How to live a normal life when your roommate is a ghost

di Mayth
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima. ***
Capitolo 2: *** Parte seconda. ***
Capitolo 3: *** Parte terza. ***



Capitolo 1
*** Parte prima. ***


Charles, Erik, Marvel's characters © Marvel Studios, Marvel Comics, 20th Century Fox.
NdA: Linguaggio colmo di parolacce (più o meno).

 
*
 
Scordatevi quelle case da sogno che si vedono sulle riviste. Scordatevi il portico immacolato con la sedia a dondolo e la lanterna appesa di fianco alla porta d’entrata. Scordatevi un giardino contornato da siepi ben potate, decorato con file di viole acquistate al market in fondo alla strada e una fontanella per far giocare i bambini costruita lì nel mezzo. Il campo da calcio a due passi di distanza. La scuola frequentata da brava gente. La quiete di una vita al limite della perfezione.
 
Scordatevi tutto questo e immaginate l’esatto contrario.
 
Erik tira fuori un primo scatolone dal baule della macchina e sfreccia un’occhiata ostile al condominio Loomis Place: sette piani di muri color fogna, sul retro un prato che ospita carcasse di vecchi mobili inutilizzabili e palloni sgonfi, all’interno un ascensore che il più delle volte è “guasto, se sapete ripararlo o conoscete qualcuno che lo faccia gratis, allora contattate il seguente numero”. Compie un mirabolante sforzo nel non commentare la delucidazione declamatagli da Darwin, il tassista, che molto gentilmente gli ha concesso uno sconto di cinque dollari in nome di tutte quelle volte in cui Erik si è fiondato nella sua macchina ubriaco fradicio e lo ha fatto scompisciare dalle risate.  
 
“Lehnsherr, la tua nuova casa fa veramente schifo.”
 
Schifo è un gran complimento per quel mucchio di spazzatura contornato da quattro muri e un tetto. Schifo è la più bella recensione che un qualunque essere con un naso e due occhi potesse regalare a quel buco di periferia. Schifo costa una manciata di dollari al mese, ridotti se sai per caso come aggiustare l’impianto di riscaldamento durante l’inverno.
 
Erik alza le spalle e si avvia verso il portone d’entrata. La toppa è arrugginita e gli ci vuole un po’ di tempo prima di riuscire a girare la chiave e spingersi all’interno. Alla sua destra incontra le cassette della posta, alcune così piene da sbavare fuori lettere e giornali, davanti a lui le scale e di fianco l’ascensore. Darwin gli arriva alle spalle, gli poggia di fianco la valigia e gli fa segno di muoversi a prendere gli scatoloni restanti, perché uno di loro due deve guadagnarsi la cena.
 
“Stammi bene, Lehnsherr. E ricorda—”
 
“Se ti serve un passaggio, chiama Darwin, è per un miglior viaggio.” Recita Erik passandogli le banconote, una volta finito di accatastare la sua roba all’entrata del palazzo.
 
“Esatto, amico.” Sorride Darwin. Erik lo osserva fare retromarcia, voltarsi e andare via.
 
Mentre sale le cinque rampe di scale che lo portano al suo nuovo appartamento, incontra una coppia che si bacia. Lei è spiaccicata contro la ringhiera e l’unica cosa che le impedisce di cadere e sfracellarsi al suolo sono le braccia dell’uomo che le stringono la vita. Lui non sembra far parte di quel posto. Porta un bel completo gessato e le basette, sull’anulare della mano sinistra una fede. Erik li sorpassa senza dire nulla, la ragazza gli lancia uno sguardo veloce, dopodiché ritorna ad aggredire le labbra dell’uomo.
 
Quelle scene di vita miserabile che ti spacciano nei film di Hollywood sono la pura verità, pensa.
 
Il suo appartamento fa oggettivamente cagare. Quinto piano, 13B, due locali e mezzo, vista su un ristorante cinese che lancia fuori dalla finestra ossami di anatre, il sogno americano di un polacco ebreo con la parola sfiga stampata sulla fronte. Dopo essere stato avvisato di avere solamente tre giorni di tempo per pagare l’affitto dei due mesi scorsi o per andarsene senza più farsi rivedere, Erik aveva trovato l’annuncio di questo cesso sulla Seventeenth Street — “Sono ammessi mutanti” — su uno di quei giornali che la gente utilizza per farci pisciare sopra il proprio cane. Una vera offerta per uno che è disoccupato da sessanta giorni e col cappio al collo. Quello che la gente chiama destino, Erik lo chiama: “Quando la tua vita è così miserabile che fai pena persino a quello stronzo di Dio lassù.” Perciò aveva deciso di affittare l’appartamento; perciò ora si ritrova seduto su un divano sudicio di fronte ad una televisione dei primi anni novanta, con la paura nel cuore di andare al bagno e rischiare di contrarre l’AIDS.  La cosa peggiore è la vicina di appartamento che bussa alla porta e, con una neonata fra le braccia che pompa latte da un biberon, lo avvisa di fare silenzio se non vuole ritrovarsi senza più i genitali. Erik le assicura di essere un tizio tranquillo, di quelli che non dormono, che ad una nottata trascorsa a guardare canali trash preferisce un buon libro. La ragazza — non potrà avere più di vent’anni, uno sputo più giovane di lui — non gli crede, ma perlomeno se ne va.
 
Erik odia la sua vita.
 
Le prime vere stranezze incominciano due settimane più tardi. Erik sopravvive di risparmi nascosti fra le pagine di vecchi calendari che ritraggono macchine, mangia ramen istantaneo sette giorni su sette e trascorre le ore a sfogliare giornali in cerca dell’illuminazione. Se fosse bravo con la chimica o conoscesse di striscio il mercato illegale, inizierebbe a spacciare metanfetamina e vivrebbe come un re, ma non è nulla di tutto questo e perciò cerca un lavoro onesto in una fabbrica in cui spaccarsi il culo. Dall’alto dei cieli sua madre deve averlo diseredato, perché non lo sta aiutando per un cazzo, e quando nel bel mezzo della notte Erik sente i cassetti della cucina aprirsi da soli e le stoviglie cadere per terra — sicuro di non aver perso alcun controllo sulle sue abilità, — quando di giorno fa così freddo che gli pare quasi di vivere in Antartide, quando il televisore non ascolta gli impulsi che Erik gli trasmette attraverso il telecomando, ecco, è quello il momento in cui si sente lo sfigato più solo al mondo.
 
A dieci anni ti dicono che le anime dei tuoi genitori veglieranno sempre su di te e ti proteggeranno. Be’, credete ad Erik mentre vi dice che non è vero nulla di tutti quei discorsi da fricchettoni colmi di compassione. Una volta che hai perso la tua famiglia, essa non esiste più. Niente più abbracci, niente più carezze, niente più “Tutto andrà bene.” Solo bollette da pagare e strane sensazioni che ti gelano il sangue.
 
La prima cosa che fa è mettere a posto le stoviglie, comprare tante coperte al mercatino dell’usato, spegnere la TV. Fa finta che non ci sia niente di strano in quel che accade a casa sua. Sono cose che succedono a tutti, si ripete prima di coricarsi. I fantasmi non esistono.
Dopodiché si reca dalla vicina rompiscatole e le chiede spiegazioni sulla dipartita di chiunque abitasse il 13B prima di lui.
 
“Il tizio che ci abitava prima?” ripete la donna mentre mastica una gomma e sua figlia le si appiccica ad una caviglia. “Nulla di speciale. Sulla sessantina, occhi incavati e pancia da birra. La moglie lo aveva buttato fuori di casa, perché lo aveva scoperto a sperperare tutti i loro soldi in locali a luci rosse. Un poveraccio, lasciamelo dire. È morto d’infarto dopo il primo mese di affitto, lo hanno trovato in mutande accasciato sul divano, col mento sporco di senape. Io l’ho visto, sai?” Strizza gli occhi, avvicinandosi ad Erik come per confidargli un segreto. “Il cadavere. Gelido come se avesse visto un fantasma.”
 
“E quelli prima di lui?” continua Erik.
 
“Nessuno è rimasto mai tanto, sai? Un anno al massimo. Scappano sempre via tutti. Secondo me sono i cinesi, la puzza che proviene da quel ristorante è puro veleno. Certi si mettevano a gridare come matti, per questo quando ti sei trasferito ti ho detto di fare silenzio. Ora ho una principessina da crescere.” Abbassa lo sguardo e sorride a sua figlia. Erik indietreggia e se ne va senza dire altro.
 
Il vero problema è, che non è questione di una notte. È una sensazione costante. Talvolta crede di essere osservato, ma quando si volta di scatto non trova nulla alle sue spalle, altre è sicuro al mille percento che qualcuno lo stia deridendo, ma non ha nessuno a cui confidare i brividi che gli attraversano le braccia e gli pare stupido mettersi a cercare nuovi appartamenti solo perché, molto probabilmente, avrà visto troppe volte le prime cinque stagioni di Supernatural.
 
Tuttavia, a nulla serve ricordarsi che ciò che è morto rimane morto. Perché, gente, un pentolino riempito d’acqua che compare improvvisamente sul fuoco non è fottutamente normale.
 
È così frustrante avere la casa infestata dai fantasmi e non credere ai fantasmi.
 
*
 
“Fantasmi, Lehnsherr?”
 
Azazel spara fuori una risata gutturale e batte le mani sul bancone. I dettagli di Azazel sono che somiglia ad un diavolo e sparisce e riappare in una nuvola di zolfo. Sa sempre quando ci sarà una sparatoria tra bande e dove. Non è suo amico, ma possiede la bettola “mutants only” in cui Erik passa la maggior parte del tempo.
 
“Dico così per dire.” Sorseggia Erik. “Ma dimmi tu se è normale che la televisione sia costantemente impostata sulle repliche di Downton Abbey e che io non possa mai vedere Top Gear.”
 
Azazel è troppo occupato a ridere per commentare ed Erik è troppo occupato a schiaffeggiarsi mentalmente per rispondere a quell’affronto. Resta il fatto che sono passate due settimane, tre giorni e ventidue ore da quando si sono fatti vivi “gli amici immaginari di Casa Lehnsherr” e la situazione è pura tristezza.
 
“Ascolta me, compagno,” dice Azazel. “Smettila di farti di cose strane e inizia a costruirti una vita, o credo che finirai a pulire la cacca dei piccioni dai parabrezza dei ricconi col culo d’oro.”
 
Erik trova leggermente spassoso che Azazel senta il bisogno di sottolineare quanto poco valga la sua vita. Grazie tante, non lo aveva proprio capito quando il sesto datore di lavoro gli aveva risposto con un “No, la ringraziamo, ma cerchiamo personale con qualifiche differenti.” Per ripicca Erik non paga nemmeno la birra e se ne esce più irritato di prima.
 
Una volta giunto a casa trova il tavolo della cucina sottosopra. Dice: “Merda”, ma non fa un passo per rimetterlo a posto. Si chiede se esistano davvero i Ghostbusters o se siano un’invenzione cinematografica. Tanto per saziare la propria curiosità, cerca su internet. Trova:
 
A tutti coloro che credono di essere infestati dai fantasmi: Attenzione!
 
L’annuncio continua: “Strani rumori? Oggetti che si muovono da soli? Buchi nel soffitto o nel pavimento? Rubinetti che si aprono e chiudono ad intermittenza? Se siete stati vittime di almeno una parte di questi avvenimenti, probabilmente il vostro vicino di casa è un mutante! Se desiderate prendere parte a un’azione legale collettiva contro i mutanti, contattate il seguente numero.”
Erik chiude di scatto il computer.
 
“Chiunque tu sia, sappi di essere una stramaledetta testa di cazzo.” Dice al vuoto cosmico intorno a sé. Resta in silenzio un attimo per ascoltare, ma nessuno o nulla risponde. Col passo di uno che ha dovuto sopportare sulla propria pelle ogni male mai accaduto dallo spostamento del primo organismo sulla terra ferma, Erik si dirige in bagno. Si spoglia, lanciando T-Shirt e jeans in un angolo, fregandosene altamente dello sporco che incrosta il pavimento. Si guarda allo specchio: due occhiaie enormi gli contornano gli occhi, i capelli sparano in tutte le direzioni, il suo riflesso gli ricorda la caricatura di un soldato appena tornato dalla guerra. Sbuffa e s’infila dietro le tendine di plastica bianca della doccia. Fa partire l’acqua calda ed esce bollente. Oramai del tutto irritato, se ne sbatte della sua vicina di casa e attacca con Stairway to heaven, aggiungendo qua e là: “Tornatene a casa tua, maledetto fantasma. Torna all’inferno, maledetto figlio di puttana.” Si ammutolisce, però, quando percepisce la maniglia della porta del bagno abbassarsi. Se c’è stato rumore, allora è stato ammutolito dall’acqua sparata dall’erogatore. Erik continua a canticchiare piano, sebbene la sua attenzione sia tutta rivolta a quel che sta succedendo oltre le tendine bianche.
Attende. Nulla si muove se non l’acqua che gli scivola addosso e finisce nello scarico. Crede di esserselo immaginato, anche se sa di non averlo immaginato. Sta quasi per voltarsi di nuovo contro il muro e darsi per matto, quando un rumore che pare quello di un dito che striscia su una superficie umida satura la stanza. Lo scatto elegante con cui Erik apre completamente le tendine fa inzuppare il pavimento.
 
È così che la scena s’immobilizza.
 
Davanti ad Erik c’è un ragazzo proteso oltre il lavandino, il dito schiacciato contro lo specchio appannato. La sua bocca è spalancata, gli occhi sgranati lo guardano come se non si fosse aspettato di vederlo. Erik ha la sensazione di essere di troppo nel suo stesso bagno, poi sposta lo sguardo dal ragazzo a quello che stava scrivendo sullo specchio. Le parole gocciolanti recitano: “La testa di cazzo sei t—”
 
Passano due minuti interi prima che Erik fiati: “E tu chi cazzo sei.”
 

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Capitolo 2
*** Parte seconda. ***


Quando si parla di adolescenza ci si aspetta di saltare sui banchi di scuola e intonare canzonette mentecatte alla High School Musical. Ci si aspetta di cambiare ragazza o ragazzo ogni tre settimane, di trovare il proprio posto in quella famosa gerarchia che parte dallo sfigato con l’asma e gli occhiali sino a giungere al quarterback biondo e alto uno e novantadue.
La verità è che la vita non è un film.
 
Erik ha lasciato la scuola non appena ne aveva intravista l’occasione. Si era tirato su le maniche e aveva incominciato a strofinare via la sporcizia dai bagni sudici di locali notturni. Guadagnava una cicca e risate dietro al culo, ma non demordeva. Una volta racimolato quel che gli serviva per andarsene dalla sua famiglia adottiva, si era trovato un bell’appartamentino e un lavoro stabile in un negozio di film a noleggio. Guadagnava giusto quel che gli bastava per sopravvivere e prendersi ubriacature alla domenica sera.
 
Pensava di essere arrivato.
Ecco, sì: su quella pedana dove tutto è stabile e può solo mutare in meglio. Non desiderava certo vendere filmetti porno ai ragazzini che si spacciavano per adulti per tutta la vita, ciononostante non si lamentava per nulla quando tra le mani teneva stretta la propria paga e non doveva più sopportare vessazioni da suo “padre”. Era contento. Era a qualche passo dalla pura libertà.
 
Sean Cassidy, il suo collega, gli pompava l’ego con frasette ben assestate e sigarette sempre a portata di mano.
 
“Questo lavoro è una merda, Lehnsherr, ma è pur sempre un lavoro.”
 
Ed Erik pensava amen, fratello. Sean non era un cattivo ragazzo. Sniffava coca nei weekend e dopodiché assicurava tutti di poter smettere come niente se solo avesse voluto; usava slang da “giovani” e diceva che il miglior posto per abbordare una ragazza fosse l’acquario. Agli occhi di Erik era tanto patetico da sfiorare il suggestivo. Ne avevano fatte tante assieme negli anni in cui avevano lavorato fianco a fianco, senza mai considerarsi davvero amici. Se Cassidy fosse stato meno uno stronzo — ed Erik meno egocentrico, — forse Erik si sarebbe preso la briga di rispondere anche solo ad uno dei messaggi che gli inviava.
 
Poi il suo capo era arrivato un mattino vociando: “Una chiacchierata, Lehnsherr, vuoi?” E lo aveva mandato a casa senza troppi preamboli.
 
Cassidy non aveva sprecato uno sguardo nella sua direzione ed Erik lo aveva ignorato.
 
La verità è che la vita non è un film, dunque all’improvviso non ti capita di essere sbattuto fuori da un fottutissimo negozio a noleggio e di seguito contattato da un’agenzia multimiliardaria che riconosce in te le capacità di un grande mutante.
No.
Finisci con le mutande sporche da lavare nel lavandino perché i gettoni della lavatrice costano. Finisci con una lettera di sfratto infilata sotto la porta.
 
E poi ti ritrovi nel tuo bagno, nudo, a guardare un tizio in cardigan e camicia inamidata protendersi lungo il tuo lavandino, e all’improvviso ti senti come un mucchio di stracci con cui un dio pezzente si sta divertendo in modo sadico. Sei sul filo del rasoio e se non fai attenzione crepi matto come un cavallo. Il tizio abbassa il braccio e chiude la bocca, gli occhi spaventati e grossi come quelli di un cerbiatto restano, però. Nulla più si muove, se non la pozza d’acqua che lentamente allaga il bagno. Erik non si aspetta niente dal suo destino, ma questo gli pare uno scherzo bello e buono. Forse l’annuncio aveva ragione, forse è sempre stata opera di un pazzo squilibrato.
 
Poi il pazzo parla, ed è disarmante: “Tu puoi vedermi?”
 
Erik non spezza il contatto con lo sguardo. Sul soffitto del bagno si sentono dei passi, poi il vecchio che abita al piano di sopra accende la radio, le vibrazioni e la voce del cronista superano i muri e arrivano chiare persino alle orecchie di Erik.
 
“Certo che ti vedo.”
 
Alla radio c’è una donna che dà al suo ex marito della puttana. Dice di volersi separare, che la corte deve concederle di non far mai incontrare suo figlio col padre. Dice a suo marito-zoccola di preoccuparsi di crescere e diventare adulto, prima di pretendere di curare la loro creatura.
 
“Tu mi vedi.” Ripete il tizio davanti ad Erik, questa volta senza intonare una domanda.
 
Quando le parole scarabocchiate sullo specchio colano, mostrandogli così il riflesso di sé come mamma lo ha fatto, Erik si accorge effettivamente di essere nudo davanti ad uno sconosciuto. Fa uno scatto e afferra un asciugamano, il quale aggroviglia intorno alla propria vita per preservare quel poco di dignità rimastagli. Non sa bene dove incominciare a parlare, perciò risolve il cruccio scaraventandosi contro l’intruso e sferrandogli un pugno.
Tuttavia non funziona. Erik finisce col sfracellarsi la mano contro il muro, trapassando il tizio come se non si trovasse lì.
 
“Non puoi toccarmi,” apostrofa una voce alle sue spalle. Erik si gira. “Non sono materia.”
 
“E allora che cavolo sei?”
 
Il cronista urla: “Si calmi, signora. Si calmi!” Il ragazzo dice: “Credo di essere comunemente riconosciuto come un fantasma.”
 
Erik vuole vomitare.
 
“I fantasmi non esistono,” dice, a fil di voce. “I mutanti esistono. Quindi, se sei un maledetto bastardo malato a cui piace entrare nelle case degli altri e rovesciare tavoli e stoviglie coi propri poteri, be’, ti avviso che hai scelto l’appartamento della persona sbagliata, amico.”
 
Il ragazzo scuote le spalle.
 
Alla radio, il cronista avvisa che manderà una canzone. La donna, intanto, continua a gridare.
 
Erik sbatte le palpebre: il ragazzo è sparito. Smaterializzato in un secondo. Erik rimane lì, gocciolante, a fissare il punto in cui un secondo prima stava un qualcosa.
 
È possibile che abbia appena conversato con un fantasma.
 
*
 
Fuori dalla finestra, tutto è giallo. Il tramonto trapassa i vetri e rischiara gli interni della casa. La moquette color cammello acquista delle sfumature verdognole. Il mondo, da un lato e dall’altro del condominio, è tutto di questo colore.
Giallo.
Su ogni singolo dettaglio a posarsi è una luce gialla e spumeggiante.
 
Erik è immerso nell’odore della sua sigaretta. L’orologio appeso al muro sopra la televisione ticchetta le sei e trentaquattro di sera, scandisce il tempo delle boccate che Erik inala ed espira. La porta del bagno è spalancata e se ci si allunga un po’ dal divano si può ancora notare la zuppa d’acqua che lo ha trasformato in una piscina per neonati. Erik si è rivestito, ma non ha fatto null’altro. Guarda a vuoto la parete di fronte ai suoi occhi e fuma. Pensa che se la sua casa è realmente infestata da un fantasma — uno con un accento insopportabilmente inglese, — allora lui dovrà per forza abbandonarla o morirci d’infarto come il suo predecessore. Pensa che non ha soldi per concludere un contratto e cercare un nuovo appartamento.
Gli ultimi rimasugli della sigaretta cadono dalle sue labbra e rotolano per terra. Una volta suo “padre” gli aveva detto: “Erik, ragazzo mio, senza di me non andrai lontano nella vita.” Ed effettivamente non è giunto ad una svolta entusiasmante. La sua vita sa di cavoli di Bruxelles e soap opere con attori sottopagati. Gli viene da ridere a pensare a quanto in questo momento sembri una di quelle casalinghe disperate sull’orlo di una depressione.
 
*
 
Quando apre il rubinetto e ad uscirne è sangue e non acqua, Erik si convince di dover prendere misure drastiche. La cassiera al market lì all’angolo si convince di avere a che fare con uno psicopatico.
 
“Dodici scatole di sale e un piede di porco, dice?”
 
“Sì.” Risponde Erik.
 
“Se posso chiedere, a cosa le servono, signore?”
 
“Preferirei tacere.”
 
Rispondere con un ‘problemi di poltergeist o fantasmi’ gli pareva troppo trash da dire.
 
*
 
Secondo “Viaggi e Tempo Libero”, le cascine di campagna sono ottimi luoghi per riposare e immergersi nella natura. Secondo “Amiamoci Oggi”, le collane di perle torneranno presto di moda con la nuova gamma autunno-inverno. Secondo i giornali che la gente legge di più, queste sono le notizie che fanno scalpore, i veri scoop.
Secondo “Fantasmi & Fattacci”, per allontanare uno spirito maligno bisogna sigillare le finestre mettendo del sale sui davanzali e dopodiché accendere una candela e recitare ad alta voce una formula del neopaganesimo. Erik segue alla lettera quel che c’è scritto, alza le braccia al cielo e dice quell’ammucchiata di parole.
 
Se l’intenzione di chi pronuncia l’incantesimo è abbastanza forte, dice il giornale, l’effetto dovrebbe essere pressoché immediato. Erik non percepisce cambiamenti, ma lui non è un medium. Quella sera mangia in pace il suo ramen istantaneo senza che nessuno lo disturbi, non volano forchette, non si rovesciano mobili, riesce persino a godersi una puntata intera di Top Gear. Decide di andare a letto presto e provare a dormire una notte intera, ma quando apre la porta di camera sua, il fantasma è seduto sul suo letto a gambe incrociate, fra le mani tiene stretto la rivista sovrannaturale.
 
“Certo che ne scrivono di cavolate di questi tempi.” Dice il fantasma, lanciando di seguito la rivista per terra e scomparendo l’attimo dopo.
 
Erik chiude la porta e va a dormire sul divano.
 
Sin da quando era bambino e viveva ancora in Polonia con la sua famiglia, Erik si era sempre impegnato fino in fondo in tutto ciò che decidesse di provare. Aveva preso lezioni di chitarra ed era arrivato a cantare con un suo amico su un palchetto improvvisato con due sedie nel giardino di casa sua. Certo, ad applaudire e complimentarsi erano state solo cinque persone, di cui quattro erano rispettivamente i suoi genitori e quelli del suo amico, ma agli occhi di un ragazzino che si era seghettato le dita per apprendere la soave arte della musica, quello era parso il giusto premio della vittoria. E proprio come quel vecchio ricordo di lui che si ridicolizza in una tecnica nella quale non eccelle, anche l’Erik di adesso è costantemente inclinato a non demordere. Non tanto perché ci tenga alla sua pellaccia, quanto per il fatto che il suo ego, a detta sua, non potrebbe mai piegarsi di fronte a qualche scherzo immaginato da una mente… morta. Di sicuro una mente col pessimo senso dell’umorismo.
 
“Da quel che ne so,” gli spiffera Henry Cabrera, possessore del buco sulla diciottesima che vende roba voodoo. “Per scacciare un fantasma maligno bisogna utilizzare l’acqua santa.”
Erik paga un bambino di origini giamaicane per infiltrarsi in una chiesa e riempire una fiaschetta di acqua santificata. Il ragazzino fortunatamente non fa domande, però si acchiappa venticinque dollari e striscia via sul suo skateboard come una scheggia. Mentre torna a casa Erik compra una pistola ad acqua nella quale ci svuota la fiaschetta.
 
“Con questa brucio anche il culo a Satana in persona,” dice, prima di sbloccare la serratura e piombare nel suo appartamento. Trova il fantasma seduto sul divano a fare zapping alla televisione. “Ehi,” lo richiama. “Quello che paga le bollette dell’elettricità sono io.” Poi prende la mira e lo spruzza direttamente in volto, proprio fra quei suoi occhi trascendentalmente blu.
 
Lo spruzzo trapassa l’essere e bagna i cuscini.
 
Si scambiano uno sguardo ambiguo, durante il quale Erik non è sicuro di cosa significhino le pieghe intorno agli occhi del fantasma. Forse è perché si sente scrutato da un’espressione a metà fra lo sconcertato e il “ti credevo un po’ più intelligente”, forse perché questa volta ci credeva davvero, tuttavia Erik ci rimane seriamente male nel vedere il proprio piano crollare come un castello di carte. Non sa con che coraggio non ruota gli occhi al cielo una volta che il fantasma scoppia a ridere, si accascia sul divano e dopodiché, come sua consuetudine, sparisce nel nulla seguito da delle lacrime di scherno.
 
Il piano seguente vede Erik trascinarsi per casa con il piede di porco comprato giorni prima che gli fluttua a fianco tramite i suoi poteri. Su internet, la gente asserisce che i non passati oltre la luce sono, per così dire, “allergici” al ferro. Erik ha il dubbio che ad avergli risposto sul forum “Ghost an’ Pride” sia qualche fan di una serie tv discutibile, ma dopo la figura del giorno precedente non ha vergogna a provare anche quest’opzione. Improvvisamente, Erik ricorda perché a scuola lo chiamassero “quello strano”. Guarda il riflesso del piede di porco fare giravolte nell’aria e non biasima più nessuno per non averlo mai invitato alle partite di D&D collettive. Erik odia quando le persone hanno ragione.
 
“Neanche il ferro funziona,” dice il fantasma guardandolo da dietro le spalle. Poi allunga una mano e fa per afferrare il cavachiodi in volo, ma Erik, che lo controlla, lo richiama a sé.
 
“Dovresti dirmi che cosa, effettivamente, funzioni,” dice Erik, girandosi. “Potrei farti— passare oltre.”
 
“Oltre dove, precisamente?” chiede il fantasma inclinando la testa. Un ciuffo di capelli gli ricade sulla fronte e gli copre l’occhio destro.
 
“Oltre— oltre.”
 
“Ma dovresti ammettere,” sorride lo spirito, “che qui è molto più divertente.”
 
Dal suo punto di vista, Erik non può dargli torto.
 
“Dammi tregua, fantasma!” dice comunque, alzando drammaticamente le braccia sopra la testa e buttandosi sul divano, facendo sprofondare il viso fra i cuscini. “Hai intenzione di restare qui per l’eternità e scombussolarmi la vita come se io fossi il tuo nuovo Nintendo?” sonda Erik. “Ho una vita che vorrei portare avanti, forse amici da invitare a casa, colleghi di lavoro, cenette romantiche a lume di candela. Non posso farlo se nel tornare a casa trovo un fantasma che accende e spegne ad oltranza l’abat-jour del salotto.”
 
“Da quel che ho potuto notare, sono quel che di più interessante ci sia nella tua vita.” Si oppone il fantasma. “Ed è Charles.” Prosegue.
 
“Hm?”
 
“Il nome. Charles.”
 
“Ah.” Erik gira il capo e incontra lo sguardo di— Charles, che dalla sua posizione di superiorità su due gambe lo osserva con condiscendenza. “Hai intenzione di restare qui per l’eternità, Charles?”
 
Charles assottiglia gli occhi e raggrinza le labbra. Erik nota la televisione accendersi e fare strani rumori di disturbo. Se non fosse che sono passate tre settimane da quando ci ha fatto l’abitudine, ora se la farebbe decisamente addosso dalla paura.
 
“Sai una cosa, Erik Lehnsherr,” dice Charles, sfoggiando un’aria di pura irritazione. “Almeno tu non sei morto.
 
Un libro parte da uno scaffale e colpisce Erik in pieno viso.
Dire che se l’è meritato è dir poco.

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Capitolo 3
*** Parte terza. ***


Il giorno seguente, Erik si avvia in direzione della biblioteca del suo quartiere.
La biblioteca è un’alta catapecchia rinforzata con travi del secolo scorso. Ospita la quantità giusta di libri che permettono ai ragazzi di una scuola media di poter compiere discretamente il tema assegnato, molto spesso gli scaffali sono colmi di polvere e i volumi che li riempiono sono rovinati o con qualche pagina di meno. Erik è, contro ogni aspettativa di chi lo conosca, un assiduo visitatore di quel tentativo mal riuscito di costruzione statale. Il silenzio che regna quei corridoi e l’assenza di disturbi — tra i quali la mancanza di un qualunque essere ectoplasmatico, — compongono secondo lui la formula perfetta per il luogo perfetto. E inoltre, lì può godersi la scarsità di un qualunque obbligo d’essere sociale.
 
La signora Ryan, una vecchia più occhiali che volto, si limita ad indirizzargli uno sguardo di apprensione quando Erik varca lo stipite della porta. Erik non la biasima, tuttavia ricambia con la medesima quantità di disapprovazione. È capitato — in casi rari; rarissimi, lo promette — che qualche volta si fosse tenuto dei libri per un lasso di tempo piuttosto esteso, senza mai pagare la multa o rispondere ai richiami. Alla fine se l’era sempre cavata con un sorriso, un paio di scuse poco formulate, mesi di lavoro a paga zero e gli occhi di una signora Ryan perennemente puntati sulla schiena.
 
Supera gli scaffali di letteratura inglese, tedesca e nordica, per poi svoltare a destra e guardare un mucchio di libri impilati su un carrello abbandonato con una targhetta appiccicata sul davanti. La targhetta dice: Parapsicologia e spiritismo. Erik si sorprende ogni volta che quel buco di cultura scarsamente frequentato abbia speso soldi per una “sezione” del genere.
 
Tira su qualche libro, ne legge i titoli e dopodiché li ripone al loro posto. Era partito con l’idea di cercare qualcosa che lo aiutasse con un fantasma irritante ma non mortalmente pericoloso, eppure non ha la più pallida idea da dove incominciare. Ricorda i suoi tentativi falliti. Ricorda il volto bianco di un pallido cadaverico del fantasma, l’odore di ozono che lo circonda, la sensazione che il freddo gli s’infilasse persino nelle ossa quando lo aveva trapassato da parte a parte. Stando alle deposizioni di qualche invasato accolto alla tv, ci sono varie modalità per scacciare uno spettro, e prima di tutto bisogna rendersi conto quale esemplare di fantasma si stia cercando di allontanare.
Erik fruga fra libri e pagine finché non scorge una copertina che riporta “Find the Ghost”, si siede dove trova posto e incomincia il proprio calvario. Alla fine di una esaustiva lettura la lingua gli si è incollata sul palato, e tutto quel che sente è un retrogusto di amaro sconforto — il sapore della vita, quando si complica ancora di più. Pensa a com’era una decina (secoli) di anni prima: le torte di sua madre appena sfornate, l’entusiasmo di svegliarsi al mattino, la speranza. Ora ha ventitré anni e ventitremila problemi.
 
“Strana lettura per lei, signor Lehnsherr.” Dice qualcuno alle sue spalle. La signora Ryan. Lui fa silenzio.
“Le ricordo che per lei è severamente vietato prendere in prestito qualunque libro.” Poi lo guarda con i suoi occhietti acquosi grandi come perline. Erik avrebbe mille cose da dirle, ma la versione ufficiale esce fuori come un trattenuto cazzo me ne importa. È più concentrato ad osservarle le rughe sulla fronte che altro.
 
La signora Ryan va via, e porta con sé una nuvola di giudizio e insofferenza, che, ad essere giusto un po’ sinceri, è esattamente l’approccio con cui Erik affronta il mondo intero.
 
Non si fa problemi, quel che pensava di dover trovare lo ha ottenuto. Si alza e si liscia la maglietta dei Coldplay, uscendo come se tutto gli appartenesse, combattendo contro la poca luce di uno di quei giorni anemici di luglio.
 
*
 
Oltre ad Erik, di fatto, ci sono altri disperati che popolano il condominio, nonostante il numero non riesca a riempire tutti gli appartamenti. La colpa risiede, secondo il proprietario, fra “palazzo di merda” e “mutanti di merda”. Erik, comunque, dei suoi vicini ne ha incontrati solo una manciata, e non ci tiene a fare la conoscenza di quelli che rimangono.
 
Quando tenta di prendere l’ascensore — nota sul muro: l’ascensore è stato aggiustato, ma usatelo a vostro rischio e pericolo, — la signora Fincher blocca la porta col suo bastone bitorzoluto e ciancia cose come: “Di questi tempi le porte non si tengono aperte neanche di fronte ad una povera signora.” Erik pensa povera signora un cazzo, vecchia strega, ma le rivolge comunque uno sguardo dispiaciuto, il quale viene poco sorprendentemente ignorato.
Forse a lei avrebbe fatto comodo un fantasma in casa, fra le tazzine di ceramica e le vecchie foto dei suoi gatti morti. Lei potrebbe morire di crepacuore e lasciarsi alle spalle solo sospiri di sollievo.
 
Una volta libero da quella gabbia di metallo — quasi uccidendo, effettivamente, la vecchia con l’espediente di utilizzare i suoi poteri per non far perdere ad entrambi troppo tempo, o per liberarli da una compagnia non desiderata, — ad arrestare il suo ritorno nel sudiciume del suo appartamento è la ragazza della porta di fronte.
 
La ragazzi dice: “Buffo.” E sorride. “Ero venuta a cercarti giusto qualche istante fa. Mi era parso di sentire dei rumori nel tuo appartamento, ma poi nessuno ha aperto e credevo volessi ignorarmi.”
 
“Avrò lasciato la televisione accesa,” dice Erik, pensando che Charles Il Fantasma, preda di una leggera rabbia isterica del giorno precedente, gli stia distruggendo il mobilio. Tanto, per quel che vale.
 
“Mmh,” alza le spalle lei.
 
“Cosa volevi?”
 
“Solo recapitare un invito,” allunga il pollice per indicare la porta del suo appartamento. È aperta, e all’interno Erik vi scorge un gruppo di persone sedute su un divano e qualche sedia di plastica, tutte hanno in mano una birra e conversano allegramente fra loro.
“È un incontro abituale che facciamo quando possiamo tra, sai, tra noi amici del palazzo. Più che altro è gente che non ha meglio da fare. E tu sei nuovo e magari ti farebbe piacere—”
 
“Ho meglio da fare.”
 
“Ah sì?”
 
“E comunque,” Erik storce le labbra, assumendo uno sguardo rude, “dov’è tua figlia?”
 
“Sono affari tuoi?” reagisce lei. Erik scuote la testa e fa per superarla, ma lei gli trattiene il braccio. “Dorme in camera sua,” dice, “magari facciamo per un’altra volta.”
 
“Magari.” Lei scioglie la presa e lo lascia andare. Erik tira fuori le chiavi con due paia di occhi ambrati puntati sulla nuca. Fa in modo di entrare aprendo il meno possibile la porta, non sicuro di trovare la casa nello stesso stato in cui l’ha lasciata. Effettivamente, le pareti sono ricoperte di colanti macchie rosse. Si avvicina, temendo il peggio e pensando come cacchio lo lavo via il sangue dai muri!, ma non appena è abbastanza vicino da sentirne esattamente l’odore, l’inconfondibile aroma di pomodoro lo pervade. Gira dunque gli occhi verso la dispensa, dove teneva qualche salsa e pacchetti di snack, e la trova aperta e vuota.
 
“Fanculo.” Mormora, poi più forte: “Charles! CHARLES! Brutto figlio di puttana, Charles!”
Non è che Erik abbia abbastanza soldi da sprecare così il cibo.
 
Gli risponde un grugnito imbarazzato, mentre si lancia sul divano con le mani fra i capelli.
 
“Un fantasma.” Sibila Erik. “I fantasmi non esistono, perché—”
 
“Pensavo che con i tuoi scarsi tentativi di farmi passare oltre avessimo superato la fase «Devo essere impazzito, i fantasmi non esistono»”
 
Erik alza lo sguardo, incontra quello di Charles. Dice: “Proprio perché i tentativi sono falliti credo di essere pazzo.” Poi, aggiunge: “Ho passato il pomeriggio a cercare un altro modo per farti scomparire.”
 
L’espressione di Charles è stoica; è un lenzuolo bianco dal quale non traspare nulla, se non un’indifferenza tale da essere il centro delle sue emozioni. Questo è ciò che Erik pensa di Charles Il Fantasma: che se ne frega di tutto; è morto, perciò è indifferente alle sofferenze di quei poveri sfigati che ancora sono vivi. Erik gli rivolge un’occhiata che attende di essere ricambiata, invano. Si aspetta forse di sentirlo gridare ancora, come la sera precedente, di quanto sia ingiusto che lui sia morto ed Erik ancora vivo. Ed anche acquisendo le parti dello stronzo, Erik non prova il minimo dispiacere nei confronti di Charles. Non per adesso, non dopo tutte le volte in cui gli ha fatto prendere un infarto e gli ha rovinato le poche cose buone che ha in questa casa. Può lamentarsi quanto vuole, Charles, di quanto Erik, in virtù dei suoi respiri, non debba compiangersi, ma resta il fatto che quella è casa sua, di Erik Lehnsherr, e nessun uomo vivo o morto che sia può metterci piede senza il suo permesso.
 
“E cosa hai scoperto?”
 
Una domanda formulata con un tono del genere non porta mai buone cose. Nemmeno un pizzico di interesse. Nemmeno una gradevole irritazione che faccia sussultare di gioia Erik per essere riuscito a ferire il suo indesiderato coinquilino. Appoggia le mani sulle ginocchia e rigira nella testa le informazioni estrapolate dai libri.
 
“Esistono diversi tipi di fantasmi,” inizia a esporre, e ha come la sensazione che sia leggermente divertente spiegare a quell’arrogante di Charles qualcosa che non sa su se stesso. O che, perlomeno, spera che non sappia. “Vedi, e la formula per fargli percepire la cosiddetta luce dipende dal modo in cui sono morti.”
 
Charles lo guarda con disincanto, tuttavia Erik nota nei suoi occhi un riverbero gelido. Si accorge, d’improvviso, che nonostante il caldo di luglio faccia effettivamente freddo, tanto da fargli venire la pelle d’oca.
Ci sono volte in cui una domanda scomoda aleggia nell’aria, attendendo solo di essere pronunciata. Ci sono volte in cui questa domanda, per il bene di molti o anche solo di uno, farebbe meglio a rimanere un pensiero nel retro del cervello, farebbe meglio a non prendere forma e scatenare irrimediabili conseguenze. Erik non è mai stato abbastanza percettivo da comprendere quali siano queste domande.
 
“Come sei morto, Charles?”
 
Il salotto, ora, è un campo della lontana Antartide, i pensieri di Erik vagamente indistinti nella sua mente. Apre la bocca ma non dice nulla; tutto è calmo, ma non in modo pacifico, è il silenzio che accompagna la consapevolezza di una battaglia a breve, il sangue che ti si gela nelle vene quando comprendi di aver detto qualcosa di stupido o irrispettoso, eppure non ritiri le parole, perché in cuor tuo sai che è la strada giusta da prendere. Non c’è risposta da parte di Charles. Erik tossisce, lasciando da parte quello spillo di terrore che gli si è formato nel petto, per poi ripetere: “Come sei morto.”
Charles non sbatte le palpebre, come un gatto che ti osserva dal fondo della stanza e rimugina su solo Dio sa che cosa. Non si muove. Non grida. Non inizia a fargli notare con quel suo indisponente accento londinese quanto gli sforzi di Erik siano oggettivamente inutili. È sorprendentemente fastidioso rendersi conto che è il silenzio a fargli più paura. Erik non si sente molto eroico al momento, solo curioso, tuttavia è una buona mossa non riprendere la domanda per una terza volta.
 
“Non credi,” dice, invece, “che sia davvero solitario essere un fantasma? Insomma, immagino sia divertente girare tavoli, sprecare un’ottima salsa di pomodoro, spaventare la gente. Fidati, la maggior parte delle volte anche io mi diverto ad allontanare le persone; ma tu— tu sei morto. E, con tutto il rispetto, non penso che dopo la morte sia questo il destino che ci aspetta.” Erik sventola la mano intorno a sé, indicando il pomodoro sul muro.
 
Qualcosa negli occhi di Charles brilla. Gli angoli della sua bocca si abbassano e le mani vengono infilate nelle tasche dei pantaloni. Dopo un attimo composto da tensione, Charles sospira.
 
“Non è che io mi diverta.”
 
“No?”
 
“Non proprio,” poi si fa avanti. Marcia sino a raggiungere Erik e gli si siede di fianco, accavallando le gambe e stropicciando il suo ridicolo cardigan. “Non ricordo come sono morto. E non ricordare mi infastidisce.”
 
“Non— ricordi?”
 
“Ricordo solo una cosa, come un mantra, sempre presente nel retro della mia mente: il mio nome è Charles.”
 
Erik ha l’impressione che questa sia una tappa cruciale. Verrebbe da chiedersi se ne vale la pena, stare lì seduti, a parlare con un morto come se fosse il ragazzo con cui ha deciso di dividere l’affitto, ma poi, pensa Erik, l’importante è convincersi di essere all’altezza di una circostanza del genere.
 
“E nient’altro. Ricordo che mi sono svegliato, per così dire, con la vaga consapevolezza di essere in questo appartamento. Vedevo tutto dall’alto, come se non appartenessi a questo presente; poi, sono arrivate delle persone, e nel tentativo di comunicare ho acquistato una forma, ma nessuno poteva vedermi né sentirmi. Ho imparato a muovere gli oggetti, tuttavia puoi ovviamente immaginare le reazioni. Ho fatto così per un po’.”
 
“E io sono il primo in grado di vederti?”
 
“A quanto pare, e la prima cosa che vorresti fare è uccidermi.”
 
“Farti passare oltre,” corregge Erik. “E ti voglio ricordare cosa tu hai fatto a me.”
 
“Cercavo di comunicare, Erik.”
 
“Cercavi di farmi spaventare a morte.”
 
“No, direi proprio di no. Ciò nonostante ammetto che la situazione mi sia scivolata di mano, ad un certo punto.”
 
Charles farfuglia qualcosa di incomprensibile che pare come: “Non volevo rompere il barattolo di salsa, ma una volta accaduto ho deciso di farci qualcosa di relativamente divertente. Non hai reagito nel modo buffo in cui speravo.” E poi alza la voce: “Insomma, sì, forse sono un fantasma, ma è pur certo che non cerco di pugnalarti durante la notte.”
 
Erik si concentra per non uscirne fuori con qualcosa di troppo spiacevole, serra la mascella e rivolge lo sguardo lungo il vetro della finestra. Oltre ad essa, il caldo racchiuso all’esterno fa tremolare l’orizzonte.
 
“Quindi non ricordi come sei morto,” ripete Erik. “Quindi niente «luce prima del paradiso»”
 
“Sono la persona con cui hai avuto la conversazione più lunga da quando sei arrivato qui, Erik, e lo sai.” Esala Charles, per poi dire: “La persona più vicina ad un amico, davvero. E potrebbero servirti degli amici.”
 
Anni e anni tentando di mantenere tutto e tutti fuori, per poi arrivare a questo: scoprire che il fantasma che infesta il tuo salotto si considera un tuo amico e che, nonostante tu lo trovi sgradevole, ti sorrida leggermente come se sapesse esattamente di cosa tu abbia bisogno. Ora che il suo ego è stato brutalmente squarciato in due, non importa quel che Erik voglia fare, quel che farà o quel che gli piacerebbe decidere per sé. Ora Charles lo osserva colmo di aspettative e una serietà che va ben oltre quella di un uomo superficialmente interessato a lui. Ci tiene, Charles, a modo suo, che Erik non tenti più di farlo scomparire ovunque vadano i fantasmi una volta allontanati.
 
“E lasciami dire quest’ultima cosa,” conclude Charles, stando ben attento che Erik lo stia guardando negli occhi. “Penso sia corretto affermare che tu sia un gran coglione.”
 
Erik si morde la lingua dal dire qualcosa, serra le palpebre, e una volta che le riapre, come le altre due precedenti, davanti a sé trova solo il ricordo di un fantasma.
 

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