My Kintsugi

di Lunemea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Garage ***
Capitolo 2: *** La sera di Natale ***
Capitolo 3: *** Allarme ***
Capitolo 4: *** Insert Coin ***



Capitolo 1
*** Il Garage ***


17 anni

- Il Garage -




Sono uscito di casa in fretta, solo per non sentire le urla di mio padre. La porta l’ho sbattuta dietro di me. Sti cazzi. Non me ne frega niente se per lui è più importante che stia a casa a studiare e a fare il classico diciassettenne del cazzo. Ho finito quello che dovevo fare in due ore e ho del lavoro da fare, che non è star a sentire le sue farneticazioni da vecchio indiano tradizionalista. Scendo le scale in fretta, arrotolandomi la sciarpa intorno al collo velocemente. Raccolgo i capelli e li infilo nelle pieghe, così la pioggia non dovrebbe bagnarmeli mentre mi tiro su il cappuccio del cappotto pesante.

Sento che dietro di me si apre la porta e le urla di mio padre si fanno più forti.

«Torna qui, ragazzino! Ti stavo parlando e non abbiamo ancora finito!»

Non mi giro, gli do le spalle mentre svolto per andarmene dal portone di casa e imboccare la strada della 17esima. Alzo un dito medio e glielo mostro.

‘Fanculo.

Accelero, perché non lo sento urlare più. Corro. Sia mai che si metta a inseguirmi per riempirmi di botte. Anche se credo che, una volta tornato a casa, me ne darà parecchie. Beh. Il problema non si porrà se per caso non tornassi fino a domani mattina, prima che vada a lavoro. Mi basterà non incrociarlo per un paio di giorni e forse mi prenderò solo uno schiaffo. Ottimo scambio per la mia grossa soddisfazione di averlo mandato a quel paese.

Quando il fiato inizia a mancarmi - maledette sigarette - inizio a calmare il passo, fino a renderlo un po’ meno frettoloso. Rallento, mantenendo però un buon ritmo con le mie gambe. Infilo le mani nelle tasche e mi rannicchio nel cappotto. Cazzo. Fa freddo questa sera e per strada non c’è nessuno. Dando un’occhiata in giro vedo sempre le solite rare facce straniere, alcuni indossano una specie di mascherina e mi guardano con indifferenza, come io faccio con loro d’altronde. So che non mi si avvicinano perché sono molto più grosso di loro e questo è un bene nel mio quartiere, visto che non brilla per reputazione. New York in fin dei conti non è così bella come si racconta in giro e io ne ho visto tutto il marcio possibile. O, per lo meno… gran parte. Ci sguazzo spesso, perché è dalle acque torbide che di norma si pesca qualcosa di allettante.

All’estrema sinistra di casa mia si arriva al fiume Hudson, ed è lì che dovrò prendere un autobus se voglio arrivare in tempo all’appuntamento con Keigo.

Mi fermo sotto una delle banchine messe lì per gli autobus, al riparo dalla pioggia. Mi appoggio a un palo che sostiene il tettuccio riempito di neon ronzanti e aspetto. Dea Madre. Voglio fumare. Mi tocco le tasche della giacca, ma a quanto pare non trovo il pacchetto di sigarette. È inutile che cerco. So benissimo che ho fumato l’ultima nel bagno del liceo prima di uscire… però come si dice? La speranza è la più tenace e quella di un mezzo drogato lo è tremila volte di più.

Sbuffo, appoggiando la testa al palo e guardando distrattamente la strada in attesa di questo cazzo di autobus. Incrocio un piede sull’altro e mi guardo le converse nere che ho fregato a mio fratello prima di uscire. Non è stata una buona idea con questa pioggia, probabilmente sto rovinando l’unica cosa decente che sono riuscito a rubargli. Di solito mi vesto sempre con i suoi vestiti, ma essendo il terzo su quattro fratelli mi tocca l’eredità degli scarti. Che vita di merda. Jeans strappati sotto il culo, consumati in mezzo alle gambe; felpa verde scuro erosa sui gomiti, tanto li ha tenuti su una scrivania; sotto maglietta semplice, troppo semplice, così semplice che la odio. La giacca è grossa, le maniche superano le nocche e si arricciano sui polsi quando tento di infilare le mani nelle tasche, tenendomele bloccate. Almeno è ben messa, anche se grande, ma semplicemente perché a mio fratello non gli piaceva come gli cadeva sulle spalle. Le ha troppo piccole, perché è uno spilungone moscio, sempre chino sui libri e con il ribrezzo per qualsiasi tipo di sport. Io invece no. Ho le spalle molto più larghe, anche se sono alto come lui. Più o meno. Gioco spesso con i ragazzi, giù al garage, quindi non mi dispiace fare movimento. Anche se fosse una piccola corsetta intorno all’isolato. Ho gambe coordinate e nonostante la mia altezza non cammino dinoccolato, anche se ho una postura un po’ china, come tutti i ragazzi troppo alti. Va bè. La cosa non mi ha mai dato fastidio. Anche se probabilmente a trent’anni sentirò i primi acciacchi. Bah. Tanto non ci arriverò ai trent’anni. Di sicuro qualche stronzo mi farà fuori prima. O magari sarò proprio io quello stronzo.

***

Eccolo. Sta arrivando l’autobus. Faccio qualche passo per farmi avanti e mi faccio vedere dal tizio che lo guida. Salgo su togliendomi il cappuccio, conquistandomi un posto sul retro, in un quadrato di posti vuoti. Posso anche rilassarmi, tanto dovrò scendere al capolinea. Metto entrambi i piedi sul sedile davanti a me e mi rannicchio guardando fuori dal finestrino. Non mi fisso sul panorama del fiume, piuttosto sul mio riflesso che scorgo attraverso il vetro: occhi chiari, di un verde che non si capisce dal riflesso, ma so che è acceso dai neon dell’autobus. Lineamenti allungati, ciglia folte. Naso un po’ adunco da nativo americano e labbra normali, piuttosto classiche, ma piegate in una perenne smorfia indifferente.

Mi sta guardando un figo. No, più un coglione. Socchiudo gli occhi. In realtà con lo zigomo spaccato non sono affatto un figo. Anzi, con questi capelli lunghi, neri, un po’ ribelli lo sono ancora meno, soprattutto per l’umidità che li gonfia. Affondo la bocca nella sciarpa e mi tocco la ferita. Ahia. Maledetto drogato del cazzo. Sento ancora addosso la sua puzza. Ma non mollava la roba, nonostante il ricatto che gli sventolavo davanti. Il gancio sinistro non me lo aspettavo. Mi ha preso in pieno. Mi ha rivoltato la faccia in una botta sola. Sarà stato pure drogato, ma ci ha visto proprio bene. O sono io che ho avuto sfiga.

Questo è uno dei motivi per i quali ho litigato con il mio vecchio, preso da una delle tante volte in cui mi rinfaccia la vita, come succede spesso nelle ultime settimane.

Non crescerai mai se continui a comportarti come un coglione”. “Ti stai rovinando la vita”. “Mi stai rovinando la vita”. “La stai rovinando a tua madre”.

Un mix del genere, che non rispetta una successione precisa. Però hanno tutte la stessa risposta comune: “Chi se ne frega” …o “Vaffanculo”, dipende. 

Mi sistemo meglio al mio posto e scivolo con il bacino in avanti. Guardo ancora fuori, ma questa volta mi fisso sulla strada che scorre in una scia lunghissima di luci. Inizio a entrare nella New York più periferica, perché quelle luci diventano più rare e si mischiano al fiume che raccoglie parte della luce della luna. Sto in silenzio. Non manca tantissimo e preferisco non pensare a niente, se non all’idea che il garage è vicino e che sono scappato, ancora una volta, per andarci. Respiro. Sospiro. Il perché non è così facile da ammettere liberamente.

***

L’autobus si ferma e sciolgo le gambe saltando giù dal posto a sedere. Tengo ancora le mani in tasca mentre mi avvicino all’uscita e evito una vecchietta che agitando un ombrello ha inveito contro le mie poco buone maniere. La ignoro, oltrepassandola malamente e scendendo dal bus. Sollevo il cappuccio e mi immergo dentro il buio dei vicoli, avvicinandomi ai moli più esterni; scendo delle scalette di metallo che si appoggiano ad un grosso capannone di mattoni e plastica sul bordo del fiume. Lo costeggio, ci giro intorno e arrivo a una serie di ampie persiane chiuse sul retro del grossissimo stabile. Saranno si e no una ventina e non contengono niente di utile. Ci siamo già fatti un giro. Una di quelle saracinesche è mezza aperta e so già che è quella che mi interessa. Da sotto c’è una luce gialla che si allunga sul molo di pietra cementata e stranamente mi provoca un senso di benessere, come se fosse il posto giusto per me. Solo che… non dovrebbe essere aperta. Mi avvicino e rimango un po’ incerto. Mi sto pentendo di non aver portato con me il coltellino a scatto. Mi abbasso lentamente per passare al di sotto della serranda e piegando le gambe mi infilo all’interno, controllando i dintorni con discrezione.

«Ehi, Iye!!» una voce dice il mio nome e io alzo subito la schiena per trovarne la fonte. Una voce femminile.

«Chiamami Red, Jessie…» dico sospirando a mo’ di saluto e guardo la ragazza dietro la scrivania stracolma di computer che, dopo un sbuffo ironico, mi fa un ampio sorriso dietro i suoi occhiali da piccola nerd. Faccia sveglia, capelli legati da un mollettone e tinti di viola sul davanti. Oggettivamente è carina e ha anche delle lentiggini sul naso piccolo e una leggera acne adolescenziale. E sì, ho capito. L’ho capito tempo fa che questa ragazzina mi viene dietro. L’ho capito dall’ascendente che ho su di lei. Mi basta muovermi per sentire il suo sguardo che mi segue, la sua insistenza quando mi fissa. La cosa mi lusinga da una parte e dall’altra mi infastidisce, ma probabilmente perché non sono abituato a questo tipo di avances.

«Che fine ha fatto l’idea della parola d’ordine?»

«Mi sono rifiutata categoricamente» tipico di lei. È una cosa che approvo, anche a me quest’idea mi sembra solo stupida.

«Keigo, dov’è?» le domando e dentro di me sento uno strano mostro di cattiva euforia. Mi è piaciuto il fatto che le si sia spento quel sorriso. Ecco il potere di cui parlavo.

«È uscito un attimo a comprare le sigarette. Dovrebbe tornare a momenti» risponde a voce meno euforica.

«E gli altri?»

«Non vengono questa sera. Tizio X e Tizio Y hanno avuto a che fare con i genitori» Tizio X e Tizio Y. Questo è un mio fottuto modo di dire… che c’entra che lo usi lei? Faccio finta di niente. Sono bravo ad apparire indifferente, anche se mi ha fatto incazzare.

«Ok. Non importa, lavoreremo noi due a quel “buco”…» eccolo lì, le è ritornato il sorriso. Oh, Jessie. Jessie. «…sono tutte cose che ti ho insegnato. L’ho studiato l’altra sera. Non sarà difficile, basta solo che quando ti dico di bucare, lo fai. I passaggi li conosci» la rassicuro, visto che ho bisogno che sia calma e vigile.

***

Toltomi la giacca, mi muovo all’interno del Garage e mi sistemo alla mia postazione. Ovviamente è una delle più grandi: una grossa scrivania contenente tre schermi a tubo catodico, ingombranti, ma funzionali, ognuno legato all’altro da un unico computer a torre che ho vicino alla mia sedia; una tastiera e un mouse a fili; una decina di hardisk esterni, collegati al pc tramite uno switch. Avvio il programma e da subito il software Prometheus inizia a girare con il logo della classica fiammella. Lascio partire i programmi di blocco id e cambio fonte di collegamento, dirottandolo al solito in un punto a caso del globo. Faccio saltare l’indirizzo ip da una parte all’altra del mondo e ripeto l’operazione in una meccanica che avvio ogni tot secondi. Ok, dovrebbe andare.

«Che hai fatto allo zigomo?» chiede Jessie dopo un po’.

Non la guardo, ma le rispondo comunque «Ricordi il servizio di due settimane fa? Quello su quel piccolo mafiosetto del New Jersey?» avrà annuito, non lo so «L’ho incontrato ieri sera. Il bastardo non voleva mollare la roba, nonostante gli abbia sventolato in faccia le prove per quell’alibi fasullo. Ha provato a fottermi il cd lanciandosi su di me. Mi ha mollato un cazzotto, qui» alzo il dito e indico vagamente lo zigomo «Ma sono riuscito a riprendermi abbastanza da mollargli un calcio nelle palle. Stai sicura, Jessie, che quello non vedrà donne per un po’» lei ride e mi piace quando lo fa. «Comunque sia, ho preso la roba. Ce l’ho qui. A casa non potevo tenermela…» tocco la mia tasca dei jeans.

«Grande! Allora facciamocene una…»

«No. Prima il “buco”»

«Ah sì, giusto» la guardo solo ora e l’imbarazzo le ha arrossato le guance. È carina, lo riconosco. E se lo penso ora che sono sobrio, probabilmente l’ho pensato anche mentre non lo ero. O ero fatto. C’è stato un giorno in cui mi è sembrato che mi salutasse con più vigore e speranza, ma non ho mai capito perché. Era il giorno seguente di una grossa sbronza, di cui non ricordo moltissimo. Solo che dubito ci abbia fatto qualcosa, visto che ero ancora vestito quando mi sono risvegliato al garage e lei non c’era. Mah. Non mi sono mai sentito in dovere di indagare.

«Non ci metteremo molto, magari poi salta fuori l’occasione per un festino» al sentirmelo dire, le si illuminano gli occhi. A pensarci bene… da quel giorno ha anche cominciato a spingere per fare sempre più frequenti festini.

***

«Ehi! Ma perché nessuno capisce l’importanza della parola d’ordine?» questa voce la riconosco e guardo immediatamente verso l’ingresso del garage. È Keigo e ha in mano una busta della spesa. La famigliarità che mi ispira è disarmante. Ha sempre la stessa identica espressione rilassata, ma tipicamente giapponese. È un mezzosangue, ma i tratti orientali gli disegnano il viso in modo completo: occhi scuri, allungati, naso leggermente schiacciato e capelli nerissimi, un po’ lunghi che gli scivolano sul viso. È più grande di me di tre anni ed è già all’Università, ma ci conosciamo da così tanto tempo che questo divario ogni tanto me lo dimentico.

«Perché è una cosa stupida, Kei…» lo saluto insultandolo, alzandomi in piedi e dirigendomi verso di lui.

«Kei» risponde ad eco Jessie, rimanendo esattamente dove sta. Il suo tono è piatto e io so perché.

La ignoro e mi fiondo verso la busta della spesa, strappandola di mano a Keigo e frugandoci all’interno. «Dimmi che hai comprato… Evvai!» tiro fuori la lunga stecca di Lucky Strike e nonostante la mia sterile espressione, si nota bene come la mia dipendenza tira fuori un grosso sospiro di sollievo.

«Ovvio che le ho prese. Sei peggio di una ciminiera.»

Lo guardo e alzo un sopracciglio, mordendomi il labbro per trattenere un sorriso. Di solito non sorrido. Non sorrido mai, ma Keigo riesce a tirarmi fuori sempre qualcosa. Ed è una cosa che mi piace e detesto, perché non controllo affatto. Negli anni ho sempre associato la cosa alla confidenza che avevamo, poi mi sono accorto che non era proprio così.

«Non sono l’unico che fuma qui dentro. Non provare a rinfacciarmi una spesa del genere…» dò un’occhiata alla busta «Che altro hai comprato?»

«Mah. Panini riscaldabili, qualche birra…» inizia ad elencare e io intanto mi sposto tornando alla scrivania. Apro la stecca e tiro fuori uno dei pacchetti. Lo scarto, lo apro e prendo una sigaretta da portarmi alle labbra. La stringo tra i denti mentre cerco l’accendino nel cappotto. «…anche delle gazzose e… questo è per te Jessie» e Keigo tira fuori dalla busta uno specchietto piccolo, da borsa, con dei ricami orientali sulla superficie. Nero e oro, con una trama a rilievo. «L’ho visto in un negozietto notturno e visto che ti lamenti sempre che qui non abbiamo niente per una femmina…» lascia in sospeso la frase e lo osservo muoversi verso la scrivania di Jessie. Socchiudo gli occhi, mentre guardo l’espressione di lei un po’ interdetta. Osserva Keigo per un po’, poi gli sorride e lui ricambia. Sospiro. Accendo la sigaretta che è meglio.

«Grazie Kei» la sento rispondere «È un pensiero carino, da parte di un maschilista come te» e ride. Ecco. Di nuovo la risata che mi piace. Volto lo sguardo verso Keigo e, a giudicare da come la guarda, anche a lui piace.

«Su, dai. È una carineria… prendila come dev’esser presa» risponde lui e io torno alla mia scrivania, ritornando a lavoro per preparare il campo all’ultimo lavoretto della settimana.

«Iye…?» Keigo mi chiama e io mi giro dalla sua parte. La sigaretta che trattengo in bocca, rimane in un angolo delle mie labbra e il fumo appanna un po’ i miei occhi, ma non mi da fastidio. Ora che respiro questa droga, mi sento molto, ma molto più rilassato. Forse è per questo che riesco a ignorare la scena che ho visto poco fa e di questo ne vado perfettamente fiero, anche se dentro di me comincio a sentire il tipico Mostro. Quello cattivo.

«Nh?» non apro la bocca, altrimenti addio sigaretta e addio ai jeans. Anche se mi dispiacerebbe più per la sigaretta.

«Mi ha chiamato tuo padre mentre ero al supermarket»

Cazzo. «Uhm…» raccolgo la sigaretta tra due dita e butta via il fumo. Dall’esterno devo apparire perfettamente calmo. Bene. «…sì, ho avuto qualche screzio prima di uscire»

«Screzio? Era veramente incazzato, Iye»

«Capito» non dire niente, Keigo. Non mi va che Jessie si faccia i cazzi miei.

«So che alle volte è un testa di cazzo, ma dovresti tenerlo buono se non vuoi che si insospettisca. Mi ha riempito di parole che avrei preferito non sentire…» dice e dentro di me sento montare la rabbia verso mio padre. «…ma alla fine l’ho calmato. Gli ho detto che dovevi venire da me in previsione di una verifica su Economia e che saresti rimasto a dormire da me. Non c’ha creduto, naturalmente, ma almeno ha smesso di urlarmi contro»

«Ok. Ma non c’era bisogno che inventassi una scusa. Quello che faccio fuori di casa sono affari miei…»

«Non lo sono quando poi mi sento chiamare dai tuoi genitori, perché tu decidi di ignorarli. Non posso fare per sempre il mediatore tra te e il mondo, Iye. Impara a controllarti o per lo meno a comportarti in modo giusto con loro»

Torno con lo sguardo sul monitor e continuo a digitare i passaggi che tutelano la mia postazione. Non rispondo a Keigo di proposito, anche se so che ha ragione, ma il mio orgoglio non gliela vuole dare questa soddisfazione. ‘Fanculo! Io sono controllatissimo, ma non è colpa mia se continuano a pretendere da me cose di cui non mi frega un cazzo. Non voglio stare con loro a guardare stupide cose alla televisione o a imparare le tradizioni della fottuta tribù. Di tutta quella merda non me ne frega un accidente. E al mio futuro ci sto già pensando da solo. «Vedrò che posso fare…»

«Iye…» il tono di Keigo suona di rimprovero.

«Kei, lascialo stare. Avrà le sue ragioni se si è comportato così. I genitori sono tutti degli stronzi e non capiscono che abbiamo bisogno dei nostri spazi. Quelli di Iy-… Red poi, sono soffocanti. Li abbiamo conosciuti» Grazie Jessie. Adoro quando si mette dalla mia parte.

«Va bene, fai come ti pare…» sbotta Keigo verso di me, alzando le braccia e arrendendosi. Ah. Il mio silenzio e le mie alleanze hanno vinto. Che soddisfazione! «…la prossima volta non aspettarti che ti pari il culo. Ti tiri fuori da solo dai casini»

«Come faccio sempre, Kei»

«Sì… va bè»

Di sottofondo Jessie ride e mi guarda come se si aspettasse un ringraziamento. Ok, glielo concedo guardandola con la coda dell’occhio e alzando in uno scatto un sopracciglio. Penso basti, anche perché più di questo non so tirar fuori.

***

Passato l’argomento “genitori” ci mettiamo a lavorare. Jessie mi raggiunge alla scrivania, spostandosi con la sedia scorrevole e sistemandosi vicino a me. Troppo vicino, tanto che sento il calore della sua gamba contro la mia. Non mi piace quando si invadono i miei spazi, ma resisto, visto che si tratta di lavoro e alla fine non mi distrae chissà quanto. Sento il suo profumo invadermi le narici e lo respiro perché in fondo non è male. Keigo è ancora vicino al suo computer e armeggia un po’ con i codici, preparandoci il campo per muoverci liberamente senza essere rintracciati. Continuo a fumare la mia sigaretta, ma ben presto la finisco e la spengo nel posacenere vicino alla tastiera.

«Sai già come convertire il profilo?» mi chiede Jessie, appoggiando il viso sul palmo e allungandosi verso il monitor.

«Sì. Ho fatto una prova ieri. Ne ho trovato uno perfetto per lo scopo: un utente che è uscito da poche ore dall’azienda. Hanno firmato il licenziamento solo questa mattina, da quanto ho scoperto e non hanno ancora provveduto a cancellare l’ID. Sfrutterò quello, sarà anche facile dirottare le accuse verso di lui»

«Come hai fatto a scoprire tutte queste cose?» domanda.

«Quell’utente è il padre di una mia compagna di classe»

«Compagna di cl-…? ah giusto. Ogni tanto mi scordo che sei ancora a liceo»

«Abbiamo la stessa età, Jessie…» la guardo. Ma è scema?

«Sì, è che…. sai… sembri più grande! Non so, sarà l’altezza. Il viso…» gesticola in evidente imbarazzo. «O perché sei bravo in queste cose…»

Va bè, fermiamola prima che le guance le esplodano. Così rosse sembrano due mele gigantesche «Sì, me lo dicono in tanti che sembro più grande» la mia voce è volutamente rilassata, così anche la sua espressione riprende un po’ di tranquillità. «Ma sono un diciassettenne, anche se dannatamente intelligente per la mia età. E non sono bravo, Jessie. Sono un genio» mi vanto e lei ci ride sopra, toccandomi la spalla per spingermi via come se avessi detto un’assurdità o qualcosa di troppo divertente …una delle due! ma è irrilevante: mi ha dato fastidio il suo tocco. O forse no. Non l’ho capito. Roteo la spalla e mi allontano di poco nel dubbio.

«Ma non ti senti in colpa per quella povera ragazzina?» dice Keigo dal nulla, aggrottando le sopracciglia e ridendoci su come un vero bastardo. Mi piace quando fa quell’espressione, mi fa sentire meno stronzo.

«No, mi sta sul culo. È una sapientona del cazzo e ogni volta si mangia le mani quando prendo più di lei al compito di matematica»

«Ah, allora…»

«Povera» riprende Jessie, portandosi una mano sulle labbra.

«Se in questo lavoro ti fai scrupoli, sei fregata Jessie» riprendo io.

«Vero, Jessie. Per ottenere quello che vogliamo, pensiamo solo a quello che vogliamo. Di tutto il resto ce ne importa solo quando ci può servire» così aggiunge Keigo.

La vera intenzione di noi come gruppo è lì, spiegata in quelle due frasi. Sti cazzi del mondo, il mondo siamo noi. Noi ci muoviamo come più preferiamo, scegliendo solo quello che ci interessa. Conquistiamo, agiamo e guadagniamo. C’è chi considera tutto ciò come furbate da ragazzini, ma non è così. Internet è il futuro e noi ci stiamo camminando sopra. Un po’ come se stessimo conquistando la luna prima che tutti gli altri comprendano che sia abitabile. E siamo bravi nel farlo.

«Dai, tentiamo questo “buco”. Adesso concentrati Jessie e fai quello che ti dico»

«Ok, Red» risponde.

«Io posso servirvi in qualcosa?»

«Sì. Preparaci dei panini…»

«Vaffanculo, Iye…»

***


Mi metto gli occhiali che ho sulla scrivania e inizio, raggiungendo ben coperto il sito che m’interessa. Falsifico un paio di agganci e cerco di forzare l’entrata seguendo le prove che ho già fatto. Avvio i programmi costruiti da Tizio X e Tizio Y e comincio a falsificare le chiamate d’entrata. So già che utenza cercare e quindi lascio scorrere le dita sulla tastiera con sicurezza. Non ci vuole poco tempo, ma grosse ricerche per tentare i link d’entrata nell’amministrazione dell’e-commerce.

Per un lungo periodo gli unici rumori che si sentono sono i tasti premuti sulla tastiera, i click del mouse di Jessie e il ronzio dei server coperti dietro le nostre spalle. Keigo fuma vicino alla tv, dove un divanetto frontale ospita la sua corporatura da giapponese …palestrato in modo occidentale. Guarda un programma demenziale su un canale che non vedo mai, impigrito dal silenzio e dalla situazione. Ogni tanto lo osservo invidiandolo ma, riportando lo sguardo sul monitor e immergendomi nella consapevolezza di quello che sto facendo, mi sento un dio. O un eroe. Anzi, un supereroe, come mi piace considerare l’intelligenza che possiedo. So di non essere l’unico ad avere questo tipo di capacità, ma mi piace pensare che quello che ho sia qualcosa di speciale. Ho una capacità di concentrazione efficace e una testardaggine che mi spinge in continuazione sempre verso l’alto. Sono drogato della sensazione di vittoria che deriva ogni volta che vinco una battaglia virtuale e mi inebria immaginarmi come l’irraggiungibile Red Allert, promettentissimo hacker di New York.

Cazzo, suona troppo figo!

Ovviamente gli scopi di quello che faccio non sono affatto nobili, quindi non posso considerarmi un supereroe, quanto un villain, ma non importa …quello che conta è il buon risultato.

«Jessie. Oscura l’ultimo passaggio, dovremmo esserci quasi…»

«Sì!» è entusiasta. La guardo, sta sorridendo. La guardo ancora, poi torno allo schermo.

«Ok…» Respiro preparandomi all’ultimo passaggio utile per tentare di “bucare”. Eleverò di livello l’accesso dell’utenza che sto usando e così avrò accesso a tutte le informazioni che mi servono. Attaccheremo da due fronti: uno fittizio, che servirà a distrarli, l’altro più in sordina che sarà quello che realmente c’interessa: non puntiamo alle carte di credito, come lasceremo credere, ma solo ai dati che le compongono. Tutti i dati sensibili di ogni utenza. Quello di raccoglierli è compito mio, il secondo passaggio se lo vedrà Keigo con i suoi agganci nei posti giusti.

Keigo. L’ho sentito alzarsi e sistemarsi dietro di me, appoggiando le dita sul mio schienale. Alzo la schiena, ma non mi giro a guardarlo, tanto si è già avvicinato alla mia spalla controllando uno dei tre monitor che ho sulla scrivania.

«Ci siamo…» sussurra. Socchiudo gli occhi. Di nuovo sento quello strano bisogno che si alza e si sistema vicino alla mia gola, da cui smuove i muscoli dandogli una fortissima scarica. Non mi distraggo, però, mantengo lo sguardo e la mente concentrata sul mio lavoro.

«Jessie, al mio tre. Uno. Due…» faccio una pausa e preparo l’azione. «E tre, buca!»

Andata. La sento digitare in fretta il codice di risposta e la sua chiamata la tengo d’occhio sul terzo schermo. Si accende una spia. L’allarme dell’agenzia scatta, perché si sono resi conto che qualcuno ha forzato il muro dei loro sistemi e stanno tentando di recuperare. «Vai così… trattienili»

«Stanno tentando di buttarmi fuori…» dice Jessie mordendosi parte delle parole e controllando freneticamente il suo monitor.

«Isola l’indirizzo ID, cerca di apparire e scomparire nella traccia di log»

«Aspetta…» digita velocemente con le dita sulla tastiera e invia.

«Sei scomparsa!» dice Keigo, alzando la schiena e guardando Jessie poco più in là.

«Eccola» dico, quando sul monitor ricompare il suo ip fasullo, riconoscibile perché completamente straniero. Jessie fa l’occhiolino a Keigo e lui le sorride, subito dopo incrocia il mio sguardo e sorride anche a me. Guardo altrove. Alle volte sono veramente stronzo con lei.

«Rimani così. Saltella da un ip a un altro, non riusciranno a prenderti. Io posso già entrare nelle loro liste utenti…»

«Ok»

***

Procediamo così per qualche minuto e io ho già raccolto dati sufficienti per riuscire a risalire a una grossa quantità di informazioni. Li giro coprendo le tracce direttamente su uno dei nostri server e li nascondo nel modo classico con cui agiamo. Una volta fatto, avvio la procedura di distacco.

«Inizia a mollare la presa, Jes» le dico, guardandola di sfuggita.

«Va bene, Red»

«Sei stata brava…»

«Più che brava!» mi interrompe Keigo e io alzo lo sguardo verso di lui, ruotando il viso al di sopra della mia spalla. Ma che cazzo…?

Lei ride. Ed ecco di nuovo la magia negli occhi di Keigo. Sospiro. Stavolta mi ha dato fastidio.

«Jessie, concentrati. Il distacco senza lasciare tracce è più difficile. Sei riuscita a ritrovare lo stesso punto d’accesso?»

«Cazzo…» digita sulla tastiera qualcosa e io mi concentro su di lei. «Cazzo… non-…»

«Non mi dire che non hai lasciato aperta la via di fuga»

«No…»

«L’hanno chiusa?»

«Credo di sì…»

Credo di sì”? Ma porca puttana! Ok. Mi alzo impassibile e mi allontano dalla scrivania, raggiungendo quella di Jessie. Una volta lì mi piego e recupero la sua tastiera, rubandogliela sotto il naso. Ok, il codice è pulito, ma ho bisogno di qualche minuto per orientarmi. Mi muovo attraverso le stringhe e non trovo la via d’uscita, l’hanno chiusa. Mi mordo l’interno della guancia e penso a quanto sia stata avventata. È brava quanto ti pare, ma non sa pararsi il culo. Esattamente come la prima volta che l’abbiamo scovata fino a casa sua: sa penetrare ovunque, ma non sa difendersi.

«Mettiti alla mia postazione. Finisci il recupero e allontanati. Ho già impostato tutto. Qui ci penso io…» le dico e la mia voce è controllata, senza sbalzi, anche se effettivamente mi rode. Lei balbetta un “” e va alla mia scrivania, mentre io mi piazzo alla sua postazione. La lascio lavorare ed evito di sollevare lo sguardo e ascoltare quello che Keigo le sta dicendo per tranquillizzarla. Sussurra qualcosa, ma non mi ci concentro volutamente, escludendo il mondo e immergendomi nel codice.

Preparo un’altra via di fuga in alternativa, ma le tracce sono tremendamente più evidenti, tant’è che mi bloccano subito la strada. Sospiro. So già che l’unica alternativa possibile è andarmene da dove sono entrato con l’utenza fittizia. Di sicuro non l’hanno vista, ma questo significherà far scoprire la ricerca nella zona di classificazione utenti.

Che errore grossolano…

Non ho altra scelta e alla fine decido per questa opzione. Mando l’utenza di Jessie in quella zona e oltrepasso il buco del codice per poi richiuderlo di mio pugno. Basteranno poche ore e capiranno che tutto quello che abbiamo fatto è stato un diversivo.

Che palle. Non che comporti chissà che, ma dovremmo stare molto più attenti nel muoverci. E non solo. Forse solo tra qualche mese, quando si sentiranno più al sicuro, riusciremo a utilizzare quei dati.

Sbuffo. Mi butto indietro sullo schienale della sedia e appoggio i gomiti sui braccioli. Guardo Jessie e lei mi guarda con le guance arrossate. Lo so che ha capito cosa ho dovuto fare e riabbassa lo sguardo mortificata, mordendosi il labbro convulsamente. Non le dico niente, probabilmente basta il mio sguardo.

Keigo invece ci guarda senza capire niente. «Che è successo, quindi?»

«Abbiamo i dati» rispondo, alzandomi e togliendomi gli occhiali. Li chiudo usando il petto e li appoggio sulla mia scrivania. Non mi fermo lì da loro, ma mi dirigo verso il divanetto e lo occupo per metà con il corpo, tenendo le gambe verso il basso. Appoggio un braccio sullo schienale e tamburello le dita mentre maneggio il telecomando per lo zapping.

«Beh, è quello che ci serviva, no?» ritenta Keigo «Sei riuscito a riaprire la via d’uscita?»

«No…» ma risponde Jessie per me. Io ignoro la situazione, continuando a guardare la tv. «Ha dovuto sfruttare la via di fuga che aveva creato dalla sua parte. Avranno associato i due interventi…» la sua voce è bassa e mi fa piacere che lo sia. Almeno significa che ha capito la sua cazzata. Mi fa anche piacere che si senta una merda. Odio quando la squadra non fa quello che dico e mi fa “perdere”. Ecco perché ho sempre preferito lavorare da solo.

«Cazzo. Questo significa…»

«Sì, mettiti l’anima in pace, Kei. Se ne riparla tra un paio di mesi» rispondo io e il mio tono è molto controllato.

«’Fanculo!!!» e Keigo invece no. Lui sbotta. E lo fa anche spesso. «Fanculo! Avevo fatto dei calcoli su quei soldi e ora tutto è andato a puttane!» Jessie si stringe nelle spalle e si rannicchia sulla sedia. La osservo con la coda dell’occhio, guardando Keigo girovagare per la stanza con le mani alzate.

In poco tempo il garage si riempie di parolacce e bestemmie e vola anche qualche portapenne, lanciato chissà dove verso la piccola cucina. Lo lascio sfogare, mentre io tiro fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni una bustina contenente l’erba del mafiosetto del New Jersey, delle cartine e del cartoncino. Sistemo tutto sul tavolo e prendo una sigaretta dal pacchetto. La apro, spacco il tabacco e ci trito dentro l’erba. Con il mignolo schiaccio tutto nella cartina e dopo aver rollato, lecco la lunghezza della canna, richiudendola. Ecco. Me ne faccio una per conto mio, mentre alla voce sbraitante di Keigo, si è unita anche quella di Jessie. Ora stanno litigando pesantemente e stanno volando insulti dietro le mie spalle, che io ignoro senza problemi. In fin dei conti non mi ero fatto alcun calcolo con quei soldi e so che comunque arriveranno, quindi mi tiro fuori dalla scena. Anzi. Standomene qui, non si attiva l’irrefrenabile voglia di dire a quella ragazzina che è ancora un’incapace a fare quel tipo di lavoro. È una fottuta attaccante, ma come tutti gli attaccanti è spesso avventata e non ha idea che per essere veramente “grandi” bisogna saper comprendere anche cos’è la difesa.

Rilasso le spalle sullo schienale e la canna accesa mi riempie completamente le narici e la gola. La respiro e mi sento già meglio, molto meglio. Soffio e il sapore è buono, liberatorio, anche se brucia in gola.

***

«Keigo, sei una testa di cazzo! Ti ho detto che mi dispiace, che altro devo fare? Mettermi in ginocchio?»

«Potresti imparare a fare il tuo cavolo di lavoro! Devi essere affidabile, Jessie!»

«Ma io lo sono! Diglielo Iye!» non mi giro. Mi piace il sapore della canna che ho in bocca. L’aspiro piano, la tengo e poi la rilascio allargando le labbra. Vedo la nuvoletta di fumo alzarsi nell’aria, partendo dalla mia bocca. La trovo luccicante.

«Iye!» Mi chiama Keigo e io mi volto.

«Uhm?» li guardo entrambi e entrambi mi stanno osservando a pochi metri dalle mie spalle.

«Stai fumando?» Keigo mi guarda come se fossi scemo.

«Sì. E quindi…?»

Lui lancia un suono esasperato, alzando nuovamente le braccia e affondando le mani fra i capelli.

«Iye…»

«Red» la correggo.

«Red!» risponde Jessie esasperata «Non farmi sentire una merda, almeno tu… spiegagli che mi impegno. Tappa la bocca a questo stronzo maschilista!»

«Stronza» risponde Keigo come un ragazzino.

Io cerco di riformulare quello che mi ha appena detto Jessie. Ci metto un po’. Gli occhi mi si sono appannati e ho l’incredibile bisogno di fumare ancora. Aspiro il più possibile dal filtrino, poi ributto fuori il fumo, di nuovo con quella grande boccata. Non lo faccio apposta, Jessie. Non mi guardare con gli occhi lucidi. La canna è buona. Che altro dovrei fare?

«No, lei è utile. Ma non sa difendersi…» le guance di Jessie diventano bordeaux «le insegnerò come fare. Keigo, se ti servono i soldi, te li alzo io. Mi prenderò la tua parte…» ispiro, fumo e lancio verso l’alto la nuvoletta bianca luccicante. Che bella. «…quando potremmo sfruttare i dati. Intanto lavoreremo a qualcos’altro.»

Keigo da un calcio alla sedia di fronte a quella dove siede e non replica. Jessie invece non sa se guardarmi con gratitudine o tristezza. Io la guardo senza dire una parola, gli occhi sono pesanti e li avverto socchiusi. Fumo ancora e le pupille scivolano sulla capocchia accesa della canna che brucia. È bella anche questa cosa.

«Ok. Ci vediamo domani» farfuglia la ragazzina prima di raccogliere le sue cose e dirigersi verso l’uscita del garage. Si volta a guardare con disprezzo Keigo, che evita accuratamente di guardarla, concentrandosi sui suoi piedi. Io noto tutto con sommo distacco. La canna è buona e torno a fumarmela.

***

Sentiamo il tremolio della persiana, quando Jessie esce finalmente dal garage e Keigo lancia in aria un’imprecazione in giapponese. La capisco. Sono anni che mi insegna a parlarlo, ma non ho il cervello adatto in questo momento per rispondergli nella sua stessa lingua.

«Ti scaldi troppo facilmente con lei»

«Senti chi parla…» mi dice mezzo scandalizzato, anche se divertito.

«Ha fatto un errore, ma non è con noi da tanto tempo. Lascia stare…» alzo una mano e la poso sul ginocchio. Fumo ancora. «…imparerà» cerco di rassicurarlo, ma non mi escono fuori le parole giuste. Il mio cervello non collabora moltissimo, quindi smetto di provarci.

Keigo si siede accanto a me, afferrando il telecomando e iniziando a fare zapping tra i vari canali. «Ci ha fatto perdere un sacco di tempo con questa sua distrazione…» risponde e io lo guardo vagamente. Non mi sta vicinissimo, ma ho le dita stese sullo schienale che quasi arrivano a toccare la sua nuca.

«Lo recupereremo. Non era un colpo grosso, solo una prima parte. Meglio che abbia sbagliato qui, che durante la fase decisiva.»

Keigo grugnisce qualcosa e dopo un momento di silenzio mi ruba la canna dalle dita. Protesto per poco, ma alla fine la mia poca reattività si arrende alla sua. Lo guardo mentre porta il filtro alle labbra e prende una grossa boccata. L’idea che prima l’avevo io in bocca, mi fa cambiare posizione sul divano. Sospiro frustrato. Tutte le volte sempre lo stesso effetto.

«Così la confondi. Prima la tratti bene, poi la tratti male. Andrà a finire che ti odierà…» riprendo il discorso, scavalcando il suo silenzio.

«Non me ne frega nulla» risponde, fumando ancora offeso. So che sta riflettendo sulle mie parole, perciò proseguo.

«Pensaci bene, Kei. Inimicarla non serve a niente. È promettente, capace, reattiva. È riuscita a bucarci il sistema più di una volta e sa imporsi in questo branco di animali che siamo. Non si trovano ragazze così, in giro. Lo sai meglio di me. Perciò… vedi di andarci d’accordo» sono stupito della mia capacità espressiva. Anzi, no. Non lo sono. Ecco una testimonianza di come l’erba non ti frigge il cervello. Oh. Dovrei scriverlo da qualche parte. Invierò un’email al Ministro della Sanità. Magari lo convinco a legalizzarla…

«Quindi?» domando, senza distogliere lo sguardo dal suo profilo, interrompendo da solo i miei pensieri. Ero arrivato a pensare che scrivere al Presidente era più figo.

«Quindi che…?» risponde Keigo, girando il viso dalla mia parte per guardarmi un po’ perplesso. «Non le chiederò scusa!» il fumo esce dalle sue labbra mentre risponde, soffiandolo via con stizza.

«Sei uno stupido orgoglioso» dico senza rancore, anzi, sorridendo anche un po’. Boh. Riesco a farlo più facilmente. Non so se è per la canna o se è per Keigo e la sua famigliarità. La mia testa è molto leggera ed è da prima che sento di poter fare qualcosa di stupido. Tanto le conseguenze sarebbero minime. Non riesco a trovarne molte.

«Ci penso… va bene» risponde Keigo, rassegnato «In fondo lei ci serve. È l’unica che sa tenere il tuo passo. E io ormai ho dimenticato come si fa ad hackerare»

«Non l’hai mai saputo fare in realtà»

«Alcune volte sai essere stronzo, Iye»

«Solo “alcune”?»

Cambia espressione quando gli prendo il polso. Mi avvicino e giro la sua mano verso di me. Tra le dita stringe ancora la canna, l’afferro con le labbra e tiro altro fumo, sfiorando con la bocca parte della suo palmo. Il fumo mi entra in gola e quando mi scosto, incontro il suo sguardo un po’ dilatato dalla droga e da qualcos’altro. Lo stesso che dilata il mio.

«Non puoi tenerla tutta per te» sussurro a una distanza veramente effimera dalla sua mano, tanto che sento tornare indietro il mio stesso respiro.

«Posso invece» ribatte, sfidandomi.

Rimango in silenzio, a lungo, mentre il suo polso rimane ancora incastrato dalle mie dita. La sento cambiare quella famigliarità, lentamente, inevitabilmente: diventa più elettrica, pesante e vischiosa. Probabilmente sostituita da un richiamo più materiale. In quell’assenza di rumore, quello che ci diciamo con le labbra chiuse diventa assordante. Mi avvicino, fanculo! Mi avvicino così tanto che devo socchiudere gli occhi perché non siano infastiditi dal suo respiro. Diventa pesante, così come il mio, mentre inclino il viso e mi abbasso fino a sfiorargli le labbra con le mie. Il fumo dell’erba mi entra nelle narici e si mischia al suo odore, mentre spingendo cerco di approfondire quel contatto. Premo con la lingua per arrivare a toccare la sua e così accarezzarla lentamente, raggiungendo l’intimità che volevo.

Mi piace questo sapore. Mi piace il modo in cui siamo vicini. Mi piace anche come le conseguenze di ciò che stiamo facendo si concentrino in tutto il mio corpo. Sono confuso. In realtà non riesco nemmeno a rendermi conto che una delle mie mani si è mossa e si è sistemata dietro la sua nuca. L’altra la ritrovo sul suo fianco e nemmeno quella so quando c’è arrivata. Il mio corpo si sbilancia contro il suo e la risposta che sento da parte di Keigo mi fa venir voglia di proseguire e proseguire ancora.

Non è la prima volta che lo tocco e non è nemmeno la prima volta che incontro il suo sguardo desideroso del mio. Le dita scivolano lungo il suo addome e lui mi stringe i capelli, tirandomeli non per scansarmi ma per non lasciarmi ritrarre. Proseguo. Le mie dita si fanno più invadenti e cadono sul suo ventre. Poi più in basso, vicino alla sua cintura. Più in basso ancora…

***

Un rumore e qualcuno che trasale ci interrompe. Ci voltiamo verso l’entrata del garage e troviamo Jessie con in mano una sciarpa, evidentemente tornata a recuperare da poco.

Dal suo sguardo allarmato, penso proprio che ci abbia visti. Non dice nulla e noi la guardiamo per qualche secondo in silenzio, prima di sentire Keigo farsi indietro e sfuggirmi. Lo guardo stupito, osservandogli il viso arrossato dall’eccitazione o dalla preoccupazione/vergogna, quel che cazzo è.

Guardo Jessie e Jessie guarda me. E io rimango impassibile.

 



Questa storia è il passato/presente (un po' romanzato) di un mio personaggio, creato per un GDR by chat (il titolo tra le parentesi quadre, per intenderci).
Alcune cose sono vere, altre no, altre ancora mai giocate ma costruite solo da BG. È iniziata come una piccola sfida personale, mischiata alla curiosità di entrare nella testa del mio pg totalmente inespressivo. Alla fine quest'idea si è riempita di capitoli e di pagine, che hanno portato la storia su un piano più profondo e non più di semplice "sfida", perciò eccola qui: pubblicata ancora incompiuta, per il semplice motivo che... il pg lo sto ancora giocando. Ahuahuah!

Ringrazio ovviamente ogni player/pg che ha partecipato alla crescita di Iye (in particolare, per non spoilerare, basterà una *pannocchia* per capire a chi mi riferisco) e anche a chi ha sopportato le mie indecisioni sul mettere online queste righe. Chi si è offerto di correggerle e chi ancora, sospirando, è costretto a sorbirsi tutto questo "yaoi" per farmi contenta. Ahuahuahu.

Non so quanto sarò costante, nel pubblicare... però mi ci metterò d'impegno.
Bon, buona lettura! *_*

n/a: i personaggi all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono utilizzati con alcun scopo di lucro.
© Heaven's Door Yaoi GDR.

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Capitolo 2
*** La sera di Natale ***


26 anni

- La sera di Natale -

 

Fa freddo in Giappone. Freddissimo. Anzi, no… non in Giappone. In questa città fa freddo. Maledetta Narita tra montagne e mare. Si può avere un incrocio di temperature più differenti? Secondo me no. Ho beccato l’inferno, ne sono sicuro.

Mi stringo nel cappotto rosso che indosso e impreco sommessamente nella mia lingua natia. Abbasso la testa e mi guardo le scarpe verde acido che affondano nel selciato del parco. Sotto le suole sento lo scricchiolio dei sassi che si aprono ad ogni mio passo e, considerata la mia altezza, non è di certo delicato. Scavo un percorso fin dentro la vegetazione centrale, calpestando le aiuole per far prima. Ho deciso di tagliare per il grosso parco del centro e dirigermi verso casa dopo un’intera giornata all’Insert Coin, proprio per evitare il giro lungo in autobus e magari guadagnarmi quella mezzoretta che posso recuperarmi davanti alla Play. Ecco. Pensiamo a qualcosa di positivo e di bello, così magari mi passa questo dolore a mani e piedi per l’assideramento latente. Penso che tra un po’ sarò a casa, sul divano: davanti il mio grande, grandissimo schermo, in una mano un joypad e nell’altra una birra. 

Ooh. Quello è il nirvana. L’estasi celestiale. L’ascesa verso la completezza dell’Io. Mi servirebbe un’altra religione per rendere l’idea. Alzo gli occhi al cielo come se da questo potesse discendere una risposta e invece mi ritrovo l’imponente figura dell’albero di natale, pieno di luci e luccichii messo proprio al centro del parco. Beh, leggermente pagano come messaggio.

***

 

Quanto sarà alto? dieci, dodici metri? Mi faccio indietro con la testa, barcollando un po’. Arrivo a guardarlo fin sopra la punta e osservo la stella in cima brillare di qualche tipo d’energia interna. Una lampadina tremolante. Sembra una fiammella. Fiammella… ok. Ora voglio fumare. Magari posso sedermi un attimo su una di quelle panchine e sprecare cinque minuti del mio tempo per godermi un po’ questo sprazzo di Natale. Ho già passato la vigilia in un raid sul MMORPG, magari potrei recuperare in questo modo, tanto per non far preoccupare mia madre e raccontarle una finta scena quando mi chiederà se ho passato il Natale da solo.

No, mamma. Eravamo io, un grosso albero di Natale al parco, la mia sigaretta e… i primi tizi che becco con lo sguardo e che magari spaccio per “amici”. Mi guardo attorno. Ecco quelli lì sulla panchina. Cosa sono? Dei ragazzini. Uhm. Va bè, non importa. 

Uno con i capelli rossi ha lo sguardo arcigno. Lo classificherò come l’antipatico del gruppo. Un altro dall’aria innocente, dai capelli grigi, penso che lo descriverò come l’ ingenuotto di turno. E poi infine, un altro dai capelli blu. Sembra il più piccolo, anche a statura, ma ha lo sguardo furbo. Secondo me è il più fetente dell’intera combriccola e a giudicare da come si muove e parla, sicuramente la guida completamente.

Sono tutti dei Mezzianimali, lo capisco dalle code e dalle orecchie che spuntano dall’estremità di culo e testa. Dove vivevo io ce n’erano pochi, ma non sono i primi che vedo dopotutto. Solo che non sono proprio abituato a rapportarmi con loro. Poco male, tanto non ho intenzione di avvicinarmici. Prendo il pacchetto di sigarette e ne sfilo una, portandola tra i denti. Faccio qualche passo indietro, spostandomi dall’ombra cangiante dell’albero illuminato. È sera, ma i lampioni del parco mischiano la loro luce calda a quella più colorata dell’abete centrale.

Riposato il pacchetto nella tasca della giacca, sposto le mani su quelle posteriori dei jeans. Al tatto sento la pressione delle spillette di Batman e Superman. Infilo le dita e non trovo ancora quello che sto cercando. Cambiamo direzione, provo con quelle anteriori.

Oh, il ragazzetto dai capelli grigi sta offrendo del cibo. Pollo fritto, pare. Il rosso selvaggio lo addenta manco avesse patito la fame per mesi interi, eppure mi sembra robusto e anche forte; l’altro ragazzo dai capelli blu invece frega direttamente tutto dalle mani dell’innocentino. L’ho detto, quello è furbo. 

Porto le mani di nuovo nella tasca del cappotto, smucinando un po’. Niente. Afferro la tracolla che ho sulla spalla e guardo all’interno delle tasche classiche in cui ficco l’accendino. E niente, nemmeno qui.

Alzo la testa e mi accorgo che il ragazzetto dai capelli blu si sta avvicinando alla mia posizione. Lo ignoro. Per ora continuo a cercare l’accendino senza farmi distrarre dai suoi commenti. Sento poco distintamente le parole: “Facebook” e “foto”. Sarà uno di quegli adolescenti che classificano ogni momento della loro vita secondo quanti “mi piace” raccoglie la loro fotografia.

Alzo i documenti che ho all’interno della borsa, infilando le dita fino a toccare il fondo ed esplorarlo alzando la testa. Faccio mente locale: quando ho fumato l’ultima volta? Prima di chiudere l’Insert Coin. Ok. Il pacchetto l’ho ripreso, il resto della roba l’ho sistemata sul bancone perché era arrivato un ultimo cliente. L’avevo messo vicino alla sciarpa, con accanto le chiavi. No. L’avevo messo “sotto” la sciarpa, per non far vedere a quei ragazzini e ai genitori scassa palle che esistono aggeggi del genere in un negozio di Videogiochi. Quindi. Se ho attualmente la sciarpa attorno al collo, ho la netta sensazione che l’accendino non l’abbia né visto, né preso, lasciandolo probabilmente sul pavimento del negozio stesso.

Accidenti. Mi sa che è andata proprio così. Povero il mio zippo di Captain America.

***

Sospiro e abbandono la ricerca, tenendomi in bocca la sigaretta in modo sconsolato. Mi giro verso il gruppetto e ora trovo il ragazzo dai capelli blu piuttosto vicino. A questo punto tento. Alzo una mano e agito la piccola stecchetta di tabacco, chiedendogli in quel modo silenzioso se ha d’accendere. Lui incrocia il mio sguardo e lì scopro un azzurro intenso, che gli apre l’occhio e lo classifica come particolare. No, decisamente non è giapponese. A vederlo meglio ha qualcosa di occidentale, ma è mischiato dai lineamenti allungati, tipici dei nipponici. Gli altri due amici, invece, sono del tutto orientali. 

Oh, un attimo. Quello con i capelli rossi mi sta guardando. E mi sta anche imbruttendo. Perché?

«Ehi!» esclamo, riuscendo a ritirare in tempo la sigaretta dalle grinfie del ragazzetto dai capelli blu. Le si era lanciato contro con una finta zampata, nemmeno fosse un… Gatto. Ma certo. Le orecchie nere sulla testa e la coda sinuosa danno quell’idea. Sarà un mezzo felino. Un… come lo chiamano qui in giappone? Nekomimi? Va beh. Mezzoanimale, per me. «No, no. Non si fa…» aggiungo nel loro idioma, ritirandola e tenendomi la sigaretta stretta sul petto, nascosta in un pugno.

Sono alto, molto alto, in confronto a lui, quindi non ci è arrivato. Per fortuna.

«Me la stavi porgendo…» mi risponde quel ragazzo, guardandomi come se gli avessi tolto di mano il suo gioco preferito.

«Ti stavo chiedendo se hai d’accendere, in realtà»

«Ah» e si morde le labbra, scoprendo due canini piuttosto appuntiti. Si gira e guarda dietro di se. Io seguo il suo sguardo e incrocio di nuovo quello del Mezzoanimale rossiccio. Non ho idea di che creatura lo caratterizzi: ha una coda voluminosa, rossa e bianca. Poi due orecchie tondeggianti, un po’ nere sulla base. Non mi intendo di animali simili, quindi non so se sia un canide o un felino. Beh, è comunque qualcosa di selvaggio, visto come mi sta fulminando con lo sguardo. Ora gli chiedo se può guardare la mia sigaretta, magari prende fuoco e risolvo il mio attuale problema.

«Smettila, Netsu» dice il ragazzo vicino a me. Netsu? Ah. Il rossiccio, giusto. Ma perché, ha detto qualcosa? Quando? E come ha fatto a sentirlo? Gli guardo le orecchie e faccio due più due. Ovvio. Io, stupido umano. Lui, poteri sovrannaturali di bestia.

«Che succede?» domando, ma si è avvicinato l’altro ragazzetto con i capelli grigi, come se si comportasse d’ambasciatore di causa. Mi guarda con quegli occhi rossi e innocenti, che sembrano chiedermi un grosso favore ancor prima di formularlo a parole. Pelle pallida e viso angelico. Affascinante. Farebbe sospirare parecchie ragazzine.

«Mi scusi» mi sta dando del “lei”. Ritiro tutto quello che ho pensato: lo odio. «non per essere sgarbato, ma può mettere gentilmente via la sigaretta? Il mio amico preferirebbe che lei non l’accendesse. Rischia un suo assalto, altrimenti»

E “sti cavoli” dove ce lo metti? E poi perché mi sta parlando lui? L’altro ha problemi a parlare in lingua umana o è troppo concentrato a imbruttirmi con lo sguardo per mettere insieme due parole? Questa cosa mi sta innervosendo dal profondo. Anche perché… per quale diavolo di motivo non posso fumare la mia fottuta sigaretta?

Guardo il ragazzo dai capelli grigi come se non mi avesse nemmeno parlato. Celo la mia incazzatura con la mia classica espressione neutrale e faccio oscillare il mio sguardo su tutti e tre. Il Gatto dai capelli blu scuote la testa e guarda male Netsu. Meno male che non sono l’unico a trovare stupida questa situazione. Poi, inspiegabilmente, proprio lui aggiunge: «Ha ragione, sai?» 

Cosa? Tizio dai capelli blu, mi hai tradito!

«Ci provasse ad accenderla…» un ringhio o una minaccia alla fine proviene dal Mezzoanimale rossiccio. Sa parlare, allora. E conferma la definizione di “Antipatico del gruppo”.

«Complimenti, minacci i passanti ora?» risponde in difesa il ragazzo dai capelli blu «Scrivimi una cartolina dal canile in cui ti rinchiuderanno.»

Il rosso grugnisce in risposta.

Rispondo «Beh. Visto che si sta impedendo di fumare a un fumatore che ne ha bisogno… credo che serva qualche motivazione in più del semplice: “preferirebbe che non lo facessi.”» guardo proprio quel ragazzo laggiù, ancora rannicchiato minaccioso su quella panchina. 

Ma guarda te. La sigaretta la stringo nel pugno nemmeno fosse un’arma e mi giro per avere tutti e tre più frontali. Avrei voglia di spaccargli quel naso raggrinzito dal suo ringhio con un pugno.

«È per l’odore» risponde il ragazzo dai capelli scuri, intervenendo «Riesco a sentire il dopobarba del tizio che vende lo zucchero filato a quel banchetto laggiù» mi giro.  Cavolo, è lontano «figurati cosa potrebbe fare una sigaretta» lui non mi da del “lei”. Mi sta più simpatico. E poi mi ha dato una spiegazione più logica.

Apro il palmo e guardo la mia povera Lucky Strike. Quindi un odore del genere darebbe fastidio a una razza come la loro? Rimango in silenzio valutando la situazione. Mi mordo le labbra e alla fine porto la sigaretta dietro l’orecchio scoperto dalla capigliatura mohicana che possiedo, lì dove la rasatura mi disegna metà della nuca. Incastro la stecchetta sui numerosi piercing che mi bucano il padiglione e la tengo ferma lì.

«Beh, tanto era diventato difficile accenderla senza accendino» rispondo, cercando di controllare il mio nervosismo. «Mi basta sapere questo e posso tranquillamente rinunciare a fumare per ora» Ma perché sono passato dal parco? Perché?!

***

Il Gatto dai capelli blu annuisce contento e tira fuori un sorriso che farebbe vacillare qualsiasi adolescente femmina di passaggio. Non ha lo stesso fascino misterioso del tizio dai capelli grigi, ma ha acquisito punti solo con quello; mi è venuto naturale considerarlo simpatico, il che è incredibile. Il potere delle buone maniere. O della simpatia a pelle. Non so quale abbia, ma sicuramente è spiazzante. 

«Meno male. Nessuna strage oggi» 

Strage? Lo sto guardando male, ma sicuramente la mia espressione classica non lo lascia intendere. Cosa pensa che sia? Il primo sprovveduto che si fa abbattere da un adolescente qualsiasi? Mi sta sottovalutando. O… magari sono io che sto sottovalutando Netsu. «Andiamo, quest’albero illuminato mi ha già rotto» aggiunge poco dopo.

«Non volevi farti la foto con Touya? Fattela fare dall’umano…» aggiunge il rosso, in un mero tentativo di sbollire la rabbia. Il modo dispregiativo con cui ha pronunciato “umano” mi fa venir voglia di realizzare comunque il mio pugno sulla sua faccia. Per un momento mi dimentico del nome che ha pronunciato. Probabilmente si riferisce al ragazzo con i capelli grigi, ma sorvolo per rispondergli e andargli contro per il puro gusto di farlo:

«No, grazie per la considerazione. L’albero è molto bello, ma vorrei andare a fumare»

Netsu mi guarda malissimo e io rispondo con la mia superiorità impassibile di ventiseienne. Anche se in questo momento, sembro più un ragazzino che risponde a un altro ragazzino facendo a gara a chi abbassa lo sguardo per primo.

La tensione risale e se quel rossiccio avesse i peli sulla schiena, li avrebbe ritti per la minaccia palese nei suoi occhi. Io tengo duro e non mi lascio intimidire. Me ne frego, non gliela dò di certo vinta.

Un click. E il gatto dai capelli blu mi distrae. Lo vedo ritirare il cellulare per metterlo in tasca, probabilmente ha fatto una foto all’albero. Ah, cazzo! Ho distolto lo sguardo! Ma porca miseria…

«Foto fatta, andiamo» liquida e si avvicina ai due amici, dandomi le spalle. «Ci facciamo sempre terra bruciata intorno. Che fastidio…» Gli guardo la coda lunga e sinuosa di sfuggita, poi rialzo lo sguardo. Sia mai che si faccia strane idee.

«Grazie» risponde il ragazzo dai capelli grigi, avvicinatosi a me. Lo guardo meglio. Lui anche ha una coda voluminosa e due orecchie a punta grigio perla. Mi da l’idea di un canide. C’è da dire che la voglia di toccare quelle protuberanze pelose… è asfissiante. Devo ringraziare la mia poca voglia di contatto umano: mi impedisce di allungare una mano e tirare le orecchie o la coda soffice di questi tre ragazzini. «Quando sta così è veramente difficile parlarci o calmarlo. Lo scusi e grazie ancora per aver accettato di non fumare» si muove e si avvicina a Netsu, cercando di sfiorargli il capo in una carezza confidenziale. 

Netsu lo scansa con un “Scusa un cazzo!”. È veramente uno stronzo.

Mi danno fastidio quelle persone che sfruttano gli altri per le loro battaglie e questo Netsu si sta nascondendo dietro alla diplomazia di Touya. Lui probabilmente è un buon amico - forse troppo “amico” a giudicare dallo sguardo dolce che gli dona - e che cerca di difendere la poca propensione al dialogo del suo compagno. Netsu, oltre a non ringraziarlo, lo tratta anche di merda. Mi sale la rabbia. La nascondo dietro il solito muro, ma vado a impattare deliberatamente contro quella stasi perché mi viene naturale far valere le mie libertà.

«Non fumerò ora. Vengo incontro alla logica, questo sì: se da fastidio il fumo a tutti voi, farò in modo di non darvene» il mio tono è tranquillo, anche se di base sento l’impazienza farsi strada. «Però sia chiaro che non l’avrei mai fatto per capricci personali. Anzi, in caso contrario me ne sarei fottuto. Nessuno può dire a qualcuno cosa può o non può fare. O grugnire, nel suo caso» l’ho dovuto dire e sento già che lo sguardo assassino di Netsu è tornato in superficie. Dai, azzannami. Ti denuncio e vendico la mia sigaretta. «Piuttosto chiarisco che scelgo di non farlo. Che è diverso. E nemmeno perché me l’ha detto lui, ma perché voi due siete stati esaurienti nelle motivazioni» la soddisfazione di pensare che abbia cambiato le mie voglie per la richiesta di quel selvaggio, non voglio darla. E mi sembra anche assurdo che stia combattendo una battaglia del genere. Alzo le braccia e mando a ‘fanculo l’idea di rimanere lì. Decido di andarmene. Faccio un passo indietro per girarmi, ma vengo investito dalle parole ringhianti di Netsu. 

«Non esiste solo la vostra lingua, stupide scimmie troppo cresciute!» e salta giù dalla panchina. Credo che voglia sbranarmi. «Fuma pure! Poi vediamo come riesci a tenere in mano una sigaretta, con tutte le dita staccate…» 

Mi viene quasi da ridere, ma non succede. Faccio un passo che recupera quello di poco prima. Mi metto frontalmente a lui. «Prova pure» apro i palmi e glieli mostro in avanti. Non mi sto arrendendo, anzi, gli offro la realizzazione della sua minaccia. «Se pensi che minacciare la gente sia il modo giusto per far valere le tue richieste…»

Affondo i piedi a terra per accogliere il suo balzo in avanti, ma succede che tra me e Netsu si posiziona il gatto dai capelli blu. Mostra i canini e rizza la coda e io gli osservo le spalle in tensione, soffermandomi sulla sua nuca. Mi sta difendendo?

«Smettila con queste stronzate, Netsu. Hai avuto quello che volevi, ora lascia perdere.» la sua voce è risoluta e Netsu si ferma. No. Non credo che sia minacciato da lui, ma lo sta ascoltando. Probabilmente è con questo temperamento che si ottiene qualcosa da quella testa selvaggia. «Non sta fumando. Se ne sta andando. Quindi se ti metti ad attaccarlo qui in mezzo al parco, il giorno di Natale, giuro su qualunque cosa che te la vedi anche con me. Sono stanco di questo tuo modo di fare. Per una stupida sigaretta!»

Mi sa che non è la prima volta che litigano quei due. Comunque quello che dice questo ragazzo raggiunge la mia soddisfazione. Stringo le labbra compiaciuto, senza far alcun sorriso, ma mi irrigidisco quando proprio il Gatto si volta a guardarmi. Mi sta rimproverando con lo sguardo. «Tu invece smettila di provocarlo. Ho capito benissimo quello che stai facendo…» Ops. Mi ha scoperto.

***

Lo guardo di rimando e soffermo piuttosto a lungo il mio sguardo su di lui. Ha compreso che provocare Netsu era uno dei miei scopi e parte della mia vittoria. E ora si è messo in mezzo per impedirlo. Non so se questo mi dia fastidio oppure susciti la mia ammirazione. Opto per farmi passare la-qualunque-cosa-sia e devio nell’innocenza.

«Non capisco dove vuoi arrivare, ma come hai detto… stavo proprio per andarmene» chiudo il discorso e faccio un passo indietro.

Netsu continua a guardare il ragazzo dai capelli blu e dopo un lunghissimo momento di silenzio in cui covava qualche tipo di imprecazione, butta fuori un ringhio e sbotta «Io me ne vado per conto mio, così quello può fumare» e, girando su se stesso, scavalca la panchina con un balzo e se ne va sul serio.

Umh. Almeno non mi ha appellato con qualche tipo d’insulto.  Touya, che in tutto questo frangente è rimasto in silenzio e in disparte, completamente schiacciato dai due caratteri dominanti di Netsu e del Gatto, balbettando il suo nome lo guarda allarmato. Si vede che non sa cosa fare, se seguire quel pazzo o rimanere lì.

«N-Netsu…» voce allarmata. Troppo per i miei gusti «Scusami Kacey… io…» lascia in sospeso.

Oh. Il ragazzo dai capelli blu ha un nome «Tranquillo, Tou» gli sorride ammorbidendo lo sguardo. Nuovi punti per quel sorriso.

***

Touya scappa dietro a Netsu e Kacey, invece, rimane lì nel mezzo con me. Io guardo la scena senza dire una parola, poi sospirando prendo la sigaretta che avevo ancora dietro l’orecchio e la metto tra le labbra. «Beh! Direi che, ora che ho il permesso, posso andarmene» faccio un passo e il ragazzo mi affianca. Mi guarda sollevando lo sguardo e mi osserva sfottendomi dal profondo. Ha sempre un sorriso dispettoso e solleva le sopracciglia in una battuta che non c’è.

«Non pensare di andartene senza di me. Non mi va di stare da solo durante il Natale» e mentre mi muovo, lui mi segue.

«Dovresti seguire il tuo amico, credo che finisca per prendere a pugni qualcuno» provo a scollarmelo di dosso in questo modo.

«Facesse. Non posso stare sempre appresso ai suoi casini…» da come lo dice sembra arrabbiato con lui. Una cosa che non mi stupisce.

«È solo un adolescente con grossi problemi di autostima. Chi attacca lo fa non perché si crede forte, ma solo per non essere attaccato per primo»

«Ehi, io sono adolescente  e non ho problemi di autostima!»

Lo guardo, masticando il filtro della sigaretta e togliendola poco dopo dalle labbra. «No, non ce l’hai»

Il suo sguardo si fa più incerto. «No, infatti» sostiene e dopo un momento, sorride di nuovo. Mi acceca questo suo modo di fare. «Stai sbagliando strada. Stavi andando da tutt’altra parte, prima» aggiunge divertito.

«E tu che ne sai?»

«Con quei capelli ti si vede da un miglio di distanza e ti ho notato da prima»

Che cos’hanno i miei capelli? Istintivamente me li tocco preoccupato. Ah. Forse intende il colore accecante che hanno. Sono di un rosso così acceso e finto, che il loro esatto scopo è quello di risaltare. Mi piacciono così. Mi piace anche che siano ciò che mi fa notare.

«Credo che tu abbia strani impulsi da stalker»

«Credo che tu abbia quei capelli proprio per farti notare» ribatte e io lo guardo socchiudendo gli occhi. 

Dovrebbe piantarla di parlare come se mi conoscesse. Anche se ci azzecca, ma questo è un altro discorso.

«Non hai una ragazza da chiamare o una famiglia con cui stare durante il Natale?»

Ride «No! Niente ragazza e qui in giappone non si festeggia con i genitori questa ricorrenza» Lo guardo. È come se sapesse di dovermi correggere sulle usanze di quest’ambiente. Non dico nulla e probabilmente lui coglie dal mio silenzio questa mia perplessità. Dubito che l’abbia fatto dalla mia espressione. «Si capisce che non sei giapponese. Sai, l’accento…» agita una mano «Americano? Anche se hai il viso un po’… esotico»

«Senti…» non so se dire il nome. 

«Kacey»

«Kacey…» ripeto «Ora me ne torno indietro a recuperare l’accendino e a fumare la mia sigaretta. Ti consiglio di non seguirmi, perché non ho intenzione di rimandare oltre»

«Mi è piaciuto quel discorso da hippie che hai fatto prima» dice dal nulla continuando ad affiancarmi. Non afferra proprio il mio sottile messaggio di “togliersi dai piedi”. O se lo fa, lo ignora. «Anche se credo che Netsu non sia proprio tipo da coglierlo. Però hai ragione a ribadire le tue libertà»

«Sì, beh. Sono abituato a fare quello che è nei miei interessi, ma ho capito che il rispetto altrui è importante in questo tipo di ricerche» rispondo educatamente, anche se il passo lo accelero di proposito, sfruttando le mie gambe lunghe per seminare il ragazzino. È molto più basso di me e quindi ho un vantaggio.

Almeno credo, in realtà non arranca. Anzi, tiene il passo in modo facile. Sarà la sua natura felina.

«Parli come un uomo vissuto!» si mette a ridere e io sospiro.

«Già» non aggiungo altro, fino a che non arrivo alla fine della strada che mi riporta fuori dal parco. Guardo la direzione che da verso il mio negozio.

«Vai da quella parte?» mi domanda e poi lui guarda dalla parte opposta. Non rispondo, ma capisco che sta valutando un’idea. «Mi sa che ti lascio andare, magari riesco a recuperare quei due» dice soprappensiero e io colgo l’occasione al volo.

«Sì, non preoccuparti. So badare a me stesso e nel caso incontrassi un altro» come si dice in giapponese Mezzoanimale? «Kemo-no…» 

«Kemonomimi» mi corregge di nuovo.

«Sì…» sospendo «Prometto che non accenderò più una sigaretta. D’accordo?»

«Bene!» ride di nuovo «Anche perché non potrò sempre mettermi in mezzo a te e al kemo random che provochi…»

«A questo proposito: potevi anche evitare di farlo. L’avrei affrontato senza problemi» parla il mio orgoglio e gli lascio campo.

«Come no. Probabilmente non hai mai provato a farti mordere da una volpe incazzata»

«Una volpe?»

«Netsu» 

Ah. Ecco cos’era. Una volpe. Bah. Tanto furbo non l’ho visto.

«No. A pensarci bene, no. Ma questo non significa che mi avrebbe atterrato. Comunque…» cambio discorso e inizio a divincolarmi da quella vicinanza «Kacey, è stato un piacere. Ci si vede in giro» e sollevando una mano inizio ad allontanarmi.

«Ehi, aspetta! Non mi hai detto come ti chiami!»

Mi fermo. Lo guardo e socchiudendo gli occhi appena appena divertito, rispondo.

«Iye. Mi chiamo Iye»

 



Questa storia è il passato/presente (un po' romanzato) di un mio personaggio, creato per un GDR by chat (il titolo tra le parentesi quadre, per intenderci).
Alcune cose sono vere, altre no, altre ancora mai giocate ma costruite solo da BG. È iniziata come una piccola sfida personale, mischiata alla curiosità di entrare nella testa del mio pg totalmente inespressivo. Alla fine quest'idea si è riempita di capitoli e di pagine, che hanno portato la storia su un piano più profondo e non più di semplice "sfida", perciò eccola qui: pubblicata ancora incompiuta, per il semplice motivo che... il pg lo sto ancora giocando. Ahuahuah!

A voi il secondo capitolo, che parla del "presente" giocato direttamente in land. Si ringraziano i player e i pg che hanno ispirato la storia! Chi l'ha corretta e chi mi ha spinto a continuarla.

n/a: i personaggi all’interno di questa storia appartengono ai rispettivi autori. Non vengono utilizzati con alcun scopo di lucro.
© Heaven's Door Yaoi GDR.

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Capitolo 3
*** Allarme ***


 

17 anni
 

- Allarme -

 

Jessie ci guarda ancora come se avesse visto un fantasma e per un po’ ci comportiamo come tali: io del tutto distaccato dalla situazione, Keigo irrigidito come se volesse diventare invisibile.
Nessuno dice niente e per un lungo periodo, restiamo tutti in silenzio. Poi lei sbatte le ciglia, la frangetta viola ha un tremore vicino all’occhio. Sembra che si riprenda da qualche tipo di shock.


«Scu-… Scusate. Ero tornata a prendere la sciarpa, pensavo… non volevo disturbare» le si strozza in gola la voce.

«Non preoccuparti, Jessie»

«Non hai disturbato, affatto» risponde Keigo e io mi giro verso di lui.

Come non ha disturbato? Eccome se l’ha fatto! Che cazzo!
Mi scosto un po’, facendomi indietro e mettendo tra noi una distanza decisamente offesa. Da fuori sembrerà che abbia solo cambiato posizione. Dentro di me sale qualcosa di realmente cattivo, ma per ora lo copro con la solita indifferenza. Alzo il braccio e mi appoggio allo schienale.


«Hai trovato quello che ti serviva?» domando, provando ad apparire il più naturale possibile. Ho dovuto allargare le gambe, i jeans mi danno un po’ fastidio.

«Sì» risponde lei, alzando la mano con la sciarpa e facendo qualche passo indietro. Mi guarda fisso e tenta un debole sorriso a cui non rispondo.
Keigo si alza in piedi e si allontana dal divano. Nel farlo una scintilla gli casca dalle dita e mi accorgo che è la canna di prima. La guardo disintegrarsi sulla punta quando cade a terra e allungando un piede la schiaccio per spegnerla. Non ho voglia di incazzarmi anche per questo, ci metto una “suola” sopra, anziché una pietra.
La testa ce l’ho abbastanza leggera, per fortuna. Gravità come queste mi sembrano idiozie.


«Jessie quello che hai visto… cerca di non parlarne a nessuno. Per favore. Nemmeno agli altri»
Keigo prova a riprendere la situazione e io lo lascio fare, appoggiando il mento sul gomito sistemato sullo schienale. Osservo la scena senza dire nulla, trovando piuttosto seccante più l’interruzione, che le conseguenze della stessa.
Jessie fa qualche nuovo passo indietro e si avvicina alla serranda. Si sente il rumore tipico di quando ci si sbatte contro.


«Per chi mi hai preso? Non lo dirò di certo…» credo che la ragazzina sia ancora arrabbiata per la litigata di poco fa.

«Sul serio, Jessie. È una cosa… una cosa importante»

«Ti ho detto che non lo farò!» urla facendoci trasalire. Caspita, è incazzata di brutto. Guarda Keigo come se fosse l’uomo per cui potrebbe scatenare una guerra. Decido d’intervenire.

«Jessie…» lei si volta verso di me «I nostri genitori non lo sanno. I nostri amici non lo sanno. I nostri contatti userebbero questa cosa per metterci nei guai. Noi ci fidiamo di te, tutto quello che ti chiediamo è di non deluderci»

Lei rimane in silenzio per un po’, mi guarda valutando chissà cosa. Ha uno sguardo un po’… come dire… triste. O forse è solo stupita dalla cosa e non sa che dire. Sapevo che si era accorta di quanto per me fosse importante Keigo, perché insomma… la nostra confidenza non regge nessun paragone ed è anche l’unico al quale permetto di chiamarmi “Iye”. Probabilmente non sapeva quanto fosse profonda e ora se l’è ritrovata sbattuta in faccia.
Non posso darle torto, probabilmente non se lo aspettava. O magari sì. O magari boh. Troppe domande, chi se ne frega. Ormai è andata.


«Non preoccuparti, Red. Non ne farò parola con nessuno» mi risponde e io affondo le labbra nell’incavo creato dal gomito. Assottiglio gli occhi e probabilmente il mio leggero sorriso l’ha intravisto. Mi sorride a sua volta ed è di nuovo lì la sensazione bella che mi crea.

«Grazie» risponde Keigo poco dopo, abbassando il tono e sentendosi probabilmente in colpa per qualcosa. Lei lo fulmina con lo sguardo e fa per andarsene, ma lui la chiama di nuovo.

«Jessie…» lei si ferma e lo guarda. Ha il corpo mezzo piegato per oltrepassare la serranda e andarsene. «Senti, mi dispiace per prima. Ho esagerato, mi sono comportato sul serio da stronzo»

«Sì. Lo hai fatto» replica lei seccamente.

Keigo chiude gli occhi e sospira.
«Lo so. Non preoccuparti per i soldi. Sei brava e lo hai dimostrato altre volte. Senza di te, qui, non andremmo avanti…»


Ah! però, che confessione importante. Guardo Keigo stupito dalla cosa e credo che Jessie stia pensando esattamente lo stesso, visto come lo guarda a occhi sgranati. Mi giro per osservarle la reazione e le sue guance iniziano a colorarsi di quel porpora tipico da ragazzina. Stranamente questa reazione mi rilassa. Ci rilassa entrambi. Vedo la tensione scivolar via dalle spalle di Keigo e persino io provo una sensazione di tranquillità. Insomma, quella è la tipica Jessie.

«Ho capito…» dice, imbarazzata. «Grazie, Kei. E grazie ancora per lo specchietto»
Lui le sorride e lei ricambia, poi scivola sotto la serranda e se ne va.

 

*** 

 
Keigo torna sul divanetto sbuffando aria, come se avesse affrontato qualche tipo di Boss finale. Lo osservo alzare le mani e affondarle nei capelli e per come mi sento, trovo tutto dannatamente… attraente. Vorrei farlo io quel gesto. Vorrei arrivare con le mie dita a sentirne la frescura. Il mio corpo si muove da solo e si avvicina al suo, strisciando con il bacino sui cuscini abbozzati del divano.

«Che fai?» mi domanda improvvisamente, notando il mio gesto.

«Continuo da dove eravamo rimasti»

«No, Iye. Non me la sento. Questa cosa… è una cosa grossa» Non se la sente? Lo guardo sbattendo le palpebre più volte. Ci sono alcuni momenti in cui mi viene la voglia di strozzarlo. «Non che non mi fidi di Jessie, ma era affare nostro, solo nostro e ora non lo è più. Ora saremmo etichettati a vita» esagerato! Nemmeno l’avesse scoperto il mondo. È Jessie!

«La stai facendo troppo grave. Ci ha visto mentre ci baciavamo e allora? Non eri di certo nudo e in una posizione compromettente» stringo le labbra e la canna che è in circolo mi fa sorridere in modo più malizioso. «Anche se la cosa non mi dispiacerebbe per niente, ora»

Keigo mi guarda stringendo le palpebre, anche se lo vedo divertito.
«Smettila. Dico sul serio» la sua voce si colora d’ansia. Ah, Dei. Spero vivamente che quello che ha fumato non si stia trasformando in depressione «E se ci ricattasse? Se provasse a fare la furba e usasse questa cosa contro di noi? È una femmina! Chissà che cosa potrebbe tirar fuori la sua mente complessa e maligna»


«Ha ragione quando dice che sei maschilista, Kei» rinuncio completamente a provarci, anche perché se mi respinge più di così, temo di rimediare in malo modo. «Non so se hai notato, in questi mesi, che quella ragazzina pende completamente dalle mie labbra. Non succederà niente di ciò che credi fino a che la tratteremo bene e con il tatto giusto. Quindi inizia a farti meno problemi, ad avere più fiducia in lei e a dimostrare che vale»

«Non pende completamente dalle tue labbra…» s’imbroncia mentre lo dice.

Lo guardo come se fosse idiota «Di tutto il discorso che ho fatto, ti è entrato in testa solo questo?» lo fisso a bocca semi-aperta.

«No, ok. Ho capito» alza le mani e le incrocia sotto il petto. Si fa avanti con il corpo e appoggia parte della schiena al divano. «Va bene. Mi sforzerò di trattarla meglio. Però… insegnale a fare bene il suo lavoro, cazzo»

«Stai dando la colpa a me?»

«No! Cioè… sì! Se non ha capito l’importanza di ogni passaggio è perché tu non gli hai dato sufficienti spiegazioni. Per te è tutto normale e meccanico, per lei no»

Otto, nove e dieci. Ok, conteggio finito. Mi sono calmato. Ha rischiato sul serio che gli stringessi forte le palle per farlo star zitto.

«Ok, senti. Evidentemente la magia del fumo si sta trasformando in qualcosa di pericoloso. Stai iniziando a dire una marea di stronzate e sei fortunato che ti conosco e che conosco quello che pensi di me. Se fossi stato qualcun altro, queste parole te l’avrei fatte rimangiare» lui stringe le labbra e si imbroncia, fulminandomi con lo sguardo. Non mi lascio né impietosire e né provocare. «Se metti ancora in discussione il mio lavoro, giuro che parlerai come un eunuco per una settimana»

«Un eu-eunuco?» domanda stupito che abbia potuto dire una parola del genere. Sta per ridere.

«Sì. Ti strappo le palle e ne faccio un portachiavi»

E ride di gusto, sollevando le sopracciglia e stringendo ancora di più quegli occhi sottili. Lo guardo ammirandone la spontaneità. Sorrido anch’io, anche se sono ancora irritato per la sua insinuazione, ma non riesco a trattenermi e mi viene naturale assecondarlo. Che brutto potere che ha il fumo, ti fotte proprio il cervello e ogni reazione.

«Ok. Ok, sterminatore di virilità. Devo andare, così allontano le mie palle dalle tue grinfie»

La delusione mi sovrasta come un’onda enorme. «Devi proprio?»

«Sì. È tardi. Tu vedi di tornare a casa dai tuoi»

«Non ci penso nemmeno. Rimango qui, tornerò domani mattina dopo la scuola» mento, di sicuro dopo le lezioni seguirò il piano per evitare mio padre e sarò di nuovo al garage.

«Se il tuo vecchio mi richiama incazzato come oggi, giuro che ti ci trascino di peso» dice minacciandomi e io lo ignoro per guardare la tv spenta. La trovo stranamente interessante.

«Iye…» incalza

«Ho capito!» sbotto, senza girarmi.

Keigo sospira. Si avvicina a me ponendosi frontale, posa entrambe le mani sulle mie ginocchia e si china per baciarmi. Io socchiudo gli occhi e lo lascio fare, riassaporando di nuovo quella vicinanza, che sa di fumo e di bagnoschiuma maschile. Sollevo una mano e tento di trattenerlo per inclinare il viso e avere un po’ di più. Sento montare di nuovo quella voglia e improvvisamente la mia mano scatta verso il bavero del suo maglione e lo stringe forte per trattenerlo. Lui prova a muoversi e aumento la presa. No, ‘fanculo. Dammi di più! Lo sto letteralmente implorando con il corpo, ma Keigo dopo un po’ insiste e si ritira, ponendo le dita sul dorso della mano con cui lo trattengo.

«Devo andare» sussurra sopra le mie labbra e mi bacia ancora.

«Fottiti Kei» rispondo con la stessa tonalità di voce, lasciandolo andare. Sorride.
Non ho ancora capito perché non possiamo riprendere da dove eravamo. Possibile che questa cosa di Jessie l’abbia sconvolto così tanto? Bah. Lo spingo via e lui ride ancora un po’. Fa niente, basta che continui a ridere. Lo aggredirò fisicamente qualche altro giorno.


«Ci vediamo domani»

«Sì»

Non mi giro fino a che non oltrepassa la serranda, aspetterò qualche altro minuto, poi chiuderò tutto. Metti che ci ripensa…

 

*** 

 

Dopo quella sera Jessie si è comportata normalmente e, dopo una prima incertezza, anche io e Keigo. Questo per due giorni, poi oggi ha scritto un messaggio a entrambi avvertendoci che non sarebbe passata al garage. La cosa ha mandato Keigo ai pazzi, ma sono riuscito a tranquillizzarlo con la dose di hashish che ho recuperato l’altro giorno. Ora sta giocando alla play, ad un gioco di calcio, mentre io sono ancora al pc e lavoro ai dati che abbiamo recuperato. Li classifico e li rintraccio, preparando la strada alle ricerche di Kei all’FBI.

«Stupido omino dalle gambe storte!»

Mi volto verso l’insulto di Keigo e lo osservo combattere con i tasti del joystick. Stringe la mascella per la concentrazione e morde le labbra ogni tanto, ruotando il corpo ad ogni azione. Sospiro. Non ci ha per niente ripensato quella sera. L’ho aspettato per quanto, due ore? Alla fine ho sigillato la serranda per chiudere la storia.
Non che non si sia recuperato qualcosa il giorno dopo, però… diavolo se gli è bruciata questa cosa di Jessie. Dovrò parlarle e magari cercare di convincerla a tranquillizzarlo. Non ho alcuna intenzione di affrontare la sua incertezza ogni volta che voglio farci qualcosa, che diamine!
Sospiro affranto da questo mio pensiero, buttandomi indietro sullo schienale della sedia e allungando le braccia per continuare a digitare. Che ore saranno? Abbiamo cenato da un po’ e con noi è rimasto solo Tizio X che lavora all’ennesimo programma di crack. È un Mezzoanimale di non so quale razza di bovini. È grosso, con due corna vicino alle tempie, che spuntano da sotto i capelli ricci e scuri. Della sua vita privata m’interessa molto poco, ma so che è un compagno di università di Keigo ed è gemello di Tizio Y, un altro Mezzoanimale della stessa famiglia.
Non sono uno che si fissa troppo sui nomi; anzi, tendo a scordarmeli se chi incontro non m’interessa. E infatti Tizio X si chiama così perché non ricordo affatto il suo nome. Cioè… me lo ridice ogni volta, ma puntualmente me lo scordo. Lo so, è da stronzi, ma sinceramente non è che ci tengo a farci amicizia.

Un suono. Quello tipico delle mail. Guardo lo schermo e apro il programma. Non è stata inviata al classico account, ma a quello momentaneo e fittizio, riciclato da uno dei programmi di Tizio Y. Di solito questo significa lavoro in arrivo, solo che non è una mail di lavoro. È Jessie.

 


Da: Blansk

A: Red Allert
 
Oggetto: SOS
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Red,
 
aiutami, sono nei guai! Sono all’agenzia dove ci siamo infiltrati l’ultima volta.
Non riesco a uscire, ci sono le guardie.
Non dire niente a Kei, ma ti prego… vieni!
 
J.
 
*Questa mail, una volta aperta, si cancellerà tra 10 (dieci) minuti*
 
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Rimango leggermente interdetto.

Sbatto le palpebre. Le sbatto di nuovo. Leggo più volte il testo, come se farlo mi permettesse di capire qualcosa. E in effetti succede: capisco che la situazione che ho davanti è ben più grave di quello che leggo in queste frasi. Mi alzo di scatto dalla sedia, questa scorre sulle rotelle andando a sbattere sui server dietro le mie spalle.

Mi accorgo degli occhi di Keigo e di Tizio X che mi fissano.

«Che succede?» domanda Keigo senza allarme, anzi, in modo molto svogliato. È la canna che ha fumato a tenerlo buono. Anche perché gliene ho fatta una così carica che è bastata finirla per mandarlo k.o. a livello ricettivo. E questo o è buono o è un bel casino.

«Red…?» mi chiama Tizio X e io ancora non parlo. Tengo le mani vicino alle cosce e valuto velocemente il da farsi. “Guardie”. “Agenzia”. “Non dire niente a Kei”. Quest’ultima cosa mi spiazza perché so che sarebbe utile, quanto distruttivo. Con i suoi agganci all’FBI sarebbe facile richiamare le guardie, ma dall’altra… la tensione sarebbe terribile e già è delicata per l’ultimo episodio. Una cosa come questa lo porterebbe alla devastazione totale. Dei. Che devo fare?

 

*** 

 

Socchiudo gli occhi e mi risiedo lentamente al mio posto. Inizio a rintracciare la mail e a scoprire da dove sta scrivendo Jessie. È stata brava a usare il nostro canale privato, anche se questo mi ha reso più difficile individuarla.

«Iye?» Cazzo. Chiudo tutto e mi volto verso di Keigo che ha già fatto il giro del divano e mi ha raggiunto. Sono veloce a minimizzare le schermate, spero che abbia battuto la realizzazione del suo cervello. Anche se ci vuole poco in questo momento.

«Mh?»

Tizio X mi sta ancora guardando.

«Che è successo? Perché sei scattato in quel modo?» ripete Keigo.

«Ah, intendi prima?» recupero tutto il mio talento nel dissimulare le emozioni e lo sfrutto per apparire tranquillo. Keigo annuisce, aggrottando le sopracciglia e valutandomi con uno sguardo interrogativo. «Niente, pensavo di aver visto qualcosa fermarsi fuori la serranda. I piedi di una persona o una cosa del genere» mento e mi riesce bene.

Keigo esamina l’uscita del garage, Tizio X invece continua a guardarmi.

«Prima non ti era arrivata una mail?»

Bovino del cazzo. Giuro che il prossimo hamburger te lo mangio davanti.

«Sì, era solo dello stupido spam. L’ho cancellato» mento di nuovo e sembra che ci creda, anche se continua a guardarmi un po’ sospettoso. Devo fare qualcosa per distrarre la sua attenzione su di me e tentare di rintracciare la posizione di Jessie, prima che scadano i dieci minuti. «Come procede il lavoro sul programma spia? Ho visto l’ultima simulazione, ma sono riuscito a bucarne i punti deboli con poco sforzo, Tizio X» suono antipatico di proposito. Antipatico e superiore. Così magari la smette di parlarmi.

«Mi chiamo Denver.» Bingo. Sento il suo rancore mescolarsi all’allarme del fallimento. «E ho visto quello che hai fatto al mio programma, l’hai infettato di proposito»

«Non di proposito. Cioè, insomma… era l’unico modo per capirne le debolezze»

«Mi hai fottuto metà del lavoro»

«Così lo rifai meglio»

«Red, fai il favore e crepa presto»

Ecco, ora mi odia e ha distolto lo sguardo. Missione compiuta. Di quello che pensa non me ne frega niente. Di programmatori validi se ne trovano, di tipe come Jessie invece no.
Jessie! Cazzo, è vero. Devo trovarla. Mi rimetto a lavoro e cerco di trovare la fonte della mail in quei cinque minuti che mi rimangono. Respiro con calma e tento di fare tutti i passaggi necessari con attenzione, senza farmi rodere dalla fretta. Se sbagliassi, la cosa diventerebbe molto spiacevole.
Ci vogliono centottanta secondi di pura concentrazione, ma alla fine vinco. Le scrivo velocemente per non farla preoccupare.

 
 
Da: Red Allert
A: Blansk
 

Oggetto: Re: SOS 
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Sto arrivando.
 
R.A.
 
*Questa mail, una volta aperta, si cancellerà tra 10 (dieci) minuti*
 
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Invio. Faccio un controllo sulla struttura e mi accorgo che è ben messa. Sicuramente Jessie avrà già pensato a tutto, ma do ugualmente un’occhiata al sistema d’allarme, non è difficile da aggirare. Solo che posso intervenire solo dall’interno all’edificio. Mi guardo velocemente i punti di ripristino del segnale e li memorizzo. Mi sento molto Batman in questo momento e la cosa mi riempie di un timore euforico. Posso farcela. Spero che non sia avventatezza stupida.

«Keigo…» lo cerco con lo sguardo e lo ritrovo sul divano a giocare ancora Fifa. Di tutta la conversazione con Tizio X se ne è altamente fregato. Una cosa che ammiro di lui: menefreghista quanto me. «Vado a prendere qualcosa da mangiare. Posso prendere il tuo motorino?»

«Ahn?» non distoglie lo sguardo dalla tv. «Ah, sì certo. Fai pure. Prendimi una birra. Anzi, prendine sei»

«Ok» prima di alzarmi cerco velocemente quest’agenzia in internet. Memorizzo la mappa, studio per un momento il percorso e mi accorgo che non è né vicino, né lontano. Forse in una mezzora sono lì. Mi alzo con calma dalla sedia e cerco la giacca di Keigo per prendere le chiavi dello scooter.

«A me non chiedi se voglio qualcosa?»

Sospiro, mordendomi le labbra per trattenere una risposta cattiva. Torno con lo sguardo verso Tizio X.

«Che vuoi?»

«Ce la fai a portare anche da mangiare? Magari delle chips. O del…»

«Passo al Mc Donald?»

Probabilmente se potesse incornarmi lo farebbe. «No, preferisco che vai da Fish & Chips» dice pieno di rancore.

«Vedrò che posso fare» liquido la cosa, tentando di scordarmi il suo sguardo d’ira mentre recupero svogliatamente il casco.

Mi lego i capelli e mi vesto per uscire. Alzo la sciarpa oltre il naso e mi infilo la giacca scura di mio fratello. Se c’è una cosa positiva di questa merda, è che almeno è nera. Ottima per non farmi vedere da telecamere o altro. Mi controllo un po’ addosso e non scopro niente di riconoscibile. Mi vesto sempre per apparire il più invisibile possibile, quindi direi che i jeans strappati e le normali scarpe da skater che indosso, larghe e consumate nel complesso non suggeriscono niente di troppo evidente. I capelli lunghi li raccolgo proprio per evitare che possano fuoriuscire oltre le mie spalle e direi che sono pronto.


«Guarda che puoi anche pagarle quelle cose» dice Keigo divertito, notando il mio abbigliamento.

«Pensavo di farmi fare lo sconto, puntando sulla brutta impressione»

«Vai, idiota. Ho sete» ride.

«Sì, sì…» prendo la tracolla e ci ficco dentro un paio di cavetti senza farmi vedere. Questi mi serviranno per infilarmi nei sistemi dell’agenzia. Spero che Jessie abbia con se il portatile, ma direi di sì vista la sua mail.

Mi dirigo verso la serranda e, mentre mi abbasso, sento Tizio X fermarmi di nuovo.

«Red…?»

Devo andare, cazzo!

«Dimmi»

«Prendi anche qualcosa dal deposito»

Il deposito è dove teniamo la roba che racimoliamo: soldi, droga e informazioni. So che Tizio X, il più tossicodipendente di noi, è quello più fuso da quella roba. Gli faccio un cenno, facendogli capire che lo farò. Lui rilassa il corpo e tira un sospiro di sollievo.

Esco, mi metto il casco e, preso lo scooter di Keigo, avvio il motore. Prima di avviarmi, spengo il cellulare, in modo che non mi chiamino.

Guardo la serranda abbassarsi dopo che me ne sono uscito, probabilmente Keigo vorrà fare quel gioco della parola d’ordine, allarmato dalla mia bugia di poco prima. Rimango fermo ancora un po’ e osservo le tapparelle che si illuminano per la luce interna.

Non l’ho salutato. Non gli ho detto niente. Spero che vada tutto bene.

Giro l’acceleratore e vado via da lì.

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Capitolo 4
*** Insert Coin ***


26 anni

- Insert Coin -



Saranno le otto di mattina, del giorno prima di capodanno. Ho un’ora e mezza di tempo per aprire il negozio e mettermi a lavorare. Mi giro dall’altra parte, affondando la testa nel cuscino. Mi sento troppo rincoglionito per pensare di farmi un caffè, figurarsi alzarmi dal letto e metter la macchinetta sul fornello. No, quasi quasi mi rimetto a dormire un’altra mezzoretta. So già che è facilissimo: basta chiudere gli occhi, pensare a poco e niente e già posso immaginare di stare altrove. Il mondo diventa lontano, il rumore delle automobili si confonde assieme al sale sparso per le strade…
«Uooooo! Uooooo! Uooooo!» sento urlare, un verso così carico che mi fa letteralmente saltare seduto sul materasso.
«Cazzo… cazzo!» che diamine è? Mi guardo intorno e ho tutti i capelli davanti alla faccia, quindi vedo solo una marea rossa di ciocche che mi copre la visuale. Li sposto come una tendina e osservo Totem in un frullo d’ali che si agita per la stanza.
«Uoooo! Uoooo! Glglglgl…»
«Dei, Totem! Sei proprio… » alzo le mani e mi tocco gli occhi con i polsi. Li stropiccio. «Sei proprio uno stronzo»
Odio quando quel maledetto uccello mi sveglia così. Ma ha fame, lo so. Che altro può fare se non buttarmi giù dal letto in questo modo? Rannicchio le spalle e continuo a stropicciarmi gli occhi e poco dopo striscio fuori dal letto, toccando con i piedi nudi il pavimento. Mi alzo in piedi e mi stiracchio. La schiena si tende piacevolmente e chiudo gli occhi godendomi quella sensazione. Poco dopo un rumore mi avverte che Totem è lì vicino a me, a mezz’aria, aspettando di posarsi da qualche parte. Mi fermo e le sue zampette mi toccano una spalla. Ha le piume tutte arruffate per il volo, ma hanno ancora quel colore splendido e quella lunghezza tipica della sua razza. Un Uccello del Paradiso, testa dorata e coda bianca.
«Hai finito?» allungo un dito e lui me lo pizzica con il becco, emettendo un gorgoglio. «Ok, ti do da mangiare. Ma torna nella teca, mi sembro Cenerentola» mi tira i capelli, passandoci il becco all’interno. 
Mi sta sfottendo, ne sono sicuro.
Cammino verso la lunga lastra di vetro, incassata nel muro, che costeggia un lato della scrivania, apro la porticina e lascio che Totem vi passi all’interno, mettendolo al sicuro. Gli do da mangiare della frutta, sistemandola su un lato, poi chiudo tutto e penso a me.
Metto su il caffè grazie al piccolo cucinino che possiedo nel Magazzino e intanto vago alla ricerca dei vestiti nei cassettoni che uso come deposito alternativo a quello del mio appartamento. Ne recupero un paio piuttosto sgargianti, scegliendo una maglietta a maniche lunghe giallo limone e dei pantaloni a quadri verde mela, riempiti di spillette raffiguranti i simboli delle terre Magic. Gli stivaletti neri andranno bene, poi il tocco finale me lo darà la divisa dell’Insert Coin: arancione, con il logo stampato sul taschino e la scritta “Stuff” ad arco dietro la schiena. 
«Perfetto. Potrei accecare un pilota su uno shuttle» questa sì che è soddisfazione. 
Non appena l’odore del caffè si fa invitante, spengo tutto e riempio una grossa tazza. La caffeina fa il suo dovere e entro pochi minuti sono già sotto la doccia della stanza accanto, il classico WC dei negozi con qualche miglioria per me. Sistemato completamente, sono pronto per aprire l’attività: non ci vuole molto, basta che scenda le scale a chiocciola e alzi la serranda, poi sono già operativo. Ieri sera il raid su WoW è stato lunghissimo, ma lo sapevo. Ecco perché sono rimasto a dormire al Magazzino, la mia seconda casa, sebbene il pc che ho qui non possieda la stessa potenza del fisso del mio appartamento e la connessione sia decisamente più lenta, anche se sopportabile. Diciamo che è simile a quella dei comuni mortali che non ci capiscono molto di prestazioni.
Accendo luci e condizionatore, pulisco il pavimento, controllo le mail e le consegne. Lavoro di routine, dopo di che mi concedo la prima sigaretta della giornata.
Recuperando il pacchetto di Lucky Strike e lo zippo di Captain America ritrovato, esco fuori dal negozio. Rabbrividisco. ‘Fanculo a Dicembre. 
Mi sistemo sul muretto che costeggia una parte del negozio: L’Insert Coin è all’angolo di un altissimo palazzone, quindi ha due ingressi: uno con delle scale e un altro con una rampa per chi non può camminare o per chi è fondamentalmente pigro. Il muro che ripara questa rampa è l’ideale per farne un trespolo che permette di controllare entrambe le entrate tenere d’occhio la zona circostante. La strada è trafficata, perché immersa nella zona commerciale di Narita: buona nei giorni normali, ma stancante e infernale nei giorni di festa o di saldi. Per fortuna sono uno a cui piace molto lavorare.
Mi accendo la sigaretta e attendo che il fumo mi riempia i polmoni e li ingrossi di nicotina. 
Oh. Ora sto meglio.
Socchiudo gli occhi e consumo il tabacco in grosse e lente boccate, mentre controllo il via vai della gente. La mattina in un negozio come il mio si lavora sempre poco, perché i ragazzini sono a scuola o impegnati in altre attività. Di norma è il pomeriggio che c’è il vero casino, ma non è mai così eccessivo da impedirmi di respirare.
Sono a metà sigaretta quando arrivano i primi clienti: due bimbetti che con molta probabilità sono in vacanza. Ecco. Il lavoro chiama sempre durante una delle poche pause che mi prendo. Che palle. 
Scuoto la testa e spengo la sigaretta sul muretto, gettandola dentro la solita grata fognaria che ho adibito a mio cassonetto personale.
Scendo dal mio trespolo e li seguo. Giornata iniziata.

 
***

«Lo immaginavo più piccolo, visto da fuori»
Una frase mi strappa dalla lettura della Guida Strategica di Skyrim e mi fa girare completamente verso uno degli ingressi del negozio. Ci trovo Kacey, il Gatto impudente. La sorpresa di trovarlo qui scavalca di poco quella che ha suscitato il fatto di ricordarmi il suo nome.
«Il cartello non ti ha minimamente fermato, vero?» domando neutrale, lanciando un’occhiata di traverso proprio al ragazzino, che ovviamente non avrà visto la scritta “Torno Subito” appesa di fuori.
«Quale cartello?» è stupito, perciò si volta verso l’ingresso «Ah, questo?» e allungando una mano gira proprio quel pezzo di plastica, impostandolo su “Aperto”. «Mi sembrava ci fosse il via libera…» sorride strafottente.
Ma tu guarda questo…
«Sono sicuro che fino a qualche secondo fa il messaggio diceva: “Sono in pausa pranzo, quindi ragazzini… girate a largo”»
«Davvero? Se fosse stato così antipatico, gli avrei detto qualcosa di altrettanto antipatico»
Sospiro, evitando di continuare quel battibecco. Decido di chiudere definitivamente la mia lettura e badare che questo ragazzino non tocchi niente. Non ha mutato le orecchie. Le ha leggermente a punta, ma diciamo umane. Non sapevo che i Mezzianimali potessero trasformarsi anche parzialmente. La coda, infatti, l’ha invariata e gli spunta da dietro i jeans. 
Certo che è strano. Possibile che tra tutti i negozi di Narita, sia capitato a caso proprio nel mio?
«Cosa ci fai qui?»
«Indovina?» ride, come se avessi fatto una domanda stupida. Si è avvicinato a un grosso scaffale di giochi per pc.
Ritento, mantenendo un tono calmo. «Non sei per niente sorpreso di trovarmi qui dentro…»
«Sì. E allora?»
«E allora se pensi che sia scemo, non ti faccio nessuno sconto»
Ride di nuovo «Dai, sì. La sera di Natale ti ho seguito. Ero curioso di sapere dov’eri diretto e anche perché… boh! Mi è sembrato naturale.» Naturale? M’inquieta «All’inizio era per gioco, ma quando ho visto questo negozio, ho pensato: “fiiigo”» e sgrana gli occhi divertito, guardando tutta l’ampiezza colorata e videoludica dell’Insert Coin. Ci sono scaffali di giochi per ogni tipo di console, gadget, peluche impilati e un piccolo reparto per i collezionisti. Ogni cosa è sgargiante, colorata e illuminata da neon. Persino il pavimento è disegnato, in uno stile pixel art che ricrea una sorta di albero stilizzato; le radici, raggiungono ogni scaffale organizzato in tutto l’ambiente.
Sì, quello che gli vedo in faccia è l’effetto che farebbe a me se avessi la sua età. Alla mia, invece, si comprano proprio questo tipo di negozi e se ne diventa proprietari.
«Perciò sono tornato» conclude, guardandomi sorridente.
Me lo ricordo quel sorriso. Ha una spontaneità davvero apprezzabile, ma tento di non farmi distrarre da quella faccia da schiaffi.
«Quindi i tuoi impulsi da stalker erano fondati»
«Non che fosse difficile seguirti o ritrovarti in mezzo al casino del centro, con quei capelli» ribatte, afferrando uno dei giochi dallo scaffale. «Però no, in realtà… credo di aver voluto seguire il tuo odore. C’era una cosa che mi incuriosiva»
L’inquietudine aumenta.
«Ah, sì. Beh. Non ho idea di cosa tu stia dicendo, ma se sei qui per comprare posso anche dedicarti parte della mia pausa pranzo. Che poi… a quest’ora non dovresti essere a scuola? O a una delle vostre attività scolastiche del pomeriggio?»
«No, lezioni finite per via delle feste. E oggi non ho gli allenamenti di basket»
«Basket?» domando, guardandolo un po’ troppo sfacciatamente. Mi dice “basket”, ma non sarà nemmeno un metro e settanta. È un piccoletto. Che ruolo mai avrebbe? Quanto mi viene voglia di sfotterlo…
«Non pensare nemmeno per un attimo a prendermi in giro» mi avverte, improvvisamente.
«Lo dici perché hai capito cosa sto pensando o perché è una cosa che succede tutti i giorni?» non ho saputo trattenermi e a giudicare da come mi sta guardando, anche lui sta perdendo la lotta interiore sul tirarmi o meno addosso qualcosa.
«Guarda che le cose “lanciate” vanno comprate» mi premunisco. E rimette subito a posto il gioco che aveva in mano.
«Sono un playmaker e per quel ruolo non bisogna essere alti, solo bravi a organizzare la squadra. E comunque si cresce fino a ventotto anni e io sono ancora in via di sviluppo»
«Ah, sì. Se nel tuo caso credi nei miracoli…» dissimulo il mio divertimento riaprendo la guida strategica del videogioco.
«Spilungone del cavolo» borbotta, prima di dirigersi verso lo scaffale dove appesi ci sono diversi portachiavi. Il tintinnio mi fa capire che li sta toccando o esaminando quindi, con la coda dell’occhio, lo spio. Mi soffermo proprio sulla sua coda, che oscilla lentamente dietro la sua schiena. È una linea lunga e sinuosa nell’angolo del mio sguardo. E mi distrae. In effetti chissà quale deve essere la sensazione di averla; che prolungamento di arti può significare? Il cervello la muove inconsapevolmente, oppure no? Sarebbe interessante provare una sensazione del genere…
«Ehi, hai un portachiavi tipo questo?»
La sua domanda mi riscuote e mi fa abbandonare i miei pensieri sulla coda. Sbatto le palpebre un paio di volte, mentre controllo a cosa si stia riferendo. Mi mostra un portachiavi di un Sackboy, quei piccoli affarini personalizzabili nel gioco di Little Big Planet. Il suo è un po’ consumato, ma ha ancora il suo sorriso sgargiante.
«Sì, ma non con quell’espressione…» mi alzo dallo sgabello e mi muovo verso gli stand che contengono i vari portachiavi. Gli passo accanto, aspettando che si faccia da parte per piegarmi e cercarlo nella penultima fila, in basso. Lui si china assieme a me, raggruppando le ginocchia tra le braccia. La coda alta e quella posizione lo rendono più gatto che umano. «Eccolo. Ce l’ho imbronciato. Oppure così, più grosso, ma già vestito. Cappellini, parrucche… insomma, quella roba là»
«Ce ne hai uno con i tuoi capelli?» domanda divertito e io lo guardo alzando un sopracciglio sotto la frangia rossa.
«Tzè. I miei capelli non sono una particolarità per tutti…» e per dispetto prendo proprio uno dei portachiavi e glielo agito davanti, stuzzicando i suoi istinti felini.
Questi mi danno la giusta risposta, perché cerca di afferrarlo allungando una mano e io dispettosamente rispondo togliendoglielo da davanti. Si acciglia.
«Ehi, questo è un colpo basso!» mi rimprovera e io alzo le spalle innocente, così continua «Posso graffiare, sai? E anche mordere. Stai in guardia» e sorridendo mi mostra i canini. 
Trovo la cosa di nuovo affascinante. Non ho mai avuto molto a che fare con i Mezzianimali e quando ero giovane li ignoravo, inoltre tra le mie conoscenze c’erano più umani che razze particolari. È un po’ tutto nuovo per me. Anche i loro comportamenti.
«Che belva feroce…» minimizzo di proposito il suo atteggiamento, abbassando lo sguardo e alzando il viso. In questo modo dovrò sembrargli molto più alto, nonostante stiamo entrambi piegati e in ginocchio. Aah. Sensazione di superiorità, mi sei mancata. 
«…Comunque il portachiavi sorridente dovrei averlo nel Magazzino. Posso recuperartelo appena sto per chiudere il negozio, di sicuro non posso assentarmi ora e lasciare tutto così»
«Intendi lì sotto?» indica, alzandosi definitivamente dalla sua posizione accucciata. Osservo la direzione del suo dito, rimanendo ancora seduto sui talloni. Sembra che indichi il piano sotterraneo verso cui continuano le scale a chiocciola. Stringo gli occhi. Sento odore di “curiosità”.
«No. Quello è un posto inagibile, ancora. Parlavo del piano di sopra. È lì che tengo gli scatoloni delle consegne… ehi, guarda su!» noto subito come il ragazzino non abbia staccato gli occhi un attimo dal piano sottostante. La semplice “curiosità” sta diventando molesta.
«Perché? È un posto segreto? È inagibile? Non sarai mica una spia?» mi sommerge di domande, con gli occhi che brillano per l’emozione. Domande, peraltro, che non hanno alcun senso. Eppure la cosa mi diverte, mi viene quasi naturale scherzarci su.
«Beh, ti basti solo sapere che nel caso tu lo scoprissi, poi dovrei ucciderti. O trovare il modo di non farti parlare»
«Così mi fai venir ancora più voglia di capire cosa c’è di sotto»
«Lo so. Ma non lo saprai mai, se non a tempo debito»
Grugnisce la sua disapprovazione, ma alla fine si arrende. Contento di aver vinto, alla fine mi alzo in piedi e torno dietro al bancone. Guardo i due ingressi del negozio e noto come un paio di ragazzine sono lì davanti in attesa di qualcosa. Guardano la vetrina, o almeno credo. Non gli metto pressione, rimango al mio posto in attesa che si decidano.
«Avete recuperato il vostro amico?» domando a Kacey mentre metto via la guida strategica. 
«Chi, Netsu? No. O almeno non io. Non mi metto a inseguirlo tutte le volte che se la prende con qualcuno o fa l’asociale»
«Non è la prima volta che scatta in quel modo, immagino»
«Immagini bene» Kacey alza le braccia e si stiracchia la schiena. A quel gesto vedo le due ragazzine ridacchiare. 
Il ragazzo si avvicina al bancone e appoggiando i gomiti si sistema praticamente di fronte a me. 
Mi faccio indietro. Il mio istinto di conservazione ha sempre la meglio. 
Kacey non sembra notare la cosa e continua a parlare tranquillo «Ha litigato con me anche la prima volta che ci siamo conosciuti. Poi ha azzannato un paio di passanti nel parco, una volta» solleva lo sguardo azzurro e sembra riflettere. «Non è propriamente colpa sua. In realtà è più “animale” che “umano”. Suo padre era una volpe vera e propria»
Ah, questa poi. È possibile che i Mezzianimali possano fare figli con animali della stessa razza? Non capisco se la cosa mi affascini o mi faccia rabbrividire.
«Ho capito. In effetti si vede dal suo aspetto selvaggio che non è affatto un tipo facile. Oltre al ringhiare e al tirare fuori le zanne…»
«E quello è il minimo» esclama lui ridendo, poi stende le braccia e si allontana dal bancone. «Comunque non l’ho inseguito anche perché Touya ha una cotta per lui. Non volevo mettermi in mezzo»
Chi? «Touya?»
«L’altro ragazzo che era con noi…» dice velocemente Kacey, aggrottando le sopracciglia come se la mia domanda fosse strana. Ah, intende il ragazzetto dai capelli grigi.
«Scusa, non sono uno che si ricorda facilmente i nomi»
«Il mio te lo ricordi?» 
«Certo: tu sei il “Gatto dai capelli blu”» mento, scoprendo attiva la mia voglia di vederlo sorridere in quel modo furbo.
«Kacey» ripete, anche se non ce n’era bisogno.
«Beh, non è simile?»
Evito di chiedere curiosità sui gusti di Touya, fingendomi disinteressato alla cosa, anche se l’avevo capito perfettamente. Persone con “gusti” del genere, si riconoscono al volo. Anzi. Noi, li riconosciamo al volo.
Certo, poteva sceglierselo un po’ meno stronzo.

 
***

Le due ragazzine all’ingresso, decidono di entrare e io mi metto subito a loro disposizione. Osservano me e Kacey con una certa assiduità, ma io sono abituato a quel tipo di sguardi, il Gatto invece pare proprio non farci caso. Se ne sta educatamente in disparte e mi lascia fare il mio lavoro, senza mettersi in mezzo. Una cosa che apprezzo.
Entrambe mi chiedono un gioco uscito recentemente per la console portatile, tipica della loro fascia d’età. A guardarle avranno più o meno quindici anni e mettendole a confronto con Kacey, dimostrano un aspetto molto più infantile. Anzi, a pensarci bene, Kacey in confronto ai tipici giapponesi sembra molto più adulto dei suoi coetanei. Saranno i lineamenti occidentali? Boh.
Terminato l’affare, mi dirigo alla cassa per digitare l’incasso e nel farlo vedo una delle ragazze persa completamente nello sguardo sorridente di Kacey. Lui è appoggiato su un lato del bancone e si tiene il viso su un palmo. Ha gli occhi stretti in una linea maliziosa e sta sorridendo in sua direzione.
Un momento… Stanno flirtando nel mio negozio?
«Quant’è, signore?» dice una vocina femminile che ignoro.
La ragazzina ride e Kacey si acciglia leggermente e abbassa lo sguardo. Non riesco a capire se stia facendo solo il gentile o se ci stia provando.
«Ehm…» quella voce ritenta.
«Sì, scusa. Sono cinquecento yen»
Mi affretto a rispondere e la ragazzina di fronte alla cassa, timidamente, mi allunga la cifra richiesta. Nella fretta prendo direttamente dalle sue dita il mazzetto di soldi e appena la sfioro per errore, questa emette un gridolino sorpreso, ritirando la mano e avvampando. Dea madre! Non gli ho di certo toccato una tetta! La guardo con poco stupore, ma è indubbio che la cosa mi abbia ammutolito; così anche la sua amica e Kacey stesso.
«M-mi scusi» e sorride, imbarazzata.
«No, scusami tu. Ecco» e le porgo il sacchetto contenente il gioco.
Giapponesi. Li tocchi o invadi il loro spazio personale e li hai in pratica violentati. Ma chi ha inventato la loro cultura? Mah.

 
***

Le due ragazzine escono dal negozio e io le vedo parlottare fino a che non spariscono oltre le vetrine. Scuotendo la testa sistemo i soldi nella cassa e la chiudo con il solito codice.
«Stava praticamente sbavando per te…»
Kacey parla e io mi ricordo all’improvviso che è ancora lì. Lo trovo ancora piegato con i gomiti sul bancone, che mi guarda sorridente e con gli occhi socchiusi. Dietro di lui la coda si agita in modo divertito.
«Ma chi?»
«La ragazzina di prima!» ride incredulo e io non capisco dove voglia arrivare. Sinceramente non ho visto niente di simile, piuttosto il contrario.
«Non dire assurdità»
«Non hai visto l’emozione nei suoi occhi?» il tono è fintamente teatrale.
«Voi adolescenti ampliate le cose per il puro gusto di farle sembrare importanti»
«Sembra quasi che tu non accetti l’idea di poterle piacere»
Mi ammutolisco improvvisamente, stringendo gli occhi. 
«È scattata perché le ho sfiorato la mano e visto la fantasia delle ragazze giapponesi, le sarà sembrato che la volessi prendere e farmela sul bancone. Preferisco non avere rapporti con conseguenze del genere» 
Forse ho parlato troppo irritato, ma Kacey sembra nascondere qualcosa nello sguardo divertito. Una cosa prettamente maschile, tipica degli adolescenti che hanno impulsi più fisici di quelli che posso avere io a ventisei anni.
«Sarebbe figo farlo su questo bancone…»
Da una parte mi stupisce, dall’altra no.
«Placa le tue fantasie, stalker maniaco. O non ti ci faccio nemmeno appoggiare»
Alza una mano «Va bene, va bene…» e ride. 
Preferisco non avventurarmi in discorsi simili, quindi cerco di deviare completamente l’argomento usando Kacey come centro.
«Piuttosto potresti andare e inseguire la sua amica» faccio perno su quest’idea, magari decide di seguirla e io posso continuare a lavorare senza distrazioni. «Ho visto gli sguardi tra voi due. Se esci ora fai in tempo a trovarle. Non so, segui l’odore… le tracce. Qualcosa di simile»
«Ehi! Non sono un cane» replica in fretta, quasi offeso.
«Poco fa hai detto che mi hai seguito per l’odore. Hai grossi complessi sulla tua razza…»
«Era diverso» ribadisce, mantenendo il broncio.
Mah. Tutta questa differenza io non la vedo. Decido di lasciar ai Mezzianimali i loro bizzarri comportamenti e insisto sul punto delle due ragazzine.
«Comunque odore o non odore, puoi sempre seguirle. Magari ci rimedi una fidanzata. O due, se vuoi fare l’ingordo»
«Non m’interessano le ragazzine e non avevano nemmeno la mia età. Preferisco star qui, in un negozio come questo, ad aspettare il mio sackboy che ride felice» risponde perentorio, sapendo benissimo di farmi dispetto. Sospiro, guardandolo stancamente. 
Per oggi, non penso proprio che riuscirò a liberarmi di questo Gatto molesto.

 
***

Ho voglia di fumare, ma Kacey è ancora qui. È da tutto il pomeriggio che è qui ed è da tutto il pomeriggio che non tocco una cazzo di sigaretta. Ha giocato più o meno sempre alle demo messe a disposizione per i clienti, ma tra una vendita e l’altra abbiamo chiacchierato un po’. Gli ho detto da dove vengo e delle mie origini Indio-Americane. Lui invece mi ha spiegato qualcosa della sua razza che avevo solo sentito dire: fino a trent’anni fa dei Mezzianimali non si conosceva praticamente nulla e vivevano nascosti con tutti i loro segreti, nonostante si pensi che siano esistiti da sempre. Poi all’improvviso c’è stato il “boom” e si sono centuplicati in giro per il mondo, come i mutanti degli X-men. Da qui è partito un acceso dibattito su chi tra di loro abbia il potere più interessante e utile, per poi finire a convincerlo che no… Wolverine non è affatto un Mezzoanimale Gatto, dallo scheletro di adamantio.
«Ma ha gli artigli!»
«Come un lupo, Kacey»
«I lupi non hanno gli “artigli”, quella è una prerogativa dei felini» risponde convinto.
«Li hanno, sono solo più tozzi e meno appuntiti» sospiro.
«Quindi non sono artigli…» continua a sostenere, con una tonalità nella voce piuttosto convinta. Poi si avvicina e io alzo gli occhi dalla guida strategica che ho tentato - invano - di tornare a leggere per distrarmi dalla voglia che ho di fumare. Improvvisamente mi para la mano davanti al viso, come per mostrarmela nella sua semplicità. Io non mi faccio indietro e guardo il suo braccio scendere per posizionarsi sul bancone, palmo rivolto in su. Kacey si alza la manica della camicia bianca ben oltre il gomito ed espone l’arto nudo. Noto, per assurdo, che ha un paio di braccialetti di cuoio sul polso.
In quel silenzio, all’improvviso sento uno sgradevole rumore di ossa, che mi fa stringere gli occhi e aggrottare le sopracciglia al centro: il massimo della mia espressione. Vedo piano piano le sue dita contrarsi e irrigidirsi, comprendendo che il rumore proviene proprio da quel movimento interno. Il sangue gli ha colorato i polpastrelli e questi, in cima, ora presentano cinque lame aguzze. Una per ogni dito. E la cosa… è incredibile. Avrei voglia di toccarle e sentire quanto siano vere.
Rialzo lo sguardo e incrocio il suo azzurro, notando come le sue pupille si siano allungate in un taglio felino; persino le orecchie a punta semi-umane sono scomparse e al loro posto se ne muovono due grosse da gatto nero, pelose e all’apparenza morbide. Serve una grossa battaglia contro la mia virilità per evitare di concludere quanto siano decisamente “carine”.
«Questi sono artigli» dice a voce più bassa, ruotando la mano e mostrandomela più da vicino.
Probabilmente ha cercato d’impressionarmi, ma non c’è riuscito. O meglio sì, ma la soddisfazione di farglielo vedere non riesco a dargliela. E nemmeno voglio, per la verità.
«Lo sai? Non sono uno che si scandalizza» rispondo, mantenendo fisso il mio sguardo assente nel suo. Alzo il mio braccio e lo ripulisco dalla felpa arancione, scoprendo anche la mia pelle. Gliela propongo abbandonando tutto l’arto sul bancone, davanti a lui. Scosto i bracciali liberando il polso e aspetto pazientemente che mi faccia sentire la pressione di quelle artigliate. Rimango in silenzio. Kacey, risponde al mio sguardo con una domanda silenziosa, poi coglie la mia richiesta e passa le dita lungo tutta la mia pelle. 
Sono artigli veri. Li sento scorrere lentamente, con un calore decisamente diverso dalle classiche zampe d’animale. Kacey li lascia scivolare senza troppa pressione, evitando di ferirmi o lasciarmi segni di qualsiasi tipo. Io dal canto mio non faccio movimenti bruschi, memore dei danni che portano questo tipo di gesti sotto gli artigli di un animale. Aspetto che quella sensazione finisca e che i brividi cessino di muoversi dietro la mia schiena, prima di ricoprire il braccio e tornare a guardarlo. Lo scopro ancora sorridente e nell’insieme della trasformazione, quell’espressione ha qualcosa di estremamente selvaggio. 
E cazzo. Mi è anche piaciuta.
«Lo sei davvero» risponde dopo un po’, sciogliendo quel silenzio creatosi per la mia curiosità «Ma l’avevo capito quando ci siamo visti al parco a Natale. Netsu non ti stava per nulla spaventando»
«Ho visto di peggio. Un cane rabbioso è solo un cane. O una “volpe” nel suo caso» mi stringo nelle spalle, tornando alla mia lettura, anche per evitare di sentire quello strano campanello d’allarme che mi è partito in testa.
Per un po’ non lo guardo, ma continuo ad avvertire la sua attenzione addosso. Probabilmente sta solo cercando di capire se faccio finta ad essere così calmo, oppure no.
«A che ora chiudi?» mi domanda di nuovo, tentando di sovrastare con quella frase il discreto rumore di ossa che rimette a posto gli artigli.
«Uhm…» do un’occhiata all’orologio del cellulare. «Fra un quarto d’ora. Anzi, inizio a chiudere cassa. Poi andiamo su a recuperare questo benedetto Sackboy»
E all’improvviso è diventato un ragazzetto felice, dall’entusiasmo adolescenziale. 
Dei, meno male. Per un attimo ho temuto di scordarmi la sua età.

 
***

Chiusa cassa e abbassate per metà le serrande dei due ingressi, siamo pronti per salire al piano di sopra. Gli faccio strada e mentre salgo gli scalini a spirale, c’è l’ennesimo intervento di Kacey. Dopo un’intera giornata con lui, ho capito che gli piace tanto - ma tanto - parlare.
«Non offenderti, ma sei sicuro che non sei un kemonomimi pollo o uccello…?»
Ma che sta dicendo?
«Sì, sono abbastanza sicuro della mia umanità» dovrei suonare sarcastico, ma puntualmente non ci riesco.
«C’è un odore che proviene dai tuoi vestiti. Sembra appartenere a qualche tipo di volatile…» lo sento respirare rumorosamente dietro di me.
Questa volta mi fermo, rimango sul pianerottolo che divide il WC dall’ingresso del Magazzino. Un momento. Io so cosa ha sentito.
«È Totem» ovvio che è lui.
«Totem?»
«Se mi prometti di non saltargli addosso, potrei anche fartelo conoscere…» non si sa mai cosa gli istinti felini decidano di ignorare nel cervello umano.
«So trattenermi. Alle volte…» si corregge verso la fine. Sicuro ha intercettato il mio sguardo leggermente scettico.
«Non ti avvicinare troppo, comunque. O gli farai venire un infarto» dico mentre apro la porta del Magazzino e rivelo quello che è il mio piccolo rifugio, oltre che ambiente indispensabile per la raccolta della merce. Respiro. Mi piace quest’odore, è quasi più accogliente del mio appartamento. Solo che è indiscutibile la frase “dove c’è internet più veloce, c’è casa”.
«Che… meraviglia» esclama dietro di me Kacey e dentro, in fondo, sento una grande soddisfazione.
Sì, è un po’ in disordine, ma giusto perché è un Magazzino. Però oltre i grossi scatoloni, i documenti sparsi e le librerie riempite di vecchie edizioni, c’è anche un letto, una scrivania munita di ben tre schermi piatti con un computer e un angolo cottura dove tengo credenze, cucina e minifrigo. Insomma, ci si vive tranquillamente, sebbene sia un po’ angusto.
«Ci vivrei anch’io qua dentro!» dice Kacey, che probabilmente ha seguito lo stesso giro dei miei pensieri. «Tu abiti qui?»
«No, non proprio. Ogni tanto mi capita di rimanerci per comodità, ma ho un appartamento a qualche autobus di distanza»
«Però…» apprezza di nuovo.
Totem ci accoglie con un frullo d’ali e un gorgoglio, ovattato dal vetro della teca. So bene che con quello sguardo bieco sta tenendo d’occhio Kacey; le sue piume si sono tutte arruffate e il suo nervosismo lo ritrovo nelle zampette strette al ramo su cui è appollaiato.
«Lui è Totem? Ma è stupendo!» entusiasta, Kacey si precipita verso la teca, ma io tento di fermarlo con le parole. Con le mani è stato impossibile, mi è sfuggito prima ancora che potessi formulare la mossa con il cervello.
«Ehi, non avvicinarti troppo. Non gli piacciono gli estranei e tu oltre ad esserlo, sei anche un suo nemico naturale»
Kacey ridacchia «Ma non voglio mica mangiarlo!» e agita la coda dispettoso, sollevando la mia inquietudine.
«Sarà, ma tieniti a distanza»
«Oook…» si arrende, alzando le mani e rimanendo nei pressi della teca, senza avvicinarsi. Uhm. Bravo ragazzino. 
Controllando che continui a comportarsi bene, mi dirigo verso uno degli scatoloni per cercare quel benedetto portachiavi.
«Di che specie è? Sembra esotico…» interviene di nuovo, confermando la sua indole di chiacchierone.
«È un Paradisaea Minor» rispondo, continuando a sollevare oggetti e oggettini. «O altrimenti detto Uccello del Paradiso minore. Proviene dall’Australia»
«Ti facevo da animali del genere. Anche se pensavo più a un’iguana o a una Tarantola»
«Li ho, in effetti. L’Iguana PiumaVerde è rimasta con mia madre, in America. La Tarantola ManiPelose, invece, l’ho persa qualche giorno fa da queste parti»
Kacey si gira lentamente, con gli occhi dilatati dal panico.
«Sto scherzando» adoro quando la gente casca in queste stronzate.
«’Fanculo!» dice ridendoci sopra.
Continuo la mia ricerca, fregandomene dell’insulto - meritato - e vado ad aprire un altro scatolone. Sto trovando altri Sackboy e questa è una buona notizia. 
Arrivo mia piccola sigaretta! Arrivo!
«Vivi da solo nell’appartamento?» e la voce di Kacey mi ritrascina di nuovo indietro. L’immagine mentale della sigaretta, svanisce. Sospiro.
«Sì»
«Non ti piace essere toccato, vero?»
Mi fermo improvvisamente e guardo dalla sua parte. Mi sta fissando, appoggiato alla scrivania e con le braccia strette sotto al torace. Sorride a labbra chiuse e sembra fregarsene di aver appena fatto un commento così rischioso. 
«L’ho dedotto da alcune piccole cose» continua, visto che non rispondo «Un’iguana, un uccello e una tarantola, sono tutti animali che non hanno bisogno di contatto fisico per stare bene e poi… qualche volta, quando mi sono avvicinato ti sei fatto indietro» conclude.
A questo punto, sento che devo specificare.
«Non è che non mi piace, solo che preferisco decidere io quando permetterlo e quando no»
«Come nel caso degli artigli?»
«Come nel caso degli artigli» ripeto, confermando.
Kacey mi guarda un po’ più a lungo e alla fine annuisce, girandosi di nuovo verso Totem. Cosa sta pensando, ora? Dovrei chiedermelo? No. Chi se ne frega dell’impressione che ha.
«Ecco il tuo portachiavi» tiro fuori l’oggettino da una bustina assieme a tanti altri suoi fratellini e mi avvicino al ragazzo, consegnandoglielo.
«Finalmente! Grazie!» e gli ritorna la spontaneità del suo sorriso. Sono soddisfatto. «Quanto ti devo?»
«Nulla. Ho già chiuso cassa»
«Sei sicuro?»
«Mi offrirai un caffè. No, anzi. Direi cinque caffè, se consideriamo il rapporto quantità e prezzo»
«Quindi posso tornare?»
Questa domanda mi spiazza. Oh, porca miseria. Ha ragione! In pratica gli ho detto che può tornare a trovarmi! Ma che mi è saltato in mente?
E un secondo. Perché dovrebbe essere tanto strano? In fin dei conti potrebbe trasformarsi benissimo in un cliente. Sì. Sì, ovvio che la vedo così. Il motivo di quella mia affermazione è sicuramente questo. Sono un bravissimo commerciante, non c’è che dire.
«Certo. Basta che compri sempre qualcosa»
Kacey sorride di nuovo, mettendoci anche qualcosa come la malizia. La sensazione di trovarlo da subito simpatico inizia a creare qualche tipo di fondamento. Ma sì. Perché no. In fondo abbiamo parlato bene e non è così fastidioso come ogni tanto mi viene da pensare.
«Hai qualcosa da bere?» 
Ritiro quello che ho pensato.
«Ma non è tardi per te? Non hai una famiglia da cui tornare?»
«Domani è festa e i miei genitori non sono così apprensivi. E poi posso chiamare e dire che dormo da un amico»
“Amico”? 
«Ehi, genio. Non pensare che ti faccia rimanere qui»
«Non qui, intendevo sul serio da un amico. Qui al massimo avremmo potuto bere e giocare alla Play» e a quell’idea le sue pupille feline scattano verso la console che ho attaccato a uno dei tre schermi sulla scrivania. Mi metto in mezzo a quella linea immaginaria, giusto per interrompere la formazione di quella visione malsana.
«La prossima volta, magari. Ok? Ora vorrei chiudere e fare gli ultimi doveri da commerciante» e fumare quella fottuta sigaretta.
«Uff… Ok» sbuffa e inizia a muoversi verso l’uscita del Magazzino. «Come alzo la serranda? In me c’è sangue di Wolverine, non di Hulk»
«Con il pulsante, genio» sospiro nel vedere la sua faccia incerta «Fa nulla, ti accompagno»

 
***

Scendiamo di sotto e dopo gli ultimi saluti Kacey va via. Mentre l’osservo svanire in una strada più buia di quando è comparso, devo ammettere che la sua compagnia non mi è dispiaciuta affatto. In fondo è un tipo discreto, anche se tende un po’ troppo a chiacchierare. Ha degli ottimi gusti in fatto di videogiochi e di fumetti, quindi come cliente potrei coltivarmelo. Altro? Altro… non ne sono sicuro. Non è andata molto bene l’ultima volta che ho tentato di essere “amico” di qualcuno.
No. Decisamente non è andata bene.
Smuovendo la piantina posta in un angolo all’entrata, spingo il pulsante di chiusura e la serranda si abbassa definitivamente. Chiudo gli occhi. Se mi concentro sul rumore, magari non torno troppo indietro con i pensieri. Cerco di avere qualcosa di più recente su cui aggrapparmi e mi torna in mente la faccia in panico di Kacey quando ho fatto quella battuta su ManiPelose.
Che scemo. Come ha potuto crederci veramente?
Ad un tratto mi sento più leggero e mi viene anche da sorridere. Mi mordo il labbro ed evito. 
Penso a qualcosa di più desiderabile: «Sigaretta…»
Oh, dannazione. Sì.

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