriggio, ha impiegato almeno un paio di
settimane
riflettendo sui pro e i contro di un eventuale incontro con lui e
nonostante i
contro, includenti principalmente una serie di paure, fossero
più pesanti dei
pro aveva deciso di affrontarlo, aveva creduto di potercela fare. Si
sbagliava, lo capisce solo in questo momento. Tuttavia deve riuscire
comunque
ad andare avanti, a portare a termine ciò che ha deciso di
fare e fornire una
spiegazione quanto più onesta ad Anthony.
-Vorrei
dirti che…
Sospira,
sperando che quella sia
la sua ultima pausa. Si prepara a pronunciare il discorso che intende
rivolgere
ad Anthony tutto d’un fiato, senza fermarsi, senza
permettergli di intervenire,
di fare domande.
-Vorrei
dirti che l’ho fatto per
via della situazione che ho a casa, perché sono stato
trasportato degli eventi
dei miei genitori, della mia famiglia. Sarebbe una spiegazione
giustificabile,
l’unica probabilmente. Tuttavia non è quella
esatta. La verità è che non ne ho
avuto il coraggio.
Deve
fermarsi, deve prendere
fiato. Anthony non sembra tuttavia interessato ad inserirsi nel
discorso, deve
aver capito che non ha terminato tutto ciò che intende
dirgli.
-Ti
ho detto addio il momento nel
quale me ne sono andato dal parco, quel pomeriggio. Non avrei davvero
potuto
farlo di nuovo, il giorno dopo.
Anthony
scuote il capo. La sua
espressione è cambiata, l’aria cordiale che aveva
avuto fino a quel momento è
sparita. Kyle riesce a scorgere la delusione nei suoi occhi.
-Ti
ho aspettato davanti al
cinema per quasi un’ora. Ho litigato per l’ennesima
volta con mio padre,
rischiando di perdere il treno, perché speravo saresti
arrivato da un momento
all’altro.
Kyle
vorrebbe alzarsi e scappare
via. Quell’incontro è stata una pessima idea,
è evidente.
-Posso
capire che tu sia venuto
all’incontro per avere una spiegazione e te la meriteresti,
lo so. Eppure… è
tutto qui, davvero.
Aggiunge
Kyle, con tono
conciliatore.
-Sono
venuto perché ho voluto
darti una seconda possibilità e forse avrei fatto bene a non
venire.
Conclude
Anthony. Dopodiché cerca
nella tasca del cappotto appeso sulla spalliera della sua sedia il
portafogli,
dal quale estrae una banconota da cinque dollari che posa sul tavolino.
Se ne
sta andando. Kyle non vuole che se ne vada, nonostante sia chiaro la
loro
discussione non porti a nessun’altra soluzione.
-Non
andare via.
Lo
invita, con voce affranta,
quasi sul punto di scoppiare a piangere. Nervosismo forse o
più semplicemente delusione,
delusione per se stesso, per come si è comportato, per la
sua stessa incapacità
di agire da ragazzo cresciuto quale dovrebbe e vorrebbe essere. Anthony
esita per un istante dopodiché si alza ed afferra il
cappotto, infilando
lorapidamente.
-Troppo
tardi, Kyle.
Evidentemente non era destino.
Abbottona
il cappotto,
con la testa bassa. Kyle lo osserva, senza avere il coraggio di dire
altro.
-In
ogni caso, mi è stata offerta
una borsa di studio per Yale. Prima o poi me ne sarei andato comunque e
sarebbe
finita.
Anthony
sospira profondamente, un
sospiro talmente profondo da essere chiaramente udibile a Kyle. Un
sospiro
rassegnato che racchiude la delusione e al tempo stesso la collera.
-Buon
Natale.
Esclama
infine, scappando via.
Kyle lo segue con lo sguardo: lo vede attraversare la strada, chiamare
un taxi
ed andare via.
Allungando
le gambe rimaste
troppo tempo fisse, quasi inchiodate al pavimento, urta uno dei due
sacchetti
fino a quel momento appoggiati
sotto al
tavolino. Si tratta di quello nero da quale esce un pacchetto sottile
ma
ingombrante, dorato. Sotto la carta dorata di quel pacchetto si
nasconde un
vinile da collezione del disco “Let it be” dei
Beatles, canzone preferita di
Anthony che aveva canticchiato spesso, in sua presenza, la scorsa
estate. Si
sente così stupido per essersi fermato apposta in quel
negozio di dischi e
averlo comprato. Si sente stupido per aver anche solo pensato che il
suo
incontro con Anthony dopo due mesi, dopo non essersi presentato quella
sera,
rifiutandosi di salutarlo, cancellando, ignorando, tutti quei bei
momenti che
avevano vissuto insieme, si sarebbe risolto in modo positivo.
Prima
lezione del mondo degli
adulti: ogni azione ha una sua conseguenza. La conseguenza a quel suo
essere
così infantile a quella sua paura che tutto sia
“troppo”, che tutto
sia
“doloroso” o che faccia troppo male per essere
sopportato è stata quella di
dover perdere Anthony, che lo aveva fatto sentire così bene,
che era stato
l’unico a restituirgli il sorriso dopo mesi di lacrime e
sofferenza. Dopo aver raccolto
in fretta il pacchetto raduna le sue cose. Prende la banconota di
cinque
dollari lasciata da Anthony, sufficiente per entrambe le consumazioni ,
va’ a
pagare ed esce in fretta da quel café, dirigendosi verso
casa.
Passeranno
due anni prima che
Kyle riesca a gettarsi quella faccenda alle spalle, etichettando tutto
sotto la
pretenziosa etichetta di “esperienza” e prima che
lo stesso destino, nominato
da Anthony nella sua frase di saluto e di addio, torni indietro come un
boomerang.
16 Maggio 2013
Caro Kyle,
Congratulazioni
per la tua ammissione alla Facoltà di Arte
dell’Università di Yale, classe 2013.
---> L’avete
capito o ve lo devo dire?
Ve lo dico: anche Kyle
avrà una
SUA storia! Ebbene sì! Credo che se la meriti anche lui. Non
so ancora con
certezza quando la pubblicherò, probabilmente quando con
“I’ll stand by you”
(PREQUEL di questa storia e… ehi, se ancora non
l’avete letto, perché non
andate a dare un’occhiata? ;D )sarò già
a buon punto. Tuttavia ci sarà,
SICURAMENTE. Confermati Kyle, Anthony e Morgan, naturalmente! Inoltre
saranno
passati due anni e quindi finalmente scopriremo come si sono evolute le
cose
tra Chris e John.
Come al solito vi
aggiornerò
sulla pubblicazione nella mia pagina bio, qui su EFP. Bene, piccola
precisazione sulla data nella lettera. Io ho iniziato questa storia nel
2009 ma
le schede per il sito (che ho creato solo quest’anno e che,
sì, purtroppo ho
trascurato ma che intendo sistemare non appena terminata la sessione
d’esami
estiva) le ho create attorno al 2011 quindi considero la storia
ambientata nel
2011! Un po’ un casino, lo so, tuttavia non cambia nulla, dai
:D
Poi… ho
intenzione di scrivere,
come già avevo annunciato, alcuni capitoli
“extra” sui nostri protagonisti. Probabilmente
creerò una raccolta apposita nella quale ho intenzione di
raccontarvi il primo
Natale di Kyle e quello descritto in questo epilogo ma ovviamente se ne
riparlerà in periodo natalizio. Devo ammettere che a Giugno
con 35° fa un po’
strano scrivere del Natale…
Per il resto…
questo è davvero il
capitolo dopo il quale chiuderò la storia.
Ringrazio di nuovo
tutti,
ringrazio per i messaggi personali ricevuti per l’ultimo
capitolo, il finale.
Vi invito se vi va’ a farmi sapere che ne pensate di questo
epilogo… se
vorrete alla prossima!
Ah... avete idea del
titolo da dare alla raccolta di "Episodi" dei nostri amati
protagonisti? Sono aperta a tutti i suggerimenti ;)
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