Waltz into Darkness

di Niglia
(/viewuser.php?uid=29469)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue. ***
Capitolo 2: *** Chapter 1. Pemberley Manor ***
Capitolo 3: *** Chapter 2. The Aerie ***
Capitolo 4: *** Chapter 3. Pursue the Truth ***
Capitolo 5: *** Chapter 4. The Strange Journal of Dr. Murray ***
Capitolo 6: *** Chapter 5. Curiosity Killed the Cat ***
Capitolo 7: *** Chapter 6. Someone's Walked Over My Grave ***
Capitolo 8: *** Chapter 7. Stranger Than You Dreamt It ***
Capitolo 9: *** Chapter 8. The Man with No Face ***
Capitolo 10: *** Chapter 9. Persephone Escapes ***
Capitolo 11: *** Chapter 10. For the Dead Travel Fast ***
Capitolo 12: *** Chapter 11. An Unfortunate and Deserted Creature ***



Capitolo 1
*** Prologue. ***


A Sylphs,
che mi ha fatto scoprire il lato più "oscuro" della mia scrittura,
e senza la quale questa storia non avrebbe visto la luce.
Questo, fondamentalmente, è per te. :)





banner









Prologue

separatore











Yet from those flames
No light, but rather darkness visible.
[John Milton, Il Paradiso Perduto, x. 62-63]



Pemberley Manor, 25 ottobre 1889.

Nora si sforzava di trattenere i singhiozzi, ma le lacrime colavano impietose e pesanti come pece sulle sue guance. La treccia disfatta giaceva scompostamente sulla sua spalla, la camicia da notte era sgualcita e strappata nel punto in cui lui l’aveva afferrata, e i piedi scalzi sanguinavano ove si era tagliata con i frammenti di uno specchio, nella frenesia della fuga.
Tutto era avvenuto in modo troppo rapido perché lei potesse rendersene conto, e ogni cosa pareva essere avvolta dalla stessa irrazionalità di un sogno. Aveva appena terminato di prepararsi per la notte: aveva congedato la sua cameriera, Anne, e aveva già soffiato sulla candela di fianco al letto, spegnendola, quando all’improvviso aveva udito un tremendo trambusto provenire dal piano di sotto. Vetri che andavano in frantumi, sedie rovesciate, vasi lanciati contro le pareti, e poi grida, urla, che di umano non avevano più niente: sembravano i versi di un maiale al macello.
Aveva gridato a sua volta nel riconoscere le voci di suo padre e dei suoi fratelli.
Il primo istinto fu quello di andare da loro per sincerarsi che stessero bene, ma in un flebile lampo di lucidità si era resa conto che una mossa del genere non sarebbe stata saggia: perché offrirsi di sua spontanea volontà come agnello sacrificale? Allora, terrorizzata, si era precipitata a chiudere a chiave la porta della sua stanza.
Buon Dio, che cosa sta succedendo? Singhiozzava, aggrappata alla maniglia, timorosa di spostarsi, sperando che il suo peso contro la porta bastasse a tener lontano chiunque fosse irrotto in casa. Intimamente iniziava ad intuire che cosa fosse accaduto – poteva ancora sentire le loro grida rimbombare nelle orecchie – ma la sua mente, il suo cuore, non voleva accettarlo. C’era un che di terribile nell’idea che lei fosse al sicuro nella sua stanza mentre i restanti membri della sua famiglia venivano assassinati al pianterreno: se si fosse fermata a rifletterci un istante di troppo avrebbe strillato fino a perdere la voce, e non poteva permetterselo. Per quanto possibile, voleva mettersi in salvo – voleva perlomeno provarci. Era orrendo anche solo pensare una cosa del genere, eppure l’istinto di sopravvivenza andava ben oltre quello di correre come un’ingenua a morire insieme al padre.
Poi, così com’erano iniziate, le grida cessarono; quel silenzio la spaventò se possibile ancora di più, giacché qualcosa le diceva che adesso sarebbero venuti a cercare lei. Chiunque, nel raggio di miglia, conosceva i conti di Pemberley, e tutti giù al villaggio erano a conoscenza della giovane lady che gestiva un circolo di beneficienza in memoria della madre: era impossibile, dunque, che coloro che erano entrati nel maniero se ne andassero senza cercarla. Nora chiuse gli occhi e pregò, tra le lacrime, come se rivolgersi a una qualche entità invisibile potesse bastare, in quel momento.
Infine giunse il terribile rumore attutito di passi che percorrevano il corridoio. Era una camminata lenta, pesante, come se il proprietario faticasse a reggersi in piedi e ogni passo fosse una fatica, e pur tuttavia continuava ad avanzare, inesorabile, verso di lei. I passi parvero volatilizzarsi una volta giunti di fronte alla porta della sua stanza, e per un attimo lei trattenne il respiro, sperando… Ma poi, tutt’ad un tratto, il chiavistello della serratura aveva scattato dall’esterno, strappandole un grido. Indietreggiò rapidamente verso l’interno della stanza mentre un’ombra si affacciava sull’uscio – l’ombra di un uomo, senza alcun dubbio, che camminava leggermente incurvato come se si trovasse a disagio nel suo stesso corpo, che ciondolava il capo come un animale e che era macchiato di sangue da cima a fondo, come un carnefice. Attraverso una cortina scarmigliata di capelli corvini, Nora aveva intravisto gli occhi rossi, iniettati di sangue, febbrili del mostro, circondati da ombre scure, incastonati in un volto che pareva giungere dal più profondo e maledetto degli inferni.
Un volto che lei conosceva bene, poiché era stato l’incubo della sua infanzia.
Non ebbe neanche più la forza gridare; e non l’aveva fatto neppure quando lui era scattato in avanti per ghermirla, graffiandola con unghie lunghe e sporche e lacerando una spallina della sua camicia da notte, pur di trattenerla. A quel punto lei aveva raccolto gli ultimi residui di coraggio rimastole e gli aveva lanciato addosso il primo oggetto su cui si era posato il suo sguardo, ossia il pesante scrigno nel quale conservava i suoi gioielli; e, senza degnarlo di un secondo sguardo, approfittò della sua distrazione per spingerlo via e sgusciare fuori dalla camera, piangendo di sollievo quando si trovò, libera, a scappare nel corridoio.
Eppure il buio era pressoché totale – il maledetto doveva essersi preso la briga di spegnere anche i pochi lumi che la servitù teneva accesi durante la notte – sicché non si accorse dell’improvviso ostacolo che parve materializzarsi in mezzo al corridoio, in mezzo ai suoi piedi. Cadde miseramente attorcigliandosi con la propria camicia da notte – non aveva mai odiato prima quel pregiato indumento di cotone, ma adesso se lo sarebbe strappato di dosso con le unghie se fosse servito a rendere più agili i suoi passi – e per un momento rimase sdraiata a terra, scombussolata, mentre attendeva di riprendere a ragionare con maggior lucidità.
Si accorse solo dopo alcuni secondi di essere caduta addosso ad un corpo. Strillò disgustata, e in quel momento riuscì ad intravedere qualcosa nell’oscurità, nella penombra, qualcosa che le permise di riconoscere le fattezze del cadavere nel quale era inciampata. Una cuffia scomposta da cameriera, capelli rossicci, una gola che si apriva da parte a parte in una rossa voragine e un paio di occhi sbarrati che conservavano ancora l’espressione scioccata di chi ha guardato in volto il proprio assassino. Un groppo le si formò in gola.
«Dio mio, Anne», gemette, tremando. Avrebbe voluto mostrarle il rispetto che meritava chiudendole almeno gli occhi, ma l’orrore l’ebbe vinta su quel desiderio. Si rimise in piedi a fatica, sentendosi la camicia sporca di sangue; barcollò e lanciò un’occhiata alle sue spalle, ma il corridoio, immerso nel buio, era fortunatamente vuoto. Non sapeva per quanto ancora lo sarebbe rimasto, così riprese a correre, perché correre era mille volte meglio che rimanere ferma ad aspettare che il mostro dell’incubo la catturasse.
La cosa più logica sarebbe stata scendere al pianoterra ed uscire di casa, sperando di incontrare qualcuno nelle proprietà intorno al maniero; ma le scale si trovavano oltre la sua camera da letto, e per raggiungerle sarebbe dovuta tornare indietro, rischiando di gettarsi esattamente tra le braccia dell’assassino. L’altra soluzione era trovare un luogo in cui nascondersi fin quando non fosse giunto qualcuno ad aiutarla – il resto dei domestici non poteva dormire ancora dopo tutto quel baccano, vero? – e a scacciare quel folle.
Si infilò quindi dietro la prima porta che trovò socchiusa, facendo attenzione a rimetterla esattamente come l’aveva trovata per evitare di fornire indizi sul suo nascondiglio, e solo pochi attimi dopo dal corridoio provenne il rumore cadenzato dei passi pesanti del mostro che aveva ripreso a seguirla.
Mordendosi con furia l’interno della guancia per non scoppiare in lacrime, Nora si fece il segno della croce e, nel buio, cercò un cantuccio dove nascondersi. Scioccamente ne scelse uno dietro una pesante tenda di broccato, ma era il meglio che era riuscita a trovare – aveva pensato anche ad andare sotto il letto, ma se si fosse chinato e l’avesse vista… Il cuore le batteva così forte in petto da farle temere che lui potesse trovarla solo rimanendo in silenzio.
Rimase in attesa, e pregò.
«No-o-ra?» Il sangue le si gelò nelle vene quando udì per la prima volta la sua voce cantilenante, diversa da come la ricordava eppure inequivocabile, provenire da un punto imprecisato del corridoio. «Nora, dove sei? Dove sei, dolce sorella? Ti nascondi? Vuoi giocare con il tuo fratellino? Bene, allora… Sto venendo a prenderti…»
Istintivamente la ragazza trattenne il respiro, cercando di non fare nessun movimento, sperando che la tenda fosse abbastanza lunga e spessa da nasconderla agli occhi del folle che la stava inseguendo e che presumibilmente aveva già ucciso il resto della sua famiglia.
«Pensi di poterti nascondere per sempre? Qui, in casa mia? O speri di poter scappare? Ormai nessuno verrà a salvarti…»
Non si soffermò sul senso delle sue parole: non udiva niente, fuorché il rumore della sua voce raschiante; si limitò a chiudere gli occhi e rafforzare le sue preghiere, silenziosamente, recitando tutti i salmi e i canti e le invocazioni che le erano stati insegnati. Cercare di non farsi scappare il più piccolo singulto era un’impresa terribilmente difficile.
Nel frattempo, lui aveva ripreso a parlare.
«Ma guarda… Non è forse la camera da letto del conte, questa? E quello… non è il ritratto della cara, compianta contessa, là, sopra il camino? Mi chiedo che cosa penserebbe adesso, se vedesse in che condizioni versa la sua casa… il conte e i suoi figli l’hanno già raggiunta, sai? Ma dubito che finiranno nello stesso luogo dove è lei…» Malgrado lo scherno grondante dalle sue parole, nel nominare la defunta Lady Rochester qualcosa nella voce del ragazzo s’incrinò, ed egli rimase in silenzio così a lungo da far credere per un attimo a Nora che potesse essersene andato.
Ma no, sentiva il suo respiro roco, ansimante – lì, farsi sempre più vicino a lei…
Una mano l’afferrò all’improvviso con forza inusitata, strappandole un grido mentre veniva trascinata fuori dal suo nascondiglio, alla completa mercé del mostro.
«Trovata», soffiò, a poche spanne dal suo volto atterrito.
Nora sollevò le mani e cercò di colpirlo alla cieca, gli occhi serrati con forza – l’ultima cosa che voleva vedere era il suo orrido viso – le mani arcuate come artigli, ma ottenne l’unico effetto di farlo infuriare di più; inoltre, non era riuscita a sfiorarlo neppure con la punta di un dito. Per l’amor di Dio, come poteva essere così forte?
«Sono ancora indeciso sul tuo destino, mia cara, dunque ti consiglio di non rendermi facile la scelta», ringhiò, scrollandola e strattonandole il braccio.
«No, no… Ti supplico, ti scongiuro… pietà…»
Gli occhi del giovane si strinsero ancora di più. «Pietà? Con quale coraggio implori pietà, adorata sorella? Intendi forse quella stessa pietà che né tu, né i tuoi fratelli, né tantomeno tuo padre mi ha mostrato? Parli della pietà che il povero Edgar ha dimostrato, rinchiudendo il proprio figlio nel sottotetto e negando al mondo la sua esistenza, per poi venderlo come un animale, no!, come cavia da laboratorio, pur di non averlo più intorno? Intendi quella pietà, mia cara?» La sua voce era sibilante e roca, il tono basso e pericoloso, e Nora era pietrificata.
«Oh Dio, Dio mio, Adam, ti prego…»
Una mano le afferrò la treccia con furia, strattonandola ancora fino a estorcerle un grido. «Guardami!» Le intimò, furioso. Lei gemette, eppure socchiuse gli occhi umidi e li puntò coraggiosamente in quelli del giovane. «Io non sono Adam», sibilò lui, con feroce soddisfazione. Godette, nel vederla impallidire ancora di più. «Il mio nome è Faust.»
«Cosa, io… non capisco…» Balbettò tremante, la testa ancora piegata all’indietro, incapace di distogliere lo sguardo da quel volto orrendo anche se l’avesse voluto.
Il ghigno fu mostruoso sulle sue labbra. «Non è necessario che tu capisca», ribatté; quella voce le metteva i brividi. «Voglio solo un po’ di giustizia, capisci… Ma tu, tu, in che modo potresti servirmi? In fondo la tua unica colpa è quella di essere stata tanto stupida da lasciarti traviare dai tuoi adorati fratelli… Vi divertivate a torturare l’altro, non è così? A picchiarlo, a deriderlo, come se non foste dello stesso sangue… Adam si ricorda di come ridevi, di come ti piaceva quel piccolo gioco!» Con un dito percorse i lineamenti del volto di Nora, lentamente, studiandoli con meticolosità chirurgica. «Il che mi porta a considerare che anche tu hai avuto le tue parti di colpa, cara sorella. Posso chiamarti così, non è vero? Dopotutto siamo molto intimi io e Adam, davvero molto, molto intimi… Potresti quasi dire che nessuno lo conosce meglio di me! Ed è per questo motivo, vedi, che sarò io ad avere il piacere di vendicarlo», aggiunse, stavolta con un tono pacato, quasi ragionevole, come se stesse spiegando i rudimenti della matematica a un bambino.
Inevitabilmente, a Nora sfuggì un singhiozzo. «Ti prego, ti prego, io non ho fatto niente, non ho mai voluto… non sapevo…»
«Ma capisci, è proprio questo il punto! Tu sapevi, mia cara! Sapevi, come d’altronde sapevano tutti in questa casa… ma adesso, grazie a me, nessuno sa più nulla. Ho provveduto personalmente… E adesso è arrivato il momento di pagare anche per i tuoi peccati, sorella», sibilò ancora, avvicinandole la bocca all’orecchio.
«No, no, no… No!» Con un urlo disperato Nora si ribellò, cogliendo il mostro tanto impreparato che la lasciò andare di scatto, come se si fosse bruciato. La ragazza finì per terra, ma si rialzò quasi subito inciampando sull’orlo della sua stessa camicia da notte: lo fissò come se avesse voluto aggredirlo, benché sapesse perfettamente di non essere in grado di affrontarlo in una lotta così impari – eppure lui ricambiò lo sguardo come se la considerasse capace di un gesto simile.
«Preferisco uccidermi da sola piuttosto che darti la soddisfazione di completare la tua vendetta!» Strillò, gli occhi che brillavano di una luce invasata, folle. Era impazzita.
Quello che accadde dopo Faust non riuscì a prevederlo, né tantomeno ad evitarlo. Nora gli diede le spalle e corse verso la finestra, spaccando il vetro sottile con la forza del suo slancio e precipitando nel vuoto senza neppure un gemito. Il boato del cristallo che andava in frantumi rimbombò nelle sue orecchie come l’eco di un tuono, e solo dopo, quando udì il tonfo del corpo che toccava terra, riuscì a muoversi di nuovo.
Ancora piuttosto scioccato, egli si affacciò alla finestra, aggrappandosi al telaio dal quale spuntavano pezzi di vetro taglienti come lame e guardando giù: il corpo di Eleanore Rochester giaceva scomposto come una bambola rotta sull’erba bagnata dalla rugiada notturna, circondato da frammenti di cristallo, una macchia bianca su un prato nero. Il collo era piegato in una posizione innaturale, e gli occhi sbarrati, aperti verso il cielo, sembravano piantarsi nelle profondità stesse della sua anima.
Su, nello studio, il mostro indietreggiò debolmente, osservando senza vederle le proprie mani grondanti sangue, lo stesso che gocciolava dall’intelaiatura della finestra. Non riuscì a trattenere un conato, e inginocchiandosi per terra riversò l’esiguo contenuto del suo stomaco sul tappeto. Lo sforzo, seppur minimo, lo indebolì al punto da lasciarlo infreddolito e tremante, e quando si rialzò, a fatica, cercando di reggersi sulle sue gambe, lo specchio che si trovava sopra una cassettiera gli restituì l’immagine di Adam e non più quella di Faust.
Il mostro lo aveva abbandonato quando più aveva bisogno di lui. Gli lasciò l’incombenza di occuparsi di suo padre, dei suoi fratelli, di sua sorella, mentre lui rimaneva rintanato chissà dove, come un serpente dietro un sasso, in attesa di tornare nel momento più impensato.

Adam aveva cercato di restituire una parvenza di dignità a quella famiglia che non lo aveva mai voluto né tantomeno amato, sistemando i corpi senza vita sui divani con una cura maniacale che aveva parvenze di follia, posando addirittura un libro tra le mani del padre e dei fiori tra quelle di sua sorella.
Dopodiché aveva appiccato il fuoco, ed era rimasto a guardare.

























_______________________________________________________________________

Angolo Autrice.
Appena finito una storia e ne inizio già un'altra... yeah, chiamatemi pure folle, ma cosa ci vogliamo fare? Ormai dovreste aver capito con chi avete a che fare :D
Scherzi a parte, benvenuti in questo nuovo esperimento! Vi ho incuriositi, mh? Almeno un pochetto? *-* Se sono approdata in questa sezione, il merito (o la colpa, deciderete voi :p) va alla mia cara, carissima Sylphs, che anche da poco mi ha detto che dovevo assolutamente inventarmi un "mostro" tutto mio; e siccome questa idea mi turbinava in mente già da un po' - e ci ho lavorato parecchio prima di riuscire a trovare un qualcosa di definitivo - alla fine non ho resistito e ci sono cascata... Così, eccomi qua :D [Ad ogni modo, andate anche a leggere del suo, di "mostro": storie del genere non devono rimanere in un angolo della soffitta a prendere muffa, per cui correte, su!]
Come già accennato nell'introduzione, diverse opere hanno ispirato questa storia. In particolar modo, devo assolutamente citare:
- Il fantasma dell'Opera, di Gaston Leroux
- La Bella e la Bestia, Disney e Beaumont
- Frankenstein, di Mary Shelley
- The Others, di Alejandro Amená
bar
- Follia d'amore e d'oscurità, di Sylphs (x)
- Downton Abbey, serie TV
- Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mister Hyde, di Robert Louis Stevenson.
(Per quanto riguarda le altre influenze bisogna prenderla con Edgar Allan Poe, Victor Hugo, Andrew Lloyd Webber, film, libri, musical e soggetti con maschere vari.)
Quindi sì, insomma, aspettatevi roba del genere. Okay, detto questo... Niente, credo che per ora lascerò così. Spero che qualcuno voglia imbarcarsi insieme a me in questa ennesima avventura - sono sempre parecchio emozionata quando pubblico il primo capitolo di una long e straparlo, non fateci caso - e nell'attesa vi lascio! Alla prossima carissimi, grazie di essere passati per di qua - per uscire seguite pure il sentiero luminoso.
Baci e abbracci, dalla vostra
Niglia.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Chapter 1. Pemberley Manor ***


banner





1.
Pemberley Manor

hugfdcg















North Yorkshire, settembre 1904.

Il rumore violento del treno che sferragliava sui binari accompagnava il silenzioso viaggio di lady Emma Moore.
Erano trascorse cinque settimane dalla scomparsa di lady Grantham, portata via dalla consunzione in poco meno di un anno; tutta Hambleton Abbey era stata messa a lutto, dalle livree della servitù alla carrozza e ai cavalli del padrone di casa, e in ogni stanza della magione la presenza del nero era così soffocante e carica d’angoscia che lord Grantham, pur non volendosi separare dalla figlia, pensò bene di spedirla a trascorrere il lungo periodo del lutto in campagna, in una sua proprietà acquistata da poco. Il conte si sarebbe dovuto trasferire per qualche mese nella capitale dove lo attendeva la gestione dei suoi affari, e se la figlia non fosse partita a sua volta sarebbe dovuta rimanere da sola in una tetra Hambleton Abbey; per questo egli ritenne che potesse essere più facile per lei affrontare la morte della madre, a cui era tanto legata, senza doversela vedere rammentare ogni volta che i suoi occhi si posavano su un oggetto qualsiasi della propria casa. Miss Jane Radcliffe, l’istitutrice della ragazza, non era parsa molto d’accordo con la decisione presa dal suo datore di lavoro; e tuttavia, proprio per via del suo ruolo, non osò contraddirlo, limitandosi a far preparare i bagagli per sé e per la sua allieva in vista del lungo viaggio che le attendeva.
Così adesso le due donne si trovavano in viaggio, in uno scompartimento riservato solamente a loro, entrambe vestite di nero dalla testa ai piedi e con l’unica compagnia di un cucciolo di neanche un anno di Epagneul Breton, regalo di lady Grantham alla figlia per l’ultimo Natale che avevano trascorso insieme. A causa di una recente lettura appena terminata, Emma aveva battezzato l’animale Aramis, il che gli era valso anche l’affettuoso appellativo di piccolo moschettiere affibbiato da lord Grantham; tuttavia il cucciolo non pareva avere intenzione di partecipare a chissà quale duello, accucciato com’era ai piedi della sua padrona con tutta l’aria di chi ha fatto dell’ozio lo scopo della sua esistenza.
Con un sospiro, Emma chiuse il libro che stava cercando inutilmente di leggere, un po’ per il movimento ondeggiante del treno che la nauseava e un po’ perché la sua mente era impegnata altrove. Non poteva dire di non aver cercato di opporsi alla decisione del padre di allontanarla da casa – non sopportava l’idea di saperlo da solo prima della partenza per Londra, pur con la presenza della servitù, mentre si aggirava nelle stanze di un’immensa dimora pregne della presenza della moglie e cariche di ricordi di ogni genere – ma il lord era stato irremovibile, e neppure piangere e scongiurarlo era valso a qualcosa.
«Sarà meglio per la tua salute fisica e mentale andare in un luogo più tranquillo», le aveva detto a cena con tono pacato, prendendo il discorso all’improvviso sotto lo sguardo scioccato dell’istitutrice. «Con la Stagione conclusa non avrebbe senso farti venire con me a Londra, e in ogni caso a causa del lutto non avresti nulla da fare. Io andrò in città per un po’ a gestire i miei affari, e poi forse ti raggiungerò per Natale nello Yorkshire. La campagna ti piacerà, vedrai, ce l’hai nel sangue come ce l’aveva tua madre. Potrai finalmente prendere un po’ di respiro dopo l’angoscia di quest’ultimo periodo…»
Aveva provato a ribattere, a interromperlo, ma a lui era bastato sollevare una mano per metterla a tacere. «Basta, Emma, non è una decisione che puoi discutere. Lo faccio per il tuo bene. Ho già preso accordi con i tenutari di Pemberley, tu e Miss Radcliffe potrete partire lunedì stesso.» Era stato irremovibile e sordo a qualsiasi supplica.
Dal canto suo, Emma si era comportata come ci si aspettava che una signorina di buona famiglia si comportasse: benché fosse impallidita e le sue labbra si fossero assottigliate in una smorfia, aveva contenuto la rabbia, la delusione e la tristezza, aveva mormorato un «Come desideri, papà», aveva chiesto scusa e si era ritirata nelle sue stanze. A quel punto, da sola, si era sfogata.
Adesso riusciva quasi a figurarselo, in piedi a fissare instancabilmente il ritratto di lady Grantham che occupava il posto d’onore nella biblioteca, sopra il camino, con un bicchiere di liquore in una mano e un sigaro tra le labbra. Lei sarebbe dovuta essere al suo fianco, maledizione, a piangere insieme a lui o a confortarlo, e non in quel maledetto treno diretta Dio solo sapeva dove!
Solo più tardi, quando si era calmata abbastanza da poter tornare a pensare lucidamente, aveva rammentato che, oltretutto, in quel modo non avrebbe rivisto Cal per un tempo indefinito, andando contro a tutte le regole di buone maniere ed etichetta che le erano state inculcate sin da quando aveva imparato a reggersi da sola sulle sue gambe. Infatti, pur con l’onnipresente Miss Jane, dubitava che suo padre avrebbe dato il permesso al giovane Caledon T. Hardy, futuro duca di Suffolk e suo fidanzato, di andare a trovarla mentre si trovava in quella località sperduta in mezzo alla campagna. Quando gli aveva chiesto che cosa aveva intenzione di fare in proposito, l’unica replica di lord Grantham era stata: «Gli manderò un telegramma per avvisarlo della mia decisione. È un ragazzo a modo e di buona famiglia, capirà la situazione e non se ne avrà a male.»
Non che Emma fosse preoccupata di sentirne la mancanza – non era innamorata di Caledon, non ancora perlomeno: si erano visti soltanto in occasioni accuratamente organizzate e mai da soli, sempre alla presenza di qualche chaperon. Tuttavia erano stati presi degli accordi per quelle nozze quando sua madre era ancora in grado di occuparsi di simili questioni, e da parte sua la figlia era convinta che rispettare la parola data fosse un gesto estremamente importante, per non parlare poi del fatto che rinunciare a quel fidanzamento da un giorno all’altro le avrebbe irrimediabilmente macchiato la reputazione. Senza contare poi che la famiglia Hardy rientrava nella cerchia dei loro amici più stretti, e che era sempre stato il sogno di entrambe lady Hardy e lady Grantham quello di far unire i propri eredi, un giorno, in matrimonio. Emma non aveva mai smaniato dalla voglia di farlo, ma adesso che sua madre non c’era più le sembrava un modo di onorarne la memoria, quello di esaudire un suo vecchio desiderio.
Emma distolse lo sguardo dal paesaggio che scorreva rapido al di là del finestrino per posarlo sulla sua istitutrice, che ormai dormicchiava beata da quando avevano superato il confine della contea di Northumberland. La sua attenzione si focalizzò casualmente sui capelli della donna, un tempo di uno splendido corvino, che avevano iniziato a sbiadire sulle tempie, diventando via via più chiari fino a raggiungere, in alcuni punti, il tanto temuto bianco. Emma non avrebbe saputo dire con certezza quale fosse l’età di Miss Radcliffe, benché la conoscesse sin da bambina: da quando la donna aveva raggiunto la soglia dei quarant’anni, per una sua scelta ad Hambleton Abbey si era cessato di festeggiare i suoi compleanni, e ciò accadeva ormai da diverso tempo. Tuttavia non aveva molte rughe, le sue mani erano ancora lisce e forti, e possedevano quel vigore che ancora le permetteva, talvolta, di bacchettare la sua allieva quando sbagliava a leggere le note del pentagramma. Per quanto da piccola l’avesse odiata per la sua severità, adesso che aveva raggiunto la soglia dei vent’anni Emma si scoprì a riflettere che certe volte, per come usava comportarsi, si sarebbe punita anche con maggior durezza; e d’altra parte adesso che la sua studentessa aveva raggiunto la maggiore età e una maggiore maturità, Miss Radcliffe stessa aveva cessato di essere rigida e inflessibile come quando lady Moore era piccola, arrivando persino ad ammorbidirsi e a cedere ogniqualvolta le veniva chiesta una pausa tra le lezioni.
La signorina Radcliffe aveva persino sostituito la figura di lady Grantham nella vita di Emma nel tetro periodo della prima infanzia della bambina, quando la madre era entrata in depressione a causa dell’incidente che si era portato via la sua figlia primogenita, Lizzie, una ragazzina di appena sedici anni; tuttavia, una volta che la contessa ebbe superato il profondo malessere, il rapporto con la figlia si era stretto in un modo che né Miss Radcliffe né il lord avrebbero immaginato fino a qualche tempo prima. Le due erano inseparabili, la piccola non faceva nulla senza prima consultare la madre e piangeva terribilmente tutte le volte che la donna si assentava per partecipare agli incontri che la società imponeva durante la Stagione; il loro legame era talmente intimo e profondo al punto che, una volta che Emma fu diventata donna a tutti gli effetti, non era impreparata all’evento come invece lo era stata a suo tempo la madre, che all’epoca aveva cercato di nascondere alla servitù le macchie di sangue che apparivano temporaneamente nei suoi indumenti, terrorizzata dall’idea di essere prossima alla morte. Miss Radcliffe, che prima di Emma aveva avuto modo di insegnare ad altre bambine, ripeteva spesso che nessuna delle sue precedenti allieve avrebbe mai potuto vantare un simile rapporto con le proprie genitrici – che, al contrario, venivano viste come creature estranee alle quali bisognava rivolgersi con una referenza e una timidezza quasi obbligatorie. A quel punto lord Grantham ribatteva sempre che era lieto che la spensieratezza e l’affettuosità della moglie, provenienti di certo dall’ambiente modesto in cui era nata e cresciuta, si riflettessero sul rapporto che nutriva con la figlia.
Nulla di strano dunque che adesso, dopo appena più di un mese dalla scomparsa di Lady Grantham, Emma fosse ancora così scossa e stentasse a prendere sonno, la notte.



dfghjk


Il loro viaggio si avviava alla sua conclusione dopo due giorni di tragitto, quando giunsero infine alla stazione di Alnwick: qui, come da precedenti accordi, era stata inviata una carrozza a prenderle. Un fattorino si occupò di trasportare i loro bagagli – due bauli, tre valige e alcune cappelliere: lord Grantham ne avrebbe spedito altre nei giorni seguenti con qualche treno merci, dato che Emma non aveva avuto il tempo di impacchettare tutto e non sarebbe stato molto elegante per due donne viaggiare con così tanta roba – e di caricarli sul calesse, qui aiutato dal vetturino, un signore completamente vestito di nero e del quale si vedeva solo la parte superiore del viso da quanto era infagottato. Quando le vide arrivare, abbassò la sciarpa e il bavero del cappotto per poter parlare, mostrando il volto barbuto e segnato di un uomo la cui età poteva ondeggiare dai cinquanta ai settant’anni.
«Lady Moore, suppongo? Sono il signor Duncan, il custode di Pemberley Manor.» Si presentò gentile, con una voce bassa e rauca e un accento macchiato da qualche inflessione dialettale. Poi si voltò verso miss Jane, aggrottando la fronte in evidente difficoltà. «E voi dovete essere…»
«Miss Radcliffe, l’istitutrice di lady Moore», rispose gelida, leggermente piccata per non essere stata riconosciuta. La sua mano si strinse nervosamente intorno al guinzaglio di Aramis per impedirgli di andare ad infastidire i cavalli sbuffanti, ma l’animale tirava e tirava rischiando di farle perdere l’equilibrio e inciampare tra le gonne; alla fine, la donna avrebbe volentieri lasciato la presa se il vetturino non avesse avuto la prontezza di afferrare il laccio del cucciolo prima che questi scappasse via.
Emma intervenne prima che la donna più anziana potesse dare in escandescenze.
«Liete di conoscervi, Mr. Duncan. Possiamo partire? Vorrei arrivare prima che faccia buio», disse in fretta, prendendo sottobraccio un’irritata Miss Jane e guidandola verso il predellino della carrozza.
«Grazie a Dio non è uno di quei trabiccoli senza cavalli», borbottò l’istitutrice, accettando la mano del signor Duncan e salendo nella vettura subito seguita da uno scodinzolante Aramis.
«Grazie», si limitò a dire invece Emma, salendo a sua volta aiutata dall’uomo e sparendo dietro lo sportello del landau. Avrebbe dovuto tenere per sé il fatto di adorare i phaeton senza cavalli che stavano prendendo piede a Londra tra i giovani più eleganti e all’avanguardia: Miss Radcliffe non era molto aperta a quelle innovazioni, e non l’avrebbe sopportato.
Il tempo non si dimostrò essere dalla loro parte e piovve quasi lungo tutto il percorso finale, costringendo Mr. Duncan a far andare piano i cavalli di modo che le ruote della carrozza non slittassero sul terriccio infangato e bagnato della strada o, peggio, finissero in un fosso. Il sentiero per il quale stavano procedendo si snodava serpeggiante in mezzo a un bosco, dove la già debole luce del giorno penetrava a fatica tra i rami frondosi e l’oscurità era causata in parte dalla fitta nebbia che aleggiava grondante sul terreno. All’interno del veicolo, Emma e Miss Radcliffe si erano sedute sullo stesso sedile per cercare di riscaldarsi il più possibile, mentre Aramis rimaneva accucciato sul sedile di fronte a loro e sollevava di tanto in tanto la testa per sbuffare contro l’acqua che picchiava sul finestrino.
«Vostro padre l’aveva detto», esordì Miss Radcliffe dopo un lungo silenzio.
Emma si riscosse dal suo torpore, spostando l’attenzione sulla donna al suo fianco. «Che cosa, miss Jane?»
«Che il tempo quassù è inaffidabile. Si passa dal sole alla pioggia in un battito di ciglia, senza che nulla lasci presagire il repentino cambio di atmosfera… Non so se il mio fisico reggerà a lungo», borbottò innervosita, prima di seppellire uno starnuto in un fazzoletto a scacchi.
«Sono certa che ci abitueremo», replicò la giovane, conciliante. «E voi non siete obbligata a rimanere all’aria aperta se non lo desiderate, miss.»
La donna annuì, palesemente sollevata. «Questo è certo, signorina.»
Emma sospirò, stringendosi addosso la coperta di lana. «Non vedo l’ora di arrivare… Sono proprio stanca di stare seduta. Mi sembra di essere in viaggio da una vita», mormorò, tornando ad osservare fuori dal vetro della carrozza: in quel frangente era l’unico modo che aveva di passare il tempo, come del resto aveva fatto nei precedenti due giorni.
«Spero che la servitù abbia già preparato le nostre stanze, così non dovremo aggirarci per la casa a prendere freddo», fu il seccato commento di Miss Radcliffe, che tendeva a diventare parecchio insofferente quando la sua sacra routine veniva così brutalmente messa a soqquadro.
«Credo che in tal caso mi addormenterei su un qualsiasi divano», le sorrise Emma, riuscendo a placarla.
Chiacchierarono ancora un po’ di ciò che si aspettavano o speravano di trovare nella misteriosa Pemberley, ma poi la stanchezza ebbe la meglio sull’istitutrice che si appisolò raggomitolandosi contro l’angolo del sedile, cullata dal movimento del veicolo. Così Emma intrecciò le mani in grembo e lasciò vagare lo sguardo distratto sulla campagna nebbiosa e piovigginosa che si estendeva tutt’intorno a loro, senza fine.

Trascorsero un paio d’ore prima che la carrozza raggiungesse finalmente la proprietà.
La casa nella quale lady Moore avrebbe alloggiato per i successivi mesi, e che sarebbe stato più preciso definire castello, si stagliava cupa e imponente contro un cielo grigio e gravido di pioggia, con un’aria persino vagamente minacciosa. Grande il doppio di Hambleton Abbey, era abbarbicata su una piccola collina che sovrastava la vallata circostante, attorniata da querce e faggi che un giorno avrebbero finito per ricoprirla del tutto e inghiottirla tra i loro rami frondosi. Quasi l’intera facciata della magione era ricoperta da una fitta rete di edera spoglia marrone, che in alcuni punti aveva già perso le foglie e lasciava intravedere i mattoncini di un bianco sporco, anneriti sotto il tetto come per conseguenza di un incendio, tipici di una casa costruita nell’ultimo ventennio del diciottesimo secolo. Le finestre, alcune delle quali inchiodate, erano quasi tutte alte e strette, ermeticamente chiuse da scurini di legno sbiadito dal sole, che necessitavano di una nuova mano di pittura. Le tegole erano nere laddove non mancavano, e sul profilo del tetto si potevano contare ben nove comignoli in pietra solo sul lato principale della facciata.
Vedendola, Emma comprese per quale motivo lord Grantham avesse deciso di acquistarla: era proprio il genere di edifici che gli piacevano, appassionato com’era di storia e antichità, eppure allo stesso tempo non poté fare a meno di domandarsi, preoccupata, se suo padre avesse intenzione di ristrutturarla o se preferisse lasciarla in quello stato decadente. Se così fosse stato, infatti, dubitava che avrebbero mai potuto invitare degli ospiti in quella magione, una volta terminato il periodo di lutto, a meno di non finire in pasto alle perfide malelingue londinesi.
I cavalli proseguirono trotterellando verso il patio, memori della strada, e si fermarono docili quando il signor Duncan tirò le redini; il landau si arrestò piano sulla ghiaia e Miss Radcliffe tornò nuovamente in vita, riscuotendosi con un gemito e stropicciandosi gli occhi. Mr. Duncan venne subito ad aprire loro lo sportello e porse una mano prima ad Emma e poi alla donna più anziana per aiutarle a scendere, e la giovane, seguita da Aramis che trotterellava dietro di lei, corse a ripararsi sotto il porticato senza prestare più molta attenzione all’enorme maniero. Il breve tratto bastò a far sì che si inzuppasse fin dentro le ossa, e se avesse avuto un briciolo di educazione in meno avrebbe imprecato come aveva sentito fare diverse volte alle domestiche di Hambleton Abbey.
Al suo arrivo a Pemberley Manor si aspettava che la servitù fosse pronta a riceverle, e invece sul portone d’ingresso, a pochi passi da lei, si trovavano solo due donne dall’aria piuttosto informale: dal modo in cui era abbigliata la più anziana, Emma dedusse che doveva trattarsi della governante, mentre l’altra, la ragazza piccola e robusta con lo sguardo fisso a terra, sembrava più una sguattera o una cameriera. Non che le importasse, non era una fanatica delle convenzioni, ma se avesse ricevuto un’accoglienza un po’ più calorosa di certo avrebbe sentito meno la stanchezza del viaggio. E, dal modo in cui la signorina Radcliffe marciò decisa e impettita fino a raggiungerla, incurante di essere a sua volta fradicia come un pulcino, sembrava che la pensasse esattamente come lei.
«Lady Moore, che piacere incontrarvi per la prima volta!» Esclamò la governante riscuotendosi dalla sua immobilità, reggendosi la gonna per scendere con non poca fatica i gradini del portico e avvicinarsi a Emma. «Permettetemi di presentarmi: sono Mrs. Duncan, la governante di Pemberley, e lei è Lydia, la ragazza tuttofare.» Aggiunse accennando un breve inchino; Emma vide la ragazza pochi passi più indietro fare lo stesso con la medesima mancanza di tecnica, e si convinse di una cosa: a Pemberley non sembravano molto abituati ad avere ospiti.
Malgrado gli strani presentimenti e la stanchezza del viaggio, Emma si ritrovò a sorridere – o forse si sforzò solo di farlo. «È un piacere conoscervi, Mrs. Duncan», rispose garbata, prima di fare a sua volta le presentazioni. «E… siete per caso imparentata con il signor Duncan?»
«Oh, sì, sono sua moglie, milady», confermò la donna, annuendo e lasciandosi andare a un sorriso un po’ meno nervoso.
«Dov’è il resto della servitù?» Sbottò Miss Radcliffe con aria terribilmente indignata, guardandosi intono come se si aspettasse di veder saltare fuori da dietro le colonne una schiera di personale tale da far invidia a Hambleton Abbey. Emma le lanciò un’occhiata, sorpresa da quei modi, e scosse appena la testa, mentre Mrs. Duncan arrossiva leggermente dall’imbarazzo.
«In realtà siamo noi l’unica servitù attuale, signorina Radcliffe», spiegò la donna con voce bassa ma perlomeno non tremante. «Ma vi prego, entriamo in casa. Qui si congela e sarete stanche, vorrete di sicuro riposarvi dopo il lungo viaggio», riprese, facendo loro strada verso l’ingresso. Prima di proseguire si voltò e si rivolse alla ragazza, gentile ma inflessibile: «Lydia, aiuta il signor Duncan a portare dentro i bagagli.»
La cameriera fece ciò che le venne ordinato, tirandosi su il colletto della divisa e raggiungendo l’uomo. Lady Moore e Miss Radcliffe si scambiarono un ulteriore sguardo, dopodiché seguirono la signora Duncan all’interno del maniero.
«Sua Signoria non ne sarà per niente soddisfatto, signorina, lasciate che ve lo dica», mormorò l’istitutrice borbottando. La giovane aristocratica socchiuse la bocca per rispondere, ma all’ultimo momento dovette ritenere più opportuno mordersi la lingua; prima di varcare la soglia Emma si voltò dunque a cercare Aramis, che era rimasto indietro e che non pareva intenzionato a seguire la sua padrona.
«Aramis, vieni qui», lo chiamò lei, battendo una mano sulla gonna. Tuttavia l’animale sbuffò e ringhiò a fauci strette contro la casa, la coda bassa e rigida, il pelo ritto: sembrava improvvisamente terrorizzato e nervoso, e di conseguenza anche Emma si preoccupò – raramente aveva visto Aramis comportarsi in quel modo. Lo raggiunse e si accovacciò al suo fianco, attirandone l’attenzione con delle confortanti carezze dietro le orecchie e mormorando con voce bassa e pacata parole senza senso per tranquillizzarlo. Alla fine, benché non del tutto placato, il cucciolo riprese ad agitare lentamente la coda e perse rigidità, e Emma lo interpretò come un segno che fosse tutto a posto: era probabile che Aramis si fosse innervosito per l’arrivo nella casa nuova, magari aveva solo bisogno di familiarizzare con il territorio per potersi sentire a suo agio.
Eppure le rimase una strana sensazione addosso quando entrò finalmente nella grande abitazione, e per un attimo le mancò il respiro quando il pesante portone di legno massiccio si richiuse alle sue spalle.



dfghj


Mrs. Duncan aveva un’età che si aggirava intorno ai sessant’anni.
Alla tenue luce offerta dalle candele e dal camino, Emma poteva osservarla meglio e notare dettagli che prima, sotto il buio porticato della magione, le erano sfuggiti: Mrs. Duncan era una donna sottile, dal fare materno, forse all’apparenza un po’ troppo rigida e severa, ma queste ultime caratteristiche erano necessarie per poter governare un’enorme abitazione come Pemberley. I folti capelli grigi erano tenuti accuratamente acconciati e raccolti sulla nuca e una mano dalle dita lunghe e segnate dalle rughe li sfiorava di tanto in tanto come per accertarsi che non un ciuffo fosse fuori posto. Indossava una modesta gonna nera, una camicia color avorio con il colletto rigido in pizzo come la moda dettava e i polsini chiusi da piccoli bottoncini neri, e come unico monile una spilla d’argento appuntata sul petto, probabilmente un qualche cimelio di famiglia. Una fede d’oro era l’unico gioiello che si era permessa.
Tale aspetto austero era però stemperato dal sorriso gentile che la donna continuava a esibire mentre versava alle sue ospiti del tè caldo in eleganti tazzine di pregiata porcellana inglese, dopo aver lasciato che Emma e Miss Radcliffe si asciugassero e si mettessero a loro agio nelle stanze che aveva mostrato loro. Mentre attraversavano i corridoi deserti della magione, la donna aveva spiegato che l’unico membro della servitù presente a Pemberley era Lydia: vivendo da soli, infatti, non avevano bisogno di una schiera infinita di domestici, e vivevano dunque perfettamente tranquilli nella solitudine della campagna. Quando era tempo di fare le grosse pulizie, due o tre volte l’anno chiamavano delle giovani volenterose dal villaggio vicino, ma che non si trattenevano mai oltre il tempo necessario a rimettere in sesto il castello. Con loro abitava anche il figlio dei coniugi Duncan, Noah, un ragazzo pressappoco dell’età di lady Moore che tuttavia aveva una mente semplice ed era ingenuo come un bambino – Mrs. Duncan sperava che ciò non disturbasse la padrona.
Emma rispose ovviamente che no, certo che non la disturbava, anzi non vedeva l’ora che il giovane Noah le venisse presentato. La signorina Radcliffe, invece, si riservò il privilegio di non esprimere un parere al riguardo, benché sicuramente attendesse di rimanere da sola con la sua allieva per esprimere tutto il disappunto che stava accumulando dinnanzi a una situazione che definire sconveniente sarebbe stato troppo gentile. Avevano lasciato Hambleton Abbey senza alcun seguito perché Lord Grantham aveva assicurato loro che non ne avrebbero avuto bisogno, e miss Radcliffe l’aveva intesa come una rassicurazione sul fatto che nella nuova abitazione ci sarebbe stato uno stuolo di domestici pronti a soddisfare le richieste, se non sue, perlomeno di Lady Moore; l’eventualità che invece tale raccomandazione del conte riguardasse il fatto che non avrebbero dovuto fare vita sociale di alcun genere, e che pertanto la presenza di una cameriera personale o di un maggiordomo non sarebbe servita in nessun modo a sua figlia, non era neppure passata per la mente della rigida istitutrice.
Emma non dubitava che, una volta da sola nella sua stanza, miss Radcliffe avrebbe scritto una lettera colma di indignazione al povero conte di Grantham.
Cercò di scambiare un sorriso d’incoraggiamento con la donna che l’aveva cresciuta e tirarle così un po’ su il morale, ma quest’ultima si limitava a sedere rigidamente in un angolo del divano e a sorseggiare con aria torva il suo tè bollente. Con un sospiro rassegnato, la giovane lasciò perdere ogni tentativo di tranquillizzare l’istitutrice, e rivolse nuovamente la sua attenzione alla signora Duncan.
«Sono sicura che ci troveremo bene qui con voi, Mrs. Duncan», disse Emma, sorseggiando la gradevole bevanda calda e dolce, leggermente aspra per la presenza del limone, come piaceva a lei. «Un peccato aver fatto tardi, mi sarebbe piaciuto fare un giro della casa, ma purtroppo il tempo non ci ha permesso di procedere con più velocità… e le strade non erano molto praticabili… credo che il signor Duncan vi avrà raccontato già tutto.»
«Non preoccupatevi, milady. La gente di città ci impiega un po’ ad ambientarsi alla campagna, ma alla fine ci riesce», la consolò la donna con un sorriso, sistemandosi una forcina che stava fuggendo via dalla sua acconciatura. «E per quanto riguarda il ritardo, rammentate che siete voi la padrona della casa e spetta a voi decidere gli orari. Mi spiace solo che ormai sia impossibile farvi vedere la casa, sapete, non è un granché aggirarsi per i saloni bui, e temo che si dovrà aspettare domattina… È tutta la settimana che mettiamo a posto le stanze in vista del vostro arrivo, ma sembra esserci sempre qualcosa da sistemare in questo maniero.»
Posso ben immaginarlo, concordò Emma in silenzio, guardandosi discretamente intorno.
«Chi ha scelto il nome Pemberley?» Chiese poi tanto per fare un po’ di conversazione, mentre riportava l’attenzione sulla donna, che pareva attendere con pazienza che Emma si ambientasse.
«Oh, l’ha acquisito col tempo. Gli abitanti del villaggio la chiamano ancora Pemberley Manor, sa, anche se è trascorso parecchio tempo da quando i Pemberley ci abitavano», spiegò Mrs. Duncan, facendo sciogliere con lenti movimenti circolari del cucchiaino una piccola zolletta di zucchero. Emma notò che il tono della voce le si era abbassato, e che le parole venivano fuori con una strana cautela. «La casa è stata costruita all’inizio del diciassettesimo secolo, ma come potete notare non segue uno stile architettonico particolare: i proprietari erano parecchio eccentrici, sapete, e le varie generazioni che hanno abitato la magione hanno apportato tante di quelle modifiche che ormai questa casa sembra più un labirinto, con scale a chiocciola anguste che non si sa dove conducano, torri, finestre che non si aprono, porte sospese nel vuoto e strane protuberanze… Ah, ma lo vedrete voi stessa nel caso abbiate voglia di dedicarvi all’esplorazione di Pemberley. Potete andare dove volete, ovviamente, milady… come ho già detto, siete voi la proprietaria… Ma vi consiglierei di evitare l’ala Ovest», aggiunse frettolosamente la donna, con un lieve accenno di panico che non sfuggì alla ragazza.
Malgrado a tale affermazione Miss Radcliffe avesse irrigidito la schiena, indignata da una simile imposizione da parte della governante, Emma aggrottò semplicemente la fronte, perplessa ma già curiosa, avvertendo quel familiare e piacevole brivido che le scorreva giù lungo la schiena ogniqualvolta la sua mente fantasiosa subodorava un interessante mistero. «E che cosa c’è nell’ala Ovest, se posso chiedere?» Domandò istintivamente, senza riuscire a trattenere un mezzo sorriso. Se avesse accennato a questa particolare conversazione nella prossima lettera che avrebbe scritto a suo padre, era sicura che Lord Grantham l’avrebbe raggiunta in campagna in men che non si dica per risolvere quell’enigma. O che perlomeno l’avrebbe spronata a farlo in sua vece; dopotutto doveva pur trovarsi qualcosa per passare il tempo, segregata com’era in mezzo alla selvaggia brughiera.
Dopo aver posato la tazza intatta sul tavolino, Mrs. Duncan giocherellò nervosamente con il pesante mazzo di chiavi che teneva appeso alla cintura, mentre rispondeva con un’ostentata noncuranza. «Oh, niente, signorina, niente di che», rispose con una scrollata di spalle, senza tuttavia guardarla. «Quell’ala è semplicemente chiusa, è in disuso da diverso tempo e, mi imbarazza dirlo, non ci siamo mai dati la pena di metterla in ordine. Non ci trovereste che polvere e buio, non certo un ambiente adatto a voi... E poi non c’è niente, ve lo ripeto», ribadì con insistenza.
«Sono certa che sia così», concesse la giovane con fare pacato, lanciando un’occhiata a miss Radcliffe affinché non ribattesse nulla dinnanzi a quello strano avvertimento. Per un po’ avrebbe anche potuto evitare quell’ala della casa, ma prima o poi avrebbe terminato le cose da fare ed era certa che un po’ di polvere non l’avrebbe dissuasa dall’avventurarsi in zone che sarebbero dovuto esserle precluse; d’altra parte, come le aveva detto la stessa Mrs. Duncan, era lei la padrona.
Continuando a parlare poi del più e del meno, Mrs. Duncan le informò dell’assenza di un telefono nell’abitazione – non avevano mai ritenuto utile acquistare un apparecchio quando non avevano nessuno con cui comunicare all’esterno di Pemberley; nel villaggio vicino, tuttavia, quello dove arrivava il treno, c’era un ufficio del telegrafo, e se avessero avuto necessità di inviare un messaggio urgente a Sua Signoria avrebbero potuto farsi accompagnare dal signor Duncan che scendeva in paese due volte a settimana per le scorte e commissioni di vario genere.
Infine, la governante annunciò loro che la cena sarebbe stata servita in due ore nella sala da pranzo; tuttavia né Emma né miss Radcliffe avevano molta fame – il viaggio le aveva stancate al punto che l’unica cosa che agognavano in quel momento era un lungo sonno ristoratore, così chiesero il permesso di ritirarsi direttamente nelle loro stanze. La signora Duncan sottolineò per l’ennesima volta che erano libere di fare ciò che desideravano, dopodiché suonò un campanellino per chiamare Lydia in modo che accompagnasse milady nella sua camera da letto.



dfghjk


La camera che era stata assegnata a Emma doveva essere una delle stanze padronali, probabilmente quella appartenuta alla precedente signora di Pemberley. Come aveva già anticipato Mrs. Duncan, persino l’arredamento faceva convergere diversi stili e tendenze passate in un unico risultato finale: la tappezzeria era chiara, color crema, decorata con piccoli fiorellini vermigli; il mobilio era massiccio e scuro, di mogano o forse palissandro, con pomelli dorati nei cassetti e nelle ante dell’armadio, e per terra il pavimento quasi spariva sotto uno strato di tappeti persiani. Il letto, la cui testiera intarsiata occupava metà parete, era posizione di fronte al camino e di fianco alla finestra, in modo che potesse ricevere calore d’inverno e aria fresca d’estate; sui comodini vi erano delle antiche lampade ad olio con il paralume in vetro colorato, mentre dal soffitto a cassettoni pendeva un semplice lampadario in ferro. Le pareti erano abbellite da quadri che ritraevano paesaggi della brughiera, ma non vi erano ritratti né specchi: ciò era parecchio strano, soprattutto visto che l’ombra ovale che macchiava la tappezzeria sopra la cassettiera indicava che là uno specchio c’era stato, e che qualcuno l’aveva volutamente tolto. Certo, forse si era rotto… Ma perché non sostituirlo?
Imputando tale mancanza al fatto che la casa fosse rimasta inabitata per anni, Emma decise di rimandare la risoluzione di quel problema all’indomani mattina; congedò Lydia dopo che quest’ultima l’ebbe aiutata a sganciare l’abito e il corsetto, dopodiché rimase sola a finire di prepararsi per la notte: ancora non si sentiva a suo agio a spogliarsi davanti a una domestica che non conosceva, così fu costretta anche a sciogliersi da sola l’acconciatura e senza neppure l’ausilio di uno specchio. Una volta che ebbe portato a termine anche quell’operazione il mobile da toilette era ingombro di forcine di ogni dimensione, e una massa ondulata di capelli le ricopriva le spalle come un mantello, scivolandole sulla schiena fino alle natiche.
Aveva appena iniziato a pettinarsi quando un leggero bussare alla porta della stanza interruppe le sue fantasticherie. Aramis, dal suo angolo di fronte al camino, sollevò il capo e rizzò le orecchie, attento; Emma posò la spazzola sul tavolino e invitò l’ospite ad entrare, e quando vide chi era, sorrise. «Oh, siete voi, Miss Radcliffe.» Il cucciolo riabbassò il muso tra le zampe, decidendo che non vi era alcuna minaccia, e agitò placidamente la coda in aria.
«Volevo accertarmi che steste bene, signorina», spiegò l’istitutrice, entrando e richiudendosi la porta alle spalle. Anche lei in camicia da notte, con un pesante scialle drappeggiato intorno alla schiena e i capelli liberi dall’acconciatura giornaliera raccolti in una più comoda treccia, Miss Radcliffe spense con un soffio la candela che aveva portato con sé e attraversò la camera verso la sua allieva. «La signora Duncan mi ha spergiurato che questa è la stanza migliore di tutto il maniero, ma volevo assicurarmene di persona. Se non altro non è fredda… La sguattera vi ha messo il braciere sotto al materasso?»
Emma sorrise davanti alle solerti preoccupazioni della donna. «Sì, miss Jane, sono stati tutti cortesi e ineccepibili», rispose, riprendendo a spazzolarsi i lunghi capelli. «E della vostra stanza, invece, cosa mi dite? Sinceramente non capisco perché non possiate dormire insieme a me sullo stesso piano, e dobbiate invece dormire accanto a Lydia. Mi sentirei molto più tranquilla se foste vicina a me.»
«Milady, per quanto apprezzi la vostra generosità non dovete dimenticare che anche un’istitutrice fa parte della servitù, e che anche ad Hambleton Abbey la mia stanza era nei quartieri dei domestici.»
«Questo lo comprendo benissimo e non voglio certo sconvolgere nessuno, ma siamo venute qui insieme e non vedo perché dovremmo preoccuparci di simili imposizioni…»
«Quando il conte vostro padre ci raggiungerà non sarà di certo lieto di sapere che io e voi dormiamo in stanze affiancate. E devo ammettere, signorina, che questo metterebbe a disagio anche me.»
Emma dubitava che il conte di Grantham le avrebbe raggiunte in tempi brevi, ma questo non lo disse; si limitò a sospirare, arrendendosi. «Mi dispiace che non si possa fare uno strappo alla regola nemmeno nel cuore della campagna.»
Jane Radcliffe sorrise con tenerezza. «Sapete che sono disposta a fare parecchi strappi alle regole quando si tratta di voi, signorina, ma su certe cose non si può proprio transigere.» Spiegò gentilmente, posando una mano confortante sulla spalla della giovane. Poi aggiunse: «E ora lasciate che vi sistemi i capelli.»
Le mani della donna erano delicate ed esperte mentre divideva la chioma castana di Emma in tre ciocche per poi procedere ad intrecciarle, così lei socchiuse gli occhi, rilassandosi. «Credete che sia il caso di chiedere a mio padre di assumere altra servitù per Pemberley?» Domandò dopo un po’, sovrappensiero.
«Non spetta a me esprimermi su un argomento simile, signorina, però in base alla mia esperienza posso affermare senza paura di sbagliarmi che tre domestici sono un po’ pochi in un castello come questo», rispose Miss Radcliffe, cercando di essere delicata. «Certo, non ci sono feste da organizzare, né cene e né balli, per via del lutto e tutto il resto… Ma, per l’amor di Dio, come si fa tenere in ordine e mandare avanti una magione così immensa con una cameriera tuttofare, un custode che è insieme autista e giardiniere e una governante che è troppo in là con gli anni per fare determinati lavori? Tutto ciò è davvero molto sconveniente, signorina Emma. Se il povero signor Logan venisse a sapere che la figlia dei padroni abita in simili condizioni sono sicura che sarebbe capace persino di sgridare il conte vostro padre.»
Il signor Logan era il maggiordomo, nonché colonna portante, di Hambleton Abbey, ed entrambe sapevano quanto la sua fedeltà all’etichetta lo rendesse poco tollerante ai cambiamenti inconsueti e che, a suo dire, potessero macchiare il buon nome della famiglia che serviva da più di quarant’anni; parlare di lui provocò una dolorosa fitta di nostalgia alle due donne, che solo adesso iniziavano a realizzare il loro stato di estranee indesiderate nella tetra realtà della brughiera.
Imponendosi di sorridere, Emma si voltò per scambiare uno sguardo con miss Radcliffe. «Per ora lasciamo così, miss Jane, vi prego. Non tormentiamo mio padre con questi problemi, sono sicura che riusciremo a cavarcela… E se così non sarà, allora riprenderemo l’argomento. Non voglio essere scortese con queste persone, si sono messi tutti a nostra disposizione e non meritano un simile affronto.»
L’istitutrice la osservò a lungo, combattendo contro il desiderio di insistere per convincerla del contrario, e alla fine annuì, stringendo le labbra in una linea sottile. «Come volete, signorina. Cercherò di non farne parola con Sua Signoria», acconsentì, indietreggiando di un passo e posando la spazzola sul tavolino da notte. «Da domani io e voi riprenderemo le nostre lezioni come di consueto, allora. Colazione alle otto e mezza, dopodiché si studia. Siete d’accordo?»
Sollevata per quel confortante ritorno alle loro abitudini, Emma annuì e sorrise con più calore. «Certo, miss Radcliffe. Vi ringrazio», aggiunse, sincera. Risparmiare a suo padre di leggere delle lettere zeppe di lamentele e consigli sarebbe stata una delle poche cose che lei, dalla campagna, avrebbe potuto fare per lui.
«Buonanotte, signorina Emma», augurò la donna, riprendendo la propria candela e congedandosi.
Quando la porta si richiuse dietro miss Jane, la camera parve d’improvviso più fredda e soffocante, ed Emma rabbrividì.

























_______________________________________________________________

NdA. Plauso a chi riconosce la citazione di Harry Potter presente nel capitolo… ;)
_______________________________________________________________

Alcuni appunti riguardo i titoli nobiliari che appariranno nella storia.
Il titolo di Conte (Earl) è il terzo per importanza oltre ai reali: prima di lui abbiamo il Marchese (Marquess/Marquis) al secondo posto e il Duca (Duke) al primo. Sua moglie è la contessa. Ci si riferisce lui come, nel nostro caso, al "conte di Grantham", o "Lord Grantham", o solo "Grantham" per i più intimi. Sua moglie è quindi la contessa di Grantham o Lady Grantham, e si firmerà come Jacqueline Grantham.
Come per il duca, l'erede di un conte prenderà come titolo di cortesia il titolo appena inferiore rispetto a quello del padre (dunque il figlio di un Conte sarà definito Visconte) e il figlio dell'erede, a sua volta, quello immediatamente inferiore.
A tutte le figlie di un conte viene dato il titolo di cortesia di Lady più 'nome proprio': ciò significa che Emma verrà sempre chiamata Lady Emma o tutt’al più Lady Moore, che è il cognome del padre e non il titolo, ma mai Lady Grantham. Gli altri figli maschi di un conte sono detti semplicemente "the honorable" (onorevole) , titolo che però non è usato nelle conversazioni informali.

_______________________________________________________________

Angolo Autrice.
Bentornati su queste pagine! In questo primo capitolo facciamo finalmente la conoscenza degli altri personaggi più o meno principali – sicuramente ricorrenti – di tutta la storia. Cercherò di essere il più possibile coerente con l’ambientazione storica, ma se trovate errori grossolani vi prego di farmeli notare – tipo anacronismi e cose varie, qualcosa potrebbe sfuggirmi. :D
Voglio ringraziare infinitamente Sylphs, Homicidal Maniac, rosgio e Se7f per aver recensito lo scorso capitolo e aver deciso di dare un’occasione a questa storia *-* Inoltre un grazie immenso anche a chi ha già aggiunto la storia alle Preferite e alle Seguite, grazie grazie grazie!
Per il momento non ho altro da dichiarare, se non: spero di non avervi deluso e, al contrario, di avervi incuriosito un po’ di più ^^ Ci leggiamo al prossimo capitolo, grazie di nuovo di essere capitati qui! Baci e abbracci, sempre la vostra
Niglia.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Chapter 2. The Aerie ***


banner






2.
The Aerie
DFGHJ













Il tempo sembrava trascorrere diversamente a Pemberley Manor: in mezzo a quelle lande desolate la vita era meno caotica e le giornate apparivano più lunghe, ma tutto sommato i primi giorni passarono in modo piuttosto sereno. Malgrado l’iniziale scetticismo, sia la signorina Radcliffe che Emma riuscirono ad abituarsi alla placida routine della campagna: entrambe avevano preso ad alzarsi presto per godere appieno delle mattine, dato che di sera faceva buio presto e non c’era molto da fare in casa, e presto iniziarono a sentir meno la nostalgia di Hambleton. D’altra parte, la magione offriva più distrazioni di ciò che si poteva pensare: la biblioteca era immensa, c’era una sala della musica e una galleria dov’erano state raccolte diverse opere d’arte – un vero tesoro per il conte di Grantham, se solo si fosse trovato là a sua volta – e un giorno Emma aveva scoperto il giardino d’inverno, ossia un intero salone adibito a serra dove piante di ogni genere e provenienza crescevano rigogliose tra sentierini di pietra e fontane con zampillo; Aramis aveva adorato quella sala. Aveva poi fatto persino un paio di belle giornate prive di vento e pioggia, durante le quali Emma aveva suggerito alla sua istitutrice di uscire nel parco per esplorare anche gli esterni della magione e prendere un po’ di salutare aria fresca: difatti, benché Pemberley fosse splendidamente elegante e curata in ogni piccolo dettaglio, c’era qualcosa – Emma non avrebbe davvero saputo dire che cosa – che pareva celarsi nelle pareti stesse, qualcosa di insano, che trasudava angoscia e tormento. Fuori, invece, avevano visto le aiuole intorno alla casa curate amorevolmente da Mr. Duncan, l’orticello coltivato sul retro, le stalle, persino i villini sul confine della proprietà che un tempo dovevano essere appartenuti ai garzoni e ai vari sovraintendenti che si occupavano del resto delle tenute di Pemberley, adesso tristemente abbandonati a loro stessi, rifugi per randagi e sporcizia.
Ben presto, dunque, l’iniziale impressione di selvaggio abbandono che aveva avvertito nel mettere piede a Pemberley svanì davanti alla palese cura che vi era dietro la pulizia e l’ordine che regnavano nelle ali della casa da loro abitate: non si poteva certo dire che Mrs. Duncan e la timida Lydia se ne restassero con le mani in mano. Eppure tutto ciò non riusciva ancora a scacciare quell’aura malsana che avvertiva ogniqualvolta varcava la soglia del castello.
A proposito di Lydia, Emma aveva infine appreso che la giovane cameriera tuttofare era priva del dono della parola. La signora Duncan, essendovi abituata, lo aveva dato per scontato e non aveva pensato di avvertire la padrona di quel piccolo dettaglio, così i primi tempi Emma aveva inteso il suo silenzio come una semplice forma di timidezza; una volta chiarito l’equivoco, tuttavia, la giovane lady si affrettò a chiedere scusa alla domestica se in qualche modo l’aveva offesa, ma quest’ultima si limitò ad arrossire violentemente senza neppure osare guardarla negli occhi, quasi che la colpa della sua condizione ricadesse su se’ stessa. Miss Radcliffe non aveva trovato di suo gradimento neppure quella notizia, e benché Emma volesse alla donna un bene infinito doveva ammettere di iniziare a trovarla un po’ troppo intollerabile.
Il mattino successivo al loro arrivo, mentre sedeva in sala da pranzo con miss Radcliffe, con la quale ne aveva già parlato mentre scendevano insieme al pianterreno, Emma aveva inoltre portato il problema degli specchi all’attenzione della governante che, con Lydia, serviva la colazione.
«Non ho potuto fare a meno di notare l’assenza di specchi, Mrs. Duncan», aveva esordito con serenità, come se la faccenda non fosse poi molto importante; non voleva che la donna lo prendesse come un’offesa o un insulto al suo lavoro dopo solo un giorno dal loro arrivo. «Mi chiedevo se c’è qualche motivo particolare o se si tratta solo di una coincidenza.»
Mrs. Duncan, come Emma aveva immaginato, si era trovata in notevole difficoltà mentre cercava di formulare una risposta. «Ecco, milady, qui in campagna siamo molto superstiziosi. Certe credenze sono dure da estirpare, e… In assenza dei padroni, vedete, ci siamo presi la libertà di far sparire gli oggetti che ci spaventano. Comunque, se lo desiderate, farò del mio meglio per portarne uno in camera vostra. E in camera di miss Radcliffe, naturalmente», aveva aggiunto frettolosamente voltandosi verso l’istitutrice. «Devo solo rammentare dove li ho conservati… La mia memoria fa un po’ i capricci, e la casa è così grande!, dovete perdonarmi.»
La spiegazione, sempre se di tale si poteva parlare, non aveva soddisfatto la curiosità di Emma, né ebbe placato la sempre maggiore irritazione della signorina Radcliffe; e adesso, a distanza di sei giorni da quella conversazione, nessuna di loro aveva visto anche solo l’ombra di un piccolo specchio. L’istintiva vanità della ragazza le faceva odiare il fatto di doversi vestire senza poter controllare che l’abito le cadesse bene sui fianchi e che la gonna fosse decentemente drappeggiata, ma lamentarsi non sarebbe servito a procurarle uno specchio – era chiaro che la signora Duncan li aveva fatti sparire definitivamente, per quello che ne sapeva lei la donna poteva anche averli venduti – e soltanto l’idea di scomodare il padre per una simile faccenda la faceva vergognare: non voleva dargli l’impressione di essere incapace di cavarsela da sola, per quanto non fosse stata una sua decisione quella di andarsene a vivere in mezzo alla brughiera. Decise dunque di farne a meno, e pregò l’istitutrice di fare altrettanto.
Il terzo giorno, poi, Emma aveva fatto la conoscenza di Noah, il figlio dei signori Duncan. Quel mattino, con l’aiuto di Lydia, aveva indossato degli abiti più comodi ed era andata nelle stalle per vedere i cavalli – la governante le aveva detto che, oltre ai due mezzosangue che trainavano il calesse, ce n’erano altri due da sella, una vecchia giumenta che stava con loro da più di vent’anni e un magnifico Andaluso con un manto grigio chiazzato di bianco. Emma aveva trovato parecchio strana la presenza di un simile purosangue in un maniero disabitato – quei cavalli erano troppo eleganti per poter essere utilizzati come forza lavoro nelle campagne, in genere erano animali da corsa o da esibizione, che solo qualche eccentrico aristocratico avrebbe acquistato per tenerlo chiuso in una stalla – ma poteva anche darsi che fosse uno dei destrieri appartenuti alla vecchia famiglia che, diventato vecchio, non avesse altro destino oltre al macello che rimanere a pascolare nella quiete di una scuderia di campagna.
Era stato lì, nella stalla, che aveva incontrato il giovane figlio dei signori Duncan. Noah era un ragazzo pressappoco della sua età, alto, così magro che un vento appena più forte avrebbe potuto farlo volare via, con corti capelli biondo cenere e occhi grigi, perfettamente nella norma – non fosse stato, come Mrs. Duncan aveva già avuto modo di precisare, per la sua mente semplice. Ciò Emma lo avrebbe capito anche da sola: c’era qualcosa nel ragazzo, nel suo modo di muoversi, di rimanere sempre leggermente curvo, nei piccoli scatti che lo facevano somigliare a un topolino spaventato dalla sua stessa ombra, che indicava chiaramente come non si trovasse nella medesima dimensione di coloro che lo circondavano. In realtà, sembrava trovarsi in difficoltà tra i membri della sua specie, ragion per cui Emma non lo aveva mai visto gironzolare dentro casa, mentre era del tutto a suo agio con gli animali; probabilmente fu questo il motivo che lo spinse a non fuggire a nascondersi non appena Emma ebbe messo piede nella scuderia – la giovane era stata preceduta da uno scodinzolante Aramis, il quale ebbe inconsapevolmente il merito di trattenere Noah presso la sua padrona senza ch’egli venisse troppo spaventato da quel volto nuovo.
Scoprì che Noah non amava parlare, benché non fosse muto come Lydia: si esprimeva con frasi brevi, elementari, talvolta solo con mugugni o piccole parole, ma riusciva a farsi comprendere e a risultare amabile allo stesso modo. Erano rimasti insieme per un bel po’ – lui stava spazzolando il manto dei cavalli e aveva dato a Emma una setola per fare altrettanto, mentre Aramis giocava a infastidire gli altri animali che lo ignoravano con fare altezzoso – e quel lavoro parve aver fatto abituare Noah alla presenza della ragazza al punto che di tanto in tanto provava anche a parlarle, anche se solo per indicarle dove poteva trovare altri oggetti per la cura dei cavalli che potevano essere utili a entrambi. Emma lo aveva sorpreso un paio di volte a sollevare lo sguardo da ciò che stava facendo per guardarla di nascosto, per poi riabbassarlo immediatamente una volta resosi conto che anche lei lo guardava. Era come un bambino, timido e guardingo, ma non era sciocco; c’era qualcosa nei suoi occhi chiari che glielo rese subito caro.
Molto più tardi, quando Emma gli chiese se voleva seguirla all’interno della casa, poiché fuori iniziava a far freddo, Noah la intimorì con una reazione che lei proprio non si era aspettata: il ragazzo sgranò gli occhi e scosse violentemente la testa, più e più volte, coprendosi le orecchie con le mani e fissandola come se d’improvviso fosse terrorizzato da lei. Indietreggiò fin quando non ebbe incontrato l’ostacolo del muro, e lì crollò a terra per poi rannicchiarsi su se’ stesso, tremante.
«Nonononononononono…» Piagnucolava.
Emma non aveva idea di che cosa fare: non credeva di aver detto qualcosa di terribile, ed era preoccupata anche perché neppure i guaiti dispiaciuti di Aramis sembravano sortire sul giovane un qualche effetto calmante. Si chinò dunque accanto a lui, incerta, e alla fine gli posò una mano sulla spalla. «Ti chiedo scusa, Noah, non volevo spaventarti», mormorò piano, con dolcezza. «Non voglio obbligarti a fare qualcosa che non vuoi. Non piangere, per favore…»
A quelle parole – di cui la ragazza iniziava a dubitare che avesse inteso il senso – Noah si raddrizzò d’un colpo e si voltò verso di lei, con gli occhi arrossati e le lacrime che gli rigavano il viso. Le afferrò la mano con le sue e l’attirò verso di sé, stringendola tanto da farle male. «No. Tu. Casa… No», gracchiò, ansimando. Perfino i cavalli iniziarono a raschiare il terreno e a sbuffare, innervositi. Ignorandoli, Noah non le lasciò la mano e continuò a tirarla. «Stai qui. Con Noah. Niente casa… no», continuò a ripetere disperato, scrollandola ad ogni parola.
Adesso era lei che iniziava ad essere spaventata – non tanto per le sue parole, dato che non ne aveva compreso il significato, ma per l’apparente crisi isterica che Noah stava avendo. Come si sarebbe dovuta comportare per cercare di calmarlo? Non aveva alcuna esperienza… Inoltre la sua stretta era sempre più forte intorno alla sua mano, ed era impossibilitata anche ad andarsene per chiamare Mrs. Duncan – la donna avrebbe di certo saputo come tranquillizzare il figlio. Solo che lui non la lasciava! Noah aveva anzi nascosto il viso nel palmo aperto di Emma, continuando a balbettare cose senza senso e bagnandola di lacrime salate.
Fu il signor Duncan a trovarli, qualche minuto dopo. Egli era forse andato a chiamare suo figlio per cena, sapendo che l’avrebbe trovato nella scuderia, solo che di certo non si aspettava di trovarvi anche la giovane padrona; lo spettacolo che dovevano aver offerto ai suoi occhi opachi dovette essere ben strano, e misero.
«Milady!» Esclamò il custode, avvicinandosi a loro con un’andatura leggermente claudicante. «Milady, vi chiedo perdono… Buon Dio, Noah, smettila! Guarda me, figliolo, lascia andare lady Moore… Noah…» Fece, poggiando una mano decisa sulla spalla del ragazzo e riuscendo così ad attirare la sua attenzione. La sua voce era pacata e gentile e tuttavia risoluta, suadente, ed Emma si ritrovò ad ascoltarlo notevolmente sorpresa. «Va tutto bene, Noah, ci sono io. Puoi lasciare la mano di milady, Noah? Da bravo, le fai male.»
Forse fu quello a risvegliare il giovane da quella strana trance in cui era caduto. Liberò subito la mano di Emma e indietreggiò, spostando alternativamente lo sguardo da lei al padre con aria febbrile, intimidito e confuso. «Male? No, no, io bene, no male….» Replicò a mezza voce, gli occhi sgranati. Poi qualcosa scattò in lui, e un’espressione furiosa prese il posto di quella vacua. «Lui male! Lui, lui, lui
Emma non capiva che cosa stesse succedendo, ma sembrava averlo fatto Mr. Duncan. Alle parole accusatorie del figlio, infatti, egli era impallidito e aveva lanciato un’occhiata alla ragazza come a voler controllare la sua reazione, per poi prendere il volto di Noah tra le mani e obbligandolo, un po’ con le buone e un po’ con le cattive, a tacere e a dargli ascolto. «Sssht, Noah, non gridare, fai il bravo. Milady sta bene, milady è al sicuro, ma tu ti stai comportando male, vedi, molto male. Non si fa così, ricordi? Ricordi quello che ti dico sempre? Su, Noah, ripetilo. Ripetilo con me. Noah è bravo…»
Obbediente e all’improvviso del tutto calmo, il ragazzo pareva pendere dalle labbra del padre. «Noah è bravo…»
«Respira, figliolo, così, bravo. Dentro, fuori. Rilassati. Noah è bravo», insisté il signor Duncan.
«Noah è bravo», ripeté ancora l’altro, annuendo lentamente.
Emma era senza parole: non si era accorta nemmeno di star trattenendo il respiro, fin quando Noah non si fu voltato verso di lei, con un sorriso vacuo e timido sul volto, guardandola come se la vedesse per la prima volta. «Noah è bravo», le fece presente con aria soddisfatta, mentre il padre gli massaggiava la schiena per rasserenarlo.
Anche lei annuì, leggermente perplessa, accennando un sorriso a sua volta. Si accorse di essere ancora accucciata per terra solo quando Mr. Duncan, una volta in piedi, le porse una mano per aiutarla a rialzarsi. «State bene, milady? Io… non so davvero come scusarmi, il comportamento di mio figlio è stato imperdonabile. Spero… spero che non abbia esagerato…» Fece, perdendo d’improvviso l’atteggiamento deciso e risoluto che aveva fino a pochi attimi prima. Emma non poté fare altro che rassicurarlo che andava tutto bene, che non aveva intenzione di dare conseguenze all’accaduto e che forse era meglio non parlarne neppure con Mrs. Duncan, se lui voleva farle la cortesia. Parlarono ancora un po’, brevemente, poi la giovane si congedò e rientrò nel maniero, con mille pensieri per la testa; non capiva per quale motivo si era spaventata di più – per la crisi di Noah, per le strane parole che aveva detto o per il modo in cui il padre sembrava avergli fatto una sorta di lavaggio del cervello solamente sussurrandogli all’orecchio?
«Sono stanca», si disse tra sé, mordendosi le labbra. «Sono stanca. Mi abituerò a tutto questo, è… è solo questione di tempo.»
Sperava di abituarsene prima di avere a sua volta un crollo di nervi.

Il pomeriggio seguente, entrando nella biblioteca accompagnata da Miss Radcliffe per continuare la lezione interrotta prima di andare a pranzo, le due donne trovarono la vetrata che si affacciava sul giardino – alta due metri, larga quattro, a due ante e con un vetro talmente pesante che per aprirla di solito serviva uno strano attrezzo che aveva il signor Duncan – completamente spalancata: la pioggia entrava trasversalmente all’interno della casa e aveva inzuppato il tappeto e parte dei divani, per non parlare del vento che aveva rovesciato i vasi spargendo terra e germogli sul prezioso parquet.
«Vado a chiamare Mrs. Duncan», esclamò subito Miss Radcliffe, girando sui tacchi e correndo via in un frusciare di gonne.
Emma si guardò intorno, per un attimo disorientata, poi posò i suoi libri su un mobiletto accanto alla porta e corse alla vetrata, cercando di richiuderla il più possibile non senza sforzo, per impedire che altri oggetti si rovinassero. Il vento, purtroppo, spingeva nel verso contrario al suo, e la giovane ebbe come unico risultato quello di bagnarsi a sua volta. Imprecò sotto voce: le scarpe le scivolavano sul pavimento bagnato e rendevano vani i suoi tentativi di chiudere quella maledetta porta. Testardamente, continuò a spingere e tirare: sembrava trovare conforto nello sforzarsi così tanto per fare qualcosa che, comunque, sapeva di non essere in grado di fare – era un modo come un altro per sfogarsi, e lo accolse con gratitudine. Riuscì persino a smuovere la porta di qualche centimetro, benché ciò le costasse una notevole fatica a causa dello stretto corpetto che le toglieva il respiro e del vestito che aveva assorbito parecchia acqua.
«Signorina, sono tornata con… oh, per l’amor di Dio! Signorina, spostatevi da lì, vi verrà un malanno!»
Emma ignorò la sua istitutrice, rivolgendosi a Mrs. Duncan che prendeva il suo posto dietro la vetrata. «Volevo dare una mano, Mrs. Duncan, ma le mie scarpe scivolano sul pavimento, e…» Tentò di giustificarsi, sinceramente dispiaciuta di non poter fare di più.
La governante scosse il capo, spingendo gentilmente via la sua padrona. «Milady, non preoccupatevi. Lasciate che ce ne occupiamo io e Lydia… Voi andate ad asciugarvi, fate come dice Miss Radcliffe. Siete completamente inzuppata», fece la donna, che sembrò avere molta più forza di quanto si sarebbe detto nel richiudere la pesante porta a vetri.
«Come mai era aperto? Sarà entrato qualcuno?»
La governante sembrò arrossire leggermente, ma poteva anche essere un rossore causato dallo sforzo. «Ecco, io… ho paura che sia stato mio figlio, milady. Noah non è… Lo sapete, l’avete incontrato anche voi… Non ragiona come tutte le altre persone, milady. Deve essersi dimenticato di richiudere la porta, basta un niente perché si distragga, e questo tempaccio avrà fatto il resto…»
Precedendo Miss Radcliffe, Emma l’interruppe. «Non importa, signora Duncan, sono cose che capitano. L’importante è che non si sia rovinato nulla… mi dispiace solo che adesso ci sia da mettere in ordine tutto questo macello.» Non disse che trovava strano che Noah potesse essere entrato in casa di sua spontanea volontà, visto come era parso terrorizzato quando lei glielo aveva domandato; non disse neppure che, se non era riuscita lei a smuovere quella porta, dubitava che potesse esserci riuscito un ragazzo col fisico delicato di Noah. C’erano parecchie cose che stava iniziando a tenere per sé, in realtà, e questo le metteva addosso una certa inquietudine.



fghjk


La notte, contrariamente alle precedenti, Emma non riuscì a dormire a causa di strani rumori.
All’inizio aveva pensato ad una finestra lasciata aperta – Lydia poteva averla chiusa male, e adesso lo spiffero che penetrava dall’esterno faceva frusciare le tende e tintinnare la catena del lampadario; ma, dopo essersi alzata e aver controllato che gli scuri della sua stanza fossero ben sigillati, comprese che i fruscii provenivano da qualche altra parte. Il fuoco nel camino era ormai spento, ma non avrebbe svegliato la giovane cameriera per farglielo riaccendere – non aveva tutto quel freddo da non poter resistere fino al mattino dopo. Indecisa sul da farsi, poiché quei sussurri continuavano senza che si capisse da dove provenissero – se fosse stata un po’ più superstiziosa non avrebbe esitato a credere che i fantasmi degli antichi proprietari si aggiravano tra le mura della magione per terrorizzarne gli abitanti – Emma si avvolse nella vestaglia e andò a sedersi sul gradino della finestra, accoccolandosi come un gatto, in attesa di riprendere sonno.
Fuori aveva smesso di piovere, ma dalle grondaie gocciolavano ancora pesanti lacrime di acqua sporca: il picchiettio non le dava fastidio, anzi, lo trovava relativamente rilassante. La piccola falce di luna era coperta da grosse nuvole grigie che ne attutivano il già debole chiarore, sicché dalla finestra non si poteva vedere nulla della territorio circondante la magione. Di tanto in tanto si udiva il tubare roco di gufi o civette, il frullio d’ali degli uccellini che si rifugiavano nelle grondaie o nel sottotetto, il ticchettio dell’orologio – rumori in un certo senso rassicuranti, che si aggiungevano ai sinistri mormorii della casa che l’avevano svegliata.
All’improvviso, però, i sussurri tacquero: al loro posto, nel silenziò venutosi a creare serpeggiò suadente un’inattesa e ben strana musica. Udendola, Aramis si svegliò e rizzò le orecchie, all'erta: Emma lo osservò mentre si alzava, sollevando il muso per odorare chissà cosa, per poi raggiungere la porta e iniziare a grattarla con gli artigli, uggiolando e muovendo nervosamente la coda. Attese una manciata di secondi con la speranza che la musica tacesse e il cucciolo tornasse a dormire, ma essa invece continuava, e anzi se possibile diventava sempre più nitida. Sentendosi il cuore in gola, Emma scivolò giù dal ripiano della finestra, posando i piedi nudi sul legno freddo del pavimento e mettendosi in piedi; fissava la porta della stanza, titubante – avrebbe forse dovuto suonare il campanello e far accorrere Lydia o Mrs. Duncan per chieder loro chi avesse avuto la brillante idea di mettersi a suonare a mezzanotte passata? – e torturando il morbido cinto che le teneva chiusa la vestaglia.
Mentre decideva che fare, se rimanere nella sua stanza in attesa che tornasse il silenzio o se andare alla ricerca della fonte di quella musica, Emma rammentò una cosa che le aveva detto proprio la signora Duncan la prima notte in cui aveva dormito a Pemberley, e che in un primo momento non aveva degnato di particolare attenzione – se si escludeva l’educata curiosità con cui aveva ascoltato tutto ciò che le era stato detto e di cui ricordava solo la metà, stanca com’era dal viaggio – facendola passare in secondo piano.
«Permettetemi di darvi un consiglio, milady», aveva esordito la donna, con un misto di esitazione ed apprensione, prima che la giovane seguisse Lydia al piano superiore. «Non fatevi cogliere dal sonno in qualsiasi altra stanza del castello che non sia la vostra. Se avete piacere di trattenervi in biblioteca o nella serra fino a tardi, benché io ve lo sconsigli siete libera di farlo, ma non addormentatevi – affrettatevi a raggiungere la vostra camera! Pemberley è immensa ed antica, e noi della servitù siamo troppo pochi per poter essere sempre accanto a voi qualora ne aveste bisogno. Per cui, seguite il mio suggerimento, e usate questa cautela. Dormirei molto più serenamente sapendovi al sicuro nella vostra stanza, e anche voi, credetemi.»
Ora, Emma non capiva che cosa potesse esserci di male nell’addormentarsi su uno dei divani della biblioteca o in qualsiasi altra stanza della magione – fatto che peraltro le capitava spesso a casa, vista la sua abitudine di leggere fino a tarda notte o di scendere nelle cucine alla ricerca di uno spuntino notturno; e non vedeva neanche perché dovesse aver bisogno dei domestici a un’ora così tarda. L’avvertimento della governante sembrava più che altro una scusa per chiederle, in modo non tanto velato, di non aggirarsi per il castello una volta che tutti erano addormentati: sembrava quasi che la signora Duncan temesse i fantasmi, a giudicare da come si comportava! Ad ogni modo Emma non aveva intenzione di disobbedire alle loro regole, né tantomeno di ignorare volutamente i consigli che le erano stati dati: si trattava solo di voler scoprire da dove provenisse la musica e per quale motivo qualcuno, e soprattutto chi, si fosse messo a suonare il pianoforte nelle prime ore del mattino.
La musica proveniva dal pianterreno. Non appena aprì la porta della camera, affacciandosi sul corridoio, Emma udì le note musicali di quella sinfonia che non aveva mai udito prima giungere attutite dal piano inferiore, fatto che le confermò di non aver immaginato nulla. Inspirò ed espirò a fondo, poi, dopo essersi assicurata che Aramis non la seguisse, richiuse la porta della stanza alle sue spalle e avanzò lungo il corridoio, odiando il vecchio parquet che scricchiolava al suo passaggio. Le note tremolanti parevano uscire dalle pareti stesse… Era un’idea ridicola, ma si sarebbe potuto dire che i muri cantassero! Man mano che avanzava la musica acquisiva volume, spessore, tanto che la giovane si domandò come facessero gli altri abitanti della casa a non udire nulla e non andare a controllare.
La tristezza, la rabbia e la brama che permeavano ogni singola nota della misteriosa composizione la fecero rabbrividire, ma malgrado ciò non si perse d’animo e percorse tutto l’andito, raggiungendo le scale e scendendo, in punta di piedi, i gradini resi silenziosi da uno spesso tappeto. Era una musica che non credeva potesse appartenere a nessuno dei compositori di cui aveva letto né a opere a cui aveva assistito – e sì che lei si vantava di esserne una modesta appassionata e conoscitrice. L’intera situazione era, nel suo insieme, parecchio grottesca: aveva accantonato l’idea di qualcuno dei domestici come suonatore notturno senza neanche prenderla seriamente in considerazione, però insomma, chi altri poteva essersi infiltrato a Pemberley solo per avere il piacere di suonare il pianoforte della biblioteca?
Intanto, il componimento continuava. Emma aveva percorso rapidamente la Galleria delle Ossa – da lei stessa così ribattezzata per via dei macabri trofei di caccie passate che abbellivano le pareti bianche, creando dei giochi di ghirigori ed eleganti decori con le spoglie piccole e grandi delle prede appartenute ai vecchi proprietari – cercando di non lasciarsi spaventare dalle ombre che la sua fiammella gettava sulle tetre mura; tibie, artigli, corna e teschi di cervi, daini e volpi parevano allungarsi verso di lei come a volerla ghermire, mentre la musica per contro pareva incalzare e diventare più ossessiva ad ogni suo passo.
Infine raggiunse la sua meta. Si fermò poco distante dalla porta a due ante della biblioteca, gli occhi sgranati, la pelle dei suoi piedi nudi ricoperta di piccoli brividi a causa del gelo che regnava nel corridoio. In quel punto la musica era ormai chiara e distinta, come se si fosse trovava dietro le spalle del pianista: poteva quasi avvertire la furia con cui i tasti venivano premuti, un suono sordo e ritmico che fungeva da sottofondo alla melodia, e la curiosità di sapere chi stesse suonando e per quale motivo la colpì con lo stesso impeto che l’aveva spinta a lasciare la sua camera da letto per inseguire quello che a tutti gli effetti avrebbe potuto essere un semplice frutto del suo sonno.
Nella foga di risolvere quel mistero andò ad inciampare miseramente su di uno sgabello posto accanto alla soglia, e lo stridio che esso fece sulle assi del pavimento ove il tappeto non arrivava fece cessare la musica con un tonfo brusco e dissonante. Emma trattenne il fiato, pietrificata, cercando di udire il più piccolo rumore, ma ormai tutt’intorno a lei non c’era altro che un profondo silenzio. Attese ancora qualche minuto, poi prese coraggio e si avvicinò alla porta della biblioteca, afferrando la maniglia e abbassandola lentamente, sperando che lo scatto della serratura non fosse troppo rumoroso.
Le sue precauzioni si rivelarono inutili: la biblioteca era vuota. L’unico segno che qualcuno c’era stato davvero poteva essere, eventualmente, il coperchio del pianoforte sollevato sui tasti e lo sgabello in velluto leggermente spinto all’indietro – dettagli che Emma poté notare avanzando di qualche passo all’interno della sala, la candela ben in alto davanti a lei a proiettare un po’ di luce nella penombra. Girò lentamente su sé stessa, facendo attenzione a che la fiamma tremolante non si spegnesse, ma chiunque fosse stato il musicista misterioso, sempre se non l’aveva sognato, doveva essersene andato. Le parve di udire un fruscio alle proprie spalle, forse persino un alito d’aria, ma quando si voltò fu quasi delusa nel constatare che, davvero, non c’era nessun altro oltre lei.
«È la stanchezza», mormorò, cercando di convincersene. La sua voce quasi delusa parve rimbombare come un’eco nel silenzio, e un brivido – l’ennesimo – le corse giù lungo la schiena. Non c’era più nulla da fare, ormai, così non le rimase che ritornare a letto.

Fece dei sogni strani, che forse sarebbe più corretto definire incubi. Dapprima si trovò nuovamente a casa sua, ad Hambleton Abbey, ma tutto era nero e cupo e l’unica cosa che sfuggiva alle tenebre era il sarcofago in pregiato legno di noce della lady di Grantham ancora privo di coperchio, posto al centro di un enorme salone che non seppe riconoscere. Il suo subconscio aveva ricostruito con dovizia di dettagli ciò che un tempo era stata sua madre, nel giorno precedente la messa funebre – i capelli corvini elegantemente acconciati, per l’ultima volta, dalla sua cameriera personale, i gioielli che le erano stati messi durante il ciclo delle visite, l’elegante abito color panna con ricami neri sulle maniche e sul colletto, persino il leggero filo di maquillage sul volto cereo e spettrale – eppure pareva anche averne aggiunti di altri. C’era infatti, in un angolo della sala, un enorme organo a canne, di quelli che si vedono nelle chiese, e dal quale proveniva una musica straziante: la stessa, in effetti, che aveva udito nella biblioteca di Pemberley. Il compositore era di spalle, nulla più che un’ombra scura che pareva ondeggiare seguendo le note, ma c’era qualcosa che la spinse in quella direzione, forse curiosità o forse la magia di quello che avrebbe potuto definire solo un tetro requiem.
Eppure, prima che potesse fare un solo passo, una voce rimbombò nel salone, pietrificandola. «Non ti avvicinare, Emma. Sta’ lontana da lui.»
Emma conosceva quella voce, la conosceva bene; terrorizzata si voltò piano, vittima di quell’odiosa lentezza tipica degli incubi, e ciò che vide le fece spalancare la bocca in un grido muto. Sua madre, o ciò che era diventata, sedeva rigidamente all’interno del feretro, il viso immobile rivolto verso la figlia, gli occhi chiusi, la bocca che si apriva a fatica, un improvviso sudario che le avvolgeva le spalle a mo’ di peplo. «Sta’ lontana da lui. Lontana, lontana, lontana…» Ripeté lady Grantham, sollevando pesantemente un braccio ad indicare l’informe figura che non aveva smesso un solo istante di intonare quella lugubre melodia.
Gli occhi di Emma si fissarono sulle dita scheletriche della donna, sugli anelli che pendevano dalle ossa scarne come se fossero stati infilati su dei rametti secchi, e quando tornarono poi sul suo volto ecco che la carne era sparita, e al suo posto c’era soltanto un’orrenda sostanza cadente, decomposta. Labbra, naso e palpebre erano sparite, e ciocche sottili e fragili di capelli neri le ricadevano sugli occhi, grigi e opachi ma che conservavano ancora qualcosa dell’azzurro che lei stessa aveva ereditato.
Poi la bocca si aprì in una voragine scura, e lei sentì di nuovo quelle parole, pronunciate con una voce che pareva giungere dalle profondità stesse dell’inferno. «Lontana, lontana, lontana!»
Strillò, ma neanche stavolta produsse un solo suono. Venne risucchiata nell’oscurità, e quando riaprì gli occhi il sole invadeva la sua camera da letto passando dalle imposte spalancate.


sdfghjk


Emma interruppe all’improvviso la lettura delle Lettres persanes e infilò un dito in mezzo al volume, prima di chiuderlo e posarselo in grembo. Miss Radcliffe, che tanto per tenersi occupata stava rammendando della biancheria seduta sul divano lì accanto, sollevò lo sguardo dal suo lavoro e lo posò sulla ragazza, perplessa.
«Perché vi siete fermata, signorina? C’è qualche parola che non capite o forse Voltaire ha cessato di interessarvi?» Domandò, aggrottando la fronte.
Il tono vagamente severo dell’istitutrice strappò un breve sorriso a Emma, che tuttavia tornò seria fin troppo in fretta. «No, miss. È solo… C’è qualcosa di cui vorrei parlarvi fintanto che siamo sole.»
Quelle parole parvero conquistare l’intero interesse della donna, che abbandonò il suo ricamo e si avvicinò un po’ di più alla sua allieva. «Dovrei preoccuparmi, signorina?» Mormorò, abbassando d’istinto il tono della voce.
«Non lo so, miss Radcliffe.»
Brevemente le raccontò la vicenda del pianoforte della notte prima, di quella musica sconosciuta che non riusciva a togliersi dalla testa – l’istitutrice giurò e spergiurò di non aver udito nulla, e anzi di aver dormito come un sasso fin quando Lydia non l’aveva svegliata come al solito, alle sette di quel mattino – e di come, nel rientrare in camera sua, si sentisse stranamente osservata, quasi che qualcuno la spiasse da dietro le tende o dalle pareti stesse. Ritenne più opportuno tenere l’incubo per sé, per quanto l’avesse messa di malumore, e non ne fece parola.
«Chi potrebbe aver avuto accesso alla biblioteca in piena notte?» Domandò miss Radcliffe a mezza voce, iniziando seriamente a preoccuparsi per quell’ennesimo mistero. «Se anche fossero stati i Duncan, o Lydia, che motivo avrebbero avuto di fuggire non appena vi avessero sentito? A meno che non fosse quel ragazzo, quel giovane…»
«Noah, dite?» La ragazza non era molto convinta.
«Sì, precisamente. Potrebbe aver temuto che voi lo rimproveraste per essere ancora in giro a quell’ora e per avervi svegliata, no?»
Emma doveva ammettere che quella possibilità non le era neanche passata per la testa – un po’ perché non pensava che Noah potesse essere capace di suonare e un po’ perché, forse, inconsciamente voleva che tra quelle mura ci fosse una sorta di mistero da svelare. Se non altro l’avrebbe rassicurata sul fatto di non essere pazza… «Non so, miss… Potrebbe essere», disse comunque, scrollando appena le spalle.
La loro conversazione si interruppe quando la porta si aprì ed entrò Lydia, portando un secchio con dell’altra legna per attizzare il fuoco; Emma riprese quindi a leggere ad alta voce, faticando più del solito in quella lingua che in genere riusciva a ben padroneggiare, e pose fine alla recita solo dopo che la domestica ebbe lasciato nuovamente la stanza, rapida ed efficiente.
«Non credo che la ragazza avrebbe potuto raccontare ad altri ciò che avrebbe sentito», le fece allora notare miss Radcliffe, stranamente rigida nella sua postazione.
Emma scosse piano la testa. «Avrebbe comunque potuto scrivere, per quello che ne sappiamo. E comunque, signorina Jane, non vorrei davvero rischiare.» Erano poche le occasioni in cui Emma si rivolgeva alla sua istitutrice chiamandola per nome, e quando ciò accadeva in genere era perché la giovane aveva bisogno di poter instaurare un dialogo più confidenziale con l’altra donna che aveva contribuito alla sua crescita. «So che può sembrarvi sciocco, ma ho l’assurda sensazione che i domestici ci stiano nascondendo qualcosa», aggiunse in un sussurro, tamburellando con le dita sulla dura copertina del libro.
«Beh, di sicuro non si può dire che siano stati molto loquaci da quando siamo arrivate…» Convenne l’istitutrice, mordendosi un labbro. «Ma pensate che rischierebbero l’impiego per mentire al loro datore di lavoro? E mentire su che cosa, ad ogni modo? Sì, la faccenda degli specchi era strana, e continuo a credere che un filo di rigore in più non farebbe male, ma da qui a dire che ci stanno nascondendo qualcosa!...»
«C’è dell’altro», proseguì Emma con insistenza, interrompendo l’obiezione teoricamente logica della donna. «Questa mattina, quando mi sono svegliata… dovete sapere che ieri notte ho chiuso la porta a chiave una volta rientrata dalla biblioteca… Ecco, c’era un carillon sul comodino di fianco al mio letto. Un carillon che non avevo mai visto, e che vi posso assicurare che ieri sera non ci fosse! È di quelli piccoli e rotondi che sembrano dei portagioie, con il coperchio dorato e intarsiato che si solleva; la carica era già stata data, così quando ho sollevato il coperchio le figurine di un uomo e una donna, in posizione di walzer, hanno iniziato a muoversi in tondo seguendo la musica… La stessa musica che ho udito suonare dalla biblioteca, miss Radcliffe, su questo posso giurare e mettere la mano sul fuoco!»
«Questo è già più strano», mormorò miss Radcliffe, gli occhi leggermente più spalancati del solito ma non terrorizzata come invece Emma si era aspettata. «E siete sempre dell’idea di non parlarne con vostro padre? So che non volete disturbarlo, signorina, ma voi stressa siete preoccupata…»
«Ma non abbiamo nessuna prova, miss! Niente di niente, e lui non mi crederà. Penserà che sono ancora sconvolta dalla morte di mia madre», cosa peraltro vera, altrimenti come spiegare l’orribile sogno della notte prima?, «e comunque potrebbe licenziare i signori Duncan solo per farmi stare tranquilla. E se mi sbagliassi al riguardo, miss, credete che potrei dormire serena sapendo di aver rovinato loro la vita a causa di una mia discutibile congettura?»
«E allora che cosa suggerite di fare, signorina?»
Eccolo, il problema. Che cosa suggeriva di fare, lei? Aspettare e vedere che cos’altro sarebbe successo? Adesso che ci pensava alla luce del giorno, le stranezze della notte prima apparivano come semplici scherzi della sua mente, e se avesse dato retta al buonsenso e alla logica se ne sarebbe vergognata e avrebbe cercato di non pensarci più; ma ciò non cancellava il fatto che qualcuno prima si fosse introdotto a Pemberley – l’idea che potessero essere stati i domestici a suonare non riusciva proprio ad attecchire nelle sue elucubrazioni – e poi nella sua camera da letto, chiusa a chiave, per chissà quanto tempo e per fare chissà che cosa, oltre a lasciarle l’inquietante dono del carillon. Insomma, se non proprio spaventata Emma era perlomeno allarmata. Non poteva contare su suo padre, doveva fare a meno dei consigli e del conforto che usava darle sua madre, era spaventata e non c’era nessuno, all’infuori di miss Radcliffe, con cui parlare e sfogarsi; scrivere una lettera a Caledon, poi, era fuori discussione – non c’era ancora un’intimità simile, con il suo futuro marito, da spingerla a contattarlo in un caso del genere. Dunque come comportarsi?
«Sinceramente, miss, non ne ho la più pallida idea.»




















_______________________________________________


Angolo Autrice.
Eccoci con il secondo capitolo! Ho fatto il prima possibile, considerando che il caldo remava contro di me :D
Parlando della storia, sto ancora ingranando: piano piano stiamo facendo conoscenza con i nostri personaggi nonché con la misteriosa abitazione che fa da sfondo all’intera vicenda. Presto ne sapremo sempre di più, non ci vorrà molto prima che i nostri eroi prendano la situazione in pugno e decidano di indagare :D Il genere noir-macabro-grottesco-eccetera è ancora nuovo per me, spero di riuscire a renderlo almeno un quarto di quanto vorrei! In caso contrario, si accettano suggerimenti ù__ù
Anyway!
Ci tengo a ringraziare tutti coloro che hanno iniziato a leggere questa storia, che l’hanno già aggiunta ai Preferiti e ai Seguiti dandomi quello sprint in più per continuare a scrivere. Un grazie particolare va a Sylphs, Homicidal Maniac e Se7f per aver recensito lo scorso capitolo <3
Alla prossima, care! Per oggi that’s all, folks ;D
Baci baci, la vostra
Niglia.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Chapter 3. Pursue the Truth ***


banner




3.
Pursue the Truth

















Il giorno dopo la conversazione avuta con la sua giovane protetta, la signorina Radcliffe domandò a Mr. Duncan se poteva scendere insieme a lui al villaggio, ufficialmente per imbucare alcune lettere e fare acquisti; prima di uscire ebbe comunque la cortesia di lasciare una nota per Emma nella quale la informava che le loro lezioni erano sospese fino al suo ritorno e di sentirsi libera di occupare il tempo come più l’aggradava.
Ciò che non disse al vecchio custode era il vero motivo della sua uscita: ne aveva abbastanza di frasi spezzate e rarefatte spiegazioni strappate con gli artigli ai domestici – aveva l’impressione di abitare in una casa stregata, e per di più non si fidava nemmeno di chi la gestiva, contrariamente a quanto Emma, malgrado lo spavento che si era presa la notte prima per via della faccenda della misteriosa musica notturna, continuasse a dichiarare. Ebbene, miss Radcliffe era certa che gli abitanti del villaggio dovessero essere parecchio informati sui segreti di Pemberley Manor, e contava di riuscire a trovarne qualcuno abbastanza loquace da illuminarla al riguardo. L’idea di indagare su di loro alle spalle di Emma non le piaceva minimamente, ma sapeva già che se ne avesse fatto parola con la ragazza quest’ultima l’avrebbe dissuasa con le buone o con le cattive, come aveva fatto per la faccenda degli specchi e di nascondere alcune cose al padre; miss Jane non poteva più tollerarlo, ed era per questo che aveva preso l’iniziativa.
La giornata era nuvolosa e un debole venticello soffiava gelido, ma vista l’assenza di pioggia i cavalli procedettero spediti sulla stradina asciutta, impiegando la metà del tempo per arrivare al villaggio di quella che avevano adoperato la sera in cui le due donne erano arrivate alla stazione di Alnwick.
Il villaggio di Heatherfield – così chiamato perché secoli prima era sorto su un enorme campo di eriche – era un piccolo e modesto agglomerato di case in pietra e legno, accoccolate sul declivio di una collina poco distante dal fiume che scorreva verso il mare; alcune abitazioni erano incastrate tra la terra e la roccia, e uno spesso strato di muschio ed erbetta aveva preso a crescere persino sui tetti di alcune di esse. Quasi ogni casa possedeva un piccolo cortile che dava sulla strada, dove venivano coltivati fiori e ortaggi a non finire; dai comignoli si innalzavano grigie volute di fumo che rendevano l’aria cupa e tetra, e che annerivano le pareti delle case vicine. La stradina in terra battuta si snodava in mezzo ai piccoli edifici come un serpente, andando a sbucare nella larga piazza che ospitava un grande abbeveratoio per le greggi e che fungeva da punto d’incontro per tutti gli abitanti del borgo.
Fu lì che il signor Duncan fermò il calesse, legando i cavalli ad uno steccato per poi aiutare miss Jane a scendere a terra. Le spiegò come raggiungere prima l’ufficio postale e poi una locanda dove sarebbe stato più saggio per lei attenderlo, mentre il vecchio custode sbrigava le sue commissioni per conto della moglie: disse che sarebbe andato là a cercarla, una volta concluse le sue faccende. La signorina Radcliffe annuì, dopodiché si separarono.
All’ufficio postale la donna doveva semplicemente imbucare le lettere per il conte di Grantham, cosa che non le impegnò che pochi minuti; a quel punto poté dedicarsi al vero motivo per il quale si era fatta portare a Heatherfield, e facendo attenzione a non passare nel fango attraversò la piazza e si diresse verso la pensione che il signor Duncan le aveva indicato.
L’Old Oak era l’unica locanda del villaggio abbastanza grande da ospitare, al suo interno, un piccolo salottino che fungeva da sala da pranzo e da tè. Non appena ebbe varcato la soglia, Jane Radcliffe venne investita dal piacevole calore proveniente dalla stufa a legno posizionata accanto al bancone, nonché dal profumo di caffè, pasticcini e torte appena sfornate. Dopo aver richiuso la porta dietro di sé avanzò all’interno della stanza e si levò il soprabito, notando con la coda dell’occhio le teste dei pochi avventori – non erano neppure le otto del mattino – che si sollevavano incuriosite verso la nuova arrivata.
Avvicinandosi al proprietario, un uomo sulla mezza età che lucidava alcuni bicchieri opachi disposti ordinatamente sul bancone, posò il proprio cappotto sullo sgabello e si schiarì la voce.
«In che cosa posso servirla, signora?» Domandò l’uomo con fare cortese, alzando gli occhi su di lei.
Miss Jane accennò un leggero sorriso. «Gradirei una tazza di tè con del latte, grazie.»
«Certo, signora. Bessie vi accompagnerà nel salottino, verrete servita subito… Bessie!» Chiamò, voltando il capo verso una piccola porta ad ante che doveva essere quella della cucina.
«Oh no, non importa… Posso rimanere qui», ribatté frettolosamente, attirando nuovamente l’attenzione del proprietario. «Mi tratterrò poco», spiegò, rispondendo allo sguardo perplesso dell’uomo.
«Come desiderate, signora», concesse lui, benché poco convinto. La osservò curiosamente mentre miss Jane andava a prendere posto su un tavolino vuoto accanto alla finestra, dopodiché la sua attenzione tornò a ciò che stava facendo prima di venire interrotto. La porta della locanda si aprì ed entrò un altro avventore – una figura scura che pareva mettere una particolare attenzione nel non mostrare il proprio viso – il quale, senza disturbare nessuno, mormorò un ordine al proprietario e andò a sedersi diligentemente a uno dei tavoli liberi in disparte rispetto al resto della saletta.
Miss Jane lo aveva osservato distrattamente, con la coda dell’occhio, ma la sua mente non dovette ritenerlo così interessante, dato che quando la cameriera giunse poco dopo, portando la sua ordinazione su un vassoio in legno, la donna l’aveva già dimenticato. «Voi… siete la nuova abitante di Pemberley Manor, vero? Siete la contessa?» Le chiese Bessie, sottovoce, con aria interessata.
«Sono la sua istitutrice, in realtà. Milady è molto più giovane di me», le spiegò gentilmente, sfilandosi i guanti e poggiandoli accanto a sé. «Oh, grazie per la fetta di torta… L’avete fatta voi?»
«Mia madre, signora. Io l’ho decorata», rispose la ragazza con un sorriso compiaciuto.
«Molto graziosa, complimenti», fece miss Radcliffe, che, per ciò che aveva in mente di fare, si preparava ad accattivarsi la giovane cameriera in modo che si sentisse in vena di parlare e confidarle qualsiasi cosa.
«Chiamatemi se doveste aver bisogno di qualcos’altro», le disse infine Bessie, prima di congedarsi.
Per un po’ non accadde nulla: mentre era lì a godersi la sua colazione, miss Radcliffe osservò con un’aria che si sarebbe potuta definire sorniona il via vai di gente che andava e veniva dalla locanda, e che si faceva sempre più frenetico man mano che la mattinata avanzava. C’erano anche donne tra la clientela, ma per lo più si trattava di uomini che approfittavano di una pausa e l’altra del loro lavoro per farsi un goccetto.
Miss Jane non se ne accorse subito, ma l’oste – tale signor Barker – aveva sparso la voce tra i suoi clienti abituali, quelli che si sedevano al bancone per meglio aggiornarsi su nuovi pettegolezzi, che lei era proprio una delle nuove inquiline di Pemberley, giunta finalmente al villaggio per svelare il mistero che si celava dietro l’arrivo della contessina e della sua istitutrice – evidentemente la notizia di due donne che si trasferivano da sole in un maniero abbandonato da anni provocava parecchio trambusto.
«Come si sta lassù a casa Pemberley, signora?» Esclamò uno degli avventori all’improvviso, voltandosi verso di lei mentre attendeva, in bilico su di uno sgabello, di venire servito. «Non preoccupatevi se sentite rumori durante la notte, è solo il vento della brughiera che soffia impetuoso, facendo tremare i vetri!»
«O forse sono i fantasmi del conte e dei suoi figli», ridacchiò qualcuno, a voce abbastanza alta perché il suo tono irriverente si udisse al di sopra del chiacchiericcio.
Ben presto, come se in fondo gli abitanti di Heatherfield non vedessero l’ora di svelare i loro cupi segreti a qualche ingenuo e inconsapevole cittadino, l’attenzione e i discorsi di tutti i presenti si focalizzarono sul solo scopo di metterne al corrente la povera istitutrice. La signorina Radcliffe scoprì così che della medesima storia esistevano parecchie versioni che differivano per i dettagli più disparati, ma grazie al suo buon udito e alla sua eccellente capacità di sintesi e accortezza riuscì a ricostruirne per sommi capi una variante il più coerente possibile.
Tutti coloro che erano accorsi a raccontare alla straniera la vicenda più succulenta che fosse mai capitata nel circondario concordavano su una medesima cosa: la famiglia Pemberley, fatta eccezione per la figlia, la giovane e bella lady Eleanore, non godeva di una splendida fama tra i membri del villaggio. Della contessa ormai si rammentava poco e niente, essendo morta ben sedici anni prima dell’incidente – comunque c’era ancora chi si sprecava in lunghe descrizioni sulla sua bellezza; il conte, invece, era arrogante, altezzoso e sgarbato con chiunque gli fosse inferiore, e da quando era rimasto vedovo aveva iniziato a seminare il panico tra la sua stessa servitù. Gli altri due figli maschi, poi, minacciavano di diventare addirittura peggio di lui.
Nella foga della discussione venutasi a creare, qualcuno – miss Jane non avrebbe saputo individuare la fonte certa – aggiunse persino che da qualche tempo il conte era diventato pazzo.
«Il figlio di mio cugino, Rob, portava loro la posta tutti i giorni», stava raccontando un altro, alzando la voce di modo che tutti i presenti lo degnassero di attenzione. «E chiacchierava con le cameriere e le sguattere di cucina. Ne ha sentite di tutti i colori il giovanotto, ve lo posso assicurare! Dicevano che il conte rimaneva alzato fino a tardi, rinchiuso in biblioteca, e non voleva che nessuno lo disturbasse: sembra che non dormisse più, aveva smesso di andare a caccia e di frequentare i suoi soliti circoli, e parlava soltanto con i figli! Si aggirava per il castello come un’anima in pena, e proibiva a chiunque di seguirlo. D’altronde si dice che i peccatori non riescano a dormire e riposare…»
Poi, all’improvviso, una quindicina d’anni dopo la morte della moglie, il conte parve rinascere. Nessuno seppe spiegarsi il motivo di quel cambiamento così repentino, dato che i Pemberley non usavano confidarsi con chi non apparteneva alla loro famiglia: né la cameriera personale di lady Eleonore né tantomeno il valletto del conte vantavano un grado d’intimità simile con i loro padroni da poter scucire la verità su un comportamento del genere. Per carità, fece una signora seduta poco distante da miss Jane, non stavano certo insinuando che il conte fosse chissà quale canaglia, era solo… strano, ecco. Forse aveva soltanto protratto a lungo il periodo del lutto, affezionato com’era alla moglie, ma ciò non faceva di lui un mostro!
«Bah! La verità è che tornò ad essere lo spauracchio del villaggio, il che per lui equivaleva essere tornato alle vecchie consuetudini. Non fu mai uno stinco di santo, il conte, e non vedo perché mai dovremmo onorarne la memoria adesso», sputò un uomo tutto imbacuccato seduto al bancone, intervenendo nel discorso tra un goccio di sherry e l’altro.
«Via, signor Fraser, non si parla male dei morti», lo rimbeccò bonariamente Mrs. Gibbs, la cuoca, che aveva abbandonato la cucina per partecipare alla più interessante discussione che avveniva nel locale.
L’altro riprese a bere con una scrollata di spalle, come a dire che non gli interessava.
Alla fine miss Radcliffe riuscì a catturare l’attenzione di uno degli uomini che stavano raccontando, e ad interrompere il suo ciarlare senza fine. «Ma, alla fine, che cosa accadde quindici anni fa? In cosa consiste questo incidente di cui parlate tutti?»
«Fu una brutta storia», esordì infine lo stesso barista, con aria tetra. «Ci fu un grosso incendio, e tutti i Pemberley morirono. Ma non fu quella la parte peggiore… Qualcuno fece una strage, quella notte, e uccise ogni abitante del castello, a partire dal maggiordomo per concludere con l’ultima sguattera di cucina. Non si salvò nessuno, salvo… salvo i Duncan, che all’epoca abitavano fuori dal maniero, in un villino ai confini della proprietà.»
«Un po’ strano, non credete?, che tra tutti si salvassero proprio loro, quelli che alla fine avrebbero ereditato la tenuta in custodia fino a che non si fossero trovati altri proprietari?»
Un violento brusio seguì quell’affermazione, segno che, anche a distanza di tutti quegli anni, certe faccende irrisolte continuavano a mietere vittime. Ciò diede inizio a un altro giro di birra e sherry, e gli avventori dell’Old Oak divennero sempre più partecipanti e ciarlieri: miss Jane cominciava a pensare di aver sbagliato nel lasciare che quel discorso venisse fuori – sarebbe stato meglio chiedere a uno solo, in privato, senza che si scatenasse quella folla di curiosi smaniosi di dare la loro versione dei fatti. Eppure il racconto andava avanti, e lei non poté fare a meno di ascoltare, morbosamente curiosa.
«All’alba, dopo aver spento l’incendio e fatto le prime indagini, il vecchio Dolph venne arrestato e portato giù in città, al commissariato. Fu lui a trovare i corpi, così raccontò, ma negò fino alla fine di aver qualcosa a che fare con quella disgrazia. I ladri, disse. Devono essere stati i ladri… eppure nulla era stato rubato, né spostato di un millimetro.» Bevve un lungo sorso del suo sherry, prima di voltarsi verso la signorina Radcliffe e continuare la sua storia. «La polizia lo scagionò dalle accuse perché non c’erano prove contro di lui. Nessuno aveva visto niente, come potete immaginare. E poi aveva le chiavi, il signor Duncan, mentre la porta del castello era stata scassinata. Questo perlomeno è quanto sappiamo, ovviamente la polizia avrà tenuto il resto per sé… ma non ha mai fatto male ad una mosca, il vecchio Dolph, e quella faccenda lo sconvolse profondamente. Neppure la moglie fu più la stessa, dopo.»
«Erano a servizio del conte da sempre, si può dire. Certo che rimasero sconvolti… Non augurerei una fine del genere al mio peggior nemico», mormorò Mrs. Gibbs, scuotendo mestamente la testa. «E tutti i membri della servitù, poi… La maggior parte non erano di qui, però si può dire che ci conoscessimo tutti tra noi – la povera gente si conosce l’una con l’altra. E il funerale… Ve lo ricordate, il funerale?»
«Parli di quello dei domestici, vero? Perché non ricordo che ci sia andato nessuno di noi, a quello dei Rochester», ribatté l’oste, storcendo il naso.
«Già, e a volte… A volte vorrei che l’avessimo fatto», fu la sussurrata risposta della cuoca.
La curiosità di miss Radcliffe era già stata stuzzicata abbastanza perché la donna potesse accontentarsi di simili frasi ambigue. «Che cosa intendete dire?» Domandò, attirando l’attenzione di gran parte dei presenti su di sé ma senza curarsene particolarmente.
«Oh, signora, niente, niente. Perdonatemi, anzi, perdonateci tutti! Sono solo chiacchiere e cattiverie senza senso, vi prego di non darvi più peso del necessario», replicò la donna frettolosamente, tirando su col naso e pulendosi le mani ancora un po’ infarinate sul grembiule. Ciò servì a riportare ognuno dei presenti con i piedi per terra, e il chiacchiericcio frivolo e fastidioso tornò a sostituire l’accalorata discussione che c’era stata fino a quel momento. Miss Radcliffe comprese che non le sarebbe stato detto nient’altro, e con un sospiro si lasciò scivolare sulla sedia, dimentica del suo tè ormai gelido.
Il misterioso avventore ammantato di scuro che era rimasto in disparte per tutto il tempo in cui aveva avuto luogo la discussione lasciò frettolosamente la locanda prima di lei, così che miss Jane non ebbe modo di poterlo vedere in faccia. Non ci fece caso – aveva già racconto fin troppe informazioni, vere o false che fossero – e poteva dunque finire la sua colazione in attesa che Mr. Duncan andasse a prenderla per tornare a Pemberley. Ne avrebbe avuto parecchie di cose da raccontare a milady, senza alcun dubbio.


*

Emma avrebbe voluto approfittare dell’assenza di miss Radcliffe per dedicarsi ad un’accurata ispezione del castello, ma il timore di poter trovare le prove che vi fosse effettivamente qualcosa di strano le impedì di aggirarsi da sola per i corridoi, pur con la tenue luce del giorno che penetrava dalle finestre. Era la prima volta che rimaneva da sola con i domestici, e anche questo le metteva addosso un’incomprensibile inquietudine; fu così che domandò a Mrs. Duncan di servire la colazione all’esterno, nel salottino in vimini sotto il portico che era stato portato fuori dopo il loro arrivo – probabilmente lo tenevano conservato in soffitta, dato che non c’era nessun padrone che lo utilizzasse – e dal quale si godeva di una piacevole vista sul giardino e su un lembo del lago che si trovava nella proprietà.
Mentre sfogliava un libro trovato in biblioteca – un vecchio volume di poesie con il dorso bruciacchiato e le pagine ingiallite, i cui margini erano stati diligentemente riempiti con annotazioni e appunti in una un po’ troppo pretenziosa calligrafia femminile – uno strano trambusto giunse a spezzare la quiete della sua colazione. Fu come un rombo: un insieme di pezzi di ferraglia che, facendo attrito tra loro e avanzando sulla ghiaia del vialetto, parevano quasi un treno fuggito dai suoi binari. In realtà, per Emma non si trattava di un rumore del tutto nuovo: lo aveva udito sempre più spesso in città, negli ultimi tempi, quel baccano che sovrastava persino i nitriti dei cavalli e il chiacchiericcio dei cocchieri. Sia per Lydia che per la signora Duncan, tuttavia, doveva trattarsi di una novità visto il modo in cui interruppero ciò che stavano facendo per sollevare lo sguardo e cercare di individuare la fonte di quel rumore.
Come Emma aveva immaginato, quel baccano era dovuto al ruggente motore di un’automobile: il mezzo in questione sbucò sbuffando e scoppiettando da sotto i frondosi alberi del vialetto, raggiungendo il piazzale del maniero. Mrs. Duncan si avvicinò d’istinto alla sua padrona, mentre la giovane domestica si limitò a rimanere ferma e immobile come se sperasse di poter diventare invisibile da un momento all’altro.
«Sapete chi è, Mrs. Duncan?» Domandò Emma senza scomporsi, poggiando il libro sul tavolino e prendendo un sorso di tè.
«No, milady. Non abbiamo più avuto visite da quando la vecchia famiglia abitava qui», replicò la governante a mezza voce. Sembrava stranamente agitata, forse anche più pallida del solito, soprattutto mentre lanciava occhiate alla casa dietro di lei: che temesse l’improvvisa comparsa di Noah, e una sua eventuale brusca reazione davanti alla presenza di estranei?
«Non importa. Ci comporteremo da perfetti padroni di casa», fu la risposta di Emma. In realtà era piuttosto eccitata all’idea di ricevere ospiti – le mancava avere a che fare con qualcuno che non fosse la sua istitutrice o la governante di Pemberley – anche se iniziava già a pentirsi di non aver indossato il nero, quella mattina: con il fatto di vivere da sola in quell’immensa magione aveva dimenticato che nel mondo esterno ci si aspettava che lei onorasse il lutto per la sua povera madre.
Dal moderno phaeton bianco con rifiniture nere e dorate scese un distinto signore che poteva avere l’età di suo padre, il conte di Grantham: era alto e robusto, con folti capelli scuri vivacemente brizzolati e delle rughe agli angoli degli occhi che tradivano la sua età matura. Si levò il cappello, i guanti in pelle rossiccia e si scrollò di dosso qualche granello di polvere, prima di voltarsi verso la magione e osservarne l’imponente facciata con un’aria assorta e interessata; solo una volta concluso l’esame spostò la sua attenzione verso le tre donne che lo osservavano incuriosite da sotto il patio, accennando poi un inchino nella loro direzione.
Emma prese la parola per prima. «Buongiorno, milord. Con chi abbiamo l’onore di fare la conoscenza?» Domandò, mentre l’uomo si avvicinava con passo svelto. Adesso che lo poteva vedere meglio, Emma notò la fronte ampia e la pelle appena più scurita dal sole del tanto ritenuto elegante dalla buona società londinese, cosa che le fece pensare che molto probabilmente l’uomo non era un lord.
Tale sospetto venne immediatamente confermato quando egli si presentò. «Niente milord, signorina, sono solo un umile imprenditore. Mi chiamo Arthur Carlisle. E voi dovete essere lady Moore, se non sbaglio?»
Le voci giravano in fretta. «Non sbagliate, signor Carlisle. Prego, accomodatevi – posso offrirvi del tè?»
«Grazie, molto volentieri», accettò, sedendosi di fronte a lei e posando i suoi accessori su un’altra sedia vuota. Aramis, che non lo aveva perso di vista un solo istante, si alzò, si sgranchì le zampe e gli si avvicinò con cautela per annusarlo, per poi posargli il capo in grembo e lasciarsi accarezzare tra le orecchie. Ciò rese anche Emma più ben disposta nei confronti del suo ospite misterioso.
Lasciò che Lydia gli servisse il tè, dopodiché parlò. «Che cosa vi porta a Pemberley, sir Carlisle?»
«Fondamentalmente la curiosità, milady, unita al dovere di buon vicinato. Inizio con il chiedervi perdono per non essere venuto prima a porgervi il benvenuto qui a Heatherfield. Io e mia moglie abbiamo pensato che fosse meglio darvi del tempo per ambientarvi nella nuova casa prima di venire a imporvi la nostra amicizia», fece con un gran sorriso, sembrando quasi di dieci anni più giovane.
«È molto gentile da parte vostra», ammise Emma, ricambiando il sorriso senza sforzo. «Spero che tornerete con vostra moglie la prossima volta, così incontrerete anche la mia istitutrice.»
«Siete venute voi due da sole? Ero convinto che anche il conte di Grantham fosse a Pemberley.»
«Mio padre ci raggiungerà più avanti, è molto impegnato in questo periodo», spiegò, senza tuttavia approfondire dettagli che non era necessario che il signor Carlisle sapesse. «Vedo che le notizie viaggiano in fretta da queste parti…»
«Già, perdonate la mia indiscrezione. Heatherfield è un villaggio di duecento anime, tutti conoscono tutti e un nuovo arrivato attira l’attenzione come un gatto che abbaia. Anche se abita in una proprietà così fuori mano come Pemberley», ammise l’uomo, con un’espressione che sarebbe sembrata quasi colpevole se non fosse stato per il luccichio divertito nei suoi occhi.
Emma sorrise senza prendersela. «Bene, mi fa piacere ricevere visite. Siete il primo indigeno con cui ho a che fare, escludendo i signori Duncan… È una boccata d’aria fresca poter parlare con qualcun altro che non siano i domestici», aggiunse, chinandosi verso di lui e abbassando notevolmente il tono di voce. Mrs. Duncan, che aveva ripreso a potare qualche rametto arrogante dei cespugli di rose, poco lontani, non diede segno di aver sentito.
Istintivamente il signor Carlisle posò a sua volta lo sguardo sull’indaffarata governante, con un’aria d’un tratto imperscrutabile. «Sì, immagino», mormorò a mezza voce. Sembrava immerso in qualche ragionamento tutto suo, così Emma lo lasciò libero di inseguire i suoi pensieri per un altro po’, prima di attirare di nuovo la sua attenzione.
«Vivete qui da tanto, sir Carlisle?»
La sua voce riscosse l’uomo e riportò il suo interesse su di lei. «Oh, sì. Da più di vent’anni, mia cara», rispose con sorriso rilassato, spezzando uno dei biscotti al burro e assaggiandolo incuriosito. «Sono nato e cresciuto nel Derbyshire, a Matlock, ma poi ne ho avuto abbastanza e sono fuggito nel continente in cerca di fortuna. Sono stato in Francia, in Svizzera e infine in Germania: lì ho conosciuto mia moglie, quindi in un certo senso sono riuscito nel mio intento», ammiccò, porgendo un pezzo di biscotto ad Aramis che scodinzolava ai suoi piedi. «Poi ho scoperto che il richiamo della patria era troppo dolce per poterlo ignorare, e sono ritornato in Inghilterra. La signora Carlisle non amava particolarmente il mio luogo di nascita, e neppure io se devo essere sincero, così dopo un breve girovagare siamo finiti in questa parte sperduta e pacifica della brughiera.»
«Dunque siete un viaggiatore. Sapete, vi invidio», ammise Emma, mescolando distrattamente le due zollette di zucchero che aveva messo nel tè. «Io non sono mai stata fuori dall’Inghilterra, ma viaggiare è qualcosa che mi piacerebbe molto. Mi attraggono i paesi del Mediterraneo… l’Italia, e la Grecia in particolar modo. Sono un’appassionata di archeologia, sapete?»
«Ma davvero? Oh, è splendido che una gentildonna coltivi simili interessi: rende molto più stimolante e piacevole intraprendere una conversazione con lei. A Berlino c’era un museo che…»
Continuarono chiacchierando del più e del meno per una buona mezz’ora, ed Emma si trovò parecchio a suo agio con quel simpatico e carismatico vicino di casa che sarebbe potuto benissimo essere suo padre: il suo buonumore era contagioso, e per un momento la giovane riuscì quasi a dimenticare quelle infide sensazioni di paura che non l’avevano abbandonata da che aveva messo piede a Pemberley. Esse tuttavia tornarono ad avvolgerla non appena il suo ospite tacque, un po’ per riprendere fiato e un po’ per finire il suo tè che doveva essere ormai freddo.
«Avete detto che siete qui da vent’anni, giusto?» Esordì, spostando la conversazione su un argomento che la premeva con più urgenza. «Conoscevate i vecchi proprietari di Pemberley? I conti di Rochester?»
Sir Arthur rimase pensieroso per un po’, tamburellando le dita di una mano sul tavolo e allisciandosi i baffi con quelle dell’altra. Sembrava voler prendere tempo, come se l’argomento non fosse esattamente di suo gusto. «Non personalmente», disse infine, con un lieve sospiro. «I Rochester erano gli unici nobili del circondario, e si comportavano con gli abitanti di Heatherfield come se fossero i signorotti incontrastati del luogo. Non credo rientrasse nei loro desideri stringere amicizia con me, che da semplice possidente terriero non dovevo essere di certo alla loro altezza. Però ammetto che la domenica, quando andavamo a messa, la figlia si fermava volentieri a chiacchierare con Gretchen, mia moglie. Era una ragazza gentile, lady Eleanore, ma per quanto riguarda gli uomini di quella famiglia… Sarò franco, milady, e spero che mi perdonerete per quanto sto per dire, ma nessuno pianse per la loro dipartita. Certo, fu un orrendo affare, e non augurerei una cosa del genere al mio peggior nemico, ma credo che sotto sotto tutti fossero grati che i Rochester si fossero, in un certo senso, estinti.»
Sollevò gli occhi su Emma ma parve quasi non vederla, perso com’era nei ricordi che quel racconto doveva avergli suscitato. «Andate pure a vedere le loro tombe al cimitero, milady, e vedrete da voi che neppure un fiore le abbellisce. Come se in fondo non li volesse nemmeno la terra…»
Emma rimase in silenzio per un po’, a sua volta pensierosa, e d’istinto si voltò ad osservare la facciata cupa del maniero. Che fossero gli spiriti irrequieti di quella disgraziata famiglia a spaventarla? Subito dopo aver concepito quel pensiero si rese conto di quanto fosse sciocco, e decise di non far parola con il suo nuovo amico dei suoi timori – l’avrebbe scambiata per un’ingenua ragazzina di città, e lei era molte cose fuorché quello. «È molto triste», convenne infine per spezzare il silenzio. Vide che sir Arthur aveva riportato il suo sguardo, ora non più assente, su di lei, e osò un’ultima questione. «Ho sentito molto parlare della tragedia che ha colpito i Rochester, ma nessuno mi ha spiegato che cosa sia accaduto in realtà. Voi…» Esitò, mordicchiandosi il labbro inferiore, ma poi prese coraggio. «Voi di certo dovete saperlo. Cosa accadde quindici anni fa?»
Era palese che la piega che aveva preso la conversazione non piacesse particolarmente a sir Arthur, eppure bisogna ammettere che egli fece del suo meglio per soddisfare la curiosità della padrona di casa. «Non è una bella storia da raccontare, milady», esordì pacato, osservandola attentamente per assicurarsi di non oltrepassare il limite. Poi lanciò un’occhiata di sottecchi a Mrs. Duncan, che ormai si stava occupando dei fiori dall’altra parte del giardino, abbastanza lontana da essere fuori portata d’orecchio, e assicuratosi di questo riprese a parlare. «I giornali dell’epoca ne parlarono per settimane, fu uno scandalo. Tutti i membri della servitù vennero orribilmente uccisi, e così pure i Rochester; poi nella biblioteca scoppiò l’incendio, e i loro corpi furono deturpati dalle fiamme. Non trovarono mai il responsabile di quella tragedia, incolparono ladri ignoti…» Sir Arthur esitò un momento, raccogliendo le idee, poi sembrò decidere che tanto valeva raccontare ogni cosa. «La versione che venne rilasciata dalla polizia, alla fine, fu che il conte, in un impeto di pazzia – sembra che non godesse di una salda stabilità mentale, quell’uomo – uccise prima i domestici e poi i figli, appiccando infine il fuoco di sua mano per far sì che la sua tanto amata proprietà non finisse in mani estranee. Suppongo che, in mancanza di altre prove, questa fosse l’ipotesi più attendibile. Una disgrazia, ve lo ripeto… una disgrazia immane. Non si parlò di altro per mesi e mesi.»
L’uomo tacque, probabilmente perso in quelle oscure rimembranze, lasciando ad Emma l’opportunità di assimilare quanto aveva appena udito. Per natura ed educazione, non era una ragazza che credeva nei fantasmi o nel mondo soprannaturale in generale… Eppure, da quando aveva messo piede a Pemberley, non poteva negare che un brutto presentimento l’avesse accompagnata da mattina a sera, specialmente negli ultimi giorni – da quando, volendo essere precisi, aveva conosciuto Noah Duncan. Poi c’era stata la porta a vetri della biblioteca misteriosamente spalancata, quella musica nel cuore della notte, il sogno e lo strano comportamento di Aramis, che diventava insofferente quando lo obbligava ad entrare dentro casa…
Quando sir Arthur Carlisle si congedò, poco più tardi, con la promessa di tornare a farle visita il più presto possibile, magari anche accompagnato dalla sua consorte, Emma si scoprì riluttante a rientrare nel maniero, benché fuori iniziasse a far freddo e il cielo si stesse nuovamente riempiendo di nuvoloni carichi di pioggia.
Non ci sono fantasmi a Pemberley. È ridicolo, si ripeté tra sé e sé, mentre infine cedeva e si lasciava accompagnare dentro il castello da Mrs. Duncan e Lydia. Aramis esitò a sua volta sulla soglia, uggiolando appena e fiutando l’aria e il terreno con le orecchie e la coda dritta, ma poi seguì la sua padrona com’era abituato a fare. Emma decise di non prendere troppo sul serio quel comportamento. Non ci sono fantasmi, continuò a ripetersi, decisa. Mi sono semplicemente lasciata suggestionare dal racconto di sir Carlisle.
Eppure non poteva negare, una volta che fu nella scura penombra dell’ingresso, senza più l’aria fresca ad accarezzarle la pelle, di sentirsi d’un tratto spiata.


**


Jane Radcliffe si era sempre considerata una donna dall’intelletto inflessibile, al di sopra di qualsivoglia frivolezza: le credenze e le superstizioni della gente di campagna rientravano in questa categoria. Eppure, mentre si dirigeva da sola nella sala da pranzo – Emma le aveva chiesto di precederla mentre lei finiva di scrivere una lettera per il padre – si ritrovò ad ascoltare, o meglio ad origliare, una conversazione che la lasciò parecchio perplessa e anche leggermente preoccupata, soprattutto visto e considerato tutto ciò che aveva udito quella mattina al villaggio. Non che fosse un gesto particolarmente saggio quello di prendere come oro colato le farneticazioni di qualche ubriacone invidioso e incattivito, ma comunque, dato che si trovava ad essere l’unica responsabile di lady Moore, nessuno avrebbe potuto biasimarla se si fosse lasciata guidare da un atteggiamento un tantino prevenuto.
Essendo stata particolarmente silenziosa nell’entrare nella sala da pranzo, nessuno si accorse del suo arrivo; da dietro il paravento che separava la zona riservata ai padroni da quella riservata ai domestici che si occupavano di servire i pasti, miss Radcliffe udì dunque provenire delle voci sommesse, che parlavano con bisbigli concitati. Le riconobbe immediatamente come appartenenti ai coniugi Duncan – non che ci fossero altri con cui confonderli, ad ogni modo.
«Dici che è già tornato? Ne sei sicura?»
«Sai che non si trattiene mai troppo a lungo al villaggio. Deve essergli giunta la notizia dell’arrivo di milady, e… buon Dio, credi che dovremmo dirlo alla padrona?»
«E venire cacciati da casa nostra, o peggio?»
«Non è casa nostra! È sua! Se ti sentisse…»
«Non oserebbe alzare un dito su di me.»
«Tieni a freno la lingua e sii meno arrogante, Randolph Duncan», la voce della governante si era fatta improvvisamente più severa. «Il nostro quieto vivere dipende solo dal suo umore. E tu sai di che umore è stato in questi ultimi tempi, vero?»
Il signor Duncan non rispose subito, ma quando lo fece cambiò discorso. «Ad ogni modo, non puoi dire nulla alla ragazza. Né alla sua istitutrice. I segreti che custodiamo non ci appartengono, e non spetta a noi divulgarli.»
«Sì, ma se le facesse del male… Dolph, pensaci!… Io non so se sono in grado di sopportarlo… Stavolta potremmo rischiare davvero la prigione, o peggio!»
«Buon Dio, Meg, tu l’hai già incontrato. Ti ha già dato disposizioni, vero? Che cosa ti ha detto di fare, eh, Meg?»
Sfortunatamente per miss Radcliffe fu impossibile udire altro. In quel momento la porta della sala si aprì e lady Moore fece il suo ingresso, accompagnata da uno scodinzolante Aramis. L’istitutrice sentì le voci dei domestici spezzarsi in gemiti soffocati, timorosi di essere stati uditi, e poi entrambi vennero fuori da dietro al paravento per salutare la giovane signora.
Ma lo sguardo che videro sul volto di Miss Radcliffe, tuttavia, fece loro comprendere che la donna aveva già sentito tutto quello che non avrebbe dovuto.
Fingendo di non notarlo, Mrs. Duncan sorrise gentilmente a Emma. «La cena è pronta, milady. Quando lo desiderate iniziamo a servire.»
«Certo, signora Duncan, fate pure. Chiedo scusa per il ritardo», rispose quest’ultima, osservando con la coda dell’occhio il suo cucciolo che andava a sdraiarsi di fronte al camino acceso. Poi si rivolse verso la sua istitutrice con un mezzo sorriso. «Siete qui da tanto, miss? Perché non vi accomodate?»
«Sì, milady», fece la donna, sedendosi piuttosto rigidamente.
Sorpresa da quel tono, Emma aggrottò la fronte e scrutò la sua istitutrice. «Va tutto bene, signorina Jane? C’è qualcosa che dovrei sapere?» L’istinto la portò a sussurrare come se fosse un ladro nella sua stessa casa, la qual cosa la irritò non poco. Sono davvero troppo suscettibile. E sir Carlisle era fin troppo bravo a raccontare…
«Dopo cena, milady», replicò sullo stesso tono miss Radcliffe, guardandola in un modo che le fece intendere di non voler affrontare l’argomento davanti ai domestici.
Era ridicolo che dovessero avere tutti quei segreti tra loro, ma allo stesso tempo Emma non poté che approvare quella prudenza di cui stavano facendo uso. Sorrise gentilmente quando Mrs. Duncan e Lydia servirono loro la cena, ma durante il pasto lei e miss Jane rimasero in silenzio, scambiando solo qualche chiacchiera di circostanza e priva di un reale interesse. La governante versò un vino rosso a entrambe, ma l’istitutrice notò un lieve tremito nella mano della donna quando riempì il suo bicchiere: come suo solito ne prese silenziosamente nota, senza dar cenno di aver notato la stranezza.
Dopo aver mangiato anche il dolce – una crema bavarese alla vaniglia – Emma posò il tovagliolo accanto al proprio piatto indicando a Lydia di poter iniziare a sparecchiare, e si voltò verso miss Radcliffe. «Ci ritiriamo in salotto, miss? Così mi raccontate della vostra avventura al villaggio», propose, senza riuscire a celare la propria curiosità.
Miss Radcliffe annuì e fece per alzarsi a sua volta, ma quando abbandonò il sostegno della sedia barcollò e perse l’equilibrio, e sarebbe certamente caduta se non avesse avuto la prontezza di afferrarsi al tavolo. Era improvvisamente pallida, e piccole goccioline di sudore le imperlavano la fronte aggrottata.
«Mio Dio, miss, state bene?» Esclamò Emma, affannandosi al suo fianco e posandole una mano sulla schiena. «Cos’è successo?»
«Un… un mancamento, milady. Non vi preoccupate… Se non vi dispiace, però, mi… mi ritirerei nella mia stanza… Non mi sento molto bene. Forse ho preso freddo, questa mattina», balbettò confusamente la donna, gli occhi serrati come se ciò potesse bastare a scacciare il malanno indesiderato.
«Sì, certo, appoggiatevi a me… Ecco, così», si offrì la ragazza, sinceramente preoccupata. Da che la conosceva, infatti, non aveva mai visto miss Radcliffe crollare così per un piccolo capogiro – doveva essere davvero una brutta infreddatura. E durante la cena era sembrata normale… «Mrs. Duncan!» Chiamò poi ad alta voce, finché la governante non accorse prontamente. «Mrs. Duncan, per favore. Aiutatemi ad accompagnare miss Radcliffe nella sua stanza.»
L’anziana donna sembrava se possibile più pallida della malata, e le sue mani intrecciate si torcevano nervosamente prima che si decidesse a passare a sua volta un braccio intorno alla vita dell’istitutrice. «Ecco, miss, adesso andiamo… Facciamo piccoli passi», la istruì, con la voce che le tremava appena.
In due, con Lydia che le precedeva con la candela, riuscirono a portare miss Radcliffe fino alla sua camera da letto, a spogliarla degli abiti pesanti e ad infilarle la camicia di flanella, per poi metterla a letto e rimboccarle le coperte. La donna non emise un suono per opporsi – altra cosa che Emma trovò strana, visto che miss Jane solitamente non permetteva a nessuno di aiutarla a vestirsi o a svestirsi – come se fosse persa in una dimensione totalmente diversa. Gemeva, borbottava parole prive di senso, e tossiva come se volesse sputare tutta la cena.
«Lydia, porta subito una tazza di latte con del miele», ordinò Mrs. Duncan, prima che la cameriera si dileguasse giù per le scale a obbedire com’era sua abitudine.
«Non ha neppure la febbre», esalò Emma preoccupata, sfiorando la fronte gelida dell’istitutrice. Che genere di infreddatura era quella?
«Potrebbe salirle durante la notte. Ormai è tardi per chiamare un dottore», replicò la signora Duncan con tono irrevocabile; eppure le sue mani stavano ancora tremando, Emma non riusciva a distogliere lo sguardo da esse. «Le cercherò delle coperte più pesanti. Milady, forse è meglio per voi andare a letto e riposarvi…»
«No, Mrs. Duncan, ho intenzione di rimanere qui tutta la notte», ribatté freddamente, seccata per lo strano comportamento della donna e turbata dal malore improvviso di miss Jane. «Andate pure voi a coricarvi, ma prima accendete la stufa. Si gela qua dentro», ordinò poi, con un tono che a sua volta non ammetteva repliche. C’erano parecchie cose che non le stavano piacendo della governante, ultimamente, ma ci avrebbe pensato con calma una volta che la crisi di miss Radcliffe fosse passata.
Pregò solo che non fosse nulla di grave.





















______________________________________________



Angolo Autrice.
Nuovo capitolo! Orbene, come procede? Sto riuscendo ad appassionarvi o ve ne siete già lavati le mani? *rumore di grilli in sottofondo* Su su, e dire che sono anche piuttosto veloce con gli aggiornamenti, conoscendomi e considerando che è ancora estate. u_u
Ma bando alle ciance! Alcuni appunti, prima di proseguire con i soliti ringraziamenti.
- Non ho idea di che rumore potesse fare il motore di una Mercedes-Simplex 40PS 4seater phaeton, per cui ho dato spazio alla fantasia (ma, considerando il fracasso che facevano i treni…)
- Mi riferisco ai vecchi proprietari di Pemberley Manor sia col nome “Rochester” sia con quello “Pemberley” – non è un errore. La faccenda è molto semplice: Rochester è il titolo nobiliare, Pemberley è il cognome della famiglia (significa che un Pemberley può ereditare il titolo di conte di Rochester, ma non è detto che il conte di Rochester debba essere necessariamente un Pemberley: difatti, qualora il conte di Rochester avesse avuto solo figlie femmine, queste avrebbero perduto il titolo di Rochester che sarebbe andato al parente più prossimo in linea di successione, che poteva essere uno Smith qualunque. Facile, no?).
Altro da dichiarare? Mi pare di no.
Ringrazio quindi Sylphs e Homicidal Maniac per aver recensito lo scorso capitolo, e Helmwige per essersi aggiunta alla lettura :D Siete tutte splendide e gentilissime, grazie infinite per esservi imbarcate in questa avventura! :*
Ci sentiamo presto – non oso promettervi una data, neppure approssimativa, perché so già di essere incapace di scrivere se ho delle scadenze da rispettare. xD Ma farò del mio meglio! Baci e abbracci come al solito, dalla vostra
Niglia
.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Chapter 4. The Strange Journal of Dr. Murray ***


banner






4.
The Strange Journal of Dr. Murray














Come promesso, Emma rimase tutta la notte accanto a miss Radcliffe. Di tanto in tanto scivolava in un sonno leggero, spossante, e a un certo punto, durante questi intermezzi, le parve di vedere – ma non poteva dire di esserne sicura – nel dormiveglia, un’ombra scura curva sul letto della sua istitutrice, come a volerne controllare il respiro, con l’aria miasmatica dell’incubo; doveva comunque essersi trattato di una visione, perché la figura era scomparsa tanto in fretta da farle dubitare addirittura che ci fosse stata – e non sembrava, peraltro, appartenere a nessuno dei domestici. Ma a un certo punto della notte le candele si erano consumate e la stanza era precipitata nel buio, se si escludeva un lieve bagliore proveniente dalle braci della stufa, ed Emma si convinse di aver solo sognato.
Fu una mano gentile a scuoterla piano fino a svegliarla, l’indomani mattina. Lydia le aveva portato del caffè con un goccio di latte, e, mentre Emma si sforzava di riprendersi dalla posizione scomoda in cui aveva dormicchiato per tutta la notte, la ragazza si affaccendò ad aprire le tende, schiudere appena la finestra per cambiare l’aria, aggiungere dei ciocchi di legno alla stufa e andare a svuotare il vaso da notte. Prima che sparisse fuori dalla stanza per quest’ultima incombenza, però, Emma attirò la sua attenzione.
«Dov’è Mrs. Duncan?» Domandò, con la voce ancora impastata dal sonno. Ormai aveva imparato a comunicare con la giovane, così quando Lydia iniziò a gesticolare Emma comprese che la donna era da qualche parte al pianterreno, probabilmente in cucina.
Bene, pensò. «Vado un momento nella mia stanza a vestirmi e a prepararmi, allora… No, Lydia, non c’è bisogno che venga anche tu, ma grazie lo stesso», aggiunse con un mezzo sorriso, interrompendo i gesti della ragazza. Lasciò la camera di miss Radcliffe così in fretta che la domestica non poté trattenerla in alcun modo, limitandosi a fissare sconsolata la porta dalla quale Emma era uscita: la signora Duncan le aveva ripetuto all’infinito che non bisognava lasciar sola la padrona per alcun motivo e in nessun momento, ma ciò che la governante non sapeva non poteva turbarla, giusto?
Rassegnata e impotente, Lydia tornò alle sue faccende.


Quando più tardi Emma scese al pianterreno per la colazione, trovò Mrs. Duncan intenta a preparare la tavola e a disporre le varie pietanze. Aramis le venne incontro scodinzolando – era probabile che l’avessero tenuto fuori, nelle stalle, per tutta la notte, dato che la sua padrona era impegnata con l’istitutrice – e la sua fu l’unica accoglienza festosa che ricevette. La governante era incredibilmente pallida e aveva un’aria stanca e provata, come se a sua volta non avesse chiuso occhio.
«Avete chiamato il dottore per miss Radcliffe, signora Duncan?» Chiese Emma prendendo posto a capotavola, piluccando dei crostini da un piatto e porgendoli con due dita ad Aramis.
«Dolph è andato in paese questa mattina, milady. Dovrebbe essere di ritorno per l’ora di pranzo», fu la risposta della donna, impegnata a versarle il tè. «Tuttavia, milady, c’è la possibilità… Ecco, che possa non venire nessuno.»
Emma sollevò gli occhi su di lei, perplessa. «E per quale motivo, se posso chiedere?»
«Sono anni che viviamo a Pemberley in solitudine, milady, da quando sono morti i vecchi padroni… Al villaggio non ci vedono di buon occhio, e tendono ad evitarci. Nessuno ha più messo piede al castello da quando ci vivevano i conti. Per questo il signor Duncan deve fare continuamente avanti e indietro da qui a Heatherfield.»
«Ma questo è ridicolo», proruppe Emma, accigliata. «E neanche la presenza di una nuova padrona di casa potrebbe far loro cambiare idea? Non possiamo rimanere isolati a Pemberley a causa delle superstizioni di un gruppo di contadini ignoranti!»
«Purtroppo questa non è la città a cui siete abituata, milady», obiettò Mrs. Duncan con un mezzo sorriso di scusa. «In campagna vigono leggi differenti. Ad ogni modo vi prometto che faremo del nostro meglio per far arrivare qui il dottore.»
«Bene», mormorò Emma, benché poco convinta. «Non vorrei che le condizioni di miss Radcliffe peggiorassero. Non si è mai ammalata prima d’ora.»
«Potrebbe aver preso un’infreddatura ieri mattina», ipotizzò la governante, riempiendo d’acqua la ciotola di Aramis posta accanto al camino. Il cucciolo ringhiò appena, avvicinandosi a bere solo quando la donna si fu allontanata.
La giovane lady era così sovrappensiero da non accorgersi neppure dello strano comportamento del suo cane, e continuò a sbocconcellare una tartina al salmone con lo sguardo perso nel vuoto. Quando ebbe finito – doveva ammettere di non avere poi così tanto appetito – scostò la sedia e si alzò, sistemandosi con un gesto abituale la gonna del vestito. «Rimarrò in biblioteca tutta la mattina, signora Duncan, devo portarmi avanti con lo studio anche senza l’aiuto di miss Radcliffe. Chiamatemi per il pranzo, e se dovessero esserci miglioramenti o peggioramenti delle condizioni della nostra paziente», dispose, attirando Aramis con uno schiocco delle dita.
«Certo, milady. Buon lavoro», le augurò la governante. Quando Emma abbandonò la sala da pranzo, Mrs. Duncan liberò un lungo sospiro di sollievo.

Emma approfittò della mattinata per scrivere finalmente una lettera al padre e una a Caledon, che malgrado tutto meritava di ricevere almeno una parola da parte sua – dopotutto si trattava pur sempre del suo fidanzato. Al padre accennò dell’infreddatura di miss Radcliffe ma lo assicurò di non preoccuparsi, gli raccontò di sir Carlisle – l’affabile e disponibile gentiluomo che potevano vantare come vicino di casa – e parlò brevemente anche dei domestici, senza tuttavia entrare troppo nei particolari: sapeva che di loro doveva avergliene già parlato abbondantemente la sua istitutrice nella lettera precedente, e non voleva in alcun modo allarmare il genitore. Per questo tacque anche la faccenda dell’incidente dei vecchi proprietari di Pemberley: in primo luogo confidava che suo padre ne fosse già a conoscenza, e inoltre temeva che, prendendo lei l’argomento, lord Grantham potesse desumere che lei non si trovasse del tutto a suo agio con l’idea. Gli domandò per quanto tempo ancora gli affari lo avrebbero trattenuto a Londra, e quando contava di raggiungerla in campagna; concludeva ammettendo di sentire la sua mancanza, e che desiderava trascorrere del tempo insieme a lui.
La lettera per Caledon fu invece molto più breve, e richiese un maggiore impegno da parte sua per essere redatta. Era una di quelle lettere che la società le imponeva di scrivere – doveva mantenere i contatti con il suo futuro marito, e inoltre non si era ancora giustificata di persona per la sua partenza brusca e improvvisa dopo il funerale della madre – ma che lei non aveva idea di come fare. Gettò nel fuoco parecchi tentativi abortiti di quella maledetta lettera, prima di riuscire a trovare qualcosa di interessante e affettuoso da dirgli; e, quando ciò accadde, mise per iscritto tutto d’un fiato ciò che le danzava sulla punta della lingua. Il risultato fu una versione più corta, fresca e leggermente imbarazzata della lettera che aveva scritto per suo padre, ma come inizio poteva andare. La rilesse un paio di volte, aggiunse qualche frase e qualche carineria, poi posò la stilografica – regalo di Cal, che sapeva quanto la sua fidanzata amasse scrivere – e passò a sigillare entrambe le lettere. Le avrebbe consegnate al signor Duncan quando fosse rientrato dal villaggio, in modo che le spedisse il giorno dopo.
Visto che dopo pranzo non c’era altro che potesse fare per miss Radcliffe, che continuava a sonnecchiare e alternare momenti di allucinazioni a momenti di gemiti sofferenti, se non sperare che il dottore trovasse un po’ di coraggio per raggiungere Pemberley Manor a visitarla, Emma decise di mettere a frutto il tempo libero che l’assenza delle sue lezioni e delle ore di studio quotidiane le avevano procurato.
Adesso che poteva ispezionarla in tutta calma, Emma capita finalmente che cosa aveva voluto intendere Mrs. Duncan quando le aveva detto che Pemberley Manor non era stata costruita secondo un modello architettonico unico e calcolato come una qualsiasi magione seicentesca – non aveva, come Hambleton Abbey, delle ampie vetrate poste ad illuminare saloni e gallerie così vaste da dare quasi l’impressione di trovarsi all’aria aperta, e neppure un ordine ragionato per la disposizione delle stanze e degli ambienti. La sua nuova casa, contrariamente a ciò che le era stato detto dalla governante, sembrava molto più vecchia e antica – specialmente nelle parti disabitate, dove non era stato portato il restauro del progresso – costruita più per confondere e distrarre gli eventuali nemici che vi si sarebbero potuti infiltrare che non per rendere agevole la vita degli abitanti. Era probabile che l’abitazione attuale fosse nata da un precedente ampliamento della costruzione originaria, quasi sicuramente un castello cinquecentesco, che a sua volta si era trasformato nel cuore pressoché irraggiungibile del maniero dal quale avevano iniziato a dipanarsi altre gallerie, ali, scalinate, torri e saloni – ognuno appartenente alla propria epoca; ciò dava l’impressione di compiere un inquietante viaggio nel tempo man mano che ci si addentrava nel nucleo di Pemberley, e ci si allontanava allo stesso tempo dalla luce del sole e dalla zona sicura.
Appena messo piede nel primo corridoio disabitato, una strana sensazione di pericolo parve gelarle il sangue che le scorreva nelle vene: aveva l’impressione di essersi spinta troppo in là, di aver varcato quasi la soglia di un altro mondo o di un’altra abitazione, e peggio ancora, di un’abitazione che non apparteneva a lei, ma a qualcosa di maligno e infido. L’istinto la portò a guardarsi intorno, a lanciare un’occhiata alle proprie spalle: ma, come avrebbe dovuto immaginare, era da sola.
Passeggiare per i corridoi deserti del maniero era come attraversare un vecchio cimitero abbandonato: nessuno ci passava più da tempo, ma la presenza di chi lo aveva abitato era tangibile in ogni angolo, e lasciava l’inquietante sensazione che la pressante ombra degli abitanti passati, cupa e minacciosa, si annidasse alla stregua di ragnatele tra i candelabri opachi e i quadri impolverati che pendevano dalle pareti, incancellabile come le impronte ovali o rettangolari sulla tappezzeria – segno che davvero tutti gli specchi erano spariti. C’era un forte odore di muffa e chiazze di umidità sulla tappezzeria, laddove essa non era strappata e i lembi non penzolavano come vecchi stracci abbandonati sulle pareti; le tende rimaste erano ingrigite dalla polvere, mangiucchiate dalle termiti e appesantite dall’acqua che colava dagli spifferi degli infissi. Emma stentava quasi a credere di trovarsi ancora a Pemberley – la differenza tra questa ala e quella dove stava abitando insieme ai domestici era indescrivibile.
Quando Mrs. Duncan le aveva descritto Pemberley come un labirinto, lei non ci aveva creduto; ma adesso, mentre percorreva lunghe gallerie che sembravano non voler portare da nessuna parte se non nel punto da cui era partita, dovette accettare l’errore e ammettere di essersi persa. Forse, se avesse trovato una finestra, avrebbe potuto capire in che ala si trovava e provare a tornare indietro di conseguenza, ma finora tutti i corridoi erano rigorosamente privi di qualsiasi fenditura, e l’unica luce era quella della piccola lanterna che aveva pensato bene di portarsi appresso nell’eventualità che una sola candela non fosse abbastanza.
Sollevò il braccio, illuminando uno dei quadri appesi alla parete alla sua destra: al di sotto dello strato di polvere, riuscì ad intravedere i resti del ritratto di un signore elegante e distinto, in abiti militari, del quale non si vedeva la testa – in quel punto la tela era stata squarciata, probabilmente da una lama affilata – e che teneva sotto ad un braccio un elmo piumato. Aggrottando la fronte davanti allo scempio incomprensibile di un’opera d’arte – a giudicare dalla divisa da ufficiale ritratta, infatti, il dipinto doveva avere almeno una settantina d’anni – Emma avanzò e passò oltre, portando la luce su un altro quadro. Anche qui, tutto ciò che rimaneva integro era il corpo del signore, mentre il viso era stato accuratamente squarciato; e così pure, come scoprì alla fine, in tutti gli altri quadri raffiguranti quelle che parevano essere state figure importanti. Neppure un solo ritratto era integro, ed Emma non poté fare a meno di domandarsi chi diavolo potesse avercela avuta così a morte con quei poveri soldati di epoche passate – ah, ma non c’erano solo soldati, bensì anche dame e qualche elegante ritratto di famiglia, con cinque o sei persone insieme – da distruggere l’unica immagine che di loro sarebbe potuta rimanere. E, soprattutto, perché nessuno dei domestici aveva mai pensato di ritirare in soffitta quei tristi dipinti, oppure di portarli da qualche restauratore d’arte per farli aggiustare? Un’abile mano sarebbe di certo riuscita a riparare quei danni…
Forse i signori Duncan non avevano abbastanza denaro per affrontare simili spese, e considerando che erano solo loro ad occuparsi di Pemberley non poteva neppure biasimarli. Ne avrebbe parlato con suo padre nella prossima lettera, decise – di certo il conte di Grantham non si sarebbe lasciato scappare l’opportunità di fare una simile buona azione per il mondo dell’arte.
Proseguendo la sua perlustrazione, Emma aveva sceso e salito delle piccole gradinate così spesso da farle dimenticare in quale piano si fosse trovata effettivamente. Quando ebbe la fortuna di trovare delle finestre, tanto per assicurarsi che fuori fosse ancora giorno, esse erano sprangate o inchiodate – insomma, impossibili per lei da aprire. Dopo un lento girovagare iniziò dunque ad avvertire la stanchezza, e l’infido seme del dubbio e della paura attecchì nel suo animo facendole venire un’idea inquietante: come avrebbe fatto a tornare indietro, se non aveva la più pallida idea di dove si trovasse?
Preoccupata, si fermò in mezzo al corridoio e sollevò la lampada sopra la propria testa, ruotando su sé stessa per individuare una qualche via d’uscita o un punto abbastanza familiare che l’aiutasse a tornare indietro. Come avrebbe dovuto aspettarsi, non trovò nulla.
Stava già pensando di ricorrere a metodi estremi e provare a urlare, nella speranza che qualcuno dei domestici potesse sentirla, quando, nel terribile silenzio che l’avvolgeva, all’improvviso, udì un rumore. Era un leggero strisciare, come di chi cerca di camminare in punta di piedi e fallisce miseramente, limitandosi a trascinarsi goffamente sulla pietra del pavimento per evitare i tonfi di una camminata normale. Emma era impietrita, e se avesse avuto un briciolo di autocontrollo in meno avrebbe strillato; ma fortunatamente aveva ricevuto una diversa educazione ed era stata tenuta accuratamente lontana da qualsivoglia superstizione campagnola impedisse ai Duncan di vivere in modo sereno nel castello.
«Chi è là?» Chiamò ad alta voce, sollevando il braccio che reggeva la lanterna per illuminare laddove i suoi occhi non arrivavano. «Mrs. Duncan? Lydia?»
Dall’oscurità non giunse alcuna risposta. Il rumore comunque era cessato, ma proprio nel momento in cui la giovane tirava un sospiro di sollievo il brusco stridio di una porta che veniva aperta la fece sobbalzare e rabbrividire come una qualsiasi bambina timorosa della sua stessa ombra.
Emma non faticò a trovare la porta che si era misteriosamente aperta: era l’unica dalla quale pareva provenire un bagliore di luce, che fendeva come una lama il muro opposto del corridoio, ed era a pochi passi da lei. Osservò la maniglia per un tempo che le parve infinito, mentre decideva se entrare o proseguire e lasciarsi alle spalle qualunque fosse il mistero celato dietro quell’uscio.
Quando infine trovò il coraggio di varcare la soglia, si sorprese di vedere che qui le finestre erano completamente spalancate: non c’erano tende, che giacevano strappate sul pavimento, e neppure assi di legno inchiodate alle intelaiature. Dal vetro sporco degli scuri entrava la luce arancione del sole che tramontava in lontananza, dietro le colline, inondando piacevolmente la stanza. Emma allora sobbalzò, rendendosi conto finalmente di dove si trovava: era nell’ala Ovest.
Istintivamente preoccupata si guardò intorno, come se si aspettasse di venire aggredita da un momento all’altro, ma il silenzio tombale che la circondava la rincuorò sul suo destino, e poté darsi mentalmente della sciocca per aver avuto paura anche solo per un istante.
Di nuovo padrona di sé stessa, Emma prese a curiosare nella stanza, che pareva il vero e proprio studio di un pittore. C’erano cavalletti, pennelli sporchi, stracci macchiati di pittura, vasi contenenti fiori secchi e fogli zeppi di schizzi fatti a carboncino appesi in ogni angolo vuoto delle pareti.
Emma posò la lampada su un tavolino sgombro, e passò ad ammirare le tele poggiate le une sulle altre contro ogni mobile presente nella stanza. Trovò numerosi paesaggi, scorci dei boschi e delle colline che circondavano Pemberley, e quadri incompiuti di oggetti – gioielli, guanti, maschere, in un tripudio di colori o semplicemente in bianco e nero – ma il soggetto principale sembrava essere il castello stesso. Una torre era stata disegnata e dipinta fino al più piccolo particolare, e così pure una stanza, o un corridoio, o una scalinata; e qui non c’erano colori vivaci, ma tonalità cupe, soffocanti, terribili, tanto inquietanti che Emma cessò di osservare le tele e indietreggiò di qualche passo, improvvisamente infreddolita.
Riconosceva la bravura dell’autore – e, chiunque fosse stato il proprietario di quel piccolo tesoro dipinto, di certo non era lo stesso che si era occupato dei quadri del corridoio – ma quelle opere la mettevano a disagio; non sapeva bene dire perché. Si riappropriò dunque della lampada e lasciò la stanza, chiudendo con cura la porta alle proprie spalle e ripiombando nella penombra del corridoio. I suoi occhi faticarono un po’ a riabituarsi all’assenza di luce, ma quando accadde Emma fece un sospiro e cercò di tornare indietro.
Non dovette gironzolare a lungo, stavolta, prima di trovare il laboratorio.
La porta, una delle poche che non erano chiuse a chiave, si aprì con facilità, scivolando silenziosa sui cardini come se non fosse rimasta in disuso a lungo. Sfortunatamente qui le finestre erano ben serrate, così fu la luce giallognola della lampada a posarsi su tavoli sporchi e impolverati, su ampolle di vetro e cristallo e piccoli decanter in cui sembrava esserci ancora qualche sostanza verde, di un verde brillante, magnetico; Emma rabbrividì istintivamente – per qualche strano motivo aveva sempre associato il verde a qualcosa di tossico e velenoso.
Su una scrivania abbastanza sgombra, occupata soltanto da fogli, penne e calamai che un tempo dovevano aver contenuto dell’inchiostro blu, Emma trovò un quaderno grosso e spesso, con la copertina in pelle consunta e sporca – erano impronte di grasso o di olio? – e che tuttavia non doveva essere così vecchio come sembrava. Sul frontespizio, infatti, si poteva ancora leggere l’anno in cui era stato stampato – doveva essere una di quelle agende che utilizzavano gli studiosi, o i ragazzi dell’università: la data era 1889.
Sulla prima pagina interna, dietro la copertina ammuffita, lesse: Proprietà del dottor J. H. Murray, scritto in eleganti lettere corsive. Più sotto, una citazione in latino scritta a mo’ di epigrafe dal medesimo pugno: alterius non sit qui suus esse potest [1].
Incuriosita, Emma aprì il diario e lo sfogliò, fermandosi poi su di una pagina a caso, tra le ultime.

2 settembre 1889, ore 19:23.
Primo esperimento su soggetto umano.
Dose leggera della formula – dispensata per via orale.
Dopo pochi secondi, il soggetto A. inizia a mostrare i primi effetti: calore diffuso, gola secca, fatica a respirare, arrossamento del volto e della superficie della pelle in generale. Il soggetto ha un crollo e perde conoscenza. Diagnostico febbre nervosa.
Rimandare i successivi esperimenti.

Gli appunti del 2 settembre si concludevano in quel modo. Le annotazioni seguenti erano del 7 dello stesso mese, ma riportavano grosso modo le stesse informazioni: probabilmente l’esperimento non era andato a buon fine neppure la seconda volta.
Notò che qualcuno aveva strappato con furia dei fogli, ma questi erano stati raccolti e infilati in mezzo al diario come per paura di perderli – forse quel qualcuno si era pentito di aver rovinato il diario. Alcune pagine erano più accartocciate di altre, altre erano più leggibili, qualcuna era addirittura macchiata di una qualche sostanza non meglio identificata. Sangue, forse? Con quella luce non avrebbe saputo dirlo.

22 ottobre 1889, ore 23:45.
Quarto esperimento su soggetto umano.
Dose tripla – due grammi di sale in più. Ho iniettato cinque centilitri della formula per via endovenosa.
Il soggetto mostra gli effetti consueti: calore diffuso, gola secca, fatica a respirare, arrossamento del volto e della superficie della pelle, vene ingrossate, inconsueto (e singolare) attacco d’euforia…

Da quel momento in poi gli appunti diventavano frenetici, confusi, difficoltosi da decifrare, ed Emma dovette stringere gli occhi per capire cosa ci fosse scritto sotto le sbavature di inchiostro secco.

…il soggetto da segni di insofferenza, dolore. Emette versi animali, ringhia, si graffia, in un barlume di lucidità chiede aiuto, no!, chiede di morire, di ucciderlo, ride e piange, ulula, si dimena all’interno della gabbia…

Le pagine successive erano bianche. Perplessa, Emma sfogliò il diario all’indietro, saltando le parti che aveva già letto e tornando al principio. Qui, il diario sembrava contenere ancora semplici pensieri di colui che lo possedeva – evidentemente doveva essersi trasformato solo in seguito in una raccolta caotica di dati e indagini scientifiche.
Nella pagina del 12 agosto, Emma lesse:

Finalmente vedo un barlume di possibilità per i miei studi. Il mio caro amico Edgar mi ha promesso che mi avrebbe fornito tutto il necessario per il mio esperimento, e benché al momento non riesca a capire come diavolo faccia a pensare di potermi aiutare, nutro comunque un profondo sentimento di gratitudine nei suoi confronti, poiché è l’unico a non avermi bollato come folle e visionario quando gli parlai per la prima volta della mia approfondita analisi dell’animo umano.

Sarebbe di certo rimasta a leggere, se non si fosse accorta che la lanterna che si era portata appresso iniziava a indebolire la sua luce, segno che l’olio stava per finire. Temendo di rimanere al buio in quella zona sconosciuta del castello, Emma prese il diario e si diresse frettolosamente verso la porta, guardandosi intorno un’ultima volta come per memorizzare quello strano laboratorio. Chissà se sarebbe riuscita a ritrovarlo l’indomani, pensò dispiaciuta.
Quando tornò nuovamente nell’ala Est – dovette ammettere di aver trovato il percorso inverso abbastanza facile da percorrere – Emma trovò tutti e tre i domestici in uno stato di profonda agitazione, mentre la cercavano in lungo e in largo da quando, dopo pranzo, era “scomparsa”. Mrs. Duncan e Lydia avevano gli occhi rossi come se avessero pianto a lungo, mentre il signor Duncan sembrava solo molto invecchiato. Emma prese a scendere le scale con una strana prudenza, la fronte aggrottata dinnanzi al comportamento dei domestici, e per chissà quale motivo ebbe la premura di nascondere dietro le spalle il diario del dottor Murray. «C’è qualche problema, signora Duncan?» Domandò ad alta voce, in modo da attirare la loro attenzione.
La donna si voltò con uno scatto nervoso verso di lei, sgranando gli occhi e facendosi rapidamente il segno della croce, quasi che avesse visto un’apparizione. «Oh, buon Dio, milady, vi abbiamo cercata tutto il pomeriggio!» Esclamò ansimante, facendo qualche passo nella sua direzione. «Eravamo così spaventati, pensavamo che… che…» Mrs. Duncan tacque, imbarazzata, incapace di spiegarsi e innervosita dallo sguardo interrogativo della giovane padrona.
«Che mi fossi persa?» Offrì quest’ultima, dubbiosa; non comprendeva il loro affanno, dato che non si era di certo avventurata da sola nei boschi. Era nel suo pieno diritto esplorare il maniero, no? «Sì, in effetti ho girato a vuoto per un po’, ma come vedete sono di nuovo qui sana e salva. Novità su miss Radcliffe?» Chiese, arrivando finalmente in fondo alla scalinata e fermandosi accanto all’anziana custode.
«Nessuna, purtroppo. Ma, milady, non potete sparire così, all’improvviso…» Insisté la signora Duncan, con una strana vocetta lamentosa che stonava con il suo aspetto da matrona imperscrutabile.
«Inizio a credere che mi sia vietato gironzolare a mio piacimento nella mia stessa casa, Mrs. Duncan», la interruppe Emma, così freddamente da mettere a tacere ogni protesta sul nascere. «C’è qualcosa di cui non sono a conoscenza? Il castello è forse un luogo pericoloso per chi lo esplora senza accompagnatore?»
Il signor Duncan spostò lo sguardo dalla moglie alla padrona e viceversa, in silenzio, come se fosse in fremente attesa di una risposta al pari di Emma; Lydia, dal canto suo, teneva gli occhi bassi e le mani strette in grembo, come se temesse di venire punita da un momento all’altro. Emma si concentrò nuovamente sulla governante, impassibile, decisa a non farsi muovere a compassione dall’aria smarrita della donna. Le era sempre stato insegnato di trattare in modo giusto ed equo i suoi inferiori, e di rispettare coloro che erano più anziani di lei, ma al momento si ritrovava a dover ricoprire da sola il ruolo di signora del maniero nonché di fare le veci del padre, e che fosse dannata se si fosse lasciata mettere i piedi in testa da un piccolo stuolo di domestici misteriosi!
«Allora, Mrs. Duncan? Dovete dirmi qualcosa?» La spronò, gelida.
La donna sospirò piano, prima di scuotere lentamente il capo. «No, milady. Non c’è nulla che io vi debba dire», fu la sua pacata risposta.
I suoi occhi parevano voler sfuggire quelli di Emma, che però non glielo permise. «Ne siete sicura?»
Mrs. Duncan impallidì impercettibilmente a quel tono sferzante che non le aveva mai sentito usare, e quando la fissò lo fece con un’espressione che la giovane poté solo definire intimorita. «Ah, volevo dire… volevo aggiungere… che sono profondamente mortificata per il mio, il nostro, comportamento. Vi chiedo perdono, milady. Ovviamente siete padrona del castello, e potete andare dove volete». Sembrò che ciascuna di quelle parole le costasse infinitamente, eppure non esitò un solo istante nel pronunciarle.
«Bene. Siete liberi di andare, adesso», li congedò poi, come se fosse stata lei a convocarli. Fece per risalire le scale, ma si interruppe a metà di un passo e tornò a voltarsi verso i domestici. «Ah, signora Duncan?»
«Sì, milady?»
«Non disturbatevi a preparare la sala da pranzo per la cena di stasera. Mangerò nella mia stanza», ordinò, imitando alla perfezione il tono che più volte aveva udito utilizzare dalla contessa sua madre.
Dopodiché, senza aspettare la risposta della governante, le diede le spalle e salì le scale come chi ha tutto il tempo del mondo a disposizione. Aveva finito di lasciare che i signori Duncan governassero la casa, e lei.
Pemberley Manor era sua.




*




Basse nuvole grigie erano così ammassate sull’orizzonte da rendere l’aria soffocante come in un afoso giorno d’estate; affacciandosi alla finestra era impossibile vedere altro che non fosse la fitta nebbia che circondava il castello e lo strano cupo colorito arancione e grigio che tingeva il cielo. La pioggia picchiava incessantemente sui vetri da quel mattino, e aveva smesso solo per pochi minuti verso l’ora di pranzo: sembrava che volesse venir giù l’intera volta celeste. Malgrado questo, il signor Duncan era andato al villaggio solo per spedire le lettere della padrona, e se qualche giorno prima lei glielo avrebbe impedito – non era il caso che uscisse di casa con quella tempesta, e alla sua età, poi – adesso che si stava sforzando di mostrarsi severa e determinata come una decente padrona di casa non credeva che mostrarsi pietosa potesse giovare alla sua persona.
Eppure ciò non le impediva di sentirsi intimamente in colpa.
Emma, seduta su di una poltroncina accanto al letto di miss Radcliffe, con Aramis accucciato ai suoi piedi, cercava di trovare una distrazione nella sempre più interessante lettura del diario del misterioso dottor Murray, immergendovisi pagina dopo pagina.

…Questa mattina ho presentato la mia ricerca ai governatori dell’ospedale di St. Jude per la terza volta: inutile dire che, come già accaduto in passato, non sono stato preso sul serio e, anzi, sono stato denigrato e umiliato da coloro che dovrebbero accogliere con entusiasmo ogni idea nuova e rivoluzionaria. Ma niente: sono stato tacciato ancora una volta di blasfemia, sacrilegio e – udite udite, sono un eretico!, questa mi giunge nuova!
Ero così furioso che, temo, avrei potuto aggredire qualcuno se non ci fosse stato il dottor Utterson a placare gli animi e trascinarmi via da quel maledetto ufficio.
Ciò che i miei colleghi non comprendono, o forse semplicemente faticano ad accettare, è che siamo all’alba di una nuova era, alle soglie di una rivoluzione, e che ciò che faccio potrebbe essere in grado di modificare di sana pianta il mondo come oggi lo conosciamo! Chi sono loro per giudicare il mio lavoro? Quei vecchi dottori – ormai stento a definirli scienziati – non vedono ciò che io vedo, non sanno niente delle infinite possibilità che questi studi ci pongono innanzi, e quel che è peggio è che non permettono a chi ha una mente più aperta della loro di progredire, di superarli!
Quel che mi prefiggo di fare mi appare così chiaro davanti agli occhi, con la stessa intrigante bellezza di una visione; è così semplice! Se avessi il loro benestare, se avessi la loro fiducia, potrei davvero dimostrare in modo concreto come scindere i due lati dell’animo umano: potrei sgravare chiunque del peso di quel fardello di sentimenti bestiali che ci spingono a compiere orride malefatte e azioni riprovevoli, e lasciare intatta solo la parte buona, gentile, compassionevole propria dell’uomo. Ciascuno di noi è custode di un lato benigno e uno maligno – non lo insegnano forse anche ai bambini? Ebbene, non sarebbe forse più semplice la vita se quest’ultimo aspetto, questa sordida entità, fosse estirpata per sempre? Dopo anni di ricerche e, lo ammetto, numerosi fallimenti, io ho infine trovato un modo per far sì che una simile utopia diventi reale, eppure a causa della cecità di chi tiene le redini del progresso scientifico sono interdetto dal renderla reale, e per cosa!, perché le mie idee vengono ritenute sciocche, avanguardistiche e prive di fondamenta!
Forse dovrei prendere delle altre strade; ricorrere a mezzi alternativi. E allora, una volta messi davanti al fatto compiuto, quei vecchi stolti non potranno fare altro che riconoscere il mio genio, e darmi il posto che mi spetta…!

Emma voltò pagina, mordicchiandosi un dito nella concentrazione della lettura.

C’è qualcosa di glorioso e sublime nel possedere la capacità di dividere l’uomo dal demone maledetto che ne infetta l’anima, e di vedere quel sottile confine ch’egli supera ogniqualvolta permette al male di trascinarlo con sé nel baratro, rendendolo monco, rendendolo meno umano. Non ci è dato sapere per quale motivo l’uomo possegga queste due tendenze comportamentali così differenti – l’una votata al bene in tutta la sua grandezza, l’altra al male assoluto – così è, e con questo bisogna convivere. Ma ciò non ci impedisce di trovare una soluzione, di scoprire una medicina, chiamiamola così, capace di riportarci sulla retta via!
Si pensi per un istante a ciò che comporterebbe questa formula, una formula che guarisce lo spirito!
Come dice lo stesso Paracelso, “Chi vuole conoscere l'uomo deve guardarlo nel suo complesso e non come una struttura messa su alla meglio. Se trova malata una parte del corpo, deve cercare le cause che producono tale malattia e non limitarsi a trattare gli effetti esterni”; ebbene, ciò è il fulcro stesso della mia opera!
A livello teorico, si potrebbe riassumere la mia operazione con un’immagine semplice e allo stesso tempo terribilmente concisa: ecco, si tratta di tagliare via la parte marcia di una mela.
E dare così vita alla prima creatura di una nuova specie!

Saltò a piè pari pagine e pagine di calcoli, formule, disegni geometrici e disegni di organi umani – in particolar modo di cervelli tagliati a metà e accuratamente sezionati, come se per ricopiarli avesse usato dei soggetti reali – per poi passare a nuove pagine di quegli appunti filosofeggianti che trovava tanto curiosi.

Forse non è esattamente corretto affermare che in ogni uomo vi sia la stessa quantità di bene e male: può darsi che esse varino da individuo a individuo, o altrimenti non sarebbe possibile spiegare per quale motivo certuni sono più propensi ad operare il bene di altri. Si tratta solo di un forte senso dell’onore, di una radicata morale da cui è impensabile distaccarsi? O è, come io ipotizzo, dipendente dalla misura in cui vengono distribuite queste due “personalità”?
Ritengo che sia una questione di genetica: così come i figli di un maschio moro e di una femmina bionda possono essere a loro volta o biondi o scuri, allora possono anche essere o più buoni e meno malvagi, o meno buoni e più malvagi, in base a ciò che i genitori possiedono nel loro animo.
Rileggendo il mio diario, mi accorgo da me come in alcuni punti io possa sembrare assolutamente folle; eppure sono sicuro e privo di dubbio su ciò che dico – non sono vaneggiamenti, questa è pura scienza!

«Caro dottor Murray, mi permetto di contraddirvi…» Mormorò Emma aggrottando la fronte con aria perplessa, per poi voltare ancora pagina.

Il mio siero funziona come una normale medicina: non ho ancora deciso in quale modo sia più facile somministrarlo – per via orale o per via endovenosa? In quale dei due casi ci sono più possibilità che faccia effetto? – mi riservo la facoltà di prendere una decisione all’ultimo minuto.
Nel frattempo, ecco una lista di alcuni ingredienti che mi saranno indispensabili, io credo, per il mio esperimento…

Seguivano altri dati e quantità di sostanze che Emma non conosceva, così saltò quella parte, ma ormai aveva letto tutto ciò che poteva comprendere. C’erano anche parecchie pagine mancanti, si vedeva dai lembi di carta rimasti miracolosamente attaccati al quaderno dopo la furia dello strappo, e si domandò se fosse stato il dottore a toglierli, magari appallottolandoli e gettandoli tra le braci del camino per eliminare ogni prova dei suoi macabri esperimenti, o se potesse essere stato qualcun altro. Ma chi? Con un sospiro chiuse il quaderno, tenendovi un dito in mezzo a mo’ di segnalibro. Non riusciva a capire che cosa potesse farci un diario del genere a Pemberley Manor – dubitava che fosse appartenuto a qualcuno dei vecchi proprietari, dato che da quello che era riuscita a scoprire sull’uomo che lo aveva redatto con così tanta folle cura si trattava di un personaggio comune, un dottore o uno scienziato, che non aveva legami con i conti di Rochester.
E poi, che cos’erano tutti quegli esperimenti? Era riuscito davvero a trovare qualcuno a cui iniettare la sua assurda formula? E il modo in cui la scrittura del diario si interrompeva così bruscamente aveva forse qualcosa a che vedere con l’esito sfortunato di quegli esami?
Si domandò se i signori Duncan conoscessero questo dottor Murray – ma poi, rifletté da sé, era probabile che anche se avessero saputo qualcosa al riguardo non gliene avrebbero parlato.
Sollevò lo sguardo su miss Radcliffe, che da due giorni ormai giaceva a letto senza dar segno di migliorare in alcun modo: era ancora pallida e incosciente, ma sembrava deperita e sotto gli occhi si erano formate delle ombre scure che non le piacevano per niente. Come avrebbe dovuto supporre, il dottore non era ancora andato al maniero – adducendo la scusa del tempo avverso e di numerosi pazienti più gravi che richiedevano la sua presenza al villaggio. Era più che sicura che se fosse stato sir Carlisle a richiedere una visita a domicilio del medico, egli non avrebbe fatto tutte quelle storie.
Emma sbuffò, innervosita, tamburellando le dita sul bracciolo della poltrona. Che cosa ridicola, aver paura di una casa…














[1] Locuzione latina, tratta dalla favola esopiana De ranis (Delle ranocchie, serpente e legno) il cui autore è un anonimo medievale che si potrebbe identificare con Gualtiero Anglico; ha il significato di: Chi sa appartenere a se stesso non sia di nessun altro.



________________________________________________________________________

Angolo Autrice.
Ed eccoci di nuovo qui, dopo un mese dall'ultimo aggiornamento! Chiedo umilmente scusa per avervi fatto aspettare, ma questo capitolo, come avrete immaginato leggendolo (che malloppone pesante!), è stato un po' arduo da scrivere. Prometto che dal prossimo tornerà un po' d'azione!
Intanto, facciamo l'indiretta conoscenza di un altro personaggio (spuntano come funghi!), che in passato ha avuto un ruolo decisivo: tale dottor Murray, il cui diario è davvero parecchio strano... / stranezza resa ancora più acuta dalla mia incapacità di partorire pensieri abbastanza filosofici, indi per cui chiedo perdono per non essere riuscita a renderli come avrei voluto. D:
[Uh uh, visto che siete approdate su queste rive suppongo che vi piaccia il noir e il macabro in generale, per cui se non sono troppo indiscreta vorrei farvi leggere una one-shot che ho scritto recentemente, ispirata da una puntata della serie TV Hannibal, ma sul fandom del Phantom of the Opera: Circunderunt me fluctus mortis. *___* Sì, ultimamente mi prende così.]
Okay, spazio auto-pubblicitario terminato, torniamo alle cose serie.
Ringrazio infinitamente Homicidal Maniac, SnowFlakes8D, Sylphs e Se7f per aver recensito lo scorso capitolo - grazie, fanciulle, grazie mille! Mi ispirate e mi spronate a continuare ♥ E grazie mille anche ai miei cari lettori silenziosi! Lo so che siete timidi ma che ci siete, e lovvo tanto anche voi ♥
[Ps: un applauso alla spina dorsale ritrovata di Emma! Yeeeah.]
Baci e abbracci come al solito, tanto amore dalla vostra
Niglia.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Chapter 5. Curiosity Killed the Cat ***


capitolo5_waltz
banner






5.
Curiosity Killed the Cat














L’idea le ronzava in testa da quando aveva posato il capo sul cuscino, pronta a godere di un meritato riposo dopo i due giorni di veglia instancabile al capezzale di miss Radcliffe. In realtà, ci aveva rimuginato su sin da quando gliene aveva parlato sir Carlisle per la prima volta, e qualcosa, forse proprio il suo giro di esplorazione del maniero, le aveva fatto prendere la decisione di andare fino in fondo alla faccenda. D’altronde non aveva niente di meglio da fare ora che la sua istitutrice era a letto malata, e non credeva che il rimanere chiusa a Pemberley giorno e notte e in solitudine potesse avere un effetto benefico su di lei.
Giustificò la cosa come semplice curiosità: forse, vedendo il luogo di riposo di coloro che l’avevano preceduta nel possesso di Pemberley, avrebbe potuto rassicurarsi sul fatto di non essere spiata dai loro fantasmi – non che ci credesse davvero, sia chiaro – e avrebbe potuto vivere serenamente fino all’arrivo del padre, atteso, se tutto andava come previsto, per la seconda metà di novembre.
Non potendo contare sull’aiuto di una cameriera – Lydia non aveva né la manualità né l’allenamento sufficiente per aiutarla nelle acconciature, e sfortunatamente neanche miss Radcliffe era disponibile – Emma si risolse a sistemarsi i lunghi capelli corvini in una semplice treccia, che fermò con un nastro scuro e delle forcine, come peraltro aveva fatto negli ultimi giorni; a quell’ora, comunque, non l’avrebbe vista nessuno. Indossò poi dei calzoni da cavallerizza che si era fatta confezionare di nascosto dal padre, dato che la comune tenuta da amazzone che usava durante le battute di caccia ad Hambleton Abbey sarebbe stata ridicola in campagna, e infilò poi un lungo pastrano che strinse in vita con un cinto e che la copriva fin sotto le caviglie. Dopodiché si avvolse una sciarpa intorno al collo, prese i guanti di capretto e uscì finalmente dalla sua stanza.
Benché si fosse sforzata di alzarsi prima dei domestici – e difatti fuori era ancora buio pesto – Emma si accorse con disappunto che questi ultimi sembravano avere una sveglia interna che permetteva loro di abbandonare i letti parecchio tempo prima che il gallo cantasse. Così, confidando che nessuno di loro sarebbe comunque entrato in camera sua prima delle nove, scivolò scalza lungo il corridoio e scese il più silenziosamente possibile le scale, trattenendo quasi il respiro e ringraziando mentalmente il tappeto che attutiva i suoi passi e impediva ai gradini di scricchiolare sotto il suo peso.
Non si stupì nel non trovare Noah Duncan nelle stalle: probabilmente il ragazzo stava ancora dormendo, anche se non poteva fare a meno di chiedersi dove coricasse. Sembrava avere terrore del maniero – e in cuor suo Emma iniziava a non biasimarlo – però dubitava che i suoi genitori gli avrebbero lasciato trascorrere la notte in mezzo ai cavalli, o nel fienile. Ad ogni modo, nella scuderia non c’era alcuna presenza umana: quando aprì la porta gli animali sbuffarono e nitrirono gentilmente come a darle il buongiorno, e lei si diresse a passo sicuro verso l’Andaluso dal manto bianco chiazzato di grigio che aveva catturato il suo interesse sin dal primo giorno. Prima di entrare nella sua cella gli porse la mano aperta sul cui palmo aveva posato un dolciume, e attese pazientemente che il baio accettasse il dono: il suo muso morbido e vellutato contro la propria mano la fece sorridere, e mentre lui masticava si permise di accarezzarlo in mezzo agli occhi.
Purtroppo non era capace di sellarlo: ad Hambleton se ne occupavano gli stallieri, e tutto quello che lei doveva fare era salirgli in groppa e sistemarsi le gonne in modo che le tenessero le gambe coperte. Ma la necessità aguzza l’ingegno, così Emma si limitò a sistemare una coperta piuttosto spessa sul dorso del cavallo e vi montò sopra aiutandosi con uno sgabello, con una gamba su entrambi i lati. Ebbe bisogno di una manciata di secondi per abituarsi alla sensazione del calore pulsante dell’animale tra le sue cosce – le fu inevitabile arrossire, al pensiero di essere vista in quella situazione da occhi indiscreti – ma, dopo aver preso un profondo sospiro, riguadagnò il controllo su di sé e sulla sua cavalcatura, guidando il baio con comandi sicuri fuori dalla scuderia e dalla proprietà.
Ben presto l’imbarazzo venne sostituito da una feroce ebbrezza, e fu con sempre maggiore sicurezza che condusse il cavallo lungo la strada e in mezzo al bosco, presso il vecchio cimitero ormai abbandonato dove, secondo sir Carlisle, le tombe dei conti di Pemberley giacevano dimenticate dal mondo.

Il vecchio camposanto di Heatherfield era, come Emma comprese una volta giuntavi, il luogo di riposo dei nobili che si erano succeduti nel corso dei decenni a capo della proprietà di Pemberley Manor e dei territori circostanti – era, in poche parole, un piccolo cimitero di famiglia, il che spiegava per quale motivo fosse ormai abbandonato e anche perché si trovasse così lontano dal villaggio. Un basso muretto a secco, le cui pietre ricoperte di muschio erano crollate in più punti arrendendosi all’arrancare inesorabile delle piante selvatiche, ne circondava il perimetro in un vano tentativo di tenere a bada l’avanzare del bosco.
Non c’era un cancello – o perlomeno non c’era nel lato da cui era giunta Emma – così la giovane si risolse di scavalcare semplicemente il muretto, non prima di aver assicurato le redini del cavallo al ramo più vicino. Le erbacce avevano ormai divorato ogni cosa – di tanto in tanto qualche lapide riusciva a sbucare sbilenca dalla vegetazione, ma il tempo era stato impietoso e ormai era pressoché impossibile scoprire i nomi di coloro che giacevano avvolti dalla terra, proprio sotto di lei. Ciò nonostante non fu difficile per Emma trovare la tomba degli ultimi ospiti che aveva accolto il cimitero: si trattava di una cappella ambiziosa posizionata in un punto d’onore alla fine di ciò che rimaneva del vialetto, tra un ombroso cipresso e la statua di un angelo con le ali spezzate, con morbidi capelli arricciati alla maniera greca e le pesanti palpebre abbassate in un’espressione triste e desolata. Il marmo bianco era macchiato dalle intemperie, e aggiungeva ulteriore angoscia all’intera cripta.
Sul capitello del mausoleo si leggeva, o per meglio dire si intuiva, ciò che restava del nome di famiglia:

PE B R Y

Sembrava che le intemperie si fossero accanite con particolar foga sulle lettere incise, quasi che avessero intenzionalmente voluto cancellarle – ed eliminare, con esse, anche la memoria del nome che raffiguravano.
Con un brivido e un sospiro, Emma si strinse addosso il mantello e si affrettò ad entrare nella cappella per ripararsi dall’aria gelida del mattino.
L’interno era umido, ma asciutto. Lo scricchiolio del portone aveva rimbombato cupamente tra le quattro pareti del mausoleo, e il fischio del vento che penetrava dagli spifferi pareva quasi il debole sussurro dei morti che ancora stavano a guardia della loro ultima dimora. Emma frugò nelle tasche dei propri calzoni e tirò fuori una scatoletta di fiammiferi che aveva avuto il buonsenso di portare, e che utilizzò per accendere una vecchia lampada in attesa su un ripiano impolverato. La fiammella tremò timidamente, e, al riparo dal soffio d’aria dietro la mano della giovane, finalmente brillò rischiarando il buio; e così Emma poté guardarsi intorno.
Sotto di lei giaceva l’ossario, dove erano state conservate le generazioni precedenti dei Rochester: una grata quadrangolare, larga il tanto sufficiente da farci passare un uomo, ne indicava l’accesso. Sembrava una voragine nera e infinita, ed Emma, inquieta per la prima volta da quando aveva varcato la soglia del mausoleo, l’aggirò con attenzione per non dover essere costretta a verificare di persona se le sbarre di ferro reggessero il suo peso.
Passò lentamente accanto alle quattro tombe più recenti, notando l’assenza di foto o ritratti e dispiacendosene: era un dettaglio che avrebbe donato personalità e calore all’ultima dimora dei conti di Rochester, ma evidentemente nessuno li aveva amati abbastanza da pensarci. Certo il mausoleo dei Pemberley era assai diverso da quello in cui adesso riposava sua madre, perennemente circondata da fiori e candele sempre accese… Sfiorò con reverenza le lettere di ottone dorato della contessa (Isobel Du Maurier, in Pemberley, contessa di Rochester, amata sposa e madre, possa risorgere nella gloria divina. 1841-1873), e poi proseguì con quelle, incise e assai più semplici, del conte (Edgar J. Pemberley, conte di Rochester, 1832-1889) e dei suoi tre figli, Elijah (1864-1889), Evan (1867-1889) ed Eleanore (1871-1889), tutti scomparsi nell’incendio di quindici anni prima.
A quanto pareva gli abitanti del villaggio non si erano sprecati in complessi epitaffi, per loro.
Ma ciò che attirò davvero l’attenzione di Emma fu un’altra stele, più piccola e assai insignificante, poggiata ad un angolo della cappella e ricoperta di un sottile strato di muschio secco, come se fosse stata portata là dall’esterno. Era uno di quei dettagli fuori posto che non si può fare a meno di notare, visto come alterano l’equilibrio di un determinato luogo. Incuriosita si avvicinò e, accucciandovisi di fronte, lesse solo un nome e una data: Adam, 1873-1889.
«Adam», ripeté a bassa voce, perplessa, sfiorando con la punta delle dita l’iniziale appuntita del nome. Una stranezza che si aggiungeva alle numerose altre che aveva incontrato da quando si era trasferita a Pemberley… Chi era quell’Adam senza nome, e che cosa ci faceva la sua lapide priva di una tomba a cui fare la guardia? Che fosse un figlio illegittimo, morto giovane e sistemato nella cripta di nascosto, così che almeno nella morte potesse far parte di quella famiglia? Nessuno pareva prestare attenzione a ciò che accadeva in quel piccolo cimitero, d’altra parte… Una curiosa coincidenza, poi, che la data della morte corrispondesse a quella degli altri membri della famiglia.
Un momento, però. Edgar J. Pemberley… Edgar? Il nome le era familiare. Dove l’aveva già sentito? Si spostò nuovamente davanti alla lastra del conte, e si sforzò di ricordare. Era come cercare di riagguantare i residui di un sogno, i cui contorni sfuocati continuano a sfuggire man mano che si cerca di rammentarli, per poi sparire nell’oblio alla minima disattenzione. Eppure, facendo mente locale e passando al setaccio ciò che aveva fatto nell’ultima decina di giorni, quel nome riuscì infine a far suonare un campanello: se non ricordava male, lo aveva trovato nel diario del dottor Murray – di cui ormai aveva praticamente memorizzato ogni singola parola – il quale ne parlava come se fosse stato un suo amico. Ora, in una situazione normale questo non avrebbe significato niente – quanti uomini potevano chiamarsi così in Inghilterra? Non era certo una prova. Ma il semplice fatto che il diario di un apparente estraneo si trovasse nel castello, e che citasse qualcuno che casualmente si chiamava come l’allora conte… Non poteva trattarsi di un’altra coincidenza.
Solo che non capiva come questo dovesse avere una qualche valenza interessante. E poi, su che cosa stava indagando? Su una famiglia scomparsa in un tragico incidente quindici anni prima? Per quale motivo? Era davvero tanto annoiata da vedere complotti e misteri in un nonnulla?
Solo che non si trattava di un semplice nonnulla: c’erano parecchie note stonate nella melodia di Pemberley, che si traducevano nel fastidioso presentimento che qualcosa di brutto dovesse accadere da un momento all’altro. C’era Noah, il figlio dei signori Duncan, terrorizzato alla sola idea di entrare in casa; c’erano proprio i signori Duncan, con il loro atteggiamento arrogante e ambiguo, di chi cela un segreto terribile; c’era stata quella musica notturna, ricomparsa poi in un carillon apparso all’improvviso nella sua camera da letto, il cui solo pensiero la faceva ancora rabbrividire; c’era stato il divieto di aggirarsi nell’Ala Ovest, divieto che lei aveva bellamente ignorato per poi scoprire il cuore abbandonato e decadente della dimora, con strane stanze di cui non si capiva il senso come il laboratorio e lo studio del pittore misterioso; c’era il diario del dottor Murray, con le sue teorie inquietanti sulla creazione di una nuova specie; c’era il fatto che gli abitanti del villaggio si rifiutassero di giungere a Pemberley, come se il maniero fosse uno dei portali dell’inferno; e c’era stata persino la malattia incomprensibile di miss Radcliffe.
Forse erano solo vaneggiamenti, tentativi testardi da parte sua di far quadrare i conti e far convergere tutti quegli avvenimenti in un’unica spiegazione, o forse no: ma non poteva dimenticare che la sua istitutrice era tornata dalla sua breve gita al villaggio stranamente pallida, con tutta l’intenzione di parlarle di qualcosa di molto importante appena prima di cadere nella sua inspiegabile infreddatura. Sì, indubbiamente c’era un qualche segreto che le mura secolari di Pemberley stavano nascondendo, e lei diventava ogni giorno più curiosa di scoprirlo. Si lasciò alle spalle la cripta, chiudendo con cura la porta e ripercorrendo a ritroso il vialetto del camposanto mentre con la mente tornava alla sua nuova casa e al desiderio sempre più invadente di svelarne ogni mistero.
Emma era già parecchio lontana quando una mano solitaria sbucò dalla grata, sollevandola e spostandola con un fastidioso stridio da un lato del pavimento. Una figura, grossa e nera, si issò faticosamente sul bordo della botola, sgorgando dall’ossario con un gemito inquietante. Nessuno la vide e nessuno la udì, se non le mute salme di coloro che un tempo erano stati la sua indesiderata famiglia.




*



Non rientrò subito a Pemberley – c’era qualcos’altro che aveva in mente di fare, adesso che aveva la possibilità di muoversi senza l’onnipresente sguardo inquisitore dei domestici. Aveva ormai iniziato ad albeggiare, tenui raggi rosati penetravano le nubi plumbee e facevano brillare la rugiada sull’erba; nel momento in cui, al rientro dal camposanto, avrebbe dovuto prendere la strada per il castello, Emma decise di voltare il cavallo e andare nella direzione opposta, verso, come si era informata, la casa di sir Carlisle.
Non fu un tragitto eccessivamente lungo, forse una ventina di minuti al massimo. Procedeva ad una andatura sostenuta ma non esagerata – amava andare a cavallo, ma dal tragico incidente di sua sorella Lizzie non le sembrava il caso di sfidare la sorte – così, quando giunse finalmente in vista dell’abitazione dei Carlisle, conservava ancora un aspetto sufficientemente presentabile. Il cancello in ferro battuto della tenuta era aperto, così Emma fece fermare il suo baio e scivolò a terra, reggendo con mano salda le redini per evitare che il cavallo si innervosisse in un ambiente estraneo. Notò un cartello di ottone sul pilastro destro del cancello, dove era scritto, in caratteri gotici, il nome della proprietà: Ashfield.
La casa era una tipica villa in stile georgiano: la facciata ricoperta di mattoncini rossi, avvolti qua e là da spire di edera fiorita, gli infissi bianchi, un portico elegante il cui tetto pareva ricordare il frontone dei templi greci e una bassa siepe che percorreva il profilo della casa in tutta la sua superficie. Il sorriso nacque spontaneo sulle sue labbra: il cambiamento rispetto a Pemberley era talmente evidente che le parve quasi di essere in un altro angolo di mondo, in un’altra vita: quella si poteva definire davvero una casa accogliente, pensò, una nella quale le sarebbe piaciuto abitare.
Fu un cameriere a venire ad accoglierla, con sua grande sorpresa: oramai era pressoché disabituata a dei domestici in divisa ineccepibili e professionali come la servitù di Hambleton.
«Posso fare qualcosa per voi, signorina?» Le domandò il giovane, fermandosi a pochi passi da lei e spostando uno sguardo perplesso e leggermente ostile dalla sua cavalcatura alla sua persona e viceversa.
Emma sapeva di non essere in condizioni eccellenti per fare una visita mattutina al suo vicino di casa, ma era pur sempre la figlia di un conte e non c’era nessuna ragione che permettesse a quel domestico di fissarla con così tanta insolenza, come se fosse stata l’ultima sguattera della cucina, o peggio. Probabilmente l’essere arrivata in groppa ad un cavallo privo di sella e finimenti doveva avergli dato l’impressione sbagliata. «Mi auguro proprio di sì, desidero vedere sir Carlisle», affermò con un tono deciso, sforzandosi di non spazzolare via la polvere e la terra dal proprio vestito. «Sono sicura che si ricorderà di me: sono lady Emma Moore, la proprietaria di Pemberley Manor.»
Gli occhi chiari del ragazzo parvero allargarsi leggermente, eppure non le diede la soddisfazione di riconoscerla: non sembrava fidarsi della prima fanciulla che si vantava di un titolo simile, come se quel luogo dimenticato da Dio pullulasse di numerosi impostori. «Date a me il cavallo, m’lady», fu la sua replica forzata – non si diede neppure pena di scusarsi. «Mr. James, il maggiordomo, vi farà accomodare in casa.» Ciò detto, le diede le spalle e si diresse sul retro, trascinandosi un animale piuttosto innervosito che scalpicciava sulla ghiaia del vialetto.
Emma lo fissò a corto di parole: ma cos’avevano che non andava tutti i domestici di Heatherfield?
Trattenendo a stento l’irritazione fece per avvicinarsi all’ingresso e annunciarsi da sola, ma venne bloccata a metà vialetto da un forte colpo di tosse. Volse appena gli occhi verso quel rumore, con nessuna intenzione di fermarsi per verificarne la fonte, ma purtroppo vide qualcun altro andarle incontro, e per forza di cose si vide costretta a mostrarsi cordiale anche con il nuovo arrivato.
«Perdonate, m’lady, non ho potuto fare a meno di udire il vostro scambio con Alfie. Vi chiedo scusa anche da parte sua, non è stato molto gentile», esordì pacato, con la voce greve di chi trascorre molto tempo a fumare. Da una mano gli pendevano delle cesoie e con l’altra si sfilò educatamente il cappello in cenno di saluto; tutto il suo abbigliamento indicava chiaramente il suo lavoro di giardiniere. Emma decise che doveva avere all’incirca l’età di Mr. Duncan, se non addirittura qualche lustro in più.
«Non posso biasimarlo, dopotutto è un orario inconsueto per delle visite. Tuttavia ho urgenza di parlare con sir Carlisle, per cui, se posso…» Fece, cercando di liberarsi dell’uomo con delicatezza.
Egli tuttavia non parve capirlo. «Siete davvero lei, mh? La nuova padrona di Pemberley. Vivete lì? Con i Duncan?» Aggiunse, sputando quel nome come se fosse stato insieme un insulto e una maledizione.
Parlare male della propria servitù con il domestico di un’altra famiglia non rientrava nell’educazione che le era stata imposta: come diceva sempre miss Radcliffe, utilizzando un accorto proverbio contadino, i panni sporchi andavano lavati in casa. «Sì, e per vostra informazione non c’è nulla di riprovevole nel modo in cui i Duncan gestiscono la tenuta, per cui vi suggeriscono di moderare i toni.»
Egli tuttavia ignorò sfacciatamente quel prudente consiglio. «Se così fosse, che cosa vi porta qui ad Ashfield appena dopo l’alba e senza alcun preavviso, con l’aria di chi fugge dall’Inferno?»
Emma rimase sconvolta dall’insolenza di quell’uomo, ma per sua fortuna le venne risparmiata la fatica di pensare ad una risposta abbastanza tagliente da metterlo a tacere.
«Tom! Occupatevi dei cespugli e non importunate milady», sbottò difatti una voce severa che interruppe il loro breve scambio. Emma si voltò per vedere quello che doveva essere il maggiordomo, irto sulla soglia del portico con un’espressione contrariata e algida su un viso segnato dal tempo.
Il giardiniere si raddrizzò, infastidito. «State attenta a chi concedete la vostra fiducia, m’lady», fece allora, prima di rivolgerle un rigido cenno col capo e tornare al suo lavoro senza più aggiungere una sola parola.
Emma lo osservò sparire in mezzo alla vegetazione, perplessa: quasi rimpiangeva di non avergli fatto più domande – quel tale, Tom, forse era a conoscenza di qualcosa che avrebbe dovuto sapere anche lei… C’era forse dell’altro sui Duncan, oltre alla storia che le aveva già raccontato sir Carlisle?
«Prego, milady, accomodatevi dentro casa. Se avessimo saputo del vostro arrivo avremmo organizzato un’accoglienza assai più adatta», stava dicendo Mr. James cercando di ottenere la sua attenzione, in un tono finalmente educato e professionale che non pareva accusarla di essere capitata in casa loro come un bandito. «Il signore è in sala da pranzo. Vi fermate per colazione?»
«Non credo, signor James, ma vi ringrazio. Ho solo bisogno di parlare con sir Carlisle, non mi tratterrò a lungo», rispose un poco più a suo agio, raggiungendolo sul portico. Intimamente cercò di consolarsi – forse non indossava un abito elegante, ma perlomeno portava il nero.
«Molto bene. Se volete seguirmi…»
Sir Carlisle sedeva al tavolo della sala da pranzo, neanche lontanamente grande o sfarzosa quanto quella di Pemberley, ma non per questo meno accogliente, immerso nella lettura di un quotidiano – evidentemente il servizio di posta era più efficiente ad Ashfield di quanto non fosse al castello – mentre il cameriere che lei aveva incontrato poco prima nel cortile gli gironzolava intorno pronto ad esaudire qualunque richiesta. Era già vestito di tutto punto, il che le fece sentire per un attimo nostalgia di casa, di Hambleton – Emma non credeva che le potesse mancare così tanto fare colazione con suo padre, quando solo raramente si scambiavano qualche parola durante il primo pasto della giornata. Probabilmente associava un’abitudine così semplice a un capitolo della sua vita che non si sarebbe più potuto ripetere, vista la scomparsa della madre…
Quando lei e il signor James si affacciarono sulla porta, il primo annunciandola con aria pomposa, il padrone di casa sollevò gli occhi su di lei e si alzò rapidamente in segno di cortesia, sorridendole e posando il giornale sul tavolo per andarle incontro.
«Lady Moore, questa sì che è una piacevole visita inaspettata!» Esordì con entusiasmo, prendendole la mano e sfiorandola con un baciamano impeccabile. Se anche era infastidito per il suo arrivo non annunciato, egli seppe mascherarlo alla perfezione.
«Vi chiedo infinitamente scusa per essere piombata così all’improvviso in casa vostra, sir Carlisle», si scusò immediatamente, per l’ennesima volta, seguendolo mentre le faceva strada verso la sedia accanto alla sua, capotavola.
«Via, credevo avessimo abolito le formalità. Le trovo così pompose e forzate, qui in campagna… Chiamatemi pure Arthur», la corresse gentilmente, riuscendo a metterla del tutto a suo agio anche malgrado l’abbigliamento poco consono e l’orario decisamente vergognoso. «Scommetto che non avete ancora fatto colazione. Gradite del tè, o preferite forse del caffè? Con latte, magari? E i pasticcini? Mrs. Mills, la nostra cuoca, li ha sfornati proprio qualche ora fa. Sono ancora caldi.»
Adesso che la colazione le veniva offerta dal padrone di casa le sembrava maleducato rifiutare, senza considerare che, in effetti, la lunga cavalcata mattutina le aveva messo un certo appetito. «Grazie, sir… Arthur. Il tè andrà benissimo», capitolò con un mezzo sorriso, sfilandosi i guanti e posandoseli in grembo.
«Jimmy, del tè per milady, grazie.» Ordinò, rivolgendosi al cameriere. Poi tornò a lei, riprendendo a sorridere. «Non credevo che amaste le passeggiate così mattiniere, lady Emma. Posso chiamarvi per nome, sì? Vi piace ammirare l’alba?»
«Una cosa del genere. In realtà ho colto un vostro suggerimento, ci pensavo dalla vostra visita… Sono andata alla cripta dei conti di Rochester», ammise, abbassando leggermente la voce.
«Siete stata al vecchio cimitero?» Sir Arthur sembrò davvero sorpreso, e una sottile ruga di apprensione si formò tra le sue sopracciglia aggrottate. «Oh, milady, non vorrei sembrarvi arrogante o invadente, ma non penso che sia stata la migliore delle idee quella di spingersi così lontano, da sola, e a un orario così insolito…»
«Sì, certo, ne sono consapevole, ma la curiosità è stata tanta che non sono riuscita a trattenermi», replicò brevemente; in tutta sincerità, era imbarazzante ammettere ad alta voce quella sua scappatella – alle orecchie di un estraneo doveva sembrare talmente ridicola!
L’uomo annuì, mentre lasciava che un’espressione grave si facesse largo sul suo volto e ne annullasse l’istintiva giovialità. «Comprendo benissimo, milady, e non mi permetterei mai di giudicare una fanciulla così assennata come immagino siate voi», fu tuttavia la sua garbata e sincera risposta. «E avete ottenuto ciò che speravate di trovare?»
«In realtà credo che sia piuttosto difficile placare la curiosità di una donna», ribatté Emma con un mezzo sorriso, cercando di spostare la questione su un terreno più leggero e che, al momento, le stava più a cuore. «Tuttavia, sir Arthur, non sono venuta a quest’orario così barbaro solo per approfittare della vostra ospitalità, ma per osare chiedervi una cortesia», proseguì piano, posando la tazza sul piattino e sollevando lo sguardo sul padrone di casa.
Egli la osservò attentamente, e le fece cenno di andare avanti. «Prego, milady, chiedete pure. Farò quanto è in mio potere per aiutarvi.»
Emma sospirò, leggermente imbarazzata per il fatto di dover fare una richiesta tanto singolare a un gentiluomo che era, in fondo, ancora uno sconosciuto. «Come vi ho accennato, la mia istitutrice non sta bene. È a letto da giorni, ormai, e non accenna a migliorare… Ho fatto chiamare il medico, ma la mia governante dice sempre che non può e non vuole venire, perché a quanto pare la gente del villaggio nutre uno strano terrore nei confronti di Pemberley, e preferisce non metterci piede. Se servisse a qualcosa andrei io stessa da lui, ma che senso ha parlare con un dottore se egli non vuole visitare la paziente? Per cui, ecco, mi domandavo se voi poteste intercedere presso di lui, a nome mio. Credo che voi siate più conosciuto di me al villaggio, e sicuramente nessuno si rifiuterebbe di venire ad Ashfield…»
«In poche parole, milady, mi state chiedendo di rapire il dottor Carew e di portarlo a sua insaputa a Pemberley Manor?» Malgrado l’improvviso rossore di Emma a quel rapido sunto, sir Carlisle scoppiò a ridere, sinceramente divertito. «Ma certo, certo, è più che fattibile! Andrò a Heatherfield subito dopo colazione, e vi posso assicurare che prima di pranzo il dottore avrà visitato la vostra miss Radcliffe.»
«Non so come ringraziarvi, sir Arthur», rispose lei sinceramente, non osando quasi sorridere per timore di fargli cambiare idea. «Sarò molto più tranquilla una volta che il signor Carew l’avrà vista. Dubito che con latte caldo e miele si possa curare altro che non sia un semplice raffreddore…»
Sir Arthur annuì, comprensivo. «A voler essere franco, milady, mi delude che un uomo di scienza come Brandon Carew si sia lasciato suggestionare dalle storie dei contadini al punto di privarvi del diritto di una visita», aggiunse poi, con un’aria improvvisamente risentita – quasi che il torto fosse stato fatto a lui in prima persona. «Lo conosco da tanti anni, e vi assicuro che è la prima volta che assisto a un simile comportamento. Non so davvero come spiegarlo…»
«Se anche la metà di ciò che mi avete raccontato durante la vostra visita a Pemberley è del tutto vera, sir Arthur, non posso sentirmi di biasimare il dottor Carew», replicò Emma, sentendosi quasi in dovere di difendere il recalcitrante dottore: il maniero, era ora che lo ammettesse, stava iniziando a spaventarla, e poteva forse iniziare a capire i sentimenti degli abitanti del villaggio al riguardo. «E comunque mi auguro che accetti di farci visita in vostra compagnia. Non credete che il mio gesto sia inopportuno, vero?»
«Ribadisco che è nel vostro pieno diritto richiedere la visita del medico della contea, milady, è che il torto sia suo per avervelo negato», la rassicurò sir Carlisle, con il suo caldo sorriso. Poi si voltò appena di lato, attirando l’attenzione del maggiordomo che attendeva ordini in paziente attesa alle sue spalle, presso l’arazzo che ricopriva buona parte della parete. «Per favore, James, fate preparare la mia automobile. Lady Emma, venite al villaggio insieme a me?»
«Oh no, sir Arthur, se non vi dispiace preferirei precedervi a Pemberley. Devo avvisare i miei domestici e cercare un abbigliamento più adatto per ricevere ospiti», disse subito, ricordandosi delle condizioni in cui si era presentata alla sua porta. Si domandò se con dei simili indumenti avrebbe rischiato di più le ire di suo padre o della sua istitutrice… Sorrise, cercando di non pensarci, e si alzò da tavola subito imitata dal padrone di casa.
Quest’ultimo scosse il capo, palesemente divertito. «Per quanto non mi senta molto tranquillo nel lasciarvi rientrare da sola e a cavallo, posso comprendere la vostra premura. Ma lasciatemi dire che siete elegante anche in questa eccentrica tenuta da amazzone.»
«L’auto è pronta, sir», li interruppe in quel momento Mr. James, appena rientrato nella sala da pranzo.
«Bene, grazie James. Milady, permettete?» La scortarono galantemente nell’ingresso, dove sir Arthur l’aiutò a infilare il soprabito e istruì il maggiordomo di avvisare la signora Carlisle che era dovuto scappare subito dopo colazione per un impegno improrogabile. Dopodiché egli salì nel suo trabiccolo moderno, come lo avrebbe definito miss Radcliffe, ed Emma montò a cavallo aiutata da un assai meno arrogante Alfie.
Proseguirono insieme fino all’incrocio, dove si dovettero separare: sir Arthur le promise che in una o due ore al massimo sarebbe giunto al castello con il suo amico, e così accadde.
Il dottor Brandon Carew varcò la soglia di Pemberley Manor con l’aria del condannato a morte che si appresta a compiere gli ultimi passi prima del patibolo. Era un signore di media altezza e media corporatura, la cui età pareva ondeggiare tra i cinquanta e i sessant’anni, che non possedeva alcun segno particolare che potesse distinguerlo in mezzo ad una folla, salvo la consunta valigetta che stringeva nella mano sinistra come se aggrappandovisi sarebbe stato al sicuro dai fumi maligni del maniero. Era un uomo comune, e di sicuro non si era ancora ripreso dall’improvviso tradimento di sir Carlisle, che lo aveva trascinato in quella tenuta di nascosto nonché contro il suo volere.
Emma ignorò il palese disaccordo che leggeva in viso a Mrs. Duncan – la quale non aveva digerito bene la cavalcata segreta della padrona e che pareva tanto restia ad avere ospiti in giro per il maniero quanto lo erano questi ultimi di far loro visita – e andò ad accogliere il dottore, sforzandosi di metterlo a suo agio con tutte le buone maniere che poteva sfoderare. La sua tranquilla serenità certo mascherava alla perfezione la breve discussione che aveva avuto con la governante al suo ritorno a Pemberley, dove poche ore prima era stata accolta quasi come una prigioniera che non si sarebbe mai dovuta permettere di uscire dai confini della proprietà senza domandare il permesso o farsi accompagnare da qualcuno. Per la prima volta Emma aveva minacciato la donna di raccontare tale condotta a suo padre e di farla dunque cacciare, e per quanto si fosse vergognata l’attimo dopo aver parlato in quel modo, non poté fare a meno di notare che quelle maniere sembravano aver portato qualcosa di buono: Mrs. Duncan appariva ancora contraria a ciò che faceva lei, ma perlomeno teneva per sé le sue considerazioni.
Il dottor Carew, dal canto suo, pareva essersi innamorato di Emma dal momento in cui i suoi occhi si erano posati su di lei. Si era subito prodigato in mille scuse e salamelecchi inframmezzati da mezzi inchini, si era giustificato per il suo comportamento e le aveva promesso che mai più avrebbe osato ignorare gli appelli di Sua Signoria – Emma gli aveva ripetuto tre volte che non doveva chiamarla in quel modo, ma alla quarta si era limitata ad alzare gli occhi al cielo e a lasciar correre[1] – a favore di altro che poteva aspettare. Lo aveva accompagnato in camera di miss Radcliffe mentre sir Arthur, con impeccabile delicatezza, si era offerto di attendere in biblioteca che la visita terminasse; in cuor suo Emma non poté che essergli grata, dato che così poteva liberarsi di Mrs. Duncan ordinandole di portargli del tè per non averla tra i piedi durante il consulto.
La diagnosi del dottore era stata, tuttavia, poco soddisfacente: l’uomo non aveva saputo determinare con certezza a cosa fosse dovuto il malore di miss Jane, anche se aveva escluso a priori le malattie più gravi. A giudicare da ciò che gli aveva spiegato Emma e da ciò che aveva avuto modo di esaminare da sé, pensò che almeno in un primo momento doveva essersi trattato di un’intossicazione alimentare. Forse qualcosa che aveva mangiato al villaggio, visto che si era sentita male il giorno stesso? Emma non seppe rispondere. Ad ogni modo, il fatto che non fosse abbastanza cosciente per potersi nutrire in modo appropriato aveva fatto peggiorare la sua salute, e fu per questo che le prescrisse, insieme a delle pastiglie che facessero calare la febbre, una dieta rigorosa da seguire passo per passo a costo di imboccare a forza la paziente.
«Inoltre, se posso permettermi l’ardire, Sua Signoria», le sussurrò l’uomo guardandosi intorno con aria circospetta, forse temendo che le pareti lo ascoltassero, «vi consiglio di controllare tutto quello che viene fatto ingurgitare alla signorina Radcliffe, qualora… Dio non voglia, per carità, ma la prudenza, sapete come si dice… ecco, in caso di un avvelenamento prolungato.»
Emma aveva ascoltato quelle parole più con fare sorpreso che indignato, dato che una simile possibilità non le era neanche passata per la testa. Perché mai qualcuno avrebbe voluto avvelenare miss Radcliffe, che non aveva fatto del male a nessuno e di certo era a Heatherfield per troppo poco tempo per potersi essere fatta dei nemici così agguerriti?
Parlarono ancora un poco di come sarebbe stato meglio prendersi cura di miss Radcliffe – impacchi di erbe balsamiche per liberare le vie respiratorie, pezzuole bagnate di acqua gelida da posarle sulle tempie, e via dicendo – dopodiché Emma fece strada al dottore fino alla biblioteca per raggiungere sir Arthur. Rimasero entrambi fino all’ora di pranzo, quando i due uomini dovettero declinare di pari accordo l’invito di fermarsi a mangiare al maniero, con palese soddisfazione di Mrs. Duncan.
Anche più tardi, mentre sedeva al capezzale della sua istitutrice, Emma non riuscì a togliersi dalla testa la terribile idea che il dottor Carew vi aveva fatto radicare.




**



Il giorno successivo, dopo aver congedato il dottore che aveva ormai accettato di tornare periodicamente per far visita alla sua paziente, a patto di essere accompagnato di nuovo da un disponibile sir Carlisle, Emma trovò un libro posato sulla poltroncina che usava occupare in biblioteca, quella accanto al camino, come se qualcuno lo avesse dimenticato lì di proposito. Incuriosita, lo prese e se lo rigirò tra le mani, finché i suoi occhi non vennero catturati dal titolo: Le sei mogli di Barbablù.
Era un libricino sottile, con la copertina blu logora e il dorso usurato, ma l’immagine dipinta sul frontespizio mostrava la chiara rappresentazione di una fanciulla dall’espressione terrorizzata che teneva tra le mani coperte di sangue una piccola chiave d’oro. Emma conosceva la favola – la conosceva bene, a dirla tutta, grazie al suo particolare interesse per il gotico e per l’orrore – e pertanto trovò di cattivo gusto che qualcuno le avesse lasciato quel volume in particolare a portata di mano, quasi sperando che lei lo trovasse e lo leggesse.
La cosa non le piacque. Volevano forse ricordarle cosa accadde alle mogli curiose di Barbablù? Eppure credeva che fosse in suo diritto esplorare il maniero in lungo e in largo. Avrebbe dovuto parlarne con Mrs. Duncan una volta per tutte, decise; quella storia stava andando troppo per le lunghe. A meno che, certo, non fosse stata lei a mettere in giro quel libro…
Il pendolo ticchettava cupo e monotono, e un ceppo si spaccò in due tra una miriade di scintille. Tutta la biblioteca pareva immersa in un’atmosfera di pacata attesa, come se qualcosa di inevitabile dovesse accadere da un momento all’altro e fosse impossibile impedirlo: Emma dubitava che tale sensazione potesse avere un’accezione positiva, dato che quella sensazione di quiete stava trasformandosi via via in una di angoscia.
«Milady, è arrivata una lettera per voi con la posta serale», esordì più tardi Mrs. Duncan, entrando nella biblioteca con il vassoio del tè. «Da parte di vostro padre. Ho pensato che avreste voluto leggerla subito.»
Emma mise da parte la sua lettura e sollevò lo sguardo sulla governante. Stava forse cercando di essere più gentile, così di punto in bianco? «Sì. Grazie, Mrs. Duncan», rispose, con una fredda gentilezza che non aveva più abbandonato da quando aveva ripreso i domestici per la loro insolenza pochi giorni prima.
Decidendo tuttavia che avrebbe aperto la lettera una volta rimasta sola, si limitò a prendere la tazzina e addolcire la bevanda con due zollette di zucchero. «Sapete per caso chi potrebbe aver lasciato questo libro sulla mia poltrona, signora Duncan?» Domandò con noncuranza, ruotando il cucchiaino per sciogliere lo zucchero e indicando con un cenno del capo il libricino di Barbablù che giaceva sul tavolino di fronte. La donna abbassò lo sguardo su di esso e aggrottò la fronte, perplessa; eppure a Emma non sfuggì il tremito delle sue labbra, né il suo improvviso e ormai troppo frequente pallore.
«Sinceramente no, milady», rispose piano, a mezza voce.
Emma riprese la parola come se Mrs. Duncan non avesse risposto. «Potrebbe essere uno scherzo di Lydia? O di Noah? Forse dovreste tenere più sotto controllo vostro figlio, signora.»
«Vi assicuro che non è stato Noah, milady!» Sbottò la donna, la paura che diventava ira in un battito di ciglia. Ma bastò una fredda occhiata di Emma per placarla. «Io… Vi chiedo di perdonarmi, milady. Voglio solo dire che mio figlio non toccherebbe mai qualcosa che non gli appartiene, e soprattutto non oserebbe entrare nel castello.»
Con un cenno della mano, Emma interruppe le sue giustificazioni. «Non voglio trattenervi oltre, Mrs. Duncan. Avrete sicuramente di meglio da fare che rimanere ad annoiarvi qui insieme a me», fece, congedandola. Avrebbe avuto altre domande da farle, in realtà, ma ormai tollerava la governante sempre meno – e sempre di più desiderava che suo padre ne mandasse un’altra al suo posto. E c’era quella faccenda del veleno… Ma rovinare la vita di un’intera famiglia solo per un’antipatia passeggera e un sospetto privo di fondamenta poteva essere considerato un capriccio, e a Emma piaceva ritenersi superiore a cose del genere.
Con un affilato tagliacarte ruppe il sigillo della lettera – suo padre amava ancora utilizzare la ceralacca con il suo timbro, ma solo per la posta privata entre eux, giacché sarebbe stato davvero troppo eccentrico per la posta quotidiana – dopodiché si mise a leggere. La carta odorava di tabacco, ed Emma riuscì a immaginare suo padre scriverla tra una boccata e l’altra dei suoi sigari, alla calda luce del suo studio.



Mayfair Street, n. 15. Londra
Martedì 4 ottobre.

Mia cara Emma,
Ormai iniziavo a credere che non mi avresti scritto fino a Ognissanti. Posso interpretare questo silenzio come il buon segno che infine hai gradito la campagna, e che sei così impegnata da non trovare qualche minuto da dedicare al tuo vecchio padre? No, tesoro mio, non aggrottare in quel modo la fronte – non è un rimprovero: mi sto solo burlando di te.
Come ben sai sono a Londra da più di una settimana, e gli impegni tengono lontani i pensieri più tristi e cupi – e mi auguro con tutto il cuore che sia così anche per te. Sono lieto che la signorina Radcliffe ti sia accanto in questo momento, la sua presenza dovrebbe rendere il tutto assai meno miserabile e più sopportabile. A proposito, mi auguro che si riprenda al più presto: non credo di averla mai vista prendere un’infreddatura, siamo sicuri che non sia nulla di grave? Forse l’aria di campagna non è stata molto misericordiosa con lei, povera donna.
Se può esserti di una qualche consolazione, in città il tempo è orribile: piove dalla mattina alla sera, e quando non piove tira vento, e se non tira vento le strade sono immerse in quella fastidiosa nebbia che rende sempre assai poco piacevole uscire di casa per andare a partecipare ai ricevimenti che offre l’inizio della Stagione. Ho sentito che lady Edith Campell, non era forse una tua amica?, si sposa in primavera con un tale che possiede una fabbrica di sali e profumi, e contro il volere dei genitori. Un vero scandalo! Ti lascio immaginare. A Londra per il momento è il pettegolezzo più succulento, non si parla d’altro – ho pensato che potessi gradire notizie simili, laggiù in campagna.
Ho anche avuto il piacere di incontrare lord George Herbert[2] – forse lo rammenti, è stato ospite a casa nostra qualche anno fa, durante la stagione di caccia – ed è stato tanto gentile da domandarmi della mia spedizione in Egitto; ha fatto mostra di volerci andare a sua volta, prima o poi, giacché la nostra collezione privata di tesori egizi l’aveva a suo tempo profondamente ammaliato. Anch’io sto prendendo in considerazione l’idea di partire, mia cara, e mi domandavo se potessi essere interessata ad accompagnarmi: forse viaggiare verso terre lontane potrebbe aiutarci nel placare il nostro dolore, e benché io sappia che è impossibile fuggire da esso so anche che è in nostro dovere provare comunque a farlo. Non devi prendere una decisione subito – lasciamo tutto a dopo Capodanno. Riesci a immaginare la meraviglia delle coste del Nilo, in primavera?
Ora permettimi di mettere da parte per un momento le chiacchiere frivole, e lascia che mi comporti come il padre severo che dovrei essere: mi auguro che tu abbia scritto a Caledon. Visto il legame che condividete sei tenuta a contattarlo personalmente, non solo perché sono le più semplici regole della società a imporlo ma soprattutto per una questione di delicatezza; benché io lo abbia già avvisato in precedenza della tua partenza verso il nord, è comunque preferibile che gli faccia avere tue notizie di tuo pugno. Povero ragazzo, credo non abbia preso molto bene la mia decisione – sì, ho ribadito più volte che tu non hai potuto astenerti dall’obbedirmi, e ciò ha trasferito la sua delusione su di me anziché su di te – ma malgrado ciò si è comportato da vero gentiluomo e ha promesso di rispettare il tuo periodo di lutto. L’ho incontrato proprio tre giorni fa al club ma mi è parso di capire che non l’avessi ancora contattato, per cui ti consiglio di rimediare al più presto – qualora tu non l’abbia già fatto nel tempo che questa lettera impiegherà per arrivarti. Vi conoscete da una vita, mia cara, e so che adesso lui è l’ultimo dei tuoi pensieri, ma molto presto diventerà il primo tra essi, e non voglio che il tuo matrimonio inizi su basi così poco stabili. Ti supplico di non usare l’attuale situazione come espediente per allontanarti ancora di più da lui.
Mia cara, perdonami; so che non sono discorsi da fare per lettera, ma al momento è l’unico modo che abbiamo per comunicare. Devo informarmi se a Heatherfield esiste già una linea telefonica – in tal caso potrei far installare un apparecchio a Pemberley Manor, non sarebbe una buona idea? Pensavo comunque di investire in una ristrutturazione del castello, tanto vale cominciare al più presto.
Ah, un’ultima cosa: non so dirti quando riuscirò a raggiungerti in campagna. Mi auguro il prima possibile, ma ti darò notizie più dettagliate nella prossima lettera. Te lo prometto.
Intanto ti stringo forte, adorata, e che Dio ti benedica. Tuo,
Papà.




***



Venne svegliata nel cuore della notte dal feroce abbaiare di Aramis proveniente da un punto imprecisato nella stanza, forse ai piedi del letto. Socchiuse gli occhi, sbattendo le palpebre e guardandosi intorno per cercare di capire che cosa stesse succedendo: la finestra si affacciava ancora sul buio pesto, segno che l’alba era parecchio lontana, e poiché non stava piovendo né tuonando si domandò per quale diavolo di motivo il suo cucciolo si fosse messo a fare tutto quel rumore, quasi che avesse il preciso compito di svegliarla.
«Ssht, Aramis, buono… Non è ora», biascicò, cercando di calmarlo per poter tornare a dormire. Le sembrava di non riuscire a riposarsi da giorni, il che era pericolosamente vicino ad essere la verità.
Tuttavia il cane non pareva intenzionato ad obbedire agli ordini della padrona, e al latrare sostituì un furioso e determinato ringhiare. Maledicendo prima lui e poi sé stessa, per non aver dato retta a Mrs. Duncan e aver lasciato dormire Aramis nelle stalle, Emma scostò la coperta e arrancò faticosamente tra le coltri annodate fino a raggiungere il bordo del letto, dal quale scivolò sul pavimento posandovi i piedi nudi. Allungò una mano alla cieca sul comodino e, quando trovò lo stoppino della lampada ad olio, lo ruotò finché una tenue luce non ebbe rischiarato le tenebre.
A quel punto Aramis la raggiunse e gironzolò nervosamente intorno ai suoi piedi, continuando a guaire e ringhiare: aveva le orecchie tese e il muso aperto a mostrare minacciosamente le zanne, e per un attimo Emma ebbe paura di lui. «Cosa c’è, bello? Non riesci a dormire?» Mormorò, cercando di parlargli con un tono dolce e rassicurante per rilassarlo. Lui abbaiò ancora una volta e strofinò il muso contro il suo polpaccio, cercando di farla alzare; obbedendo a quel strano comportamento, Emma si alzò e seguì l’animale fino alla poltrona accanto alla finestra nella quale aveva letto quel vecchio diario prima di andare a dormire.
Qua, grazie alla luce, vide che il diario era sparito e che al suo posto qualcuno aveva messo il carillon che, giorni prima, aveva trovato accanto al letto e che aveva nascosto furiosamente nell’armadio come se il fatto di non averlo davanti agli occhi potesse aiutarla a farglielo dimenticare. Non c’era dunque motivo per cui quel carillon si trovasse lì: non c’era quando si era coricata, e la porta della sua camera era chiusa dall’interno – la chiave era ancora inserita nella serratura, dunque nessuno, da fuori, sarebbe potuto entrare.
Abbassò lo sguardo su Aramis, il cui comportamento finalmente era stato spiegato, osservandolo mentre ringhiava a bassa voce contro l’oggetto misterioso. Osservandolo meglio, il sonno ormai del tutto evaporato, Emma notò la presenza di un piccolo biglietto, della dimensione di quelli da visita, posato sopra il coperchio preziosamente intarsiato. Sospirò, cercando di calmarsi – non c’era ragione di avere paura – e allungò una mano per prenderlo.
Dietro, scarabocchiata frettolosamente con un inchiostro rosso e una calligrafia spigolosa, c’era una frase familiare: Padrona di aprir tutto, di andar dappertutto: ma in quanto alla piccola stanzina, vi proibisco d'entrarvi e ve lo proibisco in modo così assoluto, che se vi accadesse per disgrazia di aprirla, potete aspettarvi tutto dalla mia collera[3].
Conosceva la citazione e aveva compreso da dove proveniva ancor prima di giungere al punto: Barbablù. Con le mani che tremavano leggermente, e irritata dalla sua stessa incomprensibile reazione, Emma gettò il biglietto nelle braci del camino, attizzandole fin quando una fiammella non si fu sprigionata dalla carta incenerendola lentamente. C’era in effetti un luogo del castello che le era stato proibito visitare, ossia l’Ala Ovest: e invece vi era entrata, vi aveva curiosato e aveva addirittura portato via un diario… Che fosse, quella, la prima avvisaglia di una futura punizione?
Ma no, che sciocchezza; non c’era nessun altro, a Pemberley, salvo lei e i domestici. «È solo uno scherzo di cattivo gusto», mormorò, osservando il biglietto bruciare. Era Mrs. Duncan che la tormentava, ormai ne era convinta: quella donna la tollerava a malapena e non faceva cenno di nasconderlo, visto che il resto della servitù era dalla sua parte. E da quando l’aveva richiamata all’ordine, umiliandola davanti al marito e alla sguattera, quel sentimento doveva essersi acuito. Ma per quale motivo arrivare a terrorizzarla così, rischiando di perdere il lavoro – giacché non aveva dubbi che suo padre l’avrebbe cacciata, una volta scoperto in che modo si era comportata?
Eppure, malgrado questa teoria e benché si fosse poi coricata con il corpo caldo e confortante di Aramis accucciato ai suoi piedi, a farle la guardia, quella notte Emma trovò difficile riprendere sonno.











[1] Il titolo “Sua Signoria”, o “His Lordship”, viene utilizzato riferito a un conte (in questo caso il padre di Emma) e non a sua figlia.
[2] Lord Carnarvon, il finanziatore della spedizione archeologica che ha portato alla luce la tomba di Tutankhamon.
[3] Charles Perrault, Barbablù (1697). Traduzione di Carlo Collodi (1875).









________________________________________________________________________

Angolo Autrice.
Dieci pagine di capitolo piene piene... e quando mai le ho scritte? Godetevela finché ce n'è, non posso dirvi altro. xD
Okay, e anche questa è cosa fatta! Devo ammettere che sto amando questa storia sempre di più man mano che si va avanti... e il momento della verità (ossia il fatidico incontro tra la nostra eroina e il nostro cattivone) si fa sempre più vicino! Chiedo scusa se vi sembra che la stia tirando inutilmente per le lunghe e se questi capitoli vi sembrano noiosi - so che c'è poca azione, ma sto cercando di attenermi il più possibile a quei bei romanzi ottocenteschi dove il mistero e l'atmosfera vengono costruiti lentamente, mattone dopo mattone, dove l'autore si prende tutto il tempo che vuole per curare i dettagli e plasmare i vari personaggi come creta tra le mani (o, in questo caso, dovrei dire tra le dita e i tasti del piccì!) in modo che nulla sia campato per aria e tutto abbia uno scopo e un fine... Spero di essermi spiegata xD E anche di riuscire nel mio ambiziosissimo intento!
Nel frattempo, mi prendo anche il tempo di ringraziare tutti coloro che leggono e recensiscono, coloro che ci sono dall'inizio e coloro che sono saltati a bordo in corso d'opera! In particolar modo ci tengo a dire un enorme grazie alle fantastiche Sylphs, Homicidal Maniac, Jolly J e Se7f per aver recensito lo scorso capitolo - siete davvero troppo buone, grazie davvero per la fiducia che mi state danto! ♥
[Grazie inoltre alla mia alfabetaomegareader kenjina e alla mia geme per essersi imbarcate a loro volta in questa odissea, belle che siete *_*]
Orbene, ora vado! Ci si legge presto, spero - incrociate le dita :D
Baci e abbracci a tutte, vostra
Niglia.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Chapter 6. Someone's Walked Over My Grave ***



banner





6.
Someone’s walked over my Grave
ljkhgfh











Il dottor Carew aveva visitato miss Radcliffe soltanto il giorno prima, eppure già sembrava di intravedere nella povera donna qualche lieve miglioramento: il colorito della carnagione era meno pallido, il respiro meno affaticato, la fronte più tiepida; e per fare ciò era bastato assicurarsi che i cibi non fossero alterati, fingendo di assaggiarli di fronte alla signora Duncan. Quest’ultima non aveva battuto ciglio, Emma aveva assaggiato le pietanze senza subire conseguenze e tutto pareva essersi risolto per il meglio. Ciò nonostante la giovane non riusciva a darsi pace – l’apparente sangue freddo della governante bastava forse a sollevarla da tutte le accuse, non ultima la faccenda del libro di Barbablù e del messaggio che aveva trovato nella sua camera da letto? Prima di trasferirsi a Pemberley Manor non avrebbe mai avuto simili pensieri – di domestici che ordivano complotti se ne leggeva soltanto nelle novelle gotiche – ma adesso essi parevano essere diventati parte della sua quotidianità. Forse la solitudine la stava facendo impazzire, chi poteva dirlo? Bramava la compagnia di un altro essere umano, una persona qualunque che non fosse intossicata dall’aria malsana di Pemberley Manor e del villaggio circostante, e sebbene sir Arthur avrebbe potuto rappresentare tale figura, Emma non poteva fare affidamento su di lui per il semplice fatto che abitava troppo distante e aveva di sicuro i suoi affari a cui badare.
In quel momento, mentre osservava miss Radcliffe dormire finalmente un sonno sereno grazie alle medicine e alle cure combinate sue e del dottor Carew, Emma accantonò quei pensieri e riportò alla mente il fatto della notte prima. Non avrebbe dovuto bruciare quel biglietto, rifletté ora con maggiore lucidità, dandosi mentalmente della sciocca. Avrebbe dovuto conservarlo, farlo vedere a qualcuno, utilizzarlo come prova – di che cosa, poi, ancora non lo sapeva – nel caso la situazione fosse diventata più ingestibile; chissà, si sarebbe potuto risalire tramite la calligrafia a chi la stava importunando… Non aveva mai veduto una sola parola vergata dal pugno di uno dei signori Duncan, dunque aveva deciso che essi sarebbero stati considerati colpevoli fino a prova contraria. Non poteva fidarsi di loro – anzi, aveva iniziato a sentirsi a disagio quando si trovava in loro compagnia, e aveva preso l’abitudine di farsi servire la cena nella propria camera da letto – e neppure di Lydia, che con il suo silenzio era forse più inquietante dei suoi compagni di lavoro.
Il suo Aramis, invece, aveva iniziato stranamente ad abituarsi alla nuova dimora e passava ormai più tempo ad esplorarla che non a coccolare la sua padrona. Emma non aveva idea se questo atteggiamento significasse qualcosa – per esempio, che le mura di Pemberley in fondo non celavano alcun pericolo – pertanto, nel dubbio, continuava a nutrire la propria preoccupazione.
Grazie alle brevi visite del dottore, Emma aveva scoperto alcune cose riguardo il villaggio. Innanzitutto, non vi era nessun rappresentante della legge – sia il giudice che la prima stazione di polizia disponibili si trovavano a circa venti miglia di distanza, nel paese di Alnwick, ossia a quasi mezza giornata di viaggio in carrozza – ed era più che altro il pastore, insieme all’ufficio postale, a gestire le faccende amministrative. Insomma, più il tempo passava e più Emma cadeva preda dello sconforto, a causa della terribile sensazione di essere lasciata a se’ stessa in un luogo estraneo e circondata da persone a dir poco sospette e inospitali. Se solo miss Radcliffe fosse stata meglio, non ci avrebbe pensato due volte a preparare le valigie e tornarsene immediatamente a casa. Persino vedere le imposte listate a lutto di Hambleton Abbey sarebbe stato preferibile a quella solitudine.
A tutto questo, come peraltro si sarebbe dovuta aspettare, si andava aggiungendo il gelido e inconscio terrore del buio che in genere è prerogativa dei bambini nella nursery. Personalmente, Emma si era sempre vantata della sua freddezza nei confronti di leggende e superstizioni – amava i romanzi gotici e le storie dell’orrido, sì, ma miss Radcliffe si era da sempre fatta il puntiglio di metterle in testa che nulla di ciò che leggeva in tali libri o che le veniva raccontato dalla sorella doveva spaventarla – e dunque aveva smesso di dormire con una candela accesa accanto al letto già dalla tenera età di cinque anni. Eppure, da quando era andata ad abitare a Pemberley Manor, pareva che tutte le sue certezze fossero scomparse, sostituite dalla vergognosa capacità di sussultare e tremare per ogni rumore e scricchiolio improvviso che udiva nel silenzio.
Aveva costantemente l’inquietante sensazione di essere osservata – si guardava alle spalle più spesso di quanto volesse, e neppure la sua forza di volontà riusciva a impedirle di comportarsi in quel modo – e quando si aggirava per i corridoi, anche durante il giorno, le sembrava persino di essere seguita. Non credeva che fosse solo un’inspiegabile mania, visto che anche Aramis in quei momenti tornava ad essere nervoso e agitato, in special modo se si trovava dentro o nei pressi della biblioteca – per poi calmarsi inspiegabilmente una volta raggiunta la sua camera da letto o la sala da pranzo.
Ed era allora che le tornavano in mente le parole di sir Arthur. Nella biblioteca scoppiò l’incendio, e i corpi dei Rochester vennero orribilmente divorati dalle fiamme. Dunque era stato il fuoco a ucciderli, oppure chiunque l’avesse appiccato – giacché era fuori discussione che un incendio di quella portata potesse essere esploso da solo – li aveva uccisi prima? Era macabro e morboso continuare a pensarci, Emma lo sapeva bene, eppure era allo stesso tempo inevitabile: come faceva a distogliere la sua mente da quel fatto se ogni cosa glielo faceva rammentare, dai lampadari della biblioteca ancora anneriti, alle travi bruciacchiate del pavimento che Mrs. Duncan si ostinava a nascondere con spessi tappeti?
Ad ogni modo, non le mancava la buona volontà. E la breve visita del castello che aveva fatto la settimana precedente – i giorni scorrevano via senza che lei riuscisse a tenerne il conto – l’aveva stuzzicata al punto da volerla replicare, cosa che se non altro l’avrebbe distratta da ogni genere di teorie complottiste che la sua mente partoriva in continuazione. Solo, stavolta voleva evitare di perdersi; e fu per questo motivo che domandò a una perplessa e contrariata Mrs. Duncan di procurarle i vecchi progetti del maniero, in modo da poter studiare la disposizione di tutte le stanze e i corridoi.


klkjhfdfdjg


Caledon aveva letto e riletto la lettera di Emma fino a impararla a memoria, da quando l’aveva ricevuta nel suo appartamento londinese cinque giorni prima; gli era sembrata una curiosa coincidenza, considerando che aveva incontrato lord Grantham al White’s soltanto la sera precedente. Rammentava alla perfezione la fitta piacevole che aveva provato all’altezza del petto nel riconoscere l’elegante calligrafia della sua futura moglie, mentre suo padre lo fissava dall’altro capo del tavolo con un mezzo sorriso di condiscendenza sul volto.
«Buone notizie?» Era stato il suo commento disinteressato. Cal lo sperava: sinceramente, aveva il timore che la lontananza e quella sorta di esilio a cui il padre l’aveva obbligata non avrebbe portato nulla di buono, in un rapporto che già di per sé andava avanti in un’atmosfera di costante tensione. Tensione che continuava a non spiegarsi, benché avesse trascorso parecchie notti insonni a rimuginarci, cercando risposte sul fondo di un bicchiere di cristallo: da quando la compianta lady Grantham si era ammalata, lui ed Emma non avevano fatto che allontanarsi, e l’idea di perderla ancora prima di averla avuta non gli dava pace. E adesso non poteva neanche andare a trovarla, maledizione.
«Lo sapremo presto, giusto?» Sospirò lui, aprendo la lettera con il coltello da burro e tirandone fuori un foglio piegato con cura e privo di profumi o inutili svolazzi. Dovevano essere davvero poche le fanciulle, in Inghilterra, che non riempivano le proprie carte personali di una o due gocce d’essenza prima di spedirle al proprio fidanzato, e ancora dopo tutti quegli anni Caledon non aveva ben compreso se la cosa lo infastidisse o lo lasciasse del tutto indifferente. D’altronde, l’importante era il contenuto.
«Non essere irritato con lei, Caledon: hai sentito cos’ha detto lord Grantham, l’altra sera. Nulla di tutto questo è dipeso dalla tua fidanzata», fu il pacato e probabilmente saggio consiglio che gli diede il duca tra un sorso e l’altro del suo caffè mattutino. «Se vuoi puoi usare il mio studio per leggere la lettera in tranquillità…»
«Grazie, sì», fece il figlio, alzandosi come se non stesse aspettando altro. «Archer, per favore. Porta il mio tè nello studio», aggiunse poi rivolto al cameriere.
Nell’osservarlo uscire frettolosamente dalla sala da pranzo, neanche gli andasse a fuoco la sedia, lord Suffolk rilasciò un breve e irritato sospiro. Sembrava essere rimasto l’unico, nella famiglia, a non ritenere che quel matrimonio fosse in pericolo: persino la fiducia di sua moglie aveva iniziato a vacillare, dopo la morte di lady Grantham e l’inevitabile raffreddamento dei sentimenti della fanciulla.
«Si sposeranno, si sposeranno…» Mormorò tranquillo, con la cieca sicurezza che deriva da anni e anni di esercizio del potere. Avrebbe voluto che anche suo figlio vivesse quella situazione con maggiore serenità, ma il duca sapeva bene che il cuore di un giovane era preda dei dubbi e dei dilemmi più atroci. Biasimando quel comportamento così middle-class, il duca tornò a immergersi nella lettura del giornale dimenticando presto le angosce ingiustificate del figlio.
Quando la porta dello studio si chiuse con un tonfo leggero alle sue spalle, il giovane in questione riprese a respirare. Aveva l’impressione che la lettera pesasse come un macigno nel suo pugno, e quasi temeva di abbassare gli occhi e leggerla, nel caso contenesse qualcosa che non fosse di suo gusto: se l’avesse ignorata, poteva fingere che qualsiasi brutta notizia vi fosse giunta non lo riguardasse… Ma ancora prima di concludere tale pensiero si dette dell’idiota, maledicendosi. Che sciocchezze! Era un uomo fatto e finito, era l’erede di un duca, e aveva Londra ai suoi piedi… non poteva struggersi a quel modo per una lettera giunta dalla campagna!
«Una lettera di Emma», sussurrò inconsciamente, come a volersi tuttavia contraddire. Attraversò la stanza e si diresse verso la vecchia poltrona in pelle accanto al camino, alla ricerca di una posizione comoda; quel continuo posticipare l’inevitabile lettura stava iniziando a dargli sui nervi, così si sedette e, in un gesto che conteneva rabbia, timore e determinazione insieme, dispiegò il foglio e cominciò a leggere.
Non era nulla di che, scoprì poi con un certo disappunto e un’inevitabile punta di delusione. Emma usava parole gentili e modi impeccabili, come sempre, ma non una tenerezza, un’effusione, né un pensiero affettuoso per l’uomo che avrebbe dovuto sposare. Chissà che cosa si era aspettato? A metà lettera provò l’impulso di appallottolare la carta e gettarla nel fuoco, tant’era forte la sua frustrazione. Eppure proseguì, andando avanti con la caparbietà che lo contraddistingueva.
E fu un bene, perché verso la fine della lettera il tono cambiava impercettibilmente, facendosi appena più intimo, con una delicatezza che non sarebbe stata colta da un occhio inesperto.
Benché indubbiamente più breve di una lettera che una fidanzata amorevole avrebbe dovuto scrivere, a Caledon sembrò di scorgervi per la prima volta uno spiraglio attraverso il quale poter fare breccia. Emma descriveva la sua proprietà di campagna come un castello così antico e immenso da farmi mancare l’aria, e aggiungeva poi, non come se avesse voluto scriverlo ma come se le parole fossero fuggite dalla penna prima che potesse impedirlo, che l’idea di papà, per quanto nobile e sicuramente dettata da buone intenzioni, si è rivelata avere l’effetto opposto, e mi capita di sentire la mancanza di cose che prima degnavo di scarsa attenzione.
Caledon si lasciò sfuggire un gemito di trionfo, e un accenno di sorriso si fece largo sulla sua espressione accigliata. Ed ecco che la solitudine inizia a farla cedere, pensò, compiaciuto più di quanto la galanteria permettesse. Un altro mese in quella contea sperduta ed Emma sarebbe stata sua prima di Natale… Ma non sarebbe mai successo se non avesse trovato un modo per stuzzicarla, magari con una visita a sorpresa. Sì, era un’ottima idea, suo padre avrebbe di sicuro approvato! Si dava il caso che alcuni suoi compagni di college lo avessero invitato a trascorrere del tempo insieme a Inverness, e che Pemberley Manor si trovasse in una posizione ideale del tragitto tra Londra e la Scozia; la vacanza sarebbe durata due settimane, durante le quali avevano già progettato gare di caccia e pesca, passeggiate a cavallo e persino delle escursioni in barca per ammirare la scogliera dal mare, qualora il tempo fosse stato favorevole. In tutto questo, Cal era più che sicuro di riuscire a ritagliarsi del tempo per andare a trovare la sua fidanzata, ed era anche piuttosto convinto di trovarla bendisposta nei suoi confronti, visto l’isolamento nel quale si trovava.
In tutta coscienza, sapeva di non poter completamente incolpare Emma per la sua freddezza: la realtà era che Caledon avrebbe dovuto sposare Elizabeth, sua sorella, se la sua morte improvvisa non avesse bruscamente cambiato i piani delle due famiglie. Ricordava il funerale della piccola Lizzie come se fosse accaduto il giorno prima: è sempre tragica la morte di una ragazza di sedici anni, in special modo se era la primogenita di un conte e se i genitori contavano di vederla unita in matrimonio con un duca. Rammentava che il corteo funebre, per quanto affollato, era stato stranamente silenzioso: subito dopo il prete e i sagrestani c’erano il conte e la contessa di Grantham, seguiti da una piccola Emma che cercava di stare al passo della sua istitutrice, poi lui e la sua famiglia, e infine il resto dei parenti e dei famigliari dei Grantham. Nessuno piangeva. Eppure, anche dopo tutti gli anni trascorsi, ciò che più gli era rimasto impresso era stata la sensazione di fastidio e turbamento al pensiero che, adesso, la sua promessa sposa sarebbe stata quella fanciullina di nove anni che non aveva nemmeno l’ombra della bellezza di sua sorella. Col senno di poi riconobbe di essere stato meschino a covare simili pensieri, ma dopotutto all’epoca non aveva ancora vent’anni – la sua preoccupazione di doversi considerare legato a una bambina era più che comprensibile, no?
Lizzie era tanto bionda quanto Emma era scura, con boccoli corvini accuratamente acconciati e coperti da un cappellino nero a lutto; entrambe avevano la pelle più bianca del latte, ma mentre quella di una aveva delle graziose sfumature rosee, quella dell’altra tendeva ad un pallore che rammentava il gesso – persino distesa nella sua piccola bara bianca, il colorito di Lizzie sembrava ancora più vivace di quello di sua sorella. Chi non le avesse conosciute avrebbe potuto rifiutarsi di credere che le due erano imparentate, e che nelle loro vene scorresse il medesimo sangue. Non solo: il loro legame era talmente solido, talmente affettuoso, da avergli fatto più volte rimpiangere il suo essere figlio unico.
Eppure Emma non era una bambina triste, né solitaria: era soltanto molto timida, specialmente quando la sorella la portava con sé durante le loro passeggiate, a mo’ di chaperon. Erano davvero una bizzarra compagnia in quelle occasioni: con una mano Caledon reggeva il cestino da picnic, con l’altra teneva Lizzie sottobraccio, e lei a sua volta prendeva la mano della sorella con la sua libera. E il capo deliziosamente dorato di Elizabeth spiccava come oro sul carbone quando, tutti sdraiati sotto a un albero dopo aver mangiato, i loro capelli si mischiavano sulla coperta in un ammasso disordinato di riccioli.
Cal aveva imparato a voler bene a quella bambina che portava con sé uno o più libri dovunque andasse – persino durante quei picnic, arrivava il momento in cui Emma si stufava di prestare attenzione ai giochi dei grandi e si isolava con il naso sepolto tra le pagine di chissà quale favola – però, accecato com’era dalla bellezza ancora acerba di Lizzie, non aveva mai neanche pensato di prendere in considerazione l’idea che Emma potesse, un giorno, diventare altrettanto bella e desiderabile, quanto se non più della povera sorella. Suo padre aveva preso il discorso qualche settimana dopo la morte di Lizzie: gli aveva detto, senza tanti giri di parole, che comprendeva il suo dolore per la perdita di colei che, oltre ad essere, sulla carta, la sua promessa sposa, era anche una cara amica, ma che ciò non avrebbe impedito le due famiglie di continuare a sperare di potersi, un giorno, unire.
In un primo momento Caledon non aveva compreso, o forse aveva solo fatto finta: ma alla fine il duca gli aveva chiarito che quando Emma avrebbe raggiunto l’età adulta sarebbe stata lei la giovane Moore che avrebbe condotto all’altare, e che pertanto avrebbe fatto meglio a venire a patti con quell’idea il prima possibile. Se poi voleva prendersi del tempo per rifletterci e rassegnarsi, il padre glielo avrebbe concesso: ed era stato così che Caledon, dopo aver trascorso altri tre anni nell’università di Cambridge, aveva deciso di partire insieme al suo precettore per un lungo viaggio in Europa e nel Nuovo Mondo.
Era ritornato in Inghilterra solo nell’autunno del 1899, per trascorrere gli ultimi mesi del diciannovesimo secolo insieme alla sua famiglia; e in tutto questo tempo non si era degnato una sola volta di chiedere notizie di Emma, e se la madre gliene accennava in una delle sue lunghe lettere tendeva a ignorare quelle parti alla stregua di un bambino capriccioso. Ciò che tuttavia non immaginava e che gli era stato riferito solo all’ultimo momento era che i duchi di Suffolk erano stati invitati a passare le festività natalizie presso la residenza dei Grantham, e che lui sarebbe stato per la prima volta presentato ufficialmente – seppur comunque in un ambiente intimo e privato – a Emma come suo fidanzato.
Probabilmente non avrebbe mai dimenticato quel momento: aveva varcato la soglia di Hambleton Abbey con l’aria del condannato a morte, infuriato con i suoi genitori e intenzionato a non rivolgere la parola a nessuno a meno che non fosse stato interrogato personalmente, ma tale proposito si era infranto non appena il suo sguardo rabbioso ebbe incontrato la graziosa fanciulla che, ritta al fianco della madre in attesa di porgere loro il benvenuto, gli aveva sorriso con timida e fredda gentilezza come se, in fondo, neppure lei fosse tanto lieta di quell’incontro.
Malgrado tutti i suoi propositi, Caledon non era riuscito a staccarle gli occhi di dosso per tutta la sera, ammaliato come un qualunque ragazzino: l’aveva osservata rispondere alle domande di lady Suffolk con una pacata e inusuale eleganza in una giovane della sua età, aveva ammirato da lontano la sua bellezza ancora in sboccio ma assai promettente – nulla a che vedere con la sorella, certo, ma lui ormai Elizabeth non la rammentava più – aveva colto l’arguzia e lo spirito della sua conversazione e aveva, per la prima volta da che la conosceva, desiderato di poter rimanere da solo con lei per godere della sua compagnia.
Quando ebbero lasciato Hambleton alla fine di quella vacanza, senza che lui ed Emma si fossero scambiati in realtà che poche parole di circostanza, Caledon era decisamente più bendisposto nei confronti di quel matrimonio di quanto non lo fosse al momento del suo arrivo.
Eppure Emma non aveva mai dimostrato neppure una parte del suo stesso entusiasmo. Per quanto Caledon si fosse sforzato di conquistarla, di farsi apprezzare da lei, di fare breccia nel suo cuore o perlomeno di guadagnarsi un briciolo di affetto, non vi era mai riuscito. Aveva addirittura pensato che il cuore della sua nuova fidanzata potesse appartenere a qualcun altro, ma poi aveva scoperto che i suoi genitori l’avevano sempre tenuta lontano da altri eventuali spasimanti – il tutto al solo scopo di agevolare quell’unione. La giovane Emma Moore era semplicemente irraggiungibile, come una piccola regina di ghiaccio, ed era una cosa che lo faceva impazzire.
Fu il rumore della porta che si apriva e si richiudeva, subito seguito dalla voce di suo padre, che lo fece riemergere dal limbo dei ricordi. «Allora, queste novità?» Domandò il duca con un mezzo sorriso, andando a sedersi di fronte a lui. «Sei chiuso qui dentro da oltre mezz’ora, iniziavo a preoccuparmi.»
«Sai, papà, credo che non ci sia nulla di cui preoccuparsi», replicò Caledon, ricambiando il sorriso. «Penso che andrò a trovare Emma prima di proseguire per Inverness, la sua tenuta è di passaggio. Tu approvi?»
«Non è a me che devi chiederlo. Senti lord Grantham, piuttosto, dovrebbe essere ancora in città», fece lord Suffolk, accendendo un sigaro. «Hai intenzione di mandarle un telegramma? Non credo che una lettera di risposta riesca ad arrivare prima di te.»
«In realtà contavo di farle una sorpresa. Dopotutto è lì con la sua istitutrice e io sono il suo fidanzato, non c’è nulla di sconveniente, giusto?» Chiese per scrupolo, aggrottando la fronte.
Il padre inarcò un sopracciglio, improvvisamente malizioso. «Sarebbe sconveniente solo se tu ti fermassi a dormire…»
Caledon liquidò l’idea, per quanto considerandola intrigante, con una mezza risata. «Credimi, Emma non me lo permetterebbe mai. Piuttosto mi caccerebbe via di persona!» Rispose, sperando di celare la delusione dietro un debole umorismo.
Se anche lord Suffolk vi aveva fatto caso, non ne fece mostra. «È un bene che almeno uno di voi abbia la testa sulle spalle», decretò, aspirando una profonda boccata del suo sigaro. Tuttavia gli fu impossibile continuare a ignorare il repentino malumore del figlio, e si sporse verso di lui per battergli gentilmente una mano sul ginocchio. «Su, figliolo, avrete tutto il tempo del mondo per stare insieme, dopo il matrimonio.»
«E tu pensi che mi sposerebbe lo stesso, se la sua famiglia non la obbligasse a farlo?» Ribatté l’altro con un astio improvviso, fissando il padre di sottecchi.
Il duca sospirò, scuotendo piano il capo. «Certo che no. Nessuna donna perbene dovrebbe accettare di sua spontanea volontà una proposta di matrimonio, è una cosa volgare e adatta ai contadini.»
«Per l’amor di Dio, papà, hai capito benissimo cosa intendevo.»
«No, invece. Cal, le unioni tra nobili non contemplano chissà quale sentimento, se non il rispetto, quando si è fortunati. Se cerchi dell’altro, ebbene, non dovrei essere io a dirti che esistono altre… soluzioni. Tutta la stima che nutro nei confronti di lord Grantham non sopprime la mia convinzione che l’unico ruolo della tua fidanzata è quello di darti un erede e una compagna elegante da mostrare agli eventi ufficiali, insieme naturalmente ai suoi possedimenti.» Un’altra boccata dal sigaro. «Sinceramente non so che cosa vuoi sentirti dire. Speravi che si innamorasse di te, o che già lo fosse? Cal, hai trent’anni e sei l’unico erede di un impero che ci invidiano persino i membri della famiglia reale. Non puoi cullarti in questi sogni di bambino. Credevo che ormai avessi compreso che il matrimonio è solo un affare.»
«Perdonami, papà, per aver desiderato che la mia fidanzata mi volesse almeno la metà di quanto io voglia lei», sibilò Caledon alzandosi in piedi con uno scatto rabbioso, per niente disposto ad ascoltare una sola parola di più. «Credo che sia meglio concludere qui la discussione. Manderò un messaggio a lord Grantham per avvisarlo della mia idea, sempre che tu non abbia da ridire anche su quella.»
«Questo tuo atteggiamento è ridicolo, e non ti porterà nulla di buono», lo riprese freddamente il duca, senza più tanta voglia di scherzare. Per un attimo Caledon rivide l’uomo che tanti anni prima usava ordinare al vecchio stalliere di batterlo per poi osservare impassibile mentre il servo obbediva, forse con troppo fervore, e fu talmente turbato da quel ricordo d’infanzia da distogliere lo sguardo. «Francamente, figliolo, ti credevo fatto di tutt’altra pasta.»
Se avesse potuto, probabilmente l’avrebbe fatto frustare ancora una volta. «Mi dispiace aver deluso le tue aspettative, padre», ribatté Caledon prima di uscire dallo studio senza aggiungere una sola parola, talmente in fretta come se ciò potesse farlo scappare da quel tempo che credeva d’essersi ormai lasciato alle spalle. Si trattenne a stento dallo sbattere la porta con furia dietro di sé, e solo perché non voleva avvalorare la convinzione di lord Suffolk di avere a che fare con un figlio dal comportamento infantile.



louiuyttfgh


«Milady, avete… avete una visita.»
Emma sollevò lo sguardo dalle carte che stava studiando e ricopiando accuratamente da qualche ora – vecchi progetti e planimetrie della casa, così ingialliti e macchiati di umidità da rendere a dir poco ardua la lettura – per posarlo sulla governante che appariva titubante e preoccupata mentre se ne stava sulla soglia della porta come un’anima in pena. «Non aspettavo nessuno. È il signor Carlisle?» Si informò, mettendo da una parte suo malgrado le piantine del castello.
«No, milady. Un certo Caledon Hardy, dice di essere… ecco, il vostro fidanzato?»
Buon Dio, non è possibile. Emma sbatté le palpebre, accigliata, metabolizzando quanto aveva appena sentito. Caledon era davvero lì, a Pemberley? Per quale motivo era arrivato senza farsi annunciare, senza avvisarla? Forse un telegramma l’avrebbe ucciso, se si fosse dato pena di spedirlo in tempo, o era successo qualcosa? E non sarebbe stato inappropriato riceverlo da sola, senza uno chaperon a mitigare la sua irruenza? Cercò di tenere a bada l’irritazione mentre si ricomponeva, prima di rispondere a Mrs. Duncan. «Sì, signora Duncan, è il mio fidanzato. Dov’è adesso?»
«Sta attendendo nell’ingresso», fece la donna, palesemente incuriosita.
«Fatelo accomodare qui in biblioteca, per cortesia. E vi dispiacerebbe portarci anche qualcosa da bere? Il tè, e qualcosa di forte, magari – lord Caledon deve aver fatto molta strada e sarà stanco», ordinò, alzandosi in piedi. La donna la lasciò sola, ed Emma ne approfittò per darsi sbrigativamente una sistemata; anche senza specchio sapeva che il suo aspetto era trascurato – la gonna sgualcita per la prolungata posizione seduta, la treccia che lasciava sfuggire sottili ciocche di capelli, gli occhi stanchi per le notti insonni e un colorito così pallido da far invidia a una statua – ma a quel punto non poteva sparire nella sua stanza per cambiarsi d’abito o pettinarsi meglio. La sua era infine soltanto una sciocca e istintiva vanità, dato che non poteva essere meno interessata di così dal fare una buona impressione sul suo fidanzato.
Riuscì solo a riabbottonarsi il colletto e a pizzicarsi le guance per farvi tornare un po’ di colore, prima che la porta della biblioteca si aprisse una seconda volta e la voce di Mrs. Duncan annunciasse l’ospite.
«Mia cara Emma», esclamò l’uomo con un sorriso, interrompendo a metà l’annuncio della governante. Entrò nella biblioteca come un fulmine a ciel sereno, sfilandosi con un gesto elegante guanti e cappello.
Emma non vedeva Caledon dal funerale di lady Grantham – il che significava che era trascorso più di un mese da quando i due promessi sposi si erano ritrovati insieme nella stessa stanza. Non sapeva se ciò fosse un bene o un male, ma il giovane le sembrò pressoché identico a come lo aveva lasciato – lei, d’altra parte, si sentiva profondamente cambiata, come se il lutto l’avesse trasformata in un’altra persona.
Avvolto in un elegante completo di sartoria color tan, con un doppiopetto marrone e i bottoni d’oro, Caledon era l’immagine perfetta e poetica dello spensierato nobiluomo inglese in gita in campagna. Era bello, di quella bellezza mascolina che fa nascondere dietro a un ventaglio il viso arrossato delle fanciulle, e che provoca invidia negli altri uomini: questo Emma poteva dirlo senza vergogna né desiderio, perché non era nulla più che la semplice verità. I capelli erano di un castano indefinito che parevano cambiar colore a seconda della luce che li colpiva, corti e tirati indietro con l’umile cura del gentiluomo che non vuole apparire né disordinato né troppo dandy; il volto possedeva dei tratti greci, un mento forte, una bocca che sorrideva volentieri, e degli occhi che a loro volta potevano sembrare grigi o azzurri, circondati da ciglia folte che stonavano con il colore chiaro dei capelli e della leggera peluria che gli ombreggiava i lineamenti del viso.
Pareva non avere altra occupazione se non cacciare volpi e correre dietro alle gonne delle fanciulle – si accorse del pensiero poco delicato che aveva avuto nei suoi confronti solo dopo averlo ormai concepito.
Fu per farsi perdonare che avanzò di qualche passo verso di lui, incontrandolo al centro della stanza e porgendogli una mano – quando si accorse che aveva le dita indecentemente macchiate d’inchiostro, era troppo tardi per ritirarla senza apparire oltremodo scortese. «Caledon, questa sì che è una visita inaspettata», lo salutò, cercando di sorridere nel modo più gentile possibile. «Se mi aveste avvisata in tempo, vi avrei preparato un’accoglienza diversa. Mi dispiace che dobbiate vedermi in queste condizioni.»
«Siete incantevole come sempre, mia cara», ribatté lui con fare galante, prendendole la mano e sfiorandola con un bacio fugace. «E avvisarvi in tempo sarebbe stato davvero impossibile, giacché la mia partenza è stata pressoché improvvisa; neanche un telegramma sarebbe riuscito ad arrivare prima di me.»
«Ah, siete in viaggio per affari, dunque?» Gli domandò, facendogli cenno di seguirla presso il camino che scoppiettava allegramente. Come voleva l’educazione, Caledon attese che lei prendesse posto su una poltrona prima di sedersi a sua volta su un divanetto di fronte, lasciando poi il cappello sul cuscino al suo fianco.
Mrs. Duncan li raggiunse subito dopo seguita da una silenziosa Lydia, che spingeva con lo sguardo basso un carrellino in legno e ottone sul quale faceva bella mostra di sé un distinto servizio di porcellana.
«Non esattamente. Alcuni amici di Cambridge mi hanno invitato a trascorrere un paio di settimane a Inverness, e non ho resistito alla tentazione di deviare il percorso per venirvi a trovare.»
«Oh, avete avuto un pensiero gentile. Ve ne sono grata», annuì lei educatamente, accennando un sorriso ma senza minimamente arrossire come avrebbe di certo fatto qualsiasi altra fanciulla. Prima di proseguire con la loro chiacchierata, Emma si scusò e si voltò verso le due domestiche che attendevano un suo cenno per versare il tè.
Caledon doveva ammettere di essersi immaginato in modo diverso quell’incontro. Durante il lungo viaggio in treno, mentre alternava l’ennesima lettura della lettera di Emma a quella più prosaica del giornale, diversi scenari avevano preso forma nella sua mente: assai poeticamente si era figurato la sua fidanzata mollemente semi-distesa su una chaise-longue, circondata da profumati vasi di fiori e con il delizioso nasino sepolto tra le pagine di un libro, magari proposto dalla sua istitutrice, mentre leggeva poesie di Coleridge o Wordsworth. Aveva sperato, forte dell’elemento sorpresa, di coglierla in un momento d’intimità, con la guardia abbassata, come mai gli era capitato di trovarla; si era persino immaginato mentre sollevava i suoi begli occhi dal libro, sorpresa e persino lieta di vederlo – almeno tra sé e sé poteva sperare – per poi sollevare un braccio e invitarlo ad avvicinarsi, dolcemente, come si confà a una fanciulla innamorata.
Era rimasto dunque un poco deluso quando l’incontro era effettivamente avvenuto. Certo, non gli era mai capitato di vederla scarmigliata e vestita come una dama di campagna – non aveva alcun gioiello addosso, neppure l’anello che le aveva regalato per il fidanzamento, segno che, contrariamente alle usanze, non lo indossava sempre… lui dovette persino fingere che ciò non l’avesse offeso – e dunque questo poteva in parte soddisfare il suo desiderio di intimità… Ma il muro che l’avvolgeva era sempre ritto e indistruttibile, forse più di prima, ed era ben visibile anche attraverso il sorriso di cortesia che gli aveva rivolto.
E adesso, mentre lei era impegnata a dare disposizioni alla governante circa il tè da servire a entrambi – «Oppure gradite qualcos’altro, Caledon?» No, lui avrebbe preso quello che prendeva lei – non poteva fare a meno di osservarla di sottecchi, pensieroso, con le sferzanti parole di suo padre che ancora gli rimbombavano nel cranio. Il vecchio duca era sicuro – no, anzi: sapeva con certezza – che il matrimonio ci sarebbe stato; era un evento che veniva programmato sin da quando Caledon poteva rammentare, e sinceramente non ricordava che ci fosse stato un solo giorno nella sua vita in cui lui non era stato promesso a una fanciulla Moore. Anche solo pensare che potesse andare diversamente, dunque, era fuori discussione.
Caledon poteva quindi cullarsi su tale sicurezza, diavolo, poteva persino smettere di cercare disperatamente di conquistare la ragazza – sarebbe stata sua in ogni caso! Eppure la sua mente non aveva neanche finito di formulare quel pensiero che lui già se ne era pentito. In quel caso non sarebbe stata, forse, una vittoria gretta e vuota? Che cosa avrebbe guadagnato, se non la prospettiva di una vita da trascorrere insieme a una donna che non voleva avere nulla a che fare con lui, e che non si ribellava solo per quieto vivere e spirito di martirio? Si era sempre vantato di non essere cinico come suo padre, e voleva continuare a credere di essere fatto di una pasta diversa.
Ma si rivelava ogni giorno più difficile. Emma, per chissà quale strano motivo, aveva uno strano modo di apparire circospetta ogniqualvolta si trovava accanto a lui. Ogni sua parola pareva venire misurata e pesata con attenzione, gli sguardi centellinati, i piccoli sorrisi rari e per questo motivo sempre meravigliosamente apprezzati quando lui ne era il destinatario. Forse bisognava biasimare l’educazione che aveva ricevuto – era poco più che una bambina quando le era caduto sulle spalle il fardello di quel matrimonio, e senza alcun dubbio i suoi genitori l’avevano cresciuta da allora con l’obiettivo di renderla una candidata perfetta al suo futuro ruolo di duchessa. Era, in effetti, pressoché priva di qualsiasi difetto: era posata, educata, gentile, e aveva quell’innata eleganza che faceva sì che non sembrasse mai fuori luogo, a prescindere dalla situazione. Un vero peccato che fosse sempre così gelida nei suoi confronti.
Quando finalmente le due domestiche li ebbero lasciati soli, Caledon tirò un breve sospiro di sollievo e sollevò gli occhi per posarli su Emma. Rimase per un attimo spiazzato quando si accorse che anche lei lo stava osservando con un’aria assorta, ma il momento terminò fin troppo rapidamente – quando si accorse di essere stata scoperta Emma batté le palpebre, arrossì leggermente e riabbassò lo sguardo.
«Perdonatemi», disse, facendo ruotare il cucchiaino d’argento nella tazzina. «È solo un po’ strano vedere un volto familiare tra queste mura.»
«Spero che sia anche piacevole», la provocò con un sorrisetto, osservandola attentamente. Odiava il non essere capace di comprenderla, il non riuscire a capire che cosa le passasse per la mente solo guardandola: il suo unico conforto era la speranza che questo sarebbe cambiato col tempo, una volta sposati.
Sorprendentemente, le labbra di Emma si sollevarono in un piccolo sorriso. «Oh, sì, lo è», fu la sua gentile risposta. Chissà se lo intendeva davvero? «Mi ero quasi rassegnata a trascorrere da sola queste settimane prima dell’arrivo di mio padre, sapete, e come vedete non sono molto presentabile», continuò, un po’ imbarazzo; un conto era raggiungere sir Carlisle con un’improvvisata e poco ortodossa tenuta da amazzone, e un altro era lasciare che il suo fidanzato – che chissà cosa poteva raccontare a suo padre il duca, per l’amor di Dio – la vedesse in condizioni che non fossero impeccabili. Aveva l’impressione di essere costantemente sotto una lente di ingrandimento quando si trattava di doversi rapportare con il suo fidanzato e la sua severa famiglia – anche se doveva ammettere che non aveva visto nulla nello sguardo di Caledon che non fosse affetto.
«Ad ogni modo, non voglio tediarvi con noiosi racconti della mia vita in campagna. Raccontatemi voi qualcosa», propose, cambiando argomento. «Stavate accennando a un viaggio a Inverness?»
Il pomeriggio trascorse malgrado tutto in modo piacevole; entrambi sapevano maneggiare la sottile arte della conversazione, sicché non ci furono silenzi né troppi imbarazzi tra i due fidanzati: la loro era comunque una conoscenza di lunga data, e il tempo crea una strana intimità anche tra i nemici. Forse fu l’assenza di uno chaperon, o forse fu il bisogno che Emma aveva di sfogare quelle settimane trascorse senza il beneficio della compagnia di qualcuno con cui chiacchierare – se almeno Lydia non fosse stata muta, povera ragazza – fatto sta che l’atmosfera tra loro si era fatta molto più rilassata di quanto non fosse all’inizio dell’incontro, o in tutti quelli che avevano avuto luogo tra le mura di Hambleton e alla presenza più o meno discreta di miss Radcliffe. In effetti, rifletterono entrambi, quella era la prima volta che si ritrovavano effettivamente da soli.
Il cielo andava scurendosi rapidamente al di là delle grandi vetrate della biblioteca, e questo fu il segnale per Mrs. Duncan di tornare a cambiare le candele e attizzare il fuoco del camino. Poi, benché sembrasse disapprovare l’idea, non poté astenersi dal domandare se lord Caledon aveva intenzione di fermarsi a cena.
Più tardi Emma si sarebbe domandata da dove fosse uscita la sua risposta.
«Certo, signora Duncan. Lord Caledon sarà nostro ospite», disse, con una spontanea sicurezza che di solito non le apparteneva – perlomeno non in situazioni simili. Con un mezzo sorriso, poi, si voltò verso di lui e, quasi compiaciuta nel notare la sua espressione sorpresa, aggiunse: «Anzi, non sarebbe meglio se trascorreste la notte al maniero? L’ultimo treno parte alle nove, e da qui non arriverete mai in tempo alla stazione.»
«Non vorrei essere di troppo disturbo», replicò incerto, spostando lo sguardo da Emma alla governante e viceversa; non si aspettava quel genere di invito da parte della sua fidanzata, anche se sicuramente era stato fatto in completa buonafede e senza alcuna malizia.
«Nessun disturbo. Con che coraggio potrei lasciarvi andare via a quest’ora, poi?» Lo tranquillizzò lei prima di voltarsi verso la domestica. «Mrs. Duncan, preparate la camera Luigi Filippo al primo piano.»
«Come desiderate, milady», mormorò la donna, accennando un inchino prima di lasciarli nuovamente soli.
A Emma non era sfuggita l’espressione contrariata della signora Duncan – per un momento aveva temuto che la donna potesse persino arrivare a contraddirla davanti a Caledon; per fortuna, la governante doveva avere ancora qualche rimasuglio di buona educazione, perché si limitò ad annuire e sparire velocemente oltre le porte della biblioteca. Ora iniziava a comprendere per quale motivo sua madre, la compianta lady Grantham, avesse puntualmente degli scatti di nervosismo che talvolta sfociavano in risposte brusche e gelide; non le si poteva dar torto, se gestire la servitù di Hambleton era difficile e snervante tanto quanto quella di Pemberley.
Il suo breve momento di distrazione venne interrotto dalla voce, ora quanto mai piacevole, del suo ospite. «Siete una perfetta padrona di casa, Emma», fu la sua gentile osservazione. Qualcosa nel suo tono le rese chiaro verso quale direzione stessero vertendo in quel momento i pensieri di Caledon, e non poté fare a meno di arrossire leggermente. Un giorno, probabilmente neanche troppo lontano, sarebbe stata davvero la signora e padrona di una magione – avrebbe avuto uno stuolo di domestici che avrebbero risposto a lei, e avrebbe dovuto gestire la corrispondenza, e organizzare gli eventi, e persino approvare i menù dei pasti: compiti per i quali era stata preparata alla perfezione, certo, ma che, e al riguardo non nutriva alcun dubbio, sua sorella avrebbe svolto assai meglio e con maggior grazia.
«Credo che anche questo rientrasse nei piani di mio padre», replicò con una breve scrollata di spalle. «Ama mettermi alla prova, e di certo sapeva che gestire una simile magione, per quanto non ci sia da fare poi un granché, avrebbe richiesto degli sforzi. Non ho mai avuto modo di prendere le redini di Hambleton, sapete, neanche quando… quando mia madre era impossibilitata a farlo.»
La sua voce si incrinò nell’ultima frase – le faceva ancora uno strano effetto nominare sua madre ad alta voce all’interno di un discorso, quasi come se temesse di disturbarne il ricordo in quel modo – così tacque, e nascose il suo disagio versandosi un’altra tazza di tè.
Quasi sussultò quando la mano priva di guanti di Caledon si posò sopra la sua altrettanto spoglia, e una strana sensazione la prese alla bocca dello stomaco nel sentire il calore della sua pelle contro la propria. Sollevò gli occhi su di lui, e trattenere le lacrime fu terribilmente difficile nel notare lo sguardo che le stava rivolgendo.
Perché si comportava così? Perché era così comprensivo, con lei, quando lei non lo trattava che in modo disinteressato? Tale dato di fatto le procurò un’inattesa fitta di rimorso, che per la prima volta la fece vergognare del suo atteggiamento nei confronti di Caledon.
Sospirò, abbassando lo sguardo e fissando le proprie dita che permettevano a quelle di lui di intrecciarsi ad esse. «Sono lieta che siate qui», ammise piano, prima che la ragione potesse farle cambiare idea.
Fingendo che quella confessione non facesse parte di un evento terribilmente straordinario, Caledon si limitò a sorriderle, e ad apprezzare quel raro momento di confidenze con la mesta consapevolezza che avrebbero potuto non essercene altri per parecchio tempo. «Lo sono anch’io.»



jkjjhgdhgj


La visita di Caledon aveva riportato in superficie, tra le altre cose, la nostalgia per sua sorella, la povera Lizzie. Prima di coricarsi, Emma fece qualcosa che aveva trascurato per parecchio tempo: accese una candela per lei e mormorò qualche preghiera, chiedendole perdono per l’ennesima volta per averla sostituita come fidanzata del futuro lord Suffolk.
Benché all’epoca fosse stata solo una bambina, Emma rammentava ciò che Lizzie usava raccontarle ogniqualvolta Cal andava a far loro visita – l’entusiasmo della ragazza, i suoi occhi luminosi, il sorriso in cui si apriva quando immaginava la sua vita da duchessa al fianco del giovane di cui era pazzamente innamorata – e anche se il suo raziocinio le ripeteva che sentirsi in colpa era sciocco, che non era colpa sua e che non aveva tecnicamente rubato lo sposo alla sorella, Emma non poteva fare a meno di provare un forte disagio. Naturalmente riusciva a ben mascherarlo, anche se la facilità con cui Caledon pareva essersi dimenticato di Elizabeth talvolta le dava sui nervi; eppure era certa che, per quanto la riguardava, l’ombra di Lizzie avrebbe oscurato il suo matrimonio per tutti gli anni a venire.
«Un giorno ti sposerai anche tu, Emma, con un conte o un duca, o persino un marchese! Sarà giovane e bello, e tu te ne innamorerai follemente, e allora capirai ciò che io provo adesso», le ripeteva Lizzie fino alla nausea, quando si bisbigliavano segreti sotto le coltri del letto che di tanto in tanto condividevano. All’epoca Emma non sapeva che non avrebbe avuto nessuna voce in capitolo nella scelta del proprio sposo, così come d’altronde non l’aveva avuta neppure Lizzie; ed entrambe erano così giovani, ingenue e spensierate, che pareva non poterci essere nulla capace di turbare il loro piccolo mondo dorato. Rammentare quel periodo della sua vita era come rammentare un bellissimo sogno, che si era bruscamente interrotto il giorno in cui Lizzie era caduta da cavallo: ogni cosa era stata spazzata via da un uragano di disperazione e i sogni delle due sorelle erano crollati come un fragile castello di carte. Niente più passeggiate nel parco, né picnic, né leggere insieme favole e poesie o sgattaiolare di nascosto in cucina per trafugare qualche dolcetto prima di andare a letto… La vita di Lizzie era stata distrutta e l’infanzia di Emma interrotta bruscamente, e per questo non vi era alcun rimedio.
Tuttavia, se davvero doveva essere del tutto sincera con sé stessa – e se doveva prendere in attento esame i suoi sentimenti – non poteva negare che ci fosse stato un momento, quando era più piccola, in cui l’idea di dover sposare Caledon non le era risultata particolarmente spiacevole. Per un breve periodo aveva provato l’infantile eccitazione che deriva dal sapere di possedere il futuro di un uomo – un uomo nel fiore della giovinezza, di bell’aspetto, di nobili natali per il quale un giorno non troppo lontano sarebbe stata la terra intorno alla quale ruotare; allora era troppo piccola per intenderla in termini diversi da quelli delle favole, ovviamente, ma adesso sapeva perfettamente che cosa aveva osato sognare.
Questa sensazione era svanita non appena era stata abbastanza matura da comprendere che tale lama possedeva un doppio taglio, giacché se lui sarebbe appartenuto a lei, lei sarebbe stata sua di conseguenza. E questa idea non le piaceva minimamente. Se pensava che aveva avuto persino l’ardire di discutere con suo padre a tal proposito, e di minacciarlo che se non avesse sciolto quel ridicolo fidanzamento – aveva solo undici anni, per l’amor di Dio! – avrebbe trovato un modo per fuggire di casa e mandare tutto all’aria… Non sapeva se ridere o piangere al ricordo. Che ingenua era stata, e che sciocca; ma ci avevano ben pensato sua madre e miss Radcliffe a riportarla con i piedi per terra, e a spiegarle in tutti i modi che era una donna, e che come tale non avrebbe mai avuto una vita facile – soprattutto, che non avrebbe mai avuto pieno controllo su di essa.
Eppure, guardatela adesso! Avrebbe forse osato invitare il suo fidanzato a passare la notte sotto il suo stesso tetto, se davvero fosse stata impotente come volevano farle credere? Avrebbe forse discusso con i domestici e osato uscire da sola per una passeggiata attraverso la brughiera, se fosse stata così fragile?
Forse però non avrebbe dovuto invitare Caledon a trascorrere la notte al maniero. Che cosa avrebbero pensato miss Radcliffe e suo padre? Era stata una decisione dettata più dal buonsenso che dal desiderio di averlo accanto, lo ammetteva – con che cuore avrebbe potuto mandarlo a prendere il treno con la tempesta che imperversava fuori, e il buio pesto che avvolgeva il castello? – ma forse avrebbe dovuto rifletterci meglio, visto che non era una cosa molto ortodossa da fare. Come se non bastasse, quando si erano ritirati in salotto dopo cena, per trascorrere un po’ di tempo accanto al fuoco prima di ritirarsi per la notte, era stata tormentata dall’orrenda sensazione di essere osservata da ogni angolo – da ogni muro, da dietro ogni tenda, da ogni quadro. Era come se qualcosa stesse cercando di farle capire che aveva fatto un terribile errore a invitare Caledon a dormire a Pemberley – e lei lo sapeva, oh sì, ma era troppo tardi per tornare sui suoi passi. Che male poteva mai fare, dopotutto? Caledon era un gentiluomo, e la stanza che gli aveva fatto preparare era nell’ala opposta del corridoio rispetto a dove si trovava la sua.
Il pensiero che presto non ci sarebbe stato nessun corridoio tra le loro stanze la metteva in agitazione. Presto avrebbe dovuto condividere con lui un’intimità per la quale non si sentiva ancora pronta – e la cosa peggiore era che non poteva più fare affidamento su parole confortanti e rassicuranti di sua madre al riguardo. Non avrebbe affrontato quel momento in totale ignoranza, certo – miss Radcliffe le aveva accennato qualcosa, e nella biblioteca di Hambleton si potevano trovare volumi che trattavano davvero qualunque argomento – ma proprio per questo l’angoscia era tale da impedirle persino di rilassarsi quando era in sua compagnia.
Sospirò, seppellendo il volto sul cuscino. Era un incubo. Non ci sarebbe dovuta essere lei in quella situazione – se solo Lizzie avesse dato retta alla loro madre quando le veniva detto di non fare acrobazie particolari con il suo cavallo… Di solito non lo dava a vedere, si era sempre comportata come una signorina a modo, ma in cuor suo Lizzie aveva avuto un animo ribelle, avventuroso: in questo si somigliavano. Dio, non trascorreva giorno in cui non sentisse la sua mancanza, in cui non si immaginasse come sarebbe stata la loro vita se Lizzie fosse sopravvissuta, e soprattutto se lei non avesse preso il suo posto come fidanzata dell’erede dei duchi di Suffolk. Quando vi rifletteva, come se non bastasse, c’erano persino dei momenti in cui arrivava a odiare il povero ricordo di sua sorella, che l’aveva lasciata a far fronte a quella maledetta situazione. Uno sciocco risentimento si mischiava alla nostalgia, e le rendeva arida la bocca e dolorante il cuore.
Si addormentò a fatica, come ogni notte, con la mente invasa dalle immagini confuse di amari ricordi e l’oscurità della stanza che pareva essersi fatta d’un tratto più densa.


hdfgj


Margareth Duncan non godeva di un sonno decente dal giorno in cui la giovane lady Emma e la sua istitutrice erano giunte al castello. Aveva immaginato che sarebbe stata una cattiva idea far entrare degli estranei a Pemberley, poco importava che fossero trascorsi tre lustri dall’ultima tragedia – il signor Duncan aveva imprecato ad alta voce, quando lo aveva saputo, e aveva borbottato che una ragazza a Pemberley Manor non avrebbe portato altro che guai – e malgrado ciò non era stato in suo potere impedire che ciò accadesse. Il nuovo proprietario aveva infine deciso di entrarne materialmente in possesso, mandando la sua unica figlia in avanscoperta; non che gliene potesse fare una colpa – chi avrebbe creduto alla storia di una casa maledetta? Erano nel ventesimo secolo, per l’amor del cielo, e non si trovavano nel romanzetto d’appendice di un qualche scrittore irlandese – ma comunque, chi diavolo era l’uomo che mandava a vivere la propria figlia da sola in campagna?
Non che lei non ne fosse sollevata, a voler essere sincera: l’assenza di altri estranei nella magione rendeva più semplice mantenere certi segreti, e la loro vita poteva grossomodo continuare come era stato negli ultimi quindici anni – l’idea che sarebbe potuta esistere la possibilità di ospitare dell’altro personale le risultava tanto raccapricciante da non fargliela nemmeno prendere in considerazione. Come spiegare a degli sconosciuti, infatti, che il castello a suo modo era vivo, e che come ogni creatura infernale pareva voler esigere come pegno il sangue di qualche innocente? Loro, ormai, avevano avuto modo di venire a patti con quella terribile verità durante il loro lungo periodo di impiego nella magione – Margareth rammentava ancora il giorno in cui era arrivata a Pemberley, quarantaquattro anni prima, come se fosse stato il giorno precedente. Aveva quattordici anni, ed era alla ricerca di un lavoro – uno qualsiasi, avrebbe accettato di fare persino la sguattera, se necessario – in modo da non pesare più sulle spalle di una madre che, fresca di vedovanza, doveva crescere altri due figli.
Tutto sommato era stata fortunata: era stata assunta come cameriera semplice e ricopriva ogni genere di mansione, ma era obbediente e volenterosa, e ben presto queste sue caratteristiche l’avevano resa cara all’allora governante, Mrs. Griffiths, che in poco meno di due anni l’aveva promossa a cameriera d’alto livello – ovverosia, le aveva fatto abbandonare i lavori sfiancanti in modo da farle assistere la sorella zitella di lady Rochester, che in quel periodo abitava al castello per aiutare la contessa a badare ai figli piccoli.
Più il tempo passava, più la sua esperienza cresceva, e Margareth si trovava sempre più immersa nel ristretto e ambito mondo degli eccentrici conti di Rochester. Avendo dimostrato di essere discreta e degna di fiducia, Mrs. Griffiths aveva iniziato a renderla partecipe delle chiacchiere che venivano sussurrate tra le sale dei domestici, dietro le pareti, su una stretta scala a chiocciola che collegava le cucine ai piani superiori. La sua memoria era eccezionale, e l’aiutava a rammentare ogni cosa che le veniva detta: a partire dai più vergognosi pettegolezzi fino alle mezze verità e ai veri e propri segreti.
Lavorava a Pemberley Manor da più di due anni, ormai, quando udì il primo accenno al fatto che il maniero fosse maledetto. Poteva sembrare strano che non fosse al corrente di quelle voci, visto che gli abitanti del villaggio amavano parlare – e parlar male – dei ricchi aristocratici che abitavano nel castello, ma forse la sua età e la sua ingenuità l’avevano tenuta lontana da quel genere di discorsi. Poiché era stata una delle sguattere a prendere l’argomento, mentre trascorrevano la loro mezz’ora libera durante la cena dei padroni in una piccola anticamera, Margareth aveva pensato si trattasse di uno scherzo per indispettirla, giacché in pochi vedevano di buon occhio la ragazza del villaggio che aveva fatto carriera tutto ad un tratto; ma poi, la curiosità aveva avuto la meglio sul buonsenso, e si era ritrovata a voler sapere di più sull’argomento. Le sguattere e le cameriere erano state le più propense a chiacchierare, e a raccontare tutto ciò che sapevano, o che credevano di sapere, al riguardo; i camerieri invece le avevano detto di non essere ridicola, i valletti le avevano intimato di lasciar perdere, e la cuoca aveva cambiato bruscamente argomento. Non aveva osato domandare nulla a Mr. Weber, il maggiordomo, perché l’uomo la intimoriva; con Mrs. Griffiths, d’altra parte, aveva un rapporto più confidenziale, e raccogliere il coraggio per sollevare il discorso con lei non era stato troppo difficile.
A onor del vero, bisognava dire che Mrs. Griffiths non ebbe mai davvero confermato qualcosa riguardo la casa: chi può dire se fu la paura o la cieca fedeltà verso i padroni a farle tenere la bocca chiusa. Ma non le ebbe mai neppure smentite, cosa che portò la giovane Margareth a dormire con un occhio aperto e a trascorrere le giornate a guardarsi intorno con aria vigile, alla disperata ricerca di un qualche dettaglio fuori posto che confermasse o sfatasse le storie assurde delle sguattere. Probabilmente si era lasciata suggestionare un po’ troppo da quei racconti mormorati alla luce di una candela – i giovani tendono sempre a tenere in grande considerazione qualsiasi cosa esca dalla bocca dei più grandi – e tra sé e sé si dava della stupida per esserci cascata come un’ingenua qualunque. Eppure, quando andava al villaggio in visita alla sua famiglia, non poteva fare a meno di riflettere che l’aria che respirava lontano dalle mura di Pemberley era decisamente più leggera e salubre. Si accorgeva solo in quei momenti che qualcosa di malsano si annidava negli angoli più nascosti del maniero – c’era qualcosa che trasudava dalle pietre e circondava l’edificio, aggrappandosi a ogni appiglio e nutrendosi della salute mentale e fisica dei suoi abitanti, privandoli della sanità, trascinandoli verso lo squilibrio e rendendo paranoico ciascuno di loro. Era come un cancro che si nutriva incessantemente della loro linfa vitale, ed evitare di parlarne non serviva purtroppo a scacciare quell’orrenda sensazione.
Margareth si era accorta presto che parlare di simili argomenti con i suoi compaesani era inutile e sciocco, giacché finiva per venire tacciata come una piccola serva maligna e ingrata che metteva in giro brutte voci sui suoi datori di lavoro. Persino sua madre l’aveva rimproverata di essere infantile – «Mai mordere la mano che ti nutre, Meg!» – e, neanche a dirlo, non le aveva creduto. E come biasimarla? Lei stessa, adesso che si trovava al di fuori dell’influenza del maniero, stentava a credere di essersi fatta condizionare da quei racconti.
E adesso quasi rimpiangeva quei tempi di innocente inconsapevolezza, quando i rumori notturni potevano essere facilmente attribuiti alle sguattere che si svegliavano ore prima dell’alba e camminavano frettolosamente da una parte all’altra del sottotetto, facendo ticchettare le scarpe sul legno grezzo del pavimento.
Povera lady Emma, pensò stancamente la governante. Avrebbe tanto voluto dirle la verità – malgrado le loro inevitabili incomprensioni, in un certo senso la donna si era affezionata alla sua giovane padrona – ma non osava: temeva la vendetta della casa, e temeva soprattutto la vendetta di colui che l’abitava. Aveva vissuto abbastanza a lungo nella magione per sapere con terribile certezza che cosa essa faceva alle persone – in particolar modo ai proprietari.
Sospirò ancora, sola nella grande cucina della magione, con l’unica compagnia di un candelabro e di panni da rammendare. Udì il rimbombo dell’orologio a pendolo del pianterreno, e seppe che erano le tre del mattino: fra un paio d’ore Lydia si sarebbe svegliata, e ogni cosa si sarebbe ripetuta esattamente come il giorno prima e quello prima ancora – e lei, come al solito, non aveva chiuso occhio.
Stava per riprendere il suo lavoro di rammendo quando, nel silenzio, udì un flebile fruscio – l’aria parve addensarsi, le fiamme delle candele tremolare, il buio incupirsi – e d’un tratto seppe di non essere più sola.
«Lui la vuole.»
La voce sgorgò dalle tenebre dietro di lei, una voce delicata, un timbro elegante, un tono quieto; la sorpresa la fece sussultare e l’ago le punse il dito, facendole macchiare di sangue la stoffa. Margareth conosceva bene quella voce, benché non la udisse da anni, e gli occhi le si inumidirono di lacrime non versate.
«Lui la vuole, Mrs. Duncan», riprese la voce con un accento più deciso, ora leggermente più vicina. «E la vuole anche la casa. Bisogna impedirlo.»
Mrs. Duncan serrò gli occhi, e rispose senza osare voltarsi. «E in che modo? La ragazza sta già cedendo alla seduzione dell’oscurità, l’ho vista, me ne sono accorta. Sta perdendo il contatto con il reale.»
«La colpa è vostra, Mrs. Duncan», fu la brusca e spietata replica. «Avete assecondato gli ordini del mostro, e finirete per pagare amare conseguenze se non modificherete il vostro comportamento. Siete una donna saggia: so che troverete un modo.»
Malgrado il velato complimento, le parole erano astiose e la donna non trovò di che ribattere, per cui si limitò ad un cenno positivo del capo. «Erano anni che non vi udivo», mormorò poi, quasi timorosa. «Posso chiedervi che cosa vi ha spinto a parlarmi ancora?»
Il silenzio che seguì fu talmente lungo e pesante che la signora Duncan temette che non sarebbe giunta risposta; invece, contro le sue aspettative, essa arrivò. «In questo momento mi è più a cuore il benessere della ragazza, piuttosto che il rancore che nutro nei vostri confronti», rispose. «Per me non esiste salvezza, ma per lei sì. Ho ritenuto opportuno intervenire prima che fosse troppo tardi.»
Benché trovasse quella conversazione a dir poco curiosa, per non dire incomprensibile, Mrs. Duncan non osò manifestare le sue perplessità. Si limitò a prenderne atto, come si fa con le indiscutibili verità religiose, e a comportarsi di conseguenza. «Potrò contare sul vostro aiuto, dunque?»
«Sì.» Un’affermazione rapida, decisa, priva di un qualsivoglia tentennamento. «Sappiate che non sareste sola ad opporvi a lui, che avreste me e gli altri al vostro fianco.»
La governante trattenne il fiato, sorpresa. «Anche gli altri?» Mormorò con riverenza.
«Ve l’ho detto, Mrs. Duncan. La casa è affamata, brama nuove anime… E tutti noi siamo stanchi di vederla mietere vittime in continuazione. Voglio sperare che concordiamo sul fatto di voler evitare che si ripeta il dramma dell’incendio, sì?»
«Oh sì, certo, Dio ce ne scampi», sussurrò la donna, facendosi un rapido segno della croce.
«Temo che Dio non dimori più tra le mura di Pemberley», ribatté aspramente la voce. «È tempo che vada, ora. Vi lascio al vostro lavoro… e verrò io da voi, quando sarà il momento.»
Mrs. Duncan annuì, rassegnata. «Attenderò la vostra visita, allora», acconsentì piano. Non udendo tuttavia giungere alcuna risposta, la donna finalmente posò ago e filo sul tavolo e si voltò verso il punto dal quale era giunta la voce – ma ormai era di nuovo sola: la debole luce delle tre candele non illuminò altro se non le suppellettili della cucina e l’angolo vuoto accanto all’enorme camino.
«Grazie, lady Nora», sussurrò, prima di tornare mestamente al suo lavoro.













____________________________________________________________________________________________

Angolo Autrice.

Ehilà! E' trascorso parecchio tempo dall'ultimo capitolo - spero che vi ricordiate ancora la trama. xD Qui abbiamo persino un colpo di scena finale... e chi se lo aspettava? (Io no, devo ammetterlo - è stata una sorta di illuminazione improvvisa, spero che la Musa non sparisca :D E per questo devo dare la colpa/ringraziare la mia nuova ossessione per American Horror Story, di cui ho divorato tutte e tre le stagioni - Dio benedica lo streaming - in qualcosa come una settimana o poco più... come avevo fatto a vivere senza, finora? Comunque, bando a queste ciance.)
Stavolta non mi dilungherò molto, voglio limitarmi ai ringraziamenti. Indi per cui, un grazie enorme a Sylphs, Berserksgangr, Figlia di una guerriera, Jolly J, savy85 e Se7f per aver recensito lo scorso capitolo, e una menzione particolare per Christine23 che mi ha spronato a scrivere e concludere anche questo sesto chapter in un tempo decisamente inferiore a quello che ci avrei messo se avessi dato retta alla mia demoralizzazione :D E, ovviamente, tantissimi grazie anche a tutti voi che continuate a leggere, silenziosi, e ad aggiungere questa storia tra i Preferiti e le Seguite!
Detto ciò, vi lascio! Se avete domande e curiosità potete trovarmi su Facebook, ask.fm e twitter - basta visitare la mia pagina "autore" per recuperare i link - e niente, mi fa piacere sentirvi e chiacchierare con voi ma vi lovverò lo stesso anche se resterete silenziosi. ù__ù
Baci e abbracci come al solito, non mi stancherò mai di ringraziarvi per essere giunti fin qui a leggere - buon proseguimento di serata!
La vostra
Niglia.


Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Chapter 7. Stranger Than You Dreamt It ***


banner



7.
Stranger Than You Dreamt It
hfgjgkh











1877

L’estate in campagna poteva essere terribilmente monotona per una bambina di sei anni. Il territorio circostante non le permetteva alcuno svago, e malgrado gli adulti fossero abbastanza permissivi con lei e le permettessero di gironzolare più o meno a suo piacimento dentro e fuori il castello, la piccola Nora aveva ormai terminato tutte le attività che avrebbero dovuto intrattenerla, o semplicemente le erano venute a noia.
Mademoiselle Sophie, la sua istitutrice francese, si era ritirata per il suo riposo pomeridiano, e le aveva suggerito di fare lo stesso: com’era ovvio, Nora non aveva intenzione di rimanere rinchiusa nella sua camera per le due ore seguenti senza far nulla, così attese i minuti necessari che avrebbe impiegato mademoiselle a percorrere il corridoio e sparire nella sua stanza, prima di sgattaiolare di nuovo fuori.
Non aveva fatto che pochi passi, che una delle altre porte si aprì e la testa bionda e riccioluta di suo fratello maggiore Evan ne fece capolino.
«Guarda guarda chi sta disobbedendo alla sua istitutrice», esordì con un mezzo sorriso, parlando tuttavia a bassa voce. «Che cosa ci fai in corridoio a quest’ora? Non dovresti essere a letto?»
«Non ho sonno», ribatté la bambina imbronciandosi. «E sono annoiata! Voglio fare qualcosa, ma non so che cosa», aggiunse, storcendo il naso. Sfortunatamente tutti i giochi che avrebbe potuto fare le erano al momento preclusi, dato che tanto per cominciare non si sarebbe neppure dovuta trovare fuori dalla propria camera. E neanche uscire dal castello era da prendere in considerazione, dato che mademoiselle Sophie l’aveva avvertita che, quando il sole era così alto nel cielo e le cicale frinivano nel prato, la spaventosa Mère du soleil avrebbe rapito le fanciulline che avessero messo il naso fuori casa.
Sospirò, avanzando di qualche passo verso il fratello. «Tu vuoi giocare con me?» Chiese, rassegnata.
Evan la osservò di sottecchi, le dita macchiate di pittura impegnate a torturare un pennello sporco, riflettendo. Alla fine, con tono laconico, rispose: «No.» Ma, prima che Nora si mettesse a piangere dall’irritazione, il ragazzino riprese a sorridere e le fece cenno di avvicinarsi ancora. «Ho un’idea migliore. La vuoi sentire?»
Il viso di Nora si illuminò, raggiante: suo fratello aveva sempre qualche gioco interessante da farle fare! Quando gli si fu avvicinata abbastanza, Evan si chinò verso di lei per sussurrarle la sua idea all’orecchio, pregustando già la faccia che avrebbe fatto la piccola. «Ti sfido ad andare nell’ala Ovest.»
Come lui aveva immaginato, la bambina trattenne bruscamente il fiato, allontanandosi il tanto sufficiente per farle incontrare lo sguardo del fratello e farle capire che non stava scherzando. «Ma nostro padre l’ha proibito», disse piano, gli occhi sgranati.
Evan scrollò con noncuranza le spalle. «Hai già disobbedito a mademoiselle Sophie, qual è il problema?»
La osservò mentre Nora si dondolava sulle gambe sottili, torcendosi le dita e torturando i nastri del suo abitino azzurro, riflettendo se accettare o meno la proposta del fratello o forse sperando che egli cambiasse idea e le desse un qualche compito più semplice. Ma lui si ostinò a tacere, continuando a guardarla con quel sorrisetto arrogante che la sfidava a tirarsi indietro; e Nora, malgrado la tenera età, non amava perdere o rinunciare a una competizione. Inoltre si annoiava, e cos’altro avrebbe potuto fare per trascorrere il tempo, dunque?
«Bene», sbottò alla fine, sollevando il mento. «Andrò nell’ala Ovest.»
Il fratello ridacchiò, per nulla impressionato. «Però devi portarmi qualcosa da lì, o non crederò che tu ci sia stata», aggiunse, agitandole un dito davanti al naso.
Nora sbuffò, infastidita. «E che cosa ti devo portare?»
Evan scrollò le spalle, continuando a sorridere. «Quello che vuoi, sorellina. Sorprendimi.»
Senza più degnarlo di un’occhiata, Nora gli diede le spalle e si incamminò decisa, ma in punta di piedi, in direzione dell’ala Ovest.
Accedere a quell’interdetta parte del maniero fu più semplice di quanto avesse previsto: era bastato attendere che le cameriere finissero di spolverare là attorno e sparissero giù per la scala di servizio, e con l’andito del tutto vuoto a sua disposizione Nora oltrepassò la soglia che divideva quell’ala dal resto del maniero, lasciando pure che la porta si chiudesse alle sue spalle.
Mentre attraversava le gallerie cupe e disabitate, incerta su cosa fare e domandandosi per quale motivo il padre avesse deciso di chiudere quell’ala al pubblico, visto che non c’era nulla di particolare a parte vecchi quadri e tappeti impolverati, Nora si ripromise che avrebbe dato un bel pizzicotto a suo fratello Evan per averla fatta cacciare in quel guaio senza che peraltro ne valesse la pena. Ma aveva appena finito di formulare quel pensiero, che nel profondo silenzio si udì un rumore, dapprima debole, come fosse stato attutito da spesse pareti, e poi sempre più nitido e stentoreo: pareva il pianto di un bambino.
Perplessa, giacché era convinta, e a ragione, di essere l’unica fanciullina di Pemberley – se si escludeva il figlio della governante, che comunque non veniva mai portato all’interno del castello e che lei aveva veduto solo qualche volta, e da lontano, al limitare del giardino – Nora seguì il percorso indicato da quegli strazianti singhiozzi, terribilmente curiosa e insieme preoccupata.
I corridoi deserti di Pemberley non le facevano paura: era nata e cresciuta lì, e malgrado avesse udito i domestici bisbigliare costantemente di misteri di dubbia natura e strani eventi che si manifestavano nel castello, Nora era figlia di suo padre e non credeva a sciocchezze come i fantasmi. Evan non sarebbe stato così coraggioso, si ritrovò a pensare con un lieve sorriso; sarebbe fuggito come se avesse avuto il diavolo alle calcagna, e non avrebbe più messo piede nell’ala Ovest. Ma lei non aveva paura, e glielo avrebbe dimostrato.
Dopo un lungo camminare si fermò con decisione davanti a una porta scura e decisamente pesante, e vi posò l’orecchio sopra, in ascolto: sì, non v’erano dubbi – il pianto proveniva da lì dentro.
Alzandosi sulle punte dei piedi e allungando il braccio, Nora riuscì ad aggrapparsi alla maniglia – così in alto, perché era così in alto? – e a tirarla il più possibile verso di se’, verso il basso, fin quando un roco schiocco non le fece capire di essere riuscita ad aprirla. Allora la spalancò, sbuffando e ansimando, e si affacciò curiosa all’interno; la sua sorpresa fu grande quando capì di essere in una sorta di nursery, molto meno ricca e lussuosa di quella dov’era cresciuta lei. Le tende erano chiuse, e dalle finestre non proveniva il più piccolo raggio di sole; solo poche candele rischiaravano l’ambiente, permettendole di vedere una sedia a dondolo, delle brocche da toilette, vari giocattoli sparsi per terra in condizioni più o meno disperate e una culla di legno scuro, rivestita con stoffe ingiallite dal tempo, e ricoperta da una tendina in pizzo che pendeva dal soffitto. Ed era da lì che proveniva il lamento disperato del bambino, chiunque egli fosse.
Si avvicinò con cautela al lettino, ma le sponde troppo alte le impedivano di affacciarsi; guardandosi intorno vide uno sgabello rovesciato poco lontano, che trascinò fino a un lato della culla per poi arrampicarvisi senza grosse difficoltà. Quando scostò la tendina che copriva il bambino, Nora dovette stringere gli occhi attraverso la penombra per riuscire a vederlo; poi all’improvviso il piccolo si voltò, tirando su col naso e istintivamente confortato dalla sua presenza, e allungò le mani verso di lei emettendo teneri versi di benvenuto che, tuttavia, non la intenerirono per niente. Anzi; lo shock di ciò che videro i suoi occhi fu tale che iniziò a strillare, terrorizzata, spaventando il bambino che sgranò gli occhi con un’espressione più scioccata della sua, facendolo scoppiare nuovamente in lacrime con un vigore notevole per una creaturina così piccola.
Continuò a gridare con gli occhi serrati e le lacrime che le scorrevano sulle guance, implacabili, incapace di muoversi, finché due mani non l’agguantarono con decisione ai fianchi e la fecero scendere dallo sgabello, allontanandola dalla culla e portandola direttamente fuori, nel corridoio. Quando Nora riaprì gli occhi, suo malgrado indignata per il modo in cui era stata presa e spostata, si ritrovò a fissare ora il volto familiare e adorato della signora Duncan, che tuttavia mai prima di allora aveva mai visto sfigurato da un’espressione così terribilmente furibonda.
«Voglio che torniate in camera vostra, milady, avete compreso bene? E sarà meglio che non diciate a nessuno quanto avete visto qui, se non volete che racconti a vostro padre di questa bravata», furono le uniche parole che le vennero rivolte dalla donna, in modo piuttosto gelido e sgarbato.
La pesante porta venne richiusa con un brusco tonfo, nascondendo alla sua vista l’orrore che celava. Nora rimase lì davanti, intontita e spaventata, mentre le lacrime che aveva inconsapevolmente trattenuto fino a quel momento scorrevano copiose sulle sue guance. Chi era quel mostro?, si chiese, confusa. Perché abitava nel castello, sotto il suo stesso tetto? E, soprattutto, chi aveva permesso a un simile abominio di vivere?
Una mano le si posò sulla spalla, facendola sussultare dallo spavento. Quando si voltò, Nora si ritrovò ad osservare una signora mai vista prima, bella ed elegante come il soggetto di un quadro, riccamente vestita e acconciata – seppur ci fosse qualcosa, nel suo abbigliamento, che stonava con ciò a cui la piccola era abituata, come se la donna appartenesse a qualche luogo al di fuori dal tempo.
«Vieni, bambina. Non dovresti essere qui», le disse dolcemente la sconosciuta, prendendole la mano con la sua, gelida, e conducendola via con fare gentile ma risoluto. Nora si voltò più volte, spiando la porta da sopra la spalla, ma non vide più nulla: e si lasciò trascinare, spaventata e confusa, senza ben sapere che cosa pensare di quanto aveva appena visto.
Benché si fosse dimenticata di prendere qualcosa dall’ala Ovest, suo fratello Evan non dubitò che ci fosse stata, dopo averla guardata in viso.



kjhgcfdx



Emma si svegliò spossata e infastidita, come se avesse trascorso la notte intera su un materasso di sassi appuntiti che le aveva reso impossibile riposare. Accolse come una benedizione la luce del giorno che filtrava da sotto le tende, e si alzò dal letto per spalancarle prima che arrivasse Lydia a occuparsene. Attraverso il vetro appannato si accorse che aveva piovuto, e che doveva aver smesso da poco: ciò la rassicurò sulla sua decisione di aver fatto restare Caledon al castello per la notte – ma adesso era mattina, e il suo ospite si sarebbe rimesso in viaggio tra non molto. Mentre osservava i raggi del sole che facevano luccicare la brina sull’erba e sulle foglie degli alberi, facendoli brillare come se l’intera vegetazione circostante fosse tempestata di diamanti, Emma si domandò se la partenza di Cal le stesse mettendo addosso più sollievo o dispiacere.
Non aveva che da prepararsi e scendere in sala da pranzo per scoprire che cosa le avrebbe riservato il giorno; e quando Lydia varcò la soglia della sua stanza, portando dei teli puliti e dell’acqua calda per le sue abluzioni mattutine, l’accolse con un piccolo sorriso.

A qualche metro di distanza, nella camera da letto Luigi Filippo, anche Caledon riapriva gli occhi a salutare il nuovo giorno. Non era abituato a svegliarsi così tardi – solitamente quando si alzava era ancora buio, poiché suo padre gli aveva da sempre inculcato la convinzione che un lord dovesse svegliarsi insieme alla propria servitù per non dare l’impressione di essere un fannullone ma, al contrario, un padrone dal polso rigido – ma la verità era che non aveva dormito molto bene: anzi, aveva l’impressione di non aver mai dormito così male in tutti i suoi trent’anni di vita su questa terra.
Non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma c’era qualcosa nel castello che gli aveva messo addosso una certa inquietudine sin da quando vi aveva posato gli occhi, il giorno prima. Pur essendo avvezzo alle imponenti e antiche magioni in cui peraltro aveva trascorso la maggior parte della sua esistenza, doveva riconoscere che Pemberley Manor era in diversi modi differenti: lo aveva fatto sentire a disagio, fuori luogo, e per un attimo - sì, per un attimo – aveva pensato di dire il cocchiere di fare dietro front e tornare alla stazione, per proseguire il suo viaggio senza dover sostare in quel luogo inconfortevole.
Forse si era lasciato suggestionare dalla lettera di Emma, o dagli sguardi preoccupati dei paesani che, alla sua richiesta di venire accompagnato al castello, si erano praticamente volatilizzati, fatto sta che il suo primo incontro con il castello non si era svolto sotto i migliori auspici. E la sensazione si era acuita una volta messo piede nell’enorme foyer, quando la governante lo aveva lasciato solo per pochi minuti per avvisare la padrona di casa del suo arrivo. Inutile dire che, in quei brevi istanti – che tuttavia in quel frangente gli erano sembrati eterni – aveva provato il terribile e inconscio presentimento di essere fissato. L’androne d’ingresso non era eccessivamente buio – una debole luce proveniva ancora dalle vetrate polverose, e qua e là i domestici avevano già iniziato ad accendere le candele – eppure quell’atmosfera soffusa non faceva che trascinare l’abitazione in un clima da incubo, assurdo, intollerabile. Il legno massello che rivestiva muri e pavimenti era talmente cupo che assorbiva la luce dei lucernai senza rifletterla, mentre a inghiottire qualsiasi suono ci pensavano arazzi e tappeti: avrebbe giurato che Mrs. Duncan fosse scomparsa nel corridoio se non l’avesse seguita con lo sguardo finché non ebbe girato l’angolo, tanto la donna si muoveva silenziosamente. L’immensa scalinata che si snodava alla sua sinistra, curvando dolcemente su se stessa nella sua ascesa al piano superiore, era a sua volta scarsamente illuminata, e dava l’impressione di poter essere il passaggio verso chissà quale luogo infernale.
Erano osservazioni futili e sciocche da fare, se ne rendeva benissimo conto, eppure Caledon si era sempre vantato di avere un istinto e un fiuto eccezionale per tutto ciò che non era come sarebbe dovuto essere. E c’era qualcosa, nel maniero di Pemberley, che sembrava volergli far rimpiangere la sua visita improvvisa.
Avrebbe quasi giurato… ma doveva essere stata la stanchezza a giocargli brutti scherzi… di udire un flebile sospiro che gli fece rizzare i peli della nuca, subito seguito da quello che gli era parso a tutti gli effetti una carezza sulla spalla. Eppure, quando si era voltato, non aveva visto che un corridoio vuoto… Di certo la governante non dovette trovarlo in un buono stato, quando tornò da lui per avvisarlo che la padrona lo stava aspettando, perché Caledon aveva l’impressione che tutto il sangue gli fosse defluito dal viso lasciandolo pallido e tremante; e malgrado ciò era riuscito a far buon viso a cattivo gioco, e a raddrizzare la schiena mascherando sotto una patina di amabilità e gentilezza il suo sconfortante malessere.
Sinceramente, si domandò con quale coraggio Emma continuava ad abitarvi. Quando questo castello passerà in mano mia, dopo il matrimonio, si ritrovò a pensare d’istinto, mentre si vestiva per poi poter scendere a fare colazione, mi assicurerò che diventi un luogo diverso. Più luminoso, tanto per cominciare, e meno lugubre. Emma sarà d’accordo con me, decise.
Non rientrava nei suoi desideri tornare a vivere nella casa di famiglia dei Suffolk, dopo il suo matrimonio – dover far convivere la propria già difficile vita matrimoniale con quella dei suoi genitori era una possibilità che non aveva neanche preso in considerazione – e di certo anche Emma sarebbe convenuta con lui al riguardo. I due giovani sposi avrebbero dovuto imparare a conoscersi e ad abituarsi l’uno all’altro senza che ogni loro gesto, parola o comportamento fosse minuziosamente passato al setaccio dagli sguardi pesanti e inquisitori di lady e lord Suffolk. Per cui, il fatto che vi fosse una proprietà del genere abbarbicata sopra di una collina nel bel mezzo della brughiera capitava davvero a fagiolo: qualcosa gli diceva che il suo futuro suocero, il caro lord Grantham, già prevedesse di regalarla agli sposi per le loro nozze, e in tutta onestà Caledon poteva ammettere che gli sarebbe piaciuto gestirla, e strapparle via quell’aria desolante e malsana che emanava come se fosse stata una carcassa in decomposizione.
Se lasciava la sua immaginazione libera di espandersi a proprio piacimento, Caledon poteva quasi vedere gli androni invasi dalla luce, i domestici che si prendevano cura del maniero e Emma, la sua Emma, seduta all’ombra di uno dei tigli del parco, con un libro tra le mani e due bambini distesi accanto a lei, tutti intenti ad ascoltare la voce melodiosa della madre mentre leggeva loro una delle sue storie preferite…
L’uomo sospirò, tornando bruscamente con i piedi per terra. Avrebbe fatto quanto in suo potere per far sì che un simile miraggio si avverasse, e che la sua futura moglie si innamorasse di lui – o perlomeno smettesse di trovarlo indifferente. Gli sarebbe bastato il più piccolo cenno di affetto da parte sua, per farlo sperare, per fargli capire che quel matrimonio si sarebbe fondato su basi più solide di un misero contratto stipulato dalle loro famiglie. Quella visita a sorpresa, tutto sommato, lo aveva fatto ben sperare; forse, rifletté mentre scendeva le scale in direzione della sala da pranzo, forse la solitudine la stava ammorbidendo?
Quando varcò la soglia della sala, la padrona di casa non era ancora arrivata. Il lungo tavolo in mogano scuro tuttavia era già stato abbondantemente apparecchiato, e il delizioso profumo di tè, pancetta, porridge e uova gli fece perdonare l’assenza del giornale del mattino – cosa che non lo sorprese del tutto: chi era il povero ragazzo che si sarebbe fatto di sua spontanea volontà tutta la strada fino a Pemberley?
Si era appena seduto quando da dietro un paravento sgusciò fuori uno scodinzolante Aramis, il cucciolo di Emma; il cane venne verso di lui ansimando allegramente, avvicinandosi baldanzoso per annusarlo e abbaiare due o tre volte in segno di riconoscimento. «Guarda un po’ chi c’è», sorrise Caledon, chinandosi per grattare l’animale dietro le orecchie e sotto il muso. «Non dovresti essere a far la guardia alla tua padrona, mh?»
Per tutta risposta Aramis abbaiò ancora, poi ruotò un paio di volte su se’ stesso e infine si mise seduto, il muso sollevato ad annusare l’aria e gli occhi castani fissati con infantile insistenza su di lui. «Ah, ho capito cosa vuoi», mormorò divertito. Allungò una mano verso il vassoio della pancetta e ne prese due fettine ancora fumanti, il cui profumo stava sicuramente facendo venire l’acquolina in bocca anche al cucciolo. «Tieni, fatti onore. Ma non dirlo a Emma, mi raccomando.»
«Dirmi che cosa?»
Non appena udì la voce della ragazza Caledon saltò subito in piedi facendo strisciare spiacevolmente la sedia sul pavimento, voltandosi verso di lei e accennando un inchino. Gli bastò un’occhiata per notare che adesso appariva molto più elegante e pronta a riceverlo di quanto non fosse stata la sera prima – il suo abito da giorno era stato scelto scuro come si conveniva a una fanciulla in lutto, e i capelli le erano stati intrecciati e raccolti in modo da non lasciare un solo ciuffo fuori posto. Era comunque la prima volta che la vedeva a quell’ora del mattino, e c’era una certa innegabile intimità nel ritrovarsi da soli a colazione. «Buongiorno. Perdonatemi, non vi ho sentita entrare», si scusò, andando subito a scostarle gentilmente una sedia per farla accomodare.
Emma fece un cenno con la mano come a dire che non era importante. «Non preoccupatevi. Come avete visto, Cal, qui in campagna non seguiamo in modo altrettanto rigoroso le regole della città. Oh», aggiunse poi, aprendosi in un sorriso non appena Aramis la raggiunse per posarle il muso in grembo in cerca di coccole. «Vedo che la signora Duncan l’ha già fatto rientrare.»
«Credevo che dormisse con voi», replicò l’uomo, tornando a sedersi e iniziando a versarsi delle salsicce e funghi trifolati nel piatto. Il profumo era inebriante – chissà per quale motivo in campagna tutto acquistava un diverso sapore?
«Aramis non dorme bene all’interno del castello», fu la vaga risposta di Emma, che riconquistò l’attenzione del suo ospite. «Le prime notti mi ha tenuto sveglia, e con Mrs. Duncan abbiamo convenuto che sarebbe stato meglio per lui dormire nelle stalle.»
«Probabilmente era solo innervosito dal nuovo ambiente. Si abituerà presto, vedrete», la rassicurò Caledon, offrendole un sorriso confortante.
Emma non riuscì a ricambiarlo. «Sapete, non me la sento di biasimarlo. Povero Aramis… Devo ammettere che questo castello mette i brividi anche a me», rispose piano, sperando che non ci fosse nessuno dei domestici in ascolto – non voleva risultare ingrata o patetica nel parlare così, ma in qualche modo sentiva che dirlo al suo fidanzato le avrebbe forse alleggerito lo spirito. «Sapete che i precedenti proprietari morirono proprio qui, all’interno del maniero, quindici anni fa?»
Caledon la osservò con aria perplessa e sorpresa, sia per quell’improvviso slancio di familiarità che per la notizia inquietante. «Ma è terribile», commentò gravemente, aggrottando la fronte. «Da ciò che mi ha detto vostro padre, avevo capito che il castello fosse rimasto abbandonato per l’assenza di eredi.»
«È stato così, in effetti», confermò Emma, ritrovando facilmente la loquacità che aveva già sfoggiato la sera prima e sentendo l’inevitabile disagio che aveva provato al suo risveglio scivolare via. «Il conte e i suoi tre figli morirono insieme, la stessa notte, a causa di un tragico incendio. E gli abitanti del villaggio sono molto superstiziosi, e nessuno di loro si è più avvicinato al castello per timore che i fantasmi dei Rochester si aggirino ancora tra queste stanze. Non vi dico quanto ho dovuto penare per far arrivare il dottore fin qui, per miss Radcliffe… È una fortuna che ci sia stato sir Carlisle.»
Il tono quasi affettuoso che avvolse un nome maschile che Caledon non aveva mai udito prima d’ora scatenò uno strano turbinio di emozioni nel giovane – emozioni che, benché confuse, potevano facilmente essere riconducibili a un unico sentimento: gelosia. «Sir Carlisle? Chi sarebbe?»
«Oh, è il mio unico vicino di casa. L’ho conosciuto qualche giorno dopo il mio arrivo, è venuto a fare visita alla nuova inquilina di Pemberley – doveri di buon vicinato, li aveva definiti. È stato lui a raccontarmi di ciò che è accaduto ai Rochester, e a convincere il dottore a venire al maniero.»
«Tuttavia non è stato molto delicato che venisse a trovare una ragazza sola e priva di chaperon. La trovo una cosa inappropriata, anche per gli standard della campagna», insisté senza guardarla, tagliando con ferocia un toast a metà.
A quel punto Emma non riuscì a frenare un sorriso. «Cal, avete fatto anche voi la stessa cosa», gli rammentò con dolcezza a mezza voce, in un tono che qualcuno avrebbe potuto definire complice.
Egli fu così preso alla sprovvista che arrossì lievemente, come un bambino. «È diverso», ribatté ostinato, guardandola dritta negli occhi per scacciare l’imbarazzo. «Io sono il vostro fidanzato.»
«E cosa credete che penserà mio padre quando scoprirà che il mio fidanzato è venuto da solo a trovarmi e ha poi trascorso la notte sotto il mio stesso tetto?» Il sorriso che continuava ad aleggiare sulle labbra della giovane e il suo tono scherzoso rassicurarono l’uomo sulla natura discorsiva della conversazione. «Se la mia reputazione resta intatta lo dovrò solo alla privacy della brughiera e alla promessa del vostro silenzio.»
«In tal caso, avete la mia parola che non gliene farò menzione. Non sia mai che io mi macchi di offendere il vostro buon nome», replicò sul suo stesso tono faceto, chinando il capo nel fantasma di un inchino. «Ad ogni modo, questo Carlisle… Viene a farvi visita spesso?» Indagò poi, con un’aria interrogativa e persino irritata che Emma non faticò a riconoscere.
Cercò quindi di non sorridere per non dare l’impressione di prendersi gioco di quell’aspetto del suo carattere, che in verità dovette ammettere di trovare in un certo senso premuroso: era la prima volta che vedeva il suo fidanzato ingelosito. «Cal, non fraintendete. Sir Carlisle è un gentiluomo sposato, e potrebbe essere mio padre. Si comporta da ottimo amico ed è di buona compagnia, e questo mi fa apprezzare le sue visite», gli spiegò serenamente.
La risposta di Emma lo rassicurò un poco, ma non poteva impedirsi di essere preoccupato e tormentato dall’idea della sua fidanzata da sola in un castello in mezzo alla brughiera, preda di chissà quali e quanti generi di malintenzionati. Buon Dio, ma cosa diavolo aveva in mente lord Grantham quando l’ha mandata qui? Solo ora che vedeva in modo tangibile il modo in cui stava trascorrendo il suo lutto, Caledon si rendeva conto della pericolosità dell’intera faccenda. Eppure lei era così serafica, così rilassata che quasi si sentiva uno sciocco nel provare la più piccola briciola di apprensione. Così, si limitò a porre fine all’argomento con una breve scrollata di spalle e un commento riguardo i tempi moderni e le donne indipendenti, che strappò a Emma la prima vera risatina che udì da parte sua da quando era arrivato, e che contribuì a rasserenare il suo spirito.
Fu costretto a prendere commiato subito dopo colazione, perché il treno sarebbe partito alle undici e con la carrozza del signor Duncan avrebbero impiegato almeno un paio d’ore per raggiungere la stazione. I suoi bagagli erano già stati imbarcati, ed Emma gli aveva preparato una sorta di cesto da picnic con gli avanzi della colazione, frutta e altre vivande che avrebbero reso il suo viaggio verso la Scozia meno lungo e noioso. Una volta usciti sul portico, sia Mrs. Duncan che Lydia erano già schierate ai lati della porta, e Mr. Duncan attendeva paziente accanto allo sportello aperto della carrozza. I cavalli scalpitavano inquieti, ma bastarono poche parole sussurrate e delle pacche gentili da parte dell’uomo per riportarli all’ordine.
Prima di separarsi definitivamente, Caledon prese Emma da una parte – cercando di stare il più lontano possibile dall’udito indiscreto dei domestici – e le prese le mani tra le sue, stringendole affettuosamente. «Mi promettete che continuerete a scrivermi, Emma?» Le chiese a mezza voce. «Ho letto la vostra ultima lettera fino a impararla a memoria, e adesso ho bisogno che mi forniate dell’altro materiale da memorizzare.»
La giovane sorrise, suo malgrado divertita. «Ho paura che le mie future lettere saranno di una noia mortale, visto che qui a Pemberley non succede nulla di interessante, ma cercherò di fare del mio meglio per mettervi al corrente di ogni cosa», acconsentì, ricambiando la stretta. Ovviamente non gli aveva raccontato del carillon, né della musica che di tanto in tanto risuonava ancora tra i corridoi, durante la notte, e neppure del figlio dalla mente semplice dei signori Duncan che ormai non vedeva da diversi giorni e che l’aveva spaventata, durante il loro primo incontro; simili dettagli lo avrebbero soltanto messo in allarme, e preoccupare lui voleva dire far preoccupare anche suo padre, giacché Emma non aveva dubbi che le voci si sarebbero poi sparse a macchia d’olio. Aveva come l’impressione di essere il centro della preoccupazione di fin troppi uomini.
«Sapete, ho davvero sentito la vostra mancanza in queste settimane», continuò lui dopo un momento di silenzio, abbassando la voce come se ciò potesse rendere meno imbarazzante tale confessione.
Emma arrossì appena, allisciandosi delle pieghe inesistenti sul vestito mentre si sforzava di ricambiare lo sguardo dolorosamente sincero del suo fidanzato. «Cal…»
«No, vi prego. Fatemi finire», la supplicò con un mezzo sorriso. «Voi conoscete già i miei sentimenti, non dev’essere una sorpresa udirli. Quando mi hanno riferito che avreste trascorso il lutto in una residenza in campagna, lontana da tutti, lontana da me… Non nego che ciò mi abbia addolorato, Emma.»
«Non sono venuta qui per starvi lontana, Caledon», ribatté lei a mezza voce, e tuttavia con un tono severo. «Non oserei mai fare una cosa del genere, e sinceramente mi dispiace che ciò possa avervi offeso.»
«Non mi sono offeso. Il fatto è che mi sono sentito inutile... Credevo, forse troppo ingenuamente, che in questo periodo di dolore mi sarebbe stato permesso starvi accanto, confortarvi, essere il sostegno di cui potevate avere bisogno, e invece… Siete semplicemente sparita», le spiegò, più con un’aria triste e dispiaciuta che rancorosa. «Ora, lo so che il nostro rapporto è nato su basi forzate, ma io voglio che sappiate che per qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, io sarò al vostro fianco – non per giudicarvi, ma per sostenervi. Per cui, se c’è qualcosa che vi pesa e che sentite il bisogno di dirmi, fatelo, fatelo senza timore. Voglio solo il meglio per voi, Emma… Un giorno sarete mia moglie, sì, ma io sarò vostro marito. Sarò vostro, mi capite? Qualunque cosa succeda, io sarò la vostra roccia nella tempesta. Ecco, volevo solo dirvi questo», concluse, con un breve sospiro di sollievo. Sembrava che un simile discorso gli fosse costato particolarmente, ma era stato abbastanza eloquente da privare lei di qualsiasi replica.
Emma si limitò ad osservarlo, gli occhi inevitabilmente lucidi a causa di quella frettolosa confessione che non si era aspettata, e le mani che ancora stringevano con forza rinnovata quelle guantate dell’uomo, come se, in effetti, in esse avesse trovato il suo appiglio. Cercò di non commuoversi, e fu tremendamente difficile; ma riuscì a sorridergli, annuendo appena, e tanto parve bastare. «Vi ringrazio, Cal. Davvero, con tutto il cuore», mormorò, senza distogliere gli occhi dai suoi.
Egli annuì a sua volta, cercando di ricambiare il sorriso; non si era aspettato una risposta diversa da lei, in fondo, ma in quel momento la sua espressione era molto più significativa di qualsiasi dichiarazione d’amore. «Vi manderò un telegramma non appena raggiungo Inverness», le promise alla fine, alleggerendo l’atmosfera. Emma annuì, ancora frastornata, e rilasciò lentamente le mani del fidanzato, con un gesto che parve riluttante.
Forse fu quello che gli diede il coraggio necessario: prima di voltarsi e raggiungere la carrozza, Caledon si chinò su di lei e le posò le labbra sulla fronte, in un bacio delicato e nel quale indugiò a lungo, gli occhi socchiusi – assaporando quel gesto che lei gli aveva permesso senza discostarsi, ma anzi tendendosi un poco, oh, non molto, verso di lui. La sua pelle era tiepida e liscia, come seta, e sapeva vagamente di gelsomino.
Il momento rimase sospeso fin quando non si allontanarono, e Caledon si ricordò di avere degli spettatori. A quel punto le sorrise, si sfiorò il cappello in direzione delle domestiche e accennò un inchino verso di lei, per poi raggiungere la carrozza senza pronunciare una singola parola. Emma rimase ad osservarlo in silenzio, e restò sul portico fino a che la vettura guidata dal signor Duncan non scomparve dietro il primo angolo del vialetto tortuoso, tuffandosi nella fitta vegetazione selvaggia che pareva divorare metri di terreno nuovi di giorno in giorno, quasi che volesse raggiungere e inghiottire il castello.
Quando si voltò nuovamente verso il portico, si accorse che Lydia e la governante la stavano osservando in disparte, in attesa: Mrs. Duncan pareva avere un’espressione incerta e preoccupante, persa com’era in chissà quali pensieri, mentre la ragazza si limitava a torcersi le mani e a fissare un punto imprecisato del giardino, quasi attendendo disperatamente di venir congedata.
Con un sospiro, già dispiaciuta dell’essere stata lasciata ancora una volta sola con i domestici, Emma si incamminò verso il portone. «Se avete bisogno di me, signora Duncan, mi trovate in biblioteca», l’avvisò, precedendo le due domestiche all’interno della casa.
La governante annuì, accennando un inchino col capo. «Verrò da voi più tardi per farvi approvare il menù del pranzo, milady», fece; malgrado cercasse di non darlo a vedere, era palese che preferisse sapere la padrona di casa al sicuro in un’unica stanza – o, meglio, fuori dai piedi. Anche se doveva ammettere che, dopo la visita notturna della sua antica signora, il suo animo era assai più tranquillo – poteva contare che ci fosse sempre qualcuno a tenerla sotto controllo e lontana dalle grinfie dell’oscurità che permeava il maniero.
Ciò che non poté impedirsi di chiedersi, tuttavia, fu quando essa si sarebbe decisa a serrare gli artigli intorno alla giovane lady, spezzando la loro apparente quiete.



hfgdxxghj


Otto giorni dopo.

Il reverendo Randall Sibley, settantanove primavere, di Peterborough, era il personaggio più influente di Heatherfield. Di mente sorprendentemente aperta e pragmatica, usava prestarsi come confidente e consigliere in tutti i campi, poiché la sua raffinata istruzione ecclesiastica gli aveva permesso in più occasioni di utilizzare le sue conoscenze a favore di ciascuno dei parrocchiani – che, come egli stesso ammetteva con un umile sorriso, conosceva ad uno ad uno. Non vi erano segreti per lui, giacché era un uomo che, principalmente, ascoltava senza giudicare; e la sua fama era tale che talvolta venivano membri di altre parrocchie per scambiare con lui qualche parola e chiedere consiglio.
Egli sapeva chi frequentava la messa e chi la disertava, e con quale frequenza; dall’alto del suo pulpito in legno massello aveva una visuale perfetta di tutti i parrocchiani, dai contadini ai pastori, dal mercante alla sarta e dal becchino al cocchiere della diligenza. Fu anche per questo che notò subito le due presenze inattese, quella mattina: la chiesa era pressoché vuota, ovviamente – era pur sempre un lunedì – se si escludeva la presenza costante di una decina di vedove del villaggio che trascorrevano nella casa di Dio gran parte della giornata. Li osservò da dietro l’anonimato concesso dalla grata del confessionale, seguendoli con gli occhi mentre prendevano posto in una delle panche più appartate – in cerca come al solito di un angolo nascosto. Quella routine andava avanti da tre lustri, ormai: tutti gli anni, il ventiquattro di ottobre, il signore e la signora Duncan varcavano la soglia dell’unica chiesa di Heatherfield per pregare, poi accendevano un cero in memoria di coloro che vennero uccisi nella terribile tragedia del maniero e se ne andavano nuovamente, con la tacita promessa di ritornare per il medesimo appuntamento l’anno seguente.
Da qualche tempo a quella parte, inoltre, il reverendo aveva notato che i due custodi parevano cercare di evitarlo il più possibile: e generalmente riuscivano anche nel loro intento, visto che l’anniversario di solito cadeva in qualche giornata festiva o in qualche domenica. Stavolta tuttavia avevano avuto la sfortuna di trovare la chiesa vuota, e con essa la possibilità che padre Randall li raggiungesse era notevolmente alta; probabilmente era per quello che i due coniugi si stavano guardando nervosamente intorno, timorosi forse di vederselo piombare alle spalle come un avvoltoio affamato.
L’uomo li spiò ancora un poco, pensieroso; com’era ovvio, sapeva che Pemberley ora ospitava due nuove inquiline, e trovò strano che esse non fossero venute a loro volta in chiesa. Certo, visto il loro status sociale era possibile che appartenessero a un’altra confessione religiosa, ma perché preferire la solitudine del castello alla possibilità di passeggiare nel villaggio e nella campagna circostante, e di fare la conoscenza con i paesani? Probabilmente, conoscendo Mrs. Duncan, tale invito non era neanche stato esteso alla giovane lady; e quest’ultima, in tutta ingenuità e buona fede, aveva dato loro il permesso di assentarsi dal loro luogo di lavoro per un giorno e una notte interi senza neanche avanzare qualche perplessità. Se solo avesse già avuto modo di conoscere questa misteriosa lady Moore che nessuno aveva mai neanche veduto in faccia, se si escludeva quello sciocco del dottor Carew, allora avrebbe anche potuto presentarsi a Pemberley con una scusa qualsiasi, ma così… Non poteva lasciare che una sua preoccupazione prendesse in tal modo il sopravvento sulle buone maniere e sulla delicatezza che doveva avere nei confronti di ciascuno dei suoi parrocchiani.
Comunque il rapporto che aveva con i Duncan era di ben altra natura, e andava oltre il semplice legame tra confessore e confessante; oltre a conoscerli da prima che si sposassero – cerimonia che aveva, peraltro, celebrato egli stesso – avevano faccende in comune di cui era bene di tanto in tanto discutere. Per questo motivo, aprì silenziosamente la porticina del confessionale e attraversò la chiesa deserta, raggiungendoli così in fretta che, quando infine si accorsero della sua presenza con un pallore che andava accentuandosi sui loro volti, era ormai troppo tardi per alzarsi e andarsene indisturbati.
«Buongiorno, Margareth. Randolph», li salutò a mezza voce, prendendo posto accanto a loro con assoluta noncuranza. La donna si mosse a disagio sulla panca, ma riconobbe la sua presenza con un breve e secco cenno del capo che venne subito imitato dal marito.
Il reverendo dovette trattenere un sospiro d’impazienza. «Sono lieto che abbiate deciso di farmi visita ancora una volta», proseguì, puntando lo sguardo sull’altare e giungendo le mani in grembo. «Mi fa piacere scambiare qualche parola con voi, sapete. Ed è una fortuna che non mi abbiate trovato impegnato in una delle funzioni, così posso dedicarmi interamente a voi.»
Mrs. Duncan sembrava decisa a portare avanti il suo testardo silenzio, ma l’anziano pastore non era uomo che si lasciava intimidire e scoraggiare con così poco. «Che cosa sta succedendo su a Pemberley, signora Duncan?» Aggiunse quindi, abbassando ulteriormente il tono di voce e spostando stavolta lo sguardo sui due custodi che si ostinavano – o almeno ci provavano – a ignorarlo. «Sapete bene che ho a cuore il vostro bene e quello del nostro comune amico, e gradirei se queste vostre brevi visite fossero devolute a mettermi a parte di ciò che avviene tra quelle mura. Soprattutto adesso, che vi sono nuovi pezzi nella scacchiera.»
A quel punto per Mrs. Duncan fu impossibile continuare a tacere. «Padre, vi prego, non chiedete. Avete cessato di avere il diritto di sapere quanto avviene al castello nel momento in cui ci avete lasciati al nostro destino», ribatté seccamente, senza distogliere gli occhi dall’altare.
«Non insultate la mia intelligenza, Margareth. Sapete bene che non c’è molto che io possa fare, se l’anima da salvare non vuole essere salvata», replicò egli con forza, trattenendosi dal picchiare il pugno contro la panca in legno. «Egli sa che può venire da me ogni volta che desidera, eppure sono trascorsi anni dalla sua ultima visita. Per questo motivo, se avete a cuore il suo benessere, voi mi direte che cosa sta macchinando!»
Fu il signor Duncan allora a prendere la parola, per la prima volta durante quell’incontro. «Vi prego di non rivolgervi in quel modo a mia moglie, padre, perché come vi ha già detto noi non vi dobbiamo niente», mormorò con la sua voce grossa e rauca. «Se vi fosse interessato davvero di noi e del vostro pupillo avreste tanto per cominciare potuto impedire che il padre lo vendesse a quella specie di squilibrato…»
La donna si guardò intorno con aria agitata, temendo che quella conversazione potesse essere udita da orecchie indiscrete, e rilassandosi leggermente non appena si fu resa conto che nella chiesa non erano rimasti che loro, ormai. «Questo non è in assoluto il luogo adatto per discuterne», intervenne nervosa, mettendo a tacere il marito e attirando lo sguardo del reverendo. «Padre Randall, avete avuto la vostra occasione. Ma il passato non si può cambiare, e se davvero vi importa di noi come dite, allora non vi impiccerete più di ciò che avviene al castello. Io e Dolph abbiamo la situazione sotto controllo», concluse, con un tono severo che non ammetteva repliche.
Ciò detto si alzò in piedi, e i due uomini si alzarono d’istinto a loro volta in memoria delle buone maniere. «Dunque, buona giornata», aggiunse, per poi prendere sotto braccio il marito e dirigersi frettolosamente verso l’uscita. Il reverendo Sibley rimase a guardarli, assorto, mentre un vago senso di inquietudine prendeva a farsi largo nel suo spirito: adesso aveva praticamente la certezza che a Pemberley ci fosse qualcosa che non andava – se c’era qualcosa di cui era capace, era leggere negli animi delle persone. Doveva solo scoprire che cosa.
Dal canto loro, i Duncan non avevano nessuna intenzione di lasciare che un altro estraneo si intromettesse nelle loro faccende. Erano scesi a Heatherfield come facevano ogni anno, nell’anniversario della tragedia, solo per poter rimanere lontani dal maniero in attesa che tutto fosse passato: l’esperienza gli aveva infatti insegnato che era meglio stare lontani da Pemberley in quella lugubre notte. Purtroppo, e questa era anche una delle ragioni che avevano spinto l’anziana governante ad andare in chiesa, quella mattina, non aveva potuto far niente per avvisare lady Emma e la sua istitutrice: non le avrebbero mai creduto, e con quale coraggio lei avrebbe potuto disubbidire così agli ordini degli abitanti del castello?



hjggxfh




Dodici rintocchi di un orologio a pendolo risuonarono sordi da qualche parte intorno a lei, strappandola alle spire di un sonno senza sogni. Era la prima volta che li udiva, e nel dormiveglia era indecisa se attribuirli alla realtà o a qualche rimasuglio onirico; nel dubbio, visto che ormai s’era svegliata, spostò le coperte da un lato e si mise a sedere sul letto, tendendo l’orecchio con attenzione per accertarsi che i rintocchi fossero cessati.
La camera, com’era ovvio, era immersa nel buio: dovette cercare a tentoni la lampada a gas sul comodino, per accenderla maldestramente finché la debole fiammella non rischiarò l’ambiente. C’era qualcosa di strano nell’aria, un’atmosfera di attesa, il presentimento che qualcosa dovesse accadere da un momento all’altro. Ogni rumore pareva essere stato risucchiato dalle pareti mentre il castello rimaneva immobile, in un silenzio ovattato, trattenendo il respiro, pronto all’esplosione.
Perfino il vento sembrava essere cessato, e dall’esterno non proveniva neanche più il frinire cantilenante dei grilli. Tutto taceva, in modo così definitivo che si sarebbe potuto udire un ragno tessere la tela.
Quel silenzio era spaventoso.
E poi, così com’era giunta, la quiete cessò: i comuni rumori della sera ripresero, sotto forma di scricchiolii del legno, di fruscii leggeri e del frullio d’ali di uccelli notturni. Perplessa, Emma rimase seduta, tendendo l’orecchio verso la porta, sperando quasi di udire bussare da un momento all’altro per poi osservare il viso assonnato e stanco di Mrs. Duncan e udire la sua voce rassicurarla sul fatto che non vi fosse nulla di cui avere paura, e che i rumori che aveva udito li avevano fatti loro rientrando nel maniero. Ma ciò non accadde; e prima che potesse capire cosa stesse accadendo, una forza estranea, invisibile, l’attirò verso sé al pari del serpente che esce ondeggiando dalla cesta al suono del flauto del proprio padrone, ed Emma si ritrovò trascinata lontano dal letto, verso la porta della camera, e poi fuori, nel freddo corridoio, non completamente in controllo del proprio corpo. Non sapeva dove stava andando, non sapeva neanche perché si stesse muovendo, ma al momento la sua mente era annebbiata da una volontà estranea e non era abbastanza lucida da mettere in discussione l’urgenza della sua passeggiata notturna.
Si ritrovò così a percorrere l’intero corridoio fino a raggiungere l’estremità opposta, laddove Caledon aveva riposato solo qualche notte prima, e che adesso era misteriosamente illuminato come se qualcuno fosse appena passato ad accendere tutte le candele. Una delle porte era stata lasciata socchiusa – altra stranezza che Emma non si premurò di registrare subito – e d’istinto la sua mano scivolò sulla maniglia, spingendola in avanti per spalancare l’uscio e affacciarsi all’interno di una camera da letto esageratamente illuminata, con suppellettili bianche e dorate e pizzo in ogni angolo, avvolta dal fumo inodore di centinaia di candele
Incuriosita si guardò intorno, avanzando di qualche passo e cercando di ignorare la sgradevole sensazione di estemporaneità che emanava ogni oggetto della camera – finché una voce improvvisa non la gelò sul posto.
«Anne?»
Emma si bloccò sulla soglia della porta, sorpresa e incerta, poiché nell’entrare nella stanza non aveva notato alcuna donna. «Chi siete voi? Come siete entrata qui?»
La sconosciuta – adesso la vedeva bene – non la degnò di una risposta. Si alzò velocemente dallo sgabellino dello scrittoio, pallida e spaventata, con i capelli biondi scarmigliati e raccolti in una treccia – segno che stava per andare a letto – e si diresse verso di lei talmente tanto in fretta, come se scivolasse incorporea sul pavimento, che Emma indietreggiò d’istinto, spostandosi dalla sua traiettoria.
«Anne?» Continuò a chiamare, con un tono sempre più urgente. Si voltò di scatto verso Emma, e i loro occhi si scontrarono per un breve istante – eppure la sconosciuta sembrava non vederla, come se fosse in trance, o cieca. Il momento passò e la ragazza allungò una mano verso il pomello della porta, ruotandolo fino a farlo scattare e spalancare l’uscio: si precipitò nel corridoio come se stesse fuggendo dal diavolo in persona, con il nome di quella Anne ancora sulle labbra.
Rimase per un attimo indecisa sul da farsi – sarebbe stato più saggio rinchiudersi nella sua stanza, senza alcun dubbio, ma chi diavolo era quella donna che si aggirava per il maniero nel cuore della notte? – e alla fine optò per andarle dietro, non fosse che per scoprire come diavolo aveva fatto ad entrare a Pemberley.
Non dovette inseguirla per molto: la trovò poco dopo, inginocchiata in mezzo al corridoio sopra quello che doveva essere – buon Dio, no, non è possibile – un cadavere, immerso in una pozza di sangue.
«Dio mio, Anne», stava singhiozzando.
Emma era talmente sconvolta che rimase immobile a pochi metri da lei, pietrificata, incapace di distogliere lo sguardo da quell’orrendo spettacolo e ancor meno abile di comprendere qualcosa. Nello sforzo di trattenere il grido che premeva contro la sua gola per uscire, si lasciò scappare un gemito, e ciò fu sufficiente per attirare su di sé l’attenzione della sconosciuta.
«Guarda!» Strillò quest’ultima, il volto furioso rigato di lacrime e le braccia allungate verso di lei a mostrarle le mani macchiate di sangue. «Guarda che cosa ci ha fatto!»
In che razza di incubo era finita? Cercò di indietreggiare, terrorizzata, ma la sua fuga si interruppe quando la sua schiena si scontrò con un corpo, e due mani forti – incredibilmente forti – si strinsero sulle sue braccia, facendola voltare bruscamente e costringendola a guardare il nuovo intruso.
«Già, guarda che cosa ci ha fatto», ripeté lui, con un sibilo gorgogliante che pareva giungere dalle profondità stesse dell’inferno. Gli occhi di Emma vennero inevitabilmente attratti dal sangue che colava copioso da una larga ferita che gli apriva la gola da parte a parte, e andava a inzuppare un elegante completo scuro, da sera, come se l’essere – buon Dio, Emma non aveva idea di come chiamarlo – avesse appena partecipato alla cena del diavolo. Fu quella vista a farla strillare come non aveva mai fatto in vita sua, e persino lui dovette esserne sorpreso, perché rilasciò la presa sulle sue spalle talmente all’improvviso che lei crollò per terra, incapace di reggersi ancora in piedi.
Anche così, però, non si arrese – rimanere ferma tra quei folli era la cosa più sbagliata che potesse fare, così cercò di allontanarsene, strisciando a fatica sopra il tappeto che ricopriva l’andito, i piedi annodati nella stoffa della sua ingombrante camicia da notte. Respirava a fatica, con la bocca aperta, inghiottendo lacrime e gemiti; il cuore le batteva talmente forte che pareva di udire i rimbombi dei tuoni prima di un temporale, e sperò terrorizzata di resistere e non perdere i sensi fin quando non avesse trovato un luogo sicuro dove nascondersi in attesa del mattino, quando i signori Duncan sarebbero tornati alla tenuta.
Riuscì a raggiungere le scale, e lì si rizzò in piedi a fatica aggrappandosi al corrimano: dopodiché volse le spalle a quell’orrido spettacolo – forse nella vana speranza che potesse scomparire una volta che ne avesse distolto lo sguardo – e si precipitò giù per le due dozzine di gradini così velocemente che sarebbe bastato mettere un piede in fallo per cadere e rompersi l’osso del collo.
Senza ben sapere perché, d’impulso si diresse in biblioteca – come se quello potesse essere il luogo più sicuro di tutto il maniero. Attraversando corridoi e gallerie si accorse che ogni candela era stata accesa – da chi, per l’amor di Dio? – e ogni angolo del castello era illuminato a giorno da migliaia di piccole fiammelle: stranamente, questa luce non la rassicurò per niente, anzi, ebbe l’effetto contrario di accrescere il suo terrore. I domestici non erano in casa, dunque chi diavolo si era preso la briga di accendere ogni singolo candelabro?
Senza fiato per la paura e per la corsa, Emma si fermò davanti all’ingresso della biblioteca. Si aggrappò alla maniglia d’ottone come se fosse stata la sua ancora di salvezza e spalancò di scatto la porta, precipitandosi all’interno dell’immensa sala certa – o meglio, speranzosa – di poter essere al sicuro dalle terribili creature che vagavano al piano di sopra. Ma quando tuttavia aprì gli occhi su quello che sarebbe dovuto essere il suo porto sicuro, Emma trattenne il fiato, sconvolta, e si portò le mani a tapparsi la bocca per seppellire l’ennesimo grido.
Oh Dio, ti supplico, pregò silenziosamente, tra le lacrime, fa’ che sia solo un sogno. Fammi risvegliare!
Davanti a lei si era presentato un incubo di fiamme e disfacimento. Un terribile incendio divampava dappertutto – il fuoco divorava implacabile mobilio e suppellettili, facendo schizzare scintille in ogni angolo della stanza, e il fumo acre saliva in nere e pesanti volute fino al soffitto a volta, rendendo l’aria irrespirabile.
Gli occhi di Emma saettarono da una parte all’altra della biblioteca, increduli e terrorizzati; l’intera situazione era a tal punto fuori dall’ordinario che la fanciulla non riuscì neanche a pensare a una soluzione per porre fine a quell’inferno. E, dopotutto, che cosa avrebbe potuto fare da sola? Miss Radcliffe era ancora impossibilitata a muoversi, e nel castello non c’era anima viva a cui chiedere aiuto; forse, se fosse riuscita a raggiungere le cucine e a prendere qualche secchio d’acqua… Ma prima sarebbe dovuta scampare al fuoco.
«Non verrà nessuno a salvarti.» Una voce sconosciuta, mai udita prima, si levò al di sopra del crepitio delle fiamme, facendola sussultare. Apparteneva a un giovane elegantemente vestito che la fissava dal lato opposto della sala, ritto contro una colonna del camino, il viso ancora in ombra, nascosto alla sua vista.
«Chi siete?» Domandò Emma, tremante, cercando di aggrapparsi a quel breve barlume di realtà. «Come avete fatto ad entrare? Chiamate aiuto, vi prego! La mia istitutrice…»
Le parole le morirono bruscamente in gola quando egli iniziò ad avvicinarsi, lentamente, e lei poté iniziare a distinguere vari dettagli che prima le erano sfuggiti: il suo abbigliamento era sì ricco ed elegante, ma vecchio, impolverato, e fuori tempo; i polsini e il colletto della camicia erano ingialliti, e attraverso la giacca aperta si vedeva chiaramente la macchia scura che gli inzuppava il panciotto, nonché lo squarcio che partiva dallo sterno all’ombelico e che denudava persino la carne mutilata.
Emma non riuscì neanche più ad urlare; si limitò a fissarlo, agghiacciata, senza staccare gli occhi da lui e lasciandosi sfuggire il lento e inquietante sorriso che prese forma sulle sue labbra livide.
«Sei spaventata, fanciulla?» Chiese il giovane, andando a sedersi con noncuranza su una delle poltrone circondate dalle fiamme. Lei non rispose, pietrificata dal macabro spettacolo cui i suoi occhi erano obbligati ad assistere – il fuoco, come se non stesse aspettando occasione migliore, avviluppò il giovane trasformandolo in una torcia umana, eppure non un gemito provenne da lui, non un grido, non un richiamo d’aiuto.
Soltanto un’ennesima battuta sarcastica, una voce cupa proveniente da dentro le fiamme, un assaggio di inferno. «Dovresti esserlo. È saggio avere paura.»
Il grido che eruppe dalle sue labbra fu talmente forte e improvviso da indolenzirle le orecchie. Malgrado fosse paralizzata dallo spavento cercò di indietreggiare, allontanandosi dall’oscena visione sulla poltrona che aveva iniziato persino ad emanare un puzzo di carne bruciata, ma si accorse che era impossibile: le fiamme avevano iniziato a circondarla, qualche lingua di fuoco le aveva lambito la camicia da notte, e il calore era asfissiante, intollerabile. Strillò ancora, senza fiato, strillò fin quando non riuscì più a udire la sua stessa voce e la gola prese a dolerle dallo sforzo. Il fumo le aveva invaso la bocca, inaridendola, e gli occhi, facendoli lacrimare: Emma credette che sarebbe morta lì e ora, senza più rivedere suo padre, o miss Radcliffe, o Caledon. Per un attimo, stranamente – doveva essere il suo inconscio che si faceva beffe di lei – tale pensiero la riempì di sollievo: non si sarebbe dovuta sposare, in quel modo, sarebbe stata libera.
Ma a quale prezzo? Poteva forse recare un tale dolore a suo padre, a Caledon persino?
No, decise, guardandosi intorno con gli occhi sgranati, tossendo per liberare i polmoni da quel soffocante e acre miasma. No, non sarebbe morta. Non così, non adesso!
Eppure il suo corpo gridava pietà dal dolore, nello sforzo di respirare attraverso il fumo e di mantenerla sveglia, di non farla crollare; la gola bruciava a ogni colpo di tosse e ormai aveva l’impressione di avere cenere dappertutto, tra i capelli e tra i lembi della propria veste da notte. Cercò di tornare indietro, di raggiungere di nuovo la porta, ma le fiamme la circondavano da ogni lato e parevano volerla volontariamente imprigionare: non aveva più alcuna via di scampo.
In quel caos infernale avvertì l’esatto momento in cui il proprio corpo ebbe deciso di abbandonarla; lunghi tremiti le percorsero le gambe, un sottile velo di sudore gelido le ricoprì la pelle e il cuore accelerò al punto da sentirselo quasi premere sulla gola, portandole via il già debole respiro. Benché la sua mente desiderasse con tutte le sue forze lottare per farla rimanere sveglia, il suo fisico non le fu d’aiuto. Si sentì crollare su se’ stessa come un burattino al quale delle forbici crudeli avessero tagliato bruscamente i fili, e sarebbe rovinata sul pavimento come un corpo morto se qualcosa – qualcuno? – non avesse frenato la sua caduta.
Fece appena in tempo a rendersi conto che erano state due braccia ad avvolgersi intorno a lei con una presa solida e decisa, prima di perdere definitivamente i sensi.












___________________________________________________________________________
Note.
- Mére du Soleil: L'ho tradotta in francese perché la bambinaia era francese, ma in realtà questa è una cosa che mia nonna mi raccontava da piccola per non farmi uscire fuori casa di pomeriggio, in estate - probabilmente perché c'era troppo caldo e non voleva farmi venire un'insolazione. Diceva che "la mamma del sole" mi avrebbe portato via, perché era cattiva eccetera, e che di solito si manifestava nelle api - ah, cara vecchia saggezza popolare - e quindi, niente, mi convinceva a stare dentro casa. L'ho trovata una cosa carina da aggiungere, fa molto "tempi antichi", no?
- Il titolo del capitolo è un palese riferimento alla strofa di una canzone del musical The Phantom of the Opera.

___________________________________________________________________________

Angolo Autrice.
Lo sentite questo profumo? E' il profumo di un capitolo appena aggiornato! xD
Comunque, visto che siamo da parecchio senza sentirci, innanzitutto, bentornate! E, a chi tra voi è appena giunto su questi lidi, benvenuto! Aah, sono tanto contenta di essere tornata con un nuovo capitolo *_* Ovviamente, se sono riuscita a pubblicare entro quest'estate, dovete andare a ringraziare la mia cara Christine23, che mi ha minacc- pardon, volevo dire, ispirato ad andare avanti. u_u
Parlando di cose serie: anche se questa storia si trova nella categoria Noir, devo ammettere che è in assoluto la prima volta che cerco di scrivere qualcosa con dei temi così dark e misteriosi eccetera, e man mano che si va avanti con la narrazione in teoria "the darkness" dovrebbe crescere e crescere... Ma siccome sono alle prime armi, ecco, voglio farvi sapere che accetto consigli di tutte le nature e che, anzi, qualsiasi cosa possiate dirmi per indirizzare verso quel genere la mia scrittura è ben accetto, ecco! Detto ciò, spero che l'ultima parte del capitolo sia stata tutto sommato di vostro gradimento - personalmente è la parte che preferisco, ne sono molto orgogliosa in verità. *_*
Non ho granché da aggiungere: se avete dubbi o domande sentitevi liberi di farmele! Lo so che non ho mai tempo per rispondere alle recensioni, ma ho facebook sempre aperto, per cui se volete venire a trovarmi direttamente lì siete tutti i benvenuti. :)
E ora, una promessa: nel prossimo capitolo faremo finalmente la conoscenza della "Bestia"! Lo so che non vedevate l'ora ù__ù
Bene, con la speranza di essere all'altezza delle vostre aspettative, vi lascio! Ovviamente ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo, ossia Figlia di una Guerriera, Jolly J, Eva7, Berserksgangr, Sylphs e Se7f - le vostre recensioni sono una più bella dell'altra, siete splendide et meravigliose e non so davvero che cosa farei senza di voi! *___* E un grazie grande grande come sempre va anche a voi che seguite silenziosi, miei cari lettori *_* Lo so che ci siete, anche se fate i timidi. ù_ù
E ora, bon! Si va a cena :D Buon proseguimento di serata, buone vacanze e tante care cose! Ci sentiamo al prossimo aggiornamento ;)
Vostra, come al solito
Niglia.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Chapter 8. The Man with No Face ***


òiouiyutd



8
The Man with No Face
lkhjghfghj















There is so much comfort in the darkness.

Aveva sognato, quella notte, di essere ritornata ad Hambleton Abbey. Si era ritrovata all’improvviso nel verdeggiante giardino che circondava la proprietà, all’ombra degli ippocastani, le narici invase dal profumo dei rododendri, con il calore tiepido dei raggi del sole che invitavano ad abbandonare il riparo delle mura di casa e a trascorrere le giornate intere all’aperto. Il lungo recinto di siepi sempreverdi che correva intorno al perimetro di Hambleton riparava la veranda dal vento, ed era talmente lungo e fitto che doveva venir potato ogni giorno da una decina di instancabili giardinieri che usavano interrompere il loro lavoro e sfilarsi il cappello ogni volta che il conte passava loro accanto in silente supervisione, preceduto dai suoi cinque magnifici esemplari di Golden Retriever.
La nostalgia rese il ricordo di Hambleton ancora più dolce e straziante. Mentre passeggiava per il giardino, con la placida lentezza che è tipica del sogno, poteva sentire lo zampillo della fontana sul retro – la biblioteca dava esattamente su quel lato del parco – e l’abbaiare spensierato dei cani, e persino, se tendeva l’orecchio, il rumore attutito di tappeti che venivano sbattuti da domestici indaffarati. Uno sbuffo d’aria più prepotente di altri le avrebbe poi portato il profumo delle leccornie che la cuoca sfornava con una rapidità instancabile – crostate, pudding, creme, e ogni singolo dolciume che la fantasia umana poteva inventare – e in quei momenti sarebbe sgattaiolata nelle cucine, di nascosto, per assaggiare qualcosa con la complicità di Mrs. Lacy, che in verità attendeva il momento in cui Emma avrebbe varcato di soppiatto la soglia del mondo della servitù, come usava fare da bambina.
 Il sogno si confondeva alle memorie, ed Emma appariva e riappariva incomprensibilmente in ogni angolo di Hambleton, guidata dalla direzione che prendeva il suo subconscio. Adesso era nelle stalle, a porgere zollette di zucchero sul palmo della mano alla sua giumenta preferita, e il momento successivo si trovava in biblioteca, o nel salottino privato di lady Grantham. Là, con la coda dell’occhio, poteva quasi vedere sua madre così come amava ricordarla, intenta a leggere o rispondere alla corrispondenza, con quell’aria assorta e le labbra socchiuse a mormorare una qualche musica indistinta.
E tutte le finestre e le vetrate erano spalancate, sicché ogni stanza del castello era illuminata dai raggi del sole, e il profumo dei vasi che traboccavano fiori serpeggiava in ogni angolo, portando aria d’estate. Sembrava non esserci un solo angolo oscuro, ad Hambleton, a parte quella che era stata la camera da letto di Elizabeth e che era rimasta chiusa sin dal giorno della sua morte. Provava nostalgia anche per quella stanza, Emma, e nel sogno vi apparve al suo interno, e si ricordò di quando usava infilarvisi per dormire nel letto della sorella e sentire così meno la sua mancanza, nei primi tempi che avevano seguito la sua scomparsa.
Avrebbe tanto voluto poter aprire gli occhi e ritrovarsi a casa, nella sua camera d’infanzia, con suo padre e sua madre e sua sorella e i dolci di Mrs. Lacy e i bonari rimproveri di Mr. Logan, a organizzare feste e pic-nic nel parco e dimenticare così tutte le tragedie che si erano abbattute sulla sua famiglia…
Ma Hambleton era lontana miglia e miglia, Hambleton era in lutto, e lei non ci sarebbe tornata per chissà quanto altro tempo.


lhfdrtdyfuguh



Una pezzuola bagnata, fresca, le tamponava con delicatezza la fronte; ma, nel momento in cui diede cenno di essere sveglia, quella piacevole frescura cessò bruscamente, ed Emma avvertì nel dormiveglia un fruscio e un rumore attutito di passi che si allontanavano rapidi. Confusa e ancora stordita dal sonno, la giovane sbatté le palpebre e dischiuse gli occhi, ritrovandosi ad osservare la struttura di un baldacchino ricoperto da tendaggi scuri e rovinati: le ci volle qualche momento per realizzare di non trovarsi nella sua stanza, e quando questo pensiero prese forma nella sua mente Emma si rizzò bruscamente a sedere, spaventata.
La stanza in cui era stata trasportata nel momento in cui aveva perduto i sensi pareva qualcosa a metà tra un confuso ripostiglio e la tana di una creatura che non aveva nulla di umano, di naturale. Essa era enorme, circolare, e aveva l’aria di appartenere all’ala cinquecentesca del castello, con le nude mura in pietra grezza e l’assenza di carta da parati. La debole luce proveniente da due finestrelle poste in alto, vicino al soffitto, alla stregua di feritoie, scivolava sui spessi tappeti che ricoprivano il pavimento, sui candelabri che reggevano moccoli di vecchie candele, e su ninnoli e suppellettili di ogni forma, colore e dimensione che ingombravano ogni superficie disponibile come se ci si trovasse nel nido di una gazza ladra; ma ciò che catturò davvero la sua attenzione furono i numerosi ritratti appesi con cura alle pareti. Scivolando giù dal letto per avvicinarsi e saziare la sua curiosità, e avvolgendosi la coperta intorno al corpo poiché sentiva di avere il gelo nelle ossa, Emma vide che il soggetto ritratto non era altri che lei. E decine e decine di altre se stesse la fissavano da ogni punto delle pareti – bozze appena iniziate o disegni conclusi, a matita o a carboncino, nei quali lei sorrideva, oppure appariva seria, accigliata, distratta, o altri in cui era perfino addormentata – e lo spavento fu tale che dovette premersi le mani sulla bocca per reprimere un urlo, che si tramutò così in gemito. Qualcosa, nello sfoggio inquietante di quei dipinti, le riportò alla mente l’orrore della notte prima, e la gravità di ciò che le era successo la trafisse come un dardo.
Sì, ora rammentava: ancora non aveva deciso se si fosse trattato di un sogno o di un’allucinazione – perché pensare che fosse reale era una cosa inconcepibile – ma ciò che era certo era che qualcuno nel castello doveva esserci, qualche intruso, qualche malintenzionato che vi abitava in segreto, e che per forza di cose doveva essere il responsabile del suo recente rapimento. Qualcuno che l’aveva spiata dal momento in cui aveva varcato la soglia di Pemberley – il che spiegava anche la sensazione di disagio che aveva provato fin dall’inizio.
Cosa diavolo…
Un fruscio leggero alle sue spalle interruppe il pensiero a metà. Emma si voltò di scatto, stringendosi addosso la coperta come se quel fragile tessuto potesse proteggerla da qualsiasi cosa si fosse celata nel buio, e strinse gli occhi, trattenendo il respiro mentre faceva vagare lo sguardo su quella che apparentemente sembrava solo una stanza vuota. Ogni ombra le appariva minacciosa, e mai prima di allora aveva provato una così cieca e irrazionale paura dell’oscurità; avrebbe dato ciò che aveva di più prezioso per una sola candela accesa.
«C’è qualcuno?» Domandò, sforzandosi di non far tremare la propria voce e di assumere al contrario un tono autoritario. «So che siete qui, vi ho sentito. Mostratevi, se le vostre intenzioni sono oneste!»
Non giunse alcuna risposta, tuttavia, e il silenzio accrebbe la sua angoscia perché ormai Emma aveva capito di non essere da sola in quella stanza. Deglutì, udendo i battiti del proprio cuore rimbombarle nelle orecchie come tuoni, e indietreggiò lentamente, tornando verso quel letto che ora le sembrava l’unico angolo sicuro e adatto a fungere da rifugio.
Che cosa avrebbe potuto dire, per spingere chiunque si stesse nascondendo in quel buio a uscire fuori, a venire da lei, a spiegarle perché l’aveva portata lì? E se aveva a che fare con un pazzo, o con un criminale – si ricordava bene ciò che le aveva raccontato Sir Arthur, a proposito della tragedia che già una volta aveva avuto luogo tra quelle mura, e sinceramente pregava di non fare parte della successiva – ebbene, come ci si aspettava che reagisse? Che cosa voleva da lei, per l’amor del cielo?
Lacrime invadenti le inondarono allora gli occhi, rendendo sfuocato quel poco che vedeva dell’ambiente circostante. Non voleva piangere – non voleva mostrarsi debole – ma lo shock di ciò a cui aveva assistito la notte prima, reale o meno che fosse, unito al terrore di non sapere che cosa sarebbe stato di lei, era troppo da sopportare stoicamente e in silenzio.
E poi, proprio quando stava per perdere le speranze…
«Non dovete avere paura», mormorò all’improvviso una voce roca, priva di corpo, inciampando sulle parole come se fosse trascorso parecchio tempo dall’ultima volta in cui aveva parlato.
Emma si voltò verso il punto da cui le era parso che provenisse, ma attraverso il buio non riuscì a vedere né distinguere nulla. Rimase immobile accanto al letto, aggrappata ferocemente a una colonna del baldacchino come se ciò potesse in qualche modo servire a proteggerla. «Chi siete?» Esclamò subito; una rabbia che non credeva di poter provare la invase, rendendo la sua voce aspra e le sue parole seguenti impazienti e prive di indulgenza. «Fatemi la cortesia di farvi vedere!»
«Potreste rimpiangere questa vostra richiesta, milady», ribatté mestamente la voce, che stavolta sembrò giungere dal lato opposto della stanza come se in effetti fosse incorporea e inumana, e non costretta alle leggi della fisica di un corpo comune. Agitata Emma si voltò ancora, alla disperata ricerca della fonte di quelle parole, e fece persino qualche passo in avanti, ma i suoi movimenti non dovettero piacere alla misteriosa presenza che la fissava da chissà quale punto imprecisato.
«No, non muovetevi! Restate dove siete», sibilò infatti, perdendo per un istante la gentilezza che le era sembrato di avervi scorto. Obbedendo istintivamente per cercare di ingraziarsi chiunque egli fosse – giacché non vi era alcun dubbio che la voce fosse maschile – Emma rimase immobile, le mani leggermente sollevate con i palmi verso l’alto per dimostrare, ironia della sorte, che non aveva cattive intenzioni.
«Per favore», insisté con maggior dolcezza, decisa a venire a capo di quel mistero. «Venite sotto la luce.»
Dopo ogni sua frase seguiva un lungo silenzio, come se tutto ciò ch’ella diceva venisse accuratamente sezionato e studiato dal suo interlocutore alla ricerca di una falla, di un qualche significato nascosto, di un’incertezza che rischiasse di mettere fine a quell’eccentrica conversazione. Pareva quasi che fosse la voce ad avere paura di lei, e non il contrario – cosa parecchio assurda, se si considerava il fatto che era stata lei a venire rapita e portata in chissà quale anfratto del castello.
 «La vostra parola», replicò infine la voce, ora mortalmente seria e con un pericoloso tono di avvertimento. «Voglio la vostra parola che non cercherete di fuggire. Vi rammento che adesso potreste essere in mani ben peggiori delle mie, se ieri notte non fossi venuto in vostro soccorso.»
La giovane aggrottò la fronte, piuttosto perplessa – a che cosa si stava riferendo? Di certo ciò che lei aveva visto… che le era sembrato di aver visto… doveva essere solo un sogno, non era forse così? – ma non commentò, decidendo che ci sarebbe stato tempo in seguito per approfondire quei dettagli. Dopotutto la notte era ormai passata, poco importava in che modo, e ciò su cui doveva concentrare la sua attenzione era soltanto il momento presente. «Vi giuro che non muoverò un solo passo», lo rassicurò infine com’era ovvio, benché il suo caro istinto di sopravvivenza le avrebbe fatto sciogliere quella promessa in un battito di ciglia se la situazione si fosse dimostrata assai più pericolosa di quanto lei avesse previsto.
Dall’oscurità giunsero allora degli altri fruscii, come se il proprietario di quei sussurri le stesse girando intorno, alla stregua di un avvoltoio, forse per assicurarsi che davvero ella non avrebbe cercato di scappare; continuando a restare immobile con una forza d’animo notevole, Emma si lasciò pazientemente osservare, con la speranza forse che così facendo l’uomo le avrebbe ricambiato la cortesia. Poi, dopo un silenzio carico di aspettativa ed angoscia, i fruscii cessarono: e, quando infine osò sollevare lo sguardo dalle trame del tappeto che aveva fissato con tanta insistenza, i suoi occhi incontrarono per la prima volta quelli di colui che l’aveva rapita.
Fu incapace di soffocare il gemito spaventato che le salì in gola alla sua vista. Pur odiandosi per quella manifestazione di debolezza, Emma trattenne bruscamente il respiro e non poté fare a meno d’indietreggiare di qualche passo: davanti a lei, alto, cupo, avvolto di nero da capo a piedi, si ergeva l’uomo. Non fosse stato per l’assoluta mancanza di colore nel suo abbigliamento e per una maschera bianca che gli copriva il volto nella sua interezza lasciando intravedere solo gli occhi, sarebbe potuto sembrare un qualsiasi gentiluomo, vista l’eleganza e la cura che pareva aver investito nel suo aspetto. Eppure, il solo fatto di non riuscire a scorgere la più piccola porzione di pelle rendeva la sua persona inquietante e istintivamente pericolosa, e fu per questo motivo che Emma tacque, impaurita e sconcertata.
Occhi chiari, a quella distanza non avrebbe saputo dire se grigi o azzurri, la fissavano penetranti da sotto la maschera, omaggiandola con uno studio altrettanto minuzioso di quello che gli stava dedicando lei.
«Ebbene, milady», mormorò dopo un po’ la sua voce, leggermente attutita dalla maschera. «Potete dirvi soddisfatta adesso che mi avete visto?»
«Chi siete?» Chiese lei di rimando, cercando di venire a capo di quel mistero. Uno sconosciuto si trovava in casa sua, si permetteva di rapirla e rinchiuderla in chissà quale stanza, e si prendeva gioco di lei mostrandosi con quel ridicolo travestimento… Le sue gambe cedettero, incapaci di reggerla ancora, ed Emma si lasciò cadere sul bordo del letto. I suoi occhi non riuscivano a staccarsi dall’uomo di fronte a lei, in piedi nel piccolo cono di luce proveniente dalla piccola finestra in alto, immobile e silenzioso mentre lasciava tranquillamente che lei lo osservasse fino a memorizzarne ogni più minimo dettaglio.
«Sono il padrone del castello», fu infine la sua pacata risposta, annunciata come fosse un semplice dato di fatto impossibile da contraddire.
Quelle parole, che Emma trovò oltremodo arroganti, la riscossero dal torpore e risvegliarono in lei tutta la rabbia e l’indignazione che aveva provato al suo risveglio nel trovarsi in un letto che non era il suo. «Il padrone? Come vi permettete?» Sbottò irritata, incapace di contenersi. «Mio padre è il proprietario di Pemberley, signore. Forse avete preso questa casa a vostra dimora nel periodo in cui è rimasta disabitata, e non so che genere di pensieri possiate aver fatto, ma se volete evitare che vi faccia arrestare siete pregato di andarvene il prima possibile!»
In quel momento, fu come se tutta l’aria della stanza venisse risucchiata via per lasciare il posto a una pesante tensione che rese quasi difficile respirare. Emma vide chiaramente qualcosa cambiare nella postura dell’uomo, una certa rigidezza nelle spalle e lungo le braccia, e persino gli occhi parvero brillare di una luce estranea, aliena, infernale. E allo stesso modo lo vide lottare contro quel qualcosa che per un attimo lo aveva posseduto – egli strinse le mani a pugno con così tanta forza da far scricchiolare la pelle dei suoi guanti – e gli sfuggì addirittura un gemito che parve dolorante, prima che riuscisse a riacquisire la fredda compostezza che lo aveva caratterizzato dal primo momento.
Emma non aveva idea di che cosa fosse successo, non avrebbe neppure saputo spiegarlo, ma qualsiasi cosa fosse era di certo pericolosa e terrificante – anche lui ne sembrava scosso, d’altronde.
L’uomo prese un profondo respiro prima di rispondere, e quando lo fece a Emma parve di udire la sua voce tremare appena. «Vostro padre, signora, ha acquistato una dimora che non è mai stata in vendita», riprese, con un gelido autocontrollo che la terrorizzò più di un accesso d’ira. «Pemberley mi appartiene per diritto di nascita, e sappiate che non la cederò a nessuno finché avrò vita. Vi sono cose, tra queste mura, talmente orribili che vi farebbero perdere il senno, e che solamente io conosco e sono in grado di tenere a bada… Come peraltro dimostra la vostra disavventura della notte scorsa. O avete forse già dimenticato? No, certo che no, ma preferite credere che si sia trattato di un incubo piuttosto che accettare che ogni cosa che a cui avete assistito è stata reale come lo siete voi, e come lo sono io. Credete pure ciò che volete, ad ogni modo… non è per questo che vi ho portata qui.»
L’uomo fece un passo in avanti, e il movimento fu tanto repentino che Emma gemette, spaventata, e si spostò bruscamente al lato opposto del letto, cercando di mantenere una certa distanza tra sé e lo sconosciuto. Sorpreso a sua volta dalla reazione della giovane, e forse persino offeso da essa, egli si fermò, rimanendo immobile come fa il cacciatore per non spaventare il cerbiatto. «Vi ho già detto che non dovete avere paura di me», ripeté mestamente, con una pazienza e una strana gentilezza impossibili da spiegare.
«Come posso non avere paura», ribatté Emma, mascherando con la rabbia il proprio timore, «Se tutto ciò che so di voi è che mi avete portata contro la mia volontà in quella che suppongo essere la vostra camera? Non vi conosco, eppure voi dovete conoscere me, a giudicare dai miei ritratti che abbelliscono le pareti. Da quanto tempo abitate in questo castello, signore, e da quanto tempo mi spiate? E come se non bastasse, vi prendete gioco di me con quel ridicolo travestimento… Abbiate il coraggio di mostrarmi il vostro viso!»
«Purtroppo, milady, questo è qualcosa che non posso fare», replicò lui con il medesimo tono utilizzato in precedenza; sembrava quasi che soffrisse nell’essere costretto a contraddirla. «E vi prego di non chiedermelo più, per il mio e il vostro stesso bene.»
«Allora, vi prego, rispondete a un’altra domanda», insisté Emma, facendosi più baldanzosa man mano che vedeva che il suo misterioso ospite non sembrava volerla aggredire in alcun modo. «Perché mi avete portato qui? Siamo ancora nel castello, giusto? Ebbene, perché non vi siete limitato a riportarmi nella mia stanza?»
«Mmh. Sì, suppongo… Suppongo di dovervi una qualche spiegazione», iniziò con fare esitante, guardandosi intorno come se la risposta giacesse su un qualsiasi suppellettile. «Io… Ecco, ho ritenuto fosse più… prudente… portarvi in una parte del castello dove non avreste corso il pericolo di essere nuovamente attaccata. Siamo nell’ala Ovest, se ve lo state domandando. Qui potete considerarvi al sicuro.»
«Mi riesce difficile crederlo», replicò lei a mezza voce, senza staccare gli occhi da lui. Benché le sue parole cercassero in un certo di essere rassicuranti, il suo sforzo veniva malauguratamente reso vano da quella maschera, e dall’insistenza con cui si ostinava a tenere nascosta la sua identità.
«Non ha importanza che mi crediate o meno», ribatté l’uomo con aria improvvisamente seccata. «Quel genere di fiducia arriverà col tempo, spero.»
«Col tempo… Che cosa intendete?»
Egli raddrizzò la schiena e incrociò le braccia davanti al petto, diventando se fosse stato possibile ancora più intimidatorio. «Rimarrete qui per sette giorni», le spiegò con fermezza.
Emma aggrottò la fronte, interdetta. «E trascorsi questi sette giorni…»
«Sarete nuovamente libera di andare dove vorrete e di tornare alle vostre faccende, perché tra una settimana avrete imparato a non temermi e, mi auguro, a trovare interessante la mia compagnia. E allora tornerete di vostra volontà a trovarmi, e non ci sarà bisogno di ricorrere a questi ignobili mezzi», aggiunse più tristemente, come se non fosse del tutto certo che il suo piano avrebbe avuto un esito positivo e ne temesse, dunque, un tragico finale. «Ebbene, che cosa dite? Mi concederete questi sette giorni?»
«Io…» Mordicchiandosi le labbra e torcendosi le mani, la povera lady Moore non aveva idea di quale risposta dare. Forse, se si fosse mostrata compiacente e docile, ogni cosa si sarebbe risolta; e poi, una volta passati quei sette giorni, sarebbe potuta fuggire dal castello – avrebbe cercato un modo per portar via anche la povera miss Radcliffe, che ancora giaceva malata a letto – e andare a chiedere asilo a Sir Arthur, in attesa che Caledon o suo padre venissero a prenderla… Sì, doveva soltanto avere pazienza, essere forte; ma prima…
L’istinto ebbe la meglio sul buonsenso, e senza pensarci una seconda volta Emma sollevò una mano, intenzionata a strappare quello stupido travestimento e a fissare il volto dell’uomo una volta per tutte; era sicura che, privato della maschera, egli avrebbe perduto la sua arroganza e sarebbe stato costretto a confrontarsi con lei da pari a pari, perdendo così la capacità di ispirare quella sorta di sacro terrore. Ma purtroppo il gesto non passò inosservato ai suoi occhi attenti, ed egli reagì prontamente prima che lei potesse anche solo sfiorare con la punta delle dita la porcellana della maschera.
«Che cosa diavolo credete di fare?» Sibilò, la mano stretta ferocemente intorno al suo polso, come a voler dare maggior peso alle parole. «Ho detto che non avrete nulla da temere, milady, ma solo fintanto che lascerete questa maschera al suo posto!»
La rilasciò bruscamente, spingendola e lasciandola ricadere contro il letto. Si portò le mani al volto con un gesto meccanico e angosciato, come per accertarsi che l’inquietante oggetto fosse ancora al suo posto, e quando comprese che nulla era sfuggito al suo controllo tornò a fissare i suoi occhi furenti su di lei.
«Non mi importa della vostra risposta», ringhiò, con un lieve tremito nella voce. «Rimarrete qui perché io ho deciso così, e mi obbedirete, e mi porterete rispetto! E che Dio vi protegga se proverete ancora a toccare questa maschera.»
Quando uscì, richiuse dietro di sé la porta con un tonfo tale che fece tremare i cristalli del lampadario.


khdjfkglh


Mrs. Duncan aveva trascorso tutta la notte insonne, girando e rigirandosi nel lettino della locanda incapace di prendere sonno. Che cosa stava accadendo a Pemberley, pensò, mentre lei era al sicuro a diversi chilometri dal maledetto maniero? Quale tragedia stava prendendo forma tra quelle mura, ora che non c’era lei a prendersi cura della nuova padrona?
La lontananza, seppur breve in termini di tempo, le diede modo di impiegare le lunghe ore insonni della notte a riflettere su tutto ciò che era accaduto negli ultimi due mesi. L’arrivo di Lady Moore, e l’improvviso via-vai di visitatori, e il castello che si risvegliava come un mostro infernale dal suo lungo letargo, pronto ancora una volta a nutrirsi di povere anime innocenti… E lei, sciocca che non era altra, che lo aveva permesso, che vi aveva acconsentito!
Si era affezionata alla ragazza, sì, come non avrebbe potuto? Era giovane, era sola, e anche se godeva della vita agiata di un’aristocratica, a lei non era sfuggita l’espressione triste perenne che ombreggiava quei suoi begli occhi ambrati, e che svaniva raramente a meno che non ci fosse nelle vicinanze quell’adorabile bestiola che si era portata appresso. Provava un misto di tenerezza e compassione per quella ragazza – benché non potesse negare che talvolta l’avesse trovata davvero irritante, con certi atteggiamenti altezzosi che sfoggiava probabilmente per fingere di essere in grado di gestire una casa e la sua servitù. Ma poteva davvero biasimarla? Aveva trascorso abbastanza tempo al servizio dei nobili per sapere quale genere di educazione ricevessero le figlie femmine, il cui unico scopo era di contrarre un matrimonio che fosse conveniente più per il nome della famiglia che non per il loro benessere; sì, aveva ricchezza e una vita comoda, ma non sarebbe mai stata padrona della sua vita, padrona di fare ciò che voleva, di prendere le sue decisioni, perché avrebbe avuto in ogni caso un uomo al suo fianco che le avrebbe prese per lei.
E in tutto questo, la povera Lady Moore non solo doveva essere all’altezza del matrimonio con quel giovane che era giunto a trovarla, qualche tempo prima, ma era anche finita nel mirino del mostro che governava il maniero di Pemberley come sovrano incontrastato. E lei, che pure si vantava di essere una buona madre e una cristiana devota, non aveva esitato a lasciarla alla mercé delle creature che infestavano il castello, preferendo fuggire come una codarda anziché dimostrare un minimo di solidarietà e aiutare la giovane.
Non sarebbe servito chissà quale sacrificio, a dire la verità: sarebbe bastato avvertire sia lei che la sua istitutrice del pericolo che correvano nell’abitare a Pemberley, invece che mantenere il silenzio per paura della reazione del mostro, e forse adesso non avrebbe trovato tanto difficile prendere sonno.
A quel punto dubitava persino dell’aiuto che le era stato promesso dalla compianta Lady Nora, di cui non aveva notizie da settimane e che non si era data pena di metterla a parte dei suoi progetti. Certo, i morti non andavano disturbati né contraddetti, ma per l’amor di Dio! Avrebbe potuto almeno avere pietà di lei, e tenerla aggiornata!
Fu la voce del signor Duncan a distrarla, riportandola alla realtà di quel tiepido lettuccio. «Basta, mia cara, non ci pensare», mormorò la sua voce impastata dal sonno, preziosa ancora nel mare in burrasca che erano i suoi pensieri. «Ormai è troppo tardi per fare qualsiasi cosa.»
E Mrs. Duncan, rotolando di fianco con un sospiro e cercando nel proprio corpo un riparo dalle sue colpe che non poteva trovare, non poté che dargli ragione.


lkkhjgfgh


L’uomo mascherato l’aveva lasciata da sola – Emma non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso.
«Avrete modo di riflettere», le aveva detto prima di andarsene, come ripensandoci, con quella voce roca che faceva venire i brividi. «E di abituarvi all’idea di me. So essere molto paziente, vedete, e quando capirete che non avrete nulla da temere… da me… Allora, allora potremo riprendere il discorso.»
Non poteva rimanere con le mani in mano in attesa che l’uomo tornasse e decidesse che farne di lei; non si sarebbe arresa a quella sorte senza neppure fare un tentativo per sfuggirne. Per questo motivo mise a frutto le ore di solitudine che le erano state concesse, e mise a soqquadro l’intera stanza alla ricerca di un qualche oggetto da poter utilizzare come arma per aggredire lo sconosciuto qualora le sue intenzioni si fossero rivelate, in effetti, quelle di un mascalzone.
Inoltre, come se la natura stessa fosse giunta a darle una mano, aveva iniziato a piovere e ormai andava avanti da un bel po’, e l’acqua che scrosciava violentemente sulle mura e sui tetti creava un frastuono tale da soffocare ogni altro genere di rumore. Era il primo vero e proprio acquazzone della stagione invernale, nulla a che vedere con la pioggia sottile e quasi delicata che era caduta nelle settimane precedenti, e mai come allora Emma fu grata del suo arrivo: il trambusto dell’acqua che scorreva con la violenza di una cascata giù nelle grondaie in rame avrebbe coperto quei rumori che avrebbero potuto denunciare le sue intenzioni all’uomo misterioso, permettendole di coglierlo di sorpresa e di assegnare un esito felice al suo piccolo piano.
Così, quando la porta si riaprì e la sagoma del suo carceriere si stagliò sull’uscio, oscurando la debole luce proveniente dal corridoio, Emma cercò di scivolare il più silenziosamente possibile verso di lui, le mani strette intorno al ferro gelido del candelabro con la furia cieca della disperazione.
Accadde tutto in meno di un attimo: probabilmente intuendo che c’era qualcosa che non andava nell’aria – non avrebbe saputo spiegare in altro modo la prontezza dei suoi riflessi – l’uomo si voltò rapido verso di lei e con una presa salda e decisa le imprigionò i polsi, torcendoglieli con forza in modo da farle aprire le mani e abbandonare la presa sull’arma improvvisata. Il pesante oggetto cadde per terra con un clangore metallico, rotolando lontano dalle due figure; Emma si lasciò sfuggire un urlo soffocato di dolore e un singulto che era preludio di un pianto, ma egli non se ne curò, strattonandola con rabbia e spingendola violentemente contro il muro. L’essere sbattuta con tanta forza contro la durezza della parete le strappò l’aria dai polmoni, ed Emma boccheggiò senza fiato, terrorizzata fin dentro le ossa.
Testardamente, tuttavia, cercò ancora di divincolarsi dalla stretta e sollevò un piede nel vano tentativo di colpirlo, ma le gambe le tremavano e l’uomo riuscì facilmente a scansarsi, per poi infilare a sua volta una gamba tra le sue e bloccarle ogni genere di movimento futuro. Emma s’irrigidì a quell’indecente vicinanza, ma soffocò le urla che minacciavano di scapparle dalla bocca; qualcosa le diceva che gridare a quel punto sarebbe stato inutile, e avrebbe al contrario ravvivato ulteriormente l’ira dello sconosciuto.
«Ora, milady», sibilò quindi quell’oscura voce ansimante, orribilmente vicina al suo viso. «Che cosa credevate di fare?»
«Lasciatemi», riuscì a sussurrare, deglutendo a fatica. «Vi prego, lasciatemi…»
«E perché mai dovrei farlo, mh? Se non sbaglio avete appena cercato di uccidermi!» Le rinfacciò l’uomo con un tono vibrante che andava ben oltre la semplice definizione di rabbia, incastrandola tra il proprio corpo e il muro e sollevandole le braccia sopra la testa tenendogliele ferme con un’unica mano, qualora le fosse venuto in mente di tentare di aggredirlo una seconda volta. «E guardatemi, quando vi parlo! Come, siete così coraggiosa da tentare di assalirmi ma non lo siete abbastanza da tenere gli occhi aperti in mia presenza?»
Benché l’istinto le suggerisse caldamente il contrario, Emma si ritrovò a socchiudere le palpebre e a posare lo sguardo sulla maschera bianca sospesa a poche spanne dalla sua faccia, con gli unici buchi degli occhi a donare un briciolo di umanità a quello che altrimenti sarebbe sembrato una sorta di calco funebre. Quegli occhi lucidi bruciavano di follia e collera e c’era una luce, in essi, talmente maligna che le fece domandare se per caso non si stesse trovando al cospetto del diavolo. Neri come pece e altrettanto densi, i suoi occhi non avevano nulla di umano o gentile; parevano finestre affacciate su un abisso di oscurità.
Che strano, un pensiero la colpì all’improvviso, unico barlume di lucidità in mezzo alla confusione che aveva in testa. Avrebbe giurato… ma con il buio forse aveva visto male… che i suoi occhi fossero chiari?
«Ora», riprese lui, con quella voce bassa e raschiante. «Vi prego di non fare nient’altro di sciocco, milady. Sono venuto qui armato delle migliori intenzioni, vedete, ma come proseguirà la mia linea di condotta dipenderà interamente dal vostro comportamento.» Tacque, per fare in modo che le sue parole penetrassero a fondo nella testa della giovane, e poi riprese, con un tono assai più minaccioso. «Dovete capire, mia cara, che qui non siamo nel vostro mondo, dove basta una vostra parola o un vostro gesto per farvi obbedire da tutti; siete nel mio dominio… Qui le uniche leggi sono le mie, l’unico giudice sono io, l’unico sovrano e l’unico boia!» Aggiunse alzando pericolosamente il tono, chinandosi per torreggiare con la sua figura cupa e possente su di lei. «Farete bene a ricordarlo prima di cercare di aggredirmi una seconda volta.»
«Se voi non mi aveste rapita», ribatté lei a mezza voce, con un notevole sangue freddo. «Io non vi avrei aggredito.»
I lineamenti gelidi e immobili della maschera parevano prendersi gioco di lei, mentre essa celava come un prezioso tesoro le espressioni del suo proprietario. Le sue dita lunghe e sottili si strinsero attorno al suo collo, premendo leggermente in modo che lei comprendesse chi aveva il comando; non pareva volerle fare del male, non subito perlomeno, eppure non poté fare a meno di rabbrividire. Quella vicinanza era sconveniente sotto ogni punto di vista, e servì solo a rammentarle il fatto di essere completamente alla mercé di un folle che non aveva ancora chiarito ciò che aveva intenzione di fare con lei.
«Siete insolente», mormorò derisorio, piegando appena il capo di lato come per meglio osservarla. «Ma so che in realtà siete pietrificata dal terrore. Sento il battito del vostro cuore proprio qui», continuò, premendo con delicatezza il pollice nell’incavo della giugulare, rendendole difficile respirare. «Sembra il frullio delle ali di un uccellino in trappola… Non trovate?»
Poiché Emma non rispondeva, limitandosi a fissarlo con gli occhi sgranati, egli continuò imperterrito. «Ho cercato di essere gentile, con voi, e mi avete ripagato con questa reazione. Vi ho aperto la mia casa, siete stata libera di andare e venire a vostro piacimento, ho persino sorvolato sul vostro ficcanasare e sugli avvertimenti che avete tanto bellamente ignorato… E ora, secondo voi, non mi merito neanche un briciolo di gratitudine?»
«Gratitudine?» Lo interruppe finalmente lei, deglutendo a fatica. «Gratitudine… siete un pazzo! Quanto credete che ci vorrà prima che qualcuno si accorge della vostra presenza e della mia scomparsa? I domestici andranno ad avvisare la polizia, e mio padre… mio padre e il mio fidanzato staranno di certo per arrivare al castello!»
La breve e secca risata che provenne da sotto la maschera mise a tacere le sue deboli minacce. «Mia cara… Se sono pazzo, è soltanto perché ho trascorso troppo tempo da solo. Ma d’altronde cosa potete saperne, voi, di solitudine», sospirò amaramente. Le sue mani infine allentarono la loro stretta ed Emma venne liberata, non prima ch’egli avesse sfiorato con un’ultima carezza la pelle nuda del suo collo e la curva morbida dei suoi polsi. Indietreggiò di qualche passo, abbastanza da continuare a tenerla in suo potere e allo stesso tempo da lasciarle l’illusione della libertà. Rimasero immobili e in silenzio, respirando affannosamente, incapaci di distogliere lo sguardo e osservare altro che non fosse la persona di fronte a sé.
«Non vi chiedo molto», riprese l’uomo dopo la breve pausa, abbassando il tono come se ciò avesse potuto placare l’ira della giovane. «Come vi ho già detto, desidero soltanto la vostra compagnia. E se voi sarete gentile e paziente, come sospetto sia la vostra natura, non avrete di che temere: non alzerò un dito su di voi, a meno che non lo desideriate», il debole sorriso fu quasi palpabile nella sua voce. «Ma voi dovete promettere, e badate che le promesse sono una faccenda seria in questo castello!, che non alzerete un dito contro di me e che non cercherete di scappare. Finché mi tratterete con gentilezza, avrete gentilezza in cambio. Avete compreso?»
Emma si ostinò a tacere, ma non c’era molto altro che potesse fare per sfuggire intera a quella situazione; così si limitò ad annuire lentamente, piuttosto scioccata e con la mente ancora più confusa di prima. Per quanto tempo quel miserabile aveva intenzione di tenerla prigioniera tra quelle mura, in modo da soddisfare il suo desiderio di “compagnia”? E che cosa si aspettava da lei, esattamente? Non erano domande che avrebbe potuto fargli, purtroppo, anche perché nulla le assicurava ch’egli avrebbe risposto con sincerità. Per cui decise per il momento di assecondarlo, e di attenersi alle sue regole: era l’unico modo per essere al sicuro, a quanto pareva.
«Non so neanche il vostro nome», mormorò incerta, senza osare distogliere lo sguardo da lui.
Egli non rispose subito, forse valutando la necessità di metterla a parte di quel dettaglio; finché con uno strano verso gutturale che pareva una sorta di ghigno, disse: «Adam.» Il suo tono era forse troppo ironico, ma lei non vi diede peso, troppo scioccata nell’udire quel nome che aveva letto solo una volta, settimane prima, su una vecchia lapide ingrigita. «Potete chiamarmi Adam.»
Non le diede il tempo di fare altre domande; se ne andò in fretta, richiudendo la porta e facendo ruotare con studiata cura la chiave nella serratura, per tre volte, di modo che lei comprendesse che non sarebbe stato per niente facile fuggire.
Emma rimase nuovamente da sola, con l’ululare brusco del vento come unica compagnia.


kljhgfhj



Huntly Street, Inverness
Venerdì 21 ottobre.
Mia carissima Emma,
Vi scrivo come promesso appena sono giunto a destinazione, con la speranza che la mia lettera trovi voi e la povera miss Radcliffe in salute. Ah, la chiassosa e invadente presenza dei miei colleghi di studio già mi fa rimpiangere l’atmosfera familiare di Pemberley Manor che ho lasciato alle spalle, nonché la dolce compagnia della sua padrona di casa… Il ricordo della mia breve visita mi ha accompagnato durante tutto il viaggio in treno, mia cara.
E ora, lasciate che vi distragga ancora un poco dagli studi – sono certo che miss Radcliffe non me ne vorrà. La pensione dove siamo alloggiati è al limitare del paese, circondata più dalla campagna che da altri cenni di attività umana, e gli unici rumori che ci svegliano al mattino e ci cullano il sonno la notte sono quelli degli animali che pascolano nelle vicinanze, placidi e senza alcuna preoccupazione al mondo. La finestra della mia stanza si affaccia esattamente sul fiume Ness, e gode di una visuale meravigliosa degna della più strabiliante opera d’arte. L’edificio è piuttosto antico, risalente probabilmente all’epoca giacobita, in legno e pietra, massiccio e in qualche modo primitivo: credetemi se vi dico che mi sembra di essere tornato indietro nel tempo, nel momento in cui ho varcato la soglia. Mrs. Baird, la signora che lo gestisce, in un primo momento non aveva l’aria di apprezzare fino in fondo questa vivace comitiva di inglesi che hanno praticamente assalito la sua casa, ma ci sono bastati pochi giorni per conquistarla; adesso chiacchiera con noi volentieri, dopo cena, quando ci ritroviamo nel salottino davanti al fuoco, e da quando sono qui sono venuto a conoscenza di parecchie leggende scozzesi che sono certo adorerete.
Secondo Mrs. Baird, abbiamo scelto un ottimo periodo per la nostra scampagnata. A quanto pare, fra qualche giorno – per l’esattezza tra il 31 ottobre e il 1° novembre – gli abitanti di Inverness saranno tutti presi a festeggiare Samhain, una festività pagana che coincide con l’antico capodanno celtico e il cambio delle stagioni. Persino il reverendo parteciperà ai festeggiamenti, ci pensate? È una ricorrenza talmente radicata nelle tradizioni di questi luoghi, che persino i cristiani più ferventi si sentono a loro agio nel celebrarla. Ho come l’impressione che Mrs. Baird non ci abbia raccontato proprio tutto, e la colpa è da attribuire ai miei amici che, assai poco sensibilmente, si sono presi gioco di queste antiche usanze. Se me lo permetterete, mia cara, un giorno vorrei tornare qui insieme a voi – sono certo che sareste una compagna d’avventure assai più gradevole.
Un’altra storia – questa ve la devo proprio raccontare – mi ha colpito particolarmente per la sua ferocia, se così posso definirla. Come di certo sapete capita, talvolta, che nelle famiglie si abbatta la disgrazia della nascita di un figlio deforme, mostruoso nel corpo e malaticcio, che ha la sventura di sopravvivere al parto; ebbene, in questi luoghi la gente chiama questi bambini changeling, in quanto la leggenda narra che siano state le fate maligne a rubarli ai genitori e a sostituirli con uno dei loro. Mrs. Baird racconta, con una noncuranza disarmante, che questi bimbi vengono portati in cima a delle colline magiche e lasciati là al sorgere della notte, con dei fiori e una ciotola di latte per ingraziarsi la benevolenza del Wee Folk, e con la speranza che questi, mossi a pietà dal gesto, si portino via il bambino malato e restituisca quello che era stato rubato, presumibilmente sano. Inutile dire che ciò non avviene, in quanto la povera creatura muore durante la notte… Riuscite a immaginare una simile crudeltà, Emma, soltanto per giustificare e porre rimedio alla nascita di un figlio che non ha atteso le aspettative della sua famiglia?
Mrs. Baird dice che noi Sassenachs – significa “stranieri” – non possiamo comprendere l’importanza di queste tradizioni pastorali, e che neanche impegnandoci potremmo cogliere il valore che esse hanno radicato negli animi dell’intera popolazione. Per quanto mi riguarda, preferisco essere definito un ignorante straniero se l’alternativa è accettare così passivamente certe credenze: ritengo impossibile, all’alba di questo nuovo secolo, cullarsi ancora in simili superstizioni medievali!
Ah, sono costretto ad interrompere così questa lettera – Murray, vi ricordate di lui, non è vero? Lo avete conosciuto al ballo di lady Schonberg, il giovanotto alto, con capelli biondi e lentiggini e l’audacia di rubarvi un ballo proprio sotto al mio naso – ebbene, mi chiama per la cena; credo che il programma per la serata sia di mangiare fuori, in qualche altro locale tipico del luogo.
Raccontatemi di voi, mia cara Emma, rendete meno cupe le mie serate dandomi l’opportunità di leggere e rileggere le vostre splendide lettere. Come procede la vostra vita a Pemberley? Miss Radcliffe si è ripresa? Avete più avuto visite dal vostro interessante vicino di casa? Sapervi tutta sola in quell’immenso maniero mi rende nervoso e infelice, giacché preferirei essere mille volte al vostro fianco piuttosto che a miglia di distanza. Spero umilmente, dunque, che la mia lettera possa esservi di compagnia; e nell’attesa di ricevere vostre notizie, vi lascio a malincuore.
Con tutto il mio affetto, sempre vostro,
Caledon T. Hardy


Adam strappò ferocemente la lettera in tanti minuscoli pezzettini, gettandoli poi nel fuoco del camino senza alcun riguardo. La sua ospite non avrebbe mai letto quelle parole, per banali che fossero – non tollerava che qualcun altro le rivolgesse delle frasi tanto intime e affettuose, soprattutto se quel qualcuno altri non era che il patetico dandy che le aveva fatto visita, qualche settimana prima. Se non avesse avuto sue notizie, se avesse pensato di essere stata abbandonata dai suoi cari… ah, avrebbe potuto pensarci anche prima! Allora sarebbe stata di certo più bendisposta nei suoi confronti, più sensibile alle sue richieste, meno altera.
L’uomo mascherato sbuffò, ripensando alla sciocca lettera. “Sapervi tutta sola in quell’immenso maniero…” Ah! Non poteva sbagliarsi più di così! La fanciulla era tutto fuorché sola, e ci avrebbe pensato lui a tenerle compagnia – non aveva certo bisogno delle parole vuote di un giovanotto lontano. E poi, che irritazione tutto quel vago discorso sui changeling e sulle leggende scozzesi… Che cosa poteva saperne, un aristocratico viziato come lui, di superstizioni e maledizioni? E come osava prendersene gioco?
Se avesse saputo… Se avesse anche solo lontanamente immaginato…
D’istinto sollevò una mano e fece per portarsela al viso, ma le sue dita sfiorarono soltanto la gelida e sottile porcellana della maschera. Era talmente abituato ad indossarla, ormai – salvo quando era sotto il controllo dell’altro, allora non aveva alcun controllo né potere sulla propria volontà – che non la toglieva neppure nella solitudine; soltanto quando dormiva, e il buio lo circondava come un confortante bozzolo, osava privarsene. Lui stesso era arrivato a temere ciò che vi celava, e a rifuggire ogni superficie riflettente – si era sbarazzato con immensa soddisfazione di ogni singolo specchio presente all’interno del maniero, pur di non capitare anche solo per sbaglio davanti a uno di essi. Ma se non riusciva a tollerare il proprio aspetto, come poteva sperare che lei… No, era meglio non pensarci.
Raddrizzò le spalle, fissando con insistenza gli ultimi frammenti della lettera che si attorcigliavano e si annerivano con deboli crepitii, morbidamente divorati dalle fiamme. I suoi occhi parvero di brace, nel riflettere la luce calda del fuoco: demoniaci, si sarebbero quasi potuti definire.
Lady Emma avrebbe fatto meglio a iniziare a credere alle storie dei fantasmi, perché ci era finita dentro.









______________________________________________________________________________

Angolo Autrice.
E come vi avevo promesso, ecco a voi - finalmente, dopo secoli di attesa - il caro vecchio Adam! Dunque, che ne pensate? E' come vi aspettavate? Ho soddisfatto le vostre aspettative o - mannaggia! - le ho deluse? Fatemi sapere, muoio letteralmente dalla curiosità di sapere che cosa avete da dire al riguardo. *__*
Non mi dilungherò oltre in quisquilie: mi limito a ringraziare chi sta continuando a leggere, chi ha appena iniziato e chi ha recensito lo scorso capitolo (un grazie particolare dunque a dachedas, Jolly J e NinaTheGirlWithTheHat). Grazie, grazie, grazie mille per il vostro apprezzatissimo sostegno! Non so come farei senza di voi :')
Come al solito, per domande, curiosità o altro potete trovarmi su facebook. :)
Ci si legge al prossimo capitolo, speriamo che non sia fra troppo tempo! *Incrociamo le dita*
Un bacio e un abbraccio, sempre la vostra affezionata e grata
Niglia.


Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Chapter 9. Persephone Escapes ***


serhdf



9
Persephone Escapes
htrsrfdghfy












I signori Duncan erano rientrati a Pemberley Manor nella tarda mattinata del 26 ottobre, ormai certi di non correre più il pericolo di incontrare qualcuna delle anime in pena che attendevano quella particolare notte dell’anno per tornare ad essere visibili e cercare di terrorizzare gli abitanti mortali del castello. I due coniugi sapevano tuttavia che non era soltanto dei morti che avrebbero dovuto avere paura, quanto piuttosto dell’altro inquilino con cui condividevano il maniero, e che nel corso degli anni si era rivelato assai più pericoloso degli spiriti; ma per ora egli aveva il suo passatempo, e ciò avrebbe concesso loro un po’ di pace.
Ma a quale prezzo? Continuò ciò nondimeno a domandarsi Mrs. Duncan, il pensiero costantemente rivolto alla povera lady Moore. Non appena ebbe rimesso piede nel castello il primo istinto della donna fu quello di andare a controllare la stanza della giovane padrona – vuota e gelida, come aveva immaginato, con il letto sfatto e le braci fredde nel camino e le tende ancora chiuse – e poi salire in quella di Miss Radcliffe, dove l’istitutrice, ancora sotto l’effetto delle polveri che la signora Duncan aveva iniziato a somministrarle già nella settimana del loro arrivo, dormiva ignara il sonno dell’incoscienza.
Sembrava infine che il piano del padrone fosse perfettamente riuscito: ora rimaneva da vedere fin quando egli aveva intenzione di portare avanti la farsa.
Il giorno dopo, mentre Margareth Duncan e Lydia erano impegnate a spolverare di buona lena l’immenso ingresso del castello, dalle scale alle ringhiere, dai candelabri ai vasi e dalle statue alle finestre, quasi a voler scacciare con la pulizia infauste presenze – in tutto il piano terra risuonò il suono assordante ed elettrico del campanello, che per un attimo le lasciò stordite e confuse; la signora Duncan si era dimenticata quanto tempo fosse trascorso dall’ultima volta in cui l’aveva udito, mentre Lydia da parte sua era convinta di non averne mai avuto il piacere.
Posando dunque lo straccio e cercando di darsi una sistemata all’acconciatura scarmigliata e alla gonna impolverata, la governante attraversò rapida l’atrio e raggiunse il portone, togliendo i vari catenacci prima di spalancarne un’anta. Quando i suoi occhi si posarono sull’inattesa persona di Sir Arthur Carlisle, amico per così dire della sua giovane padrona, la donna dovette usare tutto il suo ferreo autocontrollo per non manifestare il disagio e l’irritazione che quella visita aveva risvegliato.
«Buongiorno, Sir Carlisle», lo salutò dunque con un breve inchino, riuscendo persino ad accennare un sorriso. «Chiedo scusa per le condizioni in cui mi trovate, ma stavamo riordinando; desiderate?»
Senza attendere che la donna lo facesse entrare, egli la scansò gentilmente e fece qualche passo all’interno della casa, levandosi il cappello e fermandosi quasi subito non appena vide di essere capitato in piene pulizie. Accennò un saluto a Lydia, che tornò rapidamente alle sue faccende, e poi si rivolse di nuovo a Mrs. Duncan. «Sono venuto a trovare lady Moore. È in casa, suppongo?»
Mrs. Duncan non batté ciglio. «Oh sì, signore, ma non può ricevere visite: sfortunatamente, milady è indisposta. Non è scesa neppure per colazione, e io e Lydia ci stiamo prendendo cura di lei. Solo un’infreddatura, normale in questa stagione… Forse è meglio che torniate un altro giorno.»
Sir Carlisle appariva ben poco convinto, ma non era in suo potere forzare la mano alla governante e imporsi alla padrona di casa senza essere desiderato. Diede un’occhiata intorno nel foyer deserto e annuì brevemente, pensieroso. «Desiderate che faccia venire qui il dottor Carew?»
«Oh no, no, io stessa l’ho proposto a milady ma ha detto che non era il caso di scomodarlo. Davvero, signore, nulla di cui preoccuparsi», insisté Mrs. Duncan. Poi, vedendo che il gentiluomo indugiava ancora e si guardava attorno con aria assorta, la donna continuò. «C’è qualcosa che volete che riferisca a milady?»
Egli si riscosse dai suoi pensieri e tornò a dedicare l’attenzione alla governante, annuendo appena. «Mh, sì. Potete dire a lady Moore che ero venuto a invitarla a pranzo ad Ashfield, giacché mia moglie desidera fare la sua conoscenza; ma che considerate le sue condizioni di salute, forse dovremmo fare un altro giorno. Sì, potete riferirle questo, e ditele anche che le auguro una rapida guarigione.»
«Molto bene, signore, glielo dirò», garantì Mrs. Duncan. «Sono sicura che milady apprezzerà l’invito.»
«Sì… sì. Molto bene. Credo sia ora di andare, ho già disturbato a lungo il vostro lavoro», disse infine con un breve sospiro. «Grazie per la vostra pazienza. Buongiorno.»
Indossò nuovamente il cappello e ne sfiorò il bordo in segno di saluto, dopodiché lasciò le due domestiche alle loro faccende. C’era ancora qualcosa che non gli tornava, in realtà, ma che cosa avrebbe potuto fare? Insistere di vedere lady Emma sulla base di un discutibile istinto e contagiato dalle sciocche superstizioni che si sussurravano al villaggio?
Si era allontanato solo di pochi passi quando, obbedendo a uno strano impulso che non seppe spiegarsi, si fermò all’improvviso e si voltò verso il castello, studiandone la facciata con aria assorta. Per un po’ non trovò nulla di strano – solo la stanca pesantezza di un edificio sul quale gravavano secoli di storia, così antico che avrebbe di sicuro visto l’ascesa e la caduta di numerose altre generazioni, circondato da un cupo cielo grigio di ottobre denso di umidità e da un’aria di inevitabile mistero. Onestamente, non era difficile comprendere come mai fosse al centro di così tante storie del macabro e dell’occulto – ma, per sua natura, Arthur Carlisle si vantava d’essere un uomo dall’animo scettico.
Eppure sussultò quando, in una delle finestre più alte, forse quarto o quinto piano, il suo sguardo notò qualcosa. Un’ombra, la vaga sagoma di una figura umana – da quella distanza non avrebbe potuto essere più chiaro – e poi il rapido spostamento di una tenda che veniva richiusa bruscamente. Nulla di così allarmante, in fondo, poteva trattarsi di uno dei domestici… Ma ciò non spiegava il motivo della maschera bianca.
Guidato da un brutto presentimento, e cercando di ignorare l’improvviso brivido che gli aveva percorso la schiena, sir Arthur diede di nuovo le spalle a Pemberley Manor e raggiunse frettolosamente la sua automobile. Un’idea si era fatta largo nella sua mente, e aveva ogni intenzione di realizzarla.



hjgfchjb


Al suo risveglio Emma trovò una calda colazione ad aspettarla, posata sul comodino accanto al letto. Alcune candele erano state accese, in modo che potesse probabilmente trovare conforto nella luce, e su una poltrona era stato adagiato un abito da giorno: chiunque lo avesse preparato, e ormai ne aveva una chiara idea, doveva aver frugato nel suo armadio, giacché lo riconosceva per essere uno dei suoi. Non lo aveva ancora indossato da quando si trovava a Pemberley – non era nero, tanto per cominciare, e lei era moralmente obbligata a portare il lutto intero per almeno altri quattro mesi – il che le fece supporre che il suo ospite, o carceriere che dir si volesse, desiderasse vederglielo indosso.
Per quanto l’idea di indispettirlo e ignorare l’abito la tentasse, non avrebbe potuto fare diversamente: a meno che non volesse continuare ad indossare la camicia da notte per i seguenti sette giorni, dato che non le era possibile raggiungere la sua camera e i suoi averi, avrebbe dovuto limitarsi a sopportare i voleri di quel miserabile. Si alzò dal letto estraneo – pensare di aver dormito nel giaciglio di un uomo era terribilmente imbarazzante, e non aveva intenzione di sprecarci un altro pensiero – e si avvicinò al tavolino: il profumo del tè aveva risvegliato la fame che le serrava lo stomaco, e rammentò di essere digiuna probabilmente da più di un giorno.
Ma la fame passò nuovamente in secondo piano quando vide che sul vassoio, posato contro la teiera, c’era una lettera con il suo nome sopra. Incuriosita più dalla natura del contenuto che non dal mittente – giacché non aveva dubbi che si trattasse dell’uomo mascherato – prese il foglio e lo dispiegò, avvicinandolo alla fiamma della candela per distinguere meglio ciò che vi era scritto. Una prima occhiata alla calligrafia le bastò per svelare il mistero del biglietto che aveva trovato nella sua stanza, qualche settimana prima, e che aveva avuto la malaugurata idea di bruciare: dunque era stato sempre lui ad averle lasciato quella frase di Barbablù come monito – quella scrittura spigolosa e sottile, da bambino, leggermente inclinata verso destra da una mano molto probabilmente mancina, e l’eccentrico inchiostro rosso erano inequivocabili.
Milady, iniziava la lettera.

Mi auguro che abbiate dormito meglio della notte scorsa. Mi rendo conto che avete dovuto fare i conti con una realtà ben strana in così poche ore, e che questo può aver inciso sulla nostra conoscenza e reso il nostro primo incontro poco gradevole; per questo motivo vi invito a prepararvi non appena leggerete questa nota – vi informo che avete dormito tutto il giorno, e che non ho osato svegliarvi poiché avevate sicuramente bisogno di riposare.
Ah: accanto al letto, dietro una tenda, troverete la sala da bagno. Mi sono assicurato che ci sia tutto ciò di cui potete aver bisogno, per cui mettetevi pure a vostro agio.
Per cena sarete mia ospite: verrò a prendervi un’ora e mezzo dopo il vostro risveglio.
Il vostro amico,
Adam

«Sono finita nelle mani di un pazzo», sussurrò Emma scioccata, rimettendo a posto la nota sul vassoio. Ora, la fame le era passata del tutto: fissò con improvviso sospetto la teiera – e se avesse cercato di avvelenarla, o drogarla, per poterla avere completamente alla sua mercé? Dubitava che nelle intenzioni di quel folle ci fosse quella di ucciderla, dato che in tal caso non si sarebbe preso la briga di prepararle delle banalità come cibo e vestiti e l’occorrente per la toilette, ma il solo pensiero di ciò che avrebbe potuto farle approfittando della sua incapacità di ribellarsi la faceva inorridire. Che cosa poteva fare?
Doveva prendere una decisione al più presto, decidere in che modo sarebbe stato meglio affrontare l’uomo – Adam, diceva di chiamarsi, e avrebbe fatto meglio a prendere l’abitudine di rivolgersi a lui in quel modo, giacché avvolgerlo nelle tenebre di un’identità ancora più misteriosa non avrebbe fatto che accrescere il baratro di disequilibrio che già si era formato tra loro – insomma, decidere con quale approccio porsi. Come se non bastasse, poi, l’idea della cena la metteva in agitazione; sedere allo stesso tavolo con la stessa persona che aveva cercato di aggredire, e che l’aveva minacciata, e di cui non conosceva le intenzioni… Nulla di tutto ciò che aveva letto o studiato era servito a prepararla a un’eventualità del genere! Ma no, doveva restare calma: accalorarsi non sarebbe servito, anzi, aveva bisogno di tutta la freddezza di cui disponeva per poter rimanere lucida e studiare un modo per scampare alle sue grinfie e andare a cercare aiuto da qualche parte. Per cui, l’unica soluzione era assecondarlo: avrebbe ascoltato ciò che aveva da dirle, gli avrebbe fatto compagnia – che cosa ridicola, santo cielo! – dopodiché, quando egli avrebbe ormai pensato di averla completamente in suo potere… lei sarebbe fuggita!
Infiammata da quella nuova risolutezza, Emma prese una candela e si diresse verso la stanza da bagno.


kihugfyhdhgj


Esattamente un’ora e trenta minuti dopo il suo risveglio, Emma udì tre colpi secchi alla porta della camera – dubitava che fosse una richiesta per entrare, quanto piuttosto un modo per evitare di piombare dentro con il rischio di trovarla ancora mezzo svestita. O perlomeno questo sarebbe stato ciò che avrebbe fatto un comune gentiluomo. Mormorò un “Avanti” senza molta convinzione, e subito udì lo scatto della serratura che veniva aperta con gesti che parevano impazienti.
Egli entrò senza attendere oltre, fermandosi sull’uscio e reggendo davanti al viso un candelabro a tre braccia; a quella vista Emma si alzò nervosamente dal bordo del letto, lisciandosi le pieghe del vestito in un gesto che mal celava la sua angoscia, e osservando con la coda dell’occhio le ombre proiettate dalle fiamme delle candele sulla porcellana bianca della maschera, rendendola grottesca e raccapricciante. Sforzandosi di distogliere da essa la sua attenzione, prese un profondo sospiro; non avendo specchi non avrebbe saputo giudicare il proprio aspetto – vestirsi senza l’ausilio di una cameriera era un’operazione oltremodo scomoda e difficile, per non parlare dell’acconciarsi i capelli – ma malgrado ciò accennò un elegante inchino e raddrizzò la schiena, con l’aria di chi si prepara per la battaglia. Voleva apparire al meglio, quasi che con la sua raffinata disinvoltura avesse potuto intimidire il suo carceriere.
Se anche lui trovò sospetto quell’improvviso cambio di comportamento, così mansueto, non lo diede a vedere – non che si sarebbe potuto comprendere qualcosa, dalle espressioni assenti della sua maschera. Il solo guardarla la innervosiva, ed era ormai convinta che quell’oggetto immobile fosse assai più spaventoso e inquietante di qualsiasi orrendo segreto l’uomo stava cercando di nascondere. Decise comunque di non coinvolgere quella maschera nella conversazione, poiché aveva capito che si trattava di un argomento che lui – Adam – non trovava particolarmente di suo gradimento; e visto che Emma era giunta alla conclusione di cercare di non indispettirlo più del necessario, non ne fece menzione né cercò ancora di togliergliela.
Rimasero ad osservarsi in silenzio per un tempo più lungo di quanto raccomandasse l’educazione, forse cercando entrambi qualcosa da dire che rompesse il ghiaccio. Ma Emma aveva la lingua pietrificata – non avrebbe saputo dire alcunché neanche se da ciò fosse dipesa la sua vita – per cui fu lui a parlare per primo, e la sua voce risuonò chiara e tonante benché, in fondo, si fosse limitato a mormorare. «Se volete seguirmi, milady…»
Emma deglutì e lo raggiunse in pochi passi, nascondendo le mani tra le pieghe del vestito: si era accorta di star tremando, e non voleva che lui se ne accorgesse. Coraggio, sciocca, si riprese mentalmente, ignorando i battiti feroci del proprio cuore. Fingiti sicura di sé e padrona della situazione come hai sempre fatto. Non sarà poi troppo diverso dall’assistere a un ballo mondano, giusto? Perlomeno qui devi fare i conti con gli occhi avidi e indagatori di una sola persona.
Lasciò che l’uomo le facesse strada, seguendolo silenziosamente attraverso gli scuri corridoi dell’ala Ovest. Benché fosse già stata in quella parte del castello, Emma non poté fare a meno di considerare che, adesso, ogni cosa le appariva aliena, differente, come se la presenza del suo accompagnatore fosse capace di influire e modificare l’ambiente che lo circondava – rendendolo macabro e terrificante. Sollevò lo sguardo sulle volte e venne ricambiata dalle espressioni maligne e spaventose di gargoyle e mostri medievali, scolpiti probabilmente per scacciare oscure presenze dal castello: bocche spalancate e piene di zanne, volti mostruosi, bestiali, bulbi privi di iridi, ciechi e che tuttavia parevano seguirla nel suo cammino. Abbassò rapidamente gli occhi, ma ormai quelle figure erano impresse a fuoco nella sua memoria: di sicuro le avrebbe sognate. Dovette contraddirsi – non aveva mai messo piede in quegli anfratti, se ne sarebbe di certo ricordata.
L’ala Ovest doveva essere molto più vasta di quanto avesse immaginato.
Stava seguendo come una falena la flebile ma anelata luce del candelabro ch’egli teneva in mano, a scandagliare l’oscurità e aprir loro un varco nel buio; qualcosa, tuttavia, le diceva che Adam doveva essere ben capace di vedere attraverso di esso, e che quelle candele esistevano solamente a uso e consumo della sua ospite. Cercò suo malgrado di rimanere al passo con lui, perché l’idea di perdersi in quelle gallerie, di rimanere sola, era intollerabile – e persino la presenza minacciosa del suo carceriere era preferibile alla solitudine.
Il silenzio era una presenza ingombrante, rotto solo dal rumore dei loro passi, ma Emma non pareva intenzionata a spezzarlo: temeva di dire qualcosa che avrebbe potuto insultarlo o offenderlo – il suo umore era troppo volubile, e poiché egli aveva il coltello dalla parte del manico non voleva rischiare di risvegliare la sua ira come quel mattino – e ad ogni modo che genere di civile conversazione avrebbe potuto tenere con l’uomo che l’aveva rapita? Lasciandosi sfuggire un sospiro rassegnato cercò di accelerare il passo, dato che lui l’aveva inconsciamente distanziata di diversi metri e pareva proseguire a sua volta immerso in chissà quali pensieri, arrivando a dimenticarsi della sua presenza.
Forse, pensò Emma con vago trasporto, avrebbe potuto approfittare della sua distrazione per fare dietro front e provare a fuggire… se avesse corso come se avesse avuto il diavolo alle calcagna, cosa poi non tanto lontana dalla verità, forse avrebbe potuto raggiungere l’ala Est, e da lì a uscire da Pemberley sarebbero bastati pochi passi… Ma avrebbe dovuto fare i conti col buio, e con l’abito che le avrebbe rallentato i movimenti, e con il fatto che fintantoché si fosse trovata entro le mura del maniero sarebbe stata inequivocabilmente prigioniera del suo proprietario. Inoltre, anche ponendo il caso che fosse riuscita a uscire dal castello, dove contava di andare in piena notte, a piedi e da sola, nel bel mezzo della brughiera?
Il solo pensiero bastava a gettarla nello sconforto, e sospirò ancora.
 «Siamo quasi arrivati», disse a quel punto la voce profonda dell’uomo, probabilmente rispondendo al suo sospiro e fraintendendolo. Emma non rispose, e allora fu lui a sospirare; non aggiunse altro, limitandosi a voltarsi leggermente per accertarsi che lei lo stesse ancora seguendo, dopodiché proseguì.
Ciò le provocò un brevissimo ma mesto sorriso: non aveva per nulla intenzione di rendergli le cose facili, e se lui credeva che si sarebbe arresa senza neanche una parola di ribellione, ebbene, era chiaro che ancora non la conosceva.
Comunque Adam aveva ragione: non mancava molto. Alla fine di quell’ennesimo corridoio egli si fermò davanti a una porta non diversa da tante altre che avevano superato; spostò il candelabro dalla mano sinistra a quella destra e usò la prima per abbassare la maniglia – dunque aveva intuito bene, era mancino – per poi spostarsi di lato e voltarsi verso di lei. Le fece cenno di entrare per prima con quello che avrebbe voluto essere un gesto galante, ma che lei vide solo come il cenno del carceriere che intima al suo prigioniero di precederlo per evitare strani scherzi; e quando ebbe superato la soglia non poté fare a meno di sussultare nell’udire il tonfo minaccioso della porta che si richiudeva alle sue spalle. Cercando di non pensare al suo essere bloccata in una stanza insieme a un uomo di cui non conosceva neppure le sembianze, Emma si guardò intorno studiando il nuovo ambiente.
L’architettura di quella che era una sala da pranzo si differenziava parecchio dal resto del maniero che aveva già avuto modo di vedere. Essa era un piccolo gioiello di puro stile Tudor, con arazzi che ricoprivano le pareti e complessi intarsi di rampicanti sui pannelli di mogano che rivestivano queste ultime, per poi convergere nel punto focale della stanza incarnato dall’immenso camino in pietra: le fiamme vivide e danzanti del fuoco illuminavano la stanza creando ombre che si allungavano come spettri su ogni superficie, dando vita a una strana atmosfera a metà tra il sogno e l’incubo.
Eppure, la prima cosa che Emma notò non appena vi ebbe messo piede fu che il tavolo era stato imbandito lautamente per una sola persona. Era un tavolo piccolo e intimo, se paragonato a quello della sala da pranzo padronale dove aveva consumato i pasti da quando si trovava a Pemberley, ed era talmente ricolmo di cibo che avrebbe fatto venire l’acquolina in bocca persino all’uomo più sazio della terra: piatti pieni di frutta fresca e frutta secca si alternavano in un’altalena di forme e colori, teiere di salse e vassoi con patate bollite facevano a gara a occupare più spazio, rametti di fiori odorosi colmavano i vuoti e le fiamme dei due candelabri posti a centrotavola illuminavano le stoviglie d’argento facendole brillare come preziosi tesori. Tuttavia Emma aveva lo stomaco strettamente annodato, e dubitava che sarebbe riuscita a mangiare qualcosa anche malgrado il suo digiuno.
L’uomo la condusse verso il suo posto, scostandole la sedia davanti all’unico punto apparecchiato, e attese pazientemente ch’ella vi prendesse posto; dopodiché, con gesti fluidi ed eleganti, iniziò a servirla. Sotto lo sguardo perplesso e confuso della giovane, egli le versò il vino e le avvicinò un vassoio da cui si elevava un delizioso profumo – roast beef con patate dolci e brandy, un piatto che peraltro aveva già avuto modo di assaggiare grazie a Mrs. Duncan. Si mosse più per istinto che per bisogno, versandosi una piccola porzione di roast beef, e rimase poi ad osservare mentre il suo anfitrione si spostava per andare a sedersi a sua volta all’altro lato del tavolo, incrociando le mani sulla superficie lucida del legno.
Attese per un po’, incerta, prima di parlare. «Voi… Non mangiate?» Domandò, senza osare toccare il suo cibo. Malgrado tutto, le pareva una mancanza di educazione mangiare davanti a qualcuno che pareva ostinato nel suo digiuno – senza contare l’imbarazzo del venire osservata durante l’operazione.
Eppure egli sembrava tutto fuorché a disagio. «No», fu la sua risposta pronunciata in maniera quasi ironica. «Sarebbe difficile, considerando che non ho intenzione di togliere la maschera.»
Ah! – faceva persino del sarcasmo. Accarezzando con gli occhi tutto quel ben di Dio, un’altra questione di non scarsa importanza fece capolino tra i suoi pensieri. «Avete preparato voi tutto questo?»
Gli sfuggì un breve riso soffocato. «Sono abile in molte cose, milady, ma la cucina non rientra in una di esse.»
C’era qualcosa, nel tono della sua voce, nel modo che aveva di comporre le frasi, che lasciava intuire come la maggior parte di ciò che diceva avesse un qualche significato recondito, e con fini di dubbia moralità. Forse era solo la sua immaginazione a parlare, forse aveva letto davvero troppi libri come spesso le avevano rimproverato bonariamente sia Caledon che suo padre, ma l’idea non l’abbandonava. E, ancora, non osava prendere in mano le posate e mangiare.
Egli parve notare la sua ritrosia, ma se ne rimase offeso fu abbastanza gentile da non darlo a vedere. «Potete mangiare tranquillamente», disse soltanto, a bassa voce. «Non ho intenzione di avvelenarvi durante la cena.»
Più per una questione di principio – quale, non avrebbe saputo dirlo – che per timore di offenderlo ancora Emma prese in mano forchetta e coltello e iniziò a tagliare la carne invitante che l’attendeva paziente sul piatto; voleva fargli capire che non aveva paura di lui, o perlomeno voleva farglielo credere, e accettare il suo cibo era un modo come un altro per sostenere la sua posizione. Sempre in silenzio assaggiò il roast beef e le patate, sorseggiò il vino e provò il pudding, ma era più un piluccare nervoso che una vera e propria degustazione della cena.
Sentiva i suoi occhi addosso mentre masticava lentamente, gli occhi chini su un punto indefinito davanti a sé e le spalle rigide, all’erta, quasi che temesse di venire aggredita da un momento all’altro in quell’attimo di vulnerabilità. C’era qualcosa di terribilmente intimo nel mangiare davanti a qualcuno; e la faccenda della maschera rendeva il tutto ancora più indecente, poiché aveva l’impressione di essere spiata di nascosto in una situazione che sarebbe dovuta essere privata. Non sapeva neanche lei come descrivere quella sensazione senza apparire ridicola: sapeva solo che la faceva sentire a disagio.
Si sentiva come Persefone, costretta a nutrirsi dalla mano del temibile Ade e condannandosi così a non poter più lasciare l’Oltretomba.
All’improvviso, Emma decise che il silenzio era durato abbastanza. «Ho una domanda», esordì con cautela, posando coltello e forchetta a lato del piatto. Aveva a malapena toccato il suo cibo, ma per quanto esso fosse delizioso e il suo corpo lo bramasse, la nausea e l’ansia che provava le impedivano di mandar giù altro.
«Immagino che ne abbiate molte. Vi prego», la invitò, facendole cenno con una mano guantata di parlare liberamente.
Oh sì, ne aveva parecchie. Avrebbe voluto chiedergli di miss Radcliffe, di Aramis, persino dei domestici – che fine avevano fatto i signori Duncan? Possibile che non si fossero accorti della sua assenza, o che non ne fossero interessati? Ma, prima di tutto, era più curiosa di sapere a cosa diavolo avesse assistito la notte prima, quando lo shock l’aveva fatta svenire come non le era mai capitato.
Così, con un sospiro, la giovane si apprestò a dare voce a quel pensiero che non le dava pace. «Ieri notte… non so bene a cosa ho assistito, ma… Sono sicura… C’era un incendio, nella biblioteca? E quelle persone, santo cielo, chi erano? Come sono entrate qui?»
Adam la osservò a lungo prima di parlare, probabilmente riflettendo su quanto fosse opportuno rivelarle; lo vide giocherellare con i gusci di alcune noccioline, schiacciandoli tra le dita fino a non lasciare che briciole e polvere, finché con un sospiro non riportò lo sguardo su di lei.
«Ci sono cose che, milady, se ve le raccontassi, non vi farebbero dormire la notte», esordì a mezza voce, con fare pacato. «E non voglio che gettino ombra su una cena piacevole. Vi basti sapere che ciò che è accaduto la notte scorsa non si ripeterà, e che finché sarete sotto la mia protezione non avrete nulla da temere.»
«Non crederete che questo possa risolvere la faccenda», ribatté lei, sconcertata. «Sono stata aggredita in casa mia, ho visto delle persone – persone ricoperte di sangue, per l’amor di Dio – aggirarvisi liberamente e proferendo minacce, e voi mi dite che non ho nulla da temere? Per chi mi avete presa, signore, per una sciocca? Ho forse l’aria di esserlo?»
Emma non vide l’improvviso irrigidimento che aveva avviluppato l’uomo, ma non le sfuggì la sfumatura gelida della sua risposta. «Sapete che non è mia intenzione offendervi. Non ho a cuore che il vostro benessere, e se vi dico che fareste meglio a dimenticare ciò a cui avete assistito non è per prendermi gioco di voi, ma per evitarvi di venire a patti con qualcosa che non potreste capire.»
«Come fate a dirlo? Mettetemi alla prova, parlatemene! O finirò con il credere di essere diventata pazza, e di aver avuto delle visioni che mi perseguiteranno finché avrò vita», insisté lei, piegandosi istintivamente verso di lui come se avesse potuto raggiungerlo e istigarlo a rivelare i suoi enigmi. Non mentiva quando parlava di pazzia, poiché quella era al momento l’unica spiegazione plausibile che riusciva a darsi; in che altro modo interpretare quelle figure oscene, uscite da chissà quale incubo, mutilate e grondanti sangue e bruciate vive che vagavano indisturbate nei corridoi di Pemberley?
«Non vi siete ancora guadagnata il diritto di pretendere simili risposte da parte mia, milady», le rispose a quel punto, con un tono talmente velenoso da farla ritrarre d’istinto verso lo schienale della sedia. Un brivido la percorse, e le rammentò di quando le aveva fatto rimpiangere l’idea di aggredirlo – poteva quasi sentire ancora il fantasma delle sue dita intorno alla gola. «Sono ancora io il padrone, e mio è il privilegio di decidere di quali segreti mettervi a parte. Siete ancora scossa per tutto ciò che è accaduto, ne sono consapevole, e non vi biasimerò per questa vostra scarsa delicatezza; ma vi chiedo di non farmi altre domande al riguardo, perché non potrei sopportarlo.»
«Voi non potreste sopportarlo? Mi state chiedendo di accettare e basta un qualcosa che non comprendo e che mi terrorizza», gli rispose piano e con altrettanta freddezza, squadrando la sua maschera bianca.
«Sì», ammise lui senza fronzoli. «E vi chiedo perdono. Ma non c’è nulla che io vi possa dire, al momento; eppure sappiate che, se avrò ragione a potermi fidare del vostro giudizio, prima o poi ve ne parlerò di mia spontanea volontà... poiché sapervi spaventata o addolorata per qualcosa di cui sono involontariamente la causa mi riempie d’angoscia.»
Emma avrebbe voluto urlare dalla frustrazione. Credeva davvero che sarebbe bastato un po’ di carisma e fascino per ammansirla, per convincerla a dimenticare? Se c’era qualcosa che mal tollerava era venir trattata con quel genere di condiscendenza, come una bambina che non può comprendere i discorsi degli adulti e viene pertanto lasciata nell’ignoranza più assoluta. Era faticosamente riuscita a far perdere quel vizio a suo padre – che aveva iniziato a trattarla da pari solo durante la malattia della contessa di Grantham, quando Emma si era dimostrata più che capace di gestire situazioni drammatiche – mentre con Caledon la strada da percorrere era ancora piuttosto lunga, benché egli probabilmente si vantasse di avere un buon rapporto di uguaglianza con lei; e se non riusciva a sopportare quel comportamento da parte del fidanzato, figurarsi se poteva subirlo dall’uomo che la teneva rinchiusa e le imponeva la propria presenza!
Probabilmente il silenzio si era protratto troppo a lungo, perché fu di nuovo la voce dell’uomo a spezzarlo. «Ebbene, milady, non rispondete?»
Emma scosse piano la testa, senza guardarlo. «Come io non posso costringervi a dirmi qualcosa se voi non volete farlo, allora voi non potete impedirmi di essere infastidita e arrabbiata», ribatté sottovoce, certa comunque che lui l’avrebbe udita.
«Siete arrabbiata con me?» L’incredulità nel suo tono non celava alcuno scherno: sembrava sinceramente sorpreso e desideroso di comprendere. «Perché?»
«Perché?» Gli fece inconsciamente il verso. Poi, incapace di trattenersi oltre, esplose. «Ho trascorso un’intera giornata rinchiusa in una stanza che non mi appartiene, a domandarmi quale sarebbe stata la mia sorte, a chiedermi che cosa ne è stato della mia istitutrice, dei domestici, del mio cucciolo, e a ripercorrere minuto per minuto ciò che ho visto la notte scorsa, sperando… sperando di poter contare su di voi per avere qualche risposta sensata… E invece tutto ciò che siete riuscito a dire non ha fatto che confondermi ulteriormente e aggiungere domande su domande! E come se non bastasse, signore, il fatto che vi ostiniate a indossare quella maschera non contribuisce ad alleviare il mio disagio!»
Stupida ragazzina ingrata.
Adam sussultò, mentre parole estranee rimbombavano nella sua testa. Non si aspettava di udirle così all’improvviso e in una situazione di cui era sicuro di avere l’assoluto controllo; prima di farsi prendere dal panico distolse lo sguardo da Emma e serrò gli occhi, cercando di riprendere il dominio del proprio corpo con dei profondi respiri. Intanto, però, la voce continuava, sempre più minacciosa e aggressiva, e a nulla servivano le suppliche silenziose dell’uomo.
Non permetterle di parlare in questo modo! Lei non sa niente, niente!
(Taci, taci, oh buon Dio, taci, non osare dirmi cosa devo o non devo fare…)
Guardati, sciocco, guarda come ti stai facendo trattare! Le hai aperto la tua casa, le hai offerto protezione, e guarda come ti ripaga!
(Smettila… vattene!)
All’improvviso la voce si fece più morbida, suadente, parve accarezzarlo dall’interno del cranio e sfregarsi contro di esso come un gatto selvaggio che finge di fare le fusa prima di attaccare e mordere la mano del padrone.
Lascia che venga io, Adam. Lasciami solo con lei… le farò capire con chi ha a che fare! E tu avrai la coscienza pulita, come al solito, perché tu sai quanto io tenga a te e alla tua nobile morale…
(No, maledizione, è mia ospite! Mia! Hai già avuto la tua occasione, oggi, e l’hai sprecata!)
Ha cercato di ucciderci!
(Ah! Puoi biasimarla?)
Maledizione a te, ruggì stavolta la voce, con rinnovata ferocia. Non discutere! Se non sei capace di farti rispettare, lascia che lo faccia io!
(Ho detto no! Tornatene nella tua tana e lasciami in pace!)
Grazie ad anni di esercizio e a un’invidiabile forza di volontà, Adam riuscì a racimolare abbastanza energia per mettere a tacere quel mostro che lo divorava come un cancro, e che albergava nel suo corpo alla stregua di un demone che godeva nel vederlo agonizzare. Ansimò quando udì l’urlo di risentimento dell’altro, gemito che misericordiosamente venne celato dalla maschera; ma il dolore che seguì la momentanea sparizione fu tale che d’istinto si artigliò il petto attraverso i vestiti, come se così facendo avesse potuto arginare una ferita interna ancora sanguinante. Doveva essere veramente arrabbiato, rifletté confusamente.
«Mi… mi dispiace, che la pensiate così», riuscì a dire alla fine con notevole sforzo, rispondendo in ritardo al comprensibile sfogo della ragazza.
Quanto a lei, Emma aveva assistito in silenzio a quello scambio senza poter neanche lontanamente immaginare che cosa stesse accadendo in realtà; tutto ciò che poté vedere fu l’uomo tremare come se stesse trattenendo un’ira tanto grande e mortale da roderlo dall’interno, e per un attimo – breve e vergognoso – fu divisa tra terrore e preoccupazione. Ma per quale motivo avrebbe dovuto preoccuparsi? Per quello che poteva saperne lei, poteva trattarsi solo di un trucco – un trucco per impietosirla e renderla più bendisposta nei suoi confronti, nei confronti del povero sfortunato Adam che lottava con se stesso e non chiedeva che un po’ di comprensione.
Invece di rispondere e continuare quello che sarebbe di certo sfociato in un ulteriore alterco, la giovane preferì passare ad altri discorsi. «I vostri occhi sono azzurri», riprese dopo una piccola pausa, in maniera quasi accusatoria.
Non potendo vedere le sue espressioni, Emma poté solo immaginarlo mentre aggrottava la fronte. «Mi complimento per il vostro spirito di osservazione», mormorò, perplesso dal rapido cambio d’argomento.
«Ero convinta che fossero neri. Mi sono sembrati neri, questa mattina», insisté lei, ormai non più intimidita dal suo tono gelido e seccato. Era come se, adesso che aveva mangiato alla sua tavola, si sentisse all’improvviso al sicuro – merito forse dell’usanza antica di secoli secondo cui un ospite che era stato accudito e nutrito sotto il tetto del suo padrone di casa poteva considerarsi sacro.
«Al buio vi saranno parsi scuri. Venite», disse poi, liquidando bruscamente l’argomento e portandosi dietro la sua sedia con l’intento galante di scostargliela. «Vogliamo spostarci in salotto?»
Sembrava a sua volta deciso a non discutere con lei, e poiché Emma non aveva ancora idea di che cosa aspettarsi da lui né di come sarebbe stato meglio relazionarcisi, non poté che accettare il piccolo ramo d’ulivo.
Una porticina, quasi nascosta tra i pannelli di legno, collegava a mo’ di passaggio segreto la sala da pranzo a un salottino più piccolo: esso era dotato a sua volta di un camino acceso, due poltrone, un tavolino quadrato con una scacchiera le cui pedine erano pronte alla battaglia, un mobiletto porta liquori, altri arazzi e vari candelabri in ottone.
«Fate attenzione ai gradini», l’avvisò con solerzia la sua voce, proveniente da qualche punto dinnanzi a lei. Presto la penombra del nuovo ambiente si dissipò, man mano che Adam accendeva le candele, ed Emma poté vedere meglio ciò di cui aveva solo indovinato le ombre. Ora notò un altro tavolo, ricoperto da un consumato panno rossiccio, su cui erano ordinatamente posati un mazzo di carte, un servizio da tè in argento e una scatola in legno che di sicuro conteneva sigari.
«Desiderate del caffè?» Le domandò, accennando alla teiera – ora lo notava – fumante.
Sembrava che conoscesse ogni suo gusto, notò. «Sì, grazie.» Lo osservò di sbieco mentre versava la bevanda bollente in due tazzine, per poi lasciar cadere con sicurezza una zolletta di zucchero in quello che le porse. Sì, decise aggrottando leggermente la fronte, decisamente conosceva i suoi gusti. Dunque aveva trascorso davvero le scorse settimane a spiarla, e trovò assurdo riconoscere di non essersi mai accorta di nulla.
Terminò di bere il caffè e si sentì d’un tratto più rinvigorita, più lucida: il calore e il gusto leggermente amaro presero a scorrerle nelle vene rinforzando la sua determinazione. Senza aspettare un’altra parola dal suo misterioso compagno si avvicinò a una delle poltrone, e vide sulla seduta il piccolo tomo grigio che pareva non attendere che lei. Emma prese con gentilezza tra le mani il volume dalla copertina lisa e leggermente sbiadita, come di un libro stanco di essere letto, e lasciò scorrere gli occhi su titolo e autore con un sopracciglio inarcato: L’isola del tesoro, di Robert Louis Stevenson.
«Uno dei miei primi libri», le spiegò a mezza voce Adam con un tono che pareva quasi affettuoso, prendendo posto accanto a una delle poltrone in attesa che lei si sedesse per prima. «Vi dispiacerebbe leggerlo?»
Lei lo guardò, perplessa. «Dovrei… leggere ad alta voce?»
«Se non vi aggrada, milady, l’alternativa è di conversare con me.» Il suo tono nascondeva un che di beffardo, ed Emma riuscì a cogliere l’accenno di sfida in esso: peccato che non avesse voglia di raccoglierla.
«Molto bene», ribatté, piuttosto seccamente. Non aveva intenzione di chiacchierare del più e del meno con quell’uomo come se fosse stata la cosa più normale del mondo, fintanto che lo poteva evitare; inoltre, come aveva già dimostrato la cena, conversare con lui si era rivelata una cattiva idea. Voleva evitare di dire qualcosa di cui si sarebbe potuta pentire il giorno seguente, se possibile. «Stevenson, dunque?»
Egli non rispose, limitandosi a un cenno affermativo del capo, ed Emma prese posto sulla poltrona posta di fronte alla sua aprendo il libro direttamente al primo capitolo. Non aveva idea che il suo ospite nutrisse simili gusti in fatto di lettura – chissà perché si era fatta l’idea che gradisse di più saggi o testi filosofici e fisici piuttosto che romanzi da tempo libero – e per un attimo tale scoperta glielo rese assai più umano e rassicurante di come lo avesse considerato fino a quel momento. Quanto poteva essere cattivo un uomo che apprezzava romanzi su bucanieri e tesori nascosti e ragazzini spauriti? Sollevò gli occhi brevemente per accertarsi ch’egli avesse a sua volta preso posto; e a quel punto, poiché aveva infine scelto di rispettare la sua decisione di assecondarlo, iniziò a leggere.
«“Il signor Trelawney, il dottor Livesey e gli altri gentiluomini mi hanno chiesto di mettere per iscritto tutti i dettagli riguardanti l'Isola del Tesoro, dal primo all'ultimo, senza omettere nulla salvo la posizione dell'isola, e questo solo perché una parte del tesoro non è stata ancora portata alla luce…”»
Per tutta la durata della lettura, Emma sentì i suoi occhi addosso come se fossero state mani pressanti che sfioravano ogni centimetro del suo corpo. Si trovava in una situazione insolita con un personaggio ancor più singolare, e inizialmente non poté evitare alla propria voce di tremare e inciampare in qualche parola; era da parecchio che non leggeva per qualcuno – le ultime volte l’aveva fatto per sua madre, quando la donna era troppo stanca e provata dalla malattia per poter far altro che non fosse dormire e mormorare parole di tanto in tanto – e dunque aveva perso l’abitudine. Ma presto, merito della trama interessante del volume e della calma che si era impadronita gradualmente di lei, la sua lingua prese a scivolare abile su frasi e paragrafi e capitoli senza balbettare. In fondo, pensò, se questo era tutto ciò che egli voleva da lei non era poi così male.
Lei certo non poteva saperlo, assorta com’era nel libro, ma Adam l’ascoltava rapito come se avesse potuto abbeverarsi di ogni suono che le usciva dalle labbra, e non staccava gli occhi da lei per il semplice motivo che, in quel momento, la ragazza gli appariva così bella che sembrava intagliata in una perla; la luce del camino creava una strana aureola dorata intorno ai suoi morbidi capelli d’un castano scuro, e il calore delle fiamme le aveva arrossato le gote e la piccola porzione di pelle tra gola e clavicole lasciata nuda dall’abito che aveva scelto per lei. Teneva il libro leggermente sollevato e la schiena appena curva su di esso, come se avesse voluto entrare nella storia stessa: Adam comprendeva quella brama, e fu deliziato nel ritrovarla in lei. L’aveva osservata spesso nelle settimane passate, mentre leggeva nella biblioteca del maniero, ma sempre da lontano, sempre da qualche nascondiglio, timoroso di fare il più piccolo rumore e disturbarla. E adesso invece le era così vicino che se avesse allungato una mano sarebbe riuscito a sfiorarla… non che avrebbe osato farlo, ma comunque… Il solo pensiero di esserne capace era quasi sufficiente. A un certo punto le parole del capitolo iniziarono a diventare confuse ed egli perse ogni interesse per il contenuto di quel libro che conosceva a memoria, catturato dalla melodia della voce di Emma e talmente concentrato da aver inconsciamente regolato il proprio respiro al suo.
E per un attimo si immaginò mentre immergeva le dita tra quei capelli per saggiarne la morbida sericità, sfilando le forcine una per una e lasciandole cadere per terra, in modo che la sua chioma si liberasse in lunghe onde castane fino a ricoprirle spalle e schiena come un prezioso mantello; e poi massaggiarle con le punte dei polpastrelli il cuoio delicato della nuca per poi scivolare lentamente e delicatamente verso il collo – ricordava la sensazione di averlo sotto le mani, solo che ora immaginava un altro tipo di stretta, non minacciosa, non letale, ma sensuale, lasciva. Socchiuse gli occhi e si vide mentre le sue dita le scioglievano i lacci del vestito e poi quelli del corsetto, allentandoli e permettendo alla carne bianca di venire alla luce come un frutto maturo che viene sbucciato. Poteva persino udire il fruscio della stoffa mentre sfregava sulla sua pelle e scivolava con lentezza ai suoi piedi… La sua immaginazione plasmò impudentemente quel corpo che non aveva mai osato spiare – benché il suo desiderio fosse bruciante non sarebbe mai arrivato a tanto – e gli diede sostanza, colore, pienezza, fin quando non riuscì a percorrere con gli occhi della mente la linea sottile della sua spina dorsale, e le sue braccia non si avvolsero voraci intorno alla voluttuosità dei suoi fianchi. Pensò a come sarebbe potuto essere respirare il profumo dei suoi capelli e della sua pelle, e sentirseli piovere addosso nello slancio di una passione di cui avrebbe dovuto vergognarsi per il semplice averla desiderata…
Per un attimo le immagini furono talmente vivide che dovette stringere con forza i braccioli della poltrona alla ricerca di un appiglio sulla realtà, irrigidendo le dita contro l’imbottitura al punto da farsi male. Non poteva perdere il controllo. Se si fosse distratto, anche solo un momento – se avesse abbassato troppo la guardia allora nulla avrebbe potuto frapporsi tra lei e l’altro… E come aveva dimostrato il breve episodio durante la cena, lui era ancora troppo irritato dall’incidente con il candelabro di quella mattina per potergli permettere di prendere il sopravvento. Sarebbe bastato un solo passo falso per guastare quella labile atmosfera di pacata e dubbiosa accettazione, e per quanto gli era possibile avrebbe cercato di evitarlo. Emma doveva innanzitutto imparare a fidarsi di lui, e poi, in seguito, forse… se anche l’altro si fosse comportato bene… Beh, ci avrebbe pensato allora.
Per il momento preferiva tenere la ragazza tutta per sé.
Emma smise di leggere solo quando il prezioso orologio a pendolo suonò i primi rintocchi della mezzanotte. Sorpresa, poiché non aveva idea che fosse già trascorso tutto quel tempo, sollevò gli occhi dalle pagine del libro e si guardò brevemente intorno prima di realizzare dove e soprattutto con chi fosse. Il silenzio era tale, nella stanza, che si udiva solo il crepitio del fuoco, ed Emma si era quasi convinta di essere sola: ma di fronte a lei c’era ancora la solida presenza di Adam, che aveva istintivamente distolto lo sguardo non appena lei si fu risvegliata dalla trance indotta dal libro.
Chiuse il volume preoccupandosi di tenere un dito in mezzo alle pagine a mo’ di segnalibro, e raddrizzò la schiena per sgranchirla. «Si è fatto tardi…» Osservò piano, mentre l’eco degli ultimi rintocchi si perdeva come fumo nell’aria. Adesso avvertiva una certa sonnolenza calare sulle sue membra, benché avesse trascorso tutta la giornata a sonnecchiare e rimuginare a letto: poteva aver dormito, ma di certo non aveva riposato. E adesso quella stanchezza iniziava a farsi sentire, unita all’effetto del vino che aveva sorseggiato a cena e del calore quasi soffocante del piccolo salottino.
«Ah… sì», convenne lui, osservando brevemente l’orologio a pendolo. Sembrava essere indeciso su come concludere la serata, su cosa ci si aspettasse da lui in quanto anfitrione. «Volete… mh… Volete ritirarvi?»
Emma annuì, sperando di non contrariarlo. «Sono stanca», spiegò con cautela; la magia della lettura pareva essere cessata insieme ai rintocchi, come in una delle fiabe che le leggeva Lizzie quando era bambina, e tutto ciò che restava adesso erano due sconosciuti che si fissavano come gatti impauriti e diffidenti dai lati opposti della stanza. «E quel vino rosso, credo… Credo che mi abbia dato un po’ alla testa.»
Si alzò con movimenti goffi, come se non sapesse bene entro quale spazio muoversi, e poi si chinò di nuovo per posare il libro sulla poltrona, palesemente a malincuore.
«Oh, no, potete tenerlo», si affrettò a dirle Adam, alzandosi a sua volta e accennando d’istinto un passo nella sua direzione. «Se vi interessa, intendo. Io lo conosco già a memoria.»
«Oh», fece lei. Riprese il libro e lo tenne con cura tra le mani, annuendo appena. «Sì. Vi ringrazio.»
Senza più sapere che scusa inventarsi pur di trattenerla ancora, Adam si avvicinò a prendere uno dei candelabri e spense gli altri, dandosi una rapida occhiata intorno per controllare di non aver scordato nulla; lei lo osservò con fare distratto, accarezzando la copertina stranamente morbida del libro e pensando che, in fondo, la serata non era stata orribile quanto aveva preventivato.
«Vogliamo andare?» Le domandò a mezza voce, facendole cenno di precederlo verso la porta. Malgrado tutto gli fu grata che non le avesse porto il braccio mettendola nell’imbarazzante condizione di rifiutare – per quanto potesse comportarsi da gentiluomo, infatti, ciò non cancellava il modo in cui l’aveva indotta in quella stravagante situazione, e da parte sua aveva ancora parecchi scrupoli. Tuttavia lo seguì senza fiatare.
Stavolta a Emma parve che avessero impiegato meno tempo per raggiungere la sua camera da letto rispetto all’andata, o forse era talmente immersa nei suoi pensieri da non aver prestato la medesima attenzione al tragitto. Le sembrava di camminare in un sogno, stordita e confusa, cercando la logica in un luogo che ne era privo; adesso l’intera serata le pareva avvolta dall’ombra ovattata di una visione, come se non l’avesse davvero vissuta in prima persona ma attraverso gli occhi di qualcun altro.
Sempre con la medesima prospettiva osservò Adam fermarsi davanti alla porta della camera e spalancarla, attendendo che lei entrasse per prima – più per timore che a lei potesse venire l’idea di chiuderlo dentro e fuggire che per cavalleria, pensò – per poi seguirla e poggiare su un tavolino il candelabro.
«Questo lo lascio a voi, potrebbe servirvi», puntualizzò, indietreggiando di qualche passo.
Emma annuì, gli occhi puntati sulle fiamme danzanti delle candele come ipnotizzata. «Grazie», disse per l’ennesima volta; non credeva che si sarebbe ritrovata a ringraziarlo così spesso e nell’arco di un’unica notte.
«Buonanotte, milady», mormorò Adam con un inchino, prima di voltarsi e raggiungere la porta.
Lo scatto della chiave all’esterno risvegliò in lei ciò che per un momento si era concessa di dimenticare durante quello strano dopocena: la cupa consapevolezza di essere ancora prigioniera.

dhsgh


Prima di riuscire a prendere sonno – cosa oltremodo difficile, dopo l’incredibile serata che aveva appena trascorso – Emma si ritrovò a riflettere a lungo e a fare un punto della situazione. Il suo primo pensiero andò ai signori Duncan, con particolare interesse per la governante: la giovane iniziava a dubitare, infatti, che i custodi della tenuta fossero completamente all’oscuro che Pemberley fosse abitata da un personaggio tanto insolito. Intanto era sempre più convinta che la cena fosse opera di Mrs. Duncan – iniziava a riconoscere il tocco della donna nei vari piatti, benché non avesse mangiato molto quella sera – e di certo se dietro a tutto ciò ci fosse stato effettivamente il suo zampino molte cose avrebbero avuto una spiegazione. A partire dal suo monito di evitare l’ala Ovest il primo giorno in cui era arrivata a Pemberley, per finire con la sua fuga al villaggio proprio la notte in cui lei era stata rapita… Buon Dio, miss Radcliffe aveva avuto ragione per tutto il tempo, avrebbero dovuto avvisare suo padre! E adesso, invece, era da sola, da sola in un castello maledetto in mezzo alla brughiera, con l’unica compagnia di un uomo mascherato e di domestici ambigui che chiaramente lavoravano per lui… Persino Caledon era lontano, e sarebbero trascorsi un’altra decina di giorni prima che il suo fidanzato rientrasse dalla Scozia!
Per la prima volta, avvertì tutto il peso della disperazione e della solitudine gravare su di sé. Non trovava alcuna via d’uscita alla situazione, se non stringere i denti e assecondare il suo carceriere finché non si fosse stancato di lei e avesse accettato di lasciarla andare; oppure, oppure… L’alternativa restava sempre la stessa, ossia cercare un modo per fuggire. Ma come avrebbe potuto farlo, se lui non la perdeva di vista un solo istante e se la chiudeva a chiave in quella stanza senza altre porte né finestre?
Si addormentò piangendo, vinta più dalla stanchezza delle lacrime che dal sonno vero e proprio. E rimase così per poche ore, cullata da strani rumori provenienti da qualche punto sopra o tutt’intorno a lei – rumori di oggetti striscianti e ululati che avrebbero potuto appartenere ad animali o semplicemente al vento che soffiava attraverso imposte rotte o canne di camini. Dormì poco e dormì male, sognando maschere che la spiavano dall’oscurità e mani che si allungavano per ghermirla.

Nel cuore della notte, poco tempo dopo che anche l’ultima anima nel castello si fu addormentata, dei passi silenziosi scivolarono nel corridoio all’esterno della stanza dove Emma era rinchiusa. Essi si avvicinarono trepidanti alla porta, e mani pallide e delicate si posarono sulla maniglia opaca; una chiave apparve da sotto le pieghe di un mantello, e si infilò con sorprendente facilità nel buco della serratura. Uno scatto leggero, e la porta si aprì dolcemente.
La figura si avvicinò piano all’immenso letto a baldacchino somigliante più a un catafalco che non a un confortevole giaciglio ispirante sonni sereni, e si piegò appena sulla fanciulla addormentata senza aver bisogno di candele per distinguerne le linee del volto e la treccia gettata da un lato con un gesto infastidito. I suoi occhi vedevano bene nel buio e non gli fu difficile notare le ombre rosse attorno a quelli della fanciulla, le sue labbra piegate in una smorfia sofferente, le guance striate da lacrime ormai asciutte. Deglutì, intristito, e allungò una mano tremante verso di lei, fino a posargliela sulla spalla.
«Sveglia, signora», sussurrò, scuotendola con scarsa delicatezza. «Presto, sveglia.»
Quando Emma aprì gli occhi, strappandosi faticosamente alle spire del sonno, non riuscì a trattenere un gemito spaventato nel vedere il viso pallido e circondato da una zazzera scomposta di capelli biondi di Noah Duncan, il figlio dei domestici che ormai non vedeva da quando aveva messo piede a Pemberley. Era stato lui a svegliarla, benché nel sogno le era parso di udire la voce di Caledon, e sempre sue erano le mani gelide che le stringevano le spalle.
«Sssht!» Mormorò lui, gli occhi larghi e lucidi colmi di terrore. «Devi venire con me, signora, presto.»
«Come… come hai fatto a entrare?...» Domandò confusa, ricordando vagamente una porta che veniva chiusa a chiave e la sensazione di essere in trappola. Di certo, pensò, stava ancora sognando.
«Dopo, dopo», insisté lui, tirandola per un braccio per farla scendere dal letto. «Ora tu vieni!»
L’insistenza del giovane era tale che Emma non trovò quasi nulla di strano nello scostare le coperte e nell’abbandonare il caldo tepore dell’alcova, pronta a seguirlo docilmente. Egli le indicò i suoi vestiti gettati su una poltroncina, e le intimò con gesti vari di indossarli e di rimanere in silenzio.
«Stanotte andrai via, signora», le sussurrò piano, passandole l’abito con gentile premura.
Emma sgranò gli occhi, incredula: aveva udito bene? Noah la stava aiutando a fuggire, davvero? «Intendi… intendi che andrò via dal castello? Mi farai scappare, Noah?» Sussurrò di rimando, prendendogli le mani tra le sue e stringendole forte, come per accertarsi di essere sveglia.
Lui annuì, accennando un sorriso ma senza perdere lo sguardo terrorizzato. «Sì, sì. Presto, però.»
La ragazza non trovò nulla da dire per contestare, e ancora stordita dal sonno si rivestì alla bell’e meglio: non avendo niente di meglio da indossare, infilò l’abito da sera che aveva utilizzato per la cena, poche ore prima, direttamente sopra la camicia da notte, senza curarsi di indossare corsetto o sottoveste, e gli stivaletti senza calze, giacché non le usava per dormire. Sopra si gettò il mantello che le aveva portato il caro Noah, probabilmente in vista della fuga – rimpianse il suo bel cappotto con gli interni foderati, ma non c’era il tempo di raggiungere la sua camera e frugare nell’armadio: non aveva idea di quanto avesse a disposizione, visto che per quel che ne sapeva lei Adam sarebbe potuto essere proprio dietro l’angolo, pronto a riagguantarla.
Così lasciò che Noah la prendesse per mano e la trascinasse fuori, nel corridoio buio, correndo il più silenziosamente possibile e ringraziando tra sé e sé i tappeti che attutivano i loro passi concitati. Tramite le loro mani unite, Emma notò che quelle del ragazzo tremavano, sudate, e non poté fare a meno di provare una forte gratitudine nei confronti di quel poverino che, malgrado temesse il castello al punto da sfiorare la follia – e, sinceramente, ora come ora lei non si sentiva di biasimarlo – era comunque entrato, penetrando fino alla maledetta ala Ovest, pur di venire ad aiutarla. Non aveva idea di come avesse fatto a sapere di lei, né a sapere dove si trovasse, e tuttavia non le importava; oramai era circondata da tanto di quel soprannaturale che aveva smesso di cercare la logica in ogni cosa.
Noah la condusse alle scuderie tramite stretti passaggi che Emma non sarebbe riuscita a ritrovare nemmeno volendo; probabilmente era passato attraverso i corridoi dei domestici, ossia nelle lunghe e strette scale a chiocciola che si celavano dietro i muri e permettevano alla servitù di raggiungere tutte le stanze senza passare negli stessi anditi riservati ai padroni di casa. Ogni parete pareva celare un segreto: anche ad Hambleton vi erano simili spazi, ma chissà perché tutto a Pemberley pareva molto più infido e misterioso – persino le piccole cose di tutti i giorni alle quali Emma era abituata.
Il giovane le lasciò la mano soltanto quando raggiunsero il recinto di un cavallo già strigliato e sellato, il cui manto grigio e bianco spiccava come uno spicchio di luna nell’oscurità della stalla. Il meraviglioso animale era lo stesso che lei aveva preso per la sua piccola gita al vecchio camposanto, e quando allungò una mano per posarglielo sul muso umido e vellutato il cavallo si lasciò accarezzare volentieri, dando segno di riconoscerla.
Prima di montare in sella, il suo pensiero raggiunse brevemente Adam. In fondo non avevano trascorso una serata spiacevole – se si escludeva come aveva replicato alle sue più che lecite domande bisognava ammettere che si era comportato in modo impeccabile, come le aveva promesso, non aveva alzato un solo dito su di lei se non per accompagnarla di stanza in stanza, e benché non avessero conversato granché poteva dire con certezza ch’egli non pareva voler avere cattive intenzioni.
Ma comunque, rifletté ancora, ciò non toglieva che la stava tenendo prigioniera – e nella sua stessa casa! E quella maschera, poi, cosa sarebbe accaduto se avesse celato l’identità di un qualche malintenzionato ricercato nella contea? Poteva davvero fidarsi? Che cosa avrebbero pensato suo padre, Miss Radcliffe?
Oh buon dio, miss Radcliffe! Non posso andarmene e lasciarla qui!
Stava per dar voce a questa considerazione quando Noah l’afferrò a un braccio, scuotendola leggermente. «Non c’è tempo, signora», mormorò febbrilmente. «Non preoccuparti: ci prenderemo cura noi di lei. Ma tu devi andare via!»
Emma lo fissò come se avesse dinnanzi un fantasma. «Come fai a sapere… parli di miss Radcliffe?...»
«Non c’è tempo, non c’è tempo», continuò a ripetere, angosciato. «Tornerai per lei. Ma ora vattene, ti prego, signora!»
Lo sguardo terrorizzato del giovane insieme a quella sua improvvisa loquacità rese davvero tangibile il pericolo in cui si trovava, e comprese che indugiare ancora avrebbe reso vane le sue intenzioni.
Se non scappo ora, non andrò mai più via da qui.
«Tornerò, Noah, per te e per miss Radcliffe. Domani», lo rassicurò risoluta, non riuscendo a trattenersi dall’abbracciarlo. Gli sfiorò entrambe le guance con due rapidi baci e poi si voltò per montare a cavallo, afferrando le redini. «Grazie di tutto», aggiunse ancora.
Il ragazzo annuì, gli occhi ancora sgranati per quell’inattesa manifestazione d’affetto, poi indietreggiò di qualche passo. «Via, signora, via!» Diede una pacca decisa al posteriore dell’animale ed esso partì senza neppure un nitrito, quasi comprendesse la gravità della situazione. Emma si voltò ancora una volta per ringraziare il giovane con lo sguardo, ma egli era già sparito all’interno delle stalle, serrando il portone con un tonfo secco.
Sperando di non aver perso già troppo tempo, mormorò una preghiera e spronò l’animale al galoppo.

hugftdrtfy


Una fitta foschia circondava il castello, talmente densa da rendere impossibile vedere qualsiasi cosa che si trovasse a più di una spanna dal proprio naso; era sinistra e minacciosa, dissimulava i luoghi familiari e confondeva chiunque fosse stato tanto stolto da uscire di casa con un tempo del genere. Il cavallo incespicava nel terreno, nitrendo nervosamente, ma Emma l’incitava senza pietà a proseguire, spingendolo al limite delle sue forze.
Onestamente, non sapeva dove andare né quale strada stesse seguendo. Era stato abbastanza semplice percorrere il vialetto giù per la collina, ma una volta raggiunto il limitare della boscaglia che circondava l’altura sulla quale sorgeva il castello ogni visibilità era stata come inghiottita dal buio e dalla nebbia. Benché fosse una notte di luna piena, infatti, essa pareva essere stata divorata dalle nubi scure e dalla bruma, e la visibilità sarebbe stata la stessa anche se la giovane avesse avuto gli occhi bendati. Emma non osava rallentare – non sapeva quanto vantaggio avesse a disposizione, qualcosa le diceva però che Adam non avrebbe impiegato troppo tempo ad accorgersi della sua scomparsa e a venirle dietro – per cui spronò ancora una volta il cavallo, facendolo tuffare nel bel mezzo della vegetazione.
Il suo intento, sempre se avesse riconosciuto il sentiero, era di raggiungere la casa di Sir Carlisle; l’uomo le era parso gentile e a modo, sempre pronto ad aiutarla, e oramai lo conosceva da abbastanza tempo da sapere di poter contare su di lui alla stregua di un parente. Di certo, se gli avesse raccontato l’intero accaduto, egli si sarebbe mobilitato per risolvere il mistero e cacciare la misteriosa presenza da Pemberley Manor; e avrebbe potuto domandargli il favore di ospitarla per il resto della notte in attesa che il mattino giungesse con delle risposte. Non era certo la cosa più educata da fare, giungere ad Ashfield nel cuore della notte senza essere annunciata e pretendere soccorso, ma cercare di raggiungere il villaggio in quelle condizioni era ancora più pericoloso, senza contare che avrebbe rischiato che i paesani la prendessero per pazza. Già immaginava che cosa avrebbero detto di lei… La figlia del conte di Grantham che fugge dalla sua tenuta in abiti scomposti e infangati, e attraversa miglia e miglia di brughiera nel cuore della notte!... Se avesse gettato una simile macchia sulla propria reputazione né suo padre né Caledon l’avrebbero mai perdonata, ed era per questo motivo che aveva deciso di andare innanzitutto da Sir Carlisle: poteva ben contare sulla discrezione dell’uomo, non nutriva alcun dubbio al riguardo.
Ma il suo sollievo durò ben poco: non aveva percorso neppure un miglio, quando udì un allarmante rumore di zoccoli provenire da qualche parte alle sue spalle. Buon Dio, pensò, terrorizzata. L’aveva già scoperta? La stava inseguendo?
Premette i talloni contro i fianchi dell’animale per farlo andare più in fretta, ma l’incalzante fragore dietro di lei si faceva via via più nitido, sempre più vicino, come una tempesta in arrivo che non si può vedere ma di cui si può udire in lontananza il rimbombo dei tuoni. L’unica soluzione per confondere il suo inseguitore e guadagnare tempo era abbandonare la strada battuta, così, seppur a malincuore, diresse il cavallo verso destra, in mezzo agli alberi e ai cespugli, in un groviglio di vegetazione selvaggia che avrebbe dovuto nascondere lei e rallentare chiunque avesse alle calcagna.
Rimpianse quasi subito la sua idea, tuttavia: la boscaglia era così fitta e aggrovigliata che i lunghi rami dei rovi si aggrapparono alla stoffa dei suoi abiti, tendendosi verso di lei come artigli adunchi che parevano volerla trattenere dal proseguire; il cavallo nitrì, infastidito, ma Emma non aveva il tempo di essere pietosa nei suoi confronti. Lo spinse ad andare oltre, strappando con le mani i tralci dai propri vestiti e chinando il capo per evitare di rimanere incastrata con i capelli; gemette quando le spine le graffiarono le mani prive di guanti e i polpacci nudi che spuntavano dal vestito, facendoli sanguinare, ma non demorse: ci sarebbe stato il tempo di leccarsi le ferite più tardi, sperava, una volta al sicuro dalla malsana presenza di Adam.
«Vai, bello», sussurrò, accarezzando il collo irrigidito del cavallo, cercando di tranquillizzarlo. «Andiamo via di qui.»




















__________________________________________________________________________


* Il fatto che Adam legga tra tutti Robert Louis Stevenson non è solo perché è appassionato di romanzi di viaggi e avventure (potete biasimarlo? È praticamente nato e cresciuto tra quattro mura, sogna di vedere il mondo – i suoi libri sono un po’ lo specchio magico della Bestia che gli mostrava il mondo esterno), ecco, dicevo, ma anche perché Stevenson ha scritto “Lo strano caso del Dr. Jekyll e del Signor Hyde”, che è uno dei romanzi che mi hanno ispirato per questa storia, e dunque mi sembrava carino inserire un piccolo… omaggio.
__________________________________________________________________________

Note dell'Autrice.
Ed eccomi qui con un nuovo aggiornamento, giusto in tempo per Halloween! Detto-fatto, ciò è la dimostrazione che quando voglio posso essere di parola anche io :D Inoltre questo capitolo è lunghissismo e succede tanta roba, non me lo aspettavo. °_° Comunque, spero che vi sia piaciuto come i precedenti ^^
Ringrazio, come al solito, chiunque legga e aggiunga la storia alle Seguite e alle Preferite, nonché e soprattutto le splendide Sylphs, savy85, Nimel17, Se7f, JollyJ e dachedas per aver recensito lo scorso capitolo: sono davvero molto, molto contenta che Adam vi sia piaciuto - ho una sorta di ansia da prestazione per questo personaggio, l'ho detto e lo ripeto - e spero sinceramente che continui ad essere di vostro gusto anche nei prossimi capitoli. :) Sto cercando di rendere questa storia il più "corale" possibile, di curare sia i personaggi principali che quelli secondari, in modo da avere una chiara visione dell'insieme e di non focalizzarmi soltanto su Emma-Adam dato che questa non sarà unicamente una storia d'amore ma anche - o almeno così spero che esca, chi lo sa poi quale sarà il risultato xD - una storia di mistero, azione e paura. Insomma, uno stile po' alla Dracula - lungi da me osare paragonarmi a quel romanzo, però - dove più o menso sappiamo cosa combinano tutti i personaggi. :D
And now, ladies and gentlemen. Vi lascio con due meravigliosi regali che mi sono stati fatti in onore di questa storia e le cui autrici non smetterò mai di ringraziare - okay, lo ammetto, ho promesso i miei primogeniti, ma credetemi che ne è valsa la pena. Sono lieta di presentarvi:

- Il video-trailer "Requiem for a Dream" - by @Christine23
- La meravigliosa copertina della storia - by @kenjina
Spero che vi lascino a bocca aperta così come è successo a me *__* (Non so se merito tutto questo ammore, sono commossa ç_ç)
Ora vado prima di piangere altre lagrime amare. A presto, mie darling!
Sempre la vostra affezionatissima
Niglia.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Chapter 10. For the Dead Travel Fast ***


cover



10
For the Dead Travel Fast
kjòhgfyd














Denn die Todten reiten schnell.[1]


La notte era statica. Il paesaggio autunnale giaceva pietrificato in una sorta di strana atmosfera onirica, e se un’anima romantica ne fosse stata testimone avrebbe di certo affermato che sullo scenario pareva essere stato gettato un incantesimo. Le foglie degli alberi già brillavano dalle goccioline di brina, e di tanto in tanto se si tendeva l’orecchio si poteva udire il tubare di qualche civetta solitaria; lo scricchiolio di rametti nel sottobosco indicava che altri animali notturni erano sgusciati fuori dalle loro tane per la caccia, ma la fitta nebbia che si innalzava dal terreno e lì aleggiava alla stregua di un fantasma ne celava le impronte. Tra le enormi nuvole nere spuntava ogni tanto un raggio di luna a rischiarare il sentiero e far luccicare la foschia, ma non c’era abbastanza vento per trascinare via le nubi e permettere all’astro di risplendere in pace in un cielo altrimenti terso e stellato.
Poeti e pittori avrebbero venduto l’anima al diavolo per poter essere capaci di imprimere una simile notte su tela o su carta; Emma, per sua sfortuna, non aveva il tempo né lo spirito di ammirarla. La sua mente era occupata da un unico desiderio – lasciarsi il più presto possibile il castello e i suoi abitanti e gli incubi terribili che le aveva causato alle spalle.
Le sue orecchie erano colme del proprio ansimare angosciato, e sorde ai rumori pacifici della natura. Un filo di sudore le colò lungo il collo giù nell’incavo tra i seni, gelandosi a contatto con l’aria notturna e facendole rimpiangere di non aver indossato qualcosa di più inappropriato per una fuga in mezzo ai boschi. Si domandò se aveva già superato i confini di Pemberley o se era ancora all’interno della tenuta: non aveva idea di cosa utilizzare come punto di riferimento, perché per quel poco che poteva ricordare non c’era alcuna recinzione che segnava la proprietà, e i terreni incolti e inospitali si limitavano ad allargarsi come una macchia d’olio per tutto il circondario fino a fondersi naturalmente con il resto della brughiera.
Il cavallo aveva rallentato, sbuffando e arrancando attraverso la bassa e fitta vegetazione e sbattendo con furia gli zoccoli sul terreno probabilmente per scacciare eventuali animali striscianti. Emma faceva del suo meglio per mormorargli rassicurazioni con voce pacata all’orecchio e tenere lontani i rami graffianti perlomeno dal suo muso, ma il destriero si stava facendo sempre più irrequieto e incontenibile. Se ci fosse stata un’altra soluzione l’avrebbe lasciato libero e avrebbe proseguito a piedi, ma anche se non udiva più alcun rumore dietro di sé sapeva di essere ancora inseguita, e non poteva permettersi di perdere anche il più piccolo vantaggio.
Il pensiero di non sapere nemmeno il nome dell’animale che stava cercando di portarla in salvo risvegliò il senso di colpa – e un sussurro nella sua mente le insinuò l’idea che potesse essere un cattivo presagio.
Scuotendo la testa e premendo i talloni contro i fianchi del cavallo, Emma scacciò quei pensieri.
Non c’era tempo, non c’era tempo – lui la stava raggiungendo.
Sì, se lo sentiva nelle ossa, anche se era passato parecchio tempo da quando aveva udito lo sbuffare di un secondo cavallo alle sue spalle – come se il suo inseguitore si fosse dissolto nel nulla a un certo punto durante la corsa. Poiché dubitava che Adam, poiché chi altri avrebbe potuto essere, si sarebbe rassegnato così in fretta a riacciuffarla dopo tutti gli sforzi che aveva fatto per entrare nelle sue grazie, Emma aveva evitato di spingere il proprio cavallo a un’andatura più pacata; ma l’assenza di rumori dietro di sé invece di rasserenarla le incuteva un maggior terrore, visto che egli conosceva di certo il territorio meglio di lei e poteva saltarle addosso da un momento all’altro, sbucando da chissà quale cespuglio e stanandole ogni via di fuga.
Venne strappata dalla sue riflessioni da un brusco avvallamento del terreno: il cavallo scivolò sopra sassi ricoperti da un sottile strato di muschio e ondeggiò violentemente prima di sterzare verso destra e lanciarsi in avanti con un salto invidiabile, portando via il fiato alla fanciulla e ottenendo un rauco grido da parte sua che si perse nel bosco. Emma cercò di tirare le redini, ma l’animale era ormai al di là del suo controllo: con quell’ultimo movimento si erano spinti fuori dalla vegetazione ed entro un’enorme radura ricoperta da una fitta nebbia, e il terrore di essere in una posizione scoperta e facilmente individuabile le impedì di rendersi conto di ciò che si trovava al di sotto della caligine.
Se ne accorse soltanto quando gli zoccoli del cavallo aggredirono la superficie dell’acqua con furia, e il suo nitrito spaventato e sorpreso trafisse l’aria come un fulmine.
Come per magia, il tempo parve fermarsi: tutto ciò che seguì Emma lo registrò con estrema accuratezza, come fosse un occhio esterno che assisteva a qualcosa che non stava accadendo a lei in prima persona. L’animale si ritrovò immerso nel lago con tutte le zampe, inzuppandole gli abiti in un battito di ciglia lasciando che l’aria e l’acqua gelida glieli ghiacciasse addosso; le sue mani, a loro volta bagnate, persero la presa sulle redini e tentarono inutilmente di aggrapparsi alla criniera o al collo del destriero, ma questi, ormai del tutto terrorizzato dalla brusca caduta nel lago, si inarcò ferocemente cercando di indietreggiare per tornare sulla riva, e a furia di impennarsi e agitarsi disarcionò la giovane facendola precipitare nell’acqua.
In un turbinio di gonne, alghe e zoccoli, Emma si ritrovò ad osservare inerme e con panico crescente le acque nere e immote che si richiudevano sopra di lei.
Obbedendo a un istinto antico come il mondo e rifiutando ogni raziocinio, Emma spalancò la bocca per urlare in cerca di aiuto, ma così facendo inghiottì spaventose boccate d’acqua che la soffocarono e le straziarono i polmoni, facendole perdere ogni contatto con la realtà. La mente sempre più annebbiata, gli occhi testardamente serrati come se ciò potesse impedire ad altra acqua di invaderle il corpo, la ragazza annaspò cercando di risalire a galla, combattendo con l’ingombro degli abiti che le pesavano addosso come pietre e che la trascinavano a fondo malgrado i suoi sforzi serrati. I capelli le ondeggiavano intorno alla faccia, ricoprendole il viso e impedendole di vedere alcunché, i piedi sgambettavano grevi in cerca del fondo del lago ma senza riuscire a trovare una superficie solida per potersi dare la spinta e riemergere.
I nitriti laceranti del cavallo continuarono a risuonare come grida d’allarme nella notte silenziosa, diffondendosi con un’eco terribile sulla superficie del lago. Emma lo udì attutito e lontano attraverso l’acqua, come in un sogno, e il pensiero di venire abbandonata anche dall’animale la riempì di angoscia.
Presto, però, il liquido gelido l’avvolse in un abbraccio amorevole, trascinandola inesorabile verso l’alveo del lago scuro e nero come pece e privandola di ogni capacità cognitiva. Emma chiuse gli occhi e smise di lottare, lasciandosi trascinare a fondo con la medesima rassegnazione di una nave inabissata: non era, dopotutto, una sensazione spiacevole – se avesse dovuto descriverla con semplici vocaboli avrebbe detto che era come essere tornate all’interno del grembo materno, in quel limbo sospeso tra la vita e la morte dove sembra che nessuna minaccia esterna possa mai giungere a turbare la propria esistenza.
I polmoni bruciavano, bramosi di ossigeno, e il peso dell’acqua le comprimeva il petto con una forza impensata; ma quei dolori erano secondari, non le appartenevano – sì, sapeva che quel corpo fatto di carne e sangue stava soffrendo e pativa le pene dell’affogamento, ma lei non provava alcun dolore: tutto era alleviato dalla consapevolezza che ormai non avrebbe dovuto resistere oltre. Decise tuttavia che non sarebbe morta con gli occhi chiusi – voleva portare con sé un’ultima immagine, un ultimo ricordo, e catturare magari i raggi della luna penetrare nell’acqua quasi a volerla raggiungere.
Ma quando sollevò le palpebre non vide che il buio tutto intorno a lei, una densa oscurità priva di qualsiasi granello di luce, e se avesse potuto avrebbe strillato. E nello stesso momento qualcosa le afferrò bruscamente le braccia, e poi la vita, stringendola fino a privarla del poco fiato che le era rimasto – e che lei inconsciamente aveva conservato con parsimonia – per poi trascinarla a fatica verso su, verso chissà dove, con una violenza tale che quasi Emma avrebbe voluto divincolarsi, preferendo lasciarsi affogare. Non comprese in che modo ebbe raggiunto la superficie e l’aria gelida della notte che il suo corpo accolse con esultanza; ogni cosa era confusa, e lei era ancora in quel limbo dove il dolore si alterna al freddo che le aveva raggiunto le ossa, ghiacciandola così profondamente che Emma non poté fare a meno di chiedersi come faceva a non essere morta, oppure, se quella era la morte, che cosa aveva fatto per meritarsi un simile tormento.
Si lasciò prendere e spostare come un burattino senza fili e senza volontà; forse venne distesa, i bottoni del cappotto strappati – se ne rese vagamente conto perché il vento notturno le gelò il petto, facendola tremare – e poi venne voltata su un fianco, e qualcosa inizio a premere e massaggiarle la schiena con una ferocia disperata: fu un’esperienza terribile, come se l’interno del suo corpo venisse riversato all’esterno, e la gola le bruciava e gridava pietà eppure la pressione continuava, obbligandola a rigurgitare fino all’ultima goccia d’acqua che aveva ingerito.
Lo shock fu tale che svenne subito dopo, stremata e infreddolita.


ljhkgjfh


Emma riprese i sensi nel salottino della notte prima, semidistesa su una poltrona trascinata di fronte al camino acceso. La luce delle fiamme fu così improvvisa, dopo l’oscurità, che dovette stringere gli occhi e distogliere lo sguardo; stava ancora tremando, benché fosse avvolta da una coperta pesante, e la testa le girava così vorticosamente da farle venire la nausea.
Maledizione, imprecò in silenzio, serrando le palpebre. Sono di nuovo nel castello.
Aveva appena finito di formulare quel pensiero quando udì una porta aprirsi e richiudersi con un tonfo, e dei passi pesanti avanzare all’interno della stanza fino a fermarsi a breve distanza da lei. D’istinto sollevò lo sguardo appannato sulla ben nota presenza, notando vari piccoli dettagli come i suoi vestiti ancora bagnati e stropicciati, macchiati di fango ed erba, e i capelli corvini che gli ricadevano in ciocche umide ai lati della maschera; sembrava che fosse finito nel lago anche lui, pensò distratta, riportando l’attenzione sul fuoco.
L’uomo sbuffò, per nulla contento di venire ignorato. «Siete sveglia», sbottò, con quella voce attutita che stava ormai imparando a conoscere bene. A giudicare dal tono, egli doveva essere ben oltre la soglia della semplice arrabbiatura: Emma trovò quasi strano che non l’avesse caricata di peso su una spalla e gettata in qualche segreta, per punirla.
Poiché lei non rispondeva, Adam continuò, sempre più iroso e con la voce che s’ingrossava minacciosa parola dopo parola. «Ah, non parlate? Mi tenete il broncio? Come se aveste ragione a trattarmi così… Vi ho salvato la vita, rammentate? ...per la seconda volta! Forse avreste preferito annegare nel lago? Gran bella fine, avreste fatto! E per cosa? …per cosa! Per la soddisfazione di farmi un torto!»
«Non tutto ruota intorno a voi, signore», ribatté allora Emma ignorando la gola che le doleva, senza neppure alzare lo sguardo. «Ma se siete così arrabbiato, perché non mi lasciate andare? Che cosa sperate di ottenere, obbligandomi a tenervi compagnia?»
«Dannazione a voi! Vi ho già spiegato le mie… Mi avete dato la vostra parola che non avreste cercato di fuggire! Valgono così poco le vostre promesse, milady? Cosa devo fare per essere sicuro che rispettiate la vostra parte dell’accordo? Legarvi, forse?»
Emma dovette resistere al maleducato impulso di roteare gli occhi. «Non potete biasimarmi se ho colto al volo l’opportunità di andarmene. Di certo avrete capito che mi state trattenendo qui contro la mia volontà, voglio sperare?» Domandò sarcastica, odiando la propria voce roca.
«Siete mia ospite», sibilò lui furioso. «E avete dei doveri verso di me, come li ho io verso di voi!»
«Questo è certamente discutibile, ma siete libero di credere pure ciò che più vi aggrada.»
«Siete una donna impossibile!» Ruggì Adam, sbattendo un pugno con forza sul bracciolo in legno della poltrona in cui era rannicchiata e facendola suo malgrado sussultare. «Forse che vi ho fatto mancare qualcosa? Vi ho trattato male, io? Non mi pare! Potrò non essere un uomo di mondo, signora, ma di sicuro sono un gentiluomo; eppure voi riuscite nella difficile impresa di mettere a dura prova la mia pazienza!»
«Parlate come se io vi avessi imposto la mia presenza», sibilò Emma, incredula. Si voltò verso di lui, lasciando la propria rabbia libera di manifestarsi, e continuò. «Siete voi che mi avete voluto qui, e adesso vi comportate come se mi doveste tollerare a malincuore! Che diritto avete di arrabbiarvi? Da ciò che mi avete detto, neanche volevate ospiti nel castello!»
«Ma ora siete qui, e non morirete mentre siete sotto la mia responsabilità! Né proverete a scappare una seconda volta», aggiunse con fare minaccioso. «Di questo me ne assicurerò personalmente. Dio, ma avete almeno riflettuto prima di attuare questa vostra fuga? Scappare di notte, da sola, in mezzo alla brughiera, e impropriamente vestita! Nel migliore dei casi sareste morta di freddo, e nel peggiore… Non sapete che ci sono ladri e briganti in queste terre? Animali selvaggi? Anche se i terreni circostanti appartengono a Pemberley, non sono recintati; chiunque vi avrebbe potuto catturare, e vi assicuro, milady, che esistono persone ben peggiori di me!»
Emma continuò a tenere ostinatamente gli occhi chiusi, stringendosi la coperta addosso e tremando ancora leggermente. Non aveva bisogno che quell’uomo le facesse la predica, pensò infastidita, sapeva benissimo che la sua fuga non era stata pianificata a dovere ed era stata più che altro uno sparo nel buio; ma aveva dovuto tentare, perché una simile occasione non sarebbe ricapitata una seconda volta – poco importava che le circostanze fossero poco favorevoli per la sua riuscita.
Doveva ammettere, tuttavia, che l’idea di finire in pasto a lupi o delinquenti era agghiacciante.
Si domandò poi se fosse un destino preferibile al rimanere al castello con quell’uomo…
Il suo silenzio dovette protrarsi troppo a lungo per i gusti del padrone, poiché Adam perse la pazienza. «Diamine, parlatemi almeno!»
In un impeto d’ira le afferrò le mani, ed Emma spostò gli occhi su di lui con aria sorpresa e spaventata insieme: era la prima volta che la toccava – perlomeno mentre lei era cosciente, pensò con un brivido – e in più l’assenza di guanti e il fatto di sentire la consistenza della sua carne sotto il palmo le fece realizzare con un lampo di lucidità il rischio che aveva corso. Aveva rischiato di morire, per l’amor di Dio, e tutto perché non era stata capace di aspettare il momento giusto e avere il sangue freddo di ideare un piano migliore… Cosa sarebbe successo a suo padre se fosse morta anche lei? Gli occhi le si inondarono di lacrime al pensiero di infliggergli un simile colpo e distolse lo sguardo, senza tuttavia fare cenno di volersi liberare dalla stretta dell’uomo.
«Non so cosa dirvi», fu la sua laconica risposta, mormorata con un debole autocontrollo.
Ma Adam non l’ascoltava più; nel toccare la sua pelle si era irrigidito, sinceramente sconcertato dal fatto che lei glielo avesse lasciato fare, e allo stesso tempo preoccupato dalla sua temperatura corporea. La giovane scottava come un carbone ardente, stava chiaramente male, eppure non aveva detto una sola parola al riguardo.
«Dio mio, state bruciando», sussurrò, la voce improvvisamente ingentilita. In un attimo il suo tocco si fece da minaccioso a gentile, e una mano si sollevò per sfiorarle delicatamente anche la fronte e le guance. «Avete la febbre, e io qua a urlarvi addosso… Perché non avete detto niente? Sciocca ragazza… venite con me, è meglio che vi mettiate a letto. Riuscite ad alzarvi? …a camminare?»
Emma lo fissò per un lungo istante con sguardo perso, come se non comprendesse ciò che le stava chiedendo; infine batté le palpebre e si guardò intorno, afferrò i braccioli della poltrona e si alzò lentamente, sforzandosi di recuperare l’equilibrio e il controllo sul proprio corpo. Ma quest’ultimo era così provato e indebolito dalla sua recente avventura che non riuscì a reggerla in piedi, ed Emma si accasciò sulle proprie gambe tremanti come un bamboccio privo di fili; le braccia di Adam l’afferrarono prima che potesse crollare per terra, e d’istinto lei vi si aggrappò apprezzando il calore che proveniva da un altro essere umano – poco importava che si trattasse dell’uomo che la teneva prigioniera.
«Non importa, vi porterò io», decise Adam bruscamente, prendendola con un’insolita gentilezza tra le braccia a mo’ di sposa, e cullandola, quasi, mentre se la stringeva al petto. «Reggetevi a me. Ecco… così», la incoraggiò, quando Emma sollevò d’istinto un braccio dietro il suo collo per non scivolare; egli parve irrigidire leggermente al tocco inaspettato, ma lady Moore era troppo stanca per farci caso.
Uscirono dal salotto senza che fosse pronunciata un’altra parola, e probabilmente durante il tragitto lei dovette cedere alla stanchezza, cullata dal movimento e dal tiepido calore di un corpo contro di sé, perché quando riaprì gli occhi si ritrovò di nuovo nella camera da letto che aveva lasciato poche ore prima in compagnia di Noah.
Emma aveva creduto che nulla avrebbe più potuto sorprenderla, ormai, ma dovette ricredersi nel momento in cui varcò nuovamente la soglia della stanza che Adam le aveva assegnato – e nella quale credeva di non dover più mettere piede – per trovare ad attenderli una pallida e nervosa Mrs. Duncan. La donna, malgrado si stesse torcendo le mani e sembrasse preda di chissà quale malessere, non parve particolarmente scioccata alla vista della sua padrona tra le braccia di uno sconosciuto mascherato; anzi, se il pensiero non le fosse sembrato ridicolo, Emma avrebbe quasi potuto giurare che le era parsa sollevata nel vederla con lui…
Adam la depose gentilmente per terra, rimanendole accanto con un braccio intorno alla vita per reggerla qualora dovesse perdere l’equilibrio, e la rilasciò solo per affidarla alle braccia della governante, che in quel momento apparivano ancor meno invitanti di quelle dell’uomo. Tuttavia Emma non si oppose, poiché era davvero troppo stanca e confusa per poter intavolare una discussione e sperare di uscirne vincitrice; così si lasciò condurre senza protestare nella piccola stanza da bagno adiacente alla camera, e quando la porta si richiuse dietro le due donne, oscurandole alla vista dell’uomo, Emma sentì le proprie spalle rilassarsi appena.
Neppure Mrs. Duncan pareva aver molta voglia di parlare. Probabilmente temeva che Adam potesse sentirla – Emma si domandò se quella reticenza fosse dovuta al fatto che fosse stata lei ad istruire il figlio, Noah, affinché l’aiutasse a lasciare il castello – e non voleva aumentare l’ira del suo padrone; giacché ormai non aveva alcun dubbio al riguardo, lady Moore non era, ai suoi occhi, più padrona di lei di Pemberley.
Sempre senza dire una sola parola, la governante aiutò Emma a spogliarsi e a entrare nella vasca, già precedentemente riempita con acqua calda; gentilmente le versò sui capelli dell’acqua tiepida, per poi prendere a pettinarglieli e a liberarli ciocca per ciocca da ogni traccia di fango e putridume raccolta nel lago. Passò poi a strofinarle la schiena e ripulire quasi con affetto materno i graffi e le ferite che si era procurata durante la cavalcata, trattenendo il fiato quando notò quelli più gravi che avevano iniziato a sanguinare a contatto con l’acqua calda. Durante l’intero procedimento la giovane ereditiera rimase in silenzio, troppo stanca per provare disagio o imbarazzo ad essere accudita come una bambina da una donna per cui non nutriva al momento troppa stima, la mente troppo impegnata a combattere la febbre e le riflessioni tormentose riguardo la sua più che sfortunata situazione per articolare un solo pensiero.
L’unica cosa per cui avrebbe potuto ringraziare Mrs. Duncan fu l’assenza di vuote rassicurazioni che non avrebbero avuto altro risultato se non quello di renderla ridicola; avrebbe dovuto domandarle se fosse stato il figlio a dirle della sua fuga, o se la donna l’avesse scoperto da sola e fosse poi andata ad avvisare Adam – il che portava ad altre mille domande, la prima delle quali riguardava il genere di rapporto che legava l’anziana governante di Pemberley Manor al misterioso uomo mascherato che si spacciava come suo proprietario. Ma saziare una curiosità avrebbe portato inevitabilmente a volerne saziare delle altre, e in quel momento Emma non era assolutamente pronta a scoperchiare quella scatola di Pandora.
Così lasciò perdere, sforzandosi di non crollare addormentata nella vasca da bagno e dimostrare di essere ancora più debole di quanto non avesse già dimostrato.
Quando Mrs. Duncan la riaccompagnò nella stanza, un braccio intorno alla vita per tenerla in piedi, Emma notò che l’uomo aveva fatto del suo meglio per rendere l’ambiente il più confortevole possibile: i cuscini del letto apparivano sprimacciati, le coperte divelte ordinatamente da un lato in attesa che lei vi trovasse rifugio, alcune candele scacciavano il buio insieme al camino, che era stato appena acceso. Il responsabile di tutto ciò attendeva in piedi come una sentinella a lato del talamo, le braccia dietro la schiena e, come al solito, un’aria resa imperscrutabile dalla maschera.
Emma si divincolò debolmente dalla gentile stretta della signora Duncan e si sforzò di raggiungere il tanto desiderato letto da sola, sulle sue gambe tremanti, ma con schiena dritta e sguardo deciso – o perlomeno questa era l’impressione che avrebbe voluto dare, anche se dubitava che i suoi occhi resi lucidi dalla febbre potessero impressionare qualcuno. Si sedette dunque sul bordo del materasso e sospirò, lasciandosi finalmente catturare dalla spossatezza e infilandosi con gratitudine sotto le trapunte.
Avrebbe voluto solo chiudere gli occhi e consegnarsi all’oblio, ma avrebbe dovuto immaginare che il suo carceriere era ben lontano da lasciar cadere così la questione.
«Avevate dato la vostra parola che mi avreste concesso sette giorni, milady, e alla prima occasione voltate le spalle e cercate di fuggire», affermò lui quindi piuttosto freddamente, osservando con affettata noncuranza Mrs. Duncan che tamponava la fronte di Emma con un panno bagnato e che le rimboccava le coperte per cercare di farle smettere di tremare. Quando fu deciso che la cerimonia fosse conclusa egli congedò la governante con un secco cenno del capo, e la donna sparì dalla sua vista talmente in fretta che si sarebbe detto fosse fatta di aria.
Emma attese finché la porta non si richiuse dietro di lei prima di rispondere. «Mi sembra di ricordare di non aver mai acconsentito a quella ridicola messinscena», fu la sua gelida replica.
L’uomo la fissò come se si fosse solo allora reso conto che, in effetti, nessun accordo era stato sancito tra i due, e che egli stesso aveva ammesso che la sua risposta non importava, e che si sarebbe fatto ciò che aveva deciso lui in ogni caso.
«Ad ogni modo», ribatté, decidendo suo malgrado che per il momento le avrebbe concesso quella piccola vittoria. «Come vi ho già detto è stato a dir poco sconsiderato da parte vostra uscire dal castello nel cuore della notte, considerando la vostra scarsa conoscenza del territorio e di ciò che vi sarebbe potuto capitare, e vi sarei grato se in futuro vi asteneste dal rifare una cosa del genere.»
E all’improvviso l’entità di ciò che era accaduto tornò a crollarle addosso con la violenza di una valanga, mettendo a tacere qualsiasi cosa avrebbe voluto dire all’uomo che le stava di fronte con le braccia incrociate e l’aria di chi è appena stato tradito. La sua mente cercò di ribellarsi a ciò che l’evidenza le aveva messo davanti, ma non ottenne risultati: invece, un debole pallore le portò via quel poco di sangue che le era affluito in viso, ed Emma si ritrovò a sgranare gli occhi e a boccheggiare priva di fiato in cerca di qualcosa da dire.
Buon Dio, mormorò silenziosamente come un mantra, sentendosi tremare. Buon Dio, era quasi morta!
Sarebbe bastato per Adam arrivare pochi secondi più tardi, e sarebbe stato impossibile riportarla a galla e riuscire persino a svuotarle i polmoni dall’acqua del lago… Era arrivata a un soffio da una dipartita sciocca e priva di senso, ed era grazie ad Adam se… grazie ad Adam
I suoi occhi d’un tratto ricolmi di lacrime si sollevarono sul padrone, ma lo shock di ciò che aveva appena realizzato le impedì di notare il suo improvviso irrigidirsi e la preoccupazione malcelata nel suo sguardo.
«Mi avete salvato la vita», sussurrò scioccata, stringendo le dita intorno alla coperta che l’avvolgeva alla ricerca di un oggetto tangibile che l’aiutasse a non perdere il contatto con la realtà. «Se non fosse stato per voi, io… io…» Non riuscì a completare quel pensiero, ma non distolse gli occhi da lui. «Vi ringrazio», concluse miseramente a mezza voce, sperando ch’egli cogliesse la sincerità delle sue parole e le perdonasse la mancanza di eloquenza.
Adam parve preso alla sprovvista: evidentemente non si aspettava che il suo gesto venisse riconosciuto, e di sicuro non si aspettava da lei alcuna forma di gratitudine. «Non serve che mi ringraziate», fu dunque tutto ciò che riuscì a rispondere. «Ho fatto solo il mio dovere.»
C’era qualcosa, nel suo tono di voce… Emma non riuscì a definire esattamente cosa… che le provocò una debole fitta nel petto e che le fece provare un misto di senso di colpa e svogliata gratitudine nei confronti di quell’uomo che prima l’aveva rapita, poi l’aveva trattata come ospite, poi l’aveva sgridata amaramente per il suo tentativo di fuga e infine era apparso sinceramente provato dal pericolo che lei aveva corso, e fu l’insieme di tutto questo che la costrinse suo malgrado ad addolcire lo sguardo e accennare un debole sorriso.
Egli impietrì e non fu capace di aggiungere altro: quel sorriso lo aveva disarmato. Rimase al suo fianco finché lei non si fu addormentata, e solo allora osò volgerle le spalle e andarsene; chiuse a chiave la porta della stanza più per abitudine che precauzione – dove sarebbe potuta andare in quelle condizioni, anche volendo? – e rilasciò un sospiro che non si era accorto di aver trattenuto fino a quell’istante. Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, accorgendosi non senza una buona dose di sconcerto di star tremando, e fu costretto ad ammettere, perlomeno a sé stesso, di essere stato terrorizzato all’idea di perderla.
Non sapeva ancora bene a che cosa fosse dovuta quella sensazione, ma decise che la serata era stata già fin troppo movimentata per aggiungerci anche una scomoda analisi di sensazioni e sentimenti. Inoltre l’alba iniziava ad approcciarsi, e lui non chiudeva occhio da quasi due giorni – e se continuava così, prima o poi sarebbe crollato sfinito ed esausto, e ciò avrebbe lasciato via libera all’altro
No, non poteva permetterlo. Non ora.
Adam si lasciò rapidamente alle spalle la camera da letto, attraversando il lungo corridoio con lunghe falcate come se desiderasse mettere più distanza possibile tra sé e la fanciulla, prima che perdesse del tutto il controllo. La tentazione di tornare da lei e usare le maniere forti fino a spingerla a giurare su quanto di più sacro ci fosse al mondo che non avrebbe più messo piede fuori dal maniero senza la sua approvazione era troppo forte da ignorare, soprattutto sentiva che non proveniva da lui, e per questo motivo accelerò ulteriormente il passo.
Era stato a un tanto così dal crollare, quando Mrs. Duncan l’aveva avvertito dell’improvvisa fuga di lady Emma; non riusciva a crederci, dopo tutte le promesse era scappata lo stesso?
Faust era stato pressoché incontenibile; tuttora lo sentiva aggirarsi come una belva in gabbia entro i confini della sua mente, lo udiva tremare di una rabbia cieca e furente e la sua presenza era come un tremore minaccioso appena sotto la pelle che prometteva di esplodere da un momento all’altro. Aveva dovuto ricorrere a tutto il suo autocontrollo per impedirgli di prendere il sopravvento – non osava immaginare che cosa avrebbe potuto fare alla ragazza una volta riagguantata, se gli avesse ceduto – e soltanto la consapevolezza che fosse ancora troppo presto per far conoscere a Emma l’orrenda furia del suo mostro era riuscito a mantenerlo in sé.
Ma anche se costretto entro le mura della psiche che condividevano, Faust poteva pur sempre far udire la sua voce, i suoi pensieri, la sua collera. E Adam ne aveva avuto paura, non per la prima volta, poiché ciò che gli stava sussurrando era talmente terribile che dubitava di poter tornare a guardare Emma negli occhi senza che certe immagini gli offuscassero la vista, tentandolo con promesse inesaudibili.
Era stato terribilmente difficile contenere la furia di Faust e procedere poi a racimolare sufficiente presenza di spirito per preparare un cavallo e lanciarsi all’inseguimento della ragazza; e quando infine l’aveva fatto, i suoi pensieri e quelli del mostro avevano coinciso miracolosamente fondendosi in un’unica preoccupazione: trovare Emma e riportarla a Pemberley.
E adesso che l’hai riportata a casa, che cosa conti di fare?
Adam quasi inciampò sui suoi stessi passi quando udì il sibilo feroce del mostro rimbombare all’improvviso nella sua testa.
(Nulla), ribatté a sua volta, stringendo con furia le mani a pugno. (È mia ospite. E verrà trattata come tale!)
Sei così debole, si prese gioco di lui Faust, con il suo odioso tono mellifluo. Ti fai trattare come il più insulso degli insetti. Sei un disonore per il nome che porti!
(Che cosa vorresti fare? Punirla, forse? E questo non sarebbe un disonore?)
Non hai mai trovato disonore in ciò che abbiamo fatto in passato.
Se avesse potuto, Adam avrebbe ringhiato.
(Non osare riversare su di me la responsabilità delle tue azioni! Io non avevo alcuna voce in capitolo, lo sai benissimo!)
Mi fai così pena, mio povero Adam. Dopo tutto questo tempo non hai ancora capito nulla…
Preferì non rispondergli; non era in vena di discutere con quella voce odiosa che non lo lasciava in pace neppure nell’incoscienza. E poi, che cosa avrebbe potuto replicare? Per sua sfortuna, e non lo avrebbe mai ammesso neanche nelle profondità della sua psiche, Faust aveva ragione: c’erano cose, nel suo passato, che avrebbero sconvolto la più abietta delle anime, e non osava immaginare come avrebbe potuto reagire una come Emma se ne avesse avuto anche solo un assaggio. Ma di una cosa era sicuro, avrebbe impedito a Faust di farle del male anche se gli fosse costata la sua stessa sanità…
Esausto e miserabile, Adam trovò rifugio in una vecchia stanza abbandonata. Strappò con furia il lenzuolo impolverato che ricopriva un letto scricchiolante che non veniva utilizzato da decenni e crollandovi sopra a peso morto, consegnandosi misericordiosamente all’oblio e seppellendo nel sonno le minacce di Faust e tutto lo sfinimento che aveva accumulato negli ultimi due giorni.


lljkhjgfd


La camera da letto nella quale era confinata non le dava alcun tipo di sfogo. Si sentiva troppo stanca per alzarsi e curiosare tra i vari oggetti che la circondavano – senza contare che non si trovava particolarmente a suo agio adesso che aveva la certezza di trovarsi nella stanza del suo carceriere, i ritratti che aveva fatto di lei erano artisticamente piacevoli ma la loro presenza la inquietava – e sentiva la mancanza della finestra della sua camera, dalla quale poteva ammirare il paesaggio esterno senza neppure lasciare l’alcova.
Emma sospirò, posandosi il dorso della mano sulla fronte e gemendo nel trovarla ancora rovente. Non poteva che biasimare sé stessa per quella situazione – se solo non fosse stata tanto sciocca da attraversare il bosco nel cuore della notte, e se non avesse costretto il cavallo fuori dal sentiero, spingendolo nel lago… Forse adesso sarebbe stata salva a casa di sir Carlisle, e non sarebbe stata stordita dalla febbre. Come se non bastasse, era terribilmente preoccupata per miss Radcliffe: la povera donna adesso era interamente sotto le cure della governante di Pemberley, e visto come Mrs. Duncan era parsa a conoscenza di parecchie cose, la notte prima, Emma dubitava che fosse una persona a cui affidare la vita della donna che l’aveva cresciuta.
D’altra parte, cosa poteva fare? Era prigioniera in quella stanza di cui solo Adam possedeva le chiavi, e l’infreddatura la costringeva a letto – aveva provato ad alzarsi, certo, ma una forte ondata di nausea e un feroce pulsare alle tempie le avevano fatto cambiare rapidamente idea, costringendola a rintanarsi sotto le coltri. Aveva potuto abbandonare il letto soltanto quando la governante arrivò a portarle la colazione e il pranzo – malgrado i sentimenti contrastanti che provava nei confronti di Mrs. Duncan, Emma si ritrovò grata per la familiare presenza di un altro essere di genere femminile al suo fianco.
La donna si era ostinata a non voler parlare, e le sue visite nella stanza si riducevano a mormorii di parole di incoraggiamento e di vane assicurazioni che nulla le avrebbe fatto del male. Come se avesse potuto fidarsi!
Immersa com’era nel silenzio, Emma si ritrovò a considerare che, se solo l’approccio di Adam fosse stato differente – se, tanto per cominciare, avesse palesato sin da subito la sua presenza, e se le avesse chiesto gentilmente e non tramite minacce e imposizioni di essergli amica – probabilmente non si sarebbe sentita in dovere di ribellarsi per principio, né avrebbe cercato di fuggire. Difatti, malgrado la sua tenacia nel volerla privare della vista del suo aspetto, Adam sembrava una persona intelligente, un gentiluomo – quando non tentava di tiranneggiare sulla sua vita – un uomo di cultura con cui intrattenere una conversazione non pareva difficile né spiacevole; ma tutti questi tratti evaporavano nel nulla davanti al comportamento che egli aveva scelto di sfoderare nel trattare con lei, e che la facevano sentire né più né meno che una prigioniera privata del libero arbitrio. E, dovendo essere onesta, Emma era stanca di avere uomini intorno che si arrogavano il diritto di decidere per lei.
Con uno sbuffo assai poco signorile, si domandò fino a quando egli aveva intenzione di portare avanti quella farsa, e se il fatto di avere tra le mani una giovane donna influenzata e con i nervi a fior di pelle sarebbe servito a far rinsavire il padrone del castello – quanto la irritava riconoscergli quel titolo – e a fargli realizzare che non era in suo potere trattenerla a lungo rinchiusa tra quelle quattro mura.
Come se non tutto ciò non fosse di per sé abbastanza, gli incubi continuavano a tenerla sveglia per tutta la notte. Ogni volta che riusciva faticosamente a chiudere gli occhi, immagini terribili di figure spettrali insanguinate e fiamme e scuri abissi la tormentavano fino a farla risvegliare in lacrime, con la testa che le pulsava dalla febbre e dalle visioni, lasciandole addosso un’orribile sensazione di sventura. Erano trascorsi tre giorni dalla fatidica notte in cui aveva visto quelle creature aggirarsi per il castello – o perlomeno così credeva: di recente aveva perso la cognizione del tempo – e ancora non aveva la più pallida idea di chi o che cosa fossero, e soprattutto che cosa volessero da lei.
Fantasmi, le sussurrava debolmente una voce all’interno della sua testa. Ma la sola idea era talmente ridicola che preferiva fingere di non udirla, preferendo accantonarla in favore di ipotesi più razionali; non era più una bambina che teneva una candela accesa accanto al letto per timore del buio, per l’amor di Dio!
L’unica volta in cui aveva racimolato sufficiente coraggio per chiedere spiegazioni ad Adam, durante la loro prima e unica cena, egli si era rifiutato di fornirle anche la più piccola spiegazione, la qual cosa non contribuiva certo a migliorare l’opinione che aveva di lui. Che senso aveva tenerla all’oscuro, farla vivere nel terrore, se egli era davvero sincero quando diceva di non volerle alcun male, e che anzi sperava di avere la sua amicizia?
Emma aveva paura, ma a questo punto non sapeva più di cosa.
Al suo sempre più crescente senso di timore, si aggiungeva inesorabile tutto il peso dell’irrequietudine: non era abituata a rimanere a lungo senza impiegare il suo tempo in qualcosa di utile e costruttivo, e limitarsi a giacere a letto oziando dalla mattina alla sera – pur ammettendo che la febbre avrebbe potuto giustificare tranquillamente il suo riposo – iniziava a darle sui nervi. Per questo motivo accolse con qualcosa simile a sollievo l’arrivo di Adam nell’ormai sua stanza da letto, grata della distrazione ch’egli portava alle sue turbolente riflessioni.
Sollevò lo sguardo su di lui quando il suo volto mascherato apparve sulla soglia della porta, ma fu ciò che teneva tra le braccia che attirò la sua attenzione strappandole un verso sorpreso e un’espressione di quieta ammirazione. Il guaito dell’animale la fece sorridere subito, e d’istinto allungò le braccia verso di lui: nel vederlo, Emma non aveva potuto fare a meno di provare un’imbarazzante senso di colpa: come aveva fatto a dimenticarsi del suo adorato Aramis?
Senza dire una sola parola Adam attraversò la camera e si fermò accanto al letto, chinandosi per deporle il cagnolino in grembo.
«Ho pensato che potesse farvi piacere, avere il vostro amico», fece a mezza voce, osservandola mentre era tutta intenta a coccolare Aramis, che ansimava e scodinzolava felice, strofinandole il muso contro le mani e il ventre.
«Sì, io… ah… grazie», mormorò, sollevando appena lo sguardo per incontrare il suo. Adesso era perplessa: se si trovava in quelle condizioni, febbricitante e costretta a letto, la colpa era da far ricadere unicamente su di lui… Eppure ecco che lo ringraziava per la seconda volta, ecco che lo lasciava restare nella stanza insieme a lei a prender parte a un momento di intimità che non credeva di dover condividere.
Mentre coccolava il suo cucciolo, che palesemente aveva sentito la sua mancanza, notò con la coda dell’occhio Adam che spostava alcuni mobili, tra cui una sedia e un tavolino da gioco portato da chissà quale altra stanza, proprio vicino al suo letto. A questo punto si voltò per osservarlo deliberatamente, guardandolo mentre si sedeva in modo da esserle di fronte e inarcando un sopracciglio all’inattesa vicinanza.
L’uomo ricambiò allora il suo sguardo, e il modo in cui i suoi occhi chiari luccicarono attraverso i buchi della maschera le fece sospettare che le stesse sorridendo.
«Sapete giocare a scacchi?» Domandò gentilmente, come se fosse una cosa del tutto normale da chiederle in quel frangente.
«Mi piace pensare di sì, signore», rispose cauta, cercando di capire a cosa doveva l’improvvisa curiosità.
Egli si limitò ad annuire, e da dietro la schiena tirò fuori una scacchiera e un sacchetto di velluto contenente, a giudicare dal rumore, le pedine del gioco. Prese a disporli sul tavolino con precisione e, senza quasi rendersene conto, l’ombra di un sorriso apparve sul viso di Emma.
«Se vi avessi detto che non ne ero capace, che cosa avreste tirato fuori?» Gli chiese con appena l’accenno di un tono scherzoso.
Sorpreso ma intimamente compiaciuto dal tono della sua voce, egli le rispose in eguale maniera. «Sempre una scacchiera, milady: non ho ancora imparato trucchi di prestigio. E ad ogni modo vi avrei insegnato a giocare, perché sarebbe stata una lacuna imperdonabile da parte vostra.»
Emma confermò con un lieve cenno del capo e un ancor più debole sorriso la verità della sua affermazione, e rimase ad osservare in silenzio mentre l’uomo finiva di sistemare con cura le pedine sul campo da gioco.
Parlò solo per domandarle quale colore preferisse. «I bianchi», rispose subito lei. «Hanno il privilegio di muovere per primi.»
La maschera celò ancora l’ennesimo breve sorriso che apparve sul volto di Adam.
Emma non si era accorta di quanto desiderasse una qualsiasi forma di intrattenimento fin quando non iniziò a muovere un pedone dopo l’altro, studiando attentamente l’andamento del gioco come suo padre le aveva insegnato sin da quando era stata abbastanza grande da poter stare seduta composta su una sedia. Aramis, riconoscendo la concentrazione della sua padrona poiché diverse volte in passato aveva assistito a simili passatempi, rimase quieto al suo fianco, raggomitolato sopra la coperta e sonnecchiando tranquillo.
Quando si trattava degli scacchi, sapeva di essere feroce; e quello svago capitava proprio in un momento in cui aveva decisamente bisogno di sfogare in qualche modo tutta la tensione accumulata. E Adam, seppure in silenzio e senza quasi respirare, era un degno avversario ben capace di sostenere la sua sfida; per cui decise di liberare la mente da qualsiasi altro pensiero, e di occuparla unicamente nella ricerca di strategie di vittoria.
All’improvviso, però, il suo avversario dovette decidere che il silenzio era durato abbastanza.
«So di avervi spaventato», esordì in un mormorio.
Emma sollevò lo sguardo dalla scacchiera, sorpresa, posandolo su quella maschera bianca che ormai pareva essere espressiva quanto un volto vero. O forse era solo lei che aveva imparato a conoscere ogni sfumatura della sua voce tanto da poter chiaramente decifrare i suoi sentimenti… Decise di ignorare quell’inutile riflessione, e osservò di sbieco il suo anfitrione in attesa che proseguisse con il suo discorso.
Così egli fece, modulando magistralmente la voce come si fa con la creta. «Sì, anche se forse non ci credete. Lo so. Non avreste provato a fuggire nel cuore della notte, altrimenti, senza neppure soffermarvi a riflettere su ciò che stavate facendo», chiarì, con quella che le parve una sorta di amara dolcezza. «Mi rincresce avervi ispirato un terrore tale da farvi ritenere che perdervi nella brughiera al gelo e senza idea di dove andare fosse un destino preferibile al rimanere in mia compagnia un minuto di più. So di meritare il vostro astio e probabilmente persino la vostra diffidenza, poiché non vi ho dato modo di fidarvi di me… E per questo motivo vi porgo le mie più sincere scuse.»
Se c’era qualcosa che Emma non si sarebbe aspettata di ricevere, era una richiesta di perdono; e il tono sinceramente contrito con cui gliela aveva offerta non faceva che aggravare la sua incredulità. Che cosa avrebbe dovuto rispondere? Si aspettava che scrollasse le spalle e respingesse le sue parole con un gesto della mano, fingendo che non fossero necessarie? O forse doveva limitarsi a chinare il capo, accettarle e continuare a comportarsi come se l’uomo fosse innocente e lei non fosse la vittima della situazione?
Emma poteva apprezzare il gesto – non vi avvertiva alcuna malizia, in fondo – ma non aveva idea di che farsene. Aveva l’acuta sensazione, ormai era anzi quasi una certezza, che il padrone stesse cercando di accattivarsela in tutti i modi possibili, cercando di giungere con le buone maniere ove le minacce non avevano sortito il loro effetto, e la giovane temeva di poter dire o fare qualcosa che rassicurasse Adam di esservi riuscito. Non voleva che egli si trovasse eccessivamente a suo agio in sua compagnia, ma d’altro canto le pareva poco gentile non riconoscere i suoi sforzi e ammettere che il suo modo di comportarsi improvvisamente amichevole e affettuoso aveva buone possibilità di riuscire nel suo intento.
Come le accadeva spesso quando si trovava in situazioni particolari per la prima volta, Emma volse i propri pensieri a miss Radcliffe, e si domandò mestamente che cosa la sua istitutrice avrebbe avuto da dire al riguardo. Probabilmente le sarebbe venuta una crisi di nervi al suo posto, e l’avrebbe supplicata di non comportarsi in maniere che potessero danneggiare la sua reputazione – benché ci fosse poco che potesse fare a proposito, dato che si trovava alla mercé di un uomo che non conosceva, in camicia da notte e senza alcuno chaperon; detto ciò, era possibile che neppure la donna, nella sua saggezza, avrebbe potuto consigliarla sulla condotta migliore da adottare.
La decisione spettava dunque unicamente a lei, e sotto questo peso ella prese un profondo respiro.
«Se vinco», esordì dopo un silenzio tanto lungo da far credere che non ci sarebbe stata alcuna replica alla confessione di Adam. «Se vi batto a scacchi, mi lascerete nuovamente libera di gironzolare per il castello?»
L’uomo la osservò con aria sorpresa e vagamente perplessa, cercando un collegamento con ciò che le aveva detto e con la risposta che aveva ottenuto; ed era probabile che alla fine dovette trovarlo, perché i suoi occhi assunsero una sfumatura divertita poco prima ch’egli annuisse sorridendo. «Naturalmente, milady. Avete la mia parola.»
«Bene», fu tutto ciò che la giovane disse, e da quel momento in poi la partita proseguì nel più assoluto silenzio.
Quando infine Emma fece scacco matto, neanche un’ora dopo, Adam accettò la sconfitta con un elegante cenno del capo. Ma per qualche strana ragione la vittoria non fu troppo soddisfacente – aveva la strana sensazione che lui gliel’avesse concessa soltanto per farsi perdonare.


hjkgfjdhs


C’era qualcosa che non riusciva a togliersi dalla mente da diverse settimane, ormai, e vista la nuova direzione che stava prendendo la sua relazione con Adam – benché tale definizione suonasse strana se riferita a loro – Emma aveva deciso che valeva la pena introdurre il discorso e vedere cosa avrebbe potuto ricavarci.
Si trovavano nella biblioteca; quella mattina Emma si era svegliata senza tremori né febbre, e dopo un rapido controllo di Mrs. Duncan e la conferma da parte sua che l’influenza era passata, aveva chiesto al suo ospite se le era possibile uscire finalmente da quella camera da letto, come da promessa, ed egli aveva sorprendentemente acconsentito proponendole di prendere il tè nella biblioteca.
Ritrovarsi nuovamente in quell’ambiente accogliente e familiare ebbe su di Emma un ottimo effetto: vedere la luce entrare dalle immense vetrate, inspirare il profumo dei libri e dei fiori freschi che la governante aveva preso a disporre nella stanza per sua disposizione, persino sedere per terra di fronte al camino con Aramis accucciato ai suoi piedi servì a calmarla e a metterla a suo agio come non lo era stata da giorni. E stranamente non era disturbata dal fatto che stavolta Adam si trovasse in quello che lei aveva iniziato a considerare il suo piccolo angolo privato del castello – benché trovasse inevitabile rimanere all’erta vicino a lui, vederlo seduto su una poltrona a pochi passi da lei era in un certo qual modo rassicurante.
Così, cullata dall’atmosfera pacifica del momento, Emma decise di indulgere nella propria curiosità.
«Se permettete, c’è qualcosa che vorrei chiedervi», esordì, continuando ad accarezzare il morbido capo del suo cucciolo con fare distratto. Prese nota di avere l’attenzione dell’uomo sotto forma di un lieve cenno d’assenso, e decise di proseguire prima di perdere il coraggio. «Riguarda un diario che ho trovato settimane fa, mentre curiosavo per il castello… Nell’ala Ovest, per la precisione.»
Con la coda dell’occhio notò il lieve irrigidirsi del suo compagno, ma poiché egli non diede mostra di voler interromperla – forse anche lui peccava di curiosità, in fondo – Emma andò avanti. «Era di un certo dottore, un tale Murray, mi pare… E volevo chiedervi per quale motivo fosse in vostro possesso, visto che non mi risulta che ci fosse alcun Murray recente nell’albero genealogico dei Rochester o dei Pemberley. Ho trovato i registri alcune settimane fa», spiegò quando lo vide piegare appena il capo di lato con aria interrogativa. «E ho scoperto anche che il titolo dei Rochester risale all’epoca di Enrico VI, e non ci sono Murray per generazioni. Ad ogni modo, da quanto ho potuto leggere chiunque abbia scritto quel folle diario non pareva essere imparentato con alcuna famiglia nobile, o avrebbe di certo lasciato il suo stemma o il suo titolo da qualche parte tra le pagine. Insomma, ho trovato curioso che quelle memorie fossero nel castello senza che ci fosse nessun legame apparente con i precedenti proprietari; voi avete idea di chi si tratti?»
Adam non le disse che non avrebbe dovuto leggere quel diario in primo luogo e che avrebbe dovuto evitare di ficcare il naso in faccende che non la riguardavano, per il semplice motivo che stava cercando di comportarsi in maniera decente e degna di un qualsiasi altro gentiluomo dell’alta società. Dopotutto, poteva ben capire che la giovane doveva essersi annoiata parecchio per essersi ritrovata a vagare per l’Ala Ovest senza conoscere il luogo e rischiando dunque di perdersi nella stessa casa in cui ora abitava; e d’altronde che male poteva esserci se saziava la sua curiosità al riguardo? Non c’era bisogno di rivelarle grossi segreti – avrebbe potuto parlare del dottor Murray senza far trasparire nulla più che una semplice e frammentaria conoscenza.
Decisione presa, raccolse le idee e le rispose.
«Per quel poco che so, il dottor Murray era un amico del conte di Rochester», iniziò a mezza voce Adam, scegliendo con cura le parole. «Benché discendesse da una famiglia ricca e rispettata, non godeva di una fama altrettanto gentile, e per lo più conduceva una vita solitaria e appartata, ostracizzato dalla società londinese. Per via di alcune sue discutibili ricerche, i suoi stessi colleghi iniziarono a considerarlo un pazzo, un folle visionario… Un eretico, addirittura. Non so tramite quale connessione avesse sviluppato un’amicizia con il conte, e non conosco neanche la vera natura di questo rapporto, ma a quanto pare rimasero in contatto fino alla morte di entrambi. Se avete letto attentamente il diario, di certo converrete che il dottore era incapace di ragionare in modo coerente.»
«Certe riflessioni erano molto elusive», mormorò Emma con delicatezza. «Ma mancano diverse pagine, e forse ho perso qualche collegamento nell’intero discorso. Narrava anche di particolari esperimenti sugli esseri umani, credete sia possibile che li abbia fatti davvero o si trattava solo di semplici vaneggiamenti?»
«Ritenete impossibile che li abbia compiuti, milady? Rimarreste scioccata nello scoprire di che genere di barbarie è capace l’essere umano», replicò egli a mezza voce, il viso rivolto verso le fiamme del camino. Nel suo tono vi era qualcosa che la costrinse a sollevare lo sguardo su di lui, ma con quella maledetta maschera era impossibile comprendere davvero che cosa gli passasse per la testa. Eppure non osava domandargli di levarla, memore del loro primo incontro e della veemenza con cui l’aveva avvertita al riguardo; e, per rispetto di quella strana quiete che si era venuta a formare tra loro, Emma aveva deciso di lasciar perdere.
«Trovo solo strano che un uomo di scienza come egli si definiva potesse ricorrere a biechi mezzi per l’unico scopo di saziare qualche dubbio filosofico», fu la sua prudente risposta. «Insomma, stiamo parlando di qualcosa avvenuta poco più di dieci anni fa a Londra, per l’amor del cielo, una città i cui abitanti vantano un certo grado di civilizzazione. Pensare che qualcuno possa aver trattato un altro essere umano alla stregua di una cavia da laboratorio… Non so, è terrificante.»
«Mh. Terrificante, invero.» La voce di Adam fu un sussurro a malapena udibile al di sopra del crepitio delle fiamme del camino. «Ma forse il dottore si nascondeva dietro una maschera di modernità e progresso con la speranza che il marcio del suo animo rimanesse ben lontana dalla luce… Avete mai letto Il ritratto di Dorian Gray, milady?» Emma fece un breve cenno di diniego del capo: suo padre le aveva proibito la lettura della maggior parte delle opere di sir Wilde, ma ora sperava che il suo ospite potesse sopperire alla sua mancanza. «No? Un romanzo terribile nella sua bellezza. Malgrado le disgrazie che capitavano intorno al protagonista, nessuno avrebbe mai potuto dubitare della sua buonafede, per il semplice fatto ch’egli fosse di bell’aspetto, di discreta educazione ed estrazione sociale e che avesse un particolare affetto per le arti; era un così ottimo esempio di ciò che il gentiluomo inglese deve essere che nessuno avrebbe mai creduto che le sue mani fossero lorde di sangue. Non è su ciò che si basa la società londinese, forse? Sulla repressione di ogni forma di istinto naturale affinché soltanto il perfetto e distaccato involucro dell’apparenza sia tutto ciò che viene giudicato dal prossimo? Probabilmente voi avete avuto la fortuna di crescere in un ambiente sereno di questo tipo, protetta da ogni genere di oscenità, e non posso biasimare di certo i vostri genitori per avervi tenuto alla larga dall’orrido; ma posso assicurarvi che Londra è tutto fuorché una città tranquilla una volta che si esce dagli eleganti salotti dell’aristocrazia. E il dottor Murray… Ammetto di aver letto anche io il suo diario, e devo dire che mi sorprende che un elemento del genere non sia stato rinchiuso in qualche istituto… Ebbene, per essere stato bandito da ogni casa rispettabile doveva aver assunto un comportamento davvero impossibile da ignorare, anche secondo i canoni più tolleranti dell'epoca. Dovreste sapere che se c'è qualcosa di cui sono ben capaci gli inglesi, è il conservare rancore come fosse un gioiello prezioso.»
Emma avrebbe quasi potuto giurare ch'egli parlasse per esperienza strettamente personale, e per un lungo momento dopo che l'uomo ebbe concluso il suo breve discorso rimase in silenzio, incerta e insicura su ciò che avrebbe potuto offrirgli in risposta senza rischiare di offenderlo.
Alla fine, decise di ritornare al principio della conversazione. «Da come ne parlate sembra quasi che voi abbiate conosciuto quest’uomo, e che non ne aveste neppure un’opinione tanto gentile», osservò quasi con noncuranza.
«Perdonate la mia veemenza», si affrettò a scusarsi, voltandosi subito verso di lei. «Le mie sono solo deduzioni e riflessioni ad alta voce. Ho letto spesso quel diario e lo conosco quasi a memoria, e ormai mi pare di conoscere chiunque l’abbia scritto come fosse un mio intimo conoscente. Ma dubito che, avendone avuto l’occasione, avrei potuto instaurare una relazione di alcun genere con un uomo del genere – neppure io sarei stato capace di tollerare qualcuno che spaccia per scienza gli esperimenti di uno squilibrato. Un macellaio che finge di essere un dottore… Certe maschere sono impossibili da comprendere e giustificare.»
Ancora quella parola, ancora quell’esempio; Emma inarcò perplessa un sopracciglio. «Devo dire, signore, voi avete una certa ossessione per le maschere.»
Adam emise una sorta di sbuffo sarcastico. «Voi dite? Non più del resto del mondo, direi. Io ho semplicemente il buon gusto di denunciare la mia e non spacciarla per vera.»
Era una buona risposta, quasi filosofica, ed Emma si ritrovò ad annuire, riconoscendola e persino condividendola. Eppure, dava adito a tante altre domande, e lei non resistette dal porgergliene ancora una. «Allora chi siete voi, veramente?»
Egli parve rifletterci sul serio, e la giovane notò che si stava sforzando di non incrociare il suo sguardo come se temesse, in caso contrario, di dire qualcosa di cui si sarebbe pentito. Fissava con insistenza le fiamme del camino, come se in esse ci fosse la risposta ai quesiti dell’umanità, e tamburellava le dita della mano destra sul bracciolo della poltrona. La pendola ticchettava, ed Emma attendeva.
Alla fine, dopo un silenzio innaturalmente lungo, sospirò rassegnato e scosse appena il capo. «Adam. Sono solo Adam», sussurrò.
La risposta non era esattamente soddisfacente, né tantomeno esaustiva. Egli amava parlare ma non di sé stesso, ed Emma non poté fare a meno di chiedersi, per l’ennesima volta, quale fosse il segreto che si sforzava di nascondere con la stessa estenuante ferocia di chi cela il peccato. Chi era Adam? Chi era l’uomo dietro la maschera? Più ripeteva allo strenuo quei quesiti tra sé e sé, più realizzava che vi era ancora molto che non sapeva; se davvero egli era “solo Adam”, per quale motivo i domestici, e una donna severa e autoritaria come Mrs. Duncan per di più, chinavano il capo e gli obbedivano senza discutere e tremavano persino al solo accenno del suo nome? Era forse pericoloso? Era un criminale che aveva stabilito la sua dimora a Pemberley e minacciava l’anziana coppia di custodi costringendoli a trattarlo da piccolo lord?
Nelle mani di chi era finita, per l’amor del cielo? E perché era così difficile ottenere delle risposte in quel castello dimenticato da Dio?
Osservò con aria pensosa Adam che poneva bruscamente fine alla loro conversazione alzandosi dalla poltrona e attraversando la biblioteca per raggiungere il pianoforte, sedendovisi di fronte e sollevando il copri tastiera con una cura reverente. Continuò a guardarlo mentre si sfilava i guanti un dito per volta per poi posarli accanto a sé sullo sgabello, e i suoi occhi seguirono i movimenti delle sue mani callose mentre apriva lo spartito e cercava una qualche pagina in particolare.
Non appena le sue dita sfiorarono l’avorio dei tasti, la musica sgorgò dallo strumento con l’entusiasmo e la forza di una mareggiata, mettendo a tacere qualsiasi altro suono o pensiero estraneo. Era magnifica, straziante e dolorosa, commovente e drammatica, ondeggiava tra note invadenti come bufere e note delicate e leggiadre come amare carezze. Ed era, sorprendentemente, familiare.
Emma riconobbe immediatamente quella musica.
«Avrei dovuto immaginare che foste voi l’autore misterioso», mormorò a mezza voce, posando il mento sul palmo della propria mano e lasciandosi incantare dalla musica sapientemente composta. Egli fece un breve cenno d’assenso col capo nella sua direzione per confermare la sua gentile accusa, e continuando a suonare per il resto del mattino rese superflua ogni altra forma di conversazione.
Chiunque fosse questo Adam, egli doveva aver di sicuro ricevuto un’educazione degna del più nobile tra gli aristocratici; e ciò non faceva che infittire il mistero che lo circondava.


ljkhjfgh


Lawrence Alexander Moore, quarto conte di Grantham e onorevole membro della Camera dei Lord, dimostrava ormai ben più dei suoi cinquantasei anni. Gli ultimi mesi erano stati una prova difficile tanto per la figlia quanto per lui, e adesso molto più bianco si era aggiunto ai suoi capelli, ed era dimagrito al punto da essere diventato la metà dell’uomo che era un tempo.
Mangiava saltuariamente, più per abitudine e per mettere a tacere le proteste del suo maggiordomo che per vero bisogno, e aveva raddoppiato la sua dose giornaliera di brandy e sigari: il suo bicchiere era sempre pieno, e nel suo studio aleggiava sempre l’odore acre del fumo – sarebbe di certo morto asfissiato se di tanto in tanto non fosse entrata una cameriera a spalancare misericordiosamente le finestre. Dormiva poco, e quando cedeva alle lusinghe di Morfeo non riusciva a riposare – il letto era troppo vuoto per ospitare una sola persona, e per questo aveva iniziato ad appisolarsi sulla poltrona dello studio o nel lettino dello spogliatoio, dove talvolta la sua povera sposa lo costringeva a dormire se durante il giorno avevano avuto un alterco particolarmente appassionato. Se sua figlia Emma lo avesse visto in quel momento, dopo quasi due mesi di lontananza, lo avrebbe di certo rimproverato; ed era questo uno dei motivi per cui aveva preso la decisione di spedirla in campagna – non voleva che la ragazza trascorresse il duro periodo di lutto a preoccuparsi ulteriormente per lui, non era quello il suo scopo, e il conte non voleva diventare un peso o una vergogna per la giovane ereditiera.
Per quanto desiderasse avere la figlia al suo fianco, non le avrebbe mai permesso di assistere alla lenta autodistruzione dell’un tempo onorevole e fiero conte di Grantham.
Anche per questa ragione il conte continuava a rimandare e rimandare il giorno in cui avrebbe dovuto raggiungerla nella loro proprietà del Nord Yorkshire – avrebbe voluto raggiungerla già alla fine del primo mese, ma quando aveva visto le conseguenze della sua solitudine e della sua disperazione, aveva preferito attendere di essere nuovamente in forze, o perlomeno decentemente presentabile. Per il momento, sfortunatamente, la sua situazione era solo peggiorata invece di migliorare, ed era stato con immenso sollievo che aveva accettato la proposta del giovane Caledon di passare a trovare la sua promessa sposa; il ragazzo era stato persino tanto gentile e considerato da prendersi il tempo di spedire una lettera al futuro suocero in cui gli raccontava della visita – di come miss Radcliffe fosse momentaneamente influenzata, di come ritenesse che il castello fosse troppo grande per avere soltanto tre domestici, di come la proprietà intera gli avesse lasciato speranze per il prossimo futuro in cui avrebbe potuto, magari, con la sua benedizione, prendervi residenza dopo il matrimonio. Ma soprattutto gli aveva parlato di Emma in toni così gentili e affettuosi che il conte si ritrovò a provare pena per lui, poiché sapeva bene che i sentimenti della figlia ancora non riuscivano a eguagliare quelli del fidanzato; gli disse di averla trovata in salute, riposata, e che malgrado la preoccupazione naturale per la sua istitutrice e il peso del gestire da sola una simile magione, Emma stava gestendo bene la situazione e a suo parere stava riuscendo pian piano a digerire il lutto.
E dunque con quale coraggio avrebbe potuto raggiungerla? Sarebbe andato a portarle la sua sempre vivida afflizione proprio quando lei ne stava appena guarendo, e al dolore della scomparsa della madre avrebbe solo aggiunto l’apprensione per la condizione fisica e mentale del padre. No, non poteva; avrebbe aspettato ancora, avrebbe cercato di riprendersi, e solo allora l’avrebbe raggiunta. Si fidava di lei e della donna alle cui cure l’aveva assegnata, e benché conoscesse solo tramite corrispondenza gli attuali custodi e domestici di Pemberley, poteva dire di trovarli adeguati e degni a loro volta di fiducia.
Sua figlia era quindi in buone mani, ed era lieto di non doversi crucciare anche per lei.
Era attualmente impegnato a redigere dei documenti riguardanti le proprietà della sua defunta moglie, quando il suo lavoro venne interrotto da un leggero bussare alla porta dello studio. Sulla soglia apparve quindi la figura rigida e impettita di Mr. Logan, il maggiordomo di Hambleton che lo aveva accompagnato a Londra come consuetudine, con un piccolo vassoio tra le mani su cui il conte poté notare una lettera.
«Perdonate il disturbo, milord», esordì Logan, con il suo solito cipiglio severo. «È appena arrivato un telegramma per voi.»
Mettendo da parte i vari documenti egli fece cenno al maggiordomo di avvicinarsi, prendendo un affilato tagliacarte dalla scrivania e usandolo per aprire la busta della lettera. Quindi l’avvicinò alla lampada a gas e, inforcati gli occhiali sulla punta del naso, lesse.

Telegramma di Sir Arthur Carlisle al Conte di Grantham

Milord: ho ragione di credere che vostra figlia sia in grave pericolo STOP Impossibile raccontare ogni cosa per lettera STOP Raggiungete Pemberley Manor il prima possibile STOP In fede, un amico.

«Che diavolo», borbottò sconcertato il conte, rileggendo un altro paio di volte il curioso messaggio. «Quando è stato spedito?»
Mr. Logan diede una rapida occhiata al retro della busta. «Pare… quattro giorni fa, milord. Strano che sia arrivato così in ritardo», rispose, per poi scrutare brevemente il volto rannuvolato del suo padrone. «Va tutto bene, milord?»
Il conte esitò un momento, le dita ancora strette su quel foglio in sé privo di valore. «Non ne sono molto sicuro, Logan, in realtà», rispose, mentre una gelida apprensione si faceva largo nelle sue ossa. «Credo che sia ora di organizzare il mio viaggio a Pemberley Manor, dopotutto. Iniziate a dare disposizioni, vi dispiace? Ho intenzione di partire il prima possibile. Ah, e… Logan?»
«Sì, milord?»
«Informatevi su questo Arthur Carlisle e procuratemi il suo indirizzo. Voglio parlarci.»
Il maggiordomo annuì, conscio dell’improvvisa serietà della faccenda.
«Subito, milord.»
















_______________________________________________________

¹ «I morti viaggiano veloci.» Verso tratto dalla Lenore di Gottfried August Bürger (1747-94), noto poeta tedesco. La ballata canta la fuga di Lenore con lo spettro del suo amante defunto.
_______________________________________________________





Note dell’Autrice.
Chiamatemi Lazzaro – sono resuscitata!
Davvero, non ci sono abbastanza parole per chiedervi scusa. Dopo quasi nove mesi di attesa, partorisco un capitolo riflessivo, uno dei più difficili in assoluto che mi sia mai ritrovata a scrivere, e dove succede poco e niente – però i nostri due protagonisti si limitano ad imparare a conoscersi l’un l’altro, e una conversazione circa-meno-quasi civile è capace di fare miracoli, no?
Parlando brevemente della digressione filosofico/letteraria su Dorian Gray a fine capitolo: chiedo perdono se è confusa, errata o sconclusionata; l’ho scritta pensando a come un personaggio come Adam avrebbe potuto interpretarlo, dunque non la voglio spacciare per vera, sbagliata o altro. E in ogni caso l’arte è relativa e soggettiva, e ognuno la elabora e la comprende a seconda di quali sono le sue esperienze di vita.
E abbiamo anche conosciuto, finalmente, il padre di Emma: spero che non sia uscito come il peggior padre dell’anno, e che le sue ragioni per aver lasciato finora la figlia da sola e a mille miglia da casa siano, se non valide e giustificabili, perlomeno comprensibili?
Come al solito, i ringraziamenti sono d’obbligo. Le vostre recensioni sono sempre meravigliose e le leggo e rileggo in continuazione quando sono bloccata e non so cosa scrivere perché mi tirano su il morale e mi spingono ad andare avanti anche se con i miei tempi lentissimi, e quindi sono sempre ben accette! Un enorme grazie, dunque, a Sylphs, k_Gio_, Sissi Bennett, Jolly J, NinaTheGirlWithTheHat e Se7f per aver recensito con splendide parole lo scorso capitolo, e ovviamente un bacio e un abbraccio enorme a tutti coloro che continuano a leggere, instancabili e fiduciosi, e ad aggiungere la storia a Preferiti e Seguiti!
Non posso farvi promesse per il prossimo capitolo, vi posso dire solo di rimanere collegati e di pregare tutti i santi che conoscete xD Se vi consola io ho il mio bel diavoletto che mi punzecchia con la sua forca e mi fa scrivere fino a non farmi più sentire le dita – o perlomeno ci prova – e sì, Christine23, sto guardando proprio te. ù_ù
Come al solito, per qualsiasi domanda, dubbio, curiosità o semplicemente per un ciao, trovate tutti i link che volete al mio profilo!
E ora vi lascio alla vostra estate con un bacio, un altro abbraccio e tante care cose
Sempre la vostra
Niglia.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Chapter 11. An Unfortunate and Deserted Creature ***


cover



11
An Unfortunate and Deserted Creature
kjòhgfyd











Ero buono: la miseria ha fatto di me un demone.
Rendimi felice, ed io sarò di nuovo virtuoso.
[Mary Shelley, Frankenstein]


Il suono sordo dello sparo rimbombò nella radura come un tuono, provocando l’abbaiare bramoso e furioso dei cani. Ad esso seguì il rapido e brusco clangore metallico del fucile che veniva svuotato dalla cartuccia ormai inutile e ricaricato con una nuova, dopodiché l’arma venne sollevata fino a riposare morbidamente contro la spalla del suo proprietario.
«Ottima mira, milord», complimentò una voce dal ruvido accento scozzese.
Caledon si limitò ad annuire, lo sguardo perso verso un punto indefinito del paesaggio laddove gli animali erano accorsi per recuperare le prede colpite. Con un lieve aggrottare della fronte, l’uomo realizzò che la caccia non aveva più su di lui l’effetto liberatorio e rilassante che aveva un tempo: non riusciva ad avvertire quel piacevole spossamento dovuto a una lunga giornata trascorsa in campagna tra amici, cani e cavalli, ma solo il fastidio derivante da un’apatica indolenza che non gli apparteneva.
Solo l’anno prima la stagione di caccia aveva occupato interamente la sua mente e le sue forze, i pensieri completamente rivolti all’eccitazione e alla sensazione di potere che procurava il possedere e utilizzare un’arma così elegante e letale davanti alla quale nessuna preda era al sicuro; adesso, invece, tutto sembrava avvolto da un velo cupo di ansia e preoccupazione che non lo lasciava riposare in pace.
Principale colpevole del suo attuale stato d’animo era l’incomprensibile silenzio da parte di Emma. Le aveva già inviato tre lettere, nessuna delle quali aveva ricevuto risposta – cosa che trovava oltremodo curiosa, considerando il caloroso benvenuto che aveva ricevuto da parte sua quando era andato a trovarla a Pemberley. Era forse rimasta offesa in qualche modo? Si era comportato male, magari, aveva oltrepassato i limiti quando era stato costretto a rimanere a dormire al castello?
Forse il servizio di posta del villaggio era semplicemente poco affidabile, ma qualcosa gli diceva che l’assenza di notizie da parte della sua fidanzata aveva ben altre radici. Dopotutto, malgrado fossero trascorsi già dieci giorni, non era la prima volta che Emma faceva passare tutto quel tempo da una missiva all’altra; per quanto amasse leggere, infatti, non si poteva dire che nutrisse altrettanta passione per la scrittura. Certo però, che non le sarebbe costato nulla rispondere almeno a una di esse; a questo punto si sarebbe accontentato persino di poche righe, in cui lo assicurava che tutto andava bene…
«Milord? Stanno per liberare il secondo stormo di fagiani», lo avvisò la medesima voce di prima, interrompendo i suoi sciocchi sogni ad occhi aperti.
Caledon si riscosse, voltandosi verso il cacciatore scozzese che gli faceva da accompagnatore nei terreni sconosciuti delle Highlands.
«Credo che tornerò in paese, signor Fraser. Oggi la mia mente non è abbastanza concentrata sulla caccia», ammise con un tono di scusa, levandosi il fucile dalla spalla e porgendolo al cacciatore dopo averlo scaricato. «Potete avvisare voi gli altri, quando raggiungete il luogo d’incontro?»
L’uomo annuì, grattandosi pensieroso un lato della barba. «Aye, milord. Ricordate la strada per tornare a Inverness? O preferite che vi accompagni uno dei ragazzi?» Aggiunse, indicando i due adolescenti del villaggio incaricati di portare scorte e provviste.
«Grazie, ma non sarà necessario», rifiutò Caledon raggiungendo la propria cavalcatura. «Potrei voler fare qualche piccola deviazione. In bocca al lupo per il resto della caccia, signor Fraser», lo salutò, salendo in sella e lanciando l’animale al galoppo. Forse una lunga cavalcata in solitaria era ciò di cui aveva bisogno per schiarirsi la mente.

Quella sera, una volta che gli ospiti londinesi della locanda si furono ritirati nel salotto dopo cena, tutti ancora piuttosto euforici per la giornata di caccia, Caledon venne avvicinato dal figlio cadetto del defunto conte di Granville, Bradley Levenson-Gower, uno dei suoi più cari amici dai tempi di Cambridge, rientrato in patria da pochi mesi a seguito della conclusione del suo soggiorno su una fregata in mezzo all’Oceano.
«Sei tremendamente poetico seduto da solo accanto al camino, Caledon, amico mio», esordì con un mezzo sorriso il giovane tenente della Marina Britannica, prendendo posto sulla poltrona al lato opposto del focolare. Qualcuno iniziò a suonare una ballata locale al pianoforte lì accanto, e Bradley approfittò del sottofondo per intavolare una conversazione più o meno seria con il suo vecchio amico. «Potrei capire se ci fossero delle fanciulle da conquistare, ma tra uomini… Via, qual è il tuo problema?»
Caledon sospirò, strofinandosi le tempie con due dita. «Non c’è nessun problema, Bradley, ti assicuro.»
L’amico aggrottò la fronte, per nulla convinto. «Stai girando e rigirando quel brandy da dieci minuti e non hai ancora bevuto un sorso, e sei rientrato alla locanda a metà caccia senza aspettare che finissimo tutti. E hai quest’aria irritata da quando siamo arrivati…»
«L’aria di mare deve averti dato alla testa, marinaio», lo interruppe l’altro con uno sbuffo, mandando giù un sorso del liquore quasi per dispetto. «E un inglese che si rispetti non parla dei propri problemi dopo cena. Mi hai preso per un francese?»
La risata brusca e ruvida di Bradley rasserenò appena l’atmosfera. «Dio ci salvi dai francesi», replicò con prontezza, lieto in cuor suo di notare finalmente una certa leggerezza nell’atteggiamento dell’amico. In silenzio, infilò una mano dentro la propria giacca e ne tirò fuori una scatolina con fregi preziosi, aprendola con uno schiocco e mostrandogliene generosamente il contenuto. «Sigaretta? No?» Bradley scrollò le spalle al cenno negativo di Caledon, limitandosi a sfilarne solo una dall’elegante contenitore argentato e facendolo sparire nuovamente all’interno di una tasca. «Avanti, confidati pure. Ti puoi fidare della discrezione di un uomo di mare.»
Caledon sbuffò, la fronte ancor più aggrottata. «Non c’è nulla da confidare», mentì seccamente. Difatti, il tenente sapeva come ogni mattina egli attendesse impaziente l’arrivo della posta, per poi ritirarsi come un cane bastonato nella sua stanza quando il corriere non gli consegnava nulla.
«Certo che c’è», fu la laconica risposta di Bradley. «Ma non voglio farti pressione: inizia pure a parlare quando te la senti.»
Un ceppo si spaccò a metà all’interno del camino, facendo volare scintille rosse e gialle in varie direzioni senza fortunatamente raggiungere il tappeto. Cal seguì con gli occhi il percorso di una di esse, racimolando idee e parole, e solo quando essa cadde a morire sulla pietra grezza del focolare, spegnendosi delicatamente, si decise a degnare l’invito dell’amico di una risposta. Dopotutto, la cavalcata non gli era stata di alcun conforto: forse chiacchierare con un suo pari lo avrebbe aiutato a portare pace e ordine tra i suoi pensieri.
«Sembra di essere di nuovo a Cambridge», mormorò con un mezzo sospiro, facendo scorrere uno sguardo distratto sugli altri compagni che si divertivano in vari punti del salotto, tra giochi di carte e amichevoli scommesse. Bradley si limitò a inspirare una boccata dalla sigaretta, attendendo paziente che il suo amico trovasse la forza di sfogarsi.
«Allora, la nostra unica preoccupazione era sfidare i ragazzi di Oxford e vedere in quanti guai potevamo cacciarci prima che lo venissero a scoprire i nostri genitori e decidessero di prendere provvedimenti. Ricordi quando facemmo circolare quei pamphlet anti-imperialisti? I professori minacciarono l’espulsione… Dio», sospirò serrando gli occhi, e premendosi una mano sulle palpebre doloranti. «Ero così stupido, eppure avevo già seppellito una fidanzata ed ero stato promesso a un’altra.»
Bradley lo osservò attentamente, le orecchie tese al minimo accenno di tremore nella voce altrimenti quieta del suo compagno; l’amicizia che vi era tra loro non si metteva in discussione, la confidenza pure – e ciò nonostante pareva che Cal non si volesse esprimere più di tanto su qualsiasi cosa lo turbasse, come se parlarne avrebbe significato riconoscere che ci fosse effettivamente qualcosa che non andava, e avrebbe così dato forma e peso a un problema che in caso contrario avrebbe potuto nascondere, ignorare, persino fingere che non esistesse.
Tuttavia, non era nell’interesse di nessuno nascondere la testa nella sabbia, e certo non si addiceva a un futuro lord con un nome rispettabile.
«Sai, ricordo un tempo», esordì Bradley con affettata noncuranza, le dita abbronzate che giocherellavano con un accendino. «Un tempo in cui non eri per nulla felice di questo fidanzamento. Ti lamentavi della troppa differenza di età, piangevi la dipartita della tua precedente promessa, rifuggivi ogni tentativo dei tuoi genitori di farti conoscere la giovanissima lady Moore. E ora metti il muso se la povera donna non risponde alle tue lettere? Di cosa ti lamenti, amico mio? Cos’è che le rimproveri di preciso?»
Il futuro lord Suffolk lanciò un’occhiata severa e particolarmente infastidita in direzione dell’amico, ben conscio di quali fossero i propri sentimenti all’epoca del college e per nulla desideroso di rievocarli.
«Non le rimprovero niente», sibilò a denti stretti, afferrando con malcelata rabbia il bracciolo della poltrona e facendosi sbiancare le nocche. «Tu parli delle lamentele di un ragazzino, e quel ragazzino adesso è cresciuto.»
Bradley scrollò scompostamente le spalle, per nulla colpito. «Menti pure a te stesso se la cosa ti aggrada, mio caro Cal, ma abbi la cortesia di darmi più credito. Io ti conoscevo allora e ti conosco adesso, e anche se avremo poche occasioni di frequentarci ti conoscerò ancora fra dieci anni.»
Caledon si arrese a sopportare il tono irrispettoso del suo amico, e si limitò ad assecondarlo con un sospiro mediamente costernato. «E con questo che cosa vorresti dire?»
«Ti vorrei dire di smetterla di struggerti per una donna che apparentemente non ti desidera quanto tu pensi di desiderare lei», ribatté senza remore il giovane, rilasciando un acre filo di fumo dalle narici. «Che senso ha? Non siamo in uno di quei romanzetti d’appendice di miss Austen, amico mio: non conquisterai la ragazza con danze e passeggiate nel parco. Non ne hai bisogno! È praticamente già tua, che differenza vuoi che faccia se lei arde d’amore per te o no?»
Uno scocciato rotear d’occhi espresse ciò che l’uomo pensava davvero del parere dell’amico. «Adesso parli come mio padre», l’ammonì a mezza voce, non gradendo particolarmente la piega presa dal discorso.
L’altro lo fissò di sbieco. «Mi chiedo perché non l’abbia ereditata tu quella parte del suo carattere, in effetti. Di sicuro ti avrebbe reso la vita più facile.»
«Dici così perché non la conosci, probabilmente neanche l’hai mai vista», fu la secca risposta di Caledon, che si sentiva in dovere di difendere la fidanzata anche quando quest’ultima lo stava facendo dannare.
«Non certo per colpa mia: è mio fratello quello che viene invitato agli eventi pubblici, io sono soltanto lo scomodo secondogenito con la fama di avere un’amante in ogni porto. Ah, se solo fosse vero», sospirò Bradley con l’accenno di un sorriso, per nulla intimidito dal severo cipiglio che continuava a rivolgergli l’amico e, anzi, da esso divertito. «Continua a guardarmi così, Cal, e non riuscirai più a spianare la fronte.»
Finalmente infastidito dall’atteggiamento di Bradley, Caledon si sporse bruscamente verso di lui e gli strappò la sigaretta di bocca, gettandola senza riguardi nel caminetto acceso. «Possiamo evitare di discutere della mia vita privata in pubblico?» Sibilò, prima di tornare alla sua posizione.
Bradley si limitò a scoppiare in una risata onestamente divertita. «In pubblico? Cal, non ti sta ascoltando nessuno. E anche se fosse», continuò con une breve scrollata di spalle. «Nessuno ha una coscienza così pulita e abbastanza irreprensibile da essere nella posizione ottimale per giudicare il prossimo. Neanche gli uomini di chiesa.»
«Non temo certo il giudizio altrui. Non ho fatto niente di cui vergognarmi, dopotutto», ribatté Caledon, volgendo lo sguardo verso le fiamme e fissandole con insistenza. «E se anche tu pensi che sia ridicolo essere irritato nel non ricevere una sola parola dalla propria futura moglie in una decina di giorni, allora questa conversazione è finita, e puoi andare a esaminare la vita di qualcun altro.»
«Dio, questa donna ti sta distruggendo. E non l’hai ancora neppure sposata», mormorò l’amico, incapace di trattenere un sorrisetto. Poi sospirò, scrollando le spalle in un cenno di resa. «Andiamo, non arrabbiarti con me, ti sto solo offrendo l’occasione di sfogarti. Suppongo che il suo comportamento non sia perfettamente ortodosso, ma d’altronde la situazione non è delle migliori. È in lutto, Cal – la madre è morta da neanche due mesi e suo padre l’ha spedita in campagna con la sua istitutrice. Non credo che abbia molta voglia di impiegare tempo in lettere d’amore.»
«Ebbene, è questo il problema, no?» Sibilò, mascherando con rabbia la propria miseria. «Lei non mi ama; dubito persino che mi voglia. E non la biasimo, davvero – voglio dire, neppure io ero molto entusiasta di questa unione all’inizio, ma sono passati anni! E quello che provo per lei non l’ho mai provato neanche per sua sorella. E credevo… credevo che il mio sentimento sarebbe bastato, che mi avrebbe reso amabile ai suoi occhi, ma tutto ciò che ottengo da lei è venir considerato come una transazione d’affari da cui non può scappare.»
Bradley lo osservò attentamente, gli occhi stretti, senza più tanta voglia di scherzare. «Allora perché non sciogli il fidanzamento? Sei ancora in tempo. E ti risparmieresti una vita infelice.»
«No», fece subito Caledon, scuotendo il capo. «No. Mio padre non me lo permetterebbe, e sarei infelice in ogni caso… Sposandola, almeno, l’avrei al mio fianco; e sono certo che prima o poi arriverà a tenere a me. Se così non fosse, saremo infelici entrambi, ma lo saremmo insieme.»
«Una ben triste prospettiva, se vuoi il mio parere», mormorò pacato Bradley, i cui occhi non mancavano di scrutare attentamente l’amico. «Non ti facevo così egoista, amico mio.»
«Neanche io credevo di esserlo», ribatté l’altro, distogliendo lo sguardo. «Ma Emma… Dio, è come se mi avesse trasformato in un uomo che stento a riconoscere io stesso. Sono pazzo a desiderarla così tanto?»
«Forse», ammise Bradley senza mezzi termini. «È solo una donna, Cal», aggiunse poi, con un tono appena più conciliatorio.
Eppure Caledon non poteva trovarsi d’accordo. Definire Emma ‘solo una donna’ sarebbe stato come dire che l’oceano non è che una pozzanghera d’acqua più profonda; ma spiegare una cosa del genere a qualcuno che non la conosceva – che non aveva mai desiderato possederla in ogni singolo modo in cui è possibile possedere una donna, che non aveva provato la sua passione, la sua brama, la sua disperazione – era, in ogni caso, impossibile. Bradley avrebbe potuto comprendere parte della sua ossessione solo se l’avesse provata lui stesso, sulla sua pelle; e, conoscendo il suo amico, ciò non era mai accaduto.
Per cui decise di lasciar cadere l’argomento, e con un lieve scrollare delle spalle e un sorriso di interna autocommiserazione, Caledon sollevò in brindisi il bicchiere di brandy e lo trangugiò tutto d’un sorso. Avrebbe pensato a Emma in un altro momento, decise.

banner

Negli ultimi giorni le stava capitando spesso di sognare a occhi aperti.
A volte, quando Adam era impegnato a suonare o giocherellare con Aramis – che, curiosamente, pareva essersi affezionato al padrone di Pemberley più di quanto le circostanze non avessero lasciato presagire – e lei sedeva con un qualche libro in grembo, le dita tra le pagine a tenere il segno, Emma si ritrovava a seguire treni di pensieri con la medesima assorta attenzione di una bambina intenta a immaginare il suo primo ballo.
Pensava soprattutto a suo padre, solo ad Hambleton Abbey o nella loro vuota casa di Londra, che forse dopo settimane di silenzio da parte sua iniziava a realizzare l’incoscienza dell’aver spedito la sua unica figlia a vivere in una lontana tenuta in mezzo al nulla; pensava, con la gola chiusa dal dolore e dalla nostalgia, agli ultimi mesi di sofferenza che era stata la vita di sua madre; pensava a Caledon, a seconda di dove vergevano i suoi pensieri, e pensava soprattutto ad Adam – a quell’uomo che parlava e si comportava in maniera distinta e che malgrado tutto la teneva rinchiusa, che discuteva con lei di libri e filosofi benché avesse l’aria di non essersi mai allontanato dal castello, che la intratteneva con il pianoforte e facendole visitare Pemberley, ma che raramente rispondeva alle sue domande se vertevano su se’ stesso.
Ma, principalmente, lady Moore pensava alla sua povera sorella maggiore, ed esaminava come sarebbe stata la sua – la loro – vita se quell’incidente non ci fosse mai stato, e se invece di morire per quella caduta la sua infanzia e la sua adolescenza non avessero proseguito come sarebbe stato giusto che facessero. Tanto per cominciare, Lizzie sarebbe stata ancora fidanzata – se non forse persino già sposa – di Caledon; sarebbe stata sua la spalla su cui Emma avrebbe pianto al funerale della loro madre, e probabilmente la sorella l’avrebbe accolta in casa sua – sua e di Caledon – durante il periodo di lutto. Non ci sarebbe stato nessun maniero nel cuore della brughiera, nessuno l’avrebbe costretta ad andarci a vivere da sola, e soprattutto non vi sarebbe stata tenuta prigioniera da un uomo dalle dubbie origini, che ancora non le aveva detto con sincerità che cosa desiderasse da lei. Aveva un modo di guardarla che la faceva rabbrividire – i suoi occhi la seguivano ovunque, famelici, se ne rendeva conto malgrado la maschera…
Anche se faceva di tutto per nasconderglielo, comportandosi come se si fosse trovata tra persone del tutto comuni e civili, egli la terrorizzava; e questo terrore che non poteva fare a meno di provare la faceva sentire in colpa, perché l’uomo le aveva salvato la vita, e tutto sommato la trattava con un riguardo in cui Emma non trovava difetti.
Emma aveva inoltre ripreso a dormire nella sua vecchia camera da letto, nell’ala Est del maniero. Con il passare dei giorni Adam sembrava iniziare a fidarsi sempre di più di lei e del fatto che non avrebbe più tentato di fare una cosa tanto sconsiderata come scappare nel cuore della notte, e dopo parecchie raccomandazioni da parte sua che le avevano rammentato quelle di Mrs. Duncan – non uscire dalla stanza dopo mezzanotte ed evitare di gironzolare per i corridoi nelle scure ore del primo mattino – Emma si era finalmente riappropriata dei suoi oggetti personali e del letto che aveva ormai preso a definire suo.
La biblioteca era, inoltre, diventata il suo unico santuario nell’intero castello. Per qualche motivo a lei sconosciuto, Adam si rifiutava di entrarvi senza esservi invitato da lei, ed Emma, dal canto suo, gli faceva la cortesia di non trascorrervi le intere giornate privandolo di quella compagnia ch’egli le aveva tanto supplicato. Quando non era con lei, il padrone si teneva impegnato nell’ala Ovest – facendo Dio solo sapeva cosa – zona in cui la giovane aveva deciso e infine promesso di non mettere più piede da quando aveva ripreso possesso della propria camera da letto. Salvo i pranzi e le colazioni, che consistevano in occasioni brevi e sobrie che non richiedevano neppure l’allestimento trionfale della sala da pranzo, Emma e Adam mangiavano insieme – o era forse meglio dire che lui le faceva compagnia durante la cena, poiché per via della sua maschera egli si rifiutava tuttora di mangiare di fronte a lei.
Malgrado ciò che il suo carceriere poteva pensare, e nonostante la strana aria di pacata tolleranza che si era creata tra loro, Emma non era del tutto certa di potersi fidare come egli avrebbe desiderato.
Certi atteggiamenti e modi di fare la lasciavano perplessa, e la costringevano a rimanere all’erta – piccoli scatti delle mani, come se di punto in bianco volesse allungarle verso di lei e ghermirla, e che venivano immediatamente celati e repressi nel vano tentativo di nasconderglieli; i suoi occhi chiari che ogni tanto, quando parlava con lei o semplicemente le sedeva accanto, in amichevole silenzio, parevano diventare neri per pochi secondi, come se un’ombra temibile si posasse su di essi, e che parevano trasformarlo in una persona del tutto differente; e quella maschera, buon Dio, quella maledetta maschera che era a suo avviso il più palese indizio della malafede dell’uomo, perché che senso aveva insistere nell’indossarla anche dopo i giorni che avevano trascorso civilmente, le promesse fatte, la fiducia offerta?
Non poteva fidarsi di lui fintantoché Adam continuava a nascondere le sue fattezze e la sua identità: Emma avrebbe supposto il peggio da parte sua fino a quando egli non avesse avuto il coraggio e la delicatezza di toglierla e farsi vedere, poiché lei non osava allungare la mano e strappargliela – ancora rabbrividiva quando rammentava qual era stata la sua reazione la prima volta che aveva tentato.
Inoltre, il mistero che lo avvolgeva – tutto quel non sapere – non faceva che incrementare la sua paura; Emma era infine giunta alla conclusione che qualsiasi cosa egli si stesse ostinando a celare non poteva essere di certo peggiore di tutto quello che lei era arrivata a immaginarsi pur di sopperire alla mancanza. Ormai non escludeva neppure l’ipotesi di un orrendo incidente – qualcosa che lo aveva, forse, lasciato sfigurato, costringendolo a rifuggire il resto del mondo e trovare rifugio in un luogo desolato come Pemberley. E pur tuttavia ciò non spiegava perché i domestici gli fossero così fedeli – al punto da tradire lei stessa, che era sulla carta la legittima proprietaria della magione – e c’era sempre la faccenda di quella lapide, nel vecchio cimitero abbandonato, con il suo nome inciso e delle date che, ad ogni modo, non corrispondevano.
Con l’occhio arguto ed esercitato dell’aristocratica, Emma non aveva mancato di notare alcuni piccoli dettagli riguardo la sua persona che le avevano rivelato molto più di quanto non avesse fatto lui stesso. Per esempio, non poteva che ammirare la foggia precisa ed elegante degli abiti che indossava, curati al dettaglio con una cura quasi maniacale – ma non sfuggì alla sua attenzione che lo stile di questi ultimi era sorpassato, fuori moda, e che gli orli e le cuciture erano consumate, appena lise; le sue scarpe, benché di foggia artigianale, erano logore. Ovviamente, il tutto era pulito e rammendato alla perfezione – lady Moore suppose si trattasse del lavoro instancabile della signora Duncan – ma nell’insieme dava l’apparenza di qualcuno che doveva aver trascorso gran parte, per non dire l’interezza, della sua vita rinchiuso tra le mura di Pemberley Manor.
Il pensiero non poté che provocarle un’enorme pena per quell’esistenza terribilmente solitaria.
Non aveva neanche più il conforto di parlare con Mrs. Duncan, o persino Noah – era evidente che i domestici obbedivano alle leggi di Adam, e lui doveva aver ordinato che nessuno le rivolgesse la parola, forse nel timore che qualche oscuro segreto venisse rivelato? Solamente a Lydia era permesso avvicinarla, poiché Emma aveva bisogno dell’aiuto di una cameriera per vestirsi e pettinarsi, ma la povera ragazza era muta e non si sforzava neppure di fingere di ascoltarla, limitandosi a fare il suo lavoro e scappare poi via, tremante, come un topolino spaurito.
Seduta su una poltrona di fianco al letto della sua istitutrice, Emma tirò discretamente su con il naso e si asciugò le lacrime con un lembo del vestito, abbassando poi gli occhi sulla donna per vedere se qualcosa fosse cambiato nella sua condizione. Aveva letto per lei per quasi tutta la mattina, alternando capitoli su capitoli a momenti di pianto silenzioso, e fino a quel momento la sua voce non aveva ottenuto nessuna reazione sulla malata; ma Emma era intenzionata a non arrendersi: miss Radcliffe l’aveva praticamente cresciuta, e lei l’aveva già trascurata troppo.
Con un sospiro rassegnato voltò pagina e riabbassò lo sguardo sul libro, riprendendo la lettura di uno dei romanzi favoriti della donna. «Che cosa strana sono mai i presentimenti, le simpatie e anche i presagi! Tutti insieme formano un mistero di cui l'uomo non ha peranco trovata la chiave. Non ho mai riso dei presentimenti in vita mia, perché ne ho avuto certuni stranissimi...[1]»
Nel corridoio, nascosto appena dietro lo stipite della porta, Adam la ascoltava in religioso silenzio. Non aveva più osato chiederle di leggere per lui da quella prima sera, così adesso approfittava delle volte in cui la ragazza lo faceva per la sua istitutrice; si domandò che cosa avrebbe pensato di lui se avesse scoperto che la spiava dalle ombre come un cucciolo bisognoso di attenzioni – forse l’avrebbe disgustata, o magari avrebbe avuto compassione di lui e gli avrebbe chiesto di avvicinarlesi senza timore?
Udì dei passi avvicinarsi alla camera e sollevò lo sguardo sull’intruso, aggrottando la fronte nel vedere la sguattera, Lydia, giungere tremante come un topolino con un vassoio tra le mani. Gli occhi della ragazza si posarono su di lui, sgranati, e la poveretta si affrettò ad accennare un inchino senza rovesciare il portavivande. Fece scorrere lo sguardo da lui alla porta della stanza, cercando probabilmente di trovare un modo di entrare senza passargli troppo vicino, ma fu Adam infine a toglierla da quell’impiccio. Posò il dito indice sulla propria maschera in direzione della bocca, invitandola al silenzio, e poi più rapido e silenzioso di un’ombra le diede le spalle e sparì dietro qualche passaggio nascosto nella parete.
Lydia deglutì, atterrita – il padrone le faceva sempre quell’effetto – e dopo aver preso un profondo respiro si decise a raggiungere milady. Davvero non invidiava la povera donna.

kjlhjhf

I domestici di Pemberley Manor sembravano essersi abituati senza troppa fanfara alla nuova routine che riguardava il padrone e la sua ospite, benché né Mrs. Duncan né suo marito comprendessero ancora che cosa Adam sperava di ottenere nell’ostinarsi al voler approfondire la conoscenza di lady Moore. Non sarebbe stato più cauto continuare a celare la propria presenza, finché la ragazza e la sua istitutrice non si fossero stancate della solitaria vita di campagna e fossero tornate a Londra? Malgrado tutto, la signora Duncan era preoccupata per il suo padrone – lo aveva protetto da che era fanciullo, eternamente leale, con tutto ciò che ne era derivato.
E adesso, egli rischiava la propria incolumità per cosa – un’infatuazione?
Il terrore che avevano provato quando avevano avvertito Adam che la giovane viscontessa non si trovava nella sua stanza, che era scappata, poi, era stato indescrivibile. Il padrone aveva capovolto sedie, fracassato suppellettili, soffiato e ringhiato come una bestia feroce contro di loro e contro la ragazza, fino a quando non erano riusciti a placarlo il tanto sufficiente per spiegarsi. Avevano cercato di convincerlo un po’ con le buone e un po’ con le cattive di non essere per nulla responsabili di quella fuga, di non avere idea di dove lady Moore potesse essere né di come avesse fatto a fuggire da sola, e alla fine solo le lacrime e le suppliche della signora Duncan avevano sortito l’effetto sperato – placare il padrone.
Egli aveva lasciato la loro stanza con minacce e imprecazioni, e i poveri Duncan avevano trascorso le ore successive a pregare che nulla fosse accaduto alla ragazza e che Adam riuscisse a trovarla prima che ella fosse troppo lontana, o peggio.
Il padrone era infine tornato al castello poche ore prima dell’alba, completamente infangato e fradicio, incurante dell’acqua sporca che grondava su tappeti e pavimento, e per grazia divina tra le braccia reggeva l’esanime fanciulla.
Margareth Duncan lo comprese non appena ebbe posato gli occhi su di lui – Adam era livido. La rabbia che emanava pareva quasi tangibile e lo avvolgeva a mo’ di mantello, rendendolo ancora più minaccioso e inavvicinabile di quanto già non fosse normalmente. Non aveva parlato, se non per ordinare con fare secco e brusco al signor Duncan di accendere il camino nel suo salotto privato e a lei di preparare un bagno caldo per la ragazza. Quei momenti erano passati in un lampo, confusi e burrascosi come un incubo, e solo alla fine, quando lady Moore riposava al caldo nel suo letto e Adam si fu rinchiuso nel suo studio a placarsi, i poveri domestici poterono tirare un sospiro di sollievo.
Per quanto potessero compatire la giovane e inconsapevole ragazza, non era nulla davanti al timore che provavano nei confronti del padrone: avevano convissuto con i suoi attacchi d’ira, gli scatti violenti, i bruschi balzi d’umore per troppi anni per riuscire a mettere da parte le loro paure e aiutare lady Emma.

ooòuiyfty


Quando scese a colazione accompagnata da uno scodinzolante Aramis, Emma trovò Adam ad attenderla nella sala da pranzo. Per un attimo rimase interdetta, ferma immobile sulla porta, lo sguardo che saettava da una parte all’altra della stanza come se si aspettasse – come se sperasse – che Mrs. Duncan sbucasse fuori da qualche angolo e la rassicurasse con la sua presenza. Tuttavia ciò non accadde, e ospite e padrone si trovavano soli; egli si alzò non appena la giovane ebbe varcato la soglia, avvicinandosi a scostarle la sedia dal tavolo alla destra rispetto a dov’era seduto lui, e cercò poi di passare inosservato mentre offriva della pancetta al cucciolo che pareva ormai averlo preso in simpatia.
«Avete dormito bene nella vostra stanza?» Le chiese quando si fu riaccomodato, offrendosi di versarle una tazza di tè.
Emma gli rivolse una breve occhiata perplessa e suo malgrado incuriosita – per quale motivo si ostinava a farle compagnia durante i pasti se quella maschera gli impediva di mangiare come un normale cristiano? – e poi scrollò il pensiero con un lieve cenno affermativo del capo. «Sì, grazie. Ho dormito meglio sapendo di avervi restituito il vostro letto», rispose gentilmente dopo una breve esitazione, iniziando a piluccare dei toast con burro e marmellata e fingendo come al solito che l’essere osservata mentre mangiava non le desse fastidio.
Adam parve imbarazzato a quell’accenno – come se preferisse non indugiare sul fatto che Emma avesse dormito per diverse notti nella sua stanza e tra le sue coperte – e borbottò qualcosa che suonava come una rassicurazione e una richiesta di non preoccuparsi inutilmente per lui.
«Vi siete affacciata alla finestra? Ha nevicato, la notte scorsa», la informò quietamente, passando ad Aramis un’altra fettina di pancetta. «Se l’idea vi ispira, potrei accompagnarvi per una passeggiata nel parco. Mostrarvi i terreni della tenuta.»
La giovane sollevò subito lo sguardo su di lui, sorprendendolo con il luccichio chiaramente eccitato che danzava nei suoi occhi. «Dite davvero? Sì, se non vi è di alcun disturbo mi piacerebbe molto», lo rassicurò in fretta, quasi temendo che la proposta potesse venire ritirata. Onestamente, l’idea di mettere finalmente il naso fuori dopo lunghi giorni passati segregata dentro il maniero le aveva portato una piacevole ondata di sollievo.
«Perfetto, andremo subito dopo colazione», annuì Adam, posando le mani intrecciate sul tavolo. «Vi consiglio di indossare abiti pesanti, perché fuori fa freddo e voi siete appena guarita.»
«Posso portare anche Aramis?» Domandò; il cucciolo, sentendo pronunciare il proprio nome, si voltò verso di lei con le orecchie tese e la coda che ondeggiava rapida sul marmo del pavimento, le fauci spalancate in una sorta di strano sorriso.
Adam piegò il capo di lato in un gesto stranamente canino. «Se siete sicura che non scapperà via…»
«Oh, no», si affrettò ad assicurare lei. «Aramis è addestrato.»
«Allora suppongo non ci sia nulla di male», acconsentì il padrone.
Emma annuì, riabbassando gli occhi sulla propria colazione con una piccola ruga tra le sopracciglia. Per quale motivo gli stava offrendo tutta quella confidenza? Perché accettava la sua presenza con tanta serenità? Non poteva dimenticare che l’uomo era ancora un estraneo, uno sconosciuto che le celava la propria identità e che, malgrado l’apparenza da gentiluomo e i modi men che affabili, la teneva comunque prigioniera.
Si domandò fino a quando sarebbe riuscita ad assecondarlo – e, insieme a quella riflessione, ne giunse subito un’altra: chissà se sarebbe riuscita a far arrivare a suo padre la notizia di ciò che le era successo? Non aveva più scritto una lettera dalla visita di Caledon, né a lui né a lord Graham, ma d’altronde non ne aveva neppure ricevuto da parte loro. Dunque, poiché dubitava che i due uomini si fossero dimenticati di lei, Emma poteva solo pensare che le loro lettere fossero state intercettate da Adam o dai domestici, e per qualche ragione le fosse stato impedito di entrarne in possesso.
Se la sua relazione con il padrone, sempre se di tale si potesse parlare, si fosse mantenuta su dei toni civili e cordiali, Emma suppose che avrebbe potuto domandare spiegazioni. Alzandosi dal tavolo e scusandosi per andare a cambiarsi, la giovane decise che avrebbe sollevato l’argomento più tardi, durante la passeggiata.

llfkd

Le suole dei loro stivali scricchiolavano sulla neve fresca, lasciando lievi impronte lungo il sentiero. Mentre Aramis li precedeva, annusando e marcando con invidiabile entusiasmo ogni albero e cespuglio e chiazza di terreno priva di neve, Emma aveva dovuto accettare il braccio di Adam per evitare di scivolare sul terreno ghiacciato, ma stranamente quel tocco non le dispiaceva più di tanto; il suo anfitrione era solido sotto la sua mano, ed emanava un piacevole calore che rendeva meno sgradita l’aria fredda del mattino che li circondava.
Ascoltava con attenzione ciò che lui le raccontava – in quell’angolo vi era l’accesso a una sorta di labirinto che era stato costruito con pietre e siepi più di un secolo prima dagli allora conti di Rochester, e che sarebbe stato meglio accessibile con il sopraggiungere della primavera; dall’altra parte, malgrado la vegetazione selvaggia e incolta le nascondesse alla vista, c’erano le fontane; più giù, nella piccola vallata oltre quel pendio, c’era un piccolo fiume artificiale che andava poi a tuffarsi tramite delle gallerie sotterranee al lago che lei stessa aveva già avuto modo di vedere; e, seguendo la stradina che si diramava dai giardini intorno al castello fino a quel fiume, si poteva godere di una visione pressoché completa della tenuta, con i suoi boschetti, le pagode, i piccoli tempietti in marmo e pietra che dovevano un tempo essere stati protagonisti di splendide giornate estive di caccia o che magari avevano ospitato i picnic della contessa e le sue ospiti, circondate da fiori e musiche e risate.
Tutto ciò che Emma vedeva adesso era una distesa infinita e desolata di neve, alberi con rami nudi e nodosi, erba incolta che spuntava saltuariamente dal sottile manto bianco che ricopriva la terra, e ovunque il segno inconfondibile dell’abbandono che aveva inselvatichito ogni cosa; eppure, se si lasciava incantare dai racconti di Adam – come faceva a sapere tutte quelle cose, ad ogni modo? Le aveva forse vissute? Quanti anni aveva, e chi era, per essere così informato? – se stringeva gli occhi e lasciava che la fantasia e l’immaginazione prendessero il sopravvento, non le veniva difficile figurarsi come doveva essere stata, in un tempo distante e più sereno, la vita a Pemberley.
L’intera proprietà era così grande, aveva poi continuato a spiegarle Adam, che conteneva persino tre piccoli palazzi, la cui funzione era stata quella di ospitare i visitatori più illustri che gradivano giungere con il proprio seguito di domestici; ciò accadeva tuttavia di rado, così essi venivano utilizzati come punti di ristoro durante le battute di caccia, giacché il castello risultava troppo distante e per rientrarvi occorreva del tempo.
«Mi piacerebbe visitarli», ammise Emma sinceramente, mentre attraversavano uno dei ponticelli in pietra del fiume. «Ad Hambleton non ne abbiamo, suppongo che il motivo risieda nell’epoca di costruzione della tenuta.»
«È probabile», convenne Adam, dirigendo la passeggiata lungo la riva del fiume. «Credo che i palazzi risalgano alla metà del diciassettesimo secolo, ma potrei sbagliarmi: in biblioteca devono esserci di sicuro i registri con le date. Quanto al visitarli, forse prima è meglio mandare i domestici a sistemarli; dubito che siano in condizioni ottimali per essere esaminati.»
Egli non lo diceva tanto per dire: conosceva perfettamente le condizioni in cui versavano i vari padiglioni. Talvolta, quando Faust era in pieno controllo e lasciava il castello, vagava per giorni a piedi nella tenuta o a cavallo nella brughiera, sfogando le sue frustrazioni uccidendo armato o a mani nude la selvaggina che ancora si trovava nei dintorni. E in quelle occasioni prendeva a rifugiarsi in uno dei palazzi – grandi all’incirca quanto un dignitoso appartamento londinese, con due piani e ogni confort che si poteva desiderare malgrado lo stato di abbandono in cui versavano; ma stare fermo non gli si addiceva, lo faceva impazzire, così capitava che vi portasse qualcuna delle ragazze che vendevano sé stesse giù a Heatherfield – bendate, affinché non comprendessero dove si trovavano e fosse per loro impossibile ritrovare la strada – e vi trascorreva una o più notti. Poi, quando si stancava anche di loro, le riportava al villaggio senza che esse avessero mai conosciuto il suo aspetto, e si apprestava a distruggere tutto ciò che gli capitava tra le mani; ormai quegli edifici avevano una notevole carenza di suppellettili integre, e Adam non desiderava particolarmente mostrarli a Emma.
Avrebbe soltanto innescato una serie di domande scomode a cui non avrebbe saputo cosa rispondere.
«Laggiù», proseguì quindi il padrone, prendendo particolarmente sul serio il suo ruolo di anfitrione, «c’è un roseto. Ora è secco, ma in primavera sboccia meravigliosamente; apparteneva alla figlia dei conti, lady Eleanore, e la signora Duncan se ne occupa in sua memoria…»
«Siete molto ben informato sulla famiglia che possedeva il castello», lo interruppe Emma senza pensare, lasciando scorrere lo sguardo sul parco deserto.
Adam esitò un momento, l’incertezza pungente quanto il gelo della brezza. «Ho vissuto a lungo a Pemberley, milady», fu la sua esitante risposta, mormorata senza che i loro occhi si incrociassero. «E i Rochester erano una famiglia molto conosciuta. Credo di conoscere ogni loro segreto, oramai.»
Lady Moore aggrottò le sopracciglia, desiderosa di saperne di più – sembrava che ogni parola fuggita dalla bocca di Adam non facesse che scatenare la fantasia della ragazza e provocare la sua sete insaziabile di conoscenza. Ciò a cui i libri della biblioteca non erano riusciti a sopperire, ella sperava lo avrebbe fatto lui; una vana illusione, a quanto pareva, giacché Adam sembrava conservare i propri segreti con la stessa cura e gelosa attenzione con cui si preservano fiori delicati tra le pagine di un libro. E, anche se di tanto in tanto egli si lasciava scappare qualche dettaglio – minuscole briciole di pane su un sentiero che non portava da nessuna parte, visto che sparivano ancor prima di toccare il suolo – poi immediatamente tornava sui suoi passi, pentito del lapsus involontario, e riportava il discorso su terreni meno scabrosi.
Anche adesso, Emma avrebbe voluto approfondire quell’argomento – che cosa voleva dire con la sua ammissione di conoscere i vecchi padroni del castello, e cosa intendeva con il fatto di averci vissuto a lungo? Era, forse, qualche figlio bastardo del conte, tenuto a Pemberley per celare la sua esistenza ed evitare che si venisse a sapere delle scappatelle di Lord Rochester? – ma stavolta non fu Adam a distogliere la sua attenzione dalle numerose domande che giacevano in bilico sulla punta della sua lingua.
Fu qualcos’altro – una strana sensazione, un impercettibile cambio del vento, un vago senso di vertigine come se la terra stessa si fosse improvvisamente spostata dal suo asse; e così si arrestò quasi bruscamente in mezzo al sentiero, lo sguardo rivolto verso la sommità della collina. Dovette aggrottare la fronte e stringere gli occhi per mettere a fuoco la figura: era scura, e pareva femminile – non poteva dirlo con certezza, ma il vento stava facendo svolazzare quello che sembrava un lungo abito, e nell’insieme la figura era troppo minuta e delicata per poter essere maschile – e, anche se da quella lontananza era impossibile decretarlo con precisione, avrebbe giurato che la stesse fissando. Rabbrividì sotto quello sguardo, e non fu per il freddo.
La figura sollevò poi un braccio, lentamente, come se il peso delle proprie membra fosse troppo da sopportare – se in un gesto di saluto o invito a raggiungerla Emma non avrebbe saputo dirlo – dopodiché in un turbinio di gonne e mantello parve ruotare su se’ stessa per poi scomparire come se la neve l’avesse inghiottita, oltre il declivio celato alla sua vista.
Si riscosse dalla visione solo quando sentì una mano prenderle gentilmente il gomito, e si voltò appena il tanto sufficiente da vedere il luccichio della maschera bianca di Adam nella grigia luce del mattino.
«Lady Emma?» La chiamò lui, con quella voce bassa e pacata che di tanto in tanto mancava di terrorizzarla come avrebbe invece fatto giorni prima. Quel fatto in realtà la inquietava non poco – non voleva abituarsi così tanto a lui da fare la sciocchezza di non temerlo – ma per il momento decise di non farci caso.
Sbatté le palpebre e aggrottò le sopracciglia, tornando a fissare il punto ove la figura era sparita. «Mmh?»
L’uomo riprese a parlare, il tono ammantato di preoccupazione. «Tutto bene?»
«Sì, solo… Mi è sembrato di vedere qualcuno», rispose lei, sforzandosi inutilmente di aguzzare la vista e sentendosi incredibilmente sciocca subito dopo. «Lassù, vedete? Sulla collina.»
Adam non si curò di volgere lo sguardo verso il punto che lei aveva indicato, limitandosi a scrollare le spalle. «Forse un animale», offrì brevemente. «Vogliamo proseguire?»
Numerose proteste erano già pronte a prendere fiato sulla punta della sua lingua, ma Emma si sforzò di metterle a tacere quando notò l’irrigidirsi del suo compagno e l’inquietante ombra cupa che per un istante parve tramutare i suoi occhi da azzurro a pece.
«Sì», mormorò, d’un tratto più circospetta. «Fate strada.»
Stavolta gli camminò accanto senza accettare l’offerta del suo braccio, e se anche egli ne rimase offeso, non lo diede a vedere. Benché la conversazione si fosse raffreddata – la giovane lady non era più tanto in vena di ascoltare chiacchiere vuote, non dopo aver visto quella strana figura che non aveva fatto a meno di ricordarle l’orribile notte di due settimane prima, notte di cui ancora non sapeva nulla poiché l’unico che poteva illuminarla sulla faccenda si rifiutava di farlo – i due passeggiarono ancora per una buona mezz’ora.
Con enorme sgomento e un accenno di disperazione, Emma realizzò che avrebbe potuto galoppare a vuoto per giorni interi senza riuscire a trovare i confini di Pemberley – e, con questi, una via d’uscita. Il pensiero fu talmente sconfortante che dimenticò persino di affrontare Adam riguardo la faccenda delle lettere; alla fine, adducendo il freddo e la stanchezza come scuse, si fece riaccompagnare al maniero senza aver visto neppure la metà della tenuta.

frdjgfkhòllk


1882


Le ruote di una carrozza che si allontanava rapidamente cigolarono sulle pietre del vialetto.
La figura scura che vi era appena discesa, lungo mantello nero e cappello ben calato sul viso per proteggersi dal freddo pungente, si guardò intorno con composta curiosità, facendo scorrere lo sguardo sulla facciata di Pemberley Manor alla ricerca di qualche dettaglio che lo rassicurasse del fatto che gli anni fossero trascorsi anche lì. Non ne trovò: come sempre, l’antica magione pareva sospesa nel tempo, maestosa e imponente, e lo fece suo malgrado rabbrividire: solo la sua ferrea volontà gli impedì di segnarsi per scaramanzia. Si domandò cosa mai potesse aver spinto il conte a chiamarlo dopo dieci anni passati a ignorare le sue suppliche e le sue richieste di ottenere un colloquio; suppose che per saperlo avrebbe dovuto racimolare il coraggio di avanzare verso il portone e sollevare la mano per bussare.
Gli aprì quasi subito il maggiordomo, Mr. Weber, ed egli fu sorpreso nel notare il volto stanco e provato dell’uomo. Non aveva mai udito lamentele da parte dei domestici che lavoravano al castello, e vedere in prima persona che invece essi parevano andare avanti a fatica lo lasciò per un attimo perplesso. L’uomo si fece da parte con un breve cenno del capo, invitandolo ad entrare, e sempre silenziosamente gli fece cenno di seguirlo.
Parlò solo una volta che ebbero imboccato il corridoio che conduceva dabbasso, verso i piani riservati al personale. «Suppongo siate qui sotto richiesta di Mrs. Duncan», fece, con un tono basso e greve.
L’ospite aggrottò la fronte, interdetto. «Veramente, ero convinto di essere stato convocato dal conte.»
«Milord non ne è al corrente», venne interrotto subito. «E gradirei poter contare sulla vostra discrezione riguardo ciò che apprenderete nelle ore successive, padre Randall: è nell’interesse di tutti evitare uno scandalo.»
Il reverendo annuì piano, sempre più confuso. «Naturalmente», mormorò soltanto. Che cosa stava accadendo tra le mura di Pemberley?
Quando giunsero nell’enorme cucina, tutti i domestici là presenti – la cuoca, le sue aiutanti, alcuni camerieri e persino il valletto personale di lord Rochester – interruppero ciò che stavano facendo in favore di salutare rispettosamente l’uomo di chiesa. Egli ricambiò il benvenuto e mormorò una breve benedizione, che tuttavia non servì ad alleggerire le espressioni tetre e stanche della servitù. Sempre più perplesso, il reverendo volse nuovamente lo sguardo al maggiordomo, ma già egli gli stava facendo cenno di seguirlo attraverso un altro corridoio, e senza più parlare si fermò davanti a una porta per poi bussarvi gentilmente.
Fu proprio Mrs. Duncan ad apparire sulla soglia, e quando i suoi occhi si posarono sul prete il suo volto parve illuminarsi di sollievo. «Grazie, signor Weber», disse rivolta al maggiordomo, che sapeva riconoscere un congedo quando ne udiva uno. La donna tornò a dedicare la sua attenzione al reverendo una volta che il suo collega li ebbe lasciati soli. «Prego, padre, entrate.»
«Devo ammettere di aver trovato sospetto l’invito del conte, ma adesso si chiariscono molte cose», esordì l’uomo quando la porta dell’ufficio della governante si chiuse dietro di loro. Osservò placidamente la piccola ma elegante stanza prendendo nota della cura con cui ogni oggetto aveva trovato il suo incastro, e attese con pazienza che la donna gli indicasse una sedia su cui prendere posto.
«Prego, padre», ripeté quest’ultima, facendo un cenno verso una delle poltroncine. «Gradite qualcosa da bere? Un tè, brandy magari?»
Il reverendo acconsentì con un breve cenno del capo, accettando per il momento il rinvio della discussione. «Un tè andrà benissimo, grazie Mrs. Duncan», rispose, cortese. Aveva come la vaga impressione che sarebbe servito porre la donna a suo agio se avesse voluto scoprire qualcosa di utile riguardo ciò che accadeva in quel castello.
Attese in silenzio durante l’intera preparazione del tè, approfittandone per riflettere su ciò che sapeva per sentito dire e su ciò che aveva avuto modo di osservare fino a quel momento – non molto, doveva ammettere – in modo da prepararsi a qualsiasi evenienza. La famiglia dei Rochester non era neppure cattolica, poiché seguivano il credo protestante come i loro antenati; dunque che cosa potevano mai volere da lui?
Quando entrambe le tazze di fine porcellana furono riempite con il tè fumante, e latte e limone vennero aggiunti secondo le loro personali preferenze, padre Randall decise di spezzare il silenzio.
«Dunque», fece, roteando il cucchiaino per sciogliere lo zucchero. «Che cosa posso fare per voi?»
«Ah, padre», sospirò la donna. «È un’enorme richiesta quella che vi sto per fare, e richiede un notevole impiego di misericordia e discrezione, e voi siete l’unico che mi sia venuto in mente cui rivolgermi. Il conte mi ha imposto di non farne parola ad anima viva, ma non posso più tacere sull’argomento… Sento che se mantenessi il segreto per soltanto un altro giorno impazzirei dalla disperazione e dal rimorso.»
«Mia cara, mi state preoccupando. Che cosa vi angustia?»
La governante si guardò rapidamente intorno come se temesse che qualcuno la spiasse attraverso le pareti, e poi emise un altro sospiro. «Dovete promettere, padre», mormorò, guardandolo con aria quasi disperata. «Promettetemi che non direte ad anima viva ciò che udirete o vedrete qui oggi.»
«Sapete bene che ciò che mi viene detto in confessione non verrà divulgato», ribatté il prete leggermente offeso. «Conoscete i miei voti e ciò che la mia carica comporta.»
Mrs. Duncan annuì e prese un sorso del suo tè, e padre Randall notò il lieve tremore delle sue dita. «Bene», disse lei, sforzandosi di recuperare il controllo sui propri nervi. «Bene.»
Notando che la governante non sembrava riuscire ad aggiungere altro, il prete riprese, stavolta con fare più gentile e comprensivo. «Forse questo non è l’ambiente più adatto per una confessione, mia cara: è chiaro come il giorno che non siete a vostro agio. Perché non siete venuta in chiesa per parlare con me?»
«No, no! Ho bisogno che vediate, padre, oltre che udire… Non ho bisogno soltanto di liberare la mia anima da un peso, ma anche e soprattutto del vostro aiuto. Siete un uomo istruito, paziente, caritatevole, e vi conosco sin da quando siete giunto a Heatherfield per la prima volta. Posso fidarmi solo di voi in questo frangente.»
A questo punto il reverendo dovette ammettere di peccare di curiosità. «Tutti questi misteri non vi si addicono, Mrs. Duncan», l’ammonì il prete. «Parlate chiaramente e liberatevi di questo fardello.»
La donna prese un breve sorso di tè come a volersi dare coraggio; i suoi occhi, larghi e castani, fissavano un punto imprecisato sul tavolo, e le sue dita tamburellavano nervose su di esso. Padre Randall recitò a mente due Pater Noster e un Ave Maria nel tempo che occorse alla governante per raccogliere i pensieri e decidere di parlare.
Infine la tazzina venne posata, e Mrs. Duncan prese un profondo sospiro. «Voi sapete che lady Rochester è morta di parto», esordì bruscamente, sollevando gli occhi per incontrare quelli del reverendo. «Dopo tre figli e nessuna complicazione, l’ha portata via una comune febbre puerperale… Non voglio scendere in dettagli inutili, ma sappiate che quell’ultima gravidanza non fu come le altre.»
Racimolando ogni briciolo di pazienza rimastogli, padre Randall tacque e la invitò a continuare il suo racconto con un comprensivo silenzio e un breve cenno del capo.
«Vedete, malgrado ciò che è stato detto al riguardo, il bambino non nacque morto. Anzi, non morì neppure in seguito… Egli vive, ed è anzi in salute, nonostante tutto, e abita qui, al castello.» Vedendo l’espressione sgomenta dell’uomo che le sedeva di fronte, la signora Duncan sollevò una mano per invitare ulteriore indulgenza. «Per via di certe… circostanze… il conte non l’ha riconosciuto», spiegò. «Forse il dolore per la scomparsa della moglie l’ha svuotato da ogni sentimento, chi siamo noi per giudicare e pretendere di sapere che cosa passa nel cuore e nella mente di un uomo posto di fronte al lutto? Ad ogni modo, egli ha permesso che il bambino vivesse nella casa della sua famiglia, e me ne sono presa cura io fino a questo momento.»
«Un momento solo, Mrs. Duncan», la interruppe il reverendo a quel punto, incapace di trattenersi e tacere oltre. «Mi state dicendo che questo bambino, che dovrebbe avere ora una decina d’anni, ha vissuto nascosto tra queste mura? Come avete fatto a mantenere un simile segreto per così tanto tempo? E perché io ne vengo a conoscenza solo ora? Sono il confessore di questa famiglia!»
«Voi non capite», sibilò la donna, allarmata dal tono di voce di padre Randall e desiderosa di maggior riserbo. «L’abbiamo fatto per proteggerlo!»
Padre Randall era indignato. «È per proteggerlo che l’avete tenuto prigioniero, lontano dal mondo? È questo crimine il motivo di tanta segretezza?»
«Non capite», ripeté la donna, notevolmente pallida. «Dovrete vedere, per poter comprendere… per non giudicare con tanta durezza! Ma qualsiasi cosa vediate, qualsiasi cosa pensiate, vi supplico, padre: non una sola parola dovrà lasciare le mura di Pemberley, o l’ira del conte non conoscerà eguali.»
«Temete più la rabbia di un uomo che il giudizio di Nostro Signore?» Ribatté il prete, sbattendo il palmo della mano contro la superficie del tavolo. «Come osate! Non posso farvi una simile promessa, signora, checché ne diciate. A costo di portar via il bambino da questo castello…!»
«Portarlo via! Cosa dite! E abbassate la voce, per l’amor di Dio…»
«Non invocate il Suo nome in questa circostanza, Mrs. Duncan, vi avverto!»
«E voi non dite simili sciocchezze!» Replicò lei prontamente, bianca come un cencio. «Ascoltatemi, padre, vi scongiuro: aspettate di vederlo prima di prendere una decisione. È facile condannare senza sapere, e io non vi ho chiesto di venire fin qui per litigare con voi: ho bisogno che siate mio amico e alleato, non vi voglio come nemico.»
«Allora, cosa state aspettando? Portatemi da lui», decretò l’uomo con fare definitivo, alzandosi in piedi e torreggiando sulla povera governante.
Con un sospiro rassegnato, la donna si alzò a sua volta. «Molto bene. Seguitemi», fu tutto ciò che disse.
Il reverendo non aveva mai avuto modo di visitare a fondo un maniero dalla simile struttura: seguì la signora Duncan su per strette rampe di scale, attraverso angusti corridoi, lungo passaggi debolmente illuminati da candele tremolanti o da piccole finestrelle strette che parevano feritoie, e che lasciando entrare sottili fili di luce a rischiarare un’oscurità altrimenti perenne. Brevemente e quasi sussurrando, la governante gli spiegò che i domestici utilizzavano quei passaggi per raggiungere ogni stanza del castello, a partire dalle camere da letto – e così dicendo gli indicava sagome di porte che si affacciavano sui corridoi ogni venti o trenta metri – per proseguire con il foyer, la sala da pranzo, i salottini privati, la biblioteca, lo studio. In questo modo, la servitù poteva svolgere i propri compiti indisturbata, facendo avanti e indietro da mattina a sera e senza intralciare la vita quotidiana dei conti e dei loro ospiti, qualora si fossero degnati ad aprire la casa ad amici e conoscenti.
Padre Randall avrebbe mentito se avesse detto di non essere malgrado tutto affascinato nell’apprendere la routine di un castello di quelle dimensioni.
D’un tratto, Mrs. Duncan si fermò. La sua mano si sollevò ad afferrare il mazzo di grosse chiavi che le pendeva da un cinturino che portava intorno alla vita, e iniziò a scorrerle con un improvviso tremore. «Solo io ho le chiavi di questa stanza», spiegò a mezza voce, mentre le sue dita passavano il mazzo in rassegna. Infine trovò ciò che cercava: isolò il piccolo oggetto di ferro dal resto delle chiavi e lo sollevò alla luce per far sì che l’uomo lo vedesse, in un cenno dall’aria solenne che lo mise onestamente a disagio.
Osservò poi la chiave che veniva abbassata e infilata lentamente nella toppa, e udì il rumore secco delle tre mandate che fecero scattare la serratura; il reverendo, non senza una certa apprensione, si ritrovò a domandarsi che genere di creatura si trovasse oltre quella soglia per necessitare simili misure di sicurezza e circospezione. La governante gli aveva parlato di un bambino: ma chi meritava un simile trattamento a un’età così giovane e innocente?
Finalmente la porta si aprì, ruotando sui propri cardini e lanciando un sottile filo di luce nel loro corridoio segreto. Mrs. Duncan prese un profondo respiro, lanciò una breve occhiata al prete al suo fianco per intimargli silenziosamente di seguirla, e avanzò rapida all’interno della stanza.
Il bambino era seduto per terra, presso il caminetto, la testa china mentre si dilettava con dei giocattoli di strana fattura – come se fossero stati messi insieme da pezzi di balocchi vecchi e per creare qualcosa di nuovo. Il delicato mormorio che accompagnava i suoi giochi era una qualche nenia che il piccolo stava canticchiando a mezza voce, e che per qualche strano motivo provocò uno spasmo di compassione nel cuore del prete.
La signora Duncan chiuse delicatamente la porta dietro di sé e si schiarì la voce. «Padroncino Adam?» Lo chiamò gentilmente, mettendo in quel titolo la stessa deferenza che avrebbe riservato a qualsiasi altro erede del conte, e senza il minimo accenno di derisione.
Nell’udire il proprio nome venir chiamato all’improvviso, il bambino rizzò la schiena e posò i giochi sul tappeto, smettendo di canticchiare. Padre Randall lo osservò attentamente mentre, con strane movenze lente e deliberate, si voltava per fronteggiare i suoi ospiti…
Il suo cuore saltò un battito, e per un attimo fu incapace persino di respirare. La mano si strinse intorno al crocifisso d’argento che portava intorno al collo, finché i lati taglienti del Cristo non gli ferirono i palmi, e solo il dolore riuscì a fargli riprendere fiato. D’un tratto, le suppliche di Mrs. Duncan acquistavano un senso.
«Il Signore abbia pietà», sussurrò debolmente.

kkòojlufgydt

Dopo cena, come di consueto, Adam accompagnò Emma a controllare le condizioni di Miss Radcliffe prima di scortarla nei suoi appartamenti. Non si erano detti molto altro al rientro dalla loro passeggiata mattutina; i due si erano separati nel foyer, il padrone intuendo probabilmente lo stato d’animo poco propenso alla compagnia della sua ospite. La signora Duncan, che era lì presente ad accoglierli, aveva di certo notato la strana atmosfera che aleggiava tra loro, ma saggiamente non ne fece parola – Emma non avrebbe saputo dire se ciò fosse dovuto a una certa delicatezza o al timore dell’ira di Adam in caso ella avesse superato qualche limite.
Avendo trovato la sua istitutrice in condizioni né migliori né peggiori rispetto al pomeriggio – benché il suo sonno sembrasse più riposato, e Mrs. Duncan le avesse assicurato di essere riuscita a farle ingerire del brodo caldo insieme alle medicine prescritte dal dottor Carew – Emma lasciò che Adam la condusse nella sua stanza. I corridoi erano bui, poiché prima di coricarsi i domestici si accertavano di spegnere il gas che alimentava le luci, così era Adam a illuminare il tragitto con un antico candelabro a tre braccia.
Avevano appena raggiunto il pianerottolo del secondo piano, dove si trovava la stanza di Emma, quando Aramis si bloccò all’improvviso e voltò il muso verso l’oscurità alle loro spalle, emettendo un ringhio basso e minaccioso. La giovane rischiò di inciampare su di lui, e fece per riprenderlo quando un’improvvisa ondata di gelo proveniente dalla tromba delle scale le ghiacciò il sangue nelle vene. Adam, poco più avanti, non sembrava essersi accorto di nulla.
Ma lei avvertì un fruscio – qualcosa che raschiava sui gradini, a fatica, dei tonfi sordi come di passi attutiti dal tappeto – poi un debole sospiro, e la sensazione di essere fissata con insistenza che aveva provato nel parco il giorno prima tornò più acuta che mai, terrorizzandola. Subito si fermò, voltandosi di scatto con il respiro bloccato in gola, per scrutare inutilmente l’oscurità alla ricerca di qualsiasi cosa – adesso ne era sicura! – la stesse seguendo.
Adam dovette essersi accorto che lei era rimasta indietro, perché tornò subito sui suoi passi, portando misericordiosamente con sé la quieta luce del candelabro.
«Avete visto?» Mormorò lei senza voltarsi, gli occhi sgranati e indirizzati verso un punto in ombra del corridoio. D’istinto, allungò una mano davanti a sé – tanto il buio pareva solido, tangibile – ma fu il suo compagno a prendergliela tra le sue in una stretta gentile: persino il tiepido cuoio dei suoi guanti le fu di conforto, se paragonato all’alito gelido che aveva avvertito alle sue spalle, che le aveva fatto accapponare la pelle e rizzare i capelli sulla nuca.
Come se dita gelide l’avessero accarezzata.
«Che cosa dite, Emma? Non c’è niente qui, eccetto noi», fu la pacata risposta di Adam, che echeggiò con sconcertante risolutezza nel silenzio dell’andito.
Lei scosse appena il capo e fece un passo in avanti, prima che la presa dell’uomo la trattenesse al suo fianco. «No, no, ho visto qualcosa… Come un’ombra, proprio dietro di me», insisté. «L’aria si è fatta gelida! Com’è possibile che non abbiate sentito nulla?»
«Perché non c’è nulla da sentire», fu la secca risposta dell’uomo, sibilata con tanta severità da fargli guadagnare un’occhiata stupita e intimidita. «Siete stanca, milady, e questo maniero è antico. E come ogni vecchio edificio, esso geme, scricchiola e sospira a ogni alito di vento – non vi è nulla da temere.»
La menzogna era così palese da poterla quasi assaporare sulla punta della lingua, e il timore di Emma iniziò a tramutarsi in gelido disdegno –
«Forse risentite ancora della febbre di pochi giorni fa?»
– che, a quelle parole, infiammò a un tratto l’ira che aveva severamente represso per tutto il giorno.
«Non osate!» Sbottò dunque, strappando bruscamente il proprio polso dalla stretta del padrone e facendo due prudenti passi indietro. «Come potete sperare che io vi creda? Voi, che non mi avete mai rivelato neanche cos’è accaduto davvero la notte che mi avete trovata!»
Adam si irrigidì – la sua postura assunse una certa severità che sfuggì tuttavia all’occhio distratto di Emma – e per un attimo le due entità dentro di lui lottarono per la supremazia. Rispondere alla sfida, alimentare quella furia e tramutarla in sacro terrore o placare la donna? Fu di nuovo Adam, per fortuna, ad avere la meglio. «Vi ho detto tutto ciò che vi serve sapere», la ammonì a mezza voce, un tremito appena soppresso l’unico indizio di quel travaglio interiore.
Emma gli rivolse uno sguardo duro, colmo di risentimento e irritazione – poiché durante i giorni trascorsi ella aveva creduto che un certo grado di prudente fiducia si fosse instaurata tra loro, e solitamente Adam rispondeva con garbo e sincerità alle domande che lei gli poneva – e strinse le mani con furia sulla stoffa del proprio abito, le dita artigliate come se avesse voluto invece stringergliele intorno al collo. «Non mi avete detto niente, invece», lo contraddisse subito, sollevando il mento. «Mi tenete occupata e distratta giorno dopo giorno con la speranza che io dimentichi ciò che ho visto, che dimentichi la situazione in cui mi trovo, ma mi credete davvero tanto sciocca? Pensate che non mi sia accorta che i domestici si rifiutano di parlarmi, che le lettere di mio padre e del mio fidanzato hanno smesso di arrivare, che la mia istitutrice continua a giacere a letto senza alcuna speranza di ripresa? Non vorrei insinuare cose non vere, signore, ma anche voi dovrete convenire con me sul fatto che si tratti di circostanze oltremodo sospette.»
Malgrado la luce delle fiamme danzasse sul profilo della sua maschera, la penombra del corridoio aveva celato alla sua vista l’istintiva reazione del padrone – un istantaneo irrigidirsi, le mani serrate in pugni nervosi, gli occhi d’un tratto scuri, quasi neri – ma non aveva fatto nulla per attenuare la freddezza della sua risposta. «Credevo che aveste imparato a trovare piacevole la mia compagnia.»
Emma sbuffò assai inelegantemente, dimentica per un attimo del proprio status. «Credetemi, troverei spiacevole persino la compagnia del re in simili circostanze. E vi prego di non deviare la discussione dall’argomento principale», disse, in un tono che non ammetteva repliche. «Desidero sapere che cosa sta accadendo a Pemberley, signore, e desidero saperlo adesso
«Non capisco che cosa intendete», fu la rapida risposta dell’uomo, pronunciata a denti stretti.
«Intendo dire che al di là del fatto che mi stiate tenendo prigioniera tra queste mura, cosa che vi ho finora permesso perché tengo alla mia istitutrice e al momento lei è impossibilitata a muoversi, voi mi state nascondendo qualcosa, e non ho intenzione di aggiungere la sprovvedutezza alla lista dei mie difetti!» Si fermò un attimo per riprendere fiato – a sua volta scioccata dal fervore dimostrato e dallo scoprire quanta rabbia avesse in effetti accumulato – dopodiché raddrizzò la schiena e fissò severamente l’uomo negli occhi, ignorando come al solito la strana angoscia che evocava la presenza della sua maschera. «Per cui ve lo chiederò un ultima volta, signore – che cosa mi state nascondendo? Sono in un qualche pericolo?»
Nei lunghi secondi che seguirono le sue parole, Emma ritornò con la mente agli ultimi giorni; alla fatica che faceva ogni notte ad addormentarsi, e a come la sua mente veniva invasa da vorticanti immagini di spettri non appena scivolava in un sonno senza riposo, maledetto da fiamme che le lambivano le carni, acque nere profonde come l’inferno che l’attiravano nel loro mortale abbraccio, e poi sangue, sangue che colava dalle pareti, che macchiava il pavimento, che sgorgava dalle pagine dei libri della biblioteca e che gocciolava da ferite aperte e bocche spalancate, e urla, pianti, singhiozzi – e quelle visioni erano così macabre, oscene, da svegliarla di soprassalto, costringendola a rigettare quel poco che aveva nello stomaco nella tazza da notte che ormai teneva accanto al letto per quelle evenienze. Non aveva detto a nessuno dei suoi sonni turbati – forse solo Lydia ne era al corrente, dato che era lei che la svegliava ogni mattina e si occupava di mettere in ordine e ripulire la stanza. Ma ella era muta, ed Emma le aveva domandato di non raccontarlo a nessuno – solo perché non poteva parlare non significava che non avesse altri modi di comunicare, per quanto si ostinasse a non farlo con lei – e poteva solo sperare di aver riposto la sua fiducia nelle mani giuste.
Ma le notti insonni la rendevano nervosa, andando ad aggiungersi al malessere causato dalle sue attuali circostanze; e anche se durante il giorno fingeva che nulla fosse fuori posto – a partire dal suo aspetto, che curava celando il pallore e le ombre sotto agli occhi con del maquillage recuperato chissà come da Lydia – ciò non significava che dentro non stesse tremando, e che non temesse la notte come si teme il diavolo.
«Non avete nulla di cui avere paura, milady», disse Adam, portando la mano libera dietro la schiena per evitare di cedere all’impulso di allungarsi e afferrarla. «Fintanto che rimarrete mia ospite, vi garantisco che–»
«Mi garantite?» Lo interruppe, troppo scioccata per considerare la propria maleducazione. «Buon Dio! Continuate a evadere le mie domande anche ora che vi accuso!»
«Cosa volete che vi dica? Che avete ragione?» Sbottò l’uomo, avanzando minacciosamente d’un passo. «Che risposta gradireste sentire per poter dormire serenamente la notte, milady?»
«La verità!» Esclamò lei inviperita, sforzandosi di non indietreggiare. «Voglio che siate onesto con me, e che mi diciate che cosa sta accadendo nella mia casa! Non fraintendete la mia disponibilità e la mia educazione per ignoranza o ingenuità, signore – posso assecondarvi, sì, ma ciò non influisce sulla mia capacità di raziocinio e libero pensiero, e i misteri che celate non mi aiutano a essere a mio agio in vostra presenza!»
Sconvolto dal brusco sfogo, Adam si immobilizzò in mezzo al corridoio, e agli occhi furiosi di Emma parve che diventasse appena più piccolo, appena più fragile, come se le sue parole – bastava davvero così poco? – lo avessero colpito, o avessero perlomeno toccato un nervo scoperto.
Come poteva aver paura di lui? Si ritrovò a pensare, scioccata. Sembra un cucciolo bastonato. Che fine aveva fatto l’uomo che aveva reagito con quella furia terribile quando lei aveva provato ad attaccarlo, appena conosciuti? Quando le sue dita gelide le si erano strette intorno al collo, e nei suoi occhi non aveva visto che promesse di orrori?
Si rese conto che era da tanto – da quando le aveva salvato la vita, quella notte, sul lago – che non pensava a lui sotto quella luce, come un mostro da cui non avrebbe potuto aspettarsi che violenza e minacce. E adesso che le stava di fronte, incurvato, gli occhi supplicanti, Emma realizzò non senza una buona dose di sgomento che no, non era di lui che aveva paura.
Cosa potete saperne, voi, di solitudine, era stata una delle prime cose che le aveva detto. Non vi chiedo molto – desidero soltanto la vostra compagnia…
Per quanto provasse una fastidiosa fitta al petto quando ci ripensava, quando rifletteva sul genere di vita che Adam aveva condotto prima del suo arrivo, e per quanto potesse provare pena per lui, ciò non le toglieva il diritto di domandare spiegazioni e pretendere delle risposte, non rendeva meno legittimi i suoi desideri.
E, a giudicare dal silenzio di Adam, Emma comprese che non avrebbe ottenuto niente di tutto ciò per quella sera; per cui socchiuse gli occhi, prese un profondo respiro e rilassò le spalle.
«Vedete bene che non posso obbligarvi a parlare, ed è nel vostro diritto mantenere quali che siano i vostri segreti», disse, con un tono di voce improvvisamente calmo, gelido ma non meno gentile. «Ma sappiate che tutto questo mistero non mi fa sentire a mio agio, e che pertanto gradirei trascorrere da sola le mie giornate fin quando non mi riterrete degna di fiducia.»
Vide la mano di Adam che reggeva il candelabro tremare davanti alla fermezza di quella dichiarazione, e il modo in cui sollevò appena il mento le fece intuire che volesse ribattere qualche cosa; ma lo interruppe con un cenno di diniego del capo, al quale lui obbedì prontamente. «Per favore, sono stanca. Accompagnatemi nella mia stanza se volete, dopodiché desidero stare da sola», rettificò, distogliendo lo sguardo.
Reso muto dall’improvvisa svolta degli eventi, Adam si limitò ad annuire, dandole le spalle e riprendendo il tragitto lungo il corridoio. Persino Faust rimase in uno stordito silenzio, rannicchiato in un angolo scuro della sua mente.


kouiyftdiru


Doveva domandare il suo perdono.
Era questo il pensiero fisso che aveva accompagnato Adam per tutto il giorno. Non erano trascorse neppure ventiquattr’ore da quando aveva discusso con la sua ospite – ore passate in solitudine, suo malgrado, poiché la giovane donna lo aveva evitato sin da quando si era svegliata, trovando rifugio nella camera da letto della sua istitutrice o, peggio, nelle stalle, dove egli preferiva non mettere piede per evitare di incontrare il figlio dalla mente delicata dei signori Duncan – eppure, già sentiva la sua mancanza. Si era abituato alle loro conversazioni, benché non fosse tanto sciocco da non accorgersi della circospezione e talvolta del disagio con cui Emma si rapportava a lui, e tornare al silenzio dopo giorni – settimane – di compagnia era stato terribile.
E la colpa era da far ricadere esclusivamente su di lui. Su di lui, e su quel morbo osceno che appestava ogni suo pensiero sia da sveglio che da addormentato, e che lo minacciava costantemente con la sua presenza e la promessa di saltare fuori da un momento all’altro, senza neppure dargli il tempo di accorgersene: Faust. L’essere che possedeva la sua mente e talvolta il suo corpo non aveva smesso un solo istante di sibilargli all’orecchio ciò che pensava della situazione – dipingendo e offrendogli immagini tanto turpi e lascive da lasciarlo scosso e tremante, ad annegare nella vergogna causata dal fatto che sì, , malgrado tutto le trovava persino invitanti, sensuali.
Ma no, non avrebbe mai permesso a Faust di fare ciò che voleva di Emma – a costo di strapparsi gli occhi con le proprie unghie e mordersi dita e labbra per non mugolare dall’eccitazione a stento repressa, pur di non vedere in lei, nel suo viso diafano, innocente, nei suoi occhi caldi e morbidi, il terrore o il disgusto.
Faust poteva ringhiare e soffiare quanto voleva nella prigione che era la mente di Adam – lui non l’avrebbe liberato, non in presenza di Emma, non con il rischio di farle del male; non sarebbe più stato schiavo di quell’essere, non avrebbe più perso il controllo… e, se tutto ciò che avrebbe dovuto fare sarebbe stato parlare con lei, spiegare la situazione, dissipare misteri e segreti… Ebbene, che fosse! Sarebbe stato sincero. E, fin tanto che lei si fosse tenuta lontana dalla sua maschera, fin tanto che non avesse fatto altre domande scomode, fin tanto che si fosse fidata, almeno un poco, di lui – cosa poteva mai accadere di male?
Fu per questo motivo che la raggiunse dopo cena, certo di trovarla rinchiusa nella biblioteca – solo perché non aveva condiviso fisicamente la giornata insieme a lei, difatti, non voleva dire che l’avesse lasciata al di fuori del proprio campo visivo. Non l’aveva spiata – il termine era troppo maligno – no; semplicemente, l’aveva tenuta sotto controllo, al sicuro, per evitare che loro… gli altri… le si avvicinassero troppo.
Adam entrò dunque quietamente nella biblioteca silenziosa, richiudendo piano la porta alle sue spalle avendo cura di non farla sbattere. Le luci erano state diminuite dalla solerte signora Duncan prima che quest’ultima si congedasse, di modo che la giovane non trovasse difficoltà nello spegnerle tutte una volta che si fosse ritirata per la notte. Era dunque il camino che forniva la maggior parte dell’illuminazione, insieme alla lampada accanto al divano dove di certo Emma giaceva immersa, come suo solito, in qualche libro.
Con un mezzo sorriso su labbra che nessuno poteva vedere, Adam attraversò la stanza – il rumore dei suoi passi attutito dai tappeti – per poi fermarsi bruscamente a pochi metri dal divano, gli occhi sgranati sotto la maschera e le mani contorte in rigidi pugni, dinnanzi all’inaspettata visione che lo accolse.
Emma doveva essersi appisolata, il libro che le giaceva dimenticato in grembo e il capo volto verso il calore del fuoco, ignara di ciò che le accadeva intorno. Poggiato a braccia conserte sopra la spalliera del divano sul quale la giovane riposava, un pallido gentiluomo ne osservava il profilo con espressione incuriosita e scaltra; folti capelli biondi riflettevano la luce delle fiamme e circondavano un volto mascolino e vagamente emaciato, labbra rosee erano piegate in una smorfia divertita e occhi scuri come la notte si sollevarono pigramente su di lui, per nulla scomposti dal suo arrivo.
«È molto bella», fu il suo pacato e in certo senso sarcastico commento, blandamente offerto prima di tornare ad osservare la giovane.
Adam s’irrigidì, furioso, ma disposto alla cautela. Non voleva pensare a che reazione avrebbe avuto Emma se si fosse svegliata e avesse visto lui che la fissava. «Che cosa stai facendo, Evan? Non ti sei già divertito abbastanza con lei?»
Il gentiluomo – Evan – sbatté con aria perplessa le palpebre, prima di assumere un’espressione consapevole e scrollare le spalle con aria disinteressata. «Ah, parli della notte degli orrori», sorrise appena. «Non è stata una mia idea – non ho nulla contro la tua ospite. Anzi, la trovo affascinante: che motivo potrei avere per scacciarla via?»
Seguendo un impulso e approfittandone di certo per infastidire Adam, Evan allungò un braccio verso la ragazza addormentata, sistemandole con due dita alcune ciocche di capelli sfuggiti alla modesta acconciatura. Ignorando la precedente proposizione di fare silenzio per non svegliarla, Adam emise un verso che somigliava discretamente a un ringhio.
«Non toccarla», sibilò, avanzando di un passo.
L’altro lo fissò per una lunga manciata di secondi, prima di sbuffare e ritrarre lentamente la mano. «Come sei fastidioso, fratello mio», lo apostrofò sbeffeggiante, mantenendo un tono di voce quieto. «Potrò averla almeno quando avrai finito con lei? Certo il tuo doppio si stancherà presto e non saprai più che fartene.»
Raggelato, Adam sentì quella presenza dentro di lui sollevare il capo e rizzare le orecchie, d’un tratto attenta, non più sorniona, come se quel disinvolto accenno ne avesse attirato l’interesse.
La voce gli tremò solo appena quando replicò. «Se sei venuto con lo scopo di irritarmi, ti avverto: ci stai riuscendo.»
«Oh? Beh, è un cambiamento. Di solito è difficile penetrare le tue difese», commentò Evan con affettato disinteresse, osservandolo con la coda dell’occhio. «Dì un po’, da fratello a fratello. Sei davvero affezionato a lei o progetti di lasciarla alle amorevoli cure del tuo doppio, come le altre prima di lei? Ho visto come la guardi, la libertà di movimento che le permetti, il desiderio che hai di toccarla. Sono curioso; per favore, assecondami un momento. È una tale noia, questo castello…»
«Se devi parlare, spirito, fallo subito e poi sparisci. Sono stufo di sentire la tua voce.»
Gli occhi cupi del fantasma si riempirono di un’emozione feroce, e la sua fronte aggrottata perse in un attimo l’atteggiamento sarcastico e rilassato. «Dovresti davvero mostrare più rispetto nei miei confronti, fratello», lo ammonì, utilizzando quel flebile legame che li univa a mo’ di insulto. «Non vuoi che ti renda la vita più difficile di quanto già non sia.»
Adam si limitò a fissarlo in silenzio, invitandolo a continuare senza pronunciare una sola parola.
Evan roteò gli occhi, per poi tornare a posarli sulla ragazza addormentata. «Dunque, dicevo: sono curioso. Il tuo comportamento sospettosamente galante è forse segno del fatto che desideri che lei ricambi qualsiasi sia il sentimento che provi per lei? Pensi che sia così sciocca, o disperata, da caderti tra le braccia come in un qualche ridicolo romanzetto da donnette? Forse dovresti ricordarti chi sei, cosa sei, prima di indugiare troppo nelle tue utopie. Ah, ma è per questo che sei qui, non è vero? Per riparare a chissà quale torto – ho visto che oggi non vi siete rivolti la parola, evitandovi come la peste. Sta iniziando a sfoderare gli artigli la nostra piccola ospite, e questo non va bene. Fa domande, è curiosa, la sua testolina si riempie di strane idee… Come mai non l’hai ancora messa a tacere, mi chiedo? È indubbiamente bella, sì, ma vale davvero tanti sforzi?»
«La cosa non ti riguarda», scattò l’altro, tremante. Sentiva di essere prossimo a perdere il controllo, e non voleva, non a pochi passi da Emma, non quando ogni muscolo del suo corpo era teso come la corda di un violino e non aspettava che la più piccola occasione per scattare… Deglutì, il respiro improvvisamente affannato, e continuò: «Ciò che faccio o non faccio con lei è affar mio, Evan, e mio soltanto. E tu non ti devi avvicinare, né tu né gli altri, sono stato chiaro?»
Un lampo di comprensione attraversò lo sguardo del fantasma, ed esso si aprì in un ghigno. «Oh, ma sembri dimenticare che non sono io ciò che lei dovrebbe temere, mio caro. Che male possono mai fare i morti? Ma i vivi… I vivi bisogna temerli, e tu, fratello, sei sfortunatamente ancora in vita.»
Fu sufficiente: non servì altro per far scattare in modo definitivo la bestia dentro di lui, e con un grugnito sofferente il padrone del castello si piegò su se’ stesso, premendosi i palmi delle mani contro il cranio – come se volesse impedire a qualsiasi male vi fosse rinchiuso di venire fuori. Inutilmente.
Evan si ritrovò a osservare affascinato il processo. Il nero inondò gli occhi azzurri di Adam, come se la pupilla si fosse allargata inghiottendo l’iride in un mare di oscurità; parve cambiare la sua stessa conformazione fisica, ma ciò doveva essere una semplice illusione, poiché bastò che egli raddrizzasse la schiena da una postura inconsciamente curva per renderlo d’un tratto più alto e imponente, minaccioso; qualcosa si modificò anche nel suo atteggiamento, nel modo in cui si portava, trasformandolo in una persona completamente diversa.
E il povero e patetico Adam lasciò infine spazio allo scaltro e feroce Faust.
«Mi chiedevo quando avresti rifatto la tua comparsa», fu il saluto sornione del fantasma.
Faust tuttavia non rispose alla provocazione. «Sai bene che i tuoi giochetti non funzionano con me», ribatté pacato, un tono mellifluo che fu capace di far rabbrividire persino lo spirito.
Evan roteò gli occhi, senza però staccarli dalla nuova presenza; sapeva che, con Emma lì, Faust non avrebbe osato alzare né la voce né le mani, ma era sempre meglio usare prudenza quando ci si approcciava a lui. «Noioso, noioso… E dire che un tempo ti preferivo all’altro.» Accennò poi un sorriso, piegando il capo di lato e notando con la coda dell’occhio le mani del mostro che si flettevano con movimenti calcolati, facendo scricchiolare il cuoio dei guanti.
«Perché sei ancora qui, spirito?» Riuscì a domandare Faust senza mostrarsi troppo infastidito, facendo scivolare lo sguardo sulla giovane donna addormentata a pochi passi da lui. Una ruga gli incrinò la fronte: era la prima volta che le si trovava vicino di persona, dopo quasi due settimane, e tale incontro era rovinato da quel maledetto essere… Forse era per questo che Adam aveva allentato le redini al suo controllo, rifletté amaramente: sapeva che non avrebbe potuto alzare un dito su di lei davanti all’apparizione.
In ogni caso, ella era addormentata: e lui voleva che fosse ben sveglia e lucida la prossima volta che si fosse trovata in sua presenza. E sarebbe accaduto molto presto, se fosse riuscito a convincere Adam a tenere la bocca chiusa su faccende che non sarebbero dovute essere divulgate.
«Come già stavo dicendo», riprese Evan, che non si era perso la lenta valutazione ch’egli aveva fatto di lady Moore, «voglio sapere quali sono le tue intenzioni nei confronti della ragazza. Gli altri sono giustamente preoccupati, e mi hanno mandato in avanscoperta, per così dire… Questa casa è nostra tanto quanto tua, malgrado quello che tu possa pensare, ed è nel nostro pieno diritto pretendere di sapere che cosa vuoi fare con un’estranea.»
«Cosa mi stai chiedendo, Evan?» Fu il sibilo di Faust, tutto a un tratto minaccioso. «Se ho intenzione di ucciderla come uccisi voialtri?»
Fu con estrema soddisfazione che vide il volto già diafano del fantasma impallidire ulteriormente, e le sue mani stritolare lo schienale del divano. Peccato che la maschera celava quello che sarebbe stato un terrificante sorriso.
«Parole tue, non mie», mormorò Evan con eccessiva cautela.
Faust emise una bassa e secca risata che somigliò di più a un ringhio. «Sei sempre stato un codardo, fin da bambino… quando sgattaiolavi nell’ala Ovest per prenderti gioco del mostro. Sciocco da parte mia credere che la morte ti avrebbe fatto dono di una spina dorsale.»
Avanzò di un passo e il fantasma tremò dallo sforzo di non indietreggiare. «Non ti conviene minacciarmi, fratello», continuò, imitando il tono derisorio con cui Evan si era rivolto ad Adam pochi minuti prima. «Lo sai che la vostra esistenza risiede nelle mie mani, così come sai che avermi come nemico non sarebbe una scelta saggia. Ma oggi mi sento particolarmente benevolo, per cui ti dirò questo: milady non ha nulla da temere da me per il momento, la sua sicurezza e benessere rientrano anzi tra le mie priorità – sentiti libero di riferirlo anche agli altri.»
Distolse infine lo sguardo da lui in un chiaro cenno di congedo, posandolo sulla più interessante e preziosa figura di Emma, aggiungendo solo un ultimo monito. «Oh, ed Evan… Non osare avvicinarti mai più a lei, sono stato chiaro?»
Per un lungo istante l’unico rumore che si poté udire nella biblioteca fu il crepitio delle fiamme nel camino, e quello del vento che ululava contro le vetrate. Faust credette di essere rimasto solo, quando lo spirito parlò nuovamente – un sussurro che sovrastò appena il rumore del vento.
«Non riuscirai mai ad averla, mostro
Quando riportò gli occhi sul punto oltre il divano, un ringhio feroce tra i denti, Evan era già sparito.






__________________________________


An unfortunate and deserted creature. Il titolo del capitolo deriva da una citazione di Frankenstein di Mary Shelley: “I am an unfortunate and deserted creature, I look around and I have no relation or friend upon earth.(Cap. 15)
“La notte degli orrori” di cui parla Evan alla fine si trova nel capitolo 7, Stranger than you dreamt it.
[1] Charlotte Brontë, Jane Eyre, Parte II, Capitolo I.
__________________________________



Angolo Autrice.
Cosa vedono le vostre fosche pupille? Un aggiornamento? Sul serio? Dopo più di un anno? Siamo morti e non ce ne siamo accorti?!
No, no, siamo tutti piuttosto vivi, e non state sognando – questo è un aggiornamento vero e proprio, giuro. Siccome non so da che parte iniziare per chiedervi scusa per questo hiatus imprevisto – anche se chi mi conosce sa che c’è da aspettarselo tra un capitolo e l’altro, altro che le stagioni di Sherlock – farò finta di niente e scriverò queste brevi note stando inginocchiata sui ceci. Spero comunque di essermi fatta perdonare, almeno in parte, consegnandovi un capitolo discretamente panciuto, con personaggi e dinamiche nuove e forse qualche risposta a vecchi misteri e nuove domande a cui rispondere.
L’unica cosa che vi posso dire è questa: se, anche malgrado sia trascorso un anno, siete di nuovo qui a leggere le vicende di Emma e Adam, a dare una chance a questa storia – e alla sua terribile autrice – e non vi siete arrese, beh, grazie. Grazie mille, grazie di tutto cuore, grazie per aver continuato a leggere! Significa davvero tanto per me, e come al solito voglio ribadire che questa storia, in un modo o nell’altro, non rimarrà incompiuta e avrà la sua fine. Il tempo per arrivarci, purtroppo, potrebbe essere semplicemente più lungo del previsto!
Come al solito, per domande o altro, mi trovate su facebook o in qualsiasi altro social network praticamente – i link li trovate nel mio profilo. Di nuovo un immenso grazie di essere qui, sono tanto felice di essere tornata!
Un bacio e un abbraccio dalla vostra
Niglia.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1986372