I due volti di un Lato Oscuro

di Dragasi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Rin ***
Capitolo 3: *** Johan ***
Capitolo 4: *** Rin ***
Capitolo 5: *** Johan ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
La valle del fiume Nyagen è famosa per due cose: le cascate e le miniere.
Le rocce taglienti scavate dalle acque impetuose dei numerosi torrenti che segnano la valle creano un paesaggio aspro ep- pure incantato, con sentieri impervi che si inerpicano su pendii scoscesi e brulli, ma dove i raggi del sole che incontrano l’aria nebulizzata delle cascate regalano arcobaleni stupendi. Si dice che dall’alba al tramonto ci sia sempre almeno un arcobaleno, per quanto piccolo, a dipingere il cielo della valle.
Ma i doni più preziosi, e soprattutto più bramati dagli uomini, si trovano dentro la roccia stessa nel cuore delle montagne. Pietre preziose di ogni sorta si possono trovare se si ha l’ ardimento di cercare, ma più di ogni altra gemma è il diamante a benedire questa terra.
Dalla città di Fallore, che si erge a ovest dove il Nyagen è an- cora un ruscello, giù giù fino alla grande città di Nyagore a est, capitale della valle, il territorio è costellato di villaggi che provvedono ad ogni necessità delle miniere, ad iniziare dalle braccia forti necessarie per impugnare il manico ruvido del piccone alle dita sottili per maneggiare le delicate pietre.
Da Nyagore si diramano le strade che collegano la valle con il resto del regno di Wes-Craven. In particolare la grande strada che, seguendo il corso del fiume verso nord-est, si addentra nel cuore della Foresta Bruna per poi riemergere e dirigersi ra- pida, attraverso le grandi praterie, fino alla capitale Lasken e naturalmente alle sponde dell’immenso lago Craven.


Angolino di Dragasi
Ecco qui. In questo prologo trovate l'ambientazione in cui si svolge la nostra storia, i personaggi verranno presentati dal prossimo capitolo. Tutto questo é il frutto di molte serate passate con un magnifico gruppo di persone. Spero che possano divertire voi, come hanno divertito anche noi.
A presto 

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Capitolo 2
*** Rin ***


Rin
Cosa c'è da dire dei miei primi anni di vita? Moltissime cose e, al contempo, quasi nulla.
Quel poco che so dei fatti antecedenti alla mia nascita mi ha portato ad essere quello che sono oggi, la persona che sta scrivendo questo diario.
Mio padre ha sempre desiderato avere dei figli, peccato che la vita non abbia mai desiderato farlo felice.
Pochi mesi prima che io e mio fratello venissimo concepiti, un uomo si presentò a nostro padre, che era un mercante. Aveva bisogno di un lavoro, non esattamente pulito e onesto, dato che quell'uomo era un seguace di Asmodeus. Mio padre rifiutò e non volle sentir ragioni, non voleva avere nulla a che fare con il culto di quell'arcidiavolo sanguinario. Purtroppo, l'uomo che si era presentato da mio padre non era un semplice seguace, ma un sacerdote di Asmodeus e, al rifiuto ricevuto, maledisse mio padre e la sua discendenza.
Tristemente, io ed il mio gemello siamo il frutto di quella maledizione. Si può dire che per certi versi siamo stati fortunati: abbiamo qualcuno che condivide la nostra stessa sorte. Per quanto il mondo ci possa odiare e venire contro, noi avremo sempre qualcuno al nostro fianco.
Quando venimmo al mondo, i nostri genitori si resero conto che eravamo diversi e non come lo possono esseri molti bambini, ma maledetti.
Io nacqui per primo, di pochi minuti, ma sono il maggiore. Quando la levatrice del piccolo villaggio in cui vivevano i nostri genitori mi prese in braccio, non riuscì a soffocare un grido spaventato, o almeno così mi narrò mio padre quando ancora vivevo con lui e mia madre.
Immagino che chiunque si sarebbe spaventato: un neonato con un occhio rosso e un pentacolo sopra l'occhio con una striscia rossa a deturpare il volto. Quello è il simbolo della maledizione che mi porto appresso. Non che Johan sia da meno, lui ha solo l'occhio rosso, e il pentacolo all'interno dell'iride. Meno vistoso, ma non meno inquietante.
Fummo sempre tenuti nascosti dal resto del villaggio, i nostri genitori volevano proteggerci. Appena spuntarono per bene i capelli, si capì subito che io ero quello più segnato esteriormente dalla maledizione: sono completamente bianchi. Vedere un bambino di appena un anno con i capelli bianchi non è esattamente normale.
I primi anni di vita passarono tranquilli e relativamente felici, se si può definire felice un bambino segregato dal resto del mondo. Io e Johan trascorrevamo ogni istante insieme, unici e solitari compagni di giochi e avventure.
Peccato che occhio e capelli non fossero abbastanza. Fin troppo presto ci spuntarono corna e coda e i canini si fecero più aguzzi. A quel punto non potevano più tenerci nascosti. Nel giro di poco tempo, i nostri genitori, terrorizzati da ciò che eravamo diventati, ci scaricarono nelle vie dei sobborghi della città più vicina. Per anni abbiamo vissuto per le strade, maltrattati, insultati e affamati. Fortuna che Johan non si è mai fatto molti scrupoli e, in un modo o nell'altro, qualcosa da mangiare lo procurava.
Io, invece, non volevo rubare. Certo, non rifiutavo il cibo che ci procurava mio fratello, ma non volli mai rubare neanche una pagnotta.
Lui procurava il cibo e io pensavo a proteggerci dalle persone. Ho sempre avuto una specie di sesto senso per le intenzioni della gente, sono sempre stato in grado di capire chi aveva intenzioni malvagie nei nostri confronti e, data la nostra natura, negli anni non sono mancate.
Mi ricordo di un giorno in particolare. Un uomo ci aveva avvicinato cercando di convincerci che aveva del cibo per noi. Sia io che Johan non eravamo del tutto convinti della sua onestà, era più facile che ci sputassero o cercassero di picchiarci, piuttosto che darci anche una sola pagnotta rinsecchita. Ci avvicinammo lo stesso, ma proprio mentre stavamo per afferrare la carne secca che ci stava offrendo, sentii una fitta all'occhio maledetto e, subito dopo, vidi l'uomo circondato da una specie di nuvola rosso sangue. In quel momento mi limitai ad urlare: «Scappa, Johan!»
Fortuna che mio fratello si è sempre fidato di me, come io di lui. Se ci ripenso adesso, probabilmente quell'uomo voleva catturarci e venderci come schiavi.
La nostra è una razza resistente e, inoltre, c'è molta gente malata che pagherebbe montagne d'oro per avere un Tiefling incatenato da mostrare come trofeo.
Nei primi anni della nostra vita di strada, ci rendemmo conto che eravamo in grado di parlare una strana lingua, oltre a quella dei nostri genitori. Non aveva un suono amichevole, ma ci rendemmo conto ben presto che, quando la usavamo, nessuno ci capiva. Iniziammo subito a cercare di parlarla in modo fluido e tra di noi iniziammo ad usare solamente quella, nessuno avrebbe più inteso ciò che pensavamo. Solo alcuni anni più tardi scoprimmo il nome di quella strana lingua, che può definirsi la nostra lingua madre: Infernale, la lingua dei diavoli.
Poi un giorno mio fratello tornò dal giro notturno con una strana espressione in volto, non riuscivo a definirla, ma poi lui mi raccontò. Aveva ucciso un uomo. Non lo biasimavo, né provai il desiderio di rimproverarlo. Sapevo che si era trattato di una scelta tra la sua vita e quella dell'uomo che aveva di fronte, io avrei fatto la stessa cosa. Quello che non approvavo era la sensazione di piacere che aveva provato nel momento in cui il coltello era entrato nella carne dell'uomo. Questo non glielo dissi mai, ho sempre saputo che mio fratello non è malvagio e sono convinto che non ucciderebbe solo per il gusto di farlo.
Quelli che seguirono furono gli ultimi giorni della nostra vita di strada. Fummo trovati. La nostra paura iniziale dell'essere arrestati e, molto probabilmente, anche giustiziati, scemò in fretta quando i due uomini che avevamo davanti iniziarono a parlare. Sembravano essere dalla nostra parte. Erano due uomini: uno grasso e dal viso rubicondo, portava una lunga veste rossa con due boccali ricamati all'altezza del petto; il secondo indossava vestiti normali, sembrava un ricco locandiere, ed era decisamente robusto, anche lui portava un boccale ricamato all'altezza del petto. Volevano aiutarci, renderci davvero liberi di vivere secondo la nostra strada, di scegliere ciò che volevamo nella vita e di poterci godere i suoi piaceri. Io ero affascinato dai loro discorsi, dalle possibilità che ci stavano offrendo… tutto in nome di un certo dio, dicevano che era la sua volontà. Quel giorno credetti alla parola di quei due uomini e la mia vita e quella di mio fratello cambiò, il loro dio divenne il mio.

Angolino di Dragasi
Eccoci qua! Allora questa storia è il frutto della fantasia di due persone, oltre a svariate serate passate con un magnifico gruppo di amici. Le avventure di questi due Tiefling ci hanno molto entusiasmato, e ci hanno fatto divertire e continueranno a farlo. Spero che il loro viaggio possa appassionare anche voi come ha fatto con noi. Rin e Johan sono felici di potervi narrare la loro storia.
Se avete domande, mandate un messaggio qua su EFP e riceverete risposta entro 24 ore!
A presto!

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Capitolo 3
*** Johan ***


Johan
Nascosto. 
Tutta la mia vita finora è stata nascosta, e non è che ora migliori.
Nato a causa di una maledizione, che almeno ha avuto il buon gusto di darmi un gemello, sono stato nascosto dai miei genitori. Certo, un figlio con un occhio rosso e per di più con un pentacolo nell’iride non si manda in cortile a giocare con gli altri bambini. Per anni il mio unico compagno di giochi e di avventure è stato mio fratello, Rin. 
Poi è stato peggio. 
Con la crescita di corna e coda, caratterizzandoci definitivamente come Tiefling, ci è stata preclusa ogni possibilità di avere un'infanzia normale. O meglio, ci è stata preclusa una famiglia. Buttati in strada come fossimo spazzatura ci siamo abbassati a vivere di carità. 
Non l'ho accettato. 
Non potevo sopportare l'idea di dipendere da altri. Io bastavo per me e per mio fratello. 
 
Fu così che ebbe inizio. 
Il giorno non mi è mai piaciuto, troppa luce fastidiosa, troppa gente piena di sé, troppi sguardi disgustati o pieni di pietà, che, poi, sono la stessa cosa per me. Troppo. La parola che meglio descrive il giorno è "troppo". 
La notte, invece…
La notte è calma, rassicurante. Di notte la gente comune dorme, è indifesa. All'inizio mi limitavo a frugare nelle dispense per trovare un po' di cibo. Lo facevo per sopravvivere, per farci sopravvivere. Poi una notte, la sicurezza acquisita mi giocò un brutto scherzo. Forse non prestai troppa attenzione ai rumori del pavimento, forse il padrone di casa, un macellaio umano sulla cinquantina, aveva il sonno leggero, tant'è che mi sorprese, come si suol dire, con le mani nel sacco. 
Agii d'istinto. 
Non potevo permettermi che le guardie mi arrestassero o peggio, data la mia particolare natura. Chi avrebbe badato a mio fratello? Chi si sarebbe preoccupato della sua sopravvivenza? 
Senza accorgermene, quasi fossi stato predestinato ad essere quel che divenni, afferrai uno dei suoi coltelli sul tavolo. Con movimenti veloci e precisi mi avvicinai a lui dal basso e conficcai il coltello di piatto nel suo fianco. Avvertii la sensazione della lama che penetra dolcemente nel tessuto molle della carne, e, sorpreso, constatai che la sensazione era piuttosto piacevole. Dal rosso acceso del sangue che punteggiò il pavimento intuii che la ferita doveva essere mortale. Purtroppo le grida di dolore dell'uomo richiamarono comunque delle attenzioni e dovetti dileguarmi senza neanche prendere la refurtiva. 
 
                                                                       ~  ~  ~
 
Mi fidavo di mio fratello.
Aveva il dono di percepire le intenzioni della gente. Una volta ci ha salvati da una vita di schiavitù. Intuiva quando dovevamo fuggire e quando invece potevamo accettare il pane che ci offrivano.
Qualche giorno dopo la mia silente iniziazione dei simpatici "preti", o quel che erano, ci trovarono nel nostro rifugio, una catapecchia abbandonata ai margini della città. Guardando verso Rin capii che non avevano cattive intenzioni, anzi, sembravano abbastanza convinti che i soprusi che avevamo finora vissuti fossero ingiusti e che tutte le creature devono poter essere libere. 
Per quanto fossi d'accordo con i loro discorsi, non mi infiammavano come facevano con mio fratello! Li ascoltava come se fossero Dio sceso in terra, e forse per lui lo erano davvero. 
Grazie a loro, però, potemmo abbandonare la nostra squallida abitazione e andammo a vivere nella loro congregazione. Non che non mi divertissi, anzi! Grazie a loro ho scoperto l'inebriante dolcezza dell'alcol e, grazie a qualche donzella che non mi ripugnava, anche i piaceri della carne. In fondo, se mascherato in modo appropriato, potevo anche risultare gradevole. Un giovane moro con l’occhio azzurro, non era così male! Ma quella vita, che tanto amava mio fratello, non si addiceva a me. Non dopo aver assaporato il potere di togliere la vita... 
 
Una notte lo vidi. 
Era la "cosa" più veloce e più silenziosa che avessi mai visto. Correva sui tetti e non produceva il minimo rumore. Io, che grazie ai miei occhi privilegiati, mi vantavo di vedere tutto di notte, facevo fatica a seguirlo con lo sguardo e lo persi. 
Fu una folgorazione. 
Dovevo ritrovarlo. 
Dovevo ritrovarlo e pregarlo di addestrarmi per diventare come lui. 
Così iniziarono gli appostamenti. Notte dopo notte, settimana dopo settimana. Ero ossessionato. Dopo un mese di attesa la mia pazienza venne ripagata. 
Lo vidi e scattai. 
Fu un inseguimento estenuante. Saltammo da un tetto all’altro come fossimo gatti e ci infilammo nei ripidi vicoli che caratterizzano la mia città come fossimo topi, senza mai essere notati. Spesso lo perdevo di vista ed ero costretto a fermarmi, scoprii che la vista non era tutto. Lo raggiunsi che era quasi mattina e finalmente capii. 
Era un ninja. 
Fu difficile convincerlo della mia volontà a far parte della gilda, ma so essere molto persuasivo quando voglio. 
Al mio arrivo alla fortezza scoprii che il mio "accompagnatore" era un allievo ninja, ecco perché ero riuscito non solo a inseguirlo, ma anche a convincerlo. Per la prima volta nella mia vita ringraziai quel Dio di mio fratello per la fortuna che avevo avuto.

Angolino di Dragasi
Ed in questo capitolo conoscete per davvero Johan, giovane Tiefling che, anche se non lo dà molto a vedere, vuole bene a suo fratello. Spero che vi stiate divertendo con questa raccolta, la raccolta delle nostre avventure.
Come al solito se avete domande mandatemi pure un messaggio e vi risponderò il prima possibile.

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Capitolo 4
*** Rin ***


Rin
La vita con i seguaci di Cayden Cailean non era per niente male.
Ci avevano fornito un alloggio e cercavano di aiutarci in ogni modo. La maggior parte di loro erano locandieri, così io riuscii ad iniziare a lavorare per uno di loro occupandomi solamente della cucina, dato che il mio aspetto poteva non essere gradito ai clienti. Johan non lavorava, ero io a mantenerci entrambi, ma dopo gli anni passati in strada lo consideravo giusto. Era ora che mi occupassi io di lui, come dovrebbe fare ogni fratello maggiore.
Io e Johan iniziammo ad apprezzare l'alcol e tutti i piaceri che la vita poteva offrirci. Quando vivevamo per strada ero convinto che avremmo vissuto nella miseria per tutta la nostra esistenza ed invece, finalmente, avevamo tutto ciò che potevamo desiderare.
Riuscii pure ad iniziare a studiare, costruendomi le basi di una cultura che avrei ampliato negli anni. Quasi tutte le sere bevevamo con gli altri fedeli e spesso trovavamo qualche ragazza con cui divertirci per una notte o due.
Con una in particolare non mi limitai a divertirmi un poco. Ci frequentavamo con piacere e lei trovava estremamente affascinante la mia coda. Ne ero innamorato, ed è inutile nascondere il fatto che Johan trovasse la cosa molto divertente. Si chiamava Arinne, aveva i capelli ramati e gli occhi verdi, era esile e appariva estremamente fragile.
Dopo alcuni mesi, decisi di prendere le distanze da lei: non volevo costringerla a legarsi ad uno come me, ad un essere maledetto. Allora ero già consapevole del fatto che la mia famiglia sarebbe sempre e solo stata quella formata da Johan e me, non volevo mettere al mondo una creatura innocente che sarebbe stata maledetta fin dalla nascita. Amavo Arinne e, proprio per questo, la lasciai andare. Fu l'ultima ragazza con cui condivisi un letto.
Dopo Arinne presi una decisione: avrei eliminato chi aveva condannato me e mio fratello ad una vita solitaria, a quell'esistenza maledetta.
Parlai della mia decisione con il capo della congregazione, era uno dei due uomini che ci aveva trovato. Si chiamava Baldwin ed era un uomo davvero gentile e dall'animo buono.
Andai da lui in un pomeriggio soleggiato e lui mi accolse nel retro della sua locanda. Iniziai a parlargli della mia decisione di dar la caccia ad ogni seguace di Asmodeus e a chiunque ledesse la libertà altrui e lui mi parlò di una possibilità...
- Rin, nella nostra chiesa non sono molto comuni, ma anche noi abbiamo degli Inquisitori. Questi uomini operano nel nome di Cayden Cailean, difendendo i suoi ideali. Se tu diventassi uno di loro, avresti la benedizione del nostro dio nella tua crociata -
Avevo bisogno di tempo per decidere e lo dissi a Baldwin, che mi tranquillizzò assicurandomi di avere tutto il tempo che volevo.
Avrei voluto parlarne con Johan, peccato che fosse sparito da qualche giorno. Ancora non mi stavo preoccupando, non era la prima volta, ma era via da più tempo. Passarono due settimane e di Johan ancora non avevo notizie, ma decisi che era ora di dare una risposta a Baldwin.
Andai da lui una mattina agli inizi dell'autunno, per dirgli che volevo intraprendere il cammino per diventare Inquisitore. Mi sembrò felice e mi disse che non sarebbe stato semplice. Scrollai le spalle, fino a quel momento nella mia vita avevo avuto ben poche cose semplici e l'andare incontro alle difficoltà non mi spaventava.
Iniziai pochi giorni dopo l'addestramento, mentre la mia preoccupazione per Johan cresceva. La mia mente prese in considerazione le peggiori ipotesi, ma con tutto me stesso cercavo di oppormi anche solo all'idea di essere rimasto solo al mondo, di non poter mai più vedere mio fratello.
L'addestramento, però, iniziò ad occuparmi le giornate e le notti. Eravamo in quattro a compiere quel percorso, io ero l'unico a non essere umano, ma agli altri non sembrava importare. Al mattino avevamo lezioni teoriche, al pomeriggio ci addestravano nell'utilizzo di varie armi e tipi di combattimento. Ci insegnarono a trovare anche la forza magica racchiusa in noi che ci avrebbe permesso di lanciare incantesimi, accompagnata alla fede nel nostro dio. La sera lavoravo alla locanda e passavo buona parte delle mie notti a studiare.
Di Johan non avevo più notizie da mesi e decisi di darlo per morto, era un'idea più sopportabile che pensarlo in catene in qualche prigione o nella casa di un pazzo.
Imparai ad usare la fede che rimettevo nel mio dio per avere dei poteri: potevo guarirmi le ferite in combattimento o aumentare la potenza di qualcuno. Scoprì che con il mio occhio ero in grado di vedere attraverso muri, anche se non potevano essere troppo spessi.
Mi resi conto che ero pieno di doni, dovuti alla mia natura, ma non cambiai idea: avrei eliminato tutti i seguaci di Asmodeus.
Mi scoprii, più spesso di quello che vorrei ammettere, a pregare Cayden Cailean di ridarmi mio fratello, anche se avevo deciso di darlo per morto.
Non riuscivo ad immaginare il motivo di un'assenza così prolungata e, dopo un anno dalla sua scomparsa, mi sentii come se fosse morta anche una parte di me.

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Capitolo 5
*** Johan ***


Johan
Rinchiuso.
Come inizio non mi parve uno dei migliori. Non feci in tempo ad ammirare il paesaggio. Lo scoprii in seguito. Non c’è che dire, i ninja sanno scegliersi dei bei posti: un ampio altopiano delimitato dai rami di un torrente che si biforca a Nord con una cascata e si riunisce a Sud con un’altra cascata. Le montagne fanno da sfondo a questa struttura imponente che si erge su questa isola, protetta dalla natura e dalle guardie. Appena fui avvistato dalla ronda della base venni catturato e portato nelle celle sotterranee. Almeno c’era buio. Al mio “accompagnatore” non fu riservato un destino migliore: rinchiuso nella cella di fronte.
Ci volle una settimana prima che la “direzione” si decidesse a parlarmi. Nel modo più educato possibile spiegai la mia storia e il mio desiderio di diventare un ninja, cercai di essere diplomatico, di convincerli.
Venni rinchiuso, di nuovo.
Dopo un ulteriore settimana di reclusione iniziai a pensare di non essere un buon oratore. Dopotutto me la sono sempre cavata meglio con i fatti che con le parole.
Presi la mia decisione.
Avrei dimostrato di cosa ero capace. Sapevo di avere le capacità per diventare un buon ninja.
 
Sarei evaso.
Se fossi riuscito ad eludere la sorveglianza, avrei dimostrato le mie abilità. Mi avrebbero dovuto ammettere al loro addestramento, almeno per non macchiare la loro reputazione.
Durante le settimane di prigionia avevo iniziato a legare col mio compagno di sventure, il cui nome scoprii essere Drake. Benché riluttante gli illustrai il mio piano: in due le possibilità di riuscita sarebbero state maggiori e poi lui conosceva la base e anche alcune delle nostre guardie. Ce n’era una in particolare che faceva al caso nostro. Dall’aria spavalda e sicura di sé era tranquillizzata dalle catene che mi legavano al muro e più di una volta usò toni sprezzanti con me. Drake mi rivelò inoltre che durante gli allenamenti non prestava mai troppa attenzione ai dettagli.
Questo gli costò caro.
Aspettammo una sera in cui fosse lui a portarci la razione giornaliera. Fummo fortunati. Quella sera aveva voglia di prendersi gioco di me. Incautamente si avvicinò troppo e non si ricordò della mia coda libera. Nessuno aveva preso in considerazione l’idea di incatenarla, perché ancora troppo debole per essere considerata una minaccia. Con un gesto rapido però riuscii a rovesciargli addosso la ciotola di brodo bollente. Si distrasse un attimo e per me fu sufficiente. Con una testata si accasciò a terra, privo di sensi. La mia natura si stava rivelando utile: prima la coda e ora le corna. Con l’ausilio della coda gli sfilai le chiavi che teneva alla cintura e liberai me e Drake. Incatenammo il nostro “salvatore” al muro e lo imbavagliammo, per scongiurare qualsiasi tentativo di ricerca d’aiuto.
Uscire dalle segrete non fu facile, ma avevamo dalla nostra una certa esperienza di movimenti furtivi e soprattutto nessuno sospettava della nostra fuga. Riuscimmo ad arrivare fino al salone principale grazie alle conoscenze di Drake, e lì ci fermammo. Alle primi luci dell’alba arrivarono i maestri ninja per l’assemblea mattutina e, dallo stupore dei loro occhi, ebbi la conferma che cercavo: avrei iniziato il mio addestramento.
 
                                                                       ~  ~  ~
 
I primi mesi si alternarono tra lezioni pratiche e teoriche. Imparai a padroneggiare le tecniche di combattimento con armi esotiche come il nunchaku e gli shuriken, ma era la wakizashi che mi aveva stregato il cuore! La percepivo come un naturale prolungamento del mio braccio e i movimenti erano fluidi e veloci. La sua lama era corta e all’apparenza innocua rispetto alla più temibile katana, ma nelle mani giuste sapeva rendersi straordinariamente letale.
Non imparai solo a combattere. Durante le lezioni teoriche imparai a parlare. I ninja compiono spesso missioni per conto di signorotti locali e quindi un buon ninja deve sapersi rapportare con la nobiltà. Non fu semplice per i miei maestri insegnarmi la diplomazia, ero pur sempre un Tiefling, bastava il mio aspetto a rendermi poco diplomatico. Eppure in quei mesi d’addestramento imparai che, se m’impegnavo, potevo davvero esser un buon oratore. Fortunatamente la mia natura mi concedeva anche tratti positivi: nessuno intimoriva come me. E questo si poteva rivelare molto utile quando bisognava recuperare informazioni nei bassi fondi delle città.
Poi fu l’avvento della botanica.
Fu una rivelazioni sconcertante. Alcune piante velenose già le conoscevo, ma la varietà e le proprietà che l’universo vegetale poteva fornire mi colpì profondamente. Ero affascinato da questa materia e presto imparai a combinarla con il combattimento. Ora ero in grado di uccidere anche con il veleno.
 
Giurai.
Poche settimane dopo l’inizio dell’addestramento, prima che i nostri maestri potessero svelarci segreti noti solo ai ninja, dovemmo prestare giuramento. Drake, che l’aveva già fatto, mi spiegò che sarebbe stato sancito col sangue. Il giorno della cerimonia, se di cerimonia si può parlare, mi presentai al cospetto del sommo Jonin[1] e di alcuni testimoni, tendenzialmente tutti Chunin.
Da solo davanti a quei grandi guerrieri giurai su quelle poche regole che avrebbero per sempre vincolato la mia vita.
Sarei stato fedele al mio signore e ai miei superiori.
Avrei mantenuta segreta la mia identità.
Sarei sempre stato leale coi miei compagni.
Non avrei mai ucciso un ninja del mio gruppo o un mio alleato.
Quattro semplici regole. Una vita da dedicare a loro.
Per ricordarmi per sempre questo codice e chi sono diventato il Jonin mi incise sull’avambraccio con la mia wakizashi quattro segmenti a formare un sai ninja. La ferita bruciava ma mai fui più convinto di una mia decisione.
Ricominciai l’addestramento. Ora ero allo stesso livello di Drake, ero diventato un Genin.
 
                                                                       ~  ~  ~
 
 
Ben presto i miei maestri si accorsero delle mie potenzialità. Grazie al cielo la società ninja si basava sulla meritocrazia e non importava chi fossi o da dove venissi, importava solo quanto fossi bravo.
Fu così che venni scelto insieme a Drake per una piccola missione per conto di Lord Byrion.
La mia prima missione.
 
Tutti i miei sensi erano allerta e attenti ad ogni minimo cambiamento.
Era notte ed eravamo appostati fuori la dimora di Lord Zotek ormai da tempo. La missione era semplice: dovevamo ucciderlo.
Aveva commesso l’errore di non appoggiare Lord Byrion, che spesso richiedeva i nostri servigi, per una causa a lui cara: l’ampliamento della sua tenuta a discapito di qualche povera fattoria. Non ho mai avuto il senso di giustizia che pervade mio fratello, benché abbia passato un’infanzia di stenti non provo pietà per nessuno, ancor meno dopo l’addestramento che ho seguito.
Naturalmente non si doveva lasciar trapelare alcun collegamento tra l’uccisione di Lord Zotek e Lord Byrion: doveva sembrare un suicidio. Già da tempo i miei superiori lavoravano su questo caso ed erano riusciti a contraffare i registri contabili della nostra vittima, creando così un falso bilancio fallimentare.
Ora dovevamo solo attendere che uscisse, come ogni notte, per andare al bordello del paese, a trovare la soddisfazione che la giovane moglie non gli dava.
Poi sarebbe toccato a me e Drake.
Questa parte della missione era più semplice e quindi poteva essere affidata a due “novellini” come noi.
Comparve.
Quasi sorrisi quando lo vidi “aggirarsi furtivamente” augurandosi di non farsi seguire da nessuno. Mi ricomposi subito ricordando a me stesso che nessun nemico va sottovalutato, anche se vedere i suoi modi impacciati e frettolosi mi rassicurò sull’esito della missione.
Scattammo silenziosi.
Con pochi rapidi passi lo sorprendemmo bloccandogli ogni via di fuga. Con l’aiuto del mio nunchaku, molto utile se non bisogna essere letali, lo bloccai quel tanto perché Drake potesse ficcargli in gola dell’olio di Taggit. È un particolare veleno che, se ingerito, lascia la vittima priva di sensi per qualche ora, quanto ci serviva per poter inscenare il suicidio. Lo portammo nelle stalle e iniziammo a preparare il cappio per l’impiccagione. Scegliemmo una trave facilmente raggiungibile da chiunque, soprattutto da un uomo grasso di mezza età, poi, trovata lì nei pressi una corda, ci mettemmo al lavoro. Lo issammo ancora privo di sensi e, dopo aver fatto passare la corda intorno al suo collo, mollammo la presa.
Fu un tonfo sordo.
Lo sgabello era riverso a terra e ipnotizzati osservammo il lento dondolio di quel corpo esanime. Dopo circa un minuto era già diventato cianotico e dopo pochi altri ne constatammo il decesso. Non c’era più polso.
Silenziosi com’eravamo arrivati, tornammo alla base.
 
[1] La gerarchia ninja si basava su tre importanti figure: Jonin, il più alto in grado, Chunin e Genin, considerati soldati semplici. L’ordine era stabilito in base alla proprie capacità e non in base a diritto di nascita. Le diverse sezioni potevano collaborare tra loro mantenendo sempre l’obbedienza a chi era superiore in grado.

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