Delirium

di Lusivia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Se non lo prendi sul serio, non può farti del male. ***
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** La Vecchia Regina Templare ***
Capitolo 4: *** Quando il fato prese a girare ***
Capitolo 5: *** L'inaugurazione ***
Capitolo 6: *** Un bicchiere con l'Assassino ***
Capitolo 7: *** L'odore del sangue ***
Capitolo 8: *** 8.Rosso cremisi ***
Capitolo 9: *** 9.Un sentimento incontenibile. ***
Capitolo 10: *** 10.L'ultima lacrima del cielo. ***
Capitolo 11: *** 12.Non si è mai veramente soli. ***
Capitolo 12: *** 11. Deus dedit, deus abstulit ***
Capitolo 13: *** 13.Volere più tempo. ***
Capitolo 14: *** 14.Il passato non svanisce mai. ***
Capitolo 15: *** 15.Questione di fiducia. ***



Capitolo 1
*** Se non lo prendi sul serio, non può farti del male. ***


Desclaimer : Il racconto presenta l’inserimento di personaggi inediti (copyright di Lusivia),cui vicende s’intrecciano con quelli presenti nella storyline originale della Ubisoft. L’opera non ha alcun scopo di lucro.


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                                                                                         Capitolo 1

                                                 Se non lo prendi sul serio, non può farti del male.







Ciò che non è preso sul serio, non può farti del male.

Certo che no, altrimenti i vampiri nascosti nell’armadio, i mostri sotto il letto e i troll che vivono nel sottoscala dimezzerebbero la popolazione infantile nell’arco di una sola notte, e nessuno potrebbe dare una spiegazione logica a tutto questo, perché, si sa, i mostri sono solo le manifestazioni incorporee delle nostre paure.
Eppure, per i bambini e tutto così reale.
Loro li vedono, i mostri, e sono convinti di sentirli sussurrare nella notte, anche se i loro genitori hanno controllato sotto i loro letti almeno un centinaio di volte, e, nonostante la scienza smentisca ogni possibilità che accada una cosa simile, la stanza si tramuta all’improvviso in un oscuro regno di ghiaccio.
C’è una grande paura in ciò che non si riesce a capire, o controllare, specialmente se ci si accorge che esso vive solo nella tua testa e che nessuno, neanche i tuoi genitori, possono impedirti di provare nelle viscere quell’indescrivibile senso d’angoscia.
Poi, un bel giorno, capisci che ciò che non va sei solo tu.
E questo fa molto più paura di qualsiasi volto mostruoso che fa capolino sul bordo del letto.
La paura ha una soglia ben precisa che deve essere superata, perché oltre essa, il nostro corpo reagisce al gelo paralizzante con un caloroso impeto di difesa.
Ci si convince, insomma, che ciò che vedi non è reale, anche se è lì, davanti a te, con tutta la sua logica implacabile.
Se non lo prendi sul serio, non può farti del male, e se diventa un gioco non potrà mai toccarti oltre il confine tra realtà e finzione.
Peccato che, nel mio caso, quel confine fosse stato cancellato da tempo.
Una folata d’aria frizzante portò con sé l’aroma del bosco circostante e dei bei fiori d’Aprile, che avevano invaso la vallata e popolato il grande giardino di casa mia, giungendo sulla cima del tetto assieme al fruscio lussureggiante degli alberi e l’odore distante di pioggia.
Per una frazione di secondi le sue gentili raffiche mi gonfiarono i capelli come vele, la maglietta grigia si sollevò all’altezza dell’ombelico e le braccia si aprirono per assorbire l’impatto senza perdere l’equilibrio nelle gambe, tutte avvolte da un paio di jeans scuri.
Mi travolse per pochi attimi, portando con se i frammenti della foresta circostante e gli echi delle grandi rocce innevate di confine tra il Bel Paese e il Vecchio Mondo, nel cui mezzo c’era una certa valle immersa nel verde e custodita dai grandi occhi grigi dei giganti di pietra tutt’intorno, nonché miei amabili vicini di casa.
Non appena le raffiche cessarono, riaprii gli occhi iniettati di bellezza e li rivolsi sull’immensa distesa incontaminata che era la mia dimora dal giorno in cui venni al mondo, provando subito un immenso senso di smarrimento come ogni volta che salivo sul tetto.
Imparare è sempre molto difficile, soprattutto se non si hanno mentori ma solo un disperato bisogno di vedere il mondo dall’alto, in una prospettiva meno squallida, tuttavia, nessun polso slogato o costole incrinate valeva la vista del mio primo crepuscolo riflesso sulle tegole rosse del tetto.
Improvvisamente, proprio sul filo dell’orizzonte tra il bosco e casa, comparve sul selciato una macchina grigia metallizzata che prese ad avvicinarsi a tutta velocità.
Come poteva esser già qui!
Un tumulto lungo la colonna vertebrale risvegliò i miei piedi e subito cominciai a percorrere in discesa le tegole lisce del tetto, rischiando per due volte di scivolare prima di arrivare a bloccare i talloni sulla grondaia, dunque approfittai del precario equilibrio e ritornai ad avanzare verso la veranda di camera mia.
Allungai la mano per aprire il gancio della finestra, quando il piede destro perse la presa sul tetto e mi ritrovai a scivolare per un instante interminabile prima di aggrapparmi con tutta la forza al tetto della mansarda più in basso.
Il contraccolpo contro la sporgenza mi spezzò il fiato in due, per una frazione di secondi pensai di lasciare la presa, ma non appena abbassai gli occhi sotto di me capii che sarebbe stato un errore fatale.
La macchina, nel frattempo, si era fermata in prossimità dell’uscio di casa e una figura in nero era appena uscita dal suo abitacolo.
La guidatrice era una donna con la carnagione scura e liscia, con gli occhi fulgidi e talvolta sfacciatamente sensuali che lasciavano chiunque interdetto quando, superato l’incanto iniziale delle sue movenze pacate e ben misurate, abbassavano lo sguardo sul suo corpo snello e incappavano nell’abito grigio dell’ordine delle Canossiane.
Suor Agata era una donna decisamente troppo smaliziata per indossare il velo, erudita tanto quanto sfacciata, un po’ saputella e decisamente severa, soprattutto con la sua figlioccia appesa tra la vita e la morte sul tetto di casa.
Prima che potessi rischiare d’incappare nel suo sguardo vagante, ritornai con il collo dritto e feci tutta la forza che avevo per issarmi di nuovo sul tetto, dunque, corsi verso la finestra della mia camera. Entrai con un balzo sgraziato, la caviglia si piegò e in meno di un secondo mi ritrovai con la faccia schiacciata contro il pavimento, ma, per lo meno, salva.
Mi alzai sui gomiti con un rantolio dolorante, cercai un appiglio sul davanzale e, una volta ritrovato l’equilibrio sulle mie gambe, richiusi le vetrate per abbandonarmi contro la loro superficie.
La mia camera era molto simile a quella in miniatura di una bambola, le pareti erano color nocciola e i tendaggi di un tenue panna che si allineava con i drappeggi del letto in noce chiaro e il piccolo angolo da tè con tanto di poltrone e cuscini in pizzo sangallo.
Era calda e accogliente, un ottimo luogo dove poter rimuginare in solitudine senza sentirmi necessariamente in obbligo di fingere un sorriso, perché solo quando ero lì, coccolata dall’aroma di vaniglia e quello secco dei libri, potevo davvero sentirmi come qualsiasi altra ragazza della mia età.
Mi diressi un po’ zoppicando verso l’armadio con specchio e spalancai le ante con un braccio, facendo subito balzare fuori i tessuti pomposi e i pizzi costosi degli abiti provenienti dalle boutique dei centri storici delle più grandi città del mondo; Londra, Francia, Amsterdam…
Odiavo ogni singolo capo.
Armata di tanta pazienza, infilai le braccia tra la marea di tessuti e bottoni alla ricerca dell’abito regalatomi il giorno del mio diciottesimo compleanno, quello blu scuro dalla linea semplice e le rifiniture nere. Se non ricordavo male, quello proveniva da una boutique francese.
Non appena sentii il suo tessuto sotto le dita, tirai fuori il vestito e lo appesi allo specchio per potermi spogliare velocemente, ma, non appena mi ritrovai con il solo intimo addosso, provai un enorme senso di disagio.
Durante la crescita non mi ero mai confrontata con i canoni estetici tra i miei coetanei, perché non avevo mai frequentato una scuola pubblica, giacché c’era Suor Agata a provvedere per la mia istruzione sin da quando ero una bambina, ma, ora che ero diventata una giovane donna, non potevo non chiedermi se andassi bene così com’ero.
Ero molto alta e pallida, i fianchi prorompenti e le curve morbide e generose, per nulla filiformi, ma le scappatelle frequenti sulla cima del tetto avevano contribuito a rendere i muscoli tonici e in forma, per lo meno.
I capelli, poi, erano eccessivamente lunghi, una cascata di cioccolato fondente che arrivava fino in vita, mentre gli occhi, belli grandi e pieni di ciglia folte, rendevano il mio sguardo sempre un po’ troppo melanconico. Mi sforzai di tirare gli angoli della bocca all’insù, esponendo il diastema tra gli incisivi, ma neanche il mio riflesso credeva a quel sorriso; ormai, aveva imparato a guardare oltre la fessura dei denti e a scendere nella profondità del mio animo, lì dove c’era sempre un gran rumore.
Un rumore assordante, crepitante, sofferente, ma non sapevo se fosse mio o della bestia che mi crescevo dentro e che divorava sempre più spazio, schiacciando giorno dopo giorno il sussurro flebile del mio spirito fino a piegarlo del tutto.
Ma, per mia fortuna, il dolore era stato un buon insegnante: mi aveva tenuto nelle sue grinfie finché non avevo imparato a non provare più nulla, neanche il suo effetto.
Grazie a lui, adesso mi sentivo un po’meno responsabile della mia vita e potevo guardarmi tutti i giorni nello specchio senza odiare ciò che avevo scelto di diventare: me.
Un improvviso rumore di passi nel corridoio catturò la mia attenzione.
Senza indugiare oltre sui miei inutili vaneggiamenti, indossai l’abito appeso sulla gruccia e, una volta richiuso l’armadio, m’infilai sotto le coperte esattamente un istante prima che Suor Agata aprisse con la sua solita irruenza la porta della mia camera.
– Buon giorno, Laura. – mi salutò educatamente. – Hai fatto colazione?
Il mio diastema fece capolino con un sorriso. – Buon giorno, Agata. Sì, ho fatto colazione e anche messo da parte della pizza per te, se ti va più tardi.
La donna si chiuse la porta alle spalle, dunque avanzò con la borsa di pelle nera per i libri scolastici stretta sotto l’ascella. – Pizza? – domandò sorpresa – Di prima mattina?
Io feci spallucce. – Visto che devo provvedere da me per la colazione e il pranzo, almeno mangio qualcosa che non sia verde e dal sapore amaro.
– La verdura ti fa bene, Laura, e devi mangiarla. – disse, prendendo la sedia dalla mia zona di studio.Rimase a sguardo chino sulle sue ginocchia per un po’, poi tornò a guardarmi con aria complice. – La pizza di cui parliamo… per caso è alle acciughe?
Risi di gusto. – Ovviamente, che pizza sarebbe, sennò?
Anche la donna accennò a un sorriso entusiasta, ma lo pressò subito dopo tra le sue labbra scure e carnose. –Magari la mangeremo dopo aver svolto il nostro dovere. Allora, Laura, sapresti farmi un riassunto della lettura per oggi?
– Lettura? Oh… sì, certo, la lettura! Ecco, c’è stato un contrattempo: l’impasto della pizza era finito ovunque, sul piano cottura e sul pavimento, insomma un disastro per scrostarlo via.
Aggrottò la fronte con scontento. – Sicura? Perché, sai, ho quasi avuto la ridicola impressione che tu fossi appesa sul tetto, qualche istante fa.
Nascosi il nervosismo con una risata sguaiata – Io? È ridicolo! Insomma, il mio polso non si è ancora ripreso dall’ultima caduta sulla mansarda!
La suora non parve molto convinta del mio viso serafico ma anche quella volta non mancò di sciogliere la sua gelida compostezza in una cauta apprensione.
– Laura, lo sai come la pensa tua madre. Non vuole che tu faccia sforzi inutili mentre è via per affari, né, tantomeno, che tu ti arrampichi sui tetti scivolosi di casa. – mi ammonì e spinse la sedia difronte al mio letto, dunque si accomodò e prese dalla tracolla il libro arancione di filosofia.
Io la guardai tra l’insofferente e il rassegnato, consapevole di non poter nulla contro la parola autoritaria della padrona di casa, la pluripremiata scienziata cui servigi erano così preziosi da esser richiesta ogni mese in un posto diverso del globo, e li rimaneva per settimane, se non mesi.
Mia madre si chiamava Erica, ed era la donna che tutti avrebbero voluto essere: alta e snella, maestosa come una leonessa dalla chioma bionda e fiera come una regina, intelligente, con abiti sofisticati e un invidiabile capacità di rimanere in equilibrio sui tacchi a spillo per ore.
Incantava tutti, perfino me, sua figlia, ma a conti fatti ero pressoché un’estranea che la osservava da lontano solo sette giorni al mese e che anelava per esser come lei.
Non sarei mai stata come lei, perché qualcos’altro aveva deciso così per me.
– Dove sei arrivata con la lettura di Hegel? – domandò Agata mentre sfogliava il suo libro.
Io feci un sospiro distratto – Alla biografia. – dissi e mi allungai a prendere il mio volume di testo sulla scrivania.
– Ma… è la prima pagina, Laura!
Mi strinsi nelle spalle e agguantai la matita nel portapenne.
– Va bene… resta concentrata, per cortesia. Oggi abbiamo parecchio da fare. – decise di lasciar passare la mia mancanza con una paziente scrollata di spalle, dunque prese la pagina bloccata dal segnalibro e cominciò a leggere.

* * *

Scoprii di aver la schizofrenia all’età di cinque anni.
Un’età fortunata, per così dire, perché ai bambini è concesso di smussare gli spigoli dolorosi di un’esperienza troppo complicata da poter esser compresa da una mente così semplice, e, in effetti, la mia mente riuscì benissimo a salvarmi dalla triste realtà per un bel po’.
Ancora adesso, i ricordi si mescolavano in continuazione, creando brevi lampi di lucidità troppo distorti e imprecisi per poterci fare un’analisi psicologica, ma con l’esperienza avevo imparato a tradurre i sogni d’infanzia in ciò che erano realmente: i sintomi di una malattia.
Comparve la prima volta un po’ per caso, durante una di quelle serate in cui fuori pioveva e mia madre era in sala da pranzo a sparecchiare la nostra cena per due, e in quell’occasione si presentò con un volto umano.
Stavo giocando alla conta delle scale e saltavo i gradoni con un solo piede per rendere la cosa più interessante, quando, arrivata in cima alle scale, mi voltai esultando e incappai in una figura estranea al centro dell’atrio di casa.
I miei piedini si bloccarono sul pianerottolo, la bocca si dischiuse per lanciare un allarme, quando il ragazzo sorrise e pressò l’indice sulle sue labbra, istigandomi a tacere.
Aveva degli abiti strani, come se fossero fatti di luce bianca, e la pelle era scura come quella della terra in ombra, sui cui spiccavano due sfere dello stesso colore della brina azzurra che si posava sui pini attorno casa nella stagione invernale.
Quando poi mia madre entrò in corridoio per chiedermi di prepararmi per il bagno serale, il giovane intruso si era dissolto nel nulla, lasciandomi paralizzata nel mio stesso sgomento.
I giorni successivi tornò spesso a farmi visita e, anche se io lo ignoravo, lui continuava a seguirmi per le aree della casa, talvolta sostando cavalcioni su qualche mobile per osservarmi mentre giocavo distrattamente con le bambole, nella speranza che sparisse come la prima volta.
La cosa m’infastidiva, ma allo stesso tempo mi riempiva il cuore di una tiepida gioia, perché, compresi man mano, la casa era meno silenziosa grazie ai suoi saltelli da un mobile all’altro.
Alla fine, supponevo avesse conquistato la mia simpatia a furia di smorfie e sorrisi inattesi che mi rivolgeva se alzavo lo sguardo su di lui, e immancabilmente distoglievo il volto con espressione stizzita, senza rendermi conto che il mio viso arrossiva, il respiro accelerava e il mio piccolo cuoricino tremava un po’.
Suor Agata diceva che dovevo esser una bambina speciale, se un certo signore che viveva oltre le nuvole aveva deciso di mandare per me il suo angelo più bello, e ,alla fine, finii col crederci anch’io.
Allora, non potevo di certo sapere che ogni sua visita mi stava portando un passo più vicino al giorno in cui il dolce sonno della mia infanzia si sarebbe tramutato in un incubo rosso.
– La morte non è altro che la rinascita dalle macerie.
Sollevai di scatto gli occhi dal foglio e impiegai qualche istante per metter a fuoco il volto spigoloso di Suor Agata, che mi fissava come se fosse in attesa di qualcosa.
– Come? – balbettai.
Lei alzò gli occhi al cielo – Hegel, Laura. La concezione filosofica della morte intesa come rinascita di un nuovo uomo. – riassunse brevemente il contenuto della lettura che aveva appena fatto, ma che io non avevo ascoltato minimamente.
– Ah…sì, morte. Giusto. Creiamo un superuomo che vinca la morte.
– Cosa? Ma hai sentito ciò che ti ho detto per quasi un ora?
Serrai le labbra con imbarazzo, poi scossi piano la testa e tornai a guardare il foglio bianco su cui avevo preso a scarabocchiare per ammazzare il tempo.
Trasalii dalla testa ai piedi quando realizzai di aver ritratto per metà il volto sbiadito dell’angelo dagli occhi gentili e per una manciata di secondi fui presa da un vago senso di panico.
Stava iniziando.
Mi umettai le labbra con nervosismo, dunque lanciai il disegno e il libro di filosofia in un angolo del letto. – Credo di dover prendere le medicine. Comincio a disegnarlo.
Era sempre così; ogni volta che la schizofrenia incalzava, cominciavo a disegnare gli occhi dell’allucinazione ; non sapevo perché, ma spesso mi ritrovavo con il ritratto per metà realizzato senza che me ne rendessi conto.
Onestamente, la cosa mi turbava sempre molto.
– Oh, beh, allora, vai pure. Ehi, ripassa la lezione, mi aspetto per domani un riassunto dettagliato e, possibilmente, degli schemi scritti.
– Va bene.
Mi alzai di peso dal letto e sorpassai Agata mentre questa aveva cominciato a cercare sull’indice del libro gli argomenti della prossima lezione, quando un pensiero sbadato uscì dalla sua bocca.
– Un tempo, sorridevi spesso, ed eri piena di meraviglia e amore. – osservò – Cosa è successo a quella bambina radiosa?
Mi bloccai in prossimità dell’uscio, dicendo – Vorresti forse che tornassi al periodo in cui parlavo la lingua del demonio? O, aspetta. Erano solo i deliri della schizofrenia.
– Non osare nasconderti dietro la tua acidità, ragazzina. Io voglio solo parlare.
– Non è acidità, la mia, ma negativismo, un altro ricordino della schizofrenia. Ricordi? Scusami, ma ora devo proprio andare. – tagliai corto e aprii la porta sul corridoio.
– Parlavi con le allucinazioni, Laura, e desti a una di loro anche un nome.
Esitai, tirai un sospiro e dissi – No, ti sbagli. L’unica allucinazione con cui parlavo aveva già un nome, e fu proprio lui a dirmelo.
Detto questo, uscii a passo svelto in corridoio e mi lasciai alle spalle il pianerottolo per percorrere le scale verso il piano inferiore, superando le grandi stanze della piccola magione di famiglia mentre erano ancora immerse nel loro perenne silenzio surreale.
Entrai nell’ufficio di lavoro di mia madre, una stanzetta con le pareti di un rosso acceso provvista di scrivania, un enorme quadro raffigurante un veliero sul camino e almeno mille tomi di medicina, astronomia, storia e cucina disposti nella libreria.
Essendo rilegata in casa da praticamente una vita, avevo riletto tutti i miei libri e mi ero cimentata perfino sui volumi di fisica quantistica che mia madre consultava ai tempi dell’università, quindi potevo ben dire di avere una conoscenza enciclopedica.
In ogni caso, non mi sarebbe servita a niente, giacché ero abbastanza convinta che mia madre e la suora avessero preparato per me una vita da monastero, ma dubitavo ugualmente che le altre novizie avrebbero voluto una ragazza che parlava fluidamente la lingua infernale.
Mi portai pigramente verso la scrivania della stanza e aprii il cassetto in basso a destra, presi dal suo fondo un flacone trasparente con l’etichetta blu e spostai la poltrona girevole con un calcio, abbandonandomi di peso con l’amarezza sul volto.
Analizzai distrattamente le piccole sferette bianche che riflettevano attraverso la superficie, deglutendo il loro pessimo sapore ancor prima di saggiarle, giacché, oramai, ero così abituata al loro sapore amaro da poterlo sentire ogni volta in bocca con l’esatta consapevolezza che quella fosse l’ennesimo tassello di una catena infinita.
Il primo anello della serie, però, lo ricordavo perfettamente: arrivò in un pomeriggio di fine primavera e aveva il colore lucente del sangue vivo, cui riverbero accecò per sempre la mia innocenza, strappandomi per la prima volta dall’illusione in cui avevo vissuto fino a quel giorno.
La schizofrenia si era finalmente mostrata con il suo vero sguardo, ed era giallo come la paura, che mi schiacciò in un baratro che più profondo di così non si poteva.
La mia mente si era aperta in due, le immagini davanti a me si creparono e deformarono fino a diventare illeggibili, tuttavia, qualcosa di quel ricordo era riuscita a sopravvivere dopo tutti quegli anni. Gli occhi spalancati dell’angelo raggomitolato in un angolo della stanza, mentre, esanime in una pozza di rosso, guardava impotente l’uomo che lo aveva ucciso avvicinarsi a me con gli artigli zuppi di sangue.
I ricordi di quel momento s’interrompevano un attimo prima che quella mano assassina arrivasse ad acchiapparmi sul letto, ma ancora ricordavo il passo pesante di quegli stivali consumati e scoloriti.
Qualcosa era cambiato, da quel giorno, e sia io che mia madre avevamo capito nella maniera più feroce che la nostra normalità ci era stata strappata via in pochi, irripetibili istanti.
Poi, un giorno, la speranza si riaccese con l’arrivo a casa di una scatola piena di psicofarmaci.
Bastava che continuassi a prendere le compresse, ed io e mia madre avremmo potuto tornare come un tempo. Bastava che ingoiassi quelle sferette bianche nel flacone, e tutto sarebbe andato per il meglio.
Io non ero pazza. E mia madre sarebbe stata di nuovo felice di starmi accanto.
Sì, era così.
Però, adesso, ero di nuovo sola.
– Dovresti metter più spesso quell’abito, sai? L’ho pagato davvero molto ed è un peccato che tu lo preferisca a quelle squallide magliette dell’Hard Rock.
Alzai lo sguardo quasi per inerzia, attirata dalla voce in direzione della porta, e fu allora che incrociai gli occhi verde brillante di mia madre.
Come sempre, anche dopo un estenuante viaggio in aereo, era impeccabile: i tailleur grigio non erano per niente spiegazzati, il volto roseo freddato in un’espressione composta e i capelli, portati corti da qualche anno, erano raccolti in una crocchia perfetta.
Ma come, era passato già un mese?
– Beh? – chiese. – Non vieni ad abbracciare tua madre?
Esitai per poco dietro la scrivania, dopo di che mi alzai e andai ad abbracciarla.
– Ben tornata, mamma. – sussurrai contro i suoi vestiti.
Lei non disse nulla, solo mi baciò la fronte e mi tenne stretta a se per un altro po’, mentre io ero completamente paralizzata dal timore di rovinare quell’evento così timido e impacciato.
Il collo alla diplomatica della camicia era impregnata dall’aroma di forza e autonomia, ma anche da un velo di tristezza e maternità.
– Agata è qui? – domandò poi.
Mi allontanai per vederla meglio in volto e notai che i suoi begli occhi verdi erano gonfi per la stanchezza. – Sì, abbiamo appena terminato una lezione. Mamma, sembri stanca. La conferenza in Spagna è stata stressante?
– Ah, niente d’ingestibile! – cercò di rincuorarmi con un sorriso sfatto. – Sai come funziona, Laura: loro propongono le proprie ricerche credendo di aver fatto una grande scoperta, e poi arrivo io, che ridicolizzo i loro risultati come fossero scolaretti di prima elementare.
– Insomma, la solita modesta.– sorrisi.
La donna ricambiò il sorriso con una carezza sui miei capelli, finché il suo sguardo non ricadde volontariamente sull’etichetta azzurra degli psicofarmaci.
– Vedo che abbiamo quasi finito la dose di questo mese. – osservò, facendo scivolare la mano con pesantezza – Sei stata precisa nel prendere le compresse negli orari prestabiliti? Sai che non puoi tardare, Laura, altrimenti cominci di nuovo a star male.
Ecco che lo faceva di nuovo. Non appena avevamo qualche minuto per noi, lei erigeva un muro impenetrabile e concentrava tutti i suoi pensieri sulle scorte a disposizione in casa.
Poggiai stizzita la mano sul suo braccio, indietreggiando di due passi verso la libreria. – Tranquilla, mamma, sto male solo se prendo i farmaci. In oltre, Suor Agata è scrupolosa almeno quanto te. Mi controlla per bene e si assicura che prenda fino all’ultima compressa.
– Laura, per favore, non iniziare.
– Iniziare cosa?
– A parlare senza la giusta misura o riguardo, come quella volta che spiattellasti ai quattro venti che eri diventata atea, così, senza tatto per Suor Agata.
– È una mia scelta personale, mamma, ma non per questo non rispetto la spiritualità altrui.
– Non è questo il punto, Laura. Sai, dovresti smetterla di nasconderti dietro la scusa del negativismo e riflettere sulle conseguenze delle tue azioni, perché coinvolgono anche gli altri. Non sei più una bambina, lo capisci?
Non risposi, solo mi presi qualche minuto per assorbire il colpo con totale indifferenza, come ogni volta che aprivamo quell’argomento, o ci trovavamo in disaccordo su qualcosa; praticamente, sempre.
– Hai bisogno di qualcosa, mamma? Perché io dovrei studiare. – cercai di tagliare corto alla discussione, indirizzandomi a passo spedito verso la grande libreria a sinistra.
Sentii la donna sbuffare sonoramente mentre prendevo a passare in rassegna con l’indice il dorso dei tomi di medicina, fingendo di cercarne uno in particolare solo per evitare di affrontarla direttamente.
Poi, dei tacchi a spillo che si avvicinavano alla scrivania e, subito dopo, il peso di un corpo slanciato che si abbandonava stanco sulla poltrona girevole.
– Laura, guardami.
Alzai lo sguardo dallo scaffale in basso, esitai, poi le gettai un’occhiata da sopra una spalla.
Adesso che la sua postura era un po’ più sciolta, diventava evidente quanto Erica fosse provata per il viaggio, infatti si era appoggiata con i gomiti sulla scrivania e teneva la testa tra il pollice e l’indice tirato sulla tempia.
– Va bene. – dissi e mi girai ad affrontarla di petto – Scusami, sono stata maleducata. Ma sai quanto divento nervosa se non prendo gli psicofarmaci.
Annuì distante. – Capisco. Ebbene, ti porterò via poco tempo. Durante il mio viaggio di lavoro, ho incontrato un vecchio amico che non vedevo da tanto tempo. Abbiamo lavorato insieme, in passato, e adesso avrebbe una grossa opportunità di lavoro in Scozia, ma è un lavoro complicato che richiede parecchio tempo.
– D’accordo…
– Ciò che sto cercando di dirti, Laura, è che mi ha offerto la possibilità di visitare i nuovi centri di ricerca vicino ad Aberdeen. Sai, lì avrei la possibilità di confrontarmi con nuove e geniali menti, per non parlare degli strumenti di laboratorio…
– Ma.. è meraviglioso, mamma! E dimmi, quando parti?
La donna esitò, visibilmente nervosa. – Ecco… una settimana prima della vigilia natalizia.
Silenzio.
Poi, una risata tesa vibrò nella mia gola.
– Ma… ma è poco prima del mio compleanno, mamma.
Erica deglutì la secchezza alle fauci. – Lo so.
Mi staccai dalla libreria, le unghie si conficcarono nervosamente sui palmi e il petto venne pervaso da una ramificazione dolorosa, che alzò di un’ottava la mia voce quando esclamai – Non puoi farmi questo! Ti rendi conto che, se manchi tu, io festeggerò il mio diciannovesimo compleanno totalmente sola?
– Non saresti sola, Laura. Ci sarà Agata con te, come tutti gli anni.
– Non provare a rabbonirmi! Ho accettato per anni la tua assurda condizione sui compleanni, ho festeggiato ogni singola candelina in solitudine nella sala da pranzo di casa, senza nessuno che mi cantasse gli auguri, né amici, né parenti, perché tu hai deciso così!
Erica spinse indietro la sedia con le ginocchia, tendendosi nella mia direzione con il dito puntato su di me. – Ne abbiamo già parlato, mi pare. Non l’ho deciso io tutto questo, Laura. Né io né tuo padre…
Il mio cuore s’incrinò dolorosamente.
– Non nominarmi quel bastardo codardo!
Il boato di uno schiaffo su una guancia indifesa, e subito avvertii la carne arrossarsi nell’esatto punto in cui Erica mi aveva compito senza pietà, ciononostante non versai una sola lacrima, non ci riuscivo.
Faceva male, ma non fisicamente: era qualcosa di più vecchio e profondo.
La donna era ancora immobile in quell’atto brutale col petto, che respirava affannosamente ed occhi lucidi, quando, rabbrividendo, si pentì della sua azione e provò a rimediare con un abbraccio, tuttavia le sue braccia andarono a vuoto perché non le permisi neanche di sfiorarmi.
Fu un duro colpo da mandar giù per lei e la ferì abbastanza da indurla a infliggermi un ultimo, micidiale colpo.
– Laura, Maria, Gaia di Chiaravalle: tu sei mia figlia e sei la discendete dei Chiaravalle, il casato di tuo nonno, lignaggio dell’illustre Bernardo il francese. Io ti ho partorito, io ti ho cresciuto e non ti ho fatto mai mancare nulla, tuttavia, non posso costringerti a portare rispetto per un uomo che non ti ha voluto fare da padre. Ma non scordare che, nolente o volente, lui fa parte di te. E faresti meglio ad accettarlo, come ho fatto io a mio tempo.
Detto questo, Erica uscì dalla stanza coi suoi tacchi a spillo, lasciandomi nel silenzio dei miei stessi pensieri.

* * *

Sull’etichetta delle indicazioni, gli psicofarmaci neurolettici provocavano rigidità dei muscoli, rallentamento dei riflessi, impotenza, pressione alta e altri disturbi di cui non ricordavo neanche l’iniziale.
Ero abituata a sentir soffocare il mio corpo e per questo, quando cominciai a provare una strana pressione contro la mia fronte, non ebbi il benché minimo sospetto, almeno finché non mi resi conto che avevo la mente completamente svuotata.
C’era solo una fittissima nebbia che oscurava ogni cosa.
All’improvviso, dei lacci caldi come la carne attorniarono le mie braccia e spinsero verso l’alto come per issarmi su dei ganci, dunque cominciai ad avanzare senza che il mio corpo fosse in grado di farlo, anzi, era del tutto penzoloni mentre veniva trascinato di peso lungo una superficie vischiosa e bagnata.
Iniziai a distinguere dei brusii, uno sciame di luci e colori imprecisi che si mescolavano in un'unica, grande macchia lucente, poi le prime sagome alte di palazzi e quelle umane di passanti, finché il mondo non si aprì dinnanzi ai miei occhi.
Strizzai gli occhi per focalizzare meglio i due individui che mi stavano trascinando di peso lungo la via, un brivido ridestò le gambe dal loro torpore e, prima che potessero accorgersi del mio risveglio, affondai di scatto i piedi nella fanghiglia e mi liberai dalla loro presa con uno strattone deciso.
Lo slancio del corpo mi mandò a sedere con uno scroscio sonoro in una pozzanghera, l’abito s’inzuppò d’acqua impantanata e subito la bocca si spalancò per ansimare la sbigottimento, quando delle risate mi portarono a sollevare le ciglia umide verso l’alto.
Alcuni passanti si erano fermati ad osservare la scena e non avevano resistito all’occasione di perdere un po’ del loro inutile gironzolare per additarmi e deridermi apertamente, scombussolandomi ancor più di quanto quella doccia fredda non avesse fatto.
La fisionomia dei loro volti mi era totalmente nuova, dai tratti marcati e scuri, lucenti perle nere nascoste da una folta coltre di ciglia e dita scure che mi additavano da abiti rozzi e bislacchi, lunghi fino alle caviglie sia per gli uomini che le donne.
Vedevo turbanti, copricapi colorati, sandali sudici di fango e strada, ed ebbi la netta sensazione che ci fosse qualcosa di estremamente sbagliato. Era chiaro come il sole che i miei abiti stonassero nell’ambiente circostante.
Non sapevo dov’ero, ne come ci fossi finita. Ero bagnata e spaventata. Desideravo solo riscaldarmi e trovare un angolo buio dove potermi nascondere.
Mentre ero ancora atterrita dallo schiamazzare della folla, uno dei miei sequestratori si chinò cauto verso di me e tese la mano in segno di clemenza, ma, non appena poggiai gli occhi sulle lamine lucenti del suo guanto corazzato, arretrai col sedere di almeno due salti.
I due uomini che mi avevano catturato, notai, non erano dei briganti qualsiasi, bensì cavalieri
vestiti di calzettoni scuri e lunghe tuniche bianche con sopra una croce scarlatta, spade appuntite ai fianchi e camaglio coronato da un elmetto. Avevano un aspetto vissuto, forte, ma allo stesso tempo erano spaventati dall’essere in abito blu che avevano davanti.
– Arrivano, arrivano! – qualcuno nella folla cominciò a strillare.
La guardia inginocchiata a offrirmi aiuto si voltò indietro, completamente sbiancato in volto, e, non appena intuì il pericolo, cercò lo sguardo del suo compare quando lui era già scattato con il guanto sull’elsa della spada.
– Arrivano, sono sui tetti! – ripeté qualcun altro e, in quel preciso istante, un’ombra sul tetto vicino corse sui miei occhi, obbligandomi a sollevare di scatto il mento all’aria.
– Assassini, Assassini, Assassini!
Una donna scappò gridando, l’uomo al suo fianco piroettò freneticamente su se stesso e il suo vicino lo spinse via per darsi la fuga, finché quella reazione a catena non si diffuse a macchia d’olio; da un istante all’altro, la strada ghermita di gente si tramutò in una rete da mattanza.
Non sapevo cosa stesse accadendo, ma in quel momento ero così spaventata che volevo solo sparire da lì.
Dunque, approfittando della confusione di corpi e della distrazione delle guardie, mi rimisi a malapena in piedi sulla pozzanghera e diedi una grossa spinta alle mie gambe in direzione del sentiero di fuga comune.
Durante quegli istanti, tutto ciò che riuscii a pensare era correre.
Corri.
Spinsi una o due persone in prossimità di un imbocco verso una strada secondaria e fu a quel punto, mentre gli occhi si alzavano distrattamente verso il cielo plumbeo e umido, che vidi le facciate estranee di un complesso di case basse con finestre di legno forato. Qualcosa nella mia testa cominciò a suonare come una sirena, ma non riuscii a capire perché.
Qualcosa non andava.
Non dovevo trovarmi lì, non ero al mio posto.
Distolsi lo sguardo stravolto dagli edifici, la bocca si spalancò per prendere aria ma ciò che uscì fu un lamento sottilissimo, dunque costrinsi le mie gambe a tentare un ultima, disperata corsa.
Il flusso di fuga era diminuito notevolmente quando imboccai la via chiassosa di un mercato locale, che colpì in pieno viso i miei sensi per le infinite varietà di spezie colorate e per i tendoni dipinti a mano sulle centinaia di strutture in legno.
Anche lì, fui testimone del rovesciamento del pigro equilibrio dei passanti.
Le guardie di prima erano arrivate correndo nella strada, ferite e tutte imbrattate di sangue, una di esse si lanciò al centro della piazza e ordinò alla folla di disperdersi, quando, proprio sotto i miei occhi, qualcosa calò giù dal cielo e uccise il soldato davanti agli occhi di tutti.
Di nuovo, vidi la folla di persone tramutarsi in un orda di animali in fuga.
Non volli neanche sapere cosa fosse stato, né se l’uomo fosse ancora vivo, tutto ciò che volevo in quel momento era sottrarmi alla forza d’urto della gente che si strattonava, così incanalai tutte le mie energie nel setaccio delle bancarelle. Finalmente, inciampai nel telo arancione di una bancarella di spezie e, senza esitare oltre, corsi verso di essa.
Scivolai sotto l’impalcatura e lì, nascosta dietro il tendaggio, assistetti impietrita al turbine convulso di piedi e polvere, dunque udii i grugniti di un combattimento, il cozzare di lame, il sussulto di una gola sgozzata, poi la calma.
Un silenzio surreale.
Socchiusi la bocca a stento, per lasciare che la tensione spirasse assieme all’anidride carbonica dalle mie labbra, poi un rumore improvviso richiamò i miei occhi sul telo, lì dove, adesso, si proiettava l’ombra di un essere umano.
Non fiatai, non accennai neanche il benché minimo movimento quando, a filo dell’orlo arancione, vidi un paio di stivali di cuoio consumati fermarsi a qualche metro da lì.
Lentamente, staccia la mano dal petto e la portai all’altezza della bocca, premendo con abbastanza forza da uccidere il gemito che stava per erompere dal mio povero petto tremante.
In quel momento, desiderai disperatamente strappare il velo oscuro steso sulla mia memoria, sugli ultimi istanti di lucidità nell’ufficio rosso di casa, ma non ci riuscii, non potevo, ero terribilmente bloccata.
Mi tappai le orecchie con i palmi e chiusi gli occhi nella ricerca di un luogo sicuro, lontano da lì.
Una cameretta avvolta dall’antico lumino da notte cominciò a formarsi dietro le palpebre, qualcosa si fece strada nella penombra dei miei ricordi. Le labbra di mia madre che bisbigliavano certe parole vaporose.
“Non devi aver paura, Laura. Ricorda che ciò che non prendi sul serio, non può farti del male, quindi, anche se per la tua mente tutto è lecito, bada: non è reale.”
– Nulla è reale… – sussurrai. – Ma tutto è lecito.
Spalancai gli occhi, proiettandoli in una nuova e sbiadita consapevolezza, ma prima che potessi acciuffarla totalmente, prima che potessi risvegliarmi da quel sonno indotto, un guanto di cuoio scivolò sotto la bancarella e mi acchiappò la caviglia.
Strillai e mi dimenai come una pazza sul terreno, tenendo le palpebre sudate ben chiuse mentre venivo trascinata fuori dal mio nascondiglio buio e umido,
La prima cosa che vidi fu un bianco accecante, che circondava per intero una figura umana, poi una gran quantità di grigio cenerino che si appoggiava su delle spalle e saliva fino a una testa.
Per un momento credetti d’aver davanti un fantasma, o, peggio, ma, non appena la mai vista si riabituò alla luce naturale, mi resi conto con stupore che la famigerata ombra dei tetti non erano altro che un ragazzino incappucciato.
Non seppi dire con esattezza cosa ci trovai in quel volto nascosto per metà, bruno e sbarbato come quello di un sedicenne, ma lessi sulla sua bocca dischiusa in un respiro che doveva esser confuso almeno quanto me.
– Tu… chi sei? – chiese e il suo accento, chissà perché, mi parve subito strano.
La mia bocca rimase impastata, completamente bloccata, finché qualcun altro giunse nei pressi della bancarella con la sua spada intinta di sangue fresco.
– Che cosa hai trovato, Novizio?
Il giovane difronte a me non si alzò dalla sua posizione acquattata, bensì guardò l’uomo in avvicinamento da sopra una spalla – Ecco, è una fanciulla, Altaïr. Credo d’averla vista dal tetto mentre scappava dalle guardie.
La grande ombra bianca bloccò i suoi stivali consumati a pochi metri da noi, la barbetta gli si increspò in un sorriso lascivo e, con superba abilità nel braccio possente, ripose la spada insanguinata nella fodera al fianco.
Quell’individuo era visibilmente più maturo del suo giovane amico, con un corpo possente e ben disciplinato nell’arte del combattimento corpo a corpo così come con la spada, come ben si poteva intuire dal numero notevole di armi che portava con se, in oltre, differentemente dal ragazzo, che aveva un cappuccio cenerino, sul suo capo ne torreggiava uno bianco latte.
– Ebbene, allora dovrebbe tornare a casa dal suo maritino, questa bella colombella smarrita. – convenne l’uomo bianco, schernendomi con un cenno del mento che fece rabbrividire me e, di conseguenza, ghignare lui.
– Non dovremmo, innanzitutto, assicurarci che stia bene? – osservò il ragazzo in grigio.
Quello schioccò la lingua sotto il palato. – Da quando in qua ti prodighi per le puttane?
– Puttana? A chi hai dato della puttana, brutto pezzo d’asino!
I due guerrieri calarono gli occhi sconcertati su di me, l’uno avvampato in volto, l’altro con il giovane volto ammutolito per lo stucco.
– Oh, ma guarda, parla, allora. – commentò con una smorfia Altaïr – E anche troppo, direi, per una donna del lupanare. Comincio ad essere curioso. Ehi, ragazzina, da dove vieni?
Cappuccio grigio fece per dire qualcosa, ma il dubbio impresso sulla sua bocca lo costrinse ad ingoiare e ad attendere sott’occhio la mia reazione, che tardava ad arrivare, perché, se inizialmente ero spaventata a morte, adesso desideravo solo capire.
– Come ci sono finita in questo posto? Cosa sta succedendo? – domandai scossa.
– Non dovresti rispondere a una domanda con un’altra domanda. – ribatté saccente quello – È sintomo d’insicurezza. Stai forse nascondendo qualcosa?
– Altaïr, è solo una ragazza… – cercò di acquietarlo l’altro.
Quello rispose con una scrollata di spalle, allargando le narici in uno sbuffo mentre faceva incontrare le braccia sotto la grossa gabbia toracica. Io lo osservai, sentendo perfettamente il suo sguardo perforare il lembo di stoffa bianco calato sui suoi occhi e setacciare il mio volto con accuratezza.
Qualcosa lo contrariò profondamente, e di questo se ne accorse anche il compare, che decise a quel punto di intervenire con più dolcezza.
– Ascoltami. – si rivolse a me con un sorriso tenue – Comprendo il tuo spavento, di certo non dobbiamo essere troppo rassicuranti con questi cappucci e le armi, ma non ti faremo del male, hai la mia parola d’onore.
– Certo che no, sarebbe da codardi! – irruppe Altaïr, sciogliendo le braccia lungo i fianchi. – Ma è meglio non rischiare. Allora, vediamo un po’ cosa riesco a leggere su quel tuo bel visino?
Con un irruente spintone del polso, mandò a terra cappuccio cenerino e prese il suo posto dinnanzi a me, sedendosi sui talloni così speditamente da non permettermi di ritrarmi il tempo necessario per svincolarmi dalle sue dita uncinate.
Le ginocchia affondarono nella terra e il mio peso cedette in avanti, sorretto dai palmi aperti, mentre cappuccio bianco mi tirava a se con l’intenzione di spogliarmi l’anima velo dopo velo.
In un attimo, mi ritrovai con la mandibola intrappolata e gli occhi costretti a guardare l’anima giallastra dei suoi occhi, evanescenti e spettrali sul volto del bellissimo uomo siriano.
Fu come se l’anima mi stesse bruciando in petto.
D’un tratto, vidi i suoi occhi assottigliarsi in un’espressione disorientata. – Interessante…
Difronte al suo sorriso lascivo, cappuccio grigio si fece coraggio e lo afferrò saldamente per una spalla, provando a dissuaderlo. – Adesso basta, mentore, lasciala stare…
Mossi il ginocchio in fretta, un colpo secco all’altezza dell’inguine dell’uomo appena distratto, e immediatamente sentii le sue dita contorcersi per il dolore sulla mia mandibola.
Non appena quello mi ebbe offerto il suo fianco corazzato, su cui si dispiegava una fila di coltellini da lancio, gli sottrassi goffamente una lama.
L’uomo si voltò con gli occhi gialli che lampeggiavano, tese il corpo in un ringhio animalesco e immediatamente reagii gettando in avanti il pugnale stretto in mano, che si scontrò con la sua bocca e lo costrinse a indietreggiare.
Il suo compare ebbe appena il tempo di strabuzzare che vide il più vecchio piegarsi su se stesso e con la mano insanguinata stretta sulla bocca, sicché non riuscì a reagire quando mi vide strisciare via e rimettermi a malapena in piedi contro la bancarella, dove cercai sostegno mentre setacciavo il mercato per una via di fuga. Fu a quel punto che vidi i cadaveri delle due guardie, crocifisse ai piedi della fontana allagata del loro stesso sangue. L’impatto visivo fu brutale, i polmoni si svuotarono per il terrore e ,non appena catturai il movimento cauto del ragazzo in grigio, che stava procedendo con il palmo aperto in avanti, crollai fragorosamente.
– Non osare avvicinarti a me, omicida! – strillai e agguantai un’oggetto alla cieca disposto sul bancone, tirandoglielo addosso con tutta la forza che avevo.
Il ragazzo schivò l’arancia volante con agilità, esclamando – Ti prego, non aggravare di più la tua situazione!
Invece di prestargli ascolto, gettai un’occhiata veloce sopra la spalla per individuare un’oggetto più pesante e, quando trovai un coccio pieno di curcuma in polvere, non esitai a lanciarlo con tutto il suo contenuto, che si cosparse sul corpo di quello in una nube soffocante.
Senza lasciare il pugnale con la lama tinta di sangue, mi lasciai alle spalle il mercato e scappai da quei due mentre erano ancora storditi dai miei tiri mancini, rifugiandomi nella zona est della città, su ponte di un putrido canale di scolo.
Mi fermai quando vidi Altaïr fermo dall’altra parte della sponda, con le grosse spalle tese nell’attesa di un mio prossimo scatto.
Come aveva fatto a precedermi così in fretta?
Le ginocchia mi tremarono per la paura, tentai di ripiegare indietro e finii col scontrarmi nel petto di cappuccio grigio, anche lui misteriosamente comparso dal nulla e ricoperto di polvere gialla . In un attimo, mi disarmò del pugnale e lo gettò a terra, dunque mi afferrò per i polsi prima che potessi ritentare qualsiasi tiro mancino.
– Cosa hai detto, prima, sotto la bancarella? – domandò svelto, con l’interno della bocca sporco di polvere gialla.
– Cosa? – balbettai.
– La frase che hai pronunciato! Chi te l’ha detta?
– Di quale frase stai parlando? Lasciami, dannazione, mi fai male!
Mi diedi una spinta con la schiena e riuscii a liberarmi da lui abbastanza per arretrare di pochi passi, finché non inciampai nel parapetto del potte con le ginocchia.
Il ragazzo mi agguantò per il braccio, io lo trascinai nel peso della caduta e in un attimo ci ritrovammo entrambi a sprofondare nelle acque putride del canale.




Angolo autrice:

Suppongo che siate confusi, o addirittura contrariati. Torno dopo tutti questi mesi, e che faccio? Riprendo da capo la storia? Ebbene, lasciate che vi spieghi quale diavolo mi abbia preso per arrischiare un progetto simile. Mi rendo perfettamente conto che è una mossa pericolosa la mia, perché potrei apparire insicura del mio lavoro, o noiosa, chissà, ma lasciate che vi dica quanto questo progetto sia stata una meraviglia per me, dalla sua nascita fino a questo punto. Non avrei mai pensato di arrivare fin qui, davvero. Avevo paura di lasciarmi andare troppo, credevo che sarebbe stato tempo perso, ma poi ho visto i primi commenti, le critiche, che mi hanno aiutato tanto a crescere ( chi sa capirà! ^^) e ,improvvisamente, mi sono ritrovata con dei lettori veri, scadenze e aspettative che non volevo assolutamente deludere. Potrà sembrare sdolcinato, ma mi sono affezionata a voi e, soprattutto, a questa storia, a cui purtroppo ho dedicato troppo poco tempo, ma ora capito che potevo far di meglio.
So che vi sto chiedendo molto, ma spero che mi seguirete in quest’ultimo, folle atto, altrimenti, sono comunque orgogliosa di ciò che ho fatto finora, perché proviene direttamente dal mio cuore.
Sostituirò man mano i vecchi capitoli con la nuova versione ( li distinguerete da quelli che non ho ancora aggiornato perché avranno l’immagine di copertina, in oltre, v’informerò direttamente dalla descrizione ), con la promessa, però, che la storia non subirà cambiamenti dal punto di vista narrativo. Andrò solo ad aggiustare e aggiungere dove servirà, ma non preoccupatevi, la storia è sempre quella ;)
Grazie. Di tutto.
E, con questo, ricominciamo.

Baci, la vostra Lusivia.

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Capitolo 2
*** Prologo ***


                                                           
                                                                               
                                             
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                                                                                     Capitolo 2
 
                                                                                      Prologo



                                              


Il corpo precipitò verso il richiamo delle acque, il calore di quelle braccia estranee che mi stringevano, il vento, un tonfo, il ticchettio del pendolo che scoccò le sei del pomeriggio.
Un gran mal di testa.
Aprii gli occhi molto lentamente, sentendo la punta di un pugnale immaginario spingere sempre più in profondità da tempia a tempia, finché non riconobbi il frusciare famigliare dei drappeggi damascati attorno al letto e, poco più in là, lo scroscio di una pioggerella sottile bagnare il davanzale della finestra.
Rimasi a fissare i vetri lucidi per qualche istante, poi distolsi lo sguardo e richiusi gli occhi in un sospiro dolorante.
Ero di nuovo a casa…?
O forse, non ero mai partita? Che fosse stata un’allucinazione? Così reale?
Scostai via le lenzuola, scivolando sul pavimento accompagnata dall’ondeggiare del pigiama in lino beige, dunque mi diressi indolenzita verso la finestra e riagganciai l’uncinetto di ferro al suo posto.
Una volta messo a riparo il pavimento dalla pioggia, piroettai sui talloni e m’incamminai verso il corridoio del piano, passando velocemente davanti allo specchio.
Non ricordavo di aver messo la mia camicia da notte di velluto color lavanda, né d’esser andata a letto alle sei del pomeriggio.
Uscii nel pianerottolo tappezzato di quadri e porte, procedendo in punta di piedi lungo il corridoio rosso, il volto rivolto verso le scalinate, poggiai il piede sul primo gradino di marmo e il bisbiglio delle travi cigolanti mi richiamò.
Analizzai silenziosamente gli usci delle numerose camere vuote finché una, in particolare, non accattivò la mia curiosità. La riconobbi anche se ero lontana, perché emanava un calore proprio, come se al suo interno bruciasse costantemente un incendio fantasma. Deglutii, dunque girai i piedi sul parquet e mi avvicinai alla porta, bloccandomi solo quando fui a un palmo da essa.
Negli ultimi tempi, stava diventando sempre più difficile ignorarne il divampare rovente lungo le mura, fin dentro la mia stanza, lusingandomi nel suo vortice con un richiamo antico, che sapeva di fumo e nebbia nera tra i ricordi manomessi della mia infanzia.
Era stato un incidente. Un inutile, maledettissimo incidente avvenuto tredici Natali fa.
Ricordavo che c’era tanta gente per casa, molti adulti e pochi bambini, e che la sala era stata invaso dalle loro risate e i brindisi tra le luci soffuse, un’enorme tovaglia rossa e le stelle natalizie disposte sul camino scoppiettante.
A giudicare dall’altezza dell’albero natalizio di quell’anno, dovevo esser alta poco più di uno scricciolo in abito rosso e rigonfio di pizzo bianco, con grandi occhi profondi e un viso tondo della luna, già allora circondato da un’aura stregante.
Buffo a dirsi, all’epoca amavo che mi si facesse vestire come una bella bambolina d’esposizione, fagocitata da tutti quei fiocchetti legati tra i capelli fini e le calzamaglie candide, ma quel giorno Erica aveva dato una particolare attenzione ai dettagli, per presentarmi al meglio a quella massa d’individui nella sala da pranzo di casa mia.
Non ricordavo i loro volti oltre quelle interminabili colonne che erano le loro gambe, tuttavia, c’era qualcosa nei loro sguardi che mi faceva sentire preziosa, i loro occhi estranei che mi studiavano, le bocche che bisbigliavano all’orecchio del vicino, perfino quei bambini composti che non avevo mai visto prima d’ora mi guardavano con aria di rivalità.
Ed io, con animo puro e incontaminato, che li giustificavo e ricordavo a me stessa che non avrei sminuito il giorno del mio compleanno per inutili invidie.    
Mia madre voleva che ogni cosa andasse per il verso giusto, quella sera, ed era visibilmente in ansia, tuttavia, dissimulava i suoi pensieri con sorrisi laccati di rosso ciliegia e movenze lente del bicchiere di spumante tra le sue dita pallide, osservando tacitamente le persone in quella stanza come fossero uno sciame di vespe velenose.   
Erica prese a parlare di fronte ai presenti con il bicchiere colmo di spumante quando oramai mancava poco allo scoccare della mezzanotte e, a quel punto, la sala si sarebbe riempita dello scoccare assordante del grande pendolo. Mentre i pesi d’ottone spostarono le lancette sull’ultimo rintocco, io mi ero già rifugiata nei piani superiori, tra le ombre tremule riflesse dai lampadari di cristallo nell’ingresso.
Ricordavo della carta damascata color crema, molto simile a quella nella stanza di mia madre.
Una porta laccata di bianco nascosta tra la finestra e il mobile.
Poi, brandelli di una luce insolita, un gran dolore alla testa ,il tepore accogliente della festa nel salone di casa.
Nessuno sapeva cosa fosse successo nella stanza quella notte, né io, né anima razionale.
Forse un’ombra minacciosa proveniente dall’esterno, o la rielaborazione esagerata di un rumore sinistro emesso dalle travi di casa, rimaneva, comunque, che qualcosa i miei occhi l’avevano davvero vista, ed era stato così terribile da far collassare la mente in se stessa.
Passò quasi un mese prima di ricollegare l’incidente al debutto della schizofrenia.
Mia madre era sconvolta. Non poteva perdonarsi per ciò che mi era successo, si riteneva responsabile in qualche modo e finì col chiudersi nella solitudine della sua stanza, perfino la mia situazione catatonica non riusciva a farle prendere una posizione di fermezza.  
Per quasi due anni io e mia madre fummo incapaci di riprendere il controllo sulla nostra vita.
E, quando mi risvegliai dal mio sonno, mi resi conto troppo tardi che lei aveva già deciso ogni cosa al posto mio.
Non mi fu più concesso andare a trovarla nel letto durante i temporali invernali, né entrare in camera sua per cercare il rossetto color ciliegia che metteva sempre, quella porta divenne il capolinea oltre cui il mio corpo non poteva spingersi, perché respinto da un’aura indecifrabile.
A pensarci bene, non sapevo come avessi deciso di non tornare più là dentro. Mi sembrava illogico aver paura, perché, se non lo prendi sul serio, non può farti del male.
Allungai la mano molto lentamente, con l’ombra di un inquietante presentimento sul collo, e pressai le dita sulla superficie liscia, sentendo subito una strana pressione risalire lungo il mio braccio.
Attesi qualche attimo e non accadde nulla, anzi, mi sentii abbastanza sciocca da volermi allontanare subito, prima d’esser vista da qualcuno, ma, non appena richiamai il braccio a me, sentii che le dita erano rimaste incollate.
C’era qualcosa, sotto i polpastrelli.
Tesi il collo per analizzare lo strano liquido rossastro più da vicino e avvertii subito un pungente odore di ferro infilarsi nelle narici.
Sangue.
Tirai la mano indietro e la porta lasciò andare volentieri le mie dita, indietreggiai di scatto e andai a sbattere violentemente contro il muro, spostando il quadro sopra la mia testa di qualche centimetro.
Portai le dita all’altezza delle pupille dilatate e il mio cuore si zittì all’istante.
Non c’era niente sui polpastrelli. Neanche la benché minima traccia di sangue, neppure sulla porta.
Sentivo che il corpo tremava ancora tutto quando vidi la porta della stanza aprirsi sul corridoio, facendo emergere la testolina bionda di mia madre, così indaffarata con le rotelle della sua valigia da non accorgersi che la stavo fissando.
Notai che aveva un abbigliamento insolitamente sciolto, una camicetta rossa dallo scollo accennato e un pantalone a vita alta che esaltava la sua figura esile e muscolosa.
Erica sollevò lo sguardo per un istante, incrociò il mio volto pallido e immediatamente le sue dita divennero come di ghiaccio, facendo cadere la valigia sul tappeto del corridoio.
– Mamma…– sussurrai – dove stai andando?
Un leggero panico le riempì gli occhi, poi si chinò per raccogliere l’impugnatura della valigia e, sorpassandomi con una piroetta perfetta, disse – C’è stato un contrattempo, amore mio. La mamma deve partire prima, ma stai tranquilla, tornerò prima della fine di questa settimana.
– Settimana? – ripetei, andandole subito dietro sulle scale – Ma i tuoi viaggi di lavoro non durano mai una settimana. E, soprattutto, non vai a un congresso conciata così.  Mamma. Che sta succedendo?
– Torna in camera tua. – mi ammonì e cominciò a trascinare la valigia verso il portico.
– Neanche per idea, non senza una dannata spiegazione! Avanti, cosa è successo, perché stai scappando? Mamma!
Sbatté la valigia in prossimità della porta.
– Niente, niente, non è successo niente, Laura! – sbottò, colpendo col suo tono rabbioso con abbastanza precisione da lasciarmi ammutolita per qualche istante.  
Era evidente che qualcosa non andava, glielo si leggeva suo volto, ora contorto in una rabbia ingiustificata, e sulle mani, rosse e nervose mentre scorticavano la fronte, ma ciò che non vedevo era quanto fosse spaventata in quel momento.
– Ascoltami, ti prego... ho bisogno della tua comprensione. – sussurrò sotto i capelli. – Rimani qui con Agata. Continua a fare tutto normalmente e non chiederti dove sono, né cosa sto facendo, nulla.– singhiozzò. – Buonanotte, Laura.
– Ma…ma dove vai? Mamma!
Cercai di afferrarla per la manica prima che superasse la soglia di casa, ma non fui abbastanza svelta e mi ritrovai con un pugno d’aria.
La vidi salire su un fuoristrada verde muschio appostato lungo il sentiero, parecchio distante da casa, quindi ebbi tutto il tempo di vederla trascinarsi con la valigia, aprire la portiera e saltare sul veicolo un attimo prima che il suo conducente sgommasse verso il bosco.
Da quando mio padre l’aveva abbandonata, Erica non dava più l’addio a nessuno, invece, augurava la buonanotte, perché la notte, diceva, non può durare per sempre.
Per la prima volta, vidi davanti a me la notte più lunga di sempre.

*     *     *

Erano passati cinque giorni da quando avevo lasciato che mia madre salisse su quel fuoristrada parcheggiato lì da chissà quanto tempo, l’avevo vista sparire su di esso mentre ero ancora affacciata sulla soglia di casa e, la cosa peggiore, fu che non potevo far nulla.
Mi sentii tagliata fuori dalla sua vita, dalla nostra, e questo mi fece sentire più sola che mai.
Quella stessa sera, Agata arrivò a casa con il suo valigione, sempre pronto per ogni partenza improvvisa della padrona di casa, e mi trovò nel pieno dei miei esperimenti culinari, spesso tacita valvola di sfogo per pensieri tarlanti che non avevano il coraggio di esprimersi apertamente.
Durante la nostra breve cena io non dissi molto e la suora, dal canto suo, non tentò d’indagare sul mio umore neanche una volta; più semplicemente, si limitò a sparecchiare e a rifilarmi la compressa prima di andare a dormire.
– E non osare mai più saltare l’assunzione, signorina. Sai, preferirei non trovarti di nuovo svenuta nell’ufficio, quando, invece, dovresti esser sulla lettura di Hegel. Laura, sul serio. Non provarci mai più.
Anche quel giorno, annuii meccanicamente, in una nauseata accondiscendenza che aveva portato stanchezza, non quella tipica della lotta, bensì era più simile ai dolori del prostrarsi ai voleri di qualcun altro.
Fissavo il rifratto della luce su quella piccola sferetta bianca, e pensavo, sempre più stanca, sempre più avvilita, sempre più incapace di capire quando fosse iniziato.
Quand’è che avevo deciso di non lottare più?
Ma, soprattutto, quand’è che mia madre aveva cominciato ad avere dei segreti con me?
– Dovresti impegnarti in letture meno frivole. Se non sbaglio, ti avevo assegnato un passo dell’Antigone, perché leggi le follie di quel romanzetto per bambini?
Sollevai gli occhi dal libro azzurro poggiato sulle mie gambe, sapientemente avvolte dal gonnellone nero, e sorrisi al profilo austero del suo naso infilato in uno dei suoi saggi tascabili, quelli che sfilava dalla sua veste ogni qualvolta avesse un po’ di tempo a disposizione.
– Cos’hai contro Alice? – chiesi, fermando un segno con il pollice.
La donna scrollò le spalle con diffidenza. – Quale ragazza seguirebbe un coniglio col panciotto dentro una tana un po’ ambigua?
Sollevai le spalle attraverso la blusa bianca.– Io lo farei. Giusto per dare un’occhiata.
– Laura, sul serio. È ridicolo.
Risi a denti scoperti, poi tornai nella narrazione con una scrollata di spalle. – Sarà, però, chissà, la sorella maggiore di Alice mi ricorda una certa suora…
Lei esitò per un po’ sul mio volto con espressione lievemente spazientita, dopo di che fece scivolare gli occhi in un sospiro pensieroso, lasciando che facessi come mi pareva
Quel pomeriggio, Agata aveva preparato un angolo lettura nel giardino sul retro, sistemando un telo a scacchi rosso sul praticello fresco e dispiegando un’enorme quantità di the, biscotti e libri tutti sparsi attorno a noi come un tappeto di foglie gialle.
Molto simile a un paradiso terrestre, il vivaio era stato edificato come un parco monumentale di siepi ad arco e lunghi corridoi tappezzati di fiori di ogni specie, dalle selvatiche rose canine alla soffice lavanda nelle aiuole.
Star lì mi faceva bene in quel momento, perché zittiva il pullulare costante di quegli strani pensieri che si erano impossessati della mia testa, sostituendoli, invece, con le vibrazioni potenti della siepe, dell’erba, delle montagne, dei libri distesi a pancia all’aria sul prato attorno a noi.
Almeno in quegli attimi, sentivo il mio corpo fondersi con il cuore del giardino e, con esso, anche la sofferenza si acquietava per un po’. Era da un po’ che avevo smesso di prendere i farmaci, e la cosa cominciava a pesarmi un po’.
Ultimamente, mi sentivo malata. Davvero, malata.
– Vado a prendere altri biscotti. – annunciò d’un tratto la suora, alzandosi agilmente da terra mentre mi chiedeva –Tu vuoi qualcosa in particolare, Laura? Cioccolata, caffè…?
Scossi la testa senza staccare gli occhi dalla lettura, quindi, sentendosi ignorata, Agata si allontanò a passo mogio fino alla veranda dell’ufficio, ove sparì per qualche minuto.
Alzai la testa un po’ di sottecchi, cercando con lo sguardo la sua figura grigia in qualche vetrata, poi sospirai e piegai la fronte sulla carta profumata del libro, dove rimasi finché lo ritenni opportuno.
Quel ronzio, non voleva proprio cessare.
Sollevai la testa con uno scatto deciso, dunque mi sporsi su un fianco e cominciai a cercare tra la pila di libri accatastati a destra, nella speranza di distrare la mia mente abbastanza da non sentirlo più.
Rovistai superficialmente le copertine lucide e così ben curate, che finirono inevitabilmente col far risaltare un vecchio tomo verde tutto consumato, che pareva quasi ammiccare sotto la catasta.
Ubbidendo subito al suo richiamo, m’inginocchia sull’erba e scartavetrai la superficie di volumi fino ad arrivare a vedere “Il Milione” di Marco Polo, il primo compagno d’avventure che ebbe mai il dono di trasportarmi dalla mia stanza in luoghi lontani.
Avevo letto, anzi, divorato quelle pagine, nella speranza di diventare io stessa la carta tinta di mappe, terre e volti umani che avevano decorato i diari dell’avventuriero veneziano, ma alla fine dovevo sempre tornare nelle mie pallide membra umane.
Fu una fortuna ritrovare lì quel libro, visto che Agata lo aveva sottratto dalla mia libreria personale da diversi anni, e lo presi come un segno del destino.
Iniziai a sfogliare il bordo delle pagine con cautela, sentendo le immagini riesplodere dietro i miei occhi riga dopo riga, le voci delle antiche metropoli riprender vita e i possenti castelli riedificarsi nella mia testa, ma la loro rinascita venne rasa al suolo da un piccolo, seghettato dettaglio.
Una pagina era stata brutalmente strappata dall’insieme, lasciando orfano di un intero capitolo un piccolo appunto di poche righe, probabilmente il finale di qualcosa di ben più complesso e interessante.
Rimasi per un momento a carezzare il taglio frastagliato a destra della pagina così crudelmente amputata, immaginando chi mai avrebbe potuto compiere un tale atto. La risposta mi colpì come un fulmine violaceo dal cielo.
Agata odiava quel libro, ma non avevo mai capito perché. Possibile che fosse stata lei? E perché mai, d’altronde?
Bisognosa di risposte, le cercai tra le righe sopravvissute. La descrizione meravigliosa di un eden fiorito da qualche parte tra le montagne siriane, lì dove si erigeva la rocca di un potente signore, mago, teologo, mistico, che era riuscito ad affondare le radici di un’antica setta nel lontano medioevo, era tutto ciò che rimaneva su quel libro.    
Nessun nome, neanche un accenno sul luogo, ma solo un incerto interrogativo che si espandeva attorno a quella mistica figura persa nel tempo: “Il Veglio della Montagna”, lo chiamava Marco Polo.
Strinsi le labbra in una smorfia insoddisfatta, muovendo il pollice sul bordo per chiudere il libro prima del ritorno della suora dalla cucina, quando qualcosa di viscido fece scivolare il polpastrello lungo la pagina.
Notai per la prima volta la presenza di un alone vischioso, lucido come inchiostro rosso, maleodorante come una vecchia ferita lasciata a cuocere sotto il sole. Chinai il naso sulla pagina, tirando un unico, chiarificante respiro.
Il petto tremò in un respiro mozzato, il mento si alzò impettito ma gli occhi rimasero piegati in basso, atterriti, increduli, curiosi.
Pigiai l’unghia contro la macchia rossa, scorticandola molto delicatamente.
In quel preciso attimo, qualcosa di incredibilmente pesante piombò sulla mia gonna e la bagnò di rosso vivo. Non urlai, non mi chiesi nulla, solo lasciai che le braccia si slanciassero a lanciare via il libro maledetto, che atterrò qualche metro più in la sull’erba tinta di sangue vivo.
Mi portai una mano al cuore, sentii di dover guardare sulle mie gambe, ma non ci riuscii.
– Laura, va tutto bene?
La voce di Agata riemerse come una macabra rielaborazione di un incubo e, percependola come tale, non riuscii a strappare i miei occhi da quell’incanto finché non sentii il ronzio nella mia testa cessare definitamente.
La suora era lì, davanti a me, con un vassoio di biscotti alla vaniglia, e mi osservava con una velata preoccupazione.
Guardai titubante qualche metro più in là, aspettandomi di trovare un lago di sangue attorno al libro, ma le pagine avevano smesso magicamente di sanguinare, anzi, non ve n’era la benché minima traccia, né sulle mie gambe né altrove.
Strinsi le dita contro il tessuto della blusa, ma non riuscii a calmare il respiro. Non me l’ero immaginato, le pagine avevano… avevano preso a sanguinare.
Una mano delicata carezzò la mia spalla, poi afferrò anche l’altra, finché Agata non mi ebbe intrappolato nel suo sguardo profondo e burrascoso, che premette sulla mia pelle in un’espressione mortificante, di chi aveva l’amaro in bocca per la frustrazione.
– Che cosa stai combinando, piccola ingrata? – sibilò a denti stretti – Cosa credi di dimostrare, non prendendo più gli psicofarmaci, eh? Credi di essere grande, così?
Sussultai – N… no…
– Pensi di essere così spavalda da poter gestire una cosa del genere da sola?
– Io…– deglutii con fermezza. – Senti da che pulpito! Come osi farmi la predica quando tu stessa mi nascondi le cose?    
– Di che stai parlando?
– Mia madre, Agata! Mia madre è sparita da un momento all’altro su un fuoristrada appostato fuori la magione, ed è come se non fosse mai accaduto! È questo che ti ha detto di fare? Di fingere che andasse tutto bene, che questo fosse un altro dei suoi improvvisi impegni di lavoro?
– Non dovresti fare queste domande, Laura. Lo sai bene.
– Perché? – sbottai – Perché no? Cosa c’è di così terribile da non potermi dire?
– Sei un’ingrata! – la sua voce scoppiò di rabbia, ma la sua espressione era disperata, di chi aveva le spalle al muro. – Ho votato la mia esistenza alla tua protezione, ragazzina, per proteggerti, e tua madre… lei ha dovuto affrontare scelte difficili, piene di sacrifici, perché non sei abbastanza forte, e questo tuo comportamento ne è la prova! Come possiamo proteggerti, se ti ribelli così?
– Proteggermi da cosa? Dal mostro sotto il letto? Dalla possibilità di rompermi il collo quando sono sul tetto? O dal demonio che mi sta divorando il cervello, Agata! Da quello chi mi salva? Voi? O quelle fottutissime caramelle al gusto di limone con cui mi avete imbottito un’intera vita?
– Basta così! Vai in camera tua, sei in punizione per il resto della tua vita, mocciosa arrogante! – sputò e, con quest’ultime parole, mi lasciò andare, puntando risoluta l’indice destro verso casa.
Con la gola ancora piena di rabbia e il cuore pesante, sgusciai via dal suo sguardo arcigno, afferrai per un lembo il gonnellone nero e mi misi a correre in direzione del suo braccio teso. Arrivai all’entrata dell’ufficio rosso e per poco non inciampai nei miei stessi piedi, allungai la mano verso la veranda. Presi la maniglia con forza.
Un colpo tremendo all’altezza delle gambe, poi comincia a piegarmi sulle mie stesse ginocchia un istante troppo tardi per i miei riflessi.
Le braccia della suora arrivarono alle mie spalle come una folata di vento improvviso, sorreggendomi forti mentre appendevo la testa in avanti, spalancando la bocca in un singhiozzo spezzato a metà.
– Laura! Laura, cos’hai?
Immobile com’ero a mezz’aria, provai a spiegarle la dolorosa sensazione di bruciore al centro della fronte, ma, non appena focalizzai le parole, sentii di nuovo quel fastidioso ronzio mordicchiarmi nei timpani.
Sentivo che stavo per andarmene. Che da un momento all’altro il mio corpo sarebbe schizzato fuori.
E di questo se ne accorse con orrore anche Agata.
Con uno strattone deciso, ella mi tirò su di peso e allacciò prontamente il braccio attorno alla mia vita, mentre, con l’altra mano, mi teneva il polso oltre le spalle.
Cominciò a trascinarmi verso la veranda un saltello dopo l’altro, tremando ogni volta che vedeva la mia testa penzolare in balia delle vertebre distese, cercò di trascinarmi dentro l’ufficio ma il peso legato alle mie caviglie divenne talmente insostenibile da crocifiggerla sulla soglia, impotente e frustrata.  
A stento riuscii a capire l’imprecazione che aveva lanciato dalla bocca di una tale suora licenziosa, provando un leggero dolore alle tempie quando, ridendo debolmente, abbandonai il capo contro la sua clavicola destra.
– Sai, adesso, me lo ricordo… – sussurrai.
La donna mi guardò spazientita. – Cosa? Stai dando di matto, ragazzina!
Feci girare la testa contro la sua clavicola, socchiudendo gli occhi il tempo necessario per vedere la sua espressione alla mia risposta.
– Kadar. Aveva detto… di chiamarsi Kadar.
Poi, il buio calò davanti ai miei occhi.
Finalmente, il brusio era cessato.

*     *    *

Percepii qualcosa di caldo carezzarmi la guancia, poi, uno spiraglio si aprì nel buio e lasciò che il calore stantio e secco della camera trafiggesse il pulviscolo sulla finestra incrostata.
Le gambe erano addormentate in posizione fetale e la faccia sprofondata nel groviglio della mia chioma, le coperte bollivano del tempore pastoso del sonno e non si udiva altro nell’aria se non il mio dolce respiro.
A riattivare i miei sensi fu la presenza di un profumo estraneo sul cuscino, un misto di paglia e oli profumati, con un accento aspro, chiaramente virile.
Faticai a scollare le palpebre e ancor più a mettere a fuoco la trama ruvida del guanciale su cui ero appoggiata, dunque, mi sollevai pesantemente sui palmi e raccolsi la manica per strofinarla sugli occhi.
Mi bloccai quando vidi steso sul mio braccio il tessuto sottile del lino, ramificato lungo il mio corpo in una sottoveste pulita e perfettamente aderente a ogni centimetro nudo del mio corpo, ad eccezione delle mani e dei piedi, nudi e liberi.
Scesi le gambe dal letto con molta circospezione, traballando un istante prima di aggrapparmi al tavolo della toilettatura, smuovendo l’acqua nella bacinella, per ritrovare una parvenza d’equilibrio, ma non ero ancora soddisfatta, avevo bisogno di alzare lo sguardo sulla stanza per capire che il mondo si era letteralmente rovesciato sotto sopra.
Ero evidentemente in un alloggio abitato, grigio e asettico nonostante gli evidenti affetti personali del suo ospite, come un calamaio imbrattato di nero sullo scrittoio, i vestiti che fuoriuscivano dalla bocca socchiusa della cassapanca, un letto sfatto e imbottito di paglia.
Se solo avessi avuto la prontezza nel reagire, probabilmente mi sarei lasciata cadere di nuovo sul letto, ma non lo feci, ero paralizzata sulle mie gambe.
Dove mi trovavo?
Improvvisamente, dalla finestra risalì il rumore di un corpo ferroso che cozzava con qualcosa di sottile e veloce, in uno schema di colpi che illuminò la mia mente come una lampadina.
Il rumore di un combattimento.
Una fitta alla tempia.
Un mercato. Delle guardie, il fango, poi tanto bianco e sangue.
Un risucchio, e la mia mentre rientrò nel corpo con un sussulto.
Puntai lo sguardo sulla finestra e non pensai molto prima d’imporre ai miei piedi di scattare in quella direzione, spalancando le vetrate impolverate con un colpo solo.
La pressione del vuoto mi colpì sotto il naso senza alcun preavviso, le orecchie vennero ferite dal grido di uno stormo di uccelli in volto sopra la torre e gli occhi rimasero incantati dalla maestosità di una catena montuosa, giganti a protezione della vallata.
Fu grazie alla traiettoria degli uccelli, che sorvolarono in volo i profili delle antiche mura grigie, delle possenti file di bastioni, delle torri e torrette di controllo, se trovai il coraggio di percorrere tutta la magnificenza del castello in cui mi ero risvegliata, ma ancora non ero in grado di dirmi sveglia o al centro di un sogno medievale.
Di nuovo, il rumore di spade che cozzavano risalì dal campo diversi metri in basso e, inibita dalla vista, mi sporsi dalla torre quasi dimenticandomi dell’altezza.
Oltre la ramificazione di finestre e merlature, al centro di un modesto recinto polveroso, alcune ombre pallide si addestravano con le spade, gridando e grugnendo a ogni fendente che andava a segno o cascava nel vuoto assoluto.
Notai uno, in particolare, che gonfiava le sue spalle erculee e sfidava le punte di ferro dei suoi avversari come un vero sbruffone.
All'improvviso, qualcosa lacerò il buio nella mia testa, mandandomi indietro sul bordo della torre, nell’aria statica e stantia dell’alloggio.
Altaïr.
Mi ricordavo di lui. Cosa voleva dire la sua presenza, lì? Che mi avesse trascinato nel suo covo, tra la sua gente fantasma?
Mi pulii gli angoli della bocca con un gesto della mano, adocchiai sul pavimento un paio di sandali femminili accanto alla cassapanca e mi precipitai a infilarli, portandomi davanti ai chiavistelli della porta pesante con un fastidioso bisogno di risposte.
Mi affacciai nell’androne del castello, scontrandomi subito con l’odore dolciastro d’incenso e quello floreale delle piante dentro i vasi, che facevano a gara con le grandi finestre gotiche sull’altra sponda, arrivando con lo sguardo fino al balcone affacciato sul giardino del castello.
Non mi era ancora chiaro se fossi effettivamente in un’allucinazione, ma per adesso non potevo far altro che indagare con prudenza.
Sgattaiolai lungo i muri, cercando di non far troppo rumore nonostante la scomodità di quei dannati sandali, quando, giunta in prossimità dell’arcata, udii gli schiamazzi di due ragazzini provenire dalla gola del corridoio adiacente.
Feci appena in tempo ad appiattire la schiena contro il muro che vidi i due sparire sui gradoni di marmo delle scale, spingendosi e scherzando fino a quando le loro voci riuscirono a rimanere a galla tra le viuzze della rocca, dunque, tornò di nuovo la calma.
Se quei due scapestrati erano così frettolosi, probabilmente era perché volevano assistere a un po’ di sana violenza, ragion per cui decisi di seguirli giù per le scalinate, seguendo gli echi dei loro schiamazzi come un vecchio marinaio col canto delle sirene.
Grazie a loro, giunsi tra le librerie di un ufficio abbandonato con soli due giri nell’ala ovest, dunque, lasciai che le mie guide ignare mi precedessero verso la piazzola esterna, da dove proveniva un gran baccano di voci e lame.  
Arrivai sotto il portale di pietra appena in tempo per assistere alla clamorosa vittoria di Altaïr sui suoi due avversari.
Altaïr aveva isolato ognuno di loro in un angolo del recinto, per affrontarli singolarmente, e la cosa stava funzionando, perché, se il più giovane col cappuccio grigio era paralizzato vicino alla palizzata, quello più grosso era sfinito e boccheggiava col sudore che grondava copiosamente giù per la mandibola.
Sapeva che avrebbe perso entro tre colpi, per cui, l’omaccione decise di provare un’ultima, disperata difensiva.
Tentò di caricare un montante e Altaïr schivò il colpo spostandosi agilmente a destra, il bestione grugnì rabbioso e cercò di colpirlo il fianco, ma anche quella volta riuscì a parare il colpo prendendolo solo sull’avambraccio corazzato.
Una volta assorbito l’impatto del pugno, senza perdere l’equilibrio perfetto neanche un istante, Altaïr cominciò a sommergere il suo avversario di colpi all’altezza della testa, stordendo le orecchie di quello il tempo sufficiente per lasciarlo inerme a un calcio sulla milza, che lo mandò definitivamente a terra.
Dovevo ammetter d’esser rimasta senza fiato per quell’impressionante successione di agilità e brutalità, ma capii ben presto che l’incontro non era ancora giunto al termine. Difronte la sconfitta del più vecchio, il ragazzo attaccò impavido Altaïr, approfittando della guardia bassa per riprendere del fiato.
Per un istante credetti che non sarebbe riuscito a schivare il colpo e, invece, mi ritrovai di nuovo a sorprendermi quando lo vidi piroettare indietro, ghermendo il braccio steso del rivale e storcendolo fino a costringerlo con le ginocchia a terra.
Le grida agghiaccianti del ragazzo arrivarono fin dentro il castello, ma ,un secondo dopo, vennero zittite del suo brutale avversario, che piantò il gomito sulla sua terza vertebra con precisione pressoché medica.
Il giovane stramazzò sconfitto a terra, il combattimento si concluse e i ragazzini accorsi lì per vedere inneggiarono il vincitore con fischi e applausi.
Altaïr si risollevò sullo sconfitto con un sorriso vittorioso e il mento superbamente puntato in alto, si riempì della piccola gloria di quel momento ma, allo stesso tempo, continuava a cercare con lo sguardo il prossimo rivale, la prossima vittima da umiliare.
Era come un animale addestrato per aizzarsi con il minimo pungolo al fianco.
– Cosa ci fai tu, qui, in questo stato, senza pudore! Avrebbe potuto vederti qualcuno o, peggio, il Gran Maestro!
Qualcuno arrivò correndo alle mie spalle, afferrandomi il polso così rapidamente che rimasi completamente spaesata quando incappai nel volto avvampato del giovane cenerino incontrato in città, scioccato per qualche ragione.
Socchiusi la bocca in un tremito viscerale, sentendo subito i miei sensori logici vacillare sotto la presa di quella mano, così forte e calda, ma non appena ricordai d’aver il polso bloccato esplosi in un ringhio d’avvertimento.
– Non toccarmi con quella mano, lurido omicida! – sbottai, dando uno strattone forte, senza successo.
– Dove pensi di andare in giro, con addosso solo l’intimo? – replicò scioccato lui, arrossendo così violentemente sotto il cappuccio da spingerlo a distogliere lo sguardo e lasciare la presa.
Abbassai lo sguardo con aria scettica. – L’intimo? – ripetei, sbirciando sotto lo scollo della veste e imbarazzandomi quando appresi d’esser totalmente nuda lì sotto.
Lui annuì nervosamente mentre controllava che nessuno sopraggiungesse dalle scale, o fosse affacciato dai piani superiori. – Sì, l’intimo! – insistette – Cos’è, non l’hai mai indossato una sottoveste, prima d’ora? Eppure, l’abito che portavi a Damasco non sembrava così differente!
– Damasco? – sentii le braccia cadermi lungo i fianchi. – Un attimo. Intendi… quella Damasco?Quella, quella?
Lui si voltò a guardarmi e piegò la testa di lato, azzardando un’occhiatina innocente lungo tutta la mia figura pallida, come quella di uno spettro notturno.
Osservandolo adesso, mi resi conto che non era molto più alto di me, ma i muscoli gonfi e la spada al fianco lo facevano sembrare decisamene più minaccioso di ciò che era, forse anche troppo.
– Non credo ci siano altre città in tutta la Terrasanta con quel nome. – osservò ironico lui e stranamente la sua postura si addolcì di poco – Suppongo che tu sia confusa, adesso. Strano, credevo che sapessi almeno dove fossi approdata.
Sollevai gli occhi tra le rughe delle sopracciglia, chiedendo a fil di voce – A… approdata? Ma come ci sono finita qui? Un momento… sono… sono una prigioniera? Dove mi trovo? È… è uno scherzo, vero? Suor Agata vi ha assoldato per metter su questa buffonata, per farmi spaventare?
La sua bocca di dischiuse in un lieve imbarazzo. – Non ho idea di chi sia questa suora, ma hai l’aria spaventata. Tranquilla, qui nessuno ti farà del male, sei al sicuro. Calmati.
Un senso di spossatezza mi ghermì la bocca dello stomaco, presi un intenso respiro, dunque tentai di far un po’ di ordine nel pantano di domande che avevano ostruito i miei pensieri. Ci riuscii.
– Cosa sei, tu? – chiesi.
Lui aprì le braccia sui lati, dicendo – Ciò che vedi. Un giovane uomo incappucciato con un insolito interesse per la fanciulla in azzurro che guizzava via come una biscia nel disordine di un’imboscata.
– Imboscata? Parli di quei poveracci che avete massacrato come porci al mercato?
Lui fece una risata nasale. – Un fragile fiore come te non dovrebbe intromettersi in argomenti così delicati. Piuttosto, cosa sei tu? Sei una popolana? Una viaggiatrice? Una pellegrina? – esitò. – Una puttana?
– Come osi!
– Perdonami. È che i tuoi abiti…sai, non dovresti mostrare le ginocchia in quel modo. La prossima volta, potresti davvero finire nelle gattabuie di qualche città.
Camuffai la stizza con un broncio esemplare. – Adesso basta, ne ho piene le tasche. Sputa il rospo, cappuccio grigio! Dove mi trovo?  Come ci sono finita qui, veramente? Chi diavolo siete, voi?
Il ragazzo rimase fastidiosamente impressionato dalla mia perseveranza. – Ma guarda, sei un tipetto insistente, eh. Non ti hanno insegnato da bambina a non molestare chi ha una spada? O forse, dove sei stata cresciuta tu, ti hanno insegnato a usarla, la spada? – il suo volto s’incupì – Perché non mi dici da quale terra sperduta provieni?
Gettai istintivamente un’occhiata in basso, sull’elsa che sbucava al suo fianco, la sua bocca si tese in un’espressione spazientita e fece per parlare, quando fummo interrotti dal richiamo graffiante di una voce umana.
– Ah, vedo che la nostra giovane ospite è sveglia. Eppure, avevo dato precise disposizioni di non lasciarla girovagare sperduta nel castello… soprattutto con addosso la sola sottoveste.
Sulla cima delle scale, una presenza oscura aveva appena infestato l’atrio, manifestandosi in lunghi abiti neri e con la barba che scendeva candida dal cappuccio, dispiegandosi sul suo petto come un centrino.
Immediatamente, il giovane al mio fianco fu percorso da un timore inspiegabile e subito si affrettò a colpirsi il petto con il pugno, rimanendo con lo sguardo fermo e i piedi uniti per tutto il tempo in cui il vecchio uomo scese le scale.
Procedeva imperioso tra le rifiniture damascate dei suoi abiti, decisamente più preziosi di quelli dei giovani nella fortezza, e, sebbene il suo corpo fosse evidentemente provato dall’età, c’era qualcosa nel suo petto che ostentava un antico passato da guerriero. Si fermò al centro dell’atrio, squadrandoci dall’alto in basso con il suo occhio cieco solcato da una cicatrice violacea.
– Mi è stato detto che parli fluidamente la nostra lingua, quindi, non avrai problemi a capirmi se non indugio troppo sulle parole. – cominciò disponibile.
Deglutii la secchezza alla gola, quindi mi sforzai di sostenere lo sguardo profondo delle sue pupille senza lasciare che il panico mi sopraffacesse.
– Lingua? – mormorai. – Perché, che lingua parlate? In che lingua parlo… io?
Il vecchio sollevò il sopracciglio con scetticismo, dunque posò lo sguardo meditabondo sul ragazzo e quello reagì con un irrigidimento involontario dei muscoli.
– Al Mualim…
– Credevo di averti detto di vegliare su di lei finché non si fosse destata, ragazzo. È evidentemente disorientata.  
Il ragazzo arrossì. – Non potevo immaginare che sarebbe uscita senza neanche coprirsi.
– E questo perché sei stato incauto, Novizio! Ti sei fatto abbindolare dal suo aspetto rassicurante, hai ignorato la mia raccomandazione di tenerla d’occhio, esponendo, in tal modo, le attività dei tuoi confratelli agli occhi curiosi di questa donna!
– Non era mia intenzione ficcanasare in giro, solo ero alla ricerca di un’uscita. – mi affrettai a precisare, seccata.
L’occhio grigio del vecchio si posò ferino sul mio capo, facendo rabbrividire il ragazzo in grigio fino alle ossa. – Mentore, la prego, lasci che la porti via senza punizioni…
La mano rugosa del vecchio si alzò per ridurlo in silenzio e quello ubbidì con un singulto sommesso.
– Mi sono state riferite molte cose su di te, ragazza. – cominciò, abbassando lentamente gli artigli ossuti lungo le sue vesti scure. – Che hai attaccato i miei uomini senza alcun riguardo della loro posizione. Che hai osato sottrare l’arma a un uomo. Che, addirittura, li hai sopraffatti con bassi metodi, evirandoli e ricoprendoli di curcuma, neanche fossero mocciosi alle prime armi! Ebbene, mi chiedo, chi diavolo sarà mai questa donna!
Sia io che il ragazzo vibrammo al trono penetrante della sua voce e mi ci volle un secondo prima di ritrovare il coraggio in fondo alla gola.
– Io voglio solo tornare a casa. Lasciatemi tornare a casa, per favore. – conclusi asciutta, negli occhi nessun accenno di paura, e ciò sembrò solo accentuare l’amarezza del vecchio.
Ora, aveva il volto contorto in una grottesca maschera teatrale.
 – A questo punto, direi che la nostra conversazione è a un punto morto. – borbottò – E, supponendo che neanche tu abbia tempo da perdere, direi che è giunto il momento degli addii.
Con queste parole cupe, l’uomo colpì i suoi abiti per fargli compiere una ruota perfetta e risalì nell’ufficio sovrastante, ma, prima di pestare sotto gli stivali l’ultimo gradino, tornò a guardarci da sopra la spalla destra.  
– Ma, maestro… – obbiettò incerto il ragazzo –… e il deserto?
– Lo attraverserà, così come ha fatto per arrivare qua.
– Però potrebbe perdersi.  
A quel punto, l’uomo sbatté spazientito il palmo sul parapetto massiccio delle scale e, con occhi fiammeggianti, gridò – Ho accettato che tu portassi quella donna in casa mia e, non solo, ho messo a disposizione per lei il mio medico personale giorno e notte, in nome dell’alta considerazione che ho di tuo fratello maggiore! Ma questo castello non è un ospedale, né un luogo per donne, ed è arrivato il tempo di rimettersi a lavoro! Così è deciso e così si farà, senza discussioni!
Non appena il soprabito nero di Al Mualim svanì al piano superiore, l’eco del suo imperativo fu risucchiato dalle mura e sia io che il ragazzo ci riscoprimmo ad aver trattenuto il respiro per tutto il tempo.

*    *    *

Le cantine del castello erano davvero immense, lunghi corridoi avvolti dalla penombra di qualche sporadica lanterna posta tra un’arcata di pietra e l’altra, sotto cui distinsi i profili illuminati di provviste di grano e botti piene del loro contenuto, che, a giudicare dall’odore, non era solo acqua.
Il cappuccio cenerino camminava spedito nel sottosuolo della montagna, mischiando i suoi passi con una perdita da qualche parte in quel posto tetro, ed io lo seguivo a una certa distanza di sicurezza badando, però, a non rimanere mai troppo indietro.
La luce aveva cominciato a diradare la nebbia, finalmente.
Ricordavo il mio nome per intero, il volto di Agata e a voce gentile di mia madre, il giardino fiorito dietro casa, il “Milione” e il fiume di sangue sul prato vergine, ma per il resto solo un’enorme voragine.
– Non volevo che le cose andassero così.– disse d’un tratto.
Alzai lo sguardo con fare distratto. – Scusami?
Il ragazzo davanti a me scrollò le spalle, spiegando – Il maestro è solitamente un uomo paziente, ma capisci bene che non è possibilità di un adepto contraddire il suo volere, per quanto ingiusto sia.  
Sospirai appena. – Non importa. Ciò che desidero, adesso, è tornare da mia madre.
Il giovane sbirciò alle sue spalle con aria incuriosita. – Dalla tua espressione, direi che non sei molto felice di tornare a casa. Devo pensare che ci sia qualcosa lì, che ti ha costretto a fuggire lontano. Allora, è così? No, perdonami, non sono affari miei.
Sorpassammo una catasta di sacchi abbandonati su del fieno e un ratto guizzò veloce da un angolo all’altro prima che la luce della fiaccola lo illuminasse col suo bagliore tremulo, squittendo nel buio fino a quando non ci ebbe superato del tutto e la sua voce divenne solo un cinguettio lontano.  
Non osavo neanche immaginare quanti topi ci fossero lì sotto.
– Come… come ti chiami?– domandò d’un tratto.
Alzai gli occhi di sottecchi, soppesando attentamente la risposta da dare.
– Laura, Maria, Gaia di Chiaravalle. Ma puoi chiamarmi Laura, se ti va.
Si voltò di scatto, la bocca dischiusa in un gemito sorpreso. – Una… una discendente dei Chiaravalle? Qui?
Indietreggiai di un passo, calando un velo perplesso sulla mia fronte.– Per caso ci conosciamo, noi due?
Anche il suo volto si scurì, ma in un pensiero più profondo, impossibile da carpire per colpa dei solchi d’ombra proiettati dalla fiaccola in mano.
– Incredibile… non si sentivano notizie del casato del monaco di Cîteaux da quasi trent’anni. – un lampo balenò sul suo volto, che si trasformò in un amareggiato epilogo. – Ora capisco tutto. Sì, ora… tutto ha un senso.   
Il giovane compì un passo verso di me, gelandomi per un istante il sangue nelle gambe.
Lo fissai lì dove avrebbero dovuto esserci due occhi umani, e una sensazione di pericolo m’assalì.
– Di cosa stai parlando? – ebbi il coraggio di tirare fuori la voce.
– Cos’eri venuta a fare a Damasco, straniera? – sibilò nell’oscurità e compì un altro, impercettibile passo verso di me.
Avvertii le mie budella tremare per la tensione e, improvvisamente, mi fu chiaro che dovevo andarmene via da lì.
Fuggi nelle viscere buie del corridoio a destra.
Non sapevo dove andare, mi sentivo come un topo in trappola. Correvo, sentivo il mio respiro, alle mie spalle solo l’oscurità.
La fiaccola era stata spenta, per rendere più facile la caccia al predatore.
Mi schiantai con la spalla sinistra in una porticina, cascai fuori dalle cantine e, immediatamente, un fendente di luce rossastra mi ferì gli occhi. Sbattei via le lacrime con foga, riconoscendo le feritoie interne di una delle torri di controllo, dunque alzai il naso all’aria, scorgendo un’arcata splendente da dove potevo intravedere il cielo.  
I piedi andavano veloci sui gradoni scivolosi, incuranti della tromba delle scale che s’infossava man mano che mi avvicinavo al bagliore della libertà.
Entrai nel teschio della torre e il mio corpo accaldato trovò subito refrigerio dalla brezza proveniente dalle montagne, ora coronate da un bagliore rossastro, che soffiava attraverso le aperture circostanti.
A coronare il tutto, come spine di una corona, quattro ballatoi si affacciavano sul burrone circostante, scricchiolando e resistendo al vento con temeraria forza.  
Un’ondata gelida sopraggiunse dalle stanze, portando con sé l’immagine di un giovane fantasma silenzioso. Lo sentii arrivare, ma non ebbi il coraggio di voltarmi per la paura.
Si appostò dietro di me, sentivo il suo respiro infrangersi contro i miei capelli.
– Ucciderai anche me… come quelle guardie al mercato? – sussurrai a voce secca.
Lui non rispose subito.
– Forse lo farò, ma non senza averti dato un’onesta possibilità di aver salva la vita. Tu parlerai. E ti difenderai, figlia dei Chiaravalle.
In meno di un secondo, la sua mano spinse sul mio petto e ghermì lo scollo dei vestiti fino a sformarlo, io tentai di gridare ma l’innesco cupo di un meccanismo dal suo polso destro spezzò le mie corde vocali all’istante.
Dal bracciale legato al polso, vidi sotto gli occhi la figura slanciata di una lama raffinata e la sua punta, pressata contro la mia giugulare con una delicatezza quasi surreale se paragonato al fervore scoppiettante nella vena sul collo del giovane.
Il suo cappuccio mi guardò diritto negli occhi, sbarrati in un baratro senza fondo, e immediatamente la sua bocca manifestò disprezzo.
– Che cosa sta succedendo? – fu la sua prima domanda. – Cosa ci fa una dannata Chiaravalle qui, in Terra Santa? Come avete osato presentarvi di nuovo ai nostri mercati, nelle nostre città? Cos’è, avete trovato di nuovo terra dove affondare le vostre radici velenose?  
Sebbene la paura mi avesse sottratto la voce, l’orgoglio del sangue fu più forte di ogni cosa e dimenticai per un istante di avere una lama alla gola. – C… come ti permetti? La mia famiglia discende da un uomo buono, di chiesa, Bernardo di Chiaravalle! Chi ti credi d’essere, per infangarci così?  
– Ma guarda, hai l’indole tipica di un dannato Templare, eh. – schioccò la lingua con aria annoiata.
A quel punto, richiamò il pugnale nel polso e lasciò che il mio corpo potesse tornare a muoversi libero. Subito strinsi la gola per assicurarmi che non ci fossero tagli e sospirai flebile nel sentire che fosse tutto intatto, ma potevo ancora avvertire quella gelida sensazione di morte appuntata al collo.
– Di cosa stai parlando? – incalzai con tutto il coraggio che avevo. – Cosa diavolo hai contro la mia famiglia, si può sapere?
Lui rise amareggiato. – Dì un po’, hai almeno la benché minima idea di dove ti trovi, Laura di Chiaravalle? O hanno una così bassa considerazione della tua vita, quelli del tuo Ordine, da mandarti nella tana del nemico senza informarti del pericolo? Scommetto che ti hanno imbarcato nella prima nave per Damasco senza neanche una valida spiegazione. Sbaglio?
Quelle ultime parole contribuirono a imprimermi un persistente, insostenibile senso di nausea. Fu come avere il presentimento di una tempesta, ancora troppo lontana per esser avvista, ma l’elettricità era già nell’aria e si sentiva a pelle.
Ovviamente, ignorai il presagio come si farebbe con una mosca fastidiosa.
– Chiudi quella dannata bocca! Non osare insinuare cattiverie sulla mia famiglia, noi non abbiamo niente da nascondere, loro… loro non mi nascondono niente! Niente, hai capito? E ora, col tuo permesso, me ne torno a casa, e non me ne frega dei vostri stupidi protocolli per la sicurezza, io ci torno adesso!
Detto ciò, diedi le spalle al ragazzo e mi tesi in direzione delle scale.
– “Nulla è reale, tutto è lecito”. Sono le parole che hai pronunciato al mercato, o sbaglio?
Indugiai sui piedi per pochi secondi, dunque marciai verso di lui con gli occhi fissi su quell’inquietante, improvviso pensiero che aveva preso a battere in un angolo recondito della mia testa.
– Come conosci queste parole…? – sussurrai.
– La domanda è… come le conosci tu, Laura di Chiaravalle.
Lo fissai.
Poi, mi diressi a grandi falcate verso di lui, gli occhi spalancati sul suo volto celato per metà, il cuore che infuriava in petto, il mondo aveva preso a vorticarmi improvvisamente attorno.
Allungai la mano verso la sua testa quand’ero ancora lontana, un ultimo passo e cappuccio grigio mi bloccò per il polso, costringendomi a fermarmi a pochi centimetri dal tessuto sulla sua testa.
– Tutto questo… non è reale.  
Sospinsi un po’ più in là le dita, riuscendo ad acciuffare il cappuccio ruvido.
Lo calai sulle sue spalle e capii che la mano del ragazzo non oppose resistenza, invece, mi accompagnò in quella scoperta.
–È… solo delirio.
Un paio di occhi azzurri.
In quell’istante, la nebbia si diramò dai miei occhi, fui travolta dalla conferma di una verità inaspettatamente ovvia e sentii il mondo capovolgersi sotto i miei piedi, come se la realtà fosse oltre il filo d’acqua su cui ero affacciata io.
Ero in un’allucinazione.





Angolo autrice:

Ben ritrovati a tutti! Allora, avrete di certo notato l’inserimento di una storia famigliare per Laura, con un capostipite molto famoso, Bernardo di Chiaravalle. Tanto per essere chiari, io sono come la Ubisoft. Qualsiasi manipolazione del personaggio storico, aldilà del mio credo personale, è mirata a uno scopo prettamente creativo e non c’è intento informativo, perché, chiaramente, tutto cadrà casualmente a fagiolo per lo sviluppo delle nostre vicende.
Per chi ha letto la prima versione, potreste trovare il Kadar di questo capitolo un po’ brusco, sostanzialmente perché non si fidi della giovane forestiera bianca, ma non disperatevi, il suo carattere affabile tornerà presto alla carica. Ne approfitto per ribadire che la storia non è cambiata, solo… determinati avvenimenti avverranno in maniera più “casuale”. Con questo, vi saluto e al prossimo aggiornamento!

Baci, Lusivia.

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Capitolo 3
*** La Vecchia Regina Templare ***


                                                       Image and video hosting by TinyPic
                                                              

                                
                                                                     Capitolo 3
 
                                           La Vecchia Regina Templare





– Mamma, mamma, mi racconti di nuovo la favola dei Sette Fratelli?
– Cosa, di nuovo?… Laura, per favore, non saltare così sul letto, ti farai male! Mi hai sentito? Non salire lì, accidenti!
– Perché?
– Perché lo dico io! Laura Maria Gaia di Chiaravalle, scendi immediatamente da lì!
In bilico sull’intarsio della colonna in legno di noce, volsi le pupille brune oltre la sottile spalla ingombrata dai tessuti plissettati della camicia da notte azzurro- polvere, fissando la donna seduta sul bordo del letto un po’ contrariata.
Col portamento di una ballerina appena adagiata in posizione di riposo, una gamba distesa sul materasso e l’altra piegata internamente sulla coscia, Erica Temperance di Chiaravalle era radiosa nel suo pigiama di seta azzurro coi ricami argentati e aveva raccolto i suoi dorati capelli in una treccia che era completamente priva d’errore nell’elaborazione, una scultura a tutti gli effetti.  
Per contro, la sua adorata figlioletta di sette anni pareva, più che altro, una scimmietta arruffata con grosse guanciotte color rosso fuoco, un bruno caschetto sgangherato sulla testa e un’apertura fischiettante lasciata dai due incisivi da latte qualche settimana fa, tutta avviluppata sulla colonna con le unghie e le dita nude.
– Forza, – ribadì la donna – scendi da lì.
– Se scendo da qui, mi racconti la storia, mamma? – avanzai di nuovo la mia richiesta tediante.
Erica abbandonò pesantemente la testa in avanti, sbuffando via tutta la sua contrarietà per non esplodere in una reazione poco gradevole.
– Va bene. – drizzò il capo – Se ti racconto la tua dannata storiella, andrai a dormire senza fare capricci, che la mamma domani mattina ha da fare? Ti prego.
Annuii con vigore e dispiegai i denti in un sorriso sgangherato.
– D’accordo, allora. Fammi spazio, scimmietta.   
Improvvisamente buona e ubbidiente, saltai giù dalla colonna e con tre balzi fui sotto le lenzuola di flanella ricamate, dunque lei si sdraiò al mio fianco, e con mollezza nel braccio, si apprestò a rimboccarmi la piega sul corpicino, guardandomi attraverso la coltre di ciglia con un sorriso negli occhi.
Lasciò che i primi minuti scorressero placidi. Poi, cominciò a narrare con voce calda e leggera come il fumo.
– Tanto, tanto tempo fa, una nobile vergine venne data in sposa a un virtuoso signore della Borgogna e la loro unione fu gradita al Cielo e benedetta col dono di sette figli virtuosissimi. Il paziente Guido, il giusto Gerardo, il saggio Bernardo, il colto Andrea, l’ambizioso Bartolomeo, l’impavido Nivardo, la gentile e dolce Umbelina erano i fanciulli più nobili e caritatevoli mai visti alla Fontaine-lès-Dijon. Tra i sette, però, Bernardo spiccava per le infinite qualità e l’instancabile devozione all’Altissimo, che lo volle prima monaco cistercense, poi fondatore dell’abbazia di Clairvaux. Accadde poi che, all’indomani del suo ventinovesimo compleanno, il buon Bernardo avesse un tremendo incubo notturno in cui un pellegrino era attaccato alle porte del Santo Sepolcro da tre fiere feroci, due nere e una rossa, con l’intento di divorarlo. Un attimo prima di finire sotto quelle tremende fauci, un baleno di luce purissima arrivò galoppando dalle spalle del pellegrino e tra lampi e clangori di ferro riuscì a disperdere le bestie infernali. Dietro quella grande luce, Bernardo vide un monaco e un cavaliere coesistere su di un corpo solo, due teste distinte, un rosario, una spada celeste. Questi furono gli incubi del monaco per cento notti. Accadde poi che un giorno arrivasse all’Abbazia un barone dalla foresta orientale con tutto il seguito della sua corte, che chiese di parlare con Bernardo, sicché, quando i due s’incontrarono, il monaco lo riconobbe e lo accolse con grande gioia. Il barone, che Hugues de Payns, era, infatti, un caro amico di Bernardo e un uomo molto pio, per questo, quando raccontò del sogno del cavaliere a due teste, il monaco non ebbe più alcun dubbio: il loro ricongiungimento non era stato un caso, ma un disegno divino.
Erica s’interruppe perché volle controllare il mio livello d’attenzione e mi trovò con gli occhietti bruni spalancati e ardenti di trepidante curiosità.
– Continua, per favore. – la esortai a voce piccina.
– Beh, il resto lo sai, Laura. Bernardo e de Payns andarono in Terrasanta e nel 1119 fondarono l’Ordine dei Cavalieri templari, il primo, come Consigliere e guida, il secondo, come Gran Maestro. E con questo, ho concluso la storia di Bernardo di Chiaravalle.
Quasi sospirando di sollievo, Erica provò a sollevarsi dal letto facendo leva sui gomiti, ma io la bloccai per la manica e con sguardo contrariato le imposi fermamente di non lasciare quel letto.
– E il resto della storia? Dov’è? Io voglio sentirla.
– Ma Laura, la conosci già… – osservò.
– Non importa. – le feci un sorriso – Per favore, raccontami il finale. Poi vado a dormire. Te lo prometto.
Erica non parve molto convinta, ma alla fine fu persuasa dalla mia irresistibile malia, e mi accontentò. – … E va bene.
Si sdraiò nuovamente e questa volta cominciò a carezzarmi i capelli, la sensazione delle sue dita era rilassante e il lieve profumo di pepe rosa impregnato sul colletto del pigiama quasi stordente. Era come esser vittima di una trance, ma era dolce e m’invogliava a scivolare nel sonno senza troppe resistenze.  
– Pochi anni dopo il suo più grande operato al servizio del Signore, il Consigliere Bernardo ricevette un’altra visita notturna. – Erica riprese il ritmo naturale del racconto. – Un angelo in abiti di fanciullo, che gli predisse il volere dell’Altissimo di donare al monaco sette figli propri, che non solo avrebbero comparato il padre nelle qualità e nella grandezza morale, bensì avrebbero dimostrato di non avere eguali in tutta la terra. Accadde come predetto dall’angelo. Eh, altroché se i sette dimostrarono sin da tenera età le loro sensazionali attitudini. Quando poi morì il loro santo padre, Giustino, Prudentia, Furio, Fidelio, Temperantia, Carite ed Elpidio, questi erano i nomi dei figli, decisero di prestare servizio alla Causa di Bernardo e in pochi anni furono addestrati a servire l’Ordine Templare.
– Ed erano… bravi cavalieri? – mugugnai a occhi chiusi.  
– Sì, molto. Erano rispettati e ammirati da tutti, nessuno escluso, soprattutto Giustino, che era il più probo dei fratelli, sarebbe diventato Gran Maestro. Insieme, i sette costituivano il casato più antico di tutti. Insieme, erano un’unica entità antica e inarrestabile. Insieme, i Sette Fratelli erano la “ Vecchia Regina Templare”. La prima famiglia. La più sacra e potente mai esistita nella storia dell’Ordine. Questo, fino al 1161.
Poi, la donna si tese verso il comodino e spense la luce giallastra del lume. Calò l’oscurità attorno a noi, pesava come fosse cemento armato e schiacciava e comprimeva quel poco di lucidità che mi rimaneva, ma non per questo dimenticai.
– Mamma… – tentai di fermarla nonostante fossi ormai in uno stato di dormiveglia. – …cosa accadde in quell’anno, mamma…?
Erica inspirò in profondità, lo sentii nell’aria.
– Accadde, Laura, che in quell’anno furono traditi da coloro che chiamavano confratelli.

*       *        *

Riemersi da quell’elaborazione onirica a occhi aperti con un singulto improvviso, e proprio come il giorno fa riemergere la nave dai vapori del mare e ne disperde i fantasmi scricchiolanti, cominciai a scorgere un volto dall’altra parte di quel sogno.
Scorsi con mia assoluta consapevolezza il volto di un giovane uomo. Mi stava parlando.
Se prestavo attenzione, la sua voce era confusa, sfumata da un profondo turbamento che perlopiù passò in secondo piano quando il mio occhio silenzioso ricadde sulla fila di perle tonde e bianche che teneva tra l’arco prominente di un paio di labbra, così squisite che avrei detto appartenere a una fanciulla.
Poi notai che quel ragazzo mi stava anche tenendo per le spalle e che le sue mani erano callose ma caute al tempo stesso, la piattaforma attraverso cui riuscivo a percepire la tensione sbalorditiva dei suoi tendini duri e ramificati alla perfezione all’interno delle sue braccia.
Che strano. Un fantasma non dovrebbe avere corporeità.
Eppure, lui l’aveva. Avvertivo la tangibilità del suo nervosismo nel modo in cui teneva la mascella tirata, attraverso i sussulti nervosi delle ciocche corvine, richiuse a spirale lungo il suo volto squadrato e perfettamente levigato dalla luce del tramonto, e fu allora che la mia mente si frantumò su se stessa.  
Lasciai andare un singulto strozzato.
– Tu… sei vivo. – sussurrai e i miei occhi erano sgranati sino a luccicare di dolore, il cuore batteva, la gola era completamente seccata.
Il bel giovane, che non aveva smesso per un solo istante di tenermi per le spalle e guardarmi diritto negli occhi, si ammutolì all’istante e con fare confuso piegò la testa su di un lato, scrutandomi interrogativo per tutto il tempo in cui il mio colorito cambiò da bianco gesso a rosso acceso, e di nuovo, dal purpureo sconcerto al terrore cadaverico.
Poi, come presa da un raptus folleggiante, ingoiai un gridolino eccitato e mi lanciai a far cozzare i nostri corpi in un abbraccio che tolse a entrambi il respiro e ci riempì il petto di una guizzante carica elettrostatica che ci trapassò le costole e finì diritta a spezzarci il cuore.  
– Perdiana vergine cacciatrice! – esclamai. – Non posso crederci, non posso crederci, sei vivo!
– Mi stai strangolando! – rantolò basso.
– Non dovresti essere vivo! Ero… sicura, che tu fossi morto, Kadar! E per tutto questo tempo, ho accettato la tua scomparsa senza sapere che eri al sicuro qui, e che stavi bene!
Lui fece una tosse secca proveniente dalla trachea. – Un momento soltanto, Chiaravalle. – provò a infilare una mano tra di noi e spingermi via. – Ma che accidenti vai blaterando?
Col cuore in ardore e gli occhi colmi di felicità elettrostatica, mi scostai quel tanto che bastava per guardarlo in viso senza che le braccia si slegassero dalla sua vita, inspessita dalla corazza dell’armatura, e incrociando il suo sguardo oltre la coltre di ciglia nere, ebbi l’impressione di fare un tuffo nelle profondità di un lago cristallizzato.
E il gelo mi penetrò in petto, che si strinse sino a richiudere la gabbia toracica sopra il mio fragile cuore di ghiaccio. – Tu… brutto farabutto bastardo!
Con uno slancio inaspettato del braccio, tirai la mano oltre la mia testa e subito caricai un ceffone che non solo colpì in pieno volto Kadar, ma lo ribaltò indietro di almeno due passi brevi, lasciandolo totalmente ammutolito nel suo rossore improvviso lungo tutto il giovane volto.
– Questo è per avermi fatto credere nella tua morte! – giustificai sudata e stizzita. – Maledizione, Kadar, come hai potuto? Per tutti questi anni, i sensi di colpa mi hanno lacerato l’anima, ed è stato orribile, maledizione, orribile!  
Lo spinsi e lui non reagì, ma rimase a capo chino sul pavimento e con i riccioli neri penzoloni sul volto. Lo guardai e la sua passività mi montò ancora più rabbia.
– Tu… hai idea di quanto sia stato difficile, mh? Di quanto io…abbia sofferto…se solo avessi saputo che eri qui. Se solo tu non ti fossi nascosto, come se fosse solo un dannato gioco. Kadar. Kadar, guardami! Perché non dici nulla, perché ti ostini nel tuo silenzio?
Un altro disperato spintone e come prima ottenni la stessa pacata reazione, ad eccezione di una vena sul collo, che si era ingrossata vistosamente nel rimuginare il nervosismo.
– Kadar, accidenti, parlami! Parlami, e dimmi cosa diavolo sta succedendo! Ti prego, io… sento che sto per impazzire!
Ma lui non rispose. Semplicemente, si limitò a drizzare di poco lo sguardo e scrutarmi con i capelli sulla fronte e lo sguardo denso di pensieri, mentre io rimasi fuori, stremata e afflitta nei miei tremori convulsi lungo le dita delle mani e nel petto che si alzava e abbassava in respiri svelti.
– I miei complimenti. Davvero. Molto brava. – esordì così.
Il colpo mi mandò indietro di mezzo passo. – Che cosa hai detto? – sibilai.
Improvvisamente, il giovane si trasformò sotto i miei occhi in un mastodontico gigante tutto muscoli e tendini in titanica tensione, o forse erano solo gli effetti del tramonto di sangue alle sue spalle, che gli evidenziava i muscoli sino all’inverosimile, ma l’effetto fu davvero scoraggiante e mi spensero il coraggio in un istante.
– Hai messo su una bella sceneggiata, davvero, per poco non mi avevi convinto! – sbottò mentre si tendeva minaccioso.  
– Cosa? Kadar, ma che ti è preso? – mi ritrassi sempre più spaventata.
Di punto in bianco, lui si slanciò verso il mio braccio e afferrò il polso, attirandomi in uno strattone contro il suo grande petto febbricitante.
– Scommetto che sarai contenta, adesso. – soffiò sul mio volto. – Adesso conosci la strada per arrivare al Gran Maestro, sapete come colpirlo, e questo stupido idiota col cappuccio che ti ha salvato a Damasco, non ti serve più.  
– Ma cosa dici? – strattonai decisa col polso. – Io non ti ho ingannato!
Kadar fece un sorriso impietosito e lentamente ricacciò un ciuffo lungo la mia guancia sinistra, accompagnandolo nella sua naturale linea sinuosa sin sotto la mandibola. Arrossii vistosamente, ma attribuii l’azione inopportuna del mio corpo all’ira che incalzava dalle viscere.
– Sono sicuro che sarebbero stati orgogliosi del tuo risultato, i tuoi signori, piccola Chiaravalle.Peccato, però, che non uscirai più da qua per riferire.
Un istante dopo, mi ritrovai a piroettare su me stessa e a esser costretta di spalle con i polsi stretti dietro la schiena, tuttavia, quella posizione causò presto la sofferenza dei miei tendini tirati, che cominciarono a opporsi e a lottare rabbiosamente per ritornale nella loro naturale dimensione.  
In verità, la lotta fu breve, perché Kadar perse subito la pazienza e, per farmi capire che non scherzava, cacciò fuori il suo pugnale a molla e me lo appuntò nel solco della schiena, scatenando una vera e propria tempesta elettrostatica che incendiò i miei nervi spinali e li costrinse a uno slancio, un grido fisico che però venne subito schiacciato sotto il peso di una grande mano olivastra.
– Calma, – sussurrò – non ti farò del male, basta che ti comporti bene…
Non concluse la frase, perché il dolore dei miei incisivi affondati nella sua carne lo costrinsero subito ad allontanare la mano e a guaire di dolore.     
– Cazzo…!
– Aiuto, qualcuno mi aiuti! Kadar è impazzito!
– Accidenti a te, Chiaravalle!
– Aiuto!      
Mi zittì con uno strattone deciso. – Basta, tanto a nessuno qui interessa di una Templare, lo vuoi capire o no?
Riuscii a malapena a rivolgergli un’occhiata alle mie spalle, gli occhi erano iniettati di puro panico elettrostatico. Ma cosa?  
– Io non sono una Templare!  
– Certo. Come no.
– Kadar, ti prego, devi credermi! C’è stato un enorme sbaglio, lascia che ti spieghi!
Lui non disse una sola parola. Invece, rafforzò la presa quel tanto che bastava per non farmi fuggire e con spintarelle decise cominciò a dirigermi verso le scale interne della torretta. L’effetto del tramonto proiettato lungo le pietre era caleidoscopico, le feritoie illuminavano le scale in squarci di luce rossastra e l’aria risaliva dal basso verso l’alto solo per rimanere incastrata sotto il tetto, producendo un rombo tetro che faceva vibrare tutta la torre come se fosse sul punto di crollarci addosso.
Con l’invito della lama, Kadar mi costrinse a iniziare la discesa. Di nuovo, la nube elettrostatica s’insidiò tra le mie vertebre, ma quella volta, fu la miccia che riaccese il mio ardore combattivo e mi fece piantare i talloni a terra.
– Fermati, fermati, fermati! – sbottai.
Lui obbedì un po’ di malavoglia.
– Che cosa ti prende adesso, eh, Templare? Devi liberarti la vescica?
– No, no, no! Ascoltami, io non sono una Templare, accidenti, non so neanche perché tu insita tanto con quest’assurda storia! Io non… non dovrei neanche essere qui!
Lo sentii chioccare la lingua sotto il palato. – Ma per favore.
Allora provò a farmi riprendere la marcia, ma io mi opposi a costo d’infilarmi l’intera lama nella schiena, riuscendo, con notevole sforzo dei tendini, a scorgere il volto annoiato di Kadar oltre la mia spalla sinistra.
Un pensiero mi trapassò la mente, lasciandomi a dir poco senza parole.
– È perché sono una Chiaravalle, che mi tratti così? – domandai – È per questo, che… credi che io sia una Templare? E per questo che ti comporti da folle?
Un sorriso aguzzo fiorì tra le sue belle labbra. – Esattamente. Perché sei una Chiaravalle, e tutti qui conoscono la storia dei Chiaravalle. Tutti conoscono la Vecchia Regina Templare e di ciò che le accadde. – Rifletté. – Fu sulla strada per il Regno? O al mercato di Gerusalemme?
Il sangue mi si raggelò nelle vene. – Cosa…?
– Ah, ora ricordo. – finse di sorprendersi. – Fu al mercato di Gerusalemme. Nel 1161, esattamente trent’anni fa da adesso. Quel giorno fu disastroso per la tua famiglia, eh. Il maggiore dei sette, condotto dai suoi stessi confratelli in un’imboscata fatale. Quanto tempo ci misero gli altri, a morire ammazzati? Cinque, sei giorni?
Non provai neanche a rispondergli. La Vecchia Regina Templare, i Sette Fratelli, l’imboscata al mercato. Era tutto come aveva sempre raccontato mia madre.
Improvvisamente, mi ritrovai bloccata tra i venti impazziti che mi frullavano in testa, che mi rimescolarono e rimescolarono ancora, ininterrottamente, fino a farmi tornare all’alba della mia esistenza.
Io avevo sempre saputo.
Che i Chiaravalle erano stati cavalieri del Tempio, Erica non me l’aveva mai tenuto nascosto, ma aveva sempre raccontato le cose come stavano un millennio fa.
I Chiaravalle erano stati la più grande famiglia Templare che sia mai esistita. E questa, era un’altra cosa con cui non avrei mai retto il confronto, né eguagliato nelle aspettative.
– Come fai a sapere tutte queste cose, Kadar? – la mia voce fu un sussurro scioccato, sul mio viso era evidente la confusione che mi stava rimescolando l’anima in quel momento.
Lui drizzò il busto con serena indifferenza, lo sguardo era freddo come il ghiaccio. – Non preoccuparti di questo. Piuttosto, pensa a cosa farai quando sarai di nuovo al cospetto di Al Mualim.

*           *           *

Tornammo tra le mura del casello in totale silenzio, e appena in tempo per l’ora di cena.
I corridoi, resi caldi e accoglienti dai tappeti damascati appesi come quadri, profumavano di spezie e carne arrosto sulla legna delle grandi fornaci attive, i draghi di pietra e legno che tenevano in vita il castello con i loro respiri infuocati e le luci, che di notte illuminavano l’intero castello sino a renderlo visibile sulle montagne fumose.  
Kadar aveva deciso di consegnarmi al suo Gran Maestro, perché era convinto che, essendo io una Chiaravalle, fossi ancora al servizio dell’Ordine dei Templari, proprio come un tempo lo furono i miei illustri antenati. Ma era il passato. I Chiaravalle non erano più cavalieri da un millennio e il nostro titolo di Vecchia Regina Templare era decaduto da così tanto tempo che era impossibile dare una data. Allora, perché Kadar era così convinto della mia colpevolezza?
Un momento.
Perdiana.
Damasco. A Damasco avevo incontrato dei cavalieri. Fratelli del Tempio in pattuglia.
No, non… non poteva essere. Dovevo essermi confusa, di certo.
Però.
E se non mi fossi sbagliata? E se, partendo da trent’anni fa, come diceva Kadar, io mi ritrovassi ora a vivere l’anno… 1191? Allora, avrebbe avuto ragione a credere che fossi una Templare, perché la Terrasanta era nel pieno della Terza Crociata, in quell’anno.
No. Ma come…?
Ero finita nella… Terza Crociata?
Perdiana. Che accidenti stava succedendo?
– “Nulla è reale, tutto è lecito”. Hai detto proprio questo, a Damasco. Lo ricordo molto bene.
Senza rallentare il passo di marcia, mi rigirai un po’ sul fianco sinistro, incrociando lo sguardo buio di Kadar che vegliava sulla mia nuca. Il corridoio in cui stavamo procedendo era quasi in penombra e la fila di vetrate a destra creavano mutevoli giochi di luce sui nostri corpi, distanziati da una lama e mezzo polso.
– Kadar…
– Sai perché ti ho portato qui, dopo che cademmo nel canale, Laura di Chiaravalle? – domandò a bruciapelo.
Feci cenno di no col capo.
– Perché mi ero ripromesso che, al tuo risveglio, ti avrei domandato il motivo per cui conoscevi il nostro Credo. Quello che sembri conoscere tanto bene, e per cui ho pazientato oltre il tempo concessomi.
Silenzio. – Il vostro Credo? Di… di cosa stai parlando, adesso?
All’improvviso, Kadar mi spinse contro le vetrate e l’impatto del mio corpo le fece vibrare pericolosamente su di noi, ma questo passò in secondo quando, riaprendo gli occhi per riprendermi dallo spavento, mi ritrovai col pugnale a molla premuto nella pancia.
– Ti do una sola possibilità, quindi vedi di pensare attentamente alla risposta, Laura di Chiaravalle.Allora, chi ti manda, veramente?
Pose quella domanda preciso e deciso, dalla sua espressione s’intuiva che non scherzava, ma proprio come prima, la paura mi aveva totalmente pietrificata nel mio corpo, rendendomi impossibile evitare la sua reazione contrariata.
Infatti, Kadar aggrottò subito la fronte e, seppur a malincuore, accennò a una lieve pressione sulla pancia, un avvertimento, chiaramente, che però riuscì a provocarmi i brividi incontrollati di un’impennata sulle montagne russe, con conseguente discesa in corsa e ginocchia molli come fatte di creta sciolta.
– Te lo ripeto di nuovo. – l’espressione del ragazzo era tesissima – Chi ti ha mandato da me, Laura di Chiaravalle, ah? Come fai a conoscere il mio nome? Chi ti ha detto il Credo? Un amico? Un traditore, una spia, i Saraceni, chi?
Sebbene ancora sotto shock, riuscii a focalizzare nella nebbia un pensiero ben preciso e che si rivelò decisivo in quella situazione. Kadar era completamente impazzito, o, per lo meno, non si ricordava più di me.  
Non sapevo cosa accidenti stesse succedendo, né perché mi trovassi nella Terza Crociata, né la causa oscura per cui la pressione della lama nello stomaco mi provocasse i sudori e i conati di vomito, ma di una cosa ero certa. Non era la solita allucinazione. Quella volta, era vera, e riusciva a farmi sentire delle cose come se fossero vive sulla mia pelle.
Ad esempio, l’imminente sentore che stesse per succedere qualcosa di molto brutto, se non mi affrettavo ad assecondare quella situazione e, soprattutto, Kadar.
– Se… se te lo dicessi, tu non mi crederesti mai. – biascicai incerta, completamente in balia dell’evolversi improvvisato degli eventi.
Subito l’attenzione di Kadar si riaccese, e disse – Avanti, allora, ti ascolto.   
– M-mia madre. Quand’ero piccola, lei… lei mi diceva questa frase per farmi passare i brutti sogni, ecco. So che è stupido, ma funzionava.
– … Mi stai forse prendendo in giro?
– Cosa?
– Dico, ti sembra che io abbia la faccia di un cretino, Laura di Chiaravalle?
Indugiai troppo sulla risposta e lui se ne accorse. Tuttavia, fu abbastanza abile a nascondere l’imbarazzo e montò, invece, un’aria di finta sufficienza dietro quel rossore verginale sulle gote.
– È impossibile che tua madre sapesse del nostro Credo. – biasciò secco. – Esso è il principio sacrale su cui si fonda l’intero Ordine e il suo agire, viene tramandato al momento dell’iniziazione e nessuno,  eccetto il Gran Maestro e l’Iniziato, è autorizzato a presenziare in quel momento. Quindi la tua affermazione è semplicemente ridicola.  
– Invece ti ho detto la verità.
– Non è vero. Sei una Templare, è naturale che tu menta.
– Allora, se sei così sicuro, perché hai scelto la via più lunga per riportarmi al tuo Gran Maestro?
La verità, ben studiata durante il cammino nella fortezza, lo colpì con la forza di una raffica di vetri appuntiti.
Vittima della confusione e di un angosciante dubbio, il giovane dal cappuccio cenerino mi afferrò con forza le spalle e fece compiere al mio corpo un breve volteggio lattescente, che avrebbe dato al sensazione di una danza, se solo non mi fosse ritrovata a esser lanciata contro la vetrata a destra. Le finestre tremarono spaventosamente, il fiato mi si spezzò in gola e nel drizzare lo sguardo mi ritrovai il volto di Kadar vicinissimo, i miei occhi bruni rimandavano il riflesso del mio viso nei suoi, duri come il ferro.
– Tu…– sussurrò. – Tu stai giocando col fuoco.
– Io non ho paura di ciò che mi farai.
– Stolta.
Gli strinsi forte l’avambraccio, ribadendo sicura – Io non ho paura. Kadar, guardami, non ho paura, perché so che presto finirà ogni cosa. Come sempre. Come deve.
Percepii le sue irridi dilatarsi per la paura, ma forse, era il riflesso del mio viso.
– Laura. Laura… di Chiaravalle. – pronunciò il mio nome come se d’un tratto si fosse ricordato di me, e questo, seppur debolmente, mi diede una nuova speranza.
– Kadar. – mi sporsi verso di lui, la mano sinistra tesa verso la sua guancia.
La lama che pressò pericolosamente sul mio stomaco. Impietrita nel colorito, tornai lentamente contro le vetrate.
– Kadar…?
– Non voglio sapere chi tu sia. – mormorò deciso. – Non voglio sapere perché conosci il mio nome. Non voglio sapere perché… guardarti mi provochi tanto turbamento. Non voglio… fidarmi di una Templare. Ciò che sto per fare, lo faccio per proteggere i miei fratelli.
Sentii la lama spostarsi sulla mia gola, di lungo sul filo tagliente.
Non ho paura, non ho paura. Ma comincia a far male, la pressione…  
No, no, ciò che non prendi sul serio, non può farti del male, Laura. Non è reale, non è reale, neanche questo dolore, questa sensazione terrificante...
Un rivolo di sangue scivolò sull’orlo del vestito immacolato. Un intenso bruciore. Un istinto. Un’idea. Una speranza. L’unica.
La bugia che mi avrebbe salvato da un destino ben peggiore della morte.
– Sono tua sorella, Kadar!
A quel punto, la pressione alla mia gola cessò bruscamente. Scivolai dalle inferriate col fiato corto e prosciugata nelle forze, il sangue mi pompava come un treno nelle vene e le dita dei piedi e delle mani scottavano, e seppur titubante m’imposi di guardare in faccia Kadar.     
Era visibilmente sconvolto, stava tremando come in preda alle febbri e il suo viso era pallido come un lenzuolo, ma i suoi occhi, quelli erano vigili e inchiodati su di me, immobili, fantasmi.      
Mio dio.
Che cosa avevo fatto?

*     *    *

Uno spicchio di luce lacerò il velo d’oscurità e penetrò attraverso le membra sottili delle mie palpebre, risvegliando, poco a poco, tutti i miei sensi principali.
Il naso infreddolito captò l’odore inconfondibile del legno e quello più difficile della paglia, un gran bel covone, a giudicare dall’intensità del profumo, e il tatto mi suggerì che era molto vicino, direi impastato sulla mia guancia con la saliva di un’intera nottata.  
Poi, le orecchie cominciarono a captare scricchiolii e fruscii distanti, mentre le membra si risvegliavano e riprendevano le loro naturale vibrazioni, tendendosi e stirandosi lentamente sotto i venticelli caldi che entravano dalla finestra.
Quella domenica mattina, notai subito, era particolarmente calda e umida abbastanza da incollarmi i vestiti addosso, ma quello era l’ultimo dei miei problemi. Infatti, l’abitudine mi aveva insegnato che, se c’era una finestra aperta di domenica mattina, Agata doveva essere già nei paraggi a sbrigare le faccende di casa.
Così, iniziai il mio piagnisteo per convincerla a lasciarmi riposare un altro po’.
– Agata, ti prego, ho avuto una nottata agitata e sono davvero decisa a non svegliarmi prima dell’ora di cena. Lasciami dormire…
– Cena? Ma dove accidenti credi di essere, in un ostello di Gerusalemme?
Una voce cavernosa, calcata nello sforzo di camuffare un forte accento inglese. Una voce che, decisamente, non poteva esser di Agata.
Colta nella confusione del primo risveglio, non mi resi conto d’esser sdraiata su un covone di fieno e finii col cascare sul terriccio cosparso da pagliuzze dorate, impedita dalla sottana arrotolatosi tra le mie ginocchia. Col fiato grosso per la sorpresa, andai subito a sbrogliare il groviglio che mi bloccava a terra, quando il nitrito di un cavallo riecheggiò nell’aria e fu allora, mentre drizzavo gli occhi confusi verso l’entrata, che incrociai lo sguardo burbero di un omaccione con una folta barba bruna e la stazza colossale di un lottatore.
Indecisa su come reagire dinanzi a quel perfetto sconosciuto, dovetti passare in rassegna i suoi indumenti, scarselle di pelle in vita e stivaloni consunti, per stabilire che egli era un mastro fabbro, o più probabilmente uno stalliere, ma non ebbi tempo di pensare ad altro, che quello si avvicinò con tre falcate ampie e si chinò a riporre qualcosa sul pavimento.  
Abbassando gli occhi, vidi che si trattava di una tavoletta di legno con sopra un po’ di pane speziato e un grappolo d’uva verde e turgida d’acqua zuccherina.
– Spero che tu abbia fame, ragazzina, perché Kadar si è raccomandato calorosamente che tu divorassi fino all’ultimo boccone. – commentò mentre si rimetteva in piedi.   
Guardai incerta l’offerta di cibo per un altro po’, poi rivolsi l’attenzione sull’uomo e, oltrepassandolo, verso il corridoio alle sue spalle, illuminato dai fasci caldi del primo giorno, e fu allora che mi tornarono alla mente brevi barlumi della notte scorsa. Il profumo dell’ebra carezzata dalla brezza notturna, piccoli puntini luminosi nel cielo, poi un grosso casolare di legno e una lanterna sbiadita appesa sopra una grande porta.
– Queste sono le scuderie del villaggio… dei cappucci bianchi, non è vero? – domandai con un fil di voce.
L’uomo arcuò le sopracciglia scarmigliate. – Mangia, o Kadar mi romperà i coglioni per tutto il dannato giorno. – fu tutto ciò che disse.   
Quando l’uomo uscì dallo scomparto per ritornare ai suoi affari, decisi all’istante che l’avrei seguito, dunque arrancai svelta per rimettermi in piedi tra la gonna e il fieno secco e mi precipitai in corridoio.
Una gran luce e pulviscoli d’oro che fluttuavano nell’aria, poi il muso scontroso di uno stallone color Sauro che s’impennò sulle robuste zampe posteriori e gridò all’intruso, sbattendo così forte gli zoccoli contro il divisore del suo recinto da mandarmi a terra senza emetter fiato.
Sbattei con forza il sedere, contorcendomi per il dolore con la bocca stretta e gli occhi puntati sull’enorme bestia che continuava ad agitarsi e calciare in preda al panico, neanche fossi una serpe emersa dal fieno, quando un ragazzino in tunica grigio proiettile entrò di corsa nella mia visuale e si precipitò a calmare il cavallo prima che facesse saltare via le giunture dalla porta.
Non seppi perché, ma la sola vista della sua mano che si tendeva verso i denti della bestia mi fece balzare sulle ginocchia.
– Per la miseria, ragazzino, allontanati subito di lì, o ti farai male! – esclamai e mi tesi ad acciuffarlo.
Ma non ce ne fu bisogno.
Infatti, assistetti con meraviglia alla magia quel moccioso, poco più che undicenne, che riuscì a domare il Sauro con poche carezze gentili e svelte. In pochi istanti, il cavallo si acquietò ed io rimasi lì, ammutolita e stupefatta in mezzo al corridoio delle recinzioni.
– Eh, hai paura dei cavalli, pulzella. E comunque, non te la prendere per il ragazzo, è sordo come una campana.
Voltai leggermente il capo a sinistra, scrutando con la fronte sconvolta finché non vidi lo stalliere mentre era intento a svolgere il suo poco rimunerato lavoro, quello d’inforcare la paglia, sollevarla e dividerla equamente tra i cavalli, che avrebbe poi strigliato, pulito e curato, finché un cavaliere non sarebbe andato lì e gli avrebbe richiesto di separarsi da una delle sue preziose creature.
Sbuffai. Maledizione. Ero ancora bloccata in quel sogno.
– Non so bene cos’abbia. – continuò poi. – Credo che abbia le orecchie otturate da qualche tipo di male, ora non sto qui a raccontarti quale, perché, insomma, non sono un dannato medico, ma un guardiano. – borbottò.
– Ve l’ha detto lui? – domandai mentre mi rimettevo in piedi.  
– Magari. Manco parla, quello là. – tagliò corto e riprese a inforcare il foraggio dei cavalli. – Ma che t’importa di un comune garzoncello, se posso chiedere?
Non risposi subito, perché il mio sguardo deviò per un attimo sul moccioso, beatamente chiuso nella sua bolla di silenzio mentre continuava a coccolare il cavallo, dunque tornai sullo stalliere e sbuffai. Non dispiacerti, Laura. È solo un sogno.
– Avete detto che è stato Kadar a portarmi la colazione, questa mattina. – dissi a quel punto.
– Non proprio. Ho detto che mi avrebbe annoiato se, venendo qua, ti avesse trovato ancora addormentata e senza nulla nello stomaco. A proposito, che hai contro l’uva, perché non vai a mangiare?   
Diedi uno sguardo alle mie spalle, deglutendo a vuoto. In effetti, avevo un piccolo languorino…
Un attimo, ma cosa andavo a pensare?
– Dì un po’, sei l’amante di Kadar? – fece quella domanda a bruciapelo.
Drizzai lo sguardo con un rossore stizzito lungo il naso. – È questo che vi ha raccontato? Che sono la sua amante?
L’uomo si fermò dallo spalare, scrutandomi tra il pensoso e l’incerto. – No. No, non l’ha detto. In verità, non ha detto granché sul tuo conto. Solo che dovevo trattarti bene, e di non perderti d’occhio neanche per un istante.
– Capisco. – sospirai. – Per cui, sarò bloccata in questo posto ancora per molto, suppongo. Bene.
– Accidenti, deve farti davvero schifo Masyaf.
– Ma…Masyaf?
– È il posto in cui ti trovi, dolcezza. Ma non farti impressionare dal puzzo di culo d’asino e la noia di un piccolo villaggio di montagna, perché, se consideri che la guerra qui non arriva, e che le estati sono belle fresche, allora, vedrai, Masyaf non è peggiore di Acri, o Arsuf.
Rimasi in silenzio mentre l’uomo riprendeva a inforcare nel fieno, assimilando, seppur a fatica, le nuove informazioni acquisite e sempre più complesse. Di tutte le epoche in cui potevo capitare, dovevo proprio finire nelle Crociate?
– Voi non sembrate di qui. – osservai poi, tanto per fare conversazione.
– No, infatti. Nel mio sangue ci sono le praterie verdeggianti del Sussex e le acque incontaminate del fiume Crawley, dove passavo le estati della mia infanzia a giocare con mia sorella, la piccola  Bessie. – raccontò con un mezzo sorriso. – Lei è rimasta a casa, povera donna, a curare quel vecchio bastardo e violento di nostro padre. Io, invece, me la sono squagliata con la prima nave verso Damasco. Credevo di trovare fortuna, là. –  poi, indicò col mento il ragazzino. – E invece, ho trovato lui.   
– Cosa vi è accaduto?
– Mi sono ritrovato ad accettare questo lavoro come spala merda, mentre il ragazzino mi è venuto dietro perché era rimasto solo al mondo. Così, eccomi qua, a curare queste belle bestie, e di tanto in tanto affitto uno scomparto ai ragazzi su al forte che vogliono dedicarsi ai giochi concupiscenza, di tanto in tanto vengo a sapere qualche segretuccio…
– Che voi, Richard Frye, stalliere e  amico gradito alla Confraternita, non direte mai ad anima viva, non è vero? – una voce s’intromise da bordocampo, entrando ben presto anche nella nostra visuale.  
Kadar arrivò col cappuccio ardesia calato sul viso, sicuro e ammaliante mentre incedeva a noi nei suoi abiti cavallereschi, sicché anche il garzoncello venne attirato dalla sua fulgida persona e ne rimase ammirato, ed anche io, che avrei dovuto sperare di non vederlo mai più, mi ritrovai con lo stomaco scombussolato da uno strano formicolio caldo.
Per contro di noi giovani, l’attempato Richard squadrò Kadar con cruccio tutt’altro che pacifico.
– Ma guarda, chi non muore si rivede, eh. – brontolò infatti, sporgendosi verso di lui mentre bisbigliava – Dannazione, Kadar, eravamo rimasi che saresti stato qui al suo risveglio, io non so trattare con le ragazzine, te l’ho detto!
Il giovane, però, sminuì la cosa ritraendosi dall’alito acidulo dell’uomo con un sorrisino puerile.
– Suvvia, Richard, non mi dirai che ti sei fatto mettere alle strette da una ragazzina. – poi lanciò un’occhiata vispa al garzone che lo fissava ininterrottamente dal suo arrivo, aggiungendo – In oltre, confidavo che il moccioso l’avrebbe tenuta impegnata sino al mio arrivo. Mi sembrava così entusiasta, ieri, all’idea di avere una bella ragazza per le scuderie.  
Uno scambio strano di sguardi e movimenti delle sopracciglia, poi il garzoncello tirò un’espressione imbarazzata e, guardandomi di sfuggita, tornò di spalle con uno scatto impacciato. Il più grande dei due gongolò soddisfatto.
– Lascia in pace il garzone, razza di disgraziato. – Richard non esitò a difendere il suo pupillo. – Piuttosto, va’ a calmare quelle scimmie ammaestrate che chiamate Professi, che non la smettono di scorrazzare per il villaggio a creare confusione. Quando diavolo andranno nel recinto?
Messo un po’ alle strette dall’incalzare tedioso dell’uomo, il ragazzo prese respiro calandosi il cappuccio sulle spalle, scoprendo, con mia sorpresa, un volto teso e stanco, probabilmente i segni di una nottata insonne passata a rigirarsi convulsamente nel letto.
– Presto, Richard, presto. – lo rassicurò sereno.
– Lo spero. – bofonchiò, aggiungendo prima di congedarsi – Ah, e vedi di risolvere con la tua ragazza, Kadar, perché non posso tenere le stalle chiuse ancora per molto. Domani ci sono dei rientri.
Kadar sorrise. – Lo so.  
Quando il burbero custode si allontanò nelle scuderie, il ragazzo si rivolse al garzoncello, che era rimasto in dispare nel tentativo di leggere la discussione sulle nostre labbra, e con un buffetto gentile gli fece cenno di lasciarci soli. Il ragazzino obbedì senza storie e si dileguò alla svelta nel corridoio.
– Mi guardi con aria trucida, Laura di Chiaravalle. – esordì di punto in bianco.
Colpita nel vivo, mi raddrizzai svelta sul busto. – Non… non ti guardavo trucida. – balbettai.
Lui roteò le irridi cristalline su di me, dicendo con un sorriso – Va bene. Tranquilla. Hai il diritto di guardarmi così. Ma abbi pazienza, è stato tutto molto… veloce. Ed io mi sento ancora confuso, molto, confuso. Capisci?
– Sì, capisco. – e abbassai la testa.
Perdiana, che cosa avrei dovuto fare, adesso? Dovevo tirare di nuovo in ballo la storia che ero sua sorella? O far finta di nulla, sperando che la cosa scivolasse da sola nel dimenticatoio?
Ma soprattutto, se gli avessi raccontato quella menzogna, che mi ero studiata così attentamente prima di crollare sul letto di fieno la notte prima, ebbene, ci avrebbe creduto?
– Ascolta, Kadar, io devo dirti una cosa…
– Sai, quando avevo dodici anni, ogni giorno, all’ora del tramonto, mi recavo sul bastione e incontravo un mio caro amico per trastullarci nel gioco degli scacchi. – cominciò a raccontare soprappensiero. – Era un ragazzino decisamente competitivo e di solito io perdevo in poche mosse, ma quella volta riuscii a strappargli un’esigua somma di denaro e lui non resse la sconfitta. Sferrò due spinte innocenti, nulla di che, ed io inciampai nel parapetto del bastione. Impiegai tre mesi prima di riprendere a zoppicare nel cortile, sei ad abbozzare una camminata pulita. Ma un dolore occasionale alla gamba è un prezzo ragionevole per aver avuto salva la vita quel giorno, non credi, Laura di Chiaravalle?
Indugiai. – Perché mi dici questo?
Mi guardò. – Perché quel giorno mi venne data una seconda possibilità. Quindi, avanti, racconta pure. Raccontami pure la tua storia. “Sorellina”.

*      *     *

Non ero mai stata una brava bugiarda, ma quando mentivo ci mettevo di fantasia, forse, anche troppa. Quella volta, però, confidai che la mia tendenza all’esagerazione mi avesse fruttato una buona storiella da raccontare a Kadar, qualcosa su cui potesse ricamare ciò che volesse, senza però poterne mai trarre delle conclusioni soddisfacenti.
Odiavo mentire, ma non vedevo come avrei potuto convincerlo a fidarsi di me. Così, misi su un bel affresco bucolico e avvolsi una matassa di vicende assurde, così intricate che, alla fine, Kadar non avrebbe potuto far altro che fidarsi, o condannarmi per sempre.    
– Provengo da un villaggio modesto, dove il tempo è sempre buono e le pestilenze non arrivano grazie all’inverno freddo che ne impedisce la diffusione. – raccontai. – Le campagne vicine davano ogni anno un raccolto vigoroso e la gente cresce allo stesso modo, piano e in ombra sotto l’abazia della collina. I monaci erano dei santoni schivi e riservati, che studiavano dalle enormi vetrate la vita di sotto e passavano la maggio pare del loro tempo a studiare nello scriptorium, piegati come campanule tristi sui cinquanta leggii. La loro riservatezza aveva scatenato qualche pettegolezzo di pauese su presunti rapporti sacrileghi e riti magici, così, quando si venne a scoprire che a turno i monaci venivano nella nostra casa per portarci noci dall’albero del chiostro e utensili per la casa, le dicerie si triplicarono. Da quando ne ho memoria, io e mia madre abbiamo sempre dovuto provvedere alla nostra sopravvivenza, ma tutto sommato ci riusciva bene, questo anche grazie all’aiuto dei monaci.
– Perché i monaci vi aiutavano? – domandò Kadar.
– Il monastero risaliva al periodo della fondazione dell’ordine cistercense, e i suoi seguaci avevano ancora un profondo rispetto per il capostipite dei Chiaravalle, anche se ormai eravamo ridotti in povertà. Ci vendevano i manufatti dell’abazia a poco prezzo e noi li rivendevamo il doppio al mercato, perché, checché se ne dica, chi disprezza compra, e molto anche. Durante il pomeriggio, poi, andavo alla collina, per le lezioni dei maestri nel giardino.
– Sapevi che i Chiaravalle avevano servito l’Ordine Templare, quando erano in Terrasanta?
– Sì. E credo che i monaci mi avessero accettato alle loro lezioni perché, in cuor loro, speravano di veder risorgere la Vecchia Regina.
Mi presi un minuto di pausa, respirando e cercando ispirazione nell’area circostante. Richard Frye era fuori assieme al garzoncello per rifornire alcuni secchi al pozzo, i cavalli stavano sgranocchiando il foraggio e la sentinella al forte aspettava l’arrivo di qualcuno per avere il cambio nella sesta ora del giorno, quando l’aria si fa così pesante da rallentare l’intera vita circostante, anche nell’immaginario villaggio di Masyaf. Noi eravamo seduti poco più in là, sotto la finestra difronte all'entrata.
– Andava tutto alla grande, davvero. – dissi. – Poi, neanche un anno fa, mia madre si è ammalata irrimediabilmente di una febbre letale.
Il giovane, che fino a quel momento era rimasto in silenzio meditativo su una pagliuzza di fieno che rigirava tra le dita, si volse su di me con uno sguardo perso e con la fronte gridava alle condoglianze.  
– Mi dispiace. Davvero.
Per contro, lo rassicurai dandogli uno schiaffetto distratto sul ginocchio.  
– L’inverno scorso è stato uno dei più difficili della mia vita. – ripresi. – Nessuno voleva più comprare da me, mi scansavano come un’appestata, e, come se non bastasse, i monaci avevano perso la speranza di veder risorgere la Vecchia Regina Templare. Interruppero i miei studi, si tennero tutti i segreti che avevano promesso di svelarmi per loro, e, quando andai sotto le loro porte per delle spiegazioni, tutto ciò che dissero fu: “ la Vecchia Regina non può rinascere dal ventre freddo di una ragazzina che non conosce nemmeno il suo passato.” Allora, capii che sapevano qualcosa, ma ne ebbi la conferma solo quando, un giorno, mentre rovistavo nel baule nella stanza di mia madre, trovai una pila di vecchie lettere.
Kadar rimuginò intensamente, poi chiese – Una committenza d’amore?
Annuii senza pensarci, quasi precipitandomi per paura che trasparisse l’incertezza nel ricamare filo dopo filo la tela velenoso della mia lingua.   
– Alcune lettere erano davvero vecchie, risalivano a un anno prima della mia nascita. – spiegai. – Certe erano davvero difficili da interpretare, perché non erano scritte nella mia lingua. Credo fosse un sistema per tenere il contenuto privato, scrivere in lingue diverse. Comunque, ho maneggiato quelle lettere almeno mille volte, ma era impossibile capirci qualcosa conoscendo solo metà della committenza.
– Per cui? – domandò Kadar, non senza un certo snervato scetticismo. Deglutii.
– Decisi di recarmi nell’abazia, alla ricerca di qualcuno che potesse tradurmi l’altra parte della committenza. Ma ogni monaco, dal primo all’ultimo, non appena ascoltava del mio ritrovamento, mi scacciava come se avesse il diavolo in corpo. Solo uno dei maestri che faceva lezione nel giardino, e che frequentava la casa assiduamente quando mia madre era ancora in vita, ebbe il coraggio di concedermi udienza nello scriptorium. Sebbene la sua relativa giovinezza, il monaco era tra i più eruditi in fatto di lingue e seppe tradurmi alla perfezione l’altra parte della committenza, ma non fece solo questo. Mi disse che mio padre aveva dovuto allontanarsi da mia madre quando era incinta, che era ripartito con la nave su cui era arrivato tempo prima, perché il loro desiderio di famiglia era irrealizzabile in questa vita. Ciononostante, lei non smise mai d’aspettarlo.
Senza tradire la traiettoria del mio sguardo, vidi sott’occhio Kadar che rimuginava intensamente su un’immagine esatta.
Una nave che solcava mille leghe d’acqua salata, le coste salmastre di un’antica terra di limoni e conchiglie, e lì, sulla riva di una spiaggia straniera, vide una donna che aspettava con la sua figlioletta in braccio.    
Quell’immagina non apparteneva ai suoi ricordi, ma era comunque bellissima, e lo toccò più di quanto avrei creduto possibile, più di quanto avrei potuto sperare.
– Io non sapevo della vostra esistenza, Kadar. – incalzai ora che il ferro era caldo. – Anzi, non… non so neanche cosa facciate, voi incappucciati, né perché ce l’abbiate tanto coi Templari, o la mia famiglia. Ma so che mia madre ha amato uno di voi, e che questo non andava bene. So che ci ha lasciate perché doveva. E so, Kadar, che quell’uomo era tuo padre.   
– Come puoi dirlo con certezza?
– Le lettere, Kadar. Parlavano anche di te. Proprio non vuoi vederlo? Il Credo, il nostro incontro a Damasco, tra milioni di persone in cui avremmo potuto perderci… ci siamo ritrovati proprio noi. È stato il destino, a volerci riunire. Fratello. Guardami. Tu mi credi, non è vero?
Gli presi il viso tra le mani e Kadar fu costretto a guardarmi negli occhi.
Era sul punto di crollare, ormai. Le crepe avevano minato la fortezza della sua mente, era solo questione di attimi e mi avrebbe dato ragione su tutto. Ed eccolo, che dischiuse le labbra, e dirmi…
 – Io non ti credo.
Il colpo mi finì incastrato in gola. Ritirai le braccia lungo il corpo, fissandolo ammutolita mentre mi portavo un pugno stretto al cuore.
– Kadar…
Non mi diede il tempo che si alzò di scatto sulle gambe. Tirò il cappuccio sulla sua chioma corvina, nascose i lacrimoni che gli avevano inondato gli occhi e s’incamminò prima che iniziassero le mie grida.
– No, Kadar, Kadar! Non puoi andartene così! Non puoi lasciarmi, non puoi! – ruggii.
Gli corsi dietro nel tentativo d’aggrapparmi alle sue vesti, ma lui mi scivolò tra le dita, come fumo bianco.
– Non puoi abbandonarmi così! Non di nuovo! Kadar! Kadar!
Lui, però, m’ignorò e spalancò l’uscio scricchiolante con un solo braccio. Un ultimo, disperato slancio verso le sue mani, e ricevetti il rimando della porta in faccia.  

*      *      *

Quando il manto notturno scese e portò con sé il fresco aroma delle piante lungo il pendio, e quello speziato della cena dalle cucine, mi tornò alla mente il ricordo di Agata che si arrotolava le maniche della tunica fin sopra i gomiti e faceva saltare la frittata di uova e cime di cipolla nella padella, una, due, tre volte, prima di serviva a cena con del vino, rigorosamente, un Brunello di Montalcino trafugato dalla preziosa enoteca di mamma.
Ma quella, era per adesso un’altra vita.
Dopo averlo convinto che stavo bene, e che gli occhioni rossi non erano dovuti al pianto, Richard Frye si sincerato di potermi lasciare da sola per andare ubriacarsi di cibo e chiacchierare con degli estranei nella locanda in fondo alla strada, mentre il garzoncello, che mi sembrava meno sincero a lasciarmi sola, alla fine si dileguò senza neanche curarsi di chiudere la porta principale.
Un po’ sospettai che la sua non fosse stata semplice sbadataggine, che avesse intuito le mie intenzioni nel corso della serata, quando mi aveva intravisto mettere la colazione di quella mattina in un fazzoletto da viaggio, e che avesse deciso di rendermi le cose più facili, costringendomi a cogliere quella che forse sarebbe stata la mia unica occasione di fuga.
E così stavo facendo.
Avevo raggiunto il recinto del Sauro, stretta nei modesti abiti con una mano al petto e l’altra alta a sorreggere la lampada a olio, nel mio scomparto avevo già pronta una sella con le bisacce piene per il viaggio. Mi sincerai che il corridoio fosse deserto, dunque mi rannicchiai sulle ginocchia e  illuminai con la flebile luce la serratura del recinto.
Non sapevo cosa stavo facendo, in verità. L’unica cosa che riuscivo a pensare era che dovevo andar via.
Via da Masyaf, via da Kadar, via da tutta quella follia e da un passato che stava risalendo con gli artigli dalla parte più oscura della anima, lacerando, spezzettando, dissolvendo…
Il rumorino del gancio a uncino che era scivolato con successo dal chiavistello, mi riportò alla realtà.
Rincuorata, mi affrettai nel buio a tirare fuori il cavallo dal recinto, quando, all’improvviso, giunsero dal fondo del corridoio flebili nitriti allarmati. Lentamente, decisi di agganciare la lampada al muro vicino. Scrutai un po’ nel buio…  
E il cuore mi piroettò in petto. Un ombra.
Col rischio di torcermi una caviglia nello slancio, mi precipitai di corsa a nascondermi in uno scomparto vuoto, aggrappandomi in scivolata al muro e schiacciandoci subito il petto sopra per farmi piccola piccola, un insetto così minuscolo da rendersi invisibile nel buio…
Captai dei passi.
Passi cauti, e decisi allo stesso tempo, che stavano avanzando a invadere il corridoio, mentre i cavalli nitrivano e si ritraevano terrorizzati nel fondo dei loro recinti.
Rimasi in attesa finché non sentii quei passi fermarsi davanti al recinto del Sauro, pochi metri più in là, c’ero io, rannicchiata a pregare con la fronte e le ginocchia sul muro.
Drizzai lo sguardo solo perché avevo paura di perdere del tutto fiato, e fu allora che notai sopra la mia testa una fessura a forma di crisalide, che avrebbe potuto darmi una visuale sicura sul corridoio.
Con l’adrenalina che mi pulsava nelle tempie, riuscii a drizzarmi quel tanto che bastava per sbirciarci dentro.
C’era un uomo massiccio fermo davanti al recinto, con il cappuccio calato sulla testa e il corpo sinuoso in posizione di riposo, mano poggiata sull’elsa intarsiata della spada e stivali divaricati a terra, che ispezionava con le sue rote di fuoco ogni centimetro, ogni ombra, ogni granello che fluttuava nell’aria immobile delle scuderie.  
Riconobbi l’inconfondibile portamento altezzoso di Altaïr, giunto fin lì in quel che mi parve una esser battuta di caccia notturna, forse, una missione di recupero per conto del demone Caronte, che era ormai troppo vecchio e stanco per correre dietro alle anime fuggiasche dall’inferno, così mandava lui, che era di gran lunga il più spaventoso, il più veloce e letale tra tutti i suoi figli, a compiere il lavoro sporco.
Ma se Altaïr fosse lì per me non era qualcosa che volevo scoprire in quella vita, che, d’altronde, si trattasse di sogno o realtà, era l’unica che mi era stata data, così optai per la scelta più saggia; una silenziosa e vile fuga.
Il fato volle, però, che, mentre io mi raccoglievo per correre verso la porta alla prima occasione, il giovane uomo si calasse il cappuccio con un movimento fluido, intingendo sotto la flebile luce i  suoi capelli, irti e di un caldo biondo scuro, e la pelle ambrata, e la barbetta lungo il volto asciutto, perfino la sensuale vena sul lato destro del collo, che si stese in tutta la sua lunghezza quando si girò a guardare il recinto del Sauro.
Di certo, tra tutti i figli di Caronte, Altaïr doveva essere anche il più affascinante, perché il cuore mi si bloccò in petto, indeciso su quale lato dover cadere.
Fu allora, quando avvertii le guance tingersi di rosso e il petto venir smosso da uno strano calore,  che due lacci di carne uscirono sparati dall’oscurità e afferrarono il petto del giovane con impudente sicurezza e paralizzante sensualità, cominciando così a carezzarlo, a ghermirlo, a sedurlo come solo le mani dolci di una femmina esperta potevano fare.    
Infatti, dalle possenti spalle dell’uomo emerse una creatura dall’aspetto modesto e con una cascata di peccaminosi ricci scuri che le ricoprivano l’intero corpo opulento, un’odalisca di miele e seta verdognola, che cominciò ad arrampicarsi come un’edera lungo tutto il corpo Altaïr.
Lo toccava, e lo stuzzicava strofinando i seni sul suo petto, infilando le dita tra la sua chioma, muovendo le ciglia e guardandolo diritto negli occhi mentre le sue labbra sussurravano parole svelte, promesse che non riuscii a carpire. Poi, proprio sotto i miei occhi, Altaïr, cui natura rimaneva pur sempre umana, soccombé a lei e si lasciò andare ai bisogni della carne.
La prese per i fianchi e se la incollò al bacino, provocando il sorrisino compiaciuto di lei mentre lui si sporgeva e addentava il primo, intenso bacio di una lunga serie, la più perversa, avida, violenta successione di baci che avessi mai visto con i miei occhi vergini.
Persino lo schiocco delle loro lingue, che si scontravano e arrovellavano, riuscì a provocarmi imbarazzo e disgusto per me stessa.
D’un tratto, qualcosa cambiò nello schema di potere. La donna provò a infilare le mani nei suoi pantaloni e, nel mentre, saggiare la nuova cicatrice sulla bocca di Altaïr, ma lui la interpretò come un’invasione e subito la spinse contro il muro, sopraffacendola in tutta la sua enormità.
Le slacciò i vestiti contro la sua volontà, affrettò le cose e se la caricò subito subito sul bacino, tenendola forte a se per le gambe brunastre, ma proprio quando lei stette per gridare allo stupro,   Altaïr cominciò a baciarle il collo, e a carezzarle le gambe, la coscia il sedere, a respirare dolcemente il profumo lungo quella mandibola sottile, a desiderarla piano…
Qualcosa si mosse dentro il mio stomaco. Era… invidia.
Quando poi il loro amoreggiare andò ben oltre le capacità d’immaginazione di una sciocca verginella, decisi di distogliere lo sguardo, e di scivolare a terra a stringermi forte le gambe al petto.
All'improvviso, avevo voglia di vomitare.




Angolo autrice:

E concludiamo con questa bella immagine di Altaïr, che si gode la vita da scapolo ora che può ( avrà sempre meno occasioni, in futuro, di fare quello che gli pare! ).
Allora, I Chiaravalle, o la “Vecchia Regina Templare”, come erano famosi all’epoca, erano templari, e Laura lo sapeva, eh! Certo, neanche io avrei voluto trovarmi nella fortezza degli Assassini di Masyaf se fossi stata in lei, ma questo ancora non lo sa, quindi, vedremo come reagirà, quando scoprirà che “nulla è come sembra”! E Kadar?  Beh, di certo la notizia di avere una “presunta sorella” l’ha scombussolato parecchio, ma è ancora presto per cantare vittoria, e Laura dovrà conquistarsi la sua fiducia, e non sarà il solo… “ci saranno dei rientri!”
Ricordo che quest’opera è di finzione e che la discendenza di Laura è inventata, per cui, la “genesi” della famiglia all’inizio del capitolo, i Sette Fratelli ecc… sono solo frutto della mia fantasia (ad eccezione delle informazioni sull’infanzia di Bernardo, su quelle mi sono informata xD).
Detto ciò, mi scuso per la lunghezza del capitolo, spero d’esser riuscita a proporvi qualcosa di decente e di non avervi fatto aspettare troppo! ^^”
Post scriptum: Sì, lo so, “Richard Frye”. Consideratelo l’antenato ignoto dei gemelli Frye! ;-)

Baci, Lusivia.


          

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Capitolo 4
*** Quando il fato prese a girare ***


                                                                                                                 
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                                                        Capitolo 4

                                            Quando il fato prese a girare






Dovevo far presto, presto.
Agata poteva arrivare da un momento all’altro, e se mi avesse trovata lì nel bel mezzo della notte, allora sì, che si sarebbe arrabbiata sul serio. Mi aveva avvisata, quella mattina, di lasciar perdere, ma a me era sembrata più una minaccia.
Perché? Perché prendersi tanta noia per un libro?
Entrai nello studio rosso di mamma facendo ben attenzione a socchiudere la porta per permettermi di avvertire i passi della suora nel caso arrivasse, e con un click ebbi acceso la luce della torcia, usandola per farmi spazio nella semioscurità della stanza.
Se avessi avuto un telefono, forse avrei usato la lucina incorporata, ma Erica era stata categorica e aveva deciso che un telefono collegato all’unica rete nel raggio di mille chilometri fosse più che sufficiente per le nostre comunicazioni telefoniche quando lei era via.
Ma tornando a quella notte, l’aria era colorata da uno strano chiarore lattiginoso della luna, fredda e lontana nel cielo, e le ombre che si storcevano e si allungavano nella stanza, mentre il bosco si agitava e sibilava avvertimenti su quel luogo, su quell’ufficio; mi diceva di tornare a letto, di non sfidare la sorte, ma ormai ero lì, e ciò che cercavo era proprio davanti a me, su qualche scaffale della libreria.
Così, mi misi la torcia tra i denti, presi saldamente la scala con entrambe le mani e cominciai a salire, piano e con calma, verso il ripiano più alto, lì dove era più probabile che Agata lo avesse nascosto, perché consapevole del mio problema di vertigini.
Se solo fosse capitato qualche anno più tardi, allora, sarei anche salita sul tetto per leggere quel libro in santa pace.
Come previsto, scorsi la rilegatura verdognola tra alcuni libri impolverati che risalivano, probabilmente, al tempo della costruzione di quella casa, quando i Chiaravalle avevano ancora un po’ di quel mitico tesoretto all’epoca del servizio templare in Francia. Ma quella era un’altra storia.
Agguantai il Milione di Marco Polo di tutta fretta e lo misi nell’elastico dei pantaloni della tuta, per evitare che il suo ingombro minasse il mio già delicato equilibrio durante la discesa, dunque, quand’ebbi finalmente la sensazione della terra di nuovo sotto i piedi, ripresi il tomo in mano e senza perdere altro tempo corsi verso la porta.
A pochi passi dalla maniglia, però, mi accorsi che qualcuno stava sopraggiungendo dal corridoio.
Pensai in fretta; spensi la luce della torcia, corsi verso la finestra illuminata e subito mi nascosi sotto la scrivania, raggomitolandomi col libro schiacciato tra il petto e le ginocchia, in elettrica attesa.
Un cigolio, il rintocco di passi dentro la stanza.
– Non dovresti essere ancora qui, è tardi.
Era la voce della padrona di casa, Erica.
– Lo so, ma dovevo parlarti di una cosa.
– Da non poter aspettare a domani, Agata?
– Si tratta di Laura.
I passi si fermarono sul pavimento. Dovevano essere vicino al sofà, proprio davanti al tavolino da tè.
– Parla, allora, che cosa aspetti.
– È stato lui, non è vero, Erica? Gliel’ha portato lui, il Milione.
Una risatella bassa. – Era il regalo dell’anno scorso.
– Dannazione, Erica, è già abbastanza difficile controllare la situazione così. Non ci pensi, alla nostra Laura?
– La mia, vorrai dire. Lei è mia figlia, Agata, non scordarlo. E comunque, ha solo undici anni.
– Non sottovalutare Laura, rimarresti sorpresa.
– Intendo dire che ha bisogno di questo. Non posso nasconderglielo per sempre, insomma, è un po’ ingombrante, come segreto.
– Certamente, se quello là continua a gironzolare intorno alla magione come un bastardo randagio…
– Qual era la cosa che eri venuta a dirmi? – improvvisamente, sembrò aver fretta.
La suora trattenne il respiro, era evidente quanto la seccasse essere interrotta.
– Laura ha trovato il libro, Erica, proprio questa mattina.
Silenzio.
Un breve scorrere di passi, poi, il singulto soffocato di un cuscino che cedeva sotto il peso di un corpo gentile.
– Quella piccola malandrina. L’ha visto, alla fine ... – Erica sospirò, dal rumore intuii che stesse scaricando la tensione con la gamba. – Accidenti, ho perso la scommessa. Ora mi toccherà offrirgli una cena.
– Non scherzare, non è affatto divertente, sono preoccupata. Laura potrebbe iniziare a chiedersi da dove viene quel libro, farebbe delle domande, e allora …
– Dov’è adesso?
Silenzio. – Nascosto.
– Bene. Provvedi affinché non lo trovi mai più.
Il sofà scricchiolò di sollievo, ci fu un breve gioco di tacchi sul pavimento, poi diritto verso la porta.
– Erica.
Un cigolio. – Cosa?
– Semmai dovesse capitare, che le dirò la prossima volta?
Ma Erica non le diede mai una risposta.
– Vieni, Agata, pariamo da un’altra parte.
Contai fino a dieci, mentalmente. Poi riemersi dalla scrivania lentamente, come una marmotta ai primi disgeli nella prateria, e vidi che la stanza era di nuovo vuota.
Mi lasciai sfuggire un sospiro di sollievo.
Tirai su il libro, lo aprii e cominciai a sfogliarlo accuratamente, pagina per pagina, finché l’effetto calamitante di quell'oscuro richiamo non riportò i miei occhi sulla stessa pagina di quella mattina. E le righe d'inchiostro cominciarono di nuovo a mischiarsi e a pulsare davanti ai miei occhi, riaccendendo in me la miccia della curiosità.
Agata non le aveva detto che quella mattina io le avevo fatto una domanda ben precisa. Forse, perché se n’era già scordata. Ma se solo Erica avesse saputo.
– Non preoccupatevi, Marco Polo. – sussurrai all’inchiostro di quella pagina – Non lascerò che mi comandino, io faccio quello che voglio, non importa se a loro non piace il vostro libro, io vi credo comunque.Sul mio onore, messere, io scoprirò chi sono. Scoprirò chi sono i vostri Assassini.
Era il ricordo di una notte di sette anni fa.
Ed io non avevo ancora capito qual era la verità.

* * *

Non seppi dire che ora fosse quando mi risvegliai nelle scuderie di mastro Frye.
Le cinque, forse le sei del mattino, difficile dirlo con quel poco di luce che riusciva a scalfire il nembostrato nero- grigiastro.
Fuori aveva diluviato per tutta la notte, ma adesso, con l’arrivo dei primi chiarori, gli ululati che avevano infestato la notte erano cessati e il picchio furioso della pioggia era divenuto un pigro, luminoso sgocciolare dai bordi di legno delle finestre e sul pavimento scricchiolante delle stalle.
Anche dopo che il sole si fece più chiaro nel cielo nemboso, io rimasi rannicchiata nel mio angolo a stringermi nei tessuti scarni, infreddolita e sfibrata dalla scarsa qualità del sonno e del ricordo continuo e incalzante della pioggia, del vento, dei fischi e degli strilli di quella notte.
Quando poi riemersi da quell’elucubrazione, mi raccolsi negli abiti e senza abbandonare il pallore al volto uscii in corridoio.
L’aria era densa e pesante, carica di quell’elettricità tipica della quiete dopo la tempesta, la paglia sul pavimento era divenuta una poltiglia informe e viscida su cui era difficile camminare. I cavalli avevano trovato nella tempesta ristoro nel fondo del loro recinto e la porta principale era spalancata dalla notte scorsa, ma non avevo avuto il coraggio di andare a chiuderla prima, così decisi di farlo adesso.
Mi presi un attimo per far scivolare lo sguardo all’esterno, tra le strade impantanate e i carri affondati ai margini del mercato semi-distrutto, poi scivolai di nuovo dentro e con una spinta decisa ebbi richiuso l’uscio massiccio.
Terzo giorno a Masyaf, anno 1191. Terza Crociata. Terrasanta.
Probabilmente, era un lunedì.
Dovevo portare il conto, era importante. Dovevo ricordare qual era la verità.
Mi lavai la faccia con l’acqua piovana di un barile quattro volte, sciacquando come potei anche il corpo, ma rinunciai quasi subito per l’aria gelida che spirava dalle travi, ragion per cui, preferii indugiare qualche attimo in più coi palmi sui bordi di legno e la testa abbandonata sul petto, a fissare sospettosa l’immagine sul pelo dell’acqua.
Le irridi avevano l’aspetto di una sfera opaca e smorta, la bocca era un mare di grinze e i capelli si erano tramutati in un grande nido cresposo per pidocchi e piccolissimi insetti del fieno, il petto respirava affannato e i capezzoli erano ritti e visibili sotto il leggero tessuto della sottana.
Guardai un po’ meglio.
C’era qualcosa sull’epidermide della mia gola. Un taglietto, in linea orizzontale.
Sottile come un filo d’argento, invisibile sulla superficie torva dell’acqua, ma perfettamente evidente sotto i polpastrelli.
La lama di Kadar aveva lasciato il segno.
Mi sembrava di sentirla ancora, l’ombra gelida e affilata, il pressare prepotente contro la cartilagine, quell’indescrivibile senso di dispersione, come se la mia anima potesse scappare fuori alla minima apertura della sua fragile scorza.
Quando avevo capito che quel giovane sotto il cappuccio cenerino era Kadar, proprio il mio, ebbene, il mio cuore era divenuto gonfio d’indescrivibile felicità mista a qualcosa di più tagliente e bruciante: un presentimento che, purtroppo, m'investì con la gelida forza di un maroso nato dal nulla.
Kadar non era reale. Era solo un’allucinazione; l’idea di una nevrotica personalità schizofrenica, un corpo incorporeo, un essere creato da me e me soltanto, quel sintomo profetico prima della follia più violenta.
La prova che nulla lì fosse reale.
Tuttavia, quando avevo sentito il suo polso muoversi sulla mia gola, avevo visto il mio stesso grido nelle fonti cristalline dei suoi occhi, quello che non avevo ancora scagliato, ma che era già risuonato nella mia testa, e aveva aperto uno scorcio nella mia testa.
Io avevo paura di morire.
Non importava se il corpo fosse fittizio o meno, se mi ero preparata allungo al giorno in cui, finalmente, dopo tanto soffrire e combattere, la mia anima si sarebbe lasciata naufragare su coste più serene; io volevo vivere.
E così avevo fatto. Avrei vissuto, accidenti, non importava in che modo, io avrei vissuto per tornare a casa e arrivare, un giorno, con le mie gambe su quelle coste tranquille.
Non c’era altra scelta.
Dovevo continuare a mentire, dovevo far credere a Kadar che io fossi sua sorella.
Era un’idea ridicola, presuntuosa e folle, un disastro preannunciato. Ma non potevo immaginarmi di meglio.
Solo un villaggio immaginario di nome Masyaf. E Kadar.
Scivolai via dai bordi con un sospiro affranto, scrutando attorno finché non scorsi alcune cianfrusaglie indistinte e abbandonate contro il muro, tra cui anche un secchiello rovesciato, che mi parve subito utile al mio intento.
Andai lì, lo presi, m’incamminai di nuovo in corridoio.
Cercavo un angolo tranquillo, dove poter improvvisare una toilette e svuotare le viscere secondo norma naturale. Ed ecco che lo sentii.
Il rumore del fato che prendeva a girare senza alcun preavviso.
E me lo mise anche davanti, il suo girare, affinché non potessi fraintendere le sue intenzioni, ma, anzi, lo vedessi mentre dormiva nello scomparto a destra su del fieno scrosciante, incurvato nella linea naturale della schiena sinuosa e del suo corpo mastodontico, offerto integralmente nell’innocenza del sonno più armonioso e perfetto di sempre.
Vette, colline, avvallamenti, depressioni, tendini, muscoli tesi nel concerto del corpo umano, pelle, capelli, occhi richiusi, scultura candida e sensuale, terra selvaggia e scura.
Quel giorno, il mio destino mi si era presentato davanti. E aveva le sembianze di Altaïr.
Ma era nudo.
All’improvviso, il mio corpo diventò un incendio.
Non pensai, ero al centro di una tempesta emotiva, invece, volli subito di allontanarmi da lì, prima che la mia povera mente annebbiata realizzasse ciò che quella notte era accaduto a pochi passi da me senza che me ne accorgessi, ma soprattutto, prima che mastro Richard tornasse e mi beccasse in quello stato pietoso. Sarebbe stato un fraintendimento difficile da spiegare.
Indietreggiai di un passo e andai subito a sbattere contro qualcosa.
Un tonfo, due sussulti strozzati, un ragazzino che si allontanava e si strofinava la fronte larga con aria risentita.
– Per la barba di Al Mualim, che male maledetto!
Colta clamorosamente alla sprovvista, ci misi un po’ a riprendermi dallo scompiglio e andare oltre quegli abiti freschi di bucato, oltre quel buon odore di pelle pulita e dei capelli spazzolati, oltre il viso asciutto e ripulito con un balsamo a buon mercato.
E quando ebbi tralasciato tutto questo, ebbene, faticai a credere di ritrovarmi davanti proprio il garzoncello sordo-muto di Richard Frye.
Per un istante infinito nell’aria volarono gli sguardi più disparati. Terrore, sgomento, pentimento, ira, perplessità, curiosità.
Poi, vidi quel ragazzino gettare un'occhiata accesa su Altaïr.
Accadde tutto molto in fretta.
Lui spalancò la bocca e riempì i polmoni per svuotarli con un grido, ma io fui su di lui e in un attimo gli ebbi serrato la bocca e ghermito le costole, riuscendo a trascinarlo via contro il suo volere. Ci fu una breve ma intensa lotta, che però avevo vinto in partenza, e per me non fu difficile portare il garzone fino all’ufficio di mastro Frye, lì dove c’era un tavolo su cui a volte mangiava o faceva il conteggio del denaro e delle spese, ma anche, teneva gli arnesi di pulizia e i finimenti da aggiustare.
Una volta al sicuro tra quelle tre mura, rimisi giù il ragazzino e mi preparai per dargli una sonora sgridata, quand’ecco che quello colse l’occasione e, dandosi uno strattone, mi addentò tra l’indice e il pollice della destra.
Il dolore funse da molla, e in un istante ebbi sciolto il ragazzino dalla presa.
– Tu piccolo…!
– Giuratelo! – s’impose con fermezza e decisione. – Giuratelo sul vostro onore che non svelerete a nessuno il mio segreto!
– Cos...?
– Giuratelo, o io strillerò! Strillerò
così forte che l’Assassino si sveglierà, e allora vi troverà, e vi ucciderà!
Scagliò quelle parole come una lugubre profezia, tuttavia, si ritirò impaurito quando mi vide allungarmi per afferrargli le spalle. Allora, lo strinsi. Lo strinsi per quelle sue esili ossa finché non fui sicura di rivedere il mio volto sconcertato nei suoi occhi spalancati.
– Hai detto… Assassino?
In quel momento, il ragazzo colse il suo secondo errore.
– Lasciatemi andare.
– Dimmelo.
– Vi prego.
– Dimmi la verità.
– Io non conosco nessuna verità.
– Ti prego. Ti prego, tu devi aiutarmi ...
Lui si portò i palmi sulle orecchie, dicendo – Non vi sento, io non vi sento, e non parlo! Io non vi parlo, signora!
– No, no, aspetta! Tu… tu sei una specie di anima psicopompa, non è vero? Sì, devi… devi essere un messaggio. Un messaggio… del mio passato? – Trasalii appena, ora rinvigorita in viso. – Sì, deve essere così, Perdiana! Le Crociate, la mia famiglia in Terrasanta, gli… gli Assassini! Tu vuoi farmi vedere qualcosa! È per questo, no... che mi hai portato qui? Per... per mostrarmi! Non è vero? ...
Il ragazzo aveva finito la sua cantilena già da un pezzo, e ora mi fissava, pallido come una tomba.
Quel suo sguardo. Non aveva capito una sola parola del mio discorso delirante.
Stavo perdendo la testa. Stavo perendo il controllo.
Sganciai le mani da lui con un sospiro stanco, indugiando su quel volto senza pensieri per la testa, come se fossi divenuta all’improvviso un semplice ammasso di cenere spenta, abbandonata, fredda.
Sparsa nel vento.
– Signora. – trovò il coraggio di parlare.
– Ho sbagliato… ho sbagliato ogni cosa.
Girai i tacchi senza emettere fiato, trascinandomi inerme verso un cantuccio silenzioso.
Mi sedetti, raccolsi le ginocchia al petto, respirai l’aria secca e gelida.
– Il problema… il problema sono io. – continuai piano. – Io… sono io, il problema, il motivo per cui non posso risvegliarmi…
– Signora.
– Gli Assassini…. cosa sono, gli Assassini, ragazzo? Cosa… cosa sono?
Quello indugiò nel disagio.
– Scusate, ma proprio non posso dirvelo, o finirò in un mare di guai.
Drizzai gli occhi sul ragazzino, lo fissai in un misto di odio e tenerezza, poi tornai a sprofondare la fronte sulle ginocchia, e lì ci rimasi.
Dopo poco, udii un rumore di tessuti grezzi che strusciavano l’un l’altro, ritrovandomi la presenza silenziosa del ragazzino accanto, tutto assorto nel suo cipiglio e con le ciglia serrate per la concentrazione.
– Scusatemi. Non… non volevo farvi male, signora. – si riferì al morso di prima.
Rimasi in silenzio.
– Perché hai detto una bugia a tutti quanti? – mormorai a quel punto.
Lui rimuginò intenso. – Voi sapete cosa fanno, i creditori, alle persone che non pagano? Io lo so, perché il mio papà non aveva pagato un conto di gioco. E un giorno sono venuti degli uomini, a casa mia, hanno distrutto e sconquassato ogni cosa. Quando poi uscii dal mio nascondiglio, capii che ero rimasto solo. – Indugiò dentro quel ricordo, riemergendo inorridito. Mi guardò, aveva gli occhi sbarrati dal terrore. – Mastro Frye era uno straniero, non sapeva la lingua e ha dovuto faticare molto per adattarsi, ma io lo aiutavo e gli insegnavo ciò che sapevo, anche se a volte la gente ci lanciava addosso i cocci perché pensavano che lui fosse un Crociato. Il popolo odia i Templari, perché sono dei conquistatori venuti in Siria a uccidere chi si oppone a loro, rubano le ricchezze dei nostri mercati e ci costringono a fare quello che dicono loro. Perché è giusto, dicono loro. Ma non sono tutti così, ad esempio, io non farei mai la guerra con il signor Richard, perché lui è mio amico, non importa se io sono mussulmano e lui cristiano. Perché l’uno non esiste senza l’altro.
Io non seppi che dire. Semplicemente, rimasi colpita dalla naturalezza con cui quel piccolo straccione si trasformava sotto i miei occhi nel sovrano più saggio e giusto di tutti i regni conosciuti.
Aveva il sole nell'anima.
– Scusami se ti ho spaventato, prima. – la mia voce era rauca mentre tiravo su col naso umido.
Lui scrollò le spalle. – Non fa niente.
– Ho perso il controllo. E non avrei dovuto.
– Siete spaventata, lo vedo bene. Anch’io avrei mentito, se fossi stata al vostro posto, e forse avrei detto la vostra identica bugia.
– Q… quale bugia?
– Che siete la sorella di Kadar. So che non è vero
Gli lanciai un’occhiata scioccata. – Come fai a…?
– Voglio dire, voi siete una straniera, e avete il volto pallido degli inglesi, dei Crociati, come il signor Frye. A proposito, voi come l’avete imparato, l’arabo? No, non importa. Comunque, Kadar non poteva credervi, siete troppo diversa da lui. Troppo bella.
– Ah. – sbuffai e mi grattai la testa. – Lo prenderò come un complimento.
– Ma nonostante lui non vi abbia creduto, a voi piace lo stesso Kadar. Non è vero?
Il cuore mi piroettò in petto, le guance s’imporporarono di palpitante vergogna.
– Sì. – ammisi. – Sì, a me lui piace tanto, ragazzino, perché mi ha aiutata a stare meglio quando non stavo bene. – Gli sorrisi.– Un po’ come te e il signor Frye.
Quello ricambiò sorridendo da orecchio a orecchio.
Poi, si voltò a guardare il piccione appena appollaiatosi sul cornicione, e non disse più nulla per un tempo che mi parve un’eternità bianca.
Tutto ciò che sentii fu il tubare del pennuto grassoccio, il mio sospiro stanco, i sospiri pensosi del bambino.
Poi, una fiamma rianimò il garzone e lo fece scattare in piedi sulle gambe come una molla.
– Rubiamo i vestiti all’Assassino.
– C…cosa?
– La notte scorsa volevate svignarvela, non è vero? Beh, allora, rubiamo i vestiti all’Assassino, adesso, mentre dorme. Così potrete indossarli per fuggire e tornare a casa vostra. Le sentinelle all’entrata non noteranno la differenza, vedrete.
– Ah, ecco… non credo che sia una buona idea.
– Non volete forse tornare a casa vostra?
– Sì, ma non per questo sono disposta a rischiare la vita in quello scomparto! Perdiana, è assolutamente fuori discussione!

* * *

La giubba color fuliggine, la tunica bianca, i borselli e i guanti di cuoio, le brache, le cinghie, la cintola, gli stivali con la suola rinforzata.
Raccolsi tutto ciò che trovavo sparso sul pavimento senza distinzione, senza sapere dove metterlo o come andava indossato, ma avevo seguito le indicazioni del garzone in corridoio come meglio potevo sotto la pressione incalzante della paura, che lievitava ogni volta che i centimetri tra me e quel colossale corpo dormiente si accorciavano.
Non vedevo l’ora di uscire da lì, così, quando credetti di aver preso tutto, non esitai a volgermi velocemente verso l’uscita. Ma il garzone mi fece segno di fermarmi.
Lo guardai interrogativa, e lui mimò un cappuccio sulla sua testa. Il cappuccio bianco di Altaïr.
“ Dove?” , chiesi con lo sguardo.
M’indicò il corpo sdraiato a terra. – Forse, l’ha schiacciato! – bisbigliò.
Mi girai a guardare l’uomo nella paglia, e subito scolorii in volto. Perdiana.
Rimuginai nervosamente, mi dondolai nevroticamente, passai più volte le dita tra i capelli, il cuore era diventato un treno a vapore pronto a schiantarsi da un momento all’altro.
Ma dovevo farlo. Non c’era altro modo.
Così, avanzai verso Altaïr, piano e in punta di piedi, gli occhi erano fissi sul suo corpo e pronti a recepire come minaccia anche il più piccolo movimento muscolare.
Mi chinai su di lui, e cominciai a cercare.
Evitai accuratamente di scendere più in basso del livello della cintura mentre tastavo e setacciavo nella paglia, invece, tendevo ad ostinare lo sguardo in un punto morto, sicché, effettivamente, andavo completamente alla cieca. Ma qualcosa di liscio e spesso come un filo di lana finì col catturare il mio sguardo in basso.
Rimasi completamente senza parole nello scoprire la quantità di cicatrici che ricoprivano la schiena di Altaïr.
Tutta la superficie della sua pelle, le braccia, il collo, persino i polpacci erano segnati da linee argentee e frastagliate; non mi era difficile immaginare il verso della lama al momento del veloce contatto, perché era ancora lì, l’aspra ombra del ferro, a ricordargli il numero esatto delle anime che lo avrebbero voluto morto. Decisamente, erano tante.
Probabilmente, un totale di quindici anime che il suo corpo si sarebbe portato per sempre addosso.
E in tutto questo, il suo viso era sereno, beatamente immerso nelle dolcezze dei suoi sogni di latte e donne di miele. Come poteva quel pacifico ragazzo essere la stessa persona che da sveglia incuteva tutto quel viscerale terrore e ossequioso rispetto?
Ma soprattutto, quale orribile passato nascondevano le cicatrici di quell’uomo?
D’un tratto, qualcosa si allacciò al mio bacino.
Il tempo di abbassare lo sguardo verso il braccio muscoloso che mi aveva ghermito, che mi ritrovai schiacciata sotto il peso del corpo di Altaïr, il quale, forse credendomi la sua amante, mi strinse al suo fianco nudo e senza troppi complimenti infilò la mano nella scollatura del mio vestito, lambendomi la pelle morbida in una morsa salda e poderosa che mi troncò il fiato in due.
Le sue dita iniziarono a toccarmi, a stuzzicarmi in un modo che mai avrei creduto possibile. Ed erano callose, graffianti, decisamente, esperte.
Infatti, in pochi secondi la mia mente venne ammantata da una nebbia allucinogena, la pelle mi si accapponò e le corde giuste vennero smosse, risvegliando col loro canto sconosciuto un demone rimasto in letargo dentro di me per quasi diciotto anni.
La situazione cambiò vertiginosamente quando il garzone fece capolino dalla spalla di Altaïr.
Per fortuna, la situazione lo divertì a tal punto che non si accorse più di tanto del mio scombussolamento improvviso, dandomi in tal modo la possibilità di ricompormi e, subito, iniziare a supplicarli silenziosamente aiuto. Lui non se lo fece ripetere due volte.
Lavorammo assieme e, dopo poche spinte da parte di entrambi, riuscimmo a spostare Altaïr sul fianco opposto, dove si riaccoccolò con un ronfo risonante.
Finalmente libera, sgusciai via da quella morsa soffocante e schizzai di corsa in corridoio, raggiungendo il muro appena in tempo per aggrapparmi al suo sostegno e crollare contro di esso senza più fiato, vittima della sensazione indescrivibile che aveva arroventato il mio corpo e mandato completamente sottosopra.
Reale o meno, non avrei mai più dimenticato quell’esperienza.
– Signora! – il garzoncello mi chiamò con voce sottilissima.
Voltandomi, vidi che sventolava orgogliosamente nella mano un cappuccio bianco.

* * *

– Siete molto convincente, così, signora. Vedrete, non se ne accorgerà nessuno. – disse fiducioso il garzone quando mi vide con gli abiti di Altaïr addosso.
Un po’ scettica, sollevai lo sguardo dal tessuto bianco che avevo lambito per analizzarne la manifattura. Avevo scoperto con mio stupore che il materiale era fresco e leggero, fatto per proteggere dal caldo africano, ma anche fitto e resistente, contro le tempeste di sabbia.
Quando drizzai lo sguardo, notai che il garzone mi stava studiando seduto sul tavolo da lavoro del signor Richard, diviso tra un’estasiata ammirazione e un lieve sentimento d’invidia che, però, ricacciò subito indietro con un sorriso storto.
– Non funzionerà mai. – brontolai, invece, per l'ennesima volta.
Mi chinai per prendere l’armatura adagiata a terra, dunque me la issai sul ventre con un mezzo grugnito e tenendolo su con il ginocchio tentai di allacciarmelo alla cieca dietro la schiena. Il ragazzino notò la mia difficoltà e non esitò a balzare giù per aiutarmi con le cinghie, permettendomi così di abbassare le braccia sui fianchi e abbandonarmi in un agonizzante sconforto.
– Questi abiti mi vanno troppo larghi. – continuai a lamentarmi.
– Non più del necessario, signora. – mi tranquillizzò.
– Finirò col perdere i pantaloni mentre cammino.
– E voi stringete di più la cintura.
Mi sfuggì una risata sconsolata, grattandomi con nervosismo il sopracciglio sinistro.
Quando, poi, il garzone finì con l’armatura, sinceratosi che non mi sarebbe caduta sui piedi, andò svelto a prendere il cappuccio sul tavolo e me lo portò con grande serietà e concentrazione. Si fermò e capii che avrebbe voluto tenere quell'oggetto con se ancora un po'.
– Sapete, ogni singolo capo di vestiario degli Assassini è un prodotto di alta qualità e inestimabile esperienza sartoriale. – cominciò a spiegare grave. – Gli antichi sarti di Alamut cuciono e lavorano un tessuto speciale e bianco come il latte, che viene prodotta nella bottega di un mastro egizio con due bambini orfani di madre. Dunque, la merce pregiata viene portata ad Alessandria e lì caricata sui carri diretti a Masyaf, dove attendono i sarti indaffarati. Sempre ad Alessandria, poi, un vecchio orbo fa le sue calzature famose in tutta la Terrasanta per la loro resistenza e robustezza, e da lui vanno Assassini e Templari, Saraceni e inglesi, sultani e ricchi schiavisti del mercato nero di Damasco, senza distinzione di prezzo. In fine, un fabbro persiano forgia le corazze e le spade solo per gli Assassini, che a loro volta si riforniscono solo da lui, che ha la loro fiducia e preziosa amicizia.
Detto ciò, il garzone mi porse il cappuccio con espressione intensa, come se mi stesse offrendo la testa di San Giovanni Battista. Lo presi e lo infilai con cura sulle spalle, stendendone le pieghe sotto le dita morbide finché non ebbi memorizzato la sua forma sul mio corpo; era stranamente confortante.
Alzai lo sguardo pensoso sul garzone e lo scoprii nel pieno di una delusione emotiva, forse perché sperava di potermi ammirare a travestimento concluso.
Fino a che punto questo travestimento la proteggerà?, era la domanda che non aveva il coraggio di porsi.
Ma non dovevo pensarci, non in quel momento.
Mi tesi verso il tavolo sotto la finestrella, volta nell’atto di prendere il pugnale a molla di Altaïr, racchiuso nello scrigno di lamine e cuoio duro, ma il ragazzino fu più svelto e me lo rubò da sotto il naso.
– No, questo no!
Lo guardai strabuzzata. – Perché?
Lui indugiò. Poi fece un sospiro snervato e poggiò di nuovo l’arma richiusa nel suo involucro, carezzandone le placche di ferro con aria aleatoria.
– Perché voi conoscete gli Assassini, signora? – ribaltò la domanda.
Allacciai le braccia sotto il seno, scrutandolo con una sensazione di colpevolezza nello stomaco.
– Anche tu credi che io sia un Templare, ragazzino?
– No, quello no. Ma Kadar vi ha lasciato stare anche dopo quella vostra bugia, quindi, dovete essere speciale, forse siete veramente sua sorella. Voglio dire, come fareste a conoscere tutte queste cose segretissime, sennò?
– Tu mi credi?
– No. Ma il destino agisce in modi strani, signora, più spesso di quanto dovrebbe, o di quanto noi uomini potremmo tollerare.
Indugiai sulle sue parole un bel po’. Piegai la testa indietro, sospirai, tornai diritta.
– Conosco gli Assassini dai racconti di un viaggiatore veneziano. – ammisi. – Un uomo curioso, intrepido, perseverante. Lo stimavo molto, e avrei tanto voluto essere come lui.
Si accigliò. – E poi?
– Poi… poi, ho scoperto che era un bugiardo.
– Su cosa ha mentito?
– È difficile spiegarlo. Penso d'aver realizzato che non avrei mai potuto eguagliarlo. Allora, ho iniziato a odiarlo, perché lui poteva andare via quando voleva, e io no.
Già, era successo esattamente questo. Ma allora, perché ero così ossessionata dal suo libro?
La risposta aprì in due la mia coscienza: Assassini.
– Ma adesso siete qui, signora. E siete libera di fare ciò che volete.
La voce del bambino mi riportò all'attimo presente. Mi stava sorridendo. Da quanto tempo non vedevo qualcuno sorridermi in quel modo.
Come se sarebbe andato tutto bene.
– Come ti chiami, ragazzino? – domandai a quel punto, sul mio volto un debole sorriso.
Lui indugiò, sospettoso. – Voi?
Non si fidava. Bravo.
– Il mio nome è Laura. il tuo?
Lui saltò sul tavolo e iniziò a muovere i piedi penzoloni nel vuoto, avanti e indietro.
– Nadim. Io mi chiamo Nadim.

* * *

Salutai il garzone all’entrata della scuderia, ma solo dopo che mi ebbe promesso che sarebbe fuggito da lì prima del risveglio di Altaïr. Di sicuro non avrebbe gradito scoprire che qualcuno gli aveva rubato i vestiti, ed era meglio non essere nei paraggi quando sarebbe accaduto.
Fu un po' difficile lasciare Nadim, perché non potevo sapere se ci saremmo rivisti di nuovo, e temevo che si sarebbe perso nel flusso imprevedibile del delirio. Come uno dei tanti granelli di sabbia.
Ma dovevo andare avanti.
Durante la nottata, Masyaf era stata letteralmente devastata dalla pioggia e con l’avvento del giorno era calata una sottile nebbiolina bianca, cui afosità mi fece tutta un bagno di sudore nei miei nuovi abiti.
Le case erano affondate nella melma e i tetti riflettevano l’umidità come se fossero fatti della stessa consistenza porosa dei funghi, i carri erano affondati nella salita del mercato e i teloni, appesantiti dai depositi d’acqua piovana, si riflettevano gravidi nelle pozzanghere bianchicce e tremule.
Se si aguzzava la vista, si poteva intravedere il castello nascosto dietro un manto fumoso, rendendo difficile dire quanto fosse lontano in quel momento.
Allo stesso modo, sarebbe stato pressoché impossibile trovare l’esatta ubicazione delle porte di Masyaf, se solo le voci delle sentinelle non mi avessero indicato la loro posizione, circa quaranta metri a nord.
Presi un respiro profondo nel petto.
Poi, pizzicai l’orlo del cappuccio tra l’indice e il pollice e lo tirai su con uno scatto secco. E da un momento all’altro, l’intero universo alzò il volume della sua voce.
Non ci misi molto a capire che fosse la struttura interna del cappuccio, che ,come diceva Nadim, era stato studiato dai sarti più eccelsi di una certa zona di nome Alamut, ad amplificare i suoni circostanti, tuttavia, per quanto quella nuova apertura al mondo mi avesse stimolato i sensi, non dimenticai ciò che dovevo fare.
Così, cominciai a camminare, spedita e terrorizzata al tempo stesso.
Alamut, Alamut… dov’è che l’avevo già sentito?
Giunsi sotto il forte, lì dove le guardie avevano iniziato già da qualche ora la prima ronda della giornata.
Mi avvicinai a una sentinella con una casacca giallognola di calda lana sopra gli abiti bianchi, la sua identità era protetta da cappuccio e da un fazzoletto bianco tirato sul naso, ma non avanzai oltre.
Evidentemente, le sentinelle preferivano nascondere i loro volti ai viaggiatori indiscreti, che si trattasse del carro con l’asino proveniente da Damasco, o di un manipolo di pattuglie Crociate troppo vicine ai loro confini.
E se il signor Frye diceva che Masyaf era stata preservata dalla guerra, ebbene, adesso che guardavo da vicino con quanta attenzione le guardie pattugliavano l’esterno, comprendevo bene il perché.
Mentre rimuginavo e rimandavo il momento in cui mi sarei avvicinata alla sentinella che mi stava davanti, un altro uomo si affacciò dalla passerella in alto e con gran voce cominciò a gridare di aprire le porte per far passare. E tutti sul forte si mobilitarono all’istante.
Le catene vennero tirare, il legno cigolò sofferente, l’entrata si spezzò in mezzo per lasciar passare uno stallone nero in tenuta da viaggio.
La bestia, quel giorno, riportava un uomo a Masyaf.






Angolo autrice:

Salve a tutti, e ben tornati nel favoloso mondo di “ Delirium”!
*Coriandoli che volano*
Prima di iniziare con le mie solite ciance, ci tenevo a informarvi che ho inserito un piccolo incipit nel capitolo terzo, che comprende una specie di “genesi famigliare” dei Chiaravalle (inventata da me), che dovrebbe chiarire meglio il quadro generale, sperando di non aver combinato un pastrocchio. In oltre, c’è un piccolo scorcio in cui Laura, mentre viene portata da Al Mualim, realizza il periodo storico che sta vivendo: Kadar dice che i Chiaravalle sono spariti dalla Terrasanta da trent’anni, e il 1161 è un anno fondamentale per la famiglia, perché è l’ultima volta che sono stati avvistati a Gerusalemme… ma vi sarà più chiaro quando andrete a leggere l’incipit!
In pratica, 1161 + 30 =1191. Terza Crociata.
Lo so, è seccante il mio continuo inserire dettagli, però è per questo che mi volete bene! (ma anche no… xD)
Prometto che la smetto.
Ad ogni modo, tornando a questo capitolo, ho pensato che, essendo stato l’ultimo così denso ed esteso, questo doveva rappresentare una sorta di “ spazio in pausa”, una parentesi prima che la storia prenda finalmente un ritmo spedito.
Per coloro che conoscono la versione precedente, ho inserito il personaggio del garzone, Nadim, per dare un volto a questo particolare nome, che si rivelerà tanto prezioso, per la nostra piccola vagabonda sfortunata… spero che vi piaccia l’idea.
Vorrei star qui a dire quanto mi sia piaciuto descrivere la nudità di Altaïr, e di quanto mi sia sbellicata nell’immaginare la reazione di Laura quando lui inizia a “palparla” nel sonno, ma per questo ci vorrebbe un altro spazio a parte.
Pertanto, vi lascio con questo grattacapo: chi sarà mai, l’uomo arrivo a Masyaf ?
Di nuovo, vi ringrazio per la pazienza e l’inestimabile affetto che mi dimostrate. Vi amo immensamente e, giuro, un giorno vi ringrazierò uno per uno (tanto per mettervi in imbarazzo ù.ù). Sempre grata a tutti voi,

la vostra amica

Lusivia.

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Capitolo 5
*** L'inaugurazione ***


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                                                                                 Capitolo 5

                                                                             L’inaugurazione  
                                             






Il primo stallone arabo entrò a Masyaf a trotto.
Lo conduceva un uomo austero e dal cruccio stanco, con una barba di un crespo color arancio, l’unica cosa che sbucava da sotto il bianco cappuccio, e coi fianchi asciutti ben corazzati e forniti di un’amplia gamma di armi piccole e grandi. Il secondo destriero arrivò subito dopo e portò con sé un pivello della confraternita, un giovane di poco più di vent’anni, che esibiva in testa il copricapo grigio e portava sul corpo una limitata serie di armi e protezioni.
I due coi cavalli erano lontani qualche metro, ma la funzione conduttrice delle condense d’acqua sospese nell’aria e la struttura recettiva del miracoloso cappuccio mi permisero di ascoltare quando la sentinella si avvicinò a loro per parlare.
“ Sicurezza e pace, fratello mio”, li accolse.
Il più anziano sorrise e scese da cavallo lentamente, oserei dire quasi con fatica. “ E così sia per ognuno di noi. Fratello mio, quest’oggi la fortuna ci ha sorriso.”, annunciò.
“ Che vuoi dire?”
Barba crespa lanciò un’occhiata d’intesa al sottoposto, allora quello smontò da sella, raggirò il cavallo e si protese ad acciuffare qualcosa che se ne stava nascosto, trascinando fuori un uomo coi polsi legati da una spessa corda. Il giovane gli diede una spintarella, per incitarlo a procedere, ma l’uomo era ridotto troppo male e quel piccolo stimolo bastò per mandarlo rovinosamente con le ginocchia a terra, avvilito, stanco, sconfitto. 
“ Lo abbiamo trovato ai nostri confini, non molto lontano dalle rovine del terremoto.”, spiegò il giovane, asciutto e stretto tra le spalle. “ Dev’essere un esploratore, o qualcosa del genere.”
A quel punto, mi presi un istante per studiare quel residuo umano piegato su se stesso come un fantoccio.
Aveva i capelli biondi e i tratti facciali tipicamente occidentali, ma il naso pronunciato e la carnagione olivastra mi fece pensare a un abitante dell’Europa del sud, forse, un uomo delle coste elleniche. O magari era solo la scottatura del deserto, a farlo sembrare così scuro.
Indossava, inoltre, abiti comodi e adatti a sopportare le calure asfissianti di quei posti, segno che non era venuto lì impreparato, ma aveva intenzione di fermarsi allungo; sommando poi un fisico forte e ben disciplinato, era ragionevole pensare che fosse effettivamente un soldato.
La sentinella squadrò il detenuto con aria infastidita, commendando, “ È ridotto male.”
“Fu un degno avversario.”, rispose barba crespa. “ Strano, però, che si siano spinti così oltre sui nostri confini. Non trovi?”, aggiunse con voce cupa.
I due si scambiarono un’occhiata eloquente, dunque si allontanarono per parlare in separata sede, ai margini del campo, ma prima, barba crespa si assicurò che il suo sottoposto se la sentisse di sorvegliare tutto solo il prigioniero. Alla fine, il pivello vide l’uomo allontanarsi, e dall’espressione che fece mentre, stringendo la corda fino a farsi divenire le nocche bianche, guardò la nuca del soldato inginocchiato, ebbene, fiutai della paura.
– Di cosa è colpevole, quell’uomo? – gettai quella frase così. Senza riflettere. 
A quel punto, il sottoposto mi notò per la prima volta sulla parte alta della strada, ma anche strizzando gli occhi difronte a tutta quell’accecante luce lattiginosa, non riuscì a distinguere bene i contorni del mio volto. Invece, individuò quasi per istinto un cappuccio bianco e l’elsa bruna di una spada, e immediatamente ogni suo dubbio venne fugato dalla cieca fiducia per quei simboli.
– State parlando con me, Priore? – domandò, indicandosi il petto.
Indugiai, poi mi guardia alle spalle. La strada era deserta, non c’era nessuno oltre a me.
Tornai a guardare il ragazzo, ora con una nuova scintilla negli occhi. Pensava che io fossi un suo superiore. Perché? Non m’interessava. Non era quella la cosa che volevo sapere adesso.
– Il prigioniero. – insistetti snervata. – Che cosa ha fatto per esser ridotto in questo stato pietoso?
Il ragazzo si accigliò. – Signore, mi state chiedendo delle spiegazioni sull’accaduto, o…?
Trasalii, maledicendomi silenziosamente.
– Mi chiedevo solo se fosse giustificato il suo arresto. Tutto qui. – arrabattai una scusa, ma in verità avrei voluto che il ragazzo sciogliesse lo strano groviglio che mi sentivo nello stomaco.
Sarebbe bastata una semplice risposta: sì, è un Templare, no, non è un Templare.
Prima, però, che il ragazzo potesse chiarire la sua confusione, il prigioniero irruppe con una risata roca, uno misto tra il sapore amaro della rassegnazione e quello ancora appuntito dello scherno, e alzando il capo mi sorrise sprezzante, ostentando un occhio livido e il bollo violaceo del pomolo di spada in mezzo alla fronte.
E continuò a ridere, e a ridere, e ridere, fino a farmi vergognare di essere lì.
Il sottoposto, invece, non fu altrettanto paziente. Tirò un sorrisetto e serrò gli occhi fino a farli divenire piccoli quanto la punta di una lancia. 
– Giustificato o meno, – commentò snervato – questo bastardo Templare mi ha rotto il cazzo col suo continuo sghignazzare folle! – E gli diede un calcio che lo fece andare in avanti, di faccia nella fanghiglia grigia e gorgogliante.     
In un istante, tutto il sangue mi salì al cervello. 
Agguantai la tunica del ragazzo con intrepida follia, lo guardai in faccia mentre l’ombra della paura si manifestava nei suoi occhi, e preparai un pugno da scaricare contro il suo muso. Purtroppo, una presa arrivò a fermarmi un istante prima della violenza.
Volsi lo sguardo oltre la mia spalla sinistra, gli occhi che ardevano del fuoco di mille diavoli, e fu allora che lo incontrai per la prima volta.
Un uomo congelato nel suo stesso involucro di carne e tessuti lattei sotto un mantello di lanetta grigia, un paio di occhi di pece, due labbra piene, un naso che metteva subito in chiaro la sua forte personalità, la sua grossa mano che stringeva sul mio polso col vigore e la severità che si riserverebbe solo a un uomo; evidentemente, non si era accorto del mio inganno. 
– Non è con le sferze, che si addestra un novizio. Se hai un problema con un tuo sottoposto, ebbene, non picchiarlo con la tua mano. Ma puniscilo insegnandogli cos’è il vero rispetto.
Parlò che era risoluto e fermo nella voce, e quant’era vero che la sua presenza aveva trascinato l’atmosfera in un soffocante disagio, oscurato il cielo e fatto volare via perfino le impavide aquile, d’un tratto, sentii le dita divenirmi di pastafrolla. Quell’uomo, aveva la mostruosa capacità di metterti al tuo posto con un semplice sguardo.
– Malik! – era la voce di barba crespa.
Non seppi cosa scattò tra i nostri corpi in quell’istante, ma una qualche forza invisibile ci costrinse a sciogliere quel nodo di mani e braccia all’istante. Vidi che il sottoposto che avevo terrorizzato per quei pochi secondi sotto l’ombra del mio punto si ritrasse col respiro mozzato, dunque, si affrettò a raccogliere il prigioniero da terra, appena in tempo per eclissarsi con lui ai margini della scena, evitando così di farsi vedere dal suo comandante di ritorno.
In meno di tre falcate impazienti, quello ci ebbe raggiunto con le braccione spalancate ai lati e un enorme sorriso incastonato nella barba rubina.  
– Malik! Malik Al-Sayf, figlio di Faheem, Signore di Spade! Che il Cielo ci protegga, sei tornato, e con tutt’e due le braccia!
Occhi di pece accolse un po’ impacciato l’abbraccio vigoroso del confratello, che lo strizzò per bene tra i bicipiti e poi lasciò che ricadesse con un singulto strozzato.
– Jameel. – tentò di abbozzare un sorrisino mentre lo salutava, e si ritraeva di mezzo passo. – Quale felice accoglienza, non me l’aspettavo!
Quello scoppiò in una risata grassoccia. – Quando sei arrivato, fratello?
– Proprio oggi. Che fortuna, eh, a tornare a casa con le piogge.
– Beh. – gli diede una pacca gentile sulla spalla, sorridendogli – Tu porti il buon umore, Malik! E comunque, sei arrivato appena in tempo. Si farà festa grande al castello. Vedrai, come si spaccherà in due il recinto!
Il tale di nome Malik accennò un sorriso e guardò il confratello mentre si allontanava verso il sottoposto e il prigioniero. Un pensiero lo fece sghignazzare sommesso.
– Non vedo l’ora. – disse troppo tardi, che barba crespa aveva già reclamato il prigioniero dal sottoposto.
Insieme, poi, si diressero verso il pendio più alto di Masyaf.
– Non avreste dovuto interferire!
Ero scattata con tale foga contro quell’uomo col mantello che nemmeno mi preoccupai di dosare il timbro della mia femminea voce. E lui non mancò di accigliarsi con una vaga intuizione negli occhi, neri e irretenti come una pozza di catrame. 
– Prego?
– Avete capito bene, signore! Perché vi siete ficcato in mezzo? Non ne avevate il diritto!
– Un momento. Mi stai riprendendo? – Fece un verso strano, che stava a metà tra il pensieroso e il seccato. Poi, mi scrutò per pochi secondi. – Sai, il tuo volto mi è nuovo tra i ranghi dei Priori. – osservò allora – E sei anche terribilmente giovane, non c’è che dire. Quanti anni hai? Venti? Ventuno? E già così tanto potere e tante responsabilità nelle tue mani. Credevi davvero di avere il diritto di schiaffeggiare così quel novizio, non è così?
Arrossi per la vergogna. – No, non è così!
– E allora? Perché volevi punire quel ragazzo?
Lo guardai con la bocca stretta e un misto d’indecisione e frustrazione. Perché aveva osato picchiare uno della mia gente. Un Templare. Proprio sotto quegli stessi occhi che avevano visto l’amore e la devozione nei gesti, nelle parole, nei respiri di Erica.
E per quanto io volessi negarlo, rimanevo pur sempre una Chiaravalle.
– Quel ragazzo ha calciato quel pover’uomo in catene! – lo accusai con voce grave.
Lui ci rimase di stucco. – È questo, allora? Volevi far giustizia per quel Templare? 
– È stato crudele!
– È la guerra. – ribatté aspro. – E la guerra è sempre crudele. 
– Ma le guerre si combattono contro gli eserciti in campi di battaglia, non infierendo su un uomo che è già in catene!  E se tu fossi stato un vero uomo, avresti protetto quel prigioniero, anche se era un Templare, perché è questo ciò che deve fare chi ha il potere d’agire! Proteggere chi non può più farlo!
Finalmente, la prosaica superficie dei suoi occhi di pece venne squarciata da un sentimento dalla parvenza quasi umana. Ma non capii la sua natura, almeno, finché quel tale dagli occhi neri non fece un passo in avanti.
– Mi stai dando del codardo, ragazzino?
Un sussulto mi sconquassò tutta dentro. – N- non è quello che intendevo. – balbettai. 
Da un momento all’altro, quello mi afferrò per entrambe le spalle. Ma poi scoprii che non voleva picchiarmi, e che il suo broncio scuro si era straordinariamente trasformato in un sorriso di trentadue perle perfette.   
– Hai le palle, fratello.
Lo fissai. Mi accorsi solo allora, lo spavento mi aveva gelato le dita. 
– C-cosa?
Lui scoppiò a ridere. – È da tempo che qualcuno non mi sfidava in questo modo, accidenti! Sei piccolo, ma hai cuore, ragazzo mio! 
– N… non sei arrabbiato?
– No. – E mi lasciò andare, senza abbandonare il sorriso. – Ma devo comunque darti una lezione, e lo farò proprio oggi, all’Inaugurazione.
Lo seguii con lo sguardo mentre mi superava con un movimento fluido, posizionandosi all’imbocco del pendio. – Inaugurazione?
– Niente ma, ragazzino! – mi zittì puntandomi contro l’indice. – Dici che sono un codardo? Ebbene, io non credo che il simbolo che porti con tanto orgoglio sulla testa è meritato. – si riferì al cappuccio. – Dimostrami che Al Mualim non si è sbagliato a nominarti Priore, sebbene la tua giovane età, e battimi nel recinto. Eh! Non sarà facile!
– Io non ti affronterò, ho da fare... ehi! Dove vai? Non posso, mi hai capito?
Ma lui era già bello che andato. Finché non lo rividi torcersi sul busto e guardare in dietro dalla cima della strada.
– Quasi dimenticavo! Devi dirmi il tuo nome, ragazzo!
Sul mio volto scese il silenzio. Perdiana. Un nome? Voleva un nome? E quale accidenti avrei dovuto dargli?  
– Beh? – incalzò a gran voce – Non mi dirai che te lo sei dimenticato?
– N-Nadim. – dichiarai, incerta – Io sono… Nadim!
Sì, poteva andar bene. In oltre, ero sicura che il piccolo Nadim mi avrebbe perdonato se avessi rubato la sua identità per un po’. In fondo, non avrebbe potuto lamentarsi con nessuno, no?
Mi parve di vederlo sorridere. – Bene, Nadim! Io sono Malik Al- Sayf, figlio di Faheem, Maestro di Spade, e quest’oggi sarò il tuo avversario nei giochi d’Inaugurazione! 
Detto questo, quel tale, quel Malik, si voltò e con passo sicuro sparì lungo la via per il castello, lasciandomi a guardare il retro svolazzante del suo mantello finché la sua sagoma non divenne altro che un’ombra tra altre mille.
Quella mattina, capii che c’era qualcosa di molto strano in quell’uomo che avevo appena conosciuto, qualcosa che poi m’indusse a fare la sciocchezza di quel giorno, ma non avrei scoperto il motivo per cui il volto di Malik Al-Sayf mi era tanto famigliare sino al pomeriggio.

*        *        *

Iniziavo a pensare che ci fosse una fattura sopra quel villaggio.
Un sortilegio che annebbiasse la mia coscienza a tal punto da farmi perdere di vista qualsiasi residuo di buonsenso, e indurmi a fare cose stupide. Già, doveva essere quello, altrimenti, perché adesso starei salendo al castello sulla montagna, tesa e confusa, mentre la schiena mi sudava come un peccatore in Chiesa?
Allora, giustificai così la mia insensata attrazione verso quelle mura di bianco gesso splendente, ma la verità era che nel mio sangue scorreva il sangue dei Chiaravalle, e nolente o dolente, sarei sempre tornata al luogo in cui tutto era iniziato. Ma andiamo per gradi.      
Giunsi alle immense porte del castello che non avevo la benché minima idea di ciò che avrei trovato.
In quel momento, sentivo solo un gran trambusto di suoni, e colori, e odori, da quello pungente del sudore a quello acre delle spade che cozzavano e stridevano con ferocia. Quando, poi, entrai nel castello, capii che ciò che avevo visto la mattina del mio risveglio era solo un assaggio di ciò che era davvero la vita là dentro.
L’intero piazzale interno era stato riempito da un numero sproporzionato di adepti e gruppi in addestramento, alcuni correvano in stormi compatti sotto le ombre merlate delle mura di cinta, altri si erano raccolti per partecipare a una lezione di tiro con l’arco presieduto da un omaccione con la pelata e le spalle ad armadio.
Chi combatteva a corpo a corpo, chi sfidava il suo vicino a un breve scambio di fendenti,  chi si refrigerava sotto l’ombra delle scalinate bevendo da otri gonfie d’acqua scintillante: sembrava proprio che tutti gli incappucciati fossero lì quel giorno.
Deglutii un sorso a vuoto quando vidi un tale bagnarsi la fronte con dell’acqua dalla ghirba, trassi una boccata d’aria per cercare di rinfrescarmi la gola e lentamente scoperchiai di poco i bordi soffocanti del cappuccio. All’improvviso, ciò che sembrava esser iniziata come una fredda giornata autunnale si era tramutata in un mezzogiorno di fuoco.
Ed ecco che accadde.
Un fischio sottile che sfrecciava dentro il mio raggio d’azione.
Il mio corpo si mosse in una maniera che non pensavo possibile, l’istinto prese il sopravvento nelle vene e m’indusse a spostarmi immediatamente a sinistra. Qualcosa si conficcò nella polvere dinanzi a me. La nube si diramò, e vidi l’elsa di ferro di un pugnale da lancio. Un solo istante dopo, e mi sarei ritrovata la sua lama conficcata nella spalla.
– Ahi, ahi, ahi! – qualcuno cominciò a schiamazzare – Per poco, e ti avrei beccato!
Drizzai gli occhi dal pugnale, avvampata dalla testa ai piedi mentre strillavo – Brutto bastardo! Esci fuori, che ti gonfio di botte!
Poi, un fischio attirò la mia attenzione verso la scala che portava alle passerelle sovrastanti.
Sospeso furbetto come un gatto grigio, il lanciatore dal volto coperto mi scoccò un gran sorriso sussiegoso e con falsa riverenza mi fece un cenno con la mano, scatenando in me una gran collera.
– Che ti è saltato in mente? Stronzo! – gridai.   
– Oh! Non fare storie! Non è colpa mia se sei capitato nella mia strada, stupido di un … – Sbiancò di botto. – Porca puttana, tu sei un Priore! – sibilò e con una torsione impressionante riuscì a issarsi sulla sporgenza più vicina, sparendo sulle mura come un acrobata.  
Avrei potuto seguirlo fin la su, e gonfiarlo di botte. Ma qualcosa mi afferrò prima che potessi iniziare ad arrampicarmi.
Una piroetta su me stessa, e mi ritrovai inchiodata sotto lo sguardo accusatore di Kadar, senza il cappuccio tirato in testa, quel giorno.
– Che diavolo significa? Perché sei qui, Laura? – sbraitò sottovoce, gli occhi erano sgranati e brillavano come il fuoco.
Forse, il mio spettacolino con l’acrobata aveva attirato l’attenzione più del previsto.
– Io… io sono venuta a vedere il recinto! – balbettai.
– Che?
– Ho incontrato uno dei tuoi, c’era un Templare, poi mi ha detto di venire al recinto…
– Che? – mi strattonò appena per le spalle – Ti sei messa a parlare con qualcuno? Dico, hai perso la testa! E dove hai preso questi vestiti? Laura! Non li avrai mica… rubati?
Lo fissai con gli occhi di una civetta spaventata.
– Laura!
– Non se n’è nemmeno accorto. – farfugliai.
– Laura! – pronunciò di nuovo il mio nome, ma con tono più grave – Laura, a chi li hai rubati, questi abiti? Era un Priore, accidenti!
Il mio sguardo si animò appena. – Altaïr è un Priore?
Kadar si strinse le labbra talmente forte che gli divennero quasi livide. Aveva detto troppo.
– Devi andartene. Adesso, prima che ti vedano! – ordinò e con uno scatto mi ebbe girata di faccia verso l’entrata.
Non opposi resistenza mentre Kadar mi portava via quasi di peso, sentivo che le mani gli tremavano per l’agitazione sulle mie scapole. Evidentemente, stava per succedere qualcosa.
Ma non avrei mai creduto di vederlo accadere proprio davanti a me.
Un uomo arrivò dal pendio quasi in corsa, si piantonò davanti a noi e con la mano artigliata mi agguantò per il bavaro della tunica. Neanche fossi targata di rosso scarlatto.
Rimasi esterrefatta quando riconobbi il volto aquilino di Altaïr, ora perfettamente distinguibile  nelle chiare indorature del giorno, e quasi non mi curai dei suoi abiti, così poco raffinati per uno come lui, una camicia di lino grezzo e dei pantaloni marroni sdruciti. Notai quasi subito, però, forse per un ancestrale istinto a cogliere i pericoli, gli oggetti che avevo lasciato nella scuderia: una spada lunga, troppo pesante da portarmi dietro nella fuga, e la lama celata sul bancone del laboratorio di mastro Richard. 
– Tu, donna. Vieni con me. Adesso! 
– Altaïr, ti prego, posso spiegare! – Kadar provò pietosamente a placare la sua nube funesta, ma senza successo.
Il più grande lo spinse via con una bracciata e lo mandò diritto contro lo spigolo della volta, io provai a oppormi ma l’impossibilità di strillare a squarciagola difronte a tutti mi privò dello slancio goliardico necessario per resistergli, sicché fu una bazzecola per i muscoli di Altaïr trascinarmi per tutto il campo sotto gli occhi stralunati di alcuni spettatori.
Mentre venivo trascinata contro la mia volontà per i cunicoli e gli svincoli della roccaforte buia, riuscii a emettere dalla gola solo qualche debole grugnito, una o due maledizioni sputate tra i denti, un pallido tentativo di svincolamento e, finalmente, la drammatica rassegnazione.
Mi avrebbe picchiata a morte per avergli rubato i vestiti, oppure, si sarebbe divertito a farmela pagare per quella ferita ancora viva al lato del suo labbro. 
Fui condotta in un cortile con archi e pavimentazione in muratura bianca, al centro c’era un albero solitario piantato in un’aiuola fiorita e, immediatamente difronte al punto da cui eravamo entrati, si erigeva il tetto di ciò che mi parve, di primo acchito, una piccola cappella.
Capii che si trattava di un’armeria solo quando venni mandata dentro a spintoni, e scagliata contro una rastrelliera di spade rivolte verso il basso, per mia fortuna.
– Spogliati! Muoviti! – ordinò e con un gesto mi strappò via il cappuccio dalla testa.
Istintivamente, mi coprii i capelli con entrambe le mani. – Tu, brutto…  bruto!
Altaïr m’afferrò per il bavaro del cappuccio, increspando il taglio alla bocca mentre ribadiva – Non te lo ripeterò più, donna! Togliti da dosso i miei vestiti, prima che decida di fartela pagare per il tuo scherzetto a Damasco!
– No! Non ti permetterò di molestarmi come questa mattina alle stalle!
– Cosa… ma che vai blaterando, femmina?
– Lo sai benissimo! Hai profanato le mie… il mio, tu hai… – Le guance s’incendiarono, il cuore fece un tonfo. – Tu mi ha palpeggiata, razza di depravato schifoso! – gridai furiosa.
La mia accusa lo fece arrossire dalla rabbia. – Adesso basta! – e iniziò a provare a spogliarmi con la forza. 
Ovviamente, non me ne stetti lì indifesa, e subito iniziai a dimenarmi, a scivolare e a sgusciare tra le sue braccia che tentavano di bloccarmi in tutti i modi, finché, esasperato, il ragazzo non fu costretto a rinunciare con un grugnito. Appena in tempo, perché qualche altro secondo e mi sarei abbandonata sconfitta contro la rastrelliera. Fu allora che mi resi conto di averlo colpito ripetutamente sullo zigomo mentre mi dimenavo, e adesso quel lato del suo viso era rosso come un pomodoro.
– Tu sei… un’arpia isterica ! – sbroccò ansimante. Quand’è che il sudore gli aveva imperlato la fronte e i capelli biondi, rendendolo così… strano?
– Prova a toccarmi di nuovo. – mormorai senza fiato – E io strillerò così forte che mi sentiranno tutti.
Non seppi se fu per il mio aspetto scompigliato, o se per la voce arrocchiata dalla lotta, fatto sta che  Altaïr andò appena su di giri, improvvisamente intrigato dalla sua nuova posizione di potere.
Avvertii il suo pollice calloso carezzare il tessuto della mia manica destra. Gli occhi gli vibravano, inquietanti.
– E cosa vorresti fare, piccolo uccellino? – sibilò malizioso. – Chiedere ai falchi di salvarti dagli artigli di un’aquila?  
Deglutii un boccone a vuoto, all’improvviso, l’idea di strillare non mi pareva più così buona.
– Tu fai tanto il gradasso, perché sei un Priore. Perché… sei un Assassino, Altaïr. Non è così?
Fu in quel preciso momento, che vidi l’idea malsana nei suoi occhi eclissarsi in un soffio freddo. Adesso, non poteva far altro che lasciare andare la presa su di me, e indietreggiare con una nuova, cupa consapevolezza nello sguardo. E me lo chiese. 
– Sei una Templare?
Sì, no. Sono una Chiaravalle. E sapevo che lui era un Assassino, perché mi trovavo ad Alamut. La mitica roccaforte siriana narrata nei sogni di Marco Polo.
– No, no non sono una Templare. –  fu la mia risposta definitiva.
Mi fissò per un tempo impreciso. Sembrava spaventato. Come se non riuscisse a capire che cosa avesse esattamente davanti.
– Te l’ha detto Kadar? – Fece un passo avanti. – È stato lui, a dirti queste cose?
Indugiai. Troppo. E alla fine, Altaïr si persuase che fosse così.
– Va bene. – Mi agguantò con forza sotto il braccio. – Forza! Andiamo a cercare quel tuo amante disgraziato! Vedrai, come lo gonfierò di botte!
– Kadar non è il mio amante! Lascialo stare!
Provai a svincolarmi dimenandomi come un’anguilla sulla battigia, ma era tutto inutile. Quel bastardo aveva una bella presa..
– Non è stato lui a dirmi queste cose, ti prego, non fargli del male a causa mia!
Finalmente, Altaïr mi permise di guardarlo in volto. – E allora, chi diavolo è stato?
– Messer Marco Polo! Lui mi ha detto di voi, lui… mi ha raccontato degli Assassini di Alamut!
– E chi diavolo sarebbe, questo Messer Polo?
Avvertivo che il mio cuore stava soffrendo nel petto, andava a più di cento battiti a minuto, tantissimi. – … Il Milione…è... è questo!
– Cosa?
Drizzai gli occhi su di lui, vacui, ma finalmente coscienti. – Nulla è reale… ma tutto è lecito. Questo non è un incubo qualunque. Questo… è il Milione!
Per un istante, pensai davvero che il delirio si sarebbe interrotto lì. Come quando, arrivato alla massima estensione temporale, l’astrale tessuto onirico viene squarciato dal freddo raggio d’acciaio, e in un attimo siamo di nuovo nel mondo reale.  
Ma quello non era un sogno. Era un’allucinazione. E le allucinazioni, sono realtà a occhi aperti.
– Tu… – Altaïr faticò a celare lo sconcerto – che cosa accidenti sei?
– Laura è mia sorella, Altaïr. E ti pregherei, adesso, di toglierle le mani di dosso. 

*         *         *

Non appena Kadar ebbe pronunciato quelle fatidiche parole, il volto di Altaïr divenne pallido come il cerone, la fronte si rilassò di botto e anche le venature tra il marrone e l’ocra dei suoi occhi si ridussero a una quiete surreale.
La sagoma di Kadar era luminosa, avvolta dai chiarori dell’entrata, ma se ci si soffermava sul suo volto scoperto, si poteva leggere un dipinto di chiaroscuri e pensieri torbidi in quegli occhi celestiali, tonde sfere luminose incastonate nelle palpebre bronzee. 
Kadar era molto stanco. Chissà perché, ma me ne resi conto solo a quel punto.
– Lei è mia sorella, Altaïr. – ripeté, spento. – È figlia di Faheem. Di mio padre. – Mi guardò. – Nostro. 
Il borioso Assassino non reagì subito. Dapprima, si staccò da me, lentamente, poi, liberò la tensione con un denso respiro, infine, abbandonò le braccia lungo i fianchi che ancora stringeva nella mano il cappuccio strappatomi via dalla testa.
– Che diavolo stai dicendo? Lei… tua sorella? – gettò fuori quelle parole come se fossero una blasfemia.
– Kadar, scusami, non avrei dovuto…
Ma lui mi mise subito a tacere. – Laura, ti prego, va’ fuori. – me lo chiese con gentilezza, ma era chiaro che non mi avrebbe perdonato più di quando fosse stato già fatto, se avessi osato contraddirlo. Per questo, obbedii da brava bambina silenziosa.
Ma prima, mi ripresi il cappuccio dalla mano di Altaïr, l’ultimo dispetto prima di scappare di corsa fuori e lasciarmi l’armeria alle spalle.
Attesi nel cortile in muratura per chissà quanto tempo.
Avevo anche provato a origliare i loro discorsi standomene disinteressatamente di spalle al muro accanto alla porta, ma Kadar era uscito e con voce piatta mi aveva chiesto di aspettare sotto l’albero. Il punto più lontano per orecchie troppo curiose. Sbruffando, mi ero quindi allontanata ciondolando come una bambina capricciosa, ma troppo colpevole per obbiettare alcunché. 
Non avevo proprio il fegato di contraddirlo.
Probabilmente, Kadar non aveva neanche dormito quella notte, tanto erano stati i pensieri che gli frullarono in testa.
Dopo venti minuti di annoiata attesa sprecata su e giù per la pavimentazione assolata, decisi di andarmi a sedere sotto le fronde dell’albero fresco, ma ero talmente stanca che, alla fine, finii col sdraiarmi e, sotto le sferze calde del vento, mi addormentai.
Sognai, addirittura, e nell’universo onirico all’interno della mia testa ero di nuovo una bambina. Correvo per un campo di girasoli, il mio corpo era leggerissimo, gli abiti impalmabili sotto le sferze amorevoli del vento, i capelli corti si gonfiavano ogni volta riaffondavo tra gli steli del campo dopo un saltello felice. Rotolai tra l’erba, ridendo, e istintivamente guardai a destra, sapendo di trovare un bambino dai grandi occhi di zaffiro. In cuor mio, sapevo che era Kadar a otto anni.
Poi, qualcosa nell’aria cambiò. Girò il vento, il cielo s’illividì, lentamente, i girasoli si piegarono su se stessi.
Davanti a noi, adesso, c’era un uomo. Ed era affascinante, quel tipo di bellezza artefatto dai ghirigori infiocchettati dei sogni, ciononostante, qualcosa in lui faceva anche molta paura. Erano gli occhi. Gialli, come quelli del demonio.
L’uomo mi chiamò a se con un gesto della mano, sembrava volermi afferrare con la sola forza del pensiero. Per qualche ragione, io mi alzai, e gli andai in contro. Allora, Kadar mi fermò, e improvvisamente mi resi conto che non eravamo più dei bambini, e che i suoi occhi, belli e splendenti, erano divenute due fosse luttuose.
“ Devi andartene di qui. O ti ucciderà. ” disse e la sua voce era straformata, una mescolanza indistinta di esseri ancestrali.
Chi? Chi mi ucciderà?
Kadar aprì la bocca per un’ultima profezia. E dai suoi denti uscì uno sciame di vespe nere.
Mi risvegliai sotto le frasche parlanti nel cortile, sdraiata col volto all’aria e il cappuccio di Altaïr adagiato sulla pancia. La porta dell’armeria era socchiusa, ma riuscivo a vedere il braccio di Kadar, o forse, era di Altaïr.
Ci volle un po’ affinché il mio laccio mentale scattasse a riadattarsi sulle rigide forme del mondo reale, ancor più tempo a ravvedermi, e alla fine tutto ciò che ottenni fu solo un’enorme confusione.
Ricorda, Laura: terzo giorno a Masyaf, anno 1191. Terza Crociata. Terrasanta.
Era un lunedì, forse… sì, era lunedì.
Ancora intontita dal sogno, feci leva sulle ginocchia per alzarmi da terra, quando un suono fragoroso, simile alla risacca che s’infrange sulle rocce, piombò dal cielo nel cortile, rimbombando tra le sue mura.
Impiegai meno di mezzo secondo per riconoscere il clangore di una folla in delirio.
Ma da dove veniva?
Istintivamente, il mio sguardo si vibrò oltre la mia testa. Il tempo di prendere quella decisione, che già mi stavo arrampicando su per l’albero, arrivando, grazie all'azione improvvisa dell’adrenalina, tra i rami più alti in meno di trenta secondi.
Considerando che non mi arrampicavo su un albero da sei anni, era un nuovo record personale.
Da lassù, provai a sbirciare oltre le mura del cortile, ma i cornicioni di pietra, gli innalzamenti della struttura e la grossa torre nord ostruivano completamente la mia vista per almeno tre chilometri.
All’improvviso, il ramo sotto di me si piegò in un crepitio agghiacciante.
Riuscii a malapena a trattenere un urletto dal petto, mi slanciai disperatamente in avanti ed ecco che fluttuai nel vuoto per gli otto secondi più lunghi di tutta la mia vita.
Le ossa emisero un singulto strozzato quando atterrai sul tetto dell’armeria adiacente, rotolando via da lì per qualche metro, finché, finalmente, il mio corpo si fermò in un gran polverone. Il dolore  fu più acuto del previsto, ciononostante non mi commiserai allungo nel mio stato agonizzante, e con un rantolio riuscii a tirarmi in piedi.
Sentivo che il volto era graffiato, i palmi scorticati, il cappuccio stretto in mano macchiato da un rivolo di sangue fuoriuscito da una ferita superficiale sulle nocche.
Poi, mi accorsi che da lì sopra riuscivo a vedere lo scorcio in lontananza di una gran folla nella piazzola all’entrata della roccaforte, ma nulla più che potesse chiarirmi le idee. Dovevo avvicinarmi di più.
E giacché ero lassù, magari avrei potuto sfruttare la nuova via per velocizzare i tempi.
Così, mi concentrai sulle sensazioni stimolanti in circolo nel mio corpo: il sangue che pompava adrenalina, il prurito alle dita, il cuore che frullava con la potenza di un colibrì. Ecco, proprio così.
Sorrisi, dunque, infilai il cappuccio sopra la testa. Mi piegai in posizione di scatto.
Non dovevo far passare quelle sensazioni.
Ed eccolo lì, quel recondito istinto primordiale a riposo nel mio petto, che arrivò ad avvolgermi nel vento della sua follia.
Un colpo d’ali. E schizzai in corsa. 
Per i primi metri ci andai piano, di tanto in tanto accennavo a un saltello per poi atterrare sulla cima del muretto in posizione raccolta, ma le ali sotto la mia pelle fremevano, volevano uscire a prender più aria, e così accelerai. Decisi che non avrei atteso per tentare qualche tirata più ardita.
Così, percorsi le impalcature e le ossature in pietra tra un’area e l’altra del castello quasi in volo, più di una volta rischiai di scivolare giù e una volta accadde anche, ma il fato volle facilitarmi il compito e mise la volta a crociera di un porticato. E a mano a mano che lo sciamare di suoni e rumori aumentava, anche i miei battiti cardiaci acceleravano sensibilmente, diventando un tutt’uno col fremito impercettibile delle mie ali al vento.
Quand’era stato, che avevo smesso di correre in quel modo, a rischiare la pelle, a tentare di spiccare il volo?
Per mia fortuna, gli ardori della folla raccolta nel piazzale interno esplosero davanti a me appena in tempo per impedire alla mia frenesia crescente di procurarmi un qualche serio danno. Finalmente, potei fermarmi a riprendere fiato sul tetto.
L’intera area era stata ghermita da un numero spropositato di guerrieri e alcune sentinelle, accorse lì per assistere all’inaugurazione dell’arena al centro del piazzale, molti erano sul bastione difronte, altri, invece, accalcati attorno alla recinzione allestita. 
Sapevo che nessuno mi avrebbe notata lì sopra, perché erano troppo presi dall’isteria collettiva, e l’ombra della torre mi nascondeva bene sul tetto.  
Così, potei assistere tranquillamente all’entrata in scena di Al Mualim, tutto avvolto nei suoi abiti raffinati, che si affacciò dal suo balcone a presiedere come giudice onnisciente sulla baraonda variopinta dei cappucci. 
Il Veglio fece un breve discorso preparatorio, che però non sentii a causa del riecheggio della sua voce strozzata, ma capii quand’ebbe finito perché ci furono grandi applausi e poi l’entrata al recinto di due guerrieri in bianco. 
Questi si diedero battaglia con vigore e ammirevole determinazione, i colpi che si scambiarono erano di fuoco e producevano scintille violacee che erano visibili fino al mio punto. Poi, uno dei due cedette alla controffensiva dell’altro, e accasciandosi a terra alzò il braccio all’aria. Al Mualim dichiarò a gran voce il combattimento concluso.
A quel punto, una nuova serie di combattenti si preparò per il recinto.
– Ah, beh! Non male, la vista da qui! Ottima scelta, ragazzina.
Riconobbi la voce di Altaïr ancor prima di guardare alle mie spalle, e allora lo vidi che a braccia conserte mi scrutava senza abbandonare il sorrisetto sornione delle sue belle labbra.
– Come ci sei arrivato qua sopra? – domandai, sorpresa.
Stiracchiò lo sfregio alla bocca in un sorrisetto. – Io? Ma guarda. E pensare che credevo fosse strana una fanciullina in abiti da uomo, e invece, addirittura si arrampica come un ladruncolo da porto!
Arrossii tutta sotto il cappuccio. – Io non sono una fanciullina. Ho diciotto anni, accidenti.
– Ad ogni modo. – E mi guardò come se aspettasse una qualche spiegazione.
Non so bene perché lo notai solo in quel momento, ma tutto d’un tratto il colore insolito dei suoi occhi mi disturbava molto. Gialli. Come quelli di un demone.  
– Sono venuta a vedere cos’era tutto questo baccano. – risposi velocemente, forse per levarmi dalla testa quel ridicolo pensiero che, però, si era infilato molto in profondità nella coscienza.
– Un’amante della violenza? 
Lo scrutai, offesa. Poi, guardai alle sue spalle, e chiesi – Dov’è Kadar?
Anche lui si guardò indietro. – Ah. – sospirò – Non lo so. Suppongo ti stia cercando.
– Capisco. – e tornai a guardare il combattimento nel recinto. Quand’è che erano divenuti tre i combattenti? Avevo mica perso un round?
– Mh.
Spiai sopra la mia spalla destra. – Mh, cosa?
Altaïr si avvicinò di due passi, poi stese il braccio in avanti e mi sfilò il cappuccio dalla testa. I capelli ricaddero fluidamente lungo la schiena, riversando dolci riverberi castano-rossicci, lo stesso colore dei miei occhi. Dall’espressione che gli colorì il volto, capii che Altaïr si fosse appena ricreduto sulla mia inopinabile femminilità. 
– Beh, non c’è dubbio che tu sia una donna. – commentò mentre s’infilava il cappuccio in testa, e tornava a essere il cupo mietitore senza volto che era sempre stato. Forse mi sbagliavo, ma ero pronta a dire che non fosse del tutto a suo agio coi capelli di grano sparsi al vento, e che le ombre fossero più confortevoli per lui. – E pure una bella donna, a essere onesti. Ma sai , “ figlia di Faheem ”… – Si accovacciò al mio fianco, sorridendo. – Io sono un tipo un po’ seccante. E per quanto il tuo bel faccino, quell’aria da straniera… riesca a irretire il buon senso di un qualsiasi essere con un pene, ebbene, io sono un po’ più aspro, lì sotto. E non m’incanti. Kadar, forse, può anche essersi bevuto l’idiozia che gli hai propinato, che sei sua “sorella”… ma io e te sappiamo che è una bugia. Non è vero?
Per un istante infinito, il mio petto rimbombò a tempo di tamburi di guerra.
Che cosa gli aveva raccontato, Kadar, con esattezza? Che cosa si erano detti in quella maledetta armeria?
Possibile… che lui, proprio lui, mi avesse tradito? Che avesse rivelato il mio scomodo segreto, che mi avesse venduto a quel terribile uomo dagli occhi di gatto come la figlia dell’odiatissima prosapia dei Chiaravalle?
Non trovai la risposta alle mie domande quel giorno, giacché l’arrivo di due combattenti all’arena attirò l’attenzione dell’Aquila come un paio di furetti in mezzo alla neve.
– Oh! – esclamò sardonico – Guarda un po’, chi sta per entrare nel recinto adesso!
Nemmeno il tempo di abbassare lo sguardo tra la folla, che la sagoma di Kadar spiccò luminosa tra altre centinaia. E proprio al suo fianco, c’era qualcuno che avevo già avuto il piacere di conoscere, giù alle mura.
Quel tale impiccione, quel Malik Al-Sayf, esibiva orgogliosamente il cappuccio bianco degli Assassini mentre conduceva Kadar al recinto, per combattere contro due temibili avversari, già in posizione nell’arena: uno mingherlino con l’aria di una spada lesta, l’altro, invece, un toro alto due metri con una vecchia cicatrice di battaglia sulla pelata e l’espressione eccitata di un boia poco prima dell’esecuzione.
– Che cosa sta facendo Kadar? – Senza accorgermene, ero già saltata in piedi.
– È un’usanza del recinto. – spiegò tranquillo Altaïr. – I membri più valorosi dell’Ordine inaugurano il campo col sangue, si fa per dire, per prepararlo ai Professi. I Professi non sono parte effettiva dell’Ordine, perché non hanno ancora giurato fedeltà alla Causa, ma hanno dato il loro promissorio e quest’oggi, finalmente, dopo due anni di preparazione, sono pronti per il giuramento assertorio. Sai, ci sono alcuni su cui non punterei nemmeno una moneta, tipo quello là in fondo.
– Perdiana, chi se ne frega dei tuoi Professi! Quello là nel recinto non è un uomo, è un toro! Kadar si farà ammazzare!
– Tranquilla, donna. Tuo fratello si assicurerà che non si faccia male. Come sempre.
Quando poggiai di nuovo i miei occhi su di lui, erano divenuti lucenti come una pietra nera.
– Fratello…?
Il suo volto s’accese di una luce sinistra. – Oh-oh. Non lo sapevi?
Poi, Altaïr disse qualcos’altro, ma la mia mente era tornata  già ai due ragazzi, ora così simili e vicini, che mi rimproverai per non essermene accorta prima. Il profilo deciso del naso, il taglio degli occhi, il modo che entrambi avevano di alzare le sopracciglia.
“ Figli di Faheem”.
Malik e Kadar erano fratelli. 






Angolo autrice:

Ed eccomi di ritorno, con un nuovo aggiornamento! Yeeep!!! Questa volta sono riuscita a pubblicare in una tempistica decente! :D
Ad ogni modo. Tornando seri. * Si fa per dire *
Laura ha finalmente capito che si trova tra gli Assassini, ma, soprattutto, che Malik e Kadar sono fratelli! Però, lei è convinta che ciò che sta vivendo è solo la rielaborazione di ciò che ha letto sette anni fa nel libro di Marco Polo. Mh.
C’è ancora molto lavoro da fare con questa nostra miscredente. Chissà come la prenderà, quando scoprirà che non erano tutte fantasticherie di un mercante veneziano, i racconti attorno al Veglio e i suoi seguaci bianchi…
Nel prossimo capitolo arriverà un nuovo personaggio, che alcuni di voi forse conosceranno già, e che ha già fatto la sua piccola comparsata.
E l’uomo con gli occhi gialli del sogno?
Beh, diciamo solo che nulla è come sembra… ma che tutto è lecito! Vi avevo promesso delle migliorie in questa storia, no? Ebbene, ho in mente un bel progetto… ma, ok, sto spoilerando. Basta, dovrete scoprirlo assieme a Laura! :p 
Grazie a tutti coloro che passano di qui e lasciano un segno, che sia con una recensione, o con una semplice visita. So che per voi non è nulla, ma vedere il numerino del contatore che sale è di grande incoraggiamento per me. Questa storia esiste solo grazie a voi, e vi AMO. <3

Baci,

Lusivia
 


  
      
 

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Capitolo 6
*** Un bicchiere con l'Assassino ***


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                                                                            Capitolo 6

                                   Un bicchiere con l’Assassino










Kadar fu il primo a sguainare l’arma bianca dal fodero.

Il suo avversario era Spada Lesta, che alla prima offensiva deviò il fendente dell’avversario e, roteandogli attorno come una ballerina della morte, tentò un affondo che andò quasi a segno.

Se solo il giovane cenerino fosse stato uno sprovveduto alle prime armi; in verità, Kadar era una combinazione formidabile di scaltrezza e velocità.

Colpiva energicamente, raggirava il suo avversario e lo centrava senza alcuna pietà, in una sequenza di movimenti assieme fluidi e brutali, e per un istante mi ritornò in mente quel pomeriggio assolato della mia infanzia; avevo rotto un vaso giù in salotto, uno di quelli azzurri e bianchi di una certa dinastia cinese, e adesso mia madre mi stava cercando furibonda per tutta la casa. Kadar apparve dietro le tendine in cui ero nascosta, e sorridendomi mi suggerì di fuggire sul tetto di casa.

A guardarlo adesso, quel feroce guerriero nell’arena non aveva nulla a che fare col mio dolce fratello angelo.

Nel frattempo, Malik aveva già ingaggiato uno scontro col minaccioso Uomo Toro.

Allo stesso modo del primo, il maggiore dei fratelli Al-Sayf non tardò a manifestare un’innata grazia e mirabile tecnica sin dal primo cozzare delle possenti spade.

Notai subito che prediligeva attacchi precisi e rapidi sui punti ciechi del suo massiccio avversario, quelli che aveva silenziosamente individuato mentre incassava i primi colpi dello scontro, e che adesso si manifestavano ai suoi occhi come una mappa di fili rossi.

Il suo schema di combattimento era pressoché perfetto.

Rovescio, parata, guardia alta. La spada scatta, un tentativo di affondo in avanti, reso nullo da una spazzata di lama, la polvere si alza e spande nell’aria. Una piroetta, di nuovo in posizione, i polmoni tossiscono fuori la terra, i denti digrignano, i capelli sudano, era un ritmo incalzante.

Ovviamente. Perché, me ne resi conto solo ora, i ranghi che portava addosso Malik erano splendenti come quelli dei priori.

– Mi sembri turbata. – la voce saccente di Altaïr arrivò graffiante alle mie spalle. – Che c’è, bimba? Per caso gli spargimenti di sangue turbano la tua timida sensibilità?

Magari, se fossi stata in vena, gli avrei risposto che avevo visto più ossa rotte di qualsiasi altra fanciulla borghese rinchiusa nella foresta di una valle sperduta, tant’erano state le volte in cui ero scivolata dal tetto.

Ma ora avevo qualcosa, ramificato nello stomaco. Qualcosa di appuntito, e freddo, e pruriginoso come l’edera. Qualcosa come il sentimento cocente del tradimento, e m’impediva di parlare.

– Kadar… non ha fatto altro che mentirmi su chi fosse realmente. – la mia voce era sofferente, il lamento di una donna tradita dal suo uomo.

Rido, adesso. Perché mi rendo conto che dell'epoca il mio cuore sapeva già ogni cosa, ma la mia mente era ancora troppo spaventata per ammettere un qualcosa di così sconvolgente, qualcosa a cui non ero ancora pronta.

– Presuntuoso, detto da una che sostiene d’esser sua sorella! – esclamò ridendo.

Irritata, alzai lo sguardo verso la macchia bianca del suo cappuccio, straordinariamente luminoso con il sole di mezzogiorno, pareva un’aureola in testa a un bellissimo demonio.

– Come ha fatto Kadar a corromperti? Perché ancora non corri a denunciarmi al Veglio, eh? – domandai a quel punto, cupa in viso.

Mi diede due buffetti gentili sui capelli. – Questi non sono affari tuoi, bimba.

Gli schiaffeggiai via la mano. – La smetti di chiamarmi bimba? Io non sono tua figlia, non sono una bambina e non sono nemmeno tua amica!

Colpito dalla mia propensione naturale all’insolenza, l’Assassino sollevò la mano dalla mia testa e fece un passo indietro, quasi per paura di essere morso. – Mia figlia? Suvvia, non sono poi così vecchio, tesoro! – Poi mi squadrò per mezzo secondo, ed esordì – Lascialo perdere, che è meglio.

Il suo volto era un’ombra piatta, ma la voce tradiva un sentimento di fastidio.

Mi accigliai. – Di che cosa stai parlando? – chiesi scocciata.

– Di Kadar. Lascialo perdere, o non farai altro che renderglielo più complicato.

– Complicato, cosa?

Lui scosse la testa con un sorriso biasimevole. – Sei carina, ma non troppo arguta, eh. Tu continui a carezzarlo e a stordirgli la mente col profumo inebriante delle tue bugie, forse perché ti annoi, o magari hai un doppio fine, questo non lo so. Ma se continuerai a rimbecillirlo in questo modo, ebbene… – Indugiò per un attimo. – Kadar è solo un ragazzino, bimba. Non illuderlo di potersi fidare di te.

– Io non lo tradirei mai. – sibilai piccata, profondamente offesa.

– Certo che no. Ma dimentichi una cosa.

Vidi Altaïr chinarsi al mio fianco e sedersi sui talloni, incrociando le dita mollemente sospese tra le sue ginocchia. Adesso, potevo vedere la sua ferita, ancora vivida sulla bocca, aguzzarsi in un sorriso impaziente.

– Indipendentemente da chi tu sia, o da cosa sei venuta a fare a Masyaf, Kadar è prima di tutto un Assassino. È cresciuto tra queste mura che era solo un moccioso in fasce, ha massacrato il suo corpo negli addestramenti per anni e, un giorno, ha votato la sua esistenza per il Credo. E il Credo viene prima di tutto.

Allora, tese la mano con la lama celata verso di me. Sussultai, ritraendomi troppo tardi.

Prese un ciuffo dei miei capelli tra le dita e l’arrotolò pigramente attorno alla prima falange, mentre i suoi occhi si divertivano a farmi cambiare il colorito del mio volto, da bianco a rosso cangiante.

All’improvviso, avevo il respiro grosso.

– E il Credo viene prima anche prima di te, bimba. Per cui, quando quel giorno arriverà, vedi di non fare la gelosa, d’accordo?

In altre circostanze, probabilmente gli avrei dato un pugno in faccia, e magari lui l’avrebbe anche rimandato sul mio naso per istinto, tanto era abile. Ma quella volta accadde qualcosa di assordante nella mia testa.

Qualcosa che squarciò definitivamente qualsiasi mia dorata illusione e mi lasciò lì, intontita.

Per Kadar sarei sempre, solo stato un peso, un fastidio che non valeva nemmeno la pena di raccontare a suo fratello, una pena, un’intrigante ragazzina che si era ficcata in testa di potergli scombussolare così la vita senza neanche la decenza di dirgli grazie.

In quell’istante, decisi che sarei partita da Masyaf quel giorno stesso, dopo aver convinto mastro Frye a cedermi uno dei suoi puledri, avrei salutato il piccolo garzone e mi sarei persa per dieci giorni nel deserto, prima d’esser trovata dai briganti o, se ero fortunata, d’intravedere le alte porte di una qualsiasi metropoli siriana.

E lo avrei fatto, perché d’un tratto non volevo più stare accanto a Kadar.

Tuttavia, il destino aveva disposto altri tasselli nel mio percorso.

Era stato improvviso. Una freccia che mi trapassò trapassato il cervello, il grido del dolore lacerante della carne che si tagliava.

Scattai sul bordo del tetto così in fretta che per poco non scivolai in avanti, forse Altaïr mi tenne per la cintola rossa, ma in quel momento avrebbe potuto anche prendermi a calci, io non avrei sentito nulla.

Kadar era finito ai bordi dello steccato, completamente disarmato dall’ultimo fendente del Toro, la spalla gli sanguinava copiosamente e ciò m’impediva di stabilire la gravità della ferita, gettandomi in un panico cieco.

Allora, vidi Malik tentare di raggirare Spada Lesta per soccorrere il fratello, ma l’altro era deciso a volersi vantare di aver sconfitto un priore e pertanto tagliò a Malik la strada con la sua lama, costringendolo a finire l’incontro con lui. Quello digrignò, saltò indietro e fu costretto a combattere per parare gli attacchi incalzanti.

A quel punto, guardai disperatamente Al Mualim, pallido fantasma guardiano che svolazzava al vento coi suoi abiti scuri, e sperai che intervenisse per bloccare quella follia.

Ma non lo fece. Non si mosse di un solo muscolo. Rimase lì, inespressivo, a guardare mentre Uomo Toro prendeva ad avanzare verso Kadar.

Sapeva che era uno scontro dispari. Ma voleva che il giovane novizio dimostrasse di poter affrontare qualsiasi avversario.

E Kadar, fiero e impavido com’era, non mancò di combattere strenuamente fino alla fine.

Deviò i feroci fendenti del Toro con coraggio, schivò gli affondi nonostante il sangue che sgocciolava qua e là sulla sabbia rovente, riuscì perfino a lacerare il tessuto sopra la spalla, mentre Malik lo incitava e si sgolava sotto gli schiamazzi goliardici della folla.

Tuttavia, l’uomo contro di cui Kadar combatteva era più brutale e forte d’energie, e alla fine riuscì a prendere il sopravvento.

Il vecchio infortunio di Kadar alla gamba gli giocò un brutto tiro e lo costrinse a mettere un piede in avanti quando non avrebbe dovuto, facendolo scivolare sul suo stesso sangue. Cadde di mento a terra, e ancora intontito riuscì comunque a deviare il colpo in arrivo. Neanche Malik poté aiutarlo a quel punto, perché gli attacchi sconnessi di Spada Lesta gli impedivano di aprirsi un varco.

– Altaïr, aiutalo! – gridai nella foga del momento, ma mi fu subito chiaro che non avrebbe alzato un solo dito.

In quel momento, qualcosa scattò in me.

Sfilai il cappuccio dalla testa Altaïr con uno scatto fulmineo, probabilmente strappandogli via anche qualche capello, e scampando per un pelo ai suoi artigli mi calai sull’estrema tegola del tetto.

Non avevo mai fatto una cosa del genere, soprattutto, non così velocemente, e, infatti, il peso del mio corpo piombò su di me tutto d’un botto, trascinandomi rovinosamente sul terreno sottostante.

Un dolore lancinante per tutto il corpo, Altaïr che mi malediceva dal tetto, il terreno girò vorticosamente sotto la mia guancia schiacciata per qualche secondo, poi, la volontà di qualche forza divina che m’impose di rimettermi subito in piedi.

Iniziai a correre verso la calca quasi zoppicando, ormai, le intimidazioni rabbiose dell’uomo sul tetto me l’ero lasciate alle spalle. Mi aprii una breccia tra la baraonda di corpi muscolosi, sulla testa avevo già la rassicurante ombra del cappuccio.

Spinsi, sgomitai, gridai affinché mi lasciassero passare, e alla fine qualcuno si girò anche, pronto a iniziare una rissa in piena regola, se solo il suo vicino non gli avesse ammonito di non rovinare l’Inaugurazione.

Poi, finalmente, i bordi del campo.

Kadar adesso era a terra, la sua spada troppo lontana perché potesse riprenderla, il braccio gli sanguinava molto ma ormai non se lo reggeva più; ora era l’ultimo dei suoi pensieri. Infatti, il Toro era pronto a porre fine al loro incontro.

Chinai lo sguardo sul tizio davanti a me, sotto il suo gomito sbucava il pomo di una spada.

Non pensai. Gliela sfilai. E anche se pesava terribilmente, in quel momento l’adrenalina fu più forte di tutto e narcotizzò i miei parametri di giudizio.

Saltai nel recinto, le suole schiacciarono il sangue rappreso nella polvere, corsi incontro a Kadar e il Toro, storsi il corpo fino all’esasperazione, i tendini si stirarono e il corpo divenne di legno mentre tentava di tenere diritta la spada dinanzi a Kadar, nelle mie orecchie c’era solo il frullo assordante della folla.

Qualcosa che piombava a peso morto sul filo della lama. E mi ritrovai a cadere sotto l’urto della collisione, ruzzolando sul terreno mentre la spada mi schizzava via dalla mia mano, come se qualcuno l’avesse appena calciata via.

L’aria era immobile.

Io ero stesa al centro dell’arena, Uomo Toro fermo difronte a me, la sua spada ancora spostata di lato per la deviazione improvvisa di quella lama fantasma sbucata tra lui e Kadar esattamente nel momento giusto. La mia lama.

L’aria era immobile.

La folla non esultava più, non incitava più alla battaglia, all’improvviso, anche lo scontro tra Spada Lesta e Malik si era fermato, tanta era l’assurdità di quanto appena accaduto sotto i loro occhi.

L’aria, finalmente, era immobile.

E capovolta all’ingiù, potei vedere lo sguardo rovescio del Gran Maestro fissarmi fortemente contrariato. Come se mi avesse riconosciuto.

– Tu, brutto infame guastafeste! – fu il ruggito del Toro, offeso e umiliato dalla mia intromissione, a frantumare quella stasi sulla scena.

Mentre ero ancora intontita a terra, lo vidi slanciarsi verso di me, enorme come una montagna, allora ebbi appena il tempo di sentire Kadar urlarmi di scappare, che qualcosa di molto simile a una breccia d’aria si fiondò nella coscia del Toro, rallentandolo per qualche secondo.

Un pugnale da lancio.

Alzai lo sguardo in alto, verso i tetti, e posso giurare di aver visto Altaïr salutarmi prima di dileguarsi verso i cortili interni, lasciandomi lì con un timido sorriso inebetito, quasi commosso, e stupidamente distratto.

Thud! Qualcosa mi colpì in piena faccia.

Caddi di guancia nella polvere come una pera cotta, paralizzata dalla stessa adrenalina nel mio corpo. Dolore. Un immenso dolore al centro della faccia. Così grande che non ricordavo di averlo mai sentito in tutta la mia vita.

Rammento che Kadar si lanciò urlando su Uomo Toro, che lo atterrò sotto il suo corpo minuto e iniziò a colpirlo, e che a Malik ci vollero altri tre uomini per riuscire a separare quei due, che nonostante le loro condizioni si davano ancora addosso come due mastini.

L’ultima cosa che ricordo è l’ombra delle vesti di Al Mualim, che senza proferire parola si dileguò sul balcone.


*       *      *

Malik era molto apprensivo verso il futuro, soprattutto di suo fratello, e a volte manifestava un’eccessiva tendenza al controllo.

Che si trattasse di stoltezza, protervia o saggia lungimiranza, qualsiasi decisione lui prendesse era stata prima attentamente studiata, ponderata e macchinata per un totale minimo di venti secondi con un cruccio intenso sul viso e la bocca storta tra le dita; venti secondi, il tempo necessario, diceva lui, per scongiurare scelte prese di foga e agire sempre nel meglio di noi stessi.

A quei tempi, la sua mania del controllo mi ricordava molto Erica.

E adesso, che guardo con dolcezza a quei giorni passati, mi rendo conto di quanto quei due fossero dannatamente simili; forse, fu per questo che legammo così bene.

Non ricordo com’è che finii dentro il refettorio sotto i portici fioriti, né com’è che Kadar si ritrovò col braccio fasciato, o di chi era il volto che mi aveva passato lo straccio bagnato d’acqua fredda per tamponare l’emorragia al naso, gonfio e rosso come un peperone, ma per qualche stupida ragione non potei mai dimenticare il profumino delizioso dell’impasto di grano alle erbe che la servetta stava lavorando in cucina poco più dietro.

Probabilmente, era perché non mangiavo da tre giorni, che lo stomaco mi tormentava con immagini succulente e invitanti.

– Chi di voi due ha avuto quest’idea? – la voce di Malik era profonda, ma straordinariamente cristallina mentre ci scrutava con snervata impazienza.

Dopo qualche esitazione, Kadar sollevò lo sguardo dalle sue ginocchia divaricate, posandolo appena su di me. Anch’io lo fissai, celata tra l’orlo del cappuccio e la stoffa del canovaccio inzaccherato di sangue, ma se solo avrebbe indagato un po’ più affondo, allora avrebbe visto nel mio corpo la tensione sfiancante dell’attesa.

Il ragazzo si rivolse al fratello, che attendeva ricurvo coi palmi sul tavolo, e gli rispose.

– Abbiamo fatto una scommessa. Chi di noi due sarebbe riuscito a rubare i vestiti di un priore si beccava un dīnār.[1]Nadim non voleva, ma io l’ho costretto. Mi assumo tutte le responsabilità.

Scioccata, abbassai lo strofinaccio sulle ginocchia, stringendolo forte attorno al pollice fino a farlo diventare bianco. Perché quello stupido si stava prendendo la colpa per entrambi?

Ma soprattutto, per quale ragione Malik non ci stava ancora strillando addosso?

Se ne stava lì, in piedi, a scrutarci con l’espressione compassionevole di chi aveva capito fin troppo bene la presenza di un tacito accordo di collaborazione e protezione, ma a differenza di quanto pensava, non era l’alleanza di due compagni di bravate, il nostro, strano legame.

Poi, senza alcun preavviso, il priore scavalcò la panchetta una gamba per volta e si sedette difronte a noi.

– Pensaci bene prima di assumerti questa responsabilità. – lo invitò paziente il fratello. – Ascoltami. Mufeed è stato ferito da un pugnale vagante, ha un tendine rotto ed Al Mualim è molto arrabbiato di aver perso uno dei suoi Assassini migliori per le missioni del prossimo mese. Se non vuoi mettere in mezzo Nadim, almeno, non prenderti la colpa per quel lancio. Dimmi chi è stato, Kadar.

– Non conosco il volto del lanciatore. – Ed era la verità.

Lo sguardo d’onice dell’altro s’indurì. – Non osare mentirmi! Lo so che a Rauf piace lanciare i suoi pugnali sui novizi per spaventarli, non mi sarebbe difficile credere che si sia intromesso per aiutarti da qualche tetto!

– Non è stato Rauf.

– La tua lealtà vale per caso più della promozione? Perché è a questo che stai rinunciando adesso, alla possibilità di conquistarti un rango!

Kadar fece una smorfia di dolore, per un momento sembrò vacillare. – Non importa. Ormai, ho preso la mia decisione, Malik. – decretò alla fine, ormai, era deciso ad andare fino in fondo per la strada che si era scelto.

– No, Kadar, aspetta. – bisbigliai al suo orecchio, affinché solo lui potesse sentire la mia supplica disperata, ma quando provai a prendergli una mano sotto il tavolo lui la ritrasse.

Malik, a quel punto, si trovò diviso tra due emozioni: i sentimenti del cuore e il dovere dei propri ranghi; doveva studiare un attimo la questione. Allora, intrecciò le dita davanti al suo naso, pressò i pollici contro la sua barbetta scura e, con un freddo animo machiavellico, iniziò a elucubrare, intenso, contrariato, sconcertato.

Passarono i venti secondi. E ,finalmente, Malik riemerse con la risposta scritta nello sguardo.

– E va bene. Recita il Credo degli Assassini, Kadar.

Sulle prime, rimasi colpita dalla richiesta di Malik, quasi gli stesse chiedendo di confessarsi ai piedi dell’altare, e fu proprio con quello spirito che Kadar rispolverò le vecchie cantilene con cui lo avevano ammorbato dalla fanciullezza all’età del sacro rito, recitando, seppur un po’ intimidito dalla mia presenza, la preghiera degli Assassini.

Quando gli altri seguono ciecamente la verità, ricorda: nulla è reale. Perché la società è una creazione umana, imperfetta e fragile, e tocca a noi essere i pastori della nostra stessa civiltà. Quando gli altri si piegano alla morale e alle leggi, ricorda: tutto è lecito. Perché l’uomo è nato libero e uguale al suo fratello, e come tale è l’architetto del proprio destino. Ciò vuol dire prendere consapevolezza delle proprie azioni e convivere con le loro conseguenze, che siano essere gloriose, o tragiche. Nulla è reale. Tutto è lecito.

Finito di parlare, Kadar rimase con Malik sospeso nella solennità di quelle parole che ancora alleggiavano nell’aria, mentre io… io avevo un terremoto dentro, uno stupore, un indescrivibile stato di shock, un senso di vago smarrimento.

Quella che era una filastrocca per i brutti incubi, all’improvviso, mutò di significato sotto i miei occhi.

Mutò le forme e i colori e le sagome e il sapore, entrandomi nella pelle, invadendomi i polmoni, contaminando ogni globulo rosso, scrivendosi lungo ogni centimetro del mio corpo, sopra i miei vestiti, fino ad aderire ai miei pensieri e gonfiarmi la testa come un pallone elettrostatico, pieno d’aria compressa.

Perché, all’improvviso, mi sentivo di aver frainteso ogni cosa?

Perché, adesso, ero convinta più che mai che Altaïr avesse detto la verità su di me e Kadar, sull’ineluttabilità del nostro triste destino, come una profezia, una finestra su ciò che sarebbe accaduto?

All’improvviso, sentii la panchetta sobbalzare. Il giovane cenerino era in piedi dietro di me, stava raggirando il tavolo per andare nell’ufficio del Gran Maestro. Voleva consegnarsi.

Presa da un impeto che veniva dal profondo, gli corsi dietro per acchiappargli la manica della giubba.

– Non farlo, non consegnarti al vecchio. Ti punirà. – lo supplicai a fil di voce.

Lui mi scrutò, aveva gli occhi più chiari del solito, quasi trasparenti. – Non lo faccio per te. – disse e con uno strattone gentile riuscì a liberarsi, uscendo dalla stanza senza più voltarsi. Fu come se mi avessero strappato dal fianco un pezzo di carne.



*      *       *


Malik chiamò una delle ragazze in cucina perché portasse del vino da condividere con me, come tra amici, come se avesse in qualche modo avvertito il mio improvviso senso di smarrimento lasciato dal profumo agro del fratello.

Ma quello che portò la servetta dalla pelle lucida e le braccia tintinnanti non era semplice vino del mercato di Masyaf, bensì, un rosso corposo e fresco di mattinata giunto dai carri di Shiraz, una lontana cittadina nel Fars [2] governata dalla dinastia turca dei Selgiuchidi, di cui conoscevo la raffinatezza e la passione per i vini più ricercati di tutto il Levante da una ricerca che feci per Suor Agata sotto Natale.

Ovviamente, la pacata gentilezza che l’Assassino mi mostrò quando, con un gesto affabile, m’invitò a unirmi a lui al tavolo, mi lasciò terribilmente spiazzata, specialmente ora, che avevo appena mandato suo fratello a incolparsi al posto mio, non capivo come potesse volere la mia compagnia.

Che stesse pianificando di farmi ubriacare per bene, prima di riempirmi di botte e trascinarmi di peso da Al Mualim a confessare ogni cosa?

Di questo non potevo esserne certa. Allora, cos’altro avrei dovuto fare, se non indossare un’ultima volta gli abiti del giovane e misterioso Nadim, sedermi al tavolo difronte all’Assassino dagli occhi neri e brindare a coppa alta alla Confraternita?

Semplicemente, avrei dovuto essere accondiscendente, brindare e resistere fino all’arrivo di Kadar, così Malik non si sarebbe insospettito troppo.

Sospirai. Se Kadar sarebbe tornato a prendermi.

– E allora, Nadim. – fu Malik ad aprire i giochi, cortese e onnisciente nel suo ruolo d’anfitrione. – Quando non vai in giro a rubare i ranghi dei priori, di solito indossi gli abiti del novizio? È così che hai conosciuto mio fratello, no? Negli allenamenti.

Il vino mi finì di traverso, staccai la coppa dalle labbra con uno scatto e iniziai, tra un colpo di tosse e l’altro, a picchiarmi il pugno sul petto.

– Sì. – gracidai, senza più fiato. – Sì, è … è esatto. Ci siamo conosciuto lì. Accidenti, questo vino è davvero forte…

– Mh. E ti piace indossare il cappuccio in ogni momento? – incalzò saccente.

Avvampai, pensai svelta. – Ho una brutta cicatrice sulla fronte.

– Capisco. – Oscillò il contenuto della sua coppa tra le dita, almanaccando con lo sguardo perso nel vino.

– Perché mi hai invitato a bere con te? – lo studiai affondo prima di porgli quella domanda, quasi sperando di trovare un suo punto debole, una leva di emergenza da tirare al primo segnale di pericolo.

Malik alzò gli occhi, neri e lucenti come la notte stellata, e notai che avevano una strana sfumatura argentea, come le foglie di ulivo, che donavano al suo sguardo un nonsoché di estremamente melanconico.

– Non ti hanno insegnato a portare rispetto ai tuoi superiori, novizio? – mi riprese per aver usato il tu. – O magari, credi di poter cacciare la testa solo perché non ti ho punito per questa mattina, quando mi hai offeso, quando mi hai sfidato?

Colpita, serrai forte le labbra tra loro. Malik ruotò leggermente il mento sulla spalla, ridacchiando.

– Cos’è quella faccia seria? Avanti, stavo solo scherzando, tranquillo!

– Ah. – Mi accigliai. – Ma allora…?

Lasciò che un sospiro stanco gli allentasse il corpo rigido, diede un breve sorso. – Quello che oggi mi ha affrontato alle porte non era un novizio qualunque, un servile leccapiedi che cerca la protezione dei più anziani nell’Ordine, ma un ragazzo fiero e senza alcun maestro, che non si è fermato difronte ai ranghi per difendere un uomo in quel momento debole. – Mi guardò. – Un ragazzo che mi ha colpito sin dal primo istante.

Colpita e confusa dai suoi occhi, chinai lo sguardo dentro il vino. – Quello, quello non era nulla…

– No, Nadim. Era tutto.

Gli occhi schizzarono su, anche lui mi stava fissando, pensoso. Deglutii e senza abbassare lo sguardo bevvi un sorso dalla coppa. Il vino piombò come un mattone nel mio stomaco vuoto di tre giorni, ma cercai di non darlo troppo a vedere.

Dovevo mantenere la mente lucida, concentrarmi sulla parte, dovevo fargli credere che stesse parlando col ragazzo che lo aveva impressionato quella mattina alle porte.

– Qual è la tua storia, Nadim? – la sua domanda era seria, e come tale riflettei con cura alla riposta. – Insomma, non voglio credere che sei sbucato fuori dal nulla!

No, certo che no!, pensai ironica. – Non ho una storia che valga la pena raccontare. – mugugnai invece, sprofondando con un sospiro frustrato.

– Suvvia, tutti hanno una storia da raccontare! – ribatté divertito lui.

Lo guardai negli occhi. – Beh, io non ce l’ho.

Malik tacque per un periodo che mi sembrò infinito. Rigirò tra le dita il vino scintillante nella coppa di legno, mentre con sguardo indagatore mi sondava e scrutava, ed io sostenni il contatto visivo senza il benché minimo tentennamento, conscia, ormai, di essere l’oggetto indiscusso del suo ermetico interesse.

– Allora, Nadim, se me lo permetti, voglio raccontarti una storia io. – iniziò, tenendosi a versarmi un secondo giro di vino. – Quando avevo tredici anni, mio padre morì all’improvviso mentre serviva il nostro Ordine, nell’isola di Cipro. Poco tempo dopo la sua morte, a Masyaf tornò il confratello che aveva accompagnato mio padre in missione, e che lo aveva visto morire tra le sue braccia. Quell’uomo era Umar Ibn-La'Ahad.

Sgranai gli occhi, riavvicinando lentamente la coppa verso di me. – Il padre di Altaïr?

Lui annuì, e con un gesto stanco ebbe riappoggiato il fiasco sul tavolo. – Bada, però, che Umar era un Assassino onorevole e umile, nulla a che fare con quel suo figlio degenere, così abituato a venerare se stesso che non s’accorge più quando il suo agire supera la soglia sottile che sta tra il dovere e l’infame tracotanza. Fu lui a riportarmi questo, sotto esplicita supplica di mio padre.

Allora Malik estrasse dalla fodera alle sue spalle un pugnale di ferro nero con l’estremità del manico leggermente ricurva all’indietro e il pomo decorato dalla testa di un leone d’oro, mentre spirali verdi e neri avvolgevano l’elsa e la impreziosivano di orientale raffinatezza e eccellente fattura.

Mi mise l’arma davanti al volto, affinché potessi ammirarla in tutta la sua inquietante bellezza, e per qualche ragione ne fui subito intimorita, se non perversamente affascinata.

– Questo era il pugnale di mio padre. – annunciò, un po’ melanconico. – Lo avrebbe voluto dare a Kadar, ma lui era troppo piccolo, aveva solo cinque anni quando morì, e quindi volle darlo a me, come pegno di una promessa. Anche se non pianse mai per nostro padre, quasi fosse già un giovane uomo, io sapevo che Kadar aveva ancora bisogno di una figura paterna, di un modello, una colonna, una certezza, sapevo che dipendeva da me. E allora, mi presi cura di lui. L’ho istruito al Credo, l’ho addestrato, l’ho educato, l’ho fatto diventare un Assassino degno di questo nome. Perché è così che nostro padre avrebbe voluto.

Detto ciò, Malik rimise la lama nel fodero sulle spalle, sospirando mentre si tirava in dietro sulla panchetta, e con la mano destra riafferrava la coppa ancora piena.

All’improvviso, avevo capito dove volesse andare a parare con quella storiella, e chissà perché non ne rimasi affatto sorpresa.

– Pensi che io possa mandare a monte i tuoi sforzi di questi anni, il lavoro che hai fatto con tuo fratello?

– Penso che Kadar sia solo un diciassettenne, – m’interruppe con l’indice appena sollevato dal ripiano del tavolo – che ha un carattere difficile e che in questo momento vuole solo divertirsi e fare bravate coi suoi amici, senza suo fratello maggiore a seccargli le palle.

– Quindi?

– Tu sei fedele a Kadar.

Avvampai, forse troppo. – Cosa?

– Sei fedele a Kadar. Altrimenti, non avresti tentato di dissuaderlo dal consegnarsi.

– … E se così fosse?

– Se così fosse. – Picchiò l’indice sul tavolo. – Dovrai promettermi di non tradire mai mio fratello, Nadim. Promettimi che gli guarderai le spalle e che lo aiuterai, come oggi lui ha aiutato te. Puoi farlo?

Lo fissai, stringendo le mani attorno alla coppa. – È per questo che non sono davanti ad Al Mualim, a confessare tutte le mie colpe?

– Per questo, e perché hai rubato i vestiti a quell’idiota di Altaïr. – ammise ridente, tirandosi indietro mentre portava la coppa alla bocca. – E per tutti i diavoli, qualunque uomo abbia il coraggio di fare una cosa simile si guadagnerebbe il mio rispetto. – ammise sottovoce, prima di affogare un sorrisetto dentro il vino.

Per un momento non seppi davvero che dirgli, ma rimasi così, a fissarlo, con le dita strette attorno alla coppa di legno. Poi, trincai giù il vino tutto d’un fiato, sbattei il polso sul tavolo e con lo sguardo fisso su Malik gli allungai il contenitore vuoto.

– Non lo faccio per te, non lo faccio per fifa. – dichiarai, ferma. – Lo faccio perché ho un debito verso Kadar. Ora e sempre.

Malik si sforzò di ritenersi soddisfatto della mia risposta, tirando un sorriso sbilenco.

– Sei proprio come mi eri apparso la prima volta, Nadim. – disse e mi versò altro vino. – Stupido. E con un forte senso dell’onore.

Grazie al vino, di lì a poi la conversazione scivolò più agilmente, che quasi ci dimenticammo di Kadar e non ci accorgemmo che stava calando la sera.

Malik prese a raccontare i dettagli della sua ultima missione che lo aveva tenuto lontano da Masyaf per un mese intero, e tra una pennellata e l’altra della sua lingua chiacchierina, tra una sfumatura e l’impercettibile tocco delle sue espressioni ancora esaltate da ciò che aveva vissuto nemmeno un mese fa, Malik dipinse una vastità di mercati, edifici, chiese e moschee, cortili, fontane e strade affollate di vita, antiche mura bianche ammantate dal sole di mezzogiorno dentro uno scrigno di oasi e miglia e miglia di cunette desertiche.

Dapprima, pensai a quella come un’occasione di constatare una volta per tutte quanto c’era di vero nei racconti di Marco Polo, ma poi Malik riuscì a trascinarmi nel turbine delle sue immagini, dei suoni, delle voci, perfino di sapori mai saggiati con la lingua, e all’improvviso mi dimenticai di tenere i piedi per terra.

Diceva che gli Assassini erano sciolti dagli obblighi comuni, che potevano consumare alcolici, mangiare carne di maiale e adorare qualsiasi dio loro volessero, che disprezzavano i limiti del buon senso comune e sfidavano la morte con arrampicate folli su per altezze indicibili, lì dove la terra e il cielo s’incontravano e le aquile facevano il nido, affidando la propria vita a una scricchiolante, precaria sporgenza di legno.

O almeno, questo era ciò che mi ero figurata quando Malik si vantò di com’era riuscito a fuggire sopra una torre in mezzo alla città mentre aveva una freccia conficcata nella spalla e tutte le guardie nel quartiere ovest alle calcagna, lì dove tornò qualche ora dopo andare in un bordello a mangiare carne di maiale, bere vino e godersi i piaceri voluttuosi di una cortigiana.

A parte quell’ultima immagine, che scacciai un po’ imbarazzata dalla testa, i racconti di Malik mi avevano totalmente stregato, sicché, non appena lui finì di raccontare quella storia, io gliene chiesi subito un’altra, una più vecchia, magari in un’altra città.

Allora, mi disse di Acri, e di quella volta che si era intrufolato in una chiesa cristiana per scovare un mercante di schiavi tebano, che conduceva i suoi loschi traffici coi Templari da quasi un anno, e nemmeno lì mancò l’incontro con una donna, una cristiana che lo aveva aiutato ad infiltrarsi tra gli eruditi nella cappella, e che lo consolò dalle stanchezze quella stessa notte nel suo letto.

Poi, rimembrò un inverno a Gerusalemme e di quella ferita da spada lo aveva costretto per un certo periodo in un posto che non disse, tra i libri di filosofia e medicina, ma, soprattutto, tra le braccia paffute della figlia del pescivendolo in fondo alla strada.

E i suoi racconti andarono sempre più affondo nel vino, fino a far riemergere il ricordo di un giorno di mezz’estate, quando un giovane novizio dagli occhi truci e la coscienza sporca del primo omicidio venne rincuorato dalle parole e dalle pacche vigorosi del suo priore, che per fargli passare il malumore decise di ricompensarlo con una notte al bordello di Damasco, tra l’odore rintronante d’incenso e quello seducente dei tessuti di seta e unguenti per il corpo.

Forse era l’alcool a parlare, ma giurai di aver visto nei suoi occhi perfettamente lucidi dell’amorevole affetto per quella prima donna che ebbe il piacere di sentire sulla sua giovane pelle, una cortigiana dai lunghi capelli intrecciati e con una passione per le poesie provenzali; Malik gliene recitò due, sforzandosi di ricordare le lezioni di provenzale che, assieme al greco, latino e saraceno, viene impartito agli Assassini nei loro primi anni di addestramento, per assicurarsi un giorno contatti in tutto il mediterraneo, e grazie a quel provenzale rozzo e scadente le gambe della cortigiana si aprirono per lui come le porte di una chiesa.

Mi piaceva come raccontava le storie Malik, c’era sempre un risvolto romantico, anche se romantico non era esattamente come lui avrebbe descritto la sua debolezza per la carne, ma forse era giusto così.

Lui era un uomo forgiato tra le battaglie e il sangue, di tanto in tanto si concedeva qualche bella puttana di borgo, io, invece, una giovane ragazza impregnata dell’odore dei libri e delle aiuole fiorite dietro casa Chiaravalle, ancora molto ingenua e, sì, anche un po’ bimba, che pensava solo a ritornare nella sua vera vita.

Eppure, qualcosa era scattato in me, quel giorno. Qualcosa si era risvegliato.

Già quel pomeriggio nell’arena, quando avevo indossato la mia maschera eroica e avevo fronteggiato il “ Toro” con una spada che riuscivo a malapena a tenere in mano, sentivo qualcosa di diverso, come se, all’improvviso, provassi la voglia di mettere alla prova l’elasticità della mia amica schizofrenia, vedere quanto riuscisse a seguirmi, a come avrebbe risposto all’evolvere inaspettato dei miei capricci.

Fu allora, che quella consapevolezza si affacciò nella mia mente.

Il fatto di aver detto a Malik di non aver nessuna storia che valesse la pena raccontare, era vero. Laura Maria Gaia di Chiaravalle non aveva nessuna storia, nessun passato, nessun presente, nessun dannatissimo futuro all’infuori di casa Chiaravalle.

Ma Nadim… Nadim era un foglio bianco, l’inizio di un libro che non era ancora stato scritto ma che si era aperto quasi per caso sulle mie gambe, e io avevo la penna in mano.

Chissà, forse fu proprio per questa improvvisa consapevolezza di possibilità che scattò il primo anello della catena, il primo dei tanti eventi inarrestabili che avrebbe scosso le fondamenta della mia casa, il motivo per cui mi ritrovo adesso a scrivere questa storia.

Lo sentivo.

Lì, adesso, assieme al vino che incalzava nella testa e un leggero sentimento di affezione verso quei sorrisi stretti, quasi nascosti dietro un muso lungo, le alzate di spalle e gli occhi argentati di Malik, adesso, lo sentivo.

E mentre fuori la luna solitaria illuminava coi suoi fasci le porte spalancate nei portici quieti, e l’aria scivolava sul pavimento di pietra fino a solleticare i nostri piedi sotto il tavolo, un Assassino armato fino ai denti brindò con me l’ultimo bicchiere di quella sera, lasciando che le nel castello vaghe voci parlassero ancora di ciò che era accaduto quella lontana mattina di ottocento e venticinque anni fa, quando un certo ragazzo, in un certo castello di un certo villaggio medievale, aveva mandato a monte un Inaugurazione per la prima volta in mille anni.

Quello che sentivo, era l’eco lontano della libertà.






Angolo autrice:

[1] = Il dīnār è una moneta d’oro diffusa nel mondo islamico in epoca classica. Fino al 12°sec. reca iscrizioni islamiche e il suo peso è l’equivalente di 20 carati da 0,2125 g di oro a titolo elevato. Ho pensato che una moneta d’oro fosse il prezzo giusto per una scommessa tanto rischiosa! ;)

[2] = Il Fars fu culla della civiltà e della cultura persiane, e il centro dell'immenso impero achemenide, il primo impero persiano. In epoca islamica la provincia passò da una dinastia all'altra, da quella saffaride (IX secolo) a quella buwaihide (934-1062), da quella selgiuchide (XII secolo) a quella muzaffaride (XIV secolo), per essere infine sottomessa dai Safavidi ai primi del XVI secolo.

Benvenuti a tutti in questo nuovo aggiornamento!<3

Bene bene; avrete notato che nel capitolo ho tentato di soffermarmi po’ su Malik, sperando di aver creato un bel quadro del suo personaggio, che ho voluto rappresentare in maniera un po’ più spigliata e rilassata per la prima parte della storia. Infatti, avrei in progetto di raccontare una sorta di “evoluzione” del suo personaggio, quindi vedrò di dargli lo spazio che si merita tra una sventura e l’atra della nostra eroina, senza soffocare Altaïr, chiaro ^-^

( Ma ora che ci penso, sarebbe pressoché impossibile nascondere dalla scena Altaïr. Perché lui è dappertutto. E s’infila in ogni dannata situazione. Sarà l’ombra di Laura. Beata lei! xD )

E a proposito di Laura, ha iniziato a scoprire qualche cosa in più sugli Assassini, sulla loro “ preghiera”. Chissà cosa le è passato in mente, quando ha sentito quelle parole così famigliari interpretare in quel modo da Malik e Kadar?

Le rotelle nella sua testa iniziano a girare, scricchiolare, quanto fumo che faranno, i suoi neuroni atrofizzati dentro i nodi costretti della beata ragione!

Che sia un meccanismo di difesa, il suo eccessivo scetticismo scientifico? Mhmh…

Grazie a tutti i miei lettori, silenziosi e non, a cui dedico ogni mio capitolo.

Baci,

Lusivia


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Capitolo 7
*** L'odore del sangue ***


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                                                           Capitolo 7

 

                                                    L’odore del sangue






– Domani ti riporto a Damasco.

Aveva detto esattamente così. Senza la benché minima cura, senza neanche sforzarsi di sembrare almeno un po’ costernato mentre m’ignorava per una catasta di dispacci vuoti, che ricurvo come un vecchio librario si apprestava a spostare e osservare sotto la luce tremula di una candela, l’unica luce in tutta la piccola stanzetta.

Riuscii a distinguere sulla superficie anche un paio di libri dalla rilegatura sottile e un calamaio con l’inchiostro secco, ma non ne ero sicura.  

Quando esordì con quella frase, io ero seduta sul ciglio del letto, il suo, con esattezza, a fissarlo contrariata e vagamente alticcia mentre colle dita stropicciavo l’orlo liscio della camicia da notte con cui mi ero appena cambiata.

Sentivo, poi, che la schiena era bagnata, che i capelli pesavano e che i piedi erano ghiacciati e ritratti sul pavimento, non sopportavano il contatto: che mi fossi anche lavata in quel buco nero che per la mia testa erano i dieci minuti precedenti a quel momento di ritrovata lucidità?

In verità, non me ne curai, perché adesso stavo riconoscendo le mura anguste e umide della stanza a celletta, i vari suppellettili adombrati nella notte, una porta massiccia più in fondo, il lavamano e gli specchi di luce lunare che dalla finestra si proiettavano a intermittenza nella stanza di Kadar.  

Poi, di punto in bianco, mi alzai dal materasso imbottito di paglia e schiarendomi la voce andai incontro al novizio con falcate decise.

Lui si voltò sotto lo strattone della mia mano, mostrandomi il fianco su cui teneva stretto gli abiti di Altaïr e, penzoloni al fianco, la spada del temuto Assassino. Quand’è che li avevo tolti per darli a Kadar, affinché provvedesse alla loro sostituzione al legittimo proprietario?

Prima o dopo quel buco di dieci minuti?

Ci misi un po’ prima di riuscire a sciogliermi la lingua in quel pensiero.

– Che cosa vuol dire… che domani mi riporti a Damasco? – sibilai torva e con l’alito che puzzava di vino, gli occhi serrati nel tentativo inutile di mettere a fuoco la sua espressione oltre la foschia leggera e la già poca luce della candela.  

Kadar indugiò sul mio volto per un bel po’ prima di decidersi a parlare. Forse, stava ripensando a quello che gli avevo detto di ritorno al refettorio, subito dopo esserci congedati dal suo fratello per dirigersi nelle sue stanze.

Già, cos’è che gli avevo detto…?

– Oggi abbiamo rischiato troppo. – esordì a testa china. – Ho già mentito per te al mio Gran Maestro, a Malik, ad Altaïr ... – Indugiò, facendosi sfuggire una smorfia mentre si scostava dalla traiettoria del mio alito imbevuto di vino. – Non ti sembra che abbia già fatto abbastanza per coprirti?

Prima che potessi obbiettare, mi raggirò con uno scatto perentorio, continuando a concedermi solo le sue grandi spalle mentre scivolava sfuggente verso la finestra inondata di luce lattea.

– Al Mualim è stato comprensivo e mi ha dato un’occasione per rimediare all’insubordinazione di quest’oggi. – spiegò, volgendosi a guardarmi quasi per sbaglio, come se non avesse saputo resistere. Si corresse subito e tornò diritto, un vero soldato. – Mi ha chiesto di adare a Damasco per raccogliere informazioni per un mio superiore, e tu verrai con me. Sarai Nadim per l’ultima volta, così, quando saremo dentro le mura della città, noi ci separeremo. Definitivamente.  

Faticai sinceramente a rimettere apposto i pensieri e anche dopo non riuscii a non guardarlo con totale smarrimento, come se, all’improvviso, mi fosse appena giunto uno schiaffo dal cielo ed io non riuscissi a capire da quale lato fosse arrivato.   

– Stai… stai scherzando, spero! – esclamai a fil di voce, non riuscendo a trattenere lo slancio del mio corpo che andò in avanti. – Non vorrai davvero mollarmi lì, accidenti!  

Ma lui rimase impassibile dentro il riflesso alla finestra.

– Damasco è tappezzata da drappelli templari, non sarà difficile per te convincerli a darti la loro protezione. – Poi mi lanciò un’occhiata malevola, aggiungendo – In fondo, sei brava a manipolare il volere degli altri. Non sarà questa gran cosa per te ottenere da loro una complicità forzata.  

Colpita. Distolsi lo sguardo con gli occhi stretti e le labbra serrate, sbruffando.

– Sei tu che hai voluto mentire a tuo fratello, Kadar. – gli ricordai allora io, rivolgendo un’occhiata severa ai suoi spostamenti dentro la stanza. Ora stava passando vicino al letto, lo aveva guardato ed era andato avanti. – Sei tu che hai insistito per assumerti tutte le responsabilità difronte ad Al Mualim, e sempre tu hai convinto Altaïr che ero tua sorella, anche quando tu stesso dici di non crederci. Non io!

Senza alcun preavviso, Kadar si bloccò nel bel mezzo della camera, sopracciglia arcuate e aria fastidiosamente basita mentre, per la prima volta da quando lo conoscevo, alzava di poco la voce.

– Tu guarda che faccia tosta! Se io non avessi raccontato tutte quelle bugie, a quest’ora tu staresti accucciata come un cane sul pavimento di una cella ad aspettare la tua esecuzione! Non saresti mai sopravvissuta senza di me!

Sentendomi attaccata, serrai i pugni lungo i fianchi, ringhiando – Vuoi che ti dica grazie? D’accordo! Eccoti servito: grazie per avermi accusato di essere una Templare, grazie di non avermi sbattuto ingiustamente in prigione per poi farmi giustiziare nel piazzale del castello il dì seguente! Davvero, grazie di cuore!

– Certo, certo che devi ringraziarmi! Non ero dovuto a fare tutto questo, ma l’ho fatto, razza d’ingrata, cocciuta egoista di una Templare!  

Di nuovo quella parola. Iniziavo davvero a odiarla.

– Quante volte devo ripeterlo? – avanzai di un passo mentre scandivo a gran voce – Io non sono una Templare, maledizione, smettila di accusarmi come se avessi fatto qualcosa di orribile!

– Adesso basta! Tu farai come ti dico! Sono tuo fratello e decido io!

– Ma io sono più grande di te di un anno, quindi non puoi comandarmi, non puoi!

Le sue guance si accesero subito di rosso, dovevo appena aver colpito il suo orgoglio maschile.

– Di tutte le donne che ho incontrato, tu sei in assoluto la più cocciuta e arrogante!

– Ah, sì? – e feci un altro passo avanti, sfidandolo.

– Puoi scommetterci! – ribadì e si tese inavvertitamente verso di me, una pura presa di potestà, ma in qualche modo non fu affatto intimidatorio, anzi. Mi avvicinai ancora di più, inesorabilmente attratta da quel suo sorriso sornione. Ma forse era l’alcool a farmelo vedere.

– E di quante donne stiamo parlando, mio caro fratellino?

Lui rise appena, distolse lo sguardo e si pulì gli angoli della bocca col pollice e l’indice, dunque, tornò a guardarmi con aria scostante. – A te che importa, sorellina?

Chiusi gli occhi acquosi e alticci, sospirando – M’importa. Molto.

Lui mi fissò. All’improvviso, aveva preso la cosa seriamente.

Con un ultimo tratto, Kadar divorò la distanza minima che correva dal mio petto al suo, ritrovandomi a dover drizzare il collo per riuscire a tenere il confronto, che ora volgeva a suo favore con quei dieci centimetri in più della sua altezza. Provò a nasconderlo, ma lui si gongolò di quel piccolo vantaggio e sorrise, un mezzo ghigno che donò un nonsoché di mellifluo alla sua voce quando mi sussurrò in faccia il suo divertimento.  

– Sei gelosa?  

Annuii, ma me ne pentii subito.

La candela bruciò per un po’ sui nostri volti, fermi e ora compressi in sentimenti che non riuscivamo bene a capire ma che, era evidente, ci avevano scombussolato a tal punto da far calare il silenzio nella stanza.

C’era un buon profumo, ora che il suo collo era così prossimo al mio naso. L’odore frizzante di salsedine e quello leggero della spuma di mare.

Poi, accadde.

Il compimento in pensiero di quella che era la mia paura più grande e profonda. La caduta di quella goccia che fece straripare un mare di sentimenti ed emozioni soppresse per diciotto anni.

Io amavo Kadar.

Lo amavo quand’ero solo una bambina, l’ho amato anche dopo, quando se n’era andato, e adesso, anche adesso che sapevo di aver difronte l’idealizzazione di un corpo incorporeo, morivo dalla voglia di stringerlo a me come se fosse fatto di carne, e affondare nelle sue labbra come se potessi sentirne il sapore, e, sì, farci l’amore, come se quella notte sarei diventata finalmente una donna.

– Kadar …

Mi allungai appena verso il suo volto, sentii l’attimo in cui il respiro gli si mozzò in gola, atterrito. Avvertii il vago richiamo della sua carne calda in prossimità della bocca. Ma all’improvviso lui si ritrasse.

Riaprii gli occhi e non appena mi rividi riflessa nei suoi sbarrati, viso tondo e naso rosso per il vino, ebbene, quell’idilliaca sensazione di rivelazione e accettazione che avevo provato per pochissimi attimi mi franò in testa come il tetto di una casa.

Ora tutto ciò che sentivo era l’acuto sentimento del disagio e di un orgoglio ferito.

– Domani… domani il gonfiore del tuo viso dovrebbe esser diminuito. – Kadar faticò a riprendere la naturalezza della conversazione, ma lo sguardo puntato in basso e l’improvvisa ritrosia del suo corpo gli facilitarono di parecchio il compito. – La gente potrebbe insospettirsi del tuo aspetto, capirebbe che sei una donna e Nadim solo un travestimento.

Ancora confusa, mi sforzai di non scoppiare a piangere mentre col volto accaldato mi allontanavo e tenevo la fronte tra le dita, per nascondermi ai suoi sguardi impacciati, quelli di chi non sapeva bene come comportarsi ora che le cose avevano preso una piega troppo compromettente.  

– C… concordo. – risposi quasi per dovere, spingendo le mani dietro i fianchi mentre, volgendomi di scatto, tiravo un sospiro per rischiararmi i pensieri. Dannazione.

Dannazione, dannazione, dannazione!

– Ci conviene partire prima che il sole sorga, quando le sentinelle faranno il cambio di ronda, per evitare d’incrociare controlli alle porte. – affermò poi, un po’ teso, tirandosi gli abiti ripiegati sottobraccio e sistemandosi la spada d’Altaïr al fianco, forse nell’inconsapevole ricerca di un incoraggiamento. – Passerò verso l’alba per portarti abiti nuovi e mangeremo qualcosa a cavallo, forse dovremo fermarci a qualche sorgente prima di addentrarci nel deserto e riempire anche le borracce delle tue bisacce.    

Non si volse nemmeno una volta a guardarmi mentre impartiva i suoi ben chiari ordini, e non lo fece nemmeno difronte alla porta aperta, invece, mi liquidò con queste semplici parole, come se non vedesse l’ora di liberarsi di me.

– È tutto chiaro?

Chiarissimo. Mi lasciai sfuggire un singhiozzo dentro il sorriso, chinando la testa sui miei piedi nudi e bianchicci, mentre dentro iniziava a bruciare. Sì, Kadar. La prima lacrima fuoriuscì e cadde sul mio alluce.

Ora è perfettamente chiaro.

Sparisci ... sparisci dalla mia vita.

Un sussurro. Impercettibile. E in qualche modo, Kadar lo sentì.

Rimase con un piede nella stanza e l’altro già in corridoio per chissà quanto tempo, in equilibrio tra la voglia di sbattersi dietro quella porta e andarsene, oppure, rientrare dentro e chiedermi che cosa intendessi, perché continuavo a trattenerlo con tutte quelle subdole bugie e, poi, gli intimavo di sparire per sempre dalla mia vita.

Ma non ci riuscii.

Non riuscii a spiegargli il complesso motivo per cui non riuscivo ad accettare i miei sentimenti per lui, e anche se ci fossi riuscita, lui non mi avrebbe mai creduto.  

Quindi, Kadar se ne andò. Nessuna parola, nessun tentativo di capire.

Semplicemente, ero di nuovo sola.

                                                                           *                 *                   *

Ricorda, amore mio. Nulla di quel che ritieni esser vero è reale, ma tutto quello che ti sembra impossibile e assurdo, ebbene quello sì, quello è reale.

Ricordati, Laura.

Nulla è reale, ma tutto è lecito.

Ricordatelo. Devi ricordarlo.

Laura.

Mi risvegliai di soprassalto e lo sbilanciamento del sussulto mi colpì in pieno stomaco, rovesciando il suo contenuto con una capriola che mandò tutto sottosopra.

Resistetti pochi secondi con le mani pressate sul grembo nel penoso tentativo di far passare gli spasimi e i dolori lancinanti, poi scivolai oltre il bordo del letto e scaraventando le ginocchia per terra mi chinai subito a recuperare il vaso da notte vuoto sotto il letto. Appena in tempo.

Liberai lo stomaco di tutto il vino ristagnante nel fondo del mio stomaco e quando ebbi finito l’odore di fermentazione e del cibo misto ai succhi gastrici mandò il mio cervello indietro, costringendomi a trovare appoggio contro l’angolo del letto.  

Rimasi seduta a terra per un bel po’, quasi priva di una coscienza vigile e con gli occhi chiusi nella confusione di una sbronza che faticava a scemare e un gran mal di stomaco, forse perché avevo mangiato, anzi, fagocitato avidamente tutto ciò che sulla tavolata imbandita aveva un benché vago odore di cibo dopo quasi due giorni di digiuno.  

Solo adesso mi rendevo conto di quanto fosse stata stupida l’idea di finire da sola un piatto considerevole di carne d’agnello che divisi Malik, il quale la sbocconcellava tra un racconto e l’altro e ne inzuppava grossi pezzi in una strana salsa nera, rompeva gusci di noce color del miele e me ne offriva, consapevole che non avrei rifiutato. E nel frattempo bevevo, bevevo interi bicchieri di vino per mandare giù i grossi bocconi che nemmeno masticavo tale era l’euforia di risentire i gusti dopo un periodo di assoluta aridità per il mio povero stomaco.

Mi pentivo d’essermi ingozzata senza pensare che potessi avere un’indigestione, mi pentivo d’aver bevuto tutto quel vino solo perché la conversazione era scorrevole e piacevole, ma più di tutto, mi pentivo di non esser riuscita a tenere a bada i miei sentimenti difronte a Kadar, mettendolo nella scomoda posizione di rifiutare sua sorella.         

Mi pentii di tutto. Tutto quanto.

Gli avrei chiesto scusa nell’indomani, quando sarebbe venuto a prendermi per partire. Avrei incolpato l’alcool. Sì. Poteva andare.  

Quando poi mi sentii un po’ meglio, e riuscii ad aprire gli occhi senza che provassi un forte senso di vertigine, mi feci leva sul materasso e anche se un po’ barcollante riuscii a rimettermi in piedi e a recuperare il vaso pieno di vino fermentato, che buttai fuori dalla finestra e già lungo la torre buia.

Storsi il naso e volsi il viso da un’altra parte mentre sbattevo il vaso sul muro esterno, per scrollare via qualsiasi residuo, e fu allora, mentre riportavo il braccio dentro e mi apprestavo a richiudere le vetrate, che notai la pesante cappa di elettricità che ricopriva l’intero cielo.

Difficile dirlo, ma doveva essere notte fonda. Forse le due, le tre di notte.

Richiusi la finestra con un sospiro, e giacché avevo una certa sete andai diritta verso il lavamano in un angolo della stanza, ma quando sbirciai dentro il tinello di rame lo trovai vuoto, così come la caraffa poggiata sul fondo.

Sbuffai, abbandonando il vaso da notte sulla superficie spoglia e buia e mettendomi in equilibrio sui palmi aperti lungo il bordo di legno. Che stupida. Mi ero dimenticata di averla usata tutta per lavarmi, anzi, strofinarmi via la sporcizia di quei tre giorni.

Ora mi sarebbe toccato cercarne dell’altra.

Lo ammetto, l’idea di uscire fuori non mi esaltava molto. In verità, il pensiero di tutti quei cunicoli, corridoi, passaggi segreti e atri deserti mi metteva addosso una certa tensione, o forse era proprio fifa.

Insomma, chi mai avrebbe avuto l’ardire di addentrarsi in un castello medievale del dodicesimo secolo a notte fonda, con tutto il rischio d’incappare in qualche spirito o fantasma di passaggio cui esistenza, per quanto ridicolizzata dalla mia fede incrollabile per tutto ciò che era razionale e scientificamente spiegabile, era comunque tenuta in vita da quel minuscolo timore nel mio cuoricino, ovvero che, sotto sotto, le antiche leggende e gli incubi dell’ottuso immaginario medievale non era poi tanto immaginario?

Nessuno. Ma io avevo una gran sete e, come già detto, in quella dannata allucinazione le sensazioni e i bisogni fisiologici erano più vere che nella realtà.

Quindi, mi feci coraggio e uscii fuori dalla zona sicura della camera di Kadar, addentrandomi nel cuore del castello addormentato.

Tutto taceva, i corridoi erano vuoti e le lanterne illuminavano gli archi che dalla cima delle scalinate si proiettavano sulla fronda frastagliata di un albero di arancio in un giardino murato, la cucina era chiusa e i tavoli nel refettorio desolati, la maggior parte degli Assassini era nei loro alloggi o sulla passerella delle mura esterne e tra i merli dei torrioni, dove vegliavano sul villaggio e i confratelli addormentati.    

Grazie alla chiamata alle ronde non trovai nessuno a sbarrarmi il cammino dentro il castello e passai da un’ala all’altra del castello, indisturbata ma non per questo meno tesa, perché temevo sempre di ritrovarmi davanti al fantasma di una fanciulla caduta dalla torre, o del suo cavaliere senza testa.

E tanto fui presa da questa improbabile possibilità che non mi resi conto di aver sbagliato completamente direzione.

Non andai alle cucine, come invece avevo deciso di fare, ma proseguii per delle scale strette tra due mura a spirale, scendendo giù di qualche metro. Intuii subito che qualcosa non andava, ma quando pensai di tornare indietro era già troppo tardi.

Due guardie, ferme sotto un’arcata di pietra, erano sbucate dal pavimento dinanzi a me come dei veri e autentici fantasmi, sbarrandomi il cammino appena entrai in corridoio.

Il corpo balzò subito indietro, a cercare riparo contro l’angolo e lì rimasi con lo sguardo sbarrato nel terrore per chissà quanto prima d’accorgermi che le due guardie erano belle che addormentate sul posto di lavoro, braccia conserte e mento affondato sul petto bianco.  

Tuttavia non uscii subito allo scoperto, invece, rimasi cautamente affacciata dal mio nascondiglio e soppesai il rischio di tentare seduta stante di sgattaiolare via, prima che le guardie si svegliassero. Però non riuscivo a non chiedermi cosa ci fosse dall’altra parte di quell’arco per essere sorvegliato da due Assassini. Forse, le segrete del castello?

Un lampo mi trapassò la testa.

E se … ?

Scossi il capo, schernendo quell’idea con una risata sommessa. No, decisamente, non era il caso.

Feci così per tornare indietro nel corridoio, salii i primi due gradini e mi bloccai al terzo. Resistetti un bel po’alla tentazione prima di cedere e sbirciare oltre la mia spalla sinistra, tormentata dal volteggio angosciante di pensieri che proprio non volevano lasciare la mia testa.

E se non fosse stato un caso, che quella mattina al villaggio fosse giunto un Templare proprio mentre me la stavo squagliando da Masyaf?

E se ci fosse un disegno dietro il nostro incontro accidentale, avvenuto per uno scarto di pochi minuti oltre il quale non ci saremmo mai incrociati, un’intenzione nel farmi indugiare alle porte il tempo necessario per vedere quel novizio alzare la mano contro di lui, lo scopo esatto di riscuotere in me un sentimento assopito, quell’antica identità sepolta nelle profondità del mio sangue?    

E se quel Templare, il fantasma di un Ordine tramontato da secoli oramai, fosse la risposta a ciò che mi stava succedendo?

L’unico modo per saperlo era superare le guardie e scendere direttamente nella bocca dell’inferno.


                             
                           
                                                                                *                 *                   *


Quando giunsi nelle segrete, l’aria viziata e muffosa mi penetrò fino ai polmoni, fu come se mi avessero gettato in faccia un panno di lana nel bel mezzo di una camera ardente e, in effetti, quel posto aveva tutta l’aria di esserlo, con quelle rare fiaccole che ardevano sulle colonne fiancheggianti il lungo cammino buio e il soffitto nero per il fumo delle torce.

Procedetti con cautela per tutto il tempo, temendo il momento in cui, invece della pietra vischiosa e fredda, avrei calpestato la coda di uno di quei topi che correvano sul pavimento, e mentre avanzavo verso la fila di celle che si perdevano a vista d’occhio su entrambi i lati del corridoio ebbi quasi la sensazione che lo spazio si stesse restringendo.

Provai subito un certo fastidio, perché ero claustrofobica, e l’odore secco dei trefoli di canapa in combustione sulla cima delle torce non mi aiutava. Poi, di punto in bianco, mi accorsi che non c’era solo l’anidride carbonica e il puzzo di fumo nell’aria.  

Da qualche parte lì sotto nelle segrete, si udiva l’eco di un canticchiare sommesso.

Raggelai all’istante. Uno spirito infestante?  

A quel punto, fui davvero tentata di tornare di corsa indietro, e quasi lo feci, incoraggiata dalla menzogna che non fuggivo perché avessi paura di trovarmi difronte uno spettro ma perché lì sotto l’aria era davvero troppo malsana ed io avevo bisogno di una boccata più fresca.

Ma poi riconobbi in quella spettrale litania il ritmo vivace del greco, le quantità secce e le stoccate scandite, venendo subito colta dal ricordo spiazzante di una magione, di una finestra aperta sulle montagne e del Critone in cui Platone immortalava il ricordo affettuoso del suo amato maestro.

Fu come udire il ricordo di una voce della mia infanzia e senza più paura percorsi spedita l’ultimo tratto che mi avrebbe condotto verso l’ultima cella a destra.   

Lì, finalmente, mi fermai.

Il Templare che era arrivato a Masyaf quella mattina era un uomo davvero colossale, di circa mezza età e col portamento fiero di un leone solitario, e fu a dir poco deprimente vederlo accucciato nella sua celletta mentre, ricurvo e di spalle, sbocconcellava un tozzo di pane raffermo mentre, con la bocca piena, singhiozzava melanconico il conforto di un’antica ninnananna della sua terra.  

Enίa dé toi paides enί, trághe, foinikόeanta, téntes…. kaì lasίo fimà perì stόmati… ίppia paideύousi teou perì naòn áetla [1]

Di punto in bianco, la nenia morì e la susseguì un teso silenzio in cui rimasi immobile, a fissare l’ombra delle grosse vertebre sotto la camicia tirata del Templare attraverso le grate.

– Ma guarda, l’Assassino di questa mattina è venuto a farmi visita… oh, un momento. – Sbirciò indietro ed ebbi l’impressione che avesse sorriso sardonico mentre esclamava col suo terribile accento arabo – Per tutti i numi, ma… siete una donna!

Mi ritrovai a ingoiare un grumo improvviso di saliva, sentendo tra i denti il sapore della mia stessa paura.

– Ditemi: conoscete un po’ di greco? – chiese poi, tornando a dare le spalle al corridoio. – Perché ho davvero molto fastidio a parlare arabo, è una favella un po’ rozza, a parere mio.

Ci misi un po’ prima di rispondere.

Non ero esattamente quella che si poteva definire una persona coraggiosa o sicura di sé, di solito non mi piaceva conoscere gente nuova, anche perché non ero abituata, e difronte a qualcuno che non fosse Agata o Erica mi sentivo non solo come se perdessi immediatamente la lingua, ma avessi perfino difficoltà a esprimermi. Io, che senza troppi problemi avevo tenuto testa ad Altaïr, chiacchierato della vita di un perfetto sconosciuto come Richard Frye, bevuto in compagnia di Malik, fatto cacciare la lingua a un ragazzino che da una vita aveva smesso di parlare con chiunque, solo perché non ero la vera me, quella che nella vita vera viveva rinchiusa da diciotto anni dentro una villa sperduta nel nulla.

Già. Forse, era proprio questo il problema.

Perché esattamente come il piccolo Nadim anch’io avevo paura di chi avevo davanti, ma non appena ero divenuta qualcun altro, il grande Nadim novizio spregiudicato, ebbene, era come se avessi indossato una maschera dietro cui mi sentivo perfettamente protetta, e parlare non era più stato un problema.  

Forse, era questo che dovevo fare: indossare la maschera di Nadim, fingere di essere ancora lui.

E funzionò. La mia lingua si sciolse come ghiaccio al sole, così.  

– Io … io non sono molto brava in greco, in realtà. L’ho studiato, ma non lo parlo. – ammisi infine, un po’ incerta. – Però, io…

Non finii di parlare, che lui mi schernì con un versetto di sberleffo, quindi, addentò vorace il misero tozzo di pane e se lo masticò rumorosamente.

Quel suo gesto di palese insofferenza colpì in pieno il mio orgoglio di Chiaravalle e in un batter di ciglia mi ritrovai a gestire a stento un atteggiamento volitivo e di ritrovata fierezza, che espressi col corpo, schiena diritta e narici dilatate, mentre per la prima volta parlavo a voce limpida.

– Non parlo greco, ma parlo bene il latino, messere! – esordii, gettando fuori quelle parole quasi correndo per paura che potesse interrompermi di nuovo.

Non mi aspettavo che tornasse a guardarmi e ora che mi aveva concesso una piena visione del suo viso potei vedere che il bollo stampato sulla sua fronte quella mattina si era modificato, adesso sembrava a tutti gli effetti un brutto livido circondato da capillari rotti. Anche l’occhio destro era gonfio, completamente richiuso su se stesso, mentre l’altro, ben aperto e naturalmente tendente a una forma triste, mi stava scrutando con fare sospettoso.  

Poi, senza alcun preavviso, l’uomo balzò in piedi e corse a scagliarsi contro le grate, producendo coi suoi palmi un rumore che rimbombò per tutte le segrete e che mandò indietro il mio coraggio di tre passi.     

– Sentiamo, allora. – sussurrò, con l’alito pesante di uno che non mangiava da svariati giorni.

Io arricciai il naso, distogliendo lo sguardo contrariato per pochi secondi. Allora, quando ebbi ricordato a me stessa la ragione per cui ero lì, rispolverate le noiose lezioni della suora, con un certo sforzo mentale iniziai a parlare.  

– Sciebasne… sciebasne essem muliere? – Sapevate che ero una donna?, domandai guardandolo fisso.

La sua bocca si squarciò in una risata fragorosa, colpendomi in pieno volto col suo alito pestilenziale e con una risposta ben evidente.

– Papae! Vere Latine loqueris! – Diavolo! Parli davvero latino!

Serrai le mani a mo’ di pugno. – Sciebasne! – Lo sapevate!, mi riferii al nostro primo incontro sotto le porte.

Lui mi schernì con una smorfia della bocca, staccandosi dalle grate e mettendo su un’espressione divertita.

– Hashashin qui defendetur Miles Templi? – Un Hashashin, che difende un Templare? – Dementis est! – Cose da pazzi! – Immo. – Anzi. – Muliebriter! – Da donna!   

Si spostò all’interno della cella e per un istante lo persi nell’oscurità della notte. Mi avvicinai un poco alla cella, strizzando gli occhi nella ricerca di qualche ombra.

– Tunc, quare tacuisti in conspectu Hashashin? – Allora, perché avete taciuto difronte agli Assassini?, chiesi piano, guardando affondo nella stanzetta.

Da così vicino, fui investita dall’odore poderoso di feci e piscio che proveniva dal fondo della prigione, quand’ecco che due orbite luminose si volsero a guardarmi, trapassandomi l’anima con la velocità di un proiettile.

– Hodie tibi, cras mihi, dominae mea. – Oggi a te, domani a me, mia Signora.

Poi, il Templare sorrise e tornò a girovagare per la cella e a passare il pezzo di pane da una mano all’altra, lasciandomi completamente ammutolita per un tempo che parve logorante alle mie corde vocali.

– Ditemi, Signora mia, da quanto tempo siete in queste terre barbare? – fu lui a riprendere la parola, mantenendo la stessa disinvoltura anche mentre strappava un pezzo del suo pane e lo lanciava al topo che si era affacciato dal buco nel muro. – Siete stata data in moglie a qualche barbaro Saraceno [2] quando eravate ancora una bimba ?

– Non sono sposata, né ho in progetto di farlo prima dei miei sessant’anni.

– Ma sarete cristiana, suppongo. – provò allora, storcendo il naso quando continuò – Una donna cristiana che parla la lingua templare [3], favella in saraceno e indossa abiti da Assassino. È straordinario anche per questi rozzi uomini.  Decisamente, qualcosa di non convenzionale, che una donna pensi così tanto.

– Beh, io penso. – ribattei saccente, un sopracciglio completamente arcuato nella stizza. – E non sono cristiana. In realtà, l’unica cosa in cui credo è la realtà dei fatti.

– Ah! – il suo motteggio mi giunse forte dal muro in fondo. – Abbiamo una scettica! La conversazione si fa finalmente stimolante.

– Se volete convertirmi, – lo schernii con un mezzo sorriso, – perderete soltanto tempo…

– Parlavo della vostra diffidenza. Di solito è sintomo di grande intelligenza, o immensa stupidità. La vostra qual è?

– Vi trovo un gran cafone.

– Perdonatemi. – Sorrise sotto i baffi. – Allora, permettetemi di rimediare. Vorrei comprendere quanto è intelligente la mia Signora, che di certo deve essere una donna speciale, ponendovi difronte un mio piccolo grattacapo. Una questione, se vogliamo, da cui dipenderà la nostra … amicizia!

Arcuai un sopracciglio con fare scettico. – Io non sono qui per la vostra amicizia. Ma. – Sospirai. – Vi ascolto.

– Sarà questione di un attimo.

Con un movimento fluido e scattante il Templare si accoccolò per terra a gambe incrociate, e quasi si aspettò di vedermi fare altrettanto, se solo non fossi rimasta cocciutamente in piedi a fissarlo con quell’espressione che sta a metà tra lo scherno e l’indifferenza. Insomma, alla fine io rimasi dov’ero e l’uomo, rinunciatoci, iniziò a parlare.

– Cosa sapete voi degli Assassini, mia Signora?

Incrociai le braccia, sbuffando.

– Non molto, in realtà. – risposi breve. – Solo che sono molto eruditi, che hanno un complesso sistema gerarchico e che sono estremamente agili, che la loco capacità di arrampicarsi anche sui punti più impervi costituisce per loro un notevole vantaggio sui nemici. Ecco perché sono così letali e, soprattutto, pericolosi.

– Tutto giusto. Ma avete dimenticato la cosa più importante. – Alzò l’avambraccio sinistro, piegando tutte le dita della mano eccetto l’anulare. – Avete mai notato che tutti gli Assassini mancano di questo dito?

Non risposi.

– Certo che sì. – sorrise, riportandosi la mano sul ginocchio. – E saprete anche che è per utilizzare meglio la loro adorata lama celata, un infido pugnale nel loro bracciale che quei codardi usano per uccidere il loro bersaglio senza affrontarlo, che amputano l’anulare a tutti i neonati, figli di puttane e ladre mandate al rogo nella piazza della città? Certo, a volte non trovano pargoli della sfortuna da raccattare dalle strade e allora entrano nelle case, uccidono le loro famiglie e prendono i piccini per portarli a Masyaf, dove vengono massacrati dagli allenamenti, picchiati, costretti a gettarsi giù dalle torri al minimo ordine del loro Maestro …

– Dove volete arrivare?  

– Non so cosa vi abbiano detto qui, ma non sono i Templari i cattivi di questa storia. Gli Assassini lo sono.

– Spiegatevi.

Vidi un sorrisetto moderatamente soddisfatto fiorire sul suo volto magro. Sapeva di avermi attirato nella sua trappola ed ora, ora poteva davvero parlami con la sicurezza che lo avrei ascoltato fino all’ultima sillaba.

– Sapete, mia Signora, quella tra Assassini e Templari è una storia davvero molto antica. Nessuno sa con esattezza quand’è che tutto cominciò, né se i nostri Ordini fossero in principio uno soltanto, ma eravamo antichi e uniti dal sangue come Caino e Abele: fratelli, individui uniti dalla volontà di tenere questo mondo lontano dalle Grandi Tenebre. Dei campioni della Luce. Ma poi, purtroppo…

– Poi sono iniziate le gelosie e i primi screzi. – conclusi io per lui con saccente ovvietà, forse troppa. Lo vidi guardarmi torvo e subito mi morsi la lingua a testa china.

– Già, accadde proprio questo. – riprese a parlare, ma questa volta senza guardarmi in faccia, sbirciando lungo il corridoio con aria distante. – Cominciammo a pensare non più come un’unica, bianca entità, ma come tante piccole testa d’ombre e chiaroscuri, all’improvviso, non ci trovavamo più in accordo su nulla. Gli Assassini non riuscivano ad accettare l’idea che l’umanità fosse ormai compromessa, si ostinavano a credere che ci fosse del salvabile, che era ancora possibile una redenzione. Ma la loro è una mera illusione. Il Padre della Comprensione ci ha dato concesso una preziosa occasione e noi l’abbiamo scialacquata. L’ordine ha ceduto il posto al caos, adesso i fratelli uccidono i propri fratelli, i bordelli sono affollati e le strade costellate di figli della guerra, bambini che piangono ai piedi del ricco che passeggia col suo seguito tra le strade di Acri, e gli Assassini, loro non vogliono alzare un dito per cambiare questa situazione! Loro sono la schiatta del male, impediscono ai Templari di ripulire il mondo da queste terribili atrocità! E se per cambiare le cose dovremo immergerci nel sangue di quelli che un tempo erano i nostri fratelli fino alle ginocchia, se per farlo dovremo estirpare la feccia dell’umanità, ebbene, e così sia!  

Terminata la sua sentita apologia, il Templare si tirò in piedi e diede due colpetti di palmo per ripulirsi i pantaloni sdruciti ai lati, quindi, si alzò quasi aspettandomi di trovarmi con quell’espressione tesa, labbra strette e braccia conserte mentre mi lambiccavo il cervello con furiosa inconcludenza.

– Ebbene? – il Templare era impaziente di sentire la mia opinione.

– Voi … siete un pazzo! – fu tutto ciò che riuscii a strapparmi via dai denti. – Estirpare il genere umano, rigenerare il mondo dalla ... feccia ! Voi vi credete Dio!

Lui rabbrividì come di stizza, dicendo – Mia Signora, avete completamente frainteso! Sono gli Assassini quelli che giocano ad essere Dio, uccidendo e dissacrando il dono della vita umana!

– E voi non fate forse lo stesso, signor Templare?

– Sì, è vero. Ma le nostre azioni sono per una Causa onorevole. Noi uccidiamo perché dobbiamo.

– Dobbiamo? ripete, stizzita. Ma vi sentite? Nessuna Causa vale la vita delle persone, nemmeno la più giusta! 

Vidi il suo volto aprirsi gradualmente in un sorriso ironico.

– Voi mi attaccate, – disse, – ma non riuscite a non essere d’accordo con me. Sapete che l’umanità non ha più alcuna speranza. Non è vero?

Avrei tanto voluto obbiettare, sputargli addosso che non era così, che non avrei mai approvato una simile follia, perché … beh, era semplicemente folle.

Ma la verità era che, sotto sotto, mentre lui elencava le ingiustizie che, sapevo fin troppo bene, pullulavano in questo mondo indisturbate da fin troppo tempo, il mio sangue era ribollito, avevo sentito il peso dell’impotenza schiacciarmi e subito dopo lo slancio della rabbia rimontarmi, portandomi, seppur per un brevissimo secondo, ad approvare l’idea di una depurazione.

Ma era sbagliato.

Era sbagliato pensare di condannare un’intera umanità e questo gli Assassini lo sapevano.

– Non sono venuta qua per farmi prendere in giro da voi, signor cavaliere. – borbottai a denti stretti.

– Siete qui per chiedermi della Vecchia Regina. Lo so.

Silenzio.

Un inaspettato, soffocante pezzo di silenzio andatomi di traverso giù per la gola. Ed ora mi ritrovai ad indietreggiare, colpita dall’improvvisa consapevolezza che ciò che pensavo era vero. L’arrivo di quel Templare era prescritto, il nostro incontro voluto dal destino, il mio arrivo lì, a Masyaf … doveva accadere.

– Chi siete voi, veramente, signor Templare? – scandii quelle parole con perfetta lucidità ma il cuore che mi pulsava nelle tempie, spiazzata dalla possibilità che, forse, avevo trovato l’uomo che mi avrebbe dato delle risposte.

– Chi sono io non ha affatto importanza. – mi liquidò invece lui, sbrigativo. – Ma se fossi in voi rinuncerei a cercare i vecchi signori templari, per il vostro bene.

– Cosa volete dire ?

Rimuginò con fare indeciso.

– Voi credete agli spiriti, mia Signora?

Colpita, mi ritrassi subito col busto, il pugno era corso al petto e lo stringeva mentre sotto il cuore scalpitava.

– Spiriti…? – ripetei quasi balbettando.

– Sapete, questo castello ne è pieno zeppo, di spettri che vagano nella notte.

– Smettetela.

– Tra i corridoi, negli atri… qui, nei sotterranei…

– Adesso basta! Non ho tempo per queste vostre assurdità! Se non volete parlare con me, ebbene…

– Voi siete qui perché pensate io possa dirvi dove sono i Chiaravalle. – esordì, schiacciando lo zigomo contro le grate con fare quasi annoiato. – Ma state perdendo solo … come si dice? Tempo.

A quel punto, ero pronta per scappare, davvero. Ma poi riempii i polmoni di tutta l’aria disponibile, trattenni il respiro, e contai.

Uno, due, tre… fino a dieci. Finiti i numeri, il battito cardiaco si era più o a meno regolarizzato. Adesso avevo i pensieri più lucidi e ordinati, potevo pensare senza che l’aria attorno mi soffocasse con le sue oscure presenze.

– D’accordo. – Mi volsi con tutto il corpo verso le grate, i pugni stretti lungo i fianchi, lo sguardo deciso. – Ammettiamo… ammettiamo che io stia cercando la famiglia Chiaravalle. Perché sarebbe una perdita di tempo?

Nessuna risposta.

– Dovete andare. – all’improvviso, aveva fretta di concludere la nostra conversazione.

– Cosa? No, aspettate! Cosa accadde davvero quel giorno di trent’anni fa al mercato di Gerusalemme? Chi tradì i Sette Fratelli? È vero ciò che si dice, o è solo una leggenda? Vi prego, ditemelo!

– Non dovreste rievocare la memoria dei defunti. È pericoloso, ed è proibito.

– Proibito? E da chi?

– Avete finito il tempo a vostra disposizione. Ora andate.

Spazientita, andai spedita alle grate e le afferrai con entrambe le mani, opponendomi a gran voce.

– Io non me ne vado di qui finché non risponderete!

Rumore improvviso di ciottoli che rotolavano sul pavimento.

Il cuore mi saltò in gola, l’occhio corse verso il corridoio buio e all’improvviso sentii che stavo tremando, tremavo così forte che non riuscivo più a tenere le dita allacciate attorno alle grate. Come se fossi divenuta di pastafrolla. Mi sentivo molle.

– Voi… voi avete risvegliato la maledizione. – la voce del Templare, riemerso dall’oscurità come un derelitto dal mare, mi riportò su di lui, ed ora, sì, sentivo che avevo gli occhi sgranati dalla paura.

Un’indescrivibile, viscerale paura dal profondo del mio petto.

Eppure, riuscii, in qualche modo, ad aggrapparmi a quell’ultimo, disperato barlume di ragione scientifica che ancora non era stato spento dai venti freddi di un primitivo incubo, e stendendo la mano in avanti riuscii ad agguantare la mano del Templare sull’inferriata.

– Quale maledizione? – sussurrai rotta. – Quale… è per questo… che non riesco più a tornare a casa? È per questo … ?

Nessuna risposta, solo i suoi occhi che mi fissavano, comprensivi, quasi amici. Poi, stese la mano sul mio volto, carezzandomi con dolcezza il profilo della mandibola da parte a parte.

– È … dentro di voi.  

Mi scostai appena dalle sue dita, allibita.

– Cosa? – sussurrai.  

Lui mi afferrò per un braccio, tirandomi verso di lui con violenza tale che andai a sbattere contro le grate con la pancia, ritrovandomi faccia a faccia col suo grosso, flaccido volto. Aveva gli occhi stretti in due fessure, da folli.

– Il sangue dei Chiaravalle. – sussurrò. – Sento il suo odore… nelle vostre vene.  

Qualcosa fece rumore alle mie spalle.

Fu un istante.

Una lama che sbucava nel mio campo visivo. Poi, del sangue schizzò sul pavimento.

                                       *                  *                 *


Correvo.

Correvo e non sapevo dove nascondermi.

Correvo, e nonostante ciò le mie orecchie continuavano a sentirlo. Un ronzio d’insetti sciamanti che mi rincorrevano tra le pareti come l’ombra di un incubo.

Correvo, e le ginocchia tremavano ogni volta che toccavano il pavimento reso terribilmente scivoloso dal sangue che avevo sotto i piedi, sulla camicia da notte, lungo il petto fino all’orlo di cotone bianco, schizzato sulla punta dei capelli, mentre la mano non bastava più a contenere il sangue che scivolava dal collo al polso, lasciando sul pavimento i segni del mio passaggio.

Era stato il Templare.

Avevo abbassato la guardia per un solo minuto, soltanto uno, e non mi ero resa conto di quell’ombra di morte che incombeva sulle mie spalle. Avevo abbassato la guardia solo per un fragilissimo secondo …

Poi, la sua mano che mi spingeva via, scagliandomi contro il pilastro appena in tempo ma non abbastanza in fretta per impedire a quel pugnaletto di graffiarmi il lato destro del collo, dalla mascella all’orecchio, stillandomi fiotti di sangue rubino.

Non mi resi subito conto che stavo perdendo sangue. In realtà, non sentii più nulla per quasi trenta secondi.

Ero rimasta lì, immobilizzata sotto la torcia in cima al pilastro, come ingoiata da una bolla del suono; né rumori, né dolore, solo il Templare che lottava dall’altra parte della cella per tenere un uomo avvolto da strati di stoffa verdi e dorata contro le grate.

E tra le sue callose dita scure, il pugnaletto che aveva stillato sette gocce del mio sangue.

Un sicario, un fantasma, un assassino: un nemico, un amico, non importava. Aveva tentato di uccidermi, e se il Templare non mi avesse spinto via in tempo, ci sarebbe anche riuscito.

– Correte, dannazione, correte!

Furono le urla rabbiose del Templare a crepare la superficie della bolla, e in un attimo, i rumori mi riesplosero in faccia, e con essi, quel ronzio tartassante.

Vespe.

– Adesso! – urlò di nuovo l’uomo – Correte, mia Signora!

Ricordo a malapena a cosa pensai mentre percorrevo di corsa le scale verso la superficie. Forse, che per la prima volta avevo davvero paura di morire in quell’allucinazione. Poteva essere.

Quando poi proruppi sotto l’arco all’entrata delle segrete e trovai le due guardie stese in una pozza di sangue, morte sgozzate nel sonno, ebbene, la pressione schizzò alle stelle dietro i miei occhi, rendendo il ronzio un cupo, straziante grido nero.

Mi mossi troppo in fretta, volli scansare la mano morta della guardia più giovane mentre scattavo in corsa e invece scivolai nel loro sangue coi palmi e le ginocchia, schizzandomi il volto e i capelli di quel nauseabondo, indelebile puzzo di morte che mai, mai avrei dimenticato da quella notte.

Non emisi nemmeno un gridolino, non potevo, bensì, raccolsi l’orlo della sottoveste e ripresi subito a correre, trascinandomi come se fosse uno strascico nero il brusio sciamante.  

Mentre vedevo gli ambienti schizzare ai miei lati in una sorta di galleria distorta e piena di luci, realizzai che avrei potuto urlare, avrei potuto svegliare l’intero castello e dare l’allarme per salvarmi la vita. Ma questo voleva dire farsi scoprire, e, potenzialmente, far condannare a morte Kadar per alto tradimento, lui, l’unica persona che mi aveva protetto dall’inizio di quella storia.

No, non ero disposta a correre quel rischio, non lo avrei tradito.

Mi ritrovai a dare una spallata a una porta piazzata sulla mia strada, irrompendo quasi in un ruzzolone tra tre corridoi deserti, difronte a me la distesa blu notte dall’altra parte delle vetrate tremolanti di luce. Danzavano, mi distraevano dall’avanzata imminente dello sciame su per le scale da cui ero appena giunta. Per un istante mi persi.

Poi, il plop di una goccia di sangue sul collo niveo del mio piede, rinvenni.

Ecco il contatto. Sapevo cosa fare.

Fuggire all’esterno, andare via dal castello. Cercare mastro Frye. Lui mi avrebbe aiutato, era l’unico che sapesse la verità ed era sufficientemente forte per proteggermi. Sì.

Mi sarei salvata.

Non recuperai neanche del tutto il respiro che raccolsi l’orlo della lunga veste in mano, liberandomi le gambe da ogni intralcio per correre a cercare salvezza fuori dalle mura labirintiche della fortezza. Non ci misi molto che la memoria di qualche giorno fa mi riportò in una loggia pervia a diversi metri da terra, finendo con l’essere travolta dal pungente vento della notte che attraversava la passerella da un arco all’altro di pietra.

Il gelo colpì il mio già precario equilibrio, costringendomi a crollare sul pavimento.

Non ce la facevo, non riuscivo più a continuare.

La paura …  mi stava letteralmente prosciugando le energie. E quel ronzio m’impediva di pensare.

Ero al limite.

Basta.

Vi prego.

Voglio svegliarmi!

– A … aiuto…

Gettai la mano tentoni sul parapetto e trovai l’appiglio di uno stendardo velato dalle ombre. Feci forza col braccio, macchiando lo stendardo col mio sangue, ma fu inutile. Non avevo presa sufficiente per rimettermi in piedi.

Così, con le lacrime agli occhi, cercai dentro di me la forza per cercare soccorso.

– A… aiuto! – finalmente, il suono della mia voce rimbombò tra i pilastri e le pietre, ritornando a me con più convinzione. – Aiuto… aiuto, aiuto, vi prego, qualcuno mi aiuti!

Qualcuno arrivò davvero.

Era risalito dal fondo delle scale dopo aver fiutato la scia del mio sangue, quindi, si era affacciato nella loggia con la silenziosità di una lince affamata, ed io, io ero il piccolo pettirosso a cui stava dando la caccia quella notte.

Non appena riconobbi sotto gli occhi il verde brillante dei suoi abiti mi gettai subito sui gomiti per trascinarmi via di lì, ma la salvezza era a una porta più in la e le caviglie strette nel nodo della paura, troppo pesanti per permettermi di arrivarci.

Non so cosa il sicario vide in quella fanciulla zuppa di sangue che gli stendeva la mano per implorargli pietà, mentre lui, invece, avanzava col coltello riverso indietro, il pomo d’oro che risplendeva nei miei occhi spalancati, ma per un secondo, un impercettibile nanosecondo, mi rividi ardere nelle fiamme del suo sguardo.

Povera. Povera, piccola ragazzina spaventata. Ti avrebbe uccisa, e non avresti potuto far nulla per impedirlo. Accidenti.

Il brusio si stava facendo più forte.

Battei le ciglia.

… No.

No, non sarebbe finita così.

Io non sarei morta lì.

La lama scintillò fredda sul mio viso, il vento fischiò alla sua calata, quand’ecco che, con un ruggito disperato, strappai con forza lo stendardo dal muro. In un batter d’occhio tutto divenne bianco, udii l’uomo sbraitare e tirare il tessuto da ogni dove, con l’unico risultato che rimase ancora più impigliato di prima. Non persi tempo, con una bracciata riuscii ad aprirmi un varco e non appena fui fuori ripresi subito a correre.

Scesi le scale, svoltai l’angolo per passare sotto due archi, quando udii dei passi alle mie spalle.

Mi sentii agguantare per i capelli, urlai ferocemente lottando per liberarmi da quella mano che tentava di tirarmi indietro e nel frattempo una voce gutturale sbottava in saraceno: “ Ferma, ferma!”

Un Moro. [4]

Al terzo scatto, finalmente, riuscii ad alzare abbastanza il gomito per colpirlo in faccia, riuscendo a fargli allentare la presa il tempo necessario per svincolarmi e fuggire ansimante dentro l’ufficio di Al Mualim. Sbucai difronte all’enorme vetrata buia e alle alte librerie attorno alla scrivania, poi piegai per la scalinata a sinistra, non riuscendo, tuttavia, ad impedire che il sangue impregnato sotto i piedi rendesse il primo gradino scivoloso.

Ruzzolai giù per le scale e lo slancio della caduta mi scagliò lungo il pavimento dell’atrio immerso nel liquido lunare, arrestandomi a pochi passi dal portone spalancato, dove iniziai a guaire e a contorcermi dolorante.

Sentivo tutte le ossa rotte, forse mi ero spaccata il labbro inferiore e come se non bastasse all’improvviso erano tornate tutte le fitte post-combattimento col Toro, con l’unica differenza che ora erano triplicate, insopportabili.

Ma c’era di peggio.

Il Moro aveva sceso le scale con pochi balzi, aveva riposto il coltello nel suo fodero sulla schiena e adesso stava marciando verso di me. Non provai a strisciare via, ormai non avrebbe fatto altro che inferocirlo ancora di più, ed ora il mio corpo non poteva sopportare altro dolore.

Entrò nel chiarore artefatto della luna, si fermò e gli abiti sbatterono contro le sue gambe, mostrando in quella nuova luce la fattura pregiata dei suoi abiti verdi, dei decori color oro che colavano sugli orli e i drappeggi, della raffinata foggia del turbante di mussolina sceso a coprirgli il volto, su cui spiccavano solo gli occhi contornati di nero fuliggine.

Con quegli occhi lui mi guardò, e mi fece capire che ormai non potevo più sfuggirli.

Non ricordo se mi avesse strappato la gonna mentre mi forzava ad aprire le gambe, se si fosse già slacciato i pantaloni quando sentii quel contatto terribilmente spiacevole, o quando mi colpì perché gli avevo morso la mano nel tentativo di liberarmi la bocca e strillare, ma ormai, che importava? L’unica cosa che potevo fare era chiudere gli occhi, per proteggere almeno loro da quella bestiale violenza, e sperare che il brusio impazzito nella mia testa mi risucchiasse via dal mio corpo abbastanza in fretta da non sentire nulla.

Vi prego.

Voglio uscire da questo incubo.

Poi, di punto e in bianco, sentii il corpo del Moro scattare indietro, sollevandosi dal mio ventre nello stesso istante in cui spalancavo la bocca e riempivo i polmoni d’aria pulita. La sua mano lasciò l’impronta di un sapore salato, spiacevolmente stampato sulla mia bocca screpolata.

Spostai la testa tra mille e più dolori, riuscii a guardare oltre l’osso del mio ginocchio, e per un istante credetti di aver visto delle ali.

Lunghe, bianche soffici penne carezzevoli piantate tra le sue scapole scolpite, che vibravano e  s’imbevevano le punte sul sangue del Moro morto lungo il pavimento dell’atrio illuminato, e ciononostante, erano splendenti, così pure che perfino l’aria intorno di morte attorno a lui si purificava e cantava di luce.

Non avevo mai visto un angelo stare così bene nel sangue.





Angolo autrice:


[1] = Ἡνία δή τοί παιδες ἐνί, τράγε φοινικoέντα θέντες καὶ λασίῳ φιμὰ περὶ στόματι ἵππια παιδεύουσι θεου περὶ ναòν ἄεθλα ; Trad. “Alcuni fanciulli, o capro, misero nella tua bocca ispida briglie di porpora e un morso, e ora giocano alle corse dei cavalli davanti al tempio del dio.” _ (Anite, A.P. VII, 312)
La ninnananna cantata dal Templare è tratta dall’epigramma 312 di Anite di Tegea, poetessa greca vissuta nel III sec. a.C. che scriveva di scene di vita privata, scorci agresti e memorie del mondo infantile, come nel caso della filastrocca del capro.         
[2] = Il termine “ Saraceno ” fu usato a partire dal II sec. per tutto il Medioevo per indicare gli arabi in special modo.
[3] = La lingua ufficiale dei Templari era il latino.
[4] = Il termine “ Moro ” era usato in un contesto non-mussulmano per indicare le popolazioni mussulmane, specialmente berberi.

Dunque, dunque… capitolo con molte postille, eh. Scusate la mia noiosa pignoleria, ma ricordo molto poco dei miei studi liceali, quindi, perdonatemi se il mio greco e latino è un po’… morto stecchito … ? Ad ogni modo, non sono mai stata brava con le lingue antiche, ma ci ho provato! xP 
Se vi accorgete di qualche errore nelle traduzioni, vi prego, ditemelo, così correggo!
Ed ora, torniamo ai nostri cari personaggi.
Mh, vediamo… 
Kadar che vuole riportare Laura a Damasco, Malik che crede che lei sia un lui, Laura ubriaca che tenta di baciare Kadar e viene respinta, l’incontro notturno col misterioso Templare nelle segrete e la rivelazione: Assassini e Templari in origine erano Ordini fratelli e lavoravano per lo stesso obbiettivo, garantire l’equilibrio, ma poi qualcosa si è incrinato; è scoppiata la guerra e adesso una ragazza del ventunesimo secolo si ritrova nel bel mezzo della Terza Crociata, immischiata in una storia ben più grande di lei e della sua semplice richiesta: tornare a casa.
Ma il passato della sua famiglia la segue come un fantasma. E se i Sette Fratelli e la Vecchia Regina non fossero solo una leggenda? Se le origini mitiche della famiglia Chiaravalle fossero vere? E se davvero ci fosse una maledizione che grava sulla loro famiglia?
E chi è quel sicario in verde? Cosa era andato a fare nel castello di Masyaf, come aveva riuscito ad entrare?
Ma soprattutto. Cos’è quel rumore che Laura sente?  

Come sempre, vi ringrazio infinitamente per avermi dato la possibilità di raccontavi questa storia, e raccontarmi.

Baci,
la vostra amica,

Lusivia.


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Capitolo 8
*** 8.Rosso cremisi ***


                                                                                   Capitolo 8

                                                                                    Rosso cremisi.




Il materasso sudicio squittì sotto il peso del mio corpo e, sebbene avessi i brividi di disgusto, non disdegnai di raccogliere quel poco di calore che il modesto giaciglio della cella mi offriva contro il freddo di quella notte.
Ma l’oscura umidità delle segrete aveva completamente prosciugato le mia energie.
Tollerare i primi quattro giorni era stato abbastanza facile, anzi, ero quasi orgogliosa di poter testare i miei limiti, di vedere quanto sarebbe passato prima che cedessi del tutto.
Non dovetti attendere molto.
Al sesto giorno, infatti, il bisogno di sentire sulla pelle il tiepido soffio del vento era diventato un’agonia, la sensazione di elasticità dei muscoli un miraggio, la fame continua che mi divorava lo stomaco una amica dolorosamente presente.
Per lo meno la prigionia era riuscita ad acquietare un po’ gli animi, soprattutto di Rauf, che decise di oziare sulla branda della cella dinanzi alla mia per tutta la durata della detenzione.
Ogni tanto mi lanciava occhiate truci, ma preferivo quelle che il silenzio inspiegabile di Kadar.
Si era chiuso in se stesso da quando eravamo arrivati lì.
Mi misi a sedere sul materasso con un lungo sospiro, indugiando su una crepa del muro prima di tentare un’ultima volta di spronare il prigioniero dall’altra parte.
-Kadar, sei sveglio?- mormorai flebile.
Silenzio.
-Stai tranquillo, puoi parlare, non ci sente nessuno.
Ancora silenzio.
Esattamente come la notte prima, e quella ancora, e quella ancora.
Come se la mia voce fosse solo un fastidioso fantasma errante che rimbalzava sulle mura.
A quel punto, mi misi in ginocchio e provai a sentire un suo movimento dall’altra parte poggiando l’orecchio sulla parete, poi picchiettai le nocche sulla superficie, sperando in un rimando.
Ma, proprio come le volte precedenti, l’unica risposta che ricevetti fu il bisbigliato del fuoco che scoppiettava nel braciere.
Il cuore mi si gonfiò di sentimenti contrastanti, tra cui anche una voglia matta di prendere a calci il muro e inveire a vanvera, ma se davvero fossi stata sincera con me stessa avrei ammesso che, in verità, avevo un disperato bisogno di conforto.
Rassegnata ormai all’idea di dover passare la settima notte chiusa lì dentro, mi accucciai a terra come un cane rabbioso, passando la mano tra il lerciume dei miei capelli con un gesto stizzito.
Così, lasciai che i minuti mi scivolassero addosso, almeno fino a quando l’ombra di un Assassino fermatosi davanti alla mia cella riuscì a catturare la mia curiosità.
L’oscurità m’impedì di riconoscere i suoi lineamenti celati nell’ombra della cappa lattea, ma poi un guizzo vivace della brace alle sue spalle gli illuminò il viso e riconobbi nel buio il riverbero dorato degli occhi di Altaïr.
-Come diavolo sei entrato qui?-domandai a bassa voce- Ci sono delle guardie in giro, a controllarci!
-Nulla che non possa abilmente raggirare- Altaïr s’inneggiò con tono asciutto, poi guardò velocemente attorno a se e tornò a fissare lo sguardo sulla mia sagoma, continuando- Ed ecco che, infine, sei finita dietro le sbarre gelide di una cella. Mi chiedo, a questo punto, che cosa tu abbia combinato perché l’ira di Al Mualim si scagliasse su di te.
Ci mancava solo lui con la sua fastidiosa ironia.
-Non vedo il motivo per cui debba interessarti- brontolai, decidendo in quell’istante che avrei scaricato tutto il nervosismo su di lui.
Quello tirò un sorriso irrisorio, affermando- Sai, Laura, il mio interesse nei tuoi confronti è più accentuato di quanto tu possa mai immaginare.
Improvvisamente, un cigolio anomalo mi portò ad abbassare lo sguardo sulle sue dita che erano intente ad aprire la cella con un mazzo di chiavi, sgraffignato a qualche guardia un po’ sbadata.
Egli entrò nella modesta celletta con passo felpato, si piantò dinanzi a me si sedette sui propri calcagni.
Poi, senza staccare lo sguardo dal mio, sfilò un foglietto sgualcito dalla cintura.
E sventolò la lettera del Templare Thorpe tra le sue dita con la stessa soddisfazione di un giocatore d’azzardo che spiattella la sua vittoria.
Istintivamente, portai il busto in avanti e provai a strappargliela di mano ma Altaïr si ritirò e la ripose al sicuro nella sua cintura, soffiandomi sulla fronte la sua risata roca.
-Come l’hai avuta?- mormorai, ritirandomi in buon ordine, con le unghie conficcate nel cuoio morbido dei guanti senza dita.
-Non ha importanza. Allora, siccome mi sento magnanimo ti concedo il beneficio del dubbio- iniziò lui, puntando i gomiti sulle sue ginocchia aperte, e con aria intimidatoria riprese - Ti do dieci secondi per spiegarmi il motivo per cui mi hai mentito riguardo alla lettera. E ti consiglio di essere molto persuasiva, perché inizio seriamente a credere in un tuo coinvolgimento dell’assassinio del Rafiq Samir.
-Cosa?- balbettai sconcertata.
-Sette secondi.
-Io non sono una Templare, se è quello che stai insinuando! Andiamo, Altaïr, non crederai davvero che io sia una spia?
-Quanto parli. Tre secondi.
Grugnii, serrando i pugni sulle gambe-Non ci posso credere! E va bene, vuoi che ti racconti la verità?
-Se non ti è di disturbo.
-Eccoti accontentato. Prima di morire, Samir mi ha supplicato di distruggere la lettera, ma non so se fosse a conoscenza del suo contenuto - esitai, analizzando il suo sguardo asettico, e per un momento mi sembrò quasi che stesse attendendo il momento giusto per scagliarmisi contro.
Invece, la sua reazione fu molto pacata- L’hai letta?-chiese.
Esitai, poi annuii. -Io…io non so perché abbia scelto proprio me-aggiunsi sconcertata- Non so come spiegarlo…ma era come se lui…mi stesse aspettando. Ecco, ora crederai che sono pazza.
Altaïr serrò la mandibola, picchiettando nervosamente le dita della sinistra contro il suo ginocchio-Si, penso che tu sia pazza. Cionondimeno, i tuoi occhi dicono la verità. Forse, i miei occhi sono troppo stanchi, troppo logorati a causa della continua ricerca di un nemico cremisi, troppo avvezzi al rosso per vedere oltre il colore…
-Che intendi dire?
Tuttavia, egli preferì non rispondere, invece si alzò dai talloni e si diresse all’uscita, affrettandosi a richiudere la cella prima che le guardie rifacessero il giro di controllo.
-Aspetta. Prima di andare, dimmi: cosa farai adesso, Altaïr?- chiesi a quel punto, piantando le mani attorno alle sbarre- Se hai letto il contenuto della lettera, dubito che quella sia un’informazione che terresti nascosta ad Al Mualim. O sbaglio?
Egli si fermò a un passo dall’arcata nel corridoio, lanciandomi uno sguardo lampeggiante. - No, in effetti, no- disse sicuro.
Chiusi gli occhi- Certo…
-Laura.
Alzai lo sguardo verso di lui e lo vidi che mi fissava intensamente, come a volermi mettere bene a fuoco, come se qualcosa di me non gli fosse ancora chiaro, come se non si fidasse di ciò che vedeva.
-Non ho mai dubitato dei miei occhi e loro non hanno mai fallito. Ma ora arrivi tu, Laura, e metti tutto in discussione. So che mi pentirò d’averti protetto per una seconda volta.
Così, Altaïr sparì, dissolvendosi come un gelido vento che tra le mura della fortezza addormentata.

*    *      *

Stavo male.
Stavo tanto, troppo male.
Era iniziato quella stessa notte, dopo che Altaïr se ne era andato.
Qualcosa di molto simile a una coltre soffocante e fumosa aveva preso a risalire dall’oscurità del mio animo fino al petto e lo aveva invaso, ostruendomi le vie respiratorie.
All’inizio provai a resistere, a ignorare quella strana presenza che lentamente s’impossessava di me, che si espandeva, che cresceva come un mostro nel mio grembo vergine, che si divertiva a scorticare la linea sottile che mi separava dalla rottura.
Sperai che alla fine si sarebbe annoiato di mescolare la realtà con la finzione nella mia testa e che mi avrebbe lasciata andare, come faceva sempre.
Ma quella volta non fu così.
Sembrava quasi deciso a distruggermi una volta per tutte.
Arrancai un’altra volta verso il materasso, pensando di volermi sdraiare un momento per far smettere alla cella di vorticarmi attorno, ma poi temetti che potessi addormentarmi, così mi girai e mi abbandonai a pochi passi dal muro.
Sentivo che tra non molto non avrei più visto nulla.
Dischiusi le labbra livide e abbassai le palpebre esauste, in un ultimo e disperato tentativo di chiamare Kadar, ma la mia voce era stata rubata da quel mostro che aveva cominciato a salirmi in gola con i suoi artigli neri.
No, dovevo restare sveglia e riprendere il controllo del mio corpo.
Svegliati.
Quella voce.
No, non adesso, non ero ancora pronta!
Scossi vigorosamente la testa, piantando i palmi sulle orecchie- Taci, non voglio sentirti! Vai via!
Il tempo è arrivato, devi svegliarti.
-No!- cercai di mantenere la voce bassa, ma sentivo che la mia gola era sul punto di squarciarsi in un urlo disperato. - Non sono ancora pronta!
Malgrado le mie suppliche, però, quel processo non si arrestò, anzi, saldò la presa sul mio corpo e lo scagliò un silenzio di luce, sicché per un momento non fui né lì né qui.
Ero sospesa nel vuoto della mia mente.
Ma non faceva paura.
Torna nel tuo corpo, Laura.
E fui scagliata nel vuoto.
Spalancai gli occhi e le braccia si gettarono nel vuoto, cercando di arraffare un lembo di quella luce per evitare di cadere nel buio, ma ciò che sentii fu solo il tessuto soffice delle lenzuola in cui mi ero risvegliata.
A riaccogliermi nella mia vita, il battito sordo del pendolo tedesco di noce chiaro nella mia camera, che pareva non aspettasse altro se non il mio ritorno per intonare il suo canto gioioso.
Ero a casa.
-Ben tornata, tesoro mio.
Spostai lo sguardo verso la porta e vidi una donna che ritornava dalla cucina con un vassoio di biscotti, una teiera fumante di un the all’arancia e limone e due tazzine decorate con delle coccinelle.
Era vestita con abiti disinvolti, una camicia borgogna, da cui sbucavano delle scure spalle muscolose, e un pantalone stretto che finiva in un paio di scarponi grigio topo.
-D’accordo…sono in un sogno o in un futuro dove le suore indossano jeans e camicette?- balbettai scioccata e Suor Agata sorrise, poggiando il vassoio sul tavolino a sinistra.
In quelle nuove vesti, ella pareva più giovane di quanto non fosse mai stata nel suo velo grigio.
-Non temere, sei sveglia e nel presente, Laura- rispose, versando il contenuto fumante in una delle due tazze.
-Ah. E perché sei vestita come una di quelle attrici ammazza-zombi?
Riuscii comunque ad abbozzare una battuta di spirito che allentasse i miei nervi tesi, ma che riuscì anche a provocare la sua risata trillante, ma si ricompose quasi subito.
Agata si voltò per offrirmi il thè, ma si bloccò quando vide che stavo piangendo come una bambina.
- Laura- immediatamente, la donna ripose la tazzina sul tavolino e si precipitò a cingermi in un abbraccio di conforto.- Laura, non piangere. Sei al sicuro, non ti faranno più del male- mi sussurrò all’orecchio, strofinando il palmo lungo la mia schiena per incoraggiarmi a smettere di singhiozzare in maniera incontrollata.
Eppure, non sapevo perché stessi piangendo così.
Ero tornata a casa, finalmente, lontana da tutte quelle lotte e sangue.
Allora perché mi sentivo così triste?
-Dov’è mamma?- chiesi a quel punto, staccandomi da lei quel tanto che bastava per fissarla diritta negli occhi, ora così seri e turbati.
La donna sospirò- Laura, prima mangia, hai dormito per così tanto tempo che il tuo corpo qui è quasi deperito…
-Dimmi dov’è- insistetti, con la voce gonfia a causa del pianto trattenuto.
-Lei…lei è ancora in viaggio. Starà via per molto, questa volta. Davvero, davvero molto.
-Dov’è andata?
Agata tacque, gelata in una cupa tensione.
Non l’avevo mai vista così seria.
Un po’ m’intimorì.
Poi, la donna si alzò e si diresse verso l’entrata, fermandosi solo per invitarmi con espressione risoluta a seguirla.
-Vieni.
La solenne freddezza con cui pronunciò quelle parole m’indusse ad alzarmi all’istante, come se dalle sue labbra non fossero uscite parole ma incantesimi oscuri a cui non poti resistere.
La seguii in un silenzio religioso verso i piani inferiori, dove le ampie stanze erano tinte dai primi chiarori dell’aurora, e ci fermammo davanti allo studio di casa.
Agata spalancò le porte scorrevoli ed entrò, trascinandomi con lei come se qualcosa d’invisibile mi tenesse legata per la vita.
Non avevo mai notato quanto fossero le pareti di quella stanza fossero rosse.
Rosse come il sangue…
-Comunque- Agata si schiarì la gola, prendendo a salire su una scala a ridosso della libreria in cedro-Se il mio abbigliamento ti fa ridere, dovresti vederti un po’ allo specchio- disse e  prese a passare con l’indice il dorso dei libri più in alto, quelli sulla chimica organica che mamma usava quando andava all’università.
Fu in quel momento che notai di aver addosso una delle pompose camicie da notte in seta , souvenir dei viaggi di mia madre, e storsi il naso con un mezzo sorriso.
Quando ebbe trovato ciò che cercava, la donna si calò giù dalle scale con inaspettata agilità, poi mi fece cenno di aprire entrambi i palmi.
Eseguii l’ordine e Agata fece piombare un libro grigio sulle mie mani.
Arcuai un sopracciglio e sotto il suo invito aprii il libro, facendo scorrere le dita fino al frontespizio decorato con le miniature di due cavalieri in sella a un destriero, che marciavano circondati da un cerchio che formavano le parole “sigillum militum”.
Al centro della pagina nivea, una frase spiccava sulla carta come se fosse fatta di fuoco e bruciò dietro i miei bulbi oculari, potandomi a cercar sollievo negli occhi neri di Agata.
-Pauperes commilitones Christi templique Salomonis- ripetei memonicamente, chiudendo il libro in uno scatto quando aggiunsi-Questa è un’incisione Templare. Perché è su queste pagine?
-Sei sempre stata molto brava in latino- Agata rigirò la discussione con una scrollata di spalle e si portò verso la grande finestra. –Mi sarebbe piaciuto, però, che tu avessi messo lo stesso impegno nello studio del greco.- poi rise, poggiando i palmi sul bordo della scrivania- Del resto, però, il Padre della Comprensione semina in noi le abilità che meglio possono permetterci di servire la sacra Causa.
-Sacra Causa?- mormorai sconvolta- Di che Causa stai parlando? I Templari sono solo una vecchia favola dei secoli bui, il loro ordine fu annientato secoli addietro grazie al re di Francia!
All’udire di quelle parole, la donna si voltò a guardarmi e lanciò un’occhiata carica di disapprovazione, portandomi a ritrarmi di un passo.
-Non annientato. Solo momentaneamente addormentato.
Detto ciò, la donna sfilò il ciondolo che le pendeva dal collo e costrinse ad accoglierlo sul palmo stringendo poco la presa su polso, che tremò alla vista quel simbolo rosso, del vessillo Templare.
Toccare quella croce cremisi ebbe lo steso effetto di un feroce uragano: il castello di carta in cui avevo vissuto fino a quel momento si dissolse nella polvere, le fondamenta delle bugie della mia esistenza furono distrutte, e mi ritrovai a precipitare giù dal burrone.
-Laura, per anni ho sopportato i sensi di colpa perché non potevo salvarti, perché eri troppo piccola per impedire che comparissero nella tua testa. Ma ora…ora la tua mente è abbastanza forte. Nel tuo sangue scorre la linfa di un Ordine antico, che ti ha scelto nel grembo di Erica quando eri solo un feto. Adesso, però, ti reclama a sé, come sua legittima proprietà. I Templari t’invocano in battaglia per combattere l’ombra dell’umanità. Gli Assassini.

*   *    *

Agata mi stava fissando dall’altra parte della stanza, con le mani conserte e le spalle rivolte verso la luce che filtrava dalla finestra.
Io, invece, ero seduta immobile sul divano poco più in là, con i pugni serrati sulle ginocchia e quel groppo alla gola che ancora mi dissuadeva dall’intento di iniziare una discussione, poiché di certo avrei emesso solo rantolii incomprensibili.
Ma i colpi ansiosi del suo piede continuavano a distrarmi.
-Potresti essere un po’ paziente? Sai, ho appena scoperto che tutta la mia vita era una menzogna.
Il piede di quella si fermò all’istante, il petto si alzò impercettibilmente in un sospiro teso.
-Se vuoi, adesso puoi farmi delle domande- disse a quel punto- Cercherò di essere quanto più esauriente possibile, promesso.
Io strinsi le labbra, un po’ restia.
-Sei una Templare?- avanzai la prima domanda con tono incerto.
-Si- rispose- E sono anche una suora. In verità, è un po’ complicato.
-Bene- deglutii impercettibilmente- Mia madre. Anche lei è una Templare?
-Si.
-Da quanto?
-Da quando aveva quindici anni. I giovani dell’Ordine vengono ammessi ufficialmente a sedici anni, ma Erica era…speciale. Sarebbe stata un membro di prestigio nella confraternita, era scritto nel suo destino.
Agata sembrò voler aggiungere altro, ma alla fine fece cadere il suo pensiero e attese la mia prossima domanda, che tardò un po’ ad arrivare poiché non sapevo bene come formularla.
-Quindi, questo fa di me una proprietà dei Templari?- non nascosi il mio disappunto.
Lei annuì- Sì, direi. Il tuo sangue è Templare.
-Non sono d’accordo- esordii e mi alzai dal divano, cominciando a girovagare distrattamente nella stanza, tutto sotto l’occhio vigile della mia tutrice. - Un’altra domanda. Mio padre sapeva di mia madre?
Silenzio.
Gettai un’occhiata alla donna da sopra una spalla e la sorpresi che mi fissava con occhi gravidi di oscuri pensieri, tuttavia non mancò di celarli con uno dei suoi soliti sorrisi morbidi.
-Diciamo solo che ne era a conoscenza- ammise semplicemente.
-Ah- mormorai, ma non volli sapere altro, perché di lui non mi era mai importato nulla.
Invece, cominciai a scrutare tra gli scaffali.
-Prima, hai detto che gli Assassini mi hanno contaminata da quando ero solo una bambina- ripresi a parlare, sfiorando appena il dorso del volume I Promessi Sposi. – Cosa intendevi dire?
-Che comparivano nelle tue allucinazioni, ovvio.
Spostai il mio sguardo scettico su di lei, osservando- Erano solo allucinazioni. Io non sapevo che fossero Assassini…né che il loro Ordine esistesse!
A quel punto, la donna si staccò dalla finestra e cominciò ad avanzare lentamente verso di me, intensificando il suo sguardo serio man mano che le distanze diminuivano tra di noi.
-Te l’ho detto. Ti hanno contaminato senza che te ne accorgessi. Ma non è propizio parlare di questo adesso, lo faremo quando verrà il tempo- si bloccò a pochi passi da me, che la fissavo freddamente, e con un sorriso aggiunse. - Ma per fortuna, alla fine, la tua mente si è liberata dalla menzogna.
-Intendi dire che sono caduta vittima della mia mente!
Agata scoppiò a ridere.
-Sei uscita dalla tua prigione, invece!- esclamò gioiosa, allargando le braccia scure in un sorriso colmo d’orgoglio- Non capisci? Finalmente hai lasciato che la tua mente ti mostrasse la guerra  millenaria che solo pochi eletti conoscono, tra cui hai un posto anche tu, Laura! Sei strisciata alla luce con il marchio dei Templari impresso nel tuo destino e morirai facendo ciò per cui la Confraternita è nata: uccidere gli Assassini.
Per quanto le parole di Agata fossero ben misurate, calme, cariche di una verità quasi ovvia, non riuscii a crederle.
-Quindi, ora dovrei entrare ufficialmente nell’Ordine di famiglia e stanare gli Assassini per ucciderli?-chiesi.
Ella annuì.
-E…se io mi rifiutassi?- continua a voce flebile.
Lei si fermò a riflettere, tirando su un’espressione indecifrabile.
- Avresti gettato via ogni sacrificio che tua madre e tuo padre hanno sempre fatto per te- brontolò- Che io ho fatto per te. Davvero vuoi questo? Davvero vuoi vivere nell’ignoranza, non sapere mai la verità?
Se avessi risposto di getto, sicuramente avrei detto di sì, perché accettare tutto quello significava perdere la mia libertà, quella che avevo da poco riscoperto tra gli Assassini, e sarei finita con l’essere ingoiata nelle viscere di un Ordine che era piombato nella mia vita dal nulla.
Ma una parte di me esitava.
Colei che mi aveva messo al mondo e colei che mi aveva cresciuto pazientemente, sperando, un giorno, di poter accogliermi nella Confraternita di famiglia, erano Templari e bugiare.
-Non…non lo so, sono confusa- balbettai.
-Confusa perché i tuoi Assassini ti hanno convinta che i Templari sono un nemico, che vogliono piegare la volontà altrui. - Agata s’animò di una controllata ironia- Quelli ti hanno solo mostrato le cose attraverso la lente distorta del loro Credo. Ma se tu me lo consentirai, Laura, ti mostrerò che l’Ordine è mosso dal volere della Giustizia. Fidati di me.
Fidarsi.
Non sapevo più di chi potevo fidarmi.
Templari, Assassini, complotti, guerre segrete affogate nel sangue…
Non ero interessata a quelle cose.
Non era ciò che volevo.
-No.
-Cosa?
-Ho detto di no! – strillai e mi gettai fuori dalla porta.
Corsi verso le scale, Agata mi venne dietro e tentò di bloccarmi per un polso, allora mi voltai e provai a divincolarmi con tutta la forza che avevo.
Le sue dita allentarono la presa sotto il mio strattone più facilmente del previsto e mi ritrovai a incespicare i piedi contro il gradino, finendo con il perdere l’equilibrio.
Provai a mantenermi al corrimano, ma l’angolo aguzzo arrivò più velocemente.
Il clangore di una spada che colpiva il ferro della mia cella e immediatamente ripresi conoscenza sul pavimento dei sotterranei di Masyaf, intontita più che mai e con la sensazione della fame che mi perforava lo stomaco.
Ero tornata nel sogno.
O forse avevo solo immaginato di tornare nel presente e la discussione con Agata non era mai avvenuta?
Strizzai gli occhi mentre mi rimettevo a sedere nell’angolo, mettendoci un po’ per schiarire le siluette di una guardia Assassina che si stava accingendo a infilare le chiavi nella serratura della mia cella.
-Forza, fuori. - disse la voce cavernosa della guardia.
-Sono passate già due settimane?- chiesi incredula mentre uscivo all’esterno, faticando per mantenere l’equilibrio sulle gambe improvvisamente pesanti.
-No, sconto di pena.
Nel frattempo, una guardia aveva aperto la cella di Kadar e gli aveva fatto cenno di uscire, provocando la curiosità di Rauf, che si era svegliato per il baccano e ora era piantato dietro le sbarre con il naso infilato tra le aste e gli occhi curiosi che analizzavano la scena.
Kadar uscì dalla prigione confuso, chiedendo al confratello perché mai fossimo fuori prima della scadenza della punizione, e gli indicò l’Assassino che ci stava aspettando con le braccia conserte all’entrata.
Altaïr.
-Cosa significa?- domandò a gran voce Kadar, mentre l’altro si avvicinava disinvolto.
-Siamo usciti prima del previsto, come è possibile?- borbottai stringendomi con loro per evitare che le guardie curiose sentissero la nostra conversazione.
-Ho ben pensato di aiutare due sciagurati a ricevere la grazia- ci schernì lui.
-E il prezzo?- chiese il ragazzo.
-Sostegno in missine. Un nostro fratello è stato bloccato da un drappello Templare che batteva la strada verso Acri ed è stato fatto prigioniero. Ma non indugiamo oltre, seguitemi.
Così, Altaïr ci guidò all’esterno delle segrete, su, all’aria aperta, e con mia grande gioia potei finalmente sentire sulla pelle il vento tiepido di mezzogiorno.
Stirai le braccia verso l’alto e rivolsi un’occhiata a Kadar, che stava meditando assorto sulla mia figura, l’espressione di chi avrebbe tanto voluto avere il coraggio di parlare per primo.
-Laura…
-Non ora, Kadar- lo freddai in un attimo e continuai a seguire il nostro cicerone verso l’armeria.
Non sapevo bene perché, però mi sentivo stranamente infastidita dalla sua presenza, e per ora preferivo ignorarlo.
Kadar recuperò le armi e l’armatura, che ci era stata tolta durante la perquisizione, mentre io dovetti accontentarmi degli strumenti a disposizione per il mio rango, ovvero una spada leggera presa dalle rastrelliere al muro.
Uscimmo da Masyaf velocemente, prendendo i cavalli che già erano stati preparati all’entrata, e battemmo un sentiero sdruccioloso che conduceva ad un passo di montagna.
Mentre procedevamo lungo il sentiero, Kadar, che fino  a quel momento era rimasto all’estremità del caravan, diede un colpetto ai fianchi dell’animale e si portò alla mia destra.
-Laura, ho bisogno di parlarti- disse.
-Ti sembra il momento?- ribattei, indicandogli con lo sguardo Altaïr poco più avanti.
Lui mi guardò deciso-Si.
Sospirai, stringendo le redini in grembo, certa che sottrarsi non avrebbe fatto altro che incaponirlo ancor di più.
-D’accordo, parla, ti ascolto.
-Io non volevo ignorarti nelle celle, te lo giuro.
-Ah, sì? Perché è quello che hai fatto.
Colpii le costole della cavalla e questa accelerò un po’ il passo, ma subito il destriero rossiccio del Novizio si frappose fra me e la strada, bloccandomi dall’andar dietro al cavallo di Altaïr.
-Laura, tu non capisci. Io non volevo abbandonarti, non lo avrei mai fatto. Ma ero confuso e avevo bisogno di starti lontano.
Sorrisi amaramente –Perché, t’infastidisce avermi intorno?- borbottai offesa.
Ma le mie parole lo allietarono soltanto, perché percepì invero il desiderio capriccioso di un’amante inappagata.
Sorridendo amabilmente, egli si sporse dalla sella e poggiò la fronte sulla mia, facendomi sobbalzare da un fremito smanioso, che, però, ingioiai in un baleno.
- Perché averti vicino m’incasina incredibilmente. E i pensieri vertono immancabilmente su di te.
Titubai, emozionandomi un poco. - Non prendermi in giro, per favore- mugolai.
-Perché mai dovrei prenderti in giro?- esclamò piano lui- Laura, forse il mio bacio non è stato abbastanza sincero? Credi forse che lo abbia fatto solo per sedurti e spingerti verso il mio letto?
Kadar tese le labbra calde verso le mie, io trattenni il respiro e girai la testa di lato, facendo scontrare la sua bocca con la mi guancia incandescente.
Lui si ritrasse sulla sella, l’espressione accorata.
-Ci vuole più di un bacio per farmi entrare in un letto!- grugnii risentita, poi mi affrettai ad aggiungere-In oltre, sei un grande arrogante se credi che avrei ceduto così facilmente alle tue lusinghe.
-Non mi aspettavo che tu le accettassi.
Riportai lo sguardo su di lui, che aveva rigirato il cavallo e ora guardava dinnanzi a se per nascondere il suo orgoglio ferito, poiché conscio, ormai, di aver tirato troppo la corda.
-Mi pento di averti baciato, non avrei mai dovuto cedere a quell’impulso. Dimentica il mio gesto, te ne prego. In cambio, ti assicuro che nessuno verrà mai a sapere del nostro fraintendimento, nemmeno Malik. Mi limiterò a essere un fratello per te, Laura, e non ti turberò più in alcun modo.
Si congedò con un mezzo inchino del capo, dopo di che strattonò il cavallo e riprese ad avanzare lungo il cammino.
Già, forse era giusto così.
Forse.
Raggiunsi i due Assassini quando questi avevano già legato i cavalli all’ombra degli alberi e si erano appostati a pochi chilometri da dove si poteva osservare l’intero accampamento dall’alto. indisturbati all’accampamento poco più avanti, dove delle guardie pattugliavano il perimetro e bloccavano l’accesso.
Lasciai anch’io la cavalla e mi riunii a loro, che nel frattempo avevano cominciato ognuno per conto proprio a passare in rassegna con lo sguardo potenziali punti deboli per trovare una breccia nella pattuglia esterna.
-Faremo così- fu Altaïr, ovviamente, a prendere in mano la situazione- Kadar, tu proverai a penetrare il fianco dell’accampamento e sabota le sentinelle. - poi si voltò a guardarmi, con aria incerta- Quanto a te, non saprei…in effetti, sarebbe meglio se rimanessi a guardare i cavalli.
-Allora perché mi hai portato qui, scusa?- rimbeccai irritata.
Quello alzò le spalle, focalizzando l’attenzione su una guardia distratta che si era allontanata dalla sua postazione. - Visto la tua bravura nell’eccitare gli uomini, potresti sempre travestirti da prostituta e distrarre le guardie.
-Che stronzo…- brontolai a denti stretti.
Kadar ingoiò una risata strofinando una nocca contro il naso, appagato, in fondo, dal mio atteggiamento critico nei confronti di un altro uomo all’infuori di lui.
Contrariamente a quanto mi aspettavo Altaïr ingoiò il boccone con ironia. -Mi sta bene. Allora, lingua lunga, verrai con me e proveremo a raggiungere la tenda dove è ostaggio l’Assassino.
A Kadar, però, non piacque l’idea di lasciarmi con lui -Un momento, magari è meglio se vado io con lei…
-No, si fa come ho deciso io- Altaïr, però, ignorò l’evidente gelosia del ragazzino e andò avanti, costringendomi a seguirlo per evitare di rimanere indietro.
C’infiltrammo nell’accampamento mantenendo il profilo basso e prendemmo ad aggirarci circospetti tra le tende, cercando, tra la fuga da un gruppo in pattuglia e l’altro, di trovare la tenda interessata.
-Sei sicuro di sapere dove andare?- chiesi, vedendo che Altaïr aveva preso a scrutare il terreno, come un segugio nero che fiutava impronte invisibili sulla polvere.
Senza alcun preavviso, egli stese il braccio ed io andai a sbatterci contro.
Notai che con l’altra mano mi stava indicando una tenda blu da cui erano appena usciti tue soldati.
-Fammi indovinare, i tuoi occhi possono vedere anche attraverso le cose?- domandai in un mezzo sorriso.
-No, però mi mostrano i bersagli.
Sgattaiolò veloce verso il tendone e si acquattò in un angolo riparato da una fila di casse, poi alzò di  poco il bordo e spiò all’interno, dopo di che, assicuratosi che la via fosse sicura, mi segnalò con un fischio di raggiungerlo.
Nell’oscurità del tendone  un uomo in bianco era piegato su se stesso, immobilizzato ai polsi da catene massicce e bendato con una fascia sgualcita e sporca di sangue che, notai dopo, proveniva dalla ferita sul suo sopracciglio scuro.
Una volta riabbassato l’orlo del tendone, Altaïr mi fece cenno di rimanere in silenzio, poi si avvicinò furtivo al suo confratello e lo osservò con aria assorta, quasi indeciso se liberarlo o no.
Alla fine, però, allungò il braccio con un sospiro e strappò la benda intorno alle tempie di quello, che subito chiuse gli occhi feriti dalla luce improvvisa e si ritirò con un grugnito, mettendoci un po’ prima di riconoscere il familiare cappuccio bianco della sua setta.
-Che ci fai tu qui?- domandò l’uomo, increspando le labbra sotto la folta barba nera.
-Sono venuto a salvarti Abbas. Non sei felice di vedermi?- lo punzecchiò l’altro, prendendo a girare attorno alla colonna di legno, poi si drizzò seccato quando capì che l’unico modo per liberarlo era trovare le chiavi.
Abbas rise graffiante, sfoderando un carattere scontroso e ostile. - Preferisco leccare il deretano di un Templare piuttosto che farmi aiutare da te- sputò veleno.
-Potrei anche lasciartelo fare, sai?- sminuendo l’ira dell’uomo legato, Altaïr tornò al mio fianco e dando le spalle ad Abbas cominciò a mormorarmi il piano – Laura, devo trovare la guardia che ha le chiavi. Tu rimani qui, con Abbas, e nel caso in cui qualcosa vada storto…
Altaïr sfilò la balestra che portava alle spalle e la ripose tra le mie braccia goffe, che la sorressero a stento mentre quello cominciò a illustrarmi fiducioso il suo utilizzo.
-Presta attenzione- incatenò il mio sguardo nel suo, poi m’indicò un meccanismo a gancio-Come prima cosa, tendi la corda con il crocco, ci vuole un po’ di forza-cominciò- Poi bloccalo con la noce, infine, tira giù il piolo e la freccia farà il resto. Hai capito?
Rigirai l’arma tra le braccia, calibrando la sua pesantezza, poi la strinsi al fianco e brontolai- Sì, credo di aver capito.
Lui mi fissò per un istante, poi annuì e mi diede una pacca di incoraggiamento sulla spalla.
Una volta che quello sparì fuori dalla tenda, caricai l’arma come mi aveva mostrato e mi nascosi vicino all’entrata, con il cuore che palpitava forte e le dita umide che contavano i minuti pesantemente appollaiati nell’aria.
-Oh, Novizio- la voce di Abbas provenne roca nella semi oscurità della tenda, portandomi ad alzare di scatto la testa dalla balestra.- Sei il nuovo protetto di Altaïr ?-domandò incuriosito.
M’incupii, stringendo la presa sulla balestra- No, il mio maestro è Malik Al-Sayf- dissi, dando le spalle all’entrata. - Altaïr mi ha solo chiesto di accompagnarlo in questa missione. In verità, non ci sopportiamo molto.
-Lo vedo- l’Assassino si accomodò sul terreno a gambe incrociate, poi arcuò un sopracciglio, precisando – Tuttavia, quell’idiota non porta mai nessuno con sé in missione. È troppo pieno delle sue fottute convinzioni per ammettere di aver bisogno, ogni tanto, di qualcuno che gli pari il culo dalle frecce Templari. Evidentemente, devi essere speciale per lui.
Speciale, io?
Non direi proprio, piuttosto, iniziavo a credere che avesse richiesto la mia presenza lì solo per tenermi d’occhio.
Era plausibile, tutto sommato, che sospettasse di me.
Chi poteva assicurargli che quel giorno, sul ponte di Damasco, il nostro incontro fosse stato solo frutto del destino?
Per quando ne sapeva lui, potevo anche essere una spia Templare mandata lì, proprio in quell’istante e in quel carro, per far sì che venissi salvata da loro e portata nel covo degli Assassini.
E forse era davvero così.
Chissà, la mia presenza lì poteva essere davvero un piano architettato dal giorno in cui ero nata.
Presa com’ero dal flusso dei miei pensieri, quasi non mi resi conto della guardia che si era affacciata nella tenda e che, adesso, stava sguainando la spada, avanzando a grandi falcate  alle mie spalle.
Fu l’avviso di Abbas a farmi voltare, inducendomi a puntargli la frecci alla gola proprio quando la lama lucente del cavaliere era sollevata sulla mia testa, bloccata in un attimo fatale.
Sebbene i miei occhi lucidi lo stessero guardando diritto negli occhi, il soldato tenne ostinatamente la guardia alta, spavaldamente incurante del fatto che mi sarebbe bastato un semplice scatto del dito per trapassargli il pomo d’Adamo.
A quel punto, uno dei due sarebbe morto.
Restava solo da vedere chi.
Ma premere il grilletto era per me impossibile.
Non potevo uccidere quell’uomo.
Non ci riuscivo.
-Che cazzo stai aspettando?-ringhiò agitato Abbas- Uccidilo, presto!
Mi umettai le labbra, cercando di controllare il respiro, ma non mossi le braccia né il dito.
Non m’importava se agli occhi dell’Assassino ero una pavida o una traditrice, doveva esserci un modo per farlo arrendere senza ucciderlo, magari colpendolo alla tempia…
Ma, proprio mentre aprivo la bocca per intimarli di lasciare la spada, uno zampillio vischioso schizzò dal collo della guardia e finì sulla mia guancia cerea, mentre una lama lucente fiorì davanti ai miei occhi come una rosa rossa.
Rabbrividii d’orrore quando sentii la lama celata di Altaïr continuare a lacerare a ogni suo più flebile spostamento la carne e le vene di quell’uomo, mentre un cascata rossa prese a scivolare dal suo collo e ad esplodere in gocce rosse sul terreno.
Per quanto quella visione mi ripugnasse, non potei far a meno di accompagnare l’uomo nei suoi  ultimi ansimi di vita, quando, finalmente, la lama venne sfilata dalla carne e quello cascò a peso morto nella pozza del suo stesso sangue.
Ero ancora rapita dal riverbero cremisi del liquido che continuava a dilagare sotto il cadavere quando Altaïr mi gridò contro di preparare la balestra e coprirgli le spalle, per poi precipitarsi a liberare Abbas.
Cercando di rinvenire dal mio stato di confusione, alzai la balestra tra le braccia molli e la puntai verso l’entrata, pronta a scoccare il dardo se avessi scorto anche solo un’ombra.
Infatti, da lì a poco scorsi qualcuno avvicinarsi di corsa alla tenda, così preparai velocemente il colpo e avrei lasciato andare il meccanismo se  Kadar non fosse entrato con le braccia all’aria, boccheggiando- Non uccidermi, sono io!
Abbassai l’arma all’istante, esclamando con aria sconvolta-Kadar, maledizione !Avrei potuto ucciderti!
Il Novizio sfoderò uno dei suoi meravigliosi e inappropriati sorrisi innocenti, quando un guardia si precipitò alle sue spalle con la spada tratta e gli occhi furenti di ira cieca, scagliandosi su di lui troppo velocemente perché quello potesse schivarlo.
Così, mossa dall’istinto cieco di che voleva salvare la vita del ragazzo a tutti i costi, sollevai la balestra e  lanciai un urlo a Kadar, che si chinò appena in tempo per evitare che l’arma gli colpisse le tempie.
Il Templare rimase tramortito dalla botta e rotolò al fianco di Kadar, che si scansò con espressione ammirata e allo stesso tempo sbigottita dal pensiero che quello a terra avrebbe potuto essere lui.
Nel frattempo, Abbas era stato liberato e, una volta riacquistato il suo equipaggiamento, ci aveva raggiunti in prossimità dell’uscita assieme ad Altaïr.
- Altaïr, la prossima volta assicurati che il Novizio sappia usare la balestra, così non la dimenerà a caso in aria!- Abbas non mancò di farmi pesare il comportamento di poco prima, spingendomi via per uscire all’esterno della tenda.
-Che gran simpaticone- brontolai- Mi ricordate perché lo abbiamo liberato?
Sia Kadar che Altaïr sospirarono, dopo di che il primo uscì in strada e il secondo mi chiese indietro la balestra, che fui ben felice di restituirgli, poiché avrei in tal modo potuto correre senza impedimenti.
All’esterno l’accampamento era scoppiato in un turbine folle di grida e piedi che battevano di qua e di là, ogni singolo soldato Templare ci stava cercando.
Ma noi eravamo già spariti.




Angolo autrice:

Cavolo, non posso crederci, finalmente sono riuscita ad aggiornare! Questa settimana è stata un parto, davvero. Mi scuso tanto per aver tardato così, per questo motivo avviso che molto probabilmente il capitolo nove arriverà la settimana prossima, quando i miei impegni dovrebbero essersi sfoltiti (almeno spero)!
Allora… Hai capito a Laura, eh, fa la doppiogiochista! Poverina, mi diverto proprio a metterla in situazioni complicate, vediamo come se la sbriga adesso!
 Come sempre, colgo l’occasione per ringraziarvi tutti, ragazzi.
Sono sempre felicissima di condividere con voi questa follia!
Baci, Lusivia.








 




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Capitolo 9
*** 9.Un sentimento incontenibile. ***


                                                                                        Capitolo 9
                                         
                                                                            Un sentimento incontenibile.




Stiracchiai le braccia all’aria, accolta dal calore tiepido del carro del dio Apollo, che era salito alto nel cielo di quella mattina per permettere al cocchiere di gettare sul mondo tutta la luce raccolta nel suo mantello dorato.
Mi spogliai canticchiando una canzone dal motivetto improvvisato, preparai il tinello che tirai sotto la finestra e m’immersi nei liquidi aurei, che si riflessero tremolanti lungo il mio corpo pallido risalendo fino ai miei occhi.
Una volta immersa, feci oscillare giocosamente le ginocchia, unica parte del corpo rimasta asciutta, prendendo un bel respiro prima di incurvare la schiena e bagnare anche i capelli, che pesarono quando riemersero dall’acqua.
Un bagno caldo era ciò che ci voleva per pensare in tranquillità.
Non avevo dormito molto la notte prima, forse perché ero ancora in pensiero per ciò che era successo dopo esser tornati assieme ad Abbas.
Al Mualim ci aveva convocato nel suo ufficio non appena varcammo la soglia del villaggio, ma non sapemmo del perché fino a quando non lo incontrammo sulle scale, con le mani dietro la schiena e un sorriso insolitamente gentile che li alleggiava in volto.
Come prima cosa, il Gran Maestro ordinò che Abbas fosse curato da due governanti di mezza età , dopo di che, quando congedò anche Kadar, rimanemmo solo io e Altaïr.
Rimasi in una nervosa attesa per tutto il tempo, gettando di tanto in tanto occhiate all’Assassino al mio fianco.
Che avesse a che fare con la lettera di Thorpe?
Invece, con mio grande sollievo, Al Mualim annunciò, visto i miei progressi, che era arrivato il momento d’essere affidata alle cure del suo Priore prediletto, colui che , da quanto avevo capito, sarebbe diventato il suo erede: Altaïr.
Non avrei voluto abbandonare Malik così, giacché passavamo la maggior parte della giornata insieme, prima tra i riscaldamenti, poi con la pausa pranzo e lo studio, finendo con l’abituaci in un’apatica rutine l’uno della presenza dell’altro.
Ma discutere con Al Mualim era come combattere con dei mulini a vento, così avevo preferito ingoiare quella pessima notizia senza contestazioni, abbozzando un inchino di congedo.
Osservai per un po’ il mio palmo che carezzava il pelo dell’acqua dorata, poi presi un bel respiro e m’immersi completamente nella tinozza, dove fui inghiottita dai fluttui ovattati come un sasso che va a picco.
< Nel tuo sangue scorre la linfa di un Ordine antico, che ti ha scelto nel grembo di Erica quando eri solo un feto. Adesso, però, ti reclama a sé, come sua legittima proprietà. I Templari t’invocano in battaglia per combattere l’ombra dell’umanità. Gli Assassini>
Le parole di Agata erano come fantasmi pallidi nella mia testa, mettevano i brividi sebbene fossero solo ricordi; eppure, erano così vivide e forti.
Superato lo sdegno iniziale, avevo iniziato ad analizzare la situazione con più calma, ed ero arrivata alla prima conclusione che ammettere l’esistenza dei Templari spiegava molte cose, prime fra tutte il motivo per cui Erica spariva spesso nel corso di un solo mese.
Per uccidere qualche Assassino nascosto a New York, o a Vienna, o a Tokyo…
Eppure, qualcosa non mi tornava.
Qualcosa che ancora non riuscivo ad afferrare, che picchiettava nell’angolo della mia coscienza per farsi notare, che mi chiamava in un ululato lontano, qualcosa, insomma, d’importante.
Qualcosa…ma cosa?
I polmoni si contrassero nel petto, sentii che l’ossigeno stava per finire, dunque mi aggrappai ai bordi della bacinella e mi tirai su, riemergendo a bocca spalancata per riprendere immediatamente fiato.
-Mi hai bagnato tutto…- la voce di Kadar sfiorò in una carezza accattivante la mia schiena, facendomi voltare con gli occhi spalancati e le labbra lucide semiaperte.
Il ragazzo dal cappuccio cenerino era entrato nella mia stanza, silenzioso come un gatto, e si era tenuto in disparte accanto alla porta per osservare la scena indisturbato, finché, forse per impazienza, forse per maliziosa curiosità, aveva deciso di farsi notare.
In un primo momento lo fissai, quasi incredula di vederlo lì, poi smossi in un movimento brusco tutta l’acqua e strinsi le ginocchia al petto, cercando di coprirmi con i capelli incollati lungo la schiena.
-Kadar!- esclamai a voce debole, prendendo a guardare nervosamente attorno, alla ricerca di qualcosa con cui coprirmi.
Egli sorrise sornione, forse divertito dal mio imbarazzo, esitando un momento prima di lanciarmi un telo che afferrai al volo.
-Perdonami, ma non ho resistito. - ammise, voltandosi di faccia contro il muro. - Dovresti tenere la porta chiusa quando fai le abluzioni, Laura- aggiunse poi- Qualche malintenzionato potrebbe entrare e afferrarti quando meno te lo aspetti.
Stesi il telo davanti ai miei occhi, alzando un sopracciglio in segno di scherno-Vedo…- borbottai.
Riemersi dall’acqua e velocemente mi fasciai il corpo, strizzai i capelli nella tinozza e scavalcai la bacinella, schizzando ovunque acqua e bagnando il pavimento a tal punto che i miei piedi squittirono fastidiosamente.
-Avresti dovuto bussare- gli feci notare a quel punto, spostando i capelli per scollarli dal collo sinuoso e dalla schiena bianchissima.
Lui gettò un’occhiata curiosa da sopra la spalla, osservando quel movimento con un brivido.
-Avrei dovuto. - mormorò profondo.
Avvertendo la vergogna impossessarsi delle mie guance, mi affrettai a raccogliere gli abiti, dopo di che gli stesi sul letto e attesi a testa china che Kadar uscisse in corridoio.
Ma lui non si mosse.
-Sei molto bella, Laura- non riuscì a tenersi quel commento per sé.
I nostri occhi s’incrociarono come due calamite attratte l’una dall’altra, io deglutii per inumidire la gola improvvisamente secca, lui sorrise spensierato e tornò a guardare il muro, sospirando leggermente.
-Ti aspetto in corridoio- annunciò e lasciò la stanza, chiudendo accuratamente la porta alle sue spalle.
Mi aveva visto nuda, suppongo.
Sorrisi timidamente.
Una volta che fui di nuovo pronta per mescolarmi tra gli uomini della fortezza, legai in una coda i capelli umidi e li coprii con il cappuccio, dopo di che raggiunsi il Novizio lungo il pianerottolo, che era immerso nei fasci caldi di quel mattino.
Lo raggiunsi e , senza batter ciglio, Kadar mi scortò nei piani inferiori, dove ero attesa da Altaïr per il mio primo allenamento sotto la sua potestà, forse il più duro della mia vita.
Di sicuro, se proprio doveva farmi da baia, almeno si sarebbe divertito a tormentarmi un po’.
Mentre procedevamo lungo la nostra strada, Kadar, che se n’era stato in silenzio a rimuginare fino a quel punto, si fermò improvvisamente nel bel mezzo della via.
-Laura, posso farti una domanda?-chiese a quel punto lui, con aria molto seria.
Mi accigliai, poi annuii.
Lui si voltò a guardarmi-Quella volta, a Damasco, tu ti eri nascosta nel carro perché due guardie t’inseguivano. - iniziò.
-Sì, è così.
-Quando ti sei nascosta poco distante da me, spaventata e tremante come un pulcino che si copre con i fili del nido, ebbene ti ho udito dire una frase ben precisa. Una frase che mi ha lasciato un po’ interdetto, a esser sincero.
Arcuai un sopracciglio, spostando il peso sul piede destro- Quale?-chiesi.
-“Nulla è reale, tutto è lecito”- rispose asciutto Kadar- Sono le parole del nostro Credo. Parole che solo gli Assassini conoscono perché pronunciate il giorno della loro iniziazione nella Confraternita dal nostro Mentore. Parole…che tu non dovevi conoscere.
L’ultima affermazione gli lasciò un amaro in bocca che gli impedì di aggiungere altro, ma non ce n’era bisogno, perché capii quale dubbio lo avesse assalito.
Si limitò invece ad analizzarmi con aria disperatamente fiduciosa.
Esitai, fissandolo a testa alta, poi mi portai davanti a lui, vedendolo mentre espirò via il fiume insensato di pensieri che avevano riempito la sua testa.
Potevo dirgli ciò che volevo, lo sapevo.
Lui si sarebbe fidato comunque.
-La prima volta che sentii queste parole ero solo una bambina e le disse mia madre-dissi - Ma non sapevo cosa significassero finché non ho incontrato voi, gli Assassini. Finché… non ho incontrato te, Kadar. In verità, è da quando ti ho incontrato che ho iniziato a capire tante cose.
Come previsto, Kadar non mise in dubbio per un solo momento le mie parole.
-Parli come se fossi importante per te.- osservò inespressivo.
Socchiusi poco gli occhi- Lo sei. Ma, se credi che stia mentendo, allora non credere a nulla di quello che ti dico.
-Lo so- affermò precipitosamente, poi torse il busto a destra per sfilare dalla sua casacca un oggettino lucente che mi offrì sul suo palmo aperto.- Per questo, ti darò qualcosa che ti leghi indiscutibilmente a me.
Era un bracciale in oro fino, lucente e ben definito, decorato alle estremità da due incisioni floreali e impreziosito al centro da una scheggia verde pallido screziata di piccoli globi neri e lucenti: un turchese.
Con aria un po’ impacciata, Kadar mi prese con delicatezza il polso e lo rigirò tra le sue dita scure, dopo di che infilò il bracciale con cura e precisione e rigirò la mia mano verso l’alto.
La pietra turchese era liscia e levigata, sembrava quasi fatta per splendere sulla mia pelle.
-L’ho visto questa mattina presto al Suk e ho pensato che…sì, insomma…a me non piacciono queste cose, perché sono maschio….- stava balbettando- Però, tu sei una donna…e alle donne piacciono queste cose un po’ frivole, no?
Un sorriso pizzicò gli angoli della mia bocca e abbassai lo sguardo sulla sua mano, che ancora teneva la mia per le dita.
-Non che tu sia frivola, Laura!- Kadar rettificò immediatamente la sua frase, imbarazzato, e strinse la presa con entrambe le mani-Assolutamente! Anzi, sei molto temeraria e forte e bella e coraggiosa e ….
-Va bene- cercai di trattenere il mio cuore che stava esplodendo in un pianto incontrollato, ma non potei impedire ai miei occhi di divenire lucidi. - Lo accetto… di cuore, Kadar- sussurrai piano.
A quel punto, il mio corpo si tese impercettibilmente verso di lui, come un magnete, come un pianeta bisognoso di gravità.
Kadar mi guardò attraverso le sue folte ciglia, ma non riuscì a fare altro se non osservare immobile le mie labbra, che avevo preso a mordicchiare nervosamente.
Che buon odore aveva, così caldo e dolce…
Chiusi gli occhi in un respiro intenso, attendendo.
Sentii il suo alito infrangersi sulla mia bocca, ma per una risata.
-Sai, avevo creduto che fosse stato nostro padre a insegnarti il Credo. Ecco perché ti avevo portato qui, ecco perché ti avevo creduto quando mi dicesti d’essere tuo fratello. – ammise frustrato Kadar, allontanandosi di qualche passo per regalarmi uno sguardo pieno di fredda indifferenza.
Lo guardai allibita mentre lui si bloccava a un passo dall’angolo, poggiando una mano contro la parete e fissandomi distrattamente, come se fosse sul punto di scappare via il più lontano possibile da lì, il più lontano da me.
Arcuò le sopracciglia-In ogni caso, ho intenzione di mantenere fede alla mia promessa- concluse.
-Quella di ignorarmi?- chiesi confusa.
-Quella di proteggerti, Laura. Sempre e comunque.

*   *    *

-Proteggermi, proteggermi… che diavolo significa? Non ho bisogno di protezione, diamine!
Era qualche minuto, ormai, che continuavo a borbottare tra me e me, mentre con cruccio avevo preso a liberarmi del cappuccio e di qualsiasi tipo di protezione, ad eccezione dei bracciali e degli schinieri.
Non c’era bisogno di proteggermi, non ero una bambina.
Gettai in un angolo della terrazza la roba e mi voltai verso Altaïr mentre era intento a liberarsi della sua pesante armatura, con quel solito cipiglio capriccioso che non permetteva di capire se era arrabbiato, affamato o semplicemente annoiato.
Diciamo che quella era la sua espressione standard per qualsiasi occasione.
-La pianti di brontolare cose senza senso?- disse d’un tratto lui, lanciandomi un’occhiata intensa da sotto il suo cappuccio. - Sei irritante, ragazzina.
Io, però, ignorai il suo malumore. - Perché mi hai fatto spogliare dell’armatura? Fa parte dell’esercizio?
L’Assassino sfilò dal suo polso la lama celata e la ripose delicatamente in cima alla catasta, guardandomi curioso, quasi come un bambino.
Poi, Altaïr sogghignò -Esercizio?- sorrise e si sfilò la cintura rossa dai fianchi, tendendola tra le sue mani mentre avanzava. - Non era questo ciò che avevo in mente, in vero.
Indietreggiai di un passo, sbiancando in volto, ma lui fece scivolare la fascia dietro la mia nuca e mi bloccò la ritirata.
Vidi la pelle sottile della sua cicatrice tendersi in un sorriso, poi le sue dita scivolarono ruvide sul tessuto accanto al mio orecchio e risalirono fino alle tempie, trascinando con loro la stoffa che mi coprì gli occhi.
Non appena la vista si scurì, gli altri sensi si acuirono.
Come se l’aria si fosse riempita di palloni elettrostatici che vibravano ad ogni mio spostamento.
-Io non faccio “esercizi”, Laura- la voce di Altaïr era chiara, limpida, penetrante mentre parlava - Io educo il mio corpo a sopportare il dolore e la fame, le lame e la fatica, il caldo e il gelo. Lo educo a obbedirmi. E lo stesso farò con il tuo corpo.
I suoi polpastrelli scivolarono via sul tessuto in uno struscio fastidioso, che grattò all’interno delle mie orecchie sensibili.
-Maniaco del controllo- brontolai.
Lo sentii ridere-Forse. Ora, però, presta attenzione. Ciò che voglio da te è che tu affini le tue percezioni “non visive”, quelle che non dipendono da altro se non dalla tua abilità più pura di controllare te stessa e il mondo attorno, a prescindere da ciò che i tuoi occhi vedono.
Scrollai le spalle con sufficienza-Non che le mie percezioni visive siano un granché…
-Non preoccuparti. L’addestramento darà i suoi frutti. Prima o poi.
-Oh, grazie- feci una smorfia ironica- Allora, che intenzioni hai? Vuoi forse colpirmi alla cieca finché non bloccherò il tuo colpo da bendata?
Altaïr non rispose alla mia provocazione.
-Altaïr…?
Quel silenzio improvviso mi agitò parecchio.
Per un momento rimasi in ascolto dell’aria, con le gambe leggermente piegate e i palmi serrati verso il basso, pronta a reagire a qualsiasi spostamento d’aria, a qualsiasi respiro, a qualsiasi rumore improvviso.
Ma non sentii nessuno movimento, nessun sogghigno, nessun piede che si avvicinava di soppiatto.
Era come se fosse sparito dalla stanza.
Poi, improvvisamente, un rombo sordo giunse alla mia sinistra e, prima che potessi far qualcosa, un’asta di legno mi colpì la coscia, facendomi ritrarre in un gridolino soffocato.
-Che cazzo era?- sbottai spaventata.
-Una spada, una lancia, una freccia…Decidi tu, Laura, tanto non attenuerà il dolore.
Avvertii la voce dell’Assassino ma non la sua presenza, ciò mi gettò nel panico.
 -Non ti avrò fatto tanto male, vero? –chiese poi- Ci sono andato leggero, infondo.
-N...no, ma mi hai spaventato a morte!
-Agitarti non farà altro che rendere più facile al tuo avversario tagliarti la gola.
Un altro colpo giunse a colpirmi il braccio, ma questa volta alla mia sinistra, e benché fossi ben preparata a reagire all’istante non riuscii ad acciuffare l’asta.
-Non ci siamo, Laura.
Mi voltai a destra, convinta di aver sentito la sua voce provenire in quella direzione.
-Dammi il tempo di capire dove sei!-sbottai.
-E che addestramento sarebbe?- esclamò stupito e mi diede un colpo al fondoschiena.
Grugnii esasperata, prendendo a indietreggiare con il corpo bloccato in una posizione impacciata e le mani che tastavano l’aria a casaccio, quasi sperando di incappare nel suo braccio o fianco.
Era frustrante essere in balia della situazione, ma soprattutto ero terrorizzata dalla possibilità di ricevere un altro colpo al sedere.
Dovevo stanarlo, capire la sua posizione, ma l’Assassino era ben accorto a rimanere ben nascosto nel silenzio della stanza.
Forse, però, potevo indurlo a indicarmi lui stesso dove fosse.
-Non hai parlato ad Al Mualim della lettera. Perché?- iniziai, sperando di aver stimolato la sua attenzione abbastanza da aprire un varco.
Lui non rispose subito. – In verità, l’ho fatto. Ma lui non ha voluto discuterne con me. – ammise frustrato.
Altaïr era alla mia destra.
Mi spostai un po’ di lato, tenendo le mani pronte a bloccare un colpo frontale.
Infatti, l’asta arrivò proprio dove avevo previsto, così riuscii, seppur non completamente, a parare il colpo con il bracciale di cuoio.
Essendo stato respinto, Altaïr si allontanò all’istante per impedirmi di individuarlo, schivando le mie mani tese ad acciuffarlo per i vestiti.
Sbuffai.
In ogni caso, farlo parlare funzionava.
-E come mai?- incalzai, questa volta rimanendo immobile dov’ero. – Insomma, nella lettera non c’era nessun’informazione utile…giusto?
-Concentrati.
L’asta arrivò in picchiata sul fianco, mi resi conto del contatto imminente, tuttavia i riflessi non furono altrettanto scattanti e mi beccò in pieno.
Indietreggiai, piegandomi in due dal dolore, ma non esitai oltre in quella posizione vulnerabile e mi rimisi subito diritta, pronta a bloccare un altro attacco.
-Notevole. - Altaïr sembrò compiaciuto di me- Ancora, forza.
Parai un altro colpo, questa volta con più precisione e forza, riuscendo a rimandarlo indietro.
-Magari, la questione non è di tua competenza, Altaïr- continuai imperterrita.
Lui grugnì.-Non dire baggianate.
Questa volta la sua voce era molto vicina.
Forse, era il momento giusto.
Dovevo solo spingerlo a parlar un’ultima volta.
-Forse, Al Mualim crede che questa sia una cosa che tu non puoi risolvere da solo.
Lui schioccò la lingua contro il palato in segno di disapprovazione, dandomi finalmente la sua posizione.
Regolai il respiro con molta attenzione, tenendo il corpo pronto a scattare alla più piccola sollecitazione di fronte a me, e attesi un suo attacco a sinistra.
Inaspettatamente, però, Altaïr si spostò alle mie spalle e mi colpì un polpaccio con intento provocatorio, portandomi ,effettivamente, a reagire senza calcolare bene l’eventualità di una sua reazione.
Per l’appunto, in meno di un secondo, l’Assassino fece scivolare l’asta dietro la mia schiena e mi bloccò contro di lui, arginando il contrattacco prima che questo arrivasse a fracassargli il naso.
La sua presenza mi travolse ancor più ora che i miei sensi erano così eccitati, per un momento fu come se potessi vedere il suo profilo aquilino oltre la stoffa rossa.
Poi, con la voce scura di un incubo, Altaïr parlò.
-Io sono l’Assassino migliore di tutti. Il più forte. Il più veloce. Il più abile. E di certo non sarà una stupida missione nel tempio di Salomone a cambiare le cose.
Con uno scatto stizzito, Altaïr allontanò l’asta e mi liberò dalla gabbia delle sue braccia, permettendomi così di sfilare la benda legata attorno alle tempie e tornare ad avere il controllo di ciò che mi circondava.
Le mie irridi faticarono a riadattarsi al mondo della luce, ma, quando finalmente misi a fuoco le figure circostanti, vidi che ero rimasta sola.
Altaïr si era di nuovo dileguato nel nulla.
Avrei tanto voluto capire per quale dannato motivo facesse così.
Dato che il mio maestro se l’era data a gambe, raccattai la roba con la fastidiosa consapevolezza di esser così poco rilevante da esser mollata nel bel mezzo dell’allenamento, come se non vedesse l’ora di cogliere l’occasione migliore per liberarsi di me.
Giacché il sole era al suo zenit ed io ancora non avevo messo sotto i denti un pasto, lasciai il terrazzo a capo coperto per recarmi nelle cucine, percorrendo a grandi falcate il tragitto già pregustando la colazione tanto agognata.
Camminando, avevo preso a controllare di tanto in tanto il gioiello d’oro al polso, ben nascosto sotto il bracciale di cuoio, e sentii il sangue ribollirmi ulteriormente nelle vene quando pensai che quello stupido di Altaïr avrebbe anche potuto scheggiare la pietra.  
Quello era un regalo prezioso da parte di Kadar, un pegno.
Già, ma un pegno di cosa proprio non lo avevo capito.
Quando giunsi nella sala da pranzo, trovai la figura austera di Malik intenta a sfogliare un libro dalla rilegatura marroncina, così rapito dalla lettura da aver abbandonato in un angolo il piatto della colazione.
-Salute e pace, fratello- mi annunciai prima di sedermi di fronte a lui, allungandomi per rubare una manciata di noci all’angolo del piatto.
Lui alzò lo sguardo metallico dalle pagine un per istante, poi arcuò le sopracciglia e tornò alla sua lettura.
-Come è andato l’allenamento con il Prescelto?-chiese apatico.
-Mi ha colpito con un bastone più e più volte- dissi e lanciai in bocca una noce.
-Mi dispiace.
-Non mi ha fatto male. Mi ha fatto incazzare.
-Immagino.
Alzai gli occhi al cielo, cercando con il dito la noce più grossa tra quelle che avevo sul palmo- Non credevo che un essere umano potesse avere una capacità tale di sintesi dialettica. M’impressioni ogni volta, Malik…-borbottai sovrappensiero.
A quel punto, finalmente, l’uomo si decise a chiudere il libro, che spostò all’angolo della tavolata, e piantò i gomiti sulla superficie, incrociando le dita davanti alla sua bocca.
-Se devi chiedermi qualcosa fallo e basta, sorellina- notai una certa forzatura nell’ultimo termine.
Ah, allora l’aveva capito che ero andata da lui per un motivo.
Dimenticavo quanto fosse sagace.
-È…è possibile che un Templare conosca il Credo degli Assassini, Malik?
-…Perché mi fai questa domanda?
Esitai.
-Curiosità.
Lui si accigliò un poco, passando distrattamente il pollice sul labbro inferiore con sguardo attento.
Stava cercando di vedere ciò che mi passava per la testa.
Lo faceva spesso, avevo notato.
- In teoria, no. Però…
-Però?
-Può darsi che un Templare sia venuto a conoscenza di questo dettaglio con qualche sordido mezzo di persuasione. Sai, non tutti gli Assassini sono coraggiosi e impavidi di fronte a una lama. A volte, la morte fa troppo paura per andare fino in fondo e qualcuno preferisce….
-Tradire?-la voce carnosa di un uomo arrivò dall’inizio della sala, facendoci voltare all’istante.
Abbas era in piedi vicino alla fornace dormiente e stava segnando distrattamente con le sue dita scure dei cerchi nella cenere, ma i suoi occhi ardevano come se ci fosse proiettato dentro il fuoco vivo.
Malik si drizzò sul posto e prese ad analizzare di sottecchi l’Assassino appena entrato nella conversazione, mentre io alternai lo sguardo interrogativo prima su di lui, poi su Abbas.
-Per caso ti riferisci a qualcuno in particolare, Al-Sayf?-domandò Abbas.
-La mia era solo una constatazione di una verità comune, ritengo- rispose misurato lui.
Abbas tirò un sorriso inquietante, alzando, finalmente, lo sguardo buio su di noi- Certo, fratello.
A quel punto, Malik agganciò lo sguardo di quello nel suo e per un momento i loro occhi sembrarono stridere in un grido di metalli e ferro nero.
Nei loro animi, era come se due titani fremessero da tempo per imperversare in una battaglia a cielo aperto.
Ma non era ancora giunto il momento.
Almeno, non ora.
-Vieni, Nadim- Malik mi richiamò con un cenno degli occhi e l’intesa fu immediata.
Mi alzai dalla tavola, lui prese il suo libro e mi seguì fuori dalla stanza, dove la nube nera sulla testa di Abbas aveva ormai appestato l’aria con il suo peso asfissiante.
-Che diavolo. - sbottai, svoltando l’angolo del corridoio- Si può sapere che ha quel tizio? È perfino più seccante di Altaïr!
Malik si strinse nelle spalle, balzando a sedere sul davanzale di una finestra. - Credo sia normale esser così astioso, se tuo padre è stato accusato di tradimento e abbia mandato a morte un caro amico- osservò, riaprendo il libro sulle sue ginocchia.
Io mi accigliai- Chi?
-Umar Ibn-La’Ahad- mormorò, con il naso ficcato tra le pagine del volume.
-…Il padre di Altaïr?
-Venne giustiziato dai Saraceni proprio davanti alle mura della fortezza, sotto gli occhi di suo figlio. Allora, Altaïr aveva solo undici anni.
Non sapevo se a causa della fame che incalzava o se per un sentimento improvviso di pietà, ma sentii il mio stomaco ribaltarsi in gola.
Che cosa orribile, vedere il proprio padre venir sgozzato come un animale davanti ai tuoi occhi.
Cosa avrà provato quel bambino?
Si sarà sentito spaventato? Solo…?
Avrà pianto?
Altaïr che piange.
Quell’immagine provocò in me un lieve sentimento di compassione.
-Laura- Malik mi chiamò di nuovo. - Non impicciarti nella vita di nessuno. Chiaro?
Risi tesa, stringendo distrattamente il pugno contro il mio stomaco. - Non avevo in mente di farlo!-esclamai, ma con l’altra mano incrociai le dita dietro la schiena.

*   *    *

Suor Agata diceva che avevo una sensibilità che pochi possedevano, una capacità di condividere istantaneamente il dolore di qualcun altro nella speranza di alleviare le sue pene, di poter dividere il peso.
Ma diceva anche che quella sarebbe stata la mia rovina, se avessi dimenticato di preoccuparmi innanzitutto di me.
Ecco perché avevo deciso di ricoprirmi con quell’armatura impenetrabile.
Perché così nessuno mi avrebbe mai ferito.
Eppure, nonostante tutto, continuavo a preoccuparmi degli altri, perfino  per Altaïr.
Ecco perché adesso lo stavo cercando in giro per la fortezza.
D’accordo, ma che diavolo credevo di fare?
Non potevo di certo dirgli che ero venuta a conoscenza della sua tragica storia e che ora mi faceva pena, innanzitutto perché questo sarebbe stato un durissimo colpo per il suo ego smisurato e ciò lo avrebbe di sicuro portato ad assumere un atteggiamento aggressivo.
E a me non andava affatto di farmi fulminare dal suo sguardo ferino.
Mi bloccai lungo le scale, grugnendo esasperata - Sono un’idiota!- e nello stesso secondo girai i tacchi verso i piani delle stanze.
Meglio seguire il consiglio di Malik e lasciar perdere.
Scesi le scale tenendo lo sguardo basso, finché, prossima alla mia camera, notai un Novizio che si era poggiato in maniera scomposta contro la porta di legno, mentre con le mani rigirava nevroticamente un foglietto ripiegato su se stesso.
Kadar non si accorse di me, quindi misi alla prova gli insegnamenti del mio vecchio maestro dallo sguardo severo e sgattaiolai alle sue spalle senza far troppo rumore.
Quando gli fui abbastanza vicino, lo acchiappai per il cappuccio e glielo tirai fino a sfiorargli il naso.
-Non sai che è da maleducati sostare davanti alle camere altrui?- lo rimproverai bonaria, osservandolo con gli occhi che brillavano silenziosi mentre lui si riabbassava la cappa sulle spalle, con le gote improvvisamente rosse.
Kadar provò a nascondere il foglietto tra le mani, mentre, con gli occhi bassi, farfugliava. - Laura, ecco, non credevo che…insomma, non pensavo di incontrarti…ecco, sto…- sbuffò, schiaffeggiandosi la fronte-Ora me ne vado- brontolò tra i denti.
Si girò dall’altra parte, sospirando sconsolato, ma la mia mano giunse a bloccarlo per il lembo dei vestiti e Kadar si voltò nuovamente verso di me.
-Cos’è quello?- chiesi, indicando il foglietto accartocciato. - È per me?
-Eh? Oh, niente, nulla d’importante…
Io lo fissai e lui fece altrettanto.
-Non è…era solo una stupida frase- insistette.
Io sorrisi un poco- Posso vedere?-domandai gentilmente, stendendo la mano verso di lui.
La richiesta lo lasciò spiazzato ma, non appena comprese che non avrei accettato scuse, cedette alla mia offerta con espressione arrendevole.
Prese delicatamente la mia mano e aprì le dita con le sue, invitandomi con una carezza a prendere il foglietto, dopo di che si allontanò di qualche passo, permettendomi così di analizzare in tranquillità il piccolo messaggio ripiegato su se stesso.
Alzai di sottecchi lo sguardo, un po’ indecisa, e lo sorpresi a fissarmi intensamente, così tornai sul foglietto e cercai d’aprirlo strusciando i polpastrelli sull’orlo sottile.
Ma la mano di Kadar mi bloccò il polso.
Sebbene adesso le distanze tra noi si fossero accorciate improvvisamente, non mi curai del fatto che gli sarebbe bastato un centimetro per arrivare a toccarmi, bensì ciò che mi turbò fu quella luce misteriosa che adesso gli lampeggiava negli occhi limpidi.
Era desiderio famelico.
Molto lentamente, Kadar fece scivolare le mani verso i miei fianchi, poggiò i palmi con riguardo lungo la mia schiena e, approfittando del mio sgomento iniziale, riuscì ad accostare completamente il suo corpo slanciato al mio.
Mi diede un po’ fastidio quel contatto così intimo, dunque feci un po’ di resistenza con i polsi, ma qualsiasi spirito belligerante venne meno quando arrivò il suo respiro timido a scaldarmi l’orecchio, portandomi a tremare un po’.
Una volta tastato la mia soglia di tolleranza, i suoi muscoli si allentarono un po’ e, una volta umettosi le labbra, cominciò a strusciarle lungo il mio orecchio, facendomi sentire il suo fiato corto, reso più insistente dalle pareti interne della mia cappa.
Quando la cartilagine finì, passò al collo, fino a saggiare l’inizio della clavicola sinistra, poi risalì con un ansimo fino al lobo e lo mordicchiò.
Un sussulto interiore mi portò ad aggrapparmi alle sue braccia, mentre la mia bocca era ostinatamente serrata, decisa a contenere il respiro divento fastidiosamente grosso, ma distinguevo chiaramente che un calore improvviso aveva preso a smuovere tutto dentro di me.
Ed era imbarazzante.
-K…Kadar…no!- mugolai, maledicendomi all’istante per quell’insulsa vocina da ragazzina in preda agli ormoni.
Ma quell’ammonimento servì solo ad esaltarlo ancora di più, infatti, Kadar rafforzò la presa sul mio corpo e lo strinse a se così forte  da farmi temere che mi sarei ritrovata il giorno dopo con dei lividi.
Eppure, cavolo se era piacevole quel dolore.
-Fanculo…- lo sentii improvvisamente sussurrare.
-Cosa?-ansimai.
A quel punto, Kadar mi spinse contro la porta e prese a baciarmi con una violenza incontrollata, affamata, esasperata, mordendo e succhiando senza curarsi del fatto che mi stesse facendo male, toccando avidamente la forma delle cosce, dei fianchi, delle spalle…ed io che tremavo sotto le sue carezze spudorate.
-Fanculo a tutti gli altri…- ripeté- Fanculo… alla promessa…Fanculo…a…tutto ciò che non sei tu, Laura…!
Prima che potessi iniziare a gridare, Kadar mi spinse dentro la camera e richiuse la porta con un calcio netto, tagliando così il resto del mondo fuori da quel piccolo angolo d’estasi rarefatta e impetuosa.
Senza smettere di baciarmi, il ragazzo mi condusse di prepotenza verso il letto.
Sebbene avessi cominciato a opporre seriamente resistenza, non potei impedirgli di infilare un ginocchio tra le mie gambe e gettarmi di violenza contro il materasso.
Caddi in un tonfo sordo tra le lenzuola, cercai di riemergere con le unghie e i denti ma Kadar arrivò su di me e m’immobilizzò sotto il suo peso.
Finalmente, riuscì a bloccarmi le braccia sopra la testa, dove non lo avrebbero più respinto o graffiato, e solo allora si concedette un momento per riprendere fiato da quella lotta senza esclusione di colpi.
Adesso che eravamo faccia a faccia, notai un rossore violaceo che gli pizzicava le guance scure e gli occhi, normalmente gentili e puri, erano sbarrati in un baratro di perversioni e istinti animaleschi, impossibili da controllare ora che avevano raggiunto il limite.
Ma Kadar era anche spaventato.
-Non...non so che mi sia saltato in mente…- iniziò a giustificarsi, socchiudendo le ciglia folte per nascondere gli occhi lucidi- Io...non ho idea di cosa stia facendo, davvero- aggiunse imbarazzato- Ma sento che sono arrivato al limite. E adesso, Laura, voglio fare l’amore con te.
Le sue parole colpirono i miei timpani come l’eco di un campanellino tra la neve.
Poco dopo, sentii che una strana emozione, soffocante e gioiosa, aveva preso ad avanzarmi in petto fino a far male e non potei evitare di lottare per trattenere quell’esplosione indescrivibile che adesso infuriava nel mio petto.
Kadar mi desiderava.
-Ma io sono tua sorella- ribattei, tuttavia la mia voce parve incerta perfino a me stessa.
Lui si accigliò- Non mi importa.
Sgranai gli occhi, paralizzata, e lui si chinò sulla mia scapola, sfiorandola con il naso.
E io tremai tutta a quel contatto, perché ero spaventata.
Lui m’intimoriva.
Era per questo, allora, che mi veniva da piangere?
Il brivido sottile che smosse la mia spalla indusse Kadar a sollevarsi un poco, piantando i suoi occhi lampeggianti su di me. -Laura, non…non è una costrizione, io non ti farei mai nulla contro il tuo volere. Lo sai, vero?- esclamò piano, ma era evidente quanto fosse turbato per la mia reazione.
Mi sforzai di annuire, tuttavia preferii chiudere gli occhi e nascondere il volto contro il mio braccio.
Maledizione, dovevo calmarmi.
Non appena ebbi riordinato i pensieri, finalmente, lasciai che la bocca si muovesse. -Non…non sono preoccupata che tu mi violenti, Kadar. Non è per quello che mi viene da piangere.
-E per cosa, allora?- ora era davvero esasperato.
Presi un bel respiro, rigirando la testa per guardarlo diritto in viso. - È che…è imbarazzante.
-…Imbarazzante?
Annuii fiacca- Si. Insomma, l’ho notato sai, che sei… eccitato. Ecco.
Quella parola lo fece avvampare fino alla cima delle orecchie, tuttavia Kadar cercò lo stesso di mantenere il suo orgoglio puramente mascolino facendo finta di nulla, come se quella pressione dietro la toppa dei suoi pantaloni non esistesse nemmeno.
-S…scusa- brontolò impacciato.
-Scusa? – il nervosismo fu tale che non riuscii a trattenere una risata-Non devi scusarti, diamine!
-È che non ho la più pallida idea di quello che sto facendo!-rimbrottò risentito lui.
-Neanche io!
La sincera genuinità della mia risposta lo ammutolì all’istante, confondendolo a tal punto che per qualche secondo non riuscì a far altro se non studiarmi. - Ah, no?- balbettò poi.
Io arrossii, traendo un bel respiro per calmare i nervi, tesi come la corda di violino.
 -No, non ho mai…avuto un ragazzo.
-Oh.
Kadar esitò, seriamente combattuto su cosa dire o fare, come se sapere d’essere il primo a toccarmi gli facesse avvertire una responsabilità maggiore, che lo avrebbe reso custode di un legame indissolubile, per sempre.
Ma poi, quando sentì sotto le dita il bracciale con il turchese legato al mio polso, tutta la sua ansia scivolò in un sorriso dolce e il volto tornò calmo.
Così, il giovane Assassino si chinò su di me e baciò teneramente la punta del mio naso, inchiodando i suoi occhi magnetici nei miei nell’esatto scopo di demolire quel poco di resistenza che ancora c’era attorno al mio cuore.
-D’accordo, ricominciamo da capo- disse, sorridendo- Laura, io credo…anzi, sono sicuro di provare sentimenti fortissimi nei tuoi confronti, che non ho mai provato per nessuno in tutta la mia vita. E sono molto, molto spaventato. Quindi scusami se mi sono comportato come un idiota e se ti ho terrorizzato- si bloccò, prendendo un bel respiro-Vuoi che me ne vada?-chiese poi.
L’ultima domanda fu accompagnata da uno sguardo ammiccante, che mi lasciò piacevolmente confusa.
Kadar era sempre stato presente nella mia vita, già da bambina lo conoscevo senza saperlo.
E anche lui sembrava conoscermi da sempre, quasi mi avesse visto nella sua mente già tempo fa, prima di quel giorno fatidico a Damasco, prima di sapere il mio nome.
Ed ora, era come se mi stessi affidando alle mani amiche di una persona che si era presa cura di me dal giorno in cui avevo compreso d’esser rimasta sola.
Sapevo che non avrebbe fatto altro se non farmi stare meglio.
Così, scossi la testa e chiusi gli occhi, tirando la testa indietro in un invito a Kadar di far ciò che volesse.
Lui non tardò.
Avvertii la sua mano carezzarmi la guancia, pressando il pollice sotto la mia mandibola, poi Kadar poggiò le labbra bollenti sulle mie.
La lingua entrò vogliosa e solleticò la mia, le mani strinsero forte le forme morbide, poi scivolarono verso i suoi vestiti e cominciò a slacciarli.
Le mie mani si avvinghiarono alla pelle affusolata dei suoi addominali non appena lui gettò a terra la casacca, cominciando a baciarmi il collo, mentre io tastai curiosa il groviglio di nervi e sangue che formavano i suoi pettorali.
-Laura…- mi chiamò e si diede una leggera spinta con tutto il corpo.
Un gemito mi sfuggì dalla bocca e subito la punii affondando un canino nella sua carne, girando la testa di lato mentre avvertivo un imbarazzante senso di colpa pervadermi tutta, finché un gelo improvviso all’altezza dell’ombelico mi fece capire che Kadar aveva raggomitolato la casacca lungo il mio ventre.
Esitò quando giunse in prossimità dei seni, mordicchiandosi le labbra mentre riprendeva silenziosamente fiato.
Il cuore mi stava esplodendo, lo stomaco era un viluppo di nervi.
Sentivo che da lì a poco sarei svenuta.
O avrei vomitato.
Quando ormai Kadar ebbe lasciato definitivamente ogni tentennamento, la sua espressione divenne più decisa e mosse i polsi verso l’alto, tuttavia non riuscì mai a vedere ciò che vi era sotto il tessuto poiché venne bloccato da un rumore estraneo, che ci spezzò il fiato in due.
Entrambi ci girammo verso la porta, fissando la maniglia come se da un momento all’altro qualcuno potesse entrare lì dentro e pizzicarci così.
Come due ragazzini confusi  da una tempesta ormonale che aveva fatto perder loro completamente la ragione.
Ma ora l’incanto si era spezzato.
E quella vaga felicità aveva lasciato spazio alla muta consapevolezza d’esser scampata dall’errore più grande della mia vita.
Il bussare di nocche alla porta riecheggiò di nuovo nella stanza, facendoci sbiancare ancor più.
-Chi…è?- cercai di schiarire la voce quanto più possibile.
-Laura, potresti uscire in corridoio?- era la voce di Malik- È urgente.
Dannazione.
-…Certo!
A quel punto, senza riuscire a incrociare lo sguardo di Kadar, spostai il ragazzo di lato e quello si sedette sul bordo del letto senza batter ciglio, fissandomi come un segugio mentre mi rialzavo e sistemavo gli abiti come meglio potevo.
Accidenti, perché mi fissava con quell’espressione insoddisfatta?
Andai alla porta con passo veloce e mi fiondai in corridoio, dove Malik era piantato in mezzo alla via, nascosto nella semioscurità di quella nottata così agitata.
Notai che era un po’ teso.
Meglio, così non avrebbe notato la mia espressione stralunata.
-Qualcosa non va?- domandai, avvicinandomi.
-Ecco…in verità, si- iniziò insicuro- Qualche ora fa, sono stato convocato da Al Mualim e ho incontrato Altaïr, anche lui diretto nell’ufficio del Maestro.
-Oh- deglutii a vuoto. - E di cosa voleva discutere il Mentore?
Lui indugiò.
-Malik, mi stai facendo preoccupare.
-La lettera di Heron Thorpe, quella che Altaïr ha trovato sul suo cadavere, alquanto pare conteneva un’informazione più importante di ciò che sembrava. Al Mualim stava osservando da tempo i traffici nascosti di Roberto di Sable e Thorpe era l’intermediario ignaro che ci avrebbe condotto diritti alle mappe segrete del suo Signore. Ma ora l’abbiamo trovato.
-Cosa?  
-Ti spiegherà tutto il Mentore. Sai dov’è Kadar?
Sbiancai- …No!-risposi con troppa vemenza.
E Malik se ne accorse.
-Non importa, lo troverò per conto mio.

*     *      *

-L’Arca dell’Alleanza?- brontolai incredula- Ma…non era solo una leggenda?
-Leggenda, mistificazione, verità…Non è L’Arca ciò che ci interessa.
Al Mualim stava frugando distrattamente tra dei fogli sparsi sulla scrivania massiccia, tra cui anche la lettera che avevo trovato addosso a Thorpe, ingobbito nella sua figura arcigna mentre una fiammella coraggiosa illuminava la sua schiena e le mani venose.
Malik era qualche passo più in dietro, come a guardarmi le spalle.
Altaïr, invece, mi stava davanti e osservava con religiosa attesa la prossima decisione del suo Maestro, come un cane pronto a obbedire a qualsiasi comando, sia pur assurdo, del suo addestratore.
Alla fine, aveva avuto ciò che voleva.
Avere la fiducia di Al Mualim.
-Alquanto pare, i Templari hanno trovato dentro quella cassa di legno ingentilita da oro e vezzosità un manufatto, che potrebbe dar loro un vantaggio incolmabile su di noi. - spiegò Al Mualim, alzando lo sguardo per condividere la visione lugubre proiettata nei suoi occhi allucinati.- E se ciò dovesse accadere, allora nessuno, neanche noi, potrebbe più contrastare il loro Ordine. Ecco perché domani tu, Malik e Altaïr partirete in missione verso il tempio di Salomone: per recuperare il manufatto nascosto nell’Arca.






Angolo autrice: Salve a tutti i miei gentilissimi e amatissimi lettori!!!Dunque…descrivere le scene un po’ più “spintarelle” è stato decisamente divertente, ma anche difficile, devo dire. Comunque, ho fatto la brava e ho cercato di non esagerare…per ora.
Al prossimo aggiornamento con il primo capitolo a due cifre, che deve la sua venuta al mondo soltanto al vostro fantastico sostegno!
Ps: Solo a me il capitolo 10 fa tremare un po’ le ginocchia…?
Baci, Lusivia.
 






 






 

 













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Capitolo 10
*** 10.L'ultima lacrima del cielo. ***


                                                                                              Capitolo 10
                                                                     
                                                                                    L’ultima lacrima del cielo.





-Io non la voglio nella missione!-sbottò Altaïr, indicandomi con gesto sprezzante a Malik, il quale aveva taciuto davanti alla sua sfuriata bisbigliata nella tromba delle scale con un sopracciglio arcuato.
Io, intanto, mi ero seduta qualche gradino più in basso, con il cappuccio tirato sulle spalle, e giocherellavo nevroticamente con il bracciale di Kadar, mentre i due erano poco più su lungo la torre.                       
A occhio e croce, poteva essere l’una di notte.
-Perfetto, vuoi dirlo tu al Mentore che Nadim non viene con noi? Oh, già, dimenticavo!- bisbigliò tagliente Malik- Nadim è in verità una ragazza!
-E allora la portiamo con noi al tempio?-l’altro indietreggiò, contrariato.
-Non dire assurdità, certo che non la portiamo con noi.
-Perciò?
Malik scosse la testa, guardando fuori dalla stretta feritoia al muro, da cui tirò un vento gelido che gli pietrificò il volto severo, e meditò.
Non c’era nessuna soluzione, lui lo sapeva bene, ma per l’alta considerazione che aveva della sua intelligenza s’intestardì di poter trovare ugualmente una soluzione, di poter salvare tutti con un unico lampo di genio.
Io lo guardai speranzosa fino alla fine ma ogni mia fantasia fu spazzata via dal sospiro che fuoriuscì dalle sue labbra, mentre con la sinistra si stropicciava gli occhi sotto i polpastrelli del pollice e dell’indice in un gesto di resa.
Ormai, ero rassegnata. - Sono fottuta, dunque. - brontolai, tornando a capo chino sui miei piedi.
-No che non sei fottuta!- obbiettò svelto Altaïr- Nessuno di noi è fottuto fino a quando non arriverà domani mattina.
Malik alzò lo sguardo sul suo confratello così cocciutamente raccolto nella riflessione, dicendo con aria assennata- Altaïr, non potremo proteggerla se le cose si metteranno male lì.
-Lo so.
-In altre parole…- ribadii-…fottuta.
I due Assassini mi osservarono, ma questa volta non trovarono una ragione valida per obbiettare.
-Perché…?Perché Al Mualim mi ha chiesto di accompagnarvi in una missione così importante per la Confraternita?
-Che missione?
Kadar era in basso alle scale, un piede sullo scalino successivo e una mano poggiata sul suo ginocchio, che ci stava fissando con l’aria spaesata di chi era stato escluso da qualcosa di molto importante.
La sola vista del suo volto mi scosse completamente, mi alzai in piedi troppo velocemente e nel movimento feci cadere il bracciale, che cascò in un clangore ferroso sul gradino davanti a lui.
Il rumore attirò anche l’attenzione di Malik e Altaïr, che scrutarono di sottecchi il ragazzo mentre questo si chinava a recuperare l’oggetto e poi, con un sorriso gentile, me lo rendeva.
Indossai il bracciale a testa china, dopo di che appiatti le spalle contro il muro e lasciai che Kadar parlasse direttamente con gli altri due dietro di me.
-Di che missione stava parlando Laura?-il ragazzo riformulò il quesito per una risposta più precisa.
Malik esitò-Al Mualim ci ha convocato nel suo ufficio due ore fa per dare disposizioni su una missione.
-D’accordo. E per dove?- incalzò Kadar.
-Non- balbettai- Non devi preoccuparti di questo, Kadar. Non è nulla.
-Si, invece- la voce profonda di Altaïr entrò nella discussione e prese ad agitare l’indice in tocchi secchi nell’aria, puntandolo poi verso il Novizio più in basso mentre rifletteva - Lui potrebbe sostituire Laura, domani, prima di raggiungere le scuderie. Nessuno se ne accorgerebbe, sono alti uguali.
In verità, Kadar era qualche centimetro più alto di me…
-Non se ne parla proprio!-Malik si oppose stizzito.
-Sono d’accordo con lui- mi aggiunsi anch’io- Non voglio coinvolgerlo in questa storia, Kadar rischierebbe troppo se fossimo scoperti…
-Oh, allora è meglio gettarti in pasto alle spade Templari, Laura?- Altaïr parve sdegnato dalla mia codardia.
-No, ma non voglio che Kadar si faccia male.
-Non mi farò male.
Mi voltai a guardare Kadar, che aveva assunto un’espressione risoluta mentre con calma palpabile si avvicinava a Malik e poggiava la mano sulla spalla di quello, il quale guardò preoccupato il suo fratellino, quasi spaventato da quella luce nuova che vedeva nei suoi occhi.
-Non mi farò male, lo sai benissimo fratello mio. Mi hai addestrato tu, ricordi? Abbi fiducia delle mie capacità, di ciò che mi hai insegnato quando eravamo rimasti soli al mondo.
L’Assassino più anziano rimase turbato dalla risolutezza con cui il giovane si propose, così, con maggior premura, disse- Kadar, lo sai che se sarai scoperto rischi di esser punito molto duramente da Al Mualim?
-Ne sono consapevole.
-Potresti anche esser cacciato dall’Ordine- aggiunse distaccato Altaïr.
Kadar esitò, poi annuì.
Malik lo scrutò con la sua solita attenzione medica, cercando, scavando, e riemerse dallo sguardo di quello con un’espressione nuova, di chi aveva visto una luce incredibilmente forte brillare nel baratro più profondo dell’universo, rimanendone abbacinato.
Con un sospiro teso, dunque, egli poggiò entrambi le mani sulle sue spalle e affondò lo sguardo nero in quello limpido del fratello, serio e composto come sempre.
-Sei cambiato, stupido ragazzino- mormorò.
Quello sorrise un poco- Lascia che io la protegga. - disse Kadar.
Nel medesimo momento in cui Malik lasciava cascare le braccia in giù, con aria rassegnata, l’Assassino cui volto era sfregiato a vita dal segno della mia lama si girò per guardarmi, squadrandomi così intensamente che m’imbarazzo.
Altaïr aveva improvvisamente afferrato qualcosa che fino a quel punto gli era completamente sfuggito a causa della sua arroganza, della sua sicurezza d’aver il controllo su ogni cosa, compresa me.
Quello fu il primo segnale che qualcosa stava cominciando a sfuggire al suo controllo.

*     *    *

Altaïr fu il primo ad accomiatarsi verso le sue stanze, mentre Malik mi domandò di lasciare lui e Kadar soli, per parlare meglio della missione al tempio.
In verità, era chiaro dalla sfumatura inqueta dei suoi occhi che l’assennato Assassino era preoccupato per la leggerezza con cui il Novizio aveva preso quella faccenda.
Ma quella di Kadar non era leggerezza, bensì determinazione di proteggere qualcosa che era suo.
E ora che rigiravo il bracciale tra le mie mani, vedendo e immaginando le sue decorazioni e la pietra liscia sotto i polpastrelli, capii che il legame di cui parlava Kadar era di protezione.
Nel silenzio della mia stanza, seppellita sotto le coperte ormai impregnati del mio odore, attendevo in una statica attesa che le ultime ore della notte si consumassero in fretta.
Una risatella soffocata.
-Lasciami in pace…Non ho voglia di ascoltarti ora, stupida mente malata. - mormorai debolmente, ma forse non parlai affatto e quella fu solo la mia immaginazione.
Sorprendentemente, però, quella vocina infida tornò nell’angolino umido del mio cervello da cui era uscita.
Almeno per quella notte, non mi diede altre noie.
Verso l’inizio del giorno, sentii dei passi scorrazzare lungo il corridoio e conclusi che fosse qualche ragazzino di ritorno al villaggio, magari dopo un incontro con una giovinetta sfuggita per un’ora dal controllo di casa.
Lo scalpiccio lì fuori si allontanò velocemente, facendo tornare il silenzio nel pianerottolo.
Sospirai, affondando nel cuscino con un sospiro intenso.
Sei una traditrice, lo sai, vero? Hai tradito l’Ordine che ti ha cresciuto in grembo.
Maledizione era tornata alla carica. -Zitta…-l’ammonii.
Ti sei alleata con i nemici della tua famiglia…
Rabbrividii, affrettandomi a contestare. -Io non ho tradito i Templari, perché non sono una di loro!
Ah! D’accordo, se la metti così, allora…che ne dici del tuo Assassino dagli occhi color del cielo?
Schiusi poco gli occhi. - Kadar?- mormorai.
Lui si è offerto al tuo posto, rischierà il tutto e per tutto in nome di un sentimento che tu neanche ricambi e non hai fatto nulla per impedirlo. Sei un’affarista, Laura…
-Non…non è vero!
Lui si sacrificherà.
E tu sarai responsabile di ciò che gli succederà.
-Non gli succederà nulla!
Menti a te stessa. Tu hai già visto il sangue e la morte nel suo futuro il giorno in cui lo abbandonasti.
Un colpo secco alla porta spezzò il ciarlare insensato della mia mente, facendomi riemergere dal tepore delle lenzuola con una strizzata d’occhi, così gonfi che a stento riuscii a tenerli aperti.
Sebbene il mio metabolismo fosse ancora confuso per quella nottata insonne, tirai fuori le gambe lattiginose dal letto e mi misi in piedi, stiracchiandomi per bene mentre mi dirigevo verso la porta.
Aprii un’apertura nel corridoio e scorsi il profilo di Malik che cercava di risvegliare il suo corpo stropicciandosi furiosamente l’avambraccio contro gli occhi, un po’ gonfi e arrossati.
In principio, Malik mi era sempre sembrato un ragazzo accorto ai suoi movimenti, misurato, ma con il passare del tempo avevo scorto anche barlumi di gentilezza, leggiadra ironia e una lieve mania della perfezione.
In oltre, scoprii con meraviglia che era anche uno squisito racconta storie.
-Buongiorno Malik.- brontolai rauca. - Che ore sono?
-La quinta ora della notte- bofonchio piano- Fai in fretta, dobbiamo recarci alle scuderie prima del custode.
Dopo che ebbe chiuso la pota, m'affrettai a indossare gli usuali abiti, l’armatura e gli stivali, ma calai il cappuccio sulla testa solo quando raggiunsi Malik in corridoio, dove mi attendeva un po’ più sveglio di prima.
Il campo d’allenamento era avvolto dal silenzio celestino delle prime luci del giorno, gli attrezzi di legno usati per l’addestramento giacevano immobili, l’unico suono che si udiva a quell’ora del mattino era e il grido lontano di alcuni uccelli che sorvolavano la fortezza con le loro ali nere.
In prossimità delle mura di cinta, Altaïr ci attendeva, tutto rannicchiato su se stesso mentre strofinava le mani l’una contro l’altra, cercando di riscaldare abbastanza da muovere le dita senza provare dolore.
Gli abitanti di Masyaf non erano abituati a quelle temperature insolitamente rigide.
Quando ci congiungemmo con lui, Altaïr gettò un saluto a denti stretti e a braccia incrociate tornò a guardare il cielo, forse pensando che quella gelata era un chiaro capriccio di una divinità annoiata che aveva deciso di divertirsi un po’.
Lasciammo la fortezza per percorrere il pendio verso il villaggio, ancora immerso nel sonno che tutto ferma, quando, in prossimità delle scuderie, scorgemmo un Novizio che girovagava nervosamente davanti alle porte.
Alla sua sinistra, notai che tre cavalli erano già pronti per partire.
-Buongiorno. - Kadar ci salutò con un sorriso teso.- Siamo pronti?-chiese poi.
Malik annuì- Ti ha notato qualcuno, mentre uscivi dalle tue stanze?
-No.
-Tagliamo corto- Altaïr aveva fretta di chiudere la faccenda il prima possibile, così mi spronò a procede con un colpetto al gomito.- Svelta, dagli la roba.
Io obbedii senza esitazione e consegnai a Kadar le armi che avevo prelevato dall’armeria con Malik, cercando, nel frattanto, di ignorare le occhiate insistenti del ragazzo.
Consegnai la spada e i pugnali da lancio ma, quando arrivò il momento di un pugnaletto dall’elsa tozza e argentata, decisi all’ultimo di tenerlo nascosto nella cintura.
-Siate prudenti. – dissi e mi allontanai di qualche passo.
Kadar sospirò davanti alla mia indifferenza, poi spostò l’attenzione sulla spada che stringeva nella mano e ne calibrò il peso, mentre Malik non mi risparmiò un severo ammonimento prima di partire.
- Non parlare con nessuno. - cominciò con sguardo assente. - Bada a non farti vedere da Al Mualim. Esci dalla stanza solo se necessario. Non fare sciocchezze.
Era sempre così nervosamente tirato quando si sforzava d’esser gentile.
-E tu vedi di non rimanerci secco- risposi tranquilla.
Lui ghignò.
-Malik. Riporta Kadar qui sano e salvo. - aggiunsi seria.
-Ovviamente.
Detto ciò, l’Assassino tirò sui lucidi capelli neri il cappuccio immacolato e raggiunse i cavalli con Kadar, mentre Altaïr era già in sella e pronto per partire.
Quest’ultimo fu il primo a lasciare il villaggio, poi Malik e infine Kadar, che fecero scattare i destrieri con un colpo dei talloni lungo il pendio.
Rimasi immobile davanti all’entrata per un po’.
Dopo non so quanto tempo, marciai verso le scuderie e preparai la cavalla con le bisacce piene di rifornimenti e acqua per il viaggio.
Montai in sella come mi aveva insegnato Malik, strinsi le redini tra le dita e le schioccai nell’aria per condurre il cavallo in prossimità dell’uscita, ma esitai davanti alla distesa di terreno che si apriva aldilà del villaggio.
Era una pazzia, certo, ma non ero mai stata brava a prendere scelte saggie.
Colpii i fianchi della cavalla, quella nitrì infastidita e procedette lungo il sentiero battuto.
Masyaf era ormai alle mie spalle.

*    *    *

Il viaggio durò cinque giorni.
Dopo aver lasciato Masyaf, rincontrai i tre a pochi metri lungo il cammino, così feci decelerare l’andamento della cavalla e procedemmo a passo, prestando massima attenzione a non entrare nel loro raggio visivo per tutto il viaggio.
Quando giungeva la sera, loro si accampavano come meglio potevano e lo stesso facevo anch’io, raggomitolandomi contro il ventre caldo dell’animale e lasciando che la notte passasse il più velocemente possibile.
Alla vigilia del quinto giorno, cominciai a pensare a ciò che stavo facendo, alle motivazioni per cui mi ero gettata al loro inseguimento senza neanche riflettere.
La risposta fu sempre la stessa: perché avevo abbandonato Kadar, tanto tempo fa.
Era stata quella vocina della notte scorsa a ricordarmelo.
Il giorno in cui iniziai ad avere visioni di morte e sangue ero poco più che una bambina, troppo piccola perché capissi cosa mi stava succedendo, e il terrore fu tale che cominciai a mandare giù le compresse come fossero caramelle al gusto di limone nella speranza di far tacere le allucinazioni definitivamente.
E così, molto lentamente, passo dopo passo, le visioni si affievolirono, il sangue diminuì, i periodi in cui rimanevo confinata nel mio delirio sempre più brevi, finché, un giorno, mi alzai senza alcun ricordo di ciò che era stata la mia vita fino a quel momento.
Sparirono le allucinazioni, sparì Kadar, e per un po’ credetti di vivere una vita normale, più o a meno, solo se continuavo ad affidarmi alla scienza.
Almeno, così avevo creduto fino al giorno in cui mi ero ritrovata in un mondo sottosopra, lontana da casa secoli e secoli, sola e spaventata.
Forse, però, quella era la mia punizione per aver ucciso con le medicine l’unico essere che si fosse mai interessato a me, o per lo meno il divertimento perverso di qualche dio che aveva deciso di farmi compiere viaggio senza senso solo per trastullarlo un po’.
Non sapevo dove sarei andata, ma una cosa era certa: non avrei mai più rinnegato me stessa.
Arrivò la fine del viaggio nel pomeriggio del quinto giorno.
Il tempio di Salomone era poco più di un tugurio fatiscente all’esterno, nulla a che fare con le mie aspettative di splendore e antico mistero, che avrebbe dovuto impregnare l’aria di quelle arcane emozioni e leggende sussurrate nelle notti oscure della Mezzaluna fertile.
Ma ora, tutto ciò che rimaneva di quell’antica gloria era il riflesso sbiadito di uno specchio troppo vecchio.
Notai un certo nervosismo nei movimenti di Altaïr quando si fermarono a qualche metro dall’entrata per legare i cavalli, tuttavia dissimulò ogni cosa non appena fu raggiunto da Malik e Kadar.
I più anziani si scambiarono qualche parola veloce, vidi Malik che scuoteva con dissenso la testa e ammoniva Altaïr attorno a qualcosa, ma quest’ultimo si divincolò dalle litanie del confratello con uno scatto snervato delle spalle ed entrò per primo nel tempio.
Kadar alzò il petto in un sospiro, poi diede una pacca di conforto sulla spalla di Malik.
Il fratello maggiore si voltò a guardarlo, sbuffò e avvolse la spalla del fratello con il suo braccio lungo, borbottando una battuta che sembrò sbollentare la tensione per entrambi.
I due risero assieme, come due normalissimi fratelli che commentano il passaggio pavoneggiato di una bella donna al mercato locale, finché quel piccolo scorcio di tranquillità non fu interrotto da Malik, il quale fece scivolare il braccio dalla spalla di Kadar e tornò concentrato sulla missione.
Senza indugiare oltre, i due calarono il cappuccio sui loro visi e si addentrarono nelle viscere della struttura.
Passai qualche minuto nascosta dietro un masso a pochi metro di lì, fissando con gli occhi sgranati l’entrata del tempio, mentre la cavalla brucava libera alle mie spalle.
Una volta raccolto il coraggio, mi alzai dal nascondiglio e corsi verso l’entrata, piantando i piedi in una frenata brusca quando fui a pochi centimetri dall’entrare del tunnel.
Lì dentro l’aria era umida, muffosa, e si sentiva anche l’odore vago di chiuso.
Ma, allo stesso tempo, c’era qualcosa di indescrivibile che trasudava dalle pareti e appestava l’aria circostante in maniera opprimente.
No, decisamente quella non era una delle mie idee più ponderate.
Distesi le dita nei guanti di cuoio e ispirai affondo, soffocai il senso di stanchezza e di fame, poi flettei le gambe e in un movimento scattante fui dentro il tempio.
Man mano che mi addentravo nel buio, calpestando e schivando grosse pozzanghere formatosi tra i valli della sabbia, notai di tanto in tanto delle torce appese e intuii che non fossimo soli.
Giunsi in prossimità di una svolta e attenuai il passo, arrivando poi ad arrestarmi completamente quando estrassi il pugnale dalla cinta e lo portai vicino al petto, esponendomi con circospezione dall’angolo in cui ero nascosta.
Controllai rapidamente che non ci fosse nessuna guardia a sbarrarmi il cammino, udendo soltanto lo scorrere debole di un fiumiciattolo formatosi da una perdita nel muro, finché qualcosa accasciato a terra mi portò a chinare lo sguardo in basso.
Un sacerdote del tempio era riverso al suolo con la gola sgozzata, ritratto in una smorfia di orrida sorpresa e con le dita di una mano contratte verso quel fiumiciattolo, che, adesso, si era mischiato con il sangue vischioso.
L’odore di morte era così forte che lo stomaco mi si ribaltò in gola ma per fortuna non c’era nulla da rigurgitare, perciò gettai indietro il disgusto e superai velocemente il cadavere per riprendere la corsa.
Di sicuro quella firma cupa sulla gola del sacerdote era opera di Altaïr.
Mi chiesi se la morte di quell’uomo era necessaria.
Seguii il percorso fino a giungere nei piani superiori della struttura, in una serie di cunicoli e travi che formavano ciò che un tempo doveva essere una stanza, e mi portai a qualche metro dal pavimento che era crollato per metà.
Così presi a osservare lo spazio sottostante.
Sotto di me si stendevano i resti della gloriosa sala che un tempo era ornata da oro e fregi preziosi, strappati via dalle sue mura per lasciarle spoglie e fredde, ed era illuminata da alcuni bracieri accesi da due soldati di guardia all’altare.
D’un tratto, un gruppo di uomini in armature lucenti entrò nella zona con una cassa sulle spalle ricurve e, sebbene fosse consumata e spoglia di qualsiasi fregio, capii che si trattava dell’Arca.
Davanti al gruppo, un uomo dalla statura colossale e gli abiti da condottiero indicava loro di poggiare l’Arca sull’altare poco più in alto, scrutando severamente i sottoposti con gli occhietti grigi mentre eseguivano l’ordine.
Dal suo aspetto, quell’uomo si sarebbe detto essere nativo di qualche paese Europeo, la corporatura era massiccia e forte, gli occhi piccoli ma intensi, la pelle della cute lucida e segnata da alcune cicatrici e vene azzurre.
Era il Templare più alto di tutti, forse di qualsiasi uomo avessi mai visto, e l’aura che emanava intimoriva tutti quelli he gli erano attorno.
Di sicuro era il capo.
Nel frattanto che i sottoposti Templari riponevano l’Arca, io presi a scrutare tra le travi e i resti attorno a me, cercando le vesti bianche e svolazzanti dei miei confratelli in missione, ma non li vidi.
Dubitavo d’esser nel posto sbagliato.
Dovevano essere lì, da qualche parte, soltanto i miei occhi inesperti non riuscivano a vederli.
-E tu che fai qua?- un Templare giunse alle mie spalle, prendendomi totalmente di sorpresa.
Provai a scappare ma quello mi colpì con il gomito in mezzo alle spalle, facendomi stramazzare al suolo con il respiro bloccato in gola.
Mi rigirò per un piede a pancia in su, io provai a ferirlo al viso con il pugnale ma quello mi bloccò le gambe e lanciò un pugno sulla mia tempia destra, stordendomi il tempo sufficiente per rendermi innocua e strapparmi dalle mani l’arma.
Cominciai a riprendere conoscenza quando ormai ero stata portata nella sala sottostante e gettata a terra, poco distante dai piedi dell’uomo dagli occhi gelidi.
Lui si voltò a guardarmi in un misto di sufficienza e disgusto.
-Dove l’hai trovato?- domandò e notai che aveva un lieve accento francese.
-Era nascosto nel piano superiore, il bastardo- rispose il soldato- Che faccio? Lo ammazzo?
Capendo d’essere spacciata, provai disperatamente a scattare in piedi ma lo stivale del sottoposto si piantò sulla mia schiena e mi spinse con il ventre verso il suolo, sventando qualsiasi piano di fuga.
Il colosso scosse la testa con dissenso, poi fece cenno con il mento al soldato di alzarmi da terra e quello obbedì, sebbene a malincuore, bloccandomi saldamente le braccia dietro la schiena.
-Sai chi sono io?- il comandante fece la sua prima domanda.
Indugiai, poi scossi la testa.
Lui gongolò estasiato. - Di solito, gli Assassini che schiaccio sotto i miei stivali tremano come cani bastardi, con lo sguardo superbo ma il corpo piegato, eppure tu mi sfidi senza neanche sapere chi diavolo stai cercando inutilmente di far fuori.
Poi, senza indugiare oltre con quelle inutili moine, il comandante mi afferrò di malo modo il cappuccio e lo tirò via dalla mia testa, esponendo così il volto delicato e i lunghi capelli castani che cascarono sul mio petto come radici di un albero.
Mentre intorno a noi si levarono bisbigli sorpresi o confusi, io fui immobilizzata per la mandibola tra la cotta pruriginosa dei guanti dell’uomo, che mi scrutò deliziato mentre con fermezza diceva. - O il mio vecchio amico è uscito completamente di senno oppure Al Mualim si diverte a mandarmi in bestia con questa offesa immonda e decisamente crudele. Allora, ragazza, non mi dirai che adesso reclutano anche le donne tra quei cani?
Tacqui.
-D’accordo, taci, se ti va. Tanto non cambierà la sorte dei tuoi compagni quando li troverò e li massacrerò uno a uno.
La codardia delle sue parole m’infiammò gli occhi neri di puro odio, tuttavia lui si crogiolò tra quelle fiamme con indifferenza e, anzi, mi lasciò andare la mandibola con la stessa delicatezza che si riserverebbe a una bambina innocua.
-Mettila in catene!- ordinò al soldato dietro di me- La porteremo con noi, una volta finito qui.
-No!-gridai, ma lui mi aveva già dato le spalle per tornare alle sue faccende.
Il soldato obbedì e cominciò a trascinarmi nell’altra stanza mentre io mi dimenavo come una furia e tentavo di allontanargli la mano pressata sulla mia bocca, finché, ormai rassegnata al mio destino, lo sentii sobbalzare per qualcosa che si era appena piantò tra le sue scapole.
Il soldato stramazzò immediatamente a terra e ciò mi diede la possibilità di appiattirmi contro il muro e riprendere grandi boccate d’ossigeno, realizzando allora che ad ucciderlo era stato un pugnale.
Fu in quel momento, quando di Sable era tutto intento a impartire ordini qua e là con le braccia enormi, che qualcosa di veloce e incolore piombò sul Templare dalle travi sovrastanti e sfoderò in un click la lama retrattile al polso.
Una frazione di secondi e Altaïr gli avrebbe trapassato il cranio.
Ma qualcosa andò storto.
Con un movimento estremamente fluido ma anche implacabile, Di Sable lo afferrò a mezz’aria e gli strinse le mani attorno alla trachea, sballottandolo un po’ mentre l’Assassino ringhiava e cercava di liberarsi da quella presa letale, finché, stanco di quel giochetto, il Templare lo lanciò all’aria.
A stento l’Assassino riuscì ad attenuare la caduta sul terreno, rotolando per qualche metro prima di riacquistare la stabilità e ancorarsi al suolo, ma quando si fermò non poté sopprimere un’espressione di sgomento che gli varcò in un baleno il volto.
Era terrorizzato, anzi, bloccato completamente in quella posizione accovacciata mentre il suo avversario ordinava ai soldati di disporsi per la battaglia.
Di Sable lo aveva appena scaraventato via come una bambola di pezza, come un insetto, come un bambino indifeso che aveva creduto di poter affrontare con una spada di legno il drago nascosto nel castello, e questo lo aveva spaventato.
Nulla gli era mai sfuggito dal suo controllo, nulla.
E adesso, con una sola manata, Altaïr era stato sopraffatto.
Fortunatamente, l’Assassino rinvenne in tempo per reagire all’attacco di un soldato, deviandone il colpo con la sua spada corta e tagliandoli di netto la gola con la lama celata.
Il soldato esalò mentre cadeva ai suoi piedi e quella piccola vittoria lo rincuorò sufficientemente da spingerlo a rialzarsi, con le lame a portata di mano per affrontare lo schieramento davanti a lui.
Nell’esatto momento in cui Altaïr ingaggiò il combattimento contro tre guardie, il clangore di lame alle mie spalle mi portò a voltarmi verso lo scontro in corso qualche metro più in là.
Malik aveva neutralizzato un avversario tagliandogli i tendini della gamba sinistra, costringendo il soldato ad accasciarsi il tempo sufficiente per permettergli di finirlo velocemente e in dolore, e adesso passato al Templare successivo con un cambio di lama, usando il pugnale a molla a posto della spada per forargli i polmoni sotto il costato.
Kadar, invece, aveva una tecnica meno definita della sua: affrontava più nemici alla volta, ferendoli man mano con colpi secchi e precisi nei punti più vitali, e li portava a morire per dissanguamento ancor prima che il duello iniziasse.
Era veloce, aggraziato, ma Malik doveva sempre assicurarsi che i colpi inferti dal fratellino fossero letali al terzo movimento, altrimenti sarebbe intervenuto lui per porre fine al duello.
Notai che Malik stava avanzando nella mia direzione e che Kadar lo stava aiutando a raggiungermi, mentre, al contrario, l’Aquila era stata così presa da quella tremenda offensiva del suo nemico che non si era neanche accordo della mia presenza al tempio.
Capendo d’esser proprio al centro di due fuochi, corsi via dal mezzo della sala e mi portai accanto all’altare, dove potevo avere una visuale completa della scena, e il mio spostamento non sfuggì a un soldato che abbandonò il combattimento con Altaïr per raggiungermi lì.
L’Assassino, però, non si accorse che uno dei suoi bersagli era appena sfuggito al suo controllo perché troppo impegnato a uccidere un soldato che teneva stretto per il collo sotto il suo braccio e poi, una volta gettato il cadavere, ingaggiare finalmente il combattimento con il Gran Maestro dei Templari.
Il soldato era davanti a me, nel panico cercai invano il pugnale perso nel soppalco superiore, e la sua lama mi avrebbe ucciso se Malik non lo avesse afferrato e scagliato al suolo, dando così il tempo a Kadar di finirlo.
-Perché sei qui, Laura?- sbraitò Malik, completamente fuori di se e con i capelli che schizzavano sudore da sotto la cappa grigia, mentre con il gomito mi spingeva al sicuro contro l’angolo.
-Sono qui per aiutarvi!- dissi ma non fui convincente.
-Non sei divertente!-ribatté.- Cazzo, sei una stupida testarda! Devi andartene, adesso!
-Tu non sei più il mio maestro, non decidi per me!
-Ma sono tuo fratello maggiore e ti dico che devi smammare alla svelta!
-Io non…Malik!
L’Assassino si voltò a seguire la direzione indicata dal mio braccio teso e vide che Kadar era caduto a terra e che era stato disarmato proprio quando giungevano i rinforzi Templari.
Senza pensarci due volte, Malik mi lasciò la sua spada e fece scattare il meccanismo al polso, correndo alle spalle di un soldato e gettandolo a terra prima che questo tagliasse di netto il braccio di Kadar.
-Fratello, stai bene?- chiese mentre si parava davanti al minore, respingendo i Templari che avanzavano.
-Sì!-rispose, rialzandosi da terra e recuperando l’arma, poi guardò l’altro e con tono supplichevole disse- Ti prego, Malik, devo portare Laura via di qui!
Il Novizio voltò le spalle al suo superiore per raggiungermi all’altare, dopo di che afferrò la mia mano e mi scortò verso l’uscita nel tunnel.
-Kadar, mi dispiace!- sbottai con il fiato corto.
-Dovevi rimanere a casa, Laura! Che cosa farei se tu dovessi morire qui con noi, oggi?
Nel frattempo, lo scontro si stava spostando a favore dei Templari, che approfittavano del loro numero per soffocare con attacchi coalizzati le fiamme divampanti a ogni attacco scagliato dai due Assassini, tuttavia ciò non avrebbe cambiato l’esito imminente dello scontro.
Ci fermammo davanti all’entrata del tunnel e invece di proseguire bloccai Kadar, che era già pronto a tornare al combattimento, strattonandolo verso di me.
-Tornate a casa con me!- gridai- Morirete se rimarrete qui, quindi lasciate perdere quella stupida Arca e scappate!
I suoi occhi color del cielo mi fissarono impotenti, per un momento fu tentato di farlo davvero.
Ma scosse la testa.
Avvertii il bruciore delle lacrime pizzicarmi gli occhi. -Ti prego…Ho…ho un brutto presentimento.
-Laura…Abbi fiducia nel destino.
E, lentamente, si svincolò dalla mia mano.
Kadar mi guardò, poi si accigliò e mi afferrò la nuca per baciarmi intensamente.
Io non riuscii a ricambiare, perché quel gesto era la prova che nulla sarebbe andato bene.
Come se lui già sapesse come sarebbe finita.
E gli stava bene così.
Ma a me no.
Con la leva di un solo braccio, spinsi contro il petto di Kadar e lo allontanai il tempo sufficiente da lasciarlo perplesso e raggirarlo a destra, prendendo a correre verso l’altare senza curarmi delle lame che mi sfrecciavano accanto e dietro.
-Laura, no!-Kadar mi corse dietro, cominciò a salire le scale, ma io ero già a metà strada.
Giunsi sulla cima con il fiato corto, mi bloccai e osservai la scena che si apriva sotto di me con muto orrore.
C’erano molti cadaveri sparsi a terra e per fortuna sia Malik che Altaïr erano ancora in piedi, quando d’un tratto, proprio sotto i miei occhi, Di Sable schivò il colpo dell’Assassino e , con un solo braccio, lo scaraventò così lontano da farlo finire contro le travi di un’uscita in rovina.
Il colpo di schiena di Altaïr fu tale che le travi cedettero e gli precipitarono addosso, dandogli pochi secondi per strisciare indietro e scampare al crollo dell’entrata.
Il rimbombo improvviso spezzò l’aria in due e allo stesso modo anche la concentrazione di Malik s’incrinò, schivando per un soffio l’offensiva di uno dei suoi tre avversari.
In quei pochi secondi di confusione generale, sentii il grido di un soldato quando questo era già alle mie spalle, tuttavia i riflessi furono incredibilmente pronti e sfilai la spada abbastanza velocemente da far cozzare le lame e rigettare l’uomo a terra.
Kadar era arrivato in cima alle scale, io riposi l’arma ma non lo aspettai, invece mi precipitai verso l’Arca e mi gettai al suo fianco, affondando le dita sui bordi per tirare su il coperchio.
Dovevo recuperare quello stupidissimo manufatto o quei due sarebbero rimasti lì fino alla morte.
Non appena ebbi ricavato spazio sufficiente, infilai il braccio nella cassa e tastai il fondo oscuro, finché le mie dita sfiorarono qualcosa.
Così lo tirai in superficie.
Ma non appena il bagliore lucente di quell’oggetto scappò dal panno che lo ricopriva, un senso indescrivibile di vertigine mi portò a mollare la presa sul manufatto e senza volerlo cominciai  a strillare.
Non potevo chiudere la bocca, non ci riuscivo, ma avrei tanto voluto che quelle grida insensate cessassero, che Malik non si fosse distratto per voltasi nella mia direzione e che Kadar non si fosse precipitato da me senza rendersi conto che il Templare di prima si era rialzato da terra.
Fermatevi.
Fermatevi.
Fermatevi!
La vocina rise: ups!
Un gemito alle mie spalle, la sensazione che qualcosa di estremamente prezioso si era appena versato sul terreno empio.
La bocca, finalmente, tacque, ed io fui libera di voltarmi indietro.
Kadar aveva lo sguardo chino sulla rosa scarlatta che si stava lentamente formando sul suo petto candido, dispiegandosi come ali attorno al ferro crudele della lama del Templare alle sue spalle.
Il ragazzo toccò la ferita, macchiandosi le mani, poi alzò lo sguardo su di me.
In quel momento, qualcosa si frantumò.
O forse, era solo il grido straziato di Malik.
I secondi successivi furono veloci, come il battito d’ali di una farfalla.
Il soldato estrasse la lama dal petto di Kadar, che gemette e gettò le ginocchia a terra, poi si preparò ad affrontarmi con la stessa lama macchiata del sangue di quel giovane che ora era piegato a terra.
Il pulsare doloroso del mio petto fu il generatore collegato direttamente alle mie braccia, che si mossero così velocemente da non permettere al soldato di prevedere la loro direzione.
Rimase del tutto spiazzato quando sentì la mia lama conficcarsi sotto il suo sterno.
Fissai diritto negli occhi l’uomo mentre la spada gli stillava via la vita, e ci godetti.
Lui doveva morire.
Per ripagare il sacrificio di Kadar, quell’uomo doveva morire.
Così, quando alla fine l’emorragia interna lo portò a sanguinare dalle orecchie, estrassi via la lama nella maniera più dolorosa possibile dalla sua carne rossa.
Eppure, non appena quell’uomo spirò sui miei stivali, il dolore incontenibile dovuto alla consapevolezza che quell’uccisione era poco più che una mera vendetta mi soffocò.
Mi voltai verso Kadar, sperando, pregando per la prima volta in vita mia dio indifferente di trovare i suoi occhi a guardarmi vitali.
Ed eccoli lì.
Mi stavano sorridendo, come sempre.
Ma questa volta, era per dirmi addio.
Una lacrima di paura gli riempì l’occhio sinistro, poi cadde dal suo cielo per sempre puro per l’ultima volta.
Passò qualche secondo.
Poi i minuti.
Ormai, c’era solo silenzio.
Qualcuno giunse alle mie spalle, ma non me ne curai.
Quell’uomo si fermò accanto a me, ammutolendosi quando posò lo sguardo scuro sul cadavere del ragazzo.
Degnai di uno sguardo quell’individuo solo perché le mie narici si riempirono di un pungente odore di sangue, misto anche a sudore e lacrime.
Malik era gravemente ferito sul fianco sinistro e il braccio di quel lato era completamente ricoperto di rosso, abbandonato inerme lungo il suo corpo sfatto e sull’orlo del cedimento.
Di Sable era sparito con i pochi uomini rimasti, sotto di noi giacevano molti morti e Altaïr ci aveva abbandonati alla morte.
Malik mantenne il suo animo intatto per qualche secondo.
Poi, rigettò con un grido viscerale le lacrime lungo le sue guance ferite.
Lo guardai impotente mentre si gettava sul sangue del suo fratellino, tremai quando lo vidi accasciarsi disperatamente sul suo cadavere e stringerlo con l’unico braccio che riusciva a muovere, piansi quando capii che tutto per me era taciuto nell’attimo in cui avevo compreso di aver già visto quella scena.
Come un film che era stato già proiettato nel mio personale cinema degli orrori.









Angolo autrice:
Alla fine di questo capitolo ero emotivamente ridotta a uno straccio, quindi, detto tra noi, ho dovuto vedere un video stupido su youtube per risollevarmi un po’ il morale.
Mi scuso se vi ho depresso con questo episodio così triste, ma mi sono resa conto che la morte di Kadar non poteva davvero essere evitata. Non so come spiegarlo, ma è come se risparmiandolo avrei inquinato la verosimiglianza della storia.
Dall’undicesimo capitolo cambieranno molte cose, quindi credo che prenderò una pausa un po’ più lunga per riordinare le idee e distanziare gli avvenimenti finora accaduti con la nuova sezione della storia.
Grazie come sempre per l’incredibile sostegno che date al mio lavoro!
Baci, Lusivia.







 



















 







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Capitolo 11
*** 12.Non si è mai veramente soli. ***


Capitolo ispirato alla cover by Fismoll della canzone “ Breathe Me – Sia”.


                                                 
                                                                              Capitolo 12
                                        
                                                      Non si è mai veramente soli.

                                        




Malik intrappolò il suo nemico all’interno delle sfere nere nei suoi occhi, quasi fosse la cosa più naturale del mondo.
Allargò il petto in un respiro per calibrare il lancio, socchiuse le irridi luminose dietro le ciglia, umettò la bocca carnosa con la lingua, e lasciò che la lama schizzasse diritto verso il suo obiettivo.
Il dardo affondò in un tonfo strozzato nel panciotto di paglia del bersaglio, il colpo andato a segno provocò la mia usuale ammirazione e, come sempre, non mi astenni da fargli un fischio d’apprezzamento che lo imbarazzò.
Ricordavo che quel pomeriggio di fine Aprile Kadar era stanco e che per questo mi chiese di rimandare gli allenamenti, nulla sapendo che in questo modo aveva dato l’occasione perfetta a suo fratello maggiore di tenermi come ostaggio per un’intera giornata di allenamenti e studio in biblioteca.
– Dovrai imparare a farlo anche tu. – intimò austero lui mentre tornava a sedere, freddando all’istante qualsivoglia tentativo da parte mia di entrare un po’ più in confidenza con il mio maestro.
Annuii apatica mentre lui si sedeva al mio fianco e reclamava con la mano tesa la borraccia d’acqua, dunque gliela porsi sovrappensiero e, mentre Malik si dissetava, io mi concedetti un momento per rilassarmi sotto l’ombra rinfrescante dell’armeria.
Premesso che la scoperta sulla mia identità non era avvenuta nel migliore dei modi per lui, Malik si era comunque impegnato con Kadar di cucirmi addosso la scomoda veste dell’Assassino cui ruolo stavo interpretando, nonostante ciò non fu raro che mordesse il freno a causa della mia cocciuta resistenza nell’imparare.
All’inizio il nostro rapporto non fu affatto facile, spesso mollavo l’allenamento con la scusa del caldo o del dolore alle gambe quando, in verità, scappavo da lui e dal suo inflessibile programma d’allenamento e ciò provocò parecchie discussioni con suo fratello minore, che invece insisteva sul mio presunto talento naturale.
Alla fine, Malik capì che avrebbe preso più mosche con il miele che con l’aceto e decise che mi sarebbe venuto in contro spostando le lezioni in orari in cui il sole non era al suo zenit, ovvero quando la leggera frescura di prima mattina colpiva la fortezza da nord, e concedendomi pause più lunghe ed esercizi meno serrati.
Superati i dissapori iniziali, finimmo con il funzionare come un meccanismo perfetto: lui riusciva a tirare fuori il mio lato competitivo alternando richiami con sporadici incoraggiamenti, si sforzava di ripulire le spiegazioni delle definizioni tecniche e azzardava del contatto fisico qualora fosse necessario per mostrarmi una posizione, ed io rispondevo con cocciuto impegno, entusiasmo, concentrazione e voglia di mettermi alla prova.
Ciononostante, nessuno dei due si curò mai di conoscere affondo l’altro, soprattutto Malik.
Dovendo rimanergli accanto per la maggior parte della giornata, scoprii che il più grande degli Al-Sayf era un tipo decisamente riservato, dedito al lavoro e poco incline ad intrattenersi con le donne, come dimostrò un pomeriggio quando rifiutò davanti a me una giovane badante che si era invaghita dei suoi bei occhi metallici e aveva tentato invano di attirare la sua attenzione in corridoio.
Sapeva che erano molte le donne di Masyaf che spasimavano per lui, tuttavia Malik preferiva di più la gioia di un combattimento che quella concessa da un paio di cosce.
Iniziavo a pensare che fosse un essere asessuato.
– Quando m’insegnerai a lanciare con i pugnali, Malik? – domandai nell’osservare ammirata la precisione con cui il suo pugnale era affondato nel fantoccio.
Lui allontanò la borraccia dalla sua bocca, deglutendo prima di dire – Per oggi hai fatto abbastanza. Non sforzare il tuo corpo oltre i suoi limiti, altrimenti starai male.
– Ce la faccio.
– Kadar mi uccide se stai male, quindi, preferirei rimandare a domani. O la nostra piccola favorita dell’Ordine non vuole aspettare?
Lo squadrai mentre riponeva il contenitore al suo fianco, fronteggiando il suo sguardo intimidatorio come ormai avevo imparato a fare se volevo tenergli testa.
– Attenderò. – brontolai dunque.
Lui mi scrutò tenendo i gomiti puntati sulle ginocchia e i piedi che deviavano in direzioni opposte, per qualche motivo rimase piacevolmente colpito da quell’umile bagliore di fierezza nel fondo dei miei occhi e per questo mi concedette un’amichevole pacca sulle spalle.
Istintivamente toccai il punto colpito con aria offesa e lui rispose sogghignando.
– Devo ammetterlo, hai fegato. Una donna non dovrebbe fronteggiare così un uomo, eppure tu lo fai senza timore. Non so se esserne irritato o compiaciuto, sorellina.
Schernii quella sua affermazione con aria sprezzante.– Solo perché sono donna, dovrei stare in casa e fare figli, invece di esser qui, a imparare a combattere?
– Certo. Una donna non dovrebbe combattere, non gli si addice, invece tocca all’uomo prendersi cura di lei.– replicò austero, riuscendo a solleticare il mio orgoglio a tal punto che a stento seguii ciò che blaterò dopo.– Non so cosa ne pensiate voi cristiani, ma qui l’uomo ha il dovere di curare la fragilità della sua sposa e lei deve ripagarlo con la sua dedizione. Siamo diversi, ed è giusto così. Ma tu sei una straniera, quindi può anche passare il tuo comportamento.
– Quindi, non mi consideri una tua pari, Malik?
Lui fece spallucce. – Cosa ti renderebbe così diversa dalle altre da convincermi a trattarti come mia pari?
Lo squadrai con fare di scherno.
– Puoi anche non farlo. – dissi – A me non importa, perché io so chi sono e non ho bisogno della tua approvazione. Ma, a mio avviso, saresti un idiota.
Visibilmente contraddetto, Malik arcuò un sopracciglio e nascose la smorfia della bocca pressando su di essa con la punta delle dita, dunque mi schernì con una vaga sfumatura d’ammirazione e, infine, sorrise.  
– So che è male dare la possibilità a una donna di ciarlare a sproposito, ma non posso negare d’esser fastidiosamente intrigato dai tuoi modi, Laura. –ammise, picchiandosi la coscia con il palmo– Kadar ha ragione, ne vali la pena. Credevo che insegnarti poche sciocchezze sarebbe bastato per metterti a tacere, tuttavia, adesso, sarebbe un enorme spreco non insegnarti tutto ciò che c’è da sapere. Ma richiederà il doppio dell’impegno fin ora messo.
– Io mi sono sempre impegnata. Sei tu che non mi ha mai presa sul serio.
– Vero, ma adesso mi sono ricreduto. Che ne dici, Laura? Puoi concederti di abbassare per un attimo la tua impenetrabile difesa e fidarti del tuo maestro?
Finsi di meditarci su – Una resa incondizionata, eh?
– Puoi anche rinunciare, se vuoi.
A quel punto, la mia sicurezza cominciò a vacillare: accettare significava prendere un impegno verso di lui, verso di me, verso l’Ordine degli Assassini, insomma, significava prendere una direzione.
Rinunciare, invece, dare la conferma della mia inettitudine.
– D’accordo. Posso provarci, per Kadar.
Malik ghignò malevolo, tuttavia ero sicura d’aver scorto una favilla d’orgoglio nei suoi occhi.

*  *   *

Riemersi da quel ricordo luminoso con un sobbalzo, chinando lo sguardo in basso mentre cercavo di zittire i borbottii capricciosi del mio stomaco che reclamava qualcosa di commestibile, e sbuffai.
Era passata all’incirca un’ora da quando avevo avuto quella discussione con Al Mualim dopo che mi ero ritrovata nella stanza di Kadar, priva di sensi e con un bel bernoccolo in testa, ma non passò molto prima che venisse a visitarmi un medico.
Era un uomo sulla cinquantina, con un paio di occhi verde ceruleo e folte sopracciglia brizzolate, che mi visitò con zelo e rispetto per la mia persona, commentando, alla fine della visita, la mia mirabile impudenza nell’aver ostacolato la mano punitrice del Gran Maestro.
Io non risposi, mi limitai a sospirare distratta mentre quello raccattava la sua roba e si licenziava con un cenno della mano.
Attesi pochi attimi, il tempo sufficiente perché il medico si fosse allontanato, poi gettai di lato le coperte, infilai i piedi negli stivali, riposizionai il mio cappuccio sulla testa e uscii dalla camera.
Girovagai per un po’ tra i corridoi, sgusciando e correndo da una copertura all’altra per evitare alcuni Assassini che confabulavano tra di loro sugli ultimi avvenimenti della giornata, tra cui, senz’altro, spiccava la punizione di Altaïr e la scioccante scoperta sulla vera identità di quel Novizio sbucato fuori dal nulla.
Per fortuna, mentre vagavo smarrita lungo i portici del giardino di palme nell’ala sud, una badante mi aveva riconosciuto, ormai anche lei a conoscenza di quanto accaduto dalle voci di corridoio, e con un cenno incerto della mano m’invitò ad accostarmi.
– In nome del cielo, cosa ci fai qui? – domandò angosciata.
– Cerco mio fratello, Malik Al Sayf. Sai dov’è?
Lei spalancò le irridi marroni. – Sì, lo so. È lì, vedi? Terza porta in fondo al portico, nell’infermeria. Ma non so se sia sveglio.
Scrutai da lontano la porta scrostata che mi aveva indicato, tornai sulla ragazza e la ringraziai con un sorriso interrotto al centro dal diastema, dopo di che marciai verso l’uscio.
L’infermeria era semibuia e appestata dall’odore di disinfettanti e sangue secco che era assorbito in parte dalla presenza di erbe mediche e profumate riposte in alcune ceste sugli scaffali a destra, mentre sotto la finestra erano illuminati degli strumenti chirurgici appena lavati e lasciati ad asciugare su un lungo tavolo.
Proprio davanti a me, Malik era rannicchiato sul letto dell’infermeria e la sua aitante figura era nascosta da una pesante mantella verde scuro che proiettava un alone intorno al suo corpo, parendo come una figura evanescente intrappolata lì per il sorgere del sole.
Lo affiancai senza ricevere un solo sguardo da parte sua, neanche la benché minima importanza, e questo mi turbò a tal punto da non riuscire a pronunciare una sola di quelle belle parole pensate tra me e me mentre gli andavo incontro, perché mi parvero inutili.
Tesi la mano bianca sul suo volto ricoperto di lividi e croste, vidi il riflesso delle mie dita stendersi lungo le sue orbite nere, queste scattarono stizzite verso di me e qualcosa di indescrivibilmente sinistro mi portò a indugiare.
– Non…non mi toccare, Laura. – sussurrò caliginoso l’Assassino.
Ritrassi la mano, con gli occhi strabuzzati. – Perché? – chiesi.
Quello non rispose, si limitò a rimanere di profilo contro la flebile luce dell’esterno che creava un alone verde sui suoi capelli, neri e lucenti come piume di corvo.
– Malik, perché?
– Vattene.
– Ti prego, non mi scacciare…
– Non le voglio le tue scuse, lo capisci? Te lo ripeto un’altra volta. Vattene.
– Perché?
– Lo sai benissimo il perché, maledetta!
Improvvisamente, Malik calciò via le lenzuola che aveva addosso e scese dal letto con così veemenza che mi ritrassi in un balzo, poi mi afferrò per un polso e, sebbene incontrò la resistenza del mio braccio, riuscì ad avvicinarmi quel tanto che bastava per gridarmi addosso con tutta la voce che aveva.
–Guardami, dannazione, guarda che cosa hai fatto! Kadar è morto, lo capisci? Cazzo è morto!
Tremai nel sentire la morsa della sua mano piegare il mio polso. – Ti prego, calmati...
 – La colpa è tua!– strillò e la sua gola s’ingrossò d’aria – È colpa tua se Kadar è morto! Colpa tua e di quel sacco di merda, che osa calpestare tutto ciò per cui la Confraternita lotta solo perché crede di essere un dio! Voi avete permesso che lo uccidessero!
– Io non volevo che Kadar morisse!– obbiettai con gli occhi rossi di lacrime, strattonando senza successo il polso a tal punto da provocarne un rumore poco rassicurante.     Malik, però, non lasciò la presa neanche quando mi vide storcere la bocca dal dolore.
In un ultimo disperato tentativo, conficcai le unghie nel suo polso, affondando poco nella speranza che il dolore lo invogliasse a mollare la presa, ma fu come se Malik avesse perso la sensibilità e, senza batter ciglio, riprese a strillarmi addosso.
– Maledetto il giorno in cui Kadar ti ha portato da Damasco! Maledetto me, che vi ho permesso d’incontrarvi di nascosto anche quando era pericoloso, anche quando sapevo che prima o poi ti avrebbero scoperto e avrebbero punito tutti e tre!
– Malik, lasciami!
Colpii il suo viso fortissimo, lui gettò per un attimo la testa di lato ma non accennò ad allentare la presa, anzi, improvvisamente mi ritrovai a piroettare su me stessa e a cascare sotto il peso del suo corpo che m’immobilizzò tra le lenzuola del lettino, ritrovandomi senza fiato.
Lui era sopra di me e mi teneva entrambi i polsi con una sola mano, cosa strana perché era evidente quando fosse faticoso tenermi ferma senza l’ausilio dell’altro braccio.
– Io volevo bene a Kadar... – provai con stanca rassegnazione a farlo ragionare un’altra volta, ma per qualche ragione quelle parole sembrarono false perfino a me.
Lui scosse i capelli con un gesto di dissenso, facendo cascare dal suo sopracciglio un rivolo di sangue dalla ferita che avevo riaperto con il colpo delle mie nocche.  
– No. Io lo volevo bene. E ora è morto.
Improvvisamente, Malik afferrò il mio braccio destro e mi costrinse a impugnare saldamente un coltellino chirurgico preso dagli altri sul tavolo, stringendo le sue dita sulle mie per portare a fatica la lama contro la sua gola scura.
– Ti prego…– sussurrò piano – Ti prego, non posso vivere nella consapevolezza di non aver potuto far nulla per salvarlo… di esser sopravvissuto a lui. Non ce la faccio.
Sentii le sue dita premere contro le mie, la lama riuscì a stillare una minuscola goccia rossa sulla sua pelle e a quella vista tirai subito indietro il polso, prendendo a dimenare le gambe e a spingere il gomito libero contro il suo petto, ma lui era troppo forte .
– Malik, sei fuori di te, non puoi esser serio! – cercai disperatamente di far leva contro la sua spalla ma finii solo col trascinare in basso la sua mantella verde.
Il tessuto cascò sulle sue gambe, qualcosa di anomalo catturò il mio sguardo, guardai verso la sua spalla e mi ritrovai davanti al resto del suo braccio sinistro, amputato di fresco e ancora arrossato nonostante le accurate medicazioni.
Non appena sentì la corazza di tessuto esporre la sua vergogna, Malik mollò subito la presa dal mio polso e corse a ricoprirsi con la mantella, scendendo dal letto così velocemente che ancora non avevo riabbassato la lama dal punto in cui un secondo prima si trovava la sua gola.
Gettai il coltellino a terra, mi misi a sedere sul bordo del letto e cercai la sua figura, ritrovandola rifugiata nell’ombra della libreria in fondo alla stanza.
Sapevo che la mia espressione fosse disgustata, eppure non riuscii a smettere di fissarlo neanche quando lo vidi chinare il capo per la vergogna.
– Cosa… – faticai ad articolare le parole, ma alla fine sputai – cosa ti hanno fatto, Malik?
– Non sono affari tuoi. – sibilò infastidito.
Più sorpresa di prima, mi alzai in piedi e avanzai verso di lui, tuttavia fui costretta a fermarmi quando vidi Malik ritrarsi di scatto contro l’angolo della libreria, facendo cascare alcuni volumi a terra.
– Se non vuoi aiutarmi, vattene. – intimò e con il corpo ritroso m’indicò la porta, segnando definitivamente la fine di quella conversazione e di quelle future.
Non lo avevo mai visto così smarrito, così terrorizzato.
Il Malik che conoscevo non avrebbe mai mostrato la sua vulnerabilità, non avrebbe mai pensato di rinunciare alla sua vita, non mi avrebbe mai supplicato di far cessare il suo dolore in quel modo.
Ma ora era lì, davanti a me, ed era franato in se stesso.
Sapevo che sarebbe affondato ancora se avessi proteso oltre quella tremenda umiliazione, per questo decisi di ritirarmi.
– Va bene. Va bene, Malik, me ne vado. Non preoccuparti.
Mi diressi a testa bassa verso l’uscita, arrivata davanti alla porta tentennai, ma poi immaginai i suoi occhi piantati tra le mie scapole e per questo uscii sbattendomi la porta dietro.
Al sicuro dal suo sguardo corrosivo, abbandonai la fronte contro l’entrata chiusa e lasciai che la tensione di quegli attimi scivolassero dalle mie membra tese, ritrovandomi per l’ennesima volta a dovermi ancorare all’unica cosa che ormai riusciva a fornirmi conforto.
Staccai gli occhi umidi dalla malinconica contemplazione del bracciale di Kadar solo quando udii la giovane badante di prima avvicinarsi con fare un po’ incerto, annunciandosi con un colpo di tosse prima che mi voltassi a guardarla.
– Va…va tutto bene, cara? – domandò.
Di tutta risposta, lasciai cadere la mano penzoloni lungo i fianchi e la guardai sconsolata, un chiaro messaggio che lei colse al volo.
Infatti, dopo aver azzardato una carezza veloce sulla mia spalla, lei si dileguò di nuovo nelle sue faccende.

*  *  *  

Dopo aver lasciato l’infermeria, mi ero diretta a testa bassa nell’ufficio del Gran Maestro come d’ordine, con i pensieri distratti e ancora nervosi per lo stress a cui ero stata sottoposta in infermeria,  per questo poco mi curai di un Assassino che mi osservò infastidito mentre passavo davanti all’armeria.
Non potevo ancora credere alla richiesta di Malik.
Come poteva quello stesso uomo, così fiero e sicuro di se, chiedere a me, una donna, un essere a detto suo fragile e inferiore, di porre fine alle sue sofferenze con un coltello?
Ma, soprattutto, perché proprio io?
Immersa com’ero nelle mie riflessioni giunsi in prossimità dell’ ufficio quasi per forza d’inerzia, capitando lì proprio quando Al Mualim stava già ricevendo qualcun altro.
La corporatura familiare di quel giovane mi convinse a dare una seconda occhiata attraverso gli scaffali della libreria e fu allora che riconobbi Altaïr, il quale se ne stava piantato davanti alla scrivania del vecchio mentre questo lo osservava riposare in un sonno surreale, indotto con chissà quale artificio d’erba o droga.
Improvvisamente, Al Mualim socchiuse la fessura della sua bocca, ispirando. – Il sonno –ordinò – è finito.
Udite le parole del vecchio, l’Assassino si ridestò dall’incantesimo con aria intontita e rimase tra l’illusione e la veglia ancora per qualche secondo, finché, strizzate le ciglia, individuò un uomo seduto sulla grande sedia della scrivania.
Altaïr fissò Al Mualim per un po’e doveva essere parecchio confuso, perché esordì – Non credevo che il Creatore avesse un volto così famigliare.
Immediatamente, il più anziano sorrise mesto – Cosa ti fa credere d’esser degno di incontrare il Creatore, Altaïr?
Il giovane tacque.
– Ma allora, non son morto, Maestro?
– No, non lo sei. Ma vivi ancora.
Altaïr scosse la testa, incredulo. – Com’è possibile? Io ho visto…
– Io ti ho fatto vedere ciò che volevo che tu vedessi, Assassino. Né più né meno.
L’altro serrò le labbra. – Perché mi avete lasciato in vita?
– Ucciderti sarebbe stato uno spreco inutile di talento e risorse per la Confraternita, quindi ho pensato di darti un’altra possibilità, sperando che questa volta tu non deluda le mie aspettative.
– Suppongo che abbiate qualcosa in mente, allora.
Quello rimuginò. – Certo. Ma prima, vorrei che si unisse a noi anche la mia figlia prediletta. Che dici, cara? Vuoi venire avanti dal tuo nascondiglio?
Sobbalzai, guardando attraverso gli scaffali il Gran Maestro che roteava gli occhi nella mia direzione, mentre Altaïr faceva altrettanto, e deglutii.
Staccai le unghie dal legno e mi portai a destra, mostrandomi apertamente ai loro occhi, dopo di che Al Mualim mi fece cenno d’avvicinarmi ed io obbedii.
Oltrepassai lo sguardo sospettoso di Altaïr, mi posizionai all’angolo opposto al suo e non esitai ad ostentare il mio disprezzo per lui squadrandolo truce, solleticando in questo modo gli angoli decadenti del sorriso di Al Mualim.
– Vedo che andate d’amore e d’accordo. – azzardò il Gran Maestro.
Nessuno dei due osò proferire parola.
E lui rinunciò con un sospiro insoddisfatto. – Peccato, perché siete così equilibrati insieme. L’uno Assassino esperto ma arrogante, l’altra bambina imperita e dotata. L’uno forza, l’altra umiltà. Furia e pietà, esperienza e volontà, uomo e donna. Così affini…e così diversi. Potreste imparare molto dall’esperienza dell’altro, se non passaste il vostro tempo a mordervi come cani rabbiosi e ad accusarvi.
– Con tutto il rispetto, Maestro. – la mia interruzione attirò i loro sguardi su di me e, mentre Altaïr parve contrariato, il Mentore fu ben più paziente e mi diede il consenso di continuare.– Io e lui non abbiamo assolutamente nulla da condividere, soprattutto se consideriamo gli effetti catastrofici delle sue decisioni nel Tempio.
– È stato un incidente.– obbiettò l’Assassino.
Lo guardai disgustata – Come può essere considerato un incidente fuggire e lasciare i tuoi confratelli a morire nelle catacombe del Tempio?
– Non potevo salvarli.
– Sì, invece, se solo avessi voluto! E non sarebbe accaduta questa tragedia se tu non avessi agito da sconsiderato e arrogante! Malik ha perso un braccio a causa tua!
– Zitti, tutt’e due! – Al Mualim c’interruppe sbattendo la mano sul tavolo e, quando ebbe catturato di nuovo la nostra attenzione, incalzò – Non fate altro che tirarvi i capelli e piagnucolare con il moccio che vi cola dal naso! Adesso, ascoltate me. Le colpe vanno pagate, e questo vale per entrambi. Altaïr per la sua inettitudine al Tempio, e tu, ragazzina, per esserti travestita da uomo e aver partecipato senza il mio consenso all’Ordine! Vi ho promesso una via di redenzione, perché, per quanto non vi sopporti sentirvi frignare, siete due Assassini abili e potreste servire alla Causa. Non vi tollerate l’un l’altro? Ebbene, vorrà dire che dovrete imparare a collaborare. Ho disposto una lista di bersagli per te, Altaïr. Nove uomini che fomentano la guerra con i loro loschi affari e minano la serenità della nostra gente, ragion per cui devono esser eliminati.
Altaïr sorrise un poco, come risollevato da quella notizia, perché voleva dire che non era ancora fuori gioco, che non aveva perso del tutto la considerazione del suo Mentore.
– Se nove vite sono il prezzo da pagare per la mia redenzione, partirò oggi stesso…
– Non ho finito.
Il ragazzo corrugò la fronte.
– Giacché sei tornato a nuova vita, dovrai ricominciare dal basso. Sei stato spogliato dei tuoi averi e del rango e, dal momento che i Novizi sono come bambini bisognosi di controllo, lei verrà con te. Sarà la tua priore.
Quella deliberazione del Maestro fu come un fulmine a ciel sereno, né io né l’Assassino immaginavamo una tale decisione ma, a essere onesti, l’idea di tiranneggiare su Altaïr mi entusiasmò alquanto e per questo sorrisi.
–Ma, Maestro, ma lei non è assolutamente all’altezza…
– Paura di esser comandato, Altaïr? – schernii la sua preoccupazione con altezzosità e, mentre lui mi lanciò un’occhiataccia, Al Mualim rise di gusto.
– Bene, bene, così voglio vedervi! Comunicativi! Ma ora basta, ho pazientato anche troppo. Voi due farete quanto ho stabilito e non ammetto ritrattazioni. Ora, parliamo del vostro bersaglio.

*   *   *

– Partiremo tra un’ora.
– Puoi scordartelo.
Altaïr si fermò davanti alla sua stanza, roteando il busto di tre quarti.
Io proseguii con quell’atteggiamento indifferente, fingendo di controllare distrattamente qualcosa tra le unghie. – Decido io quando si parte, Novizio…– continuai.
– Non mi chiamare così.
– …ed io decido che partiremo quando lo riterrò opportuno. Magari, tra un mese.
– Cosa? – spazientito, Altaïr scese velocemente le scale e si piantò a pochi centimetri da me, costringendomi a ritrarmi con la mano stretta all’altezza dell’ombelico. – E perché mai dovremmo partire così tardi?
Lo fissai un po’ meno convinta di prima, poi farfugliai – Malik. Lui ha bisogno di me.
Mi guardò.
– Va bene. – e si ritrasse.
Strabuzzai gli occhi, osservandolo mentre si allontanava verso camera sua.
– Tutto qui?
Altaïr si fermò.
– Dopo quello che hai fatto…– dischiusi gli occhi in un moto di disgusto – …dopo quello che hai fatto a me ,Altaïr. Tutto ciò che ti viene da dire è…va bene?
L’Assassino rilassò un po’ le spalle ricurve in avanti, alzò il viso all’aria per prendere un bel respiro, e si voltò.
– Che cosa dovrei dirti? – domandò – Che non sapevo che tu fossi lì? Che sono stato arrogante? Che potevo far di meglio e battere il mio nemico?
Chiusi gli occhi. – Che ti dispiace. – mormorai.
– Mi dispiace.
– No. No, è vero. Per favore, almeno abbi la decenza di non prendermi in giro.
Avvertii il tocco ruvido delle sue dita contro la guancia. – Ascolta…
Spalancai gli occhi. – Non osare toccarmi, bastardo! – gridai, colpendo la sua mano tesa con violenza – Se provi a rifarlo, Cristo Santo, giuro sulla memoria di Kadar che ti ammazzo con queste mie stesse mani!
–Laura, adesso calmati.
–No, non mi calmo! Io non dovrei essere qui, non dovrei esser coinvolta in tutto questo, non dovrei sentir dolore per ciò che è accaduto, perché non è reale! Ma io avevo già visto ogni cosa, seppur in maniera confusa…Kadar, Malik, perfino te! Mi rifiutavo di ricordare, di accettare ciò che sapevo sarebbe successo a breve, tuttavia ora non so come far tacere il dolore! Ed è tutta colpa tua! Tua e di quei dannati occhi da demonio!
– Laura… ma cosa stai dicendo? – Altaïr mi fissò attonito – Di che stai parlando? Laura, guardami!
– Lasciami stare! – scacciai stizzita le sue mani tese ad acciuffarmi, incespicai per pochi secondi e, quando ebbi riacquistato l’equilibrio, scattai in una corsa per allontanarmi da lui.
Fuggii finché non fui sicura d’averlo seminato nei piani superiori, dunque mi appoggiai contro il muro per riprender fiato, e nel trarre il primo respiro intuii d’esser prossima alla cucina.
La cuoca doveva aver già acceso le fornaci, perché il corridoio era pervaso dall’aroma di legna e pane caldo, che scivolò fin dentro la mia gola e fece brontolare capricciosamente il ventre.
Lo zittii con una mano, mentre con l’altra mi asciugavo il sudore dalle guance.
Da quando non mangiavo un pasto decente?
Entrai nella cucina quatta quatta, quasi come una servetta che s’intrufola nella sala da pranzo del suo padrone prima che questi scenda per cena, e con la mano stretta sul braccio gettai occhiate veloci per controllare che non ci fosse nessuno.
–La cucina è chiusa.
La cuoca stava impastando all’angolo della stanza ciò che sembrava la preparazione di una focaccia, e non tirò fuori le mani dalla pasta neanche quando mi vide scattare sull’attenti, chiazzata in viso per l’imbarazzo.
La mia reazione la fece sorridere.
– Ma tra donna si può anche chiudere un occhio. – disse e m’indicò con il mento un vassoio di focacce che odoravano di carne – Prendi un po’ di Fata'ir, hai l’aria un po’ smunta. Se vuoi, puoi portarne un po’ anche a tuo fratello dopo. Quello sciocco, continua a rifiutarsi di mangiare e a trattare male le governanti che mando da lui.
Poi tornò ad affondare le dita olivastre nell’impasto, invogliandomi con la sua gentile distrazione ad avvicinarmi al piatto e, volendo approfittare della cortesia, non me lo feci ripetere due volte.
Dunque mi accomodai dietro il tavolo, feci un sospiro stanco, e presi a mangiare.

*  *  *

Mi risvegliai dal sonno con le fauci secche e la guancia segnata dal tessuto del braccio su cui mi ero appisolata, poco più in là i resti della Fata'ir che avevo consumato e il bicchiere di caffè che la cuoca aveva condiviso con me tra una pausa e l’altra finché, ormai sazia e riscaldata dal tepore della fornace, mi ero addormentata.
Ora, però, il fuoco era stinto e la cenere era illuminata dalla pallida luce della luna nel cielo, mentre la finestra sul davanzale era socchiusa e lasciava entrare gli spifferi.
Mi alzai con gli occhi ancora incollati dal sonno, stiracchiai il corpo tirando le braccia in alto e, quando ebbi ripreso il controllo delle gambe, lasciai la cucina per addentrarmi nel buio della fortezza ormai addormentata.
Non sarei andata nella camera di Kadar, e forse mai più si sarei entrata, perciò decisi che avrei fatto una visita veloce a Malik, dopo di che avrei pensato dove coricarmi.
Quella notte, il cielo era stranamente sinistro, illuminato dall’aura lattiginosa della luna che scompigliava con il suo soffio la chioma spinosa delle palme, riempendo l’aria di fruscii oscuri e ombre che si contorcevano al passaggio del vento.
Mi affrettai a chiudere la porta dell’infermeria alle mie spalle per lasciare nel portico quei brividi lungo la schiena, ma l’inquietudine di quel luogo intriso dall’odore di sangue e ferro sterilizzato tese ulteriormente i miei nervi.
Forse non era il caso di fargli visita a quell’ora, però la richiesta di quel pomeriggio aveva destato in me una pena tale da impedirmi di pensare ad altro se non alle sue grida graffianti, alla vulnerabilità per cui si era piegato come uno stelo d’erba, all’odio nei suoi occhi quando mi guardavano.
Malik era seduto su di una sedia e riposava nell’alone della luna che si riversava in un cerchio dalla finestra, l’unica fonte di luce in quel piccolo antro buio, avvolto nella sua mantella verde come un rapace notturno che si nasconde tra il piumaggio delle sue grandi ali.
Rimasi in contemplazione della manica vuota che cascava in basso, delle folte ciglia che tremavano al movimento dei suoi sogni, dei capelli neri corvini che gli ricadevano sulla fronte aggrottata, e mi sentii subito in colpa d’aver anche solo pensato d’interrompere il suo sonno.
– Non dovresti esser qui…
Mi rivoltai indietro proprio per scorgere Malik mentre appoggiava il mento sulla sua spalla, fissandomi di profilo con gli occhi stanchi ma severi più che mai.
– Dimenticavo il tuo udito sottilissimo.– cercai di abbozzare un sorriso –Scusa, non volevo svegliarti.
Lui sospirò stancamente, e tornò a guardare dinnanzi a se.
Corrugai la fronte. – Malik, qualcosa non va?
Il ragazzo mosse piano i piedi in avanti per stendere le gambe, stiracchiò il collo a sinistra, chiuse gli occhi sotto il bacio della luna e declinò quella mia domanda con un sospiro.
Provai a ignorare l’orgoglio ferito deglutendo a vuoto.
– Sono preoccupata per te, Malik. – insistetti – So che non potrò mai capire fino in fondo il tuo dolore, ma so anche che è più faticoso affrontare le difficoltà se si è soli, perché…perché io stessa ho dovuto combattere per lungo tempo contro qualcosa.
Mi bloccai perché avvertii uno strano senso di colpa che mi premeva contro lo sterno, scossi la testa e, dopo che ebbi gettato indietro le lacrime, avanzai lentamente verso di lui.
– Sai, neanche io ho mai voluto aiuto, perché credevo che nessuno avrebbe potuto comprendere, darmi forza come solo io potevo fare. Eppure, ho avuto ugualmente la fortuna di ricevere aiuto da chi non ha mai smesso d’amarmi, anche quando credevo che mi avesse abbandonato. Lo capisci? Ecco perché non posso abbandonarti, ecco perché ti offrirò il mio aiuto anche quando mi scaccerai, anche quando mi griderai contro d’esser l’artefice della morte di Kadar.  
– Va bene…– Malik si voltò a guardarmi di sbieco – va bene, accetto il tuo aiuto. Vuoi aiutarmi? Allora… impugna quel dannato coltello e metti fine a questo dolore.
Mi bloccai a pochi metri dalla sedia su cui era seduto.
– Non lo farò mai.
– E allora non mi servi.
Lui tornò a guardare dinnanzi a se, mentre io presi a fissare la sua nuca intensamente, tormentandomi tra un pensiero e l’altro il labbro con i denti.
– Ma cosa ti è successo? Un mese fa non mi avresti mai permesso di prendere una decisione simile al posto tuo, non avresti mai chiesto a una donna di porre fine alla tua vita. Dicevi che gli uomini sono più forti, che possono sopportare meglio la sofferenza.
– Ho detto tante cose di cui ora... non sono più sicuro.
– Non importa! Kadar non avrebbe mai voluto che tu facessi una cosa del genere!
Alzai la voce senza volerlo e, quando me ne resi conto, mi punii stingendo gli occhi fino a sentir male, fino a sentire le lacrime scivolare in gola e portare via la bile che corrodeva la mia voce e la rendeva così aggressiva, così disperata, così sconvolta, tornando a guardarlo in silenzio.
– Kadar…lui aveva davvero ragione.– ansimò poi Malik. – Tu non sei come le altre. Ecco perché…ti ho chiesto di fare ciò che non avevo avuto il coraggio… di fare da solo. Ma adesso, non dovrai…più angustiartene.
Sussultò in un gemito di dolore, piegandosi pericolosamente in avanti, e sarebbe caduto dalla sedia se non fossi accorsa a spingere le mie mani contro il suo petto, trattenendolo con tutta la forza che avevo mentre lui si avvinghiava al mio corpo con l’unico braccio che aveva.
Le sue ginocchia cascarono sul pavimento, la mantella scivolò e lo stesso coltello di quel pomeriggio cadde a terra in un tonfo liquido e vischioso, smuovendo un improvviso tanfo di ferro e sale che mi otturò le narici e mi costrinse a guardare in basso.
Sangue, una pozzanghera enorme.
Proprio mentre la mia bocca si spalancava per gettare un grido, Malik tese la mano verso l’alto e poggiò il polso squarciato da tre tagli netti di lama sulla mia spalla, macchiando le mie vesti con abbondanti rivoli di sangue che colarono fino al pavimento.
Mi stava fissando negli occhi, eppure il mio sguardo non riusciva a rispondere.
– Dimostrami che…mi sbagliavo… – ansimò.
– Cosa ti è saltato in mente? – strillai, eppure la mia stessa voce mi parve così lontana, così distante da ciò che stava succedendo.
– Dimostrami…
– Cosa?
Lui strizzò gli occhi, poi abbandonò esausto la testa contro il mio ventre e la mano cascò in basso.
– Malik! – disperata, lo afferrai sotto le ascelle e strattonai il suo corpo in sù, puntando con lo sguardo il letto poco più in là.
Sebbene rischiassi di rimanere schiacciata sotto il suo peso, riuscii ad arrancare fino al giaciglio e a spingerlo sulle lenzuola, indietreggiai di qualche passo e mi ritrovai a fissare il mio sguardo dentro il suo.
Il suo volto era cereo e il corpo avvilito e immobile, ma ciò che davvero mi preoccupò fu la stanca rassegnazione che trapelava dalle sue palpebre socchiuse.
La stessa rassegnazione che vidi negli occhi azzurri di Kadar il giorno in cui comprese che non avrebbe più rivisto il cielo fuori da quelle gallerie.
No, non lo avrei permesso.
Non avrei lasciato andare anche lui.
Senza die una parola, corsi verso gli scaffali in fondo alla stanza e mi arrampicai per tastare il fondo delle ceste, dunque incappai nella punta acuminata di un ago e nella forma tubolare di un rocchetto e, afferratogli saldamente, balzai a terra.
Studiai ciò che avevo intorno, avvistai sul tavolo una lanterna a olio e corsi ad accenderla, illuminando la pozza a terra e il sangue sui miei vestiti bianchi, dunque guardai di nuovo Malik.
Era sempre più pallido, però continuava a fissarmi.
Bene, finché aveva gli occhi aperti, c'era speranza di salvarlo.
– Che…che stai facendo? – Malik era sempre più debole e confuso, ragion per cui m’affrettai ad illuminare il letto con la lanterna e preparare ago e filo per saturare i tagli.
Poi, però, mi accorsi d’aver dimenticato le garze e il disinfettante, dunque lasciai l’ago nel rocchetto e tornai a rovistare all’angolo dell’infermeria.
Tornai poco dopo con una bottiglia contenente un liquido all’olfatto acre e incolore, una cordicella e con parecchie garze, dunque tirai via il tappo della bottiglietta con i denti, guardai per un attimo Malik e rovesciai sopra la ferita il disinfettante.
I suoi occhi si sgranarono per il dolore, grugnì selvaggiamente trai i denti in vista e faticò a mantenere i piedi fermi, ma non appena la vista si rischiarì non esitò ad allontanare la mia mano con il gomito.
– Non…non voglio il tuo aiuto! – sbottò.
Spazientita, lo afferrai per la spalla e lo costrinsi a stare giù. – Ti avverto, se non mi lasci lavorare sarò costretta a immobilizzarti!
Lui provò a obbiettare, ma la debolezza fu tale che alla fine si abbandonò alle mie cure, continuando, però, a scrutarmi con le palpebre semichiuse anche ora che la vista cominciava ad affievolirsi.
Soddisfatta della sua resa, arrotolai la cima della cordicella tra le dita e la legai all'altezza del suo avambraccio, per bloccare l’emorragia dal polso, dopo di che presi le garze e cominciai a passarle dentro e fuori il taglio con movimenti incerti, spesso andando troppo in profondità o strofinando troppo forte.
Lui, però, non mosse un solo muscolo, non accennò ad alcuna smorfia facciale, ma mi fissava rassegnato.
Anche io mi fermavo a guardarlo, dopo di che tornavo alla medicazione più concentrata che mai.
I primi minuti si squagliarono velocemente nella debole fiamma della lampada, i miei movimenti divennero più rilassati e anche l’espressione si addolcì, poiché ormai Malik era caduto in un sonno leggerissimo e mi mancava poco per completare, dunque ricucii le ultime membra squarciate con estrema delicatezza.
– Alquanto pare…mi ritrovo sempre a dipendere dalle tue cure, eh. – osservò d’un tratto Malik.
Sorrisi debolmente.
–Dove…hai imparato?
Alzai la fronte per un istante, incrociando il suo sguardo semichiuso.
– Ho imparato osservando mia madre mentre curava le mie ferite. – risposi e tornai alla medicazione.
Malik rise con un suono gutturale. – Perché, ti picchiavi coi bambini al mercato?
– Perché mi facevo del male.
Silenzio.
– Come mai?
Esitai. – A volte, avevo delle crisi. Mi difendevo da cose che in verità non esistevano e capitava che mi ferissi con gli oggetti che avevo attorno. Fortunatamente non ho memoria di quegli episodi, però qualche cicatrice sparsa qua e là mi ricorda chi sono, e la fatica che ho fatto per oltrepassare quel muro insormontabile che mi ero creata da sola.
Scossi la testa, strappando con i denti il filo in eccesso, e lui mi osservò con la sua solita attenzione chirurgica, un po’ più colorito ora che il sangue aveva smesso di fuoriuscire dal suo corpo e le forze si stavano lentamente raccogliendo.
– E poi? Cosa ti è successo, Laura?
– Ho imparato a fidarmi di chi mi voleva bene e ho lasciato che mi aiutassero. – spiegai e legai le garze ben strette attorno al suo polso. – Per un po’ sono stata bene e quei fantasmi hanno smesso di tormentarmi, ma la mia vita era diventata così vuota che ho dovuto fuggire. Ma dubito che potrò mai più tornare a casa.
Soddisfatta della medicazione, ritrassi le braccia con un sospiro e, mentre lui controllava silenziosamente il mio lavoro, io chinai la testa sulle mie gambe e carezzai distrattamente le decorazioni in rilievo del bracciale sotto l’orlo della manica.
– Kadar mi ha aiutato molto a superare i miei limiti. – confessai poi.
Malik osservò quel gesto delle mie dita sul bracciale, inespressivo.
Il fuoco all’interno della lampada a olio scoppiettò in un balzo verso l’alto, illuminando maggiormente il petto inzaccherato di sangue, poi il braccio mancante, infine lo sguardo intenso dell’Assassino.
Mi ci trovai stranamente a mio agio, come se ci fossimo sempre guardati negli occhi in quel modo.
Per la prima volta, mi vide come una sua pari.  
– Come ti senti? – chiesi sovrappensiero.
– La testa non mi gira più.
Sorrisi – Meno male.






Angolo autrice:

Chi non muore si rivede! Eccomi tornata dopo questo lungo periodo d’inattività, con un capitolo in cui Malik ci lascia un po’ sorpresi, eh. Devo ammetterlo, inquadrare il suo personaggio è stata una sfida, perché mi ero resa conto di non avergli dato ancora una linea precisa e per questo non sapevo con esattezza quale poteva essere la sua reazione. Ma poi, ho letto il testo della canzone sopra citata, Breathe Me di Sia, e ho ritrovato in esso la storia di Laura, ma anche i sentimenti di Malik. Spero che possa aiutarvi a capire meglio.
Baci, Lusivia.













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Capitolo 12
*** 11. Deus dedit, deus abstulit ***


                                                                                                     Capitolo 11
                                                      
                                                                                         Deus dedit, deus abstulit.




L’atmosfera esplose in una feroce combinazione di pioggia e vapori provenienti dal sottosuolo bollente del deserto e presto un vento livido cominciò a soffiare contro le pareti della montagna.
Il manto dei cavalli era perlato di spruzzi d’acqua, le criniere cascavano pesantemente sulle loro teste allungate, di tanto in tanto calpestavano infastiditi la terra fangosa dell’entrata.
Avevo i vestiti pesantissimi e i capelli si erano completamente attaccati lungo la schiena, gli stivali erano zuppi così come le mie ciglia, ma non mi curai nel mio aspetto perché in quella caverna era troppo buio perché riuscissi a vedere quanto i miei occhi fossero arrossati.
Un altro gioco malfido di quella divinità capricciosa.
Strizzai i capelli con le mani, poi asciugai le gocce di pioggia sul viso con il polso e poggiai i palmi madidi sulle cosce, sospirando avvilita prima di girare il volto verso la figura immobile che gemeva e guaiva nei deliri dei suoi incubi.
Malik aveva tentato di mantenere integra la sua coscienza fino a quando l’assurdità degli eventi lo teneva stregato tra l’incredulità e il sogno, come se neanche si rendesse conto di quello che era appena successo, ma alla fine il risveglio fu inevitabile.
Avevo visto il suo animo incrinarsi lentamente, pezzo dopo pezzo, già mentre nel Tempio costruiva il monumento funebre di Kadar con macerie e travi, avvalendosi dell’unico braccio che riusciva a muovere e rifiutando orgogliosamente qualsiasi aiuto da parte mia.
Eseguiva quei movimenti senza espressione, senza emozione, senza un fine.
Il dolore gli ostruiva i pensieri e gli impediva di realizzare quanto sentisse male, sia nel fisico sia nell’animo, almeno finché il grido del vento all’uscita del tunnel gli sbloccò la mente e, con essa, la bocca dello stomaco.
Feci in tempo a spostarmi che Malik rigettò sui suoi piedi un intruglio di sangue e bile e pochi resti del cibo, dopo di che il suo corpo non riuscì più a reggere la tensione che stava scoppiando sotto i tendini tirati e alla fine si abbandonò su di me.
Avevo provato a tenerlo sveglio almeno finché non fossimo giunti ai cavalli e Malik non si abbandonò subito ma farfugliò e lottò il tempo necessario per issarlo sul suo cavallo, dopo di che svenne contro il collo della bestia.
Non ricordavo bene cosa feci dopo, forse piansi.
Adesso, però, ero lì, in una grotta a poche miglia dal Tempio e con Malik svenuto nei suoi deliri febbrili, mentre fuori imperversavano acqua e lampi come se il mondo fosse stato inghiottito nel caos.
Rimasi ripiegata su me stessa per un po’, continuando a fissare la superficie spenta del turchese incastonato nel bracciale, e mi sentii persa.
Kadar è morto. Kadar è morto e non tornerà più.
Brivido.
Ho ucciso un uomo. Ho ucciso un uomo con queste mie mani e ho provato piacere a farlo.
Sussulto.
Quanto sangue, quante morti quel giorno.
Ed io, salva per miracolo.
La bocca mi si spalancò in un singulto, poggiai la fronte contro il bracciale credendo che avrei vomitato atterra, ma ciò che versai furono solo lacrime e un grido sussurrato che bruciò come fuoco.
Quel giorno erano morte tante persone, Assassini e Templari senza distinzioni.
Ma io ero viva.
Io e Malik avevamo ancora una possibilità di sopravvivere.
Così, tirando indietro le lacrime e il respiro, sollevai la fronte dalla superfice levigata della pietra al polso, riempii i polmoni dell’odore della pioggia e, piano piano, quella foschia di pensieri si dipanò un po’.
Mi presi un altro minuto per discorrere mentalmente su quello che avevo a disposizione e sulla mia abilità come infermiera, soppesai i rischi che Malik correva se non avessi provveduto a rendere sterile la ferita e arrivai alla conclusione che in ogni caso sarebbe morto, con o senza il mio zampino.
Valeva la pena tentare di salvarlo.
Raggiunsi i cavalli legati all’entrata, carezzai il muso di entrambi per calmare il loro respiro e il mio, poi cominciai a rovistare nelle bisacce delle selle finché incappai in qualcosa di utile: una borraccia d’acqua e un fazzoletto pulito da stringere per bloccare l’emorragia.
Agguantai la borraccia, tirai distrattamente il lembo del tessuto e torsi il busto per controllare velocemente Malik, quando uno stridulo fioco irrigidì le mie dita a mezz’aria e il corpo si fermò.
La cavalla nitrì, schioccò la coda nell’aria e mi studiò circospetta, quasi riuscisse a sentire il battito del mio cuore esser accelerato e ne fosse infastidita.
Mi rigirai lentamente, deglutendo, poi stesi le dita in avanti e feci pressione sul bordo della bisaccia quel tanto che bastava per riuscire a scrutarne il fondo, lì dove quello stridulo assillante stava lentamente sfumando nel nulla.
Ed eccolo là, l’oggetto per cui quel giorno erano morte tutte quelle persone.
Lo avevo recuperato mentre Malik costruiva la tomba per Kadar, poco distante dal cadavere del Templare che avevo trucidato, ma non avevo avuto il coraggio di scoprire cosa vi fosse avvolto in quel panno polveroso e così mi ero limitata a portarlo con me nella bisaccia della sella.
Ripensai a quando quell’oggetto misterioso aveva riflesso il bagliore della sua superficie dorata nelle mie irridi, e rabbrividii.
Non sapevo cosa diavolo mi fosse successo né cosa fosse stato ciò che aveva risvegliato la follia della mia testa malata, però una strana sensazione mi stringeva le viscere ogni volta che osservavo la sua circonferenza sferica e questo non mi piaceva.
Non avrei visto oltre quel panno.
Avrei portato quell’oggetto a Masyaf e consegnato ad Al Mualim, dopo di che non m’importava di che uso ne avrebbe fatto, né di scoprire a cosa servisse.
Volevo solo sbarazzarmene alla svelta.

*  *   *

Malik era lì dentro da un po’.
Mi chiedevo cosa stesse accadendo all’interno delle mura mentre io me ne stavo fuori, incapace ancora una volta di affrontare la situazione a volto scoperto, troppo assente e stanca per rispondere all’interrogatorio del signore della fortezza.
Era il manufatto, mi aveva tenuto sveglia tutte le notti con quel suo stridulo continuo e martellante, mentre, al contrario, la vocina nella mia testa si era dileguata da quel giorno nel Tempio.
Sbuffai.
Comunque, il vecchio sarebbe stato felice di vedere il manufatto sano e salvo a Masyaf.
Forse poco gli sarebbe importato quando Malik gli avrebbe raccontato della tragica lotta in cui Kadar aveva perso la vita, ma l’estasi del trionfo lo avrebbe reso benevolo.
Ma non era il perdono di Al Mualim ciò che mi premeva in quel momento.
Intanto che attendevo sulle scale, vidi la sentinella che aveva accompagnato Malik dal vecchio uscire dalla penombra e scendere nella piazzola a testa china, così mi piantai immediatamente davanti a lui e lo invitai a informarmi della situazione.
-Cosa sta succedendo nell’ufficio del Mentore?- domandai.
Lui scrollò le spalle, aggirandomi abilmente. - Non so cosa sia successo, ma Malik è ridotto davvero male. Credo che Altaïr non se la caverà con una strigliata, ’sta volta.
Una smorfia amara mi solcò il viso, la sentinella si licenziò velocemente da me.
Erano passati giorni dall’ultima volta che lo avevo visto, precisamente da quando ci abbandonò come animali da macello alle truppe del di Sable nel Tempio.
Eppure, sentire il suo nome mi provocò un bollore dentro che superò ogni aspettativa.
Scommettevo che in quel momento stava arrancando scuse neanche troppo creative per placare le accuse gridate di Malik, certo che il Mentore non gli avrebbe voltato le spalle neanche quella volta, perché lui era il Prescelto.
-Malik è ridotto davvero male.
Una voce sottile mi strappò da quel flusso di emozioni, riportandomi alla realtà proprio mentre incrociavo lo sguardo con quello di Rauf, che se ne stava in piedi a fissarmi vicino alla staccionata d’allenamento.
Per un momento la sua presenza mi agitò, soprattutto se ripensavo al tempo che aveva dovuto scontare nelle segrete a causa di quel litigio con Kadar, ma qualcosa dal modo in cui mi guardava con le braccia strette sotto torace screditò qualsiasi atteggiamento bellicoso.
-Si è svegliato da poco. - giustificai io.
Lui parve impensierito. -Alle mura ho incontrato Altaïr mentre era di ritorno. - cominciò poi - Aveva un’espressione sconvolta. Pochi istanti dopo, ho scorto Malik che saliva le scale con una cassa e una sentinella a trasportarla, pallido come un fantasma e ferito gravemente.
Io lo fissai, inespressiva.
-Al Tempio, purtroppo, le cose sono andate male.
-Dov’è Kadar?
Non risposi.
Lasciai che fosse il mio sguardo rammaricato a fargli intendere la dura verità.
Lui rimase raccolto in un’espressione innaturale, come se non sentisse alcuna emozione o pensiero, poi un singulto gli contrasse il petto una volta, e una volta ancora, finché Rauf non si ritrovò a singhiozzare senza freni davanti a me.
-Mi…mi…mi dispiace….!-continuava a gemere. - Dovevo fermarlo e invece…invece gli ho dato del depravato! Ma non…non volevo, non…
Un altro singulto gli storse il viso e all'istante le ginocchia di Rauf cedettero rovinosamente sulle scalinate, mentre i pugni stringevano contro le guance rigate di lacrime e il petto tremava inerme.
-Mi…mi dispiace…io non sapevo…- ripeté, ormai consapevole che tutta la follia di quel suo sentimento spregiudicato e contrariato, tutti i sospiri insoddisfatti e il desiderio che mai avrebbe trovato luce, erano morti con l’uomo che amava.
E il mio dolore, se comparato al suo, era poco più che un mal di denti.
Stupidamente, mi sentii surclassata.
-Ti ha…raccontato tutto?- finalmente, riuscii a sbloccare quella pressione sulla punta della lingua.
Lui tirò su con il naso, annuendo.
-Prima di partire, è venuto da me. Mi… ha chiesto di proteggerti, nel caso ti fosse accaduto qualcosa. - sospirò, lasciandosi andare a una risata accorata - Però…che stupido cazzone a nasconderti tra i Novizi! Per lo meno poteva trovarti un posto più sicuro, dove non rischiavi di essere assalita da un branco di uomini che non scopano da mesi…Che dire, era ingenuo.
Tacqui, completamente senza parole, finché anch’io scivolai in una debole risata di sconforto.
Già, era stato ingenuo.
Ma, proprio quando i miei occhi stavano per rigettare di nuovo le lacrime, un Assassino di vedetta sulle mura ci lanciò un fischio nervoso che venne captato dalle nostre orecchie all’istante, dunque entrambi alzammo lo sguardo in direzione della sentinella.
Rauf tirò su le lacrime, alzandosi da terra mentre tentava di riprendere un contegno -Che succede?-domandò il giovane.
-Avvisate Al Mualim!-rispose a pieni polmoni l’altro - Fai in fretta, svelto!
-Che devo dirgli?
-Digli che ci sono guai in vista! I Templari sono qui, stanno trucidando la popolazione!
Io e Rauf avemmo appena il tempo di scambiarci uno sguardo impallidito, poi lui si precipitò lungo le scale e sparì verso l’ufficio del Mentore, veloce come una lepre inseguita da un segugio.
Qualche minuto dopo, il vecchio comparve sul balcone, tallonato da Altaïr che lo seguiva con aria impaziente.
Fu allora, mentre Rauf sgattaiolava al fianco del Mentore per chiedergli come respingere gli invasori, che Altaïr, tra un’occhiata distratta e l’altra sul campo, ma capii che stesse cercando me quando il suo sguardo si posò in uno spasimo sul mio volto buio.
Spalancai gli occhi riflessi nei suoi, sentii una morsa dolorosa stritolarmi la gola e pensai seriamente di correre sul podio e rifilarli un bel pugno sul grugno, ma, per quanto la mia immaginazione corresse veloce, la verità era che mi sentivo smarrita.
Poi, Al Mualim lo richiamò all’attenzione con voce grave e quello distolse lo sguardo, mentre io, a bocca dischiusa, abbassavo lo sguardo da perfetta vigliacca.
Il mio cuore batteva all’impazzata, ma per il livore.
Stavo ancora meditando sui miei sentimenti quando udii un fischio alla mia destra, così drizzai subito la testa sul collo e la girai verso l’entrata della torretta di controllo davanti cui, adesso, c’era Rauf.
Lo raggiunsi a passo deciso. -Che succede? E Malik? Dov’è?
-Non preoccuparti, è nelle mani dei dottori. - tagliò corto lui, poi aprì l’entrata sulla tromba delle scale e mi fece cenno di precederlo. - Muoviti, non c’è tempo.
Gli lanciai un’occhiata pensierosa, poi voltai la testa e mi accinsi a salire i gradini che conducevano a quaranta metri dal suolo proprio mentre Altaïr usciva dalla fortezza di corsa.
All'interno delle mura i rumori provenienti dall'esterno erano amplificati lungo la tromba delle scale e rimbombavano sempre più forti, sempre più agghiaccianti e sanguinolenti, finché un tetro presentimento mi portò a intuire cosa stesse accadendo nel villaggio.
Ma ne ebbi la conferma solo quando giungemmo alla cima, lì dove l’aria sollevava la polvere e le budella dei corpi squartati sul terreno e riportava il tanfo insopportabile fino a noi.
Al villaggio, un numero agghiacciante di cadaveri erano cosparsi sulla pianura insanguinata e più della metà degli Assassini era scesa nel villaggio per fermare il massacro, ma i Templari erano troppi e ben armati e stavano riuscendo ad aprirsi un varco verso l’acropoli a colpi di fendenti e zoccoli.
La vista di quella moltitudine di morti mi fece prudere le mani e la lama, ma il mio sdegno si tramutò in panico quando scorsi l’orda rumorosa di spade e cavalli avanzare verso la nostra sede, lasciandosi finalmente alle spalle i pochi abitanti che erano scampati al massacro.
Alcune ombre bianche fecero appena in tempo a rientrare prima che l’entrata fosse serrata, poi tutti si portarono sulle mura per osservare le truppe della Santa croce che attendevano silenziosi davanti alle mura.
I cavalli si fermarono, i ferri vennero momentaneamente riposti, e calò un silenzio surreale.
Solo un uomo procedette a cavallo, completamente solo, e riconobbi in lui Roberto di Sable grazie al luccichio rosato che riflesse la sua testa calva.
- Quel bastardo... ci ha seguito! - ringhiai, sporgendomi un po’ dal bordo della torre.
Rauf rimase sorpreso della mia affermazione. - Avete avuto un confronto con il Gran Maestro dei Templari?- domandò e, quando annuii, lui mi guardò con aria pressoché ammirata.
Poi, dopo qualche tentennamento in cui avrebbe voluto dire qualcosa, tornò sull’uomo che, nel frattanto, aveva intrapreso una poco affabile conversazione con l’altro Gran Maestro.
Mentre io e il Novizio tentavamo di cogliere il saliente della trattazione per la resa, due Assassini irruppero nella torre e si disposero velocemente davanti alle rispettive piattaforme, senza badare minimamente a noi.
Uno di quei due era Altaïr e, a giudicare dalle vesti imbrattate di sangue, doveva esser tornato dallo scontro al villaggio.
Per l’ennesima volta i nostri sguardi furono inspiegabilmente calamitati l’uno verso l’altro e ci scrutammo a distanza senza nascondere la tensione ben dipinta in viso, ma dal pendio salì un grido terrificante e immediatamente tutti accorremmo appena in tempo per vedere un Assassino sgozzato dalla lama di Roberto.
Il confratello con cui era arrivato Altaïr ringhiò una maledizione contro la stirpe del di Sable, Rauf chiuse gli occhi in un moto di disgusto ed io rabbrividii fino all’estremità delle spalle.
-Ora basta, dobbiamo fare qualcosa!- convenni con determinazione furente, provocando la reazione istintiva di Altaïr, marciò spedito sulla piattaforma.
-Concordo con te. - sentii dire da Rauf, poi riemerse dal suo silenzio e spalancò gli occhi. -Mettiti lì, presto. – ordinò, indicandomi con un cenno la quarta piattaforma.
Io trasalii -Spero che tu stia scherzando, Rauf! Moriremo di sicuro da quest’altezza, è una follia!
-Non morirai.
-Rauf, non è un una possibilità, ma la forza gravitazionale.
Rauf alzò gli occhi al cielo -Nadim. Non morirai ma, dannazione, non farci saltare il piano!
-È follia. - insistetti a denti stretti, ma alla fine obbedii senza altre storie.
Marciai sulla passerella scricchiolante lottando contro le folate di vento che tentavano di farmi capitolare giù ancor prima di raggiungere l’orlo, esitai a metà e con la testa incassata tra le spalle, lanciai un’occhiata di sfuggita agli altri.
Rauf e il terzo Assassino erano completamente a loro agio mentre marciavano sicuri sulla piattaforma, ma Altaïr, lui fluttuava tra le increspature degli abiti che si gonfiavano come vele sul mare.
Grugnii, dando un colpo all’orlo dell’abito che stava fastidiosamente sbattendo tra le mie gambe, poi un ultimo sforzo e raggiunsi il capolinea della piattaforma per il salto.
Ma poi, proprio mentre gli occhi si riempivano di lacrime a causa della polvere trasportata dal vento, un luccichio ceruleo oltre quelle rocce acuminate m’indusse a spostare lo sguardo sull’orizzonte, dove un fiume luccicava tra le curve delle verdi colline.
In contemporanea a quella nuova scoperta, due piccoli volatili mi sfrecciarono davanti e fecero alzare i miei occhi verso l’alto, riuscendo così ad ammirare le loro piroette perfette mentre seguivano l’andamento delle correnti ascensionali, riscendendo poi in spirali verso il basso.
Adesso non c’era più il rumore dei cavalli e del ferro di guerra, né il puzzo di budella ed erba mischiati, ma solo il respiro pulito di Masyaf.
Inspiegabilmente, la tensione si allentò.
Sospirai, poi tornai con lo sguardo sulle truppe nemiche, rendendomi conto solo allora che la trattazione tra i due Maestri era già cominciata.
-Allora, vecchio, è questo che vuoi? Che il sangue dei tuoi scorra a iosa sulla mai spada ancora una volta?- domandò il Gran Templare – Perché non metter fine a quest’inutile spreco di risorse, ridandomi ciò che i quattro cani bastardi che hai mandato al Tempio mi hanno sottratto?
-Quattro?- esclamò il vecchio Assassino, allargando le braccia dall’alto delle mura di cinta mentre ribatteva - Ma io ne ho inviati solo tre, Roberto! I migliori!
La risata del di Sable mi provocò un tonfo al cuore, mentre la tensione salì nelle mie vene.
Calma.
-Cosa ci trovi di così divertente?- Al Mualim era visibilmente irritato dall’impudenza dell’avversario.
- I tuoi adepti mordono come serpi, Assassino!- esclamò il comandante, facendo muovere il cavallo su e giù davanti alle mura. -Attento, finirai avvelenato nelle menzogne del tradimento.
Le mani fragili del Maestro picchiarono sulla superficie in pietra con stizza.
-Frena quella lingua biforcuta, Roberto, o verrò giù io personalmente a tagliartela!
-Non aspetto altro.
-Quale arroganza !Vieni qua, in casa mia, e ti permetti non solo di pretendere qualcosa che ritieni esser tuo di diritto ma addirittura osi mettere in dubbio la fiducia dei miei uomini! E allora eccoti qua la prova, razza di miscredente!
A quel punto, la mano venosa del vecchio indicò nella nostra direzione e le truppe nemiche alzarono il capo verso di noi.
- I miei uomini non hanno paura di nulla. – continuò il vecchio Assassino, ora con le labbra tese in un sorriso vittorioso - Mi obbediscono ciecamente e se io dico di gettarsi tra le braccia della morte attraverso un volo senza scampo…ebbene, lo faranno.
A quel punto, un segnale sonoro di Rauf ci fece segno che era il momento.
Dovevamo saltare.
I secondi precedenti al volto furono i più lunghi della mia vita, i più intensi e contradittori.
Provai a trovare un dannato motivo per saltare, per cui rischiare la mia vita in quel folle volo.
Lo trovai nel momento in cui vidi l’espressione di beatitudine dipinto sul volto dei miei confratelli mentre allargavano le braccia nel vento, lasciando che questo sbattesse contro le loro ginocchia e gonfiasse le vesti bianche come vele.
Invidiai la loro pace, così fui inspiegabilmente spinta a testare quella sensazione.
Guardai il cielo, le nuvole, le ali degli uccelli, e sentii che c’era qualcosa di estremamente naturale nel modo in cui il mio corpo veniva attratto verso il ciglio della piattaforma, come se…se fosse stato progettato per muoversi col vento.
diceva Suor Agata, se da piccola avevo una delle mie solite crisi.< Farà meno male quando la carne soffrirà.>
Pouf! Il mio corpo si staccò.
Allargai le braccia nell’aria e distesi la punta dei piedi, spingendo il mio equilibrio oltre la piattaforma, e gli occhi si chiusero, cullati dallo schiocco rassicurante delle vesti.
Per lo meno, se mi fossi sfracellata al suolo quel sogno sarebbe arrivato alla fine.
Poi, il nulla.
Solo l’aria che cercava di ghermirmi il corpo con le sue braccia azzurre, senza riuscire però a bloccare il volo.
Allora, era questo il salto della fede?
Libertà?
Un tonfo sordo e pensai di esser rientrata nel mio corpo in tempo per non perdermi il suo sfracellarsi contro le rocce.
Ma poi sentii un filo ispido di paglia pungolarmi il bulbo oculare e, schizzando all’insù in un grugnito di dolore, uscii da quella mare di giallo in cui ero appena atterrata.
Mai stata così felice di vedere un covone di paglia!
Mentre io sfilavo i resti degli aghetti infilati sotto il cappuccio, sia Rauf Altaïr uscirono indenni d’atterraggio, ma il terzo Assassino non fu altrettanto fortuna e adesso stringeva tra guaiti e sussulti la sua gamba rotta.
Sentendo il confratello iniziare a lamentarsi, Rauf si precipitò a tappargli la bocca con le sue mani sottili e gli brontolò di tacere se non voleva che il piano da morti suicidi saltasse all’aria, ma gli era ormai chiaro che bisognava cambiare tattica.
- Devo aiutarlo a tornare dentro, non posso lasciarlo qui a morire.
- Va bene Rauf, lascia fare a noi. - Altaïr non ebbe esitazioni, come sempre.
L’Aquila calcolò velocemente il modo più veloce per arrivare al nostro obbiettivo, una torre di controllo sospesa su palafitte lunghe più di trenta metri, finché adocchiò con uno schiocco di lingua le corde che sorvolavano il burrone bianco e decise che saremmo passati di lì.
Ma qualcosa lo portò a tentennare.
- Si ammazzerà…- lo sentii brontolare.
E capii che stesse parlando di me quando mi fece cenno di seguirlo su una passerella naturale a dosso del burrone, poi prese ad avanzare su di essa di pancia contro il muro mentre io, invece, mi presi qualche minuto per sputargli contro un insulto decisamente poco gentile.
Il muro era molto più scivoloso di quel che pensavo e, come se non bastasse, il colpo di zoccoli di qualche cavallo sopra di noi faceva vibrare la roccia, dunque mi bloccavo, calmavo il respiro, e, dopo che ebbi disteso le dita conficcate nella superficie interna delle suole, riprendevo a muovermi.
-Ci sei?- mi domandò Altaïr quando fummo a metà strada.
-Sì. - risposi altèra- Ci sono, non sono un’idiota…
Un singulto mi costrinse a tacere, perché mi resi conto che il mio piede era appena stato risputato via da un’insenatura.
Le braccia si tesero in avanti, le gambe si piegarono indietro e sentii la foschia del burrone strattonarmi verso di sé, tuttavia Altaïr fu più rapido di lei e stese prontamente il suo braccio in mio aiuto.
Mi afferrò e le dita sporche di sangue li fecero perdere la presa, dunque inveì, si rigirò di scatto con le spalle contro il muro e tese pericolosamente il busto in avanti, afferrandomi con entrambe le braccia.
I piedi tesero verso l’esterno, il sedere si staccò dal muro e, quando capì che la gravità stava per attirarlo con me verso il basso, staccò una mano dalle mie costole e la rigettò indietro, riuscendo ad afferrare un appiglio e a tornare con la schiena al sicuro un attimo prima che un soldato si sporgesse a controllare.
Rimanemmo immobili per qualche secondo, l’uno stretto contro l’altro, a riprendere fiato.
Era successo tutto in una frazione di secondi.
-Dannazione…
-Lasciami, adesso. - grugnii e lo allontanai con un gesto stizzito, ancorandomi alla sporgenza più vicina per evitare di scivolare di nuovo.
Quello mi guardò con il fiatone, strinse i denti in chissà quale maledizione su di me, ma fu costretto a piegare le spalle e riprendere a seguirmi, giacché avevo ricominciato ad avanzare più veloce di prima e senza di lui.
Salimmo in cima alla torretta avvalendoci delle funi penzoloni tra le palafitte e una volta lì trovammo dei tronchi, unti di grasso e legati per una fune, che pendevano su un’inclinazione verso la schiena delle truppe nemiche.
Ci bastò uno sguardo veloce per intenderci al volo.
Altaïr si posizionò alle spalle della catasta, io mi portai a destra ed estrassi la spada che avevo portato con me dal tempio, osservai il riflesso sulla sua scanalatura rigettarsi nei miei occhi, presi un bel respiro e infine recisi la corda con una stoccata netta.
Nel medesimo istante, Altaïr incurvò la schiena contro la catasta e in meno di un secondo la trappola precipitò sui nostri nemici ignari, che si dispersero tra grida di panico e il rullo impetuoso dei tronchi.
Le truppe Templari si dispersero in preda al panico e di Sable fu costretto a raccattare quelli che non erano stati schiacciati dalla trappola per la fuga, dando così motivo agli Assassini di festeggiare come matti dalla cima della fortificazione.
Mentre le grida dei nostri confratelli si alzavano nell’aria e qualcuno faceva gesti osceni ai nemici in fuga, io sputai un’esulto e mi voltai a controllare Altaïr, che era stranamente silenzioso, ma rimasi sorpresa da ciò che vidi.
Non gli importava della vittoria, ora il suo rammarico era tutto rivolto verso i cadaveri degli abitanti, vittime di una guerra che, ancora adesso cominciava a capire, chiedeva ogni volta un prezzo troppo alto in cambio di un’esigua vittoria.
Gli altri Assassini, però, non si fecero rovinare la festa da questi piccoli cavilli e, infatti, ci accolsero con cori d’inneggiamenti e pacche sulla schiena non appena tornammo nella fortezza, neanche fossimo eroi di guerra.
Ma poi, la sagoma leggermente ricurva di Al Mualim si fece spazio tra alcuni Assassini in cima alle scale e immediatamente la raggiante vittoria fu sostituita in un silenzio cadaverico, che costrinse tutti noi a ritornare nei ranghi prestabiliti.
I pochi confratelli che ci erano rimasti attorno si dileguarono alla svelta, lasciando me e Altaïr scoperti allo sguardo arcigno del Mentore.
Sapevo che il suo disappunto non era per me, ciononostante continuavo a sentire la tensione.
Cosa avrebbe fatto, adesso, la nostra divinità? Ci avrebbe puniti? Perdonati?
La risposta arrivò con un suo sorriso soddisfatto.
- Siete stati molto bravi. - cominciò rassicurante il Maestro -Adesso, le forze di Roberto sono disperse e questo ci porta in notevole vantaggio. Per ora, siamo al sicuro da un’altra incursione al villaggio.
Le sue parole presagivano clemenza e per un momento avvertii l’ansia di Altaïr allentarsi notevolmente, eppure dal modo in cui il vecchio tirò un sopracciglio intuii che la sua era solo una calma fittizia.
-E dimmi, Altaïr.- continuò Al Mualim- Sai perché ciò è accaduto?
Il ragazzo non parlò.
-Perché hai collaborato. - esordì l’altro e m’indicò con un gesto ampio del braccio. - Cosa che, invece, non hai fatto al Tempio.
-Io ho fatto quanto richiesto.
Il volto del Gran Maestro si screziò d’amaranto.
-No, Altaïr !- lo riprese stizzito -Tu non hai fatto ciò che ti ho disposto, ma hai agito con boria e hai sacrificato i tuoi confratelli senza alcun ritegno! Malik, Kadar: loro hanno subito una gravissima offesa e tu neanche te ne rendi conto!
Ma l’arrogante ragazzo sembrò non accettare di buon grado quell’accusa, e ciò non fece che provocare l’ira funesta di Al Mualim.
Prima che potessi ritrarmi, il Gran Maestro mi agguantò per un braccio, tirò con forza e bloccò ogni mia resistenza storcendomi i polsi contro le mie stesse scapole, poi, quando fu sicuro che Altaïr mi stesse fissando spiazzato, strappò via il cappuccio dalla mia testa.
Non un brusio si levò in aria, neanche un respiro trattenuto nelle bocche spalancate degli altri Assassini attorno: solo centinaia di occhi che mi guardavano impietriti sul volto pallido e inerme.
Fu umiliante.
-Guarda, Altaïr!- gridò il vecchio a un palmo dal mio orecchio sinistro, rimbecillendomi completamente.
L’Assassino non rispose, era terrificato da quel gesto folle del suo Mentore e dal modo brutale in cui mi stava esponendo alla platea e non aveva il coraggio di drizzare lo sguardo dal pavimento.
Le narici del vecchio si arcuarono in un grugnito. - Guarda, ti ho detto! Suvvia, non sarà la prima volta che guardi il suo volto!
Un grido di dolore mi sfuggì quando sentii il Gran Maestro strattonarmi per i capelli, risultando un richiamo troppo forte per Altaïr da essere ignorato, infatti alzò subito lo sguardo su di me e ,provando a controllare il fremito che li percorse i muscoli, inspirò.
-La guardo. - disse fermo il giovane.
-Bene. – il vecchio tirò un bel respiro – Adesso, dimmi una cosa. Come puoi fissarla negli occhi e pensare che lei, una ragazzina poco più che diciannovenne, abbia dimostrato il coraggio che tu non hai avuto e, non contenta, abbia portato a termine la missione?
-Maestro…
-E hai anche il coraggio di scrollarti le colpe dinnanzi a lei! Questa donna ha riportato qui Malik e il manufatto che TU hai mancato, Altaïr ! Ha dimostrato un coraggio di cui tu hai peccato, una tenacia che va aldilà del rango e del sesso, e tutto ciò che riesci a fare e trovare deboli scusanti!
Altaïr esitò, incassano un primo affondo nel suo orgoglio ormai vacillante, e, quando provò a obbiettare, venne di nuovo ridotto al silenzio.
-No, non osare parlare, bada! Ormai non sei più degno d’attenzione, anzi, non sei più degno della Confraternita, né del tuo rango!
-Non potete esser serio!
-Non protestare! Ne ho abbastanza di te, di voi due! Ho tollerato anche troppo la tua arroganza, l’insubordinazione di questa ragazzina, la complicità del povero Kadar…ma ora non darò altre occasioni. E non tollererò i traditori!
E quelle ultime parole furono le definitive e le più dure, quelle che ricacciarono via Altaïr mentre quest’ultimo lo fissava con espressione scossa, del tutto ignaro che quella fosse l’occasione giusta per tre Assassini di bloccarlo e costringerlo a inginocchiarsi.
Mentre la mano del vecchio mi teneva ben salda per capelli, ed io lottavo per frenare le lacrime d’umiliazione e dolore, il ragazzo non si oppose minimamente mentre veniva privato davanti a un’intera platea ammutolita della lama celata e del cappuccio, simbolo del suo rango.
Quando vide il suo pupillo finalmente remissivo sulle scale, Al Mualim si tranquillizzò e decise di lasciarmi andare, spostandomi con delicatezza contraddittoria sul lato estremo della carreggiata, da dove lo fissai ammutolita e più confusa di prima.
-Maestro…posso spiegare!- per la prima volta, Altaïr tremò.
-Mi dispiace, figliolo. Questo farà più male a me che a te.
E Al Mualim estrasse un pugnale dalle sue vesti scure.
Un brivido agghiacciante stridette contro la mia spina dorsale e senza volerlo mi gettai a mantenere il braccio sollevato del Gran Maestro con tutto il corpo, fermando il colpo fatale sotto le espressioni impietrite di tutti.
L’uomo tremò sotto il mio peso, poi voltò lo sguardo incredulo su di me e, prima che potessi supplicargli clemenza, mi colpì con uno schiaffo, facendomi scivolare dal gradino e cadere lungo le scale.
La nuca sbatté rumorosamente contro l’ultimo spigolo, sentii la vista affievolirsi all’istante e, prima di perdere completamente i sensi, udii le grida disperate di Altaïr graffiargli la gola.
-No, ti prego, non la morte come traditore!

*    *   *

La testa mi vorticava in un movimento ondulatorio che faceva su e giù, come cavalloni che s’infrangono furiosi sulle rocce, ma ciò che sentivo rosicchiarmi i timpani era più simile al rumore di migliaia di insetti che stridevano le loro ali secche.
Un rumore decisamente familiare, già udito durante quelle notti, nel deserto, con Malik…
Aprii gli occhi lentamente, ma i bulbi oculari rotearono lo stesso in preda a una luce accecante, fino a che, finalmente, quel rumore tediante cessò e la vista sui soprammobili intorno tornò limpida.
Ora, c’era solo l’abituale fischio del silenzio.
-Ti sei svegliata, finalmente.
Voltai lentamente la testa sul cuscino, quasi impaurita di chi avrei trovato, e, infatti, un brivido mi assalì quando vidi Al Mualim in piedi davanti al mio capezzale, con le braccia strette dietro la schiena e un’espressione assorta.
Lo guardai in silenzio, poi provai a rialzarmi ma lo spintone di quelle onde contro la mia fronte mi costrinse a tornare sul cuscino, dunque rinunciai con uno sbuffo.
Lui fece un senso di dissenso. -Attenta, hai dormito per un po’…
-Lo avete ucciso.
Un leggero stupore sbocciò in lui quando i miei occhi s’inondarono di lacrime.
- Come avete potuto farlo, era il vostro protetto!- incalzai, con voce più forte.
Al Mualim socchiuse un poco gli occhi su quei lucciconi, pensando.
-È rammarico, quel che vedo?
Trasalii – No! Ma…ma quella brutalità non aveva scusanti. Non importava se Altaïr meritasse o no quella sorte. Meritava un processo giusto e una condanna appropriata.
-Concordo. Un’inutile spreco di energie e talento, il suo.
Poi sbuffò, grattandosi distrattamente la barba canuta mentre io chinavo lo sguardo sconsolata e tiravo su col naso, cercando sotto le dita conforto sulla superfice liscia del bracciale.
-Ecco perché non ho ucciso Altaïr, sebbene ce ne siano state di motivazioni. - esordì poi.
Drizzai il collo con uno scatto. - Cosa?
-L’ho indotto nel limbo, ad attendere.
Rimuginai, poi corrugai la fronte per invitarlo a spiegarsi, e lui fu ben lieto di farlo.
- La sua fierezza era tramutata in arroganza, questo era palese anche ai miei occhi. Oramai, non potevo più permettergli di nuocere senza ritegno alla Confraternita e calpestare il Credo a suo piacimento. Pertanto, ho deciso di strappargli via con la lama il male che si era attaccato alla sua anima e, adesso, lui giace, in attesa di rinascere. Sarà doloroso, ma, quando riverrà alla luce, sarà ripulito dalle sue colpe.
-E questo… dovrebbe rincuorarmi della perdita di Kadar? Dovrebbe indurmi a placare l’odio?
-No. No, non lo farà. Né il tuo dolore passerà, non per ora.
-E quindi, Altaïr la passerà liscia nonostante quel che ha fatto?
-Non ho detto questo. Ma non sono cose che ti riguardano, al contrario è di mia competenza disporre sulla sorte degli adepti. Compresa te, Novizia.  
Ma certo. - Volete cacciarmi da Masyaf?- sentii l’amarezza del mio sorriso - O forse, mi permetterete di vivere nel villaggio e di trovare un buon marito per mettere al mondo tanti piccoli pargoli ?Ah, ma forse sarà più semplice farmi diventare la puttana della confraternita…
Al Mualim raschiò una risata. - No, sinceramente non credo che una donna della tua tempra sia fatta per il matrimonio. Né che si faccia sottomettere tanto facilmente. Hai sangue gagliardo e un cuore libero, ragazzina. Impari in fretta, straordinariamente in fretta, e sei leale. Però, qualcosa piega la tua mente e t’indebolisce. La morte di Kadar? No, è altro. Comunque, sprecare le tue abilita, farti diventare un’altra delle tante puttane…ecco, non sono tanto stolto da ripudiare il talento quando lo vedo.
Poi, oscillando leggermente le vesti in avanti, il Maestro si ritirò con le mani sciolte e arrivò fino alla porta, dove si fermò a meditare prima di voltarsi e aggiungere -Vieni nel mio ufficio quando avrai fatto visita a Malik. Ma attenta a ciò che farai.
Dopo di che, si accinse a uscire dalla stanza, lasciando a me il compito di sviscerare quell’oscuro vaticinio.
-Maestro!
L’uomo si voltò di tre quarti. - Dimmi.
-Perché …avete rivelato la mia identità agli Assassini?
Lui si fermò a riflettere, poi addolcì lo sguardo truce del suo occhio bianco e, con animo cosparso dal balsamo della benevolenza, rispose. - So che è stato terribile. Ma fidati se ti dico che quello era l’unico modo per porre Altaïr una volta per tutte davanti alle sue azioni. Spero che tu capisca.
Esitai, riflettendo sull’umiliazione che avevo subito per tutti quegli sguardi impietriti fissi su di me, sulla mia impotenza agli strattoni di Al Mualim, sull’espressione basita di Altaïr mentre era costretto a osservare.
-Senz'altro, Maestro. Vi capisco.
Lui sospirò, risollevato.
-Ragazzina. - disse poi.
Alzai lo sguardo. -Sì?
-Non farti una colpa di ciò che è accaduto a tuo fratello. Non potevi evitarlo. Ricordalo a te stessa, quando verranno i momenti bui, e a Malik.
 





Angolo autrice:

Auguri di buone feste fatte a tutti quanti! Dunque, dopo questa piccola pausa troviamo di nuovo i nostri tre sopravvissuti, anche loro alle prese con il duro ritorno alla realtà, eh. Il nostro “ deus” ha finalmente tolto dal piedistallo il suo pupillo arrogante e l’ha calciato tra i comuni mortali, ma, soprattutto, mostra premura nei confronti della nostra Novizia! E Malik? Con quale animo sarà tornato alla sua vita, ora così diversa e dolorosa, e cosa accadrà quando rincontrerà Laura? Ditemelo voi, con i vostri commenti!
Sempre grata, Lusivia.









 

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Capitolo 13
*** 13.Volere più tempo. ***


                                               
                                                                                                     
                                                               Capitolo 13

                                                                                     
                                                                 Volere più tempo.







Quando cominciai a riprendere coscienza, mancavano poche ore all’alba.
Durante la notte avevo riposato sulla sedia accanto alla libreria, in una posizione decisamente scomoda per la mia schiena, che, infatti, si risvegliò capricciosa dal sonno.
Un nastro violaceo filtrò dalla coltre delle mie ciglia, irradiandosi tra la nebbia fino ad accecarmi.
Udii delle voci, voci lontane che bisbigliavano.
Strizzai gli occhi gonfi verso la fonte di quella luce e distinsi due figure, una più bassa dell’altra e con un cappuccio bianco in testa.  
Riconobbi Malik, immerso per metà tra la penombra dell’infermeria e lo squarcio aranciato della porta semichiusa, poi un secondo individuo in bianco che dava le spalle all’alba.
Provai ad affinare l’udito abbastanza da carpire il succo della loro conversazione veloce, ma arrivai troppo tardi perché Malik aveva già posto un punto alla cosa voltando la faccia al suo interlocutore.
Poche parole furono aggiunte, poi l’Assassino se ne andò a testa piegata.
Malik, invece, rimase davanti alla porta ancora per un po’,concedendo solo a una metà del suo corpo di bagnarsi nel calore del giorno e con l’iride sottile puntata all’orizzonte.
Qualcosa, però, lo turbò e subito sbatté la porta.
Il silenzio zittì l’aurora nascente e il buio tagliò fuori il nastro luminoso che si era srotolato fin dentro la stanza, lasciandoci nel semi-buio di due persiane dischiuse.
– Scusa. Ti ho svegliato.
Non appena Malik mi parlò, smisi immediatamente di far finta di dormire e alzai la testa dalle ginocchia, abbassandole sull’orlo della sedia.
– Ero già sveglia. – sussurrai.
Lui rimase di spalle, dopo di che si voltò e marciò come un soldato d’ombra verso le persiane.
Le aprì di scatto verso l’interno e subito la luce inondò la stanza, colpendomi gli occhi e facendomi ritrarre sulla sedia come un pipistrello che si nasconde dietro la membrana sottile delle ali.
Malik, invece, si fece travolgere dalla luce con tutto il corpo.
Non appena le mie irridi si riabituarono alla luce, immaginai guardandolo ad una strana somiglianza con i corvi.
Essi guardano fumosi la sfera rossa mentre rinasce dall’orlo della terra e sale in cielo, consapevoli d’esser più brutti alla luce che nascosti dall’abbraccio delle tenebre, e se ne dolgono.
Lo stesso faceva Malik.
– Hai dormito bene? – parlò per primo.
Mi drizzai sull’attenti – Sì. – risposi – Sì, ho dormito bene…
– Nessuno ti ha costretto a dormire sulla sedia.
Mi presi un momento per analizzare il vero significato di quelle parole.
Non lo capii. – Lo so.
Lui allargò le spalle in un bel respiro. – Hai pulito, ho notato.
Lanciai un’occhiata al pavimento immacolato, poi al coltello che avevo ripulito e rimesso tra gli altri strumenti chirurgici, infine sui miei abiti, ancora macchiati di sangue.
Tornai su di lui con la bocca serrata, rimanendo zitta.
Uno stormo di uccelli sorvolò velocissimo il cortile, lanciando il suo grido fin dentro l’infermeria, per poi sfumare verso il villaggio.
Masyaf era ancora calata nel silenzio.
– Non ti chiederò… – cominciò d’un tratto lui – perché l’hai fatto. E non ti chiederò perché tu mi abbia fatto partecipe del tuo passato intimo.
– …Lo capisco.
– …Bene. – Malik rilassò le spalle.
Mentre lui si accaniva a trovare fuori dalla finestra le parole giuste, finendo, tuttavia, per perdersi daccapo ogni volta, io mi ero alzata in piedi ed ero rimasta ferma accanto alla sedia.
Quel gelo che proveniva dal suo corpo fumoso.
Era così frustrante.
– Cosa è venuto a dirti l’Assassino di poco fa? – chiesi poi.
Lui indugiò. – Nulla.
Sapevo che stesse mentendo, ma preferii non peggiorare la situazione con la mia insistenza.
– Vorrei che tu te ne andassi. Tra non molto, arriverà il dottore e preferirei che tu non fossi qui.
Mi presi un attimo per incassare il colpo. – Sono d’accordo. – convenni, dirigendomi a testa alta verso l’uscita.
– Laura.
Chissà perché, sentirlo dire il mio nome fu come un colpo di frustra dietro la schiena, e mi costrinsi a desistere sulla soglia.
Non mi voltai, ma sentivo i suoi occhi dietro le scapole, piantati come due chiodi roventi nella carne.
– Ci vorrà del tempo.  
Non parlai. Ma lo capii. Lo capii subito.
– Lo so Malik.
Così, lasciai la stanza e la sua aura opprimente alle mie spalle, ritrovandomi un po’ più leggera quando presi a marciare silenziosa nel corridoio, senza pensare, senza capire.  
Non cercai di criptare il suo messaggio gettato all’ultimo secondo dalla nave che affondava, ma lo presi per così com’era.
Ci voleva tempo.
Ed io, d’altro canto, decisi di affogare il mio di tempo in un’abluzione nella fontana nel vivaio a ovest, immersa da boccioli rossi, lunghe siepi verdi e bianchi archi che sorvolavano il prato.
Affondai le gambe nell’acqua gelata della polla e subito mi ricordarono le figure ondulate di statue greche in fondo agli abissi.
Scrutai per un momento attraverso gli archi di pietra, che s’inseguivano in una mastodontica successione lungo il corridoio del piano superiore e inferiore, e costatai con sollievo d’esser completamente sola.
Così, piantai le braccia ai lati del canale di getto della fontana, trattenni il respiro e infilai l’intera testa sotto l’acqua.
Il gelo dei fluidi surgelò all’istante il sangue, i pensieri e infine il cervello, costringendomi a riemergere con un colpo sonante di frusta dei capelli lunghi.
Senza intrattenermi oltre, uscii dall’acqua con le mani strette sulle guance rosse e, avvicinatomi al muretto, raccolsi gli abiti che avevo lasciato asciugare, rivestendomi velocemente.
Una volta che ebbi salvato le mie grazie dalla possibilità di esser sorpresa da qualche mattutino di passaggio, raccolsi i capelli gocciolanti in una treccia e lasciai che si asciugassero al sole.
Prima di andare, però, infilai il naso tra le pieghe della manica per controllare d’aver lavato via, assieme al lerciume e il sudore, anche l’odore del sangue, e notai con sollievo che adesso avevo un odore vagamente gradevole.
Tra non molto, Masyaf si sarebbe svegliata.
Giacché ero affamata, mi diressi verso la cucina, sperando, d’altro canto, di poter scorrere le ore tra il chiacchiericcio delle badanti e una parola buona della cuoca, che sembrava così predisposta nei miei confronti.
Camminavo, ed ero sola.
Eppure, avevo l’impressione che qualcuno mi stesse alle calcagna.
Rallentai il passo, sperando di determinare la distanza che intercorreva tra me e l’altro individuo, ma non appena lo feci i passi si bloccarono.
Non mi voltai.
Andai avanti.
E di nuovo i passi ricominciarono. Ma, questa volta, furono più forti, come quelli di un gigante.
Riecheggiarono nel corridoio, così tra le mie meningi, e fui costretta a fermarmi per evitare che il pavimento finisse sottosopra.
Mentre il mondo ancora oscillava, e gli occhi tentavano disperati di bloccare il loro pulsare davanti al cervello, sentii qualcosa toccarmi i capelli, qualcosa di molto freddo e umido.
Rabbrividii intensamente, avvertendo i primi bisbigli alle orecchie.
Bisbigli sottili, affilati, inquietanti.
Risate dall’animo circense che tentavano di infilarsi nel mio costume di carne e sangue, per privarmi della possibilità di muovermi, per piegarmi alla follia della loro essenza.
Tra non molto, avrei perso i sensi.
No, non avrei lasciato che mi prendessero di nuovo…!
Scattai in un disperato impeto di ribellione, afferrando il pugnale al mio fianco e tendendo il corpo in avanti, pronta ad infilzare nello stomaco qualsiasi demonio si fosse appena materializzato dinnanzi a me, e ci riuscii.
Sapevo che fosse un’allucinazione, eppure non potei far a meno di guardarla diritto in faccia.
Davanti a me, occhi puri come il cielo d’estate.
Sentii lo stomaco cedere in un groviglio di nervi, scattai indietro e subito la mia mente fu strappata via da quell’illusione condensatasi davanti al mio sguardo incredulo.
Abbas.
C’era Abbas di fronte a me.
No, non era così…
Un minuto fa, il mio pugnale aveva perforato lo stomaco dello spettro di Kadar.
E ora era sparito, lasciando che mi ritrovassi davanti Abbas, indietro di qualche passo per evitare di esser trapassato dalla mia lama folle per una sola frazione di secondi.
Inorridii quando compresi ciò che avevo rischiato di fare e, chinando il collo di scatto sul petto, rinfoderai l’arma nel suo astuccio.
Notai allora che le mani mi stavano tremando, e di ciò se ne accorse anche l’Assassino.
– Che diavolo…?
Cercai di fuggire da lì il più velocemente possibile, ma fui bloccata dal suo braccio, che si piantò tra me e il muro a destra.
Mi ritrovai con il suo fiato, vagamente annaffiato di spirito, sulla fronte e gli occhi minuscoli che sezionavano la mia espressione turbata pezzo per pezzo.
Poi, finalmente, sorrise attraverso la coltre di barba –Oh, oh, dove vai? – mi canzonò – Hai appena tentato di infilzarmi senza alcun motivo…e poi credi di poter andare via senza darmi neanche una spiegazione?
– Scusami, io non…
– Eppure, dovresti esser più gentile con noi altri. Sai, non ti sei neanche presa la briga di presentarti con il tuo vero nome…Nadim.
L’Assassino richiamò il braccio nell’esatto momento in cui i nostri corpi si distanziavano l’uno dall’altro, come due calamite di polo diverso, e ci fissammo.
Io mi presi un minuto per rispondere.
– Abbas. Mi rincresce aver messo tutti voi in un tal disagio. Suppongo che dev’essere stato imbarazzante scoprire che sotto le spoglie di un Novizio si nascondeva una donna. Correggimi se sbaglio.
– Affatto, dici il vero. Per nulla piacevole.
– … In ogni caso, spero che la mia presenza non vi disturbi oltre dalla vostra attività venatoria. E perdonami per poco fa, ma ero ancora intorpidita dal risveglio.
– Oh, cose che capitano.– cominciò ironico mentre arcuava un sopracciglio – Insomma, chi siamo noi per contrastare il volere del Gran Maestro? Se ha voluto tenerti con noi, chissà, magari è per un qualche progetto lungimirante, o utopico. Speriamo, però, che tu non ammazzi qualche confratello mentre giochi con il tuo stuzzicadenti!
Abbas tirò su un’espressione soddisfatta, perfettamente consapevole che non avrei potuto reagire a quella sua spocchiosa irriverenza, dopo di che roteò il suo agile corpo per liquidarmi senza troppe cerimonie.
Qualche pensiero divertente, però, lo fece ritornare sui suoi passi proprio mentre mi accingevo ad accomiatarmi.
– Sai, ragazzina, ho sentito molte voci su di te. Voci dissonanti, perché, pare, nessuno sa chi tu sia in realtà. C’è chi dice che tu sia la figlia dell’Al-Sayf, che sei giunta dalle lontane terre aldilà del mare, e chi, più malignamente, ti apostrofa come una cagna che presta servizio ai Templari. Mi chiedo, a questo punto, quale sia la verità.
– Sono la sorella di Malik e Kadar. Questo deve bastare a te come agli altri.
– Interessante. – sembrò ancor più stuzzicato – Sono curioso di sapere di più.
– Che vorresti sapere? – lo squadrai circospetta.
– Ad esempio, per quale ragione tu abbia deciso di cercare gli Assassini proprio adesso.
– Sinceramente, non vedo il perché dovrei risponderti.
Il suo sorriso, imboscato dietro la compatta barba nera, si spezzò in un’amara delusione.
– Chi ti credi di essere, ragazzina?– borbottò con sprezzo.
– Chi ti credi di essere tu, che osi rovistare nel mio passato. – risposi indispettita.
– Oh, vedi di inchiodarti quella lingua a un palo, femmina pallida! – sputò, additandomi con l’indice corto – Non m’importa se quello stupido senza palle di Altaïr ti permette di schiamazzare come una gallinella impettita, o se quel diavolo fallito di tuo fratello tenta di non farti passare per la puttana del borgo, anche se, adesso, credo che potrà fare poco o nulla per te.
– Che intendi dire? – sbottai, allagando le narici come un toro pronto a caricare.
Abbas alzò le spalle con ostentato e goduto cinismo – È inutile. Una carcassa da buttare al porto. Un animale malato che nessuno vuole, neanche per macellarlo. Suvvia, a cosa credi possa servire adesso? L’ha detto anche Al Mualim, è arrivato il momento di sbarazzarsi di lui…
– Non è vero!
– Vivi d’illusioni, allora. Tutti sanno quanto gli è costata cara la stupidità di Altaïr, ma, soprattutto, che non potrà mai più tornare a servire la Confraternita. E questo lo sa anche Malik, sennò perché si sarebbe nascosto? È un codardo.
– L’unico codardo qui sei tu, anzi, Malik ha avuto una carriera più gloriosa di quanto tu possa mai aspirare a ottenere! – esclamai e nel medesimo istante venni scaraventata contro il muro, ritrovandomi con il petto compresso dal gomito di Abbas.
Serrai gli occhi in un gemito orgogliosamente mantenuto e, anzi, fronteggiai il suo sguardo lampeggiante mentre mi mandava chiari segni intimidatori con inspiegabile coraggio, come se poco m’importava di finire con una costola incrinata o, peggio, il labbro spaccato da un suo secco schiaffo.
– Te lo dirò una sola volta… rimangiati quello che hai detto.
– No, Abbas.
E quell’irriverenza, quell’indolenza alla mia sorte, lo irritò a tal punto da farlo sbraitare con la bava.
– Ragazzina impertinente, osi perfino tenermi testa! – strillò e caricò un manrovescio contro il mio labbro.
Piegai la testa di lato, ma non accennai un solo lamento, neanche un sussulto. Non mi aspettavo che lo facesse per davvero e rimasi paralizzata.
– Oramai, Al Mualim non fa altro che parlare di te, ed io sono a dir poco allibito! Dice che tu sei una di quelle poche rarità che abbia mai visto nella sua vita, e che nessuno mai, eccetto Altaïr, ha imparato così velocemente. In oltre, la tua natura ti rende un’eccezionalità! La… piccola cristiana che aspira a ottenere un posto tra gli Assassini! La donna che ha osato prendere in giro il Gran Maestro! Il Piccolo Miracolo dagli artigli di ferro! Dovrebbero vederti adesso, coloro che ti apostrofano con tali nomignoli, quanto sei coraggiosa!
– Ho…– sibilai – ho più palle io di te, che malmeni così una ragazza, bastardo!
Un altro schiaffò caricò sulla mia guancia, illividendola all’istante, ed io mi ritrovai a sputare sangue dalla guancia morsa tra i denti.
Ebbi appena il tempo di alzare il volto su di lui per vedere il suo sguardo delirante puntare il prossimo punto da colpire, caricando la mano con uno scatto di tutto il braccio all’indietro.
Un fischio dall’alto, i secondi si polverizzarono di fronte all’aspettativa di un dolore maggiore dei precedenti, e l’istinto di conservazione m’inondò il cervello seduta stante.
Scaglia il ginocchio contro la zona sensibile tra le sue gambe divaricate, Abbas strillò dal dolore e inarcò la schiena indietro, dandomi così spazio sufficiente per sgusciare sotto il suo braccio e portarmi dietro di lui proprio mentre con la mano tentò di riacciuffarmi.
Lo osservai piegarsi su se stesso con il cavallo stretto nel palmo sinistro, grugnire selvaggiamente e lanciarsi su di me sebbene il dolore lo avesse rallentato parecchio, ciononostante i suoi denti digrignati lasciavano ben intendere che la sua ira fosse più forte che mai.
Istintivamente balzai all’indietro e, proprio mentre lui stendeva il braccio in avanti per non rovinare a terra, già con il corpo pronto a scattarmi dietro, io posizionai i piedi come un corridore e fuggii.

*  *  *

Tastai piano il livido e subito ritrassi il dito, sibilando di dolore.
Dannazione, Abbas aveva la mano pesante. Ma, per lo meno, anche lui avrebbe avuto dei dolori per un po’ e questa piccola soddisfazione m’invogliò a sorridere nonostante le fitte.
Scossi con rassegnazione la testa mentre con le dita rigiravo il sottile frammento di specchio, scorgendo riflesso il dorso sinuoso delle verdi colline e la schiena gibbosa delle montagne più lontane.
Guardai attraverso la feritoia della torre, dove il cielo illividito preannunziava in lontananza l’arrivo di una tempesta.
– Ti hanno pestato per benino, eh…
La voce di Rauf mi colse completamente alla sprovvista e, anzi, per poco non ridussi in frantumi lo specchio sul pavimento della torre.
Lo trovai cresciuto.
Poi, dandogli un’altra occhiata, in qualche modo anche più saggio.
Non sembrava più lo stesso adolescente smaliziato e incantato della vita, anzi, oramai aveva proprio l’aspetto di un vecchio lupo irretito e dal muso pieno di cicatrici.
– Sai com’è, a volte posso essere molto irriverente.–sorrisi stupidamente mentre rigiravo lo specchio – Tu, invece, sembri… star alla grande.
Lui piegò leggermente la testa a destra, squadrandomi con l’occhio grigio, e mi rallegrai nello scorgere ancora una sfumatura fanciullesca su quel suo volto scettico.
Poi, scosse la testa con un sorriso stanco e si sedette difronte a me.
Allungò la mano verso il livido sulla mia faccia e lo tastò quel tanto che bastava per spingermi a scacciarlo con un colpetto della mano, un po’ risentita.
– Deve farti parecchio male. – convenne, ritirando il braccio – Ti ci vorranno quattro giorni perché hai la pelle chiara, ma il livido svanirà in fretta. Eppure, ti dirò Laura: il viola ti dona.
Gli lanciai un’occhiata scoraggiata, studiandolo mentre gettava i palmi indietro e si poggiava sulle braccia nel medesimo istante in cui scioglieva i muscoli del suo viso in un’espressione meno dura, tornando per poco in pace con se stesso.
Passò qualche minuto così.
– Hai ragione, Laura. – disse poi, rivolgendomi un’occhiata pensierosa – Sto meglio. Ma tu… tu, invece, sembri parecchio confusa.
Sorrisi amaramente – È tanto evidente?
– Abbastanza. Senti, so che il nostro inizio non è stato molto… gradevole, ma adesso siamo qui, e abbiamo entrambi vissuto un’esperienza forte che ci ha sfiancato parecchio. Sinceramente, io sono stanco. E se vuoi, posso ascoltarti, tanto non ho nulla di meglio da fare.
Ci rimuginai.
– Non credo tu possa aiutarmi. – e gli girai la testa.
Lui aggrottò la fronte – Perché?
– Perché è qualcosa che non posso spiegare.
– Provaci.
Se solo fosse stato così facile dirgli la verità.
Il tentato suicidio di Malik, il mio blocco mentale alla morte di Kadar, il suo spettro che quella mattina si era addensato in un’allucinazione, i continui pensieri che rivolgevo a casa, Altaïr.
Magari fossi riuscita a capire quali di queste cose mi facesse star così male adesso.
– Impazzirai se non butti fuori le tue emozioni.–azzardò poi.
Risi piano – Fidati, è già successo.
– E allora affoga nei tuoi dubbi. Sguazzaci, ingoiali a bocca aperta; tanto, Malik non riavrà mai più il suo braccio. E Kadar non risorgerà dalla tomba.
– Io ho già fatto tutto ciò che potevo. – sibilai, stringendo le dita intorno allo specchio frastagliato – Credimi, Rauf, ci ho provato. Ma è così difficile. Malik è difficile. È… è come un cubo di rubik.
– Un cubo di…cosa?
– Lascia stare. Il fatto è che non so più quale strada prendere ora. All’inizio di questa storia, avevo creduto che abbandonarmi al flutto degli eventi, seguirli senza pormi interrogativi, fosse la scelta giusta per far passare il tempo. Credevo che le cose sarebbero tornate alla normalità da sole, come succede sempre. Ma poi…
– Poi sei rimasta. E ti sei affezionata.
Calai nel silenzio per qualche istante, chinando lo sguardo verso quello scorcio riflesso sulla superficie levigata tra le mie mani, e vidi frammenti di me: le labbra screpolate, una guancia livida, i capelli legati stretti.
Sapevo che, se avessi visto il riflesso dei miei occhi, ci avrei trovato le lacrime.
Annuii lentamente, e quella fu la conferma dei sospetti di Rauf.
– Non so... quale sia il motivo di quell’oscuro silenzio nel fondo dei tuoi occhi, Laura. – iniziò incerto – Né quale tipo di situazione tu stia vivendo con Malik. Ma posso dirti che, qualsiasi cosa sia, non è colpa tua. E che tutto si aggiusterà, te lo prometto.
Tirai su con il naso, strofinando le lacrime con cruccio – Come puoi dire questo con certezza?
– Perché anch’io ho dovuto fare i conti con me stesso e con il mondo, quando credetti di aver condannato a morte la prima e ultima donna per cui provai un sentimento autentico. Mi ero colpevolizzato perché miserevolmente consapevole di non poter far nulla per salvarla dalla malattia che gli stava divorando la vita. Perché ero impotente. Perché ero un penoso ragazzino di dodici anni che non poteva far altro se non piagnucolare al suo capezzale e stringerle la mano gelata, attendendo, sperando, pregando…senza risultati. Ecco perché ti capisco, Laura, e per questo ti dico che non è colpa tua. L’unica cosa che puoi fare, ora, è dare a te e Malik del tempo. E tutto si aggiusterà, piccola. Te lo giuro.
Asciugai con forza le lacrime agli occhi, strofinai il naso rosso e feci scivolare lo sguardo verso l’orizzonte.
La tempesta era in arrivo.
– Sono stanca di fuggire, Rauf, non ne ho più il fiato. Vorrei trovare una strada anche per me, adesso.

*   *  *

– Ero arrivato da poco a Masyaf, allora avevo solo dieci anni, ed ero ridotto così male quando sono stato accolto dal Gran Maestro che mi fu assegnata una badante affinché mi rimettesse in sesto. – cominciò a raccontare Rauf mentre mi accompagnava in cucina – Si chiamava Basma, aveva sedici anni e due occhi dello stesso colore della fuliggine in fondo alla fornace spenta. Aveva un aspetto modesto, non alzava mai lo sguardo senza arrossire come una bambina, ed era tanto, tanto gentile. Ogni sera, prima che i bambini fossero portati dalle badanti nelle camere, lei mi sorrideva e mi faceva segno di seguirla in cucina. Allora, si strofinava le mani, storceva il naso con nervosismo e infilava la chiave trafugata nella serratura. Poco dopo, eravamo lungo le cinta di mura a mangiare dei datteri freschi e a guardare come due cani randagi la luna. Ah, quante volte è stata ripresa dalle superiori, minacciavano di riferire tutto al Gran Maestro! Ma lei era così… calma. Non lasciava mai trasparire alcuna emozione. E sorrideva così poco. E parlava quasi affatto. Ma, ogni volta che mi vedeva dalla finestra, sotto cui mi allenavo ogni pomeriggio perché sapevo fosse il suo turno di gettare la fuliggine, ebbene, iniziava a cantare. Ed io credevo che cantasse per me.
Rauf sospirò, calando in un lontano silenzio. – Beh, il resto lo sai.
Allungai la mano per dargli una carezza sulla spalla, lui accettò di buon grado il mio segno di pace, dopo di che tornò a guardare avanti proprio a pochi passi dalla cucina.
Lui mi fece passare per primo ed io entrai un po’ circospetta, analizzando attentamente le persone nell’area.
La cuoca era assieme ad altre due donne, anche loro panciute e baffute, e stava dividendo con loro due chiacchiere tra una faccenda e l’altra, mentre una ragazzina mangiava tra di loro un piatto a me sconosciuto e le osservava con spiccata curiosità.
Poco più in là, tre uomini stavano confabulando in disparte e al tempo stesso consumando una modesta colazione; uno di loro, in particolare, mi colpì per l’aspetto nerboruto e l’impressionante cicatrice lungo la testa rasa, che arrivava fino all’orecchio sinistro.
Al tavolo centrale, c’era Altaïr.
Stava consultando un piccolo rotolo di pergamena e la lettura doveva esser interessante, perché non aveva toccato cibo, ma la sua porzione di focaccia era rimasta intatta.
Un nodo allo stomaco m’impedì di procedere oltre e, anzi, indietreggiai di tre passi prima di incappare nella mano di Rauf, che spinse sulla mia schiena e mi fece avanzare di altri sei.
La mia presenza venne fiutata dai presenti all’istante, infatti, il trio di Assassini interruppe subito il loro simposio e le donne il loro gossip mattutino,  fingendo di affaccendarsi nel riordinare le rustiche stoviglie lungo un ripiano per farle asciugare.
L’Aquila fu l’ultimo ad avvertire la mia presenza, eppure, non appena le sue irridi chiare mi catturarono, subito balzò in piedi e rimase sull’attenti finché, guardatosi intorno, non si rese conto di esser stato impulsivo.
Si riaccomodò piano, tenendo lo sguardo di trasversale per nasconderlo sotto il cappuccio, ma era evidente che la sua lingua lo stesse maledicendo.
– L’Assassino più orgoglioso dell’Ordine che si alza di fronte a una donna? – Rauf non riuscì a tenersi quella considerazione appena bisbigliata al mio orecchio.
Ignorai la frecciatina con una scrollata di spalle e, a testa alta e petto in fuori, mi diressi verso di lui, sapendo fin troppo bene che la nostra discussione sarebbe stata al centro dell’attenzione di tutti i presenti.
Mi sedetti di fronte ad Altaïr, lui alzò poco la testa ed io mi allungai un po’ sul tavolo affinché sentisse solo lui. – Mi stai forse pedinando, per caso? – iniziai scontrosa.
Lui sorrise ilare – Cosa ti fa credere di essere al centro dei miei pensieri, Novizia? – poi, la sua bocca tornò severa – Laura, cosa è successo alla tua faccia?
Mi sfiorai istintivamente la guancia illividita – Mi sono fatta male allenandomi con un manichino. Ho sbattuto contro il braccio di legno. Sto bene.
– Ah. – si tirò indietro, incrociando le braccia. – Beh, sta più attenta, la prossima volta. Laura, ascolta, Al Mualim è stanco di aspettare. Desidera che tu prenda velocemente una decisione.
– E la prenderò, Altaïr. Solo, dammi altro tempo…
– Non c’è tempo.
– Devo prima concludere una questione. – ribattei – Poi, ti assicuro che partiremo…
– Al Mualim non può esser serio. – una voce irruppe prepotentemente nella conversazione.
Il bestione del trio più in là probabilmente non aveva sentito nulla con quelle sue orecchie appuntite, eppure ciò non gli aveva impedito di intervenire con quel suo pensiero schietto e cinico che spirò come un toro dalle narici scure.
– Muffed, fatti gli affari tuoi. – Rauf, che nel frattempo si era avvicinato a noi e si era seduto al tavolo, ignorando l’occhiata torva di Altaïr, riprese l’uomo-toro con diffidenza.
– Hai qualche problema? – ribattei invece io, voltandomi a gambe divaricate e con aria meno cordiale di Rauf.
Uno del trio, quello più mingherlino e dall’aspetto di un ladro professionista, mise le mani in avanti– Oh, oh, calma! – esclamò ridendo – Qua nessuno vuole attaccare con una rissa, d’accordo? Muffed era solo sorpreso che un Novizio fosse già stato messo a capo di una missione, nulla più.
Una risata cavernosa sfuggì dalla gola dell’altro – Direi, più che altro, che sono curioso. Curioso di sapere a chi devi averla data per evitare il taglio della gola. Cos’è, sei la puttana del Gran Maestro, per caso? E per questo che sei ancora viva?
Istintivamente balzai in piedi e afferrai l’elsa del pugnale al fianco con sguardo fiammeggiante, portando l’Assassino a far altrettanto con la sua spada, ma subito Altaïr si alzò in piedi e spinse via il confratello prima che fosse troppo vicino.
I presenti si freddarono all’istante mentre vedevano sotto i loro occhi Muffed indietreggiare e Altaïr piantare i piedi come uno scudo umano, pronto a rompergli il grugno se si fosse avvicinato di nuovo.
– Fatti gli affari tuoi, Altaïr. – spirò il toro.
– Se fai un altro passo, Muffed, vedrai le tue budella rilucere sul pavimento. – lo ammonì l’Aquila e riconfermò la sua promessa facendo scattare il meccanismo della lama al polso.
A quel punto, la cuoca intervenne per sbollentare gli animi e, intromettendosi tra di loro, spinse le braccia verso i loro petti fino a farli indietreggiare, riuscendo così a infilarsi tra di loro.
– Oh, qua nessuno sbudella nessuno, chiaro? Se dovete fronteggiarvi, fatelo fuori dalla mia cucina, che ho appena finito di lavare a terra!
Muffed diede le sue mastodontiche spalle con un grugnito frustrato, dirigendosi verso i suoi compagni che, nel frattempo, si erano alzati, pronti a intervenire per sedare la rissa, e Altaïr li osservò uscire dalla stanza con il corpo rigido.
Quando i tre furono andati via, finalmente, rilassò le spalle con uno sbuffo.
Ma si rilassò per poco. – Che ti è saltato in mente? – ruggì, voltandosi con furia tale da farmi indietreggiare.
– Chi ti ha detto di intervenire!
– Dovevo forse farti illividire anche l’altra guancia?  Dannazione a te! Agisci d’impulso affidandoti al caso quando, in verità, sai perfettamente che finirai per esser massacrata, perché non sei ancora capace di combattere decentemente!
– Me la sarei cavata, invece! – strepitai come una mocciosa e, in preda alla collera, uscii dalla stanza senza neanche prestare ascolto a ciò che stava dicendo Rauf per calmarci.
Mi allontanai di pochi metri dalla cucina e venni subito bloccata per il braccio da Altaïr, che mi aveva seguito in corridoio.
– Laura. Calmati, per favore.
Mi liberai tenendo lo sguardo basso – Non voglio parlare.
Feci altri due passi, quando la sua voce mi tirò di nuovo per i capelli.
– È tutto qui, il tuo coraggio? Dare le spalle e scappare? Che delusione, ed io che mi preoccupavo di non esser all’altezza per affrontarti.
La frustrazione nella sua voce fu più dura da digerire di quanto mi fossi aspettata, come se fossi io ad avergli fatto un torto, e il fastidio fu tale che decisi di tornare a fronteggiare di petto.
– Ma che diavolo vuoi da me, Assassino?
– Voglio…– indugiò – voglio capirti, donna! Voglio capire cosa ci vuole perché tu mi dia un’altra possibilità!
– Non strillarmi in testa, ad esempio!
Respirò profondamente. – Va bene. – mormorò, leggermente più calmo – Va bene, non urlo. Hai ragione, non serve. Anzi, non ne ho il diritto. So che non potrò mai rimediare al mio errore, e non chiedo il perdono, ma spero ancora che tu possa concedermi un’altra possibilità.   
La sua espressione. I suoi pugni sciolti. La voce stranamente calma.
Com’erano stonati per il suo personaggio.
Comunque, non lo aggredii. Non lo feci perché ci trovai del vero nella sua voce.
Ed ero così stanca. La testa mi faceva ancora male. Non mi andava di discutere.
– Va bene. Partiremo tra un’ora. Tocca a te provvedere ai cavalli e ai rifornimenti. Io vedrò per le armi.
Altaïr rimase in silenzio, non era soddisfatto.
– D’accordo, Laura.– sospirò – Se è questo ciò che vuoi, lo farò.







Angolo autrice:

Salve a tutti, miei piccoli lettori/recensori! Dunque, dunque, direi che Malik sta diventando un bel cubo di rubik per la nostra Laura. Proprio quando credi di aver completato una faccia… ti ritrovi con altre le altre cinque tutte sconquassate. In fondo, è risaputo che il nostro Assassino dagli occhi di metallo e l’animo di corvo è il più eclettico della situazione, a dispetto di Altaïr, che sembra proprio perdere qualsiasi forma di rispetto per il suo orgoglio quando si tratta di Laura. In ogni caso, non sarà facile intraprendere la strada per il perdono; il nostro trio sarà costretto a percorrere il medesimo sentiero e non mancheranno colpi bassi e sgambetti, durante il tragitto…
Ma ora basta con le ciarle, piuttosto voglio ringraziarvi tutti quanto per aver dato ossigeno a questa storia che, altrimenti, sarebbe rimasto solo un corpo senza scintilla!
Baci, Lusivia.

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Capitolo 14
*** 14.Il passato non svanisce mai. ***


                                                                                              Capitolo 14
                                        
                                                                  Il passato non svanisce mai.
                                           

                                              

                                                                                   

Piccoli passi, uno dopo l’altro, ma era sempre difficile non sentirmi estraniata dalle mie stesse gambe.
Era passato un anno dall’incidente e a quel punto, a pochi giorni dal mio sesto compleanno, avrei dovuto star meglio, ma la verità era che la riabilitazione fu più complessa del previsto.
C’erano delle immagini nella mia testa, immagini a volte sfocate, a volte così reali che credevo di poterle toccare, ed ero spaventata. Ero spaventata, perché quando trasalivo da quell’apnea d’immagini e suoni di un luogo lontano mi ritrovavo nella mia stanza, sola e in ginocchio davanti alla luna.
Ero spaventata, perché quelle persone contornate da abiti bianchi e lucenti mi avevano abbandonato di nuovo all’oscurità, nelle angosce di un mondo di mezzo dove realtà e illusione si mischiavano senza preavviso.
Non parlavo mai, perché dall’incidente avevo scordato come si facesse, e avevo perso il senso del tempo.
Rimasi seppellita sotto le coperte afose del mio letto per giorni e giorni, settimane, finché intuii dal sopraggiungere di una rondine sul davanzale e dalle foglie bruciate fuori la finestra che dovevano esser passate due stagioni.
La schizofrenia aveva preso ogni cosa di me: oramai, vivevo fuori istante.
A quel punto, prima che le allucinazioni diventassero per me l’unico mondo che esistesse, mia madre decise di portarmi in un ospedale psichiatrico, ma non per lasciamici lì, perché non lo avrebbe mai fatto, ma per aiutarmi.
Ogni fine settimana, salivo in macchina e passavo un’ora di silenzio nell’abitacolo della macchina finché non cominciavo a vedere le ombre delle fronde verdi, e lì, tra i tronchi di quel bosco, si erigeva un piccolo edificio bianco dall’aspetto asettico e moderno.
Aveva scelto quel posto perché conosceva il direttore, un giovane uomo dagli occhi melanconici e l’aspetto vissuto, con cui, alquanto pare, aveva già lavorato in passato.
Ogni volta che andavamo da lui per fare un controllo generale dei miei progressi, la Templare si truccava, acconciava i bei capelli sulle spalle sottili, e mi faceva indossare i vestiti più vezzosi che avessi nell’armadio; infatti, in quell’occasione particolare, venni acconciata con un vestitino rosso e le scarpette in vernice scura, mentre i capelli corti erano stati fermati da un fiocco scarlatto.
Erica ci teneva a rendermi presentabile, sennonché irresistibile, per quell’uomo.
Ricordavo che era Dicembre, il giorno prima di Natale.
Sebbene fosse la vigilia dell’anniversario del mio incidente, e del mio compleanno, Erica aveva deciso di portarmi all’ospedale psichiatrico per una piccola visita di cortesia, ma credevo che in verità volesse solo rivedere il direttore.
Una bizza a neon lampeggiò per un istante dal soffitto bianco del corridoio, inibendo i miei già provati sensi abbastanza da confondere il mio equilibrio, e sarei caduta se non fosse sopraggiunto il braccio di mia madre, che mi esortò a continuare.
Erica quel giorno aveva un giubbotto in pelliccia grigio che incolonnava la sua aitante figura e la faceva sembrare un leone, fiera e dal passo sicuro sui suoi stiletti gialli, con la criniera dorata sciolta sulle spalle. Era così silenziosa, così magnifica, così donna.
Percorremmo il corridoio dell’ospedale in silenzio finché non giungemmo davanti a una porta bianca, dunque ci fermammo e mia madre bussò con i suoi guanti grigi.
Poco dopo, una voce maschile ci accordò il permesso di entrare.
L’ufficio era grande e accogliente, l’aria profumava di pino silvestre e lillà e ai lati della stanza erano stati disposti dei divanetti per gli ospiti che arrivavano fino alla finestra panoramica dietro la scrivania in cedro.
Dall’altra parte dell’ampia vetrata, si scorgevano le fronde verdi del bosco circostante e una sottile bruma che si disperdeva dalle montagne.
Seduta a gambe incavalcate su un divanetto, una donna coi capelli rossi e una camicetta dallo scollo vertiginoso, che lasciava intravedere abbondantemente un neo sul seno destro, aveva appena smesso di parlare e ora si voltava verso di noi, un po’ seccata.
Appoggiato al davanzale, invece, se ne stava il dottore, un uomo di circa trentacinque anni cui scorrere del tempo sembrava essersi fermato da parecchio, perché la sua freschezza compassata, il viso pallido ed elegante, i capelli scuri e il ciuffo che ricadeva in un turbine morbido sui suoi occhialetti, oltre cui si celava uno sguardo nero e melanconico, erano rimasti intatti probabilmente dal suo ventesimo compleanno.
Come sempre, aveva indosso un camice bianco ottico ma quella volta era sbottonato per lasciar intravedere il pullover nero, che stringeva sui pettorali accentuati e il fisico invidiabile.
Non appena Erica vide la rossa intrigante nella stanza, si freddò alla soglia e di riflesso bloccò anche me, che invece ero pronta a precipitarmi dietro la scrivania, dal dottore.
Le due si squadrarono, si studiarono, si annusarono da lontano come leonesse che si sentono minacciate. Poi, la rossa sorrise.
– Chi non muore, si rivede. E nel tuo caso, Erica, è proprio vero.
– Posso dire lo stesso di te, Iole. – cominciò algida l’altra – Sono anni che sei sparita, senza lasciar detto quanto saresti mancata da casa. Eri in Svizzera o in Tailandia, questa volta?
– Iole è tornata poco fa dalla Francia. – a rispondere fu il dottore, che sorrise pacato non appena i miei occhi si posarono trasognanti su di lui.
La prima volta che incontrai quell’uomo, ricordai che provai un gran turbamento.
Quel tale in bianco che accolse me e mia madre nel suo ufficio, un anno fa, tutto raccolto e composto con le mani dietro la schiena, aveva un gran rumore nel suo sguardo.
Un rumore che non coincideva con la calma ostentata del suo aspetto composto e i capelli bruni tirati dal gel. Un rumore che finì col stregarmi.
Erica analizzò la scioltezza dell’uomo con un lieve cruccio, poi fu attratta dal movimento della rossa che sciolse le gambe sinuose e si alzò lentamente dal divanetto, dirigendosi verso di noi con calma e penetrante concentrazione.
Non era molto alta, ma il suo corpo era ben proporzionato e aggraziato, simile a quello di una gazzella che saltella sulle sue sottili gambe abbronzate, aveva gli occhi a mandorla e di un azzurro-grigio acceso.
Iole si piantò di fronte a noi e affrontò in un duello visivo mia madre.
– Perché sei così scontrosa, sorella mia? È da tanto che non ci vediamo, in fondo, perché non rinfoderi i tuoi artigli e mi permetti di vedere per la prima volta la mia adorata nipotina?
L’altra socchiuse gli occhi con astio – Laura neanche ti conosce, Iole, perché non sei mai venuta a vedere tua nipote in maternità.
Quella arcuò le labbra rosse e lucide come una ciliegia – Ah, che peccato che io non abbia mai condiviso le gioie della gravidanza con te, ma sai, l’Ordine prima di tutto. – poi, qualcosa sul viso della sorella catturò la sua attenzione. – Ti trucchi, adesso? Misericordia, che fine a fatto quel maschiaccio dalla coda d’oro che da ragazzine ripudiava il trucco perché era una cosa da “gallinelle”?
Erica rimuginò in silenzio. – Perché sei tornata?
Subito la donna serrò gli occhi in un sorriso falso e lascivo, che lasciava intendere più di quanto avesse mai potuto dire, poi chinò lo sguardo su di me e immediatamente lasciò perdere tutto ciò he non fossi io.
Iole si sedette sui suoi tacchi a spillo e sporse il busto verso di me tenendo le braccia incrociate sotto i seni tondi, dunque mi scrutò curiosa e rise soave quando provai a sparire dietro la manica del cappotto di mamma.
Non conoscevo quella donna e non mi piaceva per niente, mi ricordava in qualche modo la tigre famelica di un documentario.
– Oh, sei timida, piccina? – il sorriso di Iole fu un ansimo di meraviglia – Che bambina meravigliosa! Ha  la stessa bocca di suo padre, carnosa e molle, ti viene voglia di strappargliela! E gli occhi, ah, li ha proprio rubati a lui; stesso cruccio melanconico e sensuale! Non è vero,Dante?
L’uomo alla finestra annuì con un sorriso sornione, analizzandomi all’interno dei suoi begli occhi castani e incantandomi come ogni volta, presa in quella gabbia dolce e soffocante delle sue orbite nere.
– Che sei venuta a fare qui Iole? – Erica ripropose la domanda con più impazienza.
La rossa continuò a fissarmi pensierosa, ma in verità i suoi pensieri erano rivolti altrove. –Sai, quando sono finalmente tornata in Italia dopo tutti quegli anni lontana da casa e dall’Ordine, alcuni dei nostri mi hanno riferito certe cose un po’ strane.
– Intendi che Laura non è stata iniziata? Sì, le voci sono vere.
Quelle parole pizzicarono le guance di Iole come di rabbia e subito dopo la vidi drizzarsi in piedi biasimevole e castigatrice, mentre Erica si preparò ad affrontarla con tutta la fredda razionalità che possedeva e che l’aveva spesso salvata da scontri inutili.
– Spero che tu stia scherzando, Erica. Non volevo credere ai pettegolezzi di salotto della Confraternita, ma allora, se ciò che dici è vero…ti rendi conto di quello che hai fatto? Hai allontanato la Confraternita, hai infranto il volere dell’Ordine!
– Tu non puoi sapere ciò che è accaduto il giorno della sua iniziazione. Ascolta, se in te è rimasto un briciolo di affetto, un ricordo del nostro legame di sangue, Iole, ascolta le mie ragioni…
– Non voglio sentirti! Apri le orecchie, Erica, non permetterò che Laura, mia nipote, faccia la tua stessa fine! Lei deciderà il suo Credo una volta per tutte, chiaro?
Erica trasalì d’ira e strinse dolorosamente i guanti intorno alla mia mano, ma non riuscì a fare altro se non tirare il respiro di una frase che, però, rimase nella sua gola.
– Credo che Erica voglia parlare con me di Laura in privato, Iole. – fu Dante, con tono calmo e fiducioso, a freddare i loro animi prima che la stanza crollasse nel caos di vecchi rancori e conflitti irrisolti.
A quel punto, dopo esser stare riprese benevolmente dal dottore, le due sorelle chinarono remissive il collo e rinunciarono a qualsiasi confronto, rimandando a quando si sarebbero riviste, magari quando il fato lo avrebbe voluto, o l’ostilità le avrebbe fatte cercare di nuovo.
– Bene. Non ho intenzione di discutere con una traditrice. – sibilò a denti stretti Iole, poi ritornò con la schiena e il volto fieramente diritto e sorpassò mia madre con un colpo di spalla.– Chiamami, se hai ancora bisogno di me, Dante.
La furia rossa sbatté la porta alle sue spalle, nell’ufficio calò un silenzio imbarazzante ed Erica cominciò a fissare l’uomo difronte a lei con un lieve risentimento.
– Non guardarmi così. – disse Dante mentre s’incamminava verso di noi, prendendomi tra le sue braccia tese, ed io mi ci infilai entusiasta.
Erica ci venne dietro con espressione contrariata – Potevi dirmelo che mia sorella era tornata.
Lui sospirò e spostò la poltrona di pelle nera con un piede, dunque mi fece accomodare dietro la sua postazione di lavoro e lasciò che prendessi a giocare con gli oggetti sparsi sulla superficie.
– Non mi aspettavo una sua visita. – ammise, arrotolando le maniche fin sopra il gomito e poggiando le mani sui braccioli ai lati – Sinceramente, non credevo che l’Ordine l’avrebbe richiamata così presto, ma diceva che voleva dare un’occhiata ai miei progressi.
– Ebbene?
Lui esitò, visibilmente frastornato.
– Che dire, i miei pazienti reagiscono male alle terapie. – cominciò, togliendosi gli occhiali per massaggiarsi le palpebre con le dita – Una ragazza ieri si è ammazzata. Era affetta da schizofrenia e il suo organismo ha rigettato le pillole. Non ho potuto aiutarla. Era…sfracellata. I resti erano ovunque. È stato uno strazio raccogliere i suoi organi, davvero.
La Templare osservò il dottore con sguardo compassionevole, più morbido di prima, dunque sospirò e si tolse i guanti per appoggiarli sulla scrivania, poco lontani da un anello d’oro con la croce riposto lì sopra quasi per caso.
– Mi dispiace.
Lui sorrise debolmente. – Sei molto bella, oggi, Erica. – osservò poi, percorrendo con disinvoltura le gambe di lei con gli occhi – Nuove scarpe?
Mia madre arrossì appena, ma non si fece incantare. – Non mi chiedi dei miei, di progressi?
– Stavo per farlo.
– Come no. – rise – Beh, non sei l’unico ad essere a un punto di stallo nelle ricerche. I valori hanno avviato un processo di omeostasi dall’ultima scarica e ho registrato solo un feedback negativo.
– Ma se avrai un feedback positivo, vorrà dire che ci siamo, no? – Dante sembrò risollevato e, con accresciuta speranza, mi carezzò la testa quasi per caso.
Erica osservò tesa quel suo gesto. – Sì, ma sta passando troppo tempo. E i progressi di Laura sono troppo, troppo lenti. Non possiamo fallire, Dante, lo capisci? Non importa ciò che vuole la Confraternita, Laura dipende da noi.
– Stiamo già rischiando molto facendo questa cosa, Erica. Ma non devi preoccuparti, arriveremo presto a una soluzione.
– Non fare promesse che non puoi mantenere.  
Dante tornò rigidamente composto dietro la poltrona di pelle, e con lentezza ripose gli occhiali sul dorso del naso diritto.
– Ero venuta da te, Dante. Ti avevo detto che la richiesta dell’Ordine di iniziare Laura così giovane, solo perché era mia figlia, solo perché era la figlia di una Maestra Templare, non era un valido pretesto per rubargli l’infanzia così precocemente. Tu mi dicesti che l’avresti portata via, lontano da loro e da me. E invece, è successo qualcosa di peggio.
– Sai cosa accadde quella notte di Natale, quando Laura avrebbe dovuto esser ri-battezzata. E non fu colpa mia.
A quel punto ci fu una breve pausa, una pausa in cui il volto di Erica era divenuto rosso, come se fosse sul punto di piangere, tuttavia non lo fece, perché ancora una volta la sua mente razionale soffocò ogni emozione.
Eppure, l’angoscia era divenuta tale in lei che non poté più nasconderlo, dunque si sbottonò in un lamento della sua paura più inconfessabile.
– Laura li vede Dante. Degli individui in banco, nella sua testa. Uno, in particolare, è ricorrente nelle sue visioni, lo so perché chiama il suo nome nel sonno. Laura vede gli Assassini. E Agata questo lo sa. Temo…che mia figlia sia in pericolo.
Riemersi da quel mondo onirico con il fiato spezzato e la fronte bagnata, ma il sudore si asciugò non appena venne a contatto con il clima rigido del deserto notturno.
Il fuoco bruciava a pochi metri dall’angolo ove mi ero appisolata e con il suo scoppiettio teneva illuminato tutto l’accampamento, il fianco mastodontico degli stalloni che dormivano e la schiena snella di Altaïr.
Era supino su di un fianco e sembrava dormire profondamente.
Cercai di staccarmi dalla contemplazione del suo bel volto addormentato, così innocente e puro nell’incoscienza del sonno, e provai, invece, a scorgere nell’orizzonte violaceo le mura di Damasco.
Mi chiesi cosa stesse facendo in quel momento Malik. Se dormisse, se fosse ancora vivo o se, più semplicemente, si fosse perso anche lui nell’osservazione della notte, magari mentre stringeva in mano la lettera che gli avevo lasciato alla porta prima di partire.
Chissà perché, ero sicura che l’avesse stracciata.

*  *  *
Il giorno in cui giungemmo nella città il sole era particolarmente caldo.
L’aria frizzava dei rumori del mercato e del vociare continuo ma monotono della gente nelle strade, che si ramificavano a perdita d’occhio dal mercato fino alla Grande Moschea.
Altaïr era distratto, continuava a cambiare direzione, ma forse era solo una scusa per dare un’occhiata in giro prima di recarsi nella sede locale degli Assassini.
La cosa m’infastidiva, perché il chiacchiericcio dei passanti e gli odori contrastanti nelle strade, di pane o piscio che fosse, non facevano altro che aggravare il mio mal di testa.
Più o a meno, ne soffrivo da quando ebbi la visione dello spettro di Kadar, qualche settimana prima.
– Come va la testa? – bisbigliò Altaïr mentre mi affiancava prima di svoltare un angolo.
Lo guardai di soppiatto – Bene. Grazie per…quella roba che mi hai dato prima. Cos’era, menta? O droga? Ti prego, non dirmi che era droga.
Lui mi fissò da sotto il cappuccio. – Ho letto in qualche libro che quell’intruglio d’erba giova a voi donne in quel periodo del mese, quindi ho pensato che ti avrebbe fatto star meglio.
– Oh. Oh, ecco, non è uno di quei giorni. Ma… credo che debba graziarti, giusto?
– Fa un po’ come vuoi. Stammi dietro, adesso ci muoveremo sui tetti per evitare le pattuglie.
Improvvisamente, Altaïr prese a correre tra la folla e, ricavatosi un corridoio tra la gente che si scostava terrorizzata, si lanciò in una corsa acrobatica sui tetti che lo portò in pochi secondi ad avere un enorme vantaggio su di me.
Ovviamente quel suo gesto accese in me lo spirito di competizione, dunque serrai i pugni e li mossi in armonia con l’ampio movimento delle gambe, che mi portarono dopo poco su di un cornicione da dove potei poi raggiungere il tetto.
Altaïr mi stava aspettando lì, a braccia conserte, e con aria rigorosa mi guardò risalire goffa.
Poi, quando lo ebbi raggiunto, m’indicò con il dito un punto invisibile nell’orizzonte della città.
– Lo vedi quell’edificio in fondo, nascosto tra la casa in costruzione e il fabbro?
Aguzzai la vista – No.
– Fa nulla. Cerca soltanto di non rimanere troppo indietro, intesi?
– Aspetta, forse ho visto l’edificio…
Ma, ormai, parlavo all’aria.
Altaïr aveva, infatti, ripreso a correre verso il bordo del tetto, sfruttando la velocità e l’equilibrio datogli dal movimento delle braccia per saltare, in un armonioso calore dei muscoli che giocavano nell’aria, dunque  balzò.
Lo vidi scivolare nel vento, sfruttare il suo corpo come un rapace a caccia, preparare le gambe all’impatto e rotolare sul tetto successivo con successo, per poi rimettersi in piedi senza il benché minimo affanno.
Rimasi scombussolata quando mi resi conto che vederlo mi aveva eccitato, in qualche modo.
– Beh? – mi richiamò con un fischio – Intendi star lì tutta la giornata?
Deglutii un boccone a vuoto mentre mi sporgevo sulla strada sottostante, ritraendomi proprio quando una folata di puzzo proveniente dal vicolo si diffuse sotto la cappa.
– Credevo che fossi tu il Novizio, qui. Perché mi stai mettendo alla prova?
– Vedila così, Laura: questo è il tuo primo inquadramento come Assassino. Sai arrampicarti abbastanza bene e sei discreta nella velocità e sufficiente nella tecnica, tuttavia, non basta. A volte, bisogna prendere la strada più pericolosa ma anche la migliore per scampare rapidamente da un inseguimento, ragion per cui ci vuole tecnica e…sì, una certa dose di incoscienza. Ma nessuno ha mai detto che questo fosse un lavoro facile.
– Lo consideri un lavoro, ammazzare le persone? Che filantropo.
– Vuoi saltare o no?
– Certo che no! È troppo lontano, mi schianterò nel vicolo di sicuro!
Lui roteò la testa altrove, assumendo un’espressione quasi arrabbiata – Quanto sei lagnosa. Fa un po’ come ti pare, ci vediamo lì. Sempre se saprai arrivarci. – disse e senza indugi si dileguò sul tetto sottostante.  
Quando vidi la sua figura allontanarsi sempre di più provai una gran frustrazione e una certa invidia, ma poi ricordai che sarebbe stato difficile ritrovare la via nelle viscere di Damasco qualora avessi perso la mia unica guida, e così ripresi subito a correre.
Percorsi una via più nelle mie corde, una serie di tetti addossati e collegati da piattaforme sospese tra un vicolo e l’altro per permettere alle sentinelle di passeggiarci sopra durante le ronde, passando di lì proprio nel cambio di turno che mi permise di procedere senza intoppi.
Altaïr, invece, preferì spostarsi per un percorso più veloce e articolato.
S’issava sulla sporgenza di una finestra e si dava la spinta con i piedi per scattare al muro laterale, aggrappandosi saldamente con le dita un secondo prima di stirare la schiena in alto e salire tra le cupole di un complesso edificio azzurro, poi ripeteva i gesti con rituale precisione su ogni edificio.
Era talmente agile, così sicuro delle capacità del suo corpo, che quasi lo invidiai.
Mentre io ero pateticamente costretta a seguire il lineare percorso sui tetti delle case nascoste dall’ombra delle cupole, l’Assassino balzava lesto su di esse adattando perfettamente i piedi alla loro forma irregolare.
Da bambina mi arrampicavo sugli alberi del giardino, sull’acacia e il pesco fiorito, e rimanevo appostata sul tetto difronte alla mia finestra come un gatto in osservazione del sentiero sdruccioloso, in attesa di vedere in lontananza la macchina metallizzata di mia madre.
Altaïr, invece, si era addestrato una vita intera, aveva consumato le sue ossa negli addestramenti e affondato i denti nel suo stesso sangue quando cadeva da altezze vertiginose, tutto per poter poi, una volta divenuto uomo, assicurarsi la sopravvivenza sui tetti della Terra Santa.
Una vita da fuggitivo non poteva di certo competere con quella oziosa di un gatto sul davanzale di casa.
Poi, dopo quasi tre isolati di corsa, Altaïr si fermò in cima al tetto di una chiesa bianca, a tre metri dal cornicione dove mi ero fermata a riprendere fiato.
Mentre ero piegata in due dalla fatica cui avevo sottoposto i miei polmoni, alzai lo sguardo nella sua direzione e, nonostante la lontananza, vidi chiaramente la sua bocca incresparsi in un sorriso.
Un sorriso di sfida.
Ed io ero così eccitata che accettai la provocazione senza indecisione.
Lui riprese a correre, questa volta per balzare su un edificio a cinque metri dall’angolo più prossimo della chiesa, ed io feci lo stesso.
Andavamo all’unisono, a dividerci solo qualche metro di altezza.
Avvistai difronte a me la fine del cornicione, il prossimo tetto a quattro metri da lì.
Per un momento presi in considerazione la possibilità di fermarmi, ma sapevo che ormai avevo preso troppo velocità e che non sarei riuscita a bloccare la corsa prima della fine del percorso.
Dovevo continuare, non potevo fare altrimenti.
A pochi metri dal balzo, cercai con lo sguardo la figura dell’Assassino che, nel frattempo, aveva preparato il suo corpo a saltare.
Perfetto, lo avrei imitato.
Giunse al capolinea.
Altaïr si diede la spinta più forte che le sue possenti gambe potessero fornirgli, il corpo rimase perfettamente stabile nel breve volo per sfruttare l’impulso del balzo, poi cominciò ad aprirsi come un’aquila che si scaglia sulla sua preda, e in un attimo ruzzolò sul tetto, sano e salvo.
Ma non esultai troppo per il suo successo, perché adesso toccava a me evitare di schiantarmi contro il muro dell’edificio successivo.
I piedi frenarono di poco sull’orlo del tetto, poi saltai.
Mai nella mia vita ebbi così tanta paura come in quel momento, perché, mentre sentivo il corpo spostarsi in avanti, quasi per volere di un’entità sovrannaturale, capii che non mi sarei avvicinata abbastanza al cornicione da afferrarlo.
Tesi ugualmente la mano in avanti ma, come previsto, le dita andarono a vuoto.
Un grido risalì direttamente dalla mia gola ma per fortuna non uscì mai, perché la presa salda di Altaïr mi afferrò per il polso prima che la gravità mi reclamasse al suolo.
Un secondo dopo, ero tra le braccia dell’Assassino, con il naso schiacciato contro il suo petto e il corpo intero che tremava come una foglia al vento.
Avvertivo le membra vibrare e bruciare, il sangue pompava adrenalina fredda e calda allo stesso tempo, eppure continuavo a sentire i piedi sospesi nel vuoto.
Avevo saltato a un’altezza di quindici metri ed ero atterrata su un tetto lontano quasi cinque.
Potevo morire, ma non era successo.
Così, mentre Altaïr aveva cominciato a tessere elogi un po’ mascherati sul mio coraggio un sconsiderato, io tremavo in balia di un’onda di paura ed eccitazione sconvolgente.
Perfino adesso, mentre lui mi lasciava andare con espressione velatamente orgogliosa e palesemente severa, perché d’ora in poi avrei dovuto fare di meglio se volevo sopravvivere in quella città, ero pervasa da un’estasi che mi portava a sorridere e a confondere sempre più la giovane Aquila.

*  *  *

Non appena mi calai nel cuore del covo, nel vestibolo occupato dall’ombra di piante lussureggianti e stendardi dell’Ordine, distinsi chiaramente tra lo zampillio fresco della fontana il bisbiglio di due uomini che parlottavano sottovoce.
Io ero seduta sotto l’entrata dal tetto, su un tappeto rosso dai motivi arabeschi verdi e viola.
M’infastidiva dover tenere il cappuccio sulla testa perché lì dentro l’aria era quasi irrespirabile e appestata dall’odore acre d’incenso misto a colori a tempera, tuttavia Altaïr mi aveva chiesto di attender fuori mentre lui mi annunciava al rafiq ed io avevo deciso di dargli ascolto, per una volta.
Erano lì dentro a discutere da un po’, oramai.
Stanca di aspettare, spinsi i palmi sulle ginocchia e mi alzai dal tappeto, dirigendomi zitta zitta verso l’entrata dell’ufficio del rafiq.
Mi affacciai poco ma sufficientemente per inquadrare la scena.
La stanza era piccola e ingombrata per lo più da un numero considerevole, sennonché esagerato, di vasi gretti, che erano perlopiù accatastati in una piramide sotto la finestra, mentre altri che erano stati decorati erano posizionati lungo un muro pulito.
Feci spaziare lo sguardo e incappai subito nella schiena possente di Altaïr, poi nel viso di in un uomo tutto ripiegato dietro al bancone di legno scuro che era stato ingombrato da una serie di oggetti utili per la pittura e la decorazione vascolare.
Il burocrate della filiale assassina era un individuo di mezza età, dalla carnagione abbastanza chiara e con una notevole massa di capelli brizzolati che si univano in una cornice con la barba quadrata.
Sembrava contrariato da ciò che stava dicendo l’Assassino, il quale cercava di mantenere comunque una posizione autorevole mentre lo pregava di lasciarmi almeno la possibilità di presentarmi come figlia della Confraternita, ma lui continuava a rifiutarsi.
– Non è che io non voglia conoscere la nuova protetta del Gran Maestro, Altaïr. – cominciò pacato l’uomo – Ma sai, le voci corrono davvero, davvero in fretta nella Terrasanta. Un Iniziato è venuto qua e mi ha riferito le ultime su di te.
Il ragazzo s’irrigidì un po’ – Ebbene?
Quello appuntò con il pennello una rifinitura sul collo del vaso – Suvvia, Altaïr, rinfoderiamo gli artigli! Insomma, se Al Mualim ha deciso di darti un’altra possibilità, ebbene, allora ti sarà data. Ma per quanto riguarda la ragazza, scordatelo.
– Lei vuole solo presentarsi! – esclamò Altaïr, puntando i palmi sul bancone e sporgendosi appena verso l’uomo mentre aggiungeva – Rafiq, Laura è la figlia di Faheem Al-Sayf , figlia di un Maestro Assassino. Ha diritto di nascita alla protezione della Confraternita e, giacché Al Mualim ha visto in lei il talento dei suoi fratelli, ha deciso di adottarla come sua protetta…
Ma quello lo freddò con una stoccata di pennello all’aira – Conosco la sua storia e per il solo motivo che è figlia di Faheem cercherò di non essere troppo brusco. Ma ciò non vuol dire che le voci di alcuni di noi non siano vere. Ora, il tuo istinto non ti ha mai mentito, vero, Altaïr?
Quello si ritrasse, improvvisamente pallido. – Sì.
– E dunque, dimmi, fratello: quella donna è o non è una Templare?
– No. – la risposta fu repentina.
Sia io che il rafiq ci trovammo un po’ confusi, parecchio sorpresi e scettici, eppure sentii nel mio stomaco una strana sensazione di sollievo che mi portò ad abbandonarmi di schiena contro il muro del corridoio. Mi aveva protetta.
– Oh…
– Cosa?
– Non mi ero accorto del tuo sguardo, Novizio.
– E cosa avrebbe?
– Nulla, nulla! Suvvia, ragazzo mio, fa' entrare questa fanciulla! La voglio vedere!  
Ci fu un momento di silenzio, poi dei passi – Cambi idea come niente, eh, rafiq…
Capii che Altaïr si stesse avvicinando alla porta ma feci in tempo solo a staccare la schiena dal muro, perché il suo volto sotto la cappa stretta si affacciò per prendermi in castagna prima che tornassi di corsa sul tappeto.
Tirai indietro la testa senza staccare gli occhi dai suoi, che mi fissavano atoni, ma, non appena provai a giustificarmi, lui mi troncò di netto.
– Vieni, piccola ficcanaso. – e mi fece segno con l’indice di seguirlo dentro.
Per quanto mi sentissi terribilmente imbarazzata, alla fine, mi grattai nervosamente la fronte sotto il cappuccio ed entrai nel bureau.
L’uomo era lì, con i palmi stesi sul bancone e un’espressione stranamente sorridente, dunque mi accolse facendo un ampio arco con il braccio, indicando tutto il locale.
– Benvenuta, benvenuta, uhm… – rise imbarazzato – ecco, non saprei come definirti, mia cara! In ogni caso, sono davvero, davvero lieto di averti qui!
Altaïr fece un grugnito di dissenso, ma sia io sia l’uomo lo ignorammo.
– Salute e pace, rafiq. – ricordai le buone maniere da Assassino un secondo prima di avanzare verso il bancone.
– Oh, che bella pronuncia! – mi squadrò impudente dalla testa ai piedi – Ma, suvvia, cosa sono queste formalità, figliola? Perché non ti metti a tuo agio, perché porti ancora la cappa da Novizio? Qui sei al sicuro, sei a casa!
– Accetto con gioia la tua ospitalità. Ma sto bene così.
– Bene, bene. E dimmi, come sta tuo fratello, Malik?
– Se la cava.
– Capisco. Certo, non dev’esser stato facile per te far fronte a questa catastrofe. – poi guardò di soppiatto Altaïr, continuando – Ma tuo padre, Faheem, era un mio caro amico e posso dire che i suoi figli hanno ereditato la sua tempra focosa e la resistenza. In oltre, direi anche che tu hai dimostrato magnificamente il tuo retaggio. Tutti ormai conoscono la parabola della tua prima e più eclatante missione come infiltrata al Tempio, di cui contributo, c’è da dire, ha piegato il peso della bilancia a favore dell’Ordine, sebbene l’avventatezza di qualcuno.
Si bloccò, rivolgendo un’occhiata fuggevole ad Altaïr, che rimase stranamente muto, in un titanico sforzo della sua volontà di non ricadere di nuovo nel suo peccato di superbia, e ne rimase impressionato.
– In oltre, vedo che riesci perfettamente a tenere per i genitali il tuo Novizio. – aggiunse malevolo il burocrate.
– No, non direi. – risposi invece – Non c’è n’è bisogno.  
Il rafiq alzò un sopracciglio con aria scettica, poi si si voltò e cominciò a rovistare dagli scaffali della libreria, alla ricerca di una lettera, un documento, o un qualche appunto messo da parte per il nostro arrivo.
Poi, senza alcun preavviso o pretesto, riprese a parlare. – Sai, Laura, l’Ordine è importante per noi, nessuno escluso. La Causa è la nostra vita. Ovviamente, il tuo mentore ti avrà spiegato in cosa consiste la nostra Causa. – mi spiò da sopra una spalla – O no?
Intuii al volo che il suo era scetticismo e decisi di provocarlo sdegno un po’.
– Uccidere i Templari. – risposi asciutta, sapendo perfettamente che in questo modo avevo ridotto all’osso l’articolato codice d’onore della Confraternita.
Il rafiq si voltò con una pergamena in mano, sorridendo teso – In linea di massima, è così. Bada però, che non uccidiamo i Templari per inutili questioni sociali o religiose, ma perché il loro modo di agire opprime la libertà altrui. Loro predicano pace, ordine e giustizia, ma per farlo versano sangue e ribaltano le bancarelle delle città. Noi abbiamo provato a collaborare, davvero, ma le loro condizioni di resa avrebbero ridotto in schiavitù la nostra gente, e non solo loro, ma tutti i popoli della terra. Quindi, abbiamo deciso di combattere, per la nostra libertà e per quella di tutte le genti. Comunque, i Templari non sono gli unici nemici che combattiamo, giovane Novizia.
Lo guardai in silenzio mentre srotolava la pergamena e ne fermava le estremità sotto due pesi rettangolari, rivelando una serie di appunti ricavati dalle informazioni delle sue spie in città.
Poi, alzai gli occhi di poco e incappai all’istante nei tizzoni roventi dei suoi bulbi oculari.
– Peggiore di un Templare, mia cara, c’è solo un traditore. E tu non sei una traditrice, vero, figlia di Faheem Al-Sayf?
Rimasi incastrata in un rigido silenzio, il cervello era entrato in confusione.
Ma poi, qualcosa mi sfiorò il palmo socchiuso della mano sinistra e un calore improvviso allentò i miei nervi fino a distenderli completamente; le dita di Altaïr.
Voleva che mi calmassi, che concludessi quella discussione con la stessa diplomazia che avevo mostrato fino a quel punto, perché lui aveva assistito in disparte proprio per questo, perché sembravo insolitamente sicura di ciò che dovevo dire, ed io decisi di non deluderlo.
Così, proprio mentre le sue dita si allontanavano dal mio palmo, presi un bel respiro e dissi – Mio caro rafiq, di tante cose posso esser accusata, ma di tradimento, oh, quello mai.

*  *  *

Il rafiq ci disse che Tamir era un trafficante molto famoso del mercato nero e che ultimamente stava creando noie con i suoi commerci, dunque ci indicò come prima tappa per le nostre ricerche il Souk al-Silaah.
Detto questo, ci accordò il permesso di ribaltare la città per cercare informazioni su Templare.
Chiaramente, poiché lo scopo di quella missione era rieducare Altaïr nella Confraternita, doveva procurarsi le informazioni da solo ed io, essendo la sua Maestra, non potevo favorirlo in alcun modo.
Lui, però, non pensò per un solo istante a una scorciatoia, né fu innervosito dal dover svolgere il lavoro sporco di un Novizio, anzi, cominciò la ricerca quasi entusiasta.
Partimmo dal Souk Al- Silaah, come suggeritoci dal burocrate in nero, e subito dovemmo fare i conti con la grandiosità degli spazi che s’intromettevano tra noi e le ricerche.
L’Aquila sfrecciava da una zona all’altra del souk come se quello fosse il suo habitat e lo scorrere della gente tra le bancarelle le correnti in cui dispiegava le sue lunghe penne lucide; io, invece, sembravo più un piccione che tubava sgraziato tra uno spintone e l’altro del passante di turno.
A un certo punto, quando oramai avevo perso le tracce dell’Assassino, passò nella stradina un tizio con il suo carro e m’investì il piede destro, facendomi sputare veleno e insulti in mezzo alla via abbastanza da uscire dall’anonimato.
Subito cercai con fare impacciato un angolo dove strisciare a nascondermi, quando fui incuriosita da una voce concitata al centro di una cerchia di persone di fronte alla chiesa e decisi di avvicinarmi un po’.
Sbirciai tra la folla, credendo che Altaïr fosse già nascosto lì in mezzo, ma non lo vidi.
Comunque, il fare accorato con cui quel predicatore parlava senza sosta, sudando e riprendendo respiro come un dannato mentre stringeva la mano al petto e con i piedi si alzava dalla cassetta su cui era salito, mi fece pensare che dare un’occhiata non avrebbe fatto di certo male.
Il mio zelo venne ripagato, perché il predicatore stava parlando proprio del nostro bersaglio, Tamir, che veniva apostrofato quasi come un santone del commercio che avrebbe portato prosperità e ricchezza per la città.
Poi, quand’ebbe finito il suo encomio di quasi quindici minuti, l’uomo scese dalla cassa e cercò velocemente di eclissarsi tra la folla, ignaro, tuttavia, che un predatore bianco gli fosse dietro.
Lo seguii fino alla svolta di un vicolo, entrai nella stradina e cercai di allungare il passo, ma lui mi aveva già sentito arrivare.
Feci per stendere la mano sulla sua spalla, con l’intenzione di parlargli civilmente, ma fui immediatamente scaraventata contro il muro dal suo gomito.
Mi piegai in vanti con le scapole curvate per il dolore, alzai gli occhi annebbiati sull’uomo e lo vidi mentre fuggiva verso la strada principale.
Lo inseguii furiosa, lui gettò un’occhiata da sopra una spalla ma ebbe il tempo di schivarmi quando allungai le braccia verso di lui e mi spinsi in avanti, travolgendolo con tutto il mio peso e facendolo sdraiare tra la sabbia.
Con il fiato corto, spinsi il ginocchio contro la sua testa e subito quello cominciò a urlare e ad agitarsi finché riuscì a liberare un braccio, dunque mi sferrò un pugno al fianco e, approfittando della mia debolezza, mi gettò di lato.
Con il cuore in gola, il fuggitivo si diresse verso l’uscita del vicolo, lasciandomi a terra mentre lo guardavo dileguarsi con l’amaro sapore della sconfitta in bocca, almeno finché la testa mi ricordò del pugnale da lancio nella fodera.
Così mi misi faticosamente in piedi e con le dita sfilai l’arma dall’elsa.
Pochi secondi e l’uomo sarebbe sparito tra la folla.
Compressi il respiro nei polmoni, bloccai la tremarella del braccio e contai.
Uno. Due. Tre!
Il fendente tagliò l’aria in un secondo, infilzandosi nella natica destra dell’uomo, che strillò.
Quello provò a zoppicare fino alla fine della stradina, ma dovevo avergli colpito un nervo perché poco dopo non riuscì più a continuare e, digrignato i denti gialli, si gettò sfinito al suolo.  
Beh, per lo meno lo avevo fermato.
Quando raggiunsi il fuggiasco, quello stava piagnucolando con le dita aperte attorno alla lama conficcata nella sua natica, ma non appena provava ad estrarre l’arma il dolore gli costringeva di nuovo la guancia al suolo.
Lo fissai per un istante e, dopo aver pensato alle domande, cominciai l’interrogatorio.
– Poco fa, stavi parlando di un certo mercante. Scommetto che ti ha pagato, per dire quelle cose.
Il banditore grugnì forte, affondando il naso tra le pieghe della manica.
– Tamir. – insistetti io – Dove lo trovo?
– Fottuto Assassino di merda, vai a farti inculare da un cane!
– Quanti bei fiorellini escono da quella tua bocca. Ora, te lo ripeterò un’ultima volta…
– Lascialo a me, Laura. – Altaïr era appena entrato nella stradina e ora si stava dirigendo sicuro verso di noi, con un mezzo sorriso celato dall’ombra del cappuccio. – Sei troppo morbida per condurre un interrogatorio con un villano del genere. – aggiunse poi, bloccando gli stivali a pochi centimetri dal volto rabbioso del predicatore, che lo fissava già consapevole di ciò che sarebbe successo.
Sinceramente, il suo intervento mi aveva cavato via da un bell’impiccio, pertanto gli cedetti il posto con un’alzata di mani e uscii dal vicolo, attendendo vicino a una panchina.
Passarono quasi quindici minuti, dopo di che vidi il mio confratello tornare con la lama sporca di sangue e l’espressione leggermente più soddisfatta di prima.
– Vedo che hai ottenuto le informazioni che volevi. – lamentai, seguendolo fuori dalla stradina.
– Non iniziare con questa storia. Mi sembri tuo fratello.
Io feci una smorfia.–Mentre io giocavo al “gatto e topo” con quell’uomo, tu dov’eri? – chiesi poi.
– Esattamente dietro di te. Avevo adocchiato quel banditore già da un po’, ma poi ti ho visto tra la folla ed eri così concentrata che mi pareva un peccato soffiarti la preda. Dunque ho seguito la scena dal tetto, lasciandoti libera di giocare con il tuo “topo” come meglio credessi. E ho fatto bene. Eri molto divertente da vedere, Laura.
– Ah. Felice che ti sia piaciuto lo spettacolino, allora.

*  *  *

Altaïr riferì quanto scoperto al mercato al rafiq, il quale giudicò le informazioni sufficienti e ci consegnò una piuma, il segno di Al Mualim che ci dava l’autorizzazione per uccidere il nostro bersaglio.
Altaïr aveva pianificato l’attacco a Tamir durante il grande raduno al souk che si sarebbe tenuto tra un’ora, dunque tornammo sul luogo e ci appostammo sopra le cupole blu di un edificio che dava sulla piazza inondata di bancarelle.
Facemmo passare il primo quarto d’ora in silenzio, l’uno in piedi e con la schiena poggiata sulla linea curva di una cupola, l’altra seduta scompostamente all’ombra con il viso accaldato e una sete pruriginosa.
Il sole batteva accecante sul fianco dell’Assassino, eppure lui sembrava non risentire affatto delle temperature elevate del pomeriggio, anzi, quasi nessuno in piazza pareva provato.  
Ma per me, era una tortura.
– Stavo pensando… – la voce di Altaïr fu roca, dunque la schiari subito dopo.
– Cosa?
Lui indugiò, poi preferì rimanere in silenzio. – Niente.
Sbuffai – Bene…
Tornammo entrambi a guardare l’ondeggiare monotono della gente, che passeggiava senza neanche alzare lo sguardo in alto, come se nulla vi fosse aldilà dei vermi e del lerciume che vedevano i loro piedi, come se il cielo neanche esistesse, e provai una leggera pena.
– Perché hai detto al rafiq che non sono una Templare? – chiesi poi.
Lui piegò un po’ la testa, come per pensare, e disse – Perché mai avrei dovuto dire il contrario?
– Sembri sicuro.
– Della tua sincerità? No, non lo sono. Ma sono sicuro di ciò che vedono i miei occhi, perché, come forse ti avrò già detto, non sbagliano mai.
Tirai le ginocchia al petto, sospirando – E cosa vedono quando mi guardano, i tuoi occhi?
Lui rifletté. – Non ne sono ancora sicuri. Vedono una bella, anzi, una bellissima ragazza, con un’insolita ritualizzazione dell’igiene personale. E una promettente guerriera. Ma anche una Novizia indolente all’autorità. Diciamo che li confondi. – si morse il labbro inferiore, tornando a guardarmi intensamente – E, alla fine, convengono che ciò che ho davanti non è una ragazza come le altre, come quelle che passeggiano a capo coperto nel souk. No. Tu sei diversa. A volte, parli come una visionaria, sei emancipata come nessuna femmina che sia mai entrata nella mia vita, hai la stoltezza e l’ardire di tenere testa agli uomini, come se anche tu avessi il cazzo, e anche bello grosso. E mi diverte. Ma, allo stesso tempo, mi fa pensare.
Io lo fissai. – E a cosa pensi, Altaïr?
Lui socchiuse la bocca, l’alito fuoriuscì ma la sua risposta venne mozzata in due dal un grido gelido che risalì dal mercato e paralizzò i nostri corpi, improvvisamente confusi e arrabbiati mentre ci rendevamo conto che la piazza era appena crollata nel caos sotto i nostri occhi.
Ci sentimmo due idioti, ma non tardammo a individuare il motivo del disordine e subito rimanemmo scioccati da ciò che scorgemmo al centro del mercato.
Un uomo con turbante vistoso, abiti pregiati e grossi baffi neri stava stringendo la spalla di un poveraccio cui petto era stato trafitto più e più volte dalla sua lama, e ora fissava furioso la sua vittima, che era straordinariamente viva, mentre a mani congiunte pregava pietà.
Poco più in là, le due guardie del corpo del baffone osservavano la scena con turbamento ma, allo stesso tempo, impotenti.
Improvvisamente, proprio quando la folla sembrava atterrita, il carnefice cominciò a strillare e a sbraitare cose senza senso sull’uomo morente e diede un altro colpo, questa volta più profondo, che provocò l’orrore di tutti i presenti.
Sentii un senso tremendo d’ingiustizia gelarmi l’estremità del corpo e subito avvertii l’istinto di intervenire in suo aiuto.
Ma, non appena provai a calarmi dal tetto, fui bloccata da Altaïr.
– Che credi di fare?
– Dobbiamo aiutarlo!
– No, non dobbiamo. Attenderemo che si sarà stancato con quell’uomo, poi lo avvicineremo nella confusione del mercato.
Inorridii – Ma che razza di mostro sei, Altaïr?
– Laura, non puoi aiutarlo.
– Non rimarrò qui, a vedere un uomo che viene massacrato da un pazzo mentre tutti gli altri stanno a guardare!  
Dunque scrollai la sua mano dalla spalla e scivolai velocemente giù per la scala al lato dell’edificio, atterrando con una storta nella stradina sottostante proprio mentre Altaïr mi ordinava perentorio di tornare immediatamente da lui.
Lo ignorai e procedetti ugualmente verso la piazza.
M’inserii nel primo gruppo di persone in cui m’imbattei e una donna parve insospettirsi quando mi vide lì, ma alla fine pensò che fossi solo un ragazzino interessato al massacro di quel poveretto e tornò a guardare la scena.
L’uomo stava cercando disperatamente di guadagnare minuti supplicando il suo carnefice di dargli più tempo per accontentare la sua richiesta, ma sapevo che più aspettavo più le possibilità di sopravvivere per quell’uomo diminuivano.
Uccidere Tamir era la scelta più ovvia.
Ma io non lo avrei fatto. Non avrei ucciso un altro uomo, non di nuovo.
Per fortuna, la risposta ai miei problemi etici sopraggiunge sotto forma di un oggettino in terracotta di quelli in vendita nelle bancarelle attorno, che arrivò a tutta velocità tra la folla e si schiantò contro la nuca di una delle due guardie.
Il colpo fu forte e mandò in frantumi l’oggetto, riuscendo a sbriciolare la tensione dell’esecuzione brutale di Tamir, che bloccò il colpo fatale a pochi centimetri dalla gola dell’uomo.
Non riuscii a credere ai miei occhi quando scorsi accanto a una bancarella il cappuccio bianco di Altaïr, che ora aveva preso tra le dita scure un altro oggetto di quelli esposti e lo faceva saltellare con aria di sfida.
Immediatamente, il mercante allentò la presa sul poveraccio e quello ricadde a terra con un lamento strozzato, trovando subito aiuto da una donna coraggiosa che lo portò al sicuro, tra la folla.
Il mercato era ammutolito, tutti guardavano il giovane in bianco che era appena intervenuto, condannandosi con le sue stesse mani.
La guardia colpita si portò una mano alla nuca e , vedendo il sangue fuoriuscire, non esitò a dirigersi verso l’Assassino con i pugni all’aria e gli occhi che fiammeggiavano d’ira, ignaro di esser appena finito nella sua trappola.  
Quando la preda fu abbastanza vicina, Altaïr gettò l’oggetto in aria e si piegò in avanti, sicuro che l’omaccione avrebbe d’istinto alzato lo sguardo, come di fatto accadde, guadagnando così il tempo sufficiente per colpirgli il mento con un montante e metterlo fuori uso in un lampo.
Un sorriso vittorioso solcò il suo volto, poi roteò gli occhi gialli verso l’alto e tese la mano appena in tempo per riacciuffare, in una palese dimostrazione di virtuosismo, l’oggetto.
Subito ci fu qualche spettatore coraggioso che incitò l’inattesa ribellione con applausi e fischi e questo accese il volto dell’altra guardia e la collera spropositata di Tamir.
– Che pagliacciata è mai questa? – esclamò stridulo il Templare, agitando il pugnale tinto di rosso come se fosse sul punto di gettarsi nella mischia lui stesso, ma alla fine preferì delegare tale rischio alla guardia. –E tu, che diavolo stai aspettando? Voglio le palle di quel dannato Assassino in un sacchetto, muoviti, o avrò le tue! E io non parlo tanto per dire!
La guardia non parve molto convinta, tuttavia la possibilità d’incorrere nell’ira del suo superiore gli parve peggiore che morire per mano di un Assassino e così attaccò per primo.
Mentre i due intrapresero una lotta all’ultimo fendente, io capii che era l’occasione giusta per atterrare Tamir e stordirlo con una semplice ginocchiata alla tempia.
Poi, finalmente, lo spietato mercante abbassò leggermente la guardia; era il momento!
Trattenni il respiro nel torace, allungai velocemente le mani verso il suo braccio per storcerlo esternamente e costringerlo a inginocchiarsi, ma il rumore della sabbia sotto la suola mi tradì.
I suoi occhi piroettarono verso di me, trafiggendomi letali, e la paura inibì la mia prontezza a reagire.
Cercai pietosamente di brandire la spada al fianco, ma non fui abbastanza veloce.
Zack.




Angolo autrice:
 
Mi scuso enormemente per il ritardo, ma ho avuto così tanto da fare che a malapena ho avuto il tempo di respirare (= o =). Comunque, spero di non avervi fatto attendere troppo e, soprattutto, di esser stata all’altezza delle aspettative. Ho cercato di riportare la prima missione di Altaïr-Novizio con quanta più precisione potevo, ma del resto dovevo riportare qualche modifica per rendere partecipe Laura. Ho inserito un altro flashback, o ricordo se preferite, per cominciare a fare un po’ di chiarezza sul passato della nostra protagonista; alquanto pare, nuovi pezzi del puzzle si aggiungono, mischiando, dissimulando, componendo un quadro sempre più vasto e confuso, ma presto verrà la resa dei conti per tutto. Sarà capace la nostra Laura di tenere il polso fermo?
Baci, Lusivia.   

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Capitolo 15
*** 15.Questione di fiducia. ***


                       

                                                                                             Capitolo 15

                                                               Questione di fiducia.

                                                               




La gente gridava, fuggiva via come il fumo, sbatteva i piedi e piangeva mentre cercava di sfuggire a quel massacro, che, tuttavia, non la toccò minimamente, perché il leone aveva già catturato la sua incauta preda.
Non appena la lama di Tamir aveva strisciato contro il mio braccio, lacerandone il tessuto della manica e la carne tenera, il sangue cominciò a cadere a fiotti, denso e caldo, inibendo la mia lucidità mentale abbastanza da gettarmi nel panico.
Con la bocca spalancata in una smorfia di dolore, strinsi la mano sul braccio sanguinante e gettai il corpo indietro, ma i piedi non furono abbastanza svelti nel reggere la mia fuga e mi mandarono a gambe all’aria.
Tamir rise di gusto nel vedermi a terra e con un gesto imperioso si asciugò il sudore dalla faccia, tirandosi la barba fino a deformare il suo volto, eccitato e ansioso di sbrigare la mia esecuzione prima che l’altro Assassino si liberasse della guardia.
Così, lasciata cadere la mano in basso, impugnò meglio la spada e con quattro falcate mi fu di nuovo davanti, dunque calciò lontano la mia spada prima che potessi tendermi a recuperarla.
Alzò la gamba con decisione, tirò il ginocchio al petto e, proprio quando intuii cosa sarebbe accaduto da lì a pochi istanti, mi lanciò un calcio sulla mandibola, ribaltandola in un rumore davvero preoccupante.
Il colpo mi mandò subito a terra, la bocca prese a sanguinare e le lacrime esplosero oltre la diga senza che potessi bloccarle.
La mano di Tamir mi agguantò per la spalla e mi ribaltò a pancia all’aria, obbligandomi a guardarlo dal basso mentre preparava la lama per l’esecuzione finale.
Avevo il fiato spezzato, sentivo che il dolore alla mandibola aveva superato di gran lunga la ferita al braccio, ciononostante riuscii a non piangere, mantenendo fino alla fine un orgoglio inflessibile anche quando Tamir alzò la lama al cielo.
Il Templare mi guardò per pochi istanti, inespressivo.
La lama era contro il sole, ma non si mosse.
Poi, la sua analisi distaccata si prolungò ancora, diventando sempre più oscura, più incerta, finché qualcosa non lo portò ad abbassare il braccio armato lungo il fianco.
Mi scrutò con espressione indecisa, poi infilò la punta della lama sotto il mio cappuccio e lo tirò indietro, scoprendomi il viso sudato e i capelli attaccati sul collo.
E i suoi occhi si sbarrarono in un impeto d’incredulità.
Le gambe del Templare balzarono indietro, come trafitte da una scarica elettrica proveniente dalla terra, e indietreggiarono fino a quando la mia intera sagoma non rientrò nella superficie dei suoi occhi sbarrati, dunque rimase immobile, a fissarmi.
Qualcosa era improvvisamente cambiato, qualcosa lo aveva spaventato.  
Ma l’istinto di sopravvivenza mi scagliò di nuovo nel presente ; colto il momento, arrancai sulla sabbia per rimettermi in piedi, mi gettai a recuperare la spada senza badare al dolore della ferita, ma per l’ennesima volta mi ritrovai ad essere allontanata dall’unica possibilità di salvezza.
La guardia che Altaïr aveva stordito poco prima si era risvegliata, con un grosso bernoccolo in testa e tutta l’intenzione di farla pagare a qualcuno; sfortuna volle che agguantasse proprio il mio polso.
Mi voltai di scatto verso l’uomo e intravidi sott’occhio il bagliore del suo pugnale da macellaio.
Piantai i piedi nel tentativo di resistergli, lui mi storse il polso e allungò l’arma verso di me, ma fu bloccato dalla punta metallica che aveva appena fatto capolino dal suo stomaco, lucida del sangue dei suoi intestini.
Poi, prima che potesse reagire, il suo ventre venne aperto in due dalla lama, facendo ricadere le viscere lucenti sulla sabbia e schizzando sangue ovunque, perfino sui miei piedi.
Le urla della guardia seguirono il movimento delle sue mani, che corsero a contenere gli organi nel ventre lacerato, lasciandomi così la possibilità di fuggire, ma non ci riuscii, perché qualcosa di estremamente perverso mi impediva di distogliere lo sguardo da quel luccichio rossastro tra le sue dita.
In pochi istanti, la guardia perì difronte a me, crollando al suolo in un gran polverone, mentre la figura del suo macellaio si erigeva diritta dietro di lui.
Seguii la lama macchiata di sangue fino all’elsa, risalii il braccio muscoloso che teneva l’arma e incrociai il volto scuro di Tamir, con il suo turbante e i baffi pronunciati.
Ma, adesso, qualcosa di incredibilmente grande era mutato in lui.
Improvvisamente, si trovò pentito di ciò che mi aveva fatto.
Improvvisamente, il suo volto non faceva più paura.
Provai a capire cosa fosse cambiato, cosa lo avesse indotto ad acquietare la sua ira sproporzionata, quando fui colta di sorpresa dalla sua mano che lasciò cadere l’arma a terra, e, aperti i palmi in segno di resa, alzò le dita al cielo.
Ma poi cappi che, la sua, non era resa.
No, il suo, era un tentativo di dialogo.
Per qualche assurda ragione, quel feroce Templare era diventato improvvisamente innocuo, un lenone addomesticato, ed io mi ero ritrovata con la frusta a portata di mano.
Ma non ebbi il tempo di usarla, né di fare altro, perché una mano guantata giunse dalle sue spalle e lo prese per i capelli, strattonandolo con volenza sufficiente da far cadere a terra un uomo adulto di quasi ottanta chili.
Altaïr aveva lo sguardo feroce e i denti digrignati mentre trascinava di peso Tamir, che si dimenava e continuava a strillare cose senza alcun senso, scalciando e alzando un gran polverone finché non avvertì delle braccia possenti bloccargli il collo, dunque cominciò a boccheggiare con il volto blu. Altaïr lo tenne incastrato tra i bicipiti e l’avambraccio, avvolgendogli la testa come uno schiaccianoci, fino a quando il suo nemico si mosse sotto di lui.
Poi, lentamente, cominciò a percepire la vita abbandonare il corpo di Tamir.
Il Templare agitò le gambe per poco, poi vidi il suo volto scolorirsi, le braccia cadere e i capelli tremare negli ultimi spasmi dei polmoni, ormai al limite.
Eppure, ebbe il tempo di guardarmi e di alzare la mano nella mia direzione.
Tamir morì poco dopo e, con lui, quel gesto.
Quando avvertì la sua preda spirare, il giovane Assassino slegò le braccia dal collo del Templare e lo lasciò cadere in avanti, verso la sabbia bollente di quel tardo pomeriggio di fuoco.
Non sapevo se per il trauma celebrale o per lo strano ronzio che aveva preso a fischiarmi nelle orecchie, ma non riuscii a staccare lo sguardo dal cadavere del Templare fino a quando un suono profondo spaccò il mercato in due.
Le campane della chiesa a due isolati da lì.
– Laura, dobbiamo andare. – era la voce di Altaïr, tuttavia mi sembrò troppo lontana perché provenisse da lui, che era proprio difronte a me.
E le campane diventavano sempre più prepotenti.
O erano le grida dell’Assassino?
– Sì, lascia solo…. – sussurrai, piegandomi sulle ginocchia – … lascia solo che mi sdrai un momento… la testa mi gira….
– Laura?

*   *   *

L’acqua sotto i miei piedi si smosse lentamente, allargandosi in cerchi irregolari dal punto in cui le mie caviglie affondavano, ma non proiettarono alcun riflesso, nessun’immagine.
Sapevo che stavo sognando.
Aprii i palmi per analizzarli meglio e vidi che erano marchiati a fuoco con due segni, ma per qualche ragione non riuscii a distinguerli, dunque strinsi le dita indentro e tornai a guardare avanti.
Tamir era di fronte a me, senza il turbante, armato solo della sua fonte stempiata e di un’espressione serena, straordinariamente pacifica, che quasi non lo riconobbi.
– Sai chi sono? – chiese a quel punto lo spirito del Templare.
Io esitai, poi scossi la testa.
– Ovvio che no. – sorrise – Tu non mi conoscevi, io non ti conoscevo, ma lei sì. Lei ci ha detto del tuo arrivo.
– Lei chi?
Tamir scosse la testa come un adulto davanti alle domande inopportune di un bambino, dopo di che m’indicò l’alto.
Stirai il collo all’insù, dove una luce accecante annegava il cielo bianco: lì, tra le nubi di saette e il bagliore, vidi un serpente che rincorreva con le fauci la sua coda.
Un rombo cupo e qualcosa si staccò dai vapori in cui il mastodontico rettile piroettava, qualcosa di lucente; capii trasalendo che stava precipitando verso di me.
Mi chinai in basso, provando a ripararmi sotto le mie braccia, ma non fui schiacciata, anzi, quel pezzo di cielo si posò sulla mia fronte e la pervase di frescura, facendomi stare un po’ meglio.
Realizzai allora che si trattava di una mano e, pochi istanti dopo, che quel luogo di luci e vapori bianchi era, in verità, una stanza buia e racchiusa in piccole mura bianche.
Sebbene il mio corpo fosse assopito dal peso schiacciante della febbre, riuscii a muovere un poco la punta dei piedi e sentii che si sfregarono contro delle lenzuola, dunque ebbi la conferma di essere ancora in un letto.
Gli occhi mi bruciavano, così come gli arti e l’intero corpo, per questo faticai a scrutare qualcosa oltre la coltre di ciglia senza avvertire un gran dolore e, subito dopo, il bisogno di vomitare.
Solo la luna, che si proiettava a scacchi sulla porta infondo attraverso le grate, riusciva a dare una dimensione a quel posto inghiottito dalle tenebre, rischiarendo, per quanto poteva, la figura di un uomo accanto al mio letto.
Era ricurvo verso di me nell’atto di misurarmi la temperatura con la mano, la fronte aggrottata e la bocca storta in una smorfia di concentrazione, ma non riuscii a distinguere altro se non i lineamenti imprecisi della sua mandibola e dei capelli corti.
Dopo pochi secondi di analisi, egli ritrasse la mano e la fece tornare sulla sua coscia, ricascando nella contemplazione di una lontana lucerna nascosta nel buio, a scoppiettare sola, dandomi così la possibilità di guardare anche la sua schiena.
Non sapevo dove fossi, ma sentivo freddo, tanto freddo, e quell’unica anima, viva o morta, era ancora da vedere, era l’unica fonte di calore presente.
Sfilai con parecchi dolori la mano da sotto le lenzuola e la tesi verso la sua bianca schiena, mi aggrappai a peso morto al cappuccio sulle spalle e, immediatamente, lui si girò.
– Kadar… sei tu? – gracidai a stento.
Ci fu un momento di silenzio, poi intravidi i suoi occhi, chiari e contornati da un alone scuro, quasi livido, che mi ricordò vagamente le occhiaie soffici sul volto di Kadar, quella sera in cui venne a cercarmi in stanza, perché non riusciva a chiudere occhio.
Provai a sollevarmi con i gomiti, lottando contro la pressione cocente che spingeva sulla fronte, ma fui vinta dalla stanchezza fisica e mentale, e così dovetti tornare sdraiata.
– Non devi sforzarti, Laura. – sentii la sua voce un po’ distorta, ma abbastanza pulita da non confondere le parole. – Sei svenuta questa mattina, al mercato, e da allora non hai ripreso conoscenza, quindi ti sentirai stordita, all’inizio…
– È questo che sei venuto a dirmi? – mormorai, tendendo la mano in avanti – È per questo…. che sei tornato dal mondo dei morti? Per dirmi che … sono una sconsiderata? – sorrisi piano – Ah, se vuoi, va bene così. L’importante è che sei venuto a trovarmi.
Poi, con molta lentezza, provai a tirare il suo volto verso il mio aggrappandomi alle sue braccia.
– Kadar, perché non torni da me? – sussurrai a occhi chiusi – Mi manca, la tua bocca…Kadar, mi manca…
Avvertii i muscoli del suo corpo irrigidirsi, ritrarsi, finché la mia debole presa non fu più sufficiente a tenerlo e scivolò via dalle mie dita.
– Ma guardati, hai la febbre davvero alta. Stai delirando. – lo disse con una nota di asprezza, poi si alzò dal materasso e andò verso un angolo della camera.
– N…no, non è vero, Kadar, per favore…! – provai a chiamarlo, scuotendo i capelli sul cuscino, mentre una sensazione di vertigine sembrava quasi muovere il materasso come una nave.
Capii poi che quel movimento era reale, perché il peso del suo corpo, che era tornato ad appollaiarsi accanto a me, piegò leggermente il letto a sinistra.
– Se ti agiti ancora, vomiterai. – mi riprese a gambe incavalcate.
La freddezza con cui mi trattava scatenò una reazione incontrollabile nel mio corpo, che prese a versare lacrime a secchiate dalle mie ciglia, raffreddando le guance e colando sul collo, i capelli, finendo con l’essere assorbiti dallo scollo del vestito leggero in cui ero stata infilata.
– Senti, ora me ne devo andare. –cercò di calmarmi con la voce più rassicurante che poteva – Tu prova a riposare, per favore.
Avvertii le sue gambe spingere contro il pavimento per sollevarlo dal letto, un bisogno invisibile di andargli dietro mi diede la forza sufficiente per spingermi a sedere e provai ad alzarmi sui palmi, ma la debolezza fece cedere le braccia e andai a scontrarmi contro di lui.
Colpito in pieno dalla mia testa tra le scapole, lui rimase paralizzato dal dolore, ed io, decisa a non lasciare andare il suo fantasma così facilmente, mi allungai sulle sue gambe e riuscii a farmi accogliere dalle sue braccia come una bambina sulle ginocchia del padre, scoprendomi nel movimento le gambe e le cosce sotto la camicia da notte.
Sentii il suo petto accelerare, ma fu un attimo, perché, non appena lui avvertì le mie braccia cingergli il collo, il cuore parve, più che altro, sul punto di esplodergli.
– Almeno, se proprio te ne vuoi andare…salutami. – mormorai e tentai di trovare la sua bocca con la mia.
La sua mano si frappose svelta tra i nostri petti, scostandomi via in tempo, prima che qualcosa in lui cominciasse a ingrossarsi e spingere con un po’ troppa insistenza.
– Fermati, prima che tu te ne penta. – mi riprese severo e, tenendomi tra le braccia come un vero cavaliere, mi adagiò di nuovo sotto le coperte, preoccupandosi perfino di ricoprire le mie gambe scomposte.
– Sei una persona cattiva, Kadar Al-Sayf! – strillai a quel punto, coprendomi gli occhi umidi con il polso – Sei una brutta, brutta persona, Kadar Al- Sayf, mi hai capito?
Sentii che rise – Sono cattivo, dici? Onestamente, l’unica crudele qui sei tu, che mi mostri così impudente le tue gambe e mi solletichi l’immaginazione.
Mentre singhiozzavo e sobbalzavo in preda alla rabbia, lui si allontanò verso una luce distorta nel fondo della stanza e cominciò a rovesciare qualcosa in un contenitore concavo.
Poco dopo, proprio quando i miei singulti cominciarono a diminuire e gli occhi, seppur ancora arrabbiati, fecero capolino da dietro il polso, rividi la sua sagoma accanto al mio letto.
Cercò di sollevarmi facendo scivolare dietro la mia schiena un braccio, dunque mi spinse contro la sua spalla e, una volta che io mi fui ritratta, poggiò il bordo di un contenitore in argilla contro la mia bocca.
Capii che si trattava di un medicinale, dunque feci qualche capriccio spingendolo via e versandone un po’ sui suoi pantaloni, finché, spazientito, mi aprì di violenza la bocca spingendo le dita contro le guance.
– Smettila e bevi, forza. – mi ammonì e incrinò il recipiente, costringendomi a ingoiare la medicina se non volevo che mi finisse tutta in faccia.
Vittorioso, lui si ritrasse con la ciotola ed io mi ritirai con la bocca che sapeva d’amaro e le dita che cercavano ancora di asciugare le lacrime, fredde e pungenti nei miei occhi infiammati, quando avvertii di nuovo che quell’uomo stava per andare via e ,così, tornai a ghermirlo per le spalle.  
Lo presi per entrambe le braccia e lo tirai di peso verso il basso, mentre il suo volto, ancora poco chiaro, mi fissava paralizzato da ciò che stavo facendo, poi poggiai la fronte contro la sua clavicola, sporgente e calda, e subito la tensione si tramutò in un incerta quiete.
– Aspetta…– mormorai.
– Devo andare, Laura, ti prego…
– Non mi sento bene.
– Per questo hai appena preso la medicina. Rilassati, e vedrai che farà effetto.
Annuii fioca – D’accordo…
– Ora devo andare.
– Aspetta! – lo strattonai di nuovo in basso – Prima, devi salutarmi.
– L’ho fatto… – mi fece notare esasperato.
– No… no, Kadar. L’ultima volta che sei andato via, sei morto. E so che, se andari via di nuovo, non potrò rivederti mai più, quindi voglio che tu mi saluti. Ho bisogno di salutarti, affinché non ti veda mai più, affinché possa cacciare via il tuo fantasma. Lo capisci, vero?
Lo immaginai fare una faccia strana, perché le mie erano parole folli, eppure non mi negò questo piccolo desiderio. – Va bene, cosa vorresti che faccia? – chiese a quel punto.
Sorrisi vaga, disegnando un cerchio con il dito sul suo petto. – Salutiamoci, come sapevamo fare noi, Kadar.
La lascività della mia voce lo lasciò spiazzato, un po’ a disagio, così cominciò distrattamente a percorrere la linea della mia spina vertebrale con il pollice, disegnando il suo percorso fino a dove il pudore lo lasciò scendere, poi tornò su e mi prese i capelli tra le dita.
Spinse la mia testa in avanti, pigiando la bocca contro la mia fronte, dunque rimase in quella posizione per un po’, finché l’avventatezza glielo permise, finché la sterilità delle sue emozioni non lo ripresero all’amo, costringendolo a tornare lo stesso uomo imperturbabile di sempre.
– Se fossi lucida, non mi chiederesti mai una cosa del genere.–sussurrò, tenendo la bocca schiacciata contro la mia fronte.
– Lo so… – strinsi la presa sulle sue vesti, come se provassi dolore, e ammisi – Ma ne ho bisogno.
Sentii il suo respiro diventarmi leggermente teso tra i capelli, poi la sua mano scattò decisa a sollevarmi il mento, inondandomi il volto con il suo respiro nervoso, giù pentito.
Mi sforzai di esser lucida in quel momento e aprii gli occhi come due fessure, individuando, tra la nebbia della febbre e l’oscurità del luogo, le sue labbra.
Erano carnose, un po’ rovinate, ma allo stesso tempo tanto, tanto invitanti.
– Mi dispiace di averti ridotta così. – lo disse piano e, allo stesso tempo, cominciò ad abbassare la bocca all’altezza della mia. – Vorrei…tornare indietro, per riparare a questo macello.
Dischiusi la bocca, la punta della lingua si bagnò del suo respiro, sempre più vicino, sempre più deciso, centimetro dopo centimetro, ma esitò quando sarebbe bastato tendersi per venirsi addosso.
– Io ti perdono. – sussurrai.
Le sue dita tremarono un po’, immaginai che avesse chiuso gli occhi per incapacità di guardarmi in faccia, non lo so, e lo sentii arrivare, rigido, impacciato.
Aveva le labbra un po’ secche, come mangiate dal sole e dalle polveri del deserto, ma erano accoglienti, molto più di quanto serbassi del ricordo di Kadar, e questo accese un piccolo lumino nel fondo della mia testa.
Lo ignorai.
Sentii che si allontanò per un minuto, forse per riprendere fiato, forse per scrutare i sentimenti sul mio volto, poi tornò a riempirmi la bocca di quel suo strano sapore che stava tra il delicato e l’amaro di una vita che aveva il gusto di ferro e stanchezza.
Cercai, pertanto, di metterlo a suo agio, infilando le mani tra i suoi capelli, ma lui le ricacciò subito con un gesto secco e mi bloccò i fianchi con un braccio.
– Sta’ ferma. – sussurrò e notai una nota di eccitamento colorirgli la voce, dunque mi coprì gli occhi con il palmo della mano e iniziò a riempirmi la bocca di baci.
Poi, fece una leggera pressione contro il mio ventre e, subito dopo, infilò un ginocchio tra le mie gambe nude.
Ricaddi sul materasso con un sussulto e subito lui venne a tapparmi la bocca con la sua, obbligandomi a sottostare ancora una volta all’onda dei suoi respiri e dei baci, che divenivano sempre più secchi, più decisi e violenti, nulla a che fare con i tocchi timidi di Kadar.
Provò a entrare con la lingua di violenza, ma io gli negai qualsiasi spiraglio e, anzi, la morsi.
Lui guaì sottovoce e assaporò dolorante il suo stesso sangue, poi si pulì la bocca con il polso e tornò su di me con più prepotenza di prima.
– Ho detto, sta’ ferma! – ribadì severo e mi bloccò i polsi con una mano, dunque affondò di nuovo la bocca nella mia, riuscendo per un momento ad arrivare con la punta della lingua fino al palato.
– N…no, basta! – cominciai ad ansimare e lui ricambiò il favore di prima, mordendomi il labbro inferiore.
Stese la mano sulla mia coscia, la fece risalire prepotente, cominciò a cercare il bordo del vestito per sollevarlo oltre il mio stomaco, e fu allora che il mio cervello, assopito dal vago piacere di quel momento, si risvegliò in parte.
Irrigidii tutto il mio corpo, che fino a quel momento era stato confortevole giaciglio per il suo, riuscii a liberare le braccia e, a quel punto, gli colpii la guancia con il gomito, facendolo subito retrocedere.
– Ho detto di no, cazzo! – strillai in lacrime e mi precipitai a coprire le gambe con le lenzuola, tutte arrotolate ai piedi del letto – Sei cattivo, lo sapevo, sei cattivo! Tu non mi vuoi bene, vuoi solo tormentarmi!
Lui mi guardò esterrefatto, con le fauci improvvisamente secche e la guancia che pulsava di dolore.– Non so cosa mi…sia preso, davvero. Laura!
– No! Non ti perdono, mi hai sentito? Non ti perdono! – gridai, e quello fu in assoluto il colpo più doloroso sulla sua faccia.
Non disse nulla, solo chinò lo sguardo colpevole in basso, mentre io mi rintanavo sotto le coperte, nella calura della febbre e del pianto che mi strozzava la gola, i pensieri, i sentimenti, fino a farmi mancare l’aria.
Passarono i minuti prima che riuscissi a calmare il respiro e, dopo il groviglio insensato di pensieri, riuscii a trovare il coraggio per riemergere.
Il fantasma di Kadar se n’era andato, aveva lasciato la stanza secondo sua natura, ovvero come un brutto ricordo, portando con se una piccola parte del mio malessere, e del mio cuore.  
Sulla bocca, però, sentivo ancora quel sapore di sabbia.
E lo odiavo.

*   *    *
 
Quando mi svegliai, le campane avevano da poco diviso la giornata in due parti uguali, accompagnando l’alzata del sole al suo zenit proprio quando lo stomaco dei lavoratori e dei mercanti cominciava a fare i capricci e a pretendere il meritato pasto.
Mi alzai nella stanza del rafiq, confusa e con un gran mal di testa, ma ignoravo quale giorno fosse, quanto tempo avessi dormito lì e, soprattutto, come ci fossi finita.
Se provavo a ricordare, tutto ciò che mi tornava alla memoria erano brevi contatti di realtà e delirio febbrile in cui il fantasma di Kadar era venuto a farmi visita, nient’alto.
Sospirai, tirando un sorriso tra l’amaro e il distratto.
Però, era stato bello sentire di nuovo quella sensazione sulla bocca, quella delle labbra di uomo contro le mie, e poco importava se il finale non era stato felice.
Era stato reale, in qualche modo, e aveva appagato quel senso di vuoto che ultimamente mi faceva sentire la mancanza della carne e della passione di un giovane, qual era Kadar, e questo bastava.
Tirai indietro le coperte per poggiare i piedi sul pavimento e notai che ero stata alleggerita di tutti gli strati inutili dei miei abiti, ad eccezione della tunica, che ricadeva vuota sul mio corpo, forse perché ero deperita un po’ a forza di digiunare.
Presi un ciuffo della mia chioma, disperandomi un po’ nel vedere quanto fosse annodata e sporca, e desiderai non aver deciso a quindici anni di non tagliarmi mai più i capelli; cominciavano ad essere un po’ fastidiosi.
Sospirai, facendo cadere la mano sulla coscia, dopo di che mi alzai e presi a raccattare la mia roba sparsa qua e là nella stanza.
Avevo appena rimesso i pantaloni quando arrivò il rafiq, che entrò nella stanza con una ciotola di intruglio fumante e una brocca d’acqua appena attinta dalla fontana, e mi salutò cordiale.
– Vedo che ti sei svegliata, finalmente. – disse, poggiando tutto su un mobile basso in fondo alla stanza.
Mi stropicciai un occhio con il palmo –Quanto ho dormito?
– Due giorni. Stavi covando una bella febbre, eh, ma la medicina che ti ha somministrato Altaïr prima di arrivare qui deve averti aiutato a sopportare più a lungo i sintomi. A proposito, come ti senti, ora?
– Un po’ stordita e dolorante.
– Beh, diciamo solo che l’esser pestata da Tamir non ti ha di certo giovato alla salute. – poi indicò il mio braccio, aggiungendo – La febbre è stata aggravata dall’infezione di quel taglio per colpa della sabbia, ma adesso è tutto apposto, non dovrai preoccupartene. Ho provveduto io, a prendermi cura di te durante i tuoi deliri notturni.
La schiena s’irrigidì mentre ero ricurva sulle mie scarpe, dunque lanciai un’occhiata ansiosa al rafiq attraverso la coltre dei miei fastidiosi capelli.
C’era forse la possibilità remota che, quella notte… ?
Rabbrividii appena; no, certo che no!
– Dov’è Altaïr?  – tagliai corto e mi alzai per recuperare la spada sulla sedia.
– Ti rivesti di già? Non mangi?
– Prima, ho bisogno di parlare con lui. Non mi dirà che quel disgraziato mi ha mollato qui mentre ero svenuta, vero?
Il rafiq fece spallucce con aria disinteressata – Affatto. In verità, è rimasto qui nei dintorni per tutto il tempo della tua immobilità e tornava al tramonto per vedere come stavi. Ora è sul tetto, se t’interessa, ma, ehi, quindi non mangi?
– Magari dopo, rafiq, ma grazie per la gentilezza !– mostrai il diastema con un sorriso e uscii dalla stanza mentre mi riallacciavo i guanti su entrambi i polsi.  
Quando provai a risalire sul tetto incontrai qualche difficoltà per colpa dagli anti dolorifici che avevo ancora in corpo e, soprattutto, dai punti ancora freschi sulla ferita al braccio, ma questi ostacoli non fecero altro che darmi una maggior soddisfazione una volta in cima.
Quella mattina, trovai Altaïr mentre era sul bordo del tetto, impegnato nella consumazione di un pasto con le gambe divaricate e i piedi penzoloni nel vuoto mentre, con sguardo lontano, osservava il cielo e, poi, le persone per strada.
Mi annunciai rischiarendo la gola e, solo a quel punto, lui si accorse di me.
Si voltò e per un istante incredibilmente lungo sembrò freddato in quella posizione, con gli occhi spalancati e la bocca serrata tra la rada barbetta, ma poi qualcosa nel profondo lo riscosse con severità e si affrettò a indossare la sua maschera di diffidenza.
– Finalmente cammini. Quasi non ci speravo più di rivederti in piedi. – mi salutò così e, presa una manciata di datteri dal mucchio, me li tirò.
Io ne presi tre al volo, mentre due caddero per strada. – Il rafiq ha detto che ho dormito per due giorni, dopo l’uccisione di Tamir. – cominciai, accomodandomi a un metro di distanza da lui sul bordo del tetto.
Notai che aveva uno zigomo livido, oltre che lo sguardo basso e nervoso.
– Sì, è così. – brontolò.
– Scusa se ho creato inutili allarmismi, di sicuro devo averti fatto stare in pena.
Lui rifletté per qualche istante, poi addentò un dattero con fare distratto. – Tranquilla, non mi hai fatto preoccupare.
Io lo guardai con la coda dell’occhio, rimuginando. – Senti un po’. – cominciai.
– Mh?
– Cosa ti è successo alla guancia?
Altaïr affondò inavvertitamente l’unghia nel corpo del piccolo frutto che teneva tra le dita, dunque si schiarì la gola con un colpo di tosse. – Ho sbattuto mentre mi arrampicavo sulla cima di un campanile. Capita. – si giustificò e inghiottì il dattero tutto intero.
Lo guardai di sottecchi mentre un pensiero impreciso pungolò il mio cuore, facendolo sobbalzare di dolore, poi la ragione lo rimise subito a tacere e sul mio volto fiorì un sorriso imperfetto.
– Oh, bene. Cioè, mi dispiace.
Ripresi a mangiare in silenzio e lui fece altrettanto.
– Sai, mi sono appena ricordato una cosa, Laura.
– Cosa?
– Una volta, quando ero ancora in apprendistato, mi fu affidata la missione di aiutare un nostro collaboratore, che barava nel gioco e, con le scommesse, riusciva ad estrapolare informazioni sulle attività dei Templari. Venne scoperto a barare da un tizio in piazza e subito i loro animi si scaldarono, dunque intervenni e uccisi quell’uomo. Non notai, però, che, in verità, quei due si conoscessero già, e che il loro era un gioco per confondermi. Infatti, il nostro informatore era un doppiogiochista che lavorava per i Templari.
Mi fermai un momento per assimilare il suo discorso, poi riposi il dattero tra il mucchio sulle mie gambe e fronteggiai il suo sguardo esaminatore a braccia incrociate sul petto. – D’accordo, sai che ti dico? Proverò a capire il vero significato di questa tua storiella. – finsi di rimuginare per pochi istanti, poi dissi con aria sarcastica – Non sarà mica che, quest’informatore, ti ha ricordato in qualche modo me?
– Più che altro, ho pensato a una tua vecchia conoscenza di Tamir. – disse sprezzante e intuii al volo l’allusione nella sua voce.
– Credi che io fossi la sua “amica”?
– Se per amica intendi compagna di letto, ebbene, per un momento l’idea mi ha sfiorato la mente.
Sbarrai gli occhi, incredula. – Questa, poi! Ascoltami bene, Assassino, non so che cosa tu abbia in quella testolina, ma posso assicurarti che nella mia vita ci sono stati davvero pochi, pochissimi uomini, e, di certo, Tamir non rientrava in questi. In oltre, non era assolutamente un uomo da prendere in considerazione.
– Troppo vecchio? – mi schernì con sottile divertimento.
– Troppo psicopatico! Non è l’uomo maturo, ciò che mi spaventa. L’età è un dato irrilevante, per me.
– Ah, quindi ti andrebbe bene anche un vecchio Assassino rognoso come me, giusto,ragazzina?
Il cuore accelerò un po’ nel mio petto, strinsi inconsapevolmente le ginocchia tra di loro e con le dita cominciai a spellare un dattero.
Che razza di domanda era, quella?
– Cosa c’entriamo adesso noi due? – obbiettai impacciata – E poi, si può sapere quanti anni hai? Trenta?
Lui ghignò, negandomi lo sguardo con fare schivo – Parliamo di te o di me?
– Parliamo di me. Una volta per tutte, Altaïr, mettiamo le cose in chiaro, prima di andare avanti con le missioni e rischiare di incappare in fraintendimenti. Non conoscevo l’esistenza degli Assassini fino all’inizio di Aprile, figurarsi dei Templari. Se sono rimasta a Masyaf, era perché non avevo alcun posto dove andare ed ero spaventata, quindi ho pensato di accettare la gentile offerta di Kadar di rimanere nascosta con voi, finché non avessi trovato un modo per tornare a casa. Ma poi, è accaduto ciò che è accaduto.
– Che ti sei innamorata di tuo fratello?  
Assimilai il colpo con inaspettata velocità, ma assorbirlo, quello mi richiese qualche minuto di riflessione. – Ora stai esagerando. – lo ripresi cupa.
– Davvero? Tu credi di non aver esagerato?
– Altaïr. – lo interruppi con voce aspra – Se sei venuto a chiedermi di Tamir, ebbene ti risponderò con sincerità. Ma se vuoi fare congetture sulla mia vita privata, allora ti prego di abbandonare ogni idea di collaborazione da parte mia. Non conoscevo quel Templare, e il giorno in cui incontrai te e Kadar fu in assoluto la prima volta che vidi Damasco. Questo è tutto ciò che ho da dirti.
– Non basta. – obbiettò secco.
– E allora dovrai fidarti di nuovo di me.
Guardai l’ombra dorata nei suoi occhi, scoperti come poche volte alla luce del sole, senza la protezione del cappuccio, e capii che gli riusciva difficile credermi, perché lui era fatto così: sempre alla ricerca del nemico cremisi negli occhi delle persone, degli alleati, di tutti.
Mi c’era voluto un po’, ma alla fine avevo capito quella metafora.
Altaïr non si fidava di nessuno, neanche dei suoi amici, forse perché la morte di suo padre per colpa di un traditore lo aveva traumatizzato, o forse, più semplicemente, perché aveva un brutto carattere.
In ogni caso, aveva messo a punto con gli anni un efficiente sistema di protezione che gli ricordava costantemente di guardare più di una volta la persona che aveva davanti e, possibilmente, di catalogarla.
In certe circostanze, la sua mente era davvero semplice, come quella di un bambino; blu, amico.
Rosso, nemico.
Io ero stato un omino bianco per un po’, non catalogabile in nessuno dei due Ordini.
– Siamo già in ritardo. Il Gran Maestro ha inviato un messaggio, è preoccupato e vuole che torniamo a Masyaf in fretta. Forza. – detto ciò, Altaïr se ne andò, ed io, come sempre, rimasi ammirata dalla facilità con cui fuggiva da una discussione, anche da una così delicata.

*     *     *

Malik era partito, e anche da un po’, secondo le parole di Rauf.
Quando tornammo a Masyaf, fu proprio lui a scortarci verso la fortezza degli Assassini, facendoci passare per il campo d’allenamento, che, a quell’ora, era già popolato da ragazzini alle prese con i primi addestramenti.
Io e Altaïr ci trascinammo a stento dieto di lui, che nel frattempo ci ragguagliò sulle nuove della casa e, non senza un certo orgoglio, che era stato promosso come nuovo allenatore delle reclute, per la sua “ innata capacità di empatia verso i novellini e le sue conoscenze tecniche”.
Ero sinceramente felice per lui, ma la stanchezza del viaggio era evidente e per questo fui ben felice di incontrare subito il Gran Maestro, così da poter far visita a Malik e poi, finalmente, correre a letto.
Fu allora che, tra imbarazzo e fretta, Rauf mi riferì della sua partenza per Gerusalemme all’inizio del mese scorso, mentre ero in viaggio.
Altaïr non parve molto sorpreso e non si lasciò andare a commenti mentre salivamo le scale, ma io, io ero ammutolita, completamente fuori di me, e anche un po’ triste.
Allora, era vero che per Malik non avevo nessuna rilevanza, tanto da lasciarmi senza degnarmi neanche di una spiegazione, di un saluto, di nulla.
Come se non esistessi.
Arrabbiata com’ero, quasi non badai alle parole del Gran Maestro, che sembrava cercare la mia testimonianza più che quella di Altaïr, il quale maturò, parola dopo parola, la strana sensazione d’esser stato messo da parte nella sua stessa missione.
– Cos’è quella faccia buia, Altaïr? – aveva allora detto Al Mualim, mentre gli allungava il bracciale con la lama celata – Sei appena stato elevato al rango di Iniziato e hai riavuto la tua arma, dunque perché non sorridi?
Il giovane trattene un’occhiata glaciale al suo Maestro, poi prese il bracciale a testa bassa e lo indossò, trovando subito un certo conforto nel suo famigliare scricchiolio all’azionamento del meccanismo.
Il vecchio canuto osservò la lama uscire dal bracciale del suo adepto con una certa inquietudine, poi guardò me e sul volto tornò la calma.
– Ora che Altaïr è di nuovo un Iniziato, figliola mia, potrà darti ordini sul campo di ricerca, ma, ovviamente, non verrà meno il tuo ruolo di supervisore. È importante che tu lo tenga sulla retta via, mi raccomando.
Ricordai che annuii quasi meccanicamente a quell’ordine e che, in qualche modo, mi sentii un po’ sottomessa, come se non dovessi pensare; fu una sensazione davvero sgradevole.
Il tintinnio degli anelli dell’uomo che stavo pedinando mi proiettò di nuovo sulle mie mani, sudate e tese verso i suoi fianchi grassocci, da cui pendeva un astuccio con la pergamena, proprio mentre quello si grattava una natica con le unghie.
Fu allora, che mi ricordai d’esser in piena missione di ricerca ad Acri, e che Altaïr attendeva il mio ritorno per iniziare la caccia al nostro secondo bersaglio nella lista.
Feci una smorfia di disgusto, poi, senza alzarmi dalla posizione acquattata, allungai la mano verso i fianchi opulenti dell’uomo e sfilai l’astuccio con destrezza davvero ammirevole, come mi aveva insegnato Malik.
Una volta che ebbi guadagnato il bottino, sgattaiolai via dall’angolo della bottega prima che l’uomo si rendesse conto di esser appena stato derubato, e sparii nella strada.
Acri era una città piegata su se stessa, cenacolo di guerre intestine, intrighi e contese tra mussulmani e cristiani, baccello gravido di pestilenze che avevano spazzato via metà della popolazione e continuava a mietere vittime.
La presenza di un morbo mi preoccupò parecchio, ma Altaïr mi assicurò che non c’era pericolo d’infezione se non si veniva a contatto con le acque contaminate dei canali e, soprattutto, se si evitavano i pazzi del lazzaretto.
Dopo qualche tentativo a vuoto, ritrovai il vicolo del covo e mi calai nel bureau silenziosamente, dirigendomi a capo coperto verso la stanzetta da cui evadeva il profumo amabile di libri e vecchi volumi di medicina.
Quando entrai nell’ufficio, Jabal, il rafiq che avevo conosciuto quella mattina, mi salutò con un sorriso sdentato.
– Salute e Pace, Laura. – disse – Hai trovato qualcosa d’interessante, in città?
Annuii con un sorrisino, porgendogli la pergamena nell’astuccio – Ho origliato la conversazione di un uomo con uno delle guardie di Naplusa, che gli ha dato questa. – spiegai.
Il rafiq annuì pensieroso e prese l’astuccio tra le dita consunte dall’inchiostro e dalle pagine dei suoi libri, dunque cominciò a leggere silenziosamente, dandomi così qualche minuto per rilassarmi con un braccio poggiato sul bancone.
Giunti ad Acri, Altaïr mi aveva portato da Jabal, che, come tutti, mi aveva accolto con riserbo e leggera sfiducia, tuttavia era bastato che parlassi un po’ per incantarlo; alquanto pareva, aveva un debole per le donne che sapevano leggere, ed io, che avevo riconosciuto uno dei libri di Galeno, “De naturalibus facultatibus”, presente nella raccolta di mia madre, riuscii ad accattivarmi la sua parlantina.
Jabal era un uomo di mirabile intelligenza, colto e di larghe vedute, ma, per quanto avrei voluto parlare con lui della sua collezione sugli scaffali, gli sbuffi e le occhiate al soffitto di Altaïr mi ricordarono che eravamo in missione.
Il rafiq ci ragguagliò sul nostro bersaglio, Garniero di Naplusa, Gran Maestro degli Ospitalieri, che aveva cominciato a condurre strani esperimenti sui suoi pazienti, soprattutto quelli mentalmente malati.
Non fui molto entusiasta all’idea di dare la caccia a un uomo del genere, che riusciva a evocare nel mio immaginario scene orribili, che avrebbero fatto accapponare la pelle di chiunque, ma non potevo fare altrimenti.
– Bene. – Jabal richiuse la lettera quand’ebbe finito di scorrerla con gli occhi, dunque la ripose su una catasta di libri e mi disse – Può bastare così, Laura. Raggiungi Altaïr e digli che potete cominciare la missione. Il bersaglio è all’Ospedale di Acri, dove si è rinchiuso da giorni, oramai, a fare il cielo sa che cosa.
– Perfetto. Salute e pace, rafiq.
– Buona fortuna, Novizia, e torna intera, vorrei mostrarti dei libri che potrebbero interessarti. Ah, che fortuna ho avuto nell’incontrare qualcuno con cui poter ragionare su argomenti così sublimi, in mezzo a questo branco di capre!
Sorrisi a quella affermazione e risalii sul tetto, dove vidi il sole cominciare a calare tra le case; così, intrapresi una gara contro il disco rosso, sfidandolo a raggiungere l’orizzonte prima del mio arrivo all’Ospedale.
Il sole aveva tinto di scarlatto il profilo dei tetti quando arrivai vittoriosa sulla cima di una casa antistante al luogo dove si nascondeva Naplusa.
Passai in rassegna la zona: l’Ospedale era un edificio scarno, fatiscente, racchiuso da mura vecchie quanto la città stessa, circondata da un numero notevole di persone, che supplicavano di ricevere le cure per i loro malanni, ma l’accesso era negato da alcune guardie all’entrata.
Perché non potevano passare?
– Ganriero è protetto dalle mura e da un gruppo di guardie scelte. – Altaïr giunse alle mie spalle senza far alcun rumore, affiancandomi sul bordo del tetto.
Io rimasi nella mia posizione acquattata, scrutandolo dal basso come un felino in allerta.
– Perché Garniero non fa entrare quelle persone? – domandai allora io.
– Non mi preoccuperei di questo, adesso. Piuttosto, le guardie avrebbero dovuto fare il cambio al tramonto, e invece sono in ritardo. Rischiamo di perdere Garniero, se non troviamo un modo per entrare.
Aggrottai la fronte mentre tornavo a fissare l’edificio, aperto al centro in un giardino che lasciava intravedere l’interno, poi tornai alla piazza e notai che le guardie lasciavano entrare, o meglio schivavano disgustati, solo i pazzi che vagavano come mosche intorno alle mura puzzolenti del lazzaretto.
Rabbrividii per la mia stessa idea, ma, al momento, mi parve la cosa più ovvia da fare.
– Senti, forse ho un piano. – cominciai.
– Prima devo parlarti. – m’interruppe lui.
Alzai lo sguardo confuso e lo trovai mentre si massaggiava gli occhi con le dita, dunque sospirò e tornò a guardarmi con i bulbi dorati un po’ rossi. – Io mi fido di te, Laura. – disse – Mi sono sempre fidato di te, anche quando la coscienza mi diceva che era sbagliato. Qualcosa in me, qualcosa di estremamente stupido, mi ha spinto a fidarmi. Quindi, ti credo se mi dici che non conoscevi Tamir. Ti credo, e ci tenevo a dirtelo.
Per un momento rimanemmo a fissarci l’uno negli occhi dell’altro, silenziosi, impacciati, un po’ sorpresi di scorgere una persona completamente nuova, diversa da quella con cui avevamo cominciato il nostro viaggio due mesi fa.
Perché, per qualche strano motivo, ultimamente diventava sempre più facile parlare senza dover necessariamente nascondere i nostri reali pensieri, senza dover temere il giudizio dell’altro, perché eravamo compagni d’armi.
Del resto, doveva capitare, dopo un anno, no?
In quei mesi di missioni, tra le traversate di terre a me sconosciute e distese di polvere, Altaïr era diventato il perno della mia giornata, l’unica persona con cui parlare, una persona, scoprii, più umana di quando lo avevo conosciuto per la prima volta.
Guardando meglio l’uomo che avevo davanti, mi ero resa conto che ciò che da prima era solo una timida intenzione si era tramutata, col tempo, in una vera e propria metamorfosi; Altaïr stava cambiando, anzi, voleva cambiare, ma era ancora difficile per lui.
Ci stava provando, però.
E ,alla fine, finimmo con il perdonarci tutto.
Io, finii con il perdonarlo.
– Grazie, fratello. – sorrisi piano, di cuore, e lui sentì subito l’animo alleggerirsi un po’.
– Allora, Laura: qual è il piano?
– Ancora non lo so, ma ho bisogno che tu mi procuri degli abiti popolani. E speriamo nella buona sorte.
– La buona sorte non c’entra nulla. – obbiettò e, con un balzo leggero, sparì oltre l’orlo rossastro dell’edificio, verso la piazza.






Angolo autrice: Salve a tutti i miei cari lettori! Dunque, diciamo che questo capitolo si è incentrato un po’ di più su Laura e Altaïr e sul loro rapporto che, a distanza di quasi un anno, comincia a maturare in qualcosa di completamente diverso. Ho tralasciato l’episodio di Tamir per inserire il piccolo scorcio di delirio notturno della nostra cara protagonista, che, diciamocelo, forse tanto incosciente quella notte non lo era…
Comunque, nel prossimo capitolo riprenderemo l’episodio di Tamir e il sogno del serprente;  finalmente, Laura avrà una rivelazione…
Come sempre, la mia gratitudine per il vostro sostegno cresce giorno dopo giorno, e vi ringrazio dedicandovi questa storia. :)
Baci, Lusivia.  



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