..Chit Laik Ai?

di Sharkie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il Primo Attimo ***
Capitolo 2: *** Mele Rosse ***
Capitolo 3: *** Glis Glis ***
Capitolo 4: *** Iron Man ***
Capitolo 5: *** Il mostro dei miei sogni ***
Capitolo 6: *** ...e una bottiglia di Rum ***



Capitolo 1
*** Il Primo Attimo ***


Dicono che, quando si nasce, il primo respiro abbia lo stesso sapore della boccata d’aria che ingurgiti quando riaffiori dal pelo dell’acqua dopo tanto tempo.
E’ come se ti si spezzassero i polmoni, l’ossigeno arriva così prepotente al cervello che tutti i sensi prendono a lavorare a mille, come un treno che corre impazzito per il troppo carbone.
E allora la luce non è solo bianca, ma di tutti i colori che l’occhio umano non percepisce, i tuoi respiri non sanno “di nulla” ma profumano di tutti gli odori che non possiamo sentire e la tua saliva non ha mai avuto un sapore tanto dolce, tanto salato, tanto buono.

E’ solo un attimo, il “primo attimo”, quello che ti permette di sentire addosso cosa si nasconde dietro questo teatrino in cui veniamo scaraventati di prepotenza.
Come se avessi la capacità di sapere
. Tutto.

Poi ci schiaffeggiano sul sedere e piombiamo nello stato grigio e catatonico in cui ci trasciniamo fino a che moriamo.
Quei secondi? Svaniti. Nessuno li ricorda.

Tutti al mondo, semplicemente, dimenticano.

Tutti.
Tranne una.

 

****

 

La prima volta che Clarke mise piede in quella casa non era minimamente a conoscenza dei fatti. Era convinta di avere a che fare con qualcosa di normale, qualcosa di sperimentale, certo, ma non così tanto sperimentale.
E invece quella si rivelò l’invenzione del secolo.. o, per lo meno, lo sarebbe stata se solo fosse stata resa di dominio pubblico.

 

A lei era stato chiesto se avesse voluto prendere parte ad un “progetto di analisi cognitiva ed emozionale”, dicevano, di un agente delle FS.
Era stata una proposta piombata dal cielo, totalmente inaspettata, e Clarke non era per niente abituata a quel genere di fortuna.

« Analisi Cognitiva ed..  Emozionale? » aveva chiesto alla ragazza che le aveva proposto la cosa.
La tizia si era presentata come Ingegnere Meccanico di un gruppo di ricerca che lavorava al servizio delle Forze Speciali.
Non aveva dato nomi di istituti o di associazioni, ma la presenza del Rettore a suo fianco era una garanzia già di suo.

« Aham » le fece miss Reyes, sfoggiando un sorriso sgargiante a trentadue denti, mentre girava lo zucchero nel caffè.

Clarke era seduta all’angolo nel suo bar preferito, accanto al finestrone, quando i due le si erano avvicinati.
Un piccolo localino affollato e colorato, un po’ stretto, si, ma servivano i muffin più buoni della città.
L’avevano individuata subito, nonostante il chiasso e i camerieri che giravano come trottole impazzite in mezzo allo sgomitare della gente, ma d’altra parte era difficilissimo non notare quella testolina biondissima che aveva la capacità di scintillare sempre, anche nella giornata più uggiosa di inverno.

« Quindi in pratica si tratta di effettuare.. cosa? Un recupero psicologico post-traumatico? Non capisco.. esistono dei professionisti che fanno queste cose. Non mi sembra roba sperimentale che possa trattare un dottorando. » insistette la ragazza, scuotendo la testa.
La donna guardò il rettore negli occhi prima di formulare lentamente la risposta. Non era la prima volta che lo faceva da quando avevano deciso di sedersi al suo tavolo e la cosa era diventata subito oggetto di studio agli occhi attenti di Clarke. Trovava abbastanza sciocco che la tizia si cimentasse in uno spettacolo di “messaggistica corporea subliminale” -chiamiamola così- proprio davanti ad una persona che loro
sapevano essere un'abile psicologa.
Estremamente sciocco, o sottilmente furbo.
C’era palesemente qualcosa che non volevano dirle.. non da subito almeno. E quello scambio di sguardi voleva prometterle che ne sarebbe valsa la pena.

« Beh, tu sei la studentessa più brillante degli ultimi dieci anni, mi dicono. Vero, Dottor Jaha?
Il nostro team può vantare al suo interno la presenza di alcune delle più geniali giovani menti al mondo e credimi, se siamo qui a parlare di analisi cognitive e quant’altro, non si tratta di un banale recupero da stress post-traumatico..» fece, sorseggiando piano il caffè. «..diciamo che stiamo sviluppando un dispositivo particolare e che vorremmo monitorare i progressi -o i regressi- che l’agente in questione sta affrontando in questo periodo di addestramento. Capisci cosa intendo? » concluse, posando la tazzina sul piattino di ceramica.

La dottoranda aveva un’aria perplessa.

Era affascinante l’idea di poter lavorare su qualcosa di innovativo, ma tutta quella segretezza non presupponeva niente di buono.
Era chiaro che non potessero esprimersi di più, evidentemente il funzionamento del  “dispositivo” in questione era qualcosa che non andava spifferato ai quattro venti.

Ci pensò qualche minuto, lisciandosi con le mani la stoffa dei jeans, poi chiese
« Rettore, lei cosa ne pensa? »
Fu il sorriso pacato dell’uomo a tranquillizzarla.
« Clarke - la chiamava per nome in pubblico da quando si era laureata - conosco Rebecca da moltissimi anni e conosco te. Credi davvero che ti metterei in una situazione spiacevole? Ho dato il tuo nome perché credo tu sia perfetta per questo lavoro.. pensaci. Ma sappi che da parte mia c’è totale fiducia. » affermò l’uomo, con gli occhi che scintillavano di una strana luce.

La ragazza lo conosceva da moltissimi anni, dato che lui era amico intimo dei suoi genitori. Questa cosa le aveva reso la vita non proprio facile all’università, molti avevano insinuato che quei voti fossero stati più di una volta gonfiati. Ma era bastato farsi conoscere un poco dagli altri perché si rendessero conto di quello che lei era veramente.
Una che lavora sodo. E che non chiede favori a nessuno.

In quanto a lui, beh.. se Clarke avesse dovuto dare un volto all’idea di integrità professionale non avrebbe scelto altri che il suo viso scuro dai denti scintillanti.
Un uomo d'onore, e suo figlio Wells lo sapeva bene.

La prima -ed unica- volta che lui e Clarke erano stati portati al commissariato per aver imbrattato i muri della scuola con della vernice spray -avevano qualcosa di stupido da festeggiare, ma che si può pretendere da due di quindici anni?- mentre lei se l’era cavata con una bella tirata di orecchie e due settimane senza TV, lui era stato lasciato dal padre in centrale tutta la notte.
Agli occhi degli altri era sembrato troppo duro, ma Jaha era così e Wells sembrava esserci abituato..

Oltre a ciò, l'uomo aveva questo modo di fare che lei aveva imparato a riconoscere con il passare del tempo. Quando un progetto lo entusiasmava, niente al mondo riusciva a farlo desistere. Se fosse stato necessario alla sua causa, avrebbe trovato il modo di vendere frigoriferi ad un eschimese.  

Non appena lui finì di parlare guardò l’orologio, sussultando in un -oh..-  sorpreso, e si alzò.
« Mi sa che siamo in ritardo per quella questione.. Miss. Reyes, dobbiamo proprio scappare. Ci vediamo presto Clarke, fammi sapere. »
« Bene, a quanto pare ti abbiamo disturbata abbastanza » fece la ragazza, allargandosi in un altro sorriso scintillante.
Era una tipa che dava parecchio nell’occhio. Magra, atletica, con capelli lisci e splendenti, la pelle bruna e un viso perfetto.. Con quelle labbra abbondanti, gli occhi da cerbiatta e i capelli legati Finn avrebbe detto che somigliava a Tomb Raider.
Per di più era anche un brillante Ingegnere, nonostante lei avesse sempre sentito dire in giro che le donne non ci fossero tagliate di natura: o troppo stupide, o zitelle acide.
Per questo all’inizio, quando la ragazza si era presentata, Clarke aveva faticato un po’ a crederle sulla parola e si era convinta solo quando aveva notato che l’altra non era minimamente truccata e che le sue mani sembravano forti.

Raven in pratica sembrava una principessa Disney vestita da meccanico, con salopette e chiave inglese alla mano. L’immagine la fece sorridere ma anche provare invidia: per un momento Clarke si sentì poca roba al confronto, con il suo dottorato in criminologia, il master in logopedia, la laurea in psicologia ed i suoi piccoli successi accademici.

Tuttavia la volevano per il progetto, quindi tanto inutile ai loro occhi non lo era.

La giovane donna si alzò a sua volta, infilandosi il cappotto, e le porse la mano:

« Sono Raven, comunque. » le disse caldamente
« Clarke. » rispose automaticamente la ragazza, leggermente imbarazzata.
« Questo lo so. » ridacchiò Raven, prima di girarsi e imboccare l’uscita del bar, con il rettore di fianco.

 

****

 

Era rimasta quattro giorni a rimuginare sulla proposta.
Le interessava e, purtroppo per lei, dovette ammettere che quello che la invogliava di più era l’idea di far parte di un team che potesse vantare solo “giovani menti brillanti”.
Aveva parlato con Thelonoius e lui glielo aveva assicurato: non erano una fregatura.
Erano un gruppo reale e ben finanziato da enti privati, nel settore innovazione erano molto famosi.

Solo che non amavano scoprire le carte in tavola troppo presto.

Tramite il Rettore prese appuntamento.
Venerdì alle 15.00 avrebbe incontrato la dottoressa Primeaid e avrebbe visionato il progetto.

L’indirizzo dell’incontro non la portò fuori città, come si era aspettata, ma in un quartiere in periferia piuttosto tranquillo, pieno di villette a schiera.
Pensava che la sua destinazione fosse una di quelle, ma il navigatore la fece arrivare fino ad una tenuta un po’ più grande, più isolata rispetto alle altre.
La proprietà aveva un enorme vialone alberato che portava fino ad una enorme casa in muratura dal tetto spiovente.
Strano, pensò.

Forse la dottoressa voleva incontrarla privatamente per una chiacchierata conoscitiva. Parcheggiò in uno spiazzo e si avviò per bussare alla porta.
Le aprì una donna sulla quarantina, raffinatamente vestita e con i capelli legati in una stretta coda di cavallo:

« Tu devi essere Clarke. » disse con un sorriso accennato.

Era anche lei una bellissima donna.
La bionda si chiese se anche gli altri membri del Team fossero tutti dei modelli mozzafiato con un QI superiore a 150.
Era forse un requisito fondamentale per partecipare all’impresa?
Perché lei non si sentiva tutta questa bellezza, anche se Finn le aveva sempre detto il contrario..

« La dottoressa..? » tirò a indovinare lei, anche se era abbastanza sicura della sua intuizione.
C’era qualcosa in quella donna che parlava di prestigio, potere, intelligenza.
« Si. Vieni, accomodati pure. » la invitò ad entrare.

Gli interni erano belli come l’esterno: ampi e luminosi spazi aperti collegati da ampie porte a scorrimento di vetro. E poi legno, legno ovunque: parquet, tavoli, mobili, pareti.
Una testa di cervo appesa sul camino le fece storcere un po’ il naso, ma per il resto trovava la casa davvero incantevole. Molto rustica.
Si accomodarono in salotto dove la donna le offrì del thé.
Dopo qualche minuto erano sedute ad un tavolino di ciliegio, con le tazze fumanti in mano.
« Allora.. » buttò lì Clarke, ansiosa di sapere qualche dettaglio in più.
« Thelonious mi ha parlato molto di te. Dice che sei una ragazza sveglia. » commentò la donna senza mezzi termini, ma con un tono dolce.
« Lo spero. »  sorrise l’altra.
« Beh, col tempo i fatti parleranno da soli.. » poggiò la tazzina sul piattino « Quando avresti intenzione di iniziare? »
« Ah, anche subito! Ho un resoconto da scrivere, prima inizio meglio è. »
La donna tacque per qualche secondo, annuendo, perciò Clarke continuò risoluta:
« ..ma mi piacerebbe capire meglio quello che c’è da fare, prima, se non le dispiace. »
« Si.. Certo. - la donna la squadrò per un po’, prima di continuare - ma sono tenuta a dirti che verrai monitorata anche tu e che questi dati serviranno ai fini della ricerca. E con monitorata intendo registrata » indicò alcuni punti della casa.

Clarke faticò un po’ per trovare quello che avrebbe dovuto guardare: stringendo gli occhi poté notare tante piccole telecamere.
Una nel vaso, una nell’angolo a soffitto, una nel naso del cervo.
« Oh! - esclamò imbarazzata - è questo il posto di lavoro..? Voglio dire.. dovrò venire qui? In questa casa? »
« Precisamente.» annuì la donna.
La ragazza rimase qualche secondo a pensare. Non le piaceva essere ripresa.
Inoltre, l’idea che quella splendida casa fosse forellata come un vecchio mobile assaltato dai tarli le risultò abbastanza disgustosa.
Sentì di aver apprezzato una cosa finta.

« Se è per lavoro.. voglio dire, se è necessario.. » iniziò lei.
« E’ necessario. Più in là ti spiegherò ma per ora.. cerca di accontentarti.. » la interruppe l’altra.

« Mhh.. d’accordo.- inghiottì lei, inarcando un sopracciglio - ...Ma adesso posso finalmente sapere in cosa consiste questo lavoro?»

Clarke iniziava ad essere stufa di tutte quelle clausole, quelle cose non dette, quei misteri e iniziava già a pentirsi di aver dato retta a Thelonious.
« Non vorrei sembrarti pesante, ma prima di esporti l’argomento devo dirti che quando accetterai il progetto sarai obbligata da un accordo di segretezza al massimo silenzio. Lavoriamo su cose particolarmente delicate, capisci.. » disse alzandosi per recuperare un tablet da un cassetto.
Glielo poggiò davanti « Questo è quello relativo alla chiacchierata di oggi. Solo per tutelarci.»

La ragazza era sempre più incredula. Gli diede una scorsa veloce:
« In sostanza mi minacciate di conseguenze legali anche piuttosto pesanti nel caso in cui io riferisca a terzi della nostra “chiacchierata” di oggi? » sempre più esterrefatta.

« E’ brutto detto in questi termini, ma.. » confermò l’altra.

Tutto ciò era davvero troppo, davvero. Prima filmata, poi minacciata e poi, che più? Ma che razza di colloquio era? Si sentiva come in un film di contro spionaggio, e a lei 007 non era mai piaciuto.
Aveva appena poggiato le dita sullo schermo per rispedirlo indietro sul tavolo e già stava formulando una risposta di scuse, quando sentì il rumore della porta.

Dopo pochi secondi fece capolino dall’atrio una ragazza in tuta tutta sudata mentre si toglieva gli auricolari dalle orecchie e si asciugava la nuca con un asciugamano, ancora affannata.
Non sembrò sorpresa di vederle.
Guardò Rebecca facendole un cenno di saluto con la testa e poi guardò Clarke per qualche secondo.

Fu quello il momento che cambiò la sua vita, anche se lei all’epoca non lo visse affatto bene.

La tipa lì la osservava con un’espressione indecifrabile.
Era fredda, compassata ma non distante, superficiale, anzi.
La dottoranda si sentì studiata, nuda come una paziente sotto gli occhi dei medici.
Una sensazione poco piacevole le percorse la spina dorsale fino a farle formicolare la punta delle dita.
Non credeva di essersi sentita mai così tanto a disagio in vita sua, come in quel momento: quella tizia la stava decisamente analizzando e senza tentare nemmeno di nasconderlo.
La cosa le risultò fastidiosa e persino un pochino estranea: era abituata a stare “dall’altro lato”. Inoltre sembrava che alla ragazza fosse bastato quello sguardo veloce per tirare le sue conclusioni.

E questo a Clarke non piaceva, non piaceva affatto.

 

La voce di Rebecca ruppe il collegamento che si era creato e la ragazza finalmente staccò il suo sguardo dagli occhi dell’altra:
« Puoi andare Lexa, fra poco sarò da te e poi possiamo incominciare. »

La ragazza annuì e, dopo aver lanciato un ultimo sguardo di taglio alla bionda, salì le scale per andare al piano superiore.
Clarke colse quell’attimo per riprendersi dai suoi pensieri, ma non fu abbastanza veloce perché Rebecca colse perfettamente il suo viso corrucciato:
« Lavorerai con lei.. sempre se accetti di firmare. » ci tenne a precisare.
Clarke sembrò sorpresa:
« E’ una psicologa, un ingegnere o cosa, stavolta..? »
Rebecca ridacchiò, lasciando intendere che fosse totalmente fuori strada.

Allora la dottoranda capì:
« Vuol dire che l’agente è lei..?? Ma è così giovane e.. »  sgranò gli occhi.
La donna sorrise:
« “Mai fidarsi delle apparenze”, credo che questa frase tu l’abbia già sentita da qualche parte almeno una volta nella vita. - le porse il pennino - allora.. che si fa? Mi piacerebbe spiegarti un po’ di cose.. »

 

****

 

Clarke aveva firmato.
Ma certo che aveva firmato, di cosa staremmo a parlare, altrimenti?
Maledetto il suo istinto autolesionista da Ulisse, non era riuscita a frenare il “si” silenzioso che aveva fatto con la testa e la sua mano che aveva afferrato lo stilo e firmato sullo schermo lucido del tablet.
Ora ci era dentro con tutte le scarpe.

Ma lo sguardo sfacciato di quella tizia le aveva fatto dimenticare ogni fastidio relativo a telecamere e a contratti vincolanti.
Quegli occhi l'avevano guardata in una maniera che -Clarke ci aveva ragionato parecchio durante il ritorno a casa- non corrispondeva a nessun canone comportamentale da lei conosciuto.

Era.. libera. Libera da qualsiasi sovrastruttura, qualsiasi paura, qualsiasi educazione o premura.
L'aveva irritata, in un primo momento, ma poi l'aveva colta l’irrefrenabile curiosità di capire quanto quel fantomatico dispositivo avesse influito sul carattere della tipa chiamata Lexa o se lei fosse semplicemente fatta così, di natura.. selvaggia.
Si sentiva così tanto attratta dall’idea di poterla studiare che iniziò a sospettare che la sua non fosse semplicemente curiosità a livello professionale.

No.

La sua era forse.. invidia.

Lei e Rebecca avevano parlato per quaranta minuti e la dottoressa le aveva detto molte cose che, mentre guidava per tornare a casa, le ritornarono alla mente.
Avevano parlato della pubblicazione del lavoro, dei termini della divulgazione del progetto alla fine della loro collaborazione, e così via.
Avrebbe dovuto sopportare altre tre settimane di completa ignoranza, da contratto:

« Tipo “cieco/doppio cieco”? Quello che si fa quando si testa un nuovo farmaco? » aveva intuito.
« Non “doppio”. In questo caso noi sappiamo benissimo cosa monitorare e a cosa prestare attenzione. Il tuo compito all'inizio sarà semplicemente di osservarla e verificare eventuali anomalie psicologiche, prendere nota e consegnare un rapporto settimanale.
Alla fine del periodo, verrai messa al corrente di alcuni dettagli tecnici e proseguirai col tuo lavoro, sotto però un nuovo punto di vista.. le dinamiche rimarranno sostanzialmente le stesse. Fin qui, mi pare che sia tutto. » aveva concluso la dottoressa, sbrigativa.

Anomalie psicologiche.

« Onde evitare problemi in futuro, vorrei che lei mi rispondesse sinceramente, dottoressa.» aveva chiesto piano Clarke, dopo essersi ripetuta mentalmente quelle due parole alla ricerca del loro vero significato.
Le erano suonate male e voleva togliersi ogni dubbio prima di imbarcarsi in quella impresa:

« È possibile… insomma è possibile che l'agente Lexa… mi devo aspettare qualche comportamento violento da lei? È possibile? Vorrei saperlo.»
La dottoressa l'aveva guardata un po’ sorpresa.

Poi aveva sorriso, rendendosi conto dell'effetto che aveva potuto fare la sua frase precedente:
« No Clarke, assolutamente.. non c'è pericolo. »

Il sollievo della ragazza fu evidente.

 

Eppure qualcosa non la fece dormire quella notte.
C'era qualcosa che le sfuggiva. Qualcosa che l'aveva eccitata, che le aveva acceso una lucetta nella testa, tintinnare i campanelli nelle orecchie, non necessariamente di paura.
Glielo aveva urlato ogni fibra del suo corpo, aveva vibrato ogni “antennina” che la rendeva così brava nel suo lavoro, così maledettamente intuitiva.

Clarke non capiva, ma sentiva.
Sentiva che sarebbe successo qualcosa di grosso.
E non si sbagliava.
 

****

 

Lei la ricordava bene quella sensazione.
Era stato doloroso, qualcuno avrebbe detto “come morire” ma è chiaro che nessuno al mondo ancora in grado di parlare ha davvero cognizione di quello che significa questa frase.

Forse solo lei avrebbe potuto dire qualcosa al riguardo, se solo avesse ricordato.. ricordato del prima..
Ma all'epoca non sapeva nemmeno di doversi sentire qualcuno.
All'epoca non sapeva niente.

E quindi semplicemente aveva sofferto, dopo l’assaggio del “primo attimo”.
Aveva sofferto quando aveva sentito i polmoni allargarsi, i rumori distruggerle i timpani, la luce bruciarle le pupille, e si era resa conto troppo tardi che avrebbe dovuto lottare per rimanere giù con la testa, per non riemergere da quella vasca tiepida.

Avrebbe dovuto lottare per non iniziare a vivere.

Invece adesso che la linea era stata varcata era solo una discesa in caduta libera.

Davanti a questa consapevolezza aveva pianto, disperatamente, per la prima volta.
 

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Capitolo 2
*** Mele Rosse ***


[Angolo dell’Autrice:] Ehm salve ^^”

Volevo ringraziare -ma no, davvero?- tutti quelli che finora hanno letto e recensito la mia storia e che hanno deciso di seguirla e un super grazie iperspecialissimo conbacioaccademicoenon alle mie dolcissime amiche che mi supportano e che mi invogliano a continuare questa storia! Questo chap è per voi :*
E’ un periodo abbastanza complicato, I mean, mi sono appena trasferita in Francia per questioni universitarie e quindi trovo poco tempo per me.

Se non sono al lavoro, sto rassettando camera, facendo la spesa o chissàchealtro, quindi.. gnente, volevo solo avvertirvi che probabilmente -mooolto probabilmente- sarò davvero lenta ad aggiornare.
Però fortunatamente avevo già il secondo capitolo fatto, quindi, ecco, lo posto.
Fatemi sapere se è una cacchina, al solito, con tanta nonchalance mi raccomando.
Vivvibbì

PS: ah e vi volevo anche avvertire di quest’altra cosa: come avrete notato qua e là ci sono dei cambi di scena. Ora.. mi rendo contro che potrebbero essere confusionari per qualcuno quindi fatemi sapere se ve li devo notificare in qualche maniera..

 

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« Clarke.. detto sinceramente, a me non è che piaccia chissà quanto questa idea. E potevi dirmelo prima. » disse buttando il grembiule sul tavolo con un gesto nervoso.
Finn era abbastanza incazzato per la questione, come lei aveva perfettamente previsto.

Per questo aveva deciso di dirglielo prima di cena, durante il momento della giornata in cui, in genere, era sempre di buon umore: quello in cui cucinava per lei.
Ma lui non era suo padre, non era il suo tutore e -anche se fosse stato- a ventisei anni non aveva più bisogno di chiedere permessi a nessuno.

Nonostante tutto, Clarke optò per la cosiddetta strategia della “Gatta Morta” -mai fallimentare a memoria di donna- per farsi perdonare. Quindi, dopo averlo circondato da dietro con un abbraccio, miagolò a regola d’arte un:
« Finn.. lo so che ti preoccupi per me ma sta’ tranquillo. Poi al massimo ti faccio una chiamata al cellulare e mi vieni a salvare, da bravo supereroe.
Facciamo, come un.. Captain America? Ah no, tu sei.. come si dice.. del TeamStark. Questa cosa non la capirò mai. Il Capitano è un bellissimo fusto..» ridacchiò affondando il viso nelle sue spalle.
Lui amava i supereroi, altra carta da giocare per ammorbidirlo un po’ e per far passare quella faccenda in secondo piano.
Se non avesse funzionato manco quello, beh, avrebbe sempre potuto sfoderare “l’arma definitiva”. In altri termini -giusto per restare in tema Superhero-movie- il pulsantone rosso dei litigi, l’autodistruzione delle litigate, quello da premere per radere al suolo ogni “se” ed ogni “ma”..

Quella notizia però doveva averlo sconvolto abbastanza, perché nemmeno i riferimenti Marvelliani riuscirono a distrarlo:

« Questa “collaborazione” con le Forze Speciali.. questo dispositivo.. - era tutto quello che per contratto aveva potuto rivelargli - ..mi sa di roba militare. E non mi piace l’idea che tu stia con quella gente. Lo sai. »
Oh, se l’era presa per davvero allora..
Finn ruotò tra le sue braccia fino a guardarla in faccia. Aveva davvero un’espressione serissima. Clarke si sforzò di non alzare gli occhi al cielo, e mise su il tono più calmo che poteva:
« Ascolta.. sto prendendo un dottorato in Criminologia.. che ti aspettavi? Poteva succedere, insomma, non è la prassi lo so.. ma si, si, lo so che non è lo stesso che stare in uno studio pieno di fascicoli e andare in tribunale a deporre.. - si affrettò ad interromperlo che apriva bocca per controbattere -..ma ti assicuro che non mi invischierò in cose che non mi competono. Promesso. Andrò lì, stilerò il mio bel quadro psichiatrico della ragazza e sarà tutto qua. Nessun contatto con l’esercito, niente di niente. » disse guardandolo dritto negli occhi.
Poi, dato che lui continuava a tacere, continuò, cercando di dargli il colpo di grazia con due occhi da cucciolo che gli riservava solo per quelle occasioni:
« Sembra una grande opportunità.. e tra l'altro.. - aggiunse, allargandosi in un sorrisetto furbo -..il progetto si svolge in una casina proprio carina. Dovresti vederla, magari potremmo prenderla simile.. sai..»

Finalmente il ragazzo sembrò sciogliersi in un sorriso, anche se tirato, e lei lo sentì rilassarsi tra le sue braccia.
« E va bene » sospirò abbracciandola forte e affondando il naso nel suo collo.
A Clarke salirono dei brividi lungo la schiena fino alla base del cranio.
« Mai che si possa dire a Clarke Griffin cosa fare o non fare. » rise lui, ancora un po’ amareggiato.

Lei lo sentiva, il suo disappunto, ma non poteva farci molto. Non era abituata a cambiare i suoi piani per fare un favore a qualcuno, anche se quel qualcuno era il suo ragazzo.
Però poteva rendergli la sconfitta meno amara.

Perciò lo tirò a sé e spinse quel bottone rosso.
 

****

 

Sua madre l'aveva sempre presa il giro per il ruggito che cacciava il suo stomaco quando era affamata.
« Come se non avessi fatto colazione tre ore fa! La maestra delle elementari arrivò a chiedermi se ti tenessi a stecchetto.. quasi mi trovavo nei guai per maltrattamento di minori.. ti immagini? - rideva la donna - Prima o poi combinerai qualche guaio con quel rumoraccio! Magari fai venire un colpo a qualcuno! “Omicidio preterintenzionale, arma del delitto: fame rumorosa acuta” »
Clarke sorrise al ricordo.
Eppure quel giorno il suo stomaco non solo non uccise nessuno, ma la salvò pure dal fare ritardo il suo primo giorno di lavoro.
Si svegliò con Finn che le stava addosso nudo, il braccio attorno alla vita e il respiro ancora pesante nel suo orecchio.
Se c'era qualcuno che certamente non sarebbe mai morto di infarto per il brontolio assassino del suo stomaco, quello era di certo lui.
Dopo una notte di sesso avrebbe potuto dormire anche in mezzo a un campo di battaglia, tra spari e esplosioni.

Già se lo immaginava a svegliarsi con l’aria beata proprio di fianco ad un cratere gigante.
Se lo spostò di dosso senza troppi complimenti e si diresse in cucina per fare colazione con le prime cose che si sarebbe trovata a portata di mano. Se Finn fosse stato sveglio le avrebbe preparato pancakes ai mirtilli, uova strapazzate e succo d’arancia, ma lei era troppo pigra -lo era sempre stata a prima mattina- e così afferrò diversi biscotti dalla dispensa e li innaffiò col caffè avanzato del giorno prima, dopo averlo scaldato al microonde.
La cena era saltata, ma almeno non le avrebbe tenuto il muso per un po’.
Clarke si complimentò con sé stessa per l'ottimo lavoro di persuasione -in realtà si sentiva un po’ un verme ogni volta che usava quella tattica subdola, ma alla fine ne uscivano vincitori entrambi e questo era l'importante- e dopo aver lanciato uno sguardo affettuoso al ragazzo mentre si vestiva velocemente, uscì di casa.

Trenta minuti dopo era di nuovo alla tenuta, con una sensazione del tutto diversa da quella che l'aveva accompagnata la prima volta. Durante tutto il tragitto non aveva fatto altro che pensare a cosa dire, come comportarsi, cosa chiedere..
Era meglio un approccio classico? Avrebbe fatto lei delle domande? O sarebbe stata l’agente a fornirle direttamente tutte le risposte?
Rebecca non le aveva dato direttive specifiche, quindi avrebbe dovuto capire sa sola come agire e a cosa prestare attenzione e tutta questa “libertà” la mandava su di giri.

Quel “qualcosa” che la eccitava la faceva sembrare nervosa, impaziente.
Girò le chiavi che le aveva dato la dottoressa nella toppa ed entrò.

I primi passi in quella casa furono silenziosi in maniera inquietante. Si ricordò che dopo aver varcato il limite della porta la aspettavano mille occhi pronti a registrare ogni suo minimo movimento e la cosa la mise di nuovo a disagio. Percorse il corridoio stringendosi nelle spalle e guardandosi intorno, ma non riuscì a scorgerne nessuna.
Un rumore alle spalle la fece trasalire. C'era Lexa sulle scale, in tenuta da ginnastica che tamburellava con le dita sulla ringhiera di legno massiccio.
Aveva lasciato cadere il borsone sportivo sul comodino e adesso la guardava dalla penombra senza dire una parola.

« Oddio. - soffocò Clarke a labbra strette, poi con un sorriso balbettò - Scusa.. non mi aspettavo.. »
La ragazza rimase in silenzio, continuando a guardarla con la testa leggermente inclinata.
Clarke scosse la testa, andandole incontro:
« Insomma, tu vivi qui! - continuò sorridendo appena - Avrei dovuto aspettarmelo! »
Ancora silenzio. La tipa continuava a guardarla fisso, con l'espressione seria, tamburellando con l'indice sul legno.
Clarke si mordicchiò un po’ il labbro e sospirò un «Già..» rassegnato.

Vedeva i suoi occhi scintillare nel buio e cercava di capire quale fosse il modo migliore di comportarsi di fronte ad un muro di silenzio.
Optò per l’approccio sincero. Qualcosa le diceva che con l’agente era meglio comportarsi nella maniera meno artificiosa possibile:

« Allora, tu sei l’agente Lexa. La dottoressa mi ha spie-- »
« Tu sei quella che deve decidere cosa farne di me. » la interruppe l’altra, inaspettatamente.
La dottoranda boccheggiò per un secondo, colta alla sprovvista.
Cos’era quello... astio?
« ...tu sei il motivo per cui sono qui, si. Ma detto sinceramente non credo di avere chissà quali poteri decisionali sul tuo futuro. » le rispose, guardandola dalla base delle scale.

L’altra tacque di nuovo, ma le scappò un movimento nervoso del sopracciglio.
Curioso.
La penombra era fitta, ma nella casa riuscivano a filtrare alcuni deboli raggi di luce e da quella nuova angolazione Clarke per la prima volta riuscì a cogliere gli occhi della ragazza.
Erano ostili, color guerra: verde militare..

« Allora, sono qui. Che si fa? Preferisci accomodarti in salotto o.. » cercò di chiedere.
« Io vado a fare jogging. Tu non so. » rispose l’agente, scendendo le scale e recuperando l’iPod dalla tasca della felpa.

Clarke sgranò gli occhi. Lexa le passò accanto mentre si infilava gli auricolari nelle orecchie.
« Come? Ma non dovremmo..? » tentò di dirle, seguendola.
L’altra proseguì imperterrita, incurante della bionda che le trotterellava dietro, confusa.
« Aspetta!.. Lexa! » esclamò la ragazza, ma l’altra era già sparita dietro la porta d’ingresso.


****
 

Due erano le cose: o la ragazza era una amante del jogging estremo, oppure proprio non ne voleva sapere di partecipare alla “seduta”, perché dopo quattro ore non se ne vedeva all’orizzonte manco l’ombra.
Per le prime due Clarke aveva optato per la strada della pazienza, per non dargliela vinta, così si era accomodata sul sofà dopo aver dato un’occhiata alla videoteca della casa - non avevano davvero niente. Solo documentari… « Che roba..»  - e si dedicò allo zapping folle, passando da un canale all’altro finchè non approdò su CrimeTV.
Lì si sparò almeno sei episodi tra Hannibal Lecter, True Detective, e altre serie misconosciute tedesche e, nel mentre, cercava di ripetersi di non risponderle in malo modo una volta che quella fosse tornata a casa.

Allo scoccare della terza ora era davvero preoccupata. Che l’avesse travolta un camion?
Chiamò Rebecca, dopo aver lottato con sé stessa: non voleva fare la figura dell’incompetente lagnosa il primo giorno di lavoro, ma non sapeva che altro fare.
E poi.. aveva un paio di domande.

« Credevo che la ragazza fosse consenziente! » esclamò.
« Clarke, non la stiamo violentando, la stiamo studiando.» replicò Rebecca dall’altro capo.
« Insomma.. - si corresse Clarke - credevo che avrei lavorato con un soggetto che ha accettato di sua spontanea volontà. »
« È normale trovare qualche resistenza in un lavoro del genere. Lexa non è intrattabile, devi solo convincerla ad instaurare un rapporto con te. Sono sicura che non avrai problemi, ti serve solo un po’ di tempo. »

Clarke sospirò.

« ...È sparita da tre ore. »
« Sta facendo il giro lungo. L’abbiamo sui nostri monitor, ha addosso un dispositivo di tracciamento, stai tranquilla. » le disse rassicurante la donna.

« Ah. »

Registrata, tracciata al GPS, “studiata” e chissà cosa più.
Iniziava a capire perché Lexa sembrasse così irritata.

« Le mie ore sono quasi finite. » disse al telefono.
« Torna a casa Clarke. Domani andrà meglio » le rispose la dottoressa prima di riattaccare.
Prima di arrendersi all’evidenza, Clarke decise di aspettare ancora un’ora.
Andò al frigo dell’enorme cucina e si sorprese di trovarlo praticamente vuoto.

Solo acqua, qualche uovo e della verdura.
“Ma che diavolo.. questa casa è invivibile.” pensò, mentre apriva tutti i cassetti e le ante che vedeva.
Frugò nella dispensa e trovò finalmente qualcosa di commestibile da mandar giù: pane bianco, biscotti e marmellata di mele.
Ci volle un intero pacco di frollini prima che si rendesse conto che aveva troppa fame per saziarsi con quelli, quindi decise di provare a cucinare qualcosa.

Finn l’aveva sempre tenuta lontana dai fornelli e lei non ne aveva mai capito il perché. Lui diceva che lei era un disastro in cucina quanto geniale nel suo lavoro, e sinceramente lei non credeva di meritarsi un giudizio così cattivo.
Anzi! Le piaceva parecchio inventare.
Credeva di aver sbancato a Capodanno con i suoi gamberetti fritti alle nocciole - ok, si, aveva usato la Nutella - ma fu proprio quello il giorno in cui Finn le proibì di avvicinarsi ancora al forno.

E alle pentole.

E al libro di ricette orientali che le aveva regalato Wells a diciassette anni.


Rise sotto i baffi e afferrò qualche uovo.
Le ruppe, le sbattè -forse c’era cascato dentro anche qualche pezzettino di guscio, ma tanto se sono piccoli non si sente- e mise sul fuoco una frittata..
Che venne color caramello, ma vabè.
« Porca..! » imprecò un po’ tra i denti, quando nel tentativo di salvarla dalla bruciatura si schizzò il dorso della mano con delle gocce di olio bollente.
Rimirò la sua opera, prima di passare alla fase successiva.

Prese due lunghe fette di pane bianco, le spalmò con abbondante marmellata e poi ci piazzò il rotolo di frittata al centro.
« Perfetto. Come spuntino non c’è male. » Sorrise sorniona sedendosi al tavolo e afferrando il panino a due mani.
Aveva esagerato un po’ con le porzioni, ma d’altra parte non cucinando mai che ne poteva sapere lei? Con quattro uova e la marmellata era venuto su un bel fagotto grassoccio.

Guardò l’orologio.
Erano passate quasi quattro ore.
Lei sarebbe tornata prima o poi. E dopo tutto quel tempo a correre -ammesso che avesse corso tutto il tempo, anche se il fisico suggeriva che Lexa fosse una tipa particolarmente.. allenata- probabilmente avrebbe avuto fame.
E con quel frigo deserto che si trovava non avrebbe potuto cucinarsi niente.
« Ma si.. » sospirò, prima di tagliare il panino in due e di mangiare la sua parte.
 

Non era affatto male! Doveva ricordarsi di riproporlo a Finn una sera di quelle.

O di farglielo a tradimento.

Non era molto sicura che Lexa si meritasse di assaggiare quel piccolo capolavoro dopo il modo scorbutico in cui si era comportata e quelle quattro ore di assenza.
Ma poi Clarke pensò che quello poteva essere un modo per convincerla a parlare con lei.
Nel caso, mangiare quel panino freddo poteva essere una vendetta più che soddisfacente.
Decise che per quel giorno ne aveva avuto abbastanza della solitudine.

Afferrò borsa e chiavi e uscì dalla casa, dopo aver scritto un biglietto e averlo poggiato vicino al piatto:

“Mangiami”.

Chissà se avrebbe colto la citazione.
 

****

 

La prima volta che aveva mangiato qualcosa era stato.. appagante. All’epoca non sapeva nemmeno il significato di questa parola, ma adesso l’avrebbe descritta esattamente così.
I giorni precedenti l’avevano nutrita con dei tubicini che si innestavano direttamente nel braccio e che le iniettavano dentro tante sostanze colorate.
Poi, piano, le avevano dato delle poltiglie insipide per farle riallargare lo stomaco.
Quei giorni erano stati dolorosi, aveva la nausea e sentiva la pancia farle male, ma poi, piano piano era tutto passato.
A imboccarle quella sbobba brodosa era sempre stata una ragazza, un’infermiera, che sembrava sempre attenta a non farle colare niente giù per il mento.

Lei non capiva ancora quella lingua, ma si convinceva ad aprire la bocca quando quell’altra le faceva “aaaaaahmm” e le appoggiava il cucchiaio sulle labbra.
All’inizio le balenavano in mente molte immagini di lattanti seduti sul passeggino, con le loro madri che cercavano di fargli mangiare qualcosa e di evitare rigurgiti e pappette rilanciate indietro.
La ragazza aveva la stessa espressione paziente di alcune di quelle donne e non mancava mai di sorriderle quando mandava giù il boccone.

Le dispiacque quasi quando i signori col camice bianco decisero che avrebbe potuto iniziare a mangiare da sola, ma fortunatamente i loro incontri non cessarono.

Anzi. Fu proprio lei a sbucciarle la sua prima fetta di mela.

Era la prima, primissima cosa solida che avrebbe masticato.
Lei, del tutto impreparata, la afferrò con tutta la mano e la strinse tanto che la fettina scivolò fuori dal pugno chiuso e cadde di nuovo nel vassoio.
L’infermiera rise.

Emetteva un suono così piacevole.
Le fece vedere come prendere la mela tra le dita, così, non in quel modo, e gliela portò fino alla bocca.
Quando lei la morse, il crock della fetta fu la prima cosa nuova che sentì. E fu sorprendente.

Era dura tra i denti, ma schiacciata sotto i molari rilasciava un succo dolcissimo, un po’ frizzante.
Non si accorse di avere gli occhi sgranati, e di aver rilasciato involontariamente un mmmhh a labbra strette.

Ma notò il viso dell’altra, che la guardava con la bocca un po’ aperta, in un’espressione di puro stupore.
Quando l’infermiera a sua volta si accorse che la paziente la stava osservando -e sopratutto della faccia buffa che doveva aver fatto- trasalì e la sua pelle assunse una tonalità rossastra che tendeva al colore della mela.

Si affrettò a pulirle un po’ di succo che le era colato dalle labbra, tenendo gli occhi bassi, ma quel colorito non accennava ad andar via.
E per non si sa quale ragione, quando le sorrise di nuovo -niente che non avesse già fatto nei giorni precedenti- le fece un effetto totalmente diverso.

Quel giorno, i suoi denti bianchi e le sue labbra le infusero un calore che non aveva mai provato prima.

Quel giorno, la ragazza stesa nel lettino imparò ad amare le mele rosse ed il loro colore.

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Capitolo 3
*** Glis Glis ***


[Angolo dell’Autrice:] Ciaaaaao.
Lo so che sono passati mesi e mesi. Sei, per la precisione.
Ma come vi avevo annunciato, sono stata a Parigi durante questo lungo periodo e, beh, è stato tutto così intenso che non ho avuto davvero il tempo di sedermi a scrivere. Non mi giudicate male, per favore…
Quel tempo l’ho usato per scoprire una nuova città e le sue abitudini, per farmi affascinare dalle opportunità che metteva a disposizione, dalla musica non commerciale, la danza sui battelli, l’arte contemporanea esposta ai vernissages (e si, anche il vino, quello rosso “messo in bottiglia dal proprietario”).
L’ho usato per innamorarmi molto “male” di una persona che non mi ricambia, ma che mi vuole molto bene. Accettarlo ha richiesto un bel po’ di sforzo, devo ammettere, ma alla fine ne è valsa la pena.

L’ho usato per ricordarmi della persona che ero prima di iniziare a studiare una materia che non mi appartiene, ma che mi affascina.
E ora sono di nuovo qui. La cosa peggiore è che mi sembra già tutto un grande sogno.

Vabè.

Ps: ringrazio infinitamente chi mi ha dato una mano “betando” il capitolo.
Avevo bisogno di consigli critici per mettere un po’ apposto questo macello..


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Poi un giorno le fecero ascoltare della musica.
La ragazza che la veniva a trovare ogni giorno, l’infermiera, aveva portato in camera una curiosa scatolina forellata.

“Altoparlanti.” aveva scandito con un sorriso.
A quella parola, alla ragazza seduta sulla poltrona passarono per la mente centinaia di fotogrammi in sequenza..

Scosse la testa, infastidita.

Subito dopo l'infermiera aveva preso un altro oggetto più piccolo e sottile -un iPod- e ci aveva fatto scorrere le dita sopra.
L'aveva guardata di sottecchi e poi aveva premuto sullo schermo.
A quel gesto, dalle casse partirono le note molli di una canzone pizzicata alla chitarra che volarono nella stanza fino ad infilarsi nelle sue orecchie.
La ragazza in pigiama in qualche modo sapeva cosa fosse la musica, ma non era preparata alle sensazioni che si sentì nascere dentro dopo i primi minuti passati ad ascoltare.

Involontariamente sbatté le palpebre, prima di socchiuderle..
Sentì dalle casse una voce gentile che intonò parole che all’epoca non poteva riconoscere, seguendo il canto delle corde.
Senza alcuna ragione la ragazza divenne malinconica.
Il che è strano, perché in genere si diventa malinconici se si ha qualcosa di bello da ricordare, ma lei all'epoca non sapeva ancora di poterlo fare. Di poter ricordare.

Come ho già detto, all'epoca non sapeva niente.
Si sorprese a contemplare i raggi di luce fuori dalla finestra, che ora sembravano di colore diverso dal solito. Più arancioni, marroncini, come l'autunno.
Mano a mano che il tempo passava le sembrava di non poter ricordare più come si sentiva prima che la canzone iniziasse, come se quella avesse ricostruito daccapo il suo modo di percepire le cose.

E ad un tratto la melodia finì.

Fu un trauma.
Ripiombò nello stesso mondo di prima, silenzioso, grigio, eppure.. le note ancora rimbalzavano tra le pareti della sua testa, come un eco lontano..
Un colpo di tosse imbarazzato le ricordò che non era sola nella stanza.

Alzò lo sguardo e vide l'altra avvicinarsi con un'espressione del tutto nuova. Commossa, le suggerì qualcosa nella testa.
Trasalì quando la ragazza le sfiorò la guancia con le dita, asciugandole da qualcosa.

Sulla punta del pollice vide con la coda dell'occhio una grossa goccia scintillante.

Una lacrima.


****

Si ficcò gli auricolari nelle orecchie e premette play.
Batteria. Chitarra elettrica.
 

You show us everything you've got
You keep on dancin' and the room gets hot
You drive us wild, we'll drive you crazy..

 

Scese di fretta le scale. Lei sarebbe stata lì da un momento all'altro e voleva assolutamente evitarla.
Non le piaceva l’idea di quel che avrebbero dovuto fare.
Il cielo era grigio e prometteva pioggia, ma questo non l’aveva mai fermata da quando aveva iniziato a fare jogging. Aveva bisogno di correre, un bisogno fisico così forte che quei rari giorni in cui era stata costretta a saltare l'attività fisica quotidiana si era sentita le mani prudere e le orecchie ronzare fino a quando, disperata, non aveva afferrato la giacca ed era partita per un giretto notturno.

Quando correva per il quartiere non poteva fare a meno di guardare le altre persone e chiedersi perché non funzionasse per tutti così..

Aveva appena tirato su la zip della felpa che le telecamere del giardino le notificarono la presenza di una macchina nello spiazzo frontale.
Clarke.
Era arrivata prima.

Calcolò che avrebbe potuto evitarla giusto in tempo, quindi si affrettò ad uscire dalla porta in cucina e a svignarsela a passo svelto, cercando di fare meno rumore possibile sulle foglie secche del vialone.
Non fu molto fortunata, perché la ragazza bionda inaspettatamente l’aveva vista.
Le probabilità di essere scoperta erano poche, le aveva considerate, certo, ma per qualche ragione non si stupì molto del suo fallimento.
La psicologa aveva l'aria di chi non è molto semplice da prendere in giro.

Affrettò il passo.

«Hey!» sentì alle sue spalle.
Non si girò a guardare, ma sapeva che la bionda la stava seguendo in macchina.
«Hey, aspetta! Voglio solo parlarti!» continuò quell'altra.
Lexa sorrise. Era certa che questa frase fosse stata utilizzata in almeno un migliaio di film e che fosse nella top 10 delle più clichettose nella storia letteraria mondiale.
Continuò imperterrita, iniziando a correre veloce stavolta, spingendo dalla pancia.
Pochi metri ancora e non avrebbe potuto più seguirla. Sentì la macchina accelerare, slittando un po’ con le ruote sulle foglie secche.
Ordinò ai suoi piedi di muoversi ancora più veloci e si ritrovò a volare quasi sulle aiuole, compiendo delle falcate larghissime e superando i cespugli con un salto.
Imboccò il vicoletto giusto in tempo per sentire la macchina frenare e Clarke battere con le mani sul volante in un gesto di stizza.

Si girò e la guardò con il taglio dell’occhio.
L’altra la guardò fisso con uno sguardo deciso e le labbra strette, prima di inserire la retro e ripartire.
“Non stavolta, miss. Griffin..” pensò, riprendendo a trotterellare a ritmo di musica.

Un’altra frase scontata da film. Ci stava tutta.


****
 

Quel giorno aveva corso di nuovo tutto il pomeriggio, proprio come Lunedì, perché quella non se ne voleva proprio andare via di casa. Quindi aveva rifatto più e più volte il suo solito tragitto, finché Clarke non si era scocciata di aspettare e se ne era andata in macchina, dopo averle lasciato un altro curioso pacchetto di cibo sul tavolo.
Una scena più o meno simile si era ripetuta ancora il dì seguente: Clarke aveva provato a parcheggiare sul retro nella vaga speranza di coglierla di sorpresa entrando dalla cucina, ma di nuovo non c’era stato verso di fermare Lexa che era sgusciata via come un’anguilla, avendo solo il tempo di sentire un irritato « Oh, andiamo! Davvero??.. »

Il panino di Lunedì -così come la cena di quegli altri due giorni- aveva avuto un sapore davvero stranissimo ma non poteva dire di non averlo apprezzato. Ci aveva messo qualche morso ad assaporare l'accostamento dei sapori e alla fine era risultato piuttosto gradevole. Non sapeva il perché la ragazza le stesse lasciando di continuo la cena, dato che prendersi cura di lei non era nelle sue mansioni, ma appena tornata, sudata e affamata, aveva reputato la sorpresa abbastanza piacevole.
Sapeva che l'unico messaggio che poteva vedere dietro quel gesto fosse un diplomatico invito a collaborare per il progetto, e nonostante ciò non aveva potuto impedirsi di provare una sensazione piacevole al pensiero che quella cena non provenisse dalla mensa del Distretto.

Di sicuro almeno una cosa di quella Clarke le sarebbe mancata, una volta che quella se ne fosse andata dal progetto..

L’orologio rintoccò le 08.00.

Dopo l’episodio del giorno prima, aveva riconsiderato l’idea di farsi vedere apposta dalla ragazza mentre le sfuggiva via proprio da sotto al naso.
Aveva calcolato che dopo circa dieci giorni -massimo un mese- di quella tiritera, anche il più cocciuto strizzacervelli si sarebbe arreso.

Perciò aspettò che le telecamere le segnalassero la presenza della macchina.

Dopo circa mezz’ora la psicologa ancora non si vedeva. Nessun rumore di motore, nessuno scricchiolare di ruote sul fogliame secco, nessun odore di gas di scarico nell’aria.
Lexa si stupì, e questa cosa non accadeva molto spesso.
Probabilmente aveva tirato le sue somme troppo in fretta: la biondina probabilmente non era testarda come pensava.
Infilò la mano in tasca per agguantare il suo iPod, come ogni giorno e si avviò verso l’uscita.
La giornata era davvero bella, tirava un leggero vento.
Era arrivata a passo svelto al cancelletto nel retro, quando subodorò qualcosa di diverso nell’aria.

Bagnoschiuma alle pesche.

Si girò.
A cento metri appoggiata ad una siepe c’era lei in tenuta sportiva, con un caschetto in testa e una mano appoggiata al manubrio di una bicicletta.

E un sopracciglio alzato. Era stata lì ad aspettare immobile -abbastanza lontana dalle telecamere-, paziente come un cacciatore, fino a quando la ragazza non era sbucata dalla tenuta.
A Lexa ricordò quei documentari sulle popolazioni tribali che aveva visto qualche giorno prima: in uno di questi una giovane donna si era appostata su di un albero e, inaspettatamente, era praticamente piombata sulla schiena di una pantera, pugnalandola a morte.

Insomma, la morale era: succede di venir fregati anche se credi di essere in cima alla catena alimentare.

La situazione si congelò. Lexa era diventata una statua di sale.
Fu la psicologa a parlare per prima:

« Se la Montagna non va da Maometto.. » disse afferrando la bici e raggiungendola.

“Che ti credevi, eh?” le sembrò quasi di sentire

« Allora, dove si va? » continuò superandola e fermandosi ad osservarla.

 

Questo era stato decisamente poco prevedibile.
Lexa aveva analizzato la forma fisica di Clarke: curve morbide e abbondanti, tipiche di chi non fa sport da anni -o che probabilmente non aveva mai fatto sport, come sospettava fosse il suo caso- e una propensione a mangiare schifezze abbastanza palese.

Anche se non si poteva definire “in sovrappeso”, era il classico tipo di persona che preferiva mangiare una vaschetta di gelato piuttosto che fare una passeggiata nel parco.
Mai avrebbe immaginato che quella decidesse di punto in bianco di seguirla, solo per amor di..

« Vuoi seguirmi usando.. quella? » realizzò Lexa.

« Si. Che c’è, mai vista una bici? » le rispose Clarke.

Lexa tacque. Poi si incamminò verso il vicoletto nascosto senza dire una parola.
Clarke la guardò stizzita, prima di prendere la bicicletta e trascinarla con sé, cercando di ricordarsi di non fare nessuna battuta acida.

Quella ragazza era decisamente un mistero.
Clarke era sempre stata così brava in passato a capire le persone, a intuire quali fossero i loro desideri, le loro paure e questa sua capacità era stata la sua forza, il suo asso nella manica per brillare sopra tutti gli altri.
Sapeva come ottenere le cose.
Ma con lei, per qualche strana ragione, non ci riusciva. Eppure tutto quello che chiedeva era di avere una benedetta conversazione, un dialogo del più e del meno, non chiedeva la luna, non chiedeva le stelle.

Voleva parlarle.

In quel momento pareva la cosa più difficile di tutto l’universo.

 

****

 

E se fino a due ore prima aveva pensato che ottenere la sua attenzione fosse la sfida più ardua che avesse mai affrontato, adesso Clarke pensava che quello non fosse niente rispetto al cercare di seguirla mentre faceva la sua “corsetta quotidiana”.

“Ma questa è un robot o cosa?? Non si ferma mai” pensò, mentre sentiva il cuore scoppiarle nel petto e i battiti arrivare fino a farle tremare le orecchie, ed era così stanca e spompata che credette di sentire persino i suoi pensieri ansimare.
« Questo è stato decisamente un colpo basso!» le urlò dietro, ottenendo solo di venir ignorata ancora una volta.

Ok che non era solita fare sport, ma.. non avrebbe mai creduto possibile non riuscire a starle dietro persino usando una bici!
E aveva ragione, insomma, per quanto Lexa potesse essere instancabile e veloce, avrebbe potuto benissimo tenerle testa.. in città. O in un parco.

Insomma, in piano.

Ma pareva che la ragazza avesse deciso per un percorso tutto particolare che si inerpicava per le colline che partivano da dietro casa sua, fatta di montagnette e dossi, tutta in salita e su un tappeto di foglie che slittavano sotto le ruote della sua bici da passeggio.
Clarke aveva imprecato diverse volte, durante la parte iniziale del tragitto che bene o male era ancora fattibile su due ruote.
Ma quando l’agente aveva virato sulla sinistra, finendo fuori dal tracciato, era diventato pressappoco impossibile.

« Ma guarda tu che figlia di..» l’aveva mandata a quel paese a denti stretti, sussurrando tra sé e sé, mentre l’ennesima radice che spuntava subdolamente dal terreno le aveva fatto girare bruscamente lo sterzo fra le mani.

Si inchiodó per l’ennesima volta con la ruota in un buco, cadde rovinosamente a terra e si guadagnò un altro taglio sul ginocchio.

“Finn penserà che sia stata attaccata da un chiwawa impazzito” pensò, guardandosi la sbucciatura.
Non poteva continuare, non così in salita, non su un terreno così instabile.
Imprecò, si tirò su e guardò nella direzione dell’altra che inizialmente continuava a trotterellare come se nulla fosse successo.

Per un momento le venne di urlarle “Aspetta!”, ma abortì l'idea non appena si ricordò della scena di due giorni prima. Le pareva che Lexa provasse una sorta di piacere perverso nel prenderla a pesci in faccia, e lei non aveva nessuna intenzione di porgere l'altra guancia.

Però non voleva dargliela vinta.
Considerò seriamente l'ipotesi di abbandonare la bicicletta nel fosso per poi venire a riprendersela più tardi -sempre se fosse riuscita a ritrovare la strada..- e di buttarsi al suo inseguimento. Quando riguardò su per controllare dove fosse finita le mancò un battito.

In quei pochi secondi in cui si era concessa di pensare, Lexa aveva coperto una distanza assurda ed era già diventata una figura indistinta in mezzo agli alberi.

Clarke sapeva riconoscere la sconfitta quando la vedeva e a lei era capitato davvero poche volte in passato.
Ma adesso quella sensazione di impotenza, quella realizzazione fastidiosissima di non poter fare nulla, ma proprio nulla per cambiare il fatto che quella strana ragazza l’avesse abbandonata ancora, non poteva essere fraintesa.

Aveva perso, di nuovo.

« Merda. »

Non credeva di averlo detto tanto forte. Eppure, anche se oramai era quasi del tutto sparita in lontananza, l'altra ragazza sembrò sentirla, perché si fermò.
E si girò a fissarla.
A Clarke rivennero i brividi della prima volta.
E anche se l’altra non disse niente, prima di voltarsi e di andarsene, la bionda sentì un chiaro «Tornatene a casa » nella testa.

Così, dopo aver disincastrato la bicicletta dai grovigli di foglie e rami, girò sui tacchi e se ne andò via zoppicando.

 

****

 

« Sta procedendo bene! Le piace così tanto che glielo abbiamo regalato » aveva detto l’infermiera alla donna, due stanze più in là.
Loro non lo sapevano, ma lei poteva sentirle benissimo.
La ragazza le aveva lasciato in camera l’iPod con gli altoparlanti, così che potesse mettersi un po’ di musica ogni volta che voleva.
E in quel momento non le andava di ascoltare le due donne parlare di lavoro, analisi e tutto il resto appresso, dato che in quel posto sembrava che non ci fosse spazio per altro.

A parte quando veniva lei. Quando l’infermiera la veniva a trovare, poteva anche dimenticarsi di essere costretta a stare in quella camera da quattro settimane ormai.
Poteva dimenticarsi del continuo viavai di gente che ogni giorno si susseguiva nella sua camera, del fatto che quelle persone sembravano voler impiegare ogni attimo del suo tempo in continue visite, test, analisi e del fatto che l’intero edificio sembrava costruito per non farla uscire fuori.

Forse credevano che lei non se ne fosse accorta.

O forse lo sapevano ma non gliene importava più di tanto.

Comunque sia, i momenti in cui quegli occhi scuri dal taglio a mandorla facevano capolino da dietro la porta erano gli unici in cui non si sentiva affogare, in cui smetteva di avere la testa affollata di immagini e rumori, in cui sentiva che nessuno stesse pretendendo da lei qualcosa.
A volte, durante le prime settimane da quando si era svegliata, avevano passato intere giornate per lo più in silenzio. Si erano capite a suon di gesti, sguardi e cenni, perché la paziente ancora non ricordava come parlare.Poi, le prime parole erano venute, scandite lentamente dalle labbra della ragazza in camice e imitate a stento da quell’altra, a suon di versi gutturali.

Cu-sci-no

Taz-za

Non era passato molto tempo prima che la paziente fosse in grado di formulare delle frasi. E poi in grado di leggere. E di imparare i testi a memoria.
Due settimane.
I medici lo avrebbero definito uno sviluppo anomalo, se lo avessero saputo.
Ma per una certa ragione lei non disse niente a nessuno.

Era stato un giorno come un altro. L'infermiera stava accanto a lei, alla finestra, e le indicava diverse cose in giardino puntando con l'indice sul vetro
«Albero, panchina, cespuglio»
Le diceva con un sorriso obliquo, solo un lato della bocca in su.

..tronco.. foglie.. Albero.
..legno.. ferro.. Panchina.
..foglie.. Cespuglio.

Ogni parola, era un flash fastidioso davanti ai suoi occhi. C'era sempre stato, da che poteva ricordare, ma piano piano si era trasformato in qualcosa di diverso..

«...E lì abbiamo corvo, cane e scoiattolo...»
Era diventato più consistente, più duraturo, più pesante. Le faceva girare la testa.

Come se ogni concetto se ne portasse appresso altri dieci..

..ali nere.. becco nero.. Corvo.
..orecchie a punta.. coda corta.. Cane.
..orecchie tonde.. coda dritta.

E “coda dritta” era un concetto diverso da “coda arricciata”.
«Ghiro, Glis Glis» la corresse lei.
La prima parola della giornata e in assoluto la sua prima vera parola.
L’infermiera bloccò a mezz’aria la successiva tripletta di vocaboli e rimase senza parole.
Guardò fuori dalla finestra e strinse gli occhi, prima di borbottare un confuso

« Eh si. È proprio un ghiro..»
Poi la guardò interdetta per un secondo prima di rivolgerle un sorriso, non tanto spontaneo stavolta
« Sei stata bravissima. Per oggi abbiamo fatto abbastanza. » disse frettolosamente prima di raccogliere tutte le carte dal comodino e imboccare la porta.
Andò via così. Lasciandola da sola.

Quell’abbandono fu abbastanza per convincerla a non dirle niente del perché non le servissero più le sue lezioni, a non raccontarle che più i giorni passavano, più iniziava a succedere sempre più frequentemente quella cosa nella sua testa.
Ogni parola erano mille immagini. Forti, vivaci, le scorrevano come frame nel cervello, sempre più veloci.
Ogni immagine era una parola, ogni parola un suono, ogni suono un’immagine, senza fine.

Non lo disse. L'altra l'aveva guardata troppo interdetta, troppo sconvolta..
Ed era fuggita via. Se quella cosa nuova aveva l'effetto di farla scappare, tanto valeva cercare di affogarla dentro di sé.
Riprese a borbottare parole, come aveva fatto prima del Ghiro, Glis Glis, sperando che l'altra avrebbe presto dimenticato l’episodio anomalo, facendo finta di progredire lentamente, giorno per giorno.

La sua farsa tuttavia non finì solo per salvarla dal perdere la sua unica compagnia piacevole.
Si accorse in che gli altri parlavano di lei, “il soggetto”, anche in sua presenza, forse credendo che non li capisse. E così un giorno non poté impedirsi di ascoltare..

Anche se il suo “sviluppo anomalo” le aveva regalato la capacità di capire le parole, purtroppo per lei, ancora non sapeva che l'uomo ha la capacità di trasformare a suo piacimento il loro significato.
Di snaturarle.
Così capì le loro frasi, ma non quello che vi si nascondeva dietro.
Ad ogni modo non le piacque.
Da quel giorno, decise di non volerli ascoltare più. Troppo brutto, troppo storto quello che dicevano di lei.

Così quando aveva sentito l’infermiera parlare alla donna, quella che aveva visto tante volte al seguito dei medici, nelle retrovie, lontana il più possibile da lei, aveva capito che avrebbero detto quelle cose, che la ragazza in camice bianco avrebbe parlato di lei in quei termini che tanto odiava e allora aveva afferrato l’iPod e aveva cercato una canzone con cui coprire il loro rumore.
« Avete modo di scoprire quali sono le sue preferite? » sentí dire alla donna.

Scorse col dito fino ad una canzone che le piaceva tanto.
Chitarra prima lenta, poi tormentata da un rullante sempre più incalzante, come il suo cuore in quel momento.

« Beh, è strano.. » sentí la ragazza rispondere.
Finalmente le prime note iniziarono a vibrare dalle casse, coprendo in parte le voci delle due donne.
La ragazza chiuse gli occhi, concentrandosi sulla voce roca del ragazzo che venne dopo poco.

Da quando aveva imparato a capire, le canzoni erano diventate ancora più ricche. Non si trattava più di un coinvolgimento solo fisico, come lo era stato le prime volte, quando aveva sentito il suo corpo seguire involontariamente l’inclinazione della musica.
Adesso ogni parola aveva un suo senso, e i testi le parlavano per immagini..

 

You look so wonderful in your dress

I love your hair like that

The way it falls on the side of your neck

Down your shoulders and back


« Beh che dire.. hai fatto bene a prendere quello rosso. »
Occhi che scendono sulla linea del collo, sulle spalle.
Li sente pesanti sulle braccia, sul gomito, sulla punta delle dita.

Imbarazzo. E quella bruciante sensazione di orgoglio.
« Lo so di essere bellissima. Ma preferirei che me lo dicessi tu, dato che ho fatto tutto questo per te. » uno sguardo di goffa malizia. Non era mai stata brava in queste cose, ma quella sera si sentiva coraggiosa.
Forse era la canzone. Forse erano le luci sul porto, il porticato della casa, il vociare ovattato che proveniva dalla festa.
Forse era che le cose finalmente stavano andando nel verso giusto.

« Vedo. E ti sei addirittura fatta le sopracciglia » buttò lui, sorridendo.
« Cretino. » scoppiò a ridere lei, incrociando le braccia e girandosi di spalle per fare l’imbronciata. « Mi sa che qualcuno va in bianco stasera. »

Stava ancora ridendo quando lo sentì abbracciarla. Fiato nell’orecchio, bocca sul collo.

 

Now I see fire

Inside the mountain

I see fire

Burning the trees

And I see fire

Hollowing souls

I see fire

Blood in the breeze

And I hope that you remember me

 

« Tu bruci tutti i colori nei miei occhi come la fiamma più bianca. Spenderei infinite vite da farfalla a morire di te. »
I polmoni che non funzionano più. Un minuto di silenzio.
« Mi sarei fatta bastare un semplice “come sei bella”. » sdrammatizzò.
« Non ti accontenti mai. » lo sentì sorridere.

Un altro minuto di silenzio.

« Davvero credi che finirà così? » posò le mani suo avambraccio. Sentiva il suo corpo aderirle sulla schiena.
« Non potrebbe mai andare bene. » le baciò la nuca.
Dolore. I polmoni. Lo stomaco.

Dolore. I polmoni. Lo stomaco.
« Hey! Hey! Guardami! Guardami! » Occhi a mandorla. Mani fredde sulle tempie.
Il pavimento duro sotto le gambe. La testa che esplode.
Una siringa.

Il buio.

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Capitolo 4
*** Iron Man ***


[Angolo dell'autrice]: sto cercando di spicciarmi a pubblicare, giuro!
Lo so, è uno slow burn. Ma davveeeeero slow slow. Spero di tenervi con me fino a quando il lato Clexa non inizia a movimentarsi, che credo sia molto presto, promesso ("credo", perchè mano mano che scrivo mi vengono in mente altre cose, quindi non so con precisione quando...)
Vi prego, siate gentili, lasciatemi un commentino per dirmi se qualcosa non vi è piaciuto, se apportereste qualche modifica, o anche, nel caso contrario, mi piacerebbe che mi diceste se vi ha colpito qualcosa, se sospettate un qualche risvolto, se avete una qualche teoria! Ne sarei davvero felice!
Cheers : *
________________________________________________________






Archiviato... Non risolto…
I dettagli dell’accaduto non lasciano spazio ad una chiara interpretazione…
Contraddizioni…
Buchi temporali… coincidenze fortuite... precisione millimetrica…

Cause del decesso ancora oscure… Sparizione del progetto preliminare AN_2016… Sequestro di persona… Irruzione area altamente controllata...
Possibilità… cellula altamente addestrata… ente militare… attacco terroristico… ufo...

Inspiegabile.
Anomalo.

« Dottoressa. Faccia presto, devo riportare tutto indietro entro dieci minuti, lo sa bene. » disse una voce alla porta.
La donna sfogliò ancora una volta i dossier, facendo un veloce recap di tutte le informazioni che aveva appena sottratto al Capitano.
« Dottoressa. » insistette duramente la voce, lasciando però trasparire un po’ d'ansia.
« Si. Ecco. Portali via. Ci vediamo dopo. » consegnò il plico alla ragazza che si girò per scivolare rapidamente fuori dalla stanza, dopo averle lanciato uno sguardo nervoso. La donna sembrò riscuotersi un attimo dai suoi pensieri bui.
« Blake » chiamò. Un secondo di silenzio, poi la ragazza tornò indietro, evidentemente infastidita.
« Cosa c'è ancora. »
« Grazie. » mormorò la donna, senza però distogliere lo sguardo dalla scrivania.
Un secondo ancora di silenzio.
« Lo sa benissimo perché lo faccio. Preghi solo che non lo venga a sapere mio fratello. » disse secca prima di sparire.

Si premette le mani sulle tempie. Un sospiro.
Erano mesi che andava avanti quella storia. Settimane di ricerche tra plichi di segnalazioni e casi inspiegabili, per avere una sua traccia, per provare a riconoscere qualcosa di suo in quella marea interminabile di fogli ma alla fine... ancora niente.
Eppure lei lo sapeva che da qualche parte c'era.
Se non fosse stato di cattivo gusto, l'avrebbe chiamato “istinto materno”.
E invece no. Non c'era amore in quella faccenda.

Era tutto più simile ad una macabra disperata voglia di abortire.

Knock. Knock.

« Dottoressa? Sono Raven.. » sentì la sua voce morbida alle sue spalle. Era ferma alla porta con uno sguardo interdetto.
« Dimmi pure » disse in un sorriso.
« Va tutto bene? Ho incrociato Octavia, era un po’ nervosetta...» chiese, poggiando un pacco sulla scrivania.
Era bello grande. La dottoressa Primaid non smetteva mai di stupirsi quando vedeva la ragazza armeggiare con i suoi attrezzi del mestiere. Enormi, pesanti, affilati, pericolosi.
Eppure la giovane sembrava solo giocarci. E, tra un divertimento e un altro, ci usciva fuori un qualche geniale marchingegno, così, senza troppo sforzo.
Dopotutto si era costruita la sua gamba da sola.

Ed era per quella stessa gamba che era lì.
« ...Si. Solo qualche preoccupazione del mestiere. Dimmi pure » disse ancora, sfoggiando il sorriso più rassicurante che poteva.
Sapeva che Raven aveva capito che qualcosa non tornava, ma non aveva intenzione di dirle niente, per il momento.
Aveva bisogno di aspettare di non sentirsi troppo paranoica. Di aspettare un segno, almeno.
Qualche prova da presentare per non farsi prendere completamente per pazza.

« Mmmh.. » commentò l’ingegnere non convinta, prima di desistere. « Questo è per Clarke. Mi aveva chiesto qualcosa che facesse al caso suo, giusto? Per tenere il passo. » iniziò a spacchettare l’enorme involucro.
La dottoressa si avvicinò incuriosita, con un mezzo sorriso. Assistere alle presentazioni di Raven era sempre stato spettacolare. La naturalezza con cui iniziava il discorso non ti preparava a quello che, avresti poi realizzato qualche secondo più tardi, si sarebbe rivelato a dir poco stupefacente.
Lei era così. Non credeva di fare qualcosa di eccezionale. Per lei, era roba normale e non la sapeva vendere per il suo vero valore.
Si, decisamente Raven sarebbe stata un disastro come venditore porta a porta.

Cosa alquanto paradossale, perché era proprio il lavoro che stava facendo anni prima nei momenti liberi della giornata, per pagarsi gli studi.
« Si, la nostra prodigiosa signorina Griffin ha qualche “problema di comunicazione” con Lexa. Dici che questo la aiuterà? »
Dal pacchetto vennero fuori degli strani tutori per gambe. O almeno, quello avrebbero dovuto essere, anche se somigliavano più ad una leggera armatura dalla telaiatura incompleta, fatta di placche e sostegni in carbonio.
« Io dico che più che aiutarla, con questi amorucci addosso si sentirà praticamente fluttuare nello spazio. » concluse soddisfatta guardando la sua creazione.
La dottoressa era molto compiaciuta.
« Come al solito mi sorprendi.. » disse ammirando i riflessi opachi che correvano sui due telai nuovi di zecca « Credevo che ti avrebbero preso più tempo. »
« Oh, beh, alla fine non sono niente di nuovo. Sono una versione ottimizzata del mio vecchio progetto.. quando la gamba era ancora la mia, intendo. » disse toccandosi la coscia.

La dottoressa tacque. Per quanto ne sapeva, anche se Raven era un’appassionata scienziata e la nuova gamba forniva prestazioni incredibili, la ragazza avrebbe di gran lunga preferito tenersi la sua vecchia, umana, decadente versione.
Avrebbe preferito sentirsi integra.
E invece faceva ancora fatica ad accettare quell’arto estraneo, per quanto portentoso potesse essere.

Costruirselo era stato il requisito fondamentale per accettare di effettuare l’operazione, il minimo indispensabile per poterlo chiamare “mio”.

« Chiamo subito mrs. Griffin, suppongo che non ci sia un momento da perdere. Conoscendola verrà di volata. » disse la donna.
Raven si riscosse dai suoi pensieri.
« Allora ci vediamo dopo nel mio studio. Ho del lavoro da sbrigare » disse pensierosa, prima di raccogliere le sue cose e di avviarsi verso l’uscita. Sulla soglia si fermò.
« Dottoressa »
« Si. »
« Lo sa che se posso aiutarla a risolvere qualche problema, può sempre contare su di me, vero? »
La dottoressa sorrise
« Lo stai già facendo. »
« Non intendevo questo. Insomma.. ha capito. » disse dondolando la testa.
Rebecca fu fortemente tentata.

Ma dopo essersi ricordata dell’entità delle sue preoccupazioni, decise che non aveva il diritto di dividerne il peso con qualcuno, nemmeno con le spalle forti di Raven.
« Non ora. Magari più tardi. » mise su il sorriso più incoraggiante che poteva e la congedò.

Quando la ragazza lasciò la stanza, la donna si trovò completamente sola, circondata dai suoi pensieri.

****

Stump.
Rumore secco.
Aveva chiuso il portello dell’auto, senza preoccuparsi di fare rumore. Aveva parcheggiato abbastanza lontano, così da poter fare ancora un po’ di pratica prima di arrivare a destinazione.

I primi passi sul sentiero furono dondolanti. Doveva ancora abituarsi a quella strana sensazione di leggerezza, a quello strano senso di perdita di controllo della sua fisicità.
Quel modo innaturale di muovere le gambe era dettato più da una sua inconscia voglia di sentire qualcosa di strano, in quei tutori, più che dalla loro effettiva azione.

Insomma, in pratica era lei che camminava storta per cercare di capirci qualcosa sul perché non sentisse il minimo fastidio alle gambe.
Detto così potrebbe sembrare una follia, ma se vi fermate un secondo a ragionare capirete che lo avreste fatto anche voi.

Quando li aveva visti un’ora e mezzo prima, li aveva guardati con aria fortemente scettica.
« Ehm.. » aveva esordito « E’ vero che questi ultimi giorni sono stati sfiancanti dal punto di vista fisico, ma non credo di aver perso l’uso delle gambe. Nemmeno parzialmente, vedete?» si dondolò da un piede all’altro, saltellando.
« Capisco la tua confusione, Clarke, ma questi non sono semplici sostegni per persone diversamente abili. E’ un esoscheletro meccatronico parziale. » chiarì Rebecca.
« Hai mai visto Iron Man, Clarke? » intervenne Raven, certa che la sua spiegazione sarebbe stato un pochettino meno astrusa da capire per la ragazza.
Clarke la guardò confusa
« Certo che si. Il mio ragazzo va matto per questo genere di cose, li ho visti.. beh, direi davvero tutti. Anche se a volte mi sono addorment.. » iniziò a farfugliare la bionda.
« Beh, allora immagina che questi siano i suoi pantaloni. Solo il pezzo di sotto. Capisci? » le disse, prendendo uno dei due oggetti in mano e stendendolo di lungo.
« Va ancorato alla tua gamba, esternamente, no, non c’è bisogno di chirurgia » si affrettò a dire « giusto per essere chiari. In pratica, immagina di infilarti solo i suoi stivali, parastinchi e paracosce, il principio di base è lo stesso. »
Clarke era rimasta ammutolita con gli occhi sgranati per tutto il tempo.
« Mi stai dicendo che con quei cosi...? » commentò Clarke scuotendo la testa con imbarazzo, quando si rese conto di aver assunto una faccia alquanto stupida.

« Ovviamente non potrai volare sparando plasma dai piedi né giocare a fare Karate Kid, se è questo che stai per chiedere. » rise Raven, sfoggiando un altro di quei sorrisi splendenti che Clarke aveva tanto notato al loro primo incontro « Quello che questi supporti fanno è captare il movimento muscolare, grazie a sensibilissimi sensori epidermici che registrano e traducono i tuoi impulsi elettrici e infine li tramutano in segnali di comando per i motori posizionati alle giunture.
Il sistema di ammortizzazione, inoltre, assorbe e gestisce perfettamente gli urti dovuti alla spinta eccessiva che ne consegue mentre il sensore posto all’altezza della cintola permette di mantenere un baricentro stabile. » continuò con eccessivo fervore.
Si girò radiosa verso Clarke, aspettandosi di trovarla quanto minimo estasiata.
Quando invece fronteggiò due sopracciglia aggrottate e un’espressione quantomeno smarrita, non poté impedirsi di fremere di frustrazione, prima di fare un passo indietro e ritentare:
« Con questi gioiellini potrai correre veloce come il vento, superare ostacoli con un salto e miracolosamente non finire mai culo a terra. Che ne dici? »

Le sopracciglia di Clarke avevano raggiunto il massimo limite nella scalata verso la vetta della fronte. Avessero potuto, sarebbero sparite dietro l’attaccatura dei capelli.
« Dico che è pazzesco. » fu l’unica risposta che riuscì a formulare.
« In realtà non è niente di che. Stiamo lavorando su progetti.. più complessi. »

« “Niente di che”... » commentò Clarke tra sé e sé, avviandosi lungo il vialetto.
A ogni passo le sembrava di camminare su morbide molle che la sospingevano in avanti, dolcemente. Accelerò un po’ il passo, trotterellando sulle punte, e si ritrovò a compiere brevi salti ampi diversi metri, senza nemmeno rendersene conto, quasi ipnotizzata dalla dolcezza del vento che le solleticava la faccia e dai tonfi ovattati che faceva ogni volta che toccava il suolo.
Quando si girò per dare un’occhiata alla macchina, quasi le venne un mancamento. La sua auto oramai era diventata piccolissima, e lei aveva percorso in un minuto la distanza per cui solitamente ne impiegava quindici.
« “Niente di che”?! » Esclamò strabuzzando gli occhi.
Se quello era “niente di che”, aveva paura di chiedere quali fossero i fantomatici “altri progetti”. Trovava un po’ inquietante il fatto che quegli aggeggi le fossero stati prestati da chi lavorava a stretto contatto con i militari…
”Come se queste cose fossero una novità” pensò, riscuotendosi.
Tutti quanti avevano bene o male un’idea del fatto che le migliori tecnologie a disposizione al mondo fossero in mano all’esercito, ma realizzarne la portata.. beh.. non era concesso a tutti.
Ed era spaventoso, davvero spaventoso.

Riprese a camminare, con più naturalezza stavolta, sforzandosi di mettere a tacere i mille sospetti che le stavano affollando la testa, come uno sciame impazzito.
Raven era stata tanto brava, tanto brillante.
Ora toccava a lei.
Aveva un lavoro da fare.

***

Erano due giorni che la sua persecutrice non si era fatta vedere ma, dopo la prima volta che già le aveva tirato quello scherzo, Lexa aveva imparato a diffidare. Così la aspettava, tenendo tutti i suoi sensi all’erta. L’aria aveva il solito odore di muffa e terreno, la luce era particolarmente chiara quella mattina e il cielo splendeva d’azzurro, non come i due giorni precedenti. Aveva piovuto, e anche tanto.
Uno scintillio all’orizzonte. Gli occhi da falco dell’agente individuarono una chioma bionda avanzare tra gli alberi lontani.
Sorrise di sbieco e scese in strada, per aspettarla.
L’ultima volta era stato ancor meglio del solito fuggirle-da-sotto-al-naso. Quella sensazione di vittoria era stata decisamente appagante, senza contare il fatto che Clarke, con quella sua assurda trovata della bici, davvero credeva di aver risolto tutti i suoi problemi.
Sì, era stato spassoso demolire tutti i suoi tentativi e non poteva nascondere una certa voglia di ripetere quella scena esilarante.
Quella attesa la metteva decisamente di buon umore.

La ragazza aveva parcheggiato ancora più lontano del solito, pensò.
Esaminò i vari motivi. Probabilmente aveva capito che tutta l’area circostante era piena zeppa di telecamere, ecco perché aveva iniziato ad allontanarsi sempre di più con la macchina nei giorni precedenti.
Eppure.. se così fosse stato avrebbe attuato una qualche sorta di travestimento. Invece quei capelli erano un segno alquanto vistoso della sua presenza e lei non pareva molto curarsi di nasconderli.
Le due cose cozzavano, ma d’altra parte Lexa riteneva la bionda abbastanza strana da poter arrivare a fare cose altrettanto strane. Lo stomaco le dava ancora un po’ fastidio dopo la cena disastrosa di tre giorni prima. Le prossime volte -se ce ne sarebbero state- avrebbe dovuto analizzare chimicamente il piatto lasciato da Clarke se voleva evitare la morte per avvelenamento. D’altra parte dopo l’umiliazione di quella sconfitta si sarebbe dovuta aspettare una qualche sorta di vendetta da parte sua, ma scioccamente non si era aspettata una mossa tanto subdola da parte della ragazza, che sembrava troppo ben cresciuta per arrivare a fare una cosa del genere. Era stato alquanto stupefacente.

Le era bastato un solo morso per farle sentire la gola chiudersi in una morsa, il respiro affannoso e lo stomaco rivoltarsi. Aveva vuotato tutto nel vaso di piante in salone. Il giorno dopo la squadra delle pulizie era alquanto irritata da quel macello: tra le piante c’erano almeno 3 telecamere, ormai completamente andate.

La bionda svoltò finalmente l’angolo e la scorse a sua volta. Le due ragazze presero a studiarsi per alcuni secondi, poi, dato che l’agente non accennava a fuggire via come al solito, la biondina riprese a camminare per raggiungerla.

« Ora, alcune raccomandazioni, giusto per evitare di averti sulla coscienza. Prima regola e più importante in assoluto: non strafare. Ho tarato gli attuatori.. insomma tutto il sistema sulla base della tua inesperienza. Non è difficile far partire questi cosi, il problema più grande è fermarli. Attenta all’inerzia, se prendi troppo slancio nemmeno il sistema di riequilibramento può salvarti da uno schianto. In teoria, questi rafforzatori andrebbero indossati da chi è altamente addestrato a cadere nella giusta maniera. Suppongo che la tua conoscenza in materia di piante e floricoltura sia decisamente migliore di quanto tu sappia come si salta e come si atterra. » avvertì Raven mentre stringeva i legacci intorno alle caviglie.
« La prima ed ultima pianta che ho avuto è stata quella del fagiolo quando avevo sei anni. E’ morta dopo una settimana » disse Clarke, alzando un sopracciglio.
« Non avevo dubbi. » commentò sardonica Raven. « Insomma, non puntare troppo in alto. Cadi da troppi metri, ti spezzi le gambe se sei fortunata. Non freni in tempo, ti sfracelli contro un albero. Cerca di ricordarti che non sei diventata Wonder Woman. Tutto chiaro? » concluse alzandosi, guardandola negli occhi con un sorriso sarcastico.
Clarke deglutì.
« Quel film devo ancora vederlo. »


Arrivata a pochi metri, Lexa le rivolse un sorriso obliquo. Il primo in assoluto.
« Niente bici stavolta? » commentò mentre finiva di allacciarsi stretta una garza intorno alle nocche.
« Sta’ zitta. » le rispose stizzita l’altra.
« Oh-oh. » disse Lexa sorpresa « credevo che il mio silenzio non ti interessasse. Pensavo volessi parlarmi. »
Ridicolo a dirsi, quella era la conversazione più lunga che avevano mai avuto. Clarke la guardò diffidente
« Davvero vuoi parlare? Fai sul serio? »
« Assolutamente no. Ti prendevo in giro. » la schernì ancora mentre si tirava su le maniche.

Clarke sbuffò.
« Sai » disse Lexa tornando seria « dovresti smetterla di venire. Sappiamo tutt’e due che non ce la farai a tenermi dietro nemmeno stavolta e neanche per i prossimi giorni. »
La guardò fissa. Clarke sentì freddo dietro la schiena. Quegli occhi verdi erano dannatamente gelidi.

La psicologa lo trovò irritante, davvero irritante. Le salì solo una gran voglia di demolire quella maschera di insensibilità, quella espressione di completo menefreghismo.
Lontano, nei meandri del suo cervello, la sua mano scattò in un sonoro ceffone.
Sapeva che nella realtà dei fatti quelle dita non sarebbero mai riuscite ad arrivare a destinazione.
Così, dopo un secondo di silenzio si limitò a dire, indicando il viale
« Dopo di te. »

Dopo averle lanciato uno sguardo altamente scettico, l’agente si girò e iniziò a trotterellare a passo svelto dirigendosi verso la solita collinetta nel retro della tenuta.

Non corse, non all’inizio. Si limitava ad una velocità sostenuta, senza mai guardarsi indietro ma tenendo sempre in vista Clarke con la coda dell’occhio.
Le era parso strano qualcosa nel suo tono di voce. Troppo deciso… la ragazza alle sue spalle le tenne dietro senza dire una parola, inerpicandosi su per il sentiero.
Continuarono a trotterellare per una mezz’ora, arrovellandosi entrambe il cervello. Clarke pensava che era la prima volta che Lexa le concedeva di affiancarla e la cosa la metteva quasi a disagio.
Avrebbe dovuto parlare? Non osava. Probabilmente l’altra stava aspettando solo un pretesto per poter prendere il volo e lasciarla lì. O almeno, stavolta ci avrebbe solo provato.

I tutori funzionavano bene, non li sentiva quasi addosso. Era certa che se Lexa avesse provato a fuggire avrebbe potuto tenerle testa, ma non voleva arrivare a tanto.
Una certa immagine di lei spiaccicata contro un albero la fece sudare freddo. Raven era stata molto chiara... meglio non strafare.

Nel frattempo, Lexa aveva preso a contare ritmicamente i minuti nella sua testa. Dopo i primi dieci, si era accorta che qualcosa non quadrava.. aveva calcolato, da quanto era accaduto nei giorni precedenti, che Clarke non avrebbe potuto tenere quel passo in salita per più del quarto d’ora circa, una miseria in confronto a quel che faceva lei.
Ma allo scoccare del minuto numero 34 era ormai palese che stesse succedendo qualcosa di decisamente strano. Sarebbe dovuta stramazzare a terra, boccheggiare, implorare di riprendere aria, mentre, di nuovo sconfitta l’avrebbe vista andare via senza pietà.
E invece.. era ancora alle sue spalle. Fresca come una rosa, lo sguardo solo leggermente corrucciato di chi sta pensando a una qualche situazione spinosa.
Niente sudore. Niente ansimi.
Niente batticuore.

Per quanto si sforzasse di tendere le orecchie non sentiva niente di tutto ciò.
Ma ecco, qualcosa nell’aria effettivamente c’era.
Se ne era accorta per caso, quando la ragazza aveva saltato -troppo- atleticamente un fosso.
Tese ancora di più le orecchie per cercare di captare quel rumore finissimo, quel leggero ronzio ovattato dall’andamento ritmico che si sincronizzava perfettamente con il rumore dei passi -più leggeri del solito – della bionda alle sue spalle..
Era lieve, ma non abbastanza da sfuggirle.

Zzzip..zzzip...zzzip…

Non le era nuovo. Il suo cervello partì alla ricerca di qualcosa di simile che avesse potuto già sentire in passato…

Zzzip..zzzip...zzzip…

Le balenarono davanti agli occhi delle sfere immerse in un liquido denso.

Zzzip..zzzip...zzzip…

Clarke era ancora assorta nei suoi pensieri quando vide la schiena di Lexa di fronte a sé rizzarsi, l’agente esclamare qualcosa come “cuscinetti”, uno sguardo fugace, quasi offeso, e prima di rendersene conto l’agente era partita a razzo, scappando come se fosse stata inseguita da un branco di lupi affamati.
La bionda sgranò gli occhi per il cambiamento improvviso ed ebbe solo il tempo di pensare, incredula “Ma.. io non ho detto niente!” prima di rendersi conto che era più probabile che Lexa avesse capito qualcosa dei tutori, piuttosto che le avesse letto nel cervello.
Si buttò al suo inseguimento senza ragionarci troppo.
« Eh no, stavolta no! » imprecò tra i denti preparandosi a saltare.

La prima spinta che diede fu sconvolgente. Un secondo dopo, inaspettatamente, si ritrovò troppo in alto per i suoi gusti, e lo stomaco prese a protestare riempiendole di cazzotti la pancia. Mulinò disperatamente le braccia, nell’istintivo tentativo ti ritrovare l’equilibrio, quando improvvisamente sentì il baricentro di carbonio fare leva sul suo bacino, riportandola in posizione di atterraggio. Quando atterrò, sentì le ginocchia cedere, subito sorrette dalla struttura elastica, le gambe piegarsi e le mani andare a toccare automaticamente terra.
Se non avesse avuto i capelli sconvolti, la faccia terrorizzata e gli occhi praticamente fuori dalle orbite, si sarebbe ricordata di pensare a quanto figa poteva essere sembrata.
Ma ovviamente il pensiero di essere atterrata in pieno stile Spiderman non la sfiorò nemmeno per un attimo.
Quello che però realizzò è che quegli affari funzionavano maledettamente bene.

Con quel salto aveva accorciato considerevolmente le distanze e si era guadagnata una occhiata esterrefatta di Lexa, che dopo un secondo di pausa aveva ripreso a correre ancora più forsennatamente di prima.
« Lexa! Smettila! » le urlò dietro la bionda, senza ottenere risultati.
Si gettò al suo inseguimento. Stavolta aveva capito come compiere dei salti meno alti e aveva deciso di usare gli alberi come punti di riferimento, per cui saltava da un tronco all’altro sorreggendosi su di essi quando arrivava a terra.
In tutto quello zigzagare era difficile tenere dietro alla mora. Anche se quell’esoscheletro le dava potenza, Lexa era rapida come un furetto nel cambiare direzione e lei invece si sentiva al controllo di una macchina lanciata a tutta velocità in una gara di rally.
Non avrebbe potuto funzionare a lungo.
« Porc.. Lexa, ascolta! » cercò di urlarle dietro « Tutto questo è ridicolo! Tu ti stai rendendo ridicola! » spiccò un altro salto, finendo rovinosamente per abbracciare l’ennesimo tronco.
« Non sono io quella che sta saltando in giro come una scimmia » sentì indefinitamente alla sua sinistra.
Non si era aspettata che le rispondesse. Poco male. Spiccò un salto in quella direzione.
« Mi stai costringendo tu! » le urlò di rimando.

Silenzio. Clarke scrutò nel bosco che mano mano diventava sempre più fitto, continuando dritto nella sua corsa.
Finalmente i rami si diramarono un poco, e Lexa fu di nuovo visibile. Con un ringhio, la psicologa iniziò a correre disperatamente in salita, finchè non raggiunse la sommità della collinetta.
Lexa era lì che correva in discesa, proprio di fronte a lei, veloce come gatto.
Da quella sommità, Clarke pensò, avrebbe potuto spiccare un salto come aveva fatto la prima volta e avrebbe potuto tagliarle la strada. Un bel salto. Decisamente grande.
“Non strafare..” pensò.
Se quello che Raven le aveva detto era vero, quello avrebbe potuto essere un suicidio. O almeno una gamba rotta. Ma ne andava del progetto, della sua carriera.
Se se la fosse lasciata scappare ancora, sarebbe stata un’altra sconfitta.
E tutti sapevano che quello era il punto debole di Clarke.
« Beh, grazie tante Lexa, eh. » Mormorò sarcastica prendendo la rincorsa e sentendo i muscoli tremare quando spinse con tutte le sue forze sulle ginocchia piegate, prima di prendere letteralmente il volo.
Che durò infiniti secondi. Minuti. Ore.
Nel qual mentre, realizzò che forse non ne era valsa tanto la pena, che forse avrebbe dovuto semplicemente accettare una tantum di essere la perdente della situazione, e che quell’esoscheletro, per quanto figo potesse essere, non le avrebbe mai attutito una caduta da quindici metri d’altezza.

E aveva ragione. In parte.
Chiuse gli occhi prima di vedere il suolo abbattersi contro di lei, coprendosi la testa con le braccia. Poi, sentì il suo corpo comprimersi all’impatto come una molla, sbilanciarsi di lato e continuare a compiere il suo tragitto per inerzia, ruzzolando sul terreno tra gli alberi.
A quella velocità avrebbe sicuramente centrato un tronco spezzandosi il collo o la colonna vertebrale.
Spiaccicata su di un albero..
Il tempo sembrava non finire mai, mentre il mondo tutto intorno sembrava un indistinto ammasso di foglie e di legno, che vorticava e vorticava senza fine.
Passarono attimi, minuti forse, in cui Clarke non sembrava arrestare la sua corsa verso l’oblio.
“Fa che almeno sia indolore”

Stump.

Il colpo arrivò improvviso e inaspettatamente molto meno doloroso. Sentì che qualcosa dietro la schiena aveva finalmente fermato il suo ruzzolare scomposto.
Rimase diverso tempo ad ansimare, tremante, con la testa sepolta tra le braccia.
Non voleva vedere, non voleva sapere. Aveva paura di aprire gli occhi e di scoprire il suo corpo spezzato orribilmente in due contro una roccia. Forse non sentiva dolore perché anche tutti i suoi nervi erano andati.
« Clarke.. » sentì chiamarsi. Quando aprì gli occhi scoprì che Lexa era alle sue spalle. Letteralmente, contro le sue spalle.
Si riscosse, guardandosi intorno stupita. Erano in una piccola radura dalla rada vegetazione.
« Cosa.. ? »

Poco dietro Lexa, stesa al suo fianco, un’enorme quercia secolare.
Lexa la spinse di lato, prima di alzarsi frettolosamente. Le girò intorno e le si accucciò davanti, tastandole le braccia e le gambe, poi le guardò intensamente il torace. Infine le prese la testa tra le mani e le guardò le pupille.
Clarke osservava ogni suo gesto allucinata, come in trance.

Infine, Lexa afferrò un qualcosa di indefinito, portandoselo alla bocca e mormorando
« E’ tutto ok. Potete rientrare. »

Senza aggiungere altro si alzò.
Clarke deglutì. Si aspettava una ramanzina acidissima.
Invece l’altra la fissò solo per qualche secondo prima di girarsi per andarsene.
«As.. aspetta. Che cosa è successo? » la bloccò la voce della bionda alle sue spalle.
Clarke vide Lexa fremere sul posto, evidentemente indecisa se risponderle o riprendere imperterrita a camminare.
«…»
La bionda si rimise a fatica in piedi.
« Dove stai andando? » le chiese appoggiandosi zoppicando alla quercia.
« Che domande. Riprendo a correre. » le rispose secca Lexa senza voltarsi.
Clarke sbottò in una risata incredula
« Fai sul serio? E mi lasceresti qui, nel mezzo del nulla? Ma che hai al posto del cuore, una nocciolina secca? »
« Non ti ho costretto io a seguirmi » le disse l’altra, asettica, riprendendo a camminare
« E così te ne vai di nuovo. Non capisci che non ha senso? Cosa speri di ottenere facendo così? » le urlò dietro Clarke, ancora dolorante.
« Mi sembra ovvio. Ottengo di non parlare con te » le rispose Lexa piroettando sul posto per guardarla con uno sguardo sarcastico.
« E credi davvero che servirebbe? Anche se tu riuscissi a “farmi fuori” dal progetto, quanto credi che ci metterebbero a trovare un’altra professionista? »
« Ignorerò anche lei. Ignorerò tutti. » le rispose Lexa rallentando.
« E quando ti legheranno ad una sedia e ti ficcheranno un macchinario sul cranio che farai allora eh? Buona fortuna con le cinghie! » le urlò sarcastica Clarke.
Lexa si fermò.
Finalmente.
Stava iniziando ad ottenere qualcosa.
Clarke ne approfittò per zoppicare nella sua direzione.
« Le vedi queste? » si alzò i pantaloni per mostrare i telai in carbonio
« Sarò pure una ignorante in materia, ma credo che se mi hanno dato questi cosi in grado di farmi andare in orbita come un razzo non siano di certo sprovvisti di “metodi alternativi” per ottenere le statistiche di cui hanno bisogno.. » le disse guardandola fisso negli occhi.
L’altra non rispose nulla.
« Lexa, non ti lasceranno in pace molto facilmente. Questo levatelo dalla testa. » continuò lei.
Sentiva che finalmente le sue parole, per la prima volta dopo più di una settimana, stavano iniziando a fare effetto.
« Fuggire.. » accennò l’agente, debolmente.
«…non servirebbe. Sei tracciata in mille modi diversi, e tu lo sai » le disse duramente.
Lexa continuò a non dire niente, guardando duramente il terreno di fronte a sé.
«…e allora cosa? » finalmente chiese.

Bingo.

« E allora parla con me. » le rispose ammorbidendo la voce.
« Non ci tengo proprio » le disse l’altra fulminea
Clarke ruotò gli occhi al cielo
« Non c’è bisogno di fare delle sedute. Parliamo del più e del meno. È quello che vogliono ed è quello che gli daremo. » le spiegò con calma.
Lexa si guardò intorno, prima di sostenere il suo sguardo con rinnovata fierezza.
« Rebecca non è così stupida. »
Forse anche lì potevano sentirle.

« Non sto cercando di fregare nessuno » si affrettò a dire « ma ognuno ha i suoi metodi di analis... fare il proprio lavoro… » si corresse, cercando di evitare termini troppo tecnici.
Doveva ricordare che stavano contrattando per delle banalissime chiacchierate, non per una seduta di psicanalisi «…beh, questo è il mio. » concluse.
Lasciò all’altra il tempo di riflettere attentamente sulla proposta.
Lexa sembrò prendere le sue parole in attenta considerazione. Dopo qualche secondo di immobilità, alzò un braccio e glielo porse.
Clarke lo strinse alla romana, incredula e con il cuore che fremeva di gioia.
Aveva vinto!
« A una condizione. » aggiunse l’agente all’improvviso.
Ecco. Lo sapevo.
« Cosa? » le chiese con un sorriso nervoso.
« Veniamo a fare jogging tutti i giorni. Anche quando piove. » le disse guardandola negli occhi, irremovibile.

All’immagine di lei completamente fradicia sotto la pioggia e il vento, sporca di terra, Clarke deglutì. Avrebbe dovuto aspettarsi qualcosa del genere.

« …Affare fatto. »








 

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Capitolo 5
*** Il mostro dei miei sogni ***


[Angolo dell'Autrice]: vi prometto, prometto, giuro che fra poco avrete il vostro zucchero. Più o meno.
Ma per ora fidatevi di me...
__________________________



Un conto alla rovescia.
150…149…148…
La ragazza sente il pavimento duro contro di lei. La stanza in cui si trova è buia, grande, vuota.
Sente il suo stesso respiro nelle orecchie. In lontananza una voce contare.
138…137…136…
Si alza. Si guarda intorno. Non ha niente addosso.
Lo spazio è desolato, grande, ci sono oggetti abbandonati in ogni dove. Un divano rosso grande, le posate a terra, un tavolaccio lungo. Del cibo nei piatti. Marcio.
Eppure non vola nemmeno una mosca.
Il posto sembra essere stato lasciato in fretta e furia.
Si dirige verso la voce.
105…104…103…
Arriva in un ambiente scarsamente illuminato. Le luci sfarfallano e un lampadario manda scintille.
93…92…91...
È una sala monitor, piena zeppa di computer. Qualcuno è ancora acceso, ma non c’è niente sullo schermo. Non un solo segno di attività.
87…86…85…
I piedi sono nudi, il pavimento è impietosamente gelido. Decide di andare avanti, tra le scrivanie. Deve trovare un modo per uscire, pensa.
Che cos’è quel posto?
Una cartina. È là, sul muro, dietro quella scrivania.
76…77…76…77…
Il conto s’inceppa. Poi ricomincia.
77…76…75…
La ragazza si guarda intorno. Da dove viene quella voce?
La cartina. Deve prenderla.
Arriva al muro, la stacca con le mani.
Il disegno è un labirinto tracciato di nero. I segni sulla carta sono pesanti, sporchi.
La traccia arriva fino ad un estremo del foglio. Pare che continui dall’altro lato. Lo gira.
Le mura del tracciato diventano delle dita. Una mano nera dal palmo a spirale prende tutto lo spazio del foglio.
41…40…39…
Sente delle risate cristalline. Sembrano quelle di bambini.
Scruta tra le scrivanie ma non vede niente.
In lontananza un computer dallo schermo luminoso. Si avvicina, il foglio ancora in mano.
Tocca il mouse e lo screensaver sparisce, mostrando sul desktop la foto della terra scattata dallo spazio. In orbita, due missili.
20…19…18…
Sulla barra delle applicazioni, una finestrella lampeggia. La ragazza ci clicca sopra.
Si apre un terminal nero. Il cursore bianco appare e scompare.
I numeri appaiono stampati non appena la voce li scandisce.
11…10…9…
La ragazza guarda ipnotizzata i numeri andare a zero, aspettando che succeda qualcosa.
3…2…1…
1
1

Il numero uno rimane fisso, la voce smette di contare. La ragazza si guarda intorno.
Non succede niente.
Le cade di nuovo lo sguardo sul monitor.
“Who art thou?”
È scritto a chiare lettere di bianco pallido.
Chi è lei? Non lo sa.
“Nobody” digita. Preme invio.
Il cursore lampeggia per alcuni secondi.
“Why are thou here?” esce dopo poco.
Perché è lì?
“IDK”
Non lo sa.
Il cursore lampeggia altri secondi.
“Liar” digita il computer lentamente dopo poco. Bugiarda.
La ragazza guarda il prompt dei comandi. Non capisce.
Il cursore riprende a digitare.

Un boato squassa il silenzio. Proviene da fuori la stanza, da dove era venuta lei.
Rumori pesanti di un corpo enorme che avanza nel corridoio troppo stretto. La ragazza è terrorizzata, scappa sotto una scrivania.
Un lamento grottesco, come un muggito, risuona negli infiniti spazi vacui. La ragazza sbircia da sotto al tavolo, tra le fessure delle lastre di legno. In controluce, la figura di una bestia enorme che cammina dondolandosi su due braccia lunghe, grosse come tronchi.
Lei lo sente. Lui la sta fiutando.
Scaraventa le scrivanie all’aria.
Lui è vicino, sempre più vicino.
Il monitor brilla. È apparso qualcosa.

“Abandon all hope, ye who enter here”

Un ruggito. Lui spacca la scrivania sopra la sua testa con una mano enorme, la prende, la stritola e la sfracella sul muro. Lei urla, cerca di scappare. Lui la prende, la trascina, le afferra la testa.
I suoi denti si chiudono sulla sua faccia.



«…aaaaAAAAAAAAHHH » Si sveglia con le sue stesse urla nelle orecchie.
Ha gli occhi spalancati, il battito del cuore che le riempie il cervello, il sangue a mille.
Nell’oscurità, due occhi brillano. Ha paura. Quel “qualcuno” la afferra.
Annaspa, le mani brancolano nel buio artigliando alla cieca il tavolino, le lenzuola, la spalliera.
Afferra qualcosa. Lo stringe così forte che sente le unghie penetrarle nel palmo della mano, poi mira in direzione del bianco degli occhi. Una penna si pianta dritto nel collo dell’uomo che le stava davanti.
Che urla di dolore. Un urlo bestiale.
Lei sente il suo sangue pompare, il respiro così affannoso da sembrare un animale.
Le pupille sono enormi. Le orecchie captano il minimo movimento.

È lì, sul lettino, tutta raggomitolata su sé stessa. Sente le voci provenire dalla porta semiaperta. Un secondo, poi si spalanca. Entrano altri uomini.
Si gettano su di lei.

Lei non vuole essere toccata. Allora attacca.
Si getta sul primo, gli morde un orecchio. Sente il sapore del sangue riempirle la bocca e altre urla devastarle le orecchie.
Sono così sensibili. Le fanno male.
Un dolore alla testa. Qualcuno l’ha afferrata per i capelli. Lascia l’uomo, sputa a terra il pezzo di orecchio e si torce su sé stessa per afferrare le gambe di quell’altro.
Lui cade, lei gli è sopra, fa passare le braccia attorno al suo collo e le gambe attorno al suo torace. E stringe. Stringe, finché lo sente ancora dibattersi, stringe, fino a quando non lo sente succhiare l’aria disperatamente.

Un dolore lancinante. Le hanno sbattuto in testa un vassoio di acciaio. Lei sente un rivolo di sangue scenderle dietro la nuca e la vista che si offusca.
Non ricorda come, ma adesso è a cavalcioni sull’altro uomo e lo colpisce. Ha le nocche sbucciate, lui non ha più i denti davanti, la faccia è tumefatta.
Il sangue che gli esce da bocca e naso lo sta affogando.

Le persone continuano ad entrare a fiotti.
Sente qualcuno tirarla per le spalle, urlando.
Si gira di scatto, e si getta sulla figura, pronta a colpirla, le mani ad artiglio.
Altre braccia, troppe, le bloccano il torace, la spingono a terra. Sente il loro peso sulla schiena mozzarle il fiato. Qualcuno le infila prima una, poi due siringhe nel collo.
Lei continua a ringhiare, a tremare, a urlare. Non vuole che la tocchino.
Una terza siringa nella coscia.
Finalmente i battiti rallentano. Sente solo i suoi respiri, sempre più lenti, sempre più profondi.
Alza lo sguardo sulla figura che le stava davanti, quella che l’aveva tirata.
Prima di perdere i sensi, riconosce nei suoi occhi l’orrore...
...due occhi a mandorla.

 
****


[12.11] “Sicura che non hai problemi a venirmi a prendere, principessa?”
[12.11] “Finn, stai tranquillo, davvero :D “
[12.11] “Ok... allora ci vediamo vicino le fermate degli autobus? Così puoi anche accostare con la macchina”
[12.11] “Ma quanto sei bravo… Pensi proprio a tutto!”
[12.12] “ :) Mi raccomando non ti scordare di me in questi giorni”
[12.12] “Beh… nel caso, sono sicura che un sacco di gente si fermerebbe davanti al tuo bel
faccino che fa l’autostop”
[12.12] “Clarke!”
[12.12] “Sto scherzando. Giuro solennemente che non dimenticherò il mio ragazzo all’aeroporto”
[12.12] “Meno male”
[12.12] “Ora devo andare. Mamma mi guarda male”
[12.12] “Ok… io fra poco spengo il cellulare per il decollo. Ci sentiamo quando atterriamo”
[12.13] “Va bene ragazzone.”
[12.13] “Ti amo”


Clarke guardò il cellulare interdetta. Glielo aveva detto un milione di volte che lei non si sentiva ancora pronta per quella frase… eppure lui continuava a ripeterglielo.
Non è che lei non gli volesse bene o che non ne fosse innamorata. Solo che… “ti amo” le sembrava una dichiarazione un po’ troppo grande da fare.
Lo associava ad una sensazione quasi romanzesca, impossibile da provare nella realtà.

[12.13] “Finn…”
[12.13] “Si, si, lo so. Ma dovevo dirtelo, sai, nel caso in cui l’aereo…”
[12.13] “Cretino. Non succederà niente. Ci sentiamo stasera”
[12.13] “A stasera”


« Clarke. Quante volte ti devo dire che non mi piace che tu abbia quell’affare in mano quando vieni a trovarci?» sbottò Abby, la madre di Clarke, entrando in salone mentre si asciugava le mani.
« Scusa mamma. Mi stavo mettendo d’accordo con Finn per quando tornerà in America. » disse la ragazza mettendo da parte lo smartphone e sedendosi sul divano.
La donna le sorrise dolcemente e la raggiunse.
«Come vanno le cose tra voi? »
Clarke le si accoccolò addosso e la donna la strinse forte.
«Tutto ok, credo. Facciamo vita di coppia da un anno ormai ed è il miglior compagno di appartamento che potessi sperare di avere.»
Risero entrambe.
« Ti fa la lavatrice?»
« Oh, non solo! Cucina, pulisce, fa tutto lui.»
« Clarke… » iniziò la madre con un tono falsamente severo « dovresti vergognarti. Pover’uomo, praticamente gli fai fare il servo! »
Clarke la guardò un po’ offesa
« Hey! È lui che mi dice di non toccare niente! Giuro che io ci provo a fare qualcosa…» si lagnò lei.
« Probabilmente ha solo paura che tu gli distrugga la casa.» la canzonò la madre con un sorriso sarcastico.
Prima che Clarke potesse ribattere, dalla cucina sbucò un uomo sulla quarantina di bell’aspetto, mentre reggeva una teglia enorme di lasagne.
« Questa meraviglia finalmente è pronta! » disse, evidentemente soddisfatto.
« Grande Marcus! Qui si moriva di fame » rispose la ragazza sorridendo. Si alzarono dal divano e si accomodarono al grande tavolo di noce al centro della stanza.

Clarke non aveva mai superato la morte del padre e vedere un altro uomo nella vita di sua madre all’inizio non le aveva fatto di certo piacere, soprattutto se quell’uomo era stato amico intimo dei suoi genitori per anni e anni.
Poi era successa la tragedia al lavoro. Erano morti in parecchi, tra cui anche la compagna di Marcus.
La solitudine, la forte amicizia ed il dolore condiviso avevano fatto il loro corso, avvicinandoli e legandoli definitivamente l’uno all’altro.
Aveva impiegato tempo ad accettarlo, ma coi mesi l’uomo era riuscito a conquistare anche lei con i suoi modi gentili, la sua forza d’animo, il suo modo di prendersi cura di Abby.
Così, si, alla fine Marcus le era piaciuto e anche tanto, anche se non avrebbe mai sostituito il padre nel suo cuore.

« Allora, che si dice al lavoro? » le disse l’uomo, iniziando a distribuire le porzioni di pasta.
« Avevi promesso di raccontarci qualcosa » insistette la madre.
Clarke si trovò improvvisamente a disagio.
« Io in realtà…» farfugliò. Mentire a sua madre non le era mai piaciuto ma non poteva raccontarle niente. Anche se non fosse stata vincolata dal contratto, dubitava fortemente che Abby, alla notizia di sua figlia scaraventata in orbita e quasi morta per colpa di strani marchingegni, se ne sarebbe stata buona.
No. Decisamente non sarebbe stata una buona idea.
« …sto lavorando su un agente in recupero post-traumatico. È una ragazza molto giovane, perciò hanno chiesto a me. » disse frettolosamente, guardando nel piatto.
« Oh. » Marcus era sorpreso. Lanciò un’occhiata nervosa alla compagna.
« Non è strano che una ragazzina sia un operatore? » chiese.
« Ero sorpresa anche io… ma poi l’ho vista ed effettivamente sembra tutt’altro che indifesa.» commentò la ragazza ridacchiando.
« Intendo dire che mi sembra assurdo buttare in situazioni così pericolose qualcuno che abbia la tua età. O è più piccola ancora? Non mi stupisco che soffra di un qualche trauma.»
« Non lo so. » realizzò lei, per la prima volta. Quelle informazioni rientravano nella cartella Top Secret, per il momento. « Non so quanti anni abbia. Forse qualche anno più di me. Ma ti assicuro che al giorno d’oggi questa è quasi la prassi. Più gli operatori sono giovani, più sono capaci, svegli, pronti ad apprendere. Nessuno li forza, il loro è un desiderio che nasce da dentro…»

“Nessuno li forza”. Beh forse non era proprio il caso di Lexa…

« Anzi, ti dirò di più. Spesso e volentieri sono ragazzi tolti dalle strade a cui viene data un’alternativa. Piuttosto che trovarli a spacciare droga qualche anno più tardi, suppongo sia preferibile metterli dietro le file a “combattere il crimine”. Non è il caso della mia assistita, sto solo dicendo l’altra faccia della medaglia…»
L’uomo la guardò poco convinto, poi tacque, continuando a mangiare.
« Che le è successo? » chiese Abby.

“Ed eccoci arrivati alla parte in cui devo inventare di sana pianta”

« Nella sua ultima operazione sono morti dei bambini. Lei se ne considera la causa… ma ci stiamo lavorando. »
« Ma è una cosa terribile. Come è potuto succedere? » disse sconvolto Marcus.
« Ahm… » deglutì Clarke « A quanto pare questa… setta li costringeva a combattersi e ad uccidersi a vicenda. Erano bambini strappati alle loro case e allevati praticamente con le armi al posto dei giocattoli. Lei era un’infiltrata…» concluse, maledicendo la sua troppa fantasia «…ne ha visti morire sette davanti ai suoi occhi senza poter fare niente. »
Era una storia assurda.
« Povera ragazza. Ci credo che è sconvolta…» disse Abby.
« Sarà un caso particolarmente delicato… e per niente facile, giusto?» chiese Marcus.
Aveva funzionato, incredibilmente. Forse la sua fantasia non era tanto male.
Clarke annuì con decisione. « È molto restia ad avere una conversazione, quindi mi sono dovuta inventare un metodo alternativo » sogghignò « per ora tutte le nostre sedute si sono svolte con me che le correvo dietro. Letteralmente! » disse soddisfatta guardando negli occhi la madre.
« Non deve essere una bella sensazione parlare al sedere di qualcuno… » commentò la donna sarcastica.
« Per niente, mamma. Però ieri è successo qualcosa… » “…stavo per spaccarmi la noce del collo…” «…e finalmente sembra che le cose stiano iniziando ad ingranare. Ovviamente è ancora presto per parlare… ma ho una buona sensazione. » gongolò Clarke, con un pizzico di soddisfazione.
« Che tipo è? » le chiese Abby, inforcando una polpettina.
Clarke sorrise. In realtà non sapeva davvero cosa dire. Cercò di raccogliere le idee, ricordandosi i momenti salienti di quella settimana stressante.
« Testarda, sicuramente. » riassunse, prima di dedicarsi alla sua abbondante fetta di lasagne.
« Testarda? Tutto qui? » insistette Marcus.
« Beh. È orgogliosa, tenace, forte. Ci sono mille altri modi per dirlo. » Clarke ripensò all’espressione dura dei suoi occhi la prima volta « Ho l’impressione che sia molto, molto intelligente. Credo che abbia un ottimo sesto senso…» Rivide davanti agli occhi il sorrisetto sarcastico del giorno prima «…e credo anche che ci goda a prendermi in giro. » concluse, tagliando l’ultimo pezzo in tre quadrettoni.
« Sembra un tipino interessante. » sorrise la madre, pulendosi le labbra col tovagliolo.
« Lo è… » rispose la ragazza abbozzando anch’essa un sorriso « ...Lo è.»
« E com’è? Fisicamente, dico.» chiese l’uomo sorridendo, guadagnandosi un sopracciglio alzato da parte della compagna « …è una domanda innocente! » rise « È solo che è strano pensare ad una giovane donna alle prese con un addestramento militare… quando ci hanno fatto fare l’anno di leva obbligatoria eravamo solo noi ragazzi. Non sono contrario alle donne nelle forze armate! » si affrettò a dire, prima di sollevare le lamentele di madre e figlia « Lo sai che non sono il tipo…sono solo curioso. »
I tre ridacchiarono.
« Non è un mostro tutto muscoli, Marcus. » disse Clarke sorseggiando il suo bicchiere di vino.
Davanti ai suoi occhi, eccola che entrava per la prima volta nella tenuta, asciugandosi il collo madido di sudore. « È una bella ragazza, allenata, tonica, questo si. Una cosa te la concedo però…» disse guardando il vino ruotare nel suo calice. Ricordò le prime volte che Lexa le era sfuggita come un felino, correndo agilmente in salita tra gli alberi e le foglie scivolose, instancabile. Le era sembrata tanto impietosa, tanto crudele in quelle occasioni.
Poi però pensò a quando la ragazza era stata lì, a controllare che stesse bene, dopo che… beh, dopo che miracolosamente aveva smesso di rotolare.
«…effettivamente può ricordare un animale. Un predatore, agile, letale. E ha questi occhi verdi… » tacque un secondo prima di vuotare il bicchiere. Si trasportò di nuovo col pensiero ai piedi di quella scalinata, quando li aveva visti scintillare nel buio.
« …indecifrabili. »
Ci fu qualche secondo di silenzio.
« Affascinante. » commentò Marcus, abbandonandosi sullo schienale. « Se non fosse contro l’etica professionale ti chiederemmo di portarla qui a pranzo una di queste domeniche. »
Clarke sorrise.
Il grande cucù appeso al muro rintoccò, si erano fatte le due del pomeriggio.
« Ragazzi, mi sa che devo andare » annunciò, alzandosi e prendendo la borsa sul divano.
« Sul serio? Di solito ci riservi almeno altre due ore.» si lamentò Abby, che si era alzata per sparecchiare, seguita a ruota da Marcus.
« Le settimane scorse non avevo un lavoro! » commentò allegra la bionda. « Devo scrivere il mio rapporto e stilare altre noiose liste… Sta tranquilla mamma » disse Clarke schioccandole un bacio sulla guancia « Non sarà sempre così. Ora devo abituarmi a questi nuovi ritmi ma presto riuscirò a riorganizzarmi. Te lo prometto. »
La donna la guardò radiosa.
« Sei diventata una donna. » le disse emozionata, stringendole le spalle.
« Ogni tanto capita » le rispose la figlia, ricambiandole il sorriso.
Marcus si schiarì la voce, imbarazzato. Clarke si riscosse ed andò ad abbracciarlo, salutando affettuosamente anche lui.

Gli voleva bene. Si volevano bene, sinceramente.
Quelle scenette di vita familiare la scaldavano dentro, mettevano a posto un po’ i frammenti del suo cuore che non potevano più essere incollati dopo i disastri che le avevano sconvolto la vita, anni prima.
Prima suo padre, poi Wells, i problemi economici, i litigi con Abby, il suo allontanamento durante il periodo del College.
Era tutto passato, è vero, ma determinate cose fai fatica a cancellarle. Puoi coprirle con strati e strati di tanto altro, nuovi amori, amicizie, soddisfazioni professionali, ma le crepe rimarranno per sempre lì.
Quegli attimi la aiutavano a dimenticare. Per pochi minuti, la sua vita era sempre stata quella, ovattata, morbida e bella.
Solo pochi minuti.
Poi tornava ad essere la Clarke Griffin col suo bagaglio di disastri sulle spalle.

La ragazza indossò il cappotto di panno e si avviò alla porta, seguita dai due. Si diedero appuntamento alla domenica successiva, si diedero altri baci e abbracci, poi la porta aperta fece tintinnare il campanello appeso al soffitto.
Prima di chiuderla Clarke si ricordò di una cosa.
« Marcus » chiamò.

L’uomo si affacciò di nuovo, seguito a ruota dalla compagna.
« Chi ha cucinato oggi? » chiese la ragazza, con aria disinteressata. Abby alzò un sopracciglio.
L’uomo la guardò incuriosito
« Io, come sempre. Perché, non ti è piaciuto? » le chiese sorridendo.
Clarke lanciò uno sguardo complice alla madre, che assunse l’aria colpevole di un bambino colto con le mani nella marmellata.
« Ci avrei giurato. Era tutto buonissimo! Grazie mille, ci vediamo » disse ridacchiando lanciando un’ultima occhiata alla donna, prima di voltarsi e di andarsene.

Pochi secondi di silenzio, poi Clarke sentì Abby sussurrarle un « Impertinente.» e la porta chiudersi alle sue spalle.


 
****

Voleva alzarsi. Le prudeva il naso.
Provò a muoversi ma non appena tirò su le gambe sentì qualcosa bloccarle le caviglie. Sgranò gli occhi.
Provò a tirarsi su a sedere, ma i polsi erano trattenuti da una forza invisibile, spinti a stretto contatto col materasso. Girò la faccia ma il mento rimase intrappolato in un collare che le avvolgeva tutto il viso. Era completamente immobilizzata.
Emise un lamento debole.

Silenzio.

Spinse gli occhi a guardare verso la finestra finché non sentì i muscoli delle orbite farle male.
Fuori la giornata era splendida, dal piccolo spiraglio che riusciva a raggiungere con lo sguardo vedeva il cielo di un azzurro intenso e gli uccellini cinguettare.

Inarcò la schiena e sentì delle cinghie impedire al suo torace di espandersi. Si torse su sé stessa, strisciando come un serpente ma dovunque flettesse il suo corpo trovava opposizione.
Era bloccata là. Il cuore si mise a pompare più forte.
Non riusciva a respirare bene.
Cacciò un gemito rabbioso.

Iniziò a divincolarsi con rabbia, tirando i legacci, mordendo il collare dove poteva, scalciando, graffiando il materasso. L’immobilità forzata la stava gettando in uno stato di panico atroce, l’ansia la divorava. Sentì le cinghie quasi cedere ed il letto tremare, sbattendo contro il tavolino di acciaio.
Una porta aperta. Del vociare concitato.

« Hey! Hey! Ferma! »
Riconobbe quella voce. Le bastò per immobilizzarla all’istante.
« Se fai così è peggio. » le spiegò l’infermiera, comparendo nel suo campo visivo e afferrandola per gli avanbracci.

La ragazza nel camice bianco la guardò per pochi secondi, assicurandosi che la paziente avesse smesso di divincolarsi.
La prigioniera cercò il suo sguardo insistentemente, ma l’altra rifuggiva il contatto visivo diretto come se fosse stato doloroso.

« Si è svegliata? » disse un’altra voce fuori campo. Era la donna.
La ragazza legata sentì le dita dell’infermiera scivolare via lentamente.
« Si. E non le piacciono le cinghie. È… è proprio necessario? » sentì dire la ragazza.
« Chiedilo a Bastian, Costia. E a Silvester. Lo stava ammazzando. » rispose l’altra con voce dura.

Costia. Costia.

L’infermiera tacque guardando a terra, imbarazzata.
« Non metterò nessun altro in pericolo per un mio sbaglio. » continuò l’altra.
« …Che è successo? Non l’avevo mai vista così…» chiese la ragazza.
La donna sembrò ammorbidirsi un poco alla vista di un’espressione così sconsolata.
« Non lo so. Sto cercando di capire… ma per il momento è meglio tenerla così. Ho bisogno di chiederti alcune cose. »
« Si. »

La ragazza tentò di seguirle con lo sguardo, mentre si spostavano vicino la finestra.
Piegò il collo in maniera innaturale, fino a sentire dolore.

« Non.. non dovremmo metterci fuori? » sentì Costia dire. Stava guardando al suo indirizzo, con aria preoccupata.

Costia. Aveva un nome.

« Qui va benissimo. » tagliò corto la donna, senza degnarla nemmeno di uno sguardo
« Ascolta, tu sei certa che non ha mai avuto dei comportamenti violenti finora, vero? Nemmeno uno sguardo, un’espressione, niente? »
« No. Mai. » rispose semplicemente la giovane.

Rumore della matita che gratta sul foglio.

« Ha dormito… quanto? Tre giorni? »
Tre giorni??
« Si. »
« E si è svegliata ogni tanto, mi dicono. »
« Si. Era stordita, probabilmente non ricorda niente. Ha solo aperto gli occhi per qualche minuto, poi è tornata a dormire. »

La matita continuava a gracchiare sulla carta.

« Quante volte? »
« Cinque… »
« E non era aggressiva. » concluse
« No…»

Si era svegliata? Davvero?

La dottoressa continuò a scrivere per qualche minuto, senza aggiungere altre domande.
« Può avere una qualche forma di disturbo della personalità? » Costia ruppe il silenzio. Era visibilmente in ansia.
La donna continuò a scrivere per qualche secondo, prima di tacere e di riflettere a lungo.
« No. » disse lapidaria, senza aggiungere altro.
« Dottoressa, la prego, mi ascolti. Lei… lei non è così. Non è mai stata così, non può esserlo. Non è un animale sanguinario, io lo so. »
Il tono di Costia era veemente, lamentoso. Disperato.
« Lo so. »

Ci fu ancora qualche secondo di silenzio.
La paziente scrutava il soffitto. Il sole rifletteva sulle enormi mattonelle bianche, asettiche, malate, grottesche.

« Per te non è un problema continuare a prendertene cura, quindi. » disse la donna.
Sentì Costia inspirare, sorpresa.
« … No. No, stavo per chiederglielo io… » balbettò.
« Lo sai che se le succede di nuovo, potresti esserci tu sotto le sue mani stavolta. L’ultima volta è stato solo un caso che non sei entrata in stanza per prima. Lo sai che se Bastian non fosse stato un giocatore di rugby al liceo quella matita lo avrebbe ucciso? » chiese duramente la donna.
Costia rimase in silenzio.
« Tieni legate strette quelle dannate corde. Non mi importa quanto tu credi che lei sia un tenero agnellino. Sono stata chiara? E non voglio vedere nessun oggetto, nessuno, nel raggio di tre metri da lei. »
L’infermiera annuì.
« Ora vai fuori. » ordinò la donna. « Chiudi la porta e non far entrare nessuno. »

La paziente sentì l’altra esitare. Il collo le faceva malissimo e per quanto si sforzasse di torcerlo nella loro direzione, il collare le impediva la visuale.
Se avesse saputo come imprecare, avrebbe bestemmiato pesantemente.

« Costia. Ho detto vai. » ripeté duramente la donna.

Passi. L’infermiera si avviò riluttante alla porta.
La paziente la sentì fermarsi e girarsi per chiedere qualcosa.

« Non le succederà niente, te lo prometto. » la precedette la dottoressa. « Ma ho bisogno che tu vada fuori e che sorvegli la porta. »

Rumore di una testa scossa in segno di assenso poco convinto. Porta che si chiude.
Altri passi. La paziente sente i suoi respiri farsi più veloci.
Nel suo campo visivo finalmente entra lei. La dottoressa.
Altera, fredda, sospettosa, dai lineamenti duri, i lunghi capelli legati in una stretta coda. Le labbra strette, gli occhi quasi chiusi in fessure scintillanti.

« Lo so che hai capito tutto. So che puoi. » disse lapidaria.
La paziente sentì il respiro bloccarsi. Gli occhi sgranati come quelli di un cavallo di fronte ad un fuoco.
« Non è un problema, lo sarebbe stato il contrario. » continuò avvicinandosi.
Silenzio.
« E so anche che quello spettacolo di quattro giorni fa non è colpa tua. Nel caso, sarebbe solo colpa mia, piuttosto. »
La donna si chinò a sfiorarle il viso.
La ragazza si sentì nervosissima tutto ad un tratto.
« Lo sai che succederà di nuovo se non ne capisco la causa? »
La donna la guardò fisso negli occhi.
Per un secondo si rivelò per quello che era: profondamente pentita.
Un secondo. Poi il suo sguardo si velò di una patina opaca.

« Ti devo rimandare là. »

Non c’era più traccia di pietà in quegli occhi.
La ragazza sentì di nuovo il rumore sordo della bestia nelle orecchie. Sentì il suo alito fetido sulla faccia, la sua mano enorme avvolgerla e stritolarla.

No. No. No.

Scosse la testa freneticamente. No!

« Devi solo varcare la soglia. Ti porterò fuori prima che sia troppo tardi. » continuò la donna mettendosi di nuovo dritta. Si avvicinò alla flebo, tirò fuori una siringa e iniettò il contenuto nella soluzione salina.

La ragazza si divincolò disperatamente, come un pesce fuori d’acqua, ringhiando.
Sentiva il cuore batterle forte nelle orecchie, il respiro farsi pesante, la testa pulsarle incessantemente.
« Avanti, ragazzina. Giochiamo. » disse la donna guardandola senza un briciolo di empatia.

La ragazza sentì il mondo farsi freddo, la stanza riempirsi di vento gelido, le pareti cristallizzarsi, il pavimento trasudare neve.
Prima di perdere i sensi, tornò a guardare la donna.

Era un pezzo di ghiaccio, vestita di pellicce. Una corona in testa.
Poi il buio.


 

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Capitolo 6
*** ...e una bottiglia di Rum ***


[Angolo dell’Autrice]: io ci provo, a scrivere tutto di filato. Ci provo davvero.
Ma ogni giorno che passa è sempre più difficile non trovarti dietro l’angolo dei miei pensieri con i tuoi occhi strani, le pupille perennemente dilatate, così grandi che l’azzurro sembra quasi grigio.
Non appena spalmo la marmellata su un toast, ti vedo al mio fianco, mentre ci prepari il the.
Dio come sei alta.
Le tue dita lunghe e bianche che armeggiano col cucchiaino per tirare in fretta la bustina fuori dall’acqua “because it’s really strong”.
 
Ed è sempre più difficile scrivere una storia d’amore che abbia un senso, quando il mio cuore lo sento sfracassato in mille pezzi.
 
 
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Clarke spense il motore con un sospiro, appoggiando la testa sul volante.
La testa le esplodeva.
« Oddio signore… »
 
La sera prima aveva chiamato Raven al cellulare per chiederle se avesse concluso le modifiche ai tutori e quando poteva andare a ritirarli, dato che ne avrebbe avuto bisogno anche per i giorni seguenti.
L’ingegnera era rimasta sorpresa da quella chiamata, e ridendo le aveva chiesto se avesse intenzione di lavorare anche la domenica sera.
Clarke si era resa conto che forse aveva appena fatto la figura dell’asociale, tutta casa e lavoro, quindi aveva balbettato una qualche scusa sconnessa.
 
La verità era che negli ultimi anni aveva un po’ tralasciato quell’abitudine sociale di radunarsi con gli altri a divertirsi, facendo cose immature, condividendo storie buffe ed esperienze sconce.
Non era asociale, no, ma suo malgrado era maturata di botto al liceo, dopo… beh, dopo che erano successe quelle cose, una dietro l’altra.
Aveva assunto quell’aria da adulta malinconica e sofferente che molti suoi coetanei non sopportavano ed inevitabilmente aveva smesso di trovare piacevoli quei raduni, pur continuando ad andarci.
L’università era andata più o meno uguale. Aveva fatto amicizia, frequentava la compagnia del college, aveva trovato Finn e andava ai party delle confraternite.
Fu un bel periodo, era una delle studentesse più conosciute anche se non era tra le più amate.
Poco o male. Piacere agli altri non era mai stata tra le sue priorità.
 
Quando l’università era finita, i ragazzi si erano trasferiti o avevano iniziato a lavorare, lei in primis era ritornata nella sua città e si era buttata con tutta sé stessa nel suo lavoro, accantonando le “amicizie” di comodo, mettendo da parte i weekend per qualcosa che la soddisfaceva di più.
Tuttavia, quando Raven la invitò a raggiungerla, non provò il classico senso di fastidio che la attanagliava quando la invitavano a quelle scomodissime feste, in cui sapeva si sarebbe trovata a parlare con gente bigotta, tronfia o noiosa.
Si stupì non poco di sé stessa quando si sorprese a sorridere e accettare con piacere, si, allora a fra mezz’ora.
Il giorno dopo si sarebbe presentata da Lexa mezza rincoglionita dal sonno, probabilmente. Ma si fidava di Raven. Anche lei avrebbe dovuto alzarsi presto la mattina successiva, e la dottoressa Primeaid non sembrava una incline a perdonare che qualcuno in postumi da sbornia le rovinasse il lavoro.
Aveva voglia di scoprire qualcosa in più su quella ragazza. Era un personaggio così particolare, l’aveva colpita da subito con quelle sue credenziali scintillanti e quella personalità aperta. Inoltre era da sola a casa...
Insomma, si. L’idea le piaceva.
Alla fine della nottata, Clarke vomitava nel bagno e Raven le reggeva la fronte, ridendo a più non posso.
 
Clarke sorrise.
Era stata una bella serata, da come non le capitavano da anni. Raven le aveva presentato la compagnia.
 
« Dato che stiamo lavorando sulla stessa cosa, mi sembra giusto che tu li conosca! Avevo intenzione di organizzarti una serata la prossima settimana, ma già che ci siamo…» le aveva detto sfoggiando il suo sorriso scintillante.
Poi era passata alle presentazioni.
« Questo è Monty, il nostro piccolo fenomeno di elettro-informatica! Lui è il suo migliore amico, Jasper » disse indicando due ragazzi dall’aria simpatica.
« Come butta? » disse il secondo sorridendo, che indossava due enormi occhiali da aviatore e una felpa rattoppata, in pieno stile post-apocalittico.
« È una piaga, ma non possiamo fare a meno di portarcelo dietro. » commentò Raven, prima di passare agli altri.
« Hey! Reyes, ti ho sentito! » urlò Jasper, suscitando le risate di tutti.
La mora le passò un braccio sulle spalle e la trascinò via, per presentarle l’altra parte del gruppetto.
« Qui abbiamo i fratelli. Fanno da ponte tra il gruppo di giovani talenti della Primeaid e il gruppo armato del Comandante. Tecnicamente li ha presi la dottoressa, quindi… fanno parte anche loro dei “Delinquenti”. »
I due vicino al bancone si girarono insieme. Clarke riconobbe subito lui, quello alto con la faccia irritante che le aveva dato del filo da torcere per un intero semestre.
« Che nome di merda. » si lamentò la ragazza bassa che lo affiancava, mandando giù uno shottino.
« Loro due sono Bellamy e Octavia Blake. » proseguì Raven, senza badarle.
Octavia le fece un cenno di saluto con la testa.
« Tu sei quella che lavora con la psicopatica. Auguri. » disse tagliente, prima di girarsi e di ordinare un altro shot.
« Non ti preoccupare… »  Raven sussurrò nell’orecchio di Clarke  « …È esattamente come sembra, piccola e scontrosa. Ma dopo un po’ la “adorerai”… si fa per dire » concluse ridacchiando.
« Bell, tu non dici niente? Ti devo introdurre io? » chiese poi, rivolta al bellimbusto che le guardava in silenzio.
« Clarke prima-del-corso Griffin... Ma non mi dire. Avrei dovuto aspettarmelo di trovarti qui, prima o poi. » disse ingollando un sorso di birra. La sorella si girò a guardarlo stupita.
 
Clarke gli lanciò un’occhiata di sufficienza.
« Blake. »
Quei due ne avevano da raccontare. Ma forse quella serata non sarebbe stato il momento adatto per rivangare vecchie antipatie da corso dell’ultimo anno.
Anche perché la questione era un tantinello più complicata…
 
Raven li guardò con gli occhi sgranati per qualche secondo.
« Ok, a quanto pare le coincidenze capitano. E mi pare che questa sia un po’ scomoda, quindi passiamo avanti. » commentò prima di trascinarla via, salvandola dall’atmosfera strana che si era venuta a creare.
Le presentò alcuni altri agenti al servizio del Capitano che uscivano con loro, ragazzi più o meno tutti della loro età, che Clarke non avrebbe mai potuto immaginare con giubbotti antiproiettile e fucili d’assalto in mano.
Ci furono -fin troppi - nomi in sequenza. Lei era sempre stata un disastro con le presentazioni affrettate, quindi si limitò a sorridere e a stringere la mano a tutti a cui la introduceva Raven.
Ci avrebbe pensato poi. Dopotutto, non era nemmeno sicura di rivederli, in futuro…
 
Una fitta atroce.
« Opporc…»
La ragazza mugugnò qualcosa prima di sbattere ancora una volta la fronte contro le sue mani, strette attorno al volante.
Maledetta Raven. Maledetti giochini alcolici, e maledetta Octavia che l’aveva sfidata tutta la serata.
In realtà quella ragazzina aveva sfidato tutti, e diavolo, se riusciva a reggere. Per essere così piccola e magra, sembrava un miracolo che stesse in piedi dopo il primo giro.
E invece, Clarke scoprì più tardi, quella era difficile da mandare giù persino a cazzotti.
 
La psicologa avrebbe voluto potersi incazzare per come erano andate le cose, anche perché di lì a due minuti si sarebbe dovuta strascicare, cercando di non traballare più di tanto, nella enorme tenuta stra-sorvegliata da mille telecamere per iniziare la sua faticosa giornata a base di braccio di ferro psicologici e faticose scampagnate scandite a passo di cadenza.
Ma non poteva negare di essersi divertita parecchio, genuinamente, come non le accadeva da parecchio tempo.
Forse era merito della compagnia… o forse, semplicemente, era di nuovo pronta per vivere una vita serena, senza fantasmi a sussurrarle nelle orecchie.
 
Scese dalla macchina con un enorme sorriso stampato in faccia, senza preoccuparsi di sbattere la portiera più o meno forte. Aveva parcheggiato nello stesso punto della prima volta, quando era andata a discutere i dettagli del contratto con la dottoressa Primeaid, a pochi passi dall’ingresso.
Perché si, Lexa non sarebbe più fuggita, non l’avrebbe più scansata.
Le sembrava ancora incredibile, ma avevano un accordo.
 
Vide l’agente sul portico della casa, mentre si fasciava le nocche. Era uscita ad aspettarla, non appena aveva varcato il cancello col muso della sua Jeep.
Clarke cercò di mantenere tutto il suo contegno, anche se una volta iniziato a camminare il mondo aveva preso a girare vorticosamente e tenersi dritta era diventata una vera e propria sfida.
Arrivò al primo gradino, sotto lo sguardo vigile di Lexa, che la osservava senza dire una parola. Clarke si fermò, squadrando nervosamente l’altra.
Il sollievo di poco prima era svanito assieme a quel minimo senso di orientamento che aveva prima di scendere dall’auto. Già l’aver guidato fino a lì era stato un vero e proprio miracolo, per il mal di testa allucinante che le martellava le tempie.
Ora come ora, non era nemmeno più sicura che Lexa avrebbe rispettato il loro accordo.
La guardò come si fa con quei cani che non sai se ti stanno per rifilare un morso oppure no.
 
Lexa smise di arrotolare la fascia e scese qualche gradino.
« Ti devi cambiare? »
La voce arrivò alle orecchie di Clarke come un’eco lontana, rimbalzando tra suoni ovattati d’ambiente.
« Come..? »  chiese, stordita.
« Ti devi cambiare, o vieni così? Ti conviene mettere la tuta. » le disse Lexa, continuando a guardarla da capo a piedi, nella stessa solita maniera indecifrabile. I suoi occhi indugiavano attentamente sui vestiti di Clarke, poi tornavano a rivolgersi nei suoi, stringendosi.
Brivido freddo.
“ Ti spiacerebbe evitare di guardarmi a quel modo? ”
« Ah, si. Ce l’ho nel borsone. Ci metto un secondo. »
Clarke strinse forte la ringhiera per combattere un’altra fitta di mal di testa, e, scalando i gradini di legno, entrò in casa. Il primo giorno l’aveva studiata abbondantemente, perciò si diresse immediatamente nella stanza che - la dottoressa le aveva detto – era riservata agli ospiti. In quelle circostanze, le aveva detto Rebecca, l’avrebbe potuta usare lei come più le faceva più comodo.
Svuotò il borsone di alcune sue cose e le mise nell’armadio. La cameretta era carina e ben illuminata, e per la prima volta, sedendosi sul letto, inspirò a pieni polmoni l’odore di quella che poteva definire la sua “prima postazione di lavoro”.
Un po’ atipica, ma decisamente carina.
Aveva quasi perso tutte le speranze di metterci piede, prima della trovata dei tutori.
 
Dannazione.”
Un moto di nausea la costrinse ad alzarsi. La morbidezza del letto non era proprio la soluzione migliore in quelle circostanze. Sospirò di frustrazione per quel dolore che la perseguitava e mise il borsone sulla scrivania.
Sentì Lexa fuori dalla stanza andare ad accomodarsi sul divano. Con la coda dell’occhio, vide che si era stesa leggermente, poggiando la testa sul bracciolo e socchiudendo gli occhi.
“Allora anche lei riposa, ogni tanto” pensò sorridendo.
Clarke si alzò e iniziò a spogliarsi della maglietta, non con poco imbarazzo dato che sapeva che un paio di lenti almeno la stavano inquadrando.
Magari avrebbe potuto chiedere a Rebecca se avevano piazzato delle camere anche in bagno, ma in linea di massima si doveva abituare.
Era parte della ricerca e lei doveva comportarsi nella maniera più professionale possibile, senza contare che Lexa lo faceva ogni giorno...
 
Mentre si infilava la maglia termica, buttò di nuovo l’occhio fuori, verso la figura della ragazza che oramai sembrava essersi assopita.
Così inerme, sembrava quasi una bambina. Il solito broncio era sparito e le sopracciglia disegnavano un arco morbido che incorniciava due occhi grandi, dalle lunghe ciglia.
Sembravano fremere, sotto le palpebre chiuse.
La pelle rosea, le guance leggermente colorite, e la bocca rossa leggermente dischiusa che inspirava ed espirava lievemente.
Si, sembrava una bambina.
Con una stanza dei giochi piena di Kalashnikov, ma pur sempre una bimba.
 
Era strano come Lexa potesse cambiare da un secondo all’altro. Clarke aveva finito di vestirsi e si era appoggiata allo stipite della porta -altrimenti non avrebbe sperato di rimanere dritta-, pensando a quella volta sulle scale, quando aveva visto i suoi occhi verdi brillare minacciosi.
Era un’immagine che la tormentava spesso. Quando le avevano chiesto di lei, era stata la prima cosa che aveva chiamato alla mente. Le dita che tamburellavano lente, quel sopracciglio nervoso, il silenzio pesante.
Era stata guerra fredda da principio.
 
Ora quella stessa guerriera la stava aspettando sonnecchiando pigramente in salotto.
« Lexa. » 
La ragazza aprì gli occhi istantaneamente, senza perdere nemmeno un secondo a guardarsi intorno spaesata e si mise subito in piedi.
La ragazza le rivolse un’altra occhiata indagatrice, mentre prendeva l’iPod dal comodino, arrotolandoci intorno gli auricolari.
« Tutto bene? »
La domanda arrivò inaspettata, di colpo. Clarke boccheggiò un secondo, spiazzata, rivolgendo un’occhiata nervosa alla testa di cervo che torreggiava sopra di loro.
Dopo un secondo di incertezza, cacciò fuori un sorriso tirato
« Ho un po’ di mal di testa in effetti. »
« Mal di testa. » ripeté. « Vuoi un’aspirina? »  disse piano dirigendosi in bagno.
Clarke annuì. Nella fretta del mattino, quando si era svegliata in ritardo in un ammasso confuso di vestiti e lenzuola sfatte non si era minimamente fermata a pensare di prendere una medicina, aveva solo indossato i primi panni puliti che le era capitato di afferrare e aveva infilato il resto nel borsone che aveva parzialmente preparato la sera prima.
(Grazie al cielo).
Lexa tornò con un bicchiere in una mano e una pillola nell’altra. La psicologa le rivolse un sorriso grato, e ingoiò la medicina con un unico sorso.
L’acqua fresca le procurò un altro brivido e ulteriore stordimento. Poggiò la mano sul muro.
« Ti ringrazio. È carino da parte tua »
L’agente non disse niente, limitandosi a squadrarla di nuovo e a portare il bicchiere in cucina.
“Non sorride quasi mai.” pensò la bionda un po’ a disagio. Se lo sarebbe dovuto ricordare, quando avrebbe dovuto dedurre le variazioni psicologiche indotte da quel famoso “dispositivo” che stavano testando su Lexa.
Clarke si congelò sul posto. Se ne era quasi scordata, a furia di giocare a guardia e ladri con l’altra.
Il peso di quella responsabilità sembrò schiacciarla di botto.
Anomalie psicologiche
Le avrebbe dovute scovare. Era quello il suo lavoro.
 
« Clarke. » 
Il suo nome le suonò strano. Non ci aveva fatto caso l’ultima volta, ma dalla bocca dell’altra assumeva una strana consistenza esotica, quasi selvatica.
Lexa la stava aspettando davanti la porta aperta.
« Si, andiamo »
 
****
 
La successiva mezz’ora andò meno disastrosamente del previsto. I tutori - “quanto cacchio è brava Raven”- ammortizzavano ogni urto violento, di conseguenza non sobbalzava troppo violentemente. La nausea non era scomparsa – nonostante l’aspirina – ma almeno era gestibile, e lei non si sentiva più di dover vomitare tutta l’anima dietro il primo cespuglio.
Certo, aveva qualche problema a evitare gli alberi, ma non era sicura che senza postumi della sbornia le sarebbe andata meglio.
Era certa che quella fosse una maledizione legata alle gambe artificiali.
 
Avevano corso senza troppi intoppi per un bel po’ di tempo, fino a quando Lexa non aveva chiesto una pausa. Era stato strano, così come la sua decisione di non arrampicarsi sulla solita collinetta. No, stavolta aveva optato per un tranquillo giro per il vialone alberato del quartiere.
Lo avesse fatto le prime volte, la trovata della bicicletta avrebbe funzionato.
Erano arrivate all’area bimbi, con giostre e piscinetta di sabbia, e Clarke ne aveva approfittato per sedersi sull’altalena, il suo gioco preferito da bambina.
Le piaceva quando suo padre la faceva volare e tutto quello che riusciva a vedere era solo il cielo azzurro e le nuvole.
« Hey. Che ti prende, non mi dire che sei già stanca » le disse ridacchiando.
« Io no, tu invece stai bene? »
Lexa si era appoggiata leggermente sudata alle scalette di un castello di compensato color arcobaleno, e la guardava con un sopracciglio leggermente alzato.
Clarke dondolò leggermente tenendo i piedi ben piantati a terra, prima di decidere che magari con quel residuo pulsante di mal di testa era preferibile stare immobili.
« Si, l’aspirina ha funzionato. Grazie » le disse sorridendo « …Le emicranie sono terribili.
Stamattina non avevo proprio pensato a prendere qualcosa, mi sa che l’avevo sottovalutata»
Lexa la guardò un po’ indecisa, prima di afferrare la scaletta e arrampicarsi sul castelletto.
« Ieri hai bevuto. »
Non era una domanda.
Colse Clarke totalmente impreparata.
« Io… » si guardò nervosamente i piedi, riprendendo a dondolare. Avrebbe dovuto aspettarselo. Sapeva perfettamente che l’agente non era facile da prendere in giro.
« Non lo dico a Rebecca. Non credo che siano fatti suoi. » si affrettò a dire la mora, guadagnandosi un’occhiata stupita.
Clarke appoggiò la testa ad una corda, sospirando sollevata. Le faceva strano vedere l’agente così… gentile. Lo era stata anche sabato, quando aveva controllato che non si fosse fatta male. Aveva sentito la sua presa delicata, i suoi occhi farsi attenti, aveva visto le labbra contrarsi e le sopracciglia aggrottarsi.
Era stata gentile, si, ma forse la sua premura era stata solo professionale. Dopotutto, aveva appena rischiato di finire ammazzata per colpa sua.
Invece quel giorno, la situazione sembrava decisamente diversa.
 
Lei sapeva, forse lo aveva intuito da subito e non aveva detto niente davanti alle telecamere. Le aveva portato la pillola e… oh… aveva scelto di correre in pianura.
Ecco perché.
« È solo che non vorrei fare una brutta figura »  disse, alzando finalmente lo sguardo per piantarlo in quello dell’altra. « Non è un crimine passare una serata in allegria. Sicuramente non è professionale presentarsi al lavoro conciati così… Ma c’erano Raven e gli altri. Ho pensato che siccome dovevamo riprendere tutti oggi… » sorrise tra sé e sé « Evidentemente sono fuori allenamento. Gli altri mi sembravano tutti abbastanza lucidi, in effetti. » 
L’agente rimase in silenzio. Si alzò e iniziò a scalare il castello, fino ad arrivare alle travi di sostegno che oramai erano solo in puro ferro.
Non riesci proprio a stare ferma, eh?
« Comunque ora sto molto meglio. Assurdo quanto un po’ di aria fredda in faccia possa aiutare. » concluse Clarke, seguendola con lo sguardo.
La ragazza si mise in bilico su una trave, tenendosi in equilibrio mentre procedeva passo dopo passo verso la fine della sbarra. Clarke pensò che in una situazione normale, con un’altra persona, sarebbe stata in ansia, ma in quel momento tutto ciò che riusciva a fare era di osservare incantata l’altra che dal canto suo non sembrava esitare nemmeno un poco. Teneva gli occhi fissi davanti a sé, un’espressione concentrata e le labbra serrate, avanzando con leggerezza, senza traballare, come se stesse camminando sulla terraferma.
“Sembra una pantera.”  
Arrivata al bordo, si concesse di studiare l’ambiente circostante. Incontrò lo sguardo ipnotizzato della bionda e lo tenne per alcuni secondi.
« Tu lo hai capito subito, vero? Non appena sono scesa dalla macchina. »   le chiese Clarke.
Con un balzo, la ragazza atterrò sulla trave dell’altalena, piegando le ginocchia, e si lasciò cadere indietro solo per afferrare la sbarra con le mani. Con un colpo di reni, sfruttando l’inerzia riportò le gambe su, infilandole nello spazio fra le sue braccia e agganciandole alla trave.
Infine lasciò la presa con le mani e si trovò a ondeggiare a testa in giù.
 
Clarke trasalì. Aveva trattenuto il fiato per il movimento improvviso, ma scoprì con sorpresa che non aveva avuto paura.
« Camminavi in maniera diversa. E il tuo odore parla chiaro, non ci voleva molto. » disse l’agente.
Oramai i loro visi erano allo stesso livello. Clarke notò che i capelli di Lexa erano lunghissimi, scendevano in morbide onde fino a superare l’altro sediolino.
Il mio odore.
Eppure la sera prima, quando Raven l’aveva riaccompagnata a casa, prima di andarsene aveva provveduto a buttarla sotto la doccia, mettere i vestiti a lavare e infilarla a forza dentro un pigiama fresco di bucato e profumato di violette. E al mattino prima di scendere aveva quasi per sbaglio ingoiato l’intero tubetto di dentifricio, nella fretta di uscire di casa.
Come aveva fatto a…?
« Posso farti una domanda? » le aveva chiesto improvvisamente la ragazza a testa in giù.
La bionda si riscosse dai suoi pensieri, annuendo. Cercò di guardare la ragazza in faccia, ma le faceva strano e si ritrovò involontariamente a girare la testa, coricandola quasi in orizzontale.
« Prima però potresti metterti dritta? Farai venire il sangue alla testa anche a me. »
La ragazza si sganciò agilmente dalla trave di ferro e con grazia scivolò sull’altro sediolino.
Tuttavia non si sedette come Clarke. Incrociò le gambe e si tenne in bilico, aggrappandosi alle corde.
« Com’è? » chiese dopo qualche secondo di silenzio.
Clarke la scrutò per capire cosa intendesse
« Com’è cosa? »
« Bere. Com’è? » ripeté.
 
La bionda rimase senza parole per qualche attimo.
« Non hai mai bevuto? » le chiese, stranita.
Era come se le avesse detto che non aveva mai mangiato una caramella. Oppure giocato con un pupazzo.
« Non mi sono mai ubriacata. » specificò Lexa, facendo scorrere una mano sulla corda.
Clarke ridacchiò incredula. Mai nella vita avrebbe immaginato di saperne più di qualcun altro in materia di alcool.
« Hai avuto genitori molto severi? » chiese riprendendo a dondolarsi. La testa non le faceva più così male, e il dolore si era pian piano trasformato solo in fastidio.
La ragazza non rispose, distogliendo lo sguardo.
Clarke pensò di aver toccato un tasto dolente… oppure semplicemente la domanda era troppo personale. Doveva ricordarsi che fino a qualche giorno prima Lexa non voleva nemmeno rivolgerle la parola… avrebbe dovuto stare più attenta per non mandare a monte tutto quello che aveva ottenuto.
« Beh, per risponderti, ogni volta che bevo troppo penso sempre la stessa cosa: “Mai più, giuro”. Però poi è inevitabile, ecco. Stai in compagnia e loro bevono, tu bevi. È tutto bello, allegro e leggero e scopri di poter essere più simpatica del solito, e anche gli altri sembrano più divertenti. Poi, basta un sorso di troppo per stare male… ed ecco quello che succede. » disse di filato.
Vide che l’altra stringeva le labbra, mentre evidentemente decideva se la risposta la soddisfaceva oppure no.
« È davvero così speciale la sensazione, quella “bella”? Voglio dire… tanta gente beve per stare su di giri, e poi succedono i disastri. Ne vale davvero così tanto la pena? » chiese infine.
Clarke si trovò un po’ a disagio. Anche lei quella mattina si era messa al volante, ma chiaramente il post sbornia era qualcosa di diverso rispetto a guidare completamente ubriachi. Alle 7:30 del mattino, poi, le strade erano di solito quasi del tutto deserte.
« Molte persone sono infelici o annoiate. Quello che cercano è di non pensare, così, beh… stappare una bottiglia è molto più semplice che impegnarsi a cercare la felicità in altri modi.»
« Quindi quando si è ubriachi si è felici. E si smette di pensare. » concluse Lexa.
Si. Sembrava decisamente una bambina.
« Si. »  ammise Clarke dopo diversi secondi di indecisione. Il suo ego morale le stava facendo una bella ramanzina, rinfacciandole di aver appena dipinto d’oro una gigantesca cacca fumante. Ma qualcosa nelle domande infantili di Lexa la spingeva ad essere sorprendentemente franca.
Non le voleva mentire.
« Ma così come è semplice raggiungere l’euforia, è altrettanto facile cadere nel baratro, come se fosse una specie di scotto da pagare. E non è per niente piacevole vomitare dalla cena al pranzo del giorno prima tutto in una botta. Ci sono limiti che il corpo umano non dovrebbe varcare » aggiunse quindi con un sorriso sarcastico.
Lexa sorrise. Per la prima volta.
« Lo so. A proposito, grazie per aver tentato di assassinarmi martedì. » disse con una smorfia.
Clarke rimase interdetta. Non sapeva se essere soddisfatta di aver strappato un sorriso all’agente o sentirsi shockata per essere stata appena accusata di tentato omicidio.
« Come?! » esclamò con voce strozzata.
« Quella roba che mi hai lasciato nel piatto. Non lo hai fatto apposta? » disse con un mezzo sorriso, inarcando un sopracciglio.   
« Cosa? No! »
Lexa era sinceramente divertita.
« Quindi non lo sapevi che sono allergica al burro di noccioline. »
Clarke si pietrificò. Aveva bene impressa l’immagine di lei che spalmava in abbondanza quella roba su delle carotine fatte al forno.
« Oddio… scusami. » balbettò alzandosi. « poteva essere anche grave. Voglio dire. Come..? Cosa è…? Oddio… » 
« Non ti preoccupare. Sono ancora viva, vedi? »
« Mi dispiace davvero. »
Lexa la osservò per un secondo. Poi si alzò a sua volta, parandosi davanti a lei.
« Sembri sincera. » disse guardandola intensamente negli occhi.
Tra di loro scese un silenzio strano.
Clarke doveva ancora decidere a che gioco Lexa stesse giocando. Tutto quello che sapeva, al momento, è che l’altra le metteva addosso una strana agitazione.
Lo aveva sempre fatto.
Era sempre stata così… esplicita.
E lei non sapeva fino a che punto le piacesse oppure no.
 
Lexa le sembrava una contraddizione vivente. Come poteva una persona guardarla così intensamente, lasciar trapelare disprezzo, diffidenza, fastidio, gratitudine… e rimanere allo stesso tempo così indecifrabile.
Clarke si guardò le scarpe.
« Forse sarebbe meglio andare. »
L’agente annuì.
« Si. »
 
 
 
 
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[Angolo dell’Autrice]: vi propongo una cosa. Quello che pensavo con la buona mj27 è che sarebbe interessante sentire le vostre teorie sui capitoli misteriosi.
Mettiamola così: le vostre pippe mentali potrebbero aiutarmi a rendere le cose ancora più interessanti, intricando la trama
Che ne pensate?
 

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