Nasce un Regno

di Esarcan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Capitale ***
Capitolo 2: *** Una fuga divertente ***
Capitolo 3: *** Prigioniero ***
Capitolo 4: *** Luce dimenticata ***
Capitolo 5: *** Primo Intermezzo: Città Sepolta ***
Capitolo 6: *** Ombre Ritrovate ***
Capitolo 7: *** Campi di Battaglia ***



Capitolo 1
*** La Capitale ***


La Capitale

 

La capitale. Si presentava come una distesa di opportunità, luci e palazzi. Il problema, che immediatamente si presentava a chiunque desiderasse una delle cose sopracitate, era l’immensa folla di persone che vi si stagliava in mezzo. Per questo la vita in essa era una continua scalata, la conformazione stessa della città ne prendeva atto: arroccata su di un’alta collina, la città si sviluppava a gradoni fino a giungere in riva al lago alle pendici della collina. Dai fetori del porto, passando per gli aromi di spezie del mercato, seguendo il profumo delle botteghe dei fornai, fino alle fragranze raffinate nelle cucine in cima alla collina, l’intera città trasudava di laboriosi scalatori sociali. Una fiumana di persone affollava perennemente le strade, gli ostelli e le locande della città. Non vi era atto che questi non fossero disposti a compiere pur di ottenere fama e ricchezza e tra questa gente era cresciuto il giovane Davi. 

    Figlio di un tranquillo pescatore, questo giovane ragazzo alto e spavaldo dalla chioma corvina era tutto quello in cui la madre ambiziosa poteva sperare, dato che grazie al suo bell’aspetto avrebbe potuto aggiudicarsi la figlia di un ricco mercante. E tutto sembrava andare secondo i piani in quella calda mattinata, mentre le mani di Davi, ben curate per l’occasione, si insinuavano sotto la leggera camicia da notte di Leana, figlia di un facoltoso commerciante. 

    “Non ora!” tentò di controbattere “Mio padre sarà a casa a momenti!”                 

    Ma, in tutta risposta, la presa di Dani si fece più stretta, gli occhi che brillavano di lussuria e avidità. Non sarebbero di certo bastati dei semplici avvertimenti a distoglierlo dalla sua preda: erano ormai mesi che corteggiava Leana di nascosto e, con un po’ di fortuna, gli sarebbe bastato quell’unico incontro a catturarla per sempre. Tenendo bene a mente la comoda vita che lo aspettava, tra il giovane corpo della sua bella e la fortuna del futuro suocero, trascinò Leana sul morbido letto a baldacchino nel centro della stanza. Mentre si chinava per strapparle un bacio dalle labbra carnose. Si udì uno sbattere fragoroso e, incorniciata dagli stipiti della porta, l’alta e ingombrante figura del nerboruto mercante fu colta da uno spasimo di sorpresa, che, quasi immediatamente, si trasformò in un fremito rabbioso mal contenuto. Con poche, pesanti falcate l’uomo fu addosso a Davi e lo prese per la collottola con violenza.

    “Con questo ratto, Leana? Con lui volevi perdere la tua virtù?! Puzza ancora di pesce, per l’Impero!” La ragazza rimase sbigottita, mezza svestita sul letto e non una parola lasciò le sue labbra. Prima ancora che Davi provasse a divincolarsi dalla presa del mercante, questi lo trascinò alla finestra e in un unico movimento fluido mandò il ragazzo incontro al proprio destino, per poi richiudere le ante farfugliando qualcosa sulla vista poco adatta ad una donna.

    Il cranio di Davi ebbe dopo pochi istanti un incontro ravvicinato con la dura strada, mancando di poco un carretto pieno di morbida paglia. Merita di essere menzionato che la sua caduta distrasse un venditore di frutta, permettendo ad un bambino affamato di sgraffignare un pasto decente. Le guardie sgomberarono rapidamente l’area circostante il cadavere, non prima che qualcuno lo usasse a mo’ di latrina in segno di scherno e ne trafugasse gli abiti sozzi di sangue. 

    All’arrivo di Will la strada era già stata chiusa, dovette aspettare fino alla rimozione del cadavere. Will non pianse Davi, per quanto fossero amici d’infanzia le loro differenze li avrebbero allontanati sempre di più, di questo lui era cosciente. Bevve comunque un bicchiere di vino acido in suo nome quella sera stessa al Cervo d’Oro. Quella bettola, che sorgeva traballante nel distretto portuale, era il loro luogo di ritrovo favorito, probabilmente perché era l’unico che potevano permettersi: Davi era... era stato solo il figlio di un pescatore, mentre Will non guadagnava un granché come stalliere. Quella sera la taverna era particolarmente silenziosa, non che fosse mai molto vivace, ma almeno le canzoni d’altre terre di qualche brillo marinaio riempivano sempre l’aria. Will individuò la fonte del silenzio in un piccolo gruppo di loschi individui dalle facce cupe. Gli uomini, probabilmente originari delle province dell’Est, dedusse Will vedendo la carnagione scura, stavano farfugliando qualcosa intorno ad un tavolino, scambiandosi occhiate cospiratorie. Ad un certo punto uno di loro scattò in piedi. “Questa ribellione è morta! Senza speranza!” Urlò. (urlò) “Cosa credete? Di poter fermare i nobili con qualche forcone appuntito? Ci ritroveremmo tutti schiavi prima ancora di cominciare!” Lasciò la locanda, mentre gli sguardi furiosi dei suoi compagni dardeggiavano per la sala, feriti dalla verità nelle parole dell’uomo. Non sarebbe stata la prima rivolta che l’Impero soffocava nel sangue, né il primo popolo schiavizzato.

    Dopo quell’alterco, la giovane cameriera riempì il bicchiere di peltro di Will con un altro po’ dell’aceto annacquata, che lì prendeva il nome di vino. La ragazza era solita soffermarsi al tavolo, per lanciare occhiate lascive a Davi, ma stavolta se ne andò rapida com’era venuta senza neanche una parola.

    A Will mancava il bell’aspetto dell’amico, l’unica cosa che non contribuiva a renderlo completamente insignificante erano gli occhi: non per via del colore, ma per la mancanza dell’avidità e dell’opportunismo che albergavano nello sguardo di quasi ogni abitante della città.

    Egli era giunto a comprendere la situazione degli uomini della capitale, desiderosi di tutto ciò che poteva offrire. Non fu sorpreso della fine che aveva incontrato Davi, era solo questione di tempo per come la vedeva lui. Will dal canto suo era felice: il suo lavoro non poteva di certo essere considerato il migliore immaginabile - spalare sterco equino non era più in voga come una volta -, ma bastava per guadagnarsi da vivere e gli permetteva di accudire i cavalli. 

    Will provava ammirazione per quegli animali splendidi ed eleganti, molto più di mezzi di trasporto o bestie da far correre per denaro. Fin da piccolo ne era affascinato, tutt’ora quando gli veniva affidato uno stallone di razza rimaneva meravigliato dalla loro grazia. Essendo un semplice stalliere, il suo lavoro cominciava col sorgere dell’alba e terminava al tramonto. Molti viaggiatori passavano per le stalle cittadine, anche qualche sporadico messaggero. In pochi ancora utilizzavano messaggeri a cavallo per scambiarsi missive, la gran parte della popolazione usava la Carta a Trascrizione Istantanea: un’invenzione magica che non necessitava di un mago per funzionare, perciò molto gettonata. L’associazione dei mercanti aveva interi libri mastri realizzati con quella carta, sui quali appariva istantaneamente ciò che veniva scritto su di un altro libro mastro collegato. Lo stesso principio veniva applicato per le missive più personali e ogni villaggio e città degni di questo nome avevano almeno un libro a trascrizione collegato ad uno nella capitale. In questo modo, pagando una tassa relativamente esigua, era possibile inviare un messaggio a chiunque. 

    È facile immaginare la mole enorme di libri che venivano gestiti nella capitale; per rendere il compito più semplice erano stati tutti radunati all’intero di un unico edificio, la Libreria Mutevole. 

    Mastro Fillin, il padrone delle stalle, raccontava di tempi in cui i messaggeri erano talmente tanti che i cavalli dovevano essere posizionati uno sopra l’altro per aver abbastanza spazio. Fortunatamente per Will questo non accadeva più: già la mole di lavoro attuale si dimostrava più che sufficiente e, conoscendo Mastro Fillin, un aumento delle mansioni non avrebbe corrisposto ad un aumento della paga.

    Il giorno seguente alla morte di Davi fu una mattina di lavoro apparentemente molto tranquilla, fino a che Will vide avvicinarsi alle stalle un visitatore inusuale. Un cappuccio di seta grigia ne metteva in ombra il volto, un vestito dello stesso colore e decorato da un motivo a rombi chiari e scuri alternati seguiva le sensuali linee della donna che si avvicinava all’ingresso della stalla, al quale Will attendeva i possibili clienti. Ella si avvicinò al giovane stalliere e senza una parola gli afferrò il polso; Will proruppe in un gemito di dolore, quando un forte calore s’irradiò dal suo avambraccio. Tentò di divincolarsi, ma la presa della donna era sproporzionatamente forte, rispetto alla sua taglia minuta. Stava per gridare aiuto quando il calore s’intensificò, gli si offuscò la vista e le gambe gli cedettero. La donna lasciò che si accasciasse a terra, Will sentiva le forze abbandonarlo, non aveva più il controllo del proprio corpo e lentamente le palpebre calarono sugli occhi ormai offuscati. 

    Quando li riaprì la prima cosa che vide fu il volto rubizzo di Mastro Fillin, visibilmente ansioso di poter cominciare una filippica sullo scarso valore morale e la mancanza di fibra di un dipendente che si addormenta sul lavoro e poter trattenere una lauta parte dello stipendio di Will. A poco servirono le poche parole sconnesse del ragazzo che tentava di spiegare l’accaduto. L’unica risposta che ottenne dal suo capo fu: “Il giorno in cui prenderò per vere le parole di un pelandrone, capace solo di dormire sul posto di lavoro, mi metterò a lucidar scarpe con la mia stessa lingua!”.

    Una volta finite le tre ore punitive nelle stalle per essersi addormentato, Will si diresse verso il tugurio in cui il suo stipendio lo costringeva ad abitare. Mentre s’inerpicava per le contorte strade del distretto portuale, scorse tra la folla una veste grigia. Subito la sua mente ritornò agli eventi di quella mattina ed in preda all’agitazione prese la direzione in cui aveva scorto la persona vestita in grigio. Le strade vicine al porto erano sempre stracolme di ogni sorta di persone: esotici visitatori da altre Province, mercanti appena sbarcati, pescatori e l’occasionale portantina che trasportava qualche ricco viaggiatore. Tutti loro erano i bersagli degli innumerevoli ladri e borseggiatori che infestavano la zona. Complice la quasi totale assenza della guardia cittadina, stufa di far accoltellare propri membri, la feccia locale prosperava indisturbata.

    Mentre Will evitava un gruppo di marinai ubriachi e un numero non indifferente di mendicati, vide un’indistinta macchia grigia svoltare in un vicolo laterale e aumentò il passo per starle dietro. Superò un gruppo di sporchi bambini, che teneva in ostaggio un giovane uomo ormai spoglio di ogni avere, e raggiunse l’imboccatura del vicolo. 

Non appena svoltò l’angolo, la vide: una donna vestita di seta grigia, la stessa della mattina, percorreva un vicolo cieco. Prima che Will potesse chiamarla, una voce roca dietro di lui disse: “Allora, ti piace il nostro vicolo?” Will si girò di soprassalto. Due uomini nerboruti stavano bloccando l’entrata della strada, entrambi ghignavano pregustando la loro nuova preda. Le loro intenzioni, chiaramente, tutt'altro che amichevoli. Will si girò di nuovo verso la donna. Era scomparsa: nel vicolo rimaneva solo un muro invalicabile. I briganti si limitarono a ridere come risposta al visibile terrore del giovane, una risata che somigliava ad un gorgoglio emesso da una belva durante la caccia. Il ragazzo cominciò ad indietreggiare, terrorizzato dalla mole dei suoi assalitori. Sapeva che gridare in cerca d’aiuto sarebbe stato inutile, nessuna guardia avrebbe fatto la ronda nel distretto portuale all’imbrunire. Non poté fare altro che indietreggiare finché la sua schiena non urtò il ruvido muro del vicolo. Uno dei malviventi tirò fuori un manganello di legno, l’altro un coltello arrugginito dall’aspetto inquietante. Ormai completamente sopraffatto dalla paura, tutto ciò che Will riuscì a fare fu coprirsi la testa con un braccio, il bandito che già alzava il manganello pronto a colpirlo. Nel momento in cui abbassò l’arma una luce accecante inondò il vicolo. Il manganello non lo colpì mai. Tutto ciò che Will sentì prima di svenire furono le urla di dolore di Grog e del suo compagno.

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Capitolo 2
*** Una fuga divertente ***


Capitolo 2



Una fuga divertente





“I giovani d’oggi non conosco le buone maniere.” Pensò mentre inceneriva due bruti che stavano palesemente tentando di derubare un povero ragazzo, svenuto senza neanche avere la decenza di ringraziarlo.



  Ora doveva solo occuparsi del muro, che si stagliava tra lui ed una tranquilla fuga. Non avrebbe gradito il dolore provocato dallo scontro con quel duro ammasso di mattoni e calce, per quella notte aveva già sopportato abbastanza, decise. Tirò, quindi, un pugno alla parete ricavandone un’apertura abbastanza ampia per poter passare senza piegarsi: gli doleva la schiena e non voleva sforzarla. Attraversò tranquillo il salotto, che si apriva oltre lo squarcio, augurò una buona cena alla famiglia proprietaria del muro, la quale era indecisa tra il contrariato ed il sorpreso. Si diresse alla porta dell’abitazione e chiese dove si trovassero le chiavi. Al che la famiglia scelse di sorprendersi: il padre aprì la bocca e si lasciò sfuggire un boccone mezzo masticato, la madre continuò a versare il vino nel suo bicchiere finché la brocca non fu vuota ed il tavolo zuppo, al bambino caddero le posate per terra, la bambina svenne e sfortunatamente cadde sulla forchetta del fratello che le rimase conficcata nella gamba. Il fuggitivo si stufò della scena, per la quale, in un altro momento, avrebbe riso di gusto. Sfondò la porta, con non poco dispiacere, era un bel modello. Appena uscì la fisica si accorse che la parete che aveva demolito era un muro portante, il palazzo collassò su se stesso e tranquillamente la polvere si depositò sulle macerie. Il fuggitivo temette di aver svegliato il vicinato, quindi si preparò un discorso in cui spiegava alla folla, che si stava velocemente radunando davanti a lui, come la perdita di un palazzo e dei suoi abitanti non fosse un fatto grave, se paragonato al fine a cui avrebbe apportato un contributo.

 Stava per cominciare a irretire le genti con le sue abilità oratorie quando il palazzo di fianco a quello appena crollato, crollò. Era sicuro non l’avesse fatto di propria iniziativa, talvolta gli edifici scelgono di demolirsi se i loro proprietari non li curano adeguatamente, sono molto sensibili e necessitano di continue attenzioni. In effetti, era stato un buco in un muro portante a farlo crollare, come a emulare il suo vicino, probabilmente creato dai suoi inseguitori. Stavolta, però, si disse fortunato, la fisica era stata messa sull’attenti e non si era lasciata sfuggire il palazzo pericolante, quindi c’erano buone probabilità che i suoi inseguitori si trovassero ora sotto una salutare dose di macerie. Egli modificò il proprio discorso per la folla aggiungendo che la perdita di due famiglie sorprese e due palazzi bruttarelli non era un fatto rilevante, in più senza le due case il quartiere aveva un bellissima visuale sullo stradone principale. Improvvisamente si rese conto che non aveva bisogno di cercare scusanti, la folla si era spostata verso il secondo cumulo di macerie, perché la polvere si era depositata in modo più trendy, perciò ricominciò la sua corsa.

 Dopo una decina di minuti trovò una locanda aperta, un ottimo posto per nascondersi, a patto che fosse affollata. Appena entrato si chiese perché la locanda era vuota, completamente vuota. Non senza clienti, era affollata, solo che non c’erano né mobilio né oste né liquori di alcun genere. Niente liquori. Non era una locanda, decisamente non lo era. La mancanza del tetto non lo aveva sorpreso, molte locande non lo avevano nelle città montane della provincia di Zedris, e forse quella moda era giunta fino alla Capitale, ma la mancanza di liquori non era credibile. Allora per quale motivo il locale era affollato? Quando questo pensiero lo sfiorò si accorse che i presenti erano coperti di polvere e calcinacci e assomigliavano molto ai suoi inseguitori, in più avevano tutti lo sguardo di chi si era preparato un discorso sulla scarsa importanza di un palazzo e una famiglia sorpresa e lo aveva recitato davanti ad una folla attirata da polvere trendy. Uno di loro gesticolò e le pareti della locanda scomparvero, scoprendo un carrello di liquori nell’angolo, palesemente risentito per essere stato nascosto per tutto quel tempo. Questo evento chiarì al fuggitivo la mancanza degli alcolici, ma non l’arrivo di una palla di fuoco diretta verso di lui. Rapido, la evitò inciampando verso destra e piombando su uno dei suoi avversari che brandiva una spada, quest'ultimo fu sbalzato contro il carrello dei liquori che iniziò a muoversi su quattro rotelle traballanti, il fuggitivo vi si aggrappò e, grazie alla pendenza della strada, accelerò. Si allontano rapidamente sul suo mezzo improvvisato, lasciandosi dietro urla e bagliori. L'aria gli scompigliava i capelli, cominciò a chiedersi come quel carrello potesse mantenere una tale velocità, quando una stalattite si conficcò per buona misura nella strada alla sua sinistra, tra schizzi di fango e altri liquami. Doveva già essere a più di cinquanta metri dai suoi avversari, che mago lo stava inseguendo per avere una portata del genere? Forse farsi nemico l'esercito non era una buona scelta dopo tutto. Ma non era il momento dei rimpianti, non quando un qualcosa di levitante, luminoso e rutilante, pericolosamente simile ad una palla di fuoco, in effetti era una palla di fuoco, seguita a ruota dal mago che l'aveva scagliata eguagliandone la velocità e visibilmente contrariato di non averlo colpito con la stalattite, ti seguono con parecchia dedizione. Il fuggitivo iniziò a mettere in atto le manovre diversive più puerili, che consistevano nel lanciare addosso al nemico i liquori di minor valore. Se fosse sopravvissuto almeno gli sarebbe rimasto qualcosa di dignitoso da bere, nascosto in uno scarico fognario con topi giganti cannibali ansiosi di un buon banchetto, certo, ma avrebbe comunque bevuto bene. Il liquore dreiano andò a finire dove meritava, nel bel mezzo della palla infuocata, che si esibì in un’esplosione di magnifiche fiamme color ciano, provocando urli compiaciuti nei pochi passanti, il ciano doveva essere di moda quell'anno, per poi esaurirsi completamente. Il fuggitivo se ne compiacque e scagliò una bottiglia di grappa strisciata fuori da chissà quale distilleria di nona classe che utilizzava l'acqua del suddetto scarico fognario infestato da ratti giganti carnivori, per allungare il prodotto già scadente. La bottiglia mancò il bersaglio e colpì un gatto nero di passaggio, quest'ultimo diventò bianco a causa del distillato. Un topo che aveva assistito a tutta la scena fu terrorizzato nel vedere il gatto che fino a quel momento era nascosto nell'ombra, un gufo notò il suo squittio di terrore e confusione, e ne fece la sua cena. Il fuggitivo aveva inconsapevolmente messo in moto una lunga e complessa catena di eventi che comprendeva l'estinzione di tre specie, la prematura scomparsa di una famosa cantante lirica e la morte violenta di una decina di inservienti. Una terza bottiglia si frantumò sulla testa di una vecchietta che barcollò fino ad un tombino aperto, cadendovi. La quarta e la quinta invece giunsero al bersaglio ma si schiantarono contro uno scudo invisibile, fortunatamente della quinta aveva bevuto già qualche sorso e non gli dispiacque più di tanto. Rinunciò a lanciarne una sesta, anche perché le bottiglie peggiori erano finite, fece diminuire l'attrito dell'aria intorno al carrello e aumentò quello intorno al mago nemico con una lastra di pietra, questo, sorpreso dalla velocità con cui l’ostacolo era comparso, non fece in tempo a difendersi o ad abbatterlo e vi entrò educatamente in collisione producendo un bassorilievo molto dettagliato del proprio volto, mentre il fuggitivo si dileguava di gran carriera.



Arrivato ai piedi della collina su cui era stato edificato il centro della città, prese le tre bottiglie rimaste e lasciò andare il carrello al suo destino, il quale lo portò in una vera taverna dove non sarebbe stato nascosto alla vista. Il fuggitivo si diresse verso il lago, il suo piano era semplice: arrivare alla costa, entrare in uno scarico fognario e risalirlo fino all'esterno delle mura della città, non potendo semplicemente saltellare davanti alle sentinelle e uscire o fuggire a nuoto, dato che le mura si estendevano anche su parte del lago creando una baia artificiale. Almeno aveva la compagnia dell'alcol di prima scelta. Dopo poco tempo era già giunto a destinazione e si ritrovò ad osservare la luce del tramonto che si riflettevano sull'acqua piatta. Gli riportò alla mente uno dei massacri che i suoi vecchi generali lo avevano costretto a compiere, anche in quei giorni l'acqua del lago era rossa, ma non del riverbero del sole calante, bensì del sangue di persone innocenti. Bei tempi! Magari nelle fogne avrebbe trovato ancora qualche cadavere, ormai scheletro, di quei giorni beati. Non appena trovò lo scarico che portava nella direzione giusta saltò il parapetto d'un balzo, divelse la grata e si gettò nel canale sozzo e putrescente. Non aveva ancora percorso che una piccola parte del percorso da compiere che un gruppo di ratti giganti gli fu addosso. Tutto come previsto. Ah! Che bella giornata.


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Capitolo 3
*** Prigioniero ***


Capitolo 3

Prigioniero




La prima cosa che Will pensò mentre si svegliava fu la strana comodità del suo materasso. Non appena aprì gli occhi si rese conto del perché: non era a casa sua. Guardandosi intorno smarrito notò le sbarre alle finestre. L’agitazione ed il terrore quasi lo sopraffecero, ma si costrinse a mantenere la calma.

 Tentò di ricostruire gli eventi della notte prima: ricordava le urla dei suoi rapinatori e un intenso bagliore, poi doveva essere svenuto. Ciò gli forniva ben pochi indizi, quindi riportò la propria attenzione alla camera. Era piccola e confortevole, le pareti erano di un color giallo tenue, gli unici pezzi di mobilio era un treppiedi che sorreggeva una tinozza colma d’acqua in un angolo e un comodino di fianco al letto. Notò con sgomento la totale assenza della porta.

 Fece per alzarsi e dare un’occhiata fuori dalla finestra, ma improvvisamente sentì le forze abbandonarlo e desistette. Il desiderio di sapere dove si trovava diventava sempre più pressante ogni minuto che passava bloccato nel letto, ormai la poca calma che era riuscito a imporsi si stava sgretolando. Tentò ancora di alzarsi: sollevò la testa dal cuscino e subito sopraggiunse un capogiro. Notò anche che una strana sensazione di calore pulsare dall’avambraccio destro.

 Cos’era il bagliore nel vicolo? Cosa gli aveva fatto la donna in grigio? E dove era stato portato mentre era incosciente? Passò almeno un’ora ad arrovellarsi su queste domande, senza risultati. Era già mattina inoltrata quando vide una parte della parete di fronte al letto cominciare a vibrare leggermente e affondare nel pavimento. Oltre ad essa un donna dalle lunghe vesti bianche lo fissava con un volto quasi inespressivo, che tradiva solo un leggero disgusto. Aveva in mano un vassoio di legno, di cui Will, sdraiato com’era, non vide il contenuto finché la donna non si avvicinò e lo posò sul comodino. In quel momento la luce che filtrava tra le sbarre fece scintillare lame sottili e altri strumenti il cui metodo di utilizzo era sconosciuto a Will, ma lo scopo spaventosamente chiaro. Avevano intenzione di torturarlo. Si trattenne dal contorcersi: sicuramente i suoi torturatori gli avrebbero tolto fino all’ultimo brandello di dignità, ma Will non vedeva perché rendergli il compito più facile.

“Ti sarai già accorto di non poterti alzare.” Disse la donna in tono compiaciuto, l’espressione sprezzante sul suo volto che s’intensificava.

“Non è magnifica la magia?” Will sperò che fosse una domanda retorica, perché né sapeva come rispondere, né ne aveva intenzione alcuna. Fortunatamente la donna continuò a parlare dicendo quasi a se stessa “È da un po’ che non mi capita di usare le mie abilità su un giovane sano, solitamente i criminali mi vengono portati in condizioni ben peggiori. Avremo più tempo per divertirci!” Un sorriso agghiacciante le si allargò sul volto.

“Ma ti prometto che soffrirai meno se risponderai alle mie domande.” Disse mentre sollevava un lungo coltello sottile e seghettato, e lo rimirava assorta.

“Prima domanda, rispondi sinceramente o dovrai fare a meno dei mignoli,come sei venuto in contatto con il mago fuorilegge?”

Will sgranò gli occhi, colto di sorpresa, parlava forse della donna in grigio?

“È inutile che ti fingi sorpreso, sappiamo che vi siete incontrati nel distretto portuale. Ora rispondi o invece dei mignoli potrei optare per la tua virilità.”

Prima ancora che Will potesse aprir bocca per negare ogni accusa il muro si abbassò ancora, stavolta la donna che stava al di là di esso era vestita di grigio. Un attimo dopo la torturatrice personale di Will era stata sbalzata contro la parete, schiacciata con tale forza da non poter nemmeno urlare. I vari strumenti di tortura destinati agli interrogatori si alzarono in volo dal vassoio e lentamente andarono a posizionarsi davanti alla loro precedente proprietaria, la cui espressione era di puro orrore. Ancora più lentamente i vari coltelli, chiodi e svariati oggetti contundenti si fecero strada nella carne della torturatrice, inchiodandola al muro. La forza che la teneva schiacciata non le permise nemmeno di contorcersi mentre la vita gocciolava via insieme al sangue che ora insozzava muro e pavimento. La donna in grigio, di cui ora Will poteva vedere il viso paffuto di una donna di mezz’età la cui espressione materna era tremendamente fuori luogo per un’omicida, entrò nella stanza, ben attenta ad evitare la crescente pozzanghera di sangue. 

“Oh! Vedo che usano ancora questi dannati letti, sono una vera seccatura!” Le sue parole furono seguite dal violento schiocco del legno del letto di Will, che ancora traumatizzato quasi non si accorse di aver riacquistato le sue energie.

“Ora dovresti poterti alzare, quindi fallo in fretta e seguimi!” Il tono della donna non ammetteva reclami o lamentele, quindi Will fece ciò che gli veniva detto. Scostando le coperte scoprì che una lunga tunica bianca che gli arrivava fino alle caviglie. Prima che scendesse dal letto la donna gli lancio un paio di scarpe dicendo: “Non ti ho salvato per farti prendere un raffreddore!” A Will sembrava che la sua voce diventasse sempre più acuta ad ogni frase.

Lanciando un’ultima occhiata alla donna inchiodata al muro Will decise di seguire la donna senza fare domande, in fondo avrebbe già potuto ucciderlo se avesse voluto.

Una volta attraversato il muro scorrevole si ritrovarono in un lungo corridoio formato da un pavimento bianco, affiancato da pareti bianche e sormontato da un soffitto bianco. Il riverbero delle luci, emanate da piccole sfere luminose che levitavano a intervalli regolari sul soffitto, quasi accecò Will, ma la sua salvatrice non sembrò curarsene e disinvoltamente scelse una direzione, trascinandolo per il braccio.

Camminarono per qualche minuto senza incontrare né una porta né un qualsiasi segno particolare nel corridoio, le cui pareti continuavano omogenee. Di tanto in tanto, lo stretto corridoio lasciava spazio a stanze quadrate, prive di qualsiasi mobilio o punto di riferimento. In una di queste Will vide due guardie riverse sul pavimento: entrambe col collo piegato in un’innaturale angolatura, indossavano armature ricoperte di strani simboli, ma la donna non gli lasciò il tempo di osservarle più attentamente, trascinandolo a velocità sostenuta per il labirinto bianco. Ancora troppo scosso dall’accaduto Will non era in grado di formulare nessuna delle molteplici domande che gli inondavano i pensieri in quel momento, d’altro canto nemmeno la donna in grigio sembrava propensa ad intavolare una discussione. Poi, mentre si preparava ad ingaggiare una battaglia interiore per proferir parola, la donna posò una mano su d’una terza parete, che doveva essere quella che segnava la fine del corridoio, e senza alcuno sforzo apparente la mandò in frantumi. In quel momento un semplice concetto superò il muro del terrore e si fece strada nella mente di Will: “Sei una maga…” sussurrò senza fiato. 

“Ma certo sciocco bambino! Conosci forse pescivendole che possono far levitare coltelli?”

La sua salvatrice era una maga, significava che faceva anche parte della nobiltà.

Nuove domande si aggiunsero alle precedenti nella mente già terribilmente confusa di Will, che quasi non si accorse del radicale cambiamento di scenario. Appena oltre il muro ridotto in briciole infatti si apriva una stretta stradina piastrellata, costeggiata da edifici imponenti e pesantemente decorati, quasi resi volgari dalla foresta di statue abbarbicate su tetti, pareti, cornicione e balconcini, che nella luce morente del tramonto assumevano un’atmosfera gotica. Tramonto? Era stato prigioniero almeno un giorno intero! 

Prima che potesse avere un tracollo nervoso la maga gli lanciò addosso un mantello con cappuccio identico a quello che indossava lei: “Appena tirerà su il cappuccio il tuo volto diventerà imperscrutabile alle gente comune, indossalo rapidamente e continua a seguirmi.”

Così dicendo si voltò e cominciò a inerpicarsi nel dedalo di viuzze che formavano uno dei quartieri nobiliari della città. Stranamente deserto.

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Capitolo 4
*** Luce dimenticata ***


Capitolo 4

Luce dimenticata

Dopo un salutare e rinvigorente spuntino a base di ratto abbrustolito, e tre bottiglie di ottimo liquore, decise che era ora di continuare come stabilito: doveva solo districarsi nel labirinto delle fogne cittadine per arrivare oltre le mura. Semplice, se non fosse stato che qualcuno doveva aver ben pensato di ristrutturare le sue fognature preferite. Trasformate com’erano in un grottesco ed incomprensibile stile contemporaneo, non aveva più alcun punto d’orientamento. Se l’acqua non avesse avuto il buon gusto di scorrere verso il basso e defluire nel lago, sicuramente avrebbe perso l’orientamento. Ora doveva semplicemente seguire la scia di ossa segnaletiche che aveva lasciato l’ultima volta… avevano tolto anche quelle! Che razza di architetto si era aggiudicato l’appalto per il rinnovo delle fogne?! Almeno avrebbe potuto sostituirle con dei cartelli, nessuno sapeva quanto le fogne erano utilizzate dai turisti? Dove sarebbero andati, una volta truffati da oste e cocchieri disonesti, se non vi erano le indicazione neanche per le centrali attrazioni fognarie? Con questi quesiti in testa il fuggitivo, grugnendo e farfugliando minacce alla gilda dei costruttori, si diresse in un canale che sembrava accogliente e non esageratamente coperto di liquami. Una raffinata muffa gialla ricopriva i mattoni rosso sbiadito del canale prescelto, dal cui soffitto arcuato pendevano delicate ragnatele. A giudicare dalla quantità di queste, i ragni dovevano godersi una vita agiata nelle fogne imperiali.

Dopo qualche ora di tranquillo passeggio passate intrattenendo dissertazioni filosofiche sulla natura della magia con un topo dallo sguardo particolarmente vispo, inciampando su cadaveri e conseguentemente cremandoli, seppe di essersi smarrito. Le soluzioni erano due: imboccare la prima uscita e sperare di non capitare nelle latrine di una caserma, sia per il loro stato di pulizia che per il piccolo disaccordo tra lui e i loro abituali utilizzatori, oppure continuare a girovagare senza meta nella rete fognaria più grande al mondo e sperare di trovare qualche indicazione. Con rassegnazione scelse la seconda opzione, per quanto fosse deplorevole la sua codardia davvero non voleva affrontare delle latrine militari.

Non ci mise molto ad arrivare in quella che doveva essere la parte più antica delle fogne. Grazie alla sua grande conoscenza di muffe, licheni e architettura fognaria, poteva tranquillamente datare ogni parte dei canali di scolo della Capitale. Non per niente era l’autore dello sfortunatamente poco conosciuto libro “Storie di liquami: una guida pratica alle fognature”. Alzando lo sguardo vide il cielo stellato, attraverso una sottile feritoia per lo scolo delle piogge: era già smarrito nelle fogne da più di un giorno. Improvvisamente scorse un bagliore in fondo ad un canale secondario. Si nascose immediatamente dietro l’angolo, sbirciando di tanto in tanto. Poi si costrinse ad analizzare noiosamente la situazione: la luce sicuramente non proveniva da una torcia, era troppo costante e non sembrava essere influenzata dalla leggera brezza putrida di origine sconosciuta che attraversava le fogne. Non poteva nemmeno essere una luce magica perché era troppo tenue, perciò doveva avere una qualche altra origine. Scelse di avvicinarsi cautamente, ammantandosi di oscurità e occultando il rumore dei propri passi. Quando arrivò a una decina di metri di distanza si accorse delle sfumature bluastre della luce, e che quest’ultima proveniva da una crepa nel muro. Senza pensarci due volte entrò in risonanza con il flusso e allargò la crepa abbastanza da infilarcisi. Con un mugugno si accorse di essersi sgualcito la sua tunica da prigioniero, di nuovo. Doveva trovare al più presto una sarta.

Uno stretto sentiero, le cui iscrizioni sulle pareti e la pietra levigata ne tradivano l’origine artificiale, si allungava di fronte al fuggitivo. Sembrava che si inoltrasse in profondità sotto la città. Verso la fine poteva vedere il bagliore diventare più inteso. La luce bluastra, rifrangendosi sulle lisce pareti bianco pallido, creava un’atmosfera in qualche modo rilassante.

Decise di continuare a seguire la luce, tutto era meglio delle latrine militari.

Dopo quasi un’ora di speleologia applicata, il passaggio si allargò e davanti al fuggitivo si stagliò uno scenario mozzafiato. La fonte della luce, ora intensa quanto un piccolo sole, era una sfera di cristallo azzurro delle dimensioni di svariati cavalli a castello. Volteggiava tranquilla su d’un ampio specchio d’acqua perfettamente circolare al cui centro svettava un’isolotto solitario. Tutto ciò era racchiuso da un’immensa caverna, anch’essa sferica, le cui pareti perfettamente levigate erano ricoperte da intricati disegni. Il loro significato era fin troppo chiaro al fuggitivo: una quantità simile di rune costituiva una scoperta sensazionale. Tutto ciò sarebbe stato materiale perfetto per il suo prossimo libro sulle fogne! Già pregustava i festeggiamenti, pagati ovviamente dal suo editore, per il successo che avrebbe avuto stavolta! In fondo chi non ama libri su fogne che contengono misteriosi ed antichi manufatti magici?

Fortunatamente, al contrario dei poco pratici architetti contemporanei, i costruttori del luogo avevano ben pensato di posizionare dei gradini che, partendo dal pianerottolo su cui terminava lo stretto passaggio, scendevano fino alle sponde del lago sotterraneo. Tutto in quella grotta sembrava essere stato realizzato da un unico, gargantuesco blocco di pietra bianca lucidata fino a riflettere la luce del cristallo. Quando arrivò ai piedi delle scale, quasi scivolando ben due volte, notò con suo stupore che i gradini s’immergevano in acqua e continuavano fino a perdersi nell’oscurità. L’intero lago era contornato da una sottile passerella di roccia levigata, sulla quale erano presenti rune estremamente complesse, come del resto ogni parte della struttura. Al fuggitivo sarebbero serviti giorni per comprenderne l’esatta funzione, non era mai stato particolarmente versato in magia runica. Sapeva però che una quantità simile di iscrizione avrebbe avuto bisogno di molta energia per venire attivata. Un’energia probabilmente contenuta nel cristallo che in questo momento levitava tranquillo a qualche decina di metri sulla sua testa, rifletté.

Decise di circumnavigare il lago per trovare una via d’uscita o un modo per raggiungere l’isolotto che sembrava ospitare una piccola struttura, indistinguibile da quella distanza. Dopo aver percorso metà della passerella, trovandosi diametralmente opposto all’ingresso, vide un sottilissimo ponte trasparente che sembrava arrivare fino all’isola. Procedendo con cautela, le acque innaturalmente statiche del laghetto gli davano i brividi, percorse una buona parte del ponte. Improvvisamente con la coda dell’occhio scorse un movimento sotto la superficie dell’acqua. S’immobilizzò immediatamente, le gambe quasi gli cedettero, minacciandolo di spedirlo nell’oscurità della pozza. Per precauzione decise di congelare la superficie del lago fin dove la sua Area d’Influenza glielo permetteva. Era già entrato in sincronia con Flusso quando si accorse che la sua energia era completamente prosciugata. Non avendo avuto tempo di creare una riserva, ora si trovava completamente scoperto. Il panico lo attanagliò, vide un altro movimento e stavolta scatto di corsa verso l’isola. Il violento suono di un corno da guerra spezzò l’assoluto silenzio della sfera. Il fuggitivo non si voltò a cercarne l’origine, ma accelerò il passo sperando di trovare salvezza nella piccola costruzione i cui dettagli erano finalmente distinguibili. L’isola, ora chiaramente visibile, aveva una forma concava, quasi una ciotola, e al suo centro si ergeva un cilindro dalla sommità anch’essa concava, come se fosse stato progettato per scendervi all’interno, o l’isola per salire ed inglobarlo. Il rumore del corno continuava a ripetersi ad intervalli regolari ed ora l’acqua del lago, dimentica della calma precedente, si agitava ed increspava quasi fosse un mare in burrasca. Un’onda quasi scalzò il fuggitivo dal ponte, ma egli se ne aggrappò strenuamente ai lati, supino. Finalmente, bagnato fradicio, mise un primo piede sull’isola, in contemporanea il cilindro di pietra si aprì, quasi a mimare uno strumento di tortura ormai démodé. Ascoltando il suo istinto, lo stesso che lo aveva convinto a pubblicare il libro sulle fogne, vi si gettò dentro. Immediatamente questo si richiuse, un attimo dopo un colpo estremamente forte vi si abbatté, ma non sembrò sortire alcun effetto. Il fuggitivo poteva percepire il cilindro abbassarsi e dirigersi nelle profondità dell’isola. “Spero di non sbucare in una dannata latrina militare.” Pensò ancora una volta, poi si abbandonò ad un’improvvisa stanchezza e accasciandosi contro le lisce pareti istoriate del cilindro si addormentò.

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Capitolo 5
*** Primo Intermezzo: Città Sepolta ***


Primo Intermezzo

Città Sepolta


L’agitazione era palpabile sui marmorei spalti del Lireum, non vi era un Savio che non fosse scosso dalla notizia. Per quanto fosse prevedibile, essere messi a confronto con l’inevitabilità dell’imminente caduta del proprio regno non è cosa facile nemmeno per il più saggio degli uomini. Tuttavia Tival aveva accettato tale destino nel momento in cui l’Imperatore aveva lodato la bellezza di Lirya. Quelle parole erano state infatti accompagnate da un bagliore di avidità tanto intensa da rimanere impressa nella memoria del Savio fino alla sua morte. Era ben noto che l’Imperatore prendesse ciò che voleva, ma nessuno aveva ascoltato gli avvertimenti di Tival. Ogni Savio si crogiolava nell’idea che la semplice superiorità nel campo della magia avrebbe tenuto l’Impero a bada. Credevano davvero che qualche mago meglio addestrato intimorito l’esercito più potente del mondo conosciuto. Lo stesso esercito che aveva ormai assoggettato quello stesso mondo e che ora aveva posato il suo sguardo su Lirya per realizzare i desideri del suo comandante. Il messaggero appena giunto dai confini però aveva finalmente svegliato il Lireum, scagliandolo fuori dalla propria vanagloria: le legioni imperiali erano alle porte del regno ed un ambasciatore era già in viaggio verso Lirya. 

“Almeno ha la decenza di tentare la strada della diplomazia...” Borbottò un vecchio Savio nello spalto sotto a quello di Tival. “Sono solo formalità,” Gli rispose il vicino “sa perfettamente che non cederemo la città facilmente.” L’intera sala era attraversata da un sommesso chiacchiericcio che, Tival non dubitava, era formato da scambi identici a quello cui aveva appena assistito. Il Sommo Savio si alzò, calò il silenzio. “Come ben sapete” Cominciò con voce calma e profonda “la forza del nemico che ci si pone davanti è innegabilmente superiore alla nostra: per quanto la nostra magia sia più avanzata la sola vastità dell’esercito imperiale ci pone in una posizione di svantaggio. Ma l’intero popolo di Lirya è sulle nostre spalle, lo stesso popolo che ha posto fiducia in noi, che ci ha scelto per governarli in tempi di pace e difenderli in tempo di guerra. Abbiamo passato gli ultimi secoli ad accrescere la nostra conoscenza, ad affinare le nostre arti, a costruire una cultura che l’Impero stesso, nella sua grandezza, ci invidia. Possiamo davvero cedere tutto questo senza combattere?” La maggior parte dei Savi annuirono alle sue parole, poi Savio Limek prese la parola “Un attacco diretto alle forze forze imperiali sarebbe un atto suicida! Gran parte del popolo che abbiamo giurato di difendere morirebbe senza ottenere nulla e la rappresaglia dell’Impero ci metterebbe in ginocchio senz’ombra di dubbio. Io consiglio di accettare l’offerta che l’ambasciatore porta con se.”

“Vuoi provare a mettere ai voti la tua proposta, Limek? Dubito che troverai un grande assenso, ma ti è sempre piaciuto essere impopolare se non ricordo male...” Disse con scherno il Banditore “Davvero non capisco come tu possa ancora far parte di questa gloriosa istituzione.” 

Un boato di voci risuonò per tutta l’assemblea, la calma iniziale già perduta. Il deterrente della superiorità magica aveva sempre funzionato così bene che nessun aveva tentato di invadere Lirya in secoli, nemmeno i Savi più anziani avevano alcuna esperienza di combattimento. Dopo molti interventi, che rimarcarono tediosamente i primi due, il Lireum si divise in due distinte fazioni, chi dalla parte del Sommo Savio, chi sosteneva Limek. Con sgomento del Banditore il secondo gruppo aveva un seguito appena superiore al primo. Appena prima che si giungesse al voto Tival, stanco di vedere un’istituzione per cui aveva dato gran parte della sua vita ridursi al decidere tra un glorificato suicidio o la resa incondizionata, si alzò e con voce forte annunciò: “In così poco tempo il Lireum delibera sul fato del proprio popolo? Devo forse essere io a ricordarvi, esimi colleghi, che la fretta mal si accompagna a decisioni di tale importanza?” 

“La situazione richiede una decisione rapida, Tival!” Lo interruppe malevolo Limek “O devo ricordati che un’esercito è alle porte del regno?”

“No, caro collega, la mia memoria è ancora ottima al contrario della tua. Dimmi, rimembri forse cosa fecero gli abitanti di Arat quando le tribù del deserto li costrinsero a lasciare la loro oasi?”

“Ti sembra il momento di testare la mia conoscenza della storia? Sei forse impazzito?”

“Non vedo momento migliore, quando se non in momenti di crisi la storia ci dovrebbe essere consigliera? Comunque, dato che tu non ricordi evidentemente, gli Aratiani lasciarono l’oasi senza combattere, ma prima di andarsene ne avvelenarono le acque.”

Il silenzio era sceso tra i Savi, tutti ponderavano le parole di Tival.

“Suppongo che tu non stia proponendo di avvelenare i pozzi della città, dico bene?” Chiese il Sommo Savio.

“Nulla di così semplice, no. In pochi giorni gli imperiali avrebbero la situazione sotto controllo.”

Il Sommo Savio annuì, pensieroso. Fece un cenno alla Terza Colonna che annunciò: “La seduta del Lireum è ora Velata.” Anche se non senza proteste i Savi lasciarono la sala, tutti tranne Tival che era Terza Colonna, Liandra la Seconda Collonna, Forin la Prima Colonna, il Banditore ed il Sommo Savio, che ricoprivano le più alte cariche di Lirya.

Quando anche l’ultimo Savio lasciò la stanza, ancora borbottando vuote minacce, Tival cominciò a esporre il proprio piano: “ Ognuno di voi è a conoscenza delle scoperte che Nolar ha compiuto quando faceva parte dell’Istituto.” Disse queste parole con attenzione, facendo passare lo sguardo sul volto di ogni degli altri savi. L’emancipato viso di Forin si contorse in un’espressione di disgusto, che metteva ancora più in risalto le guance scavate e le occhiaie. Come capo delle spie liryane, Forin non aveva avuto una nottata di sonno decente in anni, e la situazione in cui si trovavano sicuramente non giovava alla sua debole costituzione.

“Sai bene che il Lireum le ha decretate proibite, ancora non sappiamo che ripercussione potrebbe avere usarle. Ancora non abbiamo rimediato ai danni che Nolar ci ha causato, non puoi credere che ti daremo il permesso di usarle sulla nostra stessa patria.” Tival non era sorpreso dell’opposizione di Forin, entrambe le sue sorelle erano state vittime dei folli esperimenti di Nolar.

“Non possiamo permetterci di escludere nulla in questo momento, Forin. Anche io ho sofferto a causa sua, ma abbiamo conservato i suoi appunti per un motivo.” Il volto di una donna apparse nella mente di Tival, ma lui la scacciò rapidamente, non era il momento per la nostalgia.

“Anche la luce più brillante genera ombre, e dalle ombre è definita.” La fragile voce di Liandra s’intromise nella conversazione “È giunto il momento di definire la nostra luce.” L’anziana donna dalla chioma argentata parlava spesso tramite aforismi. Tival non ricordava di averla mai sentita parlare normalmente, ma sapeva che i suoi consigli erano quasi sempre corretti, a patto di riuscire a interpretarli.

Il Sommo Savio e il Banditore si trovarono ad annuire al commento di Liandra: “Fai ciò che devi Tival, noi cercheremo di guadagnare tempo. Non ho bisogno di dirti che la faccenda deve essere condotta nella totale segretezza.” Detto questo Tival fu congedato, ma prima che raggiungesse la porta la voce di Forin lo fermò: “Guardati da Limek, ha avuto ospiti importanti ieri a cena.” Tival annuì, comprendendo l’avvertimento e si diresse a porre le basi per la vendetta di Lirya.

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Capitolo 6
*** Ombre Ritrovate ***


Capitolo 5

Ombre Ritrovate
 

Era ormai scesa la notte quando Will riuscì finalmente a portare ordine nella sua mente e poté riflettere lucidamente sull’accaduto. Immediatamente ricordò ciò di cui era stato accusato dalla torturatrice: perché era stato accusato di aver incontrato un mago? E cos’era successo nel vicolo? “Perché mi hai salvato?” Chiese fallendo nel nascondere la crescente disperazione, per quanto fosse grato alla sua salvatrice, ancora non gli erano chiare le sue motivazioni. La donna si girò di scatto, senza però rallentare il passo. “Dubito fortemente che tu sia nella posizione di fare domande. Ora trattieni la tua lingua fino a quando non giungeremo a destinazione: parlare diminuisce l’efficacia dell’occultamento.”

Occultamento, quindi era così che veniva chiamato l’incantesimo del mantello. Se fosse riuscito a fuggire da quella donna gli sarebbe tornato utile, anche come merce di scambio. Ma voleva davvero fuggire da lei? Per ora sembrava che volesse salvarlo, ma in una città dove l’altruismo era quasi completamente inesistente per un orfano come Will era difficile potersi fidare ciecamente di una persona. In ogni caso dubitava di poterle sfuggire: non aveva modo di contrapporsi alla sua magia. Decise di lasciar evolvere la situazione senza lamentele.

Dopo un’altra ora di cammino Will cominciò a sentire i primi morsi della fame: era almeno un giorno che non mangiava nulla, a meno che non l’avessero nutrito nel sonno in qualche modo, ma ne dubitava. Per qualche ragione le strade erano quasi completamente deserte, se non per lo sporadico soldato facilmente sviato dall’occultamento. Aveva forse a che fare con il mago fuorilegge a cui aveva accennato la torturatrice? Con un respiro profondo tentò di evitare di porsi altre domande a cui non aveva risposta, gli sarebbero state solo d’intralcio nel mantenere la calma. Decise di distrarsi osservando il paesaggio. Non era mai stato in uno dei quartieri nobile della cerchia interna e gli immensi edifici di marmo, pietra e legno dorato erano quanto di più maestoso su cui avesse mai posato lo sguardo. Ogni palazzo sembrava avere una sua componente unica: lì un motivo a spirale composto da lucenti gemme rossa, là grottesche statue di una strana pietra blu dalle venature argentee, la facciata di un palazzo era completamente ricoperta da una cascata d’acqua che sgorgava da un’urna composta da fasce bianche e oro alternate, altre meraviglie si susseguivano ovunque Will volgesse lo sguardo. Però per quanto uniche sembrava regnasse un’armonia nell’architettura dei palazzi, quasi fossero stati costruiti per coesistere gli uni con gli altri, piuttosto che rivaleggiare in bellezza. Lo sguardo di Will si era perso nel contemplare gli arzigogoli metallici di un cancello, quando la sua salvatrice si fermò ad un portone di marmo grigio di un’edificio, che non sembra godere di alcuna particolarità se non per la completa assenza di finestre. “Siamo arrivati finalmente! Prendere solo strade secondarie ci ha fatto perdere tempo, ma era necessario.” Annunciò sollevata mentre tirava fuori un piccolo libretto, rilegato in pelle grigia, con strani disegni sulla copertina. Sembrò aprirlo ad una pagina a caso, poi bussò tre volte e lesse quasi in un sussurro, avvicinandosi alla porta: “Cinque Stelle di Montagna.” Stelle di montagna? Si chiese Will, era stato salvato da una venditrice di fiori porta a porta? Con sua sorpresa, e un sonoro raschiare di pietra su pietra, il portone cominciò ad aprirsi. Subito, la donna ci s’infilò, seguita a ruota da Will. Non appena furono dentro si richiuse di scatto, questa volta in completo silenzio. 

L’ambiente in cui ora si trovavano era un semplice ingresso quadrato dalle pareti giallo crema. La parete direttamente contrapposta al portone era caratterizzata da una porta massiccia. Realizzata nel legno più scuro che Will avesse mai visto, era contornata da una maestosa cornice di marmo candido finemente decorato con motivi circolari, fino a sembrare un pizzo. Erano poi presenti due rampe di scale ad entrambi i lati della stanza, che conducevano ai piani più alti. Gli unici pezzi di mobilio nell’ingresso erano un braciere nel centro della stanza e due sedie ai lati del portone. Quella alla loro destra era occupata da un uomo, che doveva essere solo cinque o sei anni più vecchio dello stesso Will. L’uomo scosse la testa e, lanciando occhiata di rimprovero da sotto un cappuccio, identico a quello che indossava Will, disse: “Il Sinodo è scontento Silya, e ne ha tutte le ragioni. Sai bene che non ci è concesso andare in giro a salvare bambini dall’esercito! L’Oratore vuole vederti immediatamente.” Sventolando una mano quasi a congedarlo Silya rispose noncurante: “Certo Conn, come vuoi.” Poi sbuffò spazientita. Conn si sedette farfugliando indispettito e fissando Will come se fosse un bambino bisognoso di una strigliata. Ancora senza degnare di uno sguardo Will, Silya prese la scala a destra, probabilmente aspettandosi di essere seguita senza spiegazioni. Dopo un paio di rampe di scale arrivarono in un ampio corridoio, dove un pavimento in marmo bianco con venature di molteplici colori rifletteva la luce proiettava da bulbi luminosi che levitavano all’interno di piccole nicchie di una parete bianca, ricche di stucco dorato quanto una catapecchia di ragnatele. Will rimase a bocca aperta: non aveva mai visto un ambiente tanto sfarzoso. Quando alzò lo sguardo il suo stupore s’intensificò ulteriormente: l’intero soffitto era affrescato con tale maestria che faticava a distinguere la scena dalla realtà. Cavalli selvaggi che correvano in un’ampia prateria verso una cascata che si gettava in un lago cristallino contornato da vegetazione lussureggiante. Quando riportò la sua attenzione al corridoio si accorse che la parete sinistra scompariva ad intervalli regolari, lasciando grossi buchi che affacciavano su d’un ampio giardino. Incuriosito fece per avvicinarsi, ma prima che potesse indagare più a fondo una voce lo richiamò alla realtà. “Stia tranquillo, signorino, il muro è semplicemente trasparente dall’interno. Tutte le qualità di una finestra, ma senza rinunciare alla propria riservatezza.” Immediatamente Will si girò ad identificarne la fonte: un uomo allampanato sulla sessantina troneggiava con la sua considerevole altezza al centro del corridoio, le ampie vesti nere ne rendevano la figura ancora più slanciata, facendolo apparire impacciato, seppure fosse arrivato senza alcun rumore che Will potesse percepire. Silya si voltò e indicando lo sconosciuto disse: “Ti presento Leontiy Thulani, il tuo tutore e valletto personale.” L’uomo si esibì in un perfetto inchino. Will si presentò a sua volta dicendo il suo nome con tutta la sicurezza che riuscì a racimolare, non molta. “Ti mostrerà la tua camera e t’illustrerà il comportamento che dovrai adottare all’interno della Casa.” Spiegò Silya, appena prima di avviarsi nella direzione opposta “Ora vi lascio, ho un Oratore da calmare.” Mentre se ne andava, lasciando un sopraffatto Will nelle mani del pallido servitore, non poté fare a meno di lamentarsi per la complicatezza della vita. “Buona fortuna, Ombra Silya.” le augurò Leontiy, sul cui volto impassibile si leggeva solo deferenza. “Ombra?” domandò Willet. 

“È il titolo di cui si può fregiare solo chi fa parte delle Ombre Arcane, signorino.” Gli spiegò Leontyi come se fosse lapalissiano, ma sempre con deferenza impeccabile. Signorino? Cosa aveva detto Silya quando gli aveva presentato Leontyi? Tutore e valletto... doveva essere uno scherzo, si rese conto. Perché un umile stalliere avrebbe dovuto avere un servitore? Lui era uno stalliere, per l’Impero! Cosa diamine stava accadendo? Era forse morto nel vicolo, ucciso dai due ladri? Non aveva idea di cosa accadesse dopo la morte, ma per il momento non stava andando malissimo. Prima che la sua confusione trapelasse troppo si costrinse a simulare calma, ancora una volta. Non voleva mostrare troppe debolezze mentre ancora non aveva compreso la situazione. Rivolse il suo sguardo a Leontyi.

“Ora, prima di guidarla ai suoi alloggi, le ho preparato un bagno. Non tutti i membri dell’Ombra amano gli... aromi pungenti. Se è così gentile da seguirmi, signorino, da questa parte.” Così dicendo Will venne guidato attraverso un dedalo di corridoi, ognuno più raffinato ed opulento dell’altro: ogni stucco dorato e affresco erano un annuncio di ricchezza più grande di quanto Will avrebbe potuto sperare di racimolare durante la sua intera vita. Varie alcove contenenti statue, porcellane antiche e oggetti di cui Will poteva solo indovinare origine ed utilizzo, si alternavano a dipinti, arazzi ed affreschi, che Will avrebbe fissato affascinato se non avesse dovuto tenere il passo rapido del valletto. 

Finalmente giunsero in quelli che dovevano essere i bagni. Una coltre di vapore riempiva l’ampia stanza, che ospitava quattro vasche esagonali colme d’acqua, dispose agli angoli di una più ampia vasca quadrata. Piccole colonne di marmo rosso venato di bianco salivano qua e là dal pavimento, attorcigliandosi come serpenti. Alle loro basi erano poste delle panche di legno su cui vari saponi, spazzole e olii da bagno erano in attesa. Inutile dire che Will non aveva mai posseduto nulla di tutto ciò: persino il sapone era un lusso troppo grande per le tasche di uno stalliere. Nell’aria aleggiava una leggera fragranza floreale, molto più raffinata di quella indossata dalle prostitute che inondavano i bassifondi durante la notte i cerca di clienti. Will suppose che provenisse dai vari fiori che galleggiavano nelle vasche. “Ora la lascio solo, signorino. Mi troverà appena fuori dalla porta quando avrà finito.” Mentre usciva aggiunse “Su una delle panche dovrebbe trovare dei nuovi vestiti. La prego di indossarli: si addicono di più alla Casa.” Detto questo chiuse sonoramente la porta, Will era certo che non gli avrebbe permesso di uscire se non fosse stato più lucido del mosaico che piastrellava i bagni. Fortunatamente Dani, che durante una sua tresca amorosa con la ricca figlia di un mercante era venuto a conoscere certi lussi, gli aveva raccontato come usare alcuni degli oggetti che Will trovò vicino alle vasche. Non appena ebbe scelto il sapone dalla fragranza più delicata, non voleva profumare quanto una delle donne di piacere che affollavano i quartieri poveri, e una spazzola si immerse in una delle vasche piccole. In quel momento si accorse di quanto fosse stanco per la lunga camminata attraverso la città, ma più di ogni altra cosa, divenne conscio della tremenda fame che lo attanagliava. Quindi, insaponandosi e scrostando tutta la polvere e la sporcizia di almeno due anni, non ricordava l’ultima volta in cui aveva avuto la possibilità di un bagno completo, tentò di completare l’opera nel minor tempo possibile. Trovò facilmente un asciugamano con cui avvolgersi, e rapidamente si asciugò. Quando vide gli abiti bianchi piegati con cura su una panca lontano dalle vasche, si bloccò un istante. Sembrava che un servitore non fosse l’unico lusso a cui avrebbe dovuto abituarsi: per quanto il taglio fosse semplice, il tessuto e le cuciture erano decisamente di qualità troppo alta per essere i suoi abiti. Ma lui cos’era per questa organizzazione? Un altra domanda si andò ad aggiungere al cumulo già gargantuesco. Era sicuro di non aver mai sentito nominare le Ombre Arcane, sicuramente non erano una comune banda di strada, ma nemmeno una fazione nobile che Will sapesse. Normalmente le voci di nuove fazioni, nuovi gruppi opposti all’Imperatore o di nuove bande di ladri si facevano strada in fretta nei bassifondi, in particolare nelle stalle: i nuovi gruppi avevano sempre bisogno di cavalli e Mastro Fillin era abile nelle contrattazioni di quel genere. Rimandò questi ragionamenti a dopo aver messo qualcosa sotto i denti.

 Non appena uscì dalla porta il suo stomaco lo tradì, prorompendo in un rumoroso borbottio. Prontamente Leontiy lo rassicurò “Non si preoccupi, ho già provveduto a farle trovare qualcosa da mangiare nella sua stanza. Purtroppo non è molto raffinato, ma per i primi mesi dovremo adeguarci: fino a che il Sinodo non deciderà altrimenti potrà accedere solo a poche stanze della casa. Fortunatamente molte Ombre consumano i loro pasti ad orari inusuali, quindi la cuoca non è stata particolarmente scocciata. Mai consumare cibo preparato da una cuoca scocciata, signorino, accetti il mio consiglio.” Will non poté fare a meno di lanciargli un’occhiata divertita, ma Leontiy mantenne la sua espressione deferente, contornata da capelli grigi che ne contribuivano all’imperturbabilità. Will non perse neanche tempo a chiedere perché era stato confinato.

La stanza di Will, con sua sorpresa, non rispecchiava la sfarzosità del resto della Casa. Anzi a confronto poteva essere definito spartano: contro un muro della stanza rettangolare c’era un semplice letto di legno, il cui materasso sarebbe stato una novità per Will, abituato a dormire in un cumulo di paglia. L’unico altro mobilio era composto da una sedia e una scrivania sul lato opposto, oltre ad un piccolo armadio. Sulla scrivania lo attendeva, come promesso, un vassoio di legno laccato su cui era poggiata la sua cena: ben quattro fette di quello che, a prima vista, era un arrosto avvolto in foglie, sconosciute a Will, e ricoperto da una densa salsa dorata con un contorno di verdure che ancora luccicavano del burro in cui erano state cotte. Il tutto era accompagnato da una semplice brocca d’acqua nella quale, però, galleggiavano piccoli semi e petali. Il profumo di quello che per Will rappresentava un banchetto impregnava la stanza. Si lanciò immediatamente sul cibo: per qualche ragione era attanagliato da una fame incontrollabile, anche se questo non era il suo primo giorno a digiuno. Non appena si mise a mangiare Leontiy lo fissò con un’espressione nuova sul volto, sbalordimento, rassegnazione e un leggero disgusto attraversarono talmente rapidamente la sua faccia che Will pensò di esserselo immaginato. “Immagino che dovrò aggiungere anche lezioni di galateo basilare al suo programma di studi, signorino.” disse con il contegno che aveva mostrato fino a qualche momento prima. 

“Scusa Leontiy, dove sono cresciuto non si sono mai occupati di darmi un’istruzione adeguata, spesso non si sono nemmeno occupati di nutrirmi.” Lo rimbeccò Will, risentito, mentre afferrava una seconda fetta d’arrosto, ignorando le posate vicino al piatto. 

“Come dice lei, signorino. Ora la lascio, domattina cominceranno le lezioni, quindi le consiglio di dormire.” Prima ancora che Will potesse fermarlo per porgli tutte le domande che gli affollavano la mente, Leontiy si era già chiuso la porta alle spalle. Dormire? Come poteva? Non sapeva dove si trovava e la città era immensa, se anche fosse riuscito a fuggire, ammesso ma non concesso, gli ci sarebbero voluti giorni a piedi per tornare a casa. Ma non poteva tornarci, chiunque l’avesse rapito sapeva sicuramente dove abitava, e queste cosiddette Ombre non sembravano disposte a lasciarlo andare facilmente. Lo avrebbero sicuramente catturato di nuovo e stavolta la donna grigia non lo avrebbe salvato. Paura e ansia attanagliavano Will. “Calmati, idiota.” si disse. La paura lo avrebbe solo ucciso e l’ansia non gli permetteva di pensare con lucidità. Leontiy aveva ragione, aveva bisogno di dormire. Finì l’arrosto e le verdure, non lasciò neanche una traccia di salsa sul piatto. Dopo si mise una camicia da notte che aveva trovato sotto il cuscino e si coricò sul letto, era decisamente il materasso più morbido che avesse mai provato.

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Capitolo 7
*** Campi di Battaglia ***


Capitolo 6

Campi di Battaglia


Gentili volute di fumo si alzavano dalla pipa del generale Yohn Nisa , per salire ad attorcigliarsi in una leggera danza, nell’ampia stanza della fortezza. Nirissa poteva vedere come le braci nel fornello di vetro si rinfocolassero ogni volta che il vecchio inspirava. Temeva che prima o poi le scintille gli avrebbero incendiato i folti baffi grigi, trasandati com’erano avrebbero preso fuoco come paglia secca d’estate. Il fatto che il generale stesse fumando mentre li accoglieva nel forte aveva irritato Nirissa, contravveniva alle norme dell’etichetta che le avevano insegnato a rispettare fin da bambina. Ma era quel genere di comportamento che aveva relegato il vecchio soldato in una piccola fortezza di una regione minore: un posto dove trascorrere i suoi ultimi giorni in un modo che lui avrebbe sicuramente disprezzato, immerso nella noia della pace, per poi morire nel proprio letto senza onore. Il passaggio del terzo esercito imperiale era l’unico avvenimento degno di nota dell’ultimo anno, ma non sembrava che il generale lo considerasse più dell’arrivo di una nuova domestica. Nonostante questo Nirissa si sforzò, con discreto successo, di mantenere un’espressione stoica.

“Posso ospitare duecento soldati al massimo all’interno del forte, gli altri dovranno dormire nelle tende.” Incominciò Nisa con tono burbero, poggiando un braccio sul tavolo di quercia che lo divideva da Nirissa. “Non m’importa se diluvierà tutta la dannata notte, ho patito ben di peggio ai miei tempi.”

“Suvvia generale, sono sicuro che potremo trovare un accordo migliore. In fondo i nostri soldati hanno passato gli ultimi dieci giorni in marcia, sicuramente i tuoi uomini posso passare una sola notte all’aperto.” La voce mielosa di Silar fece venire la pelle d’oca a Nirissa. Non poteva sopportare quell’uomo: ogni sua occhiata nascondeva una macchinazione, ogni sua parola era una manipolazione. Nirissa sapeva che a Silar non importava nulla dei soldati, ma quello era un gioco di potere e lui vi eccelleva. “Oppure potremmo far sloggiare gli abitanti del villaggio vicino, in fondo è loro dovere dare riparo ai soldati che li proteggono. Mi hanno riferito che c’è una grossa fattoria poco lontano dal forte occupata solo da una donna e due bambini, mi sembra uno spreco non utilizzare tanto spazio.” Lanciò una serpentina occhiata d’intesa al generale, che aveva avuto un tremito quasi impercettibile quando aveva sentito nominare la fattoria.

Corrugando le sopracciglia, Nisa si alzò dal tavolo “Vi lascierò la caserma, ma non una stanza di più!” La voce ormai ne tradiva la crescente rabbia. “Qualcuno li porti alle loro stanze.” Disse gesticolando ai due servitori ai lati del camino, mentre usciva dalla stanza lasciando Nirissa sola con Silar.

“Che sfortuna, sembra che ci abbiano dato nuovamente camere separate...” Nirissa si voltò a fissare con disgusto quel viscido, misero esempio di un essere vivente. “Avrei preferito trascorrere un’altra notte nella mia gelida tenda piuttosto che condividere qualcosa più del tetto con te.” Con questa risposta Nirissa si avviò alla porta, desiderando più di ogni altra cosa di sottrarsi allora sguardo di Silar. Subito uno dei servitori cominciò silenziosamente a farle strada nei tortuosi e stretti corridoi di pietra della fortezza, il cui stato non era fra i migliori. Infiltrazioni d’umidità avevano permesso a muffe di ogni genere di proliferare, alcune pareti erano talmente ricoperte che sembrava fossero adornate d’arazzi. Il clima estremamente piovoso della regione non doveva rendere sicuramente facile il lavoro del mastro carpentiere, ma uno stato simile era inaccettabile. Nirissa avrebbe inserito ogni dettaglio all’interno del suo rapporto alla capitale, d’altro canto faceva parte dei suoi compiti condurre ispezioni delle fortezze. La stanza che le era stata assegnata non era in condizioni migliori: uno spesso strato di polvere ricopriva i velluti consumati dalle tarme di un letto a baldacchino che reggeva a stento il peso del materasso. Tristemente abbandonata in un angolo, una brocca sbeccata coronava un lavabo di latta poggiato su d’un tripode. Un piccolo caminetto era tutto ciò che gettava luce sullo squallido alloggio, ma il suo calore era ben poco per contrastare la penetrante umidità che permeava la fortezza. I suoi bagagli, gettati nella stanza senza riguardo, guatavano con palpabile intenzioni vendicative. In particolare un grosso baule di pelle nera, contenente i suoi migliori capi d’abbigliamento, emanava un’aura di bieca malvagità che le invase le ossa più in profondità dell’onnipresente umidità. Congedato il servo e scossasi di dosso il silenzioso odio del suo guardaroba, provò a togliere almeno uno degli strati di polvere che ricoprivano le rosse coperte del letto. Fu a metà di questa tediosa e fallimentare operazione che una terribile verità venne a palesarsi: quello che avrebbe potuto sembrare uno spesso lenzuolo cremisi scolorito aveva una natura ben più terribile, essendo in realtà interamente composto da uno strato di muffa. L’intricata foresta di microscopici funghi ricopriva la totalità della superficie del letto, allungandosi versò il pavimento con volute degne dei migliori velluti dell’Impero. Qualsiasi cosa avesse spinto una muffa ad imitare delle coperte era al di là della mente di Nirissa, che ora stava giocherellando con l’idea di lasciare che una sana dose di fuoco divorasse l’intera catapecchia che si fregiava del nome di fortezza. Non sarebbe stata la prima volta che incidenti simili capitavano, era sicura che nella Capitale nessuno avrebbe fatto caso all’omissione delle cause dell’incendio occupati com’erano dai ricevimenti ed i festini. In ogni caso il problema rimaneva, se anche si fosse disfatta della muffa senza distruggere il fragile baldacchino nel processo, il suo corpo si sarebbe comunque rifiutato di dormire in quel letto. La sua fantasia era già all’opera nel teorizzare cosa potesse nascondersi sotto il materasso, la risposta avrebbe sicuramente reso felice qualunque micologo, che si sarebbe dilettato a catalogare tutte quelle nuove specie di muffe e funghi. Se il generale si fosse trovato ancora in carica della fortezza quando Nirissa avesse consegnato il suo rapporto, avrebbe significato che non vi era luogo peggiore dove mandarlo come punizione. Ma si sarebbe assicurata che Nisa pagasse per quella notte. Fece qualche altro misero tentativi di rendere il letto utilizzabile, ma si arrese quando notò che la muffa brulicava di piccoli esseri viventi, con i quali non voleva avere nulla a che fare. Contemplò più seriamente l’utilizzo del fuoco, poi si rivolse a soluzioni meno convenzionali. Da uno dei bauli guatanti estrasse un vecchio tomo proveniente dai suoi giorni di studio, che non avrebbe mai pensato di rimpiangere fino ad ora. Cercò la pagina che le interessava e con un gessetto si mise a tracciare un simbolo sul pavimento marcescente, seguendo fedelmente le istruzioni. Quando ebbe finito, ripose il libro e aggiunse i pochi dettagli che dipendevano da tempo e luogo. Indossò la più pesante delle sue camicie da notte e si posizionò al centro del simbolo circolare. Infuse energia sufficiente perché il Flusso venisse mantenutò fino al mattino ed immediatamente cominciò a sollevarsi con leggiadria dal pavimento, si fermò quando raggiunse un metro d’altezza e si coricò nell’aria. Non le piaceva usare la levitazione per dormire, favoriva gli incubi ed era molto meno comoda di quanto sembrasse, la sensazione era simile a quella di un materasso troppo morbido che non dava il giusto sostegno. Ma anche un letto di chiodi sarebbe stato preferibile all’ecosistema del baldacchino.

In ogni caso, non dovette sopportare la situazione a lungo: poche ore dopo che era finalmente riuscita ad addormentarsi delle urla strazianti squarciarono la notte piovosa, seguite da un’assordante boato che la svegliò di soprassalto. Cadde distesa sul pavimento, solo la spessa camicia da notte ad attutire il tonfo che le si propagò per tutto il corpo. Qualcosa doveva aver interferito con la runa di levitazione. Appena riuscì a mettere a fuoco non ebbe problemi ad individuare l’interferenza: una buona porzione del soffitto e del muro contrapposto all’entrata erano completamente assenti. L’acqua che si riversava nella stanza dal buco nel tetto aveva cancellato una parte del simbolo, dal quale Nirissa aveva velocemente assorbito tutta l’energia rimanente, prima che si disperdesse con conseguenze imprevedibili, non che le sarebbe dispiaciuto distruggere ciò che rimaneva della stanza. Oltre la parte del muro che si ergeva decapitato davanti a lei, poteva vedere uno spettacolo che le fece produrre un’involontaria risata: la due torri principali della fortezza avvolte dalle fiamme, come fiaccole ardenti che si stagliavano con il cielo tempestoso.

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