Il castigo del silenzio

di martaparrilla
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Henry ***
Capitolo 2: *** La sconosciuta ***
Capitolo 3: *** Appostamenti ***
Capitolo 4: *** Aiuto ***
Capitolo 5: *** Umiliazione ***
Capitolo 6: *** Soccorso ***
Capitolo 7: *** Sensi di colpa ***
Capitolo 8: *** Messaggi ***
Capitolo 9: *** Contratto ***
Capitolo 10: *** Cena di lavoro ***
Capitolo 11: *** Rinascita ***
Capitolo 12: *** Odi et Amo ***
Capitolo 13: *** Cuore spezzato ***
Capitolo 14: *** Protezione ***
Capitolo 15: *** Il diario ***
Capitolo 16: *** Riconciliazioni ***
Capitolo 17: *** Coma ***
Capitolo 18: *** Il risveglio ***
Capitolo 19: *** La festa ***
Capitolo 20: *** Riabilitazione ***
Capitolo 21: *** Ti amo anche io ***



Capitolo 1
*** Henry ***


Peggy, Wolf, Shila, Red e Sally. Ok, ci sono tutti.

I loro guinzagli sono divisi tra la mia mano destra e quella sinistra e tirano fino a strozzarsi. Mi sono sempre piaciuti gli animali ma non ho mai trovato un lavoro adatto a questa mia passione. Poi finalmente mi sono decisa: dopo essere stata licenziata dalla caffetteria dove lavoravo da cinque anni ho dovuto ricrearmi un'attività da zero. Il mio grande cortile mi permette di tenere anche dieci cani a distanza di sicurezza e con un po' di volantini distribuiti negli studi veterinari e nei canili ho trovato tre clienti. Umani ovviamente. Non è molto ma per iniziare devo accontentarmi. E così mi ritrovo a dover portare in giro per tre ore al giorno Peggy, pechinese color miele, Wolf, pastore tedesco tenero quanto un neonato, Shila, labrador terribile e Red e Sally, una coppia di vecchi bassotti.

E' divertente badare a loro.

No, non è divertente.

Lo è per l'età che ho adesso ma non potrò portare cani a spasso per la vita. Per questo mi sto muovendo per creare una sorta di “campeggio per animali”, una casa dove chi vuole, può lasciare le loro bestiole in caso di partenze o impegni inderogabili. Il tutto ovviamente a prezzi modici. Questo è un qualcosa di più stabile anche se serviranno tanti soldi per metterlo in atto.

Mi siedo sulla panchina al parco, avendo cura di legare per bene due dei cinque cani che mi hanno affidato. Slegarli tutti insieme sarebbe come andare a cercare la morte volontariamente e ancora non sono pronta per morire.

Non a 25 anni.

Come al solito ci sono mamme e papà con i propri figli, mentre io sono con i miei cani. Anzi non sono nemmeno miei. Diciamo che i cani sono un ottimo inizio per prendersi la responsabilità di un altro essere vivente, avrei fatto pratica nell'attesa che in me si insinuasse anche solo il lontano desiderio di diventare madre. Prima di conoscere Elisabeth volevo veramente avere dei figli, al momento giusto, con una casa, un lavoro stabile e via dicendo. Lei era riuscita a farmi odiare anche questo.

Elisabeth è la mia ex fidanzata, una persona che ancora non so se sistemare tra il gruppo di quelli da dimenticare o ricordare per sempre. So solo che non le perdonerò mai di avere insistito tanto sul volere un figlio visto che ora non ne voglio nemmeno sentire parlare. E' un capitolo chiuso ormai e tale deve rimanere.

Solitamente è la mia amica Ruby ad accompagnarmi nel pomeriggio ma oggi è rimasta nella mia ex caffetteria col mio ex capo e i miei ex clienti che ancora si chiedono se sono rinchiusa in qualche ospedale psichiatrico. Diciamo che il mio arrivederci dalla caffetteria non è stato propriamente tranquillo. Se il mio capo pretende che i clienti siano liberi di palpeggiarmi senza che io rompa loro il naso si sbaglia di grosso: le mani si tengono in tasca e non mi interessa se alzare le mani a esseri umani poco rispettosi tolga prestigio al locale. E così mi ha sbattuta fuori, mentre Ruby, decisamente più libertina da questo punto di vista, è ancora lì, e quel pomeriggio è di turno fino alle 20.

Sospiro prima di colpire Shila sulla testa. E' il mio tormento, riesce sempre a creare litigi con altri cani, è tremenda.

«Tu la devi smettere di agitarti, sono stata chiara?» la guardo severa, col dito indice poggiato sul mio naso. Lei si accuccia sotto la panchina, offesa.

Slego Red e Sally che scodinzolando vanno ad annusare qualunque essere vivente sotto il metro e venti che incontrano sulla loro strada, facendo loro gli occhi dolci per avere una carezza. Una cosa è certa, le ottengono sempre.

Mentre tengo d'occhio quelle due pesti e carezzo Wolf che beatamente dorme, apro la borsa per prendere un sorso d'acqua. In quel momento, qualcuno si siede accanto a me. Mi volto lentamente e vedo un bambino che può avere si e no dieci anni, col fiatone, che si guarda intorno con aria spaventata. Vago con lo sguardo intorno a noi, come per assicurarmi che qualcuno non lo stia inseguendo, ma non vedo nessuno.

Shila, vedendo il nuovo arrivato, si avvicina a lui prima annusandolo e poi mettendosi sulle zampe posteriori per arrivare alle sue mani. Il bambino prende ad accarezzarla e sembra tutto a un tratto calmarsi.

«Shila non importunarlo» dico io in tono severo, ma come al solito non mi ascolta. I baffetti del cane solleticano la mano del bambino che prende a ridere.

Lui si blocca un secondo quando sente la mia voce prima di ridacchiare e giocare ancora con lei. Sembra più rilassato tanto che si volta guardarmi. Mi guarda intensamente negli occhi senza proferire una parola e poi imbarazzato torna a concentrarsi su Shila.

«Ciao ragazzino» dico in tono gentile. Al suono della mia voce inizia a dondolare avanti e indietro sulla panchina.

«Ti senti bene?» aggiungo poco dopo. Cerco di scorgere nel suo corpo qualcosa che possa farmi capire se avesse deficit di qualche genere. Non è sordo visto che si è voltato quando ha sentito la mia voce. Magari un handicap intellettivo che non gli permette di interagire col mondo esterno.

«Ok non vuoi parlare. Sai capita anche a me a volte di non avere voglia di parlare, le persone sono noiose. Meglio i cani, almeno loro stanno zitti» annuisco per auto convincermi delle mie parole.

«Puoi continuare a giocare con Shila se vuoi, io mi metto a leggere e non ti disturbo più».

Ora che tutti gli animali sono sistemati decido di rilassarmi un pochino col libro che ho portato con me. Sono settimane che voglio iniziarlo ma per un motivo o per l'altro non sono mai riuscita a prenderlo in mano seriamente. Non ho una vita per niente movimentata ma ultimamente un po' per la perdita del lavoro, un po' per amici che non possono propriamente definirsi tali e ex fidanzate poco tranquille, la mia testa ha uno stress non indifferente da sopportare e i libri sono gli ultimi dei miei problemi.

Sfoglio le prime pagine mentre ogni tanto volto lo sguardo verso il bambino che continua a giocherellare con Shila. Alla fine del primo capitolo una vocina interrompe la mia concentrazione.

«E' tuo questo cane?» chiede inginocchiandosi per guardarla da vicino, con voce flebile e lo sguardo basso su di lei. Senza scompormi troppo, rispondo.

«Più o meno, li porto in giro tutti i giorni a fare le passeggiate». Improvvisamente Shila si mette su due zampe e lo butta giù. Il bambino scoppia a ridere e io con lui.

«Credo che tu gli piaccia» tiro il guinzaglio per permettergli di rialzarsi. Dalla tasca del giubbotto prende delle salviette e con cautela ne estrae una. Si accomoda di nuovo e si pulisce dalla polvere. Si concentra minuziosamente su ogni dito, palmo, dorso e anche sotto le unghie. Sembra voglia ripulirsi da qualcosa di ben più sporco di un po' di polvere. Si allontana a buttarlo.

«Sei solo qui?» chiedo incuriosita.

«Più o meno» il suo viso cambia d'espressione.

«Come ti chiami?» cerco di cambiare argomento.

«Henry, mi chiamo Henry» voce timida, sguardo sempre basso.

«Oh piacere Henry, io sono Emma» gli porgo la mano per stringergliela e lui riprende a accarezzare il cane. Imbarazzata la ritraggo.

«Puoi farmi un favore? Hai voglia di farle fare un giro? Così magari la smette di essere su di giri e a te magari spunta un sorriso» al suono delle mie parole per la seconda volta mi guarda negli occhi. E' stato un attimo prima di veder incresparsi un debole sorriso tra le sue labbra.

«Ok però guarda facciamo una cosa» infilo i due indici in bocca e facendo un po' di pressione con la lingua, emetto un fischio.

«Red, Sally, venite qui!» i due cagnetti si avvicinano scodinzolanti circondando Henry che non sa più come accarezzarli. Con difficoltà li lego ai rispettivi guinzagli prima di liberare Peggy e Wolf, decisamente i più calmi tra i cinque.

«Ora puoi andare» dico soddisfatta.

«Ok».

Si alza lentamente, sistema con precisione la sua giacca e inizia a camminare.

«Ti chiamo io quando dovrò riportarli a casa» gli dico mentre lo guardo allontanarsi.

«Vieni Shila, vieni!» intima lui quasi sottovoce mentre il cane scodinzola felice di avere un po' di attenzioni tutte per sé.

Stringo ancora il mio libro tra le mani ma il comportamento del bambino mi ha quasi rapita. Passeggia lentamente, avendo cura di non fare passi troppo diversi gli uni dagli altri. Fissa sempre il lastricato di pietre su cui cammina con Shila accanto e ogni volta che trova ostacoli nel suo cammino, che siano persone o animali lui si ferma fino a che l'ostacolo non si sia spostato. Non vuole perdere il ritmo o il conto. Ogni tanto si ferma, si guarda indietro, fa dei calcoli con le mani che solo lui conosce e prosegue. Il parco ha un percorso di pietra ovalare, per cui a un certo punto lo perdo di vista dietro alcuni alberi e lo vedo ricomparire dalla parte opposta poco dopo. Shila è stranamente tranquilla con lui accanto, solitamente strattona il portatore di guinzaglio come se non ci fosse un domani, invece lo segue nei movimenti, nelle pause e mai una volta ha abbaiato o tirato più del dovuto. Non sembra nemmeno lei. E' come se si comprendessero a vicenda.

Gambe accavallate, capo poggiato sulla mano che a sua volta poggia sul ginocchio. La mia posizione non mi permette di vedere a destra e a sinistra del mio sguardo e completamente persa nell'osservare quello stranissimo bambino, non mi accorgo che qualcuno da lontano continua a fissarmi. Non ci faccio subito caso, ma, un po' per l'insistenza del suo sguardo, un po' per la mise abbastanza appariscente, quella donna ha attirato la mia attenzione. Se ne sta poggiata a un albero all'ingresso del parco, avendo cura di nascondersi quando Henry le passa accanto, non riesco a capire se sia lei ad aver paura di lui o il contrario. Ha di certo capito che sono interessata a quel bambino almeno quanto lei e, nel momento in cui Henry sparisce dietro gli alberi, nel punto più lontano dalla mia panchina, la vedo avvicinarsi a me.

Passo sicuro, dècolletè nero impeccabile, tailleur grigio con scollatura asimmetrica, avvolge il suo corpo decisamente perfetto. Se prima ero incuriosita dalla sua postazione ora lo sono di certo dalle sue gambe. Caschetto nero impeccabile, occhi marrone scuro, soprabito beige. Il colpo di grazia me lo danno le sue labbra ricoperte di un colore rosso acceso. Le fisso intensamente.

«Salve» mi dice con finta cordialità. Il suo tono controllato, la voce assolutamente paradisiaca mi destano dallo stato di trance in cui sono involontariamente caduta. Rimango esattamente nella mia posizione, la testa piegata verso l'alto a incrociare il suo sguardo e lei a due passi da me, mentre tristemente tiene una borsa tra le dita della mano destra.

«Buonasera» dico in tono sinceramente cordiale, al contrario di lei.

«Vedo che conosce mio figlio» azzarda alzando il tono di voce. Il sole sta calando praticamente dietro di lei e quella luce non mi permette di affrontarla nel modo giusto. Appoggio la schiena alla panchina strizzando gli occhi.

«Come scusi? Ci conosciamo?» azzardo su due piedi. Certo mi sarebbe piaciuto conoscerla ma francamente non ho idea di cosa stia parlando. Poi mi ricordo di Henry, volto lo sguardo per cercarlo e lo trovo seduto su una panchina col muso di Shila poggiato sulle sue gambe e silenziosamente la accarezza. Lui fissa un punto imprecisato nel vuoto. La testa della donna segue il mio sguardo e quando capisco a chi si riferisce tiro un sospiro.

«Lei è la madre di Henry?».

Stizzita, mette le mani sui fianchi.

«Come diavolo fa a conoscere anche il suo nome?».

Aggrotto la fronte, spaesata.

«Gliel'ho chiesto e me l'ha detto, tutto qui». Le sue mani si abbandonano di nuovo lungo i suoi fianchi e la borsa cade pesantemente a terra. Lei sembra non accorgersene così la raccolgo e tendo la mano per restituirgliela.

«Come prego?» aggiunge lei stupita.

«Gliel'ho chiesto ovviamente, non leggo ancora nel pensiero» dato che lei sembra non vedere il mio braccio che regge la sua pesantissima borsa, la poggio sulla panchina accanto a me.

«E lui ha risposto?» la gamba destra avanza sulla sinistra, annullando la distanza tra lei e la panchina, per sedersi poi accanto a me. Il suo busto ruota verso di me, gli occhi lucidi, le labbra umide.

Emma Swan, fai lavorare il tuo autocontrollo per favore.

«Si certo che ha risposto» con la bocca aperta in una grande O torna a cercare quello che a quanto pare è suo figlio per poi tornare a fissare me.

«Come ha fatto a farlo parlare?».

«Ho aspettato che avesse voglia di rispondere alla mia domanda» che è quello che ho fatto davvero alla fine. Ho visto che non voleva parlare e mi sono fatta i fatti miei. Solo dopo mi ha rivolto la parola.

«Non apriva bocca da due anni, non...» la sua mano sinistra raggiunge in fretta la bocca, coprendola. Una lacrima scende sul suo viso e improvvisamente mi sento a disagio. Immensamente a disagio. Prendo un fazzoletto dalla mia borsa e glielo porgo.

«Grazie» risponde lei. Tampona delicatamente entrambi gli occhi per non far colare il trucco perfetto.

«Si è seduto accanto a me poco più di un'ora fa, era spaventato e uno dei miei cani si è avvicinato a lui per giocare. Ha accarezzato Shila, che è il cane che sta con lui adesso e ha sorriso. L'ho salutato e chiesto come stava ma nulla. Allora mi sono messa a leggere e dopo un quarto d'ora circa mi ha chiesto se questa banda canina fosse mia» mi sposto a indicare Red e Sally accanto a me «e sono riuscita a strappargli il suo nome. Poi gli ho chiesto se volesse portare in giro Shila e ha acconsentito». Abbozzo un sorriso verso di lei.

«Lei..lei non sa cosa significhi per me e Henry che abbia parlato».

«Probabilmente no ma la sua reazione me lo rende facilmente intuibile» inclina un po' la testa e sorride. E in quel momento una fitta al cuore mi fa perdere il respiro. E' immensamente bella. Porto una mano al petto cercando di ricompormi. Chiudo gli occhi e faccio un profondo respiro prima di spostare la mia attenzione di nuovo su di lei. Il suo sguardo vaga oltre tutto il parco fin dove Henry carezza Shila, ignaro di tutto. Lunghe e forti dita dalle unghie laccate di nero poggiano sulle ginocchia scoperte, stringendole, quasi aggrappandosi ad esse.

«Se vuole glielo chiamo, l'ho avvertito che mi sarei avvicinata io quando l'orario della passeggiata fosse terminato».

«No io» è titubante nel continuare «preferisco guardarlo ancora un pochino qui, da lontano. Forse per lui c'è ancora speranza di avere un contatto col mondo esterno. Passeggiavamo in un centro commerciale e l'ho perso di vista. Ultimamente scappa spesso».

Si inumidisce le labbra ogni volta che deve parlare.

«D'accordo e comunque capisco, anche io scappavo spesso alla sua età» in lontananza sento dei cani abbaiare e il mio dovere da dog sitter è allertato. Mi alzo e poggio la mano sulla fronte, come una visiera, così da permettermi di guardare lontano senza il fastidioso sole sugli occhi. In lontananza scorgo Wolf e Peggy con le zampe anteriori poggiate sul tronco di un albero. Hanno di certo scorto qualche animale da terrorizzare.

«Mi scusi un momento, i miei figli pelosi mi danno da fare» mi rivolgo a quella donna ancora senza un nome prima di afferrare i due guinzagli e raggiungerli con una corsetta.

«Voi due, giù, smettetela di abbaiare come due disperati!» li rimprovero severamente.

«Wolf, mi meraviglio di te, dovresti dare il buon esempio ma» alzo la testa prima di scorgere un gatto grigio dallo sguardo tutt'altro che simpatico «comprendo la tua rabbia tesoro, i gatti urtano anche il mio sistema nervoso». Sembra capire le mie parole perché si siede e, scodinzolante, emette un breve guaito di approvazione. Afferro il collare per agganciare il guinzaglio e subito dopo faccio la stessa cosa con Peggy, un po' contrariata per averle tolto il suo divertimento.

Un abbaio familiare si avvicina a noi e voltando lo sguardo vedo Henry con Shila, sempre stranamente calma e felice.

«Hey ragazzino, ti sei stancato di lei?». Mi raddrizzo con la schiena.

Lui, sempre silenzioso, si mette dietro di me e guarda quasi oltre la mia spalla, in direzione di quella donna.

«Tua madre è preoccupata». Si mette a dondolare avanti e indietro. Solo la vicinanza di Shila alla sua mano lo fa tornare da me. Nel mondo reale.

«Ti fa del male per caso?» chiedo preoccupata. Quella dea non mi sembra violenta ma l'esperienza insegna che l'apparenza inganna, sempre. Di nuovo quel lampo negli occhi, mi fissa qualche secondo per poi fare cenno di no con la testa, sicuro e convinto.

«Ok, allora che ne dici se andiamo da lei? Sai, non crede al fatto che mi abbia detto il tuo nome dato che non parli molto, o almeno, questo è quello che dice lei. Ma io preferisco chiederlo a te» vicino a me, Wolf e Peggy saltellano.

«Non ho molto da dire». Un altro flebile suono esce dalla sua bocca.

«Oh be non possiamo essere tutti dei grandi oratori, direi che dici l'indispensabile, sei una compagnia interessante per chi non vuole avere mal di testa» lui sorride quasi imbarazzato e trovo che nonostante il verde dei suoi occhi, abbia la stessa luce di quelli di sua madre. Non parla ma i suoi occhi mi dicono molte, molte cose.

«Senti ti propongo un affare, ti va di sentirlo?» ho attirato la sua curiosità. Alza entrambe le sopracciglia facendo increspare la sua fronte.

«Io vengo qui tutti i giorni e tutti e cinque mi fanno dannare, e se venissi tutti i giorni anche tu a darmi una mano? Sempre che ti faccia piacere». Infilo le mani in tasca e torno a osservare il suo corpo. Se non avesse parlato avrei dovuto capire da lì la sua risposta. Il suo sguardo passa da Wolf e Peggy a Shila, che con sguardo adorante aspetta l'ennesima carezza.

«Ok» dice con un tono un po' più alto del solito.

«Uhhh fantastico!» esclamo «Ora è arrivato il momento di andare via, andiamo insieme a dirlo a tua madre? Secondo me ci dirà di si, vero Shila? Pensaci tu a convincerla!» sorride di nuovo. Ogni volta che parlo ai cani come se fossero esseri umani, Henry sorride. E il suo sorriso è il suo ok per riavvicinarsi alla madre. Tutti e cinque percorriamo lentamente la distanza che ci separa dalla panchina dove quella donna è ancora seduta e aspetta il nostro ritorno e, probabilmente, aspetta anche di sentire la voce del figlio.

«Eccoci qui, ho ripreso i miei figli e anche il suo» dico cercando di smorzare la tensione.

«Ciao Henry» si alza dalla panchina. Il suo tentativo di approcciarsi al figlio non va a buon fine.

«Io, Henry e Shila abbiamo una proposta da farle» aggiungo io. «Io vengo qui tutti i giorni e non so quali siano gli impegni di Henry o i suoi ma mi farebbe piacere se Henry potesse venire a darmi una mano. Come può ben vedere Shila è pazza di lui!». Mi volto verso Henry che fissa il lastricato.

«Ho chiesto a Henry e mi ha detto che gli farebbe piacere, ma ovviamente dovevamo chiedere prima a lei» quella donna mi fissa spaesata, quasi come avesse paura di emettere qualunque risposta per condizionare Henry. Le faccio cenno di approvazione con la testa per incoraggiarla e solo dopo inizia a parlare.

«Credo che sia una buona idea, domani lo accompagnerò io stessa qui alle...a che ora arriva lei ogni giorno?» mi chiede col sorriso stampato sul volto.

«Sedici e trenta andrà benissimo! D'accordo Henry?».

Annuisce silenzioso.

«Shila, credo che dovrai chiedere ai tuoi padroni una paga più cospicua visto che avrai ben due persone che badano a te!» L'orologio sul mio polso segna le diciannove e trenta, devo proprio incamminarmi per riportare le bestie dai rispettivi padroni.

«Devo proprio andare ora, ci vediamo domani?» recupero i guinzagli di Red e Sally e subito dopo Henry mi consegna quello di Shila prima di posizionarsi accanto alla madre.

Ancora una volta mi guarda stupita ma è sparita dal suo sguardo quella strafottenza di chi pensa di sapere tutto.

«Arrivederci signora e ciao Henry, ci vediamo domani».

E di nuovo mi dirigo a casa, con le braccia indolenzite per la forza che devo mettere per tenere a bada quelle cinque bestie ma con una buona e nuova sensazione addosso. In qualche modo ho aiutato quel bambino e, sapere di aver fatto questa piccola cosa, mi da una carica inaspettata.

 

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Capitolo 2
*** La sconosciuta ***


Con Henry da tenere sott'occhio ogni due secondi, fare la spesa è diventato un incubo. Non che mi sia mai piaciuto, ma almeno prima era divertente dirgli continuamente no a tutte le schifezze varie ed eventuali che voleva mettere nel carrello. Ora è tanto se lo convinco a scendere dalla macchina e venire con me.

La trafila ormai è sempre la stessa: scende, sta ad almeno tre metri lontano da me e va a prendere le salviettine umide (almeno tre pacchetti), e il gel disinfettante da mettere in borsa. Una volta concluso il suo acquisto, si sposta per i fatti suoi senza una meta, e il 90% delle volte dimentico esattamente quello che devo comprare. Seguirlo è faticoso, ma i suoi psicologi mi hanno consigliato di non forzarlo a tenerlo fermo in un posto se lui non vuole. E lui non vuole mai.

Sono passati diciotto mesi dall'ultima volta che ho sentito la sua voce. Diciotto.

Le sue ultime parole sono state: “Ti odio, non voglio parlarti mai più”.

E direi che ha mantenuto la parola.

Questo pomeriggio sembra tranquillo, segue il mio passo dietro di me e io mi concentro sugli scaffali del supermercato, spostando ogni tanto lo sguardo su di lui.

«Henry, che ne dici se prendiamo queste nuove merendine?». Mi ignora ma non per questo devo smettere di parlare con lui.

Come previsto, lui non c'è più. Mi dirigo velocemente alla cassa per pagare, pregando poi la cassiera di chiamare il nome di Henry al microfono sperando di vederlo spuntare da qualche parte come al solito.

Uno.

Due.

Tre tentativi.

Al terzo la mia agitazione ormai alle stelle mi impedisce di pensare lucidamente. Torno indietro e percorro tutti i corridoi avanti e indietro come se fossi in una piscina a gareggiare i duecento metri stile libero. Henry però non c'è. Inizio a chiedere agli altri clienti facendo vedere una sua foto, ma nessuno sembra averlo notato.

La guardia giurata del supermercato continua a chiedermi se sia possibile una sua fuga in autonomia e a quel punto esplodo.

«Certo che è scappato autonomamente, è la centesima volta che succede, questo non significa che non mi debba preoccupare, o sbaglio?».

Mi volto infilando le mani tra i capelli, perché mi odia così tanto? Perché vuole attirare così la mia attenzione? Perché non mi parla!

Non è la prima volta che mi pongo queste domande, lo faccio tutti i giorni da un anno e mezzo, ma non trovare risposte non mi ha fatto arrendere, anzi, mi ha reso ancora più combattiva e arrabbiata con lui ma soprattutto con me stessa.

Velocemente, mi scuso con le persone che in qualche modo hanno cercato di aiutarmi e, afferrate le buste della spesa, ripercorro a mente tutti i posti in cui Henry è solito rifugiarsi quando decide di farmi impazzire.

Prima tappa: cimitero. La tomba del padre è decisamente il luogo più gettonato. Lo avevo trovato accucciato sulla terra di fronte alla lapide almeno sette volte, di cui due con la polizia, dopo quasi dodici ore di ricerche. Il solo pensiero mi fa venire la pelle d'oca. Mi aveva terrorizzata. Il padre era morto appunto diciotto mesi prima, poco dopo avere avuto un brutale litigio con la sottoscritta. Durante il litigio (seguito da un mio “vattene e non farti più vedere”) non aveva nemmeno avuto il coraggio di negare che per un numero imprecisato di anni si era portato a letto una certa Marian che, testuali parole sue, “è lei la donna della mia vita”.

Auguri e figli maschi.

Peccato che non sia arrivato per tempo dalla sua amata. E in tutto questo ovviamente io mi sono presa la colpa, visto che Henry non sa e non deve mai sapere che razza di uomo piccolo e senza palle fosse suo padre. Preferisco odi me piuttosto che un uomo morto che lui adorava.

Ma comunque la prima tappa è andata a vuoto, probabilmente non avrebbe nemmeno avuto il tempo di arrivare fino lì a piedi, l'avrei raggiunto prima con la macchina.

Seconda tappa: castello di legno in riva al lago.

Per mia fortuna il paesino in cui viviamo non è così grande, per cui è facile arrivare a piedi in ogni sua direzione in poco tempo. Sulla zona ovest c'è appunto un piccolo lago con una sorta di spiaggia e un castello di legno che era stato costruito tempo fa per far giocare i bambini. Ormai è quasi tutto diroccato e anche pericolante, a dir la verità, ma a lui piace andarci, si siede sul piccolo ponte levatoio e guarda il lago. Ma, stavolta, non è nemmeno lì.

Terzo tentativo: biblioteca. Una decina di volte l'avevo trovato seduto in un angolino nascosto a leggere un pesantissimo libro di fiabe che alla fine avevo deciso di comprargli. Ma ovviamente quello che avevo preso per lui non l'aveva nemmeno mai aperto, preferiva scappare e leggere l'originale in biblioteca.

Quarto tentativo: la piscina. Ignoravo il motivo per cui si sedesse sugli spalti a guardare gli altri bambini nuotare soprattutto visto che lui andava in piscina due volte alla settimana. Forse lo faceva semplicemente per farmi impazzire, non c'era davvero un perché.

Per arrivare alla piscina devo necessariamente passare per il centro del paese dove è situato un piccolo parchetto con alberi e giochi per bambini. Distrattamente volgo lo sguardo verso destra dove scorgo un giubbino verde alquanto familiare. Accosto dall'altro lato della strada e aguzzo lo sguardo. E' assolutamente lui. E' in compagnia di una giovane donna bionda e sembra sorridere.

Henry sta sorridendo mentre accarezza un grosso cane color miele. Non ricordo l'ultima volta che l'ho visto sorridere.

Scendo dalla macchina e, a passo svelto, mi dirigo verso di loro, quando vedo una cosa che mi lascia senza parole: annuisce alla giovane bionda, afferra il guinzaglio del cane che poco prima stava accarezzando e si allontanano. Il cane lo segue senza strattonarlo e Henry sembra rilassato come non l'ho mai visto prima. Poggio una mano sull'albero che ho accanto e dietro il quale mi sto nascondendo e seguo Henry con lo sguardo fino a quando scompare dietro la curva del percorso di pietre. A quel punto il mio sguardo torna su di Lei.

Quella donna.

Quella bambina direi.

E' riuscita in qualche modo a comunicare con mio figlio e non posso fare altro che odiarla profondamente perché se non ci riesco io, non possono e non devono riuscirci nemmeno gli altri.

Jeans, stivali, camicia... inguardabile e giubbino di pelle marrone. Avrà su per giù vent'anni, insomma può essere tranquillamente mia figlia.

Mi faccio coraggio. A grosse falcate percorro la distanza che ci separa e mi piazzo di fronte a lei con aria di sfida, pronta a combattere.

«Salve» fingo cordialità. Un mezzo sorriso compare sulle sue labbra ma non accenna a rispondere.

«Buonasera» una voce tenera e cordiale si rivolge poi a me, spiazzandomi.

«Vedo che conosce mio figlio» alzo automaticamente il tono di voce, mi sento un cane che marca il proprio territorio abbaiando.

«Come scusi? Ci conosciamo?» Stupida ragazzina. Come osa. Sembra avere difficoltà a guardarmi in faccia, probabilmente per via del sole che le arriva direttamente sugli occhi cerulei. No, sono verdi, un verde molto chiaro. Si volta alla ricerca di mio figlio che intanto si è seduto su una panchina e giocherella con quel cane.

«Lei è la madre di Henry?»

Eh no, questo è troppo. Metto le mani sui fianchi ed esclamo.

«Come diavolo fa a conoscere anche il suo nome?»

Il cuore inizia a battere più velocemente del normale in attesa della sua risposta.

«Gliel'ho chiesto e me l'ha detto, tutto qui» la semplicità quasi imbarazzante della sua risposta abbatte la rigidità del mio corpo. Le mani mi cadono sui fianchi. Non riesco a crederci. Lei continua a fissare i miei occhi come se volesse leggere chissà che cosa.

«Come prego?» aggiungo.

«Gliel'ho chiesto ovviamente, non leggo ancora nel pensiero» sembra sincera.

«E lui ha risposto?» aggiungo io prima di sedermi accanto a lei sulla panchina.

«Si, certo che ha risposto».

Esterrefatta.

Questa è l'unica parola che mi viene in mente per descrivere il mio stato d'animo in questo momento. Con la bocca semi aperta, volto lo sguardo verso Henry per poi tornare sugli occhi di quella ragazza.

«Come ha fatto a farlo parlare?» la sua risposta non si fa attendere.

«Ho aspettato che avesse voglia di rispondere alla mia domanda». È così sicura e assolutamente poco consapevole del miracolo appena accaduto che non riesco davvero a trattenere le lacrime.

«Non apriva bocca da due anni, non...» mi porge un fazzoletto con cui tampono gli occhi, piano.

«Grazie» dico.

La fisso, guardo Henry, fisso ancora lei, cercando qualcosa, un indizio, un punto che possa farmi capire cosa abbia portato Henry a comunicare con quella donna, cosa che nessun altro psicologo era riuscito a fare in un anno e mezzo di terapia. Forse per questo a un certo punto lei riprende a parlare, il mio atteggiamento è facilmente interpretabile, volevo sapere di più.

«Si è seduto accanto a me poco più di un'ora fa, era spaventato e uno dei miei cani si è avvicinato a lui per giocare. Lui ha accarezzato Shila, che è il cane che sta con lui ora e ha sorriso. L'ho salutato e chiesto come stava, ma nulla» ha le labbra leggermente rosate e parla con un tono amichevole. «Allora mi sono messa a leggere e dopo un quarto d'ora circa mi ha chiesto se questa banda canina fosse mia e sono riuscita a strappargli il suo nome. Poi gli ho chiesto se volesse portare in giro Shila e ha acconsentito».

Lui ha acconsentito. Lui ha detto il suo nome. Ha fatto vibrare le corde vocali e ha fatto uscire un suono dalla sua bocca. Probabilmente sta anche cambiando voce e di certo non posso saperlo.

«Lei...lei non sa cosa significhi per me e Henry il fatto che lui abbia parlato».

Più per me che per lui.

«Probabilmente no ma la sua reazione me lo rende facilmente intuibile». Forse non è così piccola come sembra. Forse non avrei dovuto giudicarla solo perché lei è riuscita dove io ho fallito. In fondo non è la prima volta che fallisco nei rapporti umani. Non posso fare a meno di sorriderle sperando di trasmetterle la mia gratitudine. Poi sposto di nuovo il mio sguardo su Henry. Carezza quel cane in un modo che non gli ho mai visto fare. Gli ho sempre impedito di avere un cane, forse perché avrei dovuto occuparmene io, perché non volevo animali per casa, perché il mio ex marito ormai defunto era allergico al pelo del cane.

Ripensandoci avrei potuto farlo fuori prima con quello.

«Se vuole glielo chiamo, l'ho avvertito che mi sarei avvicinata io quando l'orario della passeggiata fosse terminato» grazie al cielo ha interrotto il mio flusso malvagio di pensieri. Ultimamente mi capita spesso di pensare a lui in modo più negativo del solito.

«No io... preferisco guardarlo ancora un pochino qui, da lontano. Forse per lui c'è ancora speranza di avere un contatto col mondo esterno. Passeggiavamo in un centro commerciale e l'ho perso di vista. Ultimamente scappa spesso».

Annuisce comprensiva. Le gote si sono leggermente colorate da quando abbiamo iniziato a parlare e quegli occhi non possono far altro che darmi fiducia. All'improvviso un abbaiare in lontananza desta la sua attenzione e si allontana dopo aver preso due guinzagli.

E' una giovane donna che ancora non ha avuto preoccupazioni. Sul suo sguardo cristallino è palese leggere serenità e tanto amore. Probabilmente da piccola è stata coccolata anche più del dovuto anche se non sembra viziata. Da lontano capisco che i suoi cani sono desiderosi di giocare con un gattino sull'albero. Porto il busto in avanti e strizzo gli occhi: devo assolutamente prendere un paio di occhiali, di certo non vedo bene. Proprio allora anche Henry con quel cane si avvicina a loro e il suo viso è di nuovo contratto e preoccupato: mi ha vista.

Tiro un profondo sospiro ma rimango incollata alla panchina. Le gambe tremano e cerco di bloccarle stringendo le mani sulle ginocchia. Mi mordo il labbro mentre osservo mio figlio. Come può un esserino che abbiamo portato dentro di noi per nove mesi, cresciuto e amato come se fosse l'unico motivo della nostra esistenza, farci soffrire in questo modo? Perché essere madre è così debilitante per me? Di certo con la madre che ho avuto non potevo contare su una buona figura a cui ispirarmi, ma almeno con Henry è presente, disponibile e soprattutto comprensiva. Un po' meno con me dato che mi ha inculcato l'idea che nessuno doveva sapere che il mio amorevole marito mi tradiva da anni. Ed è stata talmente convincente che nessuno l'ha mai saputo. Quindi lui rimane il santo e io la stronza. Di una sola cosa lo ringrazio: Henry. Mi ha dato un figlio meraviglioso e sono certa che un giorno riuscirò a riportarlo nella mia vita.

Henry e la sconosciuta continuano a parlare o meglio lei parla e lui annuisce, poi tutti insieme tornano indietro e il viso di lei è davvero raggiante.

«Eccoci qui, ho ripreso i miei figli e anche il suo» il mio sguardo si posa su Henry che ovviamente mi ignora.

«Ciao Henry» silenzio. Guardo lei che sorridente inizia subito a parlare.

«Io, Henry e Shila abbiamo una proposta da farle. Io vengo qui tutti i giorni e non so quali siano gli impegni di Henry o i suoi ma mi farebbe piacere se Henry venisse a darmi una mano. Come può ben vedere Shila è pazza di lui!» Henry continua a tenere lo sguardo basso. Lei accarezza uno dei cani e sposta una ciocca di capelli dietro le orecchie.

«Ho chiesto a Henry e mi ha detto che gli farebbe piacere, ma ovviamente dovevamo chiedere prima a lei.»

Ha chiesto a Henry e lui ha risposto. Cosa devo fare? Mi manca il respiro. Quella donna mi guarda in modo incoraggiante e io sono totalmente terrorizzata. Impedirgli di andare mi avrebbe allontanato definitivamente da lui. Per quanto lei sembri una persona affidabile non la conosco e l'idea di affidarle mio figlio non mi piace, però devo almeno provare. A costo di stare fuori dal parco a controllarli tutti i giorni. Così mi faccio coraggio e rispondo.

«Credo che sia una buona idea, domani lo accompagnerò io stessa qui alle... a che ora arriva lei ogni giorno?» solo dopo aver parlato riesco a sorridere. Lei tira un grosso sospiro e Henry ha un piccolo sussulto.

«Sedici e trenta andrà benissimo! D'accordo Henry?»

Fa un piccolo cenno del capo in segno di approvazione, come se abbia paura di farsi vedere da me.

La giovane donna guarda l'orologio e si congeda per riportare i canidi dai rispettivi padroni. Le mani di Henry poco prima dei saluti, si allungano verso quelle di lei per restituirle il guinzaglio del cane color miele che a quanto pare si chiama Shila. La guardo allontanarsi e in me torna la paura di rivolgere la parola a mio figlio.

«Andiamo a casa Henry?».

Un sospiro, poi si volta e cammina lento verso l'uscita.

Afferro la borsa posata sulla panchina e cammino di fianco a lui. Lo precedo di un passo così che possa seguirmi fino alla macchina. Lo sguardo sempre basso, prende una salvietta e si pulisce le mani in modo compulsivo, come sempre quando è in mia compagnia.

«Sembra una brava ragazza, è simpatica» provo ad avvicinarmi a lui una volta seduti in macchina ma il muro che ha eretto è impenetrabile.

«Non vuoi parlare con me, e va bene, però ti prego, ti prego, smettila di scappare, non ti tormenterò più con psicologi e domande o nel tentativo di farmi perdonare ma per favore, ti supplico» le parole si fermano in gola, stanno arrivando le lacrime e al contrario di altre volte non cerco di fermarle. Voglio che capisca quanto male mi fa. Voglio che senta la mia preoccupazione, voglio che smetta di scappare. Posso rinunciare alle sue parole ma non alla sua presenza.

«Non scappare più».

Due lacrime scendono sulle mie guance e io subito le asciugo col dorso della mano. Alza lo sguardo verso il finestrino prima di annuire. Poi si mette la cintura e riprende a guardare fuori dal finestrino.

Ha annuito.

Ha comunicato con me. Dopo un anno e mezzo ha risposto a una mia domanda.

E' bastato un pomeriggio diverso per cambiare qualcosa in lui, quella ragazza gli fa davvero bene. Oppure è il cane. Oppure non lo so e francamente non mi interessa. Quella giornata me la sarei comunque ricordata per tantissimo tempo.

Percorro la strada del rientro con una nuova consapevolezza: Henry può essere salvato.

Fino ad ora ho sbagliato, ho messo la vita di mio figlio nelle mani di esperti che hanno solo detto cose che io sapevo già. Quella ragazza di cui ignoro il nome ha parlato con lui. Lo ha fatto sorridere, gli ha dato un impegno, un obiettivo quotidiano che Henry non aveva più da troppo tempo. E cosa ancora più positiva, ha inserito anche me in tutto questo, lo devo accompagnare, ciò significa che capisce che lo sto appoggiando e che sono felice che faccia questa cosa, insomma qualcosa deve pur valere tutto questo! So che quella piccola risposta di Henry sarebbe stata l'unica per molto tempo ma ora ho di nuovo speranza che qualcosa, col mio impegno e il suo, può veramente cambiare.

Scendo dalla macchina col sorriso sulle labbra. La spesa nel bagagliaio aspetta solo di essere riordinata ma sono ormai le otto di sera e la cena deve essere messa in tavola, per cui scaldo lo stufato che avevo preparato la mattina e apparecchio. Henry si rifugia nei suoi cartoni animati preferiti di fronte alla tv e, per oggi, posso dire che quel distacco non è più così doloroso.

 

 

 

Note dell'autrice: buon pomeriggio a tutti :) Ecco a voi il secondo capitolo di questa storia. Come potete ben notare non ci sono molte novità rispetto al capitolo precedente, era necessario che l'accaduto fosse analizzato a dovere anche da Regina prima di proseguire col racconto.

Ringrazio Susan e Nadia per le correzioni che, volta per volta, daranno ai miei capitoli prima della pubblicazione...qualcosa mi sfugge sempre.

Ah, ogni martedì verrà pubblicato un capitolo nuovo!

Buona lettura :)

 

 

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Capitolo 3
*** Appostamenti ***


Amo il sabato e la domenica. Non ho guinzagli o cani come diretta continuazione delle mie braccia e Dio solo sa quanto ho bisogno di riposarmi almeno una volta alla settimana. Solitamente vado a trovare la mia famiglia. Mamma Mary, Papà David e il mio fratellino Neal. I miei genitori sono la coppia più sdolcinata e felice di questa terra, tanto felice che ogni volta che vado da loro arriva la consapevolezza che mai troverò una donna che mi ami e che io ricambi come succede a loro.

Non è stato difficile raccontare loro della mia omosessualità, credo che la fase innamoramento che loro dopo trent'anni non avevano ancora passato, abbia attutito la botta. O forse erano gli ormoni per la gravidanza di mamma che aspettava Neal. Erano rimasti a bocca aperta a guardare me e la prima ragazza che gli avevo fatto conoscere, quando avevo diciotto anni, come se fossero davanti a un'apparizione divina. Non mi avevano chiesto perché, come, quando...mi avevano abbracciata e detto di essere felice. Come nei migliori film che io non avevo mai visto, tra l'altro.

Non mi avevano fatto storie nemmeno quando me n'ero andata di casa per vivere da sola e avevo, per questo, abbandonato gli studi. Mi avevano anzi affidato una casa di cui non conoscevo l'esistenza, per poterci vivere da sola, e da lì non mi ero mai fermata col lavoro.

“Troverai la tua strada a tempo debito” dicevano. Secondo me avevano solo la mente molto annebbiata dall'amore che provavano l'una per l'altro.

Questa domenica però ho bisogno di un po' di solitudine.

Non so come mai, ma credo che Henry abbia avuto un ruolo importante per questo mio stato d'animo. E' venuto tutti i giorni per le due settimane successive dal nostro primo incontro e, piano piano, ha aumentato il numero di parole pronunciate. Cercavo di non forzarlo e alla fine mi aveva chiesto anche il nome, a modo suo certo, ma l'aveva fatto. Niente contatto fisico o visivo, solo vocale, e Shila sempre accanto, come fido protettore. La madre, di cui ancora ignoro il nome, lo accompagna e la maggior parte delle volte sta nella sua macchina a osservarci da lontano. Soffre nel vedere suo figlio parlare con qualcuno che non sia lei, spero di aiutarli anche in questo, visto che non so come, io sono l'unico essere umano con cui Henry a quanto pare parla. E questo mi fa sentire importante e utile come mai prima, è una sensazione che mi piace e mi stimola a fare di più. Ma soprattutto voglio avere delle risposte.

Perché non parla con nessuno?

Perché non ama il contatto fisico con altri esseri umani?

Perché si strofina le mani con salviette umide in continuazione?

Ma soprattutto perché non guarda mai in faccia la madre?

Ho provato a fare supposizioni ma non voglio crearmi un'idea che poi si sarebbe sgretolata nel momento in cui avessi saputo la verità, perché prima o poi l'avrei saputa. Quel bambino sembra stare bene con me, e la madre si sarebbe chiesta il perché almeno quanto me lo sto chiedendo io.

I miei pensieri sono uggiosi e confusi quanto la giornata. Una sottile coltre di nubi sovrasta la mia testa, il sole non c'è ma l'ambiente è comunque estremamente luminoso quel pomeriggio di marzo. Occhiali da sole indispensabili, anche perché l'acqua del ruscello fa da specchio e quella luce mi avrebbe letteralmente accecata. Sono completamente sola e non posso desiderare davvero nulla di meglio per la mia domenica.

«Buongiorno».

Una voce quasi sconosciuta mi sveglia dal torpore in cui sono entrata. Apro leggermente gli occhi, guardando fissa di fronte a me, dalla mia posizione supina, sopra la mia coperta.

Ho pensato per un attimo di essere morta e che quella visione fosse il mio angelo, quello che mi avrebbe portato in paradiso. O all'inferno, dipende dai punti di vista.

Alzo il busto.

«Buongiorno a lei» cerco di scorgere Henry là intorno ma è totalmente sola.

Lo siamo.

Ha dei tacchi vertiginosi anche quel giorno, come ha fatto a camminare in mezzo all'erba con quei cosi, solo lei lo sa. Mi alzo per salutarla meglio, avendo cura di togliermi gli occhiali da sole, mi piace non avere filtri quando guardo qualcuno negli occhi.

«Come ha fatto a trovarmi?».

«L'ho seguita» risponde senza esitazione.

«La cosa mi mette paura...come mai mi ha seguita? E' successo qualcosa a Henry? Che ci fa qui?».

«No, non è successo nulla a Henry, volevo parlarle di lui e della sua situazione».

Irrigidisce le labbra appena pronuncio il nome di Henry. Tiene la borsa con entrambe le mani di fronte a lei, come una scolaretta con la cartella il primo giorno di scuola. Non riesco a decifrare la sua espressione, è un misto tra “odio il fatto che parli con mio figlio” e “ti prego dimmi come fai”.

«Non poteva farlo in queste settimane quando accompagnava Henry al parco?».

Mi sbilancio e sposto il piede destro posteriormente, allontanandomi un po' da lei.

«Non volevo che Henry ci vedesse, è come geloso di lei e se ci vedesse insieme crederebbe che voglia allontanarla da lui ed è l'ultima cosa che voglio».

«Bè, non ho sedie su cui farla accomodare o qualcosa da offrirle, se si accontenta di una coperta sull'erba» voglio metterla a suo agio ma non so se riuscirò nell'intento. E', anzi, sembra una donna troppo sofisticata. Fortuna ha un pantalone e non la gonna oggi. O sfortuna. Si accomoda su un lato e poggia un braccio sulla coperta per sostenersi. Io la imito e mi posiziono accanto a lei.

«Innanzitutto vorrei presentarmi, mi chiamo Regina Mills».

Regina. Regale come una regina. Il nome le sta a pennello.

«Oh io sono Emma, Emma Swan» allungo la mano per presentarmi e lei la stringe, vigorosa. Con la stessa mano poi, si sistema i capelli dietro l'orecchio. Solo allora sento il suo profumo. Chiudo gli occhi per godermelo al meglio. Quando li riapro il suo viso è un enigma.

«Ha un profumo molto buono» mi sento avvampare ma lei non ci fa caso. Con una mano sposto i miei capelli da un lato, facendoli ricadere sul petto.

«La ascolto» incrocio le gambe e con un sorriso incoraggiante aspetto che lei inizi a raccontare.

«Non è facile parlare a una completa sconosciuta di mio figlio».

«Non credo di capirla, non ho figli, ma se mi ha stalkerizzato evidentemente la paura di parlare con me non è grande quanto quella di non riuscire a far nulla per Henry. E poi ora sa il mio nome, se vuole posso darle altre informazioni su di me, a tempo debito insomma».

Io sono disponibile ad ascoltarla ma non voglio forzarla. Non insisterò se non vuole parlare. Ho ragione, ha lo stesso sguardo spaesato di Henry alle prese con uno sconosciuto. Giocherella con una foglia che il vento ha fatto arrivare fino alla coperta.

Passano i minuti. Minuti in cui io attendo in religioso silenzio. Sulla coperta arrivano due cavallette, qualche formica, dieci sospiri di Regina e due colpi di tosse miei.

«Henry non parla da quando ho brutalmente buttato fuori di casa suo padre che mi aveva tradito con la prima troietta sulla sua strada e ha avuto la splendida idea di morire quella stessa notte in un incidente stradale».

Questa sì che è una rivelazione. Il suo sguardo continua a rimanere basso, quasi come se si vergognasse. Le mani si stringono sulle ginocchia.

«Non volevo che assistesse alla scena, ma è successo. E Henry ha pregato il padre di rimanere ma lui si è voltato senza nemmeno dargli una spiegazione. E quando gli ho dovuto dire dell'incidente mi ha urlato contro che mi odiava. Quelle sono state le ultime parole che ho sentito da lui».

Annuisco anche se so che lei non mi sta guardando.

«L'ho portato da diversi psicologi ma mai, mai qualcuno è riuscito a farlo parlare. A scuola è bravissimo negli scritti ma non parla alle interrogazioni. Dicono abbia una specie di disturbo post traumatico da stress» emette una risata triste «quella che non ho potuto avere io per badare a lui».

«Io vorrei...» la voce rotta dal pianto, finalmente alza lo sguardo per posare i suoi occhi lucidi sui miei.

«Vorrei solo che capisca che gli voglio bene, e che non volevo separarlo dal padre. Volevo solo che non stesse più nella nostra casa, che mi toccasse» pronuncia questa parola con enorme disprezzo «invece ho dovuto anche piangerlo al funerale, senza poter dire che razza di schifoso bastardo manipolatore fosse».

«Di tutto questo lei ha parlato con qualcuno?» le parole escono spontanee dalla mia bocca.

«Ma ha ascoltato quello che ho detto?» risponde un po' irritata.

«Con estrema attenzione, ma mi ha parlato solo di Henry e di quello che ha fatto per lui. Per lei ha fatto qualcosa? Ha mai detto a qualcuno del tradimento e via dicendo?».

La sua espressione cambia, di nuovo. Dalla rabbia allo stupore. Incerta sulla risposta si limita a dire “no” come se fosse la cosa più normale del mondo.

«Quindi lui è il santo e lei la stronza. A detta di Henry chiaramente».

«Esatto, ma è stata la sua morte improvvisa ad averlo ferito maggiormente».

«Immagino che qualcuno le abbia detto che quello sia normale. Ma credo sia meno normale che lei viva con questo enorme peso addosso. Il senso di colpa che la schiaccia non le permette nemmeno di avere un comportamento adatto a rapportarsi con Henry».

Sbuffa prima di tirarsi indietro i capelli con entrambe le mani.

«Non sono una psicologa, non ci capisco niente di bambini ma le assicuro che non essere in pace con se stessi porta a dei comportamenti e delle reazioni assolutamente improprie. Esperienza personale».

I suoi occhi sono lucidi, ma non scende nemmeno una lacrima. Non so perché si limiti tanto, perché si controlli. Il nulla ci circonda, e a parte me non avrebbe notato nessuno la sua debolezza. Sul dorso della sua mano noto, solo in quel momento, un enorme livido violaceo con dei piccoli segni rossi sulle nocche. Le mie dita, senza controllo, lo sfiorano delicatamente, poi la guardo. La risposta mi appare chiara nei suoi occhi, non è necessario sprecare nemmeno una parola.

«Henry è un bravo bambino e non credo che la odi» forse sapere questo la avrebbe aiutata a capire il suo dolore.

«Oh si che mi odia» aggiunge lei testardamente convinta.

«Un giorno mi ha chiaramente detto che voleva parlare con lei, ma non ci riusciva, e non sapeva come fare per tornare indietro» ripenso a quel giorno e nella mia mente appare chiaramente il suo visino e le mani che torturano il guinzaglio di Shila. Regina pende dalle mie labbra, aspetta che continui con quella storia e mi dispiace non poter aggiungere altro, perché Henry quel giorno non mi ha detto altro.

«Ho cercato di farmi dire altro, ma lui si è alzato e ha portato Shila a fare un giro, e quel giorno non ha più aperto bocca e io come al solito non l'ho forzato. Credo abbia qualcosa di estremamente pesante da dire, qualcosa che lo schiaccia e...».

«Lo so» mi interrompe bruscamente «è la stessa cosa che mi hanno detto gli altri psicologi, solo che nessuno ha capito cosa sia o se l'è fatto dire, e nessuno ancora riesce a leggere nel pensiero».

Non mi stupisce che sia così, a volte gli psicologi sanno essere tanto insistenti quanto fastidiosi.

«Be sono felice di essere arrivata alla loro stessa conclusione allora, ma non vedo come possa riuscire ad andare oltre una laurea, specializzazione e scuola di psicoterapia».

«Lei in due settimane è riuscita a fare molto più di quanto abbiano fatto loro in due anni di terapia, pagando fior di quattrini».

«Ho solo aspettato che avesse qualcosa da dirmi» dico con sincerità.

«Appunto. Quindi le chiedo per favore...potrebbe occuparsi di lui più o meno a tempo pieno? Con me ovviamente». Il suo viso si illumina di aspettative nei miei confronti e improvvisamente mi sento sopraffatta dalla situazione e piena di responsabilità. Una responsabilità che non posso e non voglio avere.

«Io non credo di essere in grado e di avere le competenze per...».

«Andiamo non dica sciocchezze» mi interrompe «lei non ha fatto niente eppure è riuscita a farlo parlare! Ovviamente la pagherei, sarebbe un lavoro, le darei almeno il doppio di quanto si fa pagare per portare a spasso i cani, che tra l'altro Henry adora e io nemmeno lo sapevo. La mattina ha scuola ma poi nel pomeriggio, a parte la piscina due volte alla settimana, non fa altro, non vede altri bambini, difficile rapportarsi con un bambino di otto anni che non parla. E' difficile per un adulto figuriamoci per altri bambini».

Ha parlato a una velocità impressionante e in modo talmente convincente che quasi sono capitolata. Ha usato un tono di voce basso, quasi rauco, che avrebbe convinto qualsiasi essere vivente su questa terra, e rimango incantata dal movimento delle sue labbra. Con quella bocca avrebbe potuto chiedere il mondo e il mondo si sarebbe offerto a lei, senza esitazione.

«Io ho 25 anni e faccio la dog sitter, come crede che possa fare un lavoro migliore di persone che hanno studiato per situazioni come quelle di Henry?» torno alla realtà in fretta perché se quella donna avesse continuato con quel tono e a usare quello sguardo, avrei rischiato di ritrovarmi a ballare nuda in mezzo alla strada se solo me l'avesse chiesto. Mi metto in piedi con un saltello e comincio a fare avanti e indietro sul bordo del ruscello. Mi rimetto gli occhiali da sole, aggrottare gli occhi per sopportare la luce mi sta facendo venire mal di testa.

Non sono portata per risolvere questioni psicologiche, non amo incasinarmi l'esistenza con esseri umani problematici, cerco di tenerli lontani perché quando inizio a preoccuparmi per loro poi diventa un'ossessione e se non riesco nel mio intento sto peggio di loro. Non posso stare di nuovo così dopo che mi sono disintossicata da lei e da tutti.

«Emma» di nuovo quella voce. Mi volto di scatto e la ritrovo a un passo da me. Occhi supplicanti e sguardo contratto dal dolore.

«Non mi guardi in quel modo, non sono brava a dire di no».

«E allora non lo faccia» un altro passo dimezza la distanza tra noi «la prego».

Da quella distanza posso notare alcune particolarità del suo viso. La cicatrice sul labbro superiore è più grande di quanto sembrasse a una prima occhiata rapida. Piccole, quasi impercettibili rughe segnano il suo contorno occhi, ma sembrano più rughe di stanchezza che dovute all'età. La pelle, assolutamente liscia e perfetta, è ricoperta da una velatura di trucco brillantinata, e questo rende il suo viso ancora più luminoso. E a incorniciare tutto questo, gli enormi occhi praticamente neri, con le pupille dilatate, mi sembrano un pozzo senza fondo in cui voglio buttarmi.

Ed è maledettamente bella. E magari vederla mi avrebbe aiutata nel percorso con Henry.

«Non mi sta aiutando per niente. Mi sono appena disintossicata da una ex fidanzata per cui mi preoccupavo ventiquattro ore al giorno, non voglio tornare a stare male per qualcosa che non posso controllare» la paura sta prendendo il sopravvento. Avere ancora responsabilità fa nascere in me uno scombussolamento tale da arrivare a una crisi di panico. Col tempo ho più o meno imparato a gestirle.

«Non volevo metterla in difficoltà, mi dispiace». E' veramente dispiaciuta ma non ha detto che si scusa e ritira la strana offerta.

Mi tolgo gli occhiali prima di inginocchiarmi accanto al ruscello, infilare le mani nella gelida acqua, bagnarmi viso e capelli e riflettere. Ho passato due settimane con lui e non mi ha disturbato. Non ho pensato a lui in modo ossessivo cercando forzatamente un modo per farlo parlare di più o per farlo comunicare con sua madre, è stato semplice stare in sua compagnia. Forse posso riuscirci senza perdere la salute e impazzire come forse stava impazzendo lui. E' un bravo bambino. L'acqua sotto di me scorre veloce e il riflesso del mio viso è lievemente distorto dalle increspature che la corrente le dà. Mi rimetto in piedi, avendo cura di pulirmi i jeans. Lei è ancora lì, in trepidante attesa.

«Ok. Ma lei deve essere con me, a parte i momenti in cui sono con i miei cani».

«Sta dicendo che accetta?».

«Sì, sto dicendo che accetto» inclina un po' la testa da un lato prima di ringraziarmi.

«Sa già come procedere? Ha qualche idea?» chiedo tornando a sedermi sulla coperta.

«Sinceramente no» risponde cauta dietro di me. Dopo qualche secondo le posizioni tornano come quelle iniziali.

«Ma pensavo che potrebbe venire da noi, a casa nostra, magari Henry in un impeto di felicità le mostrerà la sua camera o le dirà altro».

«Se mi presentassi a casa sua credo che si spaventerebbe» aggiungo «forse è bene che il tutto capiti per caso, per esempio lei lo accompagna da me al parco e poi mi chiede di riaccompagnarlo per un impegno importante. Lei ovviamente sarà a casa ma lui non si insospettirà».

Non ho idea di quello che sto dicendo, ma Regina è talmente disperata che accetta tutto quello che dico come fosse oro.

«E magari potrei proporgli di passare del tempo insieme, a casa vostra e a casa mia, potrei fargli vedere il mio progetto di casa per animali che ho in mente e farlo collaborare con me».

Continua ad annuire. Cioè, io potrei essere un mostro assassino e lei mi affida la salute psicologica di suo figlio. Essere madre fa diventare completamente pazzi.

«Lo so cosa sta pensando» mi dice poco dopo.

«Io non sto pensando nulla».

«Avanti non menta, so bene che pensa che sia una madre snaturata che affida suo figlio a una sconosciuta» non posso fare a meno di sorridere.

«Il suo sorriso lo conferma ma farei davvero qualunque cosa per fare avere a Henry una vita normale, voglio che stia bene. Nei suoi occhi mi sembra di vedere esattamente cosa le passa per la testa, cristallini almeno quanto i miei».

Ok Emma, prova a respirare. So che puoi farcela. So che se la testa si trova in carenza di ossigeno i muscoli della gabbia toracica dovranno necessariamente muoversi e far entrare aria, ossigeno.

Inspiro, espiro.

Certe parole pronunciate da certe donne mi fanno sempre un brutto effetto.

Intorno a noi l'aria improvvisamente si fa più leggera. La tensione iniziale svanisce per lasciare il posto a una silenziosa complicità che da quel momento avrebbe fatto parte delle nostre vite.

Qualche minuto di silenzio.

«Si sta bene qui» dice lei con gli occhi chiusi e il volto rivolto al cielo. E' finalmente uscito un po' di sole, tiepido.

«Si lo so. Per questo vengo almeno una volta alla settimana, mi rilasso un pochino, rifletto, trovo soluzioni».

«Magari dovrei venirci anche io ogni tanto».

«Si, credo che le farebbe bene» rispondo. La osservo ancora. Il suo viso è preoccupato. Emette un sospiro prima di controllore l'orologio sul suo polso e alzarsi dalla coperta.

«Adesso devo andare, ho lasciato Henry a casa con la nonna per qualche ora. Se non fosse che sconvolgeremmo l'equilibrio di Henry, la inviterei».

Altro tonfo al cuore.

«Se non fosse che sconvolgeremmo l'equilibrio di Henry, accetterei, ma meglio di no» riprendo la mia posizione eretta per salutarla.

«Allora ci vediamo». Si volta e cammina verso la sua macchina, parcheggiata a un centinaio di metri da noi.

«Regina» la chiamo. Si volta di scatto facendo ondeggiare i suoi capelli corvini.

«Andrà tutto bene».

Un sorriso sincero appare sul suo volto prima di voltarsi e allontanarsi di nuovo.

Forse non ho sbagliato ad accettare. Forse per una volta sarei riuscita a tenere a bada il mio bisogno di sentirmi utile e avrei semplicemente fatto qualcosa senza pensare alle conseguenze, senza pensare che fallire non sarebbe stata totalmente colpa mia. A volte sono anche gli altri a dover fare qualcosa e Henry in questo caso ha un lavoro durissimo da affrontare. Io devo solo sostenerlo in questo.

 

 

Note dell'autrice: eccoci qui a questo terzo capitolo. Regina, che solitamente si chiude totalmente in se stessa, è decisa a sfidarsi e a sfidare Emma per riavere suo figlio.

Grazie come sempre a Susan e Nadia ( _ Gilestel _ su questo sito) per le correzioni.

A martedì prossimo :)

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Capitolo 4
*** Aiuto ***


Dopo diverse settimane di pedinamenti per capire quali siano le abitudini di quella donna di cui ancora ignoro il nome, decido di farmi avanti. Ultimamente ho preso molti permessi in ospedale ma con la scusa di Henry i miei colleghi mi lasciano spazio, che ovviamente ricambio coprendo turni scomodi, concedendomi così quelle due o tre ore di permesso.

E' un giusto compromesso.

La nuova “amica di Henry”.

Non so come altro definirla.

Ovviamente non posso lasciare mio figlio da solo con una sconosciuta.

Ne sono consapevole, è una cosa da maniaci psicopatici, ma per quanto mi riguarda la maniaca psicopatica può essere lei e voglio avere la certezza di non mandare mio figlio nelle mani di una carnefice.

Il primo giorno di pedinamento era un martedì, primo riposo settimanale per quel mese.

Scoprii poco dopo dove abitava, una casetta alternativa, di certo da ristrutturare, con un grosso cortile molto più curato della casa e un maggiolino giallo che mi aveva fatto rabbrividire. In effetti sembrava una casa dell'orrore, tutta di legno consumato. Speravo per lei che fosse solo una questione di facciata.

Alla fine della giornata avevo già capito una cosa: aveva una vita noiosa tanto quanto la mia. Si alzava, sistemava cortile e la casa probabilmente, poi andava a portare a spasso i suoi cani e tornava a casa.

Ovviamente nel tempo ho effettuato altri pedinamenti, sei per la precisione. Una volta l'ho vista interagire con un uomo, un vicino di casa che ci ha spudoratamente provato e a cui lei ha detto di no; un'altra è andata dai suoi genitori, o almeno sembravano i genitori, due personcine a modo e iper appiccicose, molto affettuose e comprensive con lei; in un'altra si è incontrata con una sua amica diciamo particolarmente accaldata e quindi poco vestita.

Infine, al sesto tentativo, quando ormai avevo perso le speranze di poterci parlare in solitudine, avevo trovato quello che cercavo: il suo posto segreto.

É lì che ho intenzione di braccarla e spremerla come un limone. O un'arancia. Insomma come un agrume qualsiasi, ed è lì che mi dirigerò questo pomeriggio.

Mia madre è particolarmente allegra questa domenica. Ciò rende le cose molto semplici visto che la domenica si accomoda in pianta stabile per tutta la giornata e sopportarla con le sue solite critiche proprio non è possibile.

Il pranzo come sempre silenzioso (con un bambino come Henry non può che essere altrimenti) termina velocemente.

«Tesoro ultimamente stai sempre in giro, devi dirmi qualcosa?».

Chiede mia madre con finto interesse. In realtà vuole solo trovare un appiglio, un motivo per darmi contro, criticarmi e farmi a pezzetti.

Mia madre. Cora Mills, 165 cm di finta cortesia, capelli neri raccolti in una enorme e antica crocchia, poche rughe sul viso, tailleur di circostanza ovunque vada. Ha fatto di me il bersaglio delle sue frecciatine, dei suoi insulti e dei sogni che lei non ha realizzato costringendomi a sposare un uomo che non amavo, da cui ho poi divorziato per sposare quello che credevo fosse l'uomo della mia vita. Ovviamente alla sua morte invece di un abbraccio e di sostegno ho ricevuto solo accuse su come mi fossi fatta sfuggire anche Robin, sottolineando come non fossi riuscita a tenermi nemmeno quello. Definirla madre è un'offesa per questa figura.

Però è di certo una nonna eccezionale. Probabilmente avrebbe voluto un figlio maschio quindi riversa su Henry tutto l'affetto che non ha mai dato a me e questa è l'unica cosa per cui la ringrazierò in un futuro, se mai capiterà.

«No, mamma, devo andare in ospedale a visitare un paziente che è stato operato ieri» rispondo svogliata mentre carico la lavastoviglie «tempo due ore al massimo e sono a casa».

Non alzo nemmeno lo sguardo dal mio compito, conosco perfettamente quegli occhi carichi d'ira e disprezzo. Gli ultimi piatti sono sistemati e con la coda dell'occhio vedo Henry piegare la tovaglia e adagiarla nell'apposito cassetto.

«Grazie tesoro» gli dico. Come consuetudine, nessuna risposta. Raddrizzo la schiena mentre lui raggiunge la nonna accanto al divano. Insieme guardano la tv, in silenzio.

Nemmeno quell'atteggiamento ostile mi blocca dal mio intento. Devo assolutamente parlare con quella donna.

Esco di casa senza salutare, dubito fortemente che quei due avrebbero ricambiato la cortesia.

Il cielo è coperto ma il tepore del sole dietro quelle nuvole si apprezza comunque.

«Certo che poteva scegliere un luogo meno isolato per pensare, dio santo». Il navigatore mi ha già fatto sbagliare strada due volte e i buoni propositi di stamattina mi stanno ormai abbandonando.

Finalmente trovo l'ingresso del parco sperduto. Parcheggio ben lontana dal punto in cui lei come consuetudine ama rilassarsi. Seguo il percorso del ruscello per un chilometro circa, avendo cura di non distruggere i miei tacchi in mezzo all'erba.

Un leggero sfarfallio al petto mi fa rallentare. Non riesco a definire la sensazione di questo momento, sento paura ma anche curiosità e speranza e gratitudine anticipata. Non avrei dovuto mettere i tacchi ma ho pensato di giocarmi anche la carta del fascino che aveva sempre funzionato sia con gli uomini che con le donne, indipendentemente dal loro orientamento sessuale. E l'abbigliamento di quella giovane biondina, osservato durante gli incontri con Henry, mi diceva che avrei fatto colpo, in qualche modo.

La scorgo sdraiata su una coperta, con una gamba accavallata sull'altra e gli occhiali da sole sul viso. Arrivata a pochi metri da lei ancora non alza lo sguardo, magari ha gli auricolari e non mi sente, ma non scorgo alcun filo attorno a lei.

Faccio un bel respiro.

«Buongiorno».

Un movimento impercettibile del capo mi suggerisce che era assopita. Non posso vedere gli occhi, coperti dalle lenti scure ma noto un sincero stupore alla mia vista. Abbozzo un sorriso mentre lei si mette seduta, ricambia il saluto e mi squadra da capo a piedi.

«Come mi ha trovata?».

Ma che domanda banale. Si alza finalmente in piedi e toglie gli occhiali da sole.

«L'ho seguita» come altro avrei potuto trovarla? Di certo non le avevo messo un microchip nell'orecchio come i suoi cani.

Mantengo la borsa di fronte alle mie gambe, timorosa della sua reazione ma pronta a rassicurarla sul motivo della mia improvvisata.

«La cosa mi mette paura...come mai mi ha seguita? E' successo qualcosa a Henry? Che ci fa qui?».

La facilità con la quale pronuncia il nome di mio figlio mi urta e non riesco a controllare l'espressione contrariata che di certo compare sul mio viso.

«No, non è successo nulla a Henry, volevo parlarle di lui e della sua situazione».

«Non poteva farlo in queste settimane quando accompagnava Henry al parco?».

Domanda lecita. Henry mi avrebbe di certo scaraventato addosso il muro che già aveva ostruito tra noi, non volevo peggiorare le cose.

«Non volevo che Henry ci vedesse, è come geloso di lei e se ci vedesse insieme crederebbe che voglia allontanarla da lui ed è l'ultima cosa che voglio».

Quella spiegazione sembra farle capire le mie intenzioni, il viso si rilassa ma continua a giocherellare sistematicamente con la manica della camicia a quadri che indossa.

«Bè, non ho sedie su cui farla accomodare o qualcosa da offrirle, se si accontenta di una coperta sull'erba» indica con la mano il plaid sotto i nostri occhi.

Piano, dopo aver posato la borsa accanto a me, mi siedo un po' di lato, memore degli insegnamenti di mia madre e prendendo fiato, inizio con l'unica cosa che ancora non avevamo fatto.

«Innanzitutto vorrei presentarmi, mi chiamo Regina Mills».

«Oh io sono Emma, Emma Swan» mi allunga la mano che stringo prontamente. Un altro lieve sfarfallio al petto. Di certo delle extrasistoli, dovrei fare un elettrocardiogramma di controllo, dico tra me e me. Con gli occhi chiusi e il naso simile a quello dei suoi cani alla ricerca di qualche carezza, si avvicina a me. Alzo le sopracciglia e piego un po' la schiena all'indietro cercando di capire che diavolo stesse facendo.

«Mi perdoni, ho sentito il suo profumo».

Annuisco un po' spaventata. E' una ragazza davvero strana.

«La ascolto».

«Non è facile parlare a una completa sconosciuta di mio figlio».

Dico subito sulla difensiva.

«Non credo di capirla, non ho figli, ma se mi ha stalkerizzato evidentemente la paura di parlare con me non è grande quanto quella di non riuscire a far nulla per Henry. E poi ora sa il mio nome, se vuole posso darle altre informazioni su di me, a tempo debito insomma».

Questa sua gentilezza mi tranquillizza e mi terrorizza allo stesso tempo. Le persone troppo gentili, affabili, affascinanti e disponibili hanno sempre qualche lato oscuro del loro carattere che mi mette in soggezione. Basta guardare quel lurido del mio ex marito, che dopo avermi stregato e rubato il cuore l'ha gettato nella discarica senza aver la decenza nemmeno di restituirmelo per poterlo curare. No, ha preferito negare l'evidenza, sputando su me, il nostro matrimonio e su nostro figlio, come se nemmeno lui contasse qualcosa.

Continuo a sospirare mentre raccolgo pensieri caotici, ancora incerta sulla possibilità di confidarglieli.

Ma se non lo faccio ora a cosa è servito tutto questo tempo perso a seguirla? Mi sento combattuta. E quando questo sentimento prevale tra gli altri c'è una sola cosa da fare: spegnere il controllo e aprire la bocca. Così inizio a parlare, avendo cura di non alzare mai una volta lo sguardo dalla coperta, torturando e sbriciolando la fogliolina che era finita tra le mie mani, portata dal vento.

In fondo, quando chiudo i sentimenti, dentro il fantasma del mio cuore tutto è più facile. Affrontare mia madre, il lavoro, chi ancora elogia quel “santo” di mio marito, gli psicologi di Henry. L'unica persona con cui non riesco ad avere questo atteggiamento è mio figlio. Ho provato a essere fredda, ho provato a chiudere a chiave l'angoscia che mi accompagna ogni qualvolta gli rivolgo una parola ma la sua ostilità ha il potere di sventrare ogni muro che costruisco per non ferirmi. Eppure ci riesce sempre.

Solo che parlare di lui ha quasi lo stesso effetto che parlare con lui. Lentamente, il cuore martellante e la testa a un passo dalla pazzia, la connessione tra ragione e sentimento torna, prima soffocata da una triste risata, poi dalla gola chiusa e dagli occhi lucidi di lacrime.

«Vorrei solo che capisca che gli voglio bene, e che non volevo separarlo dal padre. Volevo solo che non stesse più nella nostra casa, invece ho dovuto anche piangerlo al funerale, senza poter dire che razza di schifoso bastardo fosse».

Ed è lì che alzo lo sguardo su di lei per terminare il mio discorso fatto di rabbia, frustrazione e delusione.

Di fronte a me uno sguardo attento e contrariato.

«In tutto questo lei ne ha parlato con qualcuno?». Apre immediatamente la bocca per domandarmi qualcosa. Qualcosa che reputo assolutamente inopportuno.

«Ma ha ascoltato quello che ho detto?».

«Con estrema attenzione, ma mi ha parlato solo di Henry e di quello che ha fatto per lui. Per lei ha fatto qualcosa? Ha mai detto a qualcuno del tradimento e via dicendo?».

Ovviamente no. Forse non era così inopportuna.

«Quindi lui è il santo e lei la stronza. A detta di Henry chiaramente».

Annuisco.

«Esatto, ma è stata la sua morte improvvisa ad averlo ferito maggiormente».

«Immagino che qualcuno le abbia detto che quello sia normale. Ma credo sia meno normale che lei viva con questo enorme peso addosso. Il senso di colpa che la schiaccia non le permette nemmeno di avere un comportamento adatto a rapportarsi con Henry».

Non sono io il problema in questo momento, anzi non lo sono mai stata. Quindi perché soffermarsi su quel che provo io? Sento che le lacrime sono lì, pronte a uscire, ma non voglio che escano, non voglio mostrare nulla. Mi tiro i capelli all'indietro con entrambe le mani. Rimango concentrata sul groppo alla gola che sento da qualche minuto.

«Non sono una psicologa, non ci capisco niente di bambini ma le assicuro che non essere in pace con sé stessi porta a dei comportamenti e a delle reazioni assolutamente improprie. Esperienza personale».

Per non essere una psicologa faceva dei ragionamenti degni del mio professore di psichiatria all'università. Solo allora mi ricordo della rabbia incontrollata di due giorni prima, quando Henry si era rifiutato di mangiare perché avevo alzato la voce. Rifugiatosi in camera sua avevo sferrato due colpi violenti al muro e il risultato era un ematoma sulla mano sinistra (la destra l'avevo protetta, a lavoro non sapevo fare nulla con la mano sinistra) più escoriazioni su due nocche. Da vera teppista insomma. Mentre ripenso all'episodio sul mio campo visivo compare la sua mano che con cautela sfiora la mia. Poso lo sguardo su di lei. Nessuna parola, solo comprensione nei suoi occhi.

«Henry è un bravo bambino e non credo che la odii».

Sorrido tristemente. Certo che mi odia, dico.

«Un giorno mi ha chiaramente detto che voleva parlare con lei, ma non ci riusciva, e non sapeva come fare per tornare indietro».

No. Non può averle detto anche questo. Non può averle detto questo dopo solo un mese di conoscenza mentre in due anni nessuno gli ha saputo estorcere una sola sillaba.

«Ho cercato di farmi dire altro, ma lui si è alzato e ha portato Shila a fare un giro, e quel giorno non ha più aperto bocca e io come al solito non l'ho forzato. Credo abbia qualcosa di estremamente pesante da dire, qualcosa che lo schiaccia e...».

«Lo so, è la stessa cosa che mi hanno detto gli altri psicologi, solo che nessuno ha capito cosa sia o se l'è fatto dire e nessuno ancora riesce a leggere nel pensiero».

Ma lei ha fatto molto di più. Senza un titolo e una preparazione adeguata ha fatto capolino nel mondo in cui Henry si è rinchiuso.

«Lei in due settimane è riuscita a fare molto più di quanto abbiano fatto loro in due anni di terapia, pagando fior di quattrini».

É arrivato il momento di chiederle di badare a Henry, di essere la sua educatrice, psicologa, amica, tutto quello che Henry vuole. Tutto quello di cui mio figlio ha bisogno. Quanto mi costa non essere io la salvatrice di mio figlio. Quanto mi fa soffrire sapere di non avere alcun potere su di lui, ma ora ho una chance. Una vera chance, palpabile, reale, non parole al vento. Non soldi buttati, saranno soldi spesi più che bene. Darò un lavoro serio a questa ragazza e aiuterò mio figlio. Smetterò di usare i soldi dell'eredità di suo padre per pagare gli psicologi e andrà tutto bene.

Continuo a ripetere questo nella mia testa mentre tento di convincerla usando parole, gesti, tono della voce, tutto. Perdo quasi le speranze nel momento in cui si alza e si bagna il viso tra le acque del ruscello.

«Non mi sta aiutando per niente. Mi sono appena disintossicata da una ex fidanzata per cui mi preoccupavo 24 ore al giorno, non voglio tornare a stare male per qualcosa che non posso controllare».

Alla fine il mio sentore sulla sua sessualità era vero. Ed è vera anche la sua paura. Non può controllare Henry o il suo malessere come non lo posso controllare io ma forse insieme possiamo fare qualcosa. Non avrei lasciato tutto sulle sue spalle, l'idea è creare un ponte tra me e lui e lei può essere questo ponte.

Alla fine, dopo un'ora di conversazione, accetta.

Il mio umore cambia.

Percorro la distanza tra lei e la macchina con una nuova consapevolezza.

Tornare a casa mia non è nemmeno così brutto ora. Vedere mia madre non mi sconvolge più di tanto, nemmeno le sue battute.

Sono soddisfatta della conversazione, ma da madre, la paura di aver fatto la cosa sbagliata comunque è presente. Ma in fondo cosa ho da perdere? Al massimo le cose rimarrebbero esattamente come sono ed Henry avrebbe una nuova amica. Certo, non è normale che abbia un'amica più che maggiorenne ma è pur sempre una persona con cui riesce a comunicare, e forse la sua presenza lo aiuterà ad aprirsi con persone della sua età.

Per la prima volta vedo il lato positivo della faccenda. Sotto le coperte del mio letto ripenso alla conversazione con lei, alla delicatezza del suo silenzio, alla sfrontatezza delle sue convinzioni dettate dall'esperienza e la paura di prendersi una responsabilità grande come un bambino di 8 anni. Ha la testa a posto. Almeno per quel che serve a me.

Avremmo fatto capitare tutto per caso, lei sarebbe entrata a casa nostra e anche nel mondo quotidiano di Henry.

Sarebbe andato tutto bene.

Doveva andare tutto bene.

 

 

Note dell'autrice: Lo so, anche questo capitolo risulta ripetitivo per certi versi. Dal prossimo vedremo uno sviluppo più rapido della storia, con nuove scene e nuovi pensieri in ogni capitolo.

Grazie come sempre a Susan e a Nadia per le correzioni :)

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Capitolo 5
*** Umiliazione ***


Apro gli occhi. La stanza, ancora immersa nell'oscurità, è troppo calda e, immediatamente con la mano, sposto le coperte da un lato.

«Dio che caldo» dico a voce alta, come se qualcuno potesse sentirmi.

Le ultime notti sono state difficoltose, non riuscivo a prendere sonno, pensavo e ripensavo a come entrare più a fondo nella vita di Henry e per quanto mi fossi ripromessa di non utilizzare più energie di quanto fosse necessario, quella situazione ne stava già consumando molte. E più combattevo perché non fosse così, peggio era.

La testa mi scoppia, sono solo le otto del mattino e la strana sensazione che ho addosso mi suggerisce che sarebbe stata una pessima giornata, che sarebbe successo qualcosa di spiacevole a cui non avrei potuto porre rimedio. Stancamente trascino le gambe fuori dal letto, mettendo un piede di fronte all'altro con le energie trovate chissà dove. Mi infilo la vecchia camicia di mio padre come una vestaglia. Si, una camicia. Le vestaglie della mamma sono a dir poco oltraggiose per i miei gusti non propriamente femminili, mentre le camicie di mio padre sono larghe e comode, decisamente l'ideale.

Come sempre da quando abito da sola, mi assicuro che almeno la porta d'ingresso non sia aperta o forzata, avere sconosciuti in casa non mi sembra appropriato per iniziare la giornata. La serratura è ancora a posto e facendo un po' di forza sul passante, lo faccio scattare. Apro la porta e mi guardo intorno. Il sole spunta da dietro gli alberi e un leggero tepore scalda il portico. Stringo a me la camicia che ho l'abitudine di indossare appena sveglia, faccio un respiro profondo e richiudo la porta prima di dirigermi in cucina.

O. Mio. Dio.

La cucina è un disastro.

Cerco di ripercorrere a mente l'ultima volta che ho fatto ordine e...non me lo ricordo. Ciò significa che è passato davvero troppo, troppo tempo. Il sacco della spazzatura chiede pietà. Faccio un giro attorno al tavolo per controllare da vicino il disastro che è la mia cucina e segno sulla lavagna accanto al frigo tre cose: fare la spesa, buttare la spazzatura e come al solito, il terzo punto era sempre lì, ormai inossidabile: imparare a cucinare. La mamma aveva tentato ma senza successo. È che proprio non mi appassiona stare a guardare sobbollire il sugo o la carne o lo stufato. È molto più comodo andare a comprare una pizza, anche se il mio stomaco ne risente come non mai.

Un gorgoglio proveniente dal mio stomaco mi ricorda che ho fame. La mia tazza che può contenere mezzo litro di latte è ancora sul lavello, quindi rinuncio alla mia solita colazione. Afferro la scatola di cereali integrali, l'unica cosa che mi sono ricordata di comprare la sera prima al supermercato e, distrattamente, inizio a sgranocchiarli seduta sul divano in salotto. Il cellulare è sul tavolino di fronte a me e dopo averlo preso inizio a leggerne i messaggi. Il primo è di Ruby che mi ricorda il nostro appuntamento per il compleanno di Belle questa sera. Il secondo di mia madre, che come al solito voleva rifilarmi zuppe di verdure iper salutari, magari sarei passata nel primo pomeriggio a salutarla. Poi c'è il solito messaggio del vicino di casa, Killian, che col suo “buongiorno raggio di sole” azzera qualunque tentativo di farmi uscire con lui... non si capacita del fatto che non sia attratta dalla sua barba e dai suoi pettorali, dice che un giorno mi conquisterà.

Certo, se fosse diventato una donna sicuramente ci sarebbe riuscito.

E poi eccolo. Mi sembrava strano che avesse resistito più di due giorni senza scrivermi. Il terzo doveva necessariamente tornare con le solite parole: “Ho bisogno di parlarti, possiamo vederci?”.

Sospiro stanca. Dopo un anno per lei non è cambiato nulla, e dio solo sa quanto mi dispiace, ma ripetere all'infinito le sue convinzioni non mi avrebbe fatto cambiare idea. E lei non deve rinunciare a qualcosa per la mia voglia di solitudine.

“Cosa mi devi dire stavolta di diverso dal solito?” schiaccio invio.

Fisso un punto imprecisato nel vuoto aspettando nervosamente la sua risposta che non tarda ad arrivare.

“Nulla, vedere come stai e parlare un po'”.

Conosco benissimo il significato di quel “niente”. Vuol dire almeno mezz'ora di discussione e un'altra mezz'ora di litigio.

“A mezzogiorno da Ruby, prima ho delle cose da fare” invio.

Poggio il telefono e mi allungo sul divano. Alcuni cereali cadono in terra nel tentativo di portarli dalla scatola alla bocca ma tanto avrei dovuto pulire per cui non mi preoccupo. Il telefono squilla per la ricezione di un altro messaggio ma non mi alzo per leggerlo. Rimango lì, ferma, a godermi quelle ultime ore di tranquillità prima di potermi vedere con lei. Chiudo gli occhi. Ripenso a tutte le volte che mi aveva parlato di figli, a tutte quelle che mi aveva ossessionato parlando di convivenza, come se bastasse quello per risolvere le nostre differenze di vedute sul futuro e sul rapporto di coppia. Sapere di vederla mi toglieva le energie ancora prima che succedesse davvero. Ormai era diventato qualcosa di psicologico che non riuscivo proprio a controllare.

In preda a un'ansia ormai familiare, inizio le faccende di casa, avendo cura di non sprecare la mattinata bloccandomi al pc o guardando la televisione: niente tecnologia per due ore almeno. La cucina è un disastro, piena di cartacce, anzi cartoni di pizza. Riempio un'altra busta e la sistemo accanto all'ingresso. Poi riempio una lavatrice, spolvero salotto e camere, lavo per terra, lavo le stoviglie e anche il bagno.

A mezzogiorno meno un quarto la casa risplende e io sto per avere un collasso per il caldo e per lo stomaco vuoto. L'acqua lava via solo il sudore ma non la brutta sensazione con cui mi sono alzata dal letto qualche ora prima. Avvolta nell'accappatoio, dopo aver sistemato la roba pulita nello stendino, mi asciugo i capelli e di seguito, di fronte all'armadio, cerco qualcosa di comodo e veloce da indossare.

Osservo distrattamente l'ora sull'orologio da parete regalatomi da mia madre e un'imprecazione invade la stanza, senza controllo.

«Cazzo è tardissimo!». Sono infatti già le 12:15 pm, Elisabeth come minimo ha chiamato la polizia o peggio sta venendo a casa a cercarmi. Torno in salotto e guardo l'ultimo messaggio ricevuto.

“Non credo di poter esserci prima dell'una meno un quarto, va bene lo stesso?”. E' l'ultimo messaggio di El.

“Ci vediamo tra poco allora” invio.

Pericolo scampato, almeno per ora. Torno al mio armadio e jeans e camicia diventano, come al solito, i miei capi d'abbigliamento della giornata. Un paio di ballerine incorniciano il tutto. Un'ultima occhiata allo specchio e esco di casa. La macchina sul vialetto è ormai nera di polvere e altro, quindi lavarla andava nella lista di cose da fare della giornata, magari dopo il lavoro, magari con Henry, la madre sarebbe stata di certo d'accordo. Fortunatamente per me non c'è traffico e in dieci minuti giungo di fronte al bar dove Ruby mi sta sicuramente aspettando.

Con spalle e sguardo basso raggiungo la porta principale proprio mentre questa veniva aperta dall'interno.

«Mi scus...» una voce familiare attira la mia attenzione.

«Regina» dico appena incrocio i suoi occhi.

«Emma, salve, a quanto pare non sono io l'unica a seguirla, lei fa altrettanto con me» sorride. Il suo sorriso mi fa dimenticare per un attimo dove sono ma soprattutto chi sono. La mia attenzione è totalmente rapita dal suo inconsueto abbigliamento. La squadro da capo a piedi per due volte. Ha una divisa ospedaliera blu elettrico stropicciata e un paio di scarpe da tennis. In mano tiene una tazza di caffè fumante e su una spalla uno zainetto tanto brutto e poco femminile che dubito sarei riuscita a usarlo nemmeno io che a femminilità lasciavo a desiderare.

«Ha visto un fantasma?» mi chiede incuriosita dal mio silenzio.

«No io...» tentenno un po' prima di scuotere il capo e schiarirmi le idee «non l'avevo mai vista con questo abbigliamento e quindi a momenti non la riconoscevo».

«Sa non posso correre da una parte all'altra del pronto soccorso con gonna, tacchi e autoreggenti» sul suo viso compare un sorriso malizioso e sento le guance diventare improvvisamente calde.

«No, immagino sia complicato, è un medico? Non l'avrei mai detto» la butto lì, volevo incuriosirla.

«Come mai?» sorseggia il suo caffè dopo aver sistemato i capelli con l'altra mano.

Tombola.

«La immaginavo tipo dietro a una scrivania in qualche ufficio a dirigere delle persone incapaci a cui lei lanciava delle urla a dir poco disumane, cose così» gesticolo mentre dico le ultime parole. La risata che ne segue rimbomba all'ingresso. E anche sul mio petto.

«Lei è simpatica, capisco perché Henry la adori».

«Parlo poco con Henry, sarà per questo che gli piaccio, lo stresso poco!» fisso le sue labbra mentre avvicina il bicchiere del caffè. Sono alquanto spudorata.

«Ne vuole un sorso?» mi chiede allungando il braccio col bicchiere.

«Oh no no» la stoppo con la mano «ma muoio di fame per cui mi dia un attimo». Apro la porta e con lo sguardo cerco Ruby. La trovo che serve due ragazzi a un tavolo in fondo.

«Rub!» cerco di attirare la sua attenzione. Alza lo sguardo e mi sorride.

«Mi porti un trancio di pizza e un succo di frutta prima di subito? Sto per svenire dalla fame o una cosa simile».

«Arrivo dolcezza» arriccio le labbra per mandarle un bacio prima di tornare da lei.

«Ha cinque minuti per stare seduta? Sono a corto di zuccheri, ho bisogno di mangiare e di riposarmi».

«Certo, almeno finisco il caffè in santa pace».

«Bene, venga» ripercorro i tre gradini a scendere e mi siedo sulla panca di uno dei tavoli vuoti all'ingresso del bar. Lei subito si accomoda di fronte a me.

Mi guarda sorridente e io ricambio il sorriso.

Ruby interrompe quel gioco di sguardi con il vassoio del mio pranzo.

«Cibo, dio ti ringrazio, anzi, Ruby ti ringrazio» lei si abbassa per darmi un bacio sulla testa, poi rimane ferma a fissare Regina, poi me e poi ancora Regina. So cosa vuole ma non ho intenzione di far pubblicità su Regina o peggio su Henry per cui rimando a lavoro la mia Ruby con una scusa. Lei accetta un po' contrariata.

«Sembrava curiosa di sapere chi fossi» dice Regina.

«Lei è curiosa in generale, so come distrarla, ho molte cose da raccontarle, ma lei e Henry non voglio siano argomenti di discussione» prendo la forchetta e il coltello e taglio la punta del trancio di pizza, portandolo disperatamente alla bocca. Masticarlo placa i dolori allo stomaco nell'immediato. Sento tutti i muscoli rilassarsi.

«Devo avere un'espressione assolutamente indecifrabile per lei ma non ho fatto colazione e ho passato la mattinata a pulire, ero veramente sull'orlo di uno svenimento».

Il suo viso divertito passa da me alla pizza.

«Oh so cosa vuol dire essere affamati, a volte non riesco a mangiare per 12 ore, l'ospedale non mi permette di fare dei pasti regolari, per cui sono abituata ad arrivare ad avere fame da morire, un po' come lei ora» io la ascolto ma continuo a mangiare. Non so, sembra diversa, non ha il viso contratto dalla preoccupazione, è stranamente rilassata.

«La vedo meglio dell'ultima volta, più sorridente, mi fa piacere, ci sono stati cambiamenti con Henry?» la mia curiosità è sincera, ma in realtà sono gelosa di qualunque cosa l'abbia fatta felice anche solo per un attimo.

«Ho salvato la vita a un bambino dell'età di Henry stanotte. Questo vale tanto per me. Ma appena Henry mi fulminerà col suo sguardo pieno di odio, sono certa che questa sensazione svanirà in un battibaleno, per cui me la godo ancora un'oretta» il suo caffè ormai è terminato. Smontato il tappo, prende a spezzettare il bordo, fino a creare delle piccole frange che inizia a staccare dal resto del tappo, uno ad uno.

«Henry non la odia» ribadisco io «ha mangiato? Vuole un pezzo di pizza? Posso fargliene portare un altro pezzo da Ruby se le va» porto un altro pezzo di pizza alla bocca.

Lei scuote la testa in segno di diniego.

«No grazie, pranzerò con Henry, ho preso giusto qualcosa per non arrivare moribonda come lei da mio figlio, mi servono energie per affrontarlo» il suo sguardo passa al mio polso dove avevo un orologio. Spalanca gli occhi, lo afferra per assicurarsi che quello che vedeva fosse vero e poi si alza.

«È davvero tardi, devo mettere a scaldare il pranzo prima che arrivi, mi ha fatto piacere incontrarla» tentenna, giocherellando ancora col suo bicchiere.

«Immagino che se ci fossero state delle novità con Henry me ne avrebbe parlato oggi, vero?» eccola lì, la sua espressione seria e preoccupata è tornata.

«Ovviamente sì» mi alzo in piedi «ci tengo a lui ma credo ci voglia più tempo per instaurare quel rapporto che lei vorrebbe. Io comunque...».

«Ciao Emma» il suono di una voce che io conosco alla perfezione si insinua nel mio timpano, facendomi quasi rabbrividire. Mi volto lentamente e lo sguardo tutt'altro che rilassato di Elisabeth fissa Regina con odio esplicito. Incrocia le braccia al petto.

«Si può sapere chi è questa?» si rivolge di nuovo a me. Con tono pieno di odio e di gelosia e con estrema sfida. Con un sorriso forzato rivolto a Regina, prego che legga nei miei occhi le scuse che le sto porgendo per quello a cui avrebbe assistito a breve.

«Credo che non siano affari tuoi chi lei sia, ma buongiorno anche a te, vedo che sei di buon umore».

I suoi occhi carichi di odio si posano di nuovo su Regina che intanto ha afferrato il suo zaino e l'ha messo in spalla.

«Io vado, arrivederci Emma».

«Lei dove crede di andare? Cosa crede di fare? Vuole rubarmi la fidanzata? Be dovrà prima passare sul mio cadavere!». E' di nuovo totalmente fuori controllo. E ora lo sono anche io.

«El, ma che cazzo dici? Come ti permetti di rivolgerti così a una persona che non conosci quando non sai nemmeno chi sia o che rapporto ci sia tra noi? Vuoi fare una brutta figura? Perché sai che ci riuscirei a smontare il tuo film, visto il tuo scarso autocontrollo e la tua propensione ad arrivare a conclusioni affrettate e sbagliate».

I suoi occhi azzurri sono spalancati. Il suo petto si muove su e giù molto velocemente e i capelli biondi sono mossi dal vento all'indietro, tanto da sembrare che una forza malefica esca fuori dal suo corpo. A un metro di distanza posso quasi sentire il battito accelerato del suo cuore.

«Ah perché mi vorresti dire che questa donna non ti piace?».

Alzo gli occhi al cielo, stanca dell'ennesima, inutile, scenata di gelosia.

«Non stiamo più insieme da un anno e per quanto mi riguarda posso essermi scopata mezzo mondo e a te non ti deve importare niente! Sono stata chiara?».

Un lampo passa nei suoi occhi. Un altro sul mio viso.

La sua mano atterra sulla mia guancia destra. Una fresca sensazione subito dopo percorre il mio mento.

Ancora stordita, con una mano, lo sfioro. Le dita avvertono qualcosa di bagnato.

E' sangue.

Non riesco a capire da dove provenga, ma so che avrei voluto picchiare malamente chi mi ha fatto questo.

Un'altra mano improvvisamente si avvicina a me, con un fazzoletto, e tampona la bocca. E' Regina. Le faccio cenno di allontanarsi per dieci secondi. Afferro con la mano il fazzoletto sporco di sangue.

Poi prendo fiato, e dopo avere raccolto tutte le briciole di calma che mi sono rimaste, inizio a parlare.

«Vattene immediatamente e non ti azzardare minimamente a scrivermi, chiamarmi, farti sentire o farmi sapere che respiri ancora. Tu per me sei morta».

I suoi occhi si riempiono di lacrime. Guarda me e poi l'anello sulla mano con la quale mi ha colpito, è stato quello procurarmi la ferita.

«Mi..mi dispiace tanto...».

«Sparisci!» urlo subito dopo.

Il suo corpo trema e dopo aver indietreggiato, si volta e si allontana, correndo.

Regina a quel punto si avvicina con un altro fazzoletto. Sentivo il sangue scorrere sul collo e sotto la maglia. Mi faceva male il labbro.

«Hai un taglio sul labbro inferiore, forse possiamo evitare i punti però» si piazza di fronte a me, schiaccia il fazzoletto sul labbro, e ogni tanto lo scopre per vedere se il sangue cessava di uscire, in qualche modo.

«Vieni, ti accompagno all'ospedale, hai bisogno di essere medicata».

La sto ascoltando, ma tutto attorno a me è ovattato. La rabbia che fino ad ora ho provato se ne sta andando e una sensazione di frustrazione sta prendendo il suo posto. Con le lacrime.

«Non voglio andare in ospedale» con una mano mi tiene il mento, con l'altra preme sulla ferita.

«Non andiamo in ospedale, vieni a casa mia e vedo se riesco a sistemarti con quello che ho lì, d'accordo?» il suo tono è premuroso ma non voglio approfittarmi di lei. E magari Henry si sarebbe spaventato.

«Emma ma che è successo?» Ruby compare dietro di noi.

«O merda, allora avevo intuito bene, El ti ha visto con questa donna e ha dato definitivamente di matto vero?».

Non avevo voglia di rispondere.

«Forza andiamo che sistemiamo questo labbro» dice Regina prendendomi per un braccio.

«Scusi, lei chi è?» chiede Ruby.

«Sono un medico, vorrei fare qualcosa per la sua amica, posso o mi ridurrà come quella donna ha fatto con lei?» stizzita e protettiva, mani sui fianchi e sguardo di sfida. In un altro momento mi sarei sentita quasi lusingata, ora voglio solo tornare a casa e mettermi a dormire.

Ruby, visibilmente offesa per le parole di Regina, fa un passo indietro prima di dire «Chiamami appena torni a casa».

Continuo a non rispondere. Seguo quasi apatica i movimenti e gli ordini di Regina. Mi siedo nella sua macchina, avendo cura di non perdere il fazzoletto sul viso. Lei gira la chiave e mette in moto. Io chiudo gli occhi e penso che la prossima volta che avrò quella sensazione, farò meglio a stare a casa.

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Capitolo 6
*** Soccorso ***


Occhi chiusi.

Con i piedi sopra il bracciolo del divano e la luce della sala medici spenta, mi godo la mia ultima ora di relax prima di rientrare a casa, dove avrei dovuto combattere col silenzio di mio figlio. E quello, di sicuro, mi toglie più energie di ventiquattr'ore di lavoro ininterrotto.

Rifletto di nuovo sulla lunga notte appena trascorsa.

Dopo appena due ore di lavoro, un'ambulanza a sirene spiegate ci aveva recapitato, come il peggior pacco postale, un bambino di otto anni.

Gli stessi anni esatti del mio Henry.

Era caduto dal secondo piano di casa sua, dal terrazzo precisamente, mentre giocava a nascondino con la madre. Quest'ultima non aveva saputo nemmeno spiegarci come gli fosse potuto venire in mente di scavalcare l'inferriata, ma così aveva fatto. Ed era caduto.

Frattura di bacino, femore, costole e calotta cranica.

La ferita nella zona occipitale sanguinava copiosamente e la doppia frattura di femore e bacino aveva lesionato l'arteria femorale profonda. Ipoteso, sudato, incosciente, anche da lucida non riuscivo a non traslare il viso di mio figlio sul suo, incentivandomi a fare del mio meglio.

L'emorragia endocranica, durante il primo soccorso effettuato da noi, sembrava essersi stabilizzata. Così abbiamo avuto il tempo per dargli una parvenza di battito e pressione e permettergli di arrivare vivo in sala operatoria.

Le due ore successive all'emergenza ero stata assalita dalla solita tremarella, conseguenza tipica di un intervento carico di adrenalina.

La fortuna mi aveva assistito in quel lasso di tempo, avendo avuto a che fare soltanto con sei casi semplici di gastroenteriti e semplici fratture o ferite. Niente a che vedere con il politrauma precedente.

Henry ed Emma Swan.

Henry ed Emma Swan.

Per quanto la mia mente tentasse, in ogni modo possibile, di allontanare questo pensiero, l'immagine di loro due che parlano insieme irrompe prepotente nel mio conscio, pronta a tormentarmi e assillarmi, come se ricordarmi la sua priorità fosse nella lista di cose da risolvere.

In effetti, sapere che mio figlio fa vibrare le sue corde vocali per parlare con una persona che non sono io, è un problema da risolvere.

Quella giovane donna dai capelli color del grano, quella... sconosciuta, è arrivata a Henry stando in silenzio. E io, idiota, continuo a spendere soldi in sedute dallo psicoterapeuta. Il fatto di non sapere praticamente nulla su di lei mi spaventa molto ma, quando mi è venuta incontro nel mio tentativo di stabilire una connessione con lui, ho deciso di darle una chance. Mio figlio lo merita, e anche io.

Mi metto seduta sul divano, tenendo ancora gli occhi chiusi.

L'allarme del mio orologio da polso mi desta dalla pace. Sono le dodici, il mio turno è finito, posso rientrare a casa.

Il mio umore alla fine di un turno di lavoro è sempre rassegnato. Tornare a casa non è riposo per me. Ma oggi è diverso. Salvare la vita di quel bambino mi ha dato una carica nuova per affrontare la giornata, anche il mutismo di mio figlio.

Raccolgo lo zaino dal mio armadietto e mi infilo la giacca a vento. Marzo è stranamente caldo quest'anno, tanto che, raggiunta la macchina, decido di sfilare la giacca e di godermi il sole sulle braccia nude. Impormi un umore perlomeno decente mi stanca più del dovuto, così decido di fermarmi in un bar a prendere un caffè.

La cameriera, molto poco vestita, mi accoglie con un enorme sorriso. Lunghi capelli con svariate ciocche rosse ornano il suo viso. Mi saluta cordialmente quando esco, senza guardare di fronte a me.

Mi scontro con qualcuno.

Riconosco immediatamente i suoi capelli biondi. Mentre alza lo sguardo tenta di scusarsi e poi ripete il mio nome quasi in trance.

«Emma, salve, a quanto pare non sono io l'unica a seguirla, lei fa altrettanto con me».

Le sorrido. Anche questo incontro è da considerare positivo in questa giornata. Lei appare davvero confusa nel vedermi, poi capisco che il mio abbigliamento inconsueto l'ha stupita più dell'incontro casuale. Mi guarda intensamente negli occhi prima di arrossire. Ci sediamo a un tavolo, dopo un rapido ordine alla ragazza poco vestita del bar, che mi sembra di capire sia una sua amica.

Mentre lei addenta il suo trancio di pizza precedentemente ordinato, le racconto della nottata passata a occuparmi del bimbo che mi ha ricordato tanto Henry.

La conversazione è piacevole, lei sembra perennemente in imbarazzo e in più di una occasione sembra fissarmi più del dovuto. Ma parlare con lei mi dà pace. Anche parlare di Henry con lei è piacevole e non ansioso.

Poi, mentre mi alzo per andare per la mia strada, una voce molto acuta si insinua nella nostra conversazione salutando la mia interlocutrice. Alzo lo sguardo e un brivido percorre la mia schiena. Odio, odio puro leggo nei suoi occhi che punta dritti verso di me. Non voglio assolutamente assistere a tutto quell'astio per cui dopo aver gentilmente salutato Emma faccio per andarmene quando quella donna si rivolge a me in modo sgarbato. Emma, carica d'odio, le risponde per le rime e boom. Succede.

Una di quelle bombe che non ti aspetti esplodano e che, quando succede, fanno male.

La sconosciuta scaraventa il palmo della sua mano destra sul viso di Emma, colpendolo violentemente.

Il cuore accelera prepotentemente, l'adrenalina sale. Osservo il viso di Emma che, sconcertata, posa due dita sul suo labbro da cui inizia a uscire copioso del sangue. Mi avvicino, dopo aver afferrato dei fazzoletti con cui voglio tamponare la ferita, ma Emma non me lo permette.

I suoi occhi da verdazzurro diventano quasi neri. La pupilla ha quasi raggiunto la dimensione dell'iride, così da nasconderlo quasi totalmente. Dopo un breve, vano e sussurrato tentativo di scuse da parte della donna, Emma urla di andare via e di non farsi vedere mai più.

A quel punto e solo allora riesco ad avvicinarmi a lei e a tamponare la ferita. Sembra profonda ma sul labbro è difficile da capire prima di avere osservato attentamente, dato che è una zona del corpo molto vascolarizzata che sanguina abbondantemente anche per piccolissime ferite. Vorrei portarla al pronto soccorso ma lei si rifiuta, così decido di portarla a casa dove ho del materiale per medicarla.

Durante il viaggio è silenziosa e piange. Vorrei dirle qualcosa ma forse è bene che sia lei a rivolgersi a me di sua spontanea volontà. Le offro un fazzoletto per le lacrime, che continuano a scorrere sul suo viso, copiose e continue.

Non si accorge nemmeno del nostro arrivo a casa mia

Con lo scatto della serratura la pesante porta si apre.

«Entra pure, scusa se c'è qualcosa fuori posto ma tra Henry e il lavoro qualcosa mi sfugge».

Dico cercando di anticipare scarpe qua e là, quaderni e borse della piscina.

Non sentendo risposta, mi volto a guardarla.

«Hey Emma, stai tremando, hai freddo?».

La guardo negli occhi tentando di trovare una risposta, fino a che, alla fine, abbassa lo sguardo.

«Vai a sciacquarti il viso, io prendo quel che serve per medicarti, va bene?» sorrido con fare incoraggiante.

«Il bagno è la seconda porta di quel piccolo corridoio» le dico, sfiorandole la spalla per incitarla a proseguire.

Cammina lentamente, come se trasportasse un enorme macigno legato alle spalle.

Il suo sguardo è spento, ben diverso da quello che conosco e che vedo quando è in compagnia dei suoi cani o di Henry. Così, dopo aver preso garze e disinfettante e averli sistemati sul tavolo della cucina, la seguo.

«Hai bisogno di una mano?».

Mi guarda dallo specchio ma non mi risponde, mentre invece continua a strofinare violentemente il collo con il palmo delle sue mani. A quel punto intervengo, bloccandole il polso.

«Calmati ora, ci penso io».

Da un mobile dietro di noi, apro uno sportellino da cui estraggo un piccolo asciugamano. Ne inumidisco un angolo sotto l'acqua e dopo averla fatta voltare verso di me, pulisco tutto ciò che posso.

Ha smesso di piangere ma gli occhi sono ancora molto rossi e la sua espressione mi provoca una strana fitta al petto. Sono sinceramente dispiaciuta per avere scatenato indirettamente tutto quello. Noto che la ferita sanguina molto meno e glielo faccio presente.

«Ormai non sanguina quasi più, metterò solo due piccoli cerotti» tampono anche il resto del viso e le sistemo i capelli dietro le orecchie, lambendo lievemente il viso.

È solo a quel punto che lei riprende a parlare.

«Mi dispiace per la scena a cui hai dovuto assistere e a questo patetico pianto a cui non riesco a dare un freno» voce rauca, sembra pronta a scoppiare di nuovo a piangere.

Vorrei tanto stringerla tra le mie braccia, per ridarle un piccolo sorriso, quel sorriso che lei ha ridato al mio Henry. Mi sarei sentita in debito con lei per questo per il resto della mia vita probabilmente. Ma un abbraccio l'avrebbe fatta crollare ulteriormente forse, per cui decido di rimanere distaccata.

«Non preoccuparti, non hai una faccia molto diversa dalla mia qualche mese fa, sono abituata a certi disastri, non sei patetica, sei solo ferita» getto l'asciugamano nel cesto della biancheria.

«E non solo fisicamente. Ma sono certa che lo sia anche lei».

«Probabilmente sì» con una mano sulla spalla la incoraggio a uscire dal bagno e la faccio accomodare su una sedia in cucina.

Mi siedo di fronte a lei e, afferrato il mento con due dita, inizio l'attenta medicazione del labbro.

«Lo so, brucia un po', ma non ci metterò molto» le dico quando la sento ritrarsi.

Quando finalmente posiziono l'ultimo cerotto, le chiedo se riesce a distendere le labbra.

«Come sembra, tirano?».

«No va tutto bene, grazie».

Un altro sospiro. Ne ho contati almeno dieci da quando è entrata in casa con me. Il suo sguardo mi segue attento mentre prendo le lasagne dal frigo e le sistemo dentro il forno.

«Oggi lasagne, Henry sarà contento, le adora» dico come se rendere felice mio figlio fosse la cosa più naturale del mondo.

«Forse è il caso che vada, se Henry mi vede qui si spaventerà e non si fiderà più di me» la sento pronunciare queste parole mentre si alza in piedi e la fermo immediatamente. È visibilmente agitata, probabilmente con la pressione bassa e uno stato psico-fisico assolutamente poco adatto per un rientro a casa in solitario.

«Alt, ferma lì. Sei agitata, non ti lascio andare in queste condizioni, ti faccio una camomilla. Posso chiamare qualcuno per venirti a prendere?».

«Ma tu non hai fatto la notte in ospedale? Dove le trovi le energie?».

Poggio una tazza rossa e un cucchiaino sul tavolo.

«Ho un figlio che mi odia e un lavoro che amo ma stressante, le energie le trovo per forza, dormirò stanotte, oggi Henry ha nuoto e devo accompagnarlo».

Il pentolino sul fuoco inizia a bollire e, armata di presina, ne verso un po' nella tazza. Poi aggiungo il contenuto di una bustina solubile e inizio a mescolare.

Quando poso di nuovo lo sguardo su di lei, una mano si poggia sul suo petto.

«Ti fa male il petto?» le afferro il polso pronta a tastare le caratteristiche del battito. Tachicardia. Tutto nella norma.

«Sei tachicardica, ma il polso è debole, devi avere la pressione bassa, bevi un po' di questa e poi chiamiamo qualcuno per riportarti a casa. Ti riporterei io ma Henry, come hai detto tu, sarà qui a momenti».

Sorride prima di afferrare la tazza.

«Chiamo mia madre magari» si guarda intorno per trovare la borsa.

«La borsa credo sia in macchina, ti do il telefono fisso, tu bevi quella!» urlo mentre mi sposto in salotto.

«È calda» dice mentre sorseggia.

«Shhh, bevi» le scosto con una mano i capelli all'indietro, incapace di trattenere ancora le mani.

Le faccio cenno di chiamare la madre. Così, ubbidisce.

«Mamma sono io».

«Oh ciao tesoro, come stai?».

Il volume alto del ricevitore mi permette di sentire la conversazione.

«Mamma puoi venirmi a prendere? Sono nella zona residenziale Garden, al numero...» sussurro 108

«108 mamma, numero 108».

«Tesoro hai una voce strana, cos'è successo? Mi fai preoccupare».

«Mamma per favore tu vieni qui che sono senza macchina, poi ti spiego tutto ok? Per favore».

«D'accordo, d'accordo, dammi il tempo di mettermi in macchina, arrivo».

«Grazie mamma, ciao».

Chiude la chiamata, infastidita.

«Le mamme si preoccupano sempre» ironizzo.

«La mia è decisamente esagerata».

«Una mamma non esagera mai, lo sente» faccio spallucce prima di estrarre la lasagna dal forno. La cucina improvvisamente diventa satura di un profumo incredibilmente buono.

«Non sei riuscita a riconquistarlo nemmeno con questa bontà?» chiede.

«No... lui la adora ma non mi rivolge la parola nemmeno con questa. Avrò pazienza, prima o poi tornerà da me» poggio le presine sul ripiano della cucina.

Dieci minuti dopo sento il campanello. Non può essere già sua madre, per cui sicuramente dietro la porta c'è Henry. Emma è terrorizzata e anche io, ma necessariamente devo andare ad aprire.

Al contrario del previsto, la presenza di Emma a casa nostra non è traumatica. Henry la accoglie con il più bello dei sorrisi. Io li seguo da lontano, constatando che Emma parla e Henry annuisce o indica le cose con le mani per farsi capire. Quanto avrei voluto che si facesse capire anche con me.

L'arrivo della madre di Emma invece, mi rallegra. Essere definita la nuova fiamma della figlia è la cosa più divertente che mi sia mai stata detta e la risata gutturale e visibilmente nervosa di Emma mi suggerisce come avrebbe volentieri fatto fuori la madre prima di scappare a gambe levate senza farsi più vedere da me. Tutto questo la rende particolarmente dolce. Le lascio il mio numero per avere informazioni sulla ferita del labbro e, dopo alcune raccomandazioni, escono di casa.

Henry è seduto e aspetta in silenzio che metta sul suo piatto l'abbondante porzione di lasagna.

Non ha lo sguardo cupo. Gli occhi brillano nonostante la mia presenza nella stanza.

«Sembri contento, ti ha fatto piacere che Emma fosse qui?».

Si irrigidisce immediatamente.

Ok no, forse ho corso troppo.

Fare direttamente a lui questa domanda, domanda alla quale sicuramente avrebbe voluto rispondere, non è stato un gesto saggio, per cui dopo avergli chiesto scusa prendo due porzioni di lasagna, e iniziamo a mangiare. Come al solito inizio a raccontargli la mia nottata, come faccio tutte le volte. Anche se lui non risponde, almeno ho l'illusione che tra noi ci sia un rapporto normale.

Accompagno Henry in piscina, sistemo la cucina, stiro dei panni prima che si possano accumulare e preparo la cena. Sono davvero sfinita, ma quello che mi impedisce di dormire e rilassarmi è il desiderio di rivedere Henry con quello sguardo felice.

In realtà avrei anche voluto che Emma mi scrivesse come stava. Fisicamente e anche psicologicamente. Attualmente quella ragazza è ciò che più si avvicina alla figura di un'amica, una confidente, e parlarle mi tranquillizza.

Ma sono ormai le 7 pm e dubito fortemente che si farà sentire.

E' anche prevedibile, quando una persona che amavi ti ferisce così, diventa faticoso perfino bere dell'acqua, figuriamoci scrivere a una sconosciuta o quasi. Io ne so qualcosa.

Mentre Henry è in bagno a farsi la doccia, vado alla ricerca del cellulare che sembra essere stato inghiottito nel vuoto spazio temporale. Faccio il giro della casa, ma è solo quando apro il frigo che lo trovo in mezzo alla verdura.

«O mio Dio» esclamo da sola. Lo afferro e cerco di rianimarlo come meglio posso. Fortunatamente è ancora acceso. Vedo una chiamata persa e un messaggio, ma prima di leggere cerco di capire se il freddo possa aver fatto dei danni. I tasti funzionano, la suoneria pure.

Apro il messaggio.

- Ciao Regina sono Emma. Ho provato a chiamarti poco fa ma evidentemente eri impegnata con Henry. Ho pensato che con una donna adulta e una madre fosse più opportuno una telefonata piuttosto dello stupido messaggio su whatsapp e volevo solo dirti che questo è il mio numero e che il labbro è ok anche se tira un pochino. Grazie ancora per oggi e scusa per esserti trovata in mezzo a questo casino. Henry come sta? -.

Un sorriso incontrollato spunta sul mio viso. Otto anni di differenza non sono poi tanti in amicizia.

È il fatto di essere una madre a farti sembrare in qualche modo matura e adulta rispetto ad una giovane donna.

Memorizzo subito il numero, e prima di rispondere apparecchio la tavola.

- Cara Emma, cominciavo a pensare che ti fossi addormentata e che ti saresti risvegliata domani mattina. Il che ti avrebbe fatto più che bene, ma immagino non abbia la testa libera per dormire. Sono contenta che il labbro vada bene. Henry si sta facendo la doccia, era raggiante anche quando te ne sei andata, poi gli ho fatto una domanda ed è tornato in lui. Il solito comunque -. Invio questa prima parte. Sto per scriverle di smetterla di scusarsi quando Henry irrompe in cucina, così, poggio il telefono.

La nostra cena silenziosa si conclude in fretta. Ma oggi sopportarlo è meno faticoso del solito, un po' per la nottata soddisfacente, un po' per quella dolce ragazza che probabilmente sta salvando Henry, ma anche me.

Quarantotto ore in piedi sono davvero lunghe e faticose. Per cui dopo aver sistemato la cucina, crollo sul divano accanto alla poltrona di Henry, intento a guardare un documentario sui leoni.

 

Un rumore mi spaventa.

Intorno a me è buio ma dei lampi illuminano il salotto. Non ho idea di che ora sia ma deve essere notte fonda. Sulle mie spalle è posata la mia giacca, ma io non ho messo nulla addosso prima di sedermi sul divano, per cui ipotizzo sul buon cuore di Henry, anche se probabilmente è più facile che un fantasma sia arrivato fino a casa mia a coprirmi. L'orologio digitale segna le 3 am.

Mi metto seduta in ascolto del forte vento... sembra proprio un temporale.

Tra uno sbadiglio e l'altro, decido di andare in camera e, barcollante, raggiungo le scale per il piano superiore. Ma la lucina rossa del cellulare attira la mia attenzione, proprio sul mobile accanto alla lavanderia.

Due messaggi di Emma. Non ho davvero le forze per stare in piedi per cui con le ultime forze rimaste mi trascino in camera, tolgo maglia e pantalone e infilo velocemente il pigiama.

Poi mi accingo a leggere i messaggi.

- Ahahahhahahaha mi sarebbe tanto piaciuto crollare fino a domattina ma il terzo grado di mia madre è meglio affrontarlo subito così da dimenticare al più presto l'accaduto. Per fortuna non è stata seccante come al solito, anzi ha compreso e ha ringraziato che ci fossi tu. Non ha nemmeno chiesto chi fossi, il che per una ficcanaso come lei è un miracolo. Mi dispiace che Henry ti abbia ferito ancora, spero di avere dei buoni risultati su questo lavorandoci! Anche a cena mangiate lasagna? Aveva un odorino delizioso -

In effetti la madre di Emma mi aveva dato la sensazione di essere un pochino invadente, ma in senso buono. Non come la mia di madre, pronta a puntare il dito e giudicare.

- Credo che ora quella che è crollata sia tu, dopo quasi 48 ore era il minimo. Buonanotte e buongiorno per domattina. Puoi dire a Henry che ci vediamo dopodomani al parco? Domani non me la sento di uscire... -

Niente Emma per Henry oggi, sicuramente ci rimarrà male, ma è un bene per lei che rimanga a casa almeno per oggi.

Gli occhi sono davvero troppo stanchi per continuare quella conversazione... le dita iniziano a pigiare stancamente sui tasti senza nemmeno capire cosa sto scrivendo... lascio il messaggio a metà.

 

 

Note dell'autrice: forse la Regina Mills che vi propongo non è propriamente uguale a quella del telefilm, per lo meno nelle fasi iniziali. L'ho resa più simile a come è ora...desiderosa di fare passi avanti verso le persone che ama. E lei ama Henry più che mai. E ha estremamente bisogno di Emma, dei suoi messaggi e di come la fa sentire “normale” nonostante tutto.

Grazie naturalmente a Susan e Nadia per la correzione! :)

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Capitolo 7
*** Sensi di colpa ***


Mi ha umiliata ancora una volta.

L'ennesima. Mi ha fatta sentire sbagliata come solo lei riesce a fare, ma so che questa sarà l'ultima, a costo di chiedere un ordine restrittivo alla polizia.

Rivedo il suo sguardo cattivo e geloso, come al solito per motivi inconsistenti e ancora peggio, mi ha fatto sentire indifesa di fronte ad altre persone. Mi ha trasformata in una donna succube della propria ex di fronte alla madre di Henry. Come potevo pensare di poter essere un punto di riferimento per lui se non ero in grado di farmi rispettare?

Fisso un punto nel vuoto oltre il finestrino, ignara della strada che quella donna sta percorrendo per portarmi a casa sua. Ho freddo, dei brividi scuotenti percorrono il mio corpo, ma è più una reazione di paura e ansia. E mi bruciano gli occhi per colpa delle lacrime che non hanno voluto saperne di rimanere al loro posto. Ma non ho nemmeno la forza per asciugarmi il viso, è tutto troppo... andava ben oltre i miei più orridi pensieri su quello che mai sarei voluta diventare: una donna debole incapace di difendersi da sola.

Tiro su col naso e un fazzoletto compare di fronte al mio viso. Regina me lo sta offrendo. Lo afferro per asciugare gli occhi. Il labbro continua a pulsare ma dal fazzoletto con cui lo tengo premuto non sembra uscire ancora sangue.

Chiudo gli occhi facendo scendere due lacrime sulle gote fredde e bagnate.

Delle immagini affollano la mia mente. Dalla prima volta che l'avevo incontrata, alla prima scenata di gelosia, al primo scontro su obiettivi di vita totalmente diversi dai miei che non hanno fatto altro che farci perdere pezzi di noi stesse, nel tentativo di sopravvivere a quella disfatta che è stata la nostra storia. Ho amato Elisabeth come mai prima avevo amato qualcuno nella mia vita, ma la mia indipendenza si scontrava troppo spesso con la sua necessità di tessere progetti per il futuro, un futuro dove io ero indispensabile nella sua vita, ero aria, ossigeno, speranza e certezza di felicità. Ho tentato di farle cambiare idea almeno quanto ho tentato di andare incontro alle sue richieste, ma ogni volta che facevo qualcosa per accontentarla una parte di me si sentiva soffocare in un modo che mi aveva fatto odiare lei, il nostro rapporto e l'amore in generale. Forse non ero adatta a stare con qualcuno, forse dovevo vivere con i cani e due pesci in mezzo al tavolo per non ferire me o altre persone. E le condizioni del mio viso mi suggeriscono che l'unico modo per evitare il viso ammaccato è tenere lontano i sentimenti dalla mia vita. Il più possibile.

Eppure è stato così facile innamorarsi di lei e del suo bisogno di affetto, del suo bisogno incondizionato di me. I suoi occhi e il suo sorriso mi hanno stregata, avrei catalogato il suo sorriso sicuramente il più bello che avessi mai visto e che avrei incrociato nella vita. Non è la sua bellezza spropositata, i capelli biondi o gli occhi blu, che di per sé non rendono una donna bella o affascinante, ma se quegli occhi brillano quando sentono la mia voce allora sì che diventano speciali. E lei era così.

Ma tutto questo non è bastato. L'amore, la pazienza... mi hanno fatta sentire indifesa di fronte alla sua sicurezza. Mi hanno devastata e resa insicura come non lo sono mai stata. Paradossalmente la sua pazienza, il suo amore incondizionato mi hanno distrutta invece di salvarmi.

Non mi accorgo nemmeno che la macchina si è fermata fino a che la portiera non si apre e Regina mi tende la mano per aiutarmi a scendere.

«Vieni, siamo arrivate» mi dice tranquilla.

Con le scarpe pesanti di pensieri e sensazioni che non so come mandare via, mi trascino dietro di lei, fino alla porta d'ingresso. Un pesante portone bianco stava lì, sotto un porticato colmo di rose rosse. L'odore è inebriante.

Esordisce scusandosi per il disordine.

Mi guardo intorno. La casa è immacolata. Non so cosa lei intenda con la parola disordine ma di certo non si addice a quella casa.

Attenta e premurosa, mi indica il bagno per sciacquarmi il viso.

Occhi scuri come la notte si insinuano nei miei come a volermi studiare.

Sorride senza stancarsi mai e il suo sorriso mi fa una tale tenerezza... Ma ho solo voglia di piangere. Ancora e ancora e ancora.

Diligente, mi dirigo verso il punto da lei indicatomi. Afferro la maniglia e la abbasso lentamente. Non avevo mai visto niente di più pulito e ordinato.

Di certo era l'opposto del mio riflesso allo specchio, peggio di quanto potessi immaginare. I capelli arruffati circondano un viso pallido e rigato di lacrime e sotto il mento vi era del sangue ormai secco. Gli occhi rossi fanno solo da cornice a quel disastro. Con delicatezza allontano il fazzoletto con cui fino a quel momento avevo tamponato il labbro. Un piccolo rivolo di sangue ancora scende circondato da sangue rappreso. Apro il rubinetto dell'acqua fredda, ci infilo sotto le mani e la avvicino al viso, facendo attenzione a non sporcare nulla che non fosse il lavandino.

«Hai bisogno di una mano?» chiede una voce dietro di me.

La osservo dallo specchio mentre con rabbia strofino la mano sul collo per togliere il sangue incrostato. Lei mi blocca il polso.

«Calmati ora, ci penso io».

Ha un modo di fare assolutamente calmo e controllato. Mi tratta come se mi conoscesse da sempre e questo non fa altro che mandarmi in confusione. Si volta e apre uno sportellino da cui estrae un piccolo asciugamano. Ne inumidisce un angolo sotto l'acqua e dopo avermi fatta voltare verso di lei, pulisce tutto ciò che io mi sarei voluta togliere insieme alla pelle: rabbia, tristezza, frustrazione.

«Ormai non sanguina quasi più, metterò solo due piccoli cerotti» con la parte asciutta dell'asciugamano tampona il resto del viso, dopo avermi sistemato i capelli dietro le orecchie. Quel gesto così semplice eppure così familiare e innocente fa tornare le lacrime sui miei occhi.

«Mi dispiace per la scena a cui hai dovuto assistere e a questo patetico pianto a cui non riesco a dare un freno» dico d'un tratto, con la voce rotta dal pianto.

«Non preoccuparti, non hai una faccia molto diversa dalla mia qualche mese fa, sono abituata a certi disastri, non sei patetica, sei solo ferita» getta l'asciugamano nel cesto della biancheria.

«E non solo fisicamente. Ma sono certa che lo sia anche lei».

Faccio un sospiro.

«Probabilmente sì» con una mano sulla spalla mi incoraggia a uscire dal bagno e mi fa accomodare su una sedia in cucina. Piccoli cerotti e delle garze con disinfettante erano poggiate su un recipiente metallico di forma ovalare.

Si siede di fronte a me. Afferra il mio mento con due dita e con l'altra mano pulisce il labbro col disinfettante. Brucia e mi ritraggo un po', involontariamente.

«Lo so, brucia un po', ma non ci metterò molto».

Le sue dita viaggiano esperte tra garze e cerotti e quando l'ultimo è attaccato al mio viso, indugiano a volerlo lasciare e si ritraggono in una piccola carezza di fianco al mento.

Ma sono più che certa che il tutto sia frutto della mia immaginazione e del mio shock.

«Come sembra, tirano?» chiede preoccupata.

Tiro le labbra in un finto sorriso per valutare la mobilità delle labbra col cerotto sopra. Tutto ok, non è così fastidioso.

«No, va tutto bene, grazie» non so davvero che altro dire.

Sospiro pesantemente, ancora. Ho perso il conto di quante volte ho sospirato ma sembra che solo in quel modo riesca a fare entrare nei polmoni l'aria necessaria per sopravvivere.

«É la prima volta che succede?».

Scuoto la testa, aprire la bocca e parlare mi sembra una cosa così faticosa in quel momento.

Lei si alza e riordina il tavolo prima di mettere una teglia, che aveva estratto dal frigo, dentro il forno.

«Oggi lasagne, Henry sarà contento, le adora».

«Forse è il caso che vada, se Henry mi vede qui si spaventerà e non si fiderà più di me» faccio per alzarmi ma mi blocca.

«Alt, ferma lì. Sei agitata, non ti lascio andare in queste condizioni, ti faccio una camomilla. Posso chiamare qualcuno per venirti a prendere?».

Vaga avanti e indietro per la cucina, senza avere un minimo di cedimento fisico.

«Ma tu non hai fatto la notte in ospedale? Dove le trovi le energie?».

Poggia una tazza rossa e un cucchiaino sul tavolo.

«Ho un figlio che mi odia e un lavoro che amo ma stressante, le energie le trovo per forza, dormirò stanotte, oggi Henry ha lezione di nuoto e devo accompagnarlo».

Il pentolino sul fuoco inizia a bollire e armata di presina, ne versa un po' nella tazza. Poi aggiunge il contenuto di una bustina solubile e inizia a mescolare.

Sento il cuore battere all'impazzata e una mano si sposta naturalmente sul mio petto.

«Ti fa male il petto?» mi afferra il polso per tastarlo. Si ferma per qualche secondo mentre con attenzione fissa l'orologio sul suo polso.

«Sei tachicardica, ma il polso è debole, devi avere la pressione sotto i piedi, bevi un po' di questa e poi chiamiamo qualcuno per riportarti a casa. Ti riporterei io ma Henry, come hai detto tu, sarà qui a momenti».

Sorrido prima di afferrare la tazza.

«Chiamo mia madre magari» cerco la mia borsa ma mi accorgo di non averla.

«La borsa credo sia in macchina, ti do il telefono fisso, tu bevi quella!» mi urla mentre si sposta in un'altra stanza. Poco dopo ricompare con un cordless che poggia sul tavolo.

«È calda» dico mentre sorseggio.

«Shhh, bevi» ancora una volta sposta i miei capelli indietro con una mano e un brivido percorre la mia schiena.

Prendo il telefono e compongo il numero di mia madre.

«Pronto?».

«Mamma sono io».

«Oh ciao tesoro, come stai?».

«Mamma puoi venirmi a prendere? Sono nella zona residenziale Garden, al numero...» guardo Regina che mi sussurra 108 prima di occuparsi della lasagna nel forno.

«108 mamma, numero 108».

«Tesoro hai una voce strana, cos'è successo? Mi fai preoccupare».

È insopportabile quando si mette a fare domande fuori luogo.

«Mamma per favore tu vieni qui che sono senza macchina, poi ti spiego tutto, ok? Per favore».

«D'accordo, d'accordo, dammi il tempo di mettermi in macchina, arrivo».

«Grazie mamma, ciao».

Chiudo la chiamata.

«Le mamme si preoccupano sempre» mi dice in modo ironico.

«La mia è decisamente esagerata».

«Una mamma non esagera mai, lo sente» fa spallucce prima di estrarre la lasagna dal forno.

«Non sei riuscita a riconquistarlo nemmeno con questa bontà?» chiedo senza pensarci.

«No... lui la adora ma non mi rivolge la parola nemmeno con questa. Avrò pazienza, prima o poi tornerà da me» poggia le presine sul ripiano della cucina.

Poco dopo squilla il campanello.

È Henry.

Panico nei miei occhi. E anche nei suoi.

Mi alzo di scatto.

«Ok tu apri la porta poi ci penso io a spiegargli tutto, ok? Non incasinerò anche questo, fidati di me, per favore» con tono convincente, mi rivolgo a lei, sperando di tranquillizzarla e sperando di riuscire a fare quello che le ho detto.

A passi lenti si sposta verso l'ingresso, e io la seguo, facendo in modo che mi veda subito, entrando in casa.

«Ciao Henry» dice Regina dopo avere aperto la porta.

Lui, sguardo basso, viso triste, attraversa la soglia senza dire una parola. Poggia lo zainetto sulla sedia all'ingresso prima che Regina, arresa, richiuda la porta dietro di lui.

«Ciao Henry» cerco di sorridere. Lentamente alza il viso e quello che vedo è il ringraziamento più bello che potesse darmi. Un sorriso che mai ha avuto il coraggio di farmi, spunta sul suo volto, e piano si avvicina a me. Sorrido di rimando.

Torna serio quando lo sguardo cade sul cerotto sul labbro. Lo indica col dito.

«Sto bene, Henry, tranquillo. Stamattina ho incontrato la mia ex fidanzata, te la ricordi? Ne avevamo parlato».

Aggrotta la fronte per concentrarsi sul racconto.

«Si è arrabbiata per delle cose in sospeso e mi ha dato uno schiaffo. E mi è uscito un po' di sangue e tua madre era lì per caso, tornava da lavoro, ha visto la scena e mi ha portato qui per medicarmi, è stata molto gentile» gli tocco dolcemente i capelli e lui non si tira indietro. Mi volto verso sua madre che ascolta in religioso silenzio il mio monologo.

«Tu stai bene? É andata bene a scuola?».

Sorride mentre fa cenno di sì con la testa.

«Bene... ora vai a mangiare, tua madre ha fatto le lasagne e c'è un odore incredibilmente buono. La mia, di madre, sta venendo a prendermi, noi ci vediamo domani, vero?».

Il suo viso diventa triste, ma non potevo stare ancora lì dentro. Lo sguardo di Regina mentre avevo una conversazione civile con suo figlio mi fa male e io non riesco più a sopportarlo.

«Andrà tutto bene Henry, domani ne parliamo, ora vai a mangiare» lo spingo delicatamente verso la cucina prima di salutarlo con un gesto della mano.

Lo sguardo ricade su Regina.

«Vorrei tanto sapere come riesci a comunicare con lui» sguardo afflitto e rassegnato, si avvia alla porta. In quel momento, suona il campanello.

«Dev'essere mia madre» dico andando verso la porta.

Regina afferra la maniglia e apre.

Accanto a lei, fisso mia madre sul cui volto era disegnata un'espressione decisamente preoccupata, accentuata dalla vista del cerotto sul mio viso.

«Emma, tesoro» mi abbraccia stretta e da sotto la giacca sento il suo cuore battere velocemente.

«Mamma calmati, sto bene» cerco di liberarmi dalla stretta ma non ne vuole sapere. Dietro di me Regina osserva mia madre comprensiva.

«Mamma per favore, non siamo sole» solo nell'udire quelle parole si stacca da me e si accorge della presenza di Regina.

«Mamma lei è Regina, Regina, lei è mia madre».

Gentilmente Regina allunga la mano verso di lei per stringergliela. Mia madre fa lo stesso.

«Molto lieta, mi chiamo Mary, è la nuova fidanzata di mia figlia per caso?».

Strabuzzo gli occhi imbarazzata, come mai lo sono stata in vita mia.

«Dio, mamma, ma non riesci a stare zitta nemmeno una volta?» sorride compiaciuta di fronte a Regina, che intanto ha iniziato a sorridere.

«Oh per ora direi decisamente di no, le ho soltanto sistemato il taglio sul labbro».

Ok ok ok.

Mia madre mi fa fare la più grossa figuraccia di sempre, questo è sicuro.

Ma Regina che le risponde a tono, questo no, non credo di riuscire a sopportarlo, non dopo la mattinata appena trascorsa.

Una risatina nervosa fuoriesce dalla mia bocca come un suono gutturale e entrambe mi guardano incuriosite. Poi l'attenzione di mia madre si sposta in fondo alla stanza, all'ingresso della cucina. Henry fissa la scena, fermo.

«E quell'ometto chi è?».

«Quello è Henry, mio figlio» risponde subito Regina, orgogliosa.

«Ciao Henry, sono Mary, piacere di conoscerti».

Nell'udire quelle parole Henry mi fissa un attimo, come se aspettasse la mia approvazione per rispondere al saluto. Al mio segno di incoraggiamento alza la mano destra e la muove come per dire ciao, poi sparisce di nuovo dietro la porta.

«È un po' timido» aggiunge Regina subito dopo.

«Oh a quell'età lo sono tutti, cara» la mano di mia madre si posa sulla mia gota, carezzando il cerotto.

«Non so perché si sia fatta male ma la ringrazio per essersi presa cura di mia figlia».

«Oh bè, sono un medico, direi che era primariamente un mio dovere oltre che un piacere».

Silenzio imbarazzante.

«Bè credo sia il caso di andare mamma, Henry deve mangiare, dopo ha lezione di nuoto» indietreggio verso la porta trascinando dietro mia madre.

«Oh certo, arrivederci allora, alla prossima e grazie davvero. Ti aspetto in macchina tesoro».

Oltrepassata la soglia Regina mi ferma afferrandomi il polso.

«Posso lasciarti il mio numero? Voglio sapere come va la ferita sul labbro» scrive qualcosa su un post-it sistemato sul tavolino accanto all'ingresso e me lo porge.

Lo prendo e sorrido.

«Non bagnare la ferita per almeno due giorni» aggiunge socchiudendo la porta.

«Grazie ancora per oggi e scusa per tutto».

«Smettila di scusarti, fammi sapere!».

«Certo, contaci, ciao!».

Mi allontano.

Ora, con mia madre, sarebbe iniziato il vero inferno.

«Emma, mi vuoi dire cos'è successo per favore?».

Una volta a casa, mia madre continua a insistere per conoscere l'accaduto ma davvero in questo momento l'ultima cosa di cui ho voglia è sentire la sua predica su come avrei dovuto allontanare Elisabeth dalla mia vita molto tempo prima. Prima che le cose degenerassero così.

I gradini che portano ai piani superiori sembrano più ripidi del solito e faccio fatica a tenere un passo tanto rapido da permettermi di raggiungere la mia camera il più velocemente possibile. Ma lei, con uno scatto, mi afferra il polso per farmi voltare. E lì, sento di nuovo gli occhi bruciare e le lacrime offuscarmi la vista, richiamate dal punto in cui con difficoltà le avevo esiliate, almeno per qualche ora.

«Mamma per favore, voglio solo dormire qualche ora, mi concedi almeno questo? Solo qualche ora».

Come avrei reagito, da madre, di fronte a un mio potenziale figlio in lacrime che mi chiedeva solo di lasciarlo in pace?

Ormai arresa e ferita, abbandona le braccia lungo i suoi fianchi, incapace di muovere anche un solo passo verso di me. Le mie lacrime si trasformano in singhiozzi. Sono veramente stanca di combattere quella guerra con lei.

Immagini confuse e sensazioni contrastanti disturbano le poche ore di sonno. Ma in tutti i momenti in cui la realtà sembra risucchiarmi, le carezze di mia madre mi fanno tornare nel limbo dei miei sogni. Non so quanto questo possa essere positivo, ma di certo in questo momento l'unica cosa di cui ho bisogno è silenzio, affetto e comprensione. E non c'è miglior comprensione del silenzio di una madre che sta lì ad abbracciarti mentre dormi.

Ancora con gli occhi chiusi, sento un dolce e calmo respiro accanto a me. So chi è, e lui sa che sono sveglia ma non vuole comunque disturbarmi.

«Ciao piccolino» sussurro.

«Ciao sorellona» un piccolo bacetto umido si posa sul mio naso, e allora apro gli occhi.

Ci guardiamo intensamente per qualche secondo, poi si avvicina e poggia la testa sul mio petto. Lo stringo a me.

Neal è arrivato quando ormai i miei genitori pensavano che non avrebbero avuto altri figli, e credevo fosse davvero un peccato che una coppia innamorata come loro non potesse coccolarne un altro come avevano fatto con me. Poi, una mattina di maggio, era nato lui, quando io avevo 18 anni, e mai avrei potuto pensare che un fratellino potesse riempirmi la vita come aveva fatto lui. C'era solo una cosa negativa: l'enorme differenza di età tra noi ovviamente poteva confonderlo, vedendo anche me come una madre.

Un po' per questo, un po' perché volevo avere un po' di indipendenza, due anni dopo la sua nascita andai via, ma andavo a trovarlo due o tre volte alla settimana. Così aveva imparato che io ero la sorellona che lo portava in giro con i cani, a mangiare il gelato e a fare tutte quelle cose che ai nostri genitori non piaceva fare. In poche parole lo viziavo, con i giusti limiti ovviamente.

«Come ti senti, Emma?».

«Ora che mi stai abbracciando va molto molto meglio» ed è vero. Il suo calore mi ha assolutamente calmata. Alza la testolina verso di me e col ditino indica il mio labbro.

«Ti fa male?» chiede.

«Ora no pulcino, ora no» lo bacio sulla fronte.

«Andiamo a fare merenda? Ho fame» un sorriso spunta inevitabilmente sul mio viso, e poi anche sul suo. Somiglia a nostra madre in una maniera impressionante con quegli occhi grandi color nocciola.

«Credo sia una buona idea, intanto vai dalla mamma, io mi lavo il viso e arrivo, ok?».

«Ok» salta giù dal letto con un balzo e sparisce dietro la porta.

Allargo le braccia sul letto. Il labbro mi fa male eccome, lo sento pulsare. Sposto il plaid con cui mia madre mi ha coperto e mi metto seduta. Mal di testa, tachicardia, occhi in fiamme, sembra che sia stata appena schiacciata da un camion. Mi alzo titubante e, posizionata la coperta sulle spalle, mi dirigo verso il bagno dove assisto a un pessimo spettacolo. Non mi fermo. Sciacquo il viso avendo cura di non bagnare il cerotto, poi percorro lentamente le scale e vado in cucina dove trovo Neal e mia madre alle prese con la nutella.

«Ben svegliata tesoro, stai meglio?» chiede mia madre mentre cerca di pulire la bocca di Neal completamente sporca di cioccolato.

«Diciamo che è tanto se cammino, ho un mal di testa terrificante». Mi accascio sul tavolo e osservo Neal dimenarsi.

«Vuoi stare fermo? Non so come abbia fatto a sporcarti così, guarda, ne hai anche sulle orecchie, ora me le mangio!» dice mia madre avvicinandosi all'orecchio di Neal che getta un urlo degno di un film horror e inizia a correre intorno al bancone della cucina con mia madre che lo insegue divertita. Alla fine si ritrova in un angolo, alza le mani in segno di resa.

«Basta, basta mi arrendo! Però non mangiarmi le orecchie!» ha lo sguardo davvero spaventato.

Mia madre lo guarda dall'alto e incrocia le braccia al petto.

«Vedremo, solo se tornerai dal bagno pulito e splendente come prima, fila!» gli intima indicando la porta del bagno. Lui, ormai arreso, obbedisce.

Si volta verso di me.

«Ho preparato una tisana, la vuoi?» Chiede passandomi una mano sulla schiena.

Annuisco.

Di fronte a me posiziona due tazze, con rispettivo filtro della tisana, e la teiera con l'acqua calda. Mi si siede accanto e le riempie.

Raddrizzo la schiena poi inizio a parlare.

«Mi aveva chiesto di vederci per parlare, come al solito. Le ho detto di sì, e da Ruby ho incontrato per caso quella donna, ma lei è un discorso a parte insomma. Elisabeth mi ha visto parlare con lei e ha dato di matto, mi ha dato uno schiaffo e avendo un anello, mi è uscito un po' di sangue ma non è quello il punto. Mi ha umiliata di fronte a tutti per qualcosa che non ho fatto, non ho mai fatto nulla di quello che ha detto, non aveva motivo per essere gelosa, ma lei è gelosa. Le ho detto di sparire dalla mia vita, non credo si farà più viva».

Per la prima volta nella sua vita non mi ha interrotta. Mi ha lasciato parlare dall'inizio alla fine, e non ha nemmeno cambiato di espressione alla parola “schiaffo”. Sempre silenziosa , toglie i filtri dalle tazze e mette un cucchiaino di zucchero in ognuna di loro.

«Mamma?» sono perplessa.

«Bevi, amore, che ti fa bene, dopo ne parliamo».

Aggrotto la fronte incredula. Quella non è mia madre. Afferro la tazza e bevo un sorso. In quel momento Neal torna e, con un sorriso splendente, si posiziona di fronte a nostra madre. Si è bagnato completamente la felpina ma almeno non c'è più traccia di cioccolato.

«Amore mio, ti ho insegnato che per far la doccia devi togliere i vestiti, vero?» chiede ironica.

«Sì, lo so» dice lui continuando a sorridere.

«E allora perché hai la maglia completamente bagnata?».

Abbassa lo sguardo verso di sé.

«Ops» alza le spalle.

«Ops, lui dice ops, capito? Vieni con me che ti cambio» si alza e, afferratolo per le spalle, lo guida fino alle scale, verso la sua camera.

Quanto è vero che quel bambino riempie la casa, senza di lui è un mortorio.

Sorseggio ancora la tisana alla cannella ripensando alla mattinata appena trascorsa. Lo sguardo furioso di Elisabeth e quello preoccupato di Regina. Povera Regina, che scena patetica. Una donna adulta con un figlio che si ritrova a essere il terzo incomodo di una ex coppia, devo assolutamente chiederle scusa. Ripensandoci mi ha dato il suo numero di telefono, dopo le avrei mandato un messaggio. Anzi no, l'avrei chiamata, è una donna adulta, dubito fortemente che mandi sms.

Con la tazza fumante mi sistemo sul divanetto accanto alla tv, in attesa che la peste e nostra madre tornino in cucina.

Voglio smettere di pensarci ma le immagini di questa mattina scorrono nella mia testa come una pellicola impazzita. Lo squillo di un cellulare per fortuna le interrompe. È il mio telefono, solo che non ricordo dove ho messo la borsa. La trovo sulle scale, sul primo gradino, ma quando la raggiungo ormai il telefono ha smesso di squillare. Meglio così, non ho voglia di parlare con nessuno.

La chiamata persa è di Ruby. Non ho decisamente voglia di parlare neanche con lei. Accendo così la connessione dati e ricevo un numero infinito di messaggi tanto che mi viene la nausea. La ristacco immediatamente e inizio a leggerli. Due sono di lavoro, avrei risposto più tardi, quattro erano di Ruby che voleva sapere come stessi, avrei risposto a breve. Uno del vicino di casa (è arrivato il momento di bloccarlo). E un altro di Elisabeth. Che stranamente non ha più la foto del profilo. Leggo.

- Mi dispiace davvero tanto per quello che è successo stamattina. Non voglio che mi perdoni, né che capisca, volevo solo scusarmi immensamente e scusarmi anche con la donna che era con te. Appena mi hai mandata via sono corsa dal mio psichiatra e sto per prendere un aereo, me ne vado in Europa per un po'. Cioè, non sto per prenderlo ora ma insomma, partirò a giorni. Voglio dimenticare te e anche tutto il male che ci siamo fatte, e voglio tornare a essere una persona normale. Spero che tu possa stare bene e grazie per avermi sopportata nella mia pazzia. Ti blocco qui e cancello il tuo numero così nei miei momenti di pazzia non mi verrà voglia di scriverti. Nonostante ti ami alla follia non ho mai imparato il tuo numero a memoria, non ho mai capito perché. Buona fortuna. -

Non credo ai miei occhi. Si sta allontanando da me di sua spontanea volontà. Vuole andare avanti da sola. Non so se essere felice o triste per la chiusura definitiva di quel lungo e triste capitolo della nostra vita. Elisabeth è stata aria pura a suo tempo. In un certo senso mi ha salvata... e non avevo mai pensato di doverle dire addio definitivamente. Per questo ero sempre stata accanto a lei quando stava male, anche se il motivo ero io.

Ora quel messaggio mi ha lasciato un senso di vuoto. E le lacrime tornano a bagnare il mio viso. Non è una reazione coerente con quello che voglio davvero, ovvero staccarmi da lei, ma tra il desiderio di qualcosa e la sua realizzazione spesso si crea un abisso di paure che non si vogliono né attraversare, né superare.

Mi rifugio in bagno a piangere, non voglio che Neal mi veda in quello stato. Mi accovaccio tra il lavandino e la doccia, con le ginocchia al petto e il cellulare in mano, mentre scorro e rileggo senza tregua l'ultimo suo sms. Le voci di Neal e mia madre si avvicinano alla porta e mia madre bussa.

«Mamma sto bene, tranquilla».

Sento i loro passo allontanarsi e per un attimo mi sento meglio. Dieci secondi dopo mia madre irrompe in bagno.

«Perché non riesci a lasciarmi da sola nemmeno mezzo secondo?» dico con rabbia.

Lei mi guarda con occhi sofferenti e mi sorride.

«Perché non voglio che tu pianga da sola, ok?».

Si avvicina a me e allunga la sua mano per tirarmi su. La afferro e con uno slancio mi alzo, finendo tra le sue braccia.

Piango tutte le lacrime che il mio corpo possiede. Lei ancora una volta in silenzio, solo attenta a stringermi più forte quando un altro singhiozzo scuote il mio corpo.

«Elisabeth ha scritto anche a me qualche ora fa».

Mi stacco da lei e la guardo negli occhi. Nel mio petto monta già una rabbia inaudita.

«Mi ha chiesto scusa per quello che ti aveva fatto anche se io ancora non sapevo che cosa fosse successo. Le ho consigliato di partire per un po' per cancellare tutto quello che potesse ricordarle te. Le ho detto anche che se avesse avuto bisogno ci sarei stata per lei, ma se voleva stare bene questa era l'unica soluzione» la osservo come se di fronte a me avessi un alieno. Da quando Elisabeth aveva il numero di mia madre? Asciugo una lacrima col dorso della mano e negli occhi di mia madre rivedo i miei, il desiderio di aiutare qualcuno che si ama.

«Io volevo solo aiutarla, mamma...».

«Io lo so, e lo sa anche lei... ma è bene che ora si aiuti da sola. Ce la farà... è forte Elisabeth. Lo è sempre stata».

Quanto è vero. È sempre stata forte per entrambe.

«Le avevo promesso che le sarei stata accanto...»

«Amore non puoi stare accanto a chi ti ama se tu non provi lo stesso. Anche lei ha bisogno di rinascere, come hai fatto tu, e deve farlo da sola».

Mi aggrappo alle sue spalle e piango ancora. Un macigno che porta il nome di “senso di colpa” si insinua nel mio petto e sembra deciso a non farmi respirare. Poi dalla porta spuntano due manine piccole e paffute, seguite da un visino preoccupato. Così allungo una mano per attirarlo a me. Mi stacco da mia madre e lo prendo tra le braccia. Poi nostra madre ci avvolge tra le sue e stiamo così, come un tramezzino, per un tempo indefinito.

«Mi state schiacciando» si lamenta improvvisamente Neal. Io e mia madre ci guardiamo prima di stringerci ancora di più scoppiando così tutti e tre a ridere.

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Capitolo 8
*** Messaggi ***


Sono passate poco più di tre settimane dallo spiacevole evento con la ex ragazza di Emma. Lei ha ripreso a stare con Henry quasi tutti i giorni, ma vorrei di più. Vorrei che stesse con lui a tempo pieno, che sia da sola o con me. L'avrei pagata profumatamente e di certo avrei risparmiato molti soldi evitando tutti quei terapisti che a Henry chiaramente non piacciono.

Ultimamente Henry torna anche da scuola col sorriso, per lo meno le due mattine che riesco a vederlo, nelle altre lavoro, ed è mia madre a badare a lui qualche ora nel pomeriggio, fino a che Emma non lo prende con sè. Ma sembra felice. Ovviamente non posso chiedergli il perché.

Dopo quelle settimane ho capito che ignorare un suo sorriso è il modo migliore per farglielo mantenere. E mi piace vederlo sorridere, anche se non parla.

In tutto questo ovviamente Emma è una compagna indispensabile, il rapporto con lei cresce. Quegli anni di differenza non sono un peso quando hai in mente un unico obiettivo da raggiungere e, per quanto sia solo un impegno per lei, un lavoro, lo fa sembrare qualcosa di importante. Lo capisco da come ne parla, dalla passione che mette nel dirmi le sue impressioni e nell'osservare e descrivermi i comportamenti di mio figlio. Mi ha anche chiesto nei dettagli tutto ciò che gli psicologi e terapisti mi hanno comunicato e ha comprato un manuale sui disturbi dei comportamento dei bambini. Insomma, è una di cui potersi fidare. Mi fido di lei.

Nonostante il rafforzamento del nostro rapporto, volto a trovare la chiave per sbloccare Henry, e nonostante abbia proposto a Emma quella collaborazione continuativa a tempo pieno al parco, ho sempre timore a discutere di orari e compenso quando Henry è nei paraggi. La mia sensazione è sempre uguale: lui ha occhi e orecchie ovunque. Parlare di questa idea con lui nelle vicinanze può sembrare un complotto. E io non voglio che si senta un caso da risolvere.

La cosa che mi preme ora, dunque, è riuscire a parlare con Emma seriamente della mia proposta. Una cosa che mi aveva suggerito era di assecondare ciò che sembrava piacergli e la scuola era una di queste. Per questo stamattina lo accompagnerò a scuola per la sua prima gita scolastica. Da Emma ho avuto tutte le informazioni che mi sarebbero servite ed è stata lei a dirmi che a Henry entusiasmava l'idea di andare a New York. La nostra città dista solo quattro ore di treno dalla Grande Mela e Henry è un bambino ubbidiente oltre che silenzioso. Ubbidiente con gli estranei ovviamente. Ho discusso a lungo con una delle sue maestre se quella potesse essere una buona idea, e lei mi ha assicurata che non avrebbe tolto gli occhi di dosso ad Henry nemmeno per mezzo secondo. Così ho acconsentito.

Emma è stata la mia portavoce nelle ultime settimane, intimandolo di non allontanarsi dalle maestre, di ascoltare e ubbidire sempre, di sistemare le cose nella valigia e non dimenticare nulla in albergo prima del suo ritorno. Di fare tante foto e di sorridere sempre. E di prendere appunti su quel che vedeva così poi da poter raccontare tutto nei dettagli a lei... e poi a me. Sì, gli aveva detto anche questo, se lui voleva sarebbe stata lei a raccontare a Regina la gita. Oppure sarebbe stato lui stesso, a seconda di come si sarebbe sentito.

Così questa mattina siamo pronti per la partenza. O meglio lui è pronto. Io sono solo molto agitata. Per il suo silenzio e per il fatto che non potrò nemmeno abbracciarlo. Non mi comprerà un pensierino, non mi chiamerà al suo arrivo. Nulla. La maestra dirà tutto al suo posto. E io farò finta che mi vada bene. “La sua felicità e tranquillità vengono prima delle tue, Regina” mi aveva detto Emma un giorno. Era vero. È vero.

Mentre aspetto che lui scenda dalla sua camera riguardo meccanicamente il contenuto della valigia. Mutande, due pantaloni, quattro maglie e tre maglioni. Tre canotte, le calze, le altre scarpe. Bagnoschiuma e saponi vari sono in un sacchetto apposito che riapro e richiudo meccanicamente. Manca ancora un'ora e mezza alla partenza. Sto andando in iperventilazione. Guardo l'orologio, sono le 8 am. Ho bisogno di parlare con qualcuno, quindi prendo il telefono dalla borsa e mi siedo sul divano. In quell'istante il telefono vibra tra le mie mani e una lucina rossa in un angolo in alto a destra mi dice che qualcuno mi ha mandato un messaggio. Lo apro ma so già di chi si tratta.

  • Ricordati di respirare, la valigia è sicuramente perfetta, andrà tutto bene. STAI CALMA.-

Emma. Un sorriso compare sul mio volto. Solo lei sa tranquillizzarmi e farmi ridere allo stesso tempo, smorzando la tensione che inevitabilmente accumulo nella mia vita con Henry.

  • Avevo appena preso il telefono in mano per dirti che sono in iperventilazione e che controllo compulsivamente la valigia. Non riesco a stare calma – INVIO.

Ultimamente ci siamo scambiate molti messaggi su quella piattaforma virtuale che è what's app. Le sue attenzioni non mi fanno sentire sola e io sono sola da molto, troppo tempo. Le sue risate al parco mi infondevano fiducia ed era un momento della vita in cui avevo davvero la necessità di fidarmi di qualcuno. Il telefono vibra di nuovo.

  • Sì, so che ti sentivi così, sentivo delle strane vibrazioni negative attorno a me. Davvero, andrà tutto bene, gli ho detto tutto quello che mi hai elencato, tutto tutto. Ora sorridi, perché so che lui sta andando a fare una cosa che gli piace e sono certa che se ti vede entusiasta lui sarà più rilassato! -

«Ma io sono entusiasta» dico tra me e me. Con la coda dell'occhio vedo le scale ancora vuote, così mi sistemo di fronte allo specchio in bagno. Cerco di allungare le labbra in un sorriso convincente e sincero. Non sono più molto brava a sorridere, mi sento tutta la faccia intorpidita. Dopo svariati minuti di tentativi decido di immortalare il mio viso sorridente con una foto, poi la invio a Emma.

  • Questo sorriso è abbastanza convincente o credi che possa fare di meglio? Pensa, mi facevano male le guance! - INVIO

Sento dei passi provenire dal piano superiore, segno che Henry sarebbe sceso a breve. Mi infilo la giacca e prendo la valigia. Non è tanto pesante, sarebbe riuscita a trasportarla anche lui, dato che ha le ruote. Il cielo è lievemente velato ma il sole fa capolino da quelle poche nubi. Nel rientrare, Henry mi aspetta sulla porta.

«Ciao tesoro, la valigia è in macchina. Metti il giubbotto che andiamo a scuola».

Ubbidiente e silenzioso, infila il suo giubbino sulle braccia per poi agganciarlo. Velocemente raggiungo la cucina dove in una bustina di carta ho messo uno spuntino per il viaggio, assieme a una bottiglietta d'acqua.

«Ecco questa è la merenda» cerco di seguire il consiglio di Emma e sorridere, anche se lui non mi guarda. Afferra il sacchetto.

«Bene, andiamo che si fa tardi!» esclamo con finto entusiasmo. Probabilmente quello l'ha sentito, si percepisce dal tono di voce.

La scuola dista circa venti minuti di macchina da casa nostra. Solitamente in settimana le tempistiche si allungano per via del traffico ma oggi siamo oltre il normale orario scolastico per cui i soliti ingorghi sono già spariti.

Non dico nulla. Ancora una volta rispetto il suo silenzio.

Al nostro arrivo quasi tutti i bambini sono in fila per due con accanto le piccole valigie. Henry scende dalla macchina senza nemmeno aspettarmi e si posiziona subito accanto a una bambina dai capelli rossi che gli parla. Lui sorride un po' in imbarazzo. Forse è lei il motivo del buonumore di Henry nell'ultimo periodo.

La maestra mi sorride e mi saluta da lontano, venendomi incontro mentre estraggo la valigia dal bagagliaio.

«Buongiorno Signora Mills, pensavo non arrivasse più il piccolo Henry» mi sorride come se avesse una paresi facciale.

«Salve Signorina Montgomery, Henry ha le sue tempistiche per uscire di casa, come al solito le ho rispettate. Ecco qui la sua valigia, può dargliela lei? A me tanto non risponderebbe» le porgo il manico della valigia. La afferra prima che possa togliere la mia mano. Il mio sguardo rimane fisso su quel contatto che lei non ha intenzione di interrompere.

«Mi piacerebbe invitarla a prendere un caffè al nostro ritorno, se per lei non è un problema, il caso di Henry mi affascina molto. E anche lei». Solo dopo avermi vomitato questo spudorato tentativo di approccio, mi lascia la mano.

Lei continua a fissarmi in modo insistente come se cercasse immediatamente una risposta. Che non voglio darle perché non voglio prendere un caffè con nessuno.

«Mi dispiace ma io sono molto impegnata ultimamente, non credo di riuscirci, ma al vostro ritorno di certo posso ascoltare tutto il racconto del viaggio a New York e di cosa abbia fatto Henry insieme a voi».

Il suo sguardo è contrariato in modo eccessivo. Porta un jeans scuro aderente che mette in evidenza le sue lunghe gambe. Camicia e giacca rossa. I lunghi capelli rossi circondano un viso perfettamente truccato e ancora giovane, nonostante abbia almeno dieci anni più di me.

«Mi scusi, vado a salutare Henry» me la lascio alle spalle sgranando gli occhi. Dio mio solo questa mi ci manca. Da quando sono diventata un modello femminile da conquistare? Prima Emma, poi lei.

Perché ho pensato ad Emma? Lei non ha mai mostrato alcun interesse nei miei confronti nonostante mi abbia chiaramente detto di essere gay. È sempre stata gentile ma non con aspettative nei miei confronti. Tanto che ero sempre io a scriverle per chiederle consiglio o per parlarle. Per cui il mio pensiero è assolutamente improprio in questo caso.

Henry.

Si, devo salutarlo.

Mi faccio spazio tra due mamme prima di scorgerlo con la bambina dai capelli rossi.

«Eccoti finalmente. La tua valigia l'ho affidata alla maestra Montgomery, la sistemerà con le altre d'accordo?». La bambina guarda me e poi Henry che non ha intenzione di rispondere o annuire. O almeno guardarmi. Una vocina interrompe quel momento molto imbarazzante.

«Aiuterò io Henry con la sua valigia, e non lo lascerò mai solo, promesso».

Splendidi occhi verdi e brillanti mi guardano con fare rassicurante.

«Grazie tesoro, tu sei?» le accarezzo il viso.

«Io sono Sarah» dice lei. Delle piccolissime lentiggini punteggiavano il suo nasino.

«Grazie Sarah, allora lo affido a te» un'altra maestra chiama a raccolta tutti i bambini.

«Ci vediamo domenica Henry, ciao, divertiti!» urlo in mezzo agli altri bambini e mamme. Ma lui era già sull'autobus che li avrebbe portati alla stazione, lontano da me più che mai. Mentre la sua maestra continua a fissarmi in modo languido e provocatorio.

Mi serve Emma.

Dove diavolo ho messo il telefono? Dopo essere rientrata in macchina mi accingo a cercare disperatamente il cellulare, senza fortuna. Poi noto una lucina rossa sotto il freno a mano: il telefono. Poso la borsa sul sedile mentre leggo il messaggio.

  • AHAHHAHAHAHAHAHAHAHAHAH. Con questa posso ottenere da te quel che voglio. La conserverò come merce di scambio! Comunque tu sorridi molto meglio di così quando sei rilassata, dovresti farlo più spesso!

Lei ride e io sono in crisi mistica.

L'orologio del cellulare segna le 9:10 am. Ho ancora tre ore prima del mio turno a lavoro.

  • Dimmi che puoi concedermi un caffè o una colazione, ho bisogno di parlarti, questa partenza mi ha messo troppa agitazione e la maestra di Henry non mi ha aiutata a superarlo! - INVIO.

Spero davvero che non abbia impegni.

Il cellulare squilla. Il nome di Emma Swan lampeggia sul mio schermo.

«Pronto?» rispondo io con finta calma.

Una sonora risata arriva dall'auricolare.

Ok Regina,ti hanno inseguito in 10? Sembri traumatizzata”.

«Smettila di ridere» il cuore martella nel petto. Per l'ansia e per lei che si accorge sempre di tutto. Tutto. La testa cade sul volante, stancamente,

Vedo la tua faccia da qui, giocherelli con le unghie sul cruscotto e hai la testa poggiata al volante”.

Alzo automaticamente la testa.

«Ok mi stai spiando?».

Voltati alla tua sinistra”.

Poggiata alla portiera del suo maggiolino giallo, la dolcissima Emma mi guarda sorridente. Alzo la mano in segno di saluto ma non riesco a compiere un'azione tanto banale come alzarmi e raggiungerla. I capelli biondi svolazzano attorno a lei, illuminati dal sole ormai alto.

Se vuoi possiamo parlare al telefono da qui, ma mi avevi chiesto di vederci”.

Guardo di fronte a me e chiudo la chiamata facendo cadere il cellulare tra i miei piedi.

«Merda» impreco malamente. Poi esco dalla macchina e me la ritrovo a un passo da me.

«Hai i capelli in disordine» allunga una mano per sistemare il disastro che sicuramente ho sulla testa. Rimango immobile, quasi pietrificata, in religiosa attesa che le sue attenzioni e la sua premura terminino. Finisce per sistemarmi una ciocca di capelli oltre l'orecchio destro.

«Ora sei a posto» mette le mani in tasca «allora, che è successo? Andiamo nel bar del misfatto a fare colazione?».

Quale sarebbe il luogo del misfatto? Poi ricordo la ragazza dalla mano facile.

«Sì, credo che quello possa andare bene, ma che ci fai qui?» me lo stavo chiedendo ormai da cinque minuti.

«Tu segui me, io seguo te». Sussulto.

«Dai non prenderla male, volevo vedere se la partenza andava bene, vi ho osservati da lontano, maestra compresa, palesemente gay, te lo dico io, e visto che andava tutto bene me ne stavo andando, poi mi hai scritto» gesticola, tenendo le mani dentro il lungo cardigan sottile che copre una maglia dallo scollo asimmetrico e un paio di jeans. Profuma di fragola. Continuo a guardala in modo inopportuno, imbambolata, come se quell'essere di fronte a me fosse un pericolo o una salvezza.

Poi mi sorride. Non mi servono risposte, quel sorriso dice tutto. Finalmente il mio viso e il mio cuore si rilassano e lei lo nota immediatamente.

«Questo è il sorriso migliore che puoi fare, non quella cosa che mi hai mandato, ma davvero, ho apprezzato lo sforzo, ora andiamo a mangiare?».

Aspetta impaziente una mia risposta.

«Ok ma ognuna va con la propria macchina perché alle 12 pm devo essere a lavoro» dico un po' triste.

«Nessun problema, seguimi!» fa cenno con la mano mentre corre verso la sua macchina.

Voleva vedere come stava Henry e come stavo io, era stata gentile, e sono certa che non avesse alcun secondo fine. E anche se ce l'avesse avuto, utilizzava metodi più carini della maestra di Henry che mi aveva letteralmente terrorizzata. Ci sono modi e modi per chiedere un caffè. Quello sguardo e quella mano insistente sulla mia non lo sono stati di certo.

Finalmente arriviamo al bar dove la strana e poco vestita amica di Emma è desiderosa di conoscermi, ma anche stavolta Emma la liquida con le nostre ordinazioni.

«Non credi che si offenderà se non le racconterai chi sono?» incrocio le braccia davanti a me, poggiandomi al tavolo e sporgendomi verso di lei.

«Le ho detto che sei la mia datrice di lavoro» imita le virgolette per aria quando pronuncia la parola datrice di lavoro «ma non mi crede e francamente più di questo non so che dirle anche perché è quello che sei in un certo senso. Poi tutta la questione di Henry è una cosa che non voglio dire in giro, stiamo parlando di un bambino, non di un cane. I bambini vanno protetti».

«Ho fatto bene a fidarmi di te allora...» Lascio la frase in sospeso, voglio che sia lei a terminarla. E lo fa con le parole che voglio sentire.

«Mi interessa che Henry stia bene. È uno spreco che non parli con te, ha così tanto da dire».

Sì, quella donna vuole già bene a mio figlio, decisamente.

«Posso farti la domanda più inopportuna che si possa fare a una donna?»

Lei scoppia a ridere e sembra capire.

«Ho venticinque anni e , sì, che sembro una ventenne me lo dicono praticamente tutti».

Ha davvero un bel sorriso. Caldo, sincero. Vero.

Intanto la sua amica arriva con i nostri cappuccini e i cornetti al cioccolato.

«Mi racconti che ti ha detto la maestra di Henry?».

A momenti rischio di soffocare con il boccone. Gli occhi mi lacrimano tanto che devo asciugarli con un fazzoletto.

E lei ride, come al solito.

«Ti ha traumatizzata così tanto?» mi chiede tra una risata e l'altra.

«In effetti sì» rispondo cercando di ricompormi e sorseggiando il cappuccino.

«Che ti ha detto?».

«Mi ha chiesto se al rientro dalla gita volessi prendere un caffè con lei. Che non era nulla di che ma l'ha detto con un tono, uno sguardo e una provocazione che mi hanno fatto rabbrividire. Sembrava un leone pronto a mordermi» al solo pensiero un brivido raggiunge il mio corpo.

«Sì, quella è la classica lesbica predatrice, sicuramente molto affascinante e sicura di sè, che non è abituata ai rifiuti, credo che te lo richiederà».

Si riavvolge nel cardigan che il vento ha aperto lasciandole scoperto il collo.

«Non sapevo ci fossero varie specie di lesbiche, tu che tipo sei?» ora è lei che rischia di soffocare.

«Così impari ad attentare alla mia vita, io ti ricambio il favore» alzo un sopracciglio e affondo la schiena sulla sedia.

«E meno male che sei un medico» dice pulendosi dalle briciole del croissant «comunque io sono una che si fa gli affari propri. Io non faccio mai il primo passo, non perché mi piace essere corteggiata ma perché non mi piace importunare la gente, tutto qui».

Sì, che si fa gli affari propri è vero. È vero.

«Allora domenica mi accompagni a prendere Henry alla stazione? Così evito un attacco dalla donna predatrice!» imito il ruggito del leone e lei capitola definitivamente.

«Oddio, voglio registrarti se lo rifai!» si schiarisce la voce «comunque è comprensibile che ci provi, sei una bellissima donna e sono certa che ne sei consapevole e prima che ti vengano strane idee no, non ci sto provando» quasi mi dispiace che non ci stia provando. Ma sono felice che rispetti il rapporto che stiamo costruendo e che voglia aiutarmi con Henry. Non si butta tra le braccia della prima che capita solo perché è un belvedere.

«Sei davvero una sorpresa, Miss Swan, mi piacciono le sorprese» un sorriso malizioso involontario spunta sulle mie labbra e lei ricambia, arrossendo un pochino.

«Comunque sì, ti accompagno volentieri, così vedo come reagisce Henry» butta giù l'ultimo sorso di cappuccino «e anche la maestra. Se vuoi posso far sì che non ci provi più».

O sì, quella è un'ottima idea. Poggio il mio palmo sul dorso della sua mano.

«Ti prego, sì!» sono disperata. Abbassa per un attimo lo sguardo sulla mia mano, e stringe le labbra come a volersi controllare. Forse il contatto le dava fastidio e rimetto la mia mano a posto. Il suo viso torna a rilassarsi.

«Cara la mia salvatrice, io ora vado a casa e poi a lavoro, ti andrebbe di venire a cena a casa mia domani? Così ti mostro il mondo di Henry e saprai come gestire la cosa da lunedì quando baderai a lui. Insomma, volevo sistemare la questione del lavoro col contratto». Mi alzo e poso dieci dollari sul tavolino.

Rimane un attimo interdetta dalla mia proposta, poi con voce più squillante rispetto al solito risponde.

«Volentieri, fammi sapere a che ora» si alza anche lei e mi restituisce i soldi.

«Vado io da Rubs, aspettami un attimo» saltella come un cerbiatto per quei quattro gradini e ritorna due minuti dopo, soddisfatta.

«Ecco fatto, ci vediamo domani allora».

«Alle 8 pm andrà benissimo comunque».

«Oh d'accordo, buon lavoro allora!»

In effetti non so come salutarla. Per evitare scene imbarazzanti o con secondi fini mi allontano facendole un cenno con la mano e dicendole grazie a voce alta. Sento il suo sguardo sulla mia schiena ma preferisco far finta di nulla. Salgo in macchina e torno a casa.

Non sarà più così pesante quella giornata.

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Capitolo 9
*** Contratto ***


Le settimane dopo il misfatto con Elisabeth erano trascorse serene e in fretta. Vedevo Henry ogni pomeriggio e sembrava davvero più tranquillo. Aveva smesso di pulirsi compulsivamente le mani e mi parlava costantemente del viaggio di classe che avrebbe dovuto fare di lì a breve: New York. Solo che aveva paura che sua madre non glielo avrebbe permesso, così ho esposto a Regina i miei dubbi tramite telefono, spingendola a fidarsi di lui. Magari questa gentilezza sarebbe stata ripagata con un atteggiamento più disponibile verso la madre, benché lui non avesse ancora intenzione di raccontarmi il motivo della sua finta ostilità verso di lei. E io non lo forzavo.

Regina ormai non perdeva occasione per scrivermi, sia che la cosa riguardasse Henry, ed era ovviamente la maggior parte delle volte, sia per sapere come stavo, soprattutto dopo lo spiacevole incidente. Mi era stata molto vicina ed era stata lei a occuparsi di tutte le medicazioni, che avvenivano sempre a casa sua. Dopo quasi un mese non ero ancora riuscita a capire come facesse a tenere la casa in quell'ordine maniacale: non era mai in casa! Forse aveva poteri magici e si sdoppiava! No, dubito fortemente che la magia c'entrasse qualcosa.

Ogni volta che accompagnava Henry al parco per passare quelle tre ore con me lei aveva letteralmente paura di parlare, glielo leggevo negli occhi. Guardava Henry da lontano, come se fosse la cosa più bella del mondo, ed era allo stesso tempo intimorita da quella creatura che aveva quel potere distruttivo su di lei. Era ossigeno e vuoto allo stesso tempo. Non sapevo cosa significasse avere un figlio, o preoccuparsi per lui, ma vedere Regina mi faceva rendere conto che era un amore totalmente incondizionato e folle, molto più folle dell'amore per il proprio compagno o compagna di vita.

Finalmente per Henry è arrivato il 2 aprile, data della tanto agognata partenza per New York.

Sono ancora le 7:45 del mattino ma sono già sveglia. Ho dormito veramente poco e male questa notte, ripenso alle raccomandazioni elencatemi da Regina per Henry, voglio essere sicura di avergliele elencate tutte chiaramente. Fare da tramite tra madre e figlio non è per niente facile, ma spesso ricevo delle gran belle soddisfazioni.

Posso sentire l'ansia di Regina persino dal mio letto. La vedo respirare affannosamente china sulla valigia di Henry, intenta a ricontrollare che ci sia tutto. Uno spettacolo. Sì, decisamente lo è, inutile negarlo. È uno spettacolo per gli occhi e per tutti i sensi.

È una tale bellezza non può e non deve avere il viso afflitto per troppo tempo, per cui decido di mandarle un messaggio per incoraggiarla.

  • Ricordati di respirare, la valigia è sicuramente perfetta, andrà tutto bene. STAI CALMA.- INVIO

Lo invio. Intanto mi alzo. Ho già fame per cui mi sposto in cucina dove mi aspetta il mio caffè lungo, senza zucchero. Una carica di energia smisurata insomma. Scaldata la tazza mi accascio sul divano, piegando entrambe le gambe e posizionandole sotto il mio sedere.

Il telefono vibra.

  • Avevo appena preso il telefono in mano per dirti che sono in iperventilazione e che controllo compulsivamente la valigia. Non riesco a stare calma. -

Allora ogni tanto mi pensa anche lei. Mi affretto a rispondere.

  • Si so che ti sentivi così, sentivo delle strane vibrazioni negative attorno a me. Davvero, andrà tutto bene, gli ho detto tutto quello che mi hai elencato, tutto tutto. Ora sorridi, perché so che lui sta andando a fare una cosa che gli piace e sono certa che se ti vede entusiasta lui sarà più rilassato! - INVIO.

    È la verità. Lo notavo in Henry, quando la madre non gli stava addosso lui si rilassava e parlava di più. Faccio in tempo a sorseggiare un po' di caffè quando il telefono vibra di nuovo.

  • Questo sorriso è abbastanza convincente o credi che possa fare di meglio? Pensa che mi facevano male le guance! -

Una risata sonora esce dalla mia bocca. Contenuta nel messaggio una foto di Regina truccata alla perfezione che tenta inutilmente di fare un sorriso. Quanto deve essersi sforzata! Continuo a ridere anche mentre digito il messaggio. E intanto i miei occhi si posano di nuovo sulla foto.

  • AHAHHAHAHAHAHAHAHAHAHAH. Con questa posso ottenere da te quel che voglio. La conserverò come merce di scambio! Comunque tu sorridi molto meglio di così quando sei rilassata, dovresti farlo più spesso! - INVIO.

Come può una donna essere così dannatamente bella senza rendersene conto? Devo farglielo capire, necessariamente.

«Sì, sei proprio bella, mia cara Regina» dico a voce alta. Il caffè è ormai finito e un'idea mi balena in testa: sarei andata alla stazione a vedere se tutto filava liscio, così se Henry avesse avuto qualche crisi l'avrei aiutata. Ma sarei intervenuta se e solo se fosse stato necessario, è pur sempre suo figlio.

Sì, è una buona idea.

Mi alzo con l'umore decisamente positivo, sistemo la cucina e mi butto sotto il getto della doccia così da rinfrescarmi un po' per affrontare quella giornata.

Infilo i soliti jeans, una canotta larga e il cardigan lungo beige. Le mie solite Converse bianche e borsa. Direi che sono pronta.

Il traffico è davvero irrisorio per cui arrivo in meno di venti minuti a scuola e parcheggio la mia macchina troppo appariscente in un punto un po' nascosto da altre vetture. Piano piano i vari bambini arrivano accompagnati da madri, padri, entrambi, o i nonni, fratelli, zii e sorelle.

Di fronte a scuola c'è un bel trambusto ma di Regina e Henry ancora nemmeno l'ombra. Esco dalla macchina un po' preoccupata e do uno sguardo al telefono che non dà segni di vita. Nessuna chiamata o messaggio. Poi, due file di macchine davanti a me, scorgo Henry correre e raggiungere la sua amichetta dai capelli rossi. Poco dopo spunta Regina e... una donna molto affascinante le va incontro con un sorriso un po' troppo... troppo e basta. Credo sia la maestra di Henry.

Regina afferra la valigia dal bagagliaio e... Dio mio, non sento e non vedo. Abbasso la testa e vado oltre due macchine per poter almeno vedere. Quella donna si è avvicinata a Regina e le sta tenendo la mano ferma sul manico della valigia. Per un attimo mi si annebbia la vista dalla rabbia. Come osava toccarla e avvicinarsi a lei in quel modo? Con che coraggio!

Già, Emma, coraggio. Ci vuole solo coraggio, cosa che io non ho. Abbasso lo sguardo, abbattuta. Mi rimetto al mio posto e per altri cinque minuti guardo la scena da lontano. Poi i bambini vengono scortati dalle maestre dentro la stazione e Regina si fionda in macchina. Alcune macchine intanto si sono spostate e io, per farmi notare di meno, mi rifugio all'interno della mia. Lei gioca ancora col telefono e poco dopo il mio vibra. È lei.

  • Dimmi che puoi concedermi un caffè o una colazione, ho bisogno di parlarti, questa partenza mi ha messo troppa agitazione e la maestra di Henry non mi ha aiutata a superarlo! -

Povera donna, non sa gestire le avances di un'altra donna, devo darle qualche dritta.

Oppure prendo l'iniziativa e la stupisco in modo meno aggressivo.

«Chiama Regina Mills» dico al mio telefono che subito compone il suo numero. Mi rimetto in piedi fuori dalla macchina, inizio ad avere caldo.

< Pronto?> mi dice. Ha il fiatone e non riesco a non ridere.

«Ok Regina, ti hanno inseguito in dieci? Sembri traumatizzata.»

dice lei. Abbassa stancamente la testa sul volante.

«Vedo la tua faccia da qui, giocherelli con le unghie sul cruscotto e hai la testa poggiata al volante.»

Con scatto felino si rimette dritta.

«Voltati alla tua sinistra.» le dico subito dopo.

Si volta e le sorrido. Mi fa un cenno con la mano ma, sempre in silenzio, non accenna a voler scendere dalla sua auto.

«Se vuoi possiamo parlare al telefono da qui, ma mi avevi chiesto di vederci...» aggiungo per smorzare il suo evidente imbarazzo.

Chiude subito la chiamata e il telefono le cade tra i piedi. Bella, dolce e impacciata.

A passo svelto raggiungo la sua macchina e quando chiude lo sportello e si ritrova a due passi da me, una folata di vento le scompiglia definitivamente i capelli.

Le faccio presente che ha i capelli in disordine mentre, con delicatezza e lentezza, glieli sistemo, sfiorandole piano il viso. Ha un profumo buonissimo.

«Ora sei a posto» nascondo le mani dentro le tasche. Tremano, ma faccio finta di nulla «allora, che è successo? Andiamo nel bar del misfatto a fare colazione?»

In tutto questo lei non ha ancora aperto bocca e questa mia domanda sembra confonderla ancora di più. Lo capisco da come aggrotta la fronte.

«Sì, credo che quello possa andare bene ma che ci fai qui?» domanda indispensabile direi.

«Tu segui me, io seguo te» dico in tono serio.

«Dai non prenderla male volevo vedere se la partenza andava bene, vi ho osservati da lontano, maestra compresa, palesemente gay te lo dico io, e visto che andava tutto bene me ne stavo andando, poi mi hai scritto».

Un altro minuto di smarrimento totale. Vorrei rassicurarla ma non so come, per cui le sorrido e basta e lei risponde allo stesso modo, stavolta senza costrizioni.

«Questo è il sorriso migliore che puoi fare, non quella cosa che mi hai mandato, ma davvero, ho apprezzato lo sforzo, ora andiamo a mangiare?» il caffè è già stato abbondantemente digerito.

«Ok ma ognuna va con la propria macchina perché a mezzogiorno devo essere a lavoro» dice quasi contrariata.

«Nessun problema, seguimi!» saltello fino alla mia macchina e metto in moto.

Al bar di Ruby iniziamo una piacevole conversazione, volta per lo più a capire e analizzare il comportamento della maestra di Henry, dopo avermi chiesto quanti anni avessi. Ovviamente il cappuccino e il croissant sono di fronte a noi. La maestra in questo momento è di prioritaria importanza. Per me.

«Mi racconti che ti ha detto la maestra di Henry?»

Fino a che non pronuncio queste parole, beve con una grazia mai vista dalla tazza di fronte a lei. Poi si trasforma in un essere umano tossendo selvaggiamente quando ciò che aveva in bocca le va di traverso. Ovviamente rido.

«Ti ha traumatizzata così tanto?» cerco di chiedere.

«In effetti sì» mi dice lei finendo il cappuccino.

«Che ti ha detto?» ripeto ancora, impaziente.

«Mi ha chiesto se al rientro dalla gita volessi prendere un caffè con lei. Che non era nulla di che ma l'ha detto con un tono, uno sguardo e una provocazione che mi hanno fatto rabbrividire. Sembrava un leone pronto a mordermi» scuote la schiena fingendo un brivido di paura. Alzo entrambe le sopracciglia in segno di comprensione.

«Sì, quella è la classica lesbica predatrice, sicuramente molto affascinante e sicura di sé, non è abituata ai rifiuti, credo che te lo richiederà».

«Non sapevo ci fossero varie specie di lesbiche, tu che tipo sei?»

Mi ha restituito il favore e rischio di morire soffocata anche io.

«Così impari ad attentare la mia vita, io ti ricambio il favore» mi guarda dalla sua sedia con aria soddisfatta e sfoderando un sorrisetto sghembo illegale.

«E meno male che sei un medico» cerco di sembrare poco attenta alle sue espressioni «comunque io sono una che si fa gli affari propri. Io non faccio mai il primo passo, non perché mi piace essere corteggiata ma perché non mi piace importunare la gente, tutto qui».

«Allora domenica mi accompagni a prendere Henry alla stazione? Così evito un attacco dalla donna predatrice!» imita il ruggito del leone e mi stende definitivamente.

«Oddio voglio registrarti se lo rifai!» dico completamente estasiata.

Altre parole vorrebbero uscire dalla mia bocca, ma ho seriamente paura della sua reazione. Basta Emma, tira fuori le ovaie!

«Comunque è comprensibile che ci provi, sei una bellissima donna e sono certa che ne sei consapevole e prima che ti vengano strane idee no, non ci sto provando» questo devo necessariamente sottolinearlo se non voglio ucciderla.

«Sei davvero una sorpresa, Miss Swan, mi piacciono le sorprese» sorride in modo malizioso (di nuovo) e stavolta non riesco a nascondere l'imbarazzo: arrossisco.

«Comunque sì, ti accompagno volentieri, così vedo come reagisce Henry e anche la maestra. Se vuoi posso far sì che non ci provi più.»

Poggia la sua mano sulla mia, come se nulla fosse. Io la fisso sconcertata. Sto iniziando a sudare senza controllo e la saliva.... cos'è la saliva?

«Ti prego, sì!» aggiunge poi con eccessivo entusiasmo «Cara la mia salvatrice, io ora vado a casa e poi a lavoro, ti andrebbe di venire a cena a casa mia domani? Così ti mostro il mondo di Henry e saprai come gestire la cosa da lunedì quando baderai a lui. Sì, insomma, volevo sistemare la questione del lavoro col contratto».

Merda, Emma. Sta facendo tutto quello che non deve fare. E io sto reagendo nell'unico modo in cui non avrei mai dovuto reagire. Ma non posso assolutamente perdermi una cena da sola con lei.

«Volentieri, fammi sapere a che ora» Emma, andrà bene. Lei sembra assolutamente a suo agio con me, la proposta, la cena, tutto. E questo mi confonde a livelli cosmici.

La saluto, mentre se ne va con la sua macchina.

Entro a salutare Ruby con un viso un po' sconvolto. E lei ovviamente se ne accorge.

«Hey, pianeta terra chiama Emma, ma che diavolo hai da un mese a questa parte?» mi chiede senza giri di parole.

«Nulla» poggio il mio mento sul palmo della mano e continuo a fissare un punto imprecisato nel vuoto.

«Quella donna è etero, se non te ne fossi accorta».

Trasalisco.

Sì, la parola etero attira sempre la mia attenzione soprattutto se definisce una donna affascinante come Regina.

«Un giorno ti racconterò cosa lega me e quella donna» le rispondo. Ma la sua curiosità andava ben oltre il normale per cui si sentiva in diritto di aprire bocca senza pensare.

«Con una così, direi che come prima cosa condividete il sesso».

Ecco appunto. È decisamente andata oltre.

«Riesci a pensare a qualcosa nella tua vita di importante che non sia il sesso?» mi alzo, davvero infastidita. Voglio bene a Ruby ma quando si parla di questioni sentimentali il suo parere diventa davvero pesante e inopportuno. La saluto, con le sue scuse quasi urlate mentre esco fuori dal locale.

 

Sono le 8 pm.

Per quanto quella donna mi stia entrando nelle vene come il più mortale dei veleni, quel giorno faccio tutto quel che dovevo senza guardare con troppa frequenza l'orologio e senza fare il conto delle ore che mi separavano da lei.

Sto iniziando a maturare.

Devo ripetermelo se voglio mantenere la calma e considerare normale lo strano mal di stomaco che mi porto dietro da due giorni.

L'unica cosa in cui ho avuto difficoltà è stata la questione abbigliamento. Dapprima ho deciso per un vestito, poi ho chiamato mia madre chiedendole consiglio su un eventuale colloquio di lavoro. Infine, decido di essere semplicemente me stessa. Jeans e maglioncino in cotone con un cigno dorato al centro. I capelli li lascio sciolti, tranne per un piccolo fermacapelli con cui raccolgo la parte superiore in una piccola coda. Ovviamente le Converse bianche stanno rigorosamente ai miei piedi. Può andare.

Ormai conosco bene la strada per arrivare in quella casa e, in meno di mezz'ora, mi ritrovo a parcheggiare in una via parallela alla sua: trovare parcheggio in quella zona è praticamente impossibile.

Suono il campanello e l'enorme cancello grigio scuro apre lentamente le sue sbarre. Il vialetto fa una leggera curva a destra prima di finire sotto il porticato dove una pesante porta bianca, col numero 108 dorato, segna l'ingresso. Ma lei è già lì, pronta ad accogliermi.

Vedere quel sorriso sulle sue labbra fa mancare un battito al mio cuore.

«Ben arrivata, entra pure» mi accoglie con un vestito lungo nero. Niente tacchi ma una sorta di sandalo chiuso particolarmente luccicante. Capelli sciolti sulle spalle. Una dea.

Avanzo lentamente. Un piede di fronte all'altro. Varcata la soglia, un imponente odore di lasagna mi assale.

«Oddio che odore meraviglioso» esordisco subito.

Chiude la porta alle mie spalle e mi fa accomodare in sala da pranzo dove trovo un tavolo apparecchiato con pochi pezzi, due piatti rossi di forma quadrata, posate, due bicchieri. Molto semplice ed essenziale, elegante. Come centro tavola, delle rose bianche.

«Complimenti per la tavola, è molto bella».

«Grazie, la lasagna è in forno, intanto se vuoi accomodarti... vuoi del vino?» mi chiede porgendomi un bicchiere comparso chissà come.

«Volentieri, grazie».

Ne versa un po' in entrambi, e brindiamo.

«A Henry» dico facendo spallucce.

«A Henry» risponde poco dopo, felice della mia affermazione.

«Vieni in cucina, così finisco di controllare la cena».

La seguo. Sembra un po' agitata, desiderosa di iniziare un qualche discorso per liberarsi dei suoi immani pesi.

«Come stai? È andata bene a lavoro? Ti hanno fatto sapere qualcosa da New York?»

Mi siedo, mentre lei in due minuti riesce a sistemare dieci cose diverse. È una sorta di robot perfetto.

«Sì, una delle maestre mi ha detto che si stanno divertendo e che ride tantissimo» prende le lasagne dal forno e le posa sul banco della cucina «non lo vedeva ridere così da quasi due anni».

Sarebbe dovuta essere felice di quella notizia e invece sembra infastidita e triste. Il corpo è rigido, le braccia troppo veloci e impacciate. Mi alzo e mi avvicino a lei prima che possa farsi male con il forno.

«Ok, mi spieghi cos'è successo davvero?» le tengo fermo un polso. Fissa prima la mia mano poi i miei occhi. Schiaccia il labbro superiore su quello inferiore e la lingua li inumidisce. Poi inclina un po' la testa da un lato e i capelli, neri e lucenti, si spostano nella medesima direzione. L'aria inizia a mancarmi.

«Allora?» ripeto di nuovo «siamo solo io e te qui, nessuno ti giudicherà se dici a voce alta quello che pensi, men che meno io» la stretta sul polso scivola sulla mano. Sento subito la sua stretta sulla mia.

Ha la pelle morbida, la mano calda, accogliente.

E io sto sognando.

«Mia madre mi ha chiamata e mi ha riempito di insulti come al solito quando le ho fatto sapere della mia volontà di assumere una baby sitter per Henry, ovvero tu».

La ascolto con attenzione, imponendomi un controllo che non vada a rivelare la disperata voglia che ho di baciarla. Per porre fine a quella tristezza sul viso, per farla ridere come solo lei sa fare.

«Bè, direi che sei abbastanza adulta da poter decidere sul benessere di tuo figlio e soprattutto per ignorare i consigli di una madre visibilmente frustrata. Un consiglio? Smettila di rispondere al telefono e ti risparmierai un sacco di ulcere, tu lo sai meglio di me cosa può fare lo stress!»

Un piccolo sorriso sulle sue labbra, prima di vederla scappare chissà dove.

«Dove vai?» le chiedo voltandomi e seguendola.

«Volevo farti leggere questo, il contratto» mi mostra dei fogli tenuti insieme da una graffetta. Ha fatto le cose per bene.

«Sediamoci» mi sfiora la spalla per farmi accomodare sul divano.

Prendo quei tre fogli tra lei mani e inizio a leggere. Il contratto prevede un netto di 1000 $ al mese.

Alzo lo sguardo su di lei, incredula.

«1000$ dollari, ma sei pazza per caso?» mi sembra un furto per passare qualche ora con un ragazzino autosufficiente.

«Bè, se conti che potrei chiamarti a qualunque ora del giorno o della notte, direi che non è tanto».

Io ho anche i miei cani da controllare, non voglio abbandonare quel piccolo lavoretto, penso.

«In tutto ciò, dato che a Henry piacciono i cani, ovviamente le ore di lavoro con i tuoi cani saranno mantenute» mi legge nel pensiero.

«Sembra interessante così» poggio la schiena alla spalliera del divano e leggo. Con quello stipendio lei può contattarmi a qualunque ora. Se le chiamate notturne superano le cinque settimanali o le due nei fine settimana lo stipendio sale a 1400$. Ferie pagate ed elasticità negli orari, che dipendono ovviamente da quelli di Regina.

«Dove devo firmare?» annuncio a voce alta.

«Non vuoi farlo vedere prima a qualcuno che conosci e di cui ti fidi? Magari ci sono delle cose che non ti vanno bene o che possiamo modificare» aggiunge lei preoccupata.

«Mi fido di te e questo mi basta».

Lei fa tutto questo per il figlio. Dubito fortemente che possa in qualche modo mettermi nei guai e, se io me ne fossi andata, Henry non gliel'avrebbe mai perdonato. Lei mi guarda sorpresa. Per un attimo si avvicina un po' a me, come se volesse abbracciarmi. Poi si rimette dritta, posa le mani sulle ginocchia e si alza, per tornare poco dopo con una penna.

«Eccola allora».

La prendo e metto le tre firme necessarie a stipulare quel contratto. Poi le porgo la mano.

«Sarà un piacere lavorare per lei, capo».

Lei scoppia a ridere.

Il mio ego raggiunge livelli sproporzionati quando la faccio ridere così.

«Bene, il tuo capo arriva con la cena, siediti, ora mangiamo».

Sì, sarebbe stata di certo una collaborazione esaustiva, sotto molti punti di vista.

 

 

Note dell'autrice: buon martedì a tutti :)

Martedì prossimo pubblicherò il capitolo 10 e poi “andrò in pausa” una settimana perchè il martedì subito dopo Pasqua non sarò a casa, quindi non saprei come pubblicarlo. Fortunatamente per voi, questa settimana di attesa in più si verificherà proprio a cavallo di un punto importante della storia...probabilmente se avessi interrotto al capitolo 11 sareste impazziti :D

Grazie a Susan e Nadia come al solito per le correzioni.

A martedì! :)

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Capitolo 10
*** Cena di lavoro ***


Emma è puntuale e la cosa non mi stupisce.

Ciò che invece mi stupisce è la continua sudorazione, tachicardia, agitazione che provo dal momento in cui è comparsa alla mia porta. Anzi da quando ha varcato la soglia del mio cancello.

A momenti nemmeno la riconosco. Solitamente indossa abiti sportivi e non troppo femminili. Oggi invece si è presentata con una paio di jeans decisamente femminili, un maglioncino bianco con un cigno dorato stampato davanti e i capelli sciolti sulle spalle.

Noto subito le sue mani, le cui dita sfregano tra loro, come colte da nervosismo, mentre sale, incerta, i tre gradini che ci separano.

Le sorrido.

Sembra una principessa appena uscita da un libro di fiabe, una principessa con le Converse.

Per la prima volta nella mia vita mi sento impacciata con un altro essere umano. Ma lei, dalla prima volta in cui ho incrociato il suo sguardo alla panchina nel parco, mi ha fatto capire che non si sarebbe lasciata intimorire da me solo perché ho lo sguardo severo e i tacchi alti. La invito a entrare e subito rimane estasiata dalla fragranza di lasagna che ormai ha raggiunto ogni centimetro della casa.

Stranamente parlo poco. La sua vicinanza mi rende irrequieta e dissimulo offrendole un bicchiere di vino.

La voglia di avere un contatto fisico con lei a un certo punto diventa insopportabile.

Si accomoda sul divano lasciando la schiena dritta. Sulle labbra, solo ora, noto il rossetto di un colore neutro. Le unghie corte sono lucide, sembra avere lo smalto trasparente. Regge il calice col vino con le prime tre dita della mano destra e sul bicchiere non lascia alcuna traccia di rossetto: nemmeno io sono mai riuscita in quell'intento. Mi accorgo di fissarla e fuggo in cucina con la scusa della lasagna.

Le sue domande sul mio stato d'animo mi danno il colpo di grazia. Così, mi ritrovo a fingere uno sconforto per una conversazione avuta nel pomeriggio con mia madre. La conversazione c'è stata ma non sono angosciata per quello, sebbene mi abbia schernita in modo più feroce rispetto al solito. Ma non mi interessa più di tanto.

Quello che mi sono accorta di volere è essere confortata da Emma e la sua premura non tarda ad arrivare. E quando la sua mano scivola sulla mia tutto diventa più ostico, incontenibile, tanto da dover scappare a prendere un po' d'aria e, con quella scusa, mostrarle il contratto.

Non capisco queste mie sensazioni. Non mi spiego nemmeno il perché dell'invito a cena, insomma, il contratto potevo farglielo leggere al bar e l'avrebbe firmato. Sentivo di volere stare in sua compagnia.

Le sue attenzioni, la sua sincerità, mi fanno respirare per la prima volta dopo la morte di Robin. Per cui, alla vista di quel maglioncino bianco, le Converse e i capelli dorati sciolti sulle spalle, capitolo, perché al benessere psicologico che lei mi dava si andava a sommare quello fisico... è bella. Molto bella. Ha una bellezza pulita, di quelle che non hanno mai vissuto odio nel quotidiano. Di quelle bellezze che amano chi vogliono e quando vogliono, a costo di andare contro corrente. Leggo la purezza nei suoi occhi, come la leggo in quelli di Henry. La sua disponibilità verso di me non ha secondi fini, nonostante io abbia capito che in qualche modo le piaccio.

E questo piacerle piace anche a me... e voglio sfruttarlo per Henry. Perché se Henry sta bene, di sicuro sto bene anche io.

Le lasagne sono state decisamente un successo, e anche lo spezzatino e tutto il resto. È estasiata per tutto quello che le offro. E io ne sono felice.

«Credo che non riuscirò più ad alzarmi da qui» mi dice poggiando i gomiti sul tavolo «ho preso come minimo tre chili».

Ha le gote rosse per via del vino.

Abbasso le luci del salotto. Le tre candele accese sul centro della tavola rendono il clima più rilassato e complice. Continua a sistemarsi i capelli tutti da un lato lasciando scoperta l'altra spalla. Vedo perfettamente la clavicola e sul collo, scorgo pulsare la carotide. Abbasso lo sguardo e un sogghigno emerge dalle mie labbra. Se ne accorge.

«Che c'è?» chiede curiosa.

«Nulla, mi sono ricordata lo sguardo infuocato della tua ex quando ci ha viste» la prima cosa che mi viene in mente.

Lei pare rattristata da questa frase, ma non la elude.

«Credimi, ha fatto paura anche a me, ma ora non si avvicinerà più» mi fissa e sto in silenzio «ha deciso di partire e riprendere in mano la sua vita. È una brava persona e spero che possa stare bene» incrocia le braccia sul petto.

«Quando ti sei innamorata per la prima volta?» sputo queste parole in modo decisamente poco ponderato. Ma il vino mi sta dando alla testa.

«Avevo...» infila le sue dita tra i capelli, portandoli indietro, disordinatamente.

Questo non lo doveva davvero fare.

«Sedici anni mi sembra. Ero a un campo estivo e una dolcissima fanciulla dai capelli neri era molto dolce con me, gentile, attenta. E io avevo maturato una voglia malsana di baciarla. E un giorno l'ho fatto. E lei mi ha detto: sei la migliore amica lesbica che potessi avere».

Rimango accigliata un attimo poi scoppio in una fragorosa risata.

«Volevo il lieto fine per sentire il tuo lato romantico e mi parli di friendzone, non è giusto!».

Lei mi guarda divertita. Mi faccio beffe di lei e le piace. Passo le mani tra i capelli, portandoli indietro.

«Mi stupisce che tu conosca la parola “Friendzone”, ma evidentemente ti reputo più grande di quanto in realtà tu non sia» si colora un po' sul viso e abbassa lo sguardo, come se avesse timore della mia reazione.

«Ho 33 anni, non sono così vecchia come pensi».

La forchetta con cui giocherella cade pesantemente sul piatto facendo un gran baccano. Occhi spalancati, insieme alla bocca.

«Tu hai... cioè...» incerta su come continuare, decido di inserirmi nella sua frase.

«Sì, abbiamo solo otto anni di differenza, pensavi fossi una quarantenne?».

«In effetti sì» dice di slancio «non perché li dimostri, anzi. Ma hai un modo di fare assolutamente da vera adulta e se dovessi darti un'età, te ne darei 28 per la tua pelle e sì, 40 per atteggiamenti e abbigliamento» fa spallucce.

Sono un po' sorpresa e anche rattristata da questa sua analisi, sono davvero così triste e sconsolata?

«Ai tuoi occhi devo essere una persona alquanto triste» verso un po' di vino nel mio bicchiere. Faccio cenno verso il suo e lei acconsente.

«In realtà credo che ti ponga in questo modo per intimorire gli altri, così sei più sicura che ti prendano sul serio, anche in ospedale, per esempio» sorseggia dal bicchiere.

Forse ha azzeccato il mio stato d'animo quotidiano.

«Invece tu? Quando ti sei innamorata per la prima volta?» mi rivolta la domanda.

«A ventiquattro anni. Avevo appena terminato l'università, ero sposata con un uomo che non amavo e che mia madre mi aveva costretto a sposare a 20 anni. Ho incontrato il padre di Henry e...» ripensare a quei momenti è doloroso ma sento di poterne parlare con lei, di potermi fidare. Non mi avrebbe giudicata, non avrebbe sparato sentenze sull'essere stata succube di una madre severa tanto da non riuscire a sfuggire a un matrimonio combinato che, per fortuna, non aveva dato vita a nessun erede. Per questo avevo usato quei metodi che erano giunti in mio soccorso. Non avrei avuto un figlio con un uomo 25 anni più grande di me solo perché mia madre bramava la sua eredità.

Emma aspetta in religioso silenzio che riprenda a parlare. In quel silenzio ci sto bene. Posso sentire i respiri di entrambe, un leggero vento fuori dalla finestra e il fiacco bruciare delle candele sul tavolo.

«...e pensavo che l'amore fosse davvero quello. La passione, il desiderio fisico di una persona, il desiderio di fare dei progetti. Mi faceva scoppiare il cuore ed ero convinta di aver fatto ricredere anche mia madre, oltre che me stessa, sull'amore. Invece...».

«Invece il più grande amore che avrai nella tua vita sarà Henry, e lui non te lo toglierà nessuno, mai».

Il mio cuore ha smesso di battere per amore tanti anni fa. È stato necessario isolarlo dalle delusioni che la vita mi aveva fatto incontrare. E l'unica cosa in cui concentravo le mie energie erano il lavoro ed Henry.

Quell'angelo dai capelli biondi sa il fatto suo.

«Invece sono scappata di casa con lui e dopo pochi mesi ero già incinta di Henry. Solo a quel punto sono tornata da mia madre e ho chiesto il divorzio dal mio primo marito. Ho sposato Robin. Due anni e mezzo dopo lui iniziò a cambiare: tornava tardi la sera e non avvertiva, ogni due mesi circa diceva di avere incontri di lavoro lontani da casa. E praticamente spariva».

C'è molto più nero nel mio racconto su di lui, ma non mi va di raccontarglielo, non ancora.

Poggia la guancia sul palmo della mano destra e si sporge verso di me. Io la imito. Siamo a tre palmi di mano di distanza l'una dall'altra, solo i fiori dividono i nostri visi.

«Non volevo vivere così. Allora ho cominciato a indagare e ho scoperto che aveva un'amante. Da tanto tempo, troppo. Quel giorno l'ho sbattuto fuori di casa e quella notte è morto in un incidente stradale, evviva» dico sarcasticamente. In realtà le cose non sono andate proprio così... ma ora non voglio esagerare con i racconti traumatici.

«Non tutte le donne lo avrebbero mandato via subito. Alcune lo avrebbero addirittura perdonato».

Lo sguardo che nasce spontaneo sul mio viso è molto esaustivo. E lei capisce.

«Appunto, non tutte. Le donne spesso hanno paura di rimanere da sole, ma non tu. Tu sei molto forte, anche se non te ne rendi conto» si interrompe per poi piegare di nuovo il tovagliolo accanto al suo piatto.

«Non hai mai avuto segni di cedimento con Henry, non hai mai avuto un crollo nervoso e, credimi, sarebbe stato abbastanza semplice che tutto ciò accadesse. Se hai pianto l'hai fatto in silenzio, circondata tra le quattro mura della tua camera, magari sotto le lenzuola, e magari ti sei anche sentita in colpa» alza leggermente il tono di voce.

Sì, avevo pianto. Sì, non ne avevo parlato con nessuno e sì, mi ero sentita molto, molto in colpa. Fa un cenno con la testa in segno di approvazione.

«È così che le donne come te perdono la luce negli occhi. Ed è un tale spreco che la sola idea mi fa imbestialire, letteralmente».

Sembra stia trattenendo le lacrime, la sua voce non è più chiara come all'inizio.

Per un po' stiamo in silenzio, con solo i nostri occhi a parlare tra loro, a scrutarsi, a conoscersi. E i suoi stanno riuscendo a conoscere quella parte dei miei che pensavo fosse morta. Un lieve bruciore arriva ai miei occhi, che in poco tempo si appannano. Un groppo alla gola mi impedisce quasi di respirare. Subito la sua mano stringe la mia. I suoi occhi sono lucidi.

«Caccia indietro le lacrime, domani devi lavorare? Se la risposta è no, io devo andare al fiume dove mi hai letteralmente pedinata stile stalker e devo salire su una rupe poco lontana. Vedrai quel che farò, e lo farai anche tu, ti libererai!»

Prende il tovagliolo e tampona gli angoli dei suoi occhi. Passo lo sguardo su di lei e poi alla mano che continua a stringere.

«Io no... cioè domani lavoro di pomeriggio».

«Perfetto» esclama mettendosi in piedi e lasciandomi la mano. Quel calore già mi manca.

«Voglio vedere la camera di Henry, se posso ovviamente».

È piena di energie, non faccio in tempo nemmeno a riprendermi da quella discussione che già ha trovato un altro argomento.

Mi alzo un po' incerta, quasi per colpa di una vertigine ma no, non è quello. È solo che mi sento stanca, non di lei, ma di come stare con lei risucchi ogni energia dal mio corpo, fisica e mentale.

«Vieni, seguimi».

Percorriamo i venti scalini che separano il piano inferiore da quello superiore. Non sento nemmeno i suoi passi dietro di me. Con la coda dell'occhio noto che fa scorrere il palmo della mano sul corrimano della scala.

«Mi piace la tua casa, è grande, spaziosa, ordinata... pulita» me ne sto in silenzio ad ascoltarla, come una bambina che ascolta rapita la voce della madre. Mi piace la sua voce.

«Grazie» mi fermo di fronte alla camera di Henry e spalanco la porta.

«Eccoci qui».

Fa due passi per poi rimanere a guardare il tutto da lontano. Poi si sposta verso il comodino e si sofferma sul libro posato sopra di esso, “Il piccolo principe”. Superato il letto si affaccia dentro la tenda da campeggio che Henry non ha mai voluto smontare dopo la morte del padre. Poggio la mia spalla sullo stipite della porta.

«E questa?» chiede in modo curioso.

«Dovevano andare in campeggio una settimana dopo la sua morte e non ha mai voluto smontarla. Ogni tanto lo trovo addormentato là dentro ma non ci sono mai entrata, non ho idea di cosa abbia portato, non voglio invadere quello spazio che è solo suo».

Mi siedo sul letto e accarezzo dolcemente il cuscino.

«Bè, faremo in modo di andare anche in campeggio allora, magari ci vorrà andare con te, no?»

Si accomoda accanto a me, facendo scivolare entrambe le braccia dietro di lei e poggiandosi ad esse.

«Certo, come no» dico sconsolata. Poi si allunga sulla scrivania di fronte a noi e mi porge una foto.

«È questo suo padre?» prendo quella cornice tra le mani. Ricordo perfettamente il momento in cui scattai quella foto. Henry aveva 4 anni, aveva appena finito l'anno di scuola materna e aveva ricevuto il premio come miglior bambino dell'anno. Lui mostrava orgoglioso la sua medaglia mentre suo padre lo teneva sulle spalle.

«Sì, è lui» rispondo sarcastica alzando un sopracciglio.

«È un bene che somigli a te il bambino» uno sguardo colpevole compare sul viso e subito mette le mani avanti come per scusarsi. Poi strabuzza gli occhi quando si accorge che è quasi l'una di notte.

«Ma è tardissimo!» esclama disperata.

«Vai a letto con le galline di solito?» rispondo io «non abbiamo cani che ci inseguono, non c'è nessuna fretta».

Non voglio che se ne vada. Sto bene quando lei è vicino a me. Bene davvero. E trovo difficile rinunciare a questa sensazione ora che ho una gran voglia di piangere. E so che appena lei uscirà da questa casa, calde lacrime bagneranno il mio viso.

«Niente cani ma domani ci servono energie!» piega gli avambracci sulle braccia per mettere in evidenza un bicipite ovviamente nascosto dal suo maglioncino bianco.

Si mette in piedi e la imito, precedendola, mentre torniamo in salotto. Prende la sua borsa.

«Sono stata davvero bene e grazie per la cena. Domattina alle 10 ti voglio sulla porta. Tenuta sportiva, mi raccomando!» è assolutamente su di giri e non voglio fare a pezzi le sue aspettative.

«Farò del mio meglio» la accompagno alla porta.

«Grazie per la compagnia, la prossima volta faremo in modo ci sia anche Henry» assumo un tono di voce più allegro rispetto a prima.

«Oh, sono certa che ci faremo delle bellissime chiacchierate tutti e tre insieme» supera tutti e tre i gradini con un salto e mi saluta.

«Non farmi lavorare anche oggi, fai attenzione! A domani».

Chiudo la porta.

Mi accascio lentamente a terra. Aspetto le lacrime.

Niente. Ho voglia di piangere ma non vogliono saperne di uscire. Spero davvero per Emma che abbia un buon modo per allontanare dalla mia testa questa tensione o scoppierò.

Sistemo piatti e bicchieri nella lavastoviglie e conservo le lasagne rimaste nel freezer. Tovaglioli e tovaglia vanno dritti nel cesto della biancheria.

Infine, vado fino alla mia camera.

E penso ad Henry, come tutte le sere.

 

Note dell'autrice: eccoci qui. Come già detto, martedì prossimo non pubblicherò il capitolo 11, tornerò il 5 di aprile. Spero non mi odierete per questo. E, chi ha letto la mia precedente long, noterà una certa somiglianza con questa, in questo particolare momento della storia. Sono stata davvero poco fantasiosa in questo punto, ma credo che, in seguito, riuscirò a farmi perdonare.

Grazie a chi continuerà a seguirmi, buone (brevi) vacanze!

M.

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Capitolo 11
*** Rinascita ***


Ho passato tutta la notte in dormiveglia. La tensione, l'emozione accumulata nella serata precedente e l'idea di poter fare qualcosa che sicuramente l'avrebbe fatta star meglio mi fa sentire piena di energie. Attendo con ansia il suono della sveglia, così da non dover stare a girarmi i pollici per troppe ore. Improvvisamente suona.

Driiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiin.

Scatto in avanti, sorridente. Mi fiondo fuori dalle coperte, quasi saltellando e facendo scricchiolare il pavimento in legno ormai vecchio e cigolante. Col nuovo stipendio potrei presto cambiarlo ma amo quel vecchio pavimento, con le venature del legno ben in evidenza, il bianco della vernice ormai consumato, alcune travi più strette delle altre con delle fessure abbastanza spesse da far sparire forcine o monete oltre che tanta polvere. Alcune di esse possono essere smontate, per cui quando capita, ripulisco e sistemo.

Arrivo di fronte alla finestra per sbirciare il cielo: c'è un bellissimo sole e nessuna nuvola all'orizzonte. Esattamente quello che mi serve.

Il getto dell'acqua mi rilassa un pochino e mi lascio cullare dalle sue carezze, ipotizzando mille possibili scenari di quella mattinata. Quella donna e quel bambino mi hanno letteralmente sconvolto l'esistenza in bene, e in questo preciso istante non riesco a pensare alla mia vita senza di loro. Semplicemente non avrebbe senso. Henry è la mia sfida e sono certa riuscirò a vincerla.

E Regina... bè, anche Regina in qualche modo lo è. Non ha bisogno di essere incoraggiata: sa bene quanto vale, sa di essere eccezionale, ma pecca di modestia e ottusità quando pensa di non meritare la felicità come donna. Una donna, l'essere femminile non può essere solo una lavoratrice, o solo una moglie, o solo una madre. Ci sono donne che vogliono essere solo una di queste cose e sono molto triste per loro perché si perdono davvero tante cose che potrebbero arricchire la loro vita in modi inimmaginabili. Regina ha un lavoro e un bambino che ama. Ma leggo nei suoi occhi e sento nel suo desiderio di un contatto fisico che le manca essere donna. Donna con qualcuno da amare e da cui essere riamata.

Sono anche perfettamente consapevole di non avere alcuna chance con lei. E mi piacerebbe averla. Oh, farei carte false per avere quella donna ma non posso essere io quella che vuole. Io voglio solo vederla sorridere. Insieme a Henry. Recuperando il rapporto con lui ritroverà se stessa e saprà lasciarsi andare a un nuovo amore.

Quell'idea mi fa venire il mal di stomaco ma decido di accantonare i miei buoni propositi per godermi quelle ore con lei che sarebbero arrivate a breve.

Leggins, felpa sottile e scarpe da ginnastica. Sono pronta.

In anticipo, decido di fermarmi in una caffetteria a prendere dei caffè e dei buonissimi cupcake al cioccolato che ci avrebbero accompagnate lungo il tragitto. Svolto l'angolo e mi apposto di fronte al suo cancello. La vedo, mi sta aspettando. Mi regala un immenso e incantevole sorriso prima di farmi un cenno con la mano, poi chiude la porta alle sue spalle.

Dio, quanto è bella.

Il cuore dentro al petto si muove in modo inconsulto, quasi lo avessi incatenato e volesse fuggire per raggiungere il suo di cuore, che mi sta portando al manicomio.

Apre la portiera e la prima gamba fa capolino dentro l'abitacolo. Abbasso lo sguardo per cercare di capire se quel che vedo è realtà o me lo sto immaginando.

«Cioè ti sei comprata le Converse bianche? Come» piego il ginocchio verso il mio petto per mostrare le mie «queste?».

Lei sottrae il suo viso alla mia vista con la giacchina che ha tra le mani per poi svelare gli occhi e confessare.

«Volevo sembrare più giovane accanto a te, per non sembrare tua madre e le Converse a quanto pare ringiovaniscono tantissimo, quindi eccole».

Allarme rosso. Voglia di baciare quel sorriso.

Emma, ce la fai. Puoi respirare e darle il caffè.

«In effetti ora quella vecchia sembro io» dico sorridente, con finta calma «caffè e cupcake per il tragitto, ti piacciono?» col dito le indico la bustina con i cupcake.

«Oh ma grazie, non dovevi, certo che mi piacciono! Adoro i dolci!».

Posa la giacchina sulle gambe, ordinatamente piegata. Poi afferra il mio e il suo caffè dalle mie mani e mi suggerisce di partire.

Metto la prima e vado.

Una volta immesse nella superstrada mi restituisce il caffè. Lei ha già dato qualche sorso al suo bicchiere mentre mi racconta senza un attimo di pausa gli ultimi aggiornamenti mattutini del viaggio di Henry.

«La maestra, non quella che ci ha provato con me, mi ha inviato delle foto, guarda» fa sparire la sua mano nella sua borsa, alla ricerca del cellulare. Una ritrae Henry con un sorriso che mai gli ho visto, insieme alla sua compagnetta dai capelli rossi, con alle spalle la statua della libertà. Nell'altra lo stesso Henry è assolutamente preso da un animale mai visto, probabilmente in uno zoo.

«Ok ora guarda la strada però, o rischiamo qualche incidente».

«Sei tu che me le hai fatte vedere. Comunque sembra proprio felice. Visto che hai fatto bene a mandarlo?» un altro sorso di caffè, mentre lei abbassa il bicchiere dalle sue labbra. Non la guardo, se ne sta in silenzio.

«Magari mi vorrà raccontare quel che ha fatto» dice con tono speranzoso.

In realtà io non sono così positiva su questo. Henry deve prima fare i conti con quello che lo tormenta, solo dopo riuscirà a confrontarsi con sua madre. Ma non voglio spegnere quella luce nei suoi occhi.

«Sì, può darsi» inizio «ma non abbatterti se non accadrà. Arriverà sicuramente quel momento, te lo prometto» la guardo in modo confortante e lei sospira, con la testa poggiata al sedile. Poi torno sulla strada e scorgo la nostra uscita. Poggio il mio caffè nel contenitore di cartone che mi hanno dato al bar e prendo lo svincolo.

«Di solito non fai questa strada per andare al fiume» mi dice.

«Lo so ma la scogliera è più lontana e passando da qui faccio più in fretta. Altri dieci minuti e siamo arrivate comunque, abbiamo il tempo di mangiare quelli» ammicco e lei prende la bustina. Un enorme cupcake fa capolino dalla busta.

«Un'iperglicemia assicurata insomma» dice prima di dargli un morso.

«Com'è?» chiedo curiosa.

«Mmmm» dice con un tono sexy da morire. Ma sono certa che lei non se ne rende conto. La scorgo mentre mastica lentamente, completamente estasiata.

«Mai mangiati cupcake più buoni, superano di gran lunga i miei!».

Mette vicina la bustina così che anche io posso afferrarlo. Lo mordo e...soffice e buonissimo come al solito.

«Babba bia, erano secoli che non li assaggiavo» parlo con la bocca piena, rendendo quasi incomprensibile la mia frase.

Regina scoppia a ridere, rischiando quasi di soffocare col suo boccone.

«Ops, scusa!» le dico poi, imitandola nella risata.

«Comunque, c'è qualcosa che non sai cucinare?» chiedo seriamente incuriosita.

Lei ci pensa un pochino poi come colta da un'improvvisa illuminazione dice: «Sì, la crema catalana! Ci ho provato milioni di volte! Una volta si è bruciata, una volta è rimasta completamente liquida e l'altra si è solidificata stile gelato. Alla fine ho deciso di puntare su altri dolci» fa sparire l'ultimo boccone tra le sue labbra «tipo questi!».

«Oh, è bello sapere che anche tu sei un'umana, mi rincuora molto...ohh eccoci!» esclamo.

Un posto assolutamente dimenticato da Dio. O forse se lo ricorda molto bene, per questo gli esseri umani non lo frequentano.

Spengo la macchina al centro di uno sterrato. Il fiume in quel punto è molto grande e rumoroso per la piccola cascata che nasce dalla scogliera che andremo a scalare. Diciamo che sono sei o sette pietre da superare, niente di impossibile. La scogliera si estende per lo più in larghezza ma ciò che la stupirà sarà quello che c'è oltre quell'ammasso di pietre.

Capisco che dice qualcosa dal movimento delle sue labbra ma il rumore dell'acqua è troppo forte per poter percepire la sua voce.

«Non ti sento, parla più forte» dico a voce molto alta.

Lei chiude lo sportello e mi si avvicina passando dalla parte posteriore del veicolo.

«Invece di urlare basta avvicinarci, no?».

Aggrotta le sopracciglia e chiude anche la mia portiera. Mi piacciono le donne che sanno prendere l'iniziativa.

«È molto bello, ma non capisco davvero cosa dobbiamo fare qui, ti avverto che non ho intenzione di buttarmi da là sopra!» indica il punto più alto della scogliera e il suo sguardo trasuda paura. Dobbiamo raggiungere esattamente quello ma non dobbiamo buttarci, non l'avrei mai fatto.

«Vieni con me, e metti i piedi esattamente dove li metto io se non vuoi farti male» dal portabagagli prendo un piccolo zainetto e lo metto in spalla.

«D'accordo capo, ma da lì non mi butto!» ripete di nuovo impaurita e decisa.

Io mi limito a sorridere e inizio a camminare. Uno stretto sentiero ci guida fino alla prima roccia. In pochi passi riusciamo a raggiungerlo. Lei è un po' lenta solo perché non conosce bene come me i punti dove poggiare i piedi, ma ben presto riesce a imitare le mie mosse senza dovermi fare delle domande. È estremamente concentrata ma non mostra segni di cedimento, segue il mio ritmo come un piccolo scout.

Le mie corde vocali iniziano a prepararsi a quello che di lì a breve avrei fatto. Le braccia e le gambe tese si sarebbero praticamente sciolte, lasciando il posto a una sensazione di tranquillità e pace che mi avrebbe aiutata per le prossime settimane. Dopo un quarto d'ora riesco a raggiungere il punto più alto. Lei è ancora ferma allo step precedente e fissa incantata ciò che le si presenta di fronte: il mare.

La chiamo dall'alto della rupe e lei alza il viso per posare lo sguardo su di me. Le sorrido e lentamente l'espressione del suo volto muta. Gli occhi si socchiudono leggermente, le labbra si allontanano per scoprire i denti bianchissimi e quel suo sorriso quasi mi travolge. Il sole la colpisce sul lato destro del corpo, emettendo dei giochi di luce di mille colori, tanto da rendere difficile guardarla senza sentire del fastidio agli occhi. E il luccichio del sole sull'acqua del mare è niente in confronto alla luce che emanano in quel momento i suoi occhi. Poi si scosta un ciuffo di capelli dal viso e mi sembra di sprofondare in un precipizio che ha il suo nome. Solo la sua mano verso di me può salvarmi, la stessa mano che mi chiede aiuto per raggiungermi.

Finalmente siamo una di fianco all'altra, con lo sguardo fisso oltre l'orizzonte.

«Una faticaccia ma ne vale la pena, non credi?» domando senza interrompere il contatto visivo col mare.

«Assolutamente sì» risponde convinta.

«E ora?» mi volto verso di lei, che mi guarda in attesa di una risposta.

Mi scosto un po'. Allungo le braccia sopra la mia testa, poi prendo un profondo respiro e inizio ad urlare.

Urlo fino a non avere più fiato. Piego il mio corpo quasi su se stesso e continuo ad urlare e a buttare fuori tutto quello che impaccia i miei pensieri, la mia tranquillità, il mio futuro. Elisabeth, la paura di non riuscire con Henry, il terrore di non poter controllare quello che inevitabilmente provo per Regina. Faccio uscire tutto, così da volare via da me, lontano, trasportata dal vento, in un luogo a me sconosciuto. Mi libero di pesi e ansie, scaccio via le lacrime senza farle cadere dagli occhi, mando via la paura senza farla passare dal mio petto.

I miei polmoni e le mie corde vocali chiedono pietà, e così interrompo la mia performance degna del miglior film dell'esorcista. Ansimo e cerco di recuperare un po' di quell'aria che con troppa forza ho sputato via da me. Poi la guardo.

Regina mi fissa con occhi quasi terrorizzati. Le braccia incrociate al petto quasi a volersi proteggere da me.

«Sto decisamente meglio, fiuuu» sospiro di nuovo e mi ricompongo. Abbasso le maniche della felpa, sistemo i capelli e mi avvicino a lei. Le slego letteralmente le braccia, la afferro per un polso per trascinarla al mio posto.

«Ora tocca a te» glielo comunico senza mezzi termini.

«Eh?» sembra assolutamente sorpresa.

«Tocca a te, urla, ti farà bene, vedrai».

«Non voglio sembrare un bipolare in fase maniacale».

Mi aspettavo questa risposta.

«Oh, non dire assurdità» sono di fronte a lei.

Si morde il labbro inferiore e fissa i suoi piedi «quand'è l'ultima volta che hai pianto in un modo da rendere concreta questa parola?» le giro attorno. Voglio innervosirla, voglio scuoterla, voglio che si senta libera. Se non con me, almeno con se stessa.

«Te lo dico io, secondo me non l'hai mai fatto, tua madre non te l'avrebbe mai permesso e tu non volevi darle un ulteriore motivo per odiarti».

Da dietro vedo le sue mani stringersi in due pugni.

«Puoi dirlo che odii tua madre, qui non ti sentirà nessuno» piccoli passetti attorno a lei. Nel suo corpo cambia qualcosa. Sento il respiro farsi irregolare, il petto alzarsi e abbassarsi, il piede destro picchiettare veloce sulla roccia.

«Odio quella donna. Mi ha rovinato la vita» lo dice piano, timorosa che la persona a cui è indirizzata la frase possa sentirla.

«Non ti sento» le dico vicino al suo orecchio.

Si volta verso di me. Quegli occhi neri avrebbero fatto paura al peggiore degli assassini.

«Odio quella donna!» esclama con forza. Respira pesantemente.

«E poi cosa odii Regina? Dillo al mare, dillo all'acqua, dillo a me ma soprattutto dillo a te e poi starai meglio» allargo le braccia «siamo solo noi. Io e te».

Con le labbra socchiuse e tese mi fissa arrabbiata. Chiude poi gli occhi e inizia a parlare.

«Odio il mio primo marito perché non lo amavo e non volevo sposarlo. Lo odio perché mi ha praticamente stuprata dopo la prima notte di nozze. E io sono stata ferma e zitta, come volevano che facessi. Lo odio perché lo ha fatto ogni sera per due mesi, fino a che non ha provato più piacere nemmeno in quello e allora se lo concedeva una volta ogni tanto».

Su quella roccia si possono fare più o meno cinque passi avanti e indietro. Ha detto solo una frase ma ho perso il conto di quante volte ha fatto su e giù in quel piccolo spazio. Indietreggio e poggio la schiena alla scogliera, in silenzio, aspettando il suo prossimo sfogo.

«Oh mia madre, quella donna. Oh, lei è una gran bastarda, sai?» mi guarda con occhi assatanati prima di continuare «Mi chiedeva ogni mese se fossi incinta. Era l'unica cosa che le importava. E quante me ne ha dette quando ho divorziato! Quella donna non doveva procreare, doveva nascere sterile, almeno non avrei sofferto così! E poi arriva il top dei top! Mister perfezione! Il principe dei sogni col cavallo bianco e la calzamaglia che salva la povera e indifesa principessa rinchiusa nella torre del castello e poi che fa? Si fa l'amante! Oh questo sì che è un principe con i contro coglioni! Queste sì che sono persone degne di essere definite tali, queste dovevo incontrare nella mia vita, eh Emma? Mi spieghi perché?» ha fatto il mio nome ma non mi guarda. Continua a guardare il cielo e poi i piedi e poi il mare e a camminare quasi a voler consumare le scarpe.

«E poi mio padre, che giustamente muore quando avevo sedici anni lasciandomi sola con quella strega. Lui non le avrebbe mai permesso un matrimonio combinato per me!»

Urla.

Eccolo finalmente. Il suo tono di voce è andato crescendo per quei dieci minuti di sfogo. Ondeggia quasi, mentre si lascia trasportare dall'urlo liberatorio. Le mani tra i capelli, le gambe lievemente divaricate per mantenere l'equilibrio.

Me ne sto ferma a guardare quella splendida creatura che forse avrebbe ricominciato a vivere.

L'urlo si fa flebile e viene sostituito da singhiozzi. Sapevo che sarebbe arrivata anche quella fase. Nel mio zainetto ho sufficienti fazzoletti per tutte le lacrime che deve piangere. Lentamente si accascia a terra, scossa da tremiti e singhiozzi. Ha eliminato ogni freno inibitore e ora, per la prima volta, si lascia andare a tutto il dolore che ha accumulato in quegli anni.

Il piccolo plaid è pronto tra le mie mani. Le avvolgo le spalle e la cingo in un abbraccio.

«Va tutto bene Regina, va tutto bene».

Mi inginocchio accanto a lei. La sua testa si adagia sul mio petto e il mio cuore viene contagiato dal galoppo del suo. Troppe le emozioni che sento in quel gesto così semplice. Poi le sue braccia cercano il mio collo, e il viso trova il suo porto sicuro accanto al mio.

Per la prima volta nella mia vita sento di abbracciare un corpo che coincide perfettamente col mio. Perfino le sue lacrime che bagnano il mio viso, perfino in quella posizione scomoda, sulla dura roccia, non c'è un solo muscolo che si senta in tensione, inibito, fuori posto. Tutto è al posto giusto.

Singhiozzi strazianti ci accompagnano ancora per un po' insieme alla stretta del suo abbraccio. La mano destra è chiusa a pugno mentre la sinistra, aperta, scorre su e giù per la mia schiena. Le accarezzo dolcemente i capelli e aspetto un piccolo gesto, un piccolo messaggio del suo corpo che mi dica che è ora di staccarsi. Ma non arriva nulla di tutto ciò.

Anzi, la sua stretta si fa più forte quando le lacrime cessano e l'unico rumore attorno a noi è quello delle onde del mare. Rispondo al suo abbraccio, facendo aderire il mio corpo più strettamente al suo, facendole sentire quanto il mio cuore impazzisca accanto a lei.

«Come ti senti ora?» chiedo avvicinando la bocca al suo orecchio.

Sento un profondo sospiro dalla sua schiena su cui sono poggiate le mie mani.

«Cefalea, astenia, bruciore oculare, tachicardia, agitazione, vuoto».

«Sembra una cartella clinica» un ridolino scappa dalla sua bocca. Poso le mie labbra sui suoi capelli e a qual punto le sue braccia cedono, staccandosi un po' da me per poi guardarmi negli occhi.

Quegli occhi. Quell'oro nero luccicante, mi guardano. Quella dolcezza. Non c'è niente in quegli occhi, c'è soltanto un universo intero. E io non riesco a parlare, non riesco a pensare, non riesco a respirare. Non mi accorgo nemmeno che la sua mano si posa sul mio viso, sulla guancia che sento diventare incandescente sotto quel tocco e la sua fronte che si posa sulla mia.

«Grazie Emma. Grazie, davvero» il suo fiato sulle mie labbra.

Baciala ora, Emma, non potrai farlo mai più. Questo bacio rimarrà nascosto, custodito dalle onde del mare, portato via dal vento, e lei lo dimenticherà, mentre io porrò fine a questa tortura.

I suoi occhi si sono chiusi quando mi ha ringraziata. E io ho chiuso i miei.

Poi un tocco morbido sulle mie labbra. Improvviso, caldo, inaspettato come la pioggia d'estate. Le sue labbra sulle mie. Apro gli occhi, devo realizzare che non è frutto della mia immaginazione.

Mi sta baciando. Un piccolo e casto bacio si alloggia sulle mie labbra e per quanto voglia contenermi, per quanto la sola idea di prolungare quel contatto venga considerata dannosa dalla mia coscienza, non mi contengo. Se quello è il suo modo per ringraziarmi, io voglio ringraziare lei. Voglio però guardarla un attimo negli occhi.

Mi scosto da lei giusto il tempo di un respiro. Lei mi guarda a sua volta posando la mia mano sul suo petto. Qualcosa sta bussando con forza dall'interno: il suo cuore.

Sfioro le gote umide con le mie dita prima di far toccare di nuovo le mie labbra con le sue, gustando quel sapore di vaniglia misto a lacrime. E quando la bocca si socchiude lasciando lambire le lingue, capisco che la strada per l'inferno è l'unica che voglio percorrere. Perché lei mi ci avrebbe portata di sicuro all'inferno.

Fuoco e fiamme si sprigionano dal mio corpo. La stringo forte in vita, la voglio più vicina, la voglio addosso. La voglio e basta. Ma ciò che più mi rende incapace di tornare in me è il suo modo di toccarmi, le sue mani che graffiano il collo, i suoi denti che mordono le mie labbra.

I suoi capelli neri totalmente scompigliati e fottutamente sexy.

È diabolicamente sexy.

Poi si ferma.

Io mi fermo.

Il vento arriva a raffreddare i nostri corpi.

«Voglio andare a casa».

Sapevo che per lei non avrebbe significato la stessa cosa, ma...

«Voglio andare a casa con te, adesso».

Ok no. Nel mio migliore film mentale al massimo lei diceva che era stato bellissimo e che mi stimava come non mai.

Si alza in piedi e raccoglie plaid e zainetto. Rimango ancora bloccata nella mia posizione, con le ginocchia ormai diventate un tutt'uno con la roccia. La sua mano compare di fronte a me.

«Andiamo, per favore...» è decisamente una supplica.

Le afferro la mano e scendiamo lente quegli scogli.

Mi ferirà, lo so.

Ma non posso e non voglio rinunciare a questo piacevole dolore.

 

 

Note dell'autrice: come promesso, sono tornata :)

Devo dire che sono seriamente emozionata per le reazioni che avrete da questo capitolo, e anche rileggerlo mi ha dato un piccolo brivido alla schiena, tanto che non vedo l'ora di sapere cosa ne pensate.

Come avevo anticipato, la location e la situazione somiglia molto alla precedente storia da me scritta, ma vi assicuro che il seguito non avrà nulla a che fare con essa.

Ringrazio come al solito la mia Susan e Nadia per le correzioni.

E grazie alle mie affezionate lettrici <3

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Capitolo 12
*** Odi et Amo ***


Tremo.

Tremo per quello che sono riuscita a dire per la prima volta a voce alta.

Tremo per l'odio con cui ho pronunciato certe parole.

Tremo per come ho definito mia madre.

Tremo per come ho definito il mio primo marito.

Tremo per come ho definito Robin.

Tremo per come, dopo avere urlato il mio disprezzo, l'odio verso di loro è quasi scemato.

Tremo perché Emma mi ha stretto come se fossi il cristallo più fragile al mondo.

Tremo perché il mio cuore non ha pace.

Tremo per il calore che ha invaso il mio corpo quando mi ha guardato dritta negli occhi e più in profondità, come a volere eviscerare il mio dolore e farlo suo.

Tremo perché il desiderio di baciarla ha superato la paura di farlo.

Tremo perché se ripenso alla sfacciataggine con cui le ho detto che volevo andare a casa con lei, arrossisco.

Tremo perché durante il viaggio di ritorno, teneva strette le mani sul volante e io ne ho presa una e l'ho stretta forte.

Tremo perché lei ha ricambiato la stretta altrettanto forte, e nel suo sguardo potrei giurare di aver letto la parola “finalmente”.

Tremo perché non so come spiegare né dare un senso a quello che voglio da lei in questo momento.

Tremo perché siamo di fronte a casa e io voglio solo essere dentro, con la porta chiusa alle mie spalle.

 

Tremo.

 

La porta è chiusa, e le quattro mura ci proteggono dal mondo là fuori che forse non capirebbe tutto questo. Lei è ferma e decisa a non fare il primo passo, non vuole forzare una porta che solo io posso aprire.

Prendo il cellulare dalla borsa senza mai staccare il mio sguardo dal suo.

Chiamo l'ospedale e mi do malata.

Lei, stupita, prende a sua volta il cellulare e alla velocità della luce digita qualche sms, per poi lasciare quel fastidioso oggetto sul primo mobile disponibile.

Si lecca le labbra e mi guarda. Continua a guardarmi incessantemente, continuo a leggere versetti interi di poesia dentro quegli occhi color acquamarina. Allunga un passo verso di me e io ne faccio uno indietro, verso le scale. Sembra turbata da questo mio allontanamento, ma voglio che mi segua. Desidero che quei versetti siano solo per me e c'è un solo posto dove sono certa che non saranno mai contaminati da sguardi o persone: la mia camera.

In preda a un tremore ormai incontrollato, percorro gli scalini. Piano, uno ad uno. A ogni passo il mio respiro si fa sempre più profondo. Ho fame d'aria, l'ossigeno non mi basta e la temperatura che sembra avere raggiunto il mio corpo mi dà la sensazione di essere in preda a un febbrone da cavallo.

Ferma di fronte alle scale, solleva una gamba e posa il piede sul primo gradino. Poi ritorna nella sua posizione di partenza. Solo allora le faccio un leggero cenno con la testa, un cenno di approvazione. Da lassù inizio a slacciarmi le scarpe, in attesa che lei mi raggiunga. Rimangono lì, nel percorso fatto dal mio corpo e dal suo. Mi imita slacciando le sue, disinteressandosi della loro collocazione nel lungo corridoio. I suoi capelli cadono morbidi sulle spalle e i passi verso di me sono fastidiosamente lenti, una lentezza che segue la mia in ogni movimento, quasi come un'ombra.

Il cuore ha ormai raggiunto una velocità senza eguali. Le faccio strada attraverso la porta, che chiudo alle mie spalle nel momento in cui la supera, poggiandomici contro, per sostenermi.

Rimango lì, ferma, con le braccia lungo i fianchi e la bocca socchiusa, mentre lei si sfila la leggera felpa che lascia cadere sul pavimento, rimanendo con una sola canotta addosso. Ammiro quel corpo di donna con la stessa curiosità di un bambino che scopre le sue mani.

Vorrei imitarla ma nello stesso istante in cui afferro i bordi della maglietta lei con un balzo mi interrompe. Pochi centimetri separano i nostri visi, il suo fiato caldo si mischia col mio.

«Chiudi gli occhi» mi dice con voce incerta.

Ubbidisco senza replicare.

Una viva fiammella si accende nel basso ventre quando le sue mani sfiorano le mie, e piano percorrono tutta la lunghezza delle braccia fino ad arrivare al collo. È una lentezza estenuante ed eccitante, come i suoi palmi che si spostano lungo la schiena e afferrando la maglia posteriormente e dal basso, la sollevano e la sfilano.

Tremo.

Quei cinque centimetri di differenza tra la mia e la sua altezza mi fanno sentire totalmente sovrastata da lei. Più di Robin che mi superava di venti centimetri. Mi sovrasta in decisione e delicatezza. In tenerezza e precisione.

Sento un altro tremito.

«Non voglio che tremi quando sei con me» mi afferra i fianchi facendoli aderire ai suoi. Io imperterrita continuo a tenere gli occhi chiusi, ma le mani passano inevitabilmente sui suoi fianchi, cercando la pelle sotto la canotta.

«Ora guardami».

Voglio guardarla, ma non ne ho il coraggio. Sento che tutta la perfezione del momento potrebbe essere distrutta dalla realtà dei suoi occhi che guardano i miei con passione.

«Regina guardami, ti prego» ormai la sua voce è una supplica.

Alzo le palpebre. Quello che vedo quasi mi sconvolge.

Due labbra rosse, umide, gonfie. Le gote rosse. Gli occhi lucidi e le pupille quasi completamente dilatate mi guardano nonostante tutto con dolcezza. Ha gli occhi tormentati dal desiderio, le pupille dilatate lo confermano, eppure ciò che traspare è solo dolcezza.

Il mio cuore fatica a pompare il sangue nei punti giusti.

Il cervello ormai annebbiato perde qualunque connessione con la realtà. Una realtà dove una donna sta sconvolgendo la mia vita come mai mi è successo, e io glielo sto lasciando fare, le ho aperto la porta e l'ho invitata a entrare, come il più pericoloso dei vampiri. E come tutti i vampiri, il loro fascino li rende irresistibili.

Di nuovo le mie labbra sfiorano le sue, come a voler sancire la mia totale resa al suo volere, che era mio prima ancora che diventasse suo.

Un bacio profondo e lento ci accompagna fino al letto. Mi siedo lentamente, mentre lei posa titubante le sue labbra tra i miei seni, coperti solo dal reggiseno nero. Un altro tremito mi scuote.

Le sue mani, esperte nei movimenti, scivolano sui pantaloni, sfilandoli velocemente. Eppure io ho fatto una gran fatica a indossarli.

Si ferma e mi guarda.

«Sei così incantevole che non so come toccarti senza rendere bello quello che faccio almeno la metà di quanto sei bella tu».

Non può davvero avermi detto questo.

«Ma sei vera?» mi sussurra sulle labbra per poi baciarmi di nuovo.

Il suo bacino giace sopra il mio, con le ginocchia piegate e le gambe parallele alle mie cosce. Raddrizzo la mia schiena e affondo il viso sul suo petto, deliziandomi del suo odore e portando via quella maglia che mi separa dalla sua pelle. E mentre lascio delle piccole scie con le labbra attorno al reggiseno, le sue abili mani fanno sparire il mio.

«Per favore, togliti i pantaloni».

Un sorriso sghembo accompagna quel breve spogliarello che concede ai miei occhi. Quello che inconsciamente ho immaginato, si mostra a me. Bianche, muscolose e perfette gambe rendono completo quel corpo che brama il mio.

La passione dei suoi baci, la delicatezza del suo tocco, la protezione della sua stretta, fanno tornare a galla ogni insicurezza avuta in passato, e leggere lacrime cadono sulle lenzuola. Le nota immediatamente, ma al contrario di quello che tutti avrebbero fatto, ovvero spaventarsi e mettere in discussione la mia sfrontatezza, bacia le mie lacrime, bacia le mie labbra, bacia le mie più profonde paure.

«Ti meriti questo e molto di più» la sua bocca sussurra sopra la mia pelle marchiandomi con le sue parole.

«Non piangere Regina, vivi ora. Vivi insieme a me. Questo che senti adesso è quello che devi sentire sempre, perché ti rende bella come non mai» parla al mio orecchio, in un sussurro soffocato «e anche se hai paura perché sei con me, un giorno smetterai di averne con chi tu vorrai. Perché c'è qualcuno a questo mondo che non aspetta che di baciare le tue labbra, incantarsi col tuo sorriso, morire tra le tue braccia nella più delirante passione».

Da quale opera letteraria è uscita quella donna che ho avuto la fortuna di incontrare? Per quale strano incrocio di astri lei ora è sul mio letto e l'unica cosa che voglio è che mi faccia sua? I nostri occhi incatenati temono qualunque movimento. Ma la sua mano improvvisamente si sposta sul seno per poi scendere sull'addome e sulla biancheria che mi copre. Con l'altra mano mi massaggia la nuca prendendosi un bacio lento e profondo, dove io non so più quale sia il confine tra il suo corpo e il mio.

Come trasportata in un'altra dimensione, non mi accorgo nemmeno quando lo slip non copre più la mia intimità, sostituita dalla sua gamba, su cui continua a scivolare dall'alto in basso. Quello stridere di pelle si accosta nella mia mente all'immagine di due pezzi di legno che improvvisamente prendono fuoco, aiutati da qualche foglia secca.

E noi stiamo decisamente e inevitabilmente bruciando.

La mia pelle si infiamma quando, come se nulla fosse, afferra le mie caviglie e le posa sulla parte bassa della sua schiena. Caldi baci mangiano tutto quello che riesce a raggiungere tra viso, collo, bocca e seno. Insaziabili, inarrestabili come un treno in corsa. Faccio fatica a guardarla negli occhi tanta è l'eccitazione che scorre nelle mie vene. Ma quando la sua mano sfiora ciò che di più sensibile ho in questo momento, un urlo soffocato riempie la stanza.

«Em-ma...» pronuncio il suo nome come una preghiera. Quella dolce e inaspettata tortura che quella donna mi sta infliggendo avrebbe presto avuto una fine. Io bramo quella fine (o quell'inizio) e allo stesso tempo la temo, ignara di ciò che quell'atto avrebbe significato per me e per lei. Le tocco una guancia, guidando il suo sguardo nel mio. Piega la bocca di lato e bacia il mio palmo. Poi la afferra e la porta sopra la mia testa, incrociando le dita con quelle della sua mano.

A quel punto con la mano libera, si insinua in me. La schiena si inarca senza controllo, innalzando il bacino verso di lei.

«Mi stai facendo perdere la ragione» le dico senza pensare.

Questa volta spinge più forte dentro di me, e le dita scivolano con una facilità inaudita.

La sua bocca si piega in un flebile sorriso, accompagnato da uno scuotere della testa. Così dai suoi capelli si sprigiona un profumo che mi rende necessario far avvicinare tutto il suo corpo al mio con l'unica mano libera. Non importa quanto avrebbe faticato, devo averla addosso. Quel mio gesto la sorprende, glielo leggo negli occhi.

«Oh credimi, stiamo superando l'Acheronte insieme verso l'altra riva del fiume. Sei la tentatrice più terribile che abbia mai incontrato».

Continua a citare opere che io a mala pena conosco. È un pozzo di bellezza senza precedenti. Le sue dita sembrano conoscere alla perfezione quello che stanno toccando, cosa stanno facendo.

Rotoliamo sul letto un numero indefinito di volte. Sta facendo di me quello che vuole e sembra non bastarle mai. Poi scivola verso il basso con la bocca e per un attimo temo che possa cadere dal letto...ma anche in quel caso lei sa esattamente cosa fare.

Inginocchiata sul pavimento, mi trascina letteralmente lungo tutto il letto, facendomi sedere sul bordo, così che possa avvolgerla tra le mie gambe. Sfiora le mie cosce fino ad arrivare alle caviglie, per poi risalire. Solo quando la sua bocca prende il posto della mano sulle gambe, capisco quel che vuole fare, e mi irrigidisco.

Inclina la testa verso l'alto, uncinando con le mani la zona posteriore delle ginocchia e avvicinandomi ancora di più a lei.

«Non devi avere paura. Fidati di me...»

Quella voce, quella sicurezza nello sguardo, mi rende totalmente sottomessa a lei. Il mio volere è assolutamente inutile.

O forse combacia col suo.

O forse è primariamente il mio.

Le afferro il viso con entrambe le mani per darle un bacio soffocante. Con le mani ancora tra i suoi capelli, mi incoraggia con un altro bacio verso le lenzuola e io mi sostengo sui gomiti. Le sue roventi labbra baciano piccoli punti sparsi sul mio corpo, senza uno schema ben preciso, così che io, impreparata, rimanga sempre sorpresa.

La sua bocca, la sua lingua, sanno toccare punti che parole umane non sono in grado di descrivere. Non riesco a descrivere lei, non riesco a descrivere l'eccitazione ulteriore data dal mio sapore sulle sue labbra quando queste, poi, tornano sulle mie.

Perdo totalmente la cognizione del tempo fino a che, senza nemmeno lasciarmi il tempo di prendere fiato, all'ennesima spinta dentro di me urlo il suo nome, senza freni, senza... me.

Io non sono più in quel corpo, quella non sono io.

Le sue labbra sulle mie, solo quelle mi fanno tornare da lei. E quando le sue dita mi abbandonano, mi sento per un attimo vuota. Si scosta da un lato per non pesare sul mio corpo, e mi avvolge in un abbraccio.

Mi rannicchio su di lei. Stremata e sudata, marchiata dai mille baci e dalle mille carezze regalatemi da lei, tengo gli occhi chiusi sopra il suo petto. Ne ascolto l'irregolarità, la forza. In silenzio, come due criminali che si nascondono dal mondo.

Ancora non ho avuto il coraggio di guardarla negli occhi. Mi aiuta lei, posando due dita sotto il mento e sollevandomi il viso. Mi accarezza con lo sguardo, come fossi un oggetto raro e prezioso, da contemplare. Mi ha guardata in questo modo per tutto il tempo probabilmente.

«Vorrei dire talmente tante cose che credo me ne starò zitta» esordisce prima di sfiorarmi la punta del naso con le sue labbra.

«Non mi ricordo il passaggio tra quella roccia e casa mia, qui, con te. Ho un vuoto di qualche ora e non credo di essermi mai sentita meglio».

È vero. Perché nasconderglielo? Non ho intenzione di nascondere quello che sento, come mi sento a quella che a quanto pare è l'unica amica che ho.

Amica.

Devi rivedere il concetto di amicizia, Regina.

«L'ho scordato nel momento in cui mi hai baciata».

Arrossisce e io la seguo a ruota. Sembriamo due ragazzine alla prima cotta. Che poi non so nemmeno se definirla così, so di certo che certe sicurezze tra le braccia di qualcuno non capitano tutti i giorni.

«Ne ho avuta un'immensa voglia in quel momento e anche dopo» le sorrido sulle labbra, baciandole «e anche adesso...».

Mentre la bacio, sorride.

«Cos'è quel sorrisetto? Stai gongolando» mi sollevo e poggio il viso sulla mano e il gomito sul letto. Le sfioro i fianchi mentre lei mi sistema i capelli.

«Niente...» lascia la frase in sospeso «sono felice che mi abbia permesso di farti sentire come spero ti sia sentita».

Come mi sento ora?

Libera dall'odioche è praticamente scivolato via in quel pianto liberatorio.

Libera dal timore che qualcosa possa anche solo lontanamente intaccare questo momento.

Libera dall'ansia di non riuscire con Henry.

Libera di sentirmi una donna.

«Ho una malsana voglia di toccarti» dico.

Quando ho staccato il cervello dalla bocca?

«Oh...» dice lei con finta sorpresa.

«Ma non credo di essere nemmeno lontanamente capace di fare quello che hai fatto tu».

Stampa dei piccoli baci sul mio viso, soffiandoci sopra.

«Credimi, queste labbra» me le sfiora con le sue dita «e queste mani... possono fare tutto quello che tu vuoi... ma leggo nel tuo sguardo che non ne sei davvero sicura, e io voglio solo che faccia quello che senti» afferra il lenzuolo e lo sistema sopra di me. Inizio ad aver freddo in effetti.

«E ora voglio stringerti ancora un po'...»

Mi lascio cullare da quelle sottili e forti braccia che mi fanno sentire al sicuro come mai prima.

Mille pensieri sfrecciano nella mia mente... li vedo passare ma non presto attenzione a nessuno di loro. La vista si annebbia, i muscoli si rilassano e senza nemmeno accorgermene, mi addormento.

 

Mi sveglio improvvisamente. Nel sogno Henry urlava il mio nome e io non riuscivo a raggiungerlo. Emma accanto a me mi guarda spaventata.

«Va tutto bene?»

«Sì, solo un brutto sogno... che ore sono?» quella donna mi scombussola troppo.

La sveglia sul comodino segna le 7 pm.

«Ho dormito davvero tanto» dico sorpresa.

«Evidentemente ne avevi bisogno...»

Rimango in silenzio a guardarla. Ho di sicuro compromesso la nostra amicizia e la sua lucidità a prendersi cura di Henry. Ma nonostante tutto sono felice.

Di comune accordo decidiamo di dormirci comunque su, almeno per quella notte, nessuna vuole definire quel che è successo, né dargli troppo peso. Rivestirsi diventa una fatica dopo tutto quel trambusto di mani, labbra ed emozioni.

Le stampo un lieve bacio sulle labbra prima di aprire la porta. Lei semplicemente mi abbraccia e il mio cuore riprende a cavalcare in modo inconsulto.

«Di' al tuo cuore di calmarsi o non sopravvivrà» mi sussurra tra i capelli.

La stringo più forte. Non voglio che quella sensazione di completezza e tranquillità esca da questa casa. Quando si allontana e apre la porta mi stringe la mano.

«Farò del mio meglio... ci vediamo domenica» le dico senza pensare.

Mi manda un bacio, incorniciato dal sorriso più bello del mondo.

Chiudo la porta con una immensa fatica. La mia mano trema di nuovo e stavolta conosco esattamente il motivo: voglio che rimanga con me questa notte. Non sarebbe una buona idea richiamarla indietro. Nel momento in cui la mia testa partorisce questo pensiero, il campanello di casa suona.

Lei ha avuto il mio stesso pensiero e non si è fatta nessun problema a tornare. La mia Emma.

Apro la porta.

«Hai dimenticato...» il respiro muore tra le mie labbra.

Mia madre.

«Mamma che ci fai qui?» richiudo la camicia da notte che ho infilato di fretta per accompagnare Emma.

Con un'espressione di disgusto dipinta sul suo volto varca la soglia senza nemmeno chiedere il permesso.

«Ti ho detto al telefono che Henry torna domenica, che ci fai qui oggi?»

«Da quando sei diventata lesbica?»

Una freccia in pieno petto. Non mi ha offeso la parola lesbica, mi disturba e non poco il fatto che mia madre abbia già messo bocca in qualcosa che non conosco nemmeno io.

«Io credo che tu te ne debba andare» rispondo cercando di mantenere la calma.

«È lei la baby sitter di tuo figlio?» alza la voce e inizia a passeggiare di fronte a me come se non ci fossi.

«E credi che andando a letto con lei tuo figlio ti amerà o ti parlerà di nuovo? Non credi che questo non farà altro che aumentare l'odio e lo schifo che prova nei tuoi confronti? Ma che razza di madre sei?».

«TU CHE RAZZA DI MADRE SEI!» esplodo.

«Mi hai messo nelle mani di un uomo che non amavo solo perché volevi i suoi soldi! Quando Robin è morto non hai avuto per me nemmeno una parola di conforto, anzi, hai sputato sul fatto che mi avesse tradita e che non fossi riuscita a tenermi vicina nemmeno lui! Ti dico una cosa, cara mammina, se io sono così è colpa tua! I figli si trasformano in base all'amore, alle attenzioni e agli insegnamenti dei genitori» sono arrabbiata, furiosa. E questa sarà l'ultima volta che mette bocca nella vita mia e di mio figlio. I suoi occhi sono piccoli e carichi di odio, ma non le permetto di replicare. Non stavolta.

«Mi hai insegnato che la felicità non esiste! Che i soldi sono più importanti di qualunque cosa, anche della felicità dei propri figli! E cara la mia mammina, io sarò anche un disastro come donna ma sono la regina delle madri che non butta il proprio figlio nelle mani di carnefici solo per ottenere qualcosa» mi avvicino a lei con fare minaccioso e lei, turbata, indietreggia.

«Per cui ti dico una cosa, cerca di ricordarti per bene la mia voce e i lineamenti dei mio viso, conservati le foto, guardati un filmato perché oggi è l'ultima stramaledetta volta che vedrai la mia faccia e sentirai la mia voce, ok? Tu, per me, sei morta!» la cattiveria delle mie parole rimbomba nella stanza.

«E ora fuori!» aggiungo.

«Non sai quello che dici...» tenta di rispondere ma non le lascio il tempo.

«HO DETTO FUORIIII!»

La saliva nella mia bocca è praticamente inesistente. Le tempie pulsano dolorosamente e un peso si fa strada nel mio petto. La osservo muovere piccoli passi fino alla porta, con le spalle ricurve e la testa bassa, sconfitta.

È finita.

Me ne sono liberata.

Così, accasciandomi a terra, mi concedo un ultimo pianto liberatorio.

Forse ciò che è accaduto con Emma è sbagliato. Ma una cosa sbagliata può farti sentire tanto bene? Devo proteggere Henry. Emma con me si sarebbe distratta e io voglio che lei pensi solo ed esclusivamente a lui. Queste saranno le mie parole qualora mi chiedesse qualcosa.

Se questa è la cosa giusta perché lo stomaco si contorce? Perché il dolore di quell'allontanamento (non di mia madre ovviamente) sembra squarciarmi il cuore con un coltello?

Non voglio e non posso darmi una risposta adesso. Forse il tempo sistemerà le cose.

Oppure le distruggerà.

 

Note dell'autrice: Eccomi qui!

Non vi ho fatto aspettare poi tanto per questa tanto agognata scena, no? Ci ho messo tutta la delicatezza possibile nel personaggio di Emma, visti i precedenti di Regina. Ho voluto che Emma toccasse molto più del corpo di Regina e spero di essere riuscita a trasmettervi questo.

Grazie a Susan e Nadia per le correzioni.

A martedì prossimo <3

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Capitolo 13
*** Cuore spezzato ***


La porta della sua camera ormai è chiusa.

I giochi sono fatti, la decisione è stata presa, e non da me.

Mi ha baciata, mi ha trascinata a casa sua. Ho sentito il suo desiderio lungo tutto il tragitto in macchina e anche mentre è indietreggiata verso le scale, quasi come a volere scappare da me o da quello che stavamo per fare.

Il suo profumo inonda ogni centimetro di quella stanza. Vorrei fare a modo mio, vorrei stringerla, baciarla, farle dimenticare chi è, spogliarla, fare l'amore con lei senza nemmeno lasciarle il tempo di capire in quale dimensione ci troviamo.

Ma lei cammina adagio e io sto al suo gioco. Un gioco di movimenti controllati, di respiri ansimanti e di infinite parole non dette.

«Chiudi gli occhi» finalmente mi faccio coraggio e pronuncio le prime parole dopo più di un'ora.

Ubbidisce. Sento il calore del suo corpo superare i suoi abiti. Impacciata, tocco le sue mani e seguo la lunghezza delle sue braccia, fino ad arrivare a quel collo meraviglioso che avrei voluto già avere tra le mie labbra. Poi passo alla schiena, e la sua maglia cade accanto a noi, silenziosa. Molto più silenziosa del suo respiro, seguito da un fremito.

«Non voglio che tremi quando sei con me. Ora guardami» la parola perfezione è un insulto verso i suoi fianchi. Li avvicino a me mentre lei ancora con gli occhi chiusi, tende il suo viso verso il mio. Il suo caldo respiro mi fa rabbrividire.

La supplico di nuovo di guardarmi. E apre gli occhi.

Paura.

Desiderio.

Bellezza.

In quegli occhi vedo riflesso il mio viso e le mie emozioni. Candide, cristalline.

Il suo corpo emana un calore estremo. La mia mente ormai ha perso qualunque tipo di autocontrollo.

Pelle di seta, liscia, candida. La camera è in quasi totale oscurità. Un po' di luce filtra dalla finestra, ma quella luce non è nulla rispetto al brillare dei suoi occhi.

«Sei così incantevole che non so come toccarti senza rendere bello quello che faccio almeno la metà di quanto sei bella tu. Ma sei vera?».

Solo la biancheria a coprire il suo corpo eppure lei non se ne preoccupa. Mi prega anzi di togliermi i pantaloni prima di accomodarmi sopra di lei. Le sue mani su di me fanno piccoli cerchi sulla schiena. Mi sembra di stare in paradiso nel toccare le sue labbra con le mie, non posso pensare di chiedere di più. Ma quel corpo così perfetto va amato, va amato nel modo migliore possibile, ed è quello che ho intenzione di fare.

Le mie mani interrompono il loro gioco quando qualche lacrima sporca il suo viso. Conosco alla perfezione il motivo di quelle lacrime. Non è mai stata toccata in questo modo da nessuno prima, nemmeno da quello che lei considerava il suo vero amore. Perché di sicuro aveva messo in secondo piano l'obiettivo di far sentire quella creatura come la più bella dell'universo. Così bacio e asciugo le sue lacrime, una ad una, come se fossero linfa vitale, come se da esse avrei tratto l'energia necessaria per sopportare il distacco che inevitabilmente ci sarebbe stato. Mi sarei nutrita delle sue lacrime, del suo sudore, della sua più intima essenza, dei graffi sulla mia schiena, dei morsi sul mio collo. Avrei custodito tutto quello nel cofanetto più prezioso dei ricordi, insieme al sapore delle sue labbra e alla purezza del suo cuore, come se fosse la mia prima vera volta. Sì, perché ho tra le mani un cuore delicato quanto il cristallo... e sfrutterò questa consapevolezza per farla sentire come merita.

«Ti meriti questo e molto di più... non piangere Regina, vivi ora. Vivi insieme a me» voglio che senta queste parole come assoluta verità. Solo così potrà concedersi a me senza alcun tipo di pregiudizio o rimpianto.

«Questo che senti adesso è quello che devi sentire sempre, perché ti rende bella come non mai... e anche se ne hai paura perché sei con me, un giorno smetterai di averne con chi tu vorrai. Perché c'è qualcuno a questo mondo che non aspetta che di baciare le tue labbra, incantarsi col tuo sorriso, morire tra le tue braccia nella più delirante passione».

La bacio lentamente, prima che lei possa avere il tempo di replicare. La mia mano si avvicina agli slip, ma senza darle l'impressione di andare oltre. Ma ciò che ho sentito non mi permette di aspettare ancora. Sposto quell'ultimo piccolo indumento che mi separa da Lei.

Dice il mio nome in tono supplicante. Le imprigiono una mano sopra la sua testa e le concedo quello che lei desidera.

«Mi stai facendo perdere la ragione».

Lei perde la ragione. E io allora? I miei movimenti si fanno più rapidi e ciò che compare ai miei occhi non è nemmeno lontanamente paragonabile alle mie migliori aspettative.

«Oh credimi, stiamo superando l'Acheronte insieme verso l'altra riva del fiume. Sei la tentatrice più terribile che abbia mai incontrato».

La faccio mia molte volte. Le bacio qualunque parte del corpo riesca a raggiungere con la bocca. Anche con i miei seni poggiati sulla sua schiena riesco a vedere quanto non abbia inibizione alcuna. Di nuovo supina, scendo tra le sue gambe, avendo cura di non sbattere le ginocchia sul pavimento. Poi la attiro verso di me così che possa guardarla di nuovo negli occhi. Con i capelli totalmente sfatti, le labbra arrossate e gonfie e gli occhi lucidi, è più bella che mai. Ma in quel momento, al mio tentativo, mi blocca.

«Non devi avere paura. Fidati di me...»

Per un attimo i suoi occhi si piantano nei miei come a cercare una risposta a quello che sta succedendo. Non ho risposte. Ho solo molte domande che sono certa rimarranno lì per tanto tempo. Ora voglio solo avere l'ultimo pezzetto di Regina, il più prezioso. Quello che è stato preso con la forza e senza consenso. Quello che è stato tradito ingiustamente.

Mi afferra le labbra con urgenza e solo allora la spingo di nuovo verso il letto, a suon di baci.

E quando sento che è arrivata al limite la raggiungo di nuovo per guardarla negli occhi e godermi in prima fila il suo piacere scorrermi sulla mano, reso più bello dal mio nome pronunciato, quasi urlato, dalle sue labbra.

Allora la bacio.

Mia Regina, è questo che vuol dire lasciarsi andare.

Si accoccola a me.

Consapevole dell'eccezionalità dell'avvenimento, cerco di imprimere ogni particolare di quel momento. Il suo battito accelerato, i capelli sfatti e sudati, le gote rosse. La pelle bruciante e tremante. Il suo abbraccio, il suo tocco sull'addome. La totale pace che ci avvolge. Impossibile replicare tutto questo.

Non voglio distruggere quello che ha provato con le mie parole, così cerchiamo invano di ricordare come siamo passate dal mare al suo letto. Non ricordo nemmeno come ho ritrovato la strada del ritorno. Ricordo solo la sua stretta sulla mia mano e il mio cuore che perdeva la ragione.

Si addormenta per un po', tra le mie braccia, e un brutto sogno la fa svegliare di soprassalto.

«Va tutto bene?» le chiedo preoccupata.

«Sì, solo un brutto sogno... che ore sono?» si guarda intorno alla ricerca di un orologio.

La sveglia sul comodino segna le 7 pm.

«Ho dormito davvero tanto».

«Evidentemente ne avevi bisogno...» faccio spallucce prima di sfiorarle la spalla con un bacio.

Abbassa la testa. Per la prima volta nei suoi occhi leggo preoccupazione.

Così le dico che ci avremmo dormito sopra. Lentamente mi rivesto, ma la speranza che lei mi chieda di restare sta facendo prepotentemente capolino nella mia testa.

Non lo fa. Ma quando la stringo prima di uscire di casa, il suo cuore al galoppo risponde alla mia domanda: non vuole che me ne vada.

Le stampo un lieve bacio sulle labbra e allungo una mano verso la sua, sorridendo.

Domenica, al ritorno di Henry, avrei avuto un verdetto sulla sua vera reazione.

Percorro il vialetto verso la mia macchina. Solo quando mi siedo in macchina mi accorgo che una donna sulla sessantina sta di fronte alla porta di Regina. Forse una collega è andata a vedere come stava vista la sua balla sullo stato di salute.

Due giorni e mezzo. Devo stare lontana da lei due giorni e mezzo. Emma, puoi farcela.

 

Sono stati i due giorni e mezzo più lunghi della mia vita.

Due giorni e mezzo che ho passato a ripercorrere momento dopo momento, gesto dopo gesto, tutto ciò che è accaduto tra me e Regina.

Mi aveva baciata e mi sembrava talmente inverosimile che credevo di essere ubriaca. O solo addormentata e sognante.

Ha tremato per tutto il tempo, come un gattino bagnato dalla pioggia.

Sento anche ora i suoi occhi addosso, quegli occhi che mi hanno spogliata e incatenata a lei.

Chiudo i miei, sdraiata sul letto, ripensando e come si era totalmente concessa a me. Si era fidata. E io speravo di non averla delusa. Quel corpo divino era stato solo mio per lunghe, lunghissime ore e ne avrei conservato il ricordo per il resto della vita. Sì, perché ero quasi certa che sarebbe stata l'unica volta di totale mancanza di controllo da parte sua. Lo sapevo io e anche lei.

Fa un po' male ripensare alle sue labbra sulle mie.

Le sfioro, quasi a rendere di nuovo palpabile quel momento.

Allargo le braccia sul letto e stringo forte le coperte, immaginando di avere lei tra le mani.

Ogni centimetro del suo corpo era stato mio, totalmente e irrimediabilmente mio.

Ogni volta che ci ripensavo il cuore doleva dentro al petto. Voleva uscire, voleva tornare dalla donna che l'aveva riempito di linfa vitale quando mi ero praticamente ripromessa di non concederlo più a nessuno. Ma lei me lo aveva preso con la forza di uno sguardo.

 

La vedo arrivare, ha lo sguardo serio di chi deve portare notizie nefaste. Voglio illudermi che sia solo preoccupata per il rientro di Henry.

«Ciao, Regina» dico in tono cordiale e affettuoso. Le sfioro delicatamente la spalla e lei sembra subito irrigidirsi.

«Ciao, Emma». Nessun sorriso accompagna il saluto. Si fissa le scarpe come se nemmeno mi conoscesse. Non so se proporle ciò che ho pensato per Henry possa essere una buona cosa al momento, ma mi ha lasciato carta bianca e non ho intenzione di fermarmi.

«Regina dovrei parlarti di una cosa a cui ho pensato...»

«Emma non c'è nulla di cui parlare» inizia ancora prima che io finisca il mio discorso «Quello dell'altro giorno è stato un momento di estrema debolezza da parte mia ma di certo non si ripeterà di nuovo. Non voglio parlarne, non ho nulla da dire e mi dispiace che ti sia fatta chissà quale film a proposito, non c'è nulla e non ci sarà mai nulla tra noi. Ho ceduto ai tuoi sguardi solo perché tu non abbandonassi Henry e il progetto che abbiamo creato».

Il colletto della camicetta di seta bianca sotto la giacca blu elettrico si scosta dal suo posto e per un attimo mi rendo conto che la perfezione con cui l'ho dipinta in questi mesi è solo frutto della mia testa. Non è perfetta. È incredibilmente imperfetta e il mio tentativo di farla tornare a risplendere nonostante tutto mi è stato restituito con un sonoro e doloroso pugno in pieno viso. Le sue mani sono strette a pugno, come le mie.

Faccio un passo indietro. In ogni senso possibile.

Una cosa posso dirla: non ha davvero capito chi è Emma Swan.

«Volevo solo chiederti se potevo portare Henry a casa di mia madre, così potrebbe conoscere il mio fratellino Neal e iniziare il nuovo percorso di approccio con i bambini della sua età o simili. Mio fratello ha sei anni, solo due in meno di Henry ma è molto maturo ed espansivo, credo possa fargli bene passare del tempo con lui, questa estate».

Rimane totalmente interdetta dalle mie parole. Che non ho modificato per la sua strafottenza, era davvero questo quello che volevo dirle da principio.

«Comunque è stata una buona cosa sapere cosa pensi, almeno eviterò di chiederti come stai, sai non vorrei che pensassi a una qualche forma di stalking» non riesco a non lanciarle addosso questa manciata di veleno.

«Emma ti prego, mi dispiace, non volevo dire quelle cose...»

Prova a rimediare, facendo un passo verso di me, usando quella voce, ma la blocco.

«Certo, non le volevi dire. Inizierò i miei sms con la parola Henry perché solo a lui mi interesserò d'ora in poi».

Incrocio le braccia al petto mentre la voglia di piangere arriva incontrollabile. Poi scorgo una testolina castana tra la folla di bambini. Alzo una mano e lo saluto.

«Hey, Henry».

È accompagnato dalla maestra che una settimana prima aveva mangiato con gli occhi Regina. Arrivati vicino a noi, mi presento come un'amica di Henry e con la stretta di mano, sento che ci capiamo al volo. Regina cerca nel mio sguardo un aiuto, ma io mi rifugio in macchina con Henry, per cercare di capire quanto e se in quella gita fosse stato bene.

Ma invece di un mini racconto in stile Henry mi ritrovo tra le mani un diario nero. Mi intima di nasconderlo in borsa e ubbidisco. Si volta in continuazione verso sua madre come per controllare che non veda quello strano oggetto che ora è tra le mie mani.

«Io... credo di volere parlare con mia madre. Non so quando e non so come. Ma per farlo devi leggere questo. Ti prego, non dirle nulla... aiutami...»

Per la prima volta nei suoi occhi leggo qualcosa di totalmente diverso dalla rabbia o dalla paura. È in conflitto con se stesso...vuole abbattere i muri che ha costruito con le sue stesse mani e sta chiedendo a me di aiutarlo in questo.

Allungo una mano verso di lui. Non l'ho mai forzato nel contatto fisico, doveva sempre essere lui a fare il primo passo. In questo caso lui stringe subito la mia mano e una lacrima si affaccia nei suoi occhi verdi.

«Andrà tutto bene, ok? Ce la faremo» inizio «e non devi sentirti sotto pressione per questo. Tua madre sa che le vuoi bene. Per cui io leggerò questo e poi ne parleremo insieme... e quando tu sarai pronto ne parlerai con lei, siamo d'accordo? Senza fretta».

Lui annuisce con viso triste e spaventato. Sarebbero stati dei mesi molto lunghi e difficili per lui. E anche per me. Ma ne saremo usciti vincitori.

«Ti va di conoscere il mio fratellino Neal domani dopo la scuola? Ha sei anni ma è un demonietto e sono sicura che ti piacerà da morire!» mi mostro entusiasta e gli contagio il mio sorriso.

«Bene, allora a domani ragazzino. Custodirò questo quaderno come se fosse oro. Puoi scommetterci».

Esco dall'auto e saluto Regina in modo distaccato e formale, dandole del lei e chiedendole se il giorno successivo potevo portare Henry a casa mia a conoscere Neal. Lei acconsente e me ne vado, senza lasciarle il tempo di scusarsi. Stavolta avrebbe dovuto fare i conti con se stessa senza di me.

 

IL GIORNO DOPO.

«Eccoci arrivati» dico a gran voce entrando a casa.

«Emmaaaaaaaaa!» Neal, come un piccolo furetto, spunta dalla cucina e mi corre incontro saltandomi addosso. A momenti mi fa cadere all'indietro. Scorgo Henry dal lato della testolina di Neal: all'inizio è spaventato, poi sorride divertito.

Poggio il demonietto sul pavimento e cerco di fargli spostare l'attenzione su Henry. Ovviamente l'ho abbondantemente preparato alle particolarità di Henry e spero solo che non lo avrebbe spaventato con strani mostri o toccandolo con le mani unte di sporco, Henry sarebbe impazzito.

«Neal questo è Henry, Henry questo è Neal».

Si guardano di sottecchi per un po', mentre mia madre sbuca dalla cucina e guarda la scena divertita almeno quanto me.

«Ciao Henry, Emma mi ha detto che non parli molto ma va bene lo stesso, tanto io parlo tantissimo! Andiamo a lavarci le mani? Così siamo pronti per abbuffarci e poi possiamo giocare!».

Henry guarda prima me e poi Neal ma decide di seguirlo sulla fiducia. Sulla fiducia in me, immagino.

La vicinanza di Neal fa bene ad Henry. Durante il pranzo risponde a tutte le domande che mia madre gli pone (accuratamente scelte da me: non si doveva nominare suo padre o sua madre, sua nonna sì, i suoi compagni, la maestra, il viaggio a New York... i miei cani) e non sembra nemmeno sudare troppo quando Neal lo schizza accidentalmente con dell'acqua.

Soddisfatti del pranzo, si rifugiano nella cameretta di Neal e io rimango sola con mia madre.

La aiuto a sistemare la cucina e io me ne sto zitta e con lo sguardo basso, ripensando alla conversazione avuta ieri con Regina e da quello che avevo letto sul diario datomi da Henry.

«Hai lo sguardo da cuore infranto» esordisce con un mezzo sorrisino mentre asciuga una pentola e la sistema nel suo ripiano.

Sospiro. Forse parlarne con lei mi avrebbe fatto bene.

«Più o meno... in realtà sono delusa. O meglio, lo ero fino a quando...» sbircio sulla scala per assicurarmi che nessun bambino stia origliando.

«Fino a quando non ho iniziato a leggere una cosa che mi ha dato Henry».

Mia madre mi guarda un pochino confusa, così mi accascio stanca su una sedia e lei si siede di fronte a me.

«Henry non parla con sua madre da quasi due anni, da quando Regina ha sbattuto fuori di casa suo padre dopo aver scoperto che la tradiva e lui è morto quella sera stessa in un incidente stradale».

«Che storia terribilmente triste...» dice mia madre.

«A detta di Regina, io sono l'unica al mondo con cui Henry parli, anche se poco. Così me l'ha affidato, per cercare di capire cosa lo bloccasse così. Non ho mai insistito ma ieri, al ritorno dalla gita, mi ha dato un quaderno, un diario» il cuore comincia ad accelerare, vorrei dire anche il resto ma non posso.

«È il diario di Regina...» mia madre spalanca gli occhi inorridita.

«In mezzo ho trovato un foglio di Henry, mi spiega di averlo trovato qualche giorno dopo la morte del padre e che solo allora aveva capito. Ma ormai il danno era fatto e Henry si sentiva troppo in colpa e troppo... inadeguato per ricevere l'amore di sua madre dopo le brutte parole che le aveva rivolto» continuo a parlare a voce bassa nel timore che Henry compaia da un momento all'altro. Da qualche tempo mia madre ha imparato a non interrompere i miei discorsi e a non trarre conclusioni affrettate senza prima aver sentito tutto il discorso. Per cui con la schiena dritta e le gambe incrociate, mi osserva amorevolmente, aspettando le mie prossime parole.

«Leggendolo mi è sembrato di violare la parte più intima di Regina. Una parte a cui sarei voluta arrivare giocando pulito. Una parte che a lei è sempre mancata e che merita. Se lo merita davvero...» la mia voce trema, si incrina pronunciando quelle parole.

«Te ne sei innamorata?» mi chiede sincera.

«Io non lo so, mamma. Lei è incredibilmente bella... e mi ha baciata. E abbiamo fatto l'amore e lei si è lasciata andare in un modo incredibile con me. Non credo si sia mai lasciata andare così con qualcuno. Ma ieri mi ha ferita, ha insinuato che volessi avvicinarmi a lei usando Henry. Non volevo nemmeno parlare dell'accaduto, avrebbe metabolizzato il tutto dopo. E sono certa che provi qualcosa per me, ma ha troppa paura per ammetterlo».

Mia madre mi prende la mano e la stringe forte.

«Perché mi ha allontanato così da lei? Io volevo solo esserle amica...»

È davvero così. Nonostante l'attrazione fisica che si è creata e nonostante le farfalle allo stomaco iniziassero a spostarsi come impazzite in sua presenza, non avrei mai e poi mai fatto un passo simile, baciarla o dirle che mi piaceva. La prima regola di una lesbica è di non andar dietro alle etero, pena l'uscita di scena distrutte.

«Emma cara, so che ora ti offenderai ma tu non sei madre... il suo primo pensiero ora è Henry. E probabilmente quello che ha vissuto con te l'ha sconvolta talmente tanto che crede che questo toglierà energie al loro recupero...»

«Ma se io sto combattendo da mesi per loro due! Passo molto più tempo io con Henry e lo conosco bene... e mai, e sottolineo mai, avrei rallentato il recupero del loro rapporto. Mi ha ferita perché mi ha trattata come una ragazzina, ma è stata lei a baciarmi per prima, non l'avrei mai fatto, anche se mi sarebbe piaciuto».

Si alza e mi avvolge tra le sue calde e morbide braccia.

«Per una volta ascoltami... pensa ad Henry, lascia stare sua madre. Concentrati sul dolore di quel bambino. Quando riuscirai nel tuo intento... lei capirà chi ha allontanato e credimi, se ne pentirà amaramente. Io credo che sia già pentita ora. Ma da quel che dici ha sopportato troppe perdite per combattere ancora. Forse ha bisogno di una cosa bella che le piova dal cielo...»

Mi lascio consolare e cullare da mia madre come non accadeva da tanto tempo. Sì, devo allontanare la follia per Regina e occuparmi solo di Henry. Ne avremmo parlato e tutto sarebbe andato bene.

«Credo sia arrivato il momento di andare a prendere i miei cani. Devo far fare a Henry i compiti prima».

Mi prende sottobraccio e saliamo al piano superiore. Dalla porta della camera di Neal si sentono delle sonore risate e lo spettacolo che compare ai miei occhi mi sconvolge: Henry ha le mani piene, e sottolineo piene, di tempera rossa. Su un enorme cartellone hanno disegnato con le dita tutto quello che veniva loro in mente. Henry ha diviso il cartellone in due parti uguali. In alto a destra un piccolo cuore con una R maiuscola al suo interno. Al centro un grande cuore con un'altra R e una H. E intorno a quel cuore ce n'è un altro, un po' storto, con su scritto “Emma”, che abbraccia quello al suo interno.

Lui alza lo sguardo e mi sorride.

Henry mi vede come una specie di salvatrice della sua famiglia. Il mio cuore circonda amorevolmente quello suo e di Regina, per riempirlo di nuovo. Per farli battere di nuovo.

«Lui sa meglio di Regina cosa stai facendo con lui e con lei... i bambini lo sentono, perché non hanno il cuore corrotto da pregiudizi e preconcetti di alcun genere. Anche Regina lo capirà».

Oh mamma, Henry ha più traumi di quanto pensi.

Due lacrime scendono sul mio viso. Nonostante tutto, mi sento estremamente felice.

 

 

Note dell'autrice: cari lettori, non odiatemi. Questo allontanamento era necessario a entrambe per alcuni motivi. Uno di questi l'avete trovato in questo capitolo, ovvero trovare il modo di muoversi al meglio con la questione del diario datole da Henry. Regina avrà tempo per capire il suo errore con lei...e a quel punto capirete tutto.

Grazie a Nadia e Susan per le correzioni.

A martedì :)

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Capitolo 14
*** Protezione ***


Sento chiaramente il suo cuore spezzarsi al suono delle mie parole, come una tazzina lanciata al muro per la rabbia. Non è ferita perché non le concedo una possibilità. È ferita perché la sto allontanando anche come amica e confidente.

Anche io voglio parlare dell'accaduto, ma parlarne significherebbe ripetere tutto, lo sapevamo entrambe. In questo momento l'attrazione fisica avrebbe il sopravvento su qualunque cosa, anche sulla razionalità che tanto mi contraddistingue.

Non posso dimenticare cosa mi hanno fatto quelle mani, quella bocca, quello sguardo. Sarebbe come buttarsi dentro un incendio e io voglio tremendamente bruciare con lei, ma non posso. Ho bisogno di riguadagnarmi mio figlio, e lei forse mi avrebbe fatto bene, o forse mi avrebbe distratta dall'unico essere vivente che mai avrei amato con tutta me stessa.

Se ne sta lì, con sguardo spento e il cuore in tormento, in attesa che possa avere il coraggio di pronunciare anche solo una sillaba. Invece stiamo ferme, senza proferire parola alcuna, occhi dentro agli occhi, cuori martellanti dentro al petto, cervello in delirio. Si è messa un vestitino con una fantasia astratta, dai colori scuri. Le sue sottili e scattanti gambe in bella mostra e avrei voluto coprirla con... me, il mio corpo sarebbe andato benissimo per non mostrare più a nessuno quello scrigno di bellezza che avevo visto solo pochi giorni prima compiere movimenti degni del miglior contorsionista.

Stringe i pugni silenziosa. Leggo in lei il conflitto che la affligge: rispondermi a tono o fare la superiore? Io semplicemente sposto lo sguardo dall'asfalto all'ingresso della stazione, in attesa di intravedere Henry in mezzo alla folla di bambini. La voglia di piangere mi assale.

«Volevo solo chiederti se potevo portare Henry a casa di mia madre, così potrebbe conoscere il mio fratellino Neal e iniziare il nuovo percorso di approccio con i bambini della sua età o simili» stringe le labbra «Mio fratello ha sei anni, solo due in meno di Henry, ma è molto maturo ed espansivo, credo possa fargli bene passare del tempo con lui, questa estate».

Non so davvero cosa dire. Credevo volesse parlare di noi, credevo volesse affrontare un argomento che non volevo e non voglio affrontare. Invece da donna matura qual era voleva solo comunicarmi la sua prossima mossa con Henry perché è lui la sua priorità, esattamente come la mia.

«Comunque è stata una buona cosa sapere cosa pensi, almeno eviterò di chiederti come stai, sai non vorrei che pensassi a una qualche forma di stalking».

«Emma ti prego, mi dispiace, non volevo dire quelle cose....» tento di rimediare ma sento che non ci sarei riuscita.

«Certo, non le volevi dire. Inizierò i miei sms con la parola Henry perché solo a lui mi interesserò d'ora in poi».

Uno sguardo ostile rivolto verso di me. Braccia incrociate al petto e respiro pesante.

Il suo sguardo si sposta verso la stazione e fa cenno con la mano.

«Hey, Henry».

Mi volto. Henry è arrivato.

Trasporta silenzioso il suo trolley, accompagnato dalla vamp – maestra. Dio, ci manca solo che lei si comporti in modo inopportuno di fronte ad Henry o peggio, di fronte a Emma. Henry invece sorride quando incrocia lo sguardo di Emma e torna nel suo buco nero quando si accorge che ci sono anche io.

Gli andiamo incontro.

«Hey ragazzino, tutto bene?» gli scompiglia i capelli con una mano e a lui scappa un sorriso.

«Salve, sono un'amica di Henry» allunga senza pensarci troppo la mano verso quella donna, che squadra Emma dalla testa ai piedi. Si sono capite. Si lanciano degli strani sguardi che mi tagliano totalmente fuori, e decido di salutare mio figlio.

«Ciao tesoro, tutto bene? Sono felice che tu sia tornato, mi sei mancato».

Come al solito silenzio. Apre lo sportello della macchina e si butta dentro.

Scuoto la testa in segno di dissenso prima di tornare nel mondo degli adulti.

«Si è comportato bene?» chiedo fredda alla maestra.

Il suo sguardo famelico si posa sulla mia scollatura e non posso far altro che chiedere aiuto a Emma con lo sguardo, ma lei è entrata in macchina e sembra stia comunicando col mio bambino. Devo risolvermela da sola, come al solito.

«Questo è per te» da quando mi dava del tu? «Ho annotato spostamenti di Henry, i comportamenti ecc ecc. Ho pensato ti avrebbe fatto piacere avere un riassunto del viaggio visto che lui non te lo avrebbe detto a voce».

Dalla borsa estrae un piccolo taccuino che sembra completamente compilato. Lo prendo con cautela, assicurandomi di non toccare nemmeno un centimetro di pelle di quella donna e custodendo quell'oggetto come un prezioso tesoro. Sarei voluta essere più gentile, ma oggi proprio non ci riesco.

«La ringrazio molto... spero che questo serva a farmi avvicinare a lui».

Prendo la valigia e la sistemo nel bagagliaio mentre la maestra mi segue con lo sguardo, ma stavolta senza invadere i miei spazi.

«È stato un piacere. Fammi sapere se ci sono miglioramenti».

Continua a darmi del tu. E continuo a essere infastidita da questo atteggiamento. Emma può darmi del tu, non una maestra a caso con cui mio figlio non è nemmeno riuscito a parlare.

Mi illudo che il motivo per cui mi infastidisca sia questo.

«Ciao Henry» sento la sua voce provenire dalla macchina e lo sportello chiudersi.

«Signora Mills, passerò a prendere Henry domani verso le 3 pm, a meno che lei non abbia altri orari lavorativi da comunicarmi».

Il tono di voce severo e distaccato mi spiazza.

«Siamo tornati al lei?».

«Credo sia più consono per un rapporto lavorativo, sono certa che ne conviene anche lei» quello sguardo di totale indifferenza è peggio di uno schiaffo. Ma so che in questo istante qualunque tentativo da parte mia di una riconciliazione sarebbe stato vano. Per cui seguo il suo gioco.

«Domani finisco alle 3 pm di lavorare, potresti prenderlo tu da scuola? Tieni» dalla tasca prendo un mazzo di chiavi, una copia delle chiavi di casa mia «vi lascio il pranzo pronto. Poi portalo dove ritieni sia più utile per lui».

Fissa le chiavi per un po' prima di prenderle.

«Credo che rimarremo a pranzo da mia madre, se non è un problema».

Noto una certa incertezza nel tono di voce.

«No, non è un problema, ovviamente».

«Allora arrivederci. Riporterò io Henry a casa intorno alle 7:30 pm».

Scappa senza lasciarmi il tempo di replicare.

 

QUATTRO MESI DOPO.

Le settimane passano ma Emma, nonostante sia un punto fermo nella vita di Henry, nonostante passi con lui quasi tutte le giornate, fuori o in casa mia, non mi ha più degnata di uno sguardo.

Innumerevoli volte ho tentato di avere una riappacificazione con lei, a voce, per messaggio, ma lei rispondeva sempre la stessa cosa: “sarò ben lieta di discutere con lei dei progressi di Henry, non esistono altri argomenti di discussione per quanto mi riguarda”.

Mi sento sola.

Di nuovo.

Ho sempre avuto la capacità di distruggere qualunque cosa bella mi capitasse tra le mani, e solitamente questa sensazione di impotenza e inutilità che continua a scorrere nelle mie vene, passava nel giro di pochi giorni. Semplicemente mi arrendevo al volere altrui.

Stavolta non ci riesco.

Più il suo sguardo è lontano dal mio, più mi viene voglia di avvicinarmi, toccarla, stringerla. Un suo sorriso avrebbe spazzato via qualunque nube intorno a noi, ma sembra irremovibile.

Quando gioca in camera con Henry io me ne sto seduta contro la porta, con le ginocchia al petto, a nutrirmi delle voci di quelle due persone che mi hanno totalmente esclusa dalla loro vita.

Non riesco nemmeno più a capire se la delusione di Emma sia esagerata. Se il suo comportamento si possa considerare infantile. Ma tutte le volte che questa idea mi balena nella testa riesco solo a odiare me stessa per aver anche solo pensato che lei potesse chiedermi una cosa tanto stupida. Il fatto che non si sia mai sposata e che non abbia figli non fa di lei un essere capace di pensare solo al sesso.

O all'amore.

Ha mai provato qualcosa per me? Non riuscire a trovare una risposta positiva mi fa ancora più male. Perché io non faccio altro che pensare alle sensazioni che sconvolgono il mio stomaco per il solo fatto di averla in giro per casa, con la tuta da ginnastica e le solite Converse.

Sobbalzo ogni qualvolta quegli occhi, per caso, si alzano verso di me. Ma subito li riabbassa triste quando me ne accorgo.

Tutto questo fino ad oggi, quattro mesi dopo.

Henry ha trascorso le ultime due settimane in un campo estivo e ho chiesto a Emma di andarlo a prendere. Io li avrei raggiunti a casa il prima possibile.

È il 15 di luglio.

Il pronto soccorso oggi è particolarmente calmo, ma molto afoso nonostante l'aria condizionata programmata al massimo. Seduta su uno sgabello di una delle medicherie, approfitto del momento di calma per terminare e chiudere la compilazione delle varie cartelle, così da non averle accumulate a fine turno.

Un'ora prima Emma mi ha comunicato, tramite messaggio, che Henry era con lei e che sarebbero andati presto a casa.

Un leggero fruscio e una porta che si chiude, mi distrae dai miei doveri.

Alzo lo sguardo.

Una donna dalla pelle olivastra e i capelli lunghi e mossi mi fissa.

Il suo sguardo non mi piace ma, sicura che sia una paziente, mi alzo per chiederle i dati.

Mi precede.

«Sei Regina Mills?» chiede inclinando leggermente la testa da un lato. Stringe forte a sé una grossa borsa beige. Indossa un anello con brillante all'anulare sinistro e un vestito bianco le cade perfettamente sui fianchi. Il suo sguardo mi inquieta, ma spesso quello è frutto del timore del paziente di rapportarsi col medico.

«Sì sono io, buonasera signora, è già passata dal triage? Se sì, dovrebbe consegnarmi il foglio con i suoi dati e il motivo per cui è qui, anche se ovviamente mi racconterà di nuovo tutto da capo» il mio tono è cordiale ma la sua espressione è cambiata subito dopo il mio sì.

«Tu non sai chi sono, vero?» mi chiede sarcastica.

«Dovrei?» quell'atteggiamento di strafottenza mi sta irritando e non poco.

«Dipende se hai mai visto una mia foto nel cellulare di tuo marito».

Il mio cuore si ferma. Lentamente e inesorabilmente. E mentre metabolizzo l'idea di avere di fronte l'amante di Robin, ecco che dalla borsa estrae una pistola e me la punta addosso.

Fisso come attirata da un incantesimo, quell'oggetto grigio lucido che lei tiene, tremante, tra le sue mani.

«Cosa diavolo pensa di fare con quella?» il tono della mia voce non riesce a nascondere la folle paura che si è insinuata in me. Indietreggio cercando un appiglio e mi guardo intorno per trovare un punto dove eventualmente ripararmi. Ci sono due porte in quella stanza, una dietro di lei e una a qualche metro da me. Se provassi a fuggire mi colpirebbe senza esitazione.

«Oh, ora che sei in pericolo hai paura eh, brutta stronza!» esclama digrignando i denti.

«Sai, non riesco a capire una cosa. Sono passati due anni e dovrei essere io quella desiderosa di ammazzarti! Eri tu l'amante e io la moglie, riprenditi il tuo ruolo e vai a farti fottere» dico tentando di rimanere calma, con tono fermo e deciso. Dentro di me, il cuore è come impazzito.

Lei scoppia a ridere. Poi alza la mano e mi mostra l'anello.

«Vedi questo? Me l'ha regalato il giorno che mi ha chiesto di sposarmi» è così sicura nel pronunciare quelle parole che stavolta sono io a scoppiare a ridere. Mi piego su me stessa, ridendo come non mai per l'illusione che quella povera donna aveva conservato per quasi due anni.

«Ti conviene smetterla di ridere se non vuoi che faccia partire un colpo» ira funesta nei suoi occhi.

«Mi dispiace che abbia illuso così anche te allora. Perché... no, aspetta» rifletto un attimo su come erano andate le cose.

«Qualche giorno prima gli avevi detto che eri incinta magari?».

Il suo sguardo parla decisamente da solo. È come pensavo. L'aveva trattata proprio come me: ci innamoriamo, facciamo tanto sesso, rimango incinta e mi sposa. E boom, giù lì a ripetere lo stesso copione un numero infinito di volte.

«L'ha fatto anche con me, 8 anni fa» incrocio le braccia al petto.

«Ti ha usata esattamente come ha fatto con me. Se ci fossimo incontrate prima potevamo sbarazzarci di lui insieme, invece è morto da solo, non ci ha nemmeno dato questa soddisfazione».

Lei è visibilmente furiosa. Con mano tremante punta ancora quell'oggetto metallico verso il mio petto e mi chiedo quando qualcuno mi avrebbe cercata. Le mani iniziano a sudare, e ho bisogno di sedermi ma non voglio farla innervosire ulteriormente muovendomi in modo incauto.

«Ti do un consiglio, prenditi cura del tuo bambino e non pensare al padre, non se lo merita».

La sua bocca assume una strana conformazione. Un misto tra risata e pianto. Ma la seconda ha la meglio quando una lacrima le bagna il viso.

«Ho perso anche lui PER COLPA TUA!» un urlo disumano fuoriesce dalla sua bocca. Gli occhi spalancati, umidi e iniettati di sangue, diventano i protagonisti di quel viso contratto dal dolore. Inizia a camminare avanti e indietro senza trovare pace.

«Sì, perché sono andata al funerale e me ne sono stata in disparte per tutto il tempo, mentre tu e tuo figlio lo piangevate! Io non ho potuto fare nemmeno quello! Già, perché all'amante non è permesso di soffrire per la morte di chi ama e così non solo ho perso Robin, ma anche il mio bambino, per un aborto, due giorni dopo. Come se il destino non avesse già fatto abbastanza per rendermi infelice!».

«Anche io ho perso mio figlio quel giorno!» urlo per sovrastare la sua voce. La gola mi brucia e anche il petto e gli occhi. Qualcuno ha detto che se si parla della propria vita, chi ti punta addosso una pistola, si sente in empatia col suo bersaglio e potrebbe distrarlo dal compiere qualsiasi gesto irreparabile.

«L'ho perso anche io! Tu pensi che per me sia stato facile? Lui stava venendo da te quella sera! E io l'ho cacciato di casa. Come pensi che mi sia sentita? Eh? E come pensi che abbia reagito mio figlio quando ha supplicato il padre di restare e quel grand'uomo non si è nemmeno degnato di girarsi per dargli una fottuta spiegazione? Da quel giorno lui non mi parla, non mi guarda, sono totalmente invisibile! Oh, e se pensi che questa sia la giusta punizione per le mie azioni, benvenuta, me lo ripeto da due anni! Ma Henry... Henry non doveva soffrire per un suo errore, per un nostro errore!»

Mi guarda con compassione, come se improvvisamente abbia trovato un modo per smettere di proteggere l'uomo che diceva di amarla e guardare anche chi, lo stesso uomo, aveva ferito e abbandonato. E non voglio che pensi al mio di dolore, voglio che pensi a quello di un bambino di soli sei anni che si è visto portare via l'affetto di un padre che idolatrava come se fosse un Dio.

«Forse tu non potrai stringerlo tra le braccia, ma io per il mio sono morta e, credimi, non c'è dolore più grande per una madre che vedere un figlio soffrire così, isolarsi così e non poter fare niente. Assolutamente niente».

Anche io inizio a piangere.È la seconda volta che esprimo a voce alta tutto questo dolore, tutto il risentimento nei confronti di Robin e soprattutto verso di me. Solo che l'altra volta c'era Emma a consolarmi, stavolta chi lo farà? Probabilmente stavolta finirà con un bel proiettile dentro al mio corpo... e Henry probabilmente ne sarà felice. Avrei dovuto fare testamento e inserire Emma nella custodia. Non voglio che sia mia madre a crescere mio figlio. Emma sarebbe stata una bravissima madre e Henry finalmente sarebbe stato felice.

Mentre le ultime lacrime solcano il mio viso, e quella donna mi guarda senza riuscire a dire una sola parola ma con la pistola ben puntata verso di me, la porta di fianco a me si apre di scatto, per poi richiudersi subito dopo.

Perché ha già richiuso? Penso mentre alzo lo sguardo, sollevata.

Ma la sensazione di sollievo si dissipa nel momento in cui cado in quegli occhi color del mare.

Emma.

«E lei chi diavolo è! Si sposti dalla porta, subito!».

No. Lei non deve essere in questa stanza! A chi avrei lasciato Henry ora?

Mi guarda in modo rassicurante, mentre si avvicina a me allontanandosi dalla porta. Spero tanto che abbia chiamato aiuto, almeno.

«Tutto bene?» sussurra, ignorando totalmente la furia della donna di fronte a noi.

In quel momento sentire la sua voce mi fa stare meglio e il suo sguardo mi dice che si sarebbe sistemato tutto. Annuisco alla sua domanda. Poi lei si sistema di fianco a me.

«Lo sa, vero, che tutti sanno che lei è qui dentro e tiene in ostaggio la dottoressa? E che appena lei muoverà solo un passo le spareranno e non potrà farla franca?»

La sua voce fredda, dura e sicura espone una situazione assolutamente veritiera ma non posso fare a meno di avvicinarmi a lei e toccarle il braccio nudo per dirle di non farla innervosire. La mia mano scorre verso la sua e me la stringe forte. Inevitabilmente il mio sguardo si posa su quel gesto. Mi stringe la mano e si avvicina a me così tanto da poterne sentire il profumo.

«Ma lei chi diavolo è? Che cosa vuole? Stavamo discutendo di cose importanti qui» aggiunge quella donna di cui ancora ignoro il nome.

Sento chiaramente il cuore di Emma battere all'impazzata

«Sono un'amica della dottoressa e di suo figlio. E lei invece chi sarebbe?» mentre parla al posto mio mi stringo ancora di più a lei.

«Mi chiamo Marian, sarei stata la moglie di Robin se solo lui non fosse morto».

Marian. Ora quel volto ha anche un nome.

«Marian, quello è stato un incidente, non può incolpare Regina di questo!»

«Lei lo ha costretto ad andarsene! Se non l'avesse buttato fuori di casa, lui sarebbe ancora vivo!».

«Può darsi, ma faccia una cosa, si metta al posto di Regina, invertiamo i ruoli. Suo marito ha un'amante e lei lo scopre. Davvero avrebbe reagito in modo diverso da quello di Regina? O avrebbe tentato di capire il motivo con calma di fronte a una tazza di the, magari. Avanti, siamo realisti. Regina ha reagito come il 100% delle donne avrebbe fatto!»

Non mi sono mai posta il problema di mettermi dei panni di Marian. Per me è sempre stata solo una sporca sgualdrina che aveva ingannato mio marito e me lo aveva portato via. Ripensarci ora non fa così male. Quando Emma mi sta vicina, tutto il dolore assume una dimensione sopportabile, quasi come se guardando la situazione con i suoi occhi, fossi solo una spettatrice.

«Lui doveva sposarmi, aspettavo un bambino! E l'ho perso per colpa sua!» urla di nuovo.

All'improvviso nel suo viso qualcosa cambia. Lo sguardo si incupisce, la testa si inclina e un lieve sorriso spunta tra le sue labbra mentre guarda qualcosa che stava tra me e Emma.

«Lei ti ama, non è vero?» annuisce mentre io e Emma ci guardiamo, confuse e complici.

«Oh, non fate finta di niente. Ti fa scudo col suo corpo, ha le dita intrecciate con le tue! Cosa pensi che sia questo se non amore?» scoppia in una sonora risata.

Abbassa per un attimo la pistola e lo sguardo.

«Nonostante tutto hai trovato qualcuno che ti ami. Non ti meriti niente di tutto ciò, non ti meriti questa fortuna cara la mia Regina».

La quiete prima della tempesta.

Un lieve “no” esce dalla bocca di Emma. E sto ancora guardando lei, i suoi occhi terrorizzati, quando quel no diventa un urlo, le sue dita abbandonano le mie e si piazza di fronte al mio corpo. Non capisco il perché fino a che non sento il primo sparo.

Poi un altro.

Fuori sento delle urla ma nessuno ancora ha fatto capolino in quella stanza.

Emma fa un passo in avanti e poi all'indietro, incerta, quasi fosse ubriaca.

Lentamente scivola sulle ginocchia e poi a terra. Piccoli singhiozzi strozzati escono dalla sua bocca, assieme a un rivolo rosso tra le sue labbra.

«Emma!» mi accascio di fianco a lei, urlando disperatamente il suo nome.

 

 

Note dell'autrice: dovevo far accadere qualcosa di eclatante. Dovevo far smuovere la situazione altrimenti l'orgoglio ferito di Emma e il poco coraggio di Regina avrebbero avuto la meglio ancora per molto tempo. E non mi piace che Emma e Regina stiano lontane. Per il resto tutto questo, alla fine, avrà un senso. Inserire Marian ha fatto sì che il cerchio di Robin e della sua amante si chiudesse, e ho finalmente restituito a voi lettori la vera e unica coppia canon che doveva esistere anche nel telefilm, ovvero Robin e Marian.

Grazie a Susan e a Nadia per le correzioni e per i divertentissimi commenti che quest'ultima mi lascia sempre in mezzo al capitolo...probabilmente vi fareste una sonora risata anche voi!

A martedì :)

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Capitolo 15
*** Il diario ***


Seduta sul mio divano, rigiro tra le mani il diario che Henry mi ha consegnato solo un'ora prima. Lo sfioro.È di pelle nera, con delle cuciture grossolane a vista e una fibbia al centro a sigillare il tutto.

Inspiro profondamente e lo annuso. Ha l'odore di Regina.

Sfilo la stringa di pelle e apro il diario. Ho una brutta sensazione addosso, non so se sia giusto fare quello che sto per fare anche se non ho la minima idea di quel che ci sia dentro.

Spiegazzato, tra la copertina e la prima pagina, c'è un foglio a quadretti con su scritto “Per Emma”: è decisamente la calligrafia di Henry. Dispiego quel foglio e inizio a leggere.

 

Qualche giorno dopo la morte di mio padre mi sono ritrovato nella loro camera da letto... volevo un maglione di papà... per sentirne l'odore. E nei cassetti ho trovato questo. Ho iniziato a leggerlo. Leggilo anche tu. Voglio che mi aiuti...

 

Lui ha iniziato a leggere questo diario quando aveva appena 6 anni. Era un neonato praticamente.

Incuriosita, sposto la pagina bianca che custodisce un segreto che ha schiacciato Henry per due anni. Lo ha tenuto nascosto, dentro di sé, ponendo di fronte a lui un enorme scudo su cui faceva rimbalzare tutto. All'apparenza era diventato un bambino apatico, asociale, indifferente a qualsiasi rapporto e contatto umano. La realtà è ben diversa.

Inizio a leggere.

 

11 settembre 2012

Sono mesi ormai che mi chiedo dove sia mio marito quando non torna a casa per cena senza avvisare. Mesi che faccio domande e ottengo solo urla. Mesi di litigi, mesi di minacce. Sì, non riesco a dirlo a voce alta... a dire il vero non saprei nemmeno a chi dirlo. A chi far vedere i lividi sulle gambe, sulle braccia, sulla schiena. Sta ben lontano dal mio viso perchè sa che tutti se ne accorgerebbero.

 

Chiudo di botto il diario.

No. Non è possibile anche questo. Dentro di me inizia a crescere una rabbia incontrollabile. Quel verme schifoso... quel traditore bastardo le metteva le mani addosso. Oh, se fosse ancora vivo lo ucciderei con le mie stesse mani.

Tento di calmare il mio animo facendo dei profondi respiri. Ma l'unica cosa che ottengo sono delle lacrime che escono dai miei occhi.

Riprendo a leggere.

 

Ieri mi ha detto che stava con me solo per Henry, e che non ero degna di essere la madre di suo figlio.

Mi chiedo come sopporto ancora questa bestia in casa mia. Mia madre probabilmente darebbe la colpa a me... e io, in questo momento, non ho le forze per combattere anche contro di lei.

 

Sfoglio compulsivamente ancora e ancora quelle pagine intrise di dolore, di lacrime, di vita. Leggendo avidamente tutto quello che quella donna aveva dovuto subire negli anni. Ora capisco anche la sua immensa paura a stringere qualunque tipo di rapporto con ogni essere umano che incontra.

 

28 settembre 2012

Ho avuto il dubbio per tutto il mese. Ma dopo 23 giorni di ritardo ho dovuto farlo. È positivo.

Sono incinta. Ed è talmente assurdo che non so se ridere o piangere. So solo che non voglio che questo bambino cresca con quest'uomo accanto.

 

Dove è andato a finire questo bambino?

 

10 ottobre 2012

Ieri notte Henry era a dormire da mia madre e ho detto a Robin che ero incinta.

Mi ha sbattuta al muro. Sono caduta e mi ha dato due calci al basso ventre. Poi è uscito.

È tornato solo stamattina con Henry....doveva andare lui a prenderlo.

 

Che grandissimo figlio di puttana. Più leggo più mi chiedo come abbia fatto Regina a innamorarsi di un essere tanto viscido.

Poi, una decina di pagine dopo, trovo un foglio sgualcito, con la pagina ondulata come se fosse stata bagnata e asciugata.

Aveva pianto quando ha scritto quelle parole.

 

15 ottobre 2012.

Sono andata a fare il raschiamento questa mattina. Ho perso il mio bambino e non l'ho detto a nessuno.

 

Inizio a piangere e chiudo il diario. Credo di aver letto abbastanza. Non è necessario andare oltre. Il resto lo conosco.

La cattiveria umana può arrivare a questi limiti? Ammazzare di botte tua moglie che aspetta un figlio da te? Farla sentire l'essere più spregevole della terra? Si sono sposati! Si sono promessi amore e rispetto per sempre! Perché certi uomini devono respirare come tutti noi?

Il petto mi fa male. E più mi rendo conto del dolore di Regina, più faccio fatica a capire come possa Henry, una volta lette certe cose, essere sopravvissuto a una tale scoperta. Ora capisco perché aveva allontanato sua madre. Lei aveva ferite troppo profonde per gli occhi di un bambino, ferite che Henry non avrebbe saputo come risanare. E le ferite di Henry... bè, probabilmente lui vedeva le sue come qualcosa di assolutamente irrisorio rispetto a quelle della madre.

Ecco perché non riesce a sopportare nemmeno il suo sguardo.

Avrei restituito il diario a Henry l'indomani.

 

QUATTRO MESI DOPO.

Io e Henry passiamo tutte le giornate insieme. L'unico problema veramente grosso è sostenere Regina quando anche lei è in casa. Sento sempre il suo sguardo su di me quando condividiamo la stessa stanza.

Voglio tornare da lei e abbracciarla forte ma allo stesso tempo sento che ora devo concentrarmi su Henry, che ha custodito con sé, elaborandolo a modo suo, uno degli avvenimenti più dolorosi per la vita di una persona.

È il giorno prima della partenza per il campo estivo e io e Henry siamo al parco, lui intento a giocare con Shila, io a leggere il mio libro. Avevamo già discusso molte volte del contenuto di quel diario, spulciando ogni paura più nascosta dentro di lui e, giorno dopo giorno, si convinceva sempre di più che ben presto le avrebbe parlato. Così come si era convinto che non era stata colpa sua e che la sua reazione, benché esagerata per quello che aveva letto, era assolutamente normale. La sua paura più grande era di essere considerato un malato, uno di quei pazzi da cui stare alla larga. Il suo rapporto con Neal era cresciuto ed erano diventati amici. Si sporcavano in continuazione e aveva perso l'abitudine di lavarsi le mani compulsivamente. Parlava tantissimo con tutti. Tranne con sua madre.

Sudato e assetato, si siede accanto a me.

«Stanco, ragazzino?» gli passo la sua bottiglietta d'acqua. Beve tre o quattro sorsi.

«Molto... mi piacerebbe avere un cane» mi dice improvvisamente girandosi verso di me. Chiudo il libro e lo poso sulle mie gambe. Non ha mai espresso nessun desiderio con me.

«Bè, quando riuscirai a parlare con tua madre potresti chiederglielo, sono sicura che non avrà nulla in contrario» gli sorrido e lui diventa serio.

«Che c'è? Qualcosa ti preoccupa?» prendo una salviettina umida e mi avvicino a lui, così da asciugargli il viso dal sudore e rinfrescarlo un po'.

«Perché non parli più con la mamma? Prima parlavate, ora a mala pena vi salutate. Quando parlavi con lei a volte sorrideva. E io mi sentivo meno in colpa. Ora invece la sento piangere dalla sua camera...» arriccia il naso quando termina il suo discorso.

Difficile rispondere a questa domanda. Ma forse devo essere sincera con lui, è l'unico modo per far sì che non perda fiducia in me.

«Ricordi quando ti ho detto che avevo una fidanzata?» lui annuisce serio e attento.

«Bè ecco... diciamo che un giorno tra me e tua madre è successo qualcosa».

«Lo sapevo che ti piaceva mia madre, la guardavi con gli occhi che brillavano».

Aggrotto la fronte fingendomi stupita.

«Si notava davvero così tanto?» chiedo poggiando la testa sulla sua spalla, fingendomi disperata. A lui queste scenette divertono sempre tanto e infatti scoppia a ridere.

«Bè, comunque io sapevo che non mi avrebbe mai guardata in quel modo quindi io pensavo a te. Volevo solo che stesse meglio... ma lei ha fatto un passo verso di me per poi farne cento indietro».

«Vi siete baciate?» chiede curiosissimo e col sorriso a seimila denti.

«Tu cosa pensi che sia successo?» voglio metterlo alla prova.

«Non so... quando c'eri rideva di nuovo e ora non ride più. Quindi credo che tu le manchi molto. E credo che abbia molta paura di te» dice serio.

«Di me?».

«Sì, anche io avevo paura di te... perché sapevo che mi facevi stare bene. Una volta il mio psicologo ha detto che quando ci capitano cose brutte tendiamo ad allontanare le cose belle perché immaginiamo già le cose brutte».

Continuo a ripetere nella mia testa che ha solo 8 anni. Sono io che ho paura di lui.

«Però possiamo fare una cosa... quando torno dal campo estivo possiamo parlare tutti insieme, così tornerà finalmente a sorridere, va bene?»

Per la prima volta sento uscire dalla sua bocca, di sua spontanea volontà, il desiderio di parlare con sua madre, solo per vederla sorridere di nuovo.

«Va bene ragazzino» sorrido orgogliosa e gli scompiglio i capelli.

«Ora però incamminiamoci verso le case di queste belve o faremo tardissimo!»

«Agli ordini» esclama lui felice.

 

DUE SETTIMANE DOPO.

«Sei mai entrato qui dentro?».

Alzo lo sguardo dentro l'enorme sala d'aspetto del pronto soccorso. Henry si nasconde dietro di me quando di fronte a noi sfreccia una barella pilotata da tre persone. Sì, vista la velocità a cui vanno direi che pilotata è la parola giusta.

«Sono entrato alcune volte ma non mi ricordo molto».

«Ok, stai qui e vado a chiedere al banco dell'accettazione se hanno visto tua madre».

Visibilmente agitato, mi guarda con una smorfia.

«Andrà tutto fantasticamente, vedrai!» poco convinto si siede dove gli ho indicato.

Dopo tre tentativi finalmente qualcuno riesce a indicarmi la stanza dove si trova Regina. Vado subito a controllare la veridicità dell'informazione e sbircio dal vetro principale, che oscura a metà la stanza.

La prima cosa che mi balza agli occhi è lo sguardo terrorizzato di Regina. La seconda è un oggetto metallico tenuto in mano da una donna. Oggetto puntato pericolosamente contro Regina.

È una pistola.

Paura: emozione dominata dall'istinto che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto o di un soggetto a cui teniamo che irrompe ogni qualvolta si presenti un possibile cimento per la propria incolumità e, di solito, è accompagnata da un'accelerazione del battito cardiaco e delle principali funzioni psicologiche difensive. A questo si aggiunge calo della temperatura corporea, sudorazione e aumento dell'ansia.

Ho tutte queste cose insieme.

Regina è in ostaggio di qualcuno che le punta una pistola addosso e l'idea che qualcuno possa farle del male mi porta a compiere il gesto più idiota della storia dei gesti idioti: entrare là dentro senza avvertire nessuno.

La porta è già chiusa alle mie spalle. Il sollievo di Regina nel vedermi scompare in un istante, nel momento in cui capisce che anche io ora sono intrappolata da quella donna che, come isterica, mi intima di spostarmi dalla porta. Obbedisco senza indugio e mi fiondo verso Regina che indossa la sua divisa blu elettrico: l'ho vista solo una volta con gli abiti da lavoro e avevo dimenticato quanto fosse bella anche così.

Cerco di rassicurarla con lo sguardo ma la verità è che muoio di paura. Letteralmente. E spero tanto che Henry non mi raggiunga per nessuna ragione al mondo. Mettere in pericolo quel bambino è qualcosa che non mi sarei mai perdonata.

«Tutto bene?» sussurro a Regina sfiorandole il braccio.

Lei annuisce e la mia mano scivola sulla sua, che prontamente stringe.

Poi mi volto.

Fisso quella donna alla ricerca di particolari che avrebbero potuto aiutarmi. Sembra disperata e non controlla in nessun modo la situazione. Non sembra avere preparato tutto questo per cui è consapevole che la sua folle idea potrebbe concludersi da un momento all'altro. Ma io fisso insistentemente il foro della pistola che teneva in mano e che punta, tremando, contro di noi.

«Lo sa, vero, che tutti sanno che lei è qui dentro e tiene in ostaggio la dottoressa? E che appena lei muoverà solo un passo le spareranno e non potrà farla franca?».

Nemmeno mi accorgo di avere mantenuto un tono freddo, calmo e distaccato, come se stessi andando a comprare il giornale in edicola.

«Ma lei chi diavolo è? Che cosa vuole? Stavamo discutendo di cose importanti qui» risponde con tono alto. Regina trema e la sua mano inizia a sudare. Mi avvicino di più a lei.

«Sono un'amica della dottoressa e di suo figlio. E lei invece, chi sarebbe?» ora sì che il cuore galoppa nel mio petto.

«Mi chiamo Marian, sarei stata la moglie di Robin se solo lui non fosse morto».

Robin. Ma Robin il bastardo di Regina? Quello che le ha fatto perdere il bambino a suon di botte? È lei l'amante che Regina tanto odia? Cara Marian, credo che la morte di quell'uomo sia stata la tua salvezza.

Ma non posso dire tutte queste cose, Regina non deve sapere che io conosco la vera essenza del suo ex marito.

«Marian, quello è stato un incidente, non può incolpare Regina di questo!»

Ogni volta che quella donna dice una frase, Regina sussulta. E io con lei.

«Lei lo ha costretto ad andarsene! Se non l'avesse buttato fuori di casa lui sarebbe ancora vivo!»

Questa sì che sarebbe stata una disgrazia, mi scopro a pensare.

«Può darsi, ma faccia una cosa, si metta al posto di Regina, invertiamo i ruoli. Suo marito ha un'amante e lei lo scopre. Davvero avrebbe reagito in modo diverso da quello di Regina? O avrebbe tentato di capire il motivo con calma di fronte a una tazza di the, magari. Avanti, siamo realisti. Regina ha reagito come il cento per cento delle donne avrebbe fatto!»

«Lui doveva sposarmi, aspettavo un bambino! E l'ho perso per colpa sua!»

Già, anche Regina ha perso un bambino per colpa sua. E ha perso anche Henry, in un certo senso.

Stringo la mano di Regina fino a farmi male. Col pollice compio piccole carezze sul dorso della sua mano ed è sulle nostre mani che d'un tratto si concentra lo sguardo di Marian.

Un sorriso beffardo precede la sua frase.

«Lei ti ama, non è vero?» strabuzzo gli occhi verso Regina, che mi guarda più confusa di me mentre quella donna continua a infierire su noi.

«Oh, non fate finta di niente. Ti fa scudo col suo corpo, ha le dita intrecciate con le tue! Cosa pensi che sia questo se non amore?» ride. E per la prima volta la saliva scompare dalla mia bocca.

Abbassa per un attimo la pistola e lo sguardo.

«Nonostante tutto hai trovato qualcuno che ti ami. Non ti meriti niente di tutto ciò, non ti meriti questa fortuna, cara la mia Regina».

Osservo la scena come a rallentatore. Marian solleva di nuovo la pistola verso di noi. Io mi volto verso Regina e con l'aiuto dell'altra, scollo letteralmente le nostre mani.

«No...» riesco a sussurrarlo.

Mi sposto veloce di fronte al corpo di Regina quando due spari rimbombano dentro la stanza, andando a trovare un riparo caldo e sicuro in due punti imprecisati del mio corpo.

Un forte bruciore arriva fino alla mia gola mentre la vista si annebbia e barcollo fino ad accasciarmi.

«Emma!» urla Regina accanto a me, che mi afferra prima che possa sbattere violentemente la testa.

Vorrei parlare ma riesco solo a concentrarmi sul respiro.

Un sapore fortemente metallico arriva alla mia bocca e qualcosa di umido scivola da essa sulla mia guancia. Regina continua a ripetere incessantemente “No, no, no” come fosse impazzita e preme con forza contro il mio addome.

Poi improvvisamente la vista mi si annebbia.

In lontananza continuo a sentire la voce di Regina che ripete il mio nome, ma non vedo il suo viso e questo non mi permette di concentrarmi sulle parole da usare. Cerco di parlare ma le mie orecchie non odono alcun suono, per cui deduco che la mia voce non c'è.

È un lavoro faticoso per me solo l'idea di poter parlare. Tossisco.

«Reg... gina» un sibilo. Non è la mia voce quella.

«Sì, Emma, sono qui, stai con me, ok? Stai con me, non dormire, andrà tutto bene» finalmente la sento perfettamente dopo che si era sporta per guardarmi negli occhi.

Non riesco più a sentire le gambe e le braccia si sono fatte estremamente pesanti. Con una fatica immane, sollevo il braccio sinistro verso di lei, verso il suo viso. Sollevo e abbasso le palpebre, cercando così di mettere a fuoco qualcosa di diverso dal soffitto di quella stanza. Vedo le sue labbra. Vedo i suoi occhi.

«Regi..na» mugugno «devo dirti una cosa».

Sto morendo? Non lo so. Cosa si dice alla persona che ami prima di morire?

Ho sempre letto e sentito che prima di morire ci passa tutta la vita di fronte agli occhi.

Penso a mia madre, a mio padre e a Neal, che si preoccuperanno. Penso a Ruby, che odierà Regina per tutto questo. Penso ad Elisabeth a cui avrei dovuto ripetere un'ultima volta scusa per averle spezzato il cuore. Tutti questi pensieri arrivano come un lampo. Ma di fronte agli occhi ora ho La Mia Vita. E glielo devo dire. A costo di sprecare tutto il fiato restante nei miei polmoni.

«Henry ti vuol... e bene... Regina» riprendo fiato. Ogni parola è una tortura. Il dolore all'addome aumenta e Regina che preme non fa altro che fare aumentare questo dolore.

«Shhhh, non parlare Emma, non parlare» sta piangendo. I suoi occhi rossi e umidi, ogni tanto li asciuga sulla divisa, continuando a ripetere che andrà tutto bene.

«No Reg... ina... ascolta» raccolgo le ultime forze che sento venir meno «non rimproverarlo per» mi volto un istante a sputare quello che mi impedisce di respirare. Ho capito essere sangue ma non posso pensarci ora.

«...quello che ha fatto. Lui... aveva paura» aggiungo «e ho letto anche io... quelle cose».

Di nuovo la vista annebbiata.

«Emma stai con me. Emma parlami» mi schiaffeggia. E per un attimo la rimetto a fuoco. Continua a piangere e mi chiedo dove sia finita Marian.

Poi sento un altro sparo.

Regina si butta sul mio corpo, come per proteggermi. Trema e trattiene il respiro. Poi sento un gran baccano nella stanza.

Mi volto.

Una figura è accasciata in lontananza. Finalmente si sono accorti di questo gran casino.

«Emma, andrà tutto bene, ci sono io con te, ok? Ora ti porto in sala operatoria e risolveremo tutto» si sposta da me di scatto.

«Portate il carrello delle emergenze» urla verso la porta.

Non ho più le forze per tenere la sua attenzione su di me. Il braccio crolla sul suo, sbattendo a terra.

Non sento più dolore.

Inizio ad avere paura e non sono riuscita a dirle nulla. Non sono riuscita a spiegarle nulla. Non sono riuscita a dirle di Henry, del diario.

Prendo un respiro profondo. Alzo entrambe le mani e trovo il viso di Regina che finalmente sembra degnarmi di attenzione.

«Dimmi Emma, dimmi. Sono qui, andrà tutto bene, non avere paura».

I suoi occhi neri piangono su di me. Con un pezzo di stoffa mi pulisce la bocca dal sangue, forse per permettermi di parlare meglio.

«Bacia...mi, per fav...o...re Reg...ina».

Mi sorride. Poi posa le labbra umide di lacrime sulle mie. Si stacca da me e mi guarda negli occhi.

«Promettimi che questo non sarà l'ultimo Emma. Per favore. Stai con me, non lasciarmi anche tu».

Le sue labbra mi hanno dato un'ulteriore spinta a resistere, prima di pronunciare le ultime parole.

«Henry è fuori...e io» tossisco violentemente e sputo qualcosa sul pavimento. Cerco di mantenermi calma per terminare la frase. Sento la sua mano sulla guancia pulire via ciò con cui mi sono sporcata.

«Ti amo...» dico tutto d'un fiato.

Non ho più le forze per tenere gli occhi aperti. Li chiudo subito dopo, dopo aver scorto sui suoi un lampo di emozione. Un fuoco, una luce, accompagnata da un lieve sorriso.

Attorno a me il buio. La voce di Regina è sempre più lontana e altre mani si concentrano sulle mie braccia. Regina non mi tocca più.

Il calore che mi teneva lì con loro ha interrotto il contatto con la mia pelle e senza quello non ho più motivo per rimanere sveglia. Ho così tanto sonno, sono così stanca. Il mio corpo viene strattonato da più parti e non sento più il freddo marmo sotto di me. Forse sono in un lettino, o forse sono già morta.

Vorrei che Henry non mi vedesse, potrebbe spaventarsi e ha fatto così tanta strada in questi mesi, sia con se stesso che con sua madre. Sapevo che questo giorno sarebbe stato decisivo per l'evoluzione del loro rapporto e una donna ferita ha deciso di rovinargli tutto. E di rovinare le cose anche a me.

E a Regina.

A tutti.

E tutto questo per uno stupido e insulso uomo che ha tradito due donne e un bambino.

Regina avrebbe insegnato a Henry a essere rispettoso nei confronti delle donne che avrebbe amato. O degli uomini che avrebbe amato. Insomma, degli esseri umani in generale.

Non sento più alcuna voce e nessun dolore. Il buio si rischiara, e un calore pervade il mio corpo.

Sento che è arrivato il momento di dormire. Di riposare.

Regina sapeva tutto e mia madre avrebbe capito.

Finalmente mi sento a posto con la coscienza.

Poi... il nulla mi avvolge.

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Capitolo 16
*** Riconciliazioni ***


«Ti amo...»

Lei mi ama. Ha abbozzato un sorriso su quello splendido viso sporco di sangue e di sudore. E una volta avuta conferma che avevo recepito il messaggio, chiude gli occhi.

Il mio cuore si ferma.

E qualche secondo dopo anche il suo.

«Emma, Emma!» urlo con tutto il fiato che ho in corpo.

Sposto una mano sul suo collo e il viso sopra la sua bocca.

Aspetto in religioso silenzio per dieci secondi.

Niente respiro, niente battito. È in arresto cardiaco.

«Portatemi un cazzo di defibrillatore, subito!»

Finalmente un'orda di colleghi e infermieri fa capolino in questa maledetta stanza. Si dividono in due, alcuni vengono verso me ed Emma, alcuni vanno da quella donna.

Due infermieri prendono Emma di peso e la sistemano su una barella, mentre uno di loro si mette alla sua destra e inizia il massaggio cardiaco. Alla sua testa, qualcuno maneggia con laringoscopio e la intuba, un terzo prende un accesso venoso mentre il quarto sistema i vari adesivi sul torace per monitorare il battito cardiaco.

Osservo subito il monitor: c'è una fibrillazione ventricolare, posso defibrillare.

Afferro il carrello delle emergenze e dopo avere scoperto il suo torace, sistemo le piastre rispettivamente sotto la clavicola destra e sotto l'ascella di sinistra.

«Caricate le piastre a 200J!» urlo.

Il collega continua a massaggiare e non ha intenzione di muoversi.

Qualcuno mi afferra le mani e mi guarda negli occhi. È il primario.

«Mills, fatti da parte, ci pensiamo noi a lei».

Quello è pazzo se pensa che me ne starò qui ad guardare.

«No, io devo defibrillare, levati di mezzo!» ripeto riprendendo a piangere.

Lei mi ha salvata. Lei ha preso i proiettili al posto mio, io DEVO salvarla.

«Si è messa di fronte a me quando quella donna ha sparato...» continuo a piangere, ripercorrendo la scena come un film. Come un incubo. Il peggiore che abbia mai vissuto. Lui mi fissa. Tutti mi fissano e io improvvisamente non riesco più a muovermi. Tutte le nozioni apprese per salvarle la vita sembrano scivolare via lacrima dopo lacrima.

Non sono lucida, non posso fare nulla per lei.

Decido così di affidare le piastre a lui, che concentrato e distaccato, impartisce ordini a tutti.

Dalle piastre arriva la prima scarica.

Il corpo di Emma rimane inerme, così come il suo tracciato piatto, mentre un'altra fiala di adrenalina viene iniettata con prepotenza nel suo corpo.

Li guardo a pochi passi di distanza, confusa. Tengo solo a mente quante scariche quel corpo ha dovuto subire.

Quattro.

Poi l'adrenalina e le trasfusioni. Niente sembra servire a far ripartire il suo cuore.

Nemmeno le mie preghiere, nemmeno le mie lacrime. Nemmeno la mia mano che stringe la sua.

Le scariche paiono solo far peggiorare il sanguinamento dalla bocca e dall'addome.

Il torace si spande solo grazie all'aria inalata dal pallone.

Il mio pianto è un continuo singhiozzare in silenzio.

Quando ormai, dopo quasi venti minuti, sembrano volere rinunciare, sgomito tra due medici miei colleghi e con tutta la forza che ho in corpo scaglio un pugno contro il suo petto accompagnato da un urlo disperato.

Mi guardano esterrefatti.

Un piccolo BIP invade la stanza. L'elettrocardiogramma registra attività cardiaca.

Anomala, veloce, ma c'è.

Tiro un enorme sospiro di sollievo mentre porto le mani al petto.

Il cuore batte senza controllo e la mia unica paura è che non riuscirei a sopportare la sua perdita.

Ripercorro la scena, il suo corpo di fronte al mio, gli spari, lei che si accascia.

A ripetizione, come a volere recuperare particolari che mi sono sfuggiti.

La osservo lasciare la stanza sulla barella e sono pronta a seguirla quando il mio collega mi blocca letteralmente impedendomi di seguirli. Sono diretti in sala operatoria.

Chiudo gli occhi mentre alcune lacrime rigano il mio viso.

“Henry ti vuole bene, Regina” ripenso all'ultima mezz'ora di follia.

Le parole di Emma mi rimbombano nella testa e come una batteria impazzita non riesco a trovare un senso a niente.

Marian... non so nemmeno se è viva o morta.

Il viso di Emma che impallidiva minuto dopo minuto mentre il lenzuolo che avevo strappato via dalla branda accanto a me, con cui tamponavo le ferite, si inzuppava di sangue. I proiettili hanno di certo perforato il fegato. E ci sarebbe stata una contaminazione peritoneale da parte degli organi cavi. Avrebbe rischiato una setticemia...

“Baciami, per favore, Regina”.

Avevo osservato la vita scivolare via lentamente dai suoi occhi, dalla sua pelle, dal suo respiro che si era fatto sempre più lieve e rapido. Più freddo. Più faticoso.

E insieme a lei mi ero spenta anche io.

Ha usato il suo corpo per proteggermi. Si è presa due proiettili per colpa mia.

Rischia di morire per colpa mia. Tutto quello che tocco sparisce, come se la mia persona avvolgesse in una nube scura tutto ciò che si avvicina troppo.

Prima Robin.

Poi Henry.

E ora anche Emma.

Ti bacio perché ti voglio con me – avevo pensato.

Ti bacio perché mi manca baciarti.

E ti bacio perché non voglio che sia l'ultimo.

Vero Emma? Quello non è stato il nostro ultimo bacio. No. Non è stato l'ultimo.

Cerco di auto convincermi mentre sposto lo sguardo alle mie mani, piene di sangue. Corro al lavandino e inizio a strofinare con abbondante disinfettante. Il sangue è arrivato fino al gomito ma a niente serve il sapone e la rabbia con cui strofino mani e braccia, per pulirmi.

Mi arrendo. Mi asciugo con un telo e improvvisamente mi ricordo una delle ultime frasi pronunciate da Emma: Henry è fuori, in corridoio.

Mi precipito fuori da quella stanza e lo trovo lì, in piedi in un angolino, intento a fissarmi con le lacrime agli occhi e la borsa di Emma stretta al petto. I suoi occhi sono dentro ai miei e i miei dentro ai suoi, non abbassa lo sguardo nemmeno una volta. Non c'è odio o rammarico nei miei confronti, piuttosto comprensione e un'immensa e insostenibile paura. Percorre piccoli passi verso di me, lento ma deciso, senza fermarsi nemmeno una volta. Poi i suoi passi si fanno più rapidi e inizia a correre. Inizialmente non comprendo il motivo di quella rapida accelerazione e temo voglia scappare ancora. Ma lui mi sta guardando, piange e corre verso di me.

Quando lo capisco, istintivamente mi abbasso un po' così da poterlo afferrare, sollevare da terra e stringerlo forte a me come non mi aveva più permesso di fare da quasi due anni. Si aggrappa a me come un piccolo koala fa con la sua mamma, con le gambe e le braccia. La borsa di Emma penzola dal suo braccio e lui piange disperatamente. Non so quanto abbia visto, non so se ha visto qualcosa, e non so nemmeno se voglio chiederglielo.

Voglio solo piangere insieme a lui.

Voglio piangere perché tutto questo è merito di Emma e lei non può vedere.

Voglio piangere con lui perché mi è mancato il suo calore. Prima della morte di suo padre eravamo una squadra bellissima, complici in tutto. Poi le cose sono cambiate.

I suoi singhiozzi si mescolano ai miei. Le forze mi mancano e piano, piego le gambe, fino a che le ginocchia non toccano terra. La mia bocca si sposta sui suoi capelli e inizio a riempirlo di baci. Afferro la sua testolina sudata, e lo guardo di nuovo negli occhi a una distanza ravvicinata. Come è bello il mio bambino? Gli stampo ancora due baci sulle guance mentre continuiamo a piangere.

«Mamma...» dice singhiozzando.

Dalla sua bocca, dopo venti mesi, è uscito di nuovo un suono, una frase, una parola verso di me. Mi si scioglie il cuore e lo stringo di nuovo tra le mie braccia.

«Emma starà bene, ok?» dico nel modo più convincente possibile.

«Mamma...Emma» mi ripete lui.

Sembra stia piangendo le lacrime di una vita. Non ha pianto nemmeno al funerale del padre. Probabilmente sta ricordando anche quello.

«Henry ascolta, Emma starà bene, ok? Lei è forte! L'ha insegnato a tutti e due che nella vita bisogna essere forti!» lo dico a lui e a me stessa.

Emma starà bene di certo.

Tornerò a vedere il suo meraviglioso sorriso.

Tornerò a baciare quelle labbra.

Tornerò a stringere quelle mani.

E il mio cuore tornerà a battere leggero e sicuro come quando lei mi stava accanto.

«Dottoressa Mills, possiamo farle qualche domanda?» una voce interrompe il nostro pianto e i miei pensieri. Apro gli occhi e mi volto. Metto a fuoco due uomini in uniforme, due poliziotti, che con taccuino e penna in mano sono pronti a raccogliere ogni informazione sull'accaduto.

Con fatica mi metto in piedi, aiutando Henry ad alzarsi tenendolo per mano. Col dorso della mano asciugo il mio viso, poi torno su Henry.

«Solo se possiamo andare in una stanza dove lui non può sentire ma io posso tenerlo d'occhio».

«Certamente. Lui può sedersi su quella sedia» indica una sedia accanto all'uscita «e noi possiamo stare qui».

Mi inginocchio di nuovo di fronte a lui.

«Ora devo parlare con questi signori, smetti di piangere, ti prego... torno tra poco» cammino con lui fino alla sedia. Con occhi e il naso rosso, annuisce tristemente.

Quindici minuti di domande incessanti. Quindici. Ci manca poco che mi chiedano che taglia di reggiseno porto e se uso le mutande in tessuto sintetico o in cotone. Lei ha sparato a me diamine, non il contrario! E ora una persona rischia la vita perché non è stata in grado di convivere col suo dolore. Bè ora dovrà imparare a farlo, come ho fatto io, come ha fatto Henry, come fanno tutti!

Quando finalmente mi lasciano da sola, torno da mio figlio che tiene tra le mani un telefono.

Mi siedo accanto a lui.

«È di Emma... forse devi avvertire la sua mamma, sarà preoccupata».

Poggia il telefono tra le mie mani. Henry ha ragione. Ma sinceramente ho paura della sua reazione. Ho paura che darà a me la colpa per quel che è successo a Emma.

«Ho già cercato il suo numero nella rubrica, devi solo parlarci».

Poggia la sua testolina sul mio braccio e io ne approfitto di nuovo per stringerlo a me.

Poi, con le ultime energie, clicco sul tasto verde della chiamata e poso il cellulare al mio orecchio.

Inizia a squillare e aspetto.

Uno squillo.

Due squilli.

Tre squilli.

Al quarto sto per chiudere quando sento la voce di una donna all'altro capo del telefono.

«Hey tesoro, come stai?» Una voce allegra e cordiale.

«Signora Swan? Sono Regina Mills, la madre di Henry, si ricorda di me?».

Le mani mi sudano e il cuore accelera nervosamente, di nuovo.

«Certo che mi ricordo ma...» silenzio.

«Come mai mi sta chiamando dal telefono di Emma? È successo qualcosa?»

Come faccio a dirle che hanno sparato a sua figlia, che è in sala operatoria e che non so nemmeno se è viva o morta? Come faccio a dirle che quei proiettili erano destinati a me? Come faccio a farle capire che mi dispiace, mi dispiace con tutto il cuore che Emma abbia fatto questo gesto così spropositato nei miei confronti?

«Regina, mi fa preoccupare, che è successo a Emma?»

«C'è stato un incidente e Emma è rimasta coinvolta. È nell'ospedale dove lavoro io, il Sant'Antoine Hospital. Credo che lei e suo marito dobbiate venire subito qui. Non fatemi dire tutto per telefono, per piacere».

Sento il suo respiro farsi sempre più affannato e poi rispondere.

«Io... noi... siamo fuori città. Ci metteremo qualche ora. Mi assicura che Emma ora è viva?»

«Sì, ora lo è».

Mento. Non so se è viva. Ma forse in quelle ore sarebbe uscita dalla sala operatoria. Forse. Non lo so. Non so nulla.

«Ci mettiamo in viaggio adesso».

«D'accordo, io vi aspetto qui, con Henry».

«A dopo».

Chiudo il telefono e lo poso sulle mani di Henry.

«Dovresti rimetterlo nella sua borsa».

Silenzioso e diligente, si appresta a nascondere quel telefono nella borsa.

Sono sfinita e non ho nemmeno il coraggio di andare a chiedere come sta Emma. Mi massaggio la fronte con la mano libera, cercando di trovare una soluzione a questo momento.

Ok, forse avrei dovuto fare una doccia per poi rientrare in ospedale ad accogliere i genitori di Emma.

«Ora noi andiamo a casa, ci diamo una bella lavata e torniamo qui da Emma, siamo d'accordo?».

Annuisce.

Mi limito a dargli un bacio sulla fronte e a intimargli di aspettarmi un attimo.

Mi dirigo verso gli spogliatoi dove prendo le mie cose. Poi, a passo lento, vado all'accettazione, lasciando detto di chiamarmi quando ci fossero state notizie della signora Emma Swan, la ragazza della sparatoria.

L'avrebbero ricordata tutti così.

 

Quando rientriamo in ospedale Emma è ancora in sala operatoria. Io e Henry ci sediamo vicini, in silenzio, nell'attesa che da quella maledetta porta un collega ci avrebbe dato delle buone notizie.

Le ore passano. Henry si addormenta con la testa sulle mie gambe.

Lo guardo incantata, sfiorando di tanto in tanto i suoi capelli. Ho una tremenda paura che possa ricordarsi cosa gli ho fatto e che rialzi il muro di mattoni, solido e altissimo che aveva eretto in questi anni contro di me.

Sono le 7 pm. Ormai è in sala operatoria da quattro ore.

È un bene che non siano ancora usciti, significa che non è morta.

Poi Henry, svegliatosi poco prima, si alza di scatto, guardando delle figure avvicinarsi a noi. Corre loro incontro e si butta tra le braccia della madre di Emma. Il padre tiene tra le braccia Neal, il loro figlio più piccolo e nei loro occhi leggo tutta la preoccupazione e disperazione che solo due genitori amorevoli possono avere.

Quella donna posa mio figlio per terra e suo marito fa lo stesso col suo. Poi lei gli afferra la mano e ci spostiamo lontani dai bambini.

«Dov'è Emma?» mi chiede senza battere ciglio.

«Sedetevi, per favore».

«No, Regina, ti prego...dimmi dov'è nostra figlia. Ti prego».

I suoi occhi si riempiono di lacrime e suo marito la stringe subito a sé. Si vede da lontano quanto questi due si amino.

«Ok. Questa mattina Emma è andata a prendere Henry al campo scuola... e dovevano passare qui a salutarmi» smetto un attimo di parlare per prendere fiato e coraggio.

«Mi hanno presa in ostaggio. Una donna, con una pistola. Non sto a raccontarvi chi fosse questa donna, sta di fatto che Emma come un'incosciente è entrata nella stanza dove c'ero io... per proteggermi» abbasso lo sguardo, colpevole.

«Poi quella donna ha sparato» nella mia mente le immagini scorrono a rallentatore, e bruciano come non mai.

«...e lei si è messa di fronte a me» la testa mi scoppia e non riesco a continuare con la frase «e lei... si è presa i proiettili che erano destinati a me e mi dispiace» torno a guardarli negli occhi ma non leggo rabbia. Solo paura, la stessa che ho letto negli occhi di Henry. La stessa che ho letto nei miei quando mi sono guardata allo specchio.

«Mi dispiace così tanto che abbia fatto una sciocchezza simile, io non volevo, io non avrei dovuto farla entrare nella mia vita, non sapete quanto mi dispiace».

Porto le mani al viso e piango.

Mi dispero mentre quei due estranei aspettano il verdetto sulla salute della loro primogenita.

Poi due mani afferrano le mie, abbassandole e scoprendomi il viso.

Di fronte a me gli occhi di una madre, segnata, ferita, terrorizzata mi guardano con comprensione, e sorride.

«Emma ha un cuore grande... ed è molto forte».

«Lei ha detto... che... mi ama, prima di perdere i sensi» sussurro tra le lacrime.

«Sì, io questo lo so da tanto. Da qualche mese direi...» posa una mano sulla mia guancia.

«Sii forte, fai in modo che il suo sacrificio serva a qualcosa, riprenditi tuo figlio. Devi essere forte per lui».

Mi volto verso Henry. Parla fitto fitto con Neal ed è totalmente immerso nel suo mondo, un mondo che io devo imparare a conoscere.

Con la coda dell'occhio noto la porta in fondo al corridoio che si apre e due colleghi uscire con ancora la cuffietta da sala operatoria.

I loro sguardi non mi piacciono. Mi volto verso di loro, incrocio le mani sul petto e mi avvicino, seguita dai genitori di Emma. Percorro quei pochi metri come se fossi una delle condannate a morte de “Il miglio verde”. So che alla fine avrò la mia condanna, devo solo avere il coraggio di accoglierla, accettarla e metabolizzarla.

Eccoci qui, vicini, a distanza intima, pronta a sentire la mia sentenza di morte. Le mani mi tremano e vorrei tanto avere qualcuno a cui sostenermi ma sono sola. Era Emma il mio sostegno, e non volevo perderla. Non così. Non per mano di quella scriteriata.

«Loro sono i genitori di Emma» esordisco.

«Emma è salva, per ora».

No aspetta.

Devo aver capito male.

«Owen?» ripeto, incredula.

«Emma è stabile, anche se non ancora fuori pericolo» mi ripete sfiorandomi la spalla.

Dietro, quei genitori si abbracciano e piangono.

«Solo che ha perso molto sangue» aggiunge April «uno dei proiettili ha disintegrato parte della nona vertebra toracica e siamo riusciti con fatica a stabilizzarla».

Vertebra toracica.

Midollo spinale.

Funzionalità motoria compromessa.

«Come sono i test motori?» aggiungo.

«Non possiamo dirlo ora. Possiamo solo aspettare... e sperare che, una volta sveglia, anche le funzioni motorie siano rimaste conservate».

Annuisco preoccupata.

Eccola la mia condanna. Non la sua morte, ma la colpa che lei mi darà, tutti i giorni (sempre che voglia ancora vedermi), della sua paralisi. Probabile paralisi. Magari con un po' di fisioterapia, se il midollo non è stato lesionato o è stato decompresso per tempo, avrebbe recuperato tutta la funzionalità.

«Grazie mille dottore, possiamo vederla?» sento quella donna chiedere accanto a me.

«Ora no, la stiamo portando in terapia intensiva. Vi consiglio di andare a casa e tornare domattina. Ora possiamo solo aspettare...»

Mi volto da loro mentre i due colleghi si allontanano.

«Io... potrei stare io con lei questa notte. Lavoro qui, non avrebbero alcun problema a lasciarmi entrare» dico con un po' di coraggio.

«Sempre se per voi non è un problema che la causa di tutto questo stia vicina a vostra figlia».

Mi volto verso Henry e Neal che ci osservano preoccupati e curiosi.

«Henry potrebbe rimanere a dormire da noi allora, torneremo domattina a trovare Emma, che ne dite ragazzi? Henry?» quell'uomo si rivolge a mio figlio con una confidenza che io non ho ancora.

«Ok...» risponde tristemente.

«Io allora vado a prendere le sue cose, così poi potrete andare a casa».

Ci scambiamo i numeri di telefono, memorizzandoli rispettivamente come Mary Margaret e David.. Non conoscevo ancora i loro nomi, anche se quello di Mary Margaret mi era stato detto ormai molti mesi prima.

Arrivo a casa poco dopo.

La testa mi duole. Le tempie pulsano e le lacrime, ora che Henry non è con me, hanno ripreso a scorrere, senza sosta. Entro in casa, trascinando i miei piedi fino al piano superiore dove mi dirigo spedita verso la mia camera. Mi chiudo dentro.

Rivedo il suo corpo nudo su quel letto, i suoi baci che mi avevano fatto sentire amata. Le mani che mi proteggevano, le parole che mi cullavano. Tutto in quella stanza sapeva di lei, e io l'avevo lasciata andare. Avevo fatto vincere la paura a un folle tentativo di essere felice. E ora che ho in mano? Solo la colpa di averla messa in una situazione dove, una come lei, avrebbe dato la vita per salvare chiunque, me compresa.

«Perché» inizio a dire a voce bassa «Perché!» ripeto con tutto il fiato che ho in corpo.

Poi mi butto sul letto a piangere. Ancora.

Piango ancora e ancora e ancora.

Senza sosta, senza controllo, senza respiro.

Adagio, il respiro si calma, e le lacrime si fermano.

Devo rimanere calma, ho tutta la notte per piangere accanto a lei.

In piedi, mi dirigo in camera di Henry e in una piccola valigia che tiene sotto il letto, sistemo un pigiama, qualche mutanda, calze e alcuni cambi. Non so quanto sarebbe durata questa situazione, meglio portarsi avanti.

 

Indosso la cuffietta e la mascherina. Dal vetro osservo la sua figura che, come senza vita, respira solo grazie alle macchine. Mi faccio coraggio ed entro.

Nonostante gli odori di disinfettante e la mascherina, capto l'odore dei suoi capelli.

Inspiro profondamente prima di avvicinarmi.

Il viso è solo più pallido del solito. Scosto leggermente il lenzuolo per capire l'entità della ferita: il cerotto parte dallo sterno e si estende fin sotto l'ombelico. Avrà una brutta cicatrice...oltre ai due piccoli cerotti che coprono i due fori di proiettile. Le sfioro la fronte con le dita, poi poso un bacio sulla sua guancia.

Sul monitor, il tracciato accelera sensibilmente, per poi tornare lento e regolare.

«Ciao Emma, sono io» mi accomodo su una sedia e le prendo la mano.

«Oggi Henry mi ha abbracciata e mi ha chiamata di nuovo mamma, sapevo che ci saresti riuscita».

Inizio a raccontare la scena con Henry nei minimi dettagli nella speranza che possa sentire la mia voce.

Intorno alle 2 am le palpebre iniziano a farsi pesanti. Mary Margaret mi ha mandato un sms ogni ora per avere notizie. Nell'ultimo, due ore prima, le ho scritto che per qualunque cosa l'avrei chiamata. Avrebbe fatto bene a dormire, così da essere in forze per il giorno dopo e per quelli a venire.

Ma anche io sono stanca. Chiudo gli occhi solo cinque minuti, mi dico. E quando ancora sto pensando a questo limite, con la fronte sulla mano di Emma, cado in un sonno profondo.

 

 

Note dell'autrice: Dovevo necessariamente dare una gioia a Regina. Casualmente è capitato nella settimana peggiore per il telefilm, per cui sono felice che la (quasi) riconciliazione tra Regina e Henry sia avvenuta in questo capitolo. Era arrivato il momento che Regina capisse che non è sola...ma ce ne vorrà ancora un pochino per capire che non lo è mai stata, non con Henry accanto.

Mi scuso per la poca originalità dei nomi, ma essendo una (quasi ex) fan di Grey's Anatomy, ho preso in prestito i due chirurghi d'urgenza della serie...e non sarà l'unica cosa che prenderò in prestito da quel telefilm.

In attesa dei sempre vostri appassionati commenti, vi do appuntamento alla settimana prossima!

 

P.S: la storia avrà in tutto 21 capitoli ed era conclusa prima che iniziassi a pubblicare quindi conosco e conoscevo la conclusione della storia fin dal primo capitolo :D

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Capitolo 17
*** Coma ***


Buio.

Un sibilo acuto e inatteso mi scuote improvvisamente.

Non ho però il tempo di chiedermi cosa stia accadendo perché un nuovo e strano rumore colpisce le mie orecchie: assomiglia al gocciolare di un rubinetto che perde. La cosa strana è che quei rumori non mi disturbano affatto, li trovo quasi familiari e amichevoli. Così, mi soffermo ad ascoltarli.

Muovo i bulbi oculari come impazzita ma intorno a me non scorgo niente. Nemmeno una flebile luce in lontananza. Forse non ho ancora aperto gli occhi – penso.

Quel buio però non mi fa paura, anzi, mi culla dolcemente, mi fa sentire protetta e al sicuro.

Visto che non posso vedere, tento di affinare l'udito verso gli altri suoni che si sono aggiunti ai primi: sento tre voci diverse, dicono cose che non capisco. Sembrano due uomini e una donna. La voce della donna mi è familiare ma mi concentro sulle parole.

Cuore... arresto cardiaco... defibrillatore... cervello... carenza di ossigeno... danni cerebrali... rottura di una vertebra.

Oddio sembra grave, di chi parlano?

«Emma».

Sento chiaramente pronunciare il mio nome dalla voce femminile che pare più vicina a me e mi tocca la mano. So perfettamente a chi appartiene quella voce, la riconosco, e vorrei tanto poterle dire che la sento anche io. Tento di attirare la sua attenzione ma ogni mio tentativo è vano.

Cercare di muovermi mi provoca solo una infinita stanchezza e quello strano suono che ho sentito poco fa aumenta di velocità e intensità.

«Emma calmati... tranquilla, devi riposare ora».

La voce di Regina è così calma e calda... rassicurante... cado di nuovo nel vuoto.

 

/--/

 

«Ciao tesoro, sono la mamma, come ti senti oggi?».

Mi sveglio improvvisamente.

O forse è la mia mente che si sveglia perché intorno a me vedo ancora solo buio e le palpebre sono molto pesanti, tanto che non riesco a sollevarle.

Provo a muovere la mano ma nonostante lo sforzo quella rimane lì, sopra qualcosa di morbido.

Tutto il mio corpo è completamente bloccato.

Il cuore inizia a battere forte, e poco lontano sento di nuovo il lieve suono, come un allarme impazzito. Il mio corpo è dolorante, vorrei alzarmi, dove sono? Perché non riesco a vedere nulla? Perché non riesco a parlare?

Quella voce riprende a parlare.

«Emma ti prego calmati... sono io, voglio solo stare vicina a te, per favore».

MAMMA.

Mamma, perché non riesco a muovermi? Perché non riesco a vederti? Perché non riesco a parlarti?

Aiutatemi!

Il mio tentativo di aprire la bocca fallisce perché inaspettata arriva la tosse. Continua, inarrestabile, stizzosa, soffocante. Anche la deglutizione è impedita da qualcosa che sento in gola, per favore, toglietemelo!

«Aiuto, sta soffocando!»

L'urlo di mia madre mi spaventa.

Poi la voce di un angelo, del mio angelo, si avvicina al mio orecchio.

«Emma calmati. Hai un tubo in gola che ti ha fatto respirare in queste settimane, ora credo che non ti serva più, quindi te lo tolgo, ma tu devi calmarti, ok?»

Tubo in gola? Queste settimane?

Ok, c'è davvero qualcosa che non va e che non ricordo. Ma ora che ho capito cosa mi soffoca, voglio solo che questa tortura finisca.

Respiro affannosamente e una cosa fredda si posa sul mio petto.

Poi la sua mano mi sfiora il viso.

Non la vedo ma conosco il suo tocco, il suo profumo, il suo respiro.

Un leggero strappo sul viso rende mobile ciò che a quanto pare ho infilato in gola (spero che qualcuno possa spiegarmi perché, prima o poi). La sua mano si posa accanto alla bocca, sento le sue dita muoversi e poi tirare. In quel momento sono certa che le vomiterò addosso. La gola mi brucia e la tosse torna a far capolino fino a che improvvisamente non si calma.

Di nuovo qualcosa di freddo si posa sul mio petto.

«Ok, respira autonomamente».

Regina parla di nuovo, ma a chi?

«Bene, grazie Regina.»

Ok, mia madre e Regina parlano di me e io non posso intervenire, diamine.

Vorrei tanto capire dove sono e cosa ci faccio in qualunque posto mi trovi. E perché non mi ricordo nulla.

«Ciao Emma. Tua madre e io ti ripetiamo delle cose tutti i giorni così che la tua mente rimanga sveglia e attiva».

Stavolta non voglio agitarmi. Voglio sentire cosa dicono, dato che a quanto pare hanno ripetuto lo stesso discorso per molto tempo e io non me lo ricordo per nulla.

«Sì amore, sei in ospedale da alcune settimane perché per proteggere Regina hai fatto scudo col tuo corpo e due proiettili ti hanno colpita. Hai perso molto sangue».

Ora è mia madre che parla e io davvero non capisco. Mi hanno sparato? Ma chi? Quando? Perché?

«Sì, Marian, l'amante di Robin, ricordi? Lei era venuta in ospedale per ferirmi, uccidermi, credo... poi sei arrivata tu e mi hai salvata. Come hai salvato Henry. Come hai salvato me altre volte da quando ci conosciamo».

Marian.

Ricordo il suo volto.

Carnagione olivastra, capelli scuri e ricci. La sua pistola puntata contro me e Regina.

Poi un bruciore all'addome e più nulla.

Quindi, riassumiamo, io sono in ospedale, giusto? Sono in ospedale da settimane ormai e loro sono qui tutti i giorni e mi parlano e io non ho mai sentito nulla. A parte ieri e oggi. Ora. Ma era ieri l'ultima volta che le ho sentite parlare? Non ne ho idea.

Chissà cosa mi hanno detto.

«Sono venuti i tuoi amici a trovarti: Ruby e anche il tuo vicino di casa Killian» dice mia madre.

«Che voleva baciarti ma lo stavo per accecare con la piletta per la gola».

Aggiunge Regina stizzita.

Io lo ammazzo quando mi sveglio, lo ammazzo di certo.

«Siamo sicuri che senta qualcosa?» la voce di mia madre.

«Non lo so, ma io le parlerò tutti i giorni se sarà necessario, la riporterò indietro. Da un punto di vista clinico lei ora sta bene, deve solo svegliarsi. L'elettroencefalogramma è perfetto. Le ferite sono a posto, e prima si sveglia, prima potrà iniziare la riabilitazione per la gamba».

Devo essere proprio messa male. Vorrei tanto ridere, nella mia testa sto sorridendo, sembro un caso assolutamente disperato e la cosa mi diverte.

Non mi diverte sapere che Regina, mia madre, mio padre, Neal e... Henry siano preoccupati. Henry sarà maledettamente preoccupato. E anche traumatizzato. Non parlerà più con me. Sarà arrabbiato con me, ne sono sicura.

Penserà che l'ho tradito, come ha fatto suo padre.

Perché ho fatto una cosa tanto stupida? Farmi sparare... potevo lanciarle addosso una sedia, o una barella. O potevamo semplicemente scappare, tentare.

Ricordo bene il suo sguardo impaurito, le mani fredde. E anche la rabbia di doversi confrontare con l'amante di suo marito. Perché le donne si ostinano a difendere i propri mariti anche quando sono indifendibili?

Pensare mi stanca. Sento che le energie stano venendo meno. Di nuovo mi sento come su una nuvola, leggera, che viene trascinata qua e là dal vento. Lascio che quel vento mi culli... le voci di mia madre e Regina si fanno lontane, troppo lontane. Cerco di aguzzare l'orecchio, invano. Mi lascio andare.

 

/--/

 

La mente è leggera, così come il mio corpo. A mio modesto parere mi sedano pesantemente tutti i giorni, magari con la morfina o simili. Deve essere questa la sensazione di uno che si è “fatto”... tutto sembra bello, semplice, colorato.

Ma in fondo dovrei essere in coma (o sono morta?!) quindi forse la mia mente è alterata a prescindere. Ma non so quanto sia normale che io senta le voci e i rumori e non riesca ad aprire gli occhi.

Le voci intorno a me sono serie e concentrate.

Sento molto freddo all'addome, oddio sono nuda e loro mi guardano. Mi staranno ricrescendo i peli sulle gambe? Se sono passate delle settimane non devo essere propriamente liscia. Non pensarci Emma. L'importante è che Regina non sia lì.

«Avete deciso di toglierle i punti?»

Ecco, appunto. Come volevasi dimostrare.

Sento che il cuore accelera e la macchinetta emette il solito rumorino fastidioso capace di perforarti i timpani. Ora capisco perché poi la gente decide di morire, è un rumore insopportabile.

«Emma tranquilla... sono io. Ora i miei colleghi ti toglieranno i punti, andrà bene, non sentirai male».

La sua mano si posa sulla mia e sento un bacio sulla fronte.

«Fai calmare il tuo cuore, Emma».

Me lo sussurra sulla fronte, a fior di labbra.

Si rende conto che così non posso che agitarmi di più?

Ma senza accorgermene il bip sul monitor scompare. E il mio respiro torna a farsi regolare.

«Mills, questa biondina sente tutto quello che le dici eh, ma chi è?»

Che brutto maleducato, che ti importa chi sono? Regina digli un po' tu di farsi gli affari suoi.

Quanto è morbida la sua mano....

«È la baby sitter di mio figlio ed è mia amica. Perché non ti concentri su quello che stai facendo? Cerchiamo almeno di non farle sentire dolore togliendole i punti di sutura, ha già sopportato abbastanza.»

Sento che mi guarda. Non la vedo ma lo sento.

Mi ha definita sua amica. Non so se esserne felice. Non so cosa siamo.

Ma... ho dei brevi ricordi. Non so se siano sogni o se sia successo davvero. Ricordo che mi ha baciata e io le ho detto che la amo. Ma è tutto così confuso... frammentato. Le sue lacrime, le mie. Il sapore del sangue. E poi il nulla, il nero. Mi sono solo lasciata andare e non ho più visto e sentito nulla.

La sua mano è sempre lì, sulla mia. Vorrei tanto stringergliela ma non riesco. Mi sforzo ma nessun muscolo pare rispondere ai miei comandi. La questione in effetti sta diventando alquanto preoccupante, non vorrei aver perso l'uso delle mani. Cioè, a me le mani servono e non poco. Potrei rinunciare alle gambe ma alle mani no, non se ne parla.

Come potrei mai rinunciare ad abbracciare mio fratello o i miei genitori? E come posso rinunciare a scompigliare i capelli di Henry? Ma soprattutto come potrei rinunciare a sentire di nuovo le dita di Regina incrociate alle mie? Non posso

Tutto questo pensare mi distrae da quel che succede attorno a me. C'è silenzio. Sento solo il suo respiro. E le dita che accarezzano il mio braccio.

«Sai quel giorno... il giorno che ti hanno sparato... Henry mi ha chiamato mamma.»

Oh Regina. Sono così felice per te e per Henry.

E soprattutto per me, ce l'ho fatta. Ci sono riuscita. Sono riuscita nel mio intento! Non ho alcuna laurea, sono stata solo... me stessa.

«E mi ha abbracciata forte forte. E abbiamo pianto tanto, per noi e per te.»

Ha la voce incrinata dal pianto.

«Però dice solo mamma. Dopo avermi chiesto di avvertire tua madre col tuo cellulare...mi guarda, annuisce o dice no, ma non dice altro. Non è molto ma rispetto a prima è un enorme passo avanti...poi stamattina tua madre mi ha mandato un sms dicendomi che Henry voleva parlarmi, e voleva venire a trovarti, credo che sarà qui a momenti. A quanto pare vuole parlare con me in tua presenza.»

Si sarà deciso a parlarle del diario. Aveva detto che lo avremmo fatto insieme e sta rispettando la sua promessa. Vuole comunque che ci sia anche io, quindi forse non mi odia.

Sospiro.

Parlami ancora, Regina.

Ho bisogno di sentire la tua voce. Mi sento sola qui in mezzo a questo buio. Mi fa paura.

Sento bussare alla porta. Regina lascia la mia mano.

«Ciao Henry...»

Regina parla con voce calda e rassicurante.

«Ciao Mary Margaret.»

«Ciao Regina. Come sta oggi la nostra bambina?»

Chiede mia madre. Mi dà un bacio sulla guancia.

«Bene, le hanno tolto i punti... stavamo parlando un pochino...»

È imbarazzo quello che sento nella voce di Regina?

«Bè, io aspetto qua fuori... tornerò più tardi.»

Mia madre va già via? Volevo che sentisse....

Rumore di passi e una sedia che striscia. Dio come odio non sapere cosa mi succede intorno.

«Siamo solo noi tre ora Henry, puoi parlare, sono sicura che Emma ti senta.»

Ok. Siamo giunti al termine di questa sofferenza.

Henry io credo in te, sei un bravo bambino. Sei forte e sei cresciuto tanto in questi mesi. Forza ragazzino, parla a tua madre.

Avverto un silenzio assordante e carico di tensione. Poi un fruscio di pagine, o forse è stoffa?

«Ciao Emma... mi raccomando, ascolta bene.»

Che bello risentire la tua voce, ragazzino.

«Mamma questo è tuo.»

Che parli del diario?

«Io volevo un maglione di papà, per sentire il suo odore. Ma tra le tue cose ho trovato questo. E ho iniziato a leggerlo. Leggerlo mi ricordava lui.»

Non so cosa stia facendo Henry ma so cosa sta facendo Regina. Sicuramente ha iniziato a piangere.

E si sentirà in colpa per non avere buttato o strappato quel diario. E per aver permesso che suo figlio lo leggesse.

«Non volevo leggerlo mamma, davvero... prima dicevi cose belle, poi lui con te è diventato cattivo. Tanto. Troppo.»

Lui sospira.

«Henry, ti prego...»

No Regina, non interromperlo. Ci siamo preparati per settimane per questo momento, lascia dire tutto quel che deve.

«No mamma, aspetta. Io ti ho dato la colpa di tutto. Ma la colpa non era la tua. Io ero arrabbiato con me stesso... perché avevo detto che ti odiavo e poi ho scoperto le cose del diario... e mi sono arrabbiato con lui. Per questo andavo in cimitero. Perché gli chiedevo il motivo. Perché ti trattava così se non voleva stare con te? Perché se l'è presa col mio fratellino?»

Ok Henry, stai andando bene... piangi se vuoi, ma continua.

«Non riuscivo a parlarti perché parlare con te era difficile. Io stavo male perché era morto mio padre. E tu lo avevi sopportato per tutto quel tempo... io sono stato cattivo con te.»

«No Henry, aspetta. Tu non c'entri nulla. Tu non potevi sapere ed era giusto che fossi arrabbiato con me!»

«No mamma, non era giusto perché tu mi hai sempre protetto. Quando ne ho parlato con Emma lei mi ha fatto capire molte cose... tu non mi hai mai permesso di odiarlo. Non hai mai detto una sola parola cattiva su di lui, mai una.»

Singhiozzi. Henry singhiozza e Regina tira su col naso.

Perché non posso vederli con i miei occhi! Maledetto coma... o insomma, quel che è!

«Io... mi dispiace per averlo letto... ma sono contento di averlo fatto. E sono contento di avere incontrato Emma. E anche se lei sta così... sono contento che ti abbia salvata. Mary Margaret mi ha raccontato come sono andate le cose. Lei è fatta così, aiuta sempre tutti... e tu con lei stai bene.»

No Henry, non puoi dire a tua madre che ti ho detto che mi piace, fermati!

In effetti a lei ho detto che la amo. Mi sono sputtanata abbondantemente da sola.

«Da quando c'è lei tu sorridi un po' di nuovo. E so che avete litigato e vi siete allontanate ma lei ti vuole bene mamma, davvero. Non ti farebbe mai quello che... ti faceva... papà...»

«Ok Henry, basta, vieni qui, abbracciami per favore».

Finalmente prendi in mano la situazione, e brava la mia Regina.

I passetti inconfondibili di Henry si avvicinano a me... a Regina probabilmente. Lei è rimasta vicina a me tutto il tempo. Henry mi sembrava ai piedi del mio letto... e ora sono tutti e due accanto a me. E piangono.

Poi qualcuno stringe la mia mano. Non è Regina però. È la mano piccola e calda di Henry.

D'istinto stringo le dita intorno alle sue.

«Mamma...»

«Dimmi tesoro...»

«Mamma, Emma mi ha stretto la mano, me la sta stringendo, è normale?»

Gli sto stringendo la mano? Davvero?

OMMIODDIO sento la sua mano. Sento che la sto stringendo.

Oddio voglio piangere. Le mie mani funzionano.

«Emma ci sei? Emma...»

Regina cerca di raggiungermi ma la mia mente viaggia lontana.

Posso ancora mangiare da sola, lavarmi, portare a spasso i miei cani. Cucinare, farmi la ceretta da sola. Sporcare Neal di nutella.

Amare Regina.

«Emma, stai piangendo...»

Io cosa? La sua mano sfiora l'esterno del mio occhio.

Io sto piangendo e loro lo vedono. Forse non sono totalmente isolata. Forse.

«Henry, la stai facendo tornare da noi... la stai salvando».

«Davvero mamma?»

«Assolutamente sì. Sei stato bravissimo.»

Non riesco più ad ascoltarli.

La mia mente è già lontana, sopra la mia personalissima nuvoletta di felicità.

Ho fatto molte cose belle nella mia vita. Non sono il disastro che ho sempre pensato. Con Elisabeth non è andata. Poi il destino o qualunque cosa sia, ha voluto che incrociassi le strade di Henry e Regina insieme. Ho contribuito alla loro rinascita ma sono rinata anche io, insieme a loro.

Henry mi ha insegnato cosa significa soffrire in silenzio ma soprattutto, mi ha insegnato il rispetto per un dolore che non si può comprendere.

Regina mi ha insegnato ad amare di nuovo....

La mente si annebbia. E insieme ad essa anche i pensieri messi insieme con fatica fino ad ora. Forse domani avranno un senso.

 

/--/

 

Qualcosa sfiora la mia fronte.

Una mano calda, morbida, profumata.

«Ciao Emma, sono io.»

Lo so che sei tu, penso.

Lo capirei anche ad occhi chiusi. E infatti...

Mi sento stremata, come se mi avessero sparato.

Oggi mi sento proprio simpatica con tutte queste battute.

Peccato che le senta solo io.

Chissà che ore sono, vorrei tanto saperlo.

Sospiro.

Un leggero peso si adagia sul mio petto.

È la sua mano che ascolta il mio cuore.

«Oggi ci sei di nuovo... gli ultimi due giorni il tuo battito era regolare ma debole, ho capito che non eri con me, che non mi sentivi. Oggi sei con me, il tuo cuore batte forte».

Io sono sempre con te Regina, anche quando non ti sento.

Ti farei da scudo altre mille volte, mi butterei sotto un treno e sotto una macchina se servisse a salvarti.

«Con Henry va molto bene... lui è voluto tornare dallo psicologo. Non quello da cui l'avevo già mandato ma uno nuovo, che non sapeva nulla di lui. Così poteva essere davvero se stesso, ha detto.»

Le scappa una risatina. Pagherei per rivedere il suo sorriso.

Di nuovo la sua mano sulla mia. Anzi entrambe. Le stringo.

Senti Regina? Lo senti che ti sto stringendo?

«È bello risentire la tua stretta...»

Mi confessa con tono felice.

«Sai Emma, in queste settimane ho avuto modo di pensare e pensare e pensare. A Henry, a te, a me... a noi. Prima che tu piombassi nelle nostre vite una malinconia aveva invaso tutto il mio essere. Il mio cuore era nero, la mia anima era nera... i miei pensieri erano assolutamente neri. La cosa peggiore è che ciò che avevo intorno, la vita degli altri che vedevo scorrere, mi sorprendeva e mi inquietava, terrorizzava. E soprattutto mi opprimeva quella sensazione che ai miei occhi tutto era estraneo, e tutta quella estraneità mi stava uccidendo. Lentamente. Inevitabilmente».

Si ferma. Posa le labbra sul dorso della mia mano. Mi dimentico come si respira. E le macchine lo segnalano. Maledette, non posso nascondere quanto sono emozionata, state zitte!

«Poi ho guardato i tuoi occhi quando ti occupavi di Henry. E lì ho iniziato a desiderare di volerti accanto. All'inizio era qualcosa di altalenante, poi si è trasformata in disperazione quasi abissale, perché quel vuoto che mi ero creata intorno lo stavi riempiendo tu. Per questo quel giorno ti ho baciata... per questo ho voluto fare l'amore con te. E guardarti nuda, guardarti volermi così, era per me come un regalo, un regalo che scarti e sorridi perché hai tra le mani finalmente quello che vuoi. In queste settimane ho parlato tanto per tenerti sveglia, ma quando ti guardavo avevo solo il desiderio di ascoltare il tuo respiro, lo stesso che mi ha fatto tornare la voglia di vivere. Per questo ho continuato a parlarti, dovevo ridarti i giorni che stai perdendo in questo letto.»

Forse dovrei smettere di respirare per ascoltarla meglio.

«Pensavo di non avere più un cuore, ma ce l'ho. Solo che era difficile da raggiungere, mentre tu ci sei arrivata così in fretta che mi hai spaventata. Mi spaventi. Ma non voglio più avere paura Emma... non con te, non di te. Tu hai detto che mi ami... prima di addormentarti quel giorno... dicevi davvero? Mi ami davvero o lo hai detto solo perché non sapevi se saresti sopravvissuta?»

Certo che ti amo Regina. Non me ne fregava di morire. Io ti amo e dovevi saperlo. Amo tutto di te. I tuoi capricci, il viso, la voce. E ogni volta che ho sentito quello che mi succedeva intorno c'eri tu, la tua voce a riportarmi indietro, in qualunque posto ora mi trovi. Perché quando non ci sei io non esisto.

«Perché se mi ami davvero allora devo confessarti una cosa. Mi sono innamorata di te.»

Il bip di quello strano aggeggio impazzisce, insieme al mio cuore.

«Ti amo e non perché mi hai salvata da quei proiettili. Non perché hai riportato Henry da me. Dopo due anni mi hai ridato speranza. Mi hai tolto la paura... o meglio, mi hai dato il coraggio di sconfiggere quella paura, di superarla. Mi hai insegnato a cambiare, a rendere magico anche qualcosa di orribile. Mi hai fatto uccidere quello che mi stava uccidendo... la vecchia me mi stava uccidendo... e io voglio farti vedere com'è questa nuova me per cui, per favore... apri gli occhi Emma, vivi per me, per favore.»

Sento che le lacrime di nuovo stanno facendo capolino dai miei occhi e lei le asciuga, poco dopo.

Poi sento una musica... vicino al mio orecchio destro inizia a suonare una canzone... non conosco le parole, non l'ho mai sentita.

 

A fire burns
Water comes
You cool me down
When I'm cold inside
You are warm and bright
You know you are so good for me.
With your child's eyes
You are more than you seem
You see into space
I see in your face
The places you've been
The things you have learned
They sit with you so beautifully

You know there's no need to hide away
You know I tell the truth
We are just the same
I can feel everything you do
Hear everything you say
Even when you're miles away
Cause I am me, the universe and you

Just like stars burning bright
Making holes in the night
We are building bridges

You know there's no need to hide away
You know I tell the truth
We are just the same
I can feel everything you do
Hear everything you say
Even when you're miles away
Cause I am me, the universe and you

When you're on your own
I'll send you a sign
Just so you know
I am me, the universe and you.

 

Continuo ad ascoltare la canzone e a piangere.

Sento un formicolio che dalle mani si sposta a tutto il corpo. Improvvisamente avverto la sensazione di avere di nuovo il controllo di quel che sono. Provo a ruotare la testa e un leggero fruscio dei capelli sul cuscino accompagna quel movimento.

«Emma...?»

La voce di Regina è sempre più vicina, è sempre più forte. Le dita si stringono ancora di più alle sue.

Gli occhi mi bruciano ma ho di nuovo il controllo delle palpebre, le sento muoversi sopra l'occhio stanco.

Poi, li apro.

E la luce mi avvolge.

Calda, accecante, luminosa.

Insieme alla voce di Regina, al suo viso, dapprima sfuocato, poi chiaro e perfetto proprio come lo ricordavo.

«C...e...»

«Emma, o mio...Emma?»

Tiene il mio viso tra le sue mani e mi lascia dei piccoli baci sulla fronte, sulle gote.

«Emma, sai chi sono?»

Alzo e abbasso ancora le palpebre per mettere a fuoco. Brucia e sento che è molto secco.

Devo riuscire a metterla a fuoco. E devo parlare. Devo dirglielo.

Cerco di concentrare la mia attenzione sulle labbra, ma la bocca è talmente asciutta che solo muovere la lingua è una tortura. Sento le labbra secche e la gola che brucia. Ma le parole sono lì, sulla punta della lingua, devo solo concentrarmi.

«Certo... che… so chi sei... Re... gina» al mio orecchio arriva una voce molto diversa dalla mia, ma l'ho udita. Posso parlare.

Abbozzo un sorriso.

Regina sorride di felicità, e piange.

Poi le sue labbra sono sulle mie.

Sì, sono davvero tornata.

 

 

Note dell'autrice: ho cercato di rendere più verisimile possibile la situazione di coma di Emma. Mi sono documentata, ho cercato testimonianze e questo è il risultato. Chi conosce e vede Grey's anatomy avrà riconosciuto la canzone (di cui vi lascio il link per poterla ascoltare: https://www.youtube.com/watch?v=E3BQP-l6clc ) tratto dai momenti felici delle Calzona. È abbastanza triste come la pubblicazione di questo capitolo, con un chiaro riferimento a loro, coincida con la disfatta totale che stanno avendo nel telefilm (di certo non sapevo che il telefilm avrebbe preso quella piega), ma spero che in questo capitolo possa avervi fatto emozionare e anche sorridere.

Grazie a Susan e Nadia per la correzione.

A martedì prossimo :)

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Capitolo 18
*** Il risveglio ***


Mary Margaret ha appena chiuso la porta alle sue spalle lasciando me e Henry da soli con Emma.

Ha con sé il suo zainetto, che stringe in modo morboso al petto, e fissa Emma come se fosse morta.

«Siamo solo noi tre ora Henry, puoi parlare, sono sicura che Emma ti senta.»

Dico per cercare di incoraggiarlo. Intanto mi siedo, stanca, sulla sedia su cui ormai può essere inciso il mio nome, accanto a lei, con la mia mano a sfiorare le sue dita.

«Ciao Emma... mi raccomando, ascolta bene.»

Sentire pronunciare una frase intera dalla sua bocca mi emoziona come non mai. Il cuore comincia a martellarmi dentro al petto, consapevole che forse, da oggi, il rapporto con mio figlio tornerà a essere quello di una volta. Oppure migliorerà. In testa vagano tutte le possibilità, ma nessuna sembra essere sufficientemente valida a giustificare questi due anni di silenzio e la necessità di avere Emma accanto per potermi parlare. Ma sono sicuramente felice che ci sia anche lei.

Mi guarda con occhi preoccupati, poi, dai piedi del letto di Emma, si avvicina a me. Poggia lo zainetto sul letto e ne estrae un quaderno con la copertina di pelle che mi... sembra...

NO.

No.

Non può essere QUEL diario.

Quel quaderno non può essere finito nelle mani di mio figlio.

Una sensazione di gelo percorre tutto il mio corpo. Seguita dalla vergogna e dal senso di colpa.

Non può averlo letto. Non deve averlo letto.

Ho svuotato la mia mente in quel quaderno. Ho trasformato in parole le lacrime che non potevo versare, le urla che ho dovuto trattenere, i lividi che ho dovuto nascondere... parole dolorose come sale su una ferita aperta. La parte più cupa di me è racchiusa tra quelle pagine, insieme ad avvenimenti accaduti che non potevo raccontare a nessuno. E ora è tra le mani di mio figlio che fissa me e quel quaderno, incerto sul da farsi.

«Mamma, questo è tuo.»

Alla fine me lo porge. Allungo lentamente le mie mani tremanti, afferrando quell'oggetto che per quasi tre anni era stata l'unica valvola di sfogo della mia vita. Lo giro solo per avere la conferma che fosse lo stesso che avevo lasciato nel mio cassetto il giorno del funerale di Robin e che non avevo più cercato. Non mi ero nemmeno accorta che fosse scomparso, semplicemente non avevo più sentito il bisogno di scrivere.

«Io volevo un maglione di papà, per sentire il suo odore. Ma tra le tue cose ho trovato questo. E ho iniziato a leggerlo. Leggerlo mi ricordava lui. Non volevo leggerlo mamma, davvero... prima dicevi cose belle, poi lui con te è diventato cattivo. Tanto. Troppo.»

«Henry, ti prego...»

Le lacrime arrivano in men che non si dica. Solo il fatto che lui mi parli è un validissimo motivo per piangere. Se a questo aggiungiamo che Emma è di fianco a me e che Henry ha davvero letto tutto... vorrei solo sparire. Rifugiarmi in una stanzetta buia e vuota per sempre.

Lui mi guarda negli occhi senza mai abbassare lo sguardo o sbattere le palpebre. L'unica cosa che mi conferma il suo nervosismo è il suo continuo aprire e chiudere la cerniera dello zainetto.

«No mamma, aspetta. Io ti ho dato la colpa di tutto. Ma la colpa non era la tua. Io ero arrabbiato con me stesso... perché avevo detto che ti odiavo e poi ho scoperto le cose del diario... e mi sono arrabbiato con lui. Per questo andavo al cimitero. Perché gli chiedevo il motivo. Perché ti trattava così se non voleva stare con te? Perché se l'è presa col mio fratellino?»

Si interrompe improvvisamente, le parole spezzate dalla voce arrabbiata.

«Non riuscivo a parlarti perché parlare con te era difficile. Io stavo male perché era morto mio padre. E tu lo avevi sopportato per tutto quel tempo... io sono stato cattivo con te.»

Eccole. Iniziano a scendere, inarrestabili, dolorose. Liberatorie.

«No Henry, aspetta. Tu non c'entri nulla. Tu non potevi sapere ed era giusto che fossi arrabbiato con me!» riesco comunque a dire con voce rotta dal pianto.

«No mamma, non era giusto perché tu mi hai sempre protetto. Quando ne ho parlato con Emma lei mi ha fatto capire molte cose... tu non mi hai mai permesso di odiarlo. Non hai mai detto una sola parola cattiva su di lui, mai una.»

E come potevo? Lui lo adorava. Era il padre senza difetti. Perfetto e inattaccabile.

«Io... mi dispiace per averlo letto... ma sono contento di averlo fatto. E sono contento di avere incontrato Emma. E anche se lei sta così... sono contento che ti abbia salvata. Mary Margaret mi ha raccontato come sono andate le cose. Lei è fatta così, aiuta sempre tutti... e tu con lei stai bene».

Sposta il suo sguardo su Emma, e sorride un poco, pieno di gratitudine.

«Da quando c'è lei tu sorridi un po' di nuovo. E so che avete litigato e vi siete allontanate ma lei ti vuole bene mamma, davvero. Non ti farebbe mai quello che... ti faceva... papà...»

«Ok Henry, basta, vieni qui, abbracciami per favore.»

I suoi piedini, dal fondo del letto di Emma, si spostano fino a me e lo stringo in un abbraccio. L'ennesimo di questi giorni. Sì, perché oltre a chiamarmi mamma o a dire sì e no, abbiamo passato la maggior parte del tempo abbracciati, senza dire nulla. La sera successiva all'incidente con Emma, lui si è sistemato nel mio letto, dalla mia parte e ha aspettato me per addormentarsi, dopo avergli preso le mani e dato un bacio sulla fronte.

«Mamma...»

Mi dice improvvisamente, irrigidendosi.

«Dimmi tesoro...»

«Mamma, Emma mi ha stretto la mano, me la sta stringendo, è normale?»

Nel trambusto di senso di colpa, tristezza e felicità, non mi sono accorta che Henry ha allungato la sua manina verso quella di Emma, per cercare conforto e coraggio.

A quelle parole mi irrigidisco anche io e scosto il corpo di mio figlio per osservare con i miei occhi quello che non voglio credere a parole. Le sue dita stringono quelle di Henry. I tendini della sua mano, magra, sono visibili così come l'immane sforzo che di certo sta compiendo per quel piccolo gesto. Mi avvicino al suo viso, cercando un dettaglio che mi dica che si sta svegliando.

«Emma ci sei? Emma...»

Le sue palpebre si muovono e le labbra si irrigidiscono lievemente. L'arteria sulla sua tempia sinistra inizia a pulsare e un secondo dopo, una lacrima scivola verso il cuscino.

«Emma, stai piangendo...»

Asciugo il suo viso col palmo della mia mano. Lei c'è, è con noi, ci sente. Afferro mio figlio con un braccio e lo stringo a me.

«Henry, la stai facendo tornare da noi... la stai salvando».

«Davvero, mamma?» Il suo viso, sorpreso, passa a quello di Emma. La fissa estasiato, e aspetta come me, che gli occhi di Emma possano tornare a brillare.

«Assolutamente sì. Sei stato bravissimo.»

Rimaniamo in religioso silenzio. Controllo i parametri ogni minuto, riportandoli diligentemente sulla sua cartella, mentre Henry torna a sedersi sulla sedia di fianco al letto, sempre con la mano stretta attorno a quella di Emma, o meglio il contrario.

Passa un'ora, ma i suoi occhi rimangono chiusi e il battito torna lento e regolare. Non è più con noi, non in quel momento almeno. La delusione negli occhi di Henry è il riflesso della mia. Ho bisogno di parlarle, ho così tante cose da dirle!

Mi siedo anche io.

«Mamma, oggi Emma non si sveglierà, vero?»

«No tesoro, non lo farà. Ma credo che non ci vorrà molto.»

Un piccolo sorriso increspa le sue labbra, a imitazione del mio.

Poso un bacio sulla fronte di Emma, per salutarla. Poi, afferrata la mano di mio figlio, esco dalla stanza.

Il mio turno è finito, possiamo rientrare a casa.

 

Oggi è il 20 settembre.

Henry ha iniziato la scuola da qualche giorno ormai e le maestre sono molto contente di risentire la sua voce. Il rapporto con i compagni è migliorato e la piccola Sarah lo saluta sempre con un bacio sulla guancia e ogni volta che rivedo la scena, una piccola fitta di gelosia invade il mio stomaco.

Sono passati sette giorni dalla sua confessione nella camera di Emma. Ancora non siamo sciolti e disinvolti nelle conversazioni, ma facciamo dei piccoli passi avanti. Uno di questi è stato quello di bruciare insieme il mio diario, e insieme a lui tutto quello che in quei due anni ci aveva ferito e diviso.

Vorrei tanto avere Emma con me in questa nuova situazione con Henry. Mi servono i suoi consigli e il suo conforto. La sua comprensione, il suo calore e il suo sorriso incoraggiante.

Invece è qui, distesa su un letto d'ospedale, con idratazione e nutrimento attaccati alle sue esili braccia (è dimagrita parecchio in questo periodo) e il solito bip a riempire il silenzio della camera.

«Ciao Emma, sono io» le sfioro la fronte mentre pronuncio queste parole, poi adagio il palmo della mano sul suo petto. Il battito è forte oggi, sorrido.

«Oggi ci sei di nuovo... gli ultimi due giorni il tuo battito era regolare ma debole, ho capito che non eri con me, che non mi sentivi. Oggi sei con me, il tuo cuore batte forte.»

Avvicino la solita sedia e mi sistemo il camice, avendo cura di non sgualcirlo troppo.

«Con Henry va molto bene... lui è voluto tornare dallo psicologo. Non quello da cui l'avevo già mandato ma uno nuovo, che non sapeva nulla di lui. Così poteva essere davvero se stesso, ha detto.»

Ridacchio al pensiero della sua richiesta. Era stato così impacciato e imbarazzato che avrei voluto filmarlo solo per poi poterlo fare vedere a Emma che si sarebbe sbellicata dalle risate. Ma la sua richiesta era più che lecita, doveva riniziare da zero, e solo con qualcuno che non conosceva la nostra storia avrebbe potuto farlo.

Le afferro la mano con le mie e prontamente stringe forte.

«È bello risentire la tua stretta...»

Sorrido ancora ripensando alla prima volta che l'ho invitata a cena a casa e lei mi strinse la mano, impedendomi di piangere.

«Sai Emma, in queste settimane ho avuto modo di pensare e pensare e pensare. A Henry, a te, a me... a noi. Prima che tu piombassi nelle nostre vite una malinconia aveva invaso tutto il mio essere. Il mio cuore era nero, la mia anima era nera... i miei pensieri erano assolutamente neri. La cosa peggiore è che ciò che avevo intorno, la vita degli altri che vedevo scorrere, mi sorprendeva e mi inquietava. E soprattutto mi opprimeva quella sensazione che ai miei occhi tutto era estraneo, e tutta quella estraneità mi stava uccidendo. Lentamente. Inevitabilmente.»

Le mie labbra si posano sul dorso della sua mano e le macchine impazziscono, il suo cuore impazzisce, come ogni volta che mi avvicino a lei.

Questo è il momento giusto per parlare, forse sarei riuscita a trascinarla via da quel tunnel nero in cui è entrata.

«Poi ho guardato i tuoi occhi quando ti occupavi di Henry. E lì ho iniziato a desiderare di volerti accanto. All'inizio era qualcosa di altalenante, poi si è trasformata in disperazione quasi abissale, perché quel vuoto che mi ero creata intorno lo stavi riempendo tu. Per questo quel giorno ti ho baciata... per questo ho voluto fare l'amore con te. E guardarti nuda, guardarti volermi così, era per me come un regalo, un regalo che scarti e sorridi perché hai tra le mani finalmente quello che vuoi. In queste settimane ho parlato tanto per tenerti desta. Ma quando ti guardavo avevo solo il desiderio di ascoltare il tuo respiro. Mi facevi venire voglia di vivere, e per questo dovevo ridarti i giorni che stai perdendo in questo letto. Pensavo di non avere più un cuore, ma ce l'ho. Solo che era difficile da raggiungere. E tu ci sei arrivata così in fretta che mi hai spaventata. Mi spaventi. Ma non voglio più avere paura Emma... non con te. Non di te. Tu hai detto che mi ami... prima di addormentarti quel giorno... dicevi davvero? Mi ami davvero o lo hai detto solo perché non sapevi se saresti sopravvissuta?»

L'ultima volta che avevo confessato i miei sentimenti a qualcuno, ero poi rimasta incinta e mi sono sposata. Ho creduto di amare in modo folle, mentre la follia è stata solo credere che anche lui mi amasse allo stesso modo. E la paura che in questo momento mi attanaglia, mi impedisce quasi di respirare. Ho provato molte volte a dirglielo ma le parole si sono sempre fermate lì, nel precipizio tra “voglio farlo” e “non ci riesco”.

Voglio buttarmi dalla parte giusta. Per una volta voglio fare la cosa giusta anche per me.

«Perché se mi ami davvero allora devo confessarti una cosa. Mi sono innamorata di te.»

Il cuore di Emma impazzisce, e il mio con lei. Ma è il momento di continuare, non posso fermarmi ora, devo forzare la mano adesso.

«Ti amo e non perché mi hai salvata da quei proiettili. Non perché hai riportato Henry da me. Dopo due anni mi hai ridato speranza. Mi hai tolto la paura... o meglio, mi hai dato il coraggio di sconfiggere quella paura, di superarla. Mi hai insegnato a cambiare, a rendere magico anche qualcosa di orribile. Mi hai fatto uccidere quello che mi stava uccidendo... la vecchia me mi stava uccidendo... e io voglio farti vedere com'è questa nuova me per cui, per favore... apri gli occhi Emma, vivi per me, per favore.»

La mia voce diventa roca e di nuovo anche Emma piange.

Poi afferro il mio telefono e la cerco.

Qualche settimana prima, mentre andavo a lavoro, alla radio ho sentito una canzone. Una canzone che inevitabilmente mi ha fatto pensare a me e Emma. Ho tentato di ricordare alcune parole e con quelle in mente, una volta arrivata in ospedale, avevo iniziato a spolliciare sul cellulare, cercando di ritrovare quelle note, quelle strofe che parlavano di me e lei.

Cerco sulla mia play list, poggio il cellulare sul suo cuscino e clicco play.

 

A fire burns,
Water comes,
You cool me down.
When I'm cold inside
You are warm and bright
You know you are so good for me.
With your child's eyes
You are more than you seem
You see into space
I see in your face
The places you've been
The things you have learned
They sit with you so beautifully.

You know there's no need to hide away
You know I tell the truth
We are just the same.
I can feel everything you do
Hear everything you say
Even when you're miles away
Cause I am me, the universe and you.

Just like stars burning bright
Making holes in the night
We are building bridges.

You know there's no need to hide away
You know I tell the truth
We are just the same.
I can feel everything you do
Hear everything you say

Even when you're miles away
Cause I am me, the universe and you.

When you're on your own
I'll send you a sign
Just so you know
I am me, the universe and you


 

Abbasso la testa e i capelli scivolano di fianco al mio viso, creando una barriera tra me e il resto. Non vedo nulla, sento solo la canzone e non posso fare a meno di piangere. Mi sento sola come non mai. Asciugo le lacrime col dorso di una mano e mi accorgo che la canzone è finita.

Poi un fruscio di capelli.

Leggero come... i suoi capelli sul mio cuscino.

Me lo ricordo bene quel rumore.

Alzo la testa, e il suo viso oscilla a destra e sinistra, mentre gli occhi tentano di aprirsi.

«Emma...?»

Scatto in piedi e allineo il mio viso col suo. Le accarezzo la guancia con le dita, stavolta non la lascerò andare. No.

I suoi occhi si aprono.

Fanali verdi improvvisamente riprendono luce, calore. Le pupille ritrovano vita quando incontrano le mie. Afferro con entrambe le mani il suo viso proprio nel momento in cui lei cerca di aprire bocca e pronunciare qualcosa.

«C...e...»

«Emma, o mio...Emma?»

Mi guarda e sbatte le palpebre come per mettermi a fuoco. Lei è tornata da me. La felicità del mio cuore è incontenibile. Le labbra non possono fare a meno di toccare il suo viso.

«Emma, sai chi sono?»

Le chiedo tra le lacrime.

Socchiude leggermente le labbra, e gli occhi, di nuovo. Osserva ciò che ha di fronte come se conosca la risposta ma non ricordi il nome. Deglutisce e un'espressione di dolore si dipinge sul viso. Probabilmente ha molto bruciore alla gola per via del tubo della respirazione artificiale e anche perché non si idrata per via orale da un bel pezzo. Poi raccoglie tutte le energie, fa un profondo respiro e apre la bocca.

«Certo... che… so chi sei... Re... gina».

La voce è rauca, molto diversa da prima. Però parla.

Parla e sa chi sono.

Sorrido tra le lacrime e la bacio.

La bacio e piango e lei sorride e mi abbraccia. Le sue braccia arrivano con difficoltà fino al mio collo e lo stringono.

«Quanto mi sei mancata Emma...»

Lo dico più a me stessa che a lei.

«Va tutto bene, Regina.»

Una flebile voce sussurra al mio orecchio. Mi sposto di nuovo sul suo viso, che, spaesato, si guarda intorno cercando di capire dove si trovi.

«Emma sei in ospedale, ricordi cosa è successo?»

Lei annuisce, decisa.

«Sei stata in coma per un po'» le dico continuando a fissarla negli occhi.

La guardo e l'unica cosa che riesco a pensare è che sono felice. Non l'ho uccisa, lei è ancora con me e le cose potranno sistemarsi. Potremo parlare, potrò raccontarle di Henry, potrò dirle delle lunghe chiacchierate fatte con sua madre e di quanto Neal faccia bene a Henry. Vorrei dirle ora tutte queste cose ma non riesco. Le parole muoiono lì, sulle labbra, come le infinite lacrime che scendono alla vista dei suoi occhi che debolmente mi sorridono.

«Sono... in... paradiso?» ha la voce roca ma si sforza di parlare. Una debole risatina echeggia nella stanza, riesce anche a scherzare.

«No Emma, per ora il paradiso può aspettare... sei solo con me».

«È per... ché ci sei tu che pen... savo di essere in pa... ra... diso...» la sua mano, fredda e magra, si posa debolmente sulla mia guancia e io d'istinto la bacio.

«Sei sempre la solita» le dico «vuoi un po' d'acqua?» chiedo poi, sicuramente ha la gola molto secca. Annuisce di nuovo e dal comodino accanto a lei afferro un bicchiere con una cannuccia. Avvicino quest'ultima tra le sue labbra e prende due piccoli sorsi.

«Mi fa male la gola» aggiunge poi portandosi una mano sul collo.

«Sì Emma, lo so, è normale, passerà» le accarezzo i capelli.

«Regina, grazie...»

«Per cosa?» chiedo io stupita.

«Sentivo la tua voce, ogni tanto» dà qualche colpo di tosse prima di riprendere a parlare «c'era buio, ma quando parla... vi tu non mi sentivo sola» piega un po' la testa. Sorride e compare una piccola fossetta su un lato delle labbra.

Lei mi ha sentita parlare, forse ha sentito anche le ultime parole che le ho detto, forse ha sentito anche che la amo. Voglio saperlo?

Sì.

No.

«Cosa hai sentito precisamente?» il mio cuore batte all'impazzata. Forse non avrei dovuto ripetere tutto il discorso, forse quello sforzo è davvero servito a qualcosa.

«Non ricor... do cosa ma ricordo che... mi parlavi, spesso.»

Non so se essere felice o triste di questo fatto, ma il fatto che mi parli è un motivo sufficiente per inserire questa giornata nella lista delle memorabili.

«Oddio devo avvertire tua madre!» esclamo improvvisamente e rimproverandomi per non averci pensato prima.

Afferro il cellulare e quasi mi scivola dalle mani tanta è l'agitazione. Pochi squilli, solo tre parole.

«Emma è sveglia.»

Mezz'ora dopo Mary Margaret, David, Neal e anche Henry, riabbracciano Emma.

Osservo da lontano il riavvicinamento di quella famiglia che ho quasi distrutto. Henry, dopo averla salutata, si avvicina a me, come se anche lui si sentisse estraneo a quel momento. Decido di uscire dalla stanza insieme a lui.

«Te l'avevo detto che si sarebbe svegliata presto, Henry.»

Dico appena chiudo la porta alle nostre spalle.

«Non vedo l'ora di poter riandare a portare i cani a spasso insieme a lei... a proposito, possiamo prendere un cane?»

I suoi occhioni grandi e pieni di gratitudine mi fissano speranzosi.

«Certo che possiamo prendere un cane... magari quando Emma si sarà ristabilita potrete andare voi due.»

Gli accarezzo la guancia prima di posare un bacio sulla sua fronte e allungare il suo visino verso il mio.

«Oppure tutti e tre insieme» dice facendo poi spallucce.

«Sì Henry, oppure tutti e tre insieme, sarebbe un'ottima idea.»

Tutti i pezzi del puzzle si stanno sistemando.

Aver confessato a Emma i miei sentimenti mi ha liberata da un enorme peso. Ora non so se lei ricordi quel che ho detto, la cosa che per me ha importanza ora è che le mie parole l'abbiano riportata indietro.

Se lei è viva posso ripetergliele quante volte voglio.

L'unico particolare su cui non ho controllo è la gamba di Emma. Avrebbe dovuto fare parecchia fisioterapia prima di tornare come prima e spero tanto che quella possa bastare e che il trauma subìto non lasci alcun tipo di segno sul suo corpo. Non me lo perdonerei mai. Ma anche per quello avrei sfruttato tutte le mie conoscenze per garantirle un servizio eccellente.

Chi riesce a dare il meglio di se stessa merita il meglio. E glielo avrei trovato.

 

 

Note dell'autrice: Buongiorno a tutti! :)

Questo capitolo non aggiunge nulla di nuovo al precedente, a parte il risveglio di Emma visto dagli occhi dell'innamoratissima Regina. Come pensate che succederà ora che Emma è sveglia, parla e può interagire con chi vuole? Credete che le cose si sistemeranno subito e definiranno il loro rapporto?

Devo darvi una triste notizia: la settimana prossima sarò impegnatissima col lavoro per tutta la settimana e non avrò tempo materiale per pubblicare, per cui devo rimandare la pubblicazione del capitolo 19 nonché terzultimo, a martedì 7 giugno! Non disperate, sarò puntuale come al solito!

Grazie a Nadia e Susan per le correzioni.

A presto :)

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Capitolo 19
*** La festa ***


Siamo alla prima settimana di ottobre.

Ho sempre pensato che per un paziente in coma il risveglio fosse la parte più difficile.

Mi sbagliavo.

Le complicazioni e le difficoltà per me sono appena cominciate.

Le braccia, le gambe e qualunque muscolo del corpo era totalmente indebolito dalle settimane di immobilità. I primi giorni non riuscivo a tenere una semplice posata in mano e mia madre ha dovuto imboccarmi, con mio estremo imbarazzo. Non riuscivo a sistemarmi i capelli, non potevo andare in bagno da sola e non potevo lavarmi da sola. Vedevo il mio corpo magro e indebolito e pensavo a quando sarei riuscita nuovamente ad essere indipendente.

Da tre settimane è l'unico obiettivo della mia vita.

Col passare dei giorni i piccoli obiettivi stilati dal fisioterapista vengono raggiunti, uno per uno, volta per volta. Mangiare da sola, farmi la coda, tenere il cellulare in mano, passare dalla posizione supina a quella seduta (sempre rigorosamente nel letto) con l'aiuto della sponda che ho accanto.

La notizia del trauma spinale mi lascia interdetta, ma non mi traumatizza come quando sono costretta a chiamare aiuto per i miei bisogni fisiologici.

Sogno la mia vasca da bagno e il mio letto tutti i giorni e ogni volta che Regina varca la porta della mia camera vorrei scomparire in una nuvola di fumo. Per fortuna non mi sono ancora guardata allo specchio, credo che avrei avuto un infarto. Come posso essere anche solo lontanamente attraente per lei?

Il mio fisioterapista (il migliore dell'ospedale), dice che in tre settimane ho fatto molti più progressi io di quanti ne abbia visto fare nella sua lunga carriera lavorativa. “Ho un valido motivo per velocizzare le cose” gli rispondo sinceramente.

La forza nelle braccia è quasi in completo recupero, mentre il recupero del funzionamento della gamba destra non procede alla stessa velocità. Riesco a passare dal letto alla sedia a rotelle in totale autonomia ma quando tento di caricare il peso, questa cede, sempre.

Non mi lascio scoraggiare da questo.

E nemmeno dalle cicatrici sull'addome. Ogni giorno sollevo la maglia e le sfioro. Sono rosse e ancora sensibili al tocco, ma di certo col tempo diventeranno quasi invisibili.

Oggi è il gran giorno del mio rientro a casa. Attendo mio padre sulla mia sedia a rotelle, con al mio fianco Regina, che ha un sorrisetto malvagio e sento nasconde qualcosa.

«Tu mi nascondi qualcosa.»

Le dico con tono offeso.

«Guarda che sei tu che hai dimenticato di dirmi che passerai il pomeriggio tra estetiste e parrucchiere e bagno turco e quant'altro.»

Mia madre che non si sa fare i cavoli suoi.

«Bé, come minimo devo rimettermi a nuovo» dico stizzita «tu sei sempre meravigliosa e io devo per lo meno tornare normale.»

Sento svolazzare il suo camice accanto a me e di colpo me la ritrovo di fronte con le mani poggiate sui manici della sedia. Il suo naso dista mezzo centimetro dal mio.

«Tu sei meravigliosa anche ora e non azzardarti mai a dire il contrario, va bene?» mi sfiora le labbra con le sue.

«Non va bene perché mi sono guardata allo specchio e non mi piace quello che ho visto e deve piacere anche a me, non credi?» ribatto decisa.

«In effetti intravedo dei baffi qui...»

Sgrano gli occhi imbarazzata. Lei scoppia a ridere poi mi abbraccia.

«Oh Emma... non so come abbia anche potuto sfiorarmi l'idea di poter rinunciare a questo» ricambio il suo abbraccio, affondando la testa tra i suoi capelli.

«Questo cosa?» sussurro al suo orecchio.

«Le tue facce buffe, il tuo imbarazzo, la tua voce, il tuo sorriso... insomma, te.»

Si scosta e i nostri occhi si incontrano di nuovo.

«Grazie per essere ancora con me.»

Sorrido imbarazzata. Nessuno mi ha mai ringraziata per il semplice motivo di esistere. A parte mia madre, ma lei non conta, giusto?

La porta che si spalanca senza essere preceduta dal bussare, preannuncia la mia amica Ruby, che mi accompagnerà al centro benessere ed estetico. Mio padre è semplicemente l'autista, insomma.

«Ciao Emma!» dice in preda all'agitazione, tenendo in mano tre palloncini arancioni con su scritto il mio nome.

«Ruby.... devi sempre esagerare vero?» dico scuotendo la testa divertita.

«Uh dottoressa Mills, salve!»

Regina mi tocca la spalla mentre Ruby inizia a legare i palloncini gonfiati ad elio sul manico della sedia.

«Puoi chiamarmi Regina, se vuoi» risponde divertita.

Intanto mio padre, con un mazzo di rose bianche in mano, mi saluta con un bacio sulla fronte.

«Come stai tesoro? Contenta di uscire da qui?» chiede felice, porgendomi i fiori.

«Grazie papà... sì, voglio restaurarmi, voglio fare una vera doccia e vestirmi con qualcosa che non sia un pigiama quindi sì, sono più che felice di uscire da questo posto!».

«E allora andiamo!» dice mio padre prendendo il comando del mio nuovo bolide.

Allungo la mano verso Regina che me la stringe e poco dopo averla lasciata...

«Mi raccomando, non fatela stancare troppo, e non fatele mangiare schifezze e...»

Regina inizia a elencare tutta una serie di cose che non avrei dovuto fare. La interrompo dopo tre secondi.

«Alt» prendo possesso delle ruote e mi giro verso di lei. Estraggo una rosa dal mazzo e gliela porgo.

«Dammi tregua» la rosa è come un dono di pace.

Arrossisce prima di accettare il fiore. Poi si piega verso di me e posa le sue labbra sulla mia guancia.

«Non ti stancare comunque troppo» ripete in un sussurro «domani hai fisioterapia».

È di certo la frase che ripete più spesso da quando mi sono svegliata. Sembra quasi che la gamba sia la sua e non la mia.

«Farò del mio meglio» il mio sguardo si sposta, senza volerlo, alla scollatura della divisa blu elettrico che indossa. Sotto di essa, un reggiseno di pizzo nero incredibilmente familiare mi salta agli occhi.

«Bel reggiseno, comunque» sussurro, incapace di distogliere lo sguardo.

Due dita sollevano il mio mento e lo sguardo torna sui suoi occhi.

«Sono felice che gli ormoni abbiano ripreso a funzionare a dovere, ma ora devi andare, cara» si rimette in piedi, lasciandomi interdetta per qualche secondo.

Qualcuno ha di nuovo preso il comando della sedia e mi sta portando via da lei. Sollevo le dita per salutarla, come rintontita, e lei ricambia allo stesso modo.
Il suo sguardo mi porterà al manicomio, ne sono certa.

 

L'obiettivo “facciamo tornare Emma” può dirsi cominciato.

La depilazione è stata più lunga e faticosa del previsto. La mia gamba quasi inerme è un vero ostacolo tanto che Ruby interviene per sostenerla nel modo richiesto dall'estetista.

La pulizia del viso mi ringiovanisce di almeno cinque anni e la sauna che segue mi rilassa(no) come non mai.

Chiedo gentilmente alla proprietaria se posso usufruire del loro bagno per lavarmi come si deve, sempre con l'aiuto di Ruby, che mi ha accompagnato per quel motivo. Non potevo di certo far entrare mio padre, insomma, è sempre mio padre!

«Allora, come va con la sexy dottoressa?» chiede senza indugio mentre mi insapona e spazzola i capelli.

«Rubs, sono totalmente rilassata, parlare di Regina mi agita» con la testa lievemente inclinata all'indietro, mi lascio andare alle attenzioni della mia amica che si è infilata il costume solo per aiutarmi a fare una doccia degna di questo nome.

«Lei è così dolce con te» aggiunge, ignorando totalmente le mie parole.

«Lo è, infatti...» rispondo sinceramente «non so come va tra noi, non ne abbiamo parlato da quando mi sono svegliata. Abbiamo parlato solo di Henry e del mio recupero. E di Marian che è in carcere. Forse non ha molto da dire. Insomma io le ho detto che la amo... lei no.»

In realtà le cose non stanno proprio così. Anche lei me l'ha detto ma io ero incosciente e lei non sa che io ho sentito tutto. O forse lo immagina e non vuole toccare l'argomento. O forse semplicemente non c'è nulla di cui parlare.

«A volte non c'è bisogno di dire che si ama qualcuno. Lei te lo dimostra e basta» inizia a sciacquarmi dallo shampoo avendo cura di non fare scivolare la schiuma sul mio viso.

«Ruby Lucas, non mi starai diventando romantica per caso!»

Punta l'acqua sul mio viso e a momenti affogo.

«Hey, sono ancora convalescente, non puoi approfittarti di me in questo modo» le dico tossendo in modo convulso.

Lei ride a più non posso e la sua risata è tanto contagiosa che non posso che imitarla.

«Dai che abbiamo un sacco di cose da fare! Vieni qui, non ti azzardare mai più a trasformarti in giubbotto antiproiettile umano, siamo intesi?» dice tornando seria.

Sfrego i miei occhi con le mani, per liberarmi dall'acqua e dal sapone. Lo sguardo di Ruby è serio ora. Sì, avevo fatto preoccupare anche lei.

«Parola d'onore, non accadrà più!»

Torna accanto a me, annuendo. Dopo avermi messo una maschera nutriente sui capelli, mi aiuta a lavarmi, asciugarmi e vestirmi. Mi sento rinata, pulita, profumata. Sarò anche mezzo invalida ma sentirmi sporca rendeva il tutto più difficile da affrontare. Ora invece mi sento divinamente.

Dopo tre lunghe ore, sono in macchina, in viaggio verso casa.

Sul sedile posteriore, osservo le case che sfrecciano di fianco a noi.

Ruby e mio padre parlano fitto fitto ma io non li ascolto. Sto finalmente tornando a casa. Ripeto questa frase nella mia mente tante volte, e ora che si sta davvero verificando non riesco a crederci.

Ruby ha ridato vita ai miei capelli con dei splendidi e morbidi ricci e ha anche restituito un po' di colore e vitalità al mio viso con del trucco. Indosso un vestito nero non sagomato con maniche e colletto bianchi e ai piedi le mie adorate Converse. Nere e dorate per l'occasione.
Sono quasi sicura che Regina dopo il lavoro passerà a casa dei miei a trovarmi e voglio essere di nuovo bella... e in questo momento mi sento bella. Nonostante la gamba, nonostante le cicatrici, nonostante il mal di testa.

Mi sento di nuovo io.

- mi manchi già. Come farò senza la mia dottoressa preferita?- invio.

Le mando un sms proprio quando mio padre imbocca la strada di casa nostra.

«Eccoci a casa» annuncia lui felice dopo aver parcheggiato nel vialetto.

La vibrazione del cellulare mi distrae.

- Domani arriverà presto e ti abbraccerò stretta stretta. Goditi la tua famiglia, ne avete bisogno! -

Sì, domani arriverà presto e sì, potrò riabbracciarla e sì, sarò decisamente presentabile!

Ruby, scattante come al solito, si presenta allo sportello con la sedia a rotelle, ma decido di percorrere la breve distanza fino alla porta di casa a piedi, con l'aiuto delle mie stampelle.

«Vieni tesoro» mi aggrappo al braccio di mio padre per mettermi in piedi e, afferrate le stampelle, cerco di trovare il mio equilibrio sulla sola gamba funzionante.

Ok, ci sono. Un passetto dopo l'altro, con estrema fatica, riesco ad arrivare a destinazione.

Mio padre mi precede e, aperta la porta, mia madre mi butta le braccia al collo, emozionata.

«Oh tesoro, sei meravigliosa!» mi dice tra le lacrime.

«Sì mamma grazie ma devo sedermi, ho solo una gamba per ora!».

Si sposta dopo avermi baciata un'altra volta. E quando varco la soglia un boato invade la stanza.

«SORPRESA!!!»

A parte i dieci anni di vita che ho perso per lo spavento, quando mi volto sulla destra vedo un gruppo di persone con dei bicchieri in mano. Aurora e Filippo, la nonna di Ruby col suo enorme cagnone, alcuni dei proprietari dei cani a cui badavo prima dell'incidente, Belle e Rumple, dei cari amici di famiglia, Jefferson con Alice, una strana ragazza mai vista prima, Elsa e Anna, le mie amiche d'infanzia, accompagnate dalla loro cugina Melody, e perfino Killian, il mio vicino di casa perdutamente innamorato di me da sempre. Sulla destra, Regina, con uno splendido vestito blu elettrico e la scollatura asimmetrica, mi osserva con occhi lucidi e sguardo stupito.

Sì Regina, sono io, e tu sei maledettamente bella.

A incorniciare il tutto, Henry e Neal lanciano coriandoli, divertiti.

«Voi siete completamente matti» riesco a dire con voce roca.

Uno ad uno, vengono ad abbracciarmi e ogni singolo abbraccio sembra darmi quell'energia che ho lasciato sul letto dell'ospedale. Perfino l'abbraccio di Killian mi conforta e mi rassicura e lui sembra molto diverso rispetto all'ultima volta che l'ho visto, rispettoso e gentile come mai lo è stato.

Per ultima si avvicina lei, la dea dal vestito blu, che percorre la distanza che ci separa con fare incerto.

Riuscirà mai a capire quanto amore ci metto anche solo a guardarla in faccia?

«Ci vediamo domani, eh?» le dico mettendole un braccio intorno al collo, ricordando le sue parole pronunciate solo pochi istanti prima. Dio, che buon profumo ha.

Lei mi stringe forte e affonda il viso tra i miei capelli.

«Per la cronaca, eri molto bella anche tre ore fa, quando sei uscita dall'ospedale» dice accarezzandomi la schiena.

«Per la cronaca, oggi sei bella come non lo sei mai stata da quando ti conosco.»

La mia risposta la spiazza, la stupisce e la imbarazza e di certo non ho bisogno di guardarla in viso per capire questo. Mi stringe un po' di più e quasi dimentico di avere le stampelle e di poter contare su una gamba sola.

«Non mi sarei mai persa tutto questo» mi stampa uno schioccante bacio sulla guancia.

«Ora siediti sul divano, così anche le bestioline potranno salutarti per bene!» aggiunge indicando quei diavoletti che si rincorrono attorno al tavolo imbandito di ogni leccornia.

I due bambini mi abbracciano contemporaneamente, felici ed emozionati, sicuramente non solo per il mio ritorno ma anche per la festa. Tutti sembrano felici.

Parlano con me senza menzionare mai il problema della gamba o di chi mi abbia sparato. Sembra quasi che il periodo in ospedale sia stata una lunga vacanza da cui sono rientrata più felice di prima. Tra un ospite e l'altro noto che Killian parla fitto fitto con la cugina di Elsa e Anna e lei sembra particolarmente felice di quelle attenzioni. Ma la cosa che più mi stupisce è l'atteggiamento di Ruby verso quella strana e sconosciuta ragazza che si è presentata come sua amica. Io conosco tutte le amiche di Ruby, perché sono anche le mie. La moretta le sfiora il naso con un dito e lei arrossisce.

OMMIODDIO.

A Ruby piace quella ragazza!

«Ruuuuubs» urlo per farmi sentire mentre addento una ciambella.

Lei sussulta e scuote la testa con fare interrogativo.

«Sai bene cosa devo chiederti, vuoi che lo urli o preferisci avvicinarti?» continuo a masticare in modo eloquente, quando la vedo avvicinarsi a me insieme a quella ragazza.

«Ciao, eh. Quando avevi intenzione di dirmelo?» chiedo a bruciapelo mentre la ragazza di cui non ricordo assolutamente il nome inizia a ridacchiare.

«Io te l'avevo detto che avrebbe capito» aggiunge poco dopo.

«Allora?» le intimo di parlare ma sembra imbarazzata. Ruby imbarazzata non....

«Ero abbastanza triste per quello che ti era successo e allora sono andata al locale che frequenti sempre, per bere un po'... e Mulan si è avvicinata e abbiamo iniziato a parlare e...» abbassa gli occhi e arrossisce.

«E le ho detto che era molto bella, perché lo è... e insomma... siamo qui, a capire quel che potrebbe succedere» le cinge le spalle prima di baciarla dolcemente sulla fronte. Ruby chiude gli occhi in risposta a quel gesto e il mio cuore si scioglie totalmente.

«Siete assolutamente adorabili, venite qui» le stringo in un abbraccio affettuoso che ricambiano in preda alle risate.

«Sono finalmente felice di conoscere questa strepitosa amica che ha fatto da scudo umano a dei proiettili. Cavolo, hai fegato ragazza!» mi dice dandomi un pugnetto sul braccio.

Inevitabilmente il mio sguardo cerca Regina, intenta a sorseggiare un bicchiere di vino e parlare come due vecchie amiche con mia madre. Serie, scambiano parole che dalla mia postazione non riesco a percepire, ma alla fine mia madre la abbraccia e lei ricambia con affetto.

«In realtà stavo proteggendo quell'angelo là in fondo...»

La mia bocca si incurva in un lieve sorriso e improvvisamente si accorge del mio sguardo su di lei.

Mi basta guardarla sorridere per essere felice, felice veramente.

Non esiste vestito o gioiello che la rendono bella come quando sul suo viso nasce un sorriso in risposta al mio. Niente la rende bella allo stesso modo.

«Hey biondina, sei tra noi?» dice Ruby sventolando un piattino di plastica ormai vuoto davanti ai miei occhi.

«Sono nel pianeta Regina Mills e non voglio più tornare indietro» sospiro estasiata continuando a perdermi nello sguardo di Regina. Sguardo che non stacca dal mio.

«L'abbiamo persa, Rubs» sento Mulan parlare e ridacchiare poco dopo.

Mia madre si accorge del nostro scambio di sguardi e invita Regina ad avvicinarsi a me. Supera il divano e il tavolino al centro della sala prima di raggiungermi e sedersi sul bracciolo del divano. Allunga la mano sulla mia e la stringo. E intorno a noi si fa deserto.

Non ci sono più persone, chiacchiere e bambini.

«Come ti senti?»

«Stanca ma felice. Davvero, davvero felice.»

È così. Sono a casa, con la mia famiglia e i miei amici. La donna che amo mi guarda esattamente nel modo in cui voglio essere guardata. E non serve parlare, perché ascoltare quello sguardo è più intenso che far uscire parole dalla sua bocca.

 

Quando anche l'ultimo ospite è andato via, Regina e mia madre si siedono esauste di fianco a me. «Nemmeno per i compleanni di Neal mi stanco così tanto» esordisce mia madre poggiando la testa sulla mia spalla.

«Se vuoi torno in ospedale» faccio io in modo offeso.

«Non scherzare nemmeno... tu non sei stanca?» ha un tono preoccupato.

Regina volta il viso verso la mia parte e la mia mano, come una calamita, si avvicina alla sua. Le sue dita immediatamente si intrecciano e il fiato mi manca. Prendo un grosso respiro.

«Certo che sono stanca ma sono felice di essere stanca per una festa. Ora magari ti aiuto a sistemare. Insomma, con la sedia a rotelle risparmio un sacco di energie!»

Contemporaneamente, le teste di Regina e mia madre si sporgono per guardarsi come a voler dire “questa è pazza”. Passo dal guardare Regina e poi mia madre, destra e sinistra.

«Che c'è?» chiedo io poco dopo.

«C'è che tu ora stai qui e io e tua madre sistemiamo questo enorme casino» mi risponde Regina seria. Porta la mia mano alle sue labbra, lascia un leggero bacio e si alza.

«Sì, Regina ha ragione» mia madre imita Regina «tempo quindici minuti e sarà tutto sistemato, stai ferma qui, facciamo in un lampo».

Osservo le due donne della mia vita andare avanti e indietro tra salotto e cucina, trasportando a volte piatti sporchi, a volte bottiglie semivuote e a volte residui di cibo da conservare. Sono molto affiatate e soprattutto, Regina sembra sapere esattamente dove mettere le mani, come se fosse stata spesso in quella casa in mia assenza. Sono felice che abbia fatto amicizia con mia madre, sono felice che possa fidarsi di qualcuno, e nessuno meglio di mia madre può capirla visto che ha rischiato di perdermi.

Una volta ripulito il tutto, mia madre intima a Regina di accompagnarmi in camera, così da sistemarmi per la notte.

All'inizio sembra imbarazzata, poi mi porge la mano e, aiutatami ad alzarmi, mi accompagna fino alla mia camera. I gradini sono la parte più difficile ma grazie al suo sostegno tutto è facilitato.

Cado a peso morto sul letto, trascinando anche Regina con me. Scoppiamo a ridere.

Mi volto verso di lei e quella risata, quella risata vera, dove con la bocca sorridono anche gli occhi, mi ricordano il perché abbia deciso di svegliarmi. Poterla ammirare dal vivo è meglio di qualunque sogno.

«Sei bellissima» pronuncio queste parole col fiato spezzato.

Il suo sorriso si ricompone per un attimo, prima che la sua mano si posi sulla mia guancia.

«Perché non ti sei vista allo specchio, vero? Sei assolutamente meravigliosa. Brilli. E io sono molto felice di essere qui.»

Raddrizza la schiena, aiutandomi a fare lo stesso.

Occhi contro occhi.

«Vorrei chiederti una cosa ma penso sia estremamente stupido chiedertelo, per cui...» abbasso lo sguardo mentre pronuncio queste parole.

«Lo sai che puoi chiedermi quello che vuoi, Emma. Ti ho visto in condizioni ben più disperate di questa» abbassa lo sguardo ma noto comunque il dolore nei suoi occhi al solo pensiero di ricordare certi avvenimenti.

«Io volevo proprio chiederti cosa è successo dopo che... insomma Marian...» A parte il bacio e il mio ti amo e le sue parole durante il coma, non so cosa sia successo. Non conosco i dettagli e io li vorrei conoscere ma non so se è giusto che lei riesumi pensieri che vorrebbe tenere lontani.

Alza il viso e con un piccolo movimento si avvicina a me.

Poi mi abbraccia. Non aggiunge altro, non parla. Rimane attaccata a me, come un bambino col suo peluche, come una madre col proprio figlio, come chi ha fame d'aria e cerca disperatamente il suo ossigeno. Le mie braccia si stringono inevitabilmente attorno a lei, al suo corpo caldo, mio ora più che mai.

«Vorrei solo pensare a questa giornata in modo positivo... ti racconterò cosa è successo, però non oggi, ok? Oggi voglio ricordare solo il tuo sorriso quando mi hai vista, il tuo abbraccio... le tue mani sulle mie» con le mani sui fianchi, faccio io modo di allontanare i nostri corpi, quel poco che basta per poggiare le mie labbra sulle sue. Desideravo farlo da quando l'ho vista tesa col vestito blu e lo spumante in mano. No, quando mi ha sfiorato le labbra prima di uscire dall'ospedale. No, quando mi ha raccontato di Henry... nemmeno. Volevo farlo dal momento in cui ho aperto gli occhi. Toccarle le labbra sapendo di non dovermi necessariamente fermare perché non sarebbe stato appropriato. Respirare il suo respiro fino a farci mancare il fiato.

L'ultima volta che l'ho baciata in questo modo è stato prima della partenza di Henry per New York. Con le mani sulle gote, trattengo il suo viso, avvicinando quella bocca che, sono certa, avrebbe fatto cose magiche.

Un piccolo morso sul mio labbro inferiore mi fa tornare alla realtà.

«La mia bocca sulla tua...» aggiungo come a voler concludere la sua frase.

Le sue labbra sono di nuovo sulle mie, però non mi bacia, sorride contro di esse. In quell'istante apriamo gli occhi. Sapete quel detto che dice “le parole a volte non servono”? Bè, in questo caso le parole rovinerebbero tutto. Non so cosa stia provando lei, ma io ho solo una vita... e so con chi voglio viverla.

Non esistono occhi diversi che vorrei vedere al mattino che non siano i suoi.

Non esistono labbra più morbide su cui far cadere le mie.

Non esiste profumo migliore del suo di cui ubriacarmi.

Non esiste sapore migliore del suo di cui cibarmi.

La guardo e sento di appartenerle con ogni centimetro del corpo. Corpo che l'ha protetta da quei proiettili che volevano spegnere i suoi occhi e il suo sorriso. Sorriso che mi ha dato tutte le risposte che cercavo e che nemmeno sapevo di voler trovare. Ma le ho trovate, e portano tutte il suo nome.

«Sono molto brava a completare le frasi...» sussurro ancora, sistemandole i capelli dietro le orecchie.

«No tu sei brava a completarmi. Punto» aggiunge lei decisa.

Nei suoi occhi un leggero luccichio di consapevolezza. La sua bocca si socchiude leggermente prima di premere le sue labbra una sull'altra e inclinare la testa, con gli occhi lucidi. Dillo Regina, dimmelo ora, è il momento giusto.

«Io... ti do una mano a sistemarti per la notte, che dici?» si allontana da me di scatto, sfregando le mani l'una sull'altra. Un po' delusa, annuisco, sfilando la mia camicia da notte a righe bianche e blu da sotto il cuscino.

«Io dovrei spogliarmi, non so, forse dovresti uscire...» le dico pensando che la cosa potesse imbarazzarla.

Lei aggrotta la fronte come se avesse sentito la più grande sciocchezza del mondo.

«Ti ho vista piena di sangue, con un tubo in gola, ti ho visto l'addome pieno di punti... ti ho vista con il viso più pallido di un morto, aiutarti a mettere un pigiama non mi crea nessun disagio, credimi.»

Elenca tutte queste cose tenendo il conto con le dita, prima di riavvicinarsi a me e afferrare la camicia da notte. Avermi vista in quello stato ha bruciato le tappe, non avrei mai voluto che accadesse. Come quando dopo una storia che dura un po' di anni a momenti si fa pure la pipì insieme. Capisco che il tempo renda inevitabili certe azioni quotidiane ma esse fanno perdere quell'imbarazzo e quella sorpresa del non conoscere davvero l'altro. Lei mi conosce già sotto ogni punto di vista e la cosa non mi piace molto.

«Insomma, ti faccio pena?» il mio tono è sarcastico, ma non del tutto mentre inizio a sfilarmi il vestito dalla testa, facendolo scivolare dalle gambe verso la vita.

«Davvero pensi che faccia tutto questo perché mi fai pena o perché mi sento in colpa?» prende il vestito e lo posa sulla sedia, mentre io infilo la mia camicia da notte. Magari il reggiseno l'avrei sfilato dopo.

«In realtà sì, un po' lo penso» le dico sincera.

«Quindi anche tu mi sei stata vicina perché ti facevo pena?» ribatte lei subito dopo.

«No, l'ho fatto perché ho pensato fosse giusto, per Henry e perché mi faceva stare bene aiutarti».

Togliere i collant è un tantino più complicato del resto, ma con il suo aiuto riesco a sfilarli e allungo la camicia da notte fin sotto il sedere, così da coprirmi meglio.

«Perché allora non può valere anche per me? Perché mi hai salvato la vita? Credimi, non me l'hai salvata da quei proiettili, hai iniziato molto prima.»

Con gli occhi spalancati e le mani che stringono con forza il bordo del letto, cerco di metabolizzare la sua nuova confessione. Le sue gote, lievemente imporporate, esprimono il suo imbarazzo per la confessione appena fatta, di nuovo, a voce alta. Le labbra si incurvano in un lieve sorriso prima di indietreggiare di nuovo.

«Bè, allora salvarti è stata la cosa migliore che potessi fare».

Pure mentre mi aiuta a mettere il pigiama mi emoziona, come diavolo faccio a sopravviverle?

«Vado da Henry ora, tu mettiti a letto, ci vediamo domani in ospedale per la fisioterapia, d'accordo?» mi dice aprendo piano la porta. Sembra proprio voglia fuggire e non voglio trattenerla oltre.

«Sì, ci vediamo domani. Buonanotte Regina, e grazie.»

Sorride di nuovo e esce dalla mia stanza.

Di nuovo sola, sposto le coperte e con un po' di fatica sistemo la gamba inerme sotto di esse. Avrei avuto sicuramente molti giorni per pensare alle sue parole e a quello che vuole fare di me, di noi. Ma come ha detto lei, è una giornata troppo importante per rovinarla facendo pensieri stupidi. Sotto il mio piumone, mi lascio cullare dal suo odore che ha invaso la stanza, prima di lasciarmi andare a un dolce sonno.

 

Note dell'autrice: Eccoci al terz'ultimo capitolo di questa long. Finalmente Emma è rientrata a casa ed è stata accolta da una bellissima festa di bentornato. Ma questa gamba ancora non ne vuole sapere di tornare a posto. E Regina è così impaziente che quella gamba funzioni di nuovo, molto più di quanto non sia impaziente Emma. Volevo dirvi che dopo la fine della pubblicazione di questa storia avrò due OS da pubblicare, che spero vi renderanno meno amara l'estate.

Grazie come al solito a Nadia e Susan per le correzioni e a tutti quelli che trovano un attimo per recensirmi :)

A martedì <3

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Capitolo 20
*** Riabilitazione ***


Seduta sul letto, fisso con insistenza l'armadio spalancato che mette in bella mostra tutto il suo contenuto. Ovviamente possiedo abiti di qualunque genere e per ogni occasione, ma in questo momento tutto mi sembra assolutamente fuori luogo: eccessivamente elegante o eccessivamente.... formale.

La suoneria del telefono mi fa sobbalzare.

È Mary Margaret.

Rispondo.

«Pronto? Ciao Regina, sono io» mi dice lei con voce squillante.

«Si ho visto il nome sul cellulare, tutto ok?» rispondo un po' agitata. Le cose sarebbero sempre potute cambiare, per Emma e per loro.

«No no, tutto bene, volevo sapere se riuscivi a essere qui per le 4:30 pm così da aiutare a sistemare le ultime cose a casa» sento delle urla provenire dal telefono.

«Neal, piantala o ti stacco le corde vocali e le metto sotto spirito!» urla lei poco dopo. Finalmente silenzio.

«Ottimo modo per calmare un bambino» dico io divertita.

«Ti prego cerca di esserci, così Neal gioca con Henry e lui smette di essere iperattivo. Il rientro della sorella lo sta facendo andare fuori di testa!»

«Oh bè, è una cosa che ci accomuna un po' tutti allora» aggiungo io, dimenticando di nuovo di parlare con la madre di Emma.

«Che c'è Regina? Sei preoccupata? Andrà bene, Emma sarà molto felice della tua presenza alla festa!» mi incoraggia mentre passo in rassegna di nuovo tutti i miei vestiti.

«Sì, questo lo so, solo che lei non è una paziente come le altre... vorrei che le cose andassero bene» dico preoccupata.

«Tu come medico e come amica, e bada bene, uso questo termine solo per rispetto per entrambe, perché, per una volta, sento non abbia senso immischiarmi nei rapporti di mia figlia... dicevo che hai fatto tutto quel che dovevi. Ora spetta a lei impegnarsi nella riabilitazione e soprattutto, lei non ti dà la colpa... e nemmeno noi. Lei hai salvato te e tu hai salvato lei, non dimenticarlo mai Regina, qualunque cosa accada questo non cambierà mai».

Parlare con Mary Margaret mi dà la sensazione, mai provata prima, di scambiare pareri e sensazioni con una madre... una madre nel vero senso della parola. O almeno credo, non ho mai parlato di sentimenti con mia madre. Con lei invece è tutto così semplice, anche capire Emma diventava un gioco da ragazzi. Più o meno.

«Hai ragione Mary, andrà tutto bene! Mi vesto e vengo da voi, ok? Henry sarà più che felice di avere più tempo per giocare con Neal!» rispondo convinta e la mia mano si ferma su un vestito blu elettrico di cui avevo completamente dimenticato l'esistenza.

«Brava, così mi piaci! Allora a tra poco, ciao Regina!»

«Ciao Mary!»

Riaggancio.

Sfilo il vestito e lo poggio sul letto. Sono già le 3:45 pm, mi sarei dovuta sbrigare.

«Henry» urlo dalla mia camera.

«Tesoro cambiati ora, dobbiamo essere a casa di Emma per le 4:30, sua madre ha bisogno di aiuto!» Poco dopo, con un videogioco in mano, fa capolino nella mia camera Henry, che risponde continuando a giocare.

«Davvero andiamo già ora? Devo far vedere a Neal questo nuovo videogioco, mi cambio subito!» risponde felice correndo nella sua cameretta a cambiarsi.

«Il tuo cambio è sopra il letto, lavati i denti mi raccomando» gli ricordo cercando i collant nel cassetto.

«Eccoli» dico a voce alta poco dopo. Infilo delicatamente le calze, avendo cura di non sfilarle. Poi il vestito. Trucco e capelli sono già a posto. Mi guardo allo specchio: ha ragione Emma, sembro una donna decisamente più grande dei miei 33 anni, anzi, a giorni saranno 34, ma il mio stile comunque non mi dispiace. Avvolgo il mio collo in un foulard nero e infilo il cappotto dello stesso colore. Un po' di profumo e sono pronta.

Il traffico ci fa arrivare in ritardo di dieci minuti rispetto alla promessa fatta a Mary Margaret, ma una volta dentro, il tempo passa in men che non si dica. Il salotto è pieno zeppo degli stuzzichini preferiti da Emma. Sulle scale e all'ingresso ci sono dei palloncini e, per completare il tutto, un enorme striscione con su scritto “Bentornata Emma” sovrasta il caminetto.

Un sms di David avvisa noi tutti che sono sulla via del ritorno. Le mie mani tremano mentre distribuisco i bicchieri agli ospiti e tengo a bada mio figlio e Neal, in evidente stato di iper agitazione. Beati loro che possono darlo a vedere mentre io mi limito a tremare e ad avere in petto un tamburo impazzito. Credo che avrò un infarto a breve.

Poi la porta si apre, e lei è così bella che non partecipo nemmeno all'urlo unanime di "sorpresa"!

Sì, perché prima noto quanto sia bella da morire e solo dopo mi rendo conto che si regge in piedi con le stampelle e non con la sedia a rotelle: se la cava davvero bene.

Il cuore batte all'impazzata e mi sento come la mattina del 25 Dicembre. Lei è viva e sta bene. Non c'è più motivo per sentirsi in colpa, perché le cose si sono sistemate, e stavolta per davvero. Non ci sono più in giro amanti di ex mariti che mi odiano e vogliono ammazzarmi. L'unica cosa di cui devo preoccuparmi è che quella donna riprenda la sua vita come prima che io gliela sconvolgessi. Il mio unico obiettivo è che entro il prossimo anno (e manca solo un mese), lei abbandoni quelle stampelle.

Ci guarda con gli occhi lucidi mentre osserva, uno ad uno, tutti gli invitati a quella festa di rientro. Ma la sua bocca si spalanca quasi, assumendo un'espressione di estremo stupore quando mi vede. Gli occhi si stringono e un sorriso appena accennato diventa aperto, esplicito, mio. Sono come paralizzata di fronte al suo sguardo perso nella mia figura. Gli occhi lucidi e il respiro mozzato, ringrazio di averla incontrata.

Lentamente, tutti gli ospiti si apprestano a salutarla, riempendola di baci e abbracci. Sto ferma al mio posto, riflettendo sulle parole che avrei potuto dirle una volta avvicinatami a lei. Ma programmare le parole con Emma Swan è impossibile. Per cui semplicemente mi faccio guidare da lei, dal suo sguardo complice che mi chiede esplicitamente di ridurre le distanze tra noi.

«Ci vediamo domani, eh?» dice, abbracciandomi subito e sostenendosi con il mio aiuto.

Affondo il viso tra i suoi lunghi e morbidi capelli biondi.

«Per la cronaca, eri molto bella anche tre ore fa, quando sei uscita dall'ospedale» le accarezzo la schiena, cercando di assaporare la realtà che lei è davvero in piedi di fronte a me e sta bene.

«Per la cronaca, oggi sei bella come non lo sei mai stata da quando ti conosco.»

Non smetteva di essere solare e positiva neppure quando i giorni di nebbia avrebbero potuto schiacciarla. I sorrisi illuminano i suoi occhi e, la cosa straordinaria, è che questo suo modo di fare è estremamente contagioso con me.

La stringo più forte.

«Non mi sarei mai persa tutto questo» aggiungo poi stampandole un bacio sulla guancia.

«Ora siediti, così anche le bestioline potranno salutarti per bene!»

Col sostegno del mio braccio, si accomoda sul divano accanto a un bracciolo e, poco dopo, Neal e Henry la assalgono, abbracciandola e iniziando a raccontarle tutte le novità. Rapiscono la sua attenzione per almeno venti minuti prima di sfrecciare via, lasciandola agli altri ospiti.

La serata prosegue tranquilla. È circondata da tante persone che le vogliono bene, dai più grandi ai più piccini. Il suo sguardo è luminoso, ma è il sorriso che mi blocca il respiro ogni volta.

«Perché non ti avvicini a lei?» sussulto e faccio cadere dei pop corn dal bicchiere. Mary Margaret, con un sorriso complice mi porge un bicchiere di vino bianco. La mia mano trema un po'.

«Grazie» mi volto di nuovo verso Emma, che parla fitta fitta con Ruby e una sua amica «non voglio disturbarle, io riuscivo a vederla ogni giorno in ospedale, Ruby l'avrà vista sì e no cinque volte. Avremo modo di stare da sole e parlare» prendo il bicchiere dalle mani della padrona di casa, che mi guarda con affetto.

«Dimmi che ti ho ringraziata per quello che hai fatto per Emma. L'ho già fatto, vero?» mi chiede, improvvisamente seria, con la fronte corrucciata. Ogni volta che pronuncia quella frase il mio stomaco si ribella: perché continua a chiedermi scusa quando sono io che dovrei farlo ogni giorno per il resto della mia vita?

«Sì Mary, l'hai fatto un migliaio di volte, ma è stata lei a salvarmi, non il contrario.»

Lei scuote la testa in segno di disapprovazione.

«Questo è quello che ho insegnato a mia figlia, proteggere ciò che ama a tutti i costi. Ha solo preso troppo alla lettera le mie parole. Lei ha fatto esattamente quello che doveva fare con la persona che ama, Regina.»

Una vampata di calore raggiunge il mio viso, proprio mentre le sue braccia circondano il mio busto.

Mi sta abbracciando.

Con delicatezza, ricambio il gesto affettuoso, avendo cura di non rovesciare il contenuto del bicchiere. Lei è davvero una madre. Un abbraccio così non l'ho mai ricevuto da nessuno, tanto meno dalla mia di madre. È uno di quegli abbracci che rimette a posto tutti i pezzi.

Poco dopo, uno sguardo insistente di Emma su di me mi costringe ad avvicinarmi a lei. Rimaniamo l'una accanto all'altra per tutta la durata della festa, con le sue dita attorno alle mie e nel mio petto il cuore che fa le capriole.

 

Dal giorno della festa, tutti i giorni Emma si presenta puntuale come un orologio alle sedute di fisioterapia. La seguo come un'ombra, assicurandomi che si impegni e che non ne perda nemmeno una.

Quel che vedo però, non mi piace per nulla. In mia presenza pare impegnarsi poco, ancora non riesce a stare in piedi da sola e la cosa peggiore è che ha deciso, dopo solo un mese, di rientrare a casa e stare da sola, per abituarsi ad affrontare le difficoltà che quell'evento avrebbe portato nella sua vita. E di tutto questo lei non mi ha fatto parola. Ho anche cercato di farmi confessare la sua decisione, per sms o tramite telefono, ma ogni mio tentativo è stato vano.

La richiesta disperata di Mary Margaret mi costringe a intervenire, così, nella mia macchina, pondero tutta una serie di frasi che potrei utilizzare per convincerla a tornare dai suoi, almeno fino a che non sarebbe stata indipendente.

Gli appostamenti effettuati quasi un anno prima mi portano di fronte alla sua casa senza l'aiuto del navigatore. Apro il cancelletto cigolante in legno che separa la strada dalla sua casa. Il breve vialetto è coperto di erbacce e immagino che David le abbia proposto un aiuto per sistemare il suo cortile e lei abbia detto con orgoglio di no. Supero i due gradini e una volta di fronte alla porta, busso.

«Arrivo!» la sua voce in lontananza mi rassicura, almeno è viva.

«Emma sono io, non ti affaticare posso aspettare» le dico da dietro la porta.

La spalanca.

Seduta sulla sedia a rotelle, mi guarda imbarazzata, tentando di nascondere come poteva, il suo abbigliamento.

«Regina, che ci fai qui? Potevi avvisarmi, mi sarei fatta trovare in condizioni più decorose.»

Indossa una grossa felpa grigia e dei pantaloni di tuta da ginnastica dello stesso colore.

«Potrei farti la stessa domanda...» le dico io arrivando subito al sodo ed entrando in casa.

«Prego, accomodati pure» risponde subito dopo chiudendo la porta alle sue spalle.

Incrocio le braccia, non voglio posare lo sguardo su nulla attorno a me, altrimenti perderei il momento, mi distrarrei e non riuscirei a dire nemmeno un quarto di quello che devo. Quindi la guardo dritta negli occhi, con sguardo arrabbiato e deluso.

«Cosa intendi dire con “potrei farti la stessa domanda”?» chiede lei sinceramente confusa.

«Cosa ci fai qui da sola? Decidi di rientrare a casa tua e nemmeno me lo dici? Come se fossi una sconosciuta?» alzo il tono di voce e inizio ad andare avanti e indietro, prima di sbattere rumorosamente le mani sui fianchi in attesa della sua risposta.

Con la fronte aggrottata e il muso triste, afferra i cerchioni della sedia a rotelle e mi supera senza degnarmi di uno sguardo. Mi ignora ancora? La seguo e poi mi fermo, quando, affiancato il suo albero di Natale, afferra il filo delle luci e lo attacca alla presa. Luci rosse e bianche iniziano a lampeggiare prima lente poi a velocità intermittente.

Lei rimane lì, ferma, con lo sguardo illuminato dalle luci, completamente rapita da quel luccichio.

«Volevo fare il mio albero come tutti gli anni. Volevo rivedere le luci, e avrei voluto invitare te e Henry a casa una domenica di queste» pronuncia queste parole con lo sguardo sempre fisso sull'albero «avrei anche voluto invitarvi a cena dai miei per la vigilia, ma magari avevate altri impegni...»

Per un attimo, solo uno, penso che la sua idea sia di una dolcezza spropositata. Avere pensato a me e Henry nella sua casa e in quella dei suoi genitori mi scalda il cuore. Sapere che mi considera parte della famiglia è per me motivo di estrema felicità, ma per lo stesso motivo mi sento in dovere di dirle anche tutto il resto. Mi siedo sul divano accanto all'albero e, afferrata la sedia a rotelle, la avvicino a me, così che possa guardarmi negli occhi

«Tua madre è molto preoccupata, vorrebbe che tu tornassi a casa, e lo vorrei anche io» il tono di voce, che inizialmente voleva essere duro, diventa dolce, accompagnato da una leggera carezza sulla sua guancia.

«So badare a me stessa e qualora non lo aveste notato, non ho dodici anni, posso sopravvivere da sola anche sopra questa» il suo tono è arrabbiato e infastidito. Il viso, teso, mi lancia uno sguardo che parla da solo. Allora decido di adeguarmi al suo umore.

«Non mi sembra, per esempio cosa ci fai sulla sedia a rotelle dopo più di un mese di fisioterapia fuori dall'ospedale? Questa sedia non dovrebbe essere in questa casa, dovresti essere in piedi, lenta e zoppicante ma in piedi» scuoto la sedia, adirata, prima di alzarmi e sovrastarla. Voglio farle paura, anche se mi rendo conto che non è l'approccio migliore, soprattutto con una come Emma.

«Io sto facendo le sedute tutti i santi giorni e mi impegno, non puoi sapere come sto andando né tanto meno come sto» risponde lei voltandosi e cercando di mantenere un tono adeguato alla conversazione.

«Certo che so come stai andando e non stai andando bene. Il fisioterapista mi parla e mi dice le cose» ribatto subito.

«Dovrebbe esistere il segreto professionale...»

«Sono un medico dell'ospedale e sono un medico che ti ha curata, non esistono segreti in questi casi.»

In realtà mi sono limitata a osservarla da dietro il vetro. A volte riusciva a sostenersi da sola, altre no. Spesso lanciava gli strumenti di terapia della palestra per aria, e a quel punto il fisioterapista usciva fino a che non si fosse calmata. E, secondo lui, si impegna ma non abbastanza. È come se voglia rallentare il processo di guarigione. O semplicemente le manca qualcosa che la sproni a fare di più, come se farlo esclusivamente per se stessa non sia sufficiente.

«Bè, comunque io sto facendo del mio meglio e tu di certo non puoi dire il contrario.»

Incrocia le braccia al petto, sfoggiando un sorrisetto di sfida. Testarda e strafottente. Questo lato di lei ancora non lo conoscevo.

«Ah e quindi tu pensi che me ne starò qui a guardare come perdi il tuo tempo su quella sedia? Direi di no» ha trovato pane per i suoi denti. Se lei è testarda, io lo sono dieci volte di più.

«E invece sì, Regina. Perché il corpo è il mio e anche la salute e la voglia e tu non puoi mettere bocca in tutto questo.»

Afferra i cerchioni della sedia e si allontana verso un'altra stanza.

«Certo che posso!» le urlo dietro.

«No, non puoi invece. Io ho deciso di mettermi di fronte a quei proiettili per te, tu non mi hai costretta, ho fatto tutto da sola!»

«Ma tu hai rischiato di morire, per me! Il minimo che possa fare è spronarti!»

«Regina, tu non fai altro che darmi addosso perché ti senti in colpa. Smettila di sentirti in colpa. Io non sono solo una gamba che funziona male. Io sono una donna. Con una mente, dei sentimenti, e dei tempi di ripresa diversi dai tuoi e da quelli di chiunque altro.»

La sua voce si incrina, e gli occhi diventano lucidi.

«Io ho il dovere di aiutarti!»

«No Regina, tu non hai nessun dannato dovere!» mi colpisce letteralmente con le sue parole, come un pugno.

«Non sono tua figlia, anzi a dire il vero non so nemmeno che cosa siamo!» gesticola mentre la prima lacrima compare sul suo volto. Odio quando piange per colpa mia.

«So solo che il tuo senso di colpa mi sta letteralmente uccidendo. Cosa credi, che dopo aver letto il tuo dannato diario e dopo aver capito cosa avessi passato io non fossi tentata di chiederti scusa per il mio comportamento? Ma non l'ho fatto perché comunque il tuo, con me, non era giustificato dato che non avevo fatto nulla di male. Per cui, se vuoi trattarmi come un essere umano e non come un problema da risolvere, ben venga.»

La guardo. Fisso quegli occhi color acquamarina allagati di lacrime e mi chiedo “perché ti ho incontrata?” Vorrei che passeggiassi un po' tra i miei pensieri, sperando che non rimanga impaurita per il disordine caratteristico. Troveresti qualche soldato dal viso cattivo che aspetta soltanto una carezza... li ho piazzati io, servono a proteggermi. Poi potresti proseguire col tuo cammino.

A destra troveresti l'ansia e a sinistra la paura. Sapessi quanto si sono fatte valere quando ti ho incontrata. Sapessi quanto hanno letteralmente spazzato via la speranza e la fiducia che si sono piano piano affacciate, per la prima volta, dopo tu sai chi. Ma non hanno vinto loro, te lo posso assicurare: l'incoscienza e la ragione si sono comportate come due vere salvatrici, così che speranza e fiducia potessero essere di nuovo accolte nella mia piccola stanza dei desideri.

La stanza dei desideri era per me una sala delle torture. L'Amore per mio figlio era relegato in un angolo e tutte le volte che tentavo di avvicinarmi ad esso, venivo aggredita e riportata indietro da fili con spine tanto aguzze che arrivavano fino al cuore. E io ci provavo tutti i giorni, e tutti i giorni quella ferita si riapriva. Poi sei arrivata tu e sono certa che ti sia accorta del tuo passaggio nella stanza... quella piccola nuvoletta bianca e argentata, che brilla come non mai è la mia Follia. Stava dentro uno scrigno e l'hai liberata, per mia fortuna. La notte non mi faceva dormire tante erano le sue urla. Ora che è libera, la mia mente ha trovato pace.

So che cercheresti di far ordine ma te lo sconsiglio, diventeresti pazza anche tu.

Solo ti prego Emma, ti prego, non uscire dalla mia stanzetta dei desideri. Non far sì che nei miei pensieri comandino di nuovo l'ansia e la paura. Posso riempirmi la vita di sogni, uno più bello dell'altro, ma ho capito che i sogni sono davvero belli quando puoi condividerli con qualcuno. E se tu non ci sei, questi sogni perdono di significato.

Io perdo di significato.

Vorrei solo che nonostante i fantasmi e i pensieri disordinati, io possa farti bene come tu ne fai a me. E forse lo faccio nel modo sbagliato, ma non conosco altro modo.

«Ma Emma...» cerco di dire, consapevole dell'inutilità di qualunque mio tentativo.

«No, ma Emma un cazzo. Con mia madre ci parlo io. Se vuoi ancora far parte della mia vita trattami come se fossi Emma e non una disabile. E se non ci riesci, non ti voglio vedere. Ora per favore, vai.»

Svuotata, ferita, colpevole. Col dorso della mano asciuga il suo viso dalle lacrime e il mio cuore perde un pezzo.

Un altro, di nuovo. Solo che stavolta ho fatto tutto da sola. Indietreggio, prima di darle le spalle e dirigermi verso la porta.

 

 

Note dell'autrice: eccoci qui, siamo al penultimo capitolo.

Devo dire che sono parecchio triste per la fine di questa storia, ma spero di poterle presto dare un seguito, ho già buttato giù qualche idea a riguardo.

In questo capitolo, per quanto Regina possa essere compresa, io sto dalla parte di Emma: stare accanto a qualcuno per il senso di colpa è la cosa meno appagante che possa esistere. Regina deve imparare davvero tanto da Emma. Voi pensate che possa riuscirci?

A Martedì!

 

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Capitolo 21
*** Ti amo anche io ***


La risposta che temevo di ricevere è arrivata. Non volevo sentirle pronunciare quelle parole: sentirsi in dovere di aiutarmi. Non volevo essere il dovere di nessuno.

Voglio essere quella voglia che non ha mai avuto verso un altro essere umano a parte suo figlio. Voglio essere quella forza che le permetta di dirmi “mi hai ridato quella vita che nemmeno credevo di avere”. Un dovere non può far pensare questo, un dovere è un peso, macigno, dolore, lacrime. Qualcosa di cui liberarsi.

Così, nello stesso istante in cui le gettavo addosso, con tutta la rabbia che avevo in corpo, il mio disappunto, avevo deciso di toglierle quel peso. La amavo troppo per lasciarle questo onere da sopportare dopo che, con fatica, ero riuscita a sollevarle di dosso quel macigno che portava il nome di suo figlio, infelice e muto.

Nei suoi occhi c'era il riflesso del suo fallimento come donna, come medico, e soprattutto come amica. Quel suo desiderio di controllo che la caratterizzava, erano esplose con me, nel suo tentativo di espiare una colpa che si era auto imposta. Così, a malincuore, avevo dovuto allontanarla per darmi il tempo di capire se l'idea che mi ero fatta di lei era sbagliata e se avevo di fronte solo un'altra Elisabeth, sotto le spoglie di un'altra donna.

E così, come non era stato facile per lei vedere il suo fallimento, allo stesso modo non era stato facile per me: le avevo lasciato libertà di scelta in qualunque dettaglio della sua vita, anche quando avrei meritato una spiegazione, o per lo meno una chiacchierata sull'accaduto di qualche mese prima. Non volevo forzarla in nessun modo, ma non volevo nemmeno che accantonasse un sentimento che era chiaro provare e che semplicemente non sapeva gestire. Perché la verità era questa: quei sentimenti nuovi, verso una donna, verso di me, la spaventavano, e la capivo, ma solo parlandone con me avrebbe potuto dare un senso a tutto.

Decido di prendermi il mio tempo, continuando a svolgere tutti i miei compiti quotidiani, come la fisioterapia, e continuare i miei esercizi per rafforzare la gamba. Il mio fisioterapista, in questi mesi, è diventato oggetto di sfogo e conforto allo stesso tempo: è a lui che avevo chiesto di sottolineare a Regina che non mi impegnavo abbastanza negli esercizi, a fronte di una sorpresa che volevo farle prima di Natale, giusto in tempo per il suo compleanno. Perchè riuscivo a stare in piedi da sola da molto prima che mia madre e poi Regina venissero a farmi la ramanzina.

Ma continuare ad aspettare che Regina faccia un passo verso di me o che capisca il mio punto di vista è assurdo, l'ansia mi sta mangiando viva, ed aumenta sempre più il desiderio di rivederla e di riprendere i miei pomeriggi insieme a Henry, anche se mia madre mi aveva egregiamente sostituita in questo senso. Quindi, anche se mi considera una ragazzina immatura, decido di andare ad affrontarla, togliermi finalmente questo peso dal cuore, mettendo in conto che probabilmente avrei ricevuto da lei l'ennesimo doloroso rifiuto. Almeno sarebbe stato l'ultimo.

Sono passati dieci giorni dall'ultima volta che l'ho vista e oggi è la vigilia di Natale.

Ed è anche il compleanno di Regina.

Ho bisogno di vederla, di stringerla, di ammirare il suo viso e dare finalmente aria ai miei polmoni.

Sistemata la casa, con lentezza e fatica, mi butto letteralmente dentro la vasca del mio bagno.

La pesantezza dell'ultima settimana ha reso difficoltoso il mio sonno, per i continui battibecchi con mia madre che continuava a pretendere che tornassi a casa da lei, per il litigio con Regina e per la scarsa se non inesistente fiducia che entrambe hanno in me.

Volevo solo far loro una sorpresa, arrivando alla cena di Natale sulle mie gambe e rendere anche loro partecipi di questo, ma gli ultimi avvenimenti mi hanno quasi fatto passare totalmente la voglia di vederle e sorprenderle.

Non è vero. Vorrei vederla sorridere per me, per Henry. Per aver trovato una famiglia che la ama davvero.

E questo indipendentemente da quello che succederà tra me e lei.

Mia madre la stima come donna e come medico, Neal adora Henry e Henry adora Neal.

Spero ardentemente che mia madre sia riuscita a eseguire i miei ordini come concordato, almeno questo me lo deve. E spero che Regina abbia accettato l'invito di mia madre per la cena.

Rimango in ammollo per almeno un'ora in un'acqua profumata alla mela.

Mi ricorda Regina e non so neanche perché. Ho sistemato qualche candela con lo stesso profumo per tutto il bagno e la luce fioca emanata da esse è l'unica fonte di illuminazione della stanza. Sento i muscoli tesi farsi rilassati e, come per ogni bagno o doccia, sfioro le cicatrici che segnano il mio addome e ripercorro a mente i fotogrammi di quel giorno. Gli occhi pieni di rabbia di Marian, quello terrorizzati di Regina. Il bruciore all'addome e il sapore metallico in bocca dopo il primo sparo. Non avevo avuto paura dopo lo sparo, questo lo ricordo alla perfezione. La vista, anche se annebbiata, di Regina, mi aveva dato il coraggio di non lasciarmi andare alla disperazione. Le lacrime che sentivo cadere dagli angoli esterni degli occhi le ho sempre associate al dolore che stavo provando, non alla paura che quel dolore mi stava provocando e alle conseguenze che avrebbe potuto avere.

Sterno, ombelico, pube. Accarezzo con delicatezza quella ferita di guerra e sorrido quando quel movimento mi provoca solletico. Cinque mesi dopo è ancora molto sensibile. Poco più su invece, sulla destra, i due piccoli e profondi fori di proiettile. Quelli sono decisamente antiestetici, somigliano ai buchi che Neal mi obbliga a fare ogni anno sulla spiaggia, nella sabbia. Poi lui si butta dentro e io e mio padre dobbiamo ricoprirlo di sabbia e farlo sgusciare fuori (così diceva lui), come una piccola lumachina di mare. Così rimane sempre un buco a metà, irregolare e pericoloso. Come quelle due cicatrici.

Un brivido arriva prepotente tanto da farmi scuotere, così decido di uscire dalla vasca, avvolgermi nell'accappatoio e accovacciarmi accanto alla stufetta nella mia camera, dove tutti i giorni pensavo ai mali del mondo. O, più in piccolo, ai miei.

Le 5 pm sono ormai passate, mi rendo conto che sono ore che non guardo il telefono e lo afferro dal comodino. Un sms di mia madre mi rassicura sulla presenza di Regina e Henry questa sera a cena, assicurandomi che Henry era già da loro, così sarei stata libera di avere qualche ora con Regina, a casa sua, e definire finalmente la sua posizione.

O darle semplicemente gli auguri.

I boccoli biondi cadono morbidi da un lato della spalla e il vestito nero usato per la festa del mio rientro mi piace sempre di più. Voglio che questo vestito mi accompagni nei momenti importanti della mia vita, e niente è importante quanto Regina in questo momento.

Campanello.

Qualcuno ha suonato il campanello e io... non voglio che qualcuno mi veda camminare, non ancora. Mi avvicino lentamente alla porta prima di domandare.

«Chi è?»

«Emma sono io, Regina. Lo so che sei arrabbiata ma puoi aprire questa porta? Per favore? Ho bisogno di parlarti... e non ti farò ramanzine.»

Trattengo il respiro, come se dare aria ai polmoni mi possa fare perdere mezza sillaba delle sue parole, pronunciate in modo così calmo e sincero da farmi male.

In un lampo mi fiondo sulla sedia a rotelle, prima di avvicinarmi all'uscio e togliere ogni tipo di sicura che avessi messo. Compresa quella del mio cuore.

Indietreggio con la sedia mentre la sua immagine compare di fronte ai miei occhi. Il suo viso è un concentrato di imbarazzo e preoccupazione. Porta con fatica i suoi 34 anni, quasi non le siano bastati per sopportare le ingiustizie della vita.

Vorrei sorriderle e rassicurarla ma devo continuare a recitare la mia parte visto che lei mi ha, di nuovo, sconvolto i piani.

«Ciao Emma.»

Annuisce un poco, sbirciando l'interno della casa.

«Ciao Regina» rispondo poco convinta.

«Posso entrare?» chiede timidamente.

«Se non ti infastidisce stare accanto a una disabile, prego.»

Sì, lo so, ho esagerato. Ma me l'ha servita su un piatto d'argento e voglio che capisca che non ho dimenticato le parole dell'ultimo nostro incontro.

«Colpita e affondata, grazie» risponde sarcasticamente.

Avanza verso di me prima di chiudere la porta alle sue spalle.

La stanza è già pregna del suo profumo e la mia concentrazione vacilla. Chiudo gli occhi e mi volto, portando con me la sedia mobile.

«Prego, accomodati. Puoi poggiare il cappotto sul divano se hai caldo.»

Rivolto di nuovo lo sguardo verso di lei, è pietrificata di fronte a me, con gli occhi lucidi e il respiro pesante.

«È successo qualcosa, Regina?» trattengo a stento il braccio che vuole allungarsi verso di lei, per afferrare la sua mano e stringerla.

Fa cenno di no con la testa, prima di prendere un grosso sospiro, fare un passo verso di me e iniziare a parlare.

«Sai Emma, in questi mesi ho cercato in tutti i modi di dirti quanto insieme a te, nonostante me, io mi senta vera.»

La salivazione si azzera. E il cuore... il cuore è, posso paragonarlo a una di quelle palline di gomma che rimbalzano come impazzite per ore.

Tesa e preoccupata, accenna un lieve sorriso, accanto alla sua cicatrice. Io stringo forte i pugni.

«Mi dispiace per quello che è successo la volta scorsa. Mi dispiace averti trattata come una bambina, so bene che non lo sei, insomma guardati» allunga la mano verso di me, facendo un passo avanti e sfiorandomi il viso.

«Sei ciò che ogni madre possa desiderare, ciò che ogni uomo o donna possa volere. Sei forte, sei consapevole delle tue scelte, delle tue capacità, delle tue azioni. Hai racchiuso in te la forza di mille uragani ed è così che mi hai travolta.»

Silenzio.

Continua ad aprire e chiudere le labbra, in cerca di parole che sembrano sfuggirle a ogni presa d'aria.

E dato che a me l'aria inizia a mancare, decido di aiutarla, in qualche modo.

«Regina. Io mi sono imposta di starti lontana, ma anche se non l'avessi fatto, tu mi avresti comunque allontanata. Dagli uragani non si può scappare... quindi al massimo sono stata... una folata di vento» dico convinta.

Con sguardo basso, annaspa alla ricerca di parole che possano contrastare le mie.

La amo.

Eppure non riesco a dimostrarglielo. Amo i suoi difetti tremendamente invisibili agli occhi altrui. Il suo modo di parlare e di fare e quello sguardo che racchiude qualcosa di buono, quel buono che non ha mai incontrato. Siamo vive e siamo qui, dovremmo solo rinascere insieme.

«Cosa hai fatto in questi giorni?»

«Ti ho aspettato, Regina. Non riesco a fare altro che aspettarti ultimamente. E tu?»

Completamente stordita dalla mia risposta, riprende a sorridere.

«Nulla. Ho desiderato tornare qui.»

«Per me?» chiedo timidamente.

«Sì, per te. Tutto quello che faccio è legato a te. Piango per te, rido per te. Ho paura per te. Divento rompipalle per te. Mi trasformo nella peggiore delle mamme apprensive per te, e so che non posso e non voglio nemmeno avere quel ruolo. Mi sono spogliata davvero per te quando ho capito che quelle paure che avevo, con te, facevano meno paura. Ho messo in discussione me stessa per te!» la voce, dapprima sottile e flebile, prende tono.

Le sue mani si stringono come in una preghiera, accanto alle sue labbra. È così bella quando è tormentata.

«Regina...»

«No, tu non capisci. Io ero terrorizzata. Ma concretamente la mia paura l'ho lanciata a te la settimana scorsa quando ti ho quasi obbligata ad attraversare più velocemente un percorso che solo tu potevi costruire, non conosco altro modo di amare le persone, il senso di colpa sta al primo posto, e le persone mi sono accanto perchè vogliono qualcosa da me, sempre. Mia madre voleva i soldi, Robin il mio corpo, invece tu, tu non vuoi niente e io non so gestire rapporti in cui l'altra persona non vuole niente da me se non il mio bene o il mio sorriso o tutte quelle cose belle che si dovrebbero pensare e volere!» si volta di scatto dandomi le spalle, iniziando a piangere.

Stringo le labbra in un ghigno doloroso, dove ricaccio indietro le lacrime che vorrei versare insieme a lei. Sentirla ammettere di non saper gestire questi sentimenti mi fa respirare, mi fa capire quanto il suo interesse morboso per la mia salute sia l'unico modo che conosce per dimostrarmi interesse perchè continua ad aver paura che io voglia qualcos'altro da lei.

In un certo senso è così. Vorrei che mi guardasse negli occhi senza aver paura dell'ennesimo tradimento, vorrei che comprendesse che l'unica cosa che voglio sono i suoi sorrisi. E avremmo tante occasioni per lanciarci addosso paure e sensi di colpa, ma ora, ora, dobbiamo solo stringerci le mani ed trovare la felice consapevolezza di esserci scelte.

Regina, ho incrociato milioni di occhi ma nessuno di questi mi fa sentire a casa come fanno i tuoi.

La osservo dalla mia postazione speciale, postazione che mi ha fatto comprendere quanto nulla sia dovuto o scontato, postazione che credevo di non poter più abbandonare e che a volte mi faceva sentire inutile e assolutamente poco degna di attenzioni. Sono stati mesi difficili e ce ne saranno ancora, ma il viso nascosto dietro le spalle di quella donna di fronte a me era diventato il primo motivo per respirare. Il primo motivo per diventare di più, per dimostrare che potevo essere quello che volevo.

Sposto lentamente le gambe dai poggiapiedi della sedia, che sollevo delicatamente, attenta a non far troppo rumore. Con l'aiuto delle braccia mi metto in piedi e sposto mezzo passo in avanti prima di pronunciare di nuovo il suo nome.

«Regina...»

«Che c'è, Emma!»

Le parole muoiono tra le sue labbra appena si volta e accolgo il suo stupore con un enorme sorriso.

Il suo sguardo vaga irrequieto tra il mio viso e le gambe che inizio a muovere verso di lei.

«No, ferma. Tu cammini, da quando cammini? Perché cammini?» inizia a chiedere senza controllo.

«Shhh» dico io prendendo il cellulare e facendo partire la canzone che lei stessa aveva usato per riportarmi in vita.

Le parole di quella canzone risuonano nella stanza, e lei capisce.

Quando ci divide solo un respiro e i suoi occhi sono ormai un lago di lacrime, riprendo a parlare.

«Buon compleanno, Regina» dico «volevo dirtelo guardandoti negli occhi, volevo rendere speciale questo Natale, il tuo compleanno, la tua vita, per una volta.»

Abbassa le palpebre e due lacrime si lanciano sulle sue guance. Lo sguardo non parla, ma dice tante cose. Il suo sguardo mi ha resa forte e indifesa allo stesso tempo e ho dovuto abbassarlo all'inizio. Ho dovuto imparare a sostenere quello sguardo pieno di dolore e di vita persa dietro a persone che non l'hanno mai meritata. Dietro quel seno e quelle labbra da baciare al sapore di mela si chiudeva sempre a chiave e, una piccola e dispettosa bambina di cinque anni, prendeva forma. Bambina che ha sempre detto no... e che con me ha imparato a dire sì. In realtà aspettava solo un gesto d'affetto, puro, sincero, come una madre che le rimbocca le coperte.

È magia incompresa, e con me, avrebbe capito come usarla questa magia.

«Se vorrai, se saprai vivermi, ti lascerò così tanto di me da sentirmi e sentirti sottopelle anche quando non saremo fisicamente insieme. Se solo ti vedessi come ti vedo io...»

Mi butta le braccia al collo, in un abbraccio liberatorio.

«Ti amo, Emma» dice d'un fiato, mentre il mio cuore si ferma. Solo le sue braccia mi tengono in piedi.

«Come scusa?» chiedo io, incredula allontanandomi da lei quel tanto che basta a guardarla negli occhi.

«Ti amo, Emma. Sono mesi che ti amo ma non avevo il coraggio di dirtelo perché... perché la mia vita ha sempre fatto schifo e non volevo immischiarti nei miei casini. Ma ti sei messa in mezzo a quei proiettili e il tuo coma ha svegliato finalmente il mio cuore... ma dalla canzone che stiamo ascoltando, credo che tu sappia già tutto questo, non è vero?»

Mi ha sedotta. Sono caduta ai suoi piedi come una quindicenne in preda agli ormoni impazziti. L'avevo vista piangere, bere il caffè, disperarsi per Henry, disperarsi per me per poi tornare a fare la donna irraggiungibile. Sono stata, per quasi un anno, un burattino inconsapevole dei suoi sguardi, delle sue mani calde, del suo cuore spezzato. Ora quel cuore l'ha dato a me e avrei fatto di tutto per rimetterlo in piedi e farlo battere nel modo migliore.

«Sì, lo sapevo. Ma volevo che me lo dicessi mentre ero capace di intendere e di volere.»

Stavolta sono io che protrudo le labbra verso le sue per baciarla, concedendomi quel passo che non avevo mai avuto il coraggio di compiere per prima, troppo inibita dal potere che aveva verso di me: quello di rifiutarmi in qualunque momento della nostra conoscenza.

Mi concentro dapprima sul suo labbro superiore, poi su quello inferiore, godendo della liberatoria consapevolezza che d'ora in poi, avrei potuto far mie le sue labbra e tutta lei, quando ne avrei avuto voglia.

Il bacio parte lento e profondo, e così rimane per tutto il tempo, anche quando la spingo, inevitabilmente, nella mia camera. Ogni singolo bottone di quel cappotto che aveva addosso, salta, e lo stesso scivola poco dopo verso il basso, lasciandomi dinanzi una delle visioni più celestiali che mi sia stato concesso di osservare. Le sue labbra, passate sul mio collo, accompagnano il movimento delle sue mani che trovano l'unico piccolo e insignificante bottoncino che tiene insieme il mio vestito, sulla nuca. Così, afferrandolo dalla vita, lo sfila, adagiandolo in un punto a caso della stanza.

Il suo vestito rosso fuoco fa la stessa fine poco dopo. Decido di lasciare esattamente dove sono quelle autoreggenti nere che la rendono ancora più eccitante.

Gambe incatenate, dita intrecciate, occhi incollati.

Le sue dita indugiano in me dapprima inesperte e poi sicure e decise, come se create esattamente per quella parte del mio corpo. Mi concedo a lei, saziandomi per tutto il tempo degli occhi lussuriosi che catturano il suo riflesso nei miei. Vorrei restituire lo stesso piacere ma i miei polsi sono bloccati nella stretta morsa della sua mano sinistra, costringendomi a rimanere inerme sotto il tocco preciso di lei.

L'unica cosa che posso ancora muovere sono le gambe, così ne adagio una tra le sue, avvertendo immediatamente quella inevitabile e piacevole sensazione calda e umida, anche se nascosta ancora dallo slip.

Tortura ancora e ancora i miei seni, talvolta adagiando dei piccoli morsi, talora stimolando i capezzoli con la lingua. Non esiste tortura più piacevole di quella.

Quando sento quel calore familiare montare dentro di me, scatto e inverto le posizioni, eliminando quello slip e sistemando, come la prima volta, le sue gambe dietro la mia schiena.

Così mi prendo, come se fosse la prima volta, la sua parte più preziosa.

Nessuna azione basta a tramutare in concreto quello che provo in quel momento. Ma quando, reso difficoltoso dalla posizione, riprende a sfiorarmi, in quel momento i nostri corpi si irrigidiscono e mi butto sulla sua bocca, soffocando e controllando quei gemiti e sussulti di piacere che ha colto entrambe.

Mi accascio sul suo corpo nudo.

Poi sento una lieve risatina provenire da lei.

Aggrotto la fronte prima di guardarla negli occhi, sostenendomi con entrambe le braccia posizionate ai lati del suo viso. I miei capelli le solleticano il collo.

«Se ti dico una cosa non ci crederai mai» mi dice divertita.

«Non so se avere o meno paura di questa confessione, sai?»

«Bè, allora ti faccio rilassare subito: questo è il terzo orgasmo della mia vita. Il secondo è stato con te, la prima volta... il primo e unico con Robin, quando abbiamo concepito Henry. Poi solo una lunga serie di atti insoddisfacenti.»

Mi racconta questa cosa assolutamente inverosimile col sorriso sulle labbra: è davvero divertita.

Io sono indignata. Come fanno le donne a compiacere in questo modo i loro uomini senza pretendere lo stesso piacere che loro danno?

«Come avrai fatto a sopportare tutto quello che ti ha fatto» aggiungo posando le mie labbra sulla fronte.

«C'era Henry...»

Due parole, un nome.

«Merda, che ore sono???» esclamo improvvisamente, saltando giù dal letto e spaventando letteralmente la creatura che ancora giaceva su di esso. Mi guardo intorno alla ricerca del mio telefono.

«Sono le 7 pm!» sgrano gli occhi e Regina mi imita subito dopo.

«Tua madre inizierà a odiarmi da oggi, immagino!» aggiunge, mentre un po' barcollante tentava di rinfilarsi il suo vestito. Io intanto faccio la stessa cosa, con la differenza che devo poggiare ben saldamente il sedere su una superficie piatta se voglio vestirmi senza rischiare una frattura.

«Ora posso chiederti come stai? Per la gamba, intendo...» chiede titubante.

«Sto bene... ogni tanto cede, ma ogni giorno è sempre più forte. Resisto sempre di più in piedi e mi fa male solo la notte se ho esagerato troppo durante il giorno, tornerò come nuova!»

Di rimando, annuisce sorridendo, prima di allungare la sua mano su cui mi aggrappo per mettermi in piedi.

La bacio. Poi rimango lì a osservarla quel po' che basta per perdere totalmente la ragione.

La amo col cuore, l'anima e le ossa. Senza esitazioni o perplessità, senza paure adolescenziali. La guardo negli occhi e mi accorgo che ho un intero mondo da scoprire e spero mi concederà tutta la sua vita per farlo. Scoprire ogni anfratto angusto e trovare in ognuno quell'angolino di pace creato a posta per me da lei stessa, dove potrò sedermi a contemplarla.

Di fronte allo specchio del bagno si sistema il trucco, mentre io parto da zero.

Quel piccolo frangente di quotidianità mi fa sussultare il cuore. E credo che per lei sia lo stesso, notando il rossore delle sue gote.

Al contrario di quanto io stessa avrei mai immaginato, percorriamo la strada da casa mia a casa dei miei in totale silenzio, scrutandoci di tanto in tanto e rubando lievi carezze alle nostre mani.

Arrivate di fronte alla porta, mi accorgo del suo nervosismo. Il respiro accelerato è una maschera non ben ancorata al suo viso. Così, colta di nuovo dalla consapevolezza della situazione, afferro la sua mano e intreccio le dita con le sue.

Abbassa lo sguardo verso le nostre mani prima di ricambiare la mia stretta.

Con l'unica mano libera afferro il suo mento e la avvicino a me, creando l'ennesimo contatto con le nostre labbra.

«Ti amo anche io, Regina» pronuncio quelle parole quando i nostri occhi si scontrano ancora una volta.

Sorride e il suo respiro si placa, mentre il mio subisce una brusca accelerazione.

Il tempo si ferma per entrambe.

Poi le lancette riprendono a correre.

Le nostre vite stanno iniziando, di nuovo. Con la differenza che ora, per la prima volta, non saremo più schiave del tempo andato.

Mia madre apre la porta e il suo sorriso nel vedermi in piedi sulle mie gambe diventa la ciliegina sulla torta.

Ora il mio Natale è finalmente perfetto.

 

 

Sui nostri rifugi distrutti

Sui nostri fari crollati

Sui muri del nostro tormento,

scriveremo i nostri nomi.

(Paul Éluard)

 

 

 

Note dell'autrice: sono passati cinque mesi dalla pubblicazione del primo capitolo di questa storia e ora siamo giunti al termine. Come per la fine di ogni avventura, la malinconia fa da padrone tra i miei sentimenti, ma sapere che per tutto questo tempo, persone che non hanno la minima idea di chi io sia, mi abbiano aspettato, letto e ammirato, mi conforta molto.

D'obbligo sono i ringraziamenti: Susan, pazientissima e meravigliosa (come dice lei U_ U ) compagna di vita, senza la quale probabilmente non sarebbe iniziata nemmeno la stesura di questa storia. È corretto informarvi che le frasi più difficili, belle e romantiche, nascono pensando a lei, ai suoi occhi e a tutto quello che ogni giorno mi regala.

Al secondo posto, non meno importante, Nadia, maestrina dalla penna rossa, beta di fiducia, che mi ha insegnato quando e dove mettere le virgole e che, a ogni capitolo, lasciava degli spassosissimi mini commenti in rosso che mi facevano sbellicare dalle risate! Dovrei lasciare anche la versione con i suoi commenti le prossime volte! :D

AnnaRita, figlia acquisita, meravigliosa neolaureata a cui “regalo un sorriso a ogni capitolo”, parole sue. Sai che c'è? Sei tu che lo regali a me quando ti emozioni come vorrei che succedesse! <3

Grazie ai puntuali e biblici commenti di Francesca, che prima o poi dovrà iniziare a scrivere, so che ne avrebbe le potenzialità, ma le piace troppo leggere e commentare per schiodarsi da questo ruolo!

Ci sono una serie di recensori abituali che vorrei ringraziare uno ad uno, ma sono certa che leggendo, capirete di chi parlo. Ogni vostra parola mi spinge a fare di più e meglio, quindi grazie per aver speso del tempo con me in questi cinque mesi.

Spero di potervi allietare presto con una nuova long ma, in attesa di questo, mi piacerebbe che il coraggio di queste due donne venisse trasmesso anche a voi, perché a me di coraggio ne danno tanto.

Grazie a tutti, a presto!

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