Operazione Chariot

di Ellery
(/viewuser.php?uid=159522)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Catturati ***
Capitolo 3: *** Non te ne andare! ***
Capitolo 4: *** Herr Major ***
Capitolo 5: *** Menzogna ***
Capitolo 6: *** Un medico ***
Capitolo 7: *** Sangue innocente ***
Capitolo 8: *** La verità con qualunque mezzo ***
Capitolo 9: *** I pezzi di un puzzle ***
Capitolo 10: *** Un vecchio debito ***
Capitolo 11: *** Opera di convincimento ***
Capitolo 12: *** Un mezzo da tragedia classica ***
Capitolo 13: *** Aidez-moi ***
Capitolo 14: *** Ossessione ***
Capitolo 15: *** Confessione ***
Capitolo 16: *** Quattro bicchieri ***
Capitolo 17: *** Camera con vista ***
Capitolo 18: *** La Senna ***
Capitolo 19: *** Unicorno di vetro ***
Capitolo 20: *** Trenta monete d'argento ***
Capitolo 21: *** Lumeau ***
Capitolo 22: *** Fuga ***
Capitolo 23: *** Casa Jaeger ***
Capitolo 24: *** Colombe grigie ***
Capitolo 25: *** Ali spezzate ***
Capitolo 26: *** Il destino gli darà una mano ***
Capitolo 27: *** Un vecchio amico ***
Capitolo 28: *** Mani che uccidono ***
Capitolo 29: *** Un altro piano ***
Capitolo 30: *** Un mostro ***
Capitolo 31: *** Settanta volte sette ***
Capitolo 32: *** Preda e cacciatore ***
Capitolo 33: *** Ancora una vita ***
Capitolo 34: *** Uno spiraglio sull'anima ***
Capitolo 35: *** Oltre il fronte ***
Capitolo 36: *** Operazione Chariot ***
Capitolo 37: *** Due lettere ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 
Giugno 1916 – Verdun, Francia.
 

L’afa si era impossessata della pianura di Verdun. Erano anni che il sole non martellava tanto intensamente il confine francese: le estati precedenti erano state piovose, fresche e ristoratrici. Quell’anno, invece, nemmeno il vento spirava lungo le linee delle trincee, ormai vuote.
L’assalto tedesco era scattato in mattinata, poco prima di mezzogiorno: i carri armati erano avanzati sul terreno arido, incurante delle mine che facevano esplodere i loro cingoli, degli arti mozzati lungo il terreno insanguinato, dei soldati che cadevano morti lungo la via. Le trincee francesi avevano resistito stoicamente, impendendo ai crucchi di avvicinarsi troppo. La strategia militare della Germania era miseramente fallita e Verdun era nuovamente salva, sotto controllo dell’alleanza franco-inglese. I generali avevano, comunque, sancito una tregua, per permettere la cura dei feriti e il trasporto dei cadaveri lontano dal terreno di scontro.

Kenny sbucò dalle latrine, allacciando la cintura con un secco movimento. Dopo il combattimento, si sentiva spossato e vuoto, come ogni volta. Si ritrovava spesso a domandarsi perché combattere: non era la loro guerra, quella! Che i francesi mangia-rane se la sbrigassero da soli! Non capiva perché degli inglesi dovessero combattere in suolo straniero, per un Paese che, sin dagli albori della storia, non aveva fatto altro che rompere le balle ai sudditi di sua maestà. Poco male… ormai era lì! Lo avevano spedito al fronte due settimane prima, destinandolo alla prima linea: forse speravano di vederlo crepare alla svelta, ma… in realtà, era sopravvissuto egregiamente. Aveva una mira eccellente, era uno dei migliori cecchini dell’esercito Inglese ed  anche una spina nel fianco per gli ufficiali: troppo indisciplinato, impossibile da controllare ed incapace di eseguire gli ordini. Per questo, mandarlo in trincea era parsa un’ottima idea: l’esercito britannico si sarebbe disfatto del suo peggior elemento senza scomodità! Sarebbe bastato attendere un proiettile o una mina tedesca e… puff… arrivederci Mr. Ackerman.

Contro le aspettative, però, Kenny era sopravvissuto fino ad ora! Spossato, stanco, logorato da quella guerra, ma ancora vivo… per di più, si era impegnato al meglio nel suo ruolo in trincea: il suo fucile non falliva mai un colpo. I soldati nemici cadevano come birilli quando li puntava e per loro non c’era mai scampo: uno sparo dritto in testa o nel cuore e via… nessuno spreco di proiettili, né di risorse umane. Da solo, Kenny era in grado di svolgere il lavoro di venti cecchini. Naturalmente, i suoi commilitoni gli erano grati: benché non ne avesse alcuna intenzione, la sua mira aveva salvato molte più vite di quante ne avesse falciate. Si era guadagnato rispetto e fedeltà, tra i soldati, tanto che persino alcuni ufficiali lo invidiavano apertamente: come era possibile che quel grezzo contadinotto – capace solo a sparare alle volpi che gli rubavano le galline – fosse diventato il miglior tiratore dell’esercito inglese?

«Ehi!» una voce, alle sue spalle. Kenny si voltò, distraendosi da quei pensieri, e notando un ometto paffuto avvolto in una divisa da capitano «Che fai ancora qui? La tua squadra è stata destinata al recupero feriti e cadaveri» gli lanciò un paio di guanti da lavoro «Vedi di darti da fare»

«Seh signore…» rispose controvoglia, aspettando che il superiore si allontanasse per rifilargli un gestaccio. Che rottura di palle quella guerra. Non gli interessava e certo raccattare morti e mutilati non era proprio il suo forte. Lui i morti li creava soltanto, mica li seppelliva!

Sbuffò, infilandosi i guanti e sgusciando fuori dalla trincea. Aveva bisogno di tabacco da masticare! Avrebbe potuto chiederne al sergente Stark se gliene era rimasto da vendere, ma… quello strozzino avrebbe preteso almeno dieci sterline per una manciata di foglie! E lui non incassava la paga da svariate settimane, ormai…

Gettò una occhiata ai corpi più vicini, affinando sul volto un’espressione furba. Forse… c’era un altro modo per procurarsi del tabacco! O delle sigarette, se fosse stato fortunato! In fondo, quelle salme non avevano certo bisogno di fumare! Lui, al contrario…

Si chinò sul corpo riverso di un soldato tedesco, frugando rapidamente nelle sue tasche: doveva essere veloce e attento a non farsi scoprire; lo sciacallaggio era un reato da corte marziale e non aveva nessuna intenzione di finir fucilato da qualche parte. E per cosa, poi? Quel crucco non aveva niente addosso, se non un piccolo specchio rotondo! Kenny squadrò il proprio viso riflesso: lo sguardo chiaro incastonato nel viso giovane e vigoroso, i capelli scuri che spuntavano da sotto l’elmetto, le labbra sottili ed i denti tinti del giallo della nicotina. Malgrado gli stenti della guerra, era ancora un bell’uomo: fresco, vigoroso, piacevole. Se soltanto non avesse avuto quel brutto vizio di uccidere…
Sogghignò a quell’idea, gettando a terra il piccolo specchio e passando al corpo successivo. Niente, nemmeno lì: soltanto un libro di preghiere ed un rosario. Che se ne faceva di quella roba? Non era religioso! Gettò tutto a terra, proseguendo oltre:

«Tu… hai la faccia da ubriacone, eh…» aggiunse, accovacciandosi ad un altro uomo riverso a terra. C’era del sangue tutto attorno, una gamba spezzata e il viso immerso in una pozza d’acqua stagnante. I capelli biondi erano appiccicati alla nuca, appena visibile sotto all’elmetto  verde, dove capeggiava una croce rossa su fondo bianco «Un medico, eh? Beh… la guerra non ha risparmiato nemmeno te» sussurrò, allungando le dita per frugare nella borsa poco distante.

Trasalì, tuttavia, quando una forte mano gli afferrò il polso. Abbassò lo sguardo, incrociando quello azzurro del tedesco: il viso scarno era incorniciato da una ispida barba bionda, mentre il naso sorreggeva a stento un paio di occhiali tondeggianti.

«A-aiutami» parlava correttamente inglese il medico, senza alcuna sfumatura berlinese. Era un alleato? No! Indossava la divisa tedesca.

«Chi sei?» non era una domanda sensata, se ne rendeva conto, ma… quelle circostanze erano bizzarre. Era la prima volta che un morto lo supplicava. Sogghignò piano a quell’idea, cavando poi la Webley dalla fondina; puntò la bocca della pistola alla testa del ferito «Dovrei spararti crucco, lo sai?»

«Mi chiamo… Smith. Sono… un dottore»

«Questo lo vedo. Ma sei un dottore tedesco, quindi non ho alcun interesse a parlare con te. Stai buono, mentre ti faccio saltare le cervella»

«No… per fa-vore.»

«Perché dovrei risparmiarti? Sei solo una seccatura, per me…»

«Sono un… dottore»

«Lo hai già detto!» quel tipo lo stava snervando «Pensi che questo ti aiuterà a sopravvivere?»

«Potrei… essere d’aiuto… curare i… vostri feriti»

«Non essere ridicolo» scosse il capo «Sei moribondo, non potresti curare nessuno in queste condizioni. E… abbiamo già i nostri medici. Tu non serviresti a niente. Finiresti solo in un campo di prigionia, fino al termine della guerra… a mangiare a sbafo e grattarti la pancia tutto il giorno. È meglio se crepi, fidati»

Caricò l’arma, ma la presa sul suo polso non accennò a diminuire. Quell’uomo si stava aggrappando a lui con tutte le forze, come se non fosse un assassino, ma l’unica ancora di salvezza. Arricciò le labbra in una smorfia irritata:
«Lasciami, crucco!» ringhiò, strattonando il braccio e puntando il revolver.

«Ti prego! Ho una moglie e un figlio piccolo… se anche tu hai una famiglia, allora…»

«Non ho nessuno» lasciò scivolare l’indice sul grilletto. Non aveva nessuno, lui… o quasi. Non era sposato, non aveva figli o parenti… aveva soltanto una sorella, da qualche parte nei sobborghi di Londra. Era una fruttivendola che… arrotondava i proventi del negozio vendendo ben altro tipo di merce. Vendere verdura in tempo di guerra era difficile; accogliere uomini nel proprio letto ogni sera era, al contrario, facile e produttivo. Era così che era rimasta incinta: da uno sconosciuto. Aveva da poco partorito. Lui le aveva promesso di mandarle soldi regolarmente, per aiutarla a sostenersi, a crescere quello sgorbio senza padre; da quando avevano smesso di stipendiarlo, però, aveva interrotto ogni mantenimento. Chissà, forse sua sorella se la sarebbe cavata comunque. Oppure…

Un’idea gli saltò nuovamente alla mente:
«Ehi, crucco!» una scrollata al corpo quasi esanime dell’uomo «Sei ricco? Te la passi bene? Da quanto so… i medici tedeschi guadagnano parecchio»

Lo vide annuire:
«S-sì. Ho dei risparmi. Prendili se vuoi… voglio solo… tornare a ca-sa dalla mia famiglia»

Comprensibile, ecco. Quasi tutti i soldati volevano tornare a casa. Perché per il tedesco sarebbe dovuto essere diverso?
«Va bene, Smith… Ti porterò con me. Ti guariranno e … tornerai da tuo figlio. In cambio, ti chiedo solo di pagarmi bene per questo servizio che ti faccio. Non sei l’unico ad avere una famiglia da proteggere»

Non ottenne risposta: l’uomo era svenuto. Con uno sbuffo, Kenny se lo caricò in spalla, barcollando verso le vicine trincee. Non avrebbe avuto il suo tabacco, per oggi, ma solo un peso in meno sulla coscienza.

Già, ma… le buone azioni non si potevano fumare. Poco male: avrebbe lasciato il ferito in infermeria e poi sarebbe tornato a raccattare cadaveri; magari sarebbe stato fortunato e, questa volta, avrebbe trovato le sigarette che tanto agognava.

 


 


Angolino: Buona sera! Mi sto cimentando in una nuova piccola sfida: una AU (perchè le AU mi piacciono) sulla seconda guerra mondiale. Spulciando il forum, ho trovato una Challenge, indetta da DonnieTZ. Mi sono incuriosita subito e... innamorata dei prompt proposti. Sono tantissimi ed interessantissimi! Ho preso coraggio, dunque, decidendomi a scrivere una idea che mi frullava in testa da un po': Una AU ambientata negli anni della seconda guerra mondiale (Nello specifico, questa sarà ambientata nel 1942; solo il prologo, come avrete notato, è ambientato durante il primo conflitto ^^).
Semplicemente, mi scuso in anticipo per gli "errori storici" che sicuramente commetterò: ho cercato di documentarmi su wikipedia, ma so di non essere una grande esperta di storia XD le mie conoscenze del periodo, purtroppo, si fermano a quanto studiato a scuola ed a qualche libro della biblioteca. Però... ci provo comunque, consapevole di  "piegare", a volte, la storia vera e propria alle esigenze della mia ff. Vi chiedo, dunque, scusa per qualunque incoerenza possa esserci nel testo ^^ (quelle ed eventuali errori di battitura / ripetizioni... l'ho riletta, ma... sono cose che mi sfuggono spesso ç_ç)
Naturalmente, questo è solo il prologo - il primo capitolo lo inserirò al più presto e da lì spero di riuscire a sviluppare la trama gradualmente (e la eruri *coff coff* mi spiace, li adoro troppo *_*). l' idea è per una long-fic, che spero di riuscire a portare avanti.
Grazie per aver letto fin qui! Se avete suggerimenti e consigli, al solito, sono disponibilissima a riceverli!
ps. mi scuso anche per il doppio invio nei dialoghi, ma... altrimenti rimaneva troppo compatto il testo e non mi piaceva XD

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Catturati ***


1. Catturati


Marzo 1942 – Fronte occidentale, Francia. Campagne di Arras.
 

 
Lo Spitfire era precipitato. La contraerea tedesca lo aveva forato come una forma di groviera, mentre sorvolavano Arras. La campagna francese si era mescolata rapidamente con il cielo, i colori tenui dei campi incolti confusi con l’azzurro di un pomeriggio assolato.
Aveva cercato in tutti i modi di tenere su l’aereo, tirando al massimo la cloche, sterzando ripetutamente per non costringere il piccolo caccia allo stallo, ma era stato tutto inutile: le ali non riuscivano a catturare correttamente l’aria, trapassate come erano, mentre dal motore usciva una scia di fumo nero. L’atterraggio si era fatto urgente, ma non sarebbe stato soffice né indolore; aveva gettato una occhiata alle proprie spalle: il suo artigliere stringeva spasmodicamente i pomelli delle mitragliatrici, come se questo potesse salvarlo.

«Reggiti» gli aveva gridato, sforzandosi di non badare all’espressione terrorizzata del ragazzo «Andrà tutto bene, Farlan! Non permetterò che ti succeda niente!» bugie, infinite bugie. Non aveva idea di cosa sarebbe successo: se anche fossero riusciti ad atterrare senza danni, si sarebbero comunque trovati dietro alle linee nemiche. Avrebbero dovuto pregare di non incontrare tedeschi, di riuscire a scappare e nascondersi in qualche fattoria, sperando in soccorsi che non sarebbero mai giunti.
Maledizione, maledizione! Lo sapeva che quella missione era un suicidio, ma il generale Doyle aveva tanto insistito. Bombardare Arras non era servito a niente: in città non vi erano carrarmati nemici e nemmeno contingenti militari. La soffiata a cui si erano appoggiati era falsa. Li avevano fatti decollare per nulla, soltanto per lanciarli contro la spietata contraerea.
Il suo, ovviamente, non era l’unico veicolo abbattuto; aveva visto cadere altri quattro aerei, prima di essere colpito a propria volta. E, da quel momento, aveva fatto di tutto per non precipitare.
Sforzi inutili. Alla fine, lo Spitfire si era schiantato in un campo di grano immaturo, ai margini di un bosco di latifoglie.

Levi lo vide attraverso il velo delle lacrime che gli oscuravano la vista. Un bosco, sì… nascondiglio perfetto! Ah, se soltanto fossero riusciti a raggiungerlo! Sollevò la mancina, portandola alla testa, scostando un ciuffo dei corti e spettinati capelli neri: sentiva la fronte scoppiare, come se qualcuno l’avesse presa a martellate. Un rivolo di sangue colava dalla tempia sinistra, mentre un sapore metallico gli riempiva la bocca: anche le labbra si erano spaccate in più punti, così come gli zigomi. Un  dolore lancinante gli attraversava la gamba sinistra, salendo dalla caviglia slogata – se non addirittura rotta. La divisa color nocciola era intrisa di sangue all’altezza del fianco destro, là dove le lamiere avevano strappato tessuto e pelle. Gli occhi grigi spaziarono immediatamente al proprio corpo, alla ricerca di ulteriori ferite: per essere un pilota della Raf, rientrava a stento nei parametri di ammissione. E per aver quasi raggiunto i trent’anni, era decisamente basso e minuto.

«Merda…» sibilò, cercando di ruotare leggermente il busto. Arricciò la punta del naso, in una smorfia irritata, al sentire un sordo bruciore percorrergli tutto il corpo. Si costrinse ad ignorare quel fastidio, allungando la destra per scuotere le spalle dell’artigliere «Farlan…»

Il ragazzo seduto dietro di lui si chiamava Farlan Church. Aveva ventun’anni, otto meno di lui. Il capo biondo era riverso lateralmente, su una spalla, mentre lo sguardo chiaro completamente chiuso. I lineamenti del viso, candidi e delicati, erano solcati da spesse striature rossastre, mentre a stento il respiro pareva sfuggire dalla bocca sottile, ancora dischiusa in un urlo strozzato di terrore.

«Farlan» ripeté.
Non ottenne risposta: era svenuto? Moribondo? Doveva accertarsene! Non poteva indugiare: presto i tedeschi sarebbero arrivati e li avrebbero catturati. Occorreva muoversi, trovare rifugio nel bosco, nella speranza che questo bastasse a depistare i nemici e…
Uno scoppio lo costrinse ad abbassare la testa, mentre una miriade di piccole schegge affilate gli cadevano addosso, graffiandogli il viso e le braccia. Qualcuno aveva fatto esplodere il lunotto della cabina.

«Cazzo! Sono già qui…» un disperato tentativo di estrarre Farlan dalle lamiere «Dobbiamo andare! Dobbiamo…» non poteva lasciarlo, anche se la sua mente gli suggeriva di abbandonare il compagno e correre via. No, no! Non lo avrebbe abbandonato… non era morto! Era ancora vivo! Lo sentiva… sentiva il respiro flebile sotto le proprie dita. Farlan aveva bisogno d’aiuto, di un medico, ma… i tedeschi lo avrebbero salvato? O gli avrebbero sparato in testa, senza troppi ripensamenti? Scosse il capo, cercando di scacciare quelle congetture: non aveva tempo per i pensieri cupi! Doveva sbrigarsi.
Passò le mani sotto le ascelle dell’amico, tirando con forza. Niente… sembrava come… incastrato!
«Dannazione!» imprecò, un attimo prima che un altro colpo risuonasse nell’aria. Un rumore metallico e poi l’inquietante odore del carburante. Quegli idioti avevano colpito il serbatoio! Il fuoco lo avrebbe raggiunto rapidamente, passando dal motore. Un senso di rabbia e disperazione lo colse: no, no, no! Quei bastardi! Lo avevano fatto apposta! Volevano vederli bruciare? Esplodere insieme allo Spitfire? Il fumo arrivò a sfumargli la vista, a chiudergli la gola… tossì un paio di volte, ancora cercando di disincastrare Farlan. Non avevano più tempo, non…
Un paio di mani robuste lo afferrarono e lo trascinarono via dall’aeroplano, rapidamente. Scorse un altro soldato recuperare il corpo inerte del suo artigliere e un’esplosione gli frantumò i timpani. Poi, tutto divenne buio.
 
***

Quando riprese conoscenza, realizzò di trovarsi in una stanza bassa, dal soffitto in legno e il pavimento coperto di malmesse piastrelle. Le pareti erano coperte con sudicia carta da parati ed un paio di finestre sprangate lasciavano filtrare la luce del tardo pomeriggio. Persone in divisa nera, dall’aria tutt’altro che cordiale, li stavano squadrando con disprezzo. Qualcuno parlava: una lingua sconosciuta, di cui comprendeva soltanto alcuni termini. Tedesco, senza dubbio. Per un istante, la sua mente sperò che si trattasse di un abbaglio, di una visione: forse si confondeva e quelli erano ufficiali della resistenza francese! In quel caso erano salvi. Però… il francese lo masticavano: non lui, no… ma Farlan lo comprendeva benissimo. Scoccò una occhiata al compagno: aveva ripreso i sensi, ma sedeva sulla sgangherata seggiola di legno in modo scomposto, con la schiena curva, il capo chino e lo sguardo gonfio fisso sul pavimento.

«Farlan…» provò a chiamarlo, ma un ceffone gli arrivò dritto in faccia «FANCULO! STRONZO!» sputò, ottenendo soltanto un’altra sberla. Maledetti bastardi! Come si permettevano?! Sarebbe saltato in piedi e li avrebbe presi a calci tutti quanti, se non fosse stato legato a quella stupida sedia: i polsi erano serrati da pesanti manette in ferro, fredde e pungenti al contatto. Le caviglie, invece, erano allacciate con dei logori pezzi di corda alle gambe dello scranno, impedendogli ogni movimento. Quindi, doveva stare calmo! Era in una situazione complicata, in netto svantaggio e non poteva neppure pensare di svignarsela tanto facilmente. Inoltre, i tedeschi li avevano tenuti in vita: brutto segno! Significava che volevano qualcosa da loro, altrimenti li avrebbero fucilati seduta stante. Se erano lì, invece, era perché possedevano qualcosa di valore. Non soldi, non gioielli, ma la cosa più importante in una guerra: informazioni. Gli vennero in mente mille segreti che dovevano restare tali, cose di cui era a conoscenza, ma che mai avrebbero dovuto essere rivelate. Si morse le labbra nervosamente, assaporando ancora il gusto metallico del sangue che colava dalla sua bocca.

«Sprechen Deutsch?»

Scosse il capo. Non capiva.

«Français?»

Nuovo cenno di dissenso.

«Idioti! Mi sembra evidente che sia un fottuto Inglese!» dal fondo della sala si era fatto avanti un uomo alto e robusto, le spalle larghe avvolte dalla divisa scura ove spiccavano i gradi di capitano.  La faccia spigolosa era contornata da una massa di corti capelli scuri e da una barba incolta. Gli occhi piccoli e porcini erano contornati da occhiali tondeggianti, con una montatura in corno chiaro.

«Herr Weilman!»

Il soldato si ritirò, cedendo posto al superiore, che si piantò davanti a loro con le gambe divaricate e le mani sui fianchi, in una posa chiaramente sfrontata. Levi abbassò lo sguardo, sforzandosi di celare una risatina: quel pallone gonfiato sperava di intimorirlo, così facendo? Non si rendeva conto che, invece, era soltanto ridicolo.

«Ti viene da ridere» la voce amara di Weilman lo colse impreparato.

Sollevò immediatamente il capo, negando:
«No!»

«Non era una domanda, figlio di puttana»

Puzzava di alcool, quell’ufficiale. Una zaffata dell’alito pesante lo costrinse nuovamente a voltare la faccia, senza poter celare una smorfia schifata. Blah… poteva essere peggiore di così la situazione? Prigionieri dei tedeschi, feriti ed interrogati da un capitano ubriaco fradicio.

«È questa la vostra gratitudine, Inglesi?» era decisamente sgradevole quel tono e non prometteva nulla di buono «Vi abbiamo salvato. Il vostro aereo era in fiamme» in realtà lo avevano fatto esplodere loro! Stupidi crucchi! Dopo averli catturati pretendevano persino dei ringraziamenti? «Vi abbiamo medicato. E voi ci ripagate così? Ridendo sotto i baffi, mh?» Medicato? Aggrottò la fronte, abbassando lo sguardo alla propria divisa: la stoffa chiara, ancora macchiata, si era appiccicata alle bende sottostanti, che un infermiere doveva avergli passato sul fianco. La caviglia, al contrario, gli bruciava ancora; riusciva a muoverla leggermente, malgrado le corde, ma ogni tentativo gli procurava fitte fastidiose. Farlan, al contrario, soffriva ancora: il volto era esangue, le labbra tremanti e un alone rossastro andava allargandosi lentamente lungo il suo ventre.

«è ferito! Dovete curarlo!» disse, con una nota urgente. Idioti! Perché non lo vedevano? L’artigliere non era affatto curato. Probabilmente, qualcuno si era limitato a medicare superficialmente quel taglio, senza preoccuparsi di arrestare l’emorragia sottostante. Perché? Lo ritenevano già spacciato? A nessuno, in effetti, interessava la sorte di due piloti inglesi. Li stavano tenendo in vita soltanto per cavare informazioni. Bene… finché non avesse parlato, ci sarebbe stata una speranza per lui e Farlan. Forse… fino a che Weilman non avrebbe perso la pazienza! Poi…

«Lo abbiamo già fatto» c’era noncuranza in quel tono, come se al capitano non fregasse assolutamente niente.

«No, non è vero!» quella risposta gli procurò un’altra sberla. Maledetto stronzo! L’avrebbe pagata… prima o poi… gli avrebbe fatto ingoiare quelle umiliazioni prima di ammazzarlo nel sonno. Sputò di nuovo a terra, la saliva tinta di cremisi.

«Altre obiezioni, bastardello inglese?»

Calmo! Doveva restare calmo! Non poteva permettersi di perdere le staffe! Non sarebbe servito, né a lui né a Farlan. Quelli cercavano soltanto un pretesto per ucciderli. Non glielo avrebbe fornito.
Scosse piano il capo, aggiungendo un:
«Nessuna»

«Molto bene!» scorse Weilman allacciare le mani dietro alla schiena, con aria solenne, e passeggiare avanti e indietro per la stanza «Mi servono alcune informazioni… e so che me le darai, vero? Collaborerai?» cenno d’assenso «Bene. Vedo che inizi a capire» colse una pausa di una manciata di secondi, prima che l’odioso ufficiale riprendesse a gracchiare «Sappiamo che gli Alleati stanno preparando un attacco. Abbiamo intercettato alcuni comunicati che ne parlavano. Sappiamo che, indicativamente, è previsto per la fine del mese. Certi messaggi parlavano del ventotto Marzo, altri del trenta, altri ancora del venticinque»

L’operazione Chariot! Temeva che gliel’avrebbero chiesto! Era ovvio che sapesse il piano! Se non fosse stato abbattuto e catturato, avrebbe dovuto prendervi parte. Aveva studiato il piano, lo conosceva nei minimi dettagli, ma… non poteva rivelarlo, no! Era la maggiore operazione anti-tedesca prevista! Spifferare significava mandare a monte un piano costruito in mesi di duro lavoro, costruito a costo di vite e sacrifici! Abili soldati erano morti per ottenere le informazioni necessarie per costruire la Chariot. Non avrebbe gettato tutto al vento soltanto per salvarsi la vita. Scosse il capo, sforzandosi di mantenere un’aria impassibile:
«Non ne so niente» mentì, la voce ferma, per non dare adito a dubbi.

«Non ti credo. Le vedi queste?» una mano secca gli afferrò il mento, costringendolo ad abbassare lo sguardo sulla propria divisa «Sono mostrine da caporale. Sei un maledetto sottoufficiale della Raf. So che sai qualcosa. Me lo dirai, non è vero?»

«Non so niente» ripeté, trattenendosi dal cercare di mordere quelle dita che ancora gli stringevano il viso.

«Non ti credo»

«è la verità!» no, non lo era… e anche il tedesco ne era consapevole. Si sentì strattonare i capelli, costretto a piegare il capo, mentre un coltello affilato arrivava a pungergli la gola.

«Parla!»

Non lo avrebbe fatto! Potevano anche ucciderlo! Non avrebbe aperto bocca! Non avrebbe tradito i suoi compagni, la sua nazione, gli ideali per cui stavano combattendo, la libertà che doveva tornare a regnare in Europa. Chiuse gli occhi, preparandosi al peggio. Deglutì a fatica, mentre il cuore prendeva a martellargli con forza nel petto. Morire sgozzato non era la sua massima aspirazione, ma… evidentemente era così che doveva andare! Meglio crepare che vivere col rimpianto del tradimento!

«Non so niente…» disse, per la terza volta. Colse la lama graffiargli la pelle del collo, prima di ritrarsi improvvisamente. Weilman lo lasciò andare, spostandosi verso l’altro prigioniero. Cosa voleva fare?

«No! NO!» urlò, non appena vide l’ufficiale minacciare il petto dell’amico con il pugnale affilato. Si agitò sulla sedia, cercando di divincolarsi dai ferri stretti ai polsi. No, no, no! Non gli avrebbe permesso di far del male a Farlan! Non aveva già sofferto abbastanza? Il taglio sul ventre continuava a sanguinare, il capo biondo era abbandonato contro il petto, le spalle fiacche… che cosa voleva, ancora? Farlan non era a conoscenza dell’operazione Chariot «Lascialo stare!»

«Dimmi dei piani Alleati!»

«Non ne so niente! La vuoi capire? Niente!» ma un alto grido era giunto a coprire le sue parole. Weilman aveva affondato lentamente la punta del coltello nell’addome ferito, rigirandola lentamente. Bastardo! Gliel’avrebbe pagata! Non poteva farlo! Non poteva prendersela con Farlan! «Smettila! Smettila… figlio di puttana, smettila!!» urlò, tentando  inutilmente di liberarsi «Lascialo stare!»

«No. Io e il tuo amico ci stiamo divertendo, non vedi?» di nuovo un alto lamento di dolore, al roteare indiscreto della punta «Lo torturerò finché non mi dirai qualcosa. E… se quello che mi dirai non mi piacerà, lo ucciderò.»

Era tutto sbagliato! Non doveva andare così, no! Farlan non c’entrava niente! Cosa fare? Spifferare tutto, mandare a monte un piano fondamentale e salvare, forse, le loro vite? Oppure rimanere silenzioso, sopportare le grida del compagno, consapevole d’esserne responsabile? Non lo sapeva. Era una scelta troppo difficile. Dondolò nuovamente la testa:
«Non so niente!» ripeté, testardo, la voce rotta dall’incertezza e dalla delusione. Non poteva fare nulla: non poteva salvare Farlan e Chariot! Doveva scegliere: il suo amico oppure l’Europa intera. Non era così semplice: proteggere degli ideali era nobile, ma… a che prezzo? La vita di un compagno non era, forse, più preziosa? Lo Stato Maggiore della Raf avrebbe ideato nuovi piani, nuove strategie per combattere i nazisti! Lui, invece, aveva soltanto una possibilità per salvare Farlan: quella! «Per favore, credimi»

Quelle parole non servirono ad altro che a intensificare la tortura: un nuovo grido, l’artigliere agitato sulla sedia, il sangue che ancora sgorga.
«Ti prego, bast…»

«BASTA!»

Una voce si impose sulla sala, riducendo tutti al silenzio. Dalla porta socchiusa era giunta una nuova figura: un uomo si stagliava appena oltre l’ingresso, avvolto nella nera divisa. Le mostrine con i gradi rilucevano sulle spalle robuste, mentre la fioca luce inondava la pelle candida e lo sguardo profondo ed azzurro. Il volto squadrato era circondato dai capelli dorati, pettinati in una composta riga laterale. Le ciocche si sfoltivano gradualmente lungo la nuca, sfociando in un rasato taglio militare. Era… alto, piazzato. Senza dubbio, superava abbondantemente i centottanta centimetri. Levi si ritrovò costretto ad alzare il capo, quando se lo trovò davanti.

«Herr Major» Weilman pareva irritato da quell’intrusione «Wir hinterfragen die Gefangenen»

«Non li stavate interrogando, capitano! Torturando, piuttosto…» l’inglese del nuovo arrivato era fluente, morbido e con solo un lievissimo accento berlinese «Credo che i nostri ospiti non comprendano il tedesco. Siete pregato, quindi, di parlare inglese davanti a loro»

«Riservate troppe cortesie a questi topi di fogna, Herr Major! Non meritano clemenza»

«Questo sarò io a deciderlo» il maggiore prese una seggiola, accomodandosi davanti ai piloti ed accavallando le gambe, in una posa educata e composta «Avete già chiesto le loro generalità?»

«Nossignore»

«Come dunque pretendete che vi rispondano?! Potete accomodarvi, capitano. Da qui ci penso io»

«Ma signore…»

«Non intendo accogliere ulteriori obiezioni.»

Weilman si ritirò sul fondo della sala, dopo aver prodotto un piccolo inchino.
Levi scrutò il suo nuovo interlocutore: l’aspetto era affabile, distinto, pulito. Non assomigliava affatto al capitano ubriaco. Questo, però… poteva essere un bene o un male: poteva essere capitato in mani migliori o peggiori. Non avrebbe saputo dirlo, non studiando quel sorriso enigmatico o quegli occhi quasi ipnotici. Quel tipo era… indecifrabile, già!

«Come ti chiami?» ecco la prima domanda, ma… quella era semplice e poteva rispondere.

«Levi… Matricola 690088, Caporale della Royal Air Force» era tutto quello che poteva dirgli. Non avrebbe spifferato altro «E lui… è Farlan Church. Matricola… non so. Dovreste chiederla a lui. È ferito… devi aiutarlo. »

«Farò il possibile» quelle parole suonavano quasi come una solenne promessa. Per qualche strano motivo, si sentì quasi rassicurato, come se… quell’uomo fosse abituato a dispensare e mantenere giuramenti. Sembrava affidabile, sì… «Mi chiamo Erwin Smith. Maggiore dell’esercito tedesco.»

«Smith… non è un cognome tedesco…»

«Sono inglese per… un quarto. Mio nonno era inglese.» ecco spiegato il motivo di quella parlata fluida e corretta «Mi dispiace per quanto successo poco fa. Abbiamo bisogno di informazioni, ma questo non giustifica l’accaduto» Gli andava a genio. Almeno… per quanto un nazista possa andare a genio. Sembrava diverso, il Maggiore. Più comprensivo, colloquiale… umano. Forse capiva le sue esigenze, la necessità di proteggere una importante operazione militare e, contemporaneamente, salvare la vita di un amico. «Devo insistere, però… se sai qualcosa, se hai delle informazioni… ti chiedo di rivelarle. Le intercettazioni parlano di un attacco nei prossimi giorni. Dobbiamo sapere quando e dove. Dobbiamo essere preparati»

«No. Non so niente» doveva continuare su quella linea «E se anche lo sapessi, non te lo direi»

«è giusto. È comprensibile. Nemmeno io lo farei, al tuo posto. Ma… te lo devo chiedere nuovamente. Sai qualcosa?» erano davvero testardi i crucchi! Perché non si arrendevano? Sapevano che mentiva? Probabilmente. Quel tipo, Smith… sembrava particolarmente bravo a leggere le persone. Lo stava scrutando come fosse una sorta di libro difficile ma non impossibile da decifrare «Capisco che tu voglia proteggere i tuoi compagni… come io desidero proteggere i miei e tutto il popolo tedesco. Se sai qualcosa ti prego di riferirmelo… non te lo chiederò una seconda volta, Levi. Sto cercando di essere gentile, di metterti a tuo agio… »

«Trovo difficile sentirmi a mio agio legato ad una seggiola…» sarcasmo. Non avrebbe dovuto lasciarselo scappare. Socchiuse appena gli occhi, preparandosi all’ennesima sberla che, invece, non arrivò.

«Lo so e mi dispiace. Non possiamo permettervi di scorrazzare per una base tedesca come se niente fosse. Ti prego, comunque, di riflettere: dopo di me arriveranno altri ufficiali ad interrogarvi, con minore pazienza e con minore rispetto. Credi che Weilman sia crudele? Fidati, non hai ancora visto nulla.» la voce si abbassò, un tono di avvertimento e urgenza «Sa fare di peggio. Pensaci, per favore.»

«Non so niente»

«Sono sicuro che la notte ti aiuterà a riordinare i pensieri. Domani mattina, riprenderemo l’interrogatorio.»

«Voglio che Farlan venga curato!»

«E io voglio le informazioni. Come vedi… entrambi vogliamo qualcosa»

Bastardo! Era un ricatto! Quello stronzo… si spacciava per essere una persona affabile, gradevole, gentile… faceva leva sul suo bell’aspetto per fingersi amico, complice e poi…minacciare, ritrattare, estorcere. Non era poi tanto diverso dal capitano, solo… invece che ricorrere alla violenza, preferiva la pressione psicologica. Non sarebbe caduto in quella sporca trappola! Scosse il capo con veemenza

«Non ho informazioni da darvi, solo…»

«Pensaci su. “La notte porta consiglio”» ora citava anche i proverbi? Voleva davvero fargli perdere le staffe?! Quanto lo odiava! «Ah… non mi hai detto come fai di cognome.»

«Ackerman»

Il biondo si alzò di scatto, un’espressione turbata sul viso prima calmo. Per un istante, Levi si chiese dove avesse sbagliato:

«Ho detto qualcosa che non va?»

Ricevette in cambio un semplice scuotere del capo:
«No. Tutto bene. Riposate…»

Con quelle semplici parole, Smith si allontanò, oltrepassando frettolosamente la porta. A Levi non rimase altro da fare che seguire con lo sguardo quella imponente figura, fino a perderla tra le ombre delle stanze limitrofe.


 

 Angolino: eccomi qui col secondo capitolo. Mi dispiace per il doppio invio, ma davvero... non so come inserire una interlinea decente nelle mie storie (se qualcuno lo sa, per favore, me lo scriva ç_ç sono parecchio disperata con questo html)! Allora... rispetto al capitolo scorso, qui c'è un salto in avanti di diversi anni e, finalmente, la ff entra nella sua ambientazione originria ^^ Anche qui.. mi scuso per gli errori storici (lo Spitfire è un aereo monoposto... per esigenze di trama, l'ho fatto diventare doppio, ma pazienza... XD) e soprattutto per il tedesco (fatto con Translate, già... anche qui... se qualcuno di voi lo conosce e vuole correggere quelle poche frasi in tedesco che ci sono nel testo, sarò felicissima di ascoltarlo!)
Per il resto... nulla, spero solo che il capitolo vi sia piaciuto, anche se un po' lunghetto. So che ci sono errori qui e là e ripetizioni, ma... per quanto rilegga, non riesco mai a scovarli tutti! Comunque Spero di poter aggiornare presto la ff, perchè questa ambientazione mi ispira un sacco  *_* (nella speranza piaccia anche a voi, naturalmente). Al solito, se avete consigli o pareri, sarò disponibilissima nel riceverli ^^
Grazie per aver letto *_*

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Non te ne andare! ***


2. Non te ne andare!


Marzo 1942 – Fronte occidentale, Francia. Base tedesca.


Levi non aveva idea di dove si trovasse. Li avevano spostati dalla stanza con le seggiole, guidandoli bendati attraverso un intricato percorso di corridoi, sino ai sotterranei. Vi erano delle stanze immerse nella pietra scura, separate da porte con pesanti sbarre di ferro. Nemmeno una finestra e l’unica luce era prodotta da torce e lanterne. L’atmosfera, in compenso, era quasi medioevale. Era ridicolo pensare che esistessero posti simili nel 1942!
Li avevano fatti accomodare in una piccola cella, chiudendo l’inferriata a doppia mandata ed abbandonandoli alla sola compagnia di una coppia di candele. In quella stupida prigione non c’era niente! Solo un giaciglio di paglia umida, che avrebbero sicuramente dovuto dividere, una brocca d’acqua ed un secchio, la cui funzione era sin troppo intuitiva. Storse il naso a quell’idea, spostando alcuni escrementi di topo con la punta degli stivali neri. Dunque non erano soli: vi erano altri coinquilini con cui fare i conti. Disgustoso.
Si accovacciò sui talloni accanto a Farlan, che si era accasciato sul giaciglio stringendo le fasciature improvvisate.

«Fa vedere»

«No… » era la prima volta che sentiva la voce dell’amico, da quando erano precipitati. Stranamente, non provò alcun sollievo: il tono era debole, affaticato, ma c’era un accenno di sorriso sulle labbra esangui.

«Ti posso aiutare» si intestardì, prendendo a slacciare la giubba dell’altro fino a scoprirgli il ventre. Le garze erano intrise di sangue, mentre la pelle recava segni rossi e secchi lungo i fianchi e la schiena.

«No…fai… schifo come medico»

«Non è vero» mentì, iniziando cautamente a sciogliere le bende. Ignorò i lamenti dell’altro, limitandosi a tirare piano il panno bianco, sino a svolgerlo completamente. «Sei messo male» constatò, sfiorando leggermente i margini frastagliati della ferita con la punta delle dita. Era un taglio profondo, forse prodotto da una scheggia metallica. Non si intendeva di medicina, non era un dottore, ma aveva visto abbastanza ferite da sapere quando c’era bisogno di ago e filo. Quei maledetti crucchi! Cosa pensavano di fare? Di lasciarlo così, nella speranza che campasse? Evidentemente, non ritenevano Farlan sufficientemente importante da sprecare punti di sutura. Spostò tutto il peso sulla gamba destra, cercando di non forzare la caviglia slogata, riprendendo solo dopo qualche attimo: «Ah, ma… te la caverai. Ne sono sicuro» sussurrò, affatto convinto.

«Sei un pessimo bugiardo, sai? Lo sei sempre stato» già… e, al contrario, l’artigliere aveva imparato egregiamente a leggere ogni sfumatura nei suoi comportamenti «So di… non avere scampo… è questione di… tempo.» un altro sorriso a bagnare la bocca arida «Potrei sopravvivere ancora domani… forse dopodomani, ma … presto…» una mano tremante scivolò nella tasca dei pantaloni, cavandone un foglietto spiegazzato. Levi lo prese, cercando di dispiegarlo, ma la voce tentennante lo fermò ancora «No. Non leggerlo, ti prego… promettimi solo che… Lo consegnerai a Isabel quando tornerai.»

Isabel? La loro amica, la loro confidente. L’avevano conosciuta in tempo di pace: una mocciosa senza casa, una dei tanti orfani dei sobborghi londinesi. Cresciuta tra l’istituto e la strada, con lo scoppiare della guerra si era offerta come volontaria per la Croce Rossa. Assisteva i malati in un distaccamento del sud della Francia. Era così lontana da loro. In quel momento, avrebbe dato qualunque cosa per averla lì, per sentire la sua voce allegra e squillante, per vedere le sue dita veloci pulire la ferita, ricucire la pelle strappata, donare qualche altra ora di vita.

«E se non dovessi tornare?» all’improvviso, quel dubbio. Dopo tutto, le previsioni non erano affatto rosee. Prigionieri in un campo tedesco, in attesa d’essere nuovamente interrogati. Questa volta, non si illudeva, Weilman gliele avrebbe fatte sputare le informazioni. Sarebbe stato in grado di resistere? Non ne aveva idea… ma, più che la tortura, lo spaventava l’idea che potessero nuovamente rivalersi su Farlan. Poteva sopportare il dolore su sé stesso – o così almeno credeva – ma non sugli altri: e se avessero nuovamente toccato il compagno? Il biondino non sarebbe sopravvissuto, questa volta. Il corpo avrebbe ceduto e lui si sarebbe trovato improvvisamente solo e disperato, a fare i conti con i rimorsi e la cocciutaggine. Non poteva rivelare i piani dell’Operazione Chariot, nemmeno se fosse servito a salvare le loro vite. Doveva snocciolare altre informazioni, qualcosa che li sorprendesse e che non si aspettassero. Menzogne? Sì, era fattibile. Doveva soltanto.. inventare qualcosa di credibile! Posò il capo al muro retrostante, rilassando le spalle e piegando le ginocchia al petto. Accanto, l’artigliere respirava a fatica, sempre più debole e distante.

«Resisti, per favore» sussurrò, sperando che Farlan potesse sentirlo «Domani farò in modo che ti curino»

«No… la mia vita… non vale le informazioni che..»

Posò una mano sulla bocca avvizzita, come a cercare d’arrestare quel fiume di parole: «Non dire sciocchezze. So perfettamente quello che faccio! Andrà tutto bene. Ti rimetteranno in sesto e… potrai consegnare personalmente la lettera ad Isabel. A proposito… cosa c’è scritto?»

«Non sono cazzi tuoi…» un tono sollevato, quasi allegro in quel piccolo insulto. Erano sprazzi di normalità che piovevano improvvisamente nel buio di quella cella, come a spezzare i dubbi e le angosce. Come se tutto potesse tornare normale con il sorgere del sole, come se l’aereo caduto, il fumo, le torture dei tedeschi non fossero altro che un lontanissimo ricordo. Un attimo dopo, però, la realtà tornava ad avvolgerli, come un pesante mantello da portare «Avrei voluto… salutarla. Stringerla a me e dirle che… è l’amica migliore che potesse capitare. Forse… qualcosa di più, non so… è una cosa non saprò mai. Mi manca, sai? È come se… mancasse quella parte spensierata e perennemente felice. Se fosse qui, ora… sicuramente troverebbe qualcosa di… divertente da fare» un colpo di tosse, un lamento poco dopo «come… tirare le cacche dei topi… ai tedeschi»

Allungò la mancina, recuperando le bende sudice. Non aveva altro per ricreare la fasciatura: il compagno avrebbe dovuto accontentarsi. Prese a passargliele attorno ai fianchi, cercando di ricordare gli insegnamenti della giovane infermiera: fare dei giri stretti, passare più volte sullo stesso punto, evitare di annodare in prossimità della ferita. Non era complicato. Ignorò il continuo sussultare del suo paziente, arrivando a fermare la fasciatura sulla schiena, ben attento a coprirla poi con la camicia e la giacca da pilota.

«Ecco fatto» annunciò infine «Non ti senti un uomo nuovo?»

«Mi sento… un salame. Mi manca… il fiato»

«Perfetto! Così dovresti resistere… almeno un altro po’» si spazzolò le mani sui pantaloni, incurante delle tracce carminie sulla stoffa. In fondo, erano già completamente lerci e i tedeschi, senza dubbio, non gli avrebbero fornito dei vestiti di ricambio. «Sete?» non attese risposta, allungandosi per recuperare la brocca. La avvicinò al naso, controllandone l’odore: non che temesse vi fosse del veleno – i nazisti conoscevano metodi migliori per uccidere – ma urina di topo. Non colse altro che la puzza di umidità salire dalla terracotta sbeccata. «è a posto» proseguì, avvicinando l’anfora alle labbra dell’altro ed inclinandola un poco.

«Levi…» Farlan aveva inclinato il capo, segno di sazietà. Allontanò subito l’acqua, tornando ad accucciarsi accanto al moribondo «Non devi preoccuparti … per me… qualunque cosa tu faccia… sono spacciato»

Non gli piacevano quei discorsi! Afferrò istintivamente la mancina dell’amico, stringendola tra le proprie, portandola al petto:
«Non voglio nemmeno sentirtelo dire!» non era concepibile un discorso simile. E ascoltarlo… non aveva senso, no. Farlan ce l’avrebbe fatta! Sarebbe sopravvissuto.

«Smetti di… illuderti. Non… me la caverò. Sono solo… un inutile peso.»

«Non lo sei! Non lo sei mai stato, né lo sarai. Sei… un buon compagno, un bravissimo artigliere e… dannazione, vorrei avere la mira che hai tu! Hai fatto moltissime cose giuste. Ti ricordi quando…» accidenti, gli serviva un ricordo,  in fretta! «Quando hai abbattuto quel bombardiere nazista? C’eravamo solo noi in cielo, eppure… sei riuscito a tirarlo giù con un paio di mitragliate precise…»
«è anche merito tuo… se non fossi un pilota tanto bravo, io…»

«Tu cosa? Prenditi i tuoi meriti, una volta tanto! Non sono certo stato io a tirarlo giù! Ti ho solo dato una mano.»
«Una grossa…» un altro colpo di tosse affaticato «…mano»

«Non te ne andare, Farlan» un sussurro smorzato «Isabel… ti aspetta, lo sai. Ha bisogno di te e…» parole appena mormorate, che mai avrebbe pensato di poter pronunciare. Eppure, quello era il momento delle confessioni: in ginocchio, accanto ad un amico morente. Chissà se Farlan avrebbe visto l’alba… o se si fosse spento nella notte, in quella veglia interminabile che si accingeva a cominciare. «Anche io ho…» “ bisogno di te.” «Non.. troverò mai un … artigliere in gamba come te» forse non erano quelle le parole giuste. Ritentò «Un…amico come te. Tu e Isabel siete…» “la mia famiglia” « ed io…» “vi voglio bene”.. quelle parole si spensero in gola, incapaci di mutarsi in voce, soffocate dall’orgoglio che, anche in quei momenti, tornava a farsi sentire, prepotente. Come se quella ammissione fosse un segno di debolezza, un peso e non una liberazione. Ma… Farlan si era già addormentato: il respiro leggero si stava gradualmente regolarizzando. Gli occhi si erano chiusi, mentre le labbra pallide lasciavano sfuggire dei rantoli sottili.

Decise di non svegliarlo. Si coricò sulla pietra fredda, accontentandosi di appoggiare il capo sulla paglia e destinando al ferito il resto del giaciglio. Non avrebbe ceduto, rimanendo a vegliare tutta la notte. Avrebbe impedito a Farlan di morire! Lo avrebbe tenuto con sé. Avrebbe lottato contro mostri e fantasmi se fosse servito, ma lo avrebbe difeso ad ogni costo.

Ti riporterò a casa” giurò, nella quiete. della cella “Non ti permetterò di lasciarci! Non ci abbandonerai e…Torneremo da Isabel, insieme. È una promessa” strinse ancora la mano debole dell’altro, come a sigillare quel patto silenzioso.
Poco dopo, però, il sonno lo tradì: involontariamente chiuse gli occhi, abbandonandosi a sogni confusi ed agitati.


 

Angolino: terzo capitolo (e per oggi mi fermo) della ff. Spero sempre vi possa spiacere e mi scuso per le incongruenze storiche e geografiche che potrete riscontrare nel testo. Non ha la pretesa d'essere una fedele ricostruzione della II guerra mondiale, purtroppo ç_ç sono consapevole d'aver commesso sbagli piuttosto grossolani, ma Wikipedia non mi aiuta nel rimediare, sob...
non ho altro da aggiungere rispetto ai capitoli precedenti, se non ringraziarvi per la pazienza che avrete avuto nel legger sin qui *_*
Grazie ancora, un abbraccio!

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Herr Major ***


3. Herr Major

Marzo 1942 – Fronte Occidentale, Francia. Base tedesca.
 

Erwin scese le scale, passando dal refettorio al cortile interno. La mattinata si prospettava lunga ed intensa. Un contingente aveva catturato una decina di ribelli francesi, ora allineati sotto al pallido sole primaverile, stretti tra due camion cingolati ancora infangati e bagnati dall’umidità notturna. Weilman aveva fatto schierare i prigionieri in un’unica fila,  circondandoli da soldati ben armati. Nessuno di quei timidi francesi avrebbe osato ribellarsi o tentare la fuga, resa comunque impossibile dalle corde che li legavano insieme.

«Herr Major»

Il suo arrivo fu accolto da un battere di tacchi e da saluti militari. Come era … inquadrato, l’esercito tedesco! Forse era per questo che gli piaceva: tutto aveva un posto, una collocazione. Non c’era caos, solo una ferrea disciplina: i soldati sapevano sempre cosa, come, perché svolgere compiti e missioni. Non c’erano alzate di testa, diserzioni o ribellioni. Era ordinato.

«Riposo» snocciolò soltanto, raggiungendo il capitano Weilman, che già spulciava un lungo elenco. «Herr Kapitan, buongiorno. Aggiornamenti?» lo chiese per semplice cortesia: naturalmente, lo avevano già informato della retata notturna; solo… quello poteva essere un buon modo per tenere tranquillo Weilman, per farlo sentire gratificato e, possibilmente, dimenticare lo screzio del giorno precedente: sapeva perfettamente che il sottoposto non gli aveva perdonato l’intromissione nell’interrogatorio dei due inglesi. Non che gli importasse: in fondo, nella gerarchia militare, era lui il più alto di grado. Era tempo che Weilman si rassegnasse a svolgere soltanto i compiti di sua competenza, senza azzardarsi a contestare i suoi ordini.

«Il drappello di Fitcherman ha catturato questi ribelli, in una retata notturna. Si nascondevano in una fattoria abbandonata. Naturalmente, Fitcherman li ha fatti perquisire, ma non ha trovato nulla di interessante. Non sono importanti, Herr Major: nessuno di loro è un ufficiale della resistenza. Sono soltanto stupidi partigiani, convinti di poter salvare quella spazzatura che è ormai la Francia. Credo non meritino nemmeno il nostro tempo»

«Nessuna informazione, quindi?» Erwin era un po’ deluso. In genere, i covi degli insorti nascondevano sempre qualcosa di interessante. Questi, invece, parevano soltanto un gruppo di sbandati: le barbe incolte, le mani callose ed i volti già abbronzati. Senza dubbio, non erano dei veri combattenti, ma soltanto contadini armati di fucile e sostenitori di De Gaulle. Semplicemente, una grandissima seccatura. Si avvicinò ad un giovane: non poteva avere più di diciotto anni! Il viso imberbe era rivolto al suolo, gli occhi bassi e le spalle tremanti. «Hai paura?» chiese, in uno stretto francese.
Non ottenne risposta.

«Te lo ripeto. Hai paura?» pochi tedeschi comprendevano il francese, ma non si preoccupò minimamente di tradurre le proprie parole. Meno Weilman sapeva, meglio era.

«No!»

«Non voglio farti del male» si rendeva conto di quanto poco rassicurante potesse essere quel discorso, fatto da un maggiore nazista «Soltanto sapere… se avevate qualcosa quando vi hanno perquisito: mappe, rapporti, resoconti sulle vostre attività» abbassò ulteriormente la voce «Devo saperlo. Non mi fido del mio sottoposto» pregò che nessun altro avesse sentito quella confessione: in genere, era ben voluto dai propri uomini, ma… le spie si nascondevano ovunque. Una parola fuori luogo, qualche Marco dispensato al momento giusto e Weilman lo avrebbe scoperto: da lì ad un richiamo ufficiale dal Comando Centrale, il passo era breve. «Per favore…»

Il francese, tuttavia, scosse il capo «No. Non avevamo niente. Non siamo dei ribelli, signore. Volevamo unirci alla resistenza, questo è vero, ma… non abbiamo fatto in tempo: ci avete catturato prima che prendessimo contatti con il generale De Gaulle»

«Il che potrebbe essere una fortuna, per voi. Come saprete, è vietato ai francesi riunirsi in gruppi armati clandestini, ma… forse riusciremo a risparmiarvi il plotone d’esecuzione. Lo sapete, vero? Gli insorti catturati possono essere fucilati immediatamente, senza processo»

«Lo sappiamo» una voce, alla sua destra. Un alto uomo si era intromesso nel discorso. Lo squadrò: le braccia vigorose, il volto fiero coperto da una barba rossiccia, gli occhi chiari così determinati. Assomigliava al ragazzino. Erwin dedusse che fosse suo padre «Pensate di spaventarci?! Ve la prendete con il ragazzo soltanto perché è giovane ed insicuro! Rivolgete le stesse domande a me, Herr Major, se ne avete il coraggio! Non temiamo voi maiali tedeschi! Ci riprenderemo la Francia!» l’uomo gli sputò sugli stivali, in un inconfondibile segno di disprezzo «Vive la France!»

Uno scoppiò arrivò a ferirgli i timpani, seguito da un secco sibilo. L’aria fresca gli sferzò il viso per un istante, mentre il suo sguardo azzurro incrociava, per l’ultima volta, quello del francese.

«No!» gli sfuggì, mentre il robusto ribelle cadeva pesantemente, la testa forata all’altezza della fronte. Il sangue bagnò immediatamente il suolo, mescolandosi ai ciottoli ed alla polvere. Erwin si voltò di scatto: Weilman stringeva nel pugno la Mauser ancora fumante. «Che cazzo hai fatto?! Chi ti ha detto di sparare?!» scattò, abbandonando per un attimo la sua proverbiale calma. Raggiunse il capitano in un paio di falcate, strappandogli la pistola dalle dita e gettandola al suolo «CHI TI HA DETTO DI SPARARE?» si stava alterando, la voce troppo alta ed incontrollata. Trattenne l’impulso di afferrare per il bavero quel pomposo  e sbatterlo a terra. Serrò le mani lungo i fianchi, senza riuscire a trattenere la collera nello sguardo «Kapitan Weilman! Questo atto non passerà inosservato! Dovrete risponderne all’Alto Comando!»

«Quel francese vi stava insultando, Herr Major! Vi ha mancato di rispetto! Ho soltanto difeso il vostro onore!»

Quanto era viscido quel tono! Così servile, meschino e… scaltro! Sapeva perfettamente dove sarebbe andato a parare: la truppa, che aveva assistito a quella scena, si sarebbe chiesta perché il Maggiore Smith non avesse freddato personalmente quell’insulso francese! Perché il Maggiore Smith permettesse a dei semplici prigionieri di mancargli di rispetto! Perché fosse disposto a sopportare insulti e provocazioni dalla feccia! Weilman non lo aveva difeso, ma solo indebolito agli occhi dei semplici soldati che, al momento, confabulavano ai margini del cortile. Bastardo traditore! Gliel’avrebbe fatta pagare. Avrebbe scritto personalmente un rapporto sull’intera faccenda e lo avrebbe inviato a Berlino!

«So difendere da solo il mio onore!» ringhiò, stringendo i denti in una smorfia irritata.

«Ha oltraggiato l’intero esercito tedesco! E voi glielo avreste permesso, se non fossi inter…­»

«Basta! Tacete, Herr Kapitan! Tacete per il vostro bene. Non vi consiglio di spingervi oltre.» Era troppo! Non poteva permettere a Weilman di ingiuriarlo davanti agli uomini! Di rovinare così la sua reputazione! Il maggiore Smith era famoso per la sua proverbiale calma, il sangue freddo in qualunque circostanza, la mente strategica a cui nulla sfuggiva! Ma… anche per l’essersi mostrato clemente in molte occasioni con i detenuti. Era difficile che applicasse le leggi militari: le fucilazioni, sotto il suo comando, erano una vera rarità. In genere, si limitava a riempire i campi di prigionia, spedendo i nemici ai lavori forzati fino alla fine della guerra: una vita di sacrifici, di stenti e di privazioni, ma comunque… una vita; e, al termine del conflitto, sarebbero tornati a casa, alle loro famiglie ed amici. Potendo scegliere, gli sembrava la soluzione migliore per tutti.

«Non comprendo le vostre parole, Herr Major» ancora quel tono irritante e di sfida! Erwin avanzò di un passo, minaccioso:

«Le comprendete benissimo, invece. Non vi ho dato alcun ordine: né di sparare al francese, né di difendermi perché… credetemi, so farlo da solo e non mi serve alcun patetico avvocato travestito da capitano! Un’altra parola fuori luogo e applicherò quella legge marziale che tanto vi piace»

Ottenne un misero cenno d’assenso, accompagnato da un falso inchino:
«Bene. Herr Major sarà così gentile da perdonare il mio eccessivo zelo, allora» rapidamente, il capitanò cambiò discorso «Cosa intendete fare dei francesi? Permetterete che me ne occupi io?»

Non era ovvio? Li avrebbe spediti in un campo di lavoro, piuttosto che lasciarli nelle spettrali mani di Weilman. Quell’uomo era… crudele, malvagio, sadico. Traeva piacere dal torturare e dall’uccidere. Era… sbagliato! Come molti connazionali, in quel periodo assurdo. O, forse, era lui ad essere sbagliato: perché salvare degli insulsi prigionieri, quando si poteva sparare in testa a tutti quanti e terminare le loro sofferenze? Bocche in meno da sfamare, più cibo per il popolo tedesco, meno francesi e inglesi pronti ad annientare la potenza della grande Germania! Avrebbe avuto senso, sì… solo… non ci riusciva. Non così. Non era corretto: le leggi militari concedevano ai catturati la possibilità di sopravvivere, se destinati ai campi di prigionia. Perché, allora, limitarsi ad ucciderli? Non era giusto. Tutti dovevano avere una seconda possibilità e quello era il suo modo di equilibrare la bilancia. Magari si illudeva di poter ricevere lo stesso trattamento, se fosse stato catturato: gli sarebbe dispiaciuto enormemente ritrovarsi una pistola alla tempia senza un equo processo, senza l’eventualità di poter parlare, di perorare la propria causa, di sperare in una vita oltre la guerra. Gli uomini, forse, non nascevano tutti uguali… ma tutti dovevano avere le stesse occasioni. Che male c’era, dunque, ad assecondare un principio?

«No, Kapitan» ricorse ad un tono calmo e risoluto, lasciando intendere che non ammetteva repliche di nessun tipo «Avete già fatto abbastanza per oggi» forse avrebbe dovuto ordinare una fucilazione, sì… dopo tutto, non c’era niente di meglio che un po’ di sangue per recuperare il prestigio: avrebbe ottenuto il rispetto dei suoi soldati, invece che quello di inutili ribelli francesi. Avrebbe messo a tacere qualunque dubbio, qualunque chiacchiericcio e… avrebbe fatto esattamente ciò che tutti si aspettavano facesse: assassinare dei prigionieri, sporcarsi le mani già lorde di pianti e sangue. Sarebbe stato semplice, immediato, ma… come avrebbe potuto, poi, convivere con sé stesso? Avrebbe tradito i propri ideali soltanto per non essere giudicato, per sfuggire ai pettegolezzi, a quella debolezza che in molti gli attribuivano… con qualche coraggio avrebbe potuto specchiarsi, la mattina, ed accettare quel volto sempre più stanco e pensieroso, distrutto dal peso enorme che già doveva portare, di quelle vite spezzate per i suoi ordini, per il suo comando, che ancora non gli concedevano tregua nei sogni notturni? No! Non avrebbe scelto la strada facile: non avrebbe ucciso per salvare unicamente il proprio onore. Non sarebbe caduto al livello di Weilman.

Si voltò verso un paio di fanti, accennando ai camion stanziati lungo il cortile:
«Voi» ordinò, recuperando in un attimo tutta la propria sicurezza «Incaricatevi di condurre i francesi al campo di Orchies. Gli altri seppelliscano il morto e poi tornino alle loro mansioni» Di nuovo un battere di tacchi e un saluto militare «Herr Kapitan, per questa volta lascerò correre. Mi atterrò alla vostra buona fede, al vostro zelo nel difendere l’onore tedesco, ma… che non ricapiti»

Erwin ignorò il borbottare di Weilman, allontanandosi in fretta dal cortile, deciso a rientrare nell’edificio principale. Un paio di rampe di scale lo avrebbero condotto al suo ufficio. Doveva assolutamente controllare gli ultimi rapporti, scrivere un paio di relazioni ed inviarle a Berlino. Per un attimo, si chiese se fosse davvero necessario stilare un resoconto del comportamento del subordinato: in fondo, l’insubordinazione era un atto da corte marziale, ma… davvero meritava tanto? Era viscido, meschino, infido, ma… forse gli avrebbe concesso una seconda possibilità. Se avesse rigato dritto, magari non ci sarebbe stato bisogno di avvisare l’Alto Comando, che aveva sicuramente preoccupazioni maggiori dei capricci di un semplice capitano. Ah, doveva anche scendere dagli inglesi! Chissà se la notte li aveva ben consigliati: forse, davanti ad una tazza di zuppa calda sarebbero stati più inclini al dialogo. Sì, più tardi sarebbe passato a trovarli, ma… prima si sarebbe concesso un bagno ed una sostanziosa colazione.
Quella giornata, troppo lunga, era solamente agli inizi!



Buongiorno! Aggiungo un altro capitolo alla ff, nella speranza possa piacervi come i precedenti ^^ rinrgazio tantissimo le due utenti che mi hanno lasciato delle splendide recensioni nei capitoli scorsi: sono state gentilissime, comprensive ed una ulteriore spinta a proseguire nella stesura della ff! Grazie infinite, davvero! Passando al capitolo, ho necessariamente dovuto inserire questa piccola parentesi su Erwin, anche per gettare uno sguardo sul suo rapporto conflittuale con Herr Kapitan. Temo, in alcuni punti, di essere andata un poco OOC dal personaggio e me ne scuso: ho sempre trovato Erwin un personaggio complesso e muoverlo in "solitudine" contro Weilman è stato più complicato del previsto. Mi scuso tantissimo per questa mancanza. Al solito, se avete consigli e pareri, sarò felicissima di ascoltarli <3
Vi ringrazio per aver letto fin qui e spero di poter aggiornare al più presto la storia!
Un abbraccio

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Menzogna ***


4. Menzogna

Marzo 1942. Fronte Occidentale, Francia. Base tedesca.
 
Levi si alzò quando sentì la serratura scattare, scoccando una occhiata a Farlan:
«Sono qui» sussurrò, ma senza ottenere risposta. L’artigliere si era indebolito ulteriormente durante la notte; era vivo, ma aveva perso ancora sangue. Le labbra erano sempre più pallide, gli occhi perennemente chiusi ed il respiro debole.
Rivolse nuovamente l’attenzione alla porta, da cui l’imponente figura del maggiore Smith era appena entrata, recando tra le mani un vassoio con un paio di scodelle fumanti.

«Possiamo parlare?» chiese immediatamente, ma Levi si limitò a scuotere il capo: che diamine voleva ancora, quel crucco?

Non aveva capito che la risposta era inevitabilmente “no”? Non avrebbe ceduto, non si sarebbe lasciato scappare alcuna informazione importante, nonostante ci avesse riflettuto tutta notte: i sogni non gli avevano affatto portato consiglio! Aveva passato ore tormentate dall’immaginazione, che lo vedeva dapprima davanti alla Corte Marziale, per tradimento. Poi Isabel, che lo accusava di non aver fatto il possibile per salvare Farlan: davvero uno stupido piano militare era più importante della vita di un amico? Non provava rimorsi, vergogna? Perché aveva abbandonato Farlan, invece che l’intera nazione? L’Inghilterra, la Francia… non gli avevano mai dato niente! Combatteva per degli ideali giusti, ma … erano pur sempre ideali! Inarrivabili, intoccabili da gente normale come lui… per cosa combatteva? Per una gloria che mai sarebbe giunta, che sarebbe rimasta ad avvolgere persone molto più importanti: generali, colonnelli, sovrani e presidenti; ad un semplice caporale, cosa sarebbe mai spettato? Un congedo, una pensione, forse un piccolo fazzoletto di terra da coltivare se fosse sopravvissuto. Altrimenti una anonima tomba nel cimitero monumentale di Londra. Davvero tutto ciò valeva più della vita di un amico? Più di Farlan? Non lo sapeva. Si era lambiccato il cervello tutta la notte, ma senza trovare una risposta: tradire una fiducia. Quella del suo Paese? Quella dei suoi amici? Molti bravi soldati erano morti per ottenere le informazioni necessarie all’operazione Chariot! Poteva infangare così la loro memoria, soltanto per un capriccio personale? Sì, forse… Farlan non era forse più importante? Chi era lui per decidere le sorti di una persona o di un intero continente? Nessuno. Era bloccato in un limbo di indecisione e tutto ciò che aveva ideato era una semplice menzogna. Era rischioso, ma era l’unica possibilità: se i tedeschi lo avessero scoperto, l’avrebbero ucciso senza indugio e… anche per Farlan sarebbe stata la fine! Le loro vite erano legate ad una bugia. Doveva tentare, però… forse, per una volta, la fortuna sarebbe stata dalla sua parte.

«Cosa vuoi?» apostrofò il maggiore Smith sin troppo duramente, osservandolo con disprezzo «Non abbiamo niente di cui discutere»

«Io credo di sì» vide Erwin entrare nella cella e richiudere la porta alle proprie spalle. Bene, bene… aveva abboccato! Sarebbe bastato fingere un altro po’ di ostilità e poi cedere, propinando all’ufficiale una serie infinita di frottole.

«Non vi arrendete mai? Vi ho detto che non so niente»

«Sappiamo entrambi che non è così» le ciotole vennero delicatamente posate al suolo, ad un paio di passi dal giaciglio «Mi servono informazioni. Le intercettazioni parlano di un attacco a fine marzo; è impossibile che tu non ne sappia niente»

Scosse di nuovo il capo:
«Non te lo direi comunque…» replicò, testardo, incrociando le braccia con aria di sfida. Che si facesse pure avanti quel pomposo! Pensava di conquistarlo con un paio di scodelle di zuppa e delle gentili moine? Che illuso!

«Ti conviene parlare, Levi. O dopo di me… arriverà Weilman. Non sai di cosa è capace: ti caverà la verità dalla bocca con qualunque mezzo. Per favore! Sto cercando di essere accondiscendente e comprensivo. Non voglio farvi del male! Voglio solo quei dannatissimi piani!» un attimo di silenzio, prima che la voce profonda tornasse a riecheggiare «Come sta?» ed un cenno del capo all’artigliere ferito.

«E me lo chiedi?! È colpa vostra! Avreste potuto curarlo! Siete dei bastardi!»

Scorse il tedesco avvicinarsi di qualche passo e poi chinarsi accanto al moribondo; Erwin controllò il battito ed il respiro, prima di rialzarsi, sgranchendo le ginocchia:
«Ci sta lasciando» confermò, una sfumatura neutra nella voce, come se la cosa non gli importasse minimamente.

“Ci sta lasciando”? Usava perfino il plurale? Per un istante, Levi provò l’irrefrenabile tentazione di prenderlo a pugni: di spaccare quel viso squadrato, di cavare gli occhi azzurri e strappargli i capelli, per ridurlo in fin di vita, perché capisse cosa stava provando Farlan in quei momenti! Quello stronzo! Non gli avrebbe più permesso di toccare il compagno, di parlare di lui, di propinare consigli stupidi o inutili brodaglie a mezzogiorno. Era tardi per salvarlo? Non lo sapeva… aveva temporeggiato troppo, aspettando una notte fatale per l’amico? Nessuna idea. Non poteva fare altro che restare impalato al centro della cella, i pugni stretti e le labbra contratte in una smorfia irritata. Perché non poteva salvarlo? Perché non poteva combattere contro la morte, impedirle di sottrargli quell’unico amico? Non era abbastanza forte! Nessuno lo era! E la debole speranza di aiutare un compagno si stava lentamente spegnendo. Doveva muoversi! Doveva attivare il suo piano, sperare che Smith abboccasse, che accettasse di curare Farlan, sempre che vi fosse ancora una possibilità! Non poteva indugiare ulteriormente, né giocare a quel botta e risposta: era tempo di scoprire le carte, di sperare che la sua folle menzogna bastasse a saziare l’ingordigia nazista.

«Non voglio che muoia! Io… è il mio unico amico!» sussurrò, aggrottando la fronte. Non erano quelle le parole che avrebbe dovuto dire! Che stupido! Non doveva mostrarsi sentimentale , solo calcolato e freddo in quel compito ingrat… «Non voglio. Non posso permetterlo!» risoluzione ora, nella voce, le mani chiuse a pugno e le nocche bianche per la tensione «Salvalo! So che puoi farlo! Ti dirò quello che vuoi!» sussurrò, infine, completamente dimentico del piano, del castello di bugie che si era costruito. Nulla, in quegli istanti, aveva più valore della vita di Farlan. La scelta era fatta, ormai.

«N-no…» quel tono stentato, debole…

Si voltò immediatamente verso l’artigliere: aveva riaperto gli occhi, coperti da un velo opaco di lacrime, mentre le labbra screpolate si erano mosse in quell’unica parola.
«Sta zitto, Farlan! Non è una tua decisione, è la mia! Cerca di non crepare!» ringhiò, mettendolo nuovamente a tacere e tornando al tedesco «Salvalo!»

Ma Erwin si era già diretto alla porta ed aveva fatto la sentinella. In pochi minuti, la stanza si riempì di infermieri: tre robusti uomini caricarono Farlan su una sedia a rotelle, assicurandolo con delle cinghie di cuoio perché non cadesse. Poco dopo, sparirono alla vista.

«Dove lo portano?» Levi aveva assistito a tutta la scena, inerte. Si era svolto tutto così in fretta, che non aveva neppure trovato la forza di reagire: una parte della sua testa era preoccupata e continuava a dirgli di seguirli, di vedere dove fossero diretti! E se avessero torturato nuovamente l’artigliere? Se lo avessero ucciso lontano dai suoi occhi? Se avessero finto di curarlo, per poi gettarlo in una fossa comune? Eppure, nonostante quei dubbi, si sentiva calmo e sereno, per la prima volta da giorni. Erwin non gli avrebbe mentito, ne era certo: avrebbe fatto ricoverare il ferito, lo avrebbe fatto curare. Per qualche strana ragione, sentiva di potersi fidare.

«Guarirà, non temere» la voce profonda del maggiore lo distolse da quei pensieri «Veniamo a noi, ti dispiace?»

Sì, un po’ gli dispiaceva: provava una sorta di rimorso, ora. Come se mentire, ora, fosse una sorta di reato. Dopo tutto, Erwin stava cercando di proteggere la Germania, come lui l’Inghilterra ed i suoi compagni; avevano stilato una sorta di tacito accordo, tuttavia: la vita di Farlan per l’Operazione Chariot. Era tardi, ormai, per tirarsi indietro! Doveva soltanto scegliere: mentire e proteggere gli Alleati, correndo il rischio di farsi scoprire immediatamente? Oppure… essere onesto, dire la verità ed assicurare la propria vita? Il dubbio si risolse in un attimo:

«Si tratta di una operazione segreta dell’aviazione. È stata ideata per il giorno venticinque» mentì, sforzandosi di mantenere un tono di voce contrito, incerto, come se davvero fosse in procinto di tradire il Regno Unito e di condannare l’intera Europa. «Un contingente della Raf creerà un diversivo presso Peronne, per attirare le forze tedesche e spostare la contraerea. A supporto degli aerei, verranno inviati due reggimenti di fanteria, ma… si tratta di uno specchietto per le allodole.» quel piano faceva acqua da tutte le parti e se ne rendeva conto: era, però, quanto di meglio aveva potuto inventare nelle ore precedenti. Dopo tutto… non era un generale. Era un semplice pilota! Andava a combattere dove gli dicevano di andare! Per lui, sorvolare Arras, Amiens o Lille era del tutto indifferente: sganciava bombe dove gli veniva indicato! Non si era mai ritrovato a dover elaborare una strategia credibile, men che meno nell’arco di una sola notte. Si sforzò di proseguire, dopo un piccolo colpo di tosse «In realtà, una volta mosse le truppe tedesche, una seconda flottiglia aerea  si occuperà di bombardare Saint Quentin, distruggendo i vostri magazzini di armi e di veicoli, cercando poi di espugnare la città. L’assalto della fanteria è previsto per l’alba del ventisei» fece una pausa, come a racimolare le idee «è tutto quello che so» sussurrò, aspettandosi altre domande. Si era, naturalmente, preparato tutto: quanti aerei coinvolti, quanti soldati, i nomi dei comandanti dell’operazione. Tutto inventato, ma… Erwin cosa poteva saperne? Certo, avrebbe potuto immaginare la bugia, ma… in quel momento, l’espressione del tedesco era indecifrabile: sul suo viso era apparso un misto tra delusione, amarezza ed una infinita pazienza. Come se non fosse soddisfatto delle informazioni ottenute, ma non desiderasse indagare oltre.

«è tutto?» fu l’unica cosa che chiese e Levi si affrettò ad annuire.

«Tutto quello che so» confermò, trattenendo un sorriso furbo. Allora c’era cascato! Il suo ridicolo piano aveva funzionato! Si lasciò scappare un sospiro di sollievo: c’erano speranze, per lui e per Farlan! Forse Smith li avrebbe spediti in un campo di prigionia e… alla fine della guerra, sarebbero potuti tornare a casa! Avrebbero riabbracciato Isabel e le avrebbero regalato un gatto. Da sempre, Isabel desiderava avere un gatto. Lo avrebbe chiamato con un nome ridicolo, senza dubbio! Gatto Ciccione, ad esempio! Oh, sì…sarebbe stato stupendo ed infinitamente normale: avrebbero riavuto la loro vita, avrebbero trascorso giorni felici, spensierati e la guerra sarebbe stata soltanto un lontano ricordo.

«Molto bene!» Smith gli stava tendendo un fazzoletto bianco «Bendati, per favore. Ti accompagno in infermeria»

«Devo proprio?» afferrò comunque la stoffa candida, controllandola attentamente. Bene, non era sporco. Anzi, profumava di sapone da bucato e vi erano due iniziali squisitamente ricamate in un angolo: E.S. «Non me ne andrò in giro a curiosare per una base nemica, eh…»

«Lo so, ma… ti ho già concesso parecchi favori, anche se non te ne rendi conto. Non permettiamo mai ai prigionieri di guardarsi attorno. Sarebbe controproducente»
«Controproducente?» che diamine c’era di controproducente nel dare una occhiata in giro? Di che avevano paura, quei tedeschi paranoici?

«Conoscere l’ambiente di detenzione significa poter organizzare rivolte ed evasioni con maggiore facilità. Non siamo degli sprovveduti.»

«Ma… se sono da solo! Che cazzo di rivolta vuoi che organizzi?» era ridicolo, insomma! Non se ne sarebbe andato a spasso per i corridoi come se stesse giocando a mosca cieca! Era già abbastanza umiliante essere confinati in una cella maleodorante, senza coperte né vestiti di ricambio. Cosa pretendevano ancora, da lui? Organizzare una rivolta… ridicolo. Scosse appena il capo «Non lo voglio» sussurrò, facendo per restituire il fazzoletto, senza successo.

«Non mi interessa quello che vuoi o no. Dobbiamo andare in infermeria, per un controllo. Così potrai sincerarti anche delle condizioni di Farlan, se vorrai»

Maledetto! Sapeva perfettamente che tasti toccare! Sbuffò appena, contrariato, passandosi la benda sopra agli occhi e tendendo una mano nel vuoto.
«Andiamo» sbottò semplicemente, aspettando che l’altro gli prendesse il braccio e lo guidasse lungo i corridoi limitrofi.
 
***
 
Aveva rischiato di perdere l’equilibrio mezza dozzina di volte, inciampando in scalini, grate incastonate nel pavimento, tappeti e  portaombrelli vari. La caviglia sinistra protestava fastidiosamente ad ogni passo, ma aveva finto di non badarci, stringendo i denti e continuando a barcollare qui e là. Alla fine, aveva contato due rampe di scale, di cui una a chiocciola, e tre svolte a sinistra e due a destra, per arrivare in infermeria. Non poteva sapere, ovviamente, se Erwin avesse compiuto un percorso diretto o se avesse cambiato strada più volte per fargli perdere il senso dell’orientamento.

Dopo aver superato una stretta porta, però, lo aveva fatto accomodare su uno sgabello scricchiolante e sbendato. Levi si era ritrovato ad osservare un ambiente luminoso e antico: l’alto soffitto a volta era sostenuto da pilastri che correvano lungo le pareti, intervallate da vetrate colorate. Oltre un separé di legno, si intravedeva una fila ordinata di brandine, tutte accompagnate da un comodino e da ruvide coperte di lana grezza. Alcuni letti erano occupati, ma la maggior parte era ancora rifatta ed intonsa. Dal punto in cui si trovava, non riusciva a scorgere il compagno: dove lo avevano sistemato? Era davvero in infermeria o lo avevano relegato in qualche altra stanza? Era morto nel tragitto? Si agitò, stringendo nervosamente le mani alla stoffa dei pantaloni.

«Farlan?» osò chiedere, scoccando una occhiata al maggiore, silenziosamente accomodato accanto a lui.

«è di là!» una squillante voce femminile gli rispose. Da dietro un paravento di tela, sbucò una donna alta e slanciata.  Le gambe si muovevano molleggiando sul pavimento, avvolte da un paio di pantaloni bianchi e da scarpe lucide con le stringhe slacciate. Un maglioncino era seminascosto da un camice immacolato, ove spuntavano mostrine militari ed una placchetta dorata, che recitava “H. Zoe – Militärarzt “. Il volto tondeggiante della donna era accompagnato da un paio di spessi occhiali, che quasi celavano gli occhi castani. I capelli - del medesimo colore, ma completamente disordinati ed unticci - erano trattenuti in una coda alta, mentre dietro all’orecchio sinistro spuntava una matita malamente temperata. Le mani affusolate reggevano una cartella medica ed una scatola contenente delle garze, ago e filo, qualche pinza e del cotone. «Non temere! Sono un medico! Hanji Zoe, per servirti» continuò la dottoressa, il tono squillante ed allegro «Lo abbiamo stabilizzato. Stiamo aspettando le sacche per la trasfusione. È debilitato, stanco, ma il suo fisico è forte. Abbiamo speranze che possa rimettersi presto.»

Quella tizia era decisamente strana: sembrava quasi… contenta d’avere in cura Farlan. Per un istante, Levi si chiese se non fosse un’altra pervertita tedesca con tendenze alla sperimentazione umana. In quel caso, erano soltanto passati dalla padella alla brace! Tuttavia, quelle notizie lo fecero ben sperare! Quindi c’era la possibilità concreta che l’artigliere potesse rimettersi! Non desiderava altro!
«Posso vederlo?»

«No! Lo abbiamo sedato; sta dormendo e non ti riconoscerebbe.» fu la risposta, mentre le mani frugavano all’interno della scatola «Spogliati, per favore»
Eh?!? Lo sapeva! Lo sapeva che quella era una maniaca! Che voleva? Sicuramente fare qualche strana ricerca! Si ritirò sulla seggiola, cogliendo un rossore improvviso salire alle guance scavate. Brutta squilibrata! Che non si facesse venire in mente pericolose idee! Ciondolò il capo, pronto a sollevare una gamba per calciarla via, nel caso si fosse avvicinata troppo.

«Non ci penso nemmeno!» replicò, scatenando, tuttavia, le risate della donna.

«Non essere ridicolo! Sono un dottore, ti ho detto… voglio solo controllare lo stato delle tue ferite. »

Ah, giusto! Ecco spiegato! Riluttante, prese a slacciarsi la giacca e la camicia, accantonandole su un basso tavolino, alla propria destra. Scoprì lentamente il fianco destro, ancora malamente fasciato, prima di allontanare anche gli stivali, accontentandosi di tenere i pantaloni risvoltati alle ginocchia.
«è tutto qui» aggiunse, indicando la caviglia sinistra gonfia e bluastra «Credo sia solo una storta, ma… è fastidiosa.»

«Lo vedo» la donna, tuttavia, gli stava liberando il fianco. Sussultò al sentire un netto strappo alla pelle e le dita, affatto delicate, toccargli il bordo della ferita «Si sta già cicatrizzando. Vedi? Il tessuto è fresco, si sta formando la crosta e… non pare infetta, per fortuna. Credo che basterà medicarla e fasciarla nuovamente, senza suturarla. Tra un paio di giorni, tuttavia, la controlleremo per sicurezza» aggiunse, prendendo una boccetta con del liquido oleoso.
L’unguento gli strappò un leggero brivido: era freddo, appiccicoso e puzzava di pesce marcio. Si sforzò di rimanere immobile, senza commentare quell’odore nauseabondo. Che diamine pensava di fare quella pazza? Di renderlo un’esca per le mosche? Strinse leggermente i denti al cogliere un nuovo bendaggio avvolgergli l’addome, più stretto e compatto del precedente.

«Non respiro…» si lamentò, ma non ottenne altro che uno scrollare delle spalle. A quella, evidentemente, non interessavano affatto le rimostranze dei pazienti.

«Passiamo alla caviglia, ora» la tese solo per facilitarle il compito, ma Zoe finse di non notare quella cortesia «L’ideale sarebbe che la tenessi a riposo, che non facessi sforzi né strane acrobazie»

«Trovo alquanto difficile dedicarmi all’arte circense in una cella di due metri per due»

«Spiritoso!» Hanji sghignazzò sommessamente «Adoro la gente con il senso dell’umorismo, ah ah ah!» la risata era trasparente, cristallina «Comunque, hai capito! Ora ti applicherò delle fasciature» detto, fatto! Era incredibilmente rapida nel suo lavoro: mentre parlava, cosa che le riusciva sempre perfettamente, aveva già interamente avvolto il piede del suo paziente, fermando le garze a metà polpaccio, dopo aver applicato una pomata fresca «Ecco fatto! Come nuovo!» un moto istintivo la portò a donare una piccola sberla sulla gamba dell’infortunato.

Levi trattenne una smorfia di dolore, fingendosi calmo, rilassato: ma… quella stupida quattrocchi era davvero un medico? Perché sembrava tutto tranne che un buon dottore: una squilibrata, senza dubbio, manesca e fissata con unguenti maleodoranti. Accidenti a lei!
Sbuffò, alzandosi piano con l’aiuto del vicino tavolino, cercando di recuperare i vestiti:
«Splendido, si…» mugugnò, cercando inutilmente di infilare il piede sinistro nello stivale. Maledizione! Non riusciva neppure ad infilarci la punta delle dita, tanto era spesso il bendaggio! Avrebbe dovuto rassegnarsi a camminare scalzo… blah! Appoggiare il piede dove camminavano tutti! E tra gli escrementi di topo e la paglia muffa, per giunta… una schifezza dietro l’altra! Si sarebbe spreso qualcosa, senza dubbio: qualche fungo, verruca o brutte infezioni. Era meglio se non ci pensava troppo. Scoccò una occhiata ad Erwin, rimasto silenzioso «Possiamo andare?» domandò.
Non desiderava rimanere un minuto di più in balia di quella dottoressa pestifera.

«Eh?» la voce del maggiore conteneva una nota annoiata e stupita al tempo stesso! Come se, in tutto quel tempo, non avesse fatto altro che pensare alle sue faccende, senza curarsi né di lui, né di Hanji.

«Ti ho chiesto se possiamo andare»

«Naturalmente, sì… Fraulein Zoe ha terminato?»

«Credo di…» non riuscì a finire la frase: la voce squillante di Hanji arrivò immediatamente a coprire la sua:

«Ceeertoooo! Ho già fatto! Sono brava, eh? Adoro quando mi porti pazienti, lo sai! A proposito, mi devi anche una birra, me l’avevi promessa! Facciamo… due birre, visto che sto lavorando praticamente solo per te. » un fiume in piena di parole «Ah, sai quel francese che mi hanno portato? Quello che Weilman ha ammazzato? Ebbene… l’ho già aperto! Ho trovato organi perfettamente funzionanti. Naturalmente li ho espiantati, pensando che potrebbero servire a qualche trapianto e… ho dovuto gettare solo i polmoni perché erano neri di fumo! O, meglio… avrei voluto, ma il cuoco li ha reclamati. Ha detto che in tempo di guerra non si butta via niente ah ah!»
Non c’era niente di divertente! Levi gettò uno sguardo allarmato all’ufficiale che, invece, seguiva placidamente quel discorso:

«Emh… a cos’era… la zuppa che mi hai portato?» un senso di nausea gli attanagliò subito lo stomaco. Che schifezza. Possibile che il cuoco riciclasse organi umani per farci minestre, arrosti, condimenti? No, no, no! Forse erano per i cani… oppure, ipotesi più concreta, per i prigionieri. Grazie al cielo non aveva toccato quella maledetta ciotola!

«Un brodo di carne» Erwin non sembrava minimamente sconvolto, anzi… il tono era pacato e neutro, come al solito. Ma… si rendeva conto di quanto stavano dicendo?

«Stai scherzando, vero?»

«No. Perché te ne preoccupi?»

Ah, boh… perché preoccuparsene, giusto… vediamo… un cuoco psicopatico riciclava pezzi di cadavere per i suoi manicaretti! Era normale, quello? Era la quotidianità di una ordinaria base tedesca? Che schifo! La sola idea gli provocava quasi dei conati di vomito. Zoe, nel mentre, era inarrestabile:

«…e cosa se ne farà mai, mi chiedo? A volte penso che li triti e li usi come concime per la verdura! Pare che abbiano delle fantastiche proprietà fitoterapiche! Ah, a proposito!» quanti “a proposito” dovevano arrivare ancora? «Il mio esperimento è andato a buon fine: innestare un ramo di albicocco su un pesco ha dato i suoi frutti, letteralmente! Sapevo che le piante erano compatibili! Ho già visto sbocciare i primi fiori e, con un po’ di fortuna, potremo godere di pescocche prima dell’estate»

«è meraviglioso Hanji, davvero! Sono contento dei risultati che stai ottenendo» per quanto la voce pallida dell’ufficiale potesse tradire felicità, ovviamente.

Maledizione, erano due pazzi! Doveva fidarsi a lasciare Farlan nelle loro mani? Forse avrebbe dovuto fuggire! Trovare un condotto laterale, un passaggio segreto… qualunque cosa per svignarsela da lì! Provò a scivolare via, sgattaiolando verso la porta, ma il maggiore Smith lo riacciuffò subito:

«Oh perdonami, Hanji… devo riaccompagnare il prigioniero alla sua cella. Sembra che abbia fretta di tornarci»

«Tranquillo, non ti trattengo oltre» Hanji li salutò con un cenno della mancina, accompagnandoli sino all’uscio «Mi raccomando, pilota! Riposo stretto!» rimarcò, prima di richiudere la porta dell’infermeria oltre le spalle robuste di Erwin e quelle ben più esili di Levi. «Certo che sono proprio strani gli Inglesi!» si disse, pulendo rapidamente gli occhiali gli occhiali « Mi domando perché tanta voglia di tornare nei sotterranei!»
 

Angolino: buonsalve! Ecco, anche oggi sono riuscita a scrivere un capitoletto che spero, come sempre, che sia di vostro gradimento. Mi rendo conto che è un po' lungo, ma avevo bisogno di spezzare e di introdurre il nuovo personaggio, prima di proseguire. So che i personaggi, così come li presento, non rispecchiano fedelissimamente quelli del manga, ma faccio il possibile per cercare di allinearli con l'ambientazione AU ^^ al solito mi scuso per il tedesco (che fa davvero schifo e qui ne approfitto per ringraziare le ragazze che hanno corretto le frasi e translate per non avermi lasciato completamente a piedi XD) e per il doppio invio, che mi consente di spaziare tra le righe visto che non so aggiungere l'interlinea. Una cosa importantissima: ho letto tutte le recensioni ai capitoli scorsi e, davvero, vi ringrazio tantissimo per ...tutto! per i vostri consigli, la gentilezza, per il sostegno e per il tempo che avete dedicato a questa ff. sono felice, veramente felice!, che vi piaccia e vi coinvolga: i vostri resoconti sono preziosissimi! ogni consiglio sarà più che ben accetto.! Vi ringrazio ancora, infinitamente! <3

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Un medico ***


5. Un medico
 
Marzo 1942. Fronte Occidentale, Francia. Base tedesca.
 
Hanji si alzò di scatto, abbandonando la scrivania non appena colse un vigoroso bussare. Il sangue! Finalmente era arrivato! Accidenti, proprio ora che si accingeva al suo caffè pomeridiano! Pazienza… il nero espresso avrebbe dovuto aspettare! Scivolò velocemente attraverso l’unica camera dell’infermeria, fermandosi accanto alla branda che ospitava l’Inglese.

«Non ti preoccupare. Sei in ottime mani, Farlan!» sussurrò, rimboccando le coperte al ferito e poi rimettendosi a correre verso l’ingresso
«Arrriiiiivooooo» chiocciò, spalancando immediatamente la porta «Entrate, prest…» ma le parole morirono sulle sue labbra. Non erano gli infermieri! Dove si erano cacciati quelli? Il sangue era urgente, occorreva procedere subito con la trasfusione! D’accordo, non era una scienza esatta… anzi, era ancora in fase di studio e di sperimentazione, ma era l’unica speranza che quel ragazzo avesse per campare! Si aggiustò la montatura sul naso, spiando oltre le lenti la figura piantata sull’uscio: uomo alto e nerboruto, spalle larghe, capelli scuri e barba incolta. Occhiaie attorno allo sguardo porcino. Dannazione! Una visita più che sgradita!

Indietreggiò di un passo, limitandosi ad un breve saluto militare:
«Herr Kapitan» che seccatura Weilman! Che diavolo voleva? Ogni volta che passava dall’infermeria si lasciava dietro una scia infinita di furti: rubava medicinali, adducendo fossero per una scorta personale, bendaggi e, soprattutto, oppioidi. L’armadietto con la morfina veniva costantemente saccheggiato! Che fosse passato per quella?

«Riposo, Militararzt! Non mi occorrono farmaci, oggi» quasi se le avesse letto nella mente!

Hanji tirò un sospiro di sollievo:
«Molto bene, signore. A cosa devo, quindi, la vostra visita?» l’ufficiale non capitava mai lì per caso: sicuramente voleva qualcosa. Un favore, forse?

«Ho saputo che avete ricoverato il prigioniero inglese, Church. È corretto?»

«Sì, signore.» mentire era inutile ed avrebbe soltanto scatenato l’ira del capitano.

«E che avete domandato l’autorizzazione per una trasfusione. Avete richiesto delle sacche di sangue zero negativo. Vi è andato di volta il cervello, Fraulein?»

Non le piaceva affatto quel tono! Come si permetteva quello zotico di criticare le sue scelte?! Non era un medico e nemmeno un infermiere. Era solo una spina nel fianco, che tutti dovevano purtroppo sopportare. Che cosa pensava? Di venire nel suo ospedale a dettare legge? Povero illuso! Mai e poi mai si sarebbe piegata ai suoi capricci! Che se ne facesse una ragione!

Strinse i pugni nervosamente, celando le mani dietro alla schiena: non doveva farsi vedere irritata o intimorita, altrimenti Weilman avrebbe colto l’occasione per metterla alle strette. Affinò, invece, un distratto sorriso sulle labbra sottili:

«Niente affatto. Sto solo svolgendo il mio lavoro»

«Lavoro? Il vostro lavoro comprende salvare traditori e spie nemiche?»

«Sono un medico, quindi… sì!»

Quella risposta parve spiazzare il capitano, per un istante. Pallone gonfiato! Cosa s’era immaginato? Di entrare nel suo territorio e spadroneggiare a destra e a manca? Non era uno di quegli sciocchi soldatini pronti a pendere dalle sue labbra! Era una donna matura, con una carriera sudata alle proprie spalle: gli studi, la discriminazione sessuale, la fatica di superare ogni esame per poter accedere all’università. Anni di lotte, di sere spese a combattere le ingiustizie maschiliste, di pomeriggi passati col naso incollato ai libri. Se era arrivata sin lì, era soltanto merito suo! Non aveva avuto bisogno di spinte, lei… non era mica figlia di un generale, come quell’imbecille! Non si sarebbe fatta mettere i piedi in testa

«C’è altro?» continuò, sfoggiando ancora una falsa calma. Dentro, naturalmente, fremeva! Se avesse potuto, avrebbe spaccato un paio di beute in faccia a quell’idiota.

«Cos…? Naturalmente! Non siete autorizzata a compiere una trasfusione, Fraulein! Vi ordino di cessare immediatamente questa follia!»

«Sbagliate! Il maggiore Smith mi ha autorizzata. Ho tutte le competenze ed il sostegno per procedere. Ve lo richiedo, dunque: c’è altro?»

Lo vide diventare paonazzo: l’ufficiale non era incline ad accettare una sconfitta, men che meno da una donna che disprezzava e maltrattava; che utilizzava soltanto come farmacia di turno. Ridicolo… internamente, Hanji gioì! Era una piccola vittoria,  la sua! Uno smacco gratuito per quel borioso di Weilman! Chissà, magari gli avrebbe insegnato ad abbassare la cresta ed a volare basso; ad imparare un poco di umiltà e rispetto per gli altri. Oppure no… forse si illudeva soltanto che le cose potessero cambiare così facilmente. Scorse l’indice paffuto putare al suo naso, come una sorta di ridicola provocazione:
« Militararzt, vi avverto! Non osate sfidarmi! State giocando con il fuoco! Fermate questa follia!»

«No! Non avete alcun potere qui… temo di dovervi chiedere di lasciare questa stanza!» era troppo, decisamente. Come osava minacciarla? Raggiunse la porta in un paio di falcate, indicandola all’uomo «Fuori» scandì, ma il capitano non si mosse. Se lo aspettava. Noioso piccolo uomo! Incapace di vivere con dignità all’ombra degli altri. Semplicemente vergognoso, viscido ed irritante. Le stava rovinando la giornata! Accidenti a lui! Non poteva lasciarsi distrarre; doveva rimanere concentrata: una trasfusione non era un compito semplice. Richiedeva pazienza, manualità e precisione! Respirò a fondo, tentando di recuperare la calma «Non siete gradito qui…»

«Non potete cacciarmi! Sono un vostro superiore!»

«Che sta intralciando il lavoro di un medico…»

«Stupida puttana!» non badò all’insulto, anche se le parole successive la colpirono in faccia come un forte schiaffo «Lo sai cosa stai facendo? Stai destinando prezioso sangue ariano a questa feccia bastarda! Te lo vieto! Non puoi sprecare delle sacche di zero per un nemico! Potrebbero servire per i nostri uomini, per i soldati al fronte, per i feriti tedeschi! ­»

A quello non aveva pensato! Presa come era dall’idea di sperimentare, di provare una trasfusione per la prima volta, non aveva assolutamente considerato quanto potessero essere importanti quelle sacche su cui stava per mettere mano: Weilman aveva ragione? In parte… in effetti, il sangue in tempo di guerra valeva quanto l’oro. Era una merce rara, che avrebbe dovuto proteggere e conservare e non sprecare per un pallido Inglese in fin di vita. Quel sangue avrebbe potuto salvare soldati tedeschi: fanti moribondi, piloti abbattuti, ufficiali feriti. Persone meritevoli d’essere salvate? Non lo sapeva. Soltanto il tempo avrebbe potuto deciderlo e… lei non poteva aspettare! Smaniava alla sola idea: la prima donna medico a sperimentare una trasfusione. Sarebbe stato un grande risultato personale. In effetti… lo stava davvero facendo per curare il paziente? O solo per amore della scienza e del proprio orgoglio? …. Difficile a dirsi! Forse entrambe le cose: se aveva la possibilità di salvare una vita e, contemporaneamente, raggiungere la gloria nella comunità scientifica? Oh, già si vedeva a Berlino, immersa in conferenze e relazioni! Avrebbe stretto la mano ad illustri colleghi e le avrebbero chiesto di autografare libri e… nah, forse no. Non sarebbe mai successo. Avrebbe ottenuto soltanto invidie, sussurri sgarbati, pettegolezzi gettati dalle malelingue. A molti avrebbe dato fastidio: una donna ad effettuare con successo una trasfusione!... mh… un’altra ottima ragione per provarci! Al diavolo i soldati tedeschi! Al momento, non c’era nessun altro candidato alla trasfusione e quell’inglese era il paziente perfetto: giovane, vigoroso, mortalmente ferito. Per-fet-to! Lo avrebbe trasfuso e suturato la ferita! E poi…

«Una vita è pur sempre una vita!» rispose, una nuova risolutezza nella voce «Ed io sono un medico, prima di tutto! È mio dovere provare a curarlo!». Si, come scusa era accettabile: salvava capre e cavoli! Il proprio onore, il lavoro ed il paziente. Perfetto!

Weilman, allora, fece una cosa del tutto inaspettata: in un attimo, Hanji si ritrovò ad osservare la bocca nera di una pistola, rivolta alla propria testa. Il capitano era impazzito? Voleva davvero freddarla lì, nella sua infermeria? E ora? Cosa doveva fare? Non le era mai capitato di vedersi minacciata con un’arma, non così da vicino. Batté le palpebre, perplessa: le vennero in mente diverse opzioni, in un baleno, ma nessuna valida! Poteva urlare e chiedere aiuto, ma  sarebbe servito? Ne dubitava: gli infermieri non sarebbero mai arrivati in tempo per fermare quella follia. Poteva cercare di scappare e rischiare di ritrovarsi la schiena perforata dai proiettili oppure scendere a patti con l’ufficiale, abbassare il capo ed ammettere la sconfitta. Avrebbe avuto salva la vita, così, ma… non se lo sarebbe mai perdonato. Era stanca, sì! Stanca di dover chinare la testa davanti ai prepotenti, ai soprusi, a quella mania di potere che circondava tutti. Quello era il suo momento! Non se lo sarebbe lasciato sfuggire!

Avanzò di un passo, poi di un altro, arrivando a poggiare la fronte alla canna della Mauser, sforzandosi di ignorare il martellare del proprio cuore e quel fischio secco ai timpani. Era pazza, oh si! Non lo dicevano tutti? Era il momento di dimostrarlo! Sogghignò, sfoggiando la dentatura imperfetta:

«Sparate, avanti!» sussurrò, una provocazione nella voce distorta «Fatelo, Herr Kapitan. Vi sentirete meglio dopo! Soddisfatto, magari… vi sentirete migliore, un vero uomo! In fondo, sono soltanto un dottore che cerca di svolgere il suo lavoro, di salvare vite indegne, di sprecare sangue ariano. Sparate, Herr Kapitan! Ho preso la mia decisione, sicuramente sbagliata. Vi sto sfidando, non vedete? Non vorrete farvi sfidare da una donna» lo vide tentennare. Premette ancora di più la testa sull’arma. «Premete questo maledettissimo grilletto! Fatelo! E poi… scrivete un rapporto, dite a Berlino come avete ucciso l’unico medico della base. Prendete la penna e scrivete all’Alto Comando di inviarvi un altro dottore, perché il precedente è rimasto tragicamente ucciso dal fuoco amico. Sono certa che i generali saranno lieti di ascoltarvi e di appoggiare le vostre scelte! “che uomo singolare” diranno di voi “Che uccide l’unica donna medico della nazione” l’unica stanziata in una base militare, il cui peccato è stato soltanto lo zelo per il proprio lavoro, l’amore per la scienza e la cocciutaggine nel salvare una vita. Vi osanneranno, credete? O forse il vostro nome verrà scritto nei registri degli ufficiali condannati alla morte per insubordinazione.» fece una pausa, godendosi lo spettacolo: Weilman era sconvolto! Evidentemente, non si aspettava una reazione del genere. Povero stolto. Con chi credeva di avere a che fare? Non era certo una principessina indifesa! «Credete d’essere nel giusto? Allora sparate, Herr Kapitan! SPARATE, MALEDIZIONE!» scattò infine, avanzando di un altro passo.

Weilman, però, abbassò immediatamente la Mauser, tornando a nasconderla nella fondina. Il volto dell’uomo era indecifrabile: conteneva una sfumatura di paura ed una di resa, come se nemmeno un ufficiale potesse combattere contro la determinazione di una donna.

«Sta bene, Fraulein» la voce del capitano era tremante ed incerta «Procedete, se lo… ritenete indispensabile…»  balbettava? Oh, doveva averlo intimorito per bene! «Ma non crediate sia finita qui! Sporgerò le mie rimostranze a Herr Major! Non è finita qui! Vi… vi pentirete di non avermi ascoltato!»

Con quelle parole, Wilman le diede le spalle, allontanandosi a passo spedito dall’infermeria. Hanji lo seguì con lo sguardo, senza riuscire a cancellare il largo sorriso dal suo volto. Aveva vinto! Ora… si meritava un buon caffé!
 
***
 
Hanji si accasciò esausta sulla seggiola, sfilando i guanti e frizionandosi la fronte con una salviettina pulita. Era finita! La trasfusione era andata a buon fine ed anche l’intervento: la sua squadra aveva rimosso frammenti di lamiera e schegge metalliche dall’Inglese, suturando poi lo squarcio sull’addome e fermando l’emorragia. Il respiro si era regolarizzato immediatamente ed anche il battito era tornato a livelli accettabili. Farlan ce l’avrebbe fatta, senza dubbio! Era giovane, forte ed il suo corpo aveva immediatamente risposto alle prime cure. Lo avrebbero tenuto sotto morfina, quella notte, abbassando gradualmente la dose sino all’alba. A quel punto avrebbero provato a svegliare il paziente ed osservare le sue reazioni.

Era stanca sì, ma soddisfatta! Avrebbe desiderato concedersi una lunga notte di riposo, ma non poteva abbandonare il suo esperimento! Quel ragazzo, che giaceva inconsapevole a pochi lettini di distanza, era il suo più grande successo! Il suo passaporto per la comunità scientifica, per la gloria  eterna dei libri di storia, per la riconoscenza e l’ammirazione dei colleghi. Non poteva crollare nel sonno finché non fosse stato completamente fuori pericolo. Se qualcosa fosse andato storto, se la morte fosse comunque sopraggiunta malgrado l’intervento e i farmaci… avrebbe perso tutto: il suo lavoro, la fede nella scienza, il prestigio quasi raggiunto. Farlan era, ormai, il suo tesoro più prezioso. Lo avrebbe protetto ad ogni costo.

Poggiò il capo alla scrivania, respirando il profumo fragrante dell’inchiostro e della carta intestata. Ah, quanto avrebbe voluto regalarsi un riposino, ma… no! Non poteva assolutamente… anzi, doveva trovare un modo per rimanere sveglia! Allora… si sarebbe fatta portare del caffè. Non una tazzina, no! Un thermos intero! E… avrebbe scritto un biglietto ad Erwin, certo! Era tardi, ma avrebbe spedito un soldato a portarglielo…o, semplicemente, infilarglielo sotto la porta. Bene, perfetto!
Vergò frettolosamente un paio di righe:

“L’operazione è andata bene: il paziente è stabile e Stiamo aspettando che si risvegli. “

Non accennò alla discussione con Weilman: non aveva senso caricare ulteriori pensieri sulle spalle del Maggiore. Gliene avrebbe parlato, senza dubbio, alla prima occasione… magari in mensa. Oppure quando fosse passato con le birre che le doveva, già…
Consegnò il biglietto alla sentinella, tornando poi alla scrivania, affondando pesantemente nella seggiola scricchiolante.
 
***
 
Il soldato attraversò i corridoi limitrofi, salendo le scale per raggiungere il piano ospitante le stanze degli ufficiali. Strinse tra le dita il bigliettino di Zoe, ripiegandolo attentamente dopo una rapida lettura.
Scivolò lungo un passaggio, ignorando i ricchi quadri e gli arazzi, accontentandosi della luce fioca della propria torcia. Un’altra rampa di gradini, oltrepassando un’ampia porta a doppio battente, ove capeggiava la targhetta dorata: “Major E. Smith” dirigendosi, invece, poco oltre…
Svoltò in un corridoio secondario, lasciando attutire i propri passi dai pesanti tappeti. Contò ancora qualche metro, prima di individuare un secondo uscio, più sobrio del precedente; sull’unica porta, intagliata nel legno scuro, si poteva leggere distintamente: “Kapitan K. Weilman”.
La sentinella si chinò, facendo scivolare il bigliettino sotto l’uscio; tornò, poi, alle proprie mansioni, sfregandosi le mani all’idea della piccola gratifica che, senza dubbio, sarebbe giunta il giorno seguente.


 



Angolino: Buonasera parte 2. Oggi mi sono dedicata ai capitoli riguardanti Hanji perchè... son sincera, non vedevo l'ora di muoverla. è uno dei miei personaggi preferiti e desideravo assolutamente inserirla nella storia. ^^ Questo capitolo, come avrete visto, è interamente dedicato a lei, alla sua pazzia e determinazione. Adoro tanto Hanji  *_*
Sto cercando di tenere un ritmo rapido nel postare i capitoli, un po' perchè la storia mi sta davvero prendendo - e non voglio rischiare di perdere le idee - un po' perchè spero di poter accontentare tutte le vostre gentilissime richieste, di seguire i consigli ricevuti e così via ^^ Lo sapete, ormai..., vi adoro e vi ringrazio sentitamente di volta in volta!
Ora sono esausta, lo ammetto... quindi filo a dormire, nella speranza di poter aggiungere presto un altro pezzettino di storia <3
Grazie ancora <3

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Sangue innocente ***


6. Sangue innocente
 
Marzo 1942. Fronte Occidentale, Francia. Base tedesca.
 
Erwin si accomodò al tavolo, scavalcando la panca. L’odore del caffè e latte arrivò a risvegliare gradualmente i sensi, mettendo in moto il cervello troppo stanco dagli eventi passati: quanti giorni erano trascorsi dalla cattura dei due Inglesi? Un paio, su per giù. Aveva già steso tutti i rapporti ed era pronto ad inviarli a Berlino. L’unico fascicolo che ancora rimaneva sulla sua scrivania riguardava il comportamento di Weilman. Si era deciso a lasciar cadere la questione, confidando che il capitano mettesse, una volta per tutte, la testa a posto. Quella, comunque, era l’ultima possibilità che gli concedeva: un altro passo falso ed avrebbe scritto all’Alto Comando o applicato direttamente la legge marziale. L’idea di macchiarsi di un altro omicidio non gli andava affatto a genio, ma… Weilman era una mina vagante, fuori controllo: se non fosse tornato sulla retta via, avrebbe dovuto prendere drastiche precauzioni.

«Ehilà! Posso sedermi?» una voce squillante lo distolse da quei pensieri. Sollevò il viso, ritrovandosi a fissare l’espressione stanza, ma soddisfatta di Hanji.

«Naturalmente» replicò, spostando frettolosamente il proprio vassoio per farle spazio. Al solito, la donna si era servita del caffè: tre tazze, quest’oggi, invece delle solite due. La notte doveva essere stata particolarmente pesante.

«Come è andata la trasfusione?» chiese, ma dall’atteggiamento allegro dedusse fosse stata un successo.

Il viso del medico, tuttavia, si atteggiò in una smorfia perplessa:
«Non hai ricevuto il mio messaggio?»

Messaggio?
«Mh… no»

«Te l’ho scritto ieri sera, appena terminata l’operazione. Ho incaricato una sentinella di portartelo»

«Non ho ricevuto nulla»

«Magari te l’ha infilato sotto la porta per non disturbarti … e tu non lo hai visto»

Era possibile. Si era coricato tardi, ma poi aveva dormito di un sonno pesante, anche se costellato da incubi ricorrenti. I suoi compagni al fronte, le decisioni e le strategie, la morte di un intero squadrone sacrificato per strappare un importante nodo strategico agli Alleati. La sua promozione a Maggiore, guadagnata con il sangue ed il sacrificio degli altri. I soliti sogni che tornavano, ogni notte, a tormentarlo. Ormai ci aveva quasi fatto l’abitudine; per questo, forse, cercava di dormire il meno possibile, concentrandosi sul lavoro, sui resoconti e sulle scartoffie burocratiche da riempire.
«Sì, forse è successo così» ammise infine, limitandosi ad un sorriso stiracchiato «Allora, come è andata?»

«Alla grande!» ora sì che riconosceva l’entusiasmo della dottoressa, troppo intenta a intingere delle fette biscottate nel caffè per trattenersi «La trasfusione è riuscita alla perfezione. Un mirabile esempio di scienza e medicina, credimi! Ti rendi conto?! Sono la prima tedesca a riuscire in una operazione del genere! Non vedo l’ora che lo sappiano a Berlino! Potresti includerlo nei tuoi rapporti, vero?» un cenno d’assenso «Oh, sarà magnifico! Mi chiameranno nelle università più prestigiose: Colonia, Monaco, Francoforte! E, naturalmente, il giovane Church verrà con me! Dovrò mostrarlo ai colleghi, perché credano! Dovrà raccontare la sua disavventura e di come la mia equipe lo abbia salvato! Meeeeraviglioso, davvero! Oggi lo abbiamo tolto dalla morfina! Ha risposto benissimo: nessun cenno di dolore o altro. Ha persino voluto del the!»

«Sono felice per te, Hanji» lo era sinceramente «Te lo sei guadagnato.»

«è anche merito tuo, sai? Grazie per avermi dato la possibilità di provare! Se non fosse stato per il tuo appoggio, non avrei potuto fare niente! Quell’idiota di Weilman avrebbe troncato tutto sul nascere!»

«Che c’entra Weilman?» perché, perché… doveva essere sempre presente?! Era peggio del prezzemolo, senza dubbio! Ovunque si girasse, inciampava in quel maledetto capitano e nel suo lungo naso da impiccione!

«Ieri sera è venuto in infermeria. Ha cercato di bloccare la trasfusione. Mi ha dato della pazza e mi ha minacciato, ma… alla fine se n’è andato con la coda tra le gambe» c’era dell’orgoglio palesemente femminile in quelle parole. Finse di non sentirlo, concentrandosi sul succo del discorso.

«Ti ha minacciato?»

«Sì, ma… niente di grave. È solo un pallone gonfiato che non merita il nostro tempo. Ah, tu… credi che io sia pazza?»

Certo che era pazza! Lo dicevano tutti, alla base. Beh… forse non completamente, ma… senza dubbio era eccentrica, maniacale, ossessionata dalla scienza e dai suoi esperimenti bislacchi. Però… era in gamba nel suo lavoro. Si applicava con passione, facendo sempre del proprio meglio e questo bastava ed avanzava; in quei tempi, era difficile trovare un buon medico!

«No, affatto» mentì, ancora concentrato sul precedente discorso «Che significa che “ti ha minacciato”?­» non voleva assolutamente lasciar cadere quell’argomento. Questa volta, Weilman aveva davvero esagerato: come si permetteva di discutere un suo ordine davanti a Fraulein Zoe?! E di arrivare persino ad intimidazioni personali? Bene. Forse c’era ancora spazio per una aggiunta, nei rapporti per Berlino. Passi i comportamenti che teneva con lui, ma… Hanji cosa c’entrava? Faceva soltanto il suo lavoro, lei! Sacrificava tempo ed energie per salvare vite, fossero esse tedesche o inglesi e… quello era il ringraziamento?! Perché non era andato a discutere direttamente con lui? Sapeva che non l’avrebbe avuta vinta? Sperava che una donna fosse più facile da sottomettere ai suoi capricci? Era davvero un imbecille.

«Beh, prima si è presentato con la sua solita aria sbruffona, dicendo che la mia trasfusione non era autorizzata! Poi, quando gli ho spiegato che ne eri al corrente, ha…»

«HERR MAJOR!!» una voce interruppe quella chiacchierata. Un giovane soldato si presentò al tavolo, scattando sull’attenti, prima di riversare sui due un fiume improvviso di parole «Correte, presto! Un camion trasporto è saltato in aria nei pressi di Achicourt! Ci sono morti e feriti ovunque!»

Erwin si alzò di scatto, abbandonando immediatamente la colazione «Prepara l’infermeria, Hanji! Prendi tutto quello che ti serve dalle scorte, sgombera più letti possibili!» ordinò. Recuperò soltanto il berretto nero, calcandoselo in testa, prima di allontanarsi in fretta verso il garage, seguendo il messaggero.
 
***
 
Marzo 1942. Fronte Occidentale, Francia. Campagne di Achicourt

Achicourt era un piccolo villaggio contadino alle porte di Arras. Erwin non ci mise molto a raggiungerla, premendo l’acceleratore a tavoletta. Guidò lungo la strada sterrata, fermandosi ad una ventina di metri da uno spiazzo antistante una fattoria: cinque uomini erano allineati in silenzio, il capo chino e le mani legate dietro la schiena. Poco oltre, l’inferno: un camion ribaltato ed avvolto dalle fiamme, mentre i corpi di almeno una ventina di militari tedeschi giacevano sparpagliati qui e là. Qualcuno si stava affaccendando attorno ai feriti, cercando di caricarli su ambulanze e mezzi di fortuna.

«Cosa è successo?» chiese, immediatamente, raggiungendo i soldati che pattugliavano il cortile del podere.

«Herr Major!» conosceva quella voce, viscida e sottomessa. Cosa ci faceva lì? Possibile che l’avesse preceduto?

Si voltò, incrociando lo sguardo sottile e rugoso di Weilman. Si costrinse a stare calmo, a concentrarsi sull’accaduto: non era il momento per discutere delle minacce al medico, dell’insubordinazione, degli ordini scavalcati e contestati. Adesso dovevano dedicarsi esclusivamente all’attentato.
«Herr Kapitan!» mimò un piccolo saluto, tornando ad accennare ai prigionieri «Cosa è successo? Eravate presente?»

«No, Major! Sono arrivato anche io da poco» uh? Si stava sforzando di collaborare? «Ho interrogato i Francesi, che ovviamente negano tutto. A quanto sembra, il camion stava transitando per questa strada quando è esploso un ordigno…. Forse una mina. Il mezzo è saltato in aria. Si contano circa una decina di morti accertati e dodici feriti, compreso l’autista. »

Una mina? Un ordigno? Possibile, specie se di fabbricazione casalinga, anche se… quei contadini non avevano affatto l’aria di ribelli: al contrario, i loro visi spaventati erano coperti di polvere e lacrime, mentre le donne si stringevano ai mariti o proteggevano i bambini dietro alle ampie gonne.  

Si avvicinò ad un uomo dalla folta barba bionda e la carnagione abbronzata. Indossava ancora la camicia da notte, come se fosse stato arrestato all’alba, appena sveglio. Quella cosa… non aveva senso! Da quando gli insorti andavano a letto durante un attentato? Non quadrava. Solo lui, però, sembrava ancora in pigiama. Gli altri, bene o male, vestivano abiti frettolosamente infilati: scarpe slacciate, ciabatte, dei pantaloni macchiati e giubbetti slacciati. Non tornava.

«Parli tedesco? O inglese?» chiese, mentre il francese mimava un cenno d’assenso.

«Inglese» molto bene. Sarebbe stato più semplice per tutti! E Weilman avrebbe sentito con le proprie orecchie.

«Siete accusati di terrorismo; di aver fatto esplodere un camion  tedesco, ferito ed ucciso dei soldati. Cosa avete da dire?»

«Niente, signore! Non siamo stati noi! Credetemi, vi prego! Siamo… brava gente…» la voce era timida, tremante «Contadini! Lavoriamo sodo… non… mia moglie ve lo può confermare! Ieri sera… era con me!»

«Come possiamo fidarci delle parole della tua puttana?!» Weilman si era intromesso, scatenando delle grida di disprezzo. I prigionieri si agitavano, pestavano i piedi, ringhiando rabbiosi. Accidenti a quell’idiota! Perché non stava zitto?

«Herr Kapitan!» lo riprese, scoccandogli una occhiata furente «Sto parlando con il Francese. Siete pregato di non intervenire»

«Perché? Mi sembra evidente che siate incline a credergli. Per quanto ancora permetterete ai bastardi di prendersi gioco di noi?! Pensate di lasciare andare anche questa sudicia feccia?» Altri mormorii, ma dai soldati tedeschi: stavano appoggiando quel folle discorso! Occhiate scambiate, cenni d’assenso, le urla dei feriti come sottofondo «Guardate cosa hanno fatto! Hanno... distrutto un nostro mezzo, ucciso bravi fanti, sputato sulla gloriosa Germania! Per quanto ancora lo permetterete, Herr Major?!»

Non doveva rispondere a quelle provocazioni, non doveva! Sarebbe caduto nella trappola del capitano, che lo avrebbe usato per i propri scopi malati. Scosse il capo, sforzandosi di ignorare quelle parole e tornare ai prigionieri:
«è come dice? Avete davvero fatto esplodere il camion?»

«No! No signore! Credetemi, vi prego… vi scongiuro! Siamo… brave persone, lavoratori e… padri di famiglia!»

«Questo lo vedo, ma… non è una giustificazione. Potete essere padri ed assassini contemporaneamente»

Si sentì tirare un lembo del cappotto. Abbassò lo sguardo, incrociando quello disperato di una donna, raccolta in ginocchio ai suoi piedi:
«Vi prego comandante,… signore… mio marito non è un partigiano! Nessuno di loro lo è! Abitiamo qui, questo è vero… ed è la nostra sfortuna! Siamo braccianti! Solo questo» singhiozzi, spalle esili scosse dal pianto «Vi supplico… noi…»

Non le rispose, indietreggiando semplicemente di un passo. Lasciò che un sergente l’aiutasse a rialzarsi e la allontanasse. Tornò a spiare i prigionieri: erano contadini, sì… non ribelli. Non apertamente, almeno! Forse simpatizzanti per De Gaulle, ma.. nessuno gli sembrava così abile da costruire un ordigno, posizionarlo in una buca ed attendere che un contingente tedesco ci passasse sopra. E poi… che senso aveva tornare a dormire dopo un attacco simile? Per giunta a meno di cento metri di distanza. Assurdo! I colpevoli, senza dubbio, se l’erano data a  gambe, scaricando la colpa su quei miserabili. Erano capri espiatori. Scosse nuovamente il capo, cercando di riordinare le idee: cosa doveva fare? Lasciarli andare come se nulla fosse? Era probabile che non fossero del tutto innocenti: forse avevano ospitato gli attentatori sotto il loro tetto? Proteggere dei partigiani era un reato capitale. Non sarebbe stato nel torto, se avesse ordinato una fucilazione. Però… era davvero necessaria? Quelle persone gli sembravano soltanto ingenui lavoratori di campi, tirati in mezzo per errore. Avrebbe potuto, semplicemente, scagionarli e liberarli. Però… il malcontento tra i soldati sarebbe cresciuto: le occhiate storte gli pesavano sulle spalle come macigni, i sussurri gli ferivano le orecchie e sapeva già cosa dicevano! Il maggiore si stava rammollendo. Non era in grado di prendere decisioni lucidamente. Si lasciava trasportare dai sentimenti. Offendeva l’esercito nazista. Ingiuriava la memoria dei morti. Sputava sul codice militare. E per cosa? Per salvare le vite dei traditori, come se questi atti caritatevoli potessero lavare una coscienza sporca? Forse Herr Major non era la persona adatta a guidarli, forse avrebbero dovuto riporre la loro fede nel capitano. Lui sì che avrebbe saputo condurli alla gloria, all’onore che la patria richiedeva.

Cazzate! Un mucchio di cazzate! Avrebbe voluto urlarlo in faccia a quegli idioti: non esisteva più nessun ideale tedesco! La Germania stava marcendo dall’interno, ma non poteva fare altro che servirla, per proteggere il popolo, per salvare quella libertà che ancora si celava da qualche parte. Come? Semplicemente così, attenuando l’odio che i popoli sottomessi provavano, cercando di ristabilire un equilibrio, sperando di non dover mai incrociare la vera resistenza francese, di non dover prendere decisioni drastiche ed irreparabili. Eppure… una decisione era ora richiesta: liberare gli ostaggi? O punirli comunque, ignorando la loro presunta innocenza? Vivere con il dubbio d’aver fatto una scelta sbagliata o con il disprezzo dei soldati ed il trionfo di Weilman? Quell’uomo… era infido e perfido. Non poteva permettergli di piazzare le mani sulla base di Arras, men che meno di scavalcarlo nuovamente.

«Herr Major» ancora quella deprecabile voce. Cosa voleva?! Non gli servivano i suoi viscidi consigli da serpente «Cosa intendete fare?»

«Nulla» Erwin si pentì di quell’ammissione nell’attimo stesso in cui la pronunciò. I fanti iniziarono a protestare a voce alta, coprendolo di fischi e insulti. Non gli importava, ma… la gerarchia del comando si stava rapidamente sgretolando. Non poteva assolutamente permetterlo. Fino a prova contraria, la sua parola era ancora legge! «State zitti, stupidi cani!» ringhiò, voltandosi verso i militari. In un attimo, il silenzio tornò a regnare «Non abbiamo sufficienti prove per capire se siano davvero colpevoli o meno! Non condannerò uomini innocenti senza un’indagine! Li poteremo alla base e li interrogheremo ancora, finché la verità non verrà fuori! Qualcuno ha qualche obiezione?!»

«Io ho una obiezione!» non aveva dubbi. Lo sapeva che il capitano avrebbe colto al volo quell’occasione! Che stupido! Gliel’aveva servita su un piatto d’argento.

«Allora parlate, Herr Kapitan! Saremo lieti di ascoltarla!»

«Con il dovuto rispetto, Maggiore, queste sono evidentemente delle spie francesi. Non sono stati loro a posizionare l’ordigno? Bene… ma avranno sicuramente dato rifugio agli attentatori. Anche questo è un reato punibile con la morte! Me ne fotto se le loro donne affermano il contrario: non sono credibili! Non sono testimonianze valide» di nuovo cenni d’assenso. Si stava riguadagnando il favore dei soldati «Sappiamo tutti che sono colpevoli! Lo sapete anche voi, ma fingete di ignorarlo perché… vi fa comodo! Vi divertite a mostrarvi misericordioso, ma… così insultate i nostri caduti! Guardatevi attorno» quanto era teatrale, quel buffone. Sottolineava ogni frase gesticolando continuamente «I nostri fratelli sono morti! I loro corpi sono ancora caldi e voi vi rifiutate di vendicarli! Sputate sulla loro memoria e sul loro sacrificio! E per cosa? perché non avete il coraggio di prendere una decisione da vero ufficiale? Molto bene! La prenderò io!» lo stava scavalcando?

«Non osate, piccolo uomo insignificante! Avete passato il limite. Scriverò a Berlino sta sera stessa e non importa che vostro padre sia un generale, un sindaco o il Fuhrer in persona! Chiederete trasferimento o darete le dimissioni!»

«Anche io scriverò a Berlino, non temete! Metterò in luce il vostro comportamento codardo! Prima salvate due fottuti inglesi, poi spedite dei ribelli in un campo prigionieri… infine autorizzate una trasfusione per accontentare quella stronza  maniaca! Sono il solo, qui, che pensa al bene dei nostri commilitoni?»

«Allora illustratemi come uccidere cinque uomini possa portare del bene, avanti! Appagherà solo il vostro orgoglio!»

«Appagherà la sete di vendetta! Siamo stanchi d’essere il bersaglio di questi fottuti Mangia-rane!  Dobbiamo dare un segnale forte! Fargli capire cosa succede a mettersi contro la Germania!»

Era impossibile avere un confronto decente. Erwin strinse i pugni, frustrato. Avrebbe volentieri spaccato la faccia di quell’idiota, ma la truppa lo stava sostenendo: ad ogni parola di Weilman vedeva nuovi cenni d’assenso, ammissioni sussurrate, e sguardi conquistati. Stava perdendo il rispetto dei suoi soldati: una truppa senza rispetto per la gerarchia sfocia inevitabilmente nel caos. Non poteva permetterlo, così come non poteva permettersi di ignorare il volere comune. Si rivolse ai militari, alzando la voce:
«La pensate come lui?! Ditelo apertamente! Chi è d’accordo con Herr Kapitan?!»

Una mano si sollevò timidamente e poi un’altra ed un’altra ancora. Gradualmente, il cielo si riempì di braccia alzate. Sbuffò, sentendo una morsa al petto: la sconfitta bruciava così tanto! Non poteva evitarla.

«Molto bene» disse, ignorando l’aria trionfante di Weilman «Fucilate gli uomini, lasciate che le donne e i bambini tornino alle loro case»

«NO!» le mogli erano cadute in ginocchio. Piangevano, supplicavano e stringevano i figli al petto. Non vi badò, limitandosi a fissare il vuoto: non voleva guardare nessuno. Si sentiva così sporco, così sbagliato! Aveva dato l’ordine peggiore, lo avrebbe rimpianto per tutta la vita. Forse non meritava davvero di comandare quell’esercito! Al contrario, meritava gli incubi, le notti insonni, il peso di quelle anime sulla coscienza. Altre vite che si aggiungevano a quelle che aveva preso. Affondò le dita nelle tasche, prendendo ad incamminarsi. Non voleva assistere. Avrebbe lasciato che Weilman se la sbrigasse da sé e….

«Siete troppo clemente, Herr Major! Anche loro meritano di morire» ancora lui! ANCORA! Non era contento? Non era soddisfatto? Erwin si voltò, raggiungendolo con un paio di falcate. La mano destra arpionò il bavero del capitano, strattonandolo.

«Non siete ancora sazio, capitano?! Volete ancora sangue, per caso? Violenza gratuita, perché è la vostra unica fonte di sostentamento?! Non troverete altro qui, non oggi! Mi avete visto fare la cosa meno clemente di tutta la mia vita!» lo spinse all’indietro, osservandolo barcollare malamente «Correte a lamentarvi dal vostro pomposo padre! Ditegli come il maggiore Smith vi ha quasi preso a schiaffi. Siete… la cosa peggiore che potesse capitare in questo esercito. Voi… e tutti quelli che la pensano come voi!»

Era inutile combattere oltre. Per cosa stava spendendo il suo tempo? Per salvare una nazione che non desiderava essere salvata? Per proteggere un popolo così ottuso da affidare la propria guida a degli avvoltoi? Per tutelare degli ideali di superiorità ariana in cui, ormai, non credeva nemmeno più? Era stato uno sbaglio, il nazismo. Non avrebbe dovuto cedere così facilmente a quelle promesse ammalianti. Un errore di gioventù che avrebbe pagato per il resto della sua vita. Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, scoprendole ancora una volta lorde di sangue innocente: non sarebbe mai riuscito a pulirle, a dimenticare quegli orrori, a superare la fiducia tradita dei sottoposti, di tutti quei soldati che aveva guidato in mille battaglie. A rinnegare quel successo ottenuto spendendo le vite dei compagni ed ora… quelle di padri senza colpe.

Scosse il capo, sforzandosi di scacciare quei pensieri, di recuperare quell’aria imperturbabile che lo contraddistingueva:
«Finite il lavoro e tornate alla base, Herr Kapitan.» aggiunse, allontanandosi lungo la strada, verso la carcassa del camion che ancora bruciava.

«Berlino lo verrà a sapere!» quella minaccia gli scivolò addosso. Ignorò Weilman, le occhiate dei soldati, le urla disperate delle mogli e i pianti dei bambini. Ignorò quel «Vive la France!» che risuonò poco prima degli spari. Scappò sulla via, le spalle cariche di nuovo dolore.
 
***
 
Erwin aveva perso il conto del tempo. Si era allontanato dalla cascina, raggiungendo i resti fumanti del camion. Alcuni soldati avevano portato via i copri inerti, scavando delle buche poco lontano. Nessuno, tuttavia, gli aveva badato. Si era seduto su un sasso, piegando le ginocchia e prendendosi la testa tra le mani. Che cosa aveva fatto? Aveva ceduto alle provocazioni di Weilman, gli aveva permesso di stringerlo in un angolo, di metterlo alle strette: lo aveva costretto a scegliere tra la riconoscenza dei nemici e quella dei propri uomini. Non avrebbe dovuto cascarci! Avrebbe dovuto difendere quei francesi sino allo stremo! Non erano loro i colpevoli, dannazione! Aveva condannato persone innocenti! Per cosa? Non lo sapeva. Per l’orgoglio tedesco, per accontentare  la truppa, per far tacere quell’idiota del capitano. Niente di tutto ciò valeva le vite sprecate, la disperazione delle donne, le famiglie spaccate. Era un maledetto assassino, ecco cos’era! Soltanto questo! Più si sforzava di aggiustare i torti e meno ci riusciva. Che Weilman scrivesse pure ai generali! Anzi… che si prendesse il titolo di Maggiore! Tanto… era quello a cui ambiva, no?

Posò lo sguardo azzurro sulle mostrine, ancora appuntate sulla giacca di panno scuro. Non le meritava e, per un momento, provò la tentazione di strapparle via e gettarle nel fango. Le sue dita, però, erano troppo sudice persino per toccare quell’oro insanguinato. Quante altre morti avrebbe dovuto sopportare, ancora? Quante vite doveva riscattare perché la sua coscienza trovasse pace? Quante battaglie e strategie da imbastire, quanti soldati uccisi, quanti civili stroncati? Quanto ancora?!


Chiuse gli occhi e si ritrovò là, a Hannut in Belgio. Era caldo quel maggio: l’estate sembrava giunta in anticipo. Gli sarebbe piaciuto rimanere a Bruxelles ancora per qualche giorno, ma gli ordini erano stati perentori: supporto alla dodicesima armata ed alla Panzer-Divisionen per un attacco alle truppe francesi. Aveva raggiunto il teatro di guerra con i suoi uomini: l’idea di una battaglia, inizialmente, lo aveva eccitato! Li avevano relegati ad un compito quasi marginale, però: arrestare i rifornimenti alleati e bloccare con ogni mezzo qualsiasi mezzo inviato a soccorso dei francesi. Con cosa? Non avevano a disposizione molto: qualche granata, munizioni leggere, un paio di mitraglie completamente inutili contro i corazzati.

Ed i corazzati erano arrivati: dieci carri armati sulla strada per Hannut, pronti a passare attraverso le case in cui si erano rifugiati. Come bloccare quell’avanzata? Era impossibile, con quel poco che avevano a disposizione. Possibile che nessun generale avesse pensato a quell’eventualità? Non gli avevano lasciato nemmeno un misero mortaio! Solo qualche manciata di polvere da sparo, un paio di candelotti di tritolo e bottiglie di birra e vino già scolate nelle sere precedenti. Però… dovevano comunque provare. Le sorti della battaglia dipendevano anche da loro.

Gli era venuta così, l’idea giusta! Semplice, diretta ed estremamente rischiosa: l’unico modo per fermare i carri era far esplodere i cingoli. Aveva ordinato ai soldati di togliersi le calze, le mutande, di vuotare gli zaini e usare qualunque cosa potesse servire da contenitore. Avevano imbottito le bottiglie con la polvere da sparo, il tritolo, alcool e stracci, prima di inserirle in calzini imbevuti di pece. Si erano lanciati contro i carri armati, incendiando quelle molotov improvvisate. I cingoli erano saltati e l’avanzata fermata. I francesi e gli inglesi si erano ritrovati sotto il tiro dei cecchini. La sua strategia non aveva risparmiato i nemici: erano morti tutti, nessuno escluso. Il successo, però, gli era costato caro: nel suo schieramento si contavano diversi decessi e molti feriti, alcuni dei quali gravi. Le bombe artigianali erano, in più casi, esplose in anticipo trascinandosi via braccia, gambe, nasi ed intere vite. Il peso di quelle esistenze spezzate si era riversato interamente sulle sue spalle, schiacciandole improvvisamente. Ma che cosa poteva farci? Era la guerra! Il fine giustificava ogni mezzo e… la sua strategia aveva completamente bloccato l’arrivo dei rinforzi ad Hannut, concedendo all’esercito tedesco una rapida e schiacciante vittoria.

Il dodici maggio aveva addirittura sorriso, quando la bandiera nazista era stata issata sul municipio della cittadina belga. Ed aveva sorriso anche due giorni dopo, quando da Berlino era giunta la sua promozione:
Per lo straordinario intuito e coraggio dimostrato
Soltanto quelle parole avevano accompagnato le sue mostrine da Maggiore, che si era orgogliosamente appuntato sul petto.
 

Che ne era stato di quell’entusiasmo? Spento, distrutto. Sepolto dalle grida dei caduti, dai loro corpi straziati, dagli sguardi spenti e dalle lettere alle famiglie, che aveva scritto di proprio pugno. Lo aveva sempre fatto: ogni battaglia era un successo e, al contempo, un macigno che tornava a schiacciargli il petto, a togliergli il fiato notte dopo notte, a rubargli il sonno ed il tempo.
Ed ora… anche questo. Per quanto tempo ancora avrebbe dovuto convivere con quel peso? Con quelle mani sudice? Con quella maledetta guerra che stava annientando ogni cosa?

Le dita scivolarono sulla Mauser d’ordinanza, accarezzandola distrattamente, come fosse una vecchia amica. Quel pensiero era così invitante: un solo colpo e tutto sarebbe finito. Sarebbe scappato alla responsabilità, agli incubi, alle ombre del rimorso che ancora lo inseguivano… sarebbe scappato come un codardo incapace di affrontare le proprie scelte, ma avrebbe trovato la pace e la serenità. Forse… o forse quei rimpianti lo avrebbero inseguito persino nell’aldilà. Non aveva senso, no. Aveva preso decisioni ed ora doveva essere abbastanza forte da portarne il peso. Non sapeva se c’era ancora possibilità di riscatto per la Germania ed il suo popolo, ma… doveva almeno tentare. Era l’unica cosa per cui ancora lottava: la speranza di poter redimere una nazione marcia.

Si alzò, riprendendo a camminare lungo la strada, attorniato da lamiere e frammenti. Le gomme del camion erano completamente dilaniate, così come il telo di copertura. La cabina della motrice era riversa su un fianco e quasi celava un pezzo di metallo tondeggiante, troppo lucido per appartenere al mezzo di trasporto. Erwin  si chinò, afferrandolo: assomigliava… anzi, era il coperchio di una mina! Il numero di serie era ancora leggibile, sebbene coperto da un leggero strato di umido terriccio: ZW 56783421. Anche il marchio della fabbrica era presente: un cannone incorniciato da due frasche di alloro e la scritta “Monaco” ben evidente. Una granata nazista? Cosa ci faceva lì? Non aveva alcun senso. C’erano solo due spiegazioni e nessuna gli piaceva: i francesi potevano aver assaltato un magazzino tedesco, derubandolo. Poco probabile, ne avrebbe ricevuto comunicazione. Oppure… era stata dimenticata lì. O appositamente posizionata. No, non aveva senso: perché un tedesco avrebbe dovuto minare una strada di campagna, in pieno territorio occupato? I loro mezzi transitavano spesso da lì: era la via più veloce tra Arras e Amiens. Perché seminare mine lungo il percorso?

No, “non lungo il percorso”! In quel punto specifico, sapendo che sarebbe passato il camion con i soldati. Doveva essere stata posizionata nella notte o il giorno prima, al massimo… in caso contrario, molti altri veicoli sarebbero esplosi: forse persino i vecchi trattori delle cascine, gli animali da cortile e i passanti in bicicletta. Quella ipotesi gli piaceva sempre meno: qualcuno aveva interrato la mina. Un tedesco, per forza…

Cavò un taccuino dalla giacca, vergando il numero di serie con una matita spuntata. Doveva assolutamente controllare i numeri delle mine nei magazzini della base, ma pregando in un proprio errore. Il dubbio, tuttavia, si era ormai insinuato nella sua mente: c’era davvero un traditore, in caserma?
 
***
 
Marzo 1942. Fronte Occidentale, Francia. Base tedesca
 
Hanji terminò  il bendaggio alla gamba fratturata, dispensando della tintura di laudano per alleviare il dolore:
«Ti aiuterà a dormire» disse, sprimacciando i cuscini dietro la testa del soldato ferito. L’ennesimo di quell’interminabile giornata: dal mattino, era stato un via vai di barelle, lettighe, sedie a rotelle. Si era dedicata ad ognuno di loro, curando prima i più gravi e poi passando ai meno danneggiati. L’attacco al camion tedesco era stato un vero e proprio disastro. Aveva ricevuto anche corpi ancora in discrete condizioni, nel caso fosse stato possibile espiantare organi.

Si pulì le mani sul grembiule sporco, passando in rassegna le cartelle cliniche dei ricoverati: due braccia amputate, contusioni multiple, una frattura al polso e tre alle gambe. Suture plurime per arrestare le emorragie e stabilizzare i pazienti. Ecco… ora aveva terminato!
Impilò con ordine le varie schede, riponendole su uno scaffale.

«Fai tu il turno, Moblit?» chiese ad un barelliere, accettando con sollievo un cenno d’assenso. Perfetto, questo le concedeva qualche ora di riposo: finalmente si sarebbe permessa una doccia, una cena leggera e un sonno ristoratore. In fondo, non dormiva da quasi ventiquattro ore. La testa le martellava e gli occhi stanchi lacrimavano di continuo. Ce l’aveva fatta, però: non poteva che ritenersi soddisfatta.

Abbandonò la camerata, gettando un’ultima occhiata alle brande occupate, prima di abbassare le luci. Chissà se Farlan avrebbe gradito dell’altro the, prima di addormentarsi? In fondo, quel giorno glielo aveva chiesto di continuo. Inglesi, pff… teinomani dipendenti, ecco cos’erano. Ne versò una tazza, assaporandone l’aroma, prima di tornare nell’infermeria ed avvicinarsi al suo paziente preferito.

«Ti ho portato del the, nel caso tu ne voglia questa notte. Moblit farà il turno… se dovessi aver bisogno di qualcosa, chiedi a lui» sussurrò, ma senza ottenere risposta.

Aggrottò la fronte, perplessa: c’era qualcosa di strano nel modo in cui era accomodata la figura sotto alle coperte.

«Farlan?» ancora nulla.

Hanji allungò le mani, strattonando via le coperte: sul materasso, scompostamente, giacevano quattro spessi cuscini. Del paziente, nessuna traccia.

Farlan era scomparso!



Angolino: Buonasera! Eccomi nel solito angolino post-capitolo. Oggi ho avuto, purtroppo, poco tempo per scrivere, ma sono riuscita comunque a fare un capitoletto. Pian piano, la storia sta entrando nel vivo - almeno spero! So di essermi soffermata nuovamente su Erwin, ma mi serviva creare una nuova parentesi su di lui. Dal prossimo, spero di poter tornare un po' anche agli Inglesi, che non ho assolutamente dimenticato (purtroppo per loro XD). Anche qui... perdonate gli scombinamenti storici e geografici: mi affido a wiki e a google maps, ma ho sempre il terrore di toppare qualcosa ^^'' ah, l'idea dei calzini imbevuti di pece... l'ho tratta (spudoratamente copiata) dal film "salvate il soldato Ryan": ho sempre trovato geniale quell'idea e... non potevo esimermi dal riciclarla per Erwin *_*
Tutto qui... come sempre, vi ringrazio per aver letto e se avete consigli e pareri, scrivetemi senza problemi *_* ps. aggiungo una cosina ai miei appunti: giustamente, mi è stato fatto notare che in questo capitolo, c'è una scena in cui Erwin è un pochino OOC. Sappiate che concordo! Me ne ero accorta, ho provato ad aggiustare il capitolo diversamente per renderlo più coerente, ma... non ci sono riuscita. Ho dovuto adattarlo un poco alla situazione, renderlo più malleabile di quello che è, per poter spingere avanti la storia ^^ Mi sembrava doveroso spiegarlo, proprio perchè...la penso a mia volta così! Purtroppo, per la trama che mi sono prefissata, ho dovuto ricorrere a questo piccolo diversivo. Vi chiedo di scusarmi per questa digressione <3
Un abbraccio.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** La verità con qualunque mezzo ***


Nota iniziale: nel capitolo sono presenti un paio di scene dai contenuti più forti. Non voglio costringere nessuno a leggerle, se non se la sente: per questo, troverete quelle parti tra parentesi quadre ed evidenziate in corsivo; sentitevi libere di saltarle, se preferite: il discorso principale dovrebbe filare lo stesso, anche senza quelle due piccole descrizioni un po' più crude. Buona lettura ^^


7. La verità con qualunque mezzo
 

Marzo 1942. Fronte Occidentale, Francia. Base tedesca.

 
Hanji bussò con forza alla porta, prendendo a calci il battente sino a che non lo vide schiudersi.
«Fammi entrare, presto!» spinse indietro al imponente figura del Maggiore Smith, ricacciandolo all’interno della stanza, troppo buia per poter essere osservata.

Erwin era stanco e nervoso, troppo per ascoltare i vaneggiamenti di quella pazza: gli occhi, alla fioca luce di una candela, apparivano cerchiati da spesse occhiaie, mentre i capelli completamente disordinati. Indossava ancora la divisa, sporca e spiegazzata. Tra le mani reggeva un bicchiere di vino, sicuramente non il primo della serata.

«Che diamine…?» chiese, ma un paio di mani affusolate lo afferrarono per la giacca, scuotendolo malamente.

«Farlan è sparito!» Hanji era agitata, quasi spaventata. Che stava accadendo, ancora?! Quella giornata non era stata già abbastanza pesante? «Devi aiutarmi a ritrovarlo. Non possiamo permettere che ci sfugga.»

Farlan? Ah, l’Inglese…

Erwin ci mise qualche attimo a raccapezzare i pensieri: si sentiva spossato e quella era l’ennesima brutta notizia di una giornata ancora ben lontana dal terminare. Che ore erano? Forse le undici e trenta, forse mezzanotte. Il buio, comunque, era già calato oltre le vetrate della camera ed anche nei corridoi si erano spente le luci. I soldati si erano ritirati nelle loro camerate, mentre solo le sentinelle camminava su e giù per i corridoi. Quindi… come era possibile che un prigioniero, ferito e debole per di più, se ne andasse tranquillamente a spasso per la caserma?

«Calmati! Ricomincia da capo» la invitò a prendere posto su una seggiola, ma Hanji lo strattonò nuovamente.

«Farlan è sparito!» la sentì ripetere «Come devo dirtelo? Stavo… facendo un ultimo giro di controllo tra i feriti e… mi sono accorta che non c’era. Al suo posto, c’erano dei cuscini coperti con delle lenzuola. L’ho cercato ovunque, ma non so dove possa essersi cacciato. Ah, maledizione! Avrei dovuto prestarvi maggior attenzione. Ma… sono così stanca. Non pensavo che potesse scappare, davvero»

«Mi stai dicendo che… quel ragazzo potrebbe aver trovato la forza di lasciare da solo l’infermeria, camminare per i corridoi senza essere visto da nessuno, malgrado la recente operazione? È così in gamba?»

«Beh, non saprei… In effetti, non lo credevo possibile… Oggi si era ripreso, questo sì: aveva chiesto del the e qualche biscotto da mangiare, ma non immaginavo fosse già in grado di camminare.»

«Rifletti un momento! Non credi che qualcuno l’avrebbe notato? Un Inglese che barcolla su e giù per le scale in camicia da notte. Trovo difficile che sia riuscito a sfuggire ai controlli» era l’ennesima cosa senza senso in quella giornata assurda. Prima il camion infuocato, poi la mina tedesca e ora… un paziente in fuga dall’infermeria. Ridicolo. Doveva esserci dell’altro, ma non riusciva a capire: perché Church avrebbe dovuto abbandonare il rifugio sicuro dell’infermeria? Per andare… dove? Un dubbio improvviso lo colse. Si schiarì la voce, sicuro della propria deduzione «Sta cercando di raggiungere Levi, nei sotterranei.»

Era l’unica possibilità. Farlan non aveva nessun altro punto di riferimento, se non la fetida cella in cui era stato rinchiuso. Hanji, tuttavia, negò:
«Impossibile! Sono già stata alle prigioni. Nessuno lo ha visto passare e, quel che è peggio, nessuno ha visto passare neppure Levi; è come se si fossero volatilizzati!»

Cosa? Che c’entrava ora Levi? Cosa significava “volatilizzati”? Avanzò di un passo, recuperando la Mauser dallo scrittoio.
«Spiegati!» ordinò, mentre la donna crollava finalmente a sedere, prendendosi la testa tra le mani.

«Non so come sia stato possibile… Quando sono scesa, ho trovato la cella vuota. Ho interrogato le guardie, ma nessuno sapeva nulla. La porta era aperta; ho pensato fossero evasi»

No, non erano evasi. All’improvviso, i pezzi di un complicato puzzle si ricomposero nella mente del Maggiore, svelando l’inquietante verità. Non era possibile che fosse arrivato a tanto. L’attacco al camion, i contadini francesi, la mina… tutto iniziava a quadrare con una sorprendete coerenza.

No, improbabile… Era uno stupido, quello… non poteva arrivare a concepire un piano del genere. O sì? Lo aveva sottovalutato? Gli aveva servito le giuste occasioni e quello stronzo aveva saputo come sfruttarle?

Si massaggiò le tempie, cercando di riordinare i pensieri: gli Inglesi erano arrivati da due giorni. Avevano passato una notte in prigione, insieme… ed al mattino successivo, era sceso portando le zuppe. Levi aveva parlato, anche se… No, doveva rimanere concentrato! Le parole del pilota non erano importanti, al momento. Lo aveva accompagnato in infermeria, dove Farlan era stato appena ricoverato su suo preciso ordine. Qualche ora ed Hanji aveva effettuato la trasfusione, nonostante quel maledetto parere contrario e le minacce ricevute.
La donna aveva affermato di avergli scritto un biglietto che, tuttavia, lui non aveva mai ricevuto. E se… quel foglietto fosse finito nelle mani sbagliate? Sì, ma… il camion ribaltato, la mina? Non potevano essere semplici coincidenze. Un macchinoso diversivo? Qualcosa per tenerlo occupato, con tormentati rimorsi di coscienza o con una piccola indagine al camion esploso… e per tenere il medico altrettanto impegnato, con numerosi altri feriti. Un modo per distogliere la loro attenzione dagli Inglesi.

«Spero di sbagliarmi» sussurrò, afferrando la mano di Hanji e trascinandola verso i corridoi vicini. Non poteva essere così. Da qualche parte, senza dubbio, si nascondeva un errore, una scappatoia a cui non aveva pensato, qualcosa che scagionasse il colpevole e ridonasse un senso all’intera faccenda.

Eppure… più rifletteva e più trovava quel piano terribilmente coerente.
 
***
 
Aveva riconosciuto immediatamente quella stanza: era la stessa del primo giorno, dove li avevano trascinati dopo l’esplosione dello Spitfire. Lo avevano fatto accomodare nuovamente su quella seggiola, ora imbullonata a terra, ammanettandogli i polsi e le caviglie con le gambe di legno. Gli avevano passato una ruvida corda sul petto e sulle cosce. Il piede sinistro aveva protestato vigorosamente a quell’ennesimo sgarbo, ma si era costretto ad ignorare le fitte.
Inizialmente, gli erano venute in mente soltanto due ipotesi: Smith aveva scoperto la verità e quella era una sua personale vendetta. Oppure, semplicemente, non era più utile e tanto valeva freddarlo.

Invece, dopo qualche minuto, si era ritrovato a fissare il volto arcigno di Weilman, mentre un subordinato aveva spinto Farlan dentro la stanza, obbligandolo ad inginocchiarsi davanti a lui. Un brivido gli era passato lungo la schiena: cosa volevano fargli? L’artigliere non si era ancora ripreso. Il volto pallido era tracciato da ombre di stanchezza, le labbra nuovamente esangui per lo sforzo compiuto e gli occhi chiari che si sforzavano di nascondere il terrore. Vestiva ancora il largo camicione dell’infermeria, ma le mani e le caviglie erano state assicurate da una spessa fune.

Si era rifiutato di distogliere lo sguardo da quella figura rannicchiata, ignorando il capitano ed il tirapiedi, almeno fino a che Weilman non gli aveva strattonato i capelli, costringendolo a risollevare il viso.

«Lo sai perché siamo qui?» la voce dell’ufficiale lo obbligò a voltare leggermente la faccia. Puzzava nuovamente di alcool.

«Bevi sempre quando sei in servizio?» non riuscì a trattenere il disprezzo. Quanto lo odiava. Persone simili non sarebbero dovute esistere. Perché diamine le tedesche si ostinavano a sfornare figli degeneri?! Tentò di sottrarsi alla presa che, tuttavia, si strinse ancor di più.

«Si, divertente… continua a fare lo spaccone. Vedremo per quanto ancora ne avrai»

Levi non replicò, respirando a fondo e cercando di modulare il ritmo agitato nel petto. Non intendeva assolutamente mostrarsi debole o spaventato. Non avrebbe dato a quel crucco la soddisfazione di vederlo supplicare. Che diamine voleva, però? Non capiva… le informazioni che aveva dato al Maggiore Smith erano state smascherate? Probabile… ma doveva prima sincerarsene. Forse, Weilman desiderava chiedergli altro o scendere più nel dettaglio: sapere quanti uomini, quanti mezzi e quali generali erano coinvolti in quell’operazione inventata. Beh, nessun problema: sarebbe stato un poco al gioco, poi avrebbe vuotato il sacco e obbligato il capitano a riportarli in cella. C’era qualcosa che non quadrava, però… perché Farlan era lì? Perché quel fottuto medico quattrocchi aveva permesso lo spostassero dall’infermeria? Era ancora debilitato e doveva riposare e riprendersi. Erano intenzionati a chiedergli conferma delle sue testimonianze? Oppure… L’idea che potesse ripetersi la scena di qualche giorno prima lo colpì come un pugno allo stomaco. No! Non gli avrebbe permesso di torturarlo ancora… Non vedevano che stava male? Volevano ucciderlo, forse?

«Perché lui è qui? Non vi serve!» esclamò, una punta nervosa nella voce «Avete già me: vi dirò quello che vorrete sapere.»

«Oh, non ne dubito» Weilman si era avvicinato all’artigliere, afferrandogli l’indice sinistro.
[[Con un secco strattone, lo piegò violentemente all’indietro. L’unghia arrivò a toccare il dorso della mano.
Un sonoro “crack” irruppe nella stanza, mentre un grido riempiva, poco dopo, l’aria pesante. Farlan si contorse per il dolore, scalciando, rannicchiandosi a terra, tentando inutilmente di strappare i polsi dalla presa del tedesco.
]]

«Figlio di puttana, lascialo subito!» Levi si agitò sulla seggiola, tentando inutilmente di sfuggire alle costrizioni «Non toccarlo! Non…» un altro rumore secco, un altro urlo mentre anche il pollice seguiva il destino dell’altro dito. Ma cosa voleva fare quel folle? Rompergliele tutte? Incurvarle una alla volta, fino a sentire l’osso spezzarsi, i tendini tranciarsi e la disperazione del prigioniero risuonare nella saletta. No… Perché non se la prendevano con lui? Non era certo di poter resistere al dolore, ma… cosa c’era di peggio del vedere il proprio amico torturato a morte? Cercò di slanciarsi in avanti, ma i ferri gli tagliarono la pelle dei polsi e delle caviglie. «Non avvicinarti… non…» le sue parole, però, sembravano soltanto stuzzicare quel sadico: lo vide sferrare un calcio al torace del ferito, comprimendolo poi con la punta dello stivale.
Un altro suono sinistro, una o due costole che si incrinavano, forse… e nuovamente il compagno a terra, ansimante, gli occhi fissi nel vuoto ed un rivolo di saliva che gli correva lungo il mento, le braccia strette contro il petto, alla ricerca di una disperata protezione.
Ancora urla.

Erano suoni distanti, ovattati, come se non provenissero da quella infernale stanza, ma da un posto più lontano, remoto. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie, chiudere gli occhi e sigillare fuori l’intero mondo, ma… Non poteva fare altro che rimanere immobile ad osservare, come uno spettatore distante, incapace di raggiungere il centro della scena. Che cosa doveva fare? Perché quell’ufficiale continuava ad infierire? Farlan… non sapeva nulla dell’operazione. Non c’entrava nulla.

Menti!

Una voce distante gli riecheggiò nella mente. Doveva mentire, sì, ancora una volta… per salvare l’amico e l’Alleanza. Non poteva fare altro. Doveva, in qualche modo, tornare protagonista di quel confronto, distogliere l’attenzione da Church e riportarla su di sé. Non aveva importanza quello che il capitano gli avrebbe fatto: lo avrebbe sopportato. Avrebbe sopportato qualunque cosa!

Colse delle macchie scure sul pavimento: Farlan stava sanguinando dal naso e dalla bocca. Forse l’emorragia si era riaperta internamente… Quel pensiero lo fece infuriare: il rossore gli affluì alle guance, mentre il suo corpo fremette per l’impazienza. Se fosse stato libero, sarebbe balzato al collo di quel crucco infame e lo avrebbe ucciso. Avrebbe dilaniato le sue carni, pugnalato sino allo sfinimento, gli avrebbe cavato gli occhi e strappato la lingua. Non gli avrebbe più permesso di nuocere a qualcuno, men che meno a Farlan, che giaceva rannicchiato, semisvenuto.

«Figlio di puttana!» scattò, per la seconda volta. Le corde si tesero, ma non lo lasciarono sfuggire. Il suo orgoglio fremette nuovamente: odiava quell’impotenza forzata, l’impossibilità di agire, il ruolo di spettatore obbligato a cui lo avevano costretto. Chiuse le mani a pugno, lottando ancora una volta con il ferro delle manette. Perché quelle stupide non si aprivano? Perché non riusciva a liberarsi, a scappare? Era così… frustrante! Non voleva arrendersi. Ma, allo stesso tempo, non poteva fare niente; soltanto assistere, pregare i carnefici, chiedere a gran voce una tregua e sperare d’essere ascoltato.
 «Ti ho detto di lasciarlo stare! Prenditela con me, cazzo» ringhiò, lo sguardo iniettato. Aveva una gran voglia di riempire di calci quel maledetto ufficiale.

«Oh, ma… me la sto prendendo con te, non vedi?» Weilman si avvicinò di qualche passo, investendolo nuovamente con l’odore forte dell’alcool «Questo è … il modo migliore per torturarti.» una mano robusta gli indicò l’aviatore steso a terra «Non sai resistere, vero? So che vorresti uccidermi. Te lo leggo in faccia. Ma… tu sai che tutto questo è colpa tua, vero?»

Colpa sua? Come poteva essere colpa sua? Non aveva scelto lui di precipitare in territorio nemico, né di farsi catturare da quei sudici nazisti. Non era colpa sua! Aveva solo cercato di salvare il suo compagno, senza compromettere un’operazione fondamentale. Che c’era di sbagliato? Non aveva fatto niente di male, solo il suo dovere. E … veniva ripagato così dalla sorte? Costretto ad assistere a quei tormenti, a logorarsi l’animo tra i peccati, le scelte, ad elaborare in fretta menzogne per tutelarsi. Era inutile che Weilman provasse a scaricargli addosso quel peso… non era colpa sua. O si?

Il dubbio lo colse all’improvviso: si, forse… se fosse stato sincero da subito, se… avesse svelato i piani della Chairot, senza raccontare frottole.. magari si sarebbero salvati. Oppure no… sarebbero morti, in quanto ostaggi ormai inutili. Scosse il capo, cercando di non dare seguito a quei pensieri. Non doveva badarci! Il capitano cercava solo di destabilizzarlo, di farlo crollare e…

«Ho già raccontato a… al maggiore dell’operazione. So che non sono stato…» la parola “sincero” gli morì sulle labbra, quando il capitano lo interruppe:

«Hai parlato con Smith? Che gran bastardo. Non me lo aveva detto!»

Davvero? Erwin non aveva narrato del loro piccolo discorso ai suoi sottoposti? Bene, anzi… meglio! Questo gli lasciava una piccola possibilità di manovra. Se Weilman non sapeva niente… beh, non poteva neppure intuire la menzogna che si era lasciato scappare. Decise di ritentare.
Annuì, frettolosamente, modulando un tono più cauto, quasi intimorito: dopo tutto, era quello che il tedesco desiderava; una gentile e pacifica sottomissione.

«Va bene… ti dirò quello che so» sussurrò, catturando in un attimo l’attenzione del suo interlocutore «è…prevista per il venticinque di questo mese. L’aviazione alleata bombarderà Saint Quentin, per spianare la strada alla fanteria, che invece attaccherà soltanto la mattina successiva» scelse attentamente le parole, sforzandosi di non apparire troppo sicuro, mimando un timbro contrito e sconfitto. Che Weilman pensasse pure d’averlo in pugno. «Il generale Zack…»

«Saint Quentin?» la cadenza acida del capitano lo interruppe: vi era dello sbigottimento ed una forte incredulità. Che stava accadendo? Eppure… era lo stesso racconto che aveva propinato a Smith! «Chi vuoi prendere per il culo, stronzetto?»

Come? No, no! Dove aveva sbagliato? Non si era tradito… aveva raccontato la stessa versione. Scosse il capo, fingendosi sorpreso:
«Non capisco…» sussurrò, ma Weilman fu svelto a riafferrare i capelli neri, strattonandogli il capo. Sentì uno strappo al collo, seguito da un leggero bruciore alle spalle ed alla nuca. Che stava facendo? Voleva decapitarlo a mani nude?...

«Saint Quentin è in mano alla resistenza francese da almeno venti giorni. Non venirmi a raccontare puttanate.»

In mano alla resistenza francese? Non era possibile! Non gli era giunta nessuna notizia, mentre era di stanza al campo alleato. Nessuno aveva fatto parola di Saint Quentin. Che fosse una informazione top-secret, accessibile soltanto alle alte sfere? Possibile. Evidentemente, era una notizia segreta, che non poteva essere divulgata alla truppa. Di conseguenza, non ne era stato messo al corrente. Maledizione! Aveva pescato una città a casaccio del nord del Francia, scegliendo tra le centinaia di paesi e villaggi occupati. Era ridicolo pensare che, con tutte quelle che c’erano, avesse preso proprio l’unica liberata dai ribelli. La sfortuna ci vedeva dannatamente bene!

E Smith? Lo sapeva? Senza dubbio! Se persino un semplice capitano era in possesso di una informazione del genere, era logico pensare che anche i suoi superiori lo sapessero. Un errore così grossolano, in quel piano improvvisato, non poteva essere sfuggito ad uno come il Maggiore. Perché, allora, lo aveva comunque accontentato? Non sarebbe stato più semplice lasciarli morire di stenti in una fetida cella, anziché portarli in infermeria e farli curare? Non riusciva a capire. C’era qualcosa che ancora gli sfuggiva… Accidenti a Weilman e pure a Smith! Perché i tedeschi erano così incomprensibili?

Ora, però, aveva un problema più grosso dei moti di generosità di Erwin. A quelli avrebbe pensato dopo, ammesso che vi fosse ancora un “dopo”. Improbabile: Weilman lo avrebbe ucciso, senza dubbio. Non si sarebbe accontentato di altre frottole: l’avrebbe torturato sino allo sfinimento, gli avrebbe estorto la verità e poi piantato un proiettile in testa.

Che cosa doveva fare? Ritrattare? Fingere di non esserne al corrente? Non ne aveva idea. Non si era mai trovato in una situazione simile e, peggio, si era cacciato da solo in quel vicolo cieco. Lui e le sue manie di salvare capre e cavoli. A cosa pensava, quando aveva inventato quello stupido piano? Che illuso! Certe strategie era meglio lasciarle nelle menti dei generali che sapevano concepirle: il suo tentativo era così patetico, ridicolo, inutile. Non era servito a niente, se non a guadagnare tempo e… inguaiarlo ancor di più.

Ti caverà la verità dalla bocca con qualunque mezzo.

Quelle parole gli risuonarono in testa, ancora una volta. Con qualunque mezzo. Si costrinse ad osservare Weilman che, tuttavia, lo aveva abbandonato per tornare verso Farlan. No! Avrebbe ricominciato a torturare l’artigliere, sperando di ottenere notizie più valide.

«Aspetta!» colse una nota urgente nella propria voce. Doveva fare presto, non poteva permetterglielo «Aspetta, maledizione!»
Il capitano, però, non lo stava affatto ascoltando: aveva recuperato un secchio d’acqua, rovesciandolo interamente addosso a Farlan. Sentì il compagno tossire e sputacchiare nuovamente, mentre il corpo provato rabbrividiva a quel contatto gelido.
«Che cosa stai facendo? Fermati subito!»

Scorse un secondo soldato entrò nella stanza, portando tra le braccia una scatoletta metallica con due pinze, una rossa ed una blu, collegate con dei cavi a dei pomelli del medesimo colore. Aggrottò la fronte, cercando di capire a cosa servisse: niente di buono, sicuramente. Sapeva cos’era? Gli ricordava la batteria di una macchina o… un alimentatore.

Si agitò sulla seggiola, strattonando le corde con più forza, affondando i denti nelle labbra, incapace di distogliere gli occhi da quella scena. Farlan lo stava fissando, la bocca dischiusa in una muta supplica, in cerca di aiuto e, contemporaneamente, scettico e consapevole di non poter sfuggire a quell’ennesimo tormento. Lo stavano punendo per l’ennesima menzogna. Per un errore di valutazione. Scosse nuovamente il capo, cercando di recuperare l’attenzione di Weilman:

«Fermati, porca puttana! Ti dirò quello che vuoi… Te lo giuro!» non serviva a niente. Il capitano non lo degnava di alcuna attenzione, troppo intento come era a collocare una pinza sulle mani e l’altra alle caviglie dell’artigliere «Non farlo! Ti prego…NO!» era davvero caduto in basso. Supplicare quell’aguzzino, tuttavia, era l’unica cosa che gli rimaneva. L’orgoglio ruggiva nel profondo del suo petto, schiacciato dalla disperazione e dal pallido tentativo di ragionare lucidamente. Cosa poteva dire? Cosa poteva salvare Farlan? La verità. Non c’era altro metodo: tradire l’esercito Inglese, mandare a monte l’operazione Chairot e scegliere la vita di un amico, invece che quella dell’intera Europa. Il vecchio continente, in fondo, non gli aveva mai regalato niente. Farlan sì; dai momenti spensierati, a quelli di conforto e di coraggio: gli era sempre rimasto accanto, anche quando avevano scelto di arruolarsi nella Royal Air Force. Erano stati inseparabili, da allora. Non avrebbe permesso ad un fottuto tedesco di portarglielo via! Aveva promesso ad Isabel che sarebbero tornati a casa entrambi, insieme, così come erano partiti.

«Basta! Basta!» gridò di nuovo, ma la sua voce andava affievolendosi, spezzandosi. Stava perdendo il controllo, la sua mente vagava tra propositi di vendetta, incertezze e rimpianti. Aveva sbagliato a non confidarsi subito con Smith, a non parlare del piano alleato, a crogiolarsi nell’amor proprio, convinto d’averla scampata… e ora, il compagno pagava per i suoi errori. «Aspetta.. te lo dirò. Ti dirò dell’oper…»

Non riuscì a terminare la frase: l’ennesimo urlo incontrollato spaccò la tensione nella stanza.

[[Weilman aveva dato corrente, ruotando delicatamente una rotella per aumentare gradualmente l’intensità. Scorse le dita massicce indugiare sul pulsante e poi insistere ancora di più, mentre le lancette dell’alimentatore schizzavano verso l’alto.
L’artigliere si agitava a terra, rannicchiato bocconi sul pavimento bagnato. L’acqua conduceva splendidamente, aumentando l’intensità di quelle scariche. Il corpo ferito si contorceva tra gli spasmi, mentre dalle labbra uscivano dei versi strozzati, frammisti ai rantoli ed al respiro accelerato ed incontrollato. Gli occhi, impossibili da chiudere, erano ormai fissi sul nulla, iniettati del sangue scoppiato nei capillari. Un odore acre si stava diffondendo nella stanza, come se la pelle, stretta tra le pinze metalliche, si stesse lentamente sciogliendo. ]]

«NO! Basta… basta, cazzo!» Levi gridò di nuovo, cercando di superare gli ululati del compagno, ormai incontrollati e sempre più profondi
«Ti ho detto che ti dirò tutto. Sei sordo? Smettila! Non c’entra…» crollò il capo, rifiutandosi di guardare. Se avesse potuto cavarsi le orecchie, staccarle dal corpo e gettarle lontano… non voleva vedere, non voleva sentire. «Non c’entra... È colpa mia! Non…»

Di nuovo due dita a sollevargli il mento, ad obbligarlo a fissare il volto ghignante del capitano:
«Sta pagando per la tua arroganza. Non avresti dovuto cercare di fottermi.» era così viscida quella voce «Mi dirai quello che sai dell’operazione alleata.»

Annuì piano. Avrebbe collaborato, sì.

Colse uno scatto secco e trovò il coraggio di rialzare il volto: il soldato aveva spento l’alimentatore, ma il corpo dell’amico era ancora in preda a tremori incontrollati. Gli occhi chiari erano velati da uno spesso strato di lacrime, i denti digrignati e la faccia trasfigurata in una maschera di terrore e sofferenza. Le mani ed i piedi presentavano delle ustioni superficiali, mentre la camicia da notte si era completamente inzuppata di acqua. Era ancora cosciente, ma questo non era sicuramente un bene. Se almeno fosse svenuto, avrebbe patito meno. Le membra si sarebbero rilassate, il cervello azzerato e sarebbe stato impossibile, per Weilman, sfruttarlo ancora. Invece… lo sguardo era vigile: provato, distrutto, ma ancora sfortunatamente attento. Non riuscì ad incrociarlo, neppure per un istante: temeva di leggervi sconforto, disprezzo, sfiducia.

Perché hai lasciato che mi facessero questo? Perché hai mentito? Hai giocato con la mia vita, Levi… con le mie sofferenze. Ora sei contento? Ti senti appagato? Per una stupida questione di orgoglio, gli hai permesso di torturarmi.

Quelle parole gli risuonarono in testa come una pesante accusa: non le aveva pronunciate Farlan, non quello vero, almeno. Nella sua immaginazione, tuttavia, la figura dell’artigliere si aggirava in preda ad una furia cieca, alla ricerca del colpevole. Eccolo! Era lui il colpevole, il vero aguzzino, che non aveva saputo mettere da parte i folli piani e la presunzione di poter salvare il mondo intero. Ed ora… aveva perso entrambe le cose: Farlan e l’Operazione Chairot. Non era riuscito a proteggere né l’uno, né l’altra. Era un fallimento completo.

«L’Operazione Chairot… prende il nome dal generale che l’ha ideata e che guiderà l’attacco. È… un soldato francese, esperto in tattiche di accerchiamento» la voce si era fatta ovattata e insostenibilmente condita dalla sfumatura del tradimento. Si sentiva a pezzi: aveva rinnegato Farlan e gli Alleati, destinandoli entrambi ad un cammino difficile, incerto, probabilmente destinato a terminare bruscamente. Perché non si era confidato subito con Erwin? Forse si sarebbe risparmiato quelle sofferenze… ormai, però, era inutile pensarci. Non poteva fare a meno di rimpiangere le proprie scelte, ma non poteva cambiare il passato, né sfuggirgli: si era condannato da solo a portarne il peso. «Avete una base a Le Crotoy, un porto per la precisione, al riparo di una alta insenatura. Schiereranno le corazzate all’imboccatura dello stretto golfo, impediranno alle vostre navi di fuggire, le stringeranno tra le fregate inglesi e le scogliere. La Raf si incaricherà di distruggerle, bombardandole dall’alto» sussurrò, un tono spento e distrutto. Mantenne lo sguardo fisso al suolo, senza osare rialzarlo, né verso il tedesco, né verso il compagno ancora accasciato a terra. «Il ventisei marzo, all’alba. Pensano di sorprendervi durante il cambio turno: in questo modo, ci saranno meno militari attivi, si creerà più confusione e vi sarà più difficile reagire» quel piano era stato studiato dalle migliori menti alleate e… lui lo stava definitivamente consegnando al nemico «è tutto quello che so…» terminò.

«Molto bene» Weilman parve soddisfatto. Indietreggiò di qualche passo, facendo un cenno al suo assistente: questi allontanò l’alimentatore, appoggiandolo in un angolo.

«Lascialo andare, adesso. Hai avuto quello che volevi!» di nuovo quella punta di disperazione «è innocente, non ha mai saputo dell’operazione.»

Vide il capitano afferrare il compagno per una spalla, rimettendolo carponi e costringendolo nuovamente ad inginocchiarsi. Il volto di Church era irriconoscibile: la bocca era rimasta storta, piegata in un falso ghigno, mentre la palpebra sinistra si era chiusa, incapace di aprirsi spontaneamente. La camicia da notte era completamente spiegazzata, macchiata del sangue sputato, mentre la carnagione riportava ustioni superficiali frammiste al pallore accentuato.

«Farlan» Levi produsse un sussurro smorzato, cercando di incrociare per un solo istante quello sguardo provato. Controllò nel profondo, scrutandolo alla ricerca di delusione, rabbia, sconforto… non vi lesse altro, invece, che una pacata rassegnazione. Farlan aveva smesso di lottare, di difendersi: non era più interessato alla propria vita, quanto più a donargli l’assoluzione, a perdonare i suoi sbagli, a concedergli di vivere libero da quel peccato che, nonostante tutto, continuava a schiacciargli il cuore. Lo stava graziando, regalandogli comprensione e misericordia, che Levi s’accorse di non meritare «Andrà tutto bene, vedrai» disse, il tono ridotto ad un filo spezzato «Torneremo presto a casa, da Isabel» un’altra menzogna, l’ennesima. Quando avrebbe imparato a dispensare bugie più credibili? «Tu guarirai e potrai… No! NO!» sgranò gli occhi, incapace di trattenere quel grido: Weilman aveva estratto la Mauser, puntandola direttamente alla testa del prigioniero «Lascialo stare! Lascialo, stronzo! Non…»

Uno sparo secco riecheggiò nella stanza. Il corpo di Farlan si afflosciò come un burattino privo di fili, ruzzolando sul pavimento. Il sangue prese a sgorgare dalla fronte, dove ora troneggiava un foro nero. L’occhio destro era rivolto al cielo, le labbra piegate in un ultimo amaro sorriso.

All’improvviso, Levi sentì un enorme vuoto dentro di sé: era così che finiva una vita? Inaspettatamente, senza neppure la possibilità di un saluto? Non c’era più nulla da condividere o da ricordare. Nessuno con cui ripensare ai momenti spensierati, a cui confidare segreti e preoccupazioni. Nessuno da proteggere, nessuno per cui valesse la pena combattere. Per la prima volta, da quando erano stati catturati, si sentì solo e completamente perso. Farlan se n’era andato e non c’era nulla che potesse fare, se non continuare ad incriminarsi. Quella morte…una sua responsabilità? Lo aveva tradito, aveva mentito sperando di salvarlo, ma… in realtà, lo aveva soltanto condannato. Se non fosse stato accecato dalla presunzione, dalla falsa idea di potersi erigere ad eroe di un nuovo mondo. Il caporale Ackerman, della Royal Air Force: l’uomo che aveva tradito un amico per salvare l’Europa… e poi tradito quella stessa Europa, per riparare ai propri errori. Era il peso del fallimento, quello che gli bruciava nel petto? E della perdita irreparabile di cui era stato complice… Era stata colpa sua.

No! La sua mente scartò immediatamente quel pensiero, rifiutandosi di elaborarlo. Non era stato lui ad uccidere Farlan. L’assassino era lì difronte, la pistola fumante ancora in pugno, e stava sogghignando apertamente. Come se l’omicidio fosse un divertimento, un nuovo sport, qualcosa di cui andare fieri… Sentì montare una rabbia sorda, la furia impossessarsi di lui. Cercò di alzarsi, ma le funi lo trattennero ancora una volta. Provò a divincolarsi, lo sguardo socchiuso, minaccioso, la bocca storta in una smorfia di puro disgusto:

«Ti ucciderò, bastardo!» era una promessa, quella. Non gli sarebbe sfuggito. «Ti inseguirò fino in capo al mondo, dovesse costarmi la vita… Ti guarderò morire lentamente, come hai fatto con lui. Non dovevi toccarlo!» gridò nuovamente, la voce tanto forte da spaziare anche nei corridoi vicini «Non dovevi! Era mio amico. L’unico che mi era rimasto… io… Ti ucciderò!»

Quello sfogo non serviva proprio a nulla… ma era l’unico modo che aveva per tamponare il dolore che, gradualmente, si stava insinuando nel petto. che cosa avrebbe detto ad Isabel? Che non era riuscito a proteggere il loro compagno, che lo aveva abbandonato, ma… Non poteva finire così, non era giusto!

Si agitò, come un animale in trappola. Weilman avrebbe pagato col sangue quell’affronto; non aveva importanza quanto tempo ci avrebbe messo: lo avrebbe stanato, ovunque avesse cercato di nascondersi, lo avrebbe spinto in ginocchio e lo avrebbe guardato supplicare. Non gli avrebbe concesso, però, il lusso di un proiettile: doveva morire soffrendo, con il riflesso della paura negli occhi ed il sapore della crudeltà sulle labbra. Lo avrebbe ucciso, sì… senza indugiare, senza…

Un rumore metallico lo obbligò a distogliere lo sguardo dal cadavere dell’amico, incrociando la forma familiare della pistola: la canna nerastra era a pochi centimetri dalla sua fronte, mentre l’indice di Weilman già accarezzava il grilletto. La voce viscida del capitano tornò a ferirgli le orecchie:

«Ti manca il tuo amico?» una pausa, mentre la Mauser si avvicinava ancora di più «Non temere, Inglese… presto lo raggiungerai»

 



Angolino: Buongiorno! Ammetto di averci messo un po' più del previsto con questo capitolo (ho dovuto spezzarlo in due perchè si stava facendo davvero troppo lungo...la seconda parte arriverà presto, spero, in questi giorni ^^). Vi ringrazio, al solito, per aver seguito la storia fin qui. questo pezzo è stato impegnativo (non credevo fosse così difficile far fuori un personaggio... XD) e la mia cronologia esplorazioni si star riempiendo di orrori nazisti e battaglie della seconda guerra mondiale. Grazie Wikipedia, solita fonte su cui mi documento per... tutto. Oltre ciò... ringrazio i vostri consigli e pareri ricevuti nelle recensioni precedenti. mi sono stati particolarmente utili (e un grazie speciale a SHige e Auriga: ho cercato di seguire i vostri consigli, spero d'esservi riuscita e di aver migliorato un pochetto la stesura ^^).
Spero davvero di poter pubblicare presto anche il capitolo seguente (mi metterò di impegno e lo scriverò appena possibile, promesso!!)
Un abbraccio e ancora mille grazie.


Ps. ho apportato un piccolo cambio nei personaggi iniziali: ho tolto kenny e messo Hanji nelle note della storia, semplicemente perchè credo lei abbia un ruolo decisamente più importante ^^ spero non me ne vogliate (e che non me ne voglia zio Kenny, soprattutto XD)

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** I pezzi di un puzzle ***


8. I pezzi di un puzzle
 
 
Marzo 1942. Fronte Occidentale, Francia. Base tedesca.
 

Era arrivato troppo tardi: quello sparo, riecheggiato nei corridoi, lo aveva spinto ad accelerare il passo; aveva sfoderato la Mauser, togliendole la sicura. Dannazione! Perché non c’era arrivato prima? Era tutto così semplice, limpido ora che le intenzioni di Weilman si erano rivelate: ancora non riusciva, però, a capacitarsi come quell’idiota avesse concepito un piano così complesso. I suoi sospetti avevano trovato conferma quando era sceso nel magazzino, controllando i numeri di serie delle mine di scorta: corrispondevano con quello trovato ad Achicourt.

Era tutto così… assurdo! Cosa poteva spingere un ufficiale tedesco a tanto? I pezzi del puzzle si erano ricomposti strada facendo: Weilman non gli aveva perdonato l’intromissione del primo giorno, durante l’interrogatorio dei prigionieri; probabilmente, l’aveva visto come un affronto personale, una mancanza di rispetto con un conto da saldare. La trasfusione non autorizzata era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: Hanji lo aveva scavalcato, lo aveva sfidato e doveva, a propria volta, pagare per le proprie azioni. Così…il triste capitano aveva spedito qualcuno dei suoi tirapiedi a minare la strada per Arras, facendo esplodere il camion rifornimenti che sarebbe transitato la mattina. Naturalmente, gli sventurati contadini che abitavano nei paraggi si sarebbero rivelati dei perfetti capri espiatori…e si sarebbero addossati la colpa. Nel mentre, Weilman aveva  approfittato del caos dei feriti, del via vai dall’infermeria per far rapire Farlan. Lo aveva trascinato in quella stanza per interrogarlo o magari per utilizzarlo come stimolo per strappare la verità al compagno. Tutto quadrava, così. Era assurdo, ridicolo credere che un ufficiale potesse abbassarsi a tanto, ma… era l’unica spiegazione possibile.

Un puzzle finalmente ricomposto.

Erwin superò l’ultimo tratto quasi correndo, spalancando poi la porta con una sola manata. Sollevò immediatamente la pistola, direzionandola verso Herr Kapitan.

«Toccalo e giuro che ti faccio saltare le cervella!» ringhiò, abbracciando con lo sguardo l’intera scena: Weilman era fermo davanti ad Ackerman, l’arma a minacciare la fronte del pilota. L’altro prigioniero, invece, giaceva ormai riverso al suolo, il viso pallido immerso nel sangue «Che cosa hai fatto?» sussurrò, ignorando Hanji che, dopo averlo superato, si era gettata sul corpo inerte di Farlan.

«Soltanto il mio lavoro, Herr Major. Quello che tu non sei stato capace di fare» sul viso di Weilman era apparso un sorriso sarcastico «Sapevi che questo bastardello ti ha infinocchiato? Ti ha venduto informazioni false e…»

«E… credevi che non lo sapessi? Che non mi fossi accorto delle bugie? Sei proprio un imbecille» scattò, facendo scivolare l’indice sul grilletto. La voglia di premerlo era impossibile da soffocare «Sapevo che mentiva! Non dovevi intrometterti, Weilman; questa faccenda non ti riguardava»

«Mi riguardava, invece! Se lo sapevi, perché non lo hai interrogato di nuovo?» colse un formicolio alle mani, mentre nella sua mente risuonava una semplice parola: Spara. Si trattenne, aspettando il seguito di quelle irrispettose parole «Io ci ho messo meno di mezz’ora ad estorcergli la verità, ma… tu sei un debole. Hai il cuore tenero. Ecco perché non mi ucciderai, adesso…» un sorriso sfrontato. Era decisamente troppo.

«Invece credo proprio che lo farò. Ho tutte le ragioni per farlo! Hai ammazzato un sacco di gente: i soldati, i francesi… questo ragazzo» abbassò l’arma soltanto per indicare l’artigliere esanime «Perché?»

«Non sono stato io»

«Oh sì, sei stato tu!» Erwin non si trattenne dall’annuire un paio di volte, come a sottolineare ancora quel concetto. Era stato lui, inutile che provasse a sviare i sospetti: non si sarebbe fatto fregare di nuovo. Ogni prova, ogni concetto riconducevano al capitano. Era coinvolto in quella storia fino al collo! Che non provasse nemmeno a negare l’evidenza «Sei solo… un pazzo maniaco. Questo mondo non ha bisogno di te»

«Non sono d’accordo»

Ovviamente. Stava per morire, ma ancora non se ne rendeva conto. Era così… irritante, quell’imbecille. Nonostante tutto, pensava ancora di avere delle chance?

«Non mi interessa, così come non mi importa se tuo padre è un fottuto generale, se lo dirai a Berlino, se tre quarti dei soldati mi odieranno per questa decisione. Vedono in te una guida, ma… sei solo un maledetto truffatore. Racconterò a tutti quello che hai fatto.»

Era troppo calmo, Weilman. Non aveva l’aria di uno ad un passo dalla morte. Gli stava celando ancora qualcosa? Probabile. Evidentemente, il capitano aveva ancora qualche maledetto asso nella manica, ancora non svelato. Doveva muoversi… doveva ucciderlo prima che danneggiasse ancora qualcuno. Però… qualcosa non quadrava: l’espressione dell’uomo era serena, ironica, quasi strafottente. Non si rendeva conto del pericolo? Forse non lo riteneva davvero capace di un gesto simile: sbagliava, ma non sarebbe mai riuscito a rendersene conto. Oppure… forse aveva lasciato qualche disposizione; ordini ai propri sottoposti di… fare qualcosa. Sì, ma … cosa? Erwin si lambiccò il cervello qualche minuto, senza trovare una risposta. Alla fine, si limitò a sbuffare un semplice:

«Vuota il sacco. So che mi nascondi qualcosa»

«Bravo» era un complimento, quello? Più una presa per i fondelli, lo avvertì chiaramente. «Ho scritto le mie “ultime volontà” nel caso mi avessi smascherato. Ho… incaricato un paio di amici di trucidare i prigionieri francesi nel peggior modo possibile, se fossi morto. Il mio omicidio sarà lavato dal sangue di quegli impuri che ti ostini a salvare. Te li ricordi? I ragazzi dell’altro giorno. Quegli stupidi ribelli che hai inviato al campo di lavoro… se io morirò, loro verranno con me e… i tuoi sforzi saranno stati vani» era sibillino il tono, infingardo e macchinoso. Evidentemente, non aveva ancora finito «è un peccato che tu non abbia famiglia, Erwin… o ti avrei costretto a ragionare molto prima»

Non riuscì a trattenersi. Il pugnò volò dritto sulla faccia di Weilman, spaccandogli il naso. Colse chiaramente il rumore della cartilagine frantumata, il fiotto rosso sgorgare dalle narici  e colorare i denti e le labbra. Il capitano crollò a terra, ai suoi piedi, coprendosi immediatamente il volto:
«Lo scriverò…»

«…Lo so; e non mi interessa»

Ormai era fatta; che importanza avevano le minacce di quell’omuncolo? Nessuna. Era così stanco di essere tenuto in scacco. Che Berlino andasse a quel paese… era inutile continuare a lottare per una nazione che non voleva essere salvata, per un popolo che seguiva false guide, nella speranza di poter risorgere nello splendore dei secoli passati. Cos’erano quelle, se non pallide illusioni a cui aveva, un tempo, creduto anche lui? Quella guerra, però, non aveva senso: la Germania non sarebbe stata più grande soggiogando popoli, massacrando civili, distruggendo campi e raccolti, lasciando alle proprie spalle solo una scia di povertà e di odio. I francesi non si sarebbero sottomessi e nemmeno gli inglesi. La Russia era un sogno irraggiungibile che avrebbe portato solo altro dolore ed altre perdite. Perché l’Alto Comando non lo capiva? Perché non si fermava, accontentandosi dei territori annessi, arrestando l’avanzata e l’alone di morte e di disperazione? Perché… di pazzi era pieno il mondo: l’Europa era una enorme scacchiera, ormai, in cui ogni giocatore muoveva i propri pezzi, cercando solo di distruggere gli avversari. A nessuno importava quello che stava succedendo: sicuramente non a Berlino, la cui sete d’espansione aveva oscurato ogni altro sentimento e valore. Forse, erano gli Alleati ad essere nel giusto? In fondo, si contrapponevano a quella macchina invincibile che era il Reich. Per cosa, tuttavia, combattevano? Per non finire schiavi di una dittatura? Per spartirsi i territori alla fine del conflitto? Per tassare i perdenti fino alla nausea, piegando gli Stati ai loro capricci. Quella situazione era anche causa loro: i tedeschi non avevano seguito un miraggio perché sprovveduti, ma perché troppo stanchi per reagire. Erano incappati in una illusione da cui non riuscivano ad uscire. Le promesse di superiorità, di grandezza… sogni gettati al vento. Nessuno, tuttavia, poteva comprenderlo: erano assuefatti da quelle parole di speranza, dalla voglia di un riscatto mai arrivato. Il Trattato di Versailles aveva piegato la Germania, che ora lottava faticosamente per rialzarsi, per imporsi, per vendicare quei torti. Parigi, naturalmente, era solo la prima tappa.
Si, ma… se fosse stato solo l’inizio della fine? Una inevitabile marcia verso la distruzione? Forse servire il proprio Paese non era il modo giusto di salvarlo. C’erano altre vie, senza dubbio; doveva soltanto trovarle.

Un movimento improvviso lo riscosse da quel turbine di pensieri: Hanji si era alzata, lanciandosi contro il capitano. Lo aveva afferrato per il bavero, minacciandolo:

«Era il mio esperimento! Tu… sudicio escremento! Come ti sei permesso di toccarlo?» il viso, solitamente allegro e spensierato, era irriconoscibile: la bocca era piegata in una smorfia sadica, lo sguardo acceso ed i capelli scarmigliati ricadevano disordinatamente sulle spalle, quasi a sottolineare la momentanea follia «Dovevo presentarlo alla comunità scientifica, scrivere delle relazioni, esporlo nelle università… e tu… hai rovinato tutto. Sei solo un invidioso figlio di puttana… lui… era il mio successo!»

«Hanji… lascialo!» stava intervenendo in favore del capitano? Ridicolo. No, in realtà… stava solo cercando di proteggere una amica. Weilman non avrebbe lasciato correre, se si fosse spinta troppo oltre. Poteva compromettere la propria carriera, ma non poteva permettere che l’unica donna medico ipotecasse così il suo futuro. «Non ne vale la pena» cercò di staccare le mani della dottoressa che, però, erano strettamente serrate sul collo dell’ufficiale.

«Ne vale eccome! Ha distrutto il mio lavoro. Erano anni che…»

«Lo so. Adesso lascialo»

Hanji non fece a tempo ad indietreggiare che una nuova voce si unì a quel coro:

«Oh, sì! Lascialo, fottuta quattrocchi!» accidenti… si era completamente dimenticato del pilota inglese: si agitava sulla seggiola, completamente preda della rabbia, lo sguardo iniettato ancora fisso sul capitano «Lascialo. È mio! Sono io che lo ucciderò! Non me ne frega un cazzo delle tue aspettative. Non dovevi permettergli di portare via Farlan! Perché lo hai fatto? Lo hai autorizzato tu, non è vero?»

«Niente affatto. Razza di imbecille! Mi credi così cretina da lasciare il maggior successo della scienza nelle mani di un folle?»

«Anche tu sei folle! Sei… una pazza scriteriata, che doveva soltanto assicurarsi che Farlan fosse in quel cazzo di letto. Non ti interessava? Non te ne sei presa cura, nemmeno la briga di guardare se stesse bene, se fosse tutto a posto… non ti sei neppure accorta che te l’avevano fottuto da sotto il naso»

«Sta zitto!»

Hanji si stava innervosendo di nuovo… perché non la smettevano, tutti e due? Perché continuavano a rimbeccarsi come fossero due bambini? Evidentemente… a Levi non importava più nulla della sua vita: la voce aveva raggiunto una tale intensità da lasciar trasparire chiaramente i suoi propositi. L’unico scopo, ormai, era rivalersi su Weilman: ucciderlo, vendicare la morte del compagno, cancellare per sempre il ghigno da quel viso arcigno. Il rispetto? Quello probabilmente non sapeva neppure dove stava di casa! Non aveva affatto l’aspetto di uno che crede nella gerarchia; al contrario. Lo scambio di battute sulla zuppa glielo aveva confermato. Il timore reverenziale che si deve ad un superiore, evidentemente, era un concetto che gli sfuggiva. Tipico degli uomini orgogliosi: era così facile da leggere, l’Inglese! Come un libro aperto, con tanto di illustrazioni: era semplicissimo, per lui, intuirne le reali intenzioni. Che erano, in quel momento, le stesse della donna.

Hanji era migliore nel mascherare le proprie emozioni, ma… in quel momento le stava riversando tutte su Weilman. Avrebbe voluto scuoiarlo vivo, glielo vedeva scritto in faccia, utilizzare i suoi organi per esperimenti, tagliuzzarlo sino allo sfinimento come faceva con le sue ranocchie preferite. Lo avrebbe usato come cavia da esperimenti e, in tutta onestà, Erwin sentiva di poterglielo concedere. In quegli istanti, avrebbe concesso qualunque cosa, pur di disfarsi di Herr Kapitan. La verità, però, è che si trovava ancora una volta con le spalle al muro: la vita di dieci francesi, seppure ribelli, era attaccata alle sue decisioni. Ancora una volta, avrebbe dovuto scegliere se salvare o distruggere, se appagare l’orgoglio e la vendetta oppure se ingoiare l’amaro boccone e salvare ignare persone. Non era difficile…

«Sei solo una pervertita! Avevi giurato di salvarlo… me lo avevi promesso!» la voce di Levi si stava incrinando, spezzata dalla tensione, dall’odio e dalla colpa. Si sentiva responsabile per Farlan? Senza dubbio… e stava cercando di appoggiarsi al medico, come per compartire il peso di quella perdita. «Che stai facendo? Lasciami subito, brutta stronza!» Zoe si era avvicinata al prigioniero, cavando una siringa carica dal camice. Gli punse il braccio, all’altezza della spalla, iniettando lentamente un liquido trasparente.

«Sedativo» spiegò, quando scorse la sua occhiata perplessa «Lo avevo preparato per Church, nel caso fosse stato complicato riportarlo in infermeria, ma… credo ne avesse più bisogno lui, al momento.»

Erwin scosse il capo, decidendo di sorvolare, aspettando che il farmaco facesse effetto e costringendosi ad ignorare gli insulti che l’aviatore continuava a far piovere su tutti loro. Qualche minuto ancora e si sarebbe addormentato e gli avrebbe permesso di continuare con Weilman, ancora rannicchiato e con le mani sul viso fracassato.

«Bene…» riprese il Maggiore, quando nella stanza calò nuovamente il silenzio «Temo che non abbiamo altro da dirci. Da oggi, fino a nuova comunicazione, consideratevi sospeso dal servizio» un rinnovato stupore si dipinse negli occhi porcini del capitano. Non gli piaceva quella decisione? Poco male. Non era un suo problema, ecco.

«L’Alto Comando non accetterà mai questa decisione! Quando leggerà il mio rapporto…»

«… Allora penserò al da farsi; nel mentre… rimango un tuo superiore. Vedi di rispettarmi o… baratterò dieci anime con la tua.» era una minaccia, affatto velata. Scorse Weilman rattrappirsi, come una cartaccia buttata in un camino: stringere le braccia, piegare le gambe e chinare il capo.

Fece per voltarsi, scoccando una occhiata al medico che, nel mentre, si stava affaccendando per slegare il pilota dalla seggiola :
«Lo portiamo con noi» sentenziò, accucciandosi per recuperare la figura addormentata e caricarsela in spalla «Non mi fido a ricacciarlo nei sotterranei…» non era prudente, affatto. Weilman avrebbe potuto mandare qualcuno dei suoi sicari ad ucciderlo. Non poteva permetterlo: aveva ancora una faccenda in sospeso da risolvere e non avrebbe concesso a quell’imbecille il lusso di rovinarla.

«Vuoi che lo ricoveri in infermeria?»

Scosse il capo. Troppo complicato, considerato che il capitano aveva persino fatto esplodere un camion pur di mettere le mani su Farlan. Avrebbe fatto altrettanto con Levi? Improbabile, ma non era da escludere. Avrebbe potuto, altrimenti, ricorrere a mezzi più subdoli… un’eccessiva dose di morfina? Veleno nella colazione? Questa volta non si sarebbe lasciato incastrare, però.. avrebbe preso ogni precauzione.

«No. Lo porto in camera mia…»

Una risatina interruppe quella decisione:
«Hai trovato un nuovo giocattolino per la notte, Smith?» perché non taceva, quello stronzo? La sua voce era così irritante. Il pugno in faccia non gli era bastato, evidentemente… ne voleva un altro? «Sbatterti qualche puttana non era di tuo gradimento?»

Non riuscì a trattenersi: la gamba destra scattò automaticamente, la punta dello stivale dritta a colpire nuovamente il volto del capitano, che cadde bocconi. Era conosciuto per essere un uomo pacato e metodico, il Maggiore, ma… in quel momento, la sua proverbiale calma si era mutata in palese rancore.

«Puoi scrivere anche questo nel tuo rapporto, se ci tieni tanto»
Erwin si ritirò, facendo un rapido dietro front. Infilò immediatamente la porta, seguito a ruota dal medico, sparendo poco dopo nel dedalo intricato dei corridoi.
 
 

Angolino: eccomi qui... tra ieri e oggi, purtroppo, sono riuscita a combiare solo questo capitolo ç_ç ho dovuto rallentare un pochino il ritmo iniziale, causa impegni. Spero, comunque, di poter aggiornare presto..anche se questo weekend sarà un mezzo caos XD
Allora, parto col dire ... che vi ringrazio per i consigli che sempre mi mandate e per le recensioni al capitolo scorso (devo ancora rispondere ad una ragazza, ma lo farò prestissimo! Mi dispiace non essere ancor riusca!). Non ho molte note da fare in questo capitolo, che spero sia di vostro gradimento: al solito, mi auguro solo di non deludere le vostre aspettative, per me molto importanti e preziose ^^ Pian piano, la storia prende forma... sono davvero contenta che vi piaccia (so che mi ripeto <3): i personaggi non rispecchiano fedelmente gli originali, ma spero che possano, più che altro, adattarsi al contesto della Seconda Guerra Mondiale. So che come capitolo è sicuramente più leggero del precedente... anche se, per assurdo, ho fatto ancora più fatica a scriverlo (non so spiegarvi il perché) e forse mi soddisfa anche meno.. non so, è proprio difficile questo pezzo ç_ç all'inizio doveva essere un capitolo solo, con un semplice cambio di prospettiva, ma...mi sono accorta che il precedente sarebbe venuto troppo lungo, se avessi seguito quest'idea. Così mi sono accontentata di spezzarli in due: il momento e l'ambientazione è la stessa del precedente, cambia solo il punto di vista della storia.
Al solito, se trovate errori o schifezze varie, fatemelo sapere, sarò felice di correggerli <3
Un abbraccio e ancora millemila grazie!

ps. Putroppo, Weilman ce lo dovremo tenere ancora per un pochetto.. anche se lo odiate (lo odio a mia volta...), ma... ci servirà ancora, temo.
pps. Ri-purtroppo avevo dimenticato di inserire il doppio spazio...ora ho modificato, cosi dovrebbe essere più leggibile <3

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Un vecchio debito ***


9. Un vecchio debito
 
Marzo 1942. Fronte Occidentale, Francia. Base tedesca.
 

Levi stiracchiò pigramente le braccia, rifiutandosi di aprire gli occhi. C’era un profumo fresco nell’aria e della brezza leggera che gli sferzava le guance. Le lenzuola in cui era avvolto sapevano di pulito, di sapone francese, mentre il cuscino era incredibilmente morbido. Senza dubbio, sotto la federa ruvida, si nascondevano un migliaio di piume d’oca. Anche il materasso era comodo: ne coglieva la lieve rigidezza oltre la schiena, ma non era una sensazione spiacevole. L’imbottitura lo cingeva con cura, cullando il sonno ormai sul finire. Vi era della luce, lo percepiva anche attraverso le palpebre chiuse.

Per fortuna era giorno! Aveva fatto un sogno orribile: lungo, interminabile, in cui il suo Spitfire era precipitato. La prigionia, le torture, la morte … erano parte di quell’incubo che lo aveva tormentato nelle ultime ore. Ad un passo dal risveglio, però, i ricordi si mescolavano alla fantasia. Nulla di ciò era successo: si trovava ancora in Inghilterra, probabilmente in una della più sfarzose stanze di Buckingham Palace. Re Giorgio VI lo aveva invitato nella reggia? Senza dubbio, come si conviene ad un giovane conte del Commonwealth. La sensazione impastata della lingua era sicuramente dovuta ai festeggiamenti della sera prima: si era dedicato al vino, senza preoccuparsi dei suoi effetti successivi. L’alcool gli aveva dato talmente alla testa, che neppure ricordava come avesse raggiunto la sua camera. Poco male, lo avrebbe domandato alla servitù.

Lentamente, riaprì lo sguardo, indugiando sull’aspetto della stanza: era alloggiato in un ampio letto a baldacchino, i cui tendaggi color porpora erano allacciati da fini cordoni argentati. Una trapunta verde scuro lo copriva, intonata al largo scendiletto alla sua sinistra. Le pareti erano rivestite da carta da parati, richiamante dei motivi geometrici e floreali: l’oro ed il rosso si alternavano con precisione matematica, riflettendo la luce che filtrava dalla grande porta a vetri; oltre questa, un balcone in marmo chiaro accoglieva alcuni vasi di fiori, dove i germogli facevano timidamente capolino ai raggi di un mattiniero sole. Una scrivania ed una libreria erano alloggiate nell’angolo vicino ad una finestra, mentre poco oltre un secondo ingresso ammetteva ad un bagno privato, di cui riusciva a scorgere soltanto il la vasca in ceramica chiara. Dirimpetto, un largo cassettone ed uno specchio, intento a riflettere la sua immagine stanca: il volto affilato era ancora coperto di lividi e tagli ormai asciutti, mentre i capelli arruffati sparavano in ogni direzione. Una camicia larga e candida vestiva la sua figura, mentre una coppia di bende gli cingeva i polsi, laddove i ferri li avevano malamente sfregiati. Armeggiò qualche attimo con il tessuto della veste, sollevandolo sino al fianco destro: una fasciatura pulita lo circondava strettamente.

Aggrottò la fronte, mentre la verità si dipanava lentamente: non era un conte e quello non era Buckingham Palace. Era solo una camera riccamente arredata, stretta tra un soffitto a volta in pietra ed un lucido parquet. Realtà e sogno si erano nuovamente invertiti: dall’essere un aristocratico in visita al sovrano, era ritornato ad essere un misero pilota della Raf in mani nemiche. Sbuffò leggermente, direzionando lo sguardo alla propria destra: poco lontano, vi era un divanetto ed una coppia di poltrone, accompagnati da un basso tavolino da the. Appena oltre, vicino al caminetto spento incastonato nella parete, un tavolo ingombro di carte ed accompagnato da alcune seggiole imbottite; su una di queste, immerso nei suoi pensieri, sedeva il maggiore Smith.

«Emh… » Levi tossicchiò, cercando di richiamarne l’attenzione.

Ottenne in breve l’effetto sperato; scorse il biondo distogliere l’attenzione da alcune mappe e posarla su di lui:
«Noto che ti sei svegliato» la voce era stanca, immancabilmente profonda ma quasi provata «Buongiorno. Spero tu abbia riposato»

Era insolito quel tono, soprattutto per un ufficiale tedesco. Non riusciva bene ad inquadrarlo: si stava comportando da amico per estorcergli altre informazioni? Non che avesse molto altro da dire: aveva già vuotato il sacco, un attimo prima che Weilman sparasse a Farlan.

Quel ricordo lo colpì con la violenza di uno schiaffo: Farlan… non c’era più. Doveva abituarsi a quell’assenza, al vuoto che sentiva crescere dentro di sé, alla sensazione di abbandono. L’artigliere lo aveva lasciato per sempre ed ora non aveva più nessuno a cui aggrapparsi: nessuno con cui condividere paure, preoccupazioni, ricordi e gioie. Nessuno. Era solo. Doveva cavarsela con quei pochi mezzi che aveva. Cercò di scacciare una sensazione pungente agli occhi, quando le immagini del giorno prima tornarono ad insidiargli la mente: il corpo steso a terra, lo sguardo vacuo privo di accuse o di rimorsi, quel leggero perdono che ancora poteva leggere sulle labbra incrinate ed il sangue mescolato alle ultime lacrime. Non voleva, né doveva pensarci! Poteva solo cercare di rimanere concentrato sul momento, per impedire che Smith facesse leva su quei sentimenti per ottenere altro. Non avrebbe aperto bocca: non avrebbe tradito l’Alleanza; ormai, non aveva più niente da perdere. Farlan se n’era andato e con lui ogni speranza di un ritorno alla normalità. Niente sarebbe più stato come prima: Isabel lo avrebbe disprezzato, avrebbe perso la fiducia, lo avrebbe allontanato e rinnegato. La loro pace era distrutta per sempre e la colpa, naturalmente, era anche sua. Non doveva pensarci, però! Non avrebbe permesso a quei ricordi troppo freschi di ferirlo nuovamente, non davanti al tedesco. Non voleva farsi vedere nuovamente ferito, debole nel profondo. Prese un profondo respiro, cercando di schiarirsi la mente e di accantonare, per un momento, l'allungarsi delle ombre sulla sua coscienza.

«Ti ho chiesto se ti senti meglio» il tono del Maggiore tornò a farsi sentire, strappandolo da quelle preoccupazioni.

Annuì brevemente, stringendo lentamente le coperte sotto le dita affusolate:
«Per modo di dire…» sussurrò, tornando a spiare la stanza «Cosa ci faccio qui?»

«Non mi sembrava prudente lasciarti in cella da solo. Ho preferito tenerti sott’occhio»

«Temevi che fuggissi?»

«Che ti ammazzassero, più che altro…Weilman non è un uomo incline al perdono, te ne sarai accorto. Non potevo permetterlo»

«Perché no? In fondo, sono soltanto un Inglese. Chissà quanti ne avrai assassinati, prima d’ora» alzò le spalle, come se la cosa non gli interessasse più, ormai. Tornò a studiare la figura dell’ufficiale: Erwin sembrava davvero provato, come se non riuscisse a sopportare il peso degli ultimi avvenimenti; le mani robuste stringevano un calice di vino rosso «Che ore sono?»

«Le dieci e trenta, all’incirca»

«Non credi sia un po’ presto, per bere?»

«Non è mai troppo presto» il biondo gli tese un secondo bicchiere, pieno fino all’orlo «Potresti averne bisogno»

Sì, probabilmente aveva ragione. Scalciò via le coperte, rimettendosi in piedi. La caviglia slogata protestò a quel trattamento, ma il bendaggio la tenne salda e le impedì di cedere. Accomodò la camicia, celando al meglio le gambe nude, per poi marciare verso il tavolo. Afferrò il vino, prendendone un sorso veloce: il sapore corposo bagnò le fauci secche, donandogli un immediato sollievo.

«Che fine hanno fatto i miei vestiti?» chiese, allargando piano le braccia. Accidenti, quell’indumento era decisamente troppo largo. Gli cadeva lungo le spalle, sui polsi, arrivando a sfiorargli la pelle delle cosce. Probabilmente, era di qualche tedesco… anzi… sicuramente. Del Maggiore? Sì, facile, a giudicare dalla taglia abbondante.

«Hanji li ha cestinati. Ieri sera, quando ti abbiamo portato qui, ha insistito per darti una ripulita e cambiarti le medicazioni» una pausa, un piccolo moto ironico «Non fare quella faccia! È un medico, dopo tutto»

Faccia? Non se ne era reso conto, ma un leggero rossore gli era affluito alle guance, come retaggio di un pudore indesiderato. L’idea che quella psicopatica gli avesse messo le mani addosso mentre dormiva, lo faceva sentire a disagio. Certo, una laurea in medicina avrebbe dovuto rassicurarlo, ma… non riusciva a non provare vergogna: il pensiero che qualcuno si fosse “preso carico” di lui era insopportabile per il suo orgoglio. Perché diamine lo stavano aiutando? Non aveva bisogno dell’elemosina di nessuno! Sapeva lavarsi e cambiarsi da solo, tanto per cominciare… faceva pena? Suscitava compassione persino nei suoi nemici? Merda, no! L’amor proprio rifuggiva da quella ipotesi, agitandosi come un leone ferito: non aveva bisogno di nessuno, men che meno di una pazza tedesca con manie di protagonismo.

«Lo so benissimo che è un medico!» scattò, sollevando il bicchiere e prendendo un altro po’ di vino. Forse quello avrebbe giustificato l’arrossarsi delle gote «Non mi interessa, comunque. Non mi serve il vostro aiuto! So cavarmela da solo. Non voglio pietà, né compassione, né…»

«Lo so. Non ci fai compassione, nemmeno un po’.» l’ufficiale lo stava evitando: teneva lo sguardo fisso al nulla, come se stesse ormai pensando ad altro «Ciò non toglie che la tua divisa fosse da buttare. Ti abbiamo solo rimediato qualcosa di comodo per la notte» un’altra piccola pausa, una leggera nota sarcastica nel successivo dire «E prima che ti faccia strane idee, Inglese… ho dormito sul divano»
Ecco spiegato il perché dei cuscini stropicciati, dunque: il sofà era in un evidente stato di disordine, con le coperte gettate alla rinfusa ed i guanciali schiacciati in più punti.

C’era, comunque, ancora una cosa che non riusciva a comprendere: perché tutte quelle premure? Erano nemici, no? Che senso aveva, dunque, riempirlo di attenzioni? Arrivare a salvarlo dalle grinfie di Weilman, soprattutto ora che non aveva più informazioni da regalare… portargli la zuppa - anche se fatta con i polmoni di qualche cadavere - chiedere di parlare, sopportare le bugie. In effetti, Erwin aveva ammesso d’essere a conoscenza della caduta di Saint Quentin nelle mani dei francesi. Di conseguenza, era anche consapevole delle falsità che gli aveva raccontato: sapeva che stava mentendo, ma nonostante ciò… non aveva fatto niente! Non lo aveva torturato, non lo aveva privato del cibo, anzi… aveva fatto curare Farlan e controllare le sue ferite. Perché? Stentava a credere che fosse il trattamento standard per tutti i prigionieri alleati. C’era dell’altro, qualcosa che il tedesco non gli aveva ancora detto.

«Non mi faccio strane idee!» sbuffò, facendo per indietreggiare come un gambero, sino ad accomodarsi sul bordo del letto «Però… non capisco. Perché ti ostini a salvarmi?»

«Non salvo proprio nessuno»

«Vai a raccontarlo a qualcun altro» cos’era, l’ennesimo tentativo di sviare il discorso? In effetti, in quelle circostanze, il biondo non assomigliava affatto ad un gerarca nazista, quanto più ad un uomo provato dagli ultimi avvenimenti, un soldato che si vede strappare ogni cosa, tutto ciò per cui ha lottato duramente, per… la vita di un nemico? Non aveva alcun senso! Perché Smith si ostinava a contrastare Weilman? In fondo, il capitano era  sadico, spietato, ma… era suo compito interrogare un prigioniero, cavandogli la verità ad ogni costo.Non condivideva affatto quei metodi, ma non si illudeva che tra gli Alleati ci fossero poi persone migliori: entrambi gli schieramenti ricorrevano alla tortura, per necessità. Certo, Weilman sembrava divertirsi solo a far quello, ma… non era il suo il comportamento anomalo! Era quello di Smith! Perché proteggerlo e salvare delle vite che, in fondo, erano in netto contrasto con la Germania? Aveva dei rimorsi di coscienza e sperava di lavarla così? Prese coraggio dopo un altro po’ di vino «C’è qualcosa che non dici e non ne capisco il motivo. Credo … sia un mio diritto sapere perché…»

Lo vide sbuffare, come se quella curiosità fosse inopportuna:
«Il mio nome non ti dice proprio nulla, eh?»

Erwin Smith? No, nulla. Sapeva soltanto che Smith non era un cognome tedesco, ma… lo stesso Erwin lo aveva ammesso un paio di giorni prima: era Inglese per un quarto, ecco. Non era, però, una giustificazione sufficiente per quel comportamento: di nazisti col sangue misto se ne contavano a bizzeffe, anche se cercavano di nasconderlo. La cosa, ovviamente, era reciproca: tra gli Alleati vi erano bravi soldati con origini germaniche. E allora? Non contava certo la tua discendenza, in guerra! Solo dove era rivolta la tua fedeltà!

«Niente» scosse il capo, come a sottolineare quel concetto. Perché non la piantava di fare il misterioso, quello lì, e non vuotava il sacco?

«Permettimi di farti una domanda: Kenny Ackerman è tuo padre?»

«No» un’ombra passò sul volto del biondo, che si rischiarò pochi istanti dopo, al suo proseguire «Non ho mai conosciuto mio padre… credo fosse uno dei tanti amanti della mamma e… beh, non so di chi sono figlio. Non che la cosa mi importi» sussurrò, prima di specificare «Kenny, comunque, è mio zio. Lo conosci?»

«Non personalmente. So che ha combattuto durante la prima guerra. Ha salvato mio padre, mentre era al fronte.»

Eh? Figurarsi! Era impossibile… sicuramente quel citrullo si confondeva con qualcun altro. Zio Kenny che salvava qualcuno, pff… ridicolo:
«Ti sbagli. Kenny… non penso conosca la pietà e neppure la compassione. È impossibile, fidati, che abbia salvato tuo padre. Magari era un altro Kenny»

«Non credo. Ci aveva lasciato un indirizzo» ascoltò rapidamente la via, confermandola con un cenno del capo.

Era giusto, accidenti! Che cavolo aveva combinato lo zio? Possibile che il suo passato fosse così oscuro? In fondo… non sapeva proprio niente di lui. Era sempre stato così sfuggente, distante… a tratti si interessava del nipote e della sorella, a tratti li lasciava perdere. Quando si era arruolato, ad esempio, mandava costantemente piccoli assegni di mantenimento, poi inspiegabilmente interrotti… e, altrettanto inspiegabilmente, il flusso di soldi era ricominciato alla fine della guerra. Mah… quell’uomo era sempre stato un mistero su cui non indagare.

«D’accordo… abita ancora lì. Continuo, però, a dubitare: non è davvero tipo da carità!»

«Immagino, ma... credo abbia salvato mio padre per mero tornaconto, considerato che inviavamo a Londra non meno di ottocento Reichsmark al mese. Una parte, da quanto so, la destinava a te ed a tua madre.»

Ah si? Non ne aveva idea. Era troppo piccolo, all’epoca, per invischiarsi in certe faccende. Ricordava, però, che dopo il 1918, le cose erano migliorate notevolmente: Kuchel, sua mamma, aveva smesso di prostituirsi, dedicandosi soltanto al commercio della frutta. Aveva attribuito quella fortuna alla fine del conflitto, ma… forse non era tutto merito della storia, se le loro condizioni si erano fatte più abbienti. Si erano potuti permettere persino dei vestiti nuovi e della cioccolata!

«Capisco» sussurrò, storcendo la punta del naso «Quindi… è grazie alla tua famiglia se la mia infanzia non è stata uno schifo completo.» ah, merda! Doveva pure dei soldi a quell’idiota di Smith, allora? Peccato che il suo stipendio da caporale non arrivasse neppure a coprire un terzo del debito «Buono a sapersi… e io che pensavo che Kenny si fosse trovato un lavoro onesto» ci voleva un altro sorso di vino. Che illuso era stato! Credere che suo zio avesse messo la testa a posto e fosse diventato una brava persona, un eroe di guerra con tanto di onori e vitalizio passato dallo stato. Assurdo. C’era un trucco, come in tutto quello che Kenny faceva: nessuna medaglia al valore, solo il ricatto di una famiglia nemica.

«Merito del signor Ackerman, più che altro, se ho avuto una famiglia. Mio padre… sarebbe morto, se Kenny non lo avesse salvato. Inviargli dei soldi per il mantenimento della sorella e del nipote, era il minimo che potessimo fare»

«A noi passava circa… cinquanta sterline al mese»

Per la seconda volta, il viso di Erwin si incupì; evidentemente, i conti non tornavano assolutamente. Non aveva idea di quanti Reichsmark fossero cinquanta Sterline, ma… sicuramente meno del dovuto:
«Vi dava circa un quarto della somma pattuita.»

«Non stupirtene: Kenny non è mai stato un giusto, né un onesto. »

«Immagino tu non abbia mai ricevuto, allora, le mie lettere…» Lettere? Cioè? Non aveva mai ricevuto niente di niente, men che meno missive alla Germania! Scosse nuovamente il capo, invitando il biondo a proseguire «Sapevo che il signor Ackerman aveva un nipote, per cui… scrivevo ogni estate. Ti chiedevo sempre come stavi, come era il tempo a Londra, di parlarmi della tua famiglia. Non ho mai ottenuto risposta. Credo d’avertene scritte…tre … o forse quattro…prima di lasciar perdere»

«Non mi sono mi arrivate» sentì il dovere di scusarsi: in fondo, non era colpa sua se Kenny non gli aveva mai trasmesso i messaggi – sicuramente finiti a bruciare in un caminetto – ma si sentiva comunque in torto. Era come se Erwin lo conoscesse da sempre e lui, invece, non avesse neppure la minima idea di quell’esistenza. Probabilmente, il piccolo Smith aveva sofferto cocenti delusioni: il suo amico di penna neppure si degnava di rispondergli, anzi… neppure leggeva le sue lettere! Eppure si impegnava così tanto a scriverle; lo poteva immaginare, un bambino biondo arrampicato sul tavolo della cucina, attorniato da carta bianca, inchiostro e dizionari di inglese. Magari gli aveva spedito anche qualche disegno, fatto con preziosi pastelli colorati, difficilissimi da reperire in tempo di guerra «Mi dispiace» concluse, abbassando lo sguardo al bicchiere di vino. Uff, era quasi vuoto.

«Non fa nulla. Sono passati troppi anni perché ti porti rancore» la voce del biondo aveva ripreso una piccola sfumatura accesa.

«Ancora non capisco, però… »

«Perché mi ostino a salvarti? Ripago soltanto un vecchio debito. È il minimo che possa fare per l’uomo che ha protetto mio padre»

«Guarda che Kenny non l’ha fatto perché era pio, devoto e compassionevole…»

«Lo so; non mi importano le sue motivazioni. Non ho mai desiderato conoscerle. Gli sono comunque grato per quello che ha fatto» Erwin si alzò, sfilandogli accanto per raggiungere il cassettone. Cavò un paio di pantaloni ed una camicia, disponendoli sul letto, accanto ad un gilet rosso scuro «è il meglio che abbiamo trovato per la tua taglia. Provali dopo, per favore»

Ah? Vestiti puliti. Sembravano davvero della sua misura, anche se non particolarmente caldi. Sfiorò con le dita il tessuto fresco, appena lavato, prima di risollevare il capo:
«Non credi che mi dovresti delle altre spiegazioni?»

«Ad esempio?»

«Beh, non posso rimanere qui per sempre. Non che mi dispiaccia! Camera tua è sicuramente meglio delle prigioni, ma… come la mettiamo col capitano ubriacone?­» quello era una vera spina nel fianco, nonché fonte di preoccupazione. Erwin era sicuro di poterlo tenere sotto controllo?

Il biondo, tuttavia, scosse frettolosamente il capo:
«Ne parleremo più tardi. Hanji verrà qui per cena. Faremo il punto della situazione»  marciò verso l’ingresso, premendo la maniglia dorata «Ho del lavoro da sbrigare. Rimani qui, per favore. Hai l’intera libreria a tua disposizione. Resta a letto, riposati e…non aprire a nessuno, non affacciarti neppure sul balcone. Chiuderò a chiave, per sicurezza. Ah… se trovi dei rapporti di Berlino…sappi che non mi importa se li leggerai o meno… ammesso che tu sappia il tedesco»

«Non lo conos…» Levi non fece in tempo a terminare la frase.

il Maggiore sgusciò oltre l’uscio, richiudendo la porta oltre le proprie spalle, serrandola a doppia mandata.

 

Angolino: buona sera ^^ mi scuso se ieri non sono riuscita ad aggiornare... sono riuscita a connettermi solo ora, così posso lasciare il capitolo nuovo *_* Allora, come sempre vi ringrazio per le recensioni ai capitoli scorsi, graditissime davvero! e per i consigli e tutti gli aiuti che mi sono arrivati pian piano. sto cercando di attuare tutti i vostri consigli, per poter migliorare nella scrittura <3 siete state gentilissime a mandarmeli, davvero!
Al momento.. ci troviamo un attimo in una situazione transitoria (questo è un altro capitolo che ho dovuto spezzare, a causa della lunghezza imprevista), ma che conto di risolvere al più presto per portare avanti la trama: ci saranno un po' di dialoghi in questo pezzetto, che devo capire bene come gestire per far quadrare tutto. Mi scuso se la storia in questo tratto risulterà meno coinvolgente dei capitoli scorsi ç_ç spero di che non vi annoi troppo ( e spero di riuscire a riprenderla in tempo ^^). Ah, dimenticavo... Reichsmark - stando a Wikipedia - era la moneta in uso nel Reich durante la guerra... non so, naturalmente, a quanto corrisponda, quindi... sono andata a occhio, inventando un po' le quantità XD se avete suggerimenti o correzioni, scrivetemi! Sarò felice di apportare ogni modifica ^^
Un abbraccione e ancora un ringraziamento a tutte! <3


 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Opera di convincimento ***


10. Opera di convincimento


Marzo 1942. Fronte Occidentale, Francia. Base tedesca.


Hanji scivolò oltre il doppio battente, ben attenta a non farsi vedere. La giornata era stata terribilmente impegnativa: un paio di feriti erano peggiorati; aveva passato le precedenti ore a cercare di stabilizzarli, ma non c’era stato niente da fare. Erano deceduti dopo una lenta e silenziosa lotta. Aveva incaricato Moblit di occuparsi delle salme, mentre lei si cambiava velocemente d’abito.

Aveva indossato la divisa formale, composta da una gonna al ginocchio e da una maglia bianca, dove aveva appuntato i gradi di ufficiale medico. Si era data una rapida sistemata ai capelli perennemente in disordine, prima di inforcare gli occhiali e raggiungere gli appartamenti di Smith.

«Sono qui» annunciò, gettando uno sguardo alla camera: il tavolo a sinistra era stato riordinato; le carte e le mappe erano accatastate in un basso cestino, mentre una tovaglia in cotone bianco accoglieva un servizio di ceramiche squisitamente rifinite. Era apparecchiato per tre, ma non ne fu sorpresa: era chiaro che l’Inglese avrebbe cenato con loro. Anzi… per la verità, Levi era già seduto.

Gli scoccò una lunga occhiata, prima di modulare un piccolo sorriso:
«Noto che i vestiti di Fredrik ti vanno a meraviglia! Sapevo che avevate la stessa taglia»

«Fredrik?» vi era dello sbigottimento nella voce del prigioniero. Povero ingenuo… davvero non immaginava la provenienza di quegli abiti?

«Beh, si… era il nostro aiuto cuoco… prima che saltasse in aria per una granata» sogghignò, al vederlo storcere il naso «Non fare quella faccia! Sono puliti, li ho fatti lavare prima di portarteli»

Ah, quanto era difficile quel tizio: che credeva, d’essere in villeggiatura? Insomma, non poteva pretendere molto da una caserma tedesca. Fino ad ora, avevano fatto il possibile per tenerlo al sicuro, metterlo a suo agio, trovargli una sistemazione decente ed una camicia che non sapesse di sangue e muffa.

«Hanji» la voce di Erwin rimbombò nella stanza, mentre il biondo usciva dai servizi. Aveva ancora i capelli umidi, segno del recente bagno, ma aveva accantonato la divisa in favore di un paio di pantaloni scuri e di un maglione leggero «Ben arrivata. Accomodati»

Non se lo fece ripetere due volte. Sprofondò su una seggiola, allungando le gambe e stiracchiando le braccia. Era decisamente stanca: tutto quel lavoro e le recenti notizie, l’avevano scombussolata. A proposito… c’era ancora una faccenda in sospeso di cui parlare, da chiarire il prima possibile.
Cavò dalle tasche della gonna un paio di foglietti, dispiegandoli accuratamente sul tavolo.

«Ho notizie da Berlino» sussurrò, osservando per un lungo istante il volto dei suoi interlocutori: Erwin si era incupito, come se sospettasse il contenuto di quelle missive. Levi, invece, era solamente perplesso e, probabilmente, curioso di sapere perché due tedeschi si affrettassero a leggere messaggi segreti davanti ad un nemico. Non che quelle informazioni fossero poi così importanti, però… in realtà, riguardavano anche il pilota, seppure indirettamente «Sono arrivati due telegrammi… il primo è il nulla osta alla mia richiesta di trasferimento»

«Hai fatto domanda per cambiare base?» il Maggiore sembrava quasi deluso: credeva volesse abbandonarlo? Probabilmente, ma… non aveva idea di come si erano messe le cose!

«Sì. Dopo quello che è successo a Church, al camion dei soldati e le minacce ricevute… non ho nessuna intenzione di rimanere al servizio di Weilman. Ho chiesto d’essere trasferita a Bruxelles ed hanno accettato subito la mia domanda. Dopodomani, arriverà un nuovo medico qui ad Arras. Mi rimpiazzerà lui.»

«Peccato, davvero. Sono dispiaciuto di questa tua… decisione, ma la capisco benissimo. Herr Kapitan sta diventando una spina nel fianco. Forse, però… se me ne avessi parlato prima, avremmo potuto trovare una alternativa. Il trasferimento mi sembra una soluzione molto drastica»

«Già, ma non ho altre possibilità. Naturalmente, Moblit verrà con me!»

«Perderemo due validi elementi»

«Tu non perderai proprio niente» allungò il secondo foglio sul tavolo, lasciandolo nelle mani dell’ufficiale. Attese che Erwin lo leggesse, cogliendo il senso di quelle poche parole «è un telegramma dall’Alto Comando. Per la precisione, la risposta che Weilman tanto aspettava. L’ho rubato dalla sezione comunicazioni: non sa che è arrivato. Conto di darglielo domani sera; il mio cambio arriverà il giorno seguente e potrò andarmene senza sorbirmi le sue stupide lamentele… e, soprattutto, questo vi darà il tempo necessario per scappare.»

«Scappare? Non intendo andare da nessuna parte!» sapeva che si sarebbe impuntato. Non era uomo da abbandonare il proprio lavoro o, peggio, scappare dalle proprie responsabilità. Il problema, era fargli cambiare idea «Non ho fatto niente di sbagliato. Sono pronto a sottopormi al giudizio della corte, se necessario»

«Non ci sarà nessuna corte, Erwin! Hai letto bene il messaggio?» lo recuperò, strappandolo dalle mani robuste «Comunicare al maggiore Smith: rimanere in attesa di nuove. STOP. Berlino fornirà contatti e direttive. STOP. Considerarsi sospeso fino a ordine.» cosa c’era da capire in quello stupido messaggio? Erwin aveva evidentemente perso la sua carica: da quel momento, Weilman sarebbe subentrato come guida della base tedesca e, peggio ancora, l’Alto Comando non aveva ancora deciso le sorti dell’ex-maggiore. In quei casi, c’erano due possibilità: una convocazione per spiegare le proprie ragioni davanti ai generali – poco probabile: avevano sempre di meglio da fare che ascoltare le motivazioni dei subordinati – o l’arrivo di una fialetta trasparente, con l’invito a berla tutta d’un sorso e ad inviare cartoline dall’altro mondo – di gran lunga la via preferita. «Non puoi rimanere qui! Devi andartene. La caserma passerà in mano a quell’idiota e chissà cosa combinerà. Per di più, le sue lamentele hanno trovato terreno fertile nella capitale. Lo sai cosa succederà: ti chiederanno di spararti un colpo in testa, con gli omaggi del Fuhrer.»

«Se accadrà, mi muoverò di conseguenza»

«”Se accadrà”? Non hai capito… accadrà sicuramente! Weilman ti ha già scavalcato. La tua parola non conta più nulla, ormai, mentre la sua è legge. Posso ritardare la consegna del messaggio di ventiquattro ore, ma non posso certo buttarlo nel cestino. Ti sto solo avvisando: prendi le dovute precauzioni»

«Non devo prendere assolutamente niente. Non ho colpe»

«Ah no? Allora dovresti farlo presente a Berlino, perché non mi sembra che la tua strategia del bravo ragazzo abbia funzionato! Dovresti prendere esempio da Weilman, magari… lui sa come cavarsela, almeno»

«Io non sono fatto così…»

«Benissimo, ma… questa cosa non interessa a nessuno, men che meno ai generali» sbuffò, sistemandosi gli occhiali sul naso. Perché era così difficile farglielo capire? «I concetti sono semplici: sei stato destituito, rimpiazzato da un imbecille e presto ti verrà notificato l’ordine di arresto, la pena di morte o quello che è… pensi davvero di poter affrontare tutto quanto?»

«Non posso fare altrimenti…»

«Certo che puoi, anzi… devi!»

«Non intendo scappare»

Ah… che testardo! Non sarebbe mai riuscita a fargli accettare una soluzione simile… forse tanto valeva lasciar perdere, cestinare i telegrammi e godersi la cena. Spostò lo sguardo sull’Inglese che, nel frattempo, sedeva zitto a braccia conserte. Ecco la scappatoia! Un’idea le illuminò il viso:
«E di lui che ne farai? Hai fatto tutto questo casino per… sottrarlo a Weilman ed ora? Glielo restituirai semplicemente?»

Scorse una vaga indecisione passare sul volto dell’ufficiale. Si congratulò con sé stessa: aveva toccato il tasto giusto. Era ovvio che Erwin tenesse particolarmente al prigioniero, anche se non riusciva a comprenderne il motivo: era meglio non indagare, non chiedere e limitarsi a sfruttare quella scusa.

«Levi non è un oggetto» fu la risposta secca. Oh, perfetto! Era davvero la spinta che cercava.

«E…?»

«Lo faremo fuggire domani notte, senza che Weilman se ne accorga»

«Ottima idea! Così avremo un prigioniero evaso ad arricchire il tuo fiorente curriculum. Senza contare che lo riacciufferanno in meno di dodici ore, considerato che non sa dove andare, come orientarsi e non spiccica una parola di francese o di tedesco. Lo cattureranno subito e tu renderai solo le cose più interessanti per Herr Kapitan»

Si interruppe, osservandolo riflettere qualche attimo. Sapeva d’aver colto nel segno: Erwin non era disposto a separarsi dal pilota, men che meno abbandonandolo nella sperduta campagna francese. Forse sarebbe riuscita a convincerlo. Doveva rincarare la dose, aggiungere una seconda motivazione, qualcosa che costringesse il Maggiore a svignarsela:

«Credi davvero che da morto saresti utile a qualcuno?» riprese, abbassando gli occhiali per asciugarsi il dorso del naso con la mancina «Lo sappiamo entrambi che hai accettato quest’incarico solo per servire al meglio il tuo Paese, ma… non ti chiedi mai se questo Paese ti meriti?» era già a conoscenza dei dubbi che da tempo lo tormentavano: era il momento di sfruttarli a dovere «Pensi che salverai la Germania da una prigione o dalla tomba? Riflettici su! Dici sempre di voler aiutare la tua nazione, i cittadini, di voler riportare l’ordine e la serenità, ma… la guerra sta distruggendo ogni cosa! Non è più controllabile, questa situazione: io sono un medico, posso scegliere di andarmene e continuare a curare i feriti tedeschi altrove, ma… tu? Sei un soldato e dovresti eseguire gli ordini. Non ti stanno bene? Peggio per te. Li dovresti svolgere comunque, senza fiatare. Invece… non lo fai. Stai cercando in tutti i modi di scaricare la coscienza, di ripulirla dai tuoi precedenti errori! È per questo che ti ostini  a salvare nemici: non perché sei buono e misericordioso! La verità, è che sei un egoista che desidera solo sciacquarsi le mani sporche.» lo vide aggrottare la fronte, come se quella verità lo infastidisse, ma decise di continuare «Il fine, però, non è importante: ciò che conta sono le vite che riesci a salvare. Per Berlino questo comportamento è fastidioso ed inaccettabile: devi scegliere, allora… piegarti alla volontà dei generali? Significa ritrattare, Erwin… rinnegare tutto quello che hai fatto, cambiare registro ed adattarti alle direttive centrali; ah, naturalmente anche consegnare il tuo prezioso Inglese a Weilman» un’altra pausa, per permettergli di assorbire quelle parole «Non pensi che ci sarebbero metodi migliori per aiutare la Germania?»

«Per esempio?»

«Potresti collaborare con gli Alleati»

«No»

Uff… era più difficile del previsto:
«Non scartare a priori quest’idea! Conosci molti piani, le ubicazioni delle basi naziste, il quantitativo esatto degli uomini impegnati e dei rifornimenti e…»

«Non tradirò il mio Paese»

«Davvero? Ma questo Paese ha tradito te. Vuoi ancora essergli fedele? Vuoi vederlo crollare del tutto, piegarsi sotto il peso della corruzione, delle menzogne dei generali e della pazzia del Fuhrer? »

«Non ho detto niente del genere»

«Ma è quello che succederà se non cerchiamo di cambiare le cose! Io… sono solo un medico, ma… tu puoi. Dannazione, Erwin! Puoi fare questo e molto altro… so che non desideri lasciare la Germania nelle mani di questi folli, così come non lo desidero io. Tu… puoi fare molto. Puoi raggiungere gli Alleati, svelare i piani di Weilman, fermarlo e… forse così troveresti davvero il riscatto che agogni!»

«E se non lo trovassi? Se aggiungerei solo un altro peso alle mie colpe?»

«Non puoi saperlo se non provi»

Lo vide arricciare le labbra in una smorfia pensierosa, mentre una mano si alzava timidamente ai margini del suo campo visivo. L’Inglese? Si era quasi dimenticata fosse lì ad ascoltarli. L’aveva usato come scusa, ma non aveva minimamente pensato di interpellarlo. Non che la sua opinione contasse qualcosa, ovviamente: come prigioniero aveva voce in capitolo quanto un comodino. Anzi, forse anche meno…

«Che c’è?» chiese, scoccando una occhiata a Levi che, nel mentre, si stava dondolando pigramente sulla seggiola.

«Volevo solo esprimere il mio parere»

«Non credo sia rilevante ai fini della conversazione» fece notare, tornando a strofinare gli occhiali. Ah, perché non stava zitto? E se avesse rovinato tutto il suo lavoro? Se avesse distrutto l’opera di convincimento che stava lentamente edificando?

«Invece sì. Io penso che dovremmo andarcene tutti quanti» illuminante, davvero… dove era stato nell’ultima mezz’ora, quello? Non aveva ripetuto altro che cose già dette «Erwin… capisco le tue titubanze, i dubbi e… tutto quanto. Guardo solo le cose da un’altra prospettiva: se lasciassi la Germania, beh… non dico che gli Alleati ti accoglierebbero a braccia aperte, ma sono sicuro che ti concederanno l’amnistia più completa se fornirai le giuste indicazioni»

«Non temo il giudizio dei miei nemici, Levi.»

«Sì, ma… beh, vedila così» il pilota aveva ripreso a parlare, come se nulla fosse; continuava a ciondolare sulla seggiola, sottolineando ogni frase con un indiscreto scricchiolio «Io non ho alcunissima intenzione di ritrovarmi con Weilman tra le palle. E credo che Quattrocchi abbia ragione!» Quattrocchi? Si riferiva a…lasciò correre, tornando ad ascoltare il dire successivo «Se anche mi facessi scappare, non credo di potermi orientare e… non parlo francese. Capisco qualche parola, ma… molto poco. Se non verrai con me, sarò comunque spacciato»

Oh, bene… finalmente un aiuto nel farlo capire. Quell’inglese cominciava a starle simpatico, anche se… “quattrocchi”?

«Sono sicuro che te la caverai benissimo anche senza di me, Levi»

«E invece no! Allora… perché hai speso tante energie e tempo per salvarmi? Tanto valeva lasciarmi a Weilman, se era la fine che dovevo fare dal principio!» lo sentì sbuffare amaramente «Non venirmi a parlare poi di vecchi debiti, di Kenny che salva tuo padre, di tutte quelle stronzate che mi hai raccontato. Se vuoi… saldare l’impegno con la mia famiglia, devi accompagnarmi dagli Alleati. Poi, forse… ti considererò assolto da ogni obbligo»

Bene, era fatta! Colse l’incertezza farsi largo ancora una volta sul viso del collega, mentre una smorfia arrendevole andava a piegare le sue labbra. Avevano vinto! Smith avrebbe capitolato di lì a poco… perfetto. Ora doveva soltanto organizzare un piano perfetto per l’evasione, ma… naturalmente, aveva già una mezza idea.

«Erwin… appoggio l’Inglese, questa volta. Per favore» si slanciò in avanti, afferrando le mani robuste con le proprie «Sono tua amica e… preferirei non vederti davanti alla corte marziale. Se non vuoi farlo per te stesso, almeno fallo per noi. Noi crediamo in te e… anche la Germania crede in te. Fallo per il Paese che hai giurato di servire e di salvare. Il Fuhrer è un folle… gli Alleati possono fermarlo, ma non da soli. Devi andare…»

Smith scosse il capo, alzandosi bruscamente dal tavolo:
«Credo… d’aver bisogno di rimanere un po’ da solo. Tornerò tra poco» disse solo, allontanandosi poi verso la porta.

Hanji rimase sola con il pilota, ancora intendo a dondolarsi. Nella sala sprofondò un pesante silenzio, rotto solo dal cigolio ritmico della seggiola.

***

Erwin rientrò un’ora più tardi. La fame gli era completamente passata, ma nella sua testa si affollavano pensieri sempre più cupi. Dopo tutto, Zoe aveva ragione:  che senso aveva rimanere inerti ad attendere il proprio destino? Weilman lo avrebbe fatto arrestare e fucilare, senza dubbio. Scappare, tuttavia, era un’idea quasi insopportabile: non era un codardo! Non aveva bisogno di nascondersi, di cercare protezione presso gli Alleati; al contrario, doveva andare a Berlino e perorare la propria causa. I generali avrebbero compreso e gli avrebbero restituito la carica di Maggiore. O forse no… forse si sarebbero trovati in accordo con il capitano ed avrebbero provveduto ad una rapida esecuzione. In fondo, Weilman vantava parenti nelle alte sfere… lui, invece, chi era? Solo il figlio di un vecchio dottore. Uno in gamba, certo, ma non indispensabile. Lo avrebbero liquidato in men che non si dica.

Forse l’unica soluzione era davvero quella. Ma… rinnegare gli ideali nazisti, tradire la propria patria, gettare al vento la carriera e le mostrine dell’esercito sarebbe stato sufficiente a proteggere la Germania? Ed a lavare la sua coscienza? Non lo sapeva, ma… come Hanji aveva detto “Non lo saprai mai se non provi”; si era, quindi, risoluto: avrebbe fatto un tentativo.

«Ho deciso» annunciò, non appena messo piede nella stanza «credo abbiate ragione. Levi… ti accompagnerò alla tua base e, una volta lì, deciderò come muovermi. Se consegnare informazioni preziose agli alleati o… se andarmene e costituirmi poi»

«Costituirti? Ma sei scemo? Ti ammazzeranno e…»

«Lo so e non mi importa. Comincerò col riportarti indietro e poi valuterò la situazione. Ora rimane solo una cosa da stabilire: come uscire di qua. Weilman ha messo sentinelle ad ogni uscita. Non credo mi lascerebbero passare facilmente» aggiunse, scoccando un’occhiata agli ospiti «Nascondere Levi nel baule della macchina è assolutamente fuori discussione. Altre idee?»

«Tsk» uno schiocco di labbra. La donna si era alzata, marciando verso la fornita libreria e cavandone un corposo volume «Lo hai mai letto?» domandò, voltando la copertina in sua direzione.

« “Il conte di Montecristo”? Sì… una volta, diversi anni fa. Hanji… non siamo su un’isola dove i cadaveri vengono buttati in mare. E non abbiamo nessun abate Faria da utilizzare»

«Io non l’ho mai letto» la voce dell’inglese interruppe quel discorso, ma Hanji non vi prestò attenzione: era troppo euforica. Il suo piano avrebbe preso vita! Naturalmente, si guardò bene dallo svelarlo: Levi l’avrebbe etichettata come una completa psicopatica, il Maggiore probabilmente avrebbe storto il naso e si sarebbe messo a cercare un’alternativa più sicura. Oppure, avrebbe cambiato direttamente idea. Batté le mani, soddisfatta, senza poter celare una nota sollevata nella voce:
«Lo so! Ma non sarà questo a fermarmi… rimedieremo all’acqua in ben altro modo. Voi… tenetevi pronti. Vi farò avere tutte le istruzioni! Domani sera presentatevi in infermeria dopo le dieci. Al resto, penseremo io e Moblit»

Il che, si disse Erwin, non era molto confortante…


 

Angolino: Buonsalve!
Eccomi qui con l'angolino post capitolo, come sempre. Anche oggi temo dovrò ricorrere ad un capitolo di transizione ç_ç come accennavo, mi servono per allacciare la storia e farla proseguire. Al solito, ne approfitto per ringraziarvi delle splendide recensioni che mi avete regalato: sono sempre così dettagliate, piene di consigli e utilissime! Davvero millemila volte grazie anche per la costanza con cui seguite la storia. sono contenta che, tutto sommato, non vi annoi! Purtroppo questi capitoli sono un po' cosi, ma spero di poter recuperare presto e tornare nel vivo della storia. Sono ancora un po' indecisa su alcuni passaggi, ho idee che vengono e vanno e devo trovare tempo e modo per riordinarle con calma ^^ spero di riuscire al più presto, comunque, a restituire un senso alla narrazione ed a proseguire con lo sviluppo della trama. Purtroppo sto passando un piccolo periodo "no" ed ho paura che la storia possa risentirne: mi scuso in anticipo se così fosse, prometto che cercherò di rimediare al più presto ç_ç scrivere è un'ottima valvola di sfogo, ma quando i pensieri si accumulano diventa comunque difficile. Mi scuso tantissimo se vi ho dato questa impressione, cercherò di metterci delle toppe e di proseguire nella stesura con lo stesso entusiasmo di prima.
Ancora mille grazie a tutte per l'aiuto e il sostegno!
Un abbraccio!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Un mezzo da tragedia classica ***


11. Un mezzo da tragedia classica
 

Marzo 1942. Fronte Occidentale, Francia. Base tedesca.
 

Le dieci erano passate da un pezzo quando raggiunsero l’infermeria. Erwin ci aveva messo una vita a prepararsi: due bisacce erano state riempite di abiti di scorta, cibo e coperte. In effetti, sembrava più un trasloco che un’evasione. Naturalmente, perché avesse indossato la divisa gli era oscuro: secondo il biondo, sarebbe stato un utile lasciapassare, se qualcuno li avesse fermati. Insomma, avevano ventiquattro ore di vantaggio e dovevano sfruttarlo al massimo: Weilman avrebbe scoperto dell’evasione solo il giorno dopo ed avrebbe dato l’allarme, ma… per organizzare una buona caccia all’uomo ci voleva tempo e loro non potevano sprecare neppure un minuto. Aveva procurato una uniforme anche per lui: l’ennesimo abito di un morto, senza dubbio. L’aveva infilata nella bisaccia, cercando di nascondere il disgusto.

Levi scivolò oltre la porta dell’infermeria, seguito dal Maggiore: le luci erano basse e la maggior parte dei feriti dormiva già da parecchio. Ravvivò qualche attimo i corti capelli neri, ancora umidi per il recente bagno; aveva insistito per lavarsi a fondo, prima della partenza: chissà quando gli sarebbe ricapitato di incontrare dell’acqua pulita. Aveva, comunque, costretto il tedesco ad aggiungere una saponetta ed un paio di salviette al loro bagaglio. Si sentiva… eccitato, sì. Era la prima volta che evadeva! In effetti, non era mai stato catturato prima d’ora e le uniche fughe erano state quelle dalle visite mediche routinarie. Scappare da una base nazista era un altro paio di maniche: se li avessero catturati? Oh, Weilman avrebbe indubbiamente festeggiato! Probabilmente li avrebbero fucilati sul posto o, alla peggio, riportati in quelle fetide celle dello scantinato. Era meglio non pensarci e… sperare che la Quattrocchi avesse un buon piano. Cosa aveva detto? Aveva parlato di un conte…che c’entrava qualcosa con Gesù. Mah… quella era tutta suonata. Forse non avrebbero dovuto fidarsi tanto; senza dubbio, li avrebbe cacciati in qualche guaio.

Superarono l’ingresso, scivolando silenziosamente tra le cuccette e gli scaffali stracolmi di medicinali e bendaggi, sino a raggiungere l’ufficio del medico. Sgusciarono oltre la soglia, guardandosi attorno perplessi.
Lo studio era un orribile guazzabuglio di… cose! C’era di tutto: una scrivania stracolma di libri tutti pasticciati, gli avanzi di una cena ed un bollitore dove galleggiava del the vecchio di chissà quanto. Delle gallette ammuffite giacevano sopra ad una seggiola, mentre il microscopio era stato dimenticato acceso. Su uno scaffale, macabramente disposti in una fila compatta, dei barattoli con formalina e… organi! Senza dubbio, quelli erano un paio di reni…e poco oltre, un occhio fluttuava in compagnia di un orecchio. Uno spettacolo reso ancora più macabro dalla pallida lampadina quasi scarica che ronzava sinistramente.

«Andiamo via…» Levi si strinse involontariamente contro la porta, pronto a riabbassare la maniglia e scattare fuori. Che diamine di posto era, quello? Una stanza degli orrori. Lo sapeva che quella era pazza! C’erano persino delle rane dissezionate in bella mostra, posizionate ancora fresche su un corto tavolo da lavoro. L’odore nella sala era nauseante: sapeva di… marcio e umido, allo stesso tempo; una nota di caffè galleggiava in quell’olezzo, accompagnato da qualche spiffero che sfuggiva alle vecchie finestre.

«Ha detto di aspettarla qui» fu la risposta; scorse Erwin avvicinarsi ad un volume, sfogliandone pigramente le pagine. Ma… era scemo? In mezzo a quel caos, a quei disgustosi organi galleggianti… si metteva a leggere?! Era come se il tedesco si trovasse perfettamente a suo agio: come se avesse già visitato più di una volta lo studio o…come se fosse pazzo anche lui. Preferì non indagare.

«Ehi…» provò a richiamarne l’attenzione con un cenno della mancina «Hanji ha parlato di un libro, prima… qualcosa con un Cristo. Tu sai di che si tratta?»

«Il conte di Montecristo?» per qualche strana ragione, Erwin stava sorridendo, le labbra piegate in una smorfia ilare. Era… inquietante, sì! O forse era l’aspetto dello studio a rendere tutto più perverso e sadico. «è un romanzo scritto da Alexandre Dumas. Narra di un giovane che, dopo essere stato ingiustamente accusato, viene rinchiuso in una prigione su un’isola… da lì riesce a fuggire fingendosi morto, facendosi gettare in mare. Evade così, viene salvato da una barca di passaggio e… una volta tornato in Francia, persegue la vendetta contro i suoi vecchi amici che l’avevano tradito»

«Molto interessante» una sfumatura annoiata nella voce. Interessante? Ma va… era solo una palla. «Scommetto che è un mattone»

«In effetti, supera abbondantemente le mille pag…»

«Sinceramente, non me ne fotte. Come pensa di farci scappare, quella psicopatica? Forse le è sfuggito che ad Arras manca il mare! Non penso che dei pescatori di passaggio ci salveranno»

«Lo so, ma sono certo che ha un piano»

Quanta fede! Come faceva a fidarsi ciecamente di una con tutte le rotelle fuori posto?
«Forse dovremmo cavarcela da soli…» suggerì, ma l’altro scosse prontamente il capo.

«No. Non riusciremmo neppure ad uscire dal cancello. Weilman ha ordinato dei turni di guardia supplementari e rafforzato la sorveglianza. Evidentemente, si aspetta la tua fuga. Sa che proverò a farti scappare… e non intende perderti.»

«Ti fidi così tanto di quella svitata?»

«Assolutamente sì»

Un discreto bussare interruppe bruscamente la loro conversazione. Era arrivato qualcuno? Non poteva essere Hanji! Lei non avrebbe bussato! Il silenzio calò sulla stanza: nella quiete, Levi poteva quasi sentire il proprio respiro ed il battito del cuore rimbombargli nelle orecchie. Scosse leggermente il capo, come in una muta supplica: non dovevano rispondere o… li avrebbero scoperti. E se fosse stato uno scagnozzo di Weilman? Se si fossero accorti di loro, mentre attraversavano i corridoi? Trattenne il fiato quando il biondo si mosse, aprendo lentamente la porta. “No! Che cosa fai?!” avrebbe voluto gridargli, ma la voce si era strozzata in gola, incapace di liberarsi.

«Sono Moblit» un volto giovane si affacciò sull’uscio, contornato da corti capelli di un castano chiaro. O biondo scuro? Il colore non era ben definibile, mentre gli occhi nocciola si puntavano sui due presenti «La dottoressa Zoe mi ha chiesto di accompagnarvi.»

Ah, Moblit! Il barelliere, l’assistente della pazza…quindi pazzo anche lui. Di male in peggio.

«Dove?» l’Inglese non risucì a trattenere una nota strozzata. Non aveva alcuna intenzione di riattraversare la caserma e rischiare di farsi sorprendere. Men che meno, di fidarsi di un ragazzotto con la faccia da ingenuo e seguace di quella folle Quattrocchi.

«All’obitorio»
 
***
 
D’accordo, quello era uno stupido scherzo. O un incubo… presto si sarebbe svegliato e avrebbe riso insieme a Farlan di tutte quelle assurdità. Perché era davvero… troppo. Surreale, fantasioso, ridicolo. Quelle cose non stavano succedendo a lui! Moblit li aveva condotti lungo uno stretto corridoio, sino ad una porta in legno scuro. La targhetta “Camera mortuaria” dondolava leggermente alla fioca luce delle scarse lampade. Oltre l’ingresso una lunga sala con dei tavoli, alcuni vuoti… altri con dei corpi stesi sopra, coperti da spesse lenzuola scure. E, al centro, la dottoressa Zoe con un sorriso smagliante. Era come se si sentisse a suo agio, la donna, in mezzo  a quei cadaveri, agli organi espiantati, all’odore putrescente che aleggiava nel locale.

«Benvenuti!» il tono chiocciante, quasi gioioso, del medico non lasciavano sperare nulla di buono «Spero che Moblit vi abbia spiegato il piano, mentre venivate qui!»

«No, ma… è comunque tutto chiaro. Sei geniale» cos’era quella? Ammirazione? La voce del Maggiore trasudava di meraviglia e stima, come se non ci fosse nulla di più facile da capire e da attuare. Erano matti! Doveva andarsene…

Fece un passo indietro, ma Erwin lo riacciuffò prontamente:
«Non te la svignare» gli sussurrò, come se avesse letto le sue reali intenzioni «Presto ce ne andremo. Hai capito, no?»

Capito…cosa? Non c’era niente da capire! Hanji era pazza…Erwin era pazzo. Persino Moblit era pazzo! Il piano che avevano concepito era… inesistente. Lì non c’era nessuno strumento utile alla fuga: solo cadaveri, organi puzzolenti e barattoli di formalina aperti. Non c’era nulla… Questo conte di Montecristo iniziava a stargli antipatico: fuggire fingendosi morti? Facile nel… milletrecen… no…milleseicen… bah. Non sapeva quando era ambientato, ma sicuramente non durante la Seconda Guerra Mondiale. Le cose erano cambiate… erano diverse! C’erano dei controlli. Li avrebbero sicuramente fermati ed ispezionati. E se avessero visto Hanji buttare due sacchi in un fiume, si sarebbero insospettiti sicuramente. Inoltre… non voleva morire affogato! Sapeva nuotare, ma… farlo al mare era un conto, in un fiume in piena un altro. Scosse il capo, cercando di scacciare quelle immagini: annegare sul fondo di un torrente non era la fine che si sarebbe scelto.

«Lascia che te lo spieghi, allora» la donna aveva ripreso a parlare e gli si stava rivolgendo. Aveva preso quel cenno per un “No, non ho capito” e non per un tentativo di allontanare macabre elucubrazioni «Nel libro, Edmond Dantes» e chi diamine era, ora, questo Edmond? «Fugge dal castello d’If fingendosi morto, al posto dell’abate Faria, suo compagno di cella e deceduto nella notte. Capisci? Si scambia con il cadavere del proprio amico per riguadagnare la libertà. Questo è esattamente quello che faremo» la scorse battere la mancina su un paio di barelle metalliche. La struttura in acciaio era sostenuta da gambe robuste con ruote scricchiolanti, mentre il pianale appariva macchiato di scuri aloni. Meglio non chiedere cosa fossero e tornare ad ascoltare: «Vi stenderete qui sopra e vi copriremo con dei teli. Trattenete il respiro quando ve lo dirò e cercate di non muovervi: le uscite sono tutte sorvegliate, ma non ci faranno problemi se diremo che siamo diretti alla fossa comune. Invece ci dirigeremo al cortile posteriore: c’è un’auto pronta per voi. Abbiamo messo un paio di pistole nel cruscotto e pagato le sentinelle per farvi passare. Ah… la macchina non ha molta benzina, purtroppo... sfruttatela al massimo e poi abbandonatela.»

«E se ci scoprissero? Se alzassero i teli e notassero che siamo… beh, noi?» quell’obiezione era fondata, no? Allora perché Zoe gli rideva in faccia?

«Sciocco Inglese. Pensi davvero che lascerei un dettaglio simile al caso? Accomodatevi, su… Moblit si occuperà dei vostri bagagli.»
Dovevano sdraiarsi sulle barelle? Blah… non poteva mettere sotto…qualcosa? Una stuoia pulita, magari… uno strato di fazzolettini… qualunque cosa? Trattenne un conato al notare la scia rossiccia che, dai bordi metallici, scivolava verso il foro centrale. Si sedette, rabbrividendo al contatto freddo dell’acciaio contro la pelle, allineando braccia e gambe.

«Continuo a non capire» sussurrò, ma il medico gli stava sistemando delle basse bacinelle di ferro tra le gambe, accanto alle spalle e ai fianchi… ora l’odore di marcio era molto più intenso «Che cazzo…?» sollevò appena il capo, sgranando gli occhi al vedere il contenuto delle vaschette: organi putrefatti. Non sapeva distinguerli, non tutti, ma…c’erano dei pezzi di intestino, una milza tagliata a metà, sangue rappreso ovunque e…cos’era quella roba grigiastra e molliccia «Sei scema? Vuoi farmi vomitare?» scattò, cercando di allontanare una bacinella, che la donna risistemò prontamente.

«Poche storie! Come pensi di superare i controlli? Così! Le sentinelle non alzeranno mai il telo, se sentiranno quest’odore. Gli faremo credere che siete … cadaveri già da parecchi giorni»

«è geniale, Hanji… davvero» la voce di Erwin arrivò a ferirgli le orecchie. Come poteva avvallare un’idea simile? Era ridicola!

«Voi non siete normali» scattò, cercando di rialzarsi. Un paio di mani lo spinsero nuovamente giù, costringendolo a giacere sulla barella.

«Sta fermo! Vuoi che ti scoprano? Vuoi tornare dal tuo amichetto Weilman? Guarda che… non ti trattengo! Non mi importa una mazza del tuo destino, sai? Era il tuo amico quello prezioso, non tu» la tedesca sembrava fuori di sé: batteva gli occhi di continuo, le dita si serravano sempre di più sui suoi vestiti, mentre la voce assumeva sfumature irritate «Ho organizzato questa fuga in modo impeccabile. Non permetterò al tuo stomaco debole e al tuo carattere da principessina di rovinarlo. Quindi, ora… stai zitto e fermo o giuro che ti lego alla barella.»

Sbuffò, tornando a coricarsi, sforzandosi di tenere lo sguardo fisso sul soffitto. Non doveva pensare a niente, tanto meno alla carne putrida che lo circondava. Doveva stare calmo, fare dei respiri profondi e… no, non troppo profondi o avrebbe rimesso anche l’anima. Il fetore degli organi marci era insopportabile: un odore dolciastro che gli arrivava dritto al cervello, serrandogli la gola e facendogli lacrimare gli occhi. Aveva solo una gran voglia di alzarsi e vomitare, ma doveva trattenersi, combattere contro quella morsa che gli serrava lo stomaco. Ancora qualche minuto e sarebbe tutto finito, no?

Scoccò una occhiata alla propria destra: Erwin giaceva immobile, già immedesimato nella parte, impassibile come sempre. Come faceva a sopportare quell’odoraccio? A mostrarsi freddo, calmo e così fiducioso? Probabilmente… l’aver letto “il Conte di Montecristo” gli dava tutte le sicurezze necessarie. Oppure, era fatto così: imperturbabile, silenzioso, calcolatore. Sapeva sopportare, accogliendo quelle sfide con un’insana passione per il rischio. Non era normale, poco ma sicuro.

«Tutto chiaro? Quando mi sentirete tossire, sarà il segnale: trattenete il fiato il più possibile» la voce di Hanji lo riportò alla realtà «Adesso… immobili e fate i bravi cadaveri.»

Un pesante telo nero arrivò ad oscurargli la vista. Sentì solo le rotelle cigolare e la barella muoversi con un leggero oscillare. Chissà se il piano avrebbe funzionato. Beh… presto lo avrebbe scoperto.
 
***
 
Hanji spinse la barella lungo il corridoio adiacente, fischiettando un motivetto allegro. Come le piaceva quell’idea! Era perfetta… così romantica, fantasiosa, un perfetto tributo al suo scrittore preferito. Dumas avrebbe sicuramente apprezzato, se l’avesse vista! Era davvero un mezzo da tragedia classica: nei libri d’avventura, i protagonisti fuggivano sempre in modo assurdo, surreale e… se la cavano sempre. Chissà se sarebbe riuscita a replicare l’impresa del signor Dantes… indubbiamente, quell’idea la stuzzicava a fondo. Forse avrebbe potuto aggiungerlo nel curriculum: medico, scienziato e ideatore di evasioni rocambolesche. Oppure avrebbe potuto raccontarlo ai suoi nipoti: vi ho mai parlato di quando la nonna fece scappare due pericolosi ricercati? Insomma, era una storia accattivante! Sicuramente… ai pargoli sarebbe piaciuta.

Il profumo rancido delle carni putrefatte le aleggiava attorno, rendendola ancora più sicura e spavalda: con quella puzza, nessuno avrebbe osato alzare i lenzuoli. Oh, l’avrebbe fatta a Weilman, proprio sotto al naso dei suoi scagnozzi. Divertente, davvero. Si sarebbe congratulata con sé stessa più tardi, però… ora doveva concentrarsi.

«Dopo questa svolta… arriveremo al presidio. Ricordatevi il segnale» sussurrò, mimando un cenno del capo verso Moblit che, accanto a lei, spingeva la seconda lettiga «Pronto?»

«Sì, dottoressa»

Girarono l’angolo. Si portò una mano alle labbra, tossendo due volte. Colse il leggero risucchio del fiato da sotto il lenzuolo e poi il silenzio più completo.

«Herr Miller!» salutò, sollevando immediatamente la mancina «Ti hanno messo di guardia anche oggi?»

Era fortunata! Miller era uno sprovveduto: un ragazzotto ingenuo e paffuto, troppo intento a snocciolare wafer di nascosto per prestare attenzione al resto.  In fondo, non era una cattiva persona: si era arruolato su consiglio del padre, ma la vita del soldato non faceva per lui. In compenso, produceva dei disegni stupendi: in altri tempi, sarebbe diventato un grande artista.

«Oh, Fraulein Zoe! Sì, purtroppo. Gluch aveva bisogno di un cambio e gliel’ho dato. Confesso che mi annoio parecchio»

«Capisco… ti andrebbe un caffè? Vado a scaricare un paio di cadaveri e te lo porto, vuoi?» domandò, affinando un sorriso sincero. “Avanti, stupido mangione, abbocca!” pensò, ma un brivido secco le percorse la schiena quando vide la mano di Miller stendersi verso il lenzuolo nero. Oh, no! Se l’avesse sollevato, avrebbe sicuramente riconosciuto il pilota. Il suo piano sarebbe andato a rotoli, sfracellandosi e distruggendo tutto: aspettative, speranze, trascinando via la sua vita, quella di Erwin e quella di Moblit. Non poteva assolutamente permetterlo! «Sicuro di voler guardare?» chiese, la stessa nota frizzante ed ironica nella voce. Non doveva tradirsi, non lasciare intendere il proprio nervosismo.

«Scusate, Fraulein, ma… ho l’ordine di effettuare controlli. Herr Kapitan è stato molto esplicito»

«Crede che contrabbanderò armi nascondendole tra i miei morti? È ridicolo» rise piano, lasciando scivolare le dita sulla stoffa pesante. Pregò che l’Inglese rimanesse immobile; spostò un lembo della cerata scura, all’altezza dei piedi, scoprendoli sino alle caviglie, lasciando intravedere solo una parte degli alti stivali neri. Immediatamente, un odore pestilenziale si diffuse nel corridoio. Scorse Miller portare immediatamente una mano sul viso, nascondendo la nausea e tappando il naso.

«Che merda! Da quanto sono morti?»

«Quasi quattro giorni. Dovevo condurre alcune ricerche, ma… l’incidente del camion ha rallentato il mio lavoro e… ora puzzano un po’» sorrise, nuovamente «Vuoi che ti faccio vedere il viso? Non è un bello spettacolo, però… è pieno di cagnotti»

Centro! Scorse il volto di Miller assumere una sfumatura verdastra. Il soldato indietreggiò, cercando a tentoni la maniglia e premendola con forza, spalancando la porta che, dal corridoio, dava direttamente sul cortile posteriore. «Passate, presto! Non vorrei vomitare la cena»

Aveva vinto. Piegò il capo in un cenno di ringraziamento, affrettandosi a spingere la barella oltre lo stretto passaggio. L’aria fresca della notte la investì subito, cancellando le ultime tracce dell’odore marcio. Perfetto…era stato più facile del previsto ed era andato tutto secondo i piani. Aveva superato i controlli, si era assicurata una chance per sé e per Erwin… Weilman non l’avrebbe spuntata. Non avrebbe vinto anche quella battaglia. Presto sarebbe stata in viaggio per Bruxelles e l’orrendo capitano sarebbe stato soltanto un lontano ricordo.

«Siamo arrivati» annunciò, avvolgendo i teli e liberando i due fuggiaschi da quell’ingombro.

«Meno male… due minuti ancora e sarei morto davvero!» ma quello… non aveva altro da fare che lamentarsi? Inglese ingrato. Qualunque cosa facesse per lui non gli andava mai bene?

«Prego, comunque.» sussurrò, spiando Levi scendere cautamente dalla lettiga. Lo colse imprecare malamente all’atterraggio sul piede sinistro. Era proprio scemo: se la sarebbe rotta, quella caviglia, se non fosse stato attento. «è stato un piacere salvarti la vita»

Ne ricavò un’occhiataccia. Quanto poteva essere orgoglioso, quello sciocco pilota? Troppo, per i suoi gusti. Si era dimenticato in fretta di essere un prigioniero, di non avere diritti e che la sua vita era appesa ad un filo. Filo che, al momento, era proprio nelle sue mani. Erwin lo aveva graziato, ma…lei avrebbe fatto lo stesso? Sì, senza dubbio… non per amore verso quello sprovveduto Inglese, ma per Erwin, per assecondare quello strano capriccio, la necessità di quel riscatto che, inevitabilmente, era costretto a trascinarsi appresso. Per lui, per le sue ambizioni, le aspettative, per spingerlo a salvare quel Paese che lo tradiva e lo rinnegava. In fondo, andava bene così.

«Hanji…» il biondo aveva stretto la mano a Moblit e le si era avvicinato «Non potrò mai ringraziarti o ricambiare, lo sai? Quello che hai fatto… beh…» una pausa, con una leggera punta incerta, prima di quell’unica parola «Grazie»

Erwin le tese una mano, ma lei la ignorò. Coprì velocemente la poca distanza che li separava, buttando le braccia attorno alle robuste spalle. Le strinse con forza, come se non volesse permettergli di allontanarsi: in quel momento, il distacco si fece prepotentemente sentire. La consapevolezza che non si sarebbero più rivisti, probabilmente… che quello non era un arrivederci, ma un semplice addio. Non avrebbero più condiviso le serate parlando dei suoi esperimenti, delle scoperte, dei rapporti da Berlino, dei progressi, dei successi e delle sconfitte. Non avrebbero più avuto nulla da spartire. Non si sarebbero più incontrati… e se anche fosse successo, sarebbero diventati estranei l’uno all’altra. Avrebbero scambiato dei cenni di saluto e bevuto una tazza di the, chiacchierando delle loro vite patetiche: “ho quattro figli ora e una moglie graziosa. Tu?” … “Io? Ho rinunciato al premio Nobel per la medicina, per dedicarmi all’allevamento di conigli da lana.” Sarebbe stato tutto così…diverso, anomalo, irriconoscibile. Le memorie sarebbero bruciate, l’indifferenza avrebbe preso il posto di quei sorrisi, di quegli scambi di battute, della spensieratezza…tutto si sarebbe colorato di un tenue grigio, come una foschia pronta a calare su ogni ricordo.

Non poteva, non voleva lasciarlo andare! Per un istante, provò la tentazione di salire sulla macchina – una Kommandeurwagen nera fiammante, mai utilizzata e praticamente nuova – di nascondersi nello striminzito bagagliaio, di caricare Moblit sul tettuccio e di partire. Al diavolo Berlino, Bruxelles e quella stupida guerra. Al diavolo la medicina! Avrebbe affrontato un nuovo viaggio, un’avventura attraverso la Francia occupata. Sarebbe rimasta al fianco del Maggiore, come aveva fatto in tutti quegli anni. Però… non poteva abbandonare tutto così, in uno slancio istintivo: Erwin non glielo avrebbe permesso; non le avrebbe consentito di buttare al vento i suoi studi,  le sue ricerche, la possibilità di un futuro solido e faticosamente costruito. Non per lui e non per uno slancio di emotività. L’avrebbe obbligata a ragionare e ad accettare il trasferimento a Bruxelles. Era un dottore, dopo tutto… il suo posto era lì, nelle caserme, sul campo di battaglia, tra i feriti ed i moribondi. Non poteva andare, non ancora…

«Abbi cura di te» sussurrò, abbracciandolo per un lungo ed infinito minuto «Vi ho messo una borsa con un kit di primo soccorso. Non fare cose stupide e… conto di rivederti» tirò su col naso, sfregandolo leggermente con la punta delle dita «E quando tutta questa storia sarà finita, scrivimi d’accordo? Aspetterò le tue lettere. Fai attenzione, d’accordo?»

«Certo…»

«Non morire, Erwin. Questo piccolo mondo ingrato ha ancora bisogno di te»
 
***
 
Hanji rimase nel cortile sin quasi all’alba. Li aveva guardati partire, aveva fissato il cancello con insistenza, domandandosi se la sua scelta fosse stata giusta: rinunciare ad un amico per la propria carriera? Forse… avrebbe dovuto buttare tutto all’aria! Gli studi, i libri, gli esperimenti e seguirlo… avrebbe perso un brillante esordio da scienziata, ma avrebbe ritrovato un compagno. E non gli avrebbe permesso di svignarsela nuovamente senza di lei.

Non lo sapeva, però… non sapeva cosa era giusto e cosa sbagliato. Aveva scelto … era inutile, quindi, fissare le inferriate lavorate nella speranza si riaprissero e la macchina tornasse a prenderla. Chissà dove erano, a quest’ora, quei due… quanti chilometri avevano percorso? Erano andati a nord? A ovest? O forse a sud? Non conosceva la loro meta, né l’itinerario del viaggio… se n’erano andati, semplicemente; a lei, invece, non rimanere altro da fare che fissare il vuoto, in preda al dubbio ed allo sconforto. Aveva avuto la possibilità di fuggire, di sottrarsi a quella vita, di abbandonare il nazismo, la Germania, quella stupida guerra e… non lo aveva fatto. L’amore per la scienza, per il proprio lavoro, per la missione…l’aveva trattenuta lì.

«Fraulein Hanji» Moblit si era avvicinato, reggendo una grossa valigia «Ho riordinato tutte le tue cose, le ho inscatolate. Ho messo qui i tuoi vestiti. Il dottor Fossum, il tuo cambio, è arrivato. Quando vuoi partire?»

Bravo ragazzo. Cosa avrebbe fatto senza di lui? Si alzò, stiracchiando le braccia indolenzite:

«Subito! Partiamo. Non voglio rimanere qui un istante di più»

«Herr Kapitan non si è ancora svegliato, però… vuoi che lo avvisi?»

Scosse il capo, cavando un foglietto dalla tasca del camice. Il telegramma per Weilman era rimasto lì sino ad allora. Lo porse a Moblit:
«No. Consegna solo questo a Herr Fossum e digli che ce ne andiamo. Riferisci solo di consegnare il telegramma non appena Weilman si alzerà.. così, quando leggerà di Erwin, noi saremo già lontani. Non gli daremo modo di interrogarci o chiederci alcunché» terminò, osservando il barelliere afferrare la lettera e sgusciare via.

Davvero un bravo ragazzo. Lo avrebbe sfruttato come cuscino durante il viaggio: si sarebbe addormentata, usando la spalla di Moblit come appoggio e lui l’avrebbe protetta e rassicurata, come aveva sempre fatto.


 

Angolino: eccomi qui, scusate se ci ho messo un po' a leggere e rispondere alle vostre ultime recensioni e messaggi. Il mio cuoricino si è spezzato e ho dovuto faticosamente ricomporlo in questi ultimi giorni XD
Allora, questo dovrebbe essere l'ultimo capitolo intermedio... la storia, dopo questo, tornerà a concentrarsi su quei due disagiati che sono appena fuggiti con la macchina. A tal proposito, l'auto su cui stanno viaggiando è una Kommandeurwagen, ossia un maggiolino in versione bellica. Diciamo che scrivere Kommandeurwagen al posto di Maggiolino rendeva le cose un po' meno assurde: col senno di poi, mi sono resa conto che vedere Erwin alla guida di un macchinino del genere potesse risultare alquanto ridicolo; poco male, ormai è andata. XD Anche perchè, non intenendomi neppure di macchine d'epoca, ho preso la prima automobile adatta. La Kommandeurwagen del 1940, comunque, è stata prodotta solo in quattro esemplari, secondo Wikipedia - una andò al generale Rommel, le altre tre non lo so... per cui, ho deciso di fare un piccolo regalo ad Erwin e lasciargliene una a disposizione. Se lo merita, il maggiolino in edizione limitata. In ogni caso... immaginatela così per ora (magari nel prossimo capitolo la descriverò un pochino meglio).
Poi... i riferimenti al Conte di Montecristo, per quanto accennati, dovrebbero essere giusti (Non ho mai letto il libro... come ha detto Levi "è un mattone". Lo avevo iniziato, ma non sono mai riuscita a concluderlo e quindi...mi sono basata sullo sceneggiato che ho visto e rivisto fino alla nausea XD comunque, se trovate errori fatemelo sapere. In effetti, anche il titolo è prelevato da un'opera di Dumas: se vi suona familiare, è per quello XD) Credo di non dover aggiungere altro, nelle note... al solito,spero che il capitolo vi sia piaciuto e... se avete consigli, pareri e proposte, scrivetemi pure *_* sapete che son più che ben accetti!
Un bacione <3

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Aidez-moi ***


12. Aidez-moi
 
 
Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Dintorni di Lachelle.
 

Quella macchina era stata progettata per viaggiare a cento km/h, ma a stento sfiorava i novanta. Sulle strade di campagna, inoltre, era impossibile spingerla più del necessario: a tratti sterrati si alternavano viuzze asfaltate ed acciottolati, che smuovevano la Kommandeurwagen come una barchetta in preda alla mareggiata. Erwin tenne le mani salde sul volante, accendendo gli abbaglianti. La pianura francese era così spoglia e desolata, da quelle parti: a tratti, in lontananza, si intravedeva qualche vecchio casolare; le luci, però, erano spente oppure oscurate dalle finestre chiuse. Dopo tutto, erano quasi le due di notte.

La caserma di Arras, dopo la loro partenza, era presto divenuta un punto minuscolo all’orizzonte ed era sparita quando le tenebre l’avevano definitivamente inghiottita. Aveva spiato la costruzione allontanarsi dallo specchietto retrovisore: come era strano abbandonare tutto. Andarsene nel cuore della notte, come un evaso, un colpevole. Eppure… non aveva nulla di cui vergognarsi. Aveva fatto del proprio meglio per il popolo, per i soldati tedeschi, per riportare la Germania su solidi binari e non abbandonarla in mani incapaci. La follia, però, era dilagata come un male inarrestabile; come una malattia che, lentamente, aveva contagiato tutto. Non c’era altro, ormai, che potesse fare… Non era capace, tuttavia, di rassegnarsi: avrebbe trovato un modo per salvare la nazione, per aiutarla a ritrovare la sua indipendenza e la sua integrità morale. Quella… non era la patria che aveva amato e servito; era il suo spettro, condannato alla distruzione da uomini meschini ed egoisti. Non aveva senso, comunque, pensarci troppo: la decisione era stata presa e la fuga iniziata. Avevano quasi ventiquattro ore di vantaggio su Weilman e dovevano sfruttarle a dovere.

Osservò la strada davanti a sé, svoltando a sinistra in direzione di Parigi. L’Inglese lo aveva, naturalmente, messo al corrente della loro destinazione: la base alleata di Limoges, nella Repubblica di Vichy. La Francia era spaccata in due, ormai: il nord sotto occupazione tedesca, il centro sud ancora libero. Questo, naturalmente, poneva un grosso problema: dovevano percorrere più di cinquecento chilometri in un territorio ostile, impervio e dove presto si sarebbe scatenata una massiccia caccia all’uomo.  Un pilota della Raf poteva non essere d’alcun interesse, ma… un ufficiale traditore era una preda importante. Li avrebbero cercati ovunque, non si sarebbero fermati. Tuttavia, avevano qualche giorno di margine: indicativamente, la notizia della loro fuga si sarebbe diffusa in serata alla base di Arras e nei dintorni solo il dì successivo. Ci sarebbe voluto qualche giorno perché arrivasse a Parigi e corresse, poi, in tutta la Francia del nord. Forse avevano una speranza, anche se… la macchina era quasi a secco. Non avrebbe tirato ancora per molto. Passare per la capitale, tuttavia, era l’unica possibilità: la strada piegava, da lì, verso sud, toccando Orelans, Bourges e sfociando nella zona libera. Inoltre, in città avrebbero potuto cercare un passaggio o un nuovo mezzo per proseguire nel viaggio: la Kommandeurwagen era troppo vistosa; li avrebbero riconosciuti immediatamente se avessero proseguito con quel maggiolino in edizione limitatissima.

Controllò il contachilometri. Ne avevano percorsi circa un centinaio, ma alla meta mancavano ancora ottanta chilometri e il carburante non sarebbe bastato. Anche se l’auto ce la stava mettendo proprio tutta! Si arrampicava per i verdi pendii delle colline, svoltando su curve strette e strettoie accidentate. Era leggera da guidare: il volante rispondeva ad un semplice tocco delle dita, mentre le marce entravano fluidamente in sequenza ogni volta che premeva la frizione. Era davvero splendida e… non meritava quel trattamento! Era, evidentemente, una macchina elegante e da città, adatta alle prime autostrade ed alle parate militari. Loro, invece, la bistrattavano guidandola nell’impervia campagna: il buio non gli permetteva di scorgere buche, pozzanghere, rami caduti… tutto finiva sotto le delicate ruote che, a tratti, stridevano malamente contro un sasso troppo sporgente. Per di più, nemmeno il passeggero sembrava rendersi conto del gioiello che lo ospitava: Levi era affondato nel sedile, le braccia piegate sotto la testa rovesciata di lato, contro il telaio della portiera. Le gambe, per quanto possibile, semi distese e gli stivali appoggiati al cruscotto. Stava cercando di dormire, ma il suo respiro non si era affatto regolarizzato. Evidentemente, teneva gli occhi chiusi solo per comodità.

«Potresti togliere i piedi da lì?»

«Perché?» lo sapeva che era sveglio! La voce, tuttavia, tradiva stanchezza, quasi sfinimento… sarebbe crollato sicuramente, se avesse trovato una posizione adatta.

«Le manchi di rispetto»

«Alla macchina? Non essere ridicolo…è una stupida vettura. Tedesca, per di più… e poi è scomodissima»

«Ne sono state prodotte solo quattro esemplari. È una Kommandeurwagen del 1940, una rarità; e tu la calpesti…»

«Ah, davvero? Scusa… non me ne fotte di auto fighe. In genere, guido aerei»

«Come ti sentiresti se io maltrattassi così il tuo aereo?»

«Fino a prova contraria… il mio Spitfire è bruciato per colpa tua e… dei tuoi amichetti di merda! E ora te la prendi se metto i piedi sul cruscotto?» lo sentì sbuffare ed abbassare le gambe «Che palle che sei. Lo faccio solo perché… non voglio sopportarti tutto il viaggio. Lagnoso»

Erwin scrollò le spalle, sforzandosi di non dare seguito a quelle parole. L’Inglese non conosceva davvero l’educazione. Oppure… la conosceva, ma non riusciva ad applicarla. La gratitudine, inoltre, sembrava un concetto assolutamente ignorato: in fondo, era salvo solo grazie ai suoi sforzi ed a quelli di Hanji. Il vecchio debito della famiglia Smith poteva anche considerarsi saldato. Forse avrebbe potuto abbandonarlo da qualche parte… aprire la portiera, chiedergli di scendere e ripartire a tutta velocità verso la capitale. Si e poi…? Cosa sarebbe successo se i nazisti lo avessero trovato? Senza dubbio lo avrebbero nuovamente seviziato: cosa sai del Maggiore Smith, gli avrebbero chiesto. E Levi non avrebbe saputo rispondere. Scosse il capo: non poteva buttarlo e fregarsene; per di più, cosa avrebbe raccontato agli Alleati, se fosse giunto da loro? “Ho cestinato il vostro pilota perché era insopportabile. L’ho lasciato accanto ai sacchetti dell’immondizia e sono scappato”. Quel pensiero lo fece sorridere, distendendo la tensione sul volto squadrato: evidentemente, il destino aveva voluto affiancargli quello sciocco Inglese come compagno di viaggio… quindi, lo avrebbe sopportato.

«Perché non ti metti sul sedile dietro?» domandò, infine, con uno sbuffo paziente.
Era come avere a che fare con un bambino, in fondo… una persona inetta, di cui doveva necessariamente prendersi cura: dopo tutto, l’altro era un adulto, ma… a tratti sembrava non dimostrarlo. Dopo tutto quello che aveva passato, però, non era forse giustificato? L’aereo abbattuto, la tortura, la morte di un amico, la fuga… in fondo, non era da biasimare; stava reagendo, anzi, meglio del previsto. Almeno non si era chiuso in sé stesso, non si era colpevolizzato o rintanato a piangere in un angolo: in genere erano quelle le reazioni più comuni.

«Per fare cosa?»

«Almeno potrai dormire un po’»

«Non vuoi il cambio?»

che? Ah, no… non era stanco e…mai e poi mai avrebbe lasciato la preziosissima Kommandeurwagen nelle mani di quel folle. Minimo si sarebbero schiantati contro un albero, un palo, contro l’unico trattore di ritorno dai campi. E poi… Levi avrebbe saputo raggiungere Parigi  senza intoppi? O si sarebbe perso? Magari avrebbe inforcato la strada sbagliata o chiesto informazioni ad una pecora. No, no… meglio evitare! Scosse il capo, affinando un sorriso falsamente rassicurante:
«No. Guido ancora un po’ io… pensa a riposarti»

Colse un movimento alla propria destra: l’aviatore era agilmente passato alle sue spalle, incastrandosi sullo stretto sedile posteriore. Lo vide frugare nelle bisacce e tirarsi addosso una vecchia coperta bucherellata.

«Va bene… svegliami…se…» voce impastata dal sonno.

Poco dopo, un sonoro russare si diffuse nel piccolo abitacolo del maggiolino.
 
***

Levi si ritrovò catapultato in avanti. Sbatté la faccia contro l’intelaiatura del sedile anteriore, mentre le gambe si incastravano tra il cambio e la cintura di sicurezza. La coperta gli volò addosso.

«Che cazzo…?» cercò di rialzarsi, scalciando via le bisacce e sforzandosi di riemergere dal retro della vettura. La notte era più buia del solito, completamente priva di luna e di stelle. Il cielo coperto era interrotto solo dai fasci luminosi dei fari, ancora accesi. Un fumo grigiastro, tuttavia, si alzava dal cofano del maggiolino, quasi completamente spaccato. Il parabrezza era incrinato, mentre degli specchietti laterali non vi era più traccia. Un robusto platano capeggiava davanti, affatto scalfito dal muso accartocciato e dalle lamiere nere ed argentate. Erano andati a sbattere. Non aveva idea del perché: l’auto era uscita di strada, finendo contro la grossa pianta, distruggendosi. Come era possibile? Avevano preso una buca? Un dosso ad alta velocità? O un colpo di sonno? Sollevò il capo, sporgendosi verso il conducente; mosse la mancina, scrollandolo.

«Erwin…» sussurrò, ma senza ottenere risposta.
Il viso del biondo era coperto da una maschera di sangue, che gli incrostava i capelli e scendeva lungo gli zigomi ed il contorno delle guance, macchiando il colletto della camicia. Sulla tempia destra, un largo taglio si irradiava verso la vicina fronte, costellato da piccole schegge di vetro. Gli occhi erano chiusi, il collo incapace di sostenere il peso del capo e il corpo afflosciato contro il volante.

«Erwin!» lo chiamò di nuovo, una nota strozzata nella voce. Non era possibile… non poteva…

Per un attimo si sentì perduto: non aveva speranze! Se fosse morto, non sarebbe mai riuscito a raggiungere gli Alleati! Si sarebbe smarrito in territorio nemico, i nazisti lo avrebbero catturato e ucciso. L’operazione Chariot sarebbe stata un fiasco: non sarebbe mai arrivato in tempo per avvisare i suoi compagni, per fermarli ed obbligarli a cambiare piano. La sua debolezza avrebbe mandato a morire numerosi altri soldati e, forse, avrebbe condizionato le sorti della guerra. Non poteva permetterlo! Doveva sopravvivere a tutti i costi: doveva portare agli alleati la notizia del suo tradimento, avvisarli che la Chariot era smascherata. Doveva? No, dovevano. Senza Erwin non ce l’avrebbe fatta. Dovevano, insieme. E poi… non gli avrebbe permesso di crepare per una stupida pianta! Chi era… anzi, cos’era quello sciocco platano per strappare così le sue speranze per il futuro? Stupido Smith! Doveva vivere, doveva farcela…le sorti dell’Europa dipendevano anche da lui!

Scavalcò i sedili, accucciandosi accanto al ferito e scrollandolo ancora.
«Erwin!» non poteva morire, no! Era vietato. Doveva accompagnarlo a Limoges, a tutti i costi. E se invece… non ci fosse più nulla da fare, ormai? Scosse il capo, rifiutando quell’idea «Erwin!» gridò per la quarta volta, serrando le mani a pugno e battendole sul petto dell’altro. Che soffrisse, che ululasse per il dolore delle costole incrinate, per il fiato mozzato, ma che desse almeno un segno di vita «Non te lo consento!»

Maledizione! Non era un medico, né un infermiere, non sapeva cosa fare… aveva assistito, a volte, al loro lavoro, ma… un conto era guardare e un conto rimboccarsi le maniche e svegliare un moribondo. E se… Erwin non ce l’avesse fatta? Se lo avesse abbandonato? No! Non voleva nemmeno pensarci: quello stupido crucco era il suo lasciapassare per la Repubblica di Vichy e… lo aveva salvato. Non poteva andarsene così, alla chetichella, nel silenzio indisturbato della campagna francese. «Ti rivoglio indietro… ORA!» urlò, serrando i denti, assottigliando lo sguardo, strattonando la divisa nera sino allo sfinimento. Perché non si svegliava?! Perché non lo scaraventava via, insultandolo per quelle futili percosse? Perché?

Un respiro superficiale lo calmò immediatamente: scorse il petto massiccio alzarsi sotto la stoffa chiara della camicia e riabbassarsi a fatica, forse contuso. Si lasciò sfuggire un sospiro sollevato: Allora era vivo! Stupido tedesco… senza dubbio, si era addormentato al volante, deciso a non concedergli il cambio. Un colpo di sonno li aveva portati fuori strada e l’impatto con la pianta aveva mandato il Maggiore a sbattere contro il parabrezza: lo aveva, sostanzialmente, frantumato con una testata. Respirava, no?... Sì, ma… non era in grado di sincerarsi delle sue condizioni. Sembrava solo svenuto, ma…Non si svegliava: un trauma cranico? Era possibile.

“Devo cercare aiuto…” si disse, spiando il corpo inerte del tedesco. Non c’era altra soluzione: doveva abbandonare la macchina e pregare che nessuno la trovasse. Probabile, visto le tenebre fitte che circondavano la strada. Spense i fari, recuperando una Mauser dal cruscotto, prima di aprire la portiera. Si voltò per un istante verso il ferito:
«Torno subito. Non muoverti di qua» sussurrò, scostando lentamente le ciocche bionde. Accidenti, il taglio era davvero profondo. Doveva fare presto «Vado» disse, sgusciando fuori dalla macchina.

Si rimise in piedi, combattendo contro la stanchezza; accidenti, dove erano finiti? In un punto imprecisato tra Arras e Parigi, senza dubbio. Non conosceva quella zona: l’aveva sorvolata parecchie volte, ma… un conto era osservare il paesaggio dall’alto, un altro era camminarci dentro. In che direzione conveniva andare? Non sembrava esserci niente nei dintorni! Nulla, a parte… una sagoma quadrata a circa duecento  metri di distanza. Forse era un fienile, forse una fattoria, forse una rimessa tedesca: non riusciva a distinguere alcun dettaglio. Avvicinarsi era un rischio, ma … Se Erwin fosse morto, avrebbe perso tutto comunque. Spiccò una corsa. L’aria fredda della sera gli pungeva il volto, scompigliandogli i capelli e penetrando sotto ai vestiti leggeri. I ciottoli scivolosi insidiavano la suola liscia dei suoi stivali, mentre l’ululato sinistro dei cani gli feriva le orecchie. Pregò silenziosamente di non incontrarli: dubitava fossero innocenti barboncini; più facilmente, si trattava di molossi ben addestrati. Avanti, non doveva distrarsi; la costruzione si faceva sempre più vicina e, via via che i suoi occhi si abituavano all’oscurità, intuiva nuovi particolari: delle imposte intonacate di verde, tutte chiuse; una porta con un grazioso battente in ottone, un basso muretto che delimitava l’orticello ed il pollaio. Era fortunato! Era sicuramente una casa privata. Doveva solo bussare e chiedere aiuto. Facile, no?
Raggiunse l’ingresso in un paio di falcate, sollevando il pugno per picchiare sul legno grezzo:

«Aprite! Per favore… mi serve aiuto!» gridò.

Non ottenne risposta.

«Vi prego! Dannazione… volete aprire questa cazzo di porta?!» ringhiò, continuando a percuotere l’uscio, sino a farlo vibrare «Aprite! Occorre aiuto, subito! Un…»

Una luce filtrò da dietro le persiane chiuse ed un rumore di passi gli giunse alle orecchie. Fortunatamente, l’edificio era abitato! C’era qualcuno… qualcuno che avrebbe potuto aiutarlo! Il rumore di un chiavistello abbassato lo rassicurò ulteriormente: gli avrebbero aperto, avrebbero ascoltato la sua storia ed Erwin sarebbe stato salvo.
Indietreggiò di un passo, nell’istante preciso in cui la porta si spalancava e la canna di un fucile arrivava a premergli sullo stomaco. Ah, già… non aveva pensato che gli inquilini potessero essere armati ed affatto amichevoli. Quell’idea non gli aveva neppure sfiorato la mente. Si diede dello stupido, mentre le mani si sollevavano automaticamente sopra la testa.

«Per favore…» sussurrò, scorgendo due figure farsi avanti. Erano giovani ma spaventati: un uomo e una donna, che non avranno avuto più d’una ventina d’anni; le guance scavate, le labbra storte in una smorfia preoccupata, gli occhi chiari che rimbalzavano sulla sua figura per poi scandagliare i dintorni. Temevano che non fosse solo? Che vi fossero dei nemici nascosti nei paraggi? Forse lo avevano scambiato per un rapinatore o un ladro di bestiame. Li osservò meglio: la ragazza indossava una lunga camicia da notte immacolata e reggeva, tra le dita magre, una candela accesa. I capelli ramati riflettevano il tremolio della fiamma, gettando ombre sinistre sul volto teso del compagno; possedeva, quest’ultimo, dei lineamenti grezzi, affatto delicati o graziosi. La pelle abbronzata era contornata da una sottile rete di rughe, mentre i capelli color nocciola erano corti ed arruffati.

«Allemand?» la voce dell’uomo era tesa, troppo nervosa per essere controllata. Allemand? Significava…? Non conosceva il francese. Rimpianse amaramente di non aver chiesto a Farlan di insegnarglielo. Era fottuto. Non poteva convincere i contadini a seguirlo, non poteva portarli da Erwin, non poteva neppure spiegargli le sue buone intenzioni. Se avesse provato a parlare inglese, gli avrebbero sparato? Forse… erano filo-tedeschi? O simpatizzanti della resistenza? Nessuna idea, nulla che potesse indirizzarlo.

Scosse mestamente il capo, sussurrando un semplice:
«Non comprendo»

Colse la punta dell’arma schiacciargli a fondo le viscere. No, no! Non poteva finire così. Dopo tutta quella fatica, era questo che lo aspettava? Una morte anonima nella campagna francese, Erwin agonizzante su un maggiolino disgregato e gli Alleati perduti per sempre? Doveva reagire, ma… come? Come evitare un buco in pancia?

«Allemand?»

Di nuovo quella parola.

«Non capisco… sono un pilota della Raf e…» no, non poteva funzionare! Era inutile discutere con quei due. Cosa sapeva di francese? Poco «Aidez-moi! S’il vous plait, aidez-moi!» le sue conoscenze si fermavano lì. Aiutatemi, per favore. «Mon ami est…» non sapeva come spiegarlo. Non c’era altra soluzione, se non rischiare. Abbassò cautamente le braccia, disegnando con le dita un cerchio nell’aria. Finse di stringere le mani su un volante, di guidare un’auto immaginaria. Uno schiocco della lingua a simulare lo schianto e gli occhi chiusi per lo svenimento. Descrisse un arco sulla fronte, con l’indice, sperando bastasse ad indicare una ferita. «Mon ami» ripeté, indicando poi la stradicciola oltre le proprie spalle «est…»

«Blessé?» la voce della donna riecheggiò nel silenzio. Blessé? Non sapeva cosa volesse dire, ma… qualunque cosa sarebbe andata bene, se fosse servita a soccorrere Erwin.

Annuì, velocemente, afferrando la mano della giovane e tirandola appena. Accennò nuovamente alla via sterrata «S’il vous plait!» ripeté, la voce ormai stanca ed adombrata da una sfumatura disperata. Se quei francesi si fossero rifiutati di aiutarlo… sarebbe stata la fine. Sarebbero stati spacciati entrambi. Doveva sbrigarsi e convincerli a seguirlo.

Inaspettatamente, la ragazza non oppose resistenza: la scorse infilare solo un paio di zoccoli e far cenno al compagno di fare lo stesso. Tre figure corsero via, nella notte, alla ricerca di un maggiolino distrutto.
 
***
 
«Ti sei svegliato»

Erwin batté le palpebre pesanti, sforzandosi di ignorare il cerchio alla testa. Dove era? Di certo non sulla sua adorata Kommandeurwagen. Era adagiato in un letto, il materasso grezzo che gli pungeva la schiena e delle coperte rimboccate sulle sue spalle. Cos’era successo? Non ricordava quasi nulla: solo il buio, la strada sterrata, gli occhi troppo stanchi per essere tenuti aperti e poi più niente… perché non era in macchina? E chi era quella donna? Non parlava tedesco, né inglese… un francese stretto, come fosse un’abitante del luogo. Era giovane e carina: il viso tondeggiante accompagnato da un penetrante sguardo verde, mentre le labbra carnose erano piegate in un sorriso accondiscendente. Tra le mani reggeva un vassoio con del the caldo ed alcuni biscotti.

«Dove sono?» chiese, mentre la giovane poggiava la colazione su un vicino comodino «Cos’è successo?» le sue dita salirono immediatamente alla fronte, accarezzando una spessa fasciatura biancastra.

«Sei a casa mia» il tono era tranquillo, la voce sicura e melodiosa, nonostante i fatti drammatici «Un incidente. La tua macchina ha sbandato ed è finita contro ad un albero. Ti abbiamo estratto svenuto e ti abbiamo portato qui. Sei fortunato, però: la tua testa è solida e non hai riportato fratture»

Qualcuno gli aveva tolto la camicia sporca e la divisa, senza premurarsi di rimpiazzarle con abiti puliti. Scoccò una occhiata al proprio petto non trovandovi altro che qualche piccolo livido e graffio. Tastò leggermente ogni costola, senza provare dolore: era veramente tutto intero! Stentava a crederlo.

«A casa tua?»

«Sì… mia e di mio marito. Ti abbiamo soccorso ieri notte e ti abbiamo trasportato qui. È…una stanza che, in genere, usiamo per gli ospiti. Sai, quando vengono i parenti dalla Normandia a trovarci»

Una stanza? Beh, era piuttosto semplice: a parte il letto ed il comodino, non vi era altro, se non una cassapanca accanto all’unica finestra, ora spalancata. Una fresca e primaverile brezza filtrava dai vetri aperti, risvegliandogli gradualmente i sensi.

«La mia divisa, i miei bagagli?»

«Non temere, abbiamo sistemato tutto in soggiorno. La macchina purtroppo è inutilizzabile. Credo che dovremo demolirla. Peccato… Auruo ha detto che era una bella automobile; ha blaterato qualcosa di una Volkswagen ad edizione limitata. È un appassionato… credo che abbia pianto più per la vettura che per te, mentre ti tiravamo fuori»

Cercò di ricomporre quel puzzle: la ragazza era sposata con un tale Auruo e vivevano in quella casa. Lo avevano salvato dall’incidente, medicato e recuperato le sue cose. C’era, però, ancora qualcosa che gli sfuggiva… qualcosa che, senza dubbio, si stava dimenticando. Ah, se solo il mal di testa gli avesse dato tregua! C’era dell’altro: i bagagli, la divisa, la macchina distrutta...e …

«Levi?!» esclamò, tirandosi di scatto a sedere. Come aveva fatto a dimenticarsene? Non viaggiava solo. La francese non aveva fatto alcuna menzione riguardo un passeggero; e se… fosse stato sbalzato fuori dall’abitacolo? O incastrato tra le lamiere? Un pensiero orribile si formulò nella mente provata: se Levi fosse morto per quella stupida distrazione, per un suo errore… non se lo sarebbe perdonato. Si era ripromesso di aiutarlo, di portarlo dagli Alleati, non di ammazzarlo dopo solo due ore di viaggio… ah, che stupido era stato! Perché non lo aveva ascoltato? Avrebbe potuto cedergli il volante, invece che ostinarsi a guidare di notte, nonostante la stanchezza, le palpebre pesanti, il sonno alle porte. Dove era Ackerman? Perché la ragazza non gliene aveva parlato? Forse… non lo avevano trovato! Era ancora agonizzante sulla macchina, bloccato tra i sedili ed il telaio sgangherato delle portiere. No! Doveva ritrovarlo, subito…

Si agitò, cercando di alzarsi, lottando contro la nausea e la debolezza:
«C’era… un’altra persona con me.» esclamò, affannato «Dove è? L’avete trovata? È ferit…»

«Oh, non c’è da preoccuparsi. Sta benissimo» quelle parole gli strapparono uno sbuffo sollevato. Grazie al cielo, tutto sembrava essersi risolto nel migliore dei modi. «è di là, sta facendo colazione. Era molto preoccupato per te: non ha chiuso occhio ed è rimasto qui tutta notte, in attesa che ti svegliassi. Siamo riusciti a convincerlo a mangiare qualcosa solo ora. Sarà contento, quando saprà che ti sei ripreso»

Umh? Levi che rimaneva a vegliarlo? Quella sì che era una stranezza: forse anche il pilota aveva battuto la testa ed aveva perso la memoria; e si era riscoperto più gentile e premuroso. Poco probabile, ma… perché aveva sprecato il suo tempo così, allora? Gli era rimasto accanto, rifiutandosi di abbandonarlo. Non aveva senso… si sentiva colpevole per averlo maltrattato? In debito per averlo salvato da Weilman? Forse entrambe le cose e quello era il suo modo per scaricare la coscienza. In ogni caso, glielo avrebbe chiesto alla prima occasione.

«Vuoi mangiare?» la voce della ragazza tornò a farsi sentire.

Scosse il capo, leggermente:
«Magari dopo. Puoi lasciarmi il vassoio?»

«Certamente, ma… qualcosa non va? Mi sembri pensieroso»

Pensieroso? Aggrottò la fronte, ignorando il dolore alla ferita. Era strano che glielo avesse chiesto: solitamente, era bravo a nascondere le proprie emozioni, a vestirsi di un’aria imperturbabile e fredda. Quella contadina, tuttavia, aveva capito subito che qualcosa non andava. Aveva una sensibilità straordinaria, tipica delle donne – o, meglio, di tutte le donne che non fossero Hanji Zoe – ed aveva compreso subito il suo stato d’animo: preoccupato, spossato ed ora anche sorpreso.

«Sono stupito, più che altro… non mi sarei mai aspettato un comportamento simile da Levi»

«Perché no?»

«Beh… non siamo proprio “amici”» già, ma cos’erano? Forse solo compagni di viaggio: persone che il destino aveva fatto incontrare, debiti da saldare, questioni passate in sospeso. Non erano nulla di più. O, almeno, così aveva sempre pensato: da parte sua vi erano sempre state le migliori intenzioni! Aveva cercato di mettere il pilota a suo agio, di agevolarlo, di salvarlo… ma Levi si era comportato per lo più come un bambino testardo, a cui tutto era dovuto. Una sorta di capriccio mascherato dall’imponente orgoglio. Veniva, dunque, da chiedersi perché l’aviatore avesse deciso di rimanergli accanto: aveva ingoiato finalmente lo smisurato amor proprio? Si era deciso a cancellarlo, a combatterlo, a fare finalmente la cosa giusta?

«Davvero? Non si direbbe. Il tuo compagno non parla francese, sai? Cioè, capisce poco… però si è dannato l’anima per portarci da te. Si è fatto capire a gesti e… Auruo avrebbe voluto spararti: non gli piacciono i tedeschi; Levi, però, si è frapposto tra voi due e lo ha fermato. Ci ha fatto intuire che, nonostante tutto, non eri cattivo; che lo stavi aiutando a tornare dagli Alleati e che gli avevi salvato la vita»
si era frapposto…? D’accordo, quella cosa non aveva senso: avrebbe scommesso che il pilota lo avrebbe abbandonato alla prima difficoltà e, invece… non solo era corso a cercare aiuto, ma aveva anche impedito che lo uccidessero. Senza dubbio, era uno strano comportamento.

«è così» confermò, allungando la mancina per prendere un biscotto «Lo sto accompagnando alla sua base. Dobbiamo raggiungere Limoges e avvisare la resistenza: i nazisti hanno scoperto un piano d’attacco e dobbiamo avvertirli» risparmiò i vari dettagli, accontentandosi si sbocconcellare la colazione «Lo so che… è ridicolo detto da me: sono… o meglio, ero un ufficiale tedesco. Ho disertato per accompagnarlo, a causa di… un vecchio legame tra le nostre famiglie. È una storia lunga, ma ti chiedo solo di credermi. Sono in buona fede. Non voglio farvi del male, voglio solo raggiungere la Repubblica di Vichy»

«Se ti credessimo pericoloso, ti avremmo già sparato, non temere»

Quell’affermazione gli strappò un piccolo sorriso:
«Non tradirò la vostra fiducia; però…fate attenzione. La notizia della mia scomparsa si diffonderà presto e verranno a cercarci. Non dite che ci avete ospitato; se vi dovessero chiedere della macchina, spiegate solo che l’avete ritrovata al mattino, ma l’abitacolo era vuoto»

«Intesi…»

«Mi dispiace per il disturbo che ti ho creato, ma… devo chiederti un altro favore: dobbiamo assolutamente raggiungere la capitale. Sapete darci qualche indicazione? O… avete una macchina da noleggiarci? Posso pagare, naturalmente»

«Una macchina no, purtroppo. Tuttavia, da un paese vicino, Lachelle, passa una corriera una volta al giorno, che va dritta a Parigi. Ferma in alcuni paesini, il viaggio è lungo e noioso, ma entro sera sarete in città. Parte intorno alle otto di mattina.»

«Che ore sono, adesso?»

«Quasi le dieci»

Accidenti. L’avevano persa! Dubitava, comunque, di potersi alzare tanto presto. Il corpo provato non gli avrebbe consentito di muovere neppure due passi. Poco male… aveva ancora un giorno per riprendersi e riposarsi. Non avrebbe guastato, anche se forse avrebbe annullato il vantaggio che avevano su Weilman; peccato… se non fosse stato per quello sciocco incidente, a quell’ora sarebbero stati a Parigi. Non aveva importanza ed accanirsi non serviva a nulla: non poteva fare altro che accettare le disposizioni del destino, chinare il capo e proseguire per la propria strada.
Addentò il secondo biscotto:

«Sono stato sgarbato… non ti ho chiesto neppure il nome»

La ragazza accennò ad un mezzo inchino:
«Madame Bossard, ma… tu puoi chiamarmi Petra»

 


Angolino: come previsto, purtroppo sono stata costretta a rallentare un pochino il ritmo di produzione capitoli, ma... spero di non essere troppo in ritardo.
Ecco, stiamo uscendo dalla fase di transizione della storia: il loro viaggio per raggiungere la Repubblica di Vichy è ufficialmente iniziato (anche se sta già andando tutto storto). Ho cercato di inserire un po' di leggerezza ad inizio capitolo, perchè...boh, li vedo mentre si punzecchiano a vicenda. Pian piano, vorrei farli ingranare nel vivo della storia, in quello che sarà il viaggio verso gli Alleati. Per il momento, ci godiamo anche la famiglia Bossard: è la primissima volta che muovo Petra e Auruo; sinceramente, li ho sempre trovati molto affini, carini quando stanno insieme e... ho deciso di coronare il sogno di Auruo e farlo sposato alla sua ragazza. Almeno qui avranno, spero, una vita felice (o forse no, dipende da cosa succederà XD non l'ho ancora pensato...). Spero, comunque, che il capitolo vi sia piaciuto e, al solito, se avete opinioni e consigli scrivete pure! Mi avete aiutato molto nel migliorare la stesura della storia (specie Auriga e Shige che ringrazio dei mille pareri che mi hanno lasciato ^^). sarò felicissima di leggere e di correggere secondo le vostre direttive.
Ah, ps. in questo capitolo...il francese è ancora opera di traslate XD le informazioni sulla geografia politica della francia dovrebbero (spero) essere corrette, così come la storia del maggiolino (si ringrazia wikipedia per avermi aperto gli occhi su questa macchina).
E...niente, se trovate errori storici e geografici, segnalatemeli pure ^^ In ogni caso, prendetela per quello che è: una storia di fantasia di una persona che di storia non sa un tubazzo e rattoppa con wikipedia XD
Ancora millemila grazie per aver letto sin qui!
Un abbraccio <3

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Ossessione ***


13. Ossessione
 

Marzo 1942. Fronte Occidentale, Francia. Base tedesca.
 

Weilman scagliò una bottiglia di Bourbon nel caminetto ancora acceso, godendo del sibilo del fuoco. Il poco vino rimasto evaporò immediatamente con un piccolo scoppio, ravvivando le fiamme e gettando ombre sinistre sulla stanza.

L’ufficio del capitano era semplice, stretto e buio: nessuna finestra, se non una feritoia appena sopra un vecchio arazzo. Non vi era altro che una scrivania malmessa, ingombra di carte e volumi pesanti; una poltrona di pelle era accomodata davanti al focolare e, al momento, ospitava la figura crucciata dell’ufficiale.

Quella puttana l’aveva fregato! Se n’era andata di buon mattino, prima che potesse fermarla.
Al suo risveglio, si era trovato davanti un dottoruncolo tremante, che gli aveva consegnato un telegramma dalla capitale: Berlino autorizzava la rimozione del Maggiore Smith dai suoi compiti ed affidava a Herr Kapitan il controllo completo sulla base di Arras. Al medico Zoe, inoltre, veniva accordato il trasferimento a Bruxelles.

All’inizio, quelle notizie lo avevano rincuorato: si sarebbe disfatto di due piantagrane in un colpo solo! Avrebbe scacciato Fraulein Hanji con il massimo del disonore, costringendola ad abbandonare lì tutte le sue ricerche; avrebbe bruciato i suoi appunti e libri, prima di sbatterla fuori dalla caserma, senza neppure un mezzo di trasporto. Anzi, senza concederle il lusso di fare la valigia. L’avrebbe allontanata immediatamente, obbligandola a camminare nel freddo del mattino e nel buio della notte. Quanto a Smith… lo avrebbe fatto arrestare e rinchiudere nei sotterranei; poi si sarebbe dedicato all’Inglese. Magari avrebbe permesso al Maggiore ad assistere al trattamento speciale che aveva in mente per lo sfortunato pilota. In fondo, ogni uomo aveva un punto debole, persino l’intoccabile Herr Smith. Sarebbe stato divertente.

Aveva già stappato una bottiglia di liquore, pronto a festeggiare, quando una sentinella era corsa nel suo ufficio: Ackerman era fuggito e non vi era traccia nemmeno di Smith. Zoe se n’era andata e così il suo fidato barelliere.  Come era possibile? Ridicolo! Come avevano potuto organizzare un piano di fuga? Aveva piazzato soldati ad ogni porta… qualcuno di corrotto li aveva lasciati passare? Probabile.
Il suo piano era sfumato immediatamente in una nuvola di rabbia. Quegli stronzi gliel’avrebbero pagata! Si sarebbe vendicato. Avrebbe inseguito il Maggiore fino in capo al mondo: lo avrebbe cacciato come una volpe fa con un coniglio; braccato, stanato e allora…si sarebbe preso la sua rivincita. L’Inglese? Era con lui, senza dubbio. Dove erano diretti? Probabilmente alla Repubblica di Vichy, unico territorio ancora indipendente. Avrebbe dovuto muoversi ed intercettarli. Si era fatto portare delle mappe e le aveva studiate a fondo, per tutto il pomeriggio: l’unica strada conduceva da Arras a Parigi, piegando poi per Orleans. Era la via più facile e diretta, quella che sicuramente avrebbero percorso; quella che anche lui avrebbe seguito, nella spietata ricerca. Li avrebbe trovati, quei figli di puttana! E allora…
 

Si versò un bicchiere di liquore, svuotandolo di un fiato. L’alcool era ristorante e confortante. Sentiva già la testa più leggera e la fantasia pronta a galoppare a briglia sciolta.

«Non posso arrendermi, non ora» sussurrò, spiando le braci nel caminetto «Pensi di avermi fottuto, Smith? Pensi d’avermi messo nel sacco… allora sei uno stupido. Non ti lascerò andare. Sei la mia preda, ora» sorrise, alzandosi dalla poltrona e sgranchendosi le gambe. Cos’era quella sensazione che gli galleggiava alla bocca dello stomaco? Un’ossessione. Non intendeva lasciar correre: Smith lo aveva offeso per l’ultima volta. Quel bastardo aveva, infine, commesso un errore: era fuggito, macchiato dalla codardia. Catturarlo sarebbe stato semplice ed appagante: lo avrebbe raggiunto a Parigi e scovato. Non importa quanto tempo ci sarebbe voluto. Sarebbe tornato a Berlino da vincitore, coperto di onori, pronto a ricevere una promozione ed a stringere la mano al Fuhrer. Avrebbe trascinato il suo prigioniero davanti alla corte marziale ed avrebbe brindato all’infausto verdetto. Come era gradevole il sapore della vendetta.

Raggiunse la scrivania, osservando la fotografia nella cornice argentata: un uomo anziano, dallo sguardo severo e i baffetti arricciati ad incorniciare le labbra, lo stava fissando attraverso il vetro trasparente.

«Padre, avete la mia parola. Non vi deluderò. Io… lo odio. Odio quell’uomo, odio Smith! Non gli sarò più secondo, mai più!» ringhiò, abbandonando il portaritratti e riprendendo a camminare nervosamente lungo la stanza «Brucio a questo pensiero. Fremo all’idea. Lo annienterò.» la voce stava prendendo una piega strana, nervosa e quasi irrazionale «Non ho colpe per questa fuga… è stata improvvisa, sì. Devo porvi rimedio. Non vincerai anche questa partita!» sollevò il capo, fissando il soffitto, le mani strette a pugno alzate verso il cielo «Non vincerai! Vuoi giocare con me, Smith? Maledetto … credi di potermi dare scacco matto un’altra volta? Oh, no. Sei sempre stato più bravo di me in quel gioco. Sei uno stratega, sei un calcolatore, ma… non hai più la forza di combattere. Ora sei solo un illuso, schiacciato dalle sue colpe.» rise, isterico «Aspettavo un tuo errore. La pagherai. Pagherai per quello che mi hai fatto!» stava urlando, ma non poteva trattenersi.

Era… la sua ossessione. Non sarebbe riuscito a disfarsene tanto facilmente: non doveva solo fermare il rivale, ma annientarlo e disgregarlo. I grandi uomini continuavano a vivere anche dopo la morte, bazzicando tra le pagine dei libri di storia. Smith, senza dubbio, apparteneva a quella categoria. Ucciderlo non sarebbe stato sufficiente. Occorreva umiliarlo, sì…

Piegò la testa, piegando le labbra in un ghigno innaturale «Soffrirai. Piangerai e ti dispererai. Supplicherai e invocherai il mio nome. Ti costringerò a guardare…»

Oh, si! Come era dolce quell’idea. Avrebbe torturato quello sciocco Inglese davanti ai suoi occhi: perché Smith ci tenesse tanto non riusciva a comprenderlo. In fondo, però, non gli interessava. La sua ossessione. Tutti avevano tallone d’Achille e quel piccolo bastardello britannico era la chiave: catturarlo significava possedere Smith. Seviziarlo, ottenere suppliche. Ucciderlo, lo strazio. Quanto sarebbero state dolci, allora, le urla: avrebbe accolto ogni grido come le note delicate di una sinfonia. Avrebbe costretto Erwin a implorare, a pregarlo di risparmiare quel pidocchio. Lo avrebbe accontentato? Assolutamente no. Lo avrebbe lasciato a guardare, mentre si divertiva con l’Inglese. Ackerman, eh?

«Ti spaccherò ogni osso che hai in corpo. Ti vedrò piangere e contorcerti come un verme. Potrei accarezzarti con un ferro ardente. Sono sicuro che ti piacerà…» sogghignò, stringendo il calice tra le dita «Sadico, dici? Naturalmente. Credi sia stato crudele quando ho torturato il tuo amichetto? Non hai ancora visto niente allora, credimi. Potresti sperimentare i miei giochetti sulla tua stessa pelle… e lo sai perché? Perché… sei il suo punto debole.» volse il capo, cercando una nuova figura con cui parlare «Ehi, Smith…chi ti credi di essere? Pensi d’essere intoccabile? Lo vedremo.»

Erano dolci quelle congetture; così leggere, pacate… era un trastullarsi interiore, come il lieve cullare del sonno. Presto avrebbe avuto vendetta; avrebbe seguito Smith, lo avrebbe rincorso per tutta la Francia. Lo avrebbe trovato, presto o tardi. La caccia sarebbe stata eccitante, la vittoria delicata. L’avrebbe bevuta d’un solo fiato, come un bicchiere di buon vino.
Avrebbe spezzato le catene di quella fissazione solo umiliando Smith, prima di donargli una morte lenta e dolorosa. Lo avrebbe visto penzolare dal patibolo, la ruvida corda attorno al collo, lo sguardo azzurro ridotto alle lacrime e le labbra mosse in una silenziosa supplica.
E poi…

Un sonoro bussare lo strappò a quei sogni.

«Avanti» mormorò, passandosi una mano sul volto e cercando di ricomporre un’espressione indifferente. Non poteva farsi vedere così, in preda al delirio ed ai fumi dell’alcool, neppure dai suoi fidati tirapiedi.

Il suo attendente si presentò alla soglia, la mancina sollevata in un saluto «Heil! Porto notizie, Herr Kapitan»

«Riposo, Konrad» squadrò per qualche attimo la figura ordinata, impeccabile nella divisa scura. I capelli erano completamente rasati, mentre delle sopracciglia cespugliose segnavano uno sguardo sottile e spento. La mascella squadrata era coperta da una corta barba ispida «Parla pure»

«Abbiamo ritrovato la Kommadeurwagen!­»

A quelle parole, il cuore mancò un battito. La fortuna finalmente girava dalla sua parte! Sapeva che una macchina tanto vistosa non poteva passare inosservata. Smith era stato uno sciocco a rubarla. Lo avevano già rintracciato. Chiuse i pugni, assaporando in anticipo il gusto della vittoria.
«Dove?»

«Nelle campagne di Lachelle. Un camion di rifornimenti, percorrendo la strada, l’ha notata. Era accartocciata contro ad un albero. All’interno vi erano tracce di sangue»

«I fuggiaschi?»

«Non li abbiamo trovati, ma a poca distanza c’è un casolare. Abbiamo supposto avessero trovato rifugio lì; feriti, inoltre, non possono essersi allontanati troppo»

«Splendido» non trattenne un sorriso soddisfatto «Domani mattina partirò per Lachelle. Fai preparare la scorta. Cinque di noi basteranno, ma ben armati»

Il sottoposto batté sui tacchi e si ritirò.
Weilman si versò un ultimo bicchiere, sollevandolo verso il ritratto dell’augusto genitore.

«Alla mia salute, padre. Presto sarò Maggiore e dormirò tra guanciali dorati»


 

Angolino: Odio tantissimo Weilman, concedetemelo. Lo detesto, è viscido e raccapricciante... L'idea di dovergli dedicare un capitolo, all'inizio, mi disgustava abbastanza (e si vede, temo). Però, purtroppo, ho dovuto dedicargli una paginetta: era necessario, a questo punto, mostrare almeno una parte della sua ossessione (oltre ad introdurre il ritrovamento della macchina). Ciò non toglie che lo odi tantissimo... e che prima o poi la ruota gira u.u per ora, tuttavia, mi serve vivo e vegeto. So che questo capitolo è un altro abbastanza "di passaggio", non troppo rilevante ai fini della storia; e ammetto, purtroppo, d'averlo scritto con grande difficoltà. Weilman non è uno di quei personaggi che ti entra dentro, né lo sento nelle mie corde. ha parecchi lati oscuri, forse anche troppi. tuttavia, un piccolo spaccato sulla sua fissazione per Erwin doveva essere inserito, così da accennare la cosa. Scusatemi, comunque, se il capitolo lascia un po' a desiderare e non soddisfa le vostre aspettative: è stato durissimo muovere Weilman in uno dei suoi deliri di onnipontenza.
Presto, comunque, spero di poter aggiornare (anzi, prestissimo...il prossimo capitolo è quasi pronto...e per fortuna Weilman non c'è XD). AL solito, se avete consigli e pareri, mandatemeli tranquillamente: sono sempre graditissimi e ben accetti!
Un abbraccio e un grazie gigante <3

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Confessione ***


14. Confessione
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Dintorni di Lachelle.
 

Levi scivolò oltre la soglia, recuperando una seggiola e sedendosi accanto al letto. La stanza era piccola, ma ordinata... c'era qualche traccia di polvere qui e là, ma era troppo stanco per mettersi a spazzare. Aveva aiutato quel francese con il taglio della legna, caricando i ciocchi spaccati su un vecchio carretto. Naturalmente, non aveva spiccicato parola, neppure quando Auruo sembrava rimproverarlo per il modo in cui stava posando il legname. Dopo due ore, si era finalmente concesso una pausa. Petra gli aveva preparato dell'acqua fresca e un tramezzino, che lui aveva prontamente ingoiato prima di passare nella camera degli ospiti.

Il tedesco era seduto sul giaciglio, un libro tra le mani e delle briciole di biscotti sparsi sulla coperta. Sembrava immerso nella lettura, lo sguardo incollato alle pagine ed un'espressione crucciata sul volto. I capelli biondi a stento nascondevano la fasciatura che gli circondava la fronte, mentre il petto, costellato di qualche piccolo graffio, sbucava dal lenzuolo spiegazzato.

Non poté fare a meno di notarlo: le spalle massicce scivolavano gradualmente verso le braccia, sufficientemente piegate da lasciar intravedere il solco dei muscoli. Lo stesso disegno lineare che si scorgeva sul torace e che, gradualmente, scendeva lungo l'addome. Curioso come celasse il tutto sotto l'ordinaria uniforme nera. Dopo tutto, la giacca lo snelliva: non che fosse grasso, ma risultava meno imponente con la divisa indosso, per quanto fosse comunque prestante.

Prestante?! Ma che diavolo stava pensando? Scacciò quei ragionamenti con uno soffio seccato: non era il momento adatto per ponderare sulle spalle di Erwin. Distese cautamente le gambe, stiracchiandole piano, prima di sussurrare:
«Noto che ti sei ripreso» che constatazione ridicola. Era ovvio che si fosse ripreso...

Sbuffò, cercando di riordinare la propria mente: era passato di lì perché stanco di impilare legna e di sentire lo sbraitare senza senso di Auruo. Per sfuggire alla quotidianità e lasciare alla padrona di casa la possibilità di preparare il pranzo con tutta calma. Aveva bisogno di un po' di pace e tranquillità e quella sembrava l'unica stanza adatta.

«Sì, mi sento meglio. Ho ancora un po' di mal di testa, ma sta gradualmente scemando. Petra mi medicato poco fa: la ferita non è profonda, ma occorrerà qualche giorno perché si rimargini»

Logico, insomma... nessuna ferita poteva guarire con uno schiocco di dita. Persino le sue non si erano ancora risanate: sulla tempia capeggiava una vistosa crosta brunastra, ma sottile e quasi pronta a staccarsi, mentre il taglietto sulle labbra era ancora lì, pronto a sanguinare su avesse parlato troppo velocemente. La caviglia sinistra, invece, era migliorata: non gli doleva più e riusciva a muoverla senza difficoltà.

«Vuoi fermarti qui? Non credo avranno problemi ad ospitarci» sussurrò, la l'altro scosse prontamente il capo.

«Troppo rischioso. A quest'ora Weilman avrà intuito la nostra fuga. Mezza caserma sarà già in giro a cercarci. Non possiamo tardare»

Già, per un attimo si era dimenticato di Herr Kapitan e della sua ossessione. In fondo, quella casa sperduta tra i campi era un’oasi di pace, tanto desiderabile da indurlo quasi ad accantonare i loro problemi. Già, ma… come raggiungere Parigi? La contadina aveva parlato di una corriera in partenza dal paese vicino, ma.. non sarebbe stato troppo rischioso? E se qualcuno li avesse riconosciuti? Dovevano essere attenti e cauti e tenere gli occhi ben aperti.

«Cosa faremo, una volta che saremo alla capitale? Hai un piano?»

«Non proprio… Petra mi ha parlato di alcuni conoscenti, però, che potrebbero affittarci una soffitta. Potremo nasconderci lì, per il momento…e poi trovare un modo per proseguire»

«Sono persone di fiducia?»

«Lo spero. Ha detto che dirigono un ufficio postale e che invierà loro un telegramma per avvisarli del nostro arrivo. In realtà, non credo che abbiano grandi simpatie, questi… e a giudicare dai nomi, credo siano tedeschi»

«Tedeschi? Lo dici come se fosse una buona notizia! Metà dei tuoi connazionali ci dà la caccia, te ne sei dimenticato?»

Un piccolo sbuffo ed una risatina:
«Non tutti simpatizzano per il nazionalsocialismo, anzi… come movimento è controverso: ha affascinato le masse, i giovani… ha affascinato anche me, all’inizio, ma molti non si sono lasciati incantare. Credo che siano soltanto degli approfittatori, questi due: gente che non bada alla cittadinanza, agli orientamenti politici, ma solo ai soldi. In questo caso, per noi è una grandissima fortuna»

Si, beh… incontrare degli strozzini non era mai una “grandissima fortuna”, ma forse quell’aggancio avrebbe potuto salvarli dalle ricerche di Weilman. In ogni caso, dovevano accontentarsi. Allungò la mancina, cercando di acciuffare uno dei biscotti rimasti sul davanzale; lo mordicchiò piano, pensieroso.

«Ti posso chiedere una cosa personale? Insomma, non sei obbligato a rispondermi, se non te la senti.» sussurrò, tornando a spiare lo sguardo azzurro, ora tinto di una nota curiosa «Come mai ti sei avvicinato tanto al nazismo? Non mi sembri il tipo che si beve qualunque stupidata venga trasmessa dai media. Mi sembri razionale, attento e… non capisco come tu abbia fatto a ...crederci!»

Lo scorse abbassare il capo, meditabondo. Forse quella domanda era inopportuna: Erwin non era pronto a riscattare la propria coscienza, ad ammettere le proprie colpe o a scavare in un passato ancora troppo fresco e doloroso. Si pentì immediatamente d’avergliela posta:
«Non importa, come non detto!»

«No. È giusto che tu lo sappia; dopo tutto, siamo compagni di viaggio.» colse una pausa ed un leggero sospiro; parlarne, evidentemente, era più complesso del previsto «Ero giovane, Levi. Non è una scusante, lo so. Molti ragazzi sono rimasti imbrigliati dalle promesse del nazionalsocialismo, ma molti altri si sono sottratti, hanno combattuto, si sono isolati ed estraniati. Io, semplicemente, non ne ho avuta la forza. Ricordo ancora le serate al circolo, con gli altri simpatizzanti: bevevamo birra, mangiavamo salsicce e torte salate fino a mezzanotte, scambiandoci idee e pareri. La nostra amata Germania era in ginocchio: il popolo tassato allo sfinimento, la moneta completamente svaluta, la disoccupazione incontrollata. Ci credi, se ti dico che i miei vicini di casa avevano tappezzato una stanza con delle banconote perché costava meno che comprare della carta da parati? Eravamo ridotti allo stremo. Volevamo tutti fare qualcosa per risollevare il nostro Paese, per restituirgli quella dignità che la guerra aveva tolto. I politici, tuttavia, erano troppo deboli ed incapaci: pensavano solo a rimpinguare le loro tasche già gonfie, a compiacere l’odiata Francia, a correggere gli ultimi sbagli con futili leggi riparatorie. A nessuno interessavano le sorti della Germania, soltanto a noi; ma… dei giovani studenti, cosa potevano fare? Come cambiare le sorti di una nazione distrutta? Mi ero arruolato da poco. Pensavo di seguire le orme di mio padre, di onorare la mia famiglia servendo l’esercito, nella speranza che il mio contributo, per quanto piccolo, potesse essere d’aiuto» tacque per un momento, assaporando l’amarezza di quei ricordi «Poi comparve lui… il Fuhrer. È un uomo carismatico, Levi. Non hai mai avuto la fortuna di incontrarlo? Immagino di no. Se lo sentissi parlare, crederesti anche tu in lui. Prometteva una Germania nuovamente unita e gloriosa. Ci saremmo ripresi i territori che il conflitto ci aveva rubato, avremmo espanso la superiorità tedesca in tutta l’Europa, imponendo ideali di purezza e lealtà. Sono stato così cieco… non potrò mai perdonarmelo! Ho creduto a quelle sciocchezze, le ho appoggiate con tutto me stesso, mi sono illuso che potessero essere la soluzione. Ho seguito ogni convegno del Fuhrer, applaudendo le sue parole, gioendo per gli onori promessi. Finalmente ci saremmo riscattati, avremmo ritrovato l’orgoglio e lo avremmo mostrato fieramente agli altri popoli.
 
Quando la guerra è scoppiata ero… felice. La mia patria avrebbe rialzato la testa e vittoriosa si sarebbe eletta regina. Che ingenuo! L’invasione della Polonia mi aveva infuso speranza e coraggio. Mi ritrovai al fronte, poco dopo aver terminato il corso ufficiali. Ero un tenente in gamba e feci subito carriera. Diventai capitano e poi maggiore, ma… la prospettiva era cambiata in fretta: stare sul campo di battaglia mi aveva fatto maturare più velocemente del previsto; vedere i tuoi compagni morire per un tuo ordine è… crudele. Ti uccide dentro. Per quanto i tuoi comandi possano essere giusti, volti alla vittoria, la perdita di una vita umana resta sempre un fallimento intimo, interno, che nessun ufficiale può permettersi di mostrare. Li ho rivisti tutti, Levi: i volti dei soldati mi appaiono in sogno, pesano sulle mie spalle, distruggono la mia coscienza. Per cosa sono morti? Per la gloria di un folle, per degli ideali irrealizzabili. Me ne sono reso conto davanti alla guerra, quella vera: quella che si combatte tra le trincee, nei vicoli delle città, lungo le strade sterrate e sui monti impervi. L’hai sempre vista dall’alto, vero? Non hai idea di cosa si provi, Levi; e prego perché tu non conosca mai quella sensazione di disgusto, di errore. Guardarti allo specchio diventa impossibile: un demone avido flette la tua immagine e non puoi sfuggirgli. Ti senti sporco e sbagliato: hai mandato i tuoi compagni a morire… per cosa? Per una realtà iniqua, lacerata, impossibile da ricomporre: stai servendo un Paese corrotto. Vendono una versione distorta della libertà: come può essere libero un mondo in cui nessuno è sovrano della propria terra? Volevo che la Germania fosse amata ed onorata, non odiata e temuta. Eppure, è quello che è successo: i Francesi ci detestano, gli Inglesi ci disprezzano, i Polacchi sputano sul suolo che calpestiamo. Non posso continuare a servire questi ideali. Ho promesso di restituire alla nazione la sua grandezza, ma… non a questo prezzo. Forse, tradire è l’unica strada. Consegnarmi agli Alleati, spezzare il giuramento all’esercito, credere in un disegno più grande, che passa inevitabilmente dalla guerra.
 
Sono così stanco, Levi. Non vedo l’ora che tutto questo finisca! Non voglio più portare il peso dei caduti, non voglio altri cadaveri a turbare il mio sonno. Weilman si chiedeva perché mi ostinassi a salvare dei prigionieri… ora lo sai. Lui non può capirlo: è un’anima nera, condannata. Non vede umanità nelle persone che sottomette, le tratta come fossero bestie. Io… non voglio essere come lui. Ho già macellato i miei compagni: bravi soldati, che si fidavano di me. Li ho spinti nelle braccia della morte, ma… per cosa? Per la garantire la gloria, la vittoria ad una nazione che non meritava tanti sacrifici. Perché dovrei, allora, aggiungere altro sangue alle mie mani? Sangue straniero, ma innocente. Non potrei sopportarlo.
 
Potrete mai perdonarmi? Tu, Hanji, i miei compagni abbandonati in un campo ai margini di Hannut, nelle pianure belghe, così lontani da casa. Quante mogli giacciono ora in letti vuoti? Quante madri stringono i giocattoli dei figli mai tornati? Quanti amici e parenti piangono davanti a ritratti color seppia? A volte sento anche le loro urla, di notte, e le loro maledizioni. Non posso sottrarmi: sono colpevole della scomparsa di ognuno di loro. Potrò mai riscattarmi? Non penso, ma… questa è sicuramente un’occasione. Forse non lo faccio per te, per la Germania… o per quello stupido debito. Forse lo faccio per me stesso, per dimostrare che, nonostante tutto, c’è ancora del buono in me ed una piccola parte che può essere salvata. Non lo so. Ho commesso tanti errori, tanti sbagli irreparabili. Se potessi, cambierei il passato: strapperei i volantini nazisti, tapperei le orecchie alle conferenze, scapperei dall’esercito, senza più inseguire la gloria o la libertà. Sono irraggiungibili, sai? Non sono alla portata dei comuni esseri umani. Non saremo mai liberi, Levi. Qualunque cosa facciamo, rimarremo schiavi silenziosi, troppo intenti a sopravvivere per scappare dalla gabbia, spiccare il volo e librarci nel cielo azzurro. In fondo, ci atteggiamo da aquile, ma siamo soltanto uomini. Non dovremmo mai dimenticarlo.»
 
Erwin tacque, gli occhi azzurri nel vuoto. Per tutto quel discorso, non lo aveva mai guardato, neppure quando aveva pronunciato il suo nome. Aveva sbagliato a porgli quella domanda: si sentiva colpevole, ora. Aveva, con poche parole, distrutto ogni spensieratezza, riportando il biondo alla brusca realtà. Non sapeva, naturalmente, come riparare. Scusarsi per la richiesta inopportuna era il minimo, ma non sarebbe servito a risollevare il morale. Quel discorso era…così difficile da accettare! Il tedesco aveva ragione: la guerra… lui l’aveva vissuta solo dall’alto, scrutando dall’aeroplano il territorio martoriato. Che cosa aveva fatto? Aveva sganciato bombe su villaggi, ospedali da campo, porti e navi; aveva eseguito gli ordini, ma… quante vite aveva spezzato? Non ci aveva mai riflettuto. In fondo, sotto ogni proiettile cadevano persone: aviatori nemici, soldati vestiti di nero, civili.

Perché, allora, i volti di quelle vittime non gli erano mai apparsi in sogno? Forse perché non li conosceva… oppure perché era un subordinato. Obbediva, senza discutere: il caposquadriglia comandava il bombardamento di Arras? Eseguiva, senza pensarci. Eppure… quante famiglie aveva distrutto? Quel pensiero non lo aveva mai sfiorato. Era strano come Erwin fosse giunto a tutte quelle conclusioni, che la sua mente aveva rigorosamente scartato: probabilmente, però, era l’effetto della gerarchia militare; più si saliva e più ci si sporcava. Era come percorrere una scalinata infinita, fatta di corpi dilaniati, di sguardi assenti, di petti immobili. Una gradinata di cadaveri, sino all’apice. I generali riuscivano a guardarsi nello specchio, la mattina? Oppure rifuggivano il loro riflesso temendo di incrinare il vetro con falsi sorrisi e bieca commiserazione? Preferiva non saperlo.

Nel suo piccolo, ora, meditava quelle parole: in cosa era diverso lui, rispetto ad Erwin? Anche le sue mani erano insanguinate, forse più di quelle del Maggiore. Ma era sangue diverso: non quello dei compagni, ma di estranei e di rivali. Pesava forse meno? No, ma fino ad ora non si era reso conto di portarlo.

Abbassò il capo, fissando le dita affusolate:
«Allora anche io…» sussurrò, ma la voce profonda lo interruppe nuovamente.

«Ti senti sbagliato? Non dovresti» il biondo stava ancora fissando il nulla «Hai ucciso degli esseri umani, ma la colpa non può ricadere sulle tue spalle. Lascia che ricada sulle mie e su quelle dei tuoi superiori. Gli ufficiali ordinano, i soldati eseguono. Il sangue ricade su chi esegue o si chi comanda? Ho pochi dubbi in merito. Hai ucciso perché eri obbligato. Io l’ho fatto per mia volontà: per appagare la sete di vittoria e per la speranza di una inavvicinabile libertà. La Storia si ricorderà di noi in modo diverso, Levi.»

«Ma cosa dirò a Dio, quando mi presenterò davanti a lui? Quando mi chiederà il conto di quelle anime? Pensi che si accontenterà di una banale scusa come “me lo avevano imposto”? Non sono innocente come supponevo. Tu credi nel paradiso, Erwin?»

«Non lo so. Una volta ci credevo, ma… come può esserci qualcosa dopo tutto questo? Ci aggrappiamo alla religione. Pensiamo che inginocchiandoci davanti ad un confessore, i nostri peccati verranno lavati e risorgeremo come uomini nuovi. Tuttavia… ci ho provato: mi sono presentato al prete, ho chiesto perdono per le mie azioni, ho invocato la salvezza nella speranza che i miei incubi si quietassero. Invece… sono ancora tutti lì. Li sento, li vedo i compagni caduti: mi aspettano. Sanno che li raggiungerò, presto o tardi. Forse, potrò dormire solo quando otterrò il loro, di perdono. Fino ad allora, sarò condannato ad incontrarli ogni notte.»

«Credo che li vedrò anche io, dopo questa chiacchierata»

«Non penso. È difficile provare rimorso per persone senza una faccia. Riesci ad immaginarli, Levi? Vedi i loro volti, senti le loro urla? Non credo. Quei morti non ti toglieranno il sonno, perché non ti ritengono responsabile.» sbuffò leggermente «A volte, vorrei essere ancora una semplice recluta, un soldato senza gradi, né mostrine. È più semplice vivere come una marionetta, ma… quando i fili delle vite si annodano alle tue dita, diventa impossibile non tirarli. Non sai cosa si prova, credimi: avere per le mani l’esistenza di tutti, poter schioccare il pollice e comandare una morte. È una sensazione pericolosa, a tratti inebriante. So cosa provano i burattinai: tirano una cordicella ed i loro giocattoli chinano il capo. È appagante e pericoloso, perché dopo un po’ perdi il controllo: i balocchi si rompono, le loro anime si spezzano e ti condannano al rimorso eterno.»

L’Inglese si alzò, stringendo i pugni lungo i fianchi:
«Perdonami, Erwin… ero venuto solo a vedere come stavi, a chiedere se desideravi fermarti qualche giorno di più. Non desideravo rovinarti la giornata. Sono stato egoista con le mie domande»

«Non sei tu che l’hai rovinata» nel tono vi era una nota distante, come se la mente fosse ormai catapultata ad amari ricordi «Ti ringrazio, comunque, per le tue premure: mi sento pronto per ripartire già domani e…Grazie per essere passato. Davvero, lo apprezzo moltissimo. Petra mi ha detto che sei rimasto qui, questa notte.»

«Io…» ah, la Francese aveva spifferato tutto quanto! Come faceva, però, ad ammettere le proprie preoccupazioni dopo quel discorso? Sarebbero sembrate futili, sciocche. Non avrebbe mai potuto immaginare il peso che quelle spalle portavano, nel silenzio quotidiano. All’improvviso, Erwin gli apparve più umano: non un ufficiale nazista, ma solo una persona con troppi rimpianti da nascondere. Forse avrebbe dovuto lasciarlo solo, permettergli di seppellire ancora una volta i morti, ora che lui li aveva riportati così ingenuamente alla luce «…credo che Auruo mi stia chiamando» mentì, alzandosi dalla seggiola ed affinando un lieve sorriso sulle labbra sottili «A più tardi» disse, scivolando frettolosamente via. Non osò voltarsi, limitandosi a chiudere piano la porta oltre le proprie spalle.
 
***
 
Il giorno seguente, un pallido sole inondava la cittadina di Lachelle. Le vie erano quasi deserte: solo qualche venditore ambulante si affrettava a disporre le bancarelle per il mercato, mentre la maggior parte delle imposte era ancora ben sigillata. Solo la piazza presentava un piccolo capannello di persone: una famiglia con due bambini, una signora accompagnata da un cane dal pelo ispido e qualche ragazzo in tenuta da lavoro.

Levi si avvicinò al lampione, da cui pendevano gli orari della corriera, scritti su un pezzo di cartone. Presto sarebbe arrivata. La tranquillità della campagna era stata completamente spazzata via dal discorso di Erwin. Non era riuscito a toglierselo di testa, se non a notte fonda, quando era caduto preda di un sonno agitato. Forse cambiare aria gli avrebbe fatto bene: avrebbe allontanato gli spettri, lo avrebbe costretto a concentrarsi sul presente. Nella capitale, poi, vi erano così tante attrazioni: vetrine illuminate, locandine dei teatri, musicisti itineranti agli angoli delle strade. Si sarebbe distratto ed avrebbe cercato di non pensare più a quella pesante chiacchierata.

«Stai bene vestito da civile» sussurrò, accostandosi ad Erwin. Avevano entrambi indossato dei pantaloni scuri, dei gilet e delle camicie, oltre agli alti stivali impolverati. Auruo aveva donato due mantelli di lana grezza, prima di caricarli sul carretto ed accompagnarli a Lachelle. Anche Petra era venuta, sistemando nelle loro bisacce dei panini per il viaggio.

Scorse l’espressione del biondo mutare in un tenue sorriso:
«Grazie»

Ecco, avevano bisogno di leggerezza, di spensieratezza. Parlare dei vestiti, dello scomodo carretto, del profumo del pane appena sfornato e dei bizzarri cappellini dei passanti: frivolezze per risollevare gli animi e ravvivare il tragitto.

«Tenete» Petra si fece avanti, rivolgendosi ad Erwin in francese e consegnando ad entrambi dei piccoli biglietti di filigrana «Mostrateli al conducente; questa, invece, è per quando arriverete a Parigi. Ho già spedito un telegramma ai miei amici» sussurrò, allungando una busta «Sono raccomandazioni: ho spiegato che siete delle brave persone. Edr e Gunther vi troveranno una sistemazione e verranno a prendervi alla Gare du Nord, dove ferma la corriera. Tenete gli occhi aperti e non fatevi catturare.» li abbracciò entrami, stringendoli affettuosamente «La nostra casa sarà sempre aperta per voi. Chiederò a Erd di mandarci vostre notizie» terminò, mentre uno sbuffo annunciava l’arrivo dell’autobus.

Le porte a soffietto si schiusero grazie all’intervento di un paffuto controllore.

I fuggiaschi salirono correndo quasi verso la fine della corriera: si accomodarono nei sedili posteriori; Levi sprofondò accanto al finestrino, sollevando la mancina in un cenno. L’ultima cosa che vide, prima della partenza, fu il sorriso fiducioso dei due sposini che, dal carretto, agitavano le mani in segno di saluto.


 


Angolino: niente, in questi giorni mi escono solo capitoli di seghe mentali, ma... non riesco ad accantonarli. è come se sentissi il bisogno di spiegare il punto di vista dei vari personaggi, di raccontare un pochino la loro storia (anche se questo...penso sia l'ennesimo riflesso del cuoricino spezzato di cui vi parlavo XD). In ogni caso... vi ringrazio, al solito, dei consigli che mi avete mandato! ho cercato di applicarli anche qui, sperando d'aver eliminato quel brutto vizio dei punti esclamativi XD spero, in effetti, che il capitolo non vi abbia annoiato troppo: temo possa risultare un po' pesante,  nel continuo sguardo al passato che Erwin rimanda. sentivo la necessità di spiegare il suo punto di vista, di far comprendere il perchè dei suoi rimpianti e di quella continua ricerca d'assoluzione. Non so se ci sono riuscita, però... ç__ç nel caso, vi chiedo di perdonarmi per aver disatteso le vostre aspettative (cercherò di recuperare nei prossimi capitoli).
Finalmente, però, sono riusciti a partire per Parigi...almeno questo mi consola XD avevo previsto la loro partenza parecchi capitoli fa, ma... poi mi son lasciata prendere la mano ed ho scritto più del previsto.
Nulla, vi lascio qui per oggi <3 davvero infinitamente grazie per le recensioni che mi avete lasciato e per tutti i pareri: so d'essere ripetitiva, ma mi hanno aiutato molto a proseguire nella ff (che senza il vostro continuo sostegno sarebbe già sfumata... quindi ancora grazie!)
Un abbraccio

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Quattro bicchieri ***


15. Quattro bicchieri
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Dintorni di Lachelle.
 

Petra scese agilmente dal carretto avvicinandosi alla casa: la porta era spalancata e, nel pollaio vicino, gli animali starnazzavano irrequieti. Dei ladri? Forse banditi o vagabondi. Di quei tempi ci si poteva aspettare di tutto. Auruo la raggiunse:
«Non entrare» le disse, ma la ragazza scosse il capo. Non intendeva lasciarlo solo ad affrontare dei malintenzionati. Qualcuno aveva violato la loro dimora e non l’avrebbe passata liscia.

Recuperò un bastone di legno, passandone un secondo al marito, prima di entrare a passo svelto.

All’interno, il caos regnava sovrano: le ante delle credenze erano aperte, alcune divelte, mentre tazze e piatti erano frantumati a terra; le sedie ribaltate e persino il tavolo giaceva riverso. I cuscini del basso sofà erano stati buttati in un angolo ed ogni armadio aperto ed attentamente ispezionato. Nella confusione generale, cinque uomini in divisa nera stavano frugando tra le cassapanche ed i ripostigli.

«Che state facendo?» scattò la donna, spingendone uno di lato. Raccolse le vecchie foto di famiglia, stringendole al petto «Questa è casa mia! Chi siete e… che diavolo volete?» strillò, mentre un giovane sergente dall’aria arcigna si parava davanti a lei.

Raddrizzò la schiena e le spalle, in un cipiglio fiero: se pensavano di intimidirla, sbagliavano. Non si sarebbe piegata all’ennesimo sopruso! Quei tedeschi – perché le uniformi tradivano la loro nazionalità –non avrebbero portato via nulla: capitava spesso che i soldati saccheggiassero abitazioni private, in cerca di denaro, gioielli o semplicemente cibo. Lì, tuttavia, non avrebbero trovato niente, se non una manica di bastonate!

«Andatevene!» sollevò un dito, accennando all’uscio ancora spalancato.

«Herr Konrad, fragte die Frau. Wir brauchen Informationen» un uomo dall’aria crucciata si fece avanti: gli occhi porcini la stavano osservando attentamente, sforzandosi forse di scrutarle in fondo all’animo. Cosa voleva, quel maiale? Sulla giacca di panno scuro portava appuntate delle mostrine da capitano.

«Non parliamo tedesco, qui… e adesso, fuori di qua!» ripeté, indicando testardamente l’esterno.

«Perdonate Fraulein»  quello chiamato Konrad le si era avvicinato, mimando un falso inchino di cortesia, sfoggiando un francese fluido e privo di esitazioni «Non vi disturberemmo se non fosse importante. Tradurrò per voi le parole di Herr Kapitan: egli desidera ricevere informazioni»

Informazioni? Aggrottò la fronte, come se non capisse: cosa mai potevano desiderare da due semplici contadini? In un attimo, le tornò in mente la Kommandeurwagen: l’avevano lasciata dove era, addossata all’albero che l’aveva distrutta. Erwin, d’altronde, aveva ventilato quell’ipotesi: sapeva che se i tedeschi l’avessero trovata, li avrebbero raggiunti per interrogarli, solo… non si aspettava facessero tanto presto! Il Maggiore li aveva scongiurati di negare, di fingere indifferenza. Deglutì, sforzandosi di mostrare un’espressione affabile e sicura:

«Naturalmente. Come possiamo esservi d’aiuto?» gettò una rapida occhiata allo sposo che, nel mentre, stava cercando di risollevare almeno le sedie ed il tavolo.

«Come avrete notato, poco lontano da qui c’è una macchina incidentata, che ci interessa particolarmente. Dobbiamo sapere se avete ospitato i fuggiaschi che vi erano a bordo. Sono persone pericolose, dobbiamo fermarle prima che raggiungano la capitale.»

Scosse il capo con disinvoltura. Idiota! Non avrebbe saputo nulla da lei: avrebbe tenuto la bocca cucita ed i guai alla larga.
«Abbiamo controllato la macchina, signore. L’abbiamo rinvenuta ieri mattina, ma era completamente vuota. C’erano tracce di sangue, però… abbiamo supposto che l’autista fosse ferito. L’abbiamo cercato nei dintorni, ma non siamo riusciti a trovarlo»

« Lügnerin» di nuovo la voce del capitano, soppiantata poco dopo da quella di Konrad:
«Il mio superiore crede che vi stiate ingannando, signora. Siete certa che non vi fosse nessuno?»

«Assolutamente!» che diamine significava quella parola? Lo intese come un “si sbaglia” oppure un “approfondisci” «Riferite al vostro capitano che sono assolutamente sicura! Ho controllato personalmente le campagne vicine, mentre mio marito frugava i boschi: non c’era nessuno»

«Perché avete lasciato lì l’auto, allora? Avreste dovuto avvisare la polizia e farla rimuovere. Non appaiono, invece, segnalazioni in merito»

Giusta osservazione: avrebbero dovuto denunciare il ritrovamento della Volkswagen, ma chi mai avrebbe immaginato che i tedeschi si sarebbero mossi tanto presto? Credeva di poter fare con calma, di potersi concedere qualche giorno per riordinare le idee, per scegliere il miglior piano d’azione, ma l’avevano battuta sul tempo.
«Mio marito è un appassionato» sussurrò, scuotendo leggermente il capo, come se non trovasse altra spiegazione «Quando ha visto la vostra macchina, se ne è interessato. Pensavamo di smontarla e rivendere i ricambi»
Contrabbandare oggetti bellici era, ovviamente, un reato certamente minore dell’ospitare due ricercati. Non l’avrebbero passata liscia, ma se la sua storia avesse convinto i nazisti, se la sarebbero cavata con un avvertimento ed una multa salata. Sempre meglio che la fucilazione…

«Siete consapevole, Fraulein, che rivendere un’auto di proprietà sul mercato nero è un reato?»

«Sì» per la prima volta, Petra abbassò il viso, fingendosi contrita. Si mostrò incerta per un istante sufficiente ad appagare l’orgoglio nemico: quegli sciocchi desideravano vederla tremare? Invocare il perdono e giurare fedeltà alla Germania? Si sbagliavano! Non avrebbe mai concesso una soddisfazione simile… e poi era tutto parte della recita: un modo per accontentare i nazisti, perché credessero d’averla in pungo; in realtà, avrebbe diretto lei i giochi. Alzò piano lo sguardo, modulando uno tono di scuse «Però comprenderete, spero… di questi tempi, ognuno si arrangia come può»

« Lügnerin» che significava quella parola? Iniziava a chiederselo; era la seconda volta che il capitano la ripeteva, sempre con quel tono duro e seccato. Si stava annoiando, forse? Metteva pressione al sottoposto perché si sbrigasse con l’interrogatorio? Non ne aveva idea, ma decise di non domandare. Rimase in silenzio, sfoggiando il migliore dei propri rassicuranti sorrisi.

Konrad riprese poco dopo:
«Perdonerete il mio scetticismo, ma… siete soltanto voi due in questa casa?»

«Sissignore»

«Non vi è nessun altro?»

«No»

«Allora mi domando perché nel vostro lavandino vi fossero quattro bicchieri e quattro piatti; quattro cucchiai e quattro scodelle di caffelatte.»

Per un istante, si sentì perduta: quattro bicchieri? Come era possibile? Gettò una occhiata al lavello, rabbrividendo: dal mastello ricolmo d’acqua, facevano capolino le stoviglie, troppe per solo due persone. Perché? Quella mattina erano usciti in fretta, l’unico pensiero rivolto alla corriera di Lachelle. Si era completamente dimenticata di lavare le stoviglie, di rassettare la stanza degli ospiti, di ripulire ogni traccia: l’avrebbe fatto al ritorno, ma… mai si sarebbe immaginata di trovare i tedeschi già sulla soglia di casa. Strinse le labbra in una smorfia irritata: sciocca! Come aveva potuto cadere in un errore tanto banale? Lo stupido crucco stava sogghignando e così il resto della truppa: ridevano di lei? La trattavano come se fosse una mentecatta, una ingenua campagnola. Serrò i pugni, trattenendosi dal mollare un ceffone a quei volti sghignazzanti. Sapevano d’averla colta in fallo, d’averla messa con le spalle al muro: cercò rapidamente una scusa, anche banale, ma senza risultato; avrebbe potuto blaterare qualcosa di parenti in visita, di amici di passaggio, ma non le avrebbero creduto. Una ridicola dimenticanza l’aveva condannata. Niente poteva salvarla: erano due bastardi francesi che nascondevano dei traditori.

«Non saprete niente da me» sollevò orgogliosamente il mento, ma un dolore improvviso le esplose sulla faccia. Incespicò dietro di sé, perdendo l’equilibrio e crollando a terra. Il sergente l’aveva colpita, spaccandole una guancia.

«Figlio di puttana! Ti ammazzo!» Auruo era scattato in avanti, brandendo il bastone; tentò di abbatterlo sul soldato più vicino «Non toccatela, io…» non riuscì a finire la frase: un colpo esplose nella stanza ed il giovane cadde a terra, stringendosi al petto la gamba destra. Un urlo strozzato sfuggì dalle labbra tremanti, mentre gli occhi, sgranati per il dolore e per la sorpresa, cercavano istintivamente quelli della compagna. Konrad sghignazzava, soffiando dolcemente sulla canna fumante della Mauser.

«Che cazzo hai fatto?!» Petra scattò in piedi, lanciandosi contro il corpulento sergente: cercò di spingerlo via. Maledetto bastardo! Non gli avrebbe più permesso di colpire il suo sposo; né di ridere di lei o di devastare la casa. Non più. Lo avrebbe cacciato di casa, prendendolo a bastonate su quei denti giallastri che si ostinava a mostrare. L’uomo, tuttavia, le rifilò un altro ceffone: barcollò all’indietro, rifiutandosi di cadere nuovamente. Contrasse i muscoli, irrigidendo le gambe e la schiena, attutendo il colpo «Non toccare mai più mio marito! Non osate, cani bastardi» gridò, lasciando sgorgare la rabbia, il viso trasfigurato in una maschera di odio e di impotenza.

«Fraulein, prego… moderate il tono. Non si addice ad una bellezza francese come voi…» Konrad aveva allungato una mano per accomodarle una ciocca dietro un orecchio. Non gli permise di completare quel gesto viscido: schiaffò cinque dita sulla gota del tedesco, con un tanto impeto da costringerlo a voltare il viso.

«Non toccarmi, verme. Adesso fuori di qui!» ringhiò, alzando nuovamente la voce «FUORI DI QUI!» sbraitò, il volto tinto di una sfumatura rossa, gli occhi spalancati per lo sdegno, le labbra piegate in una smorfia seccata.

Il nazista, tuttavia, proruppe in una risata amara:
«Non avete ancora capito come si gioca, vero?» l’eco di un secondo sparo risuonò nella stanza, seguito da un successivo.

Seguì istintivamente il volo dei proiettili, osservandoli trapassare il fianco e la spalla di suo marito. Il tempo parve dilatarsi e permetterle di seguire quella scena a rallentatore: vide Auruo contorcersi a terra, mentre il sangue macchiava copiosamente il pavimento, schizzando sui mobili rovesciati e sugli stivali dei soldati. No! Lo stavano uccidendo, proprio davanti ai suoi occhi… non poteva fare nulla per salvarlo, se non abbassare ogni difesa, abbandonare l’orgoglio e spifferare tutto quanto. Avrebbe tradito la fiducia del Maggiore Smith, ma… Auruo il suo sposo! Come poteva abbandonarlo?

«La verità, Fraulein»

Cadde in ginocchio, strisciando sino al corpo ferito, parandosi davanti a lui con le braccia spalancate. Non poteva lasciare che lo ferissero ancora, che lo torturassero. La verità? Era pesante, troppo: equivaleva a condannare due innocenti, ma… che doveva loro? Non aveva alcun legame con i fuggiaschi, se non la comune antipatia per il nazismo. Auruo, invece, era il suo compagno: si erano promessi eterno amore davanti a Dio meno di un anno prima. Da quanto si conoscevano? Da quella  festa di paese, in cui un lui l’aveva invitata a ballare. Avevano danzato tutta la notte, al suono delle fisarmoniche e delle chitarre scordate. Auruo l’aveva accompagnata a casa, baciandola teneramente. Era iniziata così quell’avventura delicata che ora stava per finire. I tedeschi stavano per spezzare tutto quanto: li avrebbero distrutti, senza mostrare alcuna pietà, se lei non avesse collaborato. Tacere, tradire, parlare, nascondere… cosa doveva fare? Mentire, rischiando d’essere scoperta? Svuotare il sacco, narrare e pregare nella clemenza dell’ufficiale? In fondo, però, a chi doveva la sua lealtà? A due sconosciuti o a suo marito? Non aveva dubbi, in merito… prese un respiro profondo, chiudendo gli occhi:
«Se vi racconto tutto, ci lascerete in pace?»

«Forse…»

«Giuratemelo!»

«Vi lasceremo in pace»

Scacco matto: non c’era possibilità di scelta! Cercò il coraggio dentro di sé, allontanando immediatamente i sensi di colpa: non dovevano emergere, non ora. L’avrebbero solo portata all’indecisione, al rimpianto, a patetiche lacrime che non desiderava mostrare.

«Abbiamo dato rifugio ai due ricercati» sussurrò, sentendosi improvvisamente sporca. Era come se una colata di pece fosse piovuta sulla coscienza, lasciandovi macchie indelebili ed ustionanti. «Un pilota della Raf e un ufficiale tedesco. Erano feriti. Li abbiamo curati e rifocillati, permettendo loro di soggiornare qui. Avevano fretta di giungere a Parigi, so soltanto questo: hanno preso da poco la corriera che passa da Lachelle. Saranno in città entro sera»

«Sapete se possedevano degli agganci nella capitale? Parenti? Conoscenti?»

«Non lo so, non ne hanno fatto cenno. » mentì, sforzandosi di non tentennare, di mantenere un tono cauto e rispettoso, senza lasciar trapelare l’indecisione: aveva già due anime sulla coscienza; non avrebbe messo a rischio anche quelle di Erd e Gunther.

Konrad si ritrasse, gettando una occhiata al suo superiore.
«Sehr gut»

Molto bene. Erano le sole due parole che conosceva in tedesco: Petra abbassò le mani, lasciandole ricadere lungo i fianchi. Era finita. I soldati erano soddisfatti delle informazioni ricevute: l’avrebbero abbandonata nella casa devastata, a prendersi cura delle ferite del marito che, fortunatamente, non sembravano troppo gravi. Sorrise stancamente, osando per un istante risollevare gli occhi sul sergente: l’uomo aveva nuovamente estratto la Mauser e la stava puntando oltre le sue spalle. Che significava?

Non fece in tempo a domandarlo: uno scoppio le ferì i timpani, mentre il proiettile guizzava veloce accanto al suo volto. Colse l’aria solleticarle i capelli, mentre un ultimo gemito disperato spezzava il silenzio nella stanza. Si voltò, mentre la sua bocca si spalancava in un muto grido: Auruo giaceva supino, le braccia allargate ai lati del corpo, come se avesse tentato di stringerla un’ultima volta. Le gambe erano piegate di lato, mentre lo sguardo assente puntava al soffitto ormai distante. Tra gli occhi capeggiava un foro nerastro, da cui sgorgava abbondante un liquido scuro ed appiccicoso.

Che cosa era successo? Scosse il capo: niente di tutto ciò era reale! Non era accaduto! Era un sogno: presto si sarebbe destata ed avrebbe scorto Auruo accanto a sé, troppo intento a russare per accorgersi del suono della sveglia. Si sarebbe alzata ed avrebbe infilato la vestaglia: per essere marzo, l’aria del mattino era ancora troppo fredda. La cucina era adiacente alla loro camera: sarebbe andata a preparare il caffè e riempire la biscottiera, prima di tornare a svegliare lo sposo con un piccolo bacio. Lui avrebbe brontolato, come sempre, ma poi l’avrebbe abbracciata, avvolta nuovamente nelle coperte e cullata dolcemente. Le avrebbe ripetuto quanto l’amava, come ogni giorno… poi sarebbe andato nei campi, tornando solo verso mezzogiorno con un cesto di frutta appena raccolto o con gli attrezzi in spalla. Le avrebbe portato il solito mazzolino di fiori delicati. Infine, si sarebbe accomodato a tavola, impaziente di assaggiare la zuppa di cipolle per la quale stravedeva. Chissà, forse quell’estate sarebbero riusciti ad andare in Normandia, dai parenti e…

L’odore ferroso arrivò prepotentemente a riscuoterla: le salì alla mente, bruciando quelle illusioni e riportandola alla realtà. Distolse lo sguardo dal compagno, abbassandolo al pavimento: il sangue era fluito sino all’orlo della sua gonna, bagnando lentamente il bordo azzurro.

«NO!» urlò, alzandosi di scatto. Chiuse gli occhi, sforzandosi di cancellare quella vista: non voleva ricordare Auruo così, inerte ed abbandonato su un vecchio pavimento, ma vivo e felice, accanto a lei. Tese le mani, afferrando il bavero di Konrad, strattonandolo con una forza disumana: i pugni chiusi, le nocche bianche, le unghie che graffiavano la camicia e la pelle sottostante, la faccia distorta dal dolore e dalla rabbia. Vide il tedesco barcollare, cercare di ricaricare la pistola. Non le importava: nulla ormai aveva più senso; le avevano tolto tutto! La casa, la serenità, il suo sposo… non li avrebbe mai perdonati!
«Che siate maledetti!» sollevò la destra, colpendo il viso del sergente «Maledetti voi e… avevate giurato di lasciarci in pace! In pace! Siete dei vigliacchi, dei bastardi figli di…» un singhiozzo le sfuggì, mentre le dita perdevano la presa sulla stoffa; le ginocchia cedettero e si ritrovò accasciata a terra, a stringersi le spalle tremanti «Lasciarci in pace…»

Non riuscì a terminare la frase: Konrad aveva sollevato la Mauser, puntandole la canna alla fronte. Se ne rese conto troppo tardi: allungò la mancina, arrivando a sfiorare le dita protese di Auruo.

Poi, il click del grilletto spezzò tutto.


 

Angolino: buon ferragosto! ci tenevo a sfruttare il weekend lungo per aggiornare e inserire questo capitolo, che...al solito,mi ha dato un sacco di grattacapi ç_ç faccio fatica a muovere personaggi diversi, soprattutto se non li conosco bene. Petra e Auruo non fanno eccezione, anche se sono sicuramente meglio di Weilman. Mi dispiace un po' per la loro fine, ma... ho reputato fosse in linea con il carattere dell'amatissimo capitano e dei suoi scagnozzi. Ammetto che dopo l'ultimo capitolo, mi sentivo tremendamente in colpa ad uccidere i due sposini: ho cercato di creare una scappatoia, un modo per salvarli e farli fuggire, ma non ce l'ho fatta; il risultato non mi piaceva, lo trovavo poco coerente con Weilman (che fino ad ora si è dimostrato tutto, tranne che clemente...). Così, a malincuore, li ho fatti saltare ç_ç mi dispiace soprattutto per via dei commenti ricevuti (graditissimi, naturalmente *_* li ho adorati e... ho cercato di mettere meno puntini in questo capitolo ^^ spero d'esserci riuscita!): so che alcune di voi tifavano per petra e auruo e, credetemi!, ho faticato un sacco a prendere questa decisione. Spero non me ne vorrete ç_ç
Poi, vi ringrazio infinitamente dei consigli e dei pareri che mi avete lasciato! Ve ne sono davvero grata e spero, ogni volta, di non tradire le vostre aspettative. al solito, sono apertissima a suggerimenti, quindi se ne avete...scrivete pure *_*
E...nulla... spero di poter aggiornare presto.
Un abbraccio e un grazie infinito!

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Camera con vista ***


16. Camera con vista
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Parigi.
 

La Gare de Lyon era illuminata: dei piccoli faretti, collocati tra le arcate di mattoni, inondavano di bianco e giallo la facciata della stazione, mentre l’orologio sulla torretta laterale segnava le otto di sera. Qualche treno fischiava in lontananza, mentre il via vai dei passeggeri gremiva i marciapiedi circostanti. Il sole era già tramontato ed il buio aveva immediatamente avvolto i passeggeri intenti ad abbandonare la corriera.

Levi si strinse nel mantello, gettando qui e là delle occhiate nervose: la capitale era più caotica di quanto si era immaginato. Aveva pensato di scendere dal pullman e riconoscere subito i loro accompagnatori, ma solo ora si rendeva conto di non conoscerne i volti. Sembravano tutti uguali, quei maledetti parigini! Tutti avvolti nei lunghi cappotti, in giacche a doppio petto e morbide sciarpe di velluto e cotone. Ben pochi sfoggiavano abbigliamenti più umili, come mantelli sgualciti, pantaloni rammendati ed ingombranti maglioni. Sembrava che la guerra, in quell’angolo di città, fosse un ricordo lontano: la gente pareva immersa nei propri affari, troppo intenta a girovagare a testa china per riflettere sulle sorti del mondo. 

Le strade erano insolitamente pulite: nonostante fosse un punto di transito, nemmeno una cartaccia faceva capolino dai tombini, mentre i rari mozziconi di sigaretta riposavano tutti nei cestini dell’immondizia. In fondo, fumare era un lusso che pochi potevano concedersi, in quei tempi.

«Sono là» la voce profonda del Maggiore lo riscosse, obbligandolo a spiare verso una pensilina verde rame. Una coppia di ragazzi stavano sventolando un cartello, recante solo un paio di nomi “Erd e Gunther”.

Si affrettarono in loro direzione.

«Siete gli amici di Petra?» Erwin sembrava quasi indeciso, come se quei due non gli ispirassero fiducia: il primo portava i capelli biondi raccolti in una crocchia disordinata, mentre un pizzetto contornava il mento, sfumando in una barba incolta. Lo sguardo chiaro era sottile, quasi cinico, mentre le labbra carnose modulavano un semplice “Erd” in risposta alla domanda del tedesco. Il compagno, Gunther, possedeva un’aria ancor meno raccomandabile: la testa era quasi rasata, non fosse stato per qualche sparuto ciuffo nero, mentre le il viso squadrato assumeva quasi dei connotati scimmieschi: il naso schiacciato, la mandibola robusta, la bocca leggermente arricciata.

«Sì» fu proprio Gunther a parlare, indicando una bassa vettura parcheggiata «Salite. Petra è stata poco chiara nel suo telegramma. Ha detto che vi serviva un alloggio a Parigi»

«Sì, solo per qualche giorno. Il tempo di trovare un mezzo di trasporto» Erwin aveva preso in mano la situazione, con la solita flemma autoritaria «Conoscete qualcuno che possa noleggiarci un’auto?»

«Spiacente, amico… io ed il mio socio ci occupiamo solo di affitti. Non è che siete invischiati in brutti affari, vero? In genere, chi ha fretta di svignarsela porta solo guai»

«Non vi daremo noie. Premuratevi solo di non sbandierare il nostro arrivo qui»

«Come pensavo… siete gente pericolosa. Credo che l’alloggio vi costerà un po’ di più»

Un po’ di più? Era un raggiro bello e buono! Erano due truffatori, buoni solo a spillare soldi alla gente. Strozzini ed usurai, che sopravvivevano grazie ai problemi altrui. Levi sbuffò, scontento: la loro avventura a Parigi stava già cominciando nel peggiore dei modi. Non riuscì a trattenersi:

«Che significa?! Pensate di derubarci? Non siamo due sprovveduti! E non pagheremo di più per i vostri comodi e…»

«Datti una calmata, tappo.»

«Come mi hai chiamato…?» si rabbuiò immediatamente. Come osava, quello stupido babbuino?! Nessuno…. Nessuno poteva permettersi di sfotterlo così! Gli avrebbe fatto mangiare quelle parole. Strinse i pugni, lo sguardo sottile fisso sulla mandibola prominente. Gli avrebbe spaccato la faccia, letteralmente: un paio di cazzotti ben assestati e Messer Gunther avrebbe supplicato per andare in ospedale. Avanzò di un passo, poi di un altro ancora, ma Erwin fu più veloce: lo afferrò per un braccio, impedendogli di proseguire.

«Piantala» fu l’unico sussurro che ricevette dall’ufficiale «Sono l’unico aggancio che abbiamo. Non possiamo permetterci di sprecarlo»

«Mi ha chiamato “tappo”!»

«Ho sentito, ma non farci caso.» Erwin lo lasciò soltanto per riprendere le trattative «Sono disposto a pagare, ma in cambio voglio il silenzio più completo.»

«Intesi. Siamo persone discrete e con una certa reputazione; Petra ha scritto che siete brava gente. Vedremo di aiutarvi come potremo» sussurrò Gunther, aprendo una portiera «Accomodatevi. Vi portiamo a fare un giro»

Ai due fuggiaschi non rimase altro da fare che prendere posto sugli scomodi sedili posteriori.
 
***
 
“Camera con vista” l’avevano chiamata Erd e Gunther; in realtà, era una vecchia mansarda, alloggiata all’ultimo piano di una palazzina fatiscente, in Rue Mignon. La Senna scorreva placidamente a meno di mezzo chilometro. Il fruscio dell’acqua oltrepassava i vetri spalancati dell’unica finestra, accompagnata da un minuscolo balconcino. Dall’esterno si potevano scorgere, a destra, le torri campanare di Notre Dame, mentre a sinistra svettava la punta ferrosa della Tour Eiffel. Il profilo della città era incomparabile e sublime: una distesa di puntini luminosi bagnava le strade vicine, estendendosi sino all’orizzonte. Dai ristoranti vicini saliva un profumo di galletto allo spiedo, contornato di spezie e verdure croccanti.

La stanza, tuttavia, non reggeva il confronto con l’intensità di quel paesaggio: vi era un solo letto a due piazze, esattamente dirimpetto alla finestra, mentre sulla sinistra capeggiava un vecchio armadio ostaggio delle termiti. Un’unica lampadina impolverata pendeva dal soffitto; a destra della porta in legno chiaro, infine, stanziava un tavolo malmesso con due seggiole, la cui paglia era appena trattenuta da una fodera di stoffa macchiata. Il pavimento polveroso si intonava al soffitto dove, tra l’intonaco scrostato, alcuni ragni gareggiavano nel tessere le ragnatele più vistose. Non vi era altro, se non qualche coperta ammuffita ed un tappeto arrotolato in un angolo.
Levi si era messo subito all’opera, non appena messo piede in quel tugurio: aveva recuperato una scopa dagli altri condomini, mettendosi subito a spazzare con vigore. Non avrebbe dormito in quello schifo, men che meno per la cifra esorbitante che gli avevano chiesto: trecento franchi per quella stalla! Quegli strozzini erano fuori di testa: prima li trattavano come dei mentecatti, poi li rapinavano ed infine li gettavano nella soffitta peggiore di Parigi. Oh, se solo li avesse avuti per le mani: li avrebbe costretti a lavare i pavimenti con la lingua. Per di più, mancavano i servizi igienici! Il bagno non era incorporato in nessuna abitazione e gli inquilini dovevano, ogni volta, scendere in strada ed accomodarsi alla toilette pubblica adiacente.
Disgustoso solo a pensarci! Avrebbe pisciato dietro un cespuglio, piuttosto che usufruire di quei gabinetti.

L’uscio si schiuse, lasciando entrare il Maggiore: era sceso a prendere qualcosa da mangiare, ma non aveva rimediato che un paio di panini ripieni al formaggio e delle crostatine come dolce.

Accettò di buon grado il suo tramezzino, sbocconcellandolo cautamente, ben attento a non sbriciolare dove aveva appena ripulito.

«Come si sta di fuori? Fa freddo?» domandò, recuperando un tovagliolino di carta.

«Non molto. Il mantello basterà se vuoi uscire. Perché?»

«Andiamo a mangiare sul balcone, allora. Ho appena scopato e mi scoccerebbe dover ripassare!» sentenziò, trascinando il biondo verso la finestra.

Sgusciò oltre i vetri opachi, ritrovandosi sul balconcino, che poteva ospitare al massimo due persone. Si chinò sulla ringhiera traballante, ben attento a non pesarsi troppo: l’ultima cosa che voleva era cadere di sotto. Sollevò lo sguardo, lasciandolo spaziare sui tetti vicini: come era strana Parigi! Sembrava una città come tante, con le tegole annerite dal fumo dei comignoli ed i gatti intenti a miagolare alla pallida falce lunare. Le luci delle finestre e dei lampioni contornavano un paesaggio delicato ed infinito: sin dove l’occhio spaziava, riusciva a scorgere abitazioni, giardini, fabbriche ancora all’opera.

Era proprio come se l’era immaginata! L’aveva sorvolata tante volte, ma senza poter mai cogliere tutte quei dettagli: era un concentrato di bellezza, profumi, chiacchiericcio indelicato che saliva dalle strade vicine. Sembrava così viva! Come se la guerra non potesse toccarla. Se solo avesse potuto fermarsi qualche giorno per ammirarla meglio: per scoprire le vie più nascoste, per camminare lungo gli Champs Elysées e perdersi negli immensi saloni del Louvre. Non era un intenditore d’arte: non sapeva distinguere il Rinascimento Italiano dalla pittura olandese, ma non gli interessava… in fondo, anelava solamente ad un poco di normalità. A quella quotidianità che, senza dubbio, lo avrebbe accolto come un figlio smarrito. Parigi era una sirena ammaliatrice: cantava con il frusciare del fiume, danzava sui colori vivaci, chiamava a gran voce i suoi amanti. Era impossibile sfuggirle. Ne era rimasto abbagliato: si era innamorato di lei da dietro il vetro di un aereo.

«Ti vedo pensieroso» la voce di Smith dissolse quel sogno, riportandolo alla realtà. Distolse a fatica lo sguardo dal profilo delle case, portandolo sul volto del Maggiore. Era…intonato, sì. Come se fosse adatto a quel contesto, come se le spalle robuste, il volto severo ed i capelli dorati fossero perfettamente in linea con la delicatezza della città. Come se non fosse un tedesco in cerca di rifugio, ma un parigino dall’aria cortese ed affabile; forse uno di quei pittori itineranti di Montmartre o un venditore di pane e dolci. Lo poteva quasi vedere appollaiato ai margini della strada, intento a dipingere o a dispensare Eclair alla crema.

«Ho sempre sognato di visitarla» sussurrò infine, tornando a spiare l’orizzonte «Non potremmo fermarci qualche giorno? Solo per darle un'occhiata» conosceva già la risposta che, tuttavia, non tardò ad arrivare:

«Temo di no. Weilman potrebbe essere già sulle nostre tracce e non abbiamo tempo da perdere. Rimarremo il necessario per trovare un mezzo di trasporto, poi riprenderemo il viaggio» lo immaginava. Si strinse nelle spalle, cercando di farsene una ragione: era destino che non vedesse Parigi, evidentemente. La voce del biondo, tuttavia, riprese poco dopo:  «Potremo tornarci, però, quando la guerra sarà finita»

Era impossibile rifiutare una proposta tanto semplice e genuina: quando la guerra sarà finita. Sarebbe mai giunta al termine? O sarebbe proseguita per sempre, costringendoli a scappare da una città all'altra? No, impossibile. Nulla poteva durare tanto. Ancora qualche mese e gli Alleati avrebbero sconfitto l'odiata Germania. Oppure qualche anno: la prospettiva di tardare tanto nella visita di quella meravigliosa città non gli piaceva affatto, ma non c'erano alternative. Non poteva che attendere, sperando che le sorti dello scontro volgessero presto in favore degli uni o degli altri: che l'Europa fosse libera o totalmente occupata, non faceva differenza! Nulla gli avrebbe impedito di visitare Parigi ancora una volta. Si rilassò a quell'idea: sarebbe stato divertente; avrebbe girato con Erwin per le stradine più nascoste, godendo del profumo delle baguette appena sfornate, delle tele colorate, della musica che qualche girovago suonava fuori dai locali affollati. Si sarebbero seduti all'ombra dell'Arco di Trionfo, assaporando le brioches calde e bevendo il miglior champagne di tutta la Francia. Avrebbero fatto un giro su quegli strani battelli affusolati che percorrevano la Senna, sfrecciando accanto al Louvre ed a Notre Dame. L'attesa sarebbe stata così lautamente ricompensata.

«D'accordo» mormorò, staccando velocemente un altro pezzo di tramezzino «La considero una promessa»

Scorse il compagno annuire piano, prima che le  parole tornassero a tranciare il breve silenzio:
«Levi... ti posso chiedere una cosa?»

«è il tuo turno delle domande indiscrete?» la sfumatura dubbia in quella frase lasciava poco all'immaginazione: era evidente che qualcosa crucciava il tedesco, qualcosa di personale e che non osava chiedere. Mimò un cenno d'incoraggiamento «Avanti, sentiamo»

«Ho notato che nel tuo zaino c'è una lettera. Non l'ho aperta, naturalmente, ma... mi domandavo se fosse per la tua ragazza» colse una punta di imbarazzo «è vero che andiamo di fretta, ma se ci tieni a spedirla, potremmo passare dall'ufficio postale prima di...»

«Non è mia» sussurrò, chinando frettolosamente il capo, tornando a spiare la via sottostante «è di Farlan. Me l'ha lasciata prima di... devo consegnarla a Isabel. È una nostra carissima amica. È quasi una sorella per me. È volontaria nella Croce Rossa e... non so dove sia ora, di preciso. Da qualche parte, nella Repubblica di Vichy. Spero solo di trovarla e potergliela consegnare» era così strano parlarne: gli eventi dell'ultima settimana sembravano distanti. Ancora non riusciva a credere che Farlan se ne fosse andato così, tra il dolore e la solitudine di una cella. Era come se la sua mente non fosse in grado di elaborare quel lutto: l'aveva visto cadere davanti ai propri occhi, aveva visto il corpo esanime ed il sangue bagnare il pavimento. Eppure, una parte di lui rifiutava quei ricordi, relegandoli nel limbo della fantasia: non  era accaduto niente. Quello che era successo non era reale, ma solo uno sciocco incubo: Farlan non era morto. Era fuggito al sud. Forse a Marsiglia, la sua città preferita: diceva che sapeva di mare e di sapone, che aveva uno strano gusto di pulito e di ordine. Era come se nulla fosse lasciato al caso: ogni casa aveva la sua corte, ogni piazza gli abbeveratoi per gli animali, ogni parco una serie infinita di vialetti e di alberi perfettamente potati; i grandi alberi dei velieri svettavano accanto ai moli appena ristrutturati, mentre gli scafi in ferro delle corazzate solcavano il mare in lontananza. Ecco un'altra città che avrebbe tanto voluto vedere.

Stava divagando. Si stava concentrando su Marsiglia per non pensare al dolore, per allontanare ancora una volta il senso di vuoto e di rimpianto. Come lo avrebbe raccontato ad Isabel? Avrebbe dovuto dirle che Farlan era morto e che la colpa era sua e delle sue sciocche menzogne. Se solo fosse stato onesto con Weilman sin da subito... forse Farlan sarebbe stato vivo. O, più probabilmente, sarebbero morti entrambi.

Cercò di scacciare quelle congetture con uno scuotere del capo, tornando a fissare il Maggiore. Si concesse un altro morso al panino, prima di riprendere:
«Non l'ho letta, ovviamente... non so cosa contiene» terminò, alzando le spalle come se la cosa non avesse più importanza «In ogni caso, non ce l'ho una ragazza» sorrise, cercando di spezzare la tensione: rimuginare su Farlan non lo avrebbe aiutato, ma solo approfondito la voragine che quella perdita gli aveva scavato dentro. Tentò di cambiare discorso: «E tu?»

«No. Non penso sarei un buon marito e... dopo quanto ti ho confessato, questa domanda mi sorprende un po'. Non sono una brava persona, Levi. Non merito compassione, né gioie, non merito nulla da questa vita. Sto solo cercando di riscattarmi, ma so che il mio passato non verrà mai cancellato, né perdonato. Come potrei crearmi una famiglia? E confessare a mia moglie ed ai miei figli che razza di mostro sono?» scosse appena la testa, tornando a fissare le luci della città «Alcuni uomini nascono per rimanere soli; forse io appartengo a questa schiera»

«Sei troppo severo con te stesso» non capiva quei discorsi; in realtà, non desiderava neppure ascoltarli «Pensi che ti ritenga un mostro, Erwin? Che la tua confidenza mi abbia spaventato o disgustato? Ti sbagli.  Sei solo... uno zuccone!» lo vide sorridere a quel piccolo sfogo «Credi che possa biasimarti? So di non  capire quello che provi, di non poterlo nemmeno immaginare; ma non sei una cattiva persona, altrimenti non mi avresti salvato: mi avresti lasciato a Weilman e te ne saresti fregato di tutto.»

«L'ho fatto solo per ripulirmi la coscienza, te l'ho detto»

«Non ci credo! Non credo nemmeno alla storia del vecchio debito di famiglia. Ti sei sentito in dovere di proteggermi solo per una faccenda tra tuo padre e Kenny? Non prendermi per il culo. Lo hai fatto perché... beh, sei fatto così. Perché ti dà fastidio vedere Weilman torturare i prigionieri, perché lo trovi ingiusto ed inumano. Perché avresti salvato anche Farlan, se ne avessi avuto la possibilità...»

«Non lo so»

«Non importa! Lo so io e questo basta.» all'improvviso la voglia di mangiare il panino era completamente sfumata. Trattenne la tentazione di buttarlo di sotto, limitandosi a voltarsi e tornare verso la stanza. Era furioso: perché quell'idiota non capiva? Continuava a colpevolizzarsi, come questo potesse aiutarli. Si addossava gli errori di tutti, non solo i propri, finendo per logorarsi l'anima notte dopo notte. Non aveva senso, tuttavia, continuare a parlarne: Smith sarebbe rimasto della sua idea, senza schiodarsi da quegli incubi che ancora lo tormentavano. Insistere equivaleva ad una perdita di tempo.

Fece per scivolare oltre la soglia della porta-finestra, ma Erwin fu più svelto: lo afferrò per un braccio, costringendolo a fermarsi.
«Lo pensi davvero?» gli chiese.

Che domanda idiota. Non meritava neppure una risposta. L'idea di divincolarsi e chiuderlo sul balcone gli sfiorò la mente: forse una notte al freddo lo avrebbe aiutato a schiarirsi la mente ed a smetterla di ponderare su stupidità simili. Invece, semplicemente, mosse il capo in un cenno affermativo:

«Ovvio!» replicò, affacciandosi nuovamente alla ringhiera «Ti avrei mollato a casa di Petra, altrimenti, ed avrei proseguito da solo»

«Perché sai già dove andare, vero?»  vi era una sfumatura sarcastica in quella domanda, come se il biondo non confidasse nelle sue capacità di orientamento.

«Di là, suppongo» indicò un punto a casaccio, mirando alle vicine torri della cattedrale.

«Quello è l'est. Se non vuoi ritrovarti nuovamente ad Arras, farai bene ad evitarlo»

Una risatina, come se la tensione si fosse completamente allentata ed il discorso precedente sfumato tra le dolci braccia dell'ironia. Meglio così! Era un curioso ritorno alla normalità, sempre che si potesse definire così quella strana fuga all'interno della Francia occupata. Tese il tramezzino al biondo:

«Ne vuoi? Io sono sazio»

L'altro, tuttavia, scosse la testa:
«No, credo d'essere pieno anche io. Posso farti un'altra domanda?» questa volta non attese il permesso «Perché ti sei arruolato nella Raf?»

«Non lo so» che razza di risposta era? «Non c'è un motivo preciso. Quando è scoppiata la guerra, mi hanno soltanto proposto di entrare nell'aviazione ed io ho accettato. Non credere vi fossero grandi aspirazioni dietro questa scelta: non l'ho fatto per servire la patria o spaccare il culo ai tedeschi. Senza offesa.» sussurrò, mimando un piccolo ghigno «Ho preso consapevolezza della situazione solo dopo l'arruolamento, quando ci hanno effettivamente spedito in battaglia. Prima, beh... non mi ero reso conto di quanto gravi fossero le circostanze: di quanto fosse potente la Germania, di come sconfiggerla fosse complicato, dell'impossibilità di ferirla a morte. Appartieni ad una grande nazione, sarebbe sciocco negarlo» Osservò la capitale: molte luci si erano spente ed il bagliore giallastro riluceva ora più tenue, diffuso in magre chiazze circolari «Ho capito dopo il motivo di tutti questi sforzi: per gli Alleati, l'unico modo per ristabilire l'ordine e la pace è combattere il nazismo con ogni forma e mezzo; ora lo so e appoggio questi ideali; ho mentito per proteggere l'Operazione Chariot perché credo che l'Europa meriti di essere salvata e di ritrovare la sua libertà. Penso d'essere maturato, rimanendo nell'esercito: so per cosa combatto, almeno a grandi linee. Mi dicono di andare a bombardare Arras? Ci vado, non mi chiedo il perché: come hai detto tu, sono un soldato e devo obbedire. So, tuttavia, che dietro ad ogni assalto, ad ogni schermaglia, ad ogni mia virata ed ai proiettili lanciati nel vuoto, c'è un disegno più grande. La possibilità di una Europa nuova, affrancata ed unita, vale tutto questo? Io credo di sì.» sbuffò il fiato nell'aria sempre più fredda.  «Inizialmente, però, mi sono arruolato solo per denaro. Avevo bisogno di soldi, per campare e per aiutare il negozio di mia madre: non volevo che tornasse a prostituirsi. La frutta e la verdura diventano irreperibili in tempo di guerra, lo sai? Come quasi tutti i generi alimentari e benché la Gran Bretagna sia un'isola, non fa eccezione.  I raccolti scarseggiano perché gli uomini sono chiamati a servire la patria e non ad arare i campi, che rimangono incolti. Le scorte decrescono sino ad esaurirsi e si fa sempre più fatica a trovare mele e pomodori freschi.

Ho scoperto di essere bravo, già. Non fraintendermi, non mi sto vantando: tuttavia, sono un buon pilota, con parecchie ore sulle spalle. Farlan mi è sempre stato accanto: era il mio unico amico, immagino... sia prima che dopo l'arruolamento. Non siamo mai  stati separati: gli istruttori ci hanno sempre visto come una squadra d'attacco efficace. Sembra una stronzata, ma il rendimento cresce quando hai una persona fidata a coprirti le spalle; e Farlan me le copriva egregiamente. Quando eravamo in volo, non dovevo preoccuparmi di niente: non importava quanti aerei tedeschi ci accerchiassero; il mio unico compito era guidare lo Spitfire. Ai nemici ci avrebbe pensato lui. Era... imbattibile, sul serio. Le mie virate, la sua precisione... tutto si sposava alla perfezione: conoscevo il bersaglio prima ancora che me lo indicasse. Non dovevo fare altro che assecondare le sue richieste.
Sono diventato caporale l'anno scorso, dopo una massiccia operazione di bombardamento. Il caposquadriglia era stato abbattuto quasi subito ed io avevo preso il suo posto, guidando la formazione;  mi diedero le mostrine come ricompensa.
Da quel momento, gradualmente, ho iniziato a ricevere informazioni sempre più dettagliate: come sottoufficicale venivo messo al corrente delle varie operazioni con largo anticipo, così che potessi prepararmi al meglio ed indirizzare la truppa. È soltanto per questo che conoscevo il piano della Chariot: Farlan, invece, ne era ancora all'oscuro, come tutti i soldati semplici.

Hai mai provato a volare, Erwin? No? Allora non puoi capire, temo... come posso spiegartelo? Chiudi gli occhi e cerca di immaginarlo. Devi sentire il rumore dell'asfalto sotto le ruote, i sassolini che scricchiolano mentre l'aereo rulla sulla pista di decollo: davanti a te, oltre il lunotto trasparente, vedi solo una infinita striscia nerastra che spacca la vicina campagna. Non ci sono alberi ai margini della pista, solo qualche arbusto bruciato dagli scarichi. Premi piano i pedali, per direzionare, mentre il motore romba gradevolmente sotto di te. Lo senti? È un suono gutturale, graffiante, che cresce di intensità mentre acceleri... il paesaggio circostante si sfoca, mentre i tuoi occhi rimangono incollati sulla fine della pista che si avvicina sempre di più; la velocità cresce e ti schiaccia contro il sedile, mentre la cloche trema tra le tue dita ed il vento sfreccia lungo le ali, avvolgendo la carlinga. Il muso dello Spitfire si inclina lesto verso l'alto, puntando al sole; una sensazione di vuoto allo stomaco e ci sei! Sei in aria, stai salendo verso il cielo. Il decollo è così, brusco e dolce allo stesso tempo. È una ascesa verso il paradiso.
Riporti l'aereo in orizzontale, tirando i comandi: non devi fare forza, il veicolo obbedisce ad ogni tuo tocco. Vira a destra, vira a sinistra, si lascia cullare dalle correnti. Il mondo è lontano, sotto di te: non c'è niente che ti separi dalla libertà più completa. Volare è questo! È essere liberi: da ogni preoccupazione, da ogni catena, da tutto quello che ti tiene incollato a terra. È come se avessi superato la gravità e quelle stupide leggi che impongono all'uomo di camminare. Il mondo è piccolo, visto dall'alto: sembra un enorme campo da tennis. Verde e giallo si mescolano in grandi rettangoli, delimitati da strisce nerastre: le strade si snodano come serpenti lungo tutto il panorama, sfiorando fiumi e laghi. L'acqua scorre in grandi nastri scuri, mentre le città appaiono come agglomerati tondeggianti, le cui periferie giacciono diradate da boschi e piantagioni. È come se abbandonassi ogni cosa, come se la tua vita si prendesse una pausa. Non esiste la guerra, lassù: non importa quanti chili di bombe dovrai sganciare, quanti proiettili far schizzare fuori dalle mitragliatrici; finché sei in volo, i problemi della terraferma non ti riguardano. Sei superiore, capisci? È come se guardassi gli uomini con gli occhi di Dio.»

Si concesse una pausa, umettandosi le labbra: Erwin lo stava fissando quasi ammaliato, come se quelle parole gli fossero entrate nell'animo ed avessero risvegliato un'improvvisa voglia di avventura. Lesse in quello sguardo azzurro il desiderio di provare, la curiosità, la voglia lasciarsi tutto alle spalle e di scoprire una nuova vita, anche solo per una misera ora.

«Quando questa guerra sarà finita» riprese, tornando a spiare il profilo della città «...noleggeremo un aereo e ti insegnerò a pilotarlo. Voglio che lo provi, Erwin. Voglio che assaggi la libertà almeno per una volta»
 
***
 
Erwin fissò il soffitto scuro, da cui erano prontamente svanite le ragnatele. Non riusciva a prendere sonno: erano ore, ormai, che guardava il nulla, senza un motivo. Si sentiva inquieto, turbato: Parigi, in fondo, non era altro che una tappa che dovevano superare il prima possibile; eppure, la mancanza di un mezzo di trasporto complicava tutto. Dove potevano trovare un’auto per proseguire il viaggio? Si sarebbe accontentato anche di un catorcio: qualunque cosa per oltrepassare la capitale e tuffarsi nelle campagne, per recuperare il vantaggio perduto. Erd e Gunther se n’erano lavati le mani: avevano affermato di non conoscere nessuno che si occupasse del noleggio vetture; non ne era convinto, ma evidentemente quei due preferivano immischiarsi il meno possibile. In fondo, non poteva biasimarli: forse, anzi, era meglio così. Meno gente veniva coinvolta, meno pericoli correvano.

Si rigirò, provando a cambiare posizione, ma la coperta gli scivolò via dalle spalle: Levi si era involontariamente avvolto nella trapunta, sfilandogliela.

«Ehi!» sbottò, recuperandola rapidamente e cercando di tirarsela addosso. Accidenti! Era tenace il piccoletto! Perché non mollava la presa «Non rubarmi le coperte» sibilò, come se l’altro potesse sentirlo. Non ottenne niente: l’Inglese allungò nuovamente le mani, arpionando le lenzuola e strattonandole con forza. Ah, basta! Non intendeva passare la notte all’addiaccio, con l’aria fredda che filtrava dagli spifferi della finestra. Quella stupida stanza aveva un solo letto a due piazze e si erano dovuti accontentare; non che condividere il materasso gli desse fastidio, ma… sentirsi rubare le coperte era decisamente troppo! Mollò una leggera gomitata al compagno, cogliendo un mugolare infastidito.

«Sei sveglio?» chiese, mentre una voce impastata, ma vicina, gli rispondeva:

«Adesso sì…»

«Stavo riflettendo...»

«A quest’ora di notte?  Non potevi riflettere domani mattina?»

Sogghignò soddisfatto: era una piccola vendetta, dolce e giusta. Così imparava quell’ingrato a derubarlo delle coperte. Finse, tuttavia, indifferenza, limitandosi ad ignorare quel sarcasmo.

«Ascolta, dobbiamo trovare al più presto un mezzo di trasporto. Non importa cosa: una macchina, una moto, un…»

«…paio di biciclette?»

«Non essere ridicolo! Con quelle non faremmo nemmeno mezzo miglio» quanto poteva essere sciocco, l’aviatore? A volte non capiva se lo se stesse prendendo in giro o se fosse seriamente convinto delle proprie parole «Domani andrò a cercare un noleggio auto. Mi aspetterai qui, d’accordo?»

Lo sentì muoversi, tirarsi a sedere e colse lo sguardo grigio su di sé, carico di disapprovazione:
«Nemmeno per idea! Io vengo con te»

«è rischioso, Levi. Potrebbero catturarci; preferirei saperti al sicuro e…»

«Non mi interessa. Verrò con te. In due avremo maggiori possibilità di cavarcela!»

«O di farci scoprire» muoversi in coppia aveva i suoi svantaggi: si diventava dei bersagli facili, soprattutto quando si era ufficiali nazisti accompagnati da inglesi nanetti e cocciuti. D’altro canto, Levi aveva ragione: se si fossero cacciati nei guai, sarebbe stato più semplice uscirne; due menti ragionavano meglio di una. Si massaggiò la fronte, concentrato: cosa doveva fare? Obbligare il pilota a rimanere nella angusta soffitta oppure permettergli di accompagnarlo? Anche se, a conti fatti, quest’ultimo non sembrava intenzionato ad accettare la sua soluzione. Al contrario, continuava a sproloquiare:

«Io verrò comunque! Non rimarrò in questo fetido stanzino; e non mi interessa quello che hai da dire. Ti accompagnerò, è deciso.» impossibile far cambiare idea a quella testa dura «Adesso rimettiti a dormire. E smettila di rubarmi le coperte»

«Veramente sei tu che…» la frase rimase in sospeso: Levi si era appallottolato nuovamente sotto al lenzuolo, sprofondando velocemente nel sonno.

Sbuffò, tornando a coricarsi: svegliarlo non era servito a niente; non lo aveva convinto a rimanere in casa e neppure era riuscito a farsi restituire le coperte. Le strinse gelosamente sotto le dita, avvicinandole piano a sé: evidentemente, la tregua si era già interrotta e la lotta per la trapunta sarebbe presto ripresa.

 

Angolino: buonasera! chiedo ancora infinitamente scusa per averci messo tanto a rispondere alle recensioni che mi avete lasciato: le ho adorate tutte! ora scrivo nel terrore di deludere le vostre aspettative, son sincera. Cercherò di continuarla al meglio, però... e rinnovo sempre l'invito di scrivermi qualunque cosa vi passi per la testa: suggerimenti, consigli, migliorie ^^
Ho ridotto la cosa dei puntini, almeno spero! Se notate ancora troppi puntini infami, segnalatemelo pure :) purtroppo mi sfuggono ç_ç idem per le ripetizioni: per quanto lo rilegga, qualcuna mi scappa sempre.
Beh, passando al capitolo: mi sembrava equo concedere una piccola parte introspettiva a Levi, per accennare al suo arruolamento. Mi sono chiesta, dopo "Confessione", se non fosse il caso di dedicare uno specchietto anche a lui: cosa può aver spinto Levi ad entrare nella Raf? Ho pensato che una spiegazioncina fosse doverosa. ^^ Dal prossimo capitolo, penso... ricominceranno i guai: volevo concedere al duo un attimo ancora di spensieratezza, prima di tuffarlo nelle peripezie di Parigi.
E... niente, credo d'aver messo tutto. Al solito, vi ringrazio infinitamente per aver letto fin qui <3 Un grazie megagalattico, infine, ad Auriga per avermi aiutato con la correzione del capitolo! Sei stata gentilissima, ti sfrutterò ancora <3
Un abbraccio!


 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** La Senna ***


17. La Senna
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Parigi.
 

Levi si aggiustò la divisa, lisciando il panno scuro con le dita e calcandosi il berretto in testa. Era indubbiamente scomoda: la giacca gli stava piccola, stranamente, e tirava sulle spalle e sulla schiena. I bottoni del doppiopetto erano stati fissati con eccessivo zelo e difficilmente passavano nelle asole, mentre i pantaloni cadevano morbidi lungo le gambe, arrotolati e poi infilati nel bordo degli altri stivali. Erwin aveva insistito per fargliela indossare: dal suo punto di vista, sarebbe stato più semplice recuperare un mezzo. Difficilmente avrebbero rifiutato un favore ad un gerarca nazista ed al suo portaborse. Inoltre, il francese del Maggiore era sufficientemente fluido da non tradirli: nessuno avrebbe sospettato di loro, se lui avesse tenuto la bocca chiusa, senza lasciarsi scappare qualche parola a sproposito.
Si era limitato a seguire il biondo lungo i vicoli di Parigi: il profumo del pane arrivava continuamente a solleticargli le narici, misto alla freschezza della Senna che scorreva giusto accanto a loro.

Avevano chiesto indicazioni a qualche passante: stavano cercando un mezzo di trasporto per questioni private, della massima urgenza naturalmente. Non disponevano di abbastanza denaro per acquistarne uno, ma solo per noleggiarlo: nessuno affittava automobili da quelle parti?
Una signora aveva accennato ad una rimessa per le barche, poco lontana dal Pont d’Austerliz: era gestita da un certo Moses che, a quanto pareva, trattava anche il nolo di automobili e motociclette. Aveva lasciato un indirizzo: Voie Mazas, numero sedici.

«Pensi che sia una buona idea? Mi sa di stronzata!» aveva detto, non appena la donna si era allontanata «Credi davvero che possa esistere un tizio che ripara barche ed affitta macchine allo stesso tempo?»

«Non lo so, ma è il solo aggancio che abbiamo. Conviene comunque dare una occhiata»
Dopo quel breve scambio di battute, nessuno aveva più interrotto il silenzio.

Levi si guardò attorno, cercando di cogliere quanti più dettagli: il lungofiume, su cui stavano camminando da una buona mezz’ora, era attorniato da verdeggianti e curati oleandri; malgrado fossero solo le otto e trenta di mattina, un discreto numero di passanti affollava il marciapiede lastricato:  persone intente a raggiungere il lavoro, a passeggiare con il cane o alla ricerca di un bar per fare colazione. Qualcuno li guardava con diffidenza: cosa ci facevano due nazisti in giro a quell’ora? Non avevano di meglio da fare che turbare il quotidiano risveglio degli onesti cittadini? Erano due macchie scure in un turbinio di colori delicati; stonavano come delle cornacchie in una gabbia dorata per pappagallini. Si sentì a disagio: la gente li fissava come se fossero due scarafaggi rivoltanti, ma temuti. Ricevevano degli educati cenni di saluto, ma sui visi chinati si leggeva il disgusto e l’incertezza.

D’un tratto colse un movimento alla propria sinistra: una coppia di soldati si era staccata da un basso muretto e stava avanzando verso di loro; le inconfondibili uniformi nere gli balzarono immediatamente agli occhi: tedeschi! Il cuore prese a battere all’impazzata, nella testa un solo sconfortante pensiero: li avevano smascherati. Si strinse ad Erwin, richiamando la sua attenzione con un sibilo:

«Ci hanno visti» sussurrò, mimando un cenno del capo in direzione dei militari

«Continua a camminare» la voce dell’altro tradiva una sfumatura nervosa.

«Vengono verso di noi…»

«Non li guardare, non ti fermare»

Poteva sentire i passi affrettati rimbombargli nelle orecchie, vedere con la coda dell’occhio le braccia alzarsi in un chiaro cenno di “alt”, cogliere le graffianti parole in tedesco.
«Heil Major

Li avevano raggiunti. I soldati erano immediatamente scattati sull’attenti, al notare i gradi del biondo.

«Heil» percepì Erwin fermarsi all’improvviso e replicare con un tono sicuro ed affabile. Si conoscevano? No. Erano solo due sciocche reclute in cerca di approvazione. Lì sentì parlare in un tedesco stretto, incomprensibile, a cui il compagno rispondeva solo con dei cenni affermativi.

Uno aveva la testa completamente rasata, gli occhi grandi e di un curioso colore ambrato. L'altro teneva i capelli in un taglio più moderno,  lunghi sulla fronte e sulle tempie e cortissimi all'altezza della nuca. La sua figura era abbastanza slanciata: le spalle sottili stonavano con le braccia robuste. Il volto spigoloso presentava uno sguardo scuro, quasi indagatore, mentre un naso aquilino capeggiava tra le guance scavate. “Marlo Freudenberg, Gestapo”, recitava il distintivo appuntato sulla giacca. Non erano semplici soldati, dunque, ma esponenti della polizia militare. Che diamine volevano? Non sembravano averli riconosciuti: in caso contrario, li avrebbero già immobilizzati, no? Oppure volevano essere sicuri d'avere a che fare con le persone giuste? Arrestare un Maggiore per errore sarebbe stato motivo di grande imbarazzo.
Fece per voltarsi ed avanzare di qualche passo, cercando di estraniarsi da quel capannello, quando si ritrovò a sbattere contro una donna: il volto sottile era storto in una smorfia seccata, come se quell'incidente le stesse causando ritardo. I capelli biondi e mossi si intonavano al completo cenere che indossava, mentre le scarpe col tacco battevano a terra con impazienza.

«Pardonez-moi» fu l'unica parola che ricevette. Oh, la francese si stava scusando.

«Don't worry» si rese conto troppo tardi dell'errore. L'inglese era fluito rapido dalle sue labbra, senza che potesse controllarlo. La donna lo osservò sorpresa e compiaciuta, aggiustandosi gli occhiali sul naso all'insù, mentre i due soldati cambiarono immediatamente espressione:

«Era la conferma che aspettavamo» Freudenberg cambiò immediatamente registro, abbandonando il tedesco solo per facilitargli la comprensione. Lo vide frugare nella fondina, alla ricerca del calcio della pistola «Avvisa il comandante, dì che li abbiamo trovati» testa pelata sgusciò via, mentre anche la giovane estraeva una Colt Mini dalla borsetta «Ottimo lavoro, Hitch»

Era una trappola e lui c'era cascato in pieno: i poliziotti non erano sicuri che si trattasse di loro sino a che non si era tradito; quel semplice gesto di scuse aveva mandato a monte la copertura. Erano spacciati: li avrebbero catturati e trascinati da Weilman. Maledizione alla sua linguaccia! Perché non era stato zitto?

«Corri» un sussurro stizzito.

«Che cosa?» sollevò lo sguardo, incrociando quello di Erwin. Gli occhi azzurri contenevano una sfumatura severa e concentrata, come se la mente geniale avesse già predisposto un piano per la fuga «Non è te che vogliono. Vai!»

Scosse il capo. Niente affatto! Pensava di liquidarlo così? Indietreggiò di un passo, combattuto: la sua mente gli suggeriva di svignarsela, di scappare e trovare un rifugio. Se fosse rimasto libero, avrebbe avuto ancora una possibilità di salvare Erwin o, quanto meno, di raggiungere la Repubblica di Vichy ed avvisare gli Alleati. Tuttavia... non poteva lasciarlo! Non senza sapere cosa i nazisti gli avrebbero fatto. Non gli avrebbe concesso il lusso di sacrificarsi ancora una volta. Non lo avrebbe abbandonato, né sarebbe scappato come un vigliacco.

«Non posso lasciarti qui!» sibilò, ma le parole del biondo arrivarono a coprire nuovamente le proprie

«Vattene, ho detto» un ringhio sordo. Era irritato il Maggiore, già... ce l'aveva con lui? Forse. D'altronde, quel macello era in parte colpa sua. Ragione di più, quindi, per non darsela a gambe.

«Non po...»

Accadde tutto troppo in fretta perché potesse rendersene conto: Erwin lo spinse all'indietro con una veloce spallata. Colse un tonfo al petto, il rumore secco del braccio robusto che impattava contro il suo sterno; l'aria gli sfuggì dai polmoni, mentre incespicava all'indietro. Le imprecazioni in tedesco si mescolarono al suo grido di sorpresa, quando colse l'equilibrio venire meno. Un basso muretto impattò contro le ginocchia, sbilanciandolo completamente. Mulinò le mani, alla ricerca disperata di un appiglio, ma le sue dita non strinsero altro che aria. Cadde lungo una interminabile manciata di secondi: gli occhi sgranati incrociarono per l'ultima volta l'espressione trionfante del Maggiore Smith. Era... contento d'averlo ucciso? O, più probabilmente, d'averla spuntata ancora una volta. Vide i soldati affacciarsi al parapetto, urlando frasi incomprensibili. Un attimo dopo, la sua schiena impattò contro una superficie fredda, molle... tanto molle da inghiottirlo in un turbinio di bolle d'aria. L'acqua si chiuse immediatamente su di lui, bruciandogli gli occhi e la gola: le sagome nere sfumarono rapidamente, scomparendo alla vista, mentre la Senna lo trascinava via.

***
 
Erwin pregò silenziosamente che sapesse nuotare. In effetti, lo aveva dato per scontato, ma l’unica idea che gli era venuta era quella. Piuttosto che finire nelle mani di Weilman, forse era meglio sparire inghiottiti dalla Senna. Osservò il flusso del fiume rapido e dolce allo stesso tempo: non  aveva scorto mulinelli né correnti, nei pressi della riva. Solo per questo aveva rischiato.
La testa del moro, tuttavia, tardava a riemergere: lo notò dibattersi, prima che lo scorrere dell'acqua lo trascinasse via.

«Figlio di puttana!» Marlo aveva riattaccato con un tedesco graffiante, irritato per quella beffa: si sentiva preso in giro? Colto in fallo? Probabile. Forse non avrebbe osato presentarsi ai suoi superiori con solo un prigioniero «Hitch, seguilo!»

Niente affatto! Avrebbe difeso quel piccolo vantaggio concesso a Levi con ogni mezzo, a costo di diventare sgarbato. Allungò una gamba, frapponendola tra i piedi della donna. La vide incespicare, agitare le braccia e poi cadere al suolo.

«Chiedo scusa» sussurrò con un ghigno soddisfatto «Non l'ho fatto apposta… credo.» il sarcasmo arrivò rapido a bagnare quelle frasi, facendo infuriare il soldato.
Colse la bocca di una pistola premergli sullo stomaco:

«Pensi di essere divertente?» la faccia di Freudenberg era una maschera di rabbia: senza dubbio, stava metabolizzando la semi-vittoria. Avrebbe consegnato alla Gestapo solo uno dei due ricercati: un bell’affare, senza dubbio, ma finché Levi rimaneva libero il rischio che corresse ad avvisare gli Alleati era alto. Certo, forse senza la sua guida sarebbe stato più semplice catturarlo, ma a che prezzo? «Non riderai più quando sarai davanti al comandante»

Gettò una occhiata rapida oltre le spalle: la giovane si era rialzata ed era corsa via, seguendo il corso della Senna. Aveva abbandonato i tacchi, preferendo muoversi scalza ed affidandosi alla Colt Mini che ancora stringeva tra le dita.

«Dove sta andando il tuo compagno?» di nuovo la voce fastidiosa del soldato. Credeva davvero lo sapesse? Aveva appena spinto l’Inglese nel fiume, come poteva immaginare dove si sarebbe fermato o quale battello di passaggio lo avrebbe raccolto? Scosse il capo, mimando un’espressione indifferente:

«Non lo so»
La pressione allo stomaco aumentò, mentre alle orecchie gli giungeva il sibilo della sicura sbloccata.

«Pensi che non faccia sul serio?» una mano lo afferrò per il bavero, costringendolo a chinare le spalle «Dimmelo, se non vuoi un buco in pancia»

Sospirò. Era così difficile trattare con i sottoposti zelanti! Con quei ragazzi freschi di arruolamento che ancora credevano negli ideali sbagliati, pronti a sacrificare tutto per l’illusione della Germania. Il grosso problema è che spesso non ragionavano: agivano d’istinto, convinti d’essere nel giusto, senza considerare tutte le opzioni. D’altronde, molti erano impulsivi: non si soffermavano sulle conseguenze, sino a che qualcuno non gliele sbatteva malamente in faccia. In questo caso, il desiderio di soddisfare un superiore rendeva tutto più complicato: quel Marlo non gli sembrava uno stupido, dopo tutto; li aveva visti passeggiare e li aveva riconosciuti, ma prima di arrestarli aveva architettato un discreto piano per ottenere una semplice conferma. Tuttavia, le cose erano andate diversamente dalle sue aspettative: non aveva previsto una contromossa e questo gli era costato caro. Senza dubbio, aveva dato per scontato che i due ricercati non avrebbero opposto resistenza e si sarebbero lasciati condurre docilmente via; e, ora che il suo piano era precipitato, stava perdendo letteralmente la testa. Sfidarlo, in effetti, poteva rivelarsi un grossissimo errore: malgrado fosse consapevole dei rischi e delle possibili conseguenze del suo gesto, ci teneva a mantenere lo stomaco intatto e le viscere al loro posto.

Sollevò cautamente le braccia, in un gesto di resa:
«Cerchiamo di mantenere la calma» frasi fatte per guadagnare un altro poco di tempo «Non voglio creare problemi»

«Me ne hai già creati abbastanza. Dimmi dove è!»

«Stavamo cercando di raggiungere Rue de Picpus» sussurrò, scegliendo una via oltre la loro reale destinazione, poco lontana dal fiume, ma comunque all’interno di un intricato quartiere cittadino «Ci hanno detto che c’è un garage, lì. Stiamo cercando un mezzo di trasporto» era inutile mentire sulle loro reali intenzioni: che altro potevano cercare due fuggiaschi a Parigi? D’altronde, non era affatto certo che vi fosse un’autorimessa in quella zona. Poco male: avrebbe potuto addurre la scusa di informazioni fasulle oppure di un errore d’interpretazione del francese. Fortunatamente, però, Freudenberg non doveva essere pratico della capitale: lo capì intercettando le sue occhiate confuse. Meglio ancora! Sarebbe stato più semplice abbindolarlo.

«Hitch, allora… si è mossa nella direzione sbagliata» lo sentì sussurrare.

In realtà, no… ma quella serie di informazioni doveva aver confuso il povero soldato. La sua compagna aveva, giustamente, seguito il corso della Senna, risalendola in direzione di Notre Dame. Era logico che Levi sarebbe finito lì, in qualche modo: a meno che non sapesse nuotare controcorrente – cosa di cui dubitava – non poteva fare altro che lasciarsi scarrozzare dal fiume. Questo, evidentemente, Hitch lo aveva capito. Marlo, invece, sembrava lambiccarsi il cervello, troppo intento a districarsi da quel guazzabuglio di nozioni sbagliate: Rue de Picpus era dal lato opposto della carreggiata, ben oltre la Gare de Lyon; distava almeno quattro chilometri dal punto in cui si trovavano: la Senna stava allontanando Levi dalla sua ipotetica meta e non avvicinandolo; eppure questo dettaglio sfuggiva, evidentemente, allo sguardo concentrato del poliziotto.

«Come si chiama il vostro contatto? Il nome! Voglio il nome dell’officina!» la voce tradiva ancora una nota nervosa ed Erwin non tardò ad approfittarne: sarebbe stato facile sviare quel sempliciotto, sfruttando correttamente la geografia di Parigi.

«Maison Gauguin» trattenne una risatina, sforzandosi di mantenere un’espressione seria, quasi preoccupata: si immaginava, tuttavia, Marlo girare disperatamente per la città, cercando di rintracciare la Maison Gauguin. La maggior parte dei passanti, senza dubbio, gli avrebbe indicato la casa dove il grande pittore aveva vissuto e non certo una rimessa di automobili.

«Bene! Chiederò di questo Gauguin e gli farò vuotare il sacco. Lo obbligherò a dirmi dove nasconde quel pidocchio inglese.» Certo, non fosse che il signor Gauguin era morto da almeno quarant’anni. «Dove alloggiate?»

«In una piccola pensione dietro la Sorbonne.»

«Sarebbe a dire?»

Quel soldato era veramente ignorante. Era comprensibile non conoscesse a memoria tutte le vie di Parigi, ma il quartiere studentesco era famoso!
«Vicino all’università. Si chiama “Chez Bizet”»

«Come il musicista?­»

Oh, almeno quello lo ricordava! Mimò un cenno d’assenso:
«Precisamente. È gestita da una vecchia strozzina. Lei non sa chi siamo, né perché ci nascondiamo. L’abbiamo pagata profumatamente per evitare facesse domande» una precauzione in più, nel caso i nazisti avessero deciso di indagare. Dubitava, comunque, esistesse un ostello del genere.

«Perfetto! Dammi le mani, ora»

Non oppose resistenza, lasciandosi ammanettare. Colse i ferri chiudersi attorno ai suoi polsi con la solita compostezza, il volto inespressivo rivolto al nulla. Non avrebbe dato a Marlo la soddisfazione di vederlo spaventato o preoccupato: in fondo, non lo era. Non del tutto, almeno: probabilmente la sua mente non aveva ancora elaborato la possibilità di un tête-à-tête con Weilman; oppure c’era qualcosa sotto, una sottigliezza che ancora gli sfuggiva: una sensazione, per lo più… come se Herr Kapitan c’entrasse poco in quella faccenda. Anche se era plausibile che il capitano avesse chiesto aiuto alla Gestapo parigina per rintracciarli. Scosse il capo, allontanando quelle congetture, mentre Marlo gli indicava una bassa Chevrolet nera. Si accomodò sul sedile posteriore, incuneando le ginocchia accanto alla portiera; una grata separava in due l’abitacolo, proteggendo l’autista da pericolosi passeggeri.

Erwin rilassò la schiena, ignorando le occhiate che Freudenberg gli lanciava dallo specchietto retrovisore: che lo guardasse pure; che si aspettava? Una mossa falsa? Una confessione improvvisa? La supplica di accostare e di non trascinarlo in prefettura? Sciocchezze. L’avrebbe lasciato illudersi. Posò le iridi azzurre sul paesaggio, oltre il finestrino rinforzato: le vie della capitale si stavano animando sempre di più; studenti con gli zaini in spalla correvano qui e là, mentre donne in abiti vistosi attraversavano gli incroci cariche di buste di carta. Gli alberi ancora spogli contornavano i lunghi viali, lasciando le gemme protese verso il sole tiepido, come in una muta supplica. Pochi fiori si erano già schiusi, liberando il loro profumo nella brezza mattutina. La Senna accompagnava la corsa della macchina, mentre i colori della città si mescolavano oltre lo spesso vetro.

D’un tratto, il suono delle sirene arrivò a spezzare quell’incanto: Marlo le aveva attivate per superare rapidamente alcuni semafori rossi. Si poteva essere più stupidi? Aveva appena distrutto la delicatezza di quel paesaggio, semplicemente schiacciando un bottone. Quel rumore gli ferì i timpani, obbligandolo a storcere il naso e le labbra:
«Non era necessario» sibilò, senza però ottenere risposta.

Si schiacciò contro la portiera quando l’auto attraversò il Pont d’Arcole. Gli occhi frugarono immediatamente la superficie del fiume, ma non trovò altro che acqua. Non un indizio, non una sagoma scura trasportata dalla corrente, non una barca che avesse a bordo un clandestino. Niente. La sua immaginazione si fossilizzò, tuttavia, su una serie di immagini concitate: vide Levi annaspare nel fiume, mulinare le braccia scompostamente e poi precipitare nell’oscurità dell’acqua, sempre più giù verso il fondo fangoso della Senna. No! Era solo una sciocca visione! Levi sapeva nuotare, doveva saperlo per forza: era un militare, dannazione, non il primo campagnolo sprovveduto. Un pilota, d’accordo, ma sicuramente in grado di restare almeno a galla. Anche se… quanti marinai non sapevano nuotare? Tanti, forse troppi: era uno strano paradosso. Come poteva un nostromo, un mozzo, un guardiamarina non saper nuotare? Eppure non era la prima volta che sentiva storie simili: ricordava, anzi, anche i titoli di qualche giornale: “luogotenente di vascello cade in mare ed annega”. L’aveva trovata una assurdità, una morte talmente ridicola da passare quasi per uno scherzo del destino. In ogni caso, Levi esulava da quei discorsi: lui sapeva nuotare! Doveva! Altrimenti, sarebbe stato tutto inutile; che cosa sciocca salvarlo da Weilman per lasciare che fosse la Senna ad ucciderlo.

Il fiume si allontanò rapidamente, mentre la Chevrolet si inoltrava tra i vicoli stretti dell’isola, e lui si ritrovò costretto nuovamente ad affrontare il presente: aveva problemi più grandi, ora. Non poteva permettersi di pensare all’Inglese, non quando Herr Kapitan lo stava impazientemente aspettando alla prefettura. Levi se la sarebbe cavata, in qualche modo… o, almeno, lo sperava.

Si sentì sbalzare in avanti quando Marlo frenò troppo bruscamente. Sbatté la fronte contro la griglia metallica, lasciandosi sfuggire una sonora imprecazione:
«Abbiamo preso la patente da poco, a quanto vedo.» si lasciò sfuggire, mentre il soldato apriva la portiera e gli concedeva un cenno secco.

Scese dalla vettura, sgranchendo piano le gambe, mentre la sua attenzione incontrava un enorme edificio in pietra chiara: gli infissi erano in legno dorato e risplendevano alla luce del sole, mentre  le finestre erano quasi tutte oscurate da pesanti tendaggi color porpora. Una breve sequenza di gradini conduceva all’interno, sotto un arco stretto tra le due massicce ali della costruzione. I tetti, in pietra scura, contrastavano perfettamente con l’intonaco bianco, mentre davanti all’ingresso si snodava una serie intricata di aiuole, disposte a formare un basso labirinto colorato. Lungo la facciata, appese a sostegni in ottone, sventolavano le bandiere rosse e nere del Terzo Reich.

«Siamo arrivati» il soldato lo spinse avanti, premendogli tra le scapole «Sbrigati. Herr Kommandant ti sta aspettando»
 
***
 
Levi annaspò nell’acqua gelida, cercando disperatamente di tornare a galla. L’impatto col fiume gli aveva mozzato il respiro, lasciando sfuggire quella poca aria che aveva raccolto nei polmoni. Un peso improvviso gli aveva schiacciato il petto, mentre la corrente lo sballottolava come fosse una bambola di pezza nelle mani di una imprudente ragazzina.

Il sole era il suo unico punto di riferimento: lo vedeva alto sopra la propria testa, sfumato solo dalle increspature della superficie. Non poteva permettersi di perderlo: se lo avesse smarrito avrebbe perso completamente l’orientamento. Non avrebbe più distinto la superficie dal fondale e si sarebbe lasciato trascinare giù, avviluppare dalle fronde verdastre ed intrappolare dalla melma. Sarebbe stata la fine e… non doveva! Non ora! Doveva prima visitare Parigi e insegnare ad Erwin come pilotare uno Spitfire e…avvisare gli Alleati, salvare l’Operazione Chariot e forse l’intera Europa. Come poteva abbandonarsi?

Eppure… il cullare dell’acqua era così dolce. Il freddo gli penetrava nella carne, arrivando a pungergli le ossa come uno spillo acuminato, a torturarlo lentamente, ma gradevolmente. Era un fastidio sopportabile, attorniato dalle promesse che gli scivolavano nelle orecchie: i suoni ovattati giungevano come un canto soave, un invito a rimanere, a lasciarsi andare e diventare un tutt’uno con il fiume.
 

Elle n'a pas de souci
Et quand elle se promène
Tout au long de ses quais
Avec sa belle robe verte
et ses lumières dorées

 
Li senti, Levi? Sono i tuoi compagni di sventura: quelli che, come te, hanno scelto di affidarmi la loro vita. La Senna non tradisce, non inganna: nasconde, protegge, dimentica. Dona libertà. Sarai libero. Non devi fare altro che abbandonarti: chiudi gli occhi, lascia che l’acqua ti trasporti, che decida del tuo destino. Non è quello che desideri? Scappare, celarti, allontanarti da ogni cosa e ritrovare la serenità. I posso darti tutto quello che vuoi; devi solo accettarmi, fidarti di me.
 
Non tradirò le tue aspettative. Non lottare! Smetti di muovere le braccia e le gambe: Concedimi di stringerle nelle lunghe foglie delle mie alghe. L’aria non ti serve più, non quando sei con me: separatene. Schiudi le labbra, consenti alle bolle di risalire in superficie, di fondersi con l’atmosfera. Parlami, Levi. Ti posso ascoltare, posso capire ogni tua frase. Sono fatta d’acqua, permetto al suono di attraversarmi, di percorrermi, di danzare con le mie correnti e sussurrare ai lucci argentati delle campagne vicine. Pensi che sia solo questo? Un rigagnolo che attraversa la capitale più bella? Ti sbagli. Sono molto di più: nasco dai monti, corro fino al mare. Non vorresti compiere questo viaggio con me? Non vorresti…
 
et s'en va vers la mer
En passant comme un rêve
Au milieu des mystères
Des misères de Paris.

 

Era ammaliante quella voce: risuonava lieve nella mente, offuscando i sensi. Gli occhi combattevano contro la stanchezza improvvisa, mentre l’udito non poteva cogliere altro che il sibilare delle piante sul fondo. Non vi erano profumi, lì: niente che ricordasse l’incanto delle vie parigine, solo un buio freddo e penetrante, solo un sapore acre e distante. Davvero era ciò che desiderava? Davvero voleva morire lì, in quella tomba d’acqua, incapace di risalire e di riscattarsi? No. Aveva ancora qualcosa per cui lottare: non era un uomo finito, non era come gli altri! Non stava affidando la sua vita alla Senna, stava combattendo per salvarne molte altre, in primis quella di Erwin. Aveva bisogno di lui, ora più che mai: che gli sarebbe successo? Weilman lo avrebbe torturato, lo avrebbe ucciso. Quel pensiero fu sufficiente a dargli la nausea: non avrebbe più permesso al capitano di toccare i suoi amici, di farli soffrire, di ammazzarli davanti ai suoi occhi. Mai più.

Erwin era un suo amico? Non lo sapeva. Non aveva idea di come catalogarlo, ma… diamine! Era importante? Affatto. In quel momento, nulla aveva importanza, se non la sua sola possibilità di riscatto. Il tedesco lo aveva scagliato nella Senna non per ucciderlo, ma per salvarlo ancora una volta. Maledetto Smith! Si divertiva tanto a sacrificarsi per gli altri? Bastardo… non gli avrebbe permesso di crepare, non senza di lui.

Affondò i denti nelle labbra, mordendole a sangue: il dolore lo risvegliò improvvisamente, obbligandolo a muovere i piedi e le mani. Salì rapidamente, lo sguardo incollato al sole mattutino. Il peso sul petto non accennava a diminuire, ma si sforzò di ignorarlo. Presto sarebbe stato in superficie, presto avrebbe respirato di nuovo. L’aria gli avrebbe rischiarato la mente, ripulito le idee e donato nuovo vigore. Una bracciata, ancora una e…

Emerse con un guizzo rapido, la bocca aperta ad incamerare quanto più ossigeno. Respirò avidamente, mentre le mani si tendevano alla ricerca di un appiglio. La corrente lo trasportò gradualmente verso un vecchio e largo molo, ormai sguarnito e privo di barche ormeggiate.

Afferrò i paletti di legno, stringendoli spasmodicamente sotto le dita. Si tenne saldamente, ignorando la mucillaggine viscida che gli solleticava il collo e la faccia. Chiuse gli occhi, assaporando ogni respiro come se fosse il primo; come se fosse, improvvisamente, tornato alla vita e non desiderasse più abbandonarla; come se si stesse scusando per quei momenti di debolezza.

«Sapevo che ti saresti fermato qui. Tutti i suicidi si incastrano tra i pilastri di questa banchina. È così che li recupera la polizia.»
Una voce lo costrinse a rialzare l’attenzione: sull’argine era comparsa una figura magra, avvolta in un abito color cenere, gli occhiali sul naso ed i corti capelli biondi. Le mani reggevano una Colt Mini, inevitabilmente puntata verso di lui.

«Merda!» gridò, picchiando i pugni sull’acqua. Come era possibile che, nonostante tutto, quella puttana l’avesse seguito sin lì? Come era riuscita a tenere il passo, come sapeva dove trovarlo?

Le risposte gli arrivarono in un attimo: una vettura nera era ferma oltre le spalle della donna. Lo aveva aspettato perché conosceva già quel pontile: i suicidi si fermavano, aveva detto. I corpi trascinati dalla Senna finivano tutti con l’incastrarsi tra le gambe del molo: il suo, naturalmente, non avrebbe fatto eccezione. Ecco perché l’aveva ritrovato così facilmente.

«Esci e niente scherzi. Non sottovalutarmi perché sono una donna» la vide sorridere trionfante «Mi hai fatto un grande favore, lo sai? Probabilmente, mi daranno una promozione. Forse diventerò Tenente di polizia.» una risatina superficiale «Ti offrirò una cena… ah, sempre che tu non sia morto.»

Era così irritante, quella stronza! Eppure… che altro poteva fare? Ributtarsi nel fiume era fuori discussione: non sarebbe sopravvissuto alla Senna una seconda volta. Abbassò lo sguardo, avanzando cautamente verso l’argine: il suo corpo rispondeva a stento, troppo stanco per tentare la fuga; camminava a malapena e correre gli era impossibile. Sollevò le mani sopra la testa, una smorfia amareggiata sul volto. Aveva sprecato il vantaggio che Erwin gli aveva concesso e non poteva far altro che arrendersi.


 

Angolino: buonasera! Come promesso, ecco il nuovo capitolo. So che ci ho messo un pochetto di più ad aggiornare, ma è colpa un po’ del lavoro e del minor tempo libero che ho in questi giorni.
E un po’ di Auriga e Shige, ovviamente. Ne approfitto, anzi, per ringraziarle del tempo che mi dedicano e di tutto l’aiuto ed il supporto. A Shige un mega-grazie per il consiglio sulla poesia di Prévert: è stata scritta ben dopo il 1942, ma è parsa subito adatta come introduzione/conclusione del discorso della Senna, dove è stata inserita. Altra nota: so che a Parigi nel 1942 non ci saranno stati molti semafori, ma… mi piaceva la scena di Marlo che spezza la delicatezza del paesaggio con una sirena della polizia (i semafori a Parigi, stando a wiki, sono arrivati nel 1922…quindi immagino che ce ne fosse qualcuno ^^)
Ultimo cenno storico, che forse c’entra poco con questo capitolo: in precedenza, ho descritto Parigi come una città “intoccata”, come se la guerra non l’avesse mai raggiunta. Leggendo sempre da Wiki, le cose sono andate esattamente così: solo la periferia di Parigi venne bombardata il 6 Marzo 1942 (e, mannaggia a me, nel capitolo “camera con vista” ho tolto proprio questo accenno dalle riflessioni di Levi). Mi sembrava, comunque, giusto specificare il perché di questa scelta.
Come sempre, vi ringrazio per aver letto fin qui ^^ rimango apertissima a tutti i suggerimenti ed i consigli.
Un abbraccio

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Unicorno di vetro ***


18. Unicorno di vetro
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Parigi.
 

Marlo lo fece accomodare in una stanza quadrata, sufficientemente spaziosa, ma arredata con pessimo gusto. Davanti ad una scrivania di legno scuro stanziavano due sedie imbottite, mentre alcune librerie poggiavano alle pareti, rivestite da intonaco senape. La moquette, lungo il pavimento, era di un rosso acceso, mentre il soffitto stonava con il suo ceruleo. Due larghe finestre lasciavano filtrare la luce del giorno, affiancate da orrendi candelabri che assicuravano l’illuminazione nelle ore serali. La cattedra era accompagnata da una poltrona in pelle, mentre ai piedi del mobile si srotolava un pesante tappeto persiano blu e oro. A completare quell’accozzaglia di tonalità, diversi quadri ed arazzi erano appesi ai muri: alcuni raffiguravano scene di caccia, altri ancora sirene che nuotavano nei mari del sud o divinità greche intente a banchettare sull’Olimpo. Non esisteva una trama, né un collegamento tra quelle opere ed il gioco di colori e ombre era, semplicemente, “un pugno in un occhio”.

Erwin sedette su una seggiola, poggiando i polsi ammanettati sulla scrivania. Weilman si stava facendo attendere: pensava di metterci altri venti minuti a raggiungerlo? O preferiva lasciarlo nelle mani di quello zelante sottoposto che, al momento, si era schierato in silenzio accanto alla finestra.

Squadrò nuovamente il locale: Marlo non lo aveva fatto passare dall’ingresso principale della prefettura, preferendo una porta secondaria. Avevano utilizzato delle strette scale di servizio per raggiungere il terzo piano, senza incontrare nessuno; infine, erano sbucati direttamente in quell’ufficio, attraverso un’anta celata nel muro. Aveva chiesto il perché di quella, ma Freudenberg si era limitato a rispondere un “Ordini del comandante”. Ogni altro tentativo di cavare informazioni si era rivelato vano.
Posò lo sguardo azzurro sul pianale davanti a sé, ingombro di carte, mappe della città, lettere ancora sigillate. Una fotografia incorniciata ritraeva tre bambine intente a giocare con delle bambole; poco lontano, capeggiava un unicorno rampante di un verde acceso, modellato con del fragile vetro soffiato di fattura italiana.

«Io…» sussurrò, allungando le dita per sfiorare la statuetta «Questa roba la conosco»

La mente frugò rapidamente tra i ricordi: anche lui possedeva un soprammobile simile. Naturalmente, non lo aveva mai esposto: era talmente osceno che lo aveva chiuso in una credenza, coprendolo con un tovagliolo per celarlo agli sguardi indiscreti di eventuali ospiti. Un unicorno verde… era una reminescenza di un matrimonio, a cui aveva partecipato in gioventù: la bomboniera era quel terrificante cavallo color smeraldo. Però… cosa ci faceva lì?

«Non può essere…» disse, voltandosi immediatamente al sentire lo scatto della porta. Un sorriso soddisfatto si allargò sulle sue labbra quando scorse il nuovo arrivato: era un uomo alto, dal fisico asciutto ed il volto familiare; i capelli neri contornavano un cipiglio perennemente crucciato, ma fiero. Gli occhi sottili erano stretti in un’espressione severa, mentre un paio di baffi radi contornava le labbra carnose. La figura snella era avvolta dalla divisa nera, ove capeggiavano le mostrine da comandante.

«Nile!» esclamò, rilassando la schiena contro la seggiola. Era fortunato, decisamente fortunato! Lo conosceva dai tempi dell’accademia militare. Si erano separati subito dopo il diploma: Erwin aveva continuato la propria carriera nell’esercito, mentre Nile Dok aveva scelto di arruolarsi nella polizia militare. La Gestapo lo aveva accolto a braccia aperte: era un eccellente agente, attento e servizievole. Il genere di persona adatta a far carriera in ranghi tanto elitari. Si erano sempre scritti: Erwin riceveva frequentemente lettere dal suo ex-compagno di corso e, altrettanto celermente, gli rispondeva; con il trascorrere dei mesi, però, la corrispondenza si era fatta sempre più rara, ma il loro legame si era mantenuto solido e l’amicizia conservata negli anni. L’ultima volta che si erano sentiti, in effetti, era stato soltanto qualche mese prima, per scambiarsi gli auguri di Natale: all’epoca Nile era un promettente commissario nella sezione di controspionaggio. Da allora non si erano più contattati, ma mai avrebbe immaginato di ritrovarlo proprio a Parigi, investito del grado più alto. «Da quando sei comandante? Non me lo avevi detto!»

«Dall’inizio di febbraio.» fu la risposta «Lo avrei fatto, se tu non avessi avuto la brillante idea di finire nell’elenco dei peggiori ricercati. Si può sapere che diamine hai combinato?»

Lo osservò prendere posto nell’ampia poltrona e rivolgersi al sottoposto che, nel frattempo, era rimasto immobile e silenzioso:
«Siete passati dalla scala di servizio?» la voce di Nile conteneva una sfumatura preoccupata, come se temesse per la propria riservatezza.

«Sissignore»

«Vi ha visto qualcuno?»

«Nossignore»

«L’Inglese?»

«è scappato, ma Hitch è già sulle sue tracce»

«Bene. Puoi andare.»

Con un cenno di congedo, Marlo girò sui tacchi e sparì velocemente dalla stanza.

Erwin gli dedicò soltanto una occhiata, prima di tornare al suo interlocutore:
«Come mai tanta segretezza? Confesso che… mi aspettavo di trovare Weilman»

«Preferivi lui? Posso sempre rimediare»

Erano strani quei discorsi: era come se fossero tornati, in un lampo, ai tempi dell’accademia. Punzecchiamenti, ironie, piccole schermaglie erano all’ordine del giorno. Ancora rammentava le serate trascorse al Weinplatz di Berlino, a bere birra e contendersi i favori della locandiera: Marie era per metà francese; una ragazza carina, con lunghi capelli ricci e la carnagione color ambra. Il sole abbronzava le sue gote indipendentemente dalla stagione, donandole delle tenui sfumature caramello che sottolineavano gli occhi nocciola e le labbra soffici. I seni prosperosi erano sempre nascosti da camicie troppo larghe e da grembiuli colorati, intonati alle gonne voluminose. Non era magra, ma ben delineata: le forme scolpivano un fisico morbido, ma per nulla sgradevole. Possedeva una bellezza particolare, tipica delle donne del sud, baciate dall’aria salmastra del Mediterraneo e dai profumi della Provenza. L’aveva segretamente ammirata, quasi corteggiata, ma alla fine aveva desistito: non era adatto a lei. Non poteva garantirle alcun futuro: cosa sarebbe accaduto alla piccola Marie, quando la guerra l’avrebbe chiamato? Sarebbe stato costretto ad abbandonarla, a lasciarla con un bacio sulla soglia di casa. Non meritava niente del genere. Le occorreva stabilità e la sicurezza di un marito che potesse amarla e comprenderla… magari che potesse donarle qualche mocciosetto scalpitante. Quell’uomo non era lui.

Al contrario, Nile era la persona giusta: premuroso, attento, sempre pronto a correre dalla sua fidanzata. Le era rimasto accanto in ogni momento: quando la vita l’aveva messa alla prova, lui era lì a sorreggerla, a stringerle la mano, a cullarle le spalle. Quando aveva perso suo padre, quando si era vista costretta a vendere la locanda, quando aveva cercato disperatamente un nuovo lavoro senza successo… Nile era lì. Quelle attenzioni erano state ripagate nel più dolce dei modi: Marie aveva accettato di diventare la sua sposa, all’ombra di un pesco in fiore durante la migliore delle primavere. L’anno dopo si erano sposati: una cerimonia sobria, per i parenti e pochi amici intimi. Erwin vi aveva preso parte, non senza una punta di rimorso: avrebbe potuto esserci lui, al posto di Nile. Tuttavia, aveva preferito l’amore della patria al calore di una donna; non poteva rimpiangere quella scelta, per quanto amara.
Poi, però… quando Marie era apparsa accanto al marito – raggiante nell’abito bianco e nel ricamato con fiori delicati – ogni traccia di gelosia si era sciolta: erano entrambi splendidi, fatti l’uno per l’altra. Non poteva rammaricarsi, non più.  In quel momento, poteva soltanto essere felice per un amico.

Scosse il capo, cercando di accantonare quei ricordi e tornando bruscamente al presente: Nile lo stava ancora fissando perplesso. Cosa aveva detto? “Preferivi Weilman?”

«No, affatto!» si concesse una pausa, passando le dita sul dorso dell’unicorno di vetro «è solo che non immaginavo di vederti qui.»

«Nemmeno io, lo confesso. Da Maggiore a ricercato in meno di sette giorni. Un record!» la voce dell’altro aveva assunto una sfumatura irritata, come se quelle notizie fossero soltanto una grande seccatura «Ti dispiace smetterla di toccarlo? È delicato, lo sai» si vide sottrarre la statuina. Il cavallo verdognolo finì su una mensola vicina «Ce l’hai ancora? La mia bomboniera»

Quello schifo? Forse…in realtà, non ricordava dove l’avesse messa. Dopo un lungo soggiorno nella credenza, l’aveva infilata in uno scatolone e… nessuna idea di dove fosse finita. Magari l’aveva venduta in qualche mercatino di quartiere.

«Naturalmente! La tengo sul caminetto» mentì con disinvoltura, accompagnando il tutto con un breve sorriso «Sono sinceramente contento di vederti, Nile. Ti trovo bene»

«Io no» si aspettava una replica del genere «Ti rendi conto di quello che hai fatto? Hai tradito la Germania. E per cosa? per aiutare un fottuto inglese… che diavolo ti è saltato in testa?»

«Conosci il debito che la mia famiglia aveva con Kenny Ackerman. Quel pilota è suo nipote. Ho pensato che salvargli la vita e riportarlo a Vichy fosse un buon modo per sdebitarmi»

«Mi stai dicendo che lo hai fatto solo per questo? Per una ridicola faccenda di quasi trent’anni fa?»

«Non solo…»

«E allora per cosa?»

«Davvero non te ne sei accorto da solo? Non vedi a cosa sta portando il nazismo? Siamo temuti, disprezzati. Il rispetto che abbiamo costruito è fasullo: gli Alleati ridono di noi, i Polacchi ci insultano, i Francesi ci detestano. È questa l’Europa che vogliamo edificare? Un mondo creato sul terrore, sull’odio, sul…»

Nile sollevò una mano, interrompendolo:
«So perfettamente dove vuoi andare a parare e cosa stai per dire: che non è questo ciò per cui abbiamo combattuto. Che gli ideali in cui credevamo erano diversi, più nobili e puri e che i nostri sogni sono stati infangati e spezzati. Che non dovremmo sporcarci ancora le mani per una nazione che non merita, né riconosce i nostri sforzi, che ha lasciato morire i nostri compagni nelle trincee, dimenticandosi poco dopo del loro sacrificio. Lo so. Sono consapevole della situazione e non mi stupisco che ti sia stancato» una pausa. Sulla scrivania comparve una piccola chiave argentata «Non credevo, però, che saresti arrivato a tanto: fuggire con un ricercato, aiutarlo a raggiungere gli Alleati, gettare al vento la tua carriera e forse la tua stessa vita. Pensi davvero che ne valga la pena, Erwin?»

«Sì, ne sono sicuro. Non ho mai avuto le idee tanto chiare come ora. Non voglio lasciare la Germania in mano a dei corrotti, a dei maiali che la divorano dall’interno, che soggiogano il loro stesso popolo e inculcano nella testa della gente solo menzogne e sciocchezze. Sto comunque cercando di servire il mio Paese, non credi?»

Colse uno sbuffo e poi uno scatto secco: Nile gli tolse le manette, gettandole in un cassetto della scrivania.

«Non lo so. Una parte di me crede che tu abbia ragione; quella parte che sarebbe pronta a lasciare tutto ed a seguirti in questa impresa disperata. Un po’ come ai vecchi tempi, quando eravamo due reclute sprovvedute dell’accademia»

«Perché non vieni con me, allora?»

«Perché non sono come te. Ho qualcuno da proteggere e non mi importa se questo mi obbligherà a chinare il capo, ad essere una marionetta nelle mani di Berlino. Io ho loro» il comandante ruotò il portafoto, permettendogli di osservare meglio le tre fanciulle che giocavano. Assomigliavano incredibilmente a Marie «Ho una moglie e tre figlie che meritano un mondo migliore, ma… non sarò io a costruirlo; lo farai tu per me. Se mi dovesse succedere qualcosa, che accadrà? Chi si occuperà di Marie e delle mie bambine? Non posso lasciare che il Reich si rivalga su di loro: le userebbero per ricattarmi o per punirmi dei miei errori.» la voce si spezzò lentamente e l’uomo nascose il viso tra le mani, come se quel pensiero fosse insopportabile da reggere «Non posso lasciare che succeda, Erwin. Perdonami. Ai tuoi occhi, devo essere un gran vigliacco. Un omuncolo senza spina dorsale. Non biasimarmi troppo: tu non hai nessuno. Io ho una famiglia. Sono un egoista, lo so… ma le loro vite» picchiettò l’indice sulla cornice «valgono più di tutta l’Europa per me»

Il Maggiore si massaggiò i polsi, riattivando la circolazione:
«Non ti sto giudicando. Capisco le tue motivazioni e… in parte le condivido: è vero, non ho più nessuno. Posso rischiare soltanto la mia vita, in questa strana scommessa, ma per te è diverso. Ti chiedo di scusa: non intendo coinvolgerti, né mettere in pericolo i tuoi cari.»

«Non sono un giocatore d’azzardo come te, Erwin. Sei sempre stato bravo in queste cose. Immagino che, dal tuo punto di vista, tutto questo sia come una enorme partita a scacchi. Non guardarmi così: ti si illuminano gli occhi quando li nomino. Stai nuovamente intavolando una sfida rischiosa, che probabilmente non potrai vincere, non da solo almeno»

«Che intendi dire?»

«Che ti servirà aiuto e che sono pronto a dartelo»

«Non capisco…»

«Non ti sei chiesto perché ti ho fatto passare dalle scale di servizio?» Ovviamente, ma non aveva trovato una risposta soddisfacente. Si fece attento, mimando un cenno d’assenso per permettere a Nile di proseguire: «Weilman è qui. È arrivato questa notte, furibondo. Ci ha tirato giù dal letto per aggiornarci sulla situazione: si è presentato con un mandato di cattura per te e per il tuo amico, dicendo che era assolutamente prioritario trovarvi prima che lasciaste la capitale. Ho sguinzagliato tutti i reparti, naturalmente. Solo… alla squadra d’élite ho assegnato un compito specifico: trovarvi prima degli altri; e quei ragazzi non mi hanno affatto deluso! L’ordine era di portarvi da me passando per l’entrata secondaria.»

«Fin qui tutto chiaro, ma…perché?»

«Avevo bisogno di parlarti, di capire le motivazioni di un gesto tanto sconsiderato. Sapevo che mi avresti convinto, che saresti stato nel giusto. In sintesi, non volevo che Weilman vi trovasse prima di me.»

«Non intendi consegnarmi?»

«Niente affatto. Mi credi capace di una carognata simile?»

Scosse il capo. Nile non era affatto cambiato: l’essere diventato comandante della Gestapo di Parigi non gli aveva impedito di rimanere, all’occorrenza, una persona semplice e generosa, pronta ad aiutare un compagno in difficoltà. Non era un giocatore d’azzardo, aveva detto, eppure stava comunque rischiando: se Herr Kapitan lo avesse scoperto, si sarebbe vendicato. Avrebbe trovato un modo per scavalcare la sua autorità, per estraniarlo dal caso e riprendere la caccia; eppure, non sembrava che questa possibilità lo preoccupasse. Evidentemente, era un match che sapeva condurre meglio del suo avversario.

«Quella recluta, Marlo… è una persona degna di fiducia?»

«Assolutamente sì. È un soldato capace ed obbedisce senza discutere; ho seguito personalmente il suo addestramento. Non ci tradirà»

«E la ragazza?»

«Hitch? È una detective eccezionale. Un po’ brusca nei modi, ma molto sveglia. Appartiene alla sezione Servizi Segreti, a cui può accedere anche se non ufficialmente arruolata.»

Naturalmente. Erano poche le donne che potevano entrare regolarmente nell’esercito. La maggior parte di loro si doveva accontentare di ruoli marginali o sotto copertura.
«Mi serve un…»

Le sue parole vennero interrotte da un secco tonfo: l’anta ricavata nel muro si era spalancata, lasciando scivolare Hitch nella stanza. La donna spinse a terra il suo prigioniero, sferrandogli un calcio alle caviglie. Levi si schiacciò al suolo, stringendosi il piede sinistro tra le mani legate:

«Puttana!» esclamò, ricavando solo un’altra pedata.

«Come mi hai chiamata?» Hitch sembrava a proprio agio in quel vivace scontro di insulti. Aveva privato il pilota della giubba nera, lasciandolo fradicio in maniche di camicia. Sotto l’inglese una larga pozza d’acqua andava infiltrando la moquette «La prossima volta che ti becco con addosso una di queste» sventolò giacca, prima di gettarla in un angolo «Te la strappo a morsi, hai capito?! Come osi spacciarti per uno di noi?… tu! Sudicio bastardo!» la voce si era tramutata in un sordo ruggito «Io ti…»
«Hitch! Basta così» Nile intervenne sfoggiando un inglese fluido e troncando la discussione «è sufficiente, credo che il nostro ospite abbia imparato la lezione. Puoi andare, ti ringrazio.»

«Quale lezione? Pizzetto del caz…» Levi tacque immediatamente al vedere l’occhiataccia del Maggiore Smith. Si rannicchiò a ridosso del muro, stringendo le ginocchia al petto, tra le braccia immobilizzate. Grondava acqua dai capelli, dal contorno del viso e dalle spalle, mentre spesse gocce scivolavano sulla sua schiena sino all’orlo dei pantaloni.

Hitch non aggiunse altro. Si limitò ad un saluto militare e sgusciò immediatamente via.

«Ti chiedo scusa per i suoi modi bruschi» il comandante riprese immediatamente il discorso «è un’ottima agente, come ti dicevo, ma ha un carattere dif…»

«Di merda» la fastidiosa voce dell’Inglese tornò a risuonare nella stanza. Erwin si voltò, scoccando una occhiata asciutta al compagno di viaggio:

«Piantala» disse solo, abbandonando la sedia per raggiungerlo. Scrutò attentamente i vestiti, cercando macchie sulla stoffa bagnata «Sei ferito?» domandò, infine.

«No. Sto bene. Mi hai spinto nel fiume…»

«Lo so»

«Ti è sembrata una mossa intelligente?»

«Ammetto che lì per lì mi era parsa un’idea geniale, ma… vista la facilità con cui ti sei lasciato catturare, direi che è stato solo tempo sprecato»

Sorrise alla sua agitazione: sapeva d’aver colpito nell’orgoglio, di averlo punzecchiato e ferito. Lo osservò chinare il capo ed arricciare sulle labbra, incapace di ribattere. Bene, aveva guadagnato qualche minuto di silenzio. Il tempo necessario per concludere la chiacchierata con Nile.

Fece indietreggiare, ma qualcosa lo trattenne: Ackerman gli aveva afferrato un lembo dei pantaloni, stringendolo tra le dita intirizzite.

«Puoi liberarmi?» gli chiese, tendendo i polsi ammanettati.

«Non devi chiedere a me»

«Che palle che sei! Ti diverti a rendermi la vita difficile?»

Sì, un po’ sì. Lo vide alzarsi e barcollare verso la scrivania, da cui Dok non si era ancora schiodato. Anzi, il poliziotto sembrava quasi deliziato da quel siparietto ed impaziente di prendervi parte:

«Vuoi che ti liberi?» domanda sciocca, ma evidentemente Nile sapeva come gestire quella strana situazione.

«Ovviamente.»

«Ovviamente cosa?»

«Ovviamente, per favore»

Il comandante si rigirò la chiave argentata tra le dita:
«Il mio pizzetto sta aspettando delle scuse»

«Che?! Il tuo pizzetto è un ammasso di peli tagliati col culo.» la chiave scivolò immediatamente in tasca «Però… no, aspetta! Va bene, che palle! Chiedo scusa per il mio comportamento. Così va meglio?»

«Potresti sforzarti un po’ di più, ma… credo che possa andare»

Un leggerlo “click” mise fine a quella discussione. Levi si accomodò nella seconda seggiola, sfregandosi le mani.

«Torniamo a noi» Erwin ignorò il borbottare nervoso del compagno, rivolgendosi nuovamente a Nile «Ci serve un mezzo di trasporto, qualcosa di rapido per lasciare Parigi. Levi deve tornare a Limoges al più presto.»

«Con Weilman che vi cerca ovunque? Difficile, molto difficile. Ha sguinzagliato metà esercito per trovarvi. Sostanzialmente, chiunque non sia stanziato al fronte vi sta dando la caccia.»

«Confortante... Pensavamo di noleggiare una macchina, da qualche parte. Conosci qualche rimessa che possa fare al caso nostro?»

«No. Gli autonoleggi sono un rischio: trattano spesso vecchi modelli, poco affidabili e più lenti di una tartaruga; inoltre, Weilman li sta facendo perquisire tutti e metterà sicuramente qualche uomo a guardia dei principali. Non possiamo rischiare che vi arrestino mentre affittate una bagnarola»

«Allora sono a corto di idee»

«Ti fidi di me, Erwin?»

«Non sarei seduto qui, altrimenti. Accetto suggerimenti»

«Bene. Ti chiedo solo ventiquattro ore di tempo: troverò un mezzo adatto per la vostra fuga. Nel mentre, ho delle commissioni da sbrigare» il comandante si alzò, dirigendosi all’ingresso principale dello studio «Vi chiedo di rimanere qui e non fare rumore. Non aprite la porta per nessun motivo. Questa sera, quando sarà buio, manderò Marlo a prendervi. Vi farò riaccompagnare a… avete un alloggio, no?»

«Sì. È una vecchia soffitta, ma ci siamo dovuti accontentare»

«Perfetto. Rimanete lì ed aspettate mie notizie. Se tutto va bene, domani notte potrete già lasciare Parigi»

Poco dopo, Nile sgusciò oltre l’uscio, lasciandoli soli.
 
***
 
«Ti fidi davvero di lui?» Levi aggirò la scrivania, scorrendo rapidamente i soprammobili poggiati sulle mensole. Ce n’erano davvero di orribili, anche se il peggiore era sicuramente l’unicorno rampante. Non che le matrioske di uomini barbuti fossero meglio: erano inquietanti con quei larghi baffi arricciati ed i colbacchi colorati.
«Perché non dovrei?»

«Ah, non lo so. Forse perché è il capo della Gestapo? Potrebbe essere in combutta con Weilman»

«Se così fosse ci avrebbe già consegnati»

Vero anche quello, ma Nile continuava a non convincerlo. Non gli piaceva: quell’aria sfrontata decisamente irritante, quella falsa sicurezza, gli occhi troppo piccoli e la fronte spaziosa contornata dai capelli unticci. Per tacere dei baffetti, accorciati come quelli di un adolescente alla sua prima esperienza con il rasoio. Gli dava l’idea di una persona viscida, infida… non come Weilman, no… ma comunque poco affidabile, pronta a promettere ed a ritrattare con la stessa rapidità. Il biondo, tuttavia, era convinto che Nile fosse in buona fede.

«Da quanto lo conosci?» domandò, passando l’indice sul muso del cavallo verde.

«Parecchio. Eravamo compagni di corso, in accademia»

«E questo credi basti a renderlo un uomo di fiducia?»

«Sì»

Era una affermazione che non ammetteva repliche, ma insufficiente a convincerlo del tutto:
«E se ci consegnasse? Se fosse andato ad avvisare Weilman?» Erwin stava prendendo sottogamba quella faccenda, ne era convinto! Insomma, fidarsi di un poliziotto in nome di una vecchia amicizia di…chissà quanti anni prima. Assurdo.

«E se una volta a Limoges, tu mi consegnassi agli Alleati?»

«Non farei mai una cosa del genere! Non sono così stronzo» si sentì quasi offeso: Smith lo stava paragonando ad un nazista qualunque? Ad un infido opportunista, un serpente pronto a morderlo dopo essere stato salvato e protetto?

«Questo lo dici tu, ma come faccio a saperlo? Come posso avere la certezza che non mi tradirai?»

«Io non sono fatto così» sussurrò, montando un broncio seccato «Non ti fidi di me? Benissimo! Allora vattene per la tua strada.»

«Al contrario! Mi fido e te lo sto dimostrando: nonostante siamo nemici, ti sto accompagnando alla tua base. Ho fiducia in te e vorrei che tu ne avessi in Nile: concedigli una occasione, per favore. Non giudicarlo troppo presto e negativamente: è una brava persona. Farà il possibile per aiutarci»

Sbuffò nuovamente, distogliendo l’attenzione dal Maggiore: Erwin aveva ragione, come al solito. Stava criticando Nile senza neppure conoscerlo, solo sulla base della divisa che portava: il comandante gli aveva fatto una cattiva impressione, ma solo esteriormente. In fondo, non li aveva destinati a Weilman, anzi… li aveva nascosti proprio sotto al naso di Herr Kapitan, nell’unico posto dove quel viscido bastardo non sarebbe mai andato a cercarli. Forse Nile meritava almeno un’opportunità.
«D’accordo» acconsentì infine «Gli darò una possibilità.» sussurrò, prendendo ad accarezzare lentamente il dorso dell’unicorno verde. Era davvero orrendo quell’affare! Fece correre le dita sulla coda, risalendo sino alla criniera ed al capo, per poi…

Un leggero tintinnio interruppe il silenzio, preceduto da un secco “crack”. Levi abbassò lo sguardo: il corno smeraldino era caduto sulla mensola, spaccato a metà della sua lunghezza. Sulla fronte dell’equino non rimaneva che un tozzo e ruvido spuntone, più simile ad una caciotta che ad un elegante ricciolo di vetro.

«Ops…» sussurrò, cercando inutilmente di riattaccare il pezzo.

«Che cosa hai fatto?!­» Erwin lo aveva raggiunto con un paio di falcate, l’espressione sbalordita e sconvolta.

«Credo che si sia rotto»

«Dimmi che stai scherzando, ti prego…» Perché Smith si preoccupava tanto? Era solo un orribile soprammobile «Nile ci tiene moltissimo! È la sua bomboniera di nozze»

«Questa merda?» si rigirò il corno tra le dita «Emh… forse potremmo aggiustarlo con… della colla e…» balbettò, in cerca di una possibile soluzione.

No, quell’affare non si poteva sistemare. L’unico modo era fondere di nuovo la statuina e ricrearla da zero. In alternativa, cercare qualcuno che ne possedesse una copia e sostituirla – cosa impossibile.
Scandagliò rapidamente la scrivania, alla ricerca di qualunque cosa potesse aiutarli: c’erano, però, solo graffette, fogli, penne e… «Quello, svelto! Passamelo!» tra le mappe spiegazzate faceva capolino uno scatolino di cartone spesso. Lo aprì rapidamente, recuperando una pallina bianca.

«Sai cos’è?» domandò, godendo dell’espressione stupita del tedesco «è un chewingum, detto anche gomma da masticare. Appiccica che è un piacere!» esclamò soddisfatto, infilando la cicca in bocca «Evidentemente al tuo amico piacciono i dolci americani. O forse l’ha presa per le figlie» aggiunse, accennando al portafoto, prima di affondare i denti nel chewingum.

In realtà, quella sfera era sin troppo dura: lo zucchero si era cristallizzato sulla superficie, rendendola quasi impossibile da masticare. Ruminò per alcuni minuti in silenzio, prima di riuscire ad ottenere una pasta filante.

«Sei sicuro che funzionerà?» Smith sembrava dubbioso.

«Shi…» biascicò, strappando una strisciolina candida dalle proprie labbra e modellandola a sfera. La premette sulla fronte del cavallo, coprendo interamente il moncone, prima di adagiarvi sopra il corno spezzato. Attese qualche minuto, il tempo necessario a far aderire lo zucchero al vetro, prima di avvolgere il punto di rottura con un altro pezzettino di gomma.

Si pulì le mani soddisfatto:
«Ecco fatto!» esclamò, spuntando la cicca nel vicino cestino «Nile non se ne accorgerà nemmeno! Sembra nuovo»

«Ne sei certo? A me sembra piuttosto evidente.» il tedesco sollevò un indice, mostrando la pasta intrisa di saliva «Si vede subito che qui è spaccato e che c’è della roba bianca sopra»

«Scemenze! Ho riparato un sacco di cose usando il chewingum! Funzionerà, ti dico»
 
***
 
Era quasi mezzanotte. Nile rientrò nel suo ufficio, abbandonando la giacca sulla poltrona e togliendosi le scarpe. Quella giornata era stata lunga e complicata; aveva incontrato Weilman e lo aveva rassicurato: naturalmente, le sue squadre stavano facendo il possibile per rintracciare i due fuggiaschi. Doveva essere comprensivo: Parigi era una città enorme e setacciarla tutta era difficile. Se li avessero trovati, però, sarebbe stato il primo a saperlo.

Rise a quell’idea: se quell’idiota avesse saputo che i suoi preziosi ricercati avevano passato il pomeriggio nascosti proprio nella prefettura avrebbe dato di matto! Fortunatamente, nessuno se n’era accorto e Marlo aveva riaccompagnato Erwin e Levi a casa, sfruttando il favore delle tenebre.

«Ah… ci vuole una bella birra, ora» disse, stiracchiando le braccia e controllando la mensola con i soprammobili. Era davvero deliziosa! Le matrioske in fila ordinata, il pendolino da tasca in oro bianco, il vaso di porcellana finemente decorato e completato da un fiore in argento, i cui petali di cristallo rilucevano di un pallido rosa; e infine…

Cos’era successo all’unicorno?! Il corno era tranciato quasi di netto e pendeva inerte da un lungo ed appiccicoso filo chiaro, che si avvolgeva attorno ad una protuberanza tondeggiante sulla fronte dell’animale.

Rimase a fissare la bomboniera, un misto di delusione e rammarico sul volto; provò a riavvicinare le due estremità spezzate, ma senza successo.
«Figlio di puttana» rise piano, scuotendo il capo e gettando l’equino di vetro nella spazzatura «Questa me la paghi. Ti spedirò in Italia a comprarmene uno nuovo, a grandezza naturale, e lo metterò in giardino.»


 


Angolino: buonsalve! torno ad aggiornare perchè tra ieri ed oggi ho avuto un pochetto di tempo per imbastire questo capitolo che, in realtà, contiene un altro di quegli strampalati siparietti. Mi sto abituando a scriverli (o, forse, approfitto soltanto del clima di distensione che temporaneamente si respira) XD
Allora, non ho molto da aggiungere, se non il solito grazie per la pazienza nel seguire questa storia. vi sono davvero grata, non potete immaginare quanto! *_* Menzione speciale per Auriga e Shige che mi hanno aiutato nella correzione (era il minimo, visto che ogni ritardo ingiustificato è colpa loro <3 ma sono tanto carine, quindi le perdonerò entrambe)
L'unico appunto storico che mi sento di fare riguarda il chewingum: leggendo su Wikipedia (grazie wiki) ho scoperto che venne inventato a fine 1800; possedeva la forma di una sferetta bianca, che ho tentato di replicare nella storia. è possibile, quindi, che Nile possedesse una scatoletta di gomme da masticare ed è possibile che Levi le avesse già assaggiate in precedenza (non credo, invece, che le abbia usate per riparare qualcosa XD ma è sorto un dibattito anche su questo con Auriga e Shige)
Penso d'aver messo tutto...vi ringrazio per aver letto sin qui e, come sempre, sono apertissima a tutti i pareri e suggerimenti ^^
Un abbraccio


 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Trenta monete d'argento ***


19. Trenta monete d’argento
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Parigi.

 
Marlo li aveva raggiunti in tarda serata. L'orologio di un vicino campanile aveva appena battuto le undici, quando la Chevrolet nera era ripartita a tutta velocità, guizzando lungo le strade ed i quartieri verso sud-est.
«Ho l'ordine di lasciarvi dietro al cimitero di Montparnasse. Il comandante vi sta aspettando lì» erano state le sue uniche parole.

Levi spiò oltre il finestrino, annoiato. Presto quella interminabile giornata sarebbe finita; non avevano combinato niente per tutto il mattino: a parte rassettare le poche cose che possedevano e farcire le bisacce di nuovo cibo, non avevano trovato altro da fare. La raccomandazione di rimanere in casa ed aspettare il tramonto era stata quasi rigorosamente osservata: per precauzione, non avevano osato neppure sporgersi sul balcone. Erwin era sceso a comprare dei vestiti nuovi, ma senza allontanarsi; aveva recuperato delle camicie pulite ed un paio di maglioni da infilare sotto i mantelli logori. A mezzogiorno una graziosa vicina di casa era passata per domandare se avessero del sale, ma il tedesco l'aveva liquidata in poco; tuttavia, il dubbio che fosse una spia si era subito radicato nelle loro menti. Avevano chiuso la porta a doppia mandata, ma il resto del pomeriggio era poi trascorso tranquillamente.

«Quanto manca?» si schiacciò contro il sedile posteriore, gettando una occhiata ai due tedeschi, entrambi seduti davanti. Possibile che il punto di ritrovo distasse tanto? Erano in giro da almeno mezz'ora.

«Poco» fu l'unica parola che riuscì a scucire al poliziotto.

Qualche minuto dopo, la sagoma del campo santo si delineò davanti ai suoi occhi: i muri di pietra erano coperti da rampicanti, mentre alti cipressi svettavano in una doppia fila ordinata. Alcune panchine di pietra grezza ospitavano senzatetto avvolti in pesanti coperte, poco lontane da fontanelle ormai spente.
L'auto si fermò a ridosso di una piccola rientranza sterrata, incuneata tra la facciata di una cappella ed un cancello di servizio: oltre le inferiate, si potevano scorgere i profili delle tombe, fiocamente illuminati dal tremolio delle candele.

Nile attendeva lì, le braccia conserte ed un'aria crucciata sul volto:
«Chi è stato a romperlo?» domandò immediatamente, non appena scesero dalla vettura.

«Cosa?» Erwin si era avvicinato, sul viso un'espressione assolutamente innocente, come se fosse all'oscuro di tutto.

«Lo sai benissimo. Il mio unicorno verde»

«Ah...» una nota di stupore nella voce, mentre l'indice del Maggiore arrivava a punzecchiare il suo petto «Lui»

Levi lo fissò sbalordito. Grandissimo stronzo! Poteva almeno mentire, coprirlo in qualche modo. Raccontare qualche storia credibile sul perché una oscena statuina si era spaccata da sola. Qualcosa tipo “Era talmente brutto che ha deciso di suicidarsi”; sarebbe stato un tentativo gradito, anche se inutile.

Montò un leggero broncio, limitandosi a scoccare un'occhiata al comandante. Nile sembrava davvero furioso: le guance scavate, se possibile, parevano ancora più avvizzite, mentre lo sguardo scuro era attraversato da lampi di rabbia e rimpianto. Forse si stava pentendo d'averli aiutati. Forse li avrebbe consegnati a Weilman per vendicare la bomboniera.

«Scusati» Erwin si chinò accanto al suo orecchio, sussurrandogli quell’unico consiglio.

«No! Si è rotta da sola quella schifezza. Non è stata colpa mia» una gomitata arrivò a mozzargli il fiato.

Boccheggiò, piegandosi in due e premendo le mani sullo stomaco. Smith lo aveva colpito intenzionalmente: un gesto affrettato, anche se ci aveva messo più forza del necessario.

«Scusati e basta»
 
«Scassapalle» modulò un falso colpo di tosse, come a mascherare quelle parole, prima di rialzare il viso e la voce «Mi dispiace» ammise, infine «Non l'ho fatto apposta. La stavo guardando e...» si strinse nelle spalle «Si è rotta da sola.» per un attimo, l'espressione di Dok parve rasserenarsi: stava accettando le sue scuse. Un attimo dopo, tuttavia, si fece nuovamente cupa ed indisponente, come se non desiderasse ulteriori  chiarimenti.  

Nile non replicò, limitandosi a spingere nello spiazzo una motocicletta nera, la cui vernice era stata recentemente lucidata. Il manubrio era accompagnato da un grosso faro di luce bianca, mentre il sellino era ricoperto in morbida pelle nocciola. Agganciato alla moto, sul lato sinistro e ben in vista, c'era una sorta di ovetto: una sola ruota lo staccava dal terreno, mentre la carenatura era di un verde scuro, intonato alla scritta BMW dipinta sullo sportello. Un maledettissimo sidecar! Era quello il fantastico mezzo di trasporto che Nile aveva promesso? Senza dubbio, era un bel modello, aggraziato e moderno, ma... no! Non si sarebbe mai seduto in quella stupida carrozzina da passeggio. A meno che, ovviamente, Erwin non lo lasciasse guidare.

Non poteva sprecare quell'occasione: si avvicinò al sidecar, balzando immediatamente in sella. Strinse le manopole e saggiò i freni. Perfetto. Forse un po' alto per lui, ma... si sarebbe abituato. Dopo tutto guidava aerei, no? Una moto non sarebbe stata un problema.

Si voltò, fissando le bisacce al portapacchi posteriore, prima di incrociare lo sguardo attonito dei due tedeschi: che diavolo volevano? Erwin lo stava fissando con un misto di compassione e accondiscendenza, come se fosse un bambino sui cavalli a dondolo del parco giochi. Nile, al contrario, sembrava pensieroso:

«Non penserai mica che ti permetterò di guidarla, vero?»

«Perché no?»

Vide due dita davanti ai propri occhi:

«Prima di tutto...hai spaccato la mia preziosa bomboniera. Non ti permetterò di distruggere anche il sidecar» il medio si abbassò, lasciando solo l'indice a segnare i punti salienti «Secondo, Erwin non può stare nel carrozzino, a meno di fare tutto il viaggio con le ginocchia in gola: non è pensato per un uomo di... quanto sei alto?»

«Un metro e ottantotto» la voce del Maggiore conteneva una sfumatura soddisfatta, come se avesse già vinto.

«E con questo? A Erwin non dispiacerà stringersi un po', vero?» gettò una occhiata al compagno che, per tutta risposta, scrollò le spalle:

«In realtà, mi dispiace moltissimo»

Era un complotto, non c'era altra spiegazione. Infilò un'espressione scocciata, incrociando le braccia al petto e serrando istintivamente le ginocchia attorno alla moto: non si sarebbe schiodato di lì. Avrebbero dovuto spostarlo con la forza.

«Sei proprio un bastardo» sibilò, senza degnare di uno sguardo Smith «Non hai voluto che guidassi la Kommadeurwagen; almeno potresti lasciarmi provare questo»

«Nile non vuole e visto che è lui il proprietario...»

«Non me ne fotte un cazzo! Fai così solo perché non vuoi sederti nel passeggino»

«Si chiama “carrozzino”»

«è la stessa cosa! È comunque una stupida culla per neonati»

Erwin gli calcò in testa qualcosa: sollevò la mancina, incontrando la liscia superficie di un casco. Un paio di occhialoni da motociclista erano affrancati appena sopra la fronte, mentre le dita robuste del tedesco si adoperavano per chiudere la fibbia sotto al suo mento.
«Sentiamo Nile che dice. Se sarà d'accordo, ti cederò il posto di guida»

Speranza! Volse immediatamente il capo verso il comandante, che stazionava poco lontano, con le braccia conserte ed il cipiglio fiero sul volto. Lo avrebbe convinto, ad ogni costo: si sarebbe scusato per le critiche alla bomboniera, avrebbe promesso di ricomprare l'unicorno o persino supplicato, se fosse stato necessario. Congiunse le mani in una muta preghiera, lo sguardo fiducioso puntato in quello dell'altro.

«Posso guidare il sidecar, per favore?»

«No»

Se l'aspettava, ma non si sarebbe arreso. Alla fine, Nile avrebbe capitolato e gli avrebbe consegnato le chiavi.

«Perché no? So pilotare un aereo, maledizione. Una motocicletta non sarà un problema»

«Sono due cose completamente diverse»

«Sì, lo so. Ho già provato a guidarne una... una volta... non ricordo quando, ma comunque ho provato» asserì, scacciando quell'attimo di indecisione. Sollevò il mento, quasi orgoglioso, mentre la destra si tendeva nell'aria «Te lo chiedo come un favore personale: fammi almeno provare. Faccio un giro dell'isolato e te la riporto. Ti convincerai che sono un autista migliore del Maggiore»

Vide una chiave sgusciare fuori dalla tasca della divisa, stretta nel ferreo pugno del tedesco. I suoi occhi brillarono. Era fatta!
«Ci tieni così tanto?»

«Moltissimo.»

Un sospiro rassegnato: il comandante si stava finalmente arrendendo?
«Allora...» scorse le dita chiudersi nuovamente attorno alla chiave, con eccessiva decisione «No» il sogghigno malcelato dai corti baffi, mentre la mancina si tendeva verso Smith «Non ti lascerò guidare la mia moto. È già tanto che ti concedo il lusso di viaggiarci»

Maledizione! Quel bastardo gliel'avrebbe pagata: lo aveva illuso, lasciandogli il beneficio del dubbio e spazzando immediatamente le sue speranze. Lo aveva schernito ed ingannato; le chiavi erano ormai nelle mani sicure di Erwin che non le avrebbe cedute per niente al mondo.
Era una congiura: si erano sicuramente accordati per umiliarlo, per costringerlo in quello stupido guscio d'uovo.

«Siete due stronzi» ringhiò, ancorandosi al manubrio «Non mi sposterò di qui, potete scordarvelo!»

«Sparisci Inglese o giuro che ti faccio arrivare a Limoges legato al portapacchi»

Mimò un gestaccio, non riuscendo a trattenersi, prima di incrociare le braccia al petto e scivolare giù. Si chiuse in un ostinato silenzio, infilandosi immediatamente nel carrozzino. Era comodo l'abitacolo e, se non fosse stato tanto contrariato, lo avrebbe persino apprezzato. Non poteva distendere le gambe, ma le spalle trovavano comunque conforto nello schienale imbottito. Abbassò gli occhialoni: gli coprivano quasi metà faccia, schiacciandogli il naso e gli zigomi. Le lenti a specchio non garantivano un’ottima visibilità, almeno di notte: riusciva a scorgere solo le fioche luci dei lampioni, mentre le sagome degli alberi e delle panchine assomigliavano più a delle macchie sfocate. Forse era così che vedevano le mosche…
Colse Erwin scavalcare il sellino ed accomodarsi. Un secco scatto accese il motore, che rombò qualche attimo a vuoto, per poi ingranare con un paio di singhiozzi.

«Che catorcio» si lasciò sfuggire, gettando una rapida occhiata ai due tedeschi.

Nile si era avvicinato al Maggiore e gli stava stringendo la mano:
«Fate attenzione d’accordo? Non rovinatela troppo. È ancora un gioiellino, questa moto.»

«Te la riporterò tutta intera, non appena questa storia sarà finita.»

«Non ti credo» la mano di Nile scivolò delicatamente sul manubrio, accarezzandolo con infinita pazienza «Ho come la sensazione che non la rivedrò più»

«Non siamo due sconsiderati. Avremo cura di lei»

Erwin abbassò gli occhiali sul viso, finendo di allacciarsi il casco. Si chinò, pronto ad accelerare, ma una stretta decisa sul braccio lo fermò appena in tempo:

«C’è una cosa che devo dirti» Nile si chinò, avvicinando le labbra alle sue orecchie. Raccolse un bisbiglio lungo e concitato, mentre gli occhi azzurri si sgranavano per l’incredulità.

«Davvero?» chiese, quando la sua mente riuscì ad elaborare tutte quelle informazioni.

Ottenne un cenno d’assenso:
«Sì, ma tienilo per te.»

«Sei una persona migliore di quanto tu creda»

«Non lo so…» il comandante indietreggiò di qualche passo, fissando lo sguardo sottile sul largo viale che, dal cimitero, si snodava tra i quartieri del quattordicesimo arrondissement «Non appena sarete fuori città, seguite per Orleans e poi per Bourges. Non potete sbagliare»

«Grazie» Erwin sussurrò quell’ultima parola, prima di premere sulle manopole del gas: il sidecar sobbalzò, scattando in avanti e fiondandosi lungo il viale alberato. Pochi attimi dopo, i fari posteriori scomparirono dietro una stretta curva, scomparendo rapidamente alla vista.

***
 
Il soldato si staccò dal tronco del cipresso dietro a cui aveva trovato rifugio. Aveva assistito a tutta la scena, riprendendola con una ingombrante macchina fotografica. Era stato ben attento a non farsi scoprire, a rimanere all’ombra dell’albero ed a sfruttare la poca luce per ottenere delle foto decenti. Ne aveva scattate quasi una dozzina, così da raccogliere il maggior numero di prove. Aveva visto il comandante Dok aiutare i due criminali nella fuga: le informazioni sulla strada da percorrere, il mezzo di trasporto, quel ritrovo a Montparnasse nel cuore della notte… tutto sapeva di un pericoloso inganno. Si calcò il berretto sulla testa rasata, mentre gli occhi ambra seguivano l’allontanarsi della motocicletta.
 

Marlo era stato uno sprovveduto: il suo piano per catturare Smith e Ackerman aveva funzionato, almeno inizialmente; l’idea di costringere l’Inglese a tradirsi si era rivelata ottima. Freudenberg lo aveva spedito ad informare il comandante, non appena il Maggiore si era arreso. Tuttavia, quel sempliciotto non poteva sapere: si era fidato di lui, lo aveva mandato ad avvisare Dok, ma non aveva specificato di mantenere la massima riservatezza sull’accaduto. Così, il soldato semplice Fritz era passato nell’alloggio di Weilman.

Herr Kapitan lo aveva immediatamente interrogato: cosa voleva? Perché lo disturbava a quell’ora del mattino? Apparteneva alla squadra speciale assegnata al comandante Dok? Sì, e con ordini ben precisi: a differenza delle unità ordinarie di polizia – incaricate di avvertire subito Weilman in caso di arresto dei ricercati -  la squadra speciale aveva il compito di scovare i fuggiaschi il prima possibile e consegnarli direttamente nelle mani di Dok, tenendo segreta la loro cattura.
Weilman, ovviamente, si era fatto immediatamente attento a quella confessione.

Aveva raccontato ogni cosa, il soldato Fritz, consapevole che sarebbe stato ben ricompensato: di come Marlo lo aveva inviato dal comandante e di come, una volta uscito dallo studio di Nile, avesse intrapreso la strada per gli appartamenti di Herr Kapitan.

“Devo chiederti un altro favore” aveva detto Weilman, dopo aver ascoltato il racconto “Rimani incollato a Freudenberg e scopri cosa architetta. Voglio sapere che cosa fa, dove si muove, chi incontra. Voglio le prove del coinvolgimento di Nile Dok in questa faccenda. Quando avremo catturato quei bastardi, voglio che paghino tutti per i loro errori. Che paghino per avermi sfidato, per avermi ingannato, per aver voltato le spalle alla Germania.” Una pausa, mentre il pendolo scandiva le ore “Credi di poterlo fare?”

“Sissignore. Ho già svolto qualche ricerca sul comandante: lui e il Maggiore erano compagni di accademia. Si vocifera che fossero già molto legati all’epoca e che la loro amicizia non si sia affatto dissolta”

“Lo so, maledizione! Quello stronzo di Smith pensa d’avermi messo nel sacco? Si sbaglia” Weilman si era picchiettato la fronte con l’indice “è tutto qui, nella mia testa: il piano per rivoluzionare questo esercito corrotto. Cattureremo Smith e lo costringeremo a confessare. Poi sarà il turno di Dok e dei suoi sottoposti”

“Perché attendere, capitano? Una volta che avremo le prove del suo coinvolgimento…”

“Impossibile. Nile ricopre un ruolo di grandissima responsabilità. È comandante della Gestapo. Non sarà facile convincere Berlino della sua colpevolezza. No, mio caro… aspetteremo. Quando avremo risolto questa faccenda, anche Dok pagherà. Lui e la sua famigliola del cazzo. Seguili, Fritz. Spia e riferisci ogni loro mossa. Se mi aiuterai, la tua ricompensa sarà grande”

Si era fatto immediatamente attento: l’avarizia era uno dei motivi che lo aveva spinto a vendersi. Tra i ranghi, si vociferava che Herr Kapitan elargisse parecchio denaro ai sottoposti più fidati. Li obbligava a lavori sporchi, ad orari snervanti, a spiare, truffare ed uccidere, ma… sapeva pagarli bene.

Aveva schiarito la voce con un piccolo colpo di tosse:
“Quanto grande?” si era arrischiato a chiedere.

“Trenta monete d’argento” Weilman aveva sfoggiato un sorriso scaltro “Il prezzo giusto per un tradimento”


 

Angolino: buonsalve ^^ approfitto del poco tempo che ho per aggiornare. In questi giorni mi sono data alla scrittura, perchè vorrei portarmi avanti un pochino e evitare di aggiornare troppo lentamente, rischiando di perdere il filo XD
Finalmente il viaggio è ripreso ed i nostri eroi (?) hanno lasciato Parigi: all'inizio era previsto che rimanessero qualche giorno di più, lo confesso, ma gli eventi hanno preso una piega inaspettata anche per me ^^ Quindi, semplicemente, ora ripartiranno alla volta di Orleans e poi via, verso la Repubblica di Vichy (che non raggiungeranno tanto facilmente). Weilman tornerà presto alla caccia, grazie alle informazioni di Fritz: senza dubbio organizzerà un drappello di soldati e si metterà sulle tracce dei due fuggiaschi.
Non credo d'avere particolari annotazioni da fare in questo capitolo; per il sidecar mi sono ispirata ad un modello della BMW degli anni quaranta. Da quanto ho letto, il guscio laterale che ospita il passeggero si chiama proprio "carrozzino" (tuttavia, se siete esperti di moto accetto suggerimenti ^^). Al solito, vi ringrazio infinitamente della pazienza che avete nel seguire lo sviluppo della ff, delle correzioni e dei consigli che mi mandate *_* sono tutti preziosissimi e sto cercando di seguirli al meglio :)
Un abbraccio e ancora mille grazie!

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Lumeau ***


20. Lumeau
 
 
Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Lumeau, dintorni di Orleans.
 

Albeggiava. Striature rosate coloravano il cielo limpido, mentre la luna andava ritirandosi oltre l’orizzonte. Qualche nuvola contornava il sorgere del sole, i cui raggi lontani bagnavano il paesaggio ad oriente. L’aria fredda gli sferzò ancora una volta il naso, accompagnata dal profumo fresco dell’erba bagnata di rugiada. Una pallida foschia regnava sulle campagne di Poupry, nascondendo i casolari abbandonati, i carri riversi ai margini delle strade e qualche capo di bestiame smarrito. Era una nebbiolina rada confronto a quella che era calata durante la notte: ne rimaneva solo qualche traccia lungo il terreno sfregiato dai crateri delle bombe. Schegge di ferro giacevano tra gli appezzamenti ed il ciglio della strada, segnando il recente passaggio degli aerei Raf.

Levi si strinse nel mantello ruvido, affondandovi il mento. Aveva dormito poco, mentre il sidecar sobbalzava qui e là lungo le vie che da Parigi si snodavano verso la periferia. La motocicletta era davvero un catorcio: troppo lenta e scomoda per una fuga. Non era adatta alle strade sterrate, ma a quelle eleganti di una grande metropoli. Che diamine era saltato in testa a Nile? Quale parte del concetto “partenza precipitosa” non gli era chiaro? Avevano impiegato il doppio del tempo per un tratto che, generalmente, non richiedeva più di tre ore. L’ago del contachilometri segnava velocità al limite del deprimente: se avessero camminato, forse avrebbero impiegato meno. Probabilmente, però, quel ritardo era anche colpa del buio e della nebbia: avevano sbagliato strada più volte, seguendo indicazioni confusionarie.

«Mancano circa quaranta chilometri ad Orleans» disse, accennando ad un cartello a lato della strada. La freccia in legno bianco li invitava a proseguire dritto «Di questo passo, saremo là entro… domani?»

«Non essere melodrammatico» la voce di Erwin conteneva una sfumatura spossata; era comprensibile: il biondo aveva guidato tutta notte, senza concedersi neppure una pausa «Penso che in un paio d’ore saremo lì. Troveremo un posto dove fare colazione, benzina e ripartiremo»

«Te la senti di guidare ancora?»

Un cenno d’assenso:
«Sì. Preferisco fare tappa in qualche paesino fuori mano. Orleans è affollata e le probabilità che ci riconoscano sono piuttosto alte»

Tornò a fissare l’area circostante: eccetto fattorie, frutteti e qualche pascolo non vi era molto altro. La strada d’asfalto malmesso correva dritta, intervallata soltanto da qualche crocevia e…
«Erwin» richiamò immediatamente l’attenzione del biondo «C’è qualcuno sulla strada» tese l’indice a sottolineare un capannello di figure scure, a meno di chilometro. Un’auto era posizionata di traverso, mentre tre uomini armati gironzolavano nei pressi della vettura «Credi ci sia stato un incidente?»

«No. È un posto di blocco. Weilman ci sta cercando, ricordi? Non mi stupisco che abbia reagito tanto in fretta»

«Speravo ci pensasse ancora a Parigi»

«Anche io, ma… evidentemente sa che siamo fuggiti. Forse ci ha visti o qualcuno ha fatto la spia»

«Nile?»

«Non credo. Più probabile uno dei suoi sottoposti»

«E se fosse una casualità? Un semplice controllo routinario?»

«è possibile, ma affrontarlo è troppo rischioso»

Una mano si alzò in lontananza, accompagnata da un tono gracchiante:
«Alt! Ihr stoppen!» tedesco e, poco dopo « Arrȇtez-vous!»

Si strinse dietro al parabrezza del carrozzino, quasi fosse un nascondiglio sicuro. Era un posto di blocco quello e quei maledetti cercavano proprio loro. Avevano parlato in tedesco, consapevoli d’essere capiti da almeno uno dei due fuggiaschi. Solo per salvare le apparenze erano poi passati al francese. La mano sollevata si avvicinava sempre di più. Nuovi dettagli balzarono ai suoi occhi: le uniformi nere, il simbolo del Reich cucito sulle maniche, gli stivali lucidi e le armi cariche che lentamente andavano sollevandosi in loro direzione.

«Reggiti» quell’unica parola lo spinse ad aggrapparsi al sedile dell’ovetto stringendo le ginocchia al petto.

«Cosa vuoi fare?» domandò, ma senza ottenere risposta.

Con una stretta curva, il sidecar cambiò improvvisamente direzione, infilando una viuzza sterrata, tra un campo incolto ed un meleto. L’unico cartello indicava “Lumeau, 4 miles”. Le ruote sobbalzarono, mentre il compagno dava fondo alla manopola del gas; uno scossone quasi lo spedì dritto contro il lunotto ed un secondo rischiò di farli ribaltare. Ad ogni metro, le gomme stridevano contro i sassi; il motore rombava sinistramente, come sottoposto ad una prova troppo grande. Persino il manubrio sembrava sul punto di svitarsi.

Un rumore di sirene in lontananza e di una vettura sui ciottoli: i soldati erano saliti in macchina e si erano gettati all’inseguimento. La Chevrolet nera non sembrava passarsela meglio della loro motocicletta, ma era comunque più veloce. Un colpo di pistola arrivò a ferirgli i timpani, seguito da altri due tonfi.

«Ci hanno scambiato per un bersaglio mobile!» gridò, per sovrastare il baccano generale. Levi si voltò, frugando nelle bisacce sino a recuperare una Mauser. Caricò la canna puntandola davanti a sé. Era dannatamente difficile sparare in quelle condizioni: doveva riprendere la mira ad ogni sobbalzo, rischiando di colpire alla cieca «Maledizione! Guida diritto, cazzo»

«Sto facendo del mio meglio» un altro scoppio arrivò a nascondere quelle parole. Un poliziotto si era sporto dal finestrino, puntando un fucile in loro direzione.

Levi premette il grilletto consecutivamente. Una, due, tre volte: scorse i proiettili forare il cofano ed il parabrezza, mentre uno schizzo di sangue inondava il finestrino del guidatore. Sorrise sinistramente: la fortuna era dalla sua parte. Nonostante le pietose condizioni di tiro, era comunque riuscito a colpire l’autista. Forse questo sarebbe stato sufficiente a frenare l’inseguimento…

Uno boato arrivò a frantumargli le orecchie, mentre il sidecar perdeva completamente aderenza: la gomma posteriore era esplosa, facendo sbandare la moto. I tentativi di Erwin di mantenerla sulla retta via furono del tutto inutili: il veicolo si impennò, incespicando tra gli arbusti e le radici degli alberi di un vicino frutteto. Un fosso apparve davanti al manubrio e sterzare non servì ad evitarlo: il sidecar si ribaltò su un fianco, sbalzando i passeggeri di qualche metro. Si ritrovò a ruzzolare al suolo, tra i rami secchi ed il fango; il casco cozzò una pietra ruvida, mentre una fitta lancinante gli attraversava la fronte. Sussultò quando andò a sbattere contro il robusto tronco di un melo, graffiandogli le spalle e la schiena.

«Merda» sibilò, cercando di rialzarsi. Aveva le mani impastate di terriccio; gli abiti erano praticamente da buttare: la camicia si era strappata in più punti, mentre i pantaloni si erano macchiati sulle ginocchia e sulle cosce.

Una mano robusta lo tirò bruscamente in piedi, obbligandolo a muoversi: Erwin lo aveva afferrato per un braccio e lo stava trascinando attraverso il frutteto. Dalle spalle del biondo pendevano le bisacce, mentre le dita della sinistra stringevano il calcio della Mauser: in qualche modo, era riuscito a recuperare il loro magro bagaglio. Provò una ondata di sollievo e gratitudine: nella sua sacca da viaggio giaceva ancora la lettera di Farlan. Non poteva permettersi di perderla.

«Stai bene?» si sentì chiedere, mentre il Maggiore lo spingeva avanti «Corri! Ce la fai?»

Sì, certo. Non era ferito, solo un po’ scombussolato e pestato. Annuì, scattando velocemente in avanti e macinando metri sotto le suole degli stivali, rese scivolose dall’umidità e dal limo. C’era, tuttavia, una domanda che gli lambiccava il cervello.

«Dove stiamo andando?»

«Non ne ho idea. Corri e basta!»

Non era affatto confortante quel pensiero, ma cos’altro potevano fare? L’unica speranza era trovare un nascondiglio sicuro nella vastità di quei campi oppure cercare d’essere più rapidi degli inseguitori. Passi affrettati giungevano alle loro spalle, accompagnati da imprecazioni in tedesco stretto.

Accelerarono l’andatura, confondendosi tra le piante e gli arbusti, raggiungendo i margini della piantagione, correndo tra i canali di acqua e le zolle già arate. Le gambe si facevano più pesanti ad ogni passo, le membra stanche minacciavano di non reggerli ulteriormente, mentre ombre sfocate danzavano davanti ai loro occhi: il risultato di una notte insonne.

Gradualmente, le voci sfumarono e le sagome degli inseguitori scomparvero all’orizzonte: avevano rinunciato alla caccia? O trovato un modo più semplice per catturarli? Forse stavano tornando indietro per andare ad avvisare Weilman, per chiamare rinforzi e braccarli da più vicino.

Tornò a fissare davanti a sé: il paesaggio monotono, fatto di infinite distese coltivate, si apriva su un piccolo paese diroccato. Le bombe sembravano averlo devastato di recente: l’orologio del campanile ancora funzionava, malgrado il tetto della chiesa fosse completamente sfondato. I ruderi delle case si stagliavano nel sole del mattino apparendo, se possibile, ancora più spettrali: i muri portanti erano crollati, riversando nelle vie cumuli di macerie ancora fumanti. La polvere galleggiava in quel paesaggio trasandato, ricoprendo i panni ancora stesi ad asciugare o le bancarelle che gli abitanti dovevano aver frettolosamente abbandonato. Via via che si avvicinavano, i dettagli si facevano più nitidi: dei tetti in tegole e paglia rimaneva ben poco, mentre le insegne dei negozi giacevano riverse a terra. L’odore era intenso e nauseabondo: alcuni animali giacevano sparsi per tutta la periferia, feriti a morte dalle schegge acuminate degli ordigni. Degli abitanti, tuttavia, nessuna traccia: erano fuggiti, per lo più, abbandonando un paese ormai fantasma. Solo qualche corpo straziato faceva capolino tra gli usci delle case: poveri sfortunati, che non erano riusciti a mettersi in salvo.
Un cartello ammuffito, posto ai margini dell'unica strada che attraversava il paese, recava una sola scritta: Lumeau.

Si incamminarono, attenti a non calpestare calcinacci e tenendosi lontani dagli edifici pericolanti. I loro inseguitori dovevano aver definitivamente rinunciato alla fuga: le grida non si sentivano e nemmeno i passi. Il rombo di un motore si sentiva distante e sembrava allontanarsi sempre di più.

«Stanno andando a cercare rinforzi» sussurrò Erwin, rompendo quegli attimi di silenzio forzato «Dobbiamo trovare un mezzo di trasporto al più presto e scappare»

«Pensi che verranno qui?»

«Non appena avranno avvisato Weilman torneranno.»

«Potremmo proseguire a piedi»

«Impiegheremmo troppo tempo e... non so dove siamo» vide il biondo indicare un punto oltre le loro spalle «Penso che il sidecar sia laggiù, ma non ne sono sicuro. Ho perso l'orientamento» i campi si susseguivano tutti uguali, nella loro irritante monotonia. Non offrivano neppure un punto di riferimento, nulla che potessero usare per ritrovare la strada.

Si mossero in silenzio l'uno accanto all'altro, le mani affondate nelle tasche e i visi chini: possibile che la loro fuga fosse già al capolinea? Che nulla in quel villaggio potesse aiutarli? Lumeau era chiaramente un paesino fantasma, ormai: a parte i morti accantonati lungo le vie, nessun altro era rimasto. Qualche gatto dimenticato si aggirava tra i rifiuti, cercando qualcosa da sgranocchiare. I topi guizzavano agili lungo i rigagnoli di acqua, mentre i polli starnazzavano nelle aie della periferia. Non vi era altro.
Incontrarono qualche veicolo, ma completamente inutilizzabile: cofani danneggiati, ruote distrutte, benzina mancante nei serbatoi. La desolazione di quel posto era sconfortante e non lasciava presagire niente di buono: come se avesse il sapore di una amara trappola in cui erano ingenuamente caduti
.
«Levi» la voce profonda lo distolse dalla carcassa di una vecchia moto, obbligandolo ad affrettare il passo. Erwin era fermo sotto un portico e stava indicando un locale poco distante: il portone completamente scardinato lasciava intravedere l’interno di un’officina.

Si affrettarono, superando le macerie per raggiungere il garage: dentro si notava una serie di armadietti con cacciaviti, martelli, chiavi inglesi e bulloni. Attrezzi che avrebbero potuto utilizzare per far ripartire qualche vecchia carretta. Una tanica di benzina – ancora mezza piena. Un silenzio irreale regnava nell’unica stanza, interrotto soltanto da un indistinto pigolare.

«C’è qualcuno» sussurrò, tirando la manica del Maggiore per richiamarne l’attenzione.

Erwin annuì, allontanandosi di qualche passo:
«Qui est-là?» chiese, ma le sue parole ebbero l’unico effetto di far aumentare quei singhiozzi. Mosse un passo oltre un bidone d’olio arrugginito, guardando attentamente. I suoi occhi, dopo un attimo, colsero la figura timida di una bambina bionda, rannicchiata accanto ad un uomo privo di vita. Non poteva avere più di otto o dieci anni. I lunghi capelli dorati incorniciavano un viso sporco e solcato da abbondanti lacrime. Le iridi azzurre lo stavano fissando con ribrezzo e terrore, mentre le labbra tremavano leggermente. Indossava un vestito bianco, completamente infangato e macchiato di polvere ed unto, simile ad una corta tunica. Nessun segno di calze o scarpe: i piedi minuti erano coperti di sottili graffi e lividi.

Erwin si inginocchiò, tendendole una mano.
« Ne t’inquiète pas. Je ne te ferai pas de mal » Non temere. Non voglio farti del male «Comment tu t’appelles?» come ti chiami?

La bambina scosse il capo, stringendosi maggiormente al corpo ormai freddo.

«Comment tu t’appelles? Moi je m’appelle Erwin et lui il s’appelle Levi. Nous sommes des anglais» mentì, tornando a sfoggiare un sorriso rassicurante « On ne te fera pas de mal. On est des gens bien» Non ti faremo del male. Siamo brava gente.

«Christa» una voce timida ed insicura spezzò quel momento, mentre una manina si tendeva a stringere le sue dita robuste «Je suis la fille du mécanicien. Papa est…» Sono la figlia del meccanico. Un singhiozzo, mentre la bambina si gettava nuovamente sul corpo esanime.

«Et ta maman

«Elle est morte à ma naissance» Morta dandomi alla luce.

«Tu es toute seule?» sei sola?

«Oui, il n’y a plus personne ici» sì. Non è rimasto nessun altro qui.

«Peut-on utiliser les outils de ton papa pour réparer une voiture? Nous devons aller à Limoges » possiamo usare gli attrezzi di tuo papà per riparare una macchina? Dobbiamo andare a Limoges.

«Oui»
 

***


Levi si sporse sul cofano aperto della vecchia Renault. Era singolare trovare un’automobile del genere in un paesino come quello: pareva in buone condizioni, malgrado il serbatoio fosse completamente a secco. Alcuni fusibili erano saltati ed il tedesco stava cercando di bypassarli, per far ripartire il motore.

«Tieni» disse, allungando al compagno uno straccio per ripulirsi le mani dal grasso e dall’olio fuoriuscito «Credi davvero di poterla aggiustare?»

«Sì. Non è messa male. Ci vuole solo un po’ di pazienza e con qualche miglioria sarà pronta a ripartire. La benzina dell’officina non ci consentirà di fare molti chilometri, ma almeno ci sposteremo da qui.»

«Vuoi una mano?»

«Se non hai del chewingum adatto ad aggiustare lo specchietto retrovisore, non credo» le labbra carnose si piegarono in un accenno sarcastico.

«Ah-ah. Non mi ricordo più come si ride» incrociò le braccia al petto, fissando la porta dell’officina. Christa si era seduta su un cumulo di cassette e stava giocando con un paio di pezzi di stoffa, annodati per assomigliare a delle bambole. Le avevano costruite con gli strofinacci recuperati nel garage, ma alla piccola erano comunque piaciute. Probabilmente, quella ragazzina non aveva mai avuto una vera bambola; si era accontentata, quindi, quando aveva scorto i due stracci arrotolati su loro stessi. Aveva sorriso e li aveva ringraziati. Era bastato quel gesto per guadagnare un poco della sua fiducia, per allontanarla dal cadavere del padre e per tornare a farle assaporare l’aria aperta. «Erwin... non possiamo lasciarla qui»

«Lo so, ma…»

«Ma?»

«Non possiamo neppure portarcela appresso»

«Perché no?»

«Svariati motivi. Ci rallenterebbe ulteriormente e con Weilman sulle nostre tracce sarebbe troppo rischioso portarla con noi. Hai idea di cosa le farebbe, se ci catturasse? Io sì, purtroppo.» colse un sospiro, mentre la chiave inglese tornava ad avvitare un bullone «Dovremo lasciarla in un paese vicino, a qualcuno che possa prendersene cura.»

«Mi dispiace»

«Anche a me. Non affezionartici troppo»

Il Maggiore aveva ragione: che senso aveva sballottare una bambina in una fuga rocambolesca per il territorio occupato? Avevano già i loro problemi, senza doversi sobbarcare anche un’orfanella francese, che avrebbe involontariamente rubato tempo prezioso. E poi… una bambina così piccola aveva delle esigenze: mangiare con regolarità, ripararsi in una casa, avere dei vestiti puliti e la possibilità di lavarsi. Non potevano garantirle nulla del genere: non potevano improvvisarsi genitori, men che meno in quelle condizioni. Due adulti sapevano resistere al freddo ed ai morsi della fame, ma… una bambina? No, lei non ce l’avrebbe fatta. Forse portarla a Vichy si sarebbe rivelato solo un enorme errore; era meglio, tuttavia, lasciarla in suolo nemico? Non avrebbe saputo rispondere. Da un lato la certezza di un tetto sulla testa, di un letto e abiti nuovo, dall’altra la fuga dal nazismo e la libertà da guadagnare a caro prezzo. Come poteva capire cosa fosse meglio per Christa? Certo, lasciarla ad una famiglia adottiva sarebbe stato più semplice, ma come sarebbe cresciuta in una Francia occupata e controllata? Nella repubblica del sud forse sarebbe stata meglio: senza le costrizioni dei tedeschi, senza l’incubo dei bombardamenti, senza il rumore dei cingolati lungo la strada; al riparo dalla guerra e dalle sue privazioni.
D’altro canto, viaggiare con loro era pericoloso:  se Weilman li avesse arrestati, cosa sarebbe successo alla minuta e spaventata Christa? Forse sarebbe riuscita a fuggire oppure sarebbe morta; oppure l’avrebbero usata per…
Scosse il capo. Non voleva nemmeno pensarci. Portare via la ragazzina da Lumeau era la scelta giusta, ma dovevano comunque abbandonarla alla prima occasione e trovare qualcuno che si occupasse di lei.

«Ti ci vorrà ancora molto?» domandò, infine, desideroso di cambiare argomento. In fondo, prima ripartivano e meglio era per tutti.

«Temo di si. Non sono un meccanico. Quel poco che conosco l’ho appreso qui e là, leggendo manuali e confrontandomi col genio militare. Sto andando per tentativi, ecco… credo di essere sulla giusta strada, ma non so dirti quanto tempo impiegherò»

«Prima di sera?»

«Poco probabile­» una occhiata al cielo che si stava rapidamente annuvolando «Sembra stia per mettersi a piovere»

«Prima di domani?»

«Sicuro. Conto di ripartire questa notte, col favore del buio. Non disdegnerei un bell’acquazzone, a questo punto: il rumore della pioggia coprirà quello del motore e la visibilità ridotta rallenterà ulteriormente Weilman ed i suoi tirapiedi.»

«Pensi che potrei schiacciare un pisolino? Ho visto che ci sono delle stanze sopra l’officina. Potrei mettermi lì»

«Sì, anzi… credo sia una buona idea. Così potrai darmi il cambio al volante, questa notte. Sempre che te la senta di guidare…»

«Non aspetto altro!» finalmente non sarebbe stato più costretto a viaggiare sul sedile del passeggero. Finalmente avrebbe impugnato il volante, piazzato il piede sull’acceleratore, sgommato e spedito quella carcassa di Renault al massimo delle sue possibilità. Erwin si sarebbe reso conto di che fantastico pilota era e… non lo avrebbe mai più costretto a viaggiare in quei ridicoli carrozzini da sidecar. Anzi, probabilmente gli avrebbe spontaneamente ceduto il posto di comando. Sorride appena a quell’idea: sarebbero sfrecciati sulle stradine sconnesse della campagna d’Orleans, guizzando veloci sino a Limoges, senza intoppi.

«Nello zaino ci sono delle coperte. Se riesci, fai dormire Christa con te»

«Non parlo francese, lo sai.»

«Ti capirà a gesti. Mima un cuscino, no?» le mani del tedesco si infilarono unite sotto una guancia. Lo vide chinare il capo sul dorso della mancina e rialzarlo poco dopo coperto di striature nerastre.

«Ti sei macchiato la faccia» disse appena, allungando un indice per sfregare via quei segni scuri. C’era qualcosa di profondamente sbagliato in quello sporco: come se il grasso scuro avesse appena deturpato qualcosa di eccezionalmente bello, una sorta di opera d’arte che solo lui aveva la fortuna di ammirare. Lasciò lo sguardo indugiare sui lineamenti forti, sulla mascella scolpita che sfuggiva poi in un mento aggraziato. Le linee risalivano a contornare le labbra ed a delimitare il profilo sicuro del naso, sino a perdersi negli occhi chiari, accompagnati delle scomposte ciocche bionde.
Ritrasse la mano, distogliendo frettolosamente lo sguardo: che diamine gli passava per la testa?! Non era quello il momento di indugiare, men che meno su quel viso famigliare che ormai conosceva quasi a memoria. C’erano cose più importanti che pulire l’unto dalle guance di Erwin.

«Emh…» sussurrò, cercando di riprendere il filo del proprio discorso «Ho tolto la lettera di Farlan dallo zaino» cambiare nuovamente argomento poteva rivelarsi la soluzione vincente. Rialzò le iridi grigie, sforzandosi di mantenere un tono sicuro, determinato «Dopo quello che è successo, ho pensato fosse più sicuro tenerla addosso. L’ho quasi persa, quando si è ribaltato il sidecar. Se tu non avessi recuperato lo zaino…»

«Credo sia la scelta migliore. Tienila in una tasca interna, così non rischierai di smarrirla.»

«Sì, certo… giusto» sussurrò, facendo un rapido dietro front «Allora, vado a… dormire. Svegliami quando avrai finito»
 
 


Angolino: buongiorno. So di essere in uno spaventoso ritardo nell’aggiornare, ma ho avuto meno tempo del solito. Un pochino la colpa è anche di Shige e Auriga, ma solo un pochino. Già che le ho citate, devo ringraziarle come sempre per la pazienza e l’aiuto nel correggere il capitolo, per i consigli che cerco di ascoltare e… per il francese: le frasi in lingua che trovate nel testo sono state tutte tradotte da Shige,  che ringrazio infinitamente per lo splendido lavoro; senza di lei, avrei dovuto ripiegare su translate ç__ç
Mi dispiace per non essere riuscita a mantenere il ritmo che desideravo con i capitoli, ma spero di poter presto riprendere. In realtà, il capitolo 20 era in lavorazione già da qualche giorno, ma dopo l’uscita del capitolo 85 del manga, ho dovuto fare una pausa  per riprendermi dall’ennesimo smacco.
Probabilmente, non avevo molta voglia di muovere i personaggi così a ridosso dell’uscita degli spoiler, anche se i miei sono – fortunatamente – molto diversi da quelli di Isayama e si trovano ad affrontare situazioni diverse in tempi diversi. Però, beh… giustificherò così il ritardo, che spero mi perdonerete.
Al solito, se avete consigli o precisazioni da fare, sarò felicissima di leggerle!
Ancora grazie per aver letto fin qui,
un abbraccio.

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Fuga ***


21- Fuga
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Lumeau, dintorni di Orleans.
 

Levi si svegliò di soprassalto, cercando di alzarsi. Qualcosa gli premette sul viso, schiacciandogli le labbra e obbligandolo a rimanere sdraiato
«Non fare rumore» il viso familiare di Erwin riempì il suo campo visivo «Sono qui. Sono arrivati prima del previsto» quelle parole bastarono a gelargli il sangue nelle vene. Weilman li aveva raggiunti, infine. Possibile che ci avesse messo così poco a stanarli? Ricordò la fuga attraverso i campi, l'inseguimento e le loro orme affrettate correre verso Lumeau. Era logico che le ricerche partissero da lì, da quel paesino fantasma in cui avevano trovato rifugio; tuttavia, la rapidità con cui i nazisti si erano mossi era sorprendente. Evidentemente, Weilman aveva già organizzato la sua squadra e si era messo in caccia la sera stessa in cui avevano lasciato Parigi.

Sollevò lo sguardo, osservando la finestra distante. Dalle imposte socchiuse si poteva scorgere il colore nero del cielo, mentre lo scrosciare della pioggia accompagnava le luci artificiali delle torce ancora lontane. Grida in tedesco arrivavano ancora ben distanti, segno che i soldati non avevano ancora raggiunto quella parte del villaggio.

Spostò lentamente le dita del Maggiore, prendendo un profondo respiro, sforzandosi di calmare l'ansia improvvisa che gli aveva stretto il petto. Non doveva perdere la calma o permettere alla fantasia di farsi spazio nella sua mente: indugiare su quali orribili torture avrebbero subito se li avessero catturati era tutto tranne che stimolante. Dovevano andarsene di lì e alla svelta.

«Sei riuscito a far ripartire la macchina?» chiese, spiando nuovamente la sera da poco calata. Che ore potevano essere? Forse le sei o le sette. Il sole non sembrava essere sceso da molto, ma l'oscurità si stava addensando rapidamente, complice dell'acquazzone improvviso.

«No, purtroppo» ecco la prima cattiva notizia.

«Christa?»

«Non è qui. È scappata» ed ecco la seconda.

«Che significa “scappata”?» s'accorse che la propria voce conteneva una sfumatura preoccupata ed irritata. Come era possibile che quella sciocca ragazzina fosse sparita? Per andare dove, poi? Le campagne circostanti erano deserte, non vi era traccia di centri abitati nel raggio di alcuni chilometri. Perché li aveva abbandonati? Guardò il giaciglio accanto al proprio, ricavato con della vecchia paglia e coperte grezze: era ancora sfatto e le due bambole di stracci giacevano accanto ad un lurido cuscino «Quando mi sono addormentato era... beh, qui!»

«Lo so, ma evidentemente si è svegliata e si è allontanata»

Già, evidentemente. Come aveva fatto a non accorgersi? Gli era guizzata via da sotto il naso, approfittando della sua stanchezza per allontanarsi. E se i tedeschi l'avessero vista? Se l'avessero catturata e torturata? Quel pensiero rinnovò la sua angoscia: era come un serpente che si agitava nel suo petto, staccandogli le membra pezzo per pezzo. Una sensazione di vuoto allo stomaco, come un nodo pronto a serrargli le viscere, a strozzare le sue grida e le sue speranze. Quella bambina non era certo una sua responsabilità, ma allora... perchè si sentiva colpevole? Come se il non aver vegliato correttamente fosse l'ennesimo dei suoi peccati.

«Dobbiamo trovarla!» esclamò con un secco sibilo «Se Weilman la catturasse, potrebbe...»

Le dita robuste gli strinsero delicatamente una spalla, allontanando improvvisamente ogni dubbio:
«La troveremo»

Come faceva Smith ad apparire sempre così sicuro? Come se nulla potesse turbarlo o scalfirlo. Forse era davvero senza sentimenti? Oppure era terribilmente bravo a nasconderli. Non che in quel momento avesse importanza: Christa era scomparsa e dovevano recuperarla immediatamente, prima di poter ripartire. Abbandonarla nelle mani nemiche era assolutamente fuori discussione.

Si alzò cautamente, osservando la strada dal pertugio della finestra:
«Non sono ancora passati di qua, vero?» chiese, ottenendo un deciso scuotere del capo.

«No. Pare stiano ancora perlustrando la zona nord di Lumeau.»

«Bene. Dividiamoci e cerchiamola e poi...» si interruppe, scorgendo il cofano ancora aperto della Renault «Come faremo ad andarcene?»

«Non lo so. Ci penseremo quando sarà il momento» scorse l'ufficiale tendergli qualcosa: il palmo reggeva una Mauser nuova, ben lucida ed oliata «L'altra l'abbiamo persa quando si è ribaltato il sidecar. Sono riuscito a recuperare soltanto questa»

Ah, giusto! Erano partiti con due pistole ma, mentre la prima era rimasta nella bisaccia, la seconda l'aveva estratta lui stesso per sparare durante l'inseguimento. Quando la moto era uscita di strada, l'aveva lasciata cadere e Dio solo sapeva dove fosse finita. Si maledisse per la propria sbadataggine: nella concitazione del momento non aveva pensato di cercarla; magari era caduta lì vicino, ai suoi piedi o in una buca del terreno. Ormai era tardi per i ripensamenti: possedevano una sola Mauser e dovevano farla bastare. Respinse quell'offerta con un gesto secco:
«Tienila tu»

«Mi sentirei più tranquillo se la prendessi»

«Anche io. Quindi tienila» sussurrò, chinandosi per infilare gli stivali e caricarsi la bisaccia sulle spalle. Era quasi vuota, ormai: a parte qualche residuo di cibo ed i vestiti di ricambio, non era rimasto altro «Credi che Christa si possa essere allontanata parecchio?»

«No, penso sia nelle vicinanze» scorse il Maggiore infilare l'arma nella fondina, allacciandola poi in vita «Ispeziona la zona a sud, io controllerò ad est e poi ad ovest. Teniamo l'officina come punto di riferimento»

«D'accordo» sgattaiolò verso le scale, pronto a scendere in strada. Si fermò, però, sul primo scalino, gettando una occhiata alle proprie spalle «Erwin... fai attenzione, per favore» disse, prima di scivolare via e tuffarsi nel buio e nella pioggia.
 

***

 
I vestiti si erano inzuppati velocemente: l'acquazzone non aveva accennato a diminuire e, anzi, un vento freddo si era sollevato, infilandosi negli stretti vicoli ed ululando tra le case. Le voci concitate dei militari si erano fatte vicine ad un certo punto, per poi disperdersi nuovamente nel nulla, permettendogli di tirare un sospiro di sollievo. Girare disarmato, senza alcuna protezione, era da sciocchi, ma che altro avrebbe dovuto fare? Sottrarre al Maggiore l'unica difesa era impensabile. Non se lo sarebbe mai perdonato, se gli fosse successo qualcosa per una propria egoistica scelta: meglio, quindi, sgattaiolare per le vie con la sola compagnia di una spranga arrugginita, recuperata da un mucchio di macerie.

Levi oltrepassò una svolta, dopo aver controllato attentamente l'incrocio: non pareva esserci nessuno nei paraggi. L'unico rumore era quello prodotto dalle pesanti gocce contro le grondaie. Aveva già controllato alcune case, ma senza successo: non aveva trovato la bambina, né nulla di utile per una fuga improvvisata.

Attraversò il crocicchio, piegando rapidamente a destra e riprendendo l'ispezione: gli edifici erano tutti uguali, con gli intonaci bianchi e le tegole rossastre, tanto che nell'oscurità era facile confonderli e ripassare due volte dalla stessa abitazione. Si avvicinò ad una porta spalancata, scrutando l'interno dove il buio regnava sovrano.

«Christa» sussurrò, cogliendo poco dopo un leggero fruscio «Christa sei lì?» ripeté.
Nessuna risposta.
Ah, che sciocco! Come poteva pretendere che la bambina capisse? In fondo, non parlava inglese.

«Christa, je suis Levi» le sue scarsissime conoscenze di francese servivano a ben poco in quella situazione «Je suis...»> provò a ripetere, compiendo un passo nella sala.

La scarsa luce che filtrava dall'esterno era appena sufficiente a scorgere il profilo di alcuni mobili: un tavolo, alcune seggiole ribaltate e frettolosamente abbandonate, una credenza. E poco oltre una sagoma scura, filiforme ed intenta a strappare la vecchia fodera di una poltrona con le unghie.

«Fanculo! Stupido gatt...» le parole gli morirono sulle labbra quando sentì dei passi oltre le proprie spalle ed un tono graffiante apostrofarlo malamente:

«Stoppen! Alt, Briten!» la voce mutò rapidamente in un inglese stentato «Tu fermo, non potere muovere»

Voltò leggermente il capo, quel tanto che bastava per poter scorgere la figura di un giovane cadetto, tra le cui mani tremanti era spuntata una corta pistola. Si sentì perduto: nonostante si trattasse di un singolo uomo – poco più che un ragazzino spaventato, in realtà – non  poteva sperare di fronteggiarlo con una semplice sbarra di ferro. Se si fosse voltato, quell'altro gli avrebbe sparato senza indugio. In caso contrario, lo avrebbe ammanettato e trascinato da Weilman.

«Merda» sibilò, la gola secca e le labbra esangui. Cosa doveva fare? Tentare comunque di affrontare il soldato e sperare di cavarsela? Oppure arrendersi e cercare la fuga in un secondo momento? Le dita della destra si strinsero maggiormente sulla spranga: combattere era l'unica soluzione possibile. Non avrebbe permesso a quei maiali di arrestarlo e torturarlo e tanto meno di usarlo come esca per attirare Smith. Non avrebbe servito la vittoria tanto facilmente a quel porco di Weilman! Piuttosto sarebbe morto, sì... almeno il Maggiore avrebbe avuto una chance, una possibilità di cavarsela e raggiungere Limoges.

Fece per voltarsi, ma un secco “click” lo bloccò nuovamente, seguito da parole dure e decise, pronunciate da una voce profonda e familiare:
«Buttala! Butta l'arma, subito.» un tonfo accompagnò quell'unica frase «Se ti muovi o gridi ti ammazzo.»

Si voltò, il sollievo e la perplessità dipinti sul volto: cosa ci faceva Erwin lì? Non era andato ad ispezionare il lato est di Lumeau? Era una sorta di strano talento, quello del signor Smith: appariva all'improvviso, negli attimi più inaspettati e quando vi era bisogno di lui. C'era qualcosa di inquietante nel modo in cui spuntava sempre nel momento giusto, pronto a tirarlo fuori dai guai. Inquietate sì, ma decisamente provvidenziale.

«Non credevo mi avessi seguito...» sussurrò, scrutando con una punta di compiacimento il volto pallido della malcapitata recluta: non poteva avere più di vent'anni, quel ragazzo basso e segaligno, avvolto in una divisa troppo grande per le sue spalle ossute e tremolanti.

«Ho pensato che dividersi fosse una pessima idea e sono venuto a cercarti»

«Beh, grazie. Ti devo un favore»

«Me ne devi ben più di uno. Leghiamo questo idiota da qualche parte e...»

Alcune parole in un tedesco affrettato spaccarono il loro dialogo: il cadetto aveva rialzato la testa fieramente e stava rigurgitando termini incomprensibili nel vuoto della stanza. Accadde tutto troppo in fretta: vide Erwin sollevare un pugno e scaricarlo dritto sulla faccia del minuto soldato e quest'ultimo cadere a terra, dopo aver sbattuto la nuca contro lo stipite della porta. Il corpo del nazista scivolò immobile sul pavimento umido.

«Lo hai ammazzato?» Levi sgranò gli occhi per la sorpresa. Come era possibile che Erwin si fosse abbandonato ad un gesto così incontrollato, istintivo, dettato sicuramente dalla rabbia e dalla tensione delle circostanze? Non era da lui: persino negli istanti più pericolosi e concitati di era mantenuto attento, distaccato e difficilmente si era abbandonato a scatti simili.

«Purtroppo no»

«Che ti ha detto?» senza dubbio, la causa scatenante era da ricercare nelle parole avvizzite della recluta.

«Che Christa è con loro. Ti ha visto mentre la cercavi e la chiamavi. L'hanno portata alla piazza principale, da Weilman. La stanno usando come servetta e... preferisco non ripeterti altro»

«Le hanno fatto del male?» il solo pensiero gli diede la nausea. Era colpa sua? In parte. Avrebbe dovuto vigilare sulla ragazzina, forse, e non addormentarsi così pesantemente, ma... come poteva immaginare che sarebbe scappata?

«Non ancora. Quindi sbrighiamoci»
 

***
 

Raggiunsero la piazza in pochi minuti, tenendosi bassi e camminando rasente ai muri. Incontrarono meno resistenza del previsto: i soldati sembravano aver temporaneamente sospeso le ricerche ed essersi concessi una pausa. Un pallido fuoco scoppiettava al centro, accerchiato da quattro figure incappucciate dalle cerate verdi. Un telo proteggeva le fiamme, montato sopra quattro alti picchetti. Delle tende da campo erano state frettolosamente allestite ai margini: in una si intravedeva persino un paiolo con della zuppa calda, cotta sopra un fornelletto portatile. Christa era lì, accovacciata accanto alla pentola. Stava riempiendo alcune scodelle, controllata da un nerboruto sergente. Le mani sottili versavano il brodo con attenzione, immergendovi dei tozzi di pane raffermo, per poi afferrare le ceramiche ancora bollenti e portarle ai militari di guardia. I suoi piedi scalzi affondavano nel fango, punti dai ciottoli sporgenti ed affilati. Sulla guancia sinistra spiccava un vistoso livido, appena nascosto dai capelli biondi ormai intrisi di terra e pioggia.

Levi si sentì ribollire: cosa le avevano fatto quei bastardi? Era soltanto una bambina spaventata. Non c’era motivo di trattarla così, senza dignità, né rispetto. La osservò tendere una ciotola ad un sottufficiale che, per tutta risposta, le rifilò un calcio per allontanarla, nemmeno fosse un insetto molesto.

«Figlio di puttana» sussurrò. Serrò i pugni, nervoso: quanto avrebbe voluto scaricarli sulla faccia di quel nerboruto crucco. Si trattenne, tuttavia: non doveva assolutamente perdere la calma o li avrebbero rapidamente stanati. Si erano appostati dietro ad un cumulo di macerie, accovacciandosi sui talloni e sfruttando il riparo di uno stretto angolo per non farsi scorgere dagli inseguitori. Spiò per un istante il compagno: il Maggiore sembrava assorto, con il mento appoggiato sul palmo della mancina e gli occhi fissi ben oltre il limite della piazza. Non stava neppure fissando Christa e forse non si era accorto dell’accaduto. Seguì lo sguardo, intercettando la sagoma di un grosso camion telonato, uno di quei mezzi ingombranti per il trasporto delle truppe; evidentemente, Weilman lo aveva richiesto per portare un sufficiente numero di rinforzi.

«A cosa stai pensando?» chiese infine, la voce ridotta ad un secco sibilo.

«Useremo quello per andarcene. Non è sorvegliato, vedi? Forse pensano d’essere al sicuro oppure che non troveremmo mai il coraggio per rubarglielo proprio da sotto il naso» un sorriso scaltro era apparso sul volto del tedesco e non prometteva niente di buono: stava imparando a conoscerlo e quell’espressione era il diretto sinonimo di un piano rischioso, un gioco che ad Erwin sembrava piacere parecchio. Era come se le scommesse, se le strategie azzardate ed improvvisate fossero il suo pane quotidiano; come se le situazioni disperate lo stimolassero, invece che avvilirlo ed abbatterlo, quasi ne cogliesse giovamento. Nel silenzio di quegli attimi, poteva quasi sentire gli ingranaggi della mente lavorare alacremente, scattare con dei piccoli click-clack sino ad incastrarsi perfettamente gli uni con gli altri. Nella testa del signor Smith c’era sicuramente un mondo nascosto, una sterminata distesa di idee pronte per essere colte. Era una sorta di controsenso, quell’uomo: possedeva un carattere studiato, posato e calcolatore, persino freddo alle volte. Eppure gli imprevisti non lo scoraggiavano: al contrario, venivano accolti come una nuova e stimolante sfida. «Inoltre, rallenteremo la loro ricerca: Weilman è venuto con un’auto»

«Un’auto?»

«La vedi? È nascosta proprio dietro al camion. Si scorge da qui»

«Perché non prendiamo quella, allora? Sarà sicuramente più veloce» obiettò, ma uno scuotere del capo cancellò immediatamente la sua domanda.

«Weilman può portare solo tre persone, oltre a sé stesso, su quella macchina; massimo quattro. Rubando il camion saremo più lenti, certo… ma gli impediremo di portarsi appresso il resto della truppa. Ho contato otto soldati soltanto qui e chissà quanti altri ce ne saranno sparsi per le vie. Lo costringeremo ad abbandonare i rinforzi, nel caso voglia comunque inseguirci. In caso contrario, ad aspettare un camion di riserva da Parigi.»

A quello non aveva pensato. Non riuscì a nascondere un’occhiata ammirata: possibile che Erwin avesse concepito quel piano nell’arco di un semplice istante, durante il quale lui era riuscito soltanto a soffermarsi sulle condizioni della bambina? Era… complicato rimanere al passo di una mente tanto brillante. Sospirò, sentendosi uno sciocco per il successivo quesito:
«E se decidesse di inseguirci soltanto con l’automobile?»

«Avremo comunque un piccolo vantaggio. Procederemo a fari spenti e cercheremo di seminarlo sfruttando il pantano: le ruote del camion possono sopportare uno sterrato coperto di fango e acqua, ma l’elegante berlina che si è scelto avrà qualche difficoltà aggiuntiva.» lo vide estrarre la Mauser, caricandola con uno scatto discreto «Recupera Christa. Non appena la vedrai tornare da questa parte, chiamala. Io prenderò il camion… Se dovessi sentire degli spari, scappa.»

«Neanche per idea. Non posso lasciarti qui!»

«Invece sì. Devi arrivare a Limoges e avvisare gli Alleati o sarà stato tutto inutile»

«Mh… almeno sai come rubare un camion?» allungò una mano per fermarlo, ma le sue dita non strinsero altro che aria.

«Certo!» un sorriso sarcastico gli scivolò addosso, mescolandosi alle pesanti gocce di pioggia che l’avevano ormai completamente bagnato «è nel programma del primo anno all’Accademia Militare. Ce la farò!»


***


Levi attese in silenzio, stretto sotto alla tettoia di una vecchia rimessa. Si era spostato dal precedente nascondiglio per avvicinarsi un poco di alla bambina che ancora sgattaiolava avanti e indietro tra l’improvvisata cucina ed i soldati assiepati attorno allo stentato falò.

«Christa» sussurrò, quando la vide ripassare accanto a sé «Christa, sono io» poco importava che non comprendesse affatto l’inglese. Era sufficiente che lo riconoscesse.
Allungò una mano, arrivando a sfiorare la veste leggera della bambina.

«Sono qui» ripeté, quando lei si voltò di scatto. Lo sguardo spaventato si condì subito di speranza, non appena lo riconobbe. La scorse poggiare piano le scodelle a terra, ben attenta a non farsi scoprire, sgusciando poi verso di lui. Si lanciò tra le sue braccia aperte, nascondendo il viso contro la stoffa umida della camicia.

Le posò una mano sulla schiena, lasciandovi delle leggere pacche, nel vano tentativo di calmare i singhiozzi sommessi:

«Sono qui…» si sforzò di apparire rassicurante. Non doveva mostrarsi nervoso, né preoccupato, anche se l’intera situazione lo impensieriva: dove era Erwin? Perché non era ancora tornato?  Non aveva sentito alcun rumore: non il rombo di un motore, né lo squillare del clacson. Che stesse aspettando un suo segnale? Forse doveva farsi notare, in qualche modo… fargli sapere che aveva recuperato la ragazzina e che lo stava cercando. Oppure doveva rimanere fermo dove era e il Maggiore sarebbe passato a prenderlo. No, quello no: guidare il camion tra quelle strette viuzze poteva risultare difficoltoso. Gli sarebbe andato incontro «Non piangere» sussurrò alla bambina, sollevandola e stringendola al petto «Andrà bene, vedrai… ce ne andremo da qui presto e…»

Scivolò all’indietro ed abbandonò il sicuro porticato. Camminò rasente ai muri delle case, sforzandosi di utilizzare le fioche luci come punto di riferimento. Se solo avesse scorto i fari della camionetta oppure se avesse colto il suono delle ruote sul selciato fangoso, avrebbe potuto orientarsi più facilmente. Cercare Erwin così, invece, era un’impresa quasi disperata: ogni ombra poteva rivelarsi nemica e fatale, mentre una parola di troppo poteva condannarli definitivamente. Christa stava ancora piangendo silenziosamente: sentiva le sue lacrime mescolarsi alla pioggia e scendere a bagnare le maniche già zuppe della camicia.

«Non fare rumore, ti prego» le disse, oltrepassando rapidamente una svolta e cercando nuovamente nel buio. Non poteva distare molto, quello stupido camion: dopo tutto, si trattava solo di percorrere il perimetro esterno della piazza, celandosi tra le tenebre ed i calcinacci di un paesino distrutto; che Erwin non fosse riuscito, però, a raggiungerlo? Magari si era perso oppure era stato catturato. Non aveva colto rumori di colluttazione, men che meno spari, ma… se il Maggiore non avesse fatto in tempo ad avvertirlo? Potevano averlo stordito e trascinato chissà dove! Forse era svenuto oppure…

Scosse la testa, sforzandosi di cacciare quei pensieri. Non voleva neppure prendere in considerazione una simile eventualità: Erwin era vivo, doveva esserlo per forza. L’idea che giacesse freddo e riverso in un canale di scolo o oltre un polveroso uscio gli era insopportabile, seppure non ne comprendesse il motivo: dopo tutto, da quanto lo conosceva? Qualche giorno. Non era il caso d’affezionarsi troppo, dunque, ad un semplice compagno di viaggio: una volta raggiunto Limoges avrebbero preso strade diverse ed ognuno avrebbe ricominciato a vivere la propria vita. Quella corsa attraverso la Francia non era altro che una rischiosa parentesi: una volta superata, li avrebbe destinati alle loro vecchie e quotidiane abitudini. Eppure c’era qualcosa d’altro, nel fastidio che covava dentro di sé: paura? Sì, ecco. Una sensazione che a lungo si era sforzato di celare dietro a maschere di falsa indifferenza. Eppure la stretta che gli serrava le viscere non poteva essere altro che quello: conosceva lo sgradevole sentimento, l’aveva sperimentato tante volte e troppo di recente per poterlo dimenticare. Timore per sé stesso, ma soprattutto per gli altri: per Christa che si aggrappava a lui come fosse il genitore perduto, per Erwin che aveva rischiato ancora una volta e che ora non riusciva a scorgere da nessuna parte.

Fissò la strada davanti a sé: una doppia carreggiata attraversava Limoges come una larga ferita, accerchiata da una ragnatela di vicoli più stretti ed oscuri; alcuni calcinacci erano crollati ai margini, riducendone la ampiezza, ma concedendo spazio sufficiente per lasciar passare un paio di veicoli. Quello era un buon punto dove aspettare il Maggiore: sarebbe passato di lì, senza dubbio, con la camionetta lanciata a tutta velocità. Lo avrebbe raccolto e sarebbero ripartiti immediatamente. Le ansie degli attimi precedenti si sciolsero come neve al sole, quando sentì dei passi affrettati dietro di sé ed una voce chiamarlo dall’oscurità:

«Levi»

C’era qualcosa di sbagliato in quella pronuncia. Non era morbida, né conteneva quella sfumatura delicata che condiva spesso le quattro misere lettere. Un accento graffiante, con una sorta di selvaggia gioia e dall’imminenza del trionfo. Si volse cautamente, serrando le braccia attorno alla bambina, in un istintivo gesto protettivo. Immaginò la provenienza di quella voce prima ancora di individuare i tratti spigolosi del viso, la barba cespugliosa e le occhiaie profonde che contornavano lo sguardo porcino.

Weilman stava sorridendo e puntando una pistola in sua direzione.

«Merda…» sibilò, mentre il panico tornava lentamente ad insidiare il suo animo. Cosa doveva fare? Fuggire? Girarsi e correre a perdifiato fino a che le gambe lo avessero retto… o finché un proiettile non gli avesse trapassato il cranio. Era l’unica soluzione. Doveva lasciar cadere Christa, permetterle di scappare e di salvarsi. Weilman avrebbe sicuramente ignorato la bambina per inseguirlo… oppure avrebbe catturato proprio quest’ultima e l’avrebbe sfruttata come ostaggio per ricattarlo. Maledizione! Non avrebbe mai dovuto raccattare quella mocciosa. Le aveva procurato più guai che altro… avrebbe dovuto lasciarla a piagnucolare accanto al cadavere del padre, almeno…

Forse le cose non sarebbero comunque cambiate, però. Evidentemente, era destino che la piccola francese cadesse vittima delle trame degli adulti. Che male aveva fatto? Nessuno; si era solo trovata nel posto sbagliato, in una situazione da cui un bambino non può allontanarsi. Era entrata in un groviglio di storie e trappole da cui era impossibile uscire indenni. In quel momento, lasciarla andare significava salvarla oppure condannarla definitivamente; doveva scegliere, ma senza sapere con certezza a cosa la sua decisione avrebbe condotto.

La sentì stringersi alle sue spalle e singhiozzare più forte, mentre le labbra sottili chiamavano disperatamente i genitori ormai perduti. Non poteva più proteggerla: non portarla con sé, né abbandonarla. Che cosa doveva fare? Erwin lo avrebbe saputo; non avrebbe tentennato, ma avrebbe scovato subito la giusta soluzione. Lui, invece, si ritrovava preso nella morsa del dubbio, nell’incapacità di comprendere cosa fosse meglio per Christa. Sollevò nuovamente gli occhi, fissando il viso sghignazzante del capitano.

«Siamo arrivati al capolinea, Inglese» la voce odiosa tornò a riecheggiare nella sua testa «Dove è Smith?»

Scosse il capo. Erwin era vivo, dunque! Doveva esserlo per forza o Weilman non si sarebbe ostinato a cercarlo. Forse c’era ancora una speranza. Poteva tentare di distrarre il nazista e allontanarsi oppure lanciarsi in una corsa improvvisa, provando a coglierlo di sorpresa…
«Fottiti» rispose, indietreggiando di un paio di passi. Scappare era l’unica sua alternativa, anche se questo significava rischiare un foro nella schiena.

«Non te lo chiederò di nuovo.» il click del cane si fece sentire, accompagnato dallo scorrere della nera canna «Dove è?»

Un rombo secco coprì quelle parole e lo stridere delle ruote si avvicinò. I fari gialli illuminarono la scena, mentre una camionetta svoltava velocemente l’angolo.
Levi sorrise, facendo per voltarsi e...

Tutto accadde troppo alla svelta perché potesse accorgersene: scorse l’indice di Weilman scivolare sul grilletto, mentre uno scoppio gli rimbombava nella testa. Si ritrovò sbilanciato all’indietro, il paesaggio che turbinava rapidamente davanti ai propri occhi. Il terreno gli mancò sotto ai piedi, mentre la schiena impattava nel fango e la pioggia arrivava a sferzargli il viso. Un lamento acuto ed improvviso, e poi il camion che lo superava, che si lanciava verso Herr Kapitan. Una portiera si aprì all’improvviso e Weilman cadde in una pozzanghera, stordito e disarmato.

«Levi, sali! Sali, presto!»

“Non posso, dannazione. Sono ferito” quel pensiero gli scivolò nella testa, mentre cercava di rialzarsi. L’odore del sangue arrivò a ferirgli le narici, legandogli la gola in uno stretto nodo acre. Si mosse, ma un grido tornò a trapanare l’aria fredda della sera. Altri passi in lontananza e di nuovo quei piccoli urli strozzati.
Perché gemeva? Non provava dolore. Eppure gli avevano appena sparato. Magari il colpo era stato così violento da azzerare ogni sensazione, da annullare il bruciore e costringere il cervello nel limbo sottile dell’incoscienza.

Però… non era svenuto. Solo un po’ scombussolato, ma vigile e attento. Le iridi fissavano il camion, da cui la figura possente del Maggiore si stava sbracciando per indicargli lo sportello. Le ginocchia sembravano reggerlo, ora che i piedi si erano piantati nuovamente al suolo, recuperando l’equilibrio. Le braccia, per quanto intorpidite, non parevano ferite o rotte. Allora, perché continuava a sentire quei lamenti? Quei sottili uggiolii dove il dolore si mescolava alla paura. Perché coglieva distintamente l’odore del sangue, frammisto a quello della terra bagnata? Perché sentiva le mani appiccicose, completamente imbrattate, mentre dei rivoli correvano dai polsi sino alla punta delle dita?

«Christa» sussurrò, abbassando lo sguardo, mentre una macchia rossastra andava allargandosi sul vestito candido, all’altezza del fianco sinistro. La strinse a sé, rifiutandosi di abbandonarla, ignorando i gemiti strozzati della bambina. Sentiva il suo fiato debole sul collo ed i capelli dorati solleticargli il mento e le spalle.

Non era reale. Nulla di quanto era successo poteva esserlo. La sua mente stava cercando di metabolizzare l’accaduto, di ricostruire faticosamente il puzzle, mentre le gambe scattavano verso la camionetta vicina. Weilman gli aveva sparato nel preciso istante in cui stava per girarsi e fuggire. Il proiettile lo aveva graziato, preferendo affondare nella vita inerte di una bambina.
Balzò sul camion quasi meccanicamente, chiudendo la portiera dietro di sé.

«Vai, cazzo! Vai!» gridò, la voce a rimbombare nella stretta cabina di guida. Sentì il cambio ingranare e le ruote sobbalzare ancora una volta.

La camionetta schizzò via, lungo la strada, inseguita dai colpi di pistola.
 

***


Un proiettile giunse a spaccare lo specchietto laterale. Fu l’ultima cosa che Erwin vide, prima di svoltare in una stretta curva ed abbandonare Lumeau. Scorse Weilman rialzarsi dall’intricata ragnatela dei vetri infranti e poi il buio tornò a chiudersi sul villaggio fantasma. Mantenne i fari al minimo, regolandone l’intensità con una minuta leva accanto al volante.
Si sforzò di restare concentrato: la strada piegava a zig-zag, in una serie di strette curve che solcavano la campagna francese, ancora incontaminata. Aguzzò la vista, cercando informazioni: un cartello, una pietra miliare, qualunque cosa che potesse indicare una via sicura.
Accanto a sé, sentiva il respiro affannato del compagno mescolarsi ai gemiti stentati della bambina. Levi le aveva premuto un fazzoletto sul fianco, tentando disperatamente di fermare l’emorragia.

«Non ce la farà!» lo sentì dire, la voce spezzata dalla colpa e dalla paura. Era strano sentirlo così: era abituato al pilota spaccone, introverso, un po’ chiuso… lo aveva visto arrabbiato, deluso, stanco, sconvolto… ma ora era diverso: era come se il peso schiacciante dell’errore lo stesse consumando rapidamente. Era stata una sfortunata circostanza, naturalmente. Nessuno era responsabile dell’accaduto, se non Weilman. Ecco! Solo Herr Kapitan poteva essere incriminato per un peccato del genere, per aver sfregiato una bambina, per averla quasi strappata alla vita.

«Si che ce la farà» sussurrò testardo, mantenendo gli occhi incollati alla strada «Ce la farà perché è forte; troveremo un medico, vedrai. Dobbiamo solo… uscire da questa maledetta distesa di campi tutti uguali!» era frustrante procedere alla cieca, senza uno straccio di indicazione. Che altro potevano fare, però? Solo proseguire, tirare avanti e pregare in una svolta, in un punto di riferimento o una luce in lontananza.

«è stata colpa mia» spiò il volto chino, l’espressione arrendevole e quelle mani insanguinate che ancora stringevano il corpo della piccola «Se fossi…»

«Cosa? Se fossi scappato prima non sarebbe cambiato, Levi. Non è stata colpa tua, è stata solo una maledetta coincidenza!»

«Ero io il suo obiettivo. Se non mi fossi voltato, se fossi rimasto fermo, allora…»

«Saresti morto. Oppure sarebbe morta lei, perché Weilman l’avrebbe comunque uccisa. Credi davvero che l’avrebbe risparmiata? Sciocchezze! Sareste morti entrambi.» non poteva sopportare quelle recriminazioni. Avevano fatto il possibile per la fanciulla: l’avevano raccolta da un villaggio abbandonato, dove sarebbe comunque deceduta per gli stenti e la fame. Christa non sarebbe sopravvissuta da sola, men che meno in quelle condizioni. Una febbre improvvisa, un’infezione, le privazioni l’avrebbero comunque spenta lentamente. O ci avrebbero pensato Weilman ed i suoi scagnozzi.

Si rifiutava di credere che l’idea di raccogliere Christa e portarla via da Lumeau fosse sbagliata. Non lo era affatto, anzi… forse era l’unico modo per garantire un futuro a quella ragazzina, per trovarle una famiglia adottiva e consentirle di sopravvivere. Non era  colpa loro! Quanto successo… era soltanto opera di Herr Kapitan e del suo maledetto egoismo.

«Ma se…»

«Sta zitto, per favore! Non è il momento di cedere ai rimpianti» ringhiò, stringendo maggiormente il volante «Non serve a niente pensarci, cercare soluzioni alternative, credere che le cose potessero andare diversamente. Mi servi lucido, ora. Se vogliamo salvare Christa dobbiamo trovare un medico… cosa impossibile in questo guazzabuglio di pascoli e frutteti. Concentrati sulla strada e cerca qualche indicazione, meglio se per strade secondarie. A Weilman risulterà più difficile seguirci, se non ci teniamo sulla via principale. Cerca… un cartello, una freccia, qualunque cosa…»

«Sta peggiorando! Il suo respiro è superficiale. È stata colpa mia; se muore, io…»

Era troppo. Erwin frenò bruscamente, portando il cambio in folle e scendendo dal camion. Aggirò il muso del veicolo, raggiungendo la portiera di destra.

«Scendi!» ordinò, allungando le braccia per recuperare il corpo inerte della bambina. Gettò una occhiata al viso esangue: dalle labbra dischiuse nascevano dei piccoli rantoli, mentre le palpebre serrate lasciavano sgorgare lacrime sottili. L’emorragia al fianco non si era arrestata, ma tamponarla aveva ridotto l’intensità della perdita. Strinse Christa al petto, ripetendo poi «Scendi»

Colse una sfumatura di dubbio sul volto affaticato dell’Inglese che, tuttavia, si affrettò ad obbedire:
«Vuoi lasciarmi qui?» quella domanda così sciocca ed insensata gli strappò un piccolo sbuffo ironico.

«Non dire scemenze. Guida»

«Guidare?»

Annuì, arrampicandosi sul sedile del passeggero:
«Sì. È l’unico modo per riaverti lucido, temo. Guida e portaci via da qui. Più veloce sarai e più probabilità avrai di riscattarti.» aggiunse, accomodandosi a lato del volante e gettando un’ultima occhiata al compagno «Non è stata colpa tua, Levi… non hai nulla da rimproverarti, ma se vuoi davvero aggiustare quel piccolo torto che ti porti appresso, beh… giuda più rapidamente che puoi e salvala.» chiuse la portiera, accomodando delicatamente Christa sulle proprie ginocchia ed avvolgendola in un pacato abbraccio.
«Accroche-toi, ma petite, on va chercher un médecin» Resisti piccola, troveremo un dottore «Tu guériras, promis» Guarirai, te lo prometto.
 

 

Angolino: Buonasera! Torno un pochino in ritardo ad aggiornare, ma è sempre colpa di quelle due orribili persone di Shige e Auriga; tuttavia...  è anche grazie a loro se sono riuscita a pubblicare questo capitolo e sempre a loro va la mia riconoscenza per l'aiuto e l'appoggio. Vi ringrazio infinitamente, ragazze...ma ormai lo sapete, no? <3 A Shige il solito "merci" per le traduzioni in francese: poche o tante che siano mi permette di non affidarmi a Translate e questo è un grandissimo passo avanti per me XD
Non credo di avere grandissimi appunti da fare: forse giusto una precisazione sui fornelletti portatili, che non sono certa esistessero già nel 1942 (credo sia probabile, tuttavia, considerato che l'invenzione del fornello a gas risale a parecchi anni prima) ^^
Come sempre, vi ringrazio infinitalmente se avete letto fin qui, nella speranza che il capitolo vi sia piaciuto. Se avete consigli o pareri, sarò felicissima di ascoltarli! Ancora millemila grazie
Un abbraccio <3

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Casa Jaeger ***


22. Casa Jaeger
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Moriers, dintorni di Orleans.

 
Lo sguardo indagatore dell'uomo si posò per prima sul Maggiore, poi su Levi ed infine sulla bambina che reggeva in braccio. Una larga chiazza rossa tingeva l’abitino all’altezza del fianco. Una ferita profonda, ma le condizioni della ragazzina sembravano stabili, seppure critiche. I due uomini, invece, avevano tutta l'aria di essere appena fuggiti da una montagna di guai.

«Êtes-vous recherchés?» domandò impassibile socchiudendo appena l'uscio della porta. Non poteva essere altrimenti: i vagabondi difficilmente raggiungevano i centri abitati in piena notte, men che meno a bordo di un camion tedesco ed evidentemente rubato. Un ladro non avrebbe bussato ed un assassino non avrebbe trascinato con sé una fanciulla svenuta. «Êtes-vous recherchés?» domandò nuovamente, mentre i fuggiaschi si scambiavano un’occhiata incerta. Forse stavano decidendo se fosse o meno il caso di mentire.

 «Oui» fu la risposta del più alto, un tizio robusto dai lineamenti squadrati ed i corti capelli biondi impastati di sangue e fango «Nous sommes anglais et cette fille...»

«Per essere un inglese, parlate correttamente francese» dopo tutto, anche lui lo era, almeno in parte. Si era trasferito da Monaco a Londra in tenera età, per poi rimbalzare in Francia. Aveva frequentato la prestigiosa Sorbonne prima di laurearsi in medicina a pieni voti. Aveva conosciuto lì la futura signora Jaeger: Carla non era una studentessa, ma solo una graziosa commessa della pasticceria all’angolo. Si erano trasferiti a Moriers subito dopo le nozze: Grisha era diventato famoso come medico, nelle campagne circostanti; spesso arrivavano pazienti anche dai paesi limitrofi, per chiedere un parere o farsi visitare. A Carla la vita in campagna piaceva particolarmente: aveva dei ritmi tranquilli, pacati, ben diversi da quelli intensi della città. Era rimasta incinta qualche mese più tardi: Eren aveva ereditato il nome dal nonno paterno, mentre dalla madre aveva appreso l’insaziabile curiosità e la voglia di vivere.
Tornò a squadrare la coppia, osservando l’uomo più minuto farsi avanti:

«Vi prego!» quell’intromissione lo strappò ai ricordi lontani, riportandolo alla realtà «Le hanno sparato e…»

Un cenno della destra fu sufficiente a ristabilire il silenzio.
Grisha spalancò la porta, afferrando immediatamente il suo impermeabile nero:

«Carla!» chiamò, mentre la moglie accorreva vestita solo di una leggera camicia da notte «Avvisa la signora  Poulette. Dille che abbiamo un’urgenza, di prepararsi immediatamente. La aspetto in ambulatorio»

Si infilò rapidamente un paio di scarpe, strappando il corpicino esangue della bambina dalle braccia degli sconosciuti «Voi aspettate qui! Vi farò sapere non appena sarà fuori pericolo»

 
***

 
Levi strinse la tazza fumante tra le dita, sollevando lo sguardo sulla donna che si affaccendava nella vecchia cucina.
«Grazie» disse soltanto, ricevendo in cambio un sorriso aperto e gentile. La signora Jaeger si era premurata di servirgli del the caldo e qualche biscotto: una colazione spiccia per tappare l’incessante borbottio allo stomaco.

Spiò dall’unica finestra, osservando i tenui raggi del sole allungarsi sulla campagna ancora bagnata, pronti a ristorarla e rassicurarla. L’alba era da poco passata ed un vento fresco aveva allontanato i nuvoloni carichi di pioggia. Oltre i vetri ancora rigati d’acqua si intravedeva una corta aia, dove polli e oche starnazzavano allegramente.
Spaziò sin dove lo sguardo poteva arrivare, sforzandosi di cogliere ogni dettaglio: una stradina si snodava dalla vecchia cascina verso il centro del paese, serpeggiando tra le case in pietra chiara, i giardini ed i cortili.
Avevano abbandonato la camionetta nella piazza principale, bussando di uscio in uscio finché un ragazzo non aveva aperto ed indicato prontamente la casa del dottore. Grisha si era precipitato al suo ambulatorio, non appena compresa la gravità della situazione. Sua moglie, invece, li aveva fatti accomodare, preparando una tinozza di acqua calda per lavarsi e dei vestiti puliti. Non si era lamentato, neppure quando si era visto recapitare un maglione dal taglio femminile, adornato di ghirigori gialli e bianchi. Ad Erwin non era andata meglio: il pullover blu gli stava decisamente stretto, tirando sulle spalle; le maniche erano troppo corte e la lana grezza cingeva il petto robusto, fasciandolo stretto.

La notizia era giunta soltanto una mezz’ora prima: le condizioni di Christa stavano migliorando e l’operazione si era svolta con successo. Il dottore si sarebbe trattenuto in studio tutto il giorno, per monitorare la piccola paziente. A Carla non dispiaceva occuparsi dei visitatori? No, affatto. Avrebbe fatto il possibile per metterli a loro agio.
Dopo quel rapido scambio di informazioni, Erwin si era dichiarato esausto ed accasciato su una vecchia poltrona, abbandonando il compagno alle premure della padrona di casa.

La vide accomodarsi accanto a lui, soffiando sul vapore bollente.
«Ti chiami Levi, giusto? Il the è di tuo gradimento?»

Annuì, prendendo una leggera sorsata dalla tazza.
«Sì, è perfetto»

«Lo supponevo. Grisha mi ha raccontato che in Gran Bretagna ne bevete davvero tanto. Anche lui è un patito del the delle cinque, sai? Sono riuscita a fargli perdere questa brutta abitudine solo da qualche mese» la voce cristallina proruppe in una leggera risata «E il tuo amico? Lui da dove viene?»

«Londra, come me»

«Non ti credo, spiacente» il tono limpido e spensierato si condì immediatamente di una nota severa «è tedesco, non è vero? Tu sei inglese, lui… beh, ha dei tratti troppo duri e freddi per essere d’oltremanica. Troppo marziale nei modi di fare. Parla bene anche il francese, in effetti, senza accenti, ma… il suo viso forte lo tradisce. Incarna perfettamente quell’ideale ariano che i nazisti vanno predicando. Sciocchezze, lo so… ma credo che se il Fuhrer lo vedesse, lo troverebbe un modello perfetto per le sue inutili propagande sulla purezza e sulla superiorità della Germania.» una pausa, prima di riattaccare «Perché ti accompagni ad un tedesco?»

«è una lunga storia, ma… posso garantirvi che Erwin è una brava persona. Mi ha salvato la vita in più di un’occasione» sussurrò, tornando a squadrare la figura addormentata sulla persona. C’era qualcosa di surreale nella tranquillità improvvisa che si era impossessata del viso familiare: i lineamenti distesi, le guance coperte da un accenno di barba ispida, gli occhi chiusi e troppo intenti a fissare qualche sogno lontano per tornare alla realtà. Dormire su una poltrona non doveva essere comodo, ma evidentemente la stanchezza aveva preso il sopravvento. Era strano vederlo così sereno, come se gli avvenimenti delle ultime ore non fossero altro che un ricordo lontano «Stiamo andando a Limoges» continuò, riprendendo a sorseggiare il the «Dobbiamo conferire con gli Alleati»

«Capisco. Il tuo amico mi ha chiesto informazioni poco fa. Credo desideri passare da Le Blanc e scendere poi verso Limoges»

«Le Blanc?»

«Poco prima di Poitiers. Non è di strada, ma immagino sia la via più sicura e meno trafficata. Allungherete il tragitto, ma rimarrete nascosti»

Mimò un leggero cenno d’assenso. Come al solito, Erwin pensava sempre a tutto ed in netto anticipo: non erano lì che da poche ore, eppure il Maggiore aveva già tracciato un itinerario perfetto per arrivare indenni a destinazione. Si sentì immediatamente più sollevato: non aveva senso preoccuparsi o indugiare su inutili dubbi, non con una mente tanto brillante al proprio fianco. Distese lentamente le gambe, stiracchiando poco dopo le braccia:
«Parlate inglese molto bene, signora» disse, infine, cambiando improvvisamente argomento.

«Oh, credo sia normale. Mio marito ha vissuto a Londra per parecchio tempo e l’ho appreso direttamente da lui. Ci siamo sforzati di insegnarlo anche a nostro figlio ed al suo amichetto di giochi. Siamo dell’idea che possa sempre servire una buona infarinatura di inglese.» la donna batté le mani sul tavolo, come colta da un’improvvisa ispirazione «Anzi, potresti aiutarli con qualche ripasso. Se ti fa piacere, ovviamente. Te ne sarei grata; ultimamente, non ho avuto molto tempo per insegnare ad Eren nuovi vocaboli»

«D’accordo, ma… non so quanto potremo trattenerci. Temo che Erwin vorrà ripartire una volta sveglio»

«Insisterò perché rimaniate un paio di giorni almeno; e perché torniate a trovarci quando la vostra missione sarà conclusa» Carla si alzò, recuperando un mastello pieno di panni sporchi ed acqua «Una sosta non potrà farvi che bene, credetemi. Avete l’aria di chi ha passato un mucchio di guai. Fermatevi un poco… anche solo quarantott’ore. Male non può farvi e la gente di Moriers è ospitale e amichevole. Vi troverete bene.»

«Grazie, ma non so se…»

«Allora è fatta! Sarete miei ospiti. Convincerò il signor Erwin a rimanere­» fu la conclusione «Ah, se volessi riposare… vi ho preparato una camera al piano di sopra.» Con un guizzo veloce, Madame Jaeger sgusciò oltre la porta della cucina, lasciandolo solo.

 
***
 

Quando Erwin si svegliò i caldi colori del tramonto stavano già inondando la cucina. Un raggio molesto arrivò a ferirlo, costringendolo a riaprire faticosamente le palpebre. Spiò il locale: oltre ad un tavolo ed a una vecchia stufa a gas, non vi era altro che qualche credenza e delle scale strette che scendevano nel buio della vicina cantina. Fece per alzarsi, ma si bloccò scorgendo degli occhi fissarlo da oltre uno stretto uscio. Due ragazzini si erano fatti avanti, stringendo una palla di cuoio tra le mani sottili.

«Bonsoir» salutò, educatamente, mentre il più minuto si faceva timidamente avanti. Quanti anni potevano avere? Otto, massimo dieci. Lo stavano osservando quasi fosse una bestia estinta.

«La signora Carla dice che dobbiamo parlare così con te. Non in francese.» il ragazzino sventolò una manina nel vuoto, abbassando tuttavia lo sguardo e celandolo rapidamente sotto la frangia del caschetto biondo «Sono Armin, l’amico di Eren» indicò l’altro bambino che, al contrario, sembrava più interessato a mettersi le dita nel naso; gli occhi verdi, tuttavia, scandagliavano attentamente la sua figura, intenti a raccogliere dettagli e stranezze. I capelli castani contornavano il viso paffuto ove spiccava qualche graffio sulle guance e sulla fronte, segno dell’inevitabile spensieratezza dell’infanzia «Io abito qui vicino, con mio nonno. Adesso però non c’è: è andato in città e tornerà tra qualche giorno. Nel frattempo, dormo dai signori Jaeger.» quel fanciullo era un fiume in piena, un’ondata travolgente di parole curiose «Tu dove dormi, invece? Da dove vieni?»

«Vieni a giocare con noi?» una seconda voce si aggiunse. Eren aveva finalmente terminato di esplorarsi le narici e tendeva la palla di cuoio.

«Non so se posso…»

«Mamma ha detto che puoi. Che sei ospite e dobbiamo farti compagnia»

«Mh… dove è Levi?» chiese, cercando disperatamente di cambiare discorso.

«Quel tizio basso e musone? È su di sopra. Sta dormendo» di nuovo la palla finì sotto i suoi occhi «Giochi?»

«Beh…»

«Per favore!» un coro.

«D’accordo…» si massaggiò la fronte, alzandosi a fatica. Le membra erano intorpidite per la scomoda posizione in cui si era addormentato e per il continuo viaggiare. Tuttavia, non poteva arrendersi proprio ora: non con Weilman lontano e la frontiera ad un tiro di schioppo. Stando a quanto gli aveva narrato Carla, la Repubblica era terribilmente vicina, anche se lungo il confine si combatteva ancora. Gli rimaneva soltanto una cosa da fare, una volta arrivati a Le Blanc e poi… la strada verso Limoges sarebbe apparsa dritta e sicura! Avrebbero raggiunto gli Alleati in un batter d’occhio.

Uscì, seguendo i due ragazzini: il cortile esterno era una semplice aia. Superata la veranda in legno chiaro, tre miseri scalini conducevano allo spiazzo in terra battuta, ai cui margini le galline chiocciavano soddisfatte. Eren gli indicò due paletti striminziti, piantati nel suolo ancora umido.

«Mettiti lì» gli disse, indietreggiando poi per posizionare la palla a terra «Sai giocare, no? Devi fermare la palla prima che io…»

«Certo che so giocare!» esclamò, con una lieve punta di risentimento. Che pensavano, quei mocciosetti? Che fosse un vecchio lagnoso incapace di parare un pallone?
Il colpo gli arrivò secco su un ginocchio, strappandogli un lamento sorpreso. Eren aveva calciato la sfera con troppa forza, cogliendolo di sorpresa. Il francese stava ridendo apertamente, indicandolo come pessimo esempio di portiere.

«Devi prenderla con le mani!» gli stava urlando, mentre il timido amico biondo sedeva in disparte, accontentandosi di guardarli.

«Lo so!» fletté le ginocchia e dondolò sulle caviglie. Questa volta non si sarebbe lasciato cogliere impreparato. Abbassò le braccia, avvicinando i palmi e…
La palla rotolò sotto le sue gambe, scivolando poi in una buca.

«Wow! Sono bravissimo!» il ragazzino gli agitò un indice sotto al naso «E tu fai schifo!»

«è stata solo sfortuna. Riproviamo.»

Altri cinque palloni andarono a vuoto e rinnovati scherni gli caddero sulle spalle. Quel bambino era insopportabile, a tratti: il modo sfrontato con cui lo sbeffeggiava, le parole irrisorie, i gesti decisamente sconvenienti si alternavano ad attimi di comprensione e di incoraggiamento, in cui arrivava a confortarlo per i continui tentativi andati a vuoto. Era complicato da decifrare e con una indescrivibile mania di prevalere, di vincere e di spuntarla: altalenava momenti di gioia frenetica - quando centrava l’improvvisata porta, in cui correva per tutto il cortile facendo scappare i polli - ad attimi di sconforto per quelle rare volte in cui la palla rotolava fuori dai pali o tra le braccia dell’improvvisato portiere.

Erwin perse presto il corso del tempo: l’imbrunire si fece più intenso, scivolando poi nel buio pacato della sera. Solo allora scorse una figura che Eren corse ad abbracciare.

«Signor Grisha» salutò, quando il medico lo raggiunse «Christa?»

«Le sue condizioni stanno migliorando. Non ha voluto mangiare, naturalmente, ma ha chiesto dell’acqua e di voi. L’ho rassicurata dicendo che stavate bene ed eravate miei ospiti. L’ho lasciata in compagnia della mia infermiera»

«è possibile andare a trovarla?»

«Domani mattina, senza dubbio. Ora preferirei lasciarla riposare. Il vostro compagno d’avventura?»

«Levi? Credo stia ancora dormendo»

«Meglio così. Trattenetevi pure quanto volete» un orologio da taschino comparve nella mano del dottore «Avete salvato la bambina a costo della vostra vita, quindi… siete i benvenuti. In paese non si parla d’altro che di voi. La camionetta militare ha destato qualche sospetto, ma ho spiegato che l’avete trovata abbandonata in un campo; nessuno, così, farà troppe domande»

«Vi ringrazio per tutte queste premure. Contavo di ripartire al più presto, comunque. Non desidero dare disturbo alla vostra famiglia e…»

«Se pensate che qualche ora di sonno basti a ristorarvi, sbagliate di grosso. Siete arrivati in pessime condizioni, malmessi ed affamati. Insisto perché vi fermiate ancora domani»

«Non so se è la soluzione migliore. I nazisti potrebbero essere già sulle nostre tracce.»

«Vi nasconderemo.» una scrollata di spalle, come se non vi fosse niente di più semplice «Non vi permetterò di ripartire al buio ed in queste condizioni: finireste in un fosso dopo soli cinque minuti»

Erwin sospirò, incerto: la sicurezza di quelle persone lo rincuorava e spaventava al tempo stesso. Erano contadini del tutto impreparati ad affrontare l’esercito tedesco. Weilman li avrebbe falciati come grano maturo, se avessero osato intromettersi. Grisha non si rendeva conto del pericolo: forse non aveva ben chiara la situazione oppure non conosceva la testardaggine ossessiva di Herr Kapitan. Tuttavia, su una cosa aveva ragione il medico: erano entrambi spossati e stanchi, troppo per poter proseguire. Il breve sonno che si erano concessi non sarebbe stato sufficiente ad affrontare l’ultimo tratto di strada. Avevano bisogno di una pausa, un attimo di spensieratezza per poter ricaricare le energie, scordare temporaneamente ogni problema e riordinare le idee. Incamminarsi a stomaco vuoto, con la mente affaticata e le membra fiacche poteva rivelarsi un errore: sarebbero diventate facili prede se Weilman li avesse scovati; non sarebbero riusciti a combattere, né a difendersi, e raggiungere Le Blanc era l’unica possibilità per attraversare indenni il confine della Repubblica di Vichy.

«Va bene» acconsentì, infine «Rimarremo ancora un giorno» strinse la mano che Grisha gli stava amichevolmente tendendo «Grazie, signor Jaeger, per le vostre premure. Mi dispiace solo non potermi sdebitare con voi e vostra moglie»

«Non temete. Quando questa guerra sarà finita, tornerete a trovarci. Sarà una ricompensa più che sufficiente» un sorriso ed il passo che riprendeva sicuro verso la soglia di casa, dove i due ragazzini erano già scomparsi «Cortesemente, potreste svegliare il signor Levi? Non manca molto alla cena e Carla prepara una zuppa di cipolle squisita»

 
***

 
Levi si girò di scatto al sentire la porta aprirsi, lanciandosi sulle coperte nel tentativo di ritrovare il maglione. Dove l’aveva buttato, quell’orribile indumento da donna? Non ne aveva idea. La prima cosa che aveva fatto – dopo essere entrato nella stanza – era stato disfarsi del pullover di lana, gettandolo chissà dove. Aveva scelto di dormire spoglio, accontentandosi di tenere i pantaloni arrotolati sulle ginocchia e di allentare la fibbia della cintura. Naturalmente, al risveglio non si era affatto rivestito, preferendo impiegare il tempo frugando nei cassetti, alla ricerca di qualcosa di più adatto. Non aveva trovato nulla: l’armadio ed il comò erano completamente vuoti, come si conviene ad una stanza per gli ospiti.
Sospirò sollevato quando la familiare testa bionda fece capolino oltre l’uscio: fortunatamente, non apparteneva alla padrona di casa o sarebbe sprofondato per la vergogna.

«Da quanto sei sveglio?» la voce di Erwin arrivò a riscuoterlo dall’affannosa ricerca con cui aveva messo a soqquadro la camera: le coperte giacevano aggrovigliate sul pavimento, mentre il cuscino era volato sul secondo letto, sfatto anche quello. Le ante ed i cassetti erano spalancati. «Che stai facendo?­­»

«Non trovo più il maglione che mi ha dato Carla» sussurrò, una sfumatura colpevole nella voce.

«Perché te lo sei tolto?»

«Avevo caldo» mentì, scrollando leggermente le spalle. Tutte quelle domande non lo aiutavano certo a ritrovare l’odiato indumento. Al contrario, servivano soltanto a metterlo ancor più a disagio; sentire lo sguardo del Maggiore sulla pelle nuda era quasi come immergere le mani nella neve fresca: un brivido gelido ed una sfumatura tiepida allo stesso tempo.

«Avevi caldo e lo hai buttato sul balcone?» l'indice del tedesco puntò la ringhiera dello stretto balconcino oltre la porta-finestra.

«Oh...» sussurrò, aprendo rapidamente la maniglia e fiondandosi fuori. L'aria gelida lo costrinse ad infilare immediatamente il pullover giallo e bianco, appena prima che i tremori prendessero a scuotere le sue spalle e le braccia. Fece per tornare sui propri passi, ma Erwin fu più svelto: lo raggiunse con un paio di falcate, chinandosi sulla balaustra e poggiandovi i gomiti. Colse le iridi azzurre spaziare immediatamente sul paesaggio, perdendosi lungo l'orizzonte ormai scuro. Le tenebre ormai calate erano interrotte solo da qualche rado punto di luce, laddove le case scivolavano nelle campagne desolate. Una sottile scia luminosa che conduceva attraverso pascoli e frutteti, divenendo sempre più rada, sino a perdersi nei boschi lontani e sulle sagome appena accennate delle colline.

«è bello qui, non trovi?» la voce profonda lo costrinse ad indugiare sul panorama «Suppongo che potrei viverci, già... forse preferirei una rustica cascina agli agi di un appartamento in città. Tu continui a prediligere Parigi? Io non ne sono più così sicuro: la capitale ha sicuramente il suo fascino, ma questi villaggi nascosti non sono, forse, altrettanto stupendi e misteriosi? Hanno anche loro dei segreti da esplorare, tra il chiacchiericcio della gente ed il frinire dei grilli in estate. Senza dubbio, sono meno caotici ed impegnativi delle grandi metropoli; pochi comfort, ma maggiore serenità.» una piccola interruzione, mentre lo sguardo chiaro tornava a cadergli addosso «Pensi sempre che sia meglio Parigi?»

«Non saprei» si rifiutò di abbandonare la linea dell'orizzonte, certo di non poter sostenere quelle occhiate penetranti. Nonostante avesse trovato rifugio tra la ruvida lana del maglione, si sentiva ancora spoglio e vulnerabile. Era come se quelle attenzioni scalfissero con precisione la sua corazza, strappando la scorza ruvida e penetrando nelle profondità della sua anima; come fosse parte di una minuziosa lettura a cui non poteva sottrarsi. Si sforzò di mantenere la concentrazione sui perimetri scuri degli edifici vicini «Parigi è indubbiamente incantevole; devi ammetter che ti strega fin da subito. C'è qualcosa di unico nel modo in cui ti conquista, nel modo in cui ti lega ai suoi vicoli profumati di pane ed alle vetrine colorate delle pasticcerie.» tuttavia, neppure quel paesino gli dispiaceva troppo. Erano due tipi di bellezza diversa, impossibili da paragonare: l'una forte e maestosa, delicata e robusta al tempo stesso, perfettamente tratteggiata nelle architetture e nella storia che confluiva lungo le rive della Senna. L'altra meno evidente, più grezza e spigolosa, adatta a persone semplici e meno esigenti; o a chi sapeva apprezzare i lati più nascosti, a chi vedeva oltre le apparenze, cercando di scavare abbastanza a fondo da lasciar emergere la vera natura delle cose. Sollevò piano lo sguardo, fissando il compagno: non erano anche loro l'esatto ricalco di quello strano paragone? Erwin si addiceva a Parigi: i modi fare garbati, la cortesia nelle linee dure del viso, gli occhi chiari che rispecchiavano la spensieratezza della capitale, affatto toccata da quei tempi cupi. L'infinita cultura, la perfezione nel passare da un idioma all'altro, l'assenza di qualunque accento che potesse deturpare la sicurezza della voce. Sì, se Erwin fosse stato una città, sarebbe stato Parigi.
Al contrario, lui sarebbe rimasto un piccolo ed imbarazzante villaggio campagnolo, con la sua ignoranza, i suoi atteggiamenti burberi ed un po' rozzi, le pallide e disastrose idee spente dalla luce dell'ingegno altrui. Nascosto, sconfitto, schiacciato dall'enorme splendore della capitale. Eppure, anche i paesi più piccoli celano spesso misteri che li rendono affascinanti: quei risvolti segreti da indagare, quelle sottigliezze esplorabili soltanto scavando nel profondo e che ad Erwin sembravano tanto piacere...

Il tedesco lo stava ancora fissando in un misto di curiosità ed attenzione, come se non attendesse altro che un suo cenno ed una opinione che tardava ad arrivare. Il sorriso era delineato sulla bocca morbida mentre le braccia poggiavano ancora conserte sulla ringhiera, intente a reggere quel peso non indifferente.

«Ripensandoci, forse mi potrebbe piacere anche qui, sì...» mormorò, senza riuscire a riportare l'attenzione sul paesaggio, ormai completamente immerso nel buio. La luce della stanza, oltre le loro spalle, gettava delle ombre curiose sul volto del Maggiore, tingendolo di macchie scure lungo le guance, gli zigomi ed il contorno della fronte. Pareva ancora più imponente, malgrado tenesse le spalle chine e le ginocchia molli.

Scivolò istintivamente avanti di un mezzo passo sul balcone sin troppo stretto, volgendo il viso a quello dell'altro ora più vicino, mentre un leggero formicolio gli risaliva lungo la gola e si adagiava sulle proprie labbra ancora dischiuse.

«La signora Carla dice che è pronto. Vi aspetta a tavola»

La voce squillante di un bambino arrivò a spaccare quegli attimi, concedendogli di tirare un leggero sospiro di sollievo. Scoccò una occhiata alla bassa figura di Armin che, dopo aver recapitato il messaggio, stava già sgattaiolando via. Per un istante, si chiese se dovesse ringraziare il tempismo inopportuno di quel mocciosetto o, più semplicemente, detestarlo: lo aveva salvato o lo aveva distrutto? Non seppe rispondere.

Spiò Erwin allontanarsi dal terrazzo, riguadagnando la fioca luce della camera ed il vicino corridoio. Lo seguì in silenzio, fermandosi un solo istante per infilare gli stivali, per poi accompagnarlo verso la cucina, al piano inferiore.


 

Angolino: Non so bene cosa scrivere oltre a quanto già messo negli scorsi angolini. Non ho grandi appunti da fare, a questo giro... non credo d'aver modificato il corso della storia (per ora... poi temo sarò costretta a farlo per introdurre qualche nuovo personaggio). Ho cercato di aggiornare rapidamente approfittando di un poco di tempo libero; la ff si sta rivelando più complicata del previsto, ma credo che si inizi a scorgere la fine ^^. Anche questo capitolo è un pochino di transizione, in alcuni punti, ma ci tenevo a far vedere la apparente normalità dei villaggi francesi, malgrado la guerra e le occupazioni. Una calma fatta da persone che cercano di "tirare avanti", nonostante tutto.
Al solito, non posso che ringraziarvi per i consigli ed i pareri. Sono preziosissimi e mi aiutano parecchio nella stesura. Un grazie speciale a Shige che ormai si sta sorbendo tutti i capitoli in anteprima e mi aiuta a correggerli passo a passo.
E... nulla, un grazie gigante se siete arrivati a leggere fin qui!
Un abbraccio

 

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Colombe grigie ***


23. Colombe grigie
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Moriers, dintorni di Orleans.
 

Levi oltrepassò la soglia stringendo la fetta di torta tra le mani. Carla aveva insistito perché ne prendesse ancora dopo la colazione. Si era alzato tardi, a metà mattina, ma la gentile padrona di casa gli aveva tenuto da parte del the caldo e della crostata.

A quell'ora, il paesino già brulicava di attività: le botteghe aperte riversavano in strada l'incessante rumore dei lavoratori, mentre delle lavandaie correvano al fontanile per sciacquare i panni. Qualcuno transitava con carretti ricolmi di frutta, sorpassando un capannello di uomini intenti a sgorgare un malmesso tombino appena oltre la proprietà degli Jaeger. Grisha si era già recato al suo ambulatorio ed Erwin lo aveva seguito per sincerarsi delle condizioni di Christa.

Naturalmente, aveva chiesto di poterlo raggiungere, ma Carla lo aveva pregato di rimanere alla cascina per qualche ora ancora: doveva recarsi dalla sarta per far sistemare un paio di orli e ritirare del bucato. Sarebbe stato tanto gentile da badare ai ragazzi in sua assenza?
Certamente. Non poteva rifiutarle un favore tanto semplice, men che meno a fronte dell'ospitalità di cui aveva goduto. Inoltre, controllare due bambini non sarebbe stato un problema, no? Eren si era rimesso a dormire, acciambellato sul divano ed attorniato da due grossi e pigri gatti, mentre Armin sedeva sui gradini in legno della veranda, reggendo un robusto tomo sulle ginocchia.

«Cosa stai leggendo?» chiese, accomodandosi accanto a lui e gettando uno sguardo al volume. Gli occhi chiari del fanciullo erano incollati alle pagine lucide, dove capeggiavano fotografie in bianco e nero e disegni di aeromobili.

«Un libro sugli aerei»

«Ti piacciono?» sbocconcellò la punta della torta, assaporando il gusto dolce della marmellata.

«Moltissimo. Da grande vorrei fare il pilota»

«Davvero?» quella ingenua affermazione risvegliò immediatamente il suo orgoglio sopito «Anche io sono un pilota». Così quel piccoletto si immaginava a bordo di uno Spitfire, le mani sottili a stringere i comandi ed i piedi sui pedali per regolare flap e timone. O forse no... forse non sarebbe diventato un pilota da combattimento. Magari uno di quelli che trasportano carichi e merci oppure aiuti umanitari. Senza dubbio, sarebbe stata una sorte migliore: sarebbe corrisposta ad un mondo sereno e senza guerre, un mondo che quella generazione curiosa ed avventurosa meritava di ereditare. Un mondo che gli adulti dovevano proteggere e coltivare, nella speranza di poterlo lasciare un giorno tra le braccia sicure e sognatrici dei giovani. Eppure... che cosa stavano facendo loro? Distruggevano l'Europa, smembrandola in piccoli pezzi, rimbalzando i ritagli di terra tra uno stato e l'altro, contendendosi frontiere, risorse e persino vite umane. Che razza di genitori erano, se non sapevano neppure consegnare la pace nelle mani speranzose di quei bambini?

La pace, la libertà... come si guadagnavano quelle cose? Non lo sapeva. Dopo tutto, era un semplice soldato. Non si interessava di politica, né dei piani lungimiranti dei generali. Forse Erwin avrebbe saputo rispondere, ma lui... beh, se non trovava una risposta adatta, era inutile che si ponesse la domanda. E poi... quelle cose magari non interessavano nemmeno ad Armin, il cui sguardo innocente era ormai fisso sulla sua figura. Un pilota? Si era definitivamente guadagnato l'attenzione di quel moccioso che, senza dubbio, l'avrebbe tormentato con mille quesiti:

«Sul serio? Oh... mi piacerebbe moltissimo diventare come te!» l'ingenuità nella voce gli strappò un blando sorriso «Voglio essere un pilota per poter volare, per poter vedere il mondo dall'alto. Mi sono sempre chiesto come facciano gli uccelli a stare su, senza mai cadere... come ci riescono gli aerei? Sono fatti di metallo, non di piume... perché non precipitano, quindi?»

L'inizio di una lunga serie di domande, senza dubbio. Eppure quella curiosità non gli dispiaceva affatto, anzi... per la prima volta, si sentiva importante. Come se i sogni di quel bambino fossero ora appoggiati sulle sue spalle; spettava a lui il compito di incoraggiarlo, di spronarlo ad esaudire ogni desiderio, di spingerlo avanti senza timori né rimpianti.

«è un meccanismo complicato…tutta questione di fisica.» rispose, allungando l'indice sul disegno di una carlinga «Quando voli, l'aria scorre tanto sopra quanto sotto le ali. Immaginati due correnti: la prima passa sulla superficie dell'ala ed è più veloce della seconda che, invece, passa sotto. Quest'ultimo flusso, essendo più lento, ha una pressione più alta di quello che lo sovrasta. In questo modo, spinge l'aereo dal basso, impedendogli di cadere.» Armin lo stava guardando affascinato, pendendo dalle sue labbra. Sollevò la mancina, portandola orizzontalmente e picchiettandovi sopra con l'indice destro «Fingi che questa sia un'ala. Appoggia la tua mano sopra la mia» sussultò quando le dita fredde del bambino arrivarono a coprirgli il dorso della sinistra. Posizionò il pugno destro sotto il palmo opposto, contraendo i muscoli del braccio «Adesso spingi. Spingi con tutte le tue forze» colse una leggera pressione sulla mano sinistra, insufficiente a smuoverlo da quella curiosa posizione «Vedi? Tu spingi dall'alto e io dal basso: la nostra immaginaria ala rimane stabile. Se i nostri pugni fossero le due correnti d'aria di cui ti ho parlato, l'ala rimarrebbe in volo.»

«E queste scanalature a cosa servono?»

«Sulle ali ci sono degli elementi mobili, come delle piccole lastre che scorrono: si chiamano flap e servono per regolare la velocità» sollevò ed abbassò ritmicamente il mignolo, minando un gesto di apertura e chiusura.

«Che tipo di aereo hai, tu?»

«Uno Spitfire! è...» sfogliò rapidamente le pagine «Questo qui!» tracciò i contorni dell'elegante sagoma con una punta di nostalgia. Il suo Spitfire assomigliava a quello del disegno: l’ossatura possente, la simmetria perfetta dell'elica, le ruote che si staccavano delicatamente dal suolo, mentre il sole risplendeva oltre il lunotto pulito. Chissà che ne era rimasto... forse soltanto un cumulo di taglienti lamiere, bruciate dal carburante ed annerite dal fumo.

«Perché sei triste? Non ti piace parlare con me?»

Non si era neppure reso conto d'aver cambiato espressione: il suo viso, prima interessato e spensierato, era rapidamente scivolato nell'amaro rimpianto dei ricordi ancora troppo freschi. Immagini veloci si affollavano nella sua testa: la contraerea che devasta la formazione, i compagni che cadono come uccelli feriti; lo scoppio nei timpani e quella scia di fumo che si innalza dal motore. Il silenzio terrorizzato di Farlan ed i suoi vani tentativi di rassicurarlo. La caduta, i colori della campagna francese che si mescolano, le grida dei nazisti e quelle mani che lo strappano dalla carcassa in fiamme. Scosse il capo, costringendosi a tornare alla realtà: non aveva senso indugiare ulteriormente sul passato.

«No, al contrario. Mi fa piacere chiacchierare»

«Però sei triste comunque...»

«Scusami, è solo che... beh, il mio Spitfire non esiste più. È stato abbattuto dalla contraerea tedesca ed è bruciato. Non potrà più volare»
«Ne parli come se fosse una persona. Ci eri affezionato?»

Non si era mai posto quella domanda. Un uomo poteva davvero affezionarsi ad uno sciocco veicolo a motore? Sì, anche se... forse non era affezionato all'aereo, quanto più alle sensazioni che quel trabiccolo di metallo e vetro gli aveva fatto provare. Era stato il suo primo ed unico amore, quello Spitfire: aveva imparato a volare con lui, lo aveva trattato con dolcezza e premura; puliva l'interno della cabina regolarmente, passando il lucido sui sedili in pelle e spolverando il cruscotto. Con un panno umido spazzolava il vetro del cupolino, per poi passare all'altimetro ed ai pomelli della cloche. Quelle attenzioni erano state ripagate con un turbinio di emozioni, con la libertà assaporata giorno dopo giorno, con la privilegiata possibilità di poter osservare il mondo dall'altro senza essere parte, per una volta, dei suoi problemi e delle sue necessità.

«Non lo so...» rispose, mentre Armin gli indicava una nuova figura.

«Hai mai volato su uno di questi?»­

Spiò la figura: un Sopwith Dolphin degli anni venti. Un aereo leggero, elegante con quella doppia ala e l'elica con sole due pale. Le ruote ingombranti giacevano immobili su un terreno incolto, mentre la coda poggiava quasi a terra, adorna del simbolo della Raf.

«Una volta» ammise, passando lentamente le dita su quella figura «Era per un'esercitazione. L'ho trovato... difficile, sai? Non è come pilotare uno Spitfire... questi cosi sono ingombranti, soprattutto in fase di atterraggio. Inoltre, la cabina è scoperta, vedi? Ti assicuro che fa dannatamente freddo lassù.» sollevò lo sguardo al cielo azzurro, dove solo qualche pallida nube osava far capolino nella trasparenza del mattino «Ho dovuto indossare una doppia giacca e coprirmi bene con sciarpa e guanti» sorrise a quel ricordo. Farlan lo aveva sfottuto per quasi due settimane, chiamandolo “omino di neve” per l'infelice colore bianco del suo giubbotto.

«Come è volare?»

Aspettava con impazienza quella domanda: forse era l'unica che gli premesse veramente. Lo aveva già raccontato ad Erwin, ma spiegarlo ad un bambino curioso e desideroso d'apprendere era una sensazione impagabile. Si sentì come un insegnante volenteroso, pronto a trasmettere le proprie passioni ai suoi migliori studenti.

«è … la cosa migliore che abbia mai fatto. Volare è magnifico: ti dimentichi di tutto quando sei in alto. Non esiste nessuno e sei solo davanti all'immensità del cielo. Le nuvole bianche danzano attorno alle tue ali, sfuggenti e sibilline, mentre il sole bagna il suolo lontano. Se guardi giù, scorgi solo una enorme distesa di campi verdi e gialli. Qualche montagna fa capolino all'orizzonte, ma non te ne curi. È troppo lontana per crearti dei guai. È come se potessi sentire il sapore fresco dell'aria che sfreccia lungo la carlinga, il sibilo della brezza che ti sostiene e che ti permette di arrivare dove gli altri uomini non possono. In quei momenti, non provi altro che un infinito senso di libertà. Hai tagliato le ancore che ti tenevano legato al suolo e sei partito senza voltarti mai indietro. Riesci ad immaginartelo? Stai per decollare... l'accelerazione ti schiaccia contro il sedile, mentre la cloche trema tra le tue mani. Senti un vuoto allo stomaco quando le ruote si staccano da terra, quando le ali raccolgono ogni corrente per poter salire sempre più in alto. Il muso si impenna e poco dopo esplori l'infinito.
Altri aerei ti raggiungono: sono i tuoi compagni. Ti accerchiano, ti accompagnano in quel cammino dove, evidentemente, non sei più solo.  Non hai motivo di sentirti spaventato: loro sono lì. Ti sorreggono e ti ascoltano. Volare in una squadra è come essere al centro di uno stormo di... passeri»

«Non mi piacciono i passeri. Il nonno dice che ci rubano le fragole»

«D'accordo, niente passeri. Hai preferenze?»

«Le colombe! Mi piacciono molto... sono così eleganti e pure; le loro piume sono morbidissime»

«Vada per le colombe. Immaginati uno stormo di colombe grigie che solca l'orizzonte. Le vedi arrivare con il loro tubare concitato, il ronzio dei motori che accompagna quel chiacchiericcio. Volano in perfetta sintonia, l'una accanto all'altra: la caposquadra è in testa e guida tutte le altre, che si aprono a V oltre la sua coda. Quando è stanca, la colomba cede il posto ad una compagna, che riprende la rotta. Le scie bianche si fondono in lontananza, confondendosi con le piccole nuvole. La prossima volta che vedrai degli aerei, facci caso: guarda come mantengono perfettamente la formazione. Osserva la precisione delle loro manovre, il modo sicuro con cui piegano a destra e a sinistra, muovendosi come fossero un'unica entità.»

«Mi piacerebbe vederli»

«Li vedrai!» promise, mimando un leggero sorriso «Quando questa guerra sarà finita, sono sicuro che potrai vedere molti aerei attraversare il cielo. Magari aerei destinati al trasporto merci oppure... chissà, magari aerei passeggeri. Si chiamano così, quelli che trasportano le persone: ho sentito dire che esistono, anche se non so bene dove. Qualcuno li usa già per spostare la gente da un capo all'altro della nazione. Un po' come un autobus»

«Sarebbe stupendo! Ecco, io voglio diventare un pilota di aerei passeggeri. Così non ci sarà più la guerra, vivremo felici e potrò aiutare le persone a viaggiare e ad andare dove preferiscono. Pensi che diventerò bravo come te?»

Levi gli scompigliò le ciocche dorate, in un gesto insolitamente affettuoso:
«Molto più bravo, ne sono sicuro.»
 

***
 

Quando Erwin rientrò, l'ora di pranzo era passata da un pezzo. Grisha aveva insistito perché mangiasse un sobrio panino al formaggio in compagnia di Christa, prima di allontanarlo bruscamente dallo studio: la paziente aveva bisogno di riposare ed era tempo che il Maggiore rientrasse alla dimora.

«è molto più bravo di te» Eren lo accolse con un sorriso sfacciato, indicandogli Levi sistemato tra i due striminziti alberi. Evidentemente, il ragazzino lo aveva relegato nel ruolo di portiere dove, tuttavia, l'Inglese stava dando prova di una netta superiorità.

«Non lo metto in dubbio» replicò con un piccolo sbuffo, accostandosi alla porta improvvisata «Hai una vocazione per il calcio, a quanto vedo»

Il pilota gli rivolse un cenno distratto:
«Ha insistito perché giocassi. Come sta Christa?»

«Meglio. Si sta riprendendo. Le ho portato i tuoi saluti»

«Grazie. Desideri unirti a noi?»

«No. Mi sono già umiliato abbastanza ieri» commentò, appoggiandosi alla ruvida corteccia della pianta, limitandosi ad osservare lo svolgimento del gioco. Eren aveva ripreso a calciare la palla con rinnovata energia: quel ragazzino era davvero instancabile e niente pareva scalfirlo, nemmeno il sudore che gli gocciolava dalla fronte o le ginocchia ormai nere di terra. Un altro goal arrivò improvviso, seguito da urla di giubilo.

«Ce l’ho fatta!» Eren alzò le braccia «Ce l’ho…»

Un suono acuto giunse a mascherare quelle parole: un lamento penetrante, improvviso e quasi straziante. Come un ululato intento a squarciare la tranquillità quotidiana. Grida si sollevarono dalle vie circostanti, mentre la sirena continuava a latrare.
Carla spuntò da dietro un angolo, trascinando per un polso una seconda donna. Sotto un braccio teneva una cesta, da cui il bucato sporgeva pericolosamente. Alcuni fazzoletti erano già rovinati al suolo, mescolandosi al fango ed alla polvere, ma nessuno si fermò a raccoglierli.

«Correte!» la signora Jaeger recuperò il figlio, indicando affannata l’uscio di casa «Tutti dentro, presto. Stanno arrivando!­»

«Chi, mamma?»

Un ronzio spaccò l’aria, facendosi sempre più vicino. Era il rumore graffiante dei motori e delle eliche che turbinavano nel vento fresco del mattino.

«Aerei» Erwin sollevò gli occhi al cielo, scorgendo delle piccole figure in lontananza. Erano poco più che piccoli punti neri, ancora troppo distanti per poter essere scorti. Non riusciva a vederne i colori; solo a tratti, un raggio di sole arrivava a riflettere sui lunotti di vetro «Perché vengono qui?»

«C’è un ponte qui vicino. Un ponte ferroviario… bombardano quello. Sperano di tagliare i rifornimenti ai tedeschi» la voce di Carla conteneva una sfumatura di paura ed incertezza, nascosta solo dalla determinazione: trovare rifugio all’interno era l’unica speranza. Avrebbero serrato le persiane, spalancato i vetri per impedire che il frastuono delle bombe li mandasse in mille pezzi, e si sarebbero precipitati in cantina. Moriers era troppo povero per potersi permettere un rifugio antiaereo. I suoi cittadini si proteggevano come potevano: alcuni si nascondevano nei vicini campi, gettandosi nel grano ancora intento a crescere; altri nei sottoscala, negli scantinati, nei capanni per gli attrezzi. Si chiudevano al buio, stretti in spazi angusti, i bambini troppo spaventati per piangere o per intonare preghiere.
La signora Jaeger li guidò attraverso la cucina, serrando le imposte e spegnendo ogni luce. Aprì una botola nel pavimento, spingendoli ad oltrepassare le corte e ripide scale che dal piano terra conducevano nella più completa oscurità. Accese una candela, per poi scendere a propria volta e richiudere l’unico accesso alla cantina.

«Il signor Grisha?» Erwin si sedette sul pavimento polveroso, stringendo le ginocchia al petto. Quel locale era troppo basso per lui: non riusciva a stare in piedi e doveva inevitabilmente chinare testa e spalle.

«Hanno un magazzino sotterraneo, in ambulatorio… si nasconderà lì» la donna si stava sforzando di essere coraggiosa: non voleva mostrarsi preoccupata per il marito, benché il dubbio e l’angoscia la stessero attanagliando. Si percepiva chiaramente la nota spaventata in quelle parole, nonostante cercasse di mascherarla per infondere sicurezza al figlio, che ancora stringeva tra le braccia. Accanto a lei, l’altra donna singhiozzava in silenzio; a tratti tirava su col naso per ingoiare le lacrime che le rigavano il volto tondeggiante. Levi si era accomodato su un vecchio sacco vuoto, stendendolo al suolo come fosse una sorta di stuoia. Stava in silenzio, perso in troppi pensieri per poter provare alcunché.

D’un tratto, un tonfo distante li raggiunse, spingendo la fiamma dell’unica candela a tremolare vistosamente. Un altro lo seguì, a distanza ravvicinata.

«Je veux mon papa» scorse Eren stringersi al petto della madre, nascondendo velocemente il viso.

Un botto e di nuovo il tremare delle loro stesse ombre. Erano davvero al sicuro lì? No, naturalmente. Quella cantina non era fatta per resistere agli urti delle bombe alleate. Era soltanto… una cantina. Adatta a rinfrescare il vino ed a far germogliare le patate, non certo a proteggere gli esseri umani. Tuttavia… che altra scelta avevano? Era l’unico rifugio su cui potessero contare. Se la casa fosse crollata, forse le pesanti travi in legno sarebbero state sufficienti a salvarli, reggendo il peso delle macerie. Viceversa, avrebbero potuto sgretolarsi e lasciar ricadere su di loro pietre e calcinacci, seppellendoli in un cumulo di calde macerie.

«Je pensais que peut-être on pourrait changer une petite chanson. Qu'est-ce que tu en penses, Eren? Tu pourras leur faire entendre ta voix si jolie» Forse potremmo cantare. Che ne dici, Eren? Potresti far sentire a tutti che bella voce hai.

Il bambino annuì piano, schiarendosi la voce ed intonando poco dopo:
 

C'est à la halle
Que je m'installe
C'est à Paris
Que je vends mes fruits
C'est à Paris la capitale de France
C'est à Paris
Que je vends mes fruits.

 

Eren si stava sforzando di sovrastare il rumore del bombardamento, ma la sua debole canzone veniva continuamente spezzata dai colpi sempre più vicini. C’era qualcosa di profondamente sbagliato in quei momenti: era come se una parte di loro non volesse arrendersi, volesse vivere e riportare stralci quotidianità  anche nel buio di quella cantina. Eppure, poco oltre quei freddi muri, Moriers era in ginocchio, spezzata dai roghi e devastata dalle esplosioni. Che ne era dei suoi abitanti? Sarebbero riusciti a salvarsi? A rimanere nei loro rifugi senza cedere alla paura, al tormento delle vite spezzate, al lamento dei feriti ed al piangere degli orfani?

Erwin scacciò quei pensieri, scivolando accanto a Levi: il pilota stava ancora fissando il nulla, le ginocchia strette al petto e lo sguardo perso chissà dove. Era come se non sentisse, né vedesse niente: sordo e cieco a quanto stava accadendo.

«Stai bene?» sussurrò, ricevendo un piccolo cenno d’assenso.

«Ho solo freddo»

Era plausibile: l’Inglese indossava un semplice gilet color porpora ed una camicia leggera. Lasciò scendere la mano a quella dell’aviatore, stringendo delicatamente le dita sottili: il loro calore tradì la piccola menzogna.

«Vuoi la mia giacca?» domandò comunque, armeggiando per sfilarsela.

L’altro, tuttavia, scosse frettolosamente il capo:
«No. Tienila tu»

La riadagiò sulle proprie spalle, lisciando piano le pieghe nella stoffa nera. Tornò a zittirsi, badando solo ai piccoli sospiri che, di tanto in tanto, il compagno si lasciava sfuggire. Eren aveva ripreso a cantare.
 

Pomme de reinette et pomme d'api
d'api d'api rouge
pomme de reinette et pomme d'api
d'api d'api gris
Cache ton poing derrière ton dos
Ou je te donne un coup de marteau! 

 

Forse era una idea sciocca, ma il suono di quella giovane voce stava realmente rasserenando i loro cuori: Carla e la sua amica sorridevano gentili, come ad incoraggiare il figlio a proseguire. Levi rimaneva smarrito nei suoi pensieri, ma ad ogni nuova strofa si sforzava di rimettersi ad ascoltare, malgrado per lui fossero solo parole vuote e prive di significato.
Volse lo sguardo alla propria sinistra, cercando un paio di larghi occhi azzurri che, tuttavia, non trovò. La luce della candela bagnava soltanto quattro volti: i lineamenti delicati delle donne, quelli immaturi del bambino e le spigolose forme dell’Inglese. Gettò una occhiata al resto della cantina: non vi era nessun altro.

«Dov’è Armin?» il proprio tono urgente spezzò la sottile magia di quei momenti. Eren smise di cantare e trattenne il fiato, mentre sua madre si guardava freneticamente attorno.

Colse Levi alzarsi di scatto, il terrore disegnato in un’unica frase:
«è andato a vedere gli aerei!»



***
 

Armin sollevò lo sguardo al cielo terso, contando le affilate sagome nere. Due sarebbero presto passate proprio sopra la sua testa, mentre altre tre avevano virato per sorvolare la periferia. In lontananza si sentivano già i tonfi, accompagnati dai bagliori delle esplosioni. Emozionato, strinse le mani al petto: le colombe grigie stavano arrivando. Ne avrebbe scorto i colori, osservato le forme con attenzione, avrebbe chiuso gli occhi e goduto del rumore dei motori, del vento fresco tra i capelli, della libertà che aveva sempre sognato. Aprì le braccia, le uniche ali che possedeva.

 

Angolino: buon pomeriggio ^^ torno con un altro veloce capitolo. Ho approfittato della mattinata "quasi" libera per portarmi avanti con la storia.
AL solito, vi ringrazio per aver letto fin qui! So che lo ripeto spesso, ma significa molto per me... e, contro ogni aspettativa, mi sto affezionando a questa storia. Come sempre, un ringraziamento speciale deve andare a Shige e Auriga, che leggono e rileggono i capitoli appena sfornati alla ricerca di errori e ripetizioni; grazie a Shige, come sempre, per le traduzioni in francese.
La canzoncina che canta Eren si intitola "Pomme de reinette et pomme d'api", trovata su internet naturalmente. Non ho molti appunti da aggiungere: per i brevi accenni al bombardamento e ai rifugi improvvisati dei contadini francesi, mi sono basata soprattutto sui racconti dei miei nonni: ricordo perfettamente quando mi narravano della guerra e di come si nascondevano nei campi non appena sentivano le sirene suonare. Mi sono immaginata che Moriers, quale piccolo centro di campagna, non possedesse, quindi, un rifugio antiaereo.
Quanto al tentativo di Levi di spiegare ad Armin la fisica del volo, beh... mi rendo conto che come tentativo è un po' spiccio, ma non sono neppure esperta in fisica. Ricordo giusto le poche cose che mi hanno insegnato all'epoca, quindi temo dovrete accontentarvi di questa sommaria e semplice spiegazione.
Credo d'aver detto tutto; naturalmente, se avete appunti o pareri da mandarmi, sarò felicissima di ascoltarli.
Ancora grazie!
>>>

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Ali spezzate ***


24. Ali spezzate
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Moriers, dintorni di Orleans.

 
Erwin ritrasse la mano, stringendola al petto. Sul dorso comparvero delle sottili stille rossastre a deturpare la pelle. Quell’idiota lo aveva morso!
Aveva cercato di trattenere Levi, di impedirgli di lasciare la cantina, ma era stato tutto inutile: aveva sopportato calci e gomitate, ma quando i denti erano affondanti nel palmo si era ritrovato costretto a mollare la presa.
L’Inglese era corso via, senza che potesse fermarlo.

«Imbecille!» gridò, consapevole che l’altro non poteva più sentirlo. Levi era scappato, abbandonando l’unico rifugio per fiondarsi tra le stradine di un paese sconosciuto, alla ricerca di un ragazzino troppo curioso. Perché non lo aveva ascoltato? Sarebbe uscito lui stesso a cercare Armin, ma gli altri dovevano rimanere al sicuro, nello scantinato. Invece, quello zuccone non aveva voluto sentire ragione: aveva balbettato qualcosa su delle colpe e su uno strano discorso fatto di aerei ed illusioni, prima di fuggire.
Erwin allungò il passo, raggiungendo rapidamente i gradini.

«Vado a riprenderli!» sussurrò, mentre una mano tremante arrivava a catturare un lembo della sua giacca. Carla si era avvicinata, pizzicando la stoffa per trattenerlo.

«Non andare» quelle parole contenevano troppa paura e disperazione «Morirai, se andrai fuori. Rimani qui… ti prego. Resta con noi»

«Non posso. Devo andare a salvarli»

«Morirai, lo capisci?»

«Anche loro moriranno, se non faccio qualcosa!» si rese conto d’aver involontariamente alzato la voce.

«Sono già condannati! Rimani qui!» il volto della francese era trasfigurato in una maschera di terrore. Non assomigliava affatto a quello della madre premurosa e gentile che fino a poche ore prima li aveva accuditi e sfamati. Le dita tremanti erano ancora serrate sulla sua giacca, mentre gli occhi invasi dalle lacrime non si allontanavano dall’ingresso spalancato della cantina.

«Non posso abbandonarlo.»

«Morirai! Non andare!»

«Non posso»

Gettò un ultimo sguardo alla cantina: Eren si era stretto al petto di sua madre, che ancora ripeteva quelle poche frasi a filo delle labbra tremanti. L’altra donna, invece, singhiozzava silenziosamente, seduta su una vecchia fascina di paglia umida.
Poi corse su per le scale, lasciandosi il buio alle spalle.
 

***
 

Levi oltrepassò una svolta, lasciando lo sguardo spaziare sui resti di Moriers. Nessuno vagava per le strade: persino i gatti avevano trovato riparo tra le scatole abbandonate, i cesti rovesciati o sotto i porticati. Nei pollai, lo starnazzare era cessato, mentre il latrare dei cani si udiva distante, proveniente dalla periferia. Nulla osava interrompere il grave silenzio calato; soltanto il rombo dei motori in avvicinamento, a sottolineare l’ennesimo passaggio nei cieli sopra Moriers.

Alcuni edifici erano crollati e le macerie si erano riversate nelle vie, mentre il fumo grigio contornava quello spettacolo apocalittico. A tratti, qualche alto e disperato grido spaccava l’anomala quiete, prima di tornare ad affievolirsi del tutto.

Di Armin, al momento, nessuna traccia: aveva percorso le strade principali, gridando il nome del bambino, ma senza ottenere risposta. Aveva seguito scoli e vicoli, perlustrando i cortili delle abitazioni, ma non aveva scorto nulla. Aveva davvero senso, quella ricerca? Per quanto ne sapeva, Armin poteva aver trovato rifugio presso un’altra abitazione. Forse era corso da Grisha, allo studio medico. Oppure si era nascosto nei campi…

Erano ipotesi che, tuttavia, non lo convincevano: da un lato, la sua mente si sforzava di elaborare ogni possibilità e di credere che vi fosse ancora speranza. Dall’altro, sentiva che non era così: Armin era ancora là fuori, con gli occhi azzurri incatenati alla vastità del cielo e le dita protese a contare le grigie carlinghe.

Raggiunse la piazza, scandagliando rapidamente il perimetro: nessuna traccia del bambino, nemmeno un piccolo indizio. Solo macerie ancora calde, mattonelle dissestate e…

Un momento! C’era una figura accovacciata su un carretto rovesciato. Tra le ruote spaccate, Armin sedeva con le gambe a penzoloni, il viso sollevato e le braccia aperte, pronto a spiccare il volo.

«Armin!» Levi gridò una, due volte. Le sue gambe presero a muoversi istintivamente, a correre sul selciato ruvido ed insidioso, mentre gli occhi si rifiutavano di staccarsi dall’immagine del bambino che, sorridente, stava sventolando la mancina verso di lui «Vattene! Vai via!» agitò un braccio, come per scacciare un fastidioso insetto il cui ronzio si era fatto, però, sempre più vicino ed incessante. Il rombo dei motori arrivò a sovrastare le sue parole.

«Armin! Arm…»

Fletté le dita, cercando di afferrare la mano del bambino ancora troppo lontana; strinse soltanto il vuoto.  Il tempo parve improvvisamente dilatarsi: scorse Armin salutarlo ancora una volta e l’ombra dell’aereo giungere a coprire l’ultimo dei suoi sorrisi.

Un attimo dopo, una nube lo investì. La sabbia arrivò a ferirgli gli occhi, mentre uno scoppio gli fracassava le orecchie. Si sentì sbalzare all’indietro e trasportare dall’aria, come fosse una semplice foglia secca. La schiena impattò sul selciato, strappandogli un flebile lamento; i colori vorticarono oltre le iridi, mescolandosi in una girandola frenetica. Respirò la polvere, il petto schiacciato da una mano invisibile. Lottò per rialzarsi, annaspando al suolo e cercando disperatamente un appiglio. Qualcosa lo colpì sul viso e sulle mani, forando la stoffa e graffiandogli la pelle.

«Armin!» ripeté, ma le sue parole si persero nel vuoto, coperte da un boato troppo grande per poter essere ignorato.

Rimase steso a terra, incapace di muoversi e di reagire, per un tempo indefinito: poi, dopo il rumore assordante dell’esplosione, il silenzio più assoluto. Gli occhi colsero dei movimenti affrettati, figure che si accalcavano lungo i margini della piazza, rovistando tra le macerie. La bomba doveva essere caduta in un quartiere vicino, ma l’onda d’urto aveva spezzato tutto quanto: tetti diroccati, travi divelte, le imposte a ciondolare inerti lungo gli infissi.

Qualcuno si chinò su di lui. Riconobbe i tratti familiari, il viso robusto percorso dalla paura e dalla preoccupazione. I capelli biondi erano coperti da un sottile strato di terra umida, che solcava anche le guance ed il collo sino al bavero della camicia. Erwin stava dicendo qualcosa: vedeva le labbra muoversi in parole concitate, le braccia indicare un punto oltre le sue gambe ancora stese. Perché non lo sentiva? Le orecchie rimbombavano, impedendogli di ascoltare. Percepiva soltanto un continuo e soffuso ronzio.

«Armin…» sussurrò, nuovamente, mordendosi il labbro fino a farlo sanguinare. Doveva riscuotersi e ritrovare la forza per alzarsi e raggiungere il bambino. Forse c’era ancora una speranza, forse potevano salvarlo! Tentò  di piegare le ginocchia, ma il suo corpo non rispose. Sollevò un indice, indirizzandolo al centro della piazza: Erwin avrebbe capito e sarebbe corso a recuperare il bambino…

Inaspettatamente, però, il tedesco si limitò a sollevarlo tra le braccia, senza nessuno sforzo.

«Che stai facendo?!» gridò, cercando di divincolarsi «Armin è laggiù!»

Non si rendeva conto del proprio tono di voce, né della risposta del Maggiore: lo vide muovere nuovamente la bocca, ma senza raccogliere alcun suono. Gli occhi azzurri erano velati di una patina umida e si rifiutavano di tornare alla piazza principale.

«Armin è…» urlò di nuovo, sporgendo il capo oltre le spalle larghe di Erwin. Il suo sguardo incrociò quello ormai spento del bambino, le mani stese a terra in un ultimo cenno di saluto. Il corpicino era spezzato dalla vita in giù, con le gambe dilaniate dalle schegge ed i piedi stortati in un angolo innaturale. Una pozza rossastra si stava allargando lentamente lungo i fianchi, mescolandosi ai detriti ed alla ghiaia del selciato.

Scosse il capo, rifiutandosi di registrare quelle immagini: non poteva essere vero! Era soltanto un orribile incubo. Presto si sarebbe svegliato ed avrebbe scorto Armin intento a sfogliare un libro, seduto sui gradini esterni, proprio come quel mattino. Parevano trascorsi giorni da quel momento e non soltanto poche ore: il ricordo del bambino intento a leggere, del suo sorriso e della curiosità che scivolava lungo il volto infantile, si stava perdendo nei meandri della sua memoria. La propria coscienza lo stava relegando a vecchio frammento di un passato lontano o come parte di un mondo fasullo, come se il piccolo non fosse mai esistito. Era soltanto un meccanismo di autodifesa, lo sapeva: ben presto, il peso della colpa si sarebbe riversato sulle sue spalle e non avrebbe potuto evitarlo. Era una propria responsabilità: era stato lui a parlare ad Armin degli aerei, del volo e della libertà; a dirgli di correre incontro alle carlinghe affusolate, di spalancare le braccia e fingere di poter solcare il cielo azzurro del mattino, invece che metterlo in guardia. Avrebbe dovuto dissuaderlo, spaventarlo, non inculcargli false speranze. A cosa aveva portato tutto ciò? Si era sentito importante, per un momento, come fosse una sorta di mentore per un probabile futuro aviatore. Ora, invece, le ali di Armin si erano definitivamente spezzate. La colpa, naturalmente, era soltanto sua.

Si strinse alla giacca scura del Maggiore, affondando il viso tra le pliche della stoffa. Trattenne il respiro, ignorando il correre dell’altro, quella cadenza affrettata che lo sballottolava su e giù. Il corpo gli bruciava in ogni punto, mentre i respiri si facevano sempre più pungenti e difficoltosi: era come il vuoto gli opprimesse l gola, impedendogli di respirare. Il ronzio alle orecchie si era fatto più intenso: era come se uno sciame d’api lo stesse inseguendo. Chiuse gli occhi, contando lentamente nella propria testa, aspettando che l’incoscienza giungesse a prenderlo.
 

***
 

Quando riprese i sensi, realizzò di trovarsi nuovamente nella stanza di casa Jaeger. Sul comodino giaceva una tazza di the ormai freddo, mentre delle spesse coperte di lana gli avvolgevano il corpo. Le membra non avevano smesso di bruciare: le fitte si erano fatte meno intense, ma costanti; il fiato era ancora corto ed affannato, forse a causa della polvere che gli aveva bruciato la gola ed i polmoni. Oltre i vetri, la sera era definitivamente calata su Moriers e solo la luce di una lampada ad olio rischiarava la camera.

Erwin sedeva al suo capezzale, su una vecchia seggiola male impagliata. Teneva un libro sulle ginocchia, di cui non riusciva a scorgere il titolo.

«Ti sei svegliato» il Maggiore lo fissò con una curiosa nota di apprensione e disapprovazione disegnata sul volto. Era irritato? Probabile. Lo riteneva responsabile, senza dubbio: la morte di Armin era opera sua, sebbene involontaria. Nessuno lo avrebbe perdonato, men che meno la ospitale famiglia Jaeger, né gli altri concittadini. Se c’era un responsabile ad una fine tanto tragica e priva di senso, era indubbiamente lui.

Annuì lievemente.
«Che ore sono?» la propria voce era gracchiante e spenta. Ogni parola era tinta del sapore metallico del sangue.

«Quasi le sette. Come ti senti?»

«Uno straccio» mormorò, controvoglia. Il ronzio alle orecchie era completamente svanito, anche se i suoni giungevano ancora lievemente ovattati.

«Il dottor Grisha ti ha visitato. A parte qualche graffio e contusione superficiale, non hai riportato fratture, né ferite profonde. Sei stato molto fortunato.»

«No, non è vero…»

«Come?» Erwin lo stava guardando con una sfumatura perplessa.

«Ho detto che non è vero. Non sono stato fortunato, nemmeno un po’! Sarei dovuto esserci io» le dita si serrarono meccanicamente sulle coperte, strattonandole «Sarei dovuto essere al posto di Armin! È stata colpa mia, capsici? Solo colpa mia! Se non gli avessi messo in testa quelle balordaggini sul volo, sugli aerei, sul…»

«Che stai dicendo?!» il tedesco lo aveva afferrato per una spalla, scrollandolo delicatamente per interrompere quel flusso di rimpianti.

«Questa mattina, mentre eri da Christa… ho parlato con Armin. Era così entusiasta! Stava leggendo un libro sugli aerei e mi stava confidando i suoi sogni. Voleva diventare un pilota, come…»

«Come te?»

Un mero cenno d’assenso; Erwin proseguì, ignorando il suo tormentare le lenzuola:
«E questo ti renderebbe responsabile? Hai solo parlato della tua passione con un ragazzino. Non hai fatto niente di male, Levi! Non hai di che biasimarti.»

«Oh, sì che ne ho.» distolse lo sguardo, fissando il nulla «Armin è l’ultimo di una lunga lista, ma me ne rendo conto soltanto ora. Perché sono stato così cieco?! Sono un idiota! Come ho potuto credere, anche solo per un istante, che le ali significassero libertà? Ho sempre vissuto con il pensiero rivolto al cielo, contando i minuti che mi separavano dal decollo, da quella vita che tanto amavo e desideravo. Non ho mai pensato che la mia libertà potesse costare così tanto, a persone che nemmeno conosco! Persone che non mi hanno fatto niente, che non sono mie nemiche, ma che hanno solo avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato.

Non me ne sono mai curato, Erwin, e non mi perdonerò mai per questa spirale di leggerezze a cui mi sono abituato: ho sempre finto che andasse tutto bene, che il mio posto fosse lassù, tra le correnti fredde, il vento che sfiora il cupolino baciato dal sole e il rumore delle eliche a ferire una pace irraggiungibile da chiunque, tranne che dagli aviatori. Siamo, temo, la peggiore specie d’uomo: non ci rendiamo conto di quello che facciamo. Passiamo il tempo a fingere che vada tutto bene e che i problemi terreni non ci appartengano: ci crediamo una razza superiore, degna di spiegare le ali e spiccare il volo; di conquistare quell’indipendenza che l’essere umano agogna da secoli. Eppure, quante vite abbiamo spezzato, senza saperlo? Forse non volevamo pensarci oppure, semplicemente, non ce ne siamo mai resi conto: troppo presi ad assaporare la nostra libertà abbiamo dimenticato quella degli altri.

So cosa stai per dire: che siamo tutti dei soldati e che non è colpa nostra. Andiamo dove ci dicono di andare. Obbediamo ad ordini superiori, senza chiederci cosa questo comporterà. Sganciamo bombe dove ci viene indicato: cadranno ponti, ferrovie oppure granai e cascine? Distruggeremo i nostri nemici o solo degli innocenti che pascolano il gregge? Non lo sappiamo. Quanti Armin ho ucciso prima d’ora? Non lo so… e la cosa peggiore, è che nemmeno me ne sono reso conto. Ho sempre parlato con entusiasmo e leggerezza, soffermandomi su quello che provavo a bordo del mio Spitfire, ma… non ho mai pensato che sotto di me, la gente continuasse a macinare problemi, a lavorare nelle campagne che radevo al suolo o a nascondersi negli scantinati e dentro ai magazzini. Sono un maledetto egocentrico? Oppure solo cieco? Non so quale giustificazione sia migliore: è meglio essere egoisti, ma consapevoli… o ignoranti ed ingenui?
Non posso che biasimarmi per quello che ho fatto. Anzi, che non ho fatto: non mi sono mai opposto, ho sempre eseguito gli ordini, convinto che questo mi rendesse un soldato migliore. Sicuro di essere dal lato giusto della barricata, di poter contribuire alla vittoria della giustizia. Sciocco! Non c’è nulla di giusto in quello che faccio, né di onorevole, né di libero! Sono il peggiore degli schiavi, Erwin. Ricordi il tuo discorso sulle marionette?» attese un cenno d’assenso, prima di continuare «Credi sia meglio essere un burattino o il mangiafuoco che tende i fili? Non saprei davvero. Quest’ultimo, almeno, è consapevole di quello che fa: muove le persone come fossero giocattoli, le comanda, le spinge ad obbedire per imbastire la sua scenetta. Le marionette, però… non si rendono conto di quello che fanno: vengono strattonate per le braccia e le gambe, ridono convinte di far sorridere. Forse sono protagoniste di una tragedia, ma non lo sanno. Sui loro volti sono dipinte espressioni allegre, spensierate: è tutto  così ingiusto e falso! E non te ne capaciti: sei parte dello spettacolo, solo questo.

Guarda le mie mani» le sollevò davanti a sé, studiando le scanalature sottili della pelle «Credi che siano immacolate solo perché sono un burattino? Ti sbagli. Sono più sporche delle tue, macchiate di sangue colpevole ed innocente al tempo stesso. Non vedo i volti delle persone che uccido, hai ragione… non li conosco, non li ho mai conosciuti. Sostieni che sia per questo che i morti non vengono a visitarmi nel sonno. Sbagli, nuovamente. Non li vedevo perché non ne ero consapevole. Da questa notte li vedrò, Erwin. I miei incubi terranno compagnia ai tuoi.»

Colse il Maggiore ciondolare il capo e schiudere le labbra, incerto: per una volta, nemmeno l’ufficiale sapeva che cosa replicare. In fondo, entrambi sapevano quanto avesse ragione: quel discorso era rimasto non affrontato per troppo tempo. L’ingenuità aveva ucciso Armin: la curiosità di un bambino, lo zelo impaziente di un adulto desideroso di insegnare, l’ignoranza dei soldati a bordo degli aerei. Era tutto così sbagliato! Levi avrebbe dato qualunque cosa per tornare indietro nel tempo, a quel mattino: si sarebbe seduto nuovamente accanto ad Armin, ma avrebbe preso il libro e lo avrebbe scagliato lontano. Gli avrebbe impedito di leggerlo, avrebbe distrutto i suoi sogni, ma lo avrebbe salvato. Ormai, però, era troppo tardi.

«Credo che tu sia troppo severo, Levi. È vero, quello che dici, ma dimentichi che non sei il diretto responsabile di quanto accade»

«Lo sono» un colpo di tosse spaccò quella risolutezza, costringendolo ad un sorso di the affrettato «Lo sono. Stai per ripetermi che prendo solo ordini, vero? Ne sono consapevole, ma… che cosa dirò a Dio, quando arriverà il mio momento? Immagino che nessuno di noi sia sufficientemente religioso per esserselo chiesto, ma… pensi davvero che potrò cavarmela con un semplice “eseguivo soltanto gli ordini”? Non penso che basterà, come giustificazione. Mi inginocchierò davanti a lui e chiederò perdono, forse… o forse lo chiederò a tutte quelle vite che ho rubato e che mi attendono dall’altra parte per sputarmi in faccia. Non posso lavarmi la coscienza così, semplicemente. Cosa dirò a quelle famiglie che ho spezzato? Agli orfani, alle vedove, ai fidanzati separati troppo presto? Che cosa dirò? Non avrò armi, allora.»

«Temo che tu sia molto stanco, Levi. Forse dovresti rilassarti e…»

«Non volerò più, Erwin. Mai più. Le mie ali si sono spezzate.»

«Stai esagerando. Quando la guerra sarà finita, tornerai nel cielo che tanto ami e desideri; e lo farai da uomo libero, non da soldato»

«No. Lascerò a te questo privilegio. Io, ormai, sono condannato. Come potrei sedere ai comandi e fingere che tutto questo non sia mai accaduto? O credere che il pulsante alla mia destra non servirà a sganciare bombe, ma solo a regolare l’apertura dei flap? Non tornerò lassù. Non lo merito.»

«Hai bisogno di dormire» colse le dita dell’altro scivolare sulle coperte e tirare le lenzuola sin sulle sue spalle.

Allungò una mano, bloccando quella del Maggiore.

«Voglio andare via da qui» sussurrò, accennando al buio oltre i vetri «Partiamo, ti prego»

«Il dottor Jaeger dice che devi riposare»

«Non mi importa. Quello che è successo è colpa mia, Erwin. Questa gente ha tutto il diritto di odiarmi. Non voglio essere curato, non voglio la loro pietà o il loro perdono. Voglio fuggire, ancora una volta. Non costringermi qui, per favore. Non rendermi più prigioniero di quanto già non sia»

«D’accordo. Domani mattina…»

«No! Adesso… voglio partire ora» gettò le gambe oltre le lenzuola, sfilandosi velocemente la camicia da notte. Ignorò il protestare dei muscoli. Rovistò sul vicino baule, alla ricerca dei propri indumenti.

«Va bene. Vado ad avvisare la signora Jaeger»
 

***
 

Carla li accompagnò sino al camion, mantenendo lo sguardo basso. Non rimaneva molto del suo amato paese. La disperazione era calata tra quelle strade, tra le cascine ed i campi un tempo rigogliosi. La distruzione sfregiava Moriers come una orrenda cicatrice, deturpandolo. Ci sarebbero voluti anni per una corretta ricostruzione: i pochi edifici sopravvissuti svettavano sui cumuli di macerie, dove i superstiti, illuminati dalle lampade ad olio, scavavano a mani nude nella speranza di poter salvare ancora delle vite.

«Siete sicuri di voler ripartire?» chiese, senza celare il volto rigato dalle lacrime. Vivere in una realtà fantasma era doloroso: non rimaneva traccia della scuola elementare, dove la campanella era risuonata un’ultima volta prima di spegnersi. La chiesa era danneggiata e l’affresco della Natività completamente cancellato. Nella piazza si accumulavano i corpi esanimi, coperti da lenzuoli ancora freschi di bucato.

«Sì, signora» la voce di Erwin la distolse per un attimo da quei ricordi «Credo sia meglio così. Non vogliamo crearvi altri problemi, né essere un peso. Avete fatto tanto per noi.»

«Sarete i benvenuti quando vorrete tornare» allungò una mano, stringendo affettuosamente quella del Maggiore. «Saluterò Christa per voi»

«Grazie» Erwin si arrampicò al posto di guida, mettendo in moto. Il motore sobbalzò rumorosamente, prima di avviarsi. Richiuse lo sportello, mimando un ultimo cenno alla donna.

Il camion si mosse, imboccando la strada che da Moriers conduceva verso Tours.


 

Angolino: buonasera! Finalmente... torno ad aggiornare. Ci ho messo tantissimo a scrivere questo capitolo, principalmente per motivi personali che mi hanno tenuta occupata e mi hanno impedito di scrivere come desideravo. Poi mi sono cimentata nella Ewin Week per cercare di ritrovare un poco la voglia di scrivere e... niente, eccolo qui! Questo capitolo è stato riscritto quattro volte nella sua parte iniziale: sospetto che Armin non volesse proprio morire, accidenti a lui! è stato più complicato del previsto, in effetti...
Non credo ci siano grossi riferimenti storici in questo capitolo: naturalmente, non so se durante la IIWW abbiano realmente bombardato Moriers o meno (ho cercato indizi su Wikipedia, ma non ho trovato nulla in merito).
Passerò ai ringraziamenti rapidi: la colpa del ritardo è in parte opera di Auriga e Shige (ormai lo sapete u.u) .. un infinito grazie ad entrambe per la pazienza nel sopportarmi e per l'aiuto nelle correzioni: vi omaggerò di un unicorno di vetro non appena questa storia sarà finita. Ringrazio Gazelle per la colonna sonora che mi ha aiutato nella stesura: quando uccido personaggi, ascolto sempre le musiche dei film disney XD
Mi scuso davvero infinitamente per il ritardo nella pubblicazione: spero davvero di poter recuperare presto con i prossimi capitoli.
Grazie infinitamente per aver letto fin qui e, come sempre, se avete pareri / correzioni / precisazioni, mandate pure *_*
Un abbraccio!

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Il destino gli darà una mano ***



25. Il destino gli darà una mano


Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Moriers, dintorni di Orleans.
 

Konrad si schiarì la voce, montando agilmente sulla pila traballante di cassette. Erano giunti a Moriers soltanto quel mattino, seguendo le indicazioni fornite dai contadini francesi: nonostante la notte ed il buio, diverse persone si erano accorte di un camion che procedeva verso il paese e sembrava proveniente da Lumeau. Era curioso vedere un mezzo simile procedere a fari spenti, quasi non desiderasse farsi notare: il rumore del motore, però, lo aveva tradito. Inoltre, la pioggia aveva costretto l'autista ad accendere i fanali ad intermittenza, per non rischiare di finire fuori strada. Un comportamento che aveva destato sospetti e grazie a cui Weilman era riuscito a ricostruire il percorso dei due fuggiaschi. Tuttavia, una volta giunti a Moriers non avevano trovato il camion, né i due ricercati. Le tracce però portavano lì; il solco dei pneumatici era rimasto sulla strada e li aveva condotti fino alla piazza principale, devastata dal recente attacco alleato. Naturalmente, avevano ricevuto notizia del raid della Raf, ma Weilman non aveva voluto sentire ragione: che Moriers fosse raso al suolo non era importante; ciò che contava era soltanto la cattura di Smith e del suo sciocco compagno di viaggio.

Avevano bussato ad alcune porte, chiedendo informazioni, ma ben pochi si erano dimostrati disposti a collaborare: le divise nere, marchiate con la svastica, incutevano troppo timore a quei grezzi contadinotti. Il capitano si era, infine, spazientito: aveva fatto radunare la maggior parte dei cittadini nella piazza, disponendoli in file ordinate. Aveva montato un instabile palco di cassette, dove Konrad era stato costretto a salire.

«Traduci» gli aveva sussurrato in tedesco stretto, prima di attaccare il discorso.

Il soldato aveva fatto del proprio meglio, sforzandosi di non tralasciare alcuna parola e di creare un discorso fluido e armonioso:
«Cittadini» mormorò nuovamente, agitando le braccia per recuperare l'equilibrio «Conoscete ora il motivo della nostra visita: abbiamo ragione di credere che questi due pericolosi criminali abbiano trovato rifugio presso di voi. Senza dubbio siete stati ingannati: si spacciano per persone oneste e bravi lavoratori, ma rubano ed uccidono. Abbiamo già avuto prove della loro crudeltà» Weilman dettava ad una velocità incredibile, perso nella concitazione del momento. Konrad cercò di riallinearsi al suo parlare «Hanno massacrato due contadini nei pressi di Lachelle per rapinarli e scappare verso Parigi. Nella capitale hanno cercato di far perdere le loro tracce, ma li abbiamo immediatamente scovati: la loro fuga li ha condotti a Lumeau e poi qui. Sappiamo che avete perso molto, ieri. La vostra amata città è andata distrutta. Di chi è la colpa?» si accorse d'aver catturato la loro attenzione: uomini e donne lo stavano fissando, gli sguardi ancora roventi di rabbia e le mani chiuse a pugno «Non abbiamo voluto noi tutto questo. Gli Inglesi vi hanno bombardato! Hanno ucciso i vostri cari, distrutto le vostre case ed il raccolto. Voi li avete ospitati e rifocillati e come vi hanno ripagato? Condannandovi!»

Un brusio sommesso iniziò a diffondersi nella folla. Cenni d'assenso e sussurri concitati serpeggiarono per qualche attimo, prima che il silenzio tornasse a calare. Sollevò una mano, come a sottolineare quei semplici concetti:
«Non siamo vostri nemici. Non noi, ma loro!» l'indice si portò immediatamente al cielo terso «Ora avete visto di cosa sono capaci. Avete assaggiato il lato oscuro dell'alleanza Angloamericana. Volete ancora proteggerli? Volete nasconderli, mettendo a repentaglio le vostre vite?»

«No!» un coro quasi unanime, accompagnato dal sorriso bieco del capitano. Weilman aveva fatto centro, con il suo discorso. Ancora poco e quegli sciocchi contadini si sarebbero piegati spontaneamente alle loro richieste.

«Chi ha ospitato i due ricercati? Chi sa dove si sono diretti?»

I visi tornarono ad abbassarsi; gli abitanti erano visibilmente combattuti: rivelare una simile informazione poteva essere una terribile responsabilità. Chiunque l'avesse fatto, sarebbe rimasto marchiato come il traditore della famiglia Jaeger. Nessuno voleva dispiacere al medico e nemmeno alla sua adorabile consorte: Carla si era sempre dimostrata disponibile con tutti, pronta ad aiutare in qualunque lavoro. Consegnarli ai nazisti era un gesto ignobile: dopotutto, nemmeno gli Jaeger erano colpevoli, no? Erano stati ingannati, come tutti, da quei forestieri, ma... quella attenuante sarebbe bastata a salvarli dal castigo? Se gli Alleati non si facevano scrupolo di bombardare villaggi innocenti, i tedeschi non erano certo da meno: voci velate, rimbalzate di paese in paese, raccontavano di terribili punizioni per chiunque osasse sfidarli. Cosa sarebbe accaduto al dottore ed alla sua famiglia se fossero stati scoperti?

«Che succederà a coloro che li hanno ospitati?» una voce si levò dalla folla. Konrad incrociò lo sguardo di una donna minuta, che si stava facendo largo con spintoni e gomitate.

«Niente, se collaboreranno. Sappiamo che sono stati imbrogliati, come tutti voi» tradusse rapidamente, gettando un’occhiata all'ufficiale poco distante: Weilman sorrideva, visibilmente soddisfatto.

«Si sono rifugiati dal dottor Jaeger. Sono stata con loro durante il bombardamento, nella cantina di Carla. Sembravano brava gente, ma...»

«Come vi chiamate, signora?»

«Babette. Babette de la Roux»

«Grazie, signora. Ci ricorderemo, a tempo debito, del vostro aiuto»

Konrad fece per scendere dalla pila di cassette, ma qualcosa lo trattenne: la donna lo aveva afferrato un braccio.
«Sì?» domandò paziente.

«Non fate del male a Carla, vi prego. è mia amica.»

«Non avete nulla da temere. Non sarà torto un capello alla signora Jaeger»
 

***

 
Grisha schiuse l'uscio, osservando il volto arcigno dell'uomo oltre la soglia.
La divisa nera tradiva la nazionalità e sul petto vi erano appuntate delle mostrine da capitano.

«Buon giorno, dottore. Possiamo disturbarvi un istante?» il militare aveva un accento forte, troppo marcato perché la frase potesse risultare fluida «Mi hanno detto che parlate inglese. Mi permetta di presentarmi: capitano Weilman» una mano si tese nel vuoto, in attesa di una stretta riluttante «Le dispiace se mi accomodo?»

«Prego» fece un passo indietro, indicando lo studio oltre la minuta sala d'aspetto «Posso offrirvi qualcosa?»

«No, grazie. Sono solo di passaggio» due soldati entrarono al seguito dell'ufficiale, fermandosi nei pressi dell'ingresso.

Seguì il tedesco fino alla scrivania, scostando una seggiola:
«Volete sedervi?»

«Mh, no... sono solo incuriosito dal vostro lavoro. Avete molto da fare, qui?»

«Un po'. Di questi tempi le influenze sono all'ordine del giorno e la malnutrizione contribuisce allo sviluppo delle infezioni» si accomodò, fingendo di sistemare alcune carte. Recuperò una penna, scribacchiando con frettolosi appunti un paio di fogli bianchi «La mia professione vi interessa?»

«Sono sempre stato attratto dalla medicina. Avete anche un ricovero, qui?»

«Naturalmente.»

«Posso dare una occhiata?» Weilman si avvicinò ad una porta in legno chiaro, dove capeggiava una grossa croce rossa.

«Temo che la mia attuale paziente stia riposando. Potreste evitare...»

Herr Kapitan finse di non sentire: socchiuse l'uscio a sufficienza per poter far capolino oltre il battente. La stanza era piccola ed arredata con tre miseri letti, di cui solo il primo era occupato. I suoi occhi porcini incontrarono immediatamente quelli azzurri di una bambina bionda.

«Guten morgen, Fräulein» sorrise al vederla cercare rifugio sotto le coperte. Richiuse l'uscio, concentrandosi sul medico: Grisha lo stava fissando con malcelata irritazione. Non che la cosa lo turbasse: al contrario, stava per iniziare un piacevole gioco con quel dottoruncolo di provincia. Un gioco che, ne era certo, avrebbe tranquillamente vinto «Veniamo a noi, dunque. Mi hanno informato che avete dato rifugio a due uomini, nei giorni scorsi. è così?»

«C'è qualcosa di sbagliato nell'aiutare due disgraziati?»

«Se fossero disgraziati, come dite voi, ma... eravate al corrente che si trattava di pericolosi ricercati?»

«No, monsieur. Ci hanno detto essere francesi»

«Non mentite, signor Grisha»

«è la verità»

Affinò un leggero sorriso, mentre la destra scendeva ad armare la pistola:
«Divento suscettibile quando cercano di raggirarmi e perdo la pazienza. Il piccoletto, quello coi capelli neri... non parla francese. E sono sicuro che la graziosa Christa non gradirebbe un buco in fronte, che dite?» osservò l'espressione sconvolta del medico, godendo silenziosamente. Lo aveva già messo con le spalle al muro: vedeva nei lineamenti severi lo stesso terrore di un topo braccato da un abile felino «Ve l'hanno portata loro, vero? La bambina.»

«Sì»

«Perché li avete ospitati?»

«Ci avevano raccontato d'essere Inglesi in fuga. Abbiamo ingenuamente pensato d'offrirgli un riparo»

«Inglesi in fuga con una camionetta tedesca? Oltre ad essere nemici, questo faceva di loro dei ladri. Perché non li avete denunciati alle autorità?­»

«Non abbiamo fatto caso alla provenienza del camion, signore. Avevano salvato Christa e questo è bastato perché ci fidassimo di loro»

«Vi hanno raccontato come è stata ferita?»

«Il signor Smith mi ha accennato qualcosa, ieri mattina. Uno scontro finito male, suppongo»

Un cenno d'assenso, tornando a rinfoderare la pistola:
«E il signor Smith, ora... dove si trova?»

«Non lo so»

«Non mentite, Grisha. La mia pazienza è già agli sgoccioli»

«è la verità!» il medico si alzò di scatto, picchiando i pugni sulla scrivania. Quella improvvisa reazione spinse i due soldati ad affacciarsi sull'uscio dell'ufficio. «Se ne sono andati questa notte, col favore delle tenebre. Non sappiamo quale direzione abbiano preso!»

«Molto bene, allora. Vedremo se vostra moglie confermerà questa ipotesi.»

«Mia... No! Vi proibisco di recarvi a casa mia!» la voce si era sollevata, in uno stridulo grido.

Weilman non si scompose. Allungò la destra, sfiorando delicatamente le penne e le matite appoggiate sul legno lucido. Era davvero una bella scrivania, molto curata e dalle pregiate rifiniture: sarebbe stata benissimo nel suo ufficio.
«Verrete con noi, signor Jaeger e vostra moglie riceverà presto una visita. Potete considerarvi in stato di arresto, per aver dato asilo a due ricercati nemici della Germania. Ritenetevi fortunato, se non vi faccio fucilare subito» prese un fermacarte dorato, nascondendolo nella tasca del cappotto: anche quello sarebbe diventato parte del suo corredo per la imminente promozione «Sono molto tentato di impiccarvi da qualche parte nelle campagne, ma non desidero sollevare alcuna rivolta popolare. I vostri concittadini vi amano: non vivete isolati dal mondo, come i due contadinotti di qualche giorno fa; se così fosse, non avrei avuto pietà. Purtroppo il vostro titolo e la stima dei vostri compaesani sono un'ottima protezione e se vi ammazzassi, rischierei di perdere la loro fiducia, che ho già guadagnato.» un cenno verso gli aiutanti «Aspettatemi fuori» ordinò, prima di riprendere «Verrete con me senza opporre resistenza. Se lo farete, vostra moglie e vostro figlio reclameranno la vostra punizione. Se qualcuno dovesse fare domande, direte che dovete accompagnarci per soccorrere un nostro compagno ferito. Tutto chiaro?»

Ricevette un silenzioso assenso. Schiuse la porta, indicando l’uscio con una mano.

«Dopo di voi, dottore»
 

***
 

«Eren, va’ di sopra!»

Carla chiuse immediatamente le tende, spingendo il figlio su per le scale. L'auto nera aveva parcheggiato proprio nel loro cortile, seguita da una camionetta dagli inconfondibili colori militari.

«Ma…»

«Vai in camera tua e restaci!» ringhiò, raggiungendo immediatamente la porta d’ingresso. Non fece in tempo a serrare il chiavistello: un robusto soldato tedesco si palesò sulla porta.

«Bonjour Madame» un distintivo le penzolò sotto il naso: Konrad S. Meyer.

«A voi» mantenne la voce salda, rifiutandosi di abbassare lo sguardo.

«Possiamo accomodarci?» alle spalle dell’uomo si palesarono altri due nazisti, armati di pistole e fucili.

«Preferirei di no»

«Insisto»

Scivolò a destra, indicando il vicino soggiorno:
«Mettetevi lì e non toccate niente»

«Non siamo qui per rubare, signora» il tizio chiamato Konrad si avvicinò al caminetto, studiando i ritratti di famiglia «Desideriamo porvi alcune domande. Sappiamo che avete avuto contatti con due pericolosi ricercati. Il nome Smith vi dice nulla?»

«Naturalmente. Sarebbe sciocco negarlo. Ci hanno detto essere Inglesi e d’aver bisogno di aiuto. Avevano salvato una bambina, non ce la siamo sentita di scacciarli»

«Hanno tratto in inganno anche voi, dunque. Si fingono buoni samaritani, ma in realtà sono ladri ed assassini.»

«Stento a crederlo» si sforzò di mostrare un’espressione stupita, non fosse altro per compiacere lo zelante soldato: voleva che se ne andasse e voleva essere lasciata in pace. Non era mai consigliabile immischiarsi negli affari del Reich, grandi o piccoli che fossero. La voce, tuttavia, la stava tradendo: non era affatto perplessa, né intimorita, ma solo incredula. Era ovvio che non potesse che dubitare delle parole di Konrad. Questi, tuttavia, proseguì:

«Alcuni vostri concittadini ci hanno confermato d’avervi vista accompagnare i due fuggiaschi al camion ed averli lasciati ripartire. Dove sono diretti? Lo sapete?»

Scosse il capo: Erwin non aveva fatto cenno alla strada che avrebbero realmente preso, anche se le aveva chiesto informazioni per Le Blanc. Gli aveva consigliato di proseguire per Tours e deviare per Loches, scegliendo un tragitto meno conosciuto, per evitare posti di blocco.
«So che vogliono raggiungere la Repubblica di Vichy»

«Non sapete altro?»

Un nuovo cenno di dissenso:
«No, mi dispiace. Avete altre domande?»

«Solo una» Konrad passò l’indice sulla vicina cornice argentata: un oggetto carino, ma probabilmente di poco valore. L’argento era soltanto una patina di vernice per coprire del volgare stagno. Osservò attentamente il ritratto in bianco e nero: un bambino dagli occhi grandi e capelli arruffati stava orgogliosamente mostrando un cucciolo di gatto «Dov’è vostro figlio?»

«Non vedo come Eren c’entri con questa storia.»

«Non è quello che vi ho chiesto»

«Non è in casa. Sarà uscito a giocare con qualche am…» Carla non riuscì a terminare la frase. Un manrovescio si abbatté sulla sua guancia. Perse l’equilibrio, incespicando sul pavimento ruvido, prima di crollare al suolo.

«No! Bastardo! Lasciala stare» un grido dal piano superiore e dei piedini che scendevano velocemente le scale.

Eren si avventò su Konrad, i pugni alzati e lo sguardo stretto. Come osavano toccare sua madre? Perché se la prendevano con lei? Non aveva fatto nulla di male. Aveva solo mentito… mentito per proteggerlo! Quel pensiero lo fece infuriare: come si erano permessi quegli uomini di irrompere nella loro casa, di picchiare la mamma e… ridere? I due soldati accanto all’ingresso stavano sghignazzando, indicandolo con le tozze dita; parole in tedesco attraversavano la stanza, seguite risate e canzonature. Avvertiva il tono ilare, quasi sarcastico; vedeva i volti rossi e le labbra piegate in ghigni spregevoli. Konrad non sembrava affatto impressionato dalla grandine di pugni che si stava riversando sul suo addome e sulle gambe: come se non sentisse alcun dolore, ma solo un leggero fastidio; come se i colpi non fossero altro che deboli punture di zanzara.

Si sentì afferrare per i capelli. Konrad gli passò un braccio sul collo, costringendolo a ruotare sul posto, mentre con la sinistra gli accomodava le disordinate ciocche castane.

«Mamma…» la voce si spense quando il tedesco aumentò la stretta.

«No! Lascialo stare!» Carla si era rialzata, il volto pallido e sconvolto. Le mani si erano abbandonate lungo i fianchi, in un chiaro cenno di resa. Le lacrime sgorgavano dagli occhi; le labbra tremanti non potevano che ripetere quella supplica.

«So essere ragionevole signora Jaeger, ma desidero lo siate anche voi. Dove si sono diretti?»

«Non lo so! So soltanto che volevano raggiungere Limoges, ma passando per Le Blanc. Non so altro!»

«Che strada hanno preso?» la donna scorse il viso del figlio arrossarsi lentamente, mentre la bocca spalancata cercava avidamente l’aria.

«Non lo so!» cadde in ginocchio, coprendosi gli occhi con le dita «Mi hanno raccontato solo questo. Ho consigliato di seguire per Tours e poi girare in direzione Loches. Non ho detto altro! Non so che strada abbiano preso»

«Vi sono altre vie per Le Blanc?»

«Solo una, ma è impraticabile. Gli alleati hanno fatto saltare un ponte, qualche mese fa. È rimasta così da allora. Nessuno la usa più!»

«Quindi devono essere passati necessariamente per Tours?»

«Sì, almeno… credo di sì! Se non conoscono altre deviazioni, io… Lasciate andare Eren, lui non c’entra!»

«Ne siete assolutamente certa?»

Un cenno d’assenso:
«Sì, sì! Dannazione, prendete me! Eren…» non aveva il coraggio di rialzare lo sguardo: avrebbe incrociato quello del figlio e vi avrebbe letto soltanto una infinita paura.

«Da quanto sono partiti?»

«Sono andati via ieri sera.»

«Potrebbero essere già a destinazione?»

Scosse ancora il capo:
«Non lo so…»

Vide Konrad lasciare il bambino. Spalancò le braccia perché Eren vi trovasse rifugio. Lo strinse a sé, senza trovare la forza d’arrestare i singhiozzi.

«Grazie, Madame» il soldato aveva preso la vecchia cornice dal camino «La conserverò di ricordo. Non si sa mai, mi capite? Se dovessi riscontrare qualche imprecisione nel vostro racconto» lo scorse agitare piano il ritratto «Tornerò a salutare il ragazzo» una pausa, mentre un altro sorriso bieco si delineava sul viso squadrato «Non scomodatevi ad aspettare vostro marito. Verrà con noi»

«Grisha? No! Perché? Non c’entra… non è stato lui a…»

«Avete dato rifugio a due criminali; siete entrambi colpevoli, ma non ho intenzione di inimicarmi quegli straccioni dei vostri compaesani. Direte che il dottor Jaeger ci ha seguiti di sua spontanea volontà per curare alcuni nostri feriti; non farete menzione di quanto accaduto qui. Altrimenti…» la foto comparve nuovamente sul palmo del tedesco «… lo verrò a sapere»

«Ma…» Carla trovò infine la forza di risollevare gli occhi. Non si sforzò di celare l’odio, né la rabbia: quello che le avevano fatto era intollerabile. Prendere la sua famiglia in ostaggio per costringerla a parlare; minacciare Eren ed arrestare Grisha… non era sicura di poterlo sopportare «Che ne sarà di mio marito?»

Konrad, però, si era già avviato alla porta, pronto ad uscire nel cortile. Si voltò soltanto per rifilarle un ironico saluto:
«Chi lo sa.» sussurrò, infine «Forse il destino gli darà una mano…»


 

Angolino: Buon mercoledì! Ultimo aggiornamento per ora, almeno fino a settimana prossima. Poi spero di poter riprendere presto la ff; non manca moltissimo alla fine, immagino (il che è un bene, perchè sarete anche stufi XD): il viaggio  si avvia alla conclusione, anche se dovrà ancora succedere qualcosina prima. ^^
Anche qui, non ho grossi appunti da fare: ho solo cercato di far quadrare l'accaduto con l'arrivo di Weilman... spero d'esserci riuscita, almeno un pochetto.
Per il resto, vi ringrazio, come sempre, per aver letto fin qui: se avete appunti o pareri, mandatemeli tranquillamente *_*
Un grazie a Shige e AUriga per le correzioni...
ragazze, visto che vi ringrazio praticamente ad ogni capitolo, facciamo che... GSAPC sarà la nuova sigla di ringraziamento generico u.u
A presto ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Un vecchio amico ***


26. Un vecchio amico
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Dintorni di Le Blanc.



Erwin scoccò una occhiata al compagno di viaggio, raggomitolato sul sedile vicino. Avevano abbandonato Moriers la sera prima, guidando tutta la notte, senza nemmeno concedersi una sosta. L’aviatore si era rintanato in un cupo silenzio, la mente persa in troppi pensieri e sensi di colpa per poter essere lucida. Aveva cercato di confortarlo, di strappargli anche solo qualche parola, ma Levi si era chiuso completamente in se stesso, cedendo infine al sonno agitato e lasciandolo solo al volante.

Dopo aver sbagliato innumerevoli svolte e deviazioni, il camion era infine tornato sulla giusta via. Il maggiore si era limitato a seguire le scarse indicazioni per Le Blanc. Via via che si avvicinavano al confine con la Repubblica di Vichy, gli spari dei mortai ed il gracchiare dei carri armati tornavano a farsi sentire; la guerra si combatteva ancora lungo tutto il fronte: i soldati nazisti cercavano di spaccare le linee della resistenza e di penetrare nel territorio ancora indipendente; per contro, gli Alleati cercavano con ogni mezzo di respingere quell’invasione. Erano mesi, ormai, che la situazione si era stabilizzata in quella sorta di ridicolo tira e molla: ogni volta che i tedeschi conquistavano un fazzoletto di terra, ne perdevano un altro nel raggio di un chilometro. Era snervante: nessuna delle due fazioni riusciva a prevalere sull’altra, destinando il cuore della Francia ad una sanguinosa ed infinita battaglia, le cui eco a stento raggiungevano le grandi città.
Erwin scrutò oltre il parabrezza, scorgendo il sole sorgere in lontananza: i pallidi raggi indoravano un cielo ancora coperto da nubi dense e cariche, sforzandosi di fare capolino negli sprazzi ancora scuri. Che ore potevano essere? Le sette, forse. Attorno alla strada, vi era una infinita distesa di brulle collinette, punteggiate da campi che si intervallavano a boschi di conifere. Alcuni abeti protendevano i rami sin sulla carreggiata ed il veicolo produceva dei secchi tonfi quando li urtava.

«Manca molto?» una voce impastata lo riscosse, obbligandolo a spostare l’attenzione alla propria destra. Levi lo stava fissando, un’aria malinconica incastrata nello sguardo ancora provato.

«Siamo quasi arrivati» replicò, prendendo una stretta curva ed inoltrandosi tra due ripe scoscese di terra battuta.

«Perché siamo passati di qui? Non abbiamo allungato il giro?»

«Sì, ma era la via più sicura; e c’è una persona che devo incontrare»

«Chi?»

La curiosità del compagno era lecita. In fondo, non aveva motivo di tacere, non a così poca distanza dalla meta. Non era sicuro che Levi avrebbe compreso la necessità di quella deviazione: avevano bisogno di qualcuno che li aiutasse ad attraversare le linee e raggiungere la Repubblica senza danni e senza rischiare la cattura.

«Un…» fece per aggiungere, ma un colpo improvviso coprì le sue parole.

Colse uno scoppio ed il volante tremare sotto le dita robuste. Si sforzò di trattenerlo, mentre l’automezzo sbandava lungo la carreggiata. Schiacciò a fondo il freno, bloccando le ruote con un secco stridere. Allungò il braccio destro, premendolo istintivamente contro il petto dell’inglese, impedendogli di ruzzolare contro il malmesso cruscotto.

«Abbiamo forato?» la voce di Levi sembrava incerta, come se non fosse convinto di quell’ipotesi.

Scosse il capo, limitandosi ad un imperioso “Resta sul camion”.

«Che cazzo pensi di fare?»

«Resta e basta» sibilò, sfilando le chiavi dal quadro e sfruttandole per chiudere entrambe le portiere. Scorse l’altro abbassare un finestrino e sbuffare poco dopo:

«Perché mi hai chiuso dentro?»

«Perché so che non mi darai retta. Rimani lì, per favore»

Si allontanò di qualche passo, sforzandosi di ignorare il borbottio di protesta oltre le proprie spalle. Aggirò il camion, controllando lo stato delle gomme: la posteriore destra era stata fatta saltare; lo pneumatico presentava uno stretto foro sulla faccia laterale. Si guardò attorno, controllando le vicine collinette: alla tenue luce dell’alba, non riusciva a scorgere molto. Alcuni cespugli ondeggiavano alla brezza fredda del mattino, mentre lungo il dorso delle montagnole si intravedevano solo alberi rachitici.

Era ridicolo, tuttavia, pensare che non vi fosse nessuno: la gomma non era esplosa da sola. Chiunque vi fosse, era ben nascosto ed appostato; e, senza dubbio, lo stava ancora osservando. La sua mente scartò immediatamente l’opzione Weilman: per quanto fosse veloce, il capitano non poteva averli inseguiti fin lì, basandosi solo su delle semplici tracce; avrebbe potuto chiedere a dei testimoni, però… qualche contadino che li aveva visti passare? Era probabile, ma non coincideva affatto con la tempistica. Ammettendo che Herr Kapitan fosse nuovamente sulle loro orme, era impossibile che li avesse preceduti; e, in ogni caso, i nazisti non si sarebbero presi la briga di nascondersi dietro arbusti e tronchi rinsecchiti.

Sollevò cautamente le braccia, senza smettere di guardarsi attorno.
«Nous sommes anglais!­» mentì, mantenendo il tono inalterato «Nous sommes en train de chercher la resistence fraçaise» stiamo cercando la resistenza francese.

«Pourquoi?» Perché?

«Nous devons rejoindre la république de Vichy» dobbiamo raggiungere la repubblica di Vichy.

Notò tre uomini scivolare lungo i pendii ed avvicinarsi. Due imbracciavano dei fucili che puntarono immediatamente su di lui, mentre l’altro si avvicinava alla cabina del camion, tenendo sotto tiro l’inglese. Si sforzò di tenere le mani alzate ed in vista, senza lasciar trapelare il nervosismo: non era sicuro che cercare la resistenza fosse stata una mossa saggia; forse avrebbe dovuto cercare di cavarsela da solo e attraversare il confine con i pochi mezzi di cui disponeva. Che diamine gli era saltato in mente? Si era illuso di risolvere molto più facilmente la questione; magari di trovare al primo colpo la persona che stava cercando. Invece, la situazione aveva preso una piega inaspettata:
«Nous n'avons pas de mauvaises intentions» non abbiamo cattive intenzioni.

«Inglese a bordo di un camion tedesco? Qualcosa non quadra» qualcuno aveva cambiato il registro della conversazione, passando ad un inglese stentato; l’accento trasudava da ogni sillaba, dettata con un tono troppo sospettoso. Si sporse a guardare oltre le proprie spalle. Una figura si era avvicinata, avvolta da un lungo mantello color senape. Il cappuccio non era sufficiente a coprire i lineamenti femminili del viso e nemmeno uno sparuto ciuffo di capelli color platino che, dalla fronte, scendeva a sfiorare il colore verdastro delle iridi.

«Lo abbiamo rubato» Erwin tornò all’inglese, rivolgendosi al nuovo interlocutore «Non siamo pericolosi. Stiamo solo cercando un modo per raggiungere Limoges»

«Perché?»

«Il mio compagno» indicò la cabina del camion, ancora sotto tiro «è un pilota della Raf ed ha informazioni importanti da riferire ai suoi generali. Il suo aereo è stato abbattuto e…»

«Credete che qui troverete aiuto?»

«Ci hanno detto che potete aiutarci a superare il confine»

«Chi ve lo ha detto?» il tono della donna si era fatto sempre più indagatore e malfidente, quasi stentasse a credere a quel racconto. Inoltre, l’ultima domanda risultava parecchio insidiosa: come spiegarle che la soffiata proveniva niente meno che dal comandante della Gestapo di Parigi?

Nile era stato accorto, quando lo aveva salutato davanti al sidecar. Gli aveva indicato l’esatto punto in cui trovare i ribelli e, soprattutto, gli aveva sussurrato il nome di un vecchio compagno d’armi. Qualcuno che Erwin non avrebbe mai immaginato di poter rivedere.

«Un amico comune, immagino» forse rivelare il nome non era una mossa saggia. Decise di rimanere sul vago «Sto cercando Mike Zacharias. So che è qui»

«Chi te lo ha detto?» ancora quella spinosa domanda.

Scosse il capo:
«Lo dirò quando lo vedrò»

«Sai che non sei nella posizione di contrattare, vero?»

Ne era consapevole, ma non era disposto a cedere: parlare di Nile avrebbe potuto comprometterli definitivamente e destare troppi sospetti. Dondolò il capo, limitandosi ad un:
«Lo so, ma voglio prima parlare con Mike»

«Non rientrerà prima di sera»

«Aspetterò» un secco click lo costrinse ad abbassare lo sguardo. La francese aveva estratto una Mauser e la stava puntando all’altezza del suo stomaco.

«Forse non ti è chiaro…» la sentì ringhiare «Qui non siamo in uno studio medico o dal barbiere. Non c’è niente da aspettare! Ti concedo una sola possibilità per risalire su quel maledetto camion e smammare. Altrimenti…»

«Ho detto che aspetterò» tornò a puntare gli occhi sul volto della giovane, arricciando un sorriso sicuro sulle labbra. Non aveva assolutamente intenzione di perdere quel piccolo scontro: andarsene equivaleva ad una silenziosa sconfitta, uno smacco che non avrebbe potuto reggere; inoltre, non avrebbe trovato nessun altro disposto ad accompagnarlo oltre il confine: Mike era il solo di cui si potesse fidare e l’unico abbastanza folle da supportarlo in quell’impresa. «Vuoi spararmi? Perché temo che Mike preferirebbe vedermi vivo. Non credo sarebbe d’accordo…»

La canna dell’arma gli premette nuovamente contro la pelle:
«Come ti chiami?»

«Erwin Smith»

La donna ebbe un sussulto; nelle iridi si palesò un’ombra disgustata, che si cancellò immediatamente, sostituita da una nuova ed imperturbabile espressione:
«Non mi ha mai parlato di te»

«Mike non chiacchiera moltissimo, te ne sarai accorta» gli sfuggì una leggera ironia che la donna non parve cogliere. Sentì la pressione all’addome diminuire lentamente.

«Bene. Viaggerete sul retro del camion. Vi porteremo con noi, ma dovrete aspettare. Una mossa falsa o una parola fuori posto e vi faccio saltare le cervella. Sono stata chiara?»

«Trasparente, Madame» abbassò cautamente le braccia, inserendo soltanto due dita nella tasca della giacca scura «Le chiavi» disse, tendendole alla giovane, che gliele strappò di mano.

«Salite e non fiatate. I miei uomini vi terranno d’occhio.» furono le ultime parole della francese, poco prima che sparisse in direzione della cabina di guida «Marcel, sbrigati a cambiare la ruota. Abbiamo fretta!»

 
***
 

Erwin allungò le gambe, cercando di rilassare la schiena contro le piastrelle della parete. Non aveva idea di dove fosse, ma il pavimento liscio e freddo suggeriva una stanza da bagno o qualcosa di simile. Durante il tragitto in camion li avevano bendati e, da quel momento, aveva perso la cognizione del tempo e dello spazio. Aveva contato alcune svolte, un paio di salite, ma poi tutto si era confuso. Non era riuscito a tenere il conto dei minuti e si era arreso dopo aver cercato di chiedere informazioni: dove li stavano portando? Le Blanc era molto lontana? Quando avrebbe rivisto Mike? Nessuno, ovviamente, gli aveva dato risposta.

Il mezzo aveva poi frenato bruscamente in uno spiazzo sterrato e li avevano fatti scendere: la suola degli stivali aveva prodotto un sinistro scricchiolio, quando li avevano spinti oltre l'aia, dentro una costruzione che sapeva di muffa e stantio. Levi, naturalmente, si era lamentato, ma nessuno gli aveva dato retta. Li avevano costretti a salire una decina di gradini, portandoli al piano superiore, prima di introdurli in una sala gelida. Le guance erano rimaste sferzate da uno spiffero insistente, segno che una finestra era aperta oppure priva di vetri.

Li avevano fatti sedere a ridosso di un muro, legando i loro polsi ad un tubo ruvido ed arrugginito, che correva ad un paio di spanne dal pavimento.

Erano rimasti soli. Dei rumori provenivano dal piano inferiore dove supponeva si fossero ritirati i francesi. Nella stanza, tuttavia, non si udiva altro suono che il borbottare incessante dell’aviatore.

«Smettila di lamentarti» il maggiore piegò il capo a sinistra, dove coglieva ancora i sussurri irritati e quegli inutili tentativi di liberarsi «Non risolverai nulla»

«Immagino che, al contrario, il tuo dolce far nulla sia la scelta migliore, vero?» percepì un vibrare della tubatura, seguito da una imprecazione a denti stretti «Avevi previsto anche questo, nei tuoi piani del cazzo?»

«No, ma non sempre le cose vanno per il verso giusto»

«Ah no? Beh, forse dovevi pensarci prima! Credevi di arrivare qui, chiedere di questo Mike e risolvere tutto in quattro e quattr'otto?»
«Lo speravo, ma neppure mi aspettavo d'essere accolto a braccia aperte. Direi che non siamo messi male»

«Mi prendi per il culo?» il pilota si stava nuovamente agitando «Dobbiamo raggiungere Limoges, Weilman ci sta cercando per mezza Francia e siamo ostaggi di questi ribelli merdosi che ci hanno pure fottuto il camion! Pensi di andarci a piedi, fino alla Repubblica di Vichy?»

«Qualcosa mi verrà in mente...»

«Smettila di parlare come se tutto andasse a meraviglia! Se il tuo amico Mike ci consegnasse, piuttosto?»

«Che idea cretina. Mike è un disertore tanto quanto lo sono io. Lo arresterebbero immediatamente»

«Non ho idea di chi sia questo tizio! Non so neppure se possiamo fidarci e tu ci cacci in questa situazione del cazzo. Perché non me lo hai detto? Hai fatto tutto in gran segreto, come al solito, senza degnarti di condividere queste informazioni con me! Non mi hai nemmeno chiesto un parere; eppure, viaggiamo insieme da un po'... Credo sia un mio diritto sapere in quali guai ci cacceremo»

«Lo so, ti chiedo scusa. Avrei dovuto dirtelo, ma avresti bocciato l'idea senza darle neppure una chance»

«Certo! È una idea cretina e questa ne è la dimostrazione!»

«Ti sbagli. Sono sicuro che Mike ci aiuterà»

«Oppure ci farà fucilare da quella puttana francese»

«Quella puttana francese è mia moglie» una terza voce si inserì prepotentemente nel discorso, accompagnata dall'incedere di passi robusti.

Erwin riconobbe immediatamente la sfumatura tedesca in quelle semplici parole, dettate in un inglese troppo scolastico e grezzo: Mike non era mai stato portato per le lingue e, nonostante fosse ormai parte della resistenza, era sicuro che anche il suo francese dovesse apparire stentato e zeppo di imprecisioni. Non riuscì a trattenere un sorriso, mentre la lama di un coltello arrivava a tranciare i nodi attorno ai polsi e la benda stretta sulla nuca.
Si rialzò, sgranchendosi immediatamente gli arti.

«Ti trovo bene» disse solo, squadrando la figura davanti a sé: Mike lo superava in altezza di qualche centimetro. I capelli biondo scuro incorniciavano un'espressione sicura, quasi beffarda, dettata dagli occhi sottili e dal sorriso accompagnato dai baffi radi, mentre una leggera barba incolta correva lungo il mento, risalendo sino alla mandibola. Non era poi cambiato di molto: solo lo sguardo era circondato da sottili rughe ed occhiaie, segno evidente di stanchezza. Le spalle larghe erano avvolte da un semplice maglione blu notte, mentre i pantaloni cingevano i fianchi snelli e muscolosi grazie ad una cintura di pelle chiara, dove il calcio di una pistola si intravedeva appena.

«Ho come la sensazione che tu sia in un mare di guai» la voce dell'amico conteneva una leggera sfumatura ironica, atta soltanto a mascherare l'affetto ed il sollievo. Non gli sfuggirono quei dettagli: sotto sotto, Mike doveva essere felice di rivederlo, anche in circostanze tanto assurde «Chi è quello?»

«Un pilota Raf. Lo sto accompagnando a Limoges»

«Alla base?»

«Esattamente»

«Perché?»

«È una lunga storia, credo potrei raccontartela per cena. Per ora ti basti sapere che siamo ricercati dal capitano Weilman, anche se credo d'averlo seminato. O, quanto meno, d'aver preso un po' di vantaggio.» si vide passare il coltello. Lo afferrò, chinandosi accanto all’inglese e recidendo i legacci «Levi è il nipote di Kenny Ackerman. Sto saldando un vecchio debito e… l’uniforme iniziava ad andarmi stretta»

«Ci sei arrivato, alla fine»

«Sì. Avevi ragione» aiutò il compagno a rimettersi in piedi, prima di tornare su Mike «La Germania è troppo lontana dal sogno che ci avevano promesso. Non credo valga più la pena combattere per un sistema tanto corrotto e sbagliato. Immagino che l’unico modo per salvarla sia sconfiggerla»

«Ve lo avevo detto»

«Lo so. Che cosa hai fatto, da quando hai disertato?»

«Immagino che anche questa sia una storia adatta alla cena. Venite» Mike scivolò verso la porta, indicandogli un vicino corridoio «Da questa parte. Vi accompagno in cucina»

 
***
 

Erwin terminò il racconto ed addentò un tozzo di pane secco. La cena era più di quanto avesse sperato: qualche baguette avanzata dai giorni precedenti, del formaggio e alcuni pezzi di carne essiccata. Inaspettatamente, i ribelli gli avevano riservato una scodella di zuppa da spartire con l’aviatore, suddividendo al meglio le porzioni.

In un silenzio educato, avevano ascoltato tutta la sua storia; si era sforzato di non tralasciare alcun dettaglio, iniziando dallo Spitfire abbattuto, parlando delle torture di Weilman, della fuga a bordo della Kommadeurwagen. Si era soffermato su Parigi e su come avesse incontrato Nile, per poi passare al sidecar, alla sfortunata avventura di Christa ed all’arrivo a Moriers. Aveva parlato con franchezza, soffermandosi spesso su Weilman: Herr Kapitan era sicuramente là fuori, ancora impegnato nelle ricerche; avrebbe rivoltato la Francia come un calzino, pur di trovarli. Forse, era già sulle loro tracce. L’ossessione del capitano non si sarebbe placata e, senza dubbio, non avrebbe accettato una sconfitta.

«Non verrà qui e se verrà, saremo pronti ad accoglierlo» la voce di Mike risuonò al termine di quella conversazione, come a chiudere l’argomento «Ora, perdonami, ma… come hai fatto a trovarmi? Hai detto che ti sei presentato e hai chiesto di me. Come sapevi che ero qui?»

Scrollò leggermente le spalle, come se fosse una logica deduzione:
«Nile» rispose, semplicemente «Ti è stato col fiato sul collo da quando hai disertato. Credo di poter affermare che, se fino ad ora l’hai scampata, è stato soprattutto merito suo. Ha sempre saputo dove ti nascondessi e teneva sotto controllo i tuoi spostamenti. Sostanzialmente, ha evitato che venissi arrestato. Quando sono fuggito da Parigi, mi ha detto dove ti trovavi.» nella sua mente riapparve la scena, con una nitidezza sorprendente: non erano passati che pochi giorni da quando Nile gli aveva affidato il sidecar, raccomandandosi di trattarlo con i dovuti riguardi. Rammentava perfettamente l’attimo in cui l’altro si era chinato al suo orecchio per sussurrargli la precisa ubicazione dei ribelli che nascondevano un vecchio amico d’infanzia.

«Maledizione. E pensare che lo ritenevo un idiota»

«È sempre stato un passo avanti a te»

«Gli devo un favore, allora»

Annuì, mentre le labbra si piegavano in un mezzo sorriso:
«A tal proposito, se proprio vuoi sdebitarti con lui… potresti ricomprargli la motocicletta. O regalargli l’unicorno di vetro verde»
«Non crederai che l’abbia conservato, vero? Devo d’averlo riciclato come regalo di Natale per una vecchia zia. Non saprei nemmeno dove andare a cercarlo»

Risero, lasciando ai ricordi il tempo di prendere il sopravvento e confondersi con la realtà: mancava un amico a quel tavolo, mentre vi erano troppe facce nuove. Facce che, a lungo andare, sarebbero divenute anche esse parte di un rimpianto dai contorni sfumati. Avrebbero rammentato quei momenti nella vecchiaia quando, seduti davanti ad un camino spento, sarebbero balzate alla mente le sciocche immagini di un trio troppo scapestrato per poter durare in eterno. Ognuno, in fondo, aveva preso la sua strada: Nile era l’unico che aveva scelto un futuro solido, basato sulla famiglia. Erwin aveva preferito dedicarsi alla carriera, arrivando al punto di non poterla più sopportare. Mike aveva, infine, mescolato le due cose: si era trovato una moglie, ma il gusto dell’avventura l’aveva spinto tra le braccia della resistenza francese.

«Tu, piuttosto…» il maggiore riattaccò, dopo essersi concesso un sorso di vino «Da quanto sei sposato?»

«Meno di due settimane.» notò la mano di Mike scivolare su quella della compagna «In realtà, dobbiamo ancora ufficializzare la cosa. Dubito che in comune accetterebbero di registrare le nozze di due ricercati» seguì l’indice rivolto sull’uomo a capotavola «Alain è cappellano, ha celebrato lui. Dice che se siamo sposati agli occhi di Dio, lo saremo anche a quelli degli uomini»

«Mi sembra un buon ragionamento»

«Tu? Immagino non metterai su famiglia tanto presto»

«Non so se arriverò a fine giornata; come potrei pensare a moglie e figli?»

«Il solito cinico…»

Scrollò le spalle, senza replicare, sfruttando anzi l’occasione per cambiare discorso:
«Abbiamo bisogno di attraversare le linee il prima possibile, per avvisare gli Alleati. In questo momento, la nostra priorità è proteggere l’Operazione Chariot»

«Temo dovrete aspettare qualche giorno. Le nostre fonti, interne alla Repubblica, parlano di un imminente attacco lungo il confine a sud di Le Blanc, ossia proprio dove dovremmo passare. Si suppone avverrà nelle prossime quarantotto ore, ma fonti più certe le avremo a battaglia conclusa. Dobbiamo aspettare e, se possibile, bloccare eventuali rifornimenti nazisti diretti al fronte»

«Se Weilman ci raggiungesse…»

«Come ti ho già detto, lo fermeremo. Non sarà un problema»

«Non so con quanti uomini potrebbe arrivare. Voi siete soltanto una ventina»

«Siamo in numero sufficiente.» Nanaba si intromise, la voce carica di risolutezza «Abbiamo già combattuto i tedeschi. Inoltre, adesso abbiamo te…»

Erwin aggrottò la fronte, mimando un semplice:
«Non capisco»

«Erwin Smith è il nome di un ufficiale tedesco che combatté ad Hannut, in Belgio, nel maggio del quaranta. Distrusse dieci corazzati Alleati usando dei calzini. Sei tu, vero?»

«Che cosa c’entra con…»

Nanaba si alzò di scatto, interrompendo le sue parole con un secco gracchiare della seggiola:
«Hai un grosso debito con la mia famiglia» la donna si diresse alla porta, senza neppure guardarlo. Scivolò oltre la soglia, dirigendosi verso le scale «Mi aspetto di vederlo saldato al più presto»
 
 



Angolino: salve! Torno con la Long: ero ispirata e mi serviva giusto un po' di tempo per presentare Mike e Nanaba. Sono due personaggi a cui tengo molto e che occuperanno un po' di spazio nei prossimi capitol, che spero di poter sfornare presto. La storia si sta avviando, pian piano, verso la conclusione, anche se alcune cose devono ancora accadere. Penso che nel prossimo capitolo mi concentrerò un pochino su Mike e Nanabina.
Al solito, un mega grazie a Shige (le parti in francese sono opera sua) e a Auriga per i consigli e le correzioni sul cambio gomme. Vi ringrazio infinitamente per tutto l'aiuto e il supporto, senza cui non so se avrei continuato tanto a lungo questa ff. Il merito è soprattutto vostro e della vostra eterna pazienza. Vorrei potermi dilungare di più, ma Auriga mi distrae continuamente con le immagini di Erwin (è proprio una brutta persona).
Spero di poter aggiornare presto.
Grazie infinite per aver letto fin qui! Se avete pareri o consigli, mandateli pure *.*

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Mani che uccidono ***


27. Mani che uccidono
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Dintorni di Le Blanc.
 

Erwin finì di riporre i piatti sciacquati, lasciandoli sgocciolare accanto al lavabo. In cucina erano rimasti soltanto lui e Mike. Nanaba aveva distribuito i turni di ronda ai suoi uomini prima di sparire. Levi si era dichiarato troppo stanco ed Alain lo aveva accompagnato in una stanza sul retro, che fungeva da dormitorio.
Non gli era rimasto altro da fare che rassettare la cucina, sotto lo sguardo attento dell’amico, troppo intento ad arrotolare delle improvvisate sigarette per aiutarlo con le faccende.

«Da quando fumi?» chiese, rompendo il silenzio sceso nella stanza.

«Non sono per me. Ai ragazzi piace il tabacco. Quando riusciamo a recuperarne, lo sfruttiamo a dovere» un sorriso ad accompagnare quelle parole «Lo abbiamo trovato sul vostro camion. Non lo avevate visto?»

Scosse il capo. Non avevano frugato il mezzo tanto a fondo. Tornò verso il tavolo, accomodandosi:
«Come sei finito qui?» domandò, adagiando la schiena contro la spalliera della seggiola.

«Lunga storia»

«Abbiamo tutta la notte»

«Non sei stanco? Il tuo compare è già scappato a dormire» i tentativi di Mike di deviare il discorso caddero nel nulla.

«Non proprio. Perché sei scappato?»

«Per il tuo stesso motivo, te l’ho detto. Questa non è la Germania che sognavo, né quella che ci avevano promesso. L’avevo capito già allora, persino prima di te» un sorriso bagnò le labbra sottili «Devi ammettere che, per una volta, sono stato io quello più in gamba»

«Il che è strano…» Erwin non riuscì a trattenere un pizzico di ironia. Ricordava perfettamente il giorno della scomparsa. La notizia era risuonata per tutto il campo: il soldato semplice Zacharias era fuggito, abbandonando la branda in piena notte. Aveva lasciato soltanto una lettera, in cui spiegava sommariamente le proprie ragioni; soltanto gli ufficiali, però, l’avevano letta. Come avesse eluso i controlli rimaneva un mistero: forse aveva dei complici? Il sospetto era ricaduto immediatamente sugli amici più stretti: lui e Nile erano stati interrogati per giorni interi e, alla fine, dichiarati estranei ai fatti. I superiori, tuttavia, avevano immediatamente allertato la Gestapo, diramando l’identikit e l’ordine di cattura. Nile, coinvolto nelle ricerche, si era immediatamente adoperato per nascondere ogni possibile traccia «Che cosa hai fatto, dopo aver disertato?»

«Ho raggiunto Reims ed ho cercato un passaggio per Parigi. Speravo di confondermi nel via vai della capitale e trovare un modo per arrivare nella Repubblica. Fortunatamente, non avevo nessun Weilman alle calcagna, ma solo un branco di poliziotti idioti» una pausa, mentre il fruscio delle foglie di tabacco spezzava, a tratti, la quiete calata nella cucina «Non ho mai raggiunto Vichy, naturalmente. All’altezza di Orléans mi sono imbattuto in Nanaba e… non so spiegarti cosa sia accaduto. Semplicemente, abbiamo deciso che valeva la pena combattere insieme»

«Che assurdità! Non tentare di rifilarmi una storiella da quattro soldi. Cos’è successo?»

«Usava la locanda di famiglia come base per la resistenza: registrava informazioni, nascondeva spie, smistava la corrispondenza e la indirizzava ai vari gruppi ribelli. Quando arrivai, capì subito che ero un fuggiasco. Mi mise sotto torchio e mi fece sputare la verità. Mi concesse di rimanere alla taverna per qualche giorno, in attesa di un passaggio per Vichy» un nuovo ghignetto, ad accompagnare quelle parole «Le sue attività, però, erano già nel mirino della Polizia Militare. Il mattino seguente, due soldati bussarono alla porta. Temevo fossero lì per me, ma dovetti ricredermi in fretta: avevano un mandato di perquisizione dei locali ed uno d’arresto per Nanaba. Chiunque avesse inviato quei due malcapitati, doveva essere un ingenuo ed uno sprovveduto: chi ha detto che una locandiera non può essere fonte di guai?»

«Cos’ha fatto?»

«Davanti all’ordinanza, si è finta spaventata e contrita, come una giovane contadinotta troppo ignorante e sottomessa per difendersi. Ha fatto accomodare i soldati in cucina, servendo loro zuppa calda e buon vino. Ha balbettato qualche scusa sulle camere in disordine, sui clienti esigenti e sulla possibilità di fare una piccola valigia. Era pronta a seguirli, ma le avrebbero concesso di portare con sé almeno un piccolo bagaglio? Quei due idioti hanno abboccato.

Ha fatto sgombrare il locale e con quella scusa è salita al piano superiore. Mi ha affidato la corrispondenza per gli insorti e mi ha fatto uscire insieme agli altri avventori. Nessuno si è accorto di me. Mi aveva lasciato una sola istruzione: incontrarci a Tigy, entro due giorni. Avrei dovuto cercarla nella bottega del maniscalco, l’unico rimasto in città.

Ha appiccato il fuoco al piano superiore e la sua stessa locanda. Nella confusione generale, è fuggita. Non so che fine abbiano fatto i due soldati: forse sono riusciti a fuggire oppure sono morti nell’incendio.»

«Una donna decisamente fuori dal comune»

«Non l’avrei sposata, se così non fosse» Mike aveva recuperato un paio di bicchieri e gli stava versando del vino corposo «Ci siamo ritrovati a Tigy e abbiamo proseguito fino a Le Blanc. Abbiamo raccolto alcuni compagni, in questo viaggio: reietti, per lo più. Ricercati, ladri e persino un prete! Alain ha appeso la tunica al chiodo per imbracciare il fucile. Ci siamo stabiliti qui ed abbiamo mantenuto i rapporti con la resistenza francese. Custodiamo il confine e ci sforziamo di complicare la vita ai tedeschi»

«Avete rapporti con la Repubblica?»

«Sì! Nanaba è abbastanza conosciuta a Limoges, e io stesso sono stato più volte alla base, per prendere consegne e recuperare materiale e munizioni. Attraversare il confine non è semplice, ma nemmeno impossibile. Ce la faremo, vedrai… vi porterò dagli Alleati sani e salvi»

Erwin studiò il vino nel bicchiere, prima di assaggiarlo. Era un rosso dal sapore intenso, che risvegliò immediatamente i suoi sensi intorpiditi:
«Buono» commentò, prendendo un secondo sorso «Non capisco cosa le sia preso, però, poco fa. Ha parlato di un debito che avrei nei suoi confronti, ma… temo di non aver compreso.»

«Mi dispiace, ma credo dovresti parlare direttamente con lei.»

«Sai a cosa si stava riferendo?»

Vide Mike alzarsi e ritirare i bicchieri, ancora mezzi pieni «Si è fatto tardi. È meglio andare a dormire, Erwin.»


***


La camera che li ospitava era piuttosto spaziosa e completamente sgombera di mobili: solo qualche vecchia valigia si intravedeva negli angoli, accompagnata da bauli e cumuli di vestiti. Dei giacigli erano stati allestiti al suolo, sfruttando paglia e foglie secche. Quando era rientrato dalla cucina, li aveva trovati quasi tutti occupati dai ribelli.

Aveva dovuto dividere il pagliericcio con l’inglese, rannicchiandosi sotto una coperta ruvida e pungente, affatto sufficiente a proteggerlo dal freddo notturno. La sala era troppo vasta per poter contare su un buon sistema di riscaldamento, anche se accanto alla porta stanziava una stufa a legna, ormai spenta.

Levi aveva nuovamente cercato di sfilargli le coperte, ma senza successo: aveva puntellato gli angoli della trapunta sotto i gomiti e le ginocchia, stringendoli per evitare che l’altro glieli rubasse. Dopo qualche ora di inutili lotte, l’inglese si era addossato alla sua schiena, probabilmente scambiandolo per una borsa dell’acqua calda. La nota peggiore, tuttavia, era stato il russare di Alain, a poca distanza.

Si era addormentato tardi, ma si svegliò troppo presto: la luce del sole, filtrata dalle vecchie imposte, cadde direttamente sui suoi occhi, strappandolo al sonno agitato.

Erwin si mise a sedere, stropicciando le palpebre e nascondendo uno sbadiglio col dorso della mancina. Che ore potevano essere? Non ne aveva idea, ma il colore rosato che si intravedeva dalle finestre annunciava una chiara alba.

Gettò una occhiata alla camerata. I giacigli erano tutti occupati, tranne uno: quello accanto a Mike era stato frettolosamente abbandonato.
Si alzò, infilando gli stivali.

«Dove vai?» la voce impastata di Levi lo fermò, costringendolo ad abbassare lo sguardo sull’aviatore che, da sopra il bordo della coperta, lo stava osservando.

«Qui fuori.»

«Non andartene. Resta con me. Eri caldo»

«Hai la coperta tutta per te. Non ti basta?»

«Ho freddo…»

Sbuffò, togliendosi la giacca scura e lasciandola sulle spalle dell’inglese:
«Che lagna sei, quando ti ci metti» mormorò con una sfumatura ironica, prima di scivolare via «Dormi ancora un po’, se vuoi. È pres…» non terminò neppure la frase: il compagno si era già riassopito.

Tornò sui propri passi, oltrepassando il corridoio principale della costruzione, gettando delle occhiate curiose tutt’attorno: la stanza da notte si trovava sul retro dell’edificio ed era collegata alle altre stanze tramite uno stretto e scuro corridoio. A destra, si trovava la ampia cucina, mentre sulla sinistra una camera da letto, un bagno ed un piccolo soggiorno. I mobili cadenti e polverosi capeggiavano in ogni sala, ingombri di lettere e mappe. In un angolo del tinello stanziava una cassa di munizioni, consumata per metà.

Poco oltre, una ripida scala di legno conduceva al piano superiore. Saggiò il primo scalino con la punta dello stivale, sentendolo scricchiolare.

«Che stai facendo?» la voce femminile si fece immediatamente sentire, mentre la figura di Nanaba spuntava dalla cucina: indossava una larga camicia color senape e dei pantaloni consumati, abbinati agli scarponi rovinati; senza dubbio, abiti di seconda mano.

«Ti cercavo» Erwin si affrettò a raggiungerla, ma la donna gli indicò l’esterno, prima di caricarsi un fucile sulle spalle.

«È il mio turno di guardia» fu l’unica spiegazione «Dove hai lasciato la tua giacca?»

«Levi aveva freddo»

«Congelerai in maniche di camicia»

«Farò del mio meglio per resistere»

Sgattaiolarono oltre la soglia, attraversando l’aia in direzione di una improvvisata torretta di guardia, ottenuta dai resti di un vecchio silos. Nanaba si arrampicò sulla scaletta esterna, facendogli segno di fare altrettanto. La seguì senza fiatare, pregando silenziosamente che i pioli arrugginiti non si staccassero all’improvviso e lo gettassero nel vuoto. Contò mentalmente i gradini, stimando l’altezza della costruzione: tre metri, prima che la salita verticale si concludesse in una piattaforma di legno consumato, più simile ad un balconcino privo di ringhiera.

Si sedette accanto alla donna che, nel mentre, si era accovacciata per caricare il fucile.
«Posso…» attaccò, ma l’altra lo zittì con un’occhiataccia.

«Non ora»

Si strinse nelle spalle, tacendo nuovamente. Lasciò spaziare lo sguardo: la costruzione era una fatiscente cascina, abbandonata da chissà quanto tempo. Le tegole mancavano in più punti e le assi del tetto lasciavano intravedere la soffitta sottostante, completamente spoglia ed ostaggio di piante rampicanti.
L’edera si snodava per buona parte della facciata, correndo sino al primo piano, dove alcune imposte pendevano inerti dai cardini. Le finestre mostravano vetri troppo opachi, coperti di ragnatele e, in un paio di casi, completamente mancanti. Scendendo al piano terra, si notava soltanto la porta d’ingresso forata dal continuo lavoro dei tarli; la stessa sorte era toccata alle persiane ed agli infissi. L’intonaco color crema era scrostato in più punti e lasciava intravedere i mattoni sottostanti. La cascina non possedeva una recinzione, fatta eccezione per alcuni rovi che accompagnavano lo snodarsi del cortile sterrato. Il camion era fermo al centro di quest’ultimo, stretto tra un pozzo ed un pollaio abbandonato.

«Che cosa è successo laggiù?» chiese, indicando l’angolo destro della cascina: un tetto sporgeva a lato della costruzione, coperto di tegole spezzate.

I muri della costruzione, una volta a ridosso dell’edificio principale, apparivano completamente demoliti. Sotto la tettoia si apriva una sorta di voragine artificiale, profonda almeno cinque metri, che dal primo piano conduceva dritto ad una specie di scantinato. Delle scale, incastrate nel pavimento ruvido dell’aia, scendevano nelle viscere di quel cratere, cinte da una ringhiera malferma.

«Una bomba, durante la guerra del quattordici-diciotto. Abbiamo trovato una foto della cascina appena costruita e… quella era una rimessa, un tempo. L’esplosione l’ha completamente distrutta, scavando quel foro che vedi. Si è salvata soltanto la tettoia, qualche brandello di muro e null’altro.» l’indice di Nanaba indicò il primo piano e poi lo scantinato che si intravedeva sul fondo della voragine «Quella doveva essere la cantina dove tenevano le riserve di vino. Non c’è nulla, ormai, a parte la pila di calcinacci che vedi sul fondo»

Tornò a muovere lo sguardo, abbracciando il paesaggio circostante: la cascina era l’unica costruzione in una vallata stretta, accerchiata da colline dai pendii irti e boscosi. Solo a tratti si scorgevano delle zone più brulle e deserte, dove la fragilità del terreno aveva impedito agli alberi di porre solide radici, favorendo arbusti più bassi e rustici. Lungo il fondo della valle correva un ruscello minuto, accompagnato da un’unica strada sterrata che si snodava da nord in tre branche: la prima, quella più ripida, saliva lungo le pendici della collina e correva sino alla cascina, arroccata a circa metà versante. Le altre due correvano verso sud e sud-est; la prima portava dritta al confine da cui giungevano, da qualche ora, gli iniziali suoni della battaglia: il tuonare dei mortai e dei carrarmati si mescolava alle grida, disperdendosi in una eco leggera che attraversava l’intera vallata prima di annullarsi tra il sibilare della brezza mattutina. La seconda, al contrario, deviava lateralmente, fornendo una rapida via d’uscita dalla vallata e tornando a perdersi nella vicina campagna incolta.

Percepì uno scatto secco alla propria destra e scorse Nanaba adagiare il fucile sulle ginocchia.

«Ora posso?» domandò, riportando l’attenzione sulla donna.

«Se proprio devi…»

«Sì» non avrebbe ceduto, nemmeno davanti a quelle risposte fredde e scontrose «Perché ce l’hai con me? Ieri sera hai citato Hannut e hai parlato di un debito nei confronti della tua famiglia. Continuo a non capire, però»

«Non credo sia importante; e non voglio parlarne con te»

«Mi detesti, questo è evidente. Ho il diritto di sapere perché, non credi?»

«Affatto. In realtà, penso che non dovresti avere alcun diritto, né avanzare pretese.» una pausa, le dita affusolate ad accarezzare l’arma «È un miracolo se sei vivo, sai? Dovresti ringraziare Mike. Se non fosse stato per lui, ti avrei regalato un buco in pancia»

«Cos’hai contro di me?»

«Se anche te lo dicessi, non cambierebbe nulla»

«Forse, ma… vuoi il mio aiuto. Credo che una spiegazione sia dovuta»

La sentì sbuffare e produrre una risatina nervosa, quasi irritata:
«Maxime era un carrista, uno dei migliori. Si era arruolato nell’esercito soltanto sei mesi prima, ma aveva un talento innato nel guidare quei bestioni. Gli piacevano così tanto. Li aveva sempre ammirati, sin da piccolo: li trovava potenti, inarrestabili, mastodontici. Dei lenti giganti di metallo. Aveva dimostrato di saperli pilotare e gestire: nonostante fosse una semplice recluta, gli era stato assegnato un ARL 44.» gli occhi della donna si puntarono nei suoi «Te lo ricordi? Era in testa al piccolo convoglio che hai distrutto. Dieci carrarmati in marcia verso Hannut, come rinforzo per l’esercito francese, che hanno avuto la sfortuna di imbattersi in te. Ho letto i rapporti: hai distrutto i cingolati usando pece, calzini e polvere da sparo. Un piano geniale, senza dubbio.» Nanaba non lo stava più guardando «Max è stato uno dei primi a lasciare l’ARL 44, ma… non è riuscito nemmeno a scappare. I tuoi maledetti cecchini lo hanno falciato. Li avete uccisi tutti, senza nemmeno permettere una resa. Li avete massacrati.»

«Lo so» chinò il capo, fissando la punta dei propri stivali. Il vento umido del mattino sferzava la camicia, arrivando a ferirgli la pelle. Rabbrividì, senza comprendere se fosse per causa del freddo o del rimorso.

«Max aveva diciannove anni ed era mio fratello»

«Mi dispiace»

«Non è vero. Non mentire.»

«Sbagli» serrò i pugni, appoggiandoli sulle ginocchia. Evidentemente, le buone azioni non bastavano a cancellare i rimpianti, che rimanevano incastrati tra i fili di una coscienza troppo sporca per conoscere il perdono.
Scosse il capo, permettendo alla voce di sfociare con una nota risoluta:

«Credi che se potessi tornare indietro, non rimedierei? Non vado fiero di quello che ho fatto. Hannut è la mia più grande vergogna, ma non posso fare altro che portarne il peso. Non posso cancellarla, né nasconderla o dimenticarla. Posso solo conviverci: stringere i denti e guardare oltre, continuando in questo assurdo cammino che mi hanno imposto. Pensi che sia sereno? Che non abbia rimorsi? Sbagli, nuovamente. Li rivedo ogni notte, quei volti: non mi abbandonano mai, non mi lasciano neppure un’ora di tregua. Sono sempre lì, nascosti tra i veli dei sogni, a ricordarmi i miei peccati.»

«Non cercare compassione. Non mi fai pena. Ti detesto soltanto»

«Non posso biasimarti, ma non ho la pretesa di capire i tuoi sentimenti. Non tentare, quindi, a sminuire i miei. Ho provato tante volte a lavare queste mani troppo sporche, ma il sangue non può essere pulito con un semplice colpo di spugna. Scivola dalle mie dita sino al cuore, mescolandosi al mio. Non sono una persona, quanto più un mostro fatto di paura, urla e dolore; di famiglie distrutte, di amici spezzati e di amanti separati.

Vuoi spararmi? Fallo, avanti! Vendica tuo fratello e libera il suo assassino. Confesso che, dopo tutto, la morte non mi spaventa più come un tempo: l’ho servita troppo a lungo, per poterla temere. Mi accoglierà come un vecchio amico, stringendomi tra le sue braccia ossute. Il pensiero di raggiungerla mi ha sfiorato molte volte, soprattutto dopo Hannut, ma… non è così semplice; come potrei abbandonare tutto, senza neppure provare a riscattarmi? Sarebbe l’ultimo gesto meschino di una vita codarda e non potrei sopportarlo. Non posso cancellare, né dimenticare o porre rimedio, ma forse posso ancora redimermi: non agli occhi di Dio, ma a quelli degli uomini.»

«Non vai fiero delle tue imprese, maggiore Smith?»

«Non voglio essere ricordato per il massacro di Hannut: non vi è nulla di geniale o di eroico; è solo l’ennesimo sbaglio di un peccatore. L’ennesimo sbaglio che mi costringe a calcare questa terra, a vagare per un perdono che mai otterrò. Puoi uccidermi, ma la mia vita non ti renderà quello che hai perso. Spara ed allevierai soltanto le sofferenze di un animo sconfitto ed umiliato; mi libererai dalla schiavitù delle colpe, che condividono il mio letto come amanti insidiose.»

La vide accarezzare nuovamente il fucile, ma senza sollevarlo:
«Pensi che morire sia una soluzione?»

«No. Non so cosa sia, sinceramente. Da un lato, sono pronto ad accoglierla; dall’altro vorrei rimandarla, ma non per paura. Vorrei trovare un modo per riparare ai miei torti, prima di andarmene. Preferirei essere in pace, quando la morte mi chiamerà. Però, capisco e condivido il tuo desiderio. Non mi opporrò alla tua scelta.»

«Inginocchiati»

Aggrottò la fronte a quell’ordine. Non ne comprendeva il senso, ma si limitò ad eseguire, in perfetto silenzio. Piegò le gambe, poggiando le rotule a terra e sistemando le mani sulla tela scura dei pantaloni. Colse la bocca del fucile premere sul suo petto, poco sotto la spalla sinistra.

Increspò le labbra in un sorriso amaro, mentre il cuore accelerava istintivamente. Si sforzò di mantenere una apparente calma, mentre nella testa si affollavano una miriade di pensieri: desiderava realmente morire? Forse, ma ora che il momento era giunto, non ne era del tutto certo. Sentiva d’avere ancora parecchie cose da fare, faccende in sospeso a cui porre rimedio: accompagnare Levi a Limoges, tornare a salutare Hanji, ringraziare Nile e Mike, congedarsi da quel mondo a tratti crudele e a tratti meraviglioso. Finiva così la sua vita, stretta nell’abbraccio di irte colline indorate dai raggi del mattino, cullata dalla brezza fredda che gli sferzava il viso e scompigliava i capelli.

«Guardami»

Rialzò le iridi, percorrendo l’intera lunghezza della canna dell’arma, prima di risalire ai contorni della donna, sino al suo viso. Si sforzò di non abbassare gli occhi, di non battere neppure le palpebre. Non le avrebbe concesso la soddisfazione di vederlo chinare il capo e tremare.

«Hai paura» il fucile si allontanò dal suo viso e venne nuovamente appoggiato al suolo.

Nanaba si accucciò di fronte a lui, scrutandolo con maggiore attenzione:
«Hai paura» ripeté «L’ho letta nei tuoi occhi. Hai paura di morire, come tutti. Fingi che non sia così; ostenti coraggio e risolutezza, ma… in fondo, non sei altro che un patetico essere umano. Come lo sono io, come lo è Mike, come lo era Max. Siamo uguali, in fin dei conti.» la donna scosse il capo, tornando a spiare l’orizzonte rosato «Non ti meriti nemmeno un proiettile in testa: sarebbe troppo semplice e sarebbe un favore. Non ti offrirò questa via di uscita. Rimarrai in questa prigione fino a che Dio vorrà. Continuerai a camminare con il peso delle colpe sulle spalle; ogni notte, le vite che hai rubato torneranno a visitarti, a distruggere i tuoi sogni, a ricordarti perché ancora esisti. Non c’è inferno peggiore di questo, per te.»

«Lo so»

«Vuoi fare la cosa giusta? Allora aiutaci.» il braccio della donna spaziò sulla valle «So che puoi farlo. I tedeschi arriveranno; cercheranno di passare per raggiungere il confine. Trova un modo per fermarli»

«Non so se ne sarò in grado. Non so nulla di questa zona»

«Non sarà un problema. Ti darò le mie mappe per studiare il territorio. Non conoscevi neppure Hannut, ma guarda cosa sei stato in grado di fare»

«Sono stanco di uccidere. Non ho fatto altro per tutta la vita. Forse non ho premuto direttamente il grilletto, ma ho ordinato di farlo. I soldati mi hanno soltanto obbedito; il sangue sparso non ricadrà sulle loro spalle, ma sulle mie e… non voglio più portare questa giara che, di giorno in giorno, si colma sempre di più»

«Le tue mani sono fatte per uccidere, maggiore Smith. Non puoi farci niente. Puoi solo scegliere da che parte stare. Tedeschi, francesi… siamo tutti sudici, in questa guerra che non accenna a finire. Ci sono morti, però, che servono a salvare altre vite.» Nanaba si voltò, raggiungendo il bordo della piattaforma «Sono i due lati di una amara medaglia: uccidere un nazista per noi è bene. Non ci soffermiamo mai a pensare che, senza dubbio, sotto la divisa nera e le aquile argentate si nasconde il figlio di un panettiere, il fratello di una sarta, un padre che cerca solo di sfamare la propria famiglia.

Uccidere un ribelle, per loro è bene: non possono sapere che i vestiti strappati e le mani callose celano un contadino stanco di vedere i propri raccolti distrutti; un prete che ha voltato le spalle alla sua canonica per liberare la Francia; una locandiera che ha bruciato la sua taverna per salvare un disertore. Siamo uguali, in fondo, anche se crediamo in ideali diversi. Sono questi ideali che ci portano a scontrarci, a massacrarci a vicenda, ad alimentare una guerra infinita. Possiamo cambiare le cose? Non dipende da noi, non del tutto. Siamo pedine che contribuiscono a giocare una enorme partita; però, anche una pedina, per quanto insignificante, può portare alla vittoria.
Combatteremo finché la Francia non sarà libera. Combatterete finché l’Europa non sarà in ginocchio davanti al Terzo Reich.

Devi soltanto scegliere una parte, ora: non restare indifferente per paura di macchiarti d’altro sangue. Sei già sporco, ma… a volte, rimanere inerti provoca più morti che combattere per una causa. Non c’è spazio, in questa lotta, per l’indecisione. Il sangue degli innocenti ricadrà sulle tue mani comunque, anche se non ti schiererai: apparterrà ai miei nuovi fratelli, alla mia nuova famiglia» accennò nuovamente alla cascina, dove il silenzio regnava ancora «Mi hai già rubato una vita, due anni fa. Non portarmi via anche queste. Proteggile, ti prego. Aiutaci e forse troverai la redenzione che cerchi.»

Erwin si limitò ad annuire, sigillando silenziosamente la promessa. Avrebbe fatto il possibile per cancellare quell’ennesima onta; per trovare un’occasione di riscatto.

Abbassò gli occhi sulle proprie mani: per un istante, riuscì ad immaginarle nuovamente pulite, completamente libere dal sangue e dalla vergogna. Poco dopo, però, macchie rossastre tornarono a punteggiare i palmi e le dita, come stelle scarlatte in un firmamento troppo pallido.


 


Angolino: immagino non riuscirò a tenere questo ritmo nell'aggiornare la long, purtroppo. In questi giorni, tuttavia, ero abbastanza ispirata e ne ho approfittato.
Non ho particolari appunti, mi sembra: ho passato buona parte della mattina a scegiere il modello di carrarmato più adatto per Max, in realtà. Volevo che fosse qualcosa di imponente e, al tempo stesso, adatto al contesto. Ho trovato quello - sempre grazie a Wiki *_*
Parlando di ringraziamenti, devo sempre ringraziare Shige e Auriga per le correzioni che mi hanno tempestivamente mandato e per aver approvato il capitolo: non oso pubblicare, ormai, senza il loro regale consenso <3
Come sempre, un grazie infinito se siete arrivati fin qui.
A presto

E'ry

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Un altro piano ***


28. Un altro piano
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Dintorni di Le Blanc.
 

Erwin controllò un’ultima volta la mappa; la vallata era in una posizione decisamente scomoda: ottima per bloccare i rinforzi tedeschi, pessima come via di fuga. Il suo piano non concedeva spazio ad errori o ritirate: l’unico modo per costringere i nazisti a transitare nella gola era interrompere la strada che da sud-est si insinuava tra le colline.

«Cosa abbiamo per bloccare questa?» domandò, ricevendo in cambio una scodella con del brodo e qualche crostino di pane.

«Dobbiamo proprio parlarne a pranzo?» Mike si accasciò sulla seggiola vicina, portandosi il cucchiaio alle labbra «Mh, è insipida» borbottò, ma nessuno fece caso alle sue rimostranze; gli occhi dei presenti erano tutti concentrati sulla piantina dispiegata lungo metà del tavolo.

«Sì» Erwin mosse la matita, cerchiando un punto lungo la via principale «Non abbiamo molto tempo. I nazisti potrebbero arrivare già domani. Non possiamo aspettare oltre» picchiettò la punta sulla carta ingiallita «Cos’è? Un ponte?» chiese, accennando ad una struttura segnata con un minuto quadrato.

«Esatto. È abbastanza vecchio, ma solido. Costruito in cemento e mattoni» Nanaba si sporse leggermente, indicando il tragitto segnato «In genere, i tedeschi passano di lì. Scendono in valle attraverso il ponte, ci superano e proseguono verso il fronte, a sud»

«Capisco e… perché non passano per la gola?»

«Le pareti sono strette e ripide, il terreno sconnesso e poco sicuro»

«Non passano i camion?»

«Al contrario. Passano, ma uno per volta. Non potrebbero fare inversione, né difendersi adeguatamente in caso di una imboscata. Semplicemente, quindi, evitano quel tragitto»

«Non capisco» Erwin si grattò il mento, con fare pensieroso «Perché non l’avete sfruttata, allora? È un punto perfetto per un attacco»

«Sì, ma… se fallissimo, non avremmo via di scampo. So a cosa stai pensando…» la donna tornò a squadrare il disegno del ponte «Se lo facciamo saltare, resteremo intrappolati qui. In genere, teniamo la gola come via di fuga, nel caso qualcosa andasse storto. I tedeschi usano la strada del ponte, noi li disturbiamo, li rallentiamo come meglio possiamo, ma… se il rischio diventa insostenibile, ci ritiriamo attraverso il canalone. Non ci inseguono mai, per timore di imboscate»

«Dobbiamo distruggere il ponte.» la matita tornò a segnare un corto tracciato «Così non potranno utilizzare la strada di sud-est. Li costringeremo a passare di qui, visto che è l’unica altra via che porta al fronte; la mineremo e li faremo saltare. I superstiti, beh… sta a voi decidere se fare prigionieri o meno»

«No»

«Molto bene, allora…»

Colse Nanaba sollevare una mano, come ad interromperlo:
«Hai frainteso. “No” significa che non sono incline a seguire questo piano. È troppo pericoloso. Se qualcosa andasse storto, finiremmo presi tra i tedeschi ed il fronte. Non possiamo correre questo rischio»

«È l’unica soluzione che abbiamo»

«Inventane un’altra»

«In così poco tempo? Non posso. Partiremo svantaggiati, se non faremo saltare quel ponte. Usano quella via perché sono sicuri di potervi giocare. Sanno della vostra presenza qui, ma sanno anche che siete fastidiosi quanto un banale moscerino. Fate solo rumore e null’altro.»

«La gola ci serve per una ritirata, se si rendesse necessaria. Non puoi chiedermi di rischiare tanto! Non sono propensa a metterli in gioco così» un cenno verso i ribelli, che seguivano in silenzio «Non fino a questo punto. Forse hai ragione, non siamo particolarmente nocivi. I nazisti ci considerano dei noiosi insetti? Poco male! Anche le api sanno pungere, all’occorrenza»

«Sì, ma non lo state facendo! Non state pungendo nessuno. Date solo fastidio. Se foste realmente pericolosi, i vostri nemici avrebbero già trovato un’altra strada da seguire. Se continuano a passare di qui, è perché non siete che una leggera seccatura da sopportare»

Il tono di voce della donna si alzò bruscamente:
«Non sono disposta a rischiare così le loro vite!»

«Allora torna a fare la locandiera!»

Sulla sala scese un silenzio gelido ed Erwin si pentì immediatamente di quelle parole. Gli erano sfuggite troppo in fretta perché potesse frenarle. Si morse leggermente il labbro inferiore, chiedendosi se vi fosse modo di ritirarle. Abbassò lo sguardo, tornando a fissare la carta.

«Mi dispiace» disse solo, ma il brusco suono di una seggiola ribaltata lo interruppe. Sentì dei passi secchi allontanarsi in fretta, accompagnati da un semplice “Nanaba, aspetta!” affatto ascoltato.

Tornò a fissare i presenti, ancora muti ed attoniti. Scosse piano il capo, come se non vi fosse altro da aggiungere:
«Potete andare» disse solo, ignorando le occhiate dubbiose e concentrandosi nuovamente sulla mappa spiegazzata.
 

***
 

Un altro piano. Era a ciò a cui Erwin stava pensando da un paio d’ore ormai. Si era chiuso in cucina, rifiutando di parlare con chiunque, compreso lui.  Era rimasto sulla soglia per un po’, ma alla fine aveva desistito, abbandonando il biondo alle sue elucubrazioni.
Si era diretto all’esterno, contando i passi quasi per noia. I ribelli erano tornati alle loro attività quotidiane: rassettare la camerata, contare le munizioni, lucidare armi e controllare la dispensa. C’era ancora della carne salata, che si sarebbe sposata benissimo con i tuberi raccolti da Alain di primo mattino. Di Mike non vi era traccia, mentre Nanaba…
Si bloccò quando la riconobbe seduta su una panca malmessa, lungo il margine destro dell’aia. La donna stava fumando silenziosamente, sbuffando boccate nell’aria fresca del primo pomeriggio.
Levi si avvicinò cautamente, le mani cacciate nelle tasche della larga giacca che non aveva più restituito al suo proprietario.

«Che vuoi?» la donna lo apostrofò malamente, senza neppure fissarlo. I suoi occhi sembravano concentrati sul punto lontano di un immaginario orizzonte.

«Soltanto parlarti» non seppe neppure il perché di quella affermazione. In realtà, non lo desiderava affatto, anzi. Più stava alla larga da lei e meglio era: Nanaba aveva qualcosa di esplosivo e poco controllabile. Non era una di quelle donne che si potevano mettere a tacere facilmente e, anzi, aveva l’aria d’una abituata a prendere il sopravvento su chiunque.

«Non ne ho voglia»

«Non mi interessa» replicò, accomodandosi sulla panchina. Rilassò le spalle contro lo schienale in legno grezzo, ignorando il sottile pungere di alcune schegge «Erwin non lo ha fatto apposta»

«A fare cosa? A dire che dovrei fare la cameriera invece che rendermi utile per la Francia?»

«Sì»

La vide gettare il mozzicone a terra e schiacciarlo sotto la suola dello stivale:
«Lo sai perché mi brucia tanto?» una piccola pausa ed un sorriso amaro «Perché ha ragione. È vero, io… non sono un soldato. Non so combattere, né comandare. Ci provo, ma questo non significa che io sappia farlo. Mi sono presa cura di questo gruppetto di sbandati e … per cosa? Non certo per vederli gettarsi tra le fiamme, in uno stupido piano senza scappatoie. Non sono un generale, me ne rendo conto: se lo fossi, avrei appoggiato il piano del tuo amico in un batter d’occhio. È un’ottima idea, in realtà: facile da attuare e decisamente letale. Attirare i tedeschi nella gola e farli saltare è semplice: uccide, ferisce, mutila. Distruggeremmo un piccolo convoglio senza difficoltà, ma… che faremo se invece che quattro camion ne arrivassero dieci? Non possiamo saperlo, non con certezza. Sappiamo solo che arriveranno. A quel punto, dopo aver distrutto i primi quattro, dovremo ripiegare e… dove andremo? Come fuggiremo? Saremo presi tra un ponte crollato, il fronte e i nazisti. Non ce la faremo.» uno sbuffo, di nuovo «La verità è che non sono disposta a correre il rischio, capisci? Non sono pronta a sacrificare la mia famiglia, non ancora.»

«L’altra sera, però, mi sei parsa parecchio risoluta. Hai detto che non sarebbe stato un problema fermare Weilman o i rifornimenti…»

«Mentivo. Mi rendo conto che venti persone sia un numero piuttosto esiguo.»

«Perché lo hai fatto, allora?»

«Ho cercato di infondere coraggio ai miei uomini. Che cosa avrebbero detto se mi avessero vista tentennare? Avrei perso la loro fiducia. La verità è che comprendo la nostra inutilità: fingiamo di combattere per la Francia, per la libertà, ma… sotto sotto, non siamo che dei codardi troppo pavidi per poter prendere la decisione giusta. Ci accontentiamo di mantenere i rapporti con Vichy, di perpetuare piccole azioni di disturbo, di… infastidire i nazisti, proprio come delle sciocche mosche. Non li fermiamo mai, in realtà: ne uccidiamo qualcuno, ne feriamo altri, ma… il grosso delle truppe continua a transitare qui. Smith ha ragione: non siamo un grosso problema per Berlino. È per questo che ci lascia sopravvivere: non valiamo neppure le munizioni che spenderebbero per fucilarci. Avvilente, vero?»

«Solo un po’» scosse il capo, incerto. Comprendeva perfettamente quei discorsi, in fondo. Nessuno, in quella guerra, era davvero disposto ad osare di più: nemmeno lui avrebbe voluto rischiare la vita di Farlan o di Isabel. C’era chi prendeva decisioni simili al posto suo: comandanti e generali, a cui le esistenze monotone di semplici aviatori non interessavano affatto. Erano carne da macello, indipendentemente dalla divisa che indossavano. Venivano mandati, semplicemente, a morire: partivano dieci aerei e tornavano soltanto in cinque? Non aveva importanza, purché la Luftwaffe ne avesse persi almeno otto. Viceversa, beh… era un errore di calcolo, una strategia sbagliata che aveva influito su una prevedibile sconfitta. In breve, uno spreco di aerei più che di esseri umani: un buon pilota era facile da trovare, ma uno Spitfire pronto all’uso decisamente no. Le carlinghe erano, paradossalmente, più importanti delle loro stesse vite.

Il discorso di Nanaba, dunque, non gli appariva affatto astratto: che male c’era a scegliere i propri compagni? Nessuno, anche se questo significava non rischiare mai. Vivere nell’illusione di essere sempre al sicuro, di poterli proteggere e non perderli, nemmeno per una causa più grande. Non poteva sperare di compiere grandi imprese, non senza un cosciente sacrificio, ma forse a lei non importava: trovare il proprio nome nei libri di storia non valeva le vite dei suoi amici; oppure, semplicemente, aveva troppo da perdere.

«Pensi che Smith troverà un’altra soluzione?» la voce della giovane interruppe quelle riflessioni.

«Senza dubbio, ma… potrebbe volerci del tempo. Tempo che forse non abbiamo.»

«Non voglio prendere la decisione sbagliata. Se mi fidassi, se scegliessi di seguire il piano di Erwin… che accadrebbe se ci ritrovassimo con le spalle al muro? Circondanti dai nazisti, senza possibilità. Che ne sarebbe di noi?»

«Immagino verremo fucilati»

«Non voglio che la mia famiglia venga nuovamente distrutta. Non potrei sopportare i loro sguardi» accennò ad un paio di ribelli, intenti a spaccare la legna «Non potrei sopportare la riprovazione, la delusione, forse le accuse che mi getterebbero addosso nei loro ultimi istanti. Sarei stata io a spingerli nelle braccia del nemico, senza neppure un briciolo di considerazione per loro.»

«Sbagli» spiò le accette che, poco lontano, calavano inevitabilmente sui ciocchi «Non avrebbero nulla da rimproverarti. Al contrario, sarebbero fieri di te. Li ho visti, sai? Ti guardano come se fossi davvero un generale e sono pronti a seguirti ovunque; in anni di servizio, ho imparato a riconoscere la devozione e loro ne sono colmi: non credo d’aver mai visto tanta fiducia, nemmeno tra le fila della Raf. Ti osservano e vedono una guida, qualcuno a cui possono affidarsi senza timori. Non hanno paura di morire, non se sarai tu a guidarli: sono consapevoli del rischio, glielo si legge in faccia, ma… al tempo stesso, non lo temono. Desiderano solo fare la cosa giusta, aiutare la Francia, salvare le loro famiglie e gli amici che ancora li attendono. Pensi che risparmiandoli esaudiresti questa loro volontà? Costringendoli a combattere in sordina, senza mai esporsi, senza mai… contare realmente qualcosa per questo Paese!» un sospiro, tornando poi a squadrare la donna «Non sono francese e non so quanto conti per voi il patriottismo. Io sono solo un soldato, arruolatosi più per forza che per amore. Non sono mosso da nessun grande ideale. Mi piaceva volare, tutto qui. Mi sto rendendo conto solo ora delle mie azioni, di quanto un singolo gesto abbia pesato sulle realtà altrui. Se vinceremo la guerra, forse sarò ricordato come uno dei tanti eroici aviatori che hanno combattuto per liberare l’Europa, ma… in cuor mio, saprò d’essere solo uno stupido che si è fatto abbagliare da false speranze. Non commettere il mio stesso errore: tu puoi fare la differenza. Puoi farla davvero, ma… per compiere un passo simile, devi essere disposta a sacrificare qualcosa o… qualcuno.»

Raccolse un mesto ciondolare del capo:
«Sono solo una locandiera, ricordi? Chi voglio ingannare?»

«Non dovresti darvi troppo peso. Credi che Erwin ti avrebbe aiutata, se ti reputasse un’incapace? Ti ha chiesto una mappa e delle informazioni»

«Lo sto obbligando ad aiutarci. Ho fatto leva sui suoi sensi di colpa. La verità è che non sono capace di mettermi in gioco, non quanto lui, almeno. Sono una persona meschina: gli ho rinfacciato Hannut per costringerlo a collaborare»

«E pensi che questo basti? Insomma, se non volesse o se ti consierasse una cretina completa, credi davvero che sarebbe rimasto qui? Ce ne saremmo andati e avremmo trovato un modo per passare il confine da soli»

«Cosa dovrei fare?»

Levi stiracchiò piano le braccia, prima di alzarsi «Dagli un’altra possibilità; prova ad ascoltarlo, sono sicuro che riuscirà a convincerti» mosse qualche passo per sgranchirsi le gambe, prima di premere sullo stomaco con una mano «E… se potessi farmi un the, ne sarei felice»
 

***
 

«Ho controllato» Nanaba oltrepassò la soglia della cucina, raggiungendo il tavolo e scaricandovi il contenuto di un grosso sacco «Queste sono le munizioni ancora disponibili. Ne abbiamo a sufficienza, direi. Se non le sprechiamo, dovrebbero bastarci»

Erwin staccò lo sguardo dalla mappa, aggrottando la fronte: metà cartina era ora ricoperta da cinturoni con proietti per fucili e pistole. Uno sembrava compatibile solo con le mitragliatrici, mentre qui e là spuntavano i familiari ganci delle granate.
«Avete una mitragliatrice?» chiese, indicando i lunghi colpi dorati.

«No, purtroppo. Li tengo di scorta, però. Potrebbe servire della polvere da sparo aggiuntiva, all’occorrenza» la donna si sedette accanto a lui, sfilando un disco piatto da sotto le falde del largo cappotto «Mine. Ne abbiamo una quindicina, circa. Hanno una miccia piuttosto lunga e possiamo collegarle ad un innesco manuale, se vuoi farle esplodere in serie.»

«Beh, sì… l’ideale sarebbe minare l’intera gola e quando il primo camion sarà verso la fine della strettoia, farlo saltare. Di conseguenza, faremo scoppiare anche quelli che lo precedono»

«Molto bene. Abbiamo anche un paio di barili di polvere da sparo pura. Abbiamo depredato un convoglio di munizioni, qualche mese fa» fu l’unica spiegazione che ricevette, mentre un indice sottile andava a premere sul disegno del ponte «Potremmo usarli per farlo saltare. Distrutto quello, penseremo alla gola. Quanto alle armi, beh… vi è un poco di carenza. Abbiamo fucili, ma solo per la metà di noi e… qualche pistola. Qualche granata, ma di piccolo calibro.»

«Li faremo bastare» Erwin incrociò lo sguardo verde della donna, senza riuscire a leggervi altro che una ferma risolutezza «Sei sicura?»

«Sì»

«Non voglio che ti senta costretta in un piano in cui non credi.»

«Lo so; e so che prima ci siamo scaldati per niente, tutti e due. È il caso di riacquistare un po’ di calma ed imparare a fidarci. Non andremo da nessuna parte se non collaboreremo. Inoltre, non posso continuare a nascondermi qui. I miei uomini contano su di me e su di te. Vogliono combattere, questa volta; gliel’ho chiesto, ne abbiamo parlato e sono tutti concordi con il tuo piano. Vogliono rendersi utili e dare una lezione a quei bastardi tedeschi!» un piccolo cenno imbarazzato «Senza offesa, ovviamente»

«Nessun problema.» Erwin ruotò la mappa, così da permetterle di osservare «Mineremo la gola, come ti dicevo: piazzeremo delle cariche in questi punti» tracciò dieci piccoli segni, disponendoli a due a due «Ogni coppia sarà collegata ad un innesco: faremo correre il filo lungo le pareti del pendio. Sono tanto ripide?»

«Per un veicolo sì, ma… immaginale come un crinale molto irto di una collina. Brulle, coperte di sassi, argilla e qualche sporadico arbusto»

«Perfetto. Nasconderemo i fili con della terra e li faremo salire sino alla sommità del pendio. Lì c’è vegetazione?»

«Sì. In cima, le pareti sono contornate da bassi e frondosi cespugli. Saranno un perfetto nascondiglio.»

«Ottimo. Mi serviranno tre uomini da posizionare alle micce. Gli altri li distribuiremo lungo entrambi i crinali. Cercheremo di non fare prigionieri»

«Sono d’accordo. E per il ponte?»

«Ci divideremo in due squadre oggi pomeriggio: la prima andrà a preparare la gola, l’altra farà saltare il ponte. Possiamo usare le cariche rimanenti e la polvere da sparo. Non è necessario demolirlo tutto, ma creare una voragine sufficiente da impedire il passaggio dei camion. Avete assi di legno abbastanza lunghe?»

«Qualcuna, ma dovrei controllare»

«Le celeremo nei pressi del ponte, sul nostro versante. Se dovesse essere necessaria una ritirata improvvisa, ci daremo appuntamento lì. Useremo le assi per ricollegare le sponde e le attraverseremo. Non sarà stabile, né sicuro, ma possiamo tentare»

«Non serviranno. Questa volta non fuggiremo: né tu, né io. È tutto?»

«Penso di si»

Una mano si tese in sua direzione; la strinse in silenzio, limitandosi ad un cenno del capo. Poi, come era venuta, Nanaba tornò sui propri passi, scomparendo poco dopo oltre la soglia della cucina.
 

***
 

Erwin si tappò le orecchie con le mani, mentre le cariche brillavano tra i piloni del ponte. Ne avevano utilizzate a sufficienza per creare uno squarcio abbastanza largo da impedire il transito di qualunque mezzo. L’intero arco centrale era crollato; cemento e i mattoni si erano riversati nel fiume con un ampio spruzzo, mentre l’acqua gorgogliava infastidita da quell’intromissione.

«Abbiamo finito» disse solo, osservando il risultato soddisfatto.

«Basterà a fermarli?» Levi si era accostato, spiando le macerie rimanenti.

«Sì. Li costringerà a deviare verso la gola oppure a rinunciare. In entrambi i casi, avremo raggiunto il nostro scopo: al fronte non arriveranno rifornimenti»

«Credi passeranno solo camionette? E se inviassero dei cingolati?»

«Le cariche potrebbero non essere sufficienti a fermarli, in questo caso. Però, l’altra strada è molto più ripida ed impervia di questa, soprattutto nel tratto finale. Non credo che un carrarmato se la caverebbe bene su un terreno tanto sconnesso. Ho tenuto della polvere da sparo, nel caso fosse necessario colpirli»

«Funzionerà?»

«Lo spero, ma…» le sue parole vennero interrotte da un insistente picchiettare sulla spalla. Il maggiore si voltò, incrociando il viso arrossato di Mike «Che ci fai qui? Pensavo fossi stanziato alla gola»

«Sì, ma sono corso ad avvertirti. I nostri informatori hanno visto il convoglio. Dovrebbe contare quattro, cinque camion al massimo. Quello deputato al trasporto munizioni viaggerà in centro, mentre quelli con i soldati saranno in testa ed in coda. Ognuno porterà almeno venticinque soldati. Se mantengono questo ritmo di marcia, saranno qui in mattinata»

«Perfetto! Faremo saltare il camion con le munizioni per primo. Esploderà come una polveriera carica e forse ci agevolerà il compito: dovrebbe amplificare lo scoppio e coinvolgere anche i mezzi vicini. In questo modo, forse potremo risparmiare sull’esplosivo e tenerlo in caso di necessità. Viceversa, potremo far brillare l’intero percorso nel canale e distruggere anche gli altri quattro. Carrarmati?»

«A quanto pare, nessuno.»

«Bene. A che punto siete?»

«Quasi finito. Stiamo ultimando gli ultimi dettagli: abbiamo nascosto gli inneschi, come hai suggerito. Pierre, Gabriel e Pascal si sono offerti volontari per attivarli domani. Gli altri hanno già provato a posizionarsi, scegliendo le linee di tiro migliori» una pausa e un piccolo sogghigno appena coperto dai baffi «Sai, da queste parti… dicono che abbattere un ponte porti sfortuna. È sinonimo di una strada che si interrompe bruscamente e troppo precocemente; un rapporto che si rompe e un legame che salta. Chissà… Anche se credo sia solo una sciocca superstizione.»

Erwin annuì in silenzio, tornando a guardare davanti a sé. La luce del tramonto indorava i campi, arrivando a bagnare la serpiginosa strada ora bruscamente interrotta. Il ponte appariva come una ferita fresca in quel paesaggio pacifico, quasi fosse un orrendo presagio o una cicatrice che a lungo avrebbe deturpato la quiete.
 
 


Angolino: buonaseraaaa! Ci ho messo una eternità ad aggiornare, lo so. Mi dispiace moltissimo, ma purtroppo gli impegni e il lavoro si sono accavallati, rubandomi un po' del tempo che dedico alla scrittura. Viceversa, quando avevo tempo non trovavo la giusta ispirazione e così ho rimandato sino ad oggi.
So che è l'ennesimo capitolo di transizione, ma era necessario per introdurre il pezzo successivo. La Long entra nel suo arco finale, praticamente. Manca ancora qualche capitolo, ma la conclusione si avvicina sempre di più.
Ringrazio, quindi, quei pochi e fedeli lettori che l'hanno seguita fin qui! ^^ scusatemi, se potete, per questo ritardo imperdonabile.
Un ringraziamento infinito ad Auriga per aver letto il capitolo in anteprima ed avermi dato supporto e suggerimenti per le correzioni.
Un abbraccio, vicersa, a Shige che - suo malgrado - si ritroverà il nuovo capitolo a suo insaputa. Consideralo un piccolo premio per i tuoi ultimi sforzi, che ti hanno portato via tempo ed energie. Avrei voluto scrivere qualcosa di meglio per voi, ma... questo è quanto son riuscita a produrre. Non è una scusa, lo so. Mi dispiace.
Detto questo, beh... spero di metterci meno ad aggiornare in futuro.
Un abbraccio e un grazie per aver letto fin qui

E'ry

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Un mostro ***


29. Un mostro


Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Dintorni di Le Blanc.
 

Nanaba scoccò uno sguardo al cielo, dove fitte nubi preannunciavano pioggia. Un vento freddo frustava la vallata, costringendo la donna a nascondere il naso dietro una sciarpa di lana grezza. Strinse il cappotto color oliva, allacciandolo in vita, prima di tornare ad accucciarsi tra i cespugli. Le sentinelle al ponte avevano riferito d’aver scorto i camion tedeschi; erano soltanto cinque, proprio come annunciato dall’informatore il giorno precedente. Li avevano visti frenare bruscamente, squadrare la voragine con diffidenza e tornare indietro, piegando verso la via che conduceva nella gola. Quegli sciocchi avevano deciso di tentare comunque il passaggio, malgrado la strettoia ed il terreno sconnesso.

Si acquattò dietro un arbusto, osservando la strada sottostante attraverso i rami spinosi. Una quindicina di metri più in basso, la viuzza sterrata si snodava lungo le pareti della gola; per raggiungerla, le sarebbe bastato affrontare la ripida discesa a ginocchia flesse o strisciando tra i sassi e le sporgenze. Viceversa, salire sul crinale era più semplice: da entrambi i lati, i pendii divenivano più morbidi ed erbosi, offrendo migliori appigli; certo, niente che un veicolo potesse scalare, ma i piedi allenati dei soldati avrebbero potuto facilmente guadagnare la sommità delle colline. Non poteva permetterlo: se i soldati nemici li avessero raggiunti, li avrebbero costretti ad uno scontro in campo aperto, vanificando il loro vantaggio.

Poggiò l’indice sul grilletto del fucile, trattenendo il respiro al notare cinque sagome profilarsi all’orizzonte. Erano semplici camion militari, coperti da teloni verdastri e dalla carrozzeria infangata. Le buche sforzavano continuamente gli ammortizzatori, che producevano un fastidioso cigolio.

«Arrivano» sussurrò, scoccando una occhiata alla propria sinistra; Gabriel, Pascal e Pierre le regalarono un cenno d’assenso: erano pronti. Li scorse afferrare le micce e collegarle agli inneschi: le dita si muovevano sicure, senza alcun tentennamento. Lesse risolutezza sui volti; il loro compito era semplice, ma fondamentale: dovevano soltanto abbassare una leva e le mine sarebbero brillate immediatamente.

«Aspettate quando saranno a portata di tiro. Attendete il segnale del maggiore» un altro sguardo, questa volta oltre le spalle. Erwin si era appostato dietro un robusto masso. La capigliatura bionda sporgeva leggermente da un angolo, dando al sasso un aspetto buffo: pareva quasi che del grano avesse messo radici sulla roccia. Da quella posizione, tuttavia, non le era possibile scorgere il viso del tedesco: che cosa provava? Ansia? Delusione per quella Germania che si apprestava a tradire ancora una volta? Rimpianto per quei soldati che, di lì a poco, sarebbero saltati in aria, ennesime vittime di un’anima troppo nera per poter essere redenta? Scosse il capo, cercando di concentrarsi. I camion avanzavano velocemente, sobbalzando lungo lo sterrato.

«Tutto bene?» una voce la costrinse a voltarsi verso destra. Mike le aveva posato una mano sulla spalla, stringendo appena per confortarla.

«Sì» rispose soltanto, tornando a studiare la formazione «Dov’è l’Inglese?»

«Laggiù» suo marito le indicò un basso cespuglio, dietro cui si intravedeva una sagoma rannicchiata «Erwin avrebbe preferito che rimanesse alla cascina, ma… ha voluto raggiungerci a tutti i costi. Lo abbiamo confinato nelle retrovie»

«Perché?»

«È un pilota. Dubito che sappia come si combatte sulla terra ferma»

«È comunque un altro paio di braccia volenterose. Digli di avanzare, quando attaccheremo»

Un cenno d’assenso e nuovamente silenzio, rotto solo dal motore dei mezzi in avvicinamento. Il primo camion entrò nella gola, con uno scricchiolio assordante.
«Dovrebbero ricontrollare gli assi delle ruote» colse il bisbigliare sarcastico del compagno. Mosse una mano, intimandogli di tacere, mentre gli occhi chiari rimanevano incollati al percorso. Scrutò attentamente il retro della vettura: oltre il bordo del telo scuro si intravedevano le ginocchia e gli stivali dei soldati. Fu così anche per il secondo, mentre sul terzo notò chiaramente le casse delle munizioni. Schioccò due volte la lingua sul palato, richiamando l’attenzione del maggiore; mimò un tre con la mancina. Gli ultimi due mezzi ospitavano ancora truppe. Scosse il capo, incerta: erano in numero nettamente inferiore, rispetto ai nazisti. La loro unica possibilità era farli saltare e sperare che questo bastasse ad annientarli.

Fremette quando scorse il primo camion arrivare al limite della gola. Ancora qualche metro e l’avrebbe superata del tutto. Che diamine stavano aspettando?! Guardò freneticamente attorno a sé, cogliendo gli artificieri pronti, accanto a Smith: l’uomo teneva il pugno alzato e le iridi incollate alla testa del convoglio.

«Che sta facen…?»

Non riuscì a concludere la frase. Un boato squarciò l’aria del mattino, mentre il fuoco si sollevava dal terreno, incendiando rapidamente i telai, le ruote, le divise dei soldati. Una seconda esplosione e poi una ancora. Il fragore si propagò lungo tutta la vallata, rimbombando tra i pendii erbosi. Il terzo camion saltò in aria, bruciando rapidamente. Schegge metalliche volarono in ogni direzione, ferendo e mutilando. Al frastuono delle esplosioni seguirono le urla, lo sgomento ed il dolore: scorse un ufficiale gettarsi da un oltre le fiamme, trascinando un compagno senza una gamba. Il sangue scorreva lungo il terreno, arrivando a bagnare gli stivali di improvvisate torce, contorte dal dolore e dall’affanno. Altri due scoppi segnarono la fine degli ultimi camion e la scena si ripeté davanti ai suoi occhi: la benzina schizzò alta quando una lamiera frantumò il serbatoio; il carburante si incendiò, attaccandosi agli abiti dei tedeschi vicini. Il panico corse nella gola, accompagnato dalla morte inesorabile. Quegli uomini stavano ardendo come fiaccole o giacevano dissanguati; i pochi superstiti cercavano di soccorrere i feriti, tamponando le fiamme con i teli dei camion. Altri tentavano inutilmente di arrestare le emorragie. I volti di tutti erano bagnati dal terrore, dallo sgomento, mentre una sola domanda correva sulla bocca di tutti: perché? Chi aveva scelto per loro quella fine orribile? L’odore di carne bruciata si propagò nell’aria, accompagnandosi a quello della gomma fusa, della benzina ed al calore scoppiettante del fuoco.

Rannicchiato dietro uno pneumatico, un cadetto pregava silenziosamente, le mani tremanti giunte al petto.
«Mutti! Mutti!»
Non conosceva il tedesco, ma Mike si era sforzato di insegnarle qualche parola. Mamma! Mamma!

Colse una morsa serrarle lo stomaco; il fucile le cadde di mano, mentre gli occhi si rifiutavano di abbandonare la carneficina. I ribelli avevano aperto il fuoco: i proiettili calavano inesorabili sui sopravvissuti, mietendoli uno ad uno. Le urla raddoppiarono. Qualcuno cercò di rispondere ai colpi, ma inutilmente. Smith era in piedi e abbaiava ordini a destra ed a manca: gli uomini obbedivano prontamente, senza neppure chiedersi che stavano facendo. Quanto carisma possedeva un uomo del genere? E quanto poteva essere sporca la sua coscienza? Il sangue correva lungo le braccia robuste, arrivando a bagnare le dita sino alla punta; poteva quasi immaginarle tinte di scarlatto, impossibili da lavare. Non c’era redenzione per un’anima simile. Gliel’aveva inutilmente promessa, spacciandola per un perdono che non avrebbe conquistato neppure aiutando la loro causa. Tuttavia, non poteva addossare la colpa di quel macello ad un solo uomo: ne era complice anche lei. In fondo, lo aveva convinto – quasi obbligato – ad elaborare quel piano. Come aveva detto? Rimanere indifferenti non significava essere salvi. Al contrario, gli aveva rinfacciato Hannut finché Erwin non aveva ceduto. Aveva elaborato un piano per lei, per soddisfare le sue richieste: fermare i nazisti, bloccare i rifornimenti, non concedere quartiere. Il maggiore aveva solo assecondato quelle pretese assurde ed egoiste. Se solo si fosse fermata a riflettere sulle conseguenze dei propri capricci…

Non erano solo le vite dei propri uomini, quelle che stava cercando di proteggere. Forse, salvare Alain, Gabriel, Pascal e tutti gli altri, non era altro che una scusa; una facciata per mantenere linda la propria coscienza: per non sporcarsi, per non rischiare di ritrovarsi con l’anima macchiata indelebilmente; per concedersi facilmente il perdono e non ritrovarsi con le mani intinte nel sangue. Aveva lasciato che Smith si facesse carico di quell’ennesimo peso; aveva permesso che fosse lui a portarlo, sulle sue spalle. Non erano forse tanto robuste da reggere quell’ennesimo peccato? Senza dubbio. Un peccato che nessuno desiderava affrontare, neppure lei. Erwin era capitato al momento giusto: gli aveva vomitato contro tutto il disprezzo, l’odio, la vergogna e…lui aveva sopportato. Si era addossato anche i suoi delitti, senza nemmeno provare a ribellarsi. Era abitudine, la sua? Probabilmente sì. Forse era assuefatto da tali comportamenti che ormai non ci faceva più caso: la gente gli accollava crimini e mancanze e lui se ne prendeva la colpa, in silenzio ed a capo chino.

«È un mostro…» sussurrò, studiando per un istante i lineamenti duri, che non tradivano alcuna espressione. Erwin era immobile, come una statua stagliata contro il cielo grigio di un mattino qualunque. Le falde del cappotto scuro svolazzavano lungo i fianchi, come fossero le corte ali di un assurdo demone.

Non poteva essere un comune mortale, di questo ne era certa. Più lo guardava e più gli sembrava una figura eterea, fuggita dalle pagine di un libro del terrore. Uno di quei volumi che da piccola cercava di sfogliare di nascosto e che suo padre prontamente le sottraeva. Edgar Allan Poe e Mary Shelley non erano autori adatti ad una bambina di otto anni. Eppure… il signor Poe e la signora Shelley non avrebbero mai potuto prevedere che una delle loro macabre creature sarebbe sfuggita al racconto. Che cosa c’era di umano, oltre quel guscio di carne ed ossa? Era rimasta della luce, in quell’animo turbato? Oppure vi erano solo tenebre, intente ad erodere anche gli ultimi barlumi di speranza? Era così diverso dall’uomo con cui si era confidata al vecchio silos. Allora gli era parso tormentato, ma ancora comprensivo e terreno. Ora, invece, non rimaneva più nulla di quella persona: era come se un’altra figura si fosse sostituita al maggiore Smith. Qualcuno di spietato, di freddo e troppo calcolatore per poter essere coinvolto dalle emozioni mondane. Troppo per poter essere salvato.

«Nanaba! Nanaba!»

La voce di Mike la riportò bruscamente alla realtà. Le sue dita si strinsero sul fucile e le sue ginocchia scattarono verso l’alto, permettendole di sbucare a stento da dietro il cespuglio che le aveva offerto riparo.
C’era ancora qualcosa che poteva fare, per riscattarsi: porre fine a quelle inutili agonie. Cancellare quelle preghiere, annullare le urla e sfruttare un proiettile come unica terapia.

Mosse la canna verso il primo soldato, dal cui petto sbucava la punta acuminata di una scheggia; tirò il grilletto e vide il ferito accasciarsi come una marionetta senza fili. Un altro sparo ed un’altra morte: un uomo avvolto dalle fiamme crollò a terra ed il compagno agonizzante lo raggiunse poco dopo. Uccidere poteva essere una forma di riscatto? Forse… Non aveva scelta. Quei volti terrorizzati, le grida, le suppliche avrebbero tormentato i suoi sogni; l’unico modo per celarli era spegnerli definitivamente e sperare che quella inconsueta forma di pietà bastasse a salvarla. Avrebbe lasciato alle madri, alle mogli, ai figli il compito di maledirla. Per quegli sfortunati, però, i suoi colpi sarebbero apparsi come il solo regalo in una vita troppo breve ed ingiusta.
 

***
 

Erwin non abbassò lo sguardo, nemmeno al cogliere l’ultimo e fragoroso scoppio: il serbatoio del quinto camion aveva preso fuoco, esplodendo poco dopo. Le urla si erano moltiplicate, così come il suono degli spari ed il crepitare intenso delle fiamme. Si rifiutò di staccare gli occhi dall’orizzonte, ora inondato da una densa nuvola nera. Sapeva già cosa avrebbe visto: l’ennesima strage, i soliti volti segnati dalla paura e dall’orrore e il sangue arrivare nuovamente a lambire le sue dita. Scosse piano il capo, come a scacciare quei lamenti che tentavano disperatamente di trascinarlo nella realtà. Chiuse involontariamente i pugni, serrandoli lungo i fianchi. Quando sarebbe finito tutto ciò? Quando la morte avrebbe smesso di sfruttarlo come strumento per mietere anime?

Batté le palpebre, infastidito dal fumo che si stava propagando rapidamente, salendo in cielo in volute compatte e dense, diramandosi come una infida nebbia scura. C’era qualcosa, tuttavia, di sbagliato: nella nube nerastra si era acceso un fascio di luce, brillante come una coppia di occhi gialli. Poco dopo, un secondo paio fece capolino tra le spire del fumo: fanali giallastri, senza dubbio. Fari rotondeggianti, troppo grandi per appartenere ad una macchina; adatti solo a delle camionette.

«Maledizione!» ringhiò a denti stretti, agitando un braccio in direzione dei ribelli «Arrivano altri due mezzi! Concentrate il fuoco su di loro» gridò, mentre il sibilare di alcune pallottole arrivava a straziare l’aria circostante.

Come era possibile? Gli informatori avevano parlato solamente di cinque veicoli, di cui quattro con truppe. Perché ne erano sopraggiunti altri due? Che fossero rinforzi al convoglio, rimasti indietro? Oppure…

La verità prese forma davanti ai suoi occhi: i camion tedeschi si erano fermati prima dell’incendio, vomitando ciascuno una ventina di soldati, che iniziarono immediatamente ad arrampicarsi sui crinali ripidi. Li vide salire agilmente, balzando da una roccia all’altra, sfruttando i punti maggiormente sicuri ed usando gli arbusti come appiglio.

«Non devono raggiungerci…» sussurrò, sollevando nuovamente una mano «Fermateli! Non devono salire!» ordinò, sforzandosi di apparire sicuro, di non lasciare trasparire alcuna incertezza. Il suo piano si stava lentamente sgretolando: l’attacco era stato un successo e l’avrebbero spuntata facilmente se non fossero sopraggiunti dei rinforzi inaspettati; il loro vantaggio si era drasticamente ridotto ed i rapporti si erano ribaltati: per ogni ribelle, si contavano due, tre nemici.

Scosse piano il capo, aggrottando la fronte. C’era qualcos’altro che gli sfuggiva, che non aveva considerato. Caricò la Mauser, puntandola verso il bordo del crinale al vedere un elmetto scuro spuntare da oltre un cespuglio. Premette sul grilletto, ricaricò, scaricò un altro colpo. Scorse l’uomo boccheggiare ed accasciarsi, accanto ad un compagno già ucciso.
Sparava meccanicamente, senza riuscire a collegare: perché la presenza di quei veicoli a supporto? L’informatore non ne aveva parlato. Che fossero parte di un altro convoglio? Oppure…

Realizzò troppo tardi. Uno scoppio vicino gli ferì le orecchie e la gamba sinistra lo tradì inaspettatamente. Colse un bruciore attraversargli la coscia, l’odore metallico arrivare a stuzzicargli le narici e un liquido caldo bagnare la stoffa dei pantaloni.
Abbassò le iridi un solo istante, il tempo necessario ad individuare il foro che attraversava i tessuti, prima di crollare in ginocchio, incapace di sostenersi ulteriormente. Premette le dita sulla ferita, cercando di arrestare l’emorragia improvvisa, mentre una leggera risata lo raggiungeva. Lo sguardo intercettò una figura baldanzosa emergere dal fumo nero.

Weilman indirizzò la corta canna della pistola verso il suo petto, concedendosi un leggero sogghigno:
«Guten morgen Herr Major»
 

 

Angolino: eccomi di ritorno! Questa volta aggiorno più rapidamente ^^
Spero di poter proseguire presto, tempo e ispirazione permettendo.
Non ho particolari appunti sul capitolo; finalmente, il piano si concretizza e viene messo in atto ^^
Al solito, vi ringrazio per aver letto fin qui. Se avete consigli, scrivetemi pure *_*
Un ringraziamento a Auriga e Shige per avermi sopportato nel weekend e per aver letto in anteprima questo brano. Ho ottenuto il loro via libera alla pubblicazione, quindi... beh, eccolo qui.
Un abbraccio e ancora grazie

E'ry

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Settanta volte sette ***


30. Settanta volte sette
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Dintorni di Le Blanc.
 

«Erwin!»

Levi scattò fuori dal proprio nascondiglio, spianando la canna della Webley davanti a sé. Non era abituato ai revolver, ma Mike gli aveva rifilato soltanto quello. Premette il grilletto, ricaricando velocemente e facendo nuovamente fuoco. Entrambi i proiettili schizzarono nell’aria, mancando il bersaglio. Colse Weilman indietreggiare e sbraitare ordini in tedesco. Cercava aiuto presso i suoi fedelissimi?
Una nuvola di fumo nero tornò ad oscurare la scena, coprendo la visuale per un istante. Ne approfittò per avvicinarsi al maggiore.

«Ce la fai?» chiese, passandosi un braccio attorno alle spalle «Dobbiamo andarcene da qui!» sussurrò, senza celare una nota urgente. Non aveva senso rimanere, non in quelle condizioni; doveva portare il compagno in un luogo sicuro, arrestare l’emorragia e… poi sarebbe tornato a dare man forte ai ribelli e ad uccidere Weilman, senza dubbio. Quel bastardo possedeva un maledetto tempismo: perché spuntava sempre quando erano in difficoltà? Ogni volta che pensavano d’averla scampata, di essere al sicuro, il capitano compariva sulle loro tracce, come un instancabile cacciatore.

«Sì» Erwin cercò di rimettersi in piedi, ma il ginocchio cedette nuovamente. La gamba era ormai inondata dal rosso cupo del sangue, che non accennava a smettere «Non voglio, aspetta… posso farcela…»

Parole testarde, che l’aviatore si sforzò di non assecondare. Circondò i fianchi dell’altro, aiutandolo a sostenersi. Si mosse piano, sforzandosi di non procurargli ulteriori fitte.
«Andiamo…»

«Ma… stanno ancora combattendo. Non possiamo abbandonarli»

«Allez-y!» la voce di Alain si intromise. Il prete indicò la cascina « À la maison! Nous arrêterons les Allemandes»

Scosse il capo, senza comprendere quelle parole. L’unica direttiva, tuttavia, era di raggiungere immediatamente la cascina, che si stagliava sullo sfondo dell’improvvisato campo di battaglia. Quanto poteva distare? Mezzo miglio, forse poco di più. Potevano farcela.

«Grazie» sussurrò, notando altri due francesi accostarsi al religioso, imbracciando i fucili. Alain e gli altri avrebbero coperto la fuga, permettendogli di raggiungere il rifugio. Si sarebbero occupati loro di Weilman e dei suoi stupidi tirapiedi. Strinse meglio il braccio del maggiore, obbligandolo a muoversi passo dopo passo «Andiamo» mormorò «Lo so che è fastidioso, ma devi resistere»

«Se credi sia per la ferita, ti sbagli» il tono del maggiore era asciutto, irritato. Lo vide serrare ritmicamente il pugno destro, quasi in un involontario scatto nervoso «Non voglio scappare. Voglio restare e combattere. È anche la mia guerra, questa! Weilman…»

«Ci penserà Alain… non ci darà più noie, vedrai. Quei ragazzi sono abili e sanno il fatto loro»

«Non ce la faranno. Devo aiutarli»

«Non aiuterai proprio nessuno in questo stato»

Non intendeva ascoltare oltre quelle sciocche lamentele. Si sforzò di accelerare un poco l’andatura, incurante delle rimostranze altrui. Non poteva permettere che Weilman li raggiungesse di nuovo. Avevano temporeggiato troppo e quello era il risultato. Non avrebbero dovuto fermarsi dagli Jaeger e men che meno finire tra le braccia della resistenza; sarebbero dovuti proseguire per il fronte, senza l’aiuto di nessuno, e cercare di raggiungere Limoges soltanto con le loro forze. Scosse il capo. Era tardi ormai per i rimpianti: Herr Kapitan li aveva raggiunti in un batter d’occhio, sfruttando il transito di un convoglio di rifornimenti diretto a sud. Come aveva fatto a trovarli così alla svelta? Nessuna delle ipotesi gli piacque particolarmente: forse Nile li aveva traditi oppure era stata Carla a vuotare il sacco, magari a seguito di percosse e minacce. Perché il loro passaggio sembrava segnato dalla sventura? Ovunque andassero, non portavano altro che distruzione, morte e disperazione. Le loro vite si allacciavano a quelle di poveri sfortunati, la cui unica colpa era stata cercare di aiutarli. Che ne sarebbe stato degli Jaeger? E del comandante Dok? Di Petra e Auruo? Almeno loro si erano salvati, no? Oppure Weilman li aveva stanati e puniti per aver dato rifugio a due ricercati? Non lo sapeva e non era sicuro di voler affrontare la verità. Per Christa ed Eren almeno vi era ancora speranza? O avrebbero pagato anche loro, nonostante l’innocenza e la giovane età?

Si sforzò di scacciare quei pensieri e tornò a guardare innanzi a sé; il profilo della cascina si faceva sempre più vicino e, per contro, il carico sulle proprie spalle aumentava: Erwin stava lentamente cedendo, nonostante si sforzasse di non darlo a vedere. La ferita non accennava a smettere e, nonostante la perdita non fosse più abbondante, il flusso rimaneva fastidiosamente costante, senza diminuire o arrestarsi.

«Siamo quasi arrivati» disse, superando un breve tratto in salita e imboccando una stradicciola sterrata. Si ritrovò a calpestare l’erba ancora fresca, ad insinuarsi tra bassi arbusti ed a lottare contro lo sdrucciolare delle suole sui sassi. Il peso di Erwin si faceva sentire sempre di più, costringendolo a rallentare, a fermarsi per qualche manciata di secondi e poi a riprendere con maggior vigore. La camicia si era incollata al suo petto ed anche il gilet non sembrava in stato migliore; il sudore colava lungo la sua schiena, scomparendo tra le pieghe del tessuto, mentre i capelli si appiccicavano alla fronte ed alle tempie.
«Merda» ringhiò, quando rischiò di perdere l’equilibrio per una radice sporgente «Sei ancora lì?» cercò di ricacciare una gomitata nel fianco altrui «Parlo con te!»

«Lo so…» la voce del maggiore appariva stanca, quasi ovattata. Stava lottando con la stanchezza, con il dolore, sforzandosi di procedere senza lamentarsi. procedeva lentamente, quasi trascinando la gamba sinistra. Se solo fossero riusciti a fermare l’emorragia, sarebbe stato tutto più semplice. Erwin avrebbe dovuto riposare e riprendersi, ma… come potevano, in mezzo a quella distesa di nulla? Occorrevano garze, disinfettanti, delle bende e controllare che il proiettile non fosse ancora all’interno del foro. Non ne era in grado: poteva solo applicare un impacco temporaneo; poi avrebbe dovuto affidarsi a mani più esperte. L’unica chance era raggiungere la cascina e trovare un posto caldo e sicuro dove potessero riposare.

Uno scoppio lo costrinse a spiare alle proprie spalle: il fumo e la polvere erano troppo densi perché potesse scorgere qualcosa, ma il rumore degli spari continuava a martoriare la quiete del giorno. Nessuno, tuttavia, li stava inseguendo; forse Alain era davvero riuscito a fermare gli uomini di Weilman ed a proteggere la loro ritirata. Ancora poco e sarebbero stati salvi, al sicuro tra i muri di pietra della vecchia cascina.
 

***
 

Alain premette il grilletto un’ultima volta, prima di accasciarsi al suolo. Scorse il cranio calvo trapassato dal proiettile e la figura del nazista crollare a terra, esanime. Qualcuno gridò “Fritz! Fritz!” ma non riuscì a comprendere la direzione della voce.

Abbassò lo sguardo sul proprio petto, inondato dal sangue che sgorgava da due ferite simmetriche. Ogni respiro gli provocava delle fitte dolorose, mentre il sapore metallico risaliva lungo la gola e fino in bocca. Un sottile rivolo scarlatto sgorgò spontaneo dall’angolo delle labbra. Riadagiò il capo, cogliendo il leggero pungere di una pietra troppo affilata sotto la nuca.

Anche i suoi due compagni erano caduti: Gerard e Georges giacevano a poca distanza, i fucili ancora in braccio ed i volti esanimi rivolti alla volta annuvolata; le loro anime, senza dubbio, stavano già varcando i cancelli del Regno dei Cieli. Presto anche lui li avrebbe seguiti. Chissà se Dio lo avrebbe accolto come un figlio perduto oppure come il peggiore dei peccatori. Magari, lo avrebbe condannato a bruciare tra le fiamme, a causa della sua superbia e del suo orgoglio. Un prete che appende la tunica al chiodo ed imbraccia le armi? A che scopo? La vana scusa di voler salvare il proprio Paese, difendere i concittadini, restituire dignità alla Francia in ginocchio… erano argomenti validi? Era tutto così confuso!

Dio parlò ad ogni uomo d’Israele e, riguardo i nemici, proclamò: “Tu li voterai allo sterminio; non farai alleanza con loro e non farai loro grazia.”

Quella frase semplice ed incisiva gli rimbalzò nella mente offuscata. Non erano forse parole dei Sacri Testi? Era scritto nel Deuteronomio. Le sue giustificazioni sarebbero state accolte? In fondo, la Bibbia stessa parlava in favore della difesa della patria: era, anzi, particolarmente implacabile e crudele in alcuni versi. Non lasciava spazio a dubbi, ma condannava ripetutamente gli oppositori, senza concedere pietà o grazie. Eppure, il registro cambiava nel Nuovo testamento. A quale Parola avrebbe dovuto dunque dare ascolto?

Quante volte dovrò perdonare mio fratello, se pecca contro di me?
Non ti dico fino a sette, ma settanta volte sette.


Il vangelo di Matteo era sempre stato il suo preferito. Non avrebbe saputo spiegarne il motivo. Probabilmente, l’idea che fosse stato scritto da un peccatore convertito gli infondeva coraggio. Se il Signore aveva perdonato Matteo a tal punto da concedergli l’onore di tramandare la storia, forse c’era speranza anche per un povero diavolo come lui. Dio lo avrebbe abbracciato, nonostante i delitti che macchiavano la sua coscienza? Avrebbe capito il perché di quelle scelte pavide, affrettate, mascherate da un patriottismo che mal si sposava con i sacri voti? Avrebbe perdonato l’omicidio di quel soldato, Fritz, di cui ancora qualcuno invocava il nome?
No, ne era certo. Dove era il perdono, in quell’opera di devastazione? Non sentiva altro che le urla dei feriti, il crepitare delle armi, grida in francese che si mescolavano al tedesco stretto. Erano così diversi, gli uni dagli altri? Affatto. Piangevano i morti nello stesso identico modo: pregavano per loro, raccoglievano le ultime lettere, componevano i corpi serrando le molli braccia al petto ed abbassando le palpebre. Sotto le divise, oltre gli ideali, erano tutti dei comuni esseri umani, troppo fragili e sciocchi per cogliere in tempo le bellezze della vita.

Un’ombra calò su di lui, nascondendogli il cielo. Scorse due volti ghignanti: il primo era incorniciato da una ispida barba e da una massa di capelli scuri; l’altro, invece, si sforzava di tradurre il fiume di parole che il capitano stava riversando. Percepì solo un nome.

«Konrad?» biascicò, rivolgendosi al soldato che masticava il francese.

«Herr Kapitan desidera sapere. Sono alla cascina?»

Aggrottò la fronte. A chi si stava riferendo? Il cervello ottenebrato dal dolore e la spossatezza comprese lentamente. Scosse il capo, rifiutandosi di aggiungere altro.

«Il maggiore Smith e l’Inglese, sono alla cascina?»

Rimase in silenzio finché non colse delle robuste mani afferrarlo per il bavero e scrollarlo con forza; il bruciore al petto aumentò, strappandogli un flebile lamento. Percepì nuovamente il sapore del sangue sulla lingua, mentre una schiuma rosata gorgogliava dalla glottide sin sulle labbra.

«Parla, fottuto bastardo! Sono alla cascina?»

«Perdono i tuoi peccati» sussurrò, ottenendo soltanto l’ennesimo strattone. Sputò un fiotto di saliva rossastra, mentre il crocefisso in legno scivolava fuori dall’orlo della camicia, allacciato solo ad un sottile laccetto di cuoio.

«Priester?» il capitano si intromise con una sola parola e Konrad si affrettò a tradurre:

«Sei un prete?»

Alain trovò solo la forza di mimare un cenno affermativo. Quella conferma, tuttavia, fece scoppiare i soldati in una sonora risata. Dita robuste si chiusero sulla croce, strappandola dal suo collo.

«Riposa in pace, prete. Faremo un salto alla cascina e diremo a Smith che lo hai tradito. Ti piace l’idea di morire come un maledetto Giuda?»

Le sue palpebre ebbero un fremito e gli occhi guizzarono per un solo istante verso il casolare. Fu una involontaria, ma sufficiente conferma.

«Grazie, ora sappiamo che sono là»

Alain colse un tremolio lungo la schiena, mentre le membra si irrigidivano. Un pesante colpo di tosse squassò il petto un’ultima volta, mentre il sangue sgorgava puro, ora, dalla bocca socchiusa. Le iridi si incollarono al cielo coperto, che di lì a poco avrebbe raggiunto. Il torace si sollevò un’ultima volta, mentre l’aria scappava definitivamente dai polmoni e lo spirito abbandonava il corpo esanime.

Konrad mosse la punta dello stivale, punzecchiando il cadavere e tornando ad un tedesco stretto:
«Stupido omuncolo» ghignò, tendendo il ciondolo al superiore «Andiamo alla cascina? Senza dubbio, avranno trovato rifugio lì»

Weilman scosse il capo, rigirando lentamente la croce sul palmo della mano:
«No. Andrò io.» controllò il caricatore ancora pieno «Risolverò da me questa faccenda. Voglio chiudere il conto con Smith e intendo farlo da solo».

 
***
 

Levi salì lentamente gli ultimi e stretti gradini, piegando immediatamente a destra. Scivolò oltre la soglia della sala da bagno, la stessa dove Nanaba li aveva confinati soltanto qualche giorno prima. Gettò una occhiata alla stanza: le pareti lisce erano coperte da piastrelle, il cui motivo era ripreso anche dal pavimento coperto da una sottile polvere e da tracce di umidità. La muffa correva lungo gli angoli del soffitto, mentre solo una coppia di finestre gettava luce all’interno. I vetri opachi lasciavano penetrare il chiarore del mattino.  In fondo, rivolta ad est, una terza finestra si affacciava sulla tettoia pericolante, ultimo retaggio della rimessa distrutta durante la guerra precedente. La voragine precipitava, dopo cinque o sei metri nello scantinato sottostante, ormai inutilizzato e scoperchiato.

«Mettiti qui»

Adagiò il maggiore sul pavimento. Lo aiutò ad appoggiare la schiena al muro ed a distendere le gambe. Ignorò il sussultare di Erwin, unica avvisaglia del dolore che ancora provava.

«Fammi controllare» disse, posando il revolver sul pavimento ed inserendo due dita nel foro sui pantaloni. Fece attenzione a non toccare la ferita sottostante, tirando con forza la stoffa sino a strapparla. Mise a nudo la coscia, osservando attentamente la lesione: il foro pareva profondo e, con ogni probabilità, il proiettile era ancora al suo interno.

«Non è così grave come sembra» la voce del tedesco gli strappò un debole sorriso.

In realtà, occorreva solo arrestare la perdita di sangue e aspettare pazientemente. Nanaba sarebbe tornata e li avrebbe aiutati, senza dubbio… sempre che riuscisse a spuntarla contro gli uomini di Weilman.
Si affacciò ai vetri, scoccando una occhiata in direzione della gola. Il rumore degli spari proseguiva incessante e da quella distanza era impossibile capire chi stesse avendo la meglio.

«Sono sicuro che stanno bene. Non preoccuparti. Sono abili e… dammi una mano, per favore»
Abbassò gli occhi al cogliere quella richiesta; Erwin stava litigando con la cintura, cercando di slacciarla.

«Ci penso io» rispose, accovacciandosi accanto a lui ed allentando la fibbia, facendo passare il cuoio nei passanti dei pantaloni. Sfilò la cinta, avvolgendola poi strettamente poco sopra la ferita; in una manciata di secondi, il flusso di sangue si ridusse dolcemente, sino ad arrestarsi «Allentala ogni tanto e poi stringila nuovamente. Vado a cercare qualcosa per medicarti; in cucina dovrebbero esserci delle bende.»

Si rialzò, scivolando oltre la soglia della stanza e sparendo nella penombra, in direzione delle scale.
 

***
 

Erwin tese l’orecchio quando colse un rumore di passi lungo i gradini scricchiolanti. Possibile che Levi fosse già di ritorno? Si era allontanato soltanto da qualche minuto; aveva fatto presto. C’era, tuttavia, qualcosa di sbagliato in quella cadenza. Era troppo pesante per appartenere all’Inglese.

«Mike?» chiese, ma la testa che si affacciò oltre l’uscio cancellò immediatamente le sue speranze. Si ritrovò a fissare gli occhi porcini ed il ghigno soddisfatto di Herr Kapitan.

Allungò la mancina, cercando di raggiungere la Webley, ma Weilman fu più rapido: con un calcio, allontanò il revolver, facendolo roteare all’altro capo della stanza. Erwin fissò l’arma, ormai fuori portata, prima di tornare sul capitano, che stava indietreggiando di qualche passo, come a riprendere una leggera distanza. Le mani dell’ufficiale reggevano la Mauser, la canna inclinata e rivolta verso il suo petto.

«Non avrai pensato di sfuggirmi, vero?» la voce di Weilman conteneva una sfumatura arrogante e spavalda, la stessa arricciata sulle labbra ghignanti «Il tuo amichetto dov’è? Ti ha scaricato qui e si è dato alla fuga?»

Non rispose, limitandosi ad un sospiro sollevato. Weilman, dunque, non aveva ancora trovato Levi. Pregò silenziosamente che l’Inglese se ne fosse andato, che avesse trovato rifugio nei boschi circostanti; sapeva, tuttavia, che erano soltanto vane speranze ed illusioni. Levi era ancora nella cascina, da qualche parte: era solo questione di tempo perché il nazista lo trovasse e lo uccidesse. Doveva avvertirlo, ma… come? Non poteva muoversi e gridare non sarebbe servito: l’altro gli avrebbe piantato una pallottola in testa immediatamente; Levi sarebbe corso su per le scale e sarebbe finito dritto nelle braccia del nemico. Scosse lentamente il capo. Doveva farsi venire una idea, qualcosa che non destasse sospetti.

«Non vuoi rispondere?» di nuovo quel tono irritante.

«No» replicò, in un secco ringhio. Perché quell’idiota non lo lasciava in pace? Progettare un buon piano con una pistola rivolta contro era … complicato. Tuttavia, fare parlare Weilman gli avrebbe consentito di guadagnare tempo prezioso e forse far percepire a Levi l’entità del pericolo. Si schiarì la voce, riprendendo «Sei soddisfatto, vero? Deve essere un grande traguardo per te. A quanto ammonta la mia taglia?»

«Oh, non lo faccio per soldi. Pensi che sia un qualsiasi mercenario? No, ti sbagli. Lo faccio per riscattare la Germania, che tu hai tradito e gettato nel fango. Tu e quell’ammasso informe di spaventapasseri che ti segue. Dok, per esempio. Credi la farà franca. Affatto! Gliela farò pagare, a lui ed al resto dei suoi bastardi tirapiedi»

«Come sai di Nile?»

«Ti ricordi di Fritz? Era una spia e lavorava per me. Sfortunatamente, il tuo amico prete gli ha procurato un biglietto per l’inferno»

Sussultò, quando scorse la croce cadere per terra, accanto ai propri piedi. Il legno era macchiato di un familiare colore rossastro, che aveva ormai imparato a riconoscere.
«Alain?»

«Si chiamava così, dunque? È crepato, insieme ai suoi amichetti. I miei uomini stanno terminando il lavoro, giù alla gola. Era un tuo piano, vero?, quello di far saltare i rifornimenti per il fronte?»

Erwin strinse i pugni, trattenendosi dallo scattare in piedi e fiondarsi su quel pomposo. L’arroganza gli stava facendo dimenticare persino il dolore della ferita. Si morse le labbra, sforzandosi di non rispondere, di passare oltre: non avrebbe permesso a Weilman di accusarlo nuovamente, di scaricargli addosso più colpe di quante fosse disposto a sopportare. Sostenne lo sguardo dell’altro, senza riuscire a celare il disprezzo ed il disgusto, che non sfuggirono al capitano:

«Mi detesti così tanto? Stai per morire, maggiore… eppure, trovi ancora il coraggio di fissarmi altezzoso, come se per te non fossi che un fastidioso scarafaggio. Perché?»

«Che dovrei fare? Abbassarmi a supplicarti, sapendo che tanto non mi risparmieresti comunque? Sei un illuso, ecco tutto. Credi che la morte mi spaventi a tal punto? Affatto.» replicò, una nota infastidita nelle parole «Visto che stai per uccidermi, però… tanto vale che tu mi tolga una curiosità. Perché sei così ossessionato da me? Al punto da inseguirmi per mezza Europa… Non è normale, sai? Non siamo in un libro di Hugo, ammesso che tu sappia chi sia»

«Non prendermi per il culo. Certo che so chi è! “La signora delle camelie”, giusto?»

«No, ma non ho voglia di dirti altro. Sputa il rospo. Perché questa fissa?»

«Perché sei il mio maledetto incubo da… sempre. Da quando ho messo piede ad Arras, ho dovuto scontrarmi con te, con i tuoi assurdi piani che, tuttavia, contenevano quel tocco geniale non replicabile. Per qualche strana ragione, gli uomini si fidavano di te ed erano pronti a seguirti, mentre con me… mi squadravano con diffidenza, mi estraniavano. Ogni discorso ruotava attorno alla tua persona: il maggiore Smith è un genio, il maggiore Smith non sbaglia mai, il maggiore Smith è il miglior ufficiale che ci sia. Hai idea di cosa significhi convivere con uno spettro simile? Con un fantasma pronto a colpirti involontariamente alle spalle ad ogni ora del giorno e della notte! Ho dovuto minare la loro fiducia, screditarti, gettarti in cattiva luce. È stato forzato, innaturale e lungo, ma alla fine ci sono riuscito. La tua pietà verso i ribelli francesi era la leva perfetta: un soldato non può permettersi d’apparire debole e accondiscendete davanti al nemico; ti sei scavato la fossa da solo» una pausa e un ghigno asciutto «Poi è arrivato quello stupido Inglese. Non so che ti sia successo, ma hai perso la testa per quell’idiota. Hai iniziato a compiere dei passi falsi, proprio sotto al mio naso e io ne ho approfittato. Ti ho incastrato e non sei più stato in grado di gestire la situazione. Fuggire è stato il tuo peggior errore e la mia fortuna. Ti ringrazio, anzi! Hai reso il tutto più semplice: se fossi rimasto, avremmo dovuto confrontarci a Berlino, dinanzi ai generali, ma… così facendo, ti sei tirato addosso l’odio di tutti. Sei diventato un ricercato, un fuggiasco; hai perso prestigio e credibilità. Hai spianato la mia strada verso una promozione»

«Eppure sei ancora capitano! E… sei qui. Qualcosa deve essere andato a rotoli, nel tuo brillante piano per distruggermi»

«Errato! Sono qui per mia spontanea scelta. Credi che scacciarti sia stato sufficiente? No. La tua disfatta deve essere completa. Riporterò in patria il tuo cadavere e quello dell’Inglese; allora Berlino capirà la profondità della mia dedizione e si accorgerà di me. Verrò accolto come un eroe; sarò acclamato al posto tuo.»

«Sei così frustrato da inseguire una gloria fittizia? La gente è volubile: un giorno ti applaude, il giorno dopo ti sputa in viso. Sicuro di volere tutto questo?»

«Cerchi di confondermi? Non funzionerà. So quello che desidero. Voglio essere il nuovo eroe della Germania! Voglio che mi vedano, che pronuncino il mio nome con rispetto, che sorridano al mio passaggio e mi regalino corone di fiori. Che il mio contributo venga scritto nei libri di storia, accanto ad una fotografia in alta uniforme; che il tuo nome venga cancellato! Nessun eroe ad Hannut, solo il ricordo di un disertore troppo codardo per accollarsi le proprie responsabilità­.»

«Se pensi che sia fiero di Hannut, sei un idiota. Un idiota che non ha capito nulla di me, né della storia e di questa assurda guerra. Sono stanco, Weilman. Stanco di sentire i tuoi vaneggiamenti, di vedermi rinfacciata Hannut per l’ennesima volta; stanco di parlare di ciò che sono e ciò in cui credo. Non troverò alcun riscatto in questa vita, quindi… avanti, spara. Quanto meno, la morte avrà il dolce sapore del silenzio e non sarò più costretto ad ascoltare le tue parole vuote e ridicole»

Colse un fremito percorrere il braccio del capitano e l’indice scivolare prontamente sul grilletto. Sentì il click meccanico del carrello che si armava, mente la bocca della Mauser tornava a sorridergli. Per un attimo, Erwin provò la tentazione di chiudere gli occhi: stava per morire e non desiderava farlo guardando Weilman; possibile che fosse quella, l’ultima immagine che la vita gli regalava? Rinunciò a quel sollievo: non avrebbe abbassato lo sguardo; non si sarebbe presentato come una preda spaventata davanti al suo cacciatore. Non avrebbe regalato la soddisfazione di cedere e di tremare.
Percepì il cuore accelerare improvvisamente, mentre la tensione cresceva nel suo petto. Cosa avrebbe provato, nell’istante in cui la pallottola gli avrebbe trapassato il cranio? Dolore? Sollievo? Nulla? Serrò i pugni, osservando il tempo dilatarsi: il ghigno sfrontato sul volto del nemico, il braccio sollevato in sua direzione, la canna dell’arma diretta verso la sua testa. Un colpo secco non poteva fare poi tanto male, no?

Batté le palpebre, ritrovandosi ad osservare un mondo completamente diverso: suo padre lo stava cullando tra le braccia, leggendo ad alta voce le fiabe di Perrault, mentre sua madre sistemava i fiori sul davanzale; Nile e Mike che catturavano lucertole; Marie che serviva birra al Weinplatz, mentre loro discutevano dell’imminente arruolamento. L’addestramento, le battaglie, la scalata verso una promettente carriera. La scomparsa di Mike e la successiva indagine. E, ancora, i giorni trascorsi ad Arras, ad assecondare gli assurdi esperimenti di Hanji; Moblit disperato per l’ennesima richiesta strampalata del medico. I soldati pronti a seguirlo, la loro ammirazione e la conseguente delusione. L’aereo precipitato, i due Inglesi. La morte di uno e la salvezza dell’altro. La fuga attraverso la Francia. Levi che sogna Parigi, gli aerei e una libertà troppo lontana per poter essere anche solo sfiorata. Petra, Auruo, Marlo, Hitch, la famiglia Jaeger ed il piccolo Armin, Christa, Nanaba… erano tutti lì, chi a salutarlo e chi ad accoglierlo oltre il velo della morte. Mani mosse in cenni d’addio e dita protese per accoglierlo, per accompagnarlo nell’ultimo ed inevitabile viaggio. Un nuovo mondo, un nuovo inizio.

Sorrise piano, quando l’aspra voce lo trascinò nuovamente alla realtà:
«Un ultimo desiderio, Smith?»
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** Preda e cacciatore ***


31. Preda e cacciatore
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Dintorni di Le Blanc.

 
Accadde tutto troppo in fretta perché potesse rendersene conto. Uno sparo spaccò la quiete, preceduto da un grido furioso. Il sibilo del proiettile fendette l’aria, per poi infrangersi nel muro oltre le proprie spalle. Gli occhi si sforzarono di seguire la figura bassa che, dall’uscio, si era lanciata di peso sul capitano. Vide questi incespicare di lato, voltarsi e lottare contro il suo assalitore.

«Levi…» sussurrò Erwin, mentre la scena si consumava davanti al suo sguardo.

 
***
 

Levi oltrepassò di getto la soglia, scattando contro Weilman. Le sue membra stanche reagirono immediatamente alla scarica dell’adrenalina. Colse i muscoli tendersi, le braccia irrigidirsi e le labbra muoversi istintivamente in un ringhio incontrollato, più simile a quello di una bestia intrappolata che di una persona.

«Bastardo!»

Muoviti. Continua a muoverti.

Lo spazio si annullò completamente: era come se la vecchia stanza da bagno non esistesse più; vi erano soltanto loro due, sospesi nel vuoto del tempo, troppo dilatato per poter essere contato. I secondi divennero lunghi come minuti oppure ore; ogni gesto rallentato, ogni respiro trattenuto. Non vi era nulla all’infuori di sé, di Herr Kapitan e del maggiore, ancora accovacciato a terra. Lo avrebbe protetto ad ogni costo; forse, era giunto il momento di riscattarsi, di ripagare gli innumerevoli e silenziosi debiti che aveva accumulato in pochi giorni. Non avrebbe permesso a Weilman di distruggerli, non ad un passo dalla loro meta. Quella faccenda andava chiusa una volta per tutte.

Le dita sottili incontrarono la stoffa della divisa nera, serrandosi immediatamente. Le braccia flesse si distesero di scatto, spingendo l’alta figura con l’aiuto delle gambe. I piedi si puntarono al suolo per contrastare l’impatto iniziale, prima di macinare velocemente metri. La sua mente non era in grado di elaborare nessun altro piano che non fosse spintonare il suo avversario verso la vicina finestra. Non badò alle urla di quest’ultimo. Continuò anche quando il rumore di un secondo colpo squarciò nuovamente l’aria. Un paio di passi ancora e…

Il tintinnare dei vetri infranti lo riportò bruscamente alla realtà. Levi sgranò gli occhi, ritrovandosi a cadere verso la vicina tettoia. La schiena impattò contro le tegole convesse, mozzandogli il respiro, mentre una miriade di schegge luccicanti cadeva sul suo viso, sul petto e sulle gambe, tagliando la pelle ed i vestiti. Weliman giaceva accanto a lui, un ghigno distorto sulle labbra e la pistola ancora fumante.

Chiuse i palmi, cercando di strattonare il corpo del capitano, ma senza successo. Un altro sparo gli tagliò le orecchie, troppo vicino per poter essere ignorato. L’ilarità del tedesco aumentò di intensità. Perché rideva?

Una morsa gli serrò lo stomaco, mentre un sordo bruciare si diffondeva dal centro dell’addome, irradiandosi verso le cosce, i fianchi ed il petto. Abbassò lo sguardo, scorgendo una macchia rossa allargarsi sulla camicia, bagnando le falde del gilet scomposto. Poco sopra, un secondo foro, dove il sangue zampillava allegro. Percepì gli occhi velarsi ed un gorgogliare sordo sul fondo della gola. Sollevò una mano, poggiandola sul proprio ventre e ritraendola completamente imbrattata. Faticò a distendere le dita, come se le articolazioni si stessero bloccando, incapaci di reagire al dolore che correva attraverso il suo corpo. Annaspò con le braccia, alla ricerca di un appiglio. Doveva rimettersi in piedi e continuare a lottare. Doveva proteggere Erwin, distruggere Weilman una volta per tutte e raggiungere Limoges. Doveva portare la lettera di Farlan e vedere Parigi. Aveva ancora delle faccende in sospeso, troppe perché Herr Kapitan le cancellasse con il semplice premere del grilletto.

Tentò di rialzarsi, ma le ginocchia cedettero immediatamente. Rovinò sulla tettoia, sbattendo il viso sui coppi ruvidi. Ansimò, lottando per ricacciare i conati. Un rivolo scivolò dalle sue labbra, tingendo il coccio sottostante di un colore rosato. Il sangue si mescolò velocemente alla saliva, obbligandolo a tossire e sputare.

Non può finire così.

Un sussurro nella sua testa. Non era tempo di arrendersi. Non ancora.

Strinse i pugni, flettendo le braccia ed ignorando il bruciore all’addome. Piegò le ginocchia, puntellandosi sulla tettoia pericolante. Sollevò il viso, incrociando un’ultima volta lo sguardo porcino di Weilman; vi lesse scherno. Non pietà, non compassione, non odio; soltanto una bieca ironia.

Scorse il tacco dello stivale poggiarsi con forza sulle sue dita. Affondò i denti nel labbro inferiore, impedendosi di urlare, resistendo sino allo scricchiolare dell’indice e del medio.

Le braccia si piegarono nuovamente, incapaci di sostenere il peso ed il dolore. Crollò quando un calcio raggiunse il suo stomaco. Sussultò, raggomitolandosi su sé stesso, involontariamente. Avvicinò le ginocchia al petto, cercando di proteggersi, mentre una seconda pedata lo raggiungeva.
Scivolò lungo le tegole, incapace di reggersi e di trovare un appiglio. Le mani si mossero alla disperata ricerca, ritrovandosi a stringere solo aria. Un ultimo colpo lo spinse sull’orlo della tettoia.

«Ti piace volare, aviatore?» il gracchiare di Weilman lo costrinse a rialzare lo sguardo. Vide i tratti del nazista attraverso il velo umido delle lacrime «Spiega le tue ali. Ti serviranno»

Finiva così, dunque? Sì; con lo stomaco forato, le dita rotte ed il respiro spezzato. Con gli occhi umidi e le labbra bagnate da un tossire scarlatto. Un ultimo calcio lo gettò oltre il bordo. Percepì il vuoto avvolgergli le spalle, l’aria fresca sferzargli i fianchi ed arruffargli i capelli. Osservò Weilman, in piedi sui coppi, allontanarsi sempre di più, sino a diventare un omino insignificante stagliato contro il cielo mattutino.

Contò silenziosamente. Uno, due, tre secondi e qualcosa di più. Il buio dello scantinato lo accolse. La schiena impattò contro le macerie sul fondo del cratere. Mattonelle sconnesse, rovi e cocci di bottiglia lo abbracciarono, strappandogli un secco sospiro. Le iridi si incollarono alle nubi grigie, un’ultima volta.
Il tempo non prometteva bene. La pioggia sarebbe giunta prima di sera.
 

***
 

Erwin assistette, impotente. Vide Levi gettarsi addosso a Weilman e spingerlo sino oltre la polverosa finestra. Percepì due spari rimbombare nella sala e qualche parola appena sussurrata, troppo bassa per poter essere raccolta. I suoni si fecero ovattati e distanti, mentre le immagini si mescolavano davanti ai suoi occhi: il pilota sanguinante che cercava di rialzarsi; Weilman che lo colpiva ripetutamente, prima di spingerlo oltre la tettoia. Gli attimi interminabili di una caduta ed un tonfo lontano, prima del silenzio.

«Levi» ripeté meccanicamente, mentre il suo corpo si decideva, infine, a reagire. Scattò in piedi, ignorando le fitte alla gamba. L’adrenalina corse lungo le sue membra, annebbiandogli la ragione ed offuscando il dolore. Lo obbligò a muoversi, a ciondolare verso il revolver abbandonato sul pavimento. Lo raccolse, stringendolo saldamente nel pugno. Gli occhi percorsero la stanza alla ricerca di un bersaglio. Incrociarono Weilman, ancora intento ad oltrepassare il bordo della finestra spaccata.

L’indice scivolò sul grilletto, mentre nella sua testa risuonava un semplice ammonimento:
Non ancora.

Doveva aspettare. La mira doveva essere precisa, infallibile. Non poteva tradirsi, né lasciare che Weilman cadesse. Non sarebbe morto nello scantinato, quel bastardo; non sarebbe morto accanto a Levi. Sarebbe crepato lì, sulle fredde e sporche piastrelle di una stanza da bagno. I topi avrebbero banchettato sul suo cadavere, spolpandolo sino alle ossa. Le mosche avrebbero fatto il resto.

Stese il braccio destro davanti a sé, deglutendo a vuoto per ingoiare il protestare della ferita. Non avrebbe ceduto. Non sarebbe caduto in ginocchio davanti al suo nemico. Mai più. Digrignò i denti, mentre l’indice scivolava sul grilletto. La mano tremò per un istante, quasi preda dell’indecisione.

«Vuoi spararmi, maggiore?»

La voce di Weilman lo raggiunse. Il capitano impugnava ancora la Mauser, ma la teneva distesa lungo il fianco.

«Sì» la risposta gli sfuggì dalle labbra, lontana ed affaticata.

«Non lo farai, lo sai?»

«Chi te lo ha detto? La tua coscienza nera, per caso?»

«Lo avresti già fatto. Hai avuto… mille occasioni per uccidermi, ma non lo hai fatto. Ti sei limitato a scappare come una preda impaurita.»

«Ti sbagli. Non sono una preda.» l’indice premette sul grilletto «Sono il cacciatore.»

 Il proiettile scattò dalla Webley, saettando nell’aria. Raggiunse il petto di Herr Kapitan, conficcandosi nella sua carne. Poco dopo, un secondo ed un terzo colpo spaccarono il cuore ed i polmoni. Il sangue prese a zampillare dalla divisa scura, bagnando il pavimento dove il corpo era crollato.

Erwin si avvicinò con un paio di passi incerti, incapace di staccare gli occhi dai fori rossastri o di spostare il dito dal grilletto. Lo premette ancora due volte. Spiò il petto sussultare e poi fermarsi definitivamente.

Gli occhi sottili del nazista fissavano il soffitto. La bocca era spalancata in una espressione stupita. Le braccia giacevano scomposte a lato del torace crivellato. I capelli unticci si erano incollati alla polvere del pavimento, mentre la Mauser era scivolata a terra.

Il maggiore non si piegò neppure per controllare il battito. Si accontentò di osservare a lungo l’immobilità della morte. Chinò soltanto il capo, quasi a salutare una vecchia amica che, ancora una volta, passava ad insanguinare le sue mani. Non si sarebbe mai liberato di lei, ormai lo sapeva. Giusta o sbagliata, quella di Weilman era comunque una fine. Un sipario spesso che calava sulla vita di un uomo bieco, corrotto, avido… ma pur sempre un uomo.

C’è ancora una vita che devo prendere. Poi ti lascerò in pace.

Quella promessa risuonò nel silenzio della sua mente. Annuì piano, piegando le labbra in un amaro sorriso.
Volse le spalle al cadavere, zoppicando verso le vicine scale.
 

 

Angolino: buongiorno! Torno ad aggiornare la long dopo un po' troppo tempo. Mi dispiace essere così ritardataria nell'aggiornare, ma... a mia discolpa, dirò che questo capitolo non è stato affatto semplice da gestire. Non sapevo bene come improntarlo, come regolarmi per rendere l'intera scena.
Non sono sicura d'aver fatto un buon lavoro, ma credetemi se vi dico che è quanto di meglio sia riuscita a produrre. Non pensavo fosse così complicato questo pezzo.
Non ho altre particolari specifiche da aggiungere, se non un megagalattico ringraziamento per aver letto fin qui.
Spero di poter aggiornare quanto prima
Un abbraccio!

E'ry

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** Ancora una vita ***


32. Ancora una vita
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Dintorni di Le Blanc.
 

Levi batté le palpebre, quando una goccia d’acqua gli finì sugli occhi. Una pioggia sottile e leggera era iniziata, cadendo dalle nubi cariche. Chissà se si sarebbe trasformata in temporale. Non era stagione, naturalmente, ma aveva sentito dire che in Francia capitavano spesso degli acquazzoni intensi.

Schiuse le labbra accogliendo le gocce quasi fossero una benedizione; la sete si era fatta incredibilmente intensa nell’ultima manciata di minuti. O erano passate ore? Non avrebbe saputo dirlo. Sapeva soltanto che il sapore metallico del sangue era sgradevole e troppo corposo. Aveva provato a sputare, ma senza grande successo.

Nulla di quanto aveva tentato, in effetti, era valso a qualcosa: le gambe avevano smesso completamente di reagire. Le aveva spiate con la coda dell’occhio, notandole spezzate e scomposte. Eppure non sentiva dolore. Non sentiva assolutamente nulla. Nemmeno l’umido della pioggia o la chiazza rossastra che dal bacino andava allargandosi sui calcinacci. I ciottoli gli pungevano la schiena e gli graffiavano la pelle, ma lui non percepiva nemmeno quelli. Il braccio sinistro si era incastrato sotto un vecchio travetto di ferro. Aveva cercato di sfilarlo, ma il suo corpo non aveva risposto. Solo il braccio destro era riuscito a muoversi, ma lentamente; aveva posato le dita sull’addome, comprimendo invano le ferite.

Sollevò leggermente il capo. Il formicolio al collo era quasi insopportabile, ma almeno gli permetteva di controllare le proprie condizioni. Il corpo si era sfracellato su un cumulo di vecchi detriti. Il rachide si era spaccato e la paralisi era sopraggiunta immediatamente, dal busto in giù. Forse anche i nervi del braccio sinistro erano rimasti danneggiati nella caduta. Il petto, invece, riusciva ancora a sollevarsi, ma in modo asincrono, affatto ritmico: a respiri rapidi ne seguivano altri lenti e sibilanti; il martellare del cuore gli rimbombava nelle orecchie.

Stava morendo? Sì, non aveva dubbi.

Se gli avessero chiesto di immaginare la propria morte, tuttavia, mai avrebbe pensato ad una cosa simile: solo, in uno scantinato abbandonato, circondato da rovi e piastrelle sbeccate; con la schiena e le ossa fracassate, con due proiettili in corpo ed il sangue a bagnargli costantemente le labbra tremanti.

Che cosa sentiva? Freddo. Non dolore, quello no. Era uno dei vantaggi, forse, della spina dorsale frantumata. Non coglieva più il bruciare all’addome, dove la pistola lo aveva crivellato, né il male degli arti rotti o l’affanno del respiro. Non percepiva nulla, a parte un gelo costante attraverso le proprie membra. Era una sensazione strana: era come se quel corpo riverso non gli appartenesse affatto; come fosse di qualcun altro, di uno dei tanti caduti di una guerra cieca.

Era strano essere un semplice spettatore, in quel frangente. Era come se stesse fissando la propria morte da dietro un vetro. Non poteva fare altro che guardare ed attendere, ascoltando il picchiettare leggero della pioggia, quasi fosse una insolita colonna sonora.
Lasciò faticosamente strisciare la mano destra sul gilet, raggiungendo la tasca interna. Sfilò due fogli di carta ripiegati. Doveva trovare un posto sicuro per quelli. Non poteva permettere che l’acqua ed il sangue li rovinassero ulteriormente. Qualcuno, presto o tardi, sarebbe passato di lì. Avrebbe riconosciuto il suo cadavere e si sarebbe accorto di quelle lettere malmesse. Forse le avrebbe buttate, forse le avrebbe spiate e recapitate ai reali destinatari.

Isabel doveva sapere. Aveva promesso a Farlan che le avrebbe consegnato le sue ultime parole. Ora, tuttavia, non era più sicuro di poter mantenere quel giuramento. Avrebbe lasciato la sua lettera in vista, nella speranza che Mike o Nanaba la ritrovassero e decidessero di portarla fino a Limoges.

Isabel…

Ci sarebbe rimasta male, sì, nel non vederlo tornare. Forse l’avrebbe accusato d’essere un incapace, si sarebbe arrabbiata e disperata, ma poi le sarebbe passata. Era fatta così, d’altronde: incapace di tenere il broncio per più di mezz’ora. Gli sarebbe mancata.

«Erwin»

Quel nome gli sgorgò dalla bocca involontario, incontrollato. Chissà dove era. Si era salvato? O Weilman…
Mosse debolmente il capo. Non voleva neppure pensarci. Erwin stava bene, era vivo, era… da qualche parte nella cascina; forse era tornato a combattere alla gola. Oppure…

Una mano robusta si serrò sulle sue dita, stringendole con gentilezza e calore. Mosse gli occhi, incrociando lo sguardo azzurro del maggiore.

«Sono qui» furono le sole parole che sentì.

Lo so.

Quella risposta gli morì sulle labbra, soffocata da un nuovo attacco di tosse. Sputò un fiotto rossastro, lasciandolo scivolare a terra. La voce si spense improvvisamente, impossibilitata ad abbandonare la gola.

«Ti porto io»

Vide le braccia robuste scivolare sotto le sue spalle e le ginocchia. Erwin lo strinse a sé, sollevandolo piano, delicatamente. Colse la schiena staccarsi dalle macerie e poi una fitta improvvisa percorrergli la colonna vertebrale, risalire lungo le braccia, il collo e impossessarsi della sua testa. Sbatté il capo contro il petto del tedesco, digrignando i denti e chiudendo gli occhi. Gli arti ebbero uno spasmo, mentre il respiro si faceva superficiale ed ansimante. Il bruciore lo frustò ripetutamente, correndo dai lombi sino alle braccia, irrigidendogli il collo. I piedi si mossero involontariamente, menando dei blandi calci all’aria.
Gridò, incapace di tollerare oltre quel dolore.
Si sentì riadagiare a terra.

«Mi dispiace»

Non è colpa tua. Ci hai provato, ma… non ce la faccio. Non riesco a sopportarlo. E se anche fosse, poi… che cosa farei? Non ho grandi prospettive. Passerei la vita confinato in un letto, a fissare il vuoto ogni giorno. Non potrei mangiare da solo, né bere, né lavarmi. Non potrei correre, né volare, né vedere Parigi senza essere spinto da un noioso infermiere. Cos’altro potrebbe aspettarmi? Non sono sicuro di volere tutto questo, né di volerti obbligare a subirlo. Perché, nonostante tutto, ho come la sensazione che non riusciresti ad abbandonarmi. Non sei il tipo che volta le spalle ad un compagno, lo so. Rimarresti lì, rinunciando alla tua vita per seguire la mia. Non potrei farti torto peggiore, temo. Hai bisogno d’essere libero, come ne ho bisogno io.

Quelle parole non lasciarono mai le sue labbra esangui. Boccheggiò, mentre lo sguardo scivolava sul viso familiare. Ne studiò i tratti un’ultima volta, assaporando i contorni marcati contornati dai capelli colore del grano; si perse ancora nelle iridi azzurre, tanto profonde da sfumare nel blu a tratti. Era come se il cielo ed il mare si fossero fusi in quello sguardo, creando un miscuglio placido ed affascinante. Aveva solcato il cielo per tutta una vita e sorvolato il mare troppe volte; mai, però, avrebbe scommesso di poterli rivedere in un giorno di pioggia, nello sguardo malinconico di un amico ormai arreso.

Le sue dita cercarono nuovamente le lettere e le tesero lentamente verso il tedesco. Sorrise debolmente quando le loro mani si sfiorarono, quando la sua cute pallida percepì una scintilla di breve calore.

Per te. E per Farlan. Promettimi che la consegnerai, Erwin. Provaci, almeno. Portala ad Isabel e… l’altra tienila. Non farla leggere a nessuno, mai. Né a Mike, né a Nanaba, né ai tuoi figli quando ne avrai. Sarà il nostro segreto, l’ultimo di questa spericolata avventura. Decidi tu cosa farne, poi… se bruciarla, se nasconderla in un cassetto, se metterla nel raccoglitore della tua corrispondenza. Anche se.. so che la conserverai, come si conserva il regalo di una persona cara. La conserverai e la leggerai nelle giornate di pioggia, proprio come questa. Sai, non mi dispiace, in fondo, la pioggia perché… quando pioverà, ti ricorderai di me.

Colse un cenno d’assenso. Erwin gli aveva letto nel pensiero? No, ma senza dubbio aveva capito. Lo vide piegare le lettere con cura e nasconderle nella giacca.

«Quando l’hai scritta?»

Che uomo patetico sei, Erwin. Pensi che ti risponderò? Sto affogando nel mio stesso sangue e nel dolore. Sai che non lo farò, ma ti ostini a chiacchierare, come se niente fosse. Credi che ritarderai il mio momento, così? Sì, ne sei sicuro. Eppure... è inevitabile; lo sappiamo entrambi. Non puoi salvarmi, non questa volta.

«Quando l’hai…?»

Ti vedo. Stai piangendo. Ti sforzi di non darlo a vedere ed approfitti dell’acquazzone, ma… lo sguardo ti tradisce. La tua anima è a pezzi. So a cosa stai pensando. Ad un modo per portarmi via di qua. Non ci riuscirai. Questa volta, la tua mente geniale uscirà distrutta. Non funzionerà nessuno dei piani a cui stai pensando. Sai, a volte… non è così male arrendersi. Non c’è nulla di sbagliato. A volte, non puoi farne a meno: lotti con tutte le tue forze, ma queste non sono sufficienti; e allora, cosa ti rimane, se non l’amaro sapore della disfatta? Nulla, ma… la sconfitta avrebbe un sapore meno acre se imparassimo ogni tanto ad accettarla.

Vuoi davvero saperlo? Quando l’ho scritta? Beh… ti ricordi quella mattina in cui ti sei alzato presto? Quando mi hai lasciato la tua giacca. Mi sono svegliato di nuovo, dopo che te n’eri andato. Qualcosa, nella mia testa, mi ha suggerito di scriverti. Forse, sapevo già che sarebbe finita così.  Non volevo andarmene di nascosto, come un’ombra vigliacca che non ha più il coraggio di affrontare la vita; volevo lasciarti qualcosa che potesse ricordarti di me e che ti parlasse a nome mio.

Un singulto improvviso spezzò quei pensieri. Il respiro si fece ancora più superficiale, mentre le dita della destra si allungavano verso il vuoto. Gli occhi si rovesciarono per una manciata di secondi, prima di tornare vividi a scorrere sulla figura del maggiore. Come era surreale vederlo chino sul proprio corpo. La gamba ferita stesa di lato, gonfia per l’emostasi; la gemella piegata sotto al bacino, le spalle curve e le mani intente a stringere la sua. Era diverso, Erwin, in quegli istanti: non era più il rigido servitore di una implacabile Germania; non era un fuggiasco e neppure l’invidiabile mente brillante; non era nient’altro che un uomo con troppi fantasmi sulla coscienza.

Mi dispiace tanto.

Non trovò altro da aggiungere. Se soltanto avesse potuto parlare un’ultima volta. Forse avrebbe potuto dire ad Erwin tutto quello che pensava e che, sfortunatamente, non era riuscito a mettere nella lettera. Avrebbe potuto alleviare i suoi peccati, gridargli che non era colpa sua, che era più di un semplice uomo dall’anima troppo sudicia. Era un amico, una persona gentile e coraggiosa, a cui avrebbe volentieri affidato la propria vita. In fondo, però… non era esattamente quanto stava facendo? Si abbandonò ancora una volta alla stretta delle calde mani.

Gli occhi, tuttavia, scivolarono istintivamente alla cintura, fissando avidamente il calcio della rivoltella. La Webley giaceva appesa e quasi dimenticata. Non servì chiedersi perché Erwin l’avesse raccolta. Sperò soltanto che vi fosse ancora un colpo nel tamburo.
 

***
 

Erwin seguì gli occhi grigi ancora una volta. Scosse lentamente il capo quando li vide posarsi sulla Webley.

«No» sussurrò, consapevole di quanto fosse inutile quel rifiuto.

Si stava aggrappando a speranze inesistenti. Non aveva il potere di salvarlo, non questa volta. Il corpo dell’aviatore era irrimediabilmente danneggiato. Se anche fosse sopravvissuto,  a che destino lo avrebbe consegnato? Una vita costretto in un letto di ospedale, passata ad osservare il cielo, irraggiungibile attraverso i vetri opachi. Era questo che voleva per Levi? Ciondolò la testa. Non vi era altra soluzione, ma si rifiutava di elaborarla interamente. Quel pensiero gli era insopportabile. Di quanto sangue ancora avrebbe dovuto macchiarsi?

C’è ancora una vita che devo prendere. Poi ti lascerò in pace.

Quella frase gli rimbombò nella mentre, mentre la scena sfumava cauta davanti al suo sguardo. Il corpo di Levi si confuse con la pioggia e con lo sfondo scuro, mentre dalla polvere sorgeva una nera figura. Una vecchia amica.

«Lui no» sussurrò, quasi la visione potesse sentirlo.

Mi occorre.

«Perché? Ne hai già presi tanti quest’oggi. Lasciamelo, ti prego»

Non farà differenza, lo sai? Presto o tardi, sarà comunque mio. Come lo sarai tu e come lo saranno tutti.

«Lo so. Non voglio che sia oggi. Vattene e lasciami in pace»

Non puoi impedirmelo. Nessuno di voi può. Prendo ciò che desidero, senza chiedere il permesso. Quando voglio, come voglio. Non sei in grado di fermarmi. Mi hai servito bene ed a lungo. Ti chiedo solo quest’ultima vita. Poi sarai libero.

Scosse il capo, serrando maggiormente le mani su quelle dell’inglese. Colse un debole lamento, a cui non diede seguito:
«Non sono il tuo schiavo»

Sì che lo sei. Tu come molti altri. Gli esseri umani sono così volubili e fragili. Siete semplici da ingannare. A volte, vi ponete spontaneamente al mio servizio, che sia per una giusta causa oppure per un capriccio. Uccidente con troppa leggerezza. È per questo che vi ho scelti: impulsivi o riflessivi, astuti oppure infidi. Il mio lavoro non è semplice; alle volte, lo confesso, è un po’ ripetitivo. Per questo mi servo di voi: siete una sorpresa continua; spesso penso che non possiate superare gli orrori commessi, ma poi mi ricredo, ogni volta. Possedete una vena sadica difficile da estirpare. Non guardarmi come se non lo sapessi. Sei uno dei miei migliori strumenti.

«No, io…»

Guarda che cosa hai fatto. Ancora una volta, hai costruito un piano geniale e letale. Ancora una volta, non mi hai deluso. Sai quante vite hai mietuto, oggi? Sai quante, nel corso degli anni? Ricordi mai quelle vedove a cui hai strappato i mariti? Le madri che non riabbracceranno i loro figli? Sì, te ne preoccupi; ma, nonostante questo, non riesci a fermarti. Distruggere è la cosa che ti viene meglio; eppure, ultimamente, sembra che tu non riesca più a portarne il peso. Te ne sei accorto, vero? Il prezzo è troppo alto e non sai come gestirlo. Alcuni si lasciano scivolare addosso tutto; non pensano a quello che fanno, ma tirano avanti nella più completa indifferenza. Tu, però, non sei così. È per questo che ti ho scelto. Non me ne faccio nulla di uno stupido che uccide come se nulla fosse: prima o poi, commetterà un errore sciocco e diverrà mio a sua volta. No… Preferisco le persone come te: quelle consapevoli, quelle che cercano di sfuggirmi, ma che ricadono sempre negli stessi errori. Riflettere sui propri peccati è spiacevole, ma anche produttivo: ti sforzi di non ricascarci, ma… presto o tardi, tornerai a sbagliare.

«Perché scegli sempre me? Ogni volta che cerco di riscattarmi, ogni volta che voglio fuggire, torni ad usarmi come se fossi uno stupido burattino. Eppure… vi sono moltissimi uomini di cui potresti servirti. Perché, allora, continui a tormentarmi?»

È un’ottima domanda. Immagino che in casa tua vi siano molti coltelli. Tutti validi, ma uno soltanto è il tuo preferito. Forse, è quello che taglia meglio la carne o che mantiene il filo più a lungo. Capisci? È così anche per me. Sei il mio prediletto, non puoi farci niente.

«Che cosa vuoi ancora? Non ti ho già dato abbastanza?»

Una mano ossuta scivolò sul corpo dell’aviatore. Ne accarezzò le spalle, le braccia, correndo lungo la gola ed il mento. Si ritrasse e, poco dopo, premette con forza sui fori dei proiettili. Il petto si sollevò ancora una volta in uno spasmo.

Voglio lui.

«No»

Lo avrò comunque. Non puoi fermarmi. A te viene data una sola scelta: il “come”. È un grande regalo, quello che ti sto facendo. Lo porterò via. Sta a te decidere… in quanto tempo? Lo lascerai affogare nel suo sangue? Oppure lo grazierai? Ti è rimasto un solo colpo, ma è più che sufficiente per il compito che devi assolvere.

«Non posso»

Non sono sempre una maledizione, Erwin.

La figura svanì, mentre l’ambiente circostante tornava rapidamente a fuoco. Incrociò nuovamente le pareti diroccate dello scantinato, le scale sconnesse e la ringhiera pericolante. La gamba ferita, che pulsava fastidiosamente sotto la stretta cintura. Il cumulo di macerie vecchio di anni, i vetri infranti ed i rovi che stavano assediando i muri scrostati. Accanto a sé, il pilota a cui ancora teneva la mano.

«Perdonami» disse solo, allontanando la destra per raggiungere la Webley. Chiuse gli occhi, senza trovare il coraggio di fissare l’Inglese.

Caricò l’arma con movimenti meccanici; ruotò il tamburo ed abbassò il cane, poggiando l’indice sul grilletto. Avvicinò la canna alla tempia del compagno, mentre la mancina stringeva ancora le sue dita. Trattenne il respiro, rialzando lo sguardo e fissando il volto pallido: appariva sereno, quasi rincuorato. Sulle labbra esangui era apparso un tenue sorriso; le iridi sembravano colme di sollievo e speranza.

Levi chiuse gli occhi un istante dopo, mentre sulla bocca si disegnava un semplice:
«Grazie»

Erwin premette il grilletto, spingendolo a fondo.

L’ultimo sparo rimbombò lungo le pareti dello scantinato, prima di disperdersi nell’aria; il silenzio tornò a regnare, interrotto soltanto dall’insistente cadere della pioggia.

 
 

Angolino: aggiorno in fretta ^^ Questo capitolo è stato uno scoglio terribile da superare. Ho fatto fatica - molta - sia nel concepirlo che nello stenderlo. Fino all'ultimo, sono rimasta indecisa sulla fine di Levi, ma.. in fondo, credo vada bene così. Non ho molto da aggiungere. In realtà, questa ff doveva terminare millemila capitoli fa e con un lieto fine... evidentemente, le cose non sempre vanno per il verso giusto.
Come avrete intuito, però, la fine si avvicina (per fortuna, direte voi XD).
Un grazie infinito a Silvia e Serene per aver letto questo capitolo in anteprima, per i consigli ed il supporto che mi hanno sempre dimostrato.
Non vi porterò via altro tempo. Vi ringrazio infinitamente per aver letto fin qui ^^
Se avere pareri o suggerimenti, mandatemeli pure.
Un abbraccio

E'ry
 

Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** Uno spiraglio sull'anima ***


33. Uno spiraglio sull'anima


Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Dintorni di Le Blanc.


Erwin batté le palpebre, osservando i colori del tramonto filtrare oltre i vetri. Aveva già smesso di piovere? Spostò lo sguardo sull'ambiente circostante. La cucina era immersa in un silenzio irreale. Lo avevano disteso sul tavolo, a giudicare dal ruvido pianale oltre le spalle.
Si puntellò sui gomiti, piegando il capo per osservare le proprie condizioni. La ferita sulla coscia era stata ricucita e qualcuno aveva medicato i tagli minori. Mosse le iridi chiare, alla ricerca di qualche volto famigliare, ma senza successo. I ribelli lo avevano lasciato solo. Accanto al tavolo, una seggiola malmessa che qualcuno doveva avere in precedenza occupato.

«Levi?» sussurrò, mentre nella sua mente si accavallavano le ultime immagini. Il corpo esanime dell'aviatore disteso sui ciottoli, il petto forato dai proiettili ed il sangue che sgorgava lentamente dalla tempia, mescolandosi alla pioggia. Scosse il capo, sforzandosi di scacciare quei ricordi troppo freschi e dolorosi. Nessuno gli avrebbe risposto; Levi non c'era più. Giaceva dimenticato nello scantinato o forse seppellito accanto agli altri caduti, nell'abbraccio anonimo e freddo della terra.

Sentì una morsa serrarsi sul petto. Parevano passati giorni da quell'addio e non soltanto poche ore. I frammenti della memoria andavano dilatandosi nel tempo, mentre il dolore si acuiva solo a tratti. Era una sensazione strana, soffusa: come se, nonostante tutto, la sua mente lo stesse comunque spingendo a proseguire; a continuare per la sua strada, senza più voltarsi indietro. In fondo, cos'era l'Inglese, se non l'ultimo omicidio di una interminabile serie? Un'anima in più sulle spalle, che differenza avrebbe fatto?

Eppure, quella morte non aveva lo stesso peso e lo stesso sapore delle altre. Conosceva Levi da... quanto? Due settimane, forse... e, nonostante ciò, si sentiva legato a lui come ad un amico di vecchia data. Era come se quel turbinio di peripezie frenetiche avesse consolidato anzitempo un rapporto ancora troppo giovane. Chissà cosa sarebbe successo se il pilota non fosse giunto inconsapevolmente a cambiare la sua vita. Probabilmente, sarebbe rimasto ad Arras, ad accampare scuse per difendere una politica abbietta e corrotta. Oppure, avrebbe chiesto un trasferimento, abbandonando tutto nelle mani di Weilman.

Per la prima volta, provò un senso di sollievo: il capitano era scomparso e con lui tutto il male che si trascinava appresso; gli orrori delle stragi, le macchinazioni di quella mente perversa, il dolore per le vite innocenti cadute sul suo cammino... tutto era svanito, sotto il battere incessante di un acquazzone primaverile. La morte, quel giorno, aveva preso due vite: la peggiore e la migliore. Le aveva trascinate via, senza neppure dargli il tempo di disprezzare la prima e compiangere la seconda. Era quello, dunque, il prezzo della sua libertà?
Sollevò la mancina, studiandola alla luce degli ultimi raggi. Il sangue era ancora lì, secco e scuro, ma – ne era certo – sarebbe riuscito a ripulirlo.

«Ti sei svegliato.»

Una voce lo riscosse, strappandolo a quei pensieri. Volse il capo, incrociando gli occhi chiari di Mike.
«Sì.» sussurrò appena «Quanto è passato?»

«Qualche ora. Come ti senti?»

«A pezzi; tu?»

«Integro. A parte qualche graffio superficiale, me la sono cavata egregiamente. Non posso dire lo stesso degli altri.»

«Quante perdite?» domandò, tornando ad appoggiare la nuca al legno. Non era certo di voler sentire quel dato. Quante vite era costato, il suo brillante piano?

«Siamo rimasti in sei, Erwin. Compresi noi due.»

«Merda.» ringhiò, rifiutando tuttavia di assumersene la responsabilità. Questa volta, non era stato per un errore di calcolo o per la propria avidità. Quelle morti si potevano soltanto imputare all'orrendo tempismo che Weilman aveva avuto nell'attaccarli «Nanaba?» chiese, infine.

«Sta bene. Si è presa una pallottola nella spalla sinistra, ma niente di serio. Armand l'ha già medicata.»

Armand, il medico di quella sgangherata compagnia. In realtà, non era un dottore, ma un semplice infermiere, la cui esperienza era più preziosa di qualunque laurea.

«La mia gamba?»

«Anche! L'ha operata subito, anche se forse non tornerà più come prima. L'hai sforzata troppo ed hai perso parecchio sangue, Erwin. Probabilmente, sarai condannato a zoppicare per il resto dei tuoi giorni»

«Non è un gran male.» sussurrò, cercando di mettersi a sedere. Una mano robusta, tuttavia, lo ricacciò supino sul tavolo «Lo avete già seppellito?» mosse le labbra involontariamente, in quella domanda che gli bruciava. Non poteva attendere un altro minuto. Doveva sapere dove fosse Levi. Nella terra? Nella cantina? Dimenticato da qualche parte, preda degli animali selvatici?

Mike parve intuire:
«No. Nessuno di loro. Lo faremo domani mattina, con la luce. La pioggia ha ammorbidito il suolo e sarà più facile scavare delle buche»

«Non metterlo in un campo anonimo, ti prego. Né in un bosco o sul fondo della vallata. So che ti chiedo molto, ma...” si vergognò quasi di quella richiesta: era stupida, un po' egoista ed insensata. Mike aveva altro a cui pensare, che cercare un posto speciale dove tumulare il cadavere di uno straniero «Vorrei portarlo in cima a questa collina. Ho notato che c'è un prato oltre gli alberi; sembra una sorta di pascolo. Vorrei fosse lì.»

«Perché?»

«Sperava di poter tornare a volare da uomo libero. Il minimo che possa fare, è lasciarlo nell'unico punto in cui il cielo e la terra si toccano. Si sentirà più vicino a quelle nuvole che tanto cercava.»
 
 
***
 
 
Erwin accettò l'asciugamano che Nanaba, col braccio sano, gli stava tendendo. La pioggia li aveva sorpresi mentre scavavano le fosse per i caduti. Mike gli aveva intimato di ritirarsi, che avrebbe trasportato lui il corpo dell'aviatore sino al termine del pendio, ma non aveva voluto sentire ragioni: era una cosa che doveva fare, che non poteva rimandare oltre.

Aveva accompagnato l'amico sino alla cima, senza poterlo aiutare: la gamba protestava ad ogni passo, costringendolo a zoppicare e ad appoggiarsi con le braccia, cercando appigli nei tratti più scoscesi. Mike si era fermato più di una volta per sorreggerlo e per suggerirgli di tornare alla cascina; aveva scosso il capo e proseguito, finché il ginocchio sinistro non aveva smesso di sorreggerlo, costringendolo bocconi sul sentiero. Mike aveva proseguito da solo, raggiungendo la cima e ridiscendendo poco dopo. Lo aveva aiutato ad alzarsi, a riprendere il cammino. Ci aveva impiegato quasi un’ora per raggiungere la sommità del pendio, dove si era immediatamente accasciato. Aveva cercato di sorreggersi, di sfruttare la pala come punto d'appoggio, ma Mike l'aveva spinto malamente a sedere, strappandogli l'attrezzo dalle dita.

«Ci penso io.» aveva detto, mettendosi all'opera.

Era rimasto a guardare, senza poter fare nulla. Aveva alternato lo sguardo tra la fossa che andava creandosi ed il compagno esanime, avvolto in un lenzuolo bianco; aveva alzato leggermente la stoffa, spiando il volto pallido e l'espressione serena.

«Mi dispiace che sia finita così.» aveva sussurrato, arruffando un'ultima volta le ciocche scure, prima di riadagiare il tessuto «Arriverò a Limoges, a tutti i costi. Porterò la lettera a Isabel e leggerò la tua. La leggerò quando tutto questo sarà finito, quando anche io potrò trovare un po' di pace.»

Aveva seguito in silenzio il resto dell'operazioni. Aveva scosso il capo, quando Mike gli aveva chiesto se desiderava pregare.
«Non credo d'essere la persona giusta per parlare un po’ con Dio.» aveva replicato, accontentandosi di indicare una pietra piatta e lucida «Appoggiala sopra, così saprò ritrovarlo.»

 
«Stai bene?» Nanaba lo riportò bruscamente alla realtà; la donna gli stava tendendo una tazza di the caldo. La accettò volentieri, ringraziandola con un cenno.

«Sì.»

«Mi sembri provato, Erwin. Credo che non sia saggio partire così presto per Limoges. Potresti fermarti qui ancora qualche giorno. Siamo al sicuro, ormai... o, quanto meno, lo saremo nelle prossime quarantotto ore. Poi, credo convenga anche a noi cambiare aria»

«Credi che i tedeschi torneranno?»

«Ne sono sicura. Quando sapranno che li abbiamo fermati... che li abbiamo massacrati... torneranno a cercare vendetta e per riparare il ponte. Non possiamo sapere quanto ci vorrà, ma... verranno»

«Mi dispiace per tutto questo.» abbassò il capo, osservando ancora l'asciugamano umido. Lo posò con un gesto meccanico «Non avrei immaginato che saremmo arrivati a tal punto.»

«Quale punto?»

Gettò uno sguardo alla cucina deserta: Mike si era allontanato, lasciandoli soli; all'improvviso, tutto gli apparve desolato e spento. La cucina, dove solo due giorni prima aveva cenato in compagnia, appariva soltanto come una vecchia e squallida stanza; le sedie  non sarebbero state più occupate; le stoviglie non avrebbero lasciato la credenza e persino le scorte in dispensa sarebbero apparse superflue, ormai. Aveva distrutto molto di più che un contingente nemico: aveva spaccato la quotidianità di una famiglia allargata, di un gruppo di amici che non chiedeva altro che poter sopravvivere, tirare avanti e magari, di tanto in tanto, combattere per la patria. Scivolò a sedere, poggiando i gomiti sul tavolo e prendendosi la testa tra le mani. Strinse le tempie, sforzandosi di massaggiarle per scacciare più facilmente quei ricordi che, tuttavia, rimanevano inchiodati nella sua immaginazione.
Se soltanto non si fosse intromesso! Se non si fosse ostinato a cercare Mike e chiedergli aiuto per passare il confine, nulla sarebbe successo. I ribelli avrebbero continuato con le loro scorribande di poco conto; sarebbe stati inutili, ma vivi. Ora, invece... cos'erano? Soltanto altri nomi da aggiungere nella infinita lista dei caduti; altri sacrifici, utili oppure vani. Non avrebbe saputo dirlo, non in quel frangente.

«Mi dispiace.» ripeté, la voce spenta e roca «Non avrei mai dovuto trascinarvi i tutto ciò. Avrei dovuto abbandonarvi, lasciarvi combattere come al solito. Non sarebbe accaduto niente di simile. Alain sarebbe ancora qui. Lalande pure. François, Louis, Xavier...e tutti gli altri... sarebbero qui ora, seduti accanto a noi, intenti a brindare con qualche bottiglia di vino andato a male; mi avevi chiesto di salvare questa tua famiglia, ma... ho fallito. Ti ho portato via tutto, Nanaba.»

«Ti ho chiesto io di aiutarci ed è quello che hai fatto. Non potevi prevedere l'arrivo di rinforzi. Ieri...  ho vinto e perso al tempo stesso. Ho guardato i miei amici ed i miei nemici morire. È stato... come un pugno nello stomaco. Non avrei mai immaginato che si potesse arrivare a tanto» una pausa ed il rumore di una seggiola scostata «Non fraintendermi, non era la prima volta che assistevo ad una battaglia o alla morte di qualcuno, ma... questa è stata anormale e sbagliata. Questa è la guerra, nella sua essenza più cruda. Non l'avevo mai compresa, né assaggiata. È amaro, sai?, il sapore della nostra vittoria. A che prezzo l’abbiamo ottenuta? Quante vite abbiamo gettato, per riuscire a spuntarla? Mi chiedo se ne valesse davvero la pena.

Mi rendo conto solo ora quanto devono essere forti le tue spalle. Forti e curve. Non penso che riuscirei a sopportare un fardello simile, io. Ti ho giudicato male e con troppa fretta; non avevo compreso l'entità del tuo sacrificio. Ti vedevo solo come il mostro che mi aveva strappato Maxime. Non conoscevo ancora l'uomo oltre la maschera, né il dolore che questi provava. Ora, al contrario, conosco entrambi; il mio carico è piccolo, confronto al tuo, ma ugualmente doloroso. Ho buttato le vite dei miei compagni per una labile speranza di vittoria. Non riesco neppure a godermela, ora. Credevo che... una volta sconfitti i tedeschi, mi sarei sentita meglio. Più autoritaria, più forte e... libera. Invece, non sono nessuna delle tre cose.»

«Mi dispiace che ti senta così. Io...»

«Non devi fare niente, Erwin. È stata una mia scelta e non posso cambiarla. Posso soltanto guardare oltre ed andare avanti. La rimpiangerò, ne sono sicura. Sarei dovuta cadere anche io, al fianco dei miei compagni, e non sopravvivere.»

«Forse, Dio ci sta concedendo una seconda possibilità; oppure, siamo così marci che si rifiuta di riceverci.»

«Deve essere così.» Nanaba sorrise debolmente, aggiustando debolmente la fasciatura attorno al braccio destro «Che cosa era per te? Un amico, un fratello, una semplice occasione di riscatto?»

«Levi?» ricevette un cenno d’assenso e si sforzò di continuare «Non lo so.» scosse piano il capo, cercando le parole adatte «Un Inglese caduto per sbaglio dal cielo, immagino. È strana la vita, anche troppo: suo zio ha soccorso mio padre durante la Prima Guerra e io ho pensato di ricambiare il favore, salvandogli la vita. Non ci sono riuscito, questo è evidente. Forse non l’ho fatto per lui, né per cancellare un vecchio debito; l’ho fatto soltanto per me stesso, per scappare da ciò che stavo diventando. Per ritrovare un briciolo di giustizia e di umanità che, invece, noto aver perso per sempre.» abbassò il capo, concedendosi un solo istante di silenzio, prima di riprendere «Non so dirti cosa fosse. Era una di quelle persone che ti sembra di conoscere da una vita, nonostante ci fossimo incontrati da poco. Mi mancherà. C’era qualcosa oltre l’aria imbronciata ed il carattere spigoloso, qualcosa che non saprei come descrivere, ma che ho visto. È come se, nonostante tutto, si fosse aperto, lasciandomi scorgere una parte di lui a cui nessuno aveva accesso da tempo.

Non so come descriverlo; forse mi prenderai per un visionario, ma sono sicuro che vi fosse qualcosa di più profondo e delicato nel suo animo; un qualcosa che custodiva gelosamente, che proteggeva con spine ed aculei. Sono stato fortunato a scorgerlo; non so perché abbia scelto me. Non so perché abbia deciso di schiudersi e permettermi di spiare nel profondo della sua anima. Appariva indisponente, alle volte irritante e burbero nei modi, ma… in realtà, c’era di più in lui. Ho conosciuto la delicatezza dei suoi pensieri, le debolezze che nascondeva in ogni modo, la fragilità del suo essere, troppo cristallino per non rischiare di spezzarsi. A volte, mi sembrava quasi un bambino, troppo ingenuo per fronteggiare l’arroganza degli uomini.

Mi ha lasciato una lettera, ma non voglio leggerla, non ora. Lo farò quando tutto ciò sarà finito, quando nulla potrò più macchiare la sua memoria ed i miei ricordi. Arriverò a Limoges, glielo devo. Finirò quello che ha iniziato, anche se questo significherà tradire ancora una volta il mio Paese. Non devo niente, comunque, alla Germania; non a ciò che è diventato, per lo meno. Al contrario, non ho ancora saldato il mio debito con Levi.»

«Mi dispiace.» Nanaba gli posò una mano sulla spalla, stringendola delicatamente.

«Anche a me. Non meritava di finire così, nel buio di uno scantinato dimenticato.»

«Ti accompagneremo a Limoges.» la fermezza nella voce della donna lo spinse a rialzare il viso «Partiremo a scaglioni. Mike ti accompagnerà, domani. Io e gli altri vi raggiungeremo nei giorni seguenti. Non c'è più nulla qui, né per noi, né per te. Devi lasciare indietro i rimpianti.»

Erwin annuì, cercando di scacciare gli ultimi pensieri. Avrebbe voluto dilungarsi e parlare ancora di Levi, di quanto avevano condiviso nei giorni trascorsi, in una fuga continua che mai avrebbe pensato di dover affrontare. Invece, si limitò a dire:
«Come faremo a passare il confine?»

«È più semplice di quanto tu creda. C'è un punto di comunicazione tra le linee. I soldati, ovviamente, ne sono a conoscenza, ma fingono di non sapere. Viene usato soprattutto dai contrabbandieri e... capisci che la cosa volge a favore di entrambi gli schieramenti. Spacciano sigarette, cioccolata, alcolici ai militari.»

«Come ci avvicineremo?»

«Abbiamo divise naziste a sufficienza, direi. Ci maschereremo e scenderemo verso la breccia. Una volta attraversata, ci disferemo delle uniformi e raggiungeremo Limoges. Facciamo sempre così, quando vogliamo comunicare con gli alleati; so che può sembrare un piano banale, ma... fino ad ora, ha sempre funzionato e non ho motivo di dubitare.»

«Va bene. Non abbiamo alternative, immagino.»

«Nessuna.» la donna sorrise, alzandosi bruscamente «Credo sia ora di coricarsi, maggiore. Domani vi aspetta una bella scarpinata. Spero soltanto che la tua gamba regga.»


 

Angolino: ritardo imperdonabile nell'aggiornare, me ne rendo conto. Mi dispiace moltissimo, ma in questo periodo molti impegni e troppi pensieri mi hanno tenuto lontana dalla scrittura. Avevo iniziato questo capitolo subito dopo il precedente, ma non riuscivo ad essere soddisfatta. L'ho riscritto svariate volte ed, alla fine, eccolo qui. Non posso dirmi entusiasta al cento per cento della stesura, ma credo che sia un momento delicato per i personaggi ed approfondire ulteriormente mi sembra quasi una forzatura. Preferisco lasciarli così, un poco in bilico tra la storia e le loro emozioni.
Non vi so dire, effettivamente, quando pubblicherò il prossimo. Magari presto, magari ci vorrà ancora un pochino. La storia è delineata e volge al finale - non manca molto alla conclusione - ma credo che pondererò bene come e quando scriverla. Sono grata alle persone che ancora la seguono, soprattutto a quelle che mi supportano da vicino. In particolar modo, ringrazio Yuri (che non è ancora arrivato a questo capitolo, ma lo farà presto se manterrà il ritmo di lettura) per aver letto questa storia. Sono stata davvero felice di ricevere il tuo supporto, così come quello di un altro paio di personcine che ho ringraziato anche nei capitoli scorsi (devo fare l'alternativa, ma loro sanno, vero? ^^). Ammetto, tuttavia, che la mancanza di riscontri un pochino frena nella stesura, perchè non so se sto andando nella direzione giusta o meno, sia per quanto riguarda la trama, sia per grammatica e stile. Al solito, quindi, se avete pareri o commenti, sentitevi liberissimi di farmeli avere.
Grazie a tutti per aver letto fin qui,
Un abbraccio


 

Ritorna all'indice


Capitolo 35
*** Oltre il fronte ***


34. Oltre il fronte
 

Marzo 1942. Territorio occupato, Nord della Francia. Frontiera Repubblica di Vichy.
 

Erwin incespicò in una radice sporgente, imprecando a denti stretti. La gamba sinistra protestò vigorosamente, ma non lo tradì. Allungò una mano, appoggiandosi alla spalla di Mike.
«Ce la fai?» chiese questi, ottenendo in cambio un deciso annuire.

Erano partiti di primo mattino, facendosi accompagnare sino al confine. Armand aveva guidato il camion sino ad un paio di chilometri dal fronte, lasciandoli poi proseguire a piedi. Il sole, da poco sorto, indorava un paesaggio desolato. L’umidità della notte e dei giorni precedenti impregnava ancora il terreno, rendendolo scivoloso. I boschi si erano presto ritirati alle loro spalle: gli alberi, sempre più radi, avevano ceduto il posto ad una brulla campagna, solcata soltanto dai cingoli dei mezzi pesanti, dalle orme degli pneumatici e dei soldati ancora addormentati. In lontananza, si poteva scorgere il fumo delle sigarette che le sentinelle accendevano per scacciare la noia e la solitudine. Poco oltre, i larghi solchi delle trincee, scarsamente attive a quell’ora del mattino.

Avevano indossato le divise naziste, ma più per precauzione che per vera e propria necessità. Nessuno aveva badato loro, ignorandoli come si ignorano gli insetti. Ancora qualche centinaio di metri ed avrebbero passato le linee, ritrovandosi nel territorio della Repubblica di Vichy.

«Appena ti darò il segnale, togliti la giacca e prosegui solo con la camicia. Sentirai un po’ freddo, ma almeno non ti buscherai una pallottola» sussurrò Mike, ma Erwin teneva lo sguardo incollato sull’orizzonte:

«C’è qualcuno.» disse, mentre lo sguardo rimaneva incollato su due figure poco distanti. C’erano dei soldati, seduti su dei massi sporgenti.

Sembrava si stessero dividendo qualcosa. Sigarette, forse? O cioccolata? Vestivano divise completamente diverse: il primo non mostrava più di diciotto, vent’anni; portava l’uniforme tedesca, con il braccio sinistro segnato dalla svastica. Dei corti capelli biondi incorniciavano un viso massiccio, robusto, i cui lineamenti grezzi si perdevano nel collo taurino e nelle spalle forti. Le sue dita stavano indugiando su un involucro di carta azzurrina, mentre il fucile giaceva a terra, quasi dimenticato.
L’altro pareva coetaneo, ma indossava la giubba verdognola dell’esercito americano. Appariva più alto del compagno, con una zazzera castana sfuggente da sotto l’elmetto. Stava rannicchiato, le ginocchia strette al petto e le labbra intente a sgranocchiare qualcosa.

«Cambiamo strada?» Erwin mosse ancora un passo ed un ramo secco si spezzò sotto il suo peso; quel rumore, nel silenzio mattutino, bastò a richiamare l’attenzione dei soldati.

Il biondo sollevò una mano, facendo loro segno di avvicinarsi:
«Da questa parte! Abbiamo del cioccolato.» mormorò in uno stretto tedesco macchiato dall’accento bavarese.

Erwin fece per indietreggiare, ma la robusta mano di Mike lo bloccò:
«Se fuggiamo, penseranno che abbiamo cattive intenzioni e ci inseguiranno o spareranno. È meglio affrontarli, anche se… non capisco. Che ci fanno un soldato tedesco ed uno alleato in piedi a quest’ora?»

«Non lo so.» replicò, lasciandosi accompagnare in direzione dei due. Via via che si avvicinava, scorgeva nuovi dettagli: la bandiera statunitense sulla divisa del moro, la borraccia appesa al suo fianco, la carta delle barrette gettata a terra «Buongiorno.» salutò, infine, quando non fu che a qualche passo di distanza.

«Buongiorno a voi! Accomodatevi. Siete di ronda?»

«Mh, sì…»

«Non vi invidio per niente. Volete del cioccolato? Non fate complimenti, prendete!» il biondo tese una tavoletta, lasciandogli solo il tempo di spezzarne un quadratino, prima di passarla a Mike «Camminate su e giù o avete una meta?»

«Andiamo nella Repubblica.» la voce di Mike irruppe nel discorso, accompagnata da un mezzo sorriso «Facciamo rifornimento di tabacco. Voi fumate? Volete delle sigarette?»

«Volentieri! Un paio di stecche saranno sufficienti» il biondo menò una pacca sulla spalla del compagno «Non capisci una parola di quello che diciamo, vero?» proseguì passando ad un inglese stentato «Ah, Bertholdt. Ti insegnerò a capirci, vedrai. Presentati, suvvia.»

«Guten Morgen. Ich bin Bertholdt.»

«Niente male, eh?» una mano si tese in loro direzione «Sono Reiner e voi?»

«Klaus.» Mike volse l’indice verso il maggiore «E lui è Derek. Sono curioso, però… come mai un soldato tedesco divide cioccolata con un americano?»

«Non vorrete farci rapporto, spero.» il tono di Reiner volse al preoccupato in un istante, schiarendosi poco dopo «In realtà, non ci importa di questa guerra. Ci hanno spedito qui, ma… avevamo entrambi progetti diversi. Sognavamo qualcosa di diverso.»

«Per esempio?»

«Beh, io… ho una famiglia piuttosto numerosa a cui badare. I miei fratelli e sorelle sono ancora piccoli e mia madre è sola. Qualcuno deve pur tirare avanti la baracca, no? Ci sono campi da coltivare, vacche da mandare al pascolo, frutteti da potare e… loro non possono sobbarcarsi un carico simile da soli. Spettava a me occuparmi di tutte queste cose, ma a Gennaio è arrivato l’avviso di arruolamento. Ho sostenuto un breve corso d’addestramento per soldati semplici e poi mi hanno cacciato qui, a marcire tra le trincee.» un altro pezzo di cioccolato sparì tra le labbra «Capisci perché non me ne importa niente? Questo non è ciò di cui abbiamo bisogno. La gente qui muore e basta. Non siamo preparati a sufficienza per tutto ciò. Io sono soltanto un contadino; Bertholdt è un ragazzo di…your city

«Dallas.»

«Di Dallas che vorrebbe aprire un bar e sposare la sua ragazza. Probabilmente, non farà nessuna delle due cose. Probabilmente, creperà qui e Annie si ritroverà ad aspettarlo inutilmente piangendo sulle rare lettere che riusciamo a spedire.» una pausa ed un sorriso incerto «E voi? Da dove venite?»

«Da Berlino, ma non abbiamo storie tanto diverse dalle vostre da raccontare.»

«Capisco. Ci porterete delle sigarette, allora?»

«Faremo il possibile. Whisky ne volete?»

«Certamente! Più roba riesci a portare qui e meglio sarà. Possiamo chiedere a Bertholdt di aiutarvi a passare il confine, che ne dite?»

«Sarebbe un’ottima idea.»

«In cambio di un pacchetto di biscotti alle mele, magari?» Reiner tese la mano e Mike la strinse prontamente:

«Affare fatto.»

 
***
 

Marzo 1942. Repubblica di Vichy. Base Alleata di Limoges.
 

Raggiungere Limoges non fu difficile: Bertholdt li scortò sin oltre le trincee alleate, fermando un camion di soldati diretto alla base. Li fece salire, mentre Mike spiegava all’autista la vera natura del loro viaggio: avevano importanti informazioni per il generale Zackley, da trasmettere con assoluta urgenza. L’uomo li fece accomodare sul retro, stretti tra un nerboruto soldato del Nevada e uno del Texas, che per tutto il viaggio discussero animatamente delle tecniche di coltivazione del mais.

Quando scesero dalla camionetta era da poco passato mezzogiorno. La base era in piena attività: alcuni soldati stavano terminando gli esercizi fisici, altri la manutenzione delle armi ed altri ancora erano giù in fila  per il pranzo. Nessuno badò a loro, finché un uomo anziano non si presentò a Mike:

«Colonnello Pixis, signori.» snocciolò, tendendo loro la mano callosa «Thomas» accennò all’autista, che non si era ancora allontanato dal mezzo «Ha dichiarato che avete importanti informazioni per il generale Zackley. Credo vi potrà ricevere a breve. Chi devo annunciare?»

«Mike Zacharias. Sono già stato qui, in passato. Appartengo ad uno dei gruppi di frontiera della Resistenza Francese.»

«Ah, si. Mi ricordo di voi. Avete anche una compagna, se non vado errando.»

«Nanaba. È mia moglie, sì.»

«Una donna forte, volenterosa; difficile dimenticarsi di una così» il  vecchio imbarcò un sorrisetto malizioso, prima di rivolgersi ad Erwin che, per tutto il tempo, era rimasto in silenzio, osservando quel vivace scambio di battute «E voi?»

«Maggiore Erwin Smith.»

«Il vostro nome non mi suona nuovo. Siete tedesco?»

«Sì. Forse vi ricorderete di Hannut.»

«Fin troppo bene, purtroppo. Rammento di un certo maggiore Smith, in effetti. Siete voi, deduco.»

«Esattamente.»

«Sono indiscreto se vi chiedo cosa siete venuto a fare? Se siete qui, immagino abbiate disertato o, quanto meno, non siate più il benvenuto in Germania; saprete, tuttavia, che la vostra posizione non vi è affatto favorevole, vero?»

«Devo conferire con il generale. È di estrema importanza. Non rimane molto tempo e…»

Una mano si sollevò all’improvviso:
«Va bene, è sufficiente. Vi farò chiamare appena possibile. Nel mentre, gradite ristorarvi al refettorio? Sono certo che sarete affamati.»
 

***


La mensa era ospitata in una delle tante casupole che costellavano la base. Baracche in legno, per lo più, che fungevano tanto da dormitori, quanto da infermeria, uffici, sale visita e così via. I militari sembravano abituati a quello stile di vita sin troppo sobrio e senza pretese.

Mike recuperò due scodelle di zuppa di patate, portandole al tavolo che si erano ricavati. Avevano preferito isolarsi, scegliendo di accomodarsi in un angolo, lontano dal chiasso che un gruppo di piloti stava allegramente producendo; soltanto un ragazzo si era avvicinato, chiedendo loro se desiderassero partecipare alla scommessa: John Wood avrebbe sfidato a braccio di ferro quell’energumeno di Parker; erano interessati a guadagnare soldi facili con un piccolo azzardo?

Entrambi avevano declinato l’offerta ed erano tornati a concentrarsi sulla minestra.

«Sei preoccupato?» Mike ruppe il silenzio, spiando l’amico: Erwin mostrava un’espressione indecifrabile, come se fosse ormai indifferente a tutto. Non risultava spaventato, ne impensierito per la propria sorte. Cosa sarebbe stato di lui, dopo il colloquio con il generale? Sicuramente, non gli avrebbero regalato una pacca sulle spalle e una vacanza al mare. Eppure, il maggiore non sembrava affatto turbato. Era quasi rassegnato, come se il futuro non lo riguardasse nemmeno più. In fondo, cosa gli rimaneva? Soltanto il mantenere la promessa fatta ad un amico e nient’altro.

«Perché dovrei esserlo?» la risposta non tardò a giungere, spenta e tenue come se l’era immaginata.

«Non pensi che ti costringeranno a parlare? A vuotare il sacco su tutto ciò che sai sull’esercito tedesco, sui suoi piani e…»

«Sono qui solo per riferire dell’Operazione Chariot.»

«E poi?»

«Mi rimetterò al loro giudizio.»

«Non ti capisco. Che fine ha fatto il maggiore Smith che conoscevo? Quello testardo, brillante, che non si arrendeva davanti a nessuno?»

Erwin gli rivolse un sorriso stanco, amaro:
«Credo sia sepolto su una collina nei dintorni di Le Blanc.»


 

Angolino: sono riuscita ad aggiornare in un tempo quasi-decente... Finalmente, sono arrivati a Limoges. Penso Erwin fosse stanco di rimbalzare qui e là per l'europa come una pallina, ma... alla fine, ce l'ha fatta. I prossimi capitoli spero usciranno in tempi altrettanto decenti e spero di non ritardare troppo con la conclusione della storia ^^ perchè si, siamo quasi (molto quasi) alla fine.
Ho aggiunto un piccolo siparietto con Reiner e Bertholdt; in realtà, cercavo solo un modo rapido per far passare il fronte ai protagonisti e farli accompagnare a Limoges nel minor tempo possibile. Ho fatto ricorso a questo piccolo inciso.
Al solito, ringrazio le mie socie per i pareri sul capitolo (loro leggono sempre le anteprime ^^) e... grazie a voi, se siete arrivati fin qui.
Un abbraccio e alla prossima

Ritorna all'indice


Capitolo 36
*** Operazione Chariot ***



35. Operazione Chariot
 


Marzo 1942. Repubblica di Vichy. Base Alleata di Limoges.


L’ufficio del generale non era altro che una misera stanza, ospitata in una baracca di legno; sobrio, quasi anonimo, non presentava altro che un tavolaccio a fungere da scrivania ed un paio di sedie per far accomodare eventuali ospiti. Non vi erano mensole, né librerie. Soltanto una sputacchiera faceva capolino nell’angolo accanto ad un finestra dai vetri smerigliati.
Erwin si accomodò su una seggiola, sussultando al cogliere il cigolio delle vecchie gambe.

«Non vi preoccupate, maggiore. Ha retto pesi più grandi del vostro.»

Darius Zackley sedeva in una sgangherata poltrona, la cui imbottitura sfuggiva da strappi lungo i braccioli e lo schienale. La stoffa, di un terrificante color senape, sembrava sul punto di cedere definitivamente.

«Chiedo scusa.» bofonchiò comunque Erwin, studiando sottecchi al figura dell’uomo davanti a sé.

Il generale doveva aver oltrepassato i sessant’anni, senza dubbio. Il viso squadrato era accompagnato da folti capelli argentati, che scendevano oltre la nuca e contornavano le orecchie scivolando in una spessa barba. Il naso aquilino reggeva degli occhiali tondeggianti, dalla semplice montatura in corno chiaro. Lo sguardo, grigio quanto il cielo in tempesta, stava ancora studiando alcune carte. Nel complesso, il generale era una persona corpulenta: l’addome pingue premeva contro i bottoni della camicia, le cui maniche erano state arrotolate sugli avambracci muscolosi. Ad una prima occhiata, regalava l’idea di un personaggio pigro e piuttosto sciatto; era incredibile come quell’uomo fosse, invece, il capo supremo dell’esercito Alleato in Francia; come gestisse le trame alle spalle del governo di Vichy che, nonostante le tendenze filotedesche, era a conti fatti un ammasso di burattini nelle mani delle alte cariche americane e inglesi. La Repubblica, in fondo, era nata come una mansueta pecora al pascolo: sorretta da persone che non volevano guai con la vicina Germania, ma che, al tempo stesso, non erano riuscite a conservare il loro potere. La Repubblica, così, si era ritrovata ad essere agnello e lupo ad uno stesso tempo.

«Non c’è bisogno di scusarsi.» Zackley accantonò finalmente i rapporti, dedicandogli attenzione «Pare abbiate fatto un lungo viaggio, maggiore; e soltanto per parlare con me. Perché? In Germania non vi pagavano abbastanza?»

«Posso assicurarvi che il mio stipendio era più che soddisfacente.» Erwin rimase impassibile, aggiungendo alle replica soltanto un mesto sorriso. Non sarebbe caduto in provocazioni simili. «Se sono qui, è solo perché devo un favore ad una persona, che ci ha rimesso la vita per portarvi queste informazioni. Vi pregherei di ascoltarmi, quindi; e senza ironie di sorta, se possibile. È una questione della massima importanza e sono certo che non sminuirete il valore di quanto sto per dirvi.»

«Parlate, dunque. Sono tutto orecchi.»

Erwin raccontò. Si sforzò di non tralasciare nulla, alcun dettaglio. Parlò del ritrovamento dello Spitfire, della cattura degli inglesi; di come fosse riuscito a salvare soltanto Levi e come fosse venuto a conoscenza dell’Operazione Chariot. Il pilota aveva dunque spifferato l’intero piano? Sì, ma perché costretto e per salvare un compagno d’armi. Non era stato un tradimento intenzionale, anzi. Levi stesso aveva vagato per l’Europa, attraversando la Francia con ogni mezzo per cercare di raggiungere Limoges il prima possibile.
Perché il signor Ackerman non era lì? Come detto, era caduto durante uno scontro con il capitano Weilman, da giorni sulle loro tracce. Il capitano era a conoscenza dell’Operazione? Sì, naturalmente. L’aveva, anzi, riferita a Berlino prontamente. L’intera Operazione era in pericolo: occorreva annullarla o studiare un nuovo piano da capo.
Il signor Smith sarebbe stato tanto gentile da fornire una strategia alternativa? No.
Perché? Perché il signor Smith era stanco di sporcarsi le mani del sangue altrui; era stanco di vedere il proprio nome legato a stragi senza fine, a famiglie distrutte e corpi dilaniati. No, non era disposto ad aiutarli.
Perché il signor Smith aveva aiutato un pilota inglese a scappare? Che cosa guadagnava da tutta quella faccenda, se non il disprezzo dei connazionali ed il titolo di disertore?

«Queste non sono questioni che vi riguardano, generale. Con il dovuto rispetto, è una faccenda che lega la mia famiglia a quella degli Ackerman.» Erwin rilassò la schiena contro la seggiola, espirando lentamente. Era finita? Sì. Aveva narrato tutto, nei minimi dettagli. Si era sforzato d’essere esauriente, di rispondere a tutte le domande del generale, di fornirgli ogni ricordo. Aveva parlato di Nile, della famiglia Jaeger, della piccola Christa e di Mike e Nanaba. Aveva cercato di non dimenticare nulla. Alla fine, però, era giunta quella domanda scomoda: perché aveva aiutato Levi? Forse, non era ancora in grado di rispondere. Per salvare un vecchio debito? Sì, almeno… inizialmente. Poi, per cosa? Aveva usato quella faccenda come una valida scusa per allontanarsi dalla Germania, per abbandonare quegli ideali che iniziavano ad andargli stretti; per cercare di riscattarsi, di salvarsi e di salvare il proprio Paese passando per la distruzione d’entrambi. Non era sicuro di volerlo spiegare ad un estraneo ed un nemico.

«D’accordo. Per il momento è sufficiente, maggiore.» Zackley poggiò il mento sulle mani incrociate, con aria solenne «Vi prego, tuttavia, di riconsiderare la mia offerta. Abbiamo poco tempo per rivalutare l’intera Operazione Chariot. Siete certo di non volerci aiutare?»

«Sissignore.»

«Potrei chiudere un occhio sulle vostre origini e sul vostro passato, comprendete? Siete… quel genere d’uomo che apprezzo, maggiore Smith: risoluto, forte, deciso e… spietato, all’occorrenza. Mi rammaricherebbe alquanto dover agire contro di voi; e sono sicuro che non desiderate attendere la fine della guerra in un campo di prigionia.»

«Non rientra nei miei progetti, tuttavia… devo declinare. Ho già tradito il mio Paese una volta; non chiedetemi di farlo ancora.»

«Temo di non avere altra scelta, allora. Le informazioni che ci avete portato sono preziose, ma credo non siano sufficienti a cancellare Hannut.»
 

***
 

Il carcere della base era ospitato in una baracca stretta e lunga, attorniata da un doppio giro di filo spinato. Una precauzione abbastanza inutile, considerato che erano praticamente vuote. Chi avrebbe dovuto scappare da lì? I ratti, tutt’al più. A giudicare dai piccoli escrementi che costellavano il pavimento della prigione, dovevano esservene a bizzeffe.

Erwin saggiò con cautela l’unico sgabello della cella; a dispetto delle apparenze, sembrava più solido di quello nell’ufficio del generale. Tuttavia, pareva essere l’unica cosa pulita in quei pochi metri quadri che gli erano concessi. Il giaciglio non era altro che un materasso rovesciato a terra, coperto di macchie e infeltrito dall’umidità. Vi era una brocca sbeccata con dell’acqua stagnante, dove una mucillaggine verdastra galleggiava placidamente. L’unica finestra era posta troppo in alto perché potesse guardare all’esterno, mentre verso l’interno la cella era delimitata da sbarre arrugginite e scrostate, a cui non si era nemmeno avvicinato.

In tutto ciò, era l’unico ospite del complesso. Nessun altro era stato tanto stupido da farsi imprigionare lì dentro. Si stupì, dunque, quando colse la porta d’ingresso spalancarsi con un sonoro tonfo e dei passi pesanti attraversare il corridoio.

«Tu sei tutto suonato!» la figura di Mike riempì lo spazio della porta, le mani aggrappate nervosamente alle sbarre rugginose «Che diamine ti salta in testa?! Vuoi morire qui? Vuoi farti deportare? Cazzo, Erwin! Non ti riconosco più.»

«Non toccare quelle cose; sono luride e potresti prenderti un’infez…»

«Risparmiami la predica! Morirai di colera prima tu, stando qui dentro! Perché hai rifiutato l’offerta di Zackley? Ci tieni così tanto a passare per il martire della situazione?»

«Non urlare. Ci sento, sai?» Erwin abbandonò lo sgabello, muovendo qualche passo verso l’amico «Perché sono stanco, Mike. Sono stanco di dover combattere con i fantasmi, di dovermi sporcare le mani e la coscienza per gli altri; il mio fardello è già abbastanza grande, senza che vi aggiunga le lacrime di altre vedove e il dolore di altre madri.»

«Pensi che tirandoti indietro riuscirai ad evitarlo? Credi che nascondendoti salverai delle vite? Forse ne condannerai il doppio, invece. Condannerai quelle di questi ragazzi che hai visto in mensa, di quelli che ci hanno salutato all’ingresso, dato un passaggio per arrivare fin qui e…»

«Lo so! Credi che non ci abbia riflettuto? Ma… sono davvero esausto. Non voglio progettare un altro massacro. Un’altra carneficina firmata a mio nome.»

«E l’Operazione Chariot?»

«Ho consigliato a Zackley di annullarla, piuttosto.»

«Ma… potrebbe decidere le sorti della guerra! Te ne rendi conto? Questa guerra potrebbe durare ancora un anno, due, cinque… non possiamo saperlo, ma… se Chariot fosse un modo per accelerarla? Non credi sarebbe giusto darle una possibilità? Salveresti più vite future, sacrificandone qualcuna oggi.»

«Mi peserebbe comunque. Il marinaio che sta là, al cambio turno… non può sapere che tra qualche giorno morirà. Sono sicuro che se glielo chiedessimo non sarebbe d’accordo. Nemmeno se sapesse che il sacrificio suo e dei suoi compagni potrebbe forse accorciare la guerra e salvare altre persone, permettere ai padri di veder crescere i loro figli; permettere alle donne di sposarsi ed ai bambini di nascere. Non sarebbe d’accordo, perché la sua vita è questa. Soltanto questa. Non si interessa ad altre famiglie che forse verranno; lui vuole solo rivedere la sua. Puoi dargli torto?» una pausa, e un leggero colpo di tosse; faceva freddo in quella stupida cella. Avrebbe chiesto una coperta pulita più tardi «No, non puoi. Le generazioni future non sapranno mai che sono qui perché uno sfortunato marinaio è morto nel marzo millenovecentoquarantadue; si preoccuperanno della loro esistenza, senza badare a quelle passate. In fondo, forse, è anche giusto così.»  Sollevò lo sguardo, incrociando quello di Mike. Vi lesse il dubbio. Non era convinto? «E se su quella nave ci fosse Nanaba? O se fosse su un aereo che verrà certamente abbattuto? Ti interesserebbero davvero le vite future?»

«Non lo so.»

«Te lo dico io: “No”. Non ti interesserebbe. Lei è il tuo presente; è la donna con cui hai scelto di poter costruire qualcosa. Davvero saresti disposto a sacrificarla per un futuro migliore?»

«È un colpo basso questo.»

«Lo so, ma è l’unico modo per farti ragionare; perché tu capisca.»

«Però… non credi, allora, che tutto questo sarebbe stato inutile?»

«Cosa intendi?»

«Il tuo viaggio fin qui, l’aver aiutato l’Inglese… Levi sarà morto invano, se non ci darai una mano.»

«Lui voleva soltanto recapitare un messaggio; avvisare gli Alleati. Non voleva che concepissimo un piano diverso.»

«Se fosse stato qui, ti avrebbe chiesto di aiutarli e tu lo sai.»

Erwin scosse piano il capo. Che Mike avesse ragione? In fondo, che senso aveva viaggiare tanto a lungo, sopravvivere a mille pericoli, soltanto per recapitare un messaggio e poi attendere nell’inedia lo svolgersi dei fatti? Tanto sarebbe valso il rimanere ognuno al proprio posto: lui in Germania, Mike a Le Blanch e Levi… beh, non ci sarebbe stato comunque più.
Perché salvarlo da Weilman, però? Perché aiutarlo a raggiungere Limoges e poi abbandonarlo sul traguardo, rifiutandosi di spingerlo oltre? Anzi, di spingere oltre un suo ricordo, una sua volontà. Perché Levi ormai non c’era più; la sua volontà a chi era affidata, allora? Al suo compagno di viaggio?

«Cosa sai dell’Operazione Chariot?» chiese, all’improvviso, rialzando lo sguardo.

«Poco niente.»

«La base di Le Crotoy… è un porto francese, riparato in un’insenatura. Gli Alleati schiereranno le corazzate all’imboccatura del golfo e bloccheranno così le navi tedesche. Alla Raf sarà affidato il bombardamento delle stesse. Pensano di sorprenderle all’alba, durante il cambio turno. A quell’ora si è tutti mezzi addormentati e poco reattivi…» cercò di fare mente locale. Le Crotoy era… «Nella regione dell’Alta Francia. L’attacco è previsto per il ventisei marzo, tuttavia…» ciondolò nuovamente il capo «Spero solo che Zackley cambi idea.» concluse, risollevando lo sguardo sull’amico.

«è tutto ciò che puoi dirmi?»

«No.» Erwin sentì la gola secca, mentre le parole sgorgavano caute «Posso anche darti una alternativa, ma… non voglio che si sappia che è mia. Sarà un tuo piano, una tua idea.»

«Ti consentirebbe di uscire da qui…»

«No. Non voglio andarmene in giro come se niente fosse, a raccogliere altri sguardi di odio e di disgusto. Come pensi reagiranno i soldati, quando sapranno chi sono? Quanti di loro pensi avessero amici o parenti ad Hannut? Forse tutti, forse nessuno… non farà differenza; mi disprezzeranno comunque.» sbuffò piano, serrando i pugni lungo i fianchi «Cosa faresti, se dovessi riorganizzare l’operazione, come prima cosa?»

«Cambierei giorno.»

«Esatto. Possiamo anticiparla?»

«No, non avremmo tempo materiale di predisporre le truppe, credo…»

«Sono d’accordo. Cambiare piano equivale a cambiare logistica, oltre che strategia. Ci serve tempo, ma non troppo: devono pensare che ci siamo ritirati, non che ci stiamo riorganizzando; altrimenti, si muniranno anche loro di nuovi armamenti, di contraerea e mortai. In ogni caso, a Le Crotoy staranno già organizzando la difesa. Ci sono altre basi sul territorio che potrebbe essere opportuno colpire?»

«Non saprei. Dovrei informarmi.»

Erwin mimò un leggero sorriso:
«Allora vai. Ti aspetterò qui…»


***
 

Mike tornò mezz’ora più tardi, recando del pane caldo ed un paio di fette di formaggio:
«Vuoi mangiare qualcosa?» gli chiese, tendendo anche una coperta di lana che Erwin non tardò a drappeggiarsi sulle spalle:

«Il pane ha un profumo squisito. Penso che accetterò la tua offerta» replicò, strappandone rapidamente un morso «Novità?»

«Secondo il colonnello Pixis, l’ideale sarebbe colpire il bacino di Saint-Nazaire. È alla foce della Loira, poco lontano da Nantes. Ospitano alcune navi in fase di riallestimento, i depositi di carburante per i sottomarini, arsenali della Kriegsmarine.»

«Sarebbe utile? Ne varrebbe davvero la pena?»

«Secondo il colonnello, sì.»

«Bene. Di che forze disponete?»

«Dimmi semplicemente cosa ti serve.»

Erwin sbuffò piano. Sperava di poter far arrivare Mike alle sue stesse conclusioni, ma evidentemente era impossibile. Senza dubbio, l’amico si era dimenticato di chiedere di quante forze disponessero gli Alleati, quanti piloti, marinai e soldati potessero essere impiegati nella missione; di quanti fondi disponeva l’esercito e quanto si era disposti a sacrificare.
«So come è fatto il porto di Saint-Nazaire. L’ho visto una volta, durante un sopralluogo. Se così non fosse stato, ti avrei chiesto mappe e piantine della base. Immagino che tu non abbia domandato niente del genere a Pixis…»

«No.»

«Lo sospettavo.»

«Tu non me lo hai chiesto.»

«Beh, farei così. Disponente di cacciatorpediniere? I modelli della Royal Navy sono piuttosto simili a quelli tedeschi, almeno gli ultimi fabbricati. Tre dovrebbero bastare; fate in modo che battano bandiera tedesca, così da ingannare le sentinelle e chiedete rifugio nel porto. Attaccate di notte, così da ridurre la visibilità del nemico.»

«Tutto qui?»

«No. Con il sopraggiungere delle navi all’imboccatura del bacino, avviate un bombardamento aereo. I nazisti saranno confusi, dovranno rispondere rapidamente al fuoco e… le nostre navi potranno fingersi danneggiate e chiedere urgentemente rifugio. Le faranno entrare nel porto non appena la raffica della Raf sarà cessata. A quel punto, potrete anche dichiararvi Alleati.»

«D’accordo, ti sto seguendo.»

«Due navi faranno sbarcare gli uomini con delle motolance. I commando assalteranno le strutture del porto.»

«E la terza?»

«Saint-Nazaire ha un ingresso molto stretto, che è anche l’unica via d’uscita. Imbottite l’ammiraglia di esplosivo, incagliatela sull’apertura del bacino e fatela saltare in aria. Dovresti riuscire a distruggere le postazioni di vedetta, i depositi carburante e le installazioni principali lungo l’imboccatura.»

Mike annuì debolmente. Aveva compreso. A Zackley sarebbe piaciuto quella strategia, senza dubbio: puntare su un obiettivo diverso, in date diverse e cogliere alla sprovvista i tedeschi fingendosi loro compatrioti. Era quel genere di piano che incontrava il benestare del generale; qualcosa di affatto banale, di studiato e coordinato; al tempo stesso, qualcosa di estremamente rischioso: poteva risolversi in una grande vittoria o nell’ennesimo spreco di vite.

«Mi sembra un ottimo piano.» disse infine, grattandosi il mento coperto dalla pungente barba «Solo… che ne sarà degli uomini a bordo dei cacciatorpedinieri? Come faremo a recuperarli dopo l’attacco?»

Erwin piegò le labbra, in un sorriso amaro:
«è per questo che ti ho chiesto se ne vale la pena.» 


 

Angolino: Buonasera! Ogni tanto ritorno e aggiorno. 
Faccio un po' di fatica, ultimamente, con questa long. Sarà che si sta avviando alla conclusione. Vi è ancora abbastanza da scrivere, ma indubbiamente il viaggio dei protagonisti si è concluso. Piano piano la finirò, devo solo buttare giù le ultime idee.
L'operazione Chariot: il nome originale è leggermente diverso da quello che ho usato io; avvenne realmente il 28 marzo 1942 e si svolse a grandi linee come descritto. In realtà, ho già deciso che cambierò le sorti dell'operazione: non fu una grande vittoria Alleata, a conti fatti. Spero, tuttavia, di poter piegare ancora un poco la storia per renderla un successo dei nostri protagonisti. In fondo, ho già cambiato la storia (e involontariamente anche la geografia) più volte nello sviluppo di questa ff. L'ho fatto per esigenze di trama principalmente; altre volte, invece, per disattenzione mia. A partire dal titolo, in effetti, che è proprio una svista. Quando stesi i primi capitoli, sbagliai ad inserire la I di Chariot e così finii per tenere involontariamente il nome sbagliato. In realtà, la cosa non mi dispiace poi molto... preferisco sia Chariot, nel mio racconto (dal nome dell'ufficiale che per primo la ideò, come ricordato da Levi).
Al solito, vi ringrazio per aver letto fin qui!
Un abbraccio

E'ry

 

Ritorna all'indice


Capitolo 37
*** Due lettere ***



36. Due lettere



Marzo 1942. Repubblica di Vichy. Base Alleata di Limoges.


Erwin chiuse il libro quando colse i passi famigliari fermarsi oltre la soglia della propria cella. Lo sguardo azzurro si staccò pigramente dalla copertina rossa, dove il nome di un autore russo capeggiava sopra il disegno di un vecchio cannone settecentesco. Quanti giorni erano passati dall’ultima visita? Aveva quasi perso il conto. Non fosse stato per le visite quotidiane degli infermieri, per controllare lo stato della gamba ferita, non si sarebbe nemmeno accorto del trascorrere del tempo.

«Buongiorno, Mike.» salutò, muovendo un cenno distratto.

«Ce l’abbiamo fatta!» la voce dell’amico era frizzante, colma di soddisfazione e orgoglio «L’Operazione Chariot ha funzionato! È andato tutto secondo i piani. Abbiamo distrutto il bacino di Saint-Nazare e… i Tedeschi si sono ritirati, abbandonando le ultime postazioni. Abbiamo vinto ed è merito tuo!»

Scosse il capo, storcendo velocemente la punta del naso:
«No. Avevamo un accordo, rammenti? Quell’idea non è stata mia, ma tua. Mi avevi promesso che avresti mantenuto il segreto e…»

«L’ho fatto, ma… non è giusto, Erwin. IL successo dell’Operazione potrebbe essere il tuo lasciapassare per la libertà. Vuoi finire in un campo di prigionia? È questo che desideri? Non rimarrai a lungo qui alla base, lo sai! Ti trasferiranno, non appena capiranno che non hanno più bisogno di te. Ossia… tra non molto.»

«Hanno già deciso dove mi manderanno?»

«No, ma ho sentito Pixis che ne parlava ieri sera con il generale Zackley.» Mike batté un pugno contro le sbarre di ferro, facendole risuonare amaramente. Delle scaglie di vernice e ruggine rimasero appiccicate contro il palmo della sua mano. «Perché non mi stai ascoltando?! Sembra che la cosa non ti importi!»

«Perdonami.» Erwin scosse mestamente le spalle, affinando un leggero sorriso distratto «Mi interessa la tua opinione, invece. Solo…»

«“Solo” cosa?»

Come poteva spiegarlo? Mike avrebbe capito? O gli avrebbe dato del pazzo? La seconda scelta era la più probabile. Al momento, la possibilità d’essere internato in un campo non gli era poi così sgradevole; al contrario, riusciva a vederla come l’ inevitabile punizione per i propri crimini. Per aver tramato, tradito e distrutto per anni. Per essere stato cieco e sordo agli avvertimenti; per essere rimasto inerme, come un fantoccio, mentre la sua Germania rovinava verso la guerra e la sconfitta; un burattino pericoloso da manovrare, capace di uccidere con uno schiocco di dita già madide di sangue e sudore. Era la giusta via per espiare i propri peccati, per lavare almeno in parte la propria coscienza; per attendere la fine della guerra, nella speranza di poter rinascere un giorno come un uomo nuovo, capace di guardarsi allo specchio e di sorridersi al mattino, senza più scorgere invisibili gocce scarlatte scorrere dai suoi occhi lungo le guance e fino al mento.

«Va bene così, Mike. Non darti troppa pena per me; ho spedito così tanta gente all’altro mondo, che l’idea di marcire in una cella per i prossimi… due? tre anni?... non mi fa poi così paura. Chi sono io per sottrarmi al giudizio degli uomini? Non sfuggirò né al loro, né a quello di Dio. E se questi dovesse venire a chiedermi il conto, sarò ben lieto di riceverlo.»

«Ne parli come se morire fosse una benedizione.»

«Tu non lo penseresti, se avessi perso tutto? Cosa mi è rimasto, ormai? Ho tradito il mio Paese, la fiducia dei miei uomini e quella delle persone che hanno cercato di aiutarmi e sostenermi. Ho giocato con le vite dei compagni e degli amici, che nonostante tutto si ostinano ancora a restarmi accanto. Perché lo fate? Hanji ha perso il suo lavoro, Levi la vita. Nile ha rischiato la sua carriera e tu e Nanaba la vostra serenità. Perché?»

«Perché crediamo in te… e forse tu dovresti fare lo stesso.»

Erwin scosse mestamente il capo, raccogliendo l’eredità di quelle parole. Era davvero così? Bastava ritrovare la fiducia in sé per potersi riscattare? Non era un mezzo troppo semplice e sbrigativo? Sollevò lo sguardo, tornando a fissare Mike. Sapeva che l’amico non avrebbe compreso fino in fondo: Mike era sempre stato un tipo pratico, alla mano e sbrigativo. Difficilmente si soffermava a riflettere sui sentimenti e sulle reazioni che ogni singolo gesto poteva scatenare. Era una persona semplice e genuina, che per lui si sarebbe buttata senza indugio tra le fiamme dell’inferno. Meritava davvero un amico come Mike? No, come non aveva meritato la tenacia di Hanji, la pazienza silenziosa di Moblit, l’altruismo incondizionato di Petra e Auruo, l’appoggio di Nile, dei signori Jaeger e di tutti quelli che aveva incrociato in quello strano viaggio. Come aveva ricambiato il loro aiuto? Solo trascinandosi appresso sventure e maledizioni.

«Non è così facile.» rispose infine, abbandonandosi ad un mesto sospiro «Vorrei solo potermi isolare dal mondo, mettere una toppa ad ogni mio errore e cercare di andare avanti.»

«E pensi che restare chiuso in una prigione ti aiuterà?»

«Un po’ di esilio non ha mai fatto male a nessuno.»

Vide l’altro stringere le spalle a quell’ironia ed allontanarsi dalle sbarre; Mike gli rivolse un cenno silenzioso e prese nuovamente ad incamminarsi nello stretto corridoio.

«Aspetta!» si slanciò immediatamente contro le sbarre, ignorando il protestare della gamba a quel movimento improvviso. Le sue dita si strinsero contro il ferro arrugginito «Devo chiederti un ultimo favore, prima che tu vada. Ho bisogno di parlare con una persona.» le dita della destra tesero un foglio spiegazzato e macchiato «Sai dove posso trovarla? Credo sia un’infermiera o qualcosa del genere…»

Mike scosse mestamente il capo:
«Io no, ma forse Zackley lo saprà.»
 

***
 

Il turno nell’ospedale da campo era terminato. Avrebbe voluto solo buttarsi su una branda e dormire, ma una sentinella era corsa ad avvertirla: alle celle era richiesta la sua presenza. Un prigioniero che si era sentito poco bene? No, affatto. A quanto pareva, doveva trattarsi di una faccenda personale.

Isabel si legò frettolosamente i capelli in due codini, camminando lesta lungo il corridoio. Aveva chiesto al soldato un paio di sbrigative informazioni. Chi la cercava? Il maggiore Erwin Smith. Quel nome l’aveva colpita; era piuttosto famoso, legato a terribili avvenimenti. Cosa poteva volere da lei? La guardia non lo sapeva, aveva solo ricevuto istruzioni per accompagnarla.

La ragazza si fermò davanti alla porta indicata, spiando incuriosita la figura oltre le sbarre. Sembrava una persona normale, troppo intenta a leggere un vecchio libro per curarsi del resto del mondo. I capelli biondi erano opachi e spettinati e lungo le guance era comparso un accenno di barba disordinata. Gli occhi, cerchiati da un velo di stanchezza, si erano scostati dalle pagine per posarsi su di lei; le iridi erano di un colore intenso, delle stesse tonalità del cielo quando tocca la superficie del mare. Erano insolite, ma profonde e difficili da sondare; celavano lampi irrequieti che, a tratti, emergevano spontaneamente, quasi a sottolineare l’animo turbato che alloggiava quel corpo atletico ed allenato.

«Maggiore Smith?»chiese appena, mentre la sua attenzione si fissava sulla gamba sinistra dell’uomo, trascinata a passi zoppicanti «Siete ferito?»

«È sotto controllo, non ti preoccupare. Possiamo darci del tu?»

Isabel annuì tendendo una mano oltre le sbarre e ricevendo una stretta leggera, delicata.
«Mi cercavi, maggiore?»

«Sì. Sei Isabel… Magnolia, giusto? Hai un cognome insolito.»

«Mio padre era italiano.»

«Mi dispiace non avere una sedia da offrirti.»

Scosse il capo, affinando un piccolo sorriso di incoraggiamento. Il maggiore Smith non era affatto come se l’era immaginato! Pensava fosse un uomo burbero, freddo e distaccato; invece, sembrava una persona gentile e premurosa, desiderosa di metterla a suo agio anche in quelle strane circostanze. Come potevano dei modi tanto raffinati celare lo spirito marcio di un assassino senza scrupoli?

«Perché volevi vedermi?» tornò a chiedere e dalle sbarre si vide passare un foglio piegato in più parti, macchiato  di sangue, polvere e umidità «Cos’è?» cercò di svolgerlo, ma le dita del maggiore si chiusero immediatamente sulle proprie.

«Non qui, ti prego. Leggilo quando sarai sola.»

«Che cosa c’è scritto?»

«Non lo so. Ho promesso a Levi che te l’avrei consegnata.»

«è sua?»

«No, è di Farlan.»

«Perché me la stai dando tu? Perché non sono loro a… portarmela?» sentì la propria voce incrinarsi pericolosamente, mentre le palpebre si facevano pesanti e pungenti. Colse un nodo serrarle la gola e le lacrime sgorgare incontrollate lungo le guance. Conosceva la risposta, ma non voleva nemmeno considerarla. Dove erano Levi e Farlan? Perché non erano lì ad abbracciarla, a ridere delle loro disavventure, a tirarle i codini ed arruffarle gli spettinati ciuffi ramati? «Dove sono?»

Quella domanda riecheggiò nel silenzio. Vide il maggiore scuotere piano il capo ed indietreggiare:
«Mi dispiace.»

Si slanciò contro le sbarre stringendole sino a far sbiancare le nocche:
«Dove sono?!» ripeté, il tono spezzato, mentre la rabbia e l’incredulità continuavano a dipingerle smorfie sul viso «Dove?! Perché non sono qui? Dimmi che stanno bene, maggiore! Dimmi che sono dispersi da qualche parte, in Francia, in Germania… dimmi che sono tornati in Inghilterra o che sono in volo per l’America.»

«Sono precipitati vicino ad Arras. Li abbiamo catturati lì e… Farlan è deceduto dopo qualche giorno di prigionia, per le ferite riportate nello schianto.»

Erwin la vide accasciarsi a terra e stringere la lettera al petto ormai scosso dai singhiozzi. Non aggiunse altro. Perché raccontarle la verità? Perché dirle che Farlan era stato torturato a morte da un capitano sadico; che Levi aveva mentito per proteggere l’amico e, inconsapevolmente, aveva peggiorato la situazione. Non aveva senso aggravare le sue sofferenze.

«Levi è…» riprese, cercano velocemente le parole adatte «L’ho aiutato a scappare, a raggiungere Limoges. È rimasto ucciso in un conflitto a fuoco poco lontano da Le Blanch. Mi dispiace molto.» la osservò dall’alto. Non era rimasto nulla dell’infermiera che lo aveva accolto con un sorriso; non vi era altro che un corpo minuto, rannicchiato su sé stesso e scosso dalla disperazione. «Hanno sempre pensato a te, fino alla fine.»

La vide alzarsi poco dopo e tergersi gli occhi col dorso della mancina. Isabel gli rivolse un mezzo inchino, senza aggiungere altro. Con la lettera stretta al cuore, si avviò verso l’uscita, accompagnata dal passo incerto e dai singhiozzi che ancora sbocciavano incontrollati dalle labbra piegate.
 

***
 

Cara Isabel,

se stai leggendo questa lettera, è probabile che io non ci sia più. Che sia disperso o morto da qualche parte, in Francia o in Germania. Ti prego, quindi, di perdonarmi: non ho altro modo per farti giungere queste parole che, credimi!, avrei voluto poterti dire di persona.

Ci sono molte cose che avrei voluto scriverti, ma mi è concesso solo lo spazio di un foglio e non voglio sprecarlo. Tu e Levi siete la mia famiglia. Ho amato lui come un amico prima, come un fratello poi; ho amato te come una amica, ma non come una sorella; ho sperato che potessi essere qualcosa di più, che potessi diventare per me la persona con cui condividere tutto. Quella accanto a cui ti svegli al mattino, rigirandoti tra le coperte in un freddo mattino di dicembre; che a Natale ti regala orribili maglioni e che addobba la casa con fiocchi di neve ritagliati dalla carta. La ragazza che a Gennaio accende il caminetto per riscaldare le stanze e far asciugare il bucato; che a Febbraio gioca con la neve e a primavera corre tra i prati in fiore. Colei in estate ruba le ciliegie dall’orto del vicino... perché il tuo albero non ne produce e tu ne sei troppo goloso. Sei la persona che avrei voluto accanto a me ogni giorno, ora o minuto. A cui avrei voluto donare tutto me stesso, senza condizioni: con i miei difetti, le mie paure e le poche qualità che mi competono.

Ho spesso sognato di costruire una casa in riva al mare. In Normandia, magari, affacciata sulle malinconiche acque del nord. Oppure lungo la costa, vicino a Marsiglia! Lì dove l’estate è più calda e il sole sorride spesso. Sarebbe stata perfetta per te. Una piccola abitazione con un orto e un modesto frutteto. Avremmo avuto un cane, due gatti e… una splendida figlia, con i tuoi stessi capelli rossi e gli occhi color del cielo.

Riesco quasi a vederla mentre con le manine ti stringe l’indice per chiedere attenzioni; mentre ti porge una vecchia bambola da rattoppare.
Riesco a vederti dipingere all’ombra di un fico nodoso, scrivere poesie appoggiata agli scogli o cucinare qualche calda zuppa accanto ad un accogliente focolare.
Riesco a vederti invecchiare accanto a me. I tuoi capelli rossi tingersi di fili argentati, con piccole rughe a contornare lo sguardo verde ed avvizzire le labbra carnose. Le mani callose intente a cucire, ancora una volta, una bambola sgualcita per le nipotine. Riesco a vederti ed a trovarti splendida in ogni singolo istante.

E avrei voluto esserci anche io, in queste immagini. Avrei voluto scorgermi vicino a te. Invece, ora… non vedo me stesso, ma un altro uomo. Un giovane forte, simpatico e protettivo. Non riesco a notarne il viso, ma sento che ti sta rendendo felice. Ti sogno ridere, viaggiare e scoprire il mondo ed affacciarti alla vita con qualcuno che non sono io. Perché il mio cammino si ferma qui, Isabel. Non posso più darti nulla: non posso realizzare i tuoi sogni, né i miei. Posso solo guardarti andare avanti, da lontano; guardarti e sperare che tu possa essere felice con chiunque sceglierai di avere accanto.

Ho chiesto a Levi di consegnarti questa lettera e di non leggerla per nessun motivo. So che non lo farà; quando lo vedrai, dagli un abbraccio da parte mia e ringrazialo. Forse, non avrò avuto modo neppure di salutarlo come si deve. Lascio a te questo compito, so che lo assolverai.

Ho finito lo spazio che mi era concesso. Avrei voluto dirti tutto questo di persona, ma sarebbe stato forse più difficile e complicato. Ho affidato i miei sentimenti all’inchiostro, perché so che non mi tradirà; che leggerai queste parole, forse macchiate di sangue e polvere, e che le conserverai.

Non piangere, Isabel. Io sarò sempre con te… almeno finché lo vorrai.
 
Tuo,
Farlan
 

***
 

Ciao,

So che una lettera non dovrebbe iniziare così, ma non sono mai stato bravo a scrivere. Non so nemmeno perché lo stia facendo. Forse, è solo per via di un brutto presentimento. È tutta notte che mi tormenta e non so se dargli ascolto o meno. Nel dubbio, preferisco lasciarti qualche riga. Sei uscito di fretta poco fa e, malgrado la tua giacca, sento ancora freddo e non riesco a riprendere sonno. Mi sono addormentato e svegliato almeno una mezza dozzina di volte, da quando te ne sei andato. Sono tentato di seguirti, ma fuori si congela e non voglio lasciare il flebile calore di queste coperte.

Parlavo di un presentimento, poco fa. Non so se sia giusto o meno… forse è solo un po’ di tensione, di ansia per quello che ci aspetta; quando arriveremo a Limoges andrà tutto meglio, lo so. Se ci arriveremo. Non so, non chiedermi il perché, ma è come se lo percepissi dentro: sono destinato a crepare in Francia, temo. Non riesco a scollarmi di dosso questa sensazione, mi dispiace. È questa che mi ha spinto a scriverti… perché ci sono cose che vorrei dirti e forse non avrò modo di farlo. Se sopravvivremo a tutto questo, brucerò la lettera e troverò il modo di fartele capire comunque; viceversa, spero leggerai queste mie parole quando sarai al sicuro, lontano da tutto: dalla guerra, da Weimann, dai nazisti, dagli alleati… che la leggerai quando sarai solo con te stesso, in pace.

Ripensavo al nostro viaggio… mi sembra così strano pensare che sia vicino alla fine. Cosa accadrà “dopo”? Ammettiamo di riuscire ad arrivare nella Repubblica di Vichy. Che succederà, una volta che avremo recapitato il messaggio? Le nostre strade si divideranno o rimarremo ancora insieme, come due vecchi amici giunti alla fine di una curiosa avventura. Ci separeremo o troveremo qualcosa d’altro per cui lottare? Ci inventeremo una crociata contro i mulini a vento, magari… Qualcosa di più leggero che salvare il mondo, comunque, mi andrebbe bene.

Sinceramente, sono preoccupato… e forse non avrei mai dovuto chiederti di accompagnarti. Anzi, avrei dovuto obbligarti a rimanere ad Arras. Ti ho messo in un mare di guai, senza quasi rendermene conto. Hai perso tutto: la tua brillante carriera, i tuoi amici, gli uomini fedeli e pronti a seguirti. Non so perché l’ho fatto… ma so perché tu hai acconsentito. Ricordo quanto mi hai confessato, in quella vecchia casa di Lachelle. Solo lì ho iniziato a vedere l’abisso che ti porti dentro, scavato dal dolore e dai rimpianti. Il tuo debito con Kenny non c’entrava nulla… è stato solo l’appiglio giusto, la spinta che ti ha permesso di lasciare tutto e cercare un riscatto a cui anelavi da parecchio. E l’hai trovato, credimi.

Ti ostini a dipingerti come un mostro, come un assassino senza scrupoli né rimorsi; come una persona infima, abbietta e che non merita nulla. Beh, non è così. Ti puoi fidare di me, Erwin. Non ti direi mai una cazzata, non in questo frangente! Vorrei solo che tu potessi leggerti con gli occhi di chi ti ha davvero conosciuto. Perché in questo viaggio… ho visto cosa celava realmente quella divisa che iniziava a starti stretta. Sotto la scorza fredda e calcolatrice, c’è un animo gentile che non in molti hanno la fortuna di poter scorgere; e io sono stato tra questi. Per poco, d’accordo… ma l’ho visto.

So come sei fatto: daresti la vita per ciò in cui credi; la daresti per me, per Mike, per il tuo amico poliziotto e per molti altri. Se fossi sicuro che la tua morte servisse a risolvere questo conflitto, non esiteresti. Eppure, nonostante il peso enorme che ti porti dentro, sai perché non l’hai ancora affrontata? Perché sai di servire ancora… in qualche modo, che forse non ti è chiaro, ma occorri a questo mondo disastrato. Nel tuo piccolo, in modo distaccato e distante o quasi in sordina… ma servi e lo sappiamo entrambi. Perché puoi fare ancora la differenza, con qualche piano pericoloso o qualche idea ben assestata.  Perché, in fondo, non sei altro che un essere umano che vuol fare la cosa giusta; e la cosa giusta, per te, è guardare avanti.

È questo che ho notato, osservandoti in questi lunghi giorni. Non un mostro, ma una persona spezzata, alla continua ricerca di un modo per rialzarsi dal fango in cui è caduta. Ti senti sporco, lo so. Me lo hai detto, me lo hai fatto capire… ogni tuo gesto tradisce questa voglia di poter rinascere; ebbene, fallo! Nessuno ti trattiene, se non te stesso. Non voltarti verso il passato, ma continua a camminare. Non permettere che quanto accaduto getti le tenebre sul tuo futuro. Non rimproverarti come se fossi un pazzo criminale… non lo sei! Guardati con i miei occhi: sei una persona coraggiosa, altruista, intelligente e che ha ancora tanto da prendere. La vita ti ha tolto molto, è ora che tu le chieda il conto! Non permettere alla tua ombra di offuscarti nuovamente. Tutti abbiamo le nostre croci, chi più e chi meno… la tua è solo più pesante di quella di molti altri, ma le tue spalle sono più solide. Non lasciare che tutto questo ti schiacci.
Risorgi! So che puoi farlo…


Ricordi quella sera a Parigi? Mi hai detto che non hai mai pensato ad una famiglia tua; che non saresti un buon marito, perché non sei una brava persona; che non ti meritavi nulla.
Ti sbagli!

Lo meriti più di chiunque altro. Ti meriti la pace, la serenità, qualcuno che ti ami e che ti resti accanto. Per cui – ti prego! – quando tutta questa storia sarà finito, guardati attorno e scegli con chi stare. Trova una brava ragazza che ti ami, che ti cucini le frittelle a colazione, che profumi la casa di lavanda e che ti accolga senza timori o ripensamenti. Sposala (magari scegliendo delle bomboniere migliori di quelle di Nile!), amala e scoprila. Camminate insieme e guardate verso l’orizzonte della vostra vita, dove i figli ed i nipoti vi attendono a braccia aperte. Stringila con una mano e con l’altra sfiora le dita di un vecchio amico, che allora non sarà più con te.
Vivi!
Attraversa Parigi in primavera, quando gli alberi lungo Les Champs Elysées si tingono di piccoli fiori; respira il profumo delle
madeleine appena sfornate e osserva i pittori dipingere la Senna in tutte le sue sfumature. Visita Londra, con il suo cielo grigio e le piogge che incessanti martellano le spalle degli incauti visitatori privi d’ombrello. Dicono che Barcellona sia stupenda, che sia sempre estate… e che in Italia ci siano così tante meraviglie da scoprire che non basta una vita intera per vederle.
E quando tutto sarà finito,
torna a Berlino a testa alta, da vincitore. Guarda la tua adorata Germania con gli occhi di chi l’ha salvata.
 
Vivi, ti prego! Spicca il volo e liberati!
 

Levi
 

Le dita robuste scivolarono un’ultima volta sulla calligrafia affilata. L’inchiostro si era leggermente stinto dove il sangue e la pioggia lo avevano martellato; vi erano anche delle piccole gocce nuove ad inumidire la carta. Erwin le asciugò velocemente con i polpastrelli, prima di piegare il foglio e riporlo in una tasca.

Sollevò l’attenzione al corridoio vicino. Un soldato era fermo a pochi passi dalle sbarre:
«Maggiore Smith?» la voce tremante si addiceva a quella figura segaligna, avvolta da una divisa troppo larga per le spalle ossute e le gambe magre.

«Sì?»

«Vengo a comunicarmi la decisione del comandante Zackley. Ha disposto il vostro trasferimento presso il campo di prigionia di Ussel. Partirete domani stesso.»

«D’accordo.»

«Obiezioni, signore?»

«Nessuna.»

Il giovane mosse un cenno del capo, ritirandosi poco dopo.
Rimasto solo, Erwin  volse lo sguardo al cielo, appena visibile oltre la stretta finestra. Un acquazzone si stava abbattendo sulla base.
Sorrise piano al notare le pesanti lacrime scivolare dalle nuvole; ne osservò il colore grigio con una punta di nostalgia e di affetto.

Non mi dispiace la pioggia perché… quando pioverà, ti ricorderai di me.



 

Angolino: imperdonabile ritardo nell'aggiornare, ma... se questo capitolo ha finalmente lasciato la mia testa e il mio computer, è merito di Eva Amato. è stata la risposta ad un mio vecchissimo messaggio che mi ha dato la spinta di continuare e aggiornare. Mi rammarico solo per il tempo perso, per non essere riuscita a gestire prima questo capitolo, ma... meglio tardi che mai, dice il proverbio. Vorrei davvero riuscire a finire questa ff. In fondo, ci sono affezionata e - benché sia solo un ammasso di parole apparse sullo schermo di un pc - mi ha regalato molto.
Quindi, se siete giunti fin qui, perdonate l'enorme ritardo, se potete! <3 Al solito, se avete commenti o pareri, sarò felicissima di leggerli.
Grazie,

E'ry

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3495703