La sua salvezza

di Tury
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incontri ***
Capitolo 2: *** Regali ***
Capitolo 3: *** Di promesse fragili come ali di farfalla ***
Capitolo 4: *** AVVISO! ***
Capitolo 5: *** Il mio nome è Regina ***
Capitolo 6: *** Pirati ***
Capitolo 7: *** Tenebre di luce ***
Capitolo 8: *** Un dolore che vale la pena provare ***
Capitolo 9: *** La regina cattiva e Biancaneve ***



Capitolo 1
*** Incontri ***


Buonasera a tutti. Inizio subito col dire che i contenuti di questa storia potrebbero far pensare ad una SwanQueen. Non so, precisamente, se si possa definire tale, dato che il contesto in cui è ambientata questa storia è un contesto abbastanza delicato, come leggerete voi stessi. Detto questo, lascio libera interpretazione. Con la speranza che il messaggio che voglio trasmette con questa storia possa arrivare chiaro e forte. Detto questo, buona lettura



“No.”
Emma Swan era abituata alle titubanze, le apprensioni e le paure dei suoi pazienti. Ma mai, prima di allora, si era imbattuta in una tale ferrea decisione, racchiusa in un’unica sillaba.
Si tolse gli occhiali dalla montatura nera e si passò due dita ai lati del naso con fare stanco, esattamente dove svettavano i segni lasciati dagli occhiali.
“Signora Mills, sarò sincera, questa è la sua unica possibilità di salvezza.”
“Non ha importanza.” Rispose la donna.
“Posso chiederle il motivo di questa sua decisione?”
Regina Mills restò qualche secondo a guardare quegli occhi verdi. Verdi come la speranza. Ma per lei, ormai, la speranza era solo un’illusione.
“I trattamenti che lei mi ha proposto comporterebbero una conseguenza che non credo di voler accettare.”
“Io non le ho proposto alcun trattamento, signora Mills. Non c’è nulla da proporre, o fa ciò che le ho detto o andrà incontro all’unica soluzione che le resta. Quella su cui nessun umano può agire.”
Emma Swan era perfettamente cosciente del fatto che nessun medico potesse costringere qualcuno a fare una scelta che non implicasse anche la volontà del paziente. Ma lei era una donna che si lasciava guidare spesso dall’istinto. E il suo istinto l’aveva sempre guidata su un’unica via, quella della salvezza.
“Vorrà dire che accetterò le conseguenze delle mie azioni.”
Emma Swan puntò il suo sguardo severo in quello scuro della donna, che sentì il peso di quegli occhi su di lei. Occhi luminosi, pieni di vita. Una vita che, lentamente, stava scivolando via da lei.
“Posso sapere almeno il motivo di questa sua decisione?”
Regina sembrò pensarci qualche secondo, prima di rispondere.
“Non voglio perdere i capelli.”
Emma le sorrise, ben cosciente di quella paura che attanagliava tutte le sue pazienti. Una paura che sapeva di poter affrontare e distruggere. O almeno, lo aveva creduto fino a quel momento.
“Non si preoccupi, è una cosa normale provare questa paura. Ma esistono ottimi negozi che vendono parrucche, anche con capelli ve…”
“Ho detto di no. Credevo di esser stata chiara, dottoressa Swan.”
Emma tornò a puntare i suoi occhi in quelli della donna.
“Perché?” chiese semplicemente.
La donna incrociò le braccia al petto, sostenendo quello sguardo. Una nuova sfumatura si era aggiunta a quelle già presenti nelle iridi del giovane medico. Era qualcosa del colore della determinazione. Regina capì in quell’istante che non le sarebbe stato facile sottrarsi al volere della donna.
“Credevo di essere stata chiara.”
Emma si sistemò meglio sulla sedia del suo studio e iniziò a giocare con la sua penna, concentrando su di essa tutta la sua attenzione.
“Vedrò di essere più esplicita, signora Mills. Perché non ammette di aver paura?” chiese, tornando a guardarla.
La donna avvertì un brivido percorrerle la schiena nell’udire quella domanda. Convinta, ormai, che la donna che le stava di fronte non si sarebbe mai arresa, decise di fare ciò che faceva sempre. Scappare.
“La ringrazio per l’interessamento, dottoressa, ma non farò nulla di ciò che ha detto. Con il suo permesso, tolgo il disturbo, così il tempo che sta perdendo con me potrà usarlo per salvare qualcun altro.” Disse, alzandosi e dirigendosi verso la porta.
Ma Emma fu più veloce di lei, comprendendo in un attimo le sue intenzioni. Chiuse di scatto la porta e si poggiò contro di essa, eliminando qualsiasi possibilità di fuga.
“Che cosa significa?”
“Significa che non si perde mai tempo nel cercare di salvare qualcuno. Per questo motivo, lei non lascerà questa stanza.”
“È una minaccia?”
“Lo prenda come un aiuto.”
“Un aiuto? E per cosa?”
“Io non la lascerò…”
“Uscire da questa stanza? Sì, me l’ha già detto.” La interruppe Regina.
“Morire.” Concluse Emma.
La donna la guardò con un ghigno sul volto, senza scomporsi minimamente.
“Sa, dottoressa, mi piacerebbe crederle, ma sappiamo entrambe che la mia guarigione è legata solo alla fortuna e, se permette, la vita è mia e non mi va di viverla stando in bilico tra numeri probabilistici e casi fortuiti. Quindi le chiedo, per l’ennesima volta, di lasciarmi andare.”
Emma, di risposta alla richiesta della donna, si portò una mano dietro la schiena, facendo scattare la serratura, per poi sfilare la chiave e infilarla nella piccola tasca superiore del camice.
“Diceva, signora Mills?” disse, con un sorriso soddisfatto sul volto, notando la sfumatura che si era impossessata degli occhi della donna.
Emma Swan non era il tipo di persona che si lasciasse intimorire per così poco. In fondo, non lo era mai stata.
“Mi faccia uscire o io…”
“Mi accuserà di sequestro di persona?- la interruppe prontamente il medico- Vede, signora Mills, quattro anni fa ho fatto un giuramento, un giuramento molto importante per un medico. Ed è in nome di quel giuramento che io non posso lasciarla andare. Sceglierò il regime per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio, e mi asterrò dal recar danno e offesa. Non somministrerò a nessuno, neppure se richiesto, alcun farmaco mortale, e non prenderò mai un' iniziativa del genere; e neppure fornirò mai a una donna un mezzo per procurare l'aborto. Conserverò pia e pura la mia vita e la mia arte.” Terminò Emma, avendo cura di citare il testo antico e non quello moderno. La dottoressa Swan era infatti dell’idea che in quello antico risiedesse il vero spirito di Ippocrate e trovava la nuova versione scialba e monotona. Lettere buttate al vento, prive di un vero intento e di un vero significato.
“Belle parole, devo ammetterlo, ma che non sortiranno alcun effetto. Ho detto di no, dottoressa, e la mia decisione non cambierà.”
“Di cosa ha paura?”
“Non capirebbe.”
“Ci provi.”
“Non ne ho alcuna voglia.” Terminò la donna, avvicinandosi alla dottoressa e prendendole una spalla, con la chiara intenzione di volerla spostare dalla porta per poter uscire.
Con un scatto deciso, Emma afferrò il polso della donna e portò la mano lontano dalla sua spalla.
“Ho detto ci provi.” Ribadì.
La donna fissò il suo sguardo iroso in quello luminoso della dottoressa.
“Cosa vorrebbe capire, lei? La sua conoscenza è tutta basata sulla teoria, basata sullo studio di microrganismi e cellule. Cosa ne sa, lei, della vita che si cela dietro tutto questo?”
“Forse ne so più di quanto crede e, se anche non ne sapessi nulla, lei potrebbe spiegarmelo. Sa, possediamo le orecchie proprio per poter ascoltare, oltre che per l’equilibrio.” Le sorrise Emma.
“Equilibrio?” chiese scettica Regina.
“Non è sorprendente?”
“Cosa?”
“Il fatto che proprio il nostro orecchio sia la sede del nostro equilibrio. Una perfetta visione del mondo.”
“Cosa intende dire?”
“Che se imparassimo ad ascoltare le tacite richieste di aiuto di tutti coloro che incontriamo in questa nostra esistenza, sapremmo destrarci meglio nella nostra vita. Con più equilibrio, per la precisione.”
Regina capì perfettamente quali erano le intenzioni della dottoressa. Voleva che si aprisse con lei, che si mettesse a nudo davanti a quegli occhi così chiari. Ma lei non l’aveva mai fatto con nessuno e non l’avrebbe fatto ora.
“Grazie per la spiegazione, dottoressa Swan. Ora, con il suo permesso, vorrei passare.”
“Perché?” chiese per l’ennesima volta Emma.
“Perché, semplicemente, non è lei la malata tra le due. Tutte le sue belle parole potranno risollevare il morale dei suoi pazienti, ma non il mio, dottoressa. Vede, tra le due, sarò io quella a perdere i capelli, io quella che dovrà fare i conti con i conati di vomito, io che dimagrirò, divenendo lo spettro di me stessa. Lei potrà stare lì, ad osservare il mio lento declino, ma non potrà mai sapere cosa si prova, anche se mi guardasse ogni secondo, anche se ascoltasse sempre le mie parole. Lei non saprà mai cosa si prova a sottoporsi a quelle torture che lei continua a chiamare trattamenti terapeutici. La pratica e la teoria non sono mai andate a braccetto, o ci si vota all’una o ci si vota all’altra. Lei saprà sicuramente tutta la teoria di questo mondo, ma è la mia esperienza che lei non conoscerà mai. E poi, mi creda, non mancherei a nessuno, dunque perché sprecare il suo tempo con me?”
L’aria si riempì del suono di quel colpo sferrato da Emma. Gli occhi di Regina erano ancora sbarrati per la sorpresa, un filo di sangue che colava ai lati della bocca, il volto girato da un lato. Con una lentezza quasi disumana raddrizzò il volto e si portò una mano alle labbra, venendo subito a contatto con il liquido vischioso. Posò lo sguardo sui suoi polpastrelli, decorati con stille di sangue, prima di volgerlo nuovamente alla dottoressa che le stava di fronte, riservandole tutto l’odio che nutriva in quel momento. E, senza pensarci due volte, le restituì il colpo appena incassato, cercando di colpirla con quanta forza avesse in corpo. Emma si aspettava quella reazione, ma mai avrebbe immaginato che la donna possedesse una tal forza ma, soprattutto, una tale velocità. E così, il pugno non solo colpì la sua mandibola, ma riuscì anche a farla cadere, allontanandola finalmente dalla porta.
Regina si avvicinò alla donna ed estrasse dalla tasca la chiave dello studio.
“Questa, se non le dispiace, la prendo io.” Le disse a pochi centimetri dal volto, per poi allontanarsi verso la porta, far scattare la serratura e, finalmente, uscire da quello studio che era divenuto la sua prigione negli ultimi minuti.
Emma la guardò uscire, impotente.
“Diamine!” disse, colpendo il muro alle sue spalle con un pugno, procurandosi una fitta di dolore. Fitta che fu completamente ignorata, mentre le lacrime ormai scendevano copiose dai suoi occhi. Emma si portò le gambe al petto e poggiò la testa sulle sue ginocchia, dando libero sfogo alla sua frustrazione con quel pianto silenzioso. L’idea di non essere riuscita a trattenere quella donna, di non essere stata capace di aiutarla, la stava letteralmente divorando. Perché non poteva credere che lei, Emma Swan, la giovane dottoressa che aveva votato la sua vita alla salvezza del suo prossimo, non fosse stata capace di salvare quella donna da se stessa.
 
Regina Mills camminava con passo svelto nei corridoi dell’ospedale, desiderosa di allontanarsi il prima possibile da quella struttura. Solo quando giunse nella hall dell’ingresso, si accorse di aver dimenticato la sua borsa nello studio della dottoressa.
Inclinò la testa all’indietro e socchiuse gli occhi, sospirando. Sapeva che se fosse tornata indietro avrebbe dovuto discutere nuovamente con quella donna e, magari, ricorrere nuovamente alle maniere forti per poter passare, ma non aveva altra scelta. In quella borsa, c’erano le chiavi della sua auto, senza la quale non sarebbe mai potuta tornare a casa. Fece un profondo respiro e si voltò, tornando sui propri passi, dirigendosi nuovamente verso lo studio di Emma Swan.
Quando giunse alla porta, notò che questa era leggermente aperta, esattamente come l’aveva lasciata. Stava per aprirla completamente, ma un suono la fece desistere. Qualcuno stava piangendo. Si sporse quanto bastava per comprendere di chi si trattasse, finché non la vide, seduta esattamente nel punto in cui l’aveva lasciata, il capo chino sulle ginocchia per nascondere il volto. Regina si sorprese di vedere la giovane dottoressa in quello stato. Era completamente diversa dalla giovane donna con cui aveva parlato qualche minuto prima, una nuova Emma Swan. Guardò la scrivania della dottoressa, in cerca della sua borsa, e finalmente la vide. Decise, però, di non entrare. Non voleva disturbare Emma in quel momento, come timorosa di infrangere il suo spazio. E lei, di spazi vuoti e rotti, ne sapeva parecchio. Restò ancora qualche secondo a guardare la giovane donna, dopodiché si allontanò, cercando di ridurre il più possibile il rumore dei suoi passi. Per quel giorno, sarebbe tornata a casa a piedi, anche se il suo appartamento distava dieci chilometri. Poco male, un po’ di attività fisica non aveva mai ucciso nessuno, dopotutto.
 
Emma rimase ancora qualche minuto in quella posizione, persa nei suoi pensieri, finché non sentì un rumore di passi. Alzò lo sguardo verso la porta ma non vide nessuno. Decise, quindi di andare a controllare se ci fosse qualcuno nel corridoio, ma anche questa volta non trovò nessuno. Scosse piano la testa, convinta di essersi impressionata. Fu solo quando tornò alla sua scrivania che la vide. Una borsa di pelle nera, dal gusto classico. Emma si sedette sulla sua sedia, incrociando le mani sotto il mento, gli occhi puntati sull’oggetto. Sarebbe stato inutile aprirla e controllare i documenti, per risalire all’identità della sua proprietaria. Sapeva perfettamente a quale delle sue pazienti apparteneva. Chiuse gli occhi e lasciò uscire un sospiro dalle sue labbra. A quanto pare, si sarebbe dovuta confrontare nuovamente con Regina Mills. Si chiese se quella dimenticanza non fosse un segno del destino, la base per un nuovo incontro. O una nuova battaglia, come si ritrovò a pensare. Una battaglia che non era sicura di poter vincere, visti i recenti risultati che aveva avuto con quella donna. Emma sospirò nuovamente, prendendo la borsa e poggiandola vicino alla sua. Decise di accantonare quei pensieri, per il momento. Ora, doveva concentrarsi solo sul presente. E così, con una determinazione rinnovata, chiamò il nome del prossimo paziente. Un sorriso svettava nuovamente sulle sue labbra.
Emma congedò con la sua solita gentilezza anche l’ultimo paziente di quella giornata. Sbottonò il camice e lo appese sull’appendiabiti del suo studio, prese il suo zaino e si soffermò alcuni secondi a guardare quella borsa, indecisa se lasciarla lì o portarla a casa con sé. Optò per la seconda opzione e, presa anche quella, si diresse verso l’entrata dell’ospedale, salutando chiunque incrociasse la sua strada. Infine, entrò nella sua auto e guidò fino al suo appartamento, cercando di impedire ai suoi pensieri di accavallarsi nella sua mente. Quando, finalmente, giunse nel suo appartamento, si fiondò subito nella sua camera da letto, lasciando il suo zaino a terra e poggiando la borsa sul letto, stanca come non mai. Emma Swan era abituata agli orari frenetici dell’ospedale ed era raro che una tale spossatezza si impossessasse di lei, nonostante lei spendesse tutte le sue energie per tutti i suoi pazienti, in egual misura. Il problema era che, solitamente, quelle energie le venivano restituite sotto forma di sorrisi o attraverso la gratitudine di quelle persone. Ma, quel giorno, aveva incontrato un ostacolo più duro del previsto e, inevitabilmente, era caduta. E lei sapeva che, nella sua professione, le cadute non erano tollerate. O, almeno, nel percorso professionale che lei aveva deciso per se stessa. Con uno sforzo disumano, decise di alzarsi e dirigersi in bagno, per potersi fare una doccia, in modo da alleviare la stanchezza di quella giornata. Ma quando vide il suo riflesso nello specchio, tutto intorno a lei si fermò, mentre un sorriso tornava a regnare sul suo volto e gli occhi brillavano di nuovo di determinazione. Forse, quella dimenticanza era stata davvero un segno del destino. E, forse, lei poteva vincere quella battaglia. Perché, adesso, sapeva cosa fare.

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Capitolo 2
*** Regali ***


Il mattino seguente, i corridoi dell’ospedale risuonarono nuovamente dei passi di Regina Mills, diretti allo studio della dottoressa Swan. Quando la donna aprì la porta, senza bussare, Emma non alzò nemmeno lo sguardo dai fogli che occupavano la sua scrivania.
“Se cerca la sua borsa, può trovarla accanto alla porta.” Le disse.
Regina rimase immobile sull’uscio, lo sguardo fisso sulla donna che le stava di fronte, incapace di comprendere se la sua stasi momentanea fosse causata dal fatto che l’altra l’avesse completamente ignorata o dalla vista di quella cuffietta che contornava il capo della dottoressa. Per un attimo, si domandò come quella chioma dorata potesse esser costretta in quel piccolo spazio, senza dare alcun accenno della sua presenza.
Regina decise di lasciar perdere questi pensieri e abbassò lo sguardo, trovando la borsa esattamente dove aveva detto Emma.
“C’è anche un’altra borsa, è sua anche quella.” Continuò la dottoressa, continuando a prestare fin troppa attenzione ai fogli e fin troppo poca alla donna sull’uscio.
“Di che si tratta?” chiese Regina.
“La apra e lo vedrà lei stessa.”
“Potrebbe quantomeno guardarmi mentre mi parla.”
“No.” Rispose semplicemente Emma.
“Scusi?” chiese Regina, una nota di nervosismo nella voce.
“L’ha detto lei stessa, è inutile che io perda tempo con lei quando potrei salvare altre vite. Sto semplicemente seguendo il suo consiglio.” Rispose la dottoressa, senza alzare mai lo sguardo.
Regina rimase per qualche secondo in silenzio, colpita da quelle parole, forse perché una parte di lei aveva sperato. Aveva sperato che qualcuno credesse che ne sarebbe valsa la pena.
Un respiro impercettibile abbandonò le sue labbra, prima di abbassarsi a raccogliere la borsa che le aveva indicato Emma. Quando la aprì per rivelarne il contenuto, il respiro le si bloccò in gola. Restò qualche secondo immobile, la borsa stretta tra le mani e gli occhi spalancati. Infine, decise di spostare la sua attenzione sulla figura della dottoressa. Emma era seduta sulla scrivania e non portava più la cuffietta. La donna si domandò da quanto tempo era seduta a guardarla, dato che non aveva avvertito nemmeno il minimo rumore, ma ignorò questo pensiero, decisa ad aggrapparsi ad altri ben più seri. Perché non riusciva a comprendere ciò che i suoi occhi le mostravano.
“È uno scherzo?”
“Se avessi creduto che il campo delle neoplasie fosse uno scherzo, non avrei mai scelto la strada dell’oncologia, signora Mills.” La voce di Emma era di una calma quasi surreale.
“Cosa significa tutto questo?”
“Lei ieri mi ha detto di non volersi sottoporre ai trattamenti per non perdere i capelli. Io comprendo la sua paura, signora Mills, ma credo ci siano altre motivazioni che la spingano a rifiutare, motivazioni che lei non ha voluto confessarmi. Non sono qui per chiederle di aprirsi con me, perché sappiamo entrambe che questo non succederà mai. Sono qui per metterla davanti alla realtà dei fatti.”
“E quale sarebbe?”
“Vede, signora Mills, lei non solo possiede i suoi capelli, ma ora possiede anche i miei, contenuti in quella borsa che stringe tra le mani. Adesso, seguendo il suo ragionamento, lei dovrebbe avere una forza tale da potermi fermare, perché possiede anche la mia, di forza. Ma la verità, signora Mills, è che a me non importa. Non mi importa mostrarmi davanti ai suoi occhi in questo stato, non mi importa se quei capelli, fatti crescere con tanta cura, ora giacciano tra le sue mani. Perché la verità, signora Mills, è che la mia forza non è mutata, che io non sono mutata. Io continuo ad essere Emma Swan, anche se non ho più i capelli. Ma, soprattutto, io continuo ad essere più forte di lei.”
Regina tornò a guardare i capelli all’interno della borsa, incapace di credere a quanto stesse accadendo.
“Cosa significa tutto questo?” chiese, rivolgendo di nuovo l’attenzione alla dottoressa Swan.
“Praticamente nulla.”
“Cosa intende dire?” chiese la donna, sempre più confusa.
“Quello che ho detto. Vede, per me, essermi privata dei capelli non significa nulla. È un gesto privo di ogni significato e di qualsiasi fine. L’unica persona che può dare un senso a questo mio gesto è lei, signora Mills. Quindi, adesso, sarò io a porle la stessa domanda. Cosa significa tutto questo per lei?”
Regina si soffermò a guardare gli occhi della donna, quegli occhi sempre così vivi. Pensò al loro primo incontro, avvenuto solo il giorno prima, quando si era aggrappata all’idea che la luce emanata da quel volto fosse il risultato di una moltitudine di particolari che coesistevano insieme. Ma ora che la vedeva così, senza capelli, anche quell’unica consolazione le era crollata e doveva fare i conti con la dura realtà, esattamente come aveva detto la donna. Perché, nonostante l’assenza dei capelli, il suo volto continuava a brillare. Forse anche più di prima.
“Sono venuta solo per riprendere la borsa, dottoressa.” Disse, infine.
“Ne ero certa.” Rispose Emma, senza scomporsi.
“Bene, allora io vado. Buona giornata.”
“Buona giornata a lei, signora Mills.” Rispose la donna.
Regina recuperò la sua borsa e uscì dallo studio, sostando qualche secondo fuori la porta e domandandosi come mai, questa volta, la dottoressa Swan l’avesse lasciata andare senza tentare di trattenerla o quantomeno convincerla a sottoporsi alle cure. In quel momento, si accorse che aveva portato con sé anche la borsa che le aveva dato Emma. Si andò a sedere su una delle sedie presenti nel corridoio e, come aveva fatto poco prima, aprì la borsa ma, questa volta, non si limitò solo ad osservarne il contenuto. Regina affondò una mano in quei capelli dorati, sorprendendosi della loro morbidezza. In quel momento, un raggio di sole le inondò il viso. La donna si voltò verso la finestra, perdendosi nella contemplazione di quella distesa azzurra, mentre una nuova consapevolezza si impossessava di lei.
 
Regina attraversò il corridoio che tante volte si era ritrovata a percorrere negli ultimi due giorni, senza degnare di uno sguardo gli altri pazienti che attendevano di entrare. Arrivata alla porta, la aprì senza curarsi di bussare ed entrò.
“Dottoressa Swan…”
“Esca immediatamente da questa stanza.” La interruppe subito Emma, dandole le spalle.
Regina si bloccò all’istante, quanto mai sorpresa dal tono duro e autoritario usato dall’altra.
“Volevo solo dirle…”
“Le ho detto di uscire da questa stanza.-disse Emma, girandosi completamente verso di lei-Non so come lei sia stata abituata, signora Mills, ma qui la maleducazione non è di casa. Esca da questa stanza, immediatamente.”
Solo in quel momento, Regina si accorse della paziente stesa sul lettino, completamente nuda dalla vita in su.
“Mi…mi scusi. Esco subito.” Disse, abbassando lo sguardo imbarazzata e sparendo subito dietro la porta.
La paziente guardò Regina uscire, prima di rivolgersi ad Emma.
“Non crede di esser stata troppo dura con quella donna, dottoressa? Da quando mi è stato diagnosticato il tumore al seno, ho perso il conto delle persone che mi hanno vista in questo modo e posso assicurarle che molto spesso mi sono dovuta spogliare anche davanti a ragazzi molto giovani. Quindi, posso assicurarle che la presenza di quella donna non mi abbia dato alcun fastidio.”
“Non si tratta del fastidio che avrebbe potuto suscitarle, signora, quanto della completa mancanza di educazione e di rispetto verso di me ma soprattutto verso i miei pazienti. Di norma, prima di aprire una porta chiusa, sarebbe bene bussare.” Disse Emma, continuando ad ispezionare il corpo della donna, cercando di notare se c’era qualche rossore dovuto alla radioterapia.
“Dottoressa non fraintenda le mie parole, ma se lei teme che manchi il rispetto verso noi pazienti, perché non chiude a chiave la porta?”
“Perché l’imposizione non permette la presa di coscienza- rispose Emma, passando alla palpazione del seno- Vede, se chiudessi la porta a chiave, impedirei certamente che qualcuno entrasse nella stanza ma, nello stesso tempo, impedirei anche a quella persona di comprendere il torto commesso. Se io tento di aprire una porta e la trovo chiusa, certamente andrò via ma non mi curerò mai del motivo per cui questa fosse chiusa e non mi domanderò mai cosa stesse avvenendo in quella stanza. Noi non siamo solo medici, signora, noi siamo soprattutto persone e come tali siamo tenute ad aiutare il nostro prossimo, donando rispetto e chiedendolo in cambio.”
La paziente osservò per qualche secondo il volto della dottoressa, prima di riprendere a parlare.
“Non teme le conseguenze di questa sua decisione? Qualcuno potrebbe accusarla di non prestare la dovuta attenzione alla privacy dei suoi pazienti.”
Emma sorrise nell’udire quelle parole.
“Effettivamente è vero, potrei andare incontro a questa spiacevole situazione, ma non me ne curo più di tanto. L’unica conseguenza che temo, signora, è quella che temiamo tutti. Il resto è solo una realtà alla quale si può facilmente rimediare.”
La donna continuò a guardare la dottoressa, mentre si prendeva cura del suo corpo. Infine, spostò lo sguardo sul suo volto e su quei capelli inesistenti.
“L’ha fatto per lei, vero?”
Emma si fermò e puntò il suo sguardo in quello della paziente.
“Cosa?”
“I capelli. Li ha tagliati per lei.”
La dottoressa Swan sorrise, riprendendo a visitare la paziente.
“Se devo essere sincera, sì. Quella donna è vittima di troppi demoni.”
“E lei è una persona che non si arrende facilmente.”
“Decisamente.” Rispose Emma, ridendo.
“Il che è un bene per noi.”
Emma si fermò, guardando sorpresa la sua paziente.
“È sempre bello cullarsi nell’idea che ci siano degli angeli nel cielo che ci osservino, dottoressa, che siano nostri amici, cari o familiari. Ma è quando quegli angeli scendono sulla terra, che possiamo dire davvero di essere protetti.”
Emma Swan sorrise, per l’ennesima volta.
“Non credo di poter essere definita un angelo.”
“Questo lasci che lo decidano i suoi pazienti, dottoressa.”
Emma rivolse uno sguardo fugace alla donna, per poi tornare di nuovo alla sua visita. Da quel momento in poi, non furono pronunciate altre parole.
 
Fuori dalla porta, Regina Mills attendeva il suo turno, impaziente di entrare. Stava in piedi, vicino alla finestra, tentando di escludersi dalle persone che la circondavano. Quelle persone così piene di vita. Ogni tanto spiava i loro volti e i loro sguardi, ma ciò che la colpiva di più erano i loro sorrisi. Si chiese se davvero tutte quelle persone fossero come lei, se il nemico con cui si trovava a dover convivere fosse anche il loro. Si rispose di no, che quelle persone non erano come lei, nonostante la malattia. E non seppe dire se quella fosse una fortuna o una sfortuna. Finalmente, la porta si aprì e Regina vide uscire la donna che aveva visto stesa sul lettino. Cercò di distogliere lo sguardo il più velocemente possibile, per nascondere l’imbarazzo che si era impossessato del suo volto.
“Lei deve essere nuova.” Disse la donna, avvicinandosi a Regina.
“Ascolti, per quello che è successo le chiedo…”
“Non abbia paura.” la interruppe la donna, poggiandole la mano su una delle braccia che teneva incrociate al petto, per poi allontanarsi.
Regina la guardò andare via mentre salutava tutti, sorpresa come poche volte lo era stata nella sua vita. Incapace di comprendere perché, un’estranea, si fosse preoccupata così tanto di lei.
La mattinata passò tra porte che si aprivano e chiudevano e pazienti che entravano e uscivano dallo studio. Regina rimase sempre appoggiata al muro vicino la finestra, attendendo il suo turno in un rigoroso silenzio. Non poteva, però, evitare di ascoltare i dialoghi di quelle persone che la circondavano. Dialoghi di comune quotidianità, di una vita che lei non avvertiva più come propria nel momento in cui aveva fatto quella nefasta scoperta. Nonostante il suo viso non manifestasse alcuna emozione, avvertiva dentro di sé una confusione che non aveva mai provato. E si sentì estranea in un contesto che avrebbe dovuto sentire come proprio. Si sentì la spettatrice di una vita non sua, di un mondo che non le apparteneva. Si sentì sola nonostante la presenza di quelle persone. Esattamente come si era sempre sentita.
Quando anche l’ultimo dei pazienti ebbe concluso la sua visita, la dottoressa Swan chiamò il suo nome, invitandola ad entrare.
“Chiama tutti i pazienti con il proprio nome, dottoressa? Dovrebbe fare attenzione, qualcuno potrebbe denunciarla per violazione della privacy.”
“Preferisce essere un numero, signora Mills? Per me non vi è alcun problema a considerarla come tale, solo che dopo dovrà accettare anche le conseguenze che ne derivano.” Rispose Emma, non potendo reprimere il sorriso che era sorto sulle sue labbra. Un sorriso che Regina non avrebbe mai potuto vedere, dato che la dottoressa le dava le spalle, mentre sistemava i fogli sulla sua scrivania.
“E quali sarebbero queste conseguenze?”
Emma si voltò un attimo a guardarla, prima di risponderle.
“Essere un numero significa perdere quanto di umano abbiamo. Diverremmo essenze ignote e anonime, a cui non potremmo associare alcun volto o emozione. Ma la cosa più grave è che perderemmo completamente il senso delle nostre azioni. Diverreste una quantità e la quantità non implica mai la qualità, anzi, molto spesso la esclude. Ed io, signora Mills, mi sono votata alla qualità piuttosto che alla quantità.”
Emma si voltò nuovamente, tornando a dare le spalle alla donna, che non fece altro che osservare quella nuca scoperta e liscia.
Passarono alcuni secondi in assoluto silenzio, silenzio che fu infine rotto da Regina.
“Quelle persone sorridevano.”
Emma sorrise di nuovo.
“Sorpresa?- chiese, voltandosi completamente verso di lei e sedendosi sulla scrivania alle sue spalle- Diversamente da quanto si potrebbe credere, la mancanza di sorrisi non è un sintomo da poter associare all’insorgenza di una neoplasia. È semplicemente una delle possibili conseguenze che potrebbero insorgere nel paziente quando prende coscienza di avere un tumore.”
Regina restò a guardarla, prima di riprendere a parlare.
“Perché l’ha fatto?”
“A cosa si riferisce?” chiese Emma, comprendendo subito a cosa alludesse la donna.
“Perché mi ha colpita? Perché si è privata dei capelli se poi ha deciso di arrendersi.”
“Ma io non mi sono arresa, signora Mills.”
“Lei stamattina ha detto che non valeva la pena perdere tempo con me.”
“Non mi sembra di aver mai detto nulla di simile. Io stamattina ho detto che era inutile perdere tempo con lei quando avevo altre persone da salvare.”
“Esattamente ciò che ho detto io.”
“In realtà, è esattamente il contrario.” Sorrise Emma.
Regina la guardò torva, non comprendendo le parole dell’altra.
“Vede, signora Mills, io stavo perdendo tempo cercando di convincerla a sottoporsi ai trattamenti. E quel tempo era troppo prezioso per essere sprecato così, perché c’è ancora una persona che attende che io la salvi.”
“Chi sarebbe questa persona?”
La dottoressa Swan alzò le spalle e le sorrise.
“È sempre stata lei.”
“Mi prende in giro?” chiese la donna con tono duro.
“Assolutamente. Se il mio intento fosse stato quello di prendermi gioco di lei, può star certa che non l’avrei mai colpita con quel pugno e non mi sarei mai esposta in questo modo davanti a lei.”
“Cosa significa tutto questo, allora?”
“Significa che noi siamo simili, signora Mills, più simili di quanto crediamo. Noi non siamo il tipo di persone che cedono dinanzi a delle belle parole, forse perché, in passato, sono state proprio quelle parole dette con troppa superficialità a scavare, nelle nostre anime, le ferite più profonde. Ed è per questo che l’ho colpita e ho deciso di rinunciare ai capelli, perché fossero i miei gesti a parlare per me, anche se questo avesse significato essere la prima a cedere, tra le due.”
Regina sorrise, scuotendo piano la testa.
“Mi sta dicendo che ho vinto la battaglia contro di lei?”
“Potrei anche aver perso la battaglia, signora Mills, ma era alla guerra che puntavo. E se, per vincerla, ho dovuto rinunciare a qualche battaglia, mi creda, non me ne pento affatto.”
“Perché?” chiese curiosa, Regina.
“Perché avrei perso solo se lei non avesse mai più varcato quella soglia, signora Mills. Ma lei, ora, è di nuovo qui e questo può significare solo una cosa, che io ho vinto la guerra perché la mia vittoria era legata alla sua.”
“A dire il vero, io sono tornata solo per portarle questo.” Disse prontamente Regina, comprendendo subito a cosa alludesse la donna e cercando di non far trapelare la vera motivazione che l’aveva spinta nuovamente da lei. Tra le mani, stringeva una piccola busta regalo.
“Di che si tratta?” chiese Emma, scendendo dalla scrivania e avvicinandosi a lei.
“La apra e lo vedrà lei stessa.” Rispose Regina, con uno strano sorriso dipinto sul volto.
Emma la guardò per un attimo, comprendendo subito il piccolo gioco dell’altra. Quando, finalmente, i suoi occhi misero a fuoco l’oggetto contenuto nella busta, un sorriso si impossessò delle sue labbra.
Regina si meravigliò di quel sorriso, un sorriso che sembrava illuminare l’intero volto della giovane dottoressa. Da che ne aveva memoria, mai nessuno aveva reagito in quel modo ad un suo regalo.
“È bianco.” Disse Emma, non riuscendo a staccare gli occhi dal foulard che stringeva tra le mani e distogliendo Regina dai suoi pensieri.
“Se vuole può cambiarlo.”
La dottoressa Swan alzò lo sguardo verso la donna, sorpresa di sentire quella frase.
“Non ne ho alcuna intenzione. Mi ha semplicemente colpito il colore, in maniera positiva, sia chiaro. Sa perché noi medici indossiamo camici bianchi?”
Regina alzò le spalle. “Credo dovrà dirmelo lei.”
“Perché in questo modo è più semplice capire quando veniamo in contatto con agenti contaminanti e perché i pazienti possano fidarsi di noi. Non ha importanza se un camice è stirato nel migliore dei modi o non lo è affatto, la cosa importante è che sia bianco, perché vuol dire che la persona che lo indossa è pura, senza contaminazioni. Indossiamo camici bianchi per poter essere limpidi e veritieri nelle nostre azioni e nelle nostre parole. Ed è per questo che le dico, con tutta sincerità, che questo suo pensiero mi ha reso davvero felice.”
Le parole appena pronunciate da Emma ebbero il potere di colpire Regina, lasciandola interdetta. Si chiese come fosse possibile che quelle parole l’avessero toccata tanto, che avessero toccato proprio lei, Regina Mills, la donna che aveva fatto delle parole, e dei loro infiniti significati, la sua professione.
“Non è nulla.”
“Secondo me, invece, è tanto. Vuole mettermelo, per favore?”
“Prego?” chiese Regina, credendo di aver capito male.
Come risposta, Emma poggiò il foulard nelle mani della donna e si girò, dandole le spalle.
“Avanti, non si faccia pregare.”
Regina guardò per qualche secondo quel piccolo lembo di tessuto tra le due mani, prima di sospirare e obbedire alla richiesta della donna.
“Allora, come mi sta?” chiese Emma, voltandosi verso la donna.
“Non sono una critica di moda, dottoressa.”
“Non le abbassa mai le sue difese, signora Mills?”
“Non so di cosa stia parlando.”
Emma sorrise, scuotendo piano il capo.
“Allora, dato che non sa di cosa stiamo parlando, glielo dirò io. Domani mattina la voglio alle 8:30 qui, nel mio studio. Puntuale, signora Mills.” Disse, tornando di nuovo seria.
Regina incrociò le braccia al petto, riservando uno sguardo scettico alla donna.
“Significa che mi sta dando implicitamente della ritardataria o che crede che io non abbia il coraggio di decidere della mia vita?”
“Significa che non sarà sola ad affrontare tutto questo, signora Mills. O viene a quell’orario o io non potrò accompagnarla a fare gli esami di cui necessita. Inutile che tenti di contestare.- disse, notando che la donna stava per interromperla- Sappiamo entrambe il vero motivo per cui lei è qui.”
Regina rimase qualche secondo in silenzio, stordita da una moltitudine di emozioni e sensazioni che si era scoperta a provare. Dopodiché aprì la porta dello studio.
“A domani, dottoressa Swan.”
“A domani, signora Mills.”
 
 
Lessi da qualche parte che “A domani” è la promessa più bella che si possa fare e da quel momento ho iniziato a crederlo anche io, ecco perché ho voluto concludere il capitolo così.
In ogni caso, ho voluto che Emma rinunciasse ai capelli per tributare e onorare quelle persone che, nella vita reale, fanno davvero questi gesti, riuscendo ad alleviare e a stare vicino alle persone affette da questo male, siano esse parenti o amici.
Proprio per questo motivo, condivido con voi un video.
https://www.youtube.com/watch?v=Cgku4_3WRT0
Ecco, questo capitolo è per loro e per chi, come loro, ha rinunciato ai capelli per avere in cambio molto di più: lacrime di gioia.

 
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Di promesse fragili come ali di farfalla ***


Chiedo scusa se posto nuovamente, ma mi sono accorta che mancava TUTTA la prima parte del capitolo! Chiedo venia!
In ogni caso, scrivo ciò che avevo già scritto, invito tutti, dopo la lettura, a leggere la nota postata sotto il capitolo, perché c'è una comunicazione importante.


Il mattino seguente, Regina Mills aprì la porta dello studio della dottoressa Swan esattamente alle 8:30.
“Puntuale come un orologio svizzero, signora Mills.” Disse Emma, senza alzare lo sguardo da quei fogli che occupavano costantemente la sua scrivania.
Rassicurata dal fatto che Emma non potesse vederla, Regina si lasciò andare ad un sorriso, notando che la donna portava intorno al capo il foulard che le aveva regalato il giorno precedente.
“Aveva qualche dubbio, dottoressa Swan?” chiese, ritrovando la sua compostezza.
“Assolutamente.” Rispose la donna.
“Vedo che continua a mantenere le sue cattive abitudini, dottoressa.”
“A cosa si riferisce?” chiese Emma, continuando a tener basso lo sguardo.
“Al fatto che continua a parlare con me senza, però, prestarmi la dovuta attenzione. Quei fogli devono essere molto importanti, dottoressa. Certamente più importanti di me.”
Emma sorrise, prima di sistemare i fogli e volgere finalmente lo sguardo sulla donna che le stava di fronte, avendo cura di trovare i suoi occhi.
“Si sbaglia, signora Mills. Io le sto rivolgendo esattamente l’attenzione che si merita, perché guardare questi fogli è esattamente come guardare lei.”
“Io non credo, dottoressa.” Rispose Regina, incrociando le braccia al petto.
“Invece deve credermi, signora Mills- le sorrise Emma, alzandosi e andandosi a sedere sulla scrivania, tenendo ancora tra le dita i fogli incriminati- Vede, questi fogli sono esattamente quelli che ieri occupavano la mia scrivania. Narrano una storia, signora Mills. Narrano la sua storia. E non c’è nulla di più importante, in questo momento, per me.”
Regina si bloccò, colpita da quelle parole e dal significato che potevano avere.
“Ovviamente, parlo della sua storia clinica. Stia tranquilla, la sua vita privata è del tutto al sicuro.- si affrettò a chiarire Emma, scorgendo sul volto dell’altra donna un certo disagio- In ogni caso, non credo lei sia nella condizione di poter giudicare le mie azioni. Parlando di cattive abitudini, noto che anche lei è restia ad abbandonare le sue.”
“Cosa intende?”
“Continua ad entrare nel mio studio senza bussare, signora Mills.” Le rispose Emma, regalandole un sorriso sincero.
Regina rimase in silenzio, colpita, come sempre, da quello sguardo luminoso ed enigmatico allo stesso tempo. Eppure, aveva l’impressione che, quel giorno, qualcosa stonasse sul volto della giovane donna, come se un’ombra oscurasse la luce che quel viso era capace di emanare. Quando spostò lo sguardo dai suoi occhi, si accorse di un leggero segno violaceo vicino le labbra della donna.
“Posso permettermi di chiederle che cosa le è successo, dottoressa?”
“Me lo sta chiedendo davvero, signora Mills?” chiese di rimando Emma, riservandole uno sguardo divertito.
Solo in quel momento, Regina si ricordò dello scontro che le aveva viste protagoniste solo due giorni prima.
“Ne deduco che sia colpa mia.”
“Deduce bene.” Rispose Emma, senza mai perdere il suo sorriso.
“Credo sia ora di andare- disse Regina, improvvisamente in imbarazzo per la situazione creatasi, mentre apriva la porta dello studio- E credo che le debba anche delle scuse.”
“Non servono.” Rispose Emma, avvicinandosi alla donna.
“Prego?” chiese Regina, non comprendendo le parole della dottoressa.
“Se è davvero dispiaciuta per questo ematoma, allora le chiedo di non offrirmi le sue scuse, ma di fare una cosa per me.”
“Di che si tratta, dottoressa?”
Emma la guardò negli occhi, prima di riprendere a parlare.
“Se è davvero questa la sua forza, signora Mills, allora voglio che lei la usi per combattere la sua battaglia. Voglio che colpisca questa vita e che le dimostri che ne è degna. Voglio che dimostri a se stessa che lei è degna di vivere. Vivere, signora Mills, non sopravvivere.” Rispose Emma, prima di superarla e uscire dallo studio. Regina restò qualche secondo immobile, incapace di muoversi. E si chiese, ancora una volta, perché quella donna tenesse così tanto alla sua salvezza. Alla salvezza di una sconosciuta.
 
La mattinata trascorse velocemente tra le varie diagnostiche. Emma non si allontanò mai da Regina, decidendo di sua iniziativa di restare con lei nella sala della risonanza, nonostante il rumore infernale prodotto da quella macchina. Regina non osò obiettare, ma non poté impedirsi di chiedersi, ancora, perché quella dottoressa si preoccupasse così tanto per lei. E, per l’ennesima volta, non seppe darsi una risposta, come se le sfuggisse qualcosa. Come se il senso di tutta una vita stesse crollando dinanzi ai suoi occhi, cedendo il posto al nulla più totale. Una mancanza che attanagliava la mente così come lo spirito.
Quando, finalmente, ebbe terminato ogni tipo di esame, Regina ritornò nello studio in compagnia di Emma.
“Devo ringraziarla, per oggi.” Le disse, osservando la schiena della dottoressa Swan, intenta a sistemare le cartelle cliniche dei pazienti che, a breve, avrebbero occupato la sala d’attesa al di fuori di quella stanza.
“No, non deve.” Rispose Emma, senza voltarsi.
“Io credo di sì.” Continuò ad insistere Regina, affondando le mani nelle tasche della sua giacca.
Emma si voltò, incontrando lo sguardo della donna.
“È nervosa.” Le disse, sorridendole.
“Prego?”
Emma incrociò le braccia al petto e, con un lieve movimento del capo, indicò le mani della donna, perfettamente nascoste alla sua vista.
“Mette sempre le mani in tasca quando è nervosa, signora Mills. O quando è a disagio.”
Regina roteò gli occhi, lasciando scivolare le mani fuori dalle tasche, gesto che ebbe come risultato quello di far comparire sul volto dell’altra l’ennesimo sorriso.
“In ogni caso, avrei da chiederle un ultimo favore.”
“Mi dica.” Disse Emma, sorpresa da quella richiesta.
“Vorrei che lei mi tagliasse i capelli.”
Emma rimase a guardarla per qualche secondo, prima di prendere posto sulla sua sedia dietro la scrivania.
“Mi prende in giro, signora Mills? Devo ricordarle che ha quasi rinunciato alla terapia a causa dei suoi capelli?”
“Vede, dottoressa Swan- cominciò Regina, prendendo per la prima volta posto sulla sedia di fronte ad Emma- sono un tipo di persona che preferisce i cambiamenti radicali e incisivi a quelli lenti e inesorabili. So per certo che, prima o poi, sarò costretta a dover affrontare anche questa realtà. Rimandare non cambierà le cose.”
“Su questo ha perfettamente ragione, ma non si aspetti il mio aiuto in questa follia, signora Mills. Ogni cosa a tempo debito.”
Regina si lasciò andare ad una lieve risata.
“Follia, dottoressa Swan? Io credo che l’unica folle, tra le due, sia proprio lei. Vede, la mia è una condizione alla quale non mi potrei mai sottrarre. Accettando di sottopormi alla terapia, ho accettato anche l’idea di dover perdere i capelli. Lei, invece, ha rinunciato ai suoi capelli senza un vero motivo.”
“Senza un vero motivo, signora Mills? Forse non le è chiara una cosa, io sono un medico, è mio compito fare tutto ciò che è in mio potere per il benessere del paziente. Di qualsiasi paziente, signora Mills.”
“Rinunciare addirittura ai capelli?”
“Non sono il tipo di persona che si arrende facilmente, signora Mills, e la rinuncia, nel mio codice etico e morale di medico, non è minimamente proclamata.”
Regina restò ad ammirare ancora per qualche secondo la determinazione che brillava negli occhi della donna che le stava di fronte, comprendendo subito a quale tipo di rinuncia Emma stesse facendo riferimento.
“Bene, dottoressa- disse infine, alzandosi dalla sedia-se ha deciso di non volermi offrire il suo aiuto, vorrà dire che farò da sola.”
Regina estrasse dalla borsa un rasoio elettrico, che attaccò prontamente alla presa della corrente.
Emma osservò ogni suo movimento in un rigoroso silenzio, stupita quanto incuriosita dal comportamento dell’altra. Sembrava che la donna avesse già programmato tutto e questo pensiero fece nascere, sul volto di Emma, un nuovo sorriso, sorriso che sparì subito quando vide le dita della donna stringersi intorno all’oggetto e avvicinarlo pericolosamente alla cute della sua testa. Emma era cosciente che, senza uno specchio per potersi aiutare, Regina si sarebbe sicuramente ferita. Per questo motivo, scivolò silenziosamente alle spalle della donna, sfilandole di mano il rasoio prima che quest’ultimo potesse sfiorare la sua pelle.
“Vuole farsi male?” chiese Emma, iniziando a far scivolare il rasoio tra i capelli della donna.
“Si sta preoccupando per me, dottoressa Swan?”
“Mi sto preoccupando del mio studio, signora Mills. Vede, non vorrei esser costretta a chiamare l’unità di sterilizzazione a causa del suo sangue.”
Regina si lasciò andare ad una leggera risata.
“A quanto pare, dottoressa, ho vinto nuovamente io.”
“Questo è tutto da vedere.” Rispose infine Emma.
Il silenzio calò tra le due donne, mentre la dottoressa continuava il suo lavoro.
“Bene, abbiamo finito.”
Regina si voltò verso la donna, fissando il suo sguardo in quegli occhi così chiari. Si chiese se, adesso, nei suoi occhi brillasse la stessa luce che poteva ammirare nelle iridi dell’altra.
“Di questi cosa ne facciamo?” ruppe il silenzio Emma, stringendo in mano i capelli della donna.
“Può metterli qui dentro.” Rispose Regina, prendendo una busta di plastica al cui interno erano custoditi i capelli della dottoressa.
Emma obbedì senza fare domande.
“Bene, può tenerli.” Disse Regina, tendendo verso l’altra la busta e il suo contenuto.
“Non ne ho bisogno, signora Mills.”
“Nemmeno io, dottoressa.” Le disse, sorridendo.
Ed Emma non poté che sorridere a sua volta, constatando che l’immagine della donna insicura, che aveva incontrato il primo giorno, stava lentamente scemando per lasciar spazio ad una nuova persona, più forte e determinata.
“Ho un’idea- disse Emma, prendendo la busta dalle mani di Regina- Li custodirò io fino all’ultimo giorno in cui lei varcherà la soglia del mio studio.”
“Va bene, accetto.”
Passò qualche secondo in assoluto silenzio, mentre Emma osservava come incantata il contenuto di quella busta che stringeva tra le mani.
“Sa, signora Mills, i nostri capelli insieme creano strani giochi di luce. In ogni caso- continuò, spostando nuovamente l’attenzione sulla donna e poggiando la busta sulla scrivania- vorrei che lei si accomodasse nuovamente sulla sedia.”
“Cosa ha intenzione di fare?”
“Si fidi di me.” rispose Emma, indicando con una mano la sedia libera.
Regina seguì il suo invito, senza obiettare, incuriosita dal comportamento dell’altra.
Emma si portò nuovamente alle spalle della donna, non prima, però, di aver aperto un cassetto ed averne recuperato il contenuto.
Regina non ebbe nemmeno il tempo di chiedersi cosa avesse in mente la dottoressa, perché sentì quasi subito qualcosa di leggero cingerle il capo, lasciandola meravigliata e confusa al contempo.
Emma prese uno specchio e glielo pose davanti, in modo che la donna potesse ammirare la sua immagine e quel foulard rosso che ora copriva la sua testa.
“Cosa significa, dottoressa Swan?” chiese Regina, guardandola negli occhi attraverso lo specchio.
“Che, a quanto pare, ho vinto nuovamente io.” Le rispose, sorridendo.
Regina si voltò completamente verso la donna.
“Come faceva a saperlo?”
“Mi sembrava di averglielo già detto, signora Mills. Io e lei siamo più simili di quanto immaginiamo. Ieri, prima di tornare a casa, mi sono fermata esattamente nel negozio in cui lei si è recata per acquistare il mio foulard e ho pensato di prenderne uno per lei, per quando mi avesse fatto la fatidica richiesta. Ma sarò sincera, signora Mills, non mi sarei mai aspettata che lei me lo chiedesse così presto.”
“Quindi, ora non solo sa quanto ho pagato, ma devo anche ammettere la mia sconfitta.”
“Nessuna sconfitta, signora Mills. Attualmente, io e lei, sia in una perfetta parità.” Le rispose Emma, sorridendole.
“Perché rosso?” chiese improvvisamente Regina, sorprendendo la giovane dottoressa.
“Perché il rosso è il colore della vita.”
Regina la guardò con uno sguardo confuso, inducendo Emma a spiegarle il motivo di quella scelta.
“Vede, signora Mills, solitamente il nostro cuore è rappresentato con due colori diversi, il blu e il rosso. La parte blu, solitamente, è associata al sangue venoso, mentre quella rossa al sangue arterioso. Ora, se io recido una vena, avrò di sicuro un’emorragia, sia questa importante o di lieve portata. Ma se io recido un’arteria, il discorso cambia completamente. Non si sorprenda se i prelievi vengono fatti sempre tramite vene, perché colpire un’arteria significa stringere tra le mani la vita di una persona. Ed è per questo motivo che il suo foulard è rosso, signora Mills. Perché la vita si tinge di rosso.”
Regina restò a guardarla per qualche secondo, per poi alzarsi, prendendo la borsa, e dirigersi verso la porta.
“Tra una settimana avrà i risultati, signora Mills. Poi, decideremo come proseguire.”
“A presto, allora, dottoressa Swan.” Le rispose Regina, prima di varcare la soglia.
“A presto, signora Mills.” Sussurrò Emma, per poi chiamare il nome del primo paziente.
 
Come era stato annunciato, i risultati furono pronti entro una settimana. L’esame istologico aveva confermato la malignità della massa neoplastica, mentre l’imaging aveva escluso la presenza di possibili metastasi.
“Un’ottima notizia, non crede?” chiese Emma, guardando Regina con un sorriso raggiante.
“Sta scherzando?”
“Assolutamente no, signora Mills. Dal momento che non può sottrarsi a questa condizione, è bene che impari presto a credere in tutto ciò che è positivo piuttosto che lasciarsi soffocare da quanto di negativo potrebbe accaderle.”
“Peccato che, nel lessico medico, ciò che è indicato con positivo è sempre qualcosa di patologico.” La sfidò Regina.
“Vedo che ha studiato, signora Mills. In ogni caso- disse Emma sorridendo e avvicinandosi alla donna- qui si parla di vita e, mi creda, non c’è modo migliore per combattere le ingiustizie di questo mondo che credere in qualcosa di bello e sorridere anche nelle avversità. Questo è un insegnamento che non riguarda lei perché costretta a vivere questa condizione, ma riguarda l’umanità intera che è da sempre costretta a combattere contro ingiustizie del tutto insensate e, mi permetta di dire, inaccettabili.”
Regina la guardò per qualche secondo, prima di riprendere a parlare.
“Quando è fissata l’operazione?”
“Domani pomeriggio, signora Mills.”
“Siete tempestivi in questo ospedale.”
“Diciamo che di tempo da perdere non è che ne abbiamo tanto, signora Mills. Dobbiamo intervenire e quanto prima anche.”
“Perfetto. Allora ci vediamo domani mattina.”
“In realtà lei verrà ricoverata stasera, signora Mills. Abbiamo bisogno di tenerla sotto osservazione. Quindi, vada a casa, si prepari una piccola valigia e venga qui il prima possibile.”
“Quanto dovrò restare?”
“Almeno due settimane.”
 
Regina tornò a casa e preparò una piccola borsa con l’essenziale per passare quelle due settimane da reclusa in quell’ospedale. Prima di uscire, diede un ultimo malinconico sguardo alla sua casa e si sorprese nel pensare che, qualsiasi cosa fosse successa, quelle mura non le sarebbero mancate. E nemmeno la solitudine che albergava tra esse.
Quando entrò nella camera che le era stata assegnata, trovò seduta sul suo letto la dottoressa Swan.
“Cosa ci fa qui? Credevo fosse già andata via.”
“L’aspettavo.” Rispose Emma.
“Perché?” chiese Regina, posando la borsa per terra e andandosi a sedere di fianco alla donna.
“Ha paura?” le chiese a sua volta Emma, cercando il suo sguardo.
Regina si perse a guardare quegli occhi ora quasi spenti, gravati da una preoccupazione che non aveva mia visto nello sguardo dell’altra. Rimase qualche secondo in silenzio, come a cercare le parole giuste da dire. Proprio lei, che delle parole aveva fatto il suo mestiere.
“Dottoressa Swan, si prova paura quando si ha la certezza di possedere qualcosa perché, vede, la più grande manifestazione della paura è la perdita. Ma io non ho nulla da perdere, mi creda. Ed è per questo che non posso provare paura.”
Emma la guardò, perdendosi in quello sguardo che aveva imparato a conoscere sin dal primo giorno, custodendo il dolore che quelle parole le aveva procurato.
“Vada a casa, dottoressa.” Riprese Regina, notando lo strano silenzio dell’altra.
Emma indugiò ancora qualche secondo a guardare l’altra, per poi alzarsi e dirigersi verso la porta.
“A domani, signora Mills.”
“A domani, dottoressa.”
Il giorno seguente, Emma si recò nuovamente nella camera di Regina. Restarono tutta la mattina insieme, ognuna delle due immersa nel proprio silenzio. Regina rimase stesa sul suo letto, a guardare il soffitto. Si sentiva vuota e leggera, nonostante l’incombenza di pensieri infausti. Sapeva che, da quell’operazione, avrebbe potuto non svegliarsi più, che probabilmente quelle erano le ultime ore che le restavano. E si ritrovò a chiedersi se fosse felice di quella vita che aveva vissuto. Di quella vita che, adesso, le sembrava così lontana ed estranea.
“Non ci pensi.”
Regina si alzò a sedere e puntò i suoi occhi in quelli di Emma.
“Non pensi a ciò che sta pensando, si fa solo del male. Andrà tutto bene, glielo prometto.”
“Non dovrebbe fare promesse che non è sicura di poter mantenere, dottoressa Swan. Non è un comportamento che si addice ad un medico, il suo.”
Emma era perfettamente cosciente che non si sarebbe mai dovuta sbilanciare così tanto. Lo aveva sempre saputo, dal primo momento che aveva messo piede in quell’ospedale. Eppure, in quel momento, seduta su quella sedia di plastica, anonima esattamente come le mura di quella stanza, Emma Swan si sentì una persona comune e non un medico in presenza del suo paziente.
“Signora Mills, è ora. Salve, dottoressa Swan, non credevo ci fosse anche lei.” Disse il dottor Whale, entrando dalla porta.
Regina guardò un’ultima volta Emma, per poi alzarsi e stendersi sulla barella che l’avrebbe portata in sala operatoria. Odiava il fatto di doversi sottoporre ad una così ridicola procedura, come se quell’atto le strappasse via anche quel minimo di dignità che le era rimasta.
Emma si alzò, decisa a seguire la donna.
“Cosa fa, dottoressa?” chiese Regina.
“Mi sembra ovvio, signora Mills. L’accompagno.”
“Non deve.”
“Lo so.”
Arrivati fuori la porta della sala operatoria, Regina chiese al medico se poteva scambiare due parole con la dottoressa da sola. Quando il medico si fu allontanato, l’attenzione di Regina fu totalmente per la giovane donna.
“Dottoressa Swan, sappiamo entrambe che questa operazione potrebbe salvarmi la vita così come potrebbe togliermela. Era una scelta rischiosa, ma ho deciso ugualmente di farla, di sottopormi a questa operazione. Mi creda, non provo alcun tipo di tristezza, forse mi spaventa solo l’idea di non sapere cosa mi attenda, qualora tutto questo dovesse prendere una piega sbagliata. Ma voglio dirle una cosa, prima di entrare, perché non so se dopo ne avrò la possibilità. Non faccia promesse che non sa se potrà mai mantenere, non faccia promesse quando il suo cuore è leggero o quando si sente invincibile. Non faccia promesse che includano la vita di un’altra persona, non faccia promesse al di fuori della sua portata. Perché, dottoressa Swan, l’essenza delle promesse è la fragilità.”
“L’aspetterò qui fuori, signora Mills.”
Regina scosse piano la testa, rassegnata dinanzi alla determinazione dell’altra.
“Certo, dottoressa. Certo.” Disse, sciogliendo il foulard che teneva ancora intorno al capo per passarlo ad Emma. Chiamò quindi il medico per farsi portare nella sala, pronta ad affrontare l’operazione.
Emma la guardò allontanarsi, stringendo tra le mani il foulard, e seppe, nel momento in cui le porte si chiusero davanti ai suoi occhi, che in quel corridoio sarebbe rimasta solo lei ad attendere l’uscita di Regina. Perché, ormai ne era sicura, nessuno sarebbe venuto. Nessuno si sarebbe preoccupato per quella donna. Nessuno, tranne lei.
 
Erano passate tre ore da quando Regina Mills era entrata nella sala operatoria. Emma era rimasta fuori, ad osservare per tutto il tempo l’anonima porta che le stava di fronte.
“Emma, che ci fai qui?”
Emma voltò lo sguardo verso la fonte di quella domanda, incontrando gli occhi scuri di Ruby Lucas.
“Ehi, Ruby.” La salutò con fare stanco la dottoressa.
“Allora?”
Emma alzò le spalle, prima di rispondere.
“Aspetto che una mia paziente esca dalla sala operatoria.”
“Immagino che sia la donna dai capelli corti.”
“Esattamente.”
“L’hai notato anche tu, vero? Per questo sei qui.”
“Già.”
“Vedrai che ce la farà. Credo che quella donna sia la stessa che ha causato quel bel livido sul tuo viso, Emma. E, da quando ti conosco, mai nessuno è riuscito a colpirti, eccetto lei. Quindi sa lottare e sono certa che lotterà anche questa volta.”
“Lo spero.” Disse, sospirando, Emma.
“Vedrai che sarà così. Ora vado a casa, fammi sapere se dovesse succedere qualcosa, ma sono sicura che non succederà nulla.”
Disse Ruby, stringendo lievemente il braccio della donna, per poi allontanarsi.
Dopo nove ore, finalmente la porta si aprì. Emma vide passarsi davanti ogni singolo membro dell’équipe, finché i suoi occhi non incrociarono quelli del dottor Whale.
“Dottoressa Swan, allora è rimasta sul serio.”
“Aveva qualche dubbio?- sorrise stancamente Emma- Allora, come è andata l’operazione?”
Il dottor Whale non rispose, limitandosi a spostarsi dal campo di vista della donna, in modo tale che potesse vedere lei stessa la barella uscire dalla sala operatoria, spinta da alcuni infermieri diretti al reparto di terapia intensiva.
“La signora Mills è una persona forte, dottoressa Swan.”
“A quanto pare sì. Volevo chiederle se fosse possibile restare con lei, stanotte.”
“Nessun problema, dottoressa. Anzi, la sua presenza potrebbe esserci utile. L’operazione è stata abbastanza delicata, sarei più tranquillo sapendola con lei. Ma, mi raccomando, massima igiene.”
“Non si preoccupi, dottor Whale. E grazie.”
“Di nulla. Buonanotte, dottoressa.”
Emma entrò nella stanza di Regina e, cercando di far il minor rumore possibile, portò una sedia vicino al letto della donna.
Guardò il suo volto pallido e la testa completamente fasciata, per poi spostare lo sguardo sul monitoraggio cardiaco. Come le accadeva sempre, si fermò ad ammirare il costante passaggio di quei picchi che conosceva fin troppo bene. Quei picchi che erano la prova concreta della vita. Quei picchi che, adesso, erano la testimonianza di una battaglia conclusa.
Una battaglia che avevano vinto, ancora una volta. Insieme. Ed Emma non poté che sorridere a quel pensiero.
 
Regina aprì piano gli occhi, cercando di comprendere dove si trovasse. Si sentiva leggermente stordita ed avvertiva un dolore costante in una parte indefinita della testa. Lasciò andare un lieve sospiro, comprendendo che ce l’aveva fatta, che era ancora viva. E si trovò a pensare come fosse sorprendente e allo stesso tempo spaventoso il constatare di esser vivi grazie al dolore provato. Come se la pace dei sensi fosse una costante sicura della morte, nonostante nessuno fosse mai tornato da quel viaggio per poterlo confermare.
Quando, finalmente, fu in grado di mettere a fuoco la stanza, Regina si accorse di non essere sola.
Seduta, di fianco a lei, c’era la dottoressa Swan, appoggiata sul suo letto e immersa in un profondo sonno.
Regina si soffermò a guardare la mano della donna, così vicina alla sua. Desiderò poterla sfiorare e, per una volta, decise di seguire il suo istinto. Appena le sue dita entrarono in contatto con quelle di Emma, Regina si sorprese di trovarle leggermente ruvide, quasi come se fossero consumate. Consumate dalle innumerevoli carezze che quella giovane donna era capace di regalare alle persone, anche se queste erano delle perfette sconosciute. Regina si portò la sua mano davanti agli occhi, quella mano così perfetta, così morbida. Quella pelle così liscia. E così vuota. Che senso aveva possedere quella perfezione se le sue mani non avevano mai goduto del tocco di una carezza?
“Si è svegliata.” Disse Emma, distogliendola dai propri pensieri.
“A quanto pare.” Rispose semplicemente Regina, sorprendendosi di sentire la sua voce così diversa.
“Non si preoccupi, è colpa dell’anestesia.- la rassicurò Emma, comprendendo subito la paura della donna-Come si sente?”
“Stordita e dolorante.” Rispose in un sussurro, facendo scivolare nuovamente il braccio lungo il fianco, movimento che ebbe come risultato quello di sfiorare di nuovo la mano della dottoressa.
Emma approfittò di quel contatto involontario per stringere la mano della donna tra le sue, regalando a Regina quella carezza così a lungo agognata.
Passarono alcuni secondi in un rigoroso silenzio, lo sguardo di entrambe fisso in quello dell’altra.
“Alla fine è rimasta davvero.” Disse infine Regina.
Emma sorrise, prima di prendere il foulard rosso, che aveva tenuto con sé per tutto quel tempo, e legarglielo intorno al polso, in una leggera morsa per non procurarle dolore.
“Ho riflettuto molto sulle sue parole, signora Mills, e aveva ragione. Le promesse sono davvero essenze fragili, così fragili da poter essere paragonate ad ali di farfalla. Ed ho preso una decisione.”
Regina la guardò per qualche secondo, prima di porle quella domanda.
“Quale decisione?”
“Ho deciso che mi prenderò cura di quelle fragili ali, di quella fragile farfalla, signora Mills. Me ne prenderò cura finché non la vedrò spiccare il volo.”
 
 
 
Buonasera a tutti! Lo so, non posto da una vita, purtroppo tra impegni universitari e le varie storie a cui sto lavorando, il tutto mi risulta un po’ difficile. Che dire, spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che non abbia deluso le vostre aspettative.
Ci tengo a precisare che i tempi dell’operazione e tutti gli aspetti minuziosamente tecnici che accompagnano la terapia di questo tipo di tumore devono essere presi con le pinze. Ho cercato di informarmi sul web, ma si tratta sempre di una conoscenza teorica e senza un fondamento tale da poter essere presa come una vera e propria conoscenza. Per questo motivo, ho preferito sorvolare sugli aspetti diagnostici e sull’operazione.
In ogni caso, ne approfitto per dire una cosa importante. Questa che sto scrivendo è una storia, ma la realtà narrata è, purtroppo, vera.
Per questo motivo vorrei che chiunque leggesse questa storia, desse un piccolo contributo per poter aiutare i ricercatori in questa lotta contro il cancro.
Fino al 17 novembre, potrete devolvere 2 euro all’AIRC, un’associazione privata che finanzia la ricerca con le nostre donazioni. Ho avuto modo, la settimana scorsa, di parlare con un oncologo nonché ricercatore che mi ha spiegato che l’AIRC copre l’80% dei finanziamenti totali che vengono devoluti alla ricerca. Pensate che quell’80% siamo noi, che la ricerca siamo noi. Per questo motivo, invito chiunque se la senta a donare 2 euro al 45503. Perché da soli non si va da nessuna parte, ma insieme possiamo cambiare il mondo.  
 

 
 
 

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Capitolo 4
*** AVVISO! ***


Buonasera a tutti, volevo avvisare che la storia NON è sospesa. Come ho sempre riferito, ho ben chiaro lo svolgimento che questa storia dovrà prendere, il motivo di questa pausa prolungata è semplicemente una mancanza di tempo, a causa degli impegni universitari. Ma non preoccupatevi, in queste feste cercherò di mettermi in riga come si deve e di cercare di dedicarmi in maniera maggiore a questa storia. Se la pubblicazione del capitolo sta tardando è anche a causa di una one shot che sto attualmente scrivendo. Conclusa quella, tornerò a scrivere di questa storia. Grazie, come sempre, a tutti voi che leggete e che mi stimolate ad andare avanti. La vera forza motrice di tutto siete voi!

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Capitolo 5
*** Il mio nome è Regina ***


I giorni che seguirono furono testimoni della rapida ripresa di Regina Mills, ripresa che permise un tempestivo congedo della donna dall’ospedale.
“Il suo temperamento si fa ancor più vivo nelle situazioni difficili, signora Mills.” Disse Emma, mentre la osservava chiudere la sua valigia.
“A cosa allude, dottoressa Swan?” chiese di rimando Regina, osservando la donna comodamente appoggiata allo stipite della porta della sua stanza.
“Lo sa perfettamente.” Rispose semplicemente Emma, camminando verso di lei.
“Dalla sua risposta, deduco che lei non me lo dirà, non in questo momento, almeno.”
“Il suo spirito deduttivo si fa sempre più acuto, signora Mills.” Rispose con un sorriso divertito Emma.
Regina le sorrise di rimando, per poi prendere la sua valigia ed avviarsi verso la porta, seguita dalla dottoressa.
“Bene, credo sia arrivata l’ora di andare.”
“Fortunatamente per lei, signora Mills. Venga, l’accompagno all’uscita.”
Le due donne percorsero i lunghi corridoi dell’ospedale in assoluto silenzio, beandosi l’una della presenza dell’altra.
“Allora la saluto, dottoressa Swan.” Disse Regina, una volta giunte all’ingresso dell’ospedale.
“Si ricordi che tra una settimana dovrà tornare per i controlli.”
“Certamente, dottoressa Swan. A presto.”
“A presto.” Rispose Emma, mentre la guardava andar via, prima di tornare al suo lavoro.
 
Una settimana dopo, i passi di Regina Mills risuonarono nuovamente nei corridoi di quell’ospedale ormai fin troppo familiare. Senza esitazione, la donna si diresse verso la sala prelievi, ma, quando vide la dottoressa Swan avanzare verso di lei, si fermò, in attesa del suo saluto. Saluto che, contro ogni sua aspettativa, non ci fu. Emma Swan passò di fianco a Regina senza degnarla di uno sguardo, comportamento che suscitò, nell’animo della donna, una certa inquietudine ed una leggera preoccupazione.
“Dottoressa Swan?”
Emma si voltò di scatto, il volto tirato in un’espressione di pura diffidenza. Un misto tra la paura e l’allerta costante. A quella vista, la preoccupazione di Regina divenne ancora più tangibile, incapace di comprendere cosa avesse allarmato così tanto la giovane donna. Ma quando i suoi occhi videro sorgere un sorriso sul volto di Emma, anche il suo animo parve placarsi.
“Signora Mills, buongiorno.” Disse Emma, riprendendo quella naturale compostezza che l’aveva sempre accompagnata, mentre il suo viso si rilassava in un leggero sorriso. Uno di quelli che era solita donare alla donna che, in quel momento, le stava di fronte.
“Dottoressa Swan, va tutto bene?” chiese Regina, avvicinandosi ad Emma. La sua voce tradiva la preoccupazione e la paura che, fino a poco prima, si agitavano dentro di lei.
“Certo, signora Mills, non si deve…”
Ma Emma non riuscì a concludere la frase, sorpresa dal gesto di Regina.
“Sta andando a fuoco, dottoressa Swan, e si ostina a dire che va tutto bene- disse la donna, il palmo della mano ancora premuto delicatamente sulla fronte di Emma- Non è un comportamento che si addice ad un medico, il suo.”
“È la seconda volta che me lo dice, signora Mills.” Disse Emma, lasciando che il suo sorriso si allargasse di più.
“A quanto pare, lei mi dà sempre modo di farglielo presente.- rispose Regina, riportando il braccio lungo il suo corpo- Allora, cosa ha intenzione di fare in queste condizioni?”
“L’unica cosa ragionevole, ovvero andare a casa e riposare.”
“Ottimo, vedo che per una volta siamo d’accordo. Resti qui finché non torno.”
Emma le riservò uno sguardo confuso, mentre abbandonava le mani nelle tasche del suo camice.
“Credevo fossimo d’accordo, signora Mills.” Disse, senza perdere mai il suo sorriso.
“Infatti, dottoressa Swan. Come certamente saprà, oggi devo fare dei prelievi di sangue, ma non ci metterò molto. Quindi, le chiedo di aspettarmi qui, così appena avrò finito l’accompagnerò a casa.”
“La ringrazio per l’offerta, ma posso cavarmela da sola.”
Regina si lasciò andare ad una leggere risata, prima di riprendere a parlare.
“Dottoressa Swan, forse non ha compreso la situazione. La mia non era un’offerta o un atto di buona educazione. Il mio era un ordine. Mi raccomando, non osi muovere un passo in mia assenza. Ci vediamo tra cinque minuti.”


Esattamente come aveva detto, Regina fu di ritorno dopo cinque minuti. Sul suo braccio svettava un vistoso cerotto.
“Vedo che mi ha dato ascolto.” Disse, rivolta alla donna che era seduta sua una delle sedie poste nella sala d’attesa, la testa poggiata al muro e gli occhi chiusi.
“Avevo forse una qualche possibilità di scelta?” chiese di rimando Emma, continuando a tenere gli occhi chiusi.
Il volto di Regina si rilassò in un leggero sorriso mentre osservava la giovane dottoressa. Solitamente, Emma Swan sfoggiava sempre un sguardo sicuro e ogni linea del suo corpo sembrava esser stata disegnata per poter essere testimone della forza che albergava nel suo animo. Eppure, in quel momento, davanti agli occhi di Regina, non c’era la solita dottoressa capace di rassicurare ogni suo paziente con il proprio sorriso. In quel momento, davanti ai suoi occhi, c’era una ragazza troppo cresciuta. Una ragazza fragile, esattamente come ogni essere umano.
“Le hanno fatto male?” chiese Emma, distogliendo la donna dai suoi pensieri.
Regina non capì subito a cosa l’altra stesse facendo riferimento, ma quando vide quegli occhi verdi guardare insistentemente il cerotto sul suo braccio, comprese la ragione di quella domanda.
“No, non ha fatto male. Dopotutto è solo un ago.”
“Solo un ago?” chiese scettica Emma, spostando lo sguardo sul volto di Regina, che non comprese il motivo di quella domanda. Finché uno strano pensiero non si fece largo nella sua mente.
“Aspetti, lei ha paura degli aghi?”
“Mi biasima per questo?” chiese a sua volta Emma, sorprendendo Regina per la sincerità che si celava in quella piccola domanda.
“No, si figuri. Solo non comprendo come lei riesca ad esercitare la sua professione dovendo convivere con questa sua fobia.”
“Le fobie esistono per essere superate, signora Mills, e posso assicurarle che la mia l’ho superata da tempo. Ciononostante, continua a rattristarmi l’idea che una persona debba essere soggetta ad una tale pratica.” Rispose Emma, alzandosi e avviandosi verso l’uscita dell’ospedale.
Regina restò ancora qualche secondo ferma, persa nel profondo significato di quelle parole.
“Andiamo, signora Mills.” La richiamò Emma, ormai sull’uscio.
Regina alzò gli occhi al cielo, per poi raggiungere Emma.
“Quanta insistenza.”
“Non me ne voglia, ma non mi sento davvero bene e preferirei essere a casa il prima possibile.”
Regina posò il suo sguardo sul volto della donna, notando che i suoi occhi, solitamente luminosi e pieni di vita, sembravano spenti in quel momento. Come se un invisibile velo fosse calato su di essi.
“Venga, ho l’auto proprio qui fuori.”
Una volta giunte all’automobile, Regina si sistemò dal lato del guidatore mentre Emma prese posto accanto a lei.
“Eccoci pronte- disse Regina, una volta messa la cintura di sicurezza- Allora, dove la…”
Ma quando si voltò verso Emma, la domanda le morì in gola, mentre un sorriso si allargava sul suo volto alla vista della giovane donna addormentata.
“Poco male, dottoressa Swan. Vorrà dire che sarà mia ospite.” Sussurrò, prima di mettere in moto e partire.
 
Dopo dieci minuti, l’auto si fermò in un viale che fiancheggiava una proprietà privata.
Regina si liberò dalla lieve morsa della cintura, per poi voltarsi verso Emma e scuoterla lievemente.
“Dottoressa Swan, siamo arrivate.”
Emma aprì gli occhi controvoglia, emettendo versi contrariati, mentre cercava di risvegliare le sue membra dal torpore del sonno. Quando, infine, riuscì a mettere a fuoco l’abitazione bianca, sul suo volto si manifestò la più assoluta incredulità.
“Credo ci sia un errore.” Disse Emma, rivolgendo lo sguardo su Regina.
“Nessun errore, dottoressa Swan.”
“Questa non è casa mia.”
“Lo so.”
“Ascolti, signora Mills, per quanto io mi sia prodigata in promesse sul fatto che non l’avrei lasciata sola, non ho alcuna intenzione di appoggiarla in questa decisione. Mi dispiace, ma non voglio trascorrere i miei anni migliori dentro ad una cella.”
“Ma cosa sta farneticando? Spero sia colpa della febbre, perché davvero non ha senso ciò che sta dicendo.”
“Sto dicendo che non ho alcuna intenzione di scassinare la porta d’ingresso per entrare in quella casa.”
Regina sorrise nell’udire quelle parole.
“Perché scassinare una porta quando possiamo usare queste per poter entrare?” chiese, facendo tintinnare le chiavi nella sua mano.
“Aspetti, quella è casa sua?”
“Si muova ad uscire. Per quanto possano essere comodi i sediolini della mia auto, posso assicurarle che dentro troverà superfici anche più confortevoli.”
Emma aprì la portiera, continuando a tenere lo sguardo fisso sulla costruzione bianca, ma appena scese dall’auto, un forte capogiro la costrinse ad appoggiarsi alla portiera per non cadere al suolo.
“Sta bene?” chiese allarmata Regina, correndo verso di lei.
“Sì, non si preoccupi. Solo un lieve giramento di testa.”
“Venga, l’accompagno dentro.”
Regina sostenne Emma fino all’ingresso dell’abitazione, nonostante i tentativi di quest’ultima di sottrarsi al suo aiuto. Quando giunsero nella camera da letto, Regina lasciò che Emma si adagiasse sul morbido materasso. L’aiutò a togliersi le scarpe e le sfilò il camice, che l’altra aveva tenuto addosso per tutto il tragitto, dimentica di posarlo nel suo studio. Infine, Regina la coprì con una coperta recuperata dall’armadio.
“Dovrebbe riposare anche lei, signora Mills. Ha fatto un prelievo stamattina e, date le sue condizioni, sarebbe bene che non si sforzasse.” Disse Emma, sistemandosi meglio sotto le coperte.
“Le prometto che adesso andrò a riposare” rispose Regina, appoggiata all’armadio, le braccia conserte al petto.
“Andrà a riposare?” chiese scettica Emma.
“Sì, c’è un divano nel soggiorno, andrò a riposare lì.”
“Perché riposare su un divano quando può dormire nel suo letto?”
“Forse perché, adesso, quello stesso letto è occupato.”
“Signora Mills, questo letto è abbastanza grande per poter ospitare entrambe. E non provi ad obiettare, altrimenti sarò io quella che andrà a riposare sul divano.”
Regina alzò gli occhi al cielo, prima di prendere posto affianco alla dottoressa. Il silenzio calò tra le due donne, un silenzio pieno di imbarazzo, almeno per quanto riguardava Regina. E fu per questo motivo che quel silenzio fu rotto proprio dalla stessa Regina.
“Cosa intendeva quella mattina?”
“A cosa si riferisce, signora Mills?” chiese Emma, mentre si girava sulla schiena.
“Quando ha affermato che il mio temperamento si fa più vivo nelle situazioni difficili.”
“Ah- disse Emma, mentre un sorriso si allargava sul suo volto, gli occhi puntati sul soffitto- Alla sua tenacia e alla sua forza.”
“Alla mia forza?”
Emma annuì, continuando a tenere gli occhi fissi in alto.
“Lei è una persona molto forte, signora Mills. Volendo, si potrebbe paragonare il suo spirito a quello del più prode guerriero.”
“Solo perché sono stata dimessa prima di quanto fosse stato stabilito?” chiese stupita Regina, non aspettandosi quella risposta.
“Non è solo quello. Il tumore non è una malattia qualunque, è la malattia. Per anni, anche il solo pronunciarla incuteva timore, tanto che ancora oggi viene indicata come il male, senza specificare realmente di quale male si tratti. Ma in fondo, lo sappiamo tutti. Eppure, lei non si è lasciata sopraffare, non ha lasciato che la malattia avesse la meglio. Non ha permesso alla malattia di avere il sopravvento su di lei.” Disse Emma, guardando finalmente negli occhi la donna al suo fianco.
“Forse perché non ero sola a combattere.” Disse Regina, riservando alla giovane donna uno dei suoi rari sorrisi sinceri.
“Cosa intende?”
“Che si è più motivati quando si sa che c’è qualcuno che crede in noi.”
Emma le riservò un caloroso sorriso.
“Già, immagino sia così, signora Mills.”
“Ho anche un nome, dottoressa Swan.”
“Ma non mi dica!” esclamò con finto stupore Emma, mentre un sorriso divertito andava a baciare le sue labbra.
“Il mio nome è Regina, anche se sono sicura che lei lo conosca già.” Continuò la donna, ignorando il tentativo di fare ironia di Emma.
“E infatti lo conoscevo. Ma avrei potuto immaginarlo anche senza leggerlo sulla sua cartella clinica.”
“Come?” chiese sorpresa Regina
“Tutto di lei rimanda alla parola regale. Ha la grazia, l’eleganza e il carisma di una sovrana.”
Regina rimase in silenzio, come avveniva sempre quando la sorpresa sostituiva il suo incline scetticismo.
“E il suo? Il suo nome, intendo.” Disse infine.
“Per quanto riguarda il mio nome dovrà accontentarsi. Mi chiamo semplicemente Emma Swan.”
“Non sia così severa col suo nome.”
Emma si lasciò andare ad una leggera risata.
“Allora, dal momento che ci siamo presentate con i nostri rispettivi nomi, cosa ne direbbe di iniziarci a dare del tu?”
“Se non me l’avessi chiesto tu, l’avrei sicuramente fatto io, Emma.”
Emma sorrise, prima di riprendere a parlare.
“Allora, altre domande?”
“Cosa l’ha spinta a diventare oncologa?”
“A dire il vero, la domanda giusta sarebbe cosa mi spingerà a diventarlo.”
Regina la guardò in maniera confusa, non comprendendo le sue parole.
“Sono al quarto anno della specialistica. Attualmente, non sono ancora un’oncologa.”
“Non l’avrei mai detto- rispose semplicemente Regina, sorridendo- Ma sei un grande medico già ora, Emma.”
“Ti ringrazio.”
In un’altra occasione, Regina avrebbe sicuramente fatto causa all’ospedale, accusandolo di aver lasciato che le sue sorti dipendessero da una persona senza alcun titolo e, di conseguenza, inadatta ad occuparsi del suo caso. Ma quei tempi sembravano così lontani che Regina non riusciva più a sentirli come propri. In quel momento, stesa su quel letto, Regina comprese quanto un titolo apparisse effimero e privo di qualsiasi valore dinanzi alla dedizione, al sacrificio e, soprattutto, alla gioia di vivere il proprio lavoro come il più grande dei sogni. Di divenire ciò che si era sempre sognati di essere. Per un periodo, anche lei aveva provato la stessa felicità, anche lei era divenuta la persona che aveva sempre sognato di essere. Ma quegli anni erano ormai lontani. Più lontani di quanto lei stessa fosse disposta ad ammettere. E si chiese perché, proprio a lei, fosse capitata la fortuna di trovare qualcuno disposto a combattere quella battaglia al suo fianco. Una battaglia che, ne era certa, lei meritava di combattere da sola. Nella più completa solitudine.
“Perché l’hai fatto?”
Emma incrociò i suoi occhi con quelli di Regina, che fu completamente investita dalla profondità di quello sguardo.
Solo in quel momento, Regina comprese di aver posto realmente quella domanda.
“Perché sei rimasta al mio fianco?” chiese ancora, perdendosi in quegli occhi. Cosciente che fingere che quella domanda non fosse mai stata posta non avrebbe cambiato la realtà dei fatti.
Ma, contro ogni sua aspettativa, Emma si limitò a continuarla a guardare, senza dare una risposta a quel quesito che era sfuggito al controllo della sua anima.
Mentre il silenzio calava nuovamente tra di loro, gli occhi di Emma iniziarono a chiudersi, sopraffatti dalla stanchezza che la malattia aveva portato con sé.
Gli occhi di Regina si posarono su quel foulard bianco che circondava dolcemente il suo capo.
“Emma.” La chiamò nuovamente la donna.
Emma aprì di nuovo gli occhi, donandole un sorriso sincero, incoraggiandola ad andare avanti.
“Non tagliarli più. I capelli, intendo.”
“Non preoccuparti dei miei capelli, Regina. Dopotutto, non avere i capelli ha i suoi lati positivi.” Rispose Emma, mentre il sorriso dolce lasciava il posto ad uno divertito.
“Ci sono lati positivi nel non avere i capelli?” chiese scettica la donna, ritrovando parte della sua fermezza.
“Come in tutte le cose, in fondo. In ogni caso, da quando non ho più i capelli riesco ad essere finalmente puntuale quando devo prendere servizio in ospedale.”
“Come mai?” chiese incuriosita Regina.
“Semplice, non devo stare ore ed ore dinanzi ad uno specchio per sistemarli. Niente capelli, niente problema.”
A quella risposta, Regina si lasciò andare ad una sonora risata, che riempì l’intera camera, contagiando anche Emma.
“Allora, piaciuta come risposta?”
“Tu sei un’idiota, Emma.”
“Allora siamo in due- disse divertita Emma- Bene, a questo punto direi che sia arrivato il momento di dormire un po’, o vuoi continuare con l’interrogatorio? Perché, in tal caso, mi reputo innocente, qualsiasi siano i crimini di cui mi vorrai accusare.”
A quelle parole, Regina colpì Emma con il cuscino, fingendosi offesa, per poi lasciarsi andare ad una nuova esplosione d’ilarità.
“Allora buonanotte, Emma.”
“Buonanotte a te, Regina.”
Regina restò a guardare Emma che, lentamente, scivolava tra le braccia di Morfeo, finché il sonno non sopraggiunse anche per lei.

Quando Regina si svegliò, notò di essere sola nel letto. Si chiese se Emma fosse già andata via, approfittando del fatto che lei stesse ancora dormendo, ma una leggera melodia le diede la risposta.
Dopo esser scesa dal letto, Regina indossò le sue scarpe e cercò di stendere le pieghe che, inevitabilmente, si erano formate sulla sua gonna.
Quando arrivò sull’uscio della cucina, si appoggio allo stipite della porta, osservando Emma ai fornelli, disinvolta come potrebbe esserlo solo una donna nella propria cucina. Eppure, quella era la prima volta che Emma entrava in casa sua, ma non ci diede peso, persa nelle parole della canzone che la giovane dottoressa stava cantando.
Quando la canzone giunse al termine, Emma si rivolse a Regina, senza voltarsi.
“Sapevo che eri lì.”
“Il rumore dei miei tacchi, immagino.”
“Già.”
“Ti comporti sempre così?” chiese Regina, andandosi a sedere al tavolo posto al centro della cucina.
“Così come?” chiese Emma, voltandosi e portando con sé due tazze di tè fumante, una delle quali fu posta di fronte a Regina.
“Grazie. Come se questa fosse da sempre la tua cucina.”
Emma alzò le spalle, sorseggiando il suo tè.
“Ho cambiato abbastanza case da sapere perfettamente dove trovare ciò che mi occorre.”
“Come ti senti?” chiese Regina, mentre avvicinava la tazza alle sue labbra.
“Alla grande, calcolando che sono completamente guarita.”
Regina rischiò di soffocare, nell’udire quella risposta.
“Completamente guarita?”
“Esattamente. Merito dei miei fortissimi anticorpi, li mando in palestra tre volte a settimana.”
Regina alzò un sopracciglio, che portò Emma a sbuffare.
“Lascia perdere.”
“Credo di non aver colto l’ironia.”
“Tranquilla, nessuno coglie mai la mia ironia. A proposito, la prossima volta dovresti evitare ogni contatto con me qualora dovessi ammalarmi di nuovo. Nelle tue condizioni, non è propriamente la cosa migliore riposare vicino ad una persona febbricitante.”
“Guarda che sei stata tu ad insistere.”
“Vero, ma qualora dovesse ripresentarsi l’occasione, non farlo.”
“Ricevuto.”
Emma guardò l’orologio distrattamente e, quando vide l’orario riportato dalle lancette, si alzò in maniera tanto brusca che per poco non fece cadere entrambi i bicchieri, con i rispettivi contenuti, sulla superficie di marmo del tavolo.
“Ti prego, dimmi che quell’orologio porta male.”
“Invece porta benissimo, Emma. È più preciso di un orologio svizzero.”
“Ovviamente. Dopotutto sto a casa di Regina Mills.”
Regina le riservò uno sguardo severo, ma non rispose, continuando a sorseggiare il suo tè.
“Farò sicuramente tardi.” Si lamentò Emma, correndo nella camera da letto per recuperare le sue cose.
“Come se fosse una novità.” Commentò Regina, avendo cura che l’altra sentisse.
“Cosa intende dire?” chiese Emma, ricomparendo in cucina, mentre tentava di mettersi una scarpa.
“Ieri sera ha confessato di non riuscire mai ad essere puntuale a lavoro, dottoressa Swan. Questo non è un comportamento professionale.” La canzonò Regina.
“Quando deve rimproverarmi qualcosa ritorna di nuovo al lei, signora Mills?- la prese in giro Emma- In ogni caso, grazie di avermi dimostrato la mia assoluta mancanza di controllo quando ho la febbre.”
“Di nulla.” Rispose Regina senza scomporsi.
Quando Emma ebbe finito di prepararsi, recuperò il suo camice e tornò in cucina.
“Bene, Regina. Ti ringrazio per avermi ospitato, ma adesso devo davvero andare. Ci vediamo presto.”
“Aspetta Emma, ti accompagno io.” Disse la donna, alzandosi e posando i due bicchieri nel lavabo.
“Sicura? Non vorrei darti ulteriori problemi.”
“Nessun problema, davvero.”
Emma indugiò con lo sguardo sui vestiti stropicciati della donna che le stava di fronte, permettendo così a Regina di comprendere i suoi pensieri.
“Per una volta, l’impeccabile signora Mills può anche fare a meno dell’appellativo impeccabile. Dopotutto, parliamo di un’emergenza.” Disse, recuperando le chiavi e superando Emma, diretta alla porta d’ingresso.
“Non ti ringrazierò mai abbastanza, Regina.” Disse Emma, seguendola.
“Non devi, infatti.”
Le due donne salirono in macchina, esattamente come il giorno prima, ed in pochi minuti, raggiunsero l’ospedale.
“Perfettamente in orario- disse Emma, guardando l’orologio- Bene, io vado.” Concluse, scendendo dall’auto.
“Buona giornata, Emma.”
“Buona giornata anche a te, Regina. E grazie, per tutto.”
“Non devi, te l’ho già detto.”
“Invece devo. Se sono guarita così velocemente non è solo merito dei miei anticorpi. Sai, mai nessuno si era preso cura di me. A quanto pare, per una volta hai avuto ragione tu, quando si sa che qualcuno crede in noi, siamo capaci di compiere azioni altrimenti impossibili. E con questa ammissione, tu passi nettamente in vantaggio. Aspetto la tua prossima mossa.”
Regina si lasciò andare ad una lieve risata, prima di rimettere in moto.
“A presto, Emma Swan.”
“A presto, Regina Mills.”
Solo quando Regina fu sola nell’abitacolo della sua auto, lasciò che la sua mente indugiasse sulle parole appena proferite da Emma. Perché, nonostante si sforzasse, non riuscì a comprendere come fosse possibile che mai nessuno, prima di allora, si fosse preso cura di quella giovane dottoressa.


~Angolo autrice~
Lo so, lo so. Non pubblico da una vita e chiedo veramente scusa, ma purtroppo sono stata impegnata tra cenoni e pranzi vari, per quanto riguarda queste vacanze. La tradizione del sud, unica nel suo genere ahahahah
Allora, come avrete notato, questo capitolo è un po' diverso da quelli che l'hanno preceduto. Dai, popolo SQ, ve le ho anche fatte dormire nello stesso letto! Ahahahahah
A parte gli scherzi, questa scena era già prevista da tempo, da prima che iniziassi anche la stesura del primo capitolo, ed era una delle più significative, per me. Dormire nello stesso letto è il manifestarsi della piena fiducia che si ha nell'altra persona. Inoltre, solo in un ambito che non fosse quello ospedaliero, le due donne avrebbero potuto mettere da parte i loro ruoli e cominciare a darsi del tu.
Ed è proprio questo il fine ultimo di questo piccolo capitolo, quello di dimostrare la vita che si cela dietro la figura di un medico e dietro la figura di un paziente.
Dal prossimo, si ritornerà all'ambito ospedaliero, come è giusto che sia.
Purtroppo, non so quando riuscirò a pubblicare nuovamente, dato che gli esami si avvicinano. 
Bene, spero che il capitolo sia piaciuto e spero abbiate trascorso delle meravigliose vacanze!


 

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Capitolo 6
*** Pirati ***


Buonasera a tutti! Ebbene sì, nonostante i vari impegni, sono riuscita a rubare qualche oretta per stendere questo capitolo. Come ho già detto in alcuni commenti, questo è uno dei capitoli che più mi stanno a cuore. Vi avviso che ad un certo punto si parlerà di tematiche abbastanza dure. Chiedo scusa se le parole che ho usato potrebbero urtarvi in qualche modo, ma le mie scuse si limitano a questo. Credo, infatti, che certi discorsi non solo vadano affrontati, ma che certe realtà debbano essere combattute, in modo tale da estirparle completamente. So che quanto scrivo in questi righi è un sogno che difficilmente troverà attuazione. Ma io sono una sognatrice e credo che siano i sogni, in fondo, a far muovere questo mondo in cui ci troviamo a vivere. Detto questo, vi auguro buona lettura 

Quella mattina, il sole svettava alto nel cielo, inondando di luce il grande piazzale davanti all’ospedale. Un raggio, solitario quanto intrepido, si andò a poggiare sul foulard rosso di Regina Mills, rendendo il suo colore ancora più vivo.
Quando la donna entrò nell’immenso ospedale, un nuovo sorriso illuminava il suo volto. Un sorriso che, da qualche tempo, non faceva più visita alle sue labbra. Si diresse con passo spedito verso lo studio della dottoressa Swan, immaginando di trovarla china sui suoi fogli, come l’aveva vista ogni volta che aveva varcato quella soglia. Era quasi giunta alla sua destinazione, quando fu costretta ad arrestare i suoi passi, mentre il sangue le si gelava nelle vene.
Un urlo si era levato aldilà della porta.
“Siamo sotto attacco! Venite, presto!”
Regina riconobbe immediatamente la voce di Emma e avvertì in essa una celata preoccupazione.
Le sue gambe ripresero a muoversi, scattando veloci, senza che lei gliel’avesse ordinato. Il cuore, silente fino a quel momento, prese a battere freneticamente, mentre la paura iniziava ad invadere ogni fibra del suo corpo. Senza pensarci, portò una mano sulla maniglia della porta, aprendola di scatto. In circostanze diverse, Regina non si sarebbe mai lasciata andare ad un gesto tanto sconsiderato e pericoloso, rinunciando all’unica possibilità di salvare se stessa ed Emma. Ma, in quel momento, non era la ragione a guidare le sue scelte. E così, Regina aprì la porta, ben cosciente di essere ignara del pericolo incontro a cui stava volutamente andando.
Ma quando la porta si aprì, mostrando ciò che celava, Regina Mills arrestò ogni suo movimento, la presa ancora salda intorno alla maniglia della porta.
La scrivania, solitamente piena di fogli e cartelle cliniche, era immacolatamente vuota. Ad occuparla, vi era solo la dottoressa Swan.
Emma, infatti, era in piedi sul tavolo al centro della stanza, con un’espressione di assoluta confusione dipinta sul volto. Ma c’era qualcosa di diverso in lei. Non indossava il solito camice bianco ma, al suo posto, vi era un giacca lunga e di colore rosso, con decorazioni dorate. In mano, stringeva una spada di plastica e il suo corpo era ancora proteso in avanti, pronto all’attacco. Un attacco che era stata troncato dall’entrata in scena di Regina che, in quel momento, non riusciva a far nulla se non continuare a fissare la donna, le labbra leggermente schiuse, testimoni della sua sorpresa.
“Emma! Non ci avevi detto che avevi finalmente trovato il vicecapitano!”
A quelle parole, Regina spostò lo sguardo da Emma per posarlo sul proprietario della squillante voce e, solo in quel momento, si rese conto che non erano sole nella stanza. Con loro, infatti, vi erano quattro bambini.
Nell’udire quelle parole, Emma si lasciò andare ad una sonora risata, che ebbe il potere di riempire l’intera stanza, catturando nuovamente l’attenzione di Regina, che osservò la giovane dottoressa sedersi sulla scrivania, mentre poggiava la spada al suo fianco e richiamava a sé i piccoli bambini. Erano passati molti giorni dalla prima volta che Regina aveva visto quel sorriso che, in quel momento, era tornato a baciare le labbra della donna, eppure quella luce mistica che circondava la giovane dottoressa continuava ad incantarla.
Emma prese in braccio il bambino che aveva parlato, sulla cui testa svettava una bandana arancione dai disegni neri.
“Allora ciurma, vi presento la signora Mills- disse Emma, rivolgendo a Regina un caloroso sorriso- lei è…”
“Lei non è la signora Mills.” La interruppe il bambino, seduto a cavalcioni in braccio alla dottoressa.
Regina si accorse che, stranamente, si teneva a una leggera distanza da Emma.
“Cosa intendi, Tiger?” chiese Emma, senza mai perdere il suo sorriso.
“Tiger ha ragione, capitano. Questa donna non è semplicemente la signora Nits.” Rispose una bambina. Anche lei portava una bandana, di un blu intenso con ricami argentati.
“Mills, Luna.” La corresse dolcemente Emma.
“Quello che è.” Rispose la bambina, alzando le spalle.
“Andiamo, capitano! Pensa davvero di poterci prendere in giro così? Siamo pirati, certe cose le capiamo subito.” Disse Tiger, con nuova convinzione.
“Non vi sto dando degli stupidi, ragazzi, né vi ho in alcun modo nascosto qualcosa.”
“Ma ci hai nascosto il vicecapitano!” riprese Tiger, mettendo su un adorabile cipiglio, che fece allargare ancor di più il sorriso di Emma.
“Capitano, credo proprio che la sua idea di farci una sorpresa sia totalmente fallita.” Disse un terzo bambino, appoggiato al muro in fondo alla stanza. Sul suo capo, invece, svettava una bandana di un marrone chiaro con piccoli ricami bianchi.
“La tua sarebbe un’ottima osservazione, Piccolo Falco, se solo le cose fossero realmente così. Ma io non volevo farvi nessuna sorpresa.”
“Ma andiamo!- disse nuovamente Tiger- È chiaro che lei è qui perché è il nostro vicecapitano!”
“Invece non è così. La signora Mills è qui per altre ragioni.”
“Bene, allora da oggi è il nostro vicecapitano, con tutte le sue altre ragioni.”
Emma si lasciò andare ad una leggera risata, prima di riprendere a parlare.
“Ma non funziona così, Tiger. Non puoi costringere una persona a fare qualcosa che non vuole.”
“Ma chi non vorrebbe essere un pirata come noi?” chiese una piccola vocina. A parlare, era stata la bambina seduta per terra, il capo coperto da una bandana dorata dai ricami di un lieve arancione. Era la più piccola del gruppo.
Emma stava per risponderle, ma fu anticipata da Regina, che andò a sedersi di fronte a lei.
“Come ti chiami?”
“Il mio nome da pirata è Star.” Rispose la bambina, puntando i suoi occhi azzurri in quelli di Regina, mentre un sorriso si allargava sul suo giovane volto.
“Perché desideri diventare un pirata?”
“Io non desidero diventare un pirata. Io sono un pirata.”
“Non preferiresti essere una principessa? Come quelle delle favole.”
“Certo che no.” Rispose Luna, andandosi a sedere accanto a Stella.
“Perché?” chiese Regina, incuriosita da quella risposta.
“Semplice, perché i principi e le principesse non rubano.” Rispose Tiger, sciogliendo l’abbraccio di Emma e andandosi a sedere di fianco alle due bambine.
Regina rivolse il suo sguardo ad Emma, comodamente appoggiata alla scrivania, le braccia incrociate.
“Appunto. Rubare non è una bella cosa.” Disse, rivolgendosi nuovamente ai bambini.
Nell’udire quelle parole, un sorriso furbetto si allargò su ognuno di quei piccoli visi, come se tutti, in fondo, si aspettassero quella risposta.
“Dipende.” Disse Falco, avvicinandosi al piccolo gruppo e andandosi a sedere insieme a loro.
“Dipende?” chiese scettica Regina.
“Il nostro capitano dice che dipende da cosa rubi. Dice che rubare può anche rendere eroi.” Disse Luna.
“Ah sì?- chiese Regina, leggermente infastidita da quella situazione, perché mai avrebbe creduto che Emma potesse dispensare simili insegnamenti- Quindi voi siete pirati perché rubate? E cosa rubate, i giocattoli degli altri bambini?”
A quelle parole, i quattro bambini rivolsero a Regina un dolce sorriso, di quelli che si riservano alle persone che faticano a comprendere anche la realtà più semplice.
“No, non rubiamo giocattoli. Nel nostro forziere non c’è spazio per gli oggetti.” Rispose Tiger.
“E allora cosa rubate?”
“La tristezza.” Rispose Star, con la sua lieve vocina.
Dopo quelle parole, il tempo parve fermarsi.
Regina smise di respirare per qualche secondo, guardando la piccola bambina dalla bandana dorata, mentre tentava di metabolizzare quella risposta. Ma fu tutto inutile.
“Che cosa?” si ritrovò a chiedere con un filo di voce.
“Noi rubiamo la tristezza delle persone e diamo in cambio i sorrisi. Infatti il nostro forziere è grande grande grande, perché la tristezza delle persone è tanta. Però anche i sorrisi sono tanti, anzi, sono infiniti!” E, per avvallare le sue parole, Star regalò a Regina il sorriso più bello che potesse donare, facendola sorridere a sua volta.
“Bene, ciurma- disse Emma, inginocchiandosi alle spalle del piccolo gruppetto- Direi di sciogliere la seduta settimanale di allenamento, il vostro capitano ha un impegno. Su, prendete le spade e tornate in reparto. Ora chiamo Ruby e vi faccio accompagnare.”
“Non ce n’è bisogno, Emma. Sono qui.” Disse una ragazza alta e slanciata, che era appena entrata nella stanza. Sul suo volto era dipinto un luminoso sorriso.
“Allora noi andiamo, capitano. Arrivederci vice.” Disse Tiger, salutando e dirigendosi verso la porta, seguito da tutti gli altri bambini.
“Ah, capitano- disse il bambino dalla bandana marrone, prima di varcare la soglia- La smetta di chiamarmi Piccolo Falco. Il mio nome è Falco.”
“Va bene, piccoletto.” Disse Emma, marcando l’ultima parola, ricevendo in risposta una divertente smorfia dal bambino, prima che questo svanisse dietro la porta.
Emma guardò ancora per qualche secondo il punto in cui era sparito Piccolo Falco, prima di rivolgersi a Regina.
“Perdona la confusione.”
Regina continuava a guardare la porta, quasi come se non avesse udito nulla.
Emma si avvicinò all’appendiabiti posto in fondo alla stanza, comprendendo il bisogno di Regina di restare da sola con i suoi pensieri. Conosceva bene quella situazione, il momento in cui comprendi quanto sia sottile il confine tra ciò che credevi di conoscere e ciò che conosci realmente. Il confine che separa l’idealizzazione di una realtà dalla realtà stessa. La consapevolezza che, in fondo, nessuna immaginaria visione potrà mai farti provare il sapore amaro e aspro dell’inutilità.
Emma sapeva bene contro cosa stava combattendo Regina, perché, in passato, quel nemico fu anche il suo. E sapeva che, per quanto potesse farle sentire la sua presenza, quella era una battaglia che la donna doveva combattere da sola.
Solo quando Emma si fu tolta la lunga giacca rossa, indossando nuovamente il camice bianco, Regina trovò il coraggio di voltarsi verso di lei.
“Erano bambini.”
“Già.” Rispose semplicemente Emma, sistemandosi il colletto.
“Emma- riprese Regina, puntando i suoi occhi in quelli della donna, permettendole di leggere tutta la confusione che albergava in essi- Quei bambini sono…”
“Sì.” Rispose semplicemente la dottoressa.
Regina andò a sedersi, per poi coprirsi il volto con le mani e sospirare.
“Non ci posso credere.”
Emma prese posto all’altro lato della scrivania, mentre i suoi occhi si velavano di una lieve tristezza.
“È una realtà. Una delle tante con cui dobbiamo imparare a convivere.”
Gli occhi di Regina saettarono in quelli di Emma, brucianti di ira.
“Convivere? Mi stai dicendo che dobbiamo semplicemente coprirci gli occhi o girare la faccia davanti a tutto questo?”
“È ciò che l’uomo fa da sempre.”
“Ma sono bambini! Non hanno alcuna colpa, non meritano questo destino.”
“Se c’è una cosa che ho capito in tutti questi anni, Regina, è che la vita non guarda negli occhi nessuno. Quello, è compito della morte e, purtroppo, la morte non può sottrarsi al suo ruolo. Nel momento in cui nasciamo, per questa vita siamo già abbastanza adulti per poter morire. È questa, la realtà che ci è destinata.”
“Tutto questo è ingiusto.”
“A quanto pare, non lo è poi così tanto.”
L’ira che, fino a quel momento, era rimasta confinata nello sguardo di Regina, straripò dai suoi occhi, andandosi a riversare sul suo volto, facendolo contrarre, rendendo la cicatrice, che svettava sul suo labbro superiore, ancora più visibile.
“Ma che cosa stai dicendo.” Sibilò la donna.
“La verità, Regina. Solo la verità. Vuoi accusare il fato ingiusto o la beffarda vita? Bene, fallo, accomodati pure al tavolo dei finti perbenisti. Ma non obbligarmi a sedere con te.”
“Tu stai delirando, Emma.”
La dottoressa si alzò, dirigendosi verso la finestra. Aprì una delle tende, in modo che il sole entrasse nella stanza e che le inondasse col suo calore. Dando le spalle alla sua interlocutrice, impedendole di vedere il suo volto, Emma riprese a parlare.
“Di certo questa vita è ingiusta, Regina, e su questo non posso che trovarmi d’accordo con te. Ma di tutte le morti di cui sentiamo parlare, quante di queste sono davvero riconducibili al destino avverso?”
Emma si voltò, permettendo a Regina di ammirare la nuova luce che brillava nei suoi occhi.
“Cosa intendi, Emma?” chiese la donna, ritrovando la sua calma.
“Alcuni bambini muoiono di fame, mentre quintali di cibo vengono sprecati nei paesi che tendiamo a definire evoluti. Altri, muoiono durante le guerre, vittime innocenti della brutalità e della stupidità umana. Altri ancora, perdono la vita a causa di malattie facilmente guaribili in altri paesi del mondo. E ad altri, la vita viene stroncata da un’esplosione, perché qualcuno aveva deciso che dovevano divenire kamikaze. In alcuni paesi, la violenza sui minori è divenuta addirittura oggetto di guadagno e, se aggiungi alla cifra qualcosa in più, puoi anche decidere di uccidere quel bambino che tu stesso hai seviziato. Ora, dimmi, Regina, è davvero la vita ad essere ingiusta o forse siamo noi a non esserne degni?”
Regina non rispose. Aveva i gomiti puntati sulle ginocchia, mentre le mani le coprivano metà del suo volto, lasciando scoperti solo gli occhi. Quegli occhi scuri, puntati su ciò che non era presente in quella stanza ma che, ormai, era presente dentro di lei.
Emma rimase immobile a guardarla, attendendo che si riprendesse. Era cosciente di quanto forti fossero state le sue parole, ma era sicura che Regina avrebbe saputo metabolizzarle e reagire. E così, quando la donna riprese la posizione eretta, Emma riprese a parlare.
“La verità è che a noi non importa, Regina. Non ci importa se degli innocenti muoiano, non ci importa della vita di quei bambini. Possiamo coprire il nostro volto con miriadi di maschere raffiguranti la tristezza che il mondo vuole vedere sui nostri visi, ma la verità è che, fintanto che non ci toccherà, fintanto che non ci interesserà in prima persona, a noi non importerà mai nulla della sorte di quei bambini.”
“Cosa hai intenzione di fare?” chiese Regina, tornando a puntare il suo sguardo in quello di Emma.
Sapeva che quella giovane dottoressa non avrebbe mai potuto fare nulla, eppure quegli occhi così verdi la spingevano a credere che, se mai ci fosse stato qualcuno capace di cambiare le cose, anche in maniera minima, quella persona era la stessa che, in quel momento, aveva di fronte.
“Cosa potrei mai fare, Regina?- chiese Emma, tornando a sedersi- Se potessi fare qualcosa, credimi, lo farei. Ma tutto questo è aldilà della mia portata, aldilà della portata di qualsiasi uomo. Purtroppo, questo è un male che solo l’intera umanità può estirpare. Tutto ciò che posso fare io, nel mio piccolo, è cercare di insegnare a quei bambini l’importanza di vivere.”
“L’importanza di vivere quando si trovano a dover combattere un nemico simile?”
“Fa differenza? Oggigiorno, l’aspettativa di vita delle persone si è molto allungata, ma di queste, quante possono dire di aver vissuto davvero?”
“Cosa intendi?”
“Regina- disse Emma, piegandosi leggermente in avanti- c’è una grande differenza tra vivere e sopravvivere e, ti posso assicurare, la maggior parte di noi si limita a sopravvivere.”
“E cosa bisogna fare per smettere di sopravvivere e iniziare a vivere?”
“Semplicemente iniziare a vedere le cose belle che ci circondano, nonostante la pioggia, nonostante gli errori. Nonostante la malattia. Godere di ciò che si ha e non rincorrere ciò che si vorrebbe avere.”
Regina si lasciò andare ad una leggera risata, per poi tornare a guardare Emma, regalandole un meraviglioso sorriso.
“E così quei bambini vorrebbero che io fossi il loro vicecapitano.” Disse infine, decidendo di portare il discorso su temi più leggeri.
“Ti sbagli, non lo vogliono. Per loro, tu già lo sei.”
“Come mai hanno scelto me?”
Emma indicò il foulard che copriva il capo di Regina e che non aveva mai abbandonato quel luogo, fin dal giorno in cui gli era stato regalato.
“Per quello. Portiamo lo stesso foulard, di conseguenza io e te rivestiamo due cariche molto simili, ai loro occhi.”
“Solo per questo? Solo per il foulard?”
“Non sottovalutare quelle piccole pesti. Credimi, sanno andare oltre qualsiasi apparenza.”
“A proposito di quei bambini- disse Regina, incrociando le braccia al petto- Non ti sembra di star esagerando con loro? Capisco la tua volontà di voler dar loro un motivo per vivere, ma il fardello che gli hai affidato è troppo pesante.”
“A cosa ti riferisci?”
“Emma, quei bambini credono di poter salvare le persone dalla tristezza, di poterle salvare da loro stesse.”
“Loro non si limitano a crederci, Regina. Non si sono mai limitati solo a questo. Loro ci riescono davvero a salvare le persone.”
“Come fai a dirlo?”
“Perché, se non fosse così, io adesso non sarei qui a parlarti.”
Regina riservò ad Emma uno sguardo confuso, non comprendendo a cosa l’altra stesse alludendo.
“Che significa?”
“Regina, non credere che la persona che oggi hai davanti non abbia mai dovuto affrontare momenti difficili.”
“Non l’ho mai creduto, infatti. Anzi, io credo che a te le cose difficili piacciono, altrimenti non saresti ciò che sei.”
Emma si lasciò andare ad una leggera risata.
“Devo darti ragione, su questo.”
“Allora, cosa hai dovuto affrontare?”
“Diciamo che un tempo anche io ero affetta da una specie di tumore.”
Appena Emma ebbe pronunciato quelle parole, il silenzio calò nella sala. Un silenzio carico di tensione e preoccupazione.
“Che cosa?- chiese infine Regina, con un filo di voce- Tu avevi un tumore?”
“In un certo senso.”
“Fammi capire bene. Tu avevi un tumore e quei bambini ti hanno salvata?”
“Esattamente.”
“Stai scherzando?” chiese scettica Regina.
“Non tutti i tumori colpiscono le cellule.”
Regina meditò su quella risposta, prima di porre la sua domanda.
“Che significa, Emma?”
“Quello che ho detto.” Rispose la dottoressa, con un sorriso divertito sul volto.
“Mi stai prendendo in giro.” Concluse Regina.
“Assolutamente no. Ora, se vuoi scusarmi, devo andare nei vari reparti a fare le visite quotidiane.” Disse Emma, alzandomi.
“Credevo dovessi visitare me.” rispose Regina, alzando un sopracciglio.
“Per tua sfortuna- cominciò Emma, avvicinandosi alla donna e piegandosi leggermente su di lei- il turno delle visite ambulatoriali è appena terminato. Credo che sarai costretta a tornare domani.”
“Si può sapere cosa mi nascondi, Emma? Perché non mi hai mai detto che anche tu eri malata?”
“Non c’è molto da dire al riguardo, Regina.”
“Credevo avessimo superato questa fase di cordiale rispetto.”
“Non credere che il mio non volerne parlare sia legato ad un mio malcelato desiderio di tutelarmi da te, perché non è assolutamente così. Se davvero ci tieni a scoprire cosa nascondo, Regina, allora torna domani mattina. Ma, nel frattempo, prova a scoprire il nome del mio male.”
“Emma -La chiamò Regina, proprio nel momento in cui la donna stava per aprire la porta- Perché lo fai?”
“Cosa intendi?”
“Perché ti fai coinvolgere così tanto quando sai che quei bambini potrebbero…” cominciò Regina, ma capì subito di non avere la forza di continuare.
“Non farcela.” Terminò per lei Emma.
Lo sguardo profondamente triste e preoccupato di Regina si incatenò in quello di Emma.
“Non sei debole, Regina. Semplicemente, io affronto questa realtà da più tempo- la rassicurò la dottoressa, comprendendo l’inquietudine dell’altra- In ogni caso, lo faccio per un motivo molto semplice.”
“Quale sarebbe?”
“Che tutto il dolore che io potrei mai provare non varrà mai quanto un loro sorriso.”
E con quelle parole, Emma uscì dalla stanza, lasciando Regina da sola con i suoi pensieri.
 
Dopo qualche minuto, la porta dello studio di Emma si aprì nuovamente.
“Missione compiuta! I bambini sono sani e salvi nelle…”
Regina alzò gli occhi, fino a quel momento persi nel vuoto, puntandoli sul viso della ragazza, le cui labbra erano leggermente schiuse, immobili su quelle parole che non sarebbero mai state pronunciate.
Regina riconobbe immediatamente la giovane donna che era venuta a prendere i bambini, qualche ora prima. Ma, questa volta, a differenza della prima, lasciò che il suo sguardo indugiasse sulla sua persona. Portava un camice bianco, con una piccola targhetta attaccata alla tasca superiore del camice, che riportava la sigla TSRM. I capelli, lisci e neri come la più oscura delle notti, terminavano in ciocche di un rosso vivo, simile a quello del sangue.
“Mi perdoni, avevo visto che la porta era aperta e così sono entrata. Credevo che Emma fosse ancora nello studio.” Disse la ragazza, mentre il suo viso si rilassava in un luminoso sorriso.
“No, la dottoressa Swan è andata a fare le sue visite in reparto.”
“Quindi non tornerà prima dell’ora di pranzo. Allora, come mai è ancora qui, signora Mills?”
Regina socchiuse leggermente gli occhi, mentre un’espressione di assoluta diffidenza si dipingeva sul suo volto.
“Ci conosciamo?”
“Ruby Lucas, al suo servizio- rispose la ragazza, inscenando un inchino- Lei forse non mi conoscerà, ma io conosco lei.”
“Come?” chiese Regina, cercando di nascondere la sua curiosità.
“In primis- cominciò Ruby, andando a prendere posto sulla sedia che, solitamente, era occupata da Emma- perché io sono la persona a cui chiese indicazioni per raggiungere lo studio di Emma, la prima volta che è stata qui. In secondo luogo, perché lei è la donna che ha colpito Emma e, mi creda, una notizia del genere non rimane silente a lungo.”
Il colorito di Regina svanì completamente dal suo volto, nell’udire quelle parole.
“Andiamo, non c’è bisogno che reagisca così. È stata grandiosa.”
“Prego?”
Ruby si sporse in avanti, mentre un sorrisetto malizioso si allargava sul suo volto, come se stesse per confidare alla donna che le sedeva di fronte un enorme segreto.
“Sa quante volte ho cercato di colpire Emma? Ne ho perso il conto, oramai. E, mi creda, in tutti questi anni, non ci sono mai riuscita. Poi arriva lei ed ecco che l’indomabile dottoressa Swan si ritrova a dover camminare per i corridoi dell’ospedale con un bel livido sul volto. Non c’è che dire, lei si è davvero guadagnata la mia ammirazione.”
 “Perché dovrebbe voler colpire la dottoressa Swan?” chiese guardinga Regina, accogliendo in maniera silente il complimento della ragazza.
“Eviti certi formalismi in mia presenza, signora Mills, perché so perfettamente che anche lei si rivolge ad Emma col suo nome. In ogni caso, non c’è un vero e proprio motivo. È da quando ci conosciamo che va avanti questa sfida tra di noi.”
“Si direbbe che siate molto legate.”
“Ovvio, è la mia migliore amica.”rispose Ruby, mentre il suo sorriso, da malizioso, diveniva dolce.
“Avete frequentato gli stessi studi?” chiese Regina, curiosa di saperne di più sul passato della giovane dottoressa dagli occhi verdi.
“La nostra amicizia non è nata tra i banchi di scuola, signora Mills- rispose Ruby, comprendendo l’implicita richiesta della donna- E non abbiamo perseguito gli stessi studi universitari. Io ed Emma, semplicemente, proveniamo dallo stesso luogo.”
“Capisco.” Rispose semplicemente Regina.
Il silenzio calò tra le due, un silenzio statico, che iniziava ad assumere il sapore del disagio, almeno per quanto concerneva Regina.
Ruby, infatti, continuava a guardare la donna, il sorriso sempre sulle labbra, mentre si dondolava dolcemente sulla sedie, in un moto che ricordava vagamente quello delle onde stanche che si infrangono sugli scogli.
“Allora, quante volte si è posta quella domanda?” chiese infine la ragazza, distogliendo Regina dai suoi pensieri.
“Prego?”
“Quante volte si è chiesta il motivo per cui Emma faccia tutto questo.”
Lo stupore che quelle parole procurarono in Regina, si riversò sul volto della donna, facendo allargare maggiormente il sorriso di Ruby.
“So che in questo momento lei si sta chiedendo come io faccia a saperlo, ma la risposta è semplicissima. Io conosco Emma, so come è fatta e so con quanta dedizione si dedica al suo lavoro. Poi lei, signora Mills, rappresenta un caso davvero particolare.”
“Perché sarei un caso particolare?” chiese Regina, cercando di recuperare parte della sua fermezza.
“Perché lei è la manifestazione del suo passato.”
Regina rivolse uno sguardo serio alla donna, incerta se chiederle o meno cosa fosse successo nel passato di Emma. Ma, soprattutto, quale male, quella ragazza, era stata costretta a dover combattere.
“C’è qualcosa che vuole chiedermi?” disse Ruby, comprendendo il motivo dell’esitazione che leggeva in quello sguardo.
“Lei conosce Emma da molto tempo?”
“La conosco da così tanto da non faticare a considerarla come mia sorella.”
“Bene- disse Regina, facendo un respiro profondo e cercando di trovare la forza di porre quella domanda- Emma era malata?”
“Precisamente- disse Ruby, leggermente protesa in avanti, il capo sorretto dalle mani- A quale malattia fa riferimento?”
“Tumore.”
“Capisco. Emma cosa le ha detto al riguardo?”
“Nulla di più di quanto le ho detto.”
“Le ha detto il nome del suo male?”
“No, certo che no. Penso sarebbe stato anche inutile, non ho tutta questa conoscenza in campo oncologico.”
“Io credo, invece, che la conoscenza del nome sia di fondamentale importanza, in questo discorso.”
Regina la guardò perplessa, sempre più confusa da quella storia.
“Le ha detto altro, signora Mills?”
“Ha detto che posso provare a capirlo da sola e che, qualora non ci fossi riuscita, me l’avrebbe detto lei.”
“Allora segua il consiglio di Emma, signora Mills. Ora devo proprio andare, la mia pausa è finita.” Disse Ruby, alzandosi dalla sedia e dirigendosi verso la porta.
“E se non volesse dirmelo?” chiese Regina, mentre il suo tono tradiva una certa preoccupazione.
“Emma mantiene sempre la parola data, ma, qualora questo non bastasse a rassicurarla, le darò un consiglio. La risposta si trova nel suo presente, signora Mills. Buona giornata.”
Detto ciò, Ruby uscì dalla porta, lasciando nuovamente Regina da sola.
La donna attese ancora qualche minuto, dopodiché recuperò la sua borsa e si incamminò con passo spedito verso l’uscita. Una volta giunta all’auto, mise prontamente in moto e guidò verso casa, con un unico pensiero ad affollarle la mente.
Appena entrò nella sua abitazione, Regina si diresse verso il computer portatile, lo accese e cominciò la sua ricerca.
Le ore passarono veloci come minuti, mentre i suoi occhi si districavano tra nomi impronunciabili e definizioni mediche. Eppure, per quanto diversi apparissero quei tumori tra di loro, tutti avevano un’origine comune. Le cellule. Ma, il tumore che le interessava, non aveva un origine cellulare. O almeno, questo le aveva detto Emma.
Regina si appoggiò con fare stanco allo schienale della sedia, chiudendo per un attimo gli occhi, immersa nel silenzio della sua immensa abitazione, con il ronzio della ventola come unica compagnia. E fu in quel momento che un’idea le balenò nella mente, assurda quanto geniale. I suoi occhi si spalancarono di colpo, mentre un sorriso le si allargava sul volto. Regina guardò per un’ultima volta lo schermo del suo computer, prima di spegnerlo. Perché, finalmente, aveva la risposta che cercava.
Ruby Lucas aveva detto la verità, la risposta, che tanto aveva anelato trovare, era sempre stata nel suo presente.


~Angolo autrice~
Ed eccoci giunti anche alla fine di questo quinto capitolo! 
Sì, so che nella cronologia riusltano essere sei, ma uno di questi è un avviso che, certo, potrei benissimo eliminare, ma dal momento che sono presenti dei commenti, mi dispiacerebbe eliminare la voce di quelle persone e, soprattutto, eliminare il tempo che mi hanno dedicato, perché è davvero prezioso.
Che dire, per questo capitolo non ho molto da aggiungere, spero che tutto ciò che aveva da esprimere sia arrivato tramite questi righi che avete appena letto.
Per quanto riguarda l'idea di vedere i bambini come piccoli pirati, questa nasce nel lontano 2013, quando la mia avventura universitaria era appena agli albori. 
In quel periodo, mi ritrovai a fare tirocinio in radioterapia e qui ebbi la possibilità di conoscere un piccolo angelo, che mi ispirò una storia dal carattere introspettivo e che, se vorrete, potrete trovare nel link qui sotto:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1624300&i=1

Per quanto riguarda la sigla TSRM, non so se qualcuno di voi si è domandato il significato di tale sigla, è l'acronimo di Tecnici Sanitari di Ragiologia Medica. Praticamente, il mio corso di laurea.
Bene, che dire, grazie come sempre per il calore che mi trasmettete con i vostri commenti. 
Alla prossima!

Ah, secondo voi, qual è il tumore di cui parlava Emma? Su, sbizzarritevi con la fantasia!

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Capitolo 7
*** Tenebre di luce ***


«L’ho scoperto».
Emma Swan alzò gli occhi dai suoi fogli, andando a posarli sulla donna che era entrata nel suo studio senza nemmeno bussare. Ma, d’altronde, quella non era una novità. Anzi, Emma iniziava quasi a considerare quell’azione parte integrante della sua quotidianità e fu per questo che non riuscì a trattenere quel sorriso che andò ad allargarsi sulle sue labbra.
«Cosa hai scoperto?»
«Finalmente so il nome della mia malattia» rispose Regina, andando a prendere posto sulla sedia posta di fronte alla scrivania della donna. Da quando ci si era seduta la prima volta, sentiva che quello era diventato il suo posto, in tutti i sensi. Era su quella sedia, in fondo, che si era svolta la sua vita negli ultimi tempi. Su quella sedia, aveva preso coscienza di se stessa, di quel tumore che l’affliggeva e la spaventava, di quella sua debolezza celata dietro quella maschera di fredda indifferenza. E, paradossalmente, era su quella sedia che Regina aveva compreso il profondo significato della parola vivere, proprio in quel periodo della sua esistenza dove la vita le sarebbe dovuta apparire come una chimera irraggiungibile. Ma lei, contro ogni sua previsione, l’aveva raggiunta. E, questo, grazie alla donna che le sedeva di fronte.
Emma inclinò leggermente il capo di lato, mentre un sopracciglio si alzava nell’udire quelle parole.
«Reputerei sorprendente il contrario, soprattutto dopo che ti sei sottoposta ad un’operazione e quando stai quasi per cominciare il tuo ciclo di chemio».
Regina socchiuse leggermente gli occhi, mentre un piccolo sorriso si affacciava sul suo volto.
«Questo tipo di ironia mi suona molto familiare, dottoressa Swan».
«Ho imparato dalla migliore, signora Mills» sussurrò Emma, tendendosi leggermente in avanti.
Regina si lasciò andare ad una lieve risata, scuotendo la testa per quella situazione così paradossale, lasciando che la sua ilarità contagiasse anche la giovane dottoressa. Ma d’altronde, il loro rapporto era nato così, con quel loro costante tentativo di primeggiare l’una sull’altra, su quella loro indole orgogliosa e allo stesso tempo combattiva che bruciava in fondo a quelle iridi così contrastanti eppure così simili. E, ogni volta, l’epilogo che seguiva quelle silenziose battaglie restava immutato, senza decretare né vinti né vincitori. Perché, singolarmente, ognuna di loro possedeva una forza tale da riuscire a contrastare qualsiasi avversità, rendendole uniche nell’anonima massa del conformismo. Ma solo quando erano insieme, quando quelle due forze di egual portata e di egual misura entravano in contatto, che accadeva l’inspiegabile, l’inimmaginabile. Perché quelle due forze, a discapito di qualsiasi previsione, invece di combattersi, si univano, amalgamandosi tra loro, rendendosi indissolubili l’una dall’altra. Ed era per questo motivo che nessuna delle due avrebbe mai potuto dirsi vincitrice nei confronti dell’altra. Perché la singola vittoria ne decretava in realtà due, così come la singola sconfitta implicava la perdita da parte di entrambe le fazioni.
«Tornando al discorso principale, Emma, credo di aver compreso quale sia il male di cui parlavi ieri».
«Non ne avevo dubbi» rispose con un sorriso la giovane dottoressa.
«Ma c’è una cosa che non mi spiego».
«Cosa?» chiese semplicemente Emma.
Regina abbassò lo sguardo, osservando distrattamente le sue mani, senza vederle realmente. Parlarle di quei pensieri, di quei sentimenti che per tanto tempo aveva negato a se stessa, di quella condizione in cui si era illusa di non vivere, si stava dimostrando l’azione più ardua da compiere. E non per sfiducia nei confronti della donna che le sedeva di fronte, quanto per una sua incapacità di estraniare quel suo mondo interiore. Quella sua piccola e fragile debolezza.
«Emma, nella mia vita ho fatto scelte e compiuto azioni che mi hanno portato a ciò che sono oggi, ciò che sono adesso. Non sono state azioni comprensibili né giustificabili in alcun modo, ma non me ne pento. Sarebbe inutile, dopotutto. Ero cosciente di ciò che facevo, ero cosciente del cambiamento che stava avvenendo intorno a me e soprattutto dentro di me e ho lasciato che avvenisse, senza ostacolarlo, senza impormi. Credevo semplicemente che la strada del successo prevedesse un’unica via, una via che comportasse qualche sacrificio e non mi sono mai chiesta se, in fondo, fosse giusto che quel sacrificio implicasse gli unici veri valori in cui credessi. Semplicemente, ho agito come un automa affamato di potere, di successo e di soldi. E ho lasciato che la mia parte umana morisse giorno dopo giorno, riducendomi a ciò che sono oggi. Un vuoto involucro di mera solitudine. Ed è questo, il nome di quel male di cui parlavi ieri, Emma, la solitudine».
«Il cancro dell’anima» disse semplicemente Emma, come a voler concludere il discorso della donna seduta di fronte a lei, mentre il suo sguardo si velava di una muta malinconia. Ed in quel momento, Regina comprese il dolore che si celava dentro quella giovane donna, dietro ogni singolo sorriso che le veniva donato. Dietro quegli occhi verdi che avevano la capacità di donare speranza anche al più oscuro degli animi.
«In ogni caso, la tua parte umana non è morta, Regina» concluse infine la giovane dottoressa, rivolgendole un dolce sorriso, cercando di infonderle una sicurezza che, in quel momento, sembrava mancare ad entrambe.
Regina le sorrise a sua volta, grata per quelle parole, per quel tentativo. Ma sapeva che la sua completa redenzione era ancora lontana, perché ciò che aveva fatto era troppo grave per poter essere semplicemente cancellato.
«Rimane il punto principale, Emma. Io ho meritato questa condizione, ho meritato la solitudine e le paure che ne derivano, perché mi sono macchiata di colpe molto gravi. Ma non capisco come tutto questo possa adattarsi su di te».
«Perché credi che io non meriti la solitudine?»
Regina la guardò per qualche secondo, prima di rispondere, perdendosi in quegli occhi chiari, in quelle sfumature che aveva imparato a conoscere e che poteva addirittura definire familiari.
Sorrise, pensando alla domanda che le era stata posta, a quella domanda che evita così accuratamente quel suo passato oscuro, fatto di scelte sbagliate e di coscienze sporche. Quello era uno dei pregi di Emma, il non chiedere mai. Avrebbe potuto fare mille allusioni alla sua vita, donare a quella donna frammenti di verità celate, con la consapevolezza che mai nulla le sarebbe stato chiesto, perché quella giovane dottoressa era nata con una dote unica quanto rara. Emma Swan era capace di saper ascoltare le persone, in ogni loro sfumatura. Riusciva a cogliere le paure e le ansie che si celavano nelle frasi spezzate, i rimorsi e i dolori dietro i silenzi pieni di parole non pronunciate. Ma, soprattutto Emma Swan sapeva aspettare. E avrebbe atteso, anche in eterno, pur di non costringere qualcuno a parlare contro la sua volontà. Pur di non costringere lei a rivelare il suo peccato più grande, il peso di quelle vite distrutte.
«Basterebbe guardarti, passare anche solo un’ora in tua compagnia per comprendere che una persona come te non merita alcun tipo di solitudine. Se tu fossi mia figlia, Emma, io non potrei che essere grata alla vita per avermi donato te. E credo che la tua famiglia la pensi nel medesimo modo».
Emma abbassò lo sguardo imbarazzata, mentre un sorriso incerto si allargava sul suo volto, per poi puntare nuovamente i suoi occhi in quelli castani della donna. E, in quel momento, Regina si accorse di tutta la tristezza che risiedeva in quelle iridi verdi. Una tristezza di cui non comprendeva l’origine.
«Forse lo sarebbero stati, ma non possiamo saperlo».
Quelle parole colpirono Regina in un modo così violento da lasciarla per qualche attimo senza respiro. Aveva compreso la verità che si celava dietro quella frase, ma aveva preferito resta cieca e sorda dinanzi ad essa. Perché quella confessione le aveva provocato un dolore che non era disposta a confessare. Un dolore che non era pronta a provare e che non avrebbe mai voluto conoscere.
«Cosa intendi dire, Emma?»
«Non ho mai conosciuto la mia famiglia, Regina. Non conosco i loro volti né i loro nomi, di conseguenza non saprò mai se sarebbero stati orgogliosi delle mie scelte o semplicemente della persona che sono diventata».
Il colorito di Regina sparì dal suo volto, mentre quella consapevolezza si faceva sempre più viva dentro di lei. Una consapevolezza che mise prontamente a tacere, ostinata ad aggrapparsi ad una piccola quanto insulsa speranza.
«Parli dei tuoi genitori biologici? Ma avrai avuto qualcuno che si sia preso cura di te».
Emma scosse lievemente la testa, senza mai abbandonare il suo sorriso. Regina la osservò alzarsi e superarla, ma non ebbe il coraggio di seguirla, di voltarsi verso di lei. Aveva paura di un suo rifiuto, aveva paura che Emma stesse fuggendo da lei, per non essere costretta a rivelare quel suo doloroso passato. Semplicemente, temeva che non si fidasse di lei a tal punto.
«Guarda che puoi voltarti, Regina, non ti mangio mica» disse la giovane dottoressa, quasi come se le avesse letto nel pensiero.
Regina si voltò lentamente e, quando i suoi occhi si posarono nuovamente sul viso di Emma, si sorprese di ritrovare su quel volto il sorriso che aveva imparato a conoscere. La malinconia, che aveva visto brillare in fondo a quelle iridi chiare, sembrava svanita. Il semplice spettro di un passato che era stato allontanato. Emma era seduta sul lettino per le visite, posto dall’altro lato della stanza, in attesa. Ma Regina rimase ferma, ancorata a quella sedia. Temeva che se si fosse alzata, le sue gambe non avrebbero retto. Che lei non avrebbe retto. E così rimase seduta, con solo il suo sguardo proteso verso quell’esile figura avvolta in quel camice bianco.
«Possiamo parlare mentre ti visito, Regina» disse Emma, comprendendo i timori della donna.
Un solo sospiro abbandonò le labbra di Regina, prima che quest’ultima si alzasse, incamminandosi verso il lettino, su cui prese infine posto.
Emma si pose di fronte a lei, in piedi, mentre le sue dita andarono a sfiorare la morbida seta della camicia. In un’altra situazione, Emma Swan avrebbe lasciato che fosse la paziente a togliersi gli indumenti per facilitare l’esame obiettivo, ma in quel momento, sapeva che Regina aveva bisogno del suo aiuto. E così fu lei a toglierle la camicetta, con gesti leggeri quanto gentili, prima di farla stendere e iniziarla a visitare.
 «Ho vissuto fino ai diciotto anni in un orfanotrofio, è da lì che proviene il mio cognome» cominciò Emma, mentre le sue mani vagavano sul corpo di Regina, in cerca di qualche anomalia.
«Quindi, tutti i bambini che vivevano lì ora hanno il tuo stesso cognome?»
«No, credo di esser stata l’unica persona ad aver fatto una scelta simile».
«Perché?» chiese con un filo di voce Regina, mentre cercava gli occhi di Emma.
«Per un motivo molto semplice a dire il vero- rispose Emma, sorridendo quasi imbarazzata- Non sono sempre stata in orfanotrofio, ci sono stati dei momenti in cui la mia vita si è svolta tra le mura di altre case. Mura che non ho mai avuto modo di definire familiari, perché non mi veniva dato il tempo. Da piccola, ero una bambina difficile, irrequieta e iperattiva, quel genere di figlio che non va bene per una coppia che, di bambini, non ne ha mai avuti».
«Ora capisco» la interruppe Regina.
Emma si fermò, puntando il suo sguardo in quello della donna, incuriosita da quelle parole.
«Quando sei venuta da me, dopo esserci addormentate, tu preparasti per entrambe del tè. Ti chiesi se ti comportassi sempre come se ogni casa fosse la tua e tu mi rispondesti che avevi cambiato abbastanza case da sapere perfettamente dove trovare ciò che ti occorreva. Ti riferivi alle case delle famiglie a cui eri stata affidata, vero?»
«Allora stai attenta alle cose che dico- disse Emma con un sorriso raggiante, dando un piccolo colpetto sul ginocchio di Regina- Ti sei addirittura ricordata le parole che usai».
«Emma» la richiamò la donna, in un invito a rispondere alla sua domanda.
«Sì, Regina, mi riferivo alle case che ho cambiato quando ero piccola. In realtà non sono state molte, solo cinque».
«Cinque è un numero enorme- disse Regina, spostando lo sguardo verso il soffitto- Tu non ne avresti dovuta cambiare nemmeno una, Emma».
«Forse avrei dovuto trovare una persona come te» rispose semplicemente la dottoressa, riprendendo la sua visita.
La meraviglia si dipinse sul volto di Regina, nell’udire quelle parole. Aveva desiderato molte volte un figlio, una persona a cui dedicare tutto l’amore più vero e puro, a cui mostrare le meraviglie del mondo, da guidare nel percorso della vita. Ma il peso dei suoi errori l’aveva sempre frenata, perché l’idea che un giorno suo figlio, la persona che più avrebbe amato nella sua vita, le riservasse uno sguardo pieno di rancore e odio, la terrorizzava. Per questo, i suoi occhi erano diventati lucidi, nell’udire quelle parole. Perché, inconsapevolmente, Emma le aveva fatto il dono più grande che potesse mai ricevere. Perché per la prima volta nella sua vita, Regina si sentì desiderata, desiderata come mai si era sentita prima. Perché, per la prima volta, Regina si sentì desiderata come una madre.
«Quando fui riportata in orfanotrofio, l’ultima volta, avevo quindici anni e la consapevolezza che per me non ci sarebbe stata un’altra occasione- riprese Emma, a cui non erano sfuggite le calde lacrime che, in quel momento, brillavano negli occhi di Regina – Così, cominciai a credere che quello era il mio destino, un destino al quale non potevo sottrarmi».
«Un destino fatto di sofferenza?» chiese la donna, guardandola nuovamente negli occhi. Il suo viso era tirato in un’espressione di pura incredulità, perché non poteva credere che le catene del dolore avessero stretto nella loro morsa quel cuore così innocente già in quella tenera età.
«È il destino che tocca ai brutti anatroccoli» rispose Emma, con un enorme sorriso.
Regina le riservò uno sguardo confuso, che indusse la ragazza a continuare.
«Ho sempre creduto di essere sbagliata, Regina. Nessuno sembrava disposto a volermi nella sua vita, nemmeno i miei genitori. Così, si rafforzò in me l’idea di essere diversa, diversa da tutto ciò che mi circondava e, per questo motivo, incompresa. Esattamente come un brutto anatroccolo, rifiutato dai suoi simili a causa del suo manto nero e del suo aspetto differente. Ma come ogni anatroccolo che si rispetti, anche io sognavo i cieli immensi e il candido manto dei cigni, per questo motivo, una volta maggiorenne, decisi di non essere più semplicemente Emma, ma di divenire Emma Swan. Era giunto il momento che il piccolo anatroccolo diventasse un maestoso cigno, capace di volare e di rincorrere i suoi sogni».
Regina chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi, ma i suoi tentativi furono inutili. Sentiva i suoi muscoli rigidi, i suoi nervi tesi. Ma, soprattutto, sentiva la sua anima agitarsi, quell’anima che lei credeva aver perso per sempre e di cui, ormai, custodiva solo il ricordo. Quell’anima che si dimenava, che lottava contro le fredde sbarre della sua prigione per uscire, per potersi manifestare. Quell’anima che la faceva inorridire dinanzi alle ingiustizie e che l’aveva sempre spinta a lottare per un mondo migliore, per un mondo più giusto. E si chiese perché, ad una persona come Emma, il fato avesse destinato una vita simile, un’esistenza fatta di dolore e solitudine. Si chiese se quella ragazza troppo cresciuta avesse mai provato l’amore, se avesse mai provato sulla sua pelle il sapore di uno sguardo pieno di dolcezza. Si chiese se mai qualcuno l’avesse ringraziata, ringraziata per la sua forza, per la sua costante presenza, per il suo essere se stessa. Ma la domanda che più le premeva e di cui più temeva la risposta era se ci fosse mai stato qualcuno che l’avesse ringraziata semplicemente per la sua esistenza. Ma preferì tacere i suoi dubbi e le sue preoccupazioni, timorosa di rompere quell’equilibrio e quel rapporto che aveva instaurato con la donna che la stava visitando. Perché Regina era profondamente convinta che un’anima nera come lei non meritasse una tale fiducia ed una tale importanza.
«Credo di non aver mai incontrato qualcuno come te- disse infine, guardandola negli occhi e perdendosi in quelle iridi verdi, come accadeva sempre- Non so chi siano i tuoi genitori, ma di una cosa sono certa. Tu sei figlia della luce, Emma».
Emma rise nell’udire quelle parole, scuotendo leggermente la testa. Solo quando vide comparire la confusione nello sguardo della donna, si decise a motivare l’origine di quella sua risata.
«Credo che tu sia la prima a dirmi una cosa del genere, Regina. La maggior parte delle persone che mi ha conosciuto, tende a descrivermi come una donna criptica, solitaria, chiusa in se stessa e, in qualche modo, oscura».
La confusione di Regina continuò a crescere dopo quelle parole.
«Stiamo parlando della stessa persona, Emma? Cosa c’è di criptico e di oscuro in te?»
«Forse più di quanto tu possa immaginare» rispose semplicemente la dottoressa, distogliendo il suo sguardo da quello di Regina.
E, solo in quell’istante, la donna comprese l’unicità di quel momento, di quelle parole. Perché Emma non aveva deciso di confidarsi del suo passato con lei per distoglierla dal suo presente e da quel male, sia fisico che interiore, contro cui combatteva quotidianamente. Emma aveva deciso di parlarne perché si fidava di lei, di quella donna che era capitata quasi per caso nella sua vita. E quando Regina prese coscienza di quella profonda verità, un sorriso si allargò sul suo volto, un sorriso bagnato da silenziose lacrime. Lacrime che non sfuggirono allo sguardo attento di Emma.
«Ti ho fatto male?» chiese la dottoressa, nella voce una sfumatura di apprensione e preoccupazione.
Regina scosse leggermente il capo, mentre le lacrime continuavano a scorrere, senza che lei facesse nulla per asciugarle.
«No, tranquilla Emma, non mi hai fatto male».
Emma le sorrise, continuando la sua visita.
«Sai, lo faccio anche io».
«A cosa ti riferisci?»
«Alle lacrime. Quando piango, lascio che le lacrime scorrano sul mio viso. Non le asciugo mai».
«Come mai?» chiese in un sussurro Regina.
«Quando ero piccola, era raro che piangessi e, quando succedeva, cercavo di nascondermi, perché me ne vergognavo. Ma fu solo quando la solitudine cominciò ad essere la mia compagna più costante, che compresi il profondo significato del pianto. In quei momenti, quando la solitudine si trasformava in una morsa difficile da combattere, tutto ciò che desideravo era una carezza, qualcuno disposto a preoccuparsi per me. Ma, ogni volta, mi ritrovavo sola, con le lacrime come unica compagnia e come unica consolazione. Fu in quel periodo che iniziai a credere che le lacrime non fossero altro che silenziose carezze dell’anima, della mia anima. E, da quel momento, smisi di asciugarle o di allontanarle dal mio viso, perché, in fondo, una carezza non va mai rifiutata. L’unico modo per allontanare una lacrima è che qualcuno sostituisca quella carezza con la propria- disse infine Emma, portando una sua mano sul viso di Regina, asciugando una lacrima con quella sua leggera carezza- E a me non va che tu pianga, Regina».
Il sorriso della donna si allargò maggiormente, mentre la sua mano andava a sfiorare quella di Emma, ancora poggiata sulla sua guancia.
«Grazie, Emma».
La giovane dottoressa le sorrise, cosciente che quel ringraziamento non era riferito solo alle sue ultime parole.
«Di nulla, Regina» disse, sciogliendo quel loro contatto ma lasciando che i suoi occhi restassero incatenati a quelli scuri della donna.
«Non capisco come le persone possano trovare qualcosa di oscuro in te» disse infine Regina, perdendosi in quello sguardo luminoso.
«In realtà è semplice, Regina».
La donna la guardò, in attesa che continuasse, ma Emma rimase in silenzio, gli occhi fissi sul suo corpo, concentrati a compiere il loro dovere. La visita continuò in un rigoroso silenzio per minuti che parvero eterni, finché la dottoressa non si allontanò da Regina, invitandola a rivestirsi.
Regina la guardò sedersi dietro la scrivania, mentre abbottonava distrattamente la camicia, perdendosi nella contemplazione dei gesti della giovane donna. Inutile, per quanto ci provasse, ai suoi occhi Emma Swan appariva come il più puro degli esseri, nonostante l’oscurità che risiedeva nel suo passato. Restò ancora qualche minuto ad osservarla scrivere parole strettamente mediche sulla sua cartella clinica, per poi decidere di scendere da quel letto e tornare a casa.
«Ferma lì, non ho ancora finito» disse Emma senza alzare lo sguardo, ma notando i movimenti della donna con la coda dell’occhio.
Regina la guardò interrogativa, ancora seduta sul lettino delle visite.
«Credevo avessimo concluso».
«Dalla visita non ho riscontrato alcuna anomalia» rispose semplicemente Emma, poggiando la penna sulla scrivania e tornando a puntare i suoi occhi in quelli castani di Regina.
«Ottimo. Posso andare adesso?»
Emma scosse leggermente la testa, in una chiara negazione, mentre un sorriso divertito andava ad affacciarsi sul suo volto.
Regina socchiuse leggermente gli occhi, cercando di sfoggiare la sua espressione più dura e pericolosa.
«Si sta prendendo gioco di me, dottoressa Swan?»
«Tutto qui quello che sa fare, signora Mills?- chiese di rimando Emma, mentre il suo sorriso si allargava maggiormente e un lampo di sfida tornava a brillare in fondo alle sue iridi, come avveniva sempre quando si trovava a doversi confrontare con la donna- Perché, se così fosse, sono spiacente di comunicarle che sarebbe condannata a perdere contro la sottoscritta. Quell’espressione da finta dura non spaventerebbe nemmeno un bambino di cinque anni».
«A dire il vero- riprese la donna, incrociando le braccia sotto il seno- Questa espressione ha spaventato parecchi uomini».
«Dovevano essere uomini senza un briciolo di personalità, allora» concluse Emma, alzandosi dalla sedia e dirigendosi verso di lei.
«Sono costretta ad asserire, mio malgrado».
«Swan uno, Mills zero» disse la dottoressa, prendendo posto vicino alla donna.
«Si goda la vittoria, dottoressa, perché è l’unica che le concederò».
Emma le riservò un sorriso sornione, prima di rispondere, la sua voce ridotta ad un flebile sussurro.
«Ma io non sono in cerca di innumerevoli vittorie, signora Mills. Io auspico ad un’unica vittoria, quella eterna».
Regina restò a guardarla, il suo sguardo improvvisamente serio, mentre assaporava quelle parole e custodiva dentro sé la verità che celavano.
«Volevi parlarmi di qualcosa, Emma?» chiese infine, facendosi coraggio.
«In realtà- disse la dottoressa, guardando un punto imprecisato davanti a lei e facendo dondolare leggermente le gambe- credevo che fossi tu a voler sapere qualcosa».
Regina comprese immediatamente a cosa Emma stesse facendo allusione, così decise di restare in silenzio, attendendo che fosse la ragazza a continuare quel discorso che era stato evitato durante la visita.
«Sai, Regina, penso che la luce non mi sia mai stata destinata- cominciò Emma, puntando nuovamente i suoi occhi in quelli della donna- Ed è per questo che la mia è un’anima oscura».
Gli occhi della donna si allargarono, stupita quanto incapace di credere a quelle parole.
«Ma cosa stai dicendo, Emma?»
«La verità» rispose semplicemente la dottoressa.
 «Stai scherzando, vero?» chiese Regina, cercando sul volto dell’altra qualcosa che desse credito a quella sua effimera speranza. Ma il volto di Emma rimase impassibile, contro ogni sua aspettativa.
«Sei seria» concluse infine, il volto tirato in un’espressione di pura incredulità.
«Ovvio» rispose semplicemente la dottoressa, senza scomporsi.
«No, tu stai mentendo, Emma. Tutto questo non ha senso, non può avere senso».
«Ne ha più di quanto credi».
«No, Emma, non ne ha. Lì fuori ci sono persone che non si pongono minimamente il problema delle loro azioni, agendo per puro egoismo e per il proprio interesse, e tu vieni a parlarmi di anime oscure? Ascoltami bene, non so quando questa convinzione si sia radicata dentro di te, ma non permetterò che tu creda a questa idiozia per un secondo di più».
«Arrivi in ritardo, Regina- rispose Emma, con un sorriso- Perché sono ormai anni che ne sono convinta».
«Non è possibile- disse la donna, passandosi le mani sul volto- No, Emma, io non voglio crederci».
«L’oscurità non è così male, Regina- disse Emma, guardando il soffitto- Basta non lasciarsi sopraffare da essa».
«Non si tratta di lasciarsi sopraffare, Emma. Tu non la meriti, è questo il punto».
«Io ho voluto meritarmela, Regina- disse la dottoressa, guardandola nuovamente- Perché, se non fosse stato così, io oggi non sarei qui. Non sarei la persona che hai davanti».
Regina la guardò confusa, incapace di comprendere.
«Come può tutto questo averti formata, rendendoti la donna che sei adesso?»
«Perché io desideravo essere normale, Regina- rispose Emma, incrociando le mani dietro la testa e appoggiandosi al muro- Ma la normalità non desiderava me. Quando sono uscita dall’orfanotrofio, non ho fatto altro che tentare di dare un senso a questa vita, cercando di essere come i miei coetanei, ma invano. Più mi sforzavo di assomigliargli, più sentivo che tutto ciò era sbagliato, perché io non ero come loro. Che lo volessi o meno, io ero diversa e questa mia diversità mi avrebbe portato a soffrire, in ogni caso. C’era solo un modo per sfuggire a quel destino già scritto».
«Quale?» chiese Regina, in un sussurro.
«Accettarmi. Accettare i miei difetti, il mio essere. Ma, soprattutto, accettare la mia diversità e puntare su di essa, affinché divenisse la mia forza. Ho camminato molto sulla via della luce, Regina, godendo e beandomi del torpore del sole, ma io avevo un sogno da inseguire e, per quel sogno, ho dovuto sacrificare la luce. Ed è per quel sogno che ho cambiato tutte le mie scelte, decidendo di tornare indietro, di addentrarmi nelle oscurità dell’essere, in quel mondo così temuto da essere completamente ignorato. Perché io volevo diventare un medico, Regina, e un vero medico è colui che decide consapevolmente di camminare nell’oscurità, di abbracciare l’oscurità. Perché è semplice operare nella luce, salvare il salvabile. Ciò che è difficile e ostico è tentare di salvare chi non vuole essere salvato, chi crede di non meritare alcuna salvezza. Mentre gli altri decidevano di essere stelle brillanti in un giorno di sole, divenendo mere sfumature nell’immensità luminosa, io ho scelto di essere una stella solitaria, bruciante nell’oscurità della notte. Perché è nelle tenebre più oscure che una fioca fiammella può sprigionare un’accecante luce. E io ho deciso di essere quella fiamma, Regina. Ed è per questo che l’oscurità non mi pesa, perché questo è il mio posto. Questa è la mia missione».
Regina aveva ascoltato ogni singola parola senza mai guardare Emma. Era rimasta ferma, immobile nella sua posizione, a fissare un punto indefinito davanti a sé, timorosa di rompere quell’atmosfera eterea che sembrava circondarle, estraniandole dal mondo esterno. Dal canto suo, Emma continuava a fissarla, le mani sempre incrociate dietro la testa, in una posizione quasi fanciullesca. Ma, nelle sue parole, non vi era nulla di puerile, perché, in quell’insieme di sillabe e suoni, si poteva avvertire la vera essenza di quella giovane donna. E il peso di quelle parole gravava, in quel momento, sulle spalle e sull’animo di Regina, che si ritrovò a chiedersi, ancora una volta, perché proprio a lei fosse toccata una simile fortuna. Perché Emma Swan fosse stata destinata proprio a lei.
«Io… io non so come fai, Emma» disse infine, quando ebbe ritrovato, anche se in maniera minima, il controllo della sua voce.
«Non c’è un modo, Regina- rispose la dottoressa, volgendo di nuovo lo sguardo al soffitto- Ci sono solo le nostre scelte».
«Come ci sei riuscita?» chiese la donna, guardandola per la prima volta da quando aveva cominciato a parlare.
«A fare cosa?» chiese Emma, guardandola a sua volta.
«A sorridere nonostante le avversità».
«Semplice, Regina. Ho visto troppe ingiustizie per decidere di rimanere in silenzio».
«Decidere di rimanere in silenzio?» chiese scettica la donna.
«Se avessi potuto scegliere, Regina, sarei rimasta in silenzio, continuando a camminare sulla mia strada, ignorando le tacite richieste di aiuto. Ma non ci sono riuscita, semplicemente non potevo».
«Perché?»
«Perché sono umana, Regina, e il più profondo significato dell’humanitas prevede che ognuno di noi si prenda cura del suo prossimo, perché umano, cioè simile a noi. Il benessere degli altri è anche un nostro interesse».
«Non tutti la pensano così» rispose la donna, guardando a sua volta il soffitto.
«Semplicemente perché abbiamo paura. Prendersi cura dell’altro significa essere disposti a mettersi a nudo dinanzi ad occhi che non conosciamo. E fa paura, perché esporsi significa essere coscienti di poter rimanere feriti».
«Ma tu lo fai comunque» le fece notare Regina.
«Solo perché sono fermamente convinta di una cosa».
«E sarebbe?»
«Che l’unico modo per combattere le ingiustizie, il dolore e la sofferenza è quello di donare al mondo ciò che di più bello e prezioso questa vita ci ha dato. E, a me, la vita ha fatto dono della speranza».
Regina scosse leggermente la testa, mentre un sorriso si allargava sul suo volto.
«Tu sei unica, Emma».
«Allora siamo uniche insieme» rispose la dottoressa, guardando il soffitto distrattamente.
Regina la guardò confusa, non comprendendo le parole dell’altra.
«Non credo di essere unica, Emma. Anzi, se proprio dovessi definirmi, direi che l’aggettivo più idoneo sarebbe ordinaria».
«Nessuno ha chiesto il tuo parere, egocentrica che non sei altro- rispose Emma, con un sorriso di sfida sul volto- Qui conta il parere del medico e si dà il caso che il camice bianco lo indossi io».
«Rettifico, tu non sei unica, sei impossibile» precisò la donna, rivolgendo nuovamente alla dottoressa uno sguardo di disapprovazione, che ebbe come unico effetto quello di far scoppiare a ridere la sua interlocutrice.
«Effettivamente, ho un’insensata propensione per le sfide impossibili».
Regina scosse leggermente la testa, mentre si lasciava andare ad una leggera risata.
«Bene, dottoressa dalle sfide impossibili, credo sia giunto il momento che vada, prima che i suoi pazienti mi lincino per la lunga attesa».
«Effettivamente, potresti incorrere in questa spiacevole situazione».
«In tal caso, saresti condannata a portare il peso della mia morte sulla tua linda coscienza» disse la donna, scendendo dal lettino.
«Non credo che la mia coscienza possa definirsi linda, signora Mills- rispose Emma, seguendo la donna- Ma, in ogni caso, lascerei che le conseguenze delle mie azioni ricadessero su di me e su di me soltanto. Non permetteri mai che un’innocente si sacrificasse al mio posto, nemmeno se quell’innocente risultasse essere la persona più egocentrica che abbia mai conosciuto nella mia vita».
«Faccia poco la spiritosa, dottoressa, o rischia che la sua scadente ironia le si rivolti contro».
«Correrò il rischio» rispose Emma, avvicinandosi alla porta e appoggiandosi allo stipite.
Le due donne si ritrovarono ancora una volta l’una di fronte all’altra, mentre il silenzio calava nuovamente tra di loro. Gli occhi di Regina vagarono di nuovo in quelli di Emma, ma questa volta cercò di leggere in essi quel passato che, fino a quel momento, le era stato celato.
«Perché sorridi?» chiese Emma, con un’innocenza così pura che Regina riuscì a paragonare solo a quella di un bambino.
«Non dovrei?» chiese a sua volta la donna.
«Affatto, la mia era solo curiosità» tentò di giustificarsi Emma, quasi timorosa di aver fatto un passo falso.
«Sono felice» rispose semplicemente Regina, facendo nascere anche sul volto della dottoressa un tenero sorriso.
«Questo mi fa davvero piacere» rispose Emma, mentre apriva la porta.
«Ci vediamo tra quindici giorni?»
«In realtà vorrei che passassi domani mattina verso le dieci, se non ti dispiace».
«Credevo che la visita non avesse riscontrato alcuna anomalia» disse Regina, mentre il suo tono tradiva una certa inquietudine.
«Infatti è così. Solo che ci sono quattro piccole pesti che ci terrebbero a vederti».
«I pirati?» chiese Regina, sorpresa.
«Proprio loro» annuì Emma, mentre il suo sorriso si allargava maggiormente.
«Ok, allora ci vediamo domani» rispose la donna, piacevolmente sorpresa da quella richiesta. Perché non poteva credere che dei bambini, le persone più innocenti del mondo, desiderassero la sua compagnia.
Nonostante il saluto, Regina rimase ferma nella sua posizione, in cerca delle parole giuste per poter ringraziare la donna che le stava di fronte. Ma non ebbe il tempo di formulare alcuna frase, perché ogni suo tentativo fu stroncato sul nascere da quella giovane dottoressa.
«Grazie per oggi, Regina. Mi ha fatto davvero piacere parlare con te».
Le labbra della donna si schiusero appena, sorpresa nell’udire quelle parole. Ma ritrovò in poco tempo la sua fermezza, restituendo ad Emma il sorriso che le stava rivolgendo.
«Allora a domani, Emma» la salutò semplicemente.
«A domani, Regina».

 
~Angolo Autrice~
Sono quasi due mesi che non pubblico e, sì, immagino vogliate linciarmi, esattamente come i pazienti fuori lo studio di Emma! Purtroppo ho avuto un periodo pieno di esami e questo capitolo si è dimostrato essere più ostico di quel che credevo, perché oltre a parlare del passato di Emma, già di per sé difficile, in questo capitolo c’è anche molto di me e mettersi a nudo attraverso le parole non è sempre la cosa più semplice. In ogni caso, ci tengo a precisare una cosa. A volte mi è stato fatto notare che il personaggio di Emma sia, in qualche modo, più approfondito rispetto a quello di Regina. È vero, Emma rappresenta il mio ideale di medico, ciò che un giorno vorrei diventare, gli ideali che un giorno vorrei conseguire. Ma se la giovane dottoressa dagli enormi occhi verdi sembra rappresentare il futuro che vorrei poter scrivere per me stessa, c’è anche da dire che Regina rappresenta il mio passato e il mio presente, il mio lato oscuro e le mie paure più intime. Penso di non esser mai stata così dentro ad una storia come con questa ed è per questo motivo che, a volte, fatico quasi a scrivere, perché davvero è difficile liberarsi di tutte queste armature e analizzarsi, scindendo ciò che si è da ciò che si vorrebbe essere.
Passando al capitolo, e volendo sdrammatizzare un po’, spero di non aver ucciso nessuna SQ con la scena della camicia e della carezza! Sono sadica, I know, perché ho precisato dal primo momento che in questa storia non ci sarebbe stato alcun coinvolgimento amoroso e intanto vi strazio con queste cose. Vorrei però sottolineare che mai come in questo capitolo, Regina vede Emma come la figlia che non ha mai avuto, di conseguenza la commozione che ne consegue è da rapportare a questo stato d’animo della donna. Beh, che altro dire, mi scuso ancora per il ritardo e spero che il capitolo sia valso l’attesa.
Ah, in questo capitolo doveva esserci un’altra scena, quella con i bambini, appunto, ma dal momento che ritenevo questo capitolo abbastanza importante di suo, ho preferito rimandarla al prossimo! Ah, inoltre volevo comunicarvi che, tranne per cambiamenti di programma, mancano quattro capitoli per la fine della storia. Ciononostante, ci sarebbero, almeno per il momento, due capitoli extra che inserirò come spin-off di questa storia, dove mi piacerebbe analizzare il lato fragile di Emma e quello forte e determinato di Regina. Sono, infatti, capitoli abbastanza "duri", che avrebbero stonato con il messaggio di speranza e forza di questa storia ed è per questo che li inserirò in un contesto a parte.

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Capitolo 8
*** Un dolore che vale la pena provare ***


Erano le 9.59, quando Regina giunse fuori la porta dello studio della dottoressa Swan. Stava per alzare la mano, pronta a posarla sulla maniglia, quando la porta si aprì dinanzi ai suoi occhi. Appoggiata allo stipite, in una posa palesemente teatrale, Emma guardava l’orologio che portava sul polso.
«Le dieci in punto. Più precisa di un orologio svizzero, signora Mills» disse Emma, guardando la donna con un sorriso sornione.
Regina incrociò le braccia al petto e alzò un sopracciglio, sfoggiando nuovamente la sua espressione più seria e composta.
«Mi stavi aspettando?»
«Ovviamente» sorrise la dottoressa.
«Dietro la porta?»
«Dove avrei dovuto aspettarti?»
«L’hai fatto apposta».
Emma le rivolse uno sguardo fintamente innocente, mentre sul suo viso andava allargandosi un sorriso colpevole.
«Non so di cosa lei stia parlando, signora Mills».
«Sto parlando del fatto che lei mi abbia deliberatamente e palesemente atteso dietro la porta per poter, nella prima e unica volta nella sua vita, dottoressa Swan, essere più puntuale della sottoscritta» rispose Regina, gli occhi leggermente socchiusi.
Emma si lasciò andare ad una risata, prima di farsi da parte per lasciar entrare la donna, che la superò con un sospiro frustrato.
«Visto che quando voglio so essere puntuale? Migliore anche dell’orologio svizzero fatto persona».
«Solo perché sono le 10, Emma -rispose Regina, andandosi a sedere sulla sedia posta di fronte la scrivania, azione che ormai era entrata a far parte della sua quotidianità -Fissiamo un appuntamento alle 6 del mattino e vediamo chi sarà la ritardataria».
«Attenta, ti ricordo che sono la dottoressa dalle sfide impossibili, io» rispose Emma, prendendo posto di fronte alla donna.
Regina scosse leggermente il capo, lasciandosi andare ad una lieve risata, prima di riportare il suo sguardo sulla giovane dottoressa, lasciando che i suoi occhi si posassero sul foulard che ancora avvolgeva delicatamente il capo di Emma. A quella vista, un’espressione di assoluta tristezza si dipinse sul suo volto, mentre prendeva atto, nuovamente, del significato che si celava dietro quell’ornamento di tessuto. Rinuncia. Emma Swan era stata costretta a rinunciare ai suoi capelli, quei capelli fatti crescere con tanta cura, per poterla salvare. E, se non si fosse fermata in tempo, se non avesse deciso di dare una possibilità a quella giovane dottoressa, probabilmente i capelli non sarebbero stati l’unica cosa a cui avrebbe dovuto rinunciare. Se lei, Regina Mills, non si fosse fermata in tempo, se avesse deciso di denunciare Emma per quel pugno che segnò il loro primo incontro, la dottoressa Swan avrebbe perso il titolo di oncologa ancor prima che questo gli venisse conferito. Avrebbe dovuto rinunciare al suo sogno, un sogno per cui combatteva da tutta una vita. E il mondo avrebbe dovuto rinunciare ad un grande medico. E tutto, a causa della sua cecità.
Regina si portò una mano davanti agli occhi, come a volersi privare realmente della vista, per poter allontanare quei demoni che, in quel momento, si agitavano dentro di lei.
«Regina?- la richiamò Emma, notando quel comportamento insolito- Va tutto bene?»
La donna spostò la mano, puntando nuovamente il suo sguardo in quello verde della giovane dottoressa. Restò qualche secondo a fissare quelle iridi chiare, velate, in quel momento, di una lieve preoccupazione.
«Perché, pur vedendo, a volte tendiamo ad essere così ciechi?» chiese semplicemente Regina, ignorando la domanda che le era stata posta.
Emma sorrise, sistemandosi meglio sulla sedia, prima di rispondere.
«Forse proprio perché vediamo».
«Che intendi?»
«I vedenti peccano quasi sempre di superficialità, Regina. Per noi, vedere è estremamente semplice, a tal punto da dimenticare cosa si celi realmente dietro l’atto di guardare. Così, tendiamo solitamente a fermarci alle apparenze, saziandoci di ciò che ci è più immediato, illudendoci di conoscere e, di conseguenza, apprezzare ciò che ci circonda. Dal mio punto di vista, trovo che i vedenti siano i veri ciechi di questa società. Per una persona a cui è stata privata la vista, conoscere qualcosa sottintende un desiderio di fondo. Per me, apprezzare un fiore è semplice, basta vederlo, per loro, è tutto più complesso. Devono valutarne il profumo, la delicatezza dei petali, la fragilità dello stelo. Devono desiderarlo, devono esserci dentro con il loro corpo e la loro essenza. Ed è per questo che noi, pur vedendo, non vediamo affatto. Abbiamo dimenticato cosa significa guardare negli occhi una persona e scorgerci dentro la sua anima. Semplicemente, ci limitiamo a guardare, senza vedere realmente».
«Già, penso tu abbia ragione» rispose semplicemente la donna, portandosi entrambi le mani al volto, con un gesto che sembrava dettato dalla stanchezza, ma che in realtà nascondeva una profonda tristezza. Tristezza che non passò inosservata alla giovane dottoressa.
«Regina, che succede?»
Regina abbassò nuovamente le mani, tornando a guardare Emma negli occhi, perdendosi nuovamente in quello sguardo, cercando in quelle iridi chiare la luce che le avrebbe permesso di poter tornare a vedere, che l’avrebbe salvata da quell’oscurità in cui, semplicemente, vagava da tempo immemore.
«Credo di doverti delle scuse, Emma».
Emma si irrigidì sulla sedia a quelle parole, non comprendendo il motivo per cui Regina avesse sentito l’esigenza di pronunciarle.
«Regina-»
«No, Emma. Lasciami parlare, per favore».
Emma annuì, semplicemente, e Regina poté vedere i suoi occhi velarsi di una malcelata preoccupazione.
«Avresti potuto perdere tutto, a causa mia e della mia stupidità».
Regina si fermò un attimo, cercando le parole giuste per continuare, il suo sguardo perennemente legato a quello della giovane dottoressa, come se cercasse in lei la forza per proseguire.
Ed Emma non le fece alcun tipo di pressione, non approfittò mai di quella sua pausa. Semplicemente, attese, perché Emma era nata con una dote rara. Emma era nata con il dono di saper ascoltare anche i silenzi delle persone.
«Io ero… sono una persona molto legata alle regole. Sono quel tipo di persona che deve avere sempre tutto sotto controllo, quel tipo di persona che deve sempre esercitare un’ascendente sugli altri. Ho vissuto con la convinzione che le mie scelte fosse insindacabili, perfette nella loro concezione, impeccabili nella loro attuazione. E non mi accorgevo di quanta presunzione si celasse dietro le mie parole, dietro i miei gesti, dentro di me. Ed è stato a causa di questa presunzione, di quel controllo maniacale, che io ho avuto paura quando ti ho incontrata. Perché tu sei stata la prima persona che sia riuscita a tenermi testa, che non si sia lasciata intimidire. Hai una forza incredibile, Emma. Sei una persona incredibile e io non so se tu sia consapevole di questo, ma è così. Ed io, a causa del mio ego, della mia superficialità e della mia superbia, stavo per distruggere quella forza, stavo per distruggere te. A causa della mia cecità, del mio essere così presuntuosa, del mio credermi invincibile e capace di fare a meno dell’aiuto degli altri, io avrei potuto distruggere il tuo sogno, un sogno per cui lottavi da una vita. Io… mi dispiace, Emma. Davvero. Ho provato a non pensarci, per tutto questo tempo, ma era diventato un peso insostenibile».
Emma aveva ascoltato quello sfogo in un religioso silenzio, senza mai distogliere lo sguardo dalla donna che le sedeva di fronte. Quando Regina ebbe concluso il suo discorso, sul viso della giovane dottoressa si fece spazio uno dei suoi sorrisi più dolci, sorriso che Regina non poteva vedere, dal momento che aveva distolto lo sguardo. L’aveva guardata, per tutto il tempo di quella confessione. Emma doveva guardarla negli occhi e leggervi la sincerità delle sue parole. Ma quando era giunta alla fine, quando aveva concluso quella difficile confessione, non era riuscita a resistere e così aveva abbassato la testa, incapace di sostenere oltre quello sguardo, perché temeva ciò che avrebbe potuto leggere in fondo a quelle iridi chiare. Temeva di ritrovarvi disprezzo, astio e perfino odio. Tutti sentimenti che l’avevano accompagnata in quei suoi ultimi anni. Tutti sentimenti che portava dolorosamente addosso, come pesanti catene che la legavano indissolubilmente a quel passato di sbagli, rimorsi e rimpianti. Un passato che avrebbe voluto solo tener lontano. Un passato che avrebbe preferito dimenticare, forse per sempre.
«Regina- la chiamò dolcemente Emma, senza mai perdere il suo sorriso- Regina, per favore, guardami».
E Regina fece quanto le fu chiesto, portando nuovamente i suoi occhi a specchiarsi in quelli di Emma, potendo finalmente vedere il sorriso radioso che illuminava il suo viso.
«Tu sei qui» disse semplicemente Emma.
Regina le sorrise, nell’udire quelle tre semplici parole. Entrambe sapevano che non c’era bisogno di aggiungere altro. Regina era lì, su quella sedia. Il che significava che aveva messo da parte le sue paure, il suo perfezionismo, la sua mania di controllo. Aveva lasciato che le sue barriere cadessero, poco alla volta. E aveva permesso a qualcuno di aiutarla, per la prima volta nella sua vita.
Ma Regina sentiva che, per quanto Emma tentasse di rassicurarla, lei non meritava la sua clemenza.
«Emma-»
«No, Regina, ascoltami tu adesso. Quando sei entrata da quella porta, la prima volta, sapevo che sarebbe stato difficile provare a convincerti, provare ad aiutarti. La tua persona esprimeva tutta la forza e l’autorità che ti contraddistinguono. Sapevo a cosa andavo incontro, quando ti ho colpita con quel pugno, sapevo i rischi che correvo. Potevo perdere quanto avevo fatto, veder sfumare, dinanzi ai miei occhi, i sacrifici di una vita. Ma se non l’avessi fatto, Regina, se non mi fossi messa in gioco, avrei perso ancora di più. Avrei certamente messo al riparo la mia non ancora avviata carriera di oncologa, ma avrei perso me stessa, avrei perso ciò in cui credevo, la motivazione che mi spinge ad agire. Sarei divenuta un’anomia macchia bianca vagante per i corridoi di un ospedale, priva ormai di qualsiasi cosa, anche del semplice motivo di esistere, di esserci. Quindi non dispiacerti per ciò che avresti potuto fare, perché tu sei qui, adesso, e la tua presenza, il nostro incontro, mi ha donato tanto, più di ciò di cui avrebbe potuto privarmi. Hai rafforzato in me l’idea di voler combattere proprio quelle battaglie che altri reputano impossibili, mi hai donato una nuova forza, mi hai permesso di riscoprirmi ancora. E non scusarti per azioni che non hai commesso. Anzi, dovrei essere io a scusarmi, per non averti ringraziato per tutto questo tempo».
«Ringraziarmi? Perché?» chiese Regina, palesemente confusa.
«Perché tu mi hai fatto un dono di inestimabile valore, Regina. Mi hai permesso di esserti amica».
Regina si irrigidì, nell’udire quelle parole, mentre sul suo volto andava dipingendosi un’espressione di pura sorpresa. Quella singola parola aveva occupato ogni angolo della sua mente, riempito ogni anfratto della sua anima, al punto tale da estraniarla dal mondo che la circondava, da quei rumori che, improvvisamente, avevano spezzato il silenzio di quella stanza. Da quella vita che la circondava e di cui ancora non aveva preso coscienza, finché una mano non si posò sul suo ginocchio.
Gli occhi di Regina, fino a quel momento rimasti a fissare il vuoto, si mossero istintivamente verso il basso, incontrando quelli grandi ed innocenti della piccola Star.
«Gina? Va tutto bene?»
Regina rimase ancora qualche secondo a guardare quegli occhi, prima di sollevare lo sguardo e puntarlo nuovamente su Emma, in piedi di fronte a lei, con il piccolo Tiger tra le braccia, mentre Falco e Luna si trovavano, rispettivamente, alla destra e alla sinistra della donna. Sul viso della dottoressa, splendeva un sorriso nuovo, un sorriso consapevole e infinitamente dolce. Il suo sguardo più luminoso, custode di una tacita promessa e di infinta gratitudine.
Regina non riuscì a fare a meno di sorridere a quella vista, per poi riportare nuovamente il suo sguardo sulla piccola Star.
«Va tutto bene, tesoro. Tu, invece, come stai?»
«Benissimissimo, Gina!» rispose Star, con un enorme sorriso.
La donna rise alla risposta della piccola, prima di volgere lo sguardo sugli altri bambini.
«Emma, ieri, mi ha detto che avreste voluto vedermi. C’è qualcosa di cui volete parlarmi?»
«Ovviamente!» rispose Tiger, scendendo dalle braccia di Emma ed avvicinandosi ai suoi amici.
«Ti vogliamo come nostro vicecapitano, Regina» rispose prontamente Falco.
«Credevo di esserlo già».
«Non è così semplice entrare a far parte della nostra ciurma, Regina. Ed è ancora più difficile diventare vicecapitano. C’è una sfida da superare» disse Luna, parlando per la prima volta.
«Una sfida?» chiese Regina, non comprendendo.
«Dovrai batterti con il nostro capitano, Emma» rispose Tiger, indicando la giovane dottoressa, in piedi alle sue spalle.
Regina guardò Emma, che in quel momento le stava rivolgendo un sorriso divertito.
«Dovrei battermi con te?»
«Paura, Regina?»
«Assolutamente no» rispose la donna, restituendole un sorriso di sfida.
«E fu così che Emma le prese ancora una volta» disse una voce alle spalle di Regina.
La donna si voltò e solo in quel momento si rese conto della presenza della donna dai lunghi capelli corvini, intervallati da ciocche rosse.
«Salve. Scusi la mia maleducazione ma-»
«Ma non mi aveva notato, lo so. Allora, signora Mills, è pronta ad accettare la sfida?- chiese Ruby, porgendole una delle due spade giocattolo che stringeva in mano- Guardi che io punto su di lei».
«E tu dovresti essere la mia migliore amica, vero, Ruby?» chiese Emma, sfoggiando un’espressione fintamente risentita, facendo ridere tutti.
«In tempi di crisi, è bene seguire il vento, mia cara. E chi meglio di te, mio capitano, dovrebbe comprendere le mie parole?»
«Traditrice» disse semplicemente Emma, avvicinandosi alla ragazza e dandole un pugno scherzoso sulla spalla, prima di prendere la spada e voltarsi verso Regina, in una tacita richiesta.
«Prego?- chiese Regina, sentendo addosso gli sguardi di entrambe le ragazze- Volete davvero che io mi batta contro Emma?»
«Sì» risposero i quattro bambini in coro.
Regina spostò il suo sguardo confuso su di loro, per poi tornare a posarlo su Emma.
«Puoi sempre arrenderti» disse semplicemente la dottoressa, iniziando a maneggiare la spada.
«Ovviamente no, signora Mills. La prego, lei è la nostra unica salvezza. Ci aiuti a distruggere l’ego smisurato di questa donna!» esclamò prontamente Ruby, in tono melodrammatico, facendo scoppiare a ridere la donna.
«Se la mette su questo piano, non posso certo rifiutare- rispose Regina, alzandosi e prendendo a sua volta la spada dalle mani della ragazza- Allora, capitano, è pronta a perdere?»
«Sarai tu a perdere, Regina» rispose Emma, mettendosi in posizione.
«Lo vedremo» rispose semplicemente Regina, prendendo anche lei la posizione di guardia.
Un sorriso si allargò sul volto della giovane dottoressa nel notare che la donna aveva portato lievemente avanti la gamba controlaterale al braccio che impugnava la spada, non cadendo nell’errore comune, facendo avanzare il piede che corrispondeva al lato del braccio portante.
«Bene, ragazzi-sussurrò Ruby ai quattro bambini che osservavano le due donne studiarsi in silenzio, impazienti di vederle in azione- Che ne dite se spostiamo la scrivania così da dar loro più spazio? E poi ci sediamo sopra, così vediamo meglio».
I bambini annuirono, senza proferir parola, come timorosi di rompere quel silenzio carico di tensione che si era venuto a creare tra le due.
Emma e Regina continuarono ad osservarsi, nonostante il movimento e il rumore che le circondava.
Nei loro occhi brillava la stessa luce, bruciante testimone di quel loro passato così diverso eppure così affine. Un passato fatto di dolore, sofferenza, sfide, rinunce e sconfitte. Ma anche di sogni, speranze, rivincite e conquiste. E di forza, una forza che, in quel momento, brillava in fondo a quegli occhi così diversi e complementari. La forza che non avrebbe mai permesso loro di arrendersi.
Quando il silenzio calò nuovamente nella piccola stanza, la battaglia ebbe finalmente inizio. Regina si districò subito in una serie di fendenti, tutti prontamente parati da Emma. Nonostante sapessero che si trattava semplicemente di un gioco per divertire i bambini, entrambe non lesinarono colpi e tenacia nel loro scontro, cercando sempre di superare la difesa dell’altra, in modo da decretare la vittoria.
Ruby, esattamente come i piccoli pirati, seguiva estasiata lo scambio di colpi. Precedentemente, aveva dato la sua benedizione a Regina, scommettendo su di lei per puro dispetto nei confronti dell’amica, non credendo realmente che, in fondo, quella donna sarebbe riuscita a tener testa ad Emma. Non molti lo sapevano, in quell’ospedale, ma da giovane, Emma si era cimentata nell’arte del combattimento con spada, divenendo una delle migliori spadaccine del suo corso, superando quasi il suo maestro, David Nolan. Per questo, sul volto di Ruby non vi era posto per altra emozione se non la sorpresa, nel vedere Regina contrastare in maniera così abile la sua amica.
Lo scontro andò avanti per una serie di minuti, finché Regina non rese i suoi colpi più veloci e precisi, costringendo Emma ad indietreggiare sempre di più. Avendola ormai messa in difficoltà, Regina decise di porre fine a quella sfida, sferrando un ultimo fendente contro l’altra. Emma, per evitare il colpo, si spostò bruscamente alla sua sinistra, andando ad urtare violentemente contro la libreria di metallo.
Il silenzio calò nella stanza, rotto solo dai sospiri sommessi e doloranti di Emma, seduta ai piedi della libreria, con una mano premuta sulla tempia che, lentamente, si stava macchiando di sangue.
Dopo un attimo di esitazione, Ruby scese dalla scrivania e corse dall’amica, per accertarsi che stesse bene.
Regina era rimasta immobile, la spada ancora stretta in mano, lo sguardo fisso su Emma e su quella piccola ferita che continuava a sanguinare, incapace di muoversi. Solo quando la giovane dottoressa rivolse il suo sguardo su di lei, Regina si sbloccò da quell’apparente immobilità, lasciando cadere la spada e avvicinandosi lentamente.
«Io te l’ho detto che te le dava di santa ragione» esclamò Ruby, non riuscendo a nascondere il suo sorriso divertito.
«Ruby!- esclamò fintamente risentita Emma- Stai perdendo la tua migliore amica per dissanguamento!»
«Non farla così catastrofica, idiota! Ti ho vista in condizioni peggiori».
Le due ragazze risero, complici, mentre sprazzi del loro passato si facevano largo nelle loro menti.
«Mi dispiace, Emma».
Fu solo un sussurro, ma fu abbastanza per far smettere all’istante alle due di ridere, facendole voltare verso la donna.
Regina teneva lo sguardo basso, sul viso un’espressione colpevole, che Emma riteneva stonasse altamente in quella situazione, ma, soprattutto, che stonasse sul viso di Regina Mills. La giovane dottoressa rivolse uno sguardo a Ruby, che subito comprese la tacita richiesta dell’amica. Così, si alzò, avvicinandosi ai bambini e sussurrando loro che era ora di andare. I piccoli compresero subito l’importanza di quel momento, il lasciare alle due donne il loro spazio per parlare. Nonostante la giovane età, portavano dentro una maturità che, molto spesso, era capace di sconvolgere anche il più cinico degli adulti.
«Comunque è stato uno scontro epico» sussurrò Tiger, prima di uscire.
«Hai ragione, piccoletto» rispose Ruby, chiudendo la porta, non prima di aver guardato un’ultima volta le due donne.
Quando la porta si chiuse, Emma si sistemò meglio contro la libreria.
«Regina, puoi sederti vicino a me?» chiese, dolcemente.
La donna fece quanto le fu chiesto, continuando a tenere lo sguardo basso.
«Guardami- le chiese la dottoressa, notando l’ostinazione dell’altra, continuando a parlare solo quando i suoi occhi si immersero in quelli castani della donna- È solo un graffio».
«Doveva essere un gioco».
«Ci siamo divertite- rispose Emma, con un enorme sorriso- E abbiamo fatto divertire loro. Dov’è il problema?»
«Non c’era bisogno di arrivare a tanto. Io davvero non volevo farti del male».
Emma si lasciò andare ad una lieve risata, prima di puntare il suo sguardo nuovamente in quello di Regina.
«Però direi che ne è valsa la pena- disse, rialzandosi, sotto lo sguardo confuso della donna- Dopotutto, con te ne vale sempre la pena. Anche farsi male».
Regina si alzò a sua volta, osservando la schiena di Emma, mentre quest’ultima riordinava il piccolo studio.
«Cosa intendi, Emma?» chiese Regina, facendola fermare.
«Mi piace quella luce che brilla nei tuoi occhi. Mi piace la forza che metti in tutto ciò che fai, il modo in cui rispondi ad ogni sfida e ad ogni avversità. Non è una luce che solitamente fai scorgere a chi ti guarda, anzi, il più delle volte è sopita in fondo al tuo sguardo. La vidi la prima volta quando ti colpii con quel famoso pugno e l’ho rivista adesso. È stata quella luce a spingermi a provare, Regina, a spingermi a credere che tu, in realtà, volevi essere salvata. E se per poter vedere ancora quella luce dovrò farmi ancora male, allora va bene così. Potrò sempre dire che ne sarà valsa la pena».
Quando ebbe finito di parlare, Emma continuò a mantenere il suo sguardo in quello di Regina. Sapeva con certezza che il loro comunicare non era legato solo a fragili suoni, che si disperdevano nel silenzio del vuoto. Emma era fortemente convinta che le anime delle persone fossero connesse le une alle altre, in comunicazioni del tutto irrazionali e inspiegabili, come dendriti di un neurone. Ed era certa che il canale di comunicazione dell’anima fossero gli occhi.
Regina si prese il suo tempo per assimilare quelle parole, senza mai distogliere lo sguardo, lasciando che Emma leggesse nei suoi occhi la verità di quel momento.
«Perché quando prendi in braccio Tiger, lo tieni sempre lontano da te?» chiese infine, veicolando il discorso su un altro argomento.
Emma sorrise.
«Ero certa che te ne fossi accorta. Tutti i bambini che hai visto portano un cateterino. Si tratta di un catetere venoso centrale, in gergo medico. Significa che, a differenza degli altri che solitamente sono applicati alle vene del braccio, quest’ultimo è applicato alla succlavia e non viene mai rimosso. È per non sottoporli continuamente all’incannulazione e per garantirci una porta d’accesso sempre pulita, quando dobbiamo somministrare i farmaci».
«Che tipo di farmaci?» chiese Regina, anche se poteva già immaginare la risposta.
«I chemioterapici».
Regina chiuse per un momento gli occhi, per poi riaprirli subito dopo.
«Credo non mi ci abituerò mai».
«Con loro, è difficile abituarsi. Ma forse è anche un bene, la mancanza di abitudine ci spinge a voler trovare una soluzione efficace».
«Già, credo sia così» rispose Regina, per poi guardarsi intorno.
Una volta individuato l’armadietto con i medicinali, vi si diresse, aprendolo e prendendo un cerotto, del cotone e del disinfettante. Quando si voltò verso Emma, non riuscì ad impedirsi un sorriso, nel vedere l’espressione sorpresa della donna.
«Regina? Che hai intenzione di-» si interruppe con un sibilo, appena Regina posò il cotone imbevuto sulla ferita.
«Fai la buona, Emma».
«Va bene, mamma» la canzonò la dottoressa, mentre aspettava che la donna finisse di pulirle la ferita e la medicasse.
«Quindi mi stai dicendo che dovrò andare in giro in ospedale con un cerotto sulla fronte?»
«Ringrazia la tua idiozia per ciò» rispose Regina, buttando il cotone e la carta del cerotto.
«Tu mi hai colpita!»
«Oh no, cara. Io stavo per colpirti, tu hai schivato e sei andata a sbattere contro la libreria. Hai fatto tutto da sola».
Emma sembrò in procinto di ribattere, ma quando si rese conto della verità delle parole di Regina, rimase in silenzio.
«Visto? In ogni caso, è ora che io vada» disse la donna.
Emma annuì, prima di fermarla.
«Solo una cosa, dove hai imparato a duellare così bene?»
«Merito di mio padre. Da piccola, mi ha insegnato sia a montare a cavallo che a maneggiare una spada».
«Quindi abbiamo una piccola amazzone tra di noi. Quale onore!»
«Faccia poco la spiritosa, dottoressa Swan. Le ricordo che ha perso e quel bel cerotto sulla sua fronte farà in modo che questa mia vittoria sia resa nota a tutto l’ospedale».
Emma sorrise, portandosi una mano dietro la nuca.
«Mi sa che hai ragione» rispose, chiudendo un occhio.
Regina rise nel vedere la ragazza assumere quell’espressione così fanciullesca e innocente, dopodiché si diresse verso la porta. Poggiò la mano sulla maniglia ma, prima di uscire, si volse un’ultima volta verso Emma.
«Anche io sono felice»
Emma le riservò uno sguardo confuso.
«Sono felice che tu mi abbia permesso di esserti amica» disse, per poi uscire definitivamente.
Sulle loro labbra, nello stesso momento, andò ad allargarsi un luminoso sorriso.
 

 

 
~Angolo Autrice~
Ebbene sì, ECCOMI DI NUOVO QUI!
*evita pomodori*
Lo so, lo so. Avete ragione! Ma ho avuto tantissimo da fare con l’università e purtroppo ho dovuto lasciare un po’ da parte questa storia! Però sono felice che in questo capitolo ci siano tutti i personaggi che avevo introdotto in quelli precedenti.
Io comunque sono sconvolta per l’evoluzione di Ruby. Inizialmente era un personaggio che doveva comparire mezza volta, invece si è proprio “imposta” in questa storia e mi sono divertita tantissimo a scrivere del suo rapporto con Emma.
Beh, che dire, spero vi sia piaciuto!
Ps: in realtà il capitolo non doveva concludersi così. C’era un’altra scena con Regina, Emma e Tiger ma non disperate, la vedrete nel prossimo capitolo! Quindi sì, i nostri piccoli pirati, ci accompagneranno ancora un po’, dato che la loro ultima apparizione doveva essere qui.
Beh, che dire, a presto!

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Capitolo 9
*** La regina cattiva e Biancaneve ***



Erano ormai trascorsi vari mesi dal giorno che aveva segnato il primo incontro tra Regina Mills e la dottoressa Emma Swan. Un incontro avvenuto nel peggiore dei modi, un incontro che sembrava destinato ad un’unica conclusione. L’espulsione della dottoressa Swan dall’ospedale e la resa della paziente Mills di fronte la sua malattia, in uno scenario tetro e livido, esattamente come l’ematoma che, per giorni, aveva svettato sul viso di Emma.
Eppure, nemmeno il fato avverso aveva potuto nulla di fronte a ciò che successe. A quel piccolo miracolo che si era magicamente compiuto tra le mura asettiche di quel piccolo studio.
Un sorriso nacque sul volto di Regina nel prendere atto di quella piccola quanto preziosa verità, mentre la sua mano si accingeva ad aprire quella porta bianca, che tante volte aveva accolto il suo arrivo, senza mai chiederle di annunciarsi. In fondo, anche quel piccolo dettaglio concorreva alla creazione di quella realtà che temeva fosse andata persa per sempre.
Era ancora nitido, nella sua mente, il terrore di quel giorno, la paura che si impossessò di lei nel momento in cui si trovò dinanzi, per la prima volta, quella stessa porta. Ricordava i secondi che scorrevano veloci, mentre la sua mano stringeva la fredda maniglia in una morsa ferrea, incapace di agire. Aveva creduto che tutto sarebbe svanito, una volta superata quella soglia, che la sua vita sarebbe scemata, cedendo il posto a quel tetro scenario a cui non era pronta. Eppure, la mano agì, contro ogni sua convinzione. E la porta fu aperta. Regina entrò, con tutto il poco coraggio che la animava, pronta a sostenere quella realtà che tanto temeva. Ma ciò che trovò, oltre quella soglia, non fu certo ciò che si aspettava. Era una realtà, una realtà dalla quale Regina stava scappando da anni, ma non era la realtà contro cui si era preparata a combattere. Perché oltre quella porta, contro ogni sua credenza, contro ogni suo timore, Regina non incontrò la morte, bensì la vita. Quella vita che aveva rinnegato a se stessa da ben prima della comparsa del tumore. E ricordava ancora lo sguardo curioso e sorpreso di quella ragazza che, a quel tempo, era solo una sconosciuta per lei. E quel sorriso impertinente che Emma Swan le rivolse la prima volta, mentre sottolineava come la sua entrata non fosse stata annunciata dal tipico bussare. Ma, dopotutto, era giusto così. Perché, in fondo, alla vita non ci si annuncia mai. La si incontra, semplicemente. Negli occhi di un bambino, tra le rughe di un volto, nel leggero soffiare del vento, tra i petali delicati di un fiore. O all’interno di uno studio medico, come nel suo caso.
Quando la maniglia fu completamente abbassata, Regina spinse la porta in avanti, nell’intento di aprirla, ma, contro ogni sua aspettativa, ciò non avvenne. Sorpresa, provò a ripetere l’azione nuovamente, ma invano.
«Cerca la dottoressa Swan?»
Regina sobbalzò e si girò di scatto, incontrando il sorriso divertito dell’uomo che si era posizionato alle sue spalle.
«Dottor Whale! Non l’avevo sentita arrivare».
«La sua reazione non sembra lasciar adito a dubbi. Dovrebbe recarsi nel reparto di radioterapia, in ogni caso».
«Prego?» chiese la donna, visibilmente confusa.
«Tentava di entrare nello studio della dottoressa Swan, ciò implica che la stesse cercando. Potrà trovarla nel reparto di radioterapia».
Regina rimase per un attimo in silenzio, meravigliata dal modo familiare con cui tutti, ormai, si rivolgevano a lei in quell’ospedale.
«Grazie mille, dottor Whale».
«Piano terra, terzo corridoio sulla sinistra. Buona giornata» rispose l’uomo, superandola e dirigendosi nel suo studio.
Regina l’osservò allontanarsi per qualche secondo, prima di dirigersi verso il reparto che le era stato indicato.
Quando giunse nella sala d’attesa, il tipico chiacchiericcio di quei luoghi cessò improvvisamente, mentre sguardi curiosi si posarono su lei. Regina lasciò che quegli occhi indugiassero sulla sua persona mentre, con calma, si avvicinava alla porta che conduceva agli acceleratori. La curiosità e la sorpresa iniziali furono presto sostituiti da calorosi sorrisi, sorrisi a cui lei stessa rispose, mentre la sala torna a rianimarsi di parole quotidiane e di quella vita che, forse, stava ancora scivolando via dalle sue mani, ma non così velocemente da non poter essere vissuta.
Appena Regina ebbe varcato la porta, un giovane ragazzo, vestito con il tipico camice bianco, le corse incontro. Sul suo viso, si leggeva una velata apprensione.
«Signora, mi perdoni, ma non le è concesso star-»
«Va tutto bene, GasGas! Lei è una dei nostri» disse una voce squillante, che Regina riconobbe subito.
Disorientato, il ragazzo guardò ancora una volta la donna di fronte a lui, incapace di qualsiasi azione, finché la voce della ragazza non ribadì l’invito a farla entrare.
Una volta che ebbe varcato la soglia, Regina fu accolta dal sorriso furbo di Ruby Lucas.
«Buongiorno, signora Mills».
«Buongiorno a lei, dottoressa Lucas».
«Andiamo, ormai potremmo dire di essere amiche. Evitiamo certi convenevoli» rispose la giovane donna, alzandosi e dirigendovi verso Regina Mills.
«Non vorrei apparir scortese, ma credo abbia iniziato lei, dottoressa Lucas» rispose Regina, sottolineando volutamente le ultime due parole.
«Dritta al punto, come vedo. Tipico di te, Regina. In ogni caso, perdona l’accoglienza un po’ formale del mio collega, ma le tue lodabili gesta ancor non sono giunte al suo udito».
Regina si lasciò andare ad una lieve risata, mentre il suo sguardo andò a posarsi sul diretto interessato, suscitando, così, un leggero rossore e imbarazzo nel giovane ragazzo.
«Per quanto tempo avrai intenzione di torturarmi ancora con questa storia, Ruby?» chiese infine, volgendosi nuovamente verso di lei.
«Non si tratta di una storia ma di una vera e propria leggenda. Vedrai, la tramanderò ai miei figli e ai figli dei miei figli» rispose Ruby, incamminandosi verso gli acceleratori.
«Che sarebbero semplicemente i tuoi nipoti» rispose Regina, seguendola e venendo a sua volta seguita dal giovane ragazzo.
«La pignoleria non è stata ancora abolita dal tuo essere?».
«Certe abitudini sono dure a morire» rispose semplicemente Regina con un sorriso sornione.
«Lo vedo bene- rispose Ruby, fermandosi vicino ad una postazione vuota- In ogni caso, lei è lì».
Regina volse il suo sguardo verso il punto indicato dalla ragazza, trovando Emma seduta di fronte ad un piccolo schermo. Indossava delle cuffie e un microfono e, dal movimento delle sue labbra, sembrava stesse parlando con qualcuno.
Regina le si avvicinò in silenzio, per non disturbarla, ma quando vide la persona presente sullo schermo, non riuscì ad impedire alla sua voce di abbandonare le sue labbra.
«Tiger…»
Il bambino era steso su di un letto, la testa immobilizzata da quella che sembrava una maschera, mentre l’acceleratore gli ruotava intorno.
Emma si voltò verso di lei, il suo sorriso dolce sempre presente sulle labbra, per poi tornare a volgere nuovamente lo sguardo verso lo schermo.
«Tutto sembrava ormai perduto per la nostra ciurma di pirati, solo Tiger era rimasto a fronteggiare il temibile drago. Ma ecco giungere il vicecapitano Regina, proprio quando anche l’ultima traccia di speranza stava per abbandonare il cuore del giovane pirata. Impugnando spade affilatissime e utilizzando lo scudo che Regina aveva trovato, i due riuscirono ad avere la meglio sul drago. E corsero a liberare i loro amici, per dirigersi, tutti insieme, verso una nuova ed avvincente avventura».
Il dispositivo nella sala suonò subito dopo la conclusione della storia.
Emma si alzò dalla sua postazione ed entrò in una stanza adiacente, per poi uscirne dopo qualche minuto accompagnata dal piccolo Tiger, che si gettò direttamente tra le braccia di Regina.
Il giovane GasGas subito si allarmò per lo slancio del piccolo, ma Ruby fermò qualsiasi sua azione, rassicurandolo.
«Siamo stati grandiosi!» urlò il piccolo, alzando le braccia al cielo.
«Puoi dirlo forte, ometto!» rispose Regina, sorridendogli divertita.
«Perfetto, valorosi eroi ed eroine- intervenne Emma, affiancandosi ai due- È tempo di tornare nella stanza».
«Va bene signor capitano! Ma può portarmi Regina?»
«Se a lei non dà fastidio» rispose semplicemente la giovane dottoressa, facendo scivolare pigramente le mani nelle tasche del camice.
«Nessun problema, capitano».
«Perfetto, allora possiamo andare. Ruby, GasGas buon lavoro» disse infine Emma, prima di avviarsi verso la porta, seguita da Regina e Tiger.
 
Durante tutto il tragitto, Tiger non fece altro che rivivere l’avventura narrata precedentemente da Emma, facendo sorgere sorrisi e risate sulle labbra di Regina.
«E la tua entrata in scena! Pazzesca! Proprio come i pirati, che colpiscono quando meno te lo aspetti! Ma dove hai trovato lo scudo?»
«In una caverna vicino al lago!» rispose Regina, la voce bassa, quasi cospiratoria.
«Wow! E come ha fatto a respingere il fuoco del drago?»
«Perché era rivestito da squame di drago! Lo sai che i draghi non possono ferirsi con il fuoco?»
«Non lo sapevo! Quindi quando litigano come fanno?»
«Usano i loro artigli e i loro denti, ma non il fuoco»
Emma camminava qualche passo indietro, godendosi la scena. Un sorriso nacque sulle sue labbra, nel vedere la felicità sui volti di coloro che non considerava più suoi pazienti, ma una parte integrante della sua quotidianità. Quasi come se quei volti potessero andare a riempire i vuoti, per anni, avevano segnato la sua vita.
Sapeva che quelle sensazioni erano sbagliate, ma non poteva impedirsi di sentire quell’ospedale un po’ come una sua seconda casa. E, inevitabilmente, le persona che vi incontrava divenivano parte di quella famiglia che non aveva mai avuto.
Quando giunsero fuori la porta della stanza, Emma si avvicinò a Regina, prendendo Tiger tra le braccia.
«Allora, ometto, adesso mi dai un bacio e poi corri subito a letto. Intesi?»
Tiger annuì vigorosamente, per poi stringere le braccia intorno al collo di Emma e donarle due baci sulla guancia.
Entrambi, poi, si voltarono verso Regina che, confusa dai loro sguardi e dal loro silenzio, faceva vagare lo sguardo dall’uno all’altra.
«Cosa c’è?» chiese infine, non comprendendo le loro intenzioni.
«Tu non me lo dai il bacio, Gina?» chiese in maniera innocente Tiger.
Regina si irrigidì per un attimo. Da che ne aveva memoria, nessun bambino le aveva mai chiesto un gesto d’affetto. Anzi, spesso capitava che scappassero via da lei, a causa del suo portamento autoritario e della sua espressione il più delle volte seria. Era stato questo uno dei motivi che l’aveva fatta desistere da un possibile sogno di maternità. Per quanto lei amasse i bambini, sembrava che quell’amore non potesse essere in alcun modo ricambiato. E, così, aveva lasciato che quel sogno sfumasse via lentamente, piuttosto che relegare suo figlio ad una vita di infelicità.
Eppure, in quel momento, l’unica cosa che riusciva realmente a vedere erano due occhi castani, imploranti una sua attenzione. E non poté non sciogliersi in un sorriso, mentre riprendeva nuovamente Tiger dalle braccia di Emma, per posargli poi un bacio materno sulla fronte.
«Mi raccomando, piccolo ometto, obbedisci al capitano. Subito a letto a riposare!»
«Agli ordini, Gina!» urlò il piccolo, scendendo dalle sue braccia e correndo nella stanza, non prima di averle salutate entrambe.
Regina rimase ancora qualche secondo a guardare la porta, il sorriso sempre presente sulle sue labbra.
La giovane dottoressa rimase ad osservarla, in silenzio, lasciandole il suo tempo e godendo di quella serenità che traspariva dal volto della donna.
«Allora- disse infine Emma, distogliendola dai suo pensieri- Mi spieghi cos’era quello?»
«Quello cosa?» chiese Regina confusa, voltandosi verso di lei.
«Quello che è avvenuto in radioterapia. Stai cercando di ammutinarmi, per caso?» concluse, rivolgendole il suo solito sorriso impertinente.
«Idiota!» esclamò la donna, lasciandosi andare ad una sonora risata e colpendo in modo scherzoso Emma sul braccio.
«Ehi, piano con quelle mani- disse la giovane dottoressa, fintamente risentita, massaggiandosi il punto dolente- Potrei denunciarti, lo sai?»
«Certo, per un’innocente spinta. Sono proprio curiosa di conoscere l’avvocato che sarebbe disposto a prendere le tue difese».
«Di sicuro sarebbe un avvocato delle cause perse».
Regina si lasciò andare ad una lieve risata, prima di tornare a guardare Emma con sguardo serio.
«E che mi dici di GasGas?»
«GasGas?»
«Il ragazzo che stava con Ruby».
«È un tirocinante. Ruby è la sua tutor»
«E si chiama davvero così?»
«In realtà si chiama Gaspare, ma Ruby è un’amante della Disney, quindi ha deciso di chiamarlo GasGas perché le ricorda il topino di Cenerentola».
«Ma qualcuno con un minimo di intelligenza è presente in questo ospedale?»
«Spiacente di deludere le tue aspettative, ma la stramberia è uno dei requisiti fondamentali per essere assunti qui dentro».
«In che mani sono finita» esclamò Regina, volgendo gli occhi al cielo.
Emma scoppiò a ridere, portandosi la mano dietro la testa e chiudendo un occhio, assumendo quell’espressione infantile che era sempre in grado di intenerire la donna.
«Allora, quelle storie le inventi tu?»
«Sì.»
«Come mai gliele leggi?»
«Perché la radioterapia usa radiazioni molto forti- rispose Emma, iniziando ad incamminarsi verso lo studio- Quindi è necessario che i pazienti stiano praticamente immobili, per non rischiare di colpire cellule sane. Nel caso dei bambini, il discorso è un po’ più complesso, dato che un bambino è portato all’iperattività, soprattutto nei primi anni. La soluzione più semplice sarebbe quella di anestetizzarli, in modo tale da essere certi della loro immobilità. Ma, dato che la radioterapia va effettuata quasi ogni giorno, significherebbe sottoporre il bambino ad uno stress non indifferente. Per questo motivo, stiamo cercando di introdurre tecniche alternative e questa sembra essere quella che, per ora, sta dando migliori risultati».
«Quindi leggi ad ogni bambino la stessa storia?»
«Assolutamente no. Ogni bambino ha la sua.»
«Quando trovi il tempo di scriverle?»
«La sera, prima di andare a dormire».
Regina annuì semplicemente, per poi chiudersi in un silenzio ermetico, di cui Emma non chiese spiegazione.
Continuarono a camminare, l’una di fianco all’altra, finché non giunsero fuori la porta dello studio.
«Bene, signora Mills, credo sia giunto il momento che io riprenda il mio lavoro».
«Non si preoccupi, dottoressa Swan, non le causerò ulteriori perdite di tempo».
Emma scoppiò a ridere, per il repentino cambiamento di espressione che era avvenuto sul volto di Regina.
«Allora io entro» disse, inserendo la chiave nella serratura.
«Emma!» la chiamò la donna, con voce leggermente allarmata, prima che la serratura potesse scattare.
«Sì?»
«Domani ho la prima seduta di chemioterapia» disse Regina, tutto d’un fiato.
Emma continuò a guardarla in silenzio, attendendo che continuasse.
«Mi chiedevo se potessi accompagnarmi».
«Certo» rispose prontamente la giovane dottoressa.
«E se… potessi leggermi una storia.»
A quelle parole, sul volto di Emma si allargò un luminoso sorriso, uno di quelli rassicuranti, che sanno far sparire ogni paura o incertezza, mentre i suoi occhi tornavano a brillare di quella luce magica, che avrebbe saputo donare protezione e sicurezza in ogni situazione.
«Ovviamente. Vuoi che ti scriva una storia?»
«No, no. Grazie. La porto io».
«Va bene. Allora a domani, Regina».
«A domani, Emma».
Quando, il giorno dopo, Regina si recò nella sala adibita alla chemioterapia, si sorprese di trovarvi Emma, seduta sulla poltrona ad attenderla.
Appena la vide entrare, la giovane dottoressa si alzò dalla sua postazione, in modo che la donna potesse prendervi posto.
Non vi furono parole, tra loro. Non vi fu il loro tipico salutarsi, accompagnato dal loro solito sarcasmo, sottile quanto amichevole.
Vi fu solo silenzio.
Il silenzio dei primi giorni, degli sguardi celati, delle paure rinnegate. Di quella vita temuta, come il peggiore dei mali.
Emma la guardò adagiarsi sulla poltrona, vegliando ogni suo movimento, custodendo ogni minimo cambiamento che avvenisse su quel volto.
Si erano già ritrovate in una situazione simile, eppure, in quel momento, la mancanza di quella loro quotidianità, di quella loro serenità, che avevano costruito poco alla volta, dilaniava quel loro presente, rendendolo quasi doloroso.
Regina scoprì il braccio, in modo tale che Emma potesse prenderle la vena.
Non vi furono sguardi, tra di loro, né alcun tipo di cenno.
Regina continuava a guardare il soffitto, subendo in maniera passiva tutto ciò che le accadeva.
Avvertiva lo sguardo di Emma su di sé, uno sguardo apprensivo e attento. Avvertiva il suo malessere.
Piano, si voltò verso di lei, incontrando subito i suoi occhi, sempre verdi, fin troppo verdi.
Eppure, in quel momento, la luce che quegli occhi sapevano emanare era offuscata da un velo di preoccupazione. E sapeva di esserne lei la causa.
Così, lasciò che la sua mano andasse a stringere quella della giovane dottoressa, nella speranza di alleviare le sue pene, venendo subito ricompensata dal sorriso di Emma.
Un sorriso appena accennato, a tratti quasi timido, ma pur sempre un sorriso.
Attesero in silenzio l’arrivo dell’infermiera, le loro mani ancora unite, a sottolineare la loro presenza e la loro unione in quella nuova battaglia.
Solo quando furono rimaste nuovamente sole, Regina decise di interrompere quel silenzio.
«Il libro è nella borsa. Prendilo».
Emma non aspettava altro.
Lentamente, come timorosa di rompere quell’equilibrio precario che si era instaurato tra loro, Emma raccolse il libro, sorridendo alla vista del titolo.
«Biancaneve e i sette nani- sussurrò appena, accarezzando con le dita le lettere in rilievo- Non sapevo ti piacessero le fiabe».
«Quando ero piccola era il mio preferito».
Emma si voltò a guardarla, regalandole uno dei suoi sorrisi più belli, prima di aprire il libro, sfiorando con estrema attenzione le pagine ingiallite dal tempo, cosciente che in esse non fosse racchiusa solo la nota storia conosciuta da tutti, ma anche una parte di Regina. Una parte del suo passato.
E proprio per quel passato racchiuso in quelle pagine, che Emma iniziò a leggere quasi con devozione le parole scritte con inchiostro indelebile.
 
Il tempo trascorse tranquillamente, scandito semplicemente dalla voce di Emma, finché la storia non giunse al momento più importante.
« E allora pensò di nuovo come fare ad ucciderla: perché se ella non era la più bella in tutto il paese, l’invidia non le dava requie. Pensa e ripensa, finalmente si tinse la faccia e si travestì da vecchia merciaia, in modo da rendersi del tutto irriconoscibile.»
«Sai- iniziò Regina, distogliendo la giovane dottoressa dal suo compito- Quando ero piccola questa era la mia fiaba preferita perché amavo il personaggio di Biancaneve. Era così pura e giusta che desideravo essere come lei, una persona esemplare, capace di amare il suo prossimo incondizionatamente. Invece, con il tempo, ho notato di assomigliare sempre più alla regina cattiva, distaccandomi totalmente da Biancaneve».
Emma chiuse piano il libro, mantenendo il segno con l’indice. Guardò ancora la copertina, prima di volgere il suo sguardo nuovamente su Regina.
«Perché dici questo?»
«Perché anche io mi sono votata all’egoismo e all’invidia, vendendo i miei ideali a poco prezzo. Ho distrutto vite per la mia sete di potere o semplicemente per l’onore. E sono rimasta sola, con i miei abiti firmati, la mia bella casa, i miei mobili di prima fattura. Ma pur sempre sola, Emma. Ho barattato la mia umanità per dei beni materiali e titoli di alcun valore. Ho preferito l’apparenza all’essenza. E, ora, la mia anima è piena di pieghe e ferite. Esattamente come il volto della vecchia strega che giunse da Biancaneve per avvelenarla».
Regina aveva spostato nuovamente lo sguardo sul soffitto, per impedire alle lacrime di scendere, mentre attendeva, in silenzio.
«Sai, Regina, credo che questo mondo avrebbe bisogno di più regine cattive come te» disse semplicemente Emma, sorprendendo così tanto la donna da indurla a guardarla nuovamente, facendole dono del suo sorriso.
«Stai scherzando, Emma?»
«Assolutamente, Regina. A questo mondo, nessuno di noi è perfetto. Ognuno di noi compie degli errori, nella propria vita. Ma quanti di noi sono così onesti da ammettere a se stessi i propri sbagli? Solitamente accusiamo il fato avverso, le situazioni che ci hanno indotto a percorrere determinate strade, le amicizie sbagliate, i consigli non dati. Ma tu no. Tu ammetti e accetti la tua colpa ed è questo che ti rende speciale. Che ti rende unica, migliore rispetto alla persona che eri. Rispetto alla maggior parte delle persone là fuori. Se ognuno di noi fosse un po’ come te, Regina, se ognuno di noi fosse così onesto, allora questo mondo sarebbe davvero un posto migliore».
Regina non riuscì ad impedire alle lacrime di abbandonare i suoi occhi, mentre un sorriso andò ad allargarsi sul suo volto, ringraziando silenziosamente la giovane dottoressa per quelle parole.
Emma le sorrise di rimando, lasciando che la sua mano tornasse a stringere quella della donna.
E rimasero così, ferme e in silenzio, fino alla fine della terapia.
Il libro, ormai chiuso, poggiato tra di loro. 


~Angolo Autrice~
Buonasera a tutti. 
Lo so, manco davvero da molto. Praticamente è quasi un anno. 
Chiedo scusa per la mia assenza prolungata, ma in questo anno sono successe molte cose che mi hanno tenuta molto lontana dalla scrittura in generale. 
In ogni caso, approfitto di questo spazio anche per fare un annuncio importante. 
Le persone che mi conoscono e mi seguono da un po' sanno quanto io tenga a questa storia e quanto di me sia presente in essa. 
Proprio per questo motivo, ho deciso di portare avanti un progetto inerente a La sua salvezza. Detto in parole povere, ho intenzione di trasformare questa storia in ebook e, se mai sarà possibile, tentare la pubblicazione. 
Ovviamente, la storia sarà ancora accessibile sul sito, ciò che cambierà sarà semplicemente l'aggiunta di tre capitoli inediti all'interno della storia originale. 
Il finale di entrambe le versioni, sia quella ebook che quella su efp, sarà il medesimo. I capitoli inediti saranno inseriti tra i capitoli centrali. 
Detto questo, ringrazio chiunque sia arrivato alla conclusione di questo capitolo. 
Ringrazio chi da sempre mi supporta, quindi Vale e Barbara. 
Ringrazio, inoltre chi, in quest'anno di assenza, mi è stato davvero vicino, ovvero Marta e Susan, che si sono rivelate amiche e consiglieri fidate. 
E ringrazio Nadia, per avermi dato una seconda possibilità, permettendomi di conoscerla meglio. 

Ringrazio, inoltre, i vecchi lettori e i nuovi. 
Grazie davvero a tutti!
Ci rivediamo al prossimo capitolo!

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