Ningyō

di Kira Eyler
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. Inizio ***
Capitolo 2: *** 02. Segni indelebili ***
Capitolo 3: *** 03. Maledizione ***
Capitolo 4: *** 04. Rottura ***
Capitolo 5: *** 05. Bambole ***
Capitolo 6: *** 06. Frammenti ***
Capitolo 7: *** 07. Mamma ***
Capitolo 8: *** 08. Open Wounds ***
Capitolo 9: *** 09. Specchio ***



Capitolo 1
*** 01. Inizio ***


Nota: nelle prime due One-Shots, i protagonisti avranno i loro veri nomi (che sono: Katsumi per il maschio, Souru per la femmina).

01. Inizio

“A loro non è mai importato niente di noi! NIENTE! A loro importa solo dei loro stupidi viaggi di lavoro!”
 
Erano queste le parole che rimbombavano nella testa di Katsumi Harada, un ragazzino di dodici anni. Se ne stava sdraiato sul letto, con le braccia incrociate dietro la testa e gli occhi gialli puntati in un punto indefinito del soffitto bianco della sua stanza; gli era dispiaciuto molto dire quelle parole davanti a Souru, la sua sorella gemella più grande di lui di qualche minuto, ma sapeva che era il primo passo verso il grande lancio.
Quella mattina a scuola, il professore di matematica aveva consegnato i compiti della verifica corretti: Souru aveva avuto 90 e lui 110*, con tanto di quasi commozione del professore che dopo le lezioni gli consegnò anche una lettera da far leggere ai genitori. Katsumi, una volta fuori dalla scuola, la stava strappando, ma Souru gliela tolse dalle mani e corse felice come una pasqua verso casa sua, per raccontare ai genitori ciò che era successo al fratellino; era lei quella che reagiva bene per tutto e cercava di mostrare il talento di ognuno, o i loro traguardi.
Souru sperava ancora in complimenti e applausi da parte dei genitori, ma Katsumi no: sapeva che ai genitori importava solo di viaggiare da stato a stato per “lavoro”. Mai un’attenzione, un sorriso o una carezza in più, mai un “come va a scuola?” o un complimento per qualcosa; a lui però non importava. A Souru sì, invece, che importava: le loro camere erano una affianco all’altra e ogni notte la sentiva piangere e pregare per dei genitori più presenti, dei genitori normali e più dolci di quelli che erano diventati.
Facevano soffrire Souru, la facevano piangere, la portavano addirittura a pregare: lui li odiava, li odiava da morire.
Quando la ragazza era tornata a casa raccontando tutto ciò che voleva dire, i suoi genitori avevano solo sorriso e non avevano nemmeno aperto la lettera, gettandola con noncuranza sul tavolo della cucina. La ragazzina era rimasta molto delusa, lo si poteva vedere dal modo malinconico e offeso con cui guardava i genitori, e allora, preso dall’ira e dall’odio, Katsumi aveva gridato quelle parole per poi correre a chiudersi in camera sua.
Souru l’aveva seguito ed ora eccola lì: se ne stava seduta con la schiena appoggiata alla porta, le ginocchia strette al petto, gli occhi gialli fissi su di lui e sul viso un’espressione di rimprovero: lei continuava a difenderli.
-Dovevi cercare di far leggere quella lettera- parlò la giovane, dopo attimi di silenzio -Per te potrebbe essere un’occasione d’oro!-
Katsumi si mise a sedere incrociando le gambe; sbatté le palpebre un paio di volte e piegò la testa di lato, guardando la sorella confuso.
-Volevi che me ne andassi a studiare matematica e fisica tutta l’estate?- chiese.
Souru, che non conosceva il contenuto della lettera, sgranò gli occhi e balzò in piedi coi pugni stretti davanti al petto; le ciocche di capelli nere e bianche, che le arrivavano fino a metà schiena, ondeggiarono. Scosse la testa ed esclamò: -NO! Tu devi rimanere sempre con me! SEMPRE!-
Katsumi scoppiò a ridere per il comportamento infantile della sorella, che a volte sembrava avere la metà dei suoi anni. Souru si sentì offesa per quelle risate: strinse allora le braccia sotto al seno, esclamando un sonoro “Tsk” e gonfiando le guance; fu allora che il ragazzo smise di ridere, scendendo dal letto e dirigendosi verso la sorella con un sorriso: aveva perso fin troppo tempo, era il momento di attuare il suo piano.
-Souru, che ne dici di andare sulla solita collina davanti casa? Devo mostrarti una cosa fantastica!- disse, mentendo spudoratamente; non aveva niente da mostrarle, doveva solo farla allontanare. Era fortunato ad aver imparato a mentire.
Souru sorrise e si fiondò immediatamente fuori dalla stanza e giù per le scale. Katsumi, invece, doveva fare ancora qualcosa prima di uscire: prese una candela nascosta in un cassetto della sua stanza e la mise sul letto, prima di metterci sopra anche un accendino, rubato a sua madre. Si avvicinò all’armadio e lo aprì, prendendo una bottiglia di candeggina; sorrise sadicamente.
Aprì la bottiglia e gettò metà liquido su un solo lato delle scale, mentre il resto lo gettò in camera sua. Accese la candela e la mise sul pavimento, mentre dalla tasca estrasse un telecomando con un bottone rosso al centro; lo strinse in una mano e scese le scale dal lato “pulito”, per poi uscire e raggiungere la sorella sulla collina; ringraziava i genitori solo perché avevano comprato una casa in campagna.
Fece sdraiare Souru nel punto in cui la loro casa si vedeva meglio e osservò la casa con un grande sorriso sadico sul volto. La ragazzina pensò che il fratello l’avesse presa in giro e decise di andarsene... ma, proprio in quel momento, Katsumi premette il pulsante rosso. Dapprima si sentì un forte boato al piano di sopra, che fece cadere Souru a terra con un grido di terrore, e poi l’intera casa iniziò a bruciare: fu questione di pochi secondi e tutta la casa venne inghiottita dalle fiamme. Mentre Souru iniziava a piangere e a gridare disperata, sentendo le grida inumane dei genitori, Katsumi scoppiò a ridere.
Afferrò improvvisamente la sorella per le braccia, costringendola a guardarlo negli occhi... occhi che Souru non riconosceva più: esprimevano gioia, o meglio gioia sadica, un'emozione che non aveva mai visto sul volto del gemello.
-Souru, sorridi! Li ho uccisi, ti rendi conto!? UCCISI!- esclamò Katsumi, rimettendosi a ridere. Souru scoppiò in un altro forte pianto a dirotto, stringendosi al fratello e battendo i pugni sul suo petto, mentre quest’ultimo continuò: -Ora non piangerai più, i tuoi giorni di dolore sono finiti. D’ora in poi ci sarò io con te, mia dolce sorellina...-
Souru non lo riconosceva: persino nell’ultima frase il tono del fratello era cambiato, da gentile e dolce a sadico e ironico. La ragazzina non capiva perché Katsumi avesse ucciso i loro genitori, ma sentendo “ora non piangerai più” un grande senso di protezione e sicurezza s’impadronì di lei: il suo amato fratellino da quel giorno l’avrebbe protetta.
 
*90 e 110: i voti in giapponesi arrivano a 110, che sarebbe il nostro 10 con la lode. 90 sarebbe il nostro 9.

Angolo Autrice:
Salve a tutti! <3 I miei gemellini pazzi mi hanno ispirato troppo. 
Chiariamo un po' di cose: in questa shot i due hanno dodici anni. L'incubo di Souru (Ayano) inizia infatti a dodici anni, come dice anche in "Pazzia". Il titolo significa "Marionetta": presto capirete perché. Se avete domande fatele pure (e se trovate errori, ditemelo nelle recensioni!). 
Spero che il prologo vi sia piaciuto CX alla prossima,
Kira-chan.



 
 

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Capitolo 2
*** 02. Segni indelebili ***


02. Segni indelebili

I giornali della vivace città di Tokyo non parlavano d’altro, ormai: “Due ragazzi di dodici anni danno fuoco alla loro abitazione uccidendo i genitori”.
Sotto il titolo in carattere cubitale, vi era l’interrogatorio con Katsumi Harada, reso pubblico poiché già le prime parole, i gesti e l’emozione del ragazzino facevano capire che lui e la sorella erano dei pazzi. Il ragazzino, infatti, parlava di omicidio premeditato: agli agenti aveva detto di aver costruito uno speciale marchingegno in soffitta, per far scoppiare una tanica di benzina, bruciando poi la candeggina. La sorella aveva poi detto che prima dei genitori avevano ucciso altre persone; la polizia ne era certa: i due giovani sarebbero andati in un manicomio, ma prima, come regola della città di Tokyo, dovevano stare un mese in carcere.
Souru venne costretta dal fratello a inventare quegli omicidi e, essendo sotto shock, non oppose resistenza, ma dentro di sé aveva paura: paura della polizia, paura di continuare a vivere, paura del fratello e del pensiero che potesse far del male anche a lei. Ormai sembrava non conoscerlo più: mai si sarebbe aspettata una simile cosa dal fratello.
I due, in prigione, non rimasero nemmeno due settimane: nel cortile, Katsumi uccise un uomo e poi si allontanò come se non fosse successo niente, consegnando agli agenti l’arma del delitto. Furono trasferiti in un manicomio molto famoso a Tokyo, poiché facevano portare ai pazienti alcuni oggetti personali e abiti completamente loro: questo per studiarli. Studiarli perché dovevano capire chi era veramente pazzo e chi no, e solo con gli oggetti personali potevano capirlo.
Katsumi e Souru vennero subito rinchiusi lì, poiché alla polizia Souru sembrava innocente e colpevolizzata dal fratello; fecero così prendere ai fratelli le poche cose che si erano salvate nella loro casa: due fotografie e un peluche. Solo la ragazzina, però, prese le cose trattenendosi dal piangere disperata.
Ora i gemelli si trovavano nella loro stanza del manicomio, sorvegliata da una telecamera: Souru se ne stava seduta su uno dei due letti, a giocherellare con la gonna della sua divisa scolastica a scacchi marroni e bianchi. Non le piacevano gli abiti del manicomio, completamente bianchi, e preferiva rimanere in divisa scolastica; Katsumi, invece, aveva preferito togliersi la divisa ed indossare quelli del manicomio. Fu mentre si rivestiva che Souru poté notare dei segni violacei e altri rossastri sulla pelle del fratello.
-Katsumi- lo chiamò allora, pur temendo una sua reazione brusca.
Il ragazzo si infilò la maglia bianca e osservò la sorella, con gli occhi gialli che sembravano non esprimere alcuna emozione.
-Cosa sono quei segni?- chiese rabbrividendo, con un tono preoccupato.
Katsumi sorrise in modo sadico, avvicinandosi alla sorella che deglutì spaventata. Si sedette affianco a lei e chiudendo gli occhi rispose, con la massima semplicità:
-La ragione per cui ho ucciso quell’uomo- si interruppe, osservando la sorella negli occhi.
-Ti ha... picchiato?- chiese Souru con tono amorevole, stringendo a sé il fratello.
-Diciamo che voleva toccarmi in malo modo- rispose Katsumi.
Souru sgranò gli occhi, che iniziarono a riempirsi di lacrime. Quell’uomo, all’inizio, aveva dimostrato atteggiamenti poco carini nei suoi confronti: per esempio, con la scusa di inciampare, le toccava il sedere o qualsiasi altra parte del corpo, nelle poche volte in cui poteva accedere al cortile maschile per vedere il fratello*. D’un tratto aveva poi smesso, ma non pensava che avesse iniziato con suo fratello.
-e nessuno mi tocca. Nessuno.- continuò lui, stringendo i pugni sul lenzuolo bianco del letto e tremando per la rabbia.
Ricordò il momento in cui quel pazzo l’aveva gettato a terra nel cortile e con un coltello si era avvicinato a lui, sotto gli incitamenti degli altri uomini. Aveva poi gettato il coltello a terra e aveva iniziato a cercare di togliere la maglia al ragazzo, senza però ottenere alcun successo; quando però aveva iniziato ad avere aiuti dagli altri, che tenevano fermo Katsumi, quest’ultimo non ce l’aveva più fatta: liberandosi dalla presa, senza nemmeno sapere con quale forza, afferrò il coltello e lo conficcò nella testa dell’uomo.
Aveva iniziato a toglierlo e riconficcarlo contando le volte in cui, tentando di fare la stessa cosa, l’aveva picchiato e le volte in cui aveva toccato il suo corpo.
Sorrise sadicamente e si mise a ridere.
-Ma l’ho ucciso! L’HO UCCISO!- esclamò d’un tratto, facendo staccare la sorella da lui -E solo io so quanto ho goduto nel vederlo morire!-
-B... Beh... qui hai avuto ragione...- sussurrò Souru, meravigliandosi delle sue parole qualche secondo dopo. Abbassò lo sguardo e fece dondolare le gambe, strusciando le scarpette marroni tra loro -Però non uccidere più. Promettimelo! Anzi, giuralo su ciò che hai di più caro!-
Katsumi la guardò confuso. Per un attimo si sentì in colpa per ciò che aveva fatto, ma la sensazione scomparve dopo pochissimo tempo. Finse un sorriso sincero che gli riuscì benissimo, stringendo la mano della sorella; Souru lo guardò.
-Te lo prometto. Però...- si avvicinò con le labbra all’orecchio della sorella ed abbassò il tono della voce, fino a renderlo quasi impercettibile -... ora dobbiamo uscire da qui!-
Passarono due mesi: i gemelli avevano chiesto alle guardie del manicomio di togliere la videocamera, poiché “avevano vergogna di mostrarsi e di cambiarsi”. Il motivo era, ovviamente, falso, ma le guardie acconsentirono, lasciando al posto della videocamera un piccolo microfono ben nascosto nella stanza bianca.
I ragazzi avevano tentato in quei mesi di evadere in ogni modo e con ogni mezzo, arrivando addirittura a calarsi giù dalla finestra: Souru, però, per la paura di essere scoperta, faceva sempre fallire i piani di Katsumi, che non ne poteva più. Un giorno le guardie decisero di separarli, per evitare altri tentativi di fuga: vedendo però che, dopo alcune settimane, Katsumi aveva smesso di parlare a Souru ed entrambi avevano smesso di cercare di fuggire, li rimisero insieme.
La prima cosa che il ragazzo fece fu disattivare il microfono nella camera della sorella. Mentre quest’ultima aggiustava il lenzuolo sul suo letto, dando le spalle al fratello, Katsumi le si avvicinò tenendo una lampada tra le mani. A sangue freddo, le diede una grossa botta sulla nuca che la fece cadere a terra, svenuta.
Quando la povera ragazza si risvegliò, si sentì strana: non riusciva a muovere le braccia e le gambe. Si accorse di avere le mani legate sopra la testa, alla sbarra metallica del suo letto, e le caviglie legate alla sbarra opposta; con orrore, si accorse di avere un pezzo di skotch sulla bocca, che le impediva di urlare. Si guardò intorno e trovò Katsumi al suo fianco, con un sorriso sadico sul volto e un taglierino in una mano: a tale vista, la ragazza si irrigidì e, sudando freddo, cercò di liberarsi e di urlare senza alcun successo. Il ragazzino si mise a ridere.
-Tranquilla, sorellina. Andrà tutto bene, non avere paura- le disse, con un tono che era l’opposto del rassicurante.
Posò il taglierino sulla gamba pallida e nuda della sorella, che si accorse solo in quel momento di trovarsi completamente nuda, con solo un misero lenzuolo a coprire le parti intime. Katsumi fece pressione con la lama dell’arma, percorrendo tutta la gamba della sorella e graffiandola; ripeté il percorso così tante volte, che alla fine la gamba iniziò a sanguinarle. Allargando il sorriso sadico sul volto, dalla gamba iniziò a salire fino al ventre della sorella, tagliando il lenzuolo e facendo man mano sempre più pressione; Souru provò ad urlare, ma le parole le tornavano indietro dopo essersi scontrate con quella ”barriera di skotch”. Provò a scuotere la testa per tentare di togliere il nastro adesivo, e provò infine ad agitare le braccia, le gambe e il resto del corpo nel tentativo di fermare il fratello sadico. Quando si accorse di ricevere più dolore ad ogni mossa che faceva e che Katsumi aumentava la pressione della lama se osava anche solo provare ad urlare, si abbandonò ad un pianto a dirotto.
Durante tutto il terzo mese del manicomio, Souru sparì dalla memoria delle persone con cui parlava di solito; alla sua assenza, Katsumi spiegava che la sorella soffriva moltissimo per essere finita in manicomio e si era, quindi, chiusa in camera sua. Se qualcuno provava ad entrare nella sua stanza, Katsumi li fermava con la classica scusa: “Non vuole vedere nessuno. Se entrate, cercherà di uccidervi. Fatela calmare.”
Souru, invece, restò tutto il mese legata al letto, sporco del suo sangue, con la bocca tappata da pezzi di skotch sempre diversi ogni settimana. Katsumi la liberava solo per farla bere o mangiare, ma se osava scappare o urlare le irritava la pelle con un accendino sottratto alle guardie.
-Dopo questo, imparerai ad obbedire. Riusciremo ad uscire da qui grazie a ciò che ti sto facendo, Souru... non volermene.- le diceva con tono velenoso, ogni volta che smetteva di torturarla, cercando di giustificarsi.
In quel mese, la vittima di Katsumi veniva torturata non solo con delle lame, ma anche con degli accendini: tutto ciò la rese stanca, debole, desiderosa di diventare come il fratello e di obbedirlo pur di non venir più torturata. Ormai non reagiva più alle lame o al fuoco dell’accendino: faceva solo dei piccoli sussulti e poi, cercando di non emettere gemiti di dolore, lasciava scivolare le lacrime sulle guance.
Souru ascoltava sempre ciò che il fratello le diceva e si preoccupò di tenere bene a mente alcune cose: quando sarebbero scappati, il suo nome doveva cambiare e così anche la loro data e il loro luogo di nascita.
Quando finalmente quelle torture finirono e Katsumi decise di liberarla, per farla pulire e vestire, Souru sorrise timidamente, consapevole di essere completamente cambiata.
-Fuggiremo ad Osaka- iniziò Katsumi mentre si sdraiava sul letto del manicomio, aspettando che la sorella finisse di vestirsi -Ho trovato un amichetto qui che ci ha assicurato una casa e anche dei finti genitori, per frequentare la scuola. Devi solo scegliere un nome finto, ma scegline uno molto usato-
-Ayano- sentenziò Souru, apatica. Finì di vestirsi e raggiunse il fratello, sedendosi accanto a lui -Voglio chiamarmi Ayano: come nome è carino, suona bene. Si intona con il nostro cognome: Ayano Harada!-
Katsumi sorrise e si mise a sedere, accarezzando la testa della sorella che non provava alcun rancore verso di lui: la sua mente distrutta le impediva di provare rancore verso il suo unico punto d’appoggio.
-Io, se devo scegliere tra Ryota e Bonjiro...- si fermò, dopo aver elencato i due nomi più diffusi nella città di Osaka**. Puntò i suoi occhi gialli in quelli della sorella e continuò: -... scelgo Bonjiro.-
Si alzò dal letto, e cambiò il discorso di poco.
-Se qualcuno ti chiede come ti chiami, devi rispondere: Ayano Harada. Se invece ti chiedono quando sei nata e dove, devi dire così: Fukushima, il 2 marzo- concluse.
Souru, ora Ayano, annuì alle parole del gemello: le dispiaceva aver cambiato data e luogo di nascita, ma sapeva di non poter fare altrimenti. Il suo orgoglio di essere nata a Tokyo doveva essere cancellato.
Arrivata la notte, grazie ad uno degli amici dell’uomo con cui Katsumi, ora Bonjiro, aveva parlato, riuscirono a scappare intrufolandosi in un furgone: questo era entrato con la scusa di portare acqua e cibo, e, anche corrompendo una guardia, era uscito indisturbato coi fratelli. Ayano capì con orrore che quell’uomo altro non era che un membro della Yazuka, una mafia giapponese***: temeva che le avrebbero fatto del male, o peggio che avrebbero chiesto dei soldi che non avevano. Fortunatamente, l’uomo alla guida disse che suo fratello, chiuso nel manicomio, aveva parlato molto bene di Katsumi e che quindi offriva una casa gratis. Ayano sorrise a quelle parole, imitata da Bonjiro.
L’uomo parlò ai due di una coppia della Yazuka, che avevano deciso di fingersi loro genitori falsificando dei documenti sotto le indicazioni di Bonjiro.
Alla parola “genitori”, Ayano si intristì profondamente. Mentre il furgone li portava all’aeroporto per fuggire ad Osaka, lei pensava a tutto ciò che le era accaduto con profonda tristezza: l’omicidio dei genitori, la scoperta delle violenze che il fratello subiva in carcere e, per finire, le torture che le aveva infierito. Tutto ciò, per lei, sarebbero rimasti segni indelebili scritti nella sua mente e anche in quella del fratello, diventato un essere sadico proprio a causa loro.

* in Giappone esistono i carceri maschili e quelli femminili: tuttavia, un maschio, durante una precisa ora, può andare a trovare una ragazza nel cortile del carcere femminile (ovviamente, sotto osservazione delle guardie), o viceversa.
** ho fatto una grossa ricerca prima di inventare i loro nomi. Ho scoperto per puro caso che i nomi "Ryota" e "Bonjiro" sono molto usati ad Osaka e in altre città giapponesi (fatto divertente: sempre dove l'ho scoperto, c'era scritto che a volte, nelle classi, si trovano addirittura dieci persone chiamate Ryota/Bonjiro xD)
*** la Yazuka (che, se vi serve, si pronuncia "iazzuca", con la Z di "zucchero") è una delle più famose mafie giapponesi. Ne', mica il Giappone è tutto rose e fiori!

Angolo Autrice:
Capitolo piuttosto triste-macabro, eh? x" Eh vabbè, non credo ci sia molto da dire. Se vi chiedete "ma come? Non dovrebbero essere sorvegliati manicomio/carcere?" (e avete ragione!), vi rispondo così: ho chiesto tutto ad una mia cara amica che vive in Giappone. Siccome gli atti di violenza in quel paese sono all'1%, le guardie non prestano la reale attenzione che dovrebbero prestare... ovviamente, non in tutti gli edifici, si intende. Poi, credo che il capitolo parli da solo xD 
Se ci sono errori (T_T l'ho letto sei volte...), scrivete nelle recensioni. Spero vi sia piaciuto! Il prossimo chappy sarà più leggero dei primi due. Alla prossima,
Kira-chan *che durante le vacanze sta scrivendo sempre*



 

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Capitolo 3
*** 03. Maledizione ***


03. Maledizione

La fitta nebbia ricopriva tutto il luogo intorno a loro e sembrava non voler andarsene. Le nuvole coprirono la Luna e le stelle, uniche fonti di luce di quel bosco, facendo calare le due ragazze nel buio più totale. La più giovane accese una torcia con mano tremante, mentre l’altra l’abbracciava impaurita.
-Mi dispiace- sussurrò la ragazza con la torcia, prendendo ad avanzare verso il Tempio: il Tempio della Yako.
-Non dovevo fermarmi a parlare con lei! Dovevo mantenere fede al mio giuramento!- continuò a dire, in lacrime.
Abbandonò l’amica ai piedi della lunga scalinata, consegnandole la torcia, e proseguì da sola; un forte vento le scompigliò i capelli, facendole scivolare via dal viso le fredde lacrime. Un coro di bambini iniziò ad intonare una canzoncina, simile ad una ninna-nanna: erano gli spiriti dei bambini morti che la Yako, regina delle Kitsune, aveva accolto. Stavano cantando qualcosa contro di lei.
Si fermò all’entrata del Tempio, davanti alla porta; i bambini cantarono con tono di voce più alto e in modo più veloce. Una grossa ombra grigia cominciò ad avanzare davanti alla ragazza, che indietreggiò spaventata. Sentiva già il respiro caldo della Yako sulla sua pelle, il canto rimbombarle nelle orecchie e le code della Kitsune accarezzarla prima di strapparla alla vita. Dei denti insanguinati apparvero dalla nebbia e...
 
Ayano urlò, scattando giù dal divano; qualcuno l’aveva toccata. Si maledì per aver spento tutte le luci della casa prima di vedere quel film. Prese a lanciare tutto ciò che le capitava a tiro, con gli occhi chiusi in un’espressione terrorizzata, mentre continuava ad urlare.
Le risate allegre di Bonjiro si unirono alle urla terrorizzate della gemella, anche se continuava a schivare gli oggetti che gli lanciava. Era da tempo che non le faceva uno scherzo e, anche se aveva scelto il momento sbagliato, gli era piaciuto farlo.
Ayano si avvicinò al fratello, rossa in viso per la rabbia, e afferrò uno dei cuscini del divano, colpendolo. Questo smise di ridere e abbracciò la sorella, con un sorriso divertito sul volto, prima che questa si staccasse violentemente da lui con fare offeso.
-Sei stato sleale.- disse Ayano, sedendosi sul divano con le braccia strette al petto e le gambe accavallate, gonfiando le guance.
Bonjiro rispose con una scrollata di spalle. Raccolse il telecomando che Ayano aveva lanciato, insieme a tutti gli altri oggetti, e spense la Tv; sospirando, lo appoggiò sul bracciolo del divano, e si avvicinò alla finestra per osservare il cielo buio della notte.
-Però mi mancava sentirti ridere, sai?- parlò Ayano, con un sorriso sincero sul volto.
Bonjiro sgranò gli occhi gialli e osservò la sorella confuso, perdendo il sorriso. Non sapeva se prenderlo come un complimento o come un rimprovero; non sapeva cosa rispondere.
-Muoviti- le disse solo, tornando ad osservare fuori la finestra, riprendendo il tono freddo e distaccato –Oppure ci perdiamo l’intera festa.-
Ayano si batté una mano sulla fronte, prima di sorridere in modo nervoso. Si mise in piedi e aggiustò al meglio il kimono rosso che indossava; si sciolse lo chignon e, tenendo i fermagli neri stretti tra le labbra, prese a rifarlo. Si tolse i fermagli dalle labbra e fermò i capelli bicolore, correndo davanti allo specchio del corridoio: non si sentiva per niente a suo agio con quel kimono, ma non poteva farci niente. Era la festa della Yako e doveva per forza indossare quell’abito; l’avrebbero fatto tutti, maschi e femmine, e lei non sarebbe stata l’unica ridicola.
Avvicinandosi all’attaccapanni, appoggiato affianco alla porta d’entrata, prese il suo michiyuki* color rosso chiaro e lo appoggiò su un braccio.
-Andiamo, Bonjiro!- esclamò allegramente, prima di aprire la porta e di scendere in strada senza aspettare il gemello.
Con gli occhi che luccicavano di gioia e le labbra piegate in un ampio sorriso, Ayano unì le mani davanti al petto e si ritrovò ad osservare la strada: appena davanti casa sua c’era una gran folla di gente in abiti cerimoniali che avanzavano, parlando gioiosamente, verso la piazza centrale. Bambini e ragazzi correvano in gruppo, e alcuni si portavano dietro cani, gatti o vaschette con all’interno dei pesci rossi appena vinti ad una giostra, o ad una bancarella.
L’aria di festa si sentiva eccome.
Si sentì appoggiare delle mani sulle spalle e, perdendo il sorriso, si voltò a guardare chi fosse: sperava vivamente uno dei suoi amici, ma si ritrovò Bonjiro che con lo sguardo le intimava di proseguire. Senza farselo ripetere due volte, si gettò nel fiume di gente insieme al fratello.
Le strade della città di Osaka erano molto illuminate, decorate e “vive”: c’erano delle lanterne ovunque, che sostituivano la luce dei pali, e alcuni bambini le facevano volare in cielo, creando uno spettacolo meraviglioso; sembravano palle di fuoco che si allontanavano man mano dal terreno. Ai rami degli alberi erano appesi dei bigliettini colorati, e la gente continuava a scriverli e ad appenderli: su quei bigliettini si scrivevano i desideri che una persona aveva.
Ayano non credeva che i desideri potessero avverarsi, se scritti su quei biglietti, ma non poté non sorridere con malinconia al pensiero che, con i suoi genitori, si era sempre divertita a farli. E, spesso, quei desideri si avveravano, ma solo perché i suoi genitori erano ricchi abbastanza da permettersi di comprare quei desideri materiali; solo uno, nella sua infanzia, non si era avverato: avere genitori più amorevoli e presenti.
Il suo sguardo passò alle varie giostre e bancarelle messe per strada, dove vi erano numerosi bambini e ragazzi. Osserò i deliziosi kimono colorati dei bambini: le bambine sembravano principesse, con quei kimono decorati da disegni floreali di ogni colore, e con dei fiori bianchi tra i capelli. Si lasciò scappare una risata divertita, all’osservare una “coppietta” di bambini litigare, con la bambina che mise il broncio e il piccolo che dondolava tra l’orgoglio e la voglia di far pace.
Grida gioiose si mischiarono al festoso vociare: bastò alzare lo sguardo sulla sinistra per vedere un gruppo di ragazzi sulle montagne russe. Fu lì che Ayano ricordò di dover cercare Akio e Yuuki, con cui si era data appuntamento in quella piazza.
-AYANO-CHAAAAAN!- gridò una gioiosa voce femminile, con tono dolce, come se avesse letto i pensieri della ragazza.
Ayano sgranò gli occhi e perse il sorriso, fermandosi insieme a Bonjiro. Solo una persona che conosceva metteva quei maledetti suffissi ad ogni nome: Yuuki, sua migliore amica e compagna di classe. Girò il capo a destra e a sinistra, cercandola con lo sguardo, ma non la vide. Si guardò allora alle spalle e la vide, ferma alla bancarella dei pesci rossi, insieme ad Akio, che agitava una mano per indicare la loro posizione. Ayano sbatté le mani gioiosamente e corse verso la sua migliore amica; questa iniziò a correre a sua volta e andò incontro all’amica, abbracciandola forte appena la ebbe davanti.
-Non riuscivo a trovarti!- disse Ayano, staccandosi da Yuuki e poggiandole le mani sulle spalle.
Yuuki rise, chiudendo i grandi e dolci occhi castani. Piegò le labbra rosee e sottili in un sorriso, prendendo a fare il segno di vittoria con una mano; la manica lunga del suo kimono rosa confetto ondeggiò.
-Ha tolto la coda... e si è fatta lo chignon!- parlò Akio, con tono quasi dispiaciuto, intromettendosi nella conversazione e indicando i capelli castani di Yuuki, raccolti in un morbido chignon.
Yuuki mise il broncio e strinse le braccia esili sotto al seno sodo, borbottando un “Ho lasciato la frangetta, devi essermi grato per questo!”; come se per lei la frangetta che portava sugli occhi fosse un impiccio!
-Per me, Yuuki con lo chignon e il kimono rosa sta benissimo!- si complimentò Ayano con l’amica, con tono sincero, facendola sorridere.
Voleva bene a Yuuki, con tutta se stessa, eppure c’erano molte cose di lei che odiava: il suo mettere “-chan” e “-san” dietro ogni nome, il modo in cui scherzava e la sua cotta per Bonjiro, cotta che durava ormai da tre anni. Inoltre la invidiava, la invidiava da morire: aveva un fisico magro ed esile, dovuto al suo hobby da ballerina, la pelle morbida e delicata e i tratti del viso e degli occhi dolcissimi. La invidiava per le attenzioni che Akio le dava, anche con un semplice “posso farti la coda di cavallo più alta?”; i capelli di Yuuki erano sempre in ordine, liscissimi, e di un castano ramato che Ayano, e anche Akio, amavano.
Anche quella volta, Akio sembrava dare più attenzioni a Yuuki, invece che a lei.
-Bonji’-san!- esclamò d’improvviso Yuuki, con tono ancor più gioioso, battendo le mani e arrossendo lievemente.
Sotto lo sguardo deluso di Akio e preoccupato di Ayano, la castana si avvicinò a Bonjiro, che era rimasto tutto quel tempo a braccia conserte e in silenzio; d’improvviso, prese a fargli i soliti complimenti, ai quali il ragazzo non rispondeva, ma si limitava a sbuffare ogni tanto.
L’espressione preoccupata di Ayano diventò malinconica e sospirò pesantemente: vedere suo fratello in quello stato la faceva star male. Bonjiro non stava male e non era ferito in alcun modo, ma Ayano con “in quello stato” intendeva lo stato di solitudine in cui il fratello si era chiuso: non parlava mai con nessuno, tendeva ad allontanarsi da tutti con la classica scusa “odio la confusione” e non sorrideva, o rideva, mai di gioia, escluso rarissime volte.
Non lo ricordava così, prima di quell’avvenimento: era sempre stato un ragazzo introverso, che non faceva amicizia facilmente, ma qualche parola e sorrisi non sadici li donava sempre. Da quella volta aveva iniziato ad “odiare la confusione”: se andava alle feste, era per seguirla. Ayano aveva capito che Bonjiro odiava le persone e non la confusione, come voleva far credere. Se voleva farlo parlare doveva portarlo in un luogo dove dovevano esserci solo lui, lei e un’altra persona che lei conosceva. Odiava com’era diventato.
Sgranò gli occhi, sbattendo le palpebre ripetutamente, osservando la mano di Akio muoversi a qualche centimetro dal suo viso. Si fermò a guardarlo, confusa.
-Stai bene?- le chiese lui, con dolcezza -Non rispondevi più e fissavi chissà cosa con una faccia...-
Ayano sorrise timidamente, annuendo con forza e decisione.
-Sto benissimo, stavo solo pensando!- gli rispose, cercando di nascondere la malinconia che provava.
Akio non sembrò convinto di quella risposta; piegò leggermente la testa di lato, facendo ondeggiare le corte ciocche di capelli rossastri, osservando Ayano dritta negli occhi. Gli occhi verdi di Akio sembravano voler arrivare in profondità dell’anima della corvina, che non accettò questa cosa.
Lo prese sotto braccio e si strinse improvvisamente a lui, facendogli emettere un “Oh” di sorpresa, prima di farlo sorridere intenerito. Ayano poggiò la testa sulla sua spalla e chiuse gli occhi ambrati.
-Vedo che abbiamo l’abito dello stesso colore!- parlò, cercando di sviare il discorso.
Prese a camminare con lui sottobraccio e con Yuuki che, staccatasi da Bonjiro, aveva preso a camminare al loro fianco; come tutti e tre sospettavano, la fonte dei pensieri cupi di Ayano si era messo dietro di loro in disparte, come un’ombra silenziosa ed inquietante.
Alla fine, i tre comprarono oggetti dalla maggior parte delle bancarelle in piazza: Ayano e Akio avevano comprato solo dolci e caramelle di ogni genere e dimensioni, e la prima aveva vinto anche un peluche della sua stessa altezza; Yuuki e Akio, quando l’aveva vinto, erano rimasti parecchio sorpresi dell’abilità dell’amica con le armi da fuoco. Yuuki, oltre qualche pupazzo di medie dimensioni, qualche manga e dei dolci, aveva comprato anche due pesciolini rossi. Tuttavia, a causa del loro voler sembrare grandi, nessuno andò, o propose di fare un giro sulle giostre.
Si erano fermati così all’interno di un ristorante, sedendosi ad uno dei tavoli che stavano fuori, poiché non avevano più voglia di portare le buste e poiché Ayano aveva iniziato a fare i capricci, stanca di doversi portare “quell’ingombrante orso di peluche sulle spalle”. Akio aveva deciso di chiamare i suoi genitori e Yuuki sua madre, così Ayano rimase quasi in silenzio, a canticchiare una ninna-nanna mentre osservava i due pesci di Yuuki muoversi nella busta di plastica riempita d’acqua.
Notò il colore carino che “indossavano” e sorrise come una bambina; appoggiò un dito sulla busta di plastica, cercando di accarezzarne uno, ma quando si rese conto della cosa stupida che stava facendo smise, ridendo sommessamente e scuotendo la testa. La mano di Yuuki afferrò la busta dei pesci rossi e la alzò, per guardarli meglio; aveva smesso di telefonare proprio in quel momento.
-Mia madre non vuole i pesciolini- sussurrò malinconica, posandoli sul tavolo. Guardò Ayano negli occhi: -Li vorresti tenere al posto mio?-
Ayano sgranò gli occhi e scosse la testa.
-Ho un gatto, ricordi?- le disse, tutto d’un fiato, alzando un sopracciglio e abbassando l’altro.
Aveva un gatto e aveva paura di tenerlo a casa, non poteva tenere anche dei pesci. Poi avrebbe dovuto stare attenta a non far uccidere il suo gattino dal fratello, e anche a non far uccidere i pesci dal gatto; lei amava gli animali, anche un pesce rosso che moriva la faceva scoppiare a piangere.
Sapeva che la mamma di Yuuki non poteva badare a quei pesci che, seppur erano piccoli e non impegnativi animali, necessitavano di cibo e di altre piccole cose. La povera donna faceva già fatica a far mangiare i suoi cinque figli, dopo la morte tragica del marito... che si occupava del manicomio di Tokyo e del caso “Harada”.
Yuuki annuì debolmente, dispiaciuta. Si guardò intorno all’improvviso, prima di scattare in piedi facendo cadere la sedia. Akio, che aveva smesso di telefonare in quel momento, la guardò con aria di rimprovero.
-Che succede?- le chiese in imbarazzo, a causa di alcuni giovani che si erano fermati ad osservarli.
-Bonjiro-san non c’è!- sbottò Yuuki, mettendosi una mano sul petto e stringendola a pugno. Gli occhi castani iniziarono a diventarle lucidi e il cuore iniziò a batterle forte nel petto; -Eppure era qui!-
Ayano perse un battito; non aveva paura di dove fosse finito Bonjiro, ma di sapere se fosse con qualcuno. Balzò in piedi e, abbandonando tutta la roba che aveva comprato al tavolo, corse tra la folla urlando in modo disperato il nome del fratello. Akio cercò di richiamarla, ma sgranò gli occhi allibito quando Yuuki la imitò, abbandonando come lei tutto sul tavolo. Akio strinse i denti: Bonjiro poteva badare a se stesso, no? Quelle due non potevano farlo rimanere lì con tutta quella roba posta su un tavolo, da solo.
Nel frattempo, all’interno di un boschetto dove era stato costruito il Tempio della Yako, una voce infantile e gioiosa chiacchierava animatamente. Bonjiro teneva la mano ad un bambino, forzando un sorriso e di stare a sentire ciò che diceva, ma in realtà non gli importava niente.
Si era seduto su una panchina per allontanarsi da Yuuki, Akio e dalla sorella, quando quel brutto moccioso gli si era avvicinato dicendo, come se niente fosse, che assomigliava ad un tipo che aveva visto in telegiornale durante la sua permanenza a Tokyo. E, se prima Bonjiro aveva fatto finta di non ascoltarlo, conoscendo il carattere dei bambini, quando il bambino aveva continuato non aveva avuto altra scelta che decidere di ucciderlo; quel bambino l’aveva chiamato “Katsumi Harada” in strada, e conosceva troppo bene la storia del manicomio.
Camminavano ora per il bosco verde e rigoglioso, dove le uniche fonti di luce erano la Luna piena e le poche stelle che si vedevano, dritti alla cima del Tempio della Yako. Arrivarono davanti alla lunga scalinata del  Tempio; dopo un urletto di gioia, il bambino aveva preso a salire saltellando i gradini, lasciando la mano del ragazzo che lo seguiva con un sorriso sadico sul volto.
-Qui- parlò il bambino, continuando a saltare di gradino in gradino -salì le scale Kagome prima di essere mangiata dalla Yako!- alternò ogni parola ad un salto su un gradino.
Bonjiro annuì, pur sapendo che il piccolo non poteva vederlo. Lui conosceva la leggenda di quel demone, ed era per questo che l’aveva portato sul Tempio.
I gradini terminarono: sulla piattaforma, formata da mattonelle bianche e quadrate, lisce e splendenti, vi era l’enorme statua dorata della volpe a nove code. Sotto la statua, il bambino si fermò a leggere i nomi dei bambini morti e che i genitori avevano seppellito nel Tempio, sperando che la leggenda fosse vera: “La Yako si prende cura dei bambini morti”.
-Ecco che volevo vedere! Grazie!- esultò il bambino, saltellando sul posto.
Bonjiro allargò il sorriso: convincere quel bambino a seguirlo era stato facile, siccome voleva leggere i nomi dei bambini morti e seppelliti lì. Regalò un fugace sguardo alla volpe dorata, che puntava gli occhi dritti davanti a lei, dove si stava svolgendo la festa. Osservò di nuovo il bambino, allo scuro del destino che era stato scritto per lui.
-Vuoi vedere la vera Yako?- gli chiese, abbassandosi alla sua altezza.
Gli occhi del bambino luccicarono di gioia, e non di paura, come aveva pensato Bonjiro. Al suo annuire, si rimise in piedi e gli indicò la rampa di scale che avevano appena salito. Il bambino corse e si mise ad osservare sotto di lui, alla fine di quei grandini che sembravano piccolissimi a causa della grande distanza d’altezza. Però, non vide nessuna volpe dorata, o grigia. Si alzò sulle punte e provò ad osservare meglio... e si sentì cadere nel vuoto. Senza emettere alcun suono, vide i gradini avvicinarsi alla velocità della luce; poi si sentì un suono sordo e vide il buio.
Bonjiro rise sommessamente. Prese a scendere di corsa i gradini, per vedere se quel moccioso fosse davvero morto dopo quella fatale caduta. Quando gli fu vicino, si sedette sulle ginocchia e lo guardò con attenzione: aveva la testa spaccata, era impossibile che fosse sopravvissuto.
-T... Tu...- sentì sussurrare. In modo impercettibile, affaticato, ma era pur sempre un sussurro.
Strinse i denti, incredulo, ma stette in silenzio per sentirlo continuare; non ottenne altro: il piccolo era morto con gli occhi e la bocca spalancati. Si alzò, e puntò lo sguardo alla cima del Tempio, ampliando il sorriso sadico così tanto da sembrare un pazzo.
-Consideralo un mio regalo, Yako- parlò ad alta voce, quasi urlando. Poggiò le mani sui fianchi e continuò: -Se esistessi sul serio, distruggeresti questa festa in tuo onore. Sei un demone, non hai bisogno di gioia... ma di sangue-
Stette in silenzio per qualche secondo, fissando il bambino morto. Sospirò pesantemente, posandosi una mano sul petto, cercando di calmarsi: non poteva farsi vedere in quello stato da Ayano e gli altri, o avrebbero sospettato qualcosa. Quando il battito del cuore tornò regolare, si avviò per ritornare dalla sorella, pensando a cosa dirle per giustificare la sua assenza.
Il bosco tornò silenzioso, fino all’uscita di Bonjiro. Quando il ragazzo uscì, un coro di voci infantili si levò dal tempio mentre intonavano una triste ninna-nanna; dopo di loro, a quel triste canto, se ne unì un altro che sembrava borbottare qualcosa contro il giovane appena uscito dal bosco. Un paio di fiammelle blu scesero, fluttuando, dalle scalinate del Tempio, e con voce infantile e alta parlarono: “Chiunque uccide un bambino accanto al Tempio, verrà ucciso in modo violento”.

*michiyuki: giacchetta a maniche lunghe che si mette sopra i kimono femminili, quando le donne hanno freddo.

Angolo Autrice:
Salve! Lo so, sono in un ritardo enorme e che non accetta giustifiche, ma il mio pc si è rotto e ho perso tutto ciò che avevo scritto. Questo capitolo l'avevo scritto anche su un foglio e quindi, grazie anche ad un pc piuttosto vecchio (ma che funziona xD), sono riuscita ad aggiornare. Avviso già che, se trovate errori, un po' è colpa del computer temporaneo, l'altra delle mie terribili condizioni di salute x"D come sempre, ditemi se li trovate e correggerò.
La storia della Yako non l'ho inventata, ma l'ho presa da una leggenda giapponese; per la descrizione del Tempio, mi sono basata su alcune fotografie. In questo capitolo spiego anche il perché della morte di Bonjiro (coltellata, taglio di lingua, taglio della testa e venir mangiato), e anche la maledizione l'ho presa dalla leggenda. Tuttavia, trattandosi di Corpse Party, ho reso la maledizione e la leggenda reali.
Se volete ascoltare la ninna-nanna che viene tanto cantata in questo capitolo, cercate "Kagome, Kagome" su Youtube (se volete ascoltarla coi sottotitoli inglese, cercate "Circle you, Circle you"). Io ho finito; spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento! 
Kira-chan.

 

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Capitolo 4
*** 04. Rottura ***


In teoria il capitolo sarebbe dovuto uscire ad Halloween, ma lo pubblico ora che siamo al 20 novembre (poiché tutte le date che state leggendo, alla fine avranno un significato). Il capitolo potrebbe risultare piuttosto noioso e stupido, però mi serve per farvi capire una parte della psicologia di Ayano per uno specifico capitolo. La prima parte è narrata in prima persona da Ayano: se ci sono frasi confuse, è perché sono state inserite volontariamente, proprio per farvi capire la confusione della protagonista. Grazie a chi leggerà e a chi lascerà una recensione a questa shot cortina... (però, ehi, è sempre una raccolta!) Buona lettura!

04. Rottura

Avevo appena terminato la lezione al club dell’occulto. Quel giorno avevamo approfondito la magia nera nella sua storia, per cosa veniva usata e i rischi che si correvano; mi era piaciuto tanto spiegare e ascoltare i miei “colleghi”. Lo ammetto, quel club non ha una bella reputazione: si pensa che lì dentro si facciano riti satanici, si evochino demoni, o altre cose simili. Ucciderei chi insinua questo, se Bonjiro non me lo impedisse ogni volta: il mio club si usa per approfondire oggetti e misteri legati all'esoterismo, ma nessuno osa evocare demoni; il club dell’occulto non fa certe cose.
In ogni caso, stavo chiudendo la porta a chiave. Da quando Honoka, vice presidente, era stata rapita due giorni fa, il compito di chiudere e aprire quel club era mio, così come la responsabilità di ciò che accadeva al suo interno, poiché l’avevo costruito e addobbato. Se vi può sembrare qualcosa di facile, dimenticatelo: non lo è. Però, mi tiene lontana da Bonjiro, appartenente ad un altro club, ed è una cosa fantastica.
Appena tolsi la chiave dalla serratura, sentii qualcuno dire: -Quindi voi del club dell’occulto avete organizzato qualcosa per Halloween?-
Mi voltai per vedere chi aveva parlato: Akio. Credo di essere arrossita, perché era appena uscito dal club di basket e quindi aveva quella tuta che lo rendeva carinissimo. Non riuscii a parlare e annuii soltanto, sorridendo. Un momento, come sapeva della serata segreta del club? Credo che due ochette del club abbiano fatto il passaparola con tutti... insomma, se la notizia è arrivata al club di basket!
-Evocherete dei... demoni?- mi domandò con voce tremante.
Beh, diciamo che non voglio uccidere tutti quelli che pensano queste cose sul club, alcuni li lascerei tranquillamente in vita!
-No! Il club non serve a questo, te l’ho spiegato tante volte!- esclamai offesa.
Prendemmo, comunque, a camminare fianco a fianco dritti al terzo piano della scuola. Quella volta toccava all’altra metà classe pulire l’aula, e tra questa “metà classe” c’erano Yuuki e Bonjiro: dovevamo andare al terzo piano per vedere se avevano finito. C’era uno strano silenzio a scuola, nonostante i corridoi fossero ancora affollati: solo io e Akio parlavamo, senza sussurrare, di ciò che prevedeva quella serata speciale al club. Niente di speciale, ovviamente, ma volevo “convertirle” al blog di Saenoki Naho, mio idolo femminile!
Tutto quel silenzio mi sembrava sempre più strano, però. Arrivati al terzo piano notammo dei ragazzi bianchi in viso, mentre altri piangevano silenziosamente... altri sussurravano. Era un comportamento insolito, o forse no. Fanno così solo quando in cantina viene trovato un altro sacco della spazzatura con all’interno un cadavere fatto a pezzi, firmato “Souru” in sangue –sì, non so perché firmo solo col mio nome su quei sacchi d’immondizia–; però, io quel giorno e il giorno prima non avevo ucciso nessuno perché nessuno aveva scoperto il mio passato. L’ipotesi del ritrovamento di un cadavere svanì dalla mia mente.
Non appena vidi Yuuki e Bonjiro fuori la nostra aula, abbandonai Akio e corsi ad abbracciare la mia migliore amica; lei non ricambiò. Anzi, mi staccò da lei e mi guardò: aveva il viso pallido, con su dipinta un’espressione terrorizzata e preoccupata. Quello sguardo mi trafisse il cuore: e se avevano scoperto che ero io Souru, quella che loro chiamavano “L’assassina delle anime”? Non l’avevano ancora scoperto, ma... potevano in quel momento! No, no, che sto dicendo? Se l’avessero scoperto quelle due oche al club dell’occulto me ne avrebbero parlato, anzi, nessuno sarebbe venuto da me al club!
Cercai conferma nello sguardo del mio fratellino, ma stava fissando costantemente una finestra all’interno della classe, col suo solito fare apatico: perché diavolo guardava quella cosa? Vorrei non averlo mai scoperto.
-Che succede, Yuuki? Tutta la scuola è...- mi interruppi, poiché Yuuki mi fece cenno di abbassare la voce.
I suoi occhi castani, dolci e da me odiati, si rifletterono nei miei. Non mi ero mai sentita così in soggezione, strana.
-Quando abbiamo iniziato a pulire i vetri di questo piano,- prese a sussurrare Yuuki, con dei piccoli intervalli tra alcune parole e altre -fuori si sentiva uno strano odore, una puzza insopportabile. Pensavo di averla sentita solo io, fino a quando anche Bonjiro-san e gli altri nelle altre classi non hanno iniziato a lamentarsi; poi, si sa, è successo un passaparola.-
Una strana puzza di fuori? Poteva essere qualunque cosa, a dire il vero. Se anche Bonjiro l’aveva sentita e si era “lamentato”, voleva dire che non c’era nessun cadavere. Sentii Akio deglutire sonoramente dietro di me; mi era così vicino che potevo sentire appena il battito del suo cuore accelerato.
A scuola non c’erano gli insegnanti: quando si svolgevano i club e le pulizie, gli insegnanti e il preside tornavano a casa loro. Mi sentii oppressa da qualcosa, stretta tra due oggetti, senza possibilità di scampo... insomma, strana. Il mio cuore perse un battito, poi accelerò all’improvviso; le orecchie iniziarono a fischiarmi, un suono fastidioso che aumentava secondo dopo secondo, e la testa iniziò a dolermi in modo lancinante. Mi portai le mani alla testa e mi inginocchiai davanti a Yuuki, senza badare a ciò che lei e Akio iniziarono a dire, insieme ad altre persone curiose.
Le orecchie, Yako: avrei voluto staccarmele. Avrei voluto staccare l’intera testa per non sentire dolore. Volevo urlare: urlare per sovrastare il battito sempre più forte e veloce del mio cuore, e il fischio nelle orecchie; ma non potevo. Mi ritrovai ancora più in trappola, desiderosa di morire lì.
Non so ancora cosa mi stava succedendo: da come mi disse Bonjiro, non ero riuscita a controllare il mio timore e la mia ansia, ma non mi fido di ciò che dice riguardo le mie emozioni.
Parlando di Bonjiro, non appena si accorse del mio stato si inginocchiò accanto a me e mi abbracciò, facendo di tutto per farmi calmare: dal sussurrare parole come “Calmati, o Akio pensa male!”, a gesti come accarezzarmi i capelli e stringermi a lui; era diverso, troppo dolce. Tuttavia, mi calmai solo quando mi propose di andare a controllare cosa c’era al quarto piano, ovvero il terrazzo.
Dovete sapere che il numero quattro, nel nostro bel Paese, è maledetto e porta sfortuna. “Quattro” significa “Morte”*, infatti al quarto piano non va mai nessuno e si mette sempre il tetto, o il terrazzo; non esiste una porta chiamata col numero “quattro”, né un negozio al centro commerciale.  Bonjiro non credeva nella magia, o in queste cose, eppure mi disse di andare al quarto piano, non al terrazzo: sono la stessa cosa, ma mi fece sospettare molto.
Yuuki si propose di accompagnarci e anche Akio, seppur dopo aver detto varie scuse per farci desistere: fifone, il mio rosso. Penso non volesse venire anche perché è vietato andare sul terrazzo quando non ci sono gli insegnanti.
Cercando di dare il meno nell’occhio possibile, poiché altrimenti avremmo scatenato la curiosità di troppi, ci avviammo verso quella maledetta scala che portava al terrazzo. Confido che poche volte ho avuto così tanta ansia per qualcosa, e questa era una delle poche volte: ad ogni minimo rumore mi voltavo, tentavo di stare sempre in mezzo ad Akio e Bonjiro e mai dietro, o davanti, a loro. Quando ho paura cerco sempre di fare così, se sono in gruppo: nei film Horror, chi va davanti a tutti, o resta dietro, muore per primo. E poi mi dicono che “studiare” sul blog di Naho non insegna niente!
Arrivammo vicino alla rampa di scale, costruita tra due pareti che distanziavano il giusto per far passare quattro persone tra loro. Era una rampa di soli otto gradini, tutti bianchi, e alla fine vi era una porta metallica grigia con due ante, che il preside chiudeva sempre a chiave dopo le lezioni. Era chiusa, infatti, quando Yuuki provò ad aprirla.
Fu allora che entrai in azione io: presi la spilla che teneva attaccato il mio tesserino studentesco alla maglia ed iniziai a scassinare la serratura, senza pensare alle conseguenze.
-Ayano-chan! Se non c’è niente, cosa racconterai poi al preside per giustificarti!?- chiese allarmata Yuuki, con la voce un po’ troppo alta.
Le risposi con un sussurro: -Non preoccuparti-. Solo questo, nient’altro.
-Ma dove hai imparato a fare questa cosa?- domandò Akio, sbalordito.
Bella mossa, me: questo fu il mio pensiero. E ora cosa gli spiegavo? Fortunatamente, inventai che, un giorno, il mio club non si apriva e dovetti scassinare la serratura per entrare. Ci ha anche creduto, Akio. Il tempo di dire quella bugia, che si aprì la porta; io e Yuuki non abbiamo urlato per pietà dei timpani dei ragazzi. Se si va su un terrazzo perché al terzo piano si è sentito un brutto odore, e si vede una scia di sangue appena si entra... non è una bella cosa.
Rimasi scioccata: io non ho mai ucciso nessuno sul tetto. Mai! E neanche Bonjiro: da ciò che sapevo, non uccideva quasi mai e se lo faceva utilizzava il fuoco.
Vidi Bonjiro avanzare lo stesso, col suo solito fare freddo. Io guardai Akio e Yuuki per ottenere conforto e sicurezza nel proseguire; al loro annuire, presi Yuuki sottobraccio e insieme, lentamente, andammo avanti, seguite da Akio. La gola si seccò improvvisamente e, ad ogni passo che facevo, il mio cuore batteva più forte; non più veloce, solo più forte, e non mi era mai successo. Avevo paura, ricordo, così paura da deglutire ogni cinque minuti a vuoto.  
Raggiungemmo il punto in cui vi era l’antenna della scuola, usata per guardare il televisore presente in ogni aula**. Ovviamente, non guardavamo anime, ma solo documentari... purtroppo. Sotto l’antenna vi era un lago di sangue e qualcosa continuava a gocciolare; strinsi i denti, decisa a non guardare cosa era successo... e sentii Yuuki e Akio urlare. Quando Yuuki si staccò da me, alzai lo sguardo involontariamente, di scatto: vorrei non averlo mai fatto.
Honoka, la ragazza che mancava da due giorni poiché rapita, la mia migliore amica e la mia “sorellona”. Honoka era lì, “impalata” nell’antenna, con una parte dell’oggetto che le fuoriusciva dalla bocca spalancata, grondante di sangue, secco e non; le braccia  penzolavano lungo i fianchi e gli occhi, un tempo castani, erano bianchi: bianchi! I vestiti sembrava non ci fossero più: alcune parti erano strappate, ma il resto era tutto rosso, rosso sangue. I vestiti si erano come incollati al suo corpo a causa del sangue! E il corpo, poi: tra bruciature, graffi, tagli, ferite che sembravano essere state fatte con un coltello e il volto pieno di lividi... non sembrava più il suo corpo puro.
Vomitai, mi sedetti, scoppiai a piangere e urlai come una pazza, insieme a Yuuki. Akio si era messo a piangere, ma cercava di non urlare e di non vomitare. Bonjiro, invece, non stava versando neanche una lacrima.
Sospettavo che sarebbe morta, lo sapevo. Se Yuuki non si fosse rifiutata di dire ciò che sapeva, quando scoprimmo che Honoka era stata rapita, probabilmente avrei potuto salvarla. Anche di fronte al suo cadavere orribilmente ferito, si rifiutiva di sputare fuori ciò che sapeva.
Quando la polizia e l’ambulanza permisero ad ogni studente di tornare a casa, non proferii parola, se non con Akio. Fissavo Yuuki con odio, gli altri con aria spenta e le guance bagnate per il pianto. Tornai a casa con gli occhi fissi a terra, bianca più di come già lo ero, seguendo Bonjiro; né io, né lui ci scambiammo nemmeno una parola, neanche un “Povera Honoka”. Lui era responsabile di ciò che era accaduto alla mia migliore amica, e sapeva ciò che pensavo. L’unica cosa che ancora non capisco, a distanza di un giorno, è perché Yuuki dice di sapere qualcosa, il nome dell’assassino, e non lo dice alla polizia: se sa ciò che ha fatto Bonjiro, può dirlo. Io non posso, ma lei potrebbe dirlo per entrambe.
Ma, probabilmente, lei nemmeno sa chi è Bonjiro: chi è realmente “il suo amore”.
Non dirò ciò che ci siamo detti arrivati a casa, e nemmeno come “mi sono” rotta il labbro inferiore. Però avevo ragione, a dire che era stato lui ad ucciderla.
-Lei non poteva sapere niente di noi!- gli avevo gridato, seduta a terra, con una mano poggiata sulla guancia.
-Honoka non doveva essere eliminata quando scopriva qualcosa su di noi, Ayano- mi disse lui, calmo, senza accennare nemmeno un finto tono dispiaciuto. Lo odiai a morte, quella volta. Continuò, sorridendo come se volesse prendermi in giro e con le braccia conserte: -Doveva essere eliminata prima. E poi, illuminami, preferiresti quella al tuo caro fratellino, che fa di tutto per te?-
Aveva fatto quella domanda con un tono così... così da presa in giro, provocatorio. Avrei voluto alzarmi, prendere un’arma e ucciderlo, urlandogli che sì, avrei preferito Honoka a lui. Però non feci niente, anzi, feci il contrario di ciò che volevo fare: lo abbracciai, mi scusai con lui. Gli dissi che, anche se Honoka mi sarebbe mancata, volevo stare solo con lui. Perché?
Diario, non ti ho scritto ieri perché sono dovuta andare all’ospedale per vedere se il labbro e il naso si erano rotti, o se il livido sulla guancia si sarebbe tolto in poco tempo. A dire la verità, anche perché ho pianto tutta la notte per la morte di Honoka. Ho provato a contattare Yuuki, poiché è l’unica che dice di conoscere l’assassino della nostra migliore amica, e l’unica che può denunciarlo. Non m’importa come abbia fatto, se ha ragione, a capire la vera identità di Bonjiro... ma deve denunciarlo. Lei può, diavolo, lei può!
Come puoi ben capire, è stato inutile: non ha voluto dirmi niente, leggeva i miei messaggi senza rispondere, e attaccava alle chiamate che le facevo. Diario, sei l’unico che non mi considera pazza, anche perché sei un oggetto. A volte vorrei uccidermi, non importa come; vorrei che Bonjiro mi uccidesse. Non riesco più a tenermi questi pesi dentro, non riesco più a combattere da sola contro i miei mostri. Non so fare altro che implorare mentalmente Yuuki affinché parli; la sto odiando. Oggi l’ho sentita parlare a telefono con Bonjiro... con Bonjiro! Inizio a sospettare che ci sia qualcosa che non va e che mi stiano nascondendo qualcosa.
So solo una cosa con certezza: tra il nostro gruppo è avvenuta una brutta rottura, che mai si aggiusterà.
                                                                             ***
Yuuki sospirò, chiudendo il diario della sua migliore amica. Bonjiro glielo prese dalle mani, fissandola poi con impazienza; le aveva portato il diario per metterla davanti ad una scelta: o decideva di denunciarlo e avrebbe perso la vita, salvando però quella di Ayano; o decideva di non denunciarlo, di tenere la bocca chiusa, salvandosi la vita. Con quel diario si sarebbe, forse, decisa in fretta: ormai era da quattro giorni che la ballerina non sapeva cosa fare.
Anche in quel momento Yuuki aveva lo sguardo fisso sul tavolo del bar e, per l’indecisione e l’ansia, si toccava quei bracciali dai colori vivaci. Sospirava ogni tanto e scuoteva debolmente la testa, sussurrando qualcosa di incomprensibile; la frangetta castana le copriva gli occhi lucidi.
“Scusa, Ayano-chan” pensò Yuuki, asciugandosi col palmo della mano una lacrima “ma ho paura. Non voglio morire, né perdere Bonjiro-san...”
Alzò lo sguardo, puntando gli occhi in quelli di Bonjiro, che con una calma tale da risultare quasi sovrannaturale, continuava a bere la lattina di Coca Cola che aveva ordinato minuti prima.
Deglutì, prese un bel respiro e si raccomandò di non scoppiare in lacrime. Tremando, prese a parlare per comunicare la sua decisione: -Scelgo di non denunciarti e di stare con te.-
Le costò non poco fare quella scelta, ma non riusciva a fare altrimenti: Bonjiro era la persona che amava, ed era anche un assassino. Quando vide apparire un viso compiaciuto sul volto del ragazzo, si diede mentalmente della codarda e si ritenne responsabile di quella rottura che, lei e solo lei, aveva deciso di creare.

*Uno dei modi di pronunciare “quattro” in giapponese è “shi”, che significa “morte”.
** In Giappone ogni classe ha un televisore, che si usa per guardare programmi per approfondire ciò che si sta studiando, oppure per certe comunicazioni e notizie.


 
 

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Capitolo 5
*** 05. Bambole ***


Questa One-Shot si svolge dopo il capitolo 2! :3 Quando i due gemellini sono scappati dal manicomio. Buona lettura <3

05. Bambole

Nella villetta c’era un’intera stanza dedicata alle bambole, sia di pezza, sia di porcellana. Nella villa in cui erano stati accolti dopo essere “fuggiti” dal manicomio, intendeva Ayano.
L’Uomo, come lo chiamava lei, del manicomio con cui suo fratello aveva fatto “amicizia” aveva un fratello e una sorella: il primo li aveva accompagnati ad Osaka, dove viveva la seconda, moglie del capo della piccola mafia della città. E marito e moglie neanche sapevano del loro arrivo. L’Uomo aveva scelto loro come falsi genitori poiché, visto il lusso in cui vivevano, non uscivano quasi mai e non erano mai stati visti trattare con chi comandavano.
Nonostante tutto, alla fine li avevano accolti. Ad Ayano piaceva quella casa, specialmente quella stanza, eppure Bonjiro non vedeva l’ora di andarsene da loro.
La stanza presentava divani, posti accanto alle pareti dipinte di color rosa zucchero filato, mensole appese al muro e delle librerie nel centro, dove al posto dei libri vi erano quelle bambole. Bambole ovunque. La ragazzina trovava disgustoso il colore rosa delle pareti, però quelle bambole di porcellana erano davvero graziose e inquietanti. Ne stava fissando alcune poste su una mensola proprio sopra un divano, con uno strano sorriso sul volto, le mani dietro la schiena e le gambe strette tra loro.
-Ti piacciono queste cose?-
Ayano perse per un attimo il sorriso. Con una specie di giravolta si voltò, in modo da dare un volto alla voce: era entrata la proprietaria della casa, la sorella dell’Uomo. Sorrise d’istinto, aggiustandosi le pieghe della corta gonna nera.
Questo suo gesto fece comparire un sorriso sincero sulle labbra della bella donna, accentuato dal colore rosso fuoco del rossetto. Osservò Ayano: notò quanto fosse carina con quel corpetto stretto di colore nero, con un fiocco legato all’altezza del petto, che presentava delle maniche lunghe a righe bianche e nere orizzontali. La gonna corta a pieghe, le parigine identiche alle maniche della maglia e gli stivaletti bassi, sempre e dannatamente neri, le aveva scelte proprio Ayano, nonostante sapesse di sembrare troppo “morta”.
Come se fosse sua madre, la donna aveva deciso di pettinarle i capelli e di lasciarli sciolti; la trattava come una principessa, quella, e Ayano faceva finta di esserne contenta.
-Sinceramente,- disse proprio la fanciulla, risvegliando la donna dai suoi pensieri; assunse uno sguardo un po’ disgustato, inclinò leggermente la testa di lato e fissò una bambola: -le trovo inquietanti.-
-Inquietanti?- ripeté stranita la signora, incrociando le braccia sotto il seno sodo. Alzò un sopracciglio e osservò Ayano: -Perché le trovi inquietanti?-
Ayano sbuffò. Camminò fin verso la bambola che stava fissando e la prese dal divano su cui era seduta, stando attenta a non romperla; la puntò davanti agli occhi di quella che era la sua finta mamma, e questa osservò l’oggetto.
Era una semplice bambola: aveva i capelli lunghi e biondi, terminanti con dei boccoli, portati sulle spalle e dietro la schiena; vestiva con uno dei classici abiti da bambola, quel vestito semi-principesco bianco, e gli occhi parevano due topazi azzurri.
-Guardala negli occhi e spostati a destra, o a sinistra!- le ordinò Ayano, alzando un po’ la voce -Sembra che ti guardi sempre, ed è così. Ha uno sguardo così profondo che incute timore! E poi non sorride. Non sorride, ma ti guarda sempre con i suoi occhi vuoti, occhi che sembrano dire che stia soffrendo. Sono gli occhi e il suo sguardo che spaventano, è come se potesse risucchiarti l’anima e prendere il tuo corpo.-
Ayano si fermò quando la donna rise di gusto.
-Piccola, sei davvero buffa!- riuscì a dire quando smise di ridere, con una mano posta davanti alle labbra -Hai dodici anni e ti fanno paura le bambole?-
Ayano roteò gli occhi gialli, posò la bambola sul divano con la massima delicatezza: l’appoggiò con la schiena contro lo schienale, e il giocattolo inclinò la testa di lato. Tramite questo gesto sembrò sorridere e la fanciulla la fissò stranita. No, lei non aveva paura delle bambole: avere paura e trovare inquietante qualcosa erano cose diverse, no?
La ragazzina si sentì abbracciare da dietro. Se non fosse cambiata, avrebbe di sicuro ricambiato l’abbraccio di quella donna o, almeno, le avrebbe regalato un sorriso; invece, quell’abbraccio le ricordava l’abbraccio di sua madre. Rari, certo, ma erano pur sempre abbracci di una madre. Concentrandosi riusciva a ricordare persino il profumo che avevano, quegli antichi abbracci, e quanto fosse morbido e sicuro il corpo del suo genitore. Perché, in effetti, la donna che ora la stava abbracciando era una mamma: aveva un figlio. E come se non bastasse, quella donna era la sua finta mamma..
Questa doveva solo fingere sui documenti dei due fratelli, però Ayano sentiva che cercava di andare oltre il termine “finta”; le voleva bene, nonostante sapesse che Ayano era tutto fuorché una santa.
La fanciulla rimase rigida, senza sorridere, con le braccia lungo i fianchi e lo sguardo perso nel vuoto per tutta la lunga durata di quell’abbraccio. Sembrò una bambola, anche per il colore e la freddezza della pelle. Quando la signora si staccò da lei, si voltò a guardarla un’altra volta; si specchiò in quegli occhi castani che esprimevano tutto il suo amore, quella volta.
-Vuoi che te ne regali una, così da portarla a casa?- le chiese gentilmente.
Ayano fu colta alla sprovvista: non si aspettava una simile domanda! Non rispose, rimase a guardarla cercando un ricordo. Cos’è che Bonjiro le aveva detto di non fare con questa famiglia? E cosa, invece, le aveva detto di fare? Non doveva parlare della sua vita o del suo vero nome al figlio della coppia, doveva rispondere di no se le chiedevano di restare, non doveva ricevere niente da loro... ecco, non doveva ricevere niente da loro, anche se era qualcosa che le piaceva!
-Allora?- la incitò a rispondere l’adulta.
Beh, lei voleva ricevere quel regalo, però non poteva fare la persona cattiva e disobbediente.
-No, grazie.- rispose Ayano, forzando un sorriso, decisa.
Si incamminò verso la porta canticchiando un allegro motivetto, finché la signora non le parlò, facendola bloccare proprio davanti alla porta.
-Non vuoi perché non vuoi tu,- le disse, con tono severo e sguardo furioso. Camminò fino a lei a braccia conserte, facendosi guardare; si chinò leggermente, e i capelli castani di media lunghezza le finirono sulle spalle: -o perché non vuole tuo fratello?-
-Touché!- si ritrovò ad esclamare Ayano, prima di ridere.
Non sapeva neanche perché stava ridendo: era perché aveva capito tutto di lei? Perché aveva indovinato? O perché non voleva cadere in un’altra crisi depressiva, e ridere la aiutava ad alleviare queste brutte sensazioni? Si portò entrambe le mani alle labbra, premendole forte su queste per smettere di ridire e cercare, cercare, di fissare seriamente colei che le stava parlando.
Era così seria ogni volta che parlava di Bonjiro, quella. Ayano non capiva cosa ci fosse di male in ciò che faceva il gemello: gli oggetti presenti in casa, o comunque i soldi con cui venivano comprati, non erano “cose pulite”. Quella coppia e quella donna, per quanto dolci potessero essere, facevano comunque parte della Yazuka. Quindi, certo, capiva perché le diceva di non accettare niente da loro... ad eccezione di un posto in cui stare.
Fece scivolare le braccia lungo i fianchi e le dondolò un po’, sorrise divertita e osservò la sua interlocutrice scuotere la testa, rassegnata. Sapeva cosa stava per dirle: doveva trovare una cosa per evitare quella ramanzina, di nuovo.
-Ayano,- iniziò dura la donna, poggiandole le mani sulle spalle -non puoi continuare così!-
La ragazzina sbuffò infastidita e venne scossa leggermente per le spalle.
-Devi decidere tu cosa vuoi e cosa no, devi decidere tu con chi stare e con chi no!- continuò a rimproverarla, aumentando il tono della voce. Non le importava di essere sentita da tutti, voleva solo parlare con quella ragazza; -Questa situazione andrà sempre peggio!-
-Io sto decidendo per me.- sussurrò Ayano. La signora rabbrividì a tali parole e allo sguardo che aveva fatto: gli occhi che esprimevano solo odio, coperti in parte dal ciuffo bianco, e un sorriso che era fin troppo inquietante. La sentì continuare: -Desidero stare con chi mi vuole bene, con chi si preoccupa per me, con chi mi difende e con chi mi fa stare bene! Il mio fratellino ha giurato che nessuno mi avrebbe più fatto del male! Ha giurato di stare con me per sempre!-
La donna si staccò da lei violentemente e si allontanò, indietreggiando. Ayano aveva sgranato gli occhi e allargato il sorriso inquietante, prima di scoppiare a ridere. E rideva, sempre più forte, con quella risata indescrivibile: la proprietaria della villa non capiva se era una risata amara mischiata ad una divertita, una risata forzata o altro, ancor peggiore. Iniziò a sudare freddo, portandosi una mano al petto: aveva solo cercato di farla ragionare.
Possibile che non si rendesse conto della situazione?
Ayano stava davvero diventando una bambola, con lui, una di quelle bambole che trovava inquietanti: e non lo capiva. Oppure, cosa ancor più brutta, faceva finta di non capire niente. Ma come poteva una persona volere bene a chi le faceva del male? Come era possibile andare avanti con lo stesso sentimento d’affetto, prendendo le sue difese e giustificando le sue azioni? Era qualcosa di inconcepibile, persino per lei che ormai era una donna matura.
La lasciò ridere, la osservò; non sapeva cos’altro poteva fare in quel momento.
Quando la fanciulla smise di ridere, sospirò sorridente. Fece un occhiolino alla signora, prima di aprire la porta e varcare la soglia, senza chiudersi la porta alle spalle. E l’altra decise solo di seguirla in silenzio, di accompagnarla all’uscita della stanza.
Non la stava seguendo proprio in silenzio, visto che il rumore dei tacchi che portava risuonava in quel silenzio tombale. Sembrava che tutti avessero abbandonato quella villa. Stringeva al petto la bambola di porcellana che Ayano le aveva mostrato precedentemente, decisa a fargliela portare dietro anche a costo di dover gridare contro il fratello di lei; lei, che continuava a canticchiare una musichetta così allegra e a camminare, saltellando di tanto in tanto. Sembrava tutt’altra persona.
Raggiunsero il cancello, che una volta attraversato avrebbe fatto uscire Ayano dalla villa: quest’ultima si fermò di scatto. Con lei si stopparono di colpo anche la musichetta e l’aria allegra, facendo incuriosire l’altra donna, la quale alzò un sopracciglio.
Per un attimo, una fiamma di speranza si accesse negli occhi dell’adulta, facendola sorridere istintivamente: che Ayano avesse deciso di tornare indietro, di vivere con lei?
Una folata d’aria gelida e violenta le scompigliò i capelli, e fu costretta a chiudere gli occhi; la giovane aveva, intanto, emesso un’esclamazione di gioia. Il cancello si chiuse sbattendo, il vento venne troncato di colpo e la castana aprì gli occhi, stringendo meglio la bambola. Perse un battito quando vide chi era entrato, anche se non riusciva a spiegarsi perché.
-Bonjiro, giusto in tempo! La governante stava dicendo che mi usi a tuo piacimento, come se fossi la tua bambola!-
Ecco perché aveva perso un battito.
La bambola cadde a terra, si frantumò la testa; i passi svelti della donna che saliva le scale furuno l’unico suono che si udì nella villa.

Angolo Autrice:
Salve a tutti! Capitolo breve, okay, e anche pieno di ripetizioni... ma ho dovuto. Non posso svelare ora, in questo capitolo, il nome dell'Uomo (scritto con la maiuscola a posta) e della donna; questa storia si sta facendo incasinata t.t La bambola, comunque, è così per un motivo... che non posso svelarvi in questa raccolta xD uccidetemi. 
La donna vuole tanto bene ad Ayano, peccato che odi il fratello di questa. Alla fine ha preferito scappare e far finta di niente, piuttosto che cercare di parlare e di ritrovarsi la villa in fiamme, anche perché...
 *SPOILER*
... è l'unica che ha visto le schede del manicomio che parlavano di Bonji, quindi l'unica che ha visto i suoi problemi.
*FINE SPOILER*
Se ci sono errori segnalate, come sempre mi fareste un grosso favore! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Un abbraccio,
Kira-chan.

 

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Capitolo 6
*** 06. Frammenti ***


06. Frammenti

-Fammi uscire da qui! Apri la porta, non è divertente!-
Continuò a battere i pugni contro la porta chiusa e, poi, a cercare di aprirla con la maniglia, ma niente da fare. La cosa più brutta era che si trovava al buio, in una stanza del manicomio dove non c’era neanche una finestra, una specie di magazzino vuoto e abbandonato. Come avesse fatto lui ad ottenere la chiave per sequestrarlo e intrappolarlo lì, non lo sapeva.
-Idate! Idate, apri! Apri subito!- continuò a gridare disperato e a battere i pugni -Apri! Souru sarà preoccupata, ti prego!-
Una risata, molto divertita, si levò tutt’intorno. Ci fu un colpo secco alla porta dall’esterno, che fece scattare il ragazzino all’indietro con la vana speranza che la porta si aprisse: invece, l’uomo lì dietro l’aveva fatto per farlo spaventare e basta. Katsumi strinse i pugni e abbassò lo sguardo.
-Ehi, piccoletto, ti ricordi la prima regola?- gli chiese la voce maschile dall’esterno, facendo una breve pausa prima di continuare: -Non gridare. Grida ancora e ti farò stare qui un’altra ora.- un’altra risata sommessa, e Katsumi aveva tanta voglia di ucciderlo -Poi di che ti lamenti: questa punizione è meglio dell’altra, no?-
 
Honoka chiuse la porta del salotto: ora, in quella stanza, c’erano solo lei, Bonjiro e il suo cane. Bonjiro che continuava a fissarla con aria attenta, seduto sul divano, e lei, dopo averlo raggiunto ed essersi messa davanti a lui, non era da meno. Sapeva che se avrebbe fatto un passo falso, nella condizione in cui era, sarebbe potuta addirittura morire: ora sapeva chi era davvero il suo compagno, doveva solo far finta di non saperlo.
Honoka strinse i pugni sui fianchi e prese un bel respiro, poi fissò dritto negli occhi il compagno; poteva farcela. Avrebbe potuto gridare per ogni cosa, aveva un telefono proprio nella stanza e anche un cane: aveva delle difese. Si accovacciò davanti a lui, poggiando le mani sulle sue ginocchia per restare in equilibrio, e lo guardò dal basso; Bonjiro la fissava stranito, così la fanciulla forzò un sorriso.
-Harada, non so come dirtelo...- iniziò Honoka, fermandosi un attimo per guardarsi intorno -... ma non ti ho, letteralmente, sequestrato per farmi aiutare in una materia.-
-E allora perché?- chiese tranquillo Bonjiro -Ti ricordo che Ayano è a casa, da sola, malata.-
Era infastidito, ma non voleva darlo a vedere: da ciò che aveva imparato da Idate, era meglio starsene sempre apatici e silenziosi. Però il pensiero di sua sorella a casa e di lui che veniva fatto salire nell’auto di Honoka con ben due inganni, per poi venirci anche bloccato... era odioso. Lo avevano ingannato ancora.
-Lo so, lo so!- fece Honoka, anche se per niente dispiaciuta -Lo sai che non ho mai parlato male di te e non ti ho mai fatto niente di male, però ora ascoltami-
-Niente di male, eh?- sussurrò il ragazzo; sul suo volto apparve un sorriso amaro.
 
 
Una secchiata d’acqua gelida lo colpì in pieno, facendolo scattare in piedi. Honoka e altri suoi compagni di classe si misero a ridere, prima di gettare il secchio a terra con noncuranza. Li fissò e basta, sospirando per calmarsi, prima di controllare se il suo orologio funzionasse ancora.
-Harada, te la sei presa?- chiese la voce fastidiosa della rappresentate, Honoka. Si avvicinò al ragazzo con passo deciso, gli poggiò una mano sulla spalla e poi la ritirò di scatto: -Oh, ma sei davvero tutto bagnato!- esclamò, con finto tono sorpreso, facendo ridere tutti gli altri.
-Honoka, dai!- esclamò un’altra voce femminile.
Ayano li raggiunse e li guardò con una strana espressione sul volto, un sorriso tirato che accompagnava un’espressione segretamente divertita. Scompigliò i capelli del fratello con una mano, facendolo imprecare sottovoce, poi fissò i suoi compagni e diede il cinque ad Honoka.
-Almeno se l’è presa meno dell’altra volta!- esclamò una voce maschile dal gruppetto.
-L’altra volta mi sarei incazzata anch’io...- la rappresentante fissò Bonjiro per un po’, facendogli abbassare lo sguardo -... non era acqua!-
 
Honoka si sedette accanto a lui un po’ troppo vicina, tanto che il giovane si spostò, facendola sbuffare.
-Potrei denunciarti per rapimento- fece serio. Strinse le braccia al petto, puntò lo sguardo sul piccolo chihuahua bianco che aveva preso a giocare con un osso di gomma; tutto pur di non guardarla e nascondere la sua espressione, tutt’altro che apatica.
-Oh, ma qui... ecco...- la ragazza tremò, sentì il battito cardiaco accelerare e una serie di tremolii attraversarla. Poteva farcela, doveva farsi coraggio: -... qui... a... a beccarti una denuncia, sarai tu.-
Bonjiro sgranò gli occhi ambrati. Fissò la sua compagna di scatto: possibile che sapesse qualcosa? Probabilmente no. Probabilmente voleva prenderlo in giro ancora, voleva ingannarlo ancora, voleva farsi beffa di lui ancora. L’unica cosa che poteva fare era chiamare la polizia perché “Harada non mi ha passato i risultati!”, da bimba viziata qual era. La fama da principessa e da figlia del sindaco le aveva dato alla testa, ma lui era piuttosto stanco quella volta.
Honoka lo fissò, gli occhi castani erano carichi di tensione; con una mano si toccò una ciocca dei corti capelli castani, prima di iniziare a mordersi il labbro. Stava tremando tutta, si vedeva, respirava affannosamente e temeva che i battiti del suo cuore risuonassero con il rintocco del pendolo.
-Ti denuncerò.- sentenziò Honoka, che ormai era attraversata da sempre più brividi di paura. Sapeva, però, che doveva farsi coraggio, perché lo stava dicendo per salvare lei.
-E perché dovresti denunciarmi?- domandò Bonjiro, regalandole uno sguardo glaciale. Doveva ammetterlo, stava iniziando a temere: e se Ayano avesse raccontato tutto ad Honoka?
-Ti becchi una denuncia per ciò che hai fatto ad Ayano.- rispose la ragazza, in preda alla rabbia. Ce l’aveva fatta: gliel’aveva detto continuando a fissarlo negli occhi, gliel'aveva detto nonostante la paura. Stava per salvare la sua migliore amica.
Al ragazzo sembrò crollare il mondo addosso.
La ragazza lo vide alzarsi, fissarla apatico e basta, senza parlare o muoversi; la castana deglutì e strinse i pugni sulle ginocchia: ora doveva correre, premere un pulsante sul telefono e il messaggio-denuncia sarebbe stato inviato. Il suo cane iniziò a ringhiare ferocemente e no, la cosa non le piaceva neanche un po’. Si alzò anche lei, continuò ad osservare il compagno e si avvicinò indietreggiando al telefono sul comodino.
Si bloccò quando Bonjiro iniziò a ridere: a quel puntò iniziò a pensare di morire.
Bonjiro si portò le mani alla testa, continuò a ridere in modo insano e a sorridere. Quando si fermò, la prima cosa che fece fu afferrare un cuscino dal divano; mentre continuava a sorridere in modo sadico, si avvicinò alla ragazza. Honoka afferrò il telefono e lo strinse in una mano, mentre il cane iniziò ad abbaiare; doveva tenerlo impegnato ancora un po’.
Il ragazzo si avvicinò a lei e la fissò per un po’, poi parlò: -Quella stronza ti ha detto tutto, vero? Ti ha detto tutto, anche ciò che ho subito io per portarla fuori?-
Honoka non lo ascoltò: sapeva che era un brutto manipolatore. Fissò lo schermo del telefono e velocemente tentò di cliccare sull’icona di invio; il telefono le volò, letteralmente, dalle mani, a causa di uno schiaffo che Bonjiro aveva dato alla sua mano. Finì a terra, la castana lo fissò con la bocca spalancata, scioccata per la velocità del compagno e perché non si aspettava una simile reazione. Almeno, le telecamere stavano riprendendo tutto. Strinse i denti e diede uno schiaffo al ragazzo, facendogli voltare il capo.
-Te lo meriti, mostro.- borbottò, infuriata, senza staccare lo sguardo da Bonjiro.
 
-Tesoro, stai bene!?- gridò una donna, con tono realmente preoccupato.
Katsumi indietreggiò di un passò e deglutì sonoramente; osservò la madre prendere in braccio Souru, la quale piangeva disperata con graffi su braccia e gambe. E a farle male era stato lui, spingendola per sbaglio giù dall’albero su cui si erano arrampicati: non poteva crederci.
Souru rintanò il viso nel petto della donna, che le accarezzava nel frattempo i capelli, sussurrandole parole dolci; il bambino si sentiva in colpa. Accorse anche loro padre, fissando la bambina attentamente e poi voltando lo sguardo verso il grande albero. Quando osservò suo figlio, gli rivolse un’occhiata piena di rabbia e odio. Gli si avvicinò e lo spinse a terra, per poi fissarlo dritto negli occhi.
-Volevi per caso ucciderla!?- gli gridò contro, mentre il bambino si limitava a scuotere il capo in segno di negazione -Stupido, stupido! Te l’ho detto che ti serve un fottuto psicologo, se non fosse per tua madre ti avrei già sbattuto da lui!-
-Io... non l’ho fatto a posta...- sussurrò Katsumi, dispiaciuto, abbassando lo sguardo.
-Sì che l’hai fatto a posta, sei un maledetto mostro!- continuò a gridargli contro suo padre. Parole dettate dalla rabbia, dallo spavento, che provava una persona ancora immatura; parole che, gridate così, non facevano altro che peggiorare le cose.
E a confermare ciò, qualche anno dopo ci fu anche quell’uomo.
 
Honoka stava per andare a prendere il telefono, sicura che dopo quello schiaffo Bonjiro si sarebbe fermato per un po’. Il ragazzo la fissò apatico, poi si accese la rabbia: se avesse toccato quel telefono e se l’avesse denunciato, avrebbe perso Ayano e questa era l’ultima cosa che voleva.
Non poteva ucciderla in casa sua; anche se era l’unico modo. L’avrebbe senza dubbio scoperto il cameriere; ma poteva uccidere anche lui. Era sicuro che ci fossero delle telecamere; avrebbe potuto cancellare quel pezzo, era un genio, no? Ayano avrebbe sofferto di più con lui o senza di lui? Evidentemente senza, lui era tutto per lei, Ayano si sarebbe suicidata per la sua condizione. Doveva davvero ucciderla? Sì, e anche subito, aveva afferrato il telefono.
Si avvicinò silenziosamente alla ragazza; il cane non aveva smesso di ringhiare. Honoka era seduta sulle ginocchia, cercava di rimontare e di riaccendere il telefono. Bonjiro sorrise, appoggiando il cuscino a terra con la massima attenzione e delicatezza: perché soffocarla con un cuscino quando poteva farlo benissimo da solo? Arrivò alle spalle della ragazza e, in un attimo, le circondò il collo con entrambe le mani, stringendo sempre di più la presa, mentre la ragazza tentava invano di liberarsi.
L’animale scattò, gettandosi in corsa e con i denti in mostra verso i due. Il ragazzo lasciò la presa su Honoka, che iniziò a tossire, e mettendosi in piedi diede un forte calcio alla bestiola: questa cadde a terra, guaendo rumorosamente. La castana si avvicinò gattonando verso l’animaletto, con le lacrime agli occhi, prima di alzarsi e di fiondarsi verso la porta.
-Torna qui, lurida stronza!- le gridò contro Bonjiro, inseguendola.
La fanciulla toccò la maniglia della porta con mano tremante, ma non riuscì ad aprirla poiché venne afferrata per le braccia e portata all’indietro.
-Lasciami, lasciami!- esclamò in preda alla disperazione, dimenandosi e tentando di liberarsi; fissò la porta chiusa: -AIUTO, AIUTATEMI! VUOLE UCCIDERMI!- gridò con tutta la forza che aveva.
Bonjiro la scaraventò a terra, facendole sbattere violentemente il viso contro il pavimento. Il ragazzo si guardò intorno agitato, strinse i denti; Honoka gridò ancor più forte, impressionata dal suo sangue che vedeva sul pavimento e che le fuoriusciva dal naso. Non arrivava nessuno.
-MAMMA! QUALCUNO!- gridò Honoka, in preda ai singhiozzi; lacrime salate le scivolavano lungo le guance. Anche se fosse morta, sarebbe riuscita a salvare Ayano grazie alle telecamere di quella stanza, ma aveva paura ugualmente.
Si sentì nuovamente afferrata per il collo, le lacrime continuarono a bagnarle le guance mentre, disperata, tentava di allentare la presa del compagno. Perché non arrivava nessuno? Doveva esserci almeno un cameriere, una domestica, un essere vivente che potesse fare qualcosa! Non poteva morire così.
Il collo le doleva, non riusciva più ad emettere un solo fiato, gli occhi le si stavano chiudendo e le forze la stavano abbandonando. Quando la presa iniziò ad allentarsi, fino a lasciarla completamente, si abbandonò a terra; tossì rumorosamente, respirò ansimando tentando di recuperare fiato per la seconda volta. Se c’era qualcosa che non capiva era quella: perché non la uccideva e basta? Aveva intenzione di prenderla e lasciarla all’infinito? Cosa ci otteneva, così? O meglio, cosa voleva?
“Deve avere per forza un piano, per forza...” pensò, sconsolata, facendo leva sulle braccia per mettersi almeno a sedere.
-Perché mi tratti così!?- gli gridò contro, fissandolo con odio; si portò una mano al petto, tossì di nuovo e fece un respiro profondo, poi continuò: -Se vuoi uccidermi fallo e basta, tanto...- un sorriso tirato si dipinse sul volto di lei -... hai già perso ogni cosa.-
Bonjiro strinse i pugni, mentre Honoka si sentì profondamente orgogliosa: aveva calcolato ogni cosa, dal preparare la denuncia, al fissare un bel po’ di telecamere nella stanza, al preparare degli indizi che facessero arrivare al suo assassino nella sua camera. Aveva davvero preparato ogni cosa. E poi l’aveva fatto venire lì per un motivo.
 
Ayano si stava asciugando le lacrime con la manica della maglia scura, senza avere il coraggio di guardare Honoka negli occhi; d’altra parte, come poteva averne? Ora non era più la ragazza innocente e dolce, ma si era calata la maschera e si era mostrata per com’era: una pazza assassina, che continuava a soffrire e a sentirsi inopportuna e sporca ogni giorno, ogni minuto.
La castana la fissava incredula. Erano sedute su uno dei gradini della rampa di scale scolastica, con la luce del Sole che le prendeva in pieno, nonostante le lezioni stessero continuando. La rappresentante non aveva mai sentito una storia più complicata e incredibile, sia per quanto riguardava ciò che era successo all’amica, sia per ciò che era successo a quel mostro. Come poteva reagire, adesso? Non poteva abbandonarla: era stata costretta a mentire e a uccidere, stava male e soffriva, aveva paura di ogni cosa che le ricordava ciò che aveva subito.
E quel peso se lo portava da sola, senza cercare di alleviarlo con l’aiuto di qualche psicologo, perché era stata costretta al silenzio.
-Non voglio separarmi da Katsumi- aveva detto Ayano, tra un singhiozzo e l’altro -Gli voglio bene e... e se ha fatto quelle cose è colpa mia! Continua a rispettare le regole che gli avevano imposto, perciò lo faccio anch’io...-
-Fai cosa? Quali regole?- aveva domandato Honoka, più confusa e preoccupata che spaventata.
-Il silenzio, come prima cosa: dobbiamo nascondere il nostro segreto, non dobbiamo denunciarci a vicenda. Anche perché...- Ayano si fermò, puntò gli occhi ambrati in quelli castani dell’amica. Le strinse le mani, cercando un conforto e una forza per proseguire: -... voglio stare con lui!-
-Non esiste che tu faccia certi pensieri!- esclamò Honoka, facendo sgranare gli occhi alla ragazza al suo fianco. Accortasi di aver gridato troppo, abbassò il tono e continuò: -Se non lo denunci tu, lo farò io.-
-No! No, non farlo!- sbottò disperata la corvina.
Honoka non credette alle sue orecchie, quella volta: era assurdo che Ayano continuasse a difenderlo e ad incolparsi, a dire di continuare a volergli bene. Era assurdo che dicesse che lui dimostrava l’affetto in modo sbagliato, ma che, comunque, le voleva bene. Le promise di stare zitta, di non parlarne con nessuno e di non denunciare Bonjiro, anche se mentì. Mentì, pur sentendosi bene: aveva anche capito uno dei punti deboli di quel pazzo.
 
-Cosa credi,- riprese a parlare, con più foga e coraggio -di avere ancora la protezione di Idate? Eh?- marcò quel nome con forza, per farlo risaltare.
-Non sai niente.- affermò semplicemente il ragazzo. Prese a camminare fino a raggiungere uno dei vari mobili, ed iniziò ad aprire i cassetti alla ricerca di qualcosa.
La castana non parlò più, il sorriso sparì dal suo volto: cosa stava cercando? No, non doveva andare così, avrebbe dovuto citare sempre più elementi fino a costringerlo al silenzio. Lo vide aprire anche l’ultimo cassetto e trattenne un grido per pietà della cagnetta, svenuta –sperava fosse svenuta: aveva aperto il cassetto dove, la scorsa notte, la domestica aveva posato una tenaglia in ferro dopo averla utilizzata.
Scosse la testa in segno di negazione quando Bonjiro afferrò proprio quell’oggetto; il cuore iniziò a batterle forte, strusciò sul pavimento tentando di indietreggiare, in preda alla paura. Stava seriamente succedendo una cosa del genere? Il ragazzo si voltò a guardarla con un ghigno sul volto, poi prese a camminare verso di lei spalancando la tenaglia, per far spaventare la castana.
Honoka scattò in piedi e tentò una fuga, ma venne prontamente afferrata per il polso e fatta cadere all’indietro con una brusca tirata; non si fermò, non si arrese: provò a rimettersi in piedi un’altra volta e ricevette un violento colpo alla schiena, che le fece emettere un grido di dolore. Si voltò e fissò negli occhi quello che stava per essere il suo assassino.
-Mettila giù...- provò a dirgli, cercando di calmarlo -... ti prego!- sbottò disperata.
Bonjiro alzò l’arma, facendola ricadere sulla spalla della giovane in modo ancora più forte e violento; Honoka incassò il colpo, poi indietreggiò portandosi una mano sulla spalla colpita. Iniziò a piangere, stringendo i denti tra loro.
-Hara...-
Un rumore sordo e un tonfo furono gli unici suoni che si udirono, prima che la stanza sprofondasse nel silenzio più assoluto.
Bonjiro fissò la ragazza a terra: il capo era voltato di lato, gli occhi erano chiusi e le labbra schiuse tra loro, il busto lievemente voltato di lato, le ginocchia lievemente sollevate da terra e le braccia sul pavimento. Pavimento sporco di un filo di sangue dove poggiava il capo, con una ferita sul lato sinistro. Sorrise compiaciuto, si avvicinò alla bestiola ancora a terra e la tastò su ogni parte del corpo con una mano: il cane respirava e sembrava non avere niente di rotto. Doveva, quindi, solo pulire il pavimento, l’arma e uscire con la ragazza e entrambi gli zaini senza sembrare sospetto, per poi tentare di cancellare i video delle telecamere: poteva farlo, doveva solo sbrigarsi a fare ogni cosa, aveva un tempo limitato.
-Sai, Honoka,- parlò, pur sapendo che la ragazza, ormai svenuta, non poteva sentirlo -stavi iniziando a starmi simpatica, ma è così che deve andare.-
 
-Coraggio ammirevole, il tuo.- sussurrò la voce maschile; sembrava parecchio furiosa, e il ragazzino poteva anche capire il perché.
Katsumi se ne stava davanti alla porta, senza sapere cosa dire o fare: aveva osato non farsi vivo per cinque giorni, aveva anche osato ignorarlo e cambiare gli orari di ogni sua attività per non incontrarlo nei bagni o in mensa. Era normale che fosse arrabbiato, anche lui lo sarebbe stato se fosse stato il carnefice. Poteva almeno dire di averci provato, a ribellarsi, anche se non ci era riuscito.
-O sei venuto perché hai visto che è successo a tua sorella?- domandò ancora la voce, con tono provocatorio e orgoglioso.
Il ragazzino non rispose, si limitò ad abbassare lo sguardo per non guardarlo negli occhi: l’avrebbe pagata anche Idate, avrebbe fatto una fine peggiore dei suoi genitori, se lo era promesso. Eppure si sentiva un codardo.
Sentì la mano di Idate poggiarsi sulla sua spalla, però continuò a non guardarlo in viso; anzi, chiuse gli occhi.
-Stavi iniziando a starmi davvero simpatico, peccato che debba finire così.-

Angolo Autrice: 
Sono sbucata prima con una storia su Bendy e ora con questo capitolo -perdonatemi, so che fa schifo, ma se non scrivevo questo non potevo far capire che tipo di persona è Honoka xD Tra parentesi sono le 21.00, quindi scommetto ci saranno errori ovunque... eh, vabbé. menomale che esistono le recensioni!
Bonjiro collega spesso ciò che gli succede con qualcosa che ha già vissuto, quindi si regola di conseguenza per come reagire; tranquilli, quei flashbacks verranno spiegati più avanti! Poi abbiamo visto che lui e Honoka farebbero seriamente di tutto per Ayano... anche se il fratello della sfortunella è davvero malato. Eheh, a proposito: Honoka ha lasciato degli indizi in camera sua, poiché sapeva che probabilmente sarebbe morta! Non dimenticateli ;3 non saranno inutili.
Spero che anche questo piccolo obbrobrio vi sia piaciuto. Un abbraccio, vostra Kira :*

 

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Capitolo 7
*** 07. Mamma ***


Salve a tutti! Vi sono mancata? Ovviamente no. Questo capitolo è piuttosto breve e forse anche insignificante, ma è per augurare a tutte le mamme una buona festa e una buona giornata! Lo faccio con "Ningyo" perché... eheh, leggete. Se ci sono errori potete segnalarmeli liberamente, purtroppo non ho molto tempo per correggere (domani ho due compiti, per dire...).
Spero comunque che vi piaccia almeno un pochino <3 e buona festa a tutte le mamme, ma di più alla mia uwu
-Kira.

07. Mamma

La porta di casa si era aperta, seguita da un allegro “Siamo tornati!” gridato. Una donna spostò le numerose e grosse valigie dentro casa e un uomo la imitò, chiudendosi poi la porta alle spalle. La luce del corridoio venne accesa e, dopo qualche secondo, una bambina fece capolino dal piano di sopra; un enorme sorriso le illuminò il volto, corse giù per la rampa e saltò in braccio all’adulta, sua madre.
Nyoko, il nome della donna, sollevò la figlioletta e la strinse forte a sé, schioccandole un tenero bacio sulla fronte; l’uomo, Hisao, sorrise a sua volta e accarezzò i corti capelli della sua bambina, decorati con un fiocco rosso laterale. Souru rise appena, strinse il viso al petto della madre e le cinse il collo con le braccia, lasciandosi cullare.
-Tesoro, mi sei tanto mancata!- disse la donna, baciando la testa della bimba dolcemente.
-Mamma, non te ne devi andare più!- fu la risposta di Souru, esclamata con un tono malinconico; infatti, neppure un attimo dopo, si mise a piangere per la gioia di aver rivisto la mamma, che aveva lasciato casa da un mese insieme al marito per uno dei suoi viaggi.
Mentre Nyoko coccolava la figlioletta, Hisao puntò gli occhi castano scuro sulla rampa di scale, perdendo il sorriso che aveva assunto poco prima: era così sicuro che quel bambino avesse qualcosa di sbagliato, era da mesi che non correva più a salutarli e, come se non bastasse, le notizie che arrivavano dagli insegnanti sul suo comportamento non erano buone. Era l’unico bambino che non aveva amici, o perché non ci riusciva, o perché non voleva.
-Souru,- la voce calda e amorevole della moglie interruppe i suoi pensieri. La fissò, la vide mettere la bambina a terra e abbassarsi alla sua altezza, accovacciandosi -sei stata tutta sola, soletta? O è venuta la nonna in questo mesetto?-
Souru si portò un dito sulle labbra, iniziando a riflettere. I due adulti si fissarono dritto negli occhi: nella prima settimana del mese avevano lasciato i due gemelli da soli, senza nessun adulto e senza nessuno aiuto, e a causa di ciò i vicini li avevano minacciati di chiamare gli assistenti sociali. Nyoko non voleva perdere sua figlia, tanto che aveva subito avvertito la madre e messo in quiete i vicini: l’anziana, infatti, aveva detto che si sarebbe presa cura lei dei bambini. Certo, era con loro solo a pranzo e a cena, ma c’era e, se qualcuno stava male, rimaneva con loro tutto il giorno.
La nonna dei gemelli l’aveva sempre ripetuto: quei due erano frutto di uno sciocco errore commesso in gioventù. A causa loro Nyoko aveva dovuto lasciare l’università e tutti i suoi progetti, aveva dovuto sposare Hisao, che si era accorto troppo tardi di non amarla: insomma, non erano una vera e propria gioia.
-Allora, è venuta nonna...- prese a parlare Souru, osservando la madre negli occhi; quegli occhi dello stesso colore dei suoi. Sorrise, continuò con tono più allegro: -... e poi la signora vicina!-
Anche se la bambina era stata più felice con la vicina, i due coniugi fecero una smorfia di disgusto e di rabbia verso quella donna che continuava a intromettersi in ogni loro faccenda privata. Nyoko si alzò e sorrise in modo forzato, ingannando la figlia.
Fu l’adulta, questa volta, a osservare il piano superiore, prima di tornare a guardare Souru. Con tono confuso e un po’ preoccupato, lasciandosi sfuggire un’espressione triste, chiese: -E dov’è tuo fratello? Sta dormendo, o non vuole venire?-
-Non vuole venire.- rispose semplicemente la bimba. I due borbottarono contemporaneamente un “lo sapevo io!”, così che Souru gonfiò le guance, adirata, e abbassò lo sguardo per poi dire qualcos’altro: -E non ci volevo venire nemmeno io. Non sei venuta alla festa della mamma...-
Gli occhi ambrati della bambina si riempirono di lacrime, mentre Hisao guardò con astio la moglie: non si era presentata a casa in quel giorno, pur sapendo quanto la piccola ci tenesse? Si trattenne dal gridarle contro, solo perché altrimenti sua figlia sarebbe scoppiata a piangere disperata.
-... tutte le mie amiche stavano con la mamma, e io no. Io non ti ho potuto abbracciare, non ti ho potuto dare il regalo...- continuò la bambina, sempre più a bassa voce, mentre lacrime cristalline presero a rigarle le guance accompagnando il tono malinconico. Strinse i pugnetti lungo i fianchi, iniziò a singhiozzare, con i due adulti che la fissavano immobili, senza saper cosa dire; -E nonna ha rotto il mio disegno!-
Scoppiò a piangere, gettandosi a terra sulle ginocchia. Piangeva e singhiozzava sempre più forte, al ricordare quella giornata che era stata la più brutta della sua vita: le maestre dell’asilo non l’avevano fatta partecipare allo spettacolo per le mamme; la nonna, quella volta, era davvero di pessimo umore e le aveva detto cose orribili, prima di gettare via tutto ciò che aveva fatto per Nyoko; si era sentita malissimo nel vedere le sue amiche e i suoi amici passeggiare con la madre, mano nella mano, mentre lei era costretta a restare a casa.
Nyoko si passò una mano tra i capelli corvini, lunghi fin sotto le spalle, e regalò un’occhiata apatica alla figlia: non si sentiva in colpa, era certa che prima o poi si sarebbe calmata. Hisao, invece, fu preso dall’ira e, dopo che si avvicinò alla moglie, la strattonò per un braccio.
-Sei una donna inutile!- le gridò contro furioso, stringendo la presa sul braccio; questa lo spinse con una mano, e lui continuò: -Non ti fa pena neanche tua figlia!-
-Non mi sembra che tu ti fossi presentato al loro compleanno, quella volta!- ribatté con voce più adirata e alta la corvina -Stavi con un’altra delle tue puttane! Io ero qui a soffrire e a stressarmi!-
-Il compleanno è una cosa, questa festa ne è un’altra! Poi parli tu, che te ne vai col primo che ti passa davanti!-
-Ma come osi dirmi una cosa del genere!? Io faccio ciò che voglio, la vita qui è mia, vorrei almeno godermela in questi anni visto che per colpa tua non ho potuto farlo, all’università! Avevo una possibilità enorme di poter essere qualcuno di successo!-
-Di successo!? Tu!? Per carità, l’unica cosa che sapevi fare era aggraziarti i docenti e chiunque altro! Non posso credere di aver scelto una come te!-
-BASTA!- a gridare furono due voci, che fecero subito cadere il silenzio tra i due coniugi.
Hisao lasciò la presa sulla moglie, entrambi si ritrovarono a fissare i figli con aria profondamente infastidita: Katsumi, arrivato, probabilmente, a causa del litigio appena scoppiato, stringeva la sorella a sé in un abbraccio e, quest’ultima, continuava a piangere. Guardavano i genitori senza più proferir parola, senza saper più cosa dire loro, stanchi per l’ennesimo litigio e anche arrabbiati. Ormai anche sprecare fiato per farsi ascoltare era inutile.
Souru si mise in piedi e si staccò dal gemello, sul viso si dipinse un’aria affranta e disperata. Sussurrò con flebile voce solo tre parole, unendo le mani in segno di preghiera: -Possiamo volerci bene?-
Nyoko scosse energicamente il capo in segno di negazione, decisa e senza aver bisogno di pensarci su; Hisao prese un respiro profondo per calmarsi, successivamente si mise a braccia conserte e non rispose. La bambina abbandonò le braccia lungo i fianchi, si morse il labbro inferiore e si voltò, prendendo a salire lentamente le scale per tornare in camera sua.
Katsumi la fissò in silenzio, privo di parole. Rimase fermo fino a quando non vide la figura della sorella sparire al piano di sopra; guardò i due adulti con odio crescente, seppur fosse consapevole del fatto che non potesse fare nulla. Non in quel momento, almeno.
Prese un bel respiro per farsi coraggio e parlò, cercando di non parlare a voce troppo alta per la rabbia: -Avete fatto piangere Souru di nuovo. Ve la faccio pagare, prima o poi.-
-Tu stai zitto!- tuonò improvvisamente Hisao, facendo sobbalzare il bambino -Non hai quell’altra da consolare? Perché non torni a fare il disonore degli Harada con, che ne so, altri problemi nel socializzare?- pronunciò quelle parole con un sorriso mellifluo e un tono velenoso, col solo intento di far allontanare entrambi i figli da lui.
Katsumi fece per dire altro, ma le parole gli morirono in gola; pensò che, forse, era meglio lasciar perdere il padre. Donò uno sguardo apatico a Nyoko, rimasta in silenzio da quando avevano gridato: sua madre era debole. Tremendamente debole e, quella volta, aveva dato l’ennesima conferma. Salì le scale anche lui, senza dire niente, e raggiunse la sorella nella sua stanza.
Passò poco più di un’ora da quel momento: in casa non c’erano più state chiacchiere, se non dei singhiozzi dal piano di sopra, e i due adulti ne avevano approfittato per svuotare almeno alcune valigie. La donna chiuse l’ultima valigia appena svuotata, trascinandola accanto al letto e lasciandola lì; la fissò per un po’, poi sospirò tristemente, scuotendo il capo lentamente e con aria rassegnata: probabilmente stava sbagliando tutto con i figli. Voleva loro bene, ma voleva anche viaggiare e stare da sola con il suo fidanzato, che neanche sapeva avesse dei figli; aveva due vite, dava a entrambe la stessa importanza o, almeno, ci provava.
Aprì un cassetto del comodino e prese tra le mani un album fotografico dalla copertina rossastra, si sedette sul letto e iniziò a sfogliarlo. Le prime foto ritraevano lei con i suoi amici del liceo: si accorse che da allora non era tanto cambiata e sorrise. Alle sue si aggiungevano quelle del marito, delle feste di compleanno e anche alcune fatte alla sua luna di miele con Hisao: erano ancora felici di stare insieme e innamorati, in quel periodo, anche se già si notava la pancia. Voltò pagina, sorrise d’istinto in modo intenerito quando si trovò davanti le primissime foto dei suoi gemelli.
Anche lì erano ancora felici.
Si accorse di quante foto avesse fatto ai suoi bambini, visto che andando avanti nello sfogliare le pagine ne trovava sempre di più.
-Oh, per scattare questa foto li feci svegliare...- si disse, divertita, osservando la foto raffigurante i due bambini che dormivano insieme, abbracciati; continuò, voltando pagina: -... avevo dimenticato di togliere il flash!-
Lo sguardo ricadde su una foto di famiglia: Hisao era accovacciato accanto a Souru, la quale stringeva al petto un coniglio di peluche di colore rosa ed era stretta in un abbraccio da Katsumi; lei, invece, era in piedi accanto al figlio e aveva le mani unite davanti al petto, mentre osservava con aria dolce la famiglia. Tutti sorridevano, lì: forse era anche l’atmosfera del posto, il tempio Shofukuji di Fukuoka, che in quel periodo era piaciuto tantissimo ai suoi figli.
Si incupì, andando avanti: da quel punto c’erano solo foto di luoghi; c’erano fiumi, laghi, boschi, templi, palazzi, torri. Tutte le foto che aveva scattato quando aveva iniziato a viaggiare da sola, senza i figli e con il marito che andava da tutt’altra parte per lavoro; sfruttava i soldi che Hisao guadagnava per quei viaggi. Fece per chiudere l’album e un foglio scivolò dalle pagine, finendo sul pavimento. Sbuffò, posò l’album sul materasso e si alzò, accovacciandosi per raccogliere quella che credeva una foto: quando vide che però era tutt’altro, si coprì la bocca con una mano.
Era un foglio bianco, se non fosse stato per la scritta in penna blu, fatta in modo davvero infantile e con le lettere non precise. Le lacrime presero a scivolarle lungo le guance, mentre iniziava a sentirsi distrutta; c’era scritto un: “Ti voglio bene”.
***
Ayano prese a fischiettare allegramente, camminando tra le tombe del cimitero deserto; seguiva il fratello che teneva la torcia, e la muoveva su ogni tomba che vedeva per poter leggere i nomi. Era notte fonda a Tokyo e il cimitero era stato chiuso da un bel po’ di ore, ma erano riusciti ad entrare lo stesso dopo aver disattivato le telecamere e addormentato il guardiano.
La ragazza aveva in mano un mazzo di anemoni* colorate: le portava con la massima attenzione e le guardava ogni tanto, anche per sentire il loro profumo.
-Bonjiro- lo chiamò ad alta voce, sorridente -hai trovato la tomba di mamma? Oppure era talmente bruciata da poter essere raccolta solo in un barattolo?-
-Non so neanche se si trova in questo cimitero.- rispose lui apatico, continuando a spostare la luce della torcia da una tomba a un’altra -Questa è la prima e l’ultima volta che ti riporto a Tokyo, chiaro?-
-Oookay!- esclamò subito e allegramente Ayano, facendo un saltello in avanti e aumentando il passo, fino a posizionarsi accanto a Bonjiro.
Per farsi portare lì proprio il giorno della festa della mamma aveva dovuto piangere e fare qualche scenata, unita a minacce di denuncia; era stata dura riuscire a vincere, però ce l’aveva fatta e se l’era cavata senza ricevere botte: era un traguardo, per lei. Tornò a fischiettare, pur consapevole del fatto che fosse sia inappropriato, sia pericoloso farlo in quel luogo, poiché avrebbero potuto scoprirli: a Tokyo li cercavano ancora.
Il gemello si fermò all’improvviso, con la torcia che illuminava una lapide su un prato. La fanciulla si fermò e smise di fischiare, prese a leggere il nome incisovi sopra: “Nyoko Niseai**”. Guardò il fratello e si parò davanti a lui; la gonna scura ondeggiò, insieme ai capelli raccolti nei soliti codini.
-E’ lei?- gli domandò, portando il mazzo di fiori davanti al petto e stringendolo con entrambe le mani. Attese una risposta per alcuni istanti, la quale non arrivò; Bonjiro si spostò, illuminando la stessa lapide, ma non rispose e non pronunciò o fece altro. Ayano roteò gli occhi al cielo.
Si voltò e si avvicinò alla tomba, sedendosi davanti alla lapide a gambe incrociate. Poggiò i fiori ai piedi della lastra di marmo, poi battè le mani e ampliò il sorriso. La luce della torcia fece brillare i suoi occhi.
-Ciao mamma! E’ da un po’ che non ci si vede, eh? Sono passati tre anni!- iniziò a parlare, come se stesse parlando di giorno con una persona viva; sgranò gli occhi e assunse un’espressione meravigliata, che venne sostituita subito dopo dalla stessa aria allegra: -Però ti sono venuta a trovare, visto? E ho portato anche le anemoni. Ricordo che da piccoli ci portasti in un luogo pieno di questi fiori, erano tutti rossi e blu!-
Un sorriso malinconico si dipinse sul volto pallido, gli occhi le divennero lucidi. Mise le mani sul prato, continuò ad osservare la lapide in silenzio, leggendo e rileggendo quel nome con tanta nostalgia e malinconia; il nome appartenente a quella donna che, per quanto assente potesse essere, le aveva dato la vita.
-Speravo ti fossi salvata- sussurrò in modo flebile, deglutendo successivamente -Ho avuto troppo bisogno di te in questi anni, ma non c’eri. Non mi dissero che eravate morti, quindi sperai...- chinò tristemente il capo -... non è servito a niente, però.-
Si mise in piedi, alzandosi il cappuccio della felpa scura. Non aveva la forza di abbandonare quel luogo: se non ci fosse stato Bonjiro con lei, avrebbe certamente pianto, gridato, si sarebbe messa ad abbracciare quella pietra fredda e bianca come una pazza; e invece poteva solo guardarla e parlare, sperare in un segno o in una risposta che non sarebbe mai arrivato.
Prese un respiro profondo e sussurrò in modo impercettibile una semplice frase, mentre una leggera brezza le accarezzò il viso: -Mi manchi tanto, torna da me...-
La torcia si spense proprio quando un vento freddo iniziò a soffiare, scompigliando i capelli ai due giovani e muovendo i rami dei pochi alberi del cimitero. Ayano si asciugò le lacrime con la manica della felpa e regalò, infine, un ultimo sguardo alla tomba; sentì del freddo sulle guance, sospirò stanca e raggiunse il fratello: insieme presero a camminare, abbandonando quel posto. Il vento cessò improvvisamente.

*Anemoni: l'anemone, nel linguaggio dei fiori, è simbolo di abbandono e attesa. Di solito si dona a qualcuno per far capire quanto ci manca e anche per chiedergli di tornare (e sono i miei fiori preferiti).
**Niseai: mi sono permessa di fare un gioco di parole. "Nise" significa "finto, falso, bugiardo", "Ai" amore: volevo dare un cognome che significasse "finto amore", ma scrivere "Nise no ai-o" (la traduzione corretta) come cognome era terribile. Quindi vada per "Niseai".

 

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Capitolo 8
*** 08. Open Wounds ***


Salve a voi! 
Come ho già detto sulla mia pagina Facebook, oggi non sarebbe dovuto uscire questo capitolo, ma un altro. Se ho deciso di pubblicare questo, è perché così scoprirete perché Ayano fa determinate cose -e anche un suo problema, a dirla tutta (e mi sono documentata per benino u.u). La cosa positiva è che con questo si conclude la prima parte di pianti: i capitoli successivi saranno più calmi e tranquilli.
Mi scuso per chi aspetta ancora una mia recensione, sto pian piano svuotando la lista delle storie da recensire. Ultimamente avevo "lasciato EFP" per leggere libri e non fanfiction... 
Comunque, buona lettura! Se ci sono errori, come sempre, segnalate (l'hanno letto quattro persone, se ci sono errori distruggo la tastiera. Ah, a proposito, grazie a Hao SakuraTirene39 e i miei fratelli per le prime letture xD). Spero possiate capire il motivo per cui ho scritto e pubblicato un capitolo del genere.

08. Open Wounds

Socchiuse lentamente l’anta della porta, fino a poco più che qualche centimentro di apertura. Tenendo la mano ferma sulla maniglia, trattenne il fiato e tese l’orecchio: non sentiva niente da quella zona.
Finì di spalancare la porta, avanzò piano nella stanza buia e il pavimento scricchiolò. Si fermò e la musichetta ripetitiva del carillon si azionò all’improvviso, facendola sobbalzare; sì tappò la bocca con le mani, il cuore era come impazzito e martellava nel petto. Desiderava trovare in fretta quelle chiavi che l’avrebbero fatta uscire, così il suo desiderio si sarebbe avverato: sarebbe riuscita ad allontanarsi dall’Inferno e dal Diavolo, a fuggire.
“-Senza di me sei sola, stupida! Sei sola! Nessuno ti vuole, solo io sono al tuo fianco!-“ ripeté la voce nella sua testa. Voce che non era la sua, ma di Lui; continuava a ripetersi, quella frase, con il tono di voce così vuoto e piatto da rendere quella ripetizione un incubo. E la cosa brutta era che lei, quella voce, la credeva accanto e non nella sua mente.
Preferiva staccarsi le orecchie per non sentirla e, sì, preferiva stare sola piuttosto che con uno come lui.
Abbandonò le braccia lungo i fianchi e avanzò nel buio, fidandosi della memoria visiva: doveva fare qualche passo in avanti, poi avrebbe incontrato il tavolo; sorpassato quello, avrebbe fatto due passi o più verso destra, di nuovo dritto ed ecco le chiavi al muro. Non era difficile.
-Me ne vado, me ne vado- si disse. Un sorriso amaro le increspò le labbra, il cuore continuava a batterle forte e andava quasi a ritmo con la musica lenta, a tratti spedita, malinconica e inquietante del carillon.
Poi sentì la porta chiudersi, quell’aggeggio infernale più vicino. Si fermò e lacrime cristalline le solcarono le guance, una mano le sfiorò i capelli sciolti e in seguito una guancia, senza bagnarsi delle sue lacrime. Sentì la scatoletta bianca a pochi centimetri dal suo orecchio.
-Ayano, dov’è che vai così silenziosa?-
In tutta risposta, questa prese a canticchiare la melodia della scatola armonica, fermandosi talvolta per prendere fiato. Tremò, continuò a tremare e le lacrime non si fermavano.
Le spostò i capelli su una spalla, la ragazza poté sentire il suo respiro sulla sua pelle.
-Se te ne vai sarai sola, sola. Io non voglio vederti cadere nella disperazione, Ayano(*)-
Marcò quell’ultima sillaba, ma lei non si era fermata e non si fermò: ripeteva a mo’ di pappagallo la melodia e sorrise in modo insano. Non voleva vederla cadere nella disperazione, quindi le voleva bene anche se la sua disperazione era tutta colpa sua. Perché voleva scappare? Si stava autodistruggendo per colpa sua.

Il lampadario si accese e si spense due volte, prima che la luce potesse illuminare la stanza. Ayano si voltò di scatto; lo aspettava, aspettava di vedere il volto del fratello e quel carillon. Però non c’era nessuno con lei: era sola ed era immersa nel silenzio più totale. Niente melodia, niente scatola armonica, niente più frasi e lui non c’era.
Si portò le mani sul petto e boccheggiò, poiché le mancò improvvisamente il respiro. Le gambe le tremavano e la fronte era madida di sudore freddo, ma si fece coraggio e osservò alla sua destra, poi alla sua sinistra: non c’era davvero nessuno. Gli occhi ambrati vennero puntati sulla porta, che era aperta e non chiusa come sospettava qualche secondo prima.
La luce si spense di nuovo e lei crollò a terra, all’indietro, con le ginocchia alzate e la testa appena appoggiata al muro. Respirò affannosamente con la bocca spalancata, strinse la maglia tra le mani; ecco che tornò la luce. Sì, probabilmente c’era qualche guasto nelle reti elettriche, ma come si spiegava la musichetta e la voce di Bonjiro?
-Mi sto anche immaginando le voci, adesso?- si disse, con tono auto ironico, per spezzare un po’ la sua paura. Si sforzò di sorridere e si mise in piedi, barcollando.
E proprio quando pensava che avesse finito con quei ricordi, fece per prendere le chiavi appese al muro e si bloccò sentendo di nuovo suo fratello:
-Ti odio. Fai sempre ciò che non devi fare! E a volte mi stanco addirittura di riprenderti, perché è fottutamente inutile! Ti odio ancor di più perché vuoi lasciarmi solo.-
Sembrava adirato, dal tono di voce. Lei non voleva che Bonjiro si arrabbiasse, non lo voleva per niente, e non voleva nemmeno lasciarlo solo. Cosa stava facendo!?
Si coprì gli occhi con le mani e negò col capo, gocce di lacrime caddero sul pavimento.
-No, no, scusami!- esclamò, senza avere il coraggio di voltarsi -Io non voglio che tu mi odi, mi dispiace! Farò ciò che vuoi!-
“Sei tutto ciò che mi è rimasto” pensò, tristemente “Se ci dividiamo, siamo finiti entrambi. E mi fa male doverlo ammettere, perché io... io soffro e voglio solo piangere ogni volta”

***

Capì che aveva di nuovo immaginato tutto quando, voltandosi per uscire dalla stanza, non vide il gemello. Pensò di uscire e di andare a dormire, poiché non era ancora pronta per riuscire ad andarsene e, forse, quelle voci erano dovute all’ansia e alla paura.
Varcò la soglia del salotto e si fermò per vedere se il fratello fosse ancora lì, nonostante la stanza fosse illuminata solo grazie alla luce dei lampioni in strada. Però erano le tre del mattino, sapeva che Bonjiro era già in piedi o perché non riusciva a prendere sonno, o perché non voleva prendere sonno. Se il fratello era sveglio, poteva credere che le avesse giocato uno scherzo parlandole e nascondendosi, quindi poteva credere di non essere completamente pazza.
Fece qualche passo in punta di piedi e dovette ricredersi, mentre la preoccupazione s’impandronì del suo animo: il ragazzo era sdraiato sul divano, su di un lato, e dormiva. Stava dormendo sicuramente, poiché il loro gatto nero era accoccolato contro il suo ventre, e se fosse stato sveglio l’avrebbe allontanato subito. La fanciulla appoggiò le mani allo schienale e si morse il labbro inferiore, tentando di scaricare le sensazioni negative che provava.
Fece scivolare una mano e si tastò il fianco, cercando la tasca in cui aveva nascosto il taglierino. Quando la trovò, tirò fuori l’oggetto e fece scivolare fuori la lama.
-Io lo so- sussurrò con tono impercettibile, che tradiva una richiesta disperata di aiuto -Lo so che posso fare di tutto, ma non cambierà niente. Non cambierai tu. Per te non sono ancora perfetta...-
Tornò a camminare, girò intorno al divano e si fermò davanti a esso. Si chinò e avvicinò la lama alla gola di lui: con un gesto immediato poteva liberarsi dai suoi incubi, scappare da quel maledetto inferno, smettere di sentire le sue parole e le sue risate.
-Io mi fidavo di te e sei stato il primo a uccidermi dentro. Congratulazioni, Katsumi- lo lodò falsamente, sorridendo amaramente.
Fece per fare un taglio netto, ma la mano non osò muoversi. Voleva, senza riuscirci. Si ordinava di ucciderlo, adesso che poteva, però l’arto non rispose al comando; quasi non lo sentiva. Strinse i denti e allontanò il taglierino; lo avvicinò nuovamente al solito punto e sperò di riuscire nel suo intento, fallendo miseramente. Era inutile che ci provasse: non riusciva ad ucciderlo.
Lanciò di lato l’oggetto, il quale cadde sul pavimento e provocò un rumore tale da far alzare la testa al micio.
-Perché non ci riesco!? Perché!?- si domandò, disperata, troppo ad alta voce.
Il felino balzò giù dal divano, riconoscendo la padrona nonostante gli occhi non funzionassero né al buio, né alla luce. Miagolò, Ayano si portò le mani alla testa e lo fissò con gli occhi sgranati per il terrore; il gatto miagolò di nuovo, richiedendo attenzioni, e Bonjiro spalancò lentamente le palpebre.
La ragazza si rimise ritta e portò i pugni chiusi davanti al petto, gonfiando le guance. Il giovane si mise a sedere dopo aver regalato una fugace occhiata alla sorella, e si passò una mano tra i capelli. Tornò a guardare Ayano, con aria ancora assonnata.
-Che succede, Aya’?- le domandò, incuriosito e anche stupito: non aveva mai visto la fanciulla in piedi a quell’ora, soprattutto con le guance bagnate e di già gonfiate.
Questa non rispose subito.
Dopo attimi di silenzio, si gettò sul divano tra le braccia del fratello; prese a singhiozzare, si strinse a lui e affondò il viso nel suo petto, nel tentativo di non guardarlo in volto. Bonjiro le accarezzò la testa, adesso solo stupito da quel comportamento, e il gatto balzò spaventato di lato, a causa del gesto improvviso.
-Stavo per fare una cosa terribile, Bonjiro!- esclamò, ma le parole uscirono dalla sua bocca soffocate; non osava allontanarsi dal fratello, eppure continuò a parlare: -Scusami! Scusa!-
-Di che stai parlando?- le domandò, per niente interessato, e continuò ad accarezzarle i capelli. Le poggiò la mano libera sulla spalla e chiuse gli occhi, sospirando.
La percepì negare col capo, si sentì stringere la maglia; aprì gli occhi e assunse un’aria apatica.
-Quando finirà!? Quando finirà questa maledetta sensazione!?- gridò ancora lei, malinconica. Si chiedeva quando sarebbe finita la guerra che, da sola, stava combattendo sia fuori che dentro.
-Abbassa la voce, i vicini dormono.- la zittì Bonjiro, apatico. Ayano rimase priva di parole: si aspettava una consolazione, una parola di conforto, non quella frase per lei insensata. Lo ascoltò continuare, in silenzio e con occhi che esprimevano amara delusione: -Se ti va possiamo dormire insieme, magari ti passa questa... cosa. Non in camera mia perché, attualmente, è una zona da cui bisogna star lontani-
“Questa ‘cosa’ non passerà se ti comporti a volte così, altre da perfetto psicopatico” pensò la ragazza. Era ciò a confonderla ed era ciò che avrebbe portato avanti le sue sofferenze.
-Come da piccoli: mamma non c’era e dormivamo insieme- proseguì il corvino. La strinse per le spalle e l’allontanò un po’, la guardò negli occhi e concluse: -Che ne dici? I tuoi mostri non potranno raggiungerti, così.-
Ayano sorrise, senza averne l’intenzione. Annuì, fuori dal suo controllo. Il ragazzo ghignò per un attimo e annuì a sua volta. La ragazza si alzò e gli porse la mano; lei stava porgendo la mano al suo mostro per eccellenza. Bonjiro l’afferrò e si alzò, gliela strinse e la guardò nuovamente negli occhi, come a voler scoprire i suoi pensieri.
La bambola lo lasciò fare, perché sapeva che nessuno poteva salvarla; lo lasciò fare, perché sapeva che le ferite aperte sulla sua anima non si sarebbero rimarginate.
-Aya’, volevi forse uccidermi?- e indicò il taglierino sul pavimento.
 
*Ayano è un nome che viene dall'unione di "Aya" (che significa "progetto") e "No" (che significa "mio"). Dall'ossessione di Bonjiro verso Ayano, potete ben capire perché ha marcato quel "-no" finale.

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Capitolo 9
*** 09. Specchio ***


Eeeee... è tornata Kira! 
Eheh, non vi dirò perché ci ho messo mesi, ma posso dire che quest'anno è il mio anno sfortunato :") però non credo di doverne parlare qui nell'angolo, alla fine non è un blog... Cercherò di essere più presente, davvero, anche perché ho in mente tante nuove idee per altre storie (OneShot e Flash, s'intende). 
Facendo finta che mi abbiate perdonato mi dispiace così tanto, ringrazio la mia cara Tirene39 per la lettura in "anteprima" e per avermi dato un parere su questo capitolo! Grazie davvero, la mia autostima sale da 0 a 0,3 grazie a te :P <3
E a voi altri, ci sarà un angolo "spiegazioni" a fine capitolo. Questo si ambienta poco prima del cap.5; buona lettura <3
 

09. Specchio

Borbottii e singulti erano tutto ciò che si udiva nell’immensa villa. Uomini e donne, tutti completamente vestiti di nero, facevano via-vai dalla stanza ove si trovava la divenuta da poco vedova, o semplicemente restavano in soggiorno a scambiarsi opinioni, pareri e ricordi sull’uomo assassinato.
Souru, Ayano, li guardava mentre se ne stava seduta in cima alla rampa di scale, ma non con compassione o malinconia: piuttosto, con disgusto. Tutti quegli amici, parenti e conoscenti le sembravano un gruppo di ipocriti, tutta quella scenetta una commedia male organizzata. Non poté fare a meno di domandarsi se, alla morte dei suoi genitori, lo spettacolo fosse stato lo stesso.
Quasi quasi giustificò il figlio della coppia, Taemin, per essersi chiuso fuori casa: almeno lui non doveva assistere, insieme alla madre, a quel teatrino e non doveva ricevere condoglianze dettate dalle abitudini, non dal dispiacere. Insomma, le sembrava tutto così falso!
Una mano si posò sulla sua spalla e lei si voltò subito; quando incontrò gli occhi del fratello, si alzò in piedi e gli rivolse un’occhiata interrogativa: neanche pensava si trovasse lì, sospettava che si fosse chiuso in una stanza per non stare tra la folla.
-Sai dov’è Taemin?- le domandò Bonjiro, stringendo la spalla della gemella.
Questa negò col capo, poi si affrettò a rispondere in modo sussurrato: -L’ultima volta che l’ho visto, era nel giardino sul retro con un cane- fece una pausa, puntò gli occhi sul fondo della rampa.
Una donna si sedette sull’ultimo gradino, piangendo, insieme ad un bambino che poteva avere nove, o dieci anni. Ayano restò colpita soprattutto dal bambino: nel breve attimo in cui si voltò verso di lei, notò quanto gli occhi somigliassero a quelli di Hisao. Una somiglianza strana, visto che la donna aveva tratti coreani e per nulla simili al figlio.
“Che sia...”
Venne scossa per una spalla e si risvegliò dai suoi pensieri. Guardò Bonjiro negli occhi, vedendolo infastidito dalla sua lentezza nel concludere il discorso.
Sospirò, ma si decise a continuare per evitare che il fratello si arrabbiasse: -Non mi parla da giorni, mi evita più del solito. Ho paura che... abbia capito quello che sai. Se però ho ragione, preferirà starsene nel giardino, anziché venire qui e ascoltare stupide condoglianze.-
Il ragazzino annuì, finalmente le lasciò la spalla; la fanciulla iniziò subito a massaggiarla, pensò che si fosse quanto meno arrossata. Tornò a guardare la coppia madre-figlio in fondo alle scale, ma non appena lo fece questi si alzarono ed entrarono in una stanza. Sospirò con tristezza.
Si rivolse completamente a Bonjiro, attonita a causa della situazione che aveva appena compreso.
-Yunjume ti ha mandato a cercare suo figlio?- provò a non gridare quella domanda, ma il tono risultò comunque più alto di un sussurro.
Quello annuì di nuovo, mettendosi a braccia conserte.
Ayano sgranò gli occhi e strinse una mano sul petto.
-Ma voi due non andate per niente d’accordo... avrebbe potuto mandare me- gli disse, ricordando in quel momento tutti i litigi che c’erano stati tra i due ragazzi, in quel poco tempo che erano sotto lo stesso tetto.
Solo allora il giovane ghignò. Guardò la sorella con orgoglio e con lo stesso orgoglio, spiegò: -Sua madre sa che quello ha capito: vuole solo che gli faccia passare la voglia di minacciarla.-
La ragazza rise sommessamente, coprendosi la bocca con una mano, poi regalò un sorriso fiero all’altro. Con un cenno del capo gli suggerì di andare e così si divisero: Ayano si diresse verso la stanza di Taemin, cercando di non dare nell’occhio, e Bonjiro scese le scale per raggiungere il giardino sul retro.
***
Yunjume e suo marito non avevano mai detto al figlio che i due gemelli venivano da un manicomio, né che della loro storia non sapevano assolutamente nulla. Di conseguenza, il poveretto non aveva mai pensato di doversi difendere da quelli che erano diventati suoi fratelli adottivi; non da Ayano, almeno.
Infatti, per quanto ingenuo potesse essere, aveva capito fin dal primo sguardo che non doveva fidarsi di Bonjiro, o passare troppo tempo da solo con lui: chi non l’avrebbe capito? Non ci si poteva fidare di una persona come lui. Ma Ayano era diversa, ispirava sicurezza con la sua gentilezza e infantilità.
Andava d’accordo con la ragazza, ma non con l’altro: e di ciò Bonjiro era sia fiero, sia infastidito. Gli dava notevolmente fastidio che la sorella passasse del tempo con Taemin, ecco perché la maggior parte delle volte litigava col coetaneo.
“-Smettila di essere così ossessionato, tua sorella non sta vivendo.-“
Tuttavia non gli sembrava qualcosa di negativo: a tutti capitava di essere gelosi, no? L’importante era non sfociare in risse e omicidi...
“-Signora, Taemin e Bonjiro si stanno picchiando di nuovo! Non riesco a fermarli!-“
... e lui si era sempre limitato agli insulti. Ayano diceva che varie volte si erano picchiati, ma lui non ricordava ed era sicuro di non aver mai colpito l’altro. Non capiva perché la gemella dovesse inventarsi certe frottole...
Quando raggiunse il giardino sul retro, si fermò a studiare la zona con attenzione: lì le mura erano davvero alte, davano al luogo l’aspetto di un cortile di un carcere. Se non fosse stato per l’erba tagliata e curata, i vari fiori, le piante e l’angolo dove vi erano tavoli e sedie, sarebbe sembrato davvero un carcere. Però quelli erano tutti lati positivi, che potevano essere ben sfruttati.
Appurato ciò, il giovane cercò con lo sguardo il luogo dove il figlio di Yunjume e il suo cane potevano essersi nascosti. Avanzò qualche passo, fece vagare lo sguardo da parte a parte, senza trovare nessuno: possibile che fosse entrato in casa non facendosi notare? No, no, era impossibile per via di tutte quelle persone!
Fu in quel momento che udì un fruscio, poi un ringhio sommesso. Si fermò ancora, strinse i pugni lungo i fianchi e cercò di percepire qualche altro rumore; trattenne persino il fiato, perché ormai era un giocatore scoperto e non poteva permettersi di attaccare senza sapere dove fosse il nemico. Fortunatamente, ciò servi.
Sentì delle medagliette tintennare tra loro, riprese a respirare. Si voltò poco prima che un Akita dal pelo rosso potesse azzannarlo  e, con aria stranamente soddisfatta, gli tirò un calcio. Il cane ruzzolò gemendo di dolore, ma rimase a terra per poco: subito si rialzò sulle quattro zampe e corse a mettersi davanti alla persona appena uscita allo scoperto: Taemin.
-Odio i cani, la loro puzza si sentirebbe anche a chilometri di distanza- parlò Bonjiro, sbuffando poco dopo.
Si mise a braccia conserte, ghignò e osservò il ragazzo davanti a lui, che si era accovacciato per acarezzare l’animale. Il coetaneo non lo stava neanche guardando in faccia, come a ignorarlo.
Così, per la voglia di provocarlo, continuò a parlare: -E anche l’odore dei figli di cagna si riconoscerebbe da lontano. Sai che intendo, no?-
Fu all’ora che l’altro alzò lo sguardo: puntò gli occhi castani, che ardevano di rabbia, dritti in quelli dell’assassino. I capelli corti e dello stesso colore degli occhi, con delle ciocche che gli ricadevano sulla fronte, ondeggiarono all’alzata di capo.
-Per parlare così, il cane sei tu.- buttò fuori Taemin, incapace di nascondere l’odio provato.
Il canide gli afferrò la manica della felpa bianca e tirò, indietreggiando di poco. Quando il padrone lo guardò, un po’ male, un po’ triste, lasciò la presa e scodinzolò con la coda bassa, mugugnando appena; il ragazzino forzò un sorriso, con gratitudine gli accarezzò il capo.
Bonjiro soffocò una risata e aspettò che il castano si alzasse, per poter dirgli ciò che doveva.
-Prima di tutto, vengo in pace- iniziò a parlare, alzando le mani con fare da presa in giro -Quindi chiedi alla tua brutta bestia di non aggredirmi, eh!-
-Cosa vuoi!?- esclamò in risposta la vittima, offesa più di quanto già lo era.
-Devi entrare in casa, tua mamma ti cerca.- mentì, tutto per iniziare un discorso.
Abbassò le mani e fece qualche passo verso il compagno, ma dovette fermarsi a causa dell’Akita che subitò balzò nel mezzo, scoprendo i canini e rizzando il pelo sul dorso.
Taemin negò col capo, convinto: -Io non entro se in casa c’è quell’assassina. Vi ho visti, vi ho visti! Non sono cieco!- continuò a gridare, cercando inutilmente di abbassare il tono. Parole dettate sia dalla paura, che dal dolore per la perdita del padre.
L’immagine di Ayano che colpiva il padre alla gola, precisamente alla carotide, si posizionò davanti ai suoi occhi e gli sembrò di rivivere la scena. L’adulto cadde a terra, la ragazza lo colpì anche al petto per assicurarsi che non sopravvivesse, Bonjiro stava lì a guardare. La persona di cui si fidava di più aveva ucciso il suo genitore ed era sicuro, sicurissimo, che fosse stato l’altro ad ordinarle di compiere quell’assassinio.
Proprio Bonjiro in quel momento tornò a farsi serio, perse quel ghigno e ogni briciolo di altra emozione. Non parlò, attese. Sapeva già cosa sarebbe successo di lì a poco.
-Io... Io dirò tutto alla polizia, davvero! Poco mi importa se poi scopriranno ciò che succede qui dentro!- gridò, gridò ancora. La gola iniziò a bruciargli, percepì le prime lacrime salirgli agli occhi e deglutì.
-Mi dispiace, Tae’,- proferì l’altro, con un tono falsamente dispiaciuto -ma tua madre sa che è stata Ayano a uccidere tuo padre. E’ stata lei ad ordinarcelo...-
Taemin sgranò gli occhi scuri, gli sembrò che il mondo gli fosse crollato addosso. La mente fu svuotata da mille pensieri, quelle parole gli prosciugarono la forza di rispondere. E mentre il cane continuava a ringhiare, il primo e anche unico pensiero si stampò nella sua testa: “non è vero, non è possibile”.
Non ci credeva, si rifiutava di crederci. Arrivarono altri pensieri, che si accavallorono agli altri: “Mamma non può averlo fatto... ma se così fosse? Si sta inventando tutto, per forza! Però se ha ragione? Perché?”.
La testa iniziò a dolergli e strinse i pugni lungo i fianchi, poi scosse il capo per liberarsi da quelle idee. Guardò con astio la persona davanti a lui, gli si avvicinò sorpassando il cane e lo afferrò per il colletto della maglia scura.
-Bugiardo, non ti credo- gli sussurrò velenoso, avvicinando il viso al suo. Si sforzava di non crederci, perché non voleva essere tradito ancora: prima da Ayano, poi da sua madre... no, no, non lo sopportava.
Bonjiro chinò leggermente il capo di lato, osservò con attenzione l’Akita che si era messo in posizione d’attacco.
-Allora non credermi, tanto non ci guadagno nulla. Volevo solo dirti che, visto che tua madre sa ogni cosa, non permetterà che succeda qualcosa a me e a mia sorella...- e accennò un sorriso di scherno, negli occhi ambrati ardeva una strana emozione. Rivolse lo sguardo al ragazzo a poca distanza da lui e continuò:  -... perché poi la cosa potrebbe avere conseguenze anche per lei. Non credo che voglia entrare in prigione, e nemmeno che voglia vedere la sua organizzazione fallire-
Taemin digrignò i denti, diede una violenta spinta al coetaneo; una spinta tanto brusca che fece cadere a terra Bonjiro. L’animale abbaiò, si gettò sul giovane a terra e questa volta fu più veloce di lui: riuscì a stringergli il polso sinistro tra le fauci, mentre quello, stupito per la velocità, provò ad alzarsi, invano.
Eppure, non vi furono lamenti: l’unico rumore che si udiva, era il ringhio del cane che non osava mollare la presa.
Il castano restò per un po’ fermo immobile, ridondante di rabbia. In cuor suo sapeva che l’altro se lo meritava, se lo meritava tantissimo per tutte le bugie che gli stava raccontando: voleva metterlo contro sua madre, ne era certo.
Poi vide il sangue.
Venne scosso da umana pietà, si risvegliò dai suoi pensieri e pur continuando ad odiare la faccenda, si costrinse ad afferrare il cane per il collare di ferro. Lo tirò indietro con tutta la forza che aveva, arrivò anche ad utilizzare l’altra mano.
-Eun, lascialo!- le ordinò in pieno panico, poiché la cagnona non lo ascoltava, né aveva l’intenzione di staccarsi.
Bonjiro la colpì al muso con il pugno chiuso e Eun mollò la presa, così che Taemin poté finalemente allontanarla tirandola via. Nel frattempo che il coetaneo faceva calmare il cane, lui si rimise in piedi e strinse il polso nell’altra mano, sporcandola inevitabilmente di sangue. Contrasse il viso in un’espressione iraconda, che provò quasi invano a celare e a nascondere.
-Puoi farmi ciò che vuoi, cretino,- iniziò a esclamare, rivolgendosi al castano -ma non mi fai paura e nemmeno quel cane mi spaventa!-
Taemin ricambiò lo sguardo, tenne stretto il collare del cane nella mano destra; per un po’ non rispose, non trovando le parole, ma quando vi riuscì buttò fuori tutto l’odio che stava provando: -Il cretino sei tu! Da quando sei arrivato qui, hai portato solo guai! Ti fai forte solo perché a coprirti ci sono tua sorella e mia madre, no!?-
E qui fece una pausa, trovandosi ad inghiottire amaramente quella verità che, solo pochi secondi prima, aveva provato a non accettare.
-Be’, allora... allora sei debole. Debole e stupido!- proseguì più irato, col tono che aumentava man mano. Bonjiro lo osservava digrignando i denti, senza però proferir parola; -Perché nessuno mi darà indietro mio padre e tu, tu non sai cosa significava per me! Non potrai mai capirlo, o anche solo immaginarlo!-
-E cosa vuoi che mi importi!?- ribatté l’altro, lasciando la presa sul polso insanguinato; fece scivolare le braccia lungo i fianchi, serrò i pugni: -Ho solo eseguito un ordine. Devo la vita a tua madre, così come Ayano, e farle questo lavoro era il...-
-Tu non capirai mai nulla!- lo interruppe Taemin.
La gola gli bruciò di nuovo, sentì le lacrime rigargli le guance.
-Non sai cosa significa essere traditi da chi ti fidavi, né cosa significa perdere qualcuno di caro.- e concluse lì, con tono più calmo.
Riprese fiato, si asciugò le lacrime con la manica della felpa. Bonjiro serrò le labbra, poi emise un appena udibile “Tsk” e voltò il capo di lato, puntando gli occhi a terra; tutto pur di non guardare il fratellastro.
Calò il silenzio tra i due e anche Eun sembrò calmarsi, tanto che si accucciò a terra, pur restando con le orecchie ben tese. Il padrone sospirò, negò col capo e si sentì vinto: non poteva vendicare suo padre, non in quel momento, poiché Yunjume non ci avrebbe pensato due volte a uccidere anche lui. Non voleva credere a ciò che stava accadendo.
L’altro ragazzo, invece, cercava di non pensare e di concentrarsi su cosa dire per concludere quella sfida: il suo dovere l’aveva fatto, aveva messo al corrente Taemin della decisione della madre; forse, con quelle grida, tutti si erano incuriositi e Yunjume, insieme ad Ayano, stava cercando di frenare quella curiosità, magari addirittura di fermarla: sarebbe dovuto rientrare. Alzò gli occhi e ancora una volta, fissò il “nemico”.
-Taemin,- iniziò, a bassa voce. L’interpellato lasciò il cane e si avvicinò un po’, per poterlo sentire meglio: -tu non conosci la mia storia, ma io conosco la tua: non dire cose che posso smentire, è irritante.-
Quello tornò a farsi furioso, strinse così tanto i pugni che sbiancarono le nocche.
-Tu mi conosci?- gli domandò in risposta, ridendo amaramente. Sorrise con fare forzato, davvero divertito da ciò che stava sentendo.
-Hai passato tutti i dodici anni della tua vita tra queste mura: niente scuole pubbliche, passeggiate al parco, gite e quant’altro...- prese a spiegare Bonjiro, come a dargli conferma di ciò che sapeva.
E Taemin sgranò gli occhi, perse immediatamente quel sorriso, si ritrovò spiazzato. Di nuovo.
-... Chiuso in casa perché i nemici dei tuoi parenti potevano rapirti e chiedere un riscatto. Non hai mai avuto amici, ecco perché tuo padre ti ha regalato Eun- indicò l’Akita a terra che, come se fosse stata chiamata, alzò la testa e rizzò la folta coda; -Eri molto legato a tuo padre, proprio perché ti comprava di tutto e passava con te molto tempo. Io e Ayano siamo stati i primi ragazzini della tua età che hai visto, volevi esserci amico proprio per sentirti meno solo... ma hai avuto una brutta sorpresa.-
Il ragazzino vide Bonjiro ghignare di nuovo, in seguito poggiare le mani sui fianchi e fare un’espressione sfacciata. Avrebbe voluto prenderlo a pugni per fargli sparire il ghigno dalla faccia, ma non ci riusciva perché era scioccato: stava dicendo cose vere e non sapeva come potessere essere possibile.
-Ti sei fidato troppo, questo è stato il problema!- esclamò con ovvietà, riprendendo il discorso sotto gli occhi furiosi di Taemin -E no, nessuno mi ha raccontato la tua vita privata, sono semplici deduzioni. Dalla tua faccia credo però di aver ragione...-
-Vattene!- sbottò il giovane, indicandogli la strada dietro di lui, verso l’entrata del giardino.
Bonjiro rise, non riuscendo più a trettenersi. Gli regalò un’ultima occhiata di sfida, prima di voltarsi e tornare sui suoi passi.
-Lo giuro, da grande ti ucciderò! Lo giuro!-
Sentì Taemin continuare a minacciarlo, però non gli rispose e preferì ignorarlo. Sapeva che non sarebbe mai riuscito a ucciderlo, innocente e ingenuo com’era: se si era fidato così tanto di Ayano, se aveva fermato Eun quando lo stava mordendo... non sarebbe diventato nessuno di pericoloso. Sarebbe rimasto una pecora vestita da lupo.
Quando poggiò la mano sulla maniglia, si bloccò: si bloccò perché questa volta fu l’altro a ridere. Invece di aprire la porta e tornare dalla gemella, si voltò a guardarlo con gli occhi ambrati che brillavano di una strana luce: non era curioso, o stranito; quanto più, era confuso. Perché stava ridendo? Cos’aveva da ridere, se aveva la lama di un coltello puntata contro?
Aspettò che finisse di ridere, ma rimase a fissarlo e basta. Questo smise dopo una manciata di secondi, si portò il palmo della mano destra sul cuore e sorrise, come a prenderlo in giro.
-Bonjiro, anche io conosco te, ora che ci penso- lo informò.
Bonjiro roteò gli occhi al cielo. Pensò che fosse una stupida, ridicola e insulsa bugia, qualcosa per provare ad arrampicarsi sugli specchi e per fargli paura; voleva intimidirlo, forse, ma quello non era il modo esatto. Fu tentato di andar via, quando le parole successive dell’altro gli fecero sgranar gli occhi per la sorpresa:
-Ma vorrei capire: con chi ho parlato fino ad ora?-
Furono parole paragonabili a un fulmine a ciel sereno. Per un po’ gli mancò il fiato e il battito cardiaco accelerò: non se lo aspettava, era una cosa che non si aspettava. Credeva che Yunjume avesse mantenuto il segreto, anche con il figlio.
Poi ricordò che da lì a pochi giorni avrebbe dovuto lasciare quella casa: la strana agitazione, mai provata prima, lo abbandonò subito. Ma... era davvero agitazione? Perché si sentiva così felice ed emozionato? Perché sorrideva proprio ora?
-Lo hai notato!- rispose con semplicità.
Taemin avanzò qualche passo in avanti, contemporaneamente pronunciò altre parole che fecero restare Bonjiro ancora più sorpreso: -Per quanto tempo vorrai dormire, Katsumi? Quando ti sveglierai?-
 
“-Sai, Katsu’...-
Il bambino alzò lo sguardo e osservò l’insegnante venire verso di lui. Il suo primo pensiero fu domandarsi cosa avesse potuto fare senza accorgersene. La donna lo raggiunse, si sedette accanto a lui e lo guardò con un’espressione che non riuscì a decifrare.
Gli mise una mano sulla testa e solo in quel momento, riprese a parlare; sembrava quasi triste.
-... forse non capirai, ma proverò a spiegartelo: io penso che la mente umana sia come uno specchio.-
Katsumi la guardò come se avesse detto chissà quale assurdità.
La maestra gli accarezzò i capelli, non si fermò: -Uno specchio può resistere a dei colpi poco forti, ma se riceve un brutto colpo, si rompe. Quando si rompe, non è più solo uno specchio: si separa in tanti frammenti, diversi tra loro per forma e grandezza.-
Lo vide annuire, adesso la guardava come a voler dire: “E’ ovvio!”.
-Lo specchio non può ripararsi da solo, e chi vuole ripararlo dovrà essere pronto ad essere ferito: magari si taglierà, può capitare. Però se vuole davvero ripararlo, se vuole davvero capire com’era prima lo specchio, dovrà resistere, non arrendersi neanche con tanti tagli. Tutti i pezzi sono importanti per rimettere insieme ciò che si era prima, nessuno escluso-
-Io penso sia più come un puzzle...- proferì il bambino, iniziando a riflettere sulle parole dell’insegnante.
Quella annuì, sospirò con malinconia.
-Hai capito il concetto, più o meno...- gli disse, celando la tristezza -... Ricordati di trovare qualcuno che raccolga tutti i pezzi, non solo i più grandi e quelli meno taglienti. D’accordo?-“
 
Bonjiro tornò totalmente apatico. Si guardò intorno un po’ confuso, infine puntò gli occhi ambrati e vuoti su Taemin.
Fece spallucce, ma solo perché aveva l’impressione che il coetaneo gli avesse rivolto una domanda. Aprì la porta e rientrò in casa, sotto gli occhi straniti dell’altro ragazzino.
Quest’ultimo si accovacciò accanto all’Akita, gli diede delle pacche sul dorso e lo fece alzare sulle quattro zampe. Lo abbracciò, sentendo la lingua dell’animale prendere a leccargli una guancia.
-Eun, secondo te di quale pezzo dovremmo sbarazzarci, un giorno?- le domandò. Il cane si allontanò e lanciò un abbaio, poi scodinzolò verso sinistra; Taemin ghignò, si alzò in piedi e concluse il suo pensiero: -Buttar via quello tagliente, o quello più innocuo?-


Angolo autrice: 
-nelle note del capitolo 5 dico che la donna con cui parla Ayano è l'unica ad aver letto quella che, alla fine, è la diagnosi di Bonjiro. E sì, questa donna, Yunjume, ha un figlio: posso solo dirvi che lui non ha letto alcuna diagnosi, né qualcuno gli ha detto di ciò. Come mai allora sembra saper tutto? Be', si vedrà. Perché sì, ci sarà ancora;
-c'è un perché alle frasi cancellate;
-il discorso della maestra avrà senso solo quando si capirà il problema del ragazzo. Magari qualcosa si è già capito, chissà? 


 

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