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Risuona come un immenso grido senza inizio
né fine e cresce. Cresce di attimo in attimo. Sempre più forte, incontenibile.
Da dove viene questo suono? Si chiede. E per un attimo non capisce dove sia. Nè
dove si trovi. E perché mai, in fondo, fra tutti i luoghi, è proprio in quello
che ella ritorni ora, vacuamente, come anima errante alla ricerca della propria
origine.
Arriverà qualcuno. Ricorda. Ma non chi desidero. Si dispiace.
Così in un attimo ella si volta, il cuore
pesante, gonfio di un sentimento che ancora non comprende ma già teme, già
sente di dover fuggire. E scappa. Vesti a frusciare in quel suono roboante
coprendo i suoi passi affrettati, smaniosi, esasperati.
Di qui? Si chiede. No, di
là. Di là.
Forse così facendo, si dice, sarà in grado
di evitare quel momento. In grado di impedirsi di incontrare il vago accenno
del destino che, inevitabile, cala su di lei sempre più vicino, intollerabile.
Si ferma. Prende fiato.
E solo allora si rende conto che tutto
intorno a lei sta vorticando così fortemente da far male alla vista. E forse
girerebbe ancora più forte se lei medesima non girasse con lui ad un ritmo
pazzesco.
Ma non può fermarsi. Non può.
“Dove stai andando, Odayn?”
di nuovo la voce la rincorre. Imperturbabile. Calma. Come quella di un
genitore.
Non lo so. Si sorprende a pensare. Non te lo dico.
Aprì gli occhi poco meno che una frazione
di secondo. Sabbia sulle labbra. Vento lontano. Forte. Fortissimo. E caldo.
Irrespirabile. Un attimo per percepire il ronzio della tempesta nelle orecchie
e ricadde da dove era venuta, nei propri sogni.
E si chiede chi siano quelle figure in
lontananza. Le sente parlare vivacemente. Decise. Come branco di fiere attorno
alla preda. Ma basta un suo movimento per zittirle. Giusto la percezione che
lei li stia guardando a mutarli, come sorpresi.
E guardarla. Lei, che inerme non sa far
altro che scrutarli da lontano.
Il buio ondeggia attorno alla sua figura
sola, la vaga sensazione di essere per lo più nuda a farla indietreggiare,
timidamente, alla ricerca di un poco più di buio.
Come può essere accaduto? Si chiede.
Ricordava di aver avuto vesti e abiti bellissimi alla Torre del Tempo. Cose da
far arrossire mentre li indossava.
Ed ora è nuda.
“Vieni” le dice qualcuno “Vieni qui”
Lei invece arretra. Non le piace che le
diano ordini. Lei, che li ha eseguiti per tutta la vita. Non le piace ora che
la si apostrofi con quel tono. Ma sa che obbedirà. Lei obbedisce sempre.
Sempre.
Questa volta il risveglio fu più rude,
brusco, quasi in risposta ad uno scossone che il suo corpo aveva percepito suo
malgrado. Gemette come un bambino, un dolore vago e generalizzato a sgusciarle
fuori dalle labbra in un sospiro ovattato, greve, rasposo.
Di nuovo percepì allora il vento. Ed il
caldo forte ed incombente attorno a lei, respiro rovente contro il viso che le
tolse il fiato costringendola a tossire suo malgrado, debolmente.
Scoprì inoltre di avere sete.
Terribilmente. E di essere senza forze. Nemmeno per alzare un braccio o
spostare il proprio corpo da quella strana posizione in cui - non riuscì
nemmeno a definirla - era messa.
Dormire ancora e di nuovo, per quanto
difficile, fu l’unica soluzione.
Il freddo torna da lei ancora. Opprimente.
Una stretta sul corpo che pesa tanto, troppo per resisterle. Si divincola,
scalcia, eppure avverte chiaramente che non vi si può liberare in alcun modo.
Così aspetta, incerta nel capire se così facendo morirà o semplicemente rimarrà
immobile tutta la vita. In attesa.
Poi un movimento. Poi una presenza. Poi
quella vaga sensazione a tornare, presente. Vicina.
“Odayn” la
chiamano “Odayn...”
Ma forse no. Forse questa volta non è una
voce. E’ altro. Altro ancora...
Odayn...
E lei scuote il capo. Una volta. Due. Di
nuovo. La meccanicità di quel gesto a guidarla di convinzione, volontà,
sentimento finché, perché no, ella sente che potrebbe anche opporsi questa
volta. Solo questa. Poi basta, poi mai più.
E forse, già che c’è, aprire anche gli
occhi finalmente. E’ tanto che non lo fa. Lo sa. Lo sente.
“Odayn...” la
ammonisce però qualcuno “Odayn...”
Aprire gli occhi fu come destarsi senza in
realtà farlo. Tornare alla propria realtà ed al contempo rimanere avvinti a
quell’altra poco più indietro, poco oltre, ancora nascosta dietro il velo della
vista appannata, dei sensi intorpiditi.
Eppure, sospirò. Eppure con la stessa
incredibile certezza provata nel sogno, la Nihaar’ì
seppe di non trovarsi più nel sottile confine fra Oneiron
e realtà bensì nella più semplice, rozza e banale concretizzazione della vita.
Fu la fame a suggerirglielo. E la sete. E
quei piccoli rumori di fondo, simili in tutto e per tutto ad un costante
crepitio dell’aria che solo il mondo, quello vero, poteva avere.
Aspirò a disagio l’umidità che la
circondava, cogliendo solo allora una vaga fragranza di bruciato e dolcezza
assieme. Espirò. Cannella? Si chiede. Cannella, si. Riconobbe.
Strizzò allora gli occhi, invano, solo per
accorgersi finalmente di avere il Velo calato sulle palpebre e di essere
completamente sola in quella che presto si mostrò ai suoi sensi come una fredda
notte passata - ipotizzò- all’aperto.
Esitò. Incerta.
Dove si trovava l’ultima...la sua mente incespicò...volta?
Seppe ancor prima di provarci, che avrebbe
sbagliato. I suoi ricordi erano confusi, distorti e lontani come se fossero
appartenuti ad altri e non a lei. La sua memoria vagava in sapori che ella era
certa di non aver assaggiato. Parole che non avrebbe potuto affermare di aver
detto. Sensazioni che di certo non erano state affar
suo.
Eppure doveva pur esserci stato qualcosa
prima. Molto prima. Qualcosa che la sua mente avrebbe potuto collocare senza
alcun dubbio in una sfera temporale tale da ricordarle da quando, in effetti,
ella avesse completamente smesso di ricordare...
Oh, si. Qualcosa
c’è.
Nella fitta di dolore che seguì, acuta
come la più vera e mordace delle stilettate, la Nihaar’ì
non potè fare altro che ripiegarsi su se stessa e
gemere lungamente, debolmente.
Asiya.
Annaspò, i cocci -ora ricordò- già
infranti del suo animo a scricchiolare nuovamente dentro di lei mentre ella
tentava suo malgrado di resistervi in un grido vuoto, esangue.
Dormi
Le ordinò nuovamente qualcosa da dentro. Sbattè gli occhi, stordita dal suo medesimo ansimare.
Dormi. Dormi.
Fu il nuovo, crudo, consiglio.
Ancora? Digrignò il suo corpo teso. Ancora
un secondo e si sarebbe spezzato, pensò. Gambe e breccia separate da un busto
duro e secco, arido come roccia al sole. Ma la mente parve suo malgrado
assentire. Si, dire, prima che ella avesse anche solo la possibilità di
replicare.
Se avesse potuto - e la sua mascella non
fosse stata serrata in una morsa d’acciaio - allora avrebbe probabilmente
sbadigliato a lungo, lungamente. E poi teso le orecchie a quei strani rumori
non proprio distanti da lei. Così vicini in realtà, che per un attimo ebbero
quasi la forma e consistenza di voci. Voci vere. Voci umane. Voci - inorridì-
sconosciute.
Poco prima di potersi spaventare o anche
solo formulare la necessità di provare una vera e propria sensazione di paura
la sua mente sprofondò nuovamente nel più greve dei sogni.
Il vento la ghermisce, trascinandola
avanti. La sospinge come creatura senza forma e peso, avvolgendola in spirali
selvagge per poi risputarla fuori più oltre, in un nugolo di suoni e spifferi
senza fine. Lei indietreggia, sopraffatta, inutilmente cercando di resistervi e
tuttavia mancando di riuscirsi una, due, tre volte.
Alla quarta smette del tutto di provarci e
si accascia a terra, esangue, esausta. Tutto il corpo le duole di mille e più
aghi di sabbia conficcati nella pelle. Ogni membra accusa il frustare delle
correnti d’aria.
E di nuovo, sente la sete. Sente la fame.
Sente che tutto di lei in quell’attimo si sta esaurendo assieme al vento e al
turbinio feroce degli elementi.
Boccheggia. Poi si copre il viso. Poi
sente per davvero di non farcela più ed allora si chiede, in fondo, perché ha
deciso di andare proprio di qui, proprio qua, al di là di ogni sicurezza e
certezza. Al di là del buonsenso e di quella voce che lontana lontana eppure incredibilmente presente le urla senza fiato
“Somma Nihaar’ì”
il risveglio fu poco meno
che un balzo a vuoto da un mondo all’altro, il salto a sottrale
tutta l’aria che aveva in gola per sfibrare in lei in un grido roco e scarno,
terrorizzato.
Sbattè le palpebre, la furia del vento attorno a sé a riempirle immediatamente
gli occhi di sabbia e dolore. Barcollò scoprendosi allora in piedi, immobile,
nel bel mezzo di una tempesta di sabbia.
“Somma Nihaar’ì!”
E di nuovo quella voce nel vuoto a
perdersi fino a lei in quel marasma ocra e bianco, talmente denso da impedirle
quasi di scorgerlo. Annaspò.
Avrebbe dovuto rispondere? No. Si
rispose subito dopo. Nessuna voce a lei conosciuta sarebbe suonata così.
Tuttavia esitò, gli occhi che incerti tentavano di guardare al di là del velo
che ella scoprì esserle volato via chissà dove. La sua assenza la spaventò ed
allarmò al contempo, costringendola per istinto a coprirsi il viso con entrambe
le mani.
“Somma Nihaar’ì!”
Più vicino, il richiamo la raggiunse nei
pochi passi che ad esso seguirono tramutandosi infine in una figura curva,
china nel tentativo di resistere alle intemperie.
“Z-Zaphil?”
mugugnò incerta. Fece come un mezzo passo avanti. Poi si bloccò “Sei...tu?”.
In un turbinio di vento e sabbia, la
figura finalmente emerse in un tramestio di forme giovani e oblunghe, spalle
troppo strette, vesti assai diverse da quelle a lei note e no,
affatto, una fisionomia che nulla o niente aveva a che fare con alcuna delle
persone che ella poteva dire di conoscere o riconoscere a memoria.
Fu certa allora di gemere, spaesata, la
consapevolezza di non avere affatto memoria di dove e perché in quell’istante
si trovasse in quel luogo - che luogo, poi? - a precipitarla in uno stato
di panico e confusione assieme. Uno, due passi, si avvertì vacillare
all’indietro, affondare fino al polpaccio in sabbia fredda e pungente, irta
contro le gambe nude.
“Za...” il vento la soffocò. Tossì. Tentò
allora di avanzare ancora” Zaphil...”
Con un balzo il suo inseguitore le fu
improvvisamente addosso agguantandola in un’esplosione di sabbia e vento.
Questa volta fu certa di gridare, la vaga
sensazione di doversi liberare dalla presa a
farle perdere l’equilibrio e farla cadere -inseguitore al seguito- giù lungo il
fianco di una duna di sabbia. Rotolando, la sabbia le entrò in bocca, negli
occhi, nei vestiti, le graffiò la pelle e le strappò i capelli.
“Somma Nihaar’ì!
Vi prego!”
Vi prego?
Boccheggiò senza fiato, incapace di far
altro se non divincolarsi ancora, ma l’altro la trattenne “Vi prego” ripetè “N-non voglio farvi del male!”. Di certo convinta,
la Nihaar’ì decretò che gridare probabilmente non
fosse la cosa migliore da fare in quel momento così tentò in silenzio di
divincolarsi. Invano. A metà del primo tentativo, un violento colpo di tosse la
colpì rubandole istantaneamente qualunque velleità di resistenza. Quando ebbe
fine, ogni suo arto e possibilità di fuga erano sapientemente vincolate alla
formidabile presa del suo aguzzino. Il naso premuto contro un tessuto crudo e
ispido di sabbia, tossì nuovamente, più volte, invano.
Di ritorno da terre straniere
e stenti lavorativi, eccomi di nuovo qui! Ancora un mega grazie a tutti quanti
per aver resistito fino a qui e un altrettanto mega grazie se resisterete ad
altri sudatissimi capitoli futuri J Spero che possa
piacervi e di trovare tante bellissime recensioncine!
A presto e baciozzi!
Elendil
Quando tutto ebbe fine, la Nihaar’ì era ancora stretta all’altro, immobile in un
vincolo pungente di sabbia e timore. Tuttavia non si mosse. Incerta fra il
disdegnare quella presa sconosciuta e segretamente apprezzarla.
Asiya la abbracciava spesso. Ginguettò
qualcosa dentro di lei, troppo veloce perché ella potesse fermarla. Accusò il
colpo con un singulto sordo, pesante, che il suo aguzzino parve interpretare
come l’accenno di vita che attendeva per provare anch’egli a muoversi. Si sfilò
da lei bruscamente, scostando la stoffa che aveva calato su entrambi prima di
stiracchiarsi con un gemito esausto.
Immobile, la Nihaar’ì schiuse solo allora le palpebre ritrovandosi a
fissare granelli di sabbia fluttuanti ancora ovunque, sottili e leggeri come
polvere sospesa. Tutto attorno pareva ora immerso in un pallore schiumoso e
latteo.
Poi si tirò seduta, un vago
accenno di tosse a coglierla per un attimo prima che ella voltandosi, fissasse
finalmente il proprio sguardo in quello del suo inseguitore. Portava vesti di
un rosso scuro e slavato a tratti macchiato da aloni più chiari di sudore
rappreso. Al petto portava una piccola sacca di pelle.
Acqua,
riconobbe immediatamente lei scoprendosi contemporaneamente assetata. Per un
folle attimo meditò la possibilità di impossessarsi di quell’oggetto. L’attimo
dopo desistette, la sensazione di essere assai più debole del proprio
inseguitore a convincerla della necessità di agire diversamente.
Magari
potrei semplicemente ordinargli di darmelo...
“E’ sveglia?” in quella
comparvero dalla pallida caligine tre figure ammantate, due alte e una più
bassa, tutte portanti al guinzaglio un fiero Yenavo’r
(draghi del deserto). Lei si irrigidì. L’altro si tirò in piedi spazzolandosi
dalle vesti granelli di sabbia e polvere.
“Questa volta si” si limitò a
dire prendendo poi a massaggiarsi un braccio.
Per un attimo i quatto si
limitarono a studiarla da dietro i propri bardamenti, una vaga rigidità comune
a rivelare quanto quel gesto li rendesse assieme nervosi e onorati al contempo.
Poi poggiarono all’unisono il pugno al petto e chinando il capo “AnhiVal’ah”.
“Dove mi trovo?” esalò subito
lei. La sua voce parve assai più spaventata di come la Nihaar’ì
avrebbe voluto, ma sapeva di non poter fare meglio di così. Al suo fianco, il
primo dei quattro si strinse appena nelle spalle “Nel deserto” “Dov’è Zaphil?” lo incalzò lei. Nuova scrollata “Più avanti. Ha
detto che ci avrebbe preceduto. Ma questo è avvenuto prima delle Tempeste di
Sabbia. Ora non abbiamo idea di dove sia e credo che lo stesso valga per lui”
Incerta, la Nihaar’ì si ritrovò a spostare lo sguardo dai due uomini
alti, a quello basso, a quello al suo fianco. Si tirò in piedi.
“Quindi siamo dispersi?” esalò
titubante. Vago, il cenno di assenso rimbalzò dall’uno all’altro per poi
tornare a lei nello schiarirsi della gola di quello basso “E siamo soli, come
può notare. Il resto della Carovana si è via via smarrito man mano che le
Tempeste di Sabbia continuavano ad avvicendarsi senza sosta”. Nuovo silenzio.
Nuovo cenno d’intesa di tutti. Tutti meno che lei che, incerta, stava ora
immobile fra di loro come una piccola preda accerchiata da un branco di belve
fameliche.
Rabbrividì. E represse a
stento un colpo di tosse. Poi si umettò le labbra.
“Dove siamo diretti?” “Anaphantum” rispose rapidamente l’uomo accanto a lei. La Nihaar’ì si accigliò.
Sentì sotto la lingua vaghe
screpolature delle labbra attirare il morso dei suoi denti una, due volte. Si
impedì tuttavia di mordere.
Eppure
Zaphil aveva parlato della Città del Cielo...
Come percependo la sua
confusione, quello più basso fece allora un accenno conciliante.
“Quest’anno le Tempeste di
Sabbia sono giunte prima del previsto” spiegò con calma “Si è pensato che
seguire la via per Anaphantum fosse la scelta
migliore per aggirarle”.
Per un breve attimo la Nihaar’ì tentò di ricostruire a memoria le mappe che più
volte i suoi VarpetYuni
(Maestri delle Vie) le avevano mostrato nell’estremo tentativo di suscitare in
lei il benché minimo interesse per il continente di cui ella era sovrana e
protettrice.
Sospirò.
Suo malgrado, tutto ciò che le
sovvenne fu una generale sensazione di noia accompagnato alla precisa e
inoppugnabile certezza che mai e poi mai tutto ciò le sarebbe servito in vita.
Del resto - ricordava accuratamente di aver constatato- mai e poi ella sarebbe
uscita dalla Torre senza che qualcuno prima di lei avesse pensato esattamente a
dove andare e come andarci.
Perché
dunque prendersi un simile e inutile disturbo?
Silenziosa e immobile come la
più misera delle prede, la ragazza non potè che
socchiudere appena le palpebre.
Ecco
perché. Deglutì a vuoto. Ecco
perché.
Così, dopo attimi di frenetica
ed infruttuosa ricerca, alla Nihaar’ì non restò che
annuire una volta, incerta, ai quattro ora immobili come in attesa del suo -ahimé- verdetto finale sull’intera vicenda.
“Ho capito” decretò infine “Ma
questo era prima che ci perdessimo, giusto?”
Nuovo annuire unanime, ora un
po’ più genuinamente sconfortato.
“Secondo i nostri calcoli, Zaphil e la sua scorta dovrebbero essere riusciti a evitare
il peggio. Per gli altri, invece, temo sia difficile fare qualunque tipo di
previsione” “E per noi?” esalò la Nihaar’ì con un
gemito. “Fortunatamente il nostro Hiras conosce il
Deserto meglio degli esploratori che ci ha rubato il deserto” spiegò incrociando
brevemente le braccia al petto “Se non fosse stato per le tempeste di Sabbia e
imprevisti annessi ora saremmo già alla volta di Anaphantum”.
Hiras? Si accigliò lei. Un nome da Danzatore?
Capì allora di aver fatto una
deduzione corretta perché all’unisono anche gli uomini tutt’attorno a lei
parvero zittirsi, i volti pallidi di sabbia a mutare in un che di teso e
nervoso assieme prima che l’Hiras in questione
abbozzasse un mesto inchino.
“Hiras”
fu l’annuncio colpevole
“Akanj”
gli fece eco subito uno dei due alti compiendo il medesimo gesto.
“Atam”
lo seguì l’altro.
“Matnery”
concluse infine il più basso.
Per un attimo la Nihaar’ì parve incapace di dire alcunché. Poi, vago, fu
come vederla compiere un mezzo passo all’indietro.
Lungo respiro “Siete
Danzatori”
Era tradizione che ogni città
di Arryan avesse, oltre alla sicurezza dei Legheon, una propria guarnigione armata cui fare
affidamento in caso di attacco. Hevnank’ar aveva, appunto, i Danzatori, famosi in tutto il continente
per l’usanza di denominare i propri affiliati con i nomi delle ferite da essi
riportate nel corso dei vari addestramenti.
Dita (Matnery)
annuì una volta, piano “Dopo gli sconvolgimenti di Hevnank’ar, le Volpi hanno proposto che una scorta di Danzatori
si unisse alla vostra per garantirvi una migliore protezione” esalò. La Nihaar’ìsbattè una volta le
palpebre.
E
Zaphil aveva accettato?Esitò.Guardò di sfuggita tutti i presenti.
“E Zaphil
mi avrebbe lasciata sola con una scorta di cui sapeva poco o nulla?” si
accigliò. Denti (Atam) si schiarì frettolosamente la
voce “Non era sua iniziale intenzione farlo” ribattè
subito “Ma nel corteo più avanti, l’Hayeli’vo
necessitava della sua presenza per l’ingresso ad Anaphantum”
“Mi ha lasciata sola con voi e nessun altro?” “Sapeva che vi avremmo protetta a
costo della vita”.
Ancora, lungamente, lei non potè fare a meno di sorvolare con lo sguardo i Danzatori lì
riuniti, ognuno vestito di una rossa tunica cerimoniale lisa e impolverata più
di quanto fosse lecito per genti del loro grado. E infine non trovò alcunché da
replicare, la notizia che già vi fosse da qualche parte una nuova Hayeli’vo a sostituire Sery a
svuotarla improvvisamente di ogni velleità o domanda ulteriore.
Annuì ancora una volta,
meccanicamente, limitandosi allora ad ammettere implicitamente dinnanzi a
quegli estranei che andava bene così. E che anche se non fosse andato bene,
cosa poteva farci?
“E’ stata un’offerta assai
generosa” commentò quindi incerta “Davvero generosa”
Terminate quelle inutili ed
assai superflue - questa era l’impressione -chiacchiere esplicative, presto fu chiaro che i quattro avessero davvero
una fretta incredibile di ripartire. In meno di qualche attimo raccolsero tutto
ciò che la Tempesta di Sabbia aveva sparpagliato, misero in sesto gli Yenavo’r, pulirono mercanzie e beni di prima necessità
intaccati dalla sabbia e tutti insieme saltarono infine in groppa. Meno
semplice fu invece convincere lei, la Nihaar’ì ad
avventurarsi in quel mondo nuovo ed assai poco invitante denominato: cavalcare
con un estraneo. Mai, in effetti, le era stato chiesto di esporre se stessa e
il suo nobile grado ad un contatto che esulasse le cure di Danhe
e le effusioni di Asiya. Presto, tuttavia, quando fu
chiaro che nulla della sua costernazione avrebbe potuto contro la fisica
mancanza di uno Yenavo’r a suo esclusivo uso e
consumo, la ragazza venne costretta a montare in sella al drago di Dita (Matnery)e così sistemata, permettere
finalmente al gruppo di ripartire alla volta di Anaphantum.
Così schierati, Orecchio (Akanj) e Atam nelle retrovie, lei
e Matnery in mezzo e avanti, molto più avanti, Hiras, il gruppo prese finalmente ad avanzare nel pallido
meriggio, ore di calma e vento a stemperare sempre più la piana desertica in
una infuocata distesa rovente. Solo voltandosi per caso, la Nihaar’ì
fu infine in grado di scorgere in lontananza ciò che rimaneva di una piccola
branda da trasporto, probabilmente adibita a suo giaciglio fino ad allora.
Desiderò allora di poter dormire ancora, placidamente, nella sua comoda branda
solitaria.
Come
era possibile che Zaphil l’avesse lasciata sola?
Giorno di marcia. Notte di
veglia.
Non servì che un giorno perchè la Nihaar’ì sperimentasse
sulla propria pelle quanto duro potesse essere il deserto se paragonato agli
agi e comodità della Torre del Tempo. Alle sue frescure. Alle sue acque limpide
e zampillanti. Che a confronto anche la più becera forma di umidità pareva una
manna dal cielo. Simili a pelle di serpente al cambio della muta, le sue labbra
già dolorosamente martoriate furono le prime ad accusare i sintomi del calore e
disidratazione.
Sapeva
quanto fosse importante che tutto risultasse vero, credibile, certo. Tanto
inconfutabile da non lasciare adito al dubbio sul come mai un Naphil lasciasse sola la Nihaar’ì
all’ingresso di una nuova città.
Giorno di marcia. Notte di
veglia.
Presto le piaghe sulle labbra
della Nihaar’ì esplosero e seccarono in un trionfo di
bruciori e tormenti senza fine. Di gran carriera si unirono tagli e lacerazioni
alle cosce dovuti allo sfregamento contro la sella dello yenavo’r.
In breve la frizione accompagnata alla sabbia onnipresente non permisero alla
fanciulla di rimanere nella medesima posizione per più di qualche dolorosa ora.
Eppure
la finzione poteva essere così importante da trascurare la realtà? Da rischiare
di perderla ancora una volta - e per davvero - nel bel mezzo del nulla?
Giorno di marcia. Notte di
faticosa veglia.
“Avete sete?”
Silenziosi e attenti, era raro
che i Danzatori parlassero durante le ore di marcia. E’ per risparmiare le
forze le aveva detto Matney la prima sera
avvolgendosi più strettamente nei propri mantelli. Quando si è in marcia è
d’obbligo risparmiare su tutto, anche sulle parole.
Abituata ad una vita di
frivolezze e futilità, docili preamboli di un inesorabile spreco di parole, la Nihaar’ì non potè che mancare il
saggio ed atavico senso di quelle rivelazioni. Fortunatamente però, rango e
diffidenza furono comunque in grado di sopperire consentendole in qualche modo
di sfoggiare un solido -seppur malinteso- riserbo durante le silenti ore di
marcia.
“Avete sete?” ripetè la voce alle sue spalle. Rigida e per metà
assonnata, lei si limitò ad annuire una volta ricevendo in risposta la famosa
sacca che da giorni aveva notato trovarsi al collo di ogni Danzatore. “Bevete
poco” la ammonì subito Akanj “Dubito che ci saranno
pozzi da qui in poi. Questa zona è nota per la sua aridità”.
Lei fece una smorfia prima di
rimuovere il fermo del recipiente e bere a piccoli sorsi. Quale meraviglia, l’acqua. Terminato, a malincuore lo richiuse per
porgerlo nuovamente all’altro. Lui rispose con un mezzo chinarsi del capo prima
di indugiare qualche attimo con lo sguardo su di lei.
“Dovreste provare a dormire,
sapete?” le suggerì incerto. Lei accostò le mani al fuoco acceso poco distante.
“Non sono stanca” mentì beandosi del piccolo calore da esso scaturito. Nella
sabbia tutt’attorno al braciere i Danzatori avevano conficcato una serie di
pali sulla cui sommità sventolavano stracci di rosso tessuto evidentemente
logorato dal tempo. Di giorno li portavano arrotolati nei tessuti delle brande
ai fianchi degli Yenavo’r mentre di notte li ponevano
tutt’attorno ai giacigli a mo di cerchio dal quale
nessuno usciva mai se non strettamente necessario.
“Non siete stanca?” un accenno
di sorriso scivolò sulle labbra di lui venandole di fessure sanguigne. Aveva
pelle bruna e abbronzata, quasi caramellata a confronto con quella della Nihaar’ì “Eppure sono tre giorni che non dormite. Credete
forse di non averne bisogno?”.
Lei si strinse appena nelle
spalle, la sensazione che la risposta a quella domanda non fosse altro che Le Nihaar’ì non hanno bisogno di niente a passare come una
brezza fra di loro prima che questi, sospirando, le porgesse un pezzo di carne
secca.
“Se non volete dormire, almeno
provate a mangiare” l’odore acre e salato del budello fece storcere il naso
alla ragazza che rifiutò muovendo appena il capo all’indietro.
“Pregare non serve a nulla, Akanj” dall’ombra comparve in quella la figura di Hiras “Se avesse davvero fame, mangerebbe” con un semplice
gesto strappò dalle mani del compagno il pezzo di carne infilandoselo dritto in
bocca prima di sedersi al suo fianco. Alla Nihaar’ì
rivolse un semplice cenno di intesa che ella non ricambiò.
“Dicono cose strane su voi
Danzatori” fece lei dopo un attimo, gli occhi fissi sul lento masticare
dell’uomo “Dicono cose strane di tutti” rintuzzò lui. La ragazza arricciò
appena le labbra “Dicono che veniate addestrati in luoghi segreti nel deserto
al di là del confine delle Vele” una pausa, il viso di Hiras
che si alzava come in attesa della conclusione “Con le Ombre” esalò lei infine.
Per un attimo parve di vedere
entrambi irrigidirsi appena. Poi Hiras scoppiò in una
fragorosa risata “Chi sarebbe tanto stupido da andare al di là del Confine?” la
sua voce risuonò per la prima volta giovane e suadente alle orecchie di lei.
Una nota strana che ella faticò ad identificare.
“Per non parlare
dell’inverosimile addestramento con le Ombre” continuò questi cavando dalla
propria bisaccia una strana pianta tutta aggrovigliata; una radice forse
“Sbaglio o l’unica al mondo capace di affrontarle siete voi?”
La gomitata di Akanj al fianco di Hiras diede il
tempo alla Nihaar’ì di dissimulare il calore che
sapeva esserle improvvisamente affluito in viso. Quando lui tornò a guardarla,
sperò di essere tornata normale. Le sorrise.
“E quindi è per questa ragione
che vi rifiutate di mangiare e dormire?” la voce di Atam
li raggiunse dalla parte opposta del fuoco. Stava disteso nel proprio
giaciglio, entrambe le mani dietro al capo come nell’atto di ammirare il
firmamento “Temete che vi possiamo fare del male con il nostro oscuro potere di
Danzatori?”. Voltandosi nuovamente in direzione del fuoco, la Nihaar’ì si limitò a rimanere in silenzio per qualche
attimo “Temo ciò che non conosco” ammise poi infine “E se aveste vissuto anche
un solo giorno della mia vita, dubito che non fareste altrettanto” il volto di Atam parve contrarsi appena “Vissuto come?” la incalzò
girandosi lentamente a guardarla. I suoi tratti più di tutti tradivano la
durezza di qualche battaglia o combattimento passati.
Rinchiusa
in una prigione d’oro con acqua e servi a profusione pronti a tutto pur di
compiacermi. E lame nel buio pronte a sgozzarmi.
“Basta, Atam.
E’ ora di dormire” la voce di Matnery pose fine a
qualunque ulteriore velleità di dialogo, costringendo gli uomini a rintanarsi
nelle proprie brande.
“Dormite, Somma Nihaar’ì” la pregò con voce suadente Matnery
prima di coricarsi anch’egli “Il Deserto non concede spazio ad ostinazione o
caparbietà. Se voi non lo rispetterete, vi ucciderà come un qualunque abitante
di Arryan”.
Queste le ultime parole che
gli uomini si rivolsero prima che uno dopo l’alto tutti quanti cedessero ad un
sonno silenzioso e avvolgente, duro da sostenere per la Nihaar’ì
che sola si ostinava da giorni a non soccombervi.
Danzatori...
La stanchezza e la fame
gravavano su di lei come una coltre densa e pesante.
Cisposi di sabbia, i suoi
occhi rotolarono lenti dall’uno all’altro Danzatore steso attorno a lei in una
rosa di rossi fagotti a tratti sospiranti, a tratti scossi da qualche brivido o
movimento.
“Giuro su ciò che mi è più
caro che vi porteremo sana e salva ad Anaphantum,
Somma Nihaar’ì” le aveva promesso il primo giorno Matney prima di porgerle le consunte stoffe per il suo
giaciglio. Ricordò di aver accettato con circospezione l’offerta prima di
replicare con un sibilo acuto “E cosa vi è più caro, Danzatore?”. Domanda sbagliata, probabilmente, insinuante come il serpente che a
tradimento si infili fra le pieghe degli abiti per attendere il momento più
propizio per colpire. E come tale, assai eloquente nell’esplicare quanto poco
ella considerasse rilevante il proposito appena esplicato.
Sospirò, il capo che
inesorabilmente si chinava verso terra una, due volte. Poi, quasi rimbalzando,
tornava su.
Non
si fidava di loro. Nemmeno lontanamente. Socchiuse piano le palpebre.
Ma aveva forse alternativa?
Fuori dalla Torre tutto le era
estraneo e incomprensibile, un mondo rimasto tanto escluso dalla sua vita da
apparirle ora insieme vasto ed inafferrabile. Si passò la lingua sulle labbra
scoprendole dure e secche come carta.
Pesante, il capo della Nihaar’ì scivolò ancora un po’ più in basso, una lunga e
meticolosa occhiata alla sabbia sottostante prima che ella, debolmente, lo
rialzasse con un sospiro contrito.
Rabbrividì.
Del
resto non poteva dormire. Si passò la lingua sul palato molle. Espirò. Sapeva di non poter dormire...
Guarda
in alto. Ed eccole nel cielo fibre di nuvole ad indicarle il risalire del vento
in alta quota. Il distorcersi dell’aria lassù, troppo in alto perché ella possa
sfiorarle eppure abbastanza forte da concederle di sentire a lungo,
intensamente, quel suono.
Qualcosa
sta accadendo, lassù.
Qualcosa
- abbassa lo sguardo - sta accadendo laggiù, più oltre, lungo il confine
dell’orizzonte ora sfuocato, ora seminascosto. Strabuzza gli occhi. Guarda. E
poi le vede, capisce, interpreta. Sono qui. Fa un passo indietro, due, poi
cerca di voltare lo sguardo ma non può. Non - annaspa - riesce.
E
così può solo arretrare, interdetta, spaventata. Terrorizzata dal fatto che
nulla se non il vuoto e la sabbia la separano dall’inesorabile incombere poco
più avanti di quelle figure, quelle sagome - espira- , quelle Ombre.
No.
No.
Indietreggia.
Indietreggia. E indietreggia ancora. E quando pensa che indietreggiare possa essere
l’unica cosa irrinunciabile di quel terribile attimo, il terreno invece la
tradisce. Il suo piede scivola, manca la presa. E nella voragine di un attimo
la Nihaar’ì avverte il mondo spalancarsi alle sue
spalle come una bocca malefica, vorace, insidiosa.
No.
Si sente allora sospirare. No...
E
così si protende in avanti. Si sbilancia. Tende le mani. Ci prova, insomma, a
non cadere.
E nell’attimo in cui aprì gli
occhi, capì di esserci riuscita. Qualcuno stava afferrando la sua mano ora, in
quell’attimo. E dopo una frazione di istante ecco tirarla a sé, sbilanciarla
non più indietro ma forse in avanti e con un ultimo, roco, sforzo, tirarla a sé
in un comune ruzzolare a terra ansante e stremato.
Faccia a terra, la NIhaar’ì si prese tutto il tempo possibile per riprendere
fiato. Poi, un tremito incontrollabile a scuoterla da parte a parte, volse il
capo di lato incontrando quello del proprio salvatore girato verso di lei in
una posa tesa e affannata. Trattenne a stento un mezzo sospiro.
“State bene?” fece Atam senza muoversi. Aveva il labbro inferiore spaccato
quasi che nell’atto di afferrarla si fosse morso “Si, credo di si” fece lei poco convinta facendo allora leva sulle
braccia per tirarsi in piedi. Lui tuttavia la trattenne con una lieve stretta della
mano.
“Aspettate che giungano gli
altri” la ammonì piano “Nessuno di noi due indossa il Colore”.
Strana
affermazione. Valutò la Nihaar’ì. Giacché ella ricordava perfettamente di
essersi addormentata con quegli stracci addosso non meno di...
Si bloccò. Poi, il tempo di
una maledizione a fior di labbra, la giovane abbandonò di nuovo il capo a
terra, sconfitta.
“Voi siete una donna forte,
Somma Nihar’ì” fece subito l’altro come cogliendo la
sua epifania “Ma cinque giorni di veglia sono troppi per chiunque”.
Non
per una Nihaar’ì desiderò poter rispondere lei.
Sfortunatamente però, i fatti avrebbero reso quell’affermazione assai puerile.
Nel silenzio generale, si concesse ancora un paio di maledizioni prima di
sospirare.
“Era per questo che non
volevate dormire?” le chiese dopo un attimo lui “Temevate forse di scappare per
miglia e miglia nel deserto come una AgvesAnaphat (Volpe del deserto) per dirigervi verso il primo
dirupo e buttarvici dentro?” abbozzò un sorriso che ella avrebbe di certo
ricambiato se solo il tutto non fosse suonato così stupido e ridicolo assieme.
“I Sogni della Nihaar’ì non sono cose per gente come voi” sospirò poi
infine “Desolata che abbiate dovuto assistervi” lui fece spallucce “Non siete
la prima AgvesAnaphat che
vedo. Anche se raramente me ne sono capitate di così atletiche” lei si limitò ad alzare un sopracciglio colmo di sdegno.
Poi ricordò che molto probabilmente lui non l’avrebbe notato -portava il velo-
così, arrendendosi allo sconforto, si limitò a rimanere in silenzio. Tuttavia
fu sufficiente: con il medesimo sorriso conciliante, Atam
si concesse di scrollare ancora una volta le spalle prima di borbottare “Si
fiderà di me, ora che le ho salvato la vita?”.
Di tutta risposta lei tentò
nuovamente di tirarsi in piedi. Invano.
“Gradirei alzarmi” digrignò in
un sibilo. Lui fece finta di nulla. Nuovo sospiro contratto, poi la Nihaar’ì ci riprovò. Questa volta l’uomo si abbandonò ad un
gemito esasperato “Vi ho detto di aspettare. Cosa esattamente vi è sfuggito?” “E io sono la Nihaar’ì”
fu la rigida replica dell’altra “Cosa
esattamente vi è sfuggito?”.
Per un attimo fanciulla e
Danzatore si fronteggiarono con una lunga e intensa occhiata. Poi con uno
scatto stizzito lui lasciò la presa.
“Molto bene allora” digrignò
“Andate, se è questo che volete” ma prima che lei avesse anche solo il tempo di
muoversi, la ammonì “Credo però sia d’obbligo informarvi che ci troviamo molto
distanti dal punto dove dovremmo essere. In effetti, più vicini al confine
delle Vele che alla rotta verso Anaphantum”
Immediatamente lei si
irrigidì. Lui piegò appena un angolo delle labbra.
“Come vi avevo detto, avete un
passo invidiabile”
Esitare, questa volta, fu cosa
assai superflua. Sconfitta, lei si arrese infine nel poggiare nuovamente la
fronte nella sabbia.
“Non è la prima volta che
accade, vero?” chiese dopo un lungo attimo di riflessione. Lui rimase in
silenzio. “E immagino sia per colpa mia che abbiamo perso così tanto la strada
in questi giorni” continuò con voce strascicata.
Non
per le tempeste di Sabbia. Non per le temperature del deserto.
Da qualche parte alla sua
sinistra, sentì l’altro annuire piano. “Hiras ha
proposto di legarvi, ad un certo punto. Ma noi altri ci siamo rifiutati”
Io
non l’avrei fatto. Sospirò lei piegando finalmente il capo a
guardarlo. Atam aveva volto e mascella squadrate,
vivide di linee sottili e dure come di chi non avesse mai riposato o mangiato
abbastanza nella vita. Non era attraente, ma emanava comunque un che di
interessante che induceva lo sguardo a permanere più di una sola e semplice
occhiata.
“Quanti anni avete?” si
ritrovò a chiedere dopo un istante lei. Lui parve sorpreso dalla domanda perché
impiegò qualche attimo per rispondere. “Poco più di trenta” “E avete sempre
combattuto?” rintuzzò lei. Vaga scrollata di spalle “I miei genitori non erano
abbastanza ricchi per permettersi di sfamare me e i miei fratelli. Quando fu
chiaro che tutti insieme saremmo morti di fame, chiesero ai Danzatori di
prendermi con sé e da allora” vago accenno di sorriso “L’Ordine è la mia nuova
famiglia”
Per un attimo lei si limitò a
valutare la risposta dell’uomo, il sole già alto nel cielo a disegnare ombre
oblunghe sul volto di lui. Poi socchiuse le palpebre.
“Quindi non fu una vostra
decisione entrare nell’Ordine” constatò. Lui strinse appena le labbra “Non
inizialmente” le concesse “Ma negli anni imparai ad amare ciò che mi veniva
insegnato e rispettare coloro che me lo insegnavano. E poi in genere è così che
si entra nei Danzatori” lei gli riservò un’espressione interrogativa “Tutti o
quasi i membri dell’Ordine nascono come trovatelli, abbandonati o rifiutati.
Persone da poco, in effetti.” spiegò questi paziente “Se è di Nobili o ricchi
che volete parlare, penso dovreste rivolgervi alle Guardie della Torre o della
Città del Cielo”
Quando giunsero gli altri Danzatori era già giorno inoltrato e l’arsura
aveva arrossito li viso di Atam di un lucido strato
di sudore. Nessuno disse niente, ma dalle rapide battute che si scambiarono, fu
chiaro che non avessero affatto gradito l’ennesima deviazione del percorso
imposta dalla Nihaar’ì.
Ripresero la marcia a fatica, la sella di Matnery
a ricominciare il suo doloroso e inesorabile vilipendio delle gambe della Nihaar’ì.
Non dormirò più. Si disse lei mentre, testa china e spalle ingobbite, già cominciava a
pregustare le nuove e insopportabili ore di veglia che l’attendevano. Prima
questo pellegrinaggio finirà meglio sarà per tutti quanti, soprattutto per me.
Ma ovviamente la Nihaar’ì si addormentò più e più
volte, ognuna delle quali accompagnata da una rocambolesca e quantomai avventurosa rincorsa nel deserto cui seguiva poi
una altrettanto deliziosa marcia a ritroso per ritornare sulla pista
tristemente perduta. Alla quarta volta fu lei stessa a proporre di essere
legata, indicazione che fra le proteste di Matnery e
l’indignazione di Atam fu malgrado tutto accettata.
Ma poteva dunque finire così? No, certo che no. Come la più astuta dei Goshi(ladri) ella pareva in grado di
slegarsi ogni volta, un cumulo di corde e nodi sfatti a vestigia della
constatazione che da addormentata ella pareva essere assai più scaltra e tenace
che da sveglia. Tutto ciò, per quanto a tratti acuito dalla costante e
inesauribile ironia di Hiras(ghigno) -a volte
più velenosa di quanto la Nihaar’ì fosse in grado di
sospettare- non avrebbe di certo sfiancato la tenacia dei Danzatori senonché
fuga dopo fuga la possibilità di ritrovarsi a corto di acqua, viveri e non per
ultimo ad un passo dal confine delle Vele cominciava a gettare un’ombra di
allarme sul gruppo.
“Ancora un salto e saremo dall’altra parte, AgvesAnaphat” fu il commento di Hiras
quando tutti giunsero infine alla memorabile vista delle Vele. Rosse come
sangue, le enormi Vele sporgevano come bruni canini dalla sabbia, infossate fra
le dune in pance e conche fischianti a causa del vento. Il suono delle correnti
d’aria contro di esse vibrava anche da miglia e miglia di distanza, muto
segnale d’avvertimento cui il gruppo rispose con un sempre più denso e brumoso
silenzio.
“Questa notte veglierò con voi” la voce di Atam
giunse opaca come un sussurro lontano “Magari così vi sarà più facile rimanere
sveglia”.
Ancor prima di annuire, la Nihaar’ì seppe che
sarebbe stato del tutto inutile. Qualcosa -anche se non riusciva ancora a
capire cosa - la spingeva ad andare là e nessuno, fosse Danzatore o Atam, sarebbe stato in grado di fermarla.
Questa volta non furono il deserto e la sua arsura a svegliarla. Non le
gambe stanche e doloranti per ore e ore di marcia notturna. Non la fame e la
sete.
Fu in effetti Hiras a strapparla dai suoi quasi
sogni. A stropicciarle di malomodo le vesti
ancora avvolte attorno al corpo disteso sul fianco inerme nella posa del riposo
tanto agognato.
Fu Hiras e la sua voce a scuoterla con la forza
dell’inferno da una parte all’altra mentre questi vicinissimo, le intimava di
alzarsi e stare zitta.
Sbattè confusa le palpebre
una, due volte, il mondo ancora avvolto nell’oscurità che lentamente tentava di
mettersi a fuoco in un vago baluginio di sfumature cobalto e magenta.
Il fuoco era stato spento e qualcuno alle sue spalle lavorava alacremente
per disincagliare i pali “protettori” posti come solito tutt’attorno
all’accampamento. Desiderò voltarsi e vedere di più ma ancora una volta il viso
di Hiras le si parò davanti in tutta la sua
tempestiva ed affatto delicata impazienza.
“Siete sorda?” la sua voce parve una frustata contro le guance “Ho detto di
stare giù”. A comprova di ciò, egli le puntò allora una manata sulle spalle
premendo fino a costringerla a cadere sulle ginocchia. Solo allora, più
rassicurato, egli la congedò dalle proprie cure per dedicarsi a qualcosa più
avanti e distante dalla sua visuale. Forse gli Yenavo’r?
“State bene?” il sussurro di Akanj la raggiunse
da dietro le spalle facendola sobbalzare. Si voltò piano, incerta, notandolo
disteso nella sabbia poco distante a pancia in giù, il capo appena alzato a
sporgersi oltre la cresta di una piccola duna. Si accigliò, lo sguardo che
automaticamente si alzava nel tentativo di seguire quello di Akanj. Sbattè le palpebre. Poi
improvvisamente le parve di vedere qualcosa. Istintivamente si appiattì anche
lei a terra, due respiri contratti prima di tentare un’occhiata più audace.
“State giù” la tensione nella voce di Akanj le
fece scorrere un brivido lungo la schiena ma non desistette. Del resto, esitò,
cosa poteva esserci di tanto pericoloso in un...Fiore? Lontano, remoto,
poco meno che un vago fulgore rossastro all’orizzonte.
“Akanj...” tentò di chiamare ma questi la zittì
con un sibilo acuto “Ama’hi nei jak!
Vi prego non parlate!” Mordendosi le labbra la Nihaar’ì
ritornò alla vaga osservazione di quella apparizione più avanti. Poi eccone
comparire un’altra. Nemmeno il tempo di intravederne i contorni distorti e ne
sbucò una nuova. E una terza.
Improvvisamente una mano calò su di lei afferrandole la spalla in una morsa
di ferro.
“Alzatevi” era Hiras e dal tono pareva non
essersi affatto tranquillizzato. Il tempo di balbettare un paio di esclamazioni
e fu lui a tirarla su di peso prima di trascinarla nell’oscurità.
“Che succede?” La Nihaar’ì inciampò nei propri
piedi. Lui la ignorò, pochi passi a condurli verso la sagoma di uno Yenavo’r poco distante. Lei si sentì ghermire nuovamente,
questa volta per i fianchi e schiantare sulla sella. Pochi sussurri nel buio e
lui le fu subito dietro.
“Vorchakatughets’i
me (Che la sorte ci accompagni)” esalò l’uomo e subitoil
Drago partì di gran carriera.
Il freddo della notte a sferzarle improvvisamente il
viso, la Nihaar’ì si rese conto solo allora che nella
fretta si era dimenticata di portare stoffe o tele per proteggerla. Sospirò di
freddo.
Fu solo dopo alcuni istanti che ella si arrischiò a
voltare appena il capo in direzione di Hiras. Nel
buio faticò persino ad intravedere i contorni del suo viso. Strinse appena le
labbra.
“Cosa sta succedendo?”
Per un istante temette di non aver parlato abbastanza
forte perché lui non le rispose. Poi una smorfia.
“Ci hanno trovati” c’era qualcosa di ruvido nella sua
voce. La Nihaar’ì non potè
che accigliarsi “Chi?”.
Fu certa di vederlo fare spallucce “Non credo li
conosciate. Di solito non ricevono inviti per la Torre del Tempo”.
Ma che simpatico.
“Potrei stupirvi” lo sfidò comunque le. Nuova smorfia.
“Ne dubito” “Se solo mi faceste tentare...” “Sono i KaminY’red (Predatori del Vento)” esalò lui con un
gemito “Ed ora su, stupitemi”
Suo malgrado, la Nihaar’ì
non potè che mordersi dolorosamente l’interno
guancia, un senso di stizza che in un attimo le risaliva il volto
tinteggiandolo di una nota purpurea e imbarazzata.
Pochi centimetri oltre, lui strinse appena la presa su
di lei “Li conoscete quindi?” “E se vi dicessi di si?”
sibilò lei di rimando. Avvertì, più che vederla, la sua debole risata.
“Penserei che siete una bugiarda. Chiunque guardandovi
capirebbe che non sapete nulla di Arryan e dei suoi
criminali”
Suo malgrado, la ragazza non potè
che rimanere in silenzio aspettando che Hiras
riprendesse a parlare.
“Si tratta di trafficanti di schiavi dell’Oltre“ “Non c’è nulla nell’Oltre” replicò subito lei
aggrottando appena le sopracciglia. Lo sentì scrollare appena le spalle.
“Questo se non si è tanto stupidi o sventurati da
andarsene a verificarlo di persona. Per quanto ne so, ci sono più persone
laggiù che in tutta Arryan”.
Lei meditò un attimo sulla risposta, il freddo
avanzare nell’oscurità dello Yenavo’r a scuoterla con
brevi e violenti scossoni da una parte all’altra. Poi scosse il capo.
“Ammesso che vi creda, avete detto schiavi
dell’Oltre?” lo sentì annuire nuovamente “Fra i più pregiati di tutto il
continente. Sfortunatamente, i meno facili da catturare” “Pensavo che gli
schiavi venissero commerciati, non catturati” Hiras
si strinse nelle spalle “Chi vive oltre il confine non ha particolarmente
voglia di tornare indietro solo per per servire
questo o quel Kirey”
Nervosa lei si limitò a valutare per qualche istante
le parole dell’altro. Le trovò fastidiose sotto la lingua, pruriginose fra i
denti e con un vago retrogusto di insensatezza che la costrinse a storcere il
naso. Eppure, suo malgrado, sapeva che Hiras non le
stava mentendo.
“Ed esattamente cosa vogliono questi Kamin da noi?” soffiò quindi dopo un attimo. L’uomo
parve stupito “Noto con piacere che non mi avete ascoltato granché” sogghignò
dopo un attimo per po aggiungere “Da me probabilmente
due braccia. Da voi qualcosa di più interessante” “Non oseranno” lei strinse
appena gli occhi “Io sono la Nihaar’ì” “Giusto. La Nihaar’ì” convenne subito lui con un ghignetto
accondiscendente. “Ed esattamente i Kamin come
dovrebbero saperlo?”
Il Danzatore la bloccò prima ancora che lei riuscisse
ad aprire bocca “Fossi in voi lascerei stare. I Kamin
non sono esattamente tipi da grandi spiegazioni”“E che tipi sono?” si
arruffò lei piccata. Lui diede una vigorosa frustata allo Yenavo’r
costringendolo a un’avanzata più vigorosa “Tipi da fuoco e segugi. Non
necessariamente in quest’ordine”
“Credi che gli altri se la caveranno?”
Impossibilitati ad accendere un fuoco, Nihaar’ì e Hiras se ne stavano
l’uno accanto all’altro accovacciati in una piccola conca scavata nella sabbia.
Non era molto, ma dopo la lunga marcia forzata, quel rimedio abbozzato pareva
ad entrambi un imprevisto quanto meraviglioso conforto contro le basse
temperature della notte.
Fronte appoggiata alle gambe rannicchiate, Hiras piegò appena il capo di lato incontrando il profilo
della ragazza. Sopirò.
“Se dipendesse dalle sole capacità, più che
certamente” si strinse nelle spalle “Dubito però che fare da esca giochi a loro
favore”.
Lei lo studiò per un attimo, il riflesso della seconda
luna di Arryan a stagliarsi sul suo volto in un’ombra
rosso pallida “Credi li abbiano già presi?” sussurrò quindi. L’altro si
irrigidì “Quasi certamente” ammise poi monocorde “Gli faranno del male?”
Questa volta non rispose, limitandosi ad affondare
indice e medio nella sabbia grigio bianca per poi ritirarli ad uncino. Polvere
sottile scivolò come una cascata disegnando una piccola montagnetta
scintillante.
“Siete molto legati?” riprese lei dopo un attimo. Lui
scrollò appena le spalle “Voi non lo sareste?” No, lei non era legata a
nessuno. O quasi. “Si certo. E’ che...” “Giunsi nella compagnia quando Matnery era poco più che un ragazzino” esalò lui senza
lasciarla continuare “Akanji e Atam
si unirono pochi mesi dopo. Da allora non ci siamo mai separati.”
Fino a oggi.
La ragazza annuì piano, il capo che si chinava appena
a incontrare le ginocchia strette al corpo. Senza fuoco faceva freddo, eppure
la vicinanza con l’altro rendeva la temperatura quasi sopportabile.
“Anche io avevo un’amica” fece poi dopo un attimo “Per
tutta la mia infanzia fummo come sorelle” “Era una vostra serva?” lui volse
appena il capo. Scosse la testa “Una Hayeli’vo, il
mio Specchio Velo”. I denti di lui scintillarono un attimo nel buio “Conosco le
Hayeli’vo” Ah si? “Pensavo
però fossero delle figure di semplice rimpiazzo utilizzate nelle situazioni
pericolose.” la Veggente piegò appena di lato le labbra in una smorfia incerta.
Si e no. Ma non solo.
“Per poter essere credibili è necessario che le Hayeli’vo trascorrano gran parte del loro tempo con le Nihaar’ì così da poterne assorbire atteggiamenti, postura e
così via” immobile al suo fianco fu difficile, l’espressione del Danzatore
parve quasi irrigidirsi.
Sembrava, notò solo in quel momento lei, in qualche
modo più giovane di come l’aveva percepito fino ad allora. Si accigliò. Più un
ragazzino che un uomo.
“E questa convivenza forzata farebbe di voi delle
amiche?” la voce di lui la distrasse dai propri pensieri costringendola a sbattere
una, due volte le palpebre. Si umettò le labbra a disagio “Non vale forse la
stessa cosa per voi Danzatori?” buttò quindi lì per togliersi d’impiccio.
Lui le rifilò un sorriso sghembo per poi tornare
improvvisamente serio “Se li hanno presi, non sarà che questione di giorni
prima che catturino anche noi” la guardò per un attimo, ogni traccia di
divertimento improvvisamente svanita “Quando ciò avverrà, vi chiedo di non
rivelare a nessuno di essere la Nihaar’ì” lei si
sentì appena aggrottare le sopracciglia “E perché non dovrei?” “Perché non vi
crederebbero” spiegò lui semplicemente.
E perché non avrebbero dovuto crederle?
Come percependo la sua confusione, lui si fece di poco
più vicino “Se Zaphil ha agito come credo ora tutta Arryan vi crede al sicuro con il vostro Corteo ad Anaphantum. Rivelare la vostra identità non farà altro che
esporvi a inutili pericoli. Ricordate che i Kamin
sono mercanti di schiavi, non benefattori dell’Umanità”.
Da quella distanza era impossibile non notarlo. Hiras non era ancora un uomo malgrado la barba su zigomi e
mento. Nonostante la polvere addensata fra naso e bocca. Mordendosi appena
l’interno della guancia, lei si concesse un paio di istanti di pura e semplice
osservazione. Poi sospirò.
“Ammettendo che io non riveli la mia identità” gli
concesse infine dubbiosa “Cosa potrebbe accadere?” Lui fece un gesto vago con
la mano “Difficile dirlo. Siamo entrambi giovani e in forze, qualità che nessun
Kamin si sognerebbe mai di farsi scappare. Ma le
nostre origini sono incerte” indicò prima le proprie vesti consunte per poi
passare a quelle di lei assai più sfarzose seppur egualmente logore e
sbrindellate “Scarterei quindi sia la Città del Cielo che Anaphantum
dove i controlli hanno spesso del maniacale. Molto probabilmente ci dirotteranno
verso Yevtsuk’han (La città Nero Fumo). Lì la fame
cronica di manodopera permette ai Kamin di far
chiudere qualche occhio sulla sicurezza...” “Stai parlando della Città Nera?”
lo interruppe lei incredula. Lui le rivolse il medesimo sguardo senza capire.
Annui poi piano, incerto.
“La Città del Carbone e delle Forge?” per qualche
attimo lui non potè far altro che annuire ancora una
volta, meccanicamente. Poi improvvisamente capendo dove ella stesse mirando, si
lasciò andare a una lunga risata liberatoria.
“Non ridere” lo ammonì lei per nulla divertita “Non
lascerò che un Kamin qualunque mi butti in qualche
cava o pretenda di mettermi al servizio di un non meno precisato intagliatore
di pietre” “Preferite forse le case di piacere di Anaphantum?”
ribattè lui senza smettere di ridere.
Preferirei tornarmene semplicemente a casa. Si
ritrovò a pensare lei ma non ebbe il coraggio di dirlo.
“Preferirei che non mi si trattasse come una Knohar (umile donna) qualsiasi. Osare anche solo accostare
la mia figura a simili e inconsistenti...” “L’avete sentito?” la mano di lui le
ghermì improvvisamente una spalla bloccandole le parole in gola.
Il volto di Hiras parve
risalire appena rispetto alla linea intercettata dal suo sguardo per guardare
oltre, poco sopra il bordo sottile della conca da loro scavata ore prima. Lei
attese, le orecchie tese nell’indecisione se voltarsi e guardare anch’ella
nella medesima direzione o limitarsi solamente ad ascoltare, silenziosa, il
(forse) suono intercettato dal Danzatore.
Ma, manco a dirlo, non percepì nulla. Poi lontano,
lontanissimo, ecco risalire una vibrazione alta e monotona. Niente di
interessante, tentò di minimizzare la sua mente ma dopo qualche istante eccolo
tornare un poco più forte, più alto. Trattenne il fiato, sforzandosi di sentire
meglio. Più canino.
Improvvisamente un nuovo brivido le percorse palmo a
palmo la schiena costringendola a voltare lo sguardo verso un Hiras intento ora a fissarla a sua volta.
“Sbrighiamoci” fu il suo commento gelido “Sono più
vicini di quanto pensassi”.
Capitolo 4 *** Il deserto è grande e così grandi sono i suoi misteri ***
Ciao a tutte!
Rieccomi qui dal gelo nordico (sta nevicando °__°) a
pubblicare un nuovo capitolo!
Ringrazio come sempre tutte le persone che mi sopportano
e seguono, nonché quelle che si beccano pure gli spoiler da ansia da
prestazione, senza di voi sarebbe tutto ancora più difficile di quanto già non
sia J
Un bacio particolare a Talia
e per la sua preziosa attenzione.
Mentre si apprestavano a uscire in fretta e furia da
quella misera conca, i piedi che affondavano nella sabbia per la foga di scalciarla via in balzi goffi e irrigiditi dal freddo, la Nihaar’ì si ritrovò a pensare alle vecchie e oramai incerte
nozioni che aveva di Yevtuk’han. Nozioni accademiche,
ovviamente, ma pur sempre valide a confronto della più che totale ignoranza che
via via ella stava scoprendo di possedere in pressoché tutto ciò che riguardasse
Arryan.
Seguì a balzi Hiras per
raggiungere senza fiato lo Yenavo’r già all’erta e
pronto a scattare. Ne afferrò con il cuore in gola le scaglie coriacee
strattonandole appena per montarvi in groppa.
Yevtsuk’han veniva
soprannominata “La Città Nera” o “La città di Polvere” a causa delle cave di
pietra e carbone che per tutte le sue fondamenta si estendevano a metri e metri
di profondità fino a un nocciolo calcareo dal quale senza sosta fuoriuscivano
diamanti e pietre fra le più preziose. Era una città assai piccola in
superficie ma incredibilmente vasta nel sottosuolo, un dedalo di vie e intrecci
che solo i suoi veri abitanti (schiavi nella quasi totalità) potevano dire di
conoscere realmente.
Evitata dagli stranieri per via della sua pericolosità,
Yevtuk’han era in sé la più grande fonte di ricchezza
dei più rinomati trafficanti e commercianti di Arryan
nonché la più famosa meta ove mercanteggiare armi e armamenti di ogni tipo.
Una città pericolosa, insomma.
Stretta ora fra la schiena di un balzellante Yenavo’r e il petto di un ansimante Hiras,
il gelo del deserto a sferzarle il viso riempiendole gli occhi di granulose
lacrime, la Nihaar’ì si chiese quanto promettente
fosse, in effetti, la prospettiva di finire dritta lì, nella città della schiavitù
per eccellenza, priva di una qualsiasi identità, passato e futuro e per giunta
in balia di un -ma che fortuna- ragazzino.
Si sentì sospirare.
E poi avvenne.
Il deserto, pallido e scintillante di una finissima
aria poco meno che gelida si accese come d’incanto di mille e più iridescenti
screziature carminie. Come boccioli di luce gettati
alla rinfusa da un’incauta mano essi si sparsero per ogni dove attorno a loro
cominciando a brillare con sempre più intensità, con sempre più livore.
“Via, presto!”
Lo strattone di Hiras al
povero Yenavo’r li sottrasse alla luce prima che essa
si trasformasse improvvisamente in un divampare di fiamme e fasci purpurei dal
chiarore ustionante. La Nihaar’ì boccheggiò, il
calore sprigionato dalle rosse biglie che le toglieva il fiato. Da lontano - ma
non troppo - proruppe allora un coro di ululati acuti e striduli, un gemito
latrante da far rizzare i peli sulla nuca.
La Veggente gemette, Hiras
si irrigidì facendo scartare la povera bestia a sinistra.
“Ci stanno stanando” digrignò rabbioso, una nota di
panico ad arrochire la sua voce.
Nel nuovo latrato che seguì, la ragazza desiderò
potersi tappare le orecchie. Sfortunatamente, la velocità del Drago l’avrebbe
di certo sbalzata con un’unica piroetta a terra in quel mare ora non più di
sabbia ma di vivo e pulsante fuoco.
Gemette ancora.
“Hanno intenzione di bruciarci vivi?” gridò allora non
senza una nota di panico. Poco sopra la sua spalla Hiras
se ne uscì con una imprecazione contratta assai poco definibile nella lingua
corrente prima di spronare lo Yenavo’r a una avanzata
ancor più lesta fra le dune di sabbia arroventate.
Sfortunatamente per loro però, sangue freddo e Draghi
del Deserto non sono cose che in genere si accostino con esiti felici: lunghi
giorni di marcia e fuga finale avevano in effetti fiaccato le ultime forze
dell’animale che proprio allora, ovviamente nell’attimo di estrema necessità
vennero meno. Con un digrigno esausto la creatura cedette improvvisamente alla
stanchezza caracollando esanime nella sabbia e sbalzando di conseguenza
Veggente, Danzatore e tutta la mercanzia annessa in uno sbuffo di polvere.
Nuova imprecazione. Nuovo grido sordo. Nuova
percezione che qualcosa fosse andato irrimediabilmente storto a scrocchiare
dolorosamente nella spalla della Nihaar’ì prima che
tutto il resto la scaraventasse senza fiato a terra, ansante e terrorizzata.
Pochi attimi e prima che il terreno sotto di lei le esplodesse letteralmente
sotto i piedi Hiras l’aveva già costretta ad alzarsi
e trottare lontano, più scioccata che viva, nell’oceano ardente.
“A-aspetta!” tentò di fermarlo lei ma invano: senza
curarsi delle sue proteste lui la sospinse avanti per uno, due passi ancora.
Poi qualcosa si parò sul loro cammino: una creatura oblunga, ossuta più che mai
che a quattro zampe stava come sospesa fra terra e cielo, avvinghiata alla
sabbia solo per la punta di quelle che solo dopo qualche attimo la Nihaar’ì riconobbe essere artigli lunghi e sottili.
E’ un Vogin, vorutum (Spirito che ghermisce
il cielo) si ritrovò a inorridire la ragazza ricordando dei
giorni in cui Zaphil le aveva parlato degli spiriti
del deserto, adunchi e cattivi, capaci di ghermire le nuvole e strapparle al
deserto portando via con sé l’acqua e la vita di coloro che si perdono in esso.
Poi però ricordò che quelle di Zaphil
erano storie, semplici storie, quando viceversa dinnanzi a loro era chiaro si
trovasse ora una creatura ben più fisica e presente che mai, le zanne scoperte
pronte a scattare.
Neanche il tempo di pensarlo e un secondo li raggiunse
alle spalle. E un terzo. E un quarto. E così via, fino a quando attorno ai due
vi fu improvvisamente una massa di musi digrignanti e fauci sbavanti. Il roco
abbaiare e ululare soverchiava ogni altro rumore rendendo indistinguibile se e
come vi fosse altro all’infuori di essi.
Ma era chiaro che qualcosa vi fosse. Quelle belve non
erano capitate da chissà dove così come quelle biglie. E nemmeno le sagome che
in lontananza -per quanto vaghe e inconsistenti- già si intravedevano
avvicinarsi con calma stolida e circospetta.
Erano i Kamin? Possibile?
Poco prima che la Nihaar’ì
avesse il tempo di voltarsi e porre quel semplice quesito al suo compagno di
viaggio qualcosa calò sul suo capo tramortendola in un sonno grigio e incolore.
Il dolore giunse poco prima del risveglio. Un unico e
intenso pungolio all’altezza del fianco che con forza
risalì le pareti della sua coscienza per terminare lì, poco sopra la base del
collo dove esplose sordo e brutale, una sberla in faccia che le aprì a forza
gli occhi. Li, per metà inebetita dalla stanchezza la Nihaar’ì
si ritrovò a sbattere un paio di volte le palpebre prima di riuscire a
identificare gli interni di quella che pareva una barca dall’aria assai
consunta e logora. Assottigliò lo sguardo, gli occhi secchi di sole e polvere a
rigarle il viso con due grosse lacrime riarse. La seconda occhiata non fu
tuttavia migliore, giacché era evidente che ovunque in quella struttura
oscillante mancassero pezzi di fasciame e cardatura fra le travi dello scafo.
Sete di vario tipo e dimensione pendevano dal soffitto come arti molli,
oscillanti nel vago ondeggio della struttura. Mercanzie fra le più stravaganti
giacevano ammonticchiate un po’ ovunque e fra di esse, immobili come
cianfrusaglie dimenticate, sedevano decine di corpi semiaddormentati,
Un brivido percorse la Nihaar’ì.
Difficile capirne la provenienza: l’interno della
barca era per lo più avvolto nella semioscurità, un plumbeo silenzio interno in
contrapposizione a un roboante fracasso esterno tale da permettere di udire
solo qualche colpo di tosse ogni tanto e rare frasi sconnesse. Meno arduo fu
invece stabilire che la quasi totalità delle figure fosse femminile, la
morbidezza delle forme a rivelare che quel luogo era stato evidentemente
adibito al trasporto di loro soltanto.
Nell’improvvisa necessità di sedersi e sgranchire le
membra irrigidite, la Nihaar’ì si ritrovò a
constatare l’ultimo - ma non meno importante - particolare di quel quadretto
nautico: era legata.
E solo allora ricordò effettivamente che non poco
tempo prima - ore? Minuti? Giorni? - lei e Hiras
erano stati sorpresi nel deserto dai Kamin dopo
un’infruttuosa fuga. A quel punto la sua memoria si faceva tuttavia un po’
confusa, assente in realtà, ma immaginò che l’acuto pulsare della testa proprio
all’altezza della nuca ne fosse in qualche modo responsabile.
Fece una smorfia, una piccola risata nell’ombra a
costringerla a cercare con lo sguardo volti che, immaginò, la stessero
guardando. Nessuno tuttavia disse alcunché, motivo per cui anche a lei non
sembrò opportuno aggiungere molto.
Era prigioniera, questa era più che evidente. E non
era sola, abbastanza ovvio. E se Hiras non aveva
mentito, con ogni probabilità ora tutti quanti loro erano in viaggio verso la
prima città reperibile sulla tratta commerciale: la Nera Città.
La Città del carbone.
Il nome assieme al suo fumoso significato le rimbalzarono
dalla gola al petto impedendole per un attimo di respirare. Socchiuse di scatto
le palpebre nel tentativo di abbandonare il più velocemente possibile il
pensiero.
E per aggiungere il tocco finale: dov’era ora Hiras?
Un improvviso scossone la fece cozzare contro la
parete legnosa, un sonoro toc ad accompagnare la silenziosa imprecazione
che ne seguì. Qualcuno rise.
Di norma avrebbe dovuto trovarsi con lei, giacché
insieme li avevano presi e sempre insieme sarebbe stato ovvio che li
lasciassero. Istintivamente si massaggiò la parte lesa, il metallo
serrato attorno ai polsi a regalarle per un attimo una carezza fredda e rigida
contro il volto. Abbassò di colpo le mani.
Ma anche un cretino avrebbe notato che quella
“carrozza” era colma solo di donne, motivo per cui era lecito pensare che fosse
stato messo in un’altra...
Nuovo scossone. Nuova imprecazione silenziosa. Nuove
risatine sommesse.
In un’altra assai più maschile e comunque abbastanza
vicina da non pensare che egli fosse stato lasciato - che ne so - indietro per
vari e imprevedibili...
Nuovo scossone. Nuova imprecazione. Questa volta, una
risata vagamente definibile non molto distante da lei.
“Di solito al terzo toc la gente capisce che la
cosa migliore da fare è stendersi sul fondo della gabbia ed attendere che la
carovana si fermi...” la voce sottile e giovane la raggiunse da poco distante,
un che di divertito nel tono a fare chissà perché imporporare le guance della Nihaar’ì.
“Sfortunatamente credo che a me servisse qualche toc
in più per capirlo” reagì lei d’impulso prima di potersi mordere la lingua.
Sentì l’altra ridacchiare appena, nuovamente. Poco male, sospirò la
Veggente cominciando lentamente a distendersi sul fondo legnoso, almeno era
sembrata simpatica. Proprio in quella un nuovo scossone la scaraventò
brutalmente a terra.
“Avete detto che ad un certo punto la carovana si
fermava...” commentò piccata. La penombra era troppo fitta per vedere bene, ma
le parve comunque di notare una testa riccioluta annuire poco distante.
“Solo una volta al giorno e una di notte” le rispose
“Prima di allora scordati di poter mettere piede fuori da questa fornace”
La parola fornace sembrò improvvisamente dare forma e
colore alla sensazione che pian piano si era fatta strada nella coscienza della
ragazza. Una percezione di pesantezza, malessere e caldo oltre ogni dire che
fino ad allora l’ammonticchiarsi degli eventi le aveva in qualche modo impedito
di elaborare. Boccheggiò portandosi istintivamente una mano al volto che trovò con
suo sommo sgomento privo di alcun velo o protezione.
Era nuda?
La sua faccia dovette assumere allora una che di
pallido e sconcerto al contempo perché questa volta le risate attorno a lei
furono assai più sonore e goliardiche di prima.
“Ti hanno controllata mentre dormivi.” le spiegò
ancora la voce calma. La Nihaar’ì si sentì, pur non
vedendosi granché, sporgersi avanti alla ricerca di un qualcosa per coprirsi.
Tuttavia l’attimo dopo desistette.
“Mi hanno guardata e non hanno visto...” percepì la
gola seccarsi improvvisamente “Niente?” “Già solo il fatto che tu sia qui e non
abbandonata sotto qualche duna di sabbia dovrebbe fartelo intuire”
La semplicità di quella risposta la spiazzò tanto
quanto quelle assai più arzigogolate dell’Aruspice.
Nulla di nuovo. Come sempre. Dicevano
tutte e due. Eppure chissà perché questa volta le sembrò tutto diverso, tutto
differente rispetto a come l’aveva percepito fino a quel momento.
“Dove stiamo andando?” riprese poco dopo
improvvisamente afona in quella caligine ansante. “A Yevtsuk’han.
Al mercato degli schiavi” rispose l’altra paziente.
Come aveva previsto Hiras.
“Dove sono...” esitò “Gli altri?”
Qualcuno rise nella penombra “Preoccupata per il tuo
amato, ragazzina?” la nuova voce le parve grigia e ruvida sulla pelle, una nota
malevola a farle di riflesso storcere il naso “E’ stato preso anche lui?”
continuò tuttavia. Risatina generalizzata. “E chi se lo lascia scappare uno
così?” fu il laconico commento.
Il che voleva dire che Hiras
stava viaggiando con lei - con loro - a non più di qualche gabbia di distanza.
Si sentì trarre un mezzo sospiro - o era solo un annaspare di caldo?
“Fossi in te eviterei tutto quel sollievo” la ammonì
subito l’altra “Fra i Kamin gli uomini catturati sono
senza dubbio quelli a passarsela peggio.” in un breve scostarsi di luci, fu
come riuscire a vedere per un attimo la padrona di quella voce lapidaria. Mento
sfuggente e sguardo volpino, labbra carnose piegate in un’espressione dura e
sbrigativa.
Poi la luce passò.
Anche lei tuttavia doveva averla vista perché
sogghignò.
“Pensavi forse che vedendovi così carini insieme vi
avrebbero venduto in coppia?”
In effetti si...
“Certo che no, non sono una sciocca” replicò la Nihaar’ì prendendo a lisciarsi delle pieghe semi-invisibili
dei vestiti “Semplicemente mi domandavo che fine avesse fatto”
“Che fine, ti chiedevi?” la sbeffeggiò l’altra “Eppure
non credevo che la preoccupazione per gli altri fosse cosa per gente come voi”
Gente come voi?
Il gelo di un brivido attraversò improvvisamente la
schiena della Veggente. Rabbrividì suo malgrado, piegando appena il capo sotto
il peso di quella nuova sensazione.
“Non capisco a cosa ti riferisci” abbozzò tuttavia con
noncuranza. Forse era stata una frase buttata lì a caso... Per un attimo
l’altra non rispose, i sussulti della Gabbia ad inframmezzare quei secondi di
afosa attesa.
“Io credo invece proprio il contrario” replicò
finalmente dopo un attimo “Ma perché curarsene? Il deserto è grande e così
grandi sono i suoi misteri”
La Nihaar’ì riconobbe il
modo di dire, spesso usato fra le genti del Sud. Meno facile fu intendere
invece il significato di quel breve scambio di battute: la sensazione di essere
stata in qualche modo minacciata aveva stranamente il gusto della Torre del
Tempo. Amaro e acido al contempo, qualcosa che sapeva di veleno e insieme del
suo rimedio.
Se quell’affermazione fosse stata o meno casuale,
l’altra non sembrò tuttavia affatto incline a rivelarlo: per la rimanente parte
del viaggio si limitò a rimanere in silenzio, lo sguardo muto chiaramente
puntato sulla ragazza mentre una dopo l’altra tutte le prigioniere si facevano
avanti per chiedere qualcosa su di lei e su Hiras -
molto su Hiras. In effetti quasi solo su di lui.
Lei rispose calma, precisa, puntuale, una falsa
identità che attimo dopo attimo si delineava sulla sua pelle con la semplicità
di ore e ore di addestramento in compagnia di Zaphil.
Poco tempo prima del calare delle tenebre nei suoi panni giaceva una giovane
donna dall’aria mesta ma sincera il cui passato pareva giacere a metà strada
fra Hevnank’ar e il
deserto più sconfinato.
Una bella persona, tutto
sommato, che le ragazze prigioniere non faticarono granché a farsi piacere a
tal punto da sussurrarle poco prima che entrassero dei Kamin
urlanti ad ordinar loro di scendere tutte insieme per il rancio serale “Evita
qualunque contatto visivo con loro. I Kamin sono
uomini del Deserto, più avvezzi alle superstizioni che al buonsenso. Se ti
vedranno alzare lo sguardo ti puniranno come nessuno ti ha mai punita in vita
tua”
Son tornata J Questo è per me un periodo di cambiamenti (spero
positivi…) per cui potrei non essere sempre costante nel postare. Io comunque
ci provo!
Grazie mille a tutti quelli
che leggono, a chi commenta e a chi mi sopporta ogni giorno malgrado i miei
evidenti segni di isterismo.
Un baciozzo
Elendil
_______________________________
Non era mai stata punita.
Questo il primo pensiero della Nihaar’ì
quando, mezza anchilosata per il viaggio, discese la piccola rampa in legno che
dava sul deserto.
E non era mai stata nemmeno rimproverata, se si
escludevano Zaphil e i suoi tormentosi sermoni su
cosa volesse dire essere una Nihaar’ì, il rispetto
dell’etichetta e bla bla bla...
Mentre veniva fatta accomodare sulla sabbia già umida
di tramonto, i polsi legati a un’unica lunga catena che l' avvinceva assieme a
tutte le altre prigioniere della sua gabbia, la Nihaar’ì
si ritrovò a misurare con sguardo torvo la distanza che - non per la prima
volta - avvertiva separare la sua vita da quella di tutte le altre persone di Arryan. Vite a lei affidate e suo malgrado sconosciute,
impossibili da decifrare perfino nelle loro più semplici sfumature.
Rigida nelle proprie elucubrazioni, la ragazza si
accorse della ciotola di cibo posta poco distante dalle sue gambe rannicchiate
solo quando la sua vicina di catena la pungolò appena con la punta del
gomito.
“Se non mangi la prendo io” soffiò da dietro una fila
di denti bianchissimi “Non è il piatto più buono che io abbia mai mangiato, ma
meglio questo che morire di fame”
D’istinto la Nihaar’ì
allungò subito le mani afferrando la ciotola contenente una parodia appiccicosa
di grano e frumento misti ad acqua e sale.
L’altra le rivolse un vago sorriso furbo prima di
tornare disinvolta alle proprie faccende e lasciarla mangiare quella che, manco
a dirlo, si rivelò essere una zuppa assai disgustosa ma abbastanza calda e
sostanziosa da concederle di rimettersi un poco in sesto.
Solo quando ebbe terminato il tutto, ciotola e posate
abbandonate nuovamente ai suoi piedi, la Nihaar’ì si
concesse di alzare lo sguardo sulla zona circostante per esaminare finalmente i
suoi fantomatici inseguitori. Come Hiras le aveva
giustamente anticipato ne fu assai poco entusiasta.
I Kamin erano, non le servì
che uno sguardo per intuirlo, ciò che di più distante dalla Torre del Tempo le
fosse mai capitato di vedere. Non parevano selvaggi, questo no, eppure era
certa che nessuna città del continente avesse avuto la possibilità di ospitarli
entro le sue mura quel tanto che bastasse per civilizzarli.
Particolare fondamentale, erano cacciatori. Ma di un
genere assai più selvatico e brutale dei cacciatori di Yenavo’r.
Portavano lunghi capelli raccolti in una treccia alta ed erano in prevalenza
nudi, la pelle scura di sole lasciata scoperta su petto e spalle.
Particolare secondario ma non meno rilevante, facevano
uso della Tinta: braccia e schiena erano per intero colorati di rosso così che
lo strato superficiale assomigliasse quasi a una seconda pelle.
Terzo particolare, di certo consideravano il coprirsi una
faccenda da umili cittadini: solo il bacino era sottratto allo sguardo da un
lungo tessuto avvolto più volte attorno ai fianchi anch’essi adombri di piccoli
oggetti da caccia e sacche di pelle sottile. Se non al pudore, perlomeno i Kamin parevano però essere sensibili al freddo perché nel
progressivo calare della notte molti di loro cominciano a coprirsi con casacche
e mantelli.
E ultimo ma non ultimo, non parevano affatto avere
considerazione dei prigionieri da loro trasportati: parlavano loro raramente e
quasi mai con frasi compiute ma preferendo semplici ordini o minacce velate.
Non urlavano - questo no - ma era chiaro che ognuno di loro portasse seco una
promessa di violenza viva e presente, affatto mascherata.
In sostanza, la Nihaar’ì si
ritrovò molto presto a intuire il motivo di tanta apprensione da parte delle
altre prigioniere.
Cauta, si arrischiò comunque a tendere il collo e
gettare una rapida occhiata al gruppo maschile seduto poco distante alla
ricerca di Hiras.
Non lo trovò subito, ovviamente. L’oscurità stava
aumentando ed era difficile delineare chiaramente la ventina o più di uomini
seduti in fila nella sabbia. Abbassò lo sguardo. Poi lo rialzò. E dopo un
momento le parve di intravederlo: un viso girato verso di lei, il collo teso
nel medesimo modo in cui ella sapeva trovarsi il suo. Hiras
la stava cercando.
Suo malgrado non potè
impedirsi un mezzo sospiro di sollievo mentre osservava il ragazzo piegare
lievemente il capo in un gesto come di saluto. Fece altrettanto, mestamente,
scoprendosi per la prima volta a osservare il viso del Danzatore privo di
tessuti o schermi di sorta. Riabbassò rapidamente lo sguardo proprio mentre un Kamin passava al suo fianco.
Quando rialzò gli occhi vide che Hiras
le indicava ora con lo sguardo qualcosa alla sua sinistra. Represse
improvvisamente un mezzo sorriso di gioia: seduto due o tre uomini oltre, Matnery la stava a sua volta scrutando, il volto finalmente
scoperto a rivelare un’età di gran lunga più giovane di come i suoi modi le
avessero fatto sospettare. I capelli corti, quasi rasati, mostravano profondi
solchi come di cicatrici sul cuoio capelluto. Lui le sorrise piano, occhi scuri
a sorvolarla per un attimo prima di innalzarsi poco oltre il confine fra cielo
e dune e ritornare giù, su di lei. Quindi sorrise di nuovo.
Capito? Parve allora chiederle in
un modo sottile, quasi un solletico a fior di pelle, che negli anni lei aveva
suo malgrado imparato ad associare a Zaphil.
Capito? Sbattè le
palpebre lei. No, in realtà. Ma finse comunque di si, stupidamente
troppo contenta di non essere più sola per darsi pena di comprendere messaggi
di alcun tipo.
Fortunatamente però la sua capacità di mentire senza
l’ausilio del Velo doveva essere abbastanza scarsa perchèMatneryripetè una volta il
messaggio aggiungendo un particolare: alzò entrambi i polsi ammanettati e ne
simulò una rottura piegandoli appena verso l’esterno.
Ah! La comprensione dovette
allora fare finalmente capolino sul suo volto perché lui le sorrise
bonariamente prima di chinare nuovamente il capo, un Kamin
che sorpassava prima Matnery poi Hiras
con passo felino.
Lei cacciò un’occhiata prima a destra, poi a sinistra
e quando vide il primo alzare nuovamente lo sguardo alzò appena il mento in
direzione del deserto.
Quando? Significava. Sperò vivamente
che lei non fosse l’unica a capirlo. Ma forse Matnery
intuì cosa intendeva perché un attimo dopo alzò indice l’indice sinistro verso
l’altro a cui aggiunse subito dopo un medio e proprio quando la Nihaar’ì cominciava a sospettare che quel movimento potesse
avere un qualche senso compiuto un Kamin si piantò
nella sua traiettoria di visuale impedendole di vedere oltre.
Fuggiremo alle due?
Saremo in due?
Guarda che belle dita mi ritrovo? (del resto non si
chiamava mica così, lui? Dita.)
Ore dopo, quando tutti i prigionieri vennero a forza
spinti nelle proprie gabbie e tutti insieme legati nuovamente agli anelli
infissi alle pareti, la Nihaar’ì si ritrovò suo
malgrado a riflettere sul senso di quel gesto.
Era incompiuto, lo sapeva. Ma se non lo fosse stato?
Due giorni? Due notti?
“Sai in genere cosa fanno i Kamin
ai fuggitivi?” una voce la raggiunse alle spalle facendola sobbalzare. Si
guardò intorno, l’oscurità a impedirle tuttavia di vedere più in là del proprio
naso. Poco male, si disse. Riconosceva il tono.
“Li inseguono fino a quando non li prendono. E quando
li prendono -il che equivale a sempre- aprono su di loro decine e più piccole
ferite sanguinanti e li mettono a camminare in fondo alla carovana” una pausa,
la Nihaar’ì che si tirava lentamente a sedere
cercando una posizione più comoda per le sue membra già indolenzite “In genere
caldo e sudore non impiegano che qualche giorno per infettarsi e suppurare.
Quando ciò avviene i Kamin si limitano semplicemente
a tranciare la corda lasciando il poveretto libero di fare ciò che vuole. A
quel punto la scelta è semplice.”
Fuggire e morire di stenti o seguire la carovana e
venire curato. Ma accettando così la propria condizione di schiavitù.
Nel silenzio che seguì, la Nihaar’ì
lasciò andare il capo all’indietro, un velo di sudore che già prendeva a
imperlarle la pelle poco sopra il labbro.
“Temo di essere troppo grande per le jenhai (storie)” commentò dopo un attimo, la voce calma che
tradiva tuttavia una nota rigida “Ma grazie comunque per la tua gentilezza” non
poco distante giunse un suono molto simile a uno sputo “Rifila le buone maniere
a chi se le merita” fu la soffiante replica “E bada bene: ho capito cosa avete
intenzione di fare tu e i tuoi amichetti”
Immobile, l’altra strinse appena le labbra.
I suoi amichetti?
“E cosa avremmo intenzione di fare esattamente?”
dall’altra parte rispose un silenzio di piombo, duro quanto bastasse per costringere
la Nihaar’ì a cambiare immediatamente registro “Non
pensavo di fuggire” tentò quindi di giustificarsi.
E perché, poi? Lei era la Nihaar’ì,
nulla che facesse rima con spiegazioni o scuse. Affatto.
“Stai mentendo. Ti ho vista” la inchiodò subito l’altra
“Ma il deserto non ama i bugiardi. Fosse l’ultima cosa che faccio, tu resterai
qui con noi tutte”
E di nuovo quella strana sensazione. Quella
sottospecie di stridio fra le sue parole e quelle della donna quasi che, per
qualche motivo, vi fosse irrimediabilmente un tracciato di più - o uno di meno
- che si sovrapponesse ogni volta rendendo botta e risposta per qualche verso
incompatibili fra di loro.
“Ho forse fatto qualcosa per meritare il tuo
risentimento?” chiese quindi dopo un attimo, il gomito sinistro che si piegava
per sostenere il peso del corpo disteso “Non credo di conoscerti”
Per un attimo vi fu silenzio, i rumori del campo
esterno che lentamente -finalmente- scomparivano nel progressivo rallentare
delle attività. Dentro la gabbia, già si udiva qualche respiro pesante, la
ferocia di quel dialogo apparentemente ignorata dalla maggioranza delle
sfortunate presenti.
Poi, la risposta.
“Oggi ti ho raccontato ciò che i Kamin
fanno a chi fugge. Domani, se farai la brava, ti racconterò cosa fanno a quelli
che rimangono”
Non era mai stata punita. Ma di certo era stata
minacciata.
Nei lunghi anni di reggenza la Nihaar’ì
ricordava ben più di un’occasione in cui la sua persona, il suo ruolo e tutto
ciò che ella rappresentava fossero stati presi di mira. Qualche volta al suo
fianco c’era stato Zaphil. Altre no. In entrambi i
casi, azione e reazione a quel tipo di violenza erano modalità che ben presto
aveva dovuto imparare a fronteggiare per conservare non solo la propria
posizione ma in primis il rispetto dei suoi sudditi.
Ecco perché ora, docilmente in fila con le altre
prigioniere sulla rampa della gabbia, la Nihaar’ì non
poteva fare a meno di sentirsi per la prima volta dopo tanto, un po’ più a
casa.
La minaccia di quella donna l’aveva in effetti riportata
in un attimo nelle stanze profumate della Torre del Tempo, vicina alle parole e
atteggiamenti che negli anni aveva suo malgrado imparato a fare suoi.
Immobile, allungò piano le punta delle dita al di
fuori dei sandali mezzi scuciti, una vaga tensione a livello dei polpacci che
le faceva appena storcere il naso.
“Stai bene?” una voce calma la costrinse a piegare
appena il capo di lato. Era Reine, la ragazza che il
giorno prima si era dimostrata in qualche modo gentile con lei. All’alba Reine si era sentita poco bene (merito della deliziosa mistura
di cereali probabilmente) ed essendo la più vicina, la Nihaar’ì
si era in qualche modo ritrovata un po’ per necessità - il vomito le sarebbe di
certo colato addosso a causa del rollio - un po’ per reale pietà a darle una
mano. Anche un’altra ragazza si era sentita male ma per lei (dai suoni la
Veggente avrebbe giurato le servisse più un esorcista che una cura)
erano occorsi ben tre Kamin a sollevarla e scortarla
fuori di tutta fretta. In ogni caso, il suo gesto assai caritatevole nei
confronti di Reine parevano aver convinto la ragazza
a dimostrarle tutta la sua riconoscenza.
La Nihaar’ì si strinse
appena nelle spalle “Sono stata meglio” abbozzò indolente “Quella gabbia riesce
a darmi più mal di mare di qualsiasi barca” alle sue spalle l’altra parve come
avere un sussulto improvviso “Sei stata su una barca?”
Un veliero, per la precisione.
“N-Una piccola, per la pesca delle ....” tentò subito
di rimediare ma non potè evitarsi una muta
imprecazione. L’altra infatti non sembrò affatto scoraggiata dal retrofront “Quindi hai visto lo Himnakan?”
il tremolio ammirato della sua voce era inconfondibile, abbastanza acuto da
attirare improvvisamente l’attenzione delle prigioniere lì intorno radunate.
Mordendosi nuovamente il labbro, la Nihaar’ì le vide tentare una dopo l’altra di voltare il
viso verso di lei, tendere appena l’orecchio in attesa della sua risposta. Una
di esse arrivò perfino a girarsi del tutto, il volto stupito a lasciare
intendere quanto il gruppo fosse più che mai in ascolto di ogni sua singola
parola.
“Solo una volta” rivolse a questa un’espressione
rigida e ansiosa per poi abbassare subito gli occhi “Ero con..” “Silenzio!”
poco distante l’ordine secco di un Kamin di guardia
pose fine al suo ridicolo tentativo di disimpegno.
Espirò una volta, gocce di sudore nervoso a colarle
giù una dopo l’altra dall’incavo della schiena fino alle natiche e poi alzò lo
sguardo alla ricerca di Hiras e Matnery.
Si accigliò.
Non c’erano.
Non i prigionieri uomini. Solo loro due.
Incerta, la ragazza si ritrovò allora ad alzare il
proprio sguardo sorvolando quello che solo allora scoprì essere un vero e
proprio accampamento allestito dai Kamin in funzione
- pensò - di proteggere nel migliore dei modi i prigionieri.
Lei e gli altri stavano infatti venendo scortati nella
parte più interna e riparata dell’intero allestimento, protetto e recintato con
l’utilizzo di tutta la carovana: come prima avanguardia, stavano gli yenavo’r dei Kamin, immobili e
vigili come i loro padroni poco distanti. Poco più esterne, barriera naturale
contro il freddo e il vento erano state disposte le Gabbie sormontate poco più
oltre da grandi e mastodontici trabucchi in legno evidentemente adibiti ad
alloggio dei Kamin.
Grandi Vele conficcate nella sabbia sventolavano
all’esterno del campo rendendo ancora più forte e viva la sensazione di
trovarsi in una casa galleggiante, immersa e semi avvolta dall’oceano di sabbia
circostante.
“E com’è l’acqua?” alle sue spalle Reine
non pareva affatto preoccupata della presenza dei Kamin,
tanto ansiosa di conoscere ulteriori particolari della sua stupida ammissione
da arrischiarsi a spintonarla appena con il petto. La Veggente fece finta di
non sentirla.
Ma dove erano andati?
Questa volta la sosta pareva essere giunta prima del
giorno precedente perché il sole si stagliava obliquo sul campo delineandolo di
ombre scure e oblunghe in costante fermento.
La Nihaar’ì si morse appena
un labbro, il gruppo di prigioniere circostante ad accompagnarla un passo dopo
l’altro verso il centro di quel formicaio polveroso, latrati e ringhi per ogni
dove a rendere udito e olfatto accessori più scomodi che funzionali.
Come era possibile che il giorno prima non se ne fosse
accorta? Si ritrovò a chiedersi incredula. Eppure era assai
improbabile che l’oggi fosse stato diverso dal ieri. I Kamin
erano sempre i Kamin. I loro dannati segugi erano
sempre le bestie immonde che a prima vista aveva inteso fossero e gli yenavo’r....
“...E’ fredda?” l’insistenza di Reine
coadiuvata al suo contemporaneo appoggiarsi alla schiena la fece di poco
serrare la mascella. Spostò lo sguardo più lontano, il tentativo di vedere se
ci fossero altri gruppi di prigionieri in avvicinamento a risolversi in breve
in una nuova risposta dura e negativa. Non c’erano. Affatto. Ma com’era
possibile?
Si sentì allora ansimare, una zaffata più penetrante
delle altre a inchiodarla per un attimo sul posto prima che la prigioniera
dinanzi a lei la trascinasse suo malgrado in avanti di un passo ancora. Deglutì
a vuoto.
Poi un lampo di improvvisa comprensione.
....alzò indice l’indice sinistro verso l’altro a cui
aggiunse subito dopo un medio e proprio quando la Nihaar’ì
cominciava a sospettare che quel movimento potesse avere un qualche senso
compiuto un Kamin si piantò nella sua traiettoria di
visuale impedendole di vedere oltre.
E se Hiras e Matnery avessero tentato di fuggire quella notte? Se il due
da lei inteso non si riferisse ai giorni ma alle ore? O al fatto che loro
due avrebbero tentato di fuggire quella notte?
Mentre il panico precipitava su di lei avvertì - più
che vederlo - il mondo cambiare prospettiva dinnanzi ai suoi occhi, segno che
probabilmente al gruppo di prigioniere era stato finalmente concesso di sedersi
in attesa del rancio.
O era solo lei che perdeva l’equilibrio? Difficile
dirlo.
Il pensiero di aver in qualche modo perso l’unica
occasione rimastale per tornare alla normalità della sua tanto odiata vita
parve vagheggiare dinnanzi ai suoi occhi in tante macchie a tratti nere a
tratti rossastre. A tratti bianco pallido. Percepì allora il vomito, tanto
dissimile da quello provato fino a quel momento da costringerla d’istinto a piegare
subito il volto di lato e spalancare la bocca in attesa del conato.
Ma non vomitò.
Viceversa, avvertì un improvviso e nuovo pensiero
farsi strada nella sua mente.
...Li inseguono fino a quando non li prendono. E
quando li prendono -il che equivale a sempre- aprono su di loro decine e più
piccole ferite sanguinanti e li mettono a camminare in fondo alla carovana...
Aprì gli occhi di scatto, percependo solo allora la
mano di Reine posta sulla sua fronte come nell’atto
di aiutarla a rimettere. Si scostò incerta, osservando solo distrattamente
l’espressione di lei prima di voltarsi e scrutare il gruppo di prigioniere
tutt’intorno.
Trovò alcuni visi intenti a osservarla. Nessuno le
parve familiare, nessuno corrispondente a quello che stava cercando.
“Se è Faenie che stai
cercando, l’hanno portata via ieri” la voce di Reine
la fece quasi sobbalzare. Si voltò a guardarla con un misto di sorpresa e paura
assieme “Stava troppo male per rimanere con noi sulla gabbia così sono venuti a
prenderla” le spiegò subito l’altra stringendosi nelle spalle.
“E dove l’hanno portata?” si sentì replicare con una
voce troppo acuta per essere la sua. L’altra ripetè
il gesto “Non lo so. Magari semplicemente dal loro Guaritore insieme alle altre
che non si sono sentite bene”
Perché, quei selvaggi ne avevano davvero uno?
Più stizzita che altro, la Nihaar’ì
si ritrovò ad alzare ancora una volta lo sguardo e scrutare assente il vacuo
profilo del disastro delinearsi attimo dopo attimo dinnanzi a sé.
Hiras e Matnery avevano tentato la fuga.
Decretò. E Faenie li aveva traditi. Possibile
che in tutto ciò lei non avesse fatto altro che starsene tutta notte buona buona ad assistere una ragazzina dallo stomaco debole?
Si maledì per tutta
l’intelligenza che in quegli anni non era stata in grado di sviluppare. E
infine si ritrovò a fissare la propria ciotola di cibo posta poco distante da
lei. Non ricordava quando l’avessero portata, ma dall’aspetto non le rimaneva
tanto tempo per trangugiarla prima che l’uscita all’esterno finisse. Non aveva
fame. Decretò fissandola titubante. Ma sapeva che ne avrebbe avuta a
breve. Senza contare il fatto che i suoi giorni di veglia si stavano
approssimando alla soglia critica: forse non oggi, di certo non domani, ma a
breve le sarebbe occorso ogni briciolo di energia in corpo per non
addormentarsi e scomparire chissà dove.
Un chissà dove che viste le circostanze suonava
molto come una condanna a morte piuttosto che una ipotesi di libertà
Mangiò e bevve pure qualcosa. Evitò con docile sdegno
le continue domande di Reine e squadrò a una a una le
sue compagne di gabbia alla ricerca di un qualche segnale rivelatore della
palese macchinazione in atto. Non trovò molto, suo malgrado. Solo qualche
sguardo speranzoso a tendersi in direzione del gruppo maschile e qualche altro
ancor più incerto verso di lei. Evidentemente non tutte dovevano essere a
conoscenza di quanto stava avvenendo. O forse erano attrici migliori di lei.
In ogni caso, elargì disinvoltura a tutte quante
decisa seppur nel possibile a salvaguardare la sua persona.
Solo poco prima che i Kamin
dessero ordine a tutti quanti di tornare nelle proprie gabbie tentò una mossa
che -per quanto rischiosa - sapeva di non potersi risparmiare. Intercettò uno
dei propri aguzzini proprio quando passava loro accanto. Già nell’istante in
cui alzava una mano per attirare la sua attenzione seppe di aver fatto la cosa
sbagliata. Al suo fianco avvertì Reine trattenere il
fiato. Ma cosa poteva farci?
“E-Ecco io...” abbozzò suo malgrado “Volevo sapere...”
Nemmeno il tempo di finire la frase e il Kamin aveva già estratto una frusta da chissà dove e
vibrandola, la calò dritta sulla sua testa.
Quando rinvenne Reine stava
a fatica tentando di tirarla in piedi così che, insieme, entrambe potessero
avviarsi verso la gabbia a loro destinata.
“Dove mi ha colpita?” esalò la Nihaar’ì
con voce impastata. A giudicare dall’umidore che sentiva all’altezza delle
tempie “In testa “ esalò una donna poco distante “Sanguina molto ma si può
nascondere facilmente. I Kamin sanno che rovinarci
compromette il nostro valore”.
Poco dopo, stesa sul polveroso fasciame della gabbia,
la Veggente si diede cura di tamponare la ferita che scoprì dilungarsi poco
oltre l’attaccatura dei capelli della fronte - ma che precisione - fino a metà
testa. Uno sbavo che, lo sapeva, di sicuro le avrebbe fruttato una cicatrice
assai simile a quelle che portava Matnery sul capo
rasato.
Il pensiero del Danzatore le fece ribollire il sangue
impedendole per un attimo di fare alcunché se non osservare con sguardo vacuo i
profili sconnessi della propria prigione. La sensazione di essere sola non le
era nuova - essere la Veggente non rendeva poi così facile fare amicizia-,
eppure mai come in quel momento essa pareva in grado di destabilizzarla.
Gettò un ultimo sguardo alle posizioni vuote lasciate
dalle ragazze che si erano sentite male per via del viaggio e si chiese quale
fosse stata quella di Faenie.
Non era ancora finita. Qualunque cosa fosse
significata la sparizione dei due danzatori e con essa della figlia del
deserto, non era di sicuro la prima né l’ultima cosa che sarebbe accaduta prima
del loro proverbiale arrivo a Yevtsuk’han.
E infatti, all’alba giunsero due Kamin
a slegarla e senza una parola farle segno di uscire. Sapeva che sarebbe
successo ma in qualche modo la rapidità di tutto ciò fu capace di spiazzarla,
facendole desiderare non per l’ultima volta di aver avuto un qualche piano, una
non meglio precisata strategia che non fosse semplicemente aspettare che
venissero a prenderla e domandarle senza tanti preamboli o cerimonie di sorta
“Spogliatevi”.
La tenda ove soggiornava il Kamin-na
(capo dei Kamin) si trovava di fuori del caotico
groviglio del campo prigionieri. Era posta un po’ in disparte, sottovento,
spoglia come l’animo dei cacciatori eppure colma di tante piccole preziosità
volte probabilmente a intendere chi vi dimorasse e chi avesse il
privilegio di starvi. Qualche segugio più pasciuto degli altri dormiva nella
zona orientale, qualche giovane dall’aria atletica sostava alle uscite e alcune
donne giacevano sdraiate su tappeti preziosi. Una di queste in particolare
sostava al fianco del Kamin-na, il corpo semidisteso
poggiato alla piccola seggiolina dove questi sedeva. La sua bellezza catturò
per un fugace attimo lo sguardo della Nihaar’ì.
“Mi avete sentito?” con un sussulto la giovane riportò
la propria attenzione dove doveva essere. Il Kamin-na
era un uomo di media età provvisto di lunghi baffi e pelle scura decorata su
tempie e collo da scuri ideogrammi. Spalle e petto scoperti portavano i segni
di vivide bruciature frutto forse di una alchimia sbagliata di sostanze
applicate sul corpo.
Il suo sguardo pareva più stanco che interessato a
lei, quasi che tutta la faccenda - ma quale faccenda, in effetti? -
avesse più il potere di tediarlo che altro. Per un attimo entrambi si
ritrovarono a fissarsi; poi lui esalò un mezzo sospiro.
“Se non lo farete voi, ordinerò ad altri di farlo”
E fu così che la Nihaar’ì
cominciò subito a svestirsi con gesti rapidi e misurati, la recondita paura di
essere toccata da qualcuno a spingerla suo malgrado a mostrare nel giro di
pochi istanti ciò che mai nessuno prima di allora aveva avuto l’onore di
scrutare: il corpo della Somma Veggente. Baciata da Oneiron.
Sfiorata dal mondo dell’Oltre.
Incerta se fosse o meno il caso di coprirsi con le
mani - del resto il Kamin-Na non aveva
specificato...- la Nihaar’ì si arrischiò allora
ad alzare nuovamente lo sguardo da terra fissandolo in quello dell’uomo.
Lui ricambiò per qualche attimo la sua espressione
muta e incerta. Poi parve sorriderle.
“Non amo ripetermi” le spiegò come a intendere che la Nihaar’ì avesse in qualche modo fatto bene ad assecondare autonomamente
e di buon grado la sua richiesta. “Neanche per chi dicono voi siate” una
pausa “Ma che non credo affatto essere”
Scrutò a lungo il viso della giovane come alla ricerca
di una reazione. Poi sospirò “Chi vi ha fatto questo?” chiese.
Chi mi ha fatto questo? Era la
prima volta che qualcuno glielo domandava.
Non abbassò lo sguardo - questo no - ma per qualche
ragione si ritrovò a corto di parole.
Lui non attese risposta “Dunque è vero ciò che mi è
stato detto?” la incalzò con una nota molle.
“Cosa vi hanno detto?” tentò lei. Lui scosse una volta
la testa, piano “Rispondete”
E improvvisamente la Nihaar’ì
ricordò cosa le aveva detto qualche tempo prima Hiras
sul non rivelare la propria identità, sul tacere e sull’essere insomma più
prudente di quanto le circostanze le suggerissero.
Così chinò il capo, muta.
“E’ stato mio padre” esalò titubante “Vostro padre vi
ha guastata in questo modo?” si accigliò lui. Lei si strinse nelle spalle
“Pensava sarei stata più bella...” “O più probabilmente voleva farvi passare
per qualcuno che non eravate, dico bene?” suo malgrado la Nihaar’ì
si ritrovò ad alzare lo sguardo sull’uomo, incerta sull’avere o meno inteso il
senso di quelle parole.
Lui le scoccò un mezzo sorriso accondiscendente.
“Non è forse così che si usa fra i Nobili?” allargò
appena le braccia come per mostrarle una verità assai semplice e alla portata
di tutti “Sfigurare la propria figlia e tentare di proporla al giudizio della
Veggente nella speranza che venga riconosciuta come Nihaar’ì?”
Difficile intuire l’espressione del proprio viso
allora. Probabilmente qualcosa di davvero perplesso perché l’uomo poco
distante e la donna al suo fianco arricciarono contemporaneamente le labbra in
un’espressione di scherno.
“No?” continuò lui ora quasi affabile “Non avevate
idea di questa pratica? Eppure è molto di moda. Ammetto la vostra giovinezza,
ma dato il vostro stato reputo improbabile che tutto ciò non vi sia mai stato
spiegato” in quella la donna al fianco dell’uomo si sporse appena verso di lui,
la mano che la Nihaar’ì scoprì essere ingioiellata a
coprire le parole che ella sussurrò al suo orecchio. Il Kamin-Na
sorrise. Lei fece un ghignetto divertito.
“La mia Sireli (amata) si
complimenta per le vostre capacità di mentire. Dice che raramente ha visto
giovani più talentuose” “Non sto mentendo!” si scoprì a reagire di getto
l’altra.
Improvvisamente le labbra di entrambi si ridussero a
una linea dritta e mordace. Reazione sbagliata. Ancora. “Non state
mentendo?” la apostrofò infatti subito il Kamin- Na
alzandosi in piedi. Da eretto, fu quasi impossibile non notare quanto fosse
alto rispetto a lei “Le stesse identiche parole pronunciate da chi vi ha
accusato”.
Un cenno del capo in direzione di due Kamin seduti poco distante e presto all’interno della tenda
fu trascinata e gettata a terra una figura per metà snudata, lividi e percosse
a macchiare per ogni dove la pelle olivastra.
Mento sfuggente e sguardo volpino, labbra carnose
piegate in un’espressione dura e sbrigativa si aspettò la Nihaar’ì
di vedere.
Ma rimase delusa.
Il viso che si sporse dal groviglio malconcio pareva
assai più giovane e diverso da come ricordava. Più fine. Più enigmatico. Un
viso che in effetti la Nihaar’ì ricordava di aver
scorto che solo volta per caso in un mare di occhi e visi altrettanto attenti e
curiosi.
La donna pareva incapace di stare in piedi giacché
dopo pochi vani tentativi di guadagnare una posizione più confacente si
rassegnò a rimanersene semidistesa a terra nei propri sudici strati.
“Non amiamo i traditori” parve volerle spiegare il Kamin-Na “Tradire è un vizio che una volta preso, fatica ad
andarsene. Ciò non toglie però che questa figlia del deserto abbia avuto molto
a che dire di voi e della vostra identità” “Non conosco questa donna” fu la
rapida risposta della Veggente “Non sareste tenuta a conoscerla, se ciò che lei
dice fosse vero” fu la soave replica dell’altro.
Serrando appena le labbra, la Veggente si costrinse a
mantenere la calma “Eppure non capisco di cosa questa donna mi potrebbe
accusare. Il mio corpo è sfigurato, questo è vero. Ma avete controllato i miei
occhi e so per certo che non avete trovato nulla”
Nulla di ciò che avrebbe dovuto esserci.
Dall’espressione del Kamin -
Na, questa volta la Nihaar’ì fu certa di non aver
sbagliato. Nessuna accusa poteva reggere la triste realtà che i suoi occhi
erano ben lungi dal dimostrare.
Lo sapeva lei, lo sapeva la bella Sireli
e lo sapeva il Kamin-Na. Poco distante, lo seppe
anche quella donna e il suo gemito contratto.
Incerto, l’uomo passò in rassegna prima lei, poi la
propria consorte e infine i due Kamin ora ritornati
seduti a lato della tenda. Poi sospirò.
“Se non voi, almeno il vostro sguardo non mente” le
concesse “Ed è per questo che mi concederò del tempo per riflettere” guardò gli
uomini “Mettetela assieme all’altra in qualche cesta. Chissà mai che la
vicinanza non plachi i loro dissapori”
Prima di poter in qualche modo replicare, la Nihaar’ì venne letteralmente alzata di peso e nuda come un
verme scortata fuori dalla tenda. Poco distante la donna subì lo stesso
trattamento sebbene il cipollotto di vestiti che l’avvolgeva desse un che di
diverso al loro contemporaneo uscire allo scoperto dinanzi allo sguardo di
tutti.
Inferocita e imbarazzata la Nihaar’ì
non potè far altro che gridare tutto il proprio
discernimento fino all’angusta meta nella quale venne buttata senza tante
cerimonie. Nemmeno il tempo di allontanarsi e la sua gradita compagna le
finì direttamente addosso, un peso morto a schiacciarle improvvisamente sterno
e schiena in un grido sconnesso. Pochi attimi per assicurarsi che entrambe
fossero vive - o che almeno lo sembrassero - e i Kamin
richiusero lo scomparto facendo sprofondare Nihaar’ì
e figlia del deserto nell’oscurità.
“Togliti” ringhiò subito la Veggente scalciando
l’altra lontano da sé. Ignorò il suo gemito contratto sedendosi allora poco
distante, la testa ad appoggiarsi al bordo caldo e oscillante della loro
gabbia.
Ritorno
con un nuovo freschissimo capitolo! Ringrazio come sempre tutti
quelli che mi sopportano e leggono :)
Un
grande bacio e a presto!
Elendil
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Definirla
“cesta” era stato senza dubbio un atto di clemenza per
quello che a conti fatti era poco meno che un cubicolo atto a
ospitare sì e no una persona seduta. Figuriamoci due.
Nell’avvertire
gli stracci dell’altra lambirle il ginocchio, a stento la
Nihaar’ì si trattenne dal mollarle un altro calcio. Tirò
a sé le gambe, il ricordo della propria nudità ad
acuire per qualche ragione il disagio di trovarsi ora a così
stretto contatto con un’estranea.
Imprecò
ancora, infischiandosene del fatto che ah
no, questo una del tuo rango non se lo dovrebbe proprio permettere e
scivolò anzi un poco in basso con la schiena in una posa
ruvida e astiosa.
Poco
distante, il gemito della donna non sembrò molto colpito dalla
cosa. Anzi. La simpaticona pareva così presa dal proprio stato
da non regalarle nemmeno la mezza occhiata di cui ora la Nihaar’ì
aveva disperatamente bisogno per saltarle direttamente in testa e
finirla lì sul posto.
Così,
bistrattata in tutto, la Nihaar’ì si rinchiuse infine in
un silenzio rancoroso che a breve, oscillamento più
oscillamento meno, si trasformò in dormiveglia, e da
dormiveglia in uno
scossone tanto forte da farla cappottare letteralmente su se stessa.
Inebetita
la Nihaar’ì sbattè un paio di volte le palpebre
gonfie di sonno. Dalle fessure della cesta non trapelava ora più
alcuna luce, segno che probabilmente la carovana si era fermata per
il riposo notturno.
Dalla
donna poco distante e ora raggomitolata a terra in posizione fetale
non giunse alcun suono. Stava
dormendo? La
Veggente le gettò un’occhiata astiosa a cui seguì
poi una vagamente più incerta. Ma
come faceva a non essersi svegliata dopo uno scossone del genere?
Mordendosi
un labbro la Nihaar’ì gettò un nuovo sguardo alle
fessure della cesta nella speranza di intravedere se non qualcosa,
perlomeno qualcuno...L’oscurità
rispose nuda al suo sguardo. Sospirando volse nuovamente il capo in
direzione della figlia del deserto.
Magari
era già morta...
Sospirò.
E guardò di nuovo speranzosa all’esterno. Per poi
tornare al bozzolo immobile poco distante da sé. E poi di
nuovo alle pareti. E ancora alla donna.
E
infine con un gemito esasperato si alzò sulle ginocchia e a
carponi si accostò all’altra. Le gettò
un’occhiata critica e incerta. Stava
almeno respirando?
Allungò
allora le braccia nel proposito più o meno cosciente di
constatare il suo stato di salute.
“Non
osare avvicinarti” una voce la gelò sul posto “Non
sono ancora abbastanza morta da lasciarti prendere i miei vestiti”
Le
braccia ancora protese dinnanzi a sé, la Nihaar’ì
strinse appena le labbra “Stavo solo cercando di aiutare...”
“E come? Non sono una stupida” la aggredì l’altra.
Suo malgrado, la Nihaar’ì abbassò lentamente le
mani“Perdonami,
non amo alloggiare con i cadaveri” digrignò rabbiosa “Ma
vista la riconoscenza potrei anche fare uno sforzo e sopportare”
La
risata roca della Figlia la fece quasi sobbalzare. Poco dopo, non
senza un paio di gemiti ovattati, la donna si tirò a sedere
poggiandosi con la schiena alla cesta.
Il
suo fiato corto accompagnò per qualche attimo il loro silenzio
reciproco. Poi ridacchiò ancora.
“Almeno
sei simpatica”.
La
Nihaar’ì fece una smorfia. Come
a voler dire: ti manca tutto quanto ma almeno sai farmi ridere.
“Non
sapevo di essere il tuo buffone” commentò acida. L’altra
scosse il capo lentamente.
“Ora
non esageriamo. Ho detto che sei simpatica, non che tu abbia senso
dell’umorismo” si portò le braccia al petto
chiudendole poco sopra il torace “Nè che mi accosterei a
te più del tempo dovuto a questa prigionia” “Ripeto:
temo tu mi abbia confusa con un’altra” digrignò la
Nihaar’ì. La donna scosse ancora il capo con uno sbuffo
“E
io invece sono certa di no. Ognuno di questi lividi ne è la
conferma” Ah
si? La
Nihaar’ì non potè che stringersi nelle spalle
“Ad
ognuno il confidente che si merita” fece lapidaria ”Se
l’avessi detto a me che pensavi di conoscermi non ti avrei
certo picchiata a sangue come il tuo amico là dentro”
l’altra le scoccò una breve occhiata “No certo che
no” convenne con uno sbuffo contrito “Immagino che ti
saresti limitata a dirmi che spiacente,
non mi conoscevi e
poi baci e abbracci e amiche per sempre, giusto?” La Nihaar’ì
si limitò a sorriderle freddamente “Esatto. E puoi
giurarci che lo saremmo anche diventate. Amiche, intendo” una
pausa “Come ti chiami?” l’altra incrociò le
braccia al petto, poi gemette sciogliendo subito la presa “Karin.
E no, per quanto tu finga di essere simpatica non diventerò
mai tua amica”
Dubito
che sia umanamente possibile con questo atteggiamento.
Ad
un passo dal perdere definitivamente la pazienza, la Nihaar’ì
si concesse allora uno sbuffo contrito “Come ho già
detto, ti stai sbagliando. Non sono chi credi io sia” “Una
bugiarda?” le sorrise l’altra “Ricordavo avessi
detto buffona” puntualizzò stringendo appena la
mascella. Karin le concesse un mezzo ghignetto contrariato “I
nomi hanno poca importanza. Tanto per voi Nobili vanno bene tutti
purché non si sappia mai il vostro”
Il
brivido che seguì quelle parole fu come una scarica lungo la
spina dorsale. La Nihaar’ì si bloccò, interdetta.
Nobili?
“Credi
che io sia una Nobile?” esalò sbigottita. L’altra
strinse appena gli occhi “Io non lo credo. Ne sono certa”
puntualizzò “E prima che tu proceda con la pantomima del
-non riesco proprio a immaginare come ti sia venuta in mente una cosa
del genere - lascia che ti spieghi anche perché: nessuno, e
dico nessuno che non appartenga alla classe nobiliare potrebbe
andarsene in giro con quei
segni senza
che qualche scagnozzo della Torre del Tempo se lo venga prima o poi a
prendere per sbatterlo chissà dove” la Nihaar’ì
non potè che accigliarsi.
“Per
non parlare della tua storiellina della povera fanciulla sola e
abbandonata che hai propinato a tutte le imbecilli che ti sono pure
state ad ascoltare. Nessuno che avrebbe un po’ di sale in zucca
si sognerebbe mai di spifferare a delle perfette sconosciute la
propria storia. Noi del deserto ce lo teniamo per noi il nostro
passato, non lo sbandieriamo come una pezza bagnata davanti agli
occhi di tutti. E poi, andiamo” tentò senza riuscirci di
mettersi a sedere un po’ più comoda. Desistette con un
gemito sgranato “Davvero credevi che nessuna si accorgesse del
tuo modo di parlare fresco fresco di Kashit
(maestri
del linguaggio) e delle tue vesti profumate e lavate di fresco?”
istintivamente la Nihaar’ì non potè che abbassare
lo sguardo alla ricerca di stracciche
non trovò. Davvero profumavano? “Tutto ciò
sarebbe potuto anche passare inosservato se una volta fuori dalla
Gabbia avessi almeno tentato di farti gli affari tuoi piuttosto che
andartene a cercare quelli che palesemente erano i tuoi servitori
ansiosi
prima di ogni cosa di salvarti e correre via insieme verso la tua
lussuosa magione” prese un respiro, un altro, e infine si
concesse di reclinare appena il mento all’indietro così
da poggiare meglio la nuca alle fascine retrostanti. Solo allora la
Nihaar’ì notò quanto la giovane fosse magra e
scavata, niente meno dell’ombra della bellezza esotica che
avrebbe potuto essere se adeguatamente nutrita.
“E
infine, la prova decisiva. Quel riferimento al fatto che oh
si, tu in barca ci vai così spesso che hai quasi perso il
conto.”
abbassò
torva lo sguardo su di lei “Sfortunatamente per te, il popolo
del deserto può definirsi fortunato se ha mai avuto occasione
di vedere l’Himnakan anche una sola volta nella vita.
Figuriamoci solcarlo a bordo di una barca...”
Nel
riverbero di quella stoccata finale, la Nihaar’ì notò
finalmente un particolare che il suo cervello le aveva evidentemente
più volte suggerito senza che ella gli avesse prestato
attenzione “Eri una Nobile?” chiese improvvisamente
seria. In un attimo parve di vedere l’altra trattenere appena
il respiro, un’ombra di sorpresa a solcarle il viso prima che
ella lo abbassasse nuovamente in direzione della Veggente. Le scoccò
una mezza smorfia contrita.
“Mio
padre lo era” esalò in un soffio “Sfortunatamente
però mia madre non lo era abbastanza perché lui se la
portasse a casa dopo essersi divertito con lei il tempo delle
Tempeste di Sabbia” scrollò le spalle “Carino da
parte tua accorgertene. Non è una cosa che fanno in molti”
Lei
scrutò ancora per qualche attimo i tratti di Karin notandone
ancor di più la sottigliezza della mascella e la minutezza del
naso, entrambi connotati che in genere accomunavano le classi
nobiliari abitate a imparentarsi e sposarsi fra di loro. Anche lei
possedeva alcuni dei tratti nobiliari, ma per qualche ragione essi
non erano mai stati abbastanza marcati da definirla entro quella
cerchia.
Per
un attimo Veggente e Karin si ritrovarono a scrutarsi in una
reciproca e muta analisi delle proprie genealogie. Poi sospirarono,
una muta resa che le portò entrambe a poggiare la schiena alle
pareti anguste della cesta.
“Dunque
è per rivelare la mia Nobiltà che ti sei fatta quasi
uccidere dai Kamin?” domandò dopo un attimo la Nihaar’ì.
L’altra si strinse nelle spalle “Anche” le concesse
“Ma soprattutto per la voce che ultimamente sta girando a
proposito della Nihaar’ì” nuovo brivido di gelo
”Ossia?” buttò lì l’altra fingendo
scarso interesse. Karin si accigliò appena Ma
non sai proprio niente! La
rimproverò il suo sguardo attonito “Alcune voci dicono
che la Nihaar’ì si sia rifiutata di compiere il
pellegrinaggio e ora sia in fuga per il deserto”
Rifiutata?
“Come
sarebbe a dire rifiutata?” non potè trattenersi dal
dire. L’altra fece spallucce prima di scivolare un poco con la
schiena verso il basso. Dall’espressione che seguì, la
nuova posizione sembrò in qualche modo incontrare i suoi gusti
“Non saprei dirti. Le uniche notizie che ho avuto sono state
appunto quelle del suo rifiuto e della successiva fuga in solitaria”
“Fuga per dove?” “Chiedi troppo” sbottò
improvvisamente la figlia del Deserto assottigliando lo sguardo. E
non capisco perché.
Rapida
la Nihaar’ì si costrinse a scostare lo sguardo e fingere
un grande e sincero interesse per la fitta cardatura della loro
cella.
“Sono
solo curiosa” buttò lì poi facendo una mezza
smorfia: i Kamin erano di sicuro cacciatori formidabili, ma in quanto
a capacità manuale...
Karin
continuò tuttavia a fissarla “E immagino che questa tua
qualità ti abbia portato tanta fortuna fino a ora”
commentò monocorde. La Nihaar’ì fece spallucce
“Non particolarmente in realtà. Solo tante occasioni di
farmi tanti
amici”
concluse
rivolgendole un mezzo ghigno velenoso.
Karin
ricambiò con l’ennesima passione ma non aggiunse altro.
Si limitò a raggomitolarsi ruvidamente su se stessa e dopo un
lungo sospiro scontroso, rinchiudersi in un solitario tentativo di
prendere sonno.
Ma
la Nihaar’ì non aveva ancora finito.
“Immagino
dunque che il prossimo passo sia essere fustigate e abbandonate in
fondo alla carovana in attesa di morire, giusto?”
Un
brivido astioso percorse immediatamente la figura rannicchiata. Ma il
galateo
della buonanotte era
un’altra delle cose del Deserto che la Nihaar’ì
scoprì di poter fare a meno, trattandosi di Karin.
“Avevi
detto di essere troppo grande per le jenhai (storie)” la prese
in giro la donna mimando un sospiro scontroso. La ignorò “Solo
se si tratta davvero di storie”.
Breve
attimo di silenzio, poi Karin mugolò uno sbadiglio esasperato
“Credi davvero che i Kamin si precludano così in fretta
l’eventualità di riscuotere un bel gruzzoletto con la
tua pelle fior di pesca? Ti interrogheranno ancora e tutte le volte
che vorranno fino a essere sicuri che vali né un soldo di più
né uno di meno di quanto dirai” “E se non dovessi
valere niente?” si accigliò l’altra. Breve
silenzio.
“Beh
allora farai semplicemente la fine che farò io da qui a un
paio di giorni” fu la risposta monocorde dell’altra.
Dannazione.
Ma
era possibile che il popolo del deserto si esprimesse solo con
monosillabe e allusioni?
Reprimendo
un gemito stizzito, la Nihaar’ì sollevò appena la
schiena “E sarebbe a dire?” digrignò. Se la
domanda avesse o meno infastidito Karin, la Veggente non fu in grado
di capirlo. Quando rispose, tuttavia, il suo tono aveva un che di
soffocato.
“Mai
sentito parlare di incidenti
di percorso?”
Sola
in un silenzio grigio e ovattato, il respiro lento e regolare della
Figlia del Deserto a scandire quegli interminabili secoli di veglia,
la Nihaar’ì rifletteva sulle ultime parole dell’altra.
Un
prigioniero malato o malridotto non era che un peso per i Kamin.
Scampata la possibilità di venderlo a un prezzo profittevole,
rimaneva in effetti solo l’ingente mole di costi sostenuti per
curarlo, sostentarlo e trasportarlo. In poche parole, un profitto che
i Kamin preferivano abbandonare prima che divenisse a tutti gli
effetti un costo.
Pesta
e malconcia, Karin dubitava evidentemente che il proprio valore
giustificasse i mezzi necessari a rimetterla in sesto e trasportarla
fino al mercato di schiavi. La Nihaar’ì volse lo sguardo
verso il punto in cui la donna giaceva inerme prima di stropicciarsi
gli occhi con il dorso della mano.
L’avrebbero
dunque lasciata indietro?
L’ombra
della malevolenza di Faenie si stagliava ancora oblunga su di lei
sussurrandole suo malgrado immagini di stenti e sofferenze, un
miscuglio di sensazioni cui ella reagì infossando la testa fra
le ginocchia. Poi sbadigliò, la cadenza del respiro di Karin a
raggiungerla in onde lente e regolari oltre la sua barriera
spaventata.
E
lei? Cosa avrebbero fatto di lei?
Tentò
con scarso successo di riscuotersi, le ciglia a solleticarle le
ginocchia mentre ella le sbatteva una, due volte.
La
semplice possibilità che ella avesse potuto appartenere alla
classe nobiliare pendeva sulle sue sorti come una minaccia sicura
eppure latente, capace tanto di elevarla a preda preziosa -e quindi
intoccabile - sia a spauracchio privo del benché minimo
valore. Tutto dipendeva da come ella avesse deciso di comportarsi una
volta dinanzi ai Kamin lì riuniti e in attesa di una sua
confessione.
Non
le servì che socchiudere appena le palpebre per vedersi in un
attimo lì, sola e nuda dinnanzi ai loro volti in attesa. Lei
immobile. Loro pure. E tutti insieme spiccatamente stagliati in un
secondo di fragile aspettativa mentre quella famosa domanda le veniva
rivolta per la prima - ma non ultima- volta.
Chi
sei tu?
Nessuno
di importante, avrebbe risposto con sguardo fisso, certo, perentorio.
Chi
sei tu?
Quella
domanda l’avrebbe però attesa nuovamente al varco,
presentandosi vestita di nuovo vigore, sagacia, perentorietà.
E reclamando da lei qualcosa di diverso, ora. Di più onesto,
forse. Di più convinto. Di certo, più verosimile a
quanto tutti quanti avrebbero irrimediabilmente cominciato ad
aspettarsi da lei.
Sospirò.
E sbadigliò ancora.
Nessuno.
Si sarebbe però difesa ancora una volta, la vertiginosa
sensazione che fosse il suo corpo e non le sue labbra a mentire per
lei i
cui occhi tacevano irrimediabilmente la profezia che ella avrebbe
dovuto rappresentare a
scavarle più a fondo di quanto alcuna menzogna e obiezione
avrebbero potuto fare.
Nessuno.
Avrebbe ribadito.
Eh
si.
Proprio...nessuno.
Come
dare torto, in fondo, a tanta onestà? Risponde il Kamin-Na ora
improvvisamente alzatosi in piedi dinnanzi a lei. La sua figura la
inquieta. I suoi occhi la inchiodano sul posto. Il suo respiro vicino
le brucia il volto infrangendosi sulle sue palpebre calate come le
onde di una risacca ardente.
E
lei non può che indietreggiare, suo malgrado, la
consapevolezza della propria fragilità a riverberare come
scricchiolio crepitante nel cuore teso. Si sente, poiché è
certa di sentirlo, gemere piano nell’ombra prima che con una
mossa rapida l’uomo la costringa ad alzare lo sguardo verso
l’alto e guardarlo.
Dunque
siete chi dicono voi siate?
Le
sussurra abbastanza vicino perché siano le sue labbra e non la
sua voce a rivelarle il senso della domanda. Ma prima che ella possa
anche solo pensare di rispondere - o meglio, di negare e negare
ancora - un lampo nero invade il suo campo visivo frapponendosi in
tutta la propria gargantuesca mole fra lei e qualunque altra figura
presente.
E
l’Ombra la guarda.
Immensa,
glaciale, mortale, il suo stridente canto a sprigionarsi ora
tutt’attorno a lei in un grido tale da costringerla a sua volta
a urlare.
Dunque
siete chi dicono voi siate?
Il
Kamin le chiede ancora. Ma un sussurro senza palpebre ora, senza
labbra adesso eppure stagliato nella sagoma a lei rivolta e
improvvisamente incombente sulla sua figura irrigidita come sbavo su
foglio bianco.
Lo
siete?
Lo
stridio perentorio la fa singhiozzare, il riverbero esangue tremare.
Ed ora è più che mai certa che mai prima di allora,
prima di quel momento, ella si è per davvero trovata dinnanzi
a qualcosa di tanto potente, tanto mortale come ciò che
dinanzi a lei attende, immobile il suo rispondere.
Lo
siete?
Sa
che deve farlo. Rispondere.
Non
può più aspettare. Non sono i Kamin. Non è
Karin. Non è nessuno di tutti coloro che fino a quel momento
hanno avuto l’ardire di domandarle ciò cui nessuno
infine dovrebbe poter formulare. Se non lei.
E
schiude le labbra. E prende fiato. E arrota appena la lingua sotto il
palato.
E
poi inaspettatamente ella si ritrovò nuovamente nella cesta,
rinchiusa come un animale selvatico nell’angusto spazio del suo
respiro e quello della Figlia del Deserto ancora - ma come diavolo
era possibile?- addormentata.
Non
le servì interrogarsi per capire che si era addormentata a sua
volta. E che aveva sognato.
Anzi.
Si
deterse con il dorso della mano il sudore sopra il labbro, la
sensazione di essere terribilmente assetata a condensarsi nella
contemporanea percezione di essere egualmente inzuppata del proprio
panico.
Aveva
avuto un Nayel.
La
potenza di quella rivelazione fu tale da farla scattare
immediatamente a sedere e scagliarsi di peso sull’ignara Karin
ancora -era cosa buona ribadirlo- addormentata. La afferrò con
entrambe le mani per gli stralci lisi delle sue vesti e prese a
scuoterla violentemente una, due volte. Solo alla la terza si ricordò
delle sue condizioni fisiche.
Dal
ringhio che seguì, fu chiaro che la Figlia del Deserto non si
fosse affatto ripresa in quelle poche ore di sonno tormentoso.
“Perdonami”
si affrettò a scusarsi la Nihaar’ì rifilandole
un’occhiata di sottecchi. Suo malgrado non potè
impedirsi di provare un vago senso di colpa per la violenza di
poc’anzi: a occhio e croce il corpo di Karin aveva solo
aspettato le ore notturne per rivelare alle tenue luci dell’alba
le sue meglio escoriazioni. Le gettò un’occhiata di
sincero compatimento prima che una nuova e assai più
precipitosa
necessitàtornasse
a irrigidire ognuno dei suoi muscoli.
“Devi
aiutarmi” annunciò perentoria. Socchiudendo una
palpebra, poi l’altra, Karin le scoccò uno sguardo ben
più che omicida. La scosse di nuovo. L’altra urlò
di dolore.
“Ho
detto” scandì senza fiato “Che devi aiutarmi”
un’improvvisa fitta alla testa la costrinse a socchiudere gli
occhi. Quando li riaprì, si ritrovò a incrociare lo
sguardo semi-atterrito di una Karin ora seduta e a fatica poggiata
alla parete della cesta. Non pareva né collaborativa né
propensa a divenire tale.
“Devi...”
prese fiato “Ho capito” non le lasciò finire la
frase “Ero addormentata, non sorda” puntualizzò a
conclusione.
Riprendendo
fiato per un attimo, l’incertezza di non sapere esattamente
quale fosse stato nella sua mente il passo successivo a svegliare
quella simpaticona di Karin facendole il più male possibile,
la Nihaar’ì si concesse di rivolgerle uno sguardo di
lunga e incerta gravità. Poi si umettò le labbra.
“Ho
avuto una Visione” annunciò.
E
se si fosse aspettata una qualche reazione di emozione o stupore
rimase assai delusa. Karin la fissò per un attimo aggrottando
le sopracciglia. Poi sbattè le palpebre.
“Non
sei una Risvegliata” obiettò semplicemente “Infatti
sono la Nihaar’ì” ribattè subito lei.
Nuovo
aggrottarsi di sopracciglia.
“A
che gioco stai esattamente giocando?” fu la perentoria
risposta. Questa volta fu il turno della Nihaar’ì di
accigliarsi. Sinceramente,
espirò,l’ipotesi
di dover essere lei a convincere gli altri della propria reale
identità non le era affatto passata per la mente fino a quel
momento.
“Ti
sembra che io stia giocando?” si costrinse comunque a mantenere
la calma.
“Mi
sembra che tu ci stia provando,
ma di certo deve esserti sfuggito qualche passaggio” sogghignò
l’altra “E sarebbe?” sbottò incredula la
Nihaar’ì “La gente del Deserto non è
stupida. Se sei la Nihaar’ì dimostralo. Altrimenti
tornatene dalla ridicola pantomima da cui sei venuta”
Abituata
alle schermaglie della Torre ma non certo a quelle della Gente del
Deserto, la Nihaar’ì non potè allora definire se
la sensazione scaturita da quel breve dialogo fosse di sconfitta o di
umiliazione o insomma di un qualcosa che avesse a che fare con
l’improvvisa consapevolezza che Karin avesse
ragione.
Abbassò
contemporaneamente entrambe le mani e in silenzio, suo malgrado,
espirò.
Il
fatto che lei fosse la Nihaar’ì era inoppugnabile. Si
umettò piano le labbra. Il fatto che fosse in grado di
dimostrarlo era tutt’altra faccenda.
Così
si limitò per un attimo a guardare la propria compagna di
cesta e nel dorarsi degli scorci di luce fra di loro, scrollò
le spalle.
“Ho
avuto un Nayel” dichiarò ancora, solo vagamente
consapevole che quella fosse l’unica difesa di cui fosse
provvista per affermare la propria identità “Questa
notte le Ombre attaccheranno la Carovana e arriveranno fino alla
tenda del Kamin-Na. Lì ci staneranno e ci uccideranno”
Immobile,
Karin si limitò a fissarla per qualche attimo. Poi le rivolse
un mezzo sorriso.
“E’
un pò catastrofico come Nayel” “E’ ciò
che ho visto” “Questa storiella non ti varrà la
libertà”
Non
era ciò che sperava di ottenere.
Stizzita,
la Nihaar’ì si abbandonò allora alla parete di
fascine alle sue spalle, il capo che mollemente si reclinava
all’indietro in una posa distante. Sentì, pur non
vedendolo, lo sguardo di Karin seguirla e per un attimo studiarla con
cauta circospezione prima che ella tentasse con scarso successo di
tirarsi a sedere.
E
di nuovo eccola balenare nella mente la sagoma dell’Ombra
mentre scura essa si parava dinnanzi ai suoi occhi impietriti
studiandola, sfidandola a reagire.
Chiuse
di scatto le palpebre, un timore diffuso a sussurrarle una sensazione
come di freddo al ventre.
Quante
speranze aveva che i Kamin le credessero?Pensò.
Più
o meno le stesse che la Nihaar’ì si trovasse per davvero
nuda e prigioniera in una Carovana in viaggio chissà dove per
il deserto di Harryan. Un evento tanto improbabile, quindi, da
rasentare più o meno il ridicolo. Eppure...
“Accadrà
questa notte” riaprì lentamente le palpebre per poi
voltare il capo in direzione di Karin “Quando i Kamin ci
condurranno di nuovo nella tenda per interrogarmi”.
L’altra
le scoccò un’occhiata obliqua “Reputo improbabile
che ci vengano a prendere questa notte. Stiamo attraversando un’area
molto pericolosa” “Pericolosa come?” fece l’altra
aggrottando le sopracciglia. La Figlia del deserto scrollò
appena le spalle “Dicono che qui siano nascoste alcune delle
famose entrate per la città dei Cento Sospiri”
Ed
eccola ricomparire, vecchia e nuova amica, la sensazione di essere
senza dubbio l’abitante di Harryan più ignorante circa
le faccende di Harryan medesima. La Nihaar’ì strinse
appena le labbra limitandosi a proferire un laconico “Certo”
breve pausa “Capisco” sull’intera faccenda.
“Ma
credi comunque che accadrà” le sogghignò Karin da
dietro un velo di dolore.
Senza
pensarci la Veggente replicò il gesto “Devo crederci.
Altrimenti che Nihaar’ì sarei?”
E
venne così finalmente la notte. Nel morire degli ultimi raggi
solari parve allora di percepire i rumori della Carovana tutt’attorno
alla cesta attenuarsi mentre la moltitudine unita si addentrava passo
dopo passo nel grigio imbrunire.
I
segugi smisero lentamente di abbaiare prendendo viceversa ad
uggiolare e guaire sommessamente, quasi che la mancanza dell’astro
ardente in cielo disturbasse i loro gusti canini. Le voci degli
uomini parvero in egual misura spegnersi passando dalle fitte e
concitate conversazioni a frasi brevi e moderate, meste quasi. E
l’andatura egualmente calò di tono, passando da una
marcia costante - il deserto certo non permetteva di correre - a un
ben più mesto avanzare a passi lenti e misurati.
Ma
nessuno si fermò. Né i cani. Né gli uomini. Né
la carovana.
Karin
aveva avuto ragione:
evidentemente quella zona era abbastanza temuta dai Kamin da
costringerli a tirare dritto e negare a tutti quanti, loro compresi,
le poche ore di meritato riposo notturno.
Lei,
viceversa aveva avuto torto.
Immobile
nella medesima posizione di qualche ora prima - possibile che Karin
stesse davvero più male di quanto il suo viso desse a vedere?
- la Figlia del Deserto le concesse una breve smorfia laconica.
“E
dunque com’è la Torre del Tempo?” la prese in giro
nel vederla a sua volta immobile, il viso appiccicato alle pareti
della cesta nell’inutile tentativo di scorgervi qualcosa
attraverso. La Nihaar’ì si morse appena le labbra.
“Grande”
le concesse “E bianca”.
“Particolari
che nessuno oltre alla Nihaar’ì potrebbe notare,
immagino”.
Sbuffando,
l’altra schiacciò ancora di più il volto contro
il ruvido fasciame.
“Ogni
stanza ha un profumo diverso, studiato appositamente per conciliarsi
al momento del giorno in cui il sole filtra dalle ampie finestre a
volta” “Affascinante. Niente a che vedere con le
chiacchiere di noi minesis
(umili
popolani) che parlano di sale completamente immerse nell’acqua...”
Finalmente
la Nihaar’ì volse lo sguardo inchiodandolo dritto in
quello dell’altra ragazza.
“Se
trovassi un modo, anche solo uno per dimostrarti che sono davvero la
Veggente e non una ragazzina qualsiasi intrappolata in una situazione
ben più che sgradevole, mi crederesti?”
L’altra
la studiò per un attimo, il viso improvvisamente concentrato
in quella che pareva la prima e forse unica parentesi di serietà
fra di loro.
“Si,
ti crederei” esalò quindi senza espressione.
Suo
malgrado, la Nihaar’ì si ritrovò per qualche
secondo a corto di parole: non si era davvero aspettata quella
risposta. Ed evidentemente nemmeno
la sua nuova amica perché
per un attimo entrambe rimasero a fissarsi con un misto di
sbigottimento e confusione assieme. Poi ripresero fiato.
Lentamente
la Veggente abbandonò la parete della cesta per sedersi a
gambe incrociate dinanzi all’altra. Espirò lentamente,
quasi concentrata e poggiando la schiena alle fascine alle sue spalle
chiuse gli occhi.
“E
allora sta a guardare” concluse mentre, concentrata, cominciava
a distendersi nella docile precognizione del dormiveglia.
Per
un attimo calò il silenzio. Poi, debole, un colpo di tosse.
Espirò piano. E un altro. Si umettò piano le labbra. E
infine una mezza risata smorzata.
“Certo
che voi Nobili siete incredibili” la voce di Karin la raggiunse
da dietro un velo di candida ironia “Avvolti nel vostro mondo
di sfarzo e ricchezza smettete a un certo punto di rendervi conto di
ciò che vi circonda”.
Suo
malgrado la Veggente si ritrovò a riaprire gli occhi prima di
abbozzare una smorfia incerta.
“E’
magia quella che state attendendo, mia cara?” la sbeffeggiò
Karin con un vago sogghigno “O state solo attendendo il momento
più propizio per dirmi che l’unico miracolo che ci
attende è riuscire in qualche modo ad aprire questa gabbia e
fuggire?”
Nuova
occhiata sardonica, nuova smorfia attutita. E poi improvvisamente il
riverberare di un suono nell’aere colse la loro percezione. Una
nota unica, in realtà, alta e cristallina come mai prima di
allora la Nihaar’ì fosse certa di aver mai udito. Per un
istante la ragazza rimase ad ascoltarla innalzarsi potente attorno a
lei schiacciando sotto di sé ogni altro suono, ogni altra
percezione. Poi sbatté le palpebre e volse nuovamente le
proprie attenzioni ad una Karin ora immobile nel proprio smorzato
soffrire e deriderla assieme.
Deglutì
a vuoto. “Lo senti?” esalò scoprendosi a
sussurrare. Il sorriso dell’altra parve incrinarsi appena
“Sento cosa?” fu la laconica risposta. Ma la Nihaar’ì
era stanca di essere presa in giro.
“Questo
suono” aggrottò le sopracciglia subito imitata
dall’altra.
“Questo
suono quale?” “Come quale?” avvertì la
propria mascella contrarsi appena mentre una nota ancora più
alta, ancora più eterea esplodeva in un milione di brividi
tutt’attorno a lei.
Questa.
E
poi improvvisamente qualcuno dal di fuori gridò l’Alt.
Non
era un caso che si fossero fermati proprio in quel momento, proprio
in quell’istante. Mentre saltava da una parte all’altra
della cesta al pari di un grillo nella sua scatola, la Nihaar’ì
non potè trattenere un moto di speranza e tensione assieme.
Non
era un caso. Si ripetè. E il fatto che proprio allora, proprio
in quel momento, anche tutti i segugi avessero cominciato per qualche
ragione a latrare contemporaneamente, nemmeno quello poteva essere un
caso.
“Vuoi
stare calma?” poco lontano le giunse il lamento esasperato
della sua compagna di viaggio, un misto di dolore e sfinimento
assieme che resero in qualche modo la sua voce lontana, spenta e
fioca come se già appartenesse a un’altra persona
diversa da quella che aveva incontrato.
Non
le badò, scalciando viceversa di lato per cercare di intuire
almeno un poco cosa stesse succedendo fuori. Non vi riuscì. Ma
fu comunque in grado di percepire che probabilmente molto dipendeva
dagli yenavo’r e dal loro...arrestarsi? Imbizzarrirsi?
Che
cosa stava succedendo?
“Perché
ci stiamo fermando?” poco distante Karin tentò senza
riuscirci di mettersi seduta e guardare a sua volta all’esterno.
Non ne fu in grado. La Nihaar’ì le rivolse
un’espressione incerta interrompendo solo per qualche attimo il
proprio saltellare a destra e manca. Poi le sorrise furbamente.
“E
ora mi dirai che tutto questo è merito tuo, vero?” fu la
nervosa replica della Figlia del Deserto. La Nihaar’ì
fece spallucce reprimendo un autentico ghigno.
“Tu
che dici?”
Percepì
l’altra trattenere per qualche attimo il respiro. Poi esalare
la fatidica domanda “E’ opera tua?”.
E
per un attimo desiderò davvero poter dire si
senza
dubitare che potesse essere una menzogna bella e buona. Una forzatura
della strana e impercettibile fortuità del destino. Ma in
egual misura sapeva quanto allora importasse mentire per potersi una
buona volta salvare da tutta quella disastrosa situazione e sperare
finalmente di tornarsene a casa a fare la vita cui era stata
destinata.
Balli
e conferenze. Riunioni e rappresentanze. E tante inutili, stucchevoli
conversazioni dal retrogusto agrodolce.
Così,
suo malgrado, non riuscì nemmeno a sentirsi realmente in colpa
mentre, voltando il viso e inchiodandolo in quello dell’altra,
esalò un “Si, è merito mio”.
Che
il Destino la punisse per quella menzogna. Lei ora aveva davvero
altro a cui pensare.
Nel
breve attimo di sospesa rivelazione e mistica importanza che seguì
quelle parole, la NIhaar’ì ebbe modo di percepire voci e
passi poco distante dalla loro cesta nominare prima lei (la ragazzina
tutta nuda) e poi Karin (la Figlia del deserto), segnale che
probabilmente -seppur non nei termini che aveva sperato - la sua
visione si stava lentamente ma inesorabilmente avverando.
Si
ritrovò allora a trattenere a sua volta il respiro, una vena
di aspettativa a scuoterla come un brivido malcelato prima che ella
fosse nuovamente in grado di espirare.
Stava
accadendo.
Esitò.
Stava
accadendo per davvero e per la prima volta lei era lì per
vederlo...
Poi
improvvisamente la luce del “fuori” invase la cesta
mentre qualcuno di non meno identificato scoperchiava con un unico
movimento il coperchio. Una figura imbacuccata fece allora capolino
nel grigiore crepuscolare. Sapeva che non fosse saggio, ma prima
ancora di capire cosa stesse accadendo la Nihaar’ì si
ritrovò ad alzare le braccia verso l’alto in risposta a
quelle che già vedeva tendersi verso di lei nel chiaro intento
di afferrarla. Senza una resistenza si lasciò ghermire e con
pochi strattoni riportare alla vita nella piana deserta di Harryan.
Scaraventata senza molte cerimonie a terra si diede appena cura di
afferrare il primo straccio lurido che vide in terra per subito
affrettarsi a rispondere agli ordini dei Kamin che la volevano in
piedi e pronta a camminare.
Sentì
alle sue spalle i gemiti contratti di Karin mentre, incapace di
avanzare, i Kamin la sollevavano e di peso la trasportavano fino alla
tenda nella quale entrambe vennero fatte entrare.
Non
era la tenda del Kamin-Na, si allarmò subito la Veggente. E
dai colori smeraldini, non pareva quasi affatto la tenda di un Kamin.
E
infatti tempo pochi istanti dopo da uno dei molti divisori presenti
fece capolino un uomo assai basso e corpulento, l’andatura e la
ricchezza delle vesti a classificarlo in meno di uno sguardo come uno
dei tanti Mercanti di Schiavi di Arryan. Non il più ricco,
valutò la Nihaar’ì, ma di certo il più
affezionato alle tratte dei Kamin se gli era perfino concesso di
seguirne la Carovana durante il lungo avvicinamento alle città
abitate.
Incerta,
la ragazza gli rivolse uno sguardo sghembo, affatto conciliante,
notando nei suoi modi la medesima baldanza di alcune personalità
che più aveva gradito
alla
Torre del Tempo.
Avanzando
lui la scrutò a sua volta gradendo evidentemente ciò
che vedeva perché una volta giunto a pochi passi da lei le
rifilò una strizzatina d’occhio tutta malizia e intesa.
Lei non mutò espressione.
“Le
voci avevano ragione, proprio una serpe di damasco” commentò
questi sardonico proprio nell’istante in cui finalmente il
Kamin-Na faceva capolino nella tenda, il corpo statuario ora avvolto
in un tessuto più pregiato di quello precedente. La Nihaar’ì
non si diede nemmeno il disturbo di mascherare il sollievo che la sua
vista le procurò.
“Raramente
mi sbaglio” rispose l’uomo prendendo posto accanto al
primo. C’era un che di teso nel suo sguardo, una nota tanto
dissimile dalla prima volta che l’aveva visto da trasfigurarlo
quasi in un’altra sembiante. La Nihaar’ì si
accigliò.
“Ma
rimango fermo in ciò che vi ho detto: le serpi in genere sono
solo fonte di guai. Portarsi a casa un simile gioiello”
le
scoccò un’occhiata brusca “Non vi farà che
perdere ore di sonno e guadagnare più guai di quanti abbiate
mai desiderato trovarne”. L’altro fece come spallucce.
“Perdere
ore di sonno non è mai stato un problema, se si perdono nel
modo giusto” scoccò una nuova occhiata d’intesa
alla Nihaar’ì “E per i guai...ogni volta che torno
a casa dalle mie mogli mi ritrovo a constatare questa triste verità.
Un grattacapo in più non sarà di certo la mia rovina”
l’altro fece come una smorfia.
“Ora
dite così..ma vedrete...”
“State
forse cercando di dissuadermi
dal
prenderla, caro Kamin-Na?”
Una
vena di gelo attraversò improvvisamente il volto fino ad
allora rubicondo del mercante irrigidendo di riflesso quello del
Cacciatore. E finalmente la Nihaar’ì parve intuire
quello che stava succedendo...
Breve
e conciliante il volto del Kamin-Na venne in un attimo trasfigurato
da un sorriso tutto denti.
“E
perché dovrei? Come avrete sentito, questa ragazza non è
altri che l’ennesimo grattacapo capitatoci fra capo e collo
mentre eravamo alla ricerca di tutt’altra merce. Prendervela ci
allevierà solo di guai e problemi di ogni genere”
Falso.
Assottigliò lo sguardo la Nihaar’ì. Tuttavia il
mercante si limitò a rispondere con un mezzo reclinarsi del
capo.
“Un
problema. Certamente” convenne tornando in quella ad esaminarla
con occhio aguzzo “C’è tuttavia un particolare che
vorrei chiarire...”
“Ricordavo
di avervi concesso di vederla, non di contrattare sul suo prezzo”
lo gelò inaspettatamente il Kamin-Na riguadagnando in meno che
un istante il contegno castigato fino ad allora. La mascella
dell’altro ebbe un improvviso scatto rigido, il ridefinirsi dei
confini di potere che lacerava appena la sua postura sardonica.
Si
limitò dunque a compiere un nuovo mezzo sogghigno “Purché
una volta giunti a destinazione non dimentichiate i nostri accordi.
Sapete quanto sia attirato dai casi speciali...”
e
detto ciò si accomiatò da entrambi con un breve
reclinarsi del capo.
Nemmeno
il tempo di capire cosa esattamente fosse accaduto che il Cacciatore
la afferrò per un braccio e sollevandola letteralmente di peso
la condusse fuori dalla tenda. Alle sue spalle, un altro Kamin-Na
mimò il gesto con Karin così che, insieme, entrambe
vennero rapidamente trasportate in una nuova tenda.
Di
nuovo non quella del Cacciatore ma un’altra assai più
piccola e ridotta. Lui la scaricò a terra con un gesto a
parodia di gentilezza e subito le inchiodò il proprio sguardo
addosso.
“I
miei complimenti per essere riuscita ad attirare l’attenzione
di Lusefin ancor prima di essere giunti a destinazione” la sua
voce era poco meno che un insulto velato “Se non lo conoscessi
abbastanza bene sarei pronto a giurare che sia disposto a rubarvi
questa stessa notte pur di avervi”
Lei
sbattè una sola volta le palpebre prima di parlare “Non
era mia intenzione attirare l’attenzione di nessuno” lui
si ritrasse con uno scatto nervoso, ma lei continuò “Giacché
non è mia intenzione essere venduta e basta...”
“Sciocchezze”
la liquidò il Kamin-Na con un sospiro nervoso “Purché
voi siate illibata Lusefin è il miglior acquisto che poteste
sperare”
Purché
lei fosse illlibata?
La
Nihaar’ì si umettò appena le labbra, incerta su
come procedere. In qualche modo intuiva l’importanza che quella
conversazione avesse e avrebbe avuto sul suo futuro ma proprio per
quello ora si ritrovava incapace di intuire come dovesse o meno
gestirla. Poi, suo malgrado, decise comunque di provarci.
“Eppure
non sembrate contento dell’affare” buttò lì.
Lui volse di scatto lo sguardo su di lei stringendo appena le
palpebre. Stava
osando troppo. Intuì
la Nihaar’ì. Eppure per qualche ragione lui parve
assecondarla.
“Lusefin
non è tipo da inseguire specchietti e allodole” le
rispose monocorde “Se vi vuole è per un motivo ben
preciso...sebbene io ignori ancora quale”
Il
cuore della Nihaar’ì fece come una capriola nel petto.
Lusefin era a conoscenza di qualcosa che la riguardasse? Si morse un
labbro. Ancora più importante: forse il Kamin-Na stava ora
pensando di avere per
davvero qualcosa
di importante fra le mani?
Se
mai ce ne fosse stata una, la Nihaar’ì intuì che
quella era la sua prima e ultima possibilità di tirarsi fuori
da quell’immenso pasticcio.
Improvvisamente
si sentì trarre un lungo e profondo respiro. Irrigidire la
schiena. E poi, con uno sforzo ben più cospicuo di quanto
avesse mai creduto possibile, esalare “Evidentemente Lusefin è
assai più informato di tutti voi circa la merce che
trasportate” una pausa “Giacché pare sia già
a conoscenza della mia reale identità”.
Evitò
di soffermarsi sullo sguardo che allora le rivolse il Kamin-Na. Se
l’avesse fatto, di certo avrebbe perso tutto il coraggio che
ora aveva di parlare a quel modo.
“Ed
esattamente cosa
mi
sarei perso dunque?” la raggiunse tuttavia il suo sibilo
spazientito.
“Io
sono la Nihaar’ì” esalò lei socchiudendo
appena le palpebre. Quando le riaprì, il Kamin-Na la stava
ancora fissando, il volto stolido in un’espressione ben più
indecifrabile di quanto un viso svelato
avrebbe
dovuto essere. La cosa non le piacque per niente.
Poi,
vago, lui alzò una mano portandosela alla fronte in un gesto a
metà fra il contratto e il rabbioso.
“Ora
non ho tempo per queste cose. La Carovana ha bisogno di me...”
e girandosi fece come per uscire di gran carriera dalla tenda.
Ancor
prima di capire come, la Nihaar’ì si ritrovò a
inseguirlo e afferrargli il braccio come se da ciò ne
dipendesse la sua stessa vita. Lui volse di scatto il viso. Lei si
irrigidì.
“Non
sto mentendo” balbettò avvertendo il sangue defluirle
rapidamente dal viso “E posso dimostrarvelo, ora”.
Ora?
Parve
accigliarsi l’altro. Lei si umettò le labbra, incerta
sul ricordare situazioni più difficili di questa.
“La
Carovana sta per essere attaccata dalle Ombre. L’ho visto in un
Nayel.
E’
per questo che ci siamo fermati. C’è stato un suono...”avvertì
le parole morirle suo malgrado fra le labbra, l’incertezza
della sua medesima rivelazione a sbriciolarlesi ora di parola in
parola nel palesarsi della loro fragilità, della loro
inconsistenza.
Esitò.
Poi lui sbattè una volta le palpebre.
“La
temperatura è calata in modo insolito. E’ per quello che
gli yenavo’r si rifiutano di avanzare” commentò
asciutto. Tuttavia non fece segno di scostarsi.
Fu
sufficiente. Le credeva.
La
Nihaar’ì scosse lentamente il capo.
“Non
è così. E’ perché si stanno avvicinando.
Io...” percepì la saliva impastarle la bocca “Lo
so”.
Lui
alzò entrambe le sopracciglia, incerto. Poi si voltò
completamente verso di lei fronteggiandola.
“Dunque
voi siete la Nihaar’ì?” sorrise piano “Eppure
non si è mai sentito di una Nihaar’ì così
abbandonata e sola a se stessa come voi sembrate essere. Siete sicura
di non stare osando un po’ troppo anche per il mio spiccato
senso dell’umorismo?” incerta fra il panico e la
supplica, la Nihaar’ì strinse appena la presa.
“Le
Ombre attaccheranno, io l’ho visto. Siete sicuro di voler
dubitare delle mie parole tanto da mettere in pericolo tutta la
vostra Carovana?” lui assottigliò lo sguardo.
“Forse
farei bene a dormirci un po’ su, non credete? Ieri eravate meno
di un nessuno e ora chi mi ritrovo appallottolata in una cesta sotto
il sole? Niente meno che la nostra amata Veggente...”
“Le
Ombre attaccheranno questa notte” tagliò corto lei per
la prima volta consapevole di non avere più tempo per
discutere: nulla era andato come il suo nayel. Nulla. Eppure per
qualche ragione sapeva che la sola cosa certa, la sola che non
sarebbe mutata era questae
quell’unica cosa era adesso.
Ma
lui la scrutò ancora a lungo, intensamente, il sospetto nei
suoi occhi ben più grande di ogni impellenza o allarmismo da
lei preventivato.
No.
Non le credeva. Inorridì lei. Ma ancora una volta qualcosa nel
profondo del suo sguardo lo spinse a esitare.
Ditemi
di più. Sembrava
suggerirle.
Ma
cosa poteva dire di più? Più di questo? Più di
tutto?
Poi,
tonante, un fischio si sprigionò nell’aria attorno a
loro. Acuto, spettrale, lacerante quanto bastasse per deformare e
brecciare in un attimo ogni percezione della tenda circostante.
Gemendo, la Nihaar’ì si portò entrambe le mani
alle orecchie e suo malgrado non potè che alzare una volta
ancora lo sguardo sul Kamin-Na. La trovò intendo a fissarla,
una nota di assoluta e incredula meraviglia a trasfigurare ora i suoi
tratti.
E
finalmente eccolo, quello sguardo.
Ora
le credeva. Percepì la Veggente. Ora si.
“Sono
qui” esalò questi dalle labbra ora esangui “Somma
Nihaar’ì...” riformulò passandosi la lingua
sulle labbra “Le Ombre sono qui”
Capitolo cortissimo perché impossibile da spezzare
diversamente J Probabile
che la continuazione arriverà prima del solito mese per compensare la scarsità
di materiale!
Grazie come sempre a tutti coloro che mi leggono, a
chi mi segue e a chi mi sopporta in tutte le mie ordinarie crisi esistenziali!!
Bacius!
Elendil
______________
Ed
improvvisamente tutto fu troppo veloce e rapido per riuscire a decifrarlo.
Troppo tempestivo per poterne percepire esattamente la sequenza.
Nella tenda fecero il loro ingresso una decina di Kamin armati fino ai denti, i volti trasfigurati da quella
che era chiaramente l’avvisaglia di un panico generalizzato e incombente.
Guardarono prima il Kamin-Na poi lei e poi nuovamente
il Kamin-Na.
“Alcune Ombre sono state avvistate a pochi minuti da
qui. Tutti gli Ivnessono stati
allertati e così gli altri, ma loro saranno qui prima di essere tutti
pronti” esalò uno di quelli. Il Kamin-Na annuì una
volta, grigio in volto.
“Sapete cosa fare. Date armi ai prigionieri in grado
di combattere e nascondete gli altri” due del gruppo si allontanarono
rapidamente.
“Avete già piantato le Vele?” continuò l’uomo “Tutte
quelle a nostra disposizione” annuì uno.
“Cercatene di altre” Nuovo annuire. Nuovo defilarsi di
alcuni uomini.
“Come siamo messi con gli yenavo’r?”
riprese il Kamin-Na. Un ragazzo dall’aria grave fece
come un passo avanti “Stiamo provvedendo ora alle bardature. Pochi minuti e
saranno pronti in prima linea” l’altro annuì.
“Il tempo stringe. Provvedete a che tutto sia finito
al più presto”. Sguardo vitreo, il ragazzo fece un rapido dietrofront prima di
sparire dalla tenda.
“I segugi sono pronti?” lo sguardo del Kamin-Na cadde -con somma sorpresa della Nihaar’ì - su una donna lì presente. Era chiaramente una Kamin, ma il suo abbigliamento la faceva assomigliare più a
una dama “di corte” che a una combattente. La donna annuì piano facendo
tintinnare le perline affisse dai ninnoli del suo collo fino a quelli apposti
ai capelli bruni.
“Siamo pronti”. Mentre anch’ella se ne andava il Kamin-Na posò il proprio sguardo sugli uomini rimanenti.
“A voi il compito di orchestrare le difese. Mi aspetto
che ognuno faccia ciò che è stato addestrato a fare in queste occasioni. Liebesehn Rai! (Forza e
coraggio)”
“Liebesehn
Rai!” ripeterono in coro tutti prima di allontanarsi a passo di marcia dalla
tenda.
Rimasti soli, il Kamin- Na
posò finalmente il proprio sguardo su di lei. Era terrorizzato, percepì la
ragazza restituendo a sua volta l’occhiata. Eppure a differenza degli altri,
egli sapeva controllarsi abbastanza da non darlo a vedere. Intuire tuttavia il
tremolio delle sue mani fu un qualcosa di estremamente intimo e rivelatorio per
la ragazza.
“Chiunque voi siate” disse finalmente questi dopo un
lungo attimo “Credo sia ora mio dovere proteggervi”
Preoccupato per l’affare? Fu
tentata di rispondere la ragazza ma si trattenne: poter vantare la protezione
di nientemeno che il capo dei Kamin era un privilegio
non da poco. Sprecarlo per una stupida battuta forse non era la mossa migliore
da fare vista l’immanente situazione.
E difatti, nemmeno il tempo di prepararsi alla
baraonda che l’intera Carovana fu investita da un nuovo stridio acuto e
lacerante, greve avanguardia del boato che subito seguì e del successivo
innalzarsi di grida più o meno umane che a esso si accompagnarono.
Era cominciata. Rabbrividì la Nihaar’ì.
Subito si sentì brancare per la mano dal Kamin-Na e
sollevare letteralmente di peso sulla sua spalla. Non la mossa più ortodossa
che avesse mai visto ma di certo la più rapida per costringerla senza un
lamento a uscire dalla tenda e correre all’esterno alla ricerca - immaginò - di
un riparo dietro al quale nascondersi.
Mentre usciva dalla tenda ebbe appena il tempo di
gettare un’ultima all’ancora rannicchiata e ahimè dimenticata Karin. Ricordò
allora di averle gridato qualcosa. Sicuramente il suo nome. E qualcosa di molto
simile a una promessa di qualche tipo. Ma in breve assieme al socchiudersi
delle tende alle sue spalle, anche il pensiero di Karin e delle sue sfortunate
sorti abbandonò la Nihaar’i.
Ansimò, la spalla del Kamin-Na
che le premeva a ogni passo sullo stomaco impedendole quasi di respirare.
“Dove stiamo andando?” chiese con un gemito contratto.
L’uomo non le badò, evidentemente troppo impegnato a rifilare ordini a destra e
manca per darle attenzione. La voce calma e ferma, sembrava quasi immune al
panico che vivo serpeggiava già fra gli uomini presenti, una freddezza d’animo
tradita solo dall’inumidirsi via via della presa esercitata sul fianco della Nihaar’ì. Poi un’improvvisa svolta e nel campo visivo della
ragazza vi furono delle figure nel deserto, nere di penombra, che quasi volando
avanzavano di gran carriera in direzione della Carovana già ora accesa di mille
e più fuochi. Rapide nel cielo scattarono allora milioni e più di biglie
arroventate che per un attimo solcarono la volta celeste in un nugolo di
puntini ardenti, luminosi e fischianti come non mai.
Nuova svolta e l’esplosione rombò nell’aria assordando
la Nihaar’ì.
Poi una voce.
“Fuga d’amore, caro Kamin-Na?”
il brusco arrestarsi dell’uomo per poco non la fece cadere di schiena a terra.
A fatica lui la trattenne a sé prima di avvolgerle il fianco anche con l’altro
braccio.
“Solo una piccola precauzione nel caso in cui le Ombre
riescano a fare breccia nelle nostre difese. Non sia mai che io privi il vostro
padrone della sua prima scelta”
Momento di silenzio, probabilmente usato dai loro
inseguitori per valutare l’effettiva veridicità delle parole dell’uomo. Poi un
vago accenno di sorriso.
“Lusefin desidera che la
ragazza sia subito portata a lui” “Lusefin ha già con
sé il denaro che mi ha promesso?” fu la lapidaria risposta del Kamin-Na. Nuovo silenzio, evidentemente negativo.
“Molto bene dunque” prese nuovamente parola questi, la
voce che tradiva una più che palese nota di nervosismo “Dite al vostro padrone
che la ragazza sarà sua solo quando vedrò dinnanzi ai miei occhi il suo prezzo
in moneta. Fino ad allora ella rimane dei Kamin”.
Una risposta davvero fiera, non potè
che notare la Nihaar’ì. Sfortunatamente però non la
risposta che gli scagnozzi del mercanti erano pronti ad accettare perché nel
breve attimo che seguì la donna fu certa di percepire l’affilato sfregolio di lame estratte.
Male. Chiuse appena gli
occhi. Molto male.
E poi ecco il Kamin-Na
buttarla improvvisamente a terra ed estrarre con un unico movimento la propria
arma prima di slanciarsi all’attacco degli uomini lì schierati. Dimenticata a
terra nella confusione generale, la Nihaar’ì si
limitò a strisciare rapidamente a terra per raggiungere il riparo più vicino.
Una gabbia, per la precisione. Ma in quel caso qualunque cosa sarebbe di certo
andata bene.
Vi si accucciò sotto stringendosi al petto la parodia
di vesti che ancora tentavano - senza riuscirci - di coprirle meno di un quarto
del corpo nudo e attese, le scene della colluttazione fra il Kamin-Na e i due assalitori che sorvolavano il suo campo
visivo senza che ella ne prestasse per davvero attenzione.
Qualcosa di assai più terribile attirava in effetti i
suoi pensieri. Un qualcosa che suo malgrado percepiva starsi avvicinando
lentamente ma inesorabilmente a lei senza che ella fosse in alcun modo in grado
di evitarlo. Uno stridio lacerò nuovamente l’aria e con essa ogni traccia di
tranquillità che ancora la Nihaar’ì serbava.
Le Ombre l’avrebbero trovata. Si strinse appena di più
in se stessa. Era solo questione di secondi, di attimi di...
“Alzatevi!” fu in quella che il volto del Kamin- Na le si parò nuovamente innanzi scuotendola dai
suoi pensieri. Era sporco di sangue, notò lei distrattamente. Eppure non
sembrava ferito.
Lodò le sue capacità combattive e il suo sangue
freddo. Suo malgrado non diede alcun segno di volersi muovere.
Rapida la mano del Kamin-Na
le si serrò allora attorno al polso e con un solo strattone la trascinò allo
scoperto intimandole senza molte cerimonie di alzarsi in piedi. Eseguì, tanto
rigida di paura da non riuscire quasi a respirare. E poi si ritrovò a correre
nella mezza oscurità, una nota di panico a distorcere il mondo attorno a lei.
“La difesa sta andando bene” le disse lui mentre si
incassavano fra due Gabbie per riprendere fiato. Il sudore gli colava in rivoli
fumanti dalle tempie “Ma la cosa migliore da fare per voi è -”
Non riuscì a finire la frase. Dal nulla parve quasi di
vedere l’oscurità medesima inspessirsi e con un unico silente fruscio ghermirlo
e trascinarlo chissà dove molti metri più in là.
La Nihaar’ì gridò. Lui
atterrò senza un suono.
E finalmente eccola, la sua visione, mentre dal nulla
l’aria si condensava proprio dinnanzi ai suoi occhi in una gargantuesca massa
tutta nodi e oscurità, tutta sibili e stridii. Lacerante, la sua figura prese
il posto di ogni altra cosa dinnanzi alla Veggente che, sola, non potè far altro che assistere impotente al risalire della
sua paura attimo dopo attimo, istante dopo istante sempre più tangibile e vera.
Dimenticò di respirare. E perfino di coprirsi mentre
il “vestito” le scivolava a terra in mancanza di una presa a trattenerla.
E poi di nuovo eccola giungere dal profondo, quella
voce. Quella nota d’infinito.
“Dove stai andando, Odayn?”
E poi più lenta, grave.
“Non ricordi più la strada? O ti sei semplicemente
persa?”
Ansimò. E gemette.
E prima di capire come, eccola scalciare la sabbia lontano e con un retrofront degno della più agile AgvesAnaphat
(Volpe del deserto) prendere a scappare
esattamente in direzione dalla quale era venuta.
Sapeva di stare sbagliando.
Urtò contro il fianco di un carro, l’idea del dolore a
infiammarle per un attimo le pareti della mente senza che ella vi prestasse
attenzione.
Sapeva che da protocollo la Nihaar’ì
avrebbe dovuto affrontare le Ombre e non darsela a gambe a quel modo
senza nemmeno provarci -che diavolo- a fare qualcosa di veggentico,
ma per qualche validissima ragione sapeva di non potere.
Evitò con un balzo una pila di corde ammonticchiate a
terra.
Non poteva affrontare le Ombre. Non ancora. Non
adesso.
E poi dal nulla due mani la ghermirono a metà di un
nuovo ed emozionante balzo per trascinarla nell’incavo di una struttura non
meglio identificata. Gridò, ma scoprì che una di quelle audaci mani le era
stata calata proprio sul viso per impedirle dar sfogo a tutta la sua gioia per
essere stata trovata. Gridò comunque.
E poi il volto di Matnery
fece capolino alla sua destra intimandole di starsene zitta. Si zittì
immediatamente, la deduzione che dunque alle sue spalle dovesse esserci Hiras che per qualche ragione le faceva allora salire le
lacrime agli occhi. Poi il cacciatore la voltò e schiacciandole il viso contro
il proprio petto la strinse in un rapido abbraccio tutto sabbia e tensione.
Prima di capire come si scoprì a ricambiare la stretta cominciando a
singhiozzare come una bambina.
Era contento di vederla? Si
chiese da qualche parte della propria coscienza.
Certo che era contento. Chi non sarebbe stato contento
di rivedere la Nihaar’ì? Ribadì
un’altra parte della sua mente.
Tutti quelli che ora la famosa Nihaar’ì
avrebbe dovuto difendersi al posto di scappare come una ragazzina piagnucolosa.
Le ricordò un altro qualcuno sempre nella sua testa ma
lo ignorò.
Ora come ora la gioia di ritrovarsi nuovamente in
compagnia dei suoi amici era più che sufficiente a distrarla da
qualsiasi dovere vero o apparente.
“Dobbiamo andarcene” la richiamò dopo qualche istante Hiras “O le Ombre ci staneranno”
Lei annuì, tuttavia non dando alcun segno di volersi
muovere. Lui la scostò allora con gentilezza, le mani ad allontanarla
lentamente per riuscire finalmente a guardarla in viso. L’assenza di Velo
attraversò come una scossa elettrica il volto di lui che si ritrovò ad
abbassare subito lo sguardo verso terra. Anche lei fece lo stesso. Matnery tuttavia pareva di diverso avviso.
“Alcuni Yenavor’ saranno di
certo stati dimenticati nella confusione generale” annunciò sbrigativo
“Troviamone un paio e andiamocene alla svelta”
Entrambi annuirono, loro malgrado restii a mettere
nuovamente il naso fuori da quella rientranza esponendosi così alla baraonda
ora onnipresente nel Campo. Così fu Matnery a farsi
avanti e cauto guidarli da un nascondiglio all’altro fino al punto ove secondo
lui avrebbero trovato gli yenavo’r.
Furono fortunati. Alcuni draghi vagavano abbandonati
per il Campo, mezzi impauriti e mezzi frastornati dalle esplosioni, grida e
confusione generali.
Matnery ne
afferrò uno. Hiras un secondo e spingendola di peso
sulla sella pressoché inesistente lo costrinse a partire in corsa.
Manco a dirlo, proprio allora un’Ombra si frappose sul
loro cammino. Il ragazzo strattonò il drago. Matnery
costrinse il proprio a cambiare direzione. E tutti e due, contemporaneamente,
esalarono un disperato “Somma Nihaar’ì!”
Ma la Nihaar’ì era già
svenuta da un pezzo, la paura di ciò che avrebbe dovuto - ma forse non potuto -
fare a rubarle infine le ultime energie rimastele in corpo e costringendola ad
accasciarsi senza un lamento addosso a Hiras.
Qualcuno gridò. Ma era troppo tardi.
Nello stesso istante Carovana, Danzatori e Ombre
scomparvero in uno sbuffo di sabbia mentre la Nihaar’ì
scivolava suo malgrado come un fantoccio inerte a terra.
Nuovo capitolo,
nuovo punto di vista! Spero vi piaccia J Come sempre
un grazie a tutti e a tutte e alla prossima!!
Bacissimi!
Elendil
_________________________________________________
“Ho
sete”
Incapace
di resistere all’arsura, Asiya si passò la lingua
sulle labbra avvertendone al tatto la consistenza dura e corrugata. Si maledì. Sapeva che così facendo avrebbe solo aumentato il
suo desiderio di bere, ma pur consapevole, non era fisicamente in grado di
impedirselo.
Quanti
anni erano che fame e inedia avevano smesso di essere un suo problema? Rifletté
un attimo su quella vaga epifania per poi, suo malgrado, scuotere il capo. Non
abbastanza per dimenticare cosa significassero, eppure troppi per poterli
affrontare di nuovo con la disinvoltura consona al suo ruolo.
Alcuni
passi più avanti avanzava Sery, passi leggeri e
misurati a donarle come sempre un che di mistico e spettrale.
Ansimante,
la certezza che i suoi piccoli sandali stessero letteralmente andando a fuoco
in quell’oceano ardente, Asiya le rivolse un’occhiata
di puro e autentico odio, il più genuino che si concedesse di elargire dopo
anni di piccole smorfie e malcelati ghignetti sprezzanti in voga fra i Nobili.
Quando Sery le aveva piantato il coltello alla gola Asiya aveva in qualche modo immaginato di dover morire da
lì a pochi istanti.
Poco
male, si era detta in un non meno precisato istante di calma
serafica, almeno avrò una morte gloriosa, degna del mio rango.
Ma così
non era stato.
Trascinata
come un animale lontano dalla propria dipartita, Sery
l’aveva subito scaraventata nella precognizione di una assai logorante
scarpinata nel deserto fra le dune bruciate dal sole.
Meglio
così, aveva quindi sospirato tentando al contempo di non
farsi strozzare dalla foga della sua compagna di viaggio, Armate delle sole
nostre gambe riusciremo a fare sì e no mezzo miglio prima di doverci arrendere
alla fatica. Per allora Zaphil ci avrà trovare e
riportate indietro.
Ma
ancora una volta, il Popolo del Deserto pareva assai ansioso di deludere le sue
aspettative.
Pochi
metri necessari a illudere Zaphil e l’Anhayt del fatto che entrambe fossero riuscite
effettivamente a scappare approfittando della confusione generale, e la
Risvegliata le aveva sferrato un gancio tanto forte da farle credere che tutti
i suoi denti si sarebbero staccati ripopolando il deserto di piante dentifere.
Quando
era riuscita finalmente a riprendere conoscenza aveva assai faticato per
mettere a fuoco il paesaggio circostante.
Prima
impressione: erano sole. Seconda impressione: non si stavano spostando.
“Credevi
davvero che ti avrei trascinato per chilometri in mezzo al deserto con una lama
piantata al collo?” l’aveva derisa Sery mentre
dolorante l’Hayeli’vo tentava con scarso successo di
mettersi a sedere. Il conato che era seguito l’ava subito fatta desistere.
Nuovo sospiro.
“Troppo
faticoso?” aveva quindi esalato dopo un istante. Pallida nel già abbacinante
riverbero solare, Sery si era limitata a sogghignare.
“No,
troppo stupido. Perchè costringerti ad avanzare con
la forza quando a conti fatti la tua unica scelta potrebbe essere quella di
seguirmi?” Asiya si era limitata a strizzare appena
gli occhi.
“Ti
ricordo che Zaphil (o almeno uno dei suoi) sarà già
sulle mie tracce ora”
L’altra
le aveva rifilato un sorriso vago “Ne dubito visto che a conti fatti non vi è alcuna
traccia da seguire” aveva allora allargato un braccio mostrandole il
paesaggio tutt’attorno a lei.
Un
paesaggio abbastanza familiare da assomigliare a quello della sera
prima, in effetti. Anzi, da esserne esattamente la copia sputata. O solo la
stessa.
“Chiunque
si sia messo sulle nostre tracce ora si trova molto più avanti di noi. Tutto
ciò che dobbiamo fare è semplicemente non raggiungerlo” stretta delle
spalle, l’espressione di Asiya che probabilmente
doveva allora aver rasentato l’attonito.
L’altra
non le aveva badato gran che, la certezza di averle in qualche modo restituito
l’inganno precedentemente subito a soddisfarla abbastanza da non avvertire
evidentemente la necessità di aggiungere altro alla spiegazione generale.
Sconcerta, Asiya non aveva potuto far altro che
fissarla mentre queste con naturalezza appallottava
alcune cianfrusaglie in un telo logoro prima di caricarselo in spalla e
cominciare ad avanzare senza una parola nel deserto infuocato.
“Immagino
che a questo punto non mi darai più del Voi, vero?” le aveva poi urlato
improvvisamente dietro con una nota sarcastica.
“Quel
fagotto è tuo” aveva replicato l’altra senza nemmeno girarsi “Se non ti sbrighi
a prenderlo e seguirmi ti lascio qui”.
Ed era
così dunque che era cominciata la loro marcia nel deserto. Gli inseguitori
avanti chissà dove e loro dietro, due sparuti fagotti colmi di cianfrusaglie a
difenderle dall’immensità di un deserto apparentemente sconfinato.
Sfiancata
dal caldo, le dita dei piedi che dolorosamente cominciavano a scarnificarsi a
causa del continuo contatto con la sabbia arroventata, Asiya
si ritrovò allora a ripensare alla Torre del Tempo e alle sue immense sale fresche
e temperate, una gioia per lo spirito e il cuore dove sete e fame parevano
davvero essere nulla più che fantasticherie prive di consistenza e realtà.
Ricordò
i colori pastello, le scalinate a ventaglio, i dipinti punteggiati d’oro. E
ricordò perfino quei profumi nascosti che nessun inserviente si dava pena di
creare ma che per qualche ragione infestavano comunque la percezione.
Gemette
piano, un sassolino che dolorosamente percorreva da dita a tallone tutta la
lunghezza del piede destro. Fu tentata di chiedere una sosta ma desistette.
Come
diavolo era finita in quella situazione? Si domandò allora con una
punta d’ansia. Ma molto più importante, come diavolo si era fatta convincere
a finirci quasi di sua spontanea volontà?
“Questa
notte ci accamperemo là”
La voce
di Sery la distrasse dalle proprie elucubrazioni
costringendola a guardare dove la donna stava ora indicando: una roccia
dall’ara solitaria che svettava raminga nella piana come un dente aguzzo. Gli
scoccò un’occhiata perplessa prima di detergersi il sudore dalla fronte.
“Come
riparo non mi sembra molto sicuro” commentò incerta
“Vedi
per caso altro di tuo gradimento?” la sbeffeggiò subito Sery
voltandosi a guardarla.
Scosse
il capo “Ora no” convenne “Ma il sole è ancora alto. Magari avanzando un
poco...” nervosa l’altra si tirò meglio il fagotto sulla spalla
“Questo
non è territorio su cui avanzare oltre una certa ora a meno che si desideri
fare altri incontri con la fauna locale” tagliò corto
“Risvegliati?”
sobillò Asiya con una nota acida. Senza battere
ciglio Sery riprese rapida a camminare costringendo
l’altra a starle suo malgrado dietro.
“Fossero
solo i Risvegliati dubito che dovremmo preoccuparci a tal punto” riprese
tuttavia dopo un attimo, il passo sottile che scivolava senza fatica laddove la
Hayeli’vo riusciva a malapena ad arrancare
“Sfortunatamente
però essi non sono né gli unici né i più pericolosi cui il deserto da rifugio e
protezione dalla Torre del Tempo”
Incerta
fra il maledire la rinnovata sofferenza del camminare o il caldo mortale che le
pressava in ogni parte del corpo, Asiya si concesse
un mezzo sospiro.
“E
immagino che nessuno di questi gentili avventori rispetti le regole
dell’ospitalità concesse ai Figli del Deserto, vero?”.
Non appena
varcato il confine dell’ombra proiettata dalla roccia, Sery
si liberò del proprio fagotto per cominciare a scandagliare la zona con passo
cauto e predatore. Dal canto suo Asiya si limitò a
disperdere la propria mercanzia a terra e accasciarsi esanime sulla sabbia
tiepida e inodore. Espirò piano chiudendo per un attimo gli occhi.
Quando
li riaprì la figura di Sery incombeva su di lei.
“Per i
Figli del deserto valgono sempre le antiche consuetudini” si accigliò
chinandosi per prendere il suo fagotto abbandonato “Ma voi non siete una di
loro o sbaglio?”
Si
allontanò in uno sbuffo costringendo Asiya a
puntellarsi sui gomiti per seguire i suoi spostamenti.
“Lo
sono stata molto tempo fa” replicò cauta “Conta come attenuante di aver per
qualche tempo frequentato la Nihaar’ì?”.
Difficile
capire se il silenzio che seguì fosse frutto delle numerose faccende cui si
stava dedicando la Risvegliata o la conseguenza naturale della sua rivelazione.
Poco
dopo Sery le scagliò addosso un groviglio di stoffe
rosse adducendo che se proprio aveva intenzione di starsene a blaterare per
tutto il tempo, almeno lo facesse rendendosi in qualche modo utile.
Montarono
quindi il “campo” e con esso alcune delle protezioni necessarie a evitare gli
attacchi delle Ombre. Niente di realmente efficace, si rammaricò Sery, ma di certo qualcosa di abbastanza utile a
rassicurare entrambe sulla concreta possibilità di coricarsi e riposare per
qualche ora. Non accesero il fuoco ovviamente, così al calare del sole entrambe
si ritrovarono inevitabilmente a tremare rannicchiate nelle misere stoffe che
erano riuscite ad adibire a giaciglio.
Solo
allora, rigida nelle propria branda improvvisata, Sery
si diede pena di riprendere il discorso che ella aveva volutamente lasciato
cadere poche ore prima.
“Davvero
sei stata una Figlia del Deserto?” esordì con una nota soffocata. Poco
distante, egualmente aggrovigliata nelle proprie misere stoffe, Asiya annuì.
“Molto
tempo fa. Prima di diventare Hayeli’vo ed essere
portata alla Torre del Tempo”.
Le parve
come di sentire la Risvegliata rigirarsi nelle coperte
“E’
strano” commentò poi con voce stranamente limpida “Chissà perché ho sempre
creduto che solo ai Nobili fosse concesso di varcare la soglia della Torre del
Tempo. Figuriamoci rivestire il ruolo di Hayeli’vo...”
Asiya fece come per stringersi
nelle spalle.
“In
genere è così” le concesse “La Torre del Tempo si guarda bene dall’ospitare
entro le sue mura chiunque possa in qualche modo dubitare del suo potere o non
dipendere direttamente da esso.” si bloccò, improvvisamente accorgendosi di
quanto poco diritto avesse in quell’istante di rivelare particolari tanto
compromettenti sulla vita di Corte.
“Ma per
me fu diverso” tagliò quindi corto “All’età di otto anni venni presa e portata
via dalle terre in cui vivevo per essere scortata alla Torre del Tempo”
“Chi ti
portò via?” la interruppe l’altra. Smorfia evasiva
“Un
uomo della Torre” rispose monocorde “Fu lui a dirmi che ero stata scelta per un
compito molto importante cui non avrei mai potuto rinunciare se non con la mia
stessa vita. Mi mostrò stanze e camere fra le più belle che avessi mai visto
dicendo che tutto ciò era e sarebbe stato mio a patto che fossi stata fedele
alla Torre e alla Nihaar’ì per tutta la vita”.
Dall’altra
parte parve allora di udire un sospiro contrito.
“Un
premio superfluo se paragonato all’onore di poter essere al fianco della Nihaar’ì” la voce di Sery tradiva
una nota di emozione. Asiya lasciò che essa scorresse
su di sé assieme agli altri vaghi rumori della notte prima di rilassare il capo
contro la sabbia umida.
“Infatti”
concesse infine con una nota sonnolenta “Ben più grande di quanto avessi mai
osato sognare fino a quel momento”.
L’indomani
si svegliarono poco prima dell’alba, il tepore antecedente il destarsi del
giorno a regalare a entrambe poche ore di umida frescura sufficiente a
impacchettare i loro bagagli e mangiare un paio di bocconi di pane.
Ordinatamente disposta a terra, la mercanzia che Sery
divise equamente fra i due fagotti risultò essere poco più che qualche stoffa
imbevuta di Tinta, un paio di borracce, pali di legno necessari a piantare le
stoffe e un paio di coltelli a lama corta. Un bottino assai scarso, si lamentò
l’Hayeli’vo, ma difficilmente suscettibile di
aggiunte calcolando le miglia che avrebbero dovuto percorrere con quella roba
addosso.
Ovviamente
a lei toccò la parte delle stoffe e dei pali mentre la Risvegliata tenne per sé
acqua e armi.
Dannata
gente del deserto...
“Immagino
che tu sappia dove stiamo andando, vero?” esalò Asiya
mentre il primo raggio di sole fendeva il morbido profilo delle dune. Una
goccia di sudore le scivolò cauta lungo la tempia perdendosi nella già evidente
ricrescita rossa delle sue chiome.
“Temi
di no?” ridacchiò l’altra senza nemmeno voltarsi. Asiya
fece come spallucce
“Mai
dubitato delle tue doti di orientamento” precisò subito alzando una mano in
segno di resa “E’ la vendetta che mi da di che pensare” questa
volta l’Hayeli’vo fu certa di cogliere un sogghigno
derisorio sul volto dell’altra
“Pensi
davvero che mi prenderei tutto questo disturbo se la mia intenzione fosse
semplicemente quella di ucciderti?”
Asiya si morse un labbro
scoprendolo nuovamente arido e rinsecchito. Poi sospirò.
“In
effetti queste mercanzie pesano troppo per una sola persona...” buttò lì con
noncuranza
“Ho
portato cose pesanti il doppio di quelle che stai portando tu ora lamentandomi
la metà di quello che stai facendo. Il tutto ferita a una gamba e inseguita dai
membri dell’Ordine” la liquidò subito l’altra aumentando bruscamente il passo.
Come sempre la camminata di Sery pareva insofferente
di rallentamenti o ostacoli di alcun genere.
Come
esimersi dal maledirla per l’ennesima, sconsolata, volta?
“Perdona
il mio sciocco dubbio allora” digrignò raggiungendola Asiya. Si aggiustò con un gemito la sacca sulla spalla “E’
che è da molto tempo che non mi viene richiesto di capire gli atteggiamenti e
le azioni delle persone che mi circondano. In genere è Zaphil
a farlo al posto mio e lui non sbaglia mai” l’altra la scrutò per un breve
attimo
“Questo
è il tuo modo da Hayeli’vodi dirmi che
non hai la più pallida idea di quali siano le mie intenzioni?”
L’altra
fece spallucce.
Forse
si.
“Che
peccato” ridacchiò nuovamente l’altra per poi guardandola, aggiungere “E sì,
questo è il mio modo da Figlia del deserto di dirti che non sono affatto
dispiaciuta”.
Poco
più indietro, Asiya fece allora una smorfia contrita
ignorando il fatto che così facendo le labbra le si sarebbero all’unisono
spaccate. Represse un gemito
“Che
cosa poco carina. E io che pensavo che dopo le rivelazioni di ieri sera mi
considerassi un po’ più come una sorta di amica alla lontana da poco
ritrovata ma degna comunque di grande fiducia”
“Essere
nata nel Deserto non fa di te una Figlia del Deserto” puntualizzò subito
l’altra “E se è di fiducia che vogliamo parlare, ti ricordo che è solo a causa
tua e delle tue menzogne che ci ritroviamo ora in questa situazione”
“Oseresti
rimproverarmi per essere stata fedele alla Nihaar’ì?”
si accigliò la fanciulla. L’altra rallentò solo un istante il passo
“Conosco
la fedeltà. Ma non per questo sono disposta a perdonare la tua menzogna.”
“Dubito
che tu possa anche solo comprendere quanto l’una sia legata all’altra”
“Tu
dici?” improvvisamente Sery si bloccò lasciando che Asiya la raggiungesse “Credi davvero che non mi sia mai
capitato di dover mentire in nome di ciò in cui credo? In nome dell’amore che
provo verso quell’uomo che ora grazie a te ho con ogni probabilità perduto per
sempre?” Asiya si ritrovò a serrare appena la
mascella
“E tu
credi davvero di poter fare a me la morale sulla menzogna?” avvertì la
collera salirle improvvisamente al viso in una vampata di calore “Le persone
normali mentono; Io sono la Hayeli’vo. Non
credo di dover star qui a definire quanto e perché le due cose siano differenti”
“Quindi
dovrei perdonarti semplicemente perché rovinare la vita alle persone fa
parte dei tuoi compiti?” si accigliò Sery
“Il mio
compito” prese fiato l’Hayeli’vo “E’ proteggere la Nihaar’ì e non una Khonarh
qualsiasi. Dubito che alla luce di questo io debba perdere anche solo un altro
secondo a giustificarmi per alcunché”
Prima
di capire come, la Hayeli’vo si ritrovò
pericolosamente vicina alla Risvegliata, una mano della donna a ghermirle le
vesti in una morsa di ferro.
“Se è
davvero il mio perdono che desideri” la gelò lei con voce monocorde “Temo tu
non lo stia chiedendo nel modo giusto”
“Se
davvero desiderassi il tuo perdono” d’istinto l’Hayeli’vo
strinse la presa sulle dita dell’altra “Te lo starei chiedendo”
Ma la
realtà è che non me ne importa assolutamente nulla.
Vedendo
la mano libera di Sery salire verso di lei Asiya si ritrovò a chiudere d’istinto gli occhi.
L’avrebbe
colpita. Pensò. Perché se lo meritava.
Ma la
Risvegliata non la schiaffeggiò, viceversa dopo un attimo la lasciò andare con
uno strattone per poi, rigida, tirarsi meglio sulle spalle il proprio fagotto.
“Hai
ragione” ammise dopo un attimo “Tu non hai bisogno del mio perdono” una pausa
“Non hai bisogno del perdono di nessuno”
Mentre Asiya tentava suo malgrado di risistemarsi le vesti e
ricomporsi in qualche modo, avvertì lo sguardo dell’altra seguirla con muta
circospezione prima di scostarsi con un sospiro.
“Ti
porterò dove stiamo andando perché così ho deciso” la voce della Risvegliata le
suonò quasi stonata all’orecchio, il tono tanto vuoto da parere meno che un
sussurro mentre ella si voltava e riprendeva a camminare “Dopo di che le nostre
strade si divideranno. Prega allora che non si rincontrino mai più perché se
così fosse, non basterà un titolo e un’amicizia alla lontana da poco
ritrovata ma degna comunque di grande fiducia per risparmiarti”
Quella
notte non parlarono. E nemmeno il giorno successivo. E nemmeno quando l’acqua
diede i primi segni di stare inesorabilmente terminando le due osarono
scambiare anche solo una parola.
E poi
arrivò di nuovo la notte.
Questa
volta riuscirono a catturare un piccolo topo del deserto che avidamente si
divisero e mangiarono senza poterlo cuocere. Poco prima di coricarsi un lampo
vibrò lontano nel cielo a oriente colorando per un attimo di un tiepido rosa
cipria la notte circostante.
“Domani
verrà la Tempesta” decretò Sery “Non è prudente
avventurarsi nel deserto senza alcuna protezione”
Stanca
e febbricitante di sole, Asiya aprì lentamente un
occhio guardando prima l’orizzonte e poi la sua compagna di viaggio. Il fatto
che le avesse rivolto nuovamente la parola stava a significare una
preoccupazione ben più che latente. Con una smorfia si puntellò su un gomito
per guardarla.
“La
nostra acqua è agli sgoccioli. Aspettando qui rischieremo di rimanere senza”
obiettò in un sussurro ovattato. Nel buio, l’altra annuì una volta.
“Durante
le Tempeste il deserto si risveglia. Non sono certa di poterlo affrontare con
te al mio fianco” “So combattere” ribatté lei risentita.
“Non è
ciò che mi serve” scosse subito il capo l’altra per poi voltarsi a guardarla.
Nel
buio la Hayeli’vo fu quasi certa di ricordare quei
suoi occhi scuri e neri scrutarla da un mondo cui lei non faceva parte.
“Qualcuno
è sulle nostre tracce” esalò la Figlia del Deserto con una nota grave.
Zaphil? Possibile?
L’altra
dovette notare il guizzo nello sguardo di Asiya
perché sorrise appena.
“Sfortunatamente
qualcuno di assai poco raccomandabile. Dubito gradiresti la loro compagnia” Asiya avvertì qualcosa tendersi all’altezza dello stomaco
“Da
quanto tempo ci seguono?” esalò quindi titubante. L’altra scrollò le spalle.
“Poco.
Ma l’indomani ci raggiungeranno se non faremo qualcosa per evitarlo. Prima di
tutto, evitare di esporci inutilmente nella Tempesta di Sabbia” scettica, Asiya lanciò una breve occhiata alla volta celeste nuda e
immensa sopra la sua testa
“Peggio
di così? Difficile” nuova scrollata di spalle
“Finchè continuerai a pensare come una Khonarh(popolana), impossibile.”
L’indomani
si alzarono prima dell’alba, una rapida occhiata al brumore
lattiginoso sospeso nell’aria a suggerire che la tempesta si stesse avvicinando
più rapidamente di quanto avessero sperato. Rifecero in fretta i bagagli e
presero subito a spostarsi verso Ovest.
Sery disse che il tempo
stringeva. In breve sarebbe stato difficile tanto avanzare quanto respirare,
motivo per cui la cosa migliore sarebbe stata quella di creare con i bastoni
una tenda improvvisata e sotto di quella attendere che il turbinio si placasse.
Perché
dunque non fermarsi e piantare la tenda fin da subito?
“Chi ci
segue dubito si fermerà fino a quando non sarà costretto a farlo. Guadagnare
anche solo pochi passi di vantaggio è quindi vitale nella nostra condizione”
In
breve il latteo pallore dell’aria si trasformò in una non meno identificata
nebbia caliginosa solcata da nervosi strappi di vento caldo e soffocante.
Sery si fermò solo un attimo
per coprirsi il volto con una benda pesante ordinando ad adAsiya di fare altrettanto.
“La
tempesta si sta avvicinando. Da questo momento stammi vicino”
Come
destato dalle parole della Figlia del Deserto, fu allora che il vento prese a
rinforzare trasformandosi in breve in vere e proprie raffiche frustanti sabbia
e ululanti tormenta, uno strazio cui Asiya reagì
curvandosi su se stessa nella vana speranza di difendersi alla bell'e meglio.
Inutile.
La
sensazione che ad ogni folata la pelle venisse letteralmente scorticata le fece
ben presto salire le lacrime agli occhi. Poco più avanti tuttavia, Sery non pareva dare segni di volersi fermare. A differenza
dell’altra procedeva dritta - ma dai? Quale novità - , lo sguardo rivolto al
profilo di un orizzonte che ora nemmeno impegnandosi Asiya
sarebbe stata certa di poter anche solo indovinare.
Avanzarono
ancora. E un poco. E tutt’attorno pareva davvero di ritrovarsi in un’immensa
clessidra vorticante sabbia e vento da ogni dove.
Poi
qualcosa scivolò nella coda dell’occhio di Sery.
La
giovane si bloccò un istante. Ma riprese subito a camminare, troppo
terrorizzata dall’idea di perdersi nell’infuriare della tempesta per osare
allontanarsi dalla figura della Figlia del Deserto.
“Sery!” cercò di richiamarla. Poi si bloccò.
Ho
visto qualcosa. Avrebbe voluto dire. Si ma cosa esattamente? Si
domandò in un moto di incertezza.
Un
movimento. Uno scivolio. Una semplice impressione.
Poco
più avanti la sua guida pareva non averla udita così decise di tacere.
Ma subito di nuovo eccolo, quel movimento furtivo, troppo rapido per potersi
girare e guardare ma abbastanza lento ora per poter fugare la certezza di
averlo realmente visto.
Così
questa volta si fermò e tentò di individuarlo nella bufera.
Inutile,
ovviamente, non che ci avesse realmente sperato. Ma
ora voltarsi e richiamare l’attenzione di Sery non
pareva più così stupido cosa da farla desistere.
C’è
qualcuno. Le gridavano i suoi sensi. C’è davvero qualcuno.
Ma
quando si girò per comunicare l’insperata epifania si ritrovò sola.
Sery era già sparita.
Sbattè un paio di volte le
palpebre, il pizzicorio della sabbia oltre il tessuto
a farle venire voglia di togliersi tutto e cominciare a grattare con foga. E
trattenne il respiro.
Sery era sparita.
Le
suggerì la sua constatazione dell’ovvio.
E
qualcosa si aggira per certo attorno a te fecero eco i suoi
sensi.
E tu
sei sola concluse lei ritrovandosi suo malgrado a spostare il
suo sguardo da destra a sinistra e poi di nuovo a destra.
Ma
urlare forse non era certo la cosa migliore da fare giacché se vi era ancora
una qualche speranza di non essere stata vista, così facendo sarebbe stata
vanificata.
E le
armi se le era portate via Sery.
Da che
parte era andata quella dannata AgvesAnaphat?
Cominciò
a camminare, pochi passi ad affondare in un mare di sabbia scrosciante attorno
a lei prima di rallentare nuovamente e fermarsi di nuovo, miseramente.
Cosa
aveva detto Sery circa il modo per sopravvivere alla
tempesta?
Montare
una tenda usando tele e pali? Tentò. E aspettare?
Guardò
prima a destra e poi a sinistra.
Beh lei
i pali e le tele li aveva...
“Hayeli’vo!”
A
differenza della figlia del deserto.
“Hayeli’vo!”
Esitò
quindi per un lungo e intenso attimo, l’incertezza su cosa fosse meglio fare
che riverberava in lei in una lunga eco tempestosa.
E
infine prese fiato.
“Sery!”
Dal
vortice lattiginoso emerse allora una figura alta e slanciata, china nelle
raffiche di vento, che rapida si diresse verso di lei.
“Speravi
forse di liberarti di me?” le gridò la donna non appena fu abbastanza vicina da
farsi udire nella Tempesta.
Pur
sapendo che nessuno l’avrebbe vista, Asiya fece come
una smorfia contrita.
“Se
sapessi come sopravvivere al deserto l’avrei già fatto da tempo”
“Dobbiamo
costruire la tenda. Di questo passo la Tempesta ci sfinirà” la incalzò subito
l’altra abbozzando al fagotto che portava ancora sulla schiena.
“Sery, ho visto qualcuno...” Asiya
avvertì la propria voce vibrare appena “un’ombra....”
“Un’Ombra?”
la voce di Sery riverberò nell’aria come incrinata di
due ottave. La Hayeli’vo scosse appena il capo.
“Non
un’Ombra” precisò mettendosi una mano davanti alle labbra “Solo una figura...”
“Una
figura umana...?” Perché Sery non pareva rinfrancata?
“Non...”
prese fiato prima di parlare “Non ne sono sicura”
“Quando?”
l’altra si fece più vicino. Asiya si strinse nelle
spalle.
“Non lo
so” gesto confuso “Non saprei”
Capì
che Sery l’aveva afferrata per le spalle solo quando
si sentì letteralmente sbattacchiare avanti e
indietro.
“Cosa
vuol dire non saprei? Se hai visto qualcuno dovresti almeno...”
Prima
ancora di riuscire a formulare una qualche forma di risposta -se pur
approssimativa - Asiya fu costretta ad alzare il
volto verso l’alto.
Una pioggia di piccoli
fuochi si stagliava come per magia nel cielo in una parabola lucida e ardente.
Rieccoci
con un nuovo capitolo :) Periodo intenso e lavorativamente faticoso
ma io comunque ci provo a non mollare! Grazie ancora a tutti voi che
mi leggete e a presto!!
Grazie,
Elendil
_______________________________________
“Sembra
si stia svegliando”
Era
buio attorno a lei. No, meno che buio. Espirò. Fosco, in
realtà. Di quella vaga gradazione a metà fra il blu e
il rosso che si è soliti osservare al limitare del giorno con
la notte. Vi sospirò all’interno, come chi destandosi
dentro le proprie coperte vi languisca assaporandone il profumato
tepore. E poi sospirò ancora.
“Per
me è già sveglia” fece qualcuno non molto
distante da lei. Una voce che riconobbe, vago sollievo, ma che decise
comunque di lasciare all’esterno della propria coscienza.
“E
se la scuotessimo un pochino?” ipotizzò un’altra
voce “Ammetto la gradevolezza della visione ma il tempo
stringe...”
La
gradevolezza della visione?
“E
in effetti lasciandola così tutta
nudaper
terra rischierà di prendersi un bel malanno...”
Prima
di capire come la Nihaar’ì si ritrovò ben dritta
nella piana deserta, entrambe le mani al petto in una posa ansiosa e
imbarazzata. Seduti poco distanti da lei, Hiras e Matnery la
squadrarono per pochi secondi prima di abbandonarsi entrambi a una
risatina ovattata.
Non
era nuda, scoprì lei nel medesimo istante, sebbene ricordasse
perfettamente di esserlo stata.
“Cosa
è accaduto?” chiese con voce inaspettatamente chiara.
Gli occhi di Hiras scintillarono appena nell’incombente
oscurità. Lei abbassò subito lo sguardo.
“Siete
svenuta” le spiegò brevemente Matnery poco distante.
Guardandolo, pareva in qualche modo più vecchio dell’ultima
volta che lo aveva visto.
“Per
un po’ vi abbiamo trasportata, ma ora che le distanze ce lo
permettono abbiamo preferito aspettare il vostro risveglio”.
Lei
annuì una volta prima di aggrottare le sopracciglia.
“Non
ho tentato di...” esitò. L’uomo scosse subito la
testa.
“Questa
volta no. Avete dormito come un Memour
(spirito del deserto) fra
le braccia di Hiras”.
L’Hiras
in questione scostò appena lo sguardo per poi riportarlo sulla
Nihaar’ì. Questa volta fu nuovamente il turno della
giovane di abbassare il proprio. Il riverbero solare dava alla sabbia
una sfumatura rosea.
“Grazie
a entrambi. Non so come avrei fatto senza di voi”.
“Voi
siete la Veggente” replicò con semplicità Matnery
con un tono che pareva suggerire che non servisse davvero altro per
giustificare quell’azione. Poi l’uomo si tirò in
piedi stiracchiandosi come un gatto.
“Andiamo.
Non è cosa saggia che le prede braccate si riposino troppo a
lungo”
Non
montarono subito. Debole e oltremodo provata, la Nihaar’ì
faticò in effetti a ricomporsi in tempi ragionevoli. Dovette
bere e subito dopo mangiare qualcosa. E infine aggiungere altre vesti
a quelle che già un non meno precisato qualcunole
aveva infilatoaddosso coprendola alla bell’è meglio.
Solo al termine di questo piccolo rituale di riassestamento le fu
possibile arrampicarsi in groppa allo yenavo’r di Hiras e
ripartire insieme alla volta dell’ancora tenebroso deserto.
Il
silenzio fu di assai breve durata.
“Pensavo
vi avessero preso” pur coperta dal Velo, la sua voce traspirava
una nota acuta e limpida nel silenzio della piana. Il ragazzo fece
come spallucce.
“Lo
avevano fatto, in effetti” le concesse dopo un attimo “Ma
fortunatamente i Danzatori sono addestrati per questo genere di cose”
“Vi
hanno torturato?” esalò lei incerta. Nuova scrollata di
spalle.
“Niente
di realmente insopportabile”
Il
che voleva dire che era stato quasi insopportabile ma non abbastanza
da esserlo realmente?
Vago,
il presentimento del dolore calò su di lei come una morsa di
freddo. Rabbrividì.
“Non
temete, nessuno di noi ha parlato” aggiunse lui travisando i
suoi pensieri. Lei scosse il capo. “Temo sia stata tutta colpa
mia” esalò quindi con un filo di voce “Se non
fossi stata così sciocca nel riconoscervi quella sera nessuno
si sarebbe accorto...”
“Siete
stata voi a tradirci?” la domanda a bruciapelo di Hiras la
colse impreparata. Alzò di scatto lo sguardo in sua direzione
ma lo vide intento a guardare altro. La strada. Lo Yenavo’r. Il
tramonto. Tutto
tranne lei insomma.
“Non
avrei potuto” socchiuse infine le palpebre. Fu quasi certa di
sentirlo sospirare.
“Dunque
non vedo perché dobbiate dispiacervi. Lasciate ai traditori
questo lieto compito”
Ai
traditori...
Fu
in quel momento che il pensiero della figlia del deserto balzò
nella mente della ragazza.
“Karin....”
sulle labbra della Nihaar’ì quel nome fu poco meno che
un sussurro sfuocato, troppo debole per avere forma ma abbastanza
vibrante da cogliere comunque l’attenzione di Hiras
“Chi?”
le fece subito eco lui.
“C’era
una prigioniera...” cominciò lei ma si bloccò.
Scosse la testa “Non è importante” concluse
quindi.
Poco
distante, Matnery voltò per un attimo il capo verso di lei per
poi tornare a guardare oltre l’orizzonte.
“Non
fate quella faccia” le disse dopo un momento “Alla fine è
andato tutto bene, no?” la Nihaar’ì sbattè
un paio di volte le palpebre
“Bene?”
esalò incredula.
Tirando
appena le redini dello yenavo’r il Danzatore le si fece più
vicino.
“Siamo
vivi” cominciò quindi con aria quasi gioviale “Assai
poco vestiti ma comunque equipaggiati a sufficienza per allontanarci
con le nostre gambe da quella che a conti fatti è stata una
vera e propria carneficina. Voi non siete ferita e siete pure
riuscita a riposare senza ingaggiare la solita traversata del
deserto” una pausa “E ultimo ma non ultimo siamo
nuovamente liberi”
“Ci
stanno inseguendo” fece prontamente presente un ridacchiante
Hiras. Matnery lo ignorò con un gesto vago della mano.
“A
conti fatti, un successo ben al di sopra dei nostri standard
abituali”
Per
un soffio la Nihaar’ì si trattenne dal chiedere
delucidazioni circa i suddetti standard preferendo scrollare il capo
nella speranza di lasciar cadere così il discorso.
Ma
Matnery pareva non essere dello stesso avviso.
“Voi
state bene?” una pausa, lo sguardo dell’uomo a sorvolare
su di lei in un’occhiata lunga e indagatoria “Cosa vi è
accaduto in nostra assenza?”
Per
un attimo la Veggente si ritrovò incapace di rispondere,
improvvisamente incerta in realtà su come fosse meglio
introdurre un racconto che di per sé non aveva alcunché
né di interessante né di avvincente.
Un
po’ come la sua vita, in effetti.
E
infine sospirò.
“Anche
io ho avuto la mia dose di tradimento” alle sua spalle, Hiras
ebbe come uno scatto nervoso. Lei si strinse nelle spalle.
“Non
mi hanno fatto del male” chiarì “Credo in effetti
che fossero troppo incerti sul come comportarsi con me per adottare
fin da subito le loro tecniche
di persuasione”
“Incerti?”
la incalzò Hiras. Lei annuì una volta.
“La
denuncia era che fossi una Nobile. Ma c’era un mercante...”
esitò, il nome che improvvisamente le sfuggiva dalle labbra
come un grillo dallo stelo di un fiore “Un mercante molto
interessato a me. Credo che la sua fretta di acquistarmi abbia creato
un po’ di confusione generale”
Difficile
capire l’espressione di Matnery in quell’istante. Per un
attimo parve sul punto di fare una domanda. Poi sembrò
ripensarci. Infine scosse il capo.
“Ormai
non ha più importanza. Con tutta probabilità sia i
nostri traditori che i vari acquirenti
sono
tutti morti a causa dell’attacco delle Ombre.”
La
Nihaar’ì annuì una volta, meccanicamente, la
mente che ciononostante tornava al viso di Karin quando, trascinata
via dal Kamin Na ella si era voltata a guardarla. Rammentò la
sua espressione contratta, il suo sguardo vivo eppure velato da una
precognizione degna della miglior Veggente.
Sapeva
di stare per morire?
Oppure
come lei si stava anch’ella illudendo che in qualche modo - uno
qualsiasi, poco importava in effetti quale - qualcuno sarebbe venuto
a salvarla?
“Fossi
in voi non perderei altro tempo a pensarci” le sussurrò
all’orecchio Hiras. La sua voce la fece sobbalzare.
“Non
ci sto pensando” sibilò.
“E
invece si. E sbagliate” continuò lui imperterrito
“Perché non c’è alcuna possibilità
che qualcuno sia sopravvissuto all’attacco”
Lei
si morse appena un labbro.
“E
se invece così non fosse? Se qualcuno fosse riuscito a fuggire
come noi?”
“Allora
i Kamin avranno provveduto a terminare ciò che le Ombre hanno
iniziato. Mai sentito parlare di merce avariata?”
Avariata?
Lo
avvertì sorridere.
“Pensare
che i Kamin siano semplici trafficanti di schiavi sarebbe un errore
visto quanto essi prendono seriamente tutta la faccenda del vendere e
acquistare la propria merce. Vendono il meglio perché
acquistano solo il meglio. Chiunque non risponda ai loro canoni viene
il più delle volte abbandonato o venduto come merce di seconda
scelta ai mercati minori” una pausa, il ricordo del silenzio
che vagheggiava per un attimo nelle parole del Danzatore.
La
Veggente trasse un lungo sospiro.
“Quindi
il caricoche
ci siamo lasciati alle spalle sarebbe merce di seconda categoria?”
l’altro fece spallucce.
“Dopo
quello che è successo, probabile”
“E
questo darebbe l’autorizzazione ai Kamin per sbarazzarsi di
loro?” nuove spallucce, nuova smorfia invisibile nell’oscurità.
“La
domanda corretta è: chi potrebbe impedirglielo?”
Improvvisamente
la Nihaar’ì non trovò davvero alcunché da
replicare. La risposta corretta sarebbe stata una soltanto, lo
sapevano entrambi, eppure come osare pronunciarla ora?
La
sola persona che avrebbe dovuto impedire ai Kamin di agire come erano
soliti fare si trovava ora allo sbando da qualche parte nel deserto e
chissà dove nel continente, in fuga da un pericolo
inaffrontabile e diretta verso un destino altrettanto imprevedibile.
Dov’era
il potere della Nihaar’ì ora che serviva? Dov’erano
le temibili armate dei Legheon al suo servizio?
Per
un pò la Veggente non disse niente, troppo assorta nei propri
pensieri per aver davvero voglia di abbozzare un qualunque tipo di
conversazione - e poi il freddo era davvero qualcosa di
inaffrontabile a dorso di uno yenavo’r -. Fu Hiras a riscuotere
la sua attenzione.
“Provate
a dormire” le sussurrò improvvisamente all’orecchio.
La sua voce aveva una nota calda, gentile. Lei fece finta di niente.
“Potrebbe
farvi bene” aggiunse lui tuttavia.
Rigida
di freddo, la ragazza si concesse un mezzo brivido prima di
rispondere.
“Non
sono stanca”
“Eppure
lo sembrate” la incalzò subito Hiras
“Sbaglio
o sono state proprio le vostre braccia a sorreggermi nel mio ultimo
sonno ristoratore?” “Dubito che quella sottospecie di
dormiveglia sia stato anche solo sufficiente per riavervi”
“Grazie
dell’offerta ma credo sia meglio sperimentare in un altro
momento il completo rigenerarsi delle mie capacità podistiche”
suo
malgrado lo sentì ridacchiare, il petto a sobbalzare a
intervalli regolari contro la sua schiena. Pur non volendo la
Nihaar’ì si sentì a sua volta arricciare le
labbra. Poco distante, Matnery scosse il capo.
“E’
solo del vostro benessere che ci preoccupiamo, Somma Nihaar’ì”
le ricordò con tono improvvisamente grave “Se non
dormirete starete male. Se starete male dovremo fermarci - o ancor
meglio inseguirvi per miglia e miglia nel deserto - e allora tanto
varrà non essersi fermati prima”
Il
fugace attimo di leggerezza svanito, la Veggente si ritrovò
nuovamente a chinare il capo, lo sguardo che volgeva non senza una
certa preoccupazione lungo il sottile profilo del deserto cercandone
una piccola sgualcitura. Non ne trovò. L’alba immanente
le concesse tuttavia un timido sorriso color eliodoro cui lei rispose
con un brivido sofferente.
“Non
posso dormire” decretò infine
“Haine
s’am!” l’esclamazione di Hiras la fece quasi cadere
di sella “Ma si può sapere come diamine avete fatto in
tutti questi anni a coricarvi senza che l’intero continente
dovesse mobilitarsi alla vostra ricerca?”
Già,
come aveva fatto?
La
Nihaar’ì si concesse un breve sospiro prima di
rispondere.
“Non
sono informazioni degne delle vostre orecchie” Matnery strinse
appena le labbra.
“No
di certo” convenne subito secco “Ma temo che la
situazione necessiti un abbassamento
del vostro livello di segretezza affinché
ci sia possibile scortarvi incolume a destinazione”
Dal
tono, la Nihaar’ì capì di averlo in qualche modo
contrariato.Si
umettò dunque le labbra. E si strinse nelle spalle.
“In
realtà temo di non averne idea” ammise infine. Alle sue
spalle, Hiras parve nello stesso momento sgonfiarsi come una pianta
al sole. Lei socchiuse appena le palpebre, il viso che
improvvisamente si scaldava di un tenue rossore.
“Non
lo sapete?” la voce di Matnery pareva in qualche modo essersi
bloccata a metà fra esofago e laringe. Nuova scrollata di
spalle.
“Da
che sono nata questa cosa del camminare
nei sogninon
era mai accaduta, quindi perché avrei dovuto pormi il
problema?”
“Giusto,
perché porsi il problema?” le fece subito il verso
Hiras. Matnery lo fulminò con un’occhiata.
“Se
non vi è mai accaduto” l’uomo si portò una
mano alla nuca come nell’atto di riflettere “Non vedo in
effetti come avreste dovuto saperne qualcosa a riguardo. Ma
sforzandovi comunque di valutare la cosa un pò più
attentamente...” la incalzò speranzoso.
Lei
fece una smorfia.
“Giungerei
comunque alla medesima constatazione e cioè che non ne ho la
più pallida idea” concluse con una scrollata di spalle.
Ma seppe di stare mentendo.
Perché
in effetti qualcosa c’era.
Un
particolare in effetti tanto appariscente e plateale da non
sorprendere che nessuno fino a quel momento fosse in qualche modo
riuscito a scorgerlo.
Anche
se in effetti, chi se non lei soltanto avrebbe potuto notare
l’eccezionalità del fatto che per la prima volta da che
era nata la Nihaar’ì si ritrovava ora lontana dalla
Torre del Tempo e da Zaphil, il suo custode?
Si
umettò le labbra ora irte di gelo e scostò lo sguardo.
E pregò con tutta se stessa che per una buona volta Matnery la
smettesse di squadrarla da capo a piedi come se da ciò
dipendesse la vita di tutto il continente riunito (ah
perché non era così?). Suo
malgrado, l’espressione di pura desolazione di Matnery la
trapassò allora da parte a parte facendola rabbrividire. Prese
fiato, una improvvisa nota acida in bocca a rubarle il fiato prima
che Hiras alle sue spalle schioccasse seccamente la lingua sul
palato.
“Voi
non state bene” decretò con una nota di biasimo che la
Nihaar’ì intese solo dopo qualche attimo essere riferita
alla sua persona e non ad altro
“Bruciate
di febbre”.
E
nel medesimo istante in cui quelle parole venivano pronunciate,
improvvisamente la Nihaar’ì si rese conto che Hiras
aveva
ragione.
Tremava
di freddo. E il vago accenno acido percepito poco prima si stava via
via tramutando in un senso di vomito vero e proprio.
“Sto
bene” decretò tuttavia socchiudendo contemporaneamente
le palpebre
“Siete
sfinita” la rimproverò subito Matnery poco distante
“Anche
voi lo siete” tentò lei di difendersi
“Non
costringetemi a ribadire quanto detto poco fa...” la avvertì
il Danzatore
“E
voi non costringetemi a riformulare uno dopo l’altro i motivi
per cui tutto ciò che mi avete detto non ha alcuna importanza”
lei fece un gesto come per scostare un qualcosa di molesto dinnanzi
agli occhi.
“Io
sono la Nihaar’ì” esalò con una nota grave
“E in questo momento la sola cosa che conta davvero è
che io ritorni il prima possibile a essere dove sarei destinata a
stare” una pausa, Hiras alle sue spalle che improvvisamente si
scioglieva in un sospiro profondo “Il Pellegrinaggio”.
Non
servì annuire.
Ma
Matnery non pareva ancora del tutto convinto.
“Potremmo
tentare di legarvi...” abbozzò dopo un attimo di
incertezza. La Nihaar’ì gli rivolse un sorriso sghembo.
E
poi un improvviso brivido percorse per intero il corpo di Hiras.
“Potremmo...”
la sua voce rimase per un attimo sospesa nel vuoto come una piuma
incapace tanto di innalzarsi quanto di precipitare. Per qualche
ragione, la Nihaar’ì si percepì socchiudere
appena le palpebre.
“Potremmo
provare con l’Eiriash”
Muto,
il gruppo continuò per un po’ ad avanzare senza che
alcuno proferisse parola.
Ognuno
per i suoi motivi, ovviamente: Hiras perché pareva starsi
domandando se davveroavesse
avuto il coraggio di proporre quanto aveva proposto. Matnery per lo
stesso motivo, più o meno. E la Nihaar’ì perché
ancora una volta, manco a dirlo, credeva in un certo senso di aver
capito cosa fosse appena accaduto ma in realtà dubitava
totalmente di averlo afferrato.
“So
che si tratta di una soluzione un po’ poco ortodossa...”
“Poco
ortodossa?”
difficile
collocare la sfumatura della voce di Matnery in quell’istante.
Derisoria?
Incredula? Più semplicemente seccata?
“Ti
ricordo che stiamo parlando della Nihaar’ì e non di un
qualunque
qualcuno qualsiasi”
la
voce di Matnery le vibrò nelle orecchie come il sibilo di un
serpente.
“Spiacente
di turbare il tuo senso estetico ma al momento temo di non avere
nulla di meglio da proporre, tu si?” il corpo di Hiras vibrò
di tensione alle sue spalle, un brivido tanto forte da trasmettersi
quasi come suono tangibile oltre il confine della sua pelle. Poco
distante, Matnery parve sul punto di dire qualcosa ma si trattenne. E
infine scosse il capo rassegnato.
“No,
non ho nulla di meglio”
“Dunque
perché non provarci?”
“Mi
stai davvero chiedendo perché?” Hiras fece come
spallucce.
“Dunque
siamo d’accordo” concluse con un sibilo il Danzatore
prima di rivolgere nuovamente la propria attenzione verso la Nihaar’ì
rimasta fino ad allora in muta attesa.
Lei
si mosse una volta a disagio.
“Quindi?”
Matnery si strinse suo malgrado nelle spalle lasciando che fosse il
suo compagno a prendere parola “Cosa ne pensate? Siete disposta
a provare?” c’era una nota acuta nella sua voce che la
Veggente notò.
Provare
cosa, esattamente? Si
ritrovò a pensare non senza una punta di disperazione.
Si
umettò le labbra.
“Spiegatemi
esattamente cosa
avete
intenzione di farmi” cominciò col dire ringraziando che
la penombra rendesse invisibile il suo accigliarsi “...e solo
allora vi dirò se e quando sarò disposta”
Prima
che Hiras avesse il tempo di replicare, Matnery prese parola.
“Vuole
marchiarvi”
La
mano di Hiras si frappose improvvisamente fra lei e l’altro
Danzatore.
“Matnery”
lo avvertì gelido per poi rivolgersi a lei.
“Immagino
conosciate l’Antico Testo” le chiese a bruciapelo.
“Non
dovrei?” replicò la Nihaar’ì rigida. Il
Danzatore si mosse a disagio.
“Dunque
sarete anche a conoscenza dell’uso che ne viene fatto fra le
genti comuni”
lei
annuì ancora una volta, poi si schiarì la gola.
“Se
per uso intendi la pratica di smerciare il più raro e antico
patrimonio di Arryan al pari di ninnoli e porcherie di poco conto”
prese fiato “Si, credo di esserne abbastanza
a
conoscenza”
Lo
percepì nuovamente irrigidirsi.
“Immagino
dunque che la parola Eiriash non vi sia del tutto sconosciuta”
Frutto
dell’intreccio di antiche usanze e tradizioni millenarie, su
Arryan la scrittura si costituiva principalmente in due grandi
filoni: il Testo
Parlatoe
l’Antico
Testo.
Il
primo, simile al sinuoso ed elegante avanzare del vento nel deserto,
era in genere padroneggiato dalle classi mercantili e notarili, usato
per affari e comunicazioni di ogni genere. Da esso derivava il
parlato comunemente usato.
Il secondo viceversa era affare
esclusivamente del ceto nobiliare e religioso, utilizzato solo per la
scrittura dei grandi Testi di Arryan (trascrizioni erudite, cantici e
opere fra le più rinomate). Pochi privilegiati erano in grado
di padroneggiare l’Antico Testo in quanto il suo apprendimento
era subordinato allo studio di anni, decenni per alcuni, delle più
nobili arti e tradizioni del passato. Alla vista, esso si presentava
come un prezioso intarsio di disegni fra i più dettagliati.
All’orecchio, suonava come un misto fra canto e litania bassa e
modulata.
Nato
prima che la Realtà e il Tempo avessero nome, l’Antico
Testo veniva gelosamente custodito dalle più alte menti di
Arryan sia per la sua intrinseca capacità di differenziare il
mondo fra scienti e illetterati, sia per la diffusa credenza che in
esso risiedesse un’antica forma di magia fra le più
misteriose e potenti mai teorizzate: il Potere
delle Parole. Gli
Antichi Maestri nel parlavanospiegando
come fosse intrinseco della lingua scritta la capacità di
trattenere in sé la forza del proprio significato. Un Potere,
dicevano, la cui potenza accresceva tanto più la parola fosse
rara e ricercata per logorarsi viceversa nella sua vaghezza e
diffusione.
Forti
di questa credenza e in ragione di conservare il potere dell’Antico
Testo, i sapienti erano soliti ritirarsi nello studio di nuove parole
per anni -decenni perfino - per poi, dopo aver finalmente ottenuto il
tanto sospirato concetto, bandirne per sempre l’uso
nascondendolo in un luogo noto solo a pochi eletti dove,
inutilizzato, avrebbe accresciuto il proprio potere.
Primo
fra i Testi, nonché primo esempio di Antico Testo mai
conosciuto, l’Elegia era in assoluto l’opera più
potente di tutta Arryan, pregna di un valore tale che solo la
Nihaar’ì in persona era degna di leggerlo e decantarlo.
La trascrizione, replica e pronuncia delle parole dell’Elegia
era severamente vietato, motivo per cui - ovviamente - il loro
traffico illecito era in assoluto il più redditizio e diffuso
di tutta Arryan.
Ma
come Testo Parlato e Antico Testo si legavano alla pratica
dell’Eiriash?
Come
detto, era opinione diffusa che la parola scritta possedesse in sé
una qualche forza intrinsecamente legata al suo significato. Era
inoltre altrettanto diffusa la conoscenza dell’immenso potere
della Tinta nel respingere e proteggere dalle Ombre.
Da
lì a teorizzare che si potesse utilizzare la Tinta per
imprimere sul proprio corpo alcune parole
il
passo fu relativamente breve.
Utilizzarla
per marchiare il proprio corpo con parolein
Testo
Parlatodivenne
quindi pratica assai diffusa fra le genti comuni -e fra coloro le cui
ricchezze non permettevano di acquistare Tinta sufficiente a tingere
intere vesti o indumenti.
Servirsi
della Tinta per imprimere invece di parole all’Antico Testo non
potè divenire pratica altrettanto in voga: dominio esclusivo
di Nobili e studiosi, esso venne ancor più rinchiuso nei
propri nascondigli segreti costringendo in breve i meno privilegiati
-alias grandi esclusi - a darsi alla macchia o cadere nelle mani di
mercanti senza scrupoli e imbroglioni patentati.
Il
più delle volte, con risultati discutibili.
Lingua
remota e misteriosa, più un’enigmatica traslitterazione
figurativa di suoni e cantilene incomprensibili, l’Antico Testo
trovava infatti la sua più alta espressione in una sottile
alchimia di tratto impossibile da emulare per coloro che ne
ignorassero il delicato germogliare. Il più delle volte,
quindi, imitando testi a loro sconosciuti, gli artisti improvvisati
finivano inevitabilmente per replicarne solo la forma ma non la
sostanza e, ancor meno, il vero potere.
Ma
come spiegare questa mortificante verità a coloro la cui
speranza si annidava proprio nel mistero incomprensibile celato
nell’Antico Testo? Molti ricorrevano alla marchiatura
quando
già i primi segni del Risveglio si erano affacciati
inconfutabili nei loro sogni nella speranza di poterne in qualche
modo controvertire l’aggravamento o anche solo arrestare
l’avanzata.
Inutilmente.
Nessun
copiatore, seppur talentuoso, avrebbe mai potuto eguagliare anni e
anni di studi all’interno della Torre del Tempo. Solo ai Nobili
- e alle loro incredibili ricchezze - avrebbe potuto essere riservato
questo privilegio, ma per loro la Torre del Tempo aveva da tempo
riservato un trattamento speciale: qualunque Nobile scoperto a
nascondere sul proprio corpo parole dell’Antico Testo -se non
addirittura quelle dell’Elegia - sarebbe stato spogliato
delle
stesse ed eguale sorte sarebbe toccata ovviamente ai suoi averi e
proprietà.
In
questo modo la Torre del Tempo si assicurava la fedeltà totale
della sua Corte.
Nei
confronti del popolo la Torre manteneva un regime di tacita
tolleranza per i marchi in Lingua Parlata; quelli in Antico Testo
venivano viceversa puniti con lo spoglio
e
l’esilio seguito subito dalla cattura degli “artisti”
responsabili dell’opera.
“Come
già detto, io sono la Nihaar’ì” replicò
lei piccata “Credo che qualunque forma di eresia
mi
sia abbastanza nota”
O
no?
Hiras
rivolse una breve occhiata titubante a Matnery prima di continuare.
“Ed
è proprio per questo che ora mi chiedo: cosa esattamente
l’Eiriash dovrebbe avere a che fare con me?” un nuovo
brivido, lungo e doloroso, le scorse per tutta la schiena
costringendola a un tremito convulso.
Poco
distante, Matnery parve condividere la medesima sensazione.
“Se
questa fosse una situazione normale e noi ci trovassimo
tranquillamente seduti in una delle vostre stanze della Torre del
Tempo...Ovviamente nulla” convenne schiarendosi appena la voce.
Pareva nervos.
“Ma
dato il luogo e la ben più spiacevole circostanza, credo che
dovremo riconsiderare la cosa”
Riconsiderare?
“Gradirei
scendere” disse lei improvvisamente. Percepì Matnery
irrigidirsi al suo fianco.
“Somma
Nihaar’ì...” lei non gli diede il tempo di
terminare la frase.
“Ho
detto che gradirei scendere, non che vi sto chiedendo il permesso di
farlo”.
E
così, la Nihaar’ì accovacciata sui talloni e i
due Danzatori a gambe incrociate dinnanzi a lei, il trio si diede il
tempo di un lungo e intenso sospiro prima di riprendere dove si erano
interrotti.
“Sono
confusa” cominciò la Veggente “Esattamente da
quando avete cominciato a considerarmi una stupida?” Matnery
ebbe come un sobbalzo.
“Somma
Nihaar’ì..” si affrettò a rispondere ma lei
alzò una mano per zittirlo.
“Oppure
più semplicemente, vedermi talvolta incerta nell’orientarmi
in questo mondo vi ha in qualche modo autorizzato a considerarmi una
facile preda degna di manipolazione?”
“Ma
come potete anche solo...” anche Hiras subì la medesima
sorte dell’altro Danzatore.
“Ma
più importante, da quando vi siete anche solo azzardati a
dimenticare che davanti a voi siede ora la Nihaar’ì, la
più grande e potente forza di tutta Arryan?” questa
volta nessuno tentò di controbattere.
Sola
nel silenzio, la ragazza si diede il tempo di riprendere fiato.
“Certamente
entrambi dovete soffrire di una grave forma di amnesia per non
ricordare che c’è gente nel mio regno che muoreper
propostesimili
a quella che voi state tentando di fare e vi assicuro nessuna di
queste, nessuna, ha mai lontanamente pensato di proporla alla
Nihaar’ì”
“Ho
già detto che si tratta di un’idea poco ortodossa”
tentò di borbottare Hiras
“Solo
poco Ortodossa?” gli
fece subito eco lei con un tono curiosamente simile a quello di
Matnery poc’anzi “So che avete visto il mio corpo e i
segni impressi su di esso. E malgrado ciò voi proponete?”
Non
ricordava dolori peggiori di quelli provati quando, nel sangue e nel
tormento, i segni del Risveglio le si erano incisi sulla pelle.
“Se
conoscessi un modo migliore di questo...”
“Migliore
di punzecchiarmi a tradimento con questo o quel rito scaramantico?”
lo aggredì lei.
Hiras
riprese fiato.
“Migliore
dell’Eiriash cui so la Torre del Tempo si oppone...”
“La
Torre non si oppone” ringhiò subito la Veggente “La
Torre difendei
suoi fedeli da tutto ciò che li minaccia e che potrebbe causar
loro sofferenza. E ancor più si prodiga per loro quando sono
loro stessi a non capire dove si annidino l’una e l’altra
queste eventualità”.
“Quello
che Hiras intende dire” si intromise Matnery “E’
che se sia io che Hiras conoscessimo un’opzione migliore del
costringere nuovamente il vostro corpo a subire ulteriori patimenti
per incidervi un marchio che va contro la vostra persona, il vostro
credo e tutto ciò che voi rappresentate...” la sua voce
pareva uscire frenata “Se davvero la conoscessimo” esitò
“Allora di certo saremmo qui a proporvi ben altro ma vedete...”
prese fiato “La realtà è che noi siamo semplici
guerrieri e come tali non ci è dato di conoscere tutti i
segreti di Arryan. Questo siamo. E non dei manipolatori come voi
dite”
Nell’improvviso
calare del silenzio, la Nihaar’ì si rese nuovamente
conto della sabbia sotto le sue gambe, del cielo sopra la sua testa e
sì, anche del freddo del deserto cui fino a quel momento ella
non aveva dato poi tanto peso. Rabbrividì.
L’alba
sarebbe sorta a breve. Intuì. Eppure per qualche motivo pareva
restia a giungere.
“Hiras”
disse poi lentamente volgendo lo sguardo su di lui. Si accorse solo
allora che il ragazzo la stava osservando. Si impedì di
abbassare il capo.
“Qual’era
la tua proposta?”
Lo
vide esitare un istante, poi fece un lungo respiro.
“Voi
avete bisogno di dormire, questo è evidente. Ma finché
il semplice chiudere gli occhi vi spingerà a corrervene nel
deserto come una pazza, dubito che sarà possibile” al
pazza
lei
storse il naso ma non disse niente “Ciò di cui abbiamo
bisogno è un marchio
che
vi aiuti a riposare...serena”
E
per serena intendo priva dell’incontenibile desiderio di farvi
una scampagnata a ogni occasione.
“E
quindi?” sbuffò lei.
Lui
si umettò le labbra.
“Esiste
un marchio,in
genere utilizzato da coloro che che si avventurano nell’Oltre”
“Mi
pareva di aver chiarito che a nessunoè
permesso di avventurarsi nell’Oltre” fu la secca replica
della Nihaar’ì.
Vide
l’altro irrigidirsi nuovamente.
“E
a me sembrava di avervi già spiegato che a qualcuno capita
comunque di finirci”
Nuovo
sospiro di lei.
“E
quindi?” lo incitò a continuare.
“Quindi
dicono che il significato di questo simbolo sia Che
i tuoi sogni possano accompagnarti”
spiegò
lui grattandosi appena con la mano destra la nuca.
“Un
po’ vago” si accigliò l’altra.
“Ma
abbastanza simile a quello che stiamo cercando. O sbaglio?”.
La
Nihaar’ì parve rifletterci su per qualche istante, le
braccia che andavano a incrociarsi al petto.
Che
i tuoi sogni possano accompagnarti. Riflettè.
Considerando
la sua estrema necessità di dormire
sonni tranquilli, in
effetti il concetto non era così male. Eppure... si mordicchiò
un labbro...Eppure per lei non sarebbe bastato.
“Una
frase di uso comune non avrà mai abbastanza Potere per
fermarmi” esalò quindi con una nota rassegnata “Non
avete niente di meglio da proporre?”
Stupiti
i due la guardarono per un istante. Infine Matnery sospirò.
“Temo
che la Torre del Tempo abbia da un pezzo confiscato gran parte
dell’originalità di Arryan, Somma Nihaar’ì.
Se è davvero l’unicità che cercate, temo
rimarrete delusa”
Delusa?
La
Veggente dovesse quasi sforzarsi di non sorridere.Sapere
che la Torre stava facendo un buon lavoro nel conservare il Potere
dell’Antico Testo non poteva certo essere una delusione.
“Dunque
scriverò io stessa il marchio”
esalò
lei con una nota cupa “Non vi rivelerò il suo
significato e non vi permetterò di replicarlo su altri al di
fuori di me. Pregate che io non vi trovi mai se ciò dovesse
accadere” prese fiato “Terminato questo viaggio
cancellerò ogni sua traccia dal mio corpo dimenticando di
averlo scritto e così dovrete fare voi. Siamo d’accordo?”
Una
breve pausa, poi entrambi annuirono in silenzio.
Capitolo breve e assolutamente dedicato a tutti coloro
che si staranno chiedendo dove diavolo sia finita la sana tragedia e quel
pizzico di romanticismo che tanto ci piace J
Una buona estate a tutti!
Baciozzi
Elendil
______________________________
Nelle ore che seguirono, i tre decisero di accamparsi
alla base di una duna di grandi dimensioni.
Lì Matnery e Hiras cominciarono a perlustrare la zona in cerca di alcuni
sassi e pietre di colore rosso o marrone brunito. Quando sembrarono soddisfatti
si sedettero l’uno accanto all’altro vicino al fuoco cominciando a frantumare i
cocci che si rivelarono essere particolarmente friabili e frangibili in schegge
sempre più piccole e minute. Quando il tutto fu ridotto a poco meno che polvere
lo misero in un pentolino cui aggiunsero acqua e un diluente dall’odore forte e
penetrante.
Da lì, e per ore intere, i due non fecero altro che
starsene muti a guardare l’acqua che via via assorbiva il colore dei minerali
trasformandosi gradualmente in una pappetta densa e vischiosa dal colorito
sfaccettato.
Quando Hiras decretò che
tutto fosse “pronto”, Matnery porse alla Nihaar’ì un sottile pungolo di ferro ricavato da alcune
armi sottratte ai Kamin durante l’assedio. Lei lo
prese e intingendolo nella scura bacinella prese a disegnare su un pezzo di
stoffa un elegante e intricato arabesco dall’aria eccentrica. Ne descrisse
righe e volute, ne ricalcò il dettaglio, poi si spostò più in basso e replicò
il medesimo gesto con poche ma precise variazioni così da renderlo a prima
vista simmetrico eppure diverso a una seconda occhiata. Infine lo porse a Hiras, si tolse dal capo il velo, raccolse i capelli in una
crocchia e si voltò.
“Nessuno che mi voglia male andrà mai a guardare la
mia nuca. E se così dovesse essere, allora poca differenza farà la presenza o
meno di un marchio” disse atona.
Sentì Hiras trattenere il
fiato, avvicinarsi e senza una parola premere sulla parte scoperta del collo la
stoffa ancora imbevuta di liquido. Quando la tolse il gelo della notte la fece
rabbrividire.
“Come è venuto?” chiese subito titubante.
Per un attimo percepì lo sguardo di entrambi valutarla
con attenzione. Poi Hiras si schiarì la gola.
“Nitido e pulito”
Sospirando ella si voltò per porgere a Matnery il pungolo per poi, prendendo dalle mani di Hiras la stoffa, gettarla nel fuoco poco distante.
Solo quando ogni parte della stessa fu consumata dalle
fiamme ella tornò a guardare i due.
“E’ probabile che io divenga presto incosciente a
causa del potere del marchio. In quei momenti vi prego di non fare nulla
di cui possiate pentirvi”.
Detto ciò si distese a terra lasciando che i due le si
accucciassero accanto.
“Quanto tempo abbiamo prima che sorga il sole?” chiese
prima di schiacciare il viso nella sabbia. Percepì Matnery
fare qualche respiro prima di intingere il pungolo nella sostanza viscosa
“Abbastanza”.
Al primo tocco, lei mugugnò. Al secondo, vergognandosi
della propria debolezza, rimase in silenzio. Al terzo tuttavia le fu
impossibile non fare una smorfia contrita.
Non servirono che un paio di minuti prima che il
dolore cominciasse a rendere il tutto ben più che fastidioso. La Nihaar’ì avvertì il proprio corpo irrigidirsi via via
sempre di più mentre lo sforzo di non lamentarsi a ogni singola puntura nel
collo diveniva qualcosa di terribilmente complesso e faticoso.
Ma perché diavolo si era fatta convincere, poi? Si
ritrovò a chiedersi mentre tentava senza riuscirci di ignorare la sofferenza. Lei,
la Nihaar’ì, che acconsentiva a imprimere su se
stessa l’emblema dell’Eresia; che tradiva il potere dell’Antico Testo
disegnando sul suo corpo il frutto di anni e anni di studio indefesso; che permetteva
a due semplici Danzatori di toccarla laddove mai nessuno aveva anche solo
potuto pensare di guardarla.
Espirò lungamente, concentrandosi per non digrignare i
denti.
E tutto ciò per che cosa? Per un errore? Per uno
scherzo del destino? Perché Zaphil in qualche modo
era riuscito a farsi fregare da una semplice tempesta di sabbia lasciandola
sola nel bel mezzo del nulla in balia di se stessa?
Schiacciò con più forza il volto nella sabbia
aspirando attraverso la stoffa il sentore umido del deserto. E si maledì.
Si maledì per la sua
debolezza, per la sua fragilità e per il semplice fatto che da quando tutta
quella strampalata avventura era cominciata lei non aveva fatto altro che fare
la figura della sciocca. E della preda. E semplicemente non della persona che
avrebbe dovuto essere.
Digrignò i denti, il dolore che le frizzava dal collo
lungo tutta la schiena come piombo fuso. E prese fiato.
Del resto non era la cosa più dolorosa che avesse mai
provato.
Tentò di confortarsi.
Né la più spiacevole.
E di sicuro non la più più
degradante.
Ricordò allora il giorno in cui le prime avvisaglie
del Risveglio avevano cominciato a manifestarsi sul suo corpo. Lunghe e
profonde striature nere come carbone che ovunque erano germogliate al pari di
grandi boccioli di tenebra per poi dipanarsi in morbide ed eleganti volute per
tutta la lunghezza del suo corpo.
Troppo piccola per capire esattamente il concetto di
“Prepararsi al dolore”, ai tempi ella era stata unicamente capace di accogliere
l’evento con una sorta di gioia mistica ed estatica assieme, una liberazione
quasi, la prova concreta della sua Divinità a rendere finalmente
legittima ogni parola pronunciata da tutti coloro che fin dalla sua nascita
l’avevano senza sapere perché adorata e vezzeggiata.
Poi era cominciato il dolore. E le visioni.
Per giorni e giorni il mondo che lei conosceva fu per
qualche misteriosa ragione soppiantato da una sua versione assai più oscura e
sinistra, un intrico di finzione e realtà tali da farle a lungo dubitare di
tutto ciò in cui ella aveva mai creduto.
Soffrì a lungo e terribilmente, i rari momenti di
lucidità costellati dalla constatazione di trovarsi sempre precipitata in
lenzuola intrise del proprio sangue, sporche di sudore e umori, assetata e
incapace di mangiare. Debole fin quasi allo sfinimento.
E in tutto ciò Zaphil era
stato sempre e comunque al suo fianco, unica presenza silenziosa a ogni
risveglio, unico guardiano a vegliare sui suoi deliri a qualsiasi ora del
giorno e della notte.
Quando quell’orribile tortura ebbe fine ed ella fu
gradualmente in grado di riprendere coscienza, peso e infine lucidità, più
volte aveva chiesto alla sua guida di raccontarle cosa esattamente fosse
accaduto in quei giorni.
A cosa dover credere? Cosa dimenticare?
“Voi siete la Nihaar’ì” le
aveva risposto lui con voce bonaria e affettuosa. Per la prima e ultima volta
nella sua vita le aveva sfiorato la fronte con la punta delle dita scostandole
i capelli dal viso
“Voi siete la misura del mondo. Tutto ciò in cui
dovete credere è voi stessa e nient’altro”
“State bene?”
La voce di Hiras le giunse
da qualche parte alla sua destra, una vibrazione cui ella rispose con un gemito
attutito.
“Volete fare una pausa?”
Una pausa?
“Non dire sciocchezze” la voce di Matnery
aveva un che di ruvido “Prima terminiamo questa tortura meglio sarà per tutti”
Si giusto. Perché darle anche solo la mezza
possibilità di riposarsi un secondo?
“Si ma guardala” rapido movimento al suo fianco. Poi
qualcosa le si posò sulla schiena. Una mano o un panno...forse
“Non credo sia normale...”
Normale? In che senso normale?
Di nuovo persa, piccola Odayn?
La Voce varca le soglie della sua coscienza con
l’esplosione di un tuono. Si sente spalancare gli occhi di scatto e piombare
nel medesimo istante in un oceano di Tenebra.
Annaspa.
Di nuovo? Eppure se non erro...
“Hiras, svegliati! Stiamo
parlando della Nihaar’ì! Come diavolo pensi che ci
possa essere anche solo qualcosa di normale in lei?”
Già, Hiras, come puoi anche
solo pensarlo?
Avvertì un lieve spostamento al suo fianco e poi
qualcosa le si posò nuovamente sulla schiena tamponandola fra le scapole.
“Guarda come sta sudando....” tentò ancora la voce
assai tesa del Danzatore.
E poi di nuovo il silenzio. E il frastuono assieme. E
la terribile sensazione di non essere più esattamente dove si fosse trovata
fino a quel momento e di vagare invece...
Dove?
Dove?
Dove stai andando ora?
Lontano. Si sente rispondere. Lontano per sempre.
E Zaphil sa di questa tua
decisione?
Si scosta, torna indietro. Indietreggia.
Zaphil non
c’è. Risponde. Mi ha perduta.
Perduta? Ma per perdere qualcosa bisogna prima averlo
trovato...
“Dobbiamo andare. Ancora qualche ora e ci troveranno”
il tono di Matnery sbucò nuovamente e chissà da dove
facendola trasalire. Non riconobbe l’inflessione ma ne indovinò comunque la
sfumatura.
Stanca. Distante. Cupa.
“Non possiamo muoverla ora. Sta male” più vicina, la
voce di Hiras pareva quasi più giovane di come la
ricordasse
“Starà peggio se i Kamin la
troveranno”
“Non starà affatto se ora la costringiamo a viaggiare.
Deve riposare.”
Una pausa.
“Sta già riposando”
“E’ svenuta. Questo lo definiresti riposare?”
Nuova pausa.
“Prendi le sue cose e partiamo. Subito”
Qualcosa la solleva, la attrae, la innalza lontano da
dove ricordava di dover essere e poi la poggia discreto, lievemente. Lei geme,
sente male ovunque sebbene non ricordi bene perché.
Da quand’è che il suo corpo ha cominciato a dolore
così tanto?
Chiedi ai tuoi amici. Risponde
qualcuno. Chiedi a loro perché ora stai soffrendo.
Lei sbatte le palpebre nel buio, incerta se così
facendo accadrà per davvero qualcosa. E poi scuote il capo.
Io non ho amici. Si sente dire. E ricorda di
aver già pensato parole del genere. Di aver già decifrato e concluso con il
medesimo tono l’evidenza del loro significato.
Tu non hai amici? Ridacchia qualcuno
lontano, più lontano di quanto ella è sicura di poter guardare.
E dunque quelli chi sono?
“Portala vicina al fuoco. Ha bisogno di stare al
caldo”
Scuro, il mondo ondeggiò un paio di volte attorno a
lei, una chiazza indistinta oltre le palpebre cui reagì solo vagamente.
“Se non riusciamo a darle da bere morirà di sete”
La consistenza del terreno la accolse deformandosi
appena sotto il suo corpo. Il suo tepore la sfiorò sfregandole mani e piedi.
Qualcosa crepitava poco distante in uno sfrigolio caldo e rassicurante.
“Ci ho provato” una pausa “Ma non ne vuole sapere di
deglutire”
“Hai provato a tapparle il naso?”
“Pensavo che annegarla fosse effettivamente un po’
eccessivo anche per noi...”
“Non morirà, smettila di comportarti come una madre in
apprensione”
“Come scusa?”
“Mi hai sentito bene” rapido spostamento poco lontano
“Se è per il senso di colpa nell’aver proposto questa elegante soluzione
che ti stai comportando come una fanciulla isterica, smettila subito”
“Non mi sto comportando come una fanciulla isterica”
“Dunque devo dedurre che davvero hai a cuore le sorti
di questa ragazza?” silenzio scontroso
“E’ che non capisco cosa stia succedendo...” movimento
rapido, poi qualcuno le sfiorò il viso, naso e labbra. Sospiro contratto.
“Sta bene” fu la secca risposta “Per ora credo che ce
lo dovremo far bastare”
Dunque chi sono, Odayn?
Non miei amici. Risponde. Non miei.
E di chi allora?
Presentimento del buio. Incertezza di cadere più
lontano di dove fosse prima arrivata. E di non ricordare come farvi ritorno.
Eppure era stata tanto vicina...tanto vicina...
Una pausa, lunga e vaga. L’inclinarsi del senso di
qualcosa a farle quasi storcere il naso. Ma sospira. E si scosta. E in fondo
considera che non vale davvero la pena pensare così tanto a una cosa così di
poco conto.
O forse no?
Eppure era stata tanto vicina..tanto
vicina...
“E’ normale che non si sia ancora svegliata?” improvvisamente
percepì il caldo sulla pelle, pesante e tangibile come una mano calcata sul
volto. Le fu difficile respirare, eppure in qualche modo capì di esserne ancora
in grado.
“Esattamente quanti Eiriash
hai visto prima di oggi?” pausa lunga e meditabonda “Ricorda inoltre che è
stata lei a disegnare quel marchio. Non stento a credere che l’abbia per
così dire...stesa...”
Vago ondeggiare, segno che qualcosa attorno a lei si
stava muovendo. O che forse era lei stessa a muoversi in qualche modo.
“In ogni caso mi sembra che stia quasi meglio rispetto
ai giorni scorsi, o sbaglio?” vago schiocco di lingua sul palato
“In effetti ha smesso di sanguinare...”
“E anche il colorito è migliorato...”
“Sai che quando scoprirà tutto ci ammazzerà tutti e
due, vero?”
Questa volta fu quasi impossibile non distinguere un
vago sospiro.
“Se si sveglierà”
Nuova pausa.
“Hai appena detto che sembra stare meglio”
“E tu mi hai appena chiesto se sia normale dormire
tanto a lungo e così intensamente senza rischiare la vita”.
Infine aprì gli occhi.
Senza sapere né come né perché, ma semplicemente si
ritrovò sveglia come se non avesse fatto altro che riposare le palpebre qualche
attimo fino ad allora.
Era buio, ed era distesa su un fianco coperta per
intero da strati su strati di stoffe. Non aveva freddo, ma si scoprì comunque a
tremare di gelo.
Capì allora di avere sete e fame al contempo e in
qualche modo di non avere la certezza di potersi muovere.
E poi li vide, due occhi nel buio intenti a fissarla.
Hiras, lo
riconobbe.
Hiras era
sveglio e la stava guardando.
“Bentornata” le disse lui con voce leggera e gentile,
una nota calma che per qualche ragione la fece esitare. Lei sbattè
una volta le palpebre, la certezza di poter vedere il pallore della luna
riflessa nello sguardo del ragazzo a meravigliarla e paralizzarla al contempo.
C’era sempre stato tanto silenzio su Arryan? Si domandò improvvisamente. Tanta
pace?
RIcambiò
l’intensità di quegli occhi, certa che per qualche ragione ora anche nei suoi
vi fosse altrettanta vastità, un eguale firmamento.
“Sono qui” sussurrò con un filo di voce, certa che se
avesse parlato più forte tutto il mondo attorno a loro l’avrebbe udita.
Lui annuì e poi fece una cosa strana. Allungò verso di
lei una mano di modo che per una frazione di secondo le sue dita riuscissero a
sfiorarle appena il viso. Nulla più che la punta dei polpastrelli sulla guancia
in un gesto delicato e sottile. Nel profilo lunare, la pelle di Hiras pareva quasi d’argento.
Poi lui si ritrasse e senza aggiungere nulla lo scintillio
racchiuso negli occhi di lui si spense.
L’indomani Matnery accolse
con gioia il suo risveglio, un genuino sollievo a sommarsi all’eguale fretta di
rimettersi in viaggio.
I loro inseguitori, le disse, non si erano in effetti
arresi e temeva che ulteriori rallentamenti non potessero far altro che esporli
a inutili rischi.
Il che, proprio ora che ella stava nuovamente bene,
sarebbe stato davvero un peccato.
Mentre caricavano gli ultimi bagagli lui aggiunse che
già da qualche giorno avevano cominciato la risalita dei promontori in vista
della Città del Cielo, motivo per cui l’averla nuovamente viva e agente
avrebbe facilitato assai la loro possibilità di sostenere l’avanzata malgrado
i pendii sempre più ripidi.
Guardandosi attorno, fu impossibile non dare ragione a
Matnery: in qualche modo la piana del deserto pareva
ora aver ceduto il passo a rocce e roccerelle che
spinose di vento e bernoccoli risalivano da un terreno ora punteggiato di
pietre brunite. Morbidi avvallamenti e conche disegnavano quella che
inequivocabilmente pareva una risalita dolce ma costante.
La Nihaar’ì non potè che osservare ammirata quella sconosciuta difformità
prima che il pratico Matnery le chiedesse gentilmente
di collocarsi dinanzi a Hiras. Questi la accolse con
un gesto sommesso, affatto familiare per la sua personalità.
Strano...
E così riprese il viaggio per quelli che - si sperava
- sarebbero stati gli ultimi faticosi giorni prima di un assai meritato ristoro
alla Città del Cielo.
Incerta, la Nihaar’ì si
passò una mano dietro al collo. Fece una smorfia contrita quando le sue dita
sfiorarono i morbidi bassorilievi sulla pelle. E rabbrividì, una fitta di
bruciore e vertigine assieme che le facevano immediatamente girare la testa.
Dannazione.
Qualunque cosa fosse successa al suo corpo, non le
piaceva. Non le piaceva sentirsi incredibilmente debole. Non le piaceva la
sensazione di essere in qualche modo convalescente, come se nei giorni
precedenti ella non avesse smaltito gli effetti negativi del marchio bensì
una vera e propria malattia dagli effetti consuntivi.
Si passò la lingua sulle labbra inaridite.
Era smagrita. Quella la prima cosa che aveva notato
mentre si massaggiava lo stomaco vuoto. E per qualche ragione la pelle delle
sue braccia aveva assunto un che di grigiastro e malsano.
Improvvisamente si ritrovò a desiderare disperatamente
uno specchio.
Lenta, l’avanzata dello Yenavo’r
procedeva a ritmo regolare, la testa dell’animale china sulle rocce che man
mano avevano preso a ingombrare il paesaggio tinteggiando di nero e bruno
l’intero suolo.
Meraviglioso. Aveva pensato in un primo
momento.
Più avanti, capendo che con simili asperità le loro
cavalcature presto non sarebbero più state capaci di trasportarli, la sua
meraviglia era scemata in una cupa preoccupazione.
Infine, dopo l’ennesimo attraversamento periglioso, Matnery si era voltato verso di loro.
“Dovremo procedere a piedi”.
Ma che bella notizia.
“Pensate di farcela?” sentì sussurrarle Hiras all’orecchio. Lei si irrigidì per poi annuire e
smontare.
Dei giorni passati in dormiveglia la Nihaar’ì ricordava ben poco. Alcune frasi sconnesse. Altre
parole ancor meno comprensibili. Eppure in qualche modo era certa che Hiras si sentisse in colpa per la sua situazione. E che Matnery fosse semplicemente a un passo dal perdere il
controllo sull’intera faccenda.
In silenzio i due presero a camminare dinanzi a lei,
il passo spedito mediato dalla rigidità di lunghe ore di cavalcata. Le vesti
scure parevano in qualche modo confondersi nella sfumatura grigia circostante.
In silenzio, un dolore vago in tutto il petto a minacciare di intensificarsi a
ogni passo, la Nihaar’ì si rassegnò ad andar loro
dietro.
Poteva ancora fidarsi?
Si chiese in un breve attimo di lucidità, il caldo
torrido che per un attimo si alienava dietro il profilo di una nuvola.
Di certo la situazione non le permetteva ampia scelta.
Ma se così non fosse stato, se davvero avesse potuto in qualche modo
scegliere....Prese fiato, si umettò le labbra, si passò il dorso
della mano sulla fronte...Era davvero saggio fidarsi di quei due?
Rabbrividì. Una sensazione di vuoto a darle quasi il
capogiro mentre suo malgrado si ritrovava a fermarsi.
Percepì Matnery arrestarsi
quasi nello stesso momento.
“State bene?”
Alzò lo sguardo su di lui per poi annuire titubante.
Poi annuì una seconda volta con più decisione.
“Volete fermarvi?” le chiese lui.
Scosse il capo.
No, sto bene. Avrebbe voluto dire. Ma
per qualche ragione non le riuscì di dirlo. Lui le rivolse una nuova occhiata
incerta, poi si strinse nelle spalle e riprese a camminare.
E infine venne la sera.
Preparata la parodia di un giaciglio, tutti e tre vi
crollarono dentro come sacchi vuoti, troppo stanchi persino per augurarsi un
buon sonno.
Il giorno dopo fu la prima a destarsi.
Aprì gli occhi e si tirò in fretta a sedere con la
medesima e improvvisa ansia di chi venga colto nell’atto di compiere una marachella.
Sbattè le
palpebre.
Non aveva sognato.
Si sorprese.
E pensò subito che fosse assai stupido che insieme al
senso di meraviglia e incredulità scaturite da quella constatazione vi fosse
anche una buona dose di tristezza e timore assieme.
Socchiuse le palpebre.
Non voleva pensare a quello ora.
Non in quel momento.
Ora l’unica cosa che davvero importava era giungere
alla città del cielo e tornare il più presto possibile da Zaphil.
Con lui, ne era certa, tutto sarebbe finalmente andato a posto.
La Città del Cielo non fu in vista se non dopo lunghi
e faticosi giorni di cammino.
Prima di quel momento il lento risalire di quota aveva
stemperato il caldo torrido e offerto di quando in quando la possibilità di
catturare qualche piccolo animale rintanato fra le rocce.
L’acqua continuava ovviamente a scarseggiare, ma già
poter mettere sotto i denti qualcosa che non fosse rancido o rinsecchito
contribuì a risollevare un poco l’animo generale.
In ogni caso, quando all’orizzonte si profilarono le
mura della città, il trio era ben più che esausto, il silenzio generale ad
accompagnare quella visione quasi che tutti e tre all’unisono avessero scorto
la loro fonte di salvezza.
La Città del Cielo, Vermayin nel
gergo di Arryan, era comunemente riconosciuta come la
più alta espressione architettonica di tutto il continente, celebrata come la
fortuita commistione di ingegneria ed espressione creativa.
Scavata nella roccia viva, si estendeva quasi a
precipizio per tutto il fianco orientale del Nemi jisah (Profilo del Vento), un monte celebre sia per
la forma verticale e aguzza ma anche per le sue pareti nere e solide. Le strade
e case erano state erette servendosi del medesimo materiale sottratto alla
montagna ma usando anche rocce di varia provenienza, motivo per cui in lontananza
Vermayin pareva quasi una mano grigiobianca
delicatamente poggiata a proteggere il Nemi jisah dalle intemperie. Originariamente situata nella parte
più bassa dell’altopiano, si era col tempo innalzata per livelli (o gradoni)
indipendenti e collegati da strette scale in pietra facilmente distruttibili in
caso di assalto. La maggioranza degli spostamenti avvenivano tuttavia mediante
piattaforme a energia eolica: poste a intervalli regolari e su ogni livello,
immense Vele dalla forma elicoidale seguivano il costante sfilare del vento
lungo il bordo della montagna; convogliata la forza del loro moto vorticoso,
esso serviva per azionare gli ingranaggi degli “ascensori”.
Per un attimo la Nihaar’ì
non potè che rimanere immobile ad ammirare quella
gloriosa opera, incerta sul ricordare mai prima di quel momento eguale bellezza
racchiusa in altrettanto coraggio architettonico.
Quando fu certa di non avere alcuna memoria di simili
prodezze, volse lo sguardo ai suoi due accompagnatori trovandoli intenti nella
medesima constatazione.
“Cosa ne pensate?” le chiese Hiras
voltandosi verso di lei.
La Nihaar’ì si strinse nelle
spalle.
“E’ tanto diverso dalla Torre del Tempo da stentare a
credere che si tratti del medesimo mondo” replicò incerta.
Lui replicò il suo gesto.
“Questa è la seconda volta che percorro questa strada.
Anche allora Vermayin mi
sembrò la città più inquietante e bella che mi fosse capitato di vedere” lei
alzò appena un angolo del labbro.
“Più bella di Chermak?” lo
prese in giro.
“La loro bellezza è diversa. Per uno come me nato e
vissuto nel deserto, il fascino di Vermayin rimane
il più raro e sconosciuto di tutti”.
Non riuscirono a giungere alle porte della città lo
stesso giorno. Decisero quindi di accamparsi per la notte scegliendo un luogo
abbastanza distante dalla strada per evitare qualunque tipo di incontro.
A quell’altitudine il caldo del deserto aveva
finalmente ceduto il posto a un freddo sottile e via via più intenso che le ore
notturne li costrinse ad accendere un fuoco e scaldare su di esso qualche pezzo
di carne dall’odore acre. Quando tutti ebbero mangiato, Matnery
prese nuovamente parola.
“Domani giungeremo alla volta di Vermayin” esordì con tono severo “Quando arriveremo, vi chiedo
di prestare la massima cautela a tutto ciò che direte o farete fino a quando
non ci troveremo dinanzi alla Somma Sacerdotessa”
La Nihaar’ì si ritrovò ad
aggrottare appena le sopracciglia.
“Pensavo ci saremmo trovati fra amici” replicò un po’
stupita.
L’altro annuì lentamente “E’ così infatti” convenne
“Ma vi ricordo che in questo momento voi non siete la Nihaar’ì
scortata dalla sua Corte e preceduta da stuoli di messaggeri. Siete la Nihaar’ì giunta da chissà dove e accompagnata da due -ma
proprio due di numero- sconosciuti. Vestita di stracci e sporca al pari di una
mendicante qualunque”
Improvvisamente consapevole dello sguardo dei due
Danzatori su di sé, la Veggente non potè che muoversi
a disagio. Per qualche ragione si era quasi dimenticata di quanto ora dovesse
sembrare misera ai loro occhi...
“Capirete dunque che il vostro anonimato è
fondamentale fino a quando non ci troveremo dinanzi a coloro che sapranno
accogliervi e trattarvi come si conviene”
“La Somma Sacerdotessa” terminò per lui la Nihaar’ì
“La Somma Sacerdotessa” annuì Matnery.
Lei si morse il labbro, lo sguardo che calava sul
piccolo fuocherello posto fra loro seguendone solo distrattamente l’ardente
crepitare.
“Com’è la Somma Sacerdotessa?” chiese poi rivolgendosi
a Hiras. Lui alzò lo sguardo su di lei poi si strinse
nelle spalle.
“Potente” fu il suo unico commento.
Più o meno di lei? Si ritrovò suo malgrado a
domandarsi la Nihaar’ì prima di darsi mentalmente
della sciocca. Da quando in qua la Divinità doveva preoccuparsi del suo
primo sacerdote?
“La Somma Sacerdotessa è una donna influente” si
inserì Matnery “Come prima rappresentante del Culto
della Nihaar’ì raccoglie sotto il proprio dominio
tutti coloro che la Torre del Tempo non può raggiungere”
“E sono molti?” obiettò lei
“Abbastanza”
Abbastanza da poter
essere un problema. Si ritrovò a formulare la
Nihaar’ì presagendo i difficili passaggi che
sarebbero occorsi per ritrovarsi finalmente dinanzi a quella figura.
Steso nella vasta pianura
deserta, Zaphil lasciò che il suo sguardo si perdesse
nell’immensa volta celeste. Erano giorni che avanzava verso Nord, le spalle a Hevnank’ar e il volto alle tempeste di sabbia che senza
sosta si addensavano da Ovest.
Aveva mangiato abbastanza polvere
e vento da averne in abbondanza per due intere vite e già le sue labbra
presentavano i caratteristici segni della disidratazione.
Ed era solo l’inizio.
Sospirò, resa all’immensità che
si mostrava dinnanzi alle sue iridi arrossate.
Secondo la sua guida, mancavan ancore due settimane di viaggio prima di poter
avvistare Anaphantum, la più caotica e brulicante di
tutte le città di Arryan.
Con le tempeste di sabbia e i
venti a loro seguito, fossi in voi non mi aspetterei di arrivare in orario.
Aveva azzardato un mercante dall’aria arcigna allungandogli una caraffa di olio
bianco, utile da spalmare sotto le ascelle e fra le gambe per evitare le
fastidiose piaghe da viaggio. Zaphil aveva
ringraziato, sperando vivamente nell’infondatezza di quella infausta ipotesi.
Del resto aveva assoldato una
delle migliori guide del posto proprio per quello, per viaggiare rapidamente e
in sicurezza, rimanere intrappolato in questa o quella tempesta non era
esattamente nei suoi piani.
Sfortunatamente -e ovviamente-,
non avevano avuto molta fortuna.
A terzo giorno di viaggio, il suo
Yenavo’r era stato morso da un ragno del deserto.
Nulla di grave, ma per impedire l’infettarsi della zampa era stato necessario
drenare il veleno e trasferire fino a completa guarigione tutto il carico dello
yenavo’r agli altri due, rallentandone così
sensibilmente l’andatura.
Nemmeno due giorni dopo era stato
il turno dello stesso Zaphil: la mano ferita durante
lo scontro con la GunarArvasti
si era chissà come infettata -forse il sudore?-
degenerando rapidamente da una leggera febbriciattola a una vera e propria
infezione. Dopo le prime resistente, il Naphil era
stato costretto a seguire i consigli della guida, smontare dallo yenavo’r e attendere nella propria branda che febbre e
deliri cessassero rendendolo nuovamente abile di cavalcare.
Il tutto, ovviamente, non meno di
tre giorni dopo.
Vedendolo tirarsi in piedi ancora
giallo e malconcio, la guida aveva allora giustamente obiettato che non fosse
molto saggio, soprattutto per un uomo della sua età, compiere quel genere di
sforzi, e che forse un paio di giorni ancora sarebbero serviti per completare
la sua guarigione.
Passando dal giallo al verde, Zaphil aveva allora obiettato che badare agli affari propri
era un dono che ogni uomo di grande saggezza avrebbe dovuto possedere onde
trascorrere una vita lunga e felice.
Da quel momento in poi le già
rare conversazioni che l’uomo era riuscito a instaurare con la Guida si erano
ridotte praticamente all’osso. Di notte avanzavano per miglia e miglia in
silenzio; di giorno, dopo aver trovato riparo sotto qualche masso o a ridosso
di una duna, dormivano esausti, l’ululato del vento a compensare le poche
chiacchiere che mancavano di scambiarsi prima di cadere nell’oblio.
In breve Zaphil
si trovò a riscoprire il piacere (o la malcelata dannazione) del silenzio,
un’interessante novità per le sue orecchie abituate al cicaleggio della Torre
del Tempo.
Quanto poteva essere silenzioso
il mondo se paragonato all’inarrestabile blaterale della società? Quanto
roboante l’universo attorno alla Nihaar’ì se
confrontato con l’assoluta pace al di fuori delle mura?
Percepire dopo tanto tempo la
solitudine dei propri pensieri gli diede altresì il tempo di riflettere sugli
stessi e con più calma e attenzione riordinare finalmente l’indistricabile
intrigo riguardante il rapimento della Nihaar’ì e la
sua successiva sparizione.
Qualcosa non funzionava.
Riuscì distintamente a decretare.
O meglio, qualcosa non si
incastrava come, apparentemente, avrebbe dovuto.
Particolari?
Si domandò.
No, qualcosa di più.
Eppure giungere anche solo al
primo capo della matassa pareva cosa assai più ardua del puro e semplice
decretarne l’esistenza.
Perché un capo effettivamente
c’era; e bello grosso anche. Ma dove?
Fu così che, forte della muta
riottosità conversativa del suo compagno di viaggio, in quei giorni Zaphil prese l’abitudine di ripercorrere lentamente e con
metodica minuzia i giorni della scomparsa di Asiya.
I preparativi per la cerimonia.
L’arrivo a Hevnank’ar. La
partenza dalla Torre del Tempo. L’ultima sentenza del Giudizio della Veggente.
Le chiacchiere delle Volpi.
E in mezzo a tutto ciò il ricordo
dello sguardo della Hayeli’vo a far capolino di
quando in quando. Un memento ricorrente e per qualche ragione destabilizzante
quasi quanto le parole dell’Anhayt pochi giorni dopo.
Da come l’avete guardata mentre Sery ve la portava via da sotto il naso, mi sarei aspettato
che l’avreste rincorsa senza esitazione.
Senza esitazione? Si era
accigliato allora, scoprendo solo inconsciamente quanto il rapimento (duplice)
di quella ragazza lo avesse lasciato indifferente e al contempo turbato.
Fu in quel suo ennesimo meditare
che percepì qualcosa stringergli il braccio. Scostò subito lo sguardo dalla
volta celeste ritrovandosi allora a fissare la sua guida poco distante e
apparentemente sdraiata come lui nel proprio giaciglio.
L’uomo non disse nulla, ma da
come piegò il capo, fu chiaro che egli stesse tentando di attirare la sua
attenzione.
Immediatamente all’erta, Zaphil tese le orecchie.
C’era qualcuno. Percepì subito. Un
respiro lontano.
Quanto lontano? Valutò con un
rapido presentimento d’azione. Abbastanza. Rispose il suo corpo mentre la mano
sinistra scivolava all’impugnatura del coltello al suo fianco.
Un nuovo stringersi della presa
sul suo braccio e la guida scivolò nell’ombra al suo fianco, un furtivo
rotolare fuori dalle coperte a indicare quanto ben spesi fossero stati i soldi
destinati ai suoi servigi.
Nuovamente vi fu il silenzio. Poi
un improvviso tramestio ovattato. E infine un gemito sordo.
Con un balzo il Naphil scattò allora fuori dal giaciglio per correre verso
la fonte del suono. Estrasse il pugnale rigirandoselo da una mano all’altra e
infine con la rapidità di un’ombra calò proprio in mezzo a quelli che scoprì
essere due uomini in colluttazione.
Ne ghermì uno, scalciò lontano
l’altro. E senza esitazione puntò la lama alla gola di quello che fra tutti
aveva l’odore meno conosciuto.
O meglio.
Esitò.
Non proprio conosciuto.
“Mi sembrava di aver detto di
essere un uomo di parola” la voce di Zaphil fu poco
meno che un sospiro da dietro le numerose stoffe calate sul volto.
“E avete dimostrato di esserlo”
fece l’altro con un filo di voce, la stretta dell’uomo a impedirgli
evidentemente di parlare correttamente
“Avevo anche detto che vi avrei
liberato a patto di condurmi all’interno del Tempio dei Tintori” continuò con
il medesimo tono il Naphil.
“E così avete fatto” rispose
nuovamente il secondo con uno sbuffo contratto.
“E dunque perché mi state ancora
seguendo?” sbottò Zaphil.
Se avesse potuto, di certo l’Anhayt avrebbe riso. Sfortunatamente la stretta del suo assalitore
era tale che gli riuscì solo di esibire una mezza tossetta
roca.
“Ho pensato che potesse servirvi
un compagno di viaggio”
“Ne ho già uno” ringhiò Zaphil senza dar segno di abbandonare la presa.
Il compagno di viaggio in
questione si risollevò allora dalle sabbie per avvicinarsi guardingo alla
coppia.
“Conoscete quest’uomo?” esordì
rivolgendosi al Naphil. Quest’ultimo strinse appena
le labbra come nell’atto di assaporare qualcosa di assai aspro o estremamente
amaro. E infine mollò la presa.
“Si, lo conosco” non abbandonò
comunque la stretta sul pugnale “Ammetto tuttavia di essere stupito quanto voi
di trovarlo qui” nuova smorfia affilata.
“La sorpresa è reciproca, caro Zaphil” sogghignò l’altro con un sorriso che non pareva
affatto un sorriso. Zaphil rispose allo stesso modo,
lasciando che finalmente l’Anhayt si rimettesse in
piedi spazzolandosi le vesti coperte di sabbia.
“Vedervi accompagnato a una Guida
quando già ne possedevate una assai più esperta mi ha davvero sbalordito” pausa
carica d’intesa “Sapete che state seguendo il percorso più lungo per Anaphantum?” prima che la guida incriminata avesse il tempo
di replicare, Zaphil pose una mano sul suo petto.
“Lasciateci” digrignò.
Quando furono finalmente soli, Zaphil si rivolse nuovamente all’Anhayt
ora immobile con una mano al fianco.
“Spiacente di non avervi avvisato
del mio arrivo. Lo sforzo di inseguirvi è stato tale da non permettermi altro
genere di approccio se non questo” fece l’uomo del deserto.
“Farsi sgozzare per sbaglio lo
chiamereste approccio?” si accigliò Zaphil.
L’altro fece spallucce.
“Ero sicuro che al mercato vi
avrebbero fregato circa la Guida super competente”
“Eravate sicuro che qualcuno
avrebbe tentato di fregare un Naphil?” Zaphil pareva seriamente perplesso.
“Sono vivo. Direi che come prova
di fregatura è più che sufficiente”
“Ditemi perché siete qui” tagliò
corto il più anziano “L’ultima volta che ci siamo visti avete detto che sareste
andato a cercare la vostra Sireli da qualche parte a
Nord. E invece vi ritrovo sulla mia pista intento a seguire me - che in tutta
franchezza non le assomiglio nemmeno lontanamente-” assottigliò le labbra “A
vedervi non sembrate molto confuso, ma a conti fatti dovreste esserlo”
Difficile capire le reazioni
dell’altro. Ciò che Zaphil percepì fu comunque una
risatina beffarda seguita da una scrollata di spalle.
“Quando ci siamo lasciati il mio
intento era davvero andare a Nord alla ricerca di Sery,
trovarla e insieme tornarcene a vivere da qualche parte nel deserto fingendo
che nulla sia accaduto” si schiarì la voce “Poi però ho pensato che in questo
momento Sery si trova in compagnia della vostra Hayeli’vo”
Zaphil
non potè evitarsi una smorfia “Asiya
non possiede i Doni della Nihaar’ì”
“Questo lo abbiamo capito molto bene”
replicò con una nota amara l’Anhayt “Ma chiunque
abbia un minimo di conoscenza del Culto della Nihaar’ì
sa che il posto della Hayeli’vo è al fianco della
Veggente. Se conosco Sery metà di quello che penso,
in questo momento starà portando Asiya al sicuro da
qualche parte in attesa che le acque si calmino”
“ E
questo cosa dovrebbe avere a che fare con il seguire me in questo momento?”
Nuova scrollata di spalle, nuova
smorfia divertita “Quando le cose si saranno calmate l’Hayeli’vo
avrà finalmente la possibilità di tornarsene da voi, dal Naphil
che più di tutti ha il compito di proteggerla e vegliare sulla sua vita.” Zaphil soprassedé con un sospiro contratto la nota polemica
nella voce dell’altro.
“...Ed è dunque stando con il Naphil in questione che avrò la maggiore possibilità di
incrociare la mia amata”
Semplice, no?
Per un attimo Zaphil
si limitò a fissare il proprio interlocutore con un misto di indecisione e
incredulità assieme.
No. Affatto.
Quante obiezioni avrebbero potuto
esserci al discorso dell’uomo? Certamente abbastanza per negargli qualunque
tipo di affiancamento in quella spedizione. Nessuna di queste però riusciva a
prevaricare il fatto che fino a quel momento -pur sotto ricatto - Virel era stato a suo modo un compagno leale. E che il suo
senso di giustizia e fedeltà andavano ben oltre quello della maggioranza delle
persone di Arryan.
“Hai la minima idea del perché io
stia andando ad Anaphantum?” chiese Zaphil senza mascherare una nota amara. All’altro non
sfuggì il passaggio dal “voi” al “tu”. Sorrise.
“C’ero anch’io al Tempio dei
Tintori...”
“Non ho detto questo” si stizzì
il Naphil
“...e ricordo bene di aver
sentito la GunarArvasti
dire che è per merito delle Volpi che io e Sery ci
siamo ritrovati a recitare il ruolo di pedine in questa assurda faccenda di
Palazzo. Sarà un piacere per me ringraziarle di persona per il servizio reso”