L'Ottavo Giorno di Dobhran (/viewuser.php?uid=130994)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Buongiorno
a tutti. Molto tempo è passato dall'ultima volta in cui ho
scritto e
pubblicato e mi auguro di essere migliorata almeno un po' da allora.
Torno a postare qualcosa di mio nella speranza di poter combattere il
famoso e fastidioso "blocco" che mi afflige da un po' e che
mi porta a cadere quotidianamente vittima della procrastinazione.
Ogni vostro eventuale commento, positivo o negativo, potrebbe essere
fondamentale per farmi capire dove posso migliorare, poiché
so che
di strada da fare ne ho ancora moltissima. Dunque, se per caso vi
capita di leggere, lasciate qualche commentino per dare nutrimento
alla mia piccola e a volte sopita anima di scrittrice. Ve ne
sarò
grata. Per ora, buona lettura a tutti coloro che vorranno seguirmi.
:)
L’OTTAVO
GIORNO
Osservate
le mie leggi e
mettetele in pratica. Io sono il Signore che vi santifica. Chiunque
maledirà suo padre e sua madre sia messo a morte: ha
maledetto suo
padre e sua madre; il suo sangue ricada sopra di lui.
Levitico,
20, 8-9.
1.
Sedevo
al tavolo della cucina, masticando malvolentieri un insipido biscotto
ai cereali e accompagnandolo di tanto in tanto con del succo
d’arancia, giusto per dargli un po’ di vita. Il
risultato fu
addirittura peggiore, ma se non altro più facile da
deglutire.
Mi
focalizzai sui suoni
abituali della casa per ignorare quelli estranei e molesti che
stavano riuscendo a rovinarmi l’umore. Il ticchettio
incessante
dell’orologio affisso al muro scandiva la rapida corsa dei
secondi,
mentre da qualche parte all’esterno di casa mia,
già da qualche
ora gli uccellini facevano a gara a chi cantava più forte.
Buttai
giù in fretta il
resto della colazione e guardai mia madre di sfuggita da sopra la
spalla, seduta al lungo tavolo di legno lucido e scuro che riempiva
la sala da pranzo. A gambe strette, con le sole punte dei piedi che
toccavano terra e adagiata sul bordo esterno della sedia, sembrava
non aspettasse altro che qualcuno desse il via ad una gara di
velocità. Persino il suo corpo parlava, involontario
dispensatore di
utili indizi sul suo stile di vita. L’impulso di spezzarle
davanti
al naso la penna che picchiettava senza sosta sull’agenda mi
fece
prudere le mani.
In casa mia
l’importanza
della comunicazione non verbale era enorme, se si trattava di dover
interpretare ciò che passava nella strana mente di mia
madre. Non
accadeva spesso che avesse molto tempo libero da passare in casa,
esclusa la notte, ma quando mi ronzava intorno era difficile che se
ne stesse buona senza produrre un qualche tipo di rumore capace di
logorare i nervi. Sembrava volesse assicurarsi che avessi notato la
sua presenza. Aveva una capacità di irritarmi che poteva
essere
definita talentuosa, con i suoi sguardi, i sospiri e i movimenti del
volto, sempre carichi di una forza espressiva che avevo imparato a
cogliere con il passare degli anni.
In quel
momento il suo viso
era teso, lievemente contratto in una smorfia di disapprovazione per
qualcosa che non conoscevo e che non volevo sapere. Le labbra erano
strette in una linea rosa, la fronte pallida e priva di imperfezioni
era solcata da una ruga quasi impercettibile, ma molto eloquente. Era
visibilmente in pensiero per qualcosa che, senza alcun dubbio,
riguardava il suo lavoro.
Sfogliò
l’agenda,
muovendo rumorosamente i fogli e riprese a picchiettare la penna,
senza cogliere minimamente l’ostilità del mio
sguardo. Passandole
accanto gettai un’occhiata fuggevole ai fitti appunti che
stava
consultando con aria preoccupata. Da quella distanza non riuscii a
comprendere nemmeno una parola, sebbene la sua grafia fosse molto
curata, non era tuttavia difficile immaginare che stesse cercando di
far quadrare i suoi appuntamenti di lavoro. Con tutte le cose che si
ostinava a fare in una giornata, mi chiedevo come trovasse il tempo
per nutrirsi, andare al bagno, o anche solo respirare con un
po’
più d’intensità rispetto al solito.
Mi gettai di
peso sul
divano e accesi la TV, sebbene non fossi particolarmente interessata
a ciò che il palinsesto delle sette e mezza di mattina
potesse
offrirmi. Anche volendo avrei fatto fatica a concentrarmi su qualcosa
di serio, con lei che faceva casino con quella dannata penna.
Era proprio
quello il suo
metodo infallibile per far capire a chi le stava accanto che qualcosa
non procedeva nel modo giusto, o meglio, che non stava andando tutto
secondo i suoi calcoli. Qualcosa di estremamente raro,
perché lei
otteneva sempre
ciò che voleva. Le manifestazioni della sua ansia erano
molteplici,
ma tutte altrettanto efficaci: se era in cucina, spostava pentole
(totalmente a casaccio, dato che era parecchio tempo che non cucinava
qualcosa di più impegnativo del pane tostato), oppure
schiaffava
qualcuna delle sue assurde riviste di economia o legge sul tavolo,
come se pensasse di dover riempire i silenzi degli altri o il vuoto
della casa con il chiasso della sua inquietudine.
Passai di
canale in canale
senza davvero prestare molta attenzione a nessuno dei programmi, e
gettai un grido mentale di liberazione quando dalle mie spalle non
giunsero più fastidiosi picchiettii. Senza voltarmi ascoltai
mia
madre alzarsi dalla sedia e percorrere a passi rapidi la casa,
diretta verso l’armadio accanto alla porta
d’ingresso. Ero sicura
che stesse per indossare il soprabito panna e l’elegante
borsetta
in pelle dello stesso colore, in tinta con la maglia e in preciso
contrasto con i pantaloni neri dal taglio morbido e le costose scarpe
col tacco alto.
Distolsi lo
sguardo dallo
schermo, giusto per controllare se le mie intuizioni fossero
azzeccate e sorrisi nel pensare a quanto fosse prevedibile quella
donna. Mal interpretando il gesto, lei sorrise di rimando, sfilandosi
i capelli biondi da sotto il colletto del soprabito.
Assomigliò più
a una smorfia che a qualcosa di gentile.
«Sarò
fuori città, oggi.
Ho
un volo fra poco ed è possibile
che stasera faccia tardi. Te la cavi?»
Possibile
per lei significava sicuramente,
così come te
la cavi,
voleva dire arrangiati,
nutriti, intrattieniti da sola e non combinare guai.
«Posso
farcela».
«Non
lasciarmi nulla per
cena, mangerò un boccone al volo».
Mi sentii in
dovere di
puntualizzare. «Esco anche io stasera, perciò
potrei fare più
tardi di te».
Poco ma
sicuro. Io e i miei
migliori amici lo avevamo pianificato almeno un mese prima e, come
loro, anche io non stavo più nella pelle.
Mamma non
disse nulla per
parecchi secondi, tanto che dopo qualche istante cominciai a
sospettare che non mi avesse nemmeno sentita. Mi sporsi oltre lo
schienale del divano, un braccio appoggiato alla stoffa scura, per
assicurarmi che lei fosse ancora presente, ma il suo viso era assorto
in qualcosa che non riguardava sua figlia. Le dita sottili e pallide
si muovevano rapidamente sulla tastiera del cellulare e subito dopo,
notando il mio sguardo interrogativo, mi fece segno di tacere e si
portò all’orecchio il ricevitore.
«Catherine,
buongiorno»
esordì con voce ferma, rivolgendosi a Catherine Dobson, la
sua
segretaria. Alla mente mi tornò il viso della giovane donna,
dai
lineamenti marcatamente orientali che mi avevano inizialmente messo
in soggezione quando mamma ci aveva presentate. Quando però
mi aveva
regalato un sorriso dolce mi ero sentita in colpa per essermi fermata
alla prima impressione e mi ero chiesta come fosse possibile che lei
e mia madre respirassero la stessa aria.
«Confermi
l’appuntamento
con Seymour per questo pomeriggio?»
Durante la
pausa che seguii
mi parve quasi di sentire il rumore del cervello di mia madre muovere
i suoi ingranaggi in un lavorio incessante, come se agissero ad una
velocità maggiore rispetto agli altri esseri umani, e le
risposte
pronte di Catherine, la sua voce calma ma decisa, così
distaccata
quando si trattava di lavoro e così piacevolmente tinta di
emotività
nei rapporti personali.
Con orgoglio
mi aveva
raccontato che suo padre era californiano e sua madre giapponese e
che lei si sentiva americana tanto quanto asiatica. Questo di lei mi
era piaciuto molto, il perfetto connubio tra due culture
apparentemente così diverse. Tutto in lei era armonia ed
equilibrio,
non solo ingannevole vanità, che invece ero solita leggere
negli
atteggiamenti di mia madre.
Mamma
mormorò qualche
parola di ringraziamento dopo una breve conversazione, poi mi rivolse
uno sguardo indifferente.
«Hai
detto qualcosa?»
Fece, come se si fosse resa conto solo in quell’istante di
non
essere sola in casa, o come se si stesse lamentando di avere una
mosca fastidiosa che le ronzava intorno.
«Ho
detto che sarò fuori
questa sera» mormorai, resistendo all’impulso di
alzare gli occhi
al cielo. Lei non disse nulla per qualche secondo, impegnata a
riporre nella borsetta l’agenda e la penna, sapevo
però che ci
stava pensando su. Aveva certamente capito che non cera bisogno di
chiedermi chi mi avrebbe accompagnata. Se gli esseri umani avessero
potuto avere due ombre, i miei migliori amici, Louis e Jennifer,
sarebbero state le mie. Dopo due interminabili secondi di riflessione
e silenzio, alzò nuovamente lo sguardo su di me, con
un’espressione
severa.
«Non
me ne hai parlato.
Dove andate?»
«In
un locale nuovo a
qualche chilometro da qui. Niente di speciale» mentii.
Era vero che
non era
lontano, ma dire che non
era
niente di speciale
era una sorta di bestemmia. Avevamo trovato i volantini con
l’annuncio dell’apertura del Mephisto
in un posticino dove andavamo spesso a farci un trancio di pizza, e
la promessa di un posto a tema infernale
ci aveva elettrizzato, scatenando la nostra fantasia. Non potendo
chiedere in giro di che si trattava, dato che l’inaugurazione
sarebbe stata solo quella sera, Louis aveva passato giorni e giorni
fantasticando su ciò che avremmo trovato, facendoci venire
il mal di
testa.
«Che
significa a pochi
chilometri da qui? È un posto che conosco?»
insistette mia madre.
«Non
è un sofisticato
ristorantino che dispensa caviale a prezzi esorbitanti a ricchi snob.
Quindi no, direi di no. E poi, come ho detto, apre questa sera per la
prima volta». Sperai notasse la frecciatina, ma il suo viso
non fece
una piega.
«Dove?»
«Perché
tutte queste
domande, ti ho già detto che è vicino.
È a SoMa, comunque»
mormorai, esasperata dalla sua intrusione illegittima. Passava la
maggior parte del tempo fuori casa, perciò avrei gradito che
si
limitasse a dirmi Certo
cara, vai pure e divertiti,
senza questionare. Il mio obbiettivo per quella sera era di passare
al meglio i miei primi giorni da persona libera. Completamente libera
e diplomata da pochi giorni, e con nessuna preoccupazione se non
quella di decidere come vivere il mio immediato futuro.
Le mie
speranze furono
infrante quando notai la piccola contrazione all’angolo della
sua
bocca non appena pronunciai il nome del distretto.
Idealmente
San Francisco
poteva essere divisa in un reticolo di tante piccole aree, dette
distretti, ognuno con il proprio nome e per la maggior parte dei casi
ognuna con la propria caratteristica o cultura. Parlando di San
Francisco era impossibile ignorare il suo carattere multi etnico e di
conseguenza era anche difficile tralasciare le sue stranezze.
SoMa era una
di quelle. Il
suo nome contratto stava per South of Market, ricalcato sulla forma
abbreviata SoHo di South of Huston a New York City.
Sia alla
luce del sole che
verso sera, SoMa brulicava di attività di ogni sorta, un
punto di
incontro per turisti e abitanti del luogo. Non erano pochi gli svaghi
culturali che poteva offrire, uno tra tanti, il San Francisco Museum
of Modern Art, oppure il Cartoon Art Museum, dedicato ai cartoni
animati e ai personaggi di animazione famosi. C’ero stata
tante di
quelle volte con papà che lo conoscevo quanto conoscevo casa
mia.
Di notte non
perdeva il suo
fascino, ma la cultura lasciava maggior respiro al divertimenti, con
locali di diverso genere, ristoranti, e nightclub.
«In
tutta franchezza,
Amber, non mi sembra una buona idea che tu frequenti quei
posti».
Finalmente mia madre mi espresse direttamente i suoi pensieri, anche
se dall’espressione perplessa che aveva assunto appena
nominatogli
il distretto non mi era stato difficile prevederli.
«Perché
no?»
«Perché
non è una zona
adatta a te e credo che i genitori di Jennifer e Louis sarebbero
della mia stessa opinione. Sempre che i loro figli non si siano
comportati come hai fatto tu con me, tenendomi all’oscuro di
questa
tua decisione».
«Loro
lo sanno e non hanno
nulla in contrario se stiamo tutti e tre assieme. Siamo in compagnia,
non correremo alcun rischio! E come sarebbe a dire che non è
una
zona adatta a me? Mi credi così ingenua?» La mia
voce era già
tinta di irritazione, sebbene non fosse l’atteggiamento
giusto da
tenere con una persona come mia madre. Più mi dimostravo
toccata sul
vivo, più lei si convinceva del fatto che ero dalla parte
del torto.
Scosse la
testa con un
sospiro esasperato che mi parve fuori luogo visto che stavamo
affrontando quella conversazione solo da pochi minuti.
«Non
fraintendere
qualsiasi cosa ti dico, Amber, per favore. Sei una ragazza giovane e
attraente e quelle sono zone della città in cui verso sera
si
trovano in giro persone poco raccomandabili».
Serrai i
denti per
combattere l’impulso di alzare la voce, cosa che avrebbe
solamente
peggiorato la situazione. «Te l’ho detto, siamo in
tre».
«Non
è una grande
garanzia se la tua scorta è formata da Louis e Jennifer. Non
sono
esattamente due persone dall’aria minacciosa. Louis non
farebbe
paura a nessuno nemmeno sforzandosi e quella ragazza, non sa nemmeno
da che parte giri la terra. Senza offesa».
Non
l’avrei ammesso a
voce alta, ma le sue parole avevano un fondo di verità.
Nemmeno io,
con il mio metro e cinquantatré d’altezza e il
fisico gracile davo
l’impressione di sapermi difendere.
«Siamo
in una grande
città, le persone sbagliate si possono incontrare ovunque,
anche in
un parco per bambini. Basta solo fare attenzione, dovresti fidarti un
po’ più di tua figlia, non credi?»
tentai di ribattere, con la
rabbia che mi gettava fastidiose vampate al viso. Mamma si
sistemò
la borsetta sulla spalla con l’aria di una che aveva deciso
di
punto in bianco di troncare a metà la conversazione. Sapevo
che
stava per regalarmi una delle sue tante frasi fatte.
«Non
è che non mi fido di
te, non mi fido della gente che si trova per strada. Drogati, barboni
e delinquenti d’ogni sorta» caricò ogni
parola con una dose di
disprezzo che mi parve eccessiva. Resistetti all’impulso di
insultarla, nonostante le parole premessero sulla lingua per uscire e
fare male. Detestavo il modo in cui metteva sullo stesso piano
individui che lei riteneva inferiori ai suoi standard. Era probabile
che nella categoria fossi inclusa anche io.
Lottai per
mantenere la
calma e ragionare lucidamente su come aggirare il discorso e volgerlo
a mio favore, senza dover litigare. Tirai in ballo il diploma, le mie
esigenze di svago e il desiderio di non deludere i miei amici, che
contavano su di me per poter avere un’ottima serata, ma ogni
mio
tentativo di difesa a nulla valse contro il suo viso di marmo. Si
spostò all’ingresso, accompagnata dal rumore dei
tacchi di tanto
in tanto attutiti dal tappeto e intenta, come faceva sempre, a
osservare la sua immagine riflessa nello specchio appeso sulla parete
accanto alla porta. Con le dita si sistemò alcuni ciuffi
biondi che
già erano perfetti così.
«Per
favore» aggiunsi,
sperando ardentemente di fare breccia nel suo cuore, sempre che ne
avesse uno, sperduto da qualche parte nel petto.
«Niente
discussioni,
Amber. Ho già detto quello che penso e non amo ripetermi,
perciò
trova un’alternativa per passare la serata. E la prossima
volta
gradirei essere informata in anticipo sulle tue intenzioni, visto che
fino a prova contraria sono tua madre. Di queste cose devi discutere
prima con me».
Aveva detto
bene, fino
a prova contraria.
Ne avevo a bizzeffe di prove che confutavano le sue convinzioni di
essere la madre dell’anno, che altri avrebbero potuto
confermare.
Conosceva meglio il suo ufficio che casa sua e pretendeva di
governare la mia vita?
Capii che
andare avanti con
quel discorso era autodistruttivo, perché difficilmente
avrei
resistito alla voglia di dirle in faccia molte cose che pensavo di
lei e della sua maniacale fissa di controllare tutto e tutti. Strinsi
i pugni e dalle labbra mi uscii un sospiro strozzato, mentre lei
impugnava le chiavi della sua auto e nel mio animo si faceva strada
la terribile ipotesi di mollare e dargliela vinta anche stavolta.
Il tappeto
all’entrata fu
tagliato da una lama di luce che penetrava dall’esterno,
piccolo
indizio di ciò che poteva offrire quella magnifica giornata
di fine
giugno. Mi salutò, promettendomi che mi avrebbe chiamata non
appena
avesse avuto un minuto di tempo libero, poi si chiuse la porta alle
spalle, soffocando la luce del sole.
Con tutta
probabilità non
si sarebbe fatta sentire.
Rimasi in
piedi, lottando
contro la collera, contro il fallimento e l’impotenza dei
miei
diciotto anni rispetto alla sua autorità e al suo titolo
immeritato
di madre e tutrice.
Merda!
Mi passai le mani sul viso, accalorato per la frustrazione. Non era
nemmeno la prima volta che bazzicavo per South of Market dopo il
tramonto e non mi era mai successo nulla. La cosa più
tremenda che
era capitata era stata quella volta che mi ero seduta su una gomma da
masticare su un muretto e non ne voleva più sapere di
togliersi dai
miei pantaloni, perciò perché preoccuparsi tanto?
Ero abituata a
cavarmela da sola, proprio come lei voleva che facessi. Gestivo la
casa e mi occupavo delle faccende domestiche anche senza di lei.
Con un moto
di rabbia mi
chinai, afferrai una delle mie ciabatte e la gettai con violenza
contro la porta, immaginando di non avere ostacoli davanti a me e di
colpire mia madre dritta sul quel faccino perfetto e glaciale. Mancai
il bersaglio di quasi un metro e la mia umiliazione crebbe, facendomi
sentire una vera idiota per quel gesto infantile. Di certo quella non
era una vera dimostrazione di maturità.
Il rumore
dell’apertura
del garage interruppe i miei pensieri e insinuò nella mia
mente
un’idea. Tesi l’orecchio e rimasi in ascolto
dell’auto di mamma
che faceva manovra e si immetteva in 5th Avenue. La speranza rinacque
in me mentre un proposito prendeva forma più definita nel
mio
cervello, dal lieve ed eccitante retrogusto di sfida.
Mi avvicinai
all’entrata
e tuffai le dita nel posacenere posto sul mobiletto accanto allo
specchio. Nessuno in casa era fumatore o lo era mai stato,
perciò da
quando era stato acquistato quell’oggetto non aveva mai
svolto il
suo vero compito, un po’ come era accaduto per il maestoso
tavolo
nella sala da pranzo.
Con una
stretta d’emozione
allo stomaco, strinsi nella mano l’oggetto che avevo sperato
di
trovare, e come debole giustificazione, mi dissi che avrei preferito
disobbedire a mia madre piuttosto che deludere le mie aspettative e
quelle dei miei amici. Con qualche piccolo accorgimento lei non
sarebbe venuta a saperlo e ad ogni modo, se proprio avesse voluto che
facessi la brava, avrebbe dovuto almeno premurarsi di portare con se
anche le chiavi dell’altra
macchina.
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
L’uomo
che agirà con
presunzione e senza ascoltare il sacerdote che sta là per
servire il
Signore tuo Dio, o il giudice, quest’uomo morirà.
Deuteronomio,
17,12.
2.
Per
tutto il giorno mi godetti la familiare assenza di mia madre e la
piacevole convinzione di essere stata più furba di lei,
nonostante
non avessi ancora avuto l’occasione di dimostrarglielo. Ogni
volta
che il senso di colpa sembrava avere il sopravvento, lo ricacciavo
indietro ripensando a quanto alla mia età fosse normale
avere
qualche piccolo moto di ribellione nei confronti
dell’autorità. A
mia discolpa, mia madre era una vera strega, perciò non
avevo nulla
di cui sentirmi veramente responsabile. E poi era lei che mi chiedeva
di cavarmela, perciò davo per scontato che uscire senza un
vero e
proprio benestare da parte sua rientrasse nella categoria
dell’arrangiarsi.
Restare a
casa da sola per
me non era un problema. Fin da piccola ero stata forzata dalle
ambizioni e dalle esigenze lavorative dei miei genitori. Entrambi nel
ramo legale, avevano poche ore da dedicare alla cura della vita
domestica, e se un tempo la cosa aveva dato segno di disturbarmi o
dispiacermi ora non potevo che essere felice di gestire da sola la
mia casa. La responsabilità di quelle mura non mi pesava,
anzi, mi
spronava alla cura dei miei spazi e mi assicurava che ero in grado di
farcela anche senza grandi aiuti.
Louis spesso
mi prendeva in
giro perché non mi dispiaceva fare le pulizie e mi definiva
una
maniaca dell’ordine. Quale ragazza di diciotto anni sana di
mente
amava passare l’aspirapolvere e lavare i vetri? Per quanto
insistessi nel ripetere che non si trattava di un’ossessione,
non
potevo dargli tutti i torti e non riuscivo a fare a meno di
assicurarmi che tutto in casa mia fosse in condizioni adatte a
renderla vivibile, per me e per qualsiasi eventuale ospite.
Un’altra
mia passione che
riguardava la sfera domestica era la cucina, ma in questo caso Louis
non aveva nulla da ridire dato che lui era uno dei miei assaggiatori
di fiducia.
Non lo
consideravo un
semplice interesse, bensì un amore trasmessomi dal sangue di
mia
nonna attraverso le vene di mio padre, saltando una generazione e
colpendo solo me in famiglia, e alimentato dalla necessità
di non
morire di fame o non consumare troppo cibo spazzatura a causa della
mancanza dei genitori per gran parte della giornata.
Mia madre
non amava
cucinare, non era molto brava e non aveva nemmeno il tempo per
cimentarsi in piatti che richiedessero troppo tempo. Non aveva mai
preparato qualcosa di disgustoso, immangiabile o portatore sano di
intossicazioni, ma sembrava che tutta l’indifferenza che
provava
nei confronti del cibo si riversasse nei suoi piatti, perciò
preferivo di gran lunga arrangiarmi anche in quella
attività. Senza
contare che era anche terribilmente sbadata. Soprattutto negli ultimi
tempi, quando faceva tardi sul lavoro, non mangiava assieme a me. Pur
senza esserne sicura potevo immaginare che tenesse in ufficio diversi
menù di ristoranti take away. Non disprezzavo le ordinazioni
a
domicilio, ma ero quasi contraria al concetto di cucina semplicemente
come mezzo per placare la fame e riempirsi lo stomaco. Vedevo una
sorta di strana magia nella preparazione di un piatto, una scintilla
di passione che si riversava inevitabilmente nel cibo, il segreto per
raggiungere i sensi e il cuore dell’assaggiatore. Era un
lento
corteggiamento fatto di sapori, odori e combinazioni speciali,
perciò
fin da piccola mi ero data da fare per imparare la sottile e
meravigliosa arte della buona tavola, dapprima semplicemente
affascinata dai movimenti della nonna in cucina, poi sempre
più
decisa a partecipare in prima persona. Avevo appreso da lei tutto il
possibile e aperto finalmente i libri di ricette in casa nostra, mai
utilizzati se non per esperimenti finiti male. Ora erano davvero
degni di definirsi ricettari, non più così
intatti come lo erano
stati al tempo dei tentativi di mia madre, ma pieni di annotazioni in
matita ai lati della parole stampate, precisazioni da me scritte dopo
esperimenti e verifiche, qualche macchia indefinita sulla carta e
foglietti volanti infilati tra una pagina e l’altra, pronti a
planare a terra ogni volta che estraevo un volume dalla mensola.
Nonna aveva
il merito di
avermi insegnato le basi, ma un ruolo fondamentale l’aveva
giocato
anche la mia curiosità di bambina e la determinazione a
voler fare
sempre meglio. Ciò che di lei più mi aveva
colpito era la luce che
scorgevo nei suoi occhi ogni volta che si sfiorava
l’argomento
cucina. La parola passione acquistava senso quando ricordavo il suo
viso lievemente paffuto, dalla pelle costantemente profumata di
saponetta e morbida come il velluto. E oltre all’aroma di
pulito,
ripensando a lei affioravano nella mente gli stessi odori che da
piccola mi aveva insegnato a riconoscere e amare.
Quella
mattina cercai una
distrazione dietro ai fornelli, cucinando qualcosa di semplice ma che
mi tenesse occupata la mente da pensieri che non riguardassero solo
l’uscita di quella sera. Feci un salto al supermercato per
prendere
qualcosa di fresco e passai il tempo così, accompagnata
dallo
sfrigolio delle verdure e dall’aroma che la carne
rilasciò nella
cucina.
Quando fu il
momento, salii
elettrizzata le scale che portavano alle camere da letto e ai bagni
che ad esse erano accostati. Quando in casa eravamo ancora in
quattro era stato utile avere il proprio lavandino personale, una
doccia tutta per sé, una vasca e uno spazio riservato dove
poter
mettere le proprie cose senza il rischio che qualcuno ci mettesse il
naso o invadesse territori altrui. Ora che vivevo da sola con mia
madre, c’era un bagno in più, completamente
inutilizzato perché
l’abitudine mi spingeva ad usare sempre e soltanto il mio.
Ero
lì quando squillò il
telefono, impegnata a depilarmi le gambe per la grande occasione. Non
avevo bisogno di essere una sensitiva per indovinare chi fosse.
Sapevo che prima o poi l’apparecchio avrebbe dato segni di
vita,
perciò lo avevo messo a portata di mano, accanto alla vasca,
sul
cesto dei panni sporchi. Sciacquai via la schiuma dalle mani e
afferrare il telefono con le dita ancora bagnate, sgocciolando sulle
piastrelle.
Il fattore
scatenante della
chiamata era stato un sms al mio migliore amico Louis, risalente a
pochi minuti prima: Mia
madre ha detto no per stasera.
Una frase volutamente misera, senza particolari spiegazioni o scuse,
per scatenare nel ragazzo la reazione che volevo e che mi esplose
nell’orecchio non appena risposi alla chiamata.
«Cos’è
‘sta storia?»
strillò Louis, la voce resa acuta dall’agitazione.
Con il
telefono in precario
equilibrio tra guancia e spalla, continuai l’operazione.
«Niente...»
mormorai per
tutta risposta, con una voce che volutamente tinsi di finta
delusione. Dentro di me il mio stomaco si contrasse in un miscuglio
di emozioni che comprendevano la gioia immensa di poter uscire con
lui e Jenny e quel tocco di proibito che la disobbedienza a mia madre
mi stava procurando.
«…è
solo che mia madre
si è voluta mettere in mezzo anche stavolta. Proprio non le
va giù
che vada in quel posto, dice che è pericoloso».
«Pericoloso?
Andiamo in un
locale, non a prendere a calci i tori».
Aprii il
rubinetto quanto
bastava perché un filo d’acqua scorresse nella
vasca, e sciacquai
il rasoio, contemplando il risultato. Una striscia di pelle liscia
percorreva la mia gamba, interrompendo in verticale il candore della
schiuma. Una piccola strada in mezzo alla neve.
Dato che
tardavo a
rispondere, Louis insistette con un che di lagnoso nella voce.
«Dai,
Amber, non puoi
farmi questo, sono settimane che programmiamo questa serata, non
possiamo buttare tutto all’aria! Per di più mi
avverti solo ora?
Mi sono già preparato!»
Fui grata
del fatto che una
normale conversazione al telefono potesse celare la mia espressione,
di certo troppo rivelatrice del divertimento che stavo provando. La
voce lievemente stridula del ragazzo mi convinse a tacere ancora un
secondo, per godermi appieno la sua vana frustrazione. Lo sentii
sospirare profondamente nel ricevitore e mi scappò una mezza
risata
che nascosi con un colpo di tosse.
«Lo
sai che diceva
Orazio?» riprese dopo qualche istante di silenzio, facendomi
alzare
gli occhi al cielo. Tipico di Louis imbarcarsi in riflessioni
filosofiche e adattarle come più gli piaceva. Pensai di
interromperlo prima che procedesse con la predica, ma decisi di
lasciarlo parlare, per vedere dove sarebbe andato a finire col
discorso.
«Che
diceva?» lo
incalzai, pur sapendo che assecondarlo non era una buona idea. Era la
stessa regola che valeva anche per i bambini capricciosi.
«Diceva
di cogliere
l’attimo, Amber. Carpe
Diem!»
«Che
buffo, credevo che
alle lezioni di latino dormissi».
«Sì,
ma ho visto L’attimo
fuggente.
Robin Williams mi ha insegnato molto».
«Non
credo che la frase
sia stata ideata in previsione di una serata di ballo scatenato e
drink a basso costo» avvolsi entrambe le gambe in un
asciugamano e
stetti in silenzio, sorbendomi il mio migliore amico che teneva
un’improbabile conferenza al telefono su come la vita fosse
fatta
per essere vissuta appieno.
«Che
importa a cosa si
riferiva? È un concetto perfettamente utilizzabile anche per
la
nostra situazione. È necessario rendere attuale
ciò che è antico,
togliere la polvere e le ragnatele dalle frasi di chi ci ha preceduto
e renderle nostre, non credi?»
«Non
so che dirti Louis,
lo sai com’è fatta mia madre, ha le sue idee, le
sue convinzioni.
È difficile farle cambiare idea quando si
intestardisce».
«Non
vedo perché dovrebbe
preoccuparsi, non si fida di me? Potrei proteggere sia te che Jenny
ad occhi chiusi».
Stentavo a
crederlo, ma non
lo dissi ad alta voce per non ferire il suo ego di maschio. Non era
un palestrato e non lo sarebbe mai stato. Amava dormire fino a tardi
e non evitava di riempirsi di schifezze quando ne aveva
l’occasione.
Non era ciò che si definiva un salutista e il massimo di
movimento
che per lui valeva la pena di essere compiuto era muoversi come una
biscia quando ascoltava il suo iPod. C’era da dire che aveva
un
gran senso del ritmo, era imbattibile sotto quel punto di vista, ma
non credevo che bastasse per difendere due donzelle in pericolo. Se
mai ce ne fosse stato bisogno, ed era il caso di sottolineare il se
più volte, che avrebbe potuto fare contro qualche
malintenzionato?
Ondeggiare i fianchi a ritmo di musica?
«Louis…»
tentai di
inserirmi invano nel suo monologo.
«Te
ne pentirai, ne sono
certo! Resterai a casa tutta la sera a girarti e rigirarti i pollici,
struggendoti nel pensiero di aver mandato a monte una serata
perfetta, per colpa di stupide preoccupazioni…del tutto
infondate
tra l’altro!»
«Louis,
calmati».
«E
soprattutto, di aver
gettato nel più tetro sconforto il tuo migliore amico, per
non
parlare di…»
«Louis,
frena la lingua,
tesoro».
Lo specchio
sopra il
lavandino mi restituì il riflesso della mia immagine. Gli
occhi
scuri ereditati da mio padre mi fissavano dalla superficie liscia,
incorniciati dalla pelle chiara del viso e da capelli biondi tagliati
abbastanza corti perché non arrivassero alle spalle, ma
sufficientemente lunghi perché coprissero le orecchie. Di
natura
erano lisci, ma avrebbero avuto bisogno di un severo colpo di piastra
per correggere l’aspetto arruffato che assumevano ogni volta
che li
lasciavo asciugare all’aria. Era difficile stabilire da quale
dei
miei genitori li avessi ereditati, dato che erano biondi entrambi, ma
di certo, e c’era da dire anche grazie al cielo, assomigliavo
più
a papà, tranne nella grandezza della bocca, presa certamente
da mia
nonna e che giudicavo più un difetto che una caratteristica
graziosa. Si diceva che le donne dalla bocca grande fossero
mangiatrici di uomini e dato che come definizione non mi si addiceva
per niente, mi domandavo il criterio con cui avesse operato madre
natura su di me. Probabilmente non aveva tenuto conto delle leggende
popolari.
«Che
c’è?» fece Louis
nel ricevitore, distogliendomi dalla mia immagine nello specchio e
dai miei pensieri. Per quanto fosse divertente prendersi gioco del
mio migliore amico, il suo nervosismo mi convinse a darci un taglio.
«Tu
mi conosci, non è
vero?» chiesi.
«Meglio
di chiunque altro,
perché?»
«Allora
sentiamo, da
quando in qua ascolto quello che dice mia
madre?»
Caricai le
ultime due
parole con disprezzo, in attesa che il mio migliore amico facesse due
più due. Il silenzio nel ricevitore era assoluto,
probabilmente
stava persino trattenendo il respiro. Dopo quella che mi parve
un’eternità lo sentii sospirare.
«Mi
stai mettendo in
difficoltà, Amber. Stai cercando di dirmi che visto che non
le dai
mai ascolto era giunto il momento di farlo oppure che rimani coerente
in quello che pensi di lei?»
«Secondo
te, testone?»
Louis trasse un profondo respiro che mi parve quasi tremulo, come se
l’adrenalina gli stesse attraversando tutto il corpo. Non
riuscii a
trattenere una risatina.
«Quindi
vuol dire che…»
«Ho
promesso di portarti
al Mephisto
stasera e così farò, che a mia madre piaccia o
no. Si sbaglia se
crede che basti sbraitare un po’ per farsi
rispettare». Lo sentii
prendere fiato.
«Davvero?
Allora era tutto
uno scherzo? Oddio, mi hai fatto prendere un colpo! Amber, ma sei
pazza?» gridò nel telefono, probabilmente
stringendosi il petto con
la mano, con fare drammatico. «Hai giocato lo stesso brutto
tiro
anche a Jenny?»
«Certo
che no, eri tu il
bersaglio principale della mia perfidia, lei è troppo
diplomatica,
l’avrebbe presa benissimo. L’ho detto solo a te
perché sapevo
che ti saresti seccato di più. E ci sei cascato con tutte le
scarpe,
sei peggio di un bambino».
«Ma
che stronza!»
«Ehi,
vacci piano!» Finsi
un tono offeso, ma bastava il mio sorriso a smentirlo. «Chi
è che
ti scarrozza in giro, stasera?»
«Ho
detto stronza?»
«Ho
sentito benissimo».
«Scusa,
mi sono confuso,
intendevo dire che sei un vero angelo, amore mio. Ti voglio bene lo
sai? Beh, certo che lo sai, ma te lo ripeto. Ti voglio bene!»
la sua risata, unita all’epiteto, mi scaldò il
cuore anche
attraverso il ricevitore e il paio di chilometri che ci separavano.
Profonda, ma con un che di infantile che metteva allegria, come se il
fatto che fosse già da un po’ entrato nella vita
adulta non
contasse nulla e non potesse cancellare l’inguaribile
bambinone che
giaceva nascosto da qualche parte dentro di lui. Conoscendolo stava
saltando sul letto o qualcosa di simile, posseduto dal suo stesso
entusiasmo. L’avevo visto ancora parlare al telefono ed era
uno
spettacolo imperdibile. Aveva la tendenza a camminare qua e
là come
una mucca al pascolo, ovunque si trovasse in quel momento. Se si
trovava in camera, come immaginavo, era probabile che stesse
percorrendo a lunghi passi la stanza e facendo su e giù dal
letto.
«Non
vedo l’ora di farmi
due salti in pista, gli esami mi hanno prosciugato»
continuò lui,
il solito esagerato.
«Vacci
piano, Tony Manero,
la pazienza non è mai stata il tuo forte. Passo a prendervi
alle
otto in punto sotto casa di Jennifer. Fatti trovare pronto, bello e
profumato».
«Nessun
problema, io sono
sempre bello, non c’è bisogno che mi sforzi. E
anche voi ragazze,
sarete splendide. Faremo un ingresso teatrale nel locale più
fico di
tutta San Francisco. A stasera, tesoro!» Mi
schioccò un sonoro
bacio nel ricevitore, con tanto entusiasmo che mi parve quasi di
sentire le sue labbra sulla guancia, poi riattaccò, prima
che
potessi rispondere al saluto.
Uno dei
maggiori pregi di
Louis era la sua capacità totalmente disinteressata di farmi
sentire
bella in qualunque occasione in qualsiasi condizione mi trovassi, e
lo stesso faceva con Jennifer. Era magnifico il suo modo di
considerarci sempre speciali, qualcosa che mi gratificava e mi
metteva a mio agio. Jennifer non era una grande amante
dell’esuberanza, ma avevo l’impressione che quella
di Louis fosse
per lei fondamentale. Era familiare, confortevole anche per una come
lei, così schiva e poco incline alle smancerie.
La mia bocca
troppo grande
sulla superficie riflettente dello specchio mostrò un
sorriso enorme
che esprimeva alla perfezione il mio entusiasmo.
Tutto stava
andando alla
grande e il prosieguo della serata sarebbe stato ancora meglio, non
avevo dubbi al riguardo. E per quanto riguardava mia madre, che se ne
stesse pure nel suo ufficio spazioso e più accogliente di
casa sua,
a rivoltare scartoffie assieme al misterioso Mr. Seymour, chiunque
egli fosse.
Utilizzai
tutto il tempo
che mi rimaneva fino all’ora dell’appuntamento per
finire di
prepararmi, per sistemarmi i capelli e per pensare al trucco. I miei
movimenti furono accompagnati dallo stereo acceso e dal cd che
inserii per farmi da sottofondo. Essere sola in casa comportava un
silenzio che certe volte era rilassante, ma che dopo un po’
trovavo
snervante, perciò feci avanti e indietro dalla camera al
bagno
seguita costantemente da accordi di chitarra e dalla voce familiare
di Van Morrison che intonava una canzone dopo l’altra.
Mi stirai i
capelli, con il
vapore della piastra che si alzava ad ogni passata, e nonostante
sapessi che fosse più sicuro restare fermi durante
l’uso
dell’eyeliner, non riuscii ad impedirmi di tenere il ritmo
con il
piede nudo sul tappetino del bagno, sulle note di Brown
Eyed Girl.
Fissai il
mio viso e come
una bambina intenta a rimirarsi dopo aver provato i trucchi di mamma,
tentai qualche smorfia e diversi sorrisi, come se stessi cercando il
migliore da sfoderare appena varcata la soglia del Mephisto.
Decisi di lasciare intatta la bocca, abbastanza rosea senza che ci
dovessi applicare rossetti o lucidalabbra.
Lanciai
un’ultima
occhiata allo specchio.
«You
my brown eyed girl…»
canticchiai, e dopo smorfie e linguacce, l’ultimo sorriso che
lo
specchio mi restituì fu un sorriso sincero.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Disse
allora il Signore:
«C’è il grido di Sodoma e Gomorra che
è troppo grande, e c’è
il loro peccato che è molto grave! Voglio scendere e vedere
se
proprio hanno fatto il male di cui mi è giunto il grido,
oppure no;
lo voglio sapere!»
Genesi, 18,
20-21.
3.
Riflettendo
a lungo sulla mia vita sentimentale ero giunta a conclusione che
c’era qualcosa di sbagliato in me. O perlomeno, nella mia
capacità
di giudizio.
Ero un
disastro nelle
questioni amorose, sceglievo sempre il ragazzo sbagliato e per quanto
tutte le volte mi consolassi dicendomi che non dipendeva da me, in
realtà sapevo che sotto sotto era colpa mia. Ero io che
sceglievo
chi frequentare, ero io che cercavo qualcosa di serio,
perciò le
spiegazioni potevano essere due: o la sfortuna mi perseguitava,
oppure i miei gusti mi imponevano di innamorarmi sempre e solo di
personaggi bizzarri, discutibili o inadatti a me. E non avevo
attenuanti nemmeno se tiravo in campo la scusa
dell’ignoranza,
perché la fama dei ragazzi con cui ero stata avrebbe dovuto
scoraggiarmi dal ronzare loro intorno.
Il
mio primo fidanzato era stato Arthur, noto per essere una testa
calda. Era gentile con me, ma sempre sulla difensiva, perciò
alla
prima provocazione alzava le mani. Da quel punto di vista non mi
aveva mai sfiorato con un dito, ma un giorno sì e uno no
rimaneva
coinvolto in qualche rissa o scazzottata.
Ben
invece mi aveva conquistata facendomi leggere le sue poesie, profonde
e allucinate. Poi avevo scoperto che l’ispirazione non gli
veniva
da paesaggi tetri ma dagli acidi. Pazienza.
Non
erano cattivi ragazzi e io questo l’avevo capito, ma dopo un
po’
di tempo passato con Arthur e con Ben, mi ero resa conto che i loro
problemi erano più grandi di me, ben oltre le mie
possibilità e
stavano cominciando a schiacciarmi come macigni che consapevolmente
mi ero caricata sulle spalle. Non ero nemmeno sicura di averli mai
amati davvero.
Anche
Louis si era rivelato una scelta sbagliata, ma con lui era diverso.
Ero innamorata di lui praticamente da quando avevo memoria, da quando
all’asilo giocavamo insieme e condividevamo risate e
ginocchia
sbucciate. Eravamo cresciuti insieme, avevamo imparato a fidarci
l’uno dell’altra e a conoscerci, nei nostri pregi e
nei nostri
difetti. Per questo ad un certo punto della mia vita avevo dato per
scontato che prima o poi avremmo finito per stare insieme.
Stupidamente avevo programmato tutto nei minimi dettagli. A
ripensarci era sorprendete la precisione con cui avevo messo insieme
i miei progetti per il futuro insieme a Louis.
Ci
saremmo sposati a venticinque anni, nella Saint Cecilia Church
secondo il rito cattolico, perché sebbene entrambi non
fossimo
credenti, io adoravo i matrimoni tradizionali. Nella mia mente la
fantasia era estremamente dettagliata: le splendide navate decorate a
fiori bianchi, le vecchie pitture sulle pareti e le facce felici dei
presenti.
Lui,
bello e sorridente, nel suo elegante completo scuro, mi avrebbe
aspettato all’altare visibilmente sulle spine e appena giunta
al
suo fianco mi avrebbe guardato con la coda dell’occhio e
sussurrato
a denti stretti, Cavolo,
sei uno schianto!
facendomi sciogliere per l’emozione e guadagnandosi
un’occhiataccia
severa da parte del prete.
All’epoca
nella mia mente non c’era spazio per nulla che non fosse la
felicità assoluta della mia nuova vita con lui, una casa
accogliente
dove crescere gatti, cani e bambini, un grande giardino dove correre
spensierati.
Nella
mia visione utopistica anche mia madre sarebbe stata capace di
commuoversi durante le nozze, e la luna di miele non si sarebbe
svolta in una località esotica, bensì a
Disneyland, con una prima
notte di nozze tutta passata a mangiare caramelle e tirarci i cuscini
dell’hotel a cinque stelle. Un cliché dietro
l’altro, insomma.
Tutto
perfetto, tutto meraviglioso, in uno scenario da favola e con
l’uomo
dei miei sogni.
Per
questo ci ero rimasta così male quando mi aveva confessato
di essere
gay.
Ricordavo
ogni istante di quella rivelazione di molti anni prima, ogni parola
si era impressa nella mia memoria come un marchio fatto di
umiliazione e imbarazzo. Imbarazzo per me e, immagino, imbarazzo per
lui.
Era
stato stranamente silenzioso e sulle spine per tutto il giorno,
talmente fuori dal suo solito essere da rendere evidente che qualcosa
non andava. Quella sera aveva chiesto di vederci in una zona
tranquilla per fare due chiacchiere, Jennifer aveva optato per il
parco. E lì, tra un giro in altalena e qualche silenzio di
troppo,
ci aveva raccontato tutto, il viso basso, pallido come un cencio e
con gli occhi lucidi. Ci aveva impiegato un tempo incredibilmente
lungo per trovare il coraggio di guardarci negli occhi, ma quando
aveva cominciato a parlare non lo aveva fermato più nessuno
e
secondo dopo secondo la mia nausea era cresciuta, man mano che
l’immagine di noi due di fronte all’altare si
sgretolava. La
consapevolezza di essermi umiliata da sola con sentimenti non
corrisposti non mi aveva mai lasciata del tutto, ma in quel momento
era stato come se ogni pezzo del puzzle si fosse sistemato da solo e
io e Jenny lo avevamo stritolato in un abbraccio che parlava da solo.
Era il mio Louis, il nostro
Louis, e per nulla al mondo sarebbe cambiato qualcosa dopo la sua
rivelazione. L'istinto di protezione era subentrato alla tristezza e
mi ero ripromessa di non farlo mai sentire fuori posto. Nessuno
doveva sentirsi in imbarazzo nel confessare la propria vera natura.
Nessuno,
tanto
meno qualcuno che ormai amavo non come un partner, ma come un
fratello.
Avvicinandomi
al luogo dell'appuntamento, dopo aver “preso in
prestito” l'Audi
di mamma con un misto di eccitazione per il piccolo crimine giovanile
che stavo compiendo, vidi Louis camminare su
e giù
lungo il marciapiede di Palm Avenue, palesemente in fibrillazione,
con Jennifer che lo fissava come se avesse accanto un indemoniato.
Lei
era in piedi, immobile e paziente, ben consapevole che
l’agitazione
non mi avrebbe fatto giungere più in fretta, mentre lui
continuava
ad alzarsi, passeggiare e sedersi sull’idrante bianco a lato
del
marciapiede.
Quando
mi fermai accanto a loro non feci nemmeno in tempo a rendermene conto
e il ragazzo era già saltato in macchina con una
velocità fulminea,
occupando il posto davanti come una première dame.
Jennifer
con la solita calma e l’innato spirito di adattamento, si
sistemò
dietro, lanciandomi uno sguardo sereno attraverso lo specchietto
retrovisore. Nonostante la pacatezza potei facilmente riconoscere sul
suo viso i sintomi dell’entusiasmo quando mi rivolse il suo
saluto
con tutta calma. Louis invece me lo strillò
nell’orecchio, quasi
fracassandomi un timpano. Non riuscì a stare fermo nemmeno
sul
sedile, controllando che la frangia fosse in ordine nello
specchietto, armeggiando con la radio e tenendo il ritmo con la
testa. Fece per cantare, ma gli tappai la bocca con la mano, prima
del disastro.
«Per
carità, taci, o farai spiaggiare qualche balena».
Jennifer
ridacchiò dietro di me.
«Sei
crudele! per come ti sei comportata questo pomeriggio dovresti
permettermi di fare persino un tour!» replicò il
ragazzo,
fingendosi offeso, ma faticando in realtà a restare serio.
Distolsi
solo per un istante solo gli occhi dalla strada, per puntarli nello
specchietto retrovisore che mi regalò l’immagine
di una Jennifer
tranquilla, ma attenta alla conversazione. Lo capii dalle labbra
dipinte di rosso lievemente increspate in una smorfia divertita e
dall’occhiata eloquente che mi lanciò a sua volta.
I suoi occhi
grandi e scuri, abbastanza sporgenti da donarle un’aria un
po’
svampita, erano truccati pesantemente di nero, in perfetto stile
dark, anche se sapevo che aveva un cuore di pasta frolla.
«Pensa
che ha chiamato anche a me per lamentarsi» sorrise la
ragazza,
guadagnandosi da Louis un’occhiataccia.
«Primo…»
chiarì lui alzando il dito indice per tenere il conto di
ogni
argomentazione.
«...non
mi sono lamentato, era una semplice constatazione, e secondo, come
accade tutte le volte che apro bocca ho ragione! Non voglio essere
patetico, ma siamo giovani, abbiamo appena finito la scuola,
l’estate
è tutta nostra e ce la dobbiamo godere! Non voglio
rimpianti, le
cose brutte possono accadere tutti i giorni in tanti modi, cadendo
dalle scale di casa, soffocati da una nocciolina o spiaccicati contro
il parabrezza di una macchina…»
Avevo
ascoltato la sua tiritera con la considerazione che meritava, come il
discorso di un ragazzo che trattava con eccessiva serietà
una
semplice uscita tra amici, ma quando pronunciò le ultime
parole ebbe
la mia completa attenzione e nello stesso istante un silenzio gelido
calò nell’abitacolo, lasciandomi per un secondo
senza fiato. Si
trattava di una sensazione familiare, ma ancora difficile da gestire.
Strinsi le mani attorno al volante, deglutendo per scacciare
l'improvviso nodo in gola e la sensazione di nausea. Respirai a
fondo, mantenni gli occhi sulla strada, contando i battiti del mio
cuore, divenuti rapidi e impetuosi. Nessuno fiatò, ma
percepii il
loro sguardo su di me, la loro compassione premermi addosso come
qualcosa di corporeo e angosciante.
Louis
fece il possibile per attirare la mia attenzione con il viso di
secondo in secondo sempre più serio.
Deglutii,
tentando di farmi spuntare sulle labbra un sorriso più
rilassato
possibile, ma mi riuscii solo qualcosa di palesemente falso
perché
con la coda dell’occhio, vidi Louis scuotere la testa.
«Amber,
mi dispiace» mormorò, visibilmente mortificato.
Con la coda
dell’occhio lo vidi scambiarsi fuggevoli occhiate con
Jennifer,
come per cercare soccorso o per scusarsi anche con lei per aver
richiamato alla memoria qualcosa che non doveva essere nemmeno
sfiorato col pensiero.
Mi
schiarii la voce, nel tentativo di ribattere e tranquillizzarlo, ma
dovetti farlo più volte prima che qualche parola, seppur
strozzata,
riuscisse ad uscirmi di gola.
«Nessun
problema».
«Sono
stato un idiota, scusami. Non intendevo, Amber, mi dispiace»
ripeté,
ma più insisteva, più i ricordi tornavano ad
affollarmi la mente,
pungendo dolorosamente come aghi conficcati nel cuore, come lame
affilate a cui mai mi sarei abituata.
«Ti
prego Louis, lascia perdere. Sto bene, davvero. E comunque hai
ragione, la vita è troppo breve per tutti perciò
dimentichiamo
questa conversazione e pensiamo solo a divertirci insieme».
Nel
riflesso dello specchietto retrovisore il viso di Jennifer parve
distendersi, sebbene continuasse a guardarmi con aria guardinga.
Louis si sistemò meglio sul sedile come se muoversi troppo
potesse
scatenare una mia terribile reazione.
Mettendo
forzatamente da parte ogni cattivo pensiero, ogni ricordo doloroso,
svoltai in Mason St. in cui si notava quanto il divario tra quella
zona e quelle in cui io e i miei amici abitavamo fosse enorme e ormai
palese. Qualche piccolo albero qua e là ancora tingeva di
verde
alcuni punti ai lati delle strade, ma erano molto più simili
a
piccoli cespugli ben tosati di una ricca e sofisticata villa. Il
risultato della lotta tra natura e industrializzazione ormai pendeva
dalla parte della città.
A
SoMa, trovai parcheggio solo per un colpo di fortuna sfacciato,
accanto a un distributore quasi deserto, ma la nostra eccitazione lo
rendeva incantevole quanto lo spazio privato della carrozza regale.
Come
un fulmine Louis si gettò fuori dall’auto senza
aspettare nessuno,
colto dalla sua tipica iperattività, mentre io calzavo il
cambio di
scarpe. Accompagnata dal rumore dei tacchi sull’asfalto
raggiunsi i
miei amici, mentre Louis ci stringeva a se. Indossava una maglietta
verde acceso che gli rendeva impossibile l’eventuale
tentativo di
passare inosservato, con una scritta racchiusa in una cornicetta
rettangolare che dava l’impressione di essere stampata sul
suo
petto alla bell’e meglio, in una perfetta imitazione di un
marchio
di fabbrica: Party
Animal.
Nessuna
altra scritta avrebbe potuto riassumere meglio il suo carattere
socievole.
Era
abbinata a dei jeans lievemente consumati sulle cosce e a delle
scarpe nere dai lacci verdi intonati alla maglietta.
«Wow,
sei davvero un gran fico questa sera» gli sussurrai
sorridendo,
rassicurata dalla sensazione della pelle del suo braccio contro la
nuca. Era parecchio più alto di me, perciò avevo
la sua spalla che
mi sfiorava l’orecchio ad ogni nostro movimento.
«Potrei
dire la stessa cosa di voi. Sono accompagnato da due splendide
ragazze, cosa potrebbe mai desiderare di più un
uomo?»
Attraversando
a piedi un distributore di benzina, lanciai un’occhiata
divertita a
Jennifer, sicura che avesse capito esattamente cosa quello sguardo
significasse. Non precisai a voce che quel che Louis avrebbe potuto
avere di più in quel momento erano due accompagnatori al
posto di
due accompagnatrici.
La
ragazza ricambiò la stessa mia occhiata d’intesa.
Volutamente
semplice e spontanea come al solito, ma non per questo meno
affascinante, portava dei pantaloni neri attillati, che mettevano il
risalto la sua corporatura piuttosto esile, ma slanciata, infilati
sotto degli anfibi e retti da una cintura borchiata che scintillava
sotto la luce dei lampioni e dei negozi.
Sulla
maglietta nera, ma tinta di rosso sulle spalle, mostrava quasi con
orgoglio l’immagine di una donna angelo dall’aria
triste. Il
trucco era pesante su occhi e labbra, spiccando
sull’incarnato
pallido come una macchia di colore gettata su una tela. Sul lobo di
una delle orecchie notai una rosellina color argento che capii essere
solo una clip applicata momentaneamente. Jenny non aveva i buchi alle
orecchie, da piccola i suoi ci avevano provato, ma anche per loro era
stato impossibile convincerla e tenerla ferma. Probabilmente quello
fu l’unico moto di vera ribellione mai nato
dall’animo buono
della mia amica.
Dopo
quel trauma non aveva più voluto sentir parlare di aghi e
affini,
detestava l’idea che qualcosa le penetrasse la pelle, odiava
la
vista del sangue e si copriva gli occhi tutte le volte che guardavamo
insieme Grey’s
Anatomy.
Lei stessa non avrebbe mai fatto male ad una mosca.
Poco
prima dell’incrocio con 10th St. un capannello di gente
assiepata
davanti ad un’insegna luminosa a caratteri gotici di un rosso
brillante attirò il nostro sguardo, come prova che eravamo
giunti a
destinazione. L’emozione di Louis parve attraversargli il
braccio e
invadere anche me.
«Ci
siamo» mormorò, trattenendosi a stento dal
saltellare e
costringendo il suo corpo, a volte ingovernabile, a camminare con
decenza.
Di
tanto in tanto le mie braccia venivano percorse da brividi che non
sapevo se attribuire all’euforia o alla serata
particolarmente
fresca.
Il
clima ambiguo di San Francisco riusciva a trarre in inganno chiunque,
soprattutto i turisti che a fine giugno si aspettavano sempre di
imbattersi in un caldo torrido da autentica estate californiana.
Difficilmente però le temperature giornaliere superavano i
venti
gradi, merito della fresca brezza marina.
Il
Mephisto
nasceva al piano terra di un grande palazzone blu scuro, più
alto di
quasi tutti gli altri nella zona, con grandi vetrate verso i piani
alti e porte ad archi come entrate principali.
Raggiungemmo
uno di quelle in pochi passi. L’insegna era circondata da un
alone
di luce vermiglia, abbastanza intenso perché ne fosse
illuminata
anche parte della strada e i volti delle persone riunite
all’esterno.
Seguita dagli altri, attraversai la cortina di fumo di sigaretta che
ci si parò di fronte come un sipario. Un buttafuori di quasi
un
metro e novanta mi squadrò da capo a piedi, con la schiena
posata
contro la parete e un accenno di sogghigno.
«C’è
qualche problema?» chiesi di rimando, domandandomi se avessi
qualcosa di strano in faccia. Forse il trucco era sbavato, o i
capelli erano in disordine, ma ne dubitavo. Quei decisi colpi di
piastra prima di uscire avrebbero potuto lisciare un arbusto spinoso.
Le
enormi spalle del ragazzo sussultarono quando il sorriso si
trasformò
in una grossa risata, e a lui si unì una bionda che riusciva
solo
con la sua presenza ad attirare gli sguardi di tutti i presenti
maschi. Louis escluso ovviamente. Il vestito nero che indossava era
tanto attillato che era impossibile che sotto portasse
qualcos’altro,
e questa era l’idea che probabilmente faceva impazzire tutti
gli
uomini che le ronzavano intorno.
«Nessun
problema bambolina, stavo solo cercando di capire se avessi il
diploma dell’asilo» rispose quello.
Lanciai
uno sguardo oltre il suo corpo massiccio e intravidi la porta di
legno pesante del locale, sovrastata da un’insegna molto
simile a
quella all’esterno. La soglia era a pochi metri da noi,
seducente.
Decisamente
non era la sera giusta per fare la difficile e mostrarsi permalosa.
Tornai
a rivolgere la mia attenzione al giovane uomo di fronte a me. Non
aveva l’aria molto minacciosa, nonostante si potesse notare
la
linea dei muscoli sotto la canottiera nera che metteva in mostra
braccia massicce. Il suo viso era bello, con un accenno di pizzetto
che gli dava un non so che di malizioso. I capelli neri erano
tagliati corti e gli occhi verdi erano fermi su di me, in attesa di
una risposta. Gli regalai uno dei miei sorrisi migliori e
accondiscendenti, poi con un cenno indicai il suo fisico possente.
«Mai
fermarsi alle apparenze. Scommetto che tu nei ritagli di tempo lavori
all’uncinetto, e magari dormi anche con un coniglietto di
pezza».
Un
lampo di denti bianchi quando il suo sorriso si fece più
ampio.
«Si
chiama Norman ed è il mio migliore amico» rispose,
continuando a
ridacchiare, poi da perfetto gentiluomo ci indicò la porta
con un
gesto elegante che non sembrava accordarsi bene con l’aspetto
che
ore di palestra gli avevano donato.
Mi
stupii del fatto che non ci chiese di mostrargli un documento di
identificazione per assicurarsi che fossimo maggiorenni, ma forse la
mia audacia lo aveva convinto del fatto che non ero una bambina.
Dalla
strada superammo l’arco di pietra che sovrastava il portone
in
legno. Aveva tutta l’aria di una raffinata cornice scelta
appositamente per presentare al meglio la bellezza di un quadro
famoso.
Alle
mie spalle, oltre l’incrocio con 10th St. intravidi la sagoma
bianca della St. Joseph Church. Mi sembrava una cosa curiosa che un
locale come quello, che a tutto invitata fuorché alla
preghiera,
fosse stato costruito proprio vicino a un edificio religioso, sebbene
fuori uso da un po’ di tempo. C’era una sottile
ironia in quella
situazione, ma la vita era tutta fatta di contrari. Luce e buio, vita
e morte…bene e male.
La
bionda mi fece un piccolo cenno verso la porta d’entrata,
invitandomi a varcare la soglia e ad abbandonare ogni pensiero
estraneo. Poi sorrise, e la splendida cornice delle sue labbra tinte
di rosso mise in mostra una corona di denti bianchissimi e perfetti.
«Benvenuti
al Mephisto».
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Come un
gregge agli
inferi sono destinati, scenderanno senz’altro nel sepolcro e
la
loro gloria è votata alla rovina, gli inferi saranno la loro
abitazione.
Salmi, 49,15.
4.
Un
bagliore di luce rossa si intravedeva già in cima alla
scalinata che
portava al piano di sotto, abbastanza larga perché ci
potessero
passare frotte di persone, ma tanto affollata da farmi intuire che i
clienti già a quell’ora non fossero pochi.
Ogni scalino
era reso
visibile grazie a strisce led flessibili applicate ad ogni spigolo
superiore, di un rosso acceso che era chiaramente il colore
dominante.
Allungai il
collo oltre le
tante teste di sconosciuti, colpita dalla presenza di un viso
familiare, poi con l’avvicinarsi della persona che avevo
individuato, ogni traccia di entusiasmo sparì lasciandomi
solo con
un vago senso di fastidio, simile alla sensazione di una stretta di
mano sudata. Con l’unica differenza che per scacciare il
disgusto
che provavo per Kurt Neason non bastava asciugarsi i palmi sui jeans.
Ci fu
accanto in cima alla
scalinata prima che potessi avere il tempo di avvertire i miei amici
della sua presenza e con la solita aria da sbruffone urtò
violentemente Louis con la spalla, fingendo che fosse stato un
incidente.
Sorressi il
mio amico
afferrandolo per il gomito quasi d’impulso, come se credessi
che
non fosse in grado davvero di difendersi. Forse lo sottovalutavo o
forse ero talmente abituata a proteggerlo o a credere di doverlo
fare, che avevo sviluppato una sorta di istinto materno.
Louis
tacque, mentre Kurt
sghignazzava assieme al suo migliore amico Larry. Entrambi erano
stati nostri compagni di scuola, due dei tanti che ero sollevata di
non dover più vedere così spesso.
«Sai,
dovresti proprio
toglierti di torno, Castro!»
esclamò Kurt con un disprezzo tale nella voce che mi fece
prudere
quasi le mani dalla voglia di prenderlo a schiaffi.
Castro.
Il solito soprannome idiota e crudele che quasi ogni giorno a scuola
erano soliti rivolgere a Louis, facendolo ribollire di rabbia e
arrossire per l’umiliazione. Anche in quel momento, sebbene
la
tinta cremisi dell’illuminazione ci avvolgesse come un velo,
lo
vidi contrarre con forza i pugni. Castro era noto come il quartiere
della città con la maggior concentrazione di omosessuali,
diventato
cuore della comunità gay di San Francisco attorno agli anni
sessanta. Per quanto fossero stati fatti notevoli passi avanti nel
riconoscimento dei diritti, il ricordo dell’uccisione di
Harvey
Milk, politico gay attivo nel movimento di liberazione omosessuale,
era fresco e bruciante come una ferita esposta.
Cercai
qualcosa di
tagliente da dire contro i loro pregiudizi e del loro dannatissimo
ego maschile. Forse credevano di essere più virili
comportandosi da
caproni insensibili, ma reputavo Louis centomila volte più
uomo di
quanto loro potessero mai essere.
«Giri
davvero con la
feccia, Hale. Un finocchio senza palle e una sottospecie di cadavere
da compagnia» aggiunse il ragazzo, facendo un cenno del capo
in
direzione di Jennifer la cui pelle appariva mortalmente pallida in
contrasto con il nero e il rosso sangue del trucco. La mia amica si
strinse nelle spalle con una risatina, totalmente indifferente alle
offese. Un meraviglioso pregio di Jennifer era quello di dare alle
parole il peso che meritavano. Sapeva quando era giusto accettare un
complimento oppure una critica da me e da Louis, ma si lasciava
scivolare via ingiurie e provocazioni come se fossero meno
consistenti di una brezza leggera sulla pelle. Vederla così
impassibile mi diede una certa fiducia. Sorrisi a mia volta rivolta a
quella faccia da schiaffi di Kurt, mostrandomi totalmente sicura di
me stessa. «E con chi dovrei uscire? Accetto
consigli». I suoi
occhi verdi si posarono su di me.
«Con
noi. Molla gli
sfigati» intervenne Larry con un ghigno.
«Due
fessi che a stento
riescono a leggere una lista della spesa? No, grazie, ho anche io una
dignità». Prima che rispondessero o che pensassero
a qualche nuovo
insulto da rivolgerci, afferrai entrambi i miei amici per il braccio
e li trascinai con me, desiderosa di allontanarmi da chiunque potesse
rovinarci la serata.
In fondo
alla scala cercai
lo sguardo di Louis. I suoi occhi nocciola incontrarono i miei e lui
annuì con un piccolo cenno del capo, assicurandomi che aveva
già
messo da parte le offese.
Le viscere
del Mephisto
si aprirono di fronte a noi offrendosi come qualcosa di delizioso e a
lungo atteso. Frugai con lo sguardo ogni centimetro, partendo dai
singolari appendiabiti sui lati destro e sinistro dell’atrio,
subito prima del corridoio immerso nel fumo. Braccia modellate nella
pietra spuntavano dalle pareti, come se diverse persone fossero state
sommerse da una colata di cemento e cercassero di liberarsi o di
ottenere soccorso in un ultimo disperato sforzo, allungate verso di
noi e contratte in una rappresentazione tanto fedele che con un solo
sguardo si poteva immaginare la sofferenza dell’essere al
quale
appartenevano. Alcune avevano le dite tese in avanti, come per
sfiorare i passanti, altre verso l’alto come per rivolgere
una
preghiera a qualche essere celeste e misericordioso, che a quanto
pare non aveva la minima intenzione di porre fine al supplizio. Per
la maggior parte erano coperte dagli abiti leggeri di altri clienti,
ma quei pochi arti visibili sapevano racchiudere con efficacia lo
spirito del locale, ancora prima che ci addentrassimo nel suo cuore.
Louis non
attese oltre e si
gettò nel corridoio, desideroso come tutti noi di vedere di
più di
quel macabro incanto.
L’ingresso
era
strutturato in modo che sembrasse suddiviso in tre sezioni della
stessa lunghezza, ognuna di esse incorniciate da un arco di marmo
grezzo e malamente lavorato, come a riprodurre l’architettura
di un
palazzo molto antico, ma ancora pregno di tutto il fascino
originario.
Le piccole
colonne su cui
l’arco poggiava erano percorse dal corpo in rilievo di un
serpente
o di un drago, privo di dettagli come molti bassorilievi medievali
che avevo visto sui libri di storia dell’arte.
Entrambi i
capitelli
raffiguravano due scheletri in piedi, reggenti una lancia che si
incrociava verso il basso con quella dell’altro. Aguzzai la
vista e
mi avvicinai alla figura per coglierne i particolari, malgrado la
fretta di Louis.
Osservando
con attenzione
il punto in cui le lance si conficcavano, vidi un essere alato
pressato a terra e trafitto dalle armi dei due scheletri. Mi
ricordò
l’angelo caduto e triste che Jennifer aveva stampato sulla
maglietta, accasciato al suolo e consapevole di non avere speranze.
Il mio
sguardo si spostò
verso l’alto, percorrendo il corpo incurvato
dell’arco, fino alla
sua chiave di volta, che ospitava una nuova raffigurazione: un essere
grottesco e dal visto sformato addentava il minuscolo e indifeso
corpo di un neonato.
Appena
superato l’arco,
sulla parete di destra e su quella di sinistra c’erano due
specchi
piuttosto grandi che coprivano i lati di quella sezione di corridoio,
posto uno di fronte all’altro.
Colto il mio
riflesso in
uno di quelli, il mio cuore perse un battito. C’era un
diavolo
grigio accanto a me, talmente vicino che sembrava quasi abbracciarmi.
Sapevo che non poteva essere reale, ma scioccamente mi guardai
intorno, come per assicurarmi che in quel luogo così
estraneo al
mondo comune non fosse davvero possibile trovarsi vicino a una figura
simile.
Mi avvicinai
per guardare
meglio. Non era semplicemente disegnata. Sembrava fosse
all’interno
del vetro riflettente, intrappolato nelle profondità di
quella
superficie lucida…e io con lui.
Come se non
bastasse, la
particolare posizione degli specchi, uno esattamente di fronte
all’altro, creava un gioco interminabile di riflessi, con la
mia
immagine che si ripeteva all’infinito braccata dal demone dal
ghigno inquietante teso verso il mio viso.
Presa
com’ero da quella
meraviglia sussultai quando l’immagine di Jennifer si
unì alla mia
all’interno di quella prigione infernale.
«Questo
specchio è una
forza, potrei metterne un paio anche in camera mia. Sembra di essere
in trappola, imprigionati per sempre negli inferi»
commentò
pensierosa, alzando la voce per farsi sentire sopra la musica.
Conoscendola avrebbe davvero potuto mettere in atto la bizzarra idea
di crearsi un effetto simile nella sua stanza.
Louis
sorrideva guardandosi
intorno come un bambino piccolo in una chiesa riccamente decorata.
Il suo
sguardo si spostò
verso l’alto e sul suo volto comparve
un’espressione tanto
estasiata che mi spinse a raggiungerlo al centro del corridoio e
alzare anche io gli occhi al soffitto. Sentii formicolarmi lo stomaco
e non era una cosa che mi succedeva spesso quando contemplavo
un’opera d’arte al museo. Attribuì
l’eccessiva emozione al
fatto che l’atmosfera era completamente diversa da quella di
una
mostra culturale.
Il brivido
del proibito.
L’ambiente
raffigurato
sulla parete era chiaramente infernale, impressione suggerita dalle
fiamme che comparivano dietro ai corpi dei dannati. Una miriade di
figure nude e magre, maschili e femminili, sembravano volteggiare
nell’aria tendendo le braccia per raggiungersi
l’uno con l’altro
e proteggersi dai ripetuti attacchi dei diavoli.
Questi, uno
brandendo una
mazza, l’altro con un ferro uncinato, un altro ancora usando
le
unghie contro una delle sue vittime, tormentavano le anime dannate,
che in balia dei loro aguzzini mostravano visi contratti per la paura
e il dolore.
Mi soffermai
su un
particolare: un demone dalla pelle scura, quasi verdastra, stringeva
con gli artigli arcuati del piede la gola di una donna dai capelli
rossi, che tentava invano di difendersi. La quantità dei
dettagli e
la bellezza dell’immagine mi lasciarono a bocca aperta,
mentre
Jennifer già seguiva l’amico all’interno
della sezione seguente.
Molte altre
persone
meravigliate come lo eravamo noi ci camminavano accanto, alcune
uscendo, altre entrando per la prima volta in quel corridoio
così
particolare. Eravamo in tanti, ma chissà come mi sentivo una
testimone privilegiata di quel fascino tenebroso, come se i dipinti
fossero rivolti a me soltanto e mi parlassero in una lingua arcana,
ma a me nota, e in un intimo sussurro che rivelava i prodigi del lato
oscuro.
Una ragazza
si strinse al
braccio del suo accompagnatore squittendo come un topolino e
indicando vari dettagli dei dipinti, altri ridacchiarono e si
spintonarono già resi impazienti e ingovernabili
dall’aria carica
di elettrica eccitazione.
Un altro
arco introduceva
quella parte del corridoio, con altri specchi e nuove immagini
dipinte sulla volta. Draghi, serpenti, diavoli, dannati, lamenti di
dolore dipinti su visi scarni e contratti con una maestria tale che
nel cervello, oltre alla musica, mi sembrava di udire davvero le
grida strazianti di ognuno di quei poveri esseri castigati.
Ogni
centimetro di parete
era una riserva di particolari incredibili. La seconda volta ospitava
un cavallo talmente magro che le costole si intravedevano sotto la
pelle grigia. Le zampe erano sottili, tanto da farmi chiedere come
potessero reggere la notevole mole della bestia e il collo,
solitamente muscoloso e possente, era scarno così come il
muso
allungato e asciutto. Gli occhi erano affossati nelle orbite e
sembravano non vedere nulla di ciò che aveva attorno a
sé: né i
vivi spaventati dal suo passaggio, né i corpi morti tra i
quali
galoppava.
In groppa al
cavallo mi
colpì il suo bizzarro e inquietante fantino: uno scheletro
aggrappato con una mano ossuta ad una ciocca di criniera
dell’animale. L’altra l’agitava in alto
come in un macabro
saluto al regno dei mortali, mentre sul viso ormai senza carne
né
pelle si apriva un ghigno che non prometteva nulla di buono. Qualcosa
lo divertiva, il potere che esercitava sul mondo dei viventi, la
consapevolezza di stringere la loro esistenza tra quelle dita nodose
e secche.
Non ero
certa di come, ma
quel tipo di immagini mi erano vagamente familiari, forse viste in
qualche libro di scuola o in uno dei tanti documentari in TV.
Raggiunsi la
terza e ultima
sezione del corridoio, mentre la musica si faceva sempre più
intensa
e picchiante man mano che i nostri passi ci portavano verso il
bancone che già si intravedeva in parte.
Osservai la
mia figura in
un nuovo specchio attraversare lingue di fuoco e centinaia di mani
protese in una disperata quanto inutile richiesta d’aiuto. Al
di
sotto della liscia superficie riflettente usciva del vapore denso che
dapprima mi coprì i piedi, per poi avvolgermi quasi fino al
busto.
Una calca di
persone si
dimenava come indemoniata in pista, a ritmo della musica che ormai
sentivo chiaramente anche io. Un misto di hardcore e techno, a volte
martellante come una tachicardia, in altri momenti più
moderato per
non annoiare nessuno. Da quella distanza riuscii a scorgere la
particolare disposizione delle diverse zone del locale.
Il bancone
si trovava in
posizione sopraelevata rispetto alla pista, raggiungibile tramite
scalette in metallo. In questo modo la clientela in attesa di bere
poteva osservare la folla danzante dall’alto in basso.
Per
l’ultima volta i
nostri sguardi si mossero all’unisono verso
l’altro, carichi di
aspettativa per la volta della terza sezione.
Un uomo dai
capelli lunghi,
chiaramente Cristo, veniva abbracciato da dietro da un diavolo nudo,
dall’aspetto molto umano non fosse per le corna rosse che gli
spuntavano dalla testa calva e per gli occhi demoniaci. Si sporgeva
verso Gesù come per baciarlo, ma sussurrandogli in
realtà qualcosa
nell’orecchio. Il suo viso sembrava promettere il mondo
intero.
Chiunque
conoscesse la
storia sapeva come andava a finire: Cristo non aveva mai ceduto alle
lusinghe del diavolo e a nessuna delle sue tentazioni, ma
l’esito
non era importante per quella rappresentazione. Tutto in quel luogo
era tentazione, divertimento senza conseguenze, uno spazio staccato
dal mondo di tutti i giorni e da tutti i suoi problemi, come se ci
trovassimo in un’altra dimensione. Una dimensione che mi
piaceva
ogni secondo di più.
La nebbia
continuò a
lambirmi i fianchi mentre raggiungevo Louis e Jennifer che
aspettavano il loro turno accanto ad un leggio reggente un grosso
libro rilegato in pelle rossa, aperto e contenente le firme e i
commenti di chi si era già fatto un’idea sulla
serata.
«È
un po’ presto per
dare un parere, non credi?» rimproverai bonariamente Louis,
che già
stava scribacchiando senza esitazione sulla pagina.
«Smettila
di fare la
guastafeste e firma. Sarà uno sballo senza dubbio».
Con un
sorriso aspettai che
Jennifer terminasse di scrivere la sua opinione, con tanto di faccina
sorridente accanto alla sua firma, poi convinta dalla fiducia del
ragazzo presi la penna che Jenny mi porgeva e scrissi qualche
complimento. La mia mancanza di fantasia mi limitò a qualche
banale
osservazione sui dipinti e l’atmosfera, ma ero certa di
essere
stata sincera e la penna parve percepire quali fossero i miei
sentimenti. Scivolò velocemente sulle ruvide pagine e
l’inchiostro
rosso spiccò sul bianco come uno schizzo si sangue sulla
neve.
L’ultimo
arco, che
introduceva al cuore del Mephisto,
portava incisa a caratteri gotici una frase misteriosa sulla parte
superiore: In
girum imus noctem et consumimur igni.
Al bancone
in pietra
grigia, sistemato in modo che formasse una sorta di quadrato
irregolare, c’era già una notevole ressa, ma per
nostra fortuna
pochi decidevano di accamparsi lì a bere, preferendo invece
la
comodità di alcuni divanetti posti ai lati della stanza,
sovrastati
da altre sezioni rialzate e altri salottini. Ai quattro angoli della
pista da ballo erano sistemate altrettante gabbie verticali, dentro
le quali in movimenti sinuosi danzavano ballerini di entrambi i
sessi, abbastanza sensuali da attirare lo sguardo, ma mai volgari.
Riuscimmo a
trovare un paio
di posti. Louis si comportò da gentiluomo e
lasciò che fossimo noi
ragazze ad accomodarci sugli unici sgabelli rimasti, decidendo di
restare in piedi al mio fianco.
Nonostante
la gente fosse
già molta, era piacevolmente fresco. Mi ero aspettata una
calca
asfissiante, temperature claustrofobie e l’aria viziata dei
locali
sovraffollati, invece mi sentivo perfettamente a mio agio.
«Salve,
qualcosa da bere?
Vi porto il menù?» Una voce attirò la
nostra attenzione, con un
che di melodioso nel timbro, nonostante lo sforzo per sovrastare il
fragore della musica. Alzai gli occhi verso il viso del cameriere che
ci aveva subito raggiunti e l’azzurro limpido dei suoi occhi
ricambiò il mio sguardo. Indossava dei cornetti luminosi che
avrebbero reso me ridicola, ma che non intaccavano minimamente il suo
bell’aspetto.
Ci sorrise
tenendo fra le
mani tre menù dalla copertina nera, che lasciò
cadere sul bancone
senza nemmeno attendere che io rispondessi alla domanda.
La nebbia
che ci aveva
accolto in corridoio si era lievemente diradata ma sorse anche da
dietro al bancone cingendo i fianchi del ragazzo e facendo capolino
dalla pietra. Mi chiesi come riuscisse a vedere dove metteva i piedi,
ma la cosa non sembrava disturbare nessuno dei camerieri, che si
affaccendavano qua e là con disinvoltura.
Louis si
sporse un poco,
posò i gomiti sul bancone e sorrise.
«Grazie!»
esclamò, senza
togliere un secondo gli occhi di dosso al ragazzo.
«Non
c’è di che, quando
avete deciso cosa prendere non esitate a chiamarmi».
«Per
qualsiasi cosa?»
Evitai di
guardare il mio
amico con aria scandalizzata, ma il tono allusivo non mi
sfuggì
affatto. Una delle armi preferite di Louis, totalmente impalpabile,
ma tagliente come la più affilata delle lame era la malizia,
che
sapeva maneggiare con maestria. In realtà era solo un modo
come un
altro per nascondere la sua insicurezza e proteggersi dalle sue
conseguenze.
Come se si
fosse accorto
solo in quell’istante della presenza di Louis, il cameriere
gli
regalò uno sguardo che avrebbe fatto stramazzare qualsiasi
ragazza
con un po’ di buon gusto e sorrise con labbra carnose che
incorniciavano denti bianchissimi.
«Certo.
Qualsiasi cosa».
Continuò a guardare Louis finché non si
voltò e tornò al suo
lavoro, avvicinandosi prontamente ad altri clienti in attesa di
ordinare e dandosi da fare per spinare birra, portare bicchieri di
qua e di là, e versare ghiaccio tritato e ingredienti nel
lucido
shaker.
Il mio
migliore amico lo
pedinò con lo sguardo in modo tanto intenso che solo una mia
gomitata sulla spalla riuscì a distoglierlo. Jennifer si
sporse
verso di lui con finta aria di rimprovero, in equilibrio
sull’alto
sgabello, e indicò con un cenno del capo il cameriere.
«Siamo
qui da nemmeno
cinque minuti e già ti metti a fare il cascamorto con il
primo
ragazzo che incontriamo?»
«Se
il primo ragazzo che
incontriamo è uno schianto assoluto, allora sì!
Stasera è la volta
buona che rimorchio».
«Non
mi è sembrato indifferente a te» notai per
stuzzicarlo, ma
augurandomi davvero che stavolta andasse tutto come lui sperava. Di
sicuro, se lo meritava.
Louis
picchiettò le dita
sulla pietra dell’ampio bancone, seguendo il ritmo della
musica. I
fari rossi si alternavano a lampi repentini di luci stroboscopiche
che gettavano ombre e bagliori sul viso dei presenti. Totalmente
incapace di scollare lo sguardo dal corpo del cameriere, come rapito
da una forza magnetica più salda della sua
volontà, Louis se ne
stava stranamente in silenzio, ma dopo qualche istante
sbatté i
palmi sul bancone e sorrise.
«Bene,
sono pronto ad
ordinare».
Accanto a me
Jennifer, che
sfogliava il menù senza commentare e rapita
dall’infinità di
drink tra cui scegliere, alzò la testa con aria confusa.
«Ma
non l’hai nemmeno
guardato!»
«Credimi,
l’ho guardato
tanto da consumarlo, ora lo voglio qui entro dieci secondi o scavalco
il bancone e me lo vado a prendere io». Soffocammo una
risatina.
«Louis,
mi riferivo al
menù» precisò Jenny scuotendo la testa.
«Oh…già».
Il mio amico
prese a sfogliare distrattamente le pagine plastificate, come se lo
avesse notato solo in quel momento, indizio del fatto che avrebbe
ordinato anche un bicchiere di acqua putrida pur di avere il giovane
cameriere accanto.
«Un
Mephisto
senza alcun dubbio!» esclamò, soddisfatto della
sua scelta, poi lo
vidi rigettare un’occhiata incerta alla lista e aggrottare la
fronte. «O forse un Red
Devil,
o…»
«…O
un etto e mezzo di
Decisione?»
lo rimbeccai, guadagnandomi una linguaccia da parte sua. Era
così
piacevolmente semplice prendersi gioco di lui, e ogni sua espressione
non sembrava cambiata dall’asilo, quando tra di noi nascevano
sani
battibecchi per cavalli a dondolo e ruoli da assumere durante i
giochi. Già allora preferiva fingersi mia sorella, o mia
madre,
mentre io dovevo fare la parte del marito che rincasava dopo una
lunga giornata di lavoro. Mi presentava davanti al naso un bellissimo
e profumato piatto di spaghetti immaginari e bicchieri di latte in
realtà vuoti. Mi stirava il grembiulino, che nella nostra
immaginazione era un elegante completo da uomo d’affari, con
un
ferro da stiro in plastica che non sarebbe stato in grado di togliere
le pieghe nemmeno da una foglia. Lo lasciavo fare, sapendo quanto
fosse testardo, ma avrei sempre preferito che i ruoli si
invertissero. Anche allora non avevo occhi per nessun altro.
Jennifer
invece aveva
iniziato a fare parte delle nostre vite solo in seconda elementare.
Si era trasferita da Santa Rosa con il padre, la madre e i due
fratelli più piccoli. La primogenita, Grace, in un primo
momento li
aveva seguiti ancora quindicenne. Ora aveva ventisei anni e ed era
tornata nel paese natale dove viveva con il marito.
Non avrei
mai potuto
dimenticare il giorno in cui Jenny entrò dalla porta della
classe, i
capelli acconciati nello stesso taglio di ora, forse di qualche
centimetro più lunghi, neri e lucidi. Il suo sguardo era
spaventato,
mi aveva fatto venire in mente il cagnolino randagio che una volta
avevo notato in Financial District quando papà mi aveva
portato con
sé sul posto di lavoro. La stessa testa bassa, intenta a
scrutare
ogni dettaglio di ciò che accadeva di fronte e accanto a
sé, come
per avvistare e prevenire qualsiasi tipo di pericolo.
La maestra
ci aveva
presentato la nuova arrivata, ripetendo un paio di volte che dovevamo
essere gentili e amichevoli, poi le aveva detto di prendere una sedia
e di mettersi dove preferiva, finché non
l’avessero dotata di un
banco come tutti gli altri.
L’entusiasmo
dei nostri
compagni era stato grande, troppo grande e soffocante per un essere
piccolo come Jenny. Si era manifestato con interrogatori e offerte
d’amicizia sincere, ma forse troppo espansive per una come
lei.
Timidamente e in silenzio aveva preso la sedia offertale dalla
maestra e, quasi a fatica sotto il peso considerevole, aveva ignorato
ogni richiesta degli altri bambini, per mettersi proprio vicino a me,
che ero rimasta in silenzio e avevo rispettato la sua riservatezza.
In seguito
quella era
rimasta la sua postazione.
Louis,
contrariamente alla
sua indole, aveva fatto lo stesso. Discreto e paziente in un primo
momento, affettuoso e vivace quando era ormai certo di essersi
guadagnato la fiducia della ragazzina.
«Provi
invidia perché la
prima conquista della serata spetta a me, a differenza del solito.
Attenta, è un peccato capitale» sbottò
il mio amico continuando a
lanciare occhiate di apprezzamento in direzione del barista. Mi
domandavo come fosse possibile che a quel povero ragazzo non
fischiassero le orecchie.
«Siamo
nel posto giusto
per i peccati, tanto vale approfittarne» risposi. Nel
frattempo una
cameriera si accorse di noi, tanto prosperosa che avrebbe potuto
portare i bicchieri direttamente sul seno senza rischiare di
rovesciare nulla. Il petto sembrava volerle schizzare fuori dalla
scollatura della maglietta nera attillata.
Si mosse
nella nostra
direzione e io con la coda dell’occhio vidi
un’espressione di
pura delusione sul volto di Louis e le sue labbra articolare un Oh
no
amareggiato.
Qualche
istante dopo però
il cameriere di prima si accorse della sua mossa, le posò
una mano
sulla spalla e chinandosi su di lei per sussurrarle qualcosa si
affrettò per prendere il suo posto. In due secondi era
già di
fronte a noi, con quel sorriso smagliante e gli occhi brillanti.
Il sollievo
di Louis era
palese.
«Pronti
per ordinare, o
sono arrivato troppo presto?»
«Sei
arrivato proprio nel
momento giusto. Un tempismo perfetto direi» lo
rassicurò
prontamente Louis, fissandolo come se davanti a sé ci fosse
stato un
budino al crème caramel e faticando a stare fermo sul posto.
Se
fosse stato possibile avrebbe scodinzolato.
«A
me un Luxury»
fece timidamente Jennifer, come se si sentisse ridicola per la sua
stessa scelta.
Il cameriere
lanciò uno
sguardo di intesa al mio amico. «Strano, credevo che fossi
più tu
un tipo da Luxury».
Il led rosso
non era
abbastanza forte per coprire l’imbarazzo di Louis, che
sopraffatto
abbassò lo sguardo e fece un sorrisetto goffo.
«Opto
per un Dr.
Faust»
pigolò, impacciato. Fu poi il mio turno di sostenere lo
sguardo del
ragazzo.
«E
per te invece?»
Scossi la
testa con aria
mortificata. «Io ho il compito ingrato di dover portare a
casa sani
e salvi questi due, perciò va bene una cola».
Avevo sfogliato per
più di una volta il menù, incuriosita dalla
vastità della scelta.
Qualcuno di quei drink particolari mi aveva intrigato, ma conoscevo i
miei limiti.
«Peccato.
L’alcol è un
ottimo lubrificante sociale» commentò il
cameriere, allontanandosi
da noi per dirigersi verso lo scaffale delle bottiglie, che
illuminato anch’esso da faretti rossi sembrava emanare luce
propria.
Osservai la
gente in pista
a ballare, la musica martellante era totalmente priva di testo, ma
bastava per attirare sempre più persone a muoversi a ritmo
delle sue
vibrazioni.
Spinsi il
mio sguardo oltre
la folla di corpi, fino al punto in cui un altro arco decorato
segnava l’inizio di una nuova sezione del locale, che
ospitava
altri divanetti, un grande schermo al plasma con qualche partita in
diretta e tavoli da gioco.
Aguzzai la
vista e spostai
lievemente la testa in modo da ottenere una buona visuale, attraverso
la sala gremita di gente. Poi il mio cuore perse un battito e il
respiro parve morirmi in gola, non appena lo vidi.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Ciao! Intanto vorrei
ringraziare quelli che hanno voluto visualizzare e leggere. So che la storia può sembrare finora piuttosto lenta, ma questo si spiega con
il fatto che è piuttosto lunga e ci vuole il tempo per
introdurre con calma gli eventi. Vi prometto che la svolta è
alle porte e dopo di essa entreremo nella vicenda vera e propria. Spero
che qualcuno trovi il tempo di continuare a leggere e di lasciare un
commento. Mi farebbe davvero un enorme favore. A presto!
Come la siccità e il
calore assorbono l’acqua delle nevi, così fanno
gli inferi con il
peccatore.
Giobbe,
24,19.
5.
Era
chino su un tavolo da biliardo, la schiena arcuata e i muscoli in
tensione sotto una maglietta nera aderente. Gli occhi, di un colore
che da quella distanza mi era difficile scorgere, erano fissi e
concentrati sulla pallina, e il braccio teso dalla pelle chiara era
pronto a scattare in avanti fino a far cozzare
l’estremità della
stecca contro la sfera. Una sigaretta spenta gli pendeva dalle
labbra, pericolosamente in equilibrio mentre lui scrutava ogni
dettaglio davanti a sé per valutare la situazione.
Si prese
ancora qualche
istante per calcolare il tiro, vidi la sua schiena tendersi in un
respiro profondo e la fronte aggrottarsi lievemente. Poi, proprio
come avevo immaginato, la stecca venne spinta in avanti e mi parve
quasi di udire l’impatto tra le sfere. Le immaginai mentre
entravano in buca una ad una.
«Accidenti…».
Il
commento mi sfuggì involontariamente dalle labbra come se la
mia
mente avesse perso ogni filtro ogni mio pensiero scivolasse fuori
dalla bocca senza argini. Fui grata di non aver espresso altri
giudizi.
«Niente
male!» si
intromise Jennifer, attratta dalla mia esclamazione e seguendo la
direzione del mio sguardo. Louis fece lo stesso, ma si
divertì a
farmi notare che il suo uomo era più bello. Certo, non
potevo negare
che il cameriere fosse molto attraente, ma sapevo a chi dei due avrei
dato la palma d’oro.
Il ragazzo
attese il suo
turno, poi sferrò un altro tiro vincente, sorrise stringendo
la
stecca tra le mani come un bastone al quale appoggiarsi e il suo
sguardo vagò nel locale fino a sfiorarmi.
Non potei
essere certa che
mi stesse davvero guardando, perché d’istinto
abbassai lo sguardo
sul bancone. Il grigio della pietra era tutto ciò che la mia
vista
avrebbe potuto sopportare, mentre le guance mi andavano in fiamme e
il cuore faceva le capriole.
Un brivido
freddo mi
percorse la spina dorsale, diffondendosi lungo le braccia e facendomi
venire la pelle d’oca mentre immaginavo i suoi occhi su di
me,
tanto intensi da potermi frugare la mente.
Solo quando
il coraggio
sembrò tornare dal luogo sicuro nel quale si era rintanato,
osai
alzare lo sguardo per controllare la situazione.
Gettò
la stecca ad un
compagno che la prese al volo, salutò gli amici e poi si
avvicinò a
noi, a me, con un incedere elegante e accattivante, che come un
magnete mi impedì di distogliere ancora lo sguardo.
«Ehi,
sta venendo qui!»
notò il mio amico. «Ci avrei giurato che facevi
colpo anche
stasera».
«Oh,
piantala!» lo
rimproverai, sentendo lo stomaco contratto. «Non ti ci
mettere pure
tu, per favore, sono già abbastanza in imbarazzo».
«La
mia era solo una
considerazione, e tu faresti bene a trovare qualcosa di interessante
da dire».
Qualcosa da
dire? E cosa?
Ciao, sei uno schianto, ti spiace se ti salto addosso? A
proposito, mi chiamo Amber.
«Ok,
un respiro profondo»
mormorai, rivolta solo a me stessa. Mi imposi di guardare solamente
davanti a me, tentando di concentrarmi sul via vai dei camerieri
oltre il bancone, ma riuscii a resistere solo pochi secondi senza
guardare il ragazzo, poi la mia forza di volontà si infranse
come il
cristallo più delicato.
Mi sarebbe
piaciuto
conoscere sua madre per farle sapere che aveva davvero fatto un
ottimo lavoro con le proporzioni. I fianchi stretti si muovevano con
lui, mentre diminuiva sempre più la distanza tra noi. Quando
fu a
qualche metro distolse lo sguardo da me e prese posto
all’altro
lato del bancone, a qualche metro da noi.
Ad un suo
cenno della mano
una cameriera lo raggiunse con un menù.
Una vampata
di imbarazzo mi
tinse le guance, mentre la mia mente ormai in tilt ripeteva insulti
alla mia intelligenza.
Una stupida,
non sapevo
come altro definirmi. Abbassai lo sguardo sul bancone mentre la
vergogna bruciava amaramente.
«Che
figuraccia» dissi,
mentre il viso di Louis si piegava in una smorfia di disappunto.
«Avrei
giurato che stesse
venendo qui da te».
«Mi
sta guardando?»
Jennifer scosse la testa infrangendo ogni speranza, ma allo stesso
tempo dandomi una buona notizia. L’umiliazione avrebbe
raggiunto
picchi inimmaginabili se lui mi avesse fissato con aria di scherno.
Un’ottima
distrazione mi
fu offerta dall’arrivo delle nostre ordinazioni. Strinsi la
mano
attorno al vetro gelido del bicchiere. La condensa mi bagnò
le dita
e io fui quasi tentata di posarmelo sulle guance per alleviare il
bruciore della vergogna. Mi sentivo tanto accalorata che
probabilmente la cola sarebbe evaporata.
Ne
sorseggiai un po’,
mentre Jennifer armeggiava con la cannuccia, immersa in un liquido
rosa che ben esprimeva il nome assegnatogli. Louis invece stringeva
una bevanda di un verde acceso, molto simile alla sua maglietta.
Sembrava fosse stata prelevata direttamente da un pianeta alieno.
«Ti
sei persa lo
spettacolo del cameriere con lo shaker. Mi sa che mi sono preso un
mezzo infarto, non ho mai visto nulla di altrettanto sexy»
disse
quando l’oggetto della conversazione fu a debita distanza.
Ascoltai
le sue parole distrattamente perché la mia attenzione era
ancora
quasi del tutto rivolta al ragazzo misterioso seduto a poca distanza
da noi.
Jennifer
ridacchiò. «A
quando le nozze?»
«Direi
che mi servono un
paio di notti per conoscerlo bene, poi potrei anche iniziare a
pensare a qualcosa di ufficiale». Louis bevve una lunga
sorsata del
suo drink e sorrise come un bambino davanti ai doni natalizi.
«Sei
amorevolmente
sfacciato» gli dissi. «Almeno a te sta andando
bene. Vorrei
sprofondare».
«Dovresti
andare da lui»
mormorò Jennifer, pragmatica. «Forse crede di aver
già fatto la
prima mossa e aspetta solo che tu continui. È un
po’ come il gioco
degli scacchi, si muove a turno e ora tocca a te». Era una
frase più
lunga di ciò che mi aspettassi da lei, perciò
ritrovai un briciolo
di coraggio e tornai a guardare il giovane. Teneva lo sguardo basso e
giocherellava con la sigaretta in attesa della sua ordinazione. Era
probabile che la cameriera avesse fatto la civetta con lui,
protendendosi e mettendo in mostra le sue forme. E lui come si era
comportato? Era assurdo essere gelosa di un ragazzo che ancora non
conoscevo, ma speravo che non avesse apprezzato la merce. Avevo come
l’impressione che non fosse come gli altri, che ci fosse
qualcosa
di particolare in lui, nella serietà che leggevo nei suoi
occhi e
nel suo viso. Stringendo il bicchiere in una mano e picchiettando le
unghie sul bancone, valutai il da farsi.
Restare al
mio posto o
andare? Mi sembrava una decisione ardua quando il dubbio amletico.
Essere o non essere? Morire, dormire…forse
era la mia
occasione di cogliere i consigli di Louis e approfittare di
ciò che
la vita mi offriva. Cogliere la palla al balzo e vivere la serata
senza troppi pensieri, senza timidezza. Se fossi rimasta me ne sarei
di certo pentita, ma cosa avrei detto appena arrivata da lui?
Deglutendo mi parve di avere un enorme rospo in gola.
«Non
so che fare!»
esclamai, appoggiando il capo sui palmi delle mani. Uno dei due era
piacevolmente fresco e umido per aver stretto il bicchiere bagnato di
condensa.
Louis mi
rivolse uno
sguardo comprensivo e si sporse verso di me. Il profumo del suo
dopobarba era familiare e confortante.
«Amber,
fossi in te non mi
lascerei scappare per nulla al mondo una preda del genere»
fece,
convinto.
«Lo
so, ho notato il tuo
modo delicato e discreto di approcciarti».
«Ricorda
la nostra
conversazione al telefono di questo pomeriggio. Non puoi ignorare
questa occasione e non credo che lui rifiuterà uno schianto
come
te».
«Certo,
come no». Pensai
alla mia bocca troppo grande. Non è che andando
lì e sorridendogli
avrebbe pensato che volessi divorarlo? Uno sguardo severo da parte di
entrambi i miei amici mi convinse ad abbandonare ogni reticenza.
«D’accordo»
feci, dopo
aver incamerato aria e aver tirato il più lungo sospiro
della mia
vita. «Vado».
Bevvi una
generosa sorsata
di cola, per impedire alla mia lingua di attorcigliarsi come un
serpente appena iniziato a parlare, poi scesi dallo sgabello,
pregando perché tutto andasse bene e non cadessi lunga
distesa a
terra. Non ero mai stata particolarmente timida, ma in
quell’istante
iniziai a temere cose assurde, mentre mi avvicinavo a passi lenti
verso quel bel ragazzo. Avevo una paura terribile di non gestire i
tacchi alti, di cadere di fronte a lui e mettere così fine
alla mia
dignità, di avere qualcosa incastrato tra i denti pur
sapendo che
non poteva essere perché avevo passato quasi tutto il
pomeriggio a
fissarmi allo specchio.
Per tutto il
tragitto dal
mio posto al suo, che mi parve durare un’eternità,
fui sul punto
di lasciar perdere, voltarmi e ritornare sui miei passi. Ormai
però
la decisione era stata presa e nonostante i palmi sudati, il cuore a
mille e la sensazione di dover svenire da un momento
all’altro, mi
trovai in pochi secondi accanto a lui.
Troppo tardi
mi resi conto
di non aver pensato a come iniziare l’eventuale
conversazione.
Rimasi a fissarlo per qualche istante, ammutolita come se in un
attimo il mio cervello si fosse resettato e nell’hard disk
della
mia scatola cranica fosse rimasto solo il gioco del Pinball, attivo e
con le palline impazzite che rimbalzavano senza sosta sulle pareti
del teschio.
Anche
pronunciare qualche
parola di circostanza mi parve una cosa impensabile.
«Ehi…»
mormorai,
pensando subito dopo che non era stata l’entrata giusta, che
forse
avrei dovuto correggermi, oppure tornare indietro nel tempo e
ricominciare daccapo. Valutai persino la possibilità di
correggere
la parola con un colpo di tosse e andarmene. O perché no,
magari
sorridere in maniera amichevole e dire Ops,
scusa, ti ho scambiato per un vecchio amico. Addio.
Dall’alto
del suo posto
lui si riscosse dai suoi pensieri. La mia scarsa altezza non lo aveva
di certo aiutato a notarmi, mi sentivo una formica al suo cospetto.
Troneggiava su di me facendomi sentire intimidita.
Reggeva la
sigaretta tra le
dita della mano sinistra, mentre la destra era appoggiata sulla
coscia e non appena mi fissò, il mio cuore già
abbastanza
imbizzarrito fece qualche balzo. Il suo viso era ancora serio e
sperai che dicesse in fretta qualcosa. L’imbarazzo e
l’attesa
stavano per uccidermi.
Le mie
richieste furono
presto ascoltate, perché lui mi regalò un sorriso
ampio e
bambinesco, ma non per questo meno affascinante, e un’ondata
di
sollievo mi colpi lasciandomi spiazzata per qualche istante.
«Ehi a
te, ciao».
Ero troppo
bassa per poter
tentare qualsiasi approccio, perciò gli indicai lo sgabello
accanto
al suo e senza esitazione mi diede subito una mano a salire. Non ce
ne sarebbe stato bisogno, ma desideravo sfiorarlo e quella fu
l’occasione buona. Le sue dita erano calde, asciutte e la sua
presa
era forte mentre mi issavo grazie a lui sulla sedia. La sensazione
della sua pelle a contatto con la mia fu quasi bruciante, elettrica,
e mi fece desiderare di non allontanarmi mai.
Finalmente
vicina potei di
persona appurare che i suoi occhi erano di uno splendido, magnetico
verde acqua. Sul mento e sul labbro superiore intravidi
l’ombra di
una barba di qualche giorno che creava un piacevole contrasto con
ciò
che di infantile c’era in lui. Il suo sguardo, per esempio:
attento, sincero, incuriosito dalla mia presenza.
Come dargli
torto? Una
ragazza che si avvicinava a lui senza motivo, con niente di
intelligente da dire se non Ehi!
«Io…beh…»
biascicai.
Davvero un ottimo inizio. Dirgli il motivo per cui ero lì o
aggirare
il problema? Buona la seconda.
«Mi
chiamo Amber». Tesi
la mano verso di lui, che la strinse con un entusiasmo che mi
rassicurò. Il mio cuore fece qualche piroetta, esultante.
Ancora
quella sensazione di calore mi formicolò sulla pelle, le mie
budella
si contorsero quando il suo sorriso si fece più ampio. Avrei
voluto
tenergli stretta la mano in eterno.
«Io
sono Simon, è un
piacere conoscerti. Che cosa ti porta qui Amber?»
Eccola, la
domanda fatale.
Sentii il calore salire alle guance, distolsi lo sguardo e inspirai
profondamente per prendere tempo. Ma la mia mente parve non volerlo
sfruttare a dovere, completamente in balia delle onde
dell’emozione
e dell’imbarazzo e un ronzio di sottofondo, quasi
più forte della
musica, mi suggerì che il mio cervello era in tilt.
«Oh…veramente…»
Mi
schiarii la gola e lottai contro l’impulso infantile di
indicare
qualcosa alle sue spalle e approfittare della sua distrazione per
fuggire via. Mi resi conto che la mia mano era ancora stretta nella
sua, piacevolmente morbida. Con il pollice mi accarezzò la
pelle e
un brivido caldo annullò del tutto l’operato della
mente.
«D’accordo
sono qui
perché volevo attaccare bottone con te, lo ammetto. Non
sapevo che
fare, ti ho visto al biliardo…a proposito, bel
tiro…poi sei
arrivato e mi sono decisa. E allora…eccomi qui».
Più che parlare
sbrodolai una frase dietro l’altra come se nessuno da piccola
mi
avesse insegnato ad articolare bene.
Lui
scoppiò in una risata
fragorosa che gli illuminò gli occhi verdi e mi fece
sciogliere come
il burro al sole, non sapevo se per la vergogna o per
l’effetto che
riusciva ad avere su di me. Da quanto non mi sentivo così?
Come una
ragazzina in balia della prima cotta.
«Mi
piace la tua sincerità
e ti ringrazio. Ad ogni modo…» si sporse
lievemente verso di me,
facendomi annegare nel verde dei suoi occhi. Da così vicino
riuscii
a percepire il profumo del suo respiro. «Io parlavo del
locale. Vedo
tanta gente che è venuta qui semplicemente per divertirsi,
fare
qualche salto in pista, godersi un paio di drink, flirtare un
po’.
Tu sei qui solo per questo o eri incuriosita
dall’ambiente?»
Era troppo
vicino perché
riuscissi a pensare lucidamente. Mi scostai appena e sorrisi,
abbandonando il viso contro il palmo della mano. La mia fronte era
fresca ma mi sentivo il viso in fiamme.
«Bene,
ho fatto una
figuraccia».
«Ma
no, figurati».
«Direi
che sono qui perché
io e i miei amici eravamo curiosi, ci capita di andare in locali
carini ma molto banali quindi non potevamo farci scappare il famoso
Mephisto.
Abbiamo visto volantini praticamente in ogni angolo della
città».
Con il pollice indicai dietro le mie spalle Louis e Jennifer, che
ovviamente non si stavano perdendo un solo secondo della nostra
conversazione, sebbene il fragore coprisse le nostre voci. Non appena
accennai a loro salutarono entrambi con la mano alzata e un
sorrisino. Simon rispose con un cenno e un’espressione
divertita.
«Simpatici…ti
piace il
biliardo?»
«Sono
una frana. Tu sei
bravo con la tua stecca» mormorai, pentendomi subito dopo
della
frase non appena mi sentii avvampare. Il suo sguardo assunse una
scintilla di malizia che non mi sfuggii.
«Oddio,
qualcuno mi fermi,
sto facendo una gaffe dietro l’altra! Credimi, di solito non
succede…per lo meno non a così breve distanza una
dall’altra».
Non sapevo se ridere o andare a nascondermi in qualche angolo buio,
ma Simon scosse la testa con un’aria tranquilla che mi mise a
mio
agio.
«Non
ti preoccupare,
Amber. Lasciamo perdere il biliardo. Quindi il Mephisto
è all’altezza delle tue aspettative?»
Gli fui
grata per la
disinvoltura con cui cambiò discorso per correre in mio
aiuto.
«Molto
di più. Tutto è
perfetto, curato nei minimi dettagli, una meraviglia».
«Il
sottofondo letterario
e artistico affascina tanto anche me. Il Faust è una delle
mie opere
preferite».
«Goethe,
giusto? Credo di
averla trattata a scuola, ma temo di non saper dire altro».
Esattamente come qualche istante prima la sua espressione mi
rassicurò.
«Goethe
è stato uno dei
tanti a farsi affascinare dalla figura dell’enigmatico dottor
Faust. Ne hanno trattato anche Lessing, Marlowe, Mann e Valery e
tutt’ora è un personaggio vivo e attuale.
L’essere umano
insaziabile, bramoso di conoscenza, sempre teso a un ideale di
sapienza irraggiungibile se non attraverso un patto con il diavolo:
Mefistofele». Pendevo dalle sue labbra, ascoltando in
silenzio la
sua voce lievemente roca e molto attraente.
«Mefistofele
si offre di
servirlo per ventiquattro anni in tutto per farlo giungere alla
conoscenza assoluta tanto agognata. Ma il prezzo è
alto».
«La
sua anima?» mormorai,
sperando di averci azzeccato e di essermi guadagnata qualche punto.
Il suo sorriso fu una conferma.
«Esattamente.
Ho
i gusti dei gatti coi topi».
Lo fissai in
silenzio.
Avevo capito bene o era parso solo a me che parlasse di topi? Forse
la musica assordante aveva coperto parte delle sue parole impedendomi
di comprenderle correttamente.
«Come
scusa?» mormorai, e
la mia perplessità lo fece divertire ancora di
più.
«Perdonami,
sto facendo il
sapientone, ma è più forte di me con questi
argomenti. In un
dialogo tra Mefistofele e Dio, quest’ultimo dice Finché
colui vivrà nel mondo, fino allora non ti sia vietato nulla.
In
pratica lo lascia libero di attrarre Faust nelle sue grinfie dato che
Dio non ha il pieno controllo su un essere umano ancora in vita.
Mefistofele sembra esserne felice perché ribatte
così:
Mai di morti m’è piaciuto occuparmi. Preferisco le
guance piene e
fresche. Non ci sto, per cadaveri. Ho i gusti dei gatti coi topi».
«Una
frase bizzarra». Un
ragazzo bizzarro semmai. Era così che conquistava le
ragazze?
Snocciolando frasi colte tratte dalle opere letterarie? Accidenti,
con me stava funzionando alla grande.
«Sta
semplicemente a
significare che il diavolo ama tormentare gli esseri umani, giocarci
mentre sono ancora vivi come fanno i gatti con le loro prede.
È
un’immagine che rende perfettamente l’idea della
lotta impari tra
mortali e forze del male. Gli uomini cascano sempre nella rete degli
adulatori e scelgono volontariamente la loro sorte. Secondo le
rappresentazioni ormai molto diffuse, Mefistofele è dotato
di un
libro rosso sul quale gli esseri umani che decidono di fare un patto
con lui firmano e così vendono la loro anima».
Automaticamente
ricordai il
grosso tomo alla fine del corridoio e l’entusiasmo con il
quale io
e i miei amici avevamo firmato. Simon parve leggermi nel pensiero
perché annuì.
«Esatto,
è proprio il
libro a cui stai pensando. Ogni ospite di questo locale ha ceduto
senza esserne costretto una parte della sua anima quando è
entrato
qui, semplicemente attratto da una serata di divertimenti, da un
piacere mondano. In fondo siamo nella bocca
dell’Inferno!» Il suo
entusiasmo era contagioso. Indicò le sporgenze di pietra che
già
avevo notato agli angoli del bancone, simili a grosse stalagmiti e
stalattiti, poi capii che non erano niente del genere. Erano zanne!
«Moltissime
rappresentazioni artistiche a partire dal Medioevo raffigurano
l’Inferno all’interno delle fauci spalancate di
Lucifero, una
gola dove i dannati bruciano per l’eternità. Dante
ne è un
esempio, il suo Lucifero ha tre bocche, ognuna intenta a masticare un
peccatore, ma non peccatori qualsiasi. Uomini che si sono macchiati
del crimine del tradimento, l’affronto più grave
che un uomo possa
fare nei confronti dei suoi simili, ma soprattutto di Dio. E
cos’è
la vendita della propria anima a Mefistofele se non un tremendo
tradimento della propria fede?» spiegò, con quella
voce bassa,
virile e magnetica. Era un piacere sentirlo parlare e non scollai un
secondo gli occhi dal suo viso, mentre mi parlava dei tre peccatori
che Dante aveva posto tra le zanne del diavolo: Cassio, Bruto e
Giuda.
Così
ogni elemento di quel
locale assunse un nuovo significato per me, che prima di quel momento
non ne avevo saputo quasi niente. Simon chiarì il senso
della frase
alla fine del corridoio: In
girum imus noctem e consumimur igni,
frase attribuibile ai demoni, eternamente consumati dal fuoco
metaforico del peccato e quello fisico, tremendamente bruciante della
loro condanna. Il significato era intensificato dal fatto che la
frase fosse palindroma.
«Insomma,
mi pare di
capire che sei un vero appassionato di questi argomenti»
dissi dopo
un po’.
«Spero
di non averti
annoiata».
«Al
contrario, è
affascinante sentirtene parlare».
«Mi
piace notare come la
letteratura nella sua finzione possa comunque rispecchiare fedelmente
la realtà. Gli umani sono estremamente deboli, avvezzi al
peccato,
pronti a rinnegare qualsiasi loro valore per avere di più.
Il potere
e il mistero affascinano chiunque, sono così facili da
portare sulla
cattiva strada. Si dice che Faust sia esistito veramente, ma credo
che non sia importante, perché incarna alla perfezione la
natura dei
mortali, la brama di conoscenza e dell’ignoto,
l’estrema e
pericolosa curiosità».
Mi
guardò quasi con aria
di rimprovero, come se si riferisse al fatto che avessi ammesso di
essere lì proprio per curiosità. Sì,
ero colpevole.
La cameriera
prosperosa nel
frattempo era tornata e gli posò di fronte un grande
bicchiere colmo
quasi fino all’orlo di un liquido rosso. Con un cenno, Simon
attirò
la sua attenzione.
«Scusami,
potresti
portarne un altro per la signorina?»
«Oh,
no, non posso» Mi
affrettai a dire. «Devo guidare».
«Non
ti farà male, te lo
assicuro. Andiamo». Lo sguardo del ragazzo era convincente,
il
sorriso tutto rivolto a me, come se la cameriera di colpo fosse
scomparsa in una nube di polvere magica. Rispettò il mio
silenzio
per qualche secondo, poi si sporse ancora verso di me e posò
la mano
sulla mia.
«Fidati
di me, è solo un
drink. Non ti toglierà la lucidità, inoltre da
qui alla fine della
serata farai in tempo a smaltirlo.»
Non accennai
al fatto che
non potevo restare a lungo perché la mia madre megera e
dispotica
non doveva sapere che avevo trasgredito i suoi ordini.
«Veramente
io…» Tentai
di replicare, ma le sue dita in un tocco leggero e delicato si
mossero verso il polso, dandomi i brividi ad ogni millimetro di pelle
che sfioravano. Mi sembrava quasi di avere le vertigini e se non si
fosse allontanato almeno un po’ sarei di certo crollata dalla
sedia
gambe all’aria. Allo stesso tempo tuttavia non volevo che
smettesse, come se allontanare quella mano significasse anche
togliere all’aria ogni traccia di ossigeno.
«D’accordo.»
Mi arresi.
«Ma solo uno, non potrei bene nemmeno questo».
Quando la
cameriera tornò
con la mia ordinazione strinsi le dita attorno al bicchiere e lo
alzai per un brindisi, ma Simon fissava con un sogghigno un punto
oltre alle mie spalle.
«Ehi,
tutto a posto? Che
stai guardando?»
Si riscosse,
mentre io mi
voltavo per indagare. Osservai i divanetti, ma non vidi altro che un
mucchio di persone intente a chiacchierare, sorridere e bere. Altre
erano in piedi a ballare sul posto, ma non scorsi nulla che potesse
essere l’oggetto dell’attenzione di Simon.
«Niente
di particolare, ho
solo visto un amico. Tutto qui» spiegò lui.
Alzò il bicchiere,
lasciando una traccia di condensa sul bancone.
«Alla
conoscenza, al
peccato e alla curiosità» dichiarò. I
bicchieri tintinnarono al
momento del brindisi, durante il quale il contatto visivo tra di noi
non si infranse nemmeno per un secondo. Il mio stomaco restò
stretto
nella morsa dell’euforia e a stento mi opposi
all’impulso di
mostrare ai miei amici i pollici alzati in segno di trionfo.
Ero seduta
al bancone di un
posto fantastico, brindando assieme a uno sconosciuto bellissimo, con
uno sguardo che avrebbe potuto fermarmi il cuore da un momento
all’altro e il fisico asciutto da modello. Non poteva andare
meglio
di così.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
Essi non si
addormentano
se non hanno fatto il male, svanisce il loro sonno se non han fatto
inciampare. Essi mangiano il pane dell’empietà e
bevono il vino
dei violenti.
Proverbi,
4,16-17.
6.
Louis
e Jennifer stanchi di aspettarmi si lanciarono in pista a ballare
dopo circa un quarto d’ora. In realtà fu Louis ad
insistere, dato
che la mia amica non andava matta per il ballo e per nessuna
attività
che la esponesse troppo agli sguardi della gente. Perciò i
suoi
passi furono appena accennati, timidi ed esitanti come se non fosse
del tutto sicura della stabilità del pavimento. Al contrario
Louis
si muoveva come se nella vita non avesse fatto altro, con
disinvoltura e un grande senso del ritmo.
Rimasi per
qualche secondo
ad osservarlo muovere i fianchi e alzare di tanto in tanto le
braccia, felice e perfettamente a suo ago in mezzo alla folla che si
dimenava attorno a lui.
Io ero
riluttante a
lasciare il bancone. Parlare con Simon non mi stancava mai, non
sembrava conoscere esagerazione, ponderava ogni frase e ciascuna
parola dava l’impressione di essere collocata nel discorso
con
precisa consapevolezza. Esponeva le sue idee in modo naturale,
spontaneo e rilassato. Cosa ancora più importante, nulla di
ciò che
disse o fece mi parve noioso.
Mi era
capitato ancora di
parlare con ragazzi che vomitavano parole senza uno scopo preciso,
come se sentissero il dovere di riempire ogni pausa disponibile. Con
Simon era diverso.
Ero arrivata
quasi al punto
di restare in silenzio solo per lasciare che fosse lui a rivolgermi i
suoi pensieri, ma spesso insisteva per coinvolgermi nelle sue
riflessioni.
Sapeva
tantissime cose,
parlammo di tutto e per il tempo che trascorsi accanto a lui il
contatto visivo fu una componente fondamentale. Non mi lasciai
sfuggire nessun particolare di lui, come se nulla del suo corpo o del
suo atteggiamento meritasse di essere ignorato o sprecato. Notai i
particolari del suo volto, i denti bianchi e perfetti, i lineamenti
che sembravano scolpiti nel marmo e l’accenno di barba che
gli
donava un aspetto virile e seducente. I capelli neri erano lievemente
alzati sulla fronte e quest’ultima si increspava negli
istanti in
cui la conversazione prendeva una piega che sembrava interessargli
particolarmente. Quando accadeva mi sentivo svenire e mi consideravo
una privilegiata, come se per qualche merito che non conoscevo solo a
me lui volesse rivolgere quel particolare sguardo e quel sorriso
perfetto.
La pelle
delle braccia che
spuntava dal tessuto nero della maglietta era quasi bianca, solcata
da una vena che gli percorreva il bicipite fino al polso.
Ad ogni
sorriso gli occhi
verdi assumevano una forma che gli addolciva il viso facendolo
assomigliare ad un bambino. Un bambino che giocava a fare il grande,
stringendo tra le dita la sigaretta e giocandoci in continuazione.
«Insomma,
fumi» mormorai
ad un certo punto, vedendolo che si passava la sigaretta da un dito
all’altro facendola girare sulle nocche. Una sorta di tic che
trovavo seducente.
«Lo
confesso, ti
infastidisce?»
Forse scossi
la testa
troppo in fretta e con troppa foga per risultare sincera, ma lui non
diede segno di averlo notato.
«Bisogna
pur concedersi
qualche vizio, no?» lo giustificai, conquistandomi una
smorfia di
apprezzamento che regalò una nuova ondata di tachicardia.
Lui si
portò alla bocca la
bottiglia di birra che aveva ordinato poco prima, dopo aver terminato
il drink e bevve una lunga sorsata. Nonostante la mia riluttanza
aveva insistito perché ne prendessi una anche io e come la
prima
volta era riuscito a smuovere la mia testardaggine. Sperai di
smaltire in fretta gli effetti dell’alcol che già
si stavano
facendo sentire. Non volevo mettermi al volante con la mente non del
tutto lucida, ma la presenza del ragazzo annullava il mio senso
critico.
Di tanto in
tanto mi
sfiorava la mano con le dita e il sangue mi ribolliva nelle vene ogni
volta che la sua pelle entrava in contatto con la mia, come se ogni
cellula di quel punto e ogni nervo fossero divenuta di colpo
ipersensibili. Sperai che non leggesse quel desiderio nei miei occhi,
ma morivo dalla voglia di sporgermi in avanti e baciarlo.
«Quando
hai detto No,
non posso devo guidare
ho davvero pensato che fossi una puritana ossessionata dalle regole,
tutta casa e chiesa».
L’espressione
da lui
usata mi fece ridere. La mia risata aveva un suono insolito che
attribuii all’effetto dell’alcol. Mi doleva
ammetterlo ma stavo
facendo la civetta con lui.
«Se
lo fossi non sarei
qui. Hai pensato male, soprattutto riguardo alla chiesa. Non
c’è
molto feeling tra me e la religione» confessai.
«Non
mi dire…come mai?
Se mi è lecito chiedere».
Mi strinsi
nelle spalle.
«Non so che ne pensi tu, non vorrei offenderti nel caso tu
fossi un
devoto, ma ritengo che la religione sia solo una grande
ipocrisia».
Ottenni la sua completa attenzione. Con il pollice disegnò
cerchi
sulla mia pelle, e come ogni volta che lo faceva il mio cervello
andò
in corto circuito. Ero desiderosa di confessare ogni singolo pensiero
che mi sfiorava la mente, ogni segreto.
Incrociai le
dita con le
sue e gli strinsi di più la mano, lasciandomi
involontariamente
sfuggire dalle labbra un sospiro.
«No,
non sono un devoto.
Abbiamo qualcosa in comune, perché credo di pensarla come
te. Ed
ecco svelato il motivo della tua presenza qui: hai scelto il lato
oscuro».
«La
nostra
presenza qui» precisai. «Voglio solo divertirmi,
non credo nel lato
buono né in quello cattivo della religione. Credo solo negli
uomini
e nelle loro capacità. Il resto è solo ipocrisia
da quattro soldi,
e per quanto riguarda le regole…sono qui contro il parere di
mia
madre, perciò immagino che da questo punto di vista siamo
d’accordo.
Qualche violazione di tanto in tanto è
terapeutica».
Trassi un
profondo respiro,
poi presi un sorso di birra. Non ero ubriaca, ma sentivo formicolare
l’alcol nelle membra, nelle dita e negli arti. Percepivo una
lieve
pesantezza agli occhi e lo stomaco perennemente pungolato da scariche
di emozione. Mi sentivo leggera, piacevolmente annebbiata ed euforica
e la mente di tanto in tanto insisteva a procedere da sola, senza
freni.
«Ma
basta parlare di me o
ti annoierò a morte. Fra poco crollerai sul bancone privo di
sensi.
Parlami di te».
«Oh…»
Lui si strinse
nelle spalle e scosse la testa. «Non sono d’accordo
con quanto hai
appena detto. Ti trovo molto interessante, è bello parlare
con te».
«Ti
ringrazio». Evitai di
dirgli quando io trovassi interessante lui, tanto valeva crollargli
fra le braccia. Di rado mi capitavano ragazzi così sinceri
con me,
ma che non sembrassero solamente arroganti o finti latin lover. Era
difficile concentrarsi su qualcosa che non fossero i suoi occhi,
perciò, incapace di fare altro, rimasi a fissarlo in
silenzio.
«Cosa
vuoi sapere?» si
arrese finalmente. «Hai una vasta gamma di argomenti tra cui
scegliere, ma non garantisco che tu possa trovare qualcosa di
affascinante».
Tutto
di te mi
affascina, sciocco.
Sperai di
averlo solamente
pensato. Se avessi davvero perso il controllo di me stessa fino a
quel punto era un guaio.
«Che
mi dici delle tue
passioni, che cosa ti piace?»
«La
vita, semplicemente la
vita. I piaceri che essa può dare, le uscite con gli amici,
il
divertimento, il buon cibo…»
«Davvero?
Io adoro
cucinare!»
«Una
coincidenza
interessante, qualche volta potresti cucinare qualcosa per me, ti
lascio la scelta».
L’idea
di averlo in cucina che mi ronzava intorno mentre nelle pentole
sfrigolava qualcosa per lui mi fece contrarre lo stomaco. Sorrisi e
lo scrutai attentamente.
«Ti
ci vedrei bene con un piatto a base di pesce. Ma potrei
sbagliarmi».
«Adoro
il pesce. Hai buon occhio».
«Hai
anche detto che ti piacciono i topi, ma non so se voglio cucinarteli,
quelli».
Rise
alla battuta e per me fu un sollievo. Temevo di essere stata sciocca,
invece i suoi occhi si illuminarono, chiaro segno di aveva trovato
quella stupidaggine almeno un po’ divertente.
«È
vero, l’ho detto, ma solo se sono vivi»
precisò, con un tono di
voce che mandò brividi lungo le mie braccia. Sperai che non
notasse
la mia pelle d’oca ma mio malgrado non potei nemmeno
riprendere la
giusta concentrazione, affascinata dalle sue ultime parole. Non erano
state pronunciate a caso, mi sembrava davvero che stesse giocando con
me come un gatto con il topo. Lentamente, con interesse, girando
attorno alla preda, scrutando e ponderando ogni mossa. Il suo sguardo
era attento, fisso su di me come se non aspettasse altro che il
momento propizio per sferrare un nuovo colpo, pronunciare
un’altra
frase che sommata alle altre mi avrebbe fatta crollare tra le sue
braccia. C’ero già molto vicina.
Pensai
a cos’altro avrei potuto chiedere, per lo meno per cambiare
discorso e allontanare da me quei pensieri. C’erano
un’infinità
di cose che non sapevo di lui e che volevo scoprire, ma dovevo
andarci piano con le domande, per non farlo sembrare un
interrogatorio.
«E
invece quali sono le cose che detesti?»
«I
limiti, credo» rispose prontamente, come se fosse una
risposta
fornita più di una volta o come se ne fosse talmente
convinto da non
avere il minimo bisogno di esitare in inutili riflessioni.
«Non mi
piace che qualcuno mi dica cosa devo fare e come devo vivere la mia
vita. Sono abbastanza grande per poter decidere da solo».
Mi
chiesi quanti anni avesse, non doveva superare i venticinque. Ad ogni
modo odiava i limiti…interessante. Per quanto fossi legata
alla mia
casa, anche io detestavo le imposizioni di mia madre, le sue pretese
di controllare i miei comportamenti e la mia vita. Era una donna
piena di controsensi, voleva esercitare una forma di controllo su sua
figlia, ma allo stesso tempo pretendeva che stessi per conto mio,
buona buona a gestire la casa.
«Vivi
solo?» Aggrottò la fronte e parve rifletterci su,
poi sospirò e si
strinse nelle spalle. I suoi occhi erano meno allegri, come se avessi
toccato un tasto dolente.
«Ho
abbandonato la casa dei miei qualche anno fa, quando hanno
divorziato».
«Mi
dispiace» mormorai, con un tuffo al cuore e intimidita dalla
sua
risposta. Era quasi inquietante notare la quantità di
particolari
che ci accomunavano.
«Sono
cose che capitano, in fondo era da tanto che non andavano
più
d’accordo. Ormai la situazione era degenerata a tal punto che
non
volevo restare a vivere con nessuno dei due. Ad ogni modo era giunto
il momento di gestire i miei spazi».
«Non
sai quanto ti capisco, si crede sempre che una coppia possa durare in
eterno, che l’amore guarisca ogni dissapore, ma si finisce
per
illudersi…e soffrire di più».
«Sembra
che tu parli per esperienza» fece, guardandomi di sottecchi.
«Una
storia finita male?»
Ridacchia.
«Oh, più di una, ma non stavo parlando di me.
Tecnicamente i miei
sono ancora sposati, ma non vivono più insieme da un po'. Io
sto da
mia madre, ma lavora così tanto che è come se
vivessi da sola. Per
carità, tanto meglio, è una vera serpe».
Riuscii
a strappargli un sorriso. «Abbiamo già parecchie
cose in comune».
«Probabilmente
sono solo
coincidenze. Se mi alzassi e iniziassi a chiedere ai presenti quanti
di loro hanno genitori separati, divorziati o sul piede di guerra
raccoglierei una maggioranza schiacciante».
Ero
convinta delle mie parole, ma anche d’accordo con le sue. Mi
sentivo così vicina a lui: gusti simili, situazioni
familiari
praticamente identiche. Per non parlare di quella sensazione che non
mi aveva mollato un secondo da quando ero con lui, quel formicolio
che mi percorreva la pelle, simile alla convinzione di aver
finalmente trovato ciò che cercavo da tempo.
Lui
annuì riflessivo. Il suo sguardo ferito mi strinse il cuore
in una
morsa di compassione. Gli strinsi più saldamente la mano per
fargli
sapere che ero lì e capivo ciò che provava.
Tentai un altro
approccio.
«Hai
fratelli o sorelle? È una situazione più facile
da affrontare se
non si è figli unici».
Avevo
creduto di deviare un po’ il discorso, ma lo sentii
irrigidirsi.
«Lascia
perdere. È complicato anche questo» rispose a
denti stretti.
«Mi
dispiace, hai litigato anche con loro? Puoi parlarmene se
vuoi…»
Scosse
la testa come se volesse scacciare a forza un brutto pensiero. Il suo
linguaggio fisico fu molto più eloquente delle parole che
non volle
pronunciare. Vidi la sua mano stringersi attorno alla bottiglia con
forza, mentre lentamente sfilò l’altra dalla mia
presa, posandola
sulla coscia e stringendola a pugno con tanta forza che le nocche
divennero bianche.
«Che
cos’hai? Ho detto qualcosa di sbagliato?» Avevo
l’impressione di
aver commesso un errore terribile. Il suo sguardo si fece sempre
più
elusivo e serio, ogni briciolo di ilarità era svanita nel
nulla,
nascosta nel verde acqua dei suoi occhi e celata sotto
un’espressione
ferita che mi strinse il cuore in una morsa di rammarico. La sua
mascella si contrasse, deglutì più volte poi
scosse la testa.
«No,
non hai detto nulla di male. Solo…non ne voglio parlare.
Scusami un
secondo…»
Lo
vidi scivolare giù dalla sedia senza che potessi fare nulla
per
evitarlo, darmi la schiena e allontanarsi a lunghi passi. Rimasi
lì,
al bancone, sola e in silenzio e con la mente in subbuglio, mentre
Simon veniva inghiottito dalla folla in pista, reggendo la birra per
il collo della bottiglia.
Mi
passai le mani sul volto dandomi mentalmente della stupida. Che
motivo c’era per insistere? Perché diavolo avevo
voluto
immischiarmi nelle sue questioni familiari? Forse il rapporto con il
fratello o la sorella erano tanto conflittuali che non ne voleva
discutere, tanto meno con una sconosciuta come me. Era stato
così
bello chiacchierare in maniera spensierata, perché volersi
infilare
in una via complicata come quella della famiglia? Io per prima avrei
dovuto capire che era qualcosa di troppo delicato per parlarne in un
locale come il Mephisto
durante il primo incontro.
Quando
rialzai il viso, frugando con gli occhi tra la calca impegnata nelle
danze, incontrai lo sguardo di Louis che mi fece sprofondare ancora
di più nell’umiliazione.
Il
mio amico ballava sul posto, ma la sua espressione era fin troppo
chiara. Mormorò qualcosa nella mia direzione con
un’aria
interrogativa che mi aiutò a capire al volo: che cavolo
è successo?
Risposi
con una scrollata di spalle e scossi la testa. Sebbene avessi intuito
che era tutta colpa mia, avrei preferito almeno sapere se Simon stava
bene e soprattutto scusarmi.
Sarebbe
tornato? Mi sentivo sciocca ad aspettarlo lì, e se avesse
deciso che
ne aveva avuto abbastanza di me?
Jennifer
mi osservava senza dire nulla, incamerando informazioni solo grazie
alla situazione. Era visibilmente a disagio mentre approfittava della
situazione per smettere di ballare.
Louis
assunse un cipiglio di rimprovero e io non potei negare che avesse
ragione. Quanto ero stata con Simon, un quarto d’ora? Venti
minuti
al massimo? Eppure anche in così poco tempo ero riuscita a
fare più
danni che nelle mie altre relazioni finite male.
Però
potevo rimediare. Presi coraggio e mi calai dallo sgabello con
prudenza per non crollare a causa della letale combinazione di tacchi
alti e alcol nel sangue.
Non
potevo essere sicura di dove si fosse cacciato il ragazzo, ma decisi
di fare un tentativo. Mi lisciai il vestito, più un gesto
nervoso
che una necessità, raggiunsi i miei amici per chiarire la
situazione
e poi mi gettai anche io in mezzo alla folla, scendendo la scaletta
con passo malfermo. Faticando per uscire indenne dai corpi in
movimento, dalla loro disattenzione per il mio passaggio e dalla foga
della gente che mi urtava senza alcun riguardo, la mia attenzione fu
carpita da una scritta gialla che segnalava la toilette.
Feci
un profondo respiro, poi aprii la porta del bagno ed entrai.
|
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Un grazie di cuore ad AnonymousA per aver recensito! Ecco il nuovo
capitolo :)
Occhi
alteri, lingua
bugiarda, mani che versano sangue innocente; cuore che ordisce trame
malvagie, piedi solleciti a correre al male…
Proverbi,
6,17-18.
7.
Il
completo candore della stanza fu quasi uno shock per la vista dopo la
luce rossastra del Mephisto.
Ai lati della stanza c’erano le tazze nascoste da pannelli
separatori bianchi, mentre qualche metro davanti alla soglia un lungo
specchio da parete sormontava una fila di lavandini immacolati.
Simon mi
dava la schiena,
chino su di essi. Non riuscivo a vedere il suo volto, ma era chiaro
che fosse piuttosto sconvolto perché anche dalla mia
posizione notai
il tremito del suo corpo e il respiro affannoso, come dopo una lunga
corsa.
Eravamo solo
noi due ed ero
certa che se si fosse trattato di una toilette per signore sarebbe
stato molto differente. Lo stereotipo secondo il quale le donne
andavano a rinfrescarsi insieme era piuttosto attendibile
perciò non
osavo immaginare com’era la ressa nel bagno accanto.
«Simon…»
mormorai,
temendo quasi di attirare la sua attenzione, incerta a proposito
della reazione che avrei potuto scatenare. Sentire il mio tono di
voce tornato alla normalità fu strano, era insolito non
dover più
gridare per sovrastare il volume della musica. Quel luogo era
un’isola di tranquillità all’interno di
un locale che tutto era
fuorché pace, perciò mi godetti
quell’istante di silenzio. La
musica era quasi inesistente, solo un rimbombo in sottofondo.
Lui parve
non avermi
nemmeno notato. Stringeva le mani attorno al lavandino, come se non
contasse su nessun altro sostegno per non crollare a terra.
Accennai
qualche passo
verso di lui e come risposta a quel gesto alzò il viso e i
suoi
occhi nel riflesso incontrarono i miei. Era una mia impressione o
erano colmi di lacrime?
«Senti,
lo so che sono
stata indiscreta e mi dispiace molto. Non sono affari miei, scusami
per aver insistito. Di solito non sono un’impicciona, ti
chiedo
scusa».
Il suo
sguardo era duro,
sofferente, ma non sembrava davvero in collera con me. Respirava a
scatti, a fatica e mi chiesi se fosse solo il nervosismo a
provocargli quella reazione o se avesse anche problemi fisici.
«Sono
stata maleducata»
continuai, sperando che dicesse finalmente qualcosa. Si
limitò a
scuotere la testa, ma l’ambiguità del gesto non mi
aiutò a capire
che cosa intendesse davvero comunicare. Era in collera per
ciò che
avevo fatto o mi stava dicendo che non era colpa mia? Non potevo
esserne sicura finché non gli avessi sentito pronunciare
qualche
parola.
La porta si
aprì di colpo
dietro di me e dall’uscio fece capolino il viso pallido e
spruzzato
di lentiggini di un ragazzo, ignaro della situazione. Ancora prima
che potesse muovere qualche passo, come una furia Simon si
voltò e
gli puntò l’indice contro, con aria aggressiva.
«Fuori!
Fuori di qui!»
gridò, lo sguardo truce puntato sul malcapitato, che
sbiancò ancora
di più e prontamente alzò le mani in segno di
resa.
«Ehi,
calma! Che ti
prende?»
«Ho
detto fuori!» Il tono
di Simon non ammetteva repliche, così diverso da qualche
istante
prima, quando avevamo chiacchierato del più e del meno.
Avevo
pensato che fosse basso e seducente, molto virile. Ora vi leggevo un
sottofondo di paura come se da un momento all’altro le parole
si
dovessero trasformare in grida di terrore.
«Esco,
stai tranquillo».
Il ragazzo fece qualche passo indietro come se avesse una pistola
puntata in faccia. Mentalmente lo ringraziai per non essersela presa
e per non aver interpretato la reazione di Simon come
un’offesa
personale o un tentativo di piantare grane. D’altra parte,
che
avrebbe potuto fare se così fosse stato? Minuto
com’era non
avrebbe potuto tenere testa al fisico più sviluppato di
Simon.
«Scusaci,
risolviamo in un
attimo, ok?» mi giustificai, cercando di infondergli fiducia
con un
sorriso, ma lui non diede segno di avere problemi al riguardo. Mi
lanciò un’occhiata tra il rassegnato e il confuso,
poi tornò in
silenzio da dove era venuto.
Simon si
passò il dorso
della mano sugli occhi e sospirò. «Cristo, scusa,
non so che mi è
preso».
La sua voce
era intrisa di
dolore e disagio e quando abbassò il braccio i miei sospetti
trovarono fondamento: stava piangendo. Con il respiro spezzato e un
colpo di tosse si chinò su se stesso e posò le
mani sulle
ginocchia. Tentò di respirare normalmente, ma notai che il
suo viso
era imperlato di sudore e si portava spesso la mano al petto.
«Senti
dolore al torace?»
chiesi, in un sussurro che fu più un’affermazione
che una vera
domanda. Anche prima che annuisse riuscii a capire quale fosse il
problema. Tossì di nuovo, poi scosse la testa.
«Non
capisco cosa c'è di
sbagliato in me» singhiozzò. Azzardai qualche
passo nella sua
direzione, ma con cautela, proprio come mi sarei comportata con un
animale ferito e spaventato.
«È
la prima volta che ti
capita?» Scosse la testa, passandosi una mano sulla fronte
per
asciugarla dal sudore. Aveva l’aria di poter svenire da un
momento
all’altro.
«Palpitazioni,
nausea,
sensazione di non poter respirare?» Altro cenno affermativo,
come
previsto.
«Tranquillo,
è solo un
attacco di panico. Non cercare di controllarlo o evitarlo, è
meglio
che faccia il suo corso. Convinciti non solo che passerà, ma
che sta
già passando. Respira in modo regolare, non incamerare
troppa aria o
andrai in iperventilazione».
Lo osservai
compiere quelle
semplici operazioni, gratificata nel vedere che si fidava di me
quanto bastava per darmi ascolto. Con gli occhi ancora sbarrati si
massaggiò il petto dolente e iniziò lentamente a
contare quando gli
consigliai di farlo.
Restammo
qualche lungo
minuto in silenzio, in attesa che l’attacco finisse. Quando
il suo
respirò tornò regolare e negli occhi non si lesse
più il terrore
di pochi istanti prima, si scusò, con aria visibilmente
mortificata.
«Non
ti preoccupare, in
fondo è colpa mia, no? Ho scatenato qualcosa di terribile
senza
saperlo» mormorai. Un’ondata di sollievo mi
colpì come uno
schiaffo quando lo vidi scuotere la testa. Sapevo che la questione
era tutt’altro che risolta, una cosa da poco non poteva
certamente
scatenare un attacco di panico, ma la convinzione che non fosse
arrabbiato con me mi fece sentire un po’ meglio. Tentai
qualche
parola per rassicurarlo.
«Non
c’è niente di cui
vergognarsi, sono cose che capitano. Ti capisco».
«No,
non credo che tu
possa davvero farlo, ma ti ringrazio».
«Vuoi
parlarne?» Non
volevo insistere, sapendo che proprio così avevo scatenato
la sua
reazione. Ma ormai era diverso da quando eravamo al bancone. Era per
fuggire da quell’attacco ed evitare di mostrarmi la sua
debolezza
che mi aveva lasciato sola per rifugiarsi in quel bagno, ma ormai non
c’era più niente da nascondere.
Sbuffò
e tirò su con il
naso, un gesto che non mi parve affatto grossolano. Mi ero aspettata
che in lui tutto fosse perfetto, ma vederlo cedere alle sue emozioni
non fece altro che dimostrarmi che era umano e fragile. Sembrava un
bambino dopo ore di pianto, ancora scosso dai singulti e incapace di
placarli.
«Che
situazione di merda!»
esclamò di punto in bianco, dando sfogo alla collera. Non fu
tanto
il tono rabbioso a spaventarmi quanto il gesto che seguì.
Con un
rapido movimento, sempre stringendo saldamente la bottiglia, la
sbatté con forza sul lavello, mandandola in pezzi e facendo
risuonare nella stanza un rumore di vetro infranto. Alcuni cocci
caddero ai suoi piedi, altri li sentii scivolare nel lavabo, mentre
la birra colava lungo la ceramica.
Nemmeno mi
accorsi che al
pari del ragazzo entrato poco prima anche io avevo portato le mani
avanti in un gesto istintivo di auto-protezione. Lui si
ripiegò
ancora su se stesso, gettando a terra il collo della bottiglia, unico
pezzo reduce dalla sua furia, e chinandosi sul lavandino in un pianto
silenzioso. La sua schiena tremava e sobbalzava per i singhiozzi e il
mio cuore fu solleticato dalla compassione. Odiavo pensare di essere
stata io a causare sia l’attacco di panico che il suo dolore.
Mossi ancora
qualche passo
verso di lui, senza curarmi del suo sfogo e sperando che
all’esterno
del bagno nessuno avesse sentito rumori sospetti. Tesi
l’orecchio
per valutare la situazione, ma nessuno entrò e la musica
continuava
a pulsare in lontananza. Tutto normale.
«Scusami»
biascicò lui
dopo qualche istante. «Mi sto comportando come un dannato
poppante.»
«Ma
no, che dici?» mi
lasciai sfuggire una risatina nervosa, avvicinandomi ancora un
po’,
indecisa se essere spaventata o solo preoccupata per il suo
comportamento. I miei tacchi risuonarono sul pavimento, mentre
osservavo i danni compiuti. I cocci in fin dei conti non erano tanti,
qualche pezzo di vetro scuro qua e là. Il lavello non dava
segni di
essersi rovinato.
«Quando
si parla di mio
fratello è sempre così. Per quanto mi sforzi di
non pensarci e fare
finta che non sia successo niente» spiegò.
«La mia reazione è
sempre la stessa. Do di matto».
«A
quanto pare tenerti
tutto dentro non ti fa bene. Sono una perfetta sconosciuta, lo so, e
non devi parlarmene se non vuoi, ma assicurati di farlo con
qualcuno.»
«È
morto». La secchezza
dell’affermazione mi lasciò spiazzata e in
silenzio e anche se non
era di me che si parlava, il cuore mi parve sprofondare in un mare
gelato. Fui tentata di chiedere di ripetere, ma rimasi zitta, in
ascolto del rumore prodotto dal respiro di entrambi. Il mio avevo
assunto un ritmo diverso ora che sapevo il motivo del turbamento del
ragazzo e per quanto mi sforzassi di rimanere impassibile, o al
massimo mostrarmi dispiaciuta per la sua perdita, non riuscii a
sbarrare le porte al dolore.
Inevitabilmente
il pensiero andò all'anno precedente, a quella notizia
sussurrata
dalle labbra di mia madre, al suo tono gelido e alla corsa forsennata
in ospedale. La speranza, strenua fino all’ultimo, che tutto
potesse andare liscio, che tornasse alla normalità,
perché quello
non poteva davvero accadere a noi. A qualcun altro sì, ma
non a
noi…non
a me.
E
poi quella mazzata in pieno petto, il cuore che si strappava a
metà,
il respiro mozzato in gola e il desiderio di sprofondare, morire,
annientarmi completamente per non ritornare mai più al
presente.
«Mi
dispiace» bisbigliai,
un debole sussurro a stento scivolato fuori dalle labbra. Due parole
che avevo sentito così tanto nei giorni seguenti a
ciò che era
accaduto, che ne conoscevo a memoria la cadenza come una ninna nanna
cantata troppe volte e ormai vecchia.
Senza che lo
spronassi,
Simon parlo da sé. «Un incidente automobilistico
sei mesi fa. Era
poco più grande di me»
Avrei voluto
dire ancora
che mi dispiaceva, ma la voce mi si spense in gola non appena tentai
di prendere parola.
«Non
riesco a smettere di
pensare a lui e ogni volta mi sento morire. Perciò scusami
se ho
reagito in malo modo, sia prima al bancone sia poco fa».
Si
voltò di nuovo, il viso
pallido rigato di lacrime, gli occhi che brillavano ancora di
più e
di un colore divenuto splendido. Il suo sguardo profondamente ferito
e l’orda dei ricordi mi fecero pizzicare gli angoli degli
occhi. Mi
schiarii la voce.
«Ho
detto che ti capisco
non per pronunciare qualche parola di circostanza, ma perché
posso
davvero comprendere cosa provi. Ti sembrerà una coincidenza
inquietante, ma...anche io ho perso mio fratello». Dirlo,
pronunciarlo ad alta voce, fu come ammettere a me stessa che era
successo davvero. Non ne parlavo quasi mai con nessuno, anche se
tutti sapevano che l’altro figlio di David e Patricia Hale
era
morto. Non era mia intenzione negarlo, ma era normale evitare
ciò
che ci faceva soffrire.
Simon mi
guardò,
soppesando le mie parole, quasi dubitando della veridicità
della mia
affermazione, come se avessi potuto mentire su una questione
così
delicata. Sostenni il suo sguardo, pesante come un macigno,
finché
non lo sentii sbuffare.
«Perfetto,
adesso sì che
mi sento un imbecille. Un ragazzone come me che piange e tu che te ne
stai lì, composta. Pare che io non riesca a tenere a freno
le mie
emozioni» si lamentò, con un mezzo sorriso, come
per sdrammatizzare
e piegare quella situazione spiacevole in una battuta di spirito.
«Sono
le emozioni che ci
ricordano che siamo vivi».
Annuì
pensieroso, poi
abbassò lo sguardo. «Com’è
successo?»
«Investito
da un furgone
mentre andava in bici. Si potrebbe chiamare incidente, ma il
conducente è passato col rosso. Evidentemente aveva
parecchia
fretta».
La freddezza
con la quale
le parole uscirono dalle mie labbra stupì anche me. La voce
era
tremante, ma presente. Evitai di menzionare l’odio che avevo
provato per quell’uomo appena avevo saputo che era stato lui
a
causare la morte della persona più importante della mia
vita. Non ne
andavo fiera, ma se lo avessi incontrato per la strada, cosa
impossibile perché era in carcere, l’avrei ucciso
con le mie mani.
«Anche
a me dispiace per
tuo fratello» dichiarò Simon in un sussurro.
«Mi perdoni per
prima?»
«Non
credo che tu abbia
mai avuto nulla da farti perdonare. Come ho già detto sono
io che
devo chiedere scusa per essere stata poco delicata. Di solito ho
molto più tatto, ma l’alcol mi ha fatto varcare
qualche confine
vietato, perciò facciamo così: lasciamo perdere
tutto e
torniamocene di là, ok?»
Non ero
sicura che potesse
funzionare davvero. Avevamo aperto troppi armadi e gli scheletri
erano balzati fuori a ricordarci questioni che dovevamo fronteggiare
prima o poi, ma ero intenzionata a provarci. Forse una passeggiata
all’aria aperta lo avrebbe aiutato a riprendersi dalle
conseguenze
fisiche del suo dolore.
Di nuovo un
breve cenno del
capo da parte sua. Osai qualche altro passo nella sua direzione e lui
fece lo stesso, scrutandomi con quegli occhi verdi non più
solo
seducenti e ammalianti, ma anche pieni di emozioni. Dapprima la sua
mano mi sfiorò una guancia, poi si chinò verso di
me e posò la
fronte contro la mia tempia, piegando la schiena per abbassarsi verso
di me. La sua pelle era fresca e lievemente umida, mentre contro la
guancia sentii la sua barba pungermi la pelle e il tocco bagnato
delle sue lacrime.
«Non
ti sembra
incredibile? Abbiamo tante cose in comune, quelle belle e quelle
dolorose» mormorò. Il suo respiro mi
solleticò il mento,
causandomi una stretta allo stomaco per la vicinanza di quel ragazzo
che ritenevo magnifico. Le parole mi rimasero incastrate in gola,
perciò mi limitai ad annuire.
«Sembra
quasi qualcosa di
soprannaturale».
«Se
ci credessi direi che
è destino» riuscii finalmente ad affermare, con un
sorriso. Feci
per aggiungere altro, per chiarire che non c’era nulla di
strano in
quelle coincidenze, semmai erano una piacevole sorpresa, ma
interruppe ogni tentativo posando le labbra sulle mie. Ci misi
qualche secondo a realizzare che mi stava baciando e che non era solo
un sogno ad occhi aperti generato dal contatto. Mi posò una
mano
alla base della schiena, in un tocco sicuro che mi fece sentire
sorretta, come se potesse leggere nei miei pensieri e vedervi il
timore di essere sopraffatta dalle emozioni e crollare a terra.
Aspettai a mettergli le braccia attorno al collo, seguendo invece i
suoi movimenti e lasciandolo fare. La sua bocca sapeva ancora di
birra, le sue labbra erano morbide in piacevole contrasto con
l’accenno di barba che sfregava contro la mia pelle. La
sensazione
provata poco prima al bancone, quando mi aveva sfiorato più
volte la
mano, mi invase il corpo centuplicata in un palpito indescrivibile.
Ogni cellula del mio corpo sembrava soggiogata.
Quando
decise di
interrompere il contatto cambiò posizione, abbracciandomi da
dietro
e affondando il viso contro la mia spalla. Posò un bacio
leggero
sulla mia gola, come per ascoltare il pulsare del mio sangue sotto la
pelle. Il contatto mi fece rabbrividire dalla punta dei piedi a
quella dei capelli. Tutte le sue difese parvero infine crollare come
un fragile castello di carte e ricominciò a singhiozzare
stretto a
me, un braccio avvolto attorno alle mie spalle.
«Ehi,
è tutto ok» mi
trovai a sussurrare, posandogli la mano sul braccio che mi avvolgeva,
accarezzandogli la pelle e tentando di consolarlo come meglio potevo.
Deglutii e mi sforzai di non piangere, di non lasciarmi sopraffare.
Conoscere il motivo per cui stava così male rievocava in me
tristi
ricordi a cui non volevo pensare. Già in macchina con i miei
amici
avevo rischiato il crollo solo per un’allusione innocente di
Louis,
non potevo cedere di nuovo.
Ma
lì, assieme a lui,
sembrava più facile abbandonarmi alle mie vere emozioni.
Eravamo
soli ed eravamo insieme, uniti dallo stesso lutto anche se per due
persone diverse.
Alzò
il viso e percepii le
sue labbra a pochi centimetri dal mio orecchio. «Davvero non
ti
sembra strano che due persone come me e te abbiano così
tante cose
in comune?»
Scossi la
testa, senza
capire perché quella questione lo incuriosisse
così tanto.
«Gli
esseri umani sono
così…prevedibili» disse ancora.
Aggrottai la fronte, pronta a
chiedergli di che stesse parlando, ma fu allora che provai una
sensazione strana, come una consapevolezza improvvisa, un segnale di
pericolo.
«Perdonami,
davvero…»
disse tra quelli che fino a qualche istante prima mi erano parsi
singhiozzi addolorati. Ora capii che stava ridendo. «Niente
di
personale, credimi, è solo un piccolo regalo per il mio
amico».
Per la prima
volta da
quando si era avvicinato azzardai osai alzare lo sguardo e fissare la
nostra immagine riflessa. Ciò che lessi nei suoi occhi mi
fece
rabbrividire, ma fu lo scintillio del coccio di vetro che reggeva in
mano a farmi gelare il sangue nelle vene.
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Avvertimento: sebbene io
abbia già indicato che il rating della storia non
è esattamente quello adatto a dei bambini, mi sembra
doveroso menzionare la presenza di scene violente e di un po' di sangue
in questo capitolo. Giusto un po'...
Colgo anche l'occasione per ringraziare AnonymousA e Mivi28. Grazie
davvero di cuore per aver lasciato un commentino. Spero che il
capitolo, seppure un po' breve, non vi deluda. :) Buona lettura!
Gli
empi, invece,
secondo i loro progetti, riceveranno il castigo, essi che non si sono
presi cura del giusto e si sono allontanati dal Signore.
Sapienza
3,10.
8.
Il
suo movimento fu così fulmineo che la mia mente non riuscii
ad
elaborare il tutto e quel lampo di dolore alla gola mi parve
insensato, senza un’origine precisa.
D’istinto
cercai di
evitare l’attacco, ma il braccio di Simon mi stringeva il
busto
immobilizzandolo, e ogni mio tentativo risultò vano.
Sebbene il
colpo fosse
stato quasi impercettibile, sentii ogni istante di quando il coccio
di bottiglia fu strappato via dalla ferita. Qualcosa di caldo mi
scivolò lungo il petto, dentro la scollatura del vestito, e
per
quanto quel pensiero mi sembrasse inutile, mi stupì la
temperatura
del mio stesso sangue. Il respiro mi si spezzò in gola.
Simon
sciolse la sua
stretta e crollai a terra, mentre la forza defluiva velocemente dagli
arti, e nel mio campo visivo il bianco intenso delle mattonelle fu
guastato dal rosso del sangue che zampillava.
Mi
portai una mano alla gola e percepii con orrore i lembi della ferita
lasciar sgorgare il sangue come una diga distrutta.
«Te
l’ho detto, piccola, ho i gusti dei gatti coi topi e tu sei
un
adorabile animaletto con cui giocare. Tutti voi lo siete». La
voce
di Simon era un sussurro intriso di un piacere perverso. Era chiaro
che quella visione lo divertiva molto. Non capii che cosa intendesse
per voi,
ma non mi importava, non volevo ascoltarlo. Volevo gridare,
chiedergli che cosa avesse fatto e soprattutto perché, ma le
parole
non ne volevano sapere di uscire dalle labbra e ad ogni respiro
mancato la bocca si riempiva di sangue.
«Adesso
resta lì e lascia che ti guardi morire».
Sentii
le forze abbandonarmi più velocemente di quanto mi sarei mai
aspettata, come se in ogni millilitro di sangue fosse contenuta la
mia energia. Non sarebbe stata una cattiva idea abbandonare la testa
contro il pavimento fresco e chiudere gli occhi aspettando che
finisse, ma l’istinto ebbe la meglio.
Alzati
e scappa. Esci di
qui, chiedi aiuto.
Feci
forza sulle mani e riuscii chissà come a tirarmi
faticosamente in
piedi, a gettarmi contro la porta e spingermi fuori, armeggiando con
la maniglia di metallo divenuta improvvisamente scivolosa, le mani
premute contro la ferita. Alle mie spalle, Simon gridò
qualcosa con
voce sprezzante.
Il
passaggio dal bagno all’esterno fu uno shock, la musica mi
assalì
come una forza fisica e il cervello parve rimbombare
all’interno
della scatola cranica. Le orecchie ronzavano in sottofondo e ad ogni
battito del cuore il palmo della mia mano incontrava il pulsare
frenetico del sangue. Le luci stroboscopiche mi circondarono rendendo
il mondo attorno a me un frammento d’incubo, composto di
lampi
bianchi e rossi incessanti, e persone accanto a me che sembravano
muoversi a scatti come in preda alle convulsioni.
Sentii
le forze venire meno, le membra intorpidite e gli arti deboli.
Riuscii a coprire una distanza minima, poi le gambe cedettero a
metà
della scaletta che dava sulla pista da ballo. Sentii la caviglia
piegarsi sotto il mio peso e crollai faccia a terra. Con le mani
strette sulla ferita mi fu impossibile attutire la caduta e impedirmi
di picchiare la fronte contro il duro pavimento.
Decine
di piedi attorno a me erano ancora in movimento quando, malgrado la
musica, udii uno strillo.
Ciò
che seguì furono immagini, lampi di oblio e coscienza.
Qualcuno
gridò di chiamare un’ambulanza, qualcun altro
chiese se ci fosse
un medico tra i presenti. Poi, tra le centinaia di voci, distinsi il
mio nome.
Tra
la calca riuscii a individuare chiaramente solo il volto di Jennifer,
china su di me, sull’orlo del panico, pallida come una morta
e con
i grandi occhi scuri sbarrati per lo shock. Riconobbi la sua mano
fresca premere sulla gola, mentre io non sapevo nemmeno più
che fine
avessero fatto le mie. Non avevo più la
sensibilità degli arti.
Le sue
labbra si mossero,
ma non ne uscì alcun suono, solo il suo viso carico
d’angoscia mi
suggerì che stava pronunciando qualsiasi cosa che potesse
aiutarmi a
restare lucida e sveglia. I lati del mio campo visivo ormai erano
appannati, come se stessi guardando in un oblò molto piccolo
e in
una dimensione in cui tutto era distorto. La musica ancora picchiava
incessantemente nella mia testa, ma come potevo sentirla se attorno a
me si presentava un mondo muto?
Dopo qualche
istante capii
che si trattava del mio stesso cuore che rimbombava nelle orecchie.
Qualcosa
cambiò: una voce
si fece largo tra un battito e l’altro. Percepii una mano che
mi
sollevava la testa e un’altra che allontanava con decisione
quella
di Jennifer, per intervenire sull’emorragia. Nella confusione
della
mia vista, occhi celesti ricambiarono il mio sguardo.
«Andrà
tutto bene, devi
fidarti di me» mormorò una voce, così
distinta che mi sembrò di
percepirla solo nella mia mente. La presa sulla ferita era salda.
Qualcuno mi strinse con forza la mano, le dita scivolose per il
sangue.
I polmoni mi
bruciavano per
la mancanza d’aria e qualcosa mi colava dalla bocca e dal
naso,
gorgogliando ad ogni tentativo di respirare.
Gli occhi
del ragazzo
misterioso guardavano solo me, tralasciando la ferita, stranamente
confortanti. Un lampo di speranza nel bel mezzo di
quell’inferno di
volti spaventati.
«Non
ti preoccupare, ora
passerà, te lo prometto. Devi solo respirare. Coraggio,
respira».
Disse,
con una naturalezza e una tranquillità che mi parvero
impossibili in
un momento tale. Riuscivo solo a pensare Non
posso, non ci riesco.
Le
palpebre divennero troppo pesanti perché riuscissi a
sostenerle
ancora a lungo, desideravo solo lasciarmi andare e fidarmi ciecamente
di quello sconosciuto.
Il
bruciore alla gola e ai polmoni era insostenibile, ma feci un ultimo
tentativo. Come se si sciogliesse un enorme blocco di ghiaccio nel
mio petto l’aria riempii i polmoni e il sollievo mi invase.
Incamerai ossigeno finché mi fu possibile, mentre attorno a
me il
buio calava lentamente come un sipario. La testa ancora pulsava e il
corpo sembrava appartenere a qualcun altro, ma ogni traccia di dolore
o fatica era svanita completamente.
«Bene»
disse ancora il ragazzo, con un ampio sorriso rassicurante. Fu
l’ultima cosa che vidi, prima di abbandonare la testa contro
il suo
palmo e chiudere del tutto gli occhi.
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
Ringrazio AnonymousA e
Mivi28 per i commenti al capitolo precedente! Grazie di cuore. Ancora
un po' di pazienza e scoprirete chi è il ragazzo misterioso
che ha salvato Amber!
Perché
costringermi a
vedere l’iniquità e a dover guardare
l’oppressione? Rapina e
violenza stanno davanti a me; c’è rissa e la
discordia prevale! La
legge di certo si affievolisce e scompare per sempre la giustizia.
Perché l’empio domina il giusto la giustizia si
perverte.
Abacuc, 1,
3-4.
9.
Christopher
era famoso per il suo innato ottimismo. Non importava quanto fosse
nera la situazione, lui vi avrebbe trovato almeno un insegnamento
importante. Conoscendolo avrebbe saputo vedere il lato positivo della
sua stessa morte. Avrebbe detto che quella disgrazia poteva essere
utile a riunire la nostra famiglia, ma si sarebbe sbagliato di
grosso. Fu dopo la sua morte che il nostro mondo, già
piuttosto
fragile, finì di crollare.
Avevo
accolto la notizia
della separazione dei nostri genitori come qualcosa di già
noto,
senza stupirmene più di tanto. La mancanza di comunicazione
nel loro
rapporto lo aveva reso indifeso, come una cinta muraria già
piena di
brecce e ormai perduta di fronte all’assedio. Non potevo dare
la
colpa di tutto a mio fratello, lui era solo stata la proverbiale
goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Christopher era sempre
stato l’anello saldo della nostra catena e la sua mancanza
aveva
fatto capitolare tutto.
Tra i pochi
momenti di vera
lucidità al funerale, ricordavo di aver visto i nostri
genitori
fisicamente vicini, ma emotivamente distanti. Evitavano di toccarsi o
anche solo di guardarsi, come se tutto fosse stato causato da una
colpa dell’altro o come se non avessero mai condiviso nulla
nella
loro vita, nemmeno il dolore per quel figlio ormai perduto.
Si erano
limitati ad
ascoltare le condoglianze dei presenti, ringraziando con i volti
tesi. Papà aveva continuato a piangere in silenzio, mia
madre invece
aveva mostrato il solito cipiglio freddo da donna di ghiaccio,
insensibile a tutto.
Il mio
sguardo aveva
abbracciato più volte tutto il prato e ogni punto del
cimitero, fra
le decine di persone presenti, alla ricerca dell’unica che
davvero
avrei voluto presente. Non avevo fatto altro che chiedermi
perché
tutta quella gente fosse lì con noi, perché
avessero deciso di
condividere il nostro dolore, anche se molti di loro non avevano
conosciuto Chris come lo conoscevo io. Loro non sapevano che mio
fratello borbottava nel sonno, che si lavava i denti canticchiando,
che si commuoveva guardando i documentari della BBC per la bellezza
straordinaria della musica che accompagnava ogni scena. E loro non
avrebbero dovuto vivere senza tutte quelle cose.
Perché
si ostinavano ad
avvicinarsi a me e con i loro sguardi feriti suscitare nel mio animo
una sofferenza maggiore? Che me ne facevo della loro
solidarietà,
sapendo che ognuno di loro alla fine della funzione sarebbe tornato
alla propria vita, conservando le parole del prete solo come una
bella predica e un bel ricordo di un ragazzo qualunque?
A me cosa
restava? Due
genitori che rinnegavano ciò che avevano costruito insieme,
che non
si guardavano nemmeno più in faccia e non osavano rivolgersi
la
parola. Una stanza vuota accanto alla mia, priva dei rumori della
presenza di Christopher nella mia vita, del pizzicare delle sue dita
sulle corde della chitarra, della sua voce e dei passi lungo il
corridoio tra le nostre camere.
Eppure avevo
stretto i
denti, accettato il dispiacere degli sconosciuti, grata solo degli
abbracci dei miei migliori amici.
«Siamo
tutti qui per lui…»
avevo mormorato con gli occhi fissi sulla lucida bara di legno
cosparsa di fiori. «Ma lui non
c’è».
Per tutto il
tempo della
funzione mi era sembrato di vederlo cantare assieme al resto del
coro, i suoi occhi gentili che mi fissavano e il perenne sorriso
sulle labbra. Per quanto poetica fosse quell’immagine, mi
aveva
generato un moto di nausea che mi aveva fatto desiderare di scappare
via da lì, ignorare la messa, tornare a casa e chiudere gli
occhi.
Abbandonarmi sul letto e sperare che il sonno avesse la meglio,
salvandomi da quella giornata d’inferno.
Ovviamente
non l’avevo
fatto.
Era sempre
stato Chris a
farmi compagnia quando i nostri genitori erano assenti, rapiti alla
famiglia da un lavoro che richiedeva troppo tempo, a consolarmi
quando qualcosa andava storto, ad ascoltare i miei sfoghi e ad
assorbire nella felpa tutte le mie lacrime adolescenziali.
Sorrideva e
trovava sempre
parole di conforto quando mi dilungavo in monologhi carichi di
preoccupazione sui miei fidanzati pieni di problemi, a strapparmi
risate sincere anche quando non avevo voglia di farlo, a prendere la
chitarra e cantare, sapendo quanto amassi la sua voce, anche se gli
ripetevo in continuazione che la musica che ascoltava era da vecchi.
Avevo detto
tante cose che
non pensavo, per esempio che detestavo il suo ottimismo e la sua
devozione. Trovava gioia in ogni giornata e da vero cristiano
riteneva che ci fosse un senso anche in qualcosa di marcio.
Ma allora
perché il
furgone aveva superato il semaforo rosso proprio nell’istante
esatto in cui Chris attraversava la strada in bicicletta? Che razza
di disegno divino avrebbe mai potuto essere?
Ero atea da
molto prima che
ciò succedesse, ma quell’evento aveva rafforzato
la mia
convinzione che non ci fosse nessun Dio, nessuna forza
imperscrutabile che governava le nostre vite. Quale Dio avrebbe
lasciato che accadessero cose del genere, soprattutto ad un figlio
così fedele? Pensare che esistesse avrebbe significato
sostenere che
non ci amava, perché in un secondo la vita di Chris era
finita e la
mia famiglia era andata in sfacelo.
Una famiglia
che non
riusciva a restare unita nemmeno quando la seconda figlia aveva
rischiato di rimetterci la pelle.
Nella stanza
d’ospedale
si sentivano solo le voci astiose dei miei genitori, impegnati
nell’ennesimo battibecco. La mia sicurezza personale e
ciò che era
accaduto al Mephisto
erano il tema della discussione, ma in realtà era solo un
pretesto
per ricordarsi l’un l’altro il motivo per cui non
vivevano più
assieme.
«Non
sto facendo nessun
terzo grado. Non dire a me come devo parlare a mia figlia,
David!»
esclamò mia madre, lanciandomi uno sguardo glaciale. Io mi
sistemai
meglio sul letto, sentendomi improvvisamente piccola e impotente e
non sapendo chi ringraziare per non aver ereditato il freddo azzurro
dei suoi occhi. Probabilmente un qualche miscuglio di geni che mi
aveva regalato occhi scuri e dolci come quelli di papà.
Nemmeno per
un istante lasciai la sua mano calda e grande, felice che fosse
seduto accanto a me.
Era stato un
sollievo
vederlo varcare per primo la porta della mia stanza, poco dopo il mio
risveglio, mentre mamma era arrivata qualche ora più tardi,
con il
volto teso e uno sguardo duro come il marmo. Ero sicura che volesse
prendermi a ceffoni, furiosa per aver dovuto lasciare il lavoro e
saltare sul primo aereo. Me la immaginai mentre, dopo la chiamata
della polizia, guardava i colleghi con aria imbarazzata dicendo
scusate, le solite scocciature, mia figlia stava per morire.
Vorrei restare ma...
«Come
sarebbe a dire?
L’hai attaccata appena hai messo piede in questa stanza,
dalle un
po’ di respiro!» si difese mio padre, o meglio,
difese me. Gli fui
grata per quel tentativo, ma non feci in tempo a rivolgergli uno
sguardo riconoscente che mia madre già era partita in quarta
con la
sua obiezione.
«Perché
cerchi sempre di
difenderla?»
«Perché
non è il momento
giusto per rimproverarla. Non ora!»
«So
perfettamente cosa
stai cercando di fare!»
La tensione
all’interno
della stanza era palpabile, mi formicolò addosso come una
cappa di
elettricità. Avevo vaghi ricordi di ciò che era
successo, momenti
di buio alternati a veloci lampi blu e rossi che poi avevo intuito
essere appartenuti ai lampeggianti dell’ambulanza e della
polizia.
Nella testa mi risuonava ancora il rimbombo della musica e voci
concitate.
La mia mente
era restia a
ricostruire il tutto, ma non era stato solo un sogno e molti elementi
mi impedivano di ignorare gli eventi. La fronte mi doleva nel punto
in cui l’avevo sbattuta contro il pavimento e un tubicino
trasparente portava sangue da una sacca appesa accanto a me al mio
braccio per reintegrare ciò che avevo perso a causa
dell’emorragia.
In fondo
alla gola sentivo
ancora il sapore del sangue, ne avevo sotto le unghie e tra i
capelli, probabilmente il busto non era da meno, e avevo paura a
parlare troppo forte o a tossire, come se potessero da un momento
all’altro saltare via tutti i punti e lasciarmi ancora in un
lago
di sangue.
Louis e
Jennifer erano
rimasti con me tutto il tempo, ancora prima che mi svegliassi, e mi
avevano poi raccontato ogni cosa che mi ero persa nei momenti di
incoscienza, ancora pallidi in volto e con lo sguardo spaventato. Ero
grata ad entrambi: Louis era uscito tempestivamente dal Mephisto
per chiamare il 911, mentre Jennifer aveva fatto di tutto per non
lasciarmi morire dissanguata. Conoscendo le sue paure e sapendo come
si sentiva male non appena vedeva una goccia di sangue, la
consideravo una vera eroina.
Un risvolto
positivo era
che Kurt si era vomitato sulle scarpe. Pivello.
Il resto lo
ricordavo
perfettamente, per esempio i miei tentativi di allontanarmi il
più
possibile dal mio aggressore, il bruciore ai polmoni causato
dall’impossibilità di respirare, la sensazione
sgradevole del
sangue che usciva a fiotti.
Secondo i
medici la
questione era molto diversa da come la conoscevo io. Mi avevano
ripetuto più di una volta che ero stata fortunata, che la
ferita era
stata molto superficiale e che mi sbagliavo a proposito della
velocità con cui avevo sentito il sangue uscire dal taglio,
perché
se si fosse davvero trattato di un’emorragia arteriosa
sarebbe
stato impossibile per me sopravvivere. In una decina di secondi sarei
morta certamente.
Certo, la
logica con cui mi
avevano spiegato le loro obiezioni non faceva una piega, ma
perché
allora i miei ricordi erano diversi? Mi sembrava impossibile che
fossero bastati otto punti di sutura per rimediare al problema, e
anche Louis e Jenny avevano confermato la mia versione dei fatti.
Quando
papà era arrivato,
con i capelli arruffati e una maglietta spiegazzata pescata
chissà
dove, Jennifer mi aveva abbracciato, Louis mi aveva dato un bacio
sulla fronte ed entrambi mi avevano salutato e promesso di venirmi a
trovare l’indomani. Quando poi avevo visto lo sguardo che mia
madre
aveva rivolto al marito appena aveva posato gli occhi su di lui,
avevo capito che uno scontro era inevitabile.
«Che
cosa intendi dire?
Che cosa starei cercando di fare, sentiamo?» La mano di
papà
strinse la mia con più forza, non ero sicura se lo facesse
per darmi
sicurezza o se per trarla da me.
«Reciti
la parte del padre
perfetto, del grande amico, la difendi senza esitazione».
«Sono
solo felice che sia
viva, per ora ti deve bastare».
«Lo
vedi? Fai passare me
come la cattiva della situazione!»
«Non
è quello che ho
detto…» mormorò mio padre con una
scrollata di spalle. Io evitai
di guardare entrambi troppo a lungo, soprattutto mamma.
All’inizio
avevo tentato di mantenere un certo contegno, perfino di mostrarmi
sprezzante, ma ogni sicurezza era crollata sotto le sferzate del suo
sguardo colmo di rimprovero.
Sospirò,
passandosi una
mano sulla fronte. Aveva l’aria stanca, non sapevo se
attribuirlo
al volo o al fastidio di aver perso tempo.
«Spero
almeno che tu abbia
imparato la lezione» mormorò rivolta a me, con
voce pacata ma
severa. Prima che papà potesse difendermi di nuovo, lei lo
interruppe. «Ha disobbedito ad un ordine di sua madre, ha
dato
confidenza ad un perfetto sconosciuto. Armato, per di
più!»
«Beh,
se avessi saputo che
mi avrebbe ficcato un coccio di vetro in gola non gli avrei dato
retta, non credi?» Feci, sulla difensiva. «Non
potevo saperlo».
«Invece
sì, ti avevo
avvertita che SoMa è una zona pericolosa della
città. Lo dicono
tutti, ma tu devi sempre fare di testa tua».
«Forse
perché sono
abituata ad arrangiarmi!»
«Non
cercare di rifilarmi
scuse assurde o dare la colpa a me per quant’è
successo,
signorina. Sai perfettamente cosa intendo, se ti dico di non fare una
cosa è perché so di cosa sto parlando!»
Evitai di
rispondere anche
se parole taglienti mi premevano contro le labbra, desiderose di
uscire. Se davvero voleva mostrarmi preoccupata o interessata alla
mia salute doveva sforzarsi un po’ di più per
dimostrarlo. Papà
attirò la mia attenzione con un lungo sospiro e le sue
labbra
sottili si piegarono in un sorriso dolce. I suoi occhi color
cioccolato mi rincuorarono e ogni traccia di tensione e rabbia
scivolò via dal mio corpo come tracce di fango lavate via
dalla
pioggia. Con le dita mi scostò alcuni ciuffi dalla fronte.
«Ora
non ti preoccupare di
nulla, d’accordo piccola? L’importante è
che tu stia bene, senza
gravi conseguenze. Ci hai fatto prendere un bello spavento!»
L’uso
del plurale poteva far pensare che si riferisse a lui e mia madre, ma
i miei genitori non erano più un noi
da un pezzo, perciò non poteva che riferirsi a lui e Trudy.
Nella
stanza la tensione raggiunse il picco massimo, come prova del fatto
che anche a mamma l’allusione non era sfuggita.
Papà
frequentava una
ragazza più giovane di una decina d’anni. Stavano
insieme da poco
più di un mese e io la trovavo adorabile, anche se mia madre
mi
fulminava con lo sguardo ogni volta che parlavo di lei in termini
positivi. A dire il vero sembrava odiare qualsiasi cosa rendesse
felice gli altri, ma Trudy era tabù in modo particolare,
perciò
avevo smesso di nominarla in sua presenza. In quel momento non mi
importò nulla. Trudy era splendida e dimostrava molto meno
dei suoi
trentaquattro anni. Pelle delicata e chiara, viso dolce da bambina e
un sorriso contagioso. Aveva capelli rossi che spesso le invidiavo e
belle labbra carnose. Cosa più importante, aveva un gran
senso
dell’umorismo, un’allegria inguaribile e una
gentilezza che me
l’aveva fatta piacere dal primo istante in cui
l’avevo vista. Era
maestra d’asilo e anche se non l’avevo mai vista
all’opera
sapevo che grazie al suo carattere se la cavava sempre alla grande
con i bambini.
Il fatto che
papà stesse
parlando di lei a quell’ora significava che si trovavano
insieme
quando aveva ricevuto la chiamata che lo informava
dell’aggressione.
Sapevo che dopo che era andato via di casa si era trovato un piccolo
appartamento vicino al posto di lavoro, ma ero anche convinta che la
maggior parte delle notti le passasse da lei.
Non era
difficile capire
come avesse fatto Trudy ad innamorarsi di lui, l’avevo sempre
considerato bello come un principe delle fiabe e altrettanto
coraggioso e gentile.
Il suo
aspetto era
confortante per natura, sempre in ordine, ben rasato e ben vestito,
ma lontano dall’essere snob. I capelli biondi erano tagliati
non
troppo corti e pettinati all’indietro, il viso era serio
durante il
lavoro, ma si addolciva spesso grazie alle fossette che si formavano
nelle guance non appena abbozzava un sorriso. Quella sul mento gli
donava un’aria affascinante che probabilmente aveva fatto
breccia
in molti cuori.
Erano le
stesse
caratteristiche che avevano fatto sciogliere anche mia madre,
più di
vent’anni prima e mi sembrava davvero impensabile
l’idea che ogni
sentimento d’amore o d’affetto da parte di lei
fosse stato ormai
soffocato e messo definitivamente a tacere.
Papà
aveva l’abitudine
di prendere ogni sua frecciatina, critica o insulto con una
naturalezza estrema, forse abituato dal suo lavoro o magari solo
rassegnato alla cosa. Era avvocato divorzista, perciò ne
vedeva di
cotte e di crude per quanto riguardava i rapporti umani. Giorno dopo
giorno esaminava casi, ascoltava lamentele, scrutava scartoffie ed
elargiva consigli su come affrontare il problema di separazioni e
divorzi. Era un paradosso che proprio lui avesse dovuto abbandonare
la propria casa e continuare a cercare compromessi per gestire una
moglie mostruosa.
«Come
sta Trudy?» gli
chiesi, ignorando lo sguardo astioso di mia madre che pesava su di
me. Papà si illuminò non appena sentì
il nome dell’amata.
«Sta
bene, ma si è molto
preoccupata per te. Devo ancora metterla al corrente delle tue
condizioni, ma sono certo che domani verrà a farti
visita».
Un lieve
bussare interruppe
la conversazione e mi fece distogliere gli occhi da quelli di mio
padre. La porta si socchiuse, poi si aprii del tutto lasciando
intravedere il sorriso dell’infermiera di turno e i volti di
due
perfetti sconosciuti. Appena misero piede nella stanza estrassero i
distintivi e distrussero ogni mio dubbio.
Uno dei due
poliziotti era
una donna, alta e slanciata, con i capelli neri ondulati e occhi
scuri dall’aria severa. Prese parola per prima, dandomi
l’impressione che fosse sempre lei a condurre il gioco.
«Signorina
Hale, salve.
Sono il detective Angela Collins e lui è il mio collega, il
detective Andrès Sanchez».
Il suo
accompagnatore, un
ispanico dal viso giovane e più basso di lei, mi fece un
cenno di
saluto con aria cordiale. Non mi ero mai trovata di fronte a due
poliziotti prima d’allora, non ero mai stata fermata in auto
e non
avevo mai rivolto la parola a qualcuno di altrettanto autorevole,
perciò non fui certamente stupita di sentire una lieve fitta
di
nervosismo allo stomaco. Non sapevo come comportarmi, alzarmi e
salutare in modo adeguato o restarmene ferma e attendere le loro
parole?
Parvero
leggermi nel
pensiero perché si avvicinarono entrambi per regalarmi una
vigorosa
stretta di mano, senza costringermi a fare la prima mossa. Si
presentarono anche ai miei genitori, poi spiegarono il motivo della
loro presenza.
«Siamo
qui per farle
qualche domanda se non le dispiace. Abbiamo atteso che potesse
riprendersi e calmasi un po’, ora se la sente di scambiare
con noi
qualche parola?»
Annuii
timidamente,
scambiando un’occhiatina con papà.
«Vuoi
che resti?» chiese
lui preoccupato.
«Non
preoccuparti, posso
cavarmela».
«Sei
sicura? Allora
aspetterò fuori, voglio telefonare a Trudy per farle sapere
che stai
bene, poi posso rimanere».
«Cosa?
Tutta la notte?»
Mi sembrava ingiusto farlo restare lì inutilmente. Adoravo
la sua
presenza, ma aveva l’aria stanca, era giusto che andasse a
dormire.
«Tranquillo papà, non c’è
bisogno che mi fai la guardia, so già
che dormirò come un sasso».
Il suo viso
lasciò
trapelare il dubbio. «Ne sei sicura, tesoro?»
«Al
cento per cento.
Salutami Trudy e dille che ho la pellaccia dura» lo
rassicurai,
facendolo ridacchiare. Si sporse verso di me e mi posò un
bacio
leggero sui capelli, mentre io inspiravo il suo profumo di pulito.
Sebbene ci vedessimo spesso mi mancava ogni giorno di più e
tutte le
volte che ci incontravamo e incrociavo il suo sguardo colmo
d’affetto
mi rendevo conto di quando fosse triste non averlo più a
casa.
«Allora
tornerò domani.
Buona notte. Arrivederci Trish.» rivolse un breve cenno a mia
madre.
L’uso del diminutivo mi fece capire che lui non portava
rancore nei
confronti della moglie. Strinse la mano ai due detective,
ringraziandoli per il loro lavoro, e se ne andò.
«Esco
anche io, così
potete parlare tranquillamente» si intromise mia madre,
alzandosi
dalla sedia e imitando papà. «Sarò qui
fuori se hai bisogno,
d’accordo?» Disse stancamente. Mi limitai a un
cenno d’assenso,
più preoccupata di ciò che la presenza della
polizia avrebbe
provocato: il dover ricordare a me stessa tutto quello che era
successo nel bagno. Di conseguenza il pensiero andò
all’unica
persona a cui non volevo ripensare.
Simon.
Solo il suo
nome mi mise i
brividi. Perché aveva cercato di uccidermi e con quali
intenzioni?
Più ci riflettevo e più lontana mi sentivo dal
capirlo. Se solo lo
avessi provocato in qualche modo avrei giustificato uno scatto
d’ira,
ma non si era trattato di un raptus e a parte il momento di rabbia in
cui aveva rotto la bottiglia sul lavandino, non avevo colto segnali
di minaccia.
E poi mi
tormentava ciò
che aveva detto, che l’aggressione era un regalo ad un suo
amico,
ma di chi parlava? Della stessa persona che aveva detto di aver visto
quando eravamo al bancone?
Se mi aveva
ferito per
compiacerlo allora dovevo considerarmi protagonista di una macabra
scommessa?
Era assurdo
e l’idea di
essere interrogata da quei due mi metteva in soggezione. Feci un
profondo sospiro e mi stampai un sorriso in faccia.
«Chiedete
pure».
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Rieccomi, con un nuovo capitolo. Ringrazio ancora
AnonymousA e Mivi28 per le belle parole lasciate nelle recensioni. Voi
mi allietate la giornata! :)
Guai ai cuori timidi e
alle mani rilassate, al peccatore che cammina su due sentieri. Guai
al cuore meschino che non crede, perché non avrà
protezione.
Siracide, 2,
12-13.
10.
Il
detective Collins indicò le sedie che si erano liberate dopo
l’uscita dei miei genitori.
«Possiamo
accomodarci?»
«Prego,
fate pure». Lei
si sistemò accanto a me, dove poco prima era seduto
papà e
finalmente il suo viso, in apparenza duro, si aprì in un
sorriso che
riuscì a donarmi un certo sollievo. Non c’era
tensione sul suo
volto, solo una luce di concentrazione negli occhi castani che mi
rincuorò e mi fece istintivamente sentire in buone mani.
«Per
prima cosa ci tenevo
a dirle che sono felice di sapere che sta bene. Di certo non
è
nostra intenzione sconvolgerla parlando di questa faccenda, ma
è
necessario per poter venire a capo della questione. Lei immagina che
stiamo cercando di trovare la persona che le ha fatto questo,
perciò
se potesse fornirci alcuni particolari sarebbe molto più
facile».
La formalità delle sue parole mi intimidì, ma mi
schiarii la voce e
accennai un sorrisino.
«Ecco,
preferirei che mi
deste del tu…e che mi chiamaste Amber. Mi sentirei
più a mio
agio».
«D’accordo,
Amber, puoi
raccontare com’è andata? Cerca di essere
più dettagliata
possibile, per favore».
Distolsi lo
sguardo,
puntandolo sulle mie mani, intrecciate in grembo e posate sulle
lenzuola azzurre. Tutto il resto della stanza richiamava quella tinta
tenue che aveva lo scopo di infondere ai pazienti pace e
tranquillità. Non sapevo come sentirmi al riguardo. I
ricordi lo
facevano apparire scioccante come un verde acido. Quella
tonalità mi
aveva circondata in attesa che Chris fosse operato e che i medici ci
mettessero al corrente delle sue condizioni. Vedermi di nuovo immersa
in essa provocò in me una sorta di
strano déjà-vu,
come se fossi tornata improvvisamente indietro nel tempo, al due
aprile dell'anno prima...
«Amber?»
L’intervento
di Collins mi riportò alla realtà.
«Mi
scusi, ero
soprappensiero…devo cominciare dal principio?»
«Sarebbe
utile. Un paio di
agenti sul posto stanno interrogando i presenti, ma la tua
testimonianza, come puoi immaginare, è
fondamentale». La detective
accavallò le lunghe gambe fasciate dai pantaloni neri, e mi
guardò
fissa in attesa del mio racconto. La sua voce era lievemente bassa,
graffiante, ma riusciva comunque a comunicare una certa
femminilità.
A prima vista sembrava una donna forte e avevo l’impressione
che i
suoi colleghi la stimassero e che ne fossero al contempo anche un
po’
intimiditi.
Cominciai a
parlare,
dapprima dubitando dell’efficacia del mio racconto, poi
sempre più
convinta. Le parole cominciarono ad avere volontà propria e
a
scivolarmi fuori dalle labbra con naturalezza e spontaneità.
Avevo
creduto di sentirmi spaventata di fronte a due poliziotti
così
autorevoli, ma parlare con loro fu meno fastidioso del previsto.
Avrei potuto parlare per ore di come tutti e tre fossimo rimasti a
bocca aperta nel contemplare le meraviglie del locale, le pitture
sulle pareti e quegli specchi suggestivi. Il fumo che si innalzava
dal pavimento, il rosso dominante, la sensazione di essere in un
luogo proibito e affascinante. Ma era Simon l’oggetto del
loro
interesse e le circostanze che mi avevano portata a cadere nella sua
trappola.
Quando
accennai al fatto
che non ero stata autorizzata da mia madre ad uscire, il detective
Sanchez alzò la testa dal blocco per gli appunti che reggeva
in
grembo e su cui dall’inizio dell’interrogatorio
stava
freneticamente scrivendo.
«Per
quale motivo sua
madre non ha voluto che uscisse?» chiese. Era la prima volta
quella
sera che udivo la sua voce, molto giovanile, gentile e pacata, ma
incalzante. Sapevo che fare domande e valutare ogni singola parola
faceva parte del loro lavoro, perciò cercai di non dare peso
all’insistenza che notai nella voce di entrambi. Era notte
anche
per loro e li aspettava ancora un duro lavoro.
«Mia
madre è un po’
prevenuta, crede che in South of Market girino tipi poco
raccomandabili, che la zona sia pericolosa e che io non sappia
cavarmela da sola. È una specie di maniaca del controllo,
credeva
che potesse succedermi qualcosa di brutto».
«Cosa
che effettivamente è
successa» commentò Collins con un mezzo sorriso.
«Beh
sì, ma lì per lì
non aveva motivo di sospettare nulla. L’aggressione
è stato un
caso, sarebbe potuta accadere ovunque e a chiunque» mi
difesi,
sapendo in cuor mio che la donna aveva ragione. Se solo avessi dato
ascolto a mia madre non sarebbe successo nulla di grave, ma
ammetterlo era troppo fastidioso.
«Avete
litigato?»
«Non
proprio, ho cercato
di far valere le mie ragioni, ma come sempre lei non mi ha dato
ascolto ed è uscita per andare al lavoro. Programmavo di
tornare a
casa prima che lei rientrasse».
Sanchez
lanciò un’occhiata
alla collega. Qualcosa mi suggerì che avessero intuito la
situazione.
«Mi
sembra di capire dalle
tue parole che tra voi non c’è un buon
rapporto» tentò lui.
«Credete
che sia stata lei
ad architettare il tutto? Non ci avevo pensato, ma a dire il vero
molte cose sarebbero più chiare se fosse lei il mandante del
tentato
omicidio».
Collins
ridacchiò,
riuscendo evidentemente a prendere la mia battuta come tale. Sanchez
per sicurezza annotò pure quello sul notes.
«Veniamo
all’aggressore.
Come si è avvicinato a te?»
«In
nessun modo, sono
stata io ad andare da lui. Era seduto al bancone, poco distante da
dove stavamo io e i miei amici».
Sanchez
alzò lo sguardo
dal notes e la donna corrugò la fronte. I suoi occhi scuri
assunsero
un’aria incuriosita.
«Davvero?
Avremmo giurato
che fosse accaduto esattamente il contrario».
«Che
importanza ha?»
chiesi, stringendomi nelle spalle. Credevano che una ragazza come me
non potesse fare il primo passo?
«Ne
ha molta. La sua
azione violenta mi fa pensare ad una premeditazione, a meno che tu
non l’abbia provocato in modo grave. La premeditazione
comporta fin
dal principio l’intenzione di avvicinarti». Ogni
parola aveva una
logica, ed era proprio ciò a cui avevo pensato io. Non ero
stata io
a scatenare la sua ira, probabilmente fin dal principio aveva avuto
l'intenzione di farmi del male.
Feci un
profondo sospiro.
Pensare a Simon mi lasciava senza parole, con la mente in subbuglio
nel tentativo di risolvere i miei dubbi e di comprendere il motivo di
tutto ciò che aveva fatto. Descrissi ai detective il momento
in cui
l’avevo individuato al tavolo da biliardo, il fatto che
l’avessi
fin da subito ritenuto uno schianto e il desiderio di conoscerlo.
Raccontai la nostra lunga chiacchierata, soffermandomi in particolare
sull’entusiasmo del ragazzo a proposito
dell’arredamento del
locale.
«Sembrava
molto
interessato a tutto ciò che riguardava il Mephisto.
Era a conoscenza delle spiegazioni di molti elementi, come per
esempio la forma del bancone, le scritte, i dipinti…e sapeva
diverse cose a proposito del Faust
di Goethe. Mi è parso molto
affascinato…»
«Come
se avesse per lui un
significato particolare?»
Annuii
pensierosa. «Proprio
così. Quando abbiamo iniziato a chiacchierare tutto
è andato a
meraviglia, poi il discorso si è fatto più teso
perché abbiamo
nominato le nostre famiglie. I suoi sono divorziati, i miei
separati…»
Di nuovo le
parole uscirono
dalla gola senza sforzi, descrivendo le reazioni esagerate di Simon,
la fuga in bagno, i gesti e la confessione della fine dei nostri
fratelli. Di come mi ero sentita bene all’idea di non essere
la
sola a soffrire di un lutto simile. Dannazione, se solo fossi stata
più assennata non sarei stata lì in un letto
d’ospedale immersa
in un interrogatorio di polizia. Avrei dovuto essere più
timida e
restare con i miei amici, lasciare che Simon stesse per conto suo a
sorseggiare in solitudine il suo drink e ordinare tutte le birre che
voleva.
A proposito
di questo,
evitai con cura di nominare ai due poliziotti il fatto che avevo
bevuto degli alcolici senza poterlo fare. Era irrilevante in quel
momento, ma non volevo ramanzine da parte di sconosciuti, per quanto
qualificati fossero. Bastava il mio senso di colpa a rimproverarmi
per aver trasgredito una legge ben precisa. E se quella sera fossi
uscita di strada con Louis e Jennifer a bordo? In fondo era bastato
qualche sorso per farmi sentire decisamente meno lucida.
Fu Sanchez a
farmi tornare
con i piedi per terra, con gentilezza, ma anche con una dose di
determinazione nella voce che mi diede la spinta giusta ad
abbandonare i se e a concentrarmi sulla concretezza degli eventi.
Quando con il racconto giunsi all’aggressione vera e propria
confessai agli agenti le mie impressioni e le riflessioni fatte poco
prima.
«Si
stava divertendo e
sembrava che la situazione gli piacesse molto, rideva per il fatto
che io credevo che avessimo molte cose in comune. Ora che ci penso
su, sono certa che quello che mi ha raccontato di sé no
fosse
vero…almeno non tutto».
«Credi
che abbia mentito
sulla sua famiglia? Per quale motivo?» Collins sembrava
scettica.
«Perché
ho pensato che
lui si sentisse proprio come mi sento io. Ma non riesco a capire
com’è possibile che lui sapesse della mia
situazione…è stato
lui a parlarmi per primo della sua famiglia, per questo gli ho
creduto subito».
«Credi
che ti conoscesse
già?»
«Non
l’ho mai visto
prima, lo giuro». Ne ero convinta, poi una stretta allo
stomaco mi
ricordò che cosa Simon aveva detto prima di ferirmi. Un
regalo per
un amico. Lo ripetei ai due detective, aggiungendo i riferimenti al
Faust.
Tutto sembrava assurdo, come se stessi raccontando una barzelletta o
un aneddoto altrettanto ridicolo, ma qualcosa doveva pur significare.
Collins si
stava mostrando
molto interessata alle mie parole e la cosa mi fece uno strano
effetto. Era un po’ che non mi accadeva di essere ascoltata
davvero, dalla prima all’ultima parola che pronunciavo. Certo
faceva parte del suo lavoro, ma era comunque molto gratificante. Allo
stesso modo Sanchez dimostrava di apprezzare il mio discorso
semplicemente scrivendo come un forsennato sul suo notes. La punta
della penna raschiava sulla carta mentre si spostava velocemente da
sinistra a destra, dando vita ad appunti su appunti, particolari che
io non avevo notato e ai quali non avevo dato il giusto peso.
«Tutto
questo ci potrebbe
far pensare che il movente sia legato al satanismo, ma
all’inizio
eravamo convinti di poterlo escludere».
Aggrottai la
fronte. «No,
ne dubito. Insomma…non sono un’esperta di crimini,
ma sbaglio o
nei film i satanisti agiscono in maniera un po’ meno
plateale?
Comunque eseguono dei riti, o roba simile, ma se penso alla magia
nera mi vengono in mente boschi o ruderi, non un locale pieno di
gente» spiegai. La donna annuì riflessiva,
scostandosi un ricciolo
dal volto.
«Sono
d’accordo con te,
Amber, ma sento che c’è qualcosa che ci sfugge,
qualcosa che è
legato al suo interesse per gli scenari infernali. Ti ha nominato il
Faust per un motivo ben preciso».
Mi schiarii
la voce e i
punti alla gola pizzicarono come se desiderassero attirare la mia
attenzione e sbeffeggiarmi, rimproverarmi per aver dato confidenza a
Simon. Quasi per istinto avvicinai una mano alla gola e sfiorai con
le dita il grande cerotto che mi copriva il taglio. Ignorai la
sensazione e scossi la testa.
«Sono
stata una stupida,
non avrei dovuto dare confidenza a nessuno. Avreste tutti i buoni
motivi per farmi una ramanzina».
Sanchez mi
rivolse un ampio
sorriso. «Non ti devi difendere da noi, non ti stiamo
accusando di
nulla, né rimproverando. Il nostro lavoro consiste solo nel
capire
ed esaminare le dinamiche dei fatti e, credimi, la maggior parte
delle persone aggredite conosce il suo aggressore, o per lo meno ha
deciso di fidarsi di lui...o lei. Non sei la prima né sarai
l’ultima
ad aver dato retta alla persona sbagliata».
Annuii non
molto convinta.
Per quanto Sanchez fosse gentile, almeno per quella sera ero in
dovere di sentirmi un’idiota, sconsiderata e incosciente.
Collins
continuò con le domande.
«D’accordo.
Visto che tu
sei l’unica ad esserci stata così vicino, per
quanto ne sappiamo,
ricordi qualche segno particolare, magari una cicatrice, qualcosa che
potrebbe darci una mano per eventuali identificazioni?»
Scossi la
testa, senza
bisogno di sforzarmi troppo per pensare. Il volto di Simon danzava
nella mia mente e non se ne sarebbe andato per un bel po’ di
tempo.
Mi era parso perfetto, senza alcuna imperfezione.
«Nessuna
cicatrice e
nessun piercing. Niente di niente. Non ho nemmeno notato dei tatuaggi
visibili».
«Credi
di poterlo
descrivere in maniera molto particolareggiata? Domani vorremmo farti
parlare con un nostro disegnatore».
«Ci
impiegherò un po’ a
dimenticarmi la sua faccia».
La detective
Collins si
alzò in piedi e si lisciò pantaloni e giacca,
anche se tutto era in
ordine.
«Ci
vedremo ancora e
quando quel momento arriverà mi auguro che la polizia abbia
fatto
grandi passi avanti nel caso. Dato che mi hai nominato un misterioso
amico di questo Simon cercheremo qualche complice tra le persone che
frequenta regolarmente, dato che secondo me quella frase ha un
significato particolare. Non sarà facile, ma faremo del
nostro
meglio». Mi rivolse un sorriso incoraggiante e mi
ringraziò per la
disponibilità.
«Riposa»
intervenne
Sanchez, alzandosi e stringendomi la mano con entusiasmo. Ci
congedammo e non appena furono usciti, mamma fece capolino
dall’uscio
della stanza per chiedermi se tutto fosse a posto. La liquidai con
qualche rapida parola e aspettai che mi lasciasse sola.
Un’infermiera
venne ad
assicurarsi che stessi bene e a darmi la buona notte. Spense la luce
della stanza e io rimasi sola con quella dell’abat-jour
accanto al
letto.
Dopo una
mezz’ora rimasta
con lo sguardo fisso al soffitto, scivolai fuori dalle lenzuola. Un
piede dopo l’altro, zoppicando lievemente per la caviglia
indolenzita, raggiunsi le grandi finestre.
Il General
Hospital era un
edificio piuttosto alto che sembrava avere ai suoi piedi
l’intera
città. Il mio sguardo vagò dai sottili
grattacieli che si vedevano
in lontananza, fino al Golden Gate Bridge. Il suo profilo rosso era
uno dei panorami più frequenti sulle alture della
città,
inconfondibile e famoso in tutto il mondo. Mi piaceva guardarlo e
pensare che il colore rosso un tempo era stato pensato come
provvisorio. Erano stati gli abitanti di San Francisco a preferire
che rimanesse così, sebbene dovesse essere frequentemente
ridipinto.
Un applauso ai coraggiosi che arrivavano fino in cima con vernice e
pennello, fino ad un’altezza di oltre duecentoventi metri.
Era
meglio evitare di riflettere sul fatto che il Golden Gate Bridge
fosse la scelta privilegiata per gli aspiranti suicidi della
città,
sospeso com’era a ottanta metri dal livello del mare.
Abbassando
lo sguardo sulla
piazzetta di ingresso dell’ospedale, notai il grande cuore
variopinto posto proprio davanti all’entrata
dell’edificio e fu
allora, all’improvviso, che la consapevolezza di
ciò che a cui ero
scampata mi crollò addosso con violenza pari ad una
secchiata di
acqua gelida. Sarei potuta davvero morire quella
sera.
Riflettendo
su ciò che la
mia scomparsa avrebbe potuto provocare ai miei cari, ogni boccata
d’aria mi sembrò incredibilmente preziosa e
guardai il panorama
come se prima d’allora non l’avessi apprezzato al
meglio.
Rimasi
lì alla finestra
finché il silenzio non divenne insopportabile. Recuperai
l’iPod
dalla borsetta dove era rimasto per tutta la sera, socchiusi la
finestra per permettere alla brezza notturna di accarezzarmi il
volto, e passai un tempo indefinito immobile a godermi la musica e la
visione della mia città, brulicante e viva a qualsiasi ora.
Le note mi
calmarono, la
voce familiare di Van Morrison mi fece sentire cullata e protetta
anche se tutte le volte mi ricordava mio fratello.
Guardai il
cielo, scuro e
punteggiato di stelle. Se per caso Christopher aveva avuto qualche
istante di coscienza prima di morire, aveva riflettuto anche lui sul
vuoto che avrebbe lasciato nella mia vita? Aveva capito che stava per
lasciarmi o aveva sperato fino all’ultimo che potesse andare
tutto
bene? Conoscendolo avrebbe trovato un motivo per sorridere anche
allora, mentre io dopo tutto quel tempo ancora non riuscivo a cavarne
nulla di buono.
In fondo
cosa poteva
esserci di bello nella morte? Il ricongiungimento con Dio era una
balla, non c’era nulla al di là della vita e io
volevo odiare
Chris per avermi sempre raccontato fiducioso storie sulla salvezza
eterna, sul paradiso, sull’amore che Dio aveva per noi. Avrei
voluto detestarlo per avermi lasciata solo ad affrontare il terribile
silenzio di casa nostra e la freddezza di nostra madre.
Avrei voluto
odiarlo, ma
non ci sarei mai riuscita.
|
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
Grazie mille ad
AnonymousA per essere passata anche questa volta per un commentino.
Chissà se il ragazzo misterioso farà nuovamente
un'apparizione nella vita di Amber. :) Buona lettura, e mi raccomando,
se la storia vi piace, ma anche se non vi piace, lasciatemi il vostro
parere. Per me è molto importante sapere cosa ne pensate e
avere modo di correggere errori, imprecisioni o cattive abitudini di
scrittura.
Un empio
messaggero
porta alla disgrazia, un messaggero fedele invece è un
rimedio.
Proverbi, 13, 17.
11.
Le
cose dette a papà per rincuorarlo si rivelarono per
ciò che erano
davvero: una menzogna, a me stessa prima che a lui. Mi svegliai tre o
quattro volte durante la notte, con il cuore che batteva a mille e la
sensazione che il buio potesse improvvisamente chiudersi attorno a me
e inghiottirmi.
Non riuscii
ad abbandonare
quella brutta sensazione di disagio, paura e impotenza che mi
attanagliò le viscere e mi impedii di dormire come avrei
voluto.
Ogni volta che mi svegliai di soprassalto e non riuscii a riprendere
sonno, fu la musica a tenermi compagnia e a cullarmi finché
i miei
nervi non furono abbastanza rilassati per abbandonare nuovamente le
difese.
Mi
addormentai tardi e la
mattina seguente mi svegliai molto presto. Rimasi a guardare il cielo
fuori dalla finestra schiarirsi alle prime luci dell’alba,
riflettendo sul paradosso che uno dei momenti migliori della giornata
fosse anche il meno vissuto da gran parte della gente.
La mia
immagine riflessa
nello specchio del bagno fu con me terribilmente sincera, pallida e
visibilmente esausta. Avevo i capelli incrostati di sangue e anche
alcune zone del viso, dove la prima sommaria pulizia non era stata
abbastanza efficace. Un livido si faceva strada su metà
della
fronte, ancora limitato ad un rosa pallido. Non trovai il coraggio di
liberare dal cerotto quella porzione di pelle in cui si apriva il
taglio, forse perché avrebbe richiamato alla mente ricordi
che non
desideravo più rivivere o rimproveri che già
avevo sentito dalla
bocca di mia madre e da quella della mia coscienza.
Stephanie,
l’infermiera
di quel turno, riuscii a tenermi la mente occupata regalandomi due
chiacchiere e qualche risata. Forse era abituata ad essere gentile e
disponibile con tutti, ma mi fece piacere sapere che la mia salute la
interessava. La sua solarità la rendeva totalmente diversa
da mia
madre, che di tanto in tanto faceva capolino dalla soglia per
controllare che tutto fosse in ordine.
Restava poco
assieme a me,
probabilmente indotta a scappare via dalla fastidiosa mancanza di
solida conversazione tra noi. Non erano molte le cose da dire, da un
po’ non ci esercitavamo nel rapporto madre e figlia, e dovevo
confessare di sentirmi sollevata tutte le volte che usciva dalla
stanza per andare a prendersi un caffè o a vagare
chissà dove
nell’ospedale.
Una vera
boccata d’aria
fresca fu Trudy, che come promesso venne a trovarmi quella mattina
assieme a papà. Non c’era davvero bisogno dato che
a pranzo sarei
tornata a casa, ma apprezzai comunque il gesto e l’entusiasmo
che
riempì la stanza appena varcò la soglia.
Con quel
viso giovane dalla
pelle perfetta e liscia e la straordinaria energia, sembrava una
bambina. Giusto per riempire i silenzi lasciati da mia madre ci
dilungammo in chiacchiere senza importanza. L’argomento
più serio
che toccammo furono le mie scarse idee a proposito del college che
avrei frequentato dopo l’estate, e il suo lavoro. Mi
raccontò
ridendo delle disavventure all’asilo, di come uno dei bambini
si
fosse infilato nel naso una piccola zebra dello zoo giocattolo. Che
fossero troppo vivaci e quasi ingestibili, oppure tranquilli, per lei
tutti erano un’ispirazione, un'incredibile fonte di energia e
intelligenza. La ammiravo per la sua forza d’animo, e la
consideravo un modello, per l’amore che metteva in ogni cosa.
Papà
era in tenuta
sportiva, ma riusciva ad esprimere eleganza anche così
vestito. Da
qualche settimana andava a correre nel week-end e nei momenti liberi
dopo che un suo collega di soli cinquantatré anni aveva
avuto un
infarto. Fortunatamente non era stato letale, ma l’accumulo
di
stress poteva essere pericoloso per uomini di quel mestiere, sempre
sovraccaricati di impegni e responsabilità.
Quando lui e
Trudy se ne
andarono, con l’accordo che presto ci saremmo rivisti, Jeff
Thompson, il disegnatore della polizia di San Francisco, un uomo alto
e quasi del tutto senza capelli, prese posto accanto a me. Lo
accompagnava il detective Collins che lì per lì
mi parve autorevole
e intimidatoria come la sera prima, ma che mi fece sentire subito a
mio agio quando mi salutò calorosamente con un ampio sorriso
sul
volto.
Ascoltarono
entrambi le mie
parole con molta attenzione e Jeff tradusse ogni mia descrizione in
tratti di matita, ora leggeri, ora pesanti, sul blocco da disegno che
teneva sulle ginocchia.
Accolse con
una smorfia
divertita il mio commento iniziale su Simon (decisamente
un gran pezzo di ragazzo),
poi quando ebbe finito lo schizzo voltò il disegno verso di
me e mi
trovai spiazzata dalla precisione con cui aveva riprodotto
ciò che
avevo detto.
Dal candore
del foglio gli
occhi di Simon mi scrutavano come aveva insistentemente fatto la sera
prima al Mephisto,
con la stessa luce d’interesse nello sguardo. Il naso, le
labbra, i
capelli…tutto era perfetto e magnifico, un’opera
d’arte, data
la bellezza del soggetto.
Certo, era
impossibile
ricreare artificialmente tutto il suo fascino e il magnetismo del suo
sorriso, la sola immagine era inevitabilmente incompleta senza la
possibilità di poter ascoltare nuovamente il suono basso e
cadenzato
della sua voce. Ciò non toglieva che Jeff aveva fatto
davvero un
ottimo lavoro.
«Più
o meno ci siamo»
feci, ringraziando l’esperto e congedandomi da lui e Angela
Collins. La donna prima di andar via si avvicinò a me e mi
porse un
piccolo cartoncino bianco, il suo biglietto da visita, facendomi
promettere di chiamarla se ci fossero stati problemi o se mi fosse
venuto in mente qualcosa di utile per le indagini. A sua voltami
assicurò che mi avrebbe tenuta aggiornata sul caso.
Dopo di loro
in camera mia
fu una vero e proprio via vai di persone, tra infermiere, dottori,
qualche parente e gli amici. Quando Louis e Jennifer passarono a
trovarmi, mi sentii al settimo cielo.
«Tesoro,
hai un aspetto
orribile» commentò Louis con una risata, donandomi
un abbraccio
stritolante.
«Molto
carino, non sono
queste le parole da rivolgere ad una donzella ricoverata in
ospedale».
«Beh,
ma è vero». Si
strinse nelle spalle con aria divertita e seguendo la direzione del
suo sguardo vidi che aveva già notato il telecomando del
lettino. La
sera prima non lo aveva nemmeno considerato, scosso com’era
dagli
avvenimenti, ma un Louis tornato alla normalità poteva
essere
pericoloso. Scommettevo che non sarebbero passati molti minuti prima
che iniziasse a giocarci.
Jennifer lo
guardò in malo
modo, forse per la sincerità fuori luogo o forse
perché anche lei
aveva notato ciò che avevo notato io. Si sedette ai bordi
del letto
e mi sorrise.
«Come
stai, hai dormito
bene?»
«Per
niente, non ho quasi
chiuso occhio». Il suo sguardo si posò sulla mia
gola e la vidi
abbassare gli occhi, a disagio. Le presi la mano e le sorrisi.
«Credo
che tu debba
ricevere un premio per il coraggio, sei stata la più
tempestiva ieri
sera. Senza di te non so cosa sarebbe successo» le dissi, per
infonderle un po’ di sicurezza.
«Avevo
davvero paura di
sbagliare qualcosa e peggiorare la situazione»
confessò. «Non sono
molto brava con queste cose, strano che non sia crollata a terra
svenuta».
«Si
chiama sangue freddo,
e tu hai dato prova di averne da vendere».
«Non
dirlo, o stavolta
sviene sul serio» scherzò Louis. «Beh,
ma a me niente premio? Sono
stato io a correre fuori a chiamare i soccorsi, non è che
sono
rimasto impalato a guardare» proseguì, facendo
l’offeso.
Con uno
sbuffo tirai fuori
da sotto il cuscino il telecomando che avevo tentato inutilmente di
nascondere con piccole spinte del gomito.
«Ecco,
giocaci, ma evita
di farmi volare fuori dalla finestra, d’accordo?»
Il suo
sorriso enorme mi
scaldò il cuore. Mentre il ragazzo mi alzava e abbassava le
gambe e
mi modificava in continuazione lo schienale del lettino,
approfittammo del momento insieme per scambiare qualche parola. Io
raccontai di come l’aveva presa mia madre, sperando che da un
momento all’altro non entrasse nella stanza per rimproverare
anche
loro di non avermi impedito di trasgredire i suoi divini ordini.
Jennifer disse che quella mattina sua sorella aveva chiamato per
invitare lei e tutto il resto della famiglia a passare qualche giorno
da loro a Santa Rosa e Louis mi dimostrò che aveva trovato
qualcosa
di positivo nella serata al Mephisto,
parlando in continuazione del barista dei suoi sogni. Ci mancava poco
che dagli occhi gli spuntassero fuori tanti cuoricini svolazzanti.
«Per
ora sono solo
riuscito a scoprire che si chiama Jude e credo che sia single
perché
mi ha dato il suo numero di cellulare per aggiornarlo sulla tua
salute».
«Molto
premuroso da parte
sua». Affermai, scambiando un’occhiata di intesa
con Jennifer che
resisteva per non ridere o per non stuzzicare con affetto
l’amico.
Era palesemente cotto.
«Sì,
lo credo anche io,
anche se credo l’abbia fatto solo per tenersi in contatto con
me».
«Ma
davvero?»
«Non
so esattamente per
che squadra giochi, ma credo di piacergli».
«Beh
di certo non gioca
per la nostra, non ti toglieva gli occhi di dosso» feci,
causando un
lieve, adorabile, rossore sulle sue guance. «A quanto pare
sono io
quella che punta sempre al ragazzo sbagliato».
Simon…
L’ennesima
cattiva
scelta. A questo punto dovevo accettare il fatto che ero io il
problema: avevo una capacità di giudizio completamente
fallimentare.
«Se
solo gli metto le mani
addosso lo riduco in poltiglia, quel tizio. Spero che poi veniate a
trovarmi in carcere». Mormorò Jennifer stringendo
i pugni che
teneva in grembo con una forza che stonava sul suo esile corpo.
«Tesoro,
con quell’aria
dolce che ti ritrovi nessuno sospetterebbe di te…saresti il
killer
perfetto!» Louis le diede una pacca sul ginocchio.
«Pensaci,
avresti un futuro».
Un lieve
bussare alla porta
ci fece zittire. Speravo non fosse ancora mia madre, cosa probabile
dato che avevo visto solo pochi istanti prima l’infermiera.
Restai
di stucco quando entrò l’ultima persona al mondo
che mi aspettavo
di vedere.
Riconobbi
l’intensità
dei suoi occhi appena il suo viso fece capolino dalla porta e senza
saperne bene il motivo, mi sentii un po’ in imbarazzo. Forse
era
per il fatto che mi ero fidata completamente di lui senza nemmeno
conoscerlo, accogliendo la sua voce come l’unica ancora di
salvezza
nella confusione totale del Mephisto.
Era diverso
da come la mia
mente lo rievocava, il suo viso tra i miei ricordi era impreciso e
offuscato, non avrei saputo descriverlo perfettamente nemmeno
sforzandomi, ma ricordavo la sensazione di pace provata quando mi
aveva posato le mani sulla gola per arrestare l’emorragia, e
il
modo in cui aveva cercato di calmarmi.
Louis smise
di giocare con
il telecomando del lettino, catturato dal nuovo e inaspettato
visitatore, mentre mi affrettavo a trovare qualcosa di brillante da
dire senza sembrare sciocca o patetica.
«Salve,
Amber. Come ti
senti?» La voce era esattamente come l’avevo udita,
così
cristallina e rassicurante, l’unica che nel caos mi aveva
riportato
alla tregua che desideravo.
Allargai le
braccia e
sorrisi, cercando di non risultare impacciata anche nei gesti
più
elementari. «Sono viva».
«Forse
non ti ricordi…»
«Mi
ricordo eccome, grazie
per essermi stato vicino, e per essere stato veloce nel
soccorrermi».
Non sorrise,
ma i suoi
occhi mi espressero una cordialità che rispose al posto suo.
Con un
cenno del capo salutò anche gli altri presenti e
indicò Jennifer,
che si fece di colpo piccola piccola.
«Sei
stata brava, nessun
altro tra i presenti ha avuto il coraggio di aiutarla, sei una buona
amica». Vidi la ragazza arrossire come un peperone e
mormorare un
dovere
a bassa voce, per allontanare in fretta da sé le
attenzioni…attenzioni che Louis prepotentemente
richiamò su di sé.
«A
quanto pare nessuno si
ricorda del ragazzo che è scattato come un centometrista a
chiamare
aiuto» commentò fingendosi amareggiato, ma
sorridendo sotto i
baffi.
«Avete
entrambi avuto una
parte importante» lo rassicurò lo sconosciuto.
Mentre i suoi occhi
celesti erano puntati sul ragazzo, ne approfittai per dare una
sbirciatina ai suoi morbidi lineamenti.
Non
immaginavo fosse così
giovane. La pelle del suo viso era perfettamente liscia e chiara,
senza alcun segno di barba. Avevo creduto che fosse un uomo o un
ragazzo più grande, un medico o uno studente di medicina non
più
alle prime armi, invece mi trovavo di fronte ad un ragazzo della mia
età, più o meno.
I suoi
capelli erano
castani, lunghi circa quattro o cinque centimetri, alzati sulla
testa, ma dall’aria ordinata. Le sopracciglia scure erano una
cornice perfetta per la limpidezza dei suoi occhi. Quando il suo
sguardo tornò a posarsi su di me, gli indicai la sedia
libera.
«Perché
non ti accomodi,
mi farebbe piacere se restassi un po’ a
chiacchierare» gli
proposi, ma lui scosse la testa e finalmente mi rivolse un sorriso.
«Ti
ringrazio, ma ho delle
questioni da sbrigare ed è meglio che lo faccia presto, non
posso
restare. Mi scuso per la visita molto breve, dovevo solo assicurarmi
di persona che stessi bene».
«I
medici hanno detto che
sono stata molto fortunata e che la ferita non era particolarmente
grave. Ma ancora grazie per l’assistenza».
Annuì,
pensieroso. Nelle
sue parole avevo notato una strana affettazione, come se riflettesse
bene su ogni termine prima di usarlo. Nonostante la freschezza del
suo aspetto avevo la strana e inspiegabile sensazione che fosse
più
vecchio delle apparenze.
«Sì
è vero, se la ferita
fosse stata più profonda di certo saresti morta in pochi
secondi.
Ringraziamo il cielo per questo». Accettai la sua frase come
un modo
di dire qualsiasi, senza osare questionare.
«E
per quanto riguarda il
tuo ringraziamento, lo accetto, ma non sentirti in debito con
me».
«Chissà…magari
ti offro
un caffè» proposi. Era in minimo che potessi fare.
«Dubito
che ci vedremo
ancora, Amber, ma è stato un piacere
conoscerti…ed è stato bello
anche incontrare voi» dichiarò, rivolto a Louis e
Jennifer. Il suo
tono poi di fece più serio «A questo proposito,
già che tiriamo in
ballo gli amici...non si tratta di un rimprovero, ma di un consiglio.
Faresti bene a scegliere con più cura le persone da
frequentare».
Senza
attendere una
risposta si avviò nuovamente verso la porta.
«Addio» mormorò, e
uscii in fretta, come in fretta era entrato due volte nella mia vita.
Un’apparizione fugace, quasi impercettibile se solo le sue
parole
non avessero fatto nascere in me più d’un dubbio.
«Ehi,
ma parlava di noi?»
la voce di Louis infranse le mie riflessioni, ma individuò
alla
perfezione la natura dei miei pensieri.
«Non
credo…»
«Che
tipo strano»
Jennifer guardava la porta come se da una secondo all’altro
rispuntasse il ragazzo.
«Carino»
commentò Louis,
pragmatico. Io concordavo su entrambe le cose, ma la mia attenzione
era tutta carpita da quella frase. Non potei fare a meno di pensare
che si riferisse a Simon.
Impossibile
che lo
conoscesse, di tutte le persone che nel locale potevano soccorrermi,
era improbabile che io trovassi proprio quella che conosceva bene il
mio aggressore, ma era invece possibile che si riferisse a lui in
modo generico. Come dargli torto? Davvero avrei dovuto evitare di
attaccare bottone con il primo ragazzo carino che mi attraeva.
Ad ogni
modo, mi resi conto
che al mio misterioso salvatore non avevo nemmeno chiesto il nome.
Durante il
resto della
giornata evitai di rimuginare sull’incontro bizzarro della
mattina.
All’ora di pranzo ero già fuori
dall’ospedale, dopo aver
salutato e ringraziato Stephanie e aver raccattato le mie cose.
Allontanandomi
dal General
Hospital abbracciai con lo sguardo la massiccia struttura e salii
sulla Mercedes di mia madre. Per la maggior parte del tragitto verso
casa lei fu silenziosa, a parte qualche frase di circostanza gettata
lì senza particolare convinzione giusto per tentare di
avviare un
discorso che però non ebbe luogo.
L’unica
frase in cui mise
particolare enfasi fu quella a proposito della gentilezza di
Catherine, che era andata a recuperare la mia macchina a SoMa, e per
quanto non volessi ammetterlo, riuscì a farmi sentire un
po’ in
colpa.
La giornata
era splendida,
il cielo ospitava un azzurro intenso che suscitava allegria e un
senso di immediata pace. Nessuna nuvola disturbava la
continuità di
quella meravigliosa distesa di colore.
Gli alberi
mi sembrarono
più verdi e l’aria che mi sfiorava dolcemente la
guancia
attraverso il finestrino, scompigliandomi i capelli e frusciandomi
nell’orecchio, era più fresca e piacevole del
solito. A ogni
semaforo il brusio di San Francisco, la sua vitalità e
varietà, e
il suono dei Cable Car mi allietarono come non mai.
Fu
stranamente bello
rivedere la via dove abitavo e la porta verde chiaro di casa mia,
come se fossi appena tornata da un viaggio durato anni e la visione
del luogo in cui ero cresciuta suscitasse in me nostalgia. Notai ogni
particolare, che solo il pomeriggio del giorno prima avevo ritenuto
superfluo: gli scalini che introducevano all’uscio, ornati di
gerani, il corrimano bianco, i cespugli agli angoli della casa e la
piccola lampadina che pendeva all’entrata intrappolata in una
lanterna. Non mi ero mai sentita tanto a casa.
Papà
mi chiamò più tardi
per sapere com’era stato il rientro e parlammo per una
mezz’ora
del più e del meno, mentre mamma era sul tavolo del salotto
a
controllare delle scartoffie di cui non conoscevo la natura. Sentii
Trudy che gridava per salutarmi da chissà quale stanza.
Il confronto
con ciò che
rimandavo da ore giunse quella sera. Dentro la doccia mi godetti il
getto dell’acqua calda sulla pelle, osservando ai miei piedi
l’acqua lievemente tinta di rosa a causa del sangue che
scivolava
via dai capelli.
Poi, avvolta
in un
accappatoio, mi posizionai davanti allo specchio e per cambiare la
benda alla ferita i miei occhi non poterono evitare di controllare i
segni che il vetro tagliente avevano lasciato su di me.
A partire da
qualche
centimetro sotto il mento, fino alla porzione di pelle accanto
all’orecchio si apriva uno squarcio di circa una decina di
centimetri, tenuto insieme da una cucitura di filo scuro che mi
ricordò orribilmente il modo con cui si attaccavano insieme
due
miseri lembi di cuoio, e sebbene sapessi in cuor mio che in fondo non
era così male, che i medici avevano fatto un lavoro
più accurato
possibile e che presto sarebbe rimasto solo un segno leggero, non
potevo impedire alla mia mente di evocare macabre similitudini. Mi
sentivo una bambola di pezza o un personaggio di un film
dell’orrore,
con la bocca tenuta chiusa dal fil di ferro.
Ripensandoci
in quel
momento le parole del ragazzo sconosciuto che mi aveva salvata
avevano maggiore senso. Quella sarebbe stata la cicatrice indelebile
della mia ingenuità.
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
Buongiorno! Mi scuso per il tremendo
ritardo, è stato un periodo piuttosto particolare, l'epilogo
di cinque meravigliosi, stancanti, spaventosi e "rivelatori" anni di
studio che si sono conclusi, finalmente, con un diploma di laurea, che
di tanto in tanto ancora guardo con diffidenza. Non riesco a credere
che questo momento sia arrivato, e francamente, ci si sente un po'
vuoti dopo tutto questo tempo di studio e tempo libero praticamente
inesistente. Per coloro che ancora vorranno leggermi anche dopo questo
ritardo, grazie per la vostra pazienza!
Come al solito, ringrazio Mivi28 e
AnonymousA per avermi lasciato due paroline di incoraggiamento. Grazie
mille! :)
Ecco
io mando un angelo
davanti a te, per vegliare su di te nel cammino e farti entrare nel
luogo che ho preparato. Sii attento davanti a lui, ascolta la sua
voce, non ribellarti a lui, perché non sopporterà
la vostra
trasgressione, poiché il mio nome è in lui. Se tu
ascolti la sua
voce e farai tutto quello che dirò, sarò nemico
dei tuoi nemici e
avversario dei tuoi avversari.
Esodo, 23,
20-22.
12.
Accettai
passivamente l’idea che mia madre si era fatta del mio
piccolo
problema. Decise di trattarmi come se mi trovassi in una lunga e
complicata convalescenza e io, già segretamente
d’accordo con lei
sul fatto che mi ero ficcata in quel guaio da sola, feci di tutto pur
di compiacerla e non darle occasione di lamentarsi. Di rimando il
giorno dopo restò costantemente in casa, non capivo se per
preoccupazione o per mancanza di fiducia.
Ero abituata
ad averla
intorno la domenica, ma non ero mai arrivata a quei livelli di
prudenza da parte sua. Fu curioso vederla affaccendarsi per evitare a
me le solite mansioni casalinghe, ma quando entrambe capimmo che gli
effetti della sua scarsa preparazione domestica potevano essere
devastanti, riuscii a convincerla che un lieve sfregio alla gola non
poteva di certo tenermi a letto tutto il giorno. Quando riprese il
suo solito lavoro dietro carte e appuntamenti vari ne fui quasi
sollevata, considerandolo un ritorno alla normale routine.
Quanto a me,
ebbi più
impegni di quello che avrei voluto. La mattina presto, per ammazzare
la noia, mi misi a cucinare. Louis e Jennifer non si accontentarono
della visita in ospedale e si fermarono da me un paio d’ore a
fare
due chiacchiere. Fu nuovamente toccato l’argomento Jude,
che a quanto pareva già s’era fatto premurosamente
sentire per
conoscere le mie condizioni, con grande gioia del mio migliore amico.
Una
telefonata di papà
annotò magicamente un secondo compito sulla mia agenda
invisibile,
perciò, promettendo a mia madre, divenuta stranamente
premurosa, che
avrei fatto attenzione a tutti i serial killer che potevano esserci
in giro sulle strade di San Francisco, passai parte del pomeriggio
con Trudy e papà nella casa di lei. Non ci ero mai stata
prima
d’allora, anche se lei mi aveva spesso detto che ero la
benvenuta
quando preferivo, e lo trovai un appartamento molto grazioso,
perfetto per una giovane donna come lei. Non troppo grande, sobrio ma
molto personalizzato. La convivenza dei due piccioncini ancora non
era ufficiale, ma poco ci mancava.
Seduta sul
divano in
salotto fui accolta dai coinquilini della ragazza, tre enormi gatti
che ancor prima di conoscermi bene sfregarono i loro testoni contro
le mie gambe, facendo le fusa. Fu gratificante sapere che a Spooky,
Foggy e Moody stavo simpatica, anche se Spooky, con il suo
inquietante sorriso senza tre denti e la non trascurabile mole mi
bloccò quasi il sangue alle gambe, quando si
accoccolò su di me per
qualche dovuta carezza.
Mia madre
non aveva mai
accettato animali in casa, né gatti, né cani,
né altri esseri
animati che esigessero attenzioni e producessero rumori. Da piccola
io e mio fratello avevamo avuto il permesso di tenere solo un pesce
rosso per ciascuno, e io mi ero presa cura di lui fino al giorno
della sua morte. Quando era deceduto avevo pianto così tanto
che
mamma si era spazientita e aveva categoricamente proibito altri
ospiti non umani in casa, mentre Chris mi aveva stretto la mano
durante le esequie funebri accanto alla tazza del water.
La
convalescenza da Trudy
ebbe i suoi vantaggi, perché non accettò un no
come risposta quando
mi offrì una generosa scodella di gelato al caramello e
nocciola.
Quando
tornai, stranamente,
non trovai mia madre nello stesso posto in cui l’avevo
lasciata.
Solitamente restava china sulle carte per ore e ore senza degnarmi di
sguardi o frasi che superassero le cinque parole, ma quella volta ad
accogliere il mio rientro furono delle voci. Mamma stava
chiacchierando con qualcuno in giardino. La raggiunsi dalla porta
della cucina che dava direttamente su di esso, e la trovai accomodata
con il suo inaspettato ospite attorno al tavolino di metallo che
fungeva da salottino esterno. Quando lui alzò lo sguardo su
di me,
nella mia mente si rincorsero in una danza veloce stupore e disagio.
«Sei
tornata, ciao. Questo
ragazzo ha chiesto di te, ha detto di conoscerti, così
l’ho fatto
entrare» spiegò mamma senza che le chiedessi
nulla. Il mio giovane
soccorritore si alzò in piedi e chinò la testa in
un segno di
saluto che mi parve quasi eccessivo.
«Buongiorno,
Amber, vedo
che stai meglio» mormorò. «Ne sono
lieto».
Anche nella
scelta delle
parole mi parve insolito, ricercato e affettato. Prima di poter
rispondere, l’immagine di lui che si inchinava in uno dei
salotti
inglesi tipici dei romanzi della Austen mi comparve nella mente e mi
fece sorridere.
«Grazie,
sei gentile»
mormorai. Mamma lo fissava in silenzio e io faticai per interpretare
il suo sguardo. Non capii se lo stava squadrando per carpirne le
intenzioni o se semplicemente stesse ammirando il suo bel viso.
«Mi
ha raccontato di come
vi siete incontrati la prima volta, non me ne avevi parlato»
disse
ad un certo punto.
Notai un
sottofondo di
rimprovero nella sua voce, ma evitai una risposta tagliente. Non
gliene avevo accennato perché non volevo più
nominare la serata al
Mephisto
in sua presenza.
«Me
ne sarò scordata» mi
giustificai, con un’alzata di spalle. Lei si diede uno
schiaffetto
sulla gamba come per decretare la fine della conversazione, e si
alzò.
«Ad
ogni modo, vi lascio
da soli. È stato un piacere conoscerti, Samuel».
Samuel.
Quel nome danzò sulle labbra di mia madre e
suscitò in me una
strana vergogna, come se mi pentissi di non averlo chiesto prima al
suo proprietario. Un nome innocente che si accordava al suo viso e
alla purezza degli occhi.
Il silenzio
calò su di noi
non appena fummo da soli. La giornata era un incanto e rendeva
giustizia al giardino, al verde della sua erba tenera e al tocco di
colore donato dai cespugli fioriti.
«Insomma…»
mormorai ad
un certo punto, frugando nella mente alla ricerca di qualcosa di
sensato da dire, di un argomento di conversazione brillante o di
domande intelligenti da rivolgere al ragazzo.
«Che
cosa ti porta qui?»
Temendo di suonare troppo scortese aggiunsi dell’altro per
correggermi. «Hai detto che non ci saremmo più
rivisti».
Sorrise e
annuì. «Ho
detto quella frase perché lo pensavo davvero, ma alcune cose
sono
cambiate, perciò eccomi qui».
Mi sembrava
da ficcanaso
chiedergli spiegazioni, forse doveva partire e alcuni recenti
avvenimenti lo avevano trattenuto a San Francisco. In ogni caso non
erano affari miei.
«Beh,
mi fa piacere
rivederti, forse è buffo ma ti vedo come un supereroe che mi
ha
soccorsa in un momento critico. Ti va un tè? O
dell’acqua?»
«Sei
molto gentile a
chiedermelo, ma niente, ti ringrazio. Non bevo».
Ridacchiai,
pensando che
fosse una battuta, ma la sua serietà mi spiazzò.
«Non era mia
intenzione offrirti del Rum, o della Vodka…»
«Non
bevo…liquidi in
generale» precisò, con viso sereno, tanto sereno
da farmi accettare
quella risposta come qualcosa di normale, sebbene pensassi che fosse
davvero bizzarro come tipo.
«Senti,
Amber, vorrei
essere più delicato e arrivare a toccare certi argomenti con
calma,
ma la situazione mi spinge a dover essere sincero con te fin dal
principio». La gravità della sua voce e lo sguardo
pesante che mi
rivolse non mi piacquero molto.
«Ti
devo delle
spiegazioni». Improvvisamente ricordai la frase da lui detta
all’ospedale, quando aveva fatto riferimento alle persone che
frequentavo. Qual era il motivo di quelle parole, e soprattutto, era
giusto che ci vedessi un’allusione a Simon?
«Che
intendi dire?»
chiesi in un sussurro. Credevo di fare conversazione con lui, ma
l’atmosfera tra noi cambiò, divenendo di colpo
più tesa.
«Vorrei
essere sicuro che
questo resti un dialogo privato tra me e te» lo sguardo
indicò la
porta della cucina, aperta a rivelare uno scorcio della stanza.
Bramosa di saperne di più in fretta, corsi ad accostarla,
poi mi
accomodai accanto a lui. Ci volle un po’ perché
cominciasse a
parlare. Le sue frasi furono palesemente controllate e pensate, come
se cercasse il modo migliore per comunicarmi qualcosa di difficile.
«Io
non ero in quel locale
per caso. Conosco il ragazzo che ti ha aggredita» la sua voce
rimase
sospesa nel silenzio, ma la mia reazione fu diversa da come la
immaginai. In realtà già sospettavo che mi
avrebbe fatto una
confessione del genere.
«Siete
amici?»
Calcai sul termine volontariamente, ricordando ciò che Simon
aveva
detto…era lui la persona che voleva compiacere facendomi del
male?
«Non
esattamente, i
rapporti tra noi non sono mai stati amichevoli. So che tipo
è, per
essere sintetici non sarei mai andato al Mephisto
se lui non fosse stato lì».
«Perché?»
«Solamente
per tenerlo
d’occhio. Non sai di cosa potrebbe essere capace».
Indicai la
fasciatura che
mi copriva la gola. «Invece credo di sì».
«Sa
fare di peggio.
Credimi, io non sono come lui, non associarmi alla sua persona. Sono
qui per scusarmi, perché in parte quello che ti è
successo è colpa
mia. Non ti saresti dovuta avvicinare a lui, sapeva che lo osservavo.
Ha solo voluto sfidarmi apertamente facendoti del male».
Alzai le
mani in segno di
resa. «No, ti prego, fermati. Aspetta, mi stai dicendo che ha
fatto
quel che ha fatto solo per te?» Annuì con aria
grave, mentre il mio
cervello lottava per ragionare e per trarre un senso da quelle
parole, e se il senso era inesistente, volevo almeno riordinare le
informazioni appena ricevute.
«Ma
perché proprio io?»
«Sei
stata tu ad andare da
lui, ha visto che lo fissavo quando ha smesso di giocare a biliardo e
presumo che volesse…come dire, dimostrarmi che
può sempre fare ciò
che vuole. Tu non hai nessun significato per lui, sei solo una delle
tante persone presenti in quel locale e che ha deciso di farsi
avanti. Probabilmente non ti avrebbe fatto del male se non fossi
stato presente».
Mi passai le
mani sul
volto, sentendomi davvero sciocca. Avevo creduto che Simon stesse
fissando me, prima di decidere di andare da lui, invece…era
Samuel
che guardava. Rialzai lo sguardo su di lui.
«E
sapevi che avrebbe
reagito così?»
«Non
con certezza. Quando
si è allontanato dal bancone speravo che se ne fosse andato,
ma tu
l’hai seguito. Allora non sapevo cosa fare, temevo che
intervenire
e raggiungervi equivalesse a sfidarlo a mia volta, non volevo
rischiare. Sa essere molto malvagio, ma non mi aspettavo che facesse
un gesto tanto eclatante in un locale così
affollato». Mi osservò
attentamente, mentre io restavo in silenzio immagazzinando quelle
notizie. Tutto mi parve un po’ più chiaro a
pensarci bene. Ecco
chi stava osservando nel momento del brindisi, sempre Samuel, anche
se io non avevo notato nulla, ed ecco ancora a chi si riferiva quando
aveva parlato di questo amico
a cui voleva dedicare la mia morte. Guarda caso il responsabile
inconsapevole degli eventi era il ragazzo che mi aveva salvato la
vita. Feci un profondo sospiro.
«Lui
ha…qualche
problema?» Azzardai.
«Che
cosa intendi
esattamente per problema?»
Mi
scappò una risatina
lievemente isterica. «Beh, non è normale che una
persona tenti di
fare fuori qualcuno senza un valido motivo, non ti pare?»
«Lui
non è una persona
normale, ma non è pazzo, se è questo che pensi.
Sadico, vendicativo
e incurante delle regole, sì, ma non pazzo. Ha agito per
ferirmi e
sfidarmi, ma sono sicuro che è soprattutto il compiacimento
che lo
spinge a comportarsi così. Mi spiace che tu sia stata
coinvolta».
Annuii,
soprappensiero. «Ho
capito, ma questo non cambia il fatto che mi hai aiutato, quindi non
devi sentirti responsabile. Non è stata davvero colpa tua.
Se
conosci Simon allora di certo avrai delle informazioni su di lui, ne
hai parlato con la polizia?»
Scosse la
testa, guardando
a terra, come se preferisse contare i fili d’erba piuttosto
che
affrontare quell’argomento. «Mi hanno fatto delle
domande, come a
tutti gli altri, ma non so nulla di utile per le indagini, e
soprattutto nulla che possa essere raccontato alla polizia».
Sentivo che
ci stavamo
addentrando in un’altra zona di turbolenza, guidati dalle sue
parole allusive, ma non osai chiedere cosa intendesse dire. Ci
pensò
da solo a chiarire le sue intenzioni.
«Il
discorso appena
affrontato era la parte più facile per te, temo».
«Qualche
altra brutta
confessione?»
Finalmente
mi regalò il
primo vero, ampio sorriso. I suoi denti erano perfetti e bianchi, il
suo volto parve illuminarsi tutto per quel gesto e io mi sentii
lievemente più al sicuro.
«Oh,
non è affatto brutto
ciò che ti sto per dire, tutt’altro. Ma non
sarà facile per te
credere alle mie parole e accettarle, così come molti prima
di te
sono stati scettici per paura o testardaggine».
Un rumore
alle mie spalle,
quasi impercettibile, interruppe il suo discorso e lo costrinse ad
interrompere il contatto visivo con me. Quei suoi occhi azzurri erano
vortici in cui non era tanto difficile perdersi.
Mamma
comparve dalla cucina
con la torta di mandorle fatta quella mattina, una bottiglia di succo
di frutta e due bicchieri stretti tra gomito e fianco. Rivolse a
Samuel un sorriso smagliante, posando tutto sul tavolino davanti a
noi in una strana imitazione della perfetta donna di casa e amorevole
ospite.
«Ecco
qui, non starete
mica a bocca asciutta?» domandò, con
un’aria cordiale
terribilmente falsa. Sperai che non avesse origliato la conversazione
avuta poco prima, anche se la sua serenità suggeriva il
contrario, e
le rivolsi un’occhiataccia per aver interrotto il nuovo
curioso
discorso intrapreso dal ragazzo. Da sotto il piatto su cui stava la
torta, rivelò due piattini piccoli su cui servì
il dolce.
«Grazie
signora, sembra
una torta fatta in casa» fece Samuel, educato.
«Oh,
l’ha fatta Amber,
io non sarei capace di bollire un uovo». Come darle torto. Se
avesse
tentato di cuocere una torta, presa com’era dalle sue cose,
di
sicuro l’avrebbe dimenticata nel forno per ore.
Approfittai
dell’istante
in cui porgeva il piattino al ragazzo per meditare su alcune cose.
Che cosa voleva dirmi ancora di così importante? Dopo avermi
parlato
di Simon e dei loro cattivi rapporti, cosa poteva esserci di
più
serio? Aspettai che mamma si allontanasse e sparisse dalla vista, poi
lo incalzai.
«Allora…stavi
dicendo?»
La torta rimase intatta davanti a lui, così come il di succo
di
frutta.
«Ci
sarebbero così tante
cose da dire, ti prometto che prima o poi ci prenderemo il tempo per
approfondirle. Oggi mi limiterò alle nozioni
basilari».
Ero
consapevole che lo
stavo fissando attentamente, carica di aspettativa, pronta a qualche
altra confessione. Forse era ancora Simon il protagonista di quella
conversazione, forse voleva farmi sapere qualcosa di importante a
proposito di ciò che era successo. Nessun’altra
questione avrebbe
richiesto tanta concentrazione o gravità.
«Io
sono un Mal’ak.»
Disse, senza aggiungere nient’altro, sebbene lo guardassi in
attesa
di spiegazioni più approfondite. Rimase in silenzio come se
quella
parola, totalmente incomprensibile e sconosciuta per me, potesse
fornire da sola i dati necessari a capire tutto.
«Mi
spiace, non so di che
si tratta. Cos’è una specie di setta…un
popolo?»
«È
una parola ebraica.
Solo tra il terzo e il secondo secolo avanti Cristo questo termine fu
sostituito, quando i traduttori greci si occuparono della Bibbia
ebraica. Significa inviato
o messaggero.
Un messaggero divino».
«Non
sarai mica un prete?»
Forse colse il disprezzo nel mio tono di voce, perché
aggrottò la
fronte pallida e scosse la testa.
«No,
non si tratta di
questo. Quando la Bibbia fu tradotta in latino, la cosiddetta
Vulgata, sai come fu definito il Mal’ak?» Scossi la
testa, senza
capire bene dove volesse andare a parare con quella curiosa
chiacchierata sulla Bibbia. «Angelus.
È ciò che sono».
«Un
Angelo…» Ripetei.
Quella parola in bocca a me suonò decisamente ridicola, ma
il viso
di lui rimase impassibile, incapace di mostrare un particolare
qualsiasi che potesse farmi capire che si trattava solo di uno
scherzo. Certo, era ovvio che mi stesse prendendo in giro, non poteva
essere altrimenti.
«Ah,
davvero? E le ali
dove le hai lasciate? Ti manca pure l’aureola e una
musichetta
celestiale che ti accompagni» lo presi in giro. «Se
intendi dire
che sei stato un angelo ad aiutarmi allora te lo concedo, te ne sono
grata».
«Questo
è un utilizzo
improprio del termine, lo sai bene. Ti giuro che non mi sto prendendo
gioco di te, sto dicendo la verità e anche se ancora non te
ne sei
resa conto o non lo vuoi accettare, lo sai anche tu. Sai benissimo
che i medici hanno visto solo una parte di ciò che ti
è stato
fatto, ti hanno ritenuta fortunata a cavartela con un taglio poco
grave, ma ci sono dei testimoni che potrebbero confermare
ciò che
dico. Stavi morendo dissanguata, Amber, nessuno avrebbe potuto
salvarti in quelle condizioni…nessuno tranne me».
Scossi la
testa, ma i
pensieri erano annebbiati dai dubbi. Era proprio così,
entrambi
pensavamo che il giudizio dei dottori fosse inesatto, ma questo non
significava per forza che solo il suo intervento avesse potuto
salvarmi la vita, perché ammetterlo significava credere che
fosse
davvero…
Solo la
parola mi faceva
ridere, sicura che fosse solo uno scherzo di cattivo gusto. Soffocai
i dubbi con una smorfia di disappunto.
«D’accordo,
è stato
divertente, ora basta, ho capito che è uno scherzo.
Perché invece
non mi parli un po’ di te, intendo davvero di te. Non ti ho
mai
visto da queste parti, non abiti in zona vero?»
«No».
La risposta fu
categorica, seguita da un lungo silenzio e da uno sguardo limpido che
pesava su di me come un macigno. Lo sostenni per qualche istante,
cercando nel suo volto qualche segno di debolezza, una crepa nella
maschera usata per quella recita, ma riflettendoci bene e osservando
con attenzione la sua espressione impassibile, capii che era
fermamente convinto di ciò che aveva detto.
«Andiamo,
non puoi davvero
aspettarti che io creda ad una cosa simile!»
«Perché
non dovresti? Io
non so mentire, perciò puoi fidarti delle mie
parole» fece
tranquillamente.
«Conosco
abbastanza gli
esseri umani per capire che tutti quanto sanno mentire».
«Hai
detto bene: gli
esseri umani».
Trassi un
profondo sospiro,
scuotendo la testa, indecisa se essere divertita o disturbata dalla
fermezza che leggevo nel suo viso. «Adesso capisco
perché tu e
Simon vi conoscete…andavate dallo stesso psichiatra per
caso? Lui
un pazzo assassino e tu uno squilibrato che crede di essere un
messaggero divino!»
Con le mani
unite si sporse
in avanti senza staccare un secondo gli occhi dai miei. Non parve
minimamente offeso. E pensare che qualche istante prima
l’unica
cosa che volevo fare era ringraziarlo a dovere per avermi tolto da
una situazione critica, ora volevo trovarmi ovunque tranne che
lì.
Non volevo cacciarlo da casa mia, mi sembrava contrario ai miei
principi di ospite, ma mi sentivo a disagio.
«Per
favore, Amber, lascia
che ti spieghi. Quando avrò finito capirai molte cose, il
mio ruolo
e quello di Simon in questa faccenda».
Forse stava
mentendo o
forse era davvero pazzo e convinto di essere un Angelo, ma se sapeva
qualcosa su Simon non era meglio ascoltare ciò che aveva da
dire e
poi immagazzinare tutto? Potevo trarne informazioni utili alla
polizia, dati che forse lui non considerava rilevanti, ma che
potevano invece esserlo. Mi meravigliai quando mi scoprii pronta a
starmene buona, in silenzio e in ascolto.
«Le
Sacre Scritture non
sono molto chiare a proposito di noi, ci nominano in diversi passi,
ma non c’è mai una perfetta descrizione degli
Angeli, soprattutto
sulla nostra personalità. Se tu hai letto la Bibbia
certamente
ricorderai molte menzioni a esseri celesti che servono Dio nel suo
operato, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento».
Ricordare?
Tutto ciò che
sapevo di quel testo erano le lezioni di catechesi, il resto era per
sentito dire e non avevo idea a quali scritti facesse riferimento.
«Ma
non importa la
precisione, o la mancanza di essa, nel descrive gli Angeli,
ciò che
risulta simile in ogni testo è il loro ruolo. Sono
presentati come
il tramite tra Dio e l’uomo, i messaggeri incaricati di un
ministero, di una missione a Suo
nome. Se non mi credi sappi che la Chiesa venera degli Angeli come
santi, il 29 settembre è la festa degli Arcangeli, il 2
ottobre la
festa degli Angeli custodi».
«E
tu sei un Angelo
custode?» L’interruzione lo colse alla sprovvista,
si schiarì la
voce.
«In
realtà…non esistono
veri e propri Angeli custodi, molte persone credono che qualunque
cosa facciano siano sempre vegliati da una figura celeste che li
protegge, ma non è così. Noi Angeli viviamo sulla
terra, ma
proteggere tutti gli esseri umani non è la nostra mansione,
non è
possibile per noi farlo. Tralasciata questa piccola imprecisione,
è
chiaro che ormai la figura degli Angeli è entrata
nell’immaginario
collettivo…»
«…come
figure
mitologiche! Non credo agli Angeli più di quanto crederei a
Pegaso o
ai folletti».
«Ma
credi in Dio…» La
mia espressione fu rivelatoria, perché lo vidi sgranare gli
occhi
ancora prima che pronunciassi la fatidica frase che lo
indignò.
«Spiacente
di deluderti,
sono atea, perciò puoi insistere all’infinito
sulla questione, ma
non potrei mai crederti davvero».
«Atea!?»
ripeté quella parola come se si fosse trattato di una
terribile
bestemmia.
«Non
credo in Dio».
«Lo
so che cosa significa,
tuttavia ciò non mi impedisce di esserne stupefatto.
È assurdo non
credere all’essere che ha creato tutto! Ogni cosa che vedi
è nata
da lui, dal suo amore! La tua vita è un suo dono!»
Era così
infervorato che mi dispiaceva quasi pensare che fosse uno svitato.
Scosse la testa infiammato dall’entusiasmo di un bambino, e
allargò
le braccia come per avvolgere tutto ciò che ci circondava.
«Da
dove credi che sia
venuto tutto questo? Guarda gli alberi, l’erba su cui teniamo
i
piedi, tutto quanto!»
«Qualcuno
lo chiama Big
Bang» dichiarai stringendomi nelle spalle con aria di
sufficienza.
«Farò
finta di non aver
sentito…cosa
sei. Nonostante il tuo problema, immagino tu abbia già
sentito
parlare delle schiere angeliche». Ci riflettei su. Non sapevo
quasi
nulla di religione, se c’era una domanda in proposito in
qualche
quiz televisivo per me era quasi possibile indovinare, ma quei
termini mi parvero familiari. «Forse
sì…c’entrano qualcosa i
Cherubini?»
Gli occhi
del ragazzo si
illuminarono e il sorriso che mi regalò contribuì
in parte a
sciogliere la tensione che si era creata. Sembrava così
convinto
delle sue parole, che non me la sentivo di prendermela eccessivamente
con lui. Alle medie conoscevo un ragazzo che era convinto di essere
capace di leggere nella mente delle persone e passava le ore di
lezione a fissare tutti a occhi stretti. Era probabile che con Samuel
fosse lo stesso, forse soffriva di qualche disagio mentale di cui non
avrei dovuto ridere. Mi sentii un po’ in colpa per averlo
fatto
fino a quel momento.
«Esatto!»
Esclamò,
distogliendomi dai miei rimorsi. «Dopotutto non sei
così digiuna di
materia religiosa. Dio è definito Adonay
Tsebayoth,
che in ebraico significa Signore
delle schiere.
Il Medioevo ha maturato una gerarchia angelica molto precisa, anche
se le fonti sono state per lungo tempo contrastanti, formata da
Cherubini, Serafini, Troni, Dominazioni, Virtù,
Potestà, Arcangeli
e Angeli. In realtà è un ordine fissato da
uomini, perciò
impreciso, basti pensare che i Cherubini e Serafini sono figure della
mitologia mesopotamica, i primi dalla figura ibrida tra uomo e toro,
con le ali, i secondi probabilmente derivati dall’immagine di
un
serpente alato che sputa fuoco. L’iconografia posteriore
associa i
Cherubini ad angioletti bambini, simili a Cupido e i serafini a
esseri luminosi con sei ali. Tuttavia un ordine angelico esiste anche
se molto più semplice: Arcangeli e Angeli. Sono questi i
messaggeri
che Dio ha scelto per la sua missione. Fungono da mediazione tra il
mondo degli esseri umani e quello celeste». Di nuovo un
sorriso
smagliante. «Hai capito ora?»
Annuii in
silenzio,
continuando a sentirmi molto scettica al riguardo, ma incapace di
dirglielo in modo esplicito. Per evitare commenti afferrai il
bicchiere e deglutii una lunga sorsata di succo. Certo, la
spiegazione era stata molto precisa, per quanto io potessi saperne,
ma era come descrivermi il mondo della fate. Interessante, ma
palesemente fantasioso.
«Ancora
non mi credi,
vero?»
«Si
vede così tanto?»
chiesi in un sussurro. Lo sguardo di Samuel si abbassò sulla
torta.
«Forse
ho capito come
convincerti». Lo scatto in avanti che fece mi colse di
sorpresa e il
sangue mi si gelò nelle vene quando in mano gli vidi il
lungo
coltello che mamma aveva portato assieme al dolce. Era uno di quelli
appartenenti al set di cinque coltelli da cucina infilati nel ceppo
in legno che tenevo sul bancone, accanto al frigorifero, un pensiero
irrilevante in quel momento, ma rifletterci su significava anche
riconoscere che erano tra gli utensili da cucina che più
utilizzavo
per cucinare, e ciò significava che la lama veniva
frequentemente
affilata. D’istinto scivolai via dalla sedia velocemente,
indietreggiando.
«Aspetta,
che fai? Che ti
salta in mente?» dissi, con voce tremante, indecisa tra varie
opzioni. Restare lì e aspettare una sua mossa, schizzare via
verso
l’interno della casa o mettermi a strillare per attirare
l’attenzione di mia madre o dei vicini? Non riuscivo a
muovere un
muscolo, né a decidermi a gridare. Ero paralizzata.
Il ragazzo
teneva
saldamente l’arma in mano, come se qualunque decisione avesse
preso
fosse ormai sicura nella sua mente ed inevitabile.
«Non
preoccuparti. Tu non
mi credi, sei ancora scettica e questo è l’unico
modo per provarti
che ciò che dico è vero.»
Questo
tizio è
completamente pazzo, fai qualcosa!
Mi avvertì nuovamente la vocina nella mia testa. Attribuii
quello
zelo alla mia coscienza, incapace di etichettare in altro modo il
conflitto che si stava scatenando nella mia testa.
Guardalo
bene, regge un
coltello lungo una ventina di centimetri ed è dannatamente
calmo!
Era vero, il
viso di Samuel
era impassibile, sereno come se non stesse accadendo nulla di grave.
«Per
favore…»
sussurrai, rimproverandomi mentalmente perché non stavo
gridando, ma
le parole uscirono dalle mie labbra a fatica come se
l’adrenalina
fosse una mano forte che premeva sulla mia gola. Inoltre ero
terrorizzata all’idea che alzando troppo la voce o facendo
qualche
mossa azzardata lui potesse fraintendere le mie intenzioni e
aggredirmi. Mi mossi lentamente di lato, ma non avevo scappatoie se
non la cucina.
Era stato un
errore farlo
entrare in casa. Perché, perché sempre io
attiravo gli
squinternati?
«…Mettilo
giù».
«Voglio
solo che mi credi»
affermò. Poi fece una cosa che non mi sarei aspettata, ma
che
nuovamente mi fece schizzare il cuore in gola. Avevo creduto da
quando aveva preso quell’arma che fosse intenzionato di farmi
del
male, anche se il motivo mi sfuggiva, perciò non ero
preparata
all’eventualità che vidi realizzarsi di fronte ai
miei occhi.
Di punto in
bianco, sempre
con quell’espressione pacifica sul volto e lo sguardo
imperscrutabile, rivolse la lama verso di sé, con la punta
pericolosamente vicina alla stoffa della maglietta grigia e allo
stomaco. Senza nessuna esitazione tese le braccia in modo che il
colpo assumesse la giusta forza.
«No!»
gridai, e senza che
la mia mente lo avesse programmato, percepii il mio corpo gettarsi
spontaneamente in avanti, verso il ragazzo. Fu questione di un paio
di secondi, durante i quali, ne ero certa, trattenni il respiro e
abbandonai ogni pensiero. Con le dita gli afferrai saldamente i
polsi, un istante prima che la lama potesse penetrare la stoffa e la
carne. Samuel non oppose la minima resistenza e io riuscii a frenare
l’impeto. Rimase per qualche istante fermo a guardarmi, senza
dire
nulla, mentre io respiravo affannosamente come se avessi corso per
chilometri. Il cuore batteva come un pazzo nel petto. Dopo qualche
istante Samuel sorrise con aspetto del tutto bonario e posò
il
coltello esattamente dove l’aveva preso.
Dei passi
pesanti e rapidi
alle mie spalle mi fecero capire che mamma era accorsa.
«Che
cosa succede?»
chiese preoccupata, facendo capolino dalla cucina. Samuel sorrise e
scosse la testa. «Niente di grave signora, è tutto
a posto».
«Ho
sentito gridare».
Io evitavo
di guardarla in
faccia, consapevole del colorito spettrale del mio viso e degli occhi
che probabilmente erano schizzati fuori dalle orbite per lo spavento.
Deglutii più volte, poi mi voltai e le regalai il sorriso
più
rassicurante che mi riuscii in quel momento.
«Un’ape
mi ha attaccata.
È tutto a posto».
Mamma
inarcò un
sopracciglio perfettamente curato. «Tutto questo trambusto
per
un’ape?»
«Scusa».
Non capivo
perché non volessi dirle che Samuel, il caro Samuel con
l’aria
tranquilla e gli occhi splendidi, aveva cercato di sventrarsi come un
pesce nel nostro giardino. Perché lo stavo proteggendo anche
dopo
ciò che era quasi successo?
Senza fare
altre domande la
donna tornò dentro e io mi sentii libera di respirare a
fondo per
darmi una calmata.
Appena
in tempo. Ancora
un secondo e avresti raccolto budella dal pavimento.
«Credo
che sia il momento
che tu vada» mormorai, sentendo le gambe trasformarsi in
gelatina a
causa dell’adrenalina che defluiva dai miei arti, lasciandomi
sola
con quella sgradevole sensazione di spossatezza. Non
questionò, si
limitò ad annuire comprensivo. Capiva che mi aveva fatto
quasi
venire un infarto?
Lo
accompagnai alla porta,
lui rivolse i dovuti saluti e ringraziamenti a mia madre, che lo
invitò a tornare anche se avrei voluto tapparle la bocca e
dirle che
quel tizio non si sarebbe mai più avvicinato a casa nostra.
Quando fu
sulla scaletta
fuori casa, mi chiusi la porta alle spalle per avere ancora un attimo
di privacy.
«Non
farlo mai più!»
esclamai, categorica.
«Non
temere» rispose il
ragazzo, come se non stessimo affatto parlando di qualcosa di serio,
bensì di un’amabile pic-nic al parco.
«Non stavo rischiando
nulla, non posso farmi alcun male. È questo che volevo farti
vedere…affinché mi credessi».
«Beh,
non farlo più…per
favore». Abbassò lo sguardo, assomigliando
d’un tratto ad un
cucciolo smarrito.
«Scusa,
era un’azione
fatta in buona fede…»
Scrollai la
testa
indignata. In
buona fede?
Chi si ammazzerebbe in buona fede?
«Sei
fuori di testa…»
mormorai.
«Forse
sono stato un po’
azzardato». Avrei voluto picchiarlo. Azzardato era un
eufemismo, ma
i miei pensieri da quel momento in poi era meglio tenerli a bada.
«Promettimi
che non
tenterai più di fare una cosa del genere. Né per
dimostrare
qualcosa, né per altri motivi».
I suoi occhi
erano grandi,
azzurri e sinceri. «Hai la mia parola.» Mi
concedette. Non sapevo
quanto potesse valere, ma decisi che poteva bastarmi.
Scese
silenziosamente i
gradini che lo separavano dalla strada. Dopo qualche metro si
voltò
e chinò il capo con educazione. «Grazie per
l’ospitalità».
Prima che se ne andasse fui io a fermarlo ancora per un istante.
«Aspetta,
ho ancora una
domanda. Perché sei venuto da me a dirmi tutte quelle
cose?»
Si
guardò intorno
assicurandosi che nessuno prestasse attenzione a noi. Il figlio dei
miei vicini di casa, un ragazzino di nome Mitchell, gli
passò
accanto con lo skate senza degnare di uno sguardo nessuno dei due.
«Vedi,
Amber, in quanto
elementi di mediazione tra il divino e l’umano, noi Angeli
siamo
simili a voi, ma possediamo dei poteri. Sono molto deboli,
più che
altro una traccia di capacità maggiori, con questo io ti ho
salvato
la vita. Ho fermato l’emorragia in corso e ti ho permesso di
tornare a respirare. Ti ho guarito in parte, per questo la ferita ai
medici è sembrata meno profonda di quello che fosse in
realtà. Te
lo assicuro non saresti sopravvissuta se non fossi intervenuto, ma
non avrei dovuto farlo».
«Perché?»
«Ordini.
Noi non possiamo
metterci in mezzo. Supervisioniamo, ci limitiamo a ispezionare il
vostro mondo e a riferire a chi sta più in alto di noi, ma
ci è
severamente vietato utilizzare quei poteri».
«Allora
perché l’hai
fatto?»
Fece un
cenno verso di me.
«Non potevo permettere che un’innocente morisse di
fronte ai miei
occhi, soprattutto sapendo che in fondo è tutta colpa mia.
Simon
sapeva che non potevo intervenire, anche per questo mi ha sfidato.
È
stato più forte di me, e ora che ho trasgredito gli ordini
devo
pagarne le conseguenze».
Il suo tono
era così serio
che, sebbene sapessi che stava dicendo un sacco di cavolate, mi
sentii rabbrividire. «Ogni azione ha delle ripercussioni,
Amber. La
mia comporta il fatto che ho dovuto raccontarti la verità,
affinché
tu sia pronta a qualsiasi evenienza. Sebbene di solito ci teniamo
alla larga dai problemi degli umani, mi è stato concesso di
avvertirti, ma non posso metterti in guardia senza che tu sappia in
qualche guaio ti sei cacciata dando confidenza ad uno come lui. Ha
fatto ciò che voleva fare per il suo divertimento, ma tu sei
ancora
viva e questo lui non se l’aspettava».
Deglutii,
riconoscendo come
paura quella sensazione formicolante allo stomaco. «Credi che
tenterà ancora di farmi del male?» chiesi.
«Non
lo so, ma certamente
ha deciso molto tempo fa da che parte stare. So che ancora non mi
credi, ma quelli come Simon una volta erano come
me…anch’essi
Angeli. Ora non lo sono più».
Probabilmente
la mia
espressione lo fermò prima che andasse oltre. «Non
importa, per
oggi basta così con le spiegazioni. Promettimi che starai
attenta e
lontana dal Mephisto.
Tutti coloro che ci lavorano sono esattamente come Simon
benché si
siano comportati come persone normali» mi avvertì.
Mi era difficile
prenderlo sul serio ricordando la disponibilità di tutti i
camerieri. Non potevano essere accomunati a un assassino.
«Per
il momento ti chiedo
un po’ di discrezione. Tu meriti di sapere la
verità, ormai è una
questione che ti riguarda, ma ti chiedo per cortesia di tenere per te
ciò che ti ho detto».
«Ma
certo» gli assicurai,
evitando di aggiungere che chiunque avesse sentito quella storia mi
avrebbe creduto fuori di testa.
«Ci
vedremo di nuovo, è
una promessa» dichiarò.
Semmai
una minaccia.
Intervenne la mia coscienza e io non potei darle del tutto torto.
«A
proposito» ancora si
interruppe prima di andare via. «Il mio vero nome non
è Samuel. È
Hadas. È ebraico e significa Nuovo.
La prossima volta ti racconterò il resto».
Lo guardai
allontanarsi,
pensando che non volevo che ci fosse una prossima volta. Volevo che
lui e le sue stronzate religiose da quattro soldi sparissero
definitivamente dalla mia vita. Ma quando rientrai in casa mi resi
conto che non era davvero così. Sospirai e posai la schiena
contro
la porta, chiudendo gli occhi e sentendomi stanca e ancora fiacca
dopo lo shock del tentato suicidio.
In
che guaio mi sono
cacciata?
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Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
Il tuo fasto è disceso
negli inferi, come la musica delle tue arpe. Sotto di te si stendono
le larve, i vermi sono la tua coperta. Come sei caduto dal cielo,
astro del mattino, figlio dell'aurora! Come fosti precipitato a
terra, tu che aggredivi tutte le nazioni!
Isaia, 14, 11-12.
13.
Rimasi
immobile con la schiena posata contro la porta per un tempo
indefinibile, paralizzata dal timore che Samuel, Hadas, o qualunque
fosse il suo vero nome, cambiasse idea e decidesse di sfondare la
porta. Un pensiero piuttosto paranoico, ma visti i recenti
avvenimenti non potevo essere certa che tutto fosse risolto dopo il
tentato suicidio in buona fede.
In quegli
istanti fui,
ovviamente, attratta dall'idea di chiamare la polizia e raccontare
l’accaduto all’agente Collins, ma poi la mia mente
mi distolse da
quel proposito, convincendomi del fatto che Samuel non era davvero
pericoloso e aveva promesso di non tentare mai più un gesto
così
avventato.
Potevo
fidarmi della parola
di un pazzo?
Ancora in
dubbio, mi
staccai dalla porta e decisi di tornare in cucina, dove trovai mia
madre che sbucciava e tagliava una mela in pezzetti regolari. Quando
alzò lo sguardo su di me capii che stavolta non me la sarei
cavata
fingendo di stare bene.
«Sei
un po’ pallida, è
successo qualcosa?» chiese.
«Sono
solo un po’
stanca».
«Potrei
preparare io la
cena stasera, dovresti riposare di più».
«Riposare
più di così
significa morire, mamma» mi difesi, anche se dovevo ammettere
che
non aveva tutti i torti. Negli ultimi giorni avevo avuto fin troppe
emozioni forti, con tanti saluti alla mia presunta convalescenza.
«Non preoccuparti per me e, per carità, lascia
perdere la cucina,
l’ultima volta che ci hai provato hai quasi dato fuoco alla
casa.
Regola numero due, non si lasciano le presine accanto al gas».
Era un
secolo che non la
vedevo ridere, perciò la visione del bianco perfetto dei
suoi denti
e del suo sguardo divertito mi lasciò spiazzata.
«D’accordo,
Julia Child, a te la cucina. Qual era la regola numero uno?»
«Le
uova non si cucinano
nel microonde».
«Ricevuto».
Preparare la
cena fu più
rilassante di quanto mamma credesse, lì nel mio angolo di
perfezione
ogni cosa era al suo posto ed era regolata da un ordine ben definito.
Sapevo che l’aggiunta di un dato ingrediente o
l’adesione a un
certo procedimento avrebbero portato ad un risultato preciso. Non
c’erano brutte sorprese nella cucina, se si sapeva come
gestire
ogni cosa, e la soddisfazione finale era l’unico obbiettivo
da
perseguire ancora prima dell’ottenimento di qualcosa di
commestibile.
Quando ero
ancora molto
inesperta seguivo i libri di cucina in maniera maniacale,
terrorizzata all’idea di sbagliare qualcosa e rovinare tutto.
Poi
avevo capito che saper cucinare significava anche dare prova di una
certa fantasia e avere occhio per le dosi. A parte quando mi
cimentavo in qualche nuova ricetta, non avevo più bisogno di
consultare i libri.
Quando lo
sfrigolare del
cibo e gli aromi di ogni ingrediente riempirono la cucina mi sentii
finalmente a mio agio e a casa, con il vapore delle pentole che mi
riscaldavano il viso ogni volta che controllavo la cottura, e il
colore dorato della carne che mi metteva di buon umore.
Mamma fu
stranamente
loquace durante la cena, nel tentativo di coinvolgermi in una
conversazione a cui non ero molto abituata. Durante la settimana era
a casa così raramente che la domenica, quando non lavorava,
il
silenzio regnava sovrano, a parte l’intervento di qualche
frase di
circostanza.
Quella sera
volle sapere
com’era andata da papà, com’era la casa
in cui viveva quella
ragazza, e come si era svolta la conversazione tra me e
Samuel.
Attribuii il tutto non tanto alla sua curiosità, quanto al
tentativo
di apparire educata e darmi l’impressione che almeno qualche
particolare della mia vita le interessava. Risposi distrattamente
alle prime due domande, alla terza il cuore prese a battere
più
veloce, al ricordo del coltello così vicino al ventre di
Samuel da
sfiorarne la maglietta. C’era mancato davvero un soffio.
«Sembra
un ragazzo ben
educato» commentò mia madre, infilandosi in bocca
un pezzo di
bistecca e aspettando qualche mia precisazione. Ammisi che era un
tipo particolare, ma molto gentile, poi le fui mentalmente grata
quando cambiò argomento e mi parlò del suo
lavoro.
Le sue
parole non
lasciarono traccia nella mia mente, tutta presa da altri pensieri,
come per esempio ogni ammissione fatta da Samuel quel pomeriggio e
l’assurdità del suo racconto. Non capivo cosa
c’era di sbagliato
in lui, non riuscivo a distinguere tra menzogna e pazzia, ma ero
più
incline ad accettare la seconda ipotesi. Non aveva dato segni di
raccontare balle, oppure sapeva mentire davvero benissimo.
Personalmente ero quasi certa che per qualche motivo lui fosse
davvero convinto di tutte le cose che aveva detto.
In silenzio
e con la mente
in subbuglio, sparecchiai e misi in ordine la cucina, poi congedai
mia madre con la scusa della stanchezza e mi rifugiai in camera mia
prima di quanto fossi solita fare.
Il rapporto
con la mia
stanza da sempre era singolare, oscillante tra l’odio e
l’attaccamento. C’erano giorni in cui mi sembrava
un bene
prezioso, una tana dove potermi rifugiare e un giaciglio su cui
stendermi senza dover temere che qualcuno facesse domande sul mio
stato d’animo. Potevo piangere, ridere o cantare senza essere
disturbata. Altre volte invece non potevo impedirmi di detestarla per
il semplice fatto che non riuscivo a sentirla davvero mia.
Avevo sempre
invidiato a
Christopher questa differenza tra noi. Tutto in camera sua
rispecchiava alla perfezione la sua personalità e le sue
passioni.
Poster alle pareti richiamavano i suoi eclettici gusti musicali e
cinematografici, bandierine e mascotte rappresentavano la sua
preferenza per la squadra di baseball dei San Francisco Giants,
passione che condividevamo, e l’amore per il college che
frequentava a Stanford.
L’ultima
volta che la mia
stanza si era potuta definire personalizzata era ancora piena di
peluche e il letto era coperto dalla trapunta di barbie. Ora mi
limitavo ad appendere qualche foto di me, dei miei amici e di Chris
accanto alla scrivania. Quando vi entrai, mi accontentai del fatto
che aveva un letto dove potermi rifugiare a riflettere, e un pc con
il quale aiutarmi a farlo. Aprii il laptop e fissa la home page del
motore di ricerca, indecisa su come cominciare. La lineetta verticale
nel punto di inserimento lampeggiava come facendomi
l’occhiolino,
in attesa dei miei dubbi.
Angeli
fu il primo lemma che digitai, desiderosa di scoprire se ciò
che
Samuel aveva affermato era frutto di ricerche o solamente della sua
sfrenata immaginazione. Ottenni più di nove milioni di
risultati, la
maggior parte rimandanti a consigli su come evocare al meglio i
propri Angeli protettori, su come pregarli per ottenere buoni
risultati nella vita e su come trovare il nome del proprio Angelo
custode. Con un po’ di selezione riuscii a trovare documenti
più
inerenti a questioni di teologia e, esposte in un modo o
nell’altro,
le informazioni che recuperai mi sembrarono simili a ciò che
mi
aveva raccontato Samuel. Le analisi etimologiche erano le stesse
fatte anche da lui, aveva ragione sulle feste degli Arcangeli e degli
Angeli custodi, sul significato di Mal’ak
e di Adonay
tseba’ot.
La ricerca
sui cherubini mi
rimandò all’iconografia tradizionale
rappresentante fanciulli
alati dall’aria pensierosa e pacifica, quella sui serafini a
figure
adulte con tre paia di ali. Approfondii le mie conoscenze sugli
ordini angelici, provenienti dalla tradizione di Dionigi
l’Areopagita
che divideva gli esseri celesti in tre ordini. Il primo formato da
Troni, coloro che vivevano accanto al trono di Dio, in cielo, i
Cherubini e i Serafini. Il secondo era rappresentato da
Potestà,
Dominazioni e Virtù, il terzo da Angeli, Arcangeli,
Principati. Se
era una tradizione così universalmente accettata,
perché Samuel
l’aveva smentita?
Cambiando
parola chiave in
Arcangelo, tra i nomi che lessi riconobbi quelli
famosi di
Gabriele, Michele e Raffaele, e altri che non avevo mai sentito
nominare in vita mia. C’erano così tante
tradizioni discordanti da
mandare in confusione chiunque. Secondo alcuni gli Arcangeli erano
solo tre, secondo altri sette, altri ancora affermavano di conoscerne
nove.
Sospirai.
Erano troppe
cose, una miriade di informazioni che nemmeno in una settimana avrei
potuto assimilare in modo soddisfacente. Per comodità
spostai la
pagina sulle immagini, e una sfilza di icone mi sfilarono davanti
allo sguardo. Figure alate e maestose.
Vestito con
una lorica
celeste e un mantello rosso, uno degli Arcangeli più famosi
teneva
incatenato un uomo a terra e con il braccio destro in tensione,
sembrava sul punto di colpirlo con una spada. Sempre rappresentato
vestito di azzurro e rosso, Michele era il più delle volte
impegnato
in una strenua lotta contro il male, contro draghi o serpenti
contorti, a volte armato di spada a volte di lancia, a volte con
un’armatura completa di scudo, altre volte senza alcuna
protezione.
Gabriele
appariva ovunque
come un essere particolarmente delicato, femmineo, dalla pelle molto
chiara, quasi sempre nell’atto di indicare qualcosa, con
Maria
accanto o da solo, e reggente un giglio candido tra le braccia o in
mano. Raffaele compariva molto meno, e quasi mai gli altri Arcangeli.
L’oscurità
quasi totale
della stanza si annullava solo nel punto dove l’illuminazione
dello
schermo creava un bozzolo di luce chiara attorno a me. Il computer
stava cominciando a scaldarmi le gambe su cui posava.
Un dettaglio
dell’Arcangelo
Michele mi rimandò ad un’altra immagine: Giudizio
Universale
o Trittico
di Danzica, Memling.
I miei occhi colsero gli elementi familiari, posandosi sulla parte
alla mia destra e sentii il cuore battermi più forte nel
petto. I
dannati tormentati e i diavoli tra le fiamme erano gli stessi che
avevo visto al Mephisto,
in ogni minimo dettaglio, con le loro inquietanti espressioni di
dolore. Ricordai la meraviglia di fronte a quello splendore artistico
e ne rimasi quasi delusa, vista la piega presa poi dagli eventi. Il
nervosismo mi pizzicò le budella, nel pensare a quanto
sembrasse
ironica tutta quella situazione. Tutto sembrava riportarmi con il
pensiero ai miei errori, come se non meritassi di lasciar perdere.
Dei colpetti
alla porta mi
fecero trasalire e il cuore mi schizzò in gola in un
istante. Attesi
un secondo di riprendermi dallo spavento, tanto da non suscitare
sospetti in mia madre. Abbassai con un secco scatto lo schermo,
rapita dai tratti e dai colori brillanti di quegli affreschi.
«Avanti…»
Il suo viso
oscurato fece capolino dalla porta. Reggeva qualcosa di fumante tra
le mani e io mi chiesi cosa diamine avesse bruciato stavolta.
«Ho
preparato una tisana,
ne vuoi una tazza?» chiese. «Senza dare fuoco a
nulla» aggiunse
con una smorfia divertita, come se le mie perplessità mi si
fossero
stampate in fronte.
«Grazie».
Mi porse la
tazza calda e sorseggiai cautamente il liquido caldo che subito parve
sistemarmi il formicolio allo stomaco causato da un’ansia che
non
sapevo spiegare. Pensavo che lei si congedasse, invece rimase a
fissarmi per qualche istante e trasse a sé la sedia accanto
alla
scrivania. Si sedette e si schiarì la voce. Anche nella
penombra
riuscivo a scorgere la tensione del volto e la piccola ruga che si
formava tra le sopracciglia chiare perfettamente curate, ogni volta
che era in pensiero per qualcosa. Stavo per domandarle quale fosse il
problema, ma mi interruppe, iniziando a parlare.
«Senti
Amber, io mi stavo
chiedendo una cosa…» Il tono di voce era basso,
confidenziale e
sperai che non volesse rivangare la storia di Simon.
«…fra qualche
giorno è il quattro luglio e…pensavo
che…magari potremmo fare
qualcosa. Tra noi, intendo. Insieme».
La parola insieme
suonò quasi strana, forse nemmeno lei credeva più
al suo
significato. Non aveva più molto senso da quando
papà se n’era
andato. Avevo sempre passato il pranzo del quattro luglio con mamma,
papà e Chris. Poi io e Chris trascorrevamo il pomeriggio con
i
rispettivi amici e la sera si andava tutti quanti a vedere i fuochi
d’artificio in qualche luogo strategico in città.
Adesso che Chris
non c’era più, non avevo nemmeno pensato al fatto
che la routine
del giorno dell’indipendenza fosse infranta. Sapevo solo con
quali
persone volevo trascorrere la festa e mamma non figurava tra queste.
«Avevo
in mente di fare
qualcosa con Louis e Jenny» risposi semplicemente. Pensare di
passare quella festività così allegra con una
persona con la quale
a stento riuscivo a portare avanti una conversazione, non mi
entusiasmava per niente.
«Avete
già in mente
qualcosa di preciso?»
«Non
ancora».
Il suo
disagio era
evidente. Mi chiesi che fine avesse fatto l’avvocato di
successo
con la sua capacità di persuasione e il carisma. Annaspava
nelle sue
stesse parole. «Allora ascolta…abbiamo un bel
giardino, non è
enorme ma qui in città si può considerare
abbastanza spazioso.
Potremmo organizzare un pranzo, e tu puoi invitare chiunque
desideri».
Aggrottai la
fronte,
guardandola di traverso. «Sai che divertimento, io, i miei
amici e
mia madre. Non ti sembra un po’…beh, non ti suona
un po’
strano?»
Abbassò
lo sguardo e
annuì. Poi mi fece un sorriso tirato e si alzò in
piedi. «Hai
ragione, sei grande ormai, è meglio se passi la giornata con
i tuoi
amici a divertirti» Si voltò e fece per aprire la
porta, quando dal
fondo del mio cuore la coscienza, con la sua vocina maligna, mi
paragonò alla regina cattiva delle favole.
Sapevo di
avere ragione,
ero davvero convinta che i miei amici sarebbero stati intimiditi
dalla presenza di mia madre, avrebbero fatto di tutto per trattenersi
dal parlare di cose stupide e Louis avrebbe fatto il possibile per
apparire meno gay del solito, anche se mamma conosceva i suoi gusti.
Non volevo che si limitassero. Ma mi sentivo un mostro per aver
smorzato il suo entusiasmo così insolito.
«Mamma
aspetta». Si fermò
con la mano a pochi centimetri dalla maniglia, in attesa delle mie
parole. «Ho un’idea migliore. Potremmo fare questo
pranzo, io
invito Louis e Jenny e tu inviti chi vuoi, magari qualche collega, o
qualche tuo amico».
Se
ne hai.
La speranza
sul suo volto
la fece sembrare molto più giovane dei suoi anni e io mi
sentii un
po’ più sollevata. Quella sera avevo fatto la mia
buona azione,
potevo andare in pace.
«Dici
davvero?»
«Perché
no? Se inviti
qualcuno con cui puoi parlare almeno ti diverti anche tu».
E
non ci stai con il
fiato sul collo.
Ci
rifletté su per qualche
secondo. «Vuoi invitare papà?»
Non riuscivo
a credere alle
mie orecchie. Che cosa aveva messo in quella tisana per renderla
così
docile e accomodante? «Sicuramente farà qualcosa
assieme a Trudy».
«Possono
venire insieme…se
a te fa piacere». L’aggiunta mi fece intuire che
lei invece non
avrebbe fatto i salti di gioia. Però, se solo avesse avuto
l’occasione di conoscerla come la conoscevo io magari le
sarebbe
piaciuta…o forse no, ma quella sera mia madre era in vena di
concessioni, potevo approfittarne. Volevo che papà venisse e
non
l’avrebbe fatto senza la ragazza.
«Domani
telefono e chiedo
se a loro va di venire».
Si
portò i capelli dietro
l’orecchio e sorrise, soddisfatta. «Bene. Tanto per
fare qualcosa
insieme».
«Certo».
Mi
augurò la buonanotte e
sparì, lasciandomi sola con il lieve ronzare del computer
accanto a
me. Il comportamento di mamma era inusuale, da attribuire sicuramente
a ciò che mi era successo. Avevo il sospetto che temesse che
mi
cacciassi di nuovo nei guai e frequentassi gente poco affidabile. Un
pranzo in famiglia, se così la si poteva chiamare, era il
modo
migliore per tenermi d’occhio.
Riaprii il
portatile e
decisi di concedermi un’ultima ricerca, ricordando
ciò che Samuel
mi aveva detto di Simon. Ancora non riuscivo a capire come potessero
quei due conoscersi, mi sembrava assurdo che fossero accomunati. Il
ragazzo mi aveva confessato che Simon un tempo era come lui,
perciò
un Angelo non più tale.
Nella barra
della ricerca
web scrissi Angeli
ribelli.
Colsi nel segno: gli Angeli ribelli o Angeli caduti, erano gli Angeli
che avevano deciso di tradire Dio proprio come aveva fatto Satana.
Della medesima natura degli Angeli, avevano però un diverso
atteggiamento nei confronti di Dio, si opponevano a lui, ai suoi
ordini e al bene. Demoni.
Trovai altre
immagini
presenti sulle pareti del locale, scheletri e rappresentazioni della
morte, lo stesso diavolo rosso che sussurrava quasi seducente
all’orecchio di Gesù in Predica
dell’Anticristo
di Luca Signorelli. Bocche infernali spalancate, fauci simili a
quelle del bancone del Mephisto,
tra le quali in certi casi si scorgevano voragini colme di fiamme,
sguardi carichi di malvagità e Satana spesso rappresentato
nella sua
caduta dal cielo.
Posai la
testa sul cuscino,
sentendomi spossata. Fissare lo schermo del computer mi aveva
appesantito gli occhi, così come già mi sentivo
intorpidite le
membra.
Come
bilancio della serata,
avevo dimostrato che Samuel sapeva molto sull’argomento, ma
questo
non significava che dovevo crederci davvero. Feci un profondo respiro
e mi concessi di chiudere gli occhi solo per un istante, poi avrei
potuto cercare qualcos’altro.
Quando li
riaprii ogni
traccia di buio era sparito, scacciato dal sorgere del sole. Il
display della mia sveglia digitale segnava già le otto,
suggerendomi
che mi ero addormentata. Il computer giaceva semi aperto a terra,
finito lì probabilmente perché mi ero mossa nel
sonno. Per fortuna
il tappeto morbido aveva attutito la caduta, ma la batteria si era
esaurita. Mandai mentalmente a quel paese le ricerche, mi stiracchiai
e scesi per la colazione.
L’unica
traccia di mamma
era un biglietto sul frigorifero che mi augurava un buon giorno e mi
consigliava di riposare. La conversazione della sera prima
probabilmente l’aveva fatta svegliare di buon umore.
Malgrado i
suoi
avvertimenti non me la sentii di poltrire tutto il giorno, ma non
avevo nemmeno molta voglia di pulire casa. Dopo colazione mi vestii
con una tuta da ginnastica e decisi che mi avrebbe fatto bene un
po’
di attività fisica per sbloccare le articolazioni che
sentivo
indolenzite dopo essermi addormentata in una postura poco comoda la
sera prima.
A San
Francisco il Golden
Gate Park non era l’unica zona verde ottimale per lo sport,
ma era
il parco che preferivo, il più spazioso, ricco di
attività diverse
e comodamente vicino a casa mia. Era stupefacente pensare che in
origine non fosse altro che un insieme di mucchi sabbiosi,
trasformati a fine ottocento in un capolavoro di spazi verdi e
svariate attrazioni. Io non ero molto interessata ai piccoli musei
all’interno, anche se il Japanese Tea Garden con
l’armonia creata
da stagni, fiori e pagode mi era piaciuto molto quando
l’avevo
visitato. Amavo semplicemente passare del tempo circondata dalla
natura, difficile trovare in città.
Da casa mia
bastavano pochi
minuti a piedi, perciò lo raggiunsi in fretta, aspettai che
i
muscoli fossero sufficientemente caldi, poi cominciai a correre. Le
gambe rigide mi diedero dapprima l’impressione di aver
iniziato un
movimento innaturale, non spontaneo, ma bastarono pochi minuti
perché
la musica che gli auricolari rovesciavano nelle mie orecchie desse
ritmo al moto delle mie gambe, coordinando i passi e il bilanciamento
esercitato dalle braccia.
Guardai
davanti a me, gli
occhi fissi sulla stradina battuta inghiottita dal prato e dagli
alberi. Il verde mi sfilava di fianco come se ci nuotassi attraverso,
l’odore dell’asfalto e dello smog era diminuito,
scacciato dal
profumo dei pini, dell’erba e della resina fresca.
Nella pista
ciclabile
accanto a me, di tanto in tanto qualche macchia indefinita sfrecciava
pedalando, ma tutto ciò su cui la mia mente voleva
concentrarsi era
la cadenza della musica e quella del mio corpo. Non sentivo i rumori,
potevo solo immaginare il tonfo dei miei passi sul sentiero e il loro
scricchiolare nei punti in cui la ghiaia diveniva più
frequente.
Lentamente la tensione che sentivo nei muscoli e negli arti parve
sciogliersi, assieme il blocco fastidioso di pensieri che mi ostruiva
la mente.
Lavorai
sulla respirazione,
inspirando ed espirando ad un ritmo regolare e sentendomi ogni
secondo un po’ meglio. Fu più facile pensare
lucidamente in quelle
condizioni di pace, in quella zona verde e protetta. Non ero mai
stata una patita dello sport e dell’attività
fisica, ma correre mi
sembrava l’esercizio migliore quando le cose si facevano
incasinate.
Continuai
per una buona
mezz’ora, fino a sentire il sudore incollarmi la maglietta
alla
pelle, le guance accaldate e i muscoli delle gambe formicolanti. Il
cuore batteva veloce nel petto, ma ad un ritmo ben modulato, e la
serenità che sentivo addosso sembrava non poter essere
scalfita in
nessun modo, almeno fino a quando da una macchia di cespugli
un’ombra
non saltò fuori sul sentiero proprio davanti a me.
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Capitolo 14 *** Capitolo 14 ***
E vi fu
guerra in cielo:
Michele con i suoi angeli ingaggiò battaglia con il dragone;
e
questo combatté insieme ai suoi angeli; ma non prevalsero:
il loro
posto non si trovò più nel cielo. Fu infatti
scacciato il grande
dragone, il serpente antico, quello che è chiamato diavolo e
Satana;
colui che inganna tutta la terra fu precipitato sulla terra e con lui
furono precipitati anche i suoi angeli.
Apocalisse, 12, 7-9.
14.
Per
quanto fosse un’azione esagerata, la prima cosa che mi
riuscì
spontanea fu strillare, causando più stupore nel mio
presunto
aggressore che in me. Da un albero lì vicino un gruppo di
tortore si
alzò in volo con un frullare d’ali. Con un gesto
stizzito mi
strappai gli auricolari e il mondo ritornò al suo normale e
banale
tono. All’immagine delle tortore in fuga si unì il
brontolio
gutturale dei loro lamenti.
«Cristo
santo!» esclamai.
«Sei forse impazzito?»
«Non
imprecare, per
cortesia». La voce di Samuel era esattamente come la
ricordavo,
pacata e tranquilla, l’esempio perfetto
dell’equilibrio interiore
in un individuo che mi sembrava tutt’altro che a posto con la
testa.
«E
tu non farmi venire un
colpo ogni volta che ci incontriamo. È seccante!»
Non parve turbato
dalla mia reazione, solo incuriosito dal fatto che un gesto minimo
come la sua comparsa avesse avuto delle conseguenze su di me.
«Ti
ho spaventata?»
«Per
la seconda volta
direi». Con una mano posata sul petto riuscii a sentire i
battiti
furiosi del mio cuore, così diversi dalla cadenza che avevo
raggiunto in corsa.
«Credo
che tu non abbia
tutte le rotelle a posto» rincarai la dose. «Non si
sbuca dai
cespugli così come se nulla fosse».
Mi rivolse
un sorriso
conciliante, un blando e inusuale tentativo di scusa. «Sono
mortificato, la prossima volta mi annuncerò in modo diverso.
Non è
mia intenzione causarti ansia».
«Dovrai
lavorarci un po’
su allora». Con uno sbuffo arrotolai gli auricolari e infilai
l’iPod
nella tasca della tuta. Poi gli gettai un’occhiata in
tralice,
sentendo un dubbio serpeggiare nel cervello.
«Come
mi hai trovato?»
Quel sospetto prese di colpo forma facendomi sgranare gli occhi.
«Mi
hai pedinata?»
«I
dizionari illustrano il
termine Pedinare
come seguire una persona a debita distanza senza farsi notare per
spiarne le azioni. Mi sembra una connotazione abbastanza negativa e
non è il mio caso. Non posso però negare di
tenerti d’occhio,
spero che tu non la prenda come una minaccia, perché non lo
è
affatto».
La sua
ingenuità era
spiazzante, dopo che una persona che lui aveva confessato di
conoscere aveva tentato di togliermi dal mondo e dopo aver appreso
che lui mi seguiva, come potevo non sentirmi intimorita? Cercai nel
suo viso tracce di menzogna o di un particolare qualsiasi che
gridasse alla mia ragione di stare in guardia. Potevo aspettarmi di
tutto da lui dopo il gesto plateale e autolesionista del giorno
prima, ma oltre ogni previsione mi sembrò estremamente
sincero e
comunque, nel caso avessi avuto bisogno di aiuto, nella tasca
riuscivo a sentire il peso familiare del cellulare. Avrei potuto
prontamente afferrarlo e chiamare qualcuno, o al massimo
scagliarglielo in fronte e fuggire. Di nuovo mi meravigliai del
colore intenso dei suoi occhi, del suo viso delicato e infantile e di
quell’espressione a metà tra l’assorto e
il sereno.
Feci un
sospiro d’assenso,
concedendogli così un frammento della mia fiducia. Restava
da vedere
se fosse ben riposta o se il mio istinto si fosse di nuovo
incamminato verso il disastro.
Il suo
sguardo limpido si
posò sul foulard che prima di uscire di casa avevo avvolto
alla gola
per proteggermi da sguardi indiscreti. Con un cerotto ingombrante sul
taglio mi sentivo osservata, anche se probabilmente era solo una mia
impressione.
«Come
ti senti?» chiese.
«Come
se mi trovassi di
colpo sotto i riflettori e avessi un enorme rospo sulla faccia. Tutti
fanno finta di nulla, ma mi guardano in modo strano. Immagino che
siano gli effetti collaterali della convalescenza».
«Si
preoccupano per te»
fu la sua spiegazione.
«Oppure
se ne sentono
costretti, scommetto che mia madre non vede l’ora di tornare
alla
normalità, ora come ora mi ronza intorno, ma di solito non
fa così».
«È
tua madre, è normale
che si comporti così, proprio come ha fatto
all’ospedale».
Senza che me
ne fossi
accorta avevamo cominciato a camminare, muovendoci lungo la pista in
terra battuta, in mezzo alle enormi macchie verdi degli alberi. Per
qualche secondo lo guardai senza capire che cosa intendesse. Che io
ricordassi, all’ospedale mamma si era limitata a lanciarmi
sguardi
di ghiaccio e a minacciarmi mentalmente di non fare più una
cosa del
genere. Nessun abbraccio, nessun evidente segno di amore materno, se
non intense ondate di rimprovero. Samuel mi fornì
chiarimenti senza
che dovessi chiedere alcunché esplicitamente.
«È rimasta tutta la
notte».
«No,
ho dormito da sola».
«Ma
è restata in
ospedale». Mi sembrò estremamente difficile
credergli, ma perché
avrebbe dovuto mentire? Certo, mamma non era il tipo da veglia
notturna e non mi aveva detto che sarebbe restata lì.
Perché mai?
Ricordavo solo che dopo aver parlato con i detective era venuta a
darmi la buonanotte e io non l’avevo più vista
fino al mattino
dopo. Non mi aveva chiesto se avessi la necessità di averla
lì, ma
a pensarci bene sapevo cosa le avrei risposto se mi avesse rivolto
quella domanda. Dopo aver detto a papà che poteva tornare a
casa, di
certo non era proprio lei la persona che avrei voluto avere accanto.
«Immagino
che non mi abbia
detto nulla perché sapeva che le avrei chiesto di andare
via. Ma tu
come lo sai? Avevi già cominciato a pedinarmi da
allora?» Il suo
sorriso si fece più ampio, ma senza dare davvero
l’impressione di
trovare divertenti le mie parole.
«Lo
ripeto, non ti sto
pedinando. Ero lì per questioni di sicurezza».
Feci un
sospiro, sentendo
dentro di me nascere la frustrazione e il timore che Samuel
ricominciasse i suoi deliri su Dio e gli Angeli e la preoccupazione
era maggiore sapendo che era proprio quello che voleva fare.
«Non
hai idea di cosa sia
capace di fare il ragazzo che tu conosci come Simon. Non ama che
qualcuno gli metta i bastoni tra le ruote. Dubitavo che si
presentasse all’ospedale per tentare qualche gesto clamoroso,
ma
non è un tipo da sottovalutare».
«Lui
sarebbe un Demone
vero? Un Angelo che si è ribellato a Dio».
Il suo
sorriso confermò la
mia ipotesi ancora prima che fosse la sua voce a farlo.
«Qualcuno ha
studiato, vedo» disse, facendomi ridacchiare.
«La
tecnologia è utile a
volte, mi sono voluta informare su alcune cose».
«In
realtà noi Angeli non
li chiamiamo Demoni, bensì Caduti, per rammentare a noi
stessi non
ciò che hanno guadagnato, bensì ciò
che hanno perso a causa del
loro gesto. Per un motivo o per l’altro hanno deciso di
trasgredire
le regole e di allontanarsi volontariamente dal loro creatore,
condannandosi per sempre ad una vita di peccato e di dissolutezza, ad
una vita eterna senza la possibilità di rivedere la
luce».
Per quanto
farfugliasse
cose senza senso per me, il suo tono di voce e lo sguardo divenuto di
colpo serio mi misero i brividi. Cambiai velocemente discorso.
«Perciò lui non si chiama davvero Simon?»
Attese che
una donna ci
superasse spingendo una carrozzina. Quando fu abbastanza lontana e il
rumore lento delle ruote sui sassolini si affievolì
sensibilmente,
Samuel ricominciò a parlare.
«Simon
è solo un nome
fittizio, il nome che lui ha scelto per sé. Tutti noi ne
abbiamo
uno, a volte ha un significato particolare, altre volte ci attira
semplicemente per il suono che produce».
«Perché
ti sei dovuto
scegliere un nome fittizio?» In realtà credevo che
non ci fosse
nessun nome fittizio, ma me lo tenni per me.
«Hadas
è un nome un po’
troppo particolare per un abitante di San Francisco di aspetto
caucasico. Quando vivevo in Italia mi chiamavo Samuele».
Individuò
una panchina poco più avanti e mi invitò a
sedersi accanto a lui.
La sua frase generò in me una scossa di curiosità.
«Sei
stato in Italia?»
«Sono
nato in Italia»
precisò. «Nel quattordicesimo secolo».
Giusto,
dimenticavo che
stavo parlando con un Angelo immortale. Sorvolai
sull’affermazione
e proseguii con il discorso principale. «Quindi come si
chiama Simon
in realtà?»
«Hazaq.
Significa forte.
Solitamente i Caduti ricevono automaticamente un nome diverso quando
vengono dannati, un appellativo che esprime la loro natura in
negativo, ma in questo caso l’attributo è valido
anche per le
caratteristiche attuali di Hazaq. Come Angelo era forte, come Caduto
è violento».
«E
io ne so qualcosa».
Annuì in silenzio, osservando un passerotto zampettare poco
distante
dai nostri piedi, in cerca di qualcosa da becchettare. Dopo un
momento di assoluta immobilità, si riscosse dai suoi
misteriosi
pensieri e mi guardò.
«Non
sono qui per caso. Ho
promesso di raccontarti tutto e credo che il modo migliore per
spiegarti alcune cose sia cominciare dal principio, l’origine
della
nostra specie, se così vogliamo chiamarla, e quella degli
oppositori. Te la senti di ascoltarmi?» Ricambiai lo sguardo,
indecisa sul da farsi. Avevo di fronte un ragazzo chiaramente
disturbato, un fanatico cristiano che avrebbe dovuto starmi
antipatico solo per la sua ossessione religiosa. In realtà
la sua
presenza lì non mi dispiaceva come avrebbe dovuto. Mi trovai
ad
annuire.
Il
passerotto saltellò
verso di lui, arrivando a pochi centimetri dalle sue scarpe,
guardandolo con i lucidi occhietti neri e muovendo a scatti la
testolina piumata. Samuel sorrise nuovamente, guardandolo con una
dolcezza che si addiceva perfettamente al suo aspetto fanciullesco,
poi cominciò il suo racconto.
«In
principio Dio creò
gli Arcangeli, sette entità perfette. La loro potenza non
eguagliava
quella del loro Signore, ma superava quella di qualunque essere mai
creato in seguito. Essi possedevano nomi che suggerivano la loro
vicinanza a Dio, Michaèl, Gabrièl,
Raphaèl, Urièl, Raguèl,
Zerachièl, Remièl, ed erano dotati ognuno di una
propria
caratteristica. Dio li creò perché lo aiutassero
durante la
Creazione. Creò il cielo e la terra, donò la luce
al mondo e la
separò dalle tenebre. Divise la terra asciutta dalla
superficie
delle acque e portò alla vita le sue prime creature,
vegetali e
animali».
«Queste
cose le so già,
sono minestra scaldata, a parte la nascita degli Arcangeli, della
quale non ho mai sentito parlare. Sicuro di non esserti inventato di
sana pianta questa versione?» Mi lanciò
un’occhiata spazientita,
ma quando capii che non aveva la minima intenzione di rispondere alle
mie accuse, lo lasciai proseguire nella spiegazione.
«Decise
che ciò che aveva
realizzato aveva bisogno di una guida, perciò
creò l’uomo e lo
pose a capo di tutto, affiancato da una compagna. Soddisfatto del suo
operato, consacrò il settimo giorno come giorno di riposo,
ignaro di
aver compiuto il più grave degli errori. Convinto
dell’assoluta
fedeltà dei suoi Arcangeli, li aveva dotati del libero
arbitrio,
potere decisionale di cui uno di loro abusò.
Helèl, invidioso
dell’enorme potere del Signore e desideroso di liberarsi dal
suo
giogo, decise di ribellarsi, negando il dominio di Dio e tentando di
usurpare il suo trono. Cercò appoggio presso i suoi compagni
Arcangeli, lusingandoli e promettendo loro una vita di potere, liberi
dal dominio del loro Creatore, ma nessuno lo seguì. Dio
cacciò
Helèl dal regno dei cieli, bandendolo per sempre, e lo fece
precipitare nel centro della Terra, un luogo oscuro, privo della
gloriosa luce del Signore. Helèl assunse da allora il nome
di
Satana, l’Oppositore.
Esso fu sostituito dal nuovo Arcangelo, Urièl, e ai sette
esseri fu
tolto per sempre il libero arbitrio per impedire altre ribellioni.
Non pago del suo gesto, Satana sfidò nuovamente il Signore e
dalla
sua materia corrotta creò sette servi, a immagine e
somiglianza
degli Arcangeli, i Diavoli. Grazie ad essi gettò i primi
semi di
discordia tra i figli di Dio. Sotto forma di Serpente, uno dei
Diavoli ingannò la donna e spinse lei e il compagno a
mangiare del
frutto proibito, proveniente dall’Albero della Conoscenza del
Bene
e del Male, macchiandoli del peccato originale e causandone la
cacciata dal Paradiso Terrestre. I Diavoli occuparono la terra,
conducendo una vita di dissolutezze in nome del loro signore, Satana,
e molti esseri umani seguirono il loro peccaminoso esempio. Con il
passare dei secoli il mondo divenne covo del male, e Dio
capì che
gli uomini si stavano allontanando sempre più dal Suo Nome.
Solo uno
di loro era giusto e retto, buono con il prossimo e devoto a Dio. Il
suo nome era Noè, e fu scelto da Dio per ripopolare la terra
dopo il
Diluvio che avrebbe mandato sull’umanità per
cancellarne il
peccato».
Feci un
profondo sospiro.
«Ti prego, la favoletta dell’arca di Noè
no, risparmiamela».
«Sai,
dovresti davvero
imparare cos’è la pazienza». Mi
rimproverò bonariamente lui, con
un cipiglio degno di un maestrino severo. «Il diluvio ebbe
anche un
altro scopo. Resosi conto che anche con l’aiuto degli
Arcangeli non
poteva più tenere d’occhio tutti gli umani,
compì una nuova
creazione. Dalla sostanza incontaminata dei sette servi trasse nuovi
esseri, meno potenti e meno puri, ma più numerosi. Essi
avevano
involucro umano per meglio mescolarsi alla gente, la loro sfera di
influenza era la Terra e lì erano destinati a vivere, senza
poter
mai frequentare le Sfere Celesti. Gli Arcangeli allo stesso tempo non
necessitavano di frequentare i luoghi dei mortali, grazie alla
sovrintendenza dei nuovi esseri. Dato il loro straordinario numero,
Dio non poté negare loro il libero arbitrio. I Diavoli non
risparmiarono nemmeno loro nel loro progetto di corruzione. Molti
Angeli restarono sulla retta via, ma con il passare del tempo alcuni
cedettero alle adulazioni delle forze oscure, stanchi di condurre una
vita al servizio di qualcun altro o per il desiderio di prender parte
ai piaceri della vita umana. Compirono la loro ribellione, sebbene
sapessero a cosa sarebbero andati incontro. Da Angeli divennero
Caduti,
esseri che avevano ottenuto ciò che volevano, ma dannati in
eterno
senza possibilità di redenzione».
La sua voce
era così
diversa da quella di Simon, senza la minima traccia di seduzione, ma
ugualmente magnetica, capace di risucchiare la mia attenzione e farmi
dimenticare il presente. Leggermente più acuta, come se
oscillasse
tra infanzia ed età adulta senza poter decidere da che parte
stare
definitivamente. Sebbene mi sembrassero storielle senza senso, non
potevo ignorare la scossa di attrazione che provai per quel racconto.
Attorno a me ogni rumore sembrava attutito, come se nel mondo
esistessimo solo io e Samuel, avvolti in un bozzolo ovattato. Preso
dal racconto il suo tono aveva assunto una sfumatura quasi euforica
nei momenti di lode agli Arcangeli o a Dio, e una di amarezza nei
frangenti più cupi di ribellione e peccato. Non importava
che le sue
parole fossero vere o solo un mucchio di sciocchezze, non avevo dubbi
sulla seconda opzione, sentivo solo che i miei occhi faticavano a
staccarsi dall’espressione spontanea che gli leggevo in viso.
Avevo
raccolto le ginocchia
contro il petto e anche se la posizione non era tra le più
comode su
quella dura panchina in mezzo al parco, mi sentivo come una bambina
piccola intenta ad ascoltare con curiosità sempre crescente
le fiabe
della buona notte di fronte al calore di un caminetto acceso.
L’unica
differenza stava nel fatto che le avventura narrate non erano quelle
di una ragazza dalla mantellina rossa minacciata in un bosco dal lupo
cattivo, né quella di una splendida principessa caduta in un
sonno
profondo a causa di un incantesimo, bensì storie di
creazione e
ribellione. In entrambi i casi si toccavano argomenti di pura
fantasia, ma per quanto non mi piacesse riconoscerlo, dovevo
ammettere almeno con me stessa che celavano un certo fascino.
Samuel era
seduto accanto a
me con una compostezza se non irreale, quantomeno esagerata, con le
mani posate sulle ginocchia, apparentemente immobile se non per lo
sguardo intento a seguire ogni minimo movimento del passerotto che
nel frattempo si era fatto sempre più vicino. La mia mente
era
affollata di domande, ma temevo che anche solo una parola potesse far
volare via quella creaturina. Con mia grande meraviglia pochi secondi
dopo andò a posarsi sul bracciolo di ferro della panchina,
incredibilmente vicino al ragazzo e con l’attenzione tutta
rivolta
al suo viso.
«Sembra
che tu gli
piaccia» feci in un cauto sussurro.
«È
una femmina. Vedi il
marrone della schiena e il colore chiaro del ventre? È un
segno
inconfondibile. Ad ogni modo sa che non le farei mai alcun male, si
fida». Il suo tono non lasciava spazio a dubbi, tra le sue
parole si
era insinuata una non troppo ben celata allusione al mio
atteggiamento scettico nei confronti delle sue convinzioni.
Decisi di
tornare al motivo
principale per cui eravamo lì e di tralasciare il fatto che
a quanto
sembrava era anche un esperto ornitologo.
«Metto
le mani avanti nel
dire che non ho mai letto la Bibbia, almeno non per intero, ma
conosco abbastanza bene il racconto della Genesi per avere
l’impressione che c’è qualcosa che non
va in ciò che mi hai
detto. Non ho mai sentito parlare di questo Ottavo Giorno, e se
è
davvero così importante perché gli scritti
ufficiali non dovrebbero
tenerne conto?» Annuì in silenzio, come per
ammettere che tutto
sommato la mia domanda aveva una logica. Lui che accoglieva i miei
dubbi come qualcosa di ragionevole era un paradosso, dato che avevo a
che fare con qualcuno che a stento riconosceva la realtà in
cui
viveva.
«La
Bibbia è stata
scritta da uomini perciò, come tutto ciò che
è umano, è
imperfetta. Mancano molti elementi fondamentali per una ricostruzione
realistica della storia divina. Arcangeli e Angeli, con tutte le
conseguenze della loro creazione, sono figure basilari, ma non
bisogna biasimare nessuno per il fatto che siano nominati molto poco.
La concentrazione maggiore è nell’Apocalisse di
San Giovanni, ma
il ruolo dei servi del Signore è molto più
importante di ciò che
viene testimoniato».
«Ma
perché allora sono
così accantonati rispetto ad altre figure
bibliche?»
«Per
lo stesso motivo per
cui molti esseri umani non credono tuttora nella nostra esistenza. La
nostra vita sulla terra è avvolta dalla segretezza, quasi
nessuno sa
che esistiamo. Pensa agli episodi biblici in cui gli Angeli appaiono,
sono certo che conosci qualche esempio. In quel caso le Sacre
Scritture ne tengono conto perché gli Angeli o gli Arcangeli
in
questione si sono volontariamente manifestati in una situazione molto
speciale».
«Parli
dell’Annunciazione?»
«L’Annunciazione
è
l’avvenimento più noto anche tra i non credenti o
tra i fedeli di
altre religioni, un passo meraviglioso della storia umana. Ma ce ne
sono molti altri in cui agli uomini vengono date delle indicazioni
tramite apparizioni o semplici voci. Ad esempio un Angelo si
manifestò a Mosè nel roveto ardente e
Raphaèl accompagnò il
viaggio di Tobia e gli insegnò a trasformare in medicinale
le
viscere di un pericoloso pesce».
Non riuscii
a trattenermi
dall’alzare gli occhi al cielo e voltarmi di scatto verso di
lui,
abbastanza bruscamente da far volare via il passerotto con un
movimento stizzito. «Non dirmi che ci credi davvero? Sono
solo delle
favolette per abbindolare la gente!»
Mi
gettò uno sguardo che
sembrava quasi dire: Ma
quanto sei testarda!
E sospirò, fissandomi con una pazienza simile a quella delle
maestrine d’asilo di fronte ad un bambino problematico.
«Per
secoli ci si domanda
quale debba essere il giusto atteggiamento quando si affrontano i
testi biblici, molti credono che il loro significato sia letterale,
altri ne analizzano la componente simbolica. Io non ho assistito di
persona agli avvenimenti narrati, ma credo in essi, soprattutto per
quanto riguarda il ruolo degli Arcangeli. E pur ammettendo che
siano…» fece una smorfia di disappunto nel
pronunciare quella
parola. «…Favolette,
come le definisci tu, il loro significato non cambia, il messaggio di
fondo è sempre qualcosa di edificante o un monito».
Decisi di
lasciar perdere,
quasi intimorita dal fervore di cui la sua voce si era tinta.
Ricordai il giorno prima e il suo tentativo di farsi del male e
ammonii me stessa per l’ennesima volta di andarci piano con
quel
ragazzo. La cautela d’ora in avanti sarebbe stata la mia
compagna
fedele negli attimi in cui lui mi era accanto.
«D’accordo»
ammisi alla
fine, con un sospiro rassegnato, passando mentalmente in rassegna le
altre domande da rivolgergli. «Hai parlato
dell’Annunciazione. So
che è stato Gabriele a manifestarsi a Maria, ma tu hai detto
che gli
Arcangeli non avevano bisogno di frequentare la terra grazie alla
presenza degli Angeli, che dovevano sorvegliare gli umani».
«Ho
anche detto che quegli
episodi sono molto speciali. Una notizia come quella che riguarda la
nascita di Gesù Cristo, di colui che avrebbe salvato
l’intera
umanità, non poteva certamente essere affidata ad un
semplice
Angelo. Così come tutti gli altri passi biblici in cui
esseri umani
scelti dal Signore per la loro costanza sono entrati a contatto con
gli Arcangeli. È difficile che gli Angeli si occupino di
questioni
così delicate, noi ci limitiamo a sorvegliare e a riferire
agli
Arcangeli, che a loro volta sono in contatto con il nostro Creatore.
Noi abbiamo i nostri limiti, possiamo riportare gli eventi
principali».
«Un
po’ come un giornale
locale».
Il suo volto
accolse un
sorriso divertito. «Esatto, a grandi linee si può
descrivere il
nostro lavoro in questi termini. Solo Dio può conoscere
tutto ciò
che accade nel mondo, solo lui può venire a conoscenza dei
pensieri
e dei sentimenti delle sue creature umane, ma non può
occuparsi di
tutto quanto contemporaneamente. Perciò noi siamo i suoi
inviati
speciali».
A sentirne
parlare da lui
sembrava che gli Angeli non fossero nulla di così
particolare, per
lo meno se messi in confronto con gli Arcangeli. Che fine avevano
fatto le credenze di esseri lucenti dalle ali immacolate? Quando
espressi a Samuel le mie perplessità, lui allargò
le braccia.
«Siamo esattamente come ci mostriamo, senza ali, senza
aureola e
senza poteri grandiosi se non alcuni residui che derivano dal fatto
che siamo stati concepiti dalla sostanza degli Arcangeli. Loro
possiedono una forza enorme in confronto a noi, ma fare dei paragoni
è assurdo, in ogni caso ci è vietato utilizzare
questi poteri. Nel
nostro caso qualsiasi cosa che possa comportare una presa di
posizione forte è da considerarsi trasgressione».
«È
per questo che non
avresti dovuto aiutarmi…» suggerii, prima che lo
dicesse lui.
«Immagino
che tu sia
pentito» mormorai, senza poter nascondere una certa amarezza.
Era la
seconda volta che sottolineava il fatto che salvarmi era stato un
problema per lui. Il suo sguardo si posò su di me e vi lessi
una
tale gentilezza che mi sentii quasi in imbarazzo.
«Non
rimpiango affatto di
averti tolta dai guai, come potevo lasciarti morire? Ciò
però non
cambia il fatto che non ho mantenuto una promessa di cui tutti gli
Angeli devono tenere conto dal momento della loro nascita. Quanto
alla mia, ti ho detto che sono nato nel quattordicesimo secolo,
precisamente il 9 luglio 1346. Sono stato creato per sostituire un
Angelo appena ribellatosi: Hazaq».
«Simon».
Il nome del
ragazzo mi uscii dalle labbra in un soffio, un sussurro quasi
impronunciabile che se espresso ad alta voce avrebbe potuto
materializzare davanti a me il mio personale uomo nero. Samuel
confermò.
«Non
conosco i motivi
della sua dannazione, so solo che ha fatto qualcosa di grave che ha
scatenato la decisione di punirlo. Io ho preso il suo posto, cosa che
ha scatenato in lui una gelosia che non comprendo e una sorta di
strano atteggiamento nei miei confronti. Mi seguiva in ogni luogo in
cui andavo, anche quando tra un posto e l’altro
c’erano centinaia
di chilometri, come se fosse ossessionato da me o come se volesse
tormentarmi con la sua presenza. Quando ci incrociavamo, occasioni
sicuramente non casuali, mi ripeteva in continuazione che prima o poi
avrei fatto la sua stessa fine, che ribellarsi sarebbe stato
inevitabile per tutti noi…e la cosa giusta da fare. Ma un
giorno ha
smesso, come se nulla fosse. Immagino che semplicemente si sia
stufato di un gioco che non avrebbe portato a nulla, finché
qualche
mese fa non l’ho visto in questa città. Era
stupito quanto me, il
che mi ha fatto pensare che il nostro incontro fosse stato solo un
caso. Quando ho saputo dell’apertura del Mephisto
ho sospettato che ci fosse lo zampino dei Demoni e così ho
partecipato all’inaugurazione. Credo sia stato
così che lui ha
deciso di dare una svolta alle sue minacce e tu ci sei finita in
mezzo». Scosse la testa con un sospiro. «La sua
malvagità cresce
di giorno in giorno per sua stessa natura. In quanto Caduto, la sua
anima dannata è sottoposta a infinite tentazioni a cui solo
un vero
pentito può rinunciare. So per certo che lui ama questa sua
nuova
vita più della precedente, è diventato arrogante,
prepotente, e io
non potevo permettere che tu morissi a causa sua».
Avvolsi le
mie ginocchia
con le braccia, posandovi il mento e riflettendo sulle sue parole.
Sembrava che conoscesse Simon piuttosto bene, per quanto le sue
teorie fossero improponibili. Arrogante era l’attributo che
più mi
colpiva di lui, un aggettivo che mi confermava che aveva davvero
brandito quel coccio solo per puro divertimento e per fare un
dispetto a Samuel. A quella parte del racconto credevo, non avevo
alcun dubbio al riguardo, ma mi chiedevo quale reale questione avesse
scatenato il conflitto tra loro.
«Ho
corso dei rischi a
causa della mia stessa imprudenza, perciò in parte devo
ammettere
che mi merito ciò che è successo. Non dovevo
dargli tutta quella
confidenza, tutti quanti da piccoli imparano che non si parla agli
sconosciuti» ammisi, con tono per metà divertito,
per metà
amareggiato dalla incontestabile verità delle mie parole. Un
soffio
di vento fresco ci scivolò sulla pelle facendomi
rabbrividire e
scuotendo le fronde degli alberi. Rimisi a posto un impertinente
ciuffo di capelli sfuggitomi davanti al viso.
«I
Demoni sono dei maestri
nell’arte di circuire gli esseri umani, perciò non
è tutta colpa
tua. Sono insidiatori per natura, seducenti, persuasivi. Conservano
parte dei poteri che possedevano quand’erano Angeli, senza
doversi
trattenere dall’usarli. Il contatto fisico in particolar modo
è la
loro arma principale e la più semplice da usare
per…come posso
dire…irretire le loro vittime». La sua
dichiarazione fece
galoppare il mio battito cardiaco e la mente istintivamente
tornò
agli istanti fatidici del mio primo incontro con Simon.
Ricordavo
molto bene come
mi ero sentita nello stringergli la mano, poi quel piacevole
intorpidimento dei sensi durante il contatto tra la mia pelle e la
sua. Prima di poter fare qualcosa per evitarlo, mi sentii avvampare
per la vergogna quando la memoria si soffermò su un immagine
ben
precisa, l’istante di maggior vicinanza nel bagno degli
uomini.
«Non
devi sentirti in
imbarazzo con me, conosco l’effetto di Simon sugli umani,
soprattutto sulle donne. Come la maggior parte dei predatori, adesca
chi vuole, è possibile resistere, ma se mi permetti la
considerazione, voi non siete molto portati per opporvi alle
lusinghe».
Ero
ammutolita, ascoltavo
le sue parole solo con una parte della mia mente, dato che il resto
della concentrazione era tutta dedicata a rievocare frammenti di
ricordi di quella sera. Il modo con cui mi aveva convinta a bere
dell’alcol anche se non volevo farlo, lo sguardo accattivante
mentre mi parlava di come adorasse giocare con i topi allo stesso
modo dei gatti. Come faceva Samuel a sapere quanto Simon mi aveva
attratta?
Il ragazzo
continuò a
parlare, stupendomi ogni secondo di più di quanto fosse ben
informato sugli eventi. «Gli è bastato un tocco
per sbirciare nel
tuo cuore e leggervi tutte le tue paure, le tue sofferenze.
Così ti
ha preso in giro a proposito del divorzio dei suoi genitori e della
morte del fratello, perché voleva solo apparire debole e
bisognoso
di conforto ai tuoi ingenui occhi. Voleva prima di tutto esserti
amico, fare in modo che ti fidassi di lui, che sentissi una forte
affinità e che credessi di avere in comune la perdita di
qualcuno di
importante».
L’aria
improvvisamente mi
venne a mancare e il cuore, già stuzzicato
dall’incredibile
precisione delle sue parole, partì di nuovo al galoppo. Mi
resi
conto di aver trattenuto il fiato per qualche istante solamente
quando espirai e il mio respiro divenne affannoso. «Come fai
a…»
«Te
l’ho detto, Amber, i
Caduti hanno mantenuto i poteri degli Angeli, ma li usano soprattutto
per azioni non proprio corrette. Così come lui ha toccato te
e ne ha
tratto informazioni, anche io, quando ti ho posato le mani sulla gola
per aiutarti ho visto ciò che era successo. Mi spiace per
questo, so
di aver superato un confine che non avrei dovuto varcare e ho
infranto la tua privacy. Non avevo il diritto di farlo, ma dovevo
sapere». Il suo viso sembrava estremamente serio e sincero e
per
quanto il suo sguardo su di me fosse diventato pesante, non riuscivo
a togliergli gli occhi di dosso. Volevo mantenere il contatto visivo
e cercare anche un solo minuscolo segno di cedimento. Nulla.
Deglutii un
paio di volte,
la gola divenuta di colpo arida, e ispirai a fondo una boccata
d’aria
fresca per impedire al mio cervello di andare in corto circuito.
Dovevo mantenere la lucidità per poter distinguere il vero
dal
falso, l’unico modo per sopportare la presenza di una persona
bizzarra come Samuel senza perdere la pazienza.
D’accordo,
dovevo
ammetterlo, quel ragazzo era bravo con le parole. Non era certo un
mistero che mio fratello fosse morto in modo violento, era stato per
qualche giorno su tutti i giornali locali, sui necrologi appesi alle
bacheche, sulle notizie affisse fuori dalle edicole, chiunque poteva
averlo scoperto così o per sentito dire, e ciò
valeva anche per
Samuel e soprattutto per Simon. Come avevo detto, le coppie separate
o divorziate erano frequenti, Simon aveva probabilmente solo tirato
ad indovinare e ci aveva azzeccato, e Samuel aveva capito tutto
quando mi era venuto a trovare in ospedale e non appena aveva visto
la mia condizione familiare.
Per quanto
riguardava la
storia, piuttosto esagerata, della seduzione del presunto
Demone…beh,
c’era sicuramente un trucco. Samuel non poteva aver scoperto
tutto
solo toccandomi la gola, ma era possibile che avesse solamente fatto
delle ipotesi basate su logici ragionamenti. Non c’era nulla
di
soprannaturale nel fatto che un ragazzo bello come Simon mi avesse
attratto e che io mi fossi lasciata abbindolare dal suo sorriso
smagliante. Gli istinti e i sentimenti umani erano la spiegazione
migliore per quel genere di sensazioni. Le mie riflessioni erano
esatte, lo sapevo, ma non riuscii a scacciare il freddo che mi era
penetrato nelle ossa, sebbene la giornata fosse piacevolmente
tiepida.
Rimasi in
silenzio per
qualche istante ancora, muovendo lo sguardo da una macchina
all’altra
al di là del sentiero, sul nastro d’asfalto a lato
del parco.
Quando lentamente riuscii a tornare al viso cordiale di Samuel, mi
resi conto che non volevo ribattere. Non sarebbe servito a nulla
comunicargli le mie sensazioni, se non ad ottenere da lui altra
fastidiosa insistenza. Non mi piaceva il fatto che per la seconda
volta qualcuno usasse la morte di mio fratello come pretesto per
rifilarmi un mucchio di stronzate, ma sospettavo che lui non si
rendesse conto dell’assurdità di ogni sua singola
affermazione.
L’unico modo per liberarsi di un pazzo era dargli corda.
«Spero
di non averti fatto
finire nei guai, per il fatto di avermi salvato il culo». La
trivialità gli fece storcere il naso, un gesto che stonava
con la
perenne compostezza dei suoi movimenti, ma mi fece la cortesia di non
correggermi.
«Sono
stato ammonito, ma
perdonato. Tu non hai colpe, sei stata coinvolta in qualcosa di
più
grande di quanto immagini».
«Dovrei
proprio tornare a
casa» dissi, esacerbata dal suo tono profetico. Mi alzai in
piedi
con cautela, per permettere alle mie gambe di tornare a muoversi
normalmente dopo l’intorpidimento che si era diffuso negli
arti per
la posizione assunta. Con un cenno educato lui mi imitò,
affiancandomi appena ricominciai a camminare dalla parte opposta.
«Ti
accompagno» fece,
servizievole e con un’espressione tanto amichevole e cordiale
che
non ebbi cuore di rifiutare la proposta.
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Capitolo 15 *** Capitolo 15 ***
Sta l'empio
in agguato
del giusto e cerca il modo di farlo morire. Ma in suo potere non lo
lascia il Signore, né permette la sua condanna in giudizio.
Salmi 54,
4-5.
15.
Camminando
in silenzio per tutto il tragitto, io immersa in pensieri che avrei
voluto cacciare dalla mia mente e lui intento a fissare ogni
dettaglio della strada, giungemmo in fretta di fronte a casa mia. Non
vedevo l’ora di varcare quella soglia ed entrare in cucina,
l’unico
luogo che in quel momento potesse darmi delle certezze.
«Eccoci
arrivati». La mia
voce, dopo essere stata a lungo trattenuta, suonò strana
anche a me,
quasi gracchiante, come se non mi appartenesse. Mi voltai verso di
lui, con l’urgenza di congedarmi e tornare in un luogo sicuro
dove
riordinare con calma i miei pensieri o, ancora meglio, decidere di
non farlo.
Quando
però i miei occhi
incontrarono i suoi, così tersi, di nuovo non potei fare a
meno di
notare quanto il suo viso sembrasse lontano anni luce
dall’essere
minaccioso. Sembrava non essere stato concepito per ospitare rabbia o
qualsiasi altro intenso sentimento negativo. Mi fissò
aspettando con
educazione che fossi io a spezzare il silenzio che si era formato tra
noi come qualcosa di tangibile ed estremamente difficile da
infrangere.
Finalmente
mi decisi a
farlo. «Grazie per…» mi interruppi prima
di dire la
favola e
corressi subito la direzione che stavano prendendo le mie parole.
«…per il racconto».
«Non
c’è di che, da
sola non saresti mai venuta a conoscenza della verità, le
fonti
ufficiali sono importanti, ma non sufficienti. Grazie a te per avermi
ascoltato». Mi sorrise con gentilezza, causando nuovamente
lotte
furibonde tra i miei sentimenti, così terribilmente
contrastanti.
Era chiaro che fosse un pazzo fanatico, colto da un fervore religioso
che mi dava il voltastomaco, ma lì, in piedi con
quell’aria serena
e tranquilla…non riuscivo a vedere in lui qualcosa di
pericoloso,
né ad odiarlo come avrei dovuto dopo avermi riempito la
testa di
sciocchezze e fatto schizzare il cuore in gola in casa mia.
«Allora…ci
vediamo»
mormorai, cercando qualcosa di più intelligente da dire, ma
ritrovandomi con la mente sgombra di idee.
«Sì.
A presto». Con un
cenno di saluto fece per allontanarsi, poi ricordai improvvisamente i
discorsi di mia madre della sera prima. «Che cosa fai per la
festa
del quattro luglio?» domandai, intimidita senza sapere
nemmeno il
perché.
«Non
ho mai festeggiato».
«Io
e mia madre abbiamo
pensato…beh, lei ha pensato…di organizzare una
grigliata nel
nostro giardino. Non saremo in molti, conto di invitare anche i miei
amici, già li hai conosciuti. Ti andrebbe di
venire?»
Il suo
sguardo, anche se in
modo poco evidente, celava stupore, come se nemmeno lui credesse che
lo invitassi spontaneamente. Forse da parte mia era un modo per
mettermi nei guai da sola, dato che grigliata e pranzo andavano a
braccetto con forchette e coltelli, oggetti appuntiti a cui era
meglio che Samuel non si avvicinasse.
«Promettendomi
di non
spaventare gli invitati con strane storie sui Demoni»
aggiunsi. Le
sue labbra si arricciarono, segno che aveva colto la battuta, ma
scosse la testa.
«Ti
ringrazio, Amber, sono
lusingato, ma non credo sia una buona idea. Sarebbe piuttosto strano
per i tuoi amici vedere uno degli invitati non toccare né
acqua, né
cibo».
Ah
giusto…ancora la
storia della creatura divina lontana dai piaceri mondani.
«D’accordo,
ho capito
che intendi. Passa una buona giornata allora, spero tu non sia da
solo».
«Nessun
pericolo, c’è
Dahlia con me».
«Dahlia?»
«La
ragazza con cui vivo».
Oh.
Conviveva con una ragazza. Per qualche secondo mi sentii quasi
indispettita per il fatto che non mi avesse detto nulla, ma poi mi
rimproverai tra me e me. Non erano affari miei, perché mai
avrebbe
dovuto dirmelo? In fondo, aveva a cuore soltanto di comunicarmi il
suo destino di sovrintendente divino sulla terra e i suoi scontri con
l’Angelo Caduto Simon. Sperai che il mio viso non mostrasse
troppa
sorpresa.
«È
anche lei…un…Angelo?»
Detta da me la parola Angelo
suonò ancora più ridicola che in bocca a lui.
«Una
cosa del genere». Si
infilò le mani in tasca, mi regalò un cenno del
capo a mo’ di
saluto, fece dietro front e lo vidi sparire in fondo alla strada.
Chiamare
papà fu l’idea
migliore che mi balenò in mente per non soffermarmi troppo a
riflettere sugli argomenti toccati quel pomeriggio. Quando rispose al
cellulare la sua voce riuscii a scacciare il disagio che mi sentivo
addosso, la consapevolezza che qualcosa non stesse andando per il
verso giusto, la stessa di quando guardavo Samuel negli occhi e mi
domandavo se qualcuno fosse in casa dietro quello sguardo limpido e
gentile. Che cosa gli passava nella testa? La sua follia, per quanto
educata, mi lasciava spiazzata, non tanto perché pensavo
celasse una
minaccia, bensì perché mi era difficile
anticipare le sue mosse.
Ogni volta che pensavo di aver sentito abbastanza stronzate, ecco che
se ne usciva con storie bizzarre. La stessa nascita della sua
presunta razza era assurda, il racconto di un Dio che se la prende
con il genere umano e decide di spazzare via ogni forma di vita con
un diluvio evitato solo a pochi eletti. Non ci avevo mai creduto e
sentirlo tirare in campo con serietà provocava in me
l’istintiva
voglia di ridere, ma i miei sentimenti spontanei erano frenati dal
dubbio di come avrebbe reagito il ragazzo.
Era una
situazione più
strana di quelle a cui ero abituata, ed era tutto dire dato che non
avevo certamente degli amici del tutto dentro gli schemi. Louis era
un uragano umano, tanto socievole ed estroverso da mettermi spesso in
imbarazzo, mentre la piccola, delicata Jennifer, così
apparentemente
fragile, ascoltava metalcore a tutto volume ed era affascinata da
tutto ciò che c’entrava con la
morte…tranne la vista del sangue,
ovviamente.
Samuel
avrebbe potuto
semplicemente essere una delle tante altre conoscenze stravaganti.
L’idea non mi sarebbe dispiaciuta, tutto sommato era bello
parlare
con lui. Avrei avuto voglia di sentirgli raccontare qualcosa di
sé,
della sua vita, la sua vera
vita,
i
suoi sogni, la musica che amava ascoltare, i programmi preferiti alla
tv. Ma qualcosa mi diceva che non sarei mai riuscita ad avere con lui
una conversazione normale.
Il tono di
papà era
intriso di un entusiasmo fanciullesco, che riuscii a contagiarmi
almeno finché non mi domandò cosa facessi per la
festa del 4
luglio. Il mio intento era invitarlo a pranzo, ma mi
anticipò
chiedendo a me di unirmi a lui e Trudy per un pic-nic al lago.
La delusione
fu un pugno
nello stomaco, abbastanza intensa da farmi sfiorare l’idea di
mentire a mia madre e di dirle che non potevo partecipare al pranzo,
che Louis e Jennifer in realtà avevano in mente altro e
sgattaiolare
via di nascosto per trascorrere la giornata con papà e la
sua
ragazza. Sarebbe stato molto meglio che avere mamma che mi ronzava
intorno per correggermi su cose che in realtà non sapeva
come
gestire, ad esempio la cottura della carne, i condimenti, la
disposizione delle posate.
Ma poi a
frenare i miei
propositi, tutt’altro che onorevoli, comparve il ricordo
della sera
prima, dell’imbarazzo che avevo scorto sul volto della donna
nel
chiedermi di passare insieme la festività. Non accadeva
spesso che
proponesse qualcosa del genere ed erano mesi ormai che non facevamo
attività interessanti insieme. Aveva anche modificato la sua
idea
iniziale e deciso di invitare anche i miei amici e papà, per
quanto
la loro presenza nella stessa stanza generasse automaticamente un
po’
di tensione. Tutto sommato, era stata piuttosto disponibile e mi
sembrava una violazione morale raccontare una balla e piantarla in
asso con il suo entusiasmo.
Perciò,
malgrado sentissi
già la mancanza di papà, rifiutai
l’offerta e lo salutai,
augurando a lui e a Trudy di divertirsi e di godersi la vista del
lago anche per me. Non avrei potuto passare da loro nemmeno il
pomeriggio seguente, dato che sarebbero andati in un centro benessere
per qualche giorno fuori città. Con Trudy papà
era diventato una
persona decisamente più rilassata.
Mamma mi
chiamò poco dopo
per avvertirmi, come spesso accadeva, che avrebbe mangiato qualcosa
in ufficio, perciò cenai sola, immersa in un silenzio
totale, quasi
ipnotizzante. Quando rientrò in casa mi trovò in
cucina, seduta
direttamente sul tavolo con una gamba penzoloni e una piegata sotto
al sedere. Da qualche minuto avevo perso la sensibilità, ma
non me
ne curavo. Avrei avuto il tempo di pentirmi di quella posizione al
momento di tornare a muovere gli arti. Sulle gambe avevo posato un
libro di cucina, con l’intento di prendere spunto su come il
menù
avrebbe potuto articolarsi. Altri due giacevano aperti accanto a me,
già consultati.
Avevo
compiuto due errori a
proposito del pranzo e di mia madre.
Il primo fu
quello di aver
creduto che il suo entusiasmo si sarebbe smorzato con
l’avvicinarsi
del fatidico giorno, ma così non fu. Appena fece capolino
dalla
porta della cucina il suo sorriso smentii ogni mio sospetto. Quando
il tempo di posare la borsetta e già era accanto a me,
interessata a
ciò che stavo cercando tra i ricettari. Mi porse un foglio
fitto
della sua elegante scrittura. Il testo era organizzato su due
colonne, una dedicata ai possibili ospiti, l’altra ad un
menù
abbastanza elaborato da farmi capire che quel giorno i suoi pensieri
non avevano compreso solo facoltosi clienti e liti tra
società,
sebbene mi fosse difficile figurarmela chiusa in ufficio e intenta ad
organizzare il pranzo del quattro luglio.
Per quanto
concerneva la
varietà delle pietanze, non avevo obiezioni. Erano tutte
buone idee
e facilmente realizzabili. Una rapida letta alla lista degli invitati
bastò per darmi un’idea di quali persone dovessi
accogliere. Oltre
ai miei immancabili amici, ero lieta di sapere che sarebbe venuta
anche Catherine. Ricordavo vagamente il volto di un tale Tim Fisher,
un collega più anziano di mamma, mentre non avevo la minima
idea di
chi fosse l’ultimo ospite, Leroy Spencer. Evitai di storcere
il
naso di fronte a mia madre, ma sebbene mi avesse assicurato che era
simpatico, il nome creò istintivamente nella mia testa
l’immagine
di un uomo di mezz’età, all’inizio di
un’inevitabile calvizie
e ingessato in un completo elegante. L’emblema umano della
noia,
tuttavia non questionai sulla scelta dei partecipanti. Se mamma
avesse avuto qualcuno con cui parlare di contratti, almeno io e i
miei amici avremmo potuto avere un po’ di privacy per una
conversazione più rilassata.
Il secondo
errore fu essere
certa che mamma non avrebbe alzato un dito per aiutarmi con la
preparazione. I
l giorno
dopo un biglietto
sul frigorifero annunciava che nella pausa pranzo o di ritorno dal
lavoro avrebbe pensato lei a fare la spesa per procurarsi tutto
l’occorrente. Quella sera la vidi entrare in casa carica di
borse e
pacchetti contenenti di tutto, e arrancare verso la cucina con uno
sguardo determinato e soddisfatto.
Sebbene non
la lasciassi
avvicinare troppo ai fornelli, insistette per darmi una mano almeno
nelle cose più elementari. La sera del tre luglio
metà del menù
era già pronto e riposto in frigo a riposare per la grande
giornata
che ci aspettava.
Dei rumori
indefiniti mi
svegliarono il mattino seguente. Mi alzai in fretta temendo che mamma
stesse mettendo pericolosamente mano a ciò che avevo
cucinato, ma la
trovai in giardino impegnata nella disposizione di un paio di tavoli
pieghevoli e nel trasporto di piatti e bicchieri dalla cucina. Con
mia enorme sorpresa indossava qualcosa che non le vedevo mettersi
addosso da così tanto tempo, che mi ero scordata che aspetto
avesse
senza i soliti eleganti abiti da lavoro. Un paio di jeans le
fasciavano le gambe magre e una semplice maglietta la faceva sembrare
più giovane di quanto fosse. Sul petto aveva stampata la
scritta I
love San Francisco in un acceso rosso. L’ultima
volta che
gliela avevo vista indosso portavo ancora l’apparecchio ai
denti.
Blu, rosso e bianco, i colori della nostra bandiera e gli stessi che
facevano parte della tradizione del quattro luglio.
Riuscì
a tagliare le
verdure per la grigliata e una grossa pianta di lattuga senza
rimetterci un dito e con un certo orgoglio mi assicurò che
avrebbe
pensato lei ai drink.
Alla
comparsa dei primi
invitati tutto era pronto a parte la carne, e le verdure già
poste a
sfrigolare sul barbecue. Zucchine, melanzane e peperoni per
cominciare, poi la tradizione prevedeva un’abbondante
grigliata di
carne, hot dog, uova, insalate, salse e un mucchio di altre cose in
grado di rovinare la linea all’istante.
Appena i
volti allegri di
Louis e Jennifer spuntarono dalla porta della cucina, ebbi il tempo
per un fugace abbraccio, prima che si gettassero come dei lupi
affamati sul piatto delle pizzette. In una decina di minuti loro due
da soli riuscirono a spazzolarle tutte. Di Louis ormai non mi stupivo
più, ma la forza dell’abitudine tendeva a
risultare fallimentare
con Jenny, tanto che ancora mi meravigliavo di come un individuo
minuto come lei potesse avere un appetito così bestiale.
Proprio come
avevo
immaginato, si crearono due gruppi ben distinti che solo di tanto in
tanto si mescolarono per qualche parola: gli adulti da una parte a
parlare per lo più di lavoro, finanza, economia, e ogni
sorta di
cose noiose, e i quasi-adulti dall’altra, capitanati da Louis
che
come al solito non ci pensò due volte a catturare su di
sé
l’attenzione. Era difficile non notarlo, con i pantaloni
rossi e la
maglietta con la stampa dell’orso Yoghi, secondo lui perfetta
per
esaltare il patriottismo, dato che la bandiera della California
ritraeva proprio un orso.
Avevo capito
che qualcosa
bolliva in pentola non appena avevo notato le guance tinte lievemente
di rosa per l’emozione, gli occhi lucenti e il sorriso ancora
più
ampio del solito.
«Vi
rendete conto? Abbiamo
passato al telefono quasi un quarto d’ora!»
esclamò, raggiante,
riferendosi ovviamente al suo barista preferito. Per quante volte lo
nominò mi parve che Jude fosse lì con noi, con la
sua seducente
presenza. Se messo in confronto a tutto il tempo dedicato alle nostre
conversazioni telefoniche, quel quarto d’ora poteva sembrare
irrilevante, ma dal suo tono di voce e dal viso radioso, capii che
per lui era un risultato grandioso.
«Ha
detto che dopo
l’incidente c’è stato un po’
di trambusto al locale. La
polizia ha interrogato tutti più di una volta e ancora
gironzola da
quelle parti».
Con uno
sbuffo lo guardai
di sottecchi. «Incidente?
Chiamarlo così mi sembra un tantino riduttivo»
mormorai, mentre la
mia mano correva senza poterla controllare al foulard che anche quel
giorno mi avvolgeva la gola. Dopo averlo usato per la corsa al parco
mi ero accorta che tenerlo era più facile di dover ignorare
gli
sguardi di chi mi passava accanto, o fornire spiegazioni. Tutti i
presenti sapevano che ero stata in ospedale, preferivo risparmiare ai
miei ospiti un disagio altrimenti inevitabile. Un utile tocco di
stile.
«Sai
cosa intendevo» fece
il ragazzo. «Pare che quello che è successo
comunque non abbia
danneggiato il locale. Anzi, Jude ha detto che dopo i primi giorni di
chiusura, la polizia li ha autorizzati a riaprire e la clientela
è
addirittura raddoppiata!»
Jennifer si
infilò in
bocca una mangiata di patatine e masticò rumorosamente. Poi
sorrise.
«Non posso dare loro torto, in un’ambientazione
come quella del
Mephisto
una persona quasi uccisa in bagno è una cosa
fichissima!»
Il sorriso
le morì sulle
labbra un secondo dopo aver pronunciato quelle parole e il suo
sguardo precipitò verso il basso. «Ora che ci
penso suonava peggio
di quello che intendevo. È ovviamente orribile che sia
successa una
cosa del genere. Mi dispiace, Amber» si scusò in
un soffio di voce.
Mio malgrado
mi scoprii a
ridacchiare. Le avvolsi le spalle in un abbozzo di abbraccio,
automaticamente sentendo dentro di me crescere l’affetto che
provavo per quella strana ragazza. «Non preoccuparti, resti
sempre e
comunque la mia piccola amica macabra preferita» .
L’appellativo
sembrò piacerle, perché i suoi occhi grandi e
scuri tornarono a
rasserenarsi.
«Lieta
di sapere che
grazie a me gli affari vanno alla grande» continuai. Louis
annuì
felice come un bambino la mattina di Natale.
«E
non è finita qui»
aggiunse.
«Non
dirmelo, non hanno
nemmeno ripulito il sangue e fanno pagare una quota extra per chi
vuole visitare il bagno degli uomini? Fa molto splatter»
suggerii.
«No…»
Il ragazzo
trattenne il fiato, poi fece un sospiro profondo e tremulo e parve
sputare le parole che seguirono come se trattenerle fosse divenuto
doloroso. «Mi ha chiesto di vederci ancora. Non è
fantastico?»
Era molto
più che
fantastico, era meraviglioso. Mi complimentai con lui, abbracciandolo
stretto e pensando che dopo tanto tempo finalmente qualche ragazzo si
era accorto di che persona favolosa fosse Louis. Certo un po’
esuberante, rumoroso, invadente a volte, ma unico. Jenny
partecipò
con un grugnito di apprezzamento, impossibilitata a dire qualcosa di
più articolato a causa di metà uovo farcito di
cui si era riempita
la bocca. Poi, con un’eleganza insolita per
quell’esagerata
manifestazione di fame, si pulì con classe la bocca sul
tovagliolino
di carta, lasciando lo stampo del rossetto, come prova che Jennifer
la locusta famelica
era passata di lì.
«Lo
hai conquistato,
Louis» dissi, guardando il mio migliore amico con fierezza.
Qualcuno si
schiarii la
voce alle mie spalle, catturando la mia attenzione. Quando mi voltai
mi trovai a guardare da sotto in su un giovane uomo che non avevo mai
visto in vita mia. I capelli brizzolati potevano trarre in inganno a
proposito della sua età, ma il viso privo di rughe e ancora
morbido
come quello di un ragazzo mi suggerì con non aveva raggiunto
i
quaranta. Aveva labbra sottili e occhi grigi dal taglio lievemente
affilato. Sopracciglia scure incorniciavano uno sguardo intelligente
e attento, fisso su di me.
«Amber,
presumo». La
domanda fu puramente retorica, spazzata via da un suo sorriso. Non
era propriamente bello, lontano dai tratti perfetti di un modello,
tuttavia era attraente e possedeva un fascino di cui molti begli
uomini erano privi. Prima che dicessi qualcosa o che potessi almeno
annuire, mi tese la mano. Una stretta salda mi parlò di lui
come di
un uomo sicuro di sé e carismatico. «Leroy. Sono
un collega di tua
madre, lei mi ha parlato molto di te».
Ne dubitavo,
ma gli
concessi quella bugia nata certamente dalla gentilezza, troppo
intenta a fissarlo per questionare. Avevo capito bene? Leroy? Quel
Leroy, che solo qualche giorno prima avevo catalogato come avvocato
di mezz’età, semi-calvo, flaccido e ingessato?
Non avevo di fronte nulla di ciò che avevo previsto e quasi
non
riuscivo a crederci, come se ritenessi le mie idee più
affidabili
dei sensi. Il suo aspetto era tutt’altro che insignificante e
non
era affatto ingessato. Indossava una t-shirt totalmente inadatta ad
un prestigioso studio legale, con la bandiera degli stati uniti
stampata sulla stoffa a colori intensi. Parte delle stelle si
perdevano nella curva della spalla sinistra.
Quando
ritrovai la facoltà
di emettere suoni mormorai un piacere
piuttosto flebile.
«Hai
fatto davvero un
ottimo lavoro qui, vedo. Se il pranzo si prospetta buono tanto quanto
lo suggerisce l’aspetto, allora temo che a fine giornata
faticherò
ad alzarmi dalla sedia».
«Mamma
mi ha dato una
mano».
«Trish?
Improbabile. Lei
stessa mi ha detto di essere un completo fallimento ai fornelli, se
non avessi avuto la sua parola che fossi tu a cucinare, non credo
sarei venuto qui oggi». Era una critica o semplice
manifestazione di
umorismo? Qualsiasi cosa fosse sorrisi.
«Ha
solo preparato
l’ambientazione e i drink. Non dovrebbe esserci nulla di
tossico…credo. Spero che il pranzo sia di suo
gradimento».
Annuì,
camminando in
direzione di Tim e Catherine, ma si voltò
un’ultima volta nella
mia direzione. «Lo spero proprio, con un ristoratore in
famiglia ho
gusti piuttosto difficili. Henry mi ha abituato bene».
Appena
distolse da noi il
suo sguardo magnetico, Louis si avvicinò a me sussurrandomi
in un
orecchio. «Ho capito bene? Leroy è il fratello di
Henry Spencer? A
mio padre non basterebbe una settimana di stipendio per permettersi
una cena nel suo ristorante».
Attraente,
giovane, con il
senso dell’umorismo e fratello di uno dei più noti
ristoratori non
solo in Civic Centre, ma in tutta San Francisco. I colleghi di mamma
erano meno noiosi di quanto pensassi.
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Capitolo 16 *** Capitolo 16 ***
Un
doveroso ringraziamento va a Fallen99 per avermi regalato un commento e
allietato la giornata. Grazie per la recensione lusinghiera! :D Ora entriamo nel vivo dell'azione. Da questo momento in poi di calma ce ne sarà poca. Spero vi piaccia!
Allora il Signore Dio
disse al serpente: «Perché hai fatto questo,
maledetto sii tu fra
tutto il bestiame e tra tutti gli animali della campagna: sul tuo
ventre dovrai camminare e polvere dovrai mangiare per tutti i giorni
della tua vita. Ed io porrò un’ostilità
tra te e la donna e tra
la tua stirpe e la sua stirpe: essa ti schiaccerà la testa e
tu la
assalirai al tallone».
Genesi, 3,
14-15.
16.
I
fuochi d’artificio venivano sparati a nord di Pier 39 alle
nove e
mezza in punto della sera, dopo un’intera giornata dedicata
alle
celebrazioni. La musica era la principale protagonista
dell’evento,
soprattutto nelle sue varie sfumature jazz e blues. Amante
com’era
di quel genere di musica, Chris spesso passava tutto il pomeriggio
con gli amici al molo e più di una volta aveva accompagnato
gli
artisti di strada con qualche giro di chitarra e con la sua splendida
voce, mentre io guardavo lui con ammirazione e orgoglio. Era nato per
la musica, ce l’aveva nel sangue sebbene sapesse che un
futuro in
quel mondo fosse troppo incerto per lui. Non aveva bisogno di un
palco o di contratti musicali, ogni giorno scendeva le scale dalla
camera al salotto con una nuova canzone sulle labbra, cantando a voce
alta fin quasi ad infastidirmi per l’eccesso di
felicità che si
portava addosso come un abito.
Quella sera
evitammo gli
spettacoli che non concernessero i fuochi, ma sapevo che una parte di
Chris avrebbe accompagnato i miei passi in ogni istante sul pavimento
in legno del pontile.
Pier 39 era
un centro
commerciale e turistico che spuntava come un’appendice a lato
di
Fisherman’s Warf, l’area portuale della
città. Il fatto che
pullulasse di negozi e attrazioni, e che la vista potesse spaziare
fino a raggiungere Alcatraz e il Golden Gate Bridge, la rendeva zona
appetibile per i visitatori. I bambini adoravano il fatto che sui
pontili durante il giorno si vedessero famiglie di leoni marini per
nulla infastiditi dalla presenza umana.
Dopo diverse
ore passate a
mangiare e spilluzzicare, a bere, a chiacchierare e a fare a gara a
chi riusciva a centrare un bicchiere sputando i semi del cocomero (il
flaccido
e
ingessato
Leroy fu il primo a proporsi), arrivammo lì con solo un
quarto d’ora
di anticipo, quando già la gente formava una ressa su tutto
il molo.
Qualche
cantante intonava
ancora le ultime note, mentre le barche ormeggiate quasi non si
riuscivano a scorgere con tutta la gente in attesa di vedere le prime
scintille in cielo. Solo qualche corda e gli alberi svettavano come
punti di riferimento inghiottiti dal cupo blu del cielo.
Louis non
riusciva a stare
fermo nemmeno per cinque secondi, visibilmente in fibrillazione per
lo spettacolo pirotecnico, canticchiando con voce stridula le prime
strofe di Fireworks,
di Katy Perry. Per intrattenerlo e soprattutto per far cessare i suoi
gorgheggi durante l’attesa io, lui e Jennifer decidemmo di
permetterci un giro sulla giostra in fondo al molo, nonostante
fossimo circondati da bambini e fossimo i più anziani a
salirci.
Evitai di sgridare Louis quando quasi si mise a litigare con una
bambina di sei anni per il possesso di un cavallo particolarmente
bello, limitandomi a gettargli un’occhiataccia piuttosto
chiara,
che lo rimise subito in riga.
Uno accanto
all’altro
poi, passeggiammo lungo tutto il molo, guidati dall’odore di
fritto, di pesce e dalla luce dei lampioni, stesa sul pavimento come
un velo di un tenue giallo.
Osservai in
silenzio le
coppie camminare a braccetto, gruppi di ragazzini che ridacchiavano
certamente per qualche sciocchezza, come facevo sempre io con i miei
amici, tornati improvvisamente bambini davanti al venditore di
zucchero filato, che a detta di quanto la folla fosse punteggiata di
nuvolette rosa, ebbe un discreto successo quella sera.
Cinque
minuti dopo
stringevamo anche noi tra le dita quelle delizie proibite e sebbene
non avessimo affatto bisogno di assumere altri zuccheri dopo
un’intera giornata circondati dal cibo, era troppo divertente
guardare i miei amici lottare nel tentativo di dare morsi senza
rimanere appiccicati, e faticare io stessa nell’impresa. Era
impossibile mantenere un contegno in un contesto simile.
«Ero
certo che ti avrei
trovata qui». Una voce alle mie spalle mi fece sussultare. Mi
voltai
di scatto, troppo attratta dalla familiarità di quel tono
per
ricordarmi del fatto che un baffo di zucchero filato mi spuntava
dalle labbra. Ma lo sguardo di Samuel non mostrò traccia di
scherno.
Mi indicò tranquillamente la bocca, enigmatico e
imperscrutabile
come sempre.
«Hai
un po’ di zucchero
lì. Jennifer, Louis, è un piacere incontrarvi
ancora».
Mi pulii in
fretta,
guardandomi attorno, ma accanto a lui non vidi nessuno. Senza volerlo
più di una volta dopo la sua confessione lo avevo immaginato
assieme
alla sua ragazza, cercando di figurarmi il suo aspetto e di capire
come potesse stargli accanto nonostante la sua evidente devianza
mentale. Senza fermarsi a questo dettaglio non era difficile trovare
affascinante l’innocenza dipinta costantemente sul suo volto,
ma se
questa Dahlia avesse avuto un po’ di sale in zucca non si
sarebbe
fidata ciecamente di un tipo così.
«Sei
solo?»
«Dahlia
lavora al canile,
è rimasta lì questa sera dato che i cani sono
terrorizzati dal
rumore dei fuochi d’artificio. Io ho pensato che fossi nei
paraggi,
quindi eccomi qui.»
Ero
consapevole dello
sguardo di Louis che pesava su di me, inquisitore e curioso, ma non
fece in tempo a dire la sua perché un primo tuono in
lontananza
segnalò l’inizio dello spettacolo. Come se un
incantesimo avesse
colpito nello stesso istante tutti i presenti, non ci fu un solo
sguardo che non scattò automaticamente al cielo, quando esso
si
illuminò di nuove stelle artificiali e colorate. La mia
attenzione
era frammentata in due, una parte diretta a quella meraviglia,
l’altra convogliata nella persona che mi stava alle spalle.
Averlo
improvvisamente accanto mi riempiva ancora la mente di tutte le
sciocchezze raccontatemi solo qualche pomeriggio prima al parco. Era
ovvio che non ci credessi, ma era più forte di me, le sue
parole mi
seguivano ovunque.
«Lo
sapevi che sono stati
i monaci cinesi a inventare i primi fuochi
d’artificio?» mormorò,
a pochi centimetri dal mio orecchio. Prima che potessi rispondere si
corresse.
«A
dire il vero è più
opportuno dire che inventarono la pirotecnica, creavano esplosivi
mescolando tra loro diverse sostanze, poi usate principalmente a
scopi bellici».
«L’ho
sempre detto che
non c’è da fidarsi degli uomini
religiosi» lo provocai, la lui
proseguì senza dar segno di aver colto quella sorta di
offesa.
«Poi
la tecnica fu appresa
da altri popoli e si diffuse nel Medioevo nel resto del mondo, usato
anche per le principali celebrazioni. Non ti sembra incredibile e
magnifico che un’arma sia divenuta una forma d’arte
tanto
suggestiva?» I suoi occhi celesti erano fissi
sull’oggetto della
nostra conversazione, tanto tersi da accoglierne il riflesso.
Riuscivo a scorgere i diversi colori nello specchio lucente delle sue
iridi.
«Fammi
indovinare. Quando
sono stati inventati tu eri presente. Perché no, magari eri
proprio
tu uno di quei monaci. Avevi gli occhi a mandorla
all’epoca?» Mi
guardò con aria tanto tranquilla che mi sembrò
quasi crudele
prenderlo in giro. Di certo non lo meritava, ma avevo un dono
naturale per il sarcasmo e con lui era estremamente facile usarlo.
«Come
ho detto sono nato
in quello che voi definite tardo Medioevo, quando la pirotecnica era
una procedura già consolidata. So che seicento anni
d’età
potrebbero sembrarti un’eternità, ma il mio nome
è la prova che
non è così per gli Angeli».
«Hadas…nuovo.
Ecco perché ti chiami così».
«Ogni
Angelo che conosco
mi considera l’ultimo arrivato, un novellino. Io non me la
prendo,
in fondo è la pura e semplice verità. Non mi
stupirebbe se
attribuissero i miei recenti errori ad una scarsa
esperienza». Mi
rivolse un sorriso confortante. «Ovviamente non è
così. Sapevo ciò
che stavo facendo, non è stata una semplice
svista».
I fuochi
d’artificio, da
piccoli razzi di riscaldamento divennero sempre più grandi
ed
elaborati. Nel cielo scuro si aprirono ampi cerchi rossi,
all’interno
dei quali subito dopo lo spazio venne riempito da altri cerchi
più
piccoli di un bel blu elettrico. I colori dell’America, che
quel
giorno si ritrovavano un po’ ovunque. Accanto a quasi ogni
negozio
sventolava la nostra bandiera, mossa dal respiro di una leggera
brezza marina. La sera era perfetta, il vento aveva spinto via le
nuvole e ogni traccia di nebbia, come se Dio stesso lo avesse mosso
affinché la vista non ne risultasse impedita.
Un
secondo.
Avevo davvero pensato che fosse opera del Signore? La vicinanza di un
presunto Angelo mi stava danneggiando le cellule cerebrali.
«Anche
Dahlia è così
giovane?»
«Oh,
non direi. Lei è una
dei primi Mal’ak creati».
Aggrottai la
fronte. «E
non ti impressiona che la tua ragazza sia mostruosamente più
vecchia
di te?» Scherzai. Se solo la sua ammissione fosse stata
realtà, la
sua fidanzata doveva avere…l’età
dell’arca di Noè, anno più,
anno meno.
Fu il suo
turno di gettarmi
un’occhiata confusa. «Dahlia non è la
mia ragazza, è escluso che
un Angelo abbia un partner. Non siamo stati originati per
procreare».
Rimasi in
silenzio per
qualche istante, mentre gli ultimi fuochi gettavano lampi di luce
sulla folla, che di tanto in tanto mostrava il suo apprezzamento con
qualche gridolino. I bambini erano i più coinvolti. Loro e
Louis,
naturalmente.
Non ero
sicura di cosa
pensassi delle sue parole, probabilmente ero sollevata che una
ragazza non dovesse sorbirsi tutti i giorni le sue manie bibliche. A
questo punto cominciavo a dubitare dell’esistenza di Dahlia,
e a
chiedermi quali altri cose potesse ancora inventarsi. Fui sul punto
di chiederglielo, ma le mie parole fossero spezzate da qualcosa di
pesante che sentii venirmi addosso. Un ragazzo più giovane
di me e
decisamente di fretta mi guardò mortificato. I suoi occhi si
posarono sul mio seno, ma sapevo che non vi era nulla di provocatorio
in quel gesto. Quando abbassai il mio sguardo capii la situazione:
una generosa quantità di ketchup mi macchiava la maglia sul
torace,
e una manciata di patatine fritte giaceva ai miei piedi dopo lo
scontro.
«Accidenti,
mi dispiace un
sacco!» esclamò il ragazzino. Accettai le scuse
che mi rivolse
ancora per qualche istante prima di riuscire a liberarmene.
«Immagino
di aver bisogno del bagno».
Samuel mi
indicò una delle
tavole calde e mi accompagnò, aspettandomi
all’esterno mentre con
uno sguardo compassionevole la proprietaria, una donnina minuta di
almeno settant’anni, mi porgeva le chiavi.
Il bagno
delle donne era
uno stretto stanzino avvolto in un misto stantio di profumo e
sigarette, e la pulizia non era delle migliori. Non osavo immaginare
le condizioni del bagno degli uomini. Lo spazio era a malapena
sufficiente per ospitare la tazza e un piccolo lavabo che un tempo
doveva essere stato di un bianco brillante, ma che aveva detto addio
alla sua originaria lucentezza. Lo specchio era un quadrato
riflettente senza cornice, a meno che non si considerasse cornice la
miriade di scritte volgari e disegnini osceni che lo attorniavano. Le
soluzioni erano due, o dei ragazzini erano entrati fregandosene del
cartello che indicava la toilette femminile, o il fatto che solo i
maschi riempissero i muri di graffiti discutibili era solo un luogo
comune.
Una volta mi
era capitata
l’occasione di scrivere qualcosa sulle pareti di una
stazione, ma
avevo dieci anni e nessun pensiero impuro mi era ancora passato per
la testa. L’unico nome che riempiva i miei pensieri iniziava
per L,
lettera che avevo tracciato sul muro già generosamente
decorato,
circondato da un cuore sghembo. La settimana seguente era
già
sparito, coperto dalla pittura bianca degli addetti alla
manutenzione.
Lessi solo
un paio di
scritte giusto per soddisfare la mia curiosità, poi valutai
allo
specchio l’entità del danno sulla mia maglietta.
Non era una
macchia enorme, ci sarebbe voluto ben più di un
po’ d’acqua per
liberarmene, ma decisi comunque di tentare il possibile per
migliorare le condizioni di un indumento che avrei dovuto indossare
per il resto della sera. Feci scivolare via dalla gola il foulard e
mi sfilai la maglietta restando in reggiseno. Sulla pelle pallida del
mio torace spiccava un alone rosso che lavai via con
facilità.
Quando mi dedicai alla maglietta fuori sul molo sentii i botti che
annunciavano la fine dello spettacolo e gli applausi della folla.
Sfregai con foga la stoffa e la traccia di ketchup impallidì
sempre
più. Volevo ottenere risultati migliori, ma il tremolio
della luce
sul soffitto mi rese il compito più difficile. Il neon
ronzava e
tossicchiava alternando istanti di buio e istanti di luce fredda tra
le pareti sudice dello stanzino. Un rumore metallico improvviso mi
fece sussultare e cadere la maglia. Mi guardai intorno in ascolto,
quasi trattenendo il respiro per individuare la fonte del suono, che
si ripeté una, due volte.
Sembrava
provenire dal
lavabo.
Mi
avvicinai, senza
riuscire a distogliere lo sguardo dal movimento sussultorio del tappo
infilato nello scarico.
«Ma
che diavolo…» C’era
qualcosa di strano, qualcosa che spingeva contro il tappo per uscire,
forse un insetto o qualcosa di altrettanto piccolo. Mi meravigliai
della mia audacia, che spinta dalla curiosità mise a tacere
ogni
indecisione. Con la punta delle dita afferrai il tappo di metallo e
tirai. Qualcosa luccicava all’interno, difficile da
identificare a
causa dei capricci dell’elettricità, ma un sibilo
prolungato mi
gelò il sangue e pochi istanti dopo la piccola testa e il
corpo
allungato di un serpente emersero dallo scarico.
Mi ritrassi
di scatto fino
alla porta, il respiro mozzato in gola e un desiderio intenso di
fuggire di lì a gambe levate. Mi aggrappai alla maniglia ma
la porta
non si mosse di un centimetro, nemmeno quando insistetti,
strattonando e mettendoci tutta la forza che possedevo. Il serpente
strisciò con una lentezza estenuante sul bordo del
lavandino, in un
suggestivo contrasto tra il chiarore della ceramica e la
tonalità
marrone scuro delle scaglie. Si avvolse ai tubi e scese fino a terra,
guardandomi con occhi piccoli e lucenti e puntando direttamente verso
di me. Il suo corpo creava una esse perfetta e sinuosa che avrei
potuto anche trovare affascinante, se la bocca del rettile non si
fosse aperta a rivelare denti decisamente minacciosi.
Ritentai con
la maniglia
poi cambiai idea e prenderla a pugni mi parve la cosa migliore.
«Ehi!»
gridai. «Aprite!
Per favore, aprite la porta!» La colpii fino a che le mani
non
cominciarono a dolere, ma nemmeno gettandomi di peso contro di essa
riuscii ad ottenere qualcosa.
«Aiuto!
Samuel! Per
favore, Samuel, apri la porta!» Doveva essere là
fuori ad
aspettarmi, aveva detto che sarebbe rimasto con me. Chiamai il suo
nome così tante volte e a voce così alta che gli
ultimi tentativi
mi uscirono dalle labbra come un suono strozzato. Mi lasciai
scivolare contro la porta, fredda a contatto con la pelle nuda della
schiena. Il serpente non era a nemmeno mezzo metro da me, e oltre il
bagno riuscii a percepire il motivo per cui le mie grida erano state
ignorate. Centinaia di persone riunite al molo, come tradizione
voleva, stavano intonando The
Star-Spangled Banner,
l’inno nazionale. Era impossibile farmi sentire in quella
situazione, se solo fossi riuscita a stare lontano da quella bestia
fino alla fine della canzone e degli applausi forse…
Il neon
regalò alla stanza
gli ultimi deboli bagliori, poi il buio inghiottì ogni cosa.
Premetti il più possibile il mio corpo contro la porta,
mentre il
sibilo si faceva sempre più vicino, e mi rannicchiai
raccogliendo le
ginocchia contro il petto come se solo quello potesse proteggermi.
Razionalmente sapevo che era un’illusione, ma non potevo fare
nulla
contro l’impulso di chiudermi a riccio e non permettere alla
realtà
di minacciarmi.
Sentii
l’animale
avvicinarsi, lo spazio disponibile era così scarso che non
potevo
fare altro che restare immobile, sperando che la mancanza di
movimenti bruschi da parte mia bastasse a rassicurare il serpente. La
mente macinava pensieri e domande. Che ci faceva quella cosa
lì? Mi
avrebbe fatto del male? Perché la porta non si apriva, dato
che ero
certa di non averla chiusa a chiave? La paura stava raggiungendo
livelli tali che le risposte erano inaccessibili, pur sforzandomi di
ragionare a mente lucida e di classificare quel dannato serpente.
Velenoso o innocuo? Due parole fondamentali che mi ronzavano nelle
orecchie come se qualcuno le avesse pronunciate ad alta voce solo
qualche istante prima. Il buio non mi permetteva di scorgere nulla,
la sottile lama di luce che spuntava da sotto la porta non
rischiarava neppure un centimetro di pavimento, ma la mia
immaginazione riuscii da sola a terrorizzarmi ancora di più.
Gli
occhi della mente si misero al lavoro per figurarsi il lucido corpo
del serpente, il suo procedere fiacco a zig zag, la lingua schizzare
fuori a saggiare l’aria. Tremavo, ma ero madida di sudore
come nei
peggiori pomeriggi di afa, i capelli mi erano scivolati sul viso e mi
solleticavano la pelle, ma non avevo il coraggio di spostarli
né di
muovere un muscolo. Mi resi conto che avevo trattenuto il fiato
quando il respiro mi uscì dalle labbra in una sorta di
singhiozzo.
L’inno
era alle ultime
strofe, il boato di applausi confermò il suo termine e diede
maggior
forza alla mia decisione. Incamerai aria e con tutto il fiato e la
voce che avevo in corpo mi misi a strillare.
«Samuel!»
Accompagnai le
grida con altri colpi alla porta, di nuovo fino a farmi male.
Nella totale
oscurità non
mi fu possibile vedere il corpo del rettile tendersi e la testa
scattare in avanti fulminea, ma percepii ogni millimetro dei suoi
denti conficcarsi nella mia caviglia. Gridai, attraversata da una
scarica di dolore che mi lasciò senza fiato. Non sapevo a
cosa
paragonarlo, ma avrei scommesso che infilare la gamba nel fuoco non
fosse tanto diverso. Mi mancò improvvisamente il sostegno
dietro la
schiena quando la porta si spalancò di colpo, rovesciando
all’interno del bagno una valanga di luce. Braccia forti mi
tirarono in piedi apparentemente senza il minimo sforzo, stringendomi
con fare protettivo.
«Amber,
che succede?»
Faticavo a respirare regolarmente e a smettere di piagnucolare, i
suoni che mi uscivano dalla bocca sembravano sfuggire al mio
controllo.
«Stai
bene?» Samuel mi
fissava attentamente, mi sarei aspettata da lui
un’espressione
preoccupata, ma non era altro che serio. Sembrava immune a qualunque
turbamento, ma lo stesso non si poteva dire della proprietaria della
tavola calda, accorsa all’istante e banca come un lenzuolo a
causa
delle mie grida. Dietro di lei alcuni clienti si erano avvicinati con
volti pieni d’apprensione.
«Un
serpente. C’era un
serpente nel bagno, mi ha morsa!» Rapida e pronta come un
membro dei
corpi speciali, la donna recuperò da chissà dove
una scopa e la
brandì aggressiva, mentre Samuel mi metteva a sedere e
controllava
il punto in cui sostenevo che il serpente mi avesse morso. Sottopelle
riuscii a scorgere venature scure che si diramavano seguendo il corso
dei capillari, ma fu questione di pochi secondi prima che sparissero
senza lasciare traccia alcuna. Non faceva più nemmeno male.
«Sei
sicura ti abbia
davvero morsa?» Samuel mi fissava con aria diffidente, mentre
le sue
dita tiepide mi scorrevano sulla caviglia.
«Certo
che sono sicura,
non mi immagino le cose. Ci deve essere per forza il segno».
La signora
uscii dal bagno
scuotendo la testa. «Non ho visto serpenti. Cara, sei sicura
di
averlo visto?» Ecco che ci si metteva anche lei.
«Sì,
l’ho visto
chiaramente. È uscito dallo scarico del lavandino e poi mi
si è
avvicinato. La porta non si apriva finché non siete arrivati
voi».
Mi sentivo circondata dal sospetto, ma sapevo cosa avevo visto.
«Non
ci sono tracce di
morso, Amber, te lo assicuro».
«Era
qui!»
«Non
c’è niente».
«Posso
aiutare?» Un uomo
di mezz’età si fece avanti e si
inginocchiò accanto a me
osservando la presunta ferita. «Sono un medico, vi ho sentito
parlare di un serpente. È stata morsa, signorina?»
Annuii in
silenzio, solo per sentirmi dire poco dopo anche da lui che mi ero
immaginata tutto. Samuel mi strinse il braccio con gentilezza, ma con
decisione, mentre avevo il buon gusto di rivestirmi e di sentirmi in
imbarazzo. Controllai più di una volta che la donna dicesse
il vero
e che nel bagno non ci fossero ospiti indesiderati.
Poco a poco
l’interesse
che avevo suscitato nei presenti andò scemando,
finché a fissarmi
non rimasero solo in tre, la padrona del locale, il medico e Samuel.
Sul suo volto era difficile scovare tracce di qualche emozione, ma la
serietà del suo sguardo non faceva presagire nulla di buono.
«Vieni,
Amber, usciamo»
mormorò, ringraziando brevemente la signora e scusandosi da
parte
mia, come se avessi dato spettacolo senza motivo e con maleducazione.
In pochi secondi fummo di nuovo all’aria aperta.
«Dobbiamo
parlare».
«Samuel,
te lo giuro quel
serpente c’era davvero, l’ho visto! E mi ha morsa,
dannazione
come potrei inventarmi una storia del genere? Non avrei
motivo!»
«Lo
so, lo so. Non
preoccuparti, ti credo sulla presenza del serpente e persino a
proposito del morso. Non ti sei inventata nulla».
«Allora
forse è il caso
di andare all’ospedale. Non mi fa male,
però…non vorrei
ignorarlo, con quelle bestie non si scherza».
«Non
ne avrai bisogno,
lascia fuori gli umani».
Chiusi gli
occhi respirai a
fondo, cercando dentro di me le parole giuste per rivolgermi al tizio
che avevo di fronte, senza permettere alla rabbia di esprimersi al
posto mio.
«Hai
dieci secondi per
raccontarmi cos’hai in mente e convincermi ad ascoltarti
ancora.
Scegli bene le tue parole». C’era una sfumatura
quasi
impercettibile di minaccia nella mia voce, un ultimatum a cui non
avrei concesso sconti. Due bambini passarono correndo proprio in
mezzo a noi, ma senza spezzare il legame che ci univa, senza
interrompere il contatto tra la sua mano e il mio braccio. Il tocco
di Samuel era tiepido e saldo, ma qualcosa in me stava smettendo di
considerare benevola la sua espressione e di considerare sereno
quello sguardo. Forse era una pazzia che già avevo scorto,
ma che
poteva essere più dannosa del previsto. Le risate, le voci e
le
grida del pubblico sul molo ci facevano da sottofondo musicale,
riempiendo l’attesa e accompagnando la mia tensione.
«La
spiegazione più
ovvia, quella a cui ho pensato fin da quando ti ho tirata fuori da
quel bagno, è che Hazaq c’entri
qualcosa… no, aspetta prima di
rifiutare questa teoria, ne sono quasi sicuro».
«Oh,
povera me, io che
pensavo che la spiegazione più semplice fosse che un
serpente è
risalito lungo le tubature. Come ho potuto spingermi fino a questa
idiozia?»
Non
prestò particolare
attenzione al mio aspro sarcasmo, scuotendo la testa con
un’aria
quasi allucinata. Così impassibile il più delle
volte, era
inquietante vederlo quasi turbato.
«So
che c’è la
possibilità non tanto remota che Hazaq tenti di fare
qualcosa per
ovviare al problema che…beh, che sei sopravvissuta.
Perché allora
non agire in modo così pittoresco? Lo conosco molto bene,
sono nato
in seguito alla sua diserzione, perciò non posso anticipare
le sue
mosse, ma in parte posso comprenderle. Il serpente mi sembra un gesto
degno di lui».
«Tic
tac, i dieci secondi
sono già passati» mormorai, usando
l’insolenza per proteggermi
dalla paura che quelle parole suscitarono in me. Sapevo che non
c’era
da preoccuparsi, dato che erano chiaramente tutte balle, ma sentir
parlare ancora di Simon e di me in quei termini mi rendeva ansiosa.
Mi faceva rievocare momenti a cui non volevo più pensare, ma
che
continuavano a circuirmi come squali attorno ad una preda ferita.
Metaforicamente parlando, stavo sanguinando in una vasca piena di
predatori.
«Come
simbolo cristiano è
fortemente negativo. È l’opposto degli Arcangeli,
non può
innalzarsi al cielo, condannato per l’eternità a
strisciare sulla
terra. Non dimentichiamo inoltre che è stato lui a tentare
Eva, e
dal momento in cui l’ha fatto ha condannato se stesso a
questa
natura. Dopo quell’episodio Dio ha maledetto il serpente,
prevedendo l’inimicizia tra la sua stirpe e quella della
donna. Lei
gli schiaccerà la testa e lui…»
«Le
morderà il calcagno,
lo so. Ma ti rendi conto di quello che dici? È solo una
citazione
biblica».
«Come
ho già detto, un
simbolo».
«Stai
cercando di
rifilarmi l’ipotesi che Simon si sia trasformato magicamente
in una
serpe per farmi del male? Sembra davvero molto realistico».
«Non
saprei come, per
quanto ne so i Demoni non sono in grado di farlo, ma ha senso. Il
serpente è solo uno strumento come un altro per spaventarti.
I
nemici di Dio sono anche quelli che conoscono meglio la sua parola,
perciò non c’è da stupirsi che lui
abbia usato quel particolare
tipo di animale per avvicinarsi a te. Adora i riferimenti biblici,
è
come un gioco di abilità per lui. Oltre a questo, temo che
ci sia
dell’altro e che non si sia trattato solo di una minaccia, ha
un
significato più profondo, ma ora come ora non lo so con
certezza.
Nella migliore delle ipotesi ha annullato la distanza fra voi in
qualche modo».
Non ero
certa di cosa
intendesse, enigmatico come al solito, ma ne avevo abbastanza. Con
uno strattone liberai il braccio dalla sua stretta, e gli puntai
l’indice contro.
«Adesso
apri bene le
orecchie, ragazzo-angelo. Non so con esattezza a quanto ammonta la
gravità del tuo problema, ma è chiaro che ne hai
uno e che devi
farci qualcosa. Sono stanca delle tue stronzate!»
Aggrottò la
fronte, visibilmente infastidito dal linguaggio. «Fai come
credi,
continua pure a vivere nel tuo mondo fatato, a pensare di chiamarti
Hadas il Nuovo, di essere un fottuto Angelo e tutte
le
assurdità che vuoi, ma stammi lontano!»
«Credevo
che avessi
cominciato a convincerti» fece, in un sussurro che poteva
significare allo stesso tempo sia calma che tristezza. In
realtà era
difficile leggere le sue espressioni facciali. Cominciavo a pensare
che lui e mia madre sotto questo punto di vista non fossero troppo
diversi, così fanaticamente controllati nei loro
comportamenti,
freddi e lontani da me anni luce.
«I
pazzi vanno
assecondati, lo sanno tutti, ma ora sono stanca di farlo. Vorrei
essere di nuovo sincera. L’unico ad essere convinto di quello
che
dici sei tu e ciò non lo rende necessariamente vero. Se stai
cercando di impedirmi di consultare un medico solo perché
credi che
il morso sia qualcosa di simbolico, allora non è di Simon
che mi
devo preoccupare, ma di te». Lo spinsi via quando
cercò di
riavvicinarsi a me e trattenermi. «Non mi toccare! Non sto
scherzando Samuel, Hadas, o come diavolo ti chiami, ti ringrazio per
avermi tolta dai guai ma ora esci dalla mia vita e stai lontano da me
o chiamo la polizia».
Il suo non
era esattamente
uno sguardo ferito, ma il suo silenzio per poco non mi fece sentire
in colpa per il trattamento poco gentile che gli avevo riservato. Con
un sospiro mi costrinsi ad essere coerente con me stessa, a
lanciargli un’ultima occhiata colma di determinazione e ad
allontanarmi da lui senza dire altro. Per lo meno distogliere lo
sguardo fu utile per non dover più vedere occhiate meste o
tentativi
di pacificare i toni. Non tentò più di fermarmi.
A passo
svelto riuscii a
raggiungere i miei amici, intenti ad osservare meravigliati uno
spettacolo di giochi di prestigio proprio a due passi
dall’acqua.
Prendere Louis a braccetto e sentire la stabilità del suo
corpo
contro il mio fu come tornare improvvisamente a pensare con maggiore
lucidità e ciò fu un giovamento per i miei
propositi. Pensare di
andare da un dottore mi parve sciocco e cominciai seriamente a
credere più alle parole della donna della tavola calda e del
presunto dottore, che a ciò che io stessa avevo visto. Mi
muovevo
senza sforzi, la caviglia non presentava i fori dei denti dove
avrebbero dovuto esserci e non c’era la minima traccia di
dolore se
non il ricordo della fitta iniziale. Era stato così intenso
e
bruciante che quasi ero pronta a scommettere di averlo solo
immaginato.
Quasi.
La mente
poteva giocare
brutti scherzi, giusto? Addirittura simulare reazioni corporee
precise, perciò niente impediva che fosse successa la stessa
a cosa
anche a me. Già una persona competente mi aveva assicurato
che era
tutto a posto, ora mi sentivo stupida per essermi preoccupata
così
tanto. La prova del nove erano i segnali che il mio corpo mi
lanciava, o meglio, la loro assenza. Con del veleno il circolo non
avrei dovuto sentirmi uno straccio?
La
spiegazione migliore era
che avevo davvero visto l’animale, ma quando la luce era
saltata la
mia mente spaventata aveva fatto gli straordinari, inducendomi a
credere che mi avesse attaccata, quando invece si era infilato nello
scarico ed era tornato da dov’era venuto. Non sapevo spiegare
bene
il dolore, ma era più saggio pensare che avessi immaginato
anche
quello.
Con
quell’osservazione
confortante riuscii finalmente a godermi la serata come
l’avevo
programmata, o quasi. Non parlai a nessuno di quello che era successo
e di Samuel non c’era più traccia. Avergli detto
ciò che pensavo
era stato salutare per me, come liberarsi di un peso inutile nel
petto. Era stato certamente meglio così per entrambi.
Leroy fu
così gentile da
riaccompagnarci a casa con la sua auto, lasciando prima i miei amici
in Palme Ave., poi portando me e mia madre proprio di fronte alla
porta di casa. Mi salutò con un ampio sorriso e i
complimenti per il
successo riscosso dal mio pranzo, cosa che gonfiò il mio
orgoglio a
dismisura. Cercai di non dare a vedere quando quel commento mi avesse
compiaciuta e mi mascherai di modestia quando lo ringraziai, salendo
le scale e infilando la chiave nella toppa.
Quando
gettai un’ultima
occhiata all’auto, l’ultima cosa che vidi fu la
mano di mamma
indugiare qualche istante di troppo sull’avambraccio
dell’uomo,
una risatina insolita sfuggirle dalle labbra e qualche parola di
buona notte, poi la grande macchina bianca sparì
silenziosamente dal
vialetto.
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Capitolo 17 *** Capitolo 17 ***
Flutti
mortali mi
circondarono, torrenti esiziali mi travolsero, mi avvolsero vincoli
infernali, mi avvinsero lacci di morte.
Salmi, 18,
5-6.
Paradossalmente,
fu il silenzio a svegliarmi. Anche in un quartiere tranquillo come
quello, il respiro della città era impossibile da frenare.
L’usuale
sottofondo di auto, motorini, guaiti di cani e lotte furiose tra
gatti rivali non mancava mai.
Spalancai
gli occhi nella
penombra della mia stanza, consapevole che ci fosse qualcosa di
diverso in quella notte, qualcosa di…disumano.
Una parola semplice, comparsa dal nulla nella mia mente senza che
l’avessi evocata di proposito. Ma sembrava dannatamente
appropriata.
Tesi
l’orecchio, in una
quiete perfino angosciante, alla ricerca di qualsiasi cosa potesse
indicarmi il motivo della mia inquietudine. Eppure a prima vista
tutto era al posto giusto, la debole luce dei lampioni in strada e
quella pallida, lattea della luna penetravano nella stanza dalle
finestre, come tutte le altre sere in cui non serravo le persiane.
Tingendo gli interni della camera aiutava la vista a scorgere almeno
il profilo degli oggetti: la sedia, una pila di libri sulla scrivania
e il portatile proprio lì accanto.
Sbattei per
un paio di
volte le palpebre per mettere a fuoco il più possibile, ma
proprio
quando stavo per convincermi che la brutta sensazione che mi aveva
destata era solo una debole impressione, il mio sguardo fu catturato
da una chiazza scura sul tessuto bianco ed etereo della tenda, come
il fantasma di un film dell’orrore da quattro soldi.
Ci misi
qualche secondo
prima che il cervello riuscisse a realizzare che si trattava di un
ombra. Mi voltai di scatto verso la mia destra, trattenendo a stento
un grido e alzando le mani in un patetico tentativo di difendermi.
Il viso che
mi trovai ad
osservare era più serio del solito, e lo sguardo
imperscrutabile era
fisso su di me. Avrei dovuto sentirmi come minimo indignata per la
sua presenza, totalmente illegittima, invece fu quasi un sollievo
trovarmelo di fronte.
«Samuel...che
ci fai in
camera mia?» Non rispose, ma con un cenno del capo
indicò la porta
della stanza e all’improvviso, dal nulla totale di
quell’innaturale
silenzio, come se ad un suo gesto fosse corrisposta una precisa
conseguenza, da lì parve provenire un sottofondo
agghiacciante…erano
urla quelle che sentivo al di là di essa?
«Che
cos’è?» Chiesi di
nuovo, ma come alla prima domanda, anche a questa non seguì
nulla se
non un sorriso enigmatico. Quasi complice, sebbene non sapessi a cosa
potesse riferirsi. Di nuovo un cenno, poi il ragazzo mi porse la
mano, che strinsi senza questionare. Scivolai fuori dalle lenzuola
senza chiedere dove mi volesse portare, immaginando, anzi sapendo
che a tempo debito lui mi avrebbe svelato tutto.
Afferrò
la maniglia con
gesti lenti e controllati, e la sua stretta attorno alle mie dita si
fece più salda. Confortante.
«Qualsiasi
cosa tu veda,
non temere. Sono qui e non ti lascerò» disse
finalmente. Aprì la
porta e i suoni che poco prima mi erano giunti indistinti, ora erano
ben chiari. Non mi ero immaginata nulla e non avevo frainteso. Grida,
urla, schiamazzi e pianti.
Ma da dove
proveniva un
rumore tanto raccapricciante?
Davanti a me
si presentò
una lunga scalinata, tanto lunga che mi fu difficile individuarne la
fine, ma era ben illuminata da file di torce rudimentali affisse a
parenti in pietra. Mi ricordò gli accessi ai sotterranei di
qualche
antico castello, stanze segrete colme di tesori nascosti o, a
giudicare da ciò che sentivo, luoghi da incubo dove vittime
ignote
venivano sottoposte a indicibili torture.
Samuel mi
fece strada, in
silenzio e con lo sguardo concentrato e fisso davanti a sé.
Come
accadeva spesso in sua compagnia, mi interrogai su quale fosse il suo
stato d’animo e la natura dei suoi pensieri. Avrei dato ben
più di
un penny per conoscerli e risolvere il mistero che avvolgeva quello
strano ragazzo.
Mi schiarii
la gola e quel
tentativo di trovare le parole giuste riecheggiò tra le
fredde
pareti, aggiungendosi agli strilli e alle altre voci.
«Forse
dovrei chiederti
scusa…» mormorai. «Sì, per
come mi sono comportata stasera».
Era davvero successo solo quella sera? Mi sembravano secoli.
«Sono
stata brusca e mi dispiace. Ero un po’…tesa e
spaventata».
Scosse la
testa. «Non è
colpa tua. Sono stato poco chiaro fin dal principio, poco incisivo e
poco convincente. È normale non credere, ma ora
sarà tutto diverso.
Sono certo che riuscirò a mostrarti la verità una
volta per tutte».
Non sapevo perché, ma la serietà con cui
pronunciò quelle parole
riuscii a convincermi che avrebbe davvero fatto tutto il possibile
per rendere veri i suoi racconti.
Ogni passo
sui quei gradini
visibilmente consumati dal tempo fu accompagnato dal suo rimbombo
immediato, ogni gradino ci avvicinò a ciò che ci
attendeva alla
fine della scalinata, finché essa non terminò in
un prolungamento
circolare dei gradini. Libero dai limiti imposti dalle strette mura
che mi avevano affiancato poco prima, il mio sguardo ebbe la
possibilità di spaziare. Rimasi senza fiato.
Un’enorme sala si
apriva davanti a noi in una lucida distesa di marmo. Il pavimento
richiamava i motivi di una scacchiera, con un’alternanza di
bianchi
e neri seducente alla vista.
La nostra
scala era solo
una delle molte che portavano direttamente al pavimento, in tutto ne
contai sette, identiche a quella che io e Samuel avevamo sceso,
sormontate dall’imponenza e dall’eleganza di
altrettanti archi
ogivali. Al culmine di ogni ogiva, poco sopra il punto in cui le
linee dell’arco si univano, degli altorilievi sembravano
quasi
etichettare ogni scala, ognuno diverso dall’altro. Non
c’erano
finestre, vetrate o rosoni a donare un po’ di luce naturale
all’ambiente, solo altre fiaccole e tante, tantissime candele
poste
a terra intorno a noi o su candelabri di ogni stile e forma, semplici
o con i bracci intrecciati. Ne derivava un chiarore soffuso e
suggestivo che disegnava ombre su ogni particolare
dell’architettura.
«È
meraviglioso»
sussurrai, sapendo tuttavia che quel solo aggettivo era troppo debole
per riassumere lo splendore del luogo. «Ma dove ci
troviamo?»
«Credo
che a questo punto
tu lo abbia capito» rispose Samuel, continuando ad indossare
quella
maschera enigmatica che non l’aveva lasciato per un solo
istante
mentre mi aveva accompagnata lì.
«Il
Paradiso?» Si limitò
a guardarmi e a farmi gentilmente segno di proseguire avanti a lui.
Scesi gli ultimi gradini, notando che i rumori si erano fatti sempre
più distinti. Non era una voce singola quella che avevo
udito in
camera, ma appartenente a tante persone, unite in un unico grottesco
ululato. Un inquietante coro di cui tuttavia non conoscevo la
provenienza. E oltre a quello…i miei occhi ben attenti a
dove
mettevo i piedi su quei gradini consunti, si posarono su un
particolare che notai solo in quel momento e che era distribuito sul
bianco sporco del marmo in gocce che formavano una traccia sottile e
incostante.
Sangue.
Diedi un
lieve strattone
alla mano di Samuel per attirare la sua attenzione. «Come mai
c’è
del sangue su questi gradini? E chi sono queste persone?
Perché
strillano?» Mi guardò di sottecchi, come se la
risposta fosse più
che scontata.
«Non
penserai sul serio
che chi è destinato a scendere queste scale lo faccia
docilmente…o
sì?» Un brivido mi corse lungo la spina dorsale e
la consapevolezza
si fece strada nella mia mente insinuandosi come una serpe tra i miei
pensieri. Non mi sentivo più tanto a mio agio dopo
l’affermazione
del ragazzo e sebbene continuassi a pensare che attorno a me fosse
tutta una meraviglia, qualcosa di sinistro era andato ad intaccare
l’equilibrio formale e l’armonia delle strutture.
«Non
è il Paradiso, vero?
È l’Inferno…»
«Molto
brava, Amber. Vedo
che cominci a comprendere come stanno le cose. Ora vieni con
me». I
suoi passi rimbalzarono in un’eco tra pareti e colonne
marmoree,
accompagnati subito dal suono dei miei. Mi sforzai di non seguire con
lo sguardo l’inquietante tracciato del sangue.
Giunti alle
estremità del
pavimento a scacchiera, un tremito percorse il marmo producendo un
boato così potente da scuotermi le viscere. Afferrai il
braccio di
Samuel con tutte le mie forze e mi sforzai di non crollare, mentre
delle venature scalfivano la superficie opaca del suolo, scheggiando
ogni riquadro e spezzando a metà quell’alternarsi
poetico di
bianco e nero, come ghiaccio troppo sottile sottoposto ad un
eccessivo peso. Dal centro fino a pochi passi da noi, il pavimento
cedette e si aprì un’enorme voragine. In pochi
secondi il rimbombo
cessò e senza più alcun ostacolo ad attutirle, le
grida mi giunsero
più intense e terrificanti che mai.
«Guarda»
ordinò Samuel.
Scossi la testa, sentendo il sudore cominciare ad imperlarmi la
fronte, ma sedotta dalla mia curiosità non potei impedire al
mio
corpo di sporgersi abbastanza per cogliere ciò che lo
squarcio nel
terreno celava.
Solo
un’occhiata. Dovevo
vedere.
Diavoli,
ovunque. Diavoli
dalle forme più strane, uno più spaventoso
dell’altro, dai vari
colori. Pelli scure, nere, rosse e grigiastre, peli, scaglie, zanne.
Tutti in un
fremito
d’entusiasmo brandivano lance, forconi, lunghi ferri uncinati
e tra
risate sguaiate e un baccano che quasi mi costrinse a tapparmi le
orecchie, ghermivano corpi nudi, ferivano con le unghie, deridevano,
pungolavano, sputando e minacciando.Vidi un uomo dilaniato cercare di
scappare invano dal suo inseguitore, una giovane donna sfigurata da
un Diavolo raggrinzito che premeva sul suo viso un ferro rovente, e
centinaia di altre vittime di quella malvagia frenesia.
Chiusi gli
occhi. Mi
sembrava troppo e assurdo. Volevo solo andare via, ma non riscrivo a
muovere un muscolo, come se il desiderio di guardare meglio vincesse
ogni altro sentimento di ribrezzo e panico. Rimasi immobile,
congelata dal terrore, mentre la mia mente continuava a volersi
ribellare a quella scena.
«Terrificante,
non è
vero?» Tornare a fissare Samuel fu una benedizione, un
temporaneo
rifugio dall’orrore. Le sue iridi celesti erano rese ancora
più
brillanti dalle brutture che ci circondavano.
«È
orribile vedere fin
dove gli uomini si possano spingere». Commentò,
con lo sguardo
perso in quella visione raccapricciante.
«So
cosa stai pensando»
fece ancora prima che potessi anche solo aprire la bocca.
«Sei
spaventata da ciò che i Diavoli stanno facendo, ti sembra
crudele e
brutale, ma è colpa degli uomini. È sempre stato
così». Allargò
le braccia come per indicare tutto ciò che quella voragine
conteneva. La mia mente era piena d’orrore ma nonostante
questo i
miei occhi non si staccavano dalla scena di tortura poco sotto di
noi.
«Ecco il
frutto del
peccato. Ecco il castigo eterno». La sua voce aveva un che di
solenne, di imprescindibile come se avesse appena confessato una
verità assoluta. Non batteva ciglio di fronte a quelle
immagini,
sembrava quasi sforzarsi di fissare la scena senza distogliere lo
sguardo.
«Non
c’è nulla che si
possa fare? Nemmeno tu?» chiesi in un filo di voce. Avrei
voluto
aggiungere nemmeno
tu che sei un Angelo?
ma mi sarebbe sembrata ancora una frase assurda, sebbene la
verità
mi si fosse presentata casualmente davanti agli occhi. Gli rivolsi
uno sguardo colmo di supplica e sentii la frustrazione crescere
quando lo vidi scuotere la testa.
«Hanno
scelto» sentenziò.
A
distogliere la mia
attenzione fu un grido improvviso, acuto e angosciante. Dalla
scalinata accanto a quella dove ci trovavamo, un corpo massiccio
dalle fattezze solo lontanamente umane e seminudo come una sorta di
orrendo gladiatore degli inferi, scendeva i gradini stringendo una
pesante catena che si era posato in spalla come un curioso bagaglio.
Incatenata alla sua estremità vidi la figura snella di una
ragazza,
che gridava e lottava con tutte le forze per evitare la sua sorte.
Con le mani si aggrappò ad ogni scalino che trovava, ma non
poté
nulla contro la forza bruta del suo carceriere, che la trascinava
sempre più in basso.
«Aiuto!»
Non appena mi
scoprii a fissarla tese una mano nella nostra direzione, come se
potesse afferrarsi anche a me e assicurarsi la salvezza. «Ti
prego,
aiutami!» Per un secondo parve riuscire nel suo intento, ma
la
delusione fu ancora più amara quando con uno strattone,
l’uomo, o
meglio la bestia, la trascinò sul pavimento.
«No,
no! Per favore, non
farlo!» Con una sorta di ringhio, l’essere
ignorò le sue
suppliche, l’afferrò per le caviglie e la
scaraventò giù,
godendosi gli strilli prolungati e penosi che seguirono. Non ci
tenevo a scoprire come i Diavoli si stessero divertendo con lei,
perciò cambiai soggetto. Tra il sangue versato e la carne
viva
esposta a causa dei colpi crudeli di quei seviziatori, mi
catturò
un’immagine se possibile peggiore. Una donna tentò
di tenere a sé
il bambino appena nato, ma uno dei suoi aguzzini glielo
strappò
dalle mani e iniziò a divorarlo, dilaniandolo con i denti.
Mi passai le
mani sugli
occhi, scoprendo di tremare. Chi avrebbe mai potuto scegliere di
vivere una simile esistenza? Chi mai avrebbe desiderato una punizione
tanto straziante? Dov’erano Dio e la sua clemenza?
«Portami
via di qui…»
mormorai, implorante. «Ti prego».
«Devi
vedere, devi capire
qual è il destino di chi infrange le regole». La
voce di Samuel mi
parve diversa, più bassa di tono, più melliflua e
seducente.
Qualcosa mi sembrò famigliare in quell’inflessione
carezzevole.
«Ma non sei qui solo perché volevo convincerti,
cara piccola
Amber».
Tolsi le
mani e incontrai
uno sguardo ben diverso da quello di Samuel: occhi verdi, con una
luce di follia che ricordavo bene. Il respiro si spezzò in
gola e mi
sentii quasi sfuggire un grido per il turbamento. Simon.
La mia mente
era annebbiata
per lo shock, le parole non trovarono via d’uscita. Ancor
prima che
tentassi di pensare a qualcosa, le mani del ragazzo scattarono in
avanti e in meno di un secondo mi trovai sospesa nel vuoto, con la
schiena all’indietro proprio sopra i Diavoli. Mi affannai per
mantenere la presa sullo sperone con i piedi, ma già sapevo
che non
sarei resistita a lungo. La sola cosa che mi impediva di cadere di
sotto, erano le dita di Simon strette attorno alla stoffa della
canottiera.
«Fermati!
Fermati! Ti
prego, non farlo!»
«Ah
no? Non dovrei?» Il
suo viso era tranquillo, solo un sorriso gli increspava le labbra.
Sentivo il vuoto sotto di me, vampate di calore che mi lambivano la
schiena semi scoperta e le grida eccitate dei Diavoli. Non avrei
dovuto guardare giù, ma voltai la testa e il mio sguardo
raggiunse
uno dei mostri nel vallone. Rideva e mi fissava come se non vedesse
l’ora di avermi tra gli artigli. Brandiva una lunga lancia
che
puntò verso di me, reggendola con due mani. Sebbene non
riuscisse a
raggiungermi, sapevo che cosa avrebbe significato cadere. Non avrei
potuto evitare di rimanere infilzata.
«No!
Per favore!» Le
lacrime iniziarono a riempirmi gli occhi e a rotolare lungo le
guance. I singhiozzi mi squassavano il petto, mentre con le mani
tentavo di restare ancorata a lui, stringendogli i polsi. Il sudore
mi impediva di mantenere una presa salda.
«Pensi
di essere capitata
qui per puro caso?» chiese Simon con uno sguardo folle. Uno
sguardo
che solo qualche giorno prima mi aveva quasi fatto cadere ai suoi
piedi e che ora riusciva solo a riempirmi di terrore. «Sei
qui per
una ragione…per i tuoi peccati».
«Non
ho fatto niente!»
«Tu
sei una peccatrice,
come tutte le anime qua sotto e come me. Hai rinnegato il Signore, e
lo hai fatto volontariamente. Perciò meriti una punizione
adeguata.
Ogni anima che arriva all’Inferno viene giudicata in base
agli
errori che ha commesso e percorre la scala riservata al peccato che
in vita l’ha guidata. I percorsi sono rappresentati dagli
altorilievi nella pietra. Sette scale, sette peccati, sette
punizioni. Ti sei presa il disturbo di osservare bene quale immagine
rappresenta la tua via?» Colsi il suggerimento.
L’altorilievo
rappresentava una donna velata, con il viso rivolto al cielo e le
mani alzate, strette a pugno.
«Superbia,
mia cara. Tu sei una superba. Sai che cosa vuol dire?» Non mi
lasciò
il tempo di rispondere, ma anche provandoci non sarebbe uscita una
sola parola dalle mie labbra. Tremavo così tanto che mi
sentivo le
gambe deboli, ma non avevo il coraggio di cedere per paura che
ciò
significasse cadere di sotto e firmare la mia condanna a morte.
«Significa
che sei una
ragazzina altezzosa e gonfia di orgoglio, che ha deciso da sola che
l’unico Dio degno di governarla non è altro che se
stessa. Mi
sbaglio?» Scossi la testa, la gola stretta per il pianto. Non
volevo
morire, e se fossi sopravvissuta, cosa improbabile, non volevo finire
tra i Diavoli.
«Perché
mi fai questo?»
riuscii finalmente a dire, dopo aver incamerato aria sufficiente a
poter articolare suoni. Il ragazzo si strinse nelle spalle.
«Te
l’ho già detto, non
è nulla di personale, hai fatto tutto da sola. Sei tu che
hai deciso
di ergerti a giudice della tua vita e così hai scelto la
condanna
adatta a te. Di solito apprezzo chi sa ribellarsi con stile al suo
Dio, ma ciò non significa che non possa divertirmi un
po’ con te.
Questo è solo l’inizio del tuo incubo».
Qualcosa di gelido si
strinse attorno alla mia caviglia, una massiccia catena simile a
quella che avevo visto trascinare l’altra peccatrice.
«Io
non ti ho fatto
niente!» ripetei, tentando di convincerlo. «Ti
scongiuro. Adesso ci
credo, ci credo!» Mi trasse verso di se, allontanandomi dal
vuoto e
riempiendo il mio cuore di speranza. Il suo respiro sapeva di morte,
un odore che mi spezzò il fiato in gola, così
diverso dal profumo
che mi aveva attratta la prima volta che lo avevo incontrato. Quando
il suo viso fu a pochi centimetri dal mio, fece un profondo sospiro.
«Dillo
in modo esatto, per
cortesia. A cos’è che credi?»
«A
Dio! Credo in Dio e a
tutto il resto, lo giuro. Ma ora tirami su!»
Scosse la
testa divertito.
«No, tu menti».
«Ho
detto che te lo
giuro…per favore». La mia voce era sottile, ma ero
certa che mi
avesse sentita anche in tutto quel fracasso.
Fece un
altro profondo
sospiro e annuì. «D’accordo, mi hai
convinto. Sono felice che tu
ti sia decisa a credere». Le mie lacrime si trasformarono in
sollievo, seccandosi sulle guance per le ondate di calore che mi
lambivano la pelle. Simon parve issarmi sullo sperone, poi mi
regalò
nuovamente quel suo sorriso ammaliante. Negli occhi scorsi qualcosa
di profondamente malvagio e capii ancora prima che parlasse di nuovo.
Le sue labbra mi sfiorarono l’orecchio. «Questo
però non cambia
nulla…»
Con una
lentezza quasi
estenuante, le sue dita si aprirono una dopo l’altra e io mi
sentii
scivolare giù. Percepii con orrore il vuoto sotto di me,
l’aria
che mi sibilava nelle orecchie, le risate dei Diavoli. Scioccamente
mulinai le braccia in aria, come se potessi di colpo realizzare di
avere le ali e potermi salvare, ma continuai a cadere mentre lo
sperone si allontanava, assieme a Simon che fissava la scena con le
labbra increspate in un sorriso soddisfatto.
Non potei
fare altro che
attendere e lo strattone giunse, violento, doloroso. Ogni fibra del
mio corpo parve gridare e io, frastornata, non fui in grado di
mettere subito a fuoco ciò che mi attorniava. Mi stupii che
le mie
gambe non si fossero staccate di netto per lo strappo a fine catena,
come una bambola di pezza contesa a forza tra due bambine, ma il
sollievo durò poco. Attesi di smettere di oscillare, con i
volti
deformati dei Diavoli che mi sfilavano capovolti davanti agli occhi e
i corpi dei dannati come macabro preannuncio di ciò che mi
aspettava. Le orecchie mi ronzavano talmente forte che mi era
difficile anche solo pensare o temere per la mia vita. Ero come
annebbiata e non sapevo se considerarlo un vantaggio o una sciocca
imprudenza da parte mia.
Stavo quasi
per abituarmi
al dolore acuto alle giunture e al calore delle fiamme che mi lambiva
il viso, quando nel mio campo visivo tra le lacrime causate dal fumo
acre, comparve il viso disumano dello stesso Diavolo che avevo visto
sulla sommità della spaccatura, quando ancora le centinaia,
migliaia
di persone nella voragine erano solo vittime e io la privilegiata al
sicuro. Ero diventata una di loro.
«Perdona
la mia
sbadataggine». La voce di Simon era lontana, difficile da
collocare
in tutta quella confusione, ma mi immaginavo il suo volto insolente e
arrogante rivolto verso di me, con un barlume cinico negli occhi.
«Ho
dimenticato di accennarti in che cosa consiste la tua punizione, cara
Amber. Ho detto che sarai dannata tra i superbi, e che cosa fa di
preciso il superbo nel suo peccare? Alza gli occhi verso il cielo in
aria di sfida, proprio come hai visto nell’altorilievo.
Appesa come
un salame come potrai farlo?» La sua risata mi fece
rabbrividire fin
nelle ossa e il Diavolo si avvicinò lentamente. Quando fu
sotto di
me, brandì la lancia e l’avvicinò al
mio viso sfiorandomi con la
punta. Il freddo del metallo sembrava quasi irreale in quella gola di
fiamme.
«Ma
questo non sarà
sufficiente, lo puoi immaginare anche da sola. Facciamo in modo che
quei begli occhi nocciola non siano più veicolo di
alterigia». Gli
strilli mi avvolgevano con in un manto tangibile, talmente acuti che
non riuscivo a capire se fossero solo grida estranee o se stessi
supplicando anche io assieme ai dannati.
Il Diavolo
mi regalò un
sorriso mellifluo e colmo di promesse cruente, mentre la punta
metallica seguiva il contorno della mia gola, del mento e del naso,
avvicinandosi a un occhio.
«No…ti
prego, per
favore…no…» Il mondo si
offuscò, annegato nelle lacrime che mi
velarono gli occhi, e la voce si spezzò nella gola stretta
in una
morsa gelida di terrore. Avrei voluto tenere gli occhi chiusi, ma
riuscii solo a tenerli spalancati e a seguire con lo sguardo i
movimenti lenti della lancia, come se non potessi distogliere
l’attenzione dalla mia fine ormai vicina. Quando cominciai a
credere o a sperare che il Diavolo si fosse dimenticato del suo
compito, lo vidi stringere la lancia come per prendere meglio la mira
e la punta scattare verso il mio viso, finché non rimase
altro che
oscurità e dolore.
Lo stesso
buio che mi aveva
allarmata, divenne una sorta di liberazione, quando aprii gli occhi
in un’oscurità meno pesante e opprimente rispetto
a quella del
sogno.
Era un buio
familiare,
affettivo. Finalmente riuscivo a scorgere ciò che prima mi
era stato
negato, il profilo dell’armadio, della sedia e della
scrivania, la
cornice della finestra e della tenda, con la luce opalescente della
luna, le ombre scure del comodino e dell’abat-jour.
Il silenzio
della notte era
scandito solo dal mio respiro affannoso. Dalle labbra senza controllo
mi sfuggirono dei singhiozzi che tentai di celare coprendomi la bocca
con una mano. Sapevo di aver strillato nel sonno, riuscivo a sentire
nelle orecchie il grido che avevo gettato a causa
dell’incubo. Il
dolore percepito era cessato, ma la paura mi era rimasta incollata
alla pelle come una sostanza tossica. Mi passai una mano sul viso,
come per scacciare il ricordo angosciante della lancia che mi
trapassava un occhio. Per un attimo fui terrorizzata all’idea
di
ritratte la mano macchiata di sangue, ma sulle dita brillava solo un
velo di sudore.
Strinsi le
ginocchia
attorno al petto, nel tentativo di ritrovare un certo contegno, di
infondermi coraggio e calmare il mio corpo scosso dai tremiti e dai
singulti. Le guance già bagnate di lacrime accolsero
nuovamente il
pianto, il cuore rimbombava nella testa e sbatteva nel petto come una
furia, mentre nella mente riecheggiavano le parole di Simon, il suo
timbro di voce vellutato e seducente e lo schiamazzo inquietante dei
Diavoli.
Con la mano
ancora premuta
sulla bocca e le spalle che tremavano, senza potervi porre rimedio
continuai a singhiozzare, per quanto continuassi a rassicurarmi e a
ripetermi che era stato solo un brutto sogno, immagini durate un
attimo e senza alcun peso. Una menzogna dell’immaginazione.
La mente
gettò un nuovo
allarme. Spalancai gli occhi in ascolto di alcuni tonfi in
lontananza. Tesi l’orecchio. Dopo qualche secondo i rumori si
ripeterono e il cuore mi schizzò in gola, quando realizzai
che si
trattava di passi, lenti e ritmati lungo le scale di legno che
conducevano al piano di sopra. Alla mia camera.
Il corpo
reagì molto prima
di poter riflettere sulla cosa, mi tuffai sotto le lenzuola,
stringendole sopra la testa come quando da bambina ero terrorizzata
dai mostri celati nel buio. Avvolsi la stoffa nelle mani, stringendo
convulsamente nel tentativo di creare una protezione da qualsiasi
eventuale pericolo.
I passi si
avvicinarono, il
legno non riuscì ad attutirli. Serrai con forza gli occhi,
come se
non vedere significasse diventare invulnerabile. Quando capii che i
rumori si erano spostati nel corridoio, il caldo sotto le lenzuola
era diventato soffocante e io ero in un bagno di sudore. Sentii la
porta della camera aprirsi, i passi avvicinarsi.
È
qui. Non puoi
scappare.
I capelli
erano incollati
al viso, alla fronte, le lacrime bagnavano la stoffa del cuscino e le
dita mi dolevano per la forza con cui mi ostinavo inutilmente a
stringere a me le coperte. Dentro di me speravo ardentemente che
fosse un altro incubo o che in realtà io non mi fossi
davvero
svegliata dal primo, ma sapevo in cuor mio che era solo
un’altra
vana illusione.
Iniziai a
tremare quando il
peso di un corpo si posò sul materasso e opposi in silenzio
resistenza, quando qualcuno tentò di sottrarmi le coperte
dalle
dita, riuscendoci solo qualche secondo dopo.
Qualcuno
o qualcosa.
Rimasi
immobile, raggelata
e irrigidita dalla paura. Anche se fossi scappata, dove potevo
nascondermi? Non avevo scampo. Davanti agli occhi mi danzava
l’immagine del Diavolo che mi aveva infilzata nel sogno, il
suo
sguardo colmo di malignità, i denti aguzzi e marci che mi
sorridevano quasi con malizia.
Avrei forse
dovuto lottare,
ma la mano che si posò sulla mia testa sembrava
tutt’altro che
minacciosa. Dita fresche mi allontanarono i capelli umidi dalla
fronte imperlata di sudore e io riconobbi il profumo di mia madre. La
sentii salire sul letto con tutto il corpo, sebbene stringessi ancora
le palpebre come se gli occhi rifiutassero la realtà che mi
circondava.
«Amber?»
sussurrò, nel
buio. «Stai dormendo?»
Non volevo
rispondere, ma
il mio respiro irregolare avrebbe potuto tradirmi. Deglutii e tentai
di inspirare ed espirare profondamente come se fossi immersa nel
sonno. Senza aver ricevuto risposta, si sistemò sul letto
avvicinandosi a me. Sentii il suo braccio posarsi sul cuscino sopra
la mia testa e l’altra mano accarezzarmi il volto con un
tocco
leggero che ormai avevo dimenticato. Quando tempo era passato da
quando mi era stata così vicina? Quand’era
l’ultima volta che
ricordavo di aver ricevuto il suo affetto? Abbastanza perché
mi
convincessi che il contatto con me fosse divenuto per lei fastidioso.
Il suo tocco
fresco fu un
sollievo dopo le vampate di calore e paura che mi avevano aggredita
sotto le coperte. Mi accarezzò la fronte, gli zigomi, le
guance,
come se stesse contemplando ogni tratto del mio volto.
Asciugò le
lacrime con il dorso della mano, in gesti lenti che mi cullarono come
nella litania di una ninna nanna. Poi interruppe il contatto,
scivolò
via dal letto e si alzò in piedi. I suoi passi,
così come con
terrore li avevo uditi avvicinarsi, si allontanarono e la porta si
richiuse con un lieve scatto.
Rimasi sola,
sentendomi
sciocca per la sensazione di panico che mi aveva inutilmente
attanagliato le membra poco prima e domandandomi se ciò che
era
appena accaduto fosse reale o un altro frammento di sogno.
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Capitolo 18 *** Capitolo 18 ***
Gli animali
terrestri, i
volatili, i serpenti, gli animali marini, sono stati e vengono
domanti dall'uomo. Ma nessun uomo può domare la lingua: essa
è un
male che non dà tregua, è piena di veleno
mortale. Con essa noi
lodiamo Dio, Signore e Padre, e, sempre con essa, malediciamo gli
uomini, che sono stati fatti a somiglianza di Dio. Dalla medesima
bocca viene fuori benedizione e maledizione. No fratelli miei, le
cose non devono andare così. Può forse la stessa
sorgente far
zampillare dalla stessa apertura il dolce e l’amaro?
Giacomo, 3, 7-11.
18.
Il
motivo per cui la sera preferivo non serrare le persiane era che il
sorgere del sole mi aiutava a sfuggire dalla morsa del sonno con la
delicatezza della sua luce e del suo graduale infiltrarsi tra la
stoffa bianca delle tende. Volevo che fosse qualcosa di naturale a
svegliarmi e non un meccanismo elettronico, tranne nei casi in cui
era proprio necessario.
Quella
mattina rimpiansi la
mia decisione, quando la luce del giorno mi ferì gli occhi
peggiorando il mal di testa con cui mi svegliai. Ad ogni battito del
mio cuore il rimbombo si proiettava dentro alla scatola cranica,
lasciandomi intontita e con un dolore costante e diffuso fino ai
denti. Ero abituata a saltare fuori dal letto pochi minuti dopo il
risveglio, ma quel lieve malessere mi impedì di farlo.
Rimasi sotto
le coperte a fissare il soffitto, almeno finché al piano di
sotto
non udii la porta di casa chiudersi dietro alle spalle di mia madre.
Volevo
attendere che
partisse per andare al lavoro prima di affrontare di nuovo la
lucidità del mondo, forse perché non avevo voglia
di parlare con
lei o forse perché semplicemente non volevo parlare con
nessuno. Mi
turbava l’idea di dover rendere conto degli avvenimenti della
sera
prima. Sapevo che mi aveva udita gridare e senz’altro mi
avrebbe
rivolto mille domande sul motivo per cui avevo avuto una notte
agitata. Ancora non trovavo la forza di affrontare
l’argomento con
qualcun altro che non fossi io, perché nella mia mente
già era in
corso un’accesa diatriba, un litigio psichico che non
risparmiava
colpi né ingiurie.
Dopo un
tempo che mi parve
interminabile mi feci coraggio e scesi di sotto a preparare la
colazione, tesa, fiacca ed irritabile come dopo una sbornia e ancora
più indispettita nel rendermi conto che era soprattutto
verso di me
che rivolgevo le mie ostilità.
L’incubo
di quella notte
e ciò che ne era derivato, il mio pavido rannicchiarmi sotto
le
coperte come la più patetica delle poppanti, il sudore
freddo sulla
pelle, l’immagine dei Demoni che mi era danzata davanti agli
occhi
come un miraggio per qualche minuto dopo il brusco risveglio,
contribuiva a farmi sentire estremamente ridicola. Non avevo mai
sognato nulla di simile, nulla di così vivido e preciso ed
era tutta
colpa mia e della mia sciocca preoccupazione a proposito di Samuel.
Anzi no, era colpa sua. Era lui che insisteva a volermi coinvolgere
nella sua pazzia e alla fine, sebbene non fosse stato in grado di
convincermi, ce l’aveva fatta a darmi il tormento con
pensieri
assurdi. Brutto stronzo di uno psicopatico.
Nella
sicurezza della mia
solitudine vagai da una stanza all’altra senza sapere davvero
che
cosa stessi facendo. Sfidai testardamente e con arroganza il mal di
testa, pulii la casa, feci due lavatrici e stesi il bucato con la
mente chissà dove e la voglia bruciante di prendere a calci
qualcuno. Di solito non era facile irritarmi, riuscivo a mantenere la
calma anche nei momenti più critici, ma quando mi si
guastava
l’umore era difficile ristabilire l’equilibrio
originario. Avrei
dovuto chiedere a Jenny qualche consiglio utile su come non lasciarsi
trascinare troppo dal nervosismo, lei era una maga in quel settore.
Persino
l’assenza di
dolore o di segni visibili a causa del morso del serpente
contribuì
a inasprire il mio umore. La sola idea che Samuel avesse avuto
ragione a impedirmi di consultare un medico mi faceva venire voglia
di prendermi a schiaffi.
Il tempo
massimo in cui
riuscii a resistere di fronte al televisore fu di un
mezz’ora, non
di più, a fissare senza entusiasmo programmi che non avevo
motivo di
guardare. L’ultima opzione fu quella di uscire di casa,
confidando
nella speranza o nell’illusione che una boccata
d’aria fresca mi
avrebbe aiutata a smaltire i cattivi pensieri come una sostanza
tossica espulsa dalla pelle, e forse a far dileguare il fastidioso
mal di testa che cominciava a farsi sentire. Mi vestii in fretta,
infilai in tasca un paio di biscotti secchi e l’iPod, e uscii
di
casa, pregustando il momento in cui avrei iniziato a correre nel
parco e ogni preoccupazione sarebbe scivolata via dalla mente. Sempre
che di preoccupazione si potesse parlare. Era quasi imbarazzante
essere così scossa da un semplice sogno, ma per quanto fosse
dura da
ammettere, era proprio così.
Il parco era
particolarmente affollato quella mattina, probabilmente per via della
piacevolezza della giornata. Il tempo invogliava a lasciare
l’intimità della propria casa per potersi
ritrovare in mezzo alla
natura, per quanto poco isolata dal resto della città. Corsi
fino a
sentire i muscoli bruciare e il sudore bagnarmi la fronte e la
schiena, nella speranza di espellere con esso anche quel senso di
spossatezza e di malattia. Poi mi lasciai cadere su una panchina
senza aver ottenuto grandi risultati. Inspirai a fondo per recuperare
il fiato divenuto corto per la fatica, prima di rendermi conto che,
per assurdo, mi ero proprio seduta sulla panchina che pochi giorni
prima aveva accolto me, Samuel e i nostri discorsi.
Sembrava
passato un secolo,
ma ricordavo bene quanto l’avevo guardato storto per tutte
quelle
idiozie. Ed ora eccomi lì, seduta proprio sulla stessa
panchina,
nello stesso punto del parco. Quasi mi aspettai di vederlo sbucare
fuori dal primo cespuglio, di nuovo, con un sorriso pacifico stampato
sul volto e la solita tranquillità di chi era certo di
essere dalla
parte della ragione.
Soffocai
quel po’ di
senso di colpa che mi punzecchiava il cuore e misi del tutto a tacere
i miei dubbi. Si era meritato il mio atteggiamento e le mie critiche,
ero riuscita ad ascoltare i suoi deliri mentali per un tempo maggiore
rispetto al necessario ed era giunto il momento di finirla,
soprattutto dopo ciò che era accaduto alla festa del quattro
luglio.
Vedermi così spaventata per il serpente, che fosse reale o
meno,
avrebbe dovuto fargli avere un atteggiamento più concreto,
invece
aveva liquidato il tutto come un'insidia di Hazaq. Era un segnale
piuttosto eloquente del fatto che anche Samuel era una minaccia per
me, che non importava ciò che sarebbe successo, non avrebbe
mai
preso seriamente nessun evento che mi riguardava e non avrebbe
considerato mai nulla con lucidità.
A proposito
di minacce,
dov’era finito Simon? Davvero mi vedeva come una partita
giocata
solo a metà? Come una sfida da cogliere e affrontare fino
alla fine?
Non ero molto convinta. Aveva la polizia alle calcagna, non poteva
esporsi senza rischiare di essere catturato o visto da qualche
testimone. Il fatto che ancora nessuno l’avesse avvistato mi
faceva
pensare che qualche amico lo proteggesse. Speravo ardentemente di non
sbagliarmi a proposito delle sue intenzioni, mi aggrappavo alla
convinzione che non mi stesse più dando la caccia,
perché se mi
fossi lasciata persuadere anche solo per un istante dalla
possibilità
che mi tenesse d’occhio in attesa del momento buono per
colpire, la
paura avrebbe avuto il sopravvento. Non dovevo permettere che una
cosa del genere accadesse, dovevo aver fiducia nelle forze
dell’ordine e nel fatto che ero una persona insignificante
per
Simon. Che cosa avrebbe guadagnato nell’uccidermi, se non una
soddisfazione personale per aver concluso il lavoro iniziato al
Mephisto?
Il semplice orgoglio non era sufficiente per affrontare la polizia,
addestrata ad acchiappare i criminali più incalliti.
Infilai le
dita in tasca e
afferrai i biscotti, osservando i passerotti zampettare allegramente
accanto ai miei piedi. Certo non osarono avvicinarsi più di
quanto
avessero fatto con Samuel, ma in qualche modo capirono che tra le
mani avevo qualcosa di interessante. Mi concessi qualche istante per
osservare le loro reazioni quando misi bene in mostra il cibo e per
essere certa di avere la loro completa attenzione. Uno di loro fece
qualche saltello, puntando verso di me i suoi occhietti completamente
neri e muovendo a scatti la testolina.
«Esatto,
un biscotto»
mormorai. «Un gustoso biscotto secco ai cereali. Una
delizia».
La mia voce
non li fece
volare via, la promessa di qualcosa da mettere sotto il becco era
più
forte di qualsiasi timore. Il più ardito si fece ancora un
po’ più
vicino e io lo premiai sbriciolando nel pugno il primo biscotto e
lanciandogli qualche briciola.
Lanciai i
restanti pezzetti
e osservai con interesse la loro gara a chi faceva prima a
raggiungere ogni frammento di biscotto, poi mi alzai e ritornai sui
miei passi.
La breve
uscita non aveva
sortito l’effetto sperato e se qualcosa avevo ottenuto, non
era
durato a lungo. La sgradevole sensazione di freddo e stanchezza non
era cessata, in più una punta di dolore alla nuca aveva
promosso il
disagio psichico a disagio fisico. Un salto di qualità che
non avevo
richiesto e a cui avrei fatto volentieri a meno.
Quando
rientrai in casa la
spia della segreteria telefonica all’ingresso mi
segnalò un nuovo
messaggio. Premetti qualche pulsante e come per magia la voce di
Louis riempii l’atrio. Capii subito che la sua chiamata aveva
uno
scopo dal modo in cui elaborò un affettato ed innaturale
preambolo.
Non era raro che mi chiedesse come me la passassi, ma nelle sue
parole c’era qualcosa di stonato e troppo artificioso per uno
come
lui. Quando lo richiamai misi subito in chiaro che non avevo bisogno
di tanti giri di parole per capire che c’era sotto qualcosa
di
losco.
«Taglia
corto, ragazzo.
Che cosa vuoi?» domandai, forse in modo un po’
troppo brusco, ma
la calma quel giorno non era il mio forte. Un lungo sospiro da parte
sua confermò i miei sospetti.
«Jude
ha richiamato».
«Davvero?
È fantastico,
avete fatto un’altra lunga chiacchierata?»
«Sì,
è un tipo in gamba,
mi trovo bene a parlare con lui…ma non è questo
il motivo per cui
ho telefonato». Attesi in silenzio qualche chiarimento, senza
sapere
bene il motivo per cui uno strano e cattivo presentimento mi
punzecchiasse lo stomaco.
«Mi
ha invitato a passare
una serata con lui al Mephisto».
Era impossibile non notare l’entusiasmo nella sua voce, un
sentimento quasi tangibile anche attraverso il ricevitore.
«Accidenti,
è una cosa
seria, spero che tu gli abbia detto di sì».
«Certo,
vado volentieri,
ma…»
«Ma
cosa, Louis, che cosa
non mi stai dicendo?»
«Ho
bisogno che tu venga
con me».
In
automatico la mia mente
ricreò immagini familiari di quella prima sera nel nuovo
locale e un
senso di claustrofobia insolito mi serrò la gola. Ogni cosa
che mi
era parsa un tocco di classe lì dentro oramai era solo un
dettaglio
che andava ad aggiungersi alla disastrosa piega presa dagli eventi.
«No Louis, non se ne parla».
«Ma
Amber, per favore! Ti
prego, prima ascoltami. So che cosa rappresenta per te quel locale, e
lo capisco, avrei chiesto a Jenny di accompagnarmi ma lo sai che
è
fuori città». Ah, giusto, Jenny era andata a
trovare sua sorella a
Santa Rosa. Non poteva scegliere un momento peggiore per lasciarmi da
sola col nostro amico.
«Allora
posticipa
l’appuntamento».
«Non
posso, mi ha chiesto
di passare domani sera. È già tanto che mi abbia
chiamato, non
voglio sfidare la sorte. E se poi crede che faccio il difficile e
cambia idea?»
Sai
che mi importa.
Fui tentata di rispondere, ma la ragione frenò le mie parole
prima
che potessero uscirmi dalle mie labbra e ferire. Certo che mi
importava, era Louis, era il mio migliore amico da praticamente tutta
la vita. Era ovvio che volevo vederlo felice, ma…
«Come
puoi chiedermi di
tornare? Io non... ecco, non so come potrebbe essere la mia reazione
appena metterò piede al Mephisto.
Non mi piace l’idea di tornarci, Louis».
«Lo
so…non ti sentiresti
a tuo agio nemmeno in mia compagnia? Ti prometto che rimarrò
con te,
se hai bisogno ti resterò attaccato come un fungo».
«Bella
immagine, poetica.
Ti ricordo che sei tu ad aver bisogno di me, non viceversa,
altrimenti non avresti chiamato. Hai pensato all’ipotesi che
Simon
potrebbe essere lì da quelle parti?»
«Scherzi
vero? Se fosse lì
Jude avrebbe senz’altro chiamato la polizia. Sono tutti
sconvolti
per quello che ti è successo».
Alzai gli
occhi al cielo.
«Come no, sbaglio o grazie a me gli affari vanno alla
grande?»
«È
solo una conseguenza,
Jude è molto dispiaciuto. Vedrai che ti farà
sentire a casa, è un
ragazzo molto carino…mi piace, Amber, e mi faresti un favore
se mi
accompagnassi. Non posso andare da solo, mio padre non mi
lascerà la
macchina e francamente un taxi mi verrebbe a costare buona parte del
contenuto del mio modesto portafogli». Trassi un profondo
sospiro,
lottando contro la voglia di inveire contro di lui. Non potevo farlo,
gli volevo bene, ma non volevo andare.
«Mia
madre darà di matto
quando lo saprà» tentai di giustificarmi. Era una
scusa, ma solo a
metà, perché non osavo immaginare quale sarebbe
stata la reazione
della donna. Già la prima volta senza sapere come sarebbe
andata a
finire aveva sbraitato che non era posto per una ragazzina come me,
ora era folle pensare che mi desse la sua benedizione.
«E
tu non dirglielo».
«La
fai facile tu».
«Lo
è. Digli che vieni a
casa mia e che facciamo una serata cinema io e te. Se ti chiede
spiegazioni digli che guardiamo, mmh…ma che ne so? Inventati
il
titolo di un film a caso, ma vedi di conoscerlo, così se ti
chiede
com’è stato puoi dargli qualche informazione sulla
trama».
«Dannazione,
hai pensato
proprio a tutto, vero?»
«Ho
una mente criminale,
tesoro, lo sai». Mio malgrado un sorriso mi spuntò
sulle labbra. La
sua invadenza mi infastidiva, ma paradossalmente riusciva anche a
divertirmi. Era sempre il mio Louis e io sapevo di non aver scampo.
«D’accordo,
ma solo per
questa volta. La prossima volta che ti chiede di incontrarvi ci vai
da solo».
«Grazie!
Vedrai che ci
divertiamo, è pur sempre un locale da urlo».
Sì,
da urlo. Nel senso che
mi sarei messa a urlare appena varcata la soglia?
«Scrivi
sull’agenda che
ti devo un favore» continuò il ragazzo. Da
lì non riuscivo a
vedere il suo sorriso, ma sapevo che era largo da un’orecchia
all’altra.
Ridacchiai.
«La mia agenda
è zeppa dei tuoi debiti, se non fosse per te non avrei mai
cominciato ad usarla».
Cominciai a
pentirmi della
mia decisione dal momento in cui riattaccai. Non avrei dovuto
accettare, ma era difficile negare un favore a Louis. Era come dire
di no ad un bambino di fronte alla bancarella dello zucchero filato,
perciò era inutile rimproverarmi, sapendo che già
dalla sua prima
supplica ero destinata a cedere.
Il resto
della giornata
trascorse lentamente e senza particolare significato per me. La cosa
più costruttiva fu progettare la cena, ma mamma avrebbe
mangiato in
ufficio quindi solamente per me non era un grande sforzo cucinare.
Mi ero
aspettata da un
momento all’altro che Samuel suonasse alla porta, rispuntando
dal
nulla dopo la mia scenata della sera prima, ma non si fece vedere. Di
lui non ci fu traccia nemmeno il giorno dopo, sebbene la mia
aspettativa fosse ancora più alta. Certo, non avrei saputo
cosa
dirgli ed era escluso che ritirassi le critiche che gli avevo
rivolto.
Cominciai a
prepararmi solo
mezz’ora prima di uscire, distrattamente e di mala voglia. Il
fatto
che mettessi poco entusiasmo in un’azione così
importante per la
maggior parte delle donne, la diceva lunga. Non andai nemmeno oltre
ad una maglietta e ad un paio di jeans per ricordare a me stessa che
non ero costretta a farmelo piacere per forza.
L’abbigliamento
sobrio aveva anche un secondo scopo, quello di passare inosservata di
fronte agli occhi di mia madre, rientrata a casa da poco e seduta sul
divano. Il suo mamma-radar si attivò all’istante e
la spinse ad
alzarsi e venirmi incontro.
«Dove
hai detto che vai?»
mormorò. Indossava degli occhiali che le davano
un’aria ancora più
inquietante, da severa professoressa universitaria.
«Veramente
non ho detto
niente». Mi sistemai il foulard giusto per ottenere qualche
istante
per riflettere e per scegliere un film da rifilare come scusa, ma
nella mente spuntarono solo titoli troppo scontati o abbastanza
vecchi da far sembrare un’assurdità tutta la
faccenda della serata
cinema. Era buffo come al momento del bisogno la memoria andasse in
tilt e si rifiutasse di guardarmi le spalle. Rimasi in silenzio non
avendo trovato nulla di originale da dire.
Qualcosa di
diverso
dall’imbarazzo si fece strada tra i miei pensieri, scacciando
ogni
traccia di patetica preoccupazione. Non avrebbe dovuto essere
così
difficile rifilare a mia madre qualche stupidaggine su ciò
che
volevo fare quella sera, anzi, potevo dire ciò che
preferivo. In più
dopo la convalescenza (nome che lei usava e che io aborrivo, ma che
funzionava per farsi compatire quando era necessario) mi avrebbe
permesso di andare quasi dove volevo. Quel quasi
aveva una nome preciso, un nome dalle sfumature vermiglie e che
cominciava con la M.
Ma…
era quello che volevo
fare? Dovevo davvero inventarmi una stupida balla solo
perché temevo
il giudizio di mia madre? E quando mai?
«Louis
mi ha chiesto di
accompagnarlo in un posto» dissi brevemente e senza
particolare
entusiasmo. «Non farò tardi». La vidi
annuire e rivolgermi un
sorriso più spontaneo e affabile del solito.
«D’accordo,
dove andate
di bello?» Ci
siamo.
Pensai. Vai
con il terzo grado.
Cercai di liquidare la questione con un gesto stizzito della mano, ma
il suo sguardo non ebbe il minimo cedimento. Avrebbe potuto lavorare
in polizia e specializzarsi nell’interrogare i sospetti. Mi
sentivo
sotto torchio, messa alle strette, e proprio come un animale in
trappola cominciai a innervosirmi.
«Al
Mephisto,
d’accordo? Ma è una cosa che interessa a Louis, io
non faccio
altro che accompagnarlo. Non farò tardi». I suoi
occhi
lampeggiarono di un principio di collera e di spalancarono. Prima che
dicesse qualsiasi cosa la anticipai.
«Per
l’amor del cielo,
non cominciare, so benissimo come la pensi e non ho bisogno di
sentire la tua opinione. Te lo ripeto, non ci andrei se non me
l’avesse chiesto Louis, ha bisogno di un passaggio e di
compagnia.
Non vorrai mica che ci vada da solo?» La sua voce
suonò risentita
proprio come l’avevo immaginata e la sua
prevedibilità mi
spazientì.
«Devi
esseri davvero
bevuta il cervello se pensi che ti lascerò andare»
esclamò.
Espressioni come bevuta
il cervello
non rientravano nel suo solito frasario, da quello capii che era
davvero incavolata. Avevo una pessima notizia per lei: anche io
cominciavo ad esserlo.
«Sì,
forse è così»
risposi con aria di sfida. «Perché è
esattamente quello che farò».
«Non
ti basta quello che è
successo l’ultima volta che hai fatto di testa tua? Ho
lasciato
perdere il colpo di testa di qualche giorno fa, ma te l’avevo
detto
che disobbedire non porta mai a niente di buono. Vuoi che accada
qualcosa di peggiore?»
«Cosa
dovrebbe succedere?
Quell’imbecille è ricercato dalla polizia, non
sono tutti
criminali a SoMa, a differenza di quello che pensi tu».
«Te
l’ho detto
chiaramente che non mi piace che frequenti quel quartiere,
né da
sola, né con i tuoi amici. La madre di Louis gli permette di
andare
dove vuole?»
Frenai un
grido di
frustrazione, ma dalle labbra uscì comunque un suono
strozzato di
stizza. «Che tu ci creda o no, non tutti i genitori sono
psicopatici
e morbosi come te».
Si tolse gli
occhiali e li
gettò sul divano, piantando le mani lungo i fianchi come una
guardia
reale. Era una posa che conoscevo bene e che le si addiceva alla
perfezione. Scosse la testa con aria quasi rassegnata.
«Mi
sto solo preoccupando
per te, nient’altro» Mormorò.
«No!
Mi stai addosso! Mi
programmi la vita e pretendi che faccia come dici tu, eppure passi la
maggior parte del tuo tempo fuori casa. Tu.
Non. Mi. Conosci».
Esclamai, scandendo bene ogni parola affinché fosse chiara.
La
rabbia mi stava montando dentro come un fiume in piena, pronto a
varcare con violenza i limiti imposti dagli argini e la testa pulsava
terribilmente. La pensavo come lei, per quanto ciò mi
infastidisse,
ma non aveva il diritto di trattarmi come una ragazzina ingenua
incapace di scegliere per se stessa.
«Ti
prego, Amber, non
tirare in campo il mio lavoro. Sai perfettamente che non mi impedisce
di avere a cuore la tua salute e di volere il meglio per te».
Annuii con
un mezzo
sorriso. «Certo, questo è quello che mi vuoi far
credere». Mi
infilai il copri spalle, feci un sospiro per calmare i nervi e mi
voltai per il secondo round. Non avrei ceduto e non avrei fatto
ancora le cose di nascosto. Sottili rughe le increspavano la fronte e
le guance erano accaldate dalla discussione.
«Ho
diciotto anni e so
badare a me stessa. È per questo che mi tieni con te,
giusto? Sono
come un canarino, mi basta un po’ di mangime e pochissime
attenzioni!»
Un sospiro
da parte sua mi
fece comprendere che stava ancora cercando di mantenere la calma.
«Non dire sciocchezze…»
«Ci
vediamo più tardi, o
domattina».
La congedai.
Feci per
incamminarmi verso la porta, ma lei mi trattenne afferrandomi il
braccio. «Ascoltami bene signorina, impara ad obbedire a tua
madre.
Tu non ci andrai, punto e basta!»
Ed eccolo
quel fiume di
rabbia, tanto violento da farmi gridare.
«Non
puoi fare la parte
della madre perfetta quando ti pare!» esclamai, gelida.
«Lascia che
ti confessi una cosa. Come genitore fai pena, l’unico motivo
per
cui ti sopporto è che ti vedo solo per un paio di ore al
giorno».
Diglielo.
Una voce nella mia testa prese a calci gli ultimi residui di buon
senso. Dille
tutto quello che pensi. Se lo merita.
Rimase in
silenzio e
sciolse la presa dal mio braccio come se fosse rimasta di colpo
scottata.
«Adesso
che c’è quel
belloccio, Leroy,
scommetto che le ore in ufficio ti sembreranno una gioia in confronto
a casa tua, vero? Ti ho vista fare la smorfiosa ieri sera, non
è un
po’ troppo giovane per te? Mi correggo, non è un
po’ troppo
giovane considerando quanto critichi papà per essersi messo
con
Trudy?»
«È
solo un collega!»
«Come
ti pare». Feci
qualche passo verso di lei. «Non mi importa di te e a te non
importa
di me, quindi perché ti scaldi tanto per questa
serata?» Ancora.
Feriscila ancora. È così che deve andare, lei non
ti ama. Non ti
vuole bene.
«Ma
che sciocchezze sono
queste? Certo che mi importa di te, sei mia figlia!»
«Certo,
quando ti fa
comodo!» Mi scoprii a voler alzare ancora di più
la voce, come
avevo visto fare a lei e a papà quando litigavano. Vinceva
chi
urlava di più, giusto?
«Anzi…»
Aggiunsi.
«…scommetto che potrebbe essere un bene per te se
mi fanno fuori.
Una bella liberazione, così potrai togliere anche le mie
foto da
questa casa e dimenticarmi, proprio come hai fatto con Chris».
Chiusi gli
occhi,
aspettandomi da un momento all’altro il rumore di uno
schiaffo e il
conseguente dolore bruciante al viso, ma non vi fu nulla. Quando li
riaprii l’espressione di mia madre mi fece desiderare di non
aver
mai pronunciato quella frase. Ogni traccia della precedente
autorità
era scomparsa dal suo volto, che parve sgretolarsi come un dipinto
ormai usurato dai secoli. All’improvviso mi parve
estremamente
vecchia.
Rimase
immobile, non fosse
per il respiro, più rapido rispetto a prima. Il colore era
defluito
in fretta dalle sue guance, lasciandola in un pallore quasi malsano.
Deglutii un paio di volte, come in preda ad una nausea improvvisa e
il suo sguardo, fino a poco prima determinato e intenzionato a non
lasciarmi nemmeno per un istante, cedette di fronte alla mia rabbia e
alla violenza delle ultime parole, di cui già mi pentivo. La
voce
che mi aveva spronato a liberarmi da quel peso sparì
vigliaccamente,
lasciandomi solo col ricordo di lei e con l’onere di
affrontare le
conseguenze. Nei pochi secondi di silenzio che seguirono, cercai le
parole per rimediare, ma la mia mente annaspava come in un pantano di
senso di colpa e collera.
Mamma non
attese le mie
mosse, le mani le scivolarono via dai fianchi, si schiarì la
voce e
mi superò senza dire niente. Qualche istante dopo sentii la
porta
della sua stanza chiudersi lentamente. Mi passai le mani sul volto,
mentre il mio respiro si regolarizzava dopo lo sfogo che non aveva
contribuito a calmarmi. Dopo quel breve istante di giustizia privata
sentivo ancora ogni muscolo in tensione.
Raggiunsi la
stanza di mia
madre e tesi l’orecchio, in ascolto. Nessun rumore faceva
pensare
che dentro ci fosse qualcuno. Alzai la mano per bussare, quando il
cellulare vibrò nella tasca, avvertendomi del ritardo.
Dove
sei???!!!
L’abbondanza
dell’interpunzione era tipica di Louis, soprattutto di un
Louis
impaziente. Mandai mentalmente al diavolo la donna, uscii di casa di
corsa quasi per paura di cambiare idea e salii in macchina,
scacciando ogni tentativo del mio cuore di dirmi che stavo
commettendo un altro errore.
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Capitolo 19 *** Capitolo 19 ***
«Ecco:
io vi mando come
pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e
semplici come le colombe»
Matteo, 10,
16.
19.
Sbattei
la porta di casa con tanta violenza che metà vicinato
probabilmente
riuscii a sentirla e feci altrettanto con quella della macchina, come
se produrre più rumore possibile mi aiutasse a tenere a bada
i
pensieri. Presi a pugni il volante fino a sentirmi ridicola, e quando
mi lasciai andare contro il sedile la negatività
tornò ad
insinuarsi lenta ed infida nella mia mente. Mi sentivo infantile a
permettere alle lacrime di avere la meglio, perciò frenai il
pianto
e mi concentrai sul mio respiro fino a rendere lui e il battito
cardiaco perfettamente regolari.
Ero riuscita
a farmi
rovinare ancora l’umore da quella donna, avevo giurato che
non
sarebbe più successo, che avrei sempre avuto la meglio,
invece anche
quella volta la lotta mi aveva lasciata con l’amaro in bocca
e due
tipi diversi di dolore ad intrecciarsi in una danza pericolosa per
darmi il tormento, fino a non permettermi più di distinguere
tra la
collera nei confronti di mia madre e la nostalgia bruciante per mio
fratello.
Lei aveva
condannato
Christopher all’oblio e io mi ero ripromessa di non
perdonarle
questo affronto. La prima notte senza di lui era stata durissima, una
veglia infinita, ma nulla in confronto all’amara scoperta
fatta il
mattino seguente.
Ogni foto di
Chris era
scomparsa, la felpa che fino al giorno prima era appesa accanto alla
porta d’ingresso era stata eliminata, le sue scarpe,
così come
ogni più piccola traccia della sua esistenza, erano state
rimosse.
Tutto tolto di mezzo, come gli effetti personali di un appestato.
L’istinto
mi aveva
suggerito di affrontare mia madre, ma non avevo neppure avuto il
bisogno di chiedere spiegazioni per quel gesto. Il gelo e la
negazione che le avevo letto negli occhi avevano parlato chiaro e mi
avevano fatto capire che non avrebbe accettato discussioni. Ancora
non sapevo con certezza il perché quelle foto erano svanite,
ma
bastava il solo pensiero per stringermi lo stomaco in una morsa di
risentimento e per farmi ribollire il sangue nelle vene. Ogni volta
che un torto mi spingeva a litigare con lei o ad avere una
discussione, quel ricordo mi sfiorava il cuore e l’odio mi
annebbiava la vista.
Che razza di
madre era?
Come poteva fingere che Chris non fosse mai venuto al mondo? Come
poteva ignorare l’esistenza di un ragazzo che era stato il
collante
della nostra famiglia? Ogni pasto, dal momento della sua morte in
avanti, era stato un concentrato di silenzio e pensieri inespressi,
fino alla rottura definitiva del matrimonio dei miei. Non potevo
biasimare papà per averla lasciata, dato che a stento la
sopportavo
io quand’era in casa.
In
un’infinità di
occasioni mi ero chiesta quando finalmente sarei stata in grado di
prendere il coraggio a due mani per sputarle addosso tutto il veleno
che i suoi comportamenti mi avevano fatto crescere
nell’animo.
Ora che mi
ero sfogata non
ero certa di esserne soddisfatta. Un nuovo tarlo mi rodeva i
pensieri, non mi ero aspettata da parte della donna una tale
reazione. Fino a quel momento l’avevo vista come una dama di
ferro
capace di resistere a qualsiasi emozione, invece per la prima volta
avevo scorto autentico dolore nel suo sguardo. Avevo passato
così
tanto tempo a vederla come un pezzo di ghiaccio che la consapevolezza
improvvisa che anche lei fosse umana mi aveva sconvolta. Non avrei
potuto sentirmi l’animo così in subbuglio nemmeno
se avesse
confermato le mie accuse.
Non
farti intenerire.
Mormorò una voce dentro di me. Lei
è il tuo nemico, non merita comprensione, né
perdono, né
gentilezza. Dovresti odiarla.
Sì,
avevo tutto il diritto
di provare rancore nei confronti di mia madre.
Ci impiegai
qualche minuto
a trovare la forza di accendere il motore dell’auto,
confortata dal
buio del garage e da quel bozzolo di silenzio in cui avrei voluto
accoccolarmi per tutta la sera. Un nuovo sms di Louis mi persuase che
era il momento di ritornare alla realtà e di scacciare con
forza
quei cattivi pensieri, e mi spronò a partire.
Quando il
ragazzo saltò
sul sedile del passeggero accanto a me, nemmeno il suo sorriso enorme
riuscii a contagiarmi e ogni tentativo di distrarlo dal mio cattivo
umore fu vano. Evidentemente mi si leggeva in fronte che qualcosa non
andava, perché dopo un piccolo monologo su quanto fosse
felice di
vedere ancora Jude, Louis iniziò ad indagare.
«Accidenti
che muso lungo.
Attenta che potrebbe infilartisi tra i pedali
dell’auto». Riuscì
a strapparmi un sorriso e quando si sporse verso di me per osservare
la mia reazione, un’ondata di profumo mi fece tossicchiare.
«Buona
la tua acqua di
colonia, ma non era necessario farcisi la doccia».
«Dicono
che acchiappa un
sacco. Dai, dimmi che succede». Si allacciò la
cintura di sicurezza
ancor prima che potessi intimargli di farlo, segno inequivocabile di
quanto si sforzasse di compiacermi. Gli raccontai tutto tralasciando
il dettaglio di me che uscivo di testa e che accusavo mia madre di
essere un genitore degenere, e da parte del mio amico ottenni una
pacca sul ginocchio e un tono comprensivo.
«Se
vuoi un parere da
parte dello zio Louis, prima di tutto non dovevi sprecare
così la
balla della serata cinema, e in secondo luogo non preoccuparti, anche
la prima volta la strega ha ringhiato, ma nulla di più. Ti
ha
perdonata, giusto? Non ti ha nemmeno messa in punizione, fosse mia
madre mi avrebbe fatto il sedere a strisce».
«Non
mi ha ammazzata
perché ci è quasi riuscito qualcun altro, ma non
pensare che non mi
abbia fatto pesare il mio colpo di testa. Non oso immaginare quanto
mi rinfaccerà questa litigata…e non ho usato la
scusa del film
perché non voglio dare spiegazioni. L’unica a
poter decidere per
me sono io». Mi ricordai di lei che si rifugiava in camera e
della
mestizia con cui non aveva reagito ai miei insulti. No…non
mi
avrebbe rinfacciato un bel niente, forse non mi avrebbe più
rivolto
la parola. Una stretta allo stomaco confermò i miei
sospetti: non
ero fiera del mio comportamento.
Rallentai e
mi fermai al
primo semaforo rosso, guardandomi intorno mentre Louis iniziava un
nuovo discorso e si dilungava sui suoi progetti per il futuro. Non
era la prima volta che ne parlavamo, ma le novità erano
poche. Come
capitava spesso con le questioni serie, le frasi erano sempre le
stesse. Suo padre voleva che andasse a lavorare, la madre sperava che
potesse studiare e diventare qualcuno di importante e Louis si
trovava tra l’incudine e il martello, nella totale
incapacità di
scegliere. Non era facile entrare in un’università
prestigiosa
senza snocciolare una quantità di soldi non indifferente, o
senza
ottenere una borsa di studio, e sapevo che forse i genitori di Louis
non volevano affrontare una spesa del genere. Le possibilità
di
studio erano altre, ovviamente, ma la titubanza del ragazzo non
aiutava a dare una svolta alla questione.
Una donna
anziana ed
ingobbita all’altro lato della strada gettò nel
cassonetto un
sacchetto dell’immondizia e tornò barcollando
all’ingresso della
sua casa. I suoi occhi si posarono per un istante su di me e le sue
labbra formarono una parola che attraverso i rumori della
città e il
finestrino mi giunse muta. Superba.
Dietro di me
qualcuno si
attaccò al clacson. Sobbalzai sul sedile e ripartii, notando
che il
semaforo era verde. Rivolsi un’altra occhiata alla donna, ma
feci
in tempo solo a scorgere la sua gonna scura sparire in casa.
«Tutto
bene, Amber? Sei
piuttosto distratta stasera, pensi ancora a tua madre?» Louis
mi
fissava preoccupato. I suoi capelli anche nella penombra della sera
apparivano perfettamente in ordine e il viso era come sempre liscio e
in naturale armonia con la fanciullezza dei suoi occhi. Mi sentii in
colpa per aver ignorato le sue parole.
Con un
sospiro etichettai
la vecchia come una pazza che parlava da sola e mi rimproverai per la
mia debolezza. Ora mancava solo che cominciassi a immaginare le cose.
Quel sogno mi aveva davvero sconvolto le idee.
Mi
giustificai dando la
colpa ad un gatto che aveva attirato la mia attenzione e proseguii in
silenzio il viaggio, finché non riuscii a trovare
parcheggio. Da lì
riuscii a scorgere la luna nelle ultime fasi della crescita e
l’insegna cremisi del Mephisto.
Come mi era
stato
raccontato, la clientela era cresciuta dall’ultima volta che
ero
stata lì, la si vedeva assiepata sotto l’insegna,
fumando,
saltellando distrattamente sul posto per scaldarsi o anche solo
prendendo una boccata d’aria in attesa di rientrare e
immergersi
nuovamente nel ritmo sfiancante della musica. Come un gruppo di
avvoltoi in pausa dopo una scorpacciata, ma non ancora del tutto
appagati e perciò pronti a rigettare ben presto i becchi
affilati
nella carcassa. Il paragone mi fece rabbrividire, o forse era
l’aria
fresca del mare a formarmi la pelle d’oca sulle braccia.
Riconobbi
subito il
buttafuori che avevo conosciuto l’altra volta e la ragazza
bionda
che a quanto pareva non gli si scollava di dosso nemmeno per un
istante. Quando mi vide, il rossetto rosso sangue si aprì a
rivelare
un sorriso smagliante. Dalle labbra le uscì uno sbuffo di
fumo, poi
ne prese un’altra boccata aspirando la sigaretta e facendo
brillare
la punta.
«Sei
tornata. Che
piacevole sorpresa» mormorò, e ad ogni parola il
fumo sfuggiva
dalla sua bocca in piccole volute. «Il Mephisto
fa quest’effetto a molte persone. Può capitare
qualsiasi cosa, ma
è difficile toglierselo dalla testa.
È…inebriante». Con un cenno
della testa si rivolte a Louis. «Jude ti aspetta di sotto,
è
impegnato al bancone, ma ha detto che sei un cliente
d’eccezione.
Questa sera è tutta vostra, ragazzi».
Ancheggiando
andò verso la
porta d’entrata, facendo risuonare i tacchi sul pavimento, e
ce la
tenne aperta in attesa che facessimo il nostro ingresso. Il suo
sguardo pesantemente incorniciato dal trucco nero si spostò
da me a
Louis con fare quasi divertito.
Ringraziammo
e scendemmo le
familiari scale. Superammo le mani di pietra e il lungo corridoio
decorato ad arte. I miei occhi, come mossi da volontà
indipendente
dal resto del corpo, si posarono sul dipinto che tra tutti gli altri
più mi aveva attratta e sconvolta. La miriade di dannati
straziati
dai demoni. Ormai dopo l’incubo di quella notte mi sembrava
quasi
di sentirli strillare e chiedere aiuto, di percepire il loro stesso
dolore, di essere diventata una di loro.
Nebbia e
musica ci
guidarono fino al bancone e Jude, non appena ci avvistò,
aggirò il
tavolo in pietra e corse verso di noi, baciandoci con affetto su
entrambe le guance e facendo arrossire Louis fino alle scarpe.
«Sono
davvero felice che
tu sia qui» esclamò. «Amber,
è un piacere vedere anche te.» Mi
posò la mano sulla spalla e si fece più vicino,
per sovrastare il
volume del brano.
«L’ultima
volta non ho
abbiamo avuto occasione di parlare molto quindi…beh, ti
chiedo
scusa per quello che è successo. È terribile
quando qualcosa di
tanto violento accade senza che nessuno possa evitarlo. Sono felice
che tu stia bene».
«Grazie,
sei molto
gentile». Louis mi guardò con il sorriso negli
occhi e
un’espressione che sembrava sussurrare: Te
l’avevo detto che era adorabile.
Il ragazzo
ci fece segno di
avvicinarci al bancone. «Prego, questa serata siete miei
ospiti,
potete avere tutto ciò che volete». Fece una
smorfia maliziosa che
regalò tutta al mio amico.
Rivestì
in fretta i panni
del perfetto e servizievole cameriere e noi occupammo due posti
liberi per miracolo. Di tanto in tanto aiutava i suoi colleghi a
servire il resto della clientela, ma non aveva mentito. Era come se
sulle magliette io e Louis avessimo scritto Vip
e che avessimo la priorità su tutto. C’era un che
di gratificante
nell’avere così tanta importanza ed ero felice per
Louis nel
constatare che Jude non gli toglieva gli occhi di dosso.
Dopo la
prima volta e il
colloquio con la polizia, mi sentivo in colpa ad assumere di nuovo
alcolici con Louis sotto la mia responsabilità,
perciò mi
accontentai di una bibita analcolica e osservai divertita Louis
approfittare della gentilezza del barista per scroccargli un paio di
drink. Jude ci assicurò che offriva la casa.
Un agente di
polizia
chiaramente incaricato di sorvegliare il locale dopo
l’incidente,
era seduto ai divanetti chiacchierando con due ragazze poco vestite.
Mi chiesi se la loro presenza lo distraesse, ma la risposta mi fu
subito chiara, vedendo i suoi occhi da pesce lesso. Gli uomini erano
pur sempre uomini, anche con una divisa addosso.
Addio
alla sicurezza.
Pensai. E
io dovrei fidarmi della polizia? Scommetto che agenti del genere non
riuscirebbero ad acciuffare Simon nemmeno se camminasse loro di
fronte.
Per quanto
fossi convinta
che quelle preoccupazioni fossero ben fondate, mi sforzai di non
farmi rovinare la serata da ulteriori angosce. Era tutto a posto, non
sarebbe successo nulla di male. Non una seconda volta.
Dopo una
mezz’ora Jude
lasciò il timone ad una collega e trascinò con se
Louis a giocare a
biliardo anche se era negato per quel genere di attività.
Rimasi a
guardarlo per un tempo che mi parve interminabile, aggrappata al mio
drink. Era tipico di Louis essere elettrizzato per qualsiasi cosa, ma
l’espressione che gli lessi nel volto era di pura gioia e
più
intensa del solito, anche quando avrebbe dovuto mantenere una certa
concentrazione per guadagnare punti al gioco. Jude era gentile e
paziente, di tanto in tanto gli posava una mano sulla schiena o sulla
spalla con fare premuroso, facendomi provare una stratta al cuore
ogni volta che notavo sul viso del mio migliore amico la reazione a
quei gesti. Mi interrogai un paio di volte se quello che provavo era
gelosia, ma avevo guardato con diffidenza le ragazze che lo trovavano
carino così tante volte che ormai sapevo riconoscerne i
sintomi o
escluderli.
Ero
sinceramente felice per
lui, con un retrogusto amaro di nostalgia come se quella serata
rappresentasse una svolta fondamentale da una fase all’altra
delle
nostre vite. Mi sentivo malinconica come una madre che si rendeva
conto che il proprio figlio era cresciuto e che presto se ne sarebbe
andato. Patetico, ma vero.
«Chiedo
scusa» una voce
soave, quasi incerta, distolse la mia attenzione dall’ultimo
tiro
di Louis, impedendomi di vedere il risultato. Quando mi voltai
incontrai il giovane viso di una ragazza e il suo sorriso appena
accennato. Con dita lunghe e sottili indicò la sedia
lasciata libera
dal mio amico.
«Questo
posto è
occupato?» Scossi la testa, in silenzio, guardandola di
sfuggita, ma
notando subito in lei qualcosa di familiare, senza tuttavia riuscire
a collocarla con precisione nella memoria. Un ragazzo ben piazzato
dai capelli biondi e tirati all’indietro con una passata di
gel
mormorò un ringraziamento e salì sullo sgabello
con un movimento
fluido, aiutando poi elegantemente la ragazza a sederglisi in grembo.
A quanto pareva, l’unica a non riuscire ad adagiarsi con
classe su
quegli alti trespoli ero io.
Ritornai a
Louis e alla sua
nuova carriera come giocatore di biliardo, tenendo il ritmo della
musica con le dita sulla pietra del bancone, ma l’immagine
della
ragazza era come un’interferenza fastidiosa nella mia mente.
Un
paio di volte sbirciai il suo profilo, le sue guance rosee e le sue
labbra in movimento, impegnate in una concitata conversazione.
L’entusiasmo sembrava quello tipico di chi si era lasciato
conquistare dallo stile particolare del Mephisto.
Quando
interruppe la
chiacchierata con il biondo per ordinare da bere, si accorse del mio
sguardo fisso su di sé e mi sorrise. «Qualcosa non
va?» chiese,
con gentilezza. Ebbi il buon senso di mostrarmi imbarazzata per
quell’invadenza da parte mia.
«Scusami,
non vorrei
sembrarti una maniaca». Lei ridacchiò, un suono di
campanelle
nell’inferno di quella confusione. «Non temere, di
maniaci ne ho
incontrati tanti e tu non ne hai l’aspetto. Temevo di avere
qualcosa in faccia». Si passò una mano pallida
sulla guancia, come
per scacciare un baffo di sugo dopo una scorpacciata di spaghetti.
«No,
affatto. Il tuo
aspetto mi è familiare, ci siamo già
incontrate?»
«Io
non ti ho mai vista,
ma forse tu hai visto me» spiegò, un istante prima
che il ragazzo
intervenisse nel discorso.
«Lei
è una modella».
«Oh,
io pensavo più che
altro ad una compagna dell’asilo o delle elementari, ma ecco
spiegato il mistero. Probabilmente ti ho visto su qualche rivista,
sempre che tu sia quel tipo di modella».
Si strinse
nelle spalle.
«Sono versatile, ho fatto un po’ di
tutto».
Annuii poco
convinta,
ancora intenta a collocare da qualche parte quei suoi capelli lunghi
fino alla vita, di un rosso tendente al castano. Mi sembrava di aver
visto cento volte quegli occhi tanto scuri da sembrare pozzi neri e
il tocco rosa sulle guance. O forse era la sua espressione vissuta,
quasi antica a trarmi in inganno. Una rivista patinata o cartelloni
pubblicitari non erano i mezzi migliori per la diffusione di una
bellezza così insolita. Il ragazzo accanto a lei non aveva
occhi che
per lei.
Me ne stetti
in disparte, a
tratti incapace per vicinanza a ignorare brandelli della
conversazione tra i due e a tratti catturata dal riflesso delle luci
stroboscopiche e dei corpi danzanti sulle bottiglie di liquore dietro
il bancone. I camerieri indossavano ancora i cornetti luminosi, come
piccoli diavoli da quattro soldi, piuttosto ridicoli tutto sommato,
ma se non altro erano utili per individuare i baristi nella penombra
delle fauci di Lucifero.
Dopo qualche
minuto
cominciai ad annoiarmi, dopo aver cercato in tutta la sala qualche
particolare degno della mia attenzione. In pista le mosse divennero
subito troppo ripetitive, il poliziotto aveva smesso di interessarmi
dal momento stesso in cui avevo capito che dopo le birre e i cocktail
che si era scolato non sarebbe stato in grado di distinguere il
sedere di un orso dalla sua stessa madre. Una delle due ragazze che
gli stavano addosso aveva il mento proprio sulla spalla di lui e
sembrava pendere dalle sue parole.
Louis
cominciò la seconda
partita, lanciandomi uno sguardo esultante e facendo ciao
ciao
con la mano. Mi sentivo la mamma paziente in attesa che il
figlioletto scendesse dalle giostre.
È
la sua serata.
Mi dissi. Non
devi divertirti per forza.
Era
così. La prima volta
che avevo messo piede lì dentro mi ero detta che non avevo
mai visto
un locale altrettanto favoloso e che mai avrei provato pari
entusiasmo per un altro luogo. Ero convinta che nessuno avrebbe mai
potuto convincermi del contrario, ma ogni minuto che passava perdeva
sempre più fascino ai miei occhi, sebbene non fosse cambiato
nulla.
«Non
sembri
particolarmente felice di essere qui. Non ti piace?» La
ragazza si
era sporta verso di me e mi fissava con occhi profondi e
inintelligibili, stringendo tra le mani un calice di vino rosso che
faceva roteare distrattamente. «Io adoro questo
posto».
«Piace
anche a me, sono
solo un po’ pensierosa».
«Qualcosa
ti affligge, mia
cara?»
«Niente
di serio. Sto
guardando il mio amico giocare, laggiù. Diciamo che sono la
sua
accompagnatrice». Il biondo attese che finissi la coca cola,
poi mi
rivolse un ampio sorriso. «Ti unisci a noi per un
po’ di vino?»
«Servizio
taxi, stasera.
Non posso bere alcol, ma grazie».
«Dannate
regole»
commentò, senza insistere troppo. Era incredibile quanto
quella
conversazione assomigliasse a quella tenuta con Simon, ma quella
volta ero ben intenzionata a non trasgredire le regole. Se per uno
scherzo del destino mi avesse fermato la polizia per un controllo,
quella sera, dovevo essere pura e immacolata come un angelo,
altrimenti sì che mia madre mi avrebbe appesa al muro.
Con una
stretta allo
stomaco il ricordo di lei che fuggiva da me mi fece ricadere nel
senso di colpa. Era ancora in camera? Aveva provato a chiamarmi?
Lì
dentro non c’era campo, mi ripromisi di controllare appena
uscita.
Non che avessi intenzione di parlare con lei, ma volevo sapere se
aveva giocato tutte le sue carte per convincermi a non andare.
«Non
ci siamo presentati».
La ragazza mi tese la mano. «Mi chiamo Mary Elizabeth, e lui
è
Kevin, il mio compagno. Ma tu puoi anche chiamarmi Ofelia, ormai
è
un soprannome che usano tutti i miei amici. Buffo, ma sono conosciuta
più con questo appellativo che con il mio vero nome,
papà non
sarebbe contento dopo tutti gli sforzi per trovarne uno».
Avvicinò
il calice al naso minuto e inspirò profondamente, poi ne
prese un
piccolo sorso e sorrise. «Delizioso».
«Perché
ti chiamano
Ofelia?» chiesi, curiosamente.
«Un
artista lo ha scelto
come soprannome per me, qualche anno fa. È un personaggio
che lo
affascinava molto, ne era quasi ossessionato».
«Era?»
«È
morto».
«Povero
John» sentenziò
Kevin. Poi scoppiò a ridere, seguito a ruota da lei, senza
che ne
comprendessi bene il motivo. Immaginai che mi stessero prendendo
amichevolmente in giro, ma il senso di quella battuta a dire il vero,
non mi era chiaro. Comportamento tipico degli amanti, crearsi un
mondo di riferimenti tutto loro. Mi schiarii la voce, un poco a
disagio.
«Beh,
Ofelia è un bel
nome. Evocativo» mi trovai a dire semplicemente, facendo
saltellare
i rimasugli di ghiaccio nel bicchiere. Mary Elizabeth, o Ofelia,
vuotò il calice e alzò il dito per farsene
portare un altro. Al suo
gesto un cameriere si mosse alla svelta per soddisfare la richiesta,
come se nel locale ci fosse solo lei. Il fascino poteva essere utile
anche per quello.
«È
la prima volta che
vieni qui…come hai detto che ti chiami?»
«Amber.
No, sono stata qui
un po’ di tempo fa…» fui sul punto di
dire che la prima volta
non era andata molto bene, ma mi trattenni. Non avevo bisogno dei
loro occhi fissi sul foulard. «Ma è difficile
apprezzarlo in una
sola uscita».
Kevin
batté una mano sul
bancone. «Concordo!» Esclamò.
«San Francisco offre molto, ma il
Mephisto
era quello che ci voleva. Dico, avete visto i dipinti?»
«E
gli specchi?» fece
Ofelia, quasi completando i pensieri del suo ragazzo.
«L’esempio
perfetto
della bellezza estetica».
«Ho
sentito di qualche
prete che ha protestato».
Feci uno
sbuffo e mi
strinsi nelle spalle. «Quando mai loro non protestano per
qualcosa
che non sia uscito dalle loro divine bocche?»
«Già,
come se potesse
succedere qualcosa di male a divertirsi un po’. Se il locale
avesse
a che fare con angioletti puri e santi nessuno ci metterebbe piede.
Sai che noia!» Kevin strinse la ragazza un po’
più a sé,
posandole la guancia sul braccio, ma fissando me.
«Beh,
in effetti qualcosa
è successo» disse con fare cospiratorio.
«Ho sentito che circa una
settimana fa è avvenuto un incidente nei bagni».
Abbassai lo
sguardo,
sperando che il mio viso divenisse d’improvviso
imperscrutabile.
Feci finta di nulla e mi schiarii la voce.
«Davvero?»
Ofelia
annuì con un
sorrisino. «Una ragazza è stata aggredita, dicono
con un coccio di
bottiglia. Un modo piuttosto rozzo per fare del male a
qualcuno».
«E
sporco» aggiunse il
biondo. «C’era sangue ovunque, mi stupisce che non
sia morta».
Ofelia mi
fissò con gli
occhi che brillavano. «Mi stupisce maggiormente che Hazaq non
abbia
finito il lavoro».
Alle sue
parole mi sentii
mancare. Mi afferrai al tavolo per non crollare dalla sedia e
inspirai a fondo. La testa mi ronzava e quel nome riecheggiò
tra i
miei pensieri come uno sparo.
«Come
hai detto scusa?»
Avevo capito male, dovevo per forza aver capito male. Mi sporsi verso
i due e ripetei la domanda, alzando la voce. Kevin non rispose,
impegnato a ridacchiare contro il fianco della giovane, ma lei
mantenne una certa serietà, non fosse per un sorriso
malvagio che le
increspava le labbra rosate.
Allungò
una mano verso di
me, sfiorandomi la fronte con la punta delle dita. Quel semplice
contatto bastò a raggelarmi, aggiunto alla delizia che le
leggevo
negli occhi.
«Hai
capito bene. Non ha
finito il lavoro, ma le ha aperto un bel sorriso nella
gola…pardon,
ti
ha aperto un bel sorriso nella gola, Amber Hale, e io non vedo
l’ora
di vedere la fine di questo giochetto».
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