Sotto l'albero bianco

di theuncommonreader
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Schegge di cuore ***
Capitolo 2: *** II. Il regno di Ade ***
Capitolo 3: *** III. Gente di carne e ossa ***
Capitolo 4: *** IV. Ade e Cora siedono sotto l'albero ***
Capitolo 5: *** V. Sabbia, sogni e fantasmi ***
Capitolo 6: *** VI. No question asked ***
Capitolo 7: *** VII. La tempesta in cucina ***
Capitolo 8: *** VIII. Terremoti e narcisi gialli ***



Capitolo 1
*** I. Schegge di cuore ***


I


sotto l'albero bianco








note iniziali

Questa raccolta di one-shot cronologicamente ordinate, che vogliono leggersi tanto come compiute in se stesse quanto come parte di un racconto più ampio, partecipa al contest Segui il sentiero dorato, indetto da Shizue Asahi sul forum di Efp ed è basata su dieci prompt tratti dall'opera Il Mago di Oz, ciascuno indicato assieme al titolo alla rispettiva OS.

Si tratta di una delle possibili versioni dell'incontro tra Ade e Persefone in salsa Modern!AU, che cerca di essere il più possibile vicina all'originale pur con le dovute modifice. In particolare, ho eliminato la parentela tra le coppie divine, eccezion fatta per Ade e Persefone - zio e nipote in quanto frutto di una relazione tra Zeus e Demetra.


nomi dei personaggi:


Kore / Persefone è Cora.
Ade è Adelio (diminutivo: Ade).
Leuce è Bianca (Significato in italiano del nome greco).
Atena è Ana (Il nome originale della dea secondo alcuni studiosi).
Artemide è Diana (Nome romano della dea).
Ciane è Celeste (Il "ciano" è una delle sfumature del celeste).
Zeus è Divo (Dal genitivo greco "Dios").
Poseidone è Filippo (Dall'attributo Hippios, signore dei cavalli).
Era è Eva (Per assonanza e per ruolo).
Menezio è Ezio.












Titolo: Schegge di cuore
Prompt: I cuori non saranno mai una cosa pratica finché non ne inventeranno di infrangibili.



Accade un giorno qualunque, come sempre succede quando le disgrazie si abbattono sui comuni mortali.

Cora lo avverte nel tono di sua madre, che qualcosa non va – privo della solita nota instancambilmente squillante quando si tratta di tirarla giù dal letto. La sua espressione guardinga, il modo in cui si mordicchia le labbra confermano quell'impressione, ma di certo non immaginerebbe mai quello che Demetra ha da dirle.

Mai si immaginerebbe mai di venire a sapere di Bianca così, ancora gonfia di sonno, ancora calda di letto nel suo pigiama di mezzastagione, le ciabatte troppo pesanti ai piedi, sulla faccia l'impronta fresca del cuscino.

Non si sognerebbe di venire a sapere che la sua migliore amica di appena trent'anni è morta, non in un tiepido, anonimo giorno di sole freddo, uno come mille altri che preludono all'autunno.

Di venirlo a sapere lo stesso giorno del suo funerale.


Cora guarda il telefono abbandonato sul letto sfatto, ostinatamente muto, senza vederlo davvero ma lo stesso in all'erta, come se dovesse squillare da un momento all'altro. Negli ultimi tempi è rimasto silenzioso ben più di quanto lo sia stato mai, da quando Bianca è andata a rinchiudersi nella sua casetta in mezzo al bosco, dove la linea è un lusso che non può – poteva – permettersi.

Non ci vuole credere, che la sua suoneria non la sveglierà più nel cuore della notte. Che il telefono non prenderà più a vibrare, oberato di messaggi su messaggi, di foto della casa nuova, del giovane mastino nero che Bianca e quello zio che Cora non ha mai conosciuto hanno adottato assieme, appena sposati.

Non ci vuole credere che sono passate solo poche settimane da quando la prendeva in giro, chiedendole se dovesse chiamarla zia.

Da quando Bianca l'ha implorata di perdonarla per non averla invitata al matrimonio improvviso, di fronte a un prete, al cane e a due testimoni trovati per caso a bighellonare di fronte alla chiesa del paese. Così frettoloso, ha detto a Bianca, profondamente offesa per l'esclusione; non vi corre dietro nessuno.

Invece, qualcosa che correva dietro – e l'ha raggiunta e sbranata.


Frammenti di giorni.

L'università, la sessione, sono dimenticate; sua madre sempre in casa, che non perde occasione per regalarle abbracci a cui Cora concede solo risposte prive di calore. La telefonata di condoglianze di suo padre. L'attesa spasmodica di sentir vibrare il telefono e leggere il nome di Bianca sul display.

Sua madre scivola nel suo letto, la notte, le stringe le braccia morbide attorno al corpo come fosse fatto di schegge di vetro e lei potesse tenerla assieme. Cora affonda la faccia tra i suoi seni, odora il profumo familiare e pensa a quando, sdraiate sulla sabbia, Bianca le lasciava posare il viso contro la sua clavicola, e Cora ascoltava il suo respiro, profondo e regolare come il rollio delle onde.

In fondo, sotto la cappa di stordimento che avvolge il pulsare della sua sofferenza che si riversa come liquame tossico in quel punto del suo cuore dove Bianca abitava e che ora è un cratere di carne e di lacrime, le dispiace per sua madre.

Le dispiace per i giorni di permesso chiesti al lavoro, per le ore spese in cucina a riempire il loro appartamento di odori teoricamente invitanti ma che le fanno rivoltare lo stomaco.

Le dispiace per lei, per se stessa. Di non potersi spegnere e accendere a piacimento e di dover vivere con quel mostro nel petto che la sta mangiando da dentro, un morso alla volta, bevendo ogni sua energia, prosciugandola come un vampiro.

Vuole andare a trovarla, riesce a dire un giorno, mentre sua madre cerca di tenarla a mangiare con arancini appena fatti, gelato e cannoli. A trovarla? Impensabile, è la replica di Demetra, non priva di gentilezza mentre le passa le dita tra i capelli annodati, scende sul viso per sfiorare gli occhi gonfi e le labbra screpolate. Cora è troppo stanca per ribattere e dunque ascolta mentre le spiega i motivi per cui non può raggiungere la sua migliore amica neanche per un ultimo saluto.

Tra gli altri, la mente di Cora registra quello che, tra le righe, suona come quello fondamentale: Ade non ti vorrebbe lì.

A Cora, dell'opinione di Ade non frega un cazzo. E un modo lo troverà.


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Capitolo 2
*** II. Il regno di Ade ***


I


sotto l'albero bianco










nomi dei personaggi:


Kore / Persefone è Cora.
Ade è Adelio (diminutivo: Ade).
Leuce è Bianca (Significato in italiano del nome greco).
Atena è Ana (Il nome originale della dea secondo alcuni studiosi).
Artemide è Diana (Nome romano della dea).
Ciane è Celeste (Il "ciano" è una delle sfumature del celeste).
Zeus è Divo (Dal genitivo greco "Dios").
Poseidone è Filippo (Dall'attributo Hippios, signore dei cavalli).
Era è Eva (Per assonanza e per ruolo).
Menezio è Ezio.













Titolo: Il regno di Ade

Prompt: Il vero coraggio consiste nell’affrontare il pericolo quando si ha paura.





L'autobus la scarica ancora calda e gonfia del poco sonno che è riuscita a racimolare, un pacco postale ammaccato all'angolo della stradina polverosa e deserta, dove, insinuandosi nella boscaglia fitta, si stendono le prime ombre del tardo pomeriggio.


Le vecchie scarpe da tennis inchiodate al suolo, le dita di Cora si aggrappano più fermamente alle fasce dello zaino. I nervi le strizzano lo stomaco, le accorciano il respiro mentre ogni fibra di lei rifiuta di muovere un passo verso la tomba secolare dove Bianca è andata a nascondersi, così sbagliata per lei. Bianca deve stare sotto la sabbia, scaldata dal sole e cullata dal mare, non da questo silenzio frondoso e dal vago mormorio del fiume che si inerpica su per la collina.

L'aria si fa fredda prima che prenda ad avanzare, le poche monete rimaste tintinnanti nel giubotto, il peso dello zaino a incurvarle appena la schiena. Il cellulare le grava nella tasca dei pantaloni col suo silenzio, e Cora scaccia dalla mente il pensiero che qualcosa possa andare storto, che Celeste non riesca a tenere la boccacon sua madre – o ci prova, perlomeno, ma dentro resta all'erta, in attesa la rabbia di Demetra inizi a strillare dalla suoneria.

Si stringe in se stessa impercettibilmente, incassando le spalle, seguendo, come le hanno indicato, il borbottio placido del fiume; tuffandosi fra la gli alberi dai tronchi foschi, i rami nodosi e contorti che paiono allungarsi verso di lei per agguantarle il respiro, intrecciati tanto fittamente da formare un soffitto frusciante che a ogni passo pare incomberle più addosso.

Lo stomaco si dibatte sotto la felpa, come volesse uscire da lei. Quel bosco non somiglia a niente che le sue escursioni con Diana e le sue amiche le abbiano dato modo di vedere. Non un punto di riferimento, non un sentiero, ma una sconosciuta muraglia compatta che non offre aiuti né appigli durante la risalita – né la possibilità di chiamare aiuto se le fosse successo qualcosa, constatò controllando il display del cellulare.

Si ferma, non sapendo esattamente dove si trova – un punto vale l'altro, l'inerpicarsi del fiume scorre monotono e anonimo, il letto tenuto a coppa da una fitta macchia spinosa. Calpesta un ramoscello secco e il rumore la fa voltare di scatto, sobbalzare il cuore nella scatola del petto come un uccellino impazzito.

Volta il viso – avanti, indietro? Non ricorda da dove è venuta: il suo unico punto di riferimento è l'aqua che ora si insinua in un fosso profondo, sparisce oltre una fitta tenda di edera nera. Non un fiore sul pavimento di foglie agonizzanti: solo un infinito tappeto di morte, scivoloso per l'umidità dell'aria serale che comincia a depositarsi sulla vegetazione. Quand'è che si è fatta sera?

Rabbrividisce nel giubotto, emettendo un respiro caldo che si aggrappa alle labbra dischiuse, mischiandosi al sudore sulla sua pelle. Non un filo di tramonto a indicarle la strada: è allora che confessa a se stessa che quel nodo in gola, quei brividi lungo la spina dorsale, possono essere solo paura.

Afferra il cellulare nella tasca, il palmo scivoloso contro il vetro, ed esita. Non ci ha pensato abbastanza, è chiaro: ha sottovalutato questo bosco di collina, la sua aria anonima mentre l'autobus si inerpicava sempre più in alto sulla strada stretta. Non le era parso minaccioso come dicevano, il piccolo regno di Ade.

Ondeggia sulle gambe. La discesa la tenta, punteggiata di grosse rocce tutte uguali, da tronchi che stiracchiano i rami verso di lei come braccia supplici. L'ostello l'attende con un pasto decente e un letto caldo. Può tornare domani, col sole, evitando di rompersi l'osso del collo. Ogni fitta di istinto la schiaffeggia, intimandole di non restare un attimo di più. Che non è ancora tardi. Non ha la testa leggera di un'eroina da film horror, ma un cervello perfettamente funzionante nel cranio. Bianca l'aspetterà: non ha fretta nella sua bella tomba.

Stringe i denti mentre il pensiero la fulmina. Si costringe a voltarsi verso il fosso, si afferra alle fasce dello zaino per trovare conforto. Un passo, un altro, che affonda nelle foglie morte. Riprende a salire. La paura le scivola via, la lascia cadere dietro di sé come un cappotto abbandonato.




Raggi di luna riescono a fendere il soffitto vivo della foresta, gettando una nebbiolina lattea che sembra emergere dal fiume e prendere corpo attorno all'albero sulla sua riva. C'è illuminazione, lì, elettricità in quel luogo altrimenti selvaggio: minuscole lanterne disseminate paiono anime in pena, fanno scintillare l'aria come lucciole premature, congelate attorno al pioppo bianco. Identico a come Bianca glielo ha descritto.

Cora si lecca le labbra riprendendo fiato, gli occhi fissi sul cangiare della luce sul tronco bianco, accovacciato sulla cunetta che si slancia verso la luna. Si gela. Lo stomaco di Cora è liquido caldo sotto la pelle mentre punta i palmi graffiati per spingersi più su, piantando le ginocchia dei jeans nella terra bagnata di notte.

Arriva strisciando come un verme su un tappeto di erba più viva, un coperchio pulsante alla bara di Bianca; sporca le foglie del sangue che le goccia dalle dita tagliate da sassi e spine. Nella tasca, il cellulare è muto. Ansima nel silenzio, respirando col vento; si sdraia meglio, di fianco come usavano fare quando i giorni non bastavano mai loro, occhi negli occhi.

Le pare di sentirla sorridere benevola da sotto di sé. Avverte il dolore che rischia di traboccare, ma in quel luogo non c'è nulla di triste.

Fa freddo ma le lacrime le scaldano il viso.

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Capitolo 3
*** III. Gente di carne e ossa ***





sotto l'albero bianco










nomi dei personaggi:


Kore/Persefone è Cora.
Ade è Adelio (diminutivo: Ade).
Leuce è Bianca (Significato in italiano del nome greco).
Atena è Ana (Il nome originale della dea secondo alcuni studiosi).
Artemide è Diana (Nome romano della dea).
Ciane è Celeste (Il "ciano" è una delle sfumature del celeste).
Zeus è Divo (Dal genitivo greco "Dios").
Poseidone è Filippo (Dall'attributo Hippios, signore dei cavalli).
Era è Eva (Per assonanza e per ruolo).
Menezio è Ezio.








Titolo: Gente di carne e ossa

Prompt: Non importa quanto grigia e squallida sia la nostra casa, noi gente di carne e ossa preferiamo abitare lì che in qualsiasi altro luogo, per bello che possa essere.


Forse perché è stato lui a ritrovarla, allungata sull'erba all'ombra del pioppo bianco, il giubbotto bagnato di brina, Cerbero sembra essersi affezionato alla ragazza, Cora.

Sua nipote.

Una volta che viene a saperlo, Ade nota subito l'ovvia somiglianza con Divo, stemperata dalla morbidezza di Demetra ma del tutto evidente nel colore degli occhi, di un grigio azzurro colmo di ostilità.

Il suo primo istinto è quello di rispedirla a casa come un pacco. Non gli interessa avere gente attorno – sopporta a malapena la presenza di Ezio che, puntuale ogni sera, viene a fargli il punto della situazione del suo bestiame. Ade si costringe ad ascoltarlo più per dovere – del resto, è con quello che paga le bollette, tra le altre cose – che per reale interesse; dubita di riuscire a racimolare in sé abbastanza considerazione verso quella ragazzina da tenersela in casa un attimo più del dovuto.

Se lo fa – se si prende la briga di disinfettarle i graffi che si è fatta nella sua folle arrampicata, di sfamarla e riscaldarla, è solo per lei.

Non avrebbe tollerato che trattasse male un'ospite, Bianca, tantomeno una ospite sua. E dunque le concede una delle camere libere dove buttarsi a letto e riposarsi un poco, prima di riportarla alla fermata dell'autobus al limitare del bosco e lasciarla alla sua vita.

Questo è il piano. Del resto, se è abbastanza grande per arrivare fino a lì da sola, lo è anche per tornare da sua madre – si offre, di malavoglia, di telefonare a Demetra e intercedere per lei, ma la ragazza è assolutamente decisa a fare di testa propria e Ade non ha pazienza per i capricci.

Almeno, fino a che diventa chiaro che Cora non vuol proprio andarsene.

“Che fastidio ti do?” gli domanda, le mani suoi fianchi e le labbra arricciate di sdegno.

Ade, in piedi sullo stipite della porta con il sacchetto per Cerbero in mano e il guinzaglio nell'altra, solleva un sopracciglio. Sensazione alquanto sgradevole: come un ingranaggio arrugginito che riprende a muoversi cigolando.

Forse perché conversare non gli interessa e il suo viso ha perso l'allenamento a esprimere emozioni di qualsivoglia genere.

Bianca se ne è andata da abbastanza tempo da rendere appena sopportabile la perdita – abbastanza da alzarsi dal letto, la mattina, con un proposito diverso dal ciondolare per le stanze alla ricerca di qualche traccia di lei; ma non è sufficiente per invogliarlo a interazioni umane che non siano strettamente necessarie.

“Che fastidio mi dai?” ripete, scrutandola dall'alto in basso, riconoscendo gli atteggiamenti di Divo in quel suo puntare i piedi. “Tanto per cominciare, non hai i tuoi impegni?”

“Niente che non possa essere rimandato, zio.”

L'ironia nel suo tono non gli piace particolarmente, ma Ade si limita a stringere le labbra. “Dunque mi stai dicendo che se chiamassi tua madre, Demetra sarebbe totalmente d'accordo a farti stare qui?”

“Ho ventidue anni. Penso di poter prendere da sola le mie decisioni.”

Anche Ade lo pensava, di poter decidere chi ospitare sotto il suo tetto, eppure la ragazzina sembra decisa a smentire questa sua certezza. “Dunque non intendi darmi voce in capitolo?”

“Lavorerò, non mi interessa la carità. Sarai anche il re della montagna, ma mangi e sporchi come i comuni mortali e non mi sembri il tipo da prendere lo straccio in mano.”

Ah, sì? Bene. Magari sarà l'occasione di insegnarle un po' di umiltà.




Cora, invece, lo è il tipo da prendere lo straccio in mano.

In realtà, dovrebbe essere seduta in un'aula di università, tra appunti e piani per la tesi, ma almeno con se stessa può ammettere che quella situazione non le spiace tanto quanto vuol far sembrare.

Si sveglia presto la mattina e altrettanto presto va a dormire la sera. Il lavoro non è così pesante – la casa non è grande, e le resta abbastanza tempo libero per bighellonare con Cerbero (l'unico con cui vale la pena di avere a che fare, almeno sotto il tetto di Adelio Cronide) e, quando è certa di non trovare intrusi, sgattaiolare fino al pioppo, ad ascoltare il mormorio del fiume e a ripararsi dalle giornate che si fanno sempre più calde.

Scende in paese una volta a settimana – prima a piedi, poi, quando quasi si rompe una gamba, a cavallo della moto di Ade, col suo casco calcato in testa e l'espressione imbronciata di chi non vuol stargli troppo vicino.

Il posto è piccolo, ben più di quanto non sia casa propria; più lontano dal vulcano e l'aria sembra più pulita e trasparente, le persone più semplici. Si infila nel piccolo supermercato – l'unico – e fa incetta di frutta e verdura fresca, riso, arance, limoni; infila tutto nello zaino e torna su, nella bella cucina di Ade, a preparare pranzetti che consuma soprattutto lei, inizialmente, perché al padrone di casa piace fare lo splendido e a Cora sta bene così.

Il lavoro manuale è un balsamo – non dover pensare, semplicemente usare i muscoli in piccoli gesti meccanici. In ogni stana di casa trova il tocco di Bianca – il colore dei cuscini, la fantasia delle tende, persino il profumo agrumato dei sacchetti nei cassetti della biancheria. A volte, le sembra quasi che le sorrida dal riflesso delle finestre.

Non è così male, la casa, il paese, anche se il mare è lontano e il sole non penetra tra i rami fitti del bosco.

“Don Adelio è ricco. Potrebbe andarsene in un battibaleno, se decidesse,” le spiega Ezio, il pastore, con un sorriso sdentato. “Ma non lo farà mai.”

“Mi sembra proprio il genere di posto adatto a lui, invece,” borbotta Cora, tentando di contenere la propria ostilità. Sono lontani dal piccolo castello di Ade, ai piedi della collina dove i suoi buoi pascolano placidi. Siedono su una pietra, Cora a gambe incrociate e Ezio con una gamba accavallata, una sigaretta in bocca che gli strascina ne parole, quando parla.

Sghignazza. “E invece io dico che ha viaggiato molto, ai suoi tempi. Prima di tornare qui con la Signora Bianca, dico.”

Cora tace, dondolando i piedi. A lungo è stata certa che Bianca si sia rinchiusa in quella città dimenticata da Dio e lontana dalle onde solo per far piacere a lui, ma ora comincia a domandarsi se non si stia sbagliando.

“Qui ci abitavano tutti, lui, Don Filippo e Don Divo, da piccoli. Poi gli altri due sono partiti per posti con più gente, con più cose da fare, dove si guadagna la grana.” Sospira. “ Non ci si può fare niente, Cora mia. Non importa quanto grigia e squallida sia la nostra casa, noi gente di carne e ossa preferiamo abitare lì che in qualsiasi altro posto. E pure la Signora Bianca la pensava uguale.”

Le batte una mano, grossa come una padella, sulla spalla con la delicatezza di un violinista, e Cora soffoca quel filo di rispetto che sta nascendo per suo zio con l'appunto mentale di chiamare sua madre.

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Capitolo 4
*** IV. Ade e Cora siedono sotto l'albero ***


I


sotto l'albero bianco










nomi dei personaggi:


Kore/Persefone è Cora.
Ade è Adelio (diminutivo: Ade).
Leuce è Bianca (Significato in italiano del nome greco).
Atena è Ana (Il nome originale della dea secondo alcuni studiosi).
Artemide è Diana (Nome romano della dea).
Ciane è Celeste (Il "ciano" è una delle sfumature del celeste).
Zeus è Divo (Dal genitivo greco "Dios").
Poseidone è Filippo (Dall'attributo Hippios, signore dei cavalli).
Era è Eva (Per assonanza e per ruolo).
Menezio è Ezio.






Titolo: Ade e Cora siedono sotto l'albero

Prompt: Quando ero innamorato, ero l’uomo più felice del mondo, ma nessuno può amare se non ha un cuore.


Non gli è chiaro quando i termini dell'accordo hanno preso a cambiare, tra loro.

Averla sotto il suo tetto non è poi la scocciatura che temeva: è piuttosto silenziosa, salvo gli interludi con Cerbero; se ne sta per i fatti suoi, e la casa si rivela abbastanza grande per entrambi. Spesso gli sparisce da sotto il naso – non che la tenga continuamente d'occhio, del resto non è certo una bambina – ma si abitua presto a vederla ricomparire, magari in compagnia di un Ezio ancora col bastone in mano.

Quando non la vede per troppo tempo immagina dov'è, e spesso finisce per raggiungerla, con Cerbero al seguito. Anche quando le arriva alle spalle, Cora non dà mai segno di spaventarsi, probabilmente perché il cane finisce per annunciare il loro arrivo con in suoi guaiti entusiasti, per nulla avvezzo alla discrezione.

Se il rapporto di sua nipote – gli fa strano pensarla a quel modo, eppure sempre più spesso sente di doverla definire tale anche nel privato della sua mente, come per ricordarlo a se stesso – col bosco non è stato da subito idilliaco, ora sembra che si siano abituati l'uno all'altra.

Un po' come Ade si sta abituando a lei.

Sotto l'albero di Bianca, la brezza riscaldata dall'estate incombente gli si insinua sotto gli abiti mentre siede sul tappeto di erba e foglie osservando Cerbero alle prese con una malcapitata lucertola. Sulle loro teste, le luci sospese ai rami sono ancora spente ma Cora, la schiena appoggiata al tronco, le fissa senza dire nulla.

Una volta l'avrebbe considerata un'intrusione. Quando ha creato quello spazio per Bianca non pensava che avrebbe condiviso con qualcun altro la loro solitudine. Era stato egoista nel proprio dolore ma neanche ora riesce a pentirsene davvero: gli è stata strappata troppo presto, e vuole averla vicina come può nel posto che lei amava.

Se c'è arroganza in questo, allora è pronto a perdonarsi quel difetto congenito di famiglia; difetto che Cora condivide, eredità della linea paterna: somiglia a suo padre in certi atteggiamenti, nella pretesa avanzata silenziosamente di essere accettata in casa sua, data per scontata nella sua vita. Gli somiglia, ma non abbastanza da rendergliela odiosa, ormai.

No. Dividere Bianca con lei è persino piacevole: ci sono lati di lei che sta scoprendo ora grazie ai racconti che Cora gli offre in cambio dell'ospitalità, inizialmente sbocconcellati ma ora accompagnati da sorrisi stemperati di nostalgia.

E, nel mentre, scopre anche la figlia di suo fratello, di cui non si è curato per tutti quegli anni, così come poco si interessa degli altri che ha seminato per il mondo.

Sposta lo sguardo dalle acrobazie di Cerbero al suo viso composto: è giovane, inequivocabilmente. Più giovane di Bianca quando l'ha conosciuta, ma non non riesce a guardarla e vedere in lei una bambina. Non più.

L'espressione velata del suo viso, la piega delle sue labbra. Il suo modo di rigirare le questioni nella testa, di ascoltarlo quando l'ostilità si è placata e hanno cominciato ad avere conversazioni civili. Certo, ci sono i suoi cambiamenti d'umore, repentini come la poggia di marzo e altrettanto passeggeri, ma neanche quelli riesce a trovare infatili.

Cora volta il viso e ricambia lo sguardo, un lieve sorriso che le balugina sulle labbra.

“A cosa pensi?” domanda Ade, basso. Finiscono sempre per mormorare, in quel posto, come se Bianca davvero dormisse sotto la terra e inconsciamente non volessero correre il rischio di svegliarla.

Perché deve essere sempre così banale con lei?

“Penso a voi. A Bianca e a te.”

“Cosa di noi?”

Cora volta il viso, spostando gli occhi sulle dita intrecciate sulle ginocchia nude. “A questo posto. A quello che hai fatto per lei.” Si sistema meglio, le ciglia chiare che fremono lievi. “Pensavo che fossi uno stronzo egoista, per essertela presa così, tenendola solo per te. Però, quello che hai fatto per lei è bello, davvero. Quindi, alla fine sono contenta che ti abbia conosciuto.”

“Volevo ricambiare.” Trascina il tacco della scarpa sul terreno, scavando un basso solco nella terra. “Concordo sull'essere stato poco generoso. All'epoca, del giudizio degli altri mi importava ben poco.”

“Perché, ora ti importa di più?”

Sorridono assieme, nello stesso momento.

“In realtà, no. Ma suppongo che avrei dovuto avere più riguardo verso di te.”

“Non mi conoscevi nemmeno.”

“Sapevo che esistevi,” corregge, accigliandosi. “E che lei avrebbe voluto averti vicina. Avrei dovuto considerarlo.”

Cora tace, tormentando le pieghe del ginocchio. “Sì.”

Ade prova l'impulso di domandarle perdono, ma le parole gli restano sulla punta della lingua. Perdono per non aver scavalcato le preghiere di Bianca e aver chiamato chi doveva essere con lei negli ultimi momenti.

“Ricambiare?” chiede lei poi, dopo un breve silenzio, e Ade la guarda qualche attimo senza capire.

Ah, sì. “Quello che lei ha fatto per me. Il nostro tempo insieme.”

Cora annuisce, tornando a guardarsi le dita, e Ade deve frenare le proprie dall'allungarsi e voltarle di nuovo il viso verso il proprio. Avverte una strana sensazione, un pizzicore alla gola. Vorrebbe sapersi spiegare meglio, avere l'eloquio di suo nipote Ermes, la parlantina di Divo davanti a una donna. “Cose che non potrò più provare.”

I capelli chiari di Cora le sfiorano le spalle quando le incassa, afflosciandosi su se stessa come un dolce mal lievitato.

Prima che possa rendersene realmente conto, una mano si posa sulla guancia di lei e quando avverte sotto le dita la pelle liscia e appena sudata capisce che si tratta della propria. Le tiene il viso nel palmo e non sa bene come, ma d'improvviso è vicinissima, vicina abbastanza da contarle le macchie solari sul naso sottile, abbastanza da notare le screpolature sulle sue labbra.

Abbastanza da constatare che sta trattenendo il respiro, e anche lui.

E altrettanto repentinamente, se ne distacca, con un salto che fa trasalire anche lei, la mano incriminata un fascio di fiamme che penzola dal suo braccio rigido come latta sotto la maglia.

Quando Demetra, più onnipotente di qualunque divinità, alla fine viene sapere della piccola fuga di Cora – che, Ade scopre, dovrebbe trovarsi almeno a cento chilometri da lì – e arriva il momento di fare la cosa giusta, una parte di lui è quasi sollevata di vederla andare via.

Quel momento vicino all'albero, quella frazione di secondo, resta sospesa tra loro come una spada dal soffitto. Cora evita il suo sguardo e Ade evita lei quanto le poche stanze di casa glielo permettono.

Non può concedersi di affezionarsi a lei. Non può concedersi di volerla baciare. Non può concedersi un cuore che batte per la figlia ventenne di suo fratello.

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Capitolo 5
*** V. Sabbia, sogni e fantasmi ***


I


sotto l'albero bianco










nomi dei personaggi:


Kore/Persefone è Cora.
Ade è Adelio (diminutivo: Ade).
Leuce è Bianca (Significato in italiano del nome greco).
Atena è Ana (Il nome originale della dea secondo alcuni studiosi).
Artemide è Diana (Nome romano della dea).
Ciane è Celeste (Il "ciano" è una delle sfumature del celeste).
Zeus è Divo (Dal genitivo greco "Dios").
Poseidone è Filippo (Dall'attributo Hippios, signore dei cavalli).
Era è Eva (Per assonanza e per ruolo).
Menezio è Ezio.






Titolo: Sabbia, sogni e fantasmi

Prompt: Una volta avevo un cervello, e anche un cuore, e avendoli provati tutti e due, ti assicuro che preferirei di gran lunga possedere un cuore.


Siedono in riva al mare e la brezza sferza i loro capelli sciolti fondendo le loro teste vicine in un'unica macchia bionda e nera. Bianca china il viso, lasciando che gli occhiali da sole scivolino lungo la linea del naso, in precario equilibrio sulla punta unta di crema solare.

Cora sente già le guance ardere di sole, le labbra umide di sudore e salate di salsedine. Allunga una mano, trovando le dita distese di Bianca in un intreccio di carne, ossa e granelli di sabbia. Prende un respiro profondo come il mare, mentre la serenità si diffonde nel suo petto a macchia d'olio. Avverte un'inquietudine lontana, un peso reso leggero dalla tranquillità che scende nel petto col tonfo di una conchiglia lanciata nell'acqua.

Sta inequivocabilmente sognando.

“Mi odi, adesso?” domanda Cora, torcendo il collo per posare lo sguardo su Bianca, ancora beatamente affaccendata a esporsi alla luce solare. Il fresco della sua tomba sotto il pioppo bianco deve averle fatto rimpiangere il calore esagerato di un'estate siciliana.

“Dovrei odiarti?”

“Voglio quello che era tuo,” replica Cora, lo sguardo fisso negli occhi socchiusi di Bianca, due specchi di cielo. La colpa tira come la pelle appiccicata dal sale, ma si costringe a non rompere quel contatto.

“Sono morta, Cora. Non potrei averlo comunque.” Il tono è asciutto, privo di astio. Cora la osserva in silenzio, cercandosi nel suo viso lucido di crema e cereo di morte sotto la carnagione olivastra.

Bianca stira le labbra pallide in un sorriso a metà. “Se vuoi chiedermi se è me che gli ricordi, quando ti guarda, può essere. Io penso di no, ma sai. Ho sempre creduto che i fantasmi avessero tutte le risposte; invece, io ho solo quelle che avevo prima, da darti.”

Cora serra appena i denti. “Mi dispiace.” Di cosa, in particolare, non saprebbe neanche dirlo. Di tutto.

Bianca non glielo domanda, ma la sua espressione la pugnala dolcemente. “Dovresti smetterla di dispiacerti per ogni cosa e iniziare a vivere. Tua madre non può farti sentire in colpa per sempre, e io non voglio iniziare ora che sono morta.” La presa sulle dita si fa appena più stretta.

Cora si passa la mano libera sulla fronte. Si scrolla via la sabbia chiara dai capelli, strofina i polpastrelli sulla cute. Aveva spremuto le meningi come limoni, in cerca di una soluzione, e non aveva ottenuto che risposte amare.

“Non ha senso neanche provarci.”

La parentela. Sua madre. L'età. La distanza. Persino suo padre.

Però. Però non riesce a dimenticare: l'espressione distante di Ade mentre sorseggia il caffé, carezzando le orecchie di Cebero; la brodaglia immangiabile che le ha imboccato la volta che la febbre le aveva fatto girare la testa; Ade arrabbiato, una ruga a scavargli la fronte, e Ade tranquillo, velato da un dolore sottile come la nebbia e non per questo meno viscerale. Ade che l'abbraccia senza goffagine ma sempre con una punta di pudore. Ade che vuole baciarla sotto il pioppo bianco e che si stacca da lei perché ci sono tante, troppe cose, tra loro, che non possono funzionare.

“E se poi te ne penti?” Bianca si sdraia all'indietro, alzando una vampa di polvere d'oro. “So come ragioni e so che non hai torto. Ma una volta avevo un cervello, e anche un cuore. Avendoli provati tutti e due, ti assicuro che preferirei di gran lunga possedere un cuore e seguire quello.”

Mentre parla, la sabbia si chiude sopra di lei come un sarcofago. Cora si sveglia madida come si fosse tuffata tra le onde, boccheggiando come in procinto di affogare.

Lui è sulla poltrona di fronte, Cerbero allungato sulle ginocchia come una giovane pelliccia. Le duole la schiena e si volta su un fianco, senza staccare gli occhi dal ciuffo scuro che gli ricade sulla fronte dondolando placido a ogni suo respiro.

Lo osserva, passandosi una mano tra le ciocche spettinate: sul viso ha l'espressione più distesa che gli abbia visto dacché lo conosce, le rughe attorno agli occhi spianate da quell'aria di pace. Cerbero ronfa piano, la bava che forma una pozza scura sulla manica della sua camicia.

Vorrebbe alzarsi, percorrere quei passi che li separano – cinque, li ha contati – chinarsi e sfiorare ogni avvallamento della carne del suo viso con la punta delle dita. Le serra in pugno, e tremano di ingiustizia e del fantasma della separazione che incombe.

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Capitolo 6
*** VI. No question asked ***


sotto l'albero bianco







nomi dei personaggi:


Kore/Persefone è Cora.
Ade è Adelio (diminutivo: Ade).
Leuce è Bianca (Significato in italiano del nome greco).
Atena è Ana (Il nome originale della dea secondo alcuni studiosi).
Artemide è Diana (Nome romano della dea).
Ciane è Celeste (Il "ciano" è una delle sfumature del celeste).
Zeus è Divo (Dal genitivo greco "Dios").
Poseidone è Filippo (Dall'attributo Hippios, signore dei cavalli).
Era è Eva (Per assonanza e per ruolo).
Menezio è Ezio.



Titolo: No question asked

Prompt: Addio, uomo di latta! Oh, non piangere altrimenti ti arrugginisci un'altra volta.

 

La stradina solitaria è tanto quieta che potrebbero essere gli unici esseri umani rimasti al mondo, immobili accanto al palo della fermata che staglia la sua ombra sotto i primi raggi pallidi del mattino. Ade rigira il guinzaglio di Cerbero tra le dita, riuscendo a figurarselo mentre ulula selvaggiamente, tentando di scavalcare il cancello e raggiungerli caracollando a rotta di collo giù per il bosco.

Persino il cane ha percepito l'atmosfera da funerale e anche a quella distanza sembrano arrivargli i suoi guaiti disperati. Avverte il pungolo della colpa sotto i tentativi di rassicurarsi di aver fatto bene a lasciarlo a guardia della porta, come quella fosse una mattina come ogni altra.

Si raddrizza, imponendosi contegno mentre con la coda dell'occhio osserva Cora, in piedi accanto a lui, il suo casco ancora sotto il braccio e una maschera d'ombra sul viso a nascondergliene l'espressione. Osserva le sue spalle incurvate – di certo il peso dello zaino – la coda alta appena schiacciata, i sottili capelli sulla nuca che ondeggiano al vento.

“Hai preso tutto?” domanda, compliementandosi con se stesso per la banalità e tormentando selvaggiamente la stoffa dura del guinzaglio mentre Cora annuisce. Il sangue gli formicola sotto la pelle, fa scattare i muscoli in gesti nervosi che a stento riesce a controllare. Qualcosa di guasto gli si agita per le viscere, aggrovigliandole in un nodo contorto.

Non desidera vederla partire.

L'idea del silenzio rotto dal rombo della moto di Ermes, che arriverà strombazzando con le ali ai piedi per riportare la figlia smarrita alla legittima proprietaria, gli fa ribrezzo, l'aborrisce con ogni fibra di sé, così come dell'incaratteristico nervosismo che gli lo attraversa in una serie di scosse elettriche a basso voltaggio.

Cora solleva il viso e Ade può vederne il profilo corrucciato, le labbra premute in una linea frastagliata, la mascella sottile indurita.

“Cora.”

Le parole gli restano incastrate in gola, eppure sente il bisogno di riempire quell'apparente pace temporanea, un silenzio più carico dello zaino sulle spalle di lei. Cora trascina i piedi nella polvere, avanti e indietro, unico segno di vita di un corpo scolpito in un'armatura di marmo.

Allunga la mano libera verso quella di lei, stretta in un pugno tremante, ma non posa le dita sulle nocche sbiancate. Per consolarla, si dice. O per consolarsi. Una preghiera gli prude sulla punta della lingua – la vede pungere, identica, nei suoi occhi quando volta il viso in una replica silenziosa.

Chiedimi di restare.

La domanda aleggia nell'aria, un terzo richiesta, un terzo preghiera, un terzo accusa.

Lo hanno tacciato di non avere cuore, in passato, e lui ha dato loro ragione. Eppure, quell'organo di modeste dimensioni è come uno straccio strizzato da una mano invisbile nel suo petto, gonfio di sofferenza.

Chiedimelo.

Lo fissa con un'impellenza che è quasi un urlo e le labbra le fremono, il viso è un fascio di muscoli tremuli. La trova bella come non l'ha vista mai, il naso rosso, le ciglia appesantite di lacrime che rendono i suoi occhi liquidi – il ritratto di quelli di Divo quando esagera col suo amato vino.

Quel pensiero gli strozza ogni parola in gola, gliele fa inghiottire come una purga amara che lascia una scia di bile sulla lingua, giù per il petto fino allo stomaco, dove si schianta appiccando un incendio.

Allora, è lui a stringere i denti, a osservarla in silenzio quando Ermes alla fine arriva davvero e la fa montare dietro di lui. A stringere i denti, quando il casco le cala sul viso dopo la vaga promessa di farglielo riavere indietro, chissà come, chissà quando.

La sorte di quel casco gli interessa poco: Cora, è lei che fissa mentre la moto si allontana rombando giù per la discesa. Ha il viso bagnato.

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Capitolo 7
*** VII. La tempesta in cucina ***


sotto l'albero bianco







nomi dei personaggi:


Kore/Persefone è Cora.
Ade è Adelio (diminutivo: Ade).
Leuce è Bianca (Significato in italiano del nome greco).
Atena è Ana (Il nome originale della dea secondo alcuni studiosi).
Artemide è Diana (Nome romano della dea).
Ciane è Celeste (Il "ciano" è una delle sfumature del celeste).
Zeus è Divo (Dal genitivo greco "Dios").
Poseidone è Filippo (Dall'attributo Hippios, signore dei cavalli).
Era è Eva (Per assonanza e per ruolo).
Menezio è Ezio.



Titolo: La tempesta in cucina

Prompt: Io voglio un cuore, perché il cervello non basta a farti felice, e la felicità è la cosa piú bella che esista al mondo.

 

La quiete prima della tempesta si trascina per lunghi giorni di lampi nello sguardo e bronci come un brontolio di tuoni in lontanza. Sembrano riuscire a vedersi solo all'ora dei pasti, e quando siedono l'una di fronte all'altra, il sapore del cibo invariabilmente diventa cenere sulla lingua, l'unico rumore il ticchettio dell'orologio, le posate sui piatti, i loro respiri cauti.

Evitano accuratamente di guardarsi mentre ingoiano un boccone alla volta, il tavolo di plastica l'unica barriera fisica che trattiene sua madre dal saltarle addoso e scrollarla, Cora lo sa.

D'altra parte, l'aria di tensione elettrica che tira in casa la tocca relativamente, come se quella che è stata la sua priorità, chissà come, chissà perché, sia scesa di un gradino per far posto a un tarlo che le scava dentro, sguazza nell'orlo del nuovo cratere che le si è aperto nel petto, proprio accanto al dolore per Bianca.

Un dolore nuovo, che pulsa come un nervo infiammato, come un mal di testa al cuore. Non la lascia vivere in pace, sempre presente mentre si costringe ad uscire di casa, a vedere gli amici, a seguire le lezioni, a riprendere la sua vita come l'aveva lasciata prima che la notizia di Bianca le crollasse addosso.

Non si concede di pensare, ma il pensiero la scavalca con prepotenza, costringendola a rifletterci sdraiata a letto e il sonno tarda ad arrivare.

Ha fatto la cosa giusta, da qualunque angolazione la si guardi. E Ade ha fatto la cosa giusta. Entrambi.

Ci pensa e ci riprensa, a quel momento, tormentandosi una ciocca di capelli, lo sguardo che evita accuratamente di scivolare sul casco che la fissa da un lato della stanza con occhi invisibili e cerca di vedere la verità corrosiva sotto l'involucro della finzione che ci ha avvolto attorno per andare avanti.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                       Potrebbe giustificarsi con se stessa, dirsi che sua madre ha scelto un giorno particolarmente difficile per detonare la sua rabbia, ma Cora è fin troppo consapevole di quanto un giorno valga l'altro.

La cucina gialla e arancio si stringe attorno a loro come una scarpa troppo stretta, nonostante le finestre spalancate. L'autunno è ancora lontano e l'afa incolla i vestiti addosso come la pelle lucida di un serpente dopo la muta.

Non sa bene neanche lei come abbia inizio: un momentole le sta passando in piatto; quello seguente, le urla di sua madre fanno quasi esplodere il cucinino, appesantendo l'aria greve di caldo e di frittura. Le parole volano più grosse degli arancini, e Cora posa il piatto che ha in mano per non farsi tentare dal tirarli sul pavimento e mutilare irrimediabilmente il servizio buono.

“Saresti potuta morire! Cosa ti ha detto la testa, sciocca bambina?! Arrampicarti fin lassù da sola, ti saresti potuta rompere il collo come un ossicino di pollo! Se Ade non ti avesse ripescata chissà da dove, avrei potuto ritornare tu a casa in una bara!”

“Sono tornata sana e salva, eppure,” ribatte Cora, restia a concordare con lei, le guance arrossate di caldo, vergogna, rabbia. “Se solo mi permettessi di uscire di casa per conto mio senza chiamare le forze armate, capiresti che ormai ho raggiunto l'età della ragione. E di poter andare in giro senza una scorta.”

Lo sdegno di Demetra sembra pari solo alla sua sorpresa di sentirsi rispondere a quel modo. Da dove venga tutta questa intraprendenza, non lo sa neppure lei; può solo constatare che una volta saltato il tappo che le frenava la lingua, non c'è modo di rimetterlo al suo posto.

“Forse perché hai dimostrato che non posso fare affidamento su di te e i tuoi colpi di testa!”

“Mamma, ti prego, non prendiamoci in giro: sono sempre stata la figlia più affidabilmente noiosa che abbia messo piede sul suolo siciliano nell'ultimo secolo.”

“E per questo ti è stato concesso di studiare lontano da casa, ma ora guarda come ripaghi la mia fiducia!”

Il litigio va avanti, le parole si infrangono sulla superficie bianca del lavello, contro le credenze sovraffollate di piatti. Divo viene nominato, e Bianca, e alla fine, quando tanto Cora quanto sua madre hanno gli occhi lucidi di stanchezza e di pianto, le ostilità sembrano avviarsi al termine, crollano entrambe sulle sedie di plastica, afferrandosi al tavolino per non cadere.

Sua madre scuote piano il capo, i ricci biondi che ondeggiano sfiorandole il viso sudato. Deglutiste lentamente prima di parlare, e la sua voce è rauca per le grida di prima. “Cora, tesoro mio. Se non vuoi evitare di dare una preoccupazione a me, pensa almeno con la testa. Andare là sola, di pomeriggio inoltrato... sarebbe potuto capitarti qualunque cosa. Non farmi sapere dove davvero fossi per tutto quel tempo, poi, è una follia.”

La fragilità nella sua voce spinge Cora ad allungare una mano, strisciando il palmo sul piano del tavolo per raggiungere la sua. Sua madre le sembra così stanca, in questo momento, e anche lei è esausta, neanche l'energia stesse colando via da lei a ogni goccia di sudore.

Intrecciano le dita e Cora piega l'altro braccio per posarci la guancia, il busto premuto contro la plastica alla ricerca di refrigerio – e un briciolo di stabilità.

“Mi mancava così tanto,” sussurra, “che non mi importava più di niente.”

Non vede sua madre, ma la sente strofinare i polpastrelli alle sue dita umide. “Posso capirti, tesoro mio, ma ora stai un poco meglio, no?” Stringe lieve la presa, e Cora ricorda improvvisamente che Bianca ha fatto lo stesso, in quello strano, vivido sogno di qualche tempo prima. “Promettimi che penserai con la testa, d'ora in poi.”

Cora schiude le labbra per replicare, ma è come se un dito invisibile si posasse su di esse, sigillando le parole in gola. Le sfugge un singhiozzo senza che se ne accorga neppure, che le fa tremare le spalle sotto la maglietta leggera. Un secondo segue il primo. E ancora. E ancora.

Vorrebbe dire che sta usando il cervello, e che le fa male. Quando dita sottili si immergono tra i suoi capelli sudati, chiude gli occhi strettamente, immaginando di essere altrove, musica classica e i guaiti di Cerbero in sottofondo.

Non basta il cervello a farti felice.

Dietro le palpebre, Ade le sfiora una guancia, sollevandole il viso per asciugare le lacrime.

Al diavolo tutto. Io voglio un cuore, gli direbbe se ce lo avesse davanti, perché il cervello non basta a farti felice, e la felicità è la cosa più bella che esista al mondo.

 

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Capitolo 8
*** VIII. Terremoti e narcisi gialli ***





sotto l'albero bianco










nomi dei personaggi:


Kore/Persefone è Cora.
Ade è Adelio (diminutivo: Ade).
Leuce è Bianca (Significato in italiano del nome greco).
Atena è Ana (Il nome originale della dea secondo alcuni studiosi).
Artemide è Diana (Nome romano della dea).
Ciane è Celeste (Il "ciano" è una delle sfumature del celeste).
Zeus è Divo (Dal genitivo greco "Dios").
Poseidone è Filippo (Dall'attributo Hippios, signore dei cavalli).
Era è Eva (Per assonanza e per ruolo).
Menezio è Ezio.


Titolo: Terremoti e narcisi gialli

Prompt: Non c'è nessun posto come la propria casa.

 

Il giorno in cui la Sicilia le trema sotto i piedi è anche il giorno in cui Ade la rapisce.

Un giorno di fine estate, iniziato con la solita asfissiante calura di agosto, che secca anche il cervello nel cranio. Cora si rigira sul materasso, le lenzuola aggrovigliate alle caviglie, con un braccio di Diana a pesarle sulla pancia e i capelli di Ana che le sfiorano le guance.

L'ombra di un sogno le prude dietro le palpebre incollate ma lo stropiccia via, decidendosi a districarsi dal groviglio di arti per mettersi a sedere sul bordo del letto. La prima scossa la coglie distratta a osservare il viso scomposto di Diana, la bocca ridicolmente spalancata nel sonno; non è abbastanza forte da spaverntarla, ma sua madre arriva di corsa dalla cucina, la camicia abbottonata per metà e un sottile velo di panico negli occhi.

Le ore scorrono tranquille, tuttavia, in quella pacata piattezza di cui la rassegnazione ha tinto le sue giornate. Si alzano, allegre tutto sommato, pronte a lanciarsi fuori dalla porta di casa e per godersi gli ultimi giorni di libertà prima della sessione autunnale.

Il sole è già alto di primo mattino, a picco su di loro come penzolasse da un precipizio. L'aria è tanto secca da accendere piccoli fuochi sulla pelle umida, e la terra freme sotto di loro come il corpo di un gatto mentre fa le fusa. Il vulcano è irrequieto e Cora con lui.

Sorride alle sorelle, però, imboccando il sentiero che le porta al piccolo campo vicino casa, dove la vecchia altalena e lo scivolo mutilato e coperto di graffiti le attendono come vecchi amici. L'erba sotto le suole delle scarpe ha la consistenza della paglia e scricchiola a ogni passo.

Sulla terra morta, il mazzo di narcisi spicca come un livido ingiallito su una pelle cerea. Abbandonato alla base di un ulivo contorto, Cora è la sola a notarlo – sono quattro, cinque fiori legati assieme con un un nastro bianco. Si volta per chiamare le altre, ma le trova distratte dall'arrivo di Celeste, i capelli neri una nuvola accaldata sul viso olivastro.

Si volta per raggiungerle ma le gambe, la curiosità, la guidano verso un'altra direzione – verso le corolle abbandonate. Si china, i calzoncini che tirano sulle cosce, indugiando ad allungare una mano, la testa che già galoppa verso oziosi scenari che giustifichino la loro presenza in quel parco dimenticato da Dio – quando un sibilo attira la sua attenzione, come un soffio di serpente.

Si sporge per dare un'occhiata dietro al tronco e il suo sguardo incontra una calzatura di cuoio impolverato, completamente fuori posto sull'erba appassita. Dopo un attimo di stasi, solleva la testa, così veloce da farsi scrocchiare il collo.

Si alza, leccandosi le labbra.

“Non ho portato il casco,” le riesce di dire, la fronte corrugata e la gola contratta, bloccata da un macigno invisibile.

“Ne ho uno di scorta,” replica Ade, che si stringe il proprio sottobraccio, e solo adesso Cora ricorda che l'altro non glielo ha mai rispedito.

 

Il latrare festoso di Cerbero è un benvenuto più accogliente di qualunque coro angelico.

Il mastino si lancia contro di lei, facendola vacillare e battere il sedere a terra, la lingua che corre subito al suo viso. Sulla guancia, la carne bagnata e granulosa ha il tocco di casa. Fa caso appena ai rimproveri di Ade, che costringe la bestia a lasciarla respirare; si sdraia sul pavimento, fissando il soffitto a cassettoni, e deve sembrargli pazza, allungata sulle sue mattonelle nel bel mezzo del suo ingresso, ma non le interessa.

Ade non commenta, ma le è accanto in un attimo sul cotto immacolato, a una certa distanza, come se ancora si potesse tornare indietro. Cora allunga un braccio per colmare quello spazio. Chiude gli occhi mentre le loro dita si intrecciano.

Non c'è nessun posto come la propria casa.

 

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