Guess who's coming to die ?

di giulji
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I - NICO ***
Capitolo 2: *** Capitolo II - HAZEL ***
Capitolo 3: *** Capitolo III - THALIA ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV - FRANK ***
Capitolo 5: *** Capitolo V - CLARISSE ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI - PIPER ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII - PERCY ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII - LEO ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX - WILL ***
Capitolo 10: *** Capitolo X - ZOE ***
Capitolo 11: *** Cap. XI - INIZIO DEI GIOCHI ***
Capitolo 12: *** Cap. XII - PRIMA ALLEANZA ***
Capitolo 13: *** Cap. XIII - SCOPERTA DEL CAMPO ***
Capitolo 14: *** Cap. XIV - SALVATAGGIO ***
Capitolo 15: *** Cap. XV - PSICOPATIA ***
Capitolo 16: *** Cap. XVI - AMORE FRATERNO ***
Capitolo 17: *** C. XVII - PASSI DI ANGELO NEL MONDO DEI PIU' ***
Capitolo 18: *** Capitolo XIX - GEMELLI PER SEMPRE ***
Capitolo 19: *** Cap. XVIII - PERCY E LA RICOGNIZIONE ***
Capitolo 21: *** Capitolo XX - FRECCE ***
Capitolo 22: *** CapitoloXXI - BRINDISI MOLESTO ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXII - ARACNE ***
Capitolo 23: *** Cap. XXIII - IL SOPRAVVISSUTO ***
Capitolo 24: *** Cap.XXIV- INFANZIA CREMISI ***
Capitolo 25: *** Cap XXV - FIGLIO DEL SOLE ***
Capitolo 26: *** Cap XXVI- TIC TOC ***
Capitolo 27: *** Cap XXVII- AMANDO LA LIBERTA' ***
Capitolo 28: *** -THE END- ***
Capitolo 29: *** EPILOGO ***



Capitolo 1
*** Capitolo I - NICO ***


NICO

Nico Di Angelo in quella fredda mattina invernale si era svegliato a fatica, i suoi muscoli erano ancora doloranti ed intorpiditi per via del violento vento che aveva sbuffato durante tutta la nottata, facendo spifferare rumorosamente la vecchia e scricchiolante porta in legno della sua cameretta, e momentaneamente per lui per sino camminare richiedeva un immane sforzo.

La sibilante e gelida corrente serale, paragonabile alla scaltra e persistente presenza di un serpente velenoso, aveva contribuito ad alimentare la pesante insonnia del ragazzo, che non dormendo aveva solamente continuato a contorcersi in preda agli sbalzi atmosferici, e come se non bastasse, quel brutto tempo, che aveva sempre avuto la capacità di plasmarne l'umore, lo esponeva ai terribili e tetri incubi che rifletteva la sua mente, facendo riaffiorare lentamente i suoi fantasmi del passato.

Nonostante la sua enorme voglia di lasciarsi cadere tra le braccia di Morfeo, affogando in un sonno privo di memorie, accompagnato dal mero niente, che lo avrebbe momentaneamente esonerato dalle tenebre che gli offuscavano perennemente il cuore, Nico non era invece riuscito ad addormentarsi nemmeno per un ora di seguito e le occhiaia violacee che gli contornavano lo sguardo già corrucciato ne costituivano una prova.

Ovviamente, c'era un motivo per tutti questi cupi stati d'animo che ne avevano abilmente approfittato per torturarlo al calar del sole.

Quella mattinata, non rappresentava infatti, l'inizio di un giorno comune, bensì quella maledetta giornata portava con se la consapevolezza che di li a poche ore ci sarebbe stata la fatidica mietitura per il distretto 13 dello stato di Panem.

Questa “mietitura”, altro non era che la cerimonia in cui, tutti gli anni dalla formazioni di quella specie di dittatura, il governatore sceglieva due tributi, un maschio ed una femmina, da sacrificare per la presente edizione degli Hunger Games.

Il ragazzo aveva un emicrania più violenta del solito, un forte sentimento di ansia gli stringeva in una morsa ferrea l'intestino, mentre delle immagini sbiadite raffiguranti alcuni attimi della sua vita passata gli vorticavano rapidamente davanti agli occhi, dandogli la nausea.

Provò ad alzarsi dal suo letto scassato e scricchiolante, ma la spinta sulle gambe gli fece provare immediatamente una fitta di dolore, così fu costretto a lasciarsi nuovamente cadere tra le coperte tappezzate.

Spostava distrattamente i suoi grandi occhi scuri in vari angoli della piccola stanza, rimirando con scarso interesse lo spoglio mobilio.

Le dimensioni di quella camera erano veramente ristrette, le pareti erano bianchissime ed assolutamente prive di un qualsiasi tipo di arredo, eccezion fatta per la presenza di due piccole fotografie in bianco e nero rappresentanti due ragazze molto giovani, che si trovavano appese con due chiodi sull'anta destra dell'unico mobile presente in quella stanza.

Il luogo era talmente triste e vuoto che sembrava appartenere ad un ospedale,ed in più, il ragazzo, manteneva perennemente un ordine perfetto ed i pochi indumenti che possedeva erano ripiegati cronologicamente nell'armadio, se non fosse stato per il copriletto che in quel momento si ritrovava disteso scompostamente al suolo, chiunque avrebbe potuto presupporre che quel luogo fosse disabitato da molto tempo.

Nico si ritrovò presto a pensare che invece in un passato non molto lontano, non dormiva da solo in quella stanza, anche se per quei tempi poteva risultare realmente troppo piccola, ma lui fin quando era in compagnia non ci aveva mai fatto caso, le pareti a quel tempo erano abbellite di tele dipinte con gli acquarelli ed i pavimenti erano perennemente affollati di vestiti spessi e logori, borsoni militari e strumenti di vario genere, che ne donavano interamente dell'insolita vivacità, mentre adesso che lui si ritrovava ad esser solo il tutto pareva asfissiante e claustrofobico.

Riuscì finalmente a sollevarsi dal letto, uscendo a grandi falcate da quel luogo che riusciva ad imprimergli cotanta ansia, ma non prima di aver salutato con un sorriso finto e tirato le vecchie fotografie che avevano continuato per tutto quel tempo a seguirlo con lo sguardo.

Si diresse al bagno, che era altrettanto minuto ed insulso,ma perfettamente pulito e lucidato.

Le piastrelle cominciavano a riflettere dei frammenti della luce solare che stava entrando timidamente dall'unica finestra socchiusa, creando un gioco di ombre.

Quella casa era molto misera, tanto che non possedeva neppure la connessione elettrica, ma considerando la povertà generale che dilaniava da ormai molti anni nel distretto 13, quell'abitazione si poteva considerare una vera e propria fortuna, per quanto una stanza minuscola, un freddo bagno ed un salone quasi assente potessero risultarlo.

Si lavò frettolosamente nella vasca grigiastra del bagnetto, rabbrividendo al contatto di quel getto ghiacciato che scorreva nelle tubature, facendolo starnutire ulteriormente.

Dovette metterci veramente poco per uscire da quella vasca dal momento che l'acqua costava, e al momento i soldi non erano una cosa di cui ragazzino disponeva a sufficienza, era meglio risparmiare ogni volta che ne aveva l'opportunità.

Si diresse avvolto da un lungo accappatoio profumato verso la sua stretta camera, ed estrasse casualmente un paio di vestiti dall'armadio, senza badare minimamente al loro aspetto, ritrovandosi un ennesima volta ad indossare la classica maglietta nera a maniche lunghe ed i soliti pantaloni opachi logori e strappati, che oramai sembravano una seconda pelle per lui.

L'alba era ancora in procinto di sorgere nel cielo, ma il ragazzo volle prepararsi così presto ugualmente in quanto avesse progettato una lunga ed intensa camminata prima di dirigersi a quella famosa cerimonia, giusto per smaltire un po' d'ansia.

D'altronde le possibilità che tra tutti i ragazzi del suo distretto venisse estratto proprio il suo nome erano alquanto scarse, in tutto,i nomi ad esser citati erano due su un centinaio, ed era forse per questo che Di Angelo non era eccessivamente preoccupato, anche se un po' di timore di fondo rimaneva sempre.

Certo, c'era un sistema per stabilire chi aveva effettivamente più possibilità di uscire alla selezione, e questo sistema era costituito dal numero di tessere che si accumulavano durante l'anno.

Queste ultime aumentavano in base a quanti aiuti chiedevi al comune, più soldi ti venivano offerti annualmente come “aiuto”, più possibilità avevi di morire nei giochi.

Lui era consapevole del fatto che quell'anno aveva dovuto ricorrere un paio di volte a quel pericoloso metodo, al fine di poter riuscire a portare da mangiare a casa sua, quindi le probabilità che lui venisse scelto erano leggermente maggiori a quelle che aveva un individuo che non era mai incorso in prestiti.

Ma lui non era eccessivamente turbato da queste sue poche tessere consumate, dal momento che praticamente tutti nel tredici aveva ricorso a questo sistema, le persone che ne erano ancora intaccate si contavano sulle dita di una mano, ed in più vi erano individui messi molto peggio di lui che purtroppo avevano dovuto richiedere più di un paio di prestiti per riuscire a mantenersi, perciò per quanto riguardava le statistiche lui tecnicamente era abbastanza “salvo dalle selezioni”.

Nonostante questo, Nico ormai sapeva quanto la vita potesse essere imprevedibile e sopratutto quanto la sfortuna ci tenesse a torturarlo in qualunque modo le era possibile, perciò non avrebbe mai potuto dirsi totalmente tranquillo, ma d'altro canto era da molti anni che questo particolare stato d'animo non rientrava nelle sue capacità.

Le sue cicatrici erano ancora aperte e sanguinavano spesso, la più fresca, e forse la più profonda, era quella dovuta alla morte, avvenuta qualche annetto prima, di sua sorella maggiore.

La ragazza si era ammalata di un cancro allo stomaco che non le aveva lasciato scampo, ed il ragazzo era stato costretto a rimirarla anno dopo anno indebolirsi sempre maggiormente, fino a perdere totalmente le energie, costretta a respirare artificialmente su un lettino d'ospedale.

Nico si ricordava come i suoi ultimi mesi di vita furono un inferno per tutti quanti, i capelli di Bianca cominciavano a cadere e la sua liscia pelle olivastra diventava man mano più pallida e sottile, fino a farla sembrare carta velina.

Il volto della ragazza il giorno in cui morì era magrissimo, sciupato, la pelle così lucida che rifletteva le sottili venature violacee, non era rimasto più niente dell'energetica e carismatica persona che un tempo Nico aveva tanto ammirato.

Non era ancora chiaro chi dei due soffrì maggiormente, Bianca che piano piano vedeva la forza abbandonarla, vedeva l'ambizione crollare sotto i suoi piedi, il suo futuro svanire nel fumo costringendola a sopportare senza poter far niente per migliorare il suo destino, cercando di arrendersi a qualcosa di così crudele ed ignobile, oppure suo fratello Nico, che sentendosi egualmente impotente cominciò a cadere numerose volte in una profonda e radicata depressione, da cui non aveva ancora trovato una via d'uscita.

Nico si era ritrovato solo, dopo la sua dipartita, ed aveva solo nove anni, eppure possedeva una maturità ed una profondità tale che lo rendevano molto più vissuto di una grande parte degli anziani.

Perse fiducia in se stesso, si chiuse a riccio, al di fuori di tutto ciò che potesse ulteriormente farlo soffrire, estraniandosi dal mondo presente oltre quelle quattro traballanti mura di “casa.”

L'unico parente che gli rimaneva era suo padre, un uomo che un tempo era stato molto autoritario ed espressivo, ma di cui ora, dopo tutto ciò che d'altro canto aveva dovuta soffrire, rimaneva solo un corpo vuoto, inespressivo, meccanico.

Tanto era lo stato d'animo vuoto in cui si era arrischiato che non era stato neppure capace di aiutare l'unico figlio che ora gli era rimasto, ma si era sempre limitato ad ignorarlo, a considerarlo alla pari di un estraneo in casa propria, a rivolgergli la parola solo se strettamente necessario, semplicemente non seguendolo.

L'unica cosa che il padre aveva continuato a fare per suo figlio era stato lavorare alle fabbriche, permettergli di restare in quella dimora, e pagargli le spese più fondamentali, Nico pensava dunque che era oramai solamente dovuto ad una questione d'abitudine, dato che per il resto i due nemmeno si rivolgevano uno sguardo.

Dal canto suo, lui non poteva fare molto per aiutare economicamente suo padre, era troppo debole sia moralmente che fisicamente per poter offrire seriamente il suo aiuto.

Ogni tanto provava qualche impiego occasionale, dovunque lo assumessero, saltando spesso la scuola per poter permettersi di continuare a mangiare, ma purtroppo, non erano molti i luoghi disposti a prendere un ragazzino come lui come impiegato, con la crisi che c'era, ed i pochi posti in cui ci riusciva a farsi prendere, la paga era talmente misera da far riuscire a far ridere, e lui veniva licenziato in maniera puntuale dopo qualche mese.

Suo padre comunque non se ne era mai lamentato, dato che si limitava a fare avanti ed indietro tra lavoro e casa propria, come uno zombie, facendo finta che il resto delle persone, compreso il figlio, non esistessero.

Nico oramai non lo biasimava più, era ormai passato il tempo in cui lo odiava in silenzio perché non si accorgeva di quanto stesse male, non era più così egoista ne egocentrico, cercava addirittura di evitare di vittimizzarsi spesso, anche se gli riusciva parecchio difficile.

Da qualche anno si limitava a sua volta, a cercare di stargli lontano, capendo seppur riluttante, che solamente la sua presenza rattristasse ulteriormente quell'uomo, in quanto il suo viso, il suo corpo, tutto di lui, facevano riaffiorare alla mente scomodi ricordi legati alla somiglianza con le persone che avevano perso.

Si scrocchiò lentamente le ossa, delle mani, del collo, della schiena, una per una, in un processo quasi rituale a cui ormai si era abituato, e poi con passo felpato, leggermente barcollante per via del forte mal d itesta che continuava a stritolarlo nella sua morsa da cobra, si diresse nel minuto salotto, che si trovava attaccato alla sua camera, leggermente a destra.

Quel posto della casa era l'unico disordinato, perché era quello dove “abitava il padre”, infatti c'erano cartacce e bustine appartenenti a cibi confezionati riversati sul tavolino, seguiti da enormi scie di briciole e polvere che proseguivano sul pavimento.

La stanza puzzava di fumo e chiuso, ed infatti il posacenere di suo babbo era ancora fumante sul pavimento, accanto al sudicio e sporco divano scuro in cui lui dormiva.

Appena varcò la soglia, rimirò il suo genitore che sonnecchiava su quello scomodo sofà rossiccio.

Lo sguardo come al solito freddo, ance nel sonno, reso leggermente truce per via delle sue folte sopracciglia puntualmente corrucciate e per la barbetta incolta e bianca che gli cresceva ai lati del viso olivastro, che l'aveva sempre fatto sembrare un barbone.

Portava ancora la tenuta verdognola del lavoro, estremamente consumata, si poteva sentire la sua puzza di sudore da una buona vicinanza, anche se veniva leggermente coperta dall'odore lasciato dalle sigarette.

Gli lanciò rapidamente uno sguardo, nonostante tutto malinconico, rattristato nel vederlo conciato così, e avendo ancora il ricordo di quando un tempo era stato così grande e possente da riuscire ad incutergli timore con la sua severità, mentre ora gli faceva quasi pena.

Poi uscì di casa senza svegliarlo, nemmeno quell'anno suo padre avrebbe presenziato alla mietitura e se per qualche motivo quel giorno Nico si fosse ritrovato tra i tributi scelti, quello sarebbe stato il loro ultimo incontro.

Proseguì con una lenta e cauta camminata, in attesa che le ore scorressero con l'aumentare del sole nel cielo, fino a giungere nella fascia d'orario del famoso evento.

La vie del distretto erano quasi totalmente disabitate, non che Nico fosse solito a fare passeggiate in luoghi affollati in maniera risaputa, preferiva restare solo con se stesso, perciò i vicoli a cui andava incontro erano raramente popolati, e quel giorno in particolare completamente vuoti, dato che probabilmente erano tutti chiusi a casa a prepararsi mentalmente per l'estrazione che si sarebbe tenuta verso qualche oretta.

Le strade del distretto erano tutte grigie, come lo erano i palazzi, d'altronde loro abitavano nel luogo dove venivano fabbricate le bombe ed il materiale nucleare, perciò non ci si poteva aspettare niente di allegro o colorato da quelle parti, per sino il cielo pareva scuro per via dell'inquinamento.

La maggior parte delle case erano monolocali cadenti o a pezzi, con qualche eccezione fatta per delle casette come la sua.

Non esisteva nemmeno un parco, una zona naturale o anche solo un aiuola di fiori in quel posto, l'unico punto in cui si poteva incorrere nel verde erano i boschi che si trovavano attorno al confine del posto, ma era altamente vietato inoltrarsi in quella vegetazione se non con un permesso scritto, e come se non bastasse erano stati separati dal resto del distretto da altissime recensioni di ferro rugginoso, perciò non era nemmeno tanto facile, per quei poveri fessi che avrebbero voluto farlo, trasgredire il regolamento.

Certo erano rimaste alcune bellezze architettoniche, quali il palazzo di giustizia, che si ergeva sorretto da possenti colonne in stile dorico, e risaltava per la sua classica bellezza.

Eppure amalgamato al paesaggio piatto e scontato che si ergeva intorno, risultava anche lui scialbo.

Le ore passarono rapidamente, mentre il ragazzo portava avanti il suo via vai d'esplorazione, e i suoi muscoli cominciavano a riprendersi dalla rigidità, grazie al movimento.

Il freddo non era comunque passato ed il ragazzo dovette stringersi più volte nell'enorme giubbotto d'aviatore che aveva infilato prima di uscire, per evitare di starnutire.

Poi finalmente scattò l'ora x, accompagnata dal suono di una torre campanile che avvertiva tutti i ragazzi di recarsi nella piazza dov'era stato accordata la celebrazione.

A Nico non ci volle molto per raggiungerla, mentre continuava a fissare il colore quasi tossico del cielo, probabilmente il suo luogo natio era il più inquinato di tutta Panem, per via delle radiazioni provenienti dalle fabbriche.

Appena giunse nel grande ed anonimo largo, venne quasi travolto dalla folla di giovani ed adulti che si avviavano senza badare ad un minimo di ordine o coordinazione, intono alle postazioni allestite dai Pacificatori, che ironicamente,per via del loro nome, erano come “la polizia” di Capitol City, che avevano allestito delle recinzioni nelle due parti laterali dello slargo, lasciando libero un percorso centrale che fungeva da specie di corridoio o percorso per i malcapitati e futuri tributi.

Nico seguì la schiera di persone che si sistemavano attentamente all'interno delle cancellate, situate proprio davanti al palcoscenico ove di lì a poco avrebbero presentato quell'evento.

Avanzò meccanicamente e con la testa rivolta verso il basso, senza alcuna fretta, ricevendo anche uno spintone da parte di una delle tante guardie che “gestiva il traffico” delle masse.

Ogni tanto con la coda dell'occhio fissava i volti spaventati dei ragazzi, era risaputo che il tredici non fosse certo un distretto coraggioso come il due, le persone dalle sue parti non erano mai state pronte per partecipare agli Hunger Games ed era oramai moltissimo tempo che non spuntava un volontario, cosa che invece in altri posti era di consuetudine.

Tutti comunque cercavano di ostentare contegno e sicurezza, tenevano la schiena dritta e cercavano di mascherare la paura, lanciandosi di tanto in tanto degli sguardi e dei sorrisini di rassicurazione tra loro, cercando di mostrarsi pronti e vissuti quando invece l'unica cosa di cui erano certi era la pressione del terrore che li pervadeva, uno dopo l'altro.

La maggior parte delle persone però, nonostante la gravità della situazione, era vestita in maniera pulita ed elegante, per quanto ovviamente le condizioni di ogni individuo lo permettessero, in molti infatti, indossavano il migliore vestito del loro guardaroba, magari il medesimo con cui si erano sposati i loro familiari, insomma, almeno per quell'evento tutti cercavano di farsi apparire belli, dato che mal grado la condizione, il tutto sarebbe stato ripreso da delle telecamere direttamente connesse con la rete televisiva del governo, e tutti quanti provavano timore nei confronti della capitale e volevano cercare di dare una buona impressione, come se quell'evento potesse essere per loro effettivamente un “dono”, una cosa buona.

Forse lui era l'unico che se n'era infischiato bellamente, e che ora non fingeva niente a nessuno, ma cercava di starsene per le sue, stretto nei suoi soliti panni consumati.

In qualunque caso, lui non avrebbe avuto nessuno da guardare e da cui trarre rassicurazioni, si sosteneva da solo in quel piazzale.

Dalla morte di Bianca aveva completamente evitato ogni sorta di rapporto umano, aveva una grandissima paura di affezionarsi alle persone, in quanto temesse ancor di più di perderle e di soffrire com'era successo più d'una volta.

Non che fosse mai stato un bambino troppo socievole, ma quei pochi amici che aveva avuto un tempo, ora non c'erano più, e a lui non faceva ne caldo ne freddo, allo sguardo di tutti risultava come inesistente, invisibile, una specie di presenza fantasma, ma non se ne lamentava dato che la solitudine era ormai era da tempo una sua fedele alleata.

Intratteneva conversazioni solo se strettamente necessario, anche se generalmente passava tutte le giornate fuori di casa, magari a scuola, o a dei lavoretti par-time, o nella boscaglia in cui si inoltrava furtivamente fuori dal confine, però tutto questo sempre e rigorosamente in solitudine, riusciva a non annoiarsi comunque.

A casa ci stava poco e niente, solo per dormire, nutrirsi o raramente quando si ammalava, appena poteva scappava da quelle quattro mura per evitarsi dei pesanti pomeriggi di silenzio insieme al suo genitore.

Oramai credeva di viveva come un burattino, compieva atti meccanici per salvaguardarsi, anche se non ne capiva il senso logico, mentre affogava e seppelliva qualunque sentimento.

A volte, nei suoi momenti più bui, gli era balenata l'idea di togliersi la vita, dato che non capiva a cosa potesse servire tutta quella persistenza nel sopravvivere, se tanto si soffriva e basta, eppure non aveva mai ceduto, forse perché la piccolissima fiamma di speranza che viveva ancora dentro di lui cercava di avvertirlo che magari nel futuro le cose sarebbero state migliori, ma sopratutto perché da lui, a cui la morte aveva portato via tante persone, che era cosciente del fatto che ogni anno dei poveri ragazzi venivano uccisi contro il loro volere nei giochi, sarebbe parso un atto troppo stupido ed egoistico uccidersi, una mancanza di rispetto.

Si riprese dai suoi sconsolati pensieri solo quando le luci del palcoscenico cominciarono ad illuminarsi e le tende del retroscena cominciarono a spalancarsi, facendo entrare alcuni individui tra cui Nico riconobbe MeryLu Blance, la sgargiante e superficiale presentatrice del tredici, una donna interamente rifatta e priva di qualsiasi valore morale, direttamente importata dalla capitale, accompagnata dal povero Jack, vecchio e decrepito sindaco di quel postaccio ed i mentori degli anni precedenti.

MaryLu indossava un lucidissimo vestito rosa confetto che le stringeva le caviglie e le spalle, allargandosi leggermente nella parte dei fianchi, facendola sembrare una specie di uovo di pasqua.

Prese a recitare con foga il suo discorso, con un fastidiosissimo accento marcato da capitolino, ridacchiando ogni tanto ed istigando degli applausi o comunque dei segni dalla folle, che ovviamente non arrivarono.

Le altre figure invece se ne stavano zitte su un angolino del palco e non producevano suono alcuno, si percepiva la loro ripugnanza ed il loro disagio da chilometri di distanza, probabilmente anche loro avevano tra il pubblico dei loro cari che rischiavano di essere selezionati e sarebbe parso da ipocriti fingersi spensierati.

Finalmente la ragazza terminò di parlare e si diresse a grandi falcate ad un lato del palcoscenico, muovendo elegantemente il corpo ad ogni movimento, fece rapidamente un segno a degli addetti tecnici spostando di poco la vellutata tenda violetta e poi annunciò l'inizio della videoproiezione del documentario che per quegli eventi propinavano di anno in anno.

La solita noiosissima storia che si ripeteva in continuazione.

“In un periodo dove le guerre avevano quasi estinto l'umanità, portando carestie, inquinamento, gelosie, e violenza tra le specie, gli uomini decisero di cercare un efficiente metodo per far si che tutto questo cessasse di avvenire.

Per prima cosa divisero ciò che restava della popolazione in tredici distretti, ognuno specializzato in qualcosa di particolare, come l'agricoltura, la tecnologia, piuttosto che la pesca e così via.

Ovviamente, questi luoghi dovevano pur essere controllati, al fine pacifico di mantenere l'ordine, così fu fondata Capitol City, la capitale, che era il luogo dove risiedevano il governo e le maggiori autorità di spicco.

Nonostante ciò la natura violenta e competitiva delle persone, impediva di creare una società dove ogni tipo di guerra fosse abolita, così i capitolini, trovarono una strategica soluzione che permetteva di sacrificare pochi individui ogni anno, a confronto delle migliaia di vittime che si erano estinte nel passato.

Quindi in onore di questa causa venivano estratti annualmente due giovani a caso, comprendenti la fascia d'età che oscillava tra i dodici ed i diciotto anni, due per ogni distretto, che erano obbligati a morire per la patria, in una soluzione “pacifica” chiamata Hunger Games.”

Essi altro non erano che dei giochi in cui l'obbiettivo era far ammazzare a vicenda questi ventiquattro tributi, ripresi costantemente da delle telecamere, come in dei reality show, che si trovavano nell'arena sperduta in cui veniva ambientato il tutto.

Ciò poteva durare qualche giorno, o qualche mese, l'importante era che una sola persona rimanesse in vita, quella persona che diveniva il vincitore.

Il tutto accadeva ovviamente sotto lo sguardo di milioni di telespettatori che potevano contendersi di anno in anno la “vittoria dei distretti”, scommettendo dei soldi su dei poveri ragazzini che si dovevano uccidere, come si faceva con le corse dei cavalli.

Questo secondo loro avrebbe dovuto far cessare la rivalità e la bramosia di sacrificio, in pratica.

Ma se così non era e qualcuno provava a contestare o a ribellarsi a quel metodo, veniva ucciso dalle autorità capitoline, luogo che per altro era esonerato da quel sacrificio di ragazzi .

Una cosa veramente rivoltante agli occhi di Nico, e per di più, la povertà dilagava ugualmente nei distretti e la gente si ammalava e moriva di fame comunque, in contrapposizione a Capitol City dove tutti invece si arricchivano, a spese degli altri distretti che gli procuravano tutto il materiale per vivere nel lusso e nel divertimento costante, mentre in quegli stessi luoghi c'era chi non si poteva permettere un tetto dove rifugiarsi.

Nico subì silenziosamente tutte le fandonie sull'eccellenza e l'efficienza che secondo MaryLu forniva quel sistema, ma lei, d'altronde vive dalla capitale, cosa ne poteva sapere di com'era in realtà la vita nei distretti?

Agli occhi del ragazzo era solo una bambinona viziata e logorroica che viveva in un mondo di fantasia tutto suo.

Finalmente il filmato terminò e quel susseguirsi di immagini fasulle si estinse, suscitando il sollievo di tutta la platea che cominciava addirittura a sbadigliare o a disgustarsi per quella solita e finta rappresentazione del mondo.

MaryLu continuò imperterrita nel suo straparlare, visibilmente di buon umore e sorridente, forse solo per la consapevolezza di star apparendo su tutti gli schermi delle regioni.

Poi finalmente si addentrò nel vero scopo di quello spettacolino, annunciando una tipica frase di apertura e preparandosi a scegliere i nomi dei poveri malcapitati che avrebbero dovuto partecipare alla ventiduesima edizione di quel gioco mortale.

Le persone venivano scelte in maniera totalmente casuale.

Più precisamente sul palco erano presenti due grandi ed imponenti bocce di vetro trasparente, tanto che riflettevano ogni scarso raggio solare, poggiate su delle sottili colonne di cartapesta che raggiungevano più o meno l'altezza della vita di MaryLu, posizionate a poca distanza l'una dall'altra, in modo tale che la figura della presentatrice si potesse piazzare teatralmente e perfettamente al centro, avendo entrambe le sfere letteralmente sottobraccio.

Nel primo contenitore risiedevano tutti i bigliettini cartacei con stampati i nominativi di ognuno degli individui maschili, ovviamente rientranti nella fascia d'età prestabilita, dunque più tessere avevi accumulato durante l'anno, più bigliettini con scritto il tuo nome sopra vi erano là dentro e quindi aumentavano anche il numero di possibilità che avevi di esser scelto.

Stessa cosa succedeva anche nella seconda boccia, con la sola differenza che in quella erano contenuti tutti i nomi femminili.

La donna dopo aver fornito una rapida spiegazione su quello che stava per accadere si avvicinò a passo lento a quelle due colonne, con l'obbiettivo di creare un pizzico di “suspense”, cosa che probabilmente le riuscì piuttosto bene dal momento che tutti ammutolirono ansiosi, facendosi più pallidi e sudando per il nervosismo.

Come in ogni anno, estrasse per primo il bigliettino con il nome di una ragazza.

Con uno scatto felino infilò il braccio nella boccia, mantenendo gli occhi fissi sul palco, e poi se lo portò al petto, attenta a non far sbirciare nessuno.

Nio poté osservare come ora la maggior parte delle ragazze, si agitassero in preda al panico, sussurrando preghiere o cacciando insistentemente via le lacrime, con la vacua speranza di non esser le malcapitate.

Poi finalmente la voce squillante della presentatrice si fece spazio tra il borbottio generale, gridando entusiasta, quasi si trattasse del vincitore di un premio della lotteria, il nome della “fanciulla fortunata”, che a quanto pareva era : “Hazel Levesque”.

Quando Nico udì l'annuncio si immobilizzò e sbarrò gli occhi, colto di sorpresa.

Hazel era una delle pochissime ragazze con cui lui era ancora riuscito ad interagire dopo la morte della sorella, anche se la loro certamente non si poteva considerare una solida amicizia, eppure lui la considerava una persona veramente genuina e spensierata,una che traboccava voglia di vivere da tutti i pori e che spesso e volentieri riusciva a regalare qualche attimo di pace per fino a lui, una ragazza a dir poco fantastica.

Si conoscevano dalla scuola, dato che andavano nella stessa classe delle medie, anche se lui aveva sempre avuto come la strana sensazione che si conoscessero già da molto tempo.

Lei veniva spesso esclusa dal gruppo per via dei motivi più stupidi e svariati, a partire dal mestiere di sua madre, che era considerata “una strega”, ad arrivare alla sua carnagione, ed altre cavolate che agli occhi di Nico perdevano qualsiasi significato.

Sicuramente il sistema pacifico del suo governo non stava facendo poi così tanto un buon lavoro se accadevano ancora cose del genere.

Comunque lei si ritrovava più volte sola, e Di Angelo pensava che fosse questo il motivo che la spingeva a cercare di interagire con lui, che invece, per sua mera decisione personale, se ne stava sempre in disparte e non aveva mai provato ad amalgamarsi in alcun gruppetto.

In fin dei conti, però, i due non avevano mai avuto un vero e proprio legame, di qualunque genere, anzi lui aveva sempre continuato ad evitarla, desideroso di restare in solitudine, ma lei seppur avesse perfettamente recepito il messaggio, di tanto in tanto continuava a cercarlo ed a sedersi nel suo stesso tavolo in mensa, magari parlandogli per ore nonostante sapesse che non avrebbe ottenuto nessuna risposta da parte sua.

Il ragazzo conosceva poco di lei, sapeva che le mancava un familiare, il padre, ma non ci aveva mai sofferto in quanto lui fosse fuggito di casa prima che lei fosse effettivamente nata, e che l'unica cosa che provava nei suoi confronti era la rabbia per aver abbandonato sua madre.

In realtà il vero problema si era rivelata esser proprio quest'ultima donna, che per via del giudizio altrui, della povertà e dell'opprimente lavoro, spesso e volentieri cadeva in crisi isteriche e riversava tutta la sua rabbia repressa su sua figlia, picchiandola.

Nonostante questo e nonostante tutte le ingiustizie che Hazel subiva ogni giorno, essa manteneva sempre un comportamento ottimista, e per questo Nico si era ritrovato più volte ad invidiarla parecchio.

Malgrado ciò, Nico credeva che lei fosse l'ultima persona su questa terra a meritare un destino simile, e si sentiva direttamente coinvolto in quel suo dolore.

Sentì le urla isteriche della madre provenire dal fondo della folla, che riuscirono addirittura a distrarlo momentaneamente dai suoi ricordi, probabilmente quella donna stava cedendo anche in quel momento ad un esaurimento nervoso, a quel punto avrebbe provato come minimo a raggiungere il palco dove Hazel stava cominciando a dirigersi, ed i Pacificatori sarebbero dovuti intervenire, magari a manganellate...

La giovane ed esile ragazzina portava un consumato vestitino giallo che risaltava il suo splendido colore scuro di pelle, proseguiva velocemente con gli occhi puntati direttamente su quelli cristallinei e truccati di MeryLu, che la ricambiava sorridente.

Evitava di guardarsi indietro e di ascoltare le imprecazioni della madre, tremando visibilmente.

Nico non ebbe nemmeno il tempo di rattristarsi o di ribellarsi a sua volta per lei, che il secondo nome venne annunciato frettolosamente dalla presentatrice, precisamente il suo nome.

Rimase paralizzato, gli occhi gli si erano sgranati, e per qualche istante quasi si dimenticò come si faceva a respirare.

Continuava a fissare stralunato la boccia di vetro incriminata, lanciandogli mentalmente i peggiori insulti, senza però riuscire a rendersi realmente conto di cosa stava succedendo, era come ipnotizzato.

I Pacificatori intervennero rapidamente, sotto lo stridulo richiamo di MeryLu che li incitava a “dargli una mossa”.

Ma le sue gambe erano di piombo e loro dovettero quasi trascinarlo di peso sul palco, anche se con la sua corporatura esilissima e quasi deperita per via della fame che aleggiava, non ci sarebbe voluto poi molto.

Poi accadde, Nico metabolizzò la gravità della situazione e davanti a tutti cadde in ginocchio, le gambe non sorreggevano più il suo peso.

I suoi sentimenti oscuri cominciarono a riversarsi di getto fuori dal duo cuore e lui nemmeno si accorse che delle lacrime cominciavano a rigargli il volto scarno, sotto lo sguardo distante ed egoista del pubblico che a mala pena lo notava, come d'altronde aveva sempre fatto, e si limitava a tirare sospiri di sollievo per aver evitato la selezione.

Era da tanto che un tributo non scoppiava a piangere sul palco, ciò in genere li mostrava sempre fragili e quindi vittime più mirate agli occhi degli altri tributi, ma a lui non importava, lui sentiva di essere già morto da oramai da molto tempo, pensò sarcasticamente che forse quella si poteva rivelare anzi una botta di vitalità per la sua esistenza triste.

Hazel che aveva assistito a tutto da un bordo della piattaforma, vicino a quegli altri muti ed inutili individui, lo raggiunse di corsa e si chinò presto a terra, e con il buon intento di farlo calmare, lo strinse in un abbraccio resistente, un altra cosa veramente anormale in quanto in genere i tributi cercavano di non simpatizzare fra loro, dato che alla fine dei giochi sarebbe sopravvissuto un individuo soltanto ed era addirittura possibile che si sarebbero tolti la vita uno per mano dell'altro.

Poi, tra i vari singhiozzi, Hazel accompagnata dalle guardie, trascinò Nico dentro quello che pensava fosse il mezzo di trasporto che li avrebbe guidati a Capitol City, continuando a sussurrargli parole d'incoraggiamento. Hazel si stava dimostrando straordinariamente forte agli occhi del ragazzo, un ennesima volta.

Poi Nico venne momentaneamente chiuso in una lunga cabina perfettamente sgombera, che odorava di plastica nuova, in cui erano piazzati solo alcuni divanetti color crema, in cui si accasciò mosciamente.

Tecnicamente avrebbe dovuto rimanere in quel luogo per quindici minuti, in attesa dell'eventuale arrivo di qualcuno che gli volesse dargli un in bocca al lupo o comunque un addio, in genere si trattava di parenti o amici.

Questo era ciò che accadeva generalmente ad i tributi, ma lui era consapevole del fatto che non avrebbe ricevuto visite, l'unico che avrebbe potuto visitarlo era suo padre, ma in quel momento era a casa a dormire e quando si sarebbe svegliato sarebbe stato troppo tardi.

Ancora ancora sarebbe potuta venire Hazel, ma probabilmente era stata chiusa anche lei in un luogo simile per ricevere le sue visite.

Comunque non si vittimizzò per quella situazione, anzi ne fu rasserenato.

L'idea di non dover incontrare il suo genitore gli toglieva un peso dalla coscienza, non avrebbe retto ancora una volta il suo sguardo deluso. Quell'uomo a parer suo aveva già visto morire troppe persone a lui care, e non voleva vedere in lui l'ennesimo dolore nel fissare, per l'ultima volta, un suo figlio prossimo alla morte ,senza poter far nulla.

Perché obbiettivamente Nico si rese conto che era già spacciato.

Aveva appena quattordici anni, era basso, magrissimo e non sapeva maneggiare nemmeno un arma, le sue capacità fisiche erano limitate e forse l'unica cosa che sapeva fare bene era nascondersi, ma a parer suo, non sarebbe servita molto questa sua capacità, non nell'arena.

Come alleati nessuno si sarebbe offerto per dargli una mano o coprirgli le spalle, tranne forse Hazel, ma lui era pronto a declinare la sua proposta d'aiuto, in quanto un minimo di speranza per lei esisteva e non voleva assolutamente levargliela fungendo da peso morto.

In quel momento pensò nuovamente a Bianca , la sua amatissima, gentilissima e ormai defunta sorellona.

Ricordò come faceva ondeggiare i suoi lunghi capelli corvini sulle spalle, con una genuinità rara, capelli che gli incorniciavano il viso rendendola ancora più bella.

Pensava a lei perché lei era sempre stata il suo unico eroe ed il solo farsela venire in mente riusciva a farlo stare meglio.

Lei sì che un tempo era stata abile ed agile, sapeva far tutto, correva come una gazzella nelle vie morte della città, dimostrando una perfetta resistenza fisica.

Aveva sempre avuto una buona predisposizione per il tiro con l'arco e spesso, quando ancora era nel pieno delle sue forze, le capitava di andare ad aiutare le cacciatrici nei boschi, anche se in genere non uccideva nessun animale ma si limitava ad allenarsi per puro divertimento con dei bersagli immobili.

Secondo lui, Bianca probabilmente sarebbe riuscita a vincere per sino agli Hunger Games .

Rendendosi conto delle condizioni tolse frettolosamente dalla testa il pensiero raccapricciante di sua sorella chiusa in quello stupido campo di battaglia, intenta a combattere e fare del male.

Poi formulò un ultimo pensiero, che gli riuscì ancora più pessimista dei soliti.

Rifletté sul fatto che forse avrebbe fatto meglio a morire di sua spontanea volontà e per mano sua, quando ancora ne aveva l'opportunità, magari buttandosi da una recinzione, o da un piano alto del palazzo di giustizia.

Poi i pacificatori irruppero nuovamente in quella cabina, il tempo delle visite a quanto pareva, era scaduto, e lo sballottarono nuovamente fuori da quel luogo.

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Capitolo 2
*** Capitolo II - HAZEL ***


HAZEL

Hazel aveva appena finito l'incontro tenuto con sua madre, che le aveva riservato un comportamento a dir poco morboso, tanto che le guardie una volta che il tempo delle visite fu terminato, furono praticamente costrette a prenderla in braccio e trascinarla di peso fuori dalla cabina, tanto si pestava per non voler abbandonare sua figlia.

Inizialmente, la ragazza, conoscendo il carattere da ormai molto tempo instabile di sua madre, aveva temuto che una volta che si fosse trovata sua figlia difronte non si sarebbe fatta scrupoli nell'usare la violenza, magari ripetendole come al solito cose quali che era solo un fallimento per lei, che le aveva rovinato la vita, che se non fosse mai nata suo padre non sarebbe fuggito e cattiverie simile, a cui la ragazzina era tanto abituata che ormai non riuscivano più a toccarla o farle del male.

La paura che sua madre esplodesse, si era fatta più concreta dopo averla udito scoppiare a piangere e sbraitare in un attacco di rabbia durante il suo percorso verso il palcoscenico, era stata veramente fortunata per non esser stata riempita di botte nel piazzale davanti a tutti, forse i Pacificatori si erano trattenuti perché sapevano che il filmato si trasmetteva in diretta televisiva e non volevano creare polemiche o proteste da parte di qualche capitolino in ascolto.

Comunque da quanto le riferirono in seguito si limitarono a sedarla momentaneamente, con un siero talmente leggero che la donna riuscì addirittura a svegliarsi per andare ad incontrare un ultima volta, per lo meno così presumeva, Hazel.

Mal grado il suo atteggiamento volubile e frustrato però, la donna aveva mantenuto un comportamento assolutamente atipico e sorprendente nei confronti della figlia.

Si era fiondata immediatamente all'interno di quella bianchissima stanza, con gli occhi gonfi per il pianto ed un aspetto a dir poco trasandato, quasi distrutto, Hazel non l'aveva mai vista in quello stato e presumeva che fosse anche colpa delle droghe che avevano usato per calmarla poco prima, eppure sembrava esserci dietro, molto più di quella semplice spiegazione scientifica.

La ragazza si era subito rasserenata, era certa che in quel momento anche volendo lei non sarebbe mai riuscita ad alzargli le mani, anche solo il tenersi in piedi sembrava un azione estremamente faticosa vista dalla sua prospettiva.

Infatti rapidamente cadde ai suoi piedi, e cominciò a frignare ed urlare a gran voce, sostenendo di avere il cuore spezzato.

Hazel le diede una mano per tirarsi in piedi e la fece accomodare nei morbidi divanetti, accanto a lei.

La donna presto la cinse in un abbraccio, e cominciò a tentare un discorso d'incoraggiamento, ancora singhiozzante.

La pregò, la implorò in ginocchio di salvarsi, di sopravvivere, di tornare a casa sana e salva.

Si era scusata tremolante per tutte le volte che l'aveva fatta soffrire e le aveva alzato le mani, le aveva assicurato che tutti gli insulti che le aveva lanciato durante gli anni precedenti erano fasulli, le aveva urlato che si sentiva una vigliacca e che non meritava di essere madre, non di una creatura stupenda come lei.

Infine aveva giurato che la amava più di qualunque altra cosa al mondo, mentre continuava a lasciarle piccoli baci sulle guance.

Dicevano che si apprezzavano le cose importanti, solo quando si perdevano, e forse era proprio vero.

Poi i Pacificatori la obbligarono ad uscire da quel posto, evitando i pugni ed i calci che la donna cercava di sferrare nella sua protesta.

Hazel era rimasta colpita da quella situazione, certo non avrebbe mai potuto perdonare completamente sua madre, così su due piedi, per tutte le angherie che le aveva rivolto, per tutto il dolore che le aveva fatto patire.

Nonostante questo non ce l'aveva fatta a non scusarla, almeno a parole, dato che quello era forse il loro ultimo riconciliamento, e poi sapeva quanto il rancore e la disperazione avessero consumato quella donna negli anni, era cosciente del fatto che la colpa non era totalmente sua, e sarebbe solo stato stupido da parte sua portare odio verso sua madre, adesso che era prossima alla fine, era meglio andarsene in pace.

Hazel però non si era ancora arresa a quel destino, sarebbe stata dura però.

Si lasciò sfuggire qualche lacrima solitaria che le rigò il volto, avrebbe comunque provato a reagire e combattere come le aveva promesso.

In cuor suo, sapeva perfettamente che per quanto ci avesse provato, probabilmente non ci sarebbe mai riuscita.

E questo, tralasciando le sue già palesi, scarse capacità fisiche, d'altronde il destino era imprevedibile e nel corso degli anni molti ragazzi e ragazze anche enormemente più mingherlini di lei erano riusciti a resistere fino alla fine, perciò sulla sua abilità non poteva pronunciarsi.

Il vero problema, era più che altro legato ad una questione etica e morale.

Infatti non avrebbe mai assecondato il fatto che dovesse uccidere dei ragazzini come lei, delle persone innocue che magari non avevano mai fatto niente di male nella vita.

Sapeva però che si trattava di sopravvivenza, e che quindi non si trattava di essere buoni o cattivi, nessuno lo era, semplicemente si trattava di ferocia, come quella che avevano gli animali che cacciavano i cervi, mera salvaguardia personale.

Eppure le sue mani non ce l'avrebbero mai fatta a tingersi del sangue di qualcuno, in nessuna circostanza ne modo, semplicemente non era nelle sue abilità.

Quasi la faceva ridire il sol pensiero che avrebbe dovuto toglier la vita a Nico ed altre ventidue persone a lei estranee, se ci fosse riuscita sarebbe finito ugualmente ad impiccarsi per i sensi di colpa, ed a quel punto era meglio morire in quel gioco senza compiere ulteriori stragi successivamente.

Piuttosto sarebbe morta, questo lo accettava, ma non si sarebbe mai abbassata a quei livelli, non avrebbe mai assecondato il volere di Capitol City.

Magari avrebbe cercato, almeno inizialmente, di tenersi in vita il più a lungo possibile, mimetizzandosi, nascondendosi, creando alleanze “potenti”.

Era sicura che avrebbe potuto far pure del bene, aiutando i più disperati, magari curandoli, ma niente più di questo.

Il suo da molti era visto come un atteggiamento da codarda, ma lei non poteva farci niente, rientrava nel suo DNA.

Si asciugò il viso che era ancora leggermente bagnato dal suo breve pianto, e poi, senza farselo ripetere due volte, uscì con un balzo da quella cabina, venendo scortata dai Pacificatori verso il treno che li avrebbe portati a Capitol City.

Non ci volle molto a raggiungerlo, il mezzo era parcheggiato difronte alla cabina da cui era uscita.

Era estremamente grande, come più palazzi del suo distretto messi insieme, e completamente nuovo, scintillante, con una fresca vernice arancione che brillava ancora fresca nella penombra.

Entrò nella prima stanza ancora rapita dal fascino di tutto quel lusso, l'ingresso era enorme, profumava di fiori asiatici, ed era ricoperto da un tappetto soffice al tatto.

La carta da parati era di un celeste intenso, così come il pavimento, perfettamente abbinati ai mobili bluastri che erano attaccati saldamente alla parete, ma che stonava decisamente con il contrasto di colore netto dei divanetti e delle poltroncine color banana, che erano sparse un po' ovunque in quella prima sala.

Nico era già arrivato, era accovacciato sul quel pavimento soffice e profumato, con la schiena contro una di quelle orribili poltroncine.

Teneva la testa salda fra le gambe, ed era immobile, pareva molto abbattuto, e lei poteva benissimo comprenderlo...

La ragazza si domandò quasi subito da quanto tempo si trovasse raggomitolato in quella posizione, finché la assalì il forte dubbio che nessuno fosse venuto in quella cabina per dare un addio a quel povero individuo.

Era cosciente del fatto che il padre del ragazzo fosse molto, se non completamente, assente nei suoi confronti, ma stentava a credere che non potesse recargli alcun dispiacere il vedere il figlio invischiato in una brutta situazione simile.

Non per niente gli occhi di Nico Di Angelo erano sempre stati due abissi di tenebre, lei se n'era accorta dalla prima volta che l'aveva visto, sapeva la sua storia, sapeva di Bianca e di Maria, e forse era proprio per questo che provava quel senso di muta solidarietà nei suoi confronti, oltre che per via di quel fatidico fatto avvenuto tra i due, sei anni prima, che lui con ogni probabilità si era scordato.

Da quel famoso giorno, dal loro prima incontro, la ragazza non aveva fatto altro che cercare di vegliare ad una cauta distanza su di lui, cercando di aiutarlo e di farlo uscire da quella sua cupa aura, ma fin a quel momento ogni suo tentativo era stato vano.

Adesso si rendeva conto di quanto fosse il destino l'unico essere veramente crudele di quel mondo, un qualcosa che non si faceva scrupoli a far del male a chiunque, anche a quegli individui che non se lo meritavano assolutamente.

E che ora si stava divertendo a torturarli, prima a lei poi a quello sventurato ragazzino.

Si accasciò a terra vicino a lui, alla sua destra, senza dire una parola.

Era conscia del fatto che probabilmente in quel momento il ragazzo non desiderava altro che restare solo, ma al solo pensiero di non stargli vicino le piangeva il cuore, così si limitò a prendergli delicatamente una mano, in un aiuto muto.

Insolitamente il ragazzo rispose alla sua stretta, ma nemmeno lui aprì bocca od alzò lo sguardo, semplicemente restarono seduti immobili su quel comodo terreno, intenti ad immagazzinare con grande sforzo le loro prossime sorti.

Passò un po' di tempo, ma nessuno dei due se n'era particolarmente curato, così poteva esser giunto il pomeriggio o la notte, ma sarebbe stato comunque uguale ai loro occhi spenti e lucidi.

Ad interrompere quell'atmosfera drammatica li raggiunse presto la fastidiosa quanto energetica MeryLu Blonde, che nonostante tutti i suoi difetti e la sua superficialità avrebbero dovuto imparare ad apprezzare, o quanto meno sopportare, dato che da quel momento in poi avrebbe avuto il compito di essere la loro annunciatrice e manager, ossia l'individuo che si sarebbe occupato di fare pubblicità ai due ragazzi e di farli apparire al meglio agli occhi delle telecamere.

Evidentemente la donna aveva eseguito un cambio d'abito, ma non per questo era conciata decentemente, portava una stretta gonna gialla ed uno sfarzoso gilè di pizzo bianco a maniche lunghe.

Sotto il suo pesante strato di trucco colorato le si poteva chiaramente leggere un espressione di delusione, si poteva definire quasi scocciata per il fatto di doversi occupare di loro da ora fino alla loro morte, probabilmente era stufa di ricevere sempre tributi scarsi e deboli, prossimi alla sconfitta, e non era nemmeno totalmente da condannare per questo, a nessuno avrebbe fatto piacere addestrare molto, delle persone che poi tanto sarebbero morte in un battito di ciglia.

Hazel pensò che sicuramente lei non avrebbe fatto una bella figura agli occhi dei capitolini, ma non gliene poteva importare di meno.

Comunque la ragazza si sforzò di ostentare un sorriso accondiscendente alla donna, per quanto potesse risultarle antipatica, ma MeryLu sembrava non averla notato nemmeno.

Gli acciuffò rapidamente le braccia, attenta a non danneggiarsi le lunghe unghie finte color pastello, e poi cominciò a trascinarli per i corridoi dell'enorme treno, che ormai doveva essere in movimento.

A guardarlo bene, all'interno era veramente lussuosissimo, pieno di decorazioni, quadri, vasi, poltrone di raffinati materiali ai ragazzi sconosciuti, televisori, oggetti tecnologici e di antiquariato.

Le stanze sembravano non finire più, ed i colori dei vari arredi colpivano sempre maggiormente i due ragazzini, che non avrebbero mai sognato di vedere tutte quelle meraviglie in prima persona.

Eppure la donna li guidava noncurante, estremamente frettolosa, ed i due non ebbero il tempo necessario per poter scrutare sufficientemente tutti quei luoghi.

L'unica cosa che continuavano ad imboccare erano i corridoi infiniti, tutti celesti come l'ingresso, ma non avevano nulla di particolar,e a parte la lunghezza interminabile.

Ogni tanto notavano delle figure aggirarsi all'interno di alcune stanze semichiuse, oppure le vedevano camminare lungo dei corridoi incrociati ai loro.

Riuscirono a distinguerli solamente grazie alle divise, constatando che alcuni dovevano essere operai tecnici, altri invece addetti alle pulizie, cuochi ed anche camerieri.

La ragazza rabbrividì al pensiero del suo monolocale malconcio, dove si e no riuscivano a contare due stanze, ed in cui non c'era nemmeno lo spazio necessario per poter studiare.

Poi ripensò alla sua sua condizione generale di povertà, a tutte le condizioni di miserie del distretto, di Nico, del panettiere e per sino del sindaco, tutto ciò sembrava un vero e proprio schiaffo morale.

La vendita di quel treno avrebbe salvato migliaia di vite dalle sue parti, ma a quanto pareva quei soldi erano più “utili” nel poter permettere la servitù ad un paio di poveracci che stavano per andare su un campo a morire.

Faceva ridere il fatto che si ritrovava circondata dal lusso più sfrenato, proprio prima di raggiungere una triste fine, la considerava una specie di presa in giro molto sadica da parte del suo odiato governo.

Comunque per calmarsi e non implodere in uno scatto d'ira, cercò di pensare alle cose positive, e non a tutte le atrocità che il futuro avrebbe riservato per lei, in una specie di “carpe diem”, molto fuori luogo per la sua condizione.

Eppure si ripeteva di godersi gli ultimi attimi nel presente in tranquillità, quel poco tempo che le rimaneva doveva trascorrerlo al meglio, anche se sarebbe significato usufruire dei beni frivoli che la capitale le stava offrendo dandole in dono quel viaggio in un treno “di prima classe”.

Respirò a fondo e rivolse uno degli sguardi di sostegno più convincenti che le riuscirono a Nico, presumendo che in lui dovessero passare gli stessi pensieri negativi.

Finalmente giunsero in una grande stanza, e poterono uscire da quel labirinto di corridoi celesti, per accomodarsi meglio nel tavolino marroncino di quest'ultima.

Era spaziosa, con due tappeti, un grande tavolo con delle sedie foderate, una televisione spenta e dei vari abbellimenti sparsi un po' ovunque, come delle eleganti tende di seta color carne poste ai lati del finestrino oscurato.

Subito guidò stancamente Nico in una di quelle sedie morbide, desiderosa di sedersi, mentre si tenevano ancora per mano.

Non parlarono ma continuarono a starsi vicini, scrutando l'ambiente e toccando i vari e differenti tessuti di quel luogo, a partire dalla tovaglia scura, che parevano così raffinati ed inusuali ai loro occhi.

Erano talmente assorti che si accorsero dell'assenza di MaryLu solo dopo che la videro rientrare in quella stanza più sgargiante di prima, muovendo la lunghissima chioma blu da una spalla all'altra, creando una sequenza quasi ipnotica.

Tutta la sua vivacità era probabilmente dovuta alla presenza delle due persone che teneva a braccetto, un uomo ed una donna, e che poco prima avevano intravisto sul palcoscenico.

Subito si affrettò con le presentazioni, battendo le mani contenta, e trillando con la sua solita voce da contralto:-

“Tesori miei, vi sono mancata?

Sono tornata più entusiasta di prima, e sapete perché?

Ah! Tranquilli, ve lo dico subito!

Dunque il perché deriva dal fatto che vi devo presentare questi due bei tipetti che si trovano qui con me.

Ebbene loro saranno i vostri mentori, ossia coloro che vi addestreranno, vi troveranno gli sponsor e vi aiuteranno a sopravvivere sia all'esterno che all'interno dei giochi, diciamo che saranno una specie di miei assistenti, solo che loro faranno il lavoro noioso, non è fantastico?

Questa donna è Misa Cooper, ha vinto la quindicesima edizione degli Hunger Games ed è qui per aiutare e sostenere la nostra adorata riccioli d'oro.”

Indicò con il dito Hazel che stava fissando perplessa la figura di quell'individuo.

Non rimembrava di averla vista nei giochi, ma sarebbe stata comunque troppo piccola per ricordare la sua edizione.

Comunque le era sembrato di averla vista di sfuggita qualche volta nella parte alta della città, nella zona in cui risiedevano le persone che più si avvicinavo all'esser benestanti, oltre ad averla ovviamente incrociato quella mattinata sul palco.

Aveva dei corti capelli biondicci che le ricadevano davanti agli occhi, appiccicaticci, gli occhi erano vacui ed il fisico molto robusto, visibilmente sovrappeso, con una postura incurvata.

Probabilmente, considerando la distanza della sua edizione di giochi, avrebbe dovuto avere una quarantina d'anni, anche se ne dimostrava molti di più.

Si vedeva che i suoi vestiti erano più costosi rispetto a quelli di Hazel e Nico, seppur comuni i tessuti ed i modelli si avvicinavano molto a quelli che utilizzavano i capitolini, eppure se la si guardava nell'insieme sembrava così sciupata che poteva benissimo sembrare una comune signora del tredici.

I suoi abiti pregiati venivano sicuramente dalla ricchezza del vincitore, infatti tutti coloro che vincevano annualmente quegli stupidi giochi mortali, come “grande ricompensa” per aver troncato decine di vite venivano riforniti da Capitol City con un enorme somma di denaro per loro e la loro famiglia.

Il prezzo degli Hunger Games era comunque troppo alto per qualsiasi tipo di ricompensa, e secondo Hazel, Misa non era altro che un assassina.

Comunque strinse la sua mano, cercando di assumere un atteggiamento determinato, ma la donna a mala pena la guardava in faccia.

MeryLu proseguì il suo discorso, muovendo ripetutamente una gambe per la contentezza e gesticolando animatamente:-

“Lui invece è Dastin Brown ed è qui per seguire ed aiutare il nostro piccolo Nico.

È stato il vincitore della, udite udite, ventesima edizione degli Hunger Games.

Esatto ragazzi, si tratta di soli due anni fa, e sono stata proprio io la sua manager! Che emozione!”

Nico gli accennò un saluto con il capo, dopo aver fulminato con lo sguardo quella finta presentatrice, e l'uomo ricambiò sorridendo, divertito dall'impellente scontrosità del ragazzo.

Era molto più giovane di Misa e a differenza sua, Hazel si ricordava perfettamente di averlo rimirato nella televisione del piazzale del distretto, mentre partecipava a quel massacro avvento poco tempo prima.

Era riuscito a vincere grazie alle sue grandi capacità con la lancia, in più gli strateghi ( ossia i programmatori tecnici dell'arena) di quell'anno, avevano piazzato delle bombe all'interno di tutto il terreno di gioco e lui grazie alle sue capacità di operaio nucleare del tredici era riuscito ad individuarle ed evitarle, a differenza della stragrande maggior parte degli altri ragazzi che erano morti saltando in aria.

Portava i capelli rasati ed una larga tuta grigia.

Sembrava in condizioni migliori rispetto all'altro mentore, che messo al confronto pareva un vecchio catorcio, ed in più a differenza di Misa lui si sforzava almeno di assumere un atteggiamento quanto meno “amichevole” con il suo tributo.

MeryLu fece una giravolta sui suoi altissimi tacchi rossi a spillo ed uscì rumorosamente dalla stanza, annunciando che doveva andare a terminare “delle faccende tecniche e per niente interessanti” ed invitando amabilmente i ragazzi a “stringere amicizia” con i propri addestratori, come se non stessero andando in un campo di battaglia, ma in una gita d'istituto.

Misa si accomodò nella sedia del tavolo vicino a quella di Hazel, mentre Dastin imitandola prese posto vicino a Nico

“Volete che andiamo in stanze differenti o vi va bene se discutiamo insieme del vostro futuro ?” domandò il secondo mentore assolutamente serio in volto.

Hazel chiese subito spiegazioni su quell'insolita proposta e Misa gliele offrì svogliatamente, prendendo a sua volta la parola:-

“ Adesso, ed ovviamente per adesso non mi riferisco solo ad ora, ma intendo in questi giorni che verranno, insomma… prima della vostra “ascesa in arena”, diciamo, cercheremo di individuare i vostri punti forti, i vostri punti deboli e la vostra possibile strategia d'attacco.

Considerando che su quel campo voi due sarete avversari, non so quanto vi convenga sapere tutte queste cose uno sull'altro, in casi estremi, uno di voi due, potrebbe approfittarne ed uccidervi facilmente, non so se mi spigo.

Com'era quel detto?

Oh, giusto: fidarsi è buono, ma non fidarsi è meglio”.

Decisamente tutti constatarono quanto quella donna non fosse per niente abituata a spiegarsi ne a comunicare.

Hazel impallidì riflettendo su quella specie di sottile accusa che le aveva rivolto Misa, come poteva anche solo pensare che lei avrebbe mosso un dito su quello sventurato ragazzino una volta giunta nell'arena?

Si morse la lingua per evitare di risponderle male, mentre continuava a lanciargli occhiatacce fugacemente, sentendosi leggermente offesa.

Nico a sua volta emise una leggera risata trovando ridicolo il solo pensiero di lui che uccideva qualche tributo, non era riuscito ad ammazzare nemmeno se stesso, figurarsi se ce l'avrebbe fatta.

Entrambi a quel punto approvarono saldamente la condivisione di informazioni a portata di ambedue, ignorando gli ammonimenti insistenti che gli riservavano i due individui.

Alla fine, i mentori, un po' titubanti per quella loro pericolosa scelta, accettarono la loro richiesta.

Cominciò ad indagare sulle potenzialità la donna, mentre sfilava rapidamente un astuccetto color gesso dalle tasche, e ne sfilava rapidamente una sigaretta ed un accendino, in procinto di fumarla.

“Allora ragazzina, dimmi, qual'è il tuo punto forte?

Comincia parlandomi di tutto ciò che ti viene in mente su di te che si potrebbe rivelare potenzialmente utile in combattimento.”

Hazel ci pensò a fondo, era titubante sull'effettiva efficacia delle sue doti, ma provò comunque ad esporle, cercando di apparire seria e convinta agli occhi opachi dei presenti.

“Prima di tutto, conosco bene il terreno e mi adatto notevolmente ad i climi sotterranei.

Poi si potrebbe dire che vado abbastanza d'accordo con gli animali, ovviamente a seconda della loro ferocia.

Infine sono abbastanza agile nell'arrampicarmi e potrei provare ad utilizzare un pugnale”.

Hazel aveva appreso la maggior parte di quelle capacità aiutando sua madre a ricercare e disseminare le mine ed i materiali potenzialmente pericolosi dai fitti boschi.

Essendo il distretto propenso alle fabbricazioni esplosive e nucleari, spesso si perdeva molto materiale dannoso, che finiva di consuetudine nella steppa erbosa intorno al confine, e lei, era sempre andata in aiuto della madre che nel tempo libero si prodigava a svolgere quei compiti a dir poco rischiosi, che però dovevano sopportare siccome, grazie a questi ultimi, ricevevano una buona paga extra dal comune, che portavano a casa per mantenersi di mese in mese e non farsi affossare totalmente dalla miseria.

Il loro compito era ricercare quel materiale, riconoscerlo ed infine disinnescarlo.

Trovandosi spesso nei boschi, Hazel era sempre stata a contatto con della fauna selvatica ed aveva imparato a trattare ed andare d'accordo con molte specie di animali, che ormai a loro volta, non si spaventano più vedendola, in particolare aveva scoperto che le piacevano parecchio i cavalli.

Invece per quanto riguardava l'essere abile nell'arrampicarsi, un po' era sempre stata una abilità innata, già presente nel suo DNA dato che fin da piccola le piaceva arrischiarsi a scalare qualunque superficie ripida si trovasse davanti a se, ma un po' era anche stata coltivata dalle fughe dagli orsi selvatici che di tanto in tanto le capitava di incrociare nei boschi, ed il pugnale aveva imparato approssimativamente a maneggiarlo proprio per difendersi ulteriormente dall'attacco di queste creature.

Il mentore scosse tristemente il capo una volte che udì le qualità della ragazza, che a suo parere, non erano sufficienti per salvaguardarla , ma cercò ugualmente di assumere un tono rassicurante, anche se non troppo.

Con quel comportamento aveva dimostrato di possedere almeno un minimo di tatto, ma si vedeva chiaramente nei suoi occhi, che in realtà era stufa di doversi occupare e dover simpatizzare con dei ragazzi che puntualmente vedeva morire in diretta mondiale sotto gli occhi spenti di tutti.

“È un buon inizio.

Nel caso nell'arena si trovino percorsi sotterranei tu sapresti orientarti.

Ti conviene, e parlo anche per te Nico, allenarti su qualcosa che sai fare in maniera mediocre, nel tuo caso ti consiglio dunque di addestrarti con i pugnali.

Seguendo questo consiglio riuscirete a migliorare anche delle tecniche in cui siete più scarsi, in modo tale da risultare poi preparati a più tipi di situazioni.

Comunque per ora, il punto importante è che negli addestramenti voi non dovete assolutamente far vedere agli altri tributi i vostri punti di forza ne ovviamente i vostri punti di debolezza, se ciò accadesse voi sarete già con tutte le carte scoperte, e a quel punto non sarà difficile mettervi fuori gioco.”

Hazel annuì apprensiva, comprendendo perfettamente il messaggio che la donna voleva trasmettere, decidendo che avrebbe tentato di rispettarlo principalmente cercando di allenarsi nel maneggiare i coltelli, ma non era da escludere che avrebbe provato a cimentarsi anche con qualcosa di nuovo, in cui non rischiava di andare ne troppo bene ne troppo male, come per esempio la creazione di trappole o veleni.

L'unica cosa certa era che più cose sapeva fare, più possibilità aveva di sopravvivere.

Successivamente fu il turno di Dastin, che porse la medesima domanda, rivolgendosi a Nico.

Il ragazzo però si limitò a non rispondere, scuotendo energicamente la testa in una muta e fasulla affermazione di completa inettitudine.

Il suo mentore provò ad insistere ripetutamente, al fine di ricevere una risposta se non soddisfacente, che almeno gli trasmettesse un minimo di speranza, ma il ragazzo continuava a non smentirsi nella sua cocciutaggine.

Arrivarono ad un punto in cui Dastin, esasperato, stava quasi per dargli la vinta, almeno per il momento, ma prima che ciò accadesse Hazel decise di intervenire e rispondere al posto suo.

“Deve sapere che Nico, prima di tutto, è veramente bravissimo nel nascondersi e mimetizzarsi, quasi quanto è agile e rapido nel correre.

Inoltre è estremamente preciso ed ha un ottimo istinto per quanto riguarda il riconoscere le trappole artificiali e naturali.

Se la cava piuttosto bene anche con l'individuare possibili risorse commestibili ed ha un ottimo senso generico dell'orientamento.

Infine ha buonissime probabilità per quanto riguarda il saper maneggiare armi come la spada o comunque altri strumenti simili, per lui basta che siano affilati e metallici, anche se con una lancia non riuscirei a vederlo bene

In qualunque caso, questo ragazzino ombroso è realmente una piccola miniera d'ora nella sopravvivenza, ed io sono un esperta nel rintracciare materiale prezioso” affermò la ragazza convinta, lasciando tutti di stucco con il suo atteggiamento ottimista e convincente.

Era stata tanto brava nel saper descrivere e “promuovere” Di Angelo, che pensarono sarebbe risultato un portento nel campo delle televendite, probabilmente se si fosse trattato di puntare su qualcuno in quell'edizione, i due mentori in quell'istante si sarebbero affidati alla cieca ad indicare il ragazzo.

Nico invece non poté far altro che fissarla a bocca spalancata, non si capacitava come tutte quelle affermazioni sul suo conto potessero esser giunte ad Hazel, le opzione erano che lei fosse o una spia del governo od una stalker, ma non riusciva proprio a vedercela bene in ambedue di quei singolari ruoli. L'unica cosa di cui era certo era che non si aspettasse una simile analisi delle sue capacità effettive, ed in più, sinceramente, lui stesso si era dimenticato di possedere tutte quelle qualità, ed ai suoi occhi sembrava che si stesse parlando di un estraneo, un tizio veramente in gamba per altro.

La ragazza l'aveva osservato a lungo e per molto tempo, questo era sicuro, ed i suoi motivi agli occhi di Nico erano ancora sconosciuti, anche se in realtà una motivazione esisteva, ma lui l'avrebbe forse scoperta solo in seguito.

Dal canto suo alla ragazza capitava spesso di incontrarlo casualmente nei boschi, d'altronde lei poteva recarvisi solo ed unicamente perché aveva il permesso del comune, in quanto intercettava materiale potenzialmente dannoso, ma per il resto dei cittadini era ampiamente vietato oltrepassare i confini.

Sapeva perfettamente che quel nanerottolo aveva un indole alquanto anticonformista, e certo lei non avrebbe fatto mai la spia nei suoi confronti, anche se tecnicamente con il suo silenzio commetteva lei stessa un reato, pensandoci bene non le piaceva più di quanto piacesse a Nico attenersi passo per passo ad ogni regola.

Le era capitato frequentemente anche di seguirlo nelle vecchie zone di periferia dove si ergeva la grande fabbrica abbandonata del distretto, e sempre in queste occasioni aveva potuto studiare maggiormente le sue abilità, d'altronde se agli occhi di tutti quell'individuo passava totalmente inosservato, ai suoi attirava l'attenzione come un lago nel deserto.

Il ragazzo d'altronde stava per gran parte delle giornate fuori di casa, per motivi che la ragazza poteva intuire, come il distaccarsi dal genitore, in fondo anche lei era sempre stata una “fuggitiva” in quel senso.

Lui però, quando scappava lo faceva diversamente da lei, era indubbiamente veloce, tanto che pareva un miraggio, ed era impossibile raggiungerlo, anche se con il suo fisico sottopeso non si sarebbe mai potuto intuire, la ragazza a volte si chiedeva se fosse solamente la determinazione a continuare a reggerlo in piedi.

Come se non bastasse il suo senso d'orientamento era strepitoso, ovunque si dirigesse riusciva a non perdersi, e per lui non era questione d'abitudine o altro, lui sembrava si trovasse a casa sua, qualunque luogo incrociasse, dai boschi alle fabbriche in rovina, eppure per suo grande paradosso, lui un ambiente che poteva definire “casa” non l'aveva mai trovato da nessuna parte.

Come ciliegina sulla torta, nonostante Nico stesse praticamente perennemente in giro tra le strade più districate della città, non era mai stato avvistato da nessuno, e questo era proprio perché aveva l'innata dote di riuscire a nascondersi perfettamente tra le folle o tra l'isolamento, qualità tanto a suo vantaggio quanto a suo svantaggio.

Hazel ad un certo punto lo aveva addirittura soprannominato, ovviamente per questo motivo, “il ragazzo che viaggia nell'ombra”.

Per quanto riguardava la spada non era propriamente certa della sua agilità, ma aveva lo sfocato ricordo di quando lui era ancora un solare ed ingenuo bambinetto iperattivo, a cui piaceva infinitamente allenarsi di tanto in tanto con delle pesanti lastre di ferro scuro insieme alla sorella, giocando a fare gli spadaccini, ed in queste circostanze capitava spesso che arrivava ad aiutar Bianca, addirittura con le cacciatrici dei boschi, svolgendo piccole mansioni, eppure dalla sua triste e sofferta scomparsa non le pareva di aver più visto il ragazzo maneggiare una sola arma.

Comunque, ai suoi occhioni dorati, lui era veramente un pozzo di speranza, e lei voleva fare il possibile per riuscire a far si che le aspettative si tramutassero in realtà e lo aiutassero fisicamente e realmente.

Dastin, interdetto e sorpreso, ma visibilmente rasserenato, ringraziò frettolosamente la ragazza, affrettandosi ad uscire da quella colorata stanza, trascinando per una manica slabbrata anche l'annoiata Misa.

In un primo momento, i due tributi rimasti soli, si fissarono a disagio, non sapendo esattamente cosa dirsi.

Nico fu il primo a parlare, riprendersi da quel mutismo selettivo che si era imposto per lo stato di ansia e shock, dall'inizio di quella sfortunata mattinata.

La prima cosa che fece, fu domandare ad Hazel spiegazioni per tutte le informazioni che possedeva su di lui, stringendosi nervosamente i lembi del suo amatissimo giubbotto scuro.

Hazel rise facendogli un occhiolino, non avendo voglia di raccontare i suoi motivi, più o meno validi, proprio in quel momento, cercando di diffondere un velo di mistero su quella situazione.

Nico allora, capendo la determinazione a non chiarirsi della ragazza, accennò un cenno riluttante del capo, fingendosi visibilmente disapprovante ed irritato, cercando di nascondere il lievissimo sorriso che minacciava di incurvargli le labbra, ma che Hazel riuscì ad intravedere comunque, rassicurandosene di conseguenza.

Per una buona parte del tempo che seguì, i due non fecero altro che dialogare animatamente sui più svariati argomenti, in maniera totalmente aperta e diretta, cercando sicuramente di distrarsi momentaneamente dalle loro incombenti pene e di risollevarsi il morale a vicenda, proprio come avrebbero fatto due fratelli che si volevano bene e non due rivali pronti ad uccidersi a vicenda, ma nessuno in quel momento avrebbe mai potuto prevedere la sequenza delle loro azioni future.

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Capitolo 3
*** Capitolo III - THALIA ***


THALIA

In quel momento Thalia Grace era nuovamente furiosa, sentiva l'adrenalina pulsargli nervosamente nelle vene, minacciandola di salire fino a farla scoppiare per l'ira.

L'unica cosa di cui era certa, era che se solo ne avesse avuto la minima occasione avrebbe spaccato a mani nude la testa a quel serpente del presidente Snow.

Era seduta “comodamente” sul treno incaricato di trasportare i tributi verso quello stupido centro d'addestramento per sacrifici umani, intenta a fissare fuori dai resistenti finestrini il panorama grigio dei paesaggi che continuavano a susseguirsi rapidamente, cercando di mantenersi calma e di non sbraitare per quella sua ridicola situazione, d'altronde a lei l'urlare aveva sempre avuto molto più effetto del piangere come forma di sfogo, e d in quel momento ne sentiva certamente la necessità.

In più, l'esser affiancata da quel pallone gonfiato del presentatore del suo distretto, inferiore solo alla montata MeryLu del tredici per spocchia ed antipatia, oltre che essere in presenza del suo inutile e silenzioso mentore e da quel poveraccio che era stato eletto nella mietitura del 5 insieme a lei,tutto ciò non l'aiutava certamente a a far restare i nervi saldi.

Quando aveva sentito il suo nome pronunciato dal convinto e fasullo George Stephen, era rimasta inorridita, ma anche stralunata, semplicemente credeva che da un momento all'altro qualcuno prendesse la parola e le gridasse al megafono che la stavano prendendo in giro in diretta mondiale e che era in verità salva, ma una cosa del genere sarebbe stata impossibile.

Allora si era diretta incredula verso il palco, con la bocca ancora aperta, ma mano a mano che il suo percorso verso il palcoscenico avanzava, la sua razionalità cominciava a fare i conti, ed il suo corpo cominciava dunque a rendersi effettivamente conto che la situazione orrida in cui era finita, era reale.

E fu così che la collera dentro di lei prese il sopravvento sulla logica delle sue azioni.

Ma Thalia Grace non era complicata, era una semplice e dinamica ragazzina del distretto cinque, ossia il distretto dell'elettricità, che aveva compiuto da poco sedici anni.

Nonostante la sua giovane età, le sue esperienze passate, sopratutto relative al modo di vivere nell'infanzia, erano riuscita a plagiarne il carattere ed a fortificarne la persona.

Personalmente non aveva mai fatto caso al suo aspetto esteriore, anche se in molti nel distretto le facevano notare la sua particolare bellezza, totalmente assestante, che non prendeva nulla dalla fisicità della madre o del padre.

Le caratteristiche che più risaltavano erano la sua corta chioma nera sempre spettinata e quegli attenti occhi felini di un blu acceso che mandavano scintille dovunque lei posasse lo sguardo, particolarità che sembravano adattarsi perfettamente ad il suo carattere ribelle.

L'unica cosa di cui lei era sempre stata certa, nella confusione dei suoi sentimenti potenti, era quell'odio sfrenato ed innegabile che provava nei confronti della cupa Capitol City e per tutte le decisioni che venivano emesse da quel luogo maledetto.

Quello spregevole massacro annuale ne era la scelta più sbagliata e la prova più concreta della loro meschinità, e forse era proprio per colpa di quest'ultimo che il suo sogno più recondito nonché ardente desiderio, era una rivolta delle masse, forte e ben riuscita, che avrebbe fatto crollare inesorabilmente quel sistema.

Si rendeva conto di quanto le sue idee fossero pericolose e sbagliate, ma lei non era come le altre bambine, non avrebbe mai e poi mai potuto avere come sogno una speranza di una vita migliore, di un amore che riuscisse ad abbattere le circostanze, o semplicemente di un esistenza genuina e senza difficoltà, lei voleva la giustizia e la punizione, e non avrebbe potuto far niente per cambiare le aspirazioni della sua persona.

Non sopportava la povertà n cui viveva, la fame che attanagliava la sua famiglia, ed adesso, che oltre tutto, le era arrivato quel terribile e mortale gancio sinistro dall'inutile governo di Panem, aveva intenzione di farla pagare cara a Capitol City, e non le sarebbe importato di quanto i suoi gesti sarebbero stati rischiosi, magari avrebbe pure rimesso la vita, ma per lei il fine giustificava i mezzi, eccome se lo faceva.

Era dunque salita sul palco senza opporre la minima resistenza, meditando nella parte recondita di se stessa di mettere in atto un diabolico piano, tra l'altro, anche volendo non si sarebbe potuta opporre momentaneamente alla mietitura, e non aveva certo intenzione di venir trascinata sul palco da qualche venduto Pacificatore, il suo orgoglio non lo avrebbe mai consentito.

Comunque dopo aver raggiunto il presentatore, gli si avvicinò a testa alta e gli sputò in un occhio, con fare iracondo, poi girò i tacchi e provò a dirigersi nella cabina per le visite, senza nemmeno aspettare che George terminasse il suo discorso, ignorando i brontolii di sconcerto del pubblico e la faccia disgustata di alcuni dei presenti.

Inizialmente le guardie l'avevano bloccata prontamente, ma senza fargli del male, interdetti sul da farsi, poi però era intervenuto George, che fingendosi buono e generoso, nonostante il “terribile affronto” appena patito, aveva dato loro il permesso di lasciarla entrare nella cabina degli incontri, ovviamente sorvegliata ed accompagnata.

Di certo non era abituato ad un comportamento così ostile, per lo meno, non da parte da un tributo proveniente dal 5, anche se quello non era certo un distretto tra i “favoriti”, non erano nemmeno il 10, con le sue strambe ed inutile idee di rivolta e di sovversioni popolari.

Eppure, nonostante la figuraccia appena fatta, aveva dovuto mantenere i denti stretti in un sorriso, limitandosi a “mostrarsi superiore e non abbassarsi al livello di quella ragazzina” davanti alle telecamere.

Comunque Thalia si aspettava l'imbarazzante sorpresa generale per quel piccolo ed “innocuo”gesto, dal momento che le persone del suo distretto erano ottime operaie in fabbriche elettriche, quasi tutte brave, e seppure si trovavano delle eccezioni, come lei, era davvero raro da trovare qualcuno che non fosse rispettoso delle regole, o che per lo meno non fingesse di esserlo, il loro marchio di stampo era costituito da aggettivi come “diligenti, coerenti e super riflessivi”.

Lei purtroppo non era così, avevano pescato l'unica pecora nera del gregge quei capitolini, e sarebbe stato solo peggio per loro.

Sicuramente Thalia non se ne intendeva tanto di elettronica, e questo era un punto a suo sfavore, quanto lo era il fatto di non esser portata per il lavoro industriale, per non parlare assolutamente del fuori luogo che aggettivi come statica o precisa assumevano nei suoi confronti.

Forse era perché aveva vissuto fin da piccola in mezzo alla povertà assoluta, senza un minimo di appiglio o sostegno da parte di nessuno, già da allora aveva dovuto fare di se stessa una figura da cui trarre spirito.

Suo padre era un vecchio sregolato che lavorava per la maggior parte del tempo, dimenticandosi spesso e volentieri di avere dei figli e delle responsabilità maggiori a cui andare dietro, mentre sua madre era un alcolista depressa che non riusciva a badare nemmeno a se stessa, figurarsi se Thalia avrebbe anche solo potuto vedere un minimo di speranza in lei.

Si era abituata fin dall'infanzia all'indipendenza, contare solo su se stessi era il suo motto, anche se forse un familiare, nonché l'unico, che faceva eccezione esisteva, ed era suo fratellino Jason.

Ripensò a lui ed a quanto le avesse detto quel giorno nella cabina degli incontri, assicurandole che credeva in lei e che sapeva che ce l'avrebbe fatta, era stato proprio attinente alla sua solita persona, mostrandosi così convinto anche in situazioni simili.

Non aveva nemmeno pianto, suo fratello era un tipo composto, non piangeva mai e certo non l'avrebbe fatto davanti a Thalia in quel momento, sarebbe servito solo a deprimere l'atmosfera che già si mostrava pessima.

Nonostante fosse suo fratello minore di un annetto, forse era molto più maturo di lei.

Anche lui, senza dubbio, aveva dovuto crescere in fretta in quegli anni bui per la sua famiglia, ed era così diventato un vero uomo diligente, prematuramente, andando a creare una figura opposta a suo padre.

Lei era molto fiera di lui, dei suoi cambiamenti e della sua persona attuale, ed anche se non l'avrebbe mai detto esplicitamente, gli voleva davvero bene, ed aveva una gran paura di perderlo.

Ambedue, però, erano consapevoli che il pianto, era una mera e facile forma di sfogo, infondo era sempre significato solo autocommiserazione e l'autocommiserazione non aveva mai aiutato a niente, oltre il star maggiormente male, e certo non avrebbe avvantaggiato nessuno a vincere gli Hunger Games, perciò, e per altri motivi personali, era rallegrata dal fatto che Jason non avesse pianto, ma si fosse trattenuto per lei e con lei.

Thalia era motivata più che mai a ribellarsi, anche se al momento non sapeva come e non aveva nessuna strategia in serbo, l'unica cosa su cui poteva scommettere, era che non aveva intenzione di fungere da burattino per i giochetti del pubblico di Capitol City.

In quel preciso momento, oltre che perdersi tra i corridoi della sua mente, in monologhi interiori, stava cenando distrattamente nella vivace saletta da pasto del treno di trasporto per i tributi in cui era stata costretta ad imbarcarsi dopo la mietitura.

Seduta affianco a lei, in quel tavolino cremato dalle dimensioni esagerate, si trovava Cheryl, il suo inespressivo mentore, che stava parlando con scarso entusiasmo della sua esperienza negli anni di mestiere che seguirono i giochi e della varie situazioni importanti a cui era andata incontro nei giochi stessi.

Intenta ad offrire quelli che sarebbero dovuti essere “consigli di sopravvivenza”.

Cheryl era una vecchia signora dai capelli grigi e dalle grosse e spesse lenti degli occhiali, aveva un fisico magro e rinsecchito, sempre coperto da pesanti indumenti di lana lavorata, anche in estate, pareva una vecchia ed aggraziata nonnina.

Ma oltre alle apparenze, era in verità una persona molto astuta e decisa, che sapeva quel che faceva, senza però, arrischiarsi mai ed osare più del dovuto, insomma, la rappresentazione dello stereotipo vivente del cittadino perfetto del distretto 5.

Quell'anno, ricopriva lo stesso ruolo di mentore anche per Andrea Carbisi, ovvero il ragazzo che era stato scelto insieme a lei per rappresentare il distretto.

Avevano entrambi lo stesso addestratore, per il semplice motivo che non c'erano altre donne o uomini, ancora viventi, che un tempo erano usciti come vincitori dei giochi, di cui la provenienza fosse appartenuta a quell'innocuo e sciatto distretto.

Riflettendoci su, era da parecchio che il 5 non vinceva, ed i suoi ragazzi, negli anni che seguivano, venivano uccisi, uno dopo l'altro sull'arena, infatti, il solo fatto che l'anziana Cheryl fosse ancora viva e capace di fornire aiuto a qualcuno era un miracolo.

Thalia comunque non stava ascoltando i suoi, potenzialmente utili, discorsi, ma si stava limitando ad ingurgitare in maniera famelica tutto il cibo trovasse a disposizione su quella grande tavola.

Le portate erano veramente ottime, cucinate addirittura da dei cuochi esperti, e serviti da graziose cameriere, probabilmente senza voce.

Non si fermavano ad alcuni vassoi, ma continuavano con il primo, il secondo, gli antipasti, il dolce, i contorni, e tante altre portate di cui Thalia, prima di quel giorno, non aveva mai sentito parlare.

In questo momento stava addentando una grossa e gustosa coscia di pollo, che aveva messo nel piatto quasi automaticamente, non curandosi del fatto che appena due minuti prima in quella stessa stoviglia avesse poggiato della frutta.

Nel mentre, per cercare di non pensare troppo, e di non finire con l'accoltellare il presentatore lì presente armata di un mero coltello da carne, guardava in maniera concentrata le varie mietiture dei distretti precedenti al suo, che venivano trasmesse sotto forma di replica nel largo e sottile televisore d'ultima generazione, ovviamente presente in quel lussuoso veicolo.

Sinceramente, la ragazza doveva ammettere, che non le era mai capitato di mangiare una coscia di pollo, dell'anguria, o dei frutti di mare, magari un altro tipo di carne sì, dal momento che le piaceva andare a cacciare nei boschi, di tanto in tanto, ma in genere si trattava di scoiattoli o di animaletti piccoli e poco costosi, di certo non aveva mai assaggiato qualcosa di così ricercato e piacevole come era invece accaduto in quel giorno.

Anche se gli animali, che comunque era sempre andata a cacciare nelle foreste, fin da quand'era veramente molto piccola, le sembravano molto più soddisfacenti e pieni, forse perché in un certo qual modo aveva dovuto “guadagnarseli” attraverso il sudore.

Aveva cominciato questo mestiere perché proprio non le piaceva l'atmosfera urbana, con tutte quelle fabbriche, quegli enormi palazzi, quell'aria sporca, ed in più la sua adrenalina le aveva sempre fatto provare un grande fascino per tutto ciò che pareva proibito e potenzialmente rischioso, e niente lo era mai stato nel cinque, come oltrepassare i confini di nascosto.

Dal momento in cui aveva scoperto la foresta, era sua abitudine recarvisi puntualmente ogni settimana, per dare il via libera al suo istinto più inconscio, e divertendosi a cacciare qualche bestiolina, guadagnandosi qualche pasto extra da portare a casa per aiutare principalmente se stessa od il fratello.

Un giorno scoprì di non essere la sola a provare questo tipo di sensazioni, e fu proprio oltre il confine che incontrò il fuorilegge che da quel momento in poi sarebbe diventata anche la sua prima figura da cui trarre ammirazione e stima.

Ignorava il fatto che quella condizione surreale fosse vietata, anzi rendeva il tutto più divertente.

Sapeva che il suo distretto non doveva occuparsi degli animali e di conseguenza lei non poteva essere in alcun modo una cacciatrice, ma se ne infischiava, d'altronde non c'era cosa che odiava di più dell'esser comandata.

Da piccola era diventata la migliore amica di questo giovane ribelle, proprio come lei, che la pensava e la vedeva esattamente come lei, tanto che i suoi sentimenti a suo riguardo ad un certo punto cominciarono a diventare un po' confusi.

Spesso lui la accompagnava a cacciare, ma anche se si trovavano spesso nella foresta, quella disciplina non si abbinava minimamente al suo carattere, perciò la maggior parte delle volte finiva che lui si limitava a fissarla da lontano, accontentandosi di assistere in primo piano a quello spettacolo e starle vicino.

Il nome di quest'individuo era Luke Castellan e lei pensava di adorarlo in una maniera infinita. Era uno dei pochi, se non l'unico, che la capiva sempre, che continuava a stare al suo fianco nonostante il suo carattere pragmatico, e che approvava le sue idee con decisione.

Ed ovviamente, era stato ucciso, come tutte le persone a cui lei era stata affezionata durante il corso della sua vita, da quegli ignobili vermi di Capitol City.

La sua fine era stata così prematura e crudele, solo perché l'avevano beccato a cacciare nei boschi , oltre il confine, proprio in un giorno in cui Thalia si trovava a casa con la madre malata ed aveva dovuto rifiutare il suo invito giornaliero.

La ragazza, però, sapeva quanto a lui non fosse mai piaciuto praticare quell'attività, e l'unico motivo che avrebbe potuto spingerlo ad agire da cacciatore, era il volersi portare avanti per fare una bella figura con lei.

Quindi Luke tecnicamente era morto al posto suo, sarebbe dovuto toccare a lei, ma invece così non era stato, perché la realtà era molto più crudele dei sentimenti.

Era stato fustigato a morte dai Pacificatori, in un angolino sperduto della città, coperto di lividi fino al cedimento, probabilmente intento ad urlare invano il nome della sua amica, nell'inutile speranza di un salvataggio, o magari di un ultimo addio.

Lei ovviamente non l'aveva scoperto subito, ma dopo un po' di giorni, e fu in quel momento che iniziò la sua rabbia ed il suo tormento, fu in quel momento che mille aghi si conficcarono nel suo cuore elettrico, facendolo pulsare dal dolore ad ogni scarica, sicuramente non era ancora riuscita ad accettarlo completamente.

Però era stufa di quella tortura interiore, e convinta che l'unica soluzione era da sempre risieduta nella rivolta, la sua pace sarebbe sopraggiunta solo una volta che avesse messo fine a tutto quello schifo, vendicandosi della fine ingiuriosa di Luke.

Sul televisore stavano continuando a trasmettere noncuranti quelle scene di tristezza, che momentaneamente mostravano la mietitura avvenuta nel tredici.

Venivano mandate delle nitide immagini, rigorosamente ad alta definizione, di due poveri ed apparentemente indifesi ragazzini che erano scoppiati a piangere abbracciati su un palcoscenico, ma era tutto normale come se stessero trasmettendo dei filmati di cucina.

A quel punto uccidere quei due estranei, Nico e Hazel, senza alcuna pietà, sarebbe stato dovuto e lecito secondo la legge di Capitol City.

Spense la televisione trattenendo i conati di vomito, senza capire se la principale causa fosse l'idea della morte nei giochi, od il suo stomaco che tentava inutilmente di assimilare tutto quel cibo in una volta sola.

Quel rapido gesto fu seguito malamente dallo sguardo di disappunto dei presenti, ma lei si limitò a rivolgergli una smorfia arrogante, ed a proseguire per il nervosismo, da vera masochista, ad ingozzarsi con il cibo.

Il tipo che era stato scelto con lei la fissava da quella mattinata, curioso ed indagatore, e lei ne era parecchio infastidita.

Lo conosceva di vista, ma non ci aveva mai parlato, sapeva solamente che era un ottimo operaio, allenato, resistente e abile, uno abbastanza forte, ma del tutto incompatibile con la sua persona.

Non era sicura che lui la conoscesse, anche se in pochi non sapevano chi era la “caccia guai” del distretto.

Anche da quando erano stati scelti, non le aveva praticamente rivolto la parola, e lei non lo biasimava affatto, d'altronde con la sceneggiata che aveva piazzato davanti ai televisori quella mattinata per andarsene immediatamente, se avesse simpatizzato con lei probabilmente, in seguito, avrebbe fatto evaporare tutti gli sponsor.

Eppure non capiva perché quel tipo ed i suoi tirati occhi castani non la lasciavano in pace per due secondi di fila, non era una che amava sentirsi osservata, e quelle circostanze non aiutavano il suo autocontrollo.

Personalmente ,comunque, pensò che non le importava niente degli sponsor o del pubblico, c'erano cose più importanti su cui crucciarsi.

In più, era certa, che dal momento che il mentore di quel distretto era uno soltanto, a lui sarebbe toccato scegliere un solo tributo da aiutare durante i giochi, ed era quasi sicura al cento percento di non esser la favorita annuale, perciò, tanto valeva comportarsi come le pareva.

Altro segno che il tributo non si fidasse di lei, era il fatto che quel pomeriggio, lui avesse chiesto espressamente di avere delle udienze private con Cheryl, al fine di non far sentire a Thalia i vari discorsi riguardanti le sue difficoltà, ed i suoi punti di forza.

Probabilmente si stava già preparando psicologicamente all'idea di ucciderla.

Anche lei forse ce l'avrebbe fatta ad ammazzarlo in condizioni estreme, se non fosse stato per il fatto che aveva nessuna intenzioni di ammazzare dei tributi, lei aveva intenzione di non fare proprio per niente la marionetta attinente allo spettacolo di quella messinscena, lei aveva come obbiettivo quello di scagliarsi a morte contro i loro veri nemici, contro il governo.

Presto George uscì dalla stanza, scortando per un braccio, un Andrea che probabilmente, aveva terminato di mangiare, così da consentire a Thalia e Cheryl l'udienza privata che non avevano ancora in una finta ma beata solitudine.

La donna, ancora rannicchiata nella sua grossa sedia in legno, interpellò più volte la ragazza, porgendole le solite domande standard che i mentori rivolgevano ad i loro ragazzi.

Lei la ignorò bellamente, senza eccezioni, mostrando un atteggiamento ostile e continuando a mangiare, praticamente a forza.

Alla fine però, fu costretta a cedere per l'esasperazione, sia per quanto riguardava i pasti, che le domande di Cheryl, che a quanto pareva, poteva essere veramente insistente, per molto tempo e senza stancarsi.

“Allora, so tirare con l'arco, mi so muovere nei boschi e so anche picchiare le persone se non sono troppo grosse, basta?” fu l'unica frase che uscì dalla sua bocca, palesemente tagliente e sarcastica..

Era ovvio che non bastava, niente sarebbe mai bastato, ma non poteva inventarsi qualità che non possedeva, perciò aveva deciso di troncare il discorso usando la sincerità.

Cheryl le raccomandò un paio di trucchi e di avvertimenti classici e scontati, ma a cui lei finse di essere interessata per liberarsi alla svelta, non esattamente un gioco da ragazzi.

Comunque ci riuscì, anche se dubitava del fatto che quella vecchietta avesse esattamente creduto che la stesse ascoltando, più che altro pensava si fosse rassegnata.

Si diresse fuori da quella allegra ed inappropriata stanza, imbattendosi in un altro di quegli enormi corridoi celestini, che erano talmente lunghi ed uguali, che riuscivano a farla disorientare senza trovare simili riscontri precedenti.

Cheryl però, la fermò sull'uscio della porta, tirandole un lembo della maglietta sgualcita.

Non disse una parola, si limitò a darle una consolidale pacca sulla spalla, e Thalia poté quasi giurare di vedere gli occhi rigidi del mentore, farsi lucidi sotto quelle spesse lenti da vista.

Probabilmente anche lei, dietro a quella maschera compatta, soffriva per quegli stupidi giochi. Thalia le strinse la mano, cercando di far trapelare un minimo della sua determinazione, per rassicurarla, finché Cheryl mollò la sua debole presa e la lasciò allontanarsi tra le varie stanze del treno.

Era in cerca della stanza, presumibilmente a cinque stelle, in cui aveva avrebbe dovuto dormire quella notte, ma dopo aver sbagliato più volte luogo, entrando in vari scompartimenti del mezzo, dalla sala motori, alla cucina, decise di chiedere aiuto alle due cameriere bionde che le avevano servito il pasto, che a loro volta annuirono, sempre sorridenti, e le mostrarono la via per la sua camera.

Quella notte, comunque, non riuscì a chiudere occhio per i motivi più svariati, ed il primo in lista era che il suo letto risultava esser troppo comodo, il secondo era che la sua pancia era decisamente troppo piena, ed il terzo che non poteva assolutamente credere che quel lusso circondasse proprio lei.

La sua stanza era enorme, sulle tonalità beige e panna, con un perimetro che rasentava il doppio di quello della stanza in cui aveva cenato, che già di per se era piuttosto grande.

Al centro si trovava un bianco letto ricoperto da lenzuoli di seta cuciti a mano, di una piazza e mezzo, ricoperto di tende rossicce, a baldacchino.

Attorno a lei si trovavano diversi mobili, due comodini muniti di lampade, al cui interno dei cassetti si trovavano fogli, bottiglie d'acqua e vino, e qualunque cosa di cui la ragazza avesse potuto sentir necessità.

Era pieno di quadri, la maggior parte ritratti di buffi individui maschili sconosciuti, immortalati in pose statiche, che riuscivano a darle una certa inquietudine.

Infine c'era un grosso divano color oro, ricoperto da cuscini di penne d'oca, ed una sfilza di enormi armadi a muro interamente di mogano.

Thalia non riusciva proprio a capire cosa avrebbe dovuto farsene di tutta quella roba.

Anche se era stata adeguatamente avvertita di quanto ricchi e frivoli potessero essere i capitolini, mai avrebbe creduto di poter vivere quegli agi esagerati lussi in prima persona, e certo non era una bella esperienza, ma piuttosto risultava rivoltante e la faceva sentire in colpa con il suo distretto.

Nel primo corridoio, prima che chiedesse aiuto alle senza-voce, aveva sfortunatamente incontrato George Stephen ed il suo tiratissimo sorriso rifatto, ed ancora il suo ricordo riusciva a farle stringere le nocche delle mani fino a sbiancarle, per il nervosismo che le aveva causato.

Le le aveva augurato una buona notte, con uno sguardo che in realtà trasmetteva solo scherno, e poi le aveva lanciato una sottile frecciatina sul fatto di essere più accondiscendente una volta giunti a destinazione, e lei si era limitata a squadrarlo ed a correre via, per non dargli la vinta di vederla arrabbiata per una sua affermazione.

Rifletté su quel fatto in seguito, e si rese conto che forse,avrebbe davvero dovuto essere più calma e ragionevole una volta giunta a Capitol City, in alternativa, rischiava che gli strateghi si segnassero il suo atteggiamento, divertendosi antecedentemente, nel ridurla in mille piccoli pezzettini sull'arena, ma lei questo sapeva di non poter permetterselo, per lo meno, non prima di aver rivendicato Luke, non prima di aver lasciato in qualche modo il segno.

Cercò di sbollire la rabbia affacciandosi dall'enorme finestrino del treno in corsa, rendendosi conto di quanto il panorama fosse surreale.

Fissò a lungo la luna nuova che cominciava a brillare nella sera, così bella nel suo fascino notturno.

Lei aveva sempre adorato la luna più del sole, era uno dei suoi punti di riferimento, la guardava mentre era a caccia, e la trovava in un certo qual modo selvaggia, e ne traeva forza, ma le capitava anche di rimirarla nei suoi momenti più miti ma oscuri e ne intravedeva la serenità, aveva sempre pensato che la luna ci sarebbe sempre stata per lei, e che non l'avrebbe mai ingannata, ma in quel momento non ne era sicura, magari nell'arena avrebbero mostrato solo una macchia artificiale nel cielo, a sostituirla.

Decise di dirigersi nel bagno adiacente alla sa stanza, per fare una rapida doccia fredda, al fine di schiarirsi le idee e riflettere meglio.

Anche il bagno era grazioso, dotato dei saponi più profumati e dai bagnoschiuma più costosi, con una doccia grande il doppio di lei, trasmetteva relax il solo guardarla.

Non seppe esattamente quanto rimase sotto il getto dell'acqua ghiacciata, ma seppe che tra quelle pareti vetrate, si lasciò andare alla sua tristezza e scoppiò in un silenzioso pianto isterico.

Gli serviva sfogarsi in quel modo, per almeno una volta, sapeva che era sbagliato ed inutile versare in quel modo le sue lacrime, ma forse non ne avrebbe avuto più occasione, ed era sicura che se fosse stata messa alle strette, anche il crogiolarsi nel suo vittimismo le sarebbe mancato.

Successivamente si calmò, ripensando a tutte le esperienze migliori che aveva trascorso durante la sua esistenza, sentendo il cuore che batteva energicamente, nostalgico.

Stava solo tentando di placare quel fulmine d'odio che squarciava il suo animo, perché sapeva che non era il momento adatto per tuonare, ma che quando lo sarebbe stato, lei non avrebbe permesso a nessuno di salvarsi.

Ritornò in stanza, avvolta da un caldo accappatoio di una taglia più grande, giallastro, e si inchinò davanti ad un sottile cassetto appartenente ad uno dei tanti e simmetrici guardaroba.

Posti nei vari angoli del mobile, trovò un infinità di vestiti diversi, adatti ad ogni stile e per ogni situazione, come se ci avesse effettivamente abitato qualcuno in quella stanza.

Comunque, attirò la sua attenzione solo una comoda e lunga veste da notte, completamente bianca, composta da un leggero materiale vellutato.

Poggiò i suoi vestiti stappati e logori su il divano situato là vicino, ed indossò titubante quello strano indumento.

Fissò il suo rifletto nel finestrino, le venne in mente una sola parola per descriversi in quel momento: “strana”,.

Quella ragazzina con gli occhi arrossati dal pianto, circondata da una comodità invidiabile ed avvolta da una veste linda, semplicemente non era lei, ma era sicura che interiormente non avrebbe mai permesso a nessuno di cambiarla.

Sarebbe stata però, l'occasione per crescere, per evolversi, per farsi valere nella sua essenza e per dimostrare a tutti chi era la vera Thalia Grace e quanto potesse essere realmente da temere.

Non si prese molto sul serio con quella vestaglia candida, ma decise comunque di andare a dormire a quel modo, non importava come si appariva ma importava come si era, d'altronde.

E lei era pronta a scatenare l'inferno, doveva solo trovare il momento necessario, e sarebbe scoppiata tra le fiamme, come una bomba ad orologeria.

Prima di chiudere gli occhi però, in un momento di debolezza, rimirò un ultima volta quella mezzaluna, quasi di nascosto, e riuscì solamente a pensare a quanto quella forma curva riuscisse a ricordarle la buffa e rozza cicatrice che un tempo Luke portava sull'occhio sinistro.

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Capitolo 4
*** Capitolo IV - FRANK ***


FRANK

Frank Zhang si svegliò in quel confortevole treno diretto a Capitol City, in preda al sudore ed all'affanno dovuto ai terribili incubi che lo perseguitavano da ormai parecchie ore.

Il giorno precedente era stato selezionato alla mietitura, ed in seguito a quello spiacevole evento, si trovava costretto a dover partecipare al famoso quanto orrido “gioco della fame”.

Quella notte, come conseguenza, la sua mente non si era risparmiata dall'avvolgerlo in realistici sogni riguardanti tanti cadaveri e fiumi di sangue.

Comunque non se ne sarebbe dovuto impressionare, dato che veniva dal distretto 2, il distretto degli armamenti, il distretto della formazione dei Pacificatori, il distretto dei “favoriti”.

Insomma, un luogo che offriva i più forti partecipanti dei giochi da generazioni or sono.

Eppure quell'anno, il nome maschile che era stato prelevato dalla teca di vetro, era stato proprio il suo.

E lui non era di certo come i ragazzi tipici e classici del 2, quelli tanto famosi a Panem per essere i più violenti ed i più bruti, lui era semplicemente un ragazzone robusto dotato di una scarsa muscolatura, un tipo mite ed anonimo, che possedeva un carattere molto impacciato ed introverso.

In genere, tutti gli anni, per i ragazzi del 2 era un vero e proprio onore esser scelti come “tributi”, tanto che la maggior parte dei bambini passava l'infanzia e l'adolescenza intenta ad allenarsi con le armi e con i pesi, in trepidante attesa del giorno in cui sarebbe giunta la loro memorabile mietitura.

La ragazza che era stata selezionata insieme a lui, Clarisse La Rue, ne era l'esempio vivente.

Lei si era offerta come volontaria al posto di una ragazzina di 13 anni ed era arrivata sul palcoscenico esultante e con un gran sorriso stampato in faccia.

Lui invece, incredibilmente, dopo esser stato estratto, non aveva ricevuto offerte di sostituzione da parte volontari.

Veramente non riusciva a capirne il motivo, era convinto di essere al sicuro al cento per cento, dal momento che qualcun altro avrebbe sicuramente preso il suo posto in quel distretto di esaltati pronti a far di tutto pur di partecipare ad una lotta, ma così, per sua grande sfortuna, non accadde.

Cercava di illudersi pensando che forse avendo visto la sua possente corporatura tutti i possibili volontari avessero creduto che Frank fosse abbastanza forte da donare un eventuale vittoria al suo distretto.

Però sapeva che pensarla in quello strampalato modo ottimista era solo un mero prendere in giro se stesso.

Sapeva che la cosa più probabile, era che tutti i ragazzi del suo distretto avessero fatto affidamento su Clarisse La Rue, e rimanendo pienamente fiduciosi , rispettosi ed intimoriti dalle capacità che quest'ultima ragazza aveva sempre dimostrato, avessero deciso di non arrischiarsi a partecipare a loro volta agli Hunger Games, dato che in un certo qual modo sarebbe equivalso a sfidarla, d'altronde era risaputo quanto lei non amasse gli affronti diretti.

In quel caso, lui non poteva biasimarli, quella ragazza era esattamente ciò che si poteva definire come “la pupilla del 2”: figlia di un ex campione, era sempre stata il capo indiscusso dei giovani che volevano entrare nei giochi.

Possedeva delle abilità da leader scarse da trovare in altri individui ed era un portento con tutte le armi.

Invece, a sfigurare dall'altra parte, c'era lui, la pecora nera del gruppo, quello che veniva preso in giro da tutti a scuola, la femminuccia e per di più il pietoso, piccolo e povero orfano.

Sua madre era infatti morta da Pacificatore, lasciandolo in balia del pretenzioso padre che si vergognava puntualmente di lui, perché era sempre “così imbranato”, ed ovviamente, questa sua situazione di svantaggio, era vista da tutti i bulletti del 2, come un buon appiglio per riuscire a far leva sui suoi sentimenti e ferirlo.

Inoltre, a prova del fatto che suo padre lo considerava alla stregua di una delusione, il giorno dell'estrazione, una volta giunto nella cabina, non aveva fatto altro che intimargli, e quasi minacciarlo, di vincere.

L'aveva sempre esortato a reagire, ma lui non ce la faceva, lui era fondamentalmente buono.

Frank quella notte l'aveva trascorsa a piangere e rigirarsi nel letto in balia della nostalgia e del panico.

Ad un certo punto, quando l'alba non era ancora sorta, si era alzato dal letto agitato, ed aveva cominciato ad aprire furiosamente tutti i cassetti dei vari mobili presenti nella sua perfetta camera.

Quando aveva trovato una pila di fogli ed alcune matite, nella prima anta del comodino, immaginando che fosse un segno del destino, si era affrettato a scrivere una lunga lettera di testamento ed addio verso il padre, simbolicamente verso la madre e verso tutte le persone con cui aveva degli affetti, più o meno consolidati, nel distretto.

La mattina, appena alzato, si diresse nel candido e lindo bagno adiacente, e si immerse nella doccia, cercando di calmarsi sotto il flusso costante e tiepido dell'acqua resa profumata dai vari sali.

Quell'azione, riuscì nel suo intento, e rapidamente, Frank riuscì a frenare i battiti smisurati del suo cuore, lasciando spazio ad una breve e vacua vuotezza della mente.

Avrebbe prolungato quegli attimi di “finta pace” all'infinito, se non fosse stato per la rumorosa ed altezzosa presentatrice che ad un certo punto lo distrasse dal suo stato d'animo, con il suo bussare ripetutamente sulla porta della stanza, esortandolo a muoversi nel prepararsi per riuscire ad arrivare in orario alla colazione.

Frank allora aspettò che se ne fu andata, e poi praticamente, si lanciò fuori dalla porta, aprendo rapidamente i vari armadi, in cerca di qualche vestito casuale da indossare.

Trovare la sua taglia tra quella fila netta di abiti, che sembravano estremamente nuovi, non fu un impresa facile, dato che a quanto pareva generalmente i tributi maschili dovevano essere molto più magri di lui.

Alla fine comunque riuscì ad afferrare due vestiti, che infilò in maniera talmente rapida, che si accorse tramite il riflesso del finestrino di aver messo al contrario.

Dopo essersi sistemato, corse verso la sala da pasto, accompagnato in quei confusionari corridoi del colore del mare, da una delicata e giovane cameriera che aveva avuto il piacere di conoscere la sera prima, quando gli aveva servito le portate della cena, e che probabilmente, avrebbe rincontrato in qualunque caso, anche a colazione.

Tecnicamente, i due non potevano interagire tra di loro, per via della loro “differenza di ranghi”, ossia di tributo e senza-voce, ma lui, infischiandosene di quelle stupide imposizioni, le rivolse un timido “buongiorno”, che venne ricambiato da una sua malinconica occhiata che si sforzava di sembrare felice.

L'unica interpretazione che trovò fu che probabilmente anche lei aveva capito che era già spacciato.

Una volta giunto nell'invitante sala in cui aveva già mangiato il giorno prima, ammirò lo spettacolo che si presentava sopra il largo tavolino in legno, ossia un' esposizione enorme di cibi, la maggior parte appartenenti al gruppo dei lipidi, come i succhi, le brioche, le paste e le torte, che fecero venire istantaneamente un impellente acquolina in bocca al ragazzo.

A ridestarlo dai suoi pensieri, trovò la sua compagna di distretto, che a quanto pareva, era già sveglia ed intenta a divorare un caldo panino imbottito di carne di manzo macinata.

A quella vista deglutì a fatica, trovandola una scelta un tantino azzardata, di prima mattina, ma lei sembrava non curarsene, mentre manteneva i piedi poggiati sul tavolino, accanto al piatto, e gli lanciava un espressione di sfida cheera già stampata sul suo volto appena sveglio.

Si lamentò per la lentezza del ragazzo e gli diede un leggero colpo di gomito sulla testa.

Poi, non gli rivolse più la parola per tutto il pasto, continuando a concentrarsi voracemente sulla sua colazione.

Frank proveniva da una famiglia più o meno benestante, il lavoro da addestratore di suo padre veniva ben retribuito e lui non si era mai lamentato, sopratutto confrontandosi con la miseria che aleggiava negli altri distretti ed anche in molte famiglie dello stesso 2.

Comunque, quel treno così decorato, fastoso e ben fornito, era una cosa veramente sorprendente ed esagerata anche per il ragazzo, che non aveva smesso un attimo di guardare con aria affascinata ogni singola particolarità dell'arredamento.

Clarisse La Rue, invece, faceva parte di una delle famiglie più ricche del distretto, suo padre era stato campione nella decima edizione degli Hunger Games e da quel momento in poi il governo aveva provveduto a risarcirlo con grandi ed importanti somme.

Frank non era neppure sicuro che per la ragazza potesse fare qualche differenza tutto quel lusso.

Di certo, lei non assomigliava minimamente alle classiche riccone figlie di papà di Capitol City, quelle stesse donnicciole che portavano egocentrici vestitini ornati da fiocchi e si tingevano i capelli dei colori più impensabili, facendosi allacciare anche le scarpe dai badanti perché troppo “viziate”.

Clarisse era il classico maschiaccio, Frank non l'aveva mai vista portare una gonna, e mai si sarebbe aspettato di immaginarsela con un simile indumento addosso, portava sempre abiti semplici e comodi per fare attività fisica ed il suo unico segno di distinzione, minimamente femminile, era la perenne bandana rossa che gli teneva sollevata la chioma castana. Personalmente pensava che lei stesse molto bene con il suo classico stile trasandato.

Rimasero tutta la giornata chiusi in quella camera, intenti a ripassare attentamente le varie proiezioni degli Hunger Games che erano trascorse e le varie strategie compiute dai vincitori, edizione dopo edizione, con la mera compagnia dei loro mentori, due fratelli palesemente allegri per la prospettiva dei giochi, che dimostravano particolare fiducia ed aspettativa per Clarisse e particolare noncuranza per Frank.

Poi, giunse il momento delle domande private e, per quanto gli riguardava, sarebbe andata bene anche la presenza di Clarisse durante le sue risposte, ma lei sembrava contraria ed aveva insistito per compiere quel processo separatamente.

Il fatto un po' lo rasserenò, probabilmente perché, per una strana ironia della sorte, La Rue era l'unica a non darlo già per morto e quindi a non fidarsi ciecamente della sua incapacità, ma anzi, forse lo temeva almeno un pochino...

Comunque lui rispose in tutta sincerità al suo annoiato mentore, affermando di esser abbastanza “forte” da saper sollevare grandi massi, in quanto dopo la scuola gli capitava spesso di andare ad aiutare il padre nella fabbrica di armi ed a volte c'era bisogno di due braccia in più per trasportare grandi pesi, e lui, nolente o dolente era costretto ad “offrire” il suo aiuto.

In più, sin da piccolo aveva nutrito una grande passione per il tiro con l'arco e sicuramente riteneva di poter riuscire a sopravvivere eventualmente nell'arena, solo grazie ad esso.

Ovviamente la sua adorabile addestratrice gli scoppiò a ridere in faccia quando udì le sue parole, sostenendo fermamente quanto l'arco “fosse una cosa da ragazzine del distretto 10” e non certo arma da possente 2.

Il ragazzo arrossì a quella specie d'insulto, sentendosi toccato, dal momento che quelle erano le medesime parole che gli ripeteva il padre ogni volta, ma cercò di mantenere ugualmente un atteggiamento composto, ascoltando i soliti banali consigli della donna, che tecnicamente avrebbe dovuto salvargli la vita.

Avrebbe cercato di imparare più cose gli era possibile e si sarebbe soffermato sull'uso della lancia per il combattimento corpo a corpo, dato che aveva come vantaggio, una buona mira.

Inoltre, tutti quei discorsi non erano così rilevanti per il ragazzo, che al momento, stava, prima di tutto, cercando di accettare con enorme sforzo l'idea di dover sopravvivere uccidendo, obbiettivo che proprio non gli riusciva di digerire.

Era certo che non si sarebbe lasciato morire senza fare niente, ma non comprendeva neppure la possibilità di dover troncare delle vite.

Continuava ad aggirarsi per i corridoi dal pavimento soffice del treno, come uno zombie, con l'umore sotto i piedi e delle occhiaia quasi nere.

Comunque lui sembrava l'unico ad esser anche minimamente di cattivo umore su quel veicolo, perché sia la presentatrice che i mentori, che la possente Clarisse, sembravano spensierati come degli scout che stavano partendo per il loro primo campeggio all'aria aperta.

Ogni volta che incontrava la ragazza non poteva fare a meno di rivolgerle un occhiata più rassicurata, perché stranamente l'aura rosso fuoco di Clarisse riusciva a trasmettergli speranza.

Una cosa alquanto controproducente dal momento che quasi sicuramente alla prima occasione lei stessa l'avrebbe squartato a mani nude, durante i giochi.

Comunque la ragazza non si faceva troppi problemi e ricambiava titubante quel saluto con un secco movimento del capo. Personalmente, lui si sarebbe sicuramente fatto scrupoli nel pensare di uccidere anche Clarisse, che per quanto temuta, in fondo gli pareva una brava ragazza.

Un paio di volte l'aveva anche scorta dentro il salone da pranzo, intenta a leggere libri di teoria con un percettibile strato d'ansia. Libri che puntualmente trovava spiaccicati a terra o contro il muro.

Comunque cercarono di evitarsi il più possibile, dato che in teoria non avrebbero dovuto creare rapporti di nessun genere con il “nemico”.

Ogni tanto a Frank venivano degli attacchi di disperazione, ed era costretto a rifugiarsi velocemente nella sua camera, dove scoppiava a piangere sommessamente sopra il cuscino, sperando di non farsi sentire da nessuno.

Era in quei momenti che lui cercava di non arrendersi psicologicamente ad una morte certa, stava addirittura pensando che con il tempo sarebbe riuscito realmente ad uccidere qualcuno per mera sopravvivenza. Prima accettava questa possibilità e meglio sarebbe stato per la sua vita.

Mangiava sregolatamente ad ogni ora che passava sul treno, per via del nervosismo, e passava il tempo a pendere dalle labbra del suo mentore e di qualsiasi altra fonte di consiglio avesse sottomano.

Comunque mangiare tanto, non gli avrebbe fatto male, doveva racimolare una buona scorta di cibo all'interno del suo corpo, dal momento che con ogni possibilità sull'arena avrebbe patito la fame.

Il giorno prima dell'arrivo alla fatidica Capitol City, il ragazzo andò a dormire verso le sei di sera, cercando di riuscire ad appisolarsi subito, recuperando in questo modo tutte quelle ore di sonno che aveva passato in uno stato di soffocamento a causa dei tetri sogni seguiti da pianti.

Purtroppo, riuscì a dormire per due ore soltanto, dato che in seguito fu costretto a svegliarsi per un ennesima volta, a causa di un terribile incubo.

Questa volta aveva sognato di trovarsi già nell'arena.

Sorprendentemente in questa proiezione della realtà lui era riuscito a sopravvivere, troncando molte vite in nome della sua resistenza, senza patire nemmeno degli atroci sensi di colpa.

Gli mancava un solo tributo e sarebbe diventato il campione annuale, e per altro, battere quest'ultimo si prospettava come un gioco da ragazzi.

Dopo aver vagato per un po' in dei fitti boschi, trovò il suo ultimo e fatidico rivale intento a sistemare una trappola per animali, inchinato sulla radice di una albero, con la schiena curva e di spalle, completamente indifeso.

Frank pensò immediatamente di approfittare di quel suo enorme svantaggio.

Si testò le tasche e le spalle, in cerca di un possibile arma, che trovò quasi subito, posizionata come tracolla.

Con se aveva un leggerissimo arco di legno, simile a quello che aveva sempre sognato di ricevere durante l'infanzia.

A quel punto, senza doversi neppure avvicinare, caricò precisamente la mira, estraendo una sottile e ben calibrata freccetta scura, scoccò il tiro.

L'avversario venne presto trafitto dall'oggetto, che lo colpì proprio in mezzo alle costole.

Appena subito l'impatto, la vittima cadde a terra in una pozza di sangue, che preannunciava la sua morte, probabilmente per dissanguamento.

Frank stava per esultare, era diventato un vincitore, quando però la il cambio di scenario gli fece cambiare idea.

Ruotando di quaranta gradi il corpo, in preda ad un' atroce sofferenza, il tributo si girò, mostrandogli il volto agonizzante, ed il ragazzo, scoprendo quei lineamenti, delicati quell'espressione ferita, e quegli occhi penetranti, scoprì che quella persona altri non era che sua madre.

Un urlo acuto percorse il suo corpo, passando dall'interno dello stomaco, e lui si risvegliò preda del fiatone e ad un battito cardiaco irregolare. Quella visione era stata qualcosa di veramente raccapricciante.

Posò i suoi occhi mossi da fremiti di paura sullo svariato mobilio presente in quel luogo, soffermandosi sulla faccia cruda e scura dei vari ritratti che sembravano fissarlo dritto negli occhi.

Quasi balzò a terra dall'enorme letto ricamato, quando si rese conto che la porta della sua stanza era aperta e che c'era Clarisse che lo fissava a sua volta, appoggiata comodamente allo stipite dell'entrata, con le braccia incrociate, ed il viso illuminato dalla flebile luce proveniente dal corridoio, nella penombra.

“Mi spieghi che hai da strillare come una ragazzina OGNI singola notte?” gli chiese aggressivamente, con le sopracciglia corrucciate in una smorfia di stanchezza.

Frank balbettò una risposta, giustificandosi con l'affermazione di un insonnia ereditaria e lancinante, ma non essendo poi tanto sicuro di volerla irritare ulteriormente con le sue parole,, si zittì quasi subito, abbassando sconsolato la testa.

Clarisse scosse energicamente il capo, scrocchiando i pugni, cercando forse di incutere fermezza agli occhi timorosi dell'altro tributo.

“Non me ne frega realmente! Era una domanda retorica, ovviamente.

Comunque, lascia che ti dica una cosa: ti conviene goderteli questi ultimi giorni di “felicità”, magari cercando di ragionare con l'istinto, e non con le emozioni, sennò per te sarà veramente la fine.

Ed inoltre, evita di fare questi piagnistei anche sull'arena, sennò i partecipanti udendo i tuoi urletti da mammoletta ti individueranno in un batter d'occhio, ed a quel punto non riuscirai a vivere neppure per un giorno di seguito.

Sia chiaro che questo non è in alcun modo un tentativo di rassicurazione. Anzi ti avverto che ti conviene fare silenzio o la prossima volta che mi sveglio a causa tua, ti uccido prima di averti dato la possibilità di metter piede nel campo di battaglia, quindi probabilmente ti farei anche un favore” proseguì Clarisse con occhi accusatori, passandosi un dito sul collo per far recepire meglio la sua minaccia.

Poi, senza ascoltare la risposta di Frank, sparì nel buio situato al di fuori di quel luogo, silenziosa come al suo solito.

Frank dopo essersi ripreso da un attimo di smarrimento, si affrettò a scendere dal materasso ed a raggiungere la stretta porta arancione, ma quando si affacciò sui corridoi esterni, Clarisse era già fuori portata per la sua visuale.

Decise che sarebbe andato comunque a dormire, senza provare a cercarla o tanto meno seguirla fino in camera sua, non voleva che la sua ultima frase fosse veramente attuata.

Si sedette su un divanetto, ancora stralunato, e si rese conto guardando il suo riflesso nel finestrino che aveva le gote arrossate, e si sentiva incredibilmente sollevato.

Clarisse sosteneva di non aver voluto assolutamente rassicurarlo, ma a lui le sue parole erano parse tanto come un incoraggiamento a non mollare.

Pensò che se veramente Clarisse aveva riposto un briciolo di fiducia in lui, forse era il caso che desse veramente il massimo.

Ringraziò la ragazza mentalmente, provando a riposizionarsi sul letto, intenzionato nuovamente a dormire, molto meno agitato di prima.

Quella sera infine, riuscì a non patire più le consuete ed insopportabili speculazioni programmate dal suon cervello, bensì dormì bene, cullato da un sonno vuoto e privo di sogni.

All'alba del giorno dopo, ritornò a riflettere sull'uscita compiuta da Clarisse qualche ora prima, e questo, oltre che trasmettergli il solito senso di contentezza, lo portò anche a vacillare nell'inquietudine.

Davvero aveva pensato che sarebbe riuscito ad uccidere quella sua compagna di distretto?

Davvero sarebbe riuscito ad uccidere un qualsiasi altro tributo?

Cercò di seppellire ed ignorare quelle assillanti domande che lo stressavano senza tregua, intenzionato a rimandare l'inevitabile.

Quasi sicuramente il suo inconscio era certo che lui non ce l'avrebbe fatta, ma altrettanto lo era sul fatto che non si sarebbe arreso facilmente.

Quella mattina, quando prima ancora di svegliarsi, gli frullarono in testa questi pressanti pensieri, si accorse che qualcosa era cambiata nell'aria, tanto quando notò che il fievole ma presente rumore del treno che viaggiava, era cessato.

Si tolse l'ingombrante copriletto, ancora in dormi veglia, e si staccò da quella postazione, rabbrividendo per il contatto freddo che recepirono i suoi piedi poggiandosi sul pavimento.

Cominciò a camminare verso il finestrino, ancora oscurato dalle grosse tende che aveva abbassato il giorno prima, intenzionato ad assicurarsi se il veicolo si fosse fermato o meno.

Solo quando con il semplice gesto di spostare quei veli, riuscì a scorgere il paesaggio surreale, il fiato gli si mozzò in gola, ed il suo corpo si irrigidì in maniera istantanea.

Quello che si stagliava davanti ai suoi occhi era un luogo quasi fiabesco, un misto tra tecnologia ed antichità, tradizione ed avanguardia.

Palazzi pieni di esuberanza ed un architettura unica ed asimmetrica si stagliavano nell'orizzonte, di diversi colori, forme e dimensioni.

In aria volavano dei piccoli macchinari elettronici, che probabilmente riconobbe come rarissimi hovercraft, ma a cui nessuno in quel posto sembrava badare.

Poteva vedere in lontananza delle personcine dagli insoliti mantelli di pelliccia camminare e vantare i più strani accessori, alcuni a piedi, alcuni su delle carrozze, altre su dei mezzi di trasporto che non riusciva a riconoscere, che creavano delle chiazze più chiare in quell'enorme tela che sembrava fosse stata ideata da Pollock.

Tutto in quell'immagine sprigionava sfarzo, ed a Frank, bastò respirare quella fresca area rosata per capire che erano finalmente giunti nella bella quanto dannata Capitol City.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo V - CLARISSE ***


CLARISSE

Clarisse anche quella mattinata si era svegliata presto e meccanicamente, con l'intento di prepararsi psicologicamente e fisicamente all'inizio concreto di tutta quell'assurda situazione.

Lei, quell'anno, si era offerta come volontaria per partecipare a quegli stupidissimi giochi, ma non l'aveva realmente fatto per puro piacere personale, bensì si poteva sostenere che, fin dall'inizio, lei non avesse avuto alcuna scelta.

Suo padre e sua madre, fin da quand'era piccolissima la addestravano per quell'evento, e non erano i soli che come obbiettivo per il futuro avevano deciso di elevarla a prossimo vincitore, in realtà tutto il distretto 2 aveva sempre fatto affidamento su di lei.

Clarisse all'inizio non capiva, d'altronde era solo una bambina ingenua, anche se un po' irruenta, e per questo si lasciava contagiare dal loro entusiasmo, senza provare nessun dubbio o timore.

Poi però, crescendo, cominciò a comprendere sempre meglio ciò che realmente doveva affrontare una volta che sarebbe diventata “grande” e rendendosi conto di questo, capiva anche che effettivamente non ne era assolutamente pronta.

In pubblico doveva mostrarsi sempre aggressiva e pericolosa, non poteva far trasparire incertezza o dubbi, sennò la sua immagine sarebbe crollata in pezzi, ma infondo anche lei era umana come tutti quanti, e non era realmente così che si sentiva.

L'idea di partecipare in quei giochi, infatti, in realtà la terrorizzava.

Sentiva di portare sulle spalle un peso troppo grosso da reggere, ma allo stesso tempo era consapevole di non poter deludere tutti quanti, lei non si sarebbe mai mostrata come una codarda od una perdente.

Contemporaneamente provava un infinito odio verso quelle persone che non voleva scontentare, e verso suo padre stesso, d'altronde era con la sua vita che volevano giocare, ed era sulla sua persona che si divertivano a scommettere.

Comunque il giorno della mietitura era stata troppo impulsiva, e senza nemmeno capacitarsene si era ritrovata con la mano prontamente sollevata verso l'alto, fintamente determinata a sostituire la ragazzina che era stata effettivamente selezionata.

In quel momento ricordava di essersi sentita come sospesa in aria, tutti la fissavano aspettandosi qualcosa da lei e lo sguardo eccitato e fiero del padre era impossibile da rifiutare.

Sapeva che se non si fosse offerta il suo genitore l'avrebbe odiata, perché lei ignorando di partecipare a quel massacro l'avrebbe fatto vergognare a morte, avrebbe reso la famiglia dei “La Rue” lo zimbello del distretto e avrebbe fatto crollare il mondo di molti.

Quindi, non le restò da far altro che compiere quel frettoloso gesto, urlando a gran voce che si offriva come volontaria, riassegnandosi a quel suo destino forzato.

L'arena era la sua certezza da sempre, quello che le avevano spacciato come pane quotidiano fin dalla giovinezza, aveva sempre saputo che prima o poi le sarebbe toccato partecipare, e con il tempo era riuscita addirittura ad accettarlo.

Se non fosse salita su quel palco sarebbe rimasta senza un futuro, perché evidentemente, il suo destino era da sempre stato programmato negli Hunger Games.

Ed era vero che era una sorte una molto grottesca e sanguinaria, ma ormai, era troppo tardi per tornare indietro.

Tutti la vedevano come un pilastro incrollabile e non sapevano che dietro la corazza si nascondeva una ragazza spesso malinconica e bisognosa di speranza.

L'unico ad aver scoperto questo suo lato umano era Chris Rodriguez, uno dei ragazzi del suo distretto, forse il suo unico vero amico.

Era stata immensamente felice di udire, dopo la breve ed orgogliosa visita d'incitamento da parte del padre, quello che lui aveva da dirle.

Chris era stato estremamente affettuoso, l'aveva abbracciata e le aveva raccomandato di essere forte, ma glielo aveva detto in maniera apprensiva e preoccupata, in modo totalmente differente da quello pretenzioso del padre.

Clarisse aveva notato che stranamente anche quel povero imbranato di Frank Zhang era riuscito a vedere oltre la sua immensa aura di terrore ed a considerarla, quanto meno un comune essere vivente.

Tutte le volte che ripensava all'incursione effettuata in camera sua la notte precedente rabbrividiva, era decisamente un gesto troppo smielato da parte sua, incoraggiare lo sventurato compagno di squadra dall'insonnia perenne.

Tra l'altro, per colpa sua anche Clarisse non era riuscita a dormire bene durante le nottate trascorse nel veicolo, e non le era parso per niente un viaggio da cinque stelle.

Già per lei non era per niente facile non scoppiare in una crisi isterica, considerando la situazione, in più si metteva in mezzo pure lFrank con le sue grida ed i suoi piagnistei depressi.

Comunque decise che atti del genere non sarebbero stati più contemplati da quel momento in poi, dato che lei doveva mostrarsi estremamente cinica ed impenetrabile, se così non avesse fatto si sarebbe solo ritrovata a soffrire il doppio nell'uccidere i suoi rivali.

La ragazza, oramai, era scesa da quel veicolo da un pezzo, accompagnata dall“allegra” combriccola composta dai suoi mentori, dal presentatore e da Frank.

In quell'istante era intenta a camminare, con il cuore che le batteva a mille per l'eccitazione, tra le strade misteriose della capitale.

Le vie che stavano percorrendo, non erano molto abitate, ma quei pochi individui che incrociavano si fermavano a fissarli emozionati, e spesso gli scattavano qualche foto con il flash dai loro vari attrezzi elettronici.

La lunga strada che stavano percorrendo era composta da un marciapiede verdognolo, quasi fluorescente, affiancato da un insolito asfalto che pareva cosparso di glitter.

Le lunghe vie erano piene di negozi dalle insegne luminose e dai manifesti luccicanti, che disponevano in vetrina le più grandi variazioni di commercio, dagli articoli di moda ai negozi di strumenti musicali.

Clarisse fissava il tutto fingendosi annoiata, mentre in realtà, per via dell'enorme pressione che riuscivano a trasmettere quelle strade estremamente particolari e psichedeliche, avrebbe voluto solamente darsela a gambe levate.

L'unica cosa che riusciva ad esorcizzarla da quel suo stato di paura, era la presenza di qualcuno messo decisamente peggio di lei.

Infatti, Frank Zhang, che si trovava appena qualche metro dietro di lei, aveva le gambe che tremavano visibilmente, facendo “giacomo giacomo”, e sembrava terrorizzato a morte da ogni cosa lo circondasse, a partire dai vistosi manichini che si trovavano all'infuori delle abitazioni.

Ad osservare i suoi comportamenti cauti e terrorizzati, pareva quasi essere un tributo appena giunto nell'arena quando, invece, la realtà era che stava solo sorpassando un “temibile” negozio di gelati, che emetteva dei suoni “molesti” al passaggio davanti alla telecamera termica, di qualunque individuo.

I mentori invece camminavano silenziosamente, vicini tra loro, ma a due marciapiedi di distanza dai ragazzi, sicuramente per fingere di non conoscere quel disastro, molto imbarazzante, di Frank, mentre invece l'isterica presentatrice cercava in tutti i modi di tenerlo saldo al suolo, reggendolo per un braccio.

Magari se anche Clarisse fosse stata così incapace di nascondere le proprie emozioni od auto controllarsi,come lo era lui, probabilmente il padre e gli altri fomentatori del due, avrebbero abbandonato l'idea di farla partecipare volutamente alla mietitura da oramai molto tempo.

La ragazza si guardava distrattamente attorno, soffermandosi sul cielo, che per via dei fumi colorati, provenienti da qualche boutique sperduta, sembrava assumere i toni più svariati.

Effettivamente non era la prima volta che la ragazza andava a Capitol City.

Le era capitato di dirigersi in quel luogo altre tre volte, per via del mestiere del padre, che come importante mentore ed ex vincitore veniva spesso intervistato da più reti televisive d'intrattenimento della capitale, ed una volta era riuscito ad avere l”onore” di esser chiamato per partecipare anche ad un programma diretto dal celeberrimo conduttore televisivo: Caesar Flickerman.

Comunque quel posto, per quante volte ci andasse, riusciva sempre ad intimorirla come la prima, e forse la causa era la nobiltà e l'imponenza delle sue strutture.

Quasi senza rendersene conto, Clarisse, seguita dal gruppetto di accompagnatori, era già giunta all'interno del parco di Synon, ossia l'ampia area verdeggiante che si ritrovava al di fuori del grande palazzo dove si sarebbe trasmessa la sfilata d'apertura.

Quest'ultimo si ergeva nella sua enorme stazza, paragonabile alla metà del piccolo distretto dodici, ed era una struttura altamente moderna, estremamente trasparente e ricoperta da pareti a specchio, che le facevano proiettare un arcobaleno di luci e sfumature.

All'interno di quel luogo, oltre le stanze del retroscena ed i piani meramente tecnici e strumentali, si trovava il fulcro di quella specie di monumento, ossia una larghissima area circolare, dove ci sarebbe stata la parata dei carri, munita di grandi scalinate per l'intransigente pubblico.

La sfilata d'apertura, era la seconda “cerimonia” ( ovviamente dopo la mietitura), che i capitolini allestivano per i tributi.

In quest'ultima, si aveva in compito di mostrare attraverso una dettagliata presentazione, tutti i vari tributi provenienti dai distretti, in una parata studiata a tavolino, e ripresa anch'essa dalle telecamera in diretta mondiale.

Il compito era di mostrare a tutto il pubblico di Panem chi erano e quali caratteristiche esprimevano i ragazzi, cosicché uomini esponenti, principalmente di Capitol City, in seguito avrebbero investito e scommesso il loro denaro su coloro gli sarebbero parsi più interessanti, creando un giro di soldi che sarebbe stato speso anche per aiutarli durante i giochi, tramite i famosi sponsor.

Appena Clarisse mise piede nella prima stanza dell'edificio in cui si sarebbe svolto l'evento, venne letteralmente trascinata per le braccia e le spalle, in mezzo agli eleganti quanto confusionari corridoi a specchio, da tre bassi e buffi individui che portavano degli abiti fluorescenti ed erano vestiti alla stregua di dei pagliacci.

La prima reazione per cui pensò di optare Clarisse, fu quella di spedirli a terra con due nette gomitate, ma all'ultimo momento ci ripensò, dato che era decisamente più prudente evitare di commettere atti bruschi, dal momento che quei soggetti sembravano capitolini, ed era meglio non picchiare nessun capitolino prima dell'inizio dei giochi se si voleva avere qualche possibilità di vittoria.

Così, riluttante, li lasciò prodigarsi nel loro trasporto forzato, d'altronde lei si sarebbe sicuramente persa in mezzo a quei miliardi di percorsi di vetro.

Scoprì mentre veniva sballottata, per le varie direzioni, che quelle sagome viventi, altro non erano che il suo staff di collaboratori estetici, che si stavano sbrigando a portarla nel centro di bellezza dell'edificio, che aveva il compito di “renderla decente” per la presentazione.

Clarisse roteò gli occhi al cielo, dato che presa dalla foga del momento si era quasi dimenticata che avrebbero dovuto sistemarla in una specie di attrezzatissimo salone di bellezza, per quello che secondo lei, era il più inutile degli eventi prestabiliti dai giochi.

Una tale inerzia rilegata all'apparenza esteriore non poteva preoccuparla in nessun modo.

Pensò sarcastica a quanto “effettivamente” le prime impressioni erano importanti per il pubblico capitolino, quella stessa platea formata dalle medesime persone che magari l'avrebbero amabilmente guardata mentre partecipava ai giochi, ed era intenta ad uccidere a mani nude, qualche ragazzo della sua età, a quel punto chissà se il rosso degli schizzi di sangue che ricoprivano la sua faccia, si sarebbe abbinato bene con la tutina annuale che le avrebbero assegnato gli stilisti.

Il salone di bellezza in cui la portarono era enorme e l'odore di profumo che aleggiava nell'aria era a dir poco soffocante, tanto che la ragazza in seguito non cessò di starnutire per un solo istante.

Per la presenza dei vari attrezzi bianchi, muniti di lampade e cabine, Clarisse credette che avessero sbagliato stanza, e l'avessero condotta erroneamente da un dentista.

Ovviamente, la sua supposizione non trovava riscontri, e se ne accorse lei stessa, nel momento che scorse l'enorme vasca ad idromassaggio situata al centro esatto di quel luogo.

Si avviò all'interno della stanza incuriosita, ma non ebbe il tempo di fare due passi che il suo rapido staff la buttò di peso su una lunga e comoda poltroncina chiara, munita di due ruote per il trasporto.

Subito cominciarono a trascinarla tra le varie angolazioni della stanza, spingendola in quella specie di comoda carrozzina, e raccogliendo di tanto in tanto qualche strano flacone di crema, sali e profumi, che in seguito le spalmarono rapidamente sul corpo, senza darle nemmeno il tempo di reagire o respirare.

Il disagio della ragazza era palpabile, si sentiva a dir poco oppressa, non era per niente abituata a questo genere di cose.

Questo suo sentimento aumentò quando quelle tre donnette colorate la spogliarono con uno scatto, senza provare alcuna sorta di imbarazzo o vergogna, e la spedirono a spintoni nella tiepida e insaponata vasca idromassaggio, strofinandole a turno la schiena ed il corpo, in maniera accurata, e imbrattando con una marea di prodotti differenti, i suoi lunghi e nodosi capelli scuri.

Probabilmente se ci fosse stato anche solo un ragazzo in quello staff, non si sarebbe fatta nessuno scrupolo nell'ucciderlo all'istante, ma dal momento che per sua fortuna non erano presenti uomini, decise di lasciar correre, anche se riluttante, il comportamento a dir poco invadente di quelle tizie.

Continuò a subire quel trattamento per un altro po' di tempo, costretta a stringere i pugni e distogliere lo sguardo per la vergogna, finché la squadra di preparatori, constatando che con il lavaggio avevano egregiamente terminato, la fecero uscire dall'acqua, tirandola per le braccia, ed avvolgendola subito dopo con un grande asciugamano rosa che odorava eccessivamente di gelsomini.

La signora che fra le tre, pareva la più vecchia, per quanto il trucco potesse lasciare intuire la sua età avanzata, la fece riaccomodare sulla poltroncina, avvicinandosi a sua volta, pericolosamente munita di un fornellino e di diversi attrezzi sconosciuti agli occhi confusi di Clarisse.

Il processo per fare la prima ceretta fu a dir poco esasperante per lei, ma lo staff non sembrava curarsene e proseguiva imperterrito a tirare via i peli delle gambe, delle braccia, delle cosce e della maggior parte del suo corpo, che era già costellato di lividi scuri, cicatrici e di tagli freschi.

Molte crosticine si riaprirono per via della cera, tornando fastidiosamente a sanguinare, ma in quell'istante alla ragazza non sembrava importare, in cuor suo sperava solamente di terminare quella tortura il più in fretta possibile.

Appena finirono la ragazza tirò una grande boccata di sollievo, giurando a se stessa che mai più si sarebbe sottoposta ad un esperienza simile.

Comunque non ebbe il tempo di rilassarsi in maniera completa, dato che i collaboratori, subito dopo, cominciarono a lavorare con i suoi capelli: accorciandoli, facendole dei colpi di sole ramati, sottoponendola alla piastra per la piega, ed facendole altre cose di cui avrebbe fatto volentieri a meno.

Nemmeno le sue povere unghie mangiucchiate ebbero un po' di tregua, unghie che secondo i loro commenti disperati erano a dir poco maltenute e terrificanti.

Fu così che prima ancora di metabolizzare le circostanze Clarisse si ritrovò con dei lisci e setosi capelli corti fino alle spalle, al posto della sua incolta e nodosa chioma abituale, e dei lunghi artigli rifatti con il gel e smaltati di nero, ma il tutto non la faceva sentire “bella”, ma“strana”, in una maniera vomitevole.

Per di più fece il suo ingresso in sala anche il suo snobistico stilista moro, che le rifilò arrogantemente uno stranissimo vestito nero dalle sfumature rosse, abbellito da delle borchie appuntite sparse sulle estremità, che terminava con una vaporosa gonna corvina.

Clarisse all'inizio si rifiutò categoricamente di indossarlo pubblicamente, blaterando qualcosa relativa alla sua reputazione, ma poi fu praticamente obbligata a cedere sotto le minacce e l'insistente persistenza dello staff .

Infine, come se quello che le avessero fatto non fosse abbastanza, ci fu un interminabile fase di trucco, dove in tre erano concentrati a lavorare sopra la sua faccia, utilizzando strani prodotti sulle sue labbra, sulle sue ciglia, sulle sue povere sopracciglia sfoltite e per sino sulle sue guance.

Per fortuna anche quella tortura facciale terminò, ed allora le offrirono delle esuberanti scarpe rosse dal tacco 12 da mettere come ciliegina sulla torta, ma furono costretti a sostituirle con dei bassi stivaletti borchiati, dopo aver visto quella poveretta cadere per ben quattro volte di fila mentre cercava di fare qualche passo con le scarpe precedenti.

Ci abbinarono dei braccialetti e delle collane in pelle scura con le medesime borchie e dopo finalmente la lasciarono andare, sbattendola fuori dalla porta in malo modo.

Quando Clarisse vide il suo riflesso proiettato in uno dei tanti specchi situati nel palazzo, urlò di sorpresa, non riconoscendosi.

Era certa che quella tizia che vedeva dinnanzi a lei non assomigliasse minimamente alla potente Clarisse la Rue.

Si sentiva veramente ridicola conciata in quel modo, non potevano farle credere di essere più presentabile di prima, si sentiva sinceramente offesa da quell'insinuazione.

L'unica cosa positiva era che quei colori scuri presenti nel trucco e nel vestiario riuscivano a non darle un aspetto troppo stupido, perciò decise di ingoiare momentaneamente tutti gli insulti che le passavano per la mente e di dirigersi senza fare commenti troppo acidi verso la sala dove avrebbe incontrato i mentori e Frank.

Seguendo le indicazioni dei vari cartelli riuscì a trovare rapidamente l'anonima saletta in cui si era fermata la sua “combriccola”, anche se le ci volle un po' per riuscire a riconoscerli, dato che anche loro erano stati ricoperti da un pesante strato di trucco.

Alla vista di quel ragazzetto, che in teoria doveva essere Frank, Clarisse per poco non scoppiò sonoramente a ridere, cambiò idea ed espressione solo quando si ricordò di esser nella stessa situazione disperata.

Per il ragazzo era stato ideato un aggressivo look dai colori tetri e scuri. Portava una camicia nera sbracciata e volutamente strappata alle estremità. Nella parte inferiore invece gli avevano rifilato degli attillati pantaloni di pelle marrone, che lo facevano sembrare la parodia “tosta” di se stesso.

Clarisse notò anche che gli avevano accorciato i capelli ai lati e gli avevano contornato fievolmente gli occhi mandorla con della matita nera e del mascara, prevalentemente nella parte inferiore della palpebra, come poteva prenderlo sul serio?

Frank alla vista di Clarisse spalancò la bocca, visibilmente confuso ed incredulo per quel cambiamento.

“Clarisse, ma sei davvero davvero tu? Sei bellissima!” esclamò saltellandole felicemente incontro, ancor prima di essersi reso conto di ciò che aveva appena affermato.

All'occhiata a dir poco fulminante che gli lanciò la ragazza, Frank arrossì di botto e cercò di balbettare qualcosa, ma ad interromperli, per fortuna del ragazzo, li raggiunsero i loro mentori che si affrettarono a scortarli nella stanza dove si trovava il carro su cui avrebbero sfilato.

La stanza, altro non era che un retro quinte situato in penombra, circondato nella parte posteriore da delle grandi tende bluastre, che di li a poco si sarebbero spalancate per mostrare la loro entrata di scena alla platea.

L'unica cosa presente, oltre a qualche strumento tecnico come delle casse o piccoli oggetti tecnologici, era il fatidico “grande carro”.

Agli occhi di ambedue i tributi risultava veramente ben elaborato.

Aveva dipinte delle fiamme e delle scintille nelle parti laterali, ed era composto per lo più da sfumature arancioni e rosse, trainato da due possenti cavalli neri che si legavano al veicolo attraverso alcune corde ben allacciate.

I mentori non lasciarono commenti in proposito, si limitarono a raccomandare ad entrambi di mantenere un espressione dura e fiera per tutto il tempo in cui sarebbero rimasti sul piazzale, ed i due si sforzarono di annuire seriamente.

Osservarono dal piccolo televisore in bianco e nero, che era posto ad un lato della stanza, l'inizio della cerimonia, presentato come al solito da Caesar, celebre conduttore nonché ennesimo capitolino molto colorato ed esibizionista.

I primi a partire sarebbero stati quelli del distretto 1 , ovviamente, ma loro, subito dopo il termine del discordo d'apertura, cominciarono a salire sui carri, preparandosi mentalmente e mantenendosi pronti per un uscita teatrale.

La televisione, intanto, continuava a mostrare le sequenze dell'evento, ed in particolare, riprendeva l'arrivo sul campo dei due tributi del primo distretto, ossia il luogo da dove gli oggetti di lusso di Capitol City venivano prodotti, un distretto di “favoriti”come il loro.

Il carro era concentrato molto su delle tonalità differenti di verde scuro e di rosa, trainato da ben quattro pony maculati.

La vera attrazione della biga però, era il tributo femminile.

Clarisse aveva già visto quella ragazza in televisione qualche giorno prima, durante una delle tante mietiture, e sembrava di ricordare che il suo nome fosse Piper Mclean.

In quel momento quel particolare individuo aveva dunque tutti gli occhi puntati addosso.

Portava un lungo e semplice vestito verde, su cui si trovava una grande fiocco rosa posto all'altezza della schiena.

Il suo trucco rosato era leggerissimo e naturale, ed i lunghi capelli mossi erano circondati da una corona di piume e di foglie.

Era estremamente semplice, ma bellissima. I suoi criptici occhi assumevano varie sfumature e la folla ne sembrava ipnotizzata, nessuno poteva biasimarla.

Insieme a lei, nella biga, il suo banale compagno, un normale tipetto dai capelli scuri e dal fisico slanciato, sembrava inesistente.

Piper salutava in maniera felice e sorridente la folla, mandando baci e facendo il simbolo della pace con le dita.

Clarisse pensò che mai nella vita avrebbe fatto una cosa del genere.

Finalmente, dopo aver compiuto l'intero giro del perimetro con la loro delicata biga, i due tributi del primo distretto rientrarono nel palazzo, divenendo fuori portata per le riprese, sbucando nell'estremità nascosta “del palcoscenico”.

All'interno della postazione di Clarisse e Frank, un altoparlante fece partire un conto alla rovescia che li avvertiva sul momento in cui sarebbero dovuti andare.

Entrambi si immobilizzarono in pose studiate, raffigurando un atteggiamento idoneo a quello che gli era stato consigliato dai mentori.

Fu un attimo e Clarisse ritrovò tutti gli sguardi di milioni di persone puntati addosso a lei.

Si sentiva estremamente piccola ed impotente, ma faceva di tutto per non darlo a vedere.

Mostrò un espressione aggressiva e combattiva, mentre sentiva le urla estasiate di alcuni dei suoi ammiratori che gridavano a gran voce il suo nome. Non salutò nessuno, ne tanto meno mandò baci, di tanto in tanto squadrò la folla con espressione di sfida e si mantenne prepotente.

Le luci delle impalcature, il bagliore del flash dei cellulari e delle telecamera, le impediva di riuscire a vedere bene cosa stesse succedendo attorno a lei.

Con la coda dell'occhio riuscì comunque a scorgere Frank, constatando rassicurata che anche lui stava evitando di fare una brutta figura, corrucciando lo sguardo in maniera abbastanza “minacciosa”, probabilmente aveva recepito il suo incoraggiamento e si stava impegnando al massimo.

In un attimo i cavalli neri terminarono il giro del piazzale, o meglio del colorato palcoscenico, e le cineprese smisero di seguire il loro tragitto.

Clarisse appena rientrò fu accolta dalla presentatrice e dai mentori che squillanti fecero ad entrambi i complimenti.

La ragazza era ancora estremamente rigida ed il suo cuore continuava a battere in maniera troppo rapida.

Scese dalla biga staticamente, ed appena poggiò nuovamente i piedi a terra si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo appena udibile.

Alzando lo sguardo vide in quel piccolo televisore, la sua sfilata che momentaneamente stavano trasmettendo a ripetizione su tutti i canali attivi. In linea di massima ne rimase soddisfatta.

La Clarisse che in quel momento veniva mostrata ripetutamente sugli schermi di tutte le regioni, era forte e decisa, pareva una vera e propria campionessa. E lei pensò che infine, non le rimaneva altro che smetterla di sembrarlo e basta.

Lei doveva vincere, molti avevano riposto totale fiducia in lei, ed era per questo e per molti altri motivi personali che doveva diventare seriamente la fiera e tenace vincitrice che appariva nel teleschermo, si promise che ci sarebbe riuscita, l'avrebbe fatto anche a costo di attuare un massacro.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo VI - PIPER ***


PIPER

Piper era chiusa nel freddo bagno del retro quinta da ormai più di un ora.

Stava inginocchiata sconsolatamente sul terreno, in una posizione alquanto scomoda, tanto che la schiena cominciava a farle male, ed il gelido contatto con le piastrelle del pavimento le dava la pelle d'oca.

Stava piangendo sommessamente, soffocando i singhiozzi di dolore che le fuoriuscivano dal cuore ormai perforato, le lacrime che erano scivolate al suolo stavano diventando talmente tante che si era cerata una piccola pozzanghera d'acqua salata vicino alle sue ginocchia.

Aveva la vista appannata per via del capogiro, ma riusciva ancora a riconoscere le varie cartacce e le varie boccette di crema che erano riversate disordinatamente a pochi centimetri da lei, pensò che probabilmente la ragazza che era entrata in quel luogo prima di lei aveva dato una ripassata al suo trucco, ma non aveva provveduto neppure a buttare i contenitori vuoti all'interno del cestino che si trovava dietro la porta dell'ingresso.

Non c'era da sorprendersi dato che aveva appreso quanto a Capitol City nessuno avesse un minimo di rispetto dell'ambiente, ne un minimo di riguardo nei confronti dell'inquinamento, eppure quell'atteggiamento pigro e viziato Piper non riusciva più a digerirlo, le faceva automaticamente ribollire il sangue nelle tempie.

Francamente non ne poteva più di stare a contatto con degli individui superficiali e menefreghisti come quelli che fin ora le si erano palesati ripetutamente.

Il desiderio che spingeva pressantemente il suo animo, era semplicemente quello di annullare tutta quell'orrida situazione in cui era finita con un battito di mani. La speranza di riuscire di fuggire dalla capitale e dall'arena, semplicemente tornando a vivere la sua vita di sempre, che per quanto non fosse eccezionale, per lei era perfetta.

Oramai però questa possibilità era troppo fantasiosa e remota, se davvero avesse anche solo provato ad opporsi sarebbero intervenuti i Pacificatori, e se nonostante questo ce l'avesse fatta comunque, loro per “punizione” avrebbero perito su tutte le persone che a lei erano care, e lei non era quel genere di persona cotanto egoista, e non avrebbe mai permesso una cosa simile.

Era però anche vero che non si sarebbe mai pentita della sua scelta, non si sarebbe pentita di essere andata come volontaria, ma era comunque inorridita e timorosa.

Vari ricordi di quella decisiva giornata nel quale era stata celebrata la mietitura le affollarono la mente, lasciandola interdetta.

Per quanto provasse a dimenticare quello che era accaduto il suo cervello non le dava tregua e continuava arrogantemente a farglielo presente, esponendola ripetutamente ad un dolore atroce.

Per quello stupido gioco mortale, inizialmente avevano estratto dalla boccia di vetro il nome di una delle persone più importanti della sua vita, ossia quello di sua sorella Reyna.

In realtà tra di loro non c'era un vero e proprio legame di sangue o parentela, ma d'altronde le due erano talmente unite che se ci fosse stato non avrebbe fornito nessun tipo di differenza per il loro rapporto.

Reyna era una ragazza del primo distretto che aveva sedici anni, proprio come Piper, ma a differenza sua ne dimostrava molti di più per via della corporatura imponente e muscolosa, e per il suo modo di esprimersi serio ed autoritario.

Nonostante la sua resistenza ed il suo temperamento ferreo, Piper dubitava molto del fatto che nell'arena lei avesse avuto una qualche possibilità di vincere.

Ciò che la portava ad abbandonarsi a questa particolare riflessione erano le esperienze e gli spettri del passato che aveva compreso su quest'ultima ragazza, che sicuramente, per quanto Reyna insistesse a non ammetterlo, ne avevano plagiato per sempre il carattere inducendola ad auto imporsi dei limiti sulle sue azioni in particolari in determinate circostanze.

Indubbiamente però, se non fosse stato per quest'ultimo particolare, era chiaro fin da quand'erano ambedue piccole che Reyna tra le due fosse una persona molto più forte.

La prima volta che Piper l'aveva incontrata, era stato durante una delle solite gite da fuori legge che la bambina affrontava, avventurandosi curiosa tra la secca vegetazione dei boschi del suo distretto, luoghi totalmente liberi ed isolati da qualunque tipo di individuo che non fosse un animale a quattro zampe, in cui non era presente neppure nessun tipo di abitazione, eccezion fatta per una piccola casetta di legno, estremamente vecchia, che giaceva abbandonata a se stessa, sulle rive di un laghetto.

Mentre giaceva su un alto albero di pino e si godeva lo spettacolare panorama naturale che la circondava, la bambina avvistò il magro corpo di Reyna.

Era sdraiata scompostamente tra dei cespugli, semi nascosta dalle ampie foglie e dai fiori profumati, visibilmente priva di sensi, e ricoperta paurosamente da lividi colorati, immortalando nella mente di Piper un immagine contraddittoria e grottesca, per un attimo temette di aver trovato il cadavere senza vita, magari vittima di un qualche psicopatico.

Aveva provveduto subito ad accertarsene, anche se terribilmente spaventata di aver ragione, e fortunatamente riuscì a notare il flebile respiro che emettevano i suoi polmoni stanchi, a conferma del fatto che quella ragazza fosse ancora in vita.

Molto panicata dalla stranezza di quella situazione, aveva optato per trasportarla fino alla desolata casa al lago che si trovava a pochi metri di distanza da quella postazione, con la speranza di riuscire a farla rinvenire.

Per quanto deperito potesse esser quel corpo senza coscienza, trasportarlo non fu un impresa propriamente facile per la piccola Piper, che all'epoca aveva solo 9 anni, perciò la possibilità di trasportarla fino al distretto sarebbe stata impossibile.

Magari quella ragazza stessa sarebbe stata più al sicuro isolata dalla gente, magari esisteva realmente un fuori di testa che l'aveva ridotta in quel modo, e la compagna non voleva rischiare di esporla al pericolo.

In più compiendo un azione del genere si sarebbe senza dubbio fatta notare dai Pacificatori, che l'avrebbero sottoposta a delle terribili fustigazioni per via della “terribile” infrazione delle regole che aveva commesso allontanandosi dal confine, e lei avrebbe decisamente preferito evitare.

Aveva provveduto a medicarla lei stessa, per quanto potesse riuscirci, rifugiandosi continuamente nella piccola abitazioni di legno, portandole di tanto in tanto delle medicine, del cibo e dei vestiti, che si procurava rubando in casa propria.

Piper in altre situazioni non avrebbe mai mentito a suo padre se non fosse stato, come in quel caso, strettamente necessario e tanto più, non avrebbe mai rubato.

Quella volta, però, sapeva perfettamente che se i genitori avesse scoperto cosa stava tramando, giorno dopo giorno, e sopratutto dove si stava dirigendo quando li avvertiva che sarebbe stata un po' in giro a giocare, sicuramente le avrebbero proibito di uscire di casa per tutta la sua infanzia e potenzialmente adolescenza, e lei non poteva lasciare Reyna a cavarsela da sola durante quel frangente critico.

Continuò meticolosamente nel suo salvataggio improvvisato, che con lo scorrere del tempo cominciò a dare i suoi frutti.

Infatti, la misteriosa ragazzina si svegliò dopo qualche giorno, chiudendosi fin da subito in un mutismo selettivo.

In seguito le ci volle molto temo per riprendersi psicologicamente, inizialmente, era terrorizzata da tutto, dalle ombre, dal suo riflesso, dal vento, e da Piper stessa che faticava immensamente per riuscire a starle vicino a lei senza farla scappare.

Con il passare di diversi mesi, Reyna si lasciò man mano andare, abituandosi alla presenza di quella strana ragazza che portava sempre delle piume colorate in mezzo ai capelli, cominciando lentamente a riprendersi dallo shock.

Ad un certo punto riprese addirittura a parlare con la ragazza, cimentandosi inizialmente nello spiccicare qualche parola o frase sconnessa, fino all'arrivare alla composizione di interi discorsi e dialoghi.

Finché finalmente, una sera di qualche mese più tardi, la ragazza scoppiò in un pianto disperato, cancellando per qualche istante quell'espressione dura e fredda che l'aveva caratterizzata fino a quel momento, terminando quel dovuto sfogo con il racconto di una gran parte della sua vita passata.

Aprì il monologo con un affermazione sorprendente, quella bambina, non veniva dallo stesso distretto di Piper, bensì dal due.

L'unico motivo per il quale momentaneamente si trovava in quel luogo, derivava dal fatto che un giorno non molto lontano aveva deciso di scappare di casa, costretta da delle circostanze a dir poco spaventose.

Reyna quando abitava ancora nel secondo distretto, si trovava in una situazione di povertà estrema. Viveva da sola con il padre che era un uomo violento, un inguaribile alcolista che di tanto in tanto la picchiava per via della frustrazione che celava nel suo animo, e che con il trascorrere del tempo stava notevolmente peggiorando, arrivando a sfiorare la pazzia.

Sua madre e sua sorella, non riuscendo a sopportare la presenza di quell'uomo abominevole, erano scappate di casa, lasciando però, la piccola ragazza ad affrontare quel ripido destino in solitudine.

Lei si rendeva conto di esser stanca di provare tutta quella paura lancinante per via delle azioni compiute dall'unico parente che le rimaneva, era stufa di esser costretta a rimanere con delle ferite aperte nelle braccia per giorni, senza potersi lamentare o guarire, spesso doveva restare nascosta sotto il letto, senza poter neppure mangiare od andare in bagno, per intere giornate, per paura di attacchi nervosi improvvisi.

Un giorno, accecata da tutti quei sentimenti di panico e repressione che ormai le divoravano lo spirito, compì un atto avventato di cui si pentì amaramente, e che non riuscì mai a perdonarsi, uccise suo padre.

Ovviamente la sua non era reazione non aveva mai avuto come obbiettivo il fine di ottenere un risultato estremista simile a quello, semplicemente perse il controllo della situazione.

Aveva solo 9 anni, ed anche volendo non avrebbe mai potuto ammazzare intenzionalmente un adulto, tanto meno se era della stazza di quell'uomo.

Si limitò, accecata dalla rabbia, a spingerlo giù dalle scale della loro casetta in rovina, mentre lui era terribilmente ubriaco e barcollante, cercando di fargli una specie di dispetto.

Il problema fu che lui perse l'equilibrio rapidamente, cadendo rovinosamente al suolo, ed andando a sbattere con un colpo secco la parte bassa della nuca, contro uno spigoloso masso di granito.

L'impatto fu troppo rapido e violentemente e la sua carne si strappò rumorosamente, aprendo una ferita che in poco tempo lo portò alla morte.

Reyna inizialmente non aveva compreso cos'era effettivamente accaduto, infatti dopo quell'evento era rimasta per giorni ad aspettare che il padre si riprendesse, aveva provato a portargli da mangiare, a dormire vicino a lui, proprio non riusciva a realizzare il fatto che fosse deceduto.

Quando finalmente si rese conto di come stavano realmente le cose, notando la putrefazione che stava cominciando ad avvenire in quel corpo, venne assalita dallo sconforto assoluto e dai sensi di colpa.

In più era certa che appena i Pacificatori sarebbero arrivati per verificare il motivo delle assenze di suo padre dal 'lavoro' , avrebbero scoperto la verità dei fatti accaduti, ed a quel punto l'avrebbero immediatamente giustiziata per omicidio.

Così, Reyna, presa una recondita disperazione, scappò oltre i confini delimitati dai pericolosi boschi, continuando a correre tremante, senza una meta, semplicemente cercando di giungere nel posto più lontano le fosse stato possibile.

Così accadde, la bambina superò quasi una regione, esponendosi ai pericoli della foresta selvaggia, e riuscendo comunque a sopravvivere, finché ad un certo punto le forze l'abbandonarono tutte in una volta, privandola di coscienza, e rimandando la sua memoria al loro primo incontro.

Piper rimase commossa dai dettagli dall'amica forniti su quel triste racconto, dalla sincerità e dalla fiducia di quell'individuo, dal suo reale pentimento e dalla sua implacabile tenacia.

Da quel momento prese quella ragazza sotto la sua protezione, decidendo che l'avrebbe aiutata con tutti i mezzi a sua disposizione nel ricrearsi una nuova esistenza.

Uscirono insieme da quel suo tunnel di oscurità, voltando faticosamente pagina.

Inoltre Piper provvedette anche alla sua salute, l'aiutò nel recuperare quelle energie che aveva perso, le prescrisse una dieta proteica, aiutandola a riacquisire una frequenza salutare nei pasti.

Quando si fu completamente ristabilita, ambedue capirono che Piper non avrebbe potuto andare avanti con il mentire ed il rubare il necessario alla propria famiglia, anche se i suoi gesti erano a fin di bene.

In più, nonostante i suoi familiari fossero abbastanza ricchi, entrambi cominciavano ad avere dei vacui ed ipotetici sospetti.

Allora Piper iniziò un lungo processo di convinzione nei confronti del il padre, azione che per altro, le era sempre riuscita alla perfezione con tutti, quasi come se avesse posseduto una sorta di lingua ammaliatrice.

Campò la storia che aveva conosciuto questa ragazza di nome Reyna, durante una delle sue passeggiate nel distretto, e aveva scoperto che era una bambina scappata dall'orfanotrofio perché maltrattata.

Dopodiché lo pregò insistentemente, per mesi e mesi, sul fatto di adottarla, arrivando anche a minacciare che altrimenti sarebbe fuggita di casa.

Alla fine sia la madre che il padre di Piper cedettero, sia perché compiere quel gesto, dal momento che la bambina era una fuggitiva, non avrebbe comportato spese ulteriori a quelle del mantenimento per la singola persona, sia perché commossi dal bellissimo rapporto che la legava alla figlia.

Da quel momento Reyna fu sempre grata a Piper, tanto che divennero a dir poco inseparabili.

La nuova arrivata dell'uno fu sempre vicino all'altra, pronta a rassicurarla e sostenerla nei momenti più duri, infondendole la sua naturale forza d'animo, tanto potente era la sua influenza che riuscì addirittura ad aiutarla a superare il brutto divorzio dei suoi genitori.

Comunque il padre di Piper, malgrado quell'inaspettata e dolorosa separazione dalla moglie, continuò ad occuparsi di entrambe.

Nonostante il suo lavoro da imprenditore fruttasse molto bene, dopo un po' l'uomo cominciò ad arrancare con le spese per via delle somme da pagare alla moglie mensilmente e per via del mantenimento delle sue due figlie, oltre che per colpa delle tasse che imponeva il governo, sempre in ascesa.

Reyna da subito capì la situazione e di conseguenza si mise all'opera, tentando di donare un minimo d'aiuto, cimentandosi nel lavoro in una fabbrica, che anche se non era propriamente facile ne adatto alla sua età, le permetteva di guadagnare qualche soldo, che lei generosamente metteva puntualmente nel conto di suo padre adottivo.

Piper allora decise di mettersi d'impegno a sua volta, venendo assunta come apprendista artigiana di pugnali ed oggetti simili, nel botteghino di un vecchio hippie della sua zona.

Erano entrambe cresciute insieme, diventando persone determinate e reattive.

Quel giorno nero, nel quale la vita di Reyna venne arduamente messa a repentaglio dalla chiamata per i giochi, Piper sentì di non esser abbastanza potente da poter sopportare l'idea di vedere la persona a cui probabilmente teneva maggiormente, costretta a lottare per la libertà in quel campo di battaglia sanguinario e meschino. Per lei fu un azione totalmente naturale quella di alzare la mano richiedendo una sostituzione, il suo istinto la guidava, e le sue parole non vacillarono nemmeno per un istante.

Tentò di ignorare, anche se con fatica, le grida disperate di Reyna, che avendo capito il tenace proposito della sorella, la pregavano supplicanti di non cedere per nessun motivo a quelle sue idee folli, la avvertivano sul fatto che se sarebbe pentita, che sarebbe stata una cosa stupida.

Piper comunque la ignorò, e salì imperterrita su quel palco pieno di luci soffuse, consapevole del suo triste destino, ma comunque orgogliosa di se stessa, sempre a testa alta, con un malinconico sorriso che le oscillava sulle labbra, e sperava ardentemente arrivasse alla sua“sorellina” almeno per un ultima volta.

In seguito, sia il padre, sia la madre della ragazza, giunsero frettolosamente nella cabina delle visite, nuovamente insieme, per abbracciare la loro figliola come una vera famiglia, ambedue piangenti e consapevoli dei loro errori. La pregarono animatamente di combattere e la confrontarono con belle parole, promettendo di continuare a prendersi cura di sua sorella.

La visita successiva fu proprio quella di Reyna, che sembrò durare molto meno delle altre, per quanto fu esattamente l'opposto.

La sua prima azione, fu quella di circondare Piper con le sue braccia muscolose, tenendola così stretta da farla sentire male, ma nonostante ciò nessuna delle due non osò ritrarsi da quella presa, fino all'ultimo.

Quello fu uno degli abbracci più significativi della vita di entrambe.

Reyna la ringraziò, alternando delle parole d'affetto a degli insulti per la sua impulsività.

Infine le due furono costrette a separarsi per via dell'irruenza dei precisi Pacificatori, lasciando in sospeso delle parole piene di forza ed incoraggiamento, che sarebbero rimaste incise nei loro cuori per molto tempo.

“Piper, tu devi combattere, devi resistere perché sei la mia eroina. E io ho bisogno ancora di credere negli eroi, in questo mondo privo di giustizia. Trova la forza e vinci, so che ce la puoi fare, credo in te. Piper, vinci.”

Le parole riecheggiarono nella cabina creando uno strano eco, Piper sembrò udirle ripetutamente, ma prese in considerazione l'idea che fosse solo una proiezione del suo cervello.

Infine fu obbligata anche lei a scendere da quella stanza intrisa di magia surreale, dirigendosi nell'ingiurioso e sfarzoso veicolo che l'avrebbe condotta direttamente al macello.

Piper si distrasse dalle sue sofferte ma fondamentali memorie, solo quando udì delle nocche bussare ripetutamente fuori dalla porta spessa di quel bagno, francamente si era quasi dimenticata di trovarsi in un luogo che tecnicamente era pubblico, o per lo meno accessibile a tutti coloro che avevano collaborato per quella cerimonia.

Dopo un po' riuscì a riconoscere la voce che la stava chiamando, accorgendosi che si trattava del suo compagno di distretto, Mitchell.

Si rialzò rapidamente in piedi, cercando di sistemarsi quel vestito verde che le avevano cucito, apposta per l'occasione, e che adesso era paragonabile ad uno straccio per quant'era stato stropicciato.

Lui non aprì la porta, ma si limitò ad aspettare qualche minuto fuori dall'uscio della stanza, d'altronde quello era pur sempre il bagno delle signore.

Quando si accorse che la ragazza ancora non si decideva ad uscire le chiese se stesse realmente bene, la informò sul fatto che nel caso si fosse sentita male erano presenti dei medici nella sala dove si trovavano i mentori, e lui in quel caso sarebbe subito andato a chiamarli.

La mise anche al corrente della preoccupazione dovuta alla sua assenza che avevano avuto sia i loro addestratori che il loro manager.

A quel punto lei stabilì che forse avrebbe dovuto realmente uscire da quel luogo claustrofobico, dunque si schiarì la voce, annunciando che sarebbe immediatamente sopraggiunta, aggiungendo che fisicamente si sentiva alla grande.

Prima di uscire si sciacquò rapidamente il viso con l'acqua fredda, che le fece assumere immediatamente un colorito più roseo sulle guance ed il naso.

Quando raggiunse Mitchell si era completamente ripresa, ed ostentava magnificamente un aria tranquilla e spaesata, il ragazzo pensò che sarebbe stata realmente degna dei migliori attori di Hollywood.

Lo rassicurò, dicendogli di non preoccuparsi per la sua salute ne per la sua assenza, ed inventandosi che in realtà si stava solo togliendo il trucco dagli occhi e dal viso in quanto le avesse da sempre fatto irritazione, e che cogliendone l'occasione avesse deciso di restare due minuti in più in completa solitudine, giusto per riflettere.

Mitchell a quel punto scrollò le spalle, palesemente non convinto delle sue parole, ma non la smentì, semplicemente la assecondò, replicando sul fatto che sarebbe stato un vero e proprio peccato avere quel tipo di reazione per via del Makeup, dal momento che i loro addestratori avevano deciso di puntare tutto sulla bellezza esteriore, per quanto riguardava gli sponsor.

Udire quelle parole per la ragazza fu un colpo basto, anche se effettivamente era andata proprio così.

Piper non aveva doti particolari da esaltare, era solo una ragazzina di 16 anni con un vasto amore per la natura e l'armonia, qualità effimere che non potevano aiutarla in nessun modo in quella situazione disastrosa.

Il suo unico tratto sorprendentemente distintivo, era sempre stato la bellezza, tanto che la si poteva definire addirittura una delle dieci ragazze più belle del distretto, se non la prima in assoluto.

Questo fattore, dalle sue parti, veniva molto apprezzato, delle volte anche più di come venivano ammirate qualità più sostanziose come l'intelligenza o l'arguzia, in quanto il primo distretto essendo produttore degli oggetti di lusso per la capitale, era molto ansioso nel perseguire una ricerca quasi ossessiva della bellezza.

In quel luogo, molte ragazze erano state abituate fin da bambine a truccarsi ed a stare particolarmente attente ai vestiti e l'ordine, alla grazia ed al galateo signorile, per quanto ovviamente la loro classe sociale consentisse.

A Piper però, pur essendo benestante e naturalmente bella, proprio non era mai importato niente di tutto ciò.

La sua definizione di classe era il tenere perennemente delle larghe magliette colorate ed i soliti pantaloncini schiariti e strappati, con magari l'aggiunta del suo adorato giubbotto verde ed impermeabile, che era amabilmente consumato e portava con se tutti i segni dei loro trascorsi insieme.

Per non parlare dei suoi, a dir poco discussi, capelli mori, che erano acconciati perennemente con delle treccine spettinate e con piume di vario genere annodate con sottili lacci colorati, intorno alla sua corta chioma scalata disordinatamente.

La sua bellezza, anche se estremamente semplice e singolare, era incontestabile ed effettiva, tanto che costituiva l'unica cosa su cui potevano puntare i mentori per conquistare il pubblico.

Un bel faccino ed un comportamento positivo, cose che non potevano darle nessuna speranza o certezza.

Lei comunque cercava in tutti i modi di accettare la sua sorte senza fare la vittima, perché era cosciente del fatto che piangere pubblicamente o fare un qualsiasi tipo di scenata, non sarebbe servito a nulla, se non a far soffrire le persone a cui lei voleva bene, che vedendola in uno stato pietoso sicuramente se ne sarebbero rammaricate. Eppure, nonostante tenesse presente questi fatti, per lei non era assolutamente facile immagazzinare una condizione del genere.

Piper aveva già deciso che quell'anno avrebbe combattuto, prevalentemente con il pugnale, dal momento che lei li fabbricava in bottega e per passare il tempo si era più volte addestrata nel tirarli come delle freccette.

Sicuramente era diventata molto brava ed aveva un'ottima mira con questo tipo di armi, ma non era assolutamente sicura che sarebbe stata in grado di usarli su dei soggetti mobili e viventi.

Come se non bastasse lei, essendo particolarmente sensibile, si poneva molti più problemi degli altri partecipanti. Per esempio per il mero fatto che lei fosse vegetariana, non sapeva se sarebbe mai riuscita a nutrirsi con degli animali selvatici o se sarebbe morta di fame prima che ciò accadesse.

Fosse per lei avrebbe anche lasciato scorrere il suo triste destino noncurante, ma sapeva di non poter abbandonare le sue persone care in quel modo, non voleva che la vedessero morire in televisione, non voleva causare tanta sofferenza.

Il dilemma che l'attanagliava era che doveva provare a sopravvivere a tutti i costi, ma credeva che i suoi sforzi sarebbero stati comunque vani.

Dopo aver parlato con i mentori e la manager, raccontandogli varie menzogne per giustificare la sua assenza e convincendoli che non sarebbe più accaduto, si diresse nel suo appartamento, accompagnata dalle loro presenze.

Entrò rapidamente nella sua stanza, bisognosa di restare da sola, e rimase per un ennesima volta con il fiato sospeso.

Ovviamente aveva già rimirato quel luogo in precedenze, eppure ogni volta che ci metteva piede ne rimaneva impressionata.

Era grandissima, super fornita ed agghindata, la cosa che preferiva era il bellissimo e morbidissimo letto a castello, accompagnato da quei profumati cuscini di lana.

Sinceramente il resto di quel luogo la metteva a disagio, a partire dagli enormi mobili in legno opaco che ne circondavano le estremità.

Forse erano solo scuse del disagio, dato che era provato il fatto che non fosse mai riuscita a sentirsi comoda rinchiusa dentro quattro mura.

A lei piaceva vivere tra la natura e respirare l'aria libera dei boschi, non era una tipa da appartamento sfarzoso.

Comunque dopo aver spalancato la finestra, che affacciava sul paesaggio urbano e luccicante di Capitol City, accese il sottilissimo televisore, intenzionata a rimirare la cerimonia di apertura.

Mitchell l'aveva già osservata in diretta, così come la maggior parte dei tributi avevano fatto, ma il tutto era accaduto proprio mentre lei si era rinchiusa in bagno, preda di un attacco di panico, scordando nella sua confusione, per fino la cognizione del tempo, arrivando così a perdersi completamente il programma.

Pensò dunque che sarebbe stato meglio recuperarne la visione con una replica, magari in quel modo sarebbe riuscita a farsi un idea sui suoi futuri avversari, e per niente al mondo avrebbe perso delle opportunità per avvantaggiarsi.

Dopo il debutto della sua biga fu il turno del distretto 2, che si presentò con una minacciosa carrozza rossastra, che trasportava due ragazzi che parevano altrettanto robusti e pericolosi.

Sicuramente gli stilisti del 2 avevano puntato sulla dimostrazione di potenza da parte del distretto delle armi, un ottima scelta, che a suo parere era anche elevatamente migliore rispetto a quella della bellezza intrapresa dal suo di distretto.

Piper sperò solamente che quei due tributi non fossero veramente così temibili come apparivano dalla visione di quella sfilata.

Successivamente fu il turno del distretto tre, ossia il maggior produttore di componenti elettronici, televisori, automobili ed esplosivi. Era rappresentato da due ragazzi, di cui Piper non ricordava il nome, che sembravano abbastanza innocui ed impacciati, prevalentemente per via dei ridicoli vestiti metallici contornati di ingranaggi che indossavano, un tentativo di vestiario a tema piuttosto mal riuscito, almeno secondo il suo parere.

Il distretto quattro, quello che si occupava della pesca e del mantenimento della costa, invece, sembrava essere riuscito alla perfezione nel suo intento, sia per il mezzo, sia per i vestiti dei concorrenti.

Piper ricordava solo il nome del tributo maschile, Percy, un ragazzo che sembrava essere molto dinamico e forte. Pensò anche che probabilmente sarebbe stato un avversario piuttosto arduo da affrontare.

Il cinque, invece, il distretto dell'elettricità, era stato veramente favoloso nelle scelte stilistiche, quell'anno.

La ragazza che guidava il carro, Thalia, portava un elegante vestito di un bianco splendente cosparso da ciondoli ed accessori a forma di lampi e saette.

Piper si chiese titubante se davvero lei fosse riuscita ad apparire più bella di quella splendida ragazza dagli occhi blu cobalto così pieni di tenacia.

Restò incollata allo schermo fino alla fine della programmazione.

Quell'anno i tributi sembravano veramente singolari.

Dopo la visione, più o meno, si era fatta un idea complessiva su quali fossero i concorrenti più forti, tra cui erano compresi i ragazzi del distretto 2, e quali invece sarebbero potuti essere più scarsi, tra cui presenziavano i tributi del 13, anche se al solo pensare di poter far del male a quei ragazzini le piangeva il cuore.

Spense il televisore e si cambiò rapidamente d'abito, liberandosi con un sospiro di quel vestito che le stava stringendo eccessivamente sulla vita, ed affrettandosi ad indossare invece, dei comodi vestiti che le erano stati sistemati nell'armadio dalla cameriera.

Dopodiché raggiunse velocemente la sala dove Mitchell ed il resto del suo staff si erano riuniti per discutere delle varie impressioni che avevano avuto sugli altri giocatori, esattamente come stava facendo lei proprio qualche istante prima.

La ragazza constatò un altra volta quanto la sua vita in cotanto poco tempo era stata completamente ed irrimediabilmente stravolta, se in peggio od in meglio non le importava, anche se era palese quale delle due fosse l'opzione più propensa, l'unica cosa che le restava da fare a quel punto sarebbe stata il reagire ed il farsi valere, ma senza ignorare mai la strada dei suoi sentimenti e del suo cuore.

 

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Capitolo 7
*** Capitolo VII - PERCY ***


PERCY

In quel freddo dì, Percy Jackson si era svegliato prestissimo, il che era già di per se una cosa piuttosto insolita, dal momento che una delle sue nomee più celeberrime fosse proprio quella del “ritardatario cronico”.

Quella giornata grigia però, non era comune alle altre, perché con se avrebbe portato il mitico avvento che avrebbe comportato il suo primo allenamento nel centro d'esercitazione per i tributi.

Da quella stessa mattinata avrebbe dovuto cominciare ad allenarsi in vista dei giochi, tentando di imparare quello che gli riusciva più complicato, ma allo stesso tempo dandosi un occhiata in giro, al fine di studiare gli altri giocatori, tentando di scoprire le loro carte vincenti e rispettivamente i loro talloni d'Achille.

Magari avrebbe potuto anche cominciare ad elaborare una strategia di qualche tipo, od a cercarsi delle possibili alleanze per il futuro, ma invece l'unica cosa che stava effettivamente facendo era una doccia infinita.

Percy nonostante si fosse svegliato molto presto arrivò, ovviamente, abbastanza in ritardo a fare colazione perché, come al suo solito, si era dilungato nel restare per circa tre ore di seguito sotto il getto rilassante dell'acqua tiepida.

Non perché fosse particolarmente sporco, ma semplicemente perché si sentiva abbattuto e l'acqua era l'unica cosa che riusciva a tirarlo su di morale.

Fissando le gocce precipitare una dopo l'altra rapidamente a terra, riusciva a sentirsi meno spesato ed infelice, anche se quella scenetta poteva rappresentare benissimo una metafora sulla sua discesa a picco nel panico, eppure gli bastava anche solo rimirare l'acqua per qualche minuto per avere l'illusione che tutto si calmasse, l'illusione di essere nuovamente a casa.

Se avesse avuto ancora delle lacrime in corpo sicuramente avrebbe pianto, ma nei giorni precedenti si era completamente prosciugato le risorse lacrimali, perciò non poteva far altro che sentirsi triste ed anche molto scocciato.

Percy, a cominciare da qualche anno addietro, era riuscito finalmente ad ottenere la felicità da lui tanto agognata, ed in quel periodo di vita, ove finalmente l'aveva ottenuta, essa gli era stata strappata via in malo modo ancora una volta.

Lui non proveniva da una famiglia ricca, anzi sua madre Sally era stata costretta a convivere per molti anni con un ubriacone, manesco, che per più spendeva i suoi rari guadagni giocando d'azzardo, per il solo fatto che da sola non riusciva a mantenere il figlio.

Quelli erano stati anni infelici per entrambi, Sally doveva subire il maltrattamento perenne di quell'uomo che non amava, e Percy non poteva ribellarsi per volere stesso di sua madre.

Poi finalmente, tutto d'un colpo, le cose cambiarono.

Sally grazie ai suoi enormi sforzi ed ai suoi continui studi, riuscì ad ottenere un buon lavoro da negoziante sulla coste, e grazie al discreto guadagno che ritirava da quest'impiego, fu finalmente capace di mollare l'inutile individuo con cui stava. Come se non bastasse nell'ambiente lavorativo, con il passare dl tempo, si rese conto di aver trovato una bravissima persona che la capiva perfettamente e con cui andava estremamente d'accordo, individuo di cui piano piano finì con l'innamorarsi, venendo per altro ricambiata, quasi non rendendosene conto.

A Percy quella persona stava molto simpatica e riusciva ad identificare in essa addirittura la figura del “padre” che non aveva mai avuto.

E fu così che la pace per il ragazzo cominciò a sopraggiungere, riuscendo a farlo sentire parte di una vera famiglia, e facendogli provare in prima persona la serenità che poteva offrire una vera casa. In lui cominciò a farsi spazio anche una sorta di spensieratezza adolescenziale, a fronte di tutti gli anni infernali che avevano dovuto passare lui e la madre.

Anche fuori da casa, le cose per Percy migliorarono ritmicamente.

Avendo la mente più libera dai brutti pensieri, i suoi voti scolastici, sotto i suoi grandi sforzi per recuperare, si innalzarono ampiamente, e lui riuscì a crearsi anche un buon gruppetto all'interno della classe, nel quale per altro conobbe il suo migliore amico Tyson.

Tutto sembrava essersi messo finalmente a posto, ma in realtà si era solo illuso, perché la vita stava aspettando di giocare il suo più brutto tiro, un tiro che per altro era riuscito a mandarlo istantaneamente al tappetto.

In quegli ultimi giorni non faceva altro che ripensare a Sally, Tyson, al mare del distretto quattro ed alla sua vita al di fuori di Capitol City.

Aveva deciso che avrebbe provato a vincere ed a partecipare a quel gioco mortale, ma non era troppo convinto di riuscirci.

Comunque l'idea di lasciarsi morire dentro quell'inutile campo di battaglia non lo sfiorava nemmeno, per quanto fosse demoralizzato non avrebbe mai accettato una tale sconfitta.

Si vestì rapidamente, infilandosi una comoda maglietta arancione e dei semplici pantaloni lunghi ed elastici per fare attività fisica, poi si diresse verso la sala da pasto, con i capelli ancora gocciolanti.

Fu rasserenato dal fatto di non essere l'unico in ritardo, infatti la sua compagna di distretto, Lavinia, sembrava non esser ancora arrivata ed il suo mentore aveva un espressione piuttosto scocciata.

Lo salutò con un cenno della mano e cominciò a mangiare degli invitanti pasticcini blu per colmare la solita fame mattiniera.

Non scambiarono molte parole tra di loro, il mentore gli fece solamente qualche raccomandazione sul fatto di non mostrare le sue qualità e sullo studiare minuziosamente gli altri.

Entro la fine degli addestramenti, ovviamente non in quello stesso giorno, ma a sessione conclusa, avrebbe dovuto avvertirlo su chi aveva scelto come alleato e probabilmente in base alle sue decisioni, la possibilità di sopravvivenza sarebbe aumentata o diminuita.

Aspettò Lavinia per diversi minuti, quest'ultima, quando raggiunse il ragazzo, si scusò fievolmente, anche se palesemente non pentita, del suo ritardo e poi insieme cominciarono a dirigersi verso il centro di addestramento.

A Percy quella ragazza non stava estremamente simpatica, ma aveva comunque provato a rivolgergli qualche frase di circostanza, lei però, lo ignorava senza eccezioni, così alla fine anche lui decise di lasciar perdere.

I corridoi che conducevano verso la palestra erano abbastanza stretti, interamente grigi, e sboccavano di tanto in tanto in qualche altra ramificazioni di viali nei quali erano situati gli appartamenti dei tributi, tra cui anche il suo e quello della sua compagna.

Era talmente assorto dai suoi pensieri che mentre si affrettava a raggiungere la grossa entrata d'ottone della sua meta, passando per una lunga anticamera poco illuminata, si scontrò con una ragazza, facendo cadere entrambi.

“Ehi, guarda dove cammini, testa d'alghe!” esclamò la biondina guardandolo male.

Percy si ricordava perfettamente di averla già vista prima, si chiamava Annabeth Chase ed era il tributo femminile del distretto 8.

Si alzò rapidamente in piedi strofinando via la polvere dai vestiti, mentre la ragazza continuava a squadrarlo malissimo dal basso.

Quando l'aveva vista sul suo carro con quell'aria così astuta ed orgogliosa stampata in faccia, l'aveva da subito trovata carina e simpatica, considerazioni piuttosto idiote dal momento che si sarebbero dovuti uccidere a vicenda, comunque dopo il loro primo incontro aveva ripensato molto per quanto riguardava l'aggettivo “simpatica”.

“Testa d'alghe? È veramente così che soprannomini tutti i tizi del quattro?” domandò retorico Percy.

La ragazza rispose prontamente alzando gli occhi al cielo“No, non tutti, solo le teste d'alghe. Preferisci acqua-man? Comunque, hai intenzione di lasciare una signora a terra o pensi di avere la decenza di offrirmi una mano per aiutarmi a tirarmi su?”.

Percy fingendosi dispiaciuto pose una mano alla biondina che si rialzò senza troppa fatica

“Io come ti dovrei chiamare? Vieni dal distretto della tessitura e non c'è nulla d'interessante in quel luogo... Ecco! Magari ti chiamerò figlia di aracne! Che dici?”.

La ragazza non rispose e fissò Percy sbigottita, il ragazzo poté addirittura giurare di averla vista sbiancare, poi girò i tacchi senza nemmeno salutarlo e proseguì per la sua strada con un espressione offesa.

Percy in quel momento doveva avere un enorme punto di domanda stampato in fronte perché anche l'indifferente Lavinia gli domandò se c'era qualcosa di cui aveva necessità, lui comunque scosse la testa e si addentrò nel centro di esercitazione, cercando di svuotare la mente da quell'incontro, per rimanere il più serio e concentrato possibile.

Poté constatare con mano, che quel posto era davvero gigante, forse anche più grande della piazza in cui si era svolta la cerimonia d'apertura sui carri.

L'area era divisa in diverse zone, ai lati si trovavano le piattaforme di mimetizzazione, teoria sul clima, la fauna e la flora, i nodi ed altre cose del genere.

Un po più, centralmente invece, si trovava la piattaforma di tiro con l'arco, quella d'addestramento con la spada, la lancia e varie arme di tutti i generi, che per altro si trovavano appese un po' dappertutto e disordinatamente nella stanza.

Era presente ogni sorta di opzione e possibilità di combattimento e qua e là erano disposti vari addestratori che davano delle dritte o aiutavano in caso di bisogno i tributi.

Quando Percy si addentrò in quella stanza, notò che già molte persone erano presenti, e poté constatare che alcune erano divise in gruppetti, probabilmente stavano già cercando di testare la convenienza della presenza di determinati individui nella propria squadra, piuttosto che altri.

Nico Di Angelo, il piccoletto del distretto tredici, sembrava intento ad addestrarsi con una spada e secondo Percy dava l'impressione di essere inaspettatamente molto pericoloso.

Il ragazzo notando il suo colorito e la sua espressione, avrebbe giurato che il nanerottolo non mangiasse ne dormisse da diversi giorni, ed un po' per questo gli fece pena, in effetti anche lui i primi giorni l'aveva presa in quello stesso tragico modo.

Era apparentemente da solo, ma si poteva notare che sia la sua compagna di distretto, Hazel, che in quel momento stava provando ad esercitarsi con i nodi, sia il ragazzo biondo del distretto dieci, che invece provava ad arrampicarsi in fondo alla stanza, lo stavano fissando di sottecchi.

Thalia Grace e Piper McLean erano ferme a discutere nell'angolo teorico, mentre Travis Stoll, Frank ed altri disparati tributi si allenavano in maniera solitaria, in disparte dagli altri.

Percy cominciò a valutare con cosa cominciare ad allenarsi, ed alla fine riuscì a prendere una decisione ricorrendo al metodo d'esclusione.

Da quand'era piccolissimo, lui era sempre vissuto nell'acqua e con l'acqua.

Aveva sempre aiutato in maniera gratuita tutti i pescatori del distretto, a patto che loro lo facessero salire a bordo durante le varie escursioni a largo.

Era dunque diventato un mago con i nodi e con le trappole, sapeva trasportare pesi veramente ampi ed in più maneggiava molto bene le spade, con cui invece si allenava secondariamente, come hobby.

Dunque si diresse prima di tutto nell'angolo teorico per cercare di apprendere qualcosa di più specifico sulle eventuali piante, consigli sulla sopravvivenza e cose del genere, su cui non aveva nessuna conoscenza, essendo dislessico e soffrendo di deficit dell'attenzione era sempre stato abbastanza una rapa a scuola.

Dopo un po' che fissava il suo libro, con espressione forse un po' troppo confusa, senza riuscire a memorizzare o capire praticamente nulla dei testi, sentì una fragorosa risata provenire da qualcuno davanti a lui.

Chiuse il manuale sulla flora di scatto e alzò lo sguardo, trovandosi davanti agli occhi quell'espressione severa e grigia che aveva incrociato pochi minuti prima.

“Tu qui, testa d'alghe? Pensavo che tu fossi un tipo più impulsivo che riflessivo, ma ora ne ho proprio la conferma, non immagini l'espressione da pesce lesso che ha in questo momento!” esclamò la ragazza ridacchiando sotto i baffi.

Percy cercò di ricreare una smorfia aggressiva sul volto, ma non dovette sembrare molto convincente, dal momento che la ragazzina dopo avergli riso nuovamente in faccia si avviò scuotendo il capo verso il poligono di tiro con l'arco.

Pensò che dovesse essere una vera e propria spocchiosa, ma non poté fare a meno di trattenere un sorrisetto ebete sulla punta delle labbra.

Decise presto di lasciar perdere la teoria e si diresse verso la piattaforma di combattimento corpo a corpo.

Venne allenato e gli furono rivolti dei consigli da uno degli addestratori che si trovavano nel luogo, un tipo molto basso, ma altrettanto robusto e agile, che sembrava estremamente contento di avere un nuovo allievo.

La maggior parte dei tributi infatti si stava allenando con armi e Percy pensò dunque che, o erano tutti degli assi nel combattimento a mani nude e volevano nasconderlo, o erano tutti degli inetti in questo campo.

Non che lui facesse una bellissima figura, ma per lo meno credeva di farne una discreta.

L'insegnate mostrandogli le diverse tecniche l'aveva buttato due volte a terra, ma comunque lui si era sempre rialzato e aveva tentato di replicare i suoi insegnamenti nel miglior modo possibile.

Non stette tutta la giornata fermo su quel campo, ma cercò di girare la sala il più possibile, dalla zona dove spiegavano la formazione dei veleni alla postazione d'arrampicata.

A cena non si fermò a mangiare nella mensa del luogo d'esercitazione, ma tornò nella sua cabina frettolosamente, per via del grande mal di testa ed il dolore ai muscoli che cominciava a tormentarlo, ma constatò rassicurato che anche la maggior parte degli altri partecipanti si era recata a sua volta, subito nella propria stanza, appena giunta la fine degli allenamenti.

Percy, una volta approdato all'interno del suo appartamento essenziale, notò subito che ne il mentore ne il suo fastidioso presentatore erano presenti in quel luogo, così si diresse frettolosamente in camera.

Non ebbe nemmeno tempo di mettere piede dentro la stanza che si ritrovò già catapultato in doccia, ormai per lui era un processo estremamente spontaneo quello di buttarsi nella prima fonte di acqua che trovasse a disposizione per rilassarsi nel minor tempo possibile.

Qualche anno prima, nel distretto, era riuscito a confermare un record di 8 minuti di respiro trattenuto sotto il pelo del mare, pensava che da un momento all'altro gli sarebbe spuntata la coda da tritone.

Fece un riepilogo mentale di tutto ciò che gli era accaduto nel giro di quei pochi, ma decisivi giorni, e s'incupì per la milionesima volta.

Dopo essersi lavato per bene ed aver recuperato un minimo di energia si diresse ancora in accappatoio verso la camera dove in genere lui, con il suo staff a seguito, trascorreva i pasti, una stanzetta attrezzata ma abbastanza contenuta, dall'arredamento piacevole.

Si allungò immediatamente verso la prima mensola, situata proprio al di sopra del tavolino a muro, con l'obbiettivo di impossessarsi qualche snack da sgranocchiare prima di cena, preferibilmente azzurro, dato che le pietanze azzurre gli ricordavano il cibo cucinato da sua madre.

Purtroppo però, i suoi piani furono sabotati, dato che non ebbe nemmeno il tempo di mettere piede nella stanza, che il suo indiscreto manager spalancò rumorosamente la porta, dirigendosi oltre la soglia d'ingresso con un sorriso a trentadue denti stampato i faccia, facendo sobbalzare il ragazzo per via del l'irruenza.

Percy stava per fare retromarcia sui suoi passi, per dirigersi nuovamente in camera sua, sperando di non esser individuato così da risparmiarsi uno di quei logorroici monologhi che di tanto in tanto gli rifilava l'uomo, che aveva già imparato a detestare.

In più, quell'individuo momentaneamente pareva troppo estasiato per i suoi gusti, e lui non aveva la minima forza volontà per stare a sentirlo crogiolarsi per ore ed ore nelle sue esperienze positive.

Sfortunatamente l'uomo fu più veloce nel capire le sue intenzioni di ritirata, e così Percy si ritrovò bloccato per la spalla destra, saldamente, dalla sua mano ossuta.

“Complimenti Jackson, sei un mito!- tuonò ad un certo punto, allegro.

Il ragazzo lo guardò come se fosse stesse rimirando un pazzo e l'altro si affrettò a proseguire con il suo discorso in modo tale da non offrirgliene una conferma:

“ Oh, maledizione!

Realmente non te l'hanno detto di persona? Devo fare tutto io, la vita è veramente dura, non credi?Comunque, devi sapere, che Annabeth Chase in persona, ha richiesto di potersi alleare con te! Io ho risposto che sarebbe servita un attenta analisi, tanto per non farci apparire troppo disperati, ma anzi un po' preziosi, ma comunque non è questo il punto! È sicuro che fra qualche giorno risponderò positivamente dal momento che quella ragazza ha veramente un elevato numero di sponsor. In più Clarisse è già di per se alleata con la Chase e con Polluce, nonostante l'addestramento non sia praticamente iniziato… Probabilmente devono aver preso i contatti già dalla cerimonia sui carri. Complimenti Percy! Sarai dunque, uno dei favoriti di quest'anno!” terminò annuendo e dandogli una forte pacca sulla spalla.

Percy si diresse in camera sua ancora un po' frastornato.

Veramente l'avevano incluso nella cerchia dei favoriti annuali?

In genere ne facevano parte solo i distretti ed i partecipanti più forti, ed in genere era sempre uno di quel gruppo a vincere i giochi.

Poi pensò agli occhi grigi ed il sorriso sornione di quella stramba ragazza che l'aveva deriso qualche ora prima.

Non riusciva veramente a capire se odiarla o volerle estremamente bene.

Decise di optare per una via di mezzo.

Si accasciò sul rigido materasso latteo, beandosi nell'affondare la dolorante schiena, su quel caldo e piacevole materiale.

Un leggero sorriso si faceva spazio rapidamente sul suo volto.

Rimase fermo a pensare a quelle ultime sequenze positive, un po' titubante e confuso.

“Annabeth Chase, un nome ed una garanzia, ma quale?

Vedrò di capire come funzionano gli ingranaggi nella tua testolina bionda e poi starò a vedere come comportarmi di conseguenza. Sarai un alleata preziosa od un pericoloso rivale?”.

Si rigirò più volte nel letto, ripetendosi mentalmente una serie di domande riferite a quella ragazza, prima di abbandonarsi completamente ad uno stanco, ma meritato, sonno profondo.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII - LEO ***


LEO

Leo Valdez fissava lo specchio con un sorriso folle, un sorriso che veniva lentamente ricoperto dalle lacrime salate che gli rigavano il volto.

Ormai tutte le sessioni di addestramento erano concluse e quella sera lui e tutti i tributi avrebbero dovuto partecipare alla prova con gli strateghi, dopo che ciò fosse avvenuto, gli rimaneva qualche giorno scarso da trascorrere a Capitol City, e poi sarebbe stato spedito direttamente nell'arena.

La prova con gli strateghi era una specie di esame finale in cui i programmatori dei giochi valutavano le capacità fisiche e tattiche di ognuno dei giocatori e gli assegnavano conseguentemente un voto che avrebbero poi reso pubblico per gli sponsor.

Leo sapeva di non essere pronto per quel test, Leo sapeva perfettamente che tutte le persone a lui più care non avevano riposto un minimo di speranza in lui, sapeva perfettamente anche che non avevano nemmeno ipotizzato l'idea che lui potesse vincere, ma che anzi, era certo che stessero già pianificando il suo funerale.

Era proprio la consapevolezza di tutto questo a dare al ragazzo la forza di continuare, era stufo di esser considerato l'ultima ruota del carro, era stanco di essere sottovalutato in maniera così esplicita, infondo era innegabile, almeno secondo il suo modesto punto di vista, che la sua magnificenza fosse dichiarata.

Suo padre l'ultima volta che si erano incontrati gli aveva pianto addosso tutte le sue lacrime e non aveva osato pronunciare una sola parola d'incoraggiamento, solo frasi d'addio.

Leo era consapevole del fatto che probabilmente anche lui stesso in una piccolissima fazione, nel profondo, ma molto profondo, del suo inconscio avesse valutato l'opzione della morte.

In effetti, lui era un gracile ragazzino dai tratti messicani che non era bravo a fare niente di utile che non costituisse costruire macchine e meccanismi vari.

Infatti il ragazzo, per quanto non fosse propriamente adatto ad i combattimenti sull'arena, per quanto riguardava le capacità d'inventiva e di meccanica era un vero e proprio genio, e non lo negava nemmeno a se stesso, tanto era palese questa condizione.

Suo padre lavorava nell'officina meccanica più sviluppata del distretto, e Leo stando a contatto con questi ambienti fin da piccolo, e forse anche aggiungendo un tocco di genialità innata, aveva acquisito tutte le doti tecniche di suo padre, se non di più.

Bastava porgergli due ingranaggi e quattro pezzi di ferro che lui riusciva a costruire una super arma letale o magari uno strumento simile ad una radio.

Nonostante ciò sapeva perfettamente che nei giochi, quei maledetti strateghi, non gli avrebbero permesso di costruire nulla, e se ci avesse provato, essendo monitorato ventiquattro ore su ventiquattro, probabilmente gliel'avrebbero fatta pagare con i metodi peggiori.

Però erano davvero troppo ingenui per poter pensare, anche per un solo istante, che questo avrebbe fermato il ragazzino dal progettare un piano favorito dalle sue capacità effettive, infatti proprio in quei giorni Leo si stava sforzando visibilmente per ideare una strategia con il fine di aggirare il sistema e salvarsi la pelle con il suo invidiabile e riconosciuto “stampo alla Valdez”.

A parte l'ingegno, che era ovviamente il punto forte della sua persona, purtroppo anche lui, nonostante fosse troppo esibizionista per ammetterlo pubblicamente, sapeva di possedere un infinità di punti di svantaggio.

Per esempio, in confronto ai suoi presunti amici, degli idioti colossali che si sforzava di intrattenere con qualche smorfia solo per evitare di esser preso di mira, possedeva delle palesi condizioni di scarsità fisica, infatti, almeno in quest'ambito, non era per niente forte.

Pensava che gli sponsor non l'avrebbero mai notato, come d'altro canto nessuno degli altri tributi aveva fatto, nessuno lo temeva e forse questo era un punto a suo favore.

Se tutti lo davano già per spacciato nessuno l'avrebbe considerato un gran pericolo e magari lo avrebbero lasciato vivere per un po', giusto il tempo che gli serviva per trovare un piano con cui salvarsi le chiappe in modo a dir poco scenico.

Nelle sezioni di allenamento aveva cercato di apprendere il più possibile, aveva provato a lavorare sulla sua mira e con il corpo a corpo, ma era stato a dir poco disastroso, allora si era cimentato nell'utilizzo di varie armi da taglio e gli era andato un pochino meglio, infine aveva tentato con le cose meno importanti come i nodi e l'arrampicata ed era riuscito a cavarsela in maniera apprezzabile.

L'unico problema era che, a differenza degli altri giocatori, lui non aveva assi nella manica, per quanto riguardava l'utilizzo di un oggetto da combattimento, da nascondere ed i suoi punti di svantaggio erano talmente tanti da equilibrare la sua assenza di punti a favore.

Infatti non gli era mai capitato di cimentarsi nei combattimenti, aveva sempre avuto altre priorità.

Prima di esser stato estratto, quella fredda e maledetta mattinata della mietitura, aveva infatti, condotto oggettivamente una vita piuttosto monotona e regolare, anche se con qualche variante, anzi con più di “qualche” variante.

Proveniva dal distretto 12, il distretto del carbone, e da qualche anno era propenso a lavorare come aiuto di un suo caro zio nelle miniere, oltre che a cimentarsi nel tempo libero alla costruzione di oggetti nell'officina del padre, ed aveva quindi imparato a scavare e lavorare con picchetti, con le pale ed occasionalmente con i martelli.

Non era il più in forma tra gli operai, ma la sua dedizione ed il suo impegno riuscivano a portarlo al medesimo livello di risultati degli altri.

Aveva cominciato a lavorare in miniera per aiutare il padre, dato che la fame del 12 era sempre più pressante e lui era stufo di dover sentirsi un peso, così si era rimboccato le maniche il più presto possibile.

Tecnicamente fino ad una certa età non si poteva entrare a lavorare in quei luoghi, ma grazie all'importante posizione nelle cave di suo zio, allo scarso controllo dei Pacificatori nel suo distretto ed alla predisposizione del ragazzo, venne chiuso un occhio.

Anche se inizialmente tutti erano titubanti in quanto pensavano che il ragazzo non avrebbe potuto fare qualcosa di veramente utile in quel mestiere data la sua corporatura gracile, ma ben presto avevano scoperto quanto determinato e piacevole fosse quel soggetto riccioluto.

Leo lavorava anche per non pensare, lo aiutava a distrarsi, ed a non farlo soffrire troppo per via dei fantasmi del passato.

In quel periodo, finalmente dopo tanto, troppo tempo, forse grazie ai mille impegni che affollavano le sue giornate, Leo era riuscito a ristabilirsi mentalmente, sembrava molto tranquillo e diligente, ma anche simpatico e buffone al di fuori dalle mura di scuola e dal lavoro.

Nonostante ciò non gli capitava spesso di avere rapporti con le persone fuori da questi ambienti, ogni tanto però si sforzava di provarci, per risultare più “comune” agli occhi estranei.

In realtà una tra le poche e sfortunate doti che gli erano state trasmesse dal padre c'era proprio il fatto che a lui non andassero tanto a genio “le forme di vita organiche”, come le definiva il suo genitore.

Quell'uomo infatti veniva soprannominato come “l'orso del 12”, sempre chiuso in casa o al lavoro, sempre ad una cauta distanza dalle persone, un asociale per eccellenza, in più il suo aspetto rozzo e bruto non lo aiutavano nel crearsi amicizie, ma lui sembrava comunque tranquillo.

Se avesse potuto anche Leo, probabilmente avrebbe fatto così, ma proprio non riusciva ad adattarsi con cotanta dimestichezza nella solitudine, lui doveva sentirsi circondato, doveva evadere, aveva bisogno di sentire attutito quel senso di disagio che lo attanagliava costantemente.

Per quanto agli occhi di tutti Leo potesse apparire uno sgargiante e geniale, anche se un po' buffone ed impacciato, normalissimo ragazzino del distretto, in realtà dietro quella facciata perfetta si nascondeva una psiche molto più tormentata, infatti lui stesso facendosi carico delle proprie esperienze non giudicava mai un libro dalla copertina.

Da quanto era successo quel cruciale fatto con sua madre, Esperanza Valdez, aveva temuto che la sua psiche prima o poi si frantumasse, ma non aveva mai chiesto aiuto a nessuno, credeva che non fosse necessario e che non sarebbe servito a nulla coinvolgere altre persone nelle sue turbe.

Al ragazzo era sempre piaciuto giocare con il fuoco, letteralmente, fin da bambino gli capitava di appiccare piccoli fuocherelli nei luoghi deserti, poi però si affrettava a spegnerli e far finta di niente perseguitato da un precoce sentore d'ingiustizia dovuta all'avventatezza dei suoi atti.

Gli piaceva osservare il colore delle fiamme, sentirne il loro calore ed odorare il fumo che emettevano, ne era affascinato, riuscivano a scaldargli il cuore e ad estasiarlo.

Quando Leo aveva cominciato a fare queste cose, era troppo piccolo per rendersi conto di quanto fosse sbagliato e pericoloso, di quanto la piromania in realtà fosse solo una disambiguazione mentale, ma lui era solo un bambino molto ingenuo, a quel tempo.

Un giorno però appiccò un fuoco che non riuscì a spegnere, un fuoco di cui le bruciature scottavano ogni giorno nel suo cuore.

Quest'esperienza traumatica era accaduta durante una normale giornata estiva, in cui Leo aveva una febbre terribilmente alta ed era per questo costretto a stare chiuso in casa, privo di forze.

Sua madre si era presa un giorno di riposo dalle cave per stare ad assisterlo ed ogni tanto saliva in camera sua per dargli uno sguardo od una medicina.

Il legame che univa il piccolo Valdez e sua madre era bellissimo, era forse l'unica persona nella sua vita che riuscisse a colmare tutto il senso d'inadeguatezza che l'aveva da sempre caratterizzato.

Quel giorno però, l'impulso di accendere un fuoco lo colpì come di consueto, ma lui era troppo stanco per uscire dalla propria casa ed era sicuro che la madre glielo avrebbe comunque proibito e forse avrebbe anche indagato e scoperto le sue intenzioni.

Così dopo essersi accertato del fatto che sua madre fosse occupata in qualcos'altro, dal momento che non faceva irruzione in camera sua da un po' di tempo, si diresse silenziosamente in cucina ed accese i fornelli, non sapeva però che il genitore si era sdraiato nel letto per riposarsi un po' data la stanchezza che gli comportava il lavoro di madre ed operaia.

Leo sbadatamente portò le tende della finestra sopra la fiamma dei fornelli e lentamente il tutto cominciò ad espandersi e prendere una brutta piega.

Prima che Leo avesse l'opportunità di spegnere il piccolo incendio che si stava divulgando lo colpì un mancamento dovuto alla malattia e svenne tra le fiamme.

Quando riprese conoscenza era sdraiato in un lettino d'ospedale, aveva una mascherina che gli ricopriva gran parte del volto ed un tubo che gli scorreva in gola, non riusciva a capire bene cosa stesse succedendo.

Una stanca infermiera, quando si accorse della sua rinvenuta gli spiegò cos'era accaduto e lui per poco non rischiò un collasso cardiaco.

Nella sua abitazione era partito un incendio dai fornelli, se n'era accorto il vicino di casa che rientrava dal lavoro, allora aveva chiamato istantaneamente le autorità locali.

Leo era riuscito a venir salvato in quanto l'entrata fosse molto vicina alla cucina e maggiormente accessibile per i soccorsi, anche se il fatto che ne le fiamme ne il fumo l'avessero colpito direttamente e mortalmente era un miracolo, dal momento che l'incendio era partito proprio nel luogo dov'era stato ritrovato il ragazzo, sembrava quasi che le fiamme l'avessero protetto ed evitato.

Mentre per la madre non si era potuto far niente, non era stata altrettanto fortunata, per lei era stato troppo tardi per un salvataggio, la sua stanza era troppo distante, aveva respirato troppa anidride carbonica ed era morta, anzi nella testa del bambino cominciò ad inoltrarsi la convinzione che fosse stato lui stesso ad ucciderla.

Leo nell'udire quella notizia spalancò gli occhi terrorizzato e provò ad urlare, ma le tubature bloccavano la fuoriuscita della sua voce, cercò di strapparsele via, cercò di alzarsi, perse la ragione e cominciò a dimenarsi in stato di shock, con il cuore che gli batteva in maniera troppo rapida, finché non arrivò un altro infermiere che istantaneamente lo sedò.

Leo rimase una settimana in ospedale, in stato di trauma, appena si risvegliava cominciava a dare di matto e i dottori erano costretti a dargli dei sedativi, ripetevano questo processo diverse volte al giorno, molti credevano che ormai il ragazzo avrebbe perso la ragione per sempre, che sarebbe impazzito completamente, anche Leo lo pensava.

Il suo sonno era sempre tormentato da incubi che riguardavano il fuoco ed il cadavere incenerito della defunta Esperanza, l'unica persona che l'avesse mai capito e che avesse mai creduto in lui.

Spesso sentiva le mani sporche di sangue, le lacrime gli scendevano durante il sonno e la sua mente scoppiava tormentata costantemente da delle grida di panico.

Successivamente ci furono mesi di riabilitazione, ma il ragazzo non riuscì mai a riprendersi completamente, anche se da fuori non sembrava.

In poco meno di un anno Leo era tornato a scuola sorridendo, scherzando, ostentando espressioni allegre nonostante si sentisse un ignobile omicida.

Il sorriso era sempre stata la sua unica arma di difesa e ormai riusciva a servirsene a comando.

Cercava di fingere allegria nella speranza che un giorno il rimorso sparisse e la finzione si tramutasse in realtà.

Si teneva sempre impegnato e sempre occupato e sentiva che piano piano stava raggiungendo di nuovo il controllo di se stesso, gli incubi di giorno come di notte diminuivano, le crisi psicotiche erano quasi sparite, e le sue scottature interiori divenivano meno dolorose con il passare dei giorni.

Nonostante ciò alcune rare giornate lo colpiva una rabbia folle, ultimamente succedeva di rado, forse massimo cinque volte all'anno, ma in quei momenti perdeva il controllo di se e senza rendersene conto scompariva nei boschi, o nei luoghi isolati ed appiccava un fuoco.

Da quel terribile giorno in cui perse la madre, odiava le fiamme, ma allo stesso tempo non poteva farne a meno, nelle fiamme rivedeva il volto sorridente di sua madre e ne sentiva l'affetto, ma ne vedeva anche la loro colpa e la loro mortalità.

Appena riacquistava coscienza spegneva immediatamente i fuochi e si odiava immensamente per averli appiccati, spesso piangeva o sbatteva la testa sul tronco di un albero.

Temeva che un giorno avrebbe riacquistato troppo tardi la coscienza di se e che sarebbe morto tra le fiamme, ed in quel momento in particolare temeva che gli sarebbe venuta una crisi del genere durante gli Hunger Games.

Aveva confessato a suo padre che a provocare quel mostruoso incidente era stato lui stesso, gli aveva confessato tutti suoi sensi di colpa e il padre l'aveva prima picchiato e poi consolato, cercando di affievolire il suo rimorso, ma dimostrando rabbia ed intimandogli di non provare più a fare una cosa del genere con il fuoco e di non parlarne con nessuno.

Leo si sentiva un codardo perché non aveva mai smesso in realtà di accendere incendi, aveva solo cominciato ad essere più cauto, si sentiva sporco ed ingiusto per il fatto di non aver confessato l'omicidio a nessuno tranne al padre, ma aveva troppa paura e si sentiva orribile per questo.

In verità credeva di essere malato, d'altronde era da sempre risaputo che il confine tra genio e follia era minimo, e spesso neppure esisteva.

Considerando le sue perdite di coscienza nei momenti di furia, era arrivato addirittura alla conclusione di soffrire di un disturbo dissociativo della personalità, ma per timore e rassegnazione non aveva mai svolto approfondimenti sul suo stato mentale.

Leo Valdez si sciacquò il viso nel bagno situato nell'anticamera del salone d'attesa, cercando di non pensare a niente che non riguardasse il suo incontro con gli strateghi e rapidamente si avviò, senza aspettare nemmeno la sua compagna di distretto, verso la sala dove avrebbe dovuto aspettare di essere chiamato per dare quei maledetti esami, per cui non aveva ancora ideato una strategia, ma a cui purtroppo l'impreparazione non comportava una bocciatura, ma una maggiore possibilità di morire.

Quando arrivò trovò tutti i tributi seduti in cerchio sopra le comode sedie verdognole posizionate ad una distanza simmetrica in entrambi i lati della stanza.

Sembravano tutti molto nervosi, l'ansia che si ergeva nell'aria era palpabile e tutti parevano terrorizzati, a parte qualche rara eccezione come Clarisse la Rue o Annabeth Chase, loro sembravano veramente preparate.

Decise di esorcizzare l'ambiente ostile facendo qualche battutina qua e la, al quale molti dei tributi risposero ridacchiando sommessamente.

Quando, ad un certo punto, mentre si mordicchiava le unghie in preda ai pensieri, Leo fu come illuminato da un enorme lampo di genio e gli si presentò davanti agli occhi l'intero piano a cui avrebbe ricorso successivamente durante i giochi.

Scatenò la sua gioia in una risata compiaciuta e strappò in un movimento istantaneo l'insulso portafortuna che gli era stato assegnato dal proprio mentore, un volgarissimo bracciale d'oro massiccio completamente pacchiano e privo di un reale significato.

Apparentemente quel gesto non venne compreso da nessuno dei presenti, che si guardarono di sottecchi, pensando che quella fosse la sua anormale maniera di smaltire l'ansia, ma a Valdez non importava, lui ormai aveva trovato un metodo perfetto, che non contemplava il vincere gli Hunger Games, bensì di sabotarli e riuscire a fuggire dall'arena, magari accompagnato da qualche altro giocatore.

Il primo passo per attuare questa sua fantastica idea era assumere un atteggiamento esplicito e molto preciso con gli li strateghi, ossia doveva far loro pena nelle prove fisiche e risultare estremamente stupido.

Aveva deciso di farsi assegnare un voto appositamente basso per riuscire a farsi apparire più incapace ed innocuo di quanto potesse già essere, per poi provare a riprendersi nel migliore dei modi nell'arena dimostrando tattica e coraggio con la sua strategia infallibile.

Era veramente molto pericoloso attuare una simile messinscena, probabilmente si sarebbe giocato definitivamente l'aiuto degli sponsor, ma piuttosto che ricevere un voto mediocre ed esser preso subito di mira dagli altri, il ragazzo pensò che quella che stava facendo, fosse la scelta migliore.

Lui era nel dodicesimo distretto e come tale si sarebbe dovuto presentare per penultimo, subendosi un angosciante attesa nella quale i suoi rivali davano prova dei propri meriti.

Mano a mano che la sala si svuotava, il ragazzo si sentiva sempre più nervoso, le sue gambe divenivano come gelatina e se non fosse stato per quel piccolo particolare, Leo era certo che sarebbe già fuggito da quella sala.

Poi finalmente giunse il suo turno e con il cuore in gola ed uno stupido ghigno dipinto sulle labbra il ragazzino si alzò dalla sua comoda sedia e s'incamminò lentamente, tanto che sembrava fosse stato selezionato per la sceneggiatura uno di quegli effetti al rallentatore che inseriscono nei film d'azione, verso l'oscura entrata della stanza incriminata.

Il fuoco ribolliva nei suoi profondi occhi scuri, ma nonostante ciò lui avrebbe ancora una volta, nascosto quelle fiamme, dimostrando la sua vera piromania dell'animo solo una volta giunto nell'arena, per adesso si sarebbe limitato ad occultare per un ennesima volta un ennesimo incendio.

 

Nda: Allora mi scuso per il ritardo, effettivamente avrei dovuto postare di Giovedì, ma in questi giorni sono partita per una breve gita al mare perciò non ho avuto ne modo ne tempo di scrivere ne postare.

Comunque, premettendo che Leo è tra i miei personaggi preferiti della serie, mi dispiace per averlo mostrato così disturbato, un effettivo piromane forse anche bipolare, ma ho in mente delle cose che credo si riveleranno interessanti per lui, ed il piano che ho ideato è parecchio rischioso e contorto, ma allo stesso tempo potrebbe salvare la situazione, perciò non me ne vogliate <3.

Al prossimo capitolo(Lunedì).

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Capitolo 9
*** Capitolo IX - WILL ***


WILL

Will Solace in quel momento continuava a stropicciarsi la sfarzosa camicia di pelle per il nervosismo.

Solamente il giorno prima avevano finalmente dato i risultati ottenuti al test, i punteggi dati dagli strateghi per le loro probabilità di resistenza nei giochi.

Lui tutto sommato non era andato male, ma anzi aveva ottenuto un discreto otto.

Durante quell'esame aveva dato prova prevalentemente delle sue buone capacità d'arciere.

Non era stato troppo difficile, d'altronde da prima che lui partecipasse agli allenamenti per i giochi si trovava perfettamente preparato in questo campo.

Suo padre era morto durante una delle edizioni degli Hunger Games quand'era ancora giovanissimo, perciò lui aveva sempre ritenuto opportuno tenersi allenato per ogni evenienza, e sfortunatamente le circostanze avevano dato i meriti alla sua prudenza.

Will Solace aveva sempre avuto il presentimento che quest'ignobile destino prima o dopo sarebbe giunto pure su di lui, non sapeva come spiegarlo agli altri e la maggior parte dei suoi amici lo prendevano in giro assicurandogli che la sua fosse solo paranoia, ma in effetti alla fine aveva avuto ragione lui.

Molti credevano che la sua ansia e le sue sensazioni a riguardo fossero dovute, per l'appunto, al trauma che aveva immagazzinato quando aveva scoperto il vero motivo dell'assenza del suo genitore.

Mentre rifletteva su questi argomenti stava aspettando dietro le quinte che venisse annunciato il suo nome per l'intervista.

Era consapevole che quella che stavano per fargli non era una semplice serie di domande, bensì sarebbe stata la sua ultima tappa prima di venir spedito negli Hunger Games, quindi la sua ultima possibilità di mostrarsi brillante per gli sponsor, ed era proprio per questo motivo che stava tremando dalla preoccupazione. Temeva di non riuscire a fare una bella impressione al pubblico, ciò nella sua situazione sarebbe equivalso ad avere maggiori probabilità di morire.

Non aveva ottenuto un volto troppo alto, bensì mediocre e non aveva dimostrato segni particolari, l'unica cosa che gli rimaneva era il fascino estetico ed il carisma, ma temeva che non sarebbe bastato per spiccare sugli altri.

In quell'attimo, mentre cercava di liberare la mente dai pensieri negativi, gli tornò in mente il momento in cui la madre gli aveva rivelato l'esistenza degli Hunger Games e della morte di suo padre, non certo un ricordo troppo rilassante.

A quel tempo, lui era abbastanza piccolo, aveva circa sette anni ed i suoi ricordi riguardo quell'occasione erano molto vaghi e frammentati, nonostante ciò l'espressione abbattuta di sua madre ed il tono aspro ed amareggiante delle sue parole erano impresse a fuoco nei suoi ricordi. Quel dì era appena rientrato dalla scuola d'infanzia e si era diretto, come sempre in solitudine, verso l'ospedale del distretto, luogo in cui la madre lavorava come infermiera.

Restò ad aspettare nella piccola sala d'aspetto all'interno di questa struttura per diverse orette, in attesa che lei uscisse dalla sala operatoria in cui stava dando una mano per venirgli incontro ed accompagnarlo a casa per il pranzo.

Tecnicamente sia Will che sua madre avrebbero dovuto trovarsi tutti i giorni fuori dall'ospedale per andare a mangiare insieme, dopo di ciò la madre avrebbe dovuto accompagnare suo figlio a casa per poi ritornare quasi immediatamente nella clinica.

Sua madre non gli permetteva mai di recarsi a casa sua da solo, in quanto la sua zona era esplicitamente “poco raccomandabile” , infatti era risaputo che intorno a quei luoghi del distretto si riunissero le persone meno affidabili per discutere su affari in nero che spaziavano dall'acquisto illegale di cibi od altri materiali dalla provenienza estranea dal loro luogo natio fino a diversi tipi di farmaci o nel peggiore dei casi di droghe.

Malgrado questo Solace era sempre cresciuto come un bambino autonomo e responsabile, ascoltava sempre le raccomandazioni della madre, rispettava le regole e sapeva valutare autonomamente diverse situazioni che per un ragazzino della sua età erano considerate molto impegnative e mature. Questo era dovuto anche al fatto che la madre non si potesse permettere di essere molto presente nei suoi confronti in quanto i medici e gli infermieri in quel piccolo ospedale del distretto erano veramente scarseggianti e la donna era perciò costretta ad essere quasi sempre impegnata al lavoro.

Comunque Will non se n'era mai lamentato e capitava che molte volte i medici gli permettessero di assistere ed aiutare la madre, per quanto nel suo piccolo potesse cimentarsi, con qualche innocua mansione come trasportare medicinali da una stanza all'altra o magari visualizzare lo stato di un paziente incosciente ed avvertire in caso di ripresa.

Lui era sempre stato molto affascinato dal mondo della medicina e per questo gli piaceva veramente trascorrere tutto quel tempo in quel luogo.

Molti dei suoi compagni di scuola lo prendevano in giro sostenendo che l'ospedale fosse un posto negativo e triste, che puzzava di morte e vecchiaia e dalla quale era ampiamente consigliato stare alla larga.

Lui invece trovava onorevole tutto ciò che riguardava il mestiere del medico, in quanto esso permettesse di salvare delle vite umane o di migliorane la qualità, quasi come un vero e proprio supereroe, lo apprezzava tanto che aveva deciso che la sua massima aspirazione da grande sarebbe stata quella di diventare un bravo chirurgo.

Un po' tutti i dipendenti lo conoscevano ed il piccolo Will era una specie di mascotte dell'ospedale del 10, perciò capitava anche che quando la madre era occupata in operazioni più importanti, che non le permettevano di uscire nell'orario precisato per la pausa pranzo, come per esempio il ruolo d'assistente del neurochirurgo in caso di assenza di suoi colleghi, lui dovesse rimanere ad attenderla per il tempo che sarebbe servito, possibilmente nell'atrio.

La maggior parte delle volte correva incontro ad Iris o ad altre simpatiche infermiere con cui aveva fatto “amicizia” a furia di frequentare quel posto e magari provava ad intrattenere breve conversazioni o cercava di rendersi utile, ma quel giorno decise di restare seduto nelle logore e verdi poltroncine d'attesa a riflettere su una questione che lo aveva costantemente tormentato.

La maggior parte dei suoi compagni di classe l'aveva sempre preso in giro per via della giovinezza eccessiva di sua madre, secondo loro, o meglio secondo quanto riferissero a loro le proprie arcigne e malevole madri, ma sopratutto per il fatto che lui non avesse mai avuto un padre.

Quel giorno era capitata un ennesima volta che calcassero su quel secondo argomento per coltivare il suo dispiacere, prima che come tutte le volte le maestre li fermassero e li sgridassero intimandogli di non fare commenti riguardanti questi argomenti delicati.

Per quanto riguardava le offese per l'età di sua mamma, Will, era sempre rimasto indifferente, in quanto la ritenesse perfetta così e pensasse che le derisioni dei suoi compagni fossero dettate solamente dalla gelosia da parte loro e delle loro famiglie.

Invece per quanto riguardava la questione di suo padre era da sempre rimasto turbato, non sapeva per quale motivo ma, sentiva dentro di se come un vuoto, una mancanza colmabile solo da una verità a lui sconosciuta.

Si era sempre chiesto perché lui a differenza degli altri non avesse mai visto suo papà a casa sua, si chiedeva perché i genitori dei suoi coetanei erano due e si chiedeva perché tutti e due venissero a prenderli a scuola mentre lui era da sempre abituato a tornarci da solo.

Però sapeva perfettamente che non era diverso, infatti in realtà un padre l'aveva anche lui, tutti i giorni riguardava la sua foto, che era da sempre posta in bella vista nel comodino della madre.

Si trattava di un giovane e bellissimo, dai capelli mossi e biondi e da uno smagliante sorriso splendente.

Quando si guardava allo specchio sapeva per certo di assomigliare a quella foto per via dei suoi boccolosi capelli chiari, per via della stessa carnagione abbronzata e per via della stessa dentatura perfetta, tratti completamente differenti da quelli di sua madre.

Oltre questo lui non sapeva concretamente chi fosse quest'enigmatica figura di cui sentiva parlare di tanto in tanto sua madre e che aleggiava nella sua vita sotto forma di entità fantasma.

Le ore passarono velocemente mentre si tormentava con queste questioni ed appena sua madre lo raggiunse ancora in camicie con quella sua aria dolce ma stanca, lui decise che quel giorno avrebbe preteso spiegazioni su suo padre una volta per tutte.

In genere aveva sempre evitato di domandare di questo fantomatico genitore, in quanto sua madre occasionalmente decideva di parlargliene di sua iniziativa e quando lo faceva lui notava che puntualmente una virgola di tristezza e nostalgia si palesava nella voce e negli occhi chiari di Donna, sua mamma, perciò per evitare di darle quel senso di sconforto evitata puntualmente di parlare dell'argomento.

Ovviamente quando la madre parlava di quel ragazzo biondo di cui Will rimirava spesso la foto, raccontava di piccoli stralci della sua vita insieme a lui, gli aveva raccontato di una volta che erano andati a fare un pranzo all'aperto di nascosto all'entrata del bosco, gli aveva raccontato di come a scuola fosse eccellente nel comporre poemi e poesie che spesso erano dedicate a lei, gli aveva raccontato della sua incredibile mira con l'arco e le frecce, ma non gli aveva mai spiegato il perché lui non fosse mai con loro, seppure amasse sua madre così tanto come lei narrava.

Quindi quella volta pose la fantomatica domanda :

“Mamma, perché io non ho mai visto mio papà? Dov'è adesso? Quando potrò conoscerlo?”.

L'espressione sul viso della madre si fece improvvisamente abbattuta, gli occhi le divennero lucidi e il respiro si fece più pesante.

Lo prese per mano in silenzio e cominciò a dirigersi verso casa sua con la testa bassa, cercando di trattenere il pianto, e solo a metà strada cominciò a parlare.

Donna spiegò con un tono disapprovante l'esistenza dei giochi della fame al suo figliolo, lui si ricordava di averli visti proiettare qualche volta nella piazza, ma non aveva idea del che cosa consistessero esattamente ed ora che l'aveva appreso ne era terrorizzato.

Quando poi gli rivelò la morte di suo padre nella lontana edizione delle gare, Will sentì improvvisamente montare la rabbia dentro di se.

Trattenne per qualche minuto la madre stretta in un abbraccio, mentre entrambi cercavano di darsi un aria controllata, poi Donna lo salutò con il solito bacio sulla fronte e corse in ospedale senza voltarsi indietro, lasciandolo dentro casa, dove ormai erano giunti.

Will quel pomeriggio lo passò piangendo davanti alla foto di quel vivace ragazzo biondo, sussurrando parole di sconforto e diversi “Mi dispiace” rivolti all'immagine statica di quel viso. Lentamente la tristezza si mutò in rabbia, era inconcepibile che per colpa di quello stupido gioco organizzato dal governo suo padre fosse morto, era ingiusto il fatto che sua madre e lui fossero costretti a stare soli dentro le mura di casa propria mentre tutti gli altri bambini avevano con se due persone al loro fianco, era intollerabile il fatto che lui non fosse l'unico in quella situazione ,ma che centinaia di famiglie ogni anno perdevano loro cari in quei giochi sanguinari.

Insieme alla rabbia in lui montò la paranoia, sentiva dentro il suo cuore che anche lui sarebbe stato chiamato, ne era sempre stato certo ma non era mai riuscito a capire, così dal giorno dopo aver scoperto quelle cose, Will cominciò ad allenarsi con l'arco e con le frecce ed a mantenersi costantemente in forma e preparato per le peggiori evenienze.

Credeva che in realtà fosse stato un frammento dell'anima del padre che viveva nel suo cuore ad innalzare un campanello d'allarme per donargli la salvezza, ed ora che le sue paure si erano concretizzate ne era convinto.

Pian piano i compagni di distretto smisero di prenderlo in giro per via della sua forza e della sua abilità che cresceva ed anche per la sua innata piacevolezza. Quando era stato chiamato alla mietitura, tutto il distretto ne era rimasto sconfortato, sopratutto i membri dell'ospedale che vedevano in lui un perfetto futuro medico.

La persona che probabilmente aveva sofferto più di tutte era stata proprio Donna, che aveva dovuto vedere un ennesimo pezzo di cuore portato via da Capitol City, come le era stato profetizzato da Will stesso.

Comunque il ragazzo non aveva la minima intenzione di perdere ed era più che determinato ad imporre una lezione a quelli del governo, anche se non sapeva in che modo.

Mentre era ancora immerso nei suoi pensieri il suo nome venne annunciato dall'altoparlante in sala, e lui neppure se ne accorse.

Ci volle uno spintone della sua compagna di distretto, Rachel Elizabeth Dare, per farlo risvegliare. Si affrettò ad entrare in sala con il sorriso e la camminata più allegra che gli riusciva, ammiccando verso la platea che dopo aver rimirato la sua teatrale entrata in scena scoppiò in un applauso.

Salutò con una stretta di mano l'egocentrico presentatore Cesaer che lo invitò presto ad accomodarsi sulle poltrone dorate e terribilmente pacchiane dello studio televisivo in cui si trovava.

“Allora, benvenuto Will! Devo ammettere che sei davvero uno schianto vestito in questo modo. Sappiamo che tu vieni dal 10, il distretto degli allevamenti e del bestiame, com'è che sembri così terribilmente elegante?”.

Will simulò una risata alla fredda frecciatina dell'arrogante Cesaer e si affrettò a rispondere in maniera simpatica:

“Beh, in realtà non me lo spiego tanto neppure io. In genere a noi del 10 vengono assegnati dei terribili costumi da mucca che fanno veramente rabbrividire, diciamo che sono stato fortunato o che forse probabilmente le persone del mio distretto non avevano intenzione di sprecare una mucca per farmi dei vestiti a tema. Sai nel 10 le vacche sono considerate praticamente animali sacri. Non mi sorprenderei se fra qualche anno arrivassimo a venerarle.”

Annunciò il biondino roteando gli occhi e simulando uno sguardo interdetto al presentatore, scatenando l'ilarità del pubblico in sala.

In effetti il suo vestito era veramente elegante e particolare, gli avevano cucito una lunga tunica di pelle di capra che arrivava fino alla ginocchia cosparsa da pom-pom bianchi e contornata da ricami cuciti a mano con fantasie dorate che ritraevano piccoli simboli antichi ma molto sofisticati.

In più gli avevano posizionato sul capo una corona d'alloro interamente dorata che faceva risaltare la splendida chioma del ragazzo, inutile dire che era stato tutto merito di Cassandra, la sua simpatica stilista.

“Ho saputo che il tuo voto d'ammissione è stato otto, non c'è che dire, sei sempre stato un ottimo scolaretto, vero?” proseguì il presentatore lanciando un cenno del capo al ragazzo.

“Oh, ti ringrazio! In effetti a scuola non sono mai stato bravo, possono confermare le maestre che non sono impazzite a causa mia nel distretto, ma questa volta diciamo che mi è andata meglio, forse è stato grazie agli insegnamenti degli allenatori per i giochi, sono stati molto utili!” rispose con la solita aria spensierata e felice Will, quando in realtà sentiva il suono troppo rapido del suo cuore rimbombare nelle orecchie.

“Oh, immagino che saranno contenti gli allenatori, di rado li si cita durante queste interviste. Ma ora passiamo alle domanda un tantino più serie, come hai reagito quando hai compreso di esser stato scelto quest'anno? Hai lasciato qualcuno d'importante a casa?”.

Il volto di Will s'inscurì per un frammento di secondo, poi tornò rapidamente sereno cercando di nascondere la sua rabbia e la sua malinconia.

“In realtà non posso dichiarare che per me sia stata una sorpresa, mio padre è morto quand'era giovanissimo durante un edizione di questi giochi, ed io ho sempre sentito dentro di me, che avrei avuto la sua stessa sorte. Naturalmente ho lasciato mia madre, nonché la persona più importante per me, e mi dispiace veramente tantissimo, è una donna fantastica e ne approfitto per rivolgerle un altro saluto, ti voglio bene!” annunciò fissando dritto l'obbiettivo della telecamera.

Il pubblico ammutolì per qualche istante e poi applaudì convinto, vedeva addirittura qualcuno tirare su con il naso o scacciare via le lacrime di commozione per il suo annuncio leggermente drammatico e ne fu alquanto irritato.

“Dispiace anche a me caro! Ma ora dimmi, giusto per rallegrare un po' l'atmosfera. Cosa ne pensi degli altri tributi? C'è qualcuno che hai trovato particolarmente preparato o favorito per creare un alleanza con te?”.

Will indugiò per qualche istante sulla risposta, cercando di moderare le parole al fine di non offendere nessun partecipante, poi riprese convinto:-

“Penso che tutti i tributi di quest'edizione siano dei veri e propri ossi duri e ne ho trovato alcuni più pericolosi di altri, ovviamente, ma non intendo sottovalutare nessuno perché apparentemente meno forte. Devo ammettere però, che mi sta molto simpatico Nico, il ragazzino del tredici, ed anche la sua compagna di distretto, non mi spiego bene il perché ma penso che potremmo creare una buona squadra insieme!”.

Le persone in sala, come Ceasar rimasero un po' sorprese da quell'annuncio, ma non sembravano comunque deluse dalle sue parole, anzi.

Will non lo poteva sapere ma anche Di Angelo era rimasto sbalordito dalla sua dichiarazione, era stato tutto il tempo intento a guardare nervosamente la diretta di Solace e quando aveva udito quell'annuncio era quasi caduto dalla sedia.

Comunque Will era semplicemente stato sincero, lui non avrebbe mai scelto di unirsi con persone che seppur fortissime, come per esempio Clarisse, non erano capaci di farlo sentire protetto e non gli davano possibilità di potersi fidare di loro.

La cosa più importante per lui era da sempre stata la fiducia, e a lui Nico, quanto la piccola Hazel ed altri ragazzi quali Valdez, anche se quest'ultimo appariva un po' folle, sembravano i più onesti e raccomandabili tra i partecipanti, e dal momento che riuscivano a donargli questa sensazione, pensava di poter creare un buon gruppetto di sopravvivenza basato sulla lealtà, per quanto gli fosse effettivamente possibile.

Dopo aver risposto ad altre indiscrete domande da parte del falso conduttore si alzò dalla comoda poltrona e si recò nuovamente nel retro delle quinte.

Salutò affettuosamente le persone in studio lanciando baci ed occhiolini e scatenando gli urletti emozionati della platea.

A quanto pareva il suo mentore aveva avuto ragione quando gli aveva detto che puntare sul carisma sarebbe stata la cosa migliore per il personaggio che si stava creando agli occhi degli sponsor. Inizialmente Will aveva creduto che sarebbe stata una trovata piuttosto stupida dal momento che nell'arena avrebbero visto quello strabiliante individuo vivace trasformarsi in uno spietato assassino davanti ai loro occhi, ma a quel punto si rese conto che compiacere gli spettatori non sarebbe più servito a niente.

Arrivato in quella situazione si sarebbe trattato solamente di sopravvivenza, una lotta tra la vita e la morte, un combattimento che lui, che per tanto tempo aveva avuto l'aspirazione di diventare medico, conosceva perfettamente.

Valutare la giustizia ed il valore di una vita piuttosto che un altra, era questo il vero problema.

A quale morte avrebbe ceduto Will? Alla sua o a quella di altri innocenti essere umani?

Raggiunse la sua compagna di distretto concentrato su questo fondamentale quesito, continuando ad ostentare un falso sorriso verso le telecamere.

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Capitolo 10
*** Capitolo X - ZOE ***


                                   -A fine capitolo leggete le Nda, è importante!-
                                                                      ZOE

Zoe Nightshade quella mattina spalancò gli occhi con una fatica pazzesca.
Probabilmente il suo subconscio sapeva che appena avrebbe ripreso coscienza l'illusione della vita pacifica che si era creata da diverso tempo sarebbe completamente svanita, dando spazio ad una delle esperienze più terribili a cui l'uomo potesse mai esporsi.
Zoe era sempre stata una ragazza tenace e persistente, nella sua vita ultimamente erano successe una serie di cose assurde e terribili che fortunatamente ne avevano fortificato il carattere.
Probabilmente se fosse stata selezionata per gli Hunger Games un paio di annetti prima avrebbe già tentato il suicidio in qualsiasi maniera le era possibile, ma adesso non era più la Zoe di un tempo, e si sentiva determinata a combattere.
Questa ideologia,  non toglieva però il fatto che il suo umore fosse decisamente a terra e che Capitol City non avrebbe potuto scegliere momento peggiore per colpirla ed affondarla.
Era passato ancora troppo poco tempo da quando lei era stata cacciata di casa, le sue ferite non si erano ancora del tutto rimarginate da quando l'unica persona che lei avesse veramente amato nella sua vita l'avesse tradita brutalmente e poi l'avesse abbandonata.
La ragazza qualche anno prima aveva infatti mentito alla sua famiglia, sottraendogli una discreta quantità di denaro, per aiutare il ragazzo , Ercole,  di cui lei si fidava ciecamente.
Ercole le aveva spiegato che quei soldi gli sarebbero serviti per curare sua madre da una malattia estremamente nociva che la stava logorando giorno dopo giorno.
Così Zoe, che fino a quel momento aveva vissuto come una tranquilla e serena ragazzina comune, insieme alle sue sorelle e la sua apparentemente perfetta famigliola, si commosse a tal punto da provare ad offrire una mano a quest'individuo ricorrendo alla menzogna.
La sua condizione economica, non si poteva certo definire benestante o tanto meno ricca, però i suoi genitori lavoravano entrambi e quindi le somme che rientravano in casa erano sufficienti per coprire tutte le spese necessarie, perciò la ragazza credette di non star compiendo un così importante torto in proporzione al risultato che ne sarebbe derivato.
Questa situazione in cui Zoe ingannava la sua famiglia durò per qualche mese, poi i genitori si resero conto delle azioni della figlia e a quel punto non ci videro più dalla rabbia.
Cacciarono la piccola Zoe di casa, senza un minimo di tentennamento o dispiacere e gli intimarono di non farsi sentire più, cosa che la ragazza eseguì alla lettera.
Essa non si sarebbe mai aspettata una reazione simile da parte dei suoi parenti, che la trattarono nel peggiore dei modi senza donarle un minimo di tregua.
In quella situazione, senza luogo in cui tornare, privata di ogni cosa, la ragazza, con un minimo di speranza che le brillava ancora negli occhi, decise di chiedere aiuto al ragazzo per cui si era presa carico di tutte quelle conseguenze.
Lei fino a quel momento non lo accusava di niente, credeva che le colpe non fossero sue ed i suoi sentimenti per lui non erano mutati con il corso degli eventi.
Eppure quest'ultimo la schernì e la derise svelandogli una cruda verità.
Ossia il fatto che sua madre era già morta da tempo e che lui stava solo manipolandola per ottenere soldi facili senza troppa fatica.
Affermò che i suoi sentimenti per lei non erano mai esistiti e la cacciò via in malo modo, umiliandola terribilmente.
Dopo quel fatto la Nightshade perse la speranza verso il genere umano, in particolare maschile,  dentro di lei non c'era più quell'innocente bambina che giocava nei prati verdi con le sue amate sorelle, bensì un adulta che era entrata a contatto con lo schifo che la circondava, e che aveva intenzione di lottare per debellarlo, anche se in minima parte.
Le ci volle un po' di tempo per rimettere insieme i pezzi del suo cuore ormai infranto e per riuscire a voltare pagina, fortunatamente in suo soccorso venne una splendida ragazza, probabilmente la cacciatrice più famosa di tutto il distretto, che le offrì un posto dove vivere e l'aiutò a riemergere dalla profondità del suo abisso di tristezza.
Questa ragazza dopo averla sostenuta nei momenti più bui ed avergli offerto una casa, le propose pure un incarico per procurasi da vivere, un incarico molto spericolato e rischioso, ma pur sempre un lavoro.
Lei veniva dal distretto 7,  luogo d'estrazione di legname e carta, distretto in cui i boschi vantavano di essere i più estesi e sviluppati di tutta Panem.
Infatti anche la piccola Zoe, accettò quel lavoro illegale e divenne presto una cacciatrice, unendosi al gruppo di ragazze fuorilegge con a capo colei che l'aveva aiutata a riacquistare onore.
Esse erano una stretta  cerchia di cacciatrici che procuravano il bestiame in quei luoghi vietati e poi lo rivendevano in nero alle persone più facoltose del 7, così ottenendo il denaro necessario per mantenersi.
Zoe adesso si sentiva forte anche fisicamente, era un portento con l'arco e le frecce ed in più era discretamente brava con i pugnali, sapeva correre, arrampicarsi ed anche combattere a mani nude.
Sicuramente non avrebbe avuto problemi con il cibo una volta giunta nell'arena dal momento che cacciare il bestiame era la sua specialità, ma gli esseri umani non potevano considerarsi tali e  il solo pensiero di riuscire ad ammazzare una persona facilmente quanto riuscisse ad uccidere un animale selvatico le faceva orrore.
Il suo grande punto debole era la sfiducia, perciò era già sicura al cento per cento che non sarebbe stata in grado di creare alleanze con i tributi, anche se aveva conosciuto una ragazza, Thalia Grace, che le aveva quasi fatto cambiare idea.
Comunque smise di rimuginare sul suo passato e sulle sue intenzioni per il futuro e con la testa pesante e le gambe molli si diresse in sala pasto per fare colazione, un ultima volta.
Zoe stava ancora metabolizzando la questione che prevedeva che quel dì sarebbe dovuta partire insieme al suo compagno di distretto, Nakamura, un ragazzino decisamente instabile con cui non aveva la minimamente intenzione di allearsi, e tutto il resto dei partecipanti, verso il luogo dove si sarebbe svolto il famoso gioco della fame.
Nella stanza la sua troupe di preparatori la stava già aspettando, probabilmente erano svegli da molto più di lei a giudicare dall'aria attiva con cui discutevano .
Zoe si ricordò che quella mattina non avrebbe rivisto ne la sua esuberante presentatrice di distretto ne il suo sciatto mentore, in quanto si erano dovuti salutare per l'ultima volta il giorno prima, non che ne fosse particolarmente dispiaciuta, semplicemente le sembrava decisamente surreale trovarsi in quella situazione senza quelle due presenze.
Ingurgitò rapidamente qualche fetta di pane e prosciutto crudo e poi si diresse scortata dalla sua stilista  verso l'ascensore, lanciando un ultimo e veloce sguardo ad Ethan.
Sapeva che i tributi dovevano partire da soli, perciò era consapevole del fatto che quasi sicuramente non l'avrebbe più rivisto se non nell'arena, e di vederlo in quelle circostanze, avrebbe preferito farne a meno, quel ragazzo non era da sottovalutare, come d'altronde non lo era nessun altro in quel contesto.
Comunque lui le rivolse un sorriso sghembo prima che le ante dell'ascensore si chiudessero e lei ricambiò alzando la testa ed assumendo uno sguardo solenne, non doveva far trapelare alcun tipo di timore agli occhi del nemico, come cacciatrice sapeva perfettamente quanto fosse pericoloso l'odore della paura.
Amanda, la sua stilista, le stava estremamente simpatica, sembrava una tipa semplice ed onesta, non come tutti quegli esuberanti damerini che la circondavano da quando era partita a Capitol City, e per quanto le fosse possibile si era affezionata a lei ed in quel momento la sua presenza riusciva a trasmetterle della preziosissima calma.
Senza proferire parola si diressero entrambe verso la stanza di lancio, ossia nel luogo in cui sarebbe partita per i giochi.
Si trattava di una stanzetta cilindrica che non possedeva porte , bensì al centro di essa fosse situata la cabina ovoidale da cui si sarebbe imbarcata per raggiungere l'arena.
Al lato destro della stanza si trovava una piccola doccia trasparente e poco più avanti notò che i capi che avrebbe dovuto indossare per l'edizione erano appesi ordinatamente.
Si spogliò dei vestiti e si diresse sotto il getto dell'acqua fredda accompagnata da Amanda che nel frattempo cominciava ad aiutarla ad insaponare e snodare i lunghissimi capelli castani che le ricadevano sulla schiena.
Nonostante la temperatura dell'acqua fosse estremamente fredda, Zoe si ritrovò a pensare a quanto bella e strepitosa fosse la sensazione di fare la doccia, immaginando che molto probabilmente quella sarebbe stata l'ultima volta in cui avrebbe goduto di quell'opportunità.
Uscì presto dalla stretta struttura e venne subito avvolta da una vestaglia color crema da Amanda che subito dopo, senza perder tempo, iniziò ad asciugarla con il fhon.
Per un paio di minuti restarono a fissarsi direttamente negli occhi, con uno sguardo affranto.
Quel giorno la stilista che le era parsa così genuina nei giorni trascorsi, sembrava estremamente abbattuta, la frangetta nera le ricadeva in maniera scomposta sugli occhi, nascondendo la lucidità di questi ultimi.
Indossava una semplice vestaglia beige che le ricadeva fin sotto le ginocchia e sembrava donarle un aria piuttosto fragile, il colorito ispanico della sua pelle veniva messo in risalto dalla vicinanza con Zoe, che in quel momento messa a confronto con lei sembrava un vampiro, data la chiarezza disarmante della sua carnagione.
La stilista si affrettò a prendere gli indumenti che avrebbe dovuto indossare sul campo ed a farglieli indossare.
Quell'anno avevano scelto un aderente tuta nera che ricopriva le braccia e le gambe fino alla caviglia e dei pratici anfibi marroncini di gomma.
Sulla vita si trovava una spessa cintura, sempre di color marrone, che ricadeva sui fianchi in due grandi e capienti tasconi.
Amanda spiegò a Zoe che il materiale dell'indumento era permeabile e probabilmente resistente al fuoco e alle temperature fredde, in più appariva un materiale piuttosto elastico e quindi difficilmente propenso a strapparsi, la ragazza ringraziò mentalmente Amanda per le sue conoscenze nel vestiario, e cominciò a slegare gli arti per abituarsi a quel contatto pressante sulla pelle.
Rifletté sul fatto che tutto sommato non era per niente scomoda quella tuta, anzi era tanto agevole che a mala pena sentiva di indossarla, anche se questa nota per lei non era tanto positiva in quanto la facesse sentire letteralmente scoperta.
Poi Amanda cominciò a pettinarle la lunga chioma nocciola con estrema dolcezza, quasi con  fare materno, anche se la ragazza a mala pena si ricordava come fosse avere una madre.
Infine le depose sul capo il simbolo rappresentante il suo distretto quanto la sua persona, un cerchietto argentato, che si abbinava perfettamente alle sfumature dei suoi occhioni attenti,  che le contornava tutto il capo e che ricadeva sulla fronte con un piccolo ciondolo a forma di luna.
Quel portafortuna era molto simbolico per lei, in quanto la luna fosse sempre stato lo stemma del gruppo delle sue cacciatrici , alla stilista aveva rivelato anche questo piccolo particolare e lei ovviamente l'aveva ammonita del non dirlo in giro se non avesse voluto che i Pacificatori venissero a conoscenza delle illegalità commesse dalle sue amiche e le catturassero nel 7.
Zoe riteneva il suo portafortuna di gran lunga migliore di quelli degli altri.
Aveva notato Thalia portare un piccolo collare di metallo in cui sporgevano delle specie di borchie a forma di fulmine molto particolari, decisamente singolare, ma mai elegante quanto il suo.
Hazel invece sembrava possedere come tale, un braccialetto contornato da pietre preziose, probabilmente fasulle o dalla dubbia provenienza, nel polso sinistro, anch'esso molto grazioso seppur troppo colorato per Zoe.
Quel Nico invece portava un tetro anello con un teschio, riteneva la scelta piuttosto stramba ed esuberante, decisamente poco adatto alla ragazza, per non parlare di quello strano ragazzino messicano, Leo Valdez, che aveva notato, ultimamente, indossare  un enorme ciondolo pacchiano da sfavillanti colori e tonalità sull'arancione, una scelta piuttosto di cattivo gusto, eppure da come lo stringeva durante agli allenamenti ne sembrava piuttosto affezionato, anzi sembrava che fosse un vero e proprio tesoro per lui, non la raccontava giusta a parer suo,  chissà se la ragazza ne  avrebbe mai appreso il motivo.
Comunque, una volta che fu pronta, smise di rimuginare su queste cose superflue, mentre la sua stilista con uno strano arnese che somigliava ad una pinzatrice, le depose il cip di localizzazione che avrebbe permesso agli strateghi di rintracciarla in qualunque momento della giornata.
Inizialmente l'impatto con quell'aggeggio fece leggermente male ed anche in seguito Zoe riusciva a percepire quel corpo freddo ed estraneo che adesso risiedeva all'interno della sua carne.
Si massaggiò per qualche minuto il braccio dolorante e poi si sedette sulle poltroncine della stanza, in attesa che il suo nome venisse annunciato dagli altoparlanti situati nel soffitto. A quel punto sarebbe dovuta entrare nella cabina di atterraggio e poi.. secondo lei a quel che sarebbe avvenuto in seguito era meglio non pensarci.
Quei momenti d'attesa furono a dir poco strazianti per la ragazza, il suo cuore scalpitava nel petto e doveva mantenersi concentrata per evitare di tremare. Non si era neppure accorta di star stritolando la mano affusolata di Amanda che le teneva un braccio intorno alla spalla e ne accarezzava l'estremità cercando di infonderle serenità.
“Zoe, sei una ragazza fantastica, sei sveglia e resistente, ed io sono sicura che hai una buonissima potenzialità di farcela in quel campo di battaglia, quindi ora non pensare a cose negative, ma cerca di concentrarti e di prepararti a scattare nell'arena. Ormai sei giunta all'inizio di questa sfida, quindi combatti, soldato.” affermò muovendo i pugni Amanda, avendo notato che il suo silenzio carico di comprensione non era bastato a rasserenare la ragazza e tentando di infonderle comunque un minimo coraggio attraverso quelle parole.
Zoe dopo essersi irrigidita per qualche secondo, assaporando con tutta la sua forza di spirito e volontà quella frase che la incitava giustamente al stare sull'attenti, si sciolse leggermente e riacquisì, almeno in parte, una frazione di autocontrollo.
Poi sentì il suo nome risuonare con eco metallico all'interno di quel posto, in maniera estremamente ovattata e distante, constatò che il suo respirò si bloccò per qualche secondo.
Si alzò dalla poltrona e cominciò a camminare con passo strisciante fino al centro della stanza, con Amanda che la seguiva altrettanto ansiosa.
Poi mise piede nella piattaforma rettangolare formata da metallo lavorato della piccola e claustrofobica cabina di atterraggio.
Presto i vetri cominciarono a chiudersi salendo verso l'alto da tutti gli angoli e la lastra di ferro prese ad innalzarsi lentamente da terra.
Zoe rimase a fissare la figura di un Amanda che teneva uno sguardo tenace e si faceva sempre più piccola con l'avanzare verso l'alto della cabina. In seguito essa si bloccò bruscamente in superficie liberandosi dei vetri e facendo rimanere solo la piccola piattaforma grigiastra.
Tutt'intorno a lei erano disposti i 23 tributi, in una posizione rettangolare, ognuno ad una discreta distanza di vantaggio dall'altro.
Individuò presto Ethan, che risiedeva a poche piattaforme da lei, il ragazzo però non la notò intento a concentrare il suo sguardo su un punto poco distinto all'orizzonte.
Zoe seguì la traiettoria della fonte della sua attenzione e rapidamente individuò l'accatastamento di armi che risiedeva nella loro estrema destra.
Notò un paio di archi scintillare sotto la luce pressante del sole e si impuntò rapidamente verso quello che le sembrava più adatto per le sue dimensioni.
Il paesaggio che si stagliava attorno a lei sembrava abbastanza tropicale, anche se nella zona ovest sembrava aprirsi un bosco di aghifoglie,  non ebbe però il tempo ne l'opportunità di girarsi a scrutare la zona, ma in quei pochi frammenti di secondi capì comunque di trovarsi solo al centro esatto del campo di combattimento.
Grandi palme ed alberi da lei poco conosciuti contornavano il panorama ed ombreggiavano la zona, in lontananza le sembrò addirittura di udire il suono del mare.
L'ansia era palpabile in quel rettangolo intriso di panico e tutti quanti continuavano a fissarsi arrogantemente nel silenzio generale.
Ad un certo punto una voce annunciò da un altoparlante fuori dalla visuale dei tributi:-
“Tutti i partecipanti si preparino all'inizio della battaglia. Vi trovate al centro dell'arena, una volta che sentirete il suono dei gong potrete cominciare a muovervi. Felici giochi della fame e possa la fortuna essere sempre a vostro favore!” ci fu una piccola pausa di sospensione e poi si udirono degli scoppi sordi in lontananza. “Signore e signori, che i ventiduesimi Hunger Games abbiano inizio!”.
Zoe in quel momento neppure si accorse delle sue gambe che avevano già cominciato a sfrecciare in direzione dell'arco splendente che aveva puntato pochi istanti prima, mentre intorno e dentro di lei,  si scatenava finalmente l'istinto per  la fatidica guerra con in palio la tanto agognata sopravvivenza.



Nda: Bene, finalmente i tributi sono giunti nell'arena, quindi dal prossimo capitolo( non odiatemi per questo ^.^ ) comincerà ad avvenire il “massacro”.
Mi è venuta un idea, ma non sono sicura che vi possa interessare. Infatti proporrei, ovviamente solo a chiunque facesse piacere, di occupare il ruolo di sponsor e di mentore, ossia potreste darmi consigli tramite messaggio o recensione esponendo i vostri personaggi favoriti ed io in base al vostro giudizio cercherò di far sopravvivere i suddetti, il più a lungo possibile rispetto agli altri.
In pratica vorrei fare una selezione, un po' come quella dei reality show, dove il personaggio più votato vince, mentre il meno votato viene mandato a casa ( in questo caso muore.)
Ovviamente quelli che saranno favoriti avranno anche più punti di vista in cui io scriverò dalla loro prospettiva rispetto agli altri.
In più di mia iniziativa non inserirò nessuna  parte scritta in cui i mentori spediranno oggetti in aiuto dei tributi, perciò chiunque vedesse che qualche tributo si trova in condizioni particolarmente critiche, eventualmente può dirmi, con cosa andargli incontro e con che strumento aiutarli, scegliendo tra qualsiasi oggetto possibile (anche un oggetto superfluo: un arma piuttosto che una medicina, un cibo o magari un portafortuna... ), ed io successivamente vedrò di inserirlo.
Se non riceverò nessuna segnalazione particolare allora continuerò di testa mia.
Alla prossima <3

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Capitolo 11
*** Cap. XI - INIZIO DEI GIOCHI ***


BEFORE DEATH

 

Katie Gardner era sempre stata una ragazzina assolutamente sincera e spensierata. Prima di esser stata chiamata per quegli orribili giochi, lei non aveva mai avuto nessun tipo di rammarico.

Viveva in una famiglia economicamente sufficiente del distretto nove, ossia il distretto che si occupava della produzione dei cereali.

I suoi genitori erano entrambi dei contadini, delle bravissime persone che non si erano mai lamentate di niente nella vita e che trascorrevano le giornate a spaccarsi la schiena nei campi di grano senza mai protestare, per mantenere insieme la loro amata famiglia in un clima pacifico.

Katie aveva una sorella maggiore, Miranda, con cui era sempre stata inseparabile.

Le due ragazze erano molto diverse tra loro, la maggiore aveva decisamente un carattere forte ed autoritario a differenza di Katie che appariva sempre così piccola e timida, ma nonostante ciò si volevano entrambe un grandissimo bene.

In quel momento, per calmare il suo cuore che batteva all'impazzata, Katie, mentre correva disperatamente tra i tributi armati di odio e ferocia in direzione di quello che pareva essere il bosco dell'arena, concentrò i suoi pensieri sul ricordo del viso rassicurante di sua sorella, con quei lunghi capelli castani sempre mossi che teneva spesso legati mentre lavorava nei campi per aiutare i genitori, aveva sempre pensato che con quell'acconciatura risultasse spontanea e bellissima.

Katie l'aveva sempre invidiata, per moltissime cose, ma la sua invidia non era malevola, era più un ammirazione incredibilmente schiacciante.

Miranda sapeva essere così forte, lo era sempre stata, le tornò in mente il ricordo di un giorno d'estate in cui lei provava a cercarla immersa in un infinito campo di grano.

Katie era ancora piccola, si ricordava di avere meno di nove anni all'epoca, sua sorella che invece aveva qualche anno in più, aveva deciso di dirigersi verso gli enormi campi del distretto per favorire un aiuto ai suoi meravigliosi genitori.

La bambina però non aveva la sua stessa fisicità e neppure la sua stessa forza volontà, era sempre stata infatti una persona molto arrendevole, di quelle che se incontrano una pietra nel proprio cammino, non provano minimamente a spostare il masso e tornano indietro senza combattere.

Sapeva perfettamente che questo suo comportamento era pressoché deplorevole, d'altronde nel suo distretto non era contemplata alcuna forma di pigrizia, ma i suoi familiari non la rimproveravano di questo suo lato, anzi non si ricordava che l'avessero mai rimproverata per niente.

Nonostante ciò lei sapeva che il suo atteggiamento era sbagliato, ma per quanto provasse a sforzarsi tutto risultava vano, era come un indole, e per questo si detestava, si sentiva di peso e sbagliata in confronto agli altri.

Capitava spesso che lei rimanesse sola con se stessa, infatti lei non andava a scuola, nessuno della sua famiglia c'era mai andato per iniziare a lavorare fin da una tenera età con la terra, e per tradizione non avevano mandato neanche lei, per quanto la sua inutilità, a suo parere, fosse palesemente mortificante.

Viveva le giornate passivamente e si sentiva sempre eccessivamente vuota, sentiva il tempo scorrere troppo velocemente senza lasciarle il tempo di reagire, e nonostante fosse così piccola soffriva già.

Non aveva comunque mai parlato di queste sue emozioni con nessuno, la sua vita apparentemente era perfetta, nessuno le dava motivo di lamentarsi o esprimere una preoccupazione, eppure lei stava male ugualmente, credeva fosse un problema solamente della sua persona.

Così quella mattina d'estate, mentre come al solito fissava un punto vuoto nel cielo con i suoi docili occhioni verdi, decise di raggiungere la sorella e offrirle una mano nel lavoro, magari, riuscire almeno per una volta a sentirsi soddisfatta di qualcosa che aveva compiuto con le proprie manine.

Presa dall'enfasi del momento si diresse, senza nemmeno aver preso gli oggetti da utilizzare come guanti e pale, in cerca Miranda, nonostante lei come i suoi genitori le avessero ripetuto molte volte in passato di non allontanarsi di casa da sola.

In effetti il suo distretto era veramente un labirinto, non perché fosse particolarmente intricato, ma anzi perché era eccessivamente semplice, tutto uguale, tutta flora, tutte coltivazioni, tutte serre, non un elemento di distinzione.

Katie cominciò , ignorando tutti i loro trascorsi avvertimenti, a camminare in mezzo alle grosse piante incolte che circondavano la sua piccola abitazione verso quella che credeva fosse la giusta direzione per arrivare alle coltivazioni.

Il sole splendeva aggressivamente nel limpido cielo azzurro e senza nuvole, e Katie cominciava a sentirsi mano a mano più debole per via del caldo che la colpiva direttamente attraverso i raggi uva.

Non c'era un solo punto d'ombra nel luogo in cui si era immersa, le spighe incolte le arrivavano fin sopra le ginocchia, ampliandosi fittamente a milioni nell'orizzonte, donando un magnifico colore dorato a tutto il panorama.

Katie dopo aver camminato fino a stancarsi senza trovare una solo forma di vita incontro al suo cammino, cominciò a corrucciarsi, probabilmente in quel momento sarebbe scoppiata in un lagnoso pianto da bambinetta, ma qualcosa riuscì a distrarla, infatti difronte alla sua vista comparvero alcuni bellissimi fiorellini gialli.

Katie li adorava, adorava tutti i tipi di fiori, se c'era qualcosa che sapeva veramente fare era curare questi ultimi, i loro splendidi colori vivaci le donavano sempre il buon umore e lei passava ore ad occuparsi di tutte quelle creature variopinte che risiedevano in delle graziose piantine a casa sua, di rado le capitava di trovarne in giro.

Infatti i fiori non venivano più coltivati a Panem, li ritenevano inutili, occupavano spazio che sarebbe servito per costruire abitazioni o coltivazioni, senza offrire niente di necessario alle persone, li vedevano come una cosa di cui poter fare a meno, perciò i pochi fiori che si trovavano in natura venivano regolarmente estirpati.

La bambina si avvicinò come ipnotizzata a quelle eleganti creaturine dotate di piccoli petali setosi, ed immediatamente si accorse che tutte le spighe che circondavano quegli esserini così belli e rari, stavano occupando il loro spazio vitale, soffocandoli, rubandogli l'acqua e la luce solare.

Li stavano terribilmente opprimendo,e così, Katie, preoccupata per la loro sua salute cominciò urgentemente ad estrarre quelle spighe dannose, non rendendosi conto che una figura si stava avvicinando alle sue spalle.

Era un uomo, un Pacificatore, che sventolava minaccioso un manganello, mentre si dirigeva verso quell'ignobile peste che, ai suoi occhi, stava danneggiando delle fondamentali risorse di cibo, già scarseggiante, nel distretto.

Probabilmente l'avrebbe colpita sulla schiena, se non fosse sbucata dal nulla sua sorella a parare il colpo e scusarsi in ginocchio con la guardia, che per una volta lasciò correre.

Miranda era stata così resistente quando con quel suo sguardo autoritario, seppur fosse così piccola d'età, avesse chinato umilmente il capo per chiedere scusa al Pacificatore.

Aveva la faccia sporca di terra e delle gocce di sudore le imperlavano la fronte, ma sopratutto, un enorme segno violaceo di manganello le tingeva piano piano il braccio abbronzato e nonostante ciò lei teneva duro e si mostrava composta, Katie la osservò per tutto il tempo meravigliata, come se stesse osservando un prelibatissimo fiore.

Poi lei preoccupata la trascinò via da quel luogo, rimproverandola per la prima volta in vita sua.

Mentre veniva scortata da una Miranda arrabbiata, Katie ebbe giusto il tempo di girarsi e notare il Pacificatore inginocchiarsi su quei bellissimi fiori dorati e strapparli brutalmente dal suolo, versò qualche lacrima in silenzio per via di quell'azione, perché tutti li trattavano così miseramente?

In quel momento, nell'arena, continuò a correre terrorizzata senza guardarsi indietro, sentiva il chiasso delle persone alle sue spalle che si buttavano sulle armi e sulle risorse, che lei nemmeno aveva scorto , intenta a proseguire a mani vuote, proprio come quel giorno nei campi, però troppo spaventata per girarsi.

Sentì delle grida, poi uno scoppio di cannoni, inciampò su una pianta, e solo allora si guardò intorno e notò il clima singolare che la circondava.

Inizialmente le era parso di trovarsi in una zona tropicale, sia per le piante che per la fauna, le era parso addirittura di vedere un tratto di mare, ma adesso sembrava trovarsi in una zona più montagnosa, il clima diveniva sempre più freddo ed il paesaggio più stepposo.

Un altro sparo, un altro morto, Katie si risollevò da terra e riprese a correre disperata, in quel momento non era più in se, vedeva un masso troppo grande davanti a lei, e non voleva neppure provare a reggerlo.

Sentì dei passi alle sue spalle, ma era distrutta, le gambe si muovevano meccanicamente e le sue emozioni erano impazzite, con un ultimo sforzo, si allontanò il più velocemente che poté, ma sentiva che quei passi continuavano a seguirla, pensò che magari erano solo nella sua mente, magari stava impazzendo.

Si bloccò di scatto appena si rese conto di aver raggiunto un vicolo cieco, uno sgretolato burrone si stagliava difronte ai suoi occhi colmi di lacrime.

In quel momento la paura la abbandonò e si avvicinò lentamente all'estremità, tutto intorno a lei, alla sua altezza, era amalgamato in un paesaggio così grigio e sconfortante, ma invece nel suolo ove finiva quel burrone vide una delle cose più belle che avesse mai visto.

Un prato, un bellissimo prato di un verde speranza lucente, costellato di milioni, la quantità più enorme che avesse mai visto insieme, di fiori, sembravano girasoli, dei magnifici girasoli.

Allungò la mano verso il basso, tentando di poterli sfiorare, ma erano terribilmente distanti, si rese conto che raggiungerli sarebbe equivalso a buttarsi da una decina di metri, e che quindi sarebbe morta, già, sarebbe stata proprio la fine di tutto.

Guardò un ultima volta le telecamera, avendo, forse, finalmente capito cosa fare.

Mormorò con la voce spezzata:

“Mi dispiace Miranda, chiedo perdono mamma, papà. Penso che per me sia giunta la fine, ma non credo sia esattamente così, anzi è giunto l'inizio. Finalmente raggiungerò i miei amati fiori, non sono bellissimi? Quindi non siate tristi per me, perché io sarò felice, rivivrò nei vostri sorrisi, nelle vostre memorie. Sorridete, come sto facendo io adesso, sento che ci rincontreremo un giorno.”

Finì il suo discorso rivolto apparentemente verso quel magnifico cielo sereno, non sapeva se le telecamere l'avessero effettivamente ripresa, ma non le sarebbe più importato, quella era come al solito la soluzione più semplice, e lei sarebbe stata pigra fino alla fine, purtroppo.

Un solo passo e tutto si sarebbe dissolto in un prato verde.

Fissava con sguardo assente in lontananza, nel suo cuore si scatenavano mille emozioni, lei non voleva uccidere, non ci sarebbe mai riuscita, non voleva neppure esser ammazzata da qualcuno, sarebbe stato doloroso ed umiliante, per una volta in vita sua sarebbe stata convinta ed orgogliosa di una sua azione.

A distoglierla dalla quiete dei suoi pensieri furono quei maledetti passi che aveva udito anche in precedenza, questa volta però, intravide pure una figura avvicinarsi in mezzo a degli altissimi alberi.

Colta dal panico si gettò frettolosamente tra le braccia del vento, sicura di apparire goffa anche in quel suo ultimo gesto.

Probabilmente era stata solo una sua impressione, ma pareva quasi che il vento l'avesse aiutata in quella sua scelta e le avesse offerto una spinta.

Non seppe mai chi era l'assalitore che la stava raggiungendo in quel momento, ma le sembrò quasi di udire un urlo in lontananza, un grido che la chiamava.

Comunque si accorse che era troppo tardi, ma a lei sarebbe andata bene così.

L'ultima cosa che vide furono quelle mille macchioline gialle dal profumo sopraffino che le venivano incontro sempre più rapidamente, quasi a volerla abbracciare, e lei non si fece prendere dal timore ma, spalancò le braccia affascinata.

Poi ci fu un tonfo, un rumore sordo e violento, niente di più, solo buio.

Katie non soffrì l'impatto, cadde di testa e la rottura del cranio fu talmente rapida da non permetter alcun tipo di sensazione.

Quello era stato effettivamente un suicidio o un incidente dettato dal panico?

Nemmeno lei ne era certa.

Prima di morire la ragazza formulò un ultimo pensiero distrattamente.

Rifletté sul fatto di assomigliare decisamente molto ai suoi amati fiori, così belli e colorati, ma allo stesso tempo così inutili e superflui, ma anche così fragili.

In realtà la ragazza era da un po' di tempo che soffriva di una sorta di depressione, magari non proprio, ma un qualcosa di simile, che la divorava dentro e la faceva sentire inferiore, sola, non necessaria, ma non era mai stato capace di accorgersene nessuno, tanto pareva genuino quel suo sorriso sereno.

Dall'altura di quel dirupo, Travis Stoll cominciò a singhiozzare piegato a metà, si chiedeva se quel gesto estremo da quella che avrebbe voluto che fosse la sua alleata fosse accaduto a causa della sua avventatezza nel seguirla, in verità non voleva farle del male, assolutamente.

In quei pochi giorni di addestramento quei due ragazzi avevano quasi fatto amicizia, Travis si era trovato assolutamente ammaliato da quella ragazzina così timida.

Il cannone lanciò uno sparo per annunciare la morte della povera Katie.

Il ragazzo corse via da quel luogo con le lacrime ancora presenti nei suoi occhioni arrossati, mentre rimembrava le gote rosse di quella solare e minuta figura che si era presentata a lui il primo giorno di addestramento, stringendogli tremolante la mano, una mano così calda e morbida, una mano che oramai sarebbe stata così fredda e ruvida.

Si allontanò per paura che qualche spietato tributo, dopo aver udito quello sparo, raggiungesse la sua postazione,magari incuriosito dalla vittima o dall'assalitore che avevano causato quel colpo di cannone, e nel peggiore dei casi pensò che quest'ipotetico concorrente l'avrebbe attaccato.

Travis però, avrebbe lottato, l'avrebbe fatto per Katie, la sua morte non sarebbe stata vana a qualunque costo, si promise, stringendo le nocche fino a farle divenire bianche.

Nella sua mente aleggiò per l'ultima volta l'immagine di quel grazioso corpicino steso a terra con le braccia spalancate, pareva quasi una fata, se non fosse stato per quell'enorme chiazza di sangue che si allargava all'altezza della sua testa, macchiando il vicino prato verde e quei favolosi girasoli che contornavano lo scenario, aggiungendo a quel mix di colori allegri, uno splendido quanto maledetto rosso, color della passione, dell'amore e del suo innocente sangue versato.

 

Nda: Ok, pregherei tutti i fan dei figli di Demetra di abbassare quei forconi, grazie in anticipo.

Allora, mi rendo conto che questo capitolo è particolarmente drammatico, ma in mia discolpa ieri stavo guardando il film: Io e Marley ed ero una fontana, perciò dovevo sfogare il mio dolore (?), tsk, che frase da emo...

Dicevo? Quindi, dal prossimo capitolo in poi concentrerò molta più azione e combattimento nelle morti ( ovviamente a parte qualche rara eccezione).

Infine volevo ringraziare tutti coloro che fin ora hanno seguito|ricordato|recensito|preferito|letto la mia storia.

Al prossimo omic... capitolo <3

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Capitolo 12
*** Cap. XII - PRIMA ALLEANZA ***


Nda: Mi scuso per il ritardo, ma ieri sono stata tutto il giorno fuori casa e nonostante avessi il capitolo già pronto, non ho avuto la possibilità di postarlo. Spero di non incorrere in ulteriori imprevisti temporali. ^.^

 

ANNABETH

 

Ormai in quella prima giornata infernale, trascorsa con l'intento di una mera sopravvivenza, era calata la sera ed Annabeth Chase, incredibilmente, era ancora viva.

In quel momento stava occupando il primo turno di guardia serale mentre il suo compagno di alleanza provava a riposarsi e sonnecchiare, anche se con quelle orribili premesse, perfino un azione automatica come dormire, pareva una prospettiva non molto semplice.

In teoria, come squadra di favoriti, avevano concordato per ritrovarsi insieme in sei, e costoro sarebbero dovuti essere lei, Clarisse, Percy, Polluce, Thalia ed il suo compagno di distretto Benito, ma in pratica erano riusciti a ritrovarsi solo in due.

Annabeth non era certa del motivo per il quale fossero dovute tutte quelle assenze, ipotizzò che magari qualcuno aveva deciso di non fidarsi di loro e quindi tradire all'ultimo l'alleanza,o magari qualcuno era stato bloccato prima di riuscire a raggiungerli,oppure qualcun'altro era più semplicemente morto.

Nell'aria, da quella mattinata aveva infatti udito tre spari di cannone,e sapeva l'appartenenza della vittima di uno soltanto di quegli spari, e purtroppo, quella persona era proprio un individuo che sarebbe dovuto essere suo alleato.

Tutto stava nei riflessi, lei era infatti riuscita a salvarsi per via della sua ottima reattività nei movimenti.

Appena aveva udito la fatidica frase che annunciava l'inizio del 'gioco', era scattata in avanti, dritta verso l'accumulo di armi e risorse che aveva notato stagliarsi all'ombra della parte ovest del campo.

Aveva rapidamente afferrato un pugnale che pareva alquanto affilato e promettente nel combattimento diretto e poi aveva indossato uno zainetto verdognolo di cui non era a conoscenza del contenuto; Infatti,quell'anno, ad ogni sacca venivano posti all'interno strumenti differenti ,per rendere più interessante la situazione agli occhi del pubblico, cosicché ci fossero i più fortunati che riuscivano a trovarci qualche cosa di terribilmente utile come un panino o cibo di vario genere, e invece i più sfortunati che ottenevano solo della corda malmessa od oggetti simili.

Comunque nonostante lo scatto di velocità che le favorì la presa di quegli oggetti, Annabeth rischiò veramente di morire, e sapeva che la colpa era assolutamente da attribuire a se stessa.

Infatti, la ragazza aveva fatto una cosa che sapeva fosse sbagliatissima e pericolosa, ossia dopo essersi sistemata con il materiale, prima di sfrecciare nella boscaglia ed allontanarsi dallo sterminio che avveniva vicino alle piattaforme dei vari ragazzi, aveva tentennato, si era fermata a guardarsi indietro con la folle idea di aspettare i propri compagni di squadra, o per essere più sincera con se stessa, per attendere Percy.

Nell'esatto momento in cui le sue gambe presero una posizione statica, una persona, una persona da cui non si sarebbe mai aspettata un colpo a tradimento simile provò ad attaccarla, quest'individuo era il suo compagno di distretto, Benito.

Vide di sbieco la sua faccia scura e sporca di terriccio corrugarsi in un ghigno malevolo.

Poi, come se nella scena fosse stato applicato un inquietante rallentatore osservò come i suoi piedi, dopo aver ottenuto una gran velocità dovuta alla corsa che aveva affrontato, si staccarono da terra in un salto agilissimo e provarono a scagliarsi insieme alla lancia appuntita e decisamente nociva che brandiva nella mano sinistra in direzione della bionda.

In quel momento, Annabeth, era così confusa e distratta che avrebbe beccato quella lama in mezzo alla schiena, e sarebbe stata immediatamente uccisa, se non fosse stato per il nobile soccorritore che si affrettò a salvarla.

Clarisse La Rue, quella montagna di ragazza afferrò un masso con aria intrepida, delle fiamme ribollivano all'interno delle sue pupille, e con un colpo ben assestato, scagliò aggressivamente la pietra, sulla nuca del traditore.

Annabeth ebbe appena il tempo di vedere il sangue schizzare dalla testa di Benito per tingere le guance arrossate della Rue di uno spiccato rosso pomodoro, che un immediato sparo di cannone si sollevò nel cielo,annunciando il primo decaduto e facendo diffondere un'ansia opprimente in ogni individuo presente alla scena.

Annabeth capì che il suo compagno di distretto era morto quando lo vide cadere mollemente al suolo.

Clarisse con agilità e prontezza estrasse la lancia, dalla presa ancora solida del corpo inanime di Benito, e poi con una meravigliosa prontezza di slancio afferrò al volo uno zainetto e corse in mezzo agli alberi, trascinando per la manica, un' Annabeth, ancora molto disorientata.

Cominciarono ad aggirarsi, mantenendosi pronte e sull'attenti per possibili ed ipotetici combattimenti, mentre stentavano in mezzo all'altissima vegetazione di aghifoglie che si estendeva fitta nel bosco, tenendo entrambe la lancia ed il pugnale a mezz'aria, con fare abbastanza risoluto.

Dopo aver passato una mezz'ora a girare sconclusionatamente in mezzo a quella fitta vegetazione, senza aver trovato nessun individuo amico o nemico, ne nessuna postazione sicura per sistemarsi durante il pranzo o la notte, decisero, sotto consiglio di Annabeth, di fermarsi brevemente sul posto ed aprire gli zaini, nella speranza di trovar magari qualche cosa che le potesse esser d'aiuto.

La bionda in quel frangente ebbe ragione, infatti, nonostante nel suo zaino non trovarono niente di utile, solo qualche risorsa di cibo ed altri oggetti che momentaneamente andarono in secondo piano, nello zaino della mora trovarono, invece, fondamentalmente, una spessa e dettagliata bussola d'ultima generazione, ovviamente nascosta in mezzo ad altre risorse altrettanto utili che avrebbero controllato successivamente.

Finalmente, con l'ausilio del buon orientamento di Annabeth, unito alla sua capacità di saper leggere quegli strumenti di posizione,al contrario della Rue, le due riuscirono ad abbandonare quel bosco chiuso e soffocante e addirittura a raggiungere quello che sembrava un perfetto rifugio naturale.

Trovarono infatti un piccolo punto che poteva parere un minuscolo valico dalla forma di un angolo acuto, in cui due grandi massi grigiastri si dividevano centralmente dando vita al buco ovale dalle dimensioni di una piccola capanna, che si richiudeva man mano che la fessura si stringeva, lasciando come unica apertura quella da cui le due entrarono.

Sicuramente sarebbe stata una postazione strategica, era veramente difficile notare quella piccola fessura tra quei pilastri di pietra, e almeno per riposarsi potevano contare su quel punto che offriva una grande protezione.

Infatti, senza farselo ripetere due volte, estrassero il pranzo, senza ovviamente consumarlo totalmente e servendosi a piccole porzioni, e si nutrirono in tutta tranquillità.

Si doveva , però, considerare che quel piccolo insediamento era tanto pericoloso, quanto avvantaggiante, in quanto, in situazione estreme vi era una sola entrata ed uscita, da cui avrebbero potuto irrompere gli assalitori e perciò poteva benissimo trasmutarsi in una situazione di svantaggio per le due sotto forma di vicolo cieco.

Come se non bastasse, la visuale da quel masso, si affacciava in un punto imprecisato e distante dell'inizio della boscaglia, non permettendo la vista di una sufficiente situazione generale, così decisero che avrebbero usufruito di quel luogo solo momentaneamente, finché le acque non si fossero leggermente calmate, e poi lo avrebbero abbandonato e sarebbero andate in avanscoperta verso sud.

La bionda, in quel momento si trovava leggermente esposta, fuori da quel piccolo riparo, fissava la piantagione, in cui cominciavano a tremare le ombre della notte, con molta circospezione.

Pensava che se Clarisse le aveva permesso di fare il primo turno di guardia per la notte, si fidava veramente di lei, e almeno questo pensiero riuscì a rasserenarla.

Con la rapidità con cui avevano abbandonato il luogo delle piattaforme, dopo quel primo scontro mortale, Annabeth non aveva nemmeno avuto il tempo di riflettere sull'accaduto o dispiacersi per la decaduta del suo compagno di distretto.

Anche se era restia ad ammetterlo serbava ancora del rancore verso Benito, che l'aveva raggirata in maniera così subdola, mirando senza scrupoli alla sua vita, eppure si sentiva una persona cinica ed egoista a provare avversione verso quello che ormai era un povero cadavere.

Rifletté sul fatto che lei non avrebbe mai ingannato in questo modo nessuno dei suoi alleati, si voltò a guardare la figura sdraiata in penombra di Clarisse, che in quel momento sembrava così scoperta ed indifesa, di certo a lei non sarebbe mai balenata l'idea di attaccarla in quel momento, alla spalle, sarebbe stata, a suo parere, una cosa troppo meschina per chiunque,e comunque, dopo averla vista all'opera con lo stesso Benito constatò che non le sarebbe neppure convenuto più di tanto provarci.

Combattuta cercò di non pensare troppo a quell'accaduto, ma piuttosto provò a spostare la sua attenzione su qualcos'altro, di molto più importante.

Continuava a guardarsi intorno irritata, infatti, nonostante Annabeth avesse infatti studiato meticolosamente ogni sorta di clima, paesaggio e rispettiva piantagione,non era ancora riuscita a decretare ufficialmente il luogo dove quell'anno si stessero svolgendo i giochi.

A prima vista, quando la cabina di lancio si spalancò, fu certa di trovarsi in un ambiente tropicale, forse in un isola, ma da quando si era addentrata nella boscaglia la vegetazione ed il tempo erano completamente mutati, ed ora sembrava di trovarsi in un ambiente mediterraneo, abbastanza temperato.

Era alquanto confusa, sebbene sicura che il passare del tempo e lo studio più accurato delle zone che l'avrebbero circondata, sarebbe riuscita a decretare una spiegazione logica a quel cambiamento così repentino di atmosfera, ed un verdetto finale per la geografia, chissà cos'avevano ideato realmente gli strateghi per quell'anno.

Quella situazione, in cui Annabeth si trovava sveglia e vigile in un luogo così sperduto, spaventata ed insicura, mentre fissava l'avvento della luna che s'innalzava nel cielo man mano più intenso, non era affatto una novità nel suo repertorio di esperienze.

Alla ragazza, riaffiorarono infatti le memorie di qualche anno prima, di quando lei aveva provato a fuggire da sola oltre il confine del proprio distretto, ossia l'otto, il distretto dell'industria tessile.

A quel tempo, neppure tanto lontano, sua madre era appena scomparsa, e non nel significato metaforico del termine, bensì in quello letterale.

Annabeth era sempre stata molto affezionata a sua madre, la ammirava da morire, la riteneva una persona splendida e amava la maniera in cui riusciva a trasmetterle con dei piccoli gesti tutta la sua essenza d'amore, grandezza, intelligenza e prontezza.

Sua madre era una donna autoritaria e determinata,una persona amatissima dalla sua famiglia e da tutti coloro che la conoscevano veramente, infatti, nonostante dimostrasse in maniera un po' difficoltosa il suo amore, quando lo faceva, quella donna, riusciva a sorprendere tutti quanti.

La ragazzina, tutto quello che aveva imparato nei primi otto anni di vita, la formazione della sua stessa personalità, la doveva soltanto a sua madre, che era come un mentore ed un appoggio.

Forse fu proprio per questo che quando, raggiunto appena il suo nono compleanno, la mamma di Annabeth sparì nel nulla, senza lasciare tracce, motivazioni o testimoni, la bambina rimase veramente traumatizzata.

Inizialmente sia lei che il padre si prodigarono in disperate ricerche in lungo e largo, avvertirono le guardie dell'otto, fecero trascorrere un infinito passaparola tra gli individui del distretto, ma niente fu utile al suo ritrovamento.

Dopo una fase di smarrimento iniziale, il padre non si fece abbattere, ma anzi si sposò in seconde nozze con una vedova del distretto, che aveva a sua volta subito una disastrosa strage familiare, e si era ritrovata sola a mantenere i suoi bambini, che per la ragazzina non erano altro che la reincarnazione del male.

Annabeth non capì quel gesto di suo padre, inizialmente pensò che avesse agito in maniera puramente strategica, per bilanciare le spese di tutti quanti, dal momento che due lavoratori a casa erano sempre meglio di uno, ma quando, invece, finalmente capì che il matrimonio di suo padre era dovuto al suo nutrire realmente dei sentimenti verso quella donna , che non era e non sarebbe mai stata sua madre, l'aveva presa malissimo.

Prima di tutto perché odiava infinitamente quel clima familiare, i suoi presunti fratellastri le facevano sempre i dispetti e la prendevano in giro, mentre la matrigna rimaneva sempre abbastanza fredda e sospetta nei suoi confronti, sembrava che per lei fosse una fastidiosa estranea in casa propria, quando semmai era avvenuto il contrario,

La cosa che però le fece più male fu il comportamento di suo padre, che a suo giudizio, con il trascorrere del tempo, si allontanava piano piano da lei, riponendola quasi in secondo piano.

Sentiva di esser stata tradita dalla persona più cara che le era rimasta, capiva che non sarebbe mai riuscita ad adattarsi alla sua nuova 'famiglia' in quanto si sarebbe sentita a sua volta, se mai l'avesse fatto, una bugiarda nei confronti di sua madre, ed in più credeva che il padre avesse completamente dimenticato ed abbandonato anche quest'ultima, concentrandosi su quella nuova relazione.

Così un giorno, decise che avrebbe proseguito da sola le ricerche,appena compiuti dodici anni preparò da sola un enorme valigia con i suoi vestiti, un po' di cibo e degli oggetti che riteneva necessari, e poi fuggì di casa, verso il confine.

Annabeth, si rese conto solo in quel momento che le immagini che si stavano presentando davanti ai suoi occhi non erano più ricordi, ma bensì sogni che arrivavano dalle sue memorie del passato, così presa coscienza, maledicendosi mentalmente, scattò in piedi, riaprendo gli occhi.

Era stata così stupida da riuscire ad addormentarsi in una situazione del genere, mentre era di guardia, raggomitolata scomodamente contro il masso e con il pugnale stretto tra le dita.

Dall'altezza in cui il sole stava sorgendo, poté dedurre che ormai l'alba era prossima a sbocciare e fece un piccolo calcolo mentale delle ore di sonno che aveva recuperato, probabilmente erano tre o se proprio doveva pensare al peggio, quattro.

Si morse la lingua constatando di non esser nemmeno riuscita ad assistere all'annunciazione delle morti, proiettate in quel cielo profondo, avvenute durante il giorno precedente.

Controllò rapidamente l'interno del rifugio, Clarisse stava bene, era distesa pigramente su un lato della roccia grigiastra, con una beata espressione dormiente.

Le provviste e la lancia della sua alleata, che il pomeriggio precedente avevano sistemato meticolosamente ai suoi piedi, erano ancora presenti ed intatte, perciò si lasciò andare in un sospiro di sollievo constatando che nessuno le aveva, dunque, trovate e tanto meno raggiunte quella notte.

Comunque lei fu troppo impulsiva lasciar cadere il suo moto d'attenti, infatti si accorse subito dopo che dei piccoli rumori sempre più vicini si stavano scatenando tra alcuni cespugli.

Ebbe appena il tempo di voltarsi per apprendere che quei rumori erano i passi di una persona, una persona che in quel momento si stagliava in tutta la sua grandezza davanti agli occhi grigiastri della bionda, e che per di più brandiva minacciosamente quella che sembrava un ampia ed affilata arma da taglio.

Lanciò un grido di paura che squarciò il silenzio mattutino e subito le palpebre rilassate di Clarisse si spalancarono in uno sguardo pericolosamente attento.

La ragazza mora brandì, a sua volta, velocemente la sua splendida quanto nociva lancia ancora incrostata di sangue e si gettò pesantemente fuori dal quel piccolo insediamento, raggiungendo un Annabeth a dir poco terrorizzata.

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Capitolo 13
*** Cap. XIII - SCOPERTA DEL CAMPO ***


FRANK

 

Frank cominciò quella mattinata maledetta svegliandosi di soprassalto in preda alla paura , gli ci volle tutta la volontà di cui disponeva per non compiere atti impulsivi quali urlare o correre di getto, fortunatamente le parole con cui l'aveva rassicurato la sua compagna di distretto nel treno risuonavano ancora nella sua testa…

Chissà dove si trovava Clarisse in quel momento?

Frank ipotizzava che lei si fosse unita all'alleanza di favoriti come avevano già prestabilito a Capitol City, ma come quell'esperienza gli aveva insegnato, non si poteva mai sapere con certezza cosa il fato avrebbe riserbato per le sue povere pedine, l'unica cosa di cui era certo era che lei non fosse ancora morta.

Tutte le notti, come regola fissa, infatti, gli strateghi erano obbligati ad annunciare tramite altoparlante i nomi delle vittime che erano cadute durante la giornate, e che erano già state preannunciate precedentemente dallo scoppio dei cannoni.

La sera prima, come l'altra ancora, Frank aveva assistito puntualmente alla proiezione dei nomi delle persone che erano ormai defunte, comparse in quel finto cielo dalla mera e fasulla costellazione, che a suo parere donava all'atmosfera un certo tocco di drammaticità romantica, e La Rue non rientrava tra queste persone, anche se lui non era sicuro se esserne felice o meno.

Si rendeva conto che quel posto lo stava man mano cambiando in peggio, continuava a pensare egoisticamente che ogni morte per lui avrebbe dovuto costituire un bene dal momento che meno persone rimanevano, più speranza aveva di vincere, però ogni volta che rifletteva in questi termini si sentiva una persona oltremodo spregevole ed indegna, per questo aveva deciso di smetterla di rimuginare con la mente e buttarsi nei giochi agendo solamente d'istinto, anche se questo poteva comportare grandi pericoli, ma almeno non rischiava d'impazzire .

Ormai erano passati due giorni da quando quella tortura era cominciata ed incredibilmente, il tasso di persone che erano sopravvissute era piuttosto alto. Generalmente i primi giorni negli Hunger Games di qualunque edizione erano sempre i peggiori, quelli con la più grande percentuale di morti, eppure fino a quel momento erano risultate soltanto quattro le vittime effettivamente decadute.

Frank pensava che fosse grazie alle dimensioni enormi dell'isola in cui erano capitati, infatti il ragazzo era forse l'unico ad aver appreso che effettivamente l'arena fosse un isola.

Lui come la maggior parte dei tributi, appena aver udito l'annuncio che specificava l'inizio dei giochi, era corso a gambe levate, solo che lui a differenza degli altri che per praticità si erano diretti a nord, si era buttato verso la parte bassa della zona, non inoltrandosi nel bosco bensì proseguendo imperterrito nella parte opposta, seguendo una vegetazione che pareva essere tropicale.

Forse era stato anche perché lui aveva notato solo all'ultimo minuto le pile di armi e zaini che si trovavano proprio più a nord della piattaforma, ed era stato troppo spaventato dall'affollamento di persone che si dirigevano verso quel luogo per avvicinarsi a a sua volta.

Per fortuna in quei pochi attimi riuscì ad afferrare una piccola e leggerissima lancia che aveva visto al suolo solo a pochi metri dinnanzi a lui, probabilmente caduta o ancor peggio lanciata verso qualche tributo, poi senza più guardarsi le spalle fuggì rapidamente in mezzo alla calda vegetazione, con la paura che gli rendeva la mente troppo annebbiata per pensare una qualunque strategia.

Frank non era mai stato un tipo atletico e specialmente non era mai stato allenato nel correre, ma in quella situazione estrema, in cui l'ansia e la paura ebbero il sopravvento, spinse le sue gambe in una corsa folle il più velocemente possibile, senza mai interrompersi, trascurando la stanchezza legittima della sua muscolatura, il fiatone e l'asma che man mano gli rubavano tutto il fiato, il sole pungente che, artificiale o meno, colpiva voracemente con i suoi precisi raggi il suo corpo color latte ed in particolare la sua testa, tanto che più di una volta barcollò troppo accaldato, e gli mancò veramente poco per svenire d'insolazione.

La sua fuga dettata dal panico si prolungò per tantissimo tempo, le ore scorrevano in una maniera ambigua nell'arena, perciò il ragazzo non poteva esser sicuro delle ore puntuali, ma seppe solamente di aver visto il sole che inizialmente splendeva ampiamente nel cielo divenire sempre più basso fino a scomparire in una macchia violacea, lasciando lo spazio alla sera.

Ovviamente le azioni del ragazzo erano dettate meramente dall'istinto, si poteva quasi dire che la sua mente non ragionava razionalmente, non riusciva a registrare niente di quello che vedeva intorno a lui, gli parse più volte d'incontrare degli ambigui animali piuttosto grandi e minacciosi, ma il suo cervello li registrò come delle mere macchie scure in movimento, per non parlare del paesaggio dai colori verdi accentuati, che scorreva davanti alle sue iridi senza assumere un minimo di significato.

Proseguendo in questo modo, per ironia della sorte, Frank Zhang, il ragazzo più impacciato dei tributi della ventiduesima edizione, fu il primo a percorrere nel minor tempo tutta la traiettoria sud dell'arena, giungendo finalmente al punto limite, ossia quello che sfociava in un confine, che tipicamente era rappresentato da un alto muro o un campo di forza, ma che in questo caso era costituito da una calda e pacifica spiaggia che sfociava in una illimitata distesa di acqua, che apparentemente era il mare.

Appena Frank la vide, senza pensarci due volte si tuffò, ovviamente vestito, in mezzo a quell'amabile distesa scura di acqua salata, che appariva così perfetta ed invitante, fresca e tranquilla, quasi un miraggio, fu certo che se non si fosse trovato in quelle condizioni fisiche disperate probabilmente avrebbe considerato l'ipotesi di esser morto e giunto in paradiso, ma il dolore delle sue gambe era troppo reale per quest'idea .

La sabbia intorno a lui era estremamente fine, morbidissima al tatto, di un colore marroncino che in alcuni tratti si avvicinava molto al bianco.

Apparentemente sembrava molto distesa orizzontalmente, mentre invece verticalmente, dal luogo in cui era giunto Frank, a pochi metri di distanza si staccava nettamente con della fitta vegetazione caraibica dai colori variopinti ed accesi.

Il ragazzo si sciacquò la testa ed il corpo che parevano incandescenti e poi cominciò a bere, senza nemmeno far caso all'anomalo sapor salmastro, dalla grande distesa d'acqua, per cercare di idratarsi e recuperare un minimo di forze.

Il tributo aveva infatti compiuto lo sforzo fisico, quasi completamente a freddo, ossia correre senza interruzione per circa una giornata intera, senza aver a portata di mano una sola bottiglietta d'acqua o men che mai una qualsiasi risorsa di cibo, tenuto in piedi solamente dalla forza di volontà, dal momento che a differenza degli altri giocatori non aveva fatto in tempo ne avuto abbastanza coraggio per andare a reclamare uno zaino tra quella folla di voracità.

Resistette più o meno grazie alle risorse accumulate negli anni ed in quegli ultimi giorni a Capitol City, in genere i suoi compagni di distretto lo deridevano per la sua stazza molto grossa ed un pelino in sovrappeso, ma in quel momento Frank pensò che non sarebbe mai stato così fiero e grato del suo grasso in eccesso.

Comunque appena si allontanò dal mare, con la tutina che aderiva ancora umida alla sua pelle, donandogli una piacevole sensazione di freschezza a fronteggiare quel caldo torrido, cominciò a visualizzare attentamente il panorama, alla ricerca di un qualche luogo per nascondersi ed accamparsi.

Purtroppo il paesaggio pareva totalmente uguale, una grande chiazza di verde e marrone, occupata da piante come la plumiera con i suoi imponenti fiori rosati, oppure delle grandi ed appuntite palme che stagliavano imponentemente sulle piantine più piccole ed ornamentali di rampicanti esotici e bromelie violastre.

Per un momento gli balenò l'idea di allontanarsi a nuoto da quel luogo per verificare cosa si trovava al di là del mare e se c'era una qualche minima possibilità di salvataggio, ma subito accantonò il pensiero perché lui personalmente non aveva mai imparato a muoversi in delle acque dove i suoi piedi non arrivassero a toccare, perciò sarebbe stato oltremodo rischioso tentare in quel momento, senza possibilità di soccorso, ma anzi nel peggiore dei casi di affogamento favorito da altri tributi.

Infatti il ragazzo era quasi sicuro che almeno quella sera, che era ancora la prima, lui fosse stato l'unico ad assere giunto fino all'estrema spiaggia ove si trovava, ma era altrettanto certo che presto qualcun altro l'avrebbe raggiunto, perciò era meglio crearsi un nascondiglio e rintanarsi, almeno per la notte, per non rischiare spiacevoli sorprese al risveglio, poi, semmai, la mattina seguente avrebbe valutato se allontanarsi da dove si trovava o rimanere comunque nei paraggi.

Alla fine creò un angolino per il riposo in mezzo a delle altissime piante di cespugli, molte dei quali erano piante aromatiche e da spezia che mostravano piccoli frutti colorati dalle sembianze più misteriose, certe assomigliavano a dei piccoli pomodori dagli improponibili colori, mentre altre invece parevano più delle more o semplicemente delle ciliegie, ma Frank, per quanto sembrassero graziose ed invitanti non si azzardò a mangiarle, per paura di rimanerne avvelenato.

Quelle piantine con i loro sgargianti fiorellini avevano l'importante compito di coprire totalmente la visuale dall'esterno, compito a cui adempievano egregiamente, a meno che qualcuno non avesse avuto proprio l'idea di rovistare lì in mezzo ai cespugli o ancor peggio di camminarci sopra, Frank sarebbe rimasto nascosto alla vista, sopratutto la notte grazie anche alla sua scarsa luminosità.

Riuscì dunque ad addormentarsi quasi immediatamente, subito dopo aver ascoltato attentamente l'annuncio che arrivava in seguito allo scoppio dei cannoni che elencava le morti verificate nei giorni precedenti, poi il ragazzo senza farselo ripetere due volte cedette alla presa di Morfeo, in preda ad un grande bisogno di riposo sopratutto fisico, in quanto la sua mente rimase costantemente in dormiveglia, con l'udito attento a qualunque rumore sospetto potesse verificarsi nel raggio dei pochi metri che riguardava la sua zona.

La mattina successiva si era alzato veramente prestissimo per via della fame che pulsava prepotentemente nel suo stomaco, provocando dei suoni rumorosi che potevano rivelarsi pericolosi per il suo nascondiglio.

Se solo avesse avuto un arco, gli sarebbe bastato anche con delle frecce malmesse o danneggiate, sicuramente sarebbe andato a cacciare, ma purtroppo l'unica cosa che possedeva era la piccola lancia che aveva trovato a terra nella piattaforma, e munito solamente di quella, non era il caso di andare a cacciare.

Per di più Frank non aveva la minima idea della fauna che si poteva trovare in quel tipo di ambiente, probabilmente avrebbe dovuto fare come quella ragazza bionda di nome Annabeth che sicuramente in qualunque posto si fosse trovata in quel momento non avrebbe avuto problemi d'adattamento essendosi concentrata prevalentemente sulla teoria, sui tipi di animali, i loro climi naturali, i loro punti deboli, il loro raggio di azione, invece lui durante l'allenamento aveva sottovalutato gravemente quest'aspetto della preparazione, ritrovandosi successivamente in difficoltà sull'arena.

Comunque i suoni che aveva udito durante quella prima nottata parevano alquanto pericolosi, sicuramente non erano passi o voci umane, ma non per questo non mettevano ansia, dal momento che variavano da sinistri ululati che parevano fondamentalmente felini ad acuti strilli atonali che parevano provenire da un qualche specie di uccello carnivoro per niente raccomandabile.

Allora Frank provò ad optare per la flora, anche qui, però, non avendo conoscenze di base sul tipo di piante che si poteva ritenere velenose o nocive e quelle che invece erano commestibili optò con l'unico frutto genuino che aveva riconosciuto come non pericoloso sulla spiaggia, ossia il cocco.

Purtroppo però era estremamente difficile da recuperare, in più lui non era una grande portento con l'arrampicata sugli alberi e come se non bastasse distruggere la corazza rientrava tra le cose più difficili che avesse mai provato a fare.

Comunque alla fine riuscì dopo immani sforzi con la sua piccola lancia a nutrirsi con esso e rimase nei pressi di quella spiaggia ancora per un giorno ed una notte, poi decise di spostarsi.

Fondamentalmente il motivo per qui cambiò luogo fu l'irreperibilità da parte sua di guadagnarsi da mangiare e da bere, ma anche la temperatura costante e scottante che pungeva imperturbabile in quella zona lo spinse ad allontanarsi, seppur lui non sapesse effettivamente che da altre parti dell'arena l'atmosfera cambiasse completamente e repentinamente, aveva però registrato una temperatura più mite verso la zona della piattaforma, anche se la sua permanenza in quel luogo era stata breve e poteva anche sbagliarsi e rischiare la pelle inutilmente.

Sicuramente non tutti l'avrebbero pensata in quel modo , molti individui quale Leo Valdez, che essendo del dodici conviveva con le temperature piuttosto alte, o Percy Jackson che invece sembrava estremamente abituato al clima marittimo, avrebbero desiderato ardentemente trovarsi nel luogo ove si trovava il ragazzo del due, eppure lui non poteva resistere oltre.

Munito solamente della sua lancia, e di una buccia di cocco che si era messo in testa per fare da casco, tra l'altro azione che probabilmente vista in condizioni normali avrebbe solamente fatto ridere, ma che invece proiettata negli Hunger Games assumeva un ampio senso logico, in quanto, lo avrebbe protetto dal sole e da eventuali cadute o colpi alla testa, cominciò ad inoltrarsi nuovamente dentro la particolare ed inusuale vegetazione dal quale era giunto in quella spiaggia, questa volta muovendosi piano e cercando di razionalizzare maggiormente.

Una volta che si fu immerso completamente nel verde, lasciandosi alle spalle il blu della distesa salata, la pressione cominciò a farsi sempre più alta all'interno del suo corpo.

Non sapeva esattamente il motivo ma il suo cuore prese a tamburellare oltremodo rapidamente e le sue guance arrossirono visibilmente per il caldo.

Frank cominciò a provare una paura immobilizzante, senza saperne il motivo, ma percependo solamente un assurda sensazione di allarme e pericolo.

I suoni intorno a lui erano confusi, si sentivano prevalentemente i versi delle cicale e di altri piccoli insetti, risuonare fastidiosamente in tutta l'arena.

Fu solo quando si fermò ad ascoltare più attentamente che Frank poté sentire in lontananza uno strano ed offuscato suono lascivo, che assomigliava molto allo strisciare di un serpente, provenir da una zona imprecisata intorno a lui.

Si guardò ripetutamente intorno, bloccato sul posto, ma non riuscì ad intravedere niente di particolare.

Solo in seguito notò il leggero movimento, quasi impercettibile provenire da una zona in ombra alla sua destra, costellata di una fitta e informe macchia di cespugli e piante di vario tipo.

Inizialmente non se ne preoccupò convinto che fosse il semplice tirare del vento, anche se effettivamente se ci avesse pensato attentamente avrebbe realizzato che quella mattinata la corrente afosa che tirava nell'aria era praticamente nulla, e poi nessun altra zona sembrava in movimento.

Cominciò a capire che qualcosa non quadrava man mano che si avvicinava verso quel luogo.

Si inchinò all'altezza del primo cespuglio, avvicinando lentamente il volto alla zona incriminata , fino ad arrivare a sfiorare le foglie con il naso.

Fu proprio in quel momento che notò due inquietanti occhi gialli fissarlo in maniera famelica nell'oscurità

Saltò all'indietro con il cuore in gola, in apnea, sentendo le vie respiratorie quasi otturate.

Cominciò a muoversi lentamente all'indietro, passo dopo passo, senza attirare l'attenzione.

Però fece la mossa avventata di non guardare dove stata mettendo i piedi e si ritrovò a sbattere sonoramente contro un imponente albero, facendo cadere alcune foglie ed alcuni frutti.

Fu allora che il mostruoso animale che si era stagliato nell'ombra fino a quel momento balzò fuori dal suo nascondiglio, sollevando un leggero strato di polvere e terriccio, mostrandosi vivamente in tutta la sua minaccia.

Era un enorme e bellissima tigre dalle ampi fattezze, che presto cominciò a dirigersi verso di lui con passo determinato quanto elegante.

Il suo manto lucente risplendeva ancora di più alla luce artificiale dell'arena, di un colorito bianco candido alternato da delle grosse strisce nere ed arancioni, creando uno psichedelico gioco di colori e luci, e dando al tutto un atmosfera ancora più surreale.

Cominciò a muoversi con un estenuante calma, scrutandolo con quegli occhi felini pericolosamente criptici, muovendo le eleganti e morbide zampe una dopo l'altra, particolare che non sfuggì a Frank furono i lunghi artigli della bestia, oltre che gli affilatissimi canini, che lasciava intravedere l'animale dalla sua bocca semiaperta.

Frank a quel punto, realmente terrorizzato, fu talmente preso dal panico che senza pensarci due volte, fece la cosa più stupida che potesse fare in una situazione simile, ossia cominciò a correre. Venne subito seguito a ruota dalla tigre selvatica, che muoveva agilmente le zampe contro il terreno tenendo il muso leggermente sollevato, Frank poté quasi giurare di aver notato un espressione divertita nel suo volto, ma era a dir poco impossibile dal momento che era uno stupido felino, tra le altre cose sperò solamente di non star delirando per via di un insolazione.

A quel punto, comunque, il ragazzo non si poteva fermare, ormai il danno era fatto, poteva solo continuare la sua folle fuga assaporando prematuramente il sapore della morte ed ascoltando i cannoni che nella sua testa stavano già annunciando la sua dipartita.

Chi mai avrebbe potuto vincere quella folle corsa, l'imbranato e per niente agile Frank Zhang o la regina della giungla? Si domandò sarcasticamente dandosi mentalmente dell'idiota.

 

Nda: Dunque, nei capitoli che verranno riprenderò man mano i punti di vista dei tributi che son già stati presentati all'inizio della storia, introducendo, però, ogni tanto, qualche nuovo personaggio ( ovviamente appartenente alla prima o alla seconda saga di Percy Jackson).

Questo capitolo, più che altro, ha il “compito” di spiegare a grandi linee la caratterizzazione della parte bassa dell'isola, perché, come magari qualcuno avrà già notato, è totalmente diversa dalle parti nord-est e nord-ovest dell'arena.

Detto questo, Frank verrà mangiato dalla tigre o lo risparmierà ?

Chissà... alla prossima <3

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Capitolo 14
*** Cap. XIV - SALVATAGGIO ***


PIPER

 

Piper stava viaggiando imperterritamente dall'inizio di quell'afosa mattinata, con la sola compagnia del suo leggero zainetto in spalla e della fedele e rugginosa arma che portava stretta nel suo palmo sinistro, in mezzo alla paradisiaca vegetazione calda e colorata della parte bassa dell'arena.

Appena iniziati i giochi, lei, si era subito fiondata sulla pila di armamenti che gli strateghi avevano disposto sotto le grandi palme ed era riuscita a prendere un elegante ma arrugginito pugnale, oltre che la pratica sacca giallognola in cui aveva trovato le risorse necessarie di cibo per nutrirsi in quei due giorni e mezzo.

Fortunatamente al suo interno non aveva trovato bistecche o tipi di carni, bensì due barattoli di fagioli in scatola e quattro panini, essendo vegetariana non poteva chiedere di meglio.

Dopo esser riuscita ad acchiappare quelle due risorse fondamentali per la sopravvivenza, si era allontanata rapidamente da quella pila di oggetti che attirava gli altri tributi come lo facevano delle briciole sul pavimento per delle formiche, e si era buttata in mezzo a dei grandi ed imponenti alberi a pochi metri di distanza dalla piattaforma, in modo tale da riuscire a rimanere per tutto il tempo nascosta sotto gli occhi di tutti, nell'ombra delle palme.

Probabilmente se qualche giocatore avesse guardato attentamente in quella zona l'avrebbe notata nella sua posizione tattica, mentre stava rannicchiata strategicamente al suolo ed osservava seriamente la situazione, ma erano tutti troppo agitati e frettolosi di trovare riparo per stare a scrutare l'ambiente, e lei ne aveva intelligentemente approfittato.

Da quella poca distanza dalle piattaforme aveva avuto modo e tempo di aspettare ed assistere alla fuga di ognuno dei tributi in una parte diversa dell'isola, purtroppo dovette anche osservare la terribile morte del ragazzino del distretto 8 da parte di Clarisse, tanto in prima persona che successivamente a quel fatto per poco non si fece scoprire, ma fortunatamente riuscì a mantenere un contegno e sopratutto i conati di vomito per quando la piazza fu sgombera, il sangue le aveva sempre fatto una certa impressione di ribrezzo.

Comunque grazie a quella sua mossa da spettatrice silenziosa, la ragazza aveva più o meno appreso da che parti si erano diretti i partecipanti e notato che la maggior parte erano entranti o nei boschi di est oppure si erano diretti verso la steppa di ovest.

Solamente un tributo aveva intrapreso il suo cammino verso sud, arrischiandosi molto per via delle spalle scoperte che aveva lasciato tentando quella direzione, ma momentaneamente, ora che la piazza era sgombera lei non avrebbe più dovuto sottostare agli stessi rischi che aveva dovuto invece subir l'altro, così quella meta le sembrava la più sicura in cui dirigersi.

D'altronde, per la sua sicurezza, era stata per quasi due giorni nascosta vicino alle piattaforme, credendo che con i primi momenti di panico che si erano impossessati di chiunque là dentro il nuovo campo di battaglia, a nessuno sarebbe venuta in mente la stramba idea di dirigersi nuovamente verso la piazza dove tutto era cominciato, ma ormai era passato un po' di tempo e la natura umana era sempre imprevedibile, in più il cibo nello zainetto di Piper cominciava a scarseggiare e lei non poteva di certo nutrirsi d'aria, perciò s'incamminò consapevolmente e frettolosamente dove si era precedentemente diretto Frank.

Pian piano che si addentrava in quella zona poteva notare che le temperature si innalzavano sempre di più, raggiungendo un livello di afa veramente potente, ma per fortuna un afa non asciutta.

Continuò a proseguire tra le enormi foglie tropicali, spostando di tanto in tanto qualche rametto e facendo attenzione a non inciampare su dei rampicanti piuttosto che su dei tronchi d'albero spezzati, con il solo obbiettivo di trovar al più presto una fonte d'acqua.

Se in quelle condizioni in cui si ritrovava si voleva fermare per un lasso di tempo in un posto, qualunque tipo di posto, la prima cosa da fare era appunto assicurarsi che la meta fosse munita di acqua e siccome momentaneamente non ne vedeva all'orizzonte, ma notava l'umidità che rinfrescava e aleggiava nell'aria, decise di continuare a proseguire rettamente.

Piper sorprendentemente aveva la preziosissima dote di saper mantenere perennemente la calma, sopratutto se si trattava di situazioni di estrema paura, in quel caso, come per meccanismo di auto difesa personale il suo cervello respirava metaforicamente molto più buon ossigeno e razionalizzava tremendamente meglio.

Questo però non voleva di certo significare che lei non provasse timore, anzi lei in cuor suo era totalmente offuscata da questo sentimento, solamente che era abbastanza razionale da saper far passare queste emozioni in secondo piano per dar invece la priorità d'importanza alla condizione che garantiva la sopravvivenza.

Anche in quel momento temeva che una qualche bestia selvatica, lo stesso Frank o magari un tributo che si era lasciato sfuggire durante la sua analisi di osservazione spuntasse dal nulla e la uccidesse istantaneamente.

Anche se in verità, con quella piccola lama romboidale dal manico di legno estremamente lavorato a mano, che portava la scritta Katopris nel lato destro, si sentiva estremamente a suo agio.

Aveva trovato un bellissimo pugnale, fatto rigorosamente manualmente e con precisione, e lei che lavorava in una bottega di artigianato sapeva perfettamente di cosa stava parlando, ed era quindi sicura che fosse uno strumento estremamente maneggevole, di un peso adattissimo per lei e con una lama egregiamente affilata che non passava indifferente tra le altre che avevano disposto gli strateghi.

Eppure il problema si presentava quando le tornava in mente il fatto che quell'arma l'avrebbe dovuta puntare a degli innocenti, e lei non voleva tingersi di sangue rosso e sporco ne diventare un omicida, perciò preferiva stare molto attenta a non dover incontrar nessuno per non invischiarsi conseguentemente in combattimenti mortali.

Purtroppo però la sua speranza fu presto vanificata, in quanto cominciò presto a sentire degli innaturali e pesanti suoni provenire da una zona ad est dalla sua posizione.

Cautamente e senza far rumore alcuno si avvicinò a quella fonte sonora, che pareva racchiuder rumori di passi, molti passi, che probabilmente si ripetevano uno dopo l'altro durante una rapida corsa, mentre nel loro tragitto calpestavano pesantemente dei ramoscelli e delle foglie.

Poi finalmente riuscì a scorgere più o meno in lontananza Frank, il ragazzo del distretto 2, che arrancava disordinatamente tra le piante con un colore rossissimo in volto, munito solamente di una piccola e malandata lancia che sembrava non aver la minima intenzione di usare contro il suo assalitore, che era niente meno che una tigre selvatica.

La ragazza rimase estremamente interdetta sul da farsi, sapeva perfettamente che se non avesse mosso un dito probabilmente quel ragazzo avrebbe fatto la fine dello spuntino di pranzo per l'animale, ma sapeva che intervenendo avrebbe rischiato due volte di esser uccisa, o dall'animale o in seguito dal tributo.

Rimase per un po' a guardare meramente la scenetta, mordendosi le labbra e stropicciandosi le mani per il nervosismo, non sapendo esattamente cosa fare e fondamentalmente non sapendo se agire.

Quando però i due individui furono giunti proprio alla sua sinistra intenti ancora nella loro maratona disperata, partì un azione da parte della bestia che fece agire d'impulso la ragazza.

Piper vide, infatti, la tigre librarsi in volo con un agile salto felino con l'intento di atterrare e squartare quel poveretto con i suoi forti artigli neri, così la ragazza la smise di dar retta agli avvertimenti dei suoi neuroni ancora attivi e si gettò a sua volta addosso a Frank, cercando di precedere la tigre al fine di levarlo dalla sua pericolosa traiettoria.

La ragazza riuscì nel suo intento e sovrastò il corpo tremante e sudato di Frank con un volo, salvandogli la pelle, mentre la tigre si schiantò molto più avanti.

Il ragazzo la guardò con gli occhi spalancati, aprendo e chiudendo la bocca ripetutamente, quasi come se volesse dirle qualcosa ma senza più trovare la voce per parlare.

Poi Piper considerando non fondamentale al momento la ripresa dal trauma subito da parte del ragazzo, si rialzò in piedi in uno scatto, trovando di fronte a se la fantomatica tigre che piano piano stava tonando dalla zona in cui era atterrata con il suo salto, probabilmente incavolata nera con la ragazza dato che tecnicamente “le aveva rubato la preda”.

In quel momento il tempo si fermò ed intorno a Piper svanì tutto, il suo cervello proietto una zona interamente bianca, vuota, una frazione di spazio dove si trovavano solo lei e quel bellissimo quanto letale felino.

La posizione di Piper si manteneva rigida e determinata, nonostante tutto intorno a lei cominciasse a girare nella sua assenza, mentre l'animale continuava ad avvicinarsi cautamente cautamente.

Sentiva il pugnale fremere nella sua mano sinistra, probabilmente le sarebbe bastato un attimo per lanciarlo in aria e squarciare con una mossa la gola della bestia felina, ma non riusciva a farlo, infondo non voleva ucciderla.

Le due rimasero ferme a fissarsi negli occhi senza muoversi, loro nella testa della ragazza, che probabilmente cominciava a vaneggiare, erano le uniche cose immobili in tutto il mondo, anzi in tutto l'universo.

Negli occhi caleidoscopici di Piper si infrangevano in una lotta decine di tonalità di colori, mentre li teneva puntati tenacemente nelle iridi gialli simili a quelle di un rettile dell'individuo dinnanzi a lei.

I suoni erano vuoti tutt'intorno, le due continuavano a guardarsi senza rivolgersi una sola parola o per meglio dire nessun verso, ma nonostante ciò sembrava che le due si stessero capendo e stessero comunicando con ogni piccolo movimento nervoso dei muscoli.

L'arma che la ragazza teneva ancora salda al polso si faceva sempre più pesante e scomoda, così la lasciò cadere a terra, in preda solamente al suo istinto.

Poi, spezzò quella frazione d''attimo che somigliava tanto ad un ipnosi, con una banale frase che si sforzò ardentemente di riempire con tutti i suoi sentimenti travagliati: paura, determinazione, resa, amore, odio, dolcezza.

Una vera assurdità dal momento che tutto ciò che uscì dalla sua bocca fu uno scontato quanto semplice :-“Vattene, per favore, vattene via”.

Lo sfondo, gli odori ed i rumori cominciarono a riapparire intorno ai due corpi ancora immobili, spezzando quel momento così surrealistico.

La ragazza non riusciva a capire quelle azioni apparentemente casuali ed irrazionali dettate dal suo istinto, eppure era ben consapevole che in ogni scelta inconscia dell'uomo risiedeva in realtà la forza maggiore dei sentimenti, perciò era sicura che se solo avesse avuto il tempo di ragionarci attentamente avrebbe dato un senso a tutta quella serie di eventi

Frank fissava il tutto a bocca aperta, ancora troppo spaventato per muovere un solo muscolo.

“Ma che diavolo avrà intenzione di fare quella ragazza? Perché si è buttata addosso a me? Avrà avuto l'intenzione di salvarmi? Ma allora perché ha lasciato cader a terra il suo pugnale? E sopratutto perché adesso sta intrattenendo una conversazione con l'animale? Perché non prova ad ucciderla e basta?” si ripeteva sempre più stralunato.

Poi, finalmente, una delle due si mosse, e questa fu la tigre, che continuò ad avvicinarsi alla ragazza, che a sua volta non batté ciglio e rimase fissa nei suoi occhi.

L'animale proseguì cauto, ma dopo aver compiuto qualche timoroso passo il felino sollevò la testa, guardò un ultima volta le iridi piene di ambiguità di Piper e poi sorprendentemente fuggì di corsa in mezzo alla fitta vegetazione da cui era venuta, lasciando la ragazza ancora rigida e ferma al suo posto, con lo sguardo perso nell'orizzonte.

Piper non aveva ben chiaro il motivo per cui fosse ancora viva, pensava che magari quella tigre era comandata in qualche modo dagli strateghi che avevano deciso per qualche motivo a lei ancora ignoto di risparmiarla, ma in cuor suo sentiva che non era così, che c'era molto di più, ma non capiva cosa, per lo meno non ancora.

Sapeva solamente che in quell'istante ormai passato si era lasciata trasportare completamente dai sentimenti, aveva ignorato il suo cervello e la sua razionalità e si era semplicemente “librata nel vento ”, per quanto questa descrizione non ritrovasse riscontro narrata a parole, come non lo trovavano gli stati d'animo che le stavano otturando il cuore, senza provare timore ne nient'altro di superfluo.

Ripresa dai suoi pensieri si girò verso Frank che nel frattempo aveva stretto terribilmente le palpebre sicuramente in attesa che il peggio arrivasse, mentre continuava a tremare visibilmente, steso supino a terra.

La ragazza lo richiamò con un piccolo cenno e lui immediatamente aprì gli occhi sorpreso, guardò Piper e poi cominciò a scrutare l'ambiente circostante ripetutamente, probabilmente in cerca dell'animale, quando appurò che il pericolo era scomparso tornò a fissare ancora più stralunato la ragazza e infine svenne.

Piper emise un ridolino per la scenata a cui aveva appena assistito, da come la fissava quel tipo, sembrava che avesse visto praticamente un morto vivente, e in verità c'era andata vicina.

Cercò immediatamente di trascinarlo verso una zona riparata, mentre il suo corpo ora incosciente le faceva resistenza, ovviamente senza ne volerlo ne poterlo controllare, così robusto e teso ,stagliato ancora a terra, di schiena, con gli abiti tutti sporchi di polvere e fango.

Lei pensò mentalmente che da parte sua dovesse essere proprio un vizio quello di trovare in mezzo ai boschi individui privi di coscienza pronti per essere accuditi, questo pensiero la fece sorridere malgrado le circostante, perché le riportò ai ricordi il viso gentile e solenne di Reyna.

Una volta che si fu sistemata in un piccolo angolo ombrato situato in quella zona, con l'acqua che le era avanzata nella bottiglietta cominciò a tamponare la fronte ed il viso del ragazzo, cercando di far abbassare un po' la sua temperatura corporea che sembrava esser salita alle stelle.

Gli tolse la buccia di cocco che gli ricopriva la testa e risultava a dir poco incandescente e poi gli spettinò un po' i capelli che erano tutti appiccicati alla sua fronte, doveva far prendere un po' di buon ossigeno al cervello.

La ragazza nel vedere quel pezzo della noce di cocco situata in fronte come un casco, si sentì subito rincuorata in quanto realizzò che quindi in quelle zone si dovevano trovar dei frutti commestibili che sarebbe potuta andare a cercare dopo.

Eppure la ragazza nell'udire i suoni piuttosto chiassosi che provenivano dallo stomaco di Frank, mentre esso era ancora privo di conoscenza, poté giurare che probabilmente quel ragazzo non mangiava come si doveva da parecchio tempo, ed in effetti, notò che non aveva uno zaino con se, così tolse il proprio dalle spalle e cominciò a cercare un piccolo pezzo di pane duro che le era avanzato dal giorno prima, e che avrebbe presumibilmente donato al ragazzo una volta che fosse rinvenuto.

Lui non tardò molto per riprendersi e quando lo fece si svegliò con in viso un espressione indecifrabile

Cominciò ad osservare l'ambiente intorno a lui e vide che era appoggiato di schiena contro un albero, in una zona parzialmente al riparo, circondata da varie ed alte piante.

In testa non aveva più il suo casco naturale ma delle goccioline di acqua fresca gli bagnavano ancora la chioma spettinata.

Poi mettendo a fuoco realizzò la presenza che si trovava difronte a lui e per poco non lanciò un grido.

Quella stramba ragazza che l'aveva salvato, nella maniera più improbabile del mondo, da quello spiacevole incontro ravvicinato con un animale selvatico, si stagliava davanti a lui, in ginocchio mentre frugava con espressione corrucciata dentro il suo zainetto giallo.

Subito realizzò che doveva esser stata lei a trasportarlo in quel luogo riparato dopo che lui, a quanto pareva, aveva perso i sensi.

Notò anche che il suo pugnale era poggiato vicino alla sua lancia, in un luogo leggermente lontano da entrambi, contro un mezzo tronco d'albero.

Frank pensò che in quel momento se avesse voluto, siccome la ragazza non aveva ancora fatto caso alla sua ripresa, avrebbe potuto scattare verso una delle due lame e l'avrebbe potuta colpire di spalle, mettendola definitivamente fuori gioco, eppure non aveva la minima intenzione di farlo.

Quella ragazza l'aveva due volte salvato e lui le era veramente grato, in più se lei non l'aveva ancora fatto fuori quando non poteva reagire, voleva dire che non avrebbe di certo attentato alla sua vita in seguito.

Inoltre aveva il sentore di potersi fidare di Piper, sembrava così altruista e gentile, anche se quando si era messa a “sfidare” la tigre , perché secondo lui in un certo qual modo, quello che era avvenuto tra le due era stata come una sfida, una gara muta per stabilire la potenza e l'identità del predatore sulla preda, in quel momento, dovette ammettere, che la ragazzina gli aveva fatto molta paura.

Però in quell'istante, mentre si trovava difronte a lui, sembrava una persona completamente differente, un vero e proprio angioletto con tanto di ali bianche e dorate.

La diretta interessata, senza neppure girarsi per guardarlo in faccia, gli domandò semplicemente :-

“Guarda che lo so' che sei sveglio, fidati che me ne intendo di svenimenti. Piuttosto... perché non dici niente? Non avrai intenzione di uccidermi? O tanto meno di partecipare a questi stupidi giochi, spero.”

Frank sobbalzò sentendosi come colto in fallo e si affrettò subito a rispondere negativamente e ad assicurargli il suo ruolo di “amico” figurato su qui poteva riporre fiducia da quel momento in poi.

La ragazza allora, visibilmente sollevata, si girò con un grande e simmetrico sorriso sulle labbra, poi tolse lentamente la mano dalla sacca gialla.

“Perfetto, allora tieni questo pezzo di pane. Il tuo stomaco stava facendo i salti mortali poco fa' e a me è avanzata un po' di roba, perciò non fare complimenti e mangia”.

In quel momento, con la luce che filtrava sommessamente tra le foglie degli alti alberi ed illuminava il volto candido della ragazzina, creando quella che sembrava un aura celeste, mentre lei continuava allegramente a porgergli con il braccio sollevato, il rinsecchito pezzo di cibo a cui aveva intenzione di rinunciare per aiutare un povero morto di fame come lui, Frank trattene le lacrime a stento, datoo che gli sembrava di aver incontrato non un essere umano, ma bensì una specie di buona divinità mitologica.

Senza pensarci due volte si slanciò in un abbraccio di solidarietà, uno di quei segni d'affetto che compiono i bambini spaventati quando dopo essersi persi al supermercato finalmente trovano una figura che è loro amica.

“Quanto siamo espansivi!” lo riprese sogghignando la ragazza.

Lui subito si riprese visibilmente imbarazzato e abbassò il capo in segno di scuse. Poi tese frettolosamente la mano ancora sudata per il nervosismo, all'altezza del braccio della ragazza, con un aria seria e tenace in quel viso da bambino un po' cresciuto.

Inizialmente la ragazza non capì se stava reclamando il suo tozzo di pane od un patto di alleanza, ma optò per la seconda opzione dal momento che quell'espressione che le stava rivolgendo era veramente fin troppo decisa per il reclamo di un po' di cibo.

Entrambi dopo che si unirono con quel gesto, giovarono della nuova alleanza in quanto per lo meno non li avrebbe lasciati più soli e si sarebbero potuti proteggere a vicenda.

Subito dopo, misero apposto le poche cose che erano state sparse durante la loro permanenza sul suolo, come le armi o la bottiglietta d'acqua, e dopo di ciò si allontanarono contemporaneamente, come se in realtà fossero stati sincronizzati per tutto quel tempo, verso la parte più a nord dell'isola.

Nessuno dei due sapeva però, che due occhi umani, molto attenti e penetranti, li stavano seguendo con lo sguardo da un po' di tempo, una figura che si trovava in punto poco lontano dalla foresta incriminata era infatti piuttosto indecisa sul fatto di pedinarli o meno.

 

Nda: Bene, si è creata la prima alleanza!

So' che quest'abbinamento potrebbe sembrare un po' strambo ed improbabile, ma secondo me questi due personaggi hanno molti punti in comune, perciò ritengo che un patto tra loro potrebbe rivelarsi interessante.

Per quanto riguarda il comportamento assunto da Piper, si capiranno meglio le ragioni con il suo prossimo punto di vista ( che ovviamente arriverà tra un bel po').

Infine, chi sarà il guardone\a dell'ultima riga?

Volevo anche informare che dal prossimo aggiornamento, i capitoli diventeranno leggermente più lunghetti, ( niente di pauroso, spero), perciò se questo potrebbe recare del fastidio avvertitemi, che vedrò di moderarmi di più(?).

PS: Ultima cosa, se qualcuno è preoccupato per l'assenza di morti in questi ultimi punti di vista, stia tranquillo, dal prossimo riprenderò con gli omicidi. (muahahaha)

A lunedì. <3

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Capitolo 15
*** Cap. XV - PSICOPATIA ***


Vi avverto che in questo capitolo ci saranno delle scene esplicite di violenza fisica, quindi buona fortuna ai “deboli di stomaco”.

 

RACHEL

Rachel Elizabeth Dare era sempre stata una dolce, vivace e determinata ragazzina dalla folta chioma rossa, amante dell'arte quanto affascinata dal pericolo e dall'azione.

Nonostante ciò, nemmeno nei suoi incubi peggiori avrebbe mai desiderato di trovarsi in una situazione del genere, costretta e manovrata da degli stupidi capitolini, persone a lei del tutto estranee che nonostante questo osavano giocare con la sua vita e con quella di altre persone senza un minimo di rimorso, dando il via ad una cosa veramente infida e meschina chiamata Hunger Games.

In quel momento, mentre era costretta a vagare con il passo felpato ed il cuore tremolante nella semi oscurità della foresta, quasi fosse una ladra od un latente criminale, si sentiva come un indifeso animale rinchiuso in una gabbia, anzi in una trappola mortale.

Nei giorni precedenti si era spostata molto, con l'intento di evitare un qualsiasi tipo di incontro ravvicinato con atri tributi che magari per pura sfortuna avessero proprio pensato di dirigersi nei suoi stessi luoghi, e che una volta incrociata Rachel per il loro cammino, nella peggiore delle ipotesi, l'avrebbero fatta loro vittima mortale senza pietà.

Verso la mattinata del secondo giorno, le era addirittura parso di vedere due figure ergersi ad una certa distanza da lei, a quel punto senza nemmeno premurarsi di sapere chi fossero le presunte sagome, spinta dal panico, aveva messo frettolosamente in spalla il suo piccolo zainetto che un tempo era stato giallognola ma in quel momento aveva assunto un colore grigiastro per via dello sporco a cui era stato esposto, e poi era fuggita nell'alta steppa di estrema ovest, munita solamente di una lunga e resistente mazza di legno.

Infatti, l'unica arma di cui era riuscita ad appropriarsi la ragazza, era un pesante bastone dalle grosse fattezze, strumento con cui lei non si era per niente allenata durante le varie sezioni.

Eppure nella fretta dettata dal panico di quel primo momento di approdo in quei giochi infernali, si era accontentata del primo strumento difensivo trovato sotto mano e si era dunque dileguata rapidamente dalla piattaforma, spostandosi da quel momento, di posto in posto.

Comunque nonostante la ragazza da quando erano iniziati gli Hunger Games non era stata un attimo ferma, i luoghi in cui era passata non si erano mai trovati eccessivamente distanti fra loro, ma anzi erano tutti compresi tra i boschi di estremo ovest ed est, anche se la ragazza cercò ampiamente di evitare i luoghi posti a sinistra dell'arena, in quanto constatò che le temperature una volta che ci si inoltrava completamente scendevano vertiginosamente, e per lei non era certo il caso di ammalarsi per colpa del freddo in delle circostanze simile, con ogni probabilità in quest'evenienza sarebbe morta per qualche malattia all'apparenza innocua, quale la febbre.

Un altro motivo che la spingeva a spostarsi era lo scarseggiare del cibo.

Di certo, in quei giorni che erano passati, lei non aveva avuto la possibilità di cacciare, sebbene fosse più che cosciente della discreta quantità di bestiame selvatico che affollava l'arena.

Le era infatti capitato di udire da vari punti del campo dei versi animali molto differenti, dall'invitante squittio degli scoiattoli, al temibile ululato animalesco, che con ogni probabilità proveniva da qualche lupo, se non peggio da qualche mostruoso ibrido proveniente dalla capitale, in entrambi i casi la ragazza, saggiamente, non aveva potuto far altro che ignorare il tutto e tenersi alla larga.

I motivi che la vincolavano dal cacciare erano, prima di tutto la sua inesperienza in questo campo, non voleva tentare mosse avventate con delle creature che probabilmente non sarebbe stata in grado di controllare, ma un altro importantissimo vincolo era dettato dalla sua incapacità di utilizzare l'arma che si era ritrovata, che per la sua fisicità poco muscolosa risultava eccessivamente pesante e scomoda, con ogni probabilità in un qualsiasi tipo di combattimento diretto avrebbe avuto maggiori possibilità di cavarsela usando solamente le mani, e considerando la sua inesperienza nel corpo a corpo, quest'affermazione non palesava per niente un buon segno.

Ciò costituiva un altro dei motivi per cui, in quel particolare momento, la cosa che più desiderasse ottenere Rachel fosse un alleato.

Infatti la ragazza, per eccessivo timore degli altri partecipanti, non aveva stabilito alcun tipo di patto durante le sessioni di allenamento, perciò in quel momento aveva da considerare come nemico tutti coloro che partecipavano a quei giochi.

Nonostante la sua mancanza di promesse scritte, lei avrebbe voluto comunque, almeno provare a spezzare quel muro costituito da dubbio e paura, e andare a cercarsi un amicizia. Però, malgrado la sua buona volontà, nel momento decisivo, in cui finalmente vedeva arrivare delle persone, che magari le erano parse potenzialmente benevole, ne era un esempio Percy Jackson, ragazzo che lei aveva da subito preso in simpatia, veniva però paralizzata da un immenso terrore e finiva puntualmente per fuggire senza tentare alcun approccio.

In quei giorni aveva avuto la grande fortuna di trovare frutti commestibili con cui sfamarsi, non aveva incrociato animali o tributi con cui scontrarsi, e non aveva riscontrato eccessivi problemi di malattia o fattori esterni, a parte uno stupido quanto leggero raffreddore che però le era già passato, ma era consapevole che questa sorte ottimista non sarebbe durata per sempre, ed a quel punto niente sarebbe più sembrato così risolvibile o facile.

Tra l'altro, prima di tutto, il sonno cominciava a fare pressione sulle sue forze, dall'inizio di quell'incubo era riuscita a dormire si e no qualche oretta, senza mai riuscire a sprofondare in un sonno profondo e proficuo che le facesse recuperare tutte le energie. Questo perché temeva che nel preciso momento in cui si fosse distratta ed avesse abbassato l'attenti, un pericolo inaspettato trovandola indifesa ne avrebbe approfittato sopraffacendola .

Se avesse avuto un alleato, era certa che questo non sarebbe successo, avrebbero potuto fare i turni a vicenda in modo tale da permettere il mantenersi in forma di entrambi e in sicurezza, avrebbero potuto aiutarsi nello scovare il cibo, lei magari, dato che era più esperta per quanto riguardava la vegetazione avrebbe potuto ricavare delle verdure commestibili, mentre il suo compagno avrebbe pensato alla carne, e come se non bastasse per quanto riguardava le lotte, avrebbero entrambi avuto le spalle coperte, potendosi aiutare.

Tutti questi fattori la spingevano a credere che quella sarebbe stata la soluzione migliore, eppure il suo fidato istinto la bloccava, quasi come se volesse salvaguardarla da una minaccia maggiore.

Nel frattempo in cui rimuginava sul da farsi, era ormai giunta la notte tarda, ovviamente non aveva modo di precisarne l'orario, dal momento che era da un paio di giorni che non toccava un orologio ed il suo senso di percezione temporale andava via via scemandosi, ma comunque dal colore blu profondo che rifletteva il cielo in quell'istante poteva essere quasi sicura che l'alba non era vicina all'arrivare.

Rachel aveva deciso di muoversi di notte, in quanto, seppur potesse apparire una scelta potenzialmente più rischiosa agli occhi di qualcuno, secondo lei era perfetta per cercarsi un riparo senza farsi beccare, sfruttando il potere a doppio taglio che poteva riservare il buio.

Una delle maggiori doti che Rachel aveva sempre nutrito, era proprio quella dell'intuito assoluto.

Essa infatti inspiegabilmente riusciva sempre a prevedere la maggior parte delle situazioni, riuscendo così ad evitare conseguenze spiacevoli a favore, invece, sempre delle scelte migliori, ed era anche conscia che nell'arena quest'indole sarebbe stata veramente di fondamentale aiuto per la sua salvezza.

In quella fredda serata sentiva di poter tentare un avanscoperta, anche se inspiegabilmente la sua determinazione in quella scelta era leggermente vacillata, come se qualcosa offuscasse il giudizio generalmente cristallino della sua mente.

Comunque lei non ci fece caso e continuò a camminare tra i rinsecchiti tronchi di quercia, che riuscivano a creare inquietanti ombre di mani ed artigli, nel polveroso quanto secco terriccio del campo.

A causa del buio pesto che aleggiava momentaneamente, per quanto Rachel si sforzasse di rimirarsi attentamente, riusciva a scorgere, guidata dalla mera e vacua luce lunare che risplendeva timidamente nella sua artificialità, solamente delle sagome indistinte, alcune magari riguardavano l'ambiente, come qualche cespuglio o albero, mentre dietro altre si nascondeva la presenza di qualche gufo, riconoscibile solamente per il suono del suo svolazzare e per il verso ripetitivo che emanava mentre stava nascosto nei suoi comodi rifugi naturali.

Ogni tanto si udiva anche il richiamo di qualche animale o il ticchettare di qualche insetto, per il resto c'era un silenzio quasi perfetto, tanto che Rachel doveva stare estremamente attenta a non calpestare erroneamente qualche rametto o ad inciampare rumorosamente a causa di qualche sassolino, per non attirare l'attenzione degli animali che si potevano, eventualmente, celare nell'ombra, potenzialmente anche animali di carattere umano.

Comunque la ragazza, anche se in quel momento per colpa del suo nervosismo e dei rumori fievoli della notte non riusciva a udirlo, era sicura che in quelle zone si stagliasse un laghetto, ossia la meta della sua camminata. Le pareva di aver sentito quel leggero sibilare strascicato tipico dei ruscelli, ed in più il suo istinto profetizzava concretamente la sua presenza, e lei aveva bisogno di crederci, in quanto l'acqua delle sue bottigliette era ormai terminata e la sete stesse incominciando ad impossessarsi del suo spirito.

In più, una volta trovata la sua ampia risorsa liquida, Rachel, ne avrebbe usufruito per mettere in atto l'altro grande talento che le rimaneva, ossia la pittura, o meglio la mimetizzazione.

Però in quell'istante, presa dalle sue aspirazioni future, talmente stanca e timorosa nel giungere rapidamente alla fatidica meta, non si accorse di una piccola corda posizionata circolarmente a poca distanza dai suoi piedi, una corda legata con un contro peso al tronco maggiore dell'albero più grande, che si stagliava prepotente in quelle vicinanze, e si imbatté dunque in un indiscreta quanto elementare trappola a grandezza di preda umana, che si trovava lascivamente al suolo.

Le sue caviglie entrarono ignaramente in quel fatidico cerchio maledetto, stringendosi istantaneamente in una solida presa e sollevandosi verso l'alto.

Presa alla sprovvista si lasciò sfuggire un gridolino di sorpresa, oltre che essersi lasciata scivolare da mano la sua preziosa quanto inutile arma ed il suo fondamentale zainetto, che adesso si riversavano nel suolo.

Presto si ritrovò distesa con la testa sottosopra ed i piedi legati ad un alto e secco ramoscello, tenuta solamente dalle articolazioni inferiori, con una stretta corda sfilacciata.

Rachel come prima reazione tentò di liberarsi dimenandosi, ma successivamente, ripensandoci si rese conto di non esser esattamente a conoscenza della sua di distanza dal suolo, irriconoscibile in quella fitta oscurità, e volendo evitare di ritrovarsi a terra ma con la testa spaccata come un cocomero, decise di restare immobile. Sicuramente se nella trappola fosse caduta una preda più pesante, come per esempio Frank, il filo avrebbe prontamente ceduto.

Rachel passò quegli istanti nel terrore, per un momento gli balenò addirittura l'idea di gridare aiuto, ma fortunatamente, o sfortunatamente, presto le sue orecchie, che ribollivano del sangue che piano piano calava verso la sua testa, cominciarono ad avvertire dei piccoli passi.

Ben presto la slanciata figura di un ragazzo si palesò difronte agli occhioni verdi e straniti di Rachel che cercava in maniera concentrata di riconoscerne il volto, seppur la sua posizione scomoda sommata alla bassa luminosità ed alla lontananza dell'individuo gli impedisse di distinguere il tributo.

Presto, quest'ultimo, come se volesse accontentare la sua richiesta, si avvicinò rapidamente a lei, per poi inginocchiarsi leggermente fino a raggiungere l'altezza della sua figura appesa, a qualche centimetro di distanza dal volto di Rachel, che ormai respirava affannosamente per la paura.

Il ragazzo in questione era Ethan, Ethan Nakamura, il ragazzo del distretto sette.

Teneva il suo scarno viso vicinissimo a quello di Rachel, che subito venne ipnotizzata dagli occhi affilati e scuri dell'individuo, le sue iridi sembravano ribollire di sarcasmo e spietatezza, un miscuglio per niente rincuorante per la posizione inerme della rossa.

I capelli corvini del ragazzo erano arruffati scompostamente sulla sua nuca, tanto che la ragazza presuppose che Ethan prima del suo incontro stesse riposando.

Il particolare più inquietante di quella prepotente figura che si stagliava possentemente dinnanzi a lei era l'ampio sorriso dalla dentatura bianchissima ed immacolata che in quel momento di alta tensione lui stava riservando ad una ragazza sempre più terrorizzata.

Presto, Nakamura, estrasse una lunga ed affilata spada, probabilmente una katana giapponese costruita a mano, dalla tasca della cintura che si ritrovava nel retro dei suoi pantaloni.

Si liberò con una mossa dell'elegante fodero color cenere, per mostrare la lucentezza immacolata della sua lama verso il cielo ombroso.

Avvicinò quell'oggetto mortale al viso rosato ed innocente della ragazza che fissava il tutto sempre più tremolante, poi, cominciò ad accarezzarle leggermente la faccia con la punta della spada, lesionandole superficialmente il viso con dei taglietti. Poi con una voce spezzata quanto profonda domandò al “ suo animale in trappola”:-

Mi pare che il tuo nome fosse Rachel, vero? Sì, sei l'adorabile ragazzina dalle mille lentiggini del distretto 10, o sbaglio? E sentiamo, cosa ci facevi a girare n queste zone nel cuore della notte?

Stai cercando qualcosa o qualcuno?”.

Rachel sentendo la pressione dell'affilatissima arma che continuava a premere nel suo viso arrossato, ormai costellato da goccioline di sangue, cercò di rispondere mantenendo la tonalità della sua voce immobile, con il solo risultato di farla tremare ancora di più e farsi così apparire ancora più debole di quanto già non risultasse:- “Qua vicino si trova un ruscello, ho terminato l'acqua nel mio zaino e stavo cercando una fonte con cui abbeverarmi.” terminò con quasi le lacrime agli occhi, consapevole della sua fine vicina.

Il ragazzo però, apprese quelle parole, si fece interdetto e sembrò perdere il suo sguardo divertito.

Poi inaspettatamente sollevò agilmente la spada, Rachel strinse rapidamente gli occhi, aspettandosi il peggio, ma si ritrovò rapidamente catapultata al suolo, con le caviglie e la testa ancora doloranti.

Subito sgranò gli occhi incredula:- “Cosa sta succedendo, perché mi hai liberata? Tu...Tu non volevi uccidermi?”- chiese massaggiando nervosamente la chioma riccioluta.

Ethan a quella domanda si fece improvvisamente immobile, poi assunse un aria ferita, quasi disprezzante e con fare suadente pronunciò:- “Farti fuori adesso? Non se ne parla. Quando ti ho puntato contro la mia katana l'ho fatto solo ed esclusivamente perché pensavo che tu, insieme agli ipotetici complici che pensavo tu avessi, mi stesse tendendo per primi un imboscata.

Sai, è da quando ho iniziato questo stupido gioco che mi sento pedinato, perciò scusa per come ti ho trattato, ero convinto di aver acciuffato colui che stava attentando da parecchio tempo alla mia vita, ma se davvero tu non hai alleati, allora è impossibile che quella persona sia tu, i miei inseguitori sono almeno in due.” affermò con un tono estremamente sincero e malinconico, Rachel si dimenticò completamente quell'espressione sadica che aveva avuto il suo viso qualche attimo prima ed accettò presto la presa della mano del ragazzo, che la invitava ad alzarsi.

Rachel rimase ancora in silenzio, scrutandolo attentamente, e non riuscendo a trarre una conclusione effettiva su di lui.

Presto il ragazzo rinfoderò la sua spada e la ripose nuovamente nella tasca del suo cinturone marroncino, gesto molto significativo secondo lei, la quale davanti al suo comportamento docile cominciò a credere seriamente alle sue parole, anche se non completamente, infatti si inginocchiò furtivamente, mentre il ragazzo le dava le spalle e fissava con espressione rammaricata la luna, e afferrò la mazza che si stagliava ancora ai piedi dell'albero, quasi mimetizzata, riponendola rapidamente ed a sua volta nel tascone esterno della divisa.

Il ragazzo si voltò rapidamente, non facendo però in tempo a notare l'atto di Rachel che nascondeva la sua arma, e continuò a parlare fissandola dritta negli occhi ormai seri:-

“Rachel, stavo pensando, che sono veramente stanco. Non riesco più a dormire perché ho paura, non riesco più a far niente, credo di star diventando paranoico. Ho bisogno di un alleato, da solo penso che potrei impazzire seriamente. Quindi mi chiedevo... premetto che so' che è una richiesta stupida dopo quello che è appena accaduto, ma io tento comunque, dunque: vuoi creare un patto con me, da questo momento?”-.

Rachel spalancò la bocca sorpresa, ora non dubitava più della veridicità delle sue parole, parole che in quel momento le avevano riempito il cuore, era sicura che quella fosse in assoluto la proposta migliore che le avessero fatto dal giorno in cui era nata, nemmeno una richiesta di matrimonio l'avrebbe mai fatta così felice. Un alleato era proprio quello di cui aveva bisogno, ed avere quel robusto ed agile compagno sarebbe stata una manna del cielo.

Subito gli offrì la mano, cercando di mantenere il suo entusiasmo, lui presto gliela strinse, sciogliendosi in un sorriso docile, ed ecco che un altro patto di alleanza era stato dunque consolidato.

Subito dopo i due cominciarono a spostarsi verso la meta da cui era stata prima puntata da Rachel, ossia il ruscello. Evidentemente anche il ragazzo temeva per le sue scarseggianti risorse di quell'elemento ed in più entrambi constatarono che sarebbe stato meglio spostarsi a prescindere, dal luogo in cui era avvenuto il loro incontro, prevalentemente per paura che qualche essere, umano e non, attirato da quei suoni potesse rintracciarli, ed in più vigeva la presente minaccia dei fatidici assalitori di Ethan, sempre che il ragazzo non se lo fosse immaginato nella paranoia.

Camminarono per diverso tempo, Rachel in testa con Nakamura che la seguiva a qualche metro di distanza, assumendo un atteggiamento enigmatico quanto spaventato.

Poi, proprio quando il ragazzo cominciava a spazientirsi, entrambi riuscirono a scorgere il lago, un piccolo e fangoso ruscello che proseguiva verticalmente nel suolo, per diversi metri.

Con il buio non si poteva analizzare bene, bensì era indiscutibile che quell'elemento fosse naturale e che quindi l'acqua fosse potabile.

Subito Rachel si fiondò su un bordo del laghetto ed inchinandosi mise le mani a coppa e cominciò a dissetarsi ferocemente, gocciolandosi anche la tuta ed i capelli.

Constatando l'insapore limpido e per niente rischioso di quella fonte chiamò a bassa voce il suo compagno, che a quanto pareva continuava a restare a qualche metro di distanza da lei.

Esso però non rispose, allora lei si voltò insospettita ma, stranamente, non riuscì a scorgerlo.

Solo allora, come colpita da una scossa invisibile si alzò rapidamente da quella sua posizione, guardandosi intorno con preoccupazione. Ethan sembrava sparito, ma com'era possibile? Fino a qualche istante prima era rimasto vicino a lei...

Fu a quel punto che Rachel realizzò il tradimento che la stava aspettando, ed allora subito tastò le sue tasche in cerca del suo maledetto bastone, ma le sue previsioni avvennero troppo tardi, una fitta lama ferrea perforò la sua spalla, prendendola alla sprovvista, di schiena e trapassandola con uno scatto.

Subito la ragazza si voltò con un espressione di terrore dipinta sulla faccia, e provò a combattere, sollevando quella pesantissima quanto inadatta arma a mezz'aria, sferrando un potentissimo colpo all'altezza dell'occhio sinistro del ragazzo che l'aveva imbrogliata e che ora la fissava con uno sguardo folle.

Appena gli arrivò la bastonata nell'occhio, l'individuo, emise un ringhio strozzato, quella ferita cominciò presto a sanguinare e pulsare, facendo cadere grossi grumi di sangue sul terreno roccioso.

In quel momento il ragazzo, mentre scorse il riflesso del suo volto ormai sfregiato da un orribile taglio che si riversava per la lunghezza di tutto il suo occhio, nelle acque tranquille del ruscello, in quella notte sbiadita dall'inganno, perse completamente le ragione. Una rabbia folle si impossessò di lui, che prese rapidamente a pugnalare agilmente e ripetutamente il petto della povera Rachel, che aveva provato a sferrare un altro colpo, ma questa volta era stata troppo lenta e si era ritrovata bloccata dal corpo di Ethan che in quel momento le aveva inflitto le pene più atroci.

La ragazza vedeva la spada scagliarsi contro il suo corpo senza avere più nemmeno la facoltà di pensiero, il suo cervello stava patendo un dolore immane, in quel momento non desiderava altro che morire, ma Ethan si ostinava a non colpire appositamente gli organi vitali, in modo tale da farle perire il doppio.

Presto il suo corpo cadde a terra inerme, mentre il ragazzo con un espressione da psicopatico, continuava a perforare ripetutamente quel petto con la lama, lasciandosi andare piano piano e cominciando a bucare anche tutti gli organi interni e facendo intravedere le budella di quel povero cadavere, macchiandosi ulteriormente le mani ed il viso di sangue.

L'ultimo respiro della ragazza fu il più sofferto, tentò di aspirare un minimo d'aria in preda alla morte, ma i suoi polmoni ormai spappolati dai fori riversarono solo della mesta materia interna, facendola rantolare scoordinatamente per poi finalmente cedere al suolo.

Quando la sua ira si estinse, il corpo della povera Rachel era stato totalmente martoriato ed ora come ora appariva come un quadro di Picasso.

L'ultimo pensiero della ragazza fu quello rivolto alla sua impotenza. Rachel aveva avuto una vita d'obblighi e costrizioni, i suoi genitori erano due pezzi importanti del distretto 10 e l'avevano sempre manovrata e in ogni sua scelta. Per quanto lei tentasse di ribellarsi, riuscivano sempre a farle fare quello che volevano loro, a partire dall'iscrizione in un collegio privato di Capitol City.

Purtroppo nemmeno nel momento della sua morte la rossa era riuscita a ribellarsi, era stato inutile, per quanto nella sua vita avesse provato a reagire prontamente alle sfide, le sue azioni non erano mai state abbastanza, così se ne sarebbe andata con una fine misera e da vera stupida, una stupida accecata dal grande male rappresentato dalla fiducia.

Ethan estrasse la spada dalla massa bucherellata che un tempo aveva costituito la la ragazzina e presto la immerse nella candida acqua del laghetto, tingendola di un rosso scarlatto. Poi si sciacquò il viso, con l'occhio ancora ferito... Decise che più tardi avrebbe tentato una medicazione con delle foglie e si sarebbe accertato quanto riuscisse a mantenere la vista da quell'organo, che momentaneamente era fin troppo gonfio per essere anche solo aperto.

Ringraziò mentalmente la defunta, l'aveva usata unicamente per scovare quel prezioso laghetto, infatti era da circa un giorno che si era ritrovato a secco dall'acqua e questa cosa cominciava a scocciarlo.

Rivolse il suo sguardo a Rachel e poi alla luna, mentre il suo solito ghigno da folle gli incurvava le labbra. Era totalmente compiaciuto dalle sue doti recitative, davvero aveva creduto che lui fosse inseguito da chissà chi?

Comunque allo stesso tempo era molto deluso da quella ragazzina che aveva ucciso.

Era stata una preda troppo facile per i suoi gusti, era morta troppo in fretta e lui voleva dei finali più epici, lui voleva divertirsi sul serio.

Con gli occhi trepidanti di eccitazione ed entusiasmo puntò la sua spada verso il cielo.

In quel momento capì finalmente che lui voleva solo lei, aveva necessità di sfidare quella ragazza in particolare, voleva ucciderla con le sue stesse mani, voleva tingere la sua katana con il marchio della sua vita strappata, era accertato che ormai Nakamura avesse perso la ragione, anche se non del tutto, rendendolo maggiormente pericoloso.

A lui non importava più niente dei giochi o tanto meno della sopravvivenza, l'unica cosa che lui desiderava era uccidere, ma non voleva una preda monotona e semplice, no, lui voleva qualcosa di più, ambiva alla regina del combattimento, lui voleva la testa di Clarisse La Rue.

 

Nda: Heylà!

Mi scuso per i dettagli descritti nelle scene di morte, in teoria avrei intenzione di inserire questa specie di vena un po' più “sanguinolenta” ( bah, ho letto molto peggio) anche nei prossimi capitoli ( non in tutti, s'intende), ma se nel caso a qualcuno dovesse dar fastidio mi avverta che proverò ad auto-censurarmi un pochetto.

Detto questo, so' che il personaggio di Ethan fin ora non sembra minimamente quello descritto dallo zio Rick, ( che tra l'altro io adoravo anche se era nei “cattivi” della saga), ma nel suo punto di vista racconterò meglio la sua storia passata e beh, momentaneamente è impazzito per colpa della pressione, perciò ci sarà una specie di serial killer intenzionale che si aggirerà per l'arena in cerca della povera Clarisse, scatenando il panico.

Perché tutto a lei? XD

Che aggiungere? Povera R.E.D. ed al prossimo capitolo. <3

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Capitolo 16
*** Cap. XVI - AMORE FRATERNO ***


HAZEL

Hazel Levesque si svegliò di soprassalto dal suo breve e tormentato sonno, in seguito ad un sordo quanto potente sparo, che con ogni probabilità annunciava la decaduta di uno dei partecipanti che si trovavano nell'arena insieme a lei, non poteva però sapere con precisione che il tributo in questione era Rachel Dare che a poca distanza dalla sua postazione era appena stata uccisa brutalmente dall'ormai folle Nakamura.

Stringendosi nervosamente le braccia in quello che aveva sempre definito un atto impulsivo da stress, molto simile ad un tic nervoso, si rese conto che al suo risveglio era stata accompagnata da una visibile pelle d'oca, dovuta forse più alla paura che le attanagliava i cinque sensi, che alla lampante motivazione che riguardava il freddo gelido da cui era circondato il luogo ove si era fermata per riposare.

Si ritrovò a fissare con sguardo attento l'ambiente che si espandeva dinnanzi a lei, soffermandosi sull'accumulo di risorse che si era procurata durante le giornate precedenti, che giacevano, a poca di stanza dal suo corpo, in maniera abbastanza composta, poggiati ai piedi di un mezzo tronco dall'ampia stazza ed i colori opachi.

Appena i giochi iniziarono, Hazel, per prima cosa si era infatti affrettata a recuperare frettolosamente due zainetti verdognoli dall'enorme pila di scorte che si trovava all'ombra delle grandi palme di est.

Fatto ciò aveva anche afferrato rapidamente quello che ora era il suo piccolo, vecchio e arrugginito, seppur comunque funzionante, pugnale, e si era addentrata di getto nei boschi, con il cuore in gola, alla ricerca sfrenata del suo fidato compagno di distretto.

Hazel sorprendentemente, in quella prima giornata di torture, riuscì quasi subito ad individuarlo, guidata dall'ambiguo legame di empatia che era sempre riuscito, anche nel distretto, a guidarla precisamente da quel soggetto tenebroso; Anche se la ragazza dovette ammettere almeno a se stessa che forse, in quel frangente, riuscì a raggiungerlo solo ed esclusivamente grazie alla situazione che aveva scaturito un naturale senso d'orientamento, dettato dall'enorme paura a cui era stata esposta, dato che quella volta più di tutte Hazel si era ritrovata a riconoscere quanto fossero eccezionali le doti di mimetizzazione e fuga di Nico.

Comunque, dopo averlo pregato in ventimila lingue differenti, finalmente la ragazza riuscì a convincerlo del fatto che per loro sarebbe stato meglio rimanere uniti, anche se lui inizialmente era estremamente contrariato a quest'ipotetico avvicinamento, e neppure dopo il lungo e dettagliato discorso che gli propinò la ragazza successivamente, in quella serata stessa, non sembrò effettivamente molto convinto.

Così lei giunse alla conclusione che, quello strambo capellone vestito perennemente di nero, stesse cercando in tutti i modi di proteggerla, proponendo una loro divisione.

In effetti non le ci volle molto a realizzarlo dal momento che era già consapevole di quanto bassa fosse l'autostima del ragazzo ed era dunque sicura dal principio che lui si considerasse un mero peso per una qualunque possibile alleanza, d'altronde credeva che fosse stato questo il motivo portante che l'aveva spinto a declinare istantaneamente anche la sincera proposta di Solace.

Hazel però, era sicura che lui si sbagliasse, e con il tentativo di farli ricongiungere mirava allo stesso risultato del ragazzo, ossia una maggiore probabilità di sicurezza per entrambi.

Ormai anche i giocatori biondi di football dei film horror avevano appreso che era meglio non separarsi dal gruppo se si voleva avere una qualche possibilità di rimanere vivi, eppure quel ragazzo era troppo cocciuto e pessimista per realizzare la situazione in maniera così realistica ed effettiva.

In quell'istante, Hazel lo fissava con i grandi occhi ambrati semiaperti, mentre era ancora stagliata contro un albero dalla consistenza sgretolante, e squadrava la magra figura scura del ragazzo in questione, mentre era voltata di spalle, intenta a fissare con occhi stanchi quanto vigili l'orizzonte, mantenendo attivo il suo turno di guardia.

Il panorama era estremamente tetro, gli alberi si ergevano imponenti ed insistenti, e nell'oscurità notturna, le loro ramificazioni sembravano dei prepotenti artigli felini.

Tutto era estremamente secco e privo di vitalità, quella larga distesa pareva una natura morta, dove non si riusciva ad intravedere nemmeno una minima tonalità di verde, ma solo un cupo marrone misto al grigio.

Il panorama si poteva considerare, dai colori e dall'atmosfera, appartenente alla fascia autunnale, con la sola aggiunta dell'insopportabile vento ghiacciante che tirava prepotentemente nell'aria, tipicamente invernale, tanto che la ragazza temeva che da un momento all'altro dal cielo cominciasse a nevicare.

Hazel si schiarì la voce per attirare l'attenzione del compagno, che ancora preciso nei suoi movimenti si guardava attorno, seppur con fare assonnato, rigirandosi in mano la torcia elettrica, momentaneamente spenta, che avevano trovato in uno dei due borsoni acciuffati dalla ragazza intorno alle piattaforme.

Levesque, nel tentativo di richiamare la sua attenzione, finse qualche colpo di tosse, cercando di non far comunque troppo rumore.

Nico se ne accorse subito e si girò di scatto, osservandola a sua volta con dei profondi abissi di cenere,e poi dopo qualche attimo di tentennamento schiarì a sua volta le corde vocali e domandò con la voce rotta dalla stanchezza:-“ Ehi, Haz, perché ti sei svegliata? Qualcosa non va? Se è per il turno di veglia non ti preoccupare, tocca ancora a me e posso resistere per molto altro tempo, non sono per niente stanco.” concluse in un affermazione fasulla, smentita da quegli enormi borsoni violacei che si ritrovava sotto gli occhi, e come se non bastassero da un'aria che non avrebbe potuto convincere nemmeno il più fesso dei capitolini in ascolto.

Hazel lo raggiunse gattonando in mezzo ai sassolini ed alle foglie rinsecchite, poi una volta che raggiunse la sua altezza gli stropicciò i capelli con fare canzonatorio, notando il grande disappunto del ragazzo che si ritrasse restio dal suo tocco e schioccò la lingua, fingendosi irritato.

“Senti un po', re degli spettri, guarda che so' per certo che il tuo turno per questa notte è finito da parecchio tempo. Piuttosto, perché non mi hai svegliato? Tra l'altro hai una stanchezza nello sguardo che farebbe invidia a quella di uno zombie, quindi adesso fila a dormire e non fare come al solito gli straordinari.” sentenziò divertita Hazel, rannicchiandosi maggiormente contro la sagoma scura di quell'imprevedibile ragazzo, che in quel momento incrociava solidamente le braccia al petto, leggermente imbarazzato.

Hazel continuò ad osservarlo minuziosamente per alcuni dei minuti che seguirono, come incantata, poi riprendendosi, notò come anche il gracile corpo del suo alleato tremasse involontariamente ed impercettibilmente per via di quel maledetto quanto gelante vento, che muoveva coinvolgente i sassolini ed i residui del terriccio, generando tra le altre cose un enorme quantità di polvere e foschia, che ostruiva ulteriormente la visuale dalla loro guardia.

La ragazza circondò il corpo di Nico con il braccio sinistro, in una specie di abbraccio, con il tentativo di trasmettergli un po' di calore.

Lui inizialmente si lamentò come al suo solito, sostenendo di essere altamente contrario al contatto fisico, poi però, sotto una quasi supplica della ragazza, che sosteneva fermamente di star morendo di freddo, le venne incontro.

Il ragazzo rassicurato da quel morbido contatto si fece sempre più rilassato, finché le sue palpebre cominciarono a farsi eccessivamente pesanti ed il suo corpo diventò rigido come il cemento.

Così, prima che Nico se ne potesse accorgere si ritrovò sdraiato lascivamente al suolo, con la testa appoggiata sulle gambe dell'amica, intento a sonnecchiare beatamente, ignorando tutta la paura di quella situazione, resa peggiore dagli ululati sinistri che i lupi continuavano a lanciare in lontananza.

Hazel sorrise amaramente nel notare come il viso del suo compagno diventasse più genuino e rilassato durante il sonno, tanto da farlo sembrare quasi un comune quattordicenne senza alcuna preoccupazione.

In realtà lei era perfettamente a conoscenza del dolore e del tormento che aveva dovuto sopportare Di Angelo durante tutta la sua vita.

Lei non poteva compatire nessuno, dal momento che a sua volta era sempre stata una bambina sola e senza amici ne punti di riferimento, insomma, una vera emarginata, eppure il suo spirito era sempre rimasto vivace e niente era mai riuscito ad abbatterla, la sua forza d'animo l'aveva aiutata sempre a superare tutto.

Molti la vedevano un po' come se fosse un angelo bianco in mezzo all'oscurità, che nonostante una condizione sfavorevole la circondasse perennemente, non lasciasse mai scalfire la sua indole gentile.

Nico invece era esattamente l'opposto, lui purtroppo era oramai un angelo nero, corrotto dall'oscurità, eppure Hazel intorno alla sua aura scura riusciva a scorgere la luce di un sole, la luce di un appiglio di speranza, ed era dunque convinta che il ragazzo con il dovuto aiuto sarebbe riuscito ad evadere dalla sua dimensione claustrofobica e nera, a differenza sua, che per quanto fosse integra, non avrebbe mai trovato della luce al di fuori di quella che già ribolliva nella sua essenza.

Strinse forte a se il suo corpo dormiente, con fare protettivo, ripensando come seppur senza accorgersene quel bambino un tempo l'aveva aiutata, l'aveva salvata dal suo destino, ed era proprio in seguito a quel fatidico fatto che lei aveva deciso di voler ricambiare il suo favore.

In mezzo a quella tetra notte di luna piena le tornò alla mente quel famoso flashback del passato. Quel frammento di tempo che cominciava da una sbiadita quanto fredda giornata di sei anni prima.

Hazel si ricordava frammentariamente che quella mattina sarebbe dovuta andare a scuola, ma che la madre l'aveva bloccata per il braccio poco prima che potesse riuscire a varcare la soglia di casa e che, come tutte le giornate in cui il suo stress superava una determinata soglia di sopportazione, aveva riversato la sua frustrazione su sua figlia, picchiandola prepotentemente e senza dare spiegazioni , che non fossero accuse e vaneggiamenti riguardanti l'esser la bambina la presunta causa di tutte le sue sfortune.

Da quando sua madre era rimasta incinta, Hazel sapeva che aveva avuto una vita difficile, il suo ragazzo l'aveva abbandonata, per via della crisi nessuno aveva più apprezzato il suo lavoro di chiromante ed in più le discriminazioni non erano mai mancate, e quella donna distrutta, nella sua pazzia perennemente in ascesa si era convinta che le colpe fossero interamente da attribuire alla sua figliola, che secondo il suo punto di vista, rappresentava la personificazione di una maledizione lanciata dagli inferi.

Il piccolo ed indifeso individuo in questione, una volta che la violenza giornaliera offerta da parte della madre si fu attenuata, aveva usufruito di un suo attimo d'esitazione per fuggire da casa sua e dirigersi nel posto più isolato possibile, ossia una vecchia e dismessa fabbrica di ferramenta che si trovava nell'estrema periferia del tredici, un posto che un tempo era stato uno delle maggiori fonti di guadagno del distretto e che adesso era la meta di delle anime infantili che cercavano di rimaner sole ed evitare ulteriori problemi.

Appena giunta nella meta predestinata, per la sua precauzione di solitudine si infilò in uno stretto ed arrugginito badile vuoto, nascosto in mezzo ad una pila di lastre di metallo, e cominciò a piangere sommessamente ed ancora tremante.

Fu in quel momento, che incontrò il ragazzo delle tenebre per la prima volta.

Anche lui era nascosto dentro quell'improbabile barile, eppure lei non se n'era minimamente resa conto, da subito rimase colpita dalla sua abilità nell'amalgamarsi con il buio.

Eppure quel bambino non sembrava intento in piagnistei, piuttosto sembrava squadrarla corrucciato, come se non avesse fatto altro che attendere il suo arrivo, Hazel in effetti non seppe mai il vero motivo della sua presenza in quel luogo.

La ragazza inizialmente indietreggiò spaventata, lei non aveva mai avuto un solo amico, tutti l'avevano sempre discriminata e trattata male per i motivi più svariati, perciò in quel frangente temporale aveva paura praticamente di tutti i suoi coetanei, e temeva che la figura che si stagliava difronte ai suoi occhi potesse arrivare ad attaccarla, fisicamente o anche solo moralmente.

Il ragazzo, però, inaspettatamente gattonò qualche passo verso la sua direzione, attento a non sbattere la testa sul basso soffitto di quello sporco ammasso di ferraglia in cui erano rinchiusi.

Una volta che giunse a pochi centimetri dalla sua figura, rimasero qualche istante a fissarsi negli occhi, mischiando le iridi dorate ed offuscate dalle lacrime della bambina a quelle nere come la pece e piene di arguta vitalità del bambino, accompagnati da un silenzio perfetto.

Poi Nico scattò in avanti senza preavviso, Hazel chiuse repentinamente gli occhi, temendo gli potesse far qualcosa di male, ma invece quando li riaprì si trovò piacevolmente sbalordita dalla situazione in cui si era aggrovigliata .

Nico la stava stringendo in un abbraccio solidale e pieno di affetto, le massaggiava i capelli con il palmo sinistro e la teneva saldamente a se, senza dire una parola, probabilmente era riuscito da subito ad intuire la sofferenza celata da quella persona.

Hazel non aveva mai ricevuto dei gesti d'amore fraterno così espliciti senza ottenere niente in cambio, perciò restò estremamente interdetta da quel contatto così spontaneo e privo da ogni tipo di pensiero negativo.

Presto circondò a sua volta, timidamente, quel misterioso ragazzino, con le sue gracili braccia contornate da lividi e graffi, e cominciò a sfogare tutta la sua sofferenza, piangendo ampiamente sulla sua spalla, e versando più lacrime di quante avesse mai liberato durante il corso della sua vita.

Restarono ancorati in quella posizione per quasi un intero pomeriggio, poi, finalmente, il cuore della bambina cominciò a battere nuovamente in modo regolare e le sue lacrime cessarono di cadere.

Quando si staccò da quel magnifico abbraccio, lui le rivolse un bellissimo sorriso pieno di comprensione e le domandò come si sentisse, ed Hazel notò subito del tono interessato della sua domanda, che quella non era stupida frase di circostanza simile a quella che le rivolgevano le maestre quando la vedevano scoppiare a piangere, con il mero tentativo di farla smettere, e non con il desiderio di apprendere veramente il suo stato d'animo.

Allora lei, rassicurata, raccontò a quello sconosciuto tutto il suo dolore con una decisione ed una fermezza della voce disarmante e dall'altra parte lui rimase fino alla fine del suo racconto ad ascoltarla con un espressione rammaricata.

Fu in quel momento, mentre osservava quella figura priva dai soliti vincoli comuni, che si preoccupava con una dolcezza ed un altruismo sorprendente sulla sua anonima persona, che la ragazzina ricominciò ad avere fiducia nelle persone e in se stessa, fu proprio in quel momento che si sollevò definitivamente da terra determinata a non cadere mai più, con un ampio sorriso sulle labbra, un sorriso che da quel momento in poi aveva sempre mantenuto fedelmente, senza mai permettersi vacillamento.

Dopo quel giorno i due ragazzi non si erano mai rivolti la parola per moltissimi anni, finché non erano finiti alle scuole medie nella medesima classe, ma a quel punto, Nico era totalmente cambiato.

Nonostante i due ragazzi con il corso degli anni non ebbero più il modo di interagire direttamente tra di loro, la ragazza, colma di gratitudine, continuò ad osservarlo ad una cauta distanza, accorgendosi inizialmente che Nico altro non era che un buffo individuo molto solare che al tempo amava ancora giocare con le carte di Mitomagia e si ritrovava a fare cose strane come nascondersi tra le pile di bidoni senza un apparente motivo.

Però, ebbe così anche il modo di assistere in prima persona alla triste visione di tutti i vari passaggi del cambiamento caratteriale del bambino.

Inizialmente con la morte della madre e poi con la morte di Bianca, cominciò a percepire il groviglio di tenebre circondare i suoi organi interni ed autodistruggerlo mano a mano che i giorni passavano.

Eppure Hazel aveva cercato più volte di coinvolgere e far ritornare Nico il ragazzo spensierato che era stato in un tempo lontano, ma i suoi tentativi risultarono puntualmente vani.

Lei era sicura che in quel giorno, su quell'arena, lui nemmeno si ricordasse di quel fondamentale fatto risalente ad alcuni anni prima, che l'aveva portata ad affezionarsi così tanto a quella persona, accaduto che magari visto da una posizione esterna sarebbe potuto risultare poco più di una sciocchezza.

Mentre la ragazza continuava ad accarezzare, immersa nei suoi ricordi, il capo scuro del compagno ormai dormiente, non si accorse che una losca figura si stava man mano avvicinando verso di lei

con passo felpato, sfruttando l'oscurità della notte per attaccare di spalle.

Si rese infatti conto della presenza di quest'ipotetico assalitore troppo tardi, solo quando udì chiaramente il suono di un rametto spezzarsi vicino ad un cespuglio a poca distanza da lei, sotto il peso possente di qualche individuo.

A quel punto si voltò di scatto verso la fonte di quel flebile ma decisivo rumore e poté chiaramente scorgere un imponente corpo umano nascondersi furtivamente tra l'oscurità e l'oblio di quella rude foschia.

Hazel però aveva sempre avuto una vista a dir poco perfetta, e nonostante la situazione di svantaggio riuscì comunque a distinguere precisamente quell'ammasso di ombre, e così dopo appena due minuti d'osservazione muta poté decretare che il tributo in questione non fosse altro che Gerard Farner, uno dei due ragazzi del distretto tre, un tipo molto muscoloso e forzuto, quanto stupido e poco sveglio.

La ragazza purtroppo riuscì a realizzare troppo tardi il particolare dell'arma letale che Farner nascondeva strategicamente nella manica destra, e che in quel momento, con un agile scatto, stava indirizzando con un lancio dall'ottima mira, verso il corpo ancora incosciente del suo compagno.

In quel momento Hazel lanciò un potente grido di panico, rendendosi perfettamente conto che quel tiro, in previsione della simmetrica traiettoria effettuata, sarebbe andato letalmente a segno, senza alcun dubbio.

Allora con fare eroico quanto imprudente, travolta dall'enorme paura di perdere il suo amico, si catapultò in direzione di quel corpo disteso, atterrando rumorosamente ed avvolgendo le sue carni, fungendo coraggiosamente da scudo umano.

Nico dopo aver udito quell'urlo straziante si svegliò di soprassalto, con il cuore che martellava a mille nel suo petto, e negli istanti successivi ebbe giusto il tempo di vedere il corpo di Hazel buttarsi con un rapidissimo scatto sopra il suo, in un gesto impulsivo che lui ancora accecato dalla confusione e dalla sprovvista di quelle veloci sequenze, non comprendeva.

Solo conseguentemente, quando si spostò dal peso della compagno e si alzò in piedi con atteggiamento preoccupato, poté recepire il motivo effettivo dell'azione brusca della ragazza.

Fu proprio in quel momento di metabolizzazione che tutte le sue barriere razionali crollarono lasciandolo in preda ad una folle rabbia mal celata dal suo animo.

Hazel l'aveva protetto da un coltello, una viscida arma traditrice che in quel momento osava violare il petto della sua alleata con una profondità inaudita, mentre del caldo sangue traboccava da quella netta ferita, situata proprio all'altezza del suo candido ed altruista cuore, macchiando arrogantemente la pelle limpida della ragazzina ed il già propriamente sporco terreno.

Hazel aveva gli occhi offuscati dalla sofferenza fisica ed era piegata in posizione fetale contro il suolo grigio e polveroso, mentre provava ad estrarre il coltello incriminato con l'enorme ghigno di una straziante disperazione sul volto.

La prima cosa che Nico pensò di fare, fu quella di precipitarsi al suolo ed assistere quella strepitosa ragazzina dalla sorte sempre più ingiusta che si abbatteva su di lei, poi però un suono gli fece cambiare idea, precisamente fu l'orribile rumore di una risata quasi metallica che proveniva con un isterica apatia da un cespuglio poco distante da quel posto maledetto.

Fu allora che Nico incrociò i suoi occhi, gli occhi di quel lurido elemento che aveva osato fare del male alla ragazza, individuo che lo fissava con aria prepotente e si beffava del suo gesto, ostentando potenza fasulla, ostentando un coraggio che gli escrementi come lui non avrebbero mai e poi mai saputo cosa volesse effettivamente significare, troppo occupati a prendersela con i buoni ed i più deboli.

Di Angelo allora fu accecato da una serie di sentimenti negativi che non riuscì a controllare, e con una rapidità fulminea afferrò la spada di ferro nero di cui era riuscito ad impossessarsi dall'inizio dei giochi, e con uno sguardo pieno di odio e fermezza si diresse a testa alta verso Gerard.

Una volta che i loro corpi furono abbastanza vicini da toccarsi, cominciò un breve duello da esperti spadaccini tra i due tributi, con il netto svantaggio del primo che nonostante possedesse un'invidiabile corporatura marmorea, era costretto a difendersi dagli attacchi letali e precisi del ragazzino solo con l'ausilio di uno spesso ramoscello, dal momento che in quell'istante la sua arma si trovava infilzata nel petto della povera Hazel.

A Nico non ci volle molto per disarmarlo, gli bastò colpire con la lama il dorso della sua mano destra, e quello lasciò cadere pesantemente quel tronchetto, rimanendo così a mani vuote ed indifeso.

Gerard in seguito cominciò ad indietreggiare e piagnucolare, fiutando finalmente la vera pericolosità che risiedeva dietro “il povero bambino del tredici” che in quel momento impugnava con sguardo omicida la pesante lama scura, mentre Farner continuava a comportarsi con un atteggiamento degno dei peggiori codardi, che fece solo adirare maggiormente Nico, che si ritrovava a subire le futili suppliche di perdono di quella feccia.

Di Angelo con gli occhi gelidi ed intrisi di rancore, non esitò un solo istante nel piantare la sua arma nociva , dritta nel petto gonfio e pompato dell'avversario, producendo lo straziante suono della carne che veniva lacerata, coperto dalle urla disperate di quell'individuo oramai spacciato.

Poi, dopo aver interamente trapassato il corpo del malcapitato da parte a parte, stracciando la cartilagine e scontrandosi più volta con le ossa, espulse in un colpo secco la spada, ora gocciolante di un rosso impuro.

Solo quando lo sparo di cannone annunciò la morte di Gerard, si riprese dal suo sovrannaturale stato di ira e fu a quel punto che si ricordò del corpo ancora giacente e quasi morente che risiedeva a pochi centimetri dal cespuglio dove aveva commesso il suo primo assassinio, luogo ove si trovava un Hazel ancora preda dei peggiori dolori.

Il ragazzo era convinto da molto tempo di essere un mostro, ma dopo aver giustiziato a sangue freddo e senza provare un minimo di sensi di colpa, quella seppur ignobile, innocua persona, ne era finalmente convinto, e per questo tremava dalla paura, afflitto da un timore sempre crescente di se stesso.

Si accorse che si trovava inchinato a terra, piegato su se stesso, in preda ad una forte voglia di vomitare, ma ignorando quel fastidioso stato fisico e mentale si alzò da terra con una fatica immensa e si avvicinò barcollante alla figura distesa della sua compagna.

In quel momento notò che il suo viso non era più adombrato dal dolore, anzi la sua espressione facciale pareva rilassata, lei lo fissava come al solito, con i suoi grandi occhi dorati pieni di gentilezza, ed il ragazzo provò dei brividi gelidi nel vederla così spensierata e docile anche con una lama che continuava a premere dentro la sua carne.

Si inchinò velocemente a terra e si avvicinò precipitosamente al suo viso, temendo potesse essere già morta, anche se il silenzio dei cannoni confermava il contrario.

Infatti Nico si accorse del fievolissimo respiro che emetteva faticosamente la sua bocca, cercando di non far sollevare eccessivamente il petto ancora insanguinato, per evitare altre strazianti sensazioni.

Con la guance fradice dalle lacrime, il ragazzo, di nuovo in ginocchio, prese tra le sue braccia quel corpo che gli risultava così leggero da non sembrare umano, cercando di evitare il punto dolente e non curandosi del liquido rossastro che gli macchiava la divisa scura, tenendola accuratamente e cercando di non procurarle del male, con il timore di poterla rompere stringendola troppo forte a se, lo stesso timore che si poteva attribuire a quello che si provava nel giocare con un fragile bambola di porcellana.

Nico aveva il cuore a pezzi, era stufo di perdere tutto ciò che gli era caro, non avrebbe mai permesso la morte di un altra sua sorella, eppure era cosciente del fatto che non avrebbe potuto far nulla per aiutarla.

Inizialmente pensò di levarle il coltello dal petto, ma poi ripensandoci decretò che non sapendo quali organi interni erano stati effettivamente danneggiati la sua espulsione avrebbe comportato solamente una morte più rapida e dolorosa e lui non avrebbe potuto sopportarla.

Così rimase fermo a stringerla in una specie abbraccio, sanguinando interiormente, costretto a sentirsi impotente e meschino, costretto a vedere un altra delle poche persone a cui aveva voluto bene morire a causa sua.

Era stufo di se stesso, si era ripromesso anni prima di non causare mai più dolore a coloro che lo circondavano, si era anche promesso che non avrebbe mai più patito tanto male da desiderare di morire, eppure in quel maledetto istante gelato da un ingiurioso tempo, tutte le sue egoistiche intenzioni si stavano infrangendo una dopo l'altra.

Hazel continuava a fissarlo, triste nel notarlo così disperato ancora una volta, allungò una mano tremolante verso il suo viso scarno, e con un gesto intriso d'affetto cercò di accarezzarlo rassicurante, nonostante i suoi arti faticassero enormemente a risponderle.

Lei sapeva che oramai non c'era più niente da fare, sapeva che sarebbe morta, che non avrebbe mai avuto nessuna possibilità di sopravvivere con quella ferita, ma nonostante questo era felice.

Il suo sentimento era tale perché era consapevole di non aver sprecato la sua esistenza, sapeva di aver amato, sapeva di aver reagito e combattuto, di essersi resa utile, semplicemente sapeva di aver vissuto a pieno fin quando ne aveva avuto l'opportunità e le andava bene concludere quel circolo naturale tra le braccia pallide quanto calorose di Nico Di Angelo.

Era estremamente fiera del suo ultimo gesto altruistico, ed era convinta di aver fatto definitivamente la cosa giusta, dal momento che personalmente sapeva di poter andarsene perché aveva effettivamente condotto una vita completa, ma era consapevole in egual modo che quel ragazzino invece durante il corso della sua esistenza, aveva solo subito colpi bassi, e non aveva mai provato le sue esperienze, ed era ancora vuoto da tutto, il suo essere interiore era ancora fin troppo giovane, privo e vacuo per poter dissolversi, e lei non lo avrebbe mai permesso, nessuno poteva estinguersi senza lasciare nel mondo un effettiva traccia di se stesso.

Così Hazel con il suo ultimo fiato, sussurrò un addio carico di sentimento verso il volto corrucciato dalle lacrime del suo compagno, poi cominciò a tossire in maniera compulsiva del sangue che con i filtri lunari pareva violaceo, ed infine si lasciò cadere tra lo sparo di un cannone, in un vortice spirituale di luce ed oblio, correndo incontro, sempre con il sorriso, alla sua fine.

Nico avendo udito quel suono fu trafitto da una lama invisibile, e non curandosi dell'esser scoperto da altri tributi cominciò ad urlare a gran voce il nome di Hazel, scuotendola poco gentilmente e cercando di farla riprendere con una foga indescrivibile, senza ottenere ovviamente risposta alcuna.

Poi, con la testa martellata da mille capogiri e la nausea tamburellante nel suo stomaco, svenne addosso al suo corpo già inerme, non cessando il flusso di lacrime salate che proseguivano sul suo volto scarno, cominciando a tormentare la sua mente con dei terrificanti incubi.

Nico rimase così, abbracciato scompostamente al corpo di un cadavere un tempo appartenuto ad un angelo, mentre la notte con i suoi pericoli continuava ad avanzare spudoratamente, non curandosi dell'assenza di risorse per le forze psichiche del ragazzo.

Chiunque in quel momento avrebbe potuto trovarlo, e a quel punto non sarebbe stato difficile ucciderlo, in qualsiasi caso lui non avrebbe potuto ne voluto reagire, bloccato nei suoi sensi di colpa.

In più l'hovercraft stava per giungere a ritirare il cadavere della sua compagna di tributo, e se lui non si fosse staccato rapidamente da lei, probabilmente gli strateghi si sarebbero occupati in prima persona di eliminarlo perché di troppo, d'altronde lui era convinto che così facendo avrebbero solo fatto un favore al pianeta.

Lui comunque a queste cose momentaneamente non poteva pensare, anzi, lui non osava pensare a niente, troppo sconvolto, si limitava a giacere con la mente spenta al suolo, pronto a lasciarsi andare ad un abisso infernale.

Lui non era la ragazzina delle pietre preziose, non era Hazel Levesque, nessuno gli aveva mai detto quello che lei aveva effettivamente provato, eppure si sentiva come la ragazza non si era mai immedesimata, ossia una maledizione di Ade.

In quel momento non sapeva quanto tempo avrebbe impiegato per risvegliarsi, ne se l'avrebbe mai fatto, semplicemente vedeva tutto nero, tenebre che si trovavano all'interno e all'esterno della sua persona.

 

 

Nda: Heylà, com- ASPETTATE!

So che sarà dura controllarvi dallo scrivere il mio nome sul Death Note, ma giuro che ho ancora molto di positivo (?) da scrivere nei prossimi capitoli.

Certo ci saranno ancora delle morti, e a proposito vi ricordo che se volete che io risparmi qualcuno in particolare dovete avvisarmi, ma succederanno anche delle cose pseudo buone...

Hazel è morta da eroe, ( come nel libro d'altronde) e mi dispiace molto per lei, ma non sarà l'ultima volta che la farò apparire ( non aspettatevi qualcosa come una resurrezione, non ho intenzione scrivere la nuova Bibbia, ma non vi posso fare spoiler).

Infine, povero il nostro Di Angelo, forse è ancora più sfortunato di Clarisse in questa storia ( e non è poco u.u)... ed arrivati a questo punto, verrà ucciso, sopravviverà o lo farò impazzire?

Mi piace torturarlo, ma gli voglio tanto bene, quindi vedremo lunedì... <3

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Capitolo 17
*** C. XVII - PASSI DI ANGELO NEL MONDO DEI PIU' ***


AVVISO!- Leggete le Nda a fine capitolo.-

 

NICO

Nico Di Angelo sentiva il corpo estremamente pesante, mentre invece la sua testa pareva rigirare sotto l'influsso di un vortice centrifugo invisibile, dandogli un insistente senso di malore al petto, tanto che la prima cosa a cui pensò il ragazzo fosse l'eventualità che gli stesse venendo un infarto.

Eppure intorno a lui era ancora tutto buio, troppo nero, e lui aveva la scomoda sensazione di lievitare in mezzo ad un fiume ghiacciato, mentre invece per quanto poteva vedere giaceva nel vuoto, estremamente confuso e privo di ricordi, arrivò a chiedersi addirittura se fosse possibile che lui fosse già morto.

Ma in quel caso non capiva perché si trovasse sommerso in un niente così pressante, perché seppur in quel momento non avesse nessuna memoria riguardo al che cosa era accaduto precedentemente, era inconsciamente sicuro che non avrebbe mai potuto dirigersi in un Paradiso, questo perché sentiva il suo cuore disintegrato sussurrargli parole estremamente cattive sulla sua stessa persona.

Allora quello che si presentava intorno a Nico supponeva fosse l'Inferno, ma anche in quel caso era tutto troppo rilassato e passivo, non stava soffrendo, era solo in uno stato di trance, come ipnotizzato, provò a domandarsi se la punizione riservata alle anime dannate quale la sua fosse il vagare per sempre nel niente più assoluto, ma quell'apatia generale sembrava fin troppo permissiva.

Proprio quando stava per convincersi di trovarsi in una specie di Purgatorio, un enorme fitta all'addome lo pugnalò alla sprovvista, senza che la sua vista riuscisse, come da prima, a scorgere qualcosa, così lentamente i malori aumentarono mostruosamente, indisturbati, senza poter essere fermati, colpendolo ad ogni muscolo fin ora intatto, fino a quando Nico cominciò a vedere la parete nera fissa dentro di lui, crollargli pezzo per pezzo addosso, liberando una profonda intensità di colori.

Fu allora che il ragazzo cominciò a riacquisire i suoi ricordi passati, ma se solo avesse saputo che sarebbe divenuta un operazione così estenuante avrebbe preferito restare per sempre nel niente e nella ignoranza esistenziale.

Prima ricordò l'incidente di sua madre, morta folgorata da un potente fulmine quando lui era ancora molto piccolo, poi ricordò la scoperta della malattia di Bianca ed i mesi che seguirono ad essa, in cui lui fu costretto a vedere la fiamma lucente degli occhi della sua amata sorellona spegnersi sempre di più, su uno scialbo letto d'ospedale, successivamente arrivò il turno dei ricordi rilegati al padre, che per via delle traumatiche esperienze che aveva vissuto, per il tempo restante non aveva fatto altro che ignorare costantemente suo figlio, facendolo sentire un rifiuto, qualcosa di troppo.

Infine fu trapassato dai ricordi più recenti, dalle ferite più fresche, che sanguinavano ancora nella sua mente: la chiamata durante la mietitura che lo costringeva a partecipare in quel gioco mortale, il suo omicidio ad un coetaneo innocente avvenuto poche ore prime e per ultimo, l'insopportabile e tremenda morte di Hazel.

Finalmente il ragazzo cominciò a sentire la consistenza del suo corpo, non riuscendo comunque a riprenderne il controllo, però si rese conto di star tremando fortemente, e di star soffocando nei suoi respiri corti ma intensi, in una specie di stato di shock.

Restò per qualche attimo a crogiolarsi inerme nella sua crisi di panico, finché non sentì una fonte sconosciuta di calore diffondersi sulla sua guancia destra, che fino a quel momento era stata rigata da delle lacrime amare che non avevano intenzione di finir di scendere.

Le sue carni erano congelate, eppure il calore che provava sulla guancia rimaneva costante, perciò dovette intuire che qualunque cosa fosse, quella che lo stava toccando, appartenesse senza dubbio ad un elemento estraneo al suo corpo, magari si trattava solo un avvoltoio che si stava appollaiando sulla sua pelle, pronto a divorarlo mentre era ancora vivo, o quasi.

Eppure quel contatto sembrava rassicurarlo, per qualche assurdo motivo, tanto che rapidamente si accorse di essere uscito dalla sua crisi nervosa.

In seguito riuscì finalmente a percepire che il suo corpo si era sciolto dalla tensione, e constatò di riuscire nuovamente a riaprire gli occhi.

Inizialmente faticò un po' in quel suo gesto, sentendo le pupille estremamente irritate, forse a causa del suo aver pianto troppo a lungo, ma poi lentamente gli tornò nitidamente la vista, che dapprima si limitava a mostrargli il mondo come una chiazza di colori accesi, ma che ora cominciava a distinguere le linee e le forme.

Fu allora che Nico si accorse che quella cosa che stava toccando la sua faccia era una mano, una mano che per qualche motivo a lui sconosciuto, lo stava accarezzando con fare affettuoso, una mano appartenente a... Will?

Nico sbarrò gli occhi frettolosamente, incontrando quelli attenti e socchiusi in due strette fessure di Solace, che lo scrutavano nel profondo, con un aria curiosa quanto preoccupata.

Nico per quanto fosse possibile si ritrovò ad essere ancora più stralunato.

Diede una rapida occhiata al luogo dove si trovava e si rese conto che non assomigliava minimamente a quello dove era svenuto qualche istante prima, per lo meno, non da quanto riuscisse a ricordare.

Infatti gli sembrava di trovarsi in una scura ed umida grotta, dalle pareti marroni tondeggianti, come il soffitto, che pareva estremamente basso.

Da quanto il ragazzo potesse intuire quella piccola caverna era situata leggermente sotto il livello del suolo, infatti l'unica apertura che riusciva a scorgere, era un piccolo triangolo malformato da cui entravano timidamente alcuni raggi di luce accesa, situato circa all'altezza di quello che sarebbe dovuto essere il breve soffitto.

I raggi chiarissimi, tanto da sembrare bianchi, provenienti da quella bassa apertura, illuminavano quell'ambiente opaco, creando un inquietante gioco di ombre e contorni.

Il ragazzo per migliorare la sua visuale, cercò di mettersi a sedere, dal momento che a quanto pareva si trovava sdraiato scomodamente sul suolo umido e sgretolo di quel posto.

Per sollevarsi fece forza sulle braccia, poggiando le mani in quel terreno fangoso al tatto e piuttosto sporco, ma venne bloccato da una lancinante fitta di dolore che lo colpì agli arti superiori.

Non capendo il motivo di quell'improvviso malore, il ragazzo ricadde al suolo, boccheggiando a stento per l'impatto, e sforzandosi di trarre il più alto numero d'ossigeno, per quanto gli fosse possibile dal momento che la postazione dove si trovava era terribilmente chiusa e quasi priva di sbocchi esterni, tirava dunque un aria tanto viziosa che avrebbe potuto far venire l'asma anche a chi non ne aveva mai sofferto durante tutta la sua vita.

Il ragazzo biondo, che continuava ad osservare con espressione corrucciata le varie azioni dell'altro tributo, vedendolo leggermente in difficoltà lo aiutò a risdraiarsi decentemente, forzando leggermente la presa una volta che fu disteso, in modo tale che non provasse nuovamente a rialzarsi.

Anche in quel luogo freddo, la vicinanza dei due individui riusciva ad infondere un minimo di calore remissivo, sopratutto al tributo del 13 che continuava a stringere i pugni pallidi, perseguitato dal freddo che lo faceva tremare inconsapevolmente, mentre invece, l'altro sembrava esser perfettamente a proprio agio, anzi aveva una temperatura corporea perfetta, quasi caraibica, senza un apparente spiegazione per quel suo adattamento naturale a cotanti gradi sotto lo zero.

Presto, lo sguardo di Nico venne attirato dallo strumento nero e lucente che risplendeva fievolmente sul fondo della caverna, si trattava ovviamente della sua lama infernale, che a quanto pareva era stata accatastata vicino ad uno zaino giallo che doveva appartenere a Solace.

Inoltre esso riuscì ad intravedere all'interno di quest'ultimo un fantastico quanto raffinato e nocivo arco argenteo, con tanto di sacca contenente le sottili ed appuntite frecce del medesimo particolare colore.

Il ragazzo poco convinto, tentò finalmente di chiedere spiegazioni sul perché ed il come della sua collocazione, ma finì solamente con il tossicchiare scompostamente per via della sua gola secca ed irritata.

Will a quel gesto sollevò gli occhi in gloria, fingendosi scherzosamente rassegnato, per poi affrettarsi a prendere la borraccia, che evidentemente aveva già disposto a pochi centimetri di distanza, da prima del suo risveglio, e ad aiutarlo a bere, mentre questo era ancora troppo indolenzito per tirargli un pugno e replicare che ce l'avrebbe fatta da solo.

Notando lo sguardo colmo di disappunto e reclamante di chiarimenti del famoso “re degli spettri”, il biondino prese la parola, per evitare che tentasse ancora di muoversi, nella condizione svantaggiosa in cui si trovava.

Cominciò tremendamente male il discorso, con un sarcastico:- “Buon giorno principessa” che venne seguito da un tentato calcio di Di Angelo, che però fallì miseramente, dato che viste le circostanze procurò più male a se stesso che a Solace, che a quella vista sghignazzò sadicamente sotto i baffi.

Poi assumendo un atteggiamento serio, che stonava terribilmente sul suo viso allegro, continuò a parlare:-

“Mr. Simpatia, lasciami continuare il discorso e smettila di compiere atti bruschi, sempre che tu non sia masochista, ovviamente.

Allora, immagino tu voglia sapere come sei finito qui dentro, no?

Devi sapere che inizialmente ti ho trovato sdraiato contro il corpo di...”

Subito dopo aver quasi pronunciato quell'avventata frase il ragazzo si bloccò immediatamente, dandosi mentalmente dell'idiota, potendo osservare l'aria abbattuta e iraconda che stava pian piano assumendo il ragazzo. Stava per fare un enorme gaffe, in più l'aveva già dovuto sopportare mentre piangeva e chiamava il nome di una serie di persone, tra cui Hazel e Maria, mentre era ancora incosciente, e non voleva certo che ricominciasse nuovamente a tormentarsi in preda a dei deliri sofferti.

“Dicevo... mi trovavo nelle zone della boscaglia gelida di ovest, quando ho sentito un tributo, che sinceramente ho pensato fosse impazzito, urlare a gran voce nel silenzio notturno.

Mi ci è voluto un po' per riconoscere che quella persona fossi effettivamente tu, tanto erano profondi e tormentati quegli urli che lanciavi, eppure quando ho capito che quel folle che sbraitava era il nanerottolo che ha declinato la mia richiesta di alleanza agli allenamenti, mi sono affrettato a controllare cosa diavolo stesse accedendo.

Così ti ho intravisto sdraiato a terra, quasi ibernato ed in preda ad incubi e schiamazzi, mentre eri svenuto in stato di shock, per lo meno così mi è parso, ed a quanto pare ho visto correttamente.

In seguito, da brava persona quale sono, ho deciso di fare il mio buon gesto quotidiano e ti ho dunque portato nel mio nascondiglio per darti una sistemata, e per farmi fare una cosa del genere a mio rischio e pericolo, pensa un po' quanto sembravi un catorcio.” pronunciò Will con un accenno sarcastico nel tono, mostrando il suo sorriso ammaliante quanto simmetrico al ragazzino, che era rimasto per tutto quel tempo a fissarlo, con un aria a dir poco irritata.

Dopo l'ultima tragedia che era avvenuta, si era promesso un ennesima volta che sarebbe restato da solo, che non avrebbe mai e poi mai avuto rapporti umani, perché era stufo di spezzarsi e cadere in pezzi ogni volta, eppure ecco che puntualmente arrivava un quasi sconosciuto con la sindrome dell'eroe a provare nuovamente a far vacillare i suoi propositi.

Ignorando completamente gli ammonimenti di quella specie di squilibrato sorridente riprovò a tirarsi su, provando un ennesima fitta alle articolazioni, e venendo nuovamente ridisposto a terra dal biondo.

A quel punto Nico si schiarì ulteriormente la voce, riuscendo finalmente ad emettere qualche parola strascicata, estremamente frettoloso di andarsene da quel posto e porre fine a quello strazio di destino che si divertiva a tormentarlo.

“Perfetto! Mi mancava da incontrare solo il biondino stupido e sempre felice del distretto delle mucche, ma veramente, grazie mille per il tuo salvataggio! Tsk... stalker, senti un po', sono consapevole che voi donne avete l'istinto naturale da crocerossine, per quanto riguarda l'aiutare il povero barbone ferito, ma ti informo che io non ho bisogno di nessun badante che mi dica cosa devo fare.

Perciò adesso che lo sai, finiscila di starmi in mezzo ai piedi e farmi uscire da questa caverna puzzolente!” bisbigliò con una tonalità di voce a dir poco sinistra, cercando di rendersi il più acido ed antipatico possibile, al fine di esser finalmente lasciato in pace, o per lo meno, in guerra, ma almeno in solitario.

Will udendo quelle parole divenne tremendamente nervoso, era sicuro che se si fosse trovato in un altra circostanza non avrebbe esitato due secondi a sbatterlo fuori da quel posto a calci, dandogli dell'ingrato, eppure si rendeva conto che quel comportamento volutamente tagliente da parte dell'altro era una mera maschera di facciata, d'altronde l'aveva udito poco prima con le sue stesse orecchie rigirarsi tra l'oscurità con il cuore disintegrato, probabilmente a causa della morte della ragazza del suo distretto, capiva che quel fatto per lui era stato un ulteriore colpo basso, e comprendeva dunque che ora cercava di fingersi un duro per evitare di incappare in altra tristezza.

Perciò il ragazzo dimostrando come al solito la classica calma che lo caratterizzava, almeno esteriormente, lo aiutò a rimettersi sdraiato in mezzo a quel pavimento appiccicoso, ignorando gli insulti di protesta dell'altro.

“Non ho intenzione di lasciarti vagare nei boschi in questa condizione, non so se mi sono spiegato bene prima, ma ora come ora chiunque potrebbe ucciderti in un batter d'occhio.

Hai tutta la muscolatura irrigidita per via della tua irresponsabilità, sei rimasto troppo a lungo in una posizione statica in mezzo al gelo, ringrazia di non esserti preso una broncopolmonite, piuttosto, sennò sì che mi avresti causato dei problemi con i fiocchi.

Comunque adesso non fare storie e fai il bravo, e non provare a protestare. Sono ordini del dottore!” esclamò l'ultima frase facendo l'occhiolino a Nico, che lo fissò con un espressione disperata sul volto, ostentando una finta pena nei confronti di quell'infermiere improvvisato.

“Senti, ma tu, la laurea in medicina l'hai per caso stampata in uno sgabuzzino o l'hai vinta a carte?

No, sai, perché questa che hai scelto non mi sembra una postazione molto adatta ad un malato. Disteso in mezzo al fango di questo buco di grotta dove si respira solo anidride carbonica e non abbiamo nemmeno lo spazio di muoverci. Fossi il direttore di uno di quei postacci chiamati ospedali ti erigerei a primario!” pronunciò altezzosamente Nico, pulendosi la schiena da quella poltiglia sporca ed appiccicosa che si trovava sotto di lui.

Il biondo non lo poteva sapere, ma lui aveva sempre provato un grande astio nei confronti di tutto ciò che riguardava la medicina, dal momento che aveva visto sua sorella morire per un cancro proprio sotto lo sguardo di decine di medici, che non avevano saputo far nulla per darle una mano.

Will comunque si limitò a scusarsi, palesemente retorico, facendo spallucce ed ammettendo di non aver trovato “rifugi migliori” nelle circostanze.

Poi, informò Nico del fatto che era stato tutta la notte incosciente e che lui avendo dovuto badare a lui tutto il tempo non aveva neppure avuto il tempo di cacciare ne procurasi alcun tipo di cibo, costretto a tappargli la bocca ed evitare che rivelasse ai quattro venti la loro posizione, gridando come un anima in pena, perciò lo avvisò anche del fatto che gli sarebbe toccato andar in quel momento a rifornirsi di materiale commestibile per la conseguente giornata, e lo ammonì vivacemente e con un espressione spaventosa sul volto di non provare a fuggire da quel posto se non voleva ritrovarsi tutte le ossa capovolte.

Poi mise istantaneamente quel fascinoso arco grigio in spalle, che riusciva a dargli un incredibile aria di solennità, anche se Nico si ritrovò a darsi un pizzicotto per questo pensiero a dir poco inappropriato per i suoi schemi, ripromettendosi che non l'avrebbe mai e poi mai pronunciato a voce alta.

Il biondo con un abile mossa fece un ampio saltò a mezz'aria, ed una volta intravista sporgenza della piccola apertura luminosa, la afferrò abilmente, e con la sua allenata forza nelle braccia, riuscì a trascinarsi lentamente fuori da quel buco, in una mossa che sembrava simile a quella che facevano gli esperti nuotatori per emergere dal bordo delle piscine, facendo leva sulla muscolatura degli arti superiori, faticando leggermente per far passare il suo corpo slanciato da quella piccola fessura cavernosa.

Il ragazzino del tredici non aspettava altro che quell'elemento fastidioso se ne andasse, così finalmente sarebbe potuto fuggire a sua volta, dato che ovviamente non gliene importava proprio niente degli avvertimenti che aveva ricevuto da quel tipo, a quanto gli sembrava, non aveva motivo alcuno per dargli retta.

Il ragazzo fissò Will mentre sbucava sul suolo dell'arena, con gli occhi che brillavano di impazienza, avendo una gran fretta di andarsene.

Il biondo però fece una mossa inaspettata che lo lasciò di stucco e con un palmo di naso.

Prima si inclinò debolmente, facendo spuntare il suo viso alla visuale di Nico, facendogli un occhiolino furbo, mentre la sua chioma riccioluta continuava a penzolare davanti a quel breve foro, poi avendo capito le intenzioni del moretto, spostò un pesante quanto grande masso rosato davanti all'entrata, ripetendogli che così non avrebbe proprio potuto scappare, e lasciando il nanerottolo quasi completamente al buio, a fissare incredulo quel che stava accadendo.

Era stato chiuso in trappola! Si sentiva come Ulisse quand'era stato imprigionato nel covo dello stupido Polifemo, eppure ad una prima occhiata non avrebbe mai detto che quel tipo potesse essere così sveglio.

Tutto ciò era abbastanza inquietante, Will volendo avrebbe potuto anche ucciderlo, eppure se non l'aveva fatto quando lui non era in condizioni di replicare, non capiva perché avrebbe dovuto provarci in seguito, ma allora perché tenerlo sotto la sua “prigionia”?

Che veramente fosse così stupido da voler aiutare il ragazzino della morte?

Nico non voleva crederci.

In quel momento era immerso nuovamente nel buio pesto, con solamente due sottili raggi solari che lo raggiungevano all'interno della cavità del terreno, facendogli compagnia e permettendogli di intravedere faticosamente la parete rocciosa di quel luogo, oltre che le scarse risorse che si trovavano in fondo alla parete dinnanzi a lui.

Quasi subito andò a rannicchiarsi contro lo zainetto di quel testone, facendo un enorme fatica nel muovere il corpo, che continuava a pesare come cemento, e poi la sua mente, quasi automaticamente si lasciò inghiottire nuovamente dai pensieri più lugubri e sofferti.

Forse per la stanchezza mentale, forse per quella fisica, Nico venne presto sommerso da un sonno profondo, la sua testa cadde all'indietro guidata dalle note soavi della voce di Morfeo, e presto il ragazzo dimenticò la percezione delle ore, guidato nei corridoi dell'inconscio.

L'incubo, o meglio il sogno che ebbe quella mattinata, fu una delle cosa che più influenzarono la sua vita da quel momento in poi.

In quest'ultimo, il ragazzo si era ritrovato a camminare in dei corridoi insolitamente bianchi e lucenti, quasi fluorescenti, che parevano non aver fine, eppure si poteva intuire che erano effettivamente degli ambienti soldi, dalle angolature che assumevano le pareti verso il pavimento ed il soffitto, che facevano intendere la chiusura del luogo.

Quell'ambiente era parecchio differente dai soli meandri delle proiezioni mentali dal ragazzo, dal momento che generalmente tutti i sogni che lui faceva da ormai parecchio tempo, li ricordava contornati da colori opachi o spenti, mentre quel candido splendente delle pareti era inconfondibilmente insolito ed accecante.

Dopo un po' di tempo che il ragazzo proseguiva in maniera apatica, quasi spinto da una forza invisibile, intravide finalmente qualcosa davanti a se, anche se a molti chilometri di distanza, scorse quella che sembrava una graziosa porta azzurra, per quanto le dimensioni minuscole della lontananza gli facessero distinguere solo un puntino.

Comunque inizialmente questo fatto gli parve molto strano, anche se era certo di non trovarsi in un luogo realmente esistente, comunque aveva notato che da quando era arrivato in quella dimensione, non era riuscito a distinguere nient'altro che non fosse quel colore chiaro dinnanzi a se, e ora invece una porta era apparsa dal niente, ma sembrava non stonare in quella sinfonia.

Finalmente spinto da un minimo di curiosità cominciò a correre affannosamente, finché non arrivò a toccare quella porta color cielo.

Una volta giunto allungò subito la mano verso il piccolo pomello dorato, e con una lentezza estenuante aprì il mobilio in quella che sarebbe dovuta essere un ipotetica stanza, sentendosi improvvisamente avvolto da una corrente di leggerezza e quiete che lo colpì nel profondo, dal momento che non era minimamente abituato a percepire sensazioni simili in quegli ultimi tempi, ed dovette ammettere a se stesso che un po' gli erano mancate.

Fu allora che il paesaggio mutò, il corridoio e la porta sparirono magicamente, e non restò altro che un immenso prato dal color verde militare, che non pareva avere ne un inizio ne una fine, era solo una distesa d'erba perfettamente tagliata, senza alcun fiore od elemento estraneo, ma completa nella sua semplicità, aiutata e sovrastata da un cielo splendete del medesimo colore di quella porta ormai dispersa chissà dove, ma affollato da morbide nuvole, che parevano zucchero filato.

Nico continuò a guardare ripetutamente davanti a se, era sicuro di non aver mai avuto la possibilità di trovarsi in un paesaggio del genere, non ne sapeva il motivo, ma quel posto riusciva a trasmettergli un calore che difficilmente avrebbe dimenticato, era così semplice eppure sentiva che fosse a dir poco perfetto, si sentiva come a casa, anche se ormai la sua dimora aveva smesso da tempo di rappresentare il suo ideale di “casa”.

I suoi pensieri vennero presto interrotti da una voce che proveniva dalle sue spalle, una voce vagamente familiare, che lo fece presto sobbalzare, una volta che finalmente realizzò la sua provenienza, si limitò a voltarsi incredulo di scatto.

“Tesoro, da quanto tempo non ci vediamo? Sei cresciuto parecchio!

Sappi che in questo momento mi piacerebbe davvero tanto poter fare una chiaccherata con te, ma temo di non aver tutto questo tempo, perciò mi limiterò a dirti che devi smetterla di corrucciarti per me, come vedi io sto perfettamente bene”.

Davanti a lui si trovava Maria di Angelo, avvolta nel suo elegante scialle nero e da un lungo vestito a tubino scuro che le arrivava fino alle caviglie, stringendo la vita.

Il suo volto era per metà coperto da un vistoso cappello anni 30 e teneva stretta tra le dita affusolate una lunga sigaretta, in un gesto che il ragazzo, quando era ancora bambino, le aveva visto fare migliaia di volte.

La donna lo fissava con un espressione compassionevole sul volto, ma anche determinata e seriosa, semplicemente manteneva il comportamento da persona forte ed elegante qual'era che aveva sempre mantenuto da quando Nico ne aveva memoria.

Il ragazzo sentì immediatamente il cuore stringersi nel suo petto, battendo così forte che era sicuro che se si fosse tolto quella sporca ed appiccicosa divisa chiunque sarebbe stato in grado di vedere il suo movimento ritmico.

Sua madre era proprio davanti a lui, ignorava se quel che stava accadendo fosse un sogno o meno, tanto gli bastava per allietare l'anima quell'incontro spettacolare, il resto era da mettere al secondo piano.

Avrebbe voluto correre da lei ed abbracciarla, oppure piangere, o parlare, eppure il suo corpo non rispondeva a nessuno dei suoi comandi, e a lui toccava semplicemente star immobile a guardare ipnotizzato la scena, senza poter far niente per interagire.

Presto un altra voce lo fece distrarre, questa volta proveniva dalla sua destra, era molto più infantile, e se Nico esitò qualche istante per riconoscere la voce di Maria, questa volta non ebbe alcun dubbio.

“Mamma, però non ho intenzione di accettare che quel nanerottolo esibizionista possa superarmi in altezza, d'altronde è solo un bambinone un po' troppo cresciuto, deve ricordarsi di mantene sempre rispetto per sua sorella maggiore.

E come vedi anche io sono molto impegnata, perciò mi sbrigherò ad informarti che mi sento alla grande!

I tempi in cui mi toccava stare ferma in un letto d'ospedale per colpa della dannata chemioterapia sono passati, oserei dire, finalmente!

Mi dispiace per il fatto che l'ultimo ricordo che ti ho lasciato di me sia stato così sbiadito e malmesso, quasi sciupato, ma ormai ti assicuro che non è più così, anzi mi sento super in forma, potrei ritornare a fare la cacciatrice quando voglio tanto sono tornata agile!”

Esclamò gioiosa Bianca, facendo una rapida verticale su quel prato erboso, sventolando la sua tipica e lunga treccia corvina sotto il leggero flusso di vento che tirava.

A Nico quella visione stava sciogliendo gli organi interni, era tremendamente felice di poter rivedere sua sorella, specialmente in quelle condizioni, era tornata ad essere bella e radiante come un tempo, con quel suo leggero rossore sulla pelle olivastra e quello smagliante sorriso che riserbava solo a lui.

Era rasserenatissimo per la constatazione che lei non stava più soffrendo come un tempo, ma che invece fosse tornata ad essere la solita persona energica ed attiva di sempre.

Avrebbe veramente voluto dirigersi verso di lei, anche solo per sfiorarla, ed assicurarsi che fosse realmente presente, eppure il suo corpo continuava a non rispondere ai comandi, ma a lui arrivato a quel punto, bastava comunque quella vista per sentirsi terribilmente entusiasta e nuovamente spensierato, come non lo era mai stato negli ultimi anni.

Rifletté su quanto gli fosse mancata così tanto la sua sorellona, aveva pregato per anni di poterla rivedere, anche solo per un istante, aveva supplicato Dio fino a perdere la fede, ed ora invece il suo desiderio era stato finalmente realizzato..

Infine, ma non per questo meno importante, come se tutto quello non fosse già abbastanza, un ultima voce lo raggiunse distogliendolo dai suoi pensieri, delle parole provenienti dalla sua sinistra.

Il ragazzo appena le udì si girò lentamente, con le lacrime che minacciavano di uscire, senza riuscirci realmente per colpa di quel suo stato di paralisi.

Hazel lo fissava, da un punto imprecisato del prato, con i suoi soliti occhi dorati pieni di gentilezza, aveva addosso il graziosissimo vestitino giallo che aveva indossato il giorno della mietitura, che sventolava leggermente sotto il flusso del venticello quasi primaverile, il ragazzo aveva sempre pensato che quell'abito riuscisse a mettere perfettamente in risalto la sua fantastica carnagione scura, oltre che abbinarsi divinamente con il colore delle sue iridi che parevano risplendere come pietre preziose.

Intrecciava con le dita la sua folta chioma riccioluta, piccolo sintomo di nervosismo a cui Nico aveva fatto caso durante i giorni in cui erano stati a stretto contatto nell'arena.

“Hey ragazzino che viaggia nell'ombra, non fare quella faccia, sennò mi metti in soggezione.

Anche io in questo momento mi trovo qua perché devo dirti un paio di cose.

La prima fra queste è che non ti devi corrucciare assolutamente per quel che è successo ieri, è stata una mia scelta e tu non ne hai la minima colpa.

Adesso sono finalmente felice, ho pure conosciuto la tua splendida madre e la famosa Bianca,e sai, ti assomigliano parecchio, complimenti, hai una famiglia fantastica che ti vuole un mondo di bene.

In realtà, anche io te ne voglio tantissimo, e se non avessi preso questa decisione, non me lo sarei mai perdonata, lasciami dire che è stata proprio la cosa giusta da fare.

Non posso permettere che tu rinunci alla tua esistenza senza prima aver realmente vissuto.

Nico, devi andare avanti, devi combattere, reagire, sorridere, devi amare.

Te ne prego, so' che per te è dura, e che questo può risultare forse troppo impegnativo da chiedere, ma almeno provaci!

Se tu continuerai a soffrire per noi, noi non potremmo mai avere una serenità totale.

Quindi se veramente anche tu provi affetto verso di me, e verso le altre persone qui presenti, fai in modo che il mio sforzo non sia stato sprecato, dimostrami come ti alzi e combatti.

So' che ce la puoi fare perché tu sei proprio il mio maestro in questo campo, probabilmente non puoi ricordartelo, risale ad un fatto accaduto tanti anni fa'...

Ma sei stato proprio tu a insegnarmi questi concetti e darmi la forza, perciò ora è il mio turno per incoraggiarti, fatti valere!”

Nico ascoltava ogni parola della ragazza con la mente completamente aperta e concentrata, sentiva i suoi sensi di colpa affievolirsi, ma aveva comunque un enorme peso sullo stomaco, che gli impediva quasi di respirare, d'altronde la sua amica, Hazel, quella che era morta per colpa sua, gli stava dicendo che sarebbe potuto andare tutto apposto se solo lui avesse provato a raggiungere la felicità.

Sentiva che quelle parole erano molto ingiuste da dire in una situazione del genere, eppure capiva che era molto più difficile vivere bene, che vivere male, chiunque poteva crogiolarsi nei suoi problemi, tanto chiunque ne aveva almeno uno, ma invece, solo pochi riuscivano a conviverci sopportando tutto con il sorriso, e lui voleva essere tra questi, se avrebbe significato dare pace alla sua compagna oramai defunta.

Subito dopo, le sagome solari cominciarono ad avvicinarsi a lui, passo dopo passo, mentre il loro aspetto cominciava a risplendere di una luce biancastra, che pareva una specie di polvere fatata, con dei piccoli luccichii brillanti che lasciavano una scia quasi trasparente nell'aria, solo dopo il loro passaggio.

Poi tutte e tre lo bloccarono in uno stretto abbraccio, sussurrando con voce piena d'amore, una semplice frase in sincrono, che gli fece completamente sentire il cervello fremere :-

“ Noi non ti stiamo abbandonando, non l'abbiamo mai fatto, semplicemente viviamo dentro di te, ci siamo solo avvicinati ulteriormente, fondendoci in una cosa sola.

Ti guardiamo sempre, e dal momento che siamo qualcosa di unico non essere triste, o renderai triste pure noi, tanto prima o poi siamo sicure che ci rincontreremo, anche se in un altra dimensione, comunque ora non pensare a questo, ma alla tua vita.”

Nico sentì il soave profumo delle tre figure avvolgerlo completamente, e poté finalmente constatare quanto tutte tre potessero sembrare effettivamente calorose e realistiche, mentre la presa su di loro si faceva man mano più debole, ma lui in quel momento si sentiva completo e nemmeno se ne rendeva conto, avrebbe vissuto tra quelle braccia per tutta la vita se solo avesse potuto, senza aver bisogno di nutrirsi o dormire, era sicuro che quello sarebbe bastato per donargli la sopravvivenza.

Quando però, Nico riaprì gli occhi si rese conto che loro erano sparite, lasciando solo una piccola scia luminosa a mezz'aria, che saliva e si disperdeva pian piano nel mite cielo illuminato dal sole mattiniero.

Poi anche la visione di quel paesaggio paradisiaco cominciò a svanire lentamente, Nico ritornò presto a vedere il corridoio bianco come in una rapidissima retromarcia, poi con un immensa boccata d'aria si svegliò da tutta quella dimensione surreale, con il cuore ancora palpitante a mille per l'eccitazione di tutto quel miscuglio di avvenimenti.

I sogni possono essere la cosa più sublime di questa terra, specialmente se riguardano qualche argomento che nella vita di tutti i giorni non potrebbe in alcun modo avverarsi, eppure sono una terribile arma a doppio taglio, in quanto sono le peggiori specie di illusioni, illusioni che quando si infrangono ti lasciano i polmoni infranti, riempiti con niente di più che un incredibile senso di delusione.

Nico in quel primo impatto con il mondo reale rimase traumatizzato, i suoi occhi vedevano ancora solo un opaca penombra, e si spostavano rapidamente da una parete all'altra, alla ricerca di un segno che confermasse la veridicità di quelle immagini che aveva registrato pochi attimi prima.

Non era nemmeno riuscito a parlare o ricambiare l'abbraccio, quell'attimo di pace era stato troppo breve per i suoi gusti, voleva rivederle, la sua mente era talmente farneticante e frettolosa che per alcuni istanti si dimenticò totalmente il discorso che gli aveva fatto Hazel durante la visione, comandato meramente da un folle senso d'impeto e rabbia.

Fu in quel momento, che boccheggiando per riprendere fiato, i suoi occhi tremolanti incontrarono la lucentezza riflessa della sua affascinante spada, quella ancora incrostata dal sangue del cadavere di Gerard.

In quell'attimo di confusione afferrò rapidamente il manico di quella pericolosa arma, facendosi venire in mente l'idea più avventata e stupida che avesse mai partorito, pensando solamente a raggiungere nuovamente quelle anime defunte.

Sollevò la lama scura ancora tremante, non riuscendo a specchiarsi per via dell'opacità del metallo.

In quell'istante, prese una decisione su due piedi, comandato solo dal caos dei suoi sentimenti contraddittori, senza avere la lucidità mentale necessaria per prendere delle scelte sensate.

Stabilì che si sarebbe tagliato le vene, perché almeno con quell'azione, morendo, secondo la sua testa delirante, sarebbe sicuramente tornato da Hazel, Bianca e Maria.

Sollevò la spada leggermente esitante e si preparò per caricare un potente e netto colpo verso il suo polso sinistro, mentre aveva la vista ancora sbiadita dalla confusione e dal panico.

Fu proprio mentre stava per portare a termine il suo funerale che sentì delle potenti braccia afferralo per la vita, bloccandogli qualunque tipo di movimento.

Quel contatto, quell'abbraccio, riuscì a farlo rinsavire notevolmente, fino a permettergli di riacquisire il controllo dei suoi pensieri, anche se per un attimo che durò pochi istanti venne nuovamente offuscato dalla pazza speranza che quegli arti caldi potessero appartenere ad una delle sue sorelle.

Quando riaprì gli occhi però, incontro solo la figura resistente di Will, che lo teneva con una presa fortissima, che quasi gli impediva di respirare.

Sentiva il suo cuore battere velocissimamente nel petto, e solo allora si rese conto dell'errore che stava per commettere, e si diede dell'irresponsabile, promettendosi di non pensare mai più ad una possibilità del genere, ricordando finalmente le parole che gli aveva detto Hazel durante quel magnifico sogno, non poteva permettersi di farle un torto simile, le doveva tutto.

Lasciò cadere la spada, che teneva ancora stretta nel palmo della mano destra, che cadde a terra tintinnando rumorosamente, poi con la voce ancora spezzata dalla confusione surreale di quella sequenza di avvenimenti Nico domandò con tonalità rauca, per via delle grida, che lui non sapeva di aver lanciato mentre dormiva,e che gli avevano rubato la voce :-

“Perché mi hai fermato?” le parole gli uscirono fuori dalla bocca spontaneamente, più tardi ripensandoci non l'avrebbe mai domandato dal momento che pareva ovvio, nessuno avrebbe sprecato tanta fatica per non far uccidere un ipotetico alleato per poi vederlo uccidersi da se e per di più nel proprio nascondiglio.

Eppure la risposta che gli diede Will fu totalmente spiazzante.

Il ragazzo prima di tutto si staccò da quell'abbraccio, con i capelli totalmente spettinati e gli occhi leggermente arrossai, sintomo di uno che aveva appena cercato di trattenersi dal pianto, poi con sguardo fermo disse al ragazzo, che continuava a non capire il perché della sua gravità in quella personale situazione:- “Non provare mai più a fare una cosa del genere, deficiente.

Non so perché tu stia tentando di distruggerti in questo modo, ma da parte tua penso che sia veramente egoistico, perché devi sapere, che se tu morissi faresti del male a molte persone, me, per primo, per farti un esempio. ” pronunciò toccandosi il petto con l'indice.

Nico continuava a domandarsi perché quella persona quasi sconosciuta stesse dicendo quelle cose con quello sguardo totalmente sincero, eppure dovette ammettere almeno a se stesso, che quelle parole lo stavano confortando notevolmente, perché almeno in quel modo si sentiva meno solo, e per una volta pareva una cosa bella.

Pensava che con l'ausilio di Will forse sarebbe davvero riuscito a risollevarsi da terra, sentiva il cuore martellargli nel petto, probabilmente era perché stava già cominciando a tenere caro a quell'imprevedibile persona, anche se in genere lui era un ragazzo cinico ed apatico che non si affezionava praticamente a nessuno, quindi pensava che figurarsi se poteva accadere così velocemente con un quasi sconosciuto.

Eppure la sensazione che sentiva in quel momento si rendeva conto che fosse diversa dai sentimenti che lo legavano ad Hazel o alle altre persone che gli erano state vicine fino ad allora, si più sentiva strano, ed irrazionale.

“ Ti giuro che ti aiuterò a superare qualunque cosa ti stia riducendo così, però devo avere la tua collaborazione, capisci?

Di me puoi fidarti, resisteremo insieme!” formulò questa frase con un tono più rilassato e meno autoritario, quasi comprensivo.

Nico ingoiò la saliva, inspiegabilmente teso e gli offrì la sua mano, come segno di alleanza.

L'altro però decise di sigillarlo in maniera differente, si sporse incredibilmente vicino al volto di un Nico più rigido di un bastone di legno e gli stampò un caloroso bacio sulla guancia, circondandogli le spalle con un braccio.

Il re degli spettri a quell'azione indietreggiò, nonostante il corpo gli fosse ancora dolorante, preso alla sprovvista come non lo era mai stato, poi quando vide che quel tipo non lo lasciava andare da quella presa, si dimenò d'impulso e per poco non lanciò un grido, ma venne anticipato da Will che gli bloccò la bocca con le mani, intimandogli di fare silenzio se non voleva che gli altri tributi venissero direttamente a squartarli nel loro nascondiglio, tanto di baccano ne aveva fatto abbastanza per quella giornata.

Nico decise di cambiare discorso e lasciar correre quel gesto estremamente avventato da parte di quell'idiota di un Solace, sentendosi estremamente a disagio e fissando il pavimento fingendosi molto interessato alle sue crepe, ostentando di pretenzioso di sapere “ cosa cavolo avrebbero mangiato per pranzo”.

Will sorrise com'era suo solito fare e mostrò un povero tacchino spennacchiato che aveva lanciato ad una lato della grotta una volta che subito dopo il suo arrivo si era dovuto precipitare per “salvare” Di Angelo.

In quel momento, mentre il ragazzo mostrava allegramente la sua povera preda, con quegli occhi celesti raggianti, e delle stupide linee di fango sulle guance, simili a quelle che facevano gli indiani per mimetizzarsi, che il ragazzo notò solo in quel momento sennò era sicuro che l'avrebbe già deriso, gli tornò in mente una delle frase pronunciate dalla sorella poco prima, ossia:-

“Nico, devi andare avanti, devi combattere, reagire, sorridere, devi amare”.

Alla memoria di quell'ultimo verbo il ragazzo voltò precipitosamente la testa verso sinistra, improvvisamente imbarazzato, fingendo a se stesso di non sapere il motivo per aver avuto la memoria di quella frase proprio in quel determinato momento, provando ad ignorare in tutti i modi quell'ambiguo sentimento che stava cominciando a farsi un piccolissimo spazio tra il groviglio di tenebre che offuscava da tempo i suoi organi interni.

Si limitò a tirare una dolce gomitata sullo zigomo del povero biondo, strappandogli bruscamente il pranzo dalle mani, fingendosi altezzoso e cinico nei suoi confronti.

Ma non riuscendo a trattenere una debole e pallida risata, alla vista del volto infantilmente imbronciato dell'altro tributo, che si massaggiava la guancia nacora dolorante, tenendo le braccia incrociate.

 

Nda: Saaalve, dunque, sono riuscita a farmi perdonare un pochino per l'ultimo tristissimo capitolo?

Alla fine, per via della mia infinita e velata bontà d'animo, (e per via delle vostre molto esplicite minacce di morte, quanto siete affettuosi<3), ho deciso di far sopravvivere Nico, ( anche se spero di avervi messo un minimo di paura nella parte in cui lui ipotizzava di “tagliarsi le vene”).

Comunque, tutto si è concluso piuttosto positivamente per quanto riguarda i suoi demoni interiori, e finalmente magari, Nico, quanto meno, proverà a voltare pagina.

Inoltre ho provato ad inserire alcuni accenni alla Solangelo, anche se teoricamente mi ero ripromessa di non farlo, perché questa storia sarebbe dovuta essere troppo filo-tragica per poter avere risvolti sentimentali, ma diamine, come si fa? Sono così awww!

Ok, la finisco.

Penso di star per cedere anche alla Percabeth, ma non ho la minima idea se questa cosa potrebbe essere positiva o se invece sia un idea completamente da bocciare (?).

In qualunque caso credo di essere negata nel descrivere tipi di scene più...romantiche, emotive, che parlano dei sentimenti di due tizi che si prendono una cotta? (ecco vedete, non so' neppure come definirle, ah!), ma se qualche pazzo pensa che dovrei continuare a portare avanti un minimo di storia tra questi due testoni, ( Nico e Will) ed eventualmente anche per gli altri due fessi (Annabeth e Percy), allora mi avverta, che potrei pensare di provarci.

Detto ciò, tranquilli che non mi sto rammollendo, le morti arriveranno comunque molto presto, e a proposito, a chi manca Ethan?

Al prossimo capitolo <3

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Capitolo 18
*** Capitolo XIX - GEMELLI PER SEMPRE ***


POLLUCE
 

Polluce non aveva mai avuto un esistenza facile o felice, eppure era sicuro di non aver mai toccato livelli così bassi nel corso della sua esistenza.

In quel momento si ritrovava a vagare istericamente nei boschi, in preda ad una crisi d'astinenza da alcool.

Sapeva perfettamente che nella situazione vacillante tra la vita e la morte, in cui si trovava, non poteva ritrovarsi a pensare a cose secondarie come quella sua dipendenza.

Anche lui era capace di udire lo scoppio lontano dei cannoni che rimbombavano di tanto in tanto nel cielo, e anche lui, come tutti, a quegli avvisi di tenebre si sentiva spaventato.

Eppure il suo corpo sembrava avere priorità differenti, il suo stomaco si contorceva ripetutamente per via della mancanza di quelle maledette e determinate sostanze e la sua mente pareva supplicarlo di soddisfare quella sua necessità di bere, la sensazione era quella di un martello pneumatico che pressava su di lui, senza interruttori di spegnimento, ed il ragazzo non riusciva a sopportarlo.

In quei giorni si era spostato più volte nei boschi dell'ovest, arrancando senza una meta, tra quella secca vegetazione spoglia, inciampando più volte sui sassi rossicci, non riuscendo minimamente, in quel suo stato di crisi, a rendersi silenzioso o quanto meno poco rumoroso.

Si era ritrovato costretto, per più notti, a dormire in maniera completamente scoperta sotto degli alberi, quasi dimenticandosi della situazione in cui si trovava, accasciandosi in bella vista sulla prima parete reggente che incontrasse nel suo vacante cammino.

Nemmeno il freddo torrido di quella zona riusciva a distrarlo dai suoi pensieri ossessivi, tanto il suo cervello stava rischiando di cedere da un momento all'altro.

A mala pena si nutriva con le bacche ed i vari frutti che trovava sul percorso delle sue camminate, riuscendo almeno a riconoscere perfettamente le piante nocive da quelle commestibili, questo accadeva grazie ai numerosi ricordi dovuti a tanti anni prima, quando durante un passato più felice si ritrovava tutte le mattine costretto a svegliarsi presto per coltivare le varie serre del distretto dieci.

La cosa peggiore del non poter affogare per un ennesima volta nell'alcool, era il dolore immane che gli causava il tornare a ricordare tutti i suoi scheletri nell'armadio, quando invece l'unica cosa che la tua sanità mentale gli chiedeva era di dimenticare.

Polluce era nato in un caldo giorno risalente a quindici anni prima, nell'ospedale del confusionario distretto dell'agricoltura, insieme a suo fratello gemello Castore.

La sua situazione familiare, a partire dal suo primo istante di vita, si trovava ad essere già piuttosto complicata.

Suo padre, infatti, era sempre stato un ubriacone, una di quelle persone che non si era mai premurata di ciò che accedeva intorno a se, uno di quegli individui che preferiva rintanarsi in una vita fittizia fatta di svago e falsi ricordi, piuttosto che affrontare la realtà.

Nessuno nel suo distretto sapeva da quando avesse cominciato a bere, come nessuno sapeva le sue ragioni, eppure nemmeno per sbaglio, qualcuno aveva mai provato a capirlo od a stargli completamente vicino, era un anima sola e consumata, abbandonata a se stessa.

Un giorno, però, Isabel, una comune contadina proveniente da una famiglia benestante, ricevette con somma sfortuna, il privilegio d' innamorarsi follemente di lui, dando vita successivamente a due splendidi gemellini.

Isabel, aveva incontrato quell'uomo per la prima volta, all'interno di un locale notturno, uno di quei postacci che puzzavano solamente di malattia e di sudore, brulicanti di gente poco raccomandabile che si recava in quei luoghi per commettere traffici illegali ed incontrare individui loschi e ricercati.

Per il padre di Polluce, era solito recarsi in quegli infimi luoghi, gli capitava spesso di restarci anche fino all'alba, o per lo meno, fino a quando veniva sbattuto fuori a calci nel fondoschiena dai proprietari di quei fatidici posti, ed a quel punto, spesso era costretto ad addormentarsi sullo sporco ciglio della strada.

Isabel, invece, non era mai entrata in un locale del genere, e mai ci sarebbe voluta entrare.

Il fattore che l'aveva spinta a compiere quel gesto, era che in un freddo giorno invernale, mentre stava andando a consegnare una lettera nella scatoletta postale della nuova casetta di sua nonna, si perdette tra le vie marroni della sua città, e l'unico negozio che sembrava ancora aperto e si troava sulla sua traiettoria, che per altro notò solo per via delle luci scariche che lampeggiavano sull'insegna sganghera e luminosa, sembrava proprio quello.

Decise di avvicinarsi, nonostante percepisse lei stesa l'aura negativa che emanava quel postaccio, con l'obbiettivo di chiedere informazioni stradali, così da riuscire a rimettersi sui passi della calda abitazione del suo parente.

Il caso volle che alla sua genuina e confusa visita all'interno di quella specie di locanda, un malintenzionato si alzò dal bancone e le si avvicinò, provando immediatamente ad aggredirla.

Fortunatamente, lei venne prontamente ed eroicamente salvata dallo stesso uomo, di cui, da lì a poco, si sarebbe innamorata.

Con una “finezza” immane, da ubriaco fradicio qual'era, questi scatenò una rissa contro il viscido personaggio che stava importunando Isabel, ricevendo un sacco di botte ma riuscendo comunque ad uscirne vincitore.

Fu dunque in uno squallido bar che avvenne il loro primo contatto, che tutto poteva sembrare fuorché romantico, ma che si rivelò comunque importante.

Da quel giorno infatti, i due cominciarono a vedersi ripetutamente, entrambi trasportati da una specie di colpo di fulmine, che li spingeva ad avvicinarsi sempre di più l'uno all'altra.

La loro relazione fu parecchio travagliata, Isabel soffriva molto per la condizione di quel ragazzo che nonostante tutti gli sforzi che provasse a fare non era mai riuscito ad uscire da quella condizione di dipendenza da alccol, che lo teneva prigioniero di uno stupido circolo vizioso, e lo riduceva sempre più uno straccio.

Comunque l'uomo, nonostante il suo grave vizio, paragonabile ad una malattia, nel preciso momento in cui si riusciva a conoscerlo in maniera abbastanza approfondita, strabordava di doti positive, si notava quanto la sua indole fosse fondamentalmente buona, semplice, festaiola, allegra; caratteristiche appartenenti ad un uomo che non avrebbe potuto fare mai e poi mai del male a qualcuno.

Eppure un giorno, mentre si trovava in uno di quei soliti baretti scadenti e puzzolenti in cui puntualmente si recava, intento a trangugiare un ennesimo bicchiere di rum, incontrò una persona talmente inaspettata, che riuscì a far sfasare totalmente il suo equilibrio mentale.

A quanto pareva, quest'individuo, era un suo vecchio amico, o probabilmente parente, una persona con cui lui aveva trascorso l'infanzia, uno di quei pochi che conosceva la sua misteriosa storia ed il suo ambiguo passato.

Quest'ultimo, era diventato con il tempo un pezzo grosso della capitale, l'assistente di un importante politico, una persona con cui uno come quell'ubriacone misero non aveva più niente da spartire.

Quella sera, alcuni testimoni, per quanto la loro lucidità potesse permettergli di capire cosa stava succedendo, affermarono di aver visto questa facoltosa persona avvicinarsi all'uomo, intenta a schernire e provocare quella sua vecchia conoscenza, rammentandogli alcuni fatti che lui non voleva in alcun modo ricordare.

Nessuno in quella sera era riuscito a capire precisamente che cosa i due si fossero detti, ne perché ad un certo punto l'alcolista abbia avuto un così forte impulso di rabbia verso quell'uomo.

Un impulso isterico così forte che lo spinse a commettere un gesto terribile, quale l'uccidere quel fantomatico signore, spaccandogli una grossa bottiglia di vetro sulla nuca.

Subito dopo, l'uomo venne arrestato dai Pacificatori, che non tardarono ad arrivare in quel luogo chiamati dal barista, che come tutti in quel posto era oramai in preda al panico ed allo stupore generale. Questi ultimi lo prelevarono, senza ascoltare ragioni ne dare spiegazioni a nessuno.

Da allora, alcun individuo ebbe più sue notizie, nemmeno Isabel.

Alcuni sostenevano che le guardie l'avessero ucciso, altri che fosse diventato un senza voce al servizio dei capitolini, altri che stesse lentamente marcendo in una qualche cella di Panem, ma tutto ciò che si udiva, erano solo voci, non si seppe mai una precisa verità.

La donna si ritrovò così, sola ad affrontare un così triste destino, avendo da accudire gli ultimi due bellissimi regali che gli aveva offerto il suo amato, ossia Castore e Polluce.

Non fu facile per lei crescerli da soli, le tasse del governo erano sempre più alte e lei fu costretta a farsi aiutare nel lavoro dai suoi figli, a cui spiegò la loro situazione critica, fin da quand'erano in tenera età.

Comunque i due dimostrarono un ampia maturità già nella loro infanzia, ed assecondarono la madre nel suo lavoro d'agricoltura nelle riserve.

I due presto a diventarono più grandi, in tutti i sensi, rimanendo costantemente affiatati tra loro, offrendo una mano volentieri alle persone che ne avevano bisogno, diventando due ragazzi dai ferrei valori morali e dall'implacabile senso di dovere e giustizia.

Affrontavano con la testa alta le malevole prese in giro che gli arrivavano dai loro coetanei e dagli adulti invidiosi del distretto, che li accusavano ripetutamente di esser figli non desiderati, frutti offerti da un sudicio omicida, e che scommettevano che un giorno ambedue sarebbero diventati degli sporchi ubriaconi, proprio come era stato lui.

Certo tutte queste discriminazioni e tutti questi pregiudizi li facevano soffrire, soprattutto a Polluce, che tra i due era il più sensibile, ma qualunque cosa gli venisse detta o fatta, arrivava prontamente Castore a tirarlo su di morale ed a farlo smettere di piangere, e così accadeva in viceversa.

Polluce voleva veramente tanto bene al suo fratellino, la sola sua vicinanza lo faceva sentire bene; Adorava strofinargli i lunghi capelli biondicci sulla fronte, in un gesto d'affetto, tanto quanto adorava litigarci e prendersi a zuffe per una qualunque fesseria.

I due crebbero sempre più tenaci e coraggiosi, non trascurando però il loro impellente lato caratteriale festaiolo e vitale, alternando precisamente i momenti di divertimento a quelli di serietà.

Presto i ragazzi si ritrovarono davanti alla verità che attanagliava tutta Panem, si interessarono ai problemi sociali, all'egoismo del governo ed alla povertà e la fatica dei distretti, e ne rimasero sempre più disgustati e contrariati.

Questi abominevoli fatti, legati al loro già presente spirito combattivo, li spinsero ad unirsi a un emergente gruppo di rivoltosi che si stava andando a creare nel proprio distretto.

Cominciarono a partecipare, ogni settimana, per quasi due mesi, a degli incontri camuffati, che venivano ogni volta scelti in gran segreto, ove individui ribelli appartenenti ad una sommaria fascia d'età, si riunivano per discutere di una possibile rivoluzione contro la capitale.

Questa organizzazione però, venne presto smascherata durante uno dei suoi raduni, probabilmente per via di una spia che si era abilmente infiltrata tra i partecipanti.

I Pacificatori, quel giorno, irruppero violentemente nel loro covo, cominciando a dare il via ad una strage senza scrupoli, che si scusava fintamente con l'obbiettivo di dover “ristabilire l'ordine”.

Cominciarono a picchiare con i duri e pesanti manganelli tutti coloro che erano presenti in quel luogo, senza fare scrupoli per vecchi, bambini o infermi.

Ovviamente alcuni degli individui presenti, cercarono di ribellarsi e di reagire, non volendo perdere in quell'affronto inferto dai capitolini, e tra questi orgogliosi partecipanti vi erano i due gemelli dalla chioma bionda e riccioluta.

Il tutto comunque, non servì a niente.

Castore in quel combattimento ardente ed ingiusto, morì, sotto gli occhi shoccati del fratello.

Il gemello lo guardava, mentre veniva ammazzato da percussioni, e si contraeva al suolo, sputando sangue sul pavimento e tenendosi lo stomaco.

Cercò di intervenire e di fermare quell'uccisione, ma venne bloccato prima da un altro Pacificatore, che lo mandò momentaneamente K.O. con i suoi colpi ben assestati.

Quando Polluce riprese conoscenza, per suo fratello era oramai troppo tardi.

Il suo corpo da ragazzino giaceva violaceo sul suolo, esanime, il suo respiro era assente ed i suoi occhi violacei fissavano spalancati in una morsa di dolore un punto imprecisato sopra di lui.

Il suo labbro era spaccato, così come il suo naso e molte delle sue ossa, la sua maglietta sporca di sangue, e le sue mani erano fredde e rigide.

Polluce tentò di svegliarlo, lo pregò per ore, gli fece il respiro bocca a bocca, cercò di ristabilire il battito, ma capiva anche lui che non c'era più nulla che avrebbe potuto salvarlo.

I giorni che seguirono furono terribili, Polluce scappò di casa e si ritrovò a dormire nel ciglio della strada come faceva un tempo il suo genitore, sentendosi smarrito.

Tornò un ultima volta nella sua dimora, per vedere sua madre, durante l'occasione maledetta dettata dal funerale del suo amato fratello.

Fu in quel momento che vide un Isabel, così trasandata che a stento identificò come sua madre, con gli occhi così spenti ed il cuore cotanto spezzato, intenta a seppellire nella sua amata terra un suo adorato figlio, costringendolo ad estinguersi per l'eternità in una tomba senza vita e ricordi.

Quella visione fu troppo insopportabile per il ragazzo, che si limitò ad andarsene in preda alle lacrime, senza presenziarsi agli occhi scuri della madre. Eppure ancora si ritrovava costretto a subire degli incubi terribili risalenti a quella giornata, e sopratutto indirizzati verso quella lapide marmorea che adesso si ergeva tra il verde sconfinato e sereno delle piantagioni.

Scappò definitivamente da casa, cominciando una vita concentrata nel vagare per le strade del distretto come un barbone, ottenendo qualche spicciolo per campare, solo ed unicamente grazie a qualche piccolo lavoretto illegale che gli veniva commissionato di tanto in tanto.

Con il passare del tempo e con l'inscurirsi della sua persona, finalmente cominciò a realizzare il fatto che tutto quello che era accaduto in quel covo ormai distrutto, corrispondeva a verità, che mai più avrebbe potuto piangere sulla spalla di suo fratello, che non ci sarebbe stato mai più per aiutarlo nei campi o magari per accompagnarlo ad una festa, che non avrebbe più potuto abbracciarlo ne vederlo.

A quel punto restava solamente il vuoto e la solitudine.

Quella sera stessa Polluce si recò nel suo primo locale notturno e cominciò a seppellire tutto il suo dolore in dei bicchieri di alcolici, proprio come faceva suo padre quando era ancora in vita, tanto che con il passare dei giorni non ne seppe più fare a meno.

Polluce in quell'istante inciampò su dei rami troncati a metà, probabilmente spezzati dalla furia che il vento aveva scatenato durante la nottata passata.

Scosse più volte la testa, cercando di cacciare per un ennesima volta le sequenze oscurate che racchiudevano il suo travagliato passato che gli stavano nuovamente riaffiorando, rompendo le barriere impenetrabili che aveva eretto nella profondità del suo stomaco.

In quel momento c'era decisamente altro a cui avrebbe dovuto pensare, la vera priorità era la sopravvivenza, stava vagando in dei boschi isolati dal mondo ma stracolmi di pericoli mortali, ma nonostante questo, era convinto che l'arma più letale risiedeva ancora all'interno della sua psiche.

Cominciò a proseguire il suo cammino fra la steppa grigiastra, dirigendosi a sua insaputa, nel luogo ove poco prima Clarisse e la sua alleanza avevano alloggiato.

Il freddo era soffocante, e riusciva a mozzare qualunque respiro, Polluce si era ritrovato parecchie volte a rimirare con disappunto la sua visibile pelle d'oca.

La foschia continuava ad aleggiare tra gli ampi alberi morti di quella zona ancora piana e sgretolata, rendendo più indefinito e fraintendibile l'ambiente circostante.

Il sole era appena sorto nel cielo, eppure sembrava già stanco ed offuscato, come se volesse restare immerso nel suo sonno, con il caldo letto costituito dal tepore che offriva il buio.

Il ragazzo portava con se solamente il grande borsone verdognolo che era riuscito ad acciuffare durante l'approdo nel campo.

Un tempo, quello zaino si era rivelato estremamente utile, dato che vi aveva trovato dentro un ampia scorta di cibo, eppure adesso che l'aveva oramai terminata, gli fungeva solo ed unicamente da contenitore per le varie piante ed i vari frutti che trovava occasionalmente in giro, ed il fatto che dovesse continuare a trasportarlo gli arrecava un discreto fastidio.

La sua mente era molto incasinata per via dei flashback lancinanti che aveva appena dovuto subire, e questo ostacolava ulteriormente il pieno delle sue capacità fisiche, tanto che si ritrovava a barcollare con le gambe molli sul freddo suolo spoglio di quel posto senza speranza, aggrappandosi meramente, di passo in passo, ad i ruvidi rami che sporgevano dai vari alberi.

Ad un erto punto, all'interno della quiete mattutina, accompagnata solamente dal canto degli uccellini e dallo strascicare del vento, Polluce, riuscì ad udire dei passi estremamente lievi ed attutiti provenire da una certa lontananza.

Si voltò di scatto, andando in contro ad un improvviso capogiro, eppure per via della nebbia biancastra che circondava quella zona di fitta altura, non riuscì a distinguere nessun essere vivente, ma solamente delle sbiadite sagome appartenenti ad elementi della natura, quali le possenti rocce che creavano la parete naturale di nord.

I passi continuarono a proseguire, sempre più intensi, finché Polluce cominciò a chiedersi se stesse effettivamente impazzendo o se quella sensazione di pericolo che percepiva fosse effettivamente reale.

Ad un certo punto, per pochi istanti, riuscì a carpire la direzione nel quale si concentravano quei rumori,e successivamente si affrettò ad avvicinarsi verso quella posizione, facendo una grande attenzione nel non farsi scoprire per primo.

Fu così, proprio mentre seguiva il suo istinto allertato, che ritrovò davanti ai suoi sottili occhi color nocciola, l'estesa e slanciata figura di Ethan Nakamura.

Il ragazzo aveva la chioma scura e la divisa dei giochi gocciolanti, probabilmente si era appena immerso in una qualche fonte di acqua, che momentaneamente non sembrava appartenere a quella zona del campo.

Manteneva i sottili ed affilati occhi grigi puntati sul chiarore dell'alba, ed aveva un aria assente.

Nel palmo destro, impugnava saldamente una pericolosa katana scura, che si abbinava perfettamente a quella sua aura di terrore.

Nei ricordi paralizzati di Polluce cominciarono ad affiorare alcune memorie, ma questa volta furono risalenti a stralci di vita molto più recenti.

Si ricordava di aver visto il ragazzo, proprio qualche giorno prima, solo che momentaneamente aveva seppellito queste sue constatazioni, e se non era riuscito a ricordarsi di quel particolare, fino a quel determinato momento, poteva significare solo che le circostanze in cui aveva incontrato Nakamura erano state così traumatizzanti che il suo cervello aveva preferito rimuovere quei dati dalla sua memoria a breve termine.

Eppure in quel momento qualche immagine risalì a galla, in maniera così lenta da risultare estenuante.

Si ricordava che il giorno in cui aveva avvistato quel ragazzo, era notte fonda, e lui, come al suo solito, si ritrovava a proseguire sgraziatamente sula foresta della zone ovest, tentando di non cedere in una crisi di rabbia.

Il suo umore era mal calibrato ed il suo respiro era affannoso, tutto girava sconclusionatamente, mostrando gli ambienti del posto dove si stava recando sempre più indecifrabili, probabilmente quella reazione esagerata del suo corpo era sempre legata alla sua astinenza da sostanze alcoliche.

Ad un certo punto il ragazzo si appoggiò ad un masso, sentendo le gambe cedere, e così facendo riuscì addirittura a calmare leggermente il battito del suo cuore e l'incessante scorrere della sua adrenalina, riacquistando un minimo di lucidità.

Si affacciò oltre la superficie di quella pietra, distendendo il suo addome intorpidito su quella ruvida e ghiacciata superficie.

Nell'oscurità di quella nottata, riuscì a scorgere una figura, che si specchiava rasserenata in un lago.

La fioca luce lunare era il suo unico mezzo di vedetta, e gli ci volle un po' di tempo per riconoscere in quella sfocata sagoma china, il volto della coraggiosa ed ingenua Rachel Elizabeth Dare, uno dei tributi del dieci.

Polluce sentì il cuore più leggero a quella vista, si sentì confortato nell'aver incrociato un partecipante che si sarebbe potuto rivelare potenzialmente suo alleato, o per lo meno troppo debole per fungere da suo nemico.

Rizzò immediatamente la schiena, intenzionato ad avvicinarsi alla piccola ragazzina dalle lentiggini sgargianti, eppure un rapido movimento, accompagnato da un orribile suono sordo, lo interruppe appena qualche attimo prima.

Una possente figura era balzata dalle ombre della foresta, e si era scagliata agilmente, munita di una pericolosa arma da taglio, sopra il corpo della fragile ragazzina dalla chioma rossastra.

Quel rumore accapponante che aveva udito poco prima, proveniva dall'impatto che aveva avuto il massiccio bastone della ragazza sul velenoso occhio del suo assalitore, colpo talmente ben assestato che probabilmente aveva spappolato qualche nervo all'interno di quell'organo.

In quel momento di alta tensione, Polluce poté rimirare una follia sovra umana prendere il sopravvento nel corpo latteo del ragazzo, che si trasformò metaforicamente, in una bestia omicida dal sangue freddo.

Le sue mani maneggiarono più volte quella tagliente arma di ferro, perforando più e più volte l'innocente corpo della ragazzina.

Poi, il cannone sparò, e quel mostro che aveva perso ogni briciolo di umanità si allontanò con una calma inquietante da quel corpo sbudellato, togliendosi di dosso i vari grumi di sangue ed i pezzi di organi un tempo appartenuti alla ragazza.

Si avvicinò a sua volta a quel lago maledetto, sciacquandosi allegramente il volto, riflettendo un ghigno malvagio sulla superficie tremolante di quel laghetto.

Fu in quel momento che Polluce riuscì a riconoscere in quella figura grottesca, lo storto viso del giovane tributo del sette.

Dopodiché lui, non sapendo cosa fare, si limitò a fuggire a gambe levate, con la nausea che premeva più del solito dentro la sua gola, e con una voglia sempre crescente di bere.

La mattina seguente da quell'avvento, si svegliò tranquillamente tra qualche albero e qualche rovo, perdendo momentaneamente ogni ricordo risalente all'accaduto spaventoso a cui aveva assistito durante la sera precedente.

Oramai però, dato che aveva potuto rimirare con i suoi stessi increduli occhi, a pochi centimetri da lui, la figura di quell'imperdonabile diavolo che aveva massacrato così ardentemente la povera Rachel, le sue barriere interiori non avevano potuto far nient'altro per continuare a fargli mentire a se stesso, nascondendo nei meandri del suo io i ricordi di quell'orrido fatto avvenuto.

Polluce si portò lentamente le mani tra la chioma riccioluta, stringendola solidamente in un segno di terrore e rassegnazione.

Il suo cuore scalpitava, impedendogli di ragionare, non trovava neppure la forza di respirare.

Cercò di azzardare qualche passo in retromarcia, con lo scopo di allontanarsi il più lontano gli fosse parso possibile da quella postazione, proprio come aveva fatto qualche notte prima.

Però, non ebbe, nemmeno per un istante, il coraggio di staccare i suoi tremanti occhi da quelli così magnetici e penetranti dell'altro, cercando così di muoversi alla cieca, basandosi sulla percezione dei suoi altri sensi, escludendo a priori la vista.

Fu proprio per questa sua disattenzione, che tra i vari passi che avanzò nel terreno dietro di lui, calpestò rumorosamente una pila di rametti, attirando immediatamente l'attenzione dell'assalitore su di se.

Ethan individuò in un batter d'occhio quel corpo estraneo alla natura, puntando il suo occhio felino sulla sua “prossima preda”, oscurato in gran parte dal biancore onnipresente della foschia.

Scrutò rapidamente il ragazzo biondo, che adesso era immobile,e che poté constatare con maggior paura l' illuminarsi progressivo ed il ravvivarsi nello sguardo dell'altro.

Poi, Ethan, avanzò qualche passo strascicante, munito della sua fedele lama giapponese ed accompagnato da un sorrisetto sarcastico e sadico, che si preannunciava divertito.

Il corpo di Polluce era come immobilizzato, ed il ragazzo non riusciva più a recepirne gli impulsi elettrici, il suo respiro continuava a restare in una apnea selettiva, e la pressione osava degli sbalzi immani.

Il ragazzo poté solo spingere più saldamente la presa fra la sua chioma dorata, ripensando per quella che forse sarebbe stata l'ultima volta, al viso così angelico ed ingiustamente danneggiato che un tempo era appartenuto al suo amato Castore.

 

Nda: Heeylà!

Sto postando oggi perché domani temo di non averne il tempo, perciò penso sia meglio anticipare che ritardare, o no? Mhh...

Questa settimana è stata super impegnativa, ho un istituzione chiamata “scuola” alle calcagna, che, vi giuro, sta tentando di farmi fuori, AIUTATEMl...sigh.

Comunque, questo capitolo è stato introduttivo per quanto riguarda il personaggio del signor D, che ebbene non è sparito, ma comparirà presto, magari chiarendo la sua storia passate e ciò che è accaduto dopo il prelievo dei Pacificatori.

Infine, povero Castore, e povero Polluce, che gemellini sfortunati. D:

Il biondino riuscirà a cavarsela con Ethan, magari trovando un metodo per farlo fuori una volta per tutte o quel pazzoide gli farà fare la medesima fine di R.E.D? Chissà.

Alla prossima <3

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Capitolo 19
*** Cap. XVIII - PERCY E LA RICOGNIZIONE ***


PERCY

 

Percy si stava sorprendendo di quanto avesse momentaneamente rischiato di morire fin da subito più per colpa dei propri “alleati” che per via dei fatidici“nemici”.

Appena era approdato nell'arena, dopo aver puntato ed acciuffato, dimostrando una notevole dimestichezza, una perfetta spada bronzea dalla lunga lama appuntita, ed aver afferrato rapidamente anche il suo zainetto, che ormai era logoro, dalla pila di materiale offerto “generosamente” dagli strateghi, il ragazzo aveva infatti indirizzato le sue attenzioni verso i suoi ipotetici compagni, anche se più precisamente si era ritrovato ad inseguire con lo sguardo, e non solo, la fatidica biondina riccioluta.

Siccome avevano creato un patto meramente per mano sua, durante l'allenamento, ed anche per altri motivi che il ragazzo faceva finta fossero irrilevanti, Percy aveva stabilito che inseguire lei sarebbe stata infatti la scelta più saggia e sicura per entrambi.

Quando però l'aveva individuata, mentre veniva salvata da quella montagna umanoide di Clarisse, e diamine, avrebbe voluto salvarla lui stessa, era troppo tardi per potersi unire tranquillamente al gruppo, dato che non gli diedero nemmeno il tempo di farsi notare che scomparirono rapidamente in mezzo ai boschi dell'est, senza premurarsi neppure di star abbandonando la metà dei compagni indietro.

Comunque il ragazzo non si era certo dato per vinto, ed una volta assicuratosi di non essere pedinato da altri giocatori, mentre nella confusione del momento si proteggeva da quella folla di tributi scatenati ed in preda al panico tirando qualche preciso fendente a destra e a manca, stando comunque attento a non uccidere nessuno, perché nonostante tutto non era ancora deciso a perdere i propri valori morali così drasticamente, si era inoltrato a sua volta nella fitta rete vegetativa costituita da quella specie di foresta verdognola, quasi mediterranea, “alla ricerca dell'alleanza perduta”.

Era stato costretto a girare per quasi un giorno di seguito, in mezzo a quel labirinto di piante ed alberi, subendo il vento lascivo di quel clima quasi congelante al calar del sole, a cui lui non era per niente abituato. Non sapeva cos'avrebbe fatto pur di incrociare un invitante e coinvolgente raggio di sole.

Comunque tutto ciò che inizialmente riuscì ad individuare nella sua ricerca, furono solo qualche tipo di animale selvatico di piccole dimensioni, come ratti o piccoli roditori, qualche uccello dal canto particolarmente stridulo ed irritante, qualche grillo che aveva prontamente cercato di assalirlo e che lui aveva altrettanto prontamente evitato cadendo all'indietro, proprio come nelle peggiori delle sketch comiche capitoline, ed infine aveva scorto della mera vegetazione verdeggiante di vario genere.

A fine giornata la muscolatura delle sue gambe era ormai fusa, e lui si ritrovava a camminare meccanicamente come un automa, senza riuscire più a sentirsi i muscoli degli arti inferiori, mentre si acchiappava all'unico sostegno per il fisico sempre più stanco, che lo accompagnava in quell'istante, ossia quella piccola quanto santa borraccia d'acqua fresca che si era ritrovato nello zaino, da cui tirava un sorso di tanto in tanto, mentre la sua sete aumentava contemporaneamente al suo nervosismo.

Continuò a cercare imperterritamente anche per buona parte della nottata, tenendosi lontano da rumori che potevano apparire apparentemente molesti, ossia appartenenti a tributi a lui sconosciuti, o che comunque non avevano a che fare con la sua alleanza, cercando di bloccarsi nelle zone di silenzio più assoluto, tanto che mentre faceva da vedetta situato su un possente tronco di un pino, circondato solo dal flebile rumore delle cicale che si esibivano in una specie di musichetta ritmata, riuscì addirittura ad assopirsi per qualche oretta, con la mera protezione dettata dall'altezza dell'albero su cui era salito.

Comunque fortunatamente nessuno, almeno per quella giornata, lo notò minimamente, e lui si risvegliò sano e salvo, mentre si trovava a sua insaputa, in bilico su un quel ramo spesso, importunato da uno di quei fastidiosi pulcini di qualche razza a lui sconosciuta,che gli canticchiava insistentemente nell'orecchio e gli tamburellava il volto, mentre stava beatamente poggiato sulla sua spalla.

Il ragazzo cercò di spostarlo mentre si trovava ancora in dormiveglia, facendo un movimento brusco della mano e cadendo precipitosamente in preda al panico da quell'alto albero aghifoglie.

L'unica nota positiva fu che una volta che fu precipitato al suolo, di sedere, e più precisamente su un groviglio di rovi rinsecchiti che in seguito gli lasciarono una sfilza di cicatrici superficiali sulle gambe, si svegliò completamente, riacquisendo la coscienza della sua situazione e la meta del suo obbiettivo.

Dopo essersi rapidamente stiracchiato e strofinato la faccia con i pugni, ricordandosi che per lui non ci sarebbe stata nessuna doccia ne colazione dai colori bluastri, con suo grande rammarico, almeno per quella mattinata, si alzò in piedi di getto, facendo attenzione a non strapparsi la tuta nel tentativo di liberarsi da quelle piante simili ad artigli che lo stavano attanagliando, ma per fortuna riuscì nel doloroso processo senza provocare lo strappo di un singolo tessuto, a favore degli stilisti doveva ammettere che quella divisa pareva veramente resistente.

Poi si arrampicò nuovamente su quell'albero alto ma non eccessivamente, per fortuna delle sue povere ossa, e recuperò con un rapido gesto la sua vortice, che poi era il nomignolo che aveva attribuito alla spada, ed il suo fidato borsone.

In seguito, con delle visibili occhiaia dovute alla nottata trascorsa quasi in bianco, che stonavano terribilmente con quella sua perfetta abbronzatura estiva, riprese a camminare con l'andatura di uno zombie, seppure per ragioni di forza maggiore fosse obbligato a proseguire ad un passo più o meno felpato, prendendo a girovagare fra le varie zone del labirinto di quella boscaglia, con lo stesso entusiasmo ed ottimismo di un detenuto prossimo all'esecuzione capitale.

Nonostante la sua sconsolatezza, per un enorme botta di fortuna, considerato il suo senso dell'orientamento quasi nullo, riuscì comunque a trovare il nascondiglio della scaltra biondina e della sua alleata, costituito fra l'altro da una perfetta incavatura naturale estremamente ben nascosta.

Se non fosse stato per il fatto che Annabeth era accasciata dormiente al di fuori di quella tana probabilmente avrebbe proseguito rettamente senza nemmeno notare quel rifugio, ed invece la ragazza era rimasta ben visibile agli occhi dei passanti, e per un breve attimo Percy pensò addirittura che fosse rimasta appositamente in vista per lanciargli un segnale nel caso lui fosse stato per le sue tracce e non fosse riuscito a trovarla, d'altronde secondo lui era a dir poco improbabile che quella ragazza fosse rimasta visibile solo ed unicamente per pura distrazione, le sembrava troppo sveglia per una sbadataggine simile.

Capì che la sua ipotesi era leggermente sbagliata solo quando i due si ritrovarono faccia a faccia e lei gli lanciò un grido acuto degno dei peggiori squartamenti da film dell'orrore, così appurò che decisamente non sembrava una persona in attesa di visite.

Subito dopo, da quella piccola cava, uscì una Clarisse La Rue decisamente spettinata e probabilmente nervosa, che lo atterrò con due mosse nette, contorcendogli il braccio e non rompendoglielo per poco, mentre imprecava a bassa voce ancora frastornata da quel risveglio bruto.

Annabeth nel frattempo si era calmata, probabilmente riconoscendo la figura “amica” che presenziava a quell'incontro, e si limitava a fissare quella scenetta mentre stava ancora rannicchiata ad uno scomodo masso, sbattendo ripetutamente le palpebre e sogghignando leggermente.

Il ragazzo si domandò come facesse ad inserire del sarcasmo o a trovare divertente la vista della sua cara compagna bipolare nel mentre che gli stava per spaccare tutte le articolazioni con un solo gesto.

Decise comunque, che nella posizione in cui si trovava, per essere precisi piegato in ginocchio con la faccia che strofinava nello sporco terriccio del bosco, mentre la ragazza mora gli teneva l'arto destro contorto all'indietro, e pressava sulla sua schiena con il grosso stivale sporco di fango, decise di non commentare in alcun modo potesse risultare negativo il comportamento della ragazza beffarda che lo fissava a braccia incrociate, seduta a qualche passo di distanza, godendosi lo spettacolo, si limitò dunque a richiederle una spezzata richiesta d'aiuto.

“Che faccio, gli pianto la lancia in mezzo alle vertebre”? - domandò tranquillamente Clarisse, rigirandosi la pericolosa arma nella mano ancora libera, con un tono totalmente rilassato e consapevole, come se stesse per decidere se cacciare un pollo o lasciarlo libero, insomma una cosetta da niente, non che il ragazzo si sentisse un pollo momentaneamente.

Fu allora che finalmente la bionda decise di intervenire, si alzò lentamente da terra, spolverandosi i vestiti leggermente coperti di terriccio e scrocchiando le nocche delle mani e gli arti superiori, che probabilmente si erano intorpiditi per via della posizione statica che aveva mantenuto in quei frangenti di sonno, poi, con tutta la lentezza del mondo, si avvicinò al volto schiacciato del ragazzo, tirando dei calci ai piccoli sassolini che incrociava nel terreno e scagliandoli lontani.

Percy in quel momento temette che la sua risposta fosse stata simile ad un “si, almeno ne avremo uno in meno”, aveva paura di aver sbagliato i calcoli su quella persona che ora si stava avvicinando a lui, che in realtà avrebbe dovuto considerare forse una nemica, temeva anche di essersi comportato da stupido offuscato da degli strani sentimenti d'attrazione ed emotivi che per qualche assurdo motivo provava per lei, d'altronde nonostante Annabeth fosse bella c'erano ragazze migliori in campo estetico, quali Piper, eppure lui aveva sentito fin da subito il dovere di creare un qualche tipo di rapporto proprio con lei.

Comunque la ragazza si inginocchiò all'altezza del suo viso e pronunciò una sola e semplice frase, mantenendo quel sorrisino mal camuffato sul volto.

“Per ora ci serve viva questa testa d'alghe, ma nel caso tenterà nuovamente di svegliarmi terrorizzandomi a morte in questo modo, avrai il via libera per fare quello che vuoi”.

La mora schioccò la lingua come segno di disappunto, probabilmente delusa dalla proposta pacifica emessa dall'altra, ma fece come richiesto e mollò rapidamente il braccio del ragazzo, mandandolo a sbattere anche con il busto contro il pavimento.

Poi ritornò nel rifugio borbottando qualcosa tra se e se, mentre lasciava dei piccoli buchi sul terreno con la punta romboidale dell'arma rossastra, sbadigliando rumorosamente.

Percy si tirò in piedi con il braccio ancora dolorante e le sopracciglia corrucciate in un broncio, quella ragazza non la sopportava proprio e non riusciva a capire come Annabeth potesse farlo senza impazzire o scoppiare in una rissa ogni quarto d'ora.

“Scusala, di solito è un po' impulsiva, ma in fondo il mio istinto mi dice che è una brava ragazza. Spero che potrete andare d'accordo... No, ok, non succederà, ma si sa che è solo una frase di circostanza, in verità spero solo che non ti uccida prima del tramonto, non penso che tu gli stia troppo simpatico...” decretò la bionda squadrandolo da capo a piedi, con un espressione facciale concentrata, fingendo un atteggiamento serio e gravoso.

“Oh, non penso che una “buona ragazza” tenterebbe un omicidio senza lasciarmi nemmeno spiegare, e comunque mi ha colto di sorpresa, cosa ti fa pensare che non potrei essere io a metterla K.O. per primo?” domandò sarcastico.

Annabeth lo guardò direttamente sul volto e dopo un po' scoppiò in una sonora risata, tanto che ad un certo punto dovette tenersi la pancia per il troppo ridere.

“Dai, ma dicevi sul serio? Con quella faccia da delfino assonnato ed indifeso che ti ritrovi? Già è tanto se fin ora sei riuscito a non ucciderti da solo incrociando qualche trappola, inciampando da un burrone o che ne so', cadendo da un albero.” disse mentre si inchinava a raccogliere il pugnale che aveva gettato per terra nell'impatto di panico provato al suo risveglio, riponendolo con fare neutro nella cintura.

Percy arrossì leggermente a quella sua ultima battuta che voleva essere retorica, lui da un albero c'era caduto davvero, ma non voleva che pensasse che per questo fosse un buono a nulla capace solamente di combinare macelli, lui seppure forse non fosse bravo come La Rue era comunque abbastanza capace nel combattimento, e poi nel suo distretto era sempre stato uno dei più iperattivi e dinamici.

Prese a seguire la ragazza, rimuginando sulle sue capacità, che nel mentre silenziosamente si stava addentrando nel rifugio dove si trovava già l'alleata.

“Non preoccuparti in questo modo, ho solo detto che sei un po' sbadato, mica che sei un incapace, sono consapevole della tua abilità nel combattimento.” lo rassicurò lei voltandosi a sorridergli, questa volta sinceramente, come se poco prima fosse stata capace leggergli nella mente e si volesse chiarire, e Percy era sicuro che in qualche modo sapesse fare pure quello.

Una volta giunti nell'incavatura del rifugio, notarono come Clarisse aveva già posizionato i due zainetti appartenenti a loro due, in entrambe le spalle, e di come si stesse dirigendo mestamente verso di loro.

Come in un tacito accordo le due avevano entrambe decretato che dopo il rumore che avevano causato sarebbe stato decisamente meglio spostarsi da quel luogo al più presto possibile, anche se in realtà avevano tutte e due già in programma di muoversi.

Dedicarono quella giornata completamente all'avanscoperta di quello strano campo da combattimento, con a capo del gruppo Annabeth che di tanto in tanto forniva informazioni sui tipi di animali, piuttosto che sui frutti, sui fiori e sulle piante, che nel caso si rivelassero utili, raccoglievano di tanto in tanto, riponendoli nelle sacche, quella ragazza sembrava una specie di enciclopedia vivente.

Poi finalmente, verso l'ora di cena riuscirono a bloccarsi in un punto perfetto, situato fra la linea di confine della zona est ed ovest, che avevano faticosamente raggiunto scavalcando diversi ostacoli costituiti da ammassi pietrosi e scalando una parete rocciosa, per riuscire ad arrivare infine ad un altura cava del terreno, che veniva nascosta prontamente da una parete naturale ed impenetrabile di pietre, ed era abbastanza alta da poter favorire una buona vedetta in caso di fuga.

Approfittarono di quell'ottimo suolo arido per sistemarsi per qualche giorno, munendosi di grossi bidoni pieni d'acqua, oggetti che avevano trovato dentro la borsa di Percy, per abbeverarsi durante la permanenza.

Grazie a quella postazione riuscirono momentaneamente ad esser lasciati in pace da qualsiasi tipo di forma vivente, restando così dispersi in un puntino marrone di quella mappa circolare, nutrendosi solamente con le risorse situate all'interno degli zainetti, senza doversi spostare neppure troppo per procurarsi ulteriore cibo.

Dopo pochi giorni che passarono, però le risorse terminarono ugualmente, e perciò i ragazzi decretarono che qualcuno sarebbe dovuto scendere dai massi per andare a cacciare e procurarsi del cibo, in più era effettivamente da qualche giorno che i ragazzi non mangiavano come si doveva e non assumevano prevalentemente abbastanza ferro, e nel loro fisico cominciava a riscontrarsi della nausea che sarebbe potuta sfociare in anemia, perciò in qualunque caso urgeva procurarsi dei pasti sostanziosi e niente sarebbe stato più appagante di una bistecca.

A fare il turno per la prima serata di caccia, si offrì coraggiosamente come volontaria Clarisse La Rue, scelta che venne prontamente accolta dagli altri ragazzi, che seppur non volessero farla affaticare troppo, non avevano alcun tipo di esperienza nella caccia e temevano infatti di posseder minor tipo di possibilità di riuscita dell'altra, perciò per lo meno volevano temporeggiare.

Percy ed Annabeth rimasero quindi da soli con il semplice compito di fare la guardia a quel luogo strategico scovato in precedenza dalla biondina, e possibilmente avrebbero dovuto preparare un leggero fuocherello per riscaldarsi e per cucinare il pasto.

Non era la prima volta che facevano un fuoco, sapevano che era rischioso per quanto riguardava la visibilità del fumo, ma con qualche stratagemma erano sempre riusciti a camuffarlo ed a non far notare quella fastidiosa scia grigiastra, se così non fosse stato sarebbero già stati trovati e circondati da ipotetici aggressori.

Comunque sapevano di non poter fare a meno di quella fonte di calore.

Per raggiungere quel luogo disperso nel marrone delle pietre avevano dovuto inoltrarsi nella zona ovest della boscaglia, e se già in quella di estrema est cominciava ad esserci un leggero ma fastidioso venticello freddo, in quel luogo ci mancava veramente poco perché iniziasse a grandinare prepotentemente, senza il fuoco sarebbero sicuramente morti assiderati.

Percy fissava il pavimento marrone e polveroso davanti a se, tutto il panorama era uguale, marrone allo stesso modo, solo le dimensioni delle pietre variavano di tanto in tanto creando uno scomodo scambio di livello nel terreno, nell'aria svolazzavano dei granelli e della leggera polvere, quasi rossastra, lasciata da quei massi, creando una specie di mistica foschia tutt'intorno alle loro deboli figure.

Nel cielo cominciava a calare la notte ed il freddo aumentava gradualmente, tanto che sembrava sincronizzato all'inscurirsi dell'orizzonte.

Tutto in quel luogo sembrava strillare malinconia e il ragazzo cominciava a provare un enorme buco nero dentro di se, non voleva ripensare alla madre, al suo passato, alla sua casa, sapeva che se avesse ceduto ai pensieri di quello che non poteva più avere sarebbe stato solo peggio, non doveva lasciarsi prendere dalla tristezza, doveva restare combattivo ed attivo.

Si girò verso la sua compagna, che come lui stava seduta a gambe incrociate su quello scomodo terreno e fissava con aria altrettanto nostalgica il cielo, in realtà non sapeva che anche nella testa della ragazza galleggiavano degli stessi pensieri infelici, non sapeva che lei stava per cadere in un altro di quegli orribili flashback del passato legati alla sua fuga, eppure ne notava l'aria abbattuta e questo bastava per fargli stringere il cuore, ma non se ne spiegava ancora il perché.

“Ehi, Annie, a che cosa pensi?” domandò rivolgendole il sorriso più comprensivo che gli riuscì, cercando di farle venire, anche se in minima parte, un po' di buon umore.

La ragazza si distrasse dai suoi pensieri e si voltò per guardarlo negli occhi, rivolgendogli un espressione seria ma altrettanto solidale.

“Penso che dobbiamo assolutamente cominciare a fare un fuocherello, il buio sta calando in compagnia del gelo, ed in più se Clarisse quando torna non lo vede pronto sono sicura che ci fa fuori.”

Detto questo si allungò per prendere i ramoscelli che avevano staccato da degli alberi qualche giorno prima, e due pietruzze più o meno grosse oramai levigate, cominciò a strofinarle tra loro in mezzo al legno, andando a creare con quel movimento costante le prime deboli scintille.

“E poi penso ai decaduti in questo gioco. Il primo in assoluto di quest'anno è stato Benito, un mio compagno di distretto, non lo conoscevo, ma da quando l'avevo incontrato la prima volta alla mietitura mi era sembrata una persona apposto, eppure ha tentato di uccidermi, ed invece alla fine è stato lui a morie, proprio l'ironia della sorte.

Poi è morta anche quella Katie, quella del distretto dei cerali. In realtà non le ho mai parlato, ma vedendo i suoi grandi occhi verdi mi era parsa anche lei una che non meritava di morire, anche se ho notato come un velo di tristezza racchiuso dietro la sua espressione timida. Chissà com'è morta?

Comunque non è stata lei la seconda, prima è toccato ad un altra ragazza, credo la compagna distrettuale di Polluce, una certa Serena se non mi sbaglio, ma di lei non ricordo proprio nulla in verità.

Anche Rachel è morta, e mi dispiace, nonostante inizialmente provassi un certo astio nei suoi confronti, standole un po' più vicina alle sessioni avevo appreso che era una tipa tosta caratterialmente, un pochino anticonformista e molto tenace nelle sue decisioni, eppure mi sembra che queste sue doti non siano servite poi a così tanto qui dentro. Credo di aver visto che anche tu ci avevi scambiato qualche parola, immagino dispiaccia anche a te dunque.

Invece se devo essere sincera quando Gerard è morto non ho provato altro che sollievo.

Mi rendo conto che è una cosa estremamente cinica da dire, ma quel tipo mi faceva paura, sembrava così bruto ed insensibile, una specie di sadico pronto a tutto pur di vincere, comunque non posso giudicarlo, d'altronde non lo conoscevo poi così tanto, e poi siamo in circostanze a dir poco estreme, non è così sorprendente se qualcuno seppellisce i propri sentimenti a favore della sopravvivenza personale.

Infine Hazel... Non ho parlato neppure con lei, in verità le persone con cui ho interagito sono in numero ristretto, e la maggior parte fanno parte di quelli che sarebbero dovuti essere “favoriti”, ma comunque quand'è morta per qualche motivo mi son sentita estremamente male.

Sembrava così dolce, così vogliosa di vivere, sono sicura che non avrebbe fatto male a qualcuno neppure sotto tortura, e questo è stato il risultato.

Mi chiedo che essere ignobile sia riuscito ad uccidere una ragazza del genere, ma poi mi rendo conto che chi l'ha fatto non può essere considerato in torto, ma questo non ha senso ed è estremamente ingiusto, non va per niente bene.

Sicuramente se hanno avuto la codardia od il coraggio, perché non so' bene come definirlo, per togliere la vita a lei, non si faranno scrupoli con noi.

Ma io invece me ne farò? E tu Percy, sei pronto a tutto questo?”.

Il ragazzo rimase a fissarla attento in volto per tutto il suo discorso, mentre strofinava le pietre con l'ausilio della compagna per procurare un po' di bramato calore e poi disperdeva rapidamente il fumo che in quella sera riusciva già a restare nascosto da se, camuffato dalla nebbiolina rossastra che continuava ad aleggiare sul paesaggio.

“Non voglio uccidere, ma non posso permettermi di essere ammazzato. Perciò la mia risposta è che semplicemente non ne sono certo. Posso solo dirti che dipende dal contesto, dalla persona, da tutto quanto. Se mi avessi chiesto se fossi stato pronto ad aggredire te, per esempio, la mia risposta sarebbe stata un deciso no, ma se non si tratta di questo, non so che potrei fare guidato dal panico. Il trucco sta nel non pensarci, più ci pensi e più ti ritrovi a star male senza motivo.

Tanto quest'esperienza stessa ci insegna che non puoi programmare precedentemente cosa farai in seguito, non sei un robot. Perciò ora goditi questi momentanei attimi di pace e spegni quel cervello iperattivo che ti ritrovi, anche perché sono sicuro che sennò potrebbe esplodere”.

Le rispose scrollando le spalle, e mantenendo un aria rilassata, come se volesse contagiargli quella specie di finto riposo dalle tenebre che si era imposto dall'inizio di quei giochi.

La ragazza lo fissò per qualche attimo con decisione, poi le piccole rughe che si stavano formando agli angoli della sua bocca imbronciata e della sua fronte pensierosa si dissolsero in un espressione più tranquilla, chiuse gli occhi e tirò una boccata d'aria, facendo entrare in circolo nei suoi polmoni quell'ossigeno gelato che persisteva tutt'intorno, infine emise una risata quasi impercettibile.

“Anche io, cosa posso andare a chiedere ad un babbeo del genere che ha un camper di hippie pieni di pace e ghirlande di fiori al posto del cervello? Forse però hai un po' ragione, è meglio non rimuginare troppo su quello che accade o è probabile, se non sicuro, che io impazzisca, e presumo di voler tutelare la mia sanità mentale, almeno per ora, sennò finirei per attaccarti ed ucciderti, dato che tu nemmeno reagiresti per fermarmi letalmente.” pronunciò il tutto di getto, e poi gli tirò una pacca affettuosa nel retro della testa, mascherandola da colpetto, in breve ritornò imperterrita ad avvicinarsi al fuoco, infreddolita ed attena a non far cessare la fiamma, così man mano anche Percy si faceva a sua volta più vicino.

“Certo che fa' proprio freddo ultimamente! Secondo te perché la temperatura sta subendo questo mutamento drastico, Annie?” domandò rabbrividendo visibilmente ed emettendo una specie di sbuffo strascicato dalla gola irritata, intenzionato a cambiare discorso.

“Sei proprio una testa d'alghe. Credevo fosse ovvio e palese che la temperatura non è mai mutata di un solo millimetro, piuttosto è l'isola a mutare.

In pratica noi ci troviamo su un isoletta ovoidale, totalmente disabitata, suddivisa in tre sezioni, due più piccole situate a nord, costituite dalla parte est e da quella ovest ed una più grande situata interamente a sud.

Se ti guardi bene intono salta all'occhio il fatto che gli strateghi abbiano deciso di inserire gradualmente un clima caldo, quasi equatoriale, uno medio-mediterraneo ed uno freddo, ma non proprio glaciale.

Noi in questo momento siamo in una via di mezzo tra le due sezioni del nord, infatti qui non fa certo caldo, ma il tutto non è nemmeno eccessivamente ghiacciato, direi che piuttosto è abbastanza sopportabile.” puntualizzò con un atteggiamento ovvio, facendo ondulare la chioma riccioluta ad ogni movimento e gesticolando con le braccia per far apparire il tutto ancora più realistico.

“Stai scherzando, un isola? Impossibile! Fidati che penso di sapere piuttosto bene come son fatte le isole e sono sicuro che se intorno alla terra non si trova il mare quello non può essere considerato un isola. Tra l'altro questi climi strambi non possono proprio appartenere ad un posto del genere.

Ma a parte questo, anche se la tua ipotesi fosse corretta, cosa che senza offesa, dubito molto, perché non ci hai detto niente? Per caso non ti fidavi di noi?” domandò sbalordito il ragazzo puntando i suoi occhi celesti nel grigio tempestoso, che trasmetteva una sapienza scontata, di lei.

“Basta osservarsi un po' intorno per capire che la mia idea è azzeccatissima. Fidati che il mare è presente tutt'attorno a questo blocco di territorio, solamente noi ci troviamo troppo centralmente per poterlo scorgere o sentire, ma c'è.

E ricordati che il clima è così ambiguo solo perché tutto ciò che vedi è artificiale, certo probabilmente un fondo di ambiente reale persiste, ma il resto è stato tutto mutato per gli Hunger Games, ovviamente una cosa del genere non potrebbe esistere in natura, ma i capitolini e la loro tecnologia sanno fare miracoli, e quest'arena ne è una conferma.

Comunque è ovvio che mi fido di voi. A Clarisse in realtà ho già palesato da molto tempo le mie teorie e lei stessa potrà confermare che le trova quanto meno da prendere in considerazione, secondo me il tutto sarebbe solo da provare visitando le estremità di questo posto.

E tu sei troppo un delfino rimbambito perché io possa aver dei dubbi sulla tua completa sincerità.” chiarì divertita.

“Quindi ero l'unico a non saperlo? Favoloso! E se non hai dubbi su di me perché non me lo hai detto subito?” proseguì il ragazzo leggermente offeso.

“Perché non me l'hai chiesto!” si giustificò la bionda a sua volta, stritolandogli una guancia per cercare di fargli andare via il broncio, mentre Percy continuava a voltarle la faccia irritato, sentendosi un ennesima volta spiazzato dal comportamento imprevedibile di quella persona, temeva che prima o poi lei non considerandolo all'altezza decidesse di lasciarlo indietro, non lo voleva e non l'avrebbe sopportato.

Mentre era intento a scrollarsi di dosso la presa ferrea che gli attanagliava le guance corrugate, irruppe una voce alle loro spalle che fu in grado di ammutolirli istantaneamente.

Indietreggiarono contemporaneamente, spingendosi sulle gambe, entrambi a disagio, e continuarono a curare quel povero fuoco che stava ormai per divenire mera cenere.

Clarisse li guardava di sottecchi mentre teneva il cadavere di una volpe discretamente grossa tra le braccia, con la sua solita postura arrogante ed un ghigno insolitamente ansioso sulla faccia.

“Romeo e Giulietta, non vorrei disturbarvi troppo, per carità, ma temo che dovrete presto alzare i vostri sederini incantati per aiutarmi a sistemare questo casino di roba dentro gli zaini.

Dopo di che dovremmo affrettarci a fuggire da questa postazione.”

I due interpellati si scambiarono uno sguardo confuso, Clarisse sembrava estremamente seria ed apriva e chiudeva il palmo destro in un impellente segno di nervosismo.

“Prima ci vuoi spiegare il perché di questa fretta? Questa postazione non andava bene? Non avrai mica visto dei tributi dirigersi fino a qui sopra, vero?” domandò Percy, che se ne stava ancora immobile nella sua posizione, mentre invece l'altra ragazza stava già cominciando a fare come le aveva detto la mora e si stava affrettando a mettere tutti i vari strumenti potenzialmente utili negli zainetti, eliminando quasi totalmente le loro tracce.

Clarisse alzò gli occhi in gloria e sbatté pesantemente un piede al suolo, avanzando qualche passo verso la sagoma di Percy.

“Ma per chi mi hai preso? Per una ragazzina frignona come te? Ovviamente non farei tutto questo scalpore per un paio di giocatori. Non riesco a capire cosa stia avvenendo, ma sento come un campanello d'allarme risuonare nelle mie orecchie, qui non è sicuro”.

Percy sollevò un sopracciglio disapprovante “ Oh bhe, Annie, se il suo istinto animale le sta suggerendo che stanno per avvenire delle “robe a caso” potenzialmente “rischiose” io direi di fare bagagli e burattini e di filarcela. Non fa ovviamente una piega,no? No!”.

I due cominciarono un ennesima volta a litigare e lanciarsi delle frecciatine tra di loro, puntualmente in disaccordo l'uno con l'altro.

Il ragazzo pensava che loro tre come individui formassero veramente un bel quadretto comico.

Sicuramente se avessero rappresentato la parodia di un qualsiasi liceo, Clarisse avrebbe fatto il bulletto represso, Percy lo sfigato che cercava di ribellarsi dal maltrattamento perenne da parte di quest'ultimo, ed Annabeth la solita professoressa tutta precisina, probabilmente di matematica o storia, che ogni volta li rimproverava e li divideva per non far sfociare il tutto in una rissa.

Quando però si accorse che quella volta la bionda non stava in alcun modo cercando di intromettersi nel loro litigio, ma anzi se ne stava più silenziosa del solito ed immobile alle sue spalle, finì di prendersi ad insulti e male parole con la compagna e si voltò per vedere cosa stava succedendo ad Annie.

Quando finalmente incrociò il suo volto, si accorse che era come paralizzata di profilo, il corpo le si tendeva come una corda di violino, in una rigidità assoluta, e la sua pelle sbiancava mestamente.

Gli occhi erano spalancati e la sua bocca si apriva e richiudeva continuamente, facendo uscire solo dei fievoli versi e non riuscendo a pronunciare una sola frase o parola completa.

Seguì la traiettoria del suo sguardo, facendosi a sua volta estremamente teso, non l'aveva mai vista così terrorizzata.

Quando finalmente davanti a se scorse migliaia, anzi milioni di corpi che si arrampicavano velocemente tra le rocce, uno affiancato dall'altro, in tutta la loro bruttezza sinistra, indirizzandosi velocemente verso di loro.

Quella vista era decisamente un allarme più che concreto per poter darsi alla fuga.

A Percy uscirono le parole che la ragazza non era riuscita a pronunciare in quel frangente, troppo occupata a tremare.

Si limitò ad indicare il fantomatico rischio all'orizzonte deglutendo e tirando più di una gomitata alla mora, con l'intento di far scorgere anche a lei la situazione di pericolo che si stava prospettando.

“Clarisse, per una volta temo che tu non fossi totalmente in torto. Dato che presumo che il nostro problema siano quei milioni di ragni grandi e scuri che vengono rapidamente verso di noi”.

 

Nda: Hey, salve!

Questo Giovedì non ho avuto modo di scrivere, perché la scuola è ricominciata ( basta, vi prego, no) e quindi credo che inizierò nuovamente a postare un solo giorno alla settimana (Lunedì) e solo SE ce la faccio Giovedì.

Spero che questo capitolo vi sia comunque piaciuto, ho cercato di inserire dei momenti tra Annie, che è sempre un enciclopedia, e Percy, che è sempre un imbranato cronico, ma che insieme sono così carini!

Poi Clarisse è semplicemente Clarisse, ed io la adoro! Mi farebbe piacere avere un vostro giudizio per quanto riguarda l'unione di questo trio, secondo voi stanno bene come alleanza?

Concludo con il dire che io al posto loro sarei direttamente morta alla vista di tutti quei bei ragnetti (oh, no dei, che cosa aberrante! ), ma chissà come se la caveranno loro tre.

Alla prossima, che spero sarà il più presto possibile<3

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Capitolo 21
*** Capitolo XX - FRECCE ***


THALIA

 

Il cielo in quella dannata ed esaustiva prigione soprannominata 'arena', si era scurito repentinamente nel preciso momento in cui era giunta la sera.

Una pioggia, probabilmente artificiale, non si era ancora fermata, dopo ben due ore ininterrotte, dal suo incessante scorrere, e si abbatteva perpetuamente al suolo, donando umidità a quel vento ghiacciato che si abbatteva sui tributi a partire dall'inizio di quei giochi.

Thalia si trovava nella parte ovest del campo, in un punto pressapoco estremo di quella zona, che situato verso la cima della montagna più alta di quel posto, tanto che probabilmente per riuscire a scorgere il fatidico campo di forza che delineava i confini dell'area, le sarebbe bastato proseguire in un avanscoperta di qualche chilometro scarso.

L'unico colore che riusciva a distinguere tra quella cupa atmosfera rocciosa, era un marrone spento, la tonalità che ricopriva quell'intero paesaggio privo del verde delle piante, del rosso dei fiori, che riusciva con la sua fitta nebbia a mascherare per fino il colore limpido e fittizio del cielo.

Per giungere in quella zona isolata e dispersa, Thalia, si era dovuta arrampicare su parecchie superfici rocciose, ed in quel momento di grande realizzazione, le rocce erano le uniche creature che la circondavano, in quella loro appuntita e scivolosa presenza.

Si era recata in un altura cotanto pericolosa, solo ed unicamente per il fatto che aveva presupposto che raggiungere un luogo simile, l'avrebbe esonerata da possibili e fatali incontri con altri tributi, e la sua priorità momentanea, era quella di sopravvivere a quelle condizioni disastrate, senza dover incorrere ad i metodi repellenti e meschini che aveva consigliato la sua subdola e sadica capitale, ed ovviamente tra questi, era presente l'omicidio dei giocatori restanti.

Lei non provava alcun tipo di paura verso i ragazzi che si trovavano in quel campo, non aveva paura di morire per loro mano, ed era chiaro che con la sua azione di isolamento eremitico, non stava tentando di fuggire o nascondersi da loro.

In realtà, il timore più grande che provava Thaila, era quello verso se stessa.

In cuor suo, la ragazza, sapeva infatti che posta in una condizione veramente pericolosa, non si sarebbe fatta scrupoli nell'ammazzare il proprio avversario, al fine di garantire la sua autoconservazione. Macchiarsi le mani di sangue, però, era l'opzione che più la faceva rabbrividire e che stava ovviamente stava tentando in tutti i modi di evitare.

Il suo animo era ribelle e feroce, perciò neppure la sua coscienza, se messa in pericolo di vita, l'avrebbe esonerata dal combattere e dal reagire, anche se fatalmente, ed era proprio per questo motivo che aveva deciso categoricamente di allontanarsi da tutti gli altri.

Quella fredda ed alta superficie in ascesa, per di più, garantiva una perfetta visione del panorama, da lontano si potevano scorgere delle lunghe chiazze verdognole che indicavano la boscaglia di est, che in parte riusciva a sua volta a coprire le chiazze arancioni che rappresentavano la zona calda situata a sud di quel luogo.

Le gocce piovane continuavano a cedere dal cielo ormai oscurato dalle nuvole, macchiando il corpo latteo della ragazza, poggiandosi sul suo viso oramai scarno, e simulando delle lacrime di disperazione che probabilmente avrebbe realmente voluto versare.

Ogni tanto si sentiva un tuono brusco rimbombare tra quella alte pareti naturali, creando un eco sinistro, che veniva accompagnato dal bagliore paralizzante delle saette, che facevano librare in volo gli spaventati pennuti che si appollaiavano in gruppo, ai rametti secchi della zona ovest.

Il suo ripido cammino era stato faticoso e complicato, più volte aveva rischiato di cadere nel vuoto, durante una delle sue tante scalate, ma mai si era fermata o arresa, facendo affidamento sulle sue ferree capacità di resistenza fisica, e finalmente ne stava ottenendo i risultati.

I palmi delle sue mani portavano delle cicatrici fresche, stessi segni ricoprivano anche le sue gambe, si trattava perlopiù di ferite che si era procurata appigliandosi nelle sue salite a delle rocce fin troppo spigolose od a dei tronchi ricolmi di spine.

Nonostante molte di queste croste, si fossero riaperte, lei nemmeno sembrava far caso al dolore od al fastidio che osavano recarle, tanto era shoccata e preoccupata dalla situazione che le si era presentata improvvisamente davanti agli occhi.

Teneva stretto tra le mani il suo ingombrante arco ramato, teso in una perfetta posizione di tiro, con la sottile freccia scura rivolta verso il nuovo nemico che le era appena balzato davanti al viso.

Passarono attimi ricolmi di tensione, in cui due individui immobili, restarono a fissarsi nel silenzio più assoluto, accompagnati solo dallo strascicare fastidioso del vento.

Il dito che tendeva l'arma, ormai cominciava a dolerle per quella posizione rigida, ma lei non riusciva a trovare, ne la forza di scoccare quel tiro, ne tanto meno quella di abbassare le difese, quindi si limitava a starsene immobile nella sua posizione d'attacco, fissando tra le fessure dei suoi grandi occhi felini, il volto spaventato ma determinato del suo rivale.

In quel momento, realizzò che anche volendo, non avrebbe potuto comunque muovere un solo passo, indietreggiare, od avvicinarsi, perché così come lei nocivamente teneva sotto scacco la sua preda, questa stessa teneva sotto scacco matto lei.

La sua rivale infatti, le puntava a sua volta, un sottile e sganghero archetto, in mezzo agli occhi, pronta quanto lei, a mettere la parola fine a quell'assurda situazione.

Era questione di tempo e di spazio, appena una delle due si fosse minimamente mossa, entrambe avrebbero scoccato quelle mortali frecce dalla punta di metallo, che si sarebbero abbattute rispettivamente, nella fronte, e nel petto dei due tributi, prelevando contemporaneamente le loro vite.

Il respiro di Thalia si faceva man mano più veloce, fondamentalmente per via dell'assurda adrenalina che quella situazione le aveva fatto entrare in circolo.

Mai, Thalia, si sarebbe aspettata, che una volta giunta in cima a quell'inarrivabile rilievo, avrebbe incrociato un altro tributo, che per altro, adesso sembrava pronto a farla fuori.

Pensava che in minima parte la colpa fosse appartenuta pure a lei, dal momento che non aveva nemmeno provato a considerare l'opzione che qualcun altro, avesse auto la sua stessa idea nel rifugiarsi sulla cima di quell'altura.

Era stata troppo ottimista, ed aveva finito con l'avvicinarsi a quelle solide rocce, con le difese completamente abbassate, ed il risultato era quell'assurda situazione che l'aveva costretta ad ondeggiare in un bilico tra la vita e la morte, bilico che probabilmente avrebbe contemplato una precisa conclusione.

Chiuse gli occhi, stanca, tanto che lo zainetto verde che portava sulle spalle, a parer suo, si faceva man mano più pesante, nonostante al suo interno contenesse solamente delle scorte di cibo e qualche bottiglietta di acqua, destinate ad i giorni che ipoteticamente avrebbe dovuto passare rifugiata in quella che si era rivelata una specie di trappola.

La ragazza che in quel momento le aveva rovinato i piani, si stagliava rettamente in una posizione di eleganza e solennità, mantenendo la schiena ritta e la braccia arcuate, pareva quasi una seria ballerina di danza classica pronta al suo elegante spettacolo.

La lunga chioma castana le ricadeva sulle spalle magre, gocciolante nelle punte per via di quel burrascoso tempo che si stava sforzando di dare un'atmosfera ulteriormente tragica a quel teatrino scenico leggermente drammatico.

Gli occhi bluastri di Thalia si specchiavano in quelli grigi e dalle lunghe ciglia nere dell'altra, che erano tanto opachi quanto splendenti, simili al simmetrico ciondolo a forma di luna che aveva posto sulla fronte e che le ricadeva in avanti.

Thalia ricordava perfettamente l'identità di quel volto, che nonostante si trovasse in una circostanza scomoda e distruttiva come quella, continuava a dimostrare una fermezza ed una dignità oltremodo notevole, ed ai suoi occhi appariva bella come un cigno, nonostante probabilmente sarebbe stata la spietata artefice della sua morte.

Zoe Nighthade fissava a sua volta quella sagoma importante, facendo trasparire stupore ed ammirazione. Nemmeno lei si sarebbe mai aspettata di imbattersi in un qualunque tributo, non tra quelle rocce desolate, eppure si era ritrovata presto l'imponente ed energica figura della ragazza del distretto elettrico davanti agli occhi ed in quell'istante non sapeva cosa fare.

La invidiava terribilmente, perché mentre la osservava, penetrando ne suoi occhi scuri quanto il cielo in tempesta, in cerca di risposte, non riuscì a scorgere un minimo di timore o dubbio, mentre lei invece, aveva un impellente pelle d'oca, dovuta al timore, e nel suo fragile animo amareggiato, si ritrovava a rabbrividire per ogni singolo tuono.

La trovava così selvaggia e combattiva nel suo essere, totalmente differente da lei, ed era forse per questo che non era ancora riuscita a mollare la presa sulla corda dell'arma e mettere fine a quella vitalità, perché temeva che ucciderla sarebbe stato oltremodo uno spreco.

Fosse dipeso da lei, a quell'ora avrebbe già abbassato le difese, sentiva che se la ragazza corvina fosse stata posta in una situazione meno pericolosa, non avrebbe in nessun modo tentato di farle del male, eppure le sue braccia non riuscivano a rilassarsi e la sua presa continuava ad apparire fin troppo minacciosa.

C'era qualcosa che la frenava, e forse si trattava proprio del suo cuore ferito, che sentiva il ricordo di un tradimento, ma percepiva anche quanto Thalia fosse una persona che meritava un minimo di fiducia e che non avrebbe mai dovuto morire in quel modo. Eppure le ferite del suo spirito ingannato non si erano ancora cicatrizzate, ed in quel momento la ostacolavano, bloccandola staticamente al suolo.

Una saetta sopraggiunse a pochi centimetri di distanza dai piedi incrociai di Zoe, bruciacchiando la traiettoria incriminata, il terreno secco tremò andando a creare qualche scintilla, dando un atmosfera ulteriormente surreale a quella condizione.

Zoe fu pervasa dal panico, per via di quelle brusche sequenze, ed in un momento di debolezza lasciò andare quella sottile freccia letale verso la figura alta dell'altro tributo.

Thalia assistette quella scena con lo sguardo corrucciato, il suo stomaco bruciava e lei ebbe una gran voglia di contraccambiare quell'azione, una gran voglia di lasciare andare il filo teso nella sua mano, di far partire a sua volta un tiro mortale, di uccidere Zoe, di farlo prima che quel colpo fosse giunto al suo termine, avrebbe voluto rispondere al fine di non morire invano, ma ottenendo una vendetta sul suo carnefice.

Eppure non lo fece, respirò, rilassò le spalle, fu assalita dalle memorie di Luke, che gli parlavano a distanza, ricordandole quanto l'unico vero nemico fosse la capitale, e ricordandole che commettendo un ulteriore omicidio, non avrebbe risolto niente, ed a quel punto sarebbe stato molto meglio spegnersi senza sporcarsi di rosso.

Chiuse frettolosamente gli occhi e lasciò cadere mollemente il suo fedele arco di rame, che tintinnò una volta che si scontrò con il terreno.

Era pronta per quel verdetto decisivo, assaporava già il sapore del suo sangue e della sua tomba, ed il respiro cominciava già ad abbandonarla.

Eppure riaprì gli occhi di li a poco, indenne, quando si rese conto che la freccia che avrebbe dovuto terminarla, ritardava fin troppo ad arrivare.

Davanti a se, scorse l'immagine sbiadita della Nightshade, che la squadrava corrucciata, ancora immobile ed aggraziata, in punta di piedi su quel suolo sporco e scuro, con la tuta ricolma di macchie e di pozzanghere.

La ragazza non aveva più l'arco tra le mani, che in quel momento era riposto a terra come il suo, bensì le teneva strette tra loro, nervosa e forse infreddolita.

Thalia si guardò confusamente intorno, non riuscendo a capire cos'era accaduto nelle ultime sequenze di quell'incontro, quando, fissando dietro di se notò la sottile freccia di metallo che aveva lasciato andare qualche attimo prima il tributo del sette e che lei pensava sarebbe stata la colpevole della sua morte, ma che invece si trovava conficcata innocentemente a qualche centimetro di distanza da lei.

Era impossibile che Zoe avesse sbagliato un tiro simile, la sua mira si era sempre rivelata perfetta durante gli addestramenti, ed in più la loro lontananza era fin troppo breve per poterla ostacolare in qualche modo. Se quella freccia non l'aveva uccisa, l'unica spiegazione plausibile era che la ragazza aveva deciso di cambiare traiettoria all'ultimo istante, desiderosa di non colpirla una volta giunto quel momento decisivo.

Thalia si avvicinò titubante a quella figura tremolante, zoppicando per via di una ferita alla gamba che si era procurata qualche giorno prima, cadendo da un masso, trascinando i grossi scarponi tra la fanghiglia del terreno roccioso.

Quando arrivò a pochissimi centimetri di distanza dalla figura di Zoe, tanto che solo avesse compiuto un altro passo sarebbe riuscita a toccarla, si fermò, e cominciò a scrutarla attentamente.

“Perché non mi hai ucciso?”, domandò infine, non sapendo bene come agire o cosa fare. Si chiedeva se quel gesto avrebbe comportato l'unione di una loro alleanza, o se fosse stato un errore, o magari della mera pietà nei suoi confronti.

“Perché mi chiedi? Bhe, presuppongo per il medesimo motivo per il quale tu non mi hai trafitto con il tuo arco.” rispose restando ferma sul posto la ragazza, con il cuore che le batteva velocemente per via di quell'assurda situazione che aveva appena vissuto e che non aveva ancora smesso di scombussolarla interiormente.

Dalle sue labbra uscì una specie di nuvoletta di fumo bianca, che testimoniava quanto il freddo gelido stesse man mano aumentando in quel luogo.

Thalia era rimasta un po' spiazzata da quella risposta, che non si sarebbe in alcun modo immaginata, ma non disse niente, si limitò ad avanzare ancora verso di lei, fino a che i loro nasi si sfiorarono.

Poi un fulmine più forte degli altri squarciò nuovamente il cielo, dividendolo per qualche istante a metà, accompagnato da un potente boato. Zoe indietreggiò e scivolò a terra, su una pozzanghera viscosa e appiccicosa, sorpresa dalla paura di quell'attimo.

Thalia trattenne a stento una risatina, fissando quella ragazza così fine e forte, scaldarsi tanto solo ed unicamente per uno stupido evento atmosferico quale quello che si era appena palesato.

La scrutò, mentre si ritrovava seduta scompostamente a terra, all'interno di un appiccicoso laghetto d'acqua marrone.

Le offrì una mano, che Zoe accettò con sufficienza, tirandosi in piedi rapidamente e riassumendo in pochi attimi quella sua aria orgogliosa, fingendo che non fosse accaduto niente.

“Cosa ha scatenato tutta questa ilarità nella tua persona?” domandò schioccando la lingua la castana, cercando di togliersi il fango dalla divisa, ed inchinandosi per recuperare il suo liscio arco scuro.

“Si può sapere perché parli come la mia ex professoressa di italiano? Comunque, mi fa ridere il fatto che una tipa come te si preoccupi tanto per un po' di pioggia, non morirà nessuno per questo, si spera.”

Esclamò Thalia fissando intensamente l'orizzonte, lei in tutta sincerità aveva sempre adorato fenomeni atmosferici simili alle tempeste od alle bufere, riuscivano a metterla interamente a proprio agio, e per di più generalmente sembravano mutare in base al suo umore.

Zoe ripose la sua arma nella fodera che portava a tracolla, poi scosse energicamente la testa, polemizzando.

“Oh, se continui a deridermi o ad insinuare che il mio lessico sia obsoleto, ti garantisco che qualcuno perirà, eccome! E comunque tu non potresti comprendere i miei timori, dato che son legati a vicissitudini correlate al mio passato, che non ho intenzione alcuna di narrare, tanto meno a te.”

Thalia sollevò gli occhi al cielo, divertita da quella risposta acida.

Si inchinò al suolo e raccolse a sua volta la sua fidata quanto inutile arma, togliendo i sassolini e gli insetti che vi erano finiti sopra.

Poi allungò la mano verso l'estremità del terreno e strappò, con un rapido gesto, anche la freccia che aveva scagliato Zoe, facendo attenzione a non spezzarla.

Si risollevò da terra, non facendo caso alla sporcizia che si era concentrata sui pantaloni della sua divisa, e porse all'altro tributo, accompagnata come al solito da uno strambo sorriso sarcastico, la sua freccetta.

L'altra si limitò a prendergliela dalle mani con fare sgarbato e con una finta aria di presunzione, ed a riporlo senza rivolgerle un singolo ringraziamento, dentro la piccola sacca dove riponeva le freccette.

“Zoe, immagino che dovremmo trovare un rifugio prima che ad una delle due venga la broncopolmonite, o comunque un infarto per via di questi “fulmini molesti.

Che ne dici di proseguire ancora più in pendenza, per scrutare la zona situata ad estrema ovest?” domandò ad un certo punto la corvina, mentre ispezionava attenta quell'ambiente così spoglio e triste.

“Scusa? Riformula. Dobbiamo? Ambedue?

Chi è che avrebbe stabilito che adesso noi due dovremmo muoverci assieme? Solo perché non ho messo fine alla tua interessantissima esistenza, sarei grata se evitassi di farti copioni mentali su ciò che io dovrei o non dovrei fare.

Nemmeno un attimo fa volevamo ucciderci vicendevolmente, ed adesso secondo la tua testolina retrograda, tutto d'un colpo, saremmo diventate fidatissime amiche?” rispose frettolosa Zoe, sbattendo più volte le palpebre in un chiaro segno di sorpresa.

Thalia cominciò a muoversi verso la direzione che aveva indicato, senza dire una parola, cominciando a rimettere in moto gli stanchi muscoli delle sue gambe piene di tagli, e facendo forza sull'addome per continuare l'ascesa in quell'altura.

Zoe, seppur non si esonerò per un solo istante dal pronunciare sentenze e polemiche esistenziali, ricolme di apparente indignazione, la seguì faticosamente, intimandole più volte di rallentare.

“Alla fine mi stai seguendo, vedo. Comunque, nessuna di noi due voleva ammazzare l'altra, sennò in questo momento saremmo entrambi degli zombie in putrefazione.

Non ho assolutamente detto che siamo entrate in amicizia, semplicemente presumo che abbiamo creato un alleanza, o no?”.

Domandò ad un certo punto Thalia, interrompendo quel silenzio pesante che si stava andando a creare, mentre si arrampicava su un ripido masso.

Ce la fece con grande fatica, ed atterrò al suolo balzando con i pugni stretti ed i muscoli degli arti inferiori contratti, verso l'ennesima superficie piana che si trovava dietro di esso.

Allungò una mano verso Zoe, che continuava a seguirla con il fiatone, e che ogni volta che i loro sguardi si incrociavano le rivolgeva un occhiataccia allusiva, cercando di rimarcare il suo disappunto per ogni suo singolo gesto.

Il braccio di Thalia rimase sospeso in aria, teso e flesso verso l'altra, con la mano spalancata, pronta ad acchiappare la sua.

Zoe era consapevole del fatto che accettando quell'aiuto, e raggiungendo la ragazza dall'altura di quella roccia, congiungendo in una stretta le loro fredde mani, avrebbe suggellato la loro ipotetica alleanza, e non era esattamente sicura di volerlo fare.

Alzò lo sguardo verso l'alto, ed incrociò il volto della corvina, che la fissava con aria sicura e rassicurante, continuando incessantemente ad allungare l'arto sinistro verso il basso.

La chioma nera le ricadeva appiattita sul volto, per via delle gocce che continuavano a cedere dall'oscurità nera del cielo, ma Zoe riusciva comunque ad intravedere la bellezza singolare e dura che nascondevano quei lineamenti determinati.

Allungò titubante un arto superiore, rendendosi conto del leggero tremore che la scuoteva, ignorandolo repentinamente ed andando a congiungere il suo palmo affusolato, con quello ricolmo di cicatrici fresche dell'altra. Sorprendentemente notò quanto quel contatto si fosse rivelato caldo e sicuro, e non gelido come si era immaginata.

Fece forza sugli arti inferiori ed aiutata dalla compagna, raggiunse la liscia superficie marmorea che si trovava al culmine assoluto d'altezza appartenente a quell'arena, accettando in un muto gesto di consenso quella loro provvisoria unione costituita al fine della sopravvivenza.

Quel punto grigio e desolato in cui erano giunte, era totalmente oscurato da una fitta nebbia pallida, probabilmente per via della massima ripidità che riservava sul livello generale.

Le due, provarono ad allontanarsi di qualche centimetro, ma rischiarono addirittura di perdersi, sparendo in mezzo alla foschia fittizia di quella cima, tanto che concordarono, alquanto a disagio, di continuare a tenersi per mano per non rischiare di perdersi di vista.

Il suolo pareva liscio e grigiastro, senza ulteriori rilievi o fosse improvvise, ma era comunque meglio ispezionare attentamente l'orizzonte, dal momento che potevano rischiare di incorrere in un eventuale invisibile campo di confine, ed era meglio non scontrarsi con uno di quei recinti se si voleva restare in vita.

Continuarono a proseguire rettamente, attente ad ogni singolo passo che compivano, con Thalia che guidava il tragitto anteriormente, e con Zoe che seguiva i suoi movimenti, stringendo fortemente la presa della sua mano, timorosa di perdersi.

Il vento continuava a soffiare prepotentemente, tanto che le due in parecchi istanti, rischiarono più volte di perdere l'equilibro e di cadere su quel suolo scivoloso, bagnato dalle lacrime di Urano.

Poi finalmente, le due scorsero la fine di quella montagna, o meglio, la fine di quel burrone.

Davanti a loro, nascosto dalla foschia e dalle rocce, si trovava, chilometri e chilometri più in basso, situato ad i piedi di quell'enorme rilievo, un enorme ed infinito mare azzurro, mare che raggiungeva la medesima tonalità intensa appartenente agli occhi, momentaneamente sgranati, di Thalia.

Entrambe erano a dir poco stupite, nessuna delle due si sarebbe mai aspettata che il loro confine non fosse stato una barriera tecnologica, ma bensì l'oceano naturale. Questa nuova prospettiva le aveva lasciate di sasso, trasportando con se mille idee di ribellione che cominciavano ad instaurarsi nel cervello di entrambe.

Quel panorama era da mozzare il fiato, ambedue si tenevano ancora per mano, con lo sguardo rivolto al di là della montagna, perso in un orizzonte oceanico tempestoso e celeste, limpido ma agitato. L'oceano si scagliava prepotentemente sulle rocce ove loro risiedevano, tornando però subito dopo a ricomporsi, formando delle onde perfette, per poi riandare nuovamente a scagliarsi contro i massi, in un gesto folle che a Thalia pareva simile a quei ragionamenti che potevano essere compiuti solamente da uno strano kamikaze.

Il cielo continuava a tuonare in lontananza, lanciando potenti bagliori chiari in quella nuova prospettiva, fermandosi poco prima di raggiungere il mare.

Ormai la notte era quasi giunta, e le nuvole oscuravano ulteriormente il minimo sole che ancora aveva resistito alle intemperie, ricoprendo con un velo di oscurità quella cima.

Entrambe realizzarono, superato il loro primo momento di stupore, che avrebbero dovuto scendere presto da quei grandi massi, per tornare a terra, prima che fosse calato il buio, o in alternativa avrebbero rischiato, durante la loro discesa, di cadere nel vuoto per via dell'illuminazione assente.

Si ripresero dalla loro ipnosi e, staccando le loro mani ormai calde, cominciarono a compiere qualche passo in retromarcia, in maniera molto cauta e lenta.

Ad un certo punto, un rumore sordo, totalmente differente da quelli che avevano udito fino a quell'istante, le distrasse dai loro attenti pensieri, cogliendole di sprovvista e facendole sobbalzare verso la direzione incriminata.

Avanzarono qualche passo, togliendo contemporaneamente l'arco dalla fodera, ed impugnandolo saldamente, con tanto di freccia inserita, entrambe pronte ad un eventuale scontro.

Ad un certo punto, ambedue videro materializzarsi, apparentemente dal nulla, una sagoma scura.

Una folata di vento trasportò la foschia verso il largo, rendendo per pochi istanti, chiaro e limpido il panorama, e fu allora che le due ragazze scorsero, la figura di un tributo che risiedeva chino davanti a loro, affacciato oltre quel burrone, pericolosamente in bilico.

Entrambe furono prese dal panico, e senza pensarci due volte, lasciarono andare due potenti frecce contro quella sottile sagoma, che solo a quel punto, percependo i movimenti dei loro archi, si accorse delle loro presenze estranee.

Prontamente, esso si difese con un grande scudo argentato, che aveva tenuto, saldamente stretto all'arto sinistro.

Quest'ultimo strumento, riuscì a difenderlo dall'impatto mortale di quelle armi, ma il tributo, voltandosi bruscamente per difendersi da quei tiri, mise male il piede, e finì con il perdere ugualmente l'equilibrio.

Precipitò, quasi a rallenti, in quel vuoto maledetto, riuscendo a tenersi all'ultimo minuto, solamente all'estremità liscia e complicata di quel rilievo piatto.

Thalia, realizzando l'impulsività erronea del suo gesto, assaporando già dei pesanti sensi di colpa, si precipitò verso il punto in cui quell'individuo stava per cadere, intenzionata a soccorrerlo.

Quel povero ragazzo non aveva fatto niente di male, erano state loro due ad attaccarlo per prime, e lei, personalmente non si sarebbe mai perdonata la sua morte, non avrebbe permesso la fine brusca di altri innocenti, non dopo quello che era accaduto a Luke.

Scorse la sua mano pallida, che tentava, faticosamente, di tenere con l'ausilio di sole quattro fragili dita, il corpo saldo a quel pessimo appiglio, rischiando di cadere per via del solo movimento molesto del vento.

Gli acchiappò il braccio con entrambe le mani, mentre Zoe continuava a fissare l'orizzonte con gli occhi semiaperti, incapace di metabolizzare cosa stava succedendo, affranta quanto la compagna per il suo stupido gesto poco riflessivo, immobilizzata dal panico.

Thalia riuscì a scorrere, tra il chiarore della nebbia, il volto corrucciato e terrorizzato del magro tributo che tentava di tirare su con scarso risultato.

Leo Valdez era cosciente che ormai per lui era finita, era grato a Thalia per il suo vano tentativo di salvataggio, ma in quelle condizioni era palese che se la ragazza non l'avesse lasciato andare istantaneamente, sarebbero caduti entrambi nel niente.

I suoi ricci scuri erano appiattiti contro le orecchie, il volto stanco, il cuore fermo in petto, mentre il freddo che gli trafiggeva le fragili ossa gli preannunciava il chiarore della sua bara, perché era sicuro che di lì a poco, ci sarebbe stata la sua fine, per altro, avvenuta in una maniera molto meno teatrale e scenica di quanto avesse sempre desiderato.

Ad un certo punto, Thalia, che cominciava ad avvicinarsi a quel vuoto pallido per via del peso di quel corpo che la trascinava verso l'oblio, si lasciò sfuggire la presa su Leo, per colpa della viscosità che aveva causato pioggia, che gli fece mollare irreparabilmente quel braccio, cosicché il ragazzo finì in pochi secondi tra le braccia scure di Poseidone.

Thalia vide come al rallentatore l'immagine del suo leggero corpo bruciacchiato scivolare sotto di lei, diventando solo un misero puntino in lontananza, per poi sparire sommerso dalle onde.

Un fulmine saettò rumorosamente nel cielo, con fare irrequieto e prepotente, e raggiunse rapidamente il mare, creando lo scoppio di una scintilla elettrica, come se quella morte ingiusta avesse appena scatenato l'ira del sommo Zeus.

Thalia si rese conto che stava urlando al cielo solo quando sentì le braccia profumate di Zoe circondarle la vita, accarezzandole il volto rigato dalla pioggia e dalle lacrime, tentando faticosamente di frenare il suo attacco di panico.

Entrambe si sentivano in colpa, prevalentemente la corvina, che momentaneamente si reputava alla stregua di un mostro, non era riuscita, per un ennesima volta, a frenare un fiume di sangue ingiurioso, ma era arrivata nuovamente troppo tardi.

Sprofondò in un pianto sommesso sulla morbida spalla dell'amica, che di tutta risposta, la strinse forte, e non la lasciò andare nemmeno per un secondo.

Rimasero in quello scomodo abbraccio per un lasso di tempo che parve interminabile, appollaiate al termine bagnato di un ripido burrone, intente meramente ad affogare nei loro sbagli.

Alla fine i capitolini erano riusciti a renderle degli assassini.

Il suono del cannone che scoppiò qualche istante dopo, fu la goccia che fece traboccare il vaso, o meglio, la psiche di ambedue, che si lasciarono trasportare per quegli istanti, in un tunnel di rimpianto e disperazione.

Ingiustizia, sentivano di essere ingiuste, di essere divenute delle carnefici, di esser diventate quello che avevano sempre odiato.

Thalia venne distratta solamente dal tremolante luccichio del possente scudo che era appartenuto un tempo a quell'adorabile ragazzo ispanico, che adesso era l'unica cosa che rimaneva di lui, e che brillava, in cerca del suo padrone, in un bilico tra la terra ed il vuoto, barcollante, sull'estremità dell'altura.

Thalia si sporse leggermente per afferrarlo, ed una volta che riuscì ad impossessarsene lo strinse forte al petto, passando i caldi polpastrelli sulla superficie ghiacciata di quello strumento, leggendo sottovoce la parola che vi era stata incisa sopra: Egida.

Chiuse gli occhi, percependo tutto il calore che aveva trasmesso Leo a quello strumento ormai esanime.

Un fulmine più potente di tutti gli altri divise il cielo notturno in due parti, accompagnato dal feroce grido della ragazza del cinque.

 

Nda: Heylà.

Adesso, ditemi che non sono troppo favolose Thalia e Zoe, io le adoro troppissimo, quindi non preoccupatevi, non avrei mai potuto farle morire insieme, tanto meno una per mano dell'altra… * per lo meno non ancora, muahahaha*

Spero che le descrizioni della parte alta dell'isola siano risultate comprensibili, in caso contrario vi prego di avvertirmi.

Per quanto riguarda Valdez, frenate il vostro istinto omicida, sono ancora giovane.

E poi, siete proprio sicuri al milleuno per cento che sia morto?

Io ancora non ne sono troppo sicura, ma vedrò di decidermi… chissà.

Tra l'altro, che cosa stava facendo sulla cima di un burrone armato di Egida?

Il piano è realmente andato in fumo? Saranno tutti spacciati?

Alla prossima. <3

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Capitolo 22
*** CapitoloXXI - BRINDISI MOLESTO ***


 

POLLUCE

 

Ethan continuava ad avanzare, muovendo una gamba alla volta, strascicando il passo in maniera estremamente lenta, lo faceva al fine di scatenare maggiore angoscia nell'individuo che si trovava difronte a lui, ed il suo intento stava perfettamente riuscendo.

Quella situazione era intrisa già di panico, e lui ne era estremamente affascinato, e lo dimostrava facendo raschiare la sua lunga lama di ferro lungo il terriccio secco, con fare estremamente psicotico.

Polluce stava visibilmente tremando, il cuore gli pulsava pressantemente in gola, la sua razionalità stava man mano sfumando, lasciando spazio ai suoi oscuri sentimenti, dei quali prevalevano la paura e la disperazione, che mischiate fra loro lo lasciavano in preda ad una totale e fitta confusione mentale.

Ad un certo punto, quando udì uno tuono provenire da una zona estremamente distante di quell'isola, si riprese momentaneamente da quell'assurda paralisi che l'aveva attanagliato al suolo, e provò a muovere qualche passo frettoloso in retromarcia,, mosso da un fremito di adrenalina, non osando però voltarsi verso la direzione in cui si stava dirigendo, perché ciò avrebbe comportato il dare le spalle a quel temibile avversario. Ascoltando questa sua sbagliata forma di logica, commise, per la seconda volta di fila, il medesimo errore.

Infatti, fu forse per questo motivo, o forse per la sua infinita sfortuna, che finì con il posizionare il piede sopra un estremamente inopportuno masso arrotondato, che ovviamente gli fece perdere l'equilibrio, già vacillante di per se.

In pochi istanti si ritrovò disteso precipitosamente a terra, accompagnato da un grande dolore alla caviglia, procuratosi nell'impatto di quella brutta caduta.

Il cielo sembrava divenire man mano più grigio, si stavano accumulando dei grossi nuvoloni proprio nella zona in cui era avvenuto l'incontro dei due ragazzi, Polluce suppose che di lì a poco avrebbe sicuramente iniziato a piovere.

Sembrava quasi che anche il meteo si stesse preparando per piangere la sua amara scomparsa.

Il vento soffiava violentemente, facendo barcollare i secchi alberi che contornavano quel panorama spettrale, portando via le poche foglie marroncine che erano rimaste coraggiosamente attaccate ai rami.

L'unico occhio tirato e profondo di Ethan, quello che non era stato ricoperto da quella logora bendatura biancastra, continuava a luccicare in maniera sinistra, quanto lo faceva il suo ghigno obliquo, che non prometteva decisamente nulla di rassicurante.

Quando il moro fu abbastanza vicino a Polluce da poterlo toccare, il cuore del biondo venne attraversato da una fitta di ricordi ed amarezza. Abbassò repentinamente lo sguardo, socchiudendo gli occhi in due piccole fessure e smettendo di cercare il volto bianchissimo del tributo, mentre si trovava ad esser ancora accasciato su quello sporco e ghiacciato terreno dell'est, in attesa che la sua fine straziante giungesse in maniera rapida ma dolorosa.

Non voleva guardare negli occhi il suo assalitore mentre compiva l'atto di togliergli la vita, non voleva farlo perché sapeva che leggendo la probabile espressione di pazza soddisfazione che avrebbe contornato l'unico occhio di quel mostro, la reazione che si sarebbe scaturita nel suo cuore stanco e ferito sarebbe stata pura rabbia, una rabbia folle ed inutile, e lui non voleva assolutamente estinguersi provando sentimenti stupidi come il rancore e la vendetta, perciò preferì concentrarsi nel rimirare quelle crepe scure che dividevano impercettibilmente quel suolo quasi roccioso.

Continuò a tenere lo sguardo basso, mentre i suoi occhi iniziavano a luccicare per la commiserazione, era talmente nervoso che senza accorgersene aveva iniziato a scavare nel terreno con i palmi delle mani, tanto che aveva le unghie rovinate dal fango.

Delle lacrime cominciarono a cadere dai suoi occhi, precedendo quelle che di lì a poco sarebbero precipitate dal cielo, andando a formare delle piccole chiazze umide sul terreno.

Il tempo continuò a trascorrere lentamente, e Polluce cominciava a chiedersi il motivo per il quale la sua attesa straziante si stava prostrando per così tanto tempo, capiva che probabilmente l'individuo che aveva incontrato era un sadico, ma tutto quell'aspettare gli sembrava alquanto esagerato, anche se non era totalmente sicuro dell'affidabilità della sua cognizione delle misure, non in quegli attimi stralunati.

Si fece forza ed alzò faticosamente il capo verso l'alto, cercando con il suo tremolante sguardo violaceo, quello cattivo ed allegro dell'altro.

Quando incrociò il viso consumato di Ethan però, restò parecchio interdetto e sorpreso.

La sua espressione era serie ed immobile, quasi triste. A quanto pareva aveva riposto la katana dentro l'elegante fodero scuro che portava legato alla vita, e sembrava pronto a tutto fuorché il commettere un omicidio.

“Perché non mi hai ancora ammazzato?” domandò fievolmente il biondino, utilizzando tutto il coraggio che gli era rimasto in circolazione per poter pronunciare quelle parole.

Il ragazzo si limitò ad offrirgli una calda mano, così da aiutarlo a rialzarsi da terra, ripetendo lo stesso gesto che aveva compiuto qualche giorno prima con la povera Rachel.

“Perché avrei dovuto fare una cosa simile? Non sono quel genere di persona, non sto partecipando attivamente a questo gioco, non uccido proprio nessuno per fare un favore al governo. Sono disperato quanto te, ho paura, non voglio morire, ed ho bisogno di un alleato” pronunciò tutto d'un fiato, perdendosi ad osservare il vuoto con le sopracciglia e le mani spalancate, emanando una credibilità degna dei migliori attori di Hollywood.

Polluce per un momento fu portato addirittura a credere nelle sue parole, tanta era la determinazione e la convinzione con cui erano state pronunciate.

La sua ipnosi però, fu presto interrotta dal ricordo delle urla strazianti che aveva lanciato la rossa ragazzina del 10, memorie che si abbatterono sul suo stomaco martoriato, capovolgendolo.

Continuò a scrutare in maniera riflessiva quella sottile pupilla, estremamente felina, che distingueva un terribile tributo, che proprio in quel momento, gli stava offrendo con un falso sorriso la sua graziosa mano macchiata dall'omicidio.

Realizzò che probabilmente era esattamente in quello stesso modo che era riuscito a convincere Rachel della sua affidabilità, aveva fatto leva sui suoi sentimenti smarriti e gli aveva offerto un ala di protezione sotto cui ripararsi, così da azzerare completamente i suoi sospetti.

Poi, quando si era stancato di lei, non aveva dovuto far altro che tradirla brutalmente, senza pietà, con un sangue freddo pari a quello di un rettile o di un verme, riducendo in mille pezzi il suo piccolo cuore confuso.

Una eruzione d'ira si fece spazio nelle vene pulsanti del più piccolo, che repentino riabbassò lo sguardo ormai corrucciato e fulminante verso il terreno, tentando di calmarsi e di non far trasparire minimamente le sue emozioni violente come una tempesta.

Quando rialzò la testa, la sua espressione pareva, infatti, tranquilla e rassicurata, anche se il suo corpo sentiva solamente il bisogno di vedere del sangue e della vendetta verso quel ignobile.

Mosse energicamente il braccio destro ed afferrò con candore la mano di Nakamura, tanto che lui, credendo che la sua recita fosse andata a buon termine , rispose al suo gesto all'apparenza simbolico con un largo e sincero sorriso, gesto che andò a creargli due fastidiose fossette ai lati della bocca.

Polluce in quel momento non desiderava altro che uccidere quel ragazzo, la paura era svanita in un solo battito di ciglia, per lasciare spazio ad una rabbia immensa, sentimento che non provava dai tempi della scomparsa del suo gemello.

Fino ad allora si era sempre limitato a reprimere la sua funesta ira, soffocandola con molta difficoltà, o nell'alcool o nelle lacrime. In quel momento però, sapeva che non sarebbe andata in quel modo, lui non avrebbe dimostrato più filtri ne limiti, e avrebbe dato libero sfogo alle sue emozioni, a costo di percorrere la via più ardua.

Non capiva il motivo per cui Ethan si ostinasse a lasciarlo vivo per così tanto tempo, ma supponeva che il motivo fosse dovuto alla sua psicopatia.

Probabilmente per la sua mente malata, un assassinio così semplice e diretto sarebbe stato troppo monotono, troppo facile, con ogni possibilità lui avrebbe voluto costruire qualcosa di più scenico e divertente, avrebbe voluto sentire delle grida straziate e tradite, non solo nella carne, ma anche nell'animo, e ciò non sarebbe potuto avvenire se prima la vittima non riponeva fiducia in lui.

Voleva giocare con Polluce, e il biondo, l'avrebbe sicuramente accontentato.

Si sollevò rapidamente in piedi, tenendo stretta la mano dell'altro ragazzo, strofinò i palmi sui vestiti sporchi, levandosi un po' di poltiglia di dosso, e si asciugò una timida lacrima solitaria, fingendosi ancora timoroso e titubante.

A quanto pareva, ad Ethan piacevano molto le commedie, adorava recitare e fingere di esser qualcuno che non era, per poi fare la sua mossa.

Polluce allora non sarebbe stato da meno, si sarebbe finto indifeso e soggiogato, ed al momento giusto, quando il moro, convinto di esser riuscito nel suo intento, avrebbe avuto un secondo di distrazione, l'avrebbe finito senza un minimo di riguardo, ricambiandolo con la sua stessa moneta.

Sapeva che fisicamente Ethan era molto più forte di lui, ed in più possedeva quella splendida spada lavorata a mano, mentre lui non avrebbe avuto niente con cui difendersi, perciò e per altro, la sua unica possibilità era quella di colpirlo alle spalle.

Decise che l'avrebbe seguito ed assecondato fino a quando non fosse giunto il momento propizio.

“Polluce, calmati, smettila di tremare. Non devi aver timore di me. Ti assicuro che sono dalla tua parte, non ti farò del male.”

Nakamura poggiò una mano sulla gracile spalla del basso tributo che barcollava dinnanzi a lui, si avvicinò mestamente, fingendosi preoccupato per la sua integrità mentale.

Il biondo alzò leggermente lo sguardo, andando ad incontrare l'occhio inespressivo dell'altro, con fare teatrale si strinse nelle spalle, e simulò dei singhiozzi.

Ethan lo abbracciò, colto leggermente alla sprovvista, ma gongolante per la piega che stava assumendo quella situazione, se veramente quel ragazzo era così insicuro, il suo piano sarebbe andato a buon fine senza complicazioni.

“Senti, vuoi stipulare un alleanza con me? In questo modo potremmo entrambi coprirci le spalle a vicenda, avremmo maggiore sicurezza e più probabilità di sopravvivere Non voglio metterti pressione, e se rifiuti non ti biasimerò. Quindi… ci stai?” domandò Nakamura, stringendo ancora più forte il corpo dell'altro tra le braccia, cercando di far trasparire un finto calore emotivo, ansioso di ricevere una risposta positiva.

Polluce nascose il suo sorriso sulla spalla destra destra del suo assalitore, contento di aver ottenuto esattamente l'effetto desiderato con quel suo gesto melodrammatico, Ethan credeva di aver trovato un piccolo cerbiatto ferito, e questo si sarebbe capovolto sicuramente a suo vantaggio.

Polluce sussurrò un sì di risposta e ricambiò quel falsissimo abbraccio, poi si staccò da quel corpo caldo e fece qualche passo all'indietro, mentre Ethan continuava a fissare con cura minuziosa ogni suo singolo gesto.

Il biondo si chinò a terra, ed afferrò l'unico strumento concreto che era riuscito a procurarsi dall'inizio dei giochi, ossia il piccolo zainetto giallo che aveva trovato nella piattaforma, che in quel momento giaceva per terra, vicino al masso rotondo dov'era inciampato qualche attimo prima.

Lo mise velocemente sulle spalle, senza pronunciare una sola parola, sotto le occhiate inquisitorie dell'altro. Dopo aver fatto ciò, si risollevò da terra e si riavvicinò all'alta sagoma del moro.

Il vento continuava a soffiare insistentemente, e la folta chioma riccioluta del ragazzo si muoveva in maniera coreografica da destra verso sinistra, ricadendogli spesso sul viso arrossato dal gelo.

Il sole avrebbe dovuto cominciare a sbucare nel cielo, eppure, tanto si era nascosto bene tra le nuvole, che pareva che in quel giorno stesse già calando la sera.

“Che facevi da queste parti?” domandò, cercando di parere disinteressato e tranquillo.

Ethan gli lanciò rapidamente un occhiata che gli fece gelare il sangue, poi però, nel suo volto ritornò la medesima espressione pacifica che aveva mostrato fino a qualche attimo prima, annullando quel poco sentimento che era trasparito dalla sua aura qualche attimo prima.

Il suo stomaco lo salvò da quella domanda parecchio scomoda, brontolando rumorosamente.

In realtà, il vero motivo per cui il moro si trovava in quella parte trista e desolata di arena, era dovuto al fatto che lui fosse da giorni sulle traccie della forte Clarisse La Rue, ma spiegare una cosa del genere senza esser preso per matto risultava parecchio difficile.

“Come hai appena potuto constatare, si da il fatto che io abbia piuttosto fame, dal momento che non mangio qualcosa da ieri mattina. Il problema è che per colpa di questo tempaccio tutti gli animali si sono rintanati nei loro rifugi, e per me è a dir poco impossibile trovare del cibo in queste condizioni.”

Polluce poté leggere nei suoi occhi che quella che aveva appena pronunciato era chiaramente una bugia, stava per controbattere con qualcosa, quando improvvisamente una folle quanto geniale idea gli illuminò la mente, facendolo boccheggiare.

“Ah, se è così hai trovato la persona giusta. Io vengo dal distretto dell'agricoltura, ed è già da qualche giorno che raccolgo viveri presi in natura. Si trovano all'interno della mia borsa, potremmo girare un altro po' tra questi boschi per procurarci altre due piantine commestibili e poi potrei preparare io il pranzo.” rispose frettolosamente il ragazzo, stringendosi nervosamente le mani sudate dietro la schiena, cercando di non far notare il suo fremito nella voce.

“Mi faresti un gran favore agendo in questo modo.” si limitò a rispondere Ethan, accennando un sorriso bianco sull'angolatura destra delle labbra.

Era perfetto, Polluce era in grado di distinguere le piante e le bacche mangiabili, da quelle nocive, perciò gli sarebbe bastato raccogliere qualche spezia velenosa e servirgliela su un piatto d'argento, per poterlo fare fuori.

Nella sua mente era deciso, il metodo che avrebbe usato per eliminarlo sarebbe stato l'avvelenamento.

I due cominciarono ad incamminarsi verso un sentiero che sfociava verso l'ovest, in quanto entrambi avessero concordato di procurarsi del cibo nei boschi, e quelli di est erano veramente troppo miseri e rinsecchiti per poter offrire un qualsiasi tipo di risorsa. In più i gradi cominciavano a calare sempre di più, e la prospettiva di fermarsi in quel luogo per poi morire assiderati non era per niente appetibile.

Camminarono per un paio di ore, superando diversi massi che bloccavano il passaggio nelle zone frontali, cercando di muoversi cautamente, perlustrando il territorio, in modo tale da non rischiare incontri indesiderati con altri giocatori.

Sicuramente per Ethan sarebbe divenuto un problema fingersi buono e caro mentre squartava una persona, e nello stesso modo, a quel punto, anche la copertura di Polluce sarebbe crollata, quindi avevano concordato ambedue sull'essere prudenti e rapidi.

Comunque, dopo un po' di tempo erano riusciti ad imbucarsi, ancora indenni, all'interno della boscaglia mediterranea dell'ovest, dove in quel momento si stavano aggirando, in cerca di cibo.

Il panorama, in quella determinata zona, era tanto fitto di alberi e verde che a mala pena si riusciva a scorgere il colore spento del cielo.

Gli alberi si estendevano rettamente in tutte le direzioni, diversi per dimensione ed altezza, contornati da fiori piuttosto che frutti, ed accompagnati da cespugli schiariti.

Polluce propose a Ethan di andare da solo a cercare le risorse, desiderando di liberarsi della sua presenza durante la selezione, dato che comunque vi era una piccolissima percentuale di possibilità che Ethan sapesse riconoscere una pianta velenosa.

Così gli propose gentilmente di tenergli le spalle coperte mentre si dedicava al raccolto.

Lui accettò, e Polluce cominciò ad inoltrarsi in solitudine tra gli arbusti, studiandoli ed attraversandoli con cautela, riportando a galla i suoi ricordi del passato.

Cominciò a strappare con cauzione delle foglie e dei fiori, annusandoli, strofinandoli sul retro della mano, verificando la consistenza e il potenziale rischio in cui eventualmente poteva incappare.

Trovò molto materiale commestibile, tra cui degli aranci dolci, e degli aranci amari, che decise di riporre per prevenzione dentro la borsa.

Poi continuando a cercare, trovò una pianta di citrus medica, a lui del tutto familiare, dato che offriva quegli splendidi frutti che sarebbero serviti in seguito per andare a creare il chinotto.

Ripose anch'essi nello zaino, perseguitato ancora da quell'impellente voglia di bere, e deciso a preparare un po' di quella bevanda con le sue stesse mani, entro quella ispida giornata.

In quel momento, mentre raccoglieva con foga con questi ultimi frutti, scorse quella che sarebbe stata la sua salvezza.

Intravide un albero, molto basso e all'apparenza fragile ma estremamente colorato, dotato di piccole foglie giallognole che ricordavano per la forma quelle di una palma.

Da questo piccolo alberello penzolavano degli adorabili frutti di un colore rosso acceso, con qualche sfumatura nera, che ricordavano tanto delle coccinelle giganti.

Si avvicinò mestamente, con il proposito di scrutare meglio quella scoperta, in modo tale da togliersi ogni dubbio sulla sua provenienza.

Dopo una rapida ispezione, constatò che aveva visto giusto, quello in cui si era appena imbattuto era propriamente un albero dei rosari.

Quella magica creatura clorofilliana, produceva dei frutti, che all'apparenza sembravano terribilmente succosi, ma che in realtà erano tra i più pericolosi esistenti al mondo.

Un solo morso ad uno di quelli avrebbe comportato senza alcun dubbio la morte di un essere umano, e Polluce, fu terribilmente contento di esser riuscito a scorgerla tra tutte quelle piante.

Si guardò rapidamente intorno, riuscendo a percepire solamente la presenza di quegli alti arbusti, dopodiché si chinò verso quella pianta mortale, e si limitò a raccogliere un paio di quei frutti maledetti.

Con lo zaino carico delle risorse agricole più disparate, si diresse verso il punto in cui aveva stabilito per trovarsi con il suo alleato, ossia una piccola area tondeggiante nascosta dalle piante e dagli alberi, che gli avrebbe permesso, almeno finché il tempo e la foschia non li avessero aiutati con il loro offuscare, di passare momentaneamente inosservati, almeno per il tempo necessario che sarebbe servito per riposare le gambe e preparare il pranzo.

Polluce trovò Ethan accasciato ad un piccolo albero marroncino, con gli occhi semichiusi, e la spada stretta tra le dita biancastre, occupato da una specie di stanca dormiveglia.

Appena Polluce si addentrò nel loro cerchio, l'altro spalancò subito gli occhi, pronto ad un eventuale attacco, che placcò immediatamente quando notò il volto sorpreso del ragazzo dell'11.

“Quindi, hai trovato qualcosa?” domandò con voce roca Nakamura, rilassando le spalle e tornando ad appoggiarsi a quel magro tronco, fissandolo di sottecchi.

“Sì, sono riuscito a trovare parecchio materiale per oggi. Certo dalla frutta e dalla verdura on si può minimamente ricavare il livello energetico e proteico che si può invece trarre dalla carne.

Però fidati che se adesso mangiamo tutta questa roba, non siamo a rischio di svenimenti almeno fino a domani mattina.”rispose prontamente l'altro, con un sincero sorriso scaltro a contornargli il volto.

Polluce si avvicinò ad Ethan, sfilandosi lo zaino dalle spalle ed andando a sedersi di fianco a lui.

Poi entrambi aprirono quella sacca e cominciarono ad estrarne i vari frutti che il ragazzo aveva colto, andando a disporli ordinatamente su delle larghe foglie che erano già presenti in quella borsa. ambedue attenti nello schiacciare gli insetti e le blatte che provavano a bersagliare il loro pasto.

Tutti e due cominciarono a mangiare affamati le cose che si trovavano in superficie, cominciando dal cedro e dagli aranci, e finendo con l'ingerire persino cose poco appetitose come il rosmarino.

Ad un certo punto, Nakamura estrasse dallo zaino un frutto della citrus medica, ossia del chinotto, e spinto dalla fame e dall'apparenza soddisfacente ed appetitosa di quel frutto, provò ad addentarlo, ma dopo tre secondi si ritrovò a sputarlo mentre tossiva, con la lingua di fuori, estremamente schifato.

Polluce emise una fievole risatina, e poi lo avvertì su come stavano le cose riguardo quella piantina.

“Oh, quello è il pezzo forte, avevo intenzione di lasciarlo per ultimo, ma vedo che anche tu hai una gran voglia di mangiarlo. Si tratta di chinotto, ma è assolutamente impossibile mangiarlo in questo modo, il suo sapore è oltremodo amaro ed acido, perciò avevo intenzione di farne una spremuta, aggiungendo qualche spezia dolce e magari qualche altro frutto, in modo tale da creare qualcosa di decente. Ho davvero bisogno di bere qualcosa che non sia acqua.” affermò sospirando e passandosi una mano tra i capelli.

Ethan annuì, desideroso quanto lui di assaporare qualcosa di veramente gustoso, ed in men che non si dica gli offrì la sua bottiglietta vuota, abbastanza larga orizzontalmente, in modo tale che lui avesse un minimo spazio dove preparare quell'intruglio..

Polluce cominciò il suo rapido lavoro, spremendo e filtrando con le mani nude quel dolce e amaro frutto che sarebbe stato il mezzo attraverso il quale sarebbe arrivata la sua salvezza.

Lavorò su quel succo per un po' di tempo, mentre Ethan continuava a mangiucchiare qualche fogliolina di verdura, tra quelle ancora presenti nell'alto mucchio che avevano creato.

Poi, finalmente, il lavoro del biondo terminò.

Davanti a lui non si trovava più un anonimo frutto dagli ambigui colori del sole, bensì una specie di frullato, contornato con qualche grume, e nel quale vi era presente qualche galleggiante di spezia.

Di sicuro non si avvicinava minimamente al chinotto che il ragazzo era abituato a mangiare nel distretto, ma sembrava decisamente invitante in quel momento di panico e fame.

Ne sorseggiò un goccio davanti all'affannato Ethan, constando con stupore quanto quel sapore fosse decisamente squisito al suo palato in astinenza, lasciandolo deliberatamente vedere.

“Perfetto Ethan. Credo di aver terminato.

Non è esattamente perfetto ma è decisamente apprezzabile.

Adesso, per favore, porgimi anche la mia bottiglietta d'acqua, si trova nella piccola tasca interna del mio zaino.

Così divido la bevanda esattamente in parti uguali e non litighiamo per la quantità da spartire a vicenda.” pronunciò il ragazzo, sempre con un leggero sorrisino ed un tremito d'ansia a fargli tremolare il labbro.

Ethan si sporse verso il contenitore giallo, oramai vuoto e leggero, che si trovava a pochi centimetri oltre il mucchio di piante che avevano suddiviso.

Tastò un po' al suo interno, poi finalmente riuscì a prendere il medio contenitore vuoto che si trovava in quella tasca di fondo.

Porse il contenuto a Polluce, che l'acchiappò rapidamente, cercando di non far esplicare il suo tremolare.

Per non farsi beccare, nella cintura della sua divisa aveva riposto i frutti velenosi del rosario, in attesa solamente di inserirne uno dentro la bottiglietta del suo nemico.

Si voltò di spalle, e cominciò a travasare quella sostanza liquida equamente nella bottiglia trasparente di uno, come in quella dell'altro, attento a non far cadere nemmeno una goccia al suolo ed a non fare le porzioni inesatte.

Poi con una rapidità fulminante, mise una mano in tasca e afferrò i piccoli semini rossi e mortali che cominciavano a pesare nella sua cintura.

Con molta chalance, senza farsi vedere, li lasciò cadere frettolosamente dentro una delle due bottiglie, quella che avrebbe poi offerto ad Ethan.

L'operazione richiese pochissimi istanti, ed il moro non si accorse di nulla, nuovamente intento a dormivegliare ancorato a quel tronco secco e ruvido.

Polluce si sedette di fonte ad Ethan, scansando qualche pietrisco ed adagandosi, a gambe incrociate, con le bottiglie di chinotto ben strette tra le mani.

“Tieni Ethan, questa è la tua bevanda” disse Polluce, sforzandosi di sorridere forzatamente sotto gli occhi stanchi e offuscati dell'altro, offrendogli ovviamente il liquido avvelenato.

“Spero che questa specie di chinotto non ti faccia completamente schifo” concluse ridendo sotto i baffi.

Nakamura avvicinò il suo braccio lentamente, e poi afferrò la bottiglietta che gli stava porgendo l'altro, provocando un impercettibile senso di sollievo e leggerezza nel torace del biondo.

In quel momento un tono squarciò violentemente il cielo, accompagnato da una scintillante saetta che si abbatté nel terreno proprio vicino al loro, con il rischio di colpirli, facendo di loro due spiedini arrostiti.

Entrambi emisero un leggero urlo e sobbalzarono, Polluce si lasciò addirittura sfuggire da mano la sua bevanda, che ricadde al suolo e si riversò parzialmente.

Presto però si affrettò a riprenderla, ricomponendosi e tornando serio, nonostante il suo cuore battesse a mille per via dello spavento appena subito.

“Che tempaccio, vero Polluce? Sicuramente da qualche parte nel campo ha già cominciato a piovere bellamente, anche se è solo questione di tempo perché accada anche qua. Direi che è meglio muoverci, se in questo momento siamo ancora vivi è solo per fortuna, ma è meglio non approfittare troppo del fato. Non credi?” domandò Ethan, rimirando le foglie chiare degli alberi che volavano a mezz'aria, trasportate da una corrente fredda, ed accompagnate dal suono sinistro della pioggia in lontananza.

“Certo, prima di andarcene però è meglio se beviamo questo chinotto.

Anzi, proporrei un brindisi, brindiamo perché siamo ancora vivi, perché siamo dei sopravvissuti al destino.” esclamò Polluce, con il cuore stretto in una morsa di ansia.

Un sorriso ambiguo si diffuse sul volto di Ethan, che annuì con la testa e portò in alto la bottiglietta, facendola riflettere nel cielo.

Poi, cominciò ad avvicinare quel contenitore alla bocca, seguito a ruota dall'altro, che imitava alla perfezione i suoi movimenti, mentre sudava freddo, in pressante attesa che il ragazzo esaurisse quel veleno.

Entrambi fecero arrivare la bottiglia ala bocca, e tirarono un lungo sorso che prosciugò quasi l'intera bevanda, contemporaneamente.

Si staccarono assieme, e presero fiato, guardandosi negli occhi, come in una muta sfida.

Polluce sapeva che sarebbe stata una questione di attimi, prima che il veleno cominciasse ad agire nelle viscere del ragazzo, uccidendolo tra agonia e sofferenza, nello stesso modo in cui si era estinta la povera Dare.

Presto, le sue previsioni furono avverate, solamente, non come lui aveva previsto.

Polluce sentì una morsa stringergli violentemente lo stomaco, impedendogli di respirare decentemente.

Si piegò a terra, in preda ad un dolore atroce.

La sua salivazione cominciò ad aumentare a dismisura, uscendo dagli angoli delle labbra, ed affogandolo con il suo pressare.

Ad un certo punto dalle sua rosea ed angelica bocca bocca cominciò ad uscire una sinistra schiuma biancastra che pizzicava sula lingua.

Il ragazzo si sdraiò a terra e cominciò a contorcersi, non capendo cosa stava accadendo, troppo scombussolato dal dolore lancinante.

La sensazione era quella di milioni di aghi che ti tiravano le budella in svariate parti differenti, eppure le sue carni erano decisamente integre.

Cominciò a tossire, incapace di respirare, graffiandosi il collo per il panico, andando a togliersi la pelle che gli rimase attaccata alle unghi9e.

In quel momento tornarono in mente tutte le parole che avevano pronunciato i suoi compaesani, quando dicevano che sarebbe stato proprio il vino a metter fine alla sua vita d'inganno, che l'avrebbe ucciso come un cane proprio com'era accaduto a suo padre.

Tutto tornava, lui sarebbe veramente morto in quella condizione ridicola e vergognosa.

Spirò il suo ultimo sospiro, tra un boccheggio e l'altro, soffocando un grido di disperazione, con gli occhi totalmente spalancati ed un orripilante colorito verdognolo sulla pelle, proprio come era successo a suo fratello qualche anno prima.

Il cannone rimbombò nel cielo, arrivando a rimbombare perfino nelle zone più desolate di quel luogo.

Ethan, che era rimasto per tutto il tempo muto a gustarsi quella scena con grande piacere, si alzò lentamente da terra, con un colorito pallido.

Esplose in una sonora risata psicotica, tanto che cominciò a lacrimare.

Veramente quello stupido ed ingenuo biondino aveva provato a raggirarlo ed a fregarlo?

In verità, lui si era accorto fin dal primo momento che quell'individuo gli stava deliberatamente mentendo, ma aveva continuato a reggergli il gioco, solo perché tutta quella situazione si prospettava parecchio esilarante, e così era stato.

Nakamura si era insospettito parecchio quando aveva constatato la determinazione dell'altro nell'andare a raccogliere del cibo, poteva capire che essendo stato un tempo un agricoltore dell'undici quella prospettiva poteva risultare piacevole, ma quella reazione che aveva avuto era stata a dir poco esagerata.

Così non aveva fatto altro che seguirlo a distanza mentre raccoglieva fugacemente le sue risorse.

A quel punto, aveva certamente notato il suo timore ed il suo stupore nel trovare quell'ambigua piantina dai colori rossastri, così aveva presupposto che fosse velenosa.

Dopodiché, era tornato rapidamente nel posto dove si erano dati “appuntamento”, ed aveva cominciato a fingere un area spenta ed assopita, mentre in realtà stava trepidando interiormente per l'eccitazione.

Era riuscito senza dubbio a scorgere quel rapido ma non impercettibile movimento che aveva compiuto l'altro quando aveva aggiunto nella sua bottiglietta quelle palline rossastre, e ciò aveva confermato le sue teorie, quel biondino stava tentando di farlo fuori intossicandolo.

A quel punto, non aveva dovuto far altro che aspettare un momento di distrazione da parte sua, che in quel caso era stato costituito dal fulmine che era arenato proprio al loro fianco, per scambiare i recipienti.

Ed adesso si stava godendo a polmoni aperti quelle macabre e teatrali scene che stava mettendo i atto il suo amato alleato.

Si inchinò verso il corpo che giaceva in una posizione improponibile sulla terra, un orribile posa scombinata ed immobile.

“Oh, che dolce Giulietta, per mio amore si è suicidata con la stessa bevanda che ha amato tanto durante la sua esistenza”. Passò lentamente una mano tra i boccoli dorati del ragazzo, cominciando ad accarezzargli lentamente il capo, poi strinse i ciuffi in una forte morsa, e cominciò a tirarglieli, strappandoli a ciocche.

“Però, ahimè, il tuo Romeo ti ha mentito, non ti voleva realmente bene, ed in questo momento non è pronto a praticare un harakiri con questa sua bella lama giapponese.”

Finì di strappargli tutti i capelli che gli erano rimasti in testa e cominciò a tirargli calci energicamente sullo stomaco, ridendo a gran voce, con il pressante fiatone per via di quello sforzo.

Poi, una volta che ebbe massacrato al punto giusto quell'inferiore cadavere che aveva osato affrontarlo, riacquistò un minimo di serietà.

Guardò nuovamente il cielo, e si strinse le mani, rabbrividendo per via di quel freddo, cominciando ad incamminarsi verso la parte sud dell'isola.

Ma non prima di aver lanciato uno straziante grido al vento, urlo talmente forte ed intriso di sentimenti repressi, che fece tremare gli alberi e le foglie, facendo eco nella confusione della sa anima.

Quel grido malsano ed affannato affermava, con cotanta convinzione:- “Clarisse, ti amo, quindi: muori per me!”.

Intanto, Polluce continuava a giacere morto su quel terreno ormai fangoso, per via della pioggia che cominciava ad atterrare dall'alto, con la bocca spalancata e violacea, e gli occhi rossi che sembravano voler esplodere da un momento all'altro.

“Polluce e Castore si sarebbero ricongiunti, l'avrebbero fatto, almeno nell'aldilà, perché loro erano e sarebbero stati dei gemelli, per sempre, fino alla fine, anche nella morte.”

 

Nda: Mi scuso per l'infinito ritardo che ho impiegato nel postare questo capitolo.

Ho avuto due settimane assolutamente piene e la scuola mi sta uccidendo, ma in realtà sarei un ipocrita se usassi queste scuse per giustificarmi.

Questo perché, in verità, se davvero avessi voluto, avrei trovato sicuramente due minuti di tempo per scrivere.

Il punto è che ho avuto una specie di “blocco”, e perciò mi sono aggrappata a mille giustificazioni differenti pur di rimandare.

Però per fortuna questo periodo di crisi sembra esser terminato, ed in più a me non è mai piaciuto lasciare le cose fatte a metà, perciò sicuramente terminerò questa fanfiction (ed ho anche in previsione di postarne delle altre).

Dato che era da un po' di tempo che non pubblicavo nulla, spero di non ave fatto troppi errori, e che la mia scrittura sia egualmente comprensibile. In caso contrario mi farebbe realmente piacere ricevere una qualunque recensione negativa o comunque contenente di suggerimenti al fine di migliorare.

Se ce la farò posterò il prossimo capitolo questo lunedì.

Infine chiedo perdono e due minuti di silenzio per la morte del povero Polluce.

Alla prossima <3

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Capitolo 22
*** Capitolo XXII - ARACNE ***


Questo capitolo è il continuo diretto del numero XVIII , quindi se non l'avete ancora letto, consiglio per la vostra comprensione di dargli un occhiata prima di legger questo.

 

ANNABETH

Annabeth continuava a correre rapidamente sul terreno scosceso di quella ripida montagna, non accennando un solo gesto di esitazione o stanchezza.

Ormai il suo corpo era percorso da gocce di sudore freddo, che scontrandosi con il clima quasi gelido del luogo, le procurava una vistosa pelle d'oca.

Era da più di un ora che avanzava senza sosta, le sue braccia e le sue gambe erano molto stanche, il respiro pesante e forzato e le guance arrossate per la fatica.

Eppure l'idea di fermarsi non sfiorava per nulla la sua mente, ove regnavano soltanto pensieri di panico e di terrore che le impedivano di restare completamente lucida.

''Hey, imbecille! Vuoi aumentare il passo e raggiungere Annabeth? No perché c'è il rischio che tu cada accidentalmente con le chiappe per terra, diventando il pasto notturno di quegli esseri schifosi che ci stanno inseguendo. Questa prospettiva è di tuo gradimento?'' urlò Clarisse a qualche metro di distanza, agitando nervosamente i pugni.

''Considerando che io sono situato davanti a te probabilmente se i ragni mi raggiungessero per banchettare con il mio intestino, vorrebbe dire che tu sei già stata eliminata!'' si limitò a rispondere Percy, serrando la mascella.

Quei due stavano ancora battibeccando, da quando la fuga d'emergenza era iniziata non avevano smesso neppure per un secondo, e la faida verbale prospettava un estensione di lunga durata.

''Voi due là dietro! Sprecate meno fiato e muovete più le gambe, santo zeus!'' gridò la bionda con voce rauca, irritata da quel loro comportamento infantile in una situazione del genere.

I due ammutolirono in seguito a quell'intervento secco, un po' sorpresi nel sentire la sua voce così cupa, voce che non udivano trillare da quando nella loro strada erano sbucati quegli esseri terrificanti.

Non avendo molta possibilità di rifugio o fuga, i due avevano deciso di scalare ed attraversare maggiormente le montagne dell'est, sperando di riuscire a seminare o almeno contrastare la minaccia che incombeva su di loro.

Clarisse chiudeva la fila con fare protettivo, era la più esposta al pericolo.

Non si lamentava di quel fatto in quanto avesse deciso lei stessa di stare in quella postazione. Annabeth aveva la necessità di distaccarsi il più le era possibile da quegli esseri arancoformi e se fosse capitato a Percy il ruolo di chiudere la retta, probabilmente sarebbe già morto, non che a lei importasse della sua via, figurarsi.

I ragni continuavano a seguirli con un andatura normale, senza troppa fretta ne troppa calma, muovendo ampiamente le loro lunghe zampe affusolate, fissandoli voracemente con i loro otto occhi neri e vuoti.

Insieme formavano un microscopico esercito compatto, avvolti dalla leggera nebbia biancastra che rendeva il tutto più inquietante.

Il posto ove erano capitati era spoglio, secco, composto meramente da rocce e pendii sempre più ardui da superare.

I ragazzi avevano già superato parecchi ostacoli tra stenti e dolori addominali, le loro gambe sicuramente non avrebbero retto ancora per molto tempo in quella corsa disperata che palesava già dei vincitori avversari.

Ad un certo punto, mentre scalavano a mani nude l'ennesimo pendio, arrivarono improvvisamente davanti ad un vicolo praticamente cieco.

Una lunga parete rocciosa si estendeva davanti a loro, in maniera quasi perfettamente verticale, con poche rocce e rari ramoscelli che ne avrebbero consentito un eventuale appiglio.

Per i ragni percorrere quella parete sarebbe stata una vera e propria passeggiata per via della loro conformazione elastica, ma lo stesso non si poteva dire per Annabeth e gli altri.

La ragazza rimase per qualche istante ferma ad indugiare, completamente preda della paura, guardando più e più volte con i suoi tesi occhi grigi il panorama che si estendeva alle sue spalle, scrutando tra il secco e nebbioso ambiente in cerca di una via di fuga.

Clarisse e Percy la stavano raggiungendo rapidamente, ormai zitti ed estremamente concentrati sui loro passi.

La bionda guardò per qualche istante nei profondi occhi azzurri del moro, ipnotizzata da quell'oceano tempestoso che si poteva scorgere se si faceva attenzione, e seppur in lontananza, riuscì a cogliere un barlume di speranza che man mano prese spazio nel suo cuore.

Nonostante la parete fosse quasi insormontabile, allungò un braccio e cominciò ad arrampicarsi, d'altronde si era allenata molto durante l permanenza a Capitol City, e di certo non avrebbe permesso a quelle bestiacce di versare il suo sangue ribollente di emozioni.

Trovò presto come appiglio la sporgenza di una roccia piccola e spigolosa, leggermente più esterna rispetto alle altre. Si sollevò con la forza degli avambracci, lasciando le gambe a penzoloni, fin quando non riuscì a trovare una piccola sporgenza vicino al suo busto, dove subito, approfittandosene, poggiò le gambe.

Le portò alle ginocchia e poi con un rapido scatto le tese facendo pressione sull'appoggio in cui già era aggrappata.

Dopodiché la scalata le venne leggermente più facile, continuò a proseguire rapidamente per quella altura, concentrata sulla sua conformazione sgretolata, impedendosi di guardare in basso.

I due ragazzi presto arrivarono davanti a quel vicolo a loro volta, e non sapendo alternativa migliore, imitarono l'esempio di Annabeth, seguendo precisamente le sue orme.

I ragni intanto cominciavano ad esser sempre più vicini e l'atmosfera si faceva più pesante.

Clarisse fu costretta a lasciar andare in maniera riluttante il suo zaino al suolo, schiacciando qualche ragno e tramortendone alcuni per qualche istante.

L'unica cosa che aveva mantenuto era la sua lancia, infilata saldamente nei pantaloni, che le urtava la pelle e probabilmente le avrebbe causato qualche taglietto, ma dal quale per questione di sopravvivenza non poteva separarsi.

Mentre il suo zaino era caduto dal suo interno era uscito il piccolo tacchino che aveva cacciato poco prima, sfracellandosi al suolo.

Percy, che sentendo il tonfo si era girato a guardare, aveva potuto notare come in pochi secondi quei mostruosi esseri scuri si fossero precipitati su quello che avrebbe dovuto costituire la sua cena, aprendo le loro orribili fauci umide e finendolo in pochi istanti, lasciando al suolo solo un mucchio di ossa.

Quell'immagine lo fece rabbrividire dalla testa ai piedi e subito la sua andatura si fece più veloce, tanto che riuscì quasi a raggiungere Annabeth, a cui ormai mancava poco per giungere in vetta.

La ragazza infatti sporse una gamba sopra l'arrivo e si sforzò di distendere il suo corpo su quella superficie finalmente orizzontale.

Le sue mani ormai sanguinavano, le unghie erano tutte spezzate ed asimmetriche.

Schiacciò la faccia contro il suolo, tossendo a quel contatto ravvicinato con la sottile polvere rossastra.

Si permise qualche secondo di riposo, sdraiata placidamente contro quel pavimento spigoloso e scomodo, con il busto che si alzava e si abbassava affannosamente, in cerca di ossigeno pulito.

Ormai il cielo si era decisamente scurito ed il freddo imperversava nell'aria, portando con se un leggero e mesto venticello che faceva muovere gli alberi in lontananza.

La nebbia a quell'altezza era piuttosto fitta e la ragazza non poteva vedere nitidamente fin ove si estendeva quel tetto di burrone.

Intanto Percy e Clarisse si facevano sempre più vicini, muovendosi tra le rocce frettolosamente, con delle espressioni corrucciate e determinate in volto.

La bionda per qualche istante si sentì rincuorata dalla perseveranza dei due, che seppur terribilmente stanchi, come lei, non davano segno di cedimento.

Quando vide che pochi metri la separavano dal ragazzo, si sporse verso di lui, tendendo la mano che lui afferrò prontamente, lo trascinò verso quella superficie, sforzando il tendine già dolorante.

Clarisse non era molto più distante da loro due, ma i ragni si facevano sempre più vicini, ed il suo passo per quanto veloce non poteva essere superiore al loro zampettare.

Percy ed Annabeth preoccupati tesero le loro mani, cercando di allontanarli il più possibile dal corpo della ragazza, iniziarono a lanciare per sino dei sassolini nella loro direzione con l'intento di farli precipitare.

Presto anche Clarisse giunse sul tetto, aiutata dalla presa dei due ragazzi, subito seguita però dai loro predatori.

I tre cominciarono a muoversi rapidamente tra la nebbia del burrone, non sapendo esattamente ove stavano mettendo i piedi, fin quando, sfortunatamente o fortunatamente, non scorsero la fine di quel luogo.

Quella ripida parete si infrangeva in un enorme mare bluastro, che avrebbe fatto concorrenza a quello che risiedeva nello sguardo di Percy, ma che purtroppo sembrava molto più distante e pericoloso.

I tre si scambiarono delle espressioni spaesate, non sapendo esattamente cosa fare, probabilmente avrebbero pianto se solo ne avessero trovato le forze, ma il loro inconscio gli suggeriva che le risorse lacrimali dovevano conservarle per altre situazioni.

I ragni cominciarono a fare il loro ingresso anche su quella zona nebbiosa, uno dietro l'altro, trascinando con loro dei granelli di polvere e sassi.

Le zampe scure erano nascoste da quell'afa bianca ed i loro corpi parevano quasi volteggiare nel nulla.

La figura di Annabeth si fece subito più tesa, a quel punto per lei era veramente giunta la fine.

Cominciò ad indietreggiare di qualche passo, fino a raggiungere l'estremità di quel dirupo, deglutendo rumorosamente.

Chiuse gli occhi e provò a lasciarsi andare di spalle in mezzo al vuoto, ma il suo corpo tremante venne immobilizzato tra qualcosa di caldo e morbido.

“Annie! Sarai mica diventata stupida tutto d'un colpo? Che pensi di fare? Vuoi buttarti tra le braccia della morte?”

Il ragazzo quando l'aveva vista tentare di compiere quel gesto affrettato l'aveva subito bloccata immobilizzandola tra le sue forti braccia piene di cicatrici, senza titubanza o timore.

“Testa d'alghe! Che pensi di fare tu, piuttosto? Non puoi dirmi cosa devo o non devo fare! Quindi ora lasciami andare, so decidere da me!”

Il ragazzo incrinò lo sguardo preoccupato sotto la potente affermazione della ragazza, provò ad aprire la bocca per protestare, ma l'altra lo precedette.

“Dimmi, quali sono le alternative? Essere divorati vivi da questi esseri ripugnanti? È questo che mi consigli? Non c'è altra soluzione,morirei comunque, almeno lasciami decidere in quale modo.”

Il ragazzo allentò la presa del suo corpo e fece un passo all'indietro, con le lacrime agli occhi.

Annabeth gli offrì un sorriso malinconico, prima di lasciarsi cadere tra la nebbia.

Il suo corpo però venne bloccato ancora una volta da una mano del ragazzo, che la teneva in un equilibrio terribilmente instabile.

“Ehi! Mollami ti ho detto! Sennò qua ci finiamo secchi tutti e due!” gridò spazientita, osservando preoccupata l'avvicinamento di quei ragni.

“Non ti lascerò cadere da sola.” affermò seriamente il ragazzo, dopodiché la strinse nuovamente in un abbraccio.

Insieme compirono l'ultimo e fatale passo in avanti, lasciandosi cadere silenziosamente tra il vuoto più intenso.

Supportato ed incoraggiato solo dal battito del suo cuore.

Clarisse aveva rimirato tutta la scena con gli occhi sbarrati, non credendo a quanto potessero essere idioti quei due se messi insieme.

Tolse con un rapido movimento la lanci rugginosa dall'interno dei suoi pantaloni, sentendosi sollevata nel percepire la pelle libera da quel ruvido e fastidioso contatto metallico.

I ragni si stavano avvicinando e lei non sarebbe caduta senza prima lottare, in tutti i sensi.

Cominciò a respingere i primi esseri con la punta di quell'arma, infilzandoli o spazzandoli via, non facendo rimanere l'arma ferma per neppur un istante, temendo che altrimenti quelle piccole besti ne avrebbero approfittato per ripercorrerla e raggiungere il suo braccio.

La sua fronte era imperlata di sudore, ma il suo torace non smetteva di flettere da una parte all'altra, facendo roteare la lancia con ampi movimenti.

“Maledizione” sussurrò, facendo un passo indietro, notando come i ragni si stavano moltiplicando, togliendole ogni via di scampo.

Fu un attimo che una di quelle creature infernali riuscì a raggiungerla con un balzo, atterrando sul suo collo e dandole quella fastidiosa sensazione di formicolio.

Subito tentò un piccolo morso provocandole un leggero dolore.

Non poteva levarselo di dosso in quanto fosse troppo occupata a combattere contro tutti gli altri.

Presto altri due ragni riuscirono ad assalire il suo corpo, fin quando non si aggiunse un quarto, e poi un quinto.

Alla fine, terrorizzata e rassegnata a quell'orribile destino, lasciò andare con riluttanza la sua arma al suolo, scagliandola sul pavimento ed abbattendo un po' di quei corpicini viscidi.

Dopodiché prese a correre in direzione del burrone, sperando che non fosse troppo tardi.

In un solo istante le sue gambe si staccarono dal suolo, facendo scontrare la pelle muscolosa con la leggerezza dell'aria.

La sua nobile figura irruppe nel cielo fiera come quella di un'aquila reale.

Purtroppo però quella sensazione di libertà che la pervase durò ben poco, giusto il tempo che la gravità tornasse a far il suo lavoro, tagliandole d'improvviso le sue bellissime ali bianche e facendola precipitare goffamente verso il nulla.

 

Nda: Eccomi, dopo eoni sono tornata!

Ultimamente non sono stata attiva per vari motivi, tra cui la salute e la scuola, alcuni mi hanno chiesto addirittura se avevo intenzione di mollare la storia, e la risposta è stata assolutamente no, per quanto possano essere lunghi i miei ritardi non mollerò prima della conclusione dei giochi.

Detto ciò, cercherò di essere più presente in futuro, giuro sullo Stige!

Spero che questo capitolo dove ho inserito un po' più d'azione possa esser di vostro gradimento, in caso contrario, vi prego di farvi avanti con delle critiche al fine di migliorare.

A presto <3

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Capitolo 23
*** Cap. XXIII - IL SOPRAVVISSUTO ***


LEO VALDEZ

Leo Valdez rimirava con occhi socchiusi lo scenario che si era appena palesato davanti a lui, nell'oscurità presente in quella sera era arduo distinguere cosa stesse accadendo, eppure era palese che effettivamente qualcosa sembrava essersi mosso.

Inizialmente ebbe paura che avessero scoperto la sua posizione, e conseguentemente, il fatto che lui fosse ancora vivo, indietreggiò di qualche passo, con il cuore che cominciava a battere velocemente, stringendo in una morsa la cicatrice che si trovava impressa nel braccio desto, ricominciava a bruciare sotto l'influsso preoccupato dei suoi pensieri.

Per evitare quel fastidioso dolore sull'arto respirò a fondo, cercando di mantenere la calma e studiare con cura un eventuale soluzione per ogni evenienza, come del resto aveva sempre fatto.

Poi, nel silenzio di quel luogo chiuso in cui era vincolato, udì il rumore degli spari di cannone ad, almeno apparentemente, non molta distanza dalla sua collocazione, l'eco rimbombò nelle sue orecchie appuntite, infondendogli adrenalina.

Successivamente a questi spari ci furono molesti movimenti dell'acqua, e fu probabilmente in seguito a questo che ipotizzò l'evenienza che qualche altro tributo era caduto dalla scogliera proprio come lui.

Restò interdetto sul posto, non sapendo cosa fare, adesso era certo di quel che aveva sentito, tre nitidi spari che annunciavano l'imminente, se non già avvenuta morte di tre persone a lui rivali, tre umani che senza il suo intervento sarebbero morti.

Non conosceva l'identità di queste persone, ma spinto da, come lo chiamava lui, un impeto di moralità, decise di uscire allo scoperto e tentare un impacciato salvataggio di quelle ignote figure, rischiando a sua volta la morte, senza un ulteriore margine di titubanza.

Si immerse nella gelida acqua del mare, che per quanto potesse essere artificiale, era estremamente salata, tanto che tenere gli occhi spalancati era un vero e proprio supplizio.

Respirò un ampia boccata d'aria e si immerse completamente.

Nuotò rapidamente tra il profondissimo blu situato in sua prospettiva, non osando però inoltrarsi in quell'abisso apparentemente infinito che si trovava nel fondale e pareva pronto ad inghiottire eternamente qualunque cosa.

Inizialmente non riuscì a scorgere niente di anomalo, distinguendo solo quelle sfumature scure costituite dai pesciolini e dagli esseri marini e le ombre sfuggevoli di qualche pianta.

Dopo un po' finalmente iniziò però a scorgere delle sfuocate sagome muoversi nell'orizzonte marino, sprofondando lentamente verso il buio di quel paradiso infernale.

Si diresse a grandi falcate verso di loro, sperando di star andando incontro a dei tributi e non a degli squali mortali, anche se probabilmente alcuni di essi potevano avere lo stesso livello di pericolosità di quegli animali.

V'erano tre corpi, che parevano privi di coscienza, probabilmente per la pressione di quell'impatto.

Non ebbe un grande lasso di tempo per scrutarli, ma si accorse subito che uno apparteneva alla ragazza bionda del distretto della tessitura, con i suoi ricci capelli che ondeggiavano sul suo viso corrucciato in un espressione triste.

A poca distanza da lei v'era il ragazzo del distretto marittimo, piegato in una posizione quasi fetale, con gli occhi semiaperti ed un espressione rassegnata.

L'aria nei polmoni di Valdez cominciava a terminare, ed immaginò che lo stesso valesse per quelle persone, perciò si affrettò a prendere i due ragazzi per i polsi ed a nuotare faticosamente verso la grotta sottomarina in cui si era rintanato ormai da giorni.

Fortunatamente quei corpi sott'acqua parevano estremamente leggeri, ma non abbastanza da permettergli di prendere tutti e tre, così si limitò ad afferrare i primi due ed a dirigersi faticosamente, muovendo agilmente i piedi in un tentativo disperato di risalire in superficie.

Appoggiato dalla sorte riuscì a raggiungerla, ringraziando subito dopo il cielo e sopratutto sua madre che sicuramente era diventata uno splendido angelo che vegliava su di lui.

Il tempo per le cerimonie celestiali però non era ancora giunto in quanto doveva tornare a salvare, o almeno provarci, un altra persona.

Trascinò con non poca fatica i corpi rigidi di Percy ed Annabeth sopra la sporgenza rocciosa che distaccava il mare dalla grotta , e poi, dopo aver trattenuto una buona dose di ossigeno si rituffò in mare, cercando precipitosamente il terzo tributo.

Ebbe successo nell'avvistarla immediatamente, il suo corpo precipitava in profondità ad una certa distanza dal ragazzo, così Leo cercò di raggiungerlo il più velocemente possibile..

Afferrò un lembo della sua tuta e la attirò a se, una volta che si fu avvicinato abbastanza, poté notare i graffi ed i morsi che aveva sulle braccia e sulle gambe, probabilmente dovuti a qualche essere mostruoso che aveva inviato CapitolCity per movimentare quel vomitevole spettacolo, decise che doveva assolutamente mettere in salvo quella persona che pareva aver sofferto già parecchio, troppo per la sua età.

Con parecchio slancio le afferrò il braccio e cominciò a scalciare verso l'alto.

I suoi polmoni cominciavano a frasi stretti ed il corpo di Clarisse era sempre più pesante, ma nonostante tutto l'ispanico non vacillò e la tenne stretta a se, con gli occhi lacrimanti per lo sforzo.

Poi finalmente vide quella che ormai per lui era divenuta la roccia della salvezza, ed emerse buttando fuori tutta quell'anidride carbonica che aveva trattenuto e riprendendo un fiato regolare.

Trascinò anche Clarisse accanto ai corpi degli altri due, e cominciò a praticare un improbabile massaggio cardiaco a tutti e tre, disperandosi nel vedere che i suoi risultati non stavano propriamente andando a buon fine.

Si strinse i capelli per smaltire l'ansia e provò a sforzarsi di ricordare qualche nozione sul pronto soccorso che magari aveva udito durante la sua permanenza a CapitolCity o nel suo stesso distretto.

Poi finalmente si ricordò del respiro bocca a bocca, che pareva fare proprio al caso suo, ed anche se un po' riluttante ed impacciato provò immediatamente ad attuarlo, continuando i massaggi cardiaci.

Cominciò dal ragazzo, che pareva di ricordare chiamarsi Perseus, appoggiò le labbra alle sue e tentò di soffiare ripetutamente, cercando di fargli riprendere il respiro, ci provò più e più volte, fin quando finalmente, il tributo cominciò a dare segni di vita, muovendo il braccio.

Valez si staccò immediatamente e poté notare come il tributo cominciò a tossire e sputare acqua marina in maniera compulsiva, tenendo ancora gli occhi semichiusi, decise di lasciarlo riprendere autonomamente.

Si avvicinò rapidamente al corpo della ragazza bionda e cominciò a praticare in egual modo quel processo di soccorso, tentando di farla riprendere velocemente per passare a Clarisse.

Percy finalmente aprì gli occhi, ancora scosso, e si riprese da quello stato di trance, soprattutto perché la prima cosa che vide fu un tizio ispanico completamente fradicio e con delle strane orecchie da elfo “baciare” ripetutamente Annabeth.

Con la voce ancora rauca e troppa poca forza per potersi muovere esclamò “Ehi! Brutta faccia di bronzo! Che diavolo stai facendo alla mia ragazza?”

Leo si sorprese nel notare la sua imminente ripresa e si risollevò dal corpo della biondina, scuotendo il capo con fare scocciato

“Sto tentando di salvarle la vita sirenetto, quindi dato che vedo che stai abbastanza bene ti cedo il ruolo, così evitiamo pure sbalzi di gelosia con il tuo salvatore!” rispose Leo, per poi precipitarsi su Clarisse senza nemmeno voltarsi per sentire la risposta dell'altro.

“Che intendi dire con salv...Oh! Annie!” ad il ragazzo tornarono in un baleno i ricordi di quel che era successo prima della sua perdita di coscienza, e ritrovando una forza che non pensava di avere si precipitò sulla ragazza, imitando le azioni che stava compiendo Valdez su Clarisse, tentando di farla rinsavire

“Annie! Ti prego! Rispondi! Ti prego!”

Dopo un po' la ragazza aprì stancamente gli occhi, sputando a sua volta tutta l'acqua che aveva ingerito sul colpo, in seguito alla caduta.

Quando la sua vista si fu ripresa e focalizzata incontrò immediatamente gli occhi celesti di Percy, che la fissavano lucidi dalla commozione, con un espressione preoccupata.

Era alquanto confusa da quella situazione, sarebbero dovuti essere morti entrambi, stava per aprire bocca, ma il ragazzo non le diede il tempo di farlo e la strinse in una morsa stretta ed affettuosa, un abbraccio caloroso e sentito, che a quanto pareva non sembrava intenzionato ad interrompere ancora per un po'.

Si rilassò e lo abbracciò a sua volta, chiudendo gli occhi stancamente ed appoggiando il viso sulla sua spalla, felice di essere sopravvissuta.

Intanto Vladez continuava imperterrito ad assistere la mora, mentre quei due lo ignoravano bellamente, felici di essersi ritrovati.

Poggiò un altra volta le labbra sulle sue e riprese a soffiare, stanco ma determinato a non mollare, fu allora che improvvisamente, la ragazza che si trovava stesa su quel pavimento roccioso aprì gli occhi, ricominciando a respirare.

Istintivamente tirò un pugno sul povero volto di Leo, che neppure si era accorto della sua ripresa, e si allontanò dolorante, con sguardo corrucciato.

Clarisse sputò tutta la schifosa acqua che aveva in corpo e si mise subito a sedere, svegliandosi rapidamente e mettendosi già sull'attenti.

“Che diamine stavi facendo nanerottolo?” domandò retoricamente, puntando quei suoi occhi felini ed infiammati sopra il poveretto, che rabbrividì al contatto.

“Che piacere signorina! Vedo che la riconoscenza è di casa.” pronunciò facendo una smorfia, cercando di nascondere il timore nei suoi confronti.

“Sono seria, chi sei tu? Ed io non dovevo essere in fondo ad un burrone ora come ora? Dove sono finita?” si guardò attorno, potendo notare che si trovava in una cupa ed umida grotta sotterranea, con le pareti chiuse da tre lati, che sporgeva sull'agitato mare blu, colma di umidità , ma riparata dal vento ed abbastanza protetta.

“Le farà piacere sapere che questo luogo è il paradiso e mia cara, io altri non sono che Dio in persona! Scontato, vero?” disse muovendo la chioma bagnata al rallentatore, tentando di assumere un aria da figo che ai suoi occhi risultava solamente ridicola.

Clarisse spostò la sua vita sulle figure di Percy ed Annabeth che aveva notato poco prima sedere a qualche metro da loro, sembravano totalmente persi nella loro nuvoletta rosa.

“Che schifo.” enunciò sgranchendo la muscolatura delle braccia e spostando lo sguardo sull'orizzonte.

“In questo modo mi offendi, che modi!” ribatté Valdez, toccandosi il petto con aria melodrammatica e fingendo di essere offeso.

“Mi riferivo pure a te, moccioso, ma sopratutto a loro due, non sembrano preoccuparsi minimamente di me.” disse la mora indicando la coppietta con una nota di disprezzo.

“Che ci vuoi fare? È l'amour, sono così carini.” rispose l'altro guardando a sua volta la scena, senza sottolineare a sua volta che non si degnavano di badare nemmeno a lui.

Annabeth arrossì ricordando il gesto che aveva compiuto Percy qualche tempo prima, quando le aveva preso la mano e le aveva promesso che non l'avrebbe lasciata andare da sola, seguendola nella caduta.

Quasi nessuno aveva mai compiuto un gesto così amorevole nei suoi confronti e pensarci le faceva inspiegabilmente vibrare il petto.

Il ragazzo allentò la presa e si allontanò da lei, sempre guardandola fissa negli occhi, senza dire nulla.

La vicinanza dei loro visi si stava facendo man mano più corta, sembrava che una forza invisibile stesse ritagliando lo spazio che li separava, traendoli in ipnosi.

Annabeth chiuse gli occhi agitata, ma subito dopo li riaprì, in quanto sentì un acuto grido a poca distanza delle sue orecchie, che la fece sobbalzar e allontanar parecchio dal ragazzo, lui fece lo stesso, guardando stranito alla sua destra.

“Piccioncini, mi dispiace aver interrotto questo vomitevole momento di arcobaleni e cuori, ma si può sapere dove diavolo siamo finiti e chi è quel tizio?” disse Clarisse, soddisfatta di aver appena interrotto quel momento magico, ma ugualmente impaziente, indicando irritata Leo, che era rimasto sul suo posto a qualche metro da loro, e che rispose alla sua occhiata assassina agitando la mano e sorridendo, facendo l'occhiolino a tutti e tre con uno sguardo sornione.

Percy e Annabeth si guardarono intontiti, non avendo la minima idea di ciò che era accaduto, per poi tornare a rivolgere l'attenzione a Clarisse che proseguì offesa

“Comunque vedo che eravate molto preoccupati per me, cinici maledetti!” concluse con le braccia incrociate.

“Clarisse, scusaci, eravamo troppo storditi e la memoria era un po' offuscata, sicuramente ti avremmo cercato a breve.” disse Annabeth imbarazzata per la sua noncuranza, con lo sguardo basso, contorcendosi le mani.

“Veramente io non..” provò a replicare Percy, ma si bloccò dopo aver ricevuto una gomitata in pieno intestino dalla bionda, lamentandosi con guaiti ed imprecando sottovoce.

“In qualunque, caso, che dovremmo fare con quel tizio?” ripropose Annie guardando l'estraneo di soppiatto.

“Ehi bionda, siamo solo a qualche metro di distanza, ma posso far finta di non sentirti se me lo domandi per favore” sghignazzò Valdez, per poi rimirare le loro facce sorprese.

“È pericoloso?” ridomandò abbassando notevolmente il tono della voce, arricciando in un dito i suoi boccoli d'oro per il nervosismo.

Percy scrollò le spalle

“Io penso che di lui ci possiamo fidare, è stato lui che ti ha salvato la vita… Anche se a pensarci bene, ha tentato di baciarti!” esclamò facendo memoria, rabbuiandosi in volto per poi fissarlo truce.

“Te l'ho già spiegato, amico! Quello era un tentativo di pronto soccorso, respiro bocca a bocca, anche perché se fosse stato un bacio, potremmo dire che ho baciato pure te, e no grazie!” scosse la mano davanti a se con aria di superiorità.

“C o-Cosa? Tu mi hai baci-ciato?” domandò il ragazzo con la bocca spalancata, diventando rosso dall'imbarazzo, non poteva aver dato il suo primo bacio a quello strambo tizio deperito e narcisista.

Lo interruppe Annabeth che tratteneva a stento una risata “Beh, se le cose stanno come dice lui e tu puoi confermare ci ha davvero salvato la vita, non ti preoccupare troppo, non dovrebbe essere una minaccia.” concluse annuendo con il capo, continuando ad analizzare mentalmente la situazione.

Clarisse, che per tutto quel tempo era rimasta in silenzio con uno strano sguardo interdetto trillò neutra “Per me invece dovremmo ucciderlo per poi mangiare le sue intestina!” concluse in maniera pacata, come se avesse detto una cosa completamente normale e banale.

Tutti la fissarono con gli occhi sbarrati, specialmente Leo che cominciava a diventare man mano più bianco e nervoso

“Heyhey dolcezza, non mi sembra il caso di essere così violenta! Non sarei per nulla buono da mangiare, potresti prendere un infezione intestinale!”

Annabeth intervenne schiarendosi la voce, cercando di far rinsavire la ragazza tramite la ragione “Non agire affrettatamente Clarisse, ascoltiamo prima la sua versione dei fatti e cosa ha da dire, dopodiché potremmo stabilire con maggior certezza se è un pericolo o può diventare nostro alleato”.

La mora fece uno sguardo titubante, ma dopo averci meditato per qualche istante decretò

“ E va bene, ti concediamo di raccontarci la tua storia, ma ti conviene non mentire ed essere preciso.”

Il ragazzo sorrise per quella bella notizia e guardò con occhi pieni di gratitudine la bionda, ricevendo un occhiataccia da Percy.

“Beh, se promettete di chiamarmi Dio e di venerarmi per una settimana potrei pure accontentarvi” scherzò il moro con il suo solito fare da buffone.

Clarisse lo prese per il colletto della tuta ed avvicinò pericolosamente il viso alla sua mano, pronta a sferrare un colpo, con una lentezza estenuante.

“Va bene, va bene! Vi racconto tutto, quindi allontana quell'adorabile pugno dal mio bel faccino, di grazia.” annunciò deglutendo, e sedendosi con le gambe incrociate in maniera abbastanza composta una volta che la mora l'ebbe mollato.

“Prima di tutto, dovete sapere che io ho un piano per uscire da questa arena, un piano che non comprende la morte di tutti i miei alleati, bensì, la morte di questo campo di forza che ci tiene imprigionati. L'oggetto che porto al mio collo” disse indicando l'attrezzo quadrato e scintillante che pendeva tramite una catenina sul suo petto “ è una nanomacchina composta da tecnologia capitolina, che se raggiunge una determinata potenza di carica è capace di emettere radiazioni alfa capaci di urtare e far disattivare per un discreto tempo il campo di forza e le comunicazioni che ci tengono imprigionati in questo luogo.

L'unico problema è che non sono in possesso di nessun tipo di fonte energetica o meccanismo che può fornire l'energia necessaria per l'attivazione di questo aggeggio, ma teoricamente ho un idea che potrebbe rimediare a questa mancanza.

Detto questo, vi parlerò dei miei piani a riguardo in seguito, per ora mi limiterò a raccontarvi come sono finito qui.

Stavo tentando di trovare il limite, il circuito chiuso di questo sistema, quando sono finito sulla cima di un burrone completamente avvolto dalla nebbia.

Ero talmente concentrato nella ricerca del punto di confine che non ho notato l'arrivo di due ragazze, una di queste, presa dallo spavento, mi ha spinto verso il vuoto, provando subito dopo a salvarmi, ma senza riuscirci.

Così sono finito in fondo all'abisso, ho pensato di morire, e probabilmente così sarebbe stato, ma per qualche miracolo celeste sono riuscito a sopravvivere all'impatto, rimanendo cosciente durante la caduta.

Subito ho tentato di aggrapparmi ad una superficie, di qualunque tipo di essa si trattasse, ma dopo esser precipitato l'impatto mi aveva spinto ad un estrema destra, completamente al di fuori dell'ottica solare.

Per qualche miracolo sono riuscito a sbucare qui, in una caverna naturale sotterranea, nel quale le telecamere non possono arrivare.

Questo è doppiamente strepitoso per il mio intento finale, in quanto evito i pericoli esterni fino al momento propizio, dato che ahimè mi pensano morto.

È successa la stessa cosa a voi tre, immagino, e quando ho percepito il movimento delle vostre cadute tramite le onde che si sono infrante contro queste rocce e tramite i rombi degli spari mi sono precipitato per aiutarvi. Quindi nulla, prego.”

Percy lo guardò stupido, non avendo capito metà delle parole che aveva pronunciato, ma comprendendo in qualunque caso quanto quel tipo fosse sveglio e quanto si potesse rivelare un appoggio in quel momento di panico.

Clarisse sembrava ugualmente soddisfatta e colpita dalle sue parole, ed il suo atteggiamento sembrava più rilassato e tranquillo.

“Wow! Sono veramente colpita e mi congratulo con te! La tua idea sembra davvero geniale e la fortuna sembra assisterti! Inoltre ti ringrazio per il tuo gesto e mi scuso per la nostra titubanza, sembri un tipo affidabile e non ho percepito un minimo di menzogna nelle tue parole. In più ho riconosciuto la tecnologia che porti al collo, per quanto questa sia camuffata in una maniera impeccabile, tanto da aver eluso i sistemi del governo, questa è un ulteriore prova del fatto che non stai raccontando storie.” concluse Annabeth con un sorriso rassicurato che le incurvava le labbra.

“Ah!” si affrettò nel proseguire Leo “Mi stavo dimenticando di una cosa importantissima che dovete fare al più presto! So che sarà doloroso per voi, ma è l'unico modo che abbiamo per seminare completamente le tracce.” così interrompendola con impeto.

“Vi ricordate che prima di spedirci in arena ci hanno impiantato degli strani marchingegni sottopelle? Ecco, quelli altro non sono che segnali di localizzazione, dopo l'impatto con il mare dovrebbero essersi già fusi, ma io per sicurezza ho estratto il mio aprendo un taglio sul braccio, e vi consiglio di fare lo stesso.” disse preoccupato, mostrando la ferita ormai cicatrizzata che portava nell'arto destro.

Concordavano tutti sul fatto che fosse più che ragionevole seguire quel consiglio, anche se avrebbe fatto male, almeno li avrebbe protetti da qualsiasi potenziale pericolo.

Proposero Annie per svolgere il compito di “chirurgo della situazione”, dato che per il suo passato da tessitrice possedeva un occhio ed una mano piuttosto ferma, ed il suo intervento avrebbe arrecato meno dolore.

Cominciò dal braccio di Clarisse, aprì un piccolo taglio con il coltellino che gli aveva prestato Leo, e poi, con una rapidità calcolata afferrò lo sfuggevole oggetto rotondo che si trovava all'interno della sua carne, infilando leggermente la punta e spingendolo di sopra.

La mora non obbiettò e strinse i denti, per poi infilare ad operazione conclusa il braccio dentro l'acqua salata, che iniziò immediatamente a disinfettare.

Lo stesso processo venne riproposto per Percy, che si lamentò un po' di più, sotto le continue prese in giro di Clarisse, ed infine il turno passò ad Annabeth che tentò di rimanere il più composta possibile.

Una volta che tutti i localizzatori furono estratti, Valdez si immerse rapidamente in mare, per lasciarli precipitare verso il fondale marino apparentemente interminabile, in seguito tornò in superficie con niente più che un ampio sguardo soddisfatto.

Dopo qualche momento di silenzio dove il gruppo si occupò solamente della cicatrizzazione dei tagli che si erano appena inflitti, la bionda riprese la parola, rivolgendosi direttamente all'ispanico.

“Allora Leo, prima hai accennato ad una soluzione per quanto riguarda la carica energetica che ti serve per sabotare quest'arena, a cosa ti riferivi'?”.

Il ragazzo ingoiò la saliva rumorosamente, palese segno del suo disagio nell'esporre quest'ultima idea, si guardò intorno paranoico, ma venendo rassicurato immediatamente dall'isolamento che gli garantiva quella cavità marina, cominciò a parlare “È molto semplice cara, ora vi spiego...”

 

 

Nda: Heylà gente!

Ebbene si, non avrei mai potuto uccidere il fantastico Leo, anche perché in teoria deve mettere in atto il suo piano elaborato per salvare tutti quanti, ma quale sarà la soluzione del suo problema meccanico? Riuscirà effettivamente ad attuarlo?

D'ora in poi verrà affiancato dalla triplice alleanza guidata dall'adorabile *più o meno* Clarisse, quindi non saprei dire se le sue possibilità aumenteranno o diminuiranno, vedremo.

Alla prossima <3

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Capitolo 24
*** Cap.XXIV- INFANZIA CREMISI ***


Nda: In questo capitolo saranno presenti scene di violenza fisica.
Buona lettura ed alla prossima <3

ETHAN NAKAMURA

 

Il ragazzo tremava sotto l'influsso gelido dell'aria notturna, probabilmente durante la giornata si era spostato troppo ad est ed adesso ne stava soffrendo le conseguenze.

In quel momento sarebbe stato troppo imprudente inoltrarsi da un altra parte dato che era un orario tardo, molto tardo, non possedendo più la percezione del tempo quantificava solamente basandosi dall'intensità di colore del cielo.

Era l'orario dove chiunque avrebbe rischiato di incorrere in belve feroci od avversari furtivi ed egualmente violenti, in qualunque di questi due casi voleva evitare.

Seduto a terra, si trascinò verso una roccia grigiastra che splendeva sotto il chiarore della luna, fece aderire il suo corpo raggrinzito dalle intemperie a quella parete altrettanto glaciale.

Alzò lo sguardo verso il cielo nel tentativo di rimirare qualche stella, ma gli alberi alti oscuravano la visuale del cielo, tutto ciò che poteva osservare erano le ombre maligne che sfumavano la foresta.

In qualunque caso pensò che sarebbe stato tutto un artificio, anche se rincuorante e familiare.

Ethan non era una persona in alcun modo drammatica o riflessiva, viveva le sue giornate accompagnato da una subdola ed impulsiva ferocia, un misto di forze che da molto tempo ormai l'avevano reso come una bestia selvaggia e non più un uomo.

Agiva senza pensare, senza indugiare o razionare, gli unici momenti in cui si beava, era quando percepiva la sofferenza altrui, quasi come se volesse placare la propria.

Ma durante alcuni notte come quella il suo incantesimo maledetto terminava, ed i suoi sentimenti tornavano ed emergere, portando con se quel vuoto e quella solitudine estremamente umana.

Quei ricordi, quelle orribili memorie che l'avevano portato alla pazzia stavano riaffiorando.

Distese il braccio verso la luna, tentando di afferrare uno dei tanti rami di un albero.

Notò di aver una mano sporca di sangue, che fosse di uomo o di animale proprio non se lo ricordava e probabilmente non avrebbe fatto differenza.

Chiuse gli occhi e rivide il volto di suo padre, corroso dal pianto e solcato dalla pazzia, quel viso nella sua mente fu seguito dalle immagini dei suoi scheletri sepolti nei meandri delle intestina.

Il solo genitore che aveva conosciuto era un drogato, fin da quando lui aveva le prime memorie dell'infanzia, memorie composte da pillole e polverine.

Da quando ancora il bambino non sapeva camminare, da quando ancora non percepiva la negatività della situazione che viveva quotidianamente.

Tutti nel suo distretto consideravano quel suo unico familiare come un pazzo, forse perché parlava da solo, perché aveva scatti di nervosismo senza motivi opportuni, o forse perché una sera aveva provato a buttarsi da un ponte.

Ethan non sapeva e non capiva queste stranezze, non si capacitava del fatto che tutti lo odiassero e lo considerassero un violento, nei suoi confronti l'uomo era sempre stato amorevole e protettivo, non l'aveva mai ferito anche quando era stato distrutto fisicamente e mentalmente, veterano delle situazioni peggiori.

Nakamura non sapeva cosa fosse la normalità, sapeva solamente che suo padre era una persona fragile, che soffriva e piangeva, e iniettando tutte quelle siringhe nei suoi polsi bucherellati probabilmente tentava solamente di autodistruggersi, per risolvere o dimenticare un oppressione, un passato, di cui il bambino non era mai venuto a conoscenza.

Avvenne però che un giorno l'uomo venne deportato, sotto la segnalazione di molti concittadini, in un manicomio, un luogo terribile e grigio più simile ad un carcere che ad un ospedale;

Un luogo dove si scoprì in seguito esser condotti esperimenti illegali sui pazienti per provare delle nuove tecniche di tortura e manipolazione, servizio direttamente offerto dal governo capitolino.

Nessuno pensò ad Ethan ed alle conseguenze che quella prigionia avrebbe comportato.

In quel tempo aveva solo 12 anni, e che quindi dovette arrangiarsi da solo, procurandosi il cibo rubando nella speranza di non esser mai beccato e continuando a vivere abusivamente nella casa ormai considerata disabitata dove, tempo addietro, risiedeva insieme alla sua “famiglia”.

Ovviamente Ethan non trascurò mai il padre, ne osò dimenticarlo, andava tutti i giorni a trovarlo di nascosto in quel manicomio, si arrampicava su quella struttura spigolosa e si imbucava nella sua stanza tramite una finestra sganghera, senza mai farsi sentire dalle guardie.

L'uomo si dimostrava sempre contento delle sue visite, delle domande del figlio che giorno per giorno si premurava di come stesse, notando la sua aria sempre più stanca e debole.

Lui aveva sempre mentito per non farlo preoccupare, giurando di star riprendendo le forze e che a poco l'avrebbero dimesso.

Un giorno Ethan notò dei segni sul corpo del padre, cicatrici, bruciature, cuciture, ma esso continuava a negare qualunque anomalia, nonostante le sue parole venissero contrapposte al suo apparire man mano meno lucido e sempre più silenzioso.

Un giorno Nakamura, non fidandosi più delle parole dell'uomo, decise di intrufolarsi nella struttura prima dell'orario in cui era solito recarsi.

Fu in quel dì che vide suo padre soffrire e perire per mano di un potente e doloroso elettroshock, assolutamente illegale, svolto da due sadici medici dai camici candidi che non muovevano un dito per attenuare il suo dolore, bensì lo concentravano maggiormente segnando i risultati in un taccuino scuro.

Il bambino venne talmente scosso da quella visita che non si presentò in quel luogo per diversi giorni, quella scena tornava nei suoi pensieri ogni volta che chiudeva gli occhi.

Quando finalmente decise di recarsi per un solito incontro con suo padre, con l'obbiettivo di cercare una soluzione con lui per risolvere quel dramma, trovò al suo cospetto una specie di burattino vuoto;

Quell'uomo fragile e travagliato non era più dentro il corpo pieno di lividi, quello che incontrava era uno zombie, che non parlava e teneva lo sguardo vacuo fisso su qualcosa di inesistente, senza capacità di ragionare o compiere gesti autonomi.

Gli avevano risucchiato tutta l'energia vitale, di lui non rimaneva che la carne, senza più un anima.

Quelli furono i primi giorni in cui Ethan cominciò a provare dei lampi di rabbia così forti che gli fecero contorcere le budella, ma ancora la sua speranza non era morta.

In quei momenti si doveva allontanare rapidamente dal manicomio per non compiere atti stupidi o avventati, preda di una ceca e sorda angoscia.

Una di quelle stesse serate rappresentò l'ultimo momento in cui vide il padre, che durante un infame e fredda nottata, con le ultime energie che gli erano rimaste in corpo, decise di suicidarsi tagliandosi le vene nello squallido bagno adiacente alla sua stanza.

Il corpo del ragazzo una volta appresa la notizia fu invaso da una fortissima adrenalina che mai aveva provato durante la sua vita, un'adrenalina folle, che gli faceva bruciare le vene e gli faceva infiammare gli occhi dall'odio.

Un ragazzo normale probabilmente avrebbe pianto, si sarebbe rattristato, lui invece non provava niente di tutto ciò, solo odio amaro sul palato, nella sua mente venivano sussurrati periodi di morte.

Scappò nella sua casa con il cuore in gola e le mani che continuavano a tremolare euforiche.

Voleva vendicarsi a costo di morire, sentiva di dover farlo al più presto.

Rimase qualche giorno chiuso in quell'edificio, non sentendosi abbastanza forte psicologicamente dal potersi riavvicinare a quel luogo macchiato del sangue dell'unica persona che aveva tenuto a lui.

Rimase a casa a pensare per giorni, voleva irrompere con un piano geniale che avrebbe portato i carnefici del suicidio ad un pentimento eterno.

Ma la sua mente era troppo frettolosa e poco lucida per elaborare un piano anche solo decente.

Così successe tutto improvvisamente, una mattina fu prevalso da un angoscia viscerale, le sue mani pizzicavano interdette, per soddisfarle le munì di un grosso machete da taglio, machete trovato nei cassetti ammuffiti della sua cucina.

Cominciò a dirigersi verso il manicomio quasi soddisfatto, quasi contento di quello che stava per fare con un ghigno sinistro stampato sul volto.

Si addentrò nell'edificio passando come al suo solito dalla finestra rugginosa che affacciava nella stanza in cui un tempo risiedeva il padre, e che adesso invece era vuota e sconsolata, vuota e sporca, vuota.

La prima cosa che lo investì fu proprio l'opprimente odore di medicine, farmaci e morte che sprigionavano quelle pareti cupe.

Aprì con cautela la porta per uscire il più presto possibile, e questa scricchiolò in maniera inquietante.

Sbucò in un corridoio color ratto di fogna, quel luogo era tutto dello stesso colore, il soffitto presentava macchie d'umidità e minacciava di cadere pezzo dopo pezzo.

Era pieno di stanze chiuse a chiave da cui spesso provenivano lamenti soffusi, stridori e grida che faticava nel credere appartenere ad umani, accompagnati spesso da una puzza fastidiosa di bruciato.

Pensò che probabilmente stavano conducendo qualche altro raccapricciante esperimento.

Pareva un labirinto, una volta che svoltava l'angolo un altro lungo corridoio lo aspettava, uguale al primo, desolato e malinconico, prevalentemente spoglio fatta eccezione per qualche orribile arredo impressionista che sbucava di tanto in tanto appeso al muro e che stonava terribilmente con quel clima, arricchendolo solo di pessimo gusto.

Quell'ospedale psichiatrico avrebbe messo angoscia e timore a chiunque: era lurido, claustrofobico ed orribile, ma con Ethan non ci riuscì, lui ormai non si sarebbe più spaventato di nulla, era una persona diversa con un'anima che si rispecchiava in degli occhi folli.

Poi finalmente una di quelle stanze simmetriche si spalancò facendo uscire allo scoperto due alte e magre figure camuffate.

Un uomo ed una donna, probabilmente sulla trentina, che indossavano un lungo camice verde macchiato da goccioline di diversi colori.

Portavano una mascherina che gli copriva per metà il volto e sembravano discutere sottovoce di qualche faccenda importante.

Ethan non ci vide più dalla rabbia, ed in due grosse falcate li raggiunse, alzando in aria il machete e scagliandolo con violenza contro il corpo della donna.

Il suo cuore batteva all'impazzata e la sua sobrietà era completamente inesistente, niente avrebbe potuto appagarlo come il suono della carne che si spezzava contro la sua lama.

Divise in due la cassa toracica della donna, facendo irrompere il metallo dentro il suo petto e spappolandone gli organi, senza batter ciglio, con una fermezza incredibile.

Degli schizzi purpurei cominciarono a fuoriuscire da quel cadavere agonizzante, colorando vivacemente le pareti di quello strettissimo corridoio ed il viso da pazzo del ragazzino.

Nel frattempo, l'altro medico disgustato da quella vista oscena si affrettò nello staccare un pesantissimo e sporco quadro dal muro.

Lo lanciò con tutta la forza che aveva in corpo contro il capo chino del moro.

Nakamura si accorse troppo tardi del grosso colpo che gli stava per venir inflitto, era ancora intento nel cercare di togliere il suo affilato machete, che si era incastrato fra le costole del corpo inerme di quel medico.

Così gli arrivò in pieno, aprendo leggermente un taglio sulla sua nuca.

Cadde addosso a quell'insieme di organi che lui stesso aveva espulso e martoriato, tentando ancora di recuperare l'arma che ormai rappresentava la sua unica difesa, protezione, la sua unica speranza di farla franca.

Le sue forze lo abbandonarono e svenne tenendo ancora gli occhi socchiusi sotto lo sguardo esterrefatto dell'uomo in camice.

Sapeva che se qualcosa fosse andato male nel suo piano e se non sarebbe riuscito a fuggire avrebbe fatto una fine pessima.

Era cosciente di quanto la possibilità di disfatta fosse più alta di quella di vittoria, eppure non si diede per vinto, avrebbe avuto la sua vendetta a tutti i costi, ma adesso che il suo piano si era sgretolato si ritrovava a pagarne le conseguenze.

Adesso era sdraiato per un ennesima volta in uno di quei lettini senza materasso che disponevano in quel posto, le sue mani e le sue gambe erano legate, il suo stato era semi- cosciente, l'unica cosa che riusciva ad udire era il suono della sua voce che gridava scagliandosi contro le pareti umide di quella camera.

Dei visi coperti per metà erano chini sul suo corpo, probabilmente gli stavano aprendo il torace con un bisturi per poi riversare all'interno del suo corpo uno strano liquido verdognolo.

Da quando era stato catturato dentro quella struttura la sua vita era diventata un inferno, non sapeva quanto tempo fosse passato, i momenti in cui era sveglio erano rari e dolorosi, passava da una tortura ad un altra, costantemente sotto gli esperimenti di quei folli.

Ogni tanto pesava al padre per non impazzire totalmente, e rifletteva sul suo gesto folle, ed a come non lo biasimava più.

Piano piano smise di divincolarsi e reagire, trasformandosi in un burattino vacante, i medici smisero di legarlo e lo lasciarono spesso libero, confidando nella sua incapacità di pensare.

Un giorno però, usò quelle poche energie e quella poca sanità che gli rimaneva per fuggire, calandosi dalla finestra come faceva un tempo, senza per fortuna venir beccato o fermato.

Da quel momento aveva vissuto nel distretto con un ansia immane, nel timore che lo stessero cercando e che prima o poi lo avrebbero ritrovato per proseguire nel fargli del male.

Per lui era stata quasi una grazia esser chiamato per i giochi, almeno in quel modo aveva la certezza che non avrebbero potuto catturarlo.

Il flashback fortunatamente terminò e lui chiuse gli occhi, ancora poggiato su quel ramo, sfiorando le cicatrici ben nascoste nel suo torace che testimoniavano la sua infanzia.

Era consapevole di esser diventato un mostro, forse era nato così, ma certo la vita non lo aveva aiutato ed ora non poteva far altro che sfruttare questa sua indole spaventosa.

Stava per cadere in uno scuro sonno privo di luminosità, quando il suono di dei passi lo fece sobbalzare, svegliandolo di botto.

Dietro un albero due caleidoscopici occhioni splendenti lo scrutavano con la loro rara bellezza, mettendolo in soggezione.

Immediatamente impugnò la sua katana e si sollevò in piedi, muovendo qualche passo verso la ragazza che infreddolita e timorosa se ne stava nascosta dietro quell'albero identico agli altri.

Lei cominciò a correre come una gazzella alla vista di un leone, e lui prese ad inseguirla alquanto divertito.

Presto la perse di vista, l'oscurità di quella nottata non lo avrebbe di certo aiutato in quella ricerca, ma quella situazione lo stava intrigando e la sua personale caccia al tesoro era appena iniziata e non se la sarebbe di certo fatta sfuggire.

Cominciò a scrutare il fitto bosco, completamente monotono e congruente, in cui era impossibile scorgere la profondità.

Poi qualcosa si mosse alle sue spalle, si girò e vide nuovamente quella ragazzina dai capelli corti e spettinati fissarlo intensamente, come se lo stesse decodificando con il solo ausilio della mente.

Ricominciò immediatamente una corsa e questa volta Nakamura non la perse dalla visuale nemmeno una volta. Cominciarono a percorrere uno strano slalom tra gli ampi arbusti di quella zona boscosa, senza mai schiantarsi o perdersi, anche se il ragazzo era svantaggiato dato che ormai poteva scrutare il panorama con un occhio soltanto.

Poi lei fece la sua prima mossa falsa, poggiò male il piede venendo attirata verso il basso dalla forza di gravità, forse scivolata su del muschio.

Cadde in uno stagno ed Ethan ne approfittò per buttarsi sopra di lei, mantenendole i polsi.

“Si può sapere che vuoi?” domandò lei con voce ferma, senza lasciar trasparire la minima paura, però lui poteva sentire chiaramente il tremore del suo corpo che svelava i suoi veri sentimenti.

“Scusa per come mi sono comportato, non volevo atterrirti, solo che è da giorni che non vedo nessuno, e non riesco più a stare da solo, quindi speravo di poter parlare con te, ma dopo quello che è successo non posso far altro che scusarmi” si scostò per lasciarla libera, e lei si mise subito in piedi, mentre continuava a starsene inginocchiato con i piedi immersi nell'acqua, cosparso dal fango, decise di provare per un ennesima volta di finire la sua preda mettendo in atto quel teatrino.

“Se davvero è questo il tuo intento, dispiace anche a me, chi sei? Il mio nome è Piper. Provengo dal distretto uno” lei gli tese la mano accennando uno dei suoi soliti sorrisi dolci, anche se si poteva benissimo vedere che qualcosa nel suo sguardo non era convinto.

Ethan comunque credette ancora una volta di avercela fatta, e accettò la sua mano, abbracciandola subito dopo essersi alzato in piedi.

Fu in quell'istante che fece sgusciare la katana fuori dal suo fodero scuro, pronto a trafiggere nel cuore la sua nuova conoscenza, in quella nottata priva di pietà non aveva voglia di pazientare e le sue mani pizzicavano come in quella giornata di tanti anni fa, desiderose di omicidio.

La ragazza, con suo grande sorpresa, riuscì ad avvertire lo spostamento d'aria, staccandosi dalle sue braccia e gettandosi a terra, nel fango umido, facendolo schizzare pure sopra al ragazzo.

Lui rimase veramente interdetto da quella prontezza nei riflessi, mai aveva avuto un avversario tanto reattivo.

Si rimise subito diritto e caricò un secondo colpo all'altezza del volto della ragazza.

Lei rotolò a sinistra per non farsi prendere e la lama si infilzò nel terreno, sfiorandole i capelli e tagliandone qualche ciocca.

Si mise immediatamente in piedi e sfoderò Katropis, aveva intuito fin da subito che dietro quella maschera vissuta di fragilità risiedeva un oscurità fitta, difficile da contenere.

Non si spiegava quella sua sensazione, ma era sicura della sua veridicità, il suo istinto, il suo cuore si era sempre rivelato il miglior consigliere, e lei mai aveva rinunciato nel credere alle sue sensazioni che in quell'occasione le avevano salvato la vita.

Nakamura riuscì ad estrarre l'affilata lama dal terreno e caricò nuovamente contro la mora, che si fece scudo con il suo pugnale, stringendolo così forte da far aprire dei taglietti all'interno del palmo.

La forza del ragazzo era sicuramente maggiore della sua, le lame si sfioravano provocando fastidiosi suoni metallici e cercando di spingersi nell'estremità consecutiva dell'avversario, uno contro l'altro.

Stava per avere la meglio Ethan, allora la ragazza in un ultimo disperato tentativo lasciò andare la presa, facendo sporgere il ragazzo in avanti.

Per non perdere l'equilibrio fece si che la sua spada affondasse comunque dentro un albero.

Fu in quel momento, in una frazione di secondo che la ragazza approfittandosene caricò un ultimo e mortale colpo e piantò la lama di ferro nel collo del suo nemico, donandogli la morte.

Piper odiava fare del male alle persone ed in quel momento era traumatizzata per il gesto appena compiuto.

Si inchinò a terra con il corpo ancora vivo stretto tra le braccia.

Dalla ferita aperta all'altezza del collo cominciavano a sgorgare le prime bolle di sangue, fissò la scena con le lacrime agli occhi.

Era estremamente triste per quella fine, ma tornando indietro non avrebbe cambiato nulla, aveva agito così per sopravvivenza, era stato necessario.

Inoltre sentiva come un aria di cattiveria e malvagità abbandonare man mano quel corpo: rendendolo puro, libero.

Dentro di se Ethan non provava più paura o rabbia, cominciava a rilassarsi.

Sapeva che in vita sua non aveva compiuto nulla di buono e sapeva che sarebbe morto per contrappasso in una maniera altrettanto sdegna.

Finalmente il suo cuore ricominciò a trasmettere i sentimenti che per tutti quegli anni aveva trascurato, sprigionandosi da quelle pesanti catene d'odio che lo trascinavano sempre più a fondo.

Una lacrima scese dalla sua guancia, una lacrima di pentimento, rivolta a Rachel, Polluce e tutte quelle persone che aveva fatto soffrire in vita.

Tratti del suo passato riemersero davanti ai suoi occhi, portandolo quasi al pentimento, forse per la realizzazione dell'inutile spreco che era stata la sua esistenza, quanto in realtà al posto di esser un forte come si era convinto non era stato altro che debole.

Strano che il suo cuore ricominciasse a farsi sentire proprio ora che si stava fermando.

Ma per un ultima volta, nella sua memoria comparve un ricordo bello, che si era dimenticato di possedere ed era stato seppellito da tutto quell'ammasso di sporcizia che conservava all'interno del suo corpo.

Una scena che raffigurava suo padre, chino sui fornelli con indosso un logoro grembiule giallo.

Capì dalla vivacità dei suoi occhi che era ancora nel pieno delle sue facoltà.

Gli preparava il pranzo, umile come sempre ma cucinato con gran passione, mentre canticchiava amabilmente.

Una volta che terminò lo servì nel suo piatto, sedendosi al suo fianco.

Ethan poteva sentire quasi l'odore ed il sapore di quel pasto, il più buono che avesse mai mangiato.

Sorrise e rise per esprimere la sua gratitudine e l'altro lo abbracciò impacciato, racchiudendolo nelle sue magrissime braccia biancastre che parevano estremamente forti e protettive.

Gli sussurrò all'orecchio che gli voleva bene.

Spirò il suo ultimo fiato.

Nuovamente il caldo tornò a soffiare sovrapponendosi a quella corrente gelida, donandogli quel momento di serenità, solo alla fine come un piccolo premio di consolazione dopo aver passato una continua sofferenza.

Nakamura morì con il sorriso, e per una volta, con un sorriso vero e genuino che esprimeva serenità e non uno di quei ghigni sghembi che ormai lo caratterizzavano.

Il suono di un cannone si udì in lontananza, irruento e brusco in quella notte in cui le stelle tornavano ad emergere nel cielo.

Piper pulì il viso dal moro dalle lacrime e dal fango incrostato.

Gli congiunse le mani in segno di pace e lo abbandonò sulle rive dello stagno, depositando dei fiori dalle sfumature celesti sul suo occhio ferito e sulla sua gola aperta, in segno di rispetto.

Si rialzò in piedi con le gambe tremanti e dedicò qualche minuto nel pregare per il suo avversario.

Dopo si allontanò, con il vento che si infrangeva nei suoi capelli facendoli ondeggiare.

I suoi occhi erano carichi di una forza nuova ed una compassione malinconica.

Sparì tra i boschi, portando con se il ricordo di quel corpo offeso, adesso privo di malessere che giaceva prematuramente sulle sponde di uno stagno congelato.

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Capitolo 25
*** Cap XXV - FIGLIO DEL SOLE ***


WILL

 

Il ragazzo mangiava voracemente una piccola fetta di pane rinsecchito che gli avevano spedito qualche giorno prima,e che miracolosamente, era riuscito a farsi durare fino a quel momento.

Sedeva all'interno della solita cava buia e umida, in compagnia dell'ormai ufficiale compagno d'alleanza Nico.

Anche lui stava mordicchiando un pezzo di pane, Will aveva deciso di fare a metà con lui, ed alla fine il moro aveva ceduto alla fame, accettando quel gesto altruista, ma sentendosi un po' in colpa subito dopo.

A differenza sua non sembrava affamato, eppure aveva mangiato pochissimo in quei giorni, la sua coscia aveva la stessa circonferenza del polso di una qualsiasi persona in forma.

Il biondo capiva che forse quello era uno sfogo dovuto al trauma che aveva subito da poco, certamente non si era ancora ripreso, anche se sosteneva il contrario.

Lo vedeva dai suoi occhioni neri che di tanto in tanto diventavano opachi o annacquati, dai suoi finti sorrisi che celavano una malinconia palpabile e dalle grida che spesso lanciava durante il sonno, probabilmente ancora preda di atroci incubi.

Adesso la sua figura si stagliava laterale davanti a lui, intenta a fissare la luce che filtrava dalla piccola fessura di quel buco che rappresentava la loro salvezza.

Will ormai si era affezionato a quella presenza, per quanto triste e negativa potesse essere riusciva ad infondergli un calore viscerale, eppure lo conosceva così poco, e di sicuro voleva rimediare.

Verso di lui sentiva un istinto di protezione, come quello che si ha verso un fratello minore.

Non aveva idea di come avrebbe potuto anche solo pensare di ucciderlo per avere la vittoria, ma sapeva che non poteva rassegnarsi alla sconfitta, ed era molto combattuto.

“Puoi smetterla di fissarmi?” domandò retoricamente Di Angelo spazientito, continuando a tenere lo sguardo fisso sulla fievole luce solare.

“Si, scusa, è colpa tua che torturi quel povero panino al posto di mangiarlo” replicò Will che aveva già terminato il suo pasto, non lasciando cadere neppure una briciola.

“Non mettere fretta inopportuna, io continuo ad avere della classe, non ho intenzione di abbuffarmi come...” proseguì il moro indispettito.

“Uno che non mangia da un giorno?” continuò la sua frase Will “Chissà come mai..” terminò.

Ed effettivamente aveva ragione, loro due realmente non mangiavano da due giorni, Nico sembrò rifletterci a sua volta, ed una volta stabilità la veridicità di quell'affermazione sottintesa, decise di stare in silenzio e riprendere a mangiare seriamente.

Will non avrebbe permesso che morisse di fame, altrimenti tutta quella fatica sarebbe stata vana.

Una volta che Di Angelo terminò entrambi si alzarono, per quanto quello spazio solitamente gelido e ristretto consentisse, si diressero verso l'uscita.

Will teneva stretto il suo arco dorato, che dall'inizio di quel gioco mortale era divenuto la sua maggiore fonte di protezione e sicurezza.

Nico lo seguiva trascinando stancamente il suo ferro scuro, i suoi grandi occhi scuri vagavano da una parte all'altra del campo con fare paranoica.

Vedendolo così sentiva una gran pena accrescere nello stomaco, gli sembrava di aver a che fare ancora con un bambino traumatizzato.

Lo stesso Solace era assolutamente preoccupato nei suoi confronti, tanto da passare come una persona altrettanto paranoica.

Nell'arena risplendeva la fievole luce mattutina, i colori sembravano vivi e fluorescenti, evidenziati dalla calda afa che cominciava a circolare.

Il campo in quel momento sembrava quasi un paradiso tropicale, avvolto da un atmosfera di pace e relax, il ché risultava alquanto strano dal momento che in quelle zone era solito esservi almeno un fiato di vento più freddo degli altri.

Gli occhi chiari di Solace scrutavano l'ambiente in cerca di prede mobili da colpire con le sue frecce calibrate, eppure pareva che lui e Nico fossero gli unici esseri animati nelle zone.

Questo ricalcò il suo sospetto, era risaputo che gli animali sentissero l'odore del pericolo ancora prima che questo si verifichi.

Nico dietro di lui raccoglieva qualche bacca purpurea e la metteva nel suo zainetto sfatto, le sue mani pallide erano sporche di viola ed il contrasto di colori metteva quasi i brividi.

Ad un certo punto Will percepì un rapido e precipitoso movimento sopra la sua testa.

Ancora prima di pensarci alzò la sua arma e schioccò una freccia verso il moto.

Una goccia grande quanto il pugno di una mano, composta da quella che pareva acqua fumante, si scontrò contro la freccia.

Questa si sciolse all'impatto cadendo a terra in picchiata.

Will ebbe appena il tempo di realizzare quello che era accaduto.

Subito una goccia medesima a quella che aveva appena visto si scagliò a pochi metri dalla prima, bucando il suolo.

Acido.

Prese il braccio di Nico che non sembrava aver notato nulla e cominciò a correre trascinandolo con se.

Questo inizialmente tentò di opporsi, ma la sua stazza fisica era pari alla carta velina, e non sarebbe servito a molto fare resistenza, quindi corse con lui, chiedendogli durante la corsa delle lecite spiegazioni.

Will si fermò un attimo prima che un ennesima goccia si scagliasse a terra, trasalendo.

Questa volta anche Nico poté notare la scena.

Il suono dell'acido che corrodeva il suolo creando piccole bolle di schiuma per qualche effetto chimico fu terrificante.

Non ci fu il bisogno di parlare, ripresero una corsa sfrenata, non avrebbero potuto far nulla per proteggersi.

La rapidità con cui stava accadendo tutto ciò era impossibile da prevedere, per sino per una persona dai riflessi attivi come quelli di Will.

Era solo questione di fortuna, la loro vita era in mano alle Moire*, ed onestamente nessuno dei due aveva mai avuto un particolare rapporto con quest'ultima, nella vita non avevano subito altro che scherzi dal destino.

Will svoltò verso la fitta zona boschiva del nord, magari quei fitti ed alti alberi avrebbero attutito ed ostacolato alle gocce di raggiungerli con quella rapidità.

Svoltò rapidamente l'angolo in una specie di scivolata, correndo con tutta la forza che aveva in corpo verso l'entrata della boscaglia.

Nico dietro di lui rischiò di cadere, ma fu tenuto saldo dalla sua mano che gli stringeva il braccio.

Ripresero la fuga senza esitazione, con la pioggia che si scagliava attorno a loro sciogliendo tutto ciò che incontrava: foglie, frutti, sentirono anche il lamento strozzato di qualche volatile e roditore.

Una volta che misero piede in quella zona la temperatura scese drasticamente.

Lo sguardo di Solace vagò sulla divisa strappata e sfilacciata di Nico, che nonostante la pelle d'oca di cui era coperto non sembrava nemmeno aver percepito il gelo, era concentrato nel suo slalon contro la pioggia.

Non avevano una meta, non sapevano cosa si sarebbe celato ad estremo nord, sicuramente un vicolo cieco, quasi sicuramente un campo di forza, che tra l'altro avrebbero dovuto riconoscere prima di schiantarcisi mortalmente.

Le gambe si muovevano automaticamente, ma entrambi sapevano che prima o poi si sarebbero fermate, e non avevano idea di quanto i capitolini avessero intenzione di prolungare quella tortura.

Non avevano quasi mangiato nulla, e si reggevano solo per volontà, o meglio per volontà di non morire.

Ad un certo punto nel cielo sopra di loro rimbombò un suono profondo, un suono ben noto a tutti i tributi.

Lo sparo di un cannone.

Ciò voleva dire solamente una cosa: qualcuno era morto.

Nico si fermò di colpo, con gli occhi sgranati, sembrò impallidire ulteriormente.

Aveva il fiatone ed a Will pareva di poter sentire il battito del suo cuore fra quella marea di suoni.

Aveva ancora uno strano rapporto con la morte, si ripeté che era troppo presto perché lui si fosse ripreso.

Will vide di striscio un enorme goccia cadere ad un altissima velocità verso la testa del moro.

Immediatamente gli circondò la vita con un braccio e lo trascinò via da quella prospettiva.

Nonostante ciò la goccia gli prese di striscio la schiena, facendogli liquefare una striscia di divisa.

Il ragazzo lanciò un grido straziato e strinse gli occhi in preda ad una morsa di dolore.

Will controllò immediatamente lo squarcio.

Sembrava superficiale, nulla di irreparabile, eppure era conscio del fatto che avrebbe avuto un orribile cicatrice, senza dimenticare che il dolore che stava sopportando era sicuramente tremendo, ma non potevano rischiare stando fermi, dovevano muoversi.

Si guardarono negli occhi per un lungo istante.

Un istante nel quale Will cercò di trasmettergli, senza l'ausilio di parole, tutto il calore e la forza che aveva.

Gli abissi di Nico parvero risplendere, e con una determinazione ammirevole riprese la corsa, questa volta invertendo i ruoli, infatti era lui a trascinare il biondo.

Teneva il labbro inferiore stretto nella morsa dei suoi denti, stretto fino a farlo sanguinare, probabilmente per distogliere la sua concentrazione dal bruciore della schiena.

Man mano che avanzavano la vegetazione si faceva più spoglia, ormai le alte querce verdi che li riparavano parzialmente dal pericolo insormontabile erano sparite, restavano solo imponenti alberi quasi completamente secchi e dai colori opachi.

Una goccia si scagliò alla base di un ramo che immediatamente si staccò dall'albero a cui era attaccato e cadde precipitosamente al suolo, entrambi ebbero la prontezza di evitarlo.

Ad un certo punto Nico si bloccò, restando improvvisamente teso, senza dar accenno di spiegazione.

I suoi occhi erano puntati su una figura in lontananza.

Will non capiva cosa stesse succedendo, ma di qualunque cosa si trattasse, sapeva che non avevano il tempo di esitare, dovevano continuare il percorso, o con ogni probabilità sarebbero morti.

Seguì lo sguardo di Nico, e finalmente riuscì a scorgere quello che il ragazzo stava osservando.

Un conato minacciò di fargli vomitare il pane, ma sapeva di non poterselo permettere, senza quelle poche risorse nutritive che aveva in corpo, non avrebbe potuto continuare a correre.

Un corpo sdraiato in una posa di sofferenza si trovava a pochi metri da loro.

Il corpo cosparso da grandi buchi, gli si potevano vedere le ossa corrose e le vertebre.

Un ennesima goccia colpì quel cadavere martoriato, si schiantò sul capo.

Rapidamente la pelle si aprì perforandogli il cranio.

Della materia molliccia si sporse e si riversò al di fuori.

Era morto da pochissimo tempo, sicuramente era lui il tributo morto che era stato annunciato con lo schiocco del cannone.

Ci mise un po' per riconoscere quella figura, era il ragazzino scaltro del distretto sei, Travis Stoll.

Riuscì a capirlo principalmente per il dettaglio che risaltava di quella che una volta era stata una voluminosa chioma di boccoli, e che adesso portava un enorme buco centrale ed era cosparsa di cervelletto e materia grigia.

La morsa di dolore dipinta nel suo volto era orribile.

Non si meritava quella fine.

Era stato così bravo nel riuscire a nascondersi fino a quel momento, sfruttando la sua astuzia e la sua conoscenza,

Esattamente come fece l'eroe Odisseo nell'Odissea, ma in quelle condizioni niente era sufficiente.

Non la forza, non l'ingegno, Will realizzò che si trattava solo di fortuna, non ci si poteva opporre in nessun modo.

Dovevano riprendere la corsa, riscosse Nico che stava ancora immobile, non dava cenni di comprensione.

Non sapeva cosa fare per smuoverlo, teneva i piedi puntati nel terreno.

Prese un respiro profondo e gli sferrò un potente schiaffo, che gli fece stringere gli occhi e tossire di conseguenza.

Probabilmente aveva fatto più male a se stesso che all'altro con quel gesto, ma in quel modo era almeno riuscito a riscuoterlo.

Riiniziarono lo slalom.

L'ira di Nico sembrava essersi scemata, probabilmente aveva capito le sue ragioni ed in più era troppo scosso per riuscire a provare qualcosa di forte come la rabbia.

Una goccia cadde sullo zaino che trasportava Will.

Si aprì riversando il suo contenuto al di fuori, bacche e frutti rotolarono nel pavimento fumante.

Arrivarono all'estremità del bosco, l'uscita era vicina, e non sapevano se fosse un bene od un male, ma probabilmente era la seconda.

Uscirono arrancando, calpestando rovi e spine.

Una lunga distesa rocciosa offuscata da nebbia era tutto ciò che si stagliava.

Continuarono a camminare, questa volta più cauti, nonostante la situazione di per se, non premiasse di certo i cauti.

O forse si.

Un burrone, quello in cui si muovevano era un burrone, si fermarono giusto due passi prima di cadere.

Will afferrò automaticamente la mano dell'altro, erano entrambi gelidi, ma magari in due riuscivano a trasmettersi un po' di calore.

La pioggia si faceva più fitta, e loro non avevano modo di vederla per via di quella nebbia umida che li ostacolava.

Qualunque cosa avessero fatto in quelle condizioni, sarebbero stati fregati.

Nico sapeva solo di non voler finire come il povero Stoll.

Una goccia precipitò a poca distanza da loro.

Si strinsero in un forte abbraccio e si buttarono, cercando di affogare la paura nell'abbraccio che li univa.

Precipitarono per qualche secondo, tenendosi stretti.

L'impatto gelido con l'acqua fu frastornante.

Nico non resse la pressione dell'impatto e svenne, cominciando a precipitare nella profondità dell'abisso.

Will era in uno stato di semi-coscienza, non riusciva a tenere gli occhi aperti, sentiva il corpo scottare, quasi come se alla fine l'acido l'avesse colpito davvero.

Sentiva la testa ovattata, i suoni lontani.

Fin quando ad un certo punto un grave rimbombo amplificato rianimò le sue orecchie.

Due cannoni.

Finalmente riuscì a ricordare quello che era accaduto negli ultimi minuti, anche se in verità non sapeva quanto tempo fosse effettivamente passato.

I cannoni, la morte di qualche tributo, finalmente riuscì a collegare.

Aprì improvvisamente gli occhi, risalendo rapidamente verso la superficie con il corpo dolorante, i polmoni gli bruciavano, ma un pensiero soltanto gli affollava la mente.

Riuscì finalmente a sbucare sulla superficie dell'acqua, prese una grande boccata d'acqua.

Si guardò intorno, era circondato da una grande distesa d'acqua, ma lui non era là.

Nonostante fosse troppo debole per resistere ulteriormente alla pressione,s tornò sott'acqua, doveva trovare Nico.

Gli occhi gli lacrimavano e bruciavano, era tutto buio.

Sentì lo strisciare di un pesce alla base del polpaccio, non vedeva quasi nulla, il fondale era estremamente scuro.

L'ossigeno stava per finire, ma lui non aveva intenzione alcuna di tornare in superficie senza di lui, quindi proseguì nella sua ricerca.

Fu quasi come se gli dei lo premiassero per la sua determinazione che superava la morte stessa, finalmente riuscì a vederlo.

Era in caduta libera verso quell'inferno.

Lo raggiunse a grandi falcate, lo strinse nuovamente al petto.

Ricominciò la disperata risalita in superficie.

Nico non pesava quasi nulla.

Teneva gli occhi chiusi in un espressione rilassata, aveva il volto e le braccia livide, probabilmente per il fortissimo impatto della caduta.

Anche quando riaffiorarono con la testa fuori dall'acqua, il moro non diede segno di vita o movimento.

Will aveva bisogno di praticargli un massaggio cardiaco, ma non poteva farlo in mezzo a quel nulla marino.

Non sapeva che fare, era solo un puntino in mezzo al mare, non sapeva dove andare e non aveva alcun tipo di sostegno solido.

Le sue energie prima o poi sarebbero mancate, doveva affrettarsi e trovare una soluzione.

Cominciò a muoversi sbattendo le gambe sull'acqua verso la zona in cui erano precipitati, sperava che arrivando verso il muro del burrone avrebbe trovato qualche scoglio o sporgenza in cui fermarsi almeno per il momento.

Continuava a trasportare il corpo pallido di Nico, non avrebbe resistito ancora per molto.

In più stava per diventare sera e se non trovavano subito un riparo sarebbero morti di freddo in quell'acqua già di per se gelida.

Delle lacrime cominciavano a straboccare dagli occhi cristallini del biondo.

Strinse Nico in una morsa ancora più ferrea.

Affondò la testa nell'incavo del suo collo, tremava.

Chiuse gli occhi, delle scene di vita passata riaffiorarono nella sua mente.

Il ricordo della bella foto in cui erano raffigurati suo padre e sua madre prima dei giochi che gli strapparono la felicità.

Chiuse gli occhi e per la prima volta nella sua vita pregò, rivolgendosi a lui.

“Papà, ti prego, se sei lassù e mi vedi, ascoltami.

La sorte è stata così crudele con la nostra famiglia. Ha costretto prima te ad affrontare questo schifo, ed ora io sto vivendo la medesima cosa.

Però io voglio farcela, non posso permettergli un altra vittoria, non un altro dolore alla mamma...

Non ti ho mai chiesto nulla, ho sempre tentato di farcela con le mie forze, ma in questo momento non so realmente che fare” la sua voce era così bassa e roca che risultava impercepibile.

“Aiutami” si udiva solo il suono delle onde che si sfracellavano e ricomponevano nel mare, con una coerenza estenuante.

Will ingoiò nuovamente dell'acqua salmastra, aprì gli occhi tossicchiando, allontanandosi un po' da Nico.

Sollevò la testa, guardando il cielo.

Il sole cominciava a sbucare timidamente tra le nuvole.

Fu abbagliato da un raggio ultravioletto più forte degli altri, che si fece spazio nell'azzurro, mirando direttamente al suo volto.

Will seguì la sua traiettoria, come stralunato, sussultando non appena ebbe scorto cosa effettivamente stava illuminando.

Uno scoglio, un piatto scoglio sbucava nel mare, a pochi metri da lui.

Suo padre l'aveva davvero aiutato, quello non poteva esser altro che un miracolo.

Un debole sorriso gli incurvò le labbra, si permise di indugiare qualche istante, ringraziando mentalmente per quella benedizione, dopodiché, nuotò a grandi falcate verso la sua terra di Canaan*.

 

*Moire: Parche romane, personificazioni del destino ineluttabile

*Terra promessa secondo la Bibbia

 

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Capitolo 26
*** Cap XXVI- TIC TOC ***


THALIA
 

Thalia fu svegliata dalla freddezza delle fastidiose gocce che le cadevano sul naso.

A seguito di quella folle tempesta di acido era riuscita a ripararsi, seguita da Zoe, in un umida cava argillosa.

Naturalmente non era stato così semplice insediarvici.

Ed il motivo principale era che all'interno vi erano rintanati un mucchio di animali ed insetti, che furono in parte costrette a scacciare od uccidere.

Fortunatamente si trattava di bestie di piccola taglia, ma comunque lei consigliava vivamente di non sottovalutarne nessuna, memore della cicatrice dei ghiri contro i quali aveva combattuto la sera prima.

Altro che teneri animali calmi e pacifici, quelle fiere le parevano aiutanti del demonio.

Comunque ne erano uscite sane e salve, avevano solo dovuto sopportare lo squittio di qualche topo che camminava sopra il loro corpo durante la notte, o di qualche ragno che si stanziava tra i loro capelli.

Quella ad aver avuto più problemi era stata effettivamente Zoe, Thalia se ne fregava altamente delle circostanze, era una tipa più o meno semplice: le bastava dormire in pace.

Poteva sopportare di tutto, certo, ma non la continua umidità di quel postaccio.

Quando era ancora nel distretto un suo amico le aveva narrato i più raccapriccianti metodi di tortura di Capitol City, e fra essi era sicura di ricordare che ce ne fosse uno che consisteva nel legare una persona, bendarla e farle cadere una goccia sul collo ogni mezz'ora.

Alla fine la vittima impazziva aspettando la prossima goccia, e lei avrebbe preferito una fine migliore.

Si stiracchiò, sbadigliando rumorosamente, i raggi solari di mattina erano una delle cose che più odiava.

Scrutò rapidamente la zona intorno a lei, notando che la sua alleata non era all'interno di quel luogo.

Sicuramente non aveva resistito un minuto di più, e non appena la tempesta era terminata si era precipitata fuori da quel posto 'claustrofobico', almeno a suo dire.

Con un balzo uscì dalla cava, mettendosi sulle tracce dell'altra.

La trovò proprio a qualche metro di distanza, seduta contro una parete rocciosa.

Stava limando la punta delle sue frecce con l'aiuto di una pietra, e sembrava molto concentrata in quel compito, tanto che non si accorse del suo arrivo.

Si inchinò e le poggiò una mano ancora tiepida per via del sonno sulla spalla, facendola sobbalzare, per poco l'altra non rispose infilzandola con l'arma che stava levigando.

“Hey, sta' attenta, mi bastano le ferite inflitte da quei maledetti animali” la riprese sarcasticamente, facendole fare mente locale sul loro avvincente combattimento.

“Oh, ma per favore, piuttosto evita tu di farmi prendere questi spaventi inutili, sennò la prossima volta tiferò per i ghiri” protestò quella, facendo schioccare le labbra con disappunto.

“Ah si? Beh, tifa per chi vuoi, tanto si sa chi ha vinto alla fine” sollevò la manica per indicare il suo muscolo sinistro e disse quelle parole con aria tanto solenne che fece ridere l'amica.

“Bene regina della foresta, vogliamo muoverci? Io non ho intenzione di passare una notte di più in questo posto, santi numi!”

“Cosa? Ma che stai dicendo? È la sistemazione perfetta, siamo al chiuso ed in più in una zona abbastanza nascosta”

“Sono io quella che deve chiederti cosa stai blaterando, non avrai intenzione di passare le notti in compagnia di ibridi ed insetti?”

“Senti un po', meglio gli ibridi che-”

La loro discussione fu interrotta da un'insolita visione di entrambe, un pacco bianco precipitava lentamente dal cielo.

Nessuna della due aveva mai visto nulla di simile personalmente, eppure entrambe credevano di sapere di cosa si trattasse.

Doveva essere uno di quei pacchi che i manager spediscono per i propri concorrenti, magari qualcuno aveva deciso di graziarle inviandogli del cibo, non avevano nessunissima voglia di inoltrarsi nel bosco per cacciare, o magari gli avevano regalato della pomata, di qualunque cosa si fosse trattato, avrebbe comunque fatto comodo nella loro posizione.

Zoe puntò l'arco e scoccò la freccia verso il paracadute che scendeva, attenta a non colpire il pacco.

Si precipitarono di corsa verso l'involucro bianco, confuse quanto trepidanti di curiosità.

Una forma rettangolare avvolta da un telo bianco su cui vi era una scritta indelebile: 'A chiunque riesca a farne buon uso'.

Una cosa sicuramente molto insolita.

Ciò stava a significare che probabilmente quel regalo non era stato inviato per loro, ed allora per chi? E da chi?

Zoe deglutì, decidendo che sarebbe stata lei in prima persona ad aprirlo.

Sfilò la stoffa fremendo, ma appena rimirò il contenuto che effettivamente si celava all'interno, sobbalzò, reprimendo un urlo.

“Ma-ma che scherzo è questo? Maledizione a voi!” tuonò tenendo stretto fra le mani l'oggetto che le avevano mandato.

Thalia era tagliata fuori dalla visuale, perciò non aveva idea di cosa vi aveva trovato.

“Hey, di che parli? Mi rendi partecipe?” domandò più che altro curiosa.

Si fece spazio vicino a lei per rimirare il contenuto e restò altrettanto sorpresa.

“Ma quella, è una bomba ad orologeria?” chiese con gli occhi sbarrati, temendo di non aver visto bene.

Zoe annuì con un movimento rapido della testa, e dal tremore che le scuoteva le mani non sembrava minimamente intenzionata a mentire.

“Dobbiamo liberarcene il prima possibile, non voglio avere a che fare con quest'oggetto malefico per un minuto di più. Sai com'è, sempre quel noioso discorso sul fatto che io ci tenga alla mia vita...” affermò la mora lisciandosi i capelli con una mano, in segno di nervosismo.

Thalia assottigliò lo sguardo e le prese cautamente la bomba dalle mani, attenta a non premere niente.

Dopo aver passato qualche istante a studiarla con attenzione, riprese la parola.

“Stai scherzando? Hai idea di quanto possa rivelarsi utile quest'aggeggio? È stata una manna dal cielo averlo trovato, fidati di me” esclamò, un espressione furba cominciò a farsi spazio sul suo volto.

“Ma di che diavolo parli? Questo coso potrebbe esplodere da un momento all'altro uccidendoci, dov'è che siamo state fortunate?” la tonalità della sua voce si fece più acuta, mostrando il nervosismo crescente che stava provando.

“Non preoccuparti di questo, ho controllato, ed è come avevi detto tu: una bomba ad orologeria” la ragazza si spostò lateralmente in modo tale da permettere la visione del marchingegno all'altra.

“Come vedi, i minuti cominceranno a scadere dal momento che noi premeremo questo pulsante, dopodiché comincerà un conto alla rovescia. Se noi non premiamo il pulsante, la bomba non si attiva, basta stare attente.

Pensaci.

Questa è un arma potentissima a nostro favore” terminò il discorso sogghignando, in una maniera che Zoe aveva imparato a riconoscere.

Quello sguardo significava che la corvina aveva già in mente qualcosa.

“Oh, a cosa stai pensando? Quello sguardo mette i brividi, sappilo.”

La rimirò negli occhi con una tale intensità che quella fu obbligata a rispondere onestamente.

“E va bene, va bene. Ora ti dico cosa ho in mente.

Allora, due giorni fa, prima che cominciasse a piovere acido, ti ricordi che siamo passati nelle zone della base?”

“Base?”

“Intendo, nel punto di partenza, quello dove siamo giunti con le capsule.

Ecco, entrambe avevamo notato delle voci, così io sono andata ad ispezionare, e ritornando, avendo appurato che quella non era una zona sicura, abbiamo deciso di cambiare stabilimento. No?”

“Si, è andata così. Quindi?”

“Quindi… si dà il caso che tu non mi abbia chiesto il perché io non la ritenessi una zona sicura.

“Beh, mi sono semplicemente fidata, che c'è di stra-”

“Niente, e ti ringrazio per la fiducia. In qualunque caso, ora ti racconto cosa ho visto.

C'era un alleanza, composta da un po' di persona, non ricordo esattamente, ma dovevano essere almeno in sette, considerando poi che uno di questi era legato ad un albero, non so esattamente quanti fossero effettivamente gli alleati...”

“Legato ad un albero?” domandò l'altra, con una punta di sconcerto.

“Già, ma su questo non ti so dire di più.

Comunque, quello doveva essere uno dei team forti dell'anno, dato che avevano con loro un mucchio infinito di armi, e non ti dico quante risorse, veramente tante, compresi medicinali e addirittura ho avvistato bevande che non fossero acqua. Sorprendentemente, devono esser stati loro ad ottenere le risorse lasciate dai capitolini.

La stragrande maggioranza di queste persone comunque sembrava parecchio allenata e minacciosa, quindi non mi è minimamente saltata in mente l'idea di provare a sottrargli qualcosa.

Eppure, ora abbiamo una bomba a nostro favore...” terminò il discorso con un sorrisetto sornione sulle labbra.

“Oh santo Zeus, non starai pensando seriamente di attaccarli? Sai, da come li hai descritti non sembrano tipi molto amichevoli.

E poi come puoi anche solo pensare che io acconsenta il farti compiere un pluriomicidio?” questa volta la domanda risultò più aspra, con un accenno di rimprovero.

“Non ho mai detto che dobbiamo ucciderli, saremo caute.

La bomba servirà solo a terrorizzarli, cosicché noi nel frattempo possiamo rubar gran parte di cose utili. Dai, non fare quella faccia, sai perfettamente che non dureremo più di tanto in queste condizioni, abbiamo bisogno di avvantaggiarci.

Allora, che dici?” tentò di fare gli occhi dolci, ma non le riuscirono per niente, tanto che l'altra rivolse gli occhi al cielo e scosse la testa.

“Okay, ma se qualcosa dovesse andare storto, ricordati che la colpa è solo tua.”

In seguito le ragazze riorganizzarono le proprie cose negli zaini e cominciarono a muoversi verso il centro dell'arena.

Stettero per tutto il tragitto in guardia, tentando di evitare di imbattersi in pericoli, sopratutto con l'avvicinarsi alla loro meta.

Gli archi perennemente tesi, principalmente puntati verso la vegetazione, che cambiavano traiettoria ad ogni minimo suoni della fauna o flora.

Lo scudo che Thalia aveva tenuto da quel drammatico incontro sulla cima del burrone, risplendeva argenteo sotto la luce del sole.

Per lei rappresentava una grande arma sia per la difesa, che per l'attacco.

In quel momento lo stava usando per frasi spazio in mezzo ad uno stretto cespuglio spinato.

Poi finalmente videro la piattaforma.

Circondata da alberi verdognoli, si ramificava in varie zone, la sud da cui veniva un afa tropicale, la est che pareva la più grigia e spinosa e la ovest, quella da dove loro provenivano, che era sicuramente la più mediterranea.

In quel luogo tutti i climi si mischiavano, donando uno strano surrealismo.

Smisero di incantarsi su quel panorama, che dall'inizio dei giochi era diventato molto più selvaggio, basti pensare alle piante che ormai ricoprivano parzialmente le basi delle capsule da cui erano sbucate, e ripresero l'ispezione.

Andò avanti Thalia, che sapeva con precisione dov'era stanziata l'alleanza, e pregava con tutta se stessa che per via della pioggia d'acido non avessero cambiato zona.

Proprio quando stavano per arrivare, videro entrambe una figura muoversi davanti a loro, per poi sfuggire nell'ombra, non ebbero neppure il tempo di riconoscerne il sesso, fu poco più che un ombra.

“L'hai vista anche tu?” domandò Zoe, impugnando l'arma.

Thalia annuì ansiosa.

Sperava ardentemente non fosse uno di quei membri della squadra, o con ogni probabilità ora sarebbe andato ad avvertire gli altri, e le avrebbero cercate e fatte fuori.

Dovevano rintracciarlo prima che ciò accadesse.

La bomba pesava ogni minuto di più nello zaino della corvina, od almeno, così le pareva.

Aggirarono la zona, dividendosi, con passo felpato ed orecchie attente.

Finalmente Thalia riuscì a rintracciare nuovamente la figura, di profilo, nascosta dietro un albero.

Mirò al suo busto, cominciando ad avvicinarsi, questa si accorse della sua presenza e ritentò un movimento, ma fu preceduta dalle parole della ragazza del 3.

“Fermo dove sei. Esci da dietro l'albero e mostrati o schioccherò questa freccia, e fidati, la mia mira è ottima” sibilò a denti stretti, tentando di farsi sentire senza sollevare eccessivamente la voce, non voleva attirare l'attenzione di nessun altro.

La sagoma sembrò interdetta, nascosta nell'ombra, poi finalmente, dopo qualche istante decise di mostrarsi, venendo a contatto con la luce del sole.

Thalia affinò lo sguardo.

Una bellezza rara si materializzò davanti ai suoi occhi, si trattava di Piper Mclean.

I suoi lunghi capelli castani erano spettinati, delle foglie spuntavano qui e là rette da delle trecce parzialmente disfatte.

I suoi occhi guardavano Thalia con un alone di angoscia e timore, sembrava preoccupata di qualcosa, e decisamente non intenzionata ad attaccarla.

Thalia riesumò i ricordi, effettivamente non le era parso di vederla invischiata con lo squadrone che stava cercando, ma non poteva esserne sicura.

La guardò con maggiore attenzione, e notò un particolare che la fece ricredere e diffidare maggiormente.

Un lembo della sua divisa era macchiato di sangue rappreso, e non pareva proprio appartenerle. L'altra probabilmente notò calare il timore negli occhi elettrici di Thalia, quindi per dimostrare che non aveva brutte intenzioni lasciò cadere al suolo il suo fidato pugnale, e sollevò le mani.

La sua vita era completamente in balia della scelta dell'altra, che almeno per il momento decise di esitare.

Zoe sbucò dietro di lei, e rimase sorpresa dalla scena che le si palesò davanti.

Thalia le indicò con la testa il pugnale che la sconosciuta aveva gettato a terra e la mora, capendo al volo, si chinò a raccoglierlo, indietreggiando.

“Bene, noto che non sembri incline a cattive intenzioni.

Oggi mi sento particolarmente buona, quindi ti concederò cinque minuti, in cui tu dovrai darmi spiegazioni soddisfacenti sul perché ti trovi qua, sul perché hai la divisa macchiata di sangue e sul perché non dovresti rappresentare una minaccia.” poi simulò un sorriso, palesemente finto, e le permise di avvicinarsi di qualche passo.

“Questo sangue… ho ucciso un tributo” balbettò l'altra abbassando lo sguardo con un espressione colpevole.

“Apprezzo la sincerità, ma ti avverto che questo non è minimamente un buon inizio” tese maggiormente il filo della balestra.

“Non pensiate che io non stia ancora male e non abbia i sensi di colpa per questo…

Ma ho dovuto farlo, era legittima difesa. Se non l'avessi fatto io l'avrebbe fatto lui con me”

Zoe domandò da dietro le spalle di Thalia, seguendo perfettamente il discorso chi fosse stata la sua vittima.

Piper rivolse lo sguardo al cielo e poi tornò a fissarle dritte negli occhi.

“Ethan, Ethan Nakamura” pronunciò infine.

Thalia poté sentire l'altra tremare alle sue spalle, sapeva che quel ragazzo proveniva dallo stesso distretto dell'amica, ma sapeva anche che i due non avevano mai avuto un buon rapporto.

Sinceramente quel ragazzo pareva un brutto ceffo perfino a lei, e di certo non era una pregiudicata, la maggior parte dei suoi amici non erano di certo persone molto affidabili nel distretto.

Piper riprese a parlare autonomamente, notando il silenzio delle altre due.

“Per quanto riguarda il motivo per cui mi trovo qui…

Sto cercando una persona, o meglio, un gruppo di persone.

Io ho un alleato, si chiama Frank Zang, ed in seguito ad una specie di litigio l'altra notte è scappato, addentrandosi in queste zone.

È allora che è stato rapito da uno squadrone che si aggira nelle vicinanze, lo tengono come ostaggio perché sanno che non è da solo e che possiede degli alleati, anche se non ne sanno il numero, capite, è solo questo che glielo fa tenere in vita...

Vogliono che questi si facciano vivi per salvarlo, o temo che lo uccideranno molto presto, io devo almeno provare ad andar in suo soccorso, non posso abbandonarlo così” decretò quest'ultima parte quasi fra se e se.

Zoe diede vita ai pensieri della corvina

“Thalia, che si tratti del tizio legato all'albero? Se così fosse forse non sta mentendo”.

Ed effettivamente forse si trattava proprio di lui, ma chi lo poteva sapere con certezza?

Poteva essere una strategia campata sul momento.

Magari era uno dei membri stessi dell'alleanza, che per tentare di salvarsi aveva improvvisato quella storiella, ispirandosi al rapimento effettivo di quel ragazzo.

Ma che senso avrebbe avuto tenerlo prigioniero senza poi un tornaconto?

Thalia decise di crederle, almeno momentaneamente, così abbassò l'arco, però continuando a far tenere il suo pugnale a Zoe.

In caso di passi falsi sarebbero state entrambe vigili.

Decisero di continuare la loro ricerca, spingendo Piper davanti a loro e sorvegliandola di tanto in tanto.

Fu proprio lei a riuscire a rintracciare il ritrovo, circa un chilometro dopo il punto in cui si erano incontrate.

Decisero di muovere qualche passo, senza avvicinarsi eccessivamente, rimanendo nascoste tra alti cespugli ombrosi.

Quello che videro furono esattamente otto persone posizionate in cerchio.

Tra queste individuò pure Andrea, il suo compagno di distretto, non lo vedeva da quando erano partiti prima dell'incontro, ma era da molto prima che non gli parlava.

Il loro rapporto non era teso come quello di Zoe ed Ethan, semplicemente il loro rapporto era nebbia, non esisteva, e non avrebbe procurato il minimo dolore stroncarlo con una morte.

Il ragazzo giocherellava con un coltellino svizzero, facendo schioccare la lama per poi ripiegarla subito dopo, in una sequenza continua.

Un ragazzo dalla chioma rossa era appoggiato distrattamente alla sua spalla, ma non sembrava infastidirlo, non sembrava nemmeno essersi accorto della sua presenza.

Al centro vi era un piccolo fuoco, il fumo si vedeva poco per via della luce abbagliante di quella mattinata.

Un ragazzo dagli occhi opachi stava squarciando un cinghiale con un grosso coltello da macellaio proprio a pochi passi dal rogo.

Il suo fisico esile stonava con quel coltellaccio, la stessa forza con cui martoriava quell'animale morto stonava con la sua bellezza fiabesca.

Non ricordava il nome, ma dallo sguardo che gli lanciò Piper, senza farsi ovviamente vedere, capì che doveva essere il suo compagno distrettuale.

Due ragazze conversavano tra loro ridacchiando, una di queste due fumava addirittura una sigaretta.

La ragazza del distretto della pesca e quella del distretto del carbone.

Acqua e fuoco, eppure andavano così d'accordo apparentemente.

Le tre erano troppo scioccate dai vantaggi che possedevano in una condizione simile, per poter fare riflessioni su quelle sottigliezze, piuttosto non si spiegavano tutta quella leggerezza nell'atto di fumare, rischiavano la morte ad ogni minuto, non potevano permettersi cotanta noncuranza.

Tic toc.

Ai loro piedi dormicchiava una ragazzina robusta dai capelli chiari, i raggi solari filtravano nei suoi capelli.

Al suo fianco vi erano una ragazzina dalle mille lentiggini ed un altra girata di spalle.

Frank era sdraiato e vicino a lei, aveva i polsi legati, dai colori lividi, chissà da quanto il sangue non circolava regolarmente.

Anche la sua bocca era bendata, aveva gli occhi socchiusi, delle occhiaia violacee a rigargli il volto, probabilmente era da qualche giorno che faceva resistenza al sonno.

Se ne stavano con la testa appoggiata agli alberi, in procinto di quel che sembrava un riposino.

Erano talmente abituati a coprirsi le spalle l'uno con l'altro che si sentivano quasi al sicuro, Thalia non li capiva.

Sapeva che non appena tutte le persone esterne all'alleanza sarebbero state fuori gioco, sarebbe iniziata una ribellione, e quelli che pensavano amici li avrebbero messi k.o. senza molti preamboli.

Quel discorso si poteva rigirare anche per lei e Zoe, ma non riusciva a realizzarlo concretamente.

Lei era contro tutto quel sistema malato e non l'avrebbe mai tradita per una questione di principio, ma non poteva essere sicura del fatto che fosse lo stesso anche per l'altra.

Thalia si voltò ed incrociò subito lo sguardo argentato di quest'ultima, gli occhi grigi scintillavano di serietà.

Era giunto il momento propizio per attuare il piano.

Durante il cammino avevano esplicato il loro programma persino alla nuova arrivata, che ora seguiva silenziosamente i loro sguardi, anche lei avvolta da percepibile timore.

Thalia si sfilò lo zaino dalle spalle, senza far rumore, ed affondò il braccio al suo interno, in cerca dell'ordigno esplosivo.

Lo prese con cautela fra le mani, liberandolo dal suo involucro di cotone.

Dopodiché cominciò ad avviarsi in silenzio verso l'interno del cerchio d'alleanza, tenendosi ai lati, nascosta fra i cespugli.

Si mosse lentamente, senza far alcun rumore, ma gli altri sembravano comunque troppo rilassati per notarla.

Frank ad un certo puntò sbarrò gli occhi, probabilmente preda di un incubo, fu allora che il suo sguardo incrociò quello della corvina, che in quel momento fremeva spaventata ed ancora nascosta.

Il ragazzo gridò, tenendo lo sguardo fisso verso di lei, e questa, messa in soggezione ed ansia, per sbaglio si fece sfuggire di mano la bomba, provocando un tonfo rumoroso.

In quel momento le due ragazze smisero di parlare e si voltarono verso la sua direzione, anche due ragazzi che fino a quel momento erano rimasti con gli occhi socchiusi li riaprirono, diffidenti.

Thalia sapeva di essere fregata.

Raccolse rapidamente l'ordigno, con le mani tremanti. Non sapeva cosa fare, qualunque mossa sarebbe stata sbagliata.

Tentò il tutto per tutto.

Azionò il timer, ormai non poteva fare nient'altro di rilevante.

Tic Toc.

Cinque minuti, il conto alla rovescia era iniziato.

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Capitolo 27
*** Cap XXVII- AMANDO LA LIBERTA' ***


NICO
 

Nico non seppe precisamente quanto rimase senza coscienza. I suoi sogni erano inesistenti, oscurati dal solito nero pece, un senso d'angoscia l'aveva cullato, un senso che spariva e riappariva in maniera casuale, pulsando.

Si risvegliò udendo il rumore delle onde che si infrangevano.

Un piacevole odore salmastro gli pervadeva l'olfatto, coprendo tutto il resto.

Will non era presente accanto a lui, era sdraiato da solo in uno scoglio meno appuntito degli altri.

Cercò di sedersi in una maniera comoda, aveva le ossa e la muscolatura indolenzita per l'impatto.

Le sue braccia solitamente pallide erano cosparse da sfumature di colori che ruotavano intorno al porpora.

Di certo non era stato lui a dirigersi in quella postazione, sentiva che Will l'aveva nuovamente salvato, in tutti i sensi.

Nell'oscurità della sua vita quel ragazzo dagli occhi celesti stava portando un po' di sole.

Inizialmente si sentiva spaurito, accecato.

Gli era sempre andato bene vivere nell'ombra, starsene nascosto.

Se non ti esponi non possono farti del male. Questa era la sua filosofia.

Anche adesso aveva paura, aveva paura di perdere Will, paura che finisse tutto com'era accaduto con Hazel, con Bianca, con Maria ed in un certo senso anche con suo padre.

Non avrebbe retto un' altra volta, lo sapeva chiaramente.

Un ennesima perdita l'avrebbe totalmente schiacciato.

Si sentiva perso in quel momento, un puntino scuro su un altro puntino scuro, perso in mezzo all'oceano.

Non ricordava cos'era accaduto. Sapeva solo che in seguito alla pioggia d'acido si erano gettati dal burrone, non sapeva com'era finito in quello scoglio, non com'era ancora vivo, non se Will lo era, e se lo era, perché non era con lui?

Una morsa d'ansia cominciò ad assalirlo. Stava per avere un attacco di panico.

Tentò di calmare il respiro, ma stava boccheggiando.

Poi, fortunatamente, Will spuntò dall'acqua, completamente fradicio.

Si fece forza con le braccia e si posizionò vicino a Nico, sedendosi sulla roccia.

Quando vide che Nico era sveglio e che lo stava guardando con i suoi soliti abissi neri sbarrati, sorrise sollevato.

Quel suo sorriso vivace e bianchissimo che riusciva ad infondere calore in qualsiasi cuore, anche se congelato e vaporizzato.

Nico non riuscì a far altro che spingersi in avanti per abbracciarlo.

L'impulso fu più forte di lui, e nemmeno il dolore dei suoi arti riuscì a farlo desistere.

Lo strinse fino a fargli male, doveva assicurarsi che lui ci fosse, che fosse lì con lui, vivo.

Will inizialmente sembrò decisamente sorpreso, poi lo assecondò intenerito.

Dopo un po' Nico si scostò, tenendo lo sguardo basso.

Era imbarazzato ed interdetto sul suo stesso comportamento, non sapeva dire cosa gli fosse preso.

Provò a scusarsi, ma Will gli tolse le parole con un leggerissimo bacio al lato della bocca.

Nico temeva gli sarebbe venuto un infarto, si girò di spalle, tenendo lo sguardo fisso sul panorama che gli riservava l'orizzonte.

In quel momento era confuso, quindi continuò a guardare la distesa d'acqua, fino a quando Will si decise finalmente a parlare, fingendo che non fosse accaduto nulla.

“Siamo qui da ormai due giorni. Se non troviamo subito una soluzione temo che potremo morire in questo scoglio, ed ammetto di non amare questa prospettiva” disse con voce leggermente imbarazzata, era palese come stesse cercando di distrarre entrambi.

“Infatti è da un po' che ispeziono la zona in cerca di un riparo leggermente più sicuro. Sto giusto tornando da un ispezione nel lato est, ma ahimè niente. Penso che proverò a vedere com'è la condizione anche da quella parte. Tu come ti senti? Per tutto questo tempo sei rimasto dormiente. È interessante la tua passione nel farmi preoccupare o nel farti credere morto, impeccabile, devo dirlo.” pronunciò l'ultima frase con sarcasmo palpabile.

Dalle occhiaia marcate che rovinavano il suo viso solitamente immacolato si capiva però che era davvero stato in pena.

Nico si sentì un pochino male all'idea.

Per quanto non volesse ammetterlo, Will per lui era l'unico appoggio rimasto, e non poteva permettere che gli succedesse qualcosa. Eppure fino a quel momento non aveva fatto altro che star male e procurargli altri grattacapi. Non voleva essere un peso e voleva essere pronto a proteggerlo. Certamente non gli avrebbe permesso di andare da solo.

Si schiarì la voce e annunciò, girandosi nuovamente verso di lui“Vengo pure io nell'avanscoperta” tentò di mantenere il suo tono neutro, non voleva far trasparire i veri motivi per il quale aveva deciso di seguirlo, poteva sembrare paranoico, strano. Ed era esattamente la verità, ma lui non voleva che Will lo sapesse.

“Ma che dici? Ti sei ripreso ora dopo un infinità di tempo ed hai il corpo livido, sarebbe meglio se tu stessi qua a riprenderti” decretò infine, scuotendo i capelli e schizzando gocce salmastre ovunque.

“Ed invece non lo farò. Potrei morire di noia” polemizzò l'altro, detto ciò non aspettò alcuna risposta, bensì si gettò nel mare, stringendo i denti per la sensazione glaciale che lo pervase.

Iniziò a nuotare, seguito da Will che lo raggiunse rapidamente.

Non aveva senso insistere con Nico, era troppo cocciuto, quindi non si poteva far altro che assecondarlo.

Will ripensò all'ultima volta che aveva provato ad ostacolarlo.

L'aveva ritrovato più sconvolto di prima. Il ricordo della sua presa sulla lama infernale, delle sue intenzioni, del suo shock, gli fecero venire i brividi.

Non era decisamente un bene separarsi da lui, e non perché lo considerasse un pazzo od un debole.

Era semplicemente perché non stava affrontando un buon periodo, e se fosse successo qualcosa di brutto sarebbe stato il biondo ad impazzire.

Continuavano a perlustrare le zone mantenendosi a galla.

Sfioravano le ripide pareti rocciose del burrone.

Alzando lo sguardo il cielo sembrava distante un intera vita rispetto alla loro posizione, provocava una sensazione d'impotenza, una specie di senso di vertigini al contrario che ti costringeva a riabbassare lo sguardo.

Ad un certo punto Nico avvertì un movimento dietro ad uno scoglio, come lo spostarsi pesante di delle acque.

Era impossibile capire a cosa fosse dovuto tramite la visuale, le rocce coprivano quel punto con astuzia.

Nico pensò che poteva trattarsi di un grande animale acquatico, magari qualcosa di pericoloso, eppure la curiosità era troppo grande e non riusciva a restare con il dubbio.

Anche perché era l'unica cosa anomala che avesse notato durante il suo tragitto e sapeva perfettamente quanto fosse precaria la sua situazione.

Prese una grande boccata d'aria e decise di nuotare verso il movimento che aveva percepito, l'unica soluzione era passare al di sotto di quegli scogli che lo circondavano.

Nuotò per un bel po', notando solo rocce sopra la sua testa, niente di strano.

Era tentato dall'idea di tornare sui propri passi e riaffiorare in superficie, cominciava ad aver bisogno di aria e non aveva idea di cosa si sarebbe celato più in là.

Poteva restar bloccato fra delle rocce, non riuscire a ritornare su in tempo, poteva incrociare un animale mortale, poteva accadere qualunque cosa, eppure continuò a nuotare.

I suoi occhi si sbarrarono ed il suo cuore venne riempito di speranza quando riuscì a vedere una luce farsi spazio attraverso quell'abisso di rocce.

Superficie, cielo, quindi qualcosa si celava realmente dietro quegli scogli, magari un riparo sicuro.

Sperò che non si trattasse di allucinazioni dovute al suo bisogno di respirare.

Raggiunse rapidamente la luce in questione e riuscì effettivamente a sbucare “dall'altra parte”.

Esisteva un altra parte.

Boccheggiò per diversi minuti, riprendendo fiato, poi finalmente si accorse di una figura che stava alle sue spalle.

Si girò di scatto ed i suoi occhi affondarono nel blu.

Un ragazzo, alto e muscoloso, lo guardava con un espressione confusa.

Aveva la testa leggermente inclinata verso destra e pareva interdetto.

Nella mano destra teneva stretto un coltello in cui vi era infilzata un' alice. Probabilmente si era diretto da quelle parti con lo scopo di pescare.

Nico non ci vedeva quasi più dalla fame, e forse si soffermò un po' troppo sul suo pasto.

Chi era quel ragazzo? Gli pareva di averlo già visto prima: portava la sua stessa divisa, doveva essere un tributo.

Eppure cosa ci faceva in quel luogo?

La sua figura sembrava amalgamarsi perfettamente con il resto del panorama, il blu dei suoi occhi era affine a quello del mare, sembrava una divinità acquatica.

Il ragazzo in questione decise infine di schiarirsi la gola, decidendosi a chiedere “Chi sei tu?”

Nico non aveva idea del cosa rispondere, rimase per qualche minuto con lo sguardo vacuo, in silenzio, poi riuscì a spiccicare qualche parola.

“Un tributo. Sono caduto dal burrone. Anche tu?” domandò.

Il ragazzo si limitò ad annuire, continuando a fissarlo indugiante.

“Mi ricordo di te, sei il tributo che è stato scelto insieme all'altra ragazza con il vestito giallo. Qual è il tuo nome?”.

Nico si rabbuiò ricordando l'armonioso vestito di Hazel, ricordando il modo perfetto in cui riusciva ad intonarsi alla sua carnagione, ricordandola.

L'altro non sembrò accorgersi del suo cambio d'umore, continuava insistentemente a poggiare i suoi occhi verso egli, voleva una risposta.

“Si, Nico.”

Fu coinciso, diretto, non aveva voglia di parlare, era stanco, gli girava la testa ed aveva una grande fame.

“E Nico, tu non sei cattivo, vero?

Sai, in molti mi ripetono che non sono molto sveglio, e forse per certi versi è vero.

Probabilmente ti dovrei uccidere, non possiamo fidarci di tutti gli estranei che ci capitano a tiro, nonostante ciò credo di saper riconoscere le persone oneste…

Quindi ti va di seguirmi? Sai, c'è un rifugio sotterraneo più avanti, lì potrai finalmente mangiare, ho visto come guardi quest'alice, sai...”

Nico doveva avere un espressione parecchio sorpresa in quel momento.

Migliaia di domande affollavano la sua mente.

Perché aveva utilizzato il plurale? Un rifugio? Se fosse stata una trappola?

Però poteva ucciderlo in qualsiasi momento, sarebbe stato stupido condurlo in un imboscata.

“Io sono Percy, allora, ti muovi?” domandò, aveva il braccio teso verso di lui, voleva che lo seguisse.

“Oh-oh, grazie mille per l'invito. Però vedi, ho un amico oltre queste scogliere, stavo tentando un avanscoperta con lui. Non posso abbandonarlo...” lasciò cadere la frase, non voleva essere sfacciato, non voleva chiedergli se poteva offrire rifugio a tutti e due, eppure avrebbe voluto così tanto.

Percy probabilmente fu impietosito dal suo sguardo, così cominciò a balbettare tra se e se, combattuto.

“Cosa? Un altra persona? Beh, questo potrebbe essere un problema. Quella psicopatica mi scuoia di sicuro, ed Annie potrebbe non volermi rivolgere la parola per un bel po'. Eppure non lo posso lasciare qui, sembra così sperduto. Se muore sicuramente l'avrò sulla coscienza” poi finalmente decretò, schiarendosi la voce per cercare di darsi autorità.

“Bene, se il tuo alleato è una brava persona come te, gli sarà permesso di seguirci. Provate a fare brutti scherzi e ve la vedrete con me medesimo. Chiaro?” tentò di essere severo, ma i suoi modi parevano buffi ed impacciati.

Nico cercò di apparire serio e responsabile, eppure osservando le sue gestualità aveva solo una gran voglia di ridere, e la cosa si manifestava alquanto raramente.

Riaffiorò dall'altra parte del muro di scogli, questa volta seguito da Percy, in cerca di Will.

E non fu difficile trovarlo.

Nuotava come un disperato da una parte all'altra, stava cercando qualcuno, e Nico sapeva che era preoccupato per lui.

Lo raggiunse subito, ed infatti appena lo vide l'altro gli corse incontro, sollevato.

“Oh! Ma dov'eri finito, disgraziato? Non avevamo concordato avanscoperte diverse, e poi scusa dove sei staa-” Will si accorse finalmente della figura di Percy che stava dietro a quella di Nico, ombreggiandolo.

“E tu chi diamine saresti? Nico??? È un nemico? Ti sta ricattando?” domandò assumendo una posa minacciosa.

Nico sollevò gli occhi in gloria e subito si affrettò a tranquillizzare l'altro, spiegandogli la situazione.

“Ah, così tu saresti il nostro principe azzurro.

Ma che esempio di bontà ed altruismo!” esclamò con sarcasmo, senza nemmeno velarlo.

Nico non capiva perché avesse quell'atteggiamento d'astio verso l'altro, infondo gli stava veramente salvando la pelle.

I due non sembravano starsi reciprocamente simpatici, a quanto pareva.

“Bene, vado sul nostro scoglio per prendere gli zaini, torno subito” disse Will prima di sparire fra le onde.

Percy guardava dubbioso l'orizzonte.

“Sei proprio sicuro sia un tipo apposto?” domandò a Nico, corrucciando le sopracciglia.

L'altro lo rassicurò, anche se all'inizio Will poteva sembrare leggermente arrogante in verità era una persona veramente buona, aggiunse che in più d'una occasione l'aveva salvato, senza scendere nei dettagli.

Solo a quel punto lo sguardo del moro tornò ad esser rilassato.

Il biondo tornò con il suo arco stretto tra le braccia ed i due zaini sulle spalle.

Senza esitare un solo istante si diressero aldilà della scogliera.

Quando sbucarono dall'altra parte Will strabuzzò gli occhi, sembrava sorpreso da quella cava sotterranea che pareva così riparata.

Percy si immerse nell'acqua un ennesima volta, gli altri presero un respiro a pieni polmoni e lo seguirono.

Poi finalmente arrivarono nella meta descritta dal moro inizialmente.

Non ebbero nemmeno il tempo di uscire dall'acqua che una ragazza robusta dall'aria assai minacciosa si avvicinò a loro con fare rancoroso, teneva tra le mani una lancia acuminata.

Sembrava intenzionata a squartarli, ma Nico non si fece intimorire e continuò a fissarla con fare apatico.

Percy si mise in mezzo prima che quest'ultima li uccidesse. Non avrebbe saputo dire se l'avesse fatto veramente, ma in quel momento non era neppur importante.

“Hey-hey Clarisse! Calma! Loro non sono pericolosi! Sono caduti dalla scogliera e sono così deperiti, li ho portati io qui...” affermò balbettando ed evitando di incrociare lo sguardo con il suo.

Le pupille della mora si dilatarono in una maniera che non pareva umana, sembrava fumare dalle orecchie.

“Non avevo dubbi che fossi stato tu il cretino! Se sono spie? Se per il governo sono vivi e portano le telecamere qui? Ho una gran voglia di aprirti la testa solo per vedere se dentro ci trovo un cervello o un po' d'acqua marina e basta!” cominciò ad avvicinarsi a Percy, che indietreggiava, cercando però comunque di non apparire troppo spaventato.

Will e Nico si guardarono, non sapevano bene cosa fare.

Forse sarebbe stato il caso di fuggire.

Prima che Clarisse strozzasse Percy, fortunatamente apparì sulla soglia della cava subacquea un alta ragazza dai capelli biondi e fluenti, aveva un espressione scocciata, come se quella situazione fosse all'ordine del giorno.

Con poche parole calme ed autoritarie riuscì a far desistere l'ira di Clarisse, salvando un ennesima volta il povero ragazzo dagli occhi azzurri.

Will era sorpreso dalla facilità con cui era riuscita a risolvere la situazione, con solo l'ausilio di poche frasi.

Solo a quel punto la ragazza si decise a voltare lo sguardo verso di loro.

Li squadrò per un paio di istanti, aveva delle iridi fredde ed immobili, metteva soggezione.

“Riguardo a voi, sono molto curiosa di sentire la vostra versione. Ogni cosa” disse, e Nico fu sicuro che gli avrebbero detto tutto, tanto era stata convincente.

“Anche io sono molto curioso babies!” gridò una voce dietro di loro.

I due sobbalzarono, voltandosi immediatamente.

Un ragazzino dallo sguardo furbo stava seduto dietro di loro, su una roccia frammentata, e pareva divertito da quella situazione.

Teneva in mano un apparecchio grigio ed elettronico, non avevano idea di cosa si trattasse e neppure perché fosse in suo possesso. Nell'arena ogni tipo di tecnologia era vietata.

Nico non sapeva bene il motivo, ma intrecciare gli occhi con i suoi gli provocò una sottile nostalgia.

Non gli era mai capitata una cosa simile, ma nel riflesso scuro e ironico di quell'espressione poteva rivedere una malinconia a lui nota.

Una solitudine ed una sottile sofferenza difficile da non riconoscere.

Erano completamente diversi a prima vista, ma Nico aveva capito che in realtà l'anima dell'altro era molto più simile alla sua di quanto potesse immaginare, e forse anche Leo l'avrebbe compreso.

L'altro lo squadrò con un espressione indecifrabile, sembrava voler dire qualcosa, ma alla fine non disse nulla.

Scosse la testa e rise, tornando a guardare la posa rigida ed ostile di Clarisse.

“Tesoro, puoi calmarti e venirmi ad aiutare a sistemare la nostra mirabolante imbarcazione?

Sono un genio ma non un grande sollevatore di legna, lo ammetto. Apprezzerei anche l'aiuto di voi altre principessine, se non vi disturbo” terminò lanciando un occhiata ai presenti.

“Imbarcazione?” domandò Will, che per una volta sembrava inaspettatamente inadeguato.

“Oh, Valdez, chiamami un altra volta in quel modo ed userò le tue ossa per terminare la “mirabolante imbarcazione”, e comunque, seriamente è il caso di parlare di 'ste cose davanti a queste due mammolette sconosciute? Siete assurdi!” sbraitò battendo il pugno su una roccia.

“Uhuhuh, non è che ammetti di esser preoccupata per il mio geniale piano perché non aspetti altro che andartene da qui? Anche tu hai paura, sarà forse così?”.

Nico notò una leggere ed impercettibile inclinazione nella sua voce, come se gli stesse rivolgendo un accusa, una sottilissima frecciatina.

Un intesa muta.

Probabilmente Leo voleva salvare Clarisse dalla sua maschera veneziana, voleva far cedere la sua falsa corazza.

Ma non sarebbe successo, per nessuno là dentro. Le maschere facevano parte dello spettacolo.

Lei si limitò a rivolgergli un gestaccio ed a tornare a lamentarsi con Percy.

Annabeth si avvicinò a loro, la sua postura era imponente, non ammetteva repliche.

Gli riformulò una domanda con un tono inquietante ma pacato, voleva sapere chi erano, e notò una certa fretta nei suoi modi.

Nico si sentiva terribilmente a disagio nei suoi confronti, non riusciva a comprenderne il motivo, ma probabilmente non sarebbe riuscito a spiccicar parola.

Fortunatamente ci pensò Will, che iniziò a parlare al posto suo, era quasi sicuro che l'altro fosse riuscito a percepire la sua agitazione.

Era strano come riuscisse a capirlo pur essendo così diverso.

Osservò i suoi gesti ed i suoi movimenti mentre raccontava le loro varie disavventure.

Aveva un modo strano di coinvolgerti nei discorsi.

Non era come Leo, ne come Annabeth, ne come Percy, ne come Clarisse, ne come nessun altra persona conoscesse.

Riusciva a risultare superficiale, fresco, qualunque cosa dicesse risultava normale se pronunciata da lui, anche se si trattava di cose terribili.

Non t'impegnava, non risultava pesante, ma non riuscivi comunque a perderti uno solo dei suoi discorsi.

Era totalmente diverso ed unico, almeno a suo dire.

Eppure quando parlava con lui percepiva un aria diversa.

Sentiva le sue parole risultare maggiormente emotive, pesate, sincere.

Sembrava adattarsi come un camaleonte, si esponeva solo quand'era necessario, senza risultare costruito.

In questo senso lo invidiava.

Lui per evitare di esporsi aveva semplicemente deciso di evitare di vivere.

O meglio, aveva deciso di vivere ma solo con se stesso. Chiuso in un guscio di solitudine, alla fine sarebbe risultata un esperienza pure piacevole, magari se fosse stato qualcun altro.

Ma tutte le volte che vedeva lo specchio si ricordava di esser lui, si ricordava di non sopportarsi, si ricordava quant'era simile a lei…

Scosse la testa, ci stava nuovamente cascando.

Aveva ormai realizzato di essersi esposto con Will. Era da una vita che non gli succedeva, poteva rivelarsi pericoloso, ma non voleva rimanere nuovamente solo con se stesso.

Non riusciva a sopportarne l'idea.

Si era perso nelle sue riflessione e nel frattempo Will aveva spiegato ai presenti tutto ciò che c'era da spigare.

Percy sorrideva, sembrava esser contento di non essersi sbagliato sul loro conto.

Clarisse aveva i muscoli delle spalle meno tesi, lo sguardo ghiacciato di Annie sembrava essersi sciolto, restava solo del vapore acqueo ed era così strano vedere la severità lasciar spazio a della naturalezza.

Leo continuava ad avere una finta aria egocentrica stampata sul volto.

Quelle persone non erano come tutte le altre, combattevano con un infinità di demoni, e Nico si sentiva meno strano guardandoli muoversi con quegli atteggiamenti meccanici.

Leo finalmente si decise a risollevarsi, per portarli a guardare quella presunta imbarcazione a cui aveva accennato pochi attimi prima.

Si trovava a qualche passo da dov'erano posizionati.

Dovettero frasi un ennesima nuotata, ma stavolta la marea era terribilmente bassa, sembrava stessero camminando dentro una piscina per bambini.

A Nico arrivava a metà busto, e di certo lui non si poteva considerare un ragazzo alto.

Abbassò lo sguardo, notando la struttura a cui stava lavorando Valdez.

Effettivamente era un imbarcazione quella che vide, più o meno.

Una zattera composta da tronchi spezzati, massicci, quasi simmetrici, parevano sicuri.

Erano legati fra loro da una corda dal grande spessore, chiusa in nodi saldi ed impeccabili, un buon lavoro.

La sua ampiezza era notevole, sembrava poter reggere una decina di persone.

Cos'avevano intenzione di fare con quell'affare? Fuggire?

Sembrava impossibile, il governo non ci avrebbe messo molto a mitragliarli.

Vedendo lo stupore nel biondo e l'impassibilità quasi rassegnata nell'altro, Annabeth decise di prender la parola.

“Leo ha un programma per uscire, per evitare di farci uccidere altre persone e rischiare la vita.

Ed immagino che ora anche voi rientrerete in questo progetto” lanciò un occhiata a tutti, tastando il terreno, si limitarono ad annuire, Clarisse sputò a terra.

“Dicevo, le questioni tecniche sono un po' complicate da spiegare, quindi vi chiedo di rivolgervi personalmente a lui per eventuali chiarimenti.” indicò Valdez con un cenno del capo.

“Comunque, questo piano consiste nel disattivare per delle ore intorno alle 72 un qualunque campo magnetico o tecnologico, le conseguenze saranno che per il totale di ore in cui saremo protetti da queste radiazioni “antitecnologia” saremo inattaccabili per Capitol City.

A quel punto ci imbarcheremo su questa” diede un colpetto alla zattera che continuava a galleggiare, attraccata ad uno scoglio con la corda “e proveremo ad allontanarci per quanto ci sia possibile.

Ci sono un paio di problemi da affrontare, uno dei quali è il fatto di aver bisogno di una batteria meccanica di cui non siamo momentaneamente in possesso per ultimare lo strumento che metterà k.o. l'attrezzatura capitolina.

Stavamo pensando che l'unico modo per riuscire ad impossessarcene potesse essere “catturare un hovercraft” per servirci delle parti necessarie.

Ma è impossibile che scendano qua, quindi l'unica soluzione è metterci in contatto con qualcuno lassù.

Ma chi? E come? Questi due punti sono irrisolti” terminò scrocchiandosi le dita, pareva pensierosa.

Nico non si aspettava qualcosa di elaborato in una maniera così articolata, pensava avrebbero tirato fuori il classico piano disperato da maniaci del complotto.

Era comunque dubbioso, avrebbe voluto rivolgere quelle famose domande tecniche a Leo, ma sapeva che non sarebbe stato in grado di formularle ed in qualunque evenienza non avrebbe compreso le risposte.

Gli bastò incrociare i suoi occhi scuri per capire che esisteva una speranza concreta.

Se anche Leo pensava potessero farcela, forse sarebbe riuscito a convincersi pure lui.

Ci fu uno strano momento di silenzio dedito alla metabolizzazione del tutto, quando ad un certo punto un terribile suono fece vibrare la piccola cava in cui erano chiusi.

Delle pietroline caddero dalle pareti traballanti, fu un attimo che non durò abbastanza da essere identificato, ma abbastanza da esser ritenuto magnetico.

Il gruppo cominciò a guardarsi intorno, era successo qualcosa all'arena sopra di loro, e intuivano di cose si trattasse.

“Qualcuno dovrebbe andare a controllare” disse Leo, una strana fiamma accesa nei suoi occhi, sembrava stesse reprimendo un qualche istinto, le sue gambe tremavano.

Nico avrebbe tanto voluto psicoanalizzarlo un giorno, avrebbe voluto capire cosa si celava veramente dietro quella facciata di cera.

Non era il momento giusto, e forse l'occasione non si sarebbe mai presentata.

“Vado io” disse Percy, guardando direttamente negli occhi Annabeth, stavano parlando in silenzio, e lei sembrava leggermente contrariata, ma alla fine annuì.

“Pure io” decise infine Will, cominciando a mettere l'arco sulle spalle.

“Vi seguo” terminò Nico.

Tutti lo guardarono sorpresi, si rese conto di non aver ancora pronunciato alcuna parola.

Il biondo inizialmente sembrò voler ribattere, ma desistette non appena incrociò l'espressione dell'altro.

Cominciarono a dirigersi fuori dalla grotta, armati per precauzione.

Raggiunsero rapidamente la scogliera in cui si erano trovati inizialmente Nico e Will.

Un grande fumo si sollevava nel cielo, cozzando con l'azzurro pulito ed il bianco candido.

Poi finalmente distinguettero una figura barcollante sulla cima del precipizio, era troppo distante per esser inquadrata, le sue intenzioni sembravano confuse e le sue mosse sconnesse.

Will staccò un pezzo di stoffa dal suo zaino e si morse con forza il dito, fino a quando non iniziò a sanguinare.

I due lo guardarono straniti, non avevano compreso le sue intenzioni, eppure sembrava abbastanza convinto da non poter esser persuaso a smetterla.

Prese la punta della freccia e scrisse sulla stoffa un messaggio con il suo sangue, poi infilzò il pezzo di zaino, legandola saldamente.

Prese l'arco fra le mani e lo puntò verso quella sagoma lontana e sperduta, lasciò andare la freccia.

Nico per un istante temette che la trafiggesse, ma fortunatamente affondò vicino ai suoi piedi, senza sfiorarla.

Nico si voltò ed incrociò per un ennesima volta il sorriso del biondo.

Aveva il mento sporco di sangue, gli occhi persi tra il fumo dell'incendio, eppure era così spendente.

 

Nda: La storia ha quasi raggiunto il termine, ed il prossimo capitolo probabilmente sarà l'ultimo od il penultimo.

Spiegherò meglio le mie intenzioni con il concludersi della fanfiction, per ora ringrazio tutti coloro che hanno letto, seguito, ricordato, recensito o preferito questa storia.

Grazie mille davvero ^.^

Alla prossima <3

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Capitolo 28
*** -THE END- ***


THALIA

 

Il suono dei minuti che passavano rimbombava amplificato nelle orecchie di Thalia.

Ormai tutta l'alleanza si era accorta della sua intrusione, eppure avevano mandato solo Andrea ad inseguirla.

Non sapevano quello che gli aveva appena fatto.

Non avevano capito che quelli sarebbero stati gli ultimi minuti della loro vita.

Ridacchiavano tra di loro, convinti che presto il moro sarebbe tornato con la sua testa.

E se anche la loro ipotesi si fosse rivelata corretta, dove sarebbe ritornato?

Il piano era saltato in aria, tutto stava per saltare in aria.

Continuava a correre affannosamente, era troppo spaventata, il cuore le batteva troppo forte, non era in grado di affrontare uno scontro, non ci sarebbe riuscita.

Era diventata un assassina, presto quelle persone sarebbero morte.

Mancavano due minuti, e lei ormai era abbastanza lontana, eppure avrebbe voluto tornare indietro.

Gridare a tutti di scappare, salvarli.

Era troppo tardi.

Fermarsi avrebbe voluto dire solamente morire. Lei non voleva morire, si era rivelata una codarda.

Si stava odiando per questo.

Le sue gambe si fermarono, da sole, non riusciva più a muoversi, non voleva sfuggire al suo destino.

Era pronta a morire, sarebbe stata una giusta punizione.

Andrea la stava raggiungendo, impugnava il coltellaccio che poco prima stava utilizzando il compagno di Piper.

La sua andatura era regolare, i suoi occhi fermi verso di lei, il suo turbamento pari a zero.

Il solito automa del tre, niente da dire.

Thalia gli sorrise, e solo allora poté notare un leggero turbamento nei suoi occhi, doveva forse far male veder sorridere la propria vittima pochi istanti prima di ucciderla?

Mancavano pochi passi, le sue gambe continuavano ad esser incollate al terreno.

Non chiuse neppure gli occhi, aspettò la sua morte in silenzio.

Andrea correva, il coltello sollevato in aria, stava per colpirla.

Fu allora che una freccia si conficcò proprio nel centro della mano del ragazzo, legandolo indissolubilmente all'arma.

Lanciò un urlo straziato dal dolore.

Le sue vene rischiavano di fuoriuscire ed il suo sangue gocciolava sul pavimento.

Thalia non era più il suo nemico.

Andrea spostò gli occhi, arrossati dal dolore e dall'ira verso la direzione di quella freccia.

Zoe si stagliava in lontananza.

Il vento le spettinava i capelli finissimi, dando movimento alla sua figura statica.

I suoi occhi brillavano seri, la sua postura era perfetta, il suo arco brillava come la sua sagoma.

Sembrava una dea, Thalia la trovava bellissima.

Andrea cominciò a correre nella sua direzione, e lei sparì fra la boscaglia, non prima di lanciarle uno sguardo profondo.

Uno sguardo che le mise i brividi.

Bastò quell'occhiata per ridarle la forza, per convincerla a non arrendersi.

Si asciugò la fronte dal sudore.

Si rimise in piedi, le sue gambe avevano smesso di tremare.

Tic Toc.

Fu allora che un enorme spinta d'aria la fece ricadere al suolo.

Un enorme boato si diffuse in tutta l'arena, facendo tremare le radici e spezzando i rami.

L'esplosione fu tale da rispedirla al suolo, con le ginocchia sporche di terra e sangue.

Il fumo si sovrapponeva all'ossigeno e le impediva di respirare normalmente.

Bruciava negli occhi, ma non era sicura che fosse per quello che sentiva le guance corrose da lacrime.

Si risollevò da terra, un ennesima volta, un ennesimo sforzo.

Era come ipnotizzata dall'enorme massa di fuoco che aveva inghiottito il panorama davanti a lei.

Gli alberi erano spariti, i cespugli, probabilmente le basi, le risorse, ed anche le persone.

Aveva le orecchie tappate, ancora scosse dall'enorme suono che avevano udito poco prima.

Ma le sembrava comunque di sentire delle urla in lontananza, urla di persone, o forse di fantasmi, che si dimenavano nell'orrore e nella paura, che venivano torturate da quel fuoco così ipnotico.

I suoi occhi riflettevano l'incendio, nei suoi occhi stessi se ne stava sviluppando uno autonomo.

E presto entrambi avrebbero preso il sopravvento, bruciando tutto ciò che incrociavano sulla propria strada.

Si avvicinò alle fiamme, come attratta da una forza invisibile.

Era tutto corroso e morto, toccò le foglie di un albero che era stato così verde da accecare.

Ora erano carbonizzate, si sciolsero sotto il suo tocco.

Era stata lei od il fuoco a procurarle quell'effetto?

Fermò i suoi passi e le sue riflessioni solamente quando incontrò un cadavere.

La ragazza del distretto quattro. Era sdraiata in una strana posizione.

Probabilmente si era disperatamente dimenata prima di morire.

Metà del suo viso, del suo corpo era bruciato.

Carbonizzato, sfregiato, sembrava un inquietante bambola, non un essere umano.

Forse lei aveva capito cosa sarebbe successo da lì a poco.

Per questo aveva iniziato a correre ed era arrivata così lontano, ma non era bastato.

Ora era solo un corpo finto, per metà gelato e per metà infuocato.

Al suo tocco si sarebbe vaporizzata come le foglie intorno a lei.

Si inchinò per sfiorare la sua parte ancora intatta.

Dalle tasche sbucò un pacchetto di sigarette, era sopravvissuto a tutto quello.

Il ricordo di quella chioma scura mentre era china a fumare con spensieratezza, mentre conversava con la ragazza mora al suo fianco, le procurò una fitta allo stomaco.

Un'altra lacrima rigò il suo viso, sicuramente la colpa era del fumo.

Scappò, non riusciva a sopportare ulteriormente quella vista.

Prese con se le sigarette, come ricordo, ed era come se in quel momento qualcuno le stesse spegnendo sul suo cuore.

In lontananza udì un grido che le fece accapponare la pelle.

Il suo orecchio sinistro cominciò a fischiare.

Avrebbe riconosciuto quella voce fra mille.

 

Zoe aveva seguito il disfarsi del loro programma con sguardo imperturbabile.

Aveva visto negli occhi elettrici dell'altra la paura, i sensi di colpa, aveva visto la rassegnazione, la colpa, la sconfitta, l'odio verso se stessa.

Erano tutti sentimenti che conosceva bene, e non avrebbe permesso per niente al mondo che l'altra ne fosse annientata.

Doveva salvarla.

Le tornò in mente il viso del ragazzo che l'aveva tradita, i suoi genitori mentre le voltavano le spalle, le sue sorelle troppo codarde per protestare.

I suoi ricordi erano uno schifo, le sue ferite erano troppo gravi per essere ricucite, non avrebbe mai permesso che una cosa del genere succedesse anche all'altra.

Non avrebbe mai voluto vedere il suo sorriso elettrico spegnersi per sempre.

Iniziò a correre non appena Andrea prese a seguirla.

Sapeva che se in quel momento il ragazzo l'avesse raggiunta, lei si sarebbe lasciata morire, l'avrebbe considerata una punizione divina.

Infatti quello che vide fu una Thalia arresa, inginocchiata al suolo, in attesa della morte, ma fortunatamente, sulle labbra aveva ancora quel suo perfetto sorriso sornione.

Non si era ancora spento, la speranza era ancora viva.

Prese la mira, le sue mani non erano mai state più ferme, e schioccò la freccia.

Colpì la sua preda sulla mano, impedendogli di sfiorare Thalia.

Vide l'ira diffondersi dentro di lui.

Era una dispensa d'odio, ormai era un animo marcio.

Zoe avrebbe voluto solo ricordargli che non era bene perdere le staffe in un incontro, eppure una parte di lei non riusciva a reprimere la stessa rabbia.

In quel ragazzo identificava colui che l'aveva spezzata.

Rappresentava tutti i suoi mali, solo convincendosi di questo sarebbe riuscita a dare fine alla sua vita.

Se lo ripeté così tante volte che alla fine ci credette.

Scagliò un'altra freccia nella sua direzione, colpì una spalla.

Andrea lanciò un altro grido strozzato tra i denti.

La stava raggiungendo, si allontanò tra i boschi.

L'avrebbe aspettato per annientarlo, o annientarsi, ma non davanti agli occhi blu dell'amica.

Andrea la stava raggiungendo, sollevò il coltello nella sua direzione.

Zoe si parò dal colpo con l'arco, la sua fedele arma resistette, non si spezzò.

Sicuramente sarebbe stata spacciata dato che era un corpo a corpo.

Lei non disponeva d'altro che un arco e lui possedeva un enorme coltello da macello.

Eppure questo non l'avrebbe dissolta dal suo incarico, l'arresa non era contemplata.

Prese una freccia e la infilzò con il solo ausilio delle mani nel suo torace.

Lui aveva ancora le braccia sollevate e la guardia scoperta, in quanto il suo coltello continuava a cozzare contro il suo arco.

Strinse gli occhi e grugnì, tossendo sangue.

A quel punto Zoe realizzò di esser fregata.

Il suo arco si spezzò.

Una lama di coltello le entrò direttamente nel petto.

Lei contemporaneamente prese un altra freccia e la infilzò nella gola del nemico.

Questo cominciò a tossire convulsamente, la sua ira non era ancora consumata, sembrava insoddisfatto.

Eppure cadde a terra rantolante, dimenandosi fino a fermarsi in una posa fetale, la sua vita si esaurì così, con un espressione insoddisfatta sul volto ed il collo aperto in due.

Zoe non si sentiva minimamente in colpa.

Le sue mani erano sporche di rosso.

Non sapeva a chi appartenesse, era forse suo o del suo nemico?

Si sentiva libera, aveva vinto per una volta, era riuscita a concludere il suo compito.

Il suo cerchio era giunto al termine.

Avrebbe voluto alzarsi in piedi e ballare sulle note del vento.

Eppure il suo cuore stava letteralmente sanguinando, stava morendo, e nonostante tutto provava ancora un po' di paura.

Si accorse di aver lanciato un grido, non l'aveva fatto volontariamente, non avrebbe mai voluto rovinare la quiete della natura.

Socchiuse un attimo gli occhi, e quando li riaprì trovò davanti a lei il volto di Thalia.

I suoi occhi azzurri erano rancorosi e preoccupati, il suo volto rigato di lacrime.

Era inchinata, entrambe erano appoggiate ad un albero, e le teneva saldamente la mano.

Le sue erano così calde e tremanti, terribilmente vive.

Zoe si lasciò sfuggire un risolino, adesso che sentiva quella salda presenza non avrebbe avuto più paura.

Le sue sofferenze erano terminate. Aveva avuto la sua rivincita, e se ne sarebbe andata con il sorriso.

La gola era secca, eppure riuscì a parlare, prima di spirare l'ultimo fiato.

“Thalia, volevo ringraziarti per tutto. Sei una ragazza fantastica, non odiarti, non dimenticarlo mai.

Lotta e vinci.”

Aveva comunicato la sua volontà, ormai non aveva più motivo per restare, doveva andarsene.

Chiuse gli occhi e lasciò cadere la testa all'indietro.

Le sue orecchie udivano una melodia dolce e serena, le urla di Thalia non la raggiunsero.

Vide una luce, delle sagome amichevoli, si sentiva nuovamente a casa, finalmente aveva raggiunto una famiglia che l'amava.

Il suo battito cessò.

Thalia la strinse più a se, continuando ad urlare.

Le sue urla venivano dal profondo, le sue ferite erano interne ed erano le più dolorose.

Zoe l'aveva salvata e poi era morta.

Aveva visto l'importanza di quel gesto, la necessità nell'uccidere Andrea, eppure non capiva.

Si sentiva distrutta, voleva morire con lei.

Così come tutti gli altri stavano facendo.

Aveva terminato le lacrime.

Si alzò, lasciando da solo il cadavere dell'amica, doveva allontanarsi.

Si trovavano pressapoco nello stesso punto ove si erano incontrate la prima volta, forse un po' più in alto.

Iniziò a camminare, si fermò solo quando raggiunse il burrone, si trovava davvero a pochi passi da dove l'altra era morta.

Aveva corso così tanto.

Il suo sguardo indignato le ritornò alla mente, il modo in cui schioccava le labbra, in cui alzava gli occhi in gloria, in cui gesticolava quando era contraria per far qualcosa.

“Se qualcosa dovesse andare storto ricordati che è colpa tua”

Quelle parole tornarono vivide nella sua memoria: era tutto colpa sua ed il peggio era che non avrebbe potuto far nulla per rimediare, non possedeva nemmeno una vendetta da perseguire, nulla.

Si avvicinò ancora di più al baratro, non sapeva qual'era il fine delle sue stesse azioni.

Si sentiva attratta dalla gravità, come lo sentiva con il fuoco.

Forse uno spirito masochistico si era impossessato di lei.

Si voleva buttare? Voleva suicidarsi? Morire?

Non lo sapeva, ma continuava a camminare.

Si fermò solo quando, guardando verso il basso, rimirando gli scogli, vide una figura.

Una sagoma sollevata, lontana ma comunque distinguibile.

Per un momento gli parve di vedere Zoe.

Come impugnava magneticamente la sua arma, con quell'eleganza felina.

Eppure presto realizzò che si trattava di un ragazzo, ed era affiancato da altre due persone.

L'arco non era però un allucinazione, il ragazzo lo impugnava veramente, e lo teneva puntato verso di lei.

La voleva uccidere? Perché?

Per un momento esitò sul prendere la sua arma e farlo fuori per prima.

Eppure era troppo stanca, lasciò che l'altro schioccasse la sua freccia.

Questa la raggiunse rapidamente, ma non la sfiorò, si scagliò ai suoi piedi.

Si inchinò, ancora in bilico sul burrone, per raccoglierla.

Non era una semplice freccia.

Rigirò la sua costituzione ruvida tra le mani.

Portava un messaggio, scritto su una stoffa chiara.

Volevano comunicarle qualcosa.

Sfilò la stoffa e lesse cosa vi avevano scritto.

“Abbiamo bisogno di un hovercraft, per favore. Abbiamo un piano, possiamo farti uscire di qui.”era scritto con il sangue.

Un hovercraft?

Tornò a guardare in quella direzione.

Cosa intendevano dire? Volevano che lei buttasse giù uno di quegli affari? In che modo poteva essere utile?

Poi tornò a vedere la stoffa, rilesse due volte l'ultima frase.

Uscire di lì, sabotare il gioco.

Era stata così presa da tutte le emozioni e da tutto ciò che era accaduto da scordarsi la sua vera motivazione, dimenticando chi era stato ad organizzare tutto.

Stava per diventare un burattino.

La rabbia cominciò a farsi spaziò tra le sue emozioni, soffocando tutte le altre.

Magari era stata anche colpa sua se Zoe era morta, magari aveva fatto dei calcoli sbagliati, ma tutto ciò non sarebbe mai e poi mai successo se non fosse stato per il governo.

Era stato quest'ultimo ad organizzare i giochi.

Tirò fuori il suo arco ed il suo scudo, pronta a combattere.

Avrebbe resistito e lottato, proprio come le aveva chiesto l'altra.

Si riavvicinò al suo corpo, le passò una mano sul volto, un ultima carezza.

Ingoiò un boccone amaro per non ricedere al pianto.

Esattamente in quel momento un hovercraft stava per scendere e prendere il suo corpo senza vita.

Lei si buttò addosso a quest'ultimo, l'avrebbe impedito.

Cominciò a scagliare una pioggia di frecce, l'hovercraft barcollò, cominciando a rilasciare piccole scosse elettriche.

A Thalia tornò in mente Luke, il suo sorriso scaltro, i suoi modi rapidi ma enfatizzati.

Il modo magnetico in cui scappava tra i boschi, il magnetismo della sua eterocromia.

Il dolore nell'averlo perso, di esser stata ininfluente per un altra volta.

L'oggetto metallico si scagliò contro di lei.

Qualcuno dall'altra parte lo stava pilotando.

Qualche verme del governo, e non se ne parlava di perdere.

Si parò con il suo scudo, e lo cominciò a scagliare ripetutamente contro questo.

Degli strani suoni di circuiti che stavano fondendo lo scosse.

Lei continuò a sferrare colpi ripetutamente.

L'hovercraft aprì un ala, quella da cui usciva la maniglia di ferro che come scopo aveva quello di sollevare i cadaveri.

La graffiò con profondità all'altezza dello stomaco.

Fu presa alla sprovvista.

Ma non si fermò nemmeno per un istante.

Ricominciò a colpire l'oggetto, alternando le frecce e lo scudo, fino a quando finalmente

l'oggetto, dopo aver rilasciato una scossa elettrica, che per altro la sconvolse prendendola in pieno, cadde a terra, aveva fuso i suoi circuiti.

Subito dopo cadde a terra anche Thalia, aveva esaurito le sue forze.

La ragazza si lasciò trasportare dalla gravità schiantandosi a terra, sopra il corpo meccanico dell'hovercraft.

Non aveva più energie.

Abbassò la testa, guardando il proprio addome.

Era stato aperto in due da quel maledetto strumento.

Non avrebbe saputo dire se quella ferita era mortale. Il sangue bruciava sulla sua pelle, caldo e colorato, sparso sulla sua maglietta, sulla divisa, sul pavimento.

Forse sarebbe morta, forse no, sapeva solo che non riusciva più a tenere gli occhi aperti. Così li chiuse.

Una voce lontana la raggiunse, ma lei non la sentì, ormai era svenuta.

 

Piper dopo aver osservato la fuga di Thalia, seguita poi da quella di Zoe aveva capito cos'era accaduto.

Non si vedeva bene dalla loro posizione, Thalia si era mimetizzata egregiamente con l'ambiente, eppure aveva compreso che era stato attivato il detonatore.

Doveva scappare e portare Frank via da lì prima che fosse troppo tardi.

Ricordava il perché era stato catturato, il perché del suo terrore, il loro litigio.

Prima che lei ed Ethan si incontrassero, avevano deciso che Piper sarebbe andata a prender delle erbe e dei frutti da mangiare, così si erano lasciati con questo accordo.

Notando che non tornava Frank era andato a cercarla, e così si era ritrovato difronte ad una scena equivoca.

Piper chinata sul corpo Ethan, sanguinante.

Era stato preso dal terrore, aveva pensato subito ad un tradimento.

All'opzione che Piper gli avesse sempre mentito, non mostrandosi per quello che era realmente.

Non riuscì a fermare le sue gambe dalla corsa, Piper si accorse di quello che aveva interpretato e cominciò ad inseguirlo per spiegarsi, per chiarire sulla verità della questione.

Ma prima che questo fosse possibile l'alleanza incrociò Frank, lo circondò, lo tramortì e lo catturò.

Piper non poté far nulla che non fosse osservare la scena, sconvolta.

Intervenire sarebbe stato mortale per entrambi, non avrebbe risolto nulla.

Così aveva aspettato.

Ed ora Frank stava per saltare in aria.

Doveva fare qualcosa, allontanarsi da loro prima che fosse troppo tardi.

Cominciò a muoversi verso la sua figura, tutti sembravano (guardare) concentrati nel guardare Thalia e Zoe.

Così approfittò del momento per prendere Frank.

Questo si accorse del fatto che si stava avvicinando a lui, e probabilmente avrebbe gridato terrorizzato.

Così Piper decise di tramortirlo con una pietra, dopo si sentì in colpa.

Ma non avrebbe avuto altra maniera per non farsi scoprire.

Così iniziò una corsa disperata trascinandolo con lei, e fortunatamente riuscì ad allontanarsi dal luogo giusto prima che saltasse tutto in aria.

Lo scoppio fece riprender il ragazzo, e fu a quel punto che Piper gli spiegò tutta la situazione, anche se la condizione non era propizia per le discussioni.

Frank non poté far altro che crederle, e quindi seguirla in silenzio, senza dire nulla.

Non riusciva a spiccicare parola, non voleva.

Allora si diressero silenziosamente verso il burrone.

Un grande incendio stava divampando nelle parti centrali dell'arena, bisognavano dirigersi all'esterno.

Piper cercava di non far cadere lo sguardo alle sue spalle.

Era scioccata dalla sequenza di cose che erano accadute, si sentiva male solo nel rimirare i cadaveri degli alberi, figurarsi il resto.

Una volta che raggiunse il burrone trovò il corpo di Thalia in fin di vita, era sdraiata su un hovercraft.

Si avvicinò di corsa, seguita da Frank.

Cominciò a guardare la dimensione della ferita, non sembrava mortale in se, eppure rischiava di morir dissanguata.

Si strappò un pezzo di divisa e la posizionò sulla ferita dell'addome.

Era perfetta, dritta, chirurgica, con ogni probabilità era stato un oggetto metallico a procurargliela.

(Lo) suo sguardo cadde nuovamente sull'hovercraft.

Non capiva il perché l'avesse abbattuto, ma se aveva rischiato la morte per farlo ci doveva esser un motivo più che plausibile.

Controllando meglio la sua divisa notò che aveva un pezzo di stoffa in tasca, per buona parte era macchiato di sangue.

Ma riuscì a leggere parte del messaggio “- bisogno- hovercraft-piano-uscire”.

Capì il messaggio, ma chi poteva essere stato?

Corse verso il burrone ed allora vide delle figure stagliarsi lontane, la fissavano promettenti.

Il suo puzzle mentale stava mettendo insieme i pezzi.

Doveva dare a quei ragazzi l'hovercraft, ma non sapeva come.

Poi pensandoci meglio si ricordò di avere della corda nello zaino.

Quando aveva slegato Frank era rimasto un enorme fune massiccia e per sicurezza aveva deciso di conservarla.

Adesso si sarebbe potuta rivelare utile.

Estrasse la fune e cominciò a legarla intorno al macchinario.

Fece tre giri, era abituata a fare nodi per via del suo lavoro nel distretto quindi non gli venne difficile immobilizzarlo.

Si fece aiutare da Frank per spingerlo fino alla fine del burrone, poi lo lasciò andare giù tenendolo dalla parte esterna della corda.

Era parecchio pesante e dovette tenersi incollata al suolo per non precipitare con lui.

Lo fece scendere man mano, fino a quando non fu ad una distanza abbastanza corta da poter lasciarlo andare senza rischiare danni permanenti nell'oggetto.

Le sagome sotto di lei stavano cominciando a nuotare verso quel luogo.

L'incendio stava continuando a divampare. Si sarebbero dovuti buttare, sennò sarebbero morti per soffocamento.

Trasportò il corpo di Thalia, tenendolo ben stretta, non poteva di certo abbandonarla.

Bastò un solo sguardo con Frank per capire che si sarebbero dovuti gettare.

Lui si limitò ad annuire, non c'era spazio per la paura o le vertigini. Chiusero gli occhi e si gettarono, Piper continuava a stringere fra le braccia l'altra ragazza, Frank a poca distanza da loro le imitò.

L'impatto fu devastante e destabilizzante, ma sopravvissero, anche perché ben presto delle figure si avvicinarono per metterli in salvo in una caverna sotterranea.

 

Clarisse aspettava con impazienza il ritorno dei ragazzi. Sentiva un formicolio pervaderle il copro, una strana angoscia.

Non riusciva a stare ferma, si muoveva da una parte all'altra, calciando il pavimento e trascinando i passi.

Per tutto quel tempo si era sentita un cane in gabbia, ostentare la sua rabbia in ogni gesto, anche se non era reale, un po' la stava aiutando, ma non abbastanza.

Prima o poi sarebbe esplosa se fosse rimasta ulteriormente in quel postaccio.

Avrebbe spaccato tutto, sarebbe impazzita, magari sarebbe arrivata al punto di uccidere, e lei voleva evitarlo. Per quanto potesse apparire terrificante, per quanto potesse fare paura, lei non era realmente un mostro, o meglio, faceva il possibile per non esserlo.

Annabeth se n'era resa conto, riusciva a leggerle l'anima in qualche strano modo, a comprendere la parte buona di lei, quella premurosa, quella che non riusciva nemmeno lei a comprendere.

In quel momento era appoggiata ad un masso, le gambe incrociate e gli occhi socchiusi, puntati all'orizzonte di pietra, riusciva ad apparire sempre così calibrata in ogni gesto.

Leo invece era particolarmente irrequieto, si martoriava le mani nervosamente, faceva spostare lo sguardo da un luogo all'altro, aveva paura di qualcosa, di se stesso.

Riusciva a riconoscere quella paura, eppure non ne capiva il motivo.

Leo era l'opposto di Annabeth.

Lui riusciva a vedere il suo potenziale esplosivo, ma non ne sembrava spaventato, solo preoccupato, e lei non si spiegava il perché.

Preferiva tenersi distante da lui, non voleva risvegliare il suo ego travagliato.

Finalmente i ragazzi fecero irruzione nel luogo, era passato veramente troppo tempo, forse un ora, forse due, ma ora nessuno riusciva a pensare.

L'adrenalina era troppo forte e riusciva a confondere ed enfatizzare i cinque sensi.

I ragazzi non erano soli, con loro c'era una strana ragazza dagli occhi caleidoscopici che si manteneva in piedi a stento, un ragazzo apparentemente cinese che barcollava, aveva evidenti segni scuri sul corpo.

Infine Will teneva in braccio una ragazza dalla chioma corvina, era svenuta, i vestiti sporchi di sangue.

Ma non fu sicuramente la prima cosa che notarono.

Il gruppo aveva con se un enorme ammasso di metallo grigiastro, sembrava quasi completamente intatto.

Lo tenevano con delicatezza, come se fosse un vetro pronto a rompersi, o un cane pronto a mordere, dipendeva dai punti di vista.

Leo scattò in piedi non appena lo vide, aveva già sfilato dal collo il suo apparecchio metallico.

Gli ci vollero due minuti per chinarsi verso l'hovercraft e cominciare a dissezionarlo, sembrava un medico legale intento in una fondamentale autopsia.

Clarisse non capiva nulla di quello che stava facendo, quei movimenti per lei erano lontani, alieni.

Pensava solo al fatto che era arrivato il fatidico momento della fuga.

Era tutto nelle sottili mani di quel ragazzino ispanico, dovevano tentare subito, o sarebbero morti là.

Dovevano vincere, tutti insieme.

Il silenzio era insopportabile, pesante, carico d'aspettativa.

Leo doveva muoversi, doveva sistemare quell'aggeggio, doveva annunciare la riuscita del tutto.

Cominciò a guardare le espressioni dei presenti per calmarsi.

Erano tutti terribilmente diversi, delle persone nuove, cresciute.

Annabeth aveva lo sguardo più intenso, le braccia più resistenti, eppure piene di cicatrici, pieni di morsi di ragni. Ricordò la paura che l'aveva invasa, i demoni che le erano tornati a galla, doveva esser stato terribile.

Percy sembrava estremamente concentrato, quello sguardo adulto stonava con la sua solita espressione da ragazzino.

La sua felicità era stata spezzata, sottoposta a dura prova, eppure ora sembrava più responsabile, più forte.

Leo era un mistero.

I suoi occhi celavano un infinità di segreti, eppure sapeva che aveva un enorme bisogno d'attenzione, sapeva che la loro presenza in qualche modo lo aiutava a superare dei momenti di solitudine dolorosa.

Esattamente il suo opposto, lei avrebbe voluto uccidere chiunque avesse nuovamente provato a rivolgerle un riflettore.

Il ragazzino dagli occhi scuri, Nico, sembrava avere delle occhiaia molto più profonde, ma allo stesso tempo il suo colorito era meno pallido.

Will aveva mostrava un espressione sincera, coinvolta realmente, non costruita.

Non conosceva le altre persone, ma poteva vedere dei tratti particolari anche in loro.

Le sopracciglia corrucciate di Piper, il turbamento di Frank, l'enorme squarcio di Thalia.

Erano tutti così diversi, nel bene e nel male erano cresciuti.

E lei? Cosa le era successo? Di certo non se lo sarebbe diagnosticata da sola.

Leo finalmente riuscì a terminare nel suo intento.

Il suo strano portafortuna era ultimato, aveva dei pezzi nuovi tappezzati intorno, delle microscopiche rotelle cominciarono a muoversi, il ragazzo lo allontanò prontamente dall'acqua, poco prima che lanciasse una piccola scintilla.

Li guardò con serietà, poi parlò.

“Il piano è ultimato. Abbiamo una copertura di una settantina d'ore, dobbiamo allontanarci rapidamente da qua, le onde radioattive stanno già cominciando a diffondersi” terminò, iniziando a prendere gli zaini.

A nessuno sembrava vero, non era successo nulla di particolare, non uno scoppio, non un boato, ma loro erano salvi, a quanto pareva.

Tutti stettero zitti, prendevano i loro zaini, sistemavano le armi rimaste all'interno.

Fu la voce quasi sconosciuta di Nico a dividere il silenzio, si rivolse a Leo, quasi sottovoce.

“Grazie.” disse solo questo, lanciando un occhiata indescrivibile all'altro.

Leo rilassò le spalle, sorrise, per la prima volta davvero.

Clarisse aiutò i ragazzi a portare fuori la zattera, cercando di non farle urtare gli scogli, passando dal solito percorso subacqueo.

Leo fu l'ultimo ad uscire, stava ultimando qualcosa.

Quando tornò aveva con se una strana elica, pareva la ventola di un aereo.

Era riuscito a ricreare una ventola con quei pochi strumenti dell'hovercraft rimasti: era un portento, se qualcuno di singolo avrebbe seriamente vinto a quell'edizione sarebbe stato senza dubbio lui.

Ma era stato altruista, aveva salvato otto vite, ammirevole

Annabeth sistemò la zattera sull'acqua, aiutandolo a legare l'elica con il nastro rimasto a Piper.

L'imbarcazione era pronta. Il loro Argo II.

Cominciarono a posizionarsi sopra, aiutandosi a vicenda, ci stavano ed avanzava pure lo spazio per gli zaini.

Non c'era più nient'altro che avrebbero dovuto fare, affidarsi alla sorte, allontanarsi da là, pregare di raggiungere della terra ferma, era tutto in dubbio, ma loro erano vivi ed evasi.

Leo azionò la ventola, loro cominciarono a muoversi, cavalcando le onde medie del mare, gli schizzi dell'acqua sembravano quasi piacevoli.

Una sensazione di liberazione affollava l'aria.

Tutti stavano tornando a respirare.

La loro velocità era discreta, il cielo era ancora sfumato dal grigio, nel panorama solo mare, un infinita quantità d'acqua.

Si tenevano stretti al legno, quelle lastre di legno che Clarisse stessa si era dovuta procurare arrampicandosi per la scogliera, ispezionando ogni anno, squarciandosi le mani che ora bruciavano cosparse di sale.

Finalmente eliminò il suo solito ghigno corrucciato. Magari sarebbero morti, magari li avrebbero rintracciati presto, o l'impalcatura avrebbe ceduto.

Ma loro avevano rotto le fila che li legavano al governo. Non erano più burattini, ma persone, che avrebbero lottato, combattuto e vinto. Per il resto della propria vita.

 

Nda: Ebbene si, questa storia è giunta al termine!

In seguito scriverò un epilogo, dove spiegherò nelle ultime nda alcune cose che potranno avvenire in futuro.

Ringrazio veramente di cuore tutti coloro che hanno continuato a leggere fino a questo punto <3

Mi dispiacerà non poter più raccontare le vicende dei tributi.

Questa è stata la prima fanfiction che ho scritto, ma presumibilmente non sarà l'ultima.

Magari cambierò genere, non ne sono sicura.

Mi farebbe piacere ricevere un vostro giudizio ( positivo o negativo) per capire come orientarmi ed a cosa dovrei fare più attenzione.

Alla prossima <3 ^^

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Capitolo 29
*** EPILOGO ***


LEO

 

Leo non sapeva quante ore fossero passate dalla fatidica fuga, sapeva solo che era giunta un ennesima notte fonda.

La giornata era passata nel nulla.

Si erano semplicemente lasciati trasportare dal vento, dalle onde, dalla natura.

E stavano ancora sdraiati con la pancia rivolta verso il cielo, con la mente occupata da un pressante vuoto.

Avevano mangiato dei pesci crudi, c'era chi inizialmente aveva vomitato. Generalmente era Percy a procurarli, li inforcava con facilità nella sua spada.

Non potevano fare altrimenti, e alla fine anche Piper accettò questa condizione, in caso contraria sarebbe morta di fame.

La sete era tanta, ma non potevano far altro che sciacquarsi la bocca con l'acqua marina.

Le loro forze erano quasi nulle, e le conservavano avidamente. A mala pena conversavano tra di loro, anche perché le gole erano sempre troppo secche.

Qualche ora prima la bella ragazza del distretto uno aveva rotto il silenzio, cantando una leggera canzoncina dai toni acuti.

In quelle condizioni Leo l'aveva trovata un po' fuori luogo ed inquietante, ma non si era lamentato. Era pur sempre meglio di quel nauseante e ripetitivo sottofondo marittimo.

Parlava di un uomo chiuso in carcere, dei suoi pensieri riguardo la fuga, della sua impossibilità di libertà.

Una povera anima che ormai era parte della prigione.

L'ispanico continuava a guardare il cielo notturno, e come al solito non metteva a fuoco altro che buio.

Era troppo stanco e svogliato per cambiare visuale, ma poteva percepire che erano tutti dormienti, o in procinto di farlo.

Ormai non si domandavano più cosa sarebbe successo. Le parole erano superflue, nessuno di loro avrebbe potuto riconoscere la verità.

Eppure la speranza era bruciante.

I suoni della natura notturna venivano coperti dal rumore delle onde, un rumore costante ed immutabile.

Ipnotico e rassicurante come il loro cullare.

Il freddo era temibile verso quell'orario, ma non mortale.

Il rischio di addentrarsi in un mare artico, che nevicasse, o anche solo che piovesse aleggiava come un ombra.

Percepì un movimento alle sue spalle, qualcuno era sveglio e si era tirato su a sedere.

Si voltò per controllare, potendo notare che si trattava di una delle ragazze giunta con loro all'ultimo momento, Thalia.

Insieme a lui era stata colei che aveva contribuito di più al piano, senza il suo combattimento contro l'hovercraft non si sarebbe potuto far nulla.

Leo era grato, e per lei doveva essere lo stesso.

Inizialmente si trovava in uno stato di salute veramente precario, ma fortunatamente, si era un po' ripresa durante il viaggio.

Le era stato spiegato l'accaduto ed aveva digerito tutto in silenzio, continuando a tenere la mente parzialmente distante.

La sua ferita era stata in parte disinfettata dall'acqua salmastra, ogni tanto si faceva delle garze con la stoffa rimasta.

In quel momento i suoi occhi elettrici vibravano nell'oscurità.

Il suo sguardo si posò su quello stanco di Leo, era intenso, memore di un grande dolore, pieno di vita, ma anche di rabbia.

Testò le tasche della sua divisa e ne estrasse qualcosa.

Leo poté appena distinguere il contenuto, illuminato dai raggi della luna.

Rimase alquanto sorpreso, non si aspettava che avrebbe mai più rivisto una cosa del genere.

Un pacchetto di sigarette.

Thalia ne sfilò una dall'interno, con lentezza estenuante.

Provò ad accenderla sfregando delle schegge di legno, ma non ci riuscì.

Leo allungò un braccio nella sua direzione, e la ragazza gli consegnò la sigaretta senza fare domande.

Forse quell'esperienza aveva prosciugato Leo di molte delle sue conoscenze, ma non della capacità d'accendere incendi.

Che avesse voluto o meno, ne sarebbe stato capace per sempre.

Sfregò rapidamente un bastoncino contro la legna della zattera ed iniziò a soffiarlo, coprendosi dal vento umido con una mano. Dopo un po' iniziarono a spuntare scintille, fino a quando si accese una fiammella. Accese la sigaretta e gliela restituì.

La corvina prese a rigirarsela fra le mani, non pronunciando una sola vocale, ma continuando a guardare Leo.

Lasciò che si esaurisse senza nemmeno avvicinarla alla bocca, osservando solo il processo chimico per il quale diventava cenere.

Ad un certo punto sollevò la divisa e spinse la sigaretta sulle sue ferite, senza batter ciglio.

Doveva fare un male lancinante, ma lei non sembrò badarci e, quando fu spenta, la gettò in acqua.

Leo sapeva che il fuoco serviva per cicatrizzare, ma non avrebbe mai fatto una cosa simile.

Quel gesto non era totalmente a fin di bene, capiva dai suoi movimenti che Thaila voleva punirsi per qualcosa.

Magari anche lei per un incendio, magari anche a lei mancava il fuoco.

Leo sapeva che probabilmente non era possibile, ma voleva credere che qualcuno lo potesse capire davvero, almeno per qualche istante.

Un suono interruppe i suoi pensieri.

Gli occhi facevano male, era troppo stanco, riusciva a tenere una fessura aperta per miracolo.

Eppure udì un pesante suono a non molta distanza, un suono sconosciuto, qualcosa di potente si stava avvicinando, qualcosa in cui le onde si scagliavano con maggior vivacità, con pesantezza.

Vide una sagoma enorme, il suo primo pensiero fu rivolto ad un mostro marino.

Poi gli parve di riconoscere una balena.

Solo aprendo gli occhi definitivamente si accorse che era un imbarcazione, una reale imbarcazione.

Magari i capitolini li avevano trovati ed erano venuti a prenderli.

In qualunque caso non riuscì a resistere ulteriormente e si lasciò trasportare all'interno di un sonno confuso da mille sfumature.

 

 

Quando riprese conoscenza era sdraiato su un pavimento più saldo, meno barcollante, più caldo e stabile, sopra di lui c'era un soffitto.

Aveva un plaid addosso, e delle pareti lo circondavano, ma poteva sentire il suono del mare se attaccava la testa al terreno.

Era nella stanza in legna di una barca, ancora vivo in salute. Non si trattava di capitolini, o forse si erano rammolliti un po' troppo, si aspettava delle torture atroci per il risveglio.

Si sollevò in piedi, la stanza era in penombra.

Sdraiati vicino a dove si trovava v'erano Will, Percy, Annabeth, Frank e Clarisse;

Dormivano beati e sembravano altrettanto incolumi, degli altri non c'era traccia.

Aprì l'unica leggera e scricchiolante porta in metallo della stanza: si affacciava su un corridoio dai colori opachi che pareva lungo e inconcludente, ma più avanti poteva distinguere una luce, la seguì come ipnotizzato.

Scoprì che la stanza illuminata era quella del timone, una camera piccola e quadrata dalle pareti rosse, delle voci soffuse provenivano dall'interno.

Aprì la porta incuriosito, muovendo dei passi sulla tremolante moquette.

Attirò la sua attenzione un elemento sconosciuto, piazzato proprio davanti alla grande e vecchia barra a ruote.

Si trattava di un'alta ragazza dai capelli neri e le braccia incrociate che da sola dirottava la nave, guardando all'orizzonte con un'espressione seriosa nel volto.

Aveva una lunga veste viola e bianca, che le dava un tono più vigile.

Era sicuro di non averla mai vista prima.

Solo dopo qualche istante realizzò che al suo fianco c'era Piper, stava asciugando delle lacrime che le rigavano il volto, aveva le guance rosse ed un sorriso sincero.

Nico era proprio dietro di lei, vicino a Thalia, stavano entrambi guardando la scena appoggiati alla parete opposta della stanza.

Anche loro studiavano la ragazza dalla chioma scura, volevano chiarimenti ma avevano quasi il timore di dire qualsiasi cosa.

Nessuno sembrava essersi accorto della sua presenza, come al solito.

Si schiarì la gola, non ne poteva più di tutto quel mistero.

“Cosa sta succedendo?” tentò di domandare per darsi un tono, ma la sua voce era impastata, graffiata, a stento la riconoscette.

Era da un po' che non parlava.

Tutti si voltarono a guardarlo, ma nessuno rispose.

La mora continuava a tenere lo sguardo fisso davanti a se, non si distraeva dalla sua guida, e Leo poteva trovarlo quasi ammirevole.

Fu Piper la prima a rispondere, con la voce ancora rotta dal pianto e dalla commozione.

“Si è fatta dare una barca da mamma e papà, ed appena abbiamo iniziato i giochi è scappata, passando dal distretto quattro.

Capite?

L'ha fatto per raggiungermi, per venire a salvarci, ed ora siamo al sicuro, ci ha salvato.

Reyna ci ha salvato” poi si slanciò in un tenero abbraccio che colpì tutti i presenti.

“Reyna, eh?”

 

 

 

 

Nda: E così sono giunta definitivamente al termine.

Grazie ancora ed ancora a tutti coloro che son arrivati fin qui.

Il finale della storia è molto aperto, ed in caso mi venisse richiesto in seguito potrei riprenderla e continuarla.

Anche se prima mi dedicherò sicuramente ad un altra ff.

Mi farebbe tanto piacere ricevere un vostro commento privato od una recensione riguardo “Guess who's coming to die”, in modo tale da capire dove migliorare e cosa correggere per le prossime volte.

Alla prossima <3

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