The sound of a bass

di Scriverodite
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1.Capitolo uno - Drunk ***
Capitolo 2: *** 2.Capitolo due - Cohabitation ***



Capitolo 1
*** 1.Capitolo uno - Drunk ***









 
Capitolo uno - Drunk





 


Seduta al bancone di quel locale fatiscente, Melanie sorseggiò il suo secondo drink, poi strizzò gli occhi verdi per meglio abituarsi alle luci psichedeliche della discoteca.
Come ci era finita lì? Aveva così tanto alcool in corpo che a malapena riusciva a ricordare il suo nome. La testa le doleva, ma di tornare a casa non ne aveva proprio voglia. Era così stanca di quella vita noiosa e monotona, perciò continuava a frequentare squallidi locali da quattro soldi pur di stare lontana dalla realtà.
La vodka che aveva bevuto le bruciava in gola come non mai, e avrebbe voluto chiudere gli occhi per frenare il dolore lancinante alle tempie.
Non era stata una buona idea rintanarsi in quella discoteca, non dopo l’ennesimo litigio con sua madre, ma lasciare che quel tornado di emozioni si impossessasse di lei non lo sarebbe stato altrettanto.
Perché non riusciva a scappare, mollare tutto e lasciarsi quella vita alle spalle?
Una codarda, ecco cos’era.
Si lasciava trapassare da tutto, ma niente riusciva davvero a scalfirla.
Niente riusciva a spezzarla per davvero, come fosse stata di ferro.
O forse, pensò, era stata spezzata così tante volte da averne fatto un’abitudine. 
«Ehi bellezza» la chiamò qualcuno alle sue spalle, distogliendola dal flusso – assai distorto, a dire il vero – dei suoi pensieri.
In risposta, Melanie alzò gli occhi al cielo, maledicendosi ancora una volta per quell’insulsa serata. Spesso si ritrovava a dover liquidare ragazzi in una discoteca, altre volte invece si svegliava in letti del tutto sconosciuti, di fianco a persone che non ricordava nemmeno di aver mai visto.
Si voltò, scocciata da quella situazione.
«Ascolta, dolcezza» affermò, la voce impastata per via dell’alcool, «a quel paese ti ci devo mandare io o ci vai da solo? »
Il ragazzo, i cui occhi azzurri erano vitrei, segno che neanche lui era poi del tutto lucido, la guardò interrogativo, per poi dileguarsi tra la folla, quasi dispiaciuto.
«Tanto domani non ricorderà più niente» si ritrovò a pensare Melanie, poi scosse la testa e «forse nemmeno io» sussurrò.
 
 
 
 
Due ore e tre gin dopo, Melanie decise di uscire a prendere una boccata d’aria. Il caldo del locale era ormai diventato asfissiante, e una spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco cominciava a farsi sentire. Imboccò la prima uscita, e, lentamente, inspirò a pieni polmoni la tiepida aria primaverile.
Perché continuava a ridursi così? Le faceva male tutto, come se un immenso camion le fosse passato addosso.
Si appoggiò all’angusta parete del retro di quel locale, gli occhi chiusi, il petto dolorante.
Doveva smetterla. Definitivamente.
«Come se fosse possibile» sorrise. Era diventata un automa, un piccolo robot nelle infime mani dell’alcool. Un giocattolo malfunzionante, una stupida marionetta.
Esattamente come sua madre.
Nulla riusciva più a distrarla, se non la piacevole sensazione di stordimento dettata dalla vodka che le scorreva nelle vene. Si stava facendo del male, e questo Melanie lo sapeva, ma tutto era preferibile a quell’inferno che lei chiamava vita.
Cominciava a girarle la testa, dopo tutto quello che aveva bevuto, e uno strano malessere le attanagliava lo stomaco. Si piegò, e in quel vicolo buio vomitò se stessa, con i suoi rimpianti e le sue stupide paure.
Si sedette, la testa tra le mani, gli occhi lucidi, e cercò di respirare quanto bastava per tornare alla regolarità. Cercò di convincersi che stesse meglio, ma sapeva bene che quella sarebbe stata l’ennesima cazzata raccontata a se stessa. Avrebbe tanto voluto piangere, urlare che non era questo ciò che lei chiedeva per la sua vita.
Felicità. Non desiderava altro.
Persa nelle tante elucubrazioni, quasi non si accorse del ragazzo che le si avvicinava.
«Ehi, hai bisogno di una mano?» le domandò preoccupato.
Era bello, insolito per i canoni di Melanie. La sua pelle ambrata risplendeva alla luce della luna, i capelli neri erano assai disordinati.
Il suo naso, un po’ grande rispetto al resto del viso, gli conferiva un’aria tenera e infantile, così come le carnose labbra a cuore.
I suoi occhi color cioccolato, che ricordavano tanto quelli di un orientale, erano così grandi e profondi che per un attimo Melanie dimenticò di aver appena vomitato l’anima.
Il misterioso tipo indossava una canotta nera, che metteva in bella mostra i suoi tatuaggi e i suoi bicipiti scolpiti. Un paio di jeans dello stesso colore gli fasciava le gambe lunghe.
Sorrise timidamente, mettendo in mostra denti dritti e bianchissimi.
Melanie lo osservò per qualche istante. Era ubriaca, certo, ma la bellezza di quel ragazzo andava ben oltre l’alcool.
Avrebbe potuto dirgli tante cose, ma «portami via di qui» si limitò a sussurrare.
L’altro si chinò per guardarla meglio.
«Dove vuoi che ti porti?» le chiese, sfiorandole un braccio con le dita.
«A casa. Voglio andare a casa» rispose Melanie.
La testa le doleva così tanto che non riusciva a tenere gli occhi aperti.
Non le piaceva lasciarsi abbordare in posti del genere, nonostante avesse spesso ottemperato a qualche debolezza, eppure il ragazzo che aveva di fronte le trasmetteva quasi normalità. Era sobrio, tra l’altro, probabilmente perché giunto lì da poco.
Chissà cosa ci faceva in quel vicolo, sul retro di una discoteca.
«N-non so dove abiti» farfugliò lui.
“Non a casa mia. Non voglio tornare in quell’inferno» affermò lei sicura, per quanto la sbornia potesse concederglielo, «portami a casa tua».
Cosa le era saltato in mente? Stava davvero implorando un tizio del quale non conosceva nemmeno il nome di portarla a casa sua?
Certo, non era la prima volta, ma di solito le sue sbronze superavano di gran lunga i cinque bicchieri. Era giustificata, in un certo qual modo.
Ma ora, perché mai aveva lasciato che la sua bocca parlasse per lei?
“Come se avessi un cervello” pensò, alzando gli occhi al cielo per l’irritazione.
«Vieni dai, prima che cominci a vomitare di nuovo» assentì il misterioso tizio, osservandola con un moto di preoccupazione sul volto. La afferrò di peso, portandosi il suo braccio sulle spalle, e ne inspirò il dolce profumo.
«Almeno profumi di buono» le disse semplicemente, suscitando una risata ilare da parte di Melanie.
La caricò in macchina, e per tutto il tragitto nessuno dei due osò proferire parola. La ragazza, dal canto suo, teneva la testa rivolta verso il finestrino, e si lasciava accarezzare dal vento leggero tipico della stagione lì a Sydney.
D’un tratto, il ragazzo finalmente parcheggiò e «siamo arrivati» annunciò.
«Non so nemmeno il tuo nome» protestò Melanie, volgendo lo sguardo nella sua direzione per la prima volta da quando erano partiti.
Lui sorrise, e lei si ritrovò a pensare di non aver mai visto denti così perfetti.
Gli sarebbe saltata addosso, ne era certa.
«Calum. Calum Hood. E il tuo qual è?» la interrogò lui di rimando, slacciandosi la cintura.
«Melanie Brown» rispose lei, ripetendo in maniera meccanica i suoi stessi gesti.
Il tipo, che finalmente aveva un nome, incrociò per un attimo il suo sguardo, poi, come ridestato da un sonno profondo, aprì lo sportello e scese dall’auto.
Provò ad aiutarla a camminare in modo più stabile, ma poiché Melanie continuava a barcollare decise che sarebbe stato più pratico prenderla in braccio.
«Sei molto bello Calum» affermò lei sul suo collo, per poi ridere apertamente.
«Oh, grazie. Anche tu non sei male» le rispose il moro divertito.
La sua abitazione – solo ora Melanie riusciva a notarlo – si trovava in un quartiere piuttosto benestante della città, in una strada abbastanza frequentata.
Calum trafficò per un bel po’ con le tasche posteriori dei pantaloni, dalle quali estrasse un mazzo di chiavi. Adagiò Melanie sulla soglia, permettendole però di appoggiarsi a lui, e la scortò nel suo appartamento.
Il locale, doveva ammetterlo, non era per niente piccolo. Anzi, tutt’altro.
Il salotto era arredato in maniera molto semplice. Un divano beige di pelle giaceva sulla parete opposta alla porta, e sul pavimento la moquette richiamava l’ocra delle pareti. Sugli scaffali, alla destra dell’ingresso, erano accuratamente stipati dischi in vinile di qualsiasi artista, da Michael Jackson ai Beatles. Alcune foto, sui medesimi scaffali, ritraevano il moro insieme ad una ragazza di qualche anno più grande, che, vista la somiglianza, Melanie etichettò come sua sorella.
Quest’ultimo la riprese di peso sulle spalle, senza nemmeno lasciarle il tempo di mettere del tutto a fuoco l’ambiente in cui si trovava, e la condusse al piano superiore, dove la ragazza immaginò ci fosse la camera da letto. Di fatto, percorse un breve corridoio ed entrò in una stanza interamente dipinta di verde, con solo un letto e un comodino ad arredarla.
«Bene, questa è la stanza degli ospiti. Tu dormirai qui. Se hai bisogno di qualcosa mi trovi nella camera accanto» affermò lui, posandola dolcemente sulle lenzuola bianche.
La salutò con un sorriso, poi si voltò.
Stava per chiudersi la porta alle spalle, quando udì la flebile voce di Melanie.
«Calum… posso dormire con te?» chiese, e lui proprio non se la sentì di rifiutare. Dopotutto, era ancora sbronza.
Così, senza neanche pensarci su, si ritrovò a rispondere «Su, vieni».
La portò in quella che doveva essere la sua, di stanza, poi si diresse in bagno.
Dal grande letto ad una piazza sul quale si trovava, la ragazza osservò ogni dettaglio di quella camera. Anch’essa, arredata come solo un ragazzo avrebbe potuto fare, era interamente dipinta di giallo, così come il salotto. L’armadio occupava buona parte della parete opposta al letto, vicino al quale giacevano un comodino e un basso bianco e nero. Melanie osservò lo strumento per un po’, chiedendosi se Calum fosse un musicista. Il suddetto ragazzo, tornò qualche minuto dopo, con addosso soltanto un paio di boxer, e Melanie non riuscì a evitare di mordersi il labbro inferiore, per la straordinaria imponenza e perfezione dei suoi addominali. Scosse la testa, per via dei pensieri poco casti che ormai le occupavano la mente.
Il moro si distese al suo fianco e spense la luce, augurandole nuovamente la buonanotte.
Ne osservò il profilo, alla debole luce della luna che filtrava dalla finestra e constatò che, dannazione, era dannatamente sexy. Ne inspirò il profumo, ancora e ancora, e quella notte lasciò che fosse l’alcool ad agire per lei.
Gli accarezzò piano i pettorali, sorridendo per l’incredibile sfrontatezza che la caratterizzava, poi, lentamente, iniziò a baciargli il collo.
Avvertì un leggero fremito e fu quasi felice di essere stata lei a provocarlo.
«C-Che stai facendo Melanie?» sussurrò Calum, la voce incrinata.
«Sei fastidiosamente bello» affermò lei ridendo, proprio come qualche minuto prima.
Seguì con le dita la linea dei suoi occhi a mandorla, del suo naso un po’ grande e delle sue labbra carnose, per poi fermarsi sui possenti muscoli delle spalle.
Poi, guidata dal misto di vodka e gin che le scorreva nelle vene, salì a cavalcioni su di lui. Il ragazzo sospirò nervoso, incapace di sottrarsi a quella tortura.
E prima che potesse dire o fare qualcosa, lo baciò.
Finalmente sentì i suoi muscoli rilassarsi, forse per la prima volta da quando si erano conosciuti.
Gli morse il labbro inferiore con dolcezza, mentre con le mani continuava ad esplorare il suo corpo.
Era bello sentire le sue mani sulla schiena, bearsi di lui senza preoccuparsi di nulla e abbandonarsi a quella sensazione.
Si assaporarono per un tempo indefinito, per poi staccarsi pian piano.
Melanie lo guardò negli occhi, così gentili sotto quella pallida luce, e lui le scostò una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio.
«Melanie, tu sei bellissima» mormorò controvoglia, mentre col pollice le accarezzava piano le labbra, ma sei completamente andata, ed io non andrò a letto con una ragazza ubriaca che domani potrebbe aver dimenticato il mio nome. Se cercavi qualcuno che si approfittasse di te stanotte, hai sbagliato persona. Mi dispiace».
Continuò ad esplorarle il viso con le dita, ma lei scostò bruscamente la sua mano e «vaffanculo Calum» esclamò soltanto.
Si distese nuovamente al suo fianco, questa volta però dandogli le spalle.
L’aveva rifiutata. Non sapeva se sentirsi offesa o lusingata da tale atteggiamento. Nessuno aveva mai osato negarle qualcosa, anche se lei ben sapeva di essere, per la maggior parte dei ragazzi con i quali interagiva, solo e unicamente il divertimento di una notte.
Eppure, la risposta del moro l’aveva destabilizzata, e non poco.
Non le piaceva essere respinta, tantomeno sentirsi così umiliata.
Perché non riusciva a piacere davvero a nessuno? Che fosse guasta? Certo che no, si disse. Semplicemente, se avesse avuto meno alcool in corpo, forse qualcuno l’avrebbe apprezzata per le sue reali qualità, e non solo riguardanti la sfera sessuale.
Ma lei, troppo testarda e casinista, non avrebbe mai detto di no a una bottiglia, per nessuna ragione al mondo.
Lei, così simile a sua madre. Così dannatamente triste.
Affondò le unghie laccate di rosa nella pelle, per evitare di urlare e strapparsi i capelli.
Non sarebbe cambiata mai.
Con questa consapevolezza, e con gli occhi lucidi per la rabbia, si addormentò piano, a pochi centimetri da Calum, che, al contrario, quella notte non riuscì a chiudere occhio.
 

 
 
 

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Capitolo 2
*** 2.Capitolo due - Cohabitation ***












Capitolo due - Cohabitation
 


 




Quando Melanie aprì gli occhi, quella mattina, la luce del sole filtrava dalla finestra, illuminando la stanza nella quale si era addormentata la sera prima. Si portò una mano alle tempie, per via del dolore che le martellava la testa.
Doveva essersi ubriacata di nuovo. Non ricordava assolutamente nulla della notte appena trascorsa.
Il posto accanto al suo era vuoto, segno che chi l’aveva occupato si era alzato già da un po’.
Era andata di nuovo a letto con qualcuno? Se sì, con chi?
Chiuse gli occhi verdi, quasi infastidita, nella speranza di rievocare qualche avvenimento della sera precedente, ma senza alcun risultato. Lì riaprì, e osservò attentamente la camera nella quale si trovava. Un oggetto, in particolare, attirò la sua attenzione. Era uno strumento bianco e nero, appoggiato alla parete.
Corrugò la fronte. Il bassista. Calum! Ma certo, il moro con gli occhi a mandorla. L’aveva portata a casa sua, su richiesta di Melanie, per poi accompagnarla nella stanza degli ospiti, ma lei doveva essersi opposta.
E poi? Cos’era successo dopo?                                                           
Portò le mani alla testa, sempre più confusa. D’un tratto, spalancò gli occhi. Frammenti della notte precedente cominciarono a farsi spazio nella sua mente.
Si accarezzò piano le labbra, memore dei baci, degli sguardi, dei sospiri. E poi, il rifiuto, una pugnalata al suo orgoglio. Ricordò di essersi incavolata, di aver quasi pianto di rabbia per quel “no” così deciso.
«Merda» mormorò piano.
Cosa diavolo le era saltato in mente? Ci aveva davvero provato con uno sconosciuto che l’aveva gentilmente ospitata a casa sua dopo una sbronza?
Se non altro, ora ne aveva la certezza. Era una stupida.
Improvvisamente la porta si aprì, e Calum Hood fece il suo ingresso nella stanza con un vassoio in mano. Le aveva portato anche la colazione!
«Ah, finalmente sei sveglia!» esclamò sorridente, come se nulla fosse accaduto, «buongiorno!»
Le tese il vassoio, che lei afferrò timidamente. Si sentiva un’idiota, una povera deficiente.
«Buongiorno Calum» rispose, lo sguardo fisso sul croissant, sul cappuccino e sulla spremuta d’arancia che il ragazzo aveva accuratamente sistemato in un quadro assai carino.
Rimasero in silenzio per qualche istante, lui con le mani nelle tasche dei jeans stretti, lei con gli occhi fissi a terra. Non riusciva proprio a sostenere il suo sguardo, tant’era la vergogna che provava.
«Calum, ascolta» esordì Melanie, ormai incapace di trattenersi, «per quello che è successo stanotte…»
«Non preoccuparti» la interruppe lui «eri ubriaca, non rispondevi delle tue azioni. Davvero, non ci sono problemi».
Le sorrise, per l’ennesima volta, e lei ringraziò il cielo per aver incontrato lui, quella sera, in quell’insulsa discoteca, piuttosto che un qualche drogato ninfomane.
«Perdonami, non so cosa mi sia preso, davvero» replicò allora, sempre a testa bassa.
«Melanie, va tutto bene. Ora però mi guardi per favore?» le domandò gentilmente, prendendo posto di fianco a lei sul letto sfatto.
Fece come le aveva chiesto e sorrise di rimando, lieta che quella storia si fosse conclusa nel migliore dei modi.
Cavolo, aveva anche avuto il coraggio di mandarlo a quel paese, soltanto perché si era dimostrato un bravo ragazzo? Avrebbe dovuto apprezzare la sua magnanimità, e invece l’aveva trattato come uno zerbino, perché il suo fottuto orgoglio proprio non ne voleva sapere di rimanere in silenzio.
«Ehi, ti va di pranzare con me? Potremmo fare quattro chiacchiere… da sobri, magari» propose Calum, facendola ridere apertamente.
«Certo che sì» asserì lei.
Sua madre non l’aveva ancora chiamata, e forse non l’avrebbe mai fatto. Probabilmente era impegnata a scolarsi tutte le bottiglie di alcolici sparse per casa.
Si chiese se avrebbe mai ricevuto uno schiaffo da parte sua, se sarebbe mai stata in grado di deluderla proprio come lei faceva nei suoi riguardi ormai da tempo.
«Vestiti, ti aspetto di sotto» si congedò il moro, chiudendosi la porta alle spalle. Velocemente, Melanie indossò i jeans logori, la canotta larga e le Vans nere della sera prima. Sistemò il letto come meglio poté – a casa sua non ordinava quasi mai, del resto a chi sarebbe importato? – poi si osservò nello specchio appeso alla parete. Profonde occhiaie le segnavano il viso, e i suoi grandi occhi verdi sembravano spenti, come ogni mattina dopo una sbronza. I capelli castani, solitamente impeccabili, erano assai disordinati, e Melanie decise che sarebbe stato meglio raccoglierli in una coda. Le sue labbra erano arrossate, forse per i baci, forse perché le aveva morse così tanto da farle quasi sanguinare.
Sospirò, per poi dirigersi in salotto.
Calum la stava aspettando seduto sul divano di pelle, intento a leggere una rivista, probabilmente di musica.
Quella mattina indossava i soliti pantaloni neri, abbinati a Vans e canotta dello stesso colore – quest’ultima con la scritta “YOU COMPLETE MEss” sul davanti, che le fece increspare le labbra in un sorriso divertito – e una camicia a quadri allacciata in vita. Era bello, nella sua assoluta normalità.
Le sorrise di nuovo e si alzò, poi posò la rivista sul divano, esclamando un «andiamo, ti porto in un posto qui vicino».
 
 
 
 
Passata circa un’ora, dopo aver trangugiato due hamburger – che, Melanie doveva ammetterlo, erano davvero “strepitosi” come Calum li aveva definiti – i due si diressero in un parco non molto distante dal locale nel quale avevano pranzato.
Avevano scambiato qualche parola, e Melanie aveva scoperto che Calum viveva da solo da un anno, che aveva davvero una sorella, il cui nome era Mali Koa – alla quale lui aveva dedicato un tatuaggio con una rondine sull’avambraccio sinistro – e che era per metà scozzese e per metà australiano.
Di sé, Melanie aveva semplicemente accennato di avere un fratello maggiore di nome Josh e che suo padre era morto qualche anno prima. Non aveva certo fatto riferimento al “piccolo problema” di sua madre, con la quale viveva completamente sola, o al fatto che Josh le passasse, ogni mese, circa mille sterline per riuscire a coprire tutte le spese.
Ma ora, in quel parco, le domande di circostanza erano finite, e Calum e Melanie passeggiavano in silenzio, l’uno tirando calci ai sassolini che incontrava per strada, l’altra mangiucchiandosi le unghie.
Poi il moro si sedette su una panchina e lei d’istinto lo imitò.
Quel parco le piaceva davvero. Si sorprese di non esserci mai stata, nonostante abitasse a Sydney da sempre, ma gli unici posti che frequentava abitualmente non erano di certo parchi pieni di margherite.
Trovava quasi piacevole il tiepido sole sulla pelle, il leggero vento che le scompigliava i capelli, il clima mite tipico della città, le urla di madri disperate che inveivano contro i propri bambini, i pettegolezzi di quartiere di anziane signore prive di altra occupazione.
Tutto era così normale da provocarle una piacevole sensazione allo stomaco.
«Calum?» proruppe, voltandosi a guardare il ragazzo con gli occhi a mandorla.
«Mh?» farfugliò lui, lo sguardo rivolto al cielo.
«Tu… suoni il basso?» lo interrogò torturandosi le mani.
Era strano, ma i musicisti la attraevano particolarmente. Era come se possedessero una specie di sesto senso, una sensibilità capace di carpire tutte le sfumature di un mondo così poco trasparente.
«Sì, più o meno da quando avevo sei anni. E’ la mia grande passione. H0 anche una band, con i miei migliori amici, ci chiamiamo 5 Seconds of Summer» rispose lui, incrociando le gambe sulla panchina.
Parlava con un misto di orgoglio e speranza nella voce, quasi fosse l’unica cosa che realmente gli interessasse.
E forse era proprio così.
Melanie lo osservò intenerita, sinceramente colpita dalla sua perseveranza e dalla sua incredibile voglia di costruirsi un futuro.
Lei, invece, sul futuro non ci aveva neanche mai riflettuto. D’altronde, come poteva lei provare a rifarsi una vita, quando il peso del passato continuava a schiacciarla e graffiarla?
«A cosa pensi?» domandò Calum, che doveva essersi accorto dell’abitudine di Melanie di estraniarsi dal mondo e fantasticare senza ritegno.
«Al fatto che anch’io vorrei avere una passione così forte come la tua» rispose lei sospirando.
«Credo siano cose che nascono con te, hai presente?» chiese il ragazzo, iniziando a gesticolare, e lei assottigliò lo sguardo, come per riuscire a comprenderlo meglio, “è come il colore degli occhi. Nasci e muori con quegli occhi, non puoi cambiarli, li porti con te nella tomba. Tu, ad esempio, hai questi bellissimi occhi da gatta che io non cambierei per nessuna ragione al mondo» aggiunse poi, facendole colorare le guance di un rosso acceso.
«Ti stai lentamente trasformando in un cascamorto, Hood?» scherzò lei, dandogli una spallata affettuosa.
«Beh, diciamo che ora che sei sobria e soprattutto capace di intendere e di volere, posso provarci con te senza rischiare di essere arrestato per stupro o qualcosa del genere» rispose, poi storse il naso, quasi disgustato, ed entrambi scoppiarono a ridere.
«E’ bello» affermò Melanie all’improvviso, tornando seria.
Volse lo sguardo verso il cielo limpido e per un attimo dimenticò tutto.
Era quasi serena.
«Cosa?» domandò Calum, voltandosi a guardarla preoccupato.
«Essere qui. Ridere e scherzare senza aver bevuto neanche un goccio. Riuscire a sentire davvero» replicò lei sospirando.
Da anni ormai, il solo pensiero di rimanere sobria per più di 24 ore la spaventava, ma ora, doveva ammetterlo, al fianco di Calum si sentiva come all’asilo, quando non aveva problemi a stringere rapporti con un altro moccioso e ridere era quasi d’obbligo.
Non riusciva, in quel momento, a pensare di avere una madre della quale prendersi cura, perché –diciamocelo – può mai una diciannovenne che non sa badare nemmeno a se stessa preoccuparsi di qualcun altro?
«Ti capita spesso? Di ubriacarti, intendo» chiese Calum, il volto tirato.
«Più o meno» sorrise ironica, con un’alzata di spalle. E il moro, che evidentemente stava già iniziando a capire l’enigma che quella ragazza nascondeva, decise che non le avrebbe fatto più domande, almeno finché non fosse stata lei a confidarsi. Sapeva essere un buon ascoltatore, il piccolo Hood, e di certo lo sarebbe stato anche per lei
Così provò ad alleggerire la conversazione, cambiando prontamente argomento.
«Ehi, ti va di conoscere la mai band? Dovremmo incontrarci oggi pomeriggio per le prove…»
«Oh, non posso proprio, Calum. Oggi dovrei andare a cercare un appartamento» lo interruppe Melanie, sinceramente dispiaciuta.
Le sarebbe davvero piaciuto conoscere i suoi amici, e magari vederli esibirsi, ma aveva deciso, qualche giorno prima, che era davvero giunta l’ora di cambiare casa, perché lei, di vivere in quella specie di tugurio, era fin troppo stanca.
«Cerchi casa?» la interrogò Calum aggrottando le sopracciglia.
«Beh sì. Ho intenzione di acquisire maggiore indipendenza, se sai cosa intendo» mentì in parte, incapace di aprirsi a quella scomoda verità.
Si alzarono, ricominciando a passeggiare sul prato di quel parco, felici di sgranchirsi di nuovo le gambe.
«Se… se vuoi puoi venire a stare da me. Potresti trovarti un lavoretto, e in tal modo divideremmo le spese. Almeno fin quando non troverai un’altra sistemazione» propose lui.
L’idea, doveva ammetterlo, non era poi così male, ma era davvero sicura di non combinare casini? Sarebbe davvero riuscita a condividere casa con Calum che – maledizione! – era così bello da risvegliare tutti i suoi ormoni?
Avrebbe rovinato tutto, e lei questo lo sapeva, ma, ancora una volta, fu la sua bocca a rispondere per lei e «va bene, ti ringrazio Calum» si ritrovò a dire.
«Ma ad una condizione» continuò «nessuno dei due dovrà provarci con l’altro. Saremo solo e unicamente amici, senza secondi fini».
Il bassista scosse la testa e «sono assolutamente d’accordo» assentì divertito.
Davvero aveva accettato questa convivenza? Perché?
Aveva fissato quella stupida regola, come se fosse davvero possibile riuscire a controllarsi dopo una sbronza.
Oh, al diavolo, era una cretina.
Calum si offrì di accompagnarla a casa a prendere le sue cose, ma lei rifiutò prontamente, un po’ perché, dopo quella giornata, aveva davvero voglia di camminare, un po’ perché non poteva permettere che Calum scoprisse la sua vera vita.
E sì, magari si stava fidando troppo di un ragazzo che conosceva appena da due giorni, ma cos’aveva poi da perdere?
Giunse a casa, e il solito odore di alcool la invase, facendole strizzare gli occhi.
«Melanie, sei tu?» urlò sua madre dalla cucina, la voce impastata.
Chissà quanto aveva bevuto. Ed erano solo le quattro del pomeriggio!
«Sì, sono io» si affrettò a rispondere. Salì al piano superiore, prima che la vista di quella donna potesse farle cambiare idea, e raccolse in una valigia gran parte dei suoi vestiti, i suoi libri, i suoi amati cd dei Green Day e dei Coldplay, il suo diario e le fotografie di quand’era bambina. Volse uno sguardo alla sua ormai vecchia stanza, così spoglia ora che era stata svuotata, e si chiuse – definitivamente? – la porta alle spalle. Prese una copia delle chiavi di casa in corridoio, per ogni evenienza, e percorse a grandi passi il salotto, per poi raggiungere sua madre in cucina.
Lily, come immaginava, era seduta, con le braccia e la testa adagiate sul tavolo.
Gli occhi verdi – così simili ai suoi – erano socchiusi, e i lunghi capelli biondi le ricadevano arruffati sulle spalle ricurve. La osservò per un po’, pensando che una volta, quella donna che ora le faceva così ribrezzo, doveva essere stata proprio bella.
«Mamma, vado via» affermò convinta sulla soglia.
Lily, in risposta, la guardò confusa e aggrottò la fronte.
«Vado a stare da un amico, ma verrò a trovarti» mentì.
Sua madre annuì impercettibilmente, del tutto intontita, e «non puoi abbandonarmi» urlò disperata.
Melanie incrociò il suo sguardo vitreo, poi si caricò la valigia sulle spalle e raggiunse la soglia.
«Abbi cura di te» sussurrò, chiudendo la porta, decisa a non mettere mai più piede in quella casa.

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