Sotto l'albero bianco di theuncommonreader (/viewuser.php?uid=875471)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Schegge di cuore ***
Capitolo 2: *** II. Il regno di Ade ***
Capitolo 3: *** III. Gente di carne e ossa ***
Capitolo 4: *** IV. Ade e Cora siedono sotto l'albero ***
Capitolo 5: *** V. Sabbia, sogni e fantasmi ***
Capitolo 6: *** VI. No question asked ***
Capitolo 7: *** VII. La tempesta in cucina ***
Capitolo 8: *** VIII. Terremoti e narcisi gialli ***
Capitolo 1 *** I. Schegge di cuore ***
I
sotto
l'albero bianco
note iniziali
Questa
raccolta di
one-shot
cronologicamente ordinate, che vogliono leggersi tanto come compiute in
se stesse quanto come parte di un racconto più ampio,
partecipa
al contest Segui il
sentiero dorato, indetto da Shizue Asahi sul forum di Efp
ed è basata su dieci prompt tratti dall'opera Il Mago di Oz, ciascuno
indicato assieme al titolo alla rispettiva OS.
Si tratta di una delle possibili versioni dell'incontro tra Ade e
Persefone in salsa Modern!AU, che cerca di essere il più
possibile vicina all'originale pur con le dovute modifice. In
particolare, ho eliminato la parentela tra le coppie divine, eccezion
fatta per Ade e Persefone - zio e nipote in quanto frutto di una
relazione tra Zeus e Demetra.
nomi dei
personaggi:
Kore / Persefone
è Cora.
Ade è Adelio (diminutivo: Ade).
Leuce è Bianca (Significato
in italiano del nome greco).
Atena è Ana (Il nome
originale della dea secondo alcuni studiosi).
Artemide
è Diana (Nome
romano della dea).
Ciane è Celeste (Il "ciano"
è una delle sfumature del celeste).
Zeus è Divo (Dal genitivo
greco "Dios").
Poseidone
è Filippo
(Dall'attributo Hippios, signore dei cavalli).
Era è Eva
(Per assonanza e per ruolo).
Menezio è
Ezio.
|
Titolo: Schegge di
cuore
Prompt: I cuori
non saranno mai una cosa pratica finché non ne inventeranno
di
infrangibili.
Accade
un giorno qualunque, come sempre succede quando le disgrazie si
abbattono sui comuni mortali.
Cora
lo avverte nel tono di sua madre, che qualcosa non va – privo
della
solita nota instancambilmente squillante quando si tratta di tirarla
giù dal letto. La sua espressione guardinga, il modo in cui
si
mordicchia le labbra confermano quell'impressione, ma di certo non
immaginerebbe mai quello che Demetra ha da dirle.
Mai
si immaginerebbe mai di venire a sapere di Bianca così,
ancora
gonfia di sonno, ancora calda di letto nel suo pigiama di
mezzastagione, le ciabatte troppo pesanti ai piedi, sulla faccia
l'impronta fresca del cuscino.
Non
si sognerebbe di venire a sapere che la sua migliore amica di appena
trent'anni è morta, non in un tiepido, anonimo giorno di
sole
freddo, uno come mille altri che preludono all'autunno.
Di
venirlo a sapere lo stesso giorno del suo funerale.
Cora
guarda il telefono abbandonato sul letto sfatto, ostinatamente muto,
senza vederlo davvero ma lo stesso in all'erta, come se dovesse
squillare da un momento all'altro. Negli ultimi tempi è
rimasto
silenzioso ben più di quanto lo sia stato mai, da quando
Bianca è
andata a rinchiudersi nella sua casetta in mezzo al bosco, dove la
linea è un lusso che non può – poteva
– permettersi.
Non
ci vuole credere, che la sua suoneria non la sveglierà
più nel
cuore della notte. Che il telefono non prenderà
più a vibrare,
oberato di messaggi su messaggi, di foto della casa nuova, del
giovane mastino nero che Bianca e quello zio che Cora non ha mai
conosciuto hanno adottato assieme, appena sposati.
Non
ci vuole credere che sono passate solo poche settimane da quando la
prendeva in giro, chiedendole se dovesse chiamarla zia.
Da
quando Bianca l'ha implorata di perdonarla per non averla invitata al
matrimonio improvviso, di fronte a un prete, al cane e a due
testimoni trovati per caso a bighellonare di fronte alla chiesa del
paese. Così frettoloso, ha detto a Bianca, profondamente
offesa per
l'esclusione; non vi corre dietro nessuno.
Invece,
qualcosa che correva dietro – e l'ha raggiunta e sbranata.
Frammenti
di giorni.
L'università,
la sessione, sono dimenticate; sua madre sempre in casa, che non
perde occasione per regalarle abbracci a cui Cora concede solo
risposte prive di calore. La telefonata di condoglianze di suo padre.
L'attesa spasmodica di sentir vibrare il telefono e leggere il nome
di Bianca sul display.
Sua
madre scivola nel suo letto, la notte, le stringe le braccia morbide
attorno al corpo come fosse fatto di schegge di vetro e lei potesse
tenerla assieme. Cora affonda la faccia tra i suoi seni, odora il
profumo familiare e pensa a quando, sdraiate sulla sabbia, Bianca le
lasciava posare il viso contro la sua clavicola, e Cora ascoltava il
suo respiro, profondo e regolare come il rollio delle onde.
In
fondo, sotto la cappa di stordimento che avvolge il pulsare della sua
sofferenza che si riversa come liquame tossico in quel punto del suo
cuore dove Bianca abitava e che ora è un cratere di carne e
di
lacrime, le dispiace per sua madre.
Le
dispiace per i giorni di permesso chiesti al lavoro, per le ore spese
in cucina a riempire il loro appartamento di odori teoricamente
invitanti ma che le fanno rivoltare lo stomaco.
Le
dispiace per lei, per se stessa. Di non potersi spegnere e accendere
a piacimento e di dover vivere con quel mostro nel petto che la sta
mangiando da dentro, un morso alla volta, bevendo ogni sua energia,
prosciugandola come un vampiro.
Vuole
andare a trovarla, riesce a dire un giorno, mentre sua madre cerca di
tenarla a mangiare con arancini appena fatti, gelato e cannoli. A
trovarla? Impensabile,
è la
replica di Demetra, non priva di gentilezza mentre le passa le dita
tra i capelli annodati, scende sul viso per sfiorare gli occhi gonfi
e le labbra screpolate. Cora è troppo stanca per ribattere e
dunque
ascolta mentre le spiega i motivi per cui non può
raggiungere la sua
migliore amica neanche per un ultimo saluto.
Tra
gli altri, la mente di Cora registra quello che, tra le righe, suona
come quello fondamentale: Ade non ti vorrebbe
lì.
A
Cora, dell'opinione di Ade non frega un cazzo. E un modo lo
troverà.
|
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Capitolo 2 *** II. Il regno di Ade ***
I
sotto
l'albero bianco
nomi dei
personaggi:
Kore / Persefone
è Cora.
Ade è Adelio (diminutivo: Ade).
Leuce è Bianca (Significato
in italiano del nome greco).
Atena è Ana (Il nome
originale della dea secondo alcuni studiosi).
Artemide
è Diana (Nome
romano della dea).
Ciane è Celeste (Il "ciano"
è una delle sfumature del celeste).
Zeus è Divo (Dal genitivo
greco "Dios").
Poseidone
è Filippo
(Dall'attributo Hippios, signore dei cavalli).
Era è Eva
(Per assonanza e per ruolo).
Menezio è
Ezio.
|
Titolo: Il regno di Ade
Prompt: Il vero coraggio
consiste nell’affrontare
il pericolo quando si ha paura.
L'autobus la
scarica ancora calda e gonfia del poco sonno che è riuscita
a racimolare, un
pacco postale ammaccato all'angolo della stradina polverosa e deserta,
dove,
insinuandosi nella boscaglia fitta, si stendono le prime ombre del
tardo
pomeriggio.
Le
vecchie scarpe
da tennis inchiodate al suolo, le dita di Cora si aggrappano
più fermamente
alle fasce dello zaino. I nervi le strizzano lo stomaco, le accorciano
il
respiro mentre ogni fibra di lei rifiuta di muovere un passo verso la
tomba
secolare dove Bianca è andata a nascondersi, così
sbagliata per lei.
Bianca deve stare sotto la sabbia, scaldata dal sole e cullata dal
mare, non da
questo silenzio frondoso e dal vago mormorio del fiume che si inerpica
su per
la collina.
L'aria
si fa
fredda prima che prenda ad avanzare, le poche monete rimaste
tintinnanti nel
giubotto, il peso dello zaino a incurvarle appena la schiena. Il
cellulare le
grava nella tasca dei pantaloni col suo silenzio, e Cora scaccia dalla
mente il
pensiero che qualcosa possa andare storto, che Celeste non riesca a
tenere la
boccacon sua madre – o ci prova, perlomeno, ma dentro resta
all'erta, in attesa
la rabbia di Demetra inizi a strillare dalla suoneria.
Si
stringe in se
stessa impercettibilmente, incassando le spalle, seguendo, come le
hanno
indicato, il borbottio placido del fiume; tuffandosi fra la gli alberi
dai
tronchi foschi, i rami nodosi e contorti che paiono allungarsi verso di
lei per
agguantarle il respiro, intrecciati tanto fittamente da formare un
soffitto
frusciante che a ogni passo pare incomberle più addosso.
Lo
stomaco si
dibatte sotto la felpa, come volesse uscire da lei. Quel bosco non
somiglia a
niente che le sue escursioni con Diana e le sue amiche le abbiano dato
modo di
vedere. Non un punto di riferimento, non un sentiero, ma una
sconosciuta
muraglia compatta che non offre aiuti né appigli durante la
risalita – né la
possibilità di chiamare aiuto se le fosse successo qualcosa,
constatò
controllando il display del cellulare.
Si
ferma, non
sapendo esattamente dove si trova – un punto vale l'altro,
l'inerpicarsi del
fiume scorre monotono e anonimo, il letto tenuto a coppa da una fitta
macchia
spinosa. Calpesta un ramoscello secco e il rumore la fa voltare di
scatto,
sobbalzare il cuore nella scatola del petto come un uccellino impazzito.
Volta
il viso
–
avanti, indietro? Non ricorda da dove è venuta: il suo unico
punto di
riferimento è l'aqua che ora si insinua in un fosso
profondo, sparisce oltre
una fitta tenda di edera nera. Non un fiore sul pavimento di foglie
agonizzanti: solo un infinito tappeto di morte, scivoloso per
l'umidità
dell'aria serale che comincia a depositarsi sulla vegetazione.
Quand'è che si è
fatta sera?
Rabbrividisce
nel
giubotto, emettendo un respiro caldo che si aggrappa alle labbra
dischiuse,
mischiandosi al sudore sulla sua pelle. Non un filo di tramonto a
indicarle la
strada: è allora che confessa a se stessa che quel nodo in
gola, quei brividi
lungo la spina dorsale, possono essere solo paura.
Afferra
il
cellulare nella tasca, il palmo scivoloso contro il vetro, ed esita.
Non ci ha
pensato abbastanza, è chiaro: ha sottovalutato questo bosco
di collina, la sua
aria anonima mentre l'autobus si inerpicava sempre più in
alto sulla strada
stretta. Non le era parso minaccioso come dicevano, il piccolo regno di
Ade.
Ondeggia
sulle
gambe. La discesa la tenta, punteggiata di grosse rocce tutte uguali,
da
tronchi che stiracchiano i rami verso di lei come braccia supplici.
L'ostello
l'attende con un pasto decente e un letto caldo. Può tornare
domani, col sole,
evitando di rompersi l'osso del collo. Ogni fitta di istinto la
schiaffeggia,
intimandole di non restare un attimo di più. Che non
è ancora tardi. Non ha la
testa leggera di un'eroina da film horror, ma un cervello perfettamente
funzionante
nel cranio. Bianca l'aspetterà: non ha fretta nella sua
bella tomba.
Stringe
i denti
mentre il pensiero la fulmina. Si costringe a voltarsi verso il fosso,
si
afferra alle fasce dello zaino per trovare conforto. Un passo, un
altro, che
affonda nelle foglie morte. Riprende a salire. La paura le scivola via,
la
lascia cadere dietro di sé come un cappotto abbandonato.
Raggi
di luna
riescono a fendere il soffitto vivo della foresta, gettando una
nebbiolina
lattea che sembra emergere dal fiume e prendere corpo attorno
all'albero sulla
sua riva. C'è illuminazione, lì,
elettricità in quel luogo altrimenti
selvaggio: minuscole lanterne disseminate paiono anime in pena, fanno
scintillare l'aria come lucciole premature, congelate attorno al pioppo
bianco.
Identico a come Bianca glielo ha descritto.
Cora
si lecca le
labbra riprendendo fiato, gli occhi fissi sul cangiare della luce sul
tronco
bianco, accovacciato sulla cunetta che si slancia verso la luna. Si
gela. Lo
stomaco di Cora è liquido caldo sotto la pelle mentre punta
i palmi graffiati
per spingersi più su, piantando le ginocchia dei jeans nella
terra bagnata di
notte.
Arriva
strisciando
come un verme su un tappeto di erba più viva, un coperchio
pulsante alla bara
di Bianca; sporca le foglie del sangue che le goccia dalle dita
tagliate da
sassi e spine. Nella tasca, il cellulare è muto. Ansima nel
silenzio,
respirando col vento; si sdraia meglio, di fianco come usavano fare
quando i
giorni non bastavano mai loro, occhi negli occhi.
Le
pare di sentirla
sorridere benevola da sotto di sé. Avverte il dolore che
rischia di traboccare,
ma in quel luogo non c'è nulla di triste.
Fa freddo ma le
lacrime le scaldano il viso.
|
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Capitolo 3 *** III. Gente di carne e ossa ***
sotto
l'albero bianco
nomi dei
personaggi:
Kore/Persefone
è Cora.
Ade è Adelio (diminutivo: Ade).
Leuce è Bianca (Significato
in italiano del nome greco).
Atena è Ana (Il nome
originale della dea secondo alcuni studiosi).
Artemide
è Diana (Nome
romano della dea).
Ciane è Celeste (Il "ciano"
è una delle sfumature del celeste).
Zeus è Divo (Dal genitivo
greco "Dios").
Poseidone
è Filippo
(Dall'attributo Hippios, signore dei cavalli).
Era è Eva
(Per assonanza e per ruolo).
Menezio è
Ezio.
|
Titolo: Gente di carne e
ossa
Prompt: Non importa
quanto
grigia e squallida sia
la nostra casa, noi gente di carne e ossa preferiamo abitare
lì che in
qualsiasi altro luogo, per bello che possa essere.
Forse
perché è
stato lui a ritrovarla, allungata sull'erba all'ombra del pioppo
bianco, il
giubbotto bagnato di brina, Cerbero sembra essersi affezionato alla
ragazza,
Cora.
Sua nipote.
Una volta che
viene a saperlo, Ade nota subito l'ovvia somiglianza con Divo,
stemperata dalla
morbidezza di Demetra ma del tutto evidente nel colore degli occhi, di
un
grigio azzurro colmo di ostilità.
Il suo primo
istinto è quello di rispedirla a casa come un pacco. Non gli
interessa avere
gente attorno – sopporta a malapena la presenza di Ezio che,
puntuale ogni
sera, viene a fargli il punto della situazione del suo bestiame. Ade si
costringe ad ascoltarlo più per dovere – del
resto, è con quello che paga le
bollette, tra le altre cose – che per reale interesse; dubita
di riuscire a
racimolare in sé abbastanza considerazione verso quella
ragazzina da tenersela
in casa un attimo più del dovuto.
Se lo fa
–
se si
prende la briga di disinfettarle i graffi che si è fatta
nella sua folle
arrampicata, di sfamarla e riscaldarla, è solo per lei.
Non avrebbe
tollerato che trattasse male un'ospite, Bianca, tantomeno una ospite
sua. E
dunque le concede una delle camere libere dove buttarsi a letto e
riposarsi un
poco, prima di riportarla alla fermata dell'autobus al limitare del
bosco e
lasciarla alla sua vita.
Questo
è il
piano.
Del resto, se è abbastanza grande per arrivare fino a
lì da sola, lo è anche
per tornare da sua madre – si offre, di malavoglia, di
telefonare a Demetra e
intercedere per lei, ma la ragazza è assolutamente decisa a
fare di testa
propria e Ade non ha pazienza per i capricci.
Almeno, fino a
che
diventa chiaro che Cora non vuol proprio andarsene.
“Che
fastidio ti
do?” gli domanda, le mani suoi fianchi e le labbra arricciate
di sdegno.
Ade, in piedi
sullo stipite della porta con il sacchetto per Cerbero in mano e il
guinzaglio
nell'altra, solleva
un sopracciglio.
Sensazione alquanto sgradevole: come un ingranaggio arrugginito che
riprende a
muoversi cigolando.
Forse
perché
conversare non gli interessa e il suo viso ha perso l'allenamento a
esprimere
emozioni di qualsivoglia genere.
Bianca se ne
è
andata da abbastanza tempo da rendere appena sopportabile la perdita
–
abbastanza da alzarsi dal letto, la mattina, con un proposito diverso
dal
ciondolare per le stanze alla ricerca di qualche traccia di lei; ma non
è
sufficiente per invogliarlo a interazioni umane che non siano
strettamente
necessarie.
“Che
fastidio mi
dai?” ripete, scrutandola dall'alto in basso, riconoscendo
gli atteggiamenti di
Divo in quel suo puntare i piedi. “Tanto per cominciare, non
hai i tuoi
impegni?”
“Niente
che
non
possa essere rimandato, zio.”
L'ironia nel suo
tono non gli piace particolarmente, ma Ade si limita a stringere le
labbra.
“Dunque mi stai dicendo che se chiamassi tua madre, Demetra
sarebbe totalmente
d'accordo a farti stare qui?”
“Ho
ventidue
anni.
Penso di poter prendere da sola le mie decisioni.”
Anche Ade lo
pensava,
di poter decidere chi ospitare sotto il suo tetto, eppure la ragazzina
sembra
decisa a smentire questa sua certezza. “Dunque non intendi
darmi voce in
capitolo?”
“Lavorerò,
non mi
interessa la carità. Sarai anche il re della montagna, ma
mangi e sporchi come
i comuni mortali e non mi sembri il tipo da prendere lo straccio in
mano.”
Ah,
sì?
Bene.
Magari sarà l'occasione di insegnarle un po' di
umiltà.
Cora, invece, lo
è
il tipo da prendere lo straccio in mano.
In
realtà,
dovrebbe essere seduta in un'aula di università, tra appunti
e piani per la
tesi, ma almeno con se stessa può ammettere che quella
situazione non le spiace
tanto quanto vuol far sembrare.
Si sveglia
presto
la mattina e altrettanto presto va a dormire la sera. Il lavoro non
è così pesante
– la casa non è grande, e le resta abbastanza
tempo libero per bighellonare con
Cerbero (l'unico con cui vale la pena di avere a che fare, almeno sotto
il
tetto di Adelio Cronide) e, quando è certa di non trovare
intrusi, sgattaiolare
fino al pioppo, ad ascoltare il mormorio del fiume e a ripararsi dalle
giornate
che si fanno sempre più calde.
Scende in paese
una volta a settimana – prima a piedi, poi, quando quasi si
rompe una gamba, a
cavallo della moto di Ade, col suo casco calcato in testa e
l'espressione
imbronciata di chi non vuol stargli troppo vicino.
Il posto
è
piccolo, ben più di quanto non sia casa propria;
più lontano dal vulcano e
l'aria sembra più pulita e trasparente, le persone
più semplici. Si infila nel
piccolo supermercato – l'unico – e fa incetta di
frutta e verdura fresca, riso,
arance, limoni; infila tutto nello zaino e torna su, nella bella cucina
di Ade,
a preparare pranzetti che consuma soprattutto lei, inizialmente,
perché al
padrone di casa piace fare lo splendido e a Cora sta bene
così.
Il lavoro
manuale
è un balsamo – non dover pensare, semplicemente
usare i muscoli in piccoli
gesti meccanici. In ogni stana di casa trova il tocco di Bianca
– il colore dei
cuscini, la fantasia delle tende, persino il profumo agrumato dei
sacchetti nei
cassetti della biancheria. A volte, le sembra quasi che le sorrida dal
riflesso
delle finestre.
Non è
così male,
la casa, il paese, anche se il mare è lontano e il sole non
penetra tra i rami
fitti del bosco.
“Don
Adelio
è
ricco. Potrebbe andarsene in un battibaleno, se decidesse,”
le spiega Ezio, il
pastore, con un sorriso sdentato. “Ma non lo farà
mai.”
“Mi
sembra
proprio
il genere di posto adatto a lui, invece,” borbotta Cora,
tentando di contenere
la propria ostilità. Sono lontani dal piccolo castello di
Ade, ai piedi della
collina dove i suoi buoi pascolano placidi. Siedono su una pietra, Cora
a gambe
incrociate e Ezio con una gamba accavallata, una sigaretta in bocca che
gli
strascina ne parole, quando parla.
Sghignazza.
“E
invece io dico che ha viaggiato molto, ai suoi tempi. Prima di tornare
qui con
la Signora Bianca, dico.”
Cora tace,
dondolando i piedi. A lungo è stata certa che Bianca si sia
rinchiusa in quella
città dimenticata da Dio e lontana dalle onde solo per far
piacere a lui, ma
ora comincia a domandarsi se non si stia sbagliando.
“Qui
ci
abitavano
tutti, lui, Don Filippo e Don Divo, da piccoli. Poi gli altri due sono
partiti
per posti con più gente, con più cose da fare,
dove si guadagna la grana.”
Sospira. “ Non ci si può fare niente, Cora mia.
Non importa quanto grigia e
squallida sia la nostra casa, noi gente di carne e ossa preferiamo
abitare lì
che in qualsiasi altro posto. E pure la Signora Bianca la pensava
uguale.”
Le batte una
mano,
grossa come una padella, sulla spalla con la delicatezza di un
violinista, e
Cora soffoca quel filo di rispetto che sta nascendo per suo zio con
l'appunto
mentale di chiamare sua madre.
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Capitolo 4 *** IV. Ade e Cora siedono sotto l'albero ***
I
sotto
l'albero bianco
nomi dei
personaggi:
Kore/Persefone
è Cora.
Ade è Adelio (diminutivo: Ade).
Leuce è Bianca (Significato
in italiano del nome greco).
Atena è Ana (Il nome
originale della dea secondo alcuni studiosi).
Artemide
è Diana (Nome
romano della dea).
Ciane è Celeste (Il "ciano"
è una delle sfumature del celeste).
Zeus è Divo (Dal genitivo
greco "Dios").
Poseidone
è Filippo
(Dall'attributo Hippios, signore dei cavalli).
Era è Eva
(Per assonanza e per ruolo).
Menezio è
Ezio.
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Titolo: Ade e Cora
siedono
sotto l'albero
Prompt: Quando ero
innamorato,
ero l’uomo più
felice del mondo, ma nessuno può amare se non ha un cuore.
Non gli
è
chiaro
quando i termini dell'accordo hanno preso a cambiare, tra loro.
Averla sotto il
suo tetto non è poi la scocciatura che temeva: è
piuttosto silenziosa, salvo
gli interludi con Cerbero; se ne sta per i fatti suoi, e la casa si
rivela
abbastanza grande per entrambi. Spesso gli sparisce da sotto il naso
– non che
la tenga continuamente d'occhio, del resto non è certo una
bambina – ma si
abitua presto a vederla ricomparire, magari in compagnia di un Ezio
ancora col
bastone in mano.
Quando non la
vede
per troppo tempo immagina dov'è, e spesso finisce per
raggiungerla, con Cerbero
al seguito. Anche quando le arriva alle spalle, Cora non dà
mai segno di
spaventarsi, probabilmente perché il cane finisce per
annunciare il loro arrivo
con in suoi guaiti entusiasti, per nulla avvezzo alla discrezione.
Se il rapporto
di
sua nipote – gli fa strano pensarla a quel modo, eppure
sempre più spesso sente
di doverla definire tale anche nel privato della sua mente, come per
ricordarlo
a se stesso – col bosco non è stato da subito
idilliaco, ora sembra che si
siano abituati l'uno all'altra.
Un po' come Ade
si
sta abituando a lei.
Sotto l'albero
di
Bianca, la brezza riscaldata dall'estate incombente gli si insinua
sotto gli
abiti mentre siede sul tappeto di erba e foglie osservando Cerbero alle
prese
con una malcapitata lucertola. Sulle loro teste, le luci sospese ai
rami sono
ancora spente ma Cora, la schiena appoggiata al tronco, le fissa senza
dire
nulla.
Una volta
l'avrebbe
considerata un'intrusione. Quando ha creato quello spazio per Bianca
non
pensava che avrebbe condiviso con qualcun altro la loro solitudine. Era
stato
egoista nel proprio dolore ma neanche ora riesce a pentirsene davvero:
gli è
stata strappata troppo presto, e vuole averla vicina come
può nel posto che lei
amava.
Se
c'è
arroganza
in questo, allora è pronto a perdonarsi quel difetto
congenito di famiglia;
difetto che Cora condivide, eredità della linea paterna:
somiglia a suo padre
in certi atteggiamenti, nella pretesa avanzata silenziosamente di
essere
accettata in casa sua, data per scontata nella sua vita. Gli somiglia,
ma non
abbastanza da rendergliela odiosa, ormai.
No. Dividere
Bianca con lei è persino piacevole: ci sono lati di lei che
sta scoprendo ora
grazie ai racconti che Cora gli offre in cambio
dell'ospitalità, inizialmente
sbocconcellati ma ora accompagnati da sorrisi stemperati di nostalgia.
E, nel mentre,
scopre anche la figlia di suo fratello, di cui non si è
curato per tutti quegli
anni, così come poco si interessa degli altri che ha
seminato per il mondo.
Sposta lo
sguardo
dalle acrobazie di Cerbero al suo viso composto: è giovane,
inequivocabilmente.
Più giovane di Bianca quando l'ha conosciuta, ma non non
riesce a guardarla e
vedere in lei una bambina. Non più.
L'espressione
velata del suo viso, la piega delle sue labbra. Il suo modo di rigirare
le
questioni nella testa, di ascoltarlo quando l'ostilità si
è placata e hanno
cominciato ad avere conversazioni civili. Certo,
ci sono i suoi cambiamenti d'umore, repentini come
la poggia di
marzo e altrettanto passeggeri, ma neanche quelli riesce a trovare
infatili.
Cora volta il
viso
e ricambia lo sguardo, un lieve sorriso che le balugina sulle labbra.
“A
cosa
pensi?”
domanda Ade, basso. Finiscono sempre per mormorare, in quel posto, come
se
Bianca davvero dormisse sotto la terra e inconsciamente non volessero
correre
il rischio di svegliarla.
Perché
deve
essere
sempre così banale con lei?
“Penso
a
voi. A
Bianca e a te.”
“Cosa
di
noi?”
Cora volta il
viso, spostando gli occhi sulle dita intrecciate sulle ginocchia nude.
“A
questo posto. A quello che hai fatto per lei.” Si sistema
meglio, le ciglia
chiare che fremono lievi. “Pensavo che fossi uno stronzo
egoista, per essertela
presa così, tenendola solo per te. Però, quello
che hai fatto per lei è bello,
davvero. Quindi, alla fine sono contenta che ti abbia
conosciuto.”
“Volevo
ricambiare.” Trascina il tacco della scarpa sul terreno,
scavando un basso
solco nella terra. “Concordo sull'essere stato poco generoso.
All'epoca, del
giudizio degli altri mi importava ben poco.”
“Perché,
ora ti
importa di più?”
Sorridono
assieme,
nello stesso momento.
“In
realtà, no. Ma
suppongo che avrei dovuto avere più riguardo verso di
te.”
“Non
mi
conoscevi
nemmeno.”
“Sapevo
che
esistevi,” corregge, accigliandosi. “E che lei
avrebbe voluto averti vicina.
Avrei dovuto considerarlo.”
Cora tace,
tormentando le pieghe del ginocchio.
“Sì.”
Ade prova
l'impulso di domandarle perdono, ma le parole gli restano sulla punta
della
lingua. Perdono per non aver scavalcato le preghiere di Bianca e aver
chiamato
chi doveva essere con lei negli ultimi momenti.
“Ricambiare?”
chiede lei poi, dopo un breve silenzio, e Ade la guarda qualche attimo
senza
capire.
Ah, sì. “Quello
che
lei ha fatto per me. Il nostro
tempo insieme.”
Cora annuisce,
tornando a guardarsi le dita, e Ade deve frenare le proprie
dall'allungarsi e
voltarle di nuovo il viso verso il proprio. Avverte una strana
sensazione, un
pizzicore alla gola. Vorrebbe sapersi spiegare meglio, avere l'eloquio
di suo
nipote Ermes, la parlantina di Divo davanti a una donna.
“Cose
che non potrò
più provare.”
I capelli chiari
di Cora le sfiorano le spalle quando le incassa, afflosciandosi su se
stessa
come un dolce mal lievitato.
Prima che possa
rendersene realmente conto, una mano si posa sulla guancia di lei e
quando
avverte sotto le dita la pelle liscia e appena sudata capisce che si
tratta
della propria. Le tiene il viso nel palmo e non sa bene come, ma
d'improvviso è
vicinissima, vicina abbastanza da contarle le macchie solari sul naso
sottile,
abbastanza da notare le screpolature sulle sue labbra.
Abbastanza da
constatare che sta trattenendo il respiro, e anche lui.
E altrettanto
repentinamente, se ne distacca, con un salto che fa trasalire anche
lei, la
mano incriminata un fascio di fiamme che penzola dal suo braccio rigido
come
latta sotto la maglia.
Quando Demetra,
più onnipotente di qualunque divinità, alla fine
viene sapere della piccola
fuga di Cora – che, Ade scopre, dovrebbe trovarsi almeno a
cento chilometri da
lì – e arriva il momento di fare la cosa giusta,
una parte di lui è quasi
sollevata di vederla andare via.
Quel momento
vicino all'albero, quella frazione di secondo, resta sospesa tra loro
come una
spada dal soffitto. Cora evita il suo sguardo e Ade evita lei quanto le
poche
stanze di casa glielo permettono.
Non
può concedersi
di affezionarsi a lei. Non può concedersi di volerla
baciare. Non può
concedersi un cuore che batte per la figlia ventenne di suo fratello.
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Capitolo 5 *** V. Sabbia, sogni e fantasmi ***
I
sotto
l'albero bianco
nomi dei
personaggi:
Kore/Persefone
è Cora.
Ade è Adelio (diminutivo: Ade).
Leuce è Bianca (Significato
in italiano del nome greco).
Atena è Ana (Il nome
originale della dea secondo alcuni studiosi).
Artemide
è Diana (Nome
romano della dea).
Ciane è Celeste (Il "ciano"
è una delle sfumature del celeste).
Zeus è Divo (Dal genitivo
greco "Dios").
Poseidone
è Filippo
(Dall'attributo Hippios, signore dei cavalli).
Era è Eva
(Per assonanza e per ruolo).
Menezio è
Ezio.
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Titolo: Sabbia, sogni e
fantasmi
Prompt: Una volta
avevo un cervello, e anche un cuore, e avendoli provati tutti
e due, ti assicuro che preferirei di gran lunga possedere un cuore.
Siedono in
riva al
mare e la brezza sferza i loro capelli sciolti fondendo le loro teste
vicine in
un'unica macchia bionda e nera. Bianca china il viso, lasciando che gli
occhiali da sole scivolino lungo la linea del naso, in precario
equilibrio
sulla punta unta di crema solare.
Cora sente
già le
guance ardere di sole, le labbra umide di sudore e salate di salsedine.
Allunga
una mano, trovando le dita distese di Bianca in un intreccio di carne,
ossa e
granelli di sabbia. Prende un respiro profondo come il mare, mentre la
serenità
si diffonde nel suo petto a macchia d'olio. Avverte un'inquietudine
lontana, un
peso reso leggero dalla tranquillità che scende nel petto
col tonfo di una
conchiglia lanciata nell'acqua.
Sta
inequivocabilmente sognando.
“Mi odi,
adesso?”
domanda Cora, torcendo il collo per posare lo sguardo su Bianca, ancora
beatamente affaccendata a esporsi alla luce solare. Il fresco della sua
tomba
sotto il pioppo bianco deve averle fatto rimpiangere il calore
esagerato di
un'estate siciliana.
“Dovrei
odiarti?”
“Voglio
quello che
era tuo,” replica Cora, lo sguardo fisso negli occhi
socchiusi di Bianca, due
specchi di cielo. La colpa tira come la pelle appiccicata dal sale, ma
si
costringe a non rompere quel contatto.
“Sono morta,
Cora.
Non potrei averlo comunque.” Il tono è asciutto,
privo di astio. Cora la
osserva in silenzio, cercandosi nel suo viso lucido di crema e cereo di
morte
sotto la carnagione olivastra.
Bianca stira le
labbra pallide in un sorriso a metà. “Se vuoi
chiedermi se è me che gli
ricordi, quando ti guarda, può essere. Io penso di no, ma
sai. Ho sempre
creduto che i fantasmi avessero tutte le risposte; invece, io ho solo
quelle
che avevo prima, da darti.”
Cora serra appena
i denti. “Mi dispiace.” Di cosa, in particolare,
non saprebbe neanche dirlo. Di
tutto.
Bianca non glielo
domanda, ma la sua espressione la pugnala dolcemente.
“Dovresti smetterla di
dispiacerti per ogni cosa e iniziare a vivere. Tua madre non
può farti sentire
in colpa per sempre, e io non voglio iniziare ora che sono
morta.” La presa
sulle dita si fa appena più stretta.
Cora si passa la
mano libera sulla fronte. Si scrolla via la sabbia chiara dai capelli,
strofina
i polpastrelli sulla cute. Aveva spremuto le meningi come limoni, in
cerca di
una soluzione, e non aveva ottenuto che risposte amare.
“Non ha
senso neanche
provarci.”
La parentela. Sua
madre. L'età. La distanza. Persino suo padre.
Però.
Però non
riesce a dimenticare: l'espressione distante di Ade mentre sorseggia il
caffé,
carezzando le orecchie di Cebero; la brodaglia immangiabile che le ha
imboccato
la volta che la febbre le aveva fatto girare la testa; Ade arrabbiato,
una ruga
a scavargli la fronte, e Ade tranquillo, velato da un dolore sottile
come la
nebbia e non per questo meno viscerale. Ade che l'abbraccia senza
goffagine ma
sempre con una punta di pudore. Ade che vuole baciarla sotto il pioppo
bianco e
che si stacca da lei perché ci sono tante, troppe cose, tra
loro, che non
possono funzionare.
“E se poi te
ne
penti?” Bianca si sdraia all'indietro, alzando una vampa di
polvere d'oro. “So
come ragioni e so che non hai torto. Ma una volta avevo un cervello, e
anche un
cuore. Avendoli provati tutti e due, ti assicuro che preferirei di gran
lunga
possedere un cuore e seguire quello.”
Mentre parla, la
sabbia si chiude sopra di lei come un sarcofago. Cora si sveglia madida
come si
fosse tuffata tra le onde, boccheggiando come in procinto di affogare.
Lui è sulla
poltrona di fronte, Cerbero allungato sulle ginocchia come una giovane
pelliccia. Le duole la schiena e si volta su un fianco, senza staccare
gli
occhi dal ciuffo scuro che gli ricade sulla fronte dondolando placido a
ogni
suo respiro.
Lo osserva,
passandosi una mano tra le ciocche spettinate: sul viso ha
l'espressione più
distesa che gli abbia visto dacché lo conosce, le rughe
attorno agli occhi
spianate da quell'aria di pace. Cerbero ronfa piano, la bava che forma
una
pozza scura sulla manica della sua camicia.
Vorrebbe
alzarsi,
percorrere quei passi che li separano – cinque, li ha contati
– chinarsi e
sfiorare ogni avvallamento della carne del suo viso con la punta delle
dita. Le
serra in pugno, e tremano di ingiustizia e del fantasma della
separazione che
incombe.
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Capitolo 6 *** VI. No question asked ***
sotto
l'albero bianco
nomi dei
personaggi:
Kore/Persefone
è Cora.
Ade è Adelio (diminutivo: Ade).
Leuce è Bianca (Significato
in italiano del nome greco).
Atena è Ana (Il nome
originale della dea secondo alcuni studiosi).
Artemide
è Diana (Nome
romano della dea).
Ciane è Celeste (Il "ciano"
è una delle sfumature del celeste).
Zeus è Divo (Dal genitivo
greco "Dios").
Poseidone
è Filippo
(Dall'attributo Hippios, signore dei cavalli).
Era è Eva
(Per assonanza e per ruolo).
Menezio è
Ezio.
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Titolo: No question asked
Prompt: Addio, uomo di latta!
Oh, non piangere
altrimenti ti arrugginisci un'altra volta.
La stradina
solitaria è tanto quieta che potrebbero essere gli unici
esseri umani rimasti
al mondo, immobili accanto al palo della fermata che staglia la sua
ombra sotto
i primi raggi pallidi del mattino. Ade rigira il guinzaglio di Cerbero
tra le
dita, riuscendo a figurarselo mentre ulula selvaggiamente, tentando di
scavalcare il cancello e raggiungerli caracollando a rotta di collo
giù per il
bosco.
Persino il cane ha
percepito l'atmosfera da funerale e anche a quella distanza sembrano
arrivargli
i suoi guaiti disperati. Avverte il pungolo della colpa sotto i
tentativi di
rassicurarsi di aver fatto bene a lasciarlo a guardia della porta, come
quella
fosse una mattina come ogni altra.
Si raddrizza,
imponendosi contegno mentre con la coda dell'occhio osserva Cora, in
piedi
accanto a lui, il suo casco ancora sotto il braccio e una maschera
d'ombra sul
viso a nascondergliene l'espressione. Osserva le sue spalle incurvate
– di
certo il peso dello zaino – la coda alta appena schiacciata,
i sottili capelli
sulla nuca che ondeggiano al vento.
“Hai preso
tutto?”
domanda, compliementandosi con se stesso per la banalità e
tormentando
selvaggiamente la stoffa dura del guinzaglio mentre Cora annuisce. Il
sangue
gli formicola sotto la pelle, fa scattare i muscoli in gesti nervosi
che a
stento riesce a controllare. Qualcosa di guasto gli si agita per le
viscere,
aggrovigliandole in un nodo contorto.
Non desidera
vederla partire.
L'idea del
silenzio rotto dal rombo della moto di Ermes, che arriverà
strombazzando con le
ali ai piedi per riportare la figlia smarrita alla legittima
proprietaria, gli
fa ribrezzo, l'aborrisce con ogni fibra di sé,
così come dell'incaratteristico
nervosismo che gli lo attraversa in una serie di scosse elettriche a
basso
voltaggio.
Cora solleva il viso
e Ade può vederne il profilo corrucciato, le labbra premute
in una linea
frastagliata, la mascella sottile indurita.
“Cora.”
Le parole gli
restano incastrate in gola, eppure sente il bisogno di riempire
quell'apparente
pace temporanea, un silenzio più carico dello zaino sulle
spalle di lei. Cora
trascina i piedi nella polvere, avanti e indietro, unico segno di vita
di un
corpo scolpito in un'armatura di marmo.
Allunga la mano
libera verso quella di lei, stretta in un pugno tremante, ma non posa
le dita
sulle nocche sbiancate. Per consolarla, si dice. O per consolarsi. Una
preghiera gli prude sulla punta della lingua – la vede
pungere, identica, nei
suoi occhi quando volta il viso in una replica silenziosa.
Chiedimi di
restare.
La domanda aleggia
nell'aria, un terzo richiesta, un terzo preghiera, un terzo accusa.
Lo hanno tacciato
di non avere cuore, in passato, e lui ha dato loro ragione. Eppure,
quell'organo di modeste dimensioni è come uno straccio
strizzato da una mano
invisbile nel suo petto, gonfio di sofferenza.
Chiedimelo.
Lo fissa con
un'impellenza che è quasi un urlo e le labbra le fremono, il
viso è un fascio
di muscoli tremuli. La trova bella come non l'ha vista mai, il naso
rosso, le
ciglia appesantite di lacrime che rendono i suoi occhi liquidi
– il ritratto di
quelli di Divo quando esagera col suo amato vino.
Quel pensiero gli
strozza ogni parola in gola, gliele fa inghiottire come una purga amara
che
lascia una scia di bile sulla lingua, giù per il petto fino
allo stomaco, dove
si schianta appiccando un incendio.
Allora, è
lui a
stringere i denti, a osservarla in silenzio quando Ermes alla fine
arriva
davvero e la fa montare dietro di lui. A stringere i denti, quando il
casco le
cala sul viso dopo la vaga promessa di farglielo riavere indietro,
chissà come,
chissà quando.
La sorte di quel
casco gli interessa poco: Cora, è lei che fissa mentre la
moto si allontana
rombando giù per la discesa. Ha il viso bagnato.
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Capitolo 7 *** VII. La tempesta in cucina ***
sotto
l'albero bianco
nomi dei
personaggi:
Kore/Persefone
è Cora.
Ade è Adelio (diminutivo: Ade).
Leuce è Bianca (Significato
in italiano del nome greco).
Atena è Ana (Il nome
originale della dea secondo alcuni studiosi).
Artemide
è Diana (Nome
romano della dea).
Ciane è Celeste (Il "ciano"
è una delle sfumature del celeste).
Zeus è Divo (Dal genitivo
greco "Dios").
Poseidone
è Filippo
(Dall'attributo Hippios, signore dei cavalli).
Era è Eva
(Per assonanza e per ruolo).
Menezio è
Ezio.
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Titolo: La tempesta in cucina
Prompt: Io voglio un cuore,
perché il cervello non
basta a farti felice, e la felicità è la cosa
piú bella che esista al mondo.
La quiete prima
della tempesta si trascina per lunghi giorni di lampi nello sguardo e
bronci
come un brontolio di tuoni in lontanza. Sembrano riuscire a vedersi
solo
all'ora dei pasti, e quando siedono l'una di fronte all'altra, il
sapore del
cibo invariabilmente diventa cenere sulla lingua, l'unico rumore il
ticchettio
dell'orologio, le posate sui piatti, i loro respiri cauti.
Evitano
accuratamente di guardarsi mentre ingoiano un boccone alla volta, il
tavolo di
plastica l'unica barriera fisica che trattiene sua madre dal saltarle
addoso e
scrollarla, Cora lo sa.
D'altra parte,
l'aria di tensione elettrica che tira in casa la tocca relativamente,
come se
quella che è stata la sua priorità,
chissà come, chissà perché, sia scesa
di un
gradino per far posto a un tarlo che le scava dentro, sguazza nell'orlo
del
nuovo cratere che le si è aperto nel petto, proprio accanto
al dolore per
Bianca.
Un dolore nuovo,
che pulsa come un nervo infiammato, come un mal di testa al cuore. Non
la
lascia vivere in pace, sempre presente mentre si costringe ad uscire di
casa, a
vedere gli amici, a seguire le lezioni, a riprendere la sua vita come
l'aveva
lasciata prima che la notizia di Bianca le crollasse addosso.
Non si concede di
pensare, ma il pensiero la scavalca con prepotenza, costringendola a
rifletterci sdraiata a letto e il sonno tarda ad arrivare.
Ha fatto la cosa
giusta, da qualunque angolazione la si guardi. E Ade ha fatto la cosa
giusta.
Entrambi.
Ci pensa e ci
riprensa, a quel momento, tormentandosi una ciocca di capelli, lo
sguardo che
evita accuratamente di scivolare sul casco che la fissa da un lato
della stanza
con occhi invisibili e cerca di vedere la verità corrosiva
sotto l'involucro
della finzione che ci ha avvolto attorno per andare avanti.
Potrebbe
giustificarsi con se stessa, dirsi che sua madre ha scelto un giorno
particolarmente difficile per detonare la sua rabbia, ma Cora
è fin troppo
consapevole di quanto un giorno valga l'altro.
La cucina gialla e
arancio si stringe attorno a loro come una scarpa troppo stretta,
nonostante le
finestre spalancate. L'autunno è ancora lontano e l'afa
incolla i vestiti
addosso come la pelle lucida di un serpente dopo la muta.
Non sa bene
neanche lei come abbia inizio: un momentole le sta passando in piatto;
quello
seguente, le urla di sua madre fanno quasi esplodere il cucinino,
appesantendo
l'aria greve di caldo e di frittura. Le parole volano più
grosse degli
arancini, e Cora posa il piatto che ha in mano per non farsi tentare
dal
tirarli sul pavimento e mutilare irrimediabilmente il servizio buono.
“Saresti
potuta morire!
Cosa ti ha detto la testa, sciocca bambina?! Arrampicarti fin
lassù da sola, ti
saresti potuta rompere il collo come un ossicino di pollo! Se Ade non
ti avesse
ripescata chissà da dove, avrei potuto ritornare tu
a casa in una bara!”
“Sono
tornata sana
e salva, eppure,” ribatte Cora, restia a concordare con lei,
le guance
arrossate di caldo, vergogna, rabbia. “Se solo mi permettessi
di uscire di casa
per conto mio senza chiamare le forze armate, capiresti che ormai ho
raggiunto
l'età della ragione. E di poter andare in giro senza una
scorta.”
Lo sdegno di
Demetra sembra pari solo alla sua sorpresa di sentirsi rispondere a
quel modo.
Da dove venga tutta questa intraprendenza, non lo sa neppure lei;
può solo
constatare che una volta saltato il tappo che le frenava la lingua, non
c'è
modo di rimetterlo al suo posto.
“Forse
perché hai
dimostrato che non posso fare affidamento su di te e i tuoi colpi di
testa!”
“Mamma, ti
prego,
non prendiamoci in giro: sono sempre stata la figlia più
affidabilmente noiosa
che abbia messo piede sul suolo siciliano nell'ultimo secolo.”
“E per
questo ti è
stato concesso di studiare lontano da casa, ma ora guarda come ripaghi
la mia
fiducia!”
Il litigio va
avanti, le parole si infrangono sulla superficie bianca del lavello,
contro le
credenze sovraffollate di piatti. Divo viene nominato, e Bianca, e alla
fine,
quando tanto Cora quanto sua madre hanno gli occhi lucidi di stanchezza
e di
pianto, le ostilità sembrano avviarsi al termine, crollano
entrambe sulle sedie
di plastica, afferrandosi al tavolino per non cadere.
Sua madre scuote
piano il capo, i ricci biondi che ondeggiano sfiorandole il viso
sudato.
Deglutiste lentamente prima di parlare, e la sua voce è
rauca per le grida di
prima. “Cora, tesoro mio. Se non vuoi evitare di dare una
preoccupazione a me,
pensa almeno con la testa. Andare là sola, di pomeriggio
inoltrato... sarebbe
potuto capitarti qualunque cosa. Non farmi sapere dove davvero fossi
per tutto
quel tempo, poi, è una follia.”
La
fragilità nella
sua voce spinge Cora ad allungare una mano, strisciando il palmo sul
piano del
tavolo per raggiungere la sua. Sua madre le sembra così
stanca, in questo
momento, e anche lei è esausta, neanche l'energia stesse
colando via da lei a
ogni goccia di sudore.
Intrecciano le
dita e Cora piega l'altro braccio per posarci la guancia, il busto
premuto
contro la plastica alla ricerca di refrigerio – e un briciolo
di stabilità.
“Mi mancava
così
tanto,” sussurra, “che non mi importava
più di niente.”
Non vede sua
madre, ma la sente strofinare i polpastrelli alle sue dita umide.
“Posso
capirti, tesoro mio, ma ora stai un poco meglio, no?” Stringe
lieve la presa, e
Cora ricorda improvvisamente che Bianca ha fatto lo stesso, in quello
strano,
vivido sogno di qualche tempo prima. “Promettimi che penserai
con la testa,
d'ora in poi.”
Cora schiude le
labbra per replicare, ma è come se un dito invisibile si
posasse su di esse,
sigillando le parole in gola. Le sfugge un singhiozzo senza che se ne
accorga
neppure, che le fa tremare le spalle sotto la maglietta leggera. Un
secondo
segue il primo. E ancora. E ancora.
Vorrebbe dire che
sta usando il cervello, e che le fa male. Quando dita sottili si
immergono tra
i suoi capelli sudati, chiude gli occhi strettamente, immaginando di
essere
altrove, musica classica e i guaiti di Cerbero in sottofondo.
Non basta il
cervello a farti felice.
Dietro le
palpebre, Ade le sfiora una guancia, sollevandole il viso per asciugare
le
lacrime.
Al diavolo
tutto. Io voglio un cuore, gli
direbbe se ce lo avesse davanti, perché il
cervello non basta a farti
felice, e la felicità è la cosa più
bella che esista al mondo.
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Capitolo 8 *** VIII. Terremoti e narcisi gialli ***
sotto
l'albero bianco
nomi dei
personaggi:
Kore/Persefone
è Cora.
Ade è Adelio (diminutivo: Ade).
Leuce è Bianca (Significato
in italiano del nome greco).
Atena è Ana (Il nome
originale della dea secondo alcuni studiosi).
Artemide
è Diana (Nome
romano della dea).
Ciane è Celeste (Il "ciano"
è una delle sfumature del celeste).
Zeus è Divo (Dal genitivo
greco "Dios").
Poseidone
è Filippo
(Dall'attributo Hippios, signore dei cavalli).
Era è Eva
(Per assonanza e per ruolo).
Menezio è
Ezio.
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Titolo: Terremoti e
narcisi gialli
Prompt: Non c'è
nessun posto come la propria casa.
Il giorno in cui
la Sicilia le trema sotto i piedi è anche il giorno in cui
Ade la rapisce.
Un giorno di fine
estate, iniziato con la solita asfissiante calura di agosto, che secca
anche il
cervello nel cranio. Cora si rigira sul materasso, le lenzuola
aggrovigliate
alle caviglie, con un braccio di Diana a pesarle sulla pancia e i
capelli di
Ana che le sfiorano le guance.
L'ombra di un
sogno le prude dietro le palpebre incollate ma lo stropiccia via,
decidendosi a
districarsi dal groviglio di arti per mettersi a sedere sul bordo del
letto. La
prima scossa la coglie distratta a osservare il viso scomposto di
Diana, la
bocca ridicolmente spalancata nel sonno; non è abbastanza
forte da
spaverntarla, ma sua madre arriva di corsa dalla cucina, la camicia
abbottonata
per metà e un sottile velo di panico negli occhi.
Le ore scorrono
tranquille, tuttavia, in quella pacata piattezza di cui la
rassegnazione ha
tinto le sue giornate. Si alzano, allegre tutto sommato, pronte a
lanciarsi
fuori dalla porta di casa e per godersi gli ultimi giorni di
libertà prima
della sessione autunnale.
Il sole è
già alto
di primo mattino, a picco su di loro come penzolasse da un precipizio.
L'aria è
tanto secca da accendere piccoli fuochi sulla pelle umida, e la terra
freme
sotto di loro come il corpo di un gatto mentre fa le fusa. Il vulcano
è
irrequieto e Cora con lui.
Sorride alle
sorelle, però, imboccando il sentiero che le porta al
piccolo campo vicino casa,
dove la vecchia altalena e lo scivolo mutilato e coperto di graffiti le
attendono come vecchi amici. L'erba sotto le suole delle scarpe ha la
consistenza della paglia e scricchiola a ogni passo.
Sulla terra morta,
il mazzo di narcisi spicca come un livido ingiallito su una pelle
cerea.
Abbandonato alla base di un ulivo contorto, Cora è la sola a
notarlo – sono
quattro, cinque fiori legati assieme con un un nastro bianco. Si volta
per
chiamare le altre, ma le trova distratte dall'arrivo di Celeste, i
capelli neri
una nuvola accaldata sul viso olivastro.
Si volta per
raggiungerle ma le gambe, la curiosità, la guidano verso
un'altra direzione –
verso le corolle abbandonate. Si china, i calzoncini che tirano sulle
cosce,
indugiando ad allungare una mano, la testa che già galoppa
verso oziosi scenari
che giustifichino la loro presenza in quel parco dimenticato da Dio
– quando un
sibilo attira la sua attenzione, come un soffio di serpente.
Si sporge per dare
un'occhiata dietro al tronco e il suo sguardo incontra una calzatura di
cuoio
impolverato, completamente fuori posto sull'erba appassita. Dopo un
attimo di
stasi, solleva la testa, così veloce da farsi scrocchiare il
collo.
Si alza,
leccandosi le labbra.
“Non ho
portato il
casco,” le riesce di dire, la fronte corrugata e la gola
contratta, bloccata da
un macigno invisibile.
“Ne ho uno
di
scorta,” replica Ade, che si stringe il proprio sottobraccio,
e solo adesso
Cora ricorda che l'altro non glielo ha mai rispedito.
Il latrare festoso
di Cerbero è un benvenuto più accogliente di
qualunque coro angelico.
Il mastino si
lancia contro di lei, facendola vacillare e battere il sedere a terra,
la
lingua che corre subito al suo viso. Sulla guancia, la carne bagnata e
granulosa ha il tocco di casa. Fa caso appena ai
rimproveri di Ade, che
costringe la bestia a lasciarla respirare; si sdraia sul pavimento,
fissando il
soffitto a cassettoni, e deve sembrargli pazza, allungata sulle sue
mattonelle
nel bel mezzo del suo ingresso, ma non le interessa.
Ade non commenta,
ma le è accanto in un attimo sul cotto immacolato, a una
certa distanza, come
se ancora si potesse tornare indietro. Cora allunga un braccio per
colmare
quello spazio. Chiude gli occhi mentre le loro dita si intrecciano.
Non c'è
nessun
posto come la propria casa.
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