La figlia di Sherlock

di Monkey_D_Alyce
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. La figlia senza nome ***
Capitolo 2: *** 2. Consapevolezze ***
Capitolo 3: *** 3. Callie alla riscossa! ***
Capitolo 4: *** 4. La bambina, il cavaliere e il soldato ***
Capitolo 5: *** 5. Quella volta che Sherlock fu addomesticato ***
Capitolo 6: *** 6. Di mondi fantastici e promesse sussurrate ***



Capitolo 1
*** 1. La figlia senza nome ***


La figlia di Sherlock
 

 

1. La figlia senza nome

 
 
Sembrava preannunciarsi una mattinata tranquilla al 221B: John degustava il suo tea seduto comodamente sulla sua poltrona, leggendo il quotidiano con pacata concentrazione, mentre Sherlock… Beh, Sherlock era steso a pancia in su sul divano, fissando annoiato il soffitto incolore, sbuffando sonoramente di tanto in tanto.
 
Che noia! Nemmeno un caso interessante da seguire!” pensò contrito, stringendo lievemente i pugni con fare stizzito, finché un’idea non gli balzò alla mente, facendolo sorridere mellifluo.
 
“John, mi dai la tua pistola?” chiese tranquillo, spezzando il silenzio calmo e quasi surreale che si era venuto a creare.
John interruppe la sua lettura e sollevò lo sguardo verso il suo inquilino, contraendo la mandibola, tentando di stare calmo.
“No” rispose seccamente, facendo sbuffare, per l’ennesima volta, Sherlock, infastidito.
“Mi sto annoiando!” sbottò poi, sbattendo rumorosamente i piedi sul divano.
“Suona il violino” gli propose John per nulla toccato da quel comportamento da bambino viziato, continuando a leggere come se nulla fosse.
“Non ne ho voglia. La mia mente ha bisogno di lavorare!” gli spiegò concitato, facendo sospirare il medico dalla frustrazione.
Lui voleva solamente leggere il giornale e finire il suo tea, ormai ghiacciato.
“Se la tua mente ha bisogno di lavorare, Sherlock, mi spieghi cosa faresti con la mia pistola?” gli chiese scettico, facendo indignare l’altro.
“Come sei permaloso! L’avrei solamente smontata, rimontata con una benda agli occhi e a testa in giù e poi avrei fatto qualche altro buco nel muro!” rispose acido, come se fosse la cosa più naturale del mondo, sorprendendo l’altro.
Dopo tanto tempo passato assieme, non si era ancora abituato a quell’atteggiamento sfrontato e genuino allo stesso tempo: tutte le volte era una sorpresa, scioccante o strabiliante che fosse.
“Hai un bel coraggio a darmi del permaloso” gli fece notare, chiudendo il quotidiano, per poi metterlo sul tavolino difronte a sé, arrendendosi all’idea che non sarebbe riuscito a finire di leggerlo (come quasi tutte le volte).
 
“Sherlock! John!” li chiamò trafelata Mrs. Hudson, affrettandosi a salire le scale per raggiungerli, seguita a ruota da una ragazza con in braccio un fagotto avvolto da una coperta pesante.
 
“Mi dica, Mrs. Hudson, mi ha portato un nuovo caso?” domandò speranzoso il riccioluto, mettendosi seduto sul divano.
“Sherlock, mio caro, credo che questo sarà un caso molto difficile!” gli rispose preoccupata la donna, accendendo una nuova luce di sentimenti contrastanti nel giovane, mentre John si sentì come avvolto da un velo di paura.
Quella paura leggera ma infida, che ti fa salire l’ansia e che non ti lascia respirare un solo minuto.
 
Un piagnisteo di neonato richiamò la loro attenzione, facendo appoggiare gli sguardi dei presenti sulla figura alta e longilinea che aveva fatto capolino nel salotto.
La ragazza cullò l’infante con cura, facendolo smettere quasi subito, mentre il suo sguardo passò in rassegna tutte le persone all’interno della stanza, fino ad incontrare lo sguardo deluso, scettico ed annoiato di Sherlock.
 
Che caso mai difficile può essere?!? Questa ragazza non è qui per esporci un suo problema da risolvere… sembra arrabbiata… con me, in particolar modo. Che male le avrò mai fatto, poi?” si chiese il consulente investigativo, continuando ad osservarla con particolare minuzia, in cerca d’informazioni.
 
“Ciao, Sherlock! Spero vivamente che ti ricordi della sottoscritta!” lo salutò acida, stringendo di più contro il suo petto il batuffolo che teneva tra le braccia.
Sherlock si alzò e si diresse verso la ragazza con la vestaglia che gli ricadeva in modo elegantemente scomposto sul suo corpo, coprendo, con le sue ampie maniche, le sue mani pallide e affusolate.
“A dire il vero, no. Chi sei e perché sei qui?” gli domandò a bruciapelo, facendo infuriare ancor di più la ragazza.
“Sei veramente uno stronzo, Sherlock! Ti rinfresco la memoria: notte del 16 gennaio 2013, Irish Pub. Tu eri ubriaco e…” cominciò a dire, ma il ragazzo la interruppe.
“Basta così. Ho capito chi sei: Maia Watterson. Mi dispiace deluderti, ma l’essere che porti fra le braccia non è mio. Sarò stato anche ubriaco, ma ho preso tutte le precauzioni e il profilattico non era bucato” spiegò brevemente con fare scocciato, facendo sbuffare la ragazza.
 
Era una cosa surreale per John: gli sembrava di vivere in un sogno, o meglio, in un incubo.
Com’era possibile che Sherlock si fosse ubriacato in un pub come tante altre persone? Lui non era affatto quel prototipo di persona e, tantomeno, un tipo che facesse sesso con… la prima che gli capitava.
Quella ragazza, oltretutto, non era nulla di particolare: rasentava la tipica femmina a cui tutto era dovuto, ovvero, viziata ed isterica al tempo stesso, con scarsa capacità di pensiero proprio e amante delle mode del momento.
Lo dimostravano la sua acconciatura bionda tinta, elaborata in un’intrecciatura piuttosto complessa che partiva dall’attaccatura dei capelli e i suoi abiti sportivi firmati.
Il tutto, contornato da un trucco piuttosto pesante che risaltava in maniera a dir poco esuberante i suoi occhi marroni.
Era, dunque, alquanto impossibile che Sherlock fosse andato a letto con una così: non l’avrebbe minimamente calcolata.
Ed era pure impossibile, di conseguenza, che avesse un figlio o una figlia.
 
Il biondo cercò di calmare il suo cuore martellante nel petto, autoconvincendosi che tutto quello era uno scherzo di pessimo gusto che aveva architettato qualcuno per farli spaventare.
 
“Sapevo che avresti detto queste parole, Sherlock. Non a caso ti ho portato l’esito del test di paternità e, mi spiace per te, ma questa è tua figlia” controbatté porgendo una cartelletta sottile azzurrognola al riccioluto, che lui non esitò a prendere e a leggere con fare apparentemente tranquillo, anche se dentro di lui era in corso una tempesta di emozioni, non riuscendo ad assimilare quella situazione.
John, dal canto suo, ebbe un tuffo al cuore non appena vide quel pezzo di carta traboccante d’informazioni passare dalla mano di una perfetta sconosciuta al suo amico, come una bomba ad orologeria.
Mrs. Hudson, invece, non sapeva proprio cosa fare o cosa dire, stringendosi solamente le mani al petto, dimostrando in maniera piuttosto esaustiva la sua agitazione.
 
“Perché non hai abortito, se ora la porti qui? Che cosa vuoi? Soldi?
Ti sentivi in colpa per lei e così hai pensato bene di rifilarla a me, portando con te questo pezzo di carta che potrebbe essere benissimo falso?” le chiese Sherlock regalando un’occhiata truce alla ragazza, facendola boccheggiare un poco.
“No, non voglio i tuoi soldi. Voglio solamente che ti assuma le tue responsabilità e non ho abortito perché è pur sempre una vita. Dato che ti piace tanto fare il detective a tempo perso, non sarà di certo un problema badare ad una bambina di nemmeno un anno!” sbottò passandogli di malagrazia  la neonata, allibendo il presunto padre non poco, per poi dirigersi verso l’uscita del 221B come se nulla fosse.
Come se quella bambina non fosse mai stata sua e fosse solamente un pacco da consegnare.
“Non sono un detective, ma un consulente investigativo! Ed è il mio lavoro! Perché cavolo non l’hai portata in un orfanotrofio?!?” gli urlò contro piccato, stringendo inconsapevolmente la bambina un po’troppo forte, facendola piangere.
“Perché non ce la porti tu?” si sentì chiedere in risposta, per poi uscire sbattendo la porta dell’abitazione.
 
Restarono tutti in silenzio, mentre la piccola non voleva saperne di calmarsi ma, d'altronde, Sherlock non fece neppure niente per farla smettere.
Si limitò solamente a guardarla con minuziosa attenzione, registrando nella sua mente tutti i particolari di quel visetto paffuto contratto in una smorfia di dolore: i suoi capelli, ancora corti, erano lievemente mossi e castani, mentre dalla sua boccuccia rosea uscivano urla di pianto con un tono di voce incredibilmente alto, infastidendo non poco Sherlock.
 
La bambina, sentendosi vagamente osservata, smise di piangere all’istante e aprì i suoi grandi occhi verdi come smeraldi, contornati qua e là da qualche sfumatura dorata, osservando a sua volta il riccioluto con magica intensità grazie alle lacrime versate pochi istanti prima.
Tirò su con il piccolo naso arrossato dal pianto, per poi girarsi attorno tra le braccia del ragazzo, rischiando quasi di cadere, ma poco le importava.
Osservò curiosa, prima Mrs. Hudson, che le regalò uno sguardo dolcissimo e pieno d’affetto, facendola sorridere un poco e poi John, che la guardò con occhi pieni di sorpresa e paura(?).
 
“Cosa pensi di fare, Sherlock?” gli chiese il medico con voce sommessa, non distogliendo lo sguardo dalla creatura, la quale spintonava il petto del padre per scendere, facendo versi sconnessi e concitati.
“Io non sono capace di badare ad una bambina e tantomeno di fare il padre. Non riuscirei mai a relazionarmi con lei! Pensa quando sarà una mocciosa in piena crisi ormonale e io le dovrò spiegare cos’è il ciclo!”- disse frustrato, appoggiando la bambina sul divano con fare stizzito, per poi girarsi verso gli altri due- “Non posso farlo”.
 
John s’immaginò la scena tra quei due: lei stesa sul letto a piangere e lui a cercare di spiegarle le cose da donne in modo professionale e distaccato.
Una scena esilarante e tenera al tempo stesso.
Sorrise impercettibilmente,  un po’amareggiato.
Non poteva davvero immaginare come sarebbero andate a finire le cose e, tantomeno, se si sarebbe incrinato qualcosa nel rapporto tra lui e il suo amico, potendo sprofondare in un litigio piuttosto violento.
Non sapeva come reagire o cosa pensare e, di certo, non poteva relegare alcuna colpa a quella piccola creatura di essere nata, tantomeno di essere la figlia del più grande consulente investigativo che fosse mai esistito a Londra, o in tutta l’Inghilterra, se non nel mondo intero.
 
“Mio carissimo Sherlock Holmes, non per non farmi gli affari miei, ma non puoi comportarti così! Non puoi commettere lo stesso errore che ha fatto sua madre, se così la si può chiamare! Da grande vorrà sapere chi sono i suoi veri genitori e, in ogni caso, vi verrà a cercare e fidati se ti dico che noi donne sappiamo essere veramente testarde!” lo rimproverò Mrs. Hudson, appoggiandosi le mani sui fianchi con fare imperioso, lasciando senza parole Sherlock.
“Ha ragione, Sherlock… e considera che, con ogni probabilità, lei è veramente tua figlia…” aggiunse John con tono un poco sconsolato, sconcertando del tutto il consulente investigativo.
Non aveva mai visto John comportarsi a quel modo.
“John, non è detto che lei sia veramente mia-” tentò di avvicinarsi al suo coinquilino, ma una manina ferma lo trattenne, facendolo voltare di scatto.
 
Quei due smeraldi lo fissavano in modo ingenuo e benevolo, a loro modo, quasi lo stessero supplicando di non abbandonarla.
Non un’altra volta.
Sherlock ebbe l’impressione che quel mostriciattolo col moccio al naso avesse capito l’intera situazione e il suo cuore perse un battito.
Sherlock Holmes, il consulente investigativo dal cuore di pietra, che veniva messo con le spalle al muro solamente con la forza di uno sguardo della sua figlia sconosciuta fino a quel momento e dall’animo tristo del suo compagno d’avventure.
L’indomani sarebbe nevicato.
 
“Io… Fanculo!” ruggì lui esasperato, coprendosi il viso con entrambe le mani per pochi istanti, facendo sorridere gli altri due.
 
Da quel momento in poi, ci sarebbe stata una coinquilina in più nel 221B.
Il riccioluto si abbassò al livello della bambina e la guardò con fare minaccioso, puntandole il dito indice della mano destra contro: “Vedi non frignare in continuazione, soprattutto quando sto pensando, poiché ho bisogno di assoluto silenzio. Non dovrai nemmeno respirare, se necessario. Ci siamo capiti?”.
La bambina lanciò un gridolino allegro e rise battendo le piccole manine delicate, trovando il ragazzo molto divertente.
“John”- riprese Sherlock con fare scocciato- “la bestia qui presente non ha capito che non sto scherzando!”.
“Sherlock, non è una bestia. È solo una bambina innocua… a proposito… qual è il suo nome?” chiese Watson, alzandosi dalla poltrona e avvicinandosi a quel quadretto familiare così surreale .
Chissà se il riccioluto non fosse diventato più… sensibile nei confronti delle  persone…
“Quella donna non lo ha detto” constatò Sherlock con disprezzo, rialzandosi, mentre la figlia cercava di imitarlo, anche se continuava a cadere carponi sul divano, ma non si arrese.
“Di sicuro non potete chiamarla bestia!” disse in tono perentorio Mrs. Hudson, avvicinandosi a sua volta, desiderosa di dare un contributo per dare il nome alla bambina.
“Che ne dite di Elizabeth?” chiese John, ricevendo solamente un “no” secco da parte di Sherlock.
“Abigaille?” tentò Mrs. Hudson, ma un nuovo “no” si rifece vivo nel salotto.
“Sarah?”.
“No”.
“Isotta?”.
“Se lo scordi, Mrs. Hudson! La qui presente non sarà protagonista di alcun nome presente in storie d’amore finite male! Sono irritanti e troppo complicati da ricordare”.
“Ma se non ti ricordi nemmeno il nome di Lestrade!” osservò sbigottito John, ricevendo in cambio un’occhiata eloquente che lo zittì all’istante, anche se riuscì a masticare qualche rimbrotto.
I due continuarono a formulare nomi, venendo tutti bocciati, mentre la bambina sbadigliò un poco annoiata, guardando gli altri tre in modo perplesso.
Non capiva perché parlassero così a caso e, sinceramente, non le importava un granché.
“Che ne dite di Lilith?” domandò dopo un po’Sherlock, mentre i due interruppero il loro elenco per guardarlo male.
“Scordatelo!” gli dissero  in coro i due, facendolo desistere.
 
Litigare per uno stupido nome è veramente assurdo!” pensò il riccioluto, sbuffando, guardando la bambina che quasi stava cedendo alle rassicuranti braccia di Morfeo.
Beata lei.
 
“Callie Jessica Holmes” disse infine Sherlock, ponendo fine a quello strano diverbio che si era venuto a creare, riacquistando persino l’attenzione di sua figlia.
 
“Sì, per me può andare!” esclamò John contento, carezzando dolcemente la testolina della bambina, facendola “squittire” di gioia.
“Sì, anche per me. Bravissimo, Sherlock caro!” si complimentò Mrs. Hudson, andando al piano di sotto per andare a preparare il tea, consapevole del fatto che quella casa sarebbe stato palcoscenico del lento cambiamento del carattere di Sherlock e del suo rapporto con John grazie a quella piccola creatura di nome Callie Jessica Holmes.
 






Angolo di Alyce: Buonasera, gente! ^.^
Preannuncio che questa storia tratterà momenti di vita della piccola Callie assieme a suo padre e a John.
Quindi, se leggete di una neonata che dopo due capitoli (esempio) è già una bambina di due o tre anni, non proccupatevi: non è affetta da una qualche malattia misteriosa XD
Durante l'avvenire dei fatti, si avrà un cambiamento di Sherlock: sia caratterialmente che con il rapporto tra lui e John e, di conseguenza, ho messo l'avvertenza OOC.
Spero che in questo primo capitolo sia riuscita a mantere un poco il suo comportamento distaccato, nonostante dentro di sè avesse una tempesta di emozioni (sia per la figlia che per John stesso).
Ora, la domanda è: riuscirà, Sherlock, ad essere un buon padre per la piccola? Gli toccherà veramente spiegargli le mestruazioni?.
Sì, perché... perché ho deciso così u.u
Spero che questo primo capitolo vi abbia strappato un sorriso!
Alla prossima!
Alyce :)

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Capitolo 2
*** 2. Consapevolezze ***


2. Consapevolezze

 
 
 
Dopo quasi un mese erano riusciti a catturare l’assassino di poliziotti che aveva terrorizzato Londra, mettendo Scotland Yard nella più completa confusione.
Sette agenti morti e uno ferito gravemente “attraverso” la stessa procedura a distanza di tempo differente, ma alla medesima ora, preciso come un orologio svizzero.
L’uomo, di non più di trent’anni, attendeva il giro di ronda serale degli agenti, per poi sparagli un colpo di pistola alla testa, con il movente di volersi vendicare del fratello ucciso da loro a causa della sua resistenza all’arresto per traffico di droga e prostitute.
 
Un vero idiota. Noioso.
 
Questo era il pensiero di Sherlock alla conclusione del caso ma, doveva ammettere, che la stupidità di quell’uomo era riuscito ad intrigarlo.
Non per il fatto di non aver capito la sua identità in poco tempo; per quello ci era voluto meno di una settimana, ma per il fatto di non riuscire ad incastrarlo e a mandarlo in galera.
Nonostante alcune prove schiaccianti sulla sua colpevolezza, l’assassino di poliziotti riusciva a trovare uno svincolo per restare in libertà e sfuggire dalle grinfie del giudice.
Il tutto sotto tantissimi articoli di giornale derisori dell’inefficienza di Scotland Yard e della debolezza dei suoi uomini che venivano uccisi senza riuscire a difendersi.
D’altronde, però, Scotland Yard aveva il miglior consulente investigativo che l’intera Inghilterra potesse offrirgli e, con tanta pazienza e divertimento da parte del riccioluto, si era messo fine a quel gioco così meschino e pieno di sangue.
 
Alla fine, forse, non era stato così noioso… anche se John poteva benissimo evitare di pestare a sangue l’assassino, tumefacendogli il volto a suon di pugni solamente perché si era preso gioco di loro e perché tra gli agenti uccisi c’era anche una ragazza.
 
Troppo emotivo, ma interessante”.
 
A quel suo commento mentale sorrise un poco, attirando l’attenzione del suo amico.
 
“Perché sorridi?” gli chiese l’ex-soldato con cipiglio perplesso, aggrottando le sopracciglia in maniera deliziosa.
Sherlock fece spallucce e s’infilò le mani guantate nelle tasche del suo cappotto, continuando a camminare assieme all’altro per la via antistante al 221B, sentendo il freddo pungente, ma piacevole, di una notte tipica di aprile penetrargli attraverso i vestiti, facendogli salire un brivido impercettibile, che John nemmeno notò.
 
“Niente, tranquillo. Pensavo a Callie” disse pacato, facendo ghignare John.
“No, non è vero. Non sei ancora emotivamente coinvolto da lei. Certe volte la guardi come se fosse un alieno!” lo smentì subito, facendo scuotere la testa al riccioluto.
“Lo sai come sono. I sentimenti sono inutili e, se io mi abbandonassi ad essi, non riuscirei mai più a svolgere il mio lavoro con lucidità. Io potrò provare rispetto per la bambina, ma mai amore paterno. Non posso farlo” spiegò con freddezza esasperante, sorprendendo l’altro.
 
Sapeva che Sherlock era fatto così e, certe volte, sembrava non gl’importasse nemmeno di lui, dopo tante avventure passate insieme e gli faceva male.
Dannatamente male.
Era come se mille aghi gli trafiggessero il cuore e, anche se sottili, erano come violente coltellate che laceravano il suo animo già ricucito dagli orrori della guerra grazie alla sua forza di volontà e all’aiuto che Sherlock, a suo modo, gli aveva dato… ma allo stesso tempo, il riccioluto lo sfilacciava, come Penelope con la sua tela, attendendo il ritorno del suo amato marito, Odisseo.
Certe volte lo considerava un dolore troppo insopportabile, come un grosso macigno che non riusciva a spostare.
E, nonostante tutto, lo perdonava e lo avrebbe sempre perdonato: forse ci avrebbe messo anni, ma lo avrebbe fatto.
Glielo concedeva, ma non nei confronti di Callie.
Ammetteva a se stesso di aver avuto paura di lei, all’inizio, ma poi le si era affezionato, considerandola quasi sua figlia.
Sherlock, invece, non era minimamente cambiato e cercava di ridurre al minimo indispensabile i contatti con lei, facendola intristire.
Era una bambina intelligente e John aveva notato che quando giocava con lui o Mrs. Hudson, sorrideva e rideva, ma un’ombra negli occhi non la rasserenava, sentendo la mancanza di una figura paterna e materna…
 
“Non puoi o non vuoi?” gli chiese John a bruciapelo, sorprendendo per un attimo l’altro ragazzo.
“John, non…”.
“No, Sherlock, ora mi ascolti. Quella bambina che abita sotto il nostro stesso tetto, è tua figlia. Lei non è stupida e ha capito benissimo che cerchi di vederla il meno possibile, anche se non capisce perché ma, nonostante questo, lei ti guarda con occhi trasognati, come se fossi il suo supereroe. E non si arrende e cerca di richiamare la tua attenzione e di vedere un tuo sorriso o di sentire un tuo commento sui propri progressi!
Ma questo non lo capisci o non lo vuoi capire!
Sherlock Holmes, il più brillante consulente investigativo che non riesce a dedurre i messaggi che gli lancia una bambina, sua figlia, per di più, quando, invece, è un libro aperto.
Io posso accettare questo tuo atteggiamento freddo, apatico, asociale (chiamalo come vuoi) nei confronti degli altri e nei miei, ma non nei suoi.
No, non te lo permetto!”-  sbottò tutto d’un fiato il medico, alzando persino il tono di voce, per poi girarsi e fare per andarsene, ma si fermò e tornò indietro, difronte a lui, fronteggiandolo senza timore nonostante la differenza d’altezza e gli occhi glaciali e inespressivi del riccioluto, sentendo il suo fiato caldo carezzargli il viso, inebriandolo un poco, ma si riprese subito- “E’ arrivato il momento di fare il padre, Sherlock”.
 
E con quelle parole salì gli scalini che davano sull’uscio di casa.
Prese le chiavi e stette per inserirle nella toppa, quando la voce dell’altro lo fermò dalla sua azione:
“Non posso farlo, John. Non ne sarò mai capace e, se può consolarti, mi dispiace davvero per Callie”.
A quelle parole strinse convulsamente i pugni e fece retrofront, fino ad arrivare difronte a Sherlock.
Guardò in basso per pochi istanti, quasi riflettesse sul da farsi, anche se il gesto che stava per compiere era più che ovvio.
Tirò un destro in pieno viso a Holmes, facendolo quasi cadere, sentendo il dolore martellargli nelle nocche della mano a causa delle botte date anche all’assassino di poliziotti, ma poco gl’importava.
Voleva riuscire ad inculcare qualcosa nella mente ottusa, anche se brillante, del ragazzo e, se necessario, avrebbe continuato a dargli dei pugni per tutta la notte e la mattina seguente, a costo di rompersi tutte le ossa delle mani.
 
“No, Sherlock. Non ti deve dispiacere. Tu puoi farlo e sono pure sicuro che, nell’angolo più profondo del tuo cuore, è quello che vuoi, anche se hai una fottutissima paura di provarci ad abbandonarti a quello che è l’amore per un figlio” gli spiegò John con tono fermo, facendo riprendere l’altro dal pugno.
“Ti ho già detto che non ci riesco” ribatté l’altro con tono piccato, facendogli perdere la pazienza.
“Non ci hai nemmeno provato!”
“Perché so già che fallirò, John. Sono certo che soffrirà, se ci provassi”
“Soffrirà molto di più quando saprà che non hai nemmeno tentato. E ne rimarrà delusa”
“Sai che novità! Come se le persone accanto a me non fossero mai deluse dal mio comportamento!” commentò Sherlock con tono rabbioso, lasciando senza parole il biondo.
 
“T-Tu pensi davvero di deludermi?” gli chiese dopo pochi attimi con tono allibito, quasi offeso, allargando leggermente le braccia, per poi farle ricadere lungo i fianchi.
 
In quel momento non sapeva se sentirsi a disagio per ciò che Sherlock pensava che lui provasse nei suoi confronti o sganciargli un altro pugno in faccia per l’enorme stronzata che il consulente aveva avuto il coraggio di dire.
 
“Sì. Leggo nei tuoi occhi il dolore che provi quando mi dimostro indifferente ad una situazione o nei tuoi confronti. Sei un libro aperto anche tu” rispose l’altro un poco imbarazzato, girando lo sguardo altrove.
“S-Sherlock, tu non mi deludi. È vero, a volte ci rimango un po’male o mi arrabbio con te per il tuo atteggiamento da… stronzo egoista, ma non mi hai mai deluso. Mai. T-Tu sei riuscito a farmi uscire dall’orrore della guerra, dal voler ritornare in battaglia grazie ai casi risolti e alle tue brillanti deduzioni! Quindi no, tu non mi hai deluso affatto” gli spiegò con un’ombra di sorriso sulle labbra, sorprendendo Sherlock.
 
Cosa più unica che rara, ma era un momento che John s’imprimeva nella mente ogni volta che succedeva, disegnando su un foglio immaginario (che avrebbe custodito e ricordato con cura) i suoi occhi leggermente sgranati e la sua bocca a cuore, così invitante, aperta leggermente, mentre la pelle del viso si tendeva un poco, quasi a seguire l’assimilazione nel suo Mind Palace di quell’informazione da conservare con assoluta gelosia.
 
“Oh…”- sussurrò preso in contropiede, per poi ritornare velocemente in sé- “I-Interessante…”.
 
E con quell’unica parola detta frettolosamente si diresse all’interno dell’abitazione, facendo sorridere John.
 
§§§
 
Tutto era avvolto nell’oscurità nel 221B.
Mrs. Hudson non c’era perché era andata a casa di un’amica ed erano le due del mattino.
Più che normale, secondo Sherlock, ma qualcosa non quadrava.
Mancava il silenzio più assoluto e questo lo fece sospirare.
 
Singhiozzi di un pianto sommesso raggiungevano il piano inferiore, allarmando John, che si affrettò a salire al piano superiore, cercando di non cadere su per le scale, seguito a ruota da uno Sherlock tranquillo.
 
John accese la luce del salotto, scorgendo, così, la piccola immagine della bambina accovacciata sulla poltrona del consulente investigativo che piangeva a dirotto, anche se cercava di essere il più silenziosa possibile.
Alzò la sua testolina verso i due ragazzi, smettendo di piangere all’istante, guardandoli con aria smarrita, per poi sorridere felice per il loro ritorno.
 
“Perché non sei a letto?” domandò perentorio Sherlock, spaventando un poco la piccola.
Non riusciva a capire perché la trattasse così, ma lei gli voleva bene lo stesso, incondizionatamente dal suo atteggiamento.
“Sherlock!” lo sgridò John guardandolo trucemente.
“Sbaglio o hai detto che devo fare il padre? Beh, lo sto facendo! Lei dovrebbe essere a letto a dormire e sognare unicorni, fatine e tutte quelle cose da bambini!” ribatté l’altro sulla difensiva, sicuro di aver ragione.
“Cristo Santo, non ha sedici anni! Ha quasi nove mesi!” lo rimbeccò il biondo, cercando di farlo ragionare, ma era tutto inutile.
“Appunto. Meglio approfittare della sua mente malleabile e mettere in chiaro le cose!”
“Ma cos- sei geloso?” domandò letteralmente stupito, calcando bene l’ultima parola, notando l’acidità con cui Sherlock aveva sputato quelle parole.
“Io geloso? Stai scherzando, spero!”
“Oh, nonononono, Holmes. Ti rifiuti di voler provare a fare il padre e poi sei geloso del fidanzato (al momento inesistente) che tua figlia avrà quando sarà adolescente. Sei coerente con te stesso!” commentò con un sorriso ironico stampato in faccia, facendo sbuffare il riccioluto con aria contrita.
“Figuriamoci!” esclamò sarcastico, andando in cucina a preparare il tea.
 
Fatto veramente assurdo nel suo genere: Sherlock non aveva mai fatto il tea e voleva essere servito, perché considerava bere e mangiare una cosa del tutto inutile.
Figuriamoci servirsi da solo.
C’era solo una possibilità: Sherlock era a disagio.
Dannatamente a disagio.
 
Vedendolo sparire in cucina, Callie sentì il labbro inferiore cominciare a tremare, mentre un nodo le si formava alla gola, facendola piangere, un’altra volta, a dirotto.
Questa volta, però, si fece sentire.
 
“Si può sapere il motivo per cui ora si è messa a piangere?!?” domandò scocciato Sherlock, ricomparendo in salotto, facendola smettere.
Il riccioluto la guardò un poco, assottigliando lo sguardo per capire cosa avesse, per poi apprendere.
 
“Ora mi è chiaro il motivo per cui non eri a letto. Ti sei svegliata verso la mezzanotte e, dato che sei ancora una bambina che ha bisogno di provare nuove esperienze, hai pensato bene di cercarci per le stanze che frequentiamo più assiduamente, anche se non hai mancato di guardare le altre, per sicurezza. In fin dei conti, cercavi pur sempre la mia approvazione per questo tuo progresso, se così lo si può definire. Lo dimostra il fatto che le tue ginocchia e le tue mani sono molto sporche, nonostante hai iniziato a gattonare da poco, inoltre, sta cominciando a formarsi un livido sulla tua fronte, sintomo che hai sbattuto contro qualche mobile, anche se non ne abbiamo tanti e, i pochi che abbiamo, sono nelle nostre camere ed è impossibili non vederli, dato che stanotte c’è la luna piena; forse il tavolino del salotto, ma un po’di luce entra anche qui e quindi è fortemente improbabile. Non sei così stupida, per essere una mocciosa. In realtà tu hai sbattuto contro il pavimento. Hai cercato supporto sul tavolino e ti sei allungata verso la mia poltrona, dato che è ancora troppo alta per te e rappresenta una difficoltà ma, nel fare ciò, hai perso il tuo ancora quasi mancato equilibrio ed è successo quel che è successo. Lo dimostra anche il fatto che hai le pelle un poco sbucciata sul piede. Non ti sei arresa e, alla fine, ci sei riuscita.
Il fatto che tu stessi piangendo è perché io e John non eravamo in casa e pensavi che ti avessimo abbandonata. Ho dimenticato qualcosa?” disse Sherlock del tutto tranquillo, facendo ridere gioiosa la bimba (forse, inconsapevolmente, gli dava ragione ma, dato che era solo uno scricciolo di a malapena nove mesi, era solamente contenta che il suo papà fosse lì, difronte a lei, da più di due minuti. Era un record nel loro tempo di relazione padre-figlia), mentre John boccheggiava un poco, sorpreso.
Non tanto per la deduzione, ma per il fatto che si fosse comportato così davanti a sua figlia, mettendo in mostra le sue grandi doti deduttive, in modo del tutto naturale.
“Preciso e modesto come sempre…” iniziò John, facendo sorridere di gusto Sherlock.
“Il mio lavoro richiede precisione, infatti! Anche se era facile da dedurre, le azioni che ha compiuto Callie in questo lasso di tempo mi sono servite da esercizio! Non ho sbagliato nulla, come sempre, del resto”.
“Oh, no, una cosa l’hai sbagliata in pieno!” ribatté John contento come una pasqua solamente per il fatto di averlo contraddetto.
“Come?” domandò il riccioluto guardandolo dritto in viso, cercando di restare calmo, anche se dentro di lui impazziva nel non capire dove avesse commesso l’errore.
Il medico si diresse verso la pargoletta e la prese in braccio, cullandola un poco, facendola sorridere serena.
Tornò verso il consulente investigativo, sorridendo diabolico, mentre Callie allungava le piccole braccia verso il padre:
“Lei non piangeva perché noi non eravamo in casa. Stava piangendo perché tu non c’eri”.
 
Dette quelle parole, gli mise in braccio la bimba, sorprendendo Sherlock, mentre l’altra cominciò a tastargli il viso e a pizzicargli le guance, saggiandone la consistenza e la morbidezza, resa come marmorea dal vento freddo che fuori carezzava le vie di Londra, mentre il medico andò a spegnere l’acqua sotto il fornello, che oramai bolliva da alcuni minuti.
Prese il filtro e lo mise nella teiera, per poi preparare il latte artificiale per la piccola.
 
“Mi hai fregato un’altra volte, Callie… Interessante” commentò Sherlock sottovoce, ma John lo sentì comunque e sorrise, mentre un pensiero dolce e allegro si faceva spazio nella sua mente.
 
Forse sarà anche il caso che ti coinvolgerà di più, Sherlock”.








Angolo di Alyce: Ma buonasera, cari lettori e lettrici! ^.^
Come potete aver letto dal capitolo, Sherlock è restio dal volersi assumere la responsabilità di essere un padre per la piccola Callie.
Ma non disperiamo, Caro Sherlok: riuscirai nell'impresa u.u
E John, che da bravo innamorato (lui ancora non lo sa, ma è così *sorride diabolica*) accetta l'indifferenza di Sherlock nei suoi confronti ma non in quelli della piccola!
Ti faremo tre statue d'onore, promesso!
Dobbiamo anche dire, però, che qualcosa ha veramente inculcato nella testa del consulente investigativo... infatti è già geloso... di un fidanzato... che non esiste, al momento.
Solo Sherlock era capace di provare gelosia per un non nulla ;D
Detto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto e, immaginandomi un Mycroft come zio, vi saluto!
Ciao e un strasuperbacione a tutti!
Alyce :)))))))

P.S. Il caso in cui sono stati coinvolti i nostri eroi è stato preso spunto dal film "Blitz" con Jason Statham, modificandone il movente e altre parti.

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Capitolo 3
*** 3. Callie alla riscossa! ***


3. Callie alla riscossa!

 
 
“Callie, torna subito qui!” esclamò Sherlock camminando a passo svelto verso la figlioletta, che non ne voleva proprio sapere di fermarsi dal suo gattonare.
John, nel frattempo, stava leggendo e rispondendo alle recensioni ricevute sul suo blog, gustandosi la sua tazza di tea caldo.
 
Dopo pochi secondi, il consulente investigativo riuscì ad acciuffare la piccola, scatenando le sue grida e il suo pianto degni di una commedia.
“Smettila di frignare come una poppante!” tuonò il riccioluto, mettendola a sedere sul sofà, ponendo fine ai suoi lamenti.
Inclinò la testolina da un lato, osservando con curiosità mista ad altezzosità(?)  il padre, per poi fissare il medico, boccheggiando un poco.
 
“Papà?” tentò di chiamarlo, agitando entrambe le mani, attirando l’attenzione del biondo.
 
Per Callie non c’era assolutamente nulla di strano avere due papà e, anche se John e Sherlock non avevano mai dato prova di stare insieme come coppia, se non lavorativa, pensava che si amassero a proprio modo o, comunque, come lei provava affetto incondizionato per loro due.
D’altro canto, a Sherlock non creava alcun problema il fatto che Callie considerasse John come membro della famiglia… anche se il medico stesso la considerava ancora una stranezza.
Non poteva fare a meno di pensare che la figlia di Sherlock lo considerasse come il fidanzato del padre biologico o, peggio ancora, il marito.
Le prime volte non capiva e boccheggiava come un pesce fuor d’acqua appena il detective gli ribadiva che la piccina si riferisse a lui.
Non c’era altra soluzione che stare al gioco e spiegargli la situazione appena fosse diventata più grande.
 
“Dimmi Callie!” le rispose John distogliendo lo sguardo dallo schermo del pc per posarlo su quello della piccola.
“Fame!” articolò quella con estrema sicurezza compiendo piccoli balzi sul posto, esasperando Sherlock.
“Spero tu stia scherzando! Hai mangiato cinque minuti fa!” la rimbeccò infastidito il consulente investigativo, mettendosi le mani nelle tasche e cominciando a camminare su e giù per il salotto.
La bimba gonfiò le guance indispettita e gli rivolse uno sguardo truce, ritornando a prestare attenzione a papà John.
Lui era l’unico che la ascoltava!
“Papà, fame! Fame, fame, fame, fame, fame, fame!” cantilenò tentando di alzarsi sul divano, per poi cadere come un sacco di patate.
Ancora non riusciva a capire come potessero riuscire le altre persone che le stavano attorno a stare in equilibrio sue due gambe.
Lei preferiva di gran lunga andare gattoni!
“Sherlock ha ragione, Callie. Hai appena mangiato” decretò il medico dando ragione al riccioluto, facendolo sorridere trionfante.
Posò lo sguardo sulla figlia e le sorrise compiaciuto, irritandola non poco.
Scosse la testolina vigorosamente, come a non volersi arrendere, per poi ripartire all’attacco, più agguerrita di prima.
 
“Pa-pà!” lo richiamò un’altra volta, facendo sospirare il biondo dalla frustrazione.
Voleva bene con tutta l’anima a quella bambina, ma certe volte era come avere a che fare con uno Sherlock in miniatura e in versione femmina.
In parole povere non voleva nemmeno immaginarsi la sua adolescenza.
Nonostante fosse una bambina di un anno e qualche mese, era dannatamente intelligente e scaltra, “indossando” una maschera d’innocenza e dolcezza per nascondere la sua vera natura.
Con molta probabilità sarebbe diventata una sociopatica iperattiva con i fiocchi, tale e quale al padre.
D'altronde, era colpa dello stesso Sherlock se Callie cercava d’imitarlo: egli, infatti, non si premurava di trattenere il suo istinto da perfetto arrogante egoista in sua presenza.
Trattava con sufficienza Lestrade, umiliava Donovan (non che lei non se la cercasse), battibeccava con Anderson e impartiva ordini alla povera Mrs. Hudson come se fosse la loro governante.
Non era certo il padre modello da cui prendere esempio, ma John doveva ammettere che si stava impegnando ad instaurare un rapporto più profondo con la piccola, anche se i “litigi” tra i due non mancavano.
Più che litigi, capricci, considerando il fatto che quando i due erano discordanti su una questione, anche la più futile, dovevano fare a gara sul capriccio “migliore”.
No.
Sherlock non era per niente un padre modello.
 
“Sì, Callie?” le rispose un’altra volta con pacatezza e fermezza, fissando negli occhi la bambina, sentendo il cuore fare una piccola capriola.
Ecco lo sguardo che temeva e che lo mandava in bestia!
Lo stesso sguardo che “assumeva” il padre per ottenere qualcosa, fingendosi un angioletto, quando invece era il diavolo in persona!
Non doveva cascarci, non poteva!
“Fame!” esclamò quella in risposta, accennando un piccolo sorriso, battendo le piccole manine.
“No” replicò con assoluta rigidità il medico, tradendo la fiducia della bimba.
Si sentiva arrabbiata, delusa, ferita!
Fissò lo sguardo al pavimento, mentre un’adorabile broncio le incorniciava il viso, accompagnato dai suoi splendidi occhi lucidi, pronti ad un pianto disperato.
Tempo nemmeno due secondi e il salotto divenne teatro di grida disperate e nasino gocciolante, mentre i due poveri ragazzi si tapparono le orecchie dallo strazio(?).
Quello non era una bambina che piangeva; era una vera e propria sirena d’allarme!
 
Attraversata dall’istinto materno, Mrs. Hudson accorse al piano superiore per aiutare ancora non sapeva chi, tenendosi un lembo della sottana per andare più veloce.
“Che sta succedendo?” chiese cercando di sovrastare il pianto della piccola, riprendendo fiato.
“Questa mocciosa vuole ancora nutrirsi! E poco fa ha finito di mangiare quasi tutti i biscotti! È un pozzo senza fondo!” sbottò Sherlock irritato, cominciando a camminare nervosamente per l’intero salotto.
“Ma è normale che abbia fame! Deve crescere, sana e forte!” la difese a spada tratta la signora, facendo smettere di piangere Callie.
Forse aveva qualche probabilità di arraffare qualcosa da sgranocchiare…
“Mrs. Hudson, dandole ragione diventerà una bambina viziata!” commentò aspramente il riccioluto, facendo ghignare John.
Chiuse il portatile e incrociò le braccia al petto, continuando a sorridere, guadagnandosi un’occhiata carica di significato non tanto gentile da parte dell’altro.
“Io non sono così!” protestò senza che il biondo dicesse una parola, ma fu abbastanza affinché potesse fargli alzare un sopracciglio dallo scetticismo.
“Ma davvero?”
“Sì. Callie deve aver preso da sua madre!”
“Oh, sì, certamente! Non lo metto in dubbio…”
“Dico sul serio”
“Ti credo!”
“Non è vero!”
“Sì, infatti. Non ti credo” gli diede ragione alla fine Watson, alzandosi dalla sua sedia, facendo sbuffare Sherlock dal nervoso.
Possibile che dovesse essere sempre così incompreso?!?
 
Non fece in tempo nemmeno a voltarsi verso la figlia per dirgliene quattro che già l’anziana signora l’aveva presa in braccio e si stava dirigendo al piano di sotto, lasciandolo sbigottito.
“Mrs. Hudson, devo farla desistere dal suo intento! Sta consegnando a Callie la vittoria su un piatto d’argento” tentò di dissuaderla seguendola come un mercante impazzito desideroso di vendere la sua merce per oro colato.
Peccato che Mrs. Hudson fosse così “debole di cuore” nei confronti dei bambini.
“Caro Sherlock Holmes:  ribadisco che la piccina deve crescere, non fare una dieta da modella anoressica!” lo rimproverò risentita, scendendo nella sua cucina, appoggiando la piccola sul tavolo per prendere un qualche frutto e anche qualche dolcetto, non perdendola di vista con la coda dell’occhio.
Era una attimo che potesse cadere e farsi male perché curiosa di scoprire il mondo!
 
Nel frattempo, sul viso paffuto di Callie spuntò un enorme sorriso trionfante che fu ben felice di mostrare al padre come per dire: ho vinto io, mi spiace.
L’unica cosa che però ancora non sapeva del padre è che poteva essere molto vendicativo.
I suoi occhi di ghiaccio si piantarono in quelli della bambina, mentre le sue labbra sottili si tirarono lievemente all’insù, quasi in procinto di dargliela vinta.
Apparentemente.
 
“Oh, Callie Jessica, hai veramente tanta fame?”- gli chiese con tono falsamente dolce, facendo annuire convinta l’ingenua figlioletta- “Spero tu possa scusare il tuo papà per non averti dato ascolto!”.
“Già, Sherlock ha ragione. Ti chiedo perdono pure io. Siamo veramente stati cattivi!” gli diede man forte John apparso all’improvviso, dando qualcosa in mano al riccioluto che Callie, però, non riuscì ad identificare.
“Imperdonabili!”
“Quasi sadici!”
“Oh, John, hai completamente ragione! Come abbiamo potuto commettere un crimine simile?!?”
“Siete impazziti, per caso?” chiese Mrs. Hudson guardandoli allarmata, non capendo ciò che stava succedendo.
“Oh, no, cara Mrs. Hudson. Ci siamo resi conto che nostra figlia ha davvero fame. Quindi, per farci perdonare, diamo soddisfazione al tuo piccolo stomaco senza fondo!” esclamò Sherlock con teatralità, appoggiando difronte alla bambina una mela.
Una semplicissima mela.
“Ci voleva così tanto dargli qualcosa?!?” sbottò l’anziana incrociando le braccia sotto al seno, mentre la piccola sgranò gli occhi.
Non di certo dal piacere, però.
 
I suoi genitori si erano presi gioco di lei!
Erano riusciti a raggirare la docile vecchietta e adesso era nei guai fino al collo.
Lei era affamata di biscotti, non di quella… mela… che le faceva pure ribrezzo la sola vista!
Fregata come un allocco.
Il digiuno non le sembrava tanto male.
 
“Cosa c’è, Callie? Ti è passata la fame?” le chiese strafottente Sherlock, mentre John se la rideva sotto i baffi.
La piccola s’imbronciò in modo adorabile, voltando lo sguardo in un punto indefinito nella stanza, per poi essere sollevata di peso dal padre assieme alla mela, che se la mangiò con gusto per farle un ulteriore dispetto.
Avrebbe ottenuto la sua vendetta, ne era certa!
 
“Su, non te la prendere. Oggi pomeriggio potrai avere tutti i biscotti che vuoi” la rassicurò l’ex soldato, carezzandole dolcemente la testa dopo che erano ritornati nel loro salotto, facendo ridere gioiosamente la vittima dell’inganno.
“No, non tutti” rovinò il momento il riccioluto, guadagnandosi una tirata di capelli da piccole mani oramai familiari.
Ma, nonostante tutto, la vendetta era solo un ricordo lontano…
 
§§§
 
“Sherlock… stamattina… hai detto nostra figlia…” cominciò John un poco turbato, mentre l’altro cercava di staccarsi di dosso la piccola che si era addormentata avvinghiata al suo collo come una piovra.
Solo l’aiuto di John riuscì a non fargli compiere un completo disastro e un possibile risveglio urlante da parte della piccola.
L’adagiò delicatamente nel lettino e le rimboccò le coperte, per poi allontanarsi e osservarla per qualche attimo in religioso silenzio, mentre l’altro attendeva impazientemente un qualsiasi cenno.
 
Quel batuffolo è sangue del mio sangue… ancora non riesco a capacitarmene… però devo dire che è una Holmes coi controfiocchi: pianificatrice, curiosa e sono sicuro che un giorno sarà molto intelligente. Non che non lo sia, ma accrescerà questo pregio… anche se non supererà mai il sottoscritto… ed è anche viziata, ma è colpa di quella donna” pensò impassibile, per poi voltarsi verso il suo amico.
 
“Scusa, puoi ripetere ciò che hai detto? Ero preso a staccarmi da quell’azzannatrice” si giustificò il consulente investigativo, anche se era tutta una scusa.
Voleva solo sentirgli ripetere la parola “nostra”.
Gli piaceva.
“Beh, ecco… stamattina hai detto… nostra figlia… perché?” domandò un’altra volta, passandosi una mano trai capelli con fare nervoso.
Particolare che non sfuggì a Sherlock, anche se non riusciva a dedurre se dall’ansia della paura di avere in un qualche modo una figlia, anche se adottiva, o ansia… piacevole, ecco.
Poteva lasciarsi, dunque, andare a “sentimentalismi”?
Dire qualcosa di pateticamente dolce?
O doveva cercare di mantenere le distanze?
 
“Ho detto nostra figlia perché lei ti chiama papà, quindi credo che in un qualche modo sia anche tua, mettendola su un piano sentimentale che coinvolga l’affetto tra genitore e figlio…”- cominciò il discorso con massima serietà, notando, poi, un fugace guizzo da parte dell’altro di delusione, forse?- “E poi… ciò che è mio è anche tuo… nel senso che mi farebbe piacere se anche tu vuoi far parte della famiglia, ecco…”.
Ok, forse aveva un po’esagerato… ma poteva andare, no?
Non si era certo sbilanciato così tanto… non aveva incluso una relazione sentimentale tra loro due, anche se non gli sarebbe dispiaciuto.
O forse sì?
Con quella frase lo aveva “costretto” in un rapporto che andava oltre l’amicizia?
No, gli aveva lasciato una scelta, in fin dei conti.
Poteva benissimo accettare Callie come figlia ma non lui come… partner o quel che era.
E gli sarebbe andata bene lo stesso: avere John vicino, anche se solo come amico.
 
“Vado a chiudermi nel mio Mind Palace. Sono sicuro che George verrà qui dicendomi di non riuscire a far luce sul nuovo caso. D’altronde, è di Scotland Yard che stiamo parlando” disse poi uscendo dalla sua camera, lasciando John perso nei suoi torbidi pensieri.
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** 4. La bambina, il cavaliere e il soldato ***


4. La bambina, il cavaliere e il soldato

 
 
“Callie, alzati. Devi andare a scuola!” la svegliò John dolcemente, scuotendola per le spalle un pochino, facendole aprire gli occhi.
Si mise a sedere e sbadigliò sonoramente, mentre i suoi corti capelli castani erano “sparati” in varie direzione come i cartelli che vide la piccola Alice nel Mondo delle Meraviglie.
“Perché devo andare a scuola?” chiese la piccola di getto, mentre le sue palpebre erano in procinto di richiudersi come due saracinesche.
“Perché imparerai cose nuove” rispose il biondo sorridendole, scompigliandole ancor di più il groviglio in testa.
“Perché?” domandò ancora quella, guardandolo come stralunata.
“Perché…”- cominciò lui prendendola in braccio come un sacco di patate, scatenandole una risata giocosa- “Ti farai una tua opinione del mondo in cui vivi e per affrontare le difficoltà al meglio”.
E con quella frase la zittì, facendola rinchiudere nei suoi pensieri per cercare un senso a quella frase.
Per certi aspetti assomigliava moltissimo a Sherlock.
 
Come se richiamato da una qualche riflessione oscura, il protagonista della mente di John in quel momento entrò nella cucina un po’disordinata, facendo voltare entrambi.
“John, ho risolto il caso!” esclamò entusiasta il consulente investigativo, mentre l’altro smise di versare il latte caldo nella tazza personalizzata della bimba, rivolgendogli un’occhiata torva.
“Va bene, Sherlock, ma non mi sembra il momento. Callie oggi inizia la scuola, ricordi? E poi avevamo fatto un accordo: niente casi con la bambina presente!” ribatté il medico tentando di stare calmo.
Quella bambina, nei suoi da poco compiuti tre anni aveva sentito parlare di così tanti morti che, un bel giorno, vedendo entrare Lestrade trafelato, domandò con spontaneità : “Chi è morto, oggi?”.
Andò a finire che Sherlock si guadagnò un bel destro sul naso per aver sorriso e approvato il comportamento della figlia; a Callie fu vietata la presenza ad ascoltare le scene del crimine (anche se il divieto fu imposto a Lestrade ed alla sua squadra finché la piccola, in quelle situazioni, non fosse stata affidata a Mrs. Hudson o spostata in un’altra stanza) e John… beh, Watson non fu mai così arrabbiato come quel giorno.
Scuola? John, è un asilo! Un posto dove non insegnano nien…”
“Sherlock! È una scuola. E Callie oggi imparerà tante cose nuove e farà conoscenza con altri bambini! E… ma che cos’hai in mano?” lo rimbrottò l’ex soldato, dirigendosi verso il riccioluto, il quale alzò gli occhi al cielo per la questione sull’asilo, ma gli s’illuminò il volto non appena gli fu posta quella domanda:
“I bulbi oculari della vittima. Sono la prova che incastrerà l’assassino” rispose per nulla preoccupato della presenza di Callie.
“Che cosa sono i bulbi oculari?” domandò la piccola scendendo dalla seggiola con non poca fatica, dirigendosi verso il padre per poter osservare meglio l’oggetto di così tanto interesse.
“Sono gli occhi, Callie…”- rispose senza pensarci John, ma si “risvegliò” subito- “Finisci di fare colazione e fila subito a cambiarti, signorina! Sherlock, metti via quei dannatissimi occhi!”.
“Bulbi oculari” terminò con precisione il riccioluto, osservando di sottecchi la figlioletta ingozzarsi con i suoi biscotti preferiti.
“Sherlock!”.
 
“Devo per forza andare a scuola? Perché non posso restare con voi?” domandò la piccola alzando le braccia per farsi infilare il maglioncino grigio della divisa, mentre Sherlock sospirò pesantemente e cercò una risposta più che mai eloquente e sì, per metà menzogna.
O almeno per lui.
A lui non era mai piaciuto andare a scuola.
Studiare sì, ma solo le materie che gli interessavano di più (difatti, non sapeva nemmeno che la Terra girasse attorno al Sole, anche se era una cosa “elementare” per gli altri umani) e poi non aveva mai avuto amici.
In fin dei conti, poteva capire come si sentiva la piccola.
John, però, era stato chiaro: doveva crescere come tutti gli altri bambini e non con pranzi saltuari, delle volte (meno male che c’erano Mrs. Hudson o Molly), e a crimini.
E quindi… quindi nulla, era stato costretto a comprarle persino qualcosa di fanciullesco come una Barbie e un piccolo robot chiamato Transformer o qualsiasi cosa fosse.
Chissà che fine hanno fatto. Non l’ho più vista giocarci” pensò facendo vagare lo sguardo per la camera, ma venne richiamata dalla bimba.
“Papà, non hai risposto!” esclamò stizzita, prendendo il piccolo zainetto poggiato a fianco del letto.
“Perché hai fatto due domande dalla risposta ovvia”- ribatté per nulla toccato, accorgendosi successivamente che era stato un po’brusco nel dirlo- “Come ha detto John, imparerai tante cose nuove e… ti farai degli… amici… e poi dobbiamo anche lavorare ad un caso importante, Callie”.
Lei s’imbronciò un poco, dirigendosi a passo lento verso le scale, ma Sherlock fermò la sua avanzata:
“Considera il lato positivo: stasera staremo tutti insieme e andremo a mangiare da Angelo. Che ne dici?”.
Quella si voltò e corse ad abbracciarlo, lasciandolo sorpreso, non ancora abituato ai quei gesti così… pieni di affetto.
Ad essere sinceri, la trattava ancora con un po’ di freddezza, mancandole di rispetto, delle volte, ma lei sembrava non farci caso e le andava bene così.
L’importante è che ci fosse sempre stato, in un modo o nell’altro, anche se ultimamente continuava a fare domande sui rispettivi lavori dei due ragazzi, sul perché a volte stavano via per tantissimo tempo lasciandola con Mrs. Hudson e le sue amiche pettegole non mancando persino di porgere domande alquanto imbarazzanti, a cui Sherlock avrebbe risposto senza peli sulla lingua e in modo scientifico se non ci fosse stato sempre John a fermarlo appena in tempo prima di procurare un qualche trauma psicologico.
 
§§§
 
“Sei pronta, Callie?” domandò l’ex soldato alla bambina mettendole a posto il giubbottino, mentre Holmes era intento a digitare velocemente sul telefono, guadagnandosi una gomitata nel costato.
“Potresti evitare di farti gli affari tuoi, per favore?” lo rimproverò il biondo sottovoce, mentre Callie si guardava attorno con aria circospetta, osservando i vari genitori che salutavano i figli con caldi abbracci e parole di consolazione verso quelli che piangevano.
L’asilo, invece, così incolore e “triste” metteva quasi i brividi.
“Ciao Callie, divertiti” la salutò Sherlock non distogliendo lo sguardo dal telefono, allibendo John.
Che razza di comportamento era, quello?!?
Capiva che non fosse dedito ai contatti umani, ma così era disumano!
“Ho paura” disse quella d’un tratto, guadagnandosi la completa attenzione dei due.
“Come?”
“Perché hai staccato la testa alla Barbie? No, aspetta… ricordo… la volta che ti dicemmo che tra un mesetto saresti venuta qui all’asilo stavi giocando. Deve essere quando siamo usciti che le hai staccato la testa, forse per la sorpresa o la paura. Infatti, dopo nemmeno dieci minuti eri andata a mangiare i biscotti e tra le dita avevi dei filamenti di capelli di quella bambolotta oscena. Potevi averglieli acconciati, è vero, ma quando mangi i biscotti ad orari strani è perché sei nervosa o turbata” spiegò Sherlock con fare ovvio, mentre John lo guardava stralunato, passando poi lo sguardo sulla bambina.
“Hai decapitato la Barbie…” commentò atono, scuotendo lievemente la testa come intontito.
“John, per favore, è inanimata!” sbottò il consulente investigativo guardandolo, ma quello parve non dargli ascolto e ripeté la domanda o il commento.
“E’ stato un’incidente! È stato Bumblebee!” si giustificò mentre due lacrime le comparvero agli angoli degli occhi, tirando su col naso.
“Menti! Non si dicono le bugie!” la rimproverò il riccioluto con il suo savoir-faire degno del poliziotto bastardo dei film che minaccia il colpevole di dover sputare la verità se non vuole subire le peggiori torture.
“Non è vero!”
“Sì, invece! L’unica cosa che può fare quel robot è portarla in giro a fare strage di Barbie maschili con i vestiti striminziti che indossa!” disse con un tono di voce un poco più alto, svegliando il povero medico dalla sua trance.
“Sei da rinchiudere in un buon ospedale per questa tua osservazione”- s’intromise tra i due, prendendo per le spalle la più piccola- “Callie, tesoro, non c’è niente di cui aver paura. Sei solo un po’agitata, ma è normale. Tutti lo siamo quando facciamo una cosa a noi nuova.
“Quasi tut…”- l’affermazione di Sherlock venne fermata in tempo dallo schiarirsi di voce dell’altro, costringendolo a cambiare argomentazione- “Tuo padre ha ragione. È un ostacolo che forse ti farà terrore, ma riuscirai a superarlo. E ricordati che non sei sola. Ci sono altri bambini che sono nella tua stessa situazione… consideratevi come tanti moschettieri che combattono per un bene comune”.
“Giusto, come una grande squadra!” aggiunse John con un sorriso rassicurante stampato in volto, convincendo la piccola.
Ma una domanda le occupò la mente in quel momento e le diede per forza voce, come a voler una conferma per tutte quelle parole d’incoraggiamento.
“Anche noi siamo una squadra?”.
 
Sherlock e John si guardarono un lungo istante negli occhi e il medico ebbe un tuffo al cuore quando quei due pozzi di ghiaccio sembravano scrutargli l’anima nel profondo, facendolo sentire nudo e senza difese.
Distolse lo sguardo dopo attimi che gli sembrarono secoli, guardando per terra, tentando di calmare il suo cuore impazzito e il fuoco che divampò nelle sue viscere ma, nel mentre, una ragione ben più forte si fece largo in lui e sì, tutto gli fu più chiaro e limpido.
Ci sarebbe stato per loro due.
Avrebbe rinunciato persino alla sua stessa vita, se la situazione lo avrebbe richiesto.
 
“Certo che lo siamo, Callie. Lo saremo sempre!” rispose gentile, illuminandole il viso di un rinomato coraggio.
Callie lo abbracciò di slancio, per poi abbracciare le lunghe gambe di Sherlock esclamando un “vi voglio bene!” attutito dalla stoffa del completo del padre.
La maestra richiamò tutti i bambini e lei corsa via, salutandoli con la manina, venendo ricambiata da John e persino dal consulente investigativo, anche se in modo più contenuto.
 
§§§
 
“Belle parole alla fine… anche se la parte sulla Barbie allegra potevi risparmiartela! Strage di Barbie maschili, eh?” lo prese in giro John ghignando mestamente coinvolgendolo, stranamente, attraverso un semplice e sincero sorriso.
“Meglio allegra che averla decapitata!” lo ripagò della stessa moneta il riccioluto, facendo arrossire il medico.
“Sono rimasto scioccato! Ha dato persino la colpa a Bumbl…”
“Bumblebee.”
“Sì, quello. È-è il Transformer, giusto?”
“A meno che non abbia un amico immaginario, sì, è il Transformer.”
“Pensa se da grande riparerà auto.”
“… Stonerebbe un po’, non trovi?”
“Come se la nostra squadra già non fosse piuttosto variegata!” commentò Watson ridendo in modo cristallino, riempendo la testa del riccioluto come un balsamo dal profumo dolce.
Non si sarebbe mai stancato di lui, ne era certo.
Quella supposizione, però, ebbe l’effetto di farlo riflettere per alcuni istanti, cercando di capire cosa intendesse con quelle parole.
In fin dei conti, non erano tanto “stonati” come gruppo: un consulente investigativo, un medico e una bambina.
Suonava anche bene, nonostante tutto.
“Non siamo così male. Un medico che si prende cura di un consulente investigativo che cerca di capire come crescere la propria figlia comparsa all’improvviso!” ragionò ad alta voce, facendo fermare il passo dell’altro, che scosse la testa divertito.
“Per me ti fermi troppo sulla ragione e non viaggi mai con la fantasia… anche se le tue deduzioni siano a volte esse stesse come tratte da un racconto dell’orrore misto al fantascientifico” lo rimbrottò con fare bonario, facendolo sbuffare contrito.
“John, bisogna stare nel raziocinio, non viaggiare nella fantasia, come sostieni!”- sbottò infilandosi le mani nelle tasche indispettito, ma la curiosità prevalse sull’apparente offesa e non poté fare a meno di chiedergli- “A ogni modo, da cosa sarebbe composta questa squadra?”.
Watson sorrise raggiante e lo raggiunse ad ampie falcate, meditando un poco sulla risposta da dargli.
“Vediamo… un cavaliere… un soldato e una piccola principessa?”
“Callie non è una piccola principessa. Non ha così tanta grazia e non è facilmente impressionabile e soggetta ad urla disturbanti la quiete comune!” lo canzonò un poco indignato, facendolo ridere un’altra volta.
Dio, la sua risata era meglio di qualsiasi droga esistente sul pianeta!
“Chiedo venia… potresti essere tu la principessa.”
“Oh, sono davvero curioso, caro John! Perché mi paragoni a tale soggetto femminile noioso?” domandò con tono falsamente allegro.
“Quando ti alzi dal divano e cammini per il salotto porti indietro la tua vestaglia di seta come un abito dal lungo strascico!” ammise il medico tentando di non ridere ancor di più all’immaginazione di uno Sherlock con un abito fatto di tulle e seta, rigorosamente rosa.
“Sciocchezze! Potrebbe benissimo essere paragonato ad un ampio mantello da cavaliere senza paura!”
“Va bene, va bene. Tu sei il cavaliere, lo riconosco…”.
 
A quella così facile resa, le labbra di Sherlock si piegarono in un lieve ma alquanto dolce sorriso di cui John, fortunatamente, non s’accorse.
“Poi c’è il soldato dall’animo nobile…”- continuò infine il riccioluto, alzando il braccio per chiamare un taxi- “E una bambina che decapita le bambole.”
“Non oso nemmeno immaginare da chi abbia preso questo orrido pregio!”
“Almeno non urla e non s’impressiona come farebbe, molto probabilmente, la madre!”.
 

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Capitolo 5
*** 5. Quella volta che Sherlock fu addomesticato ***


5. Quella volta che Sherlock fu addomesticato

 
 



Callie prese in braccio Bumblebee e se lo avvicinò alle labbra con fare pensieroso, quasi si scambiassero a vicenda mille e più segreti sul mondo circostante e su altre dimensioni, facendola sorridere lievemente per poi alzare lo sguardo sul consulente investigativo, che se ne stava tranquillamente in piedi sopra il tavolino da tea, lanciando coltelli contro un povero manichino posto, impiccato, sopra il divano sui cui era seduta la bambina.
Se lo avesse visto John, fortunatamente(?) al lavoro, lo avrebbe ammazzato a suon di pugni ma, dato che non c’era, andava bene così.
Non aveva idee omicide nei confronti di sua figlia e mai ne aveva avute… solo che quell’infante lo aiutava a pensare mentre lo fissava con quei suoi occhioni verdi quasi inquietanti e teneri al tempo stesso.
Non si capiva mai se nella sua mente volesse torturare chi aveva difronte o guardarlo semplicemente con curiosità, come le bambole di porcellana.
 
“Papà” lo chiamò sorridendo felicemente facendo partire al riccioluto un altro colpo contro il corpo martoriato del manichino con un po’ più rabbia: odiava essere interrotto nel corso dei suoi pensieri.
Non sopportava John, figuriamoci la sua cara figliola chiacchierona. Doveva aver preso quel difetto dalla madre, ne era certo… persino a letto aveva urlato semplicemente troppo.
“Jessica, ne avevamo già parlato!” la rimproverò con il suo secondo nome, facendola sbuffare contrita.
“Ma io ho fame! Voglio i biscotti al cioccolato… anche il solo cioccolato va bene” ribatté per nulla intimorita dallo sguardo truce che gli rivolse il padre.
Sapeva che se non desisteva gli avrebbe dato ciò che voleva solamente per farla stare zitta: anche se aveva solamente cinque anni, sapeva giocare le sue carte in tavola.
Peccato che Sherlock, pochi giorni prima, avesse ricevuto una bella lavata di capo da parte del coinquilino per il suo atteggiamento troppo… debole nei confronti della figlia.
Non poteva dargliela vinta tutte le volte perché parlava! Era normale che esprimesse tutto ciò che le passava per la testa così tanto, anche se Holmes non lo tollerava.
 
“No” disse con tono talmente fermo da far tremare impercettibilmente la piccola.
Questo non era previsto. Suo padre sembrava realmente arrabbiato.
Si sdraiò meglio sul divano facendo la finta morta con Bumblebee che scivolava inesorabilmente verso il pavimento rivestito dal tappeto.
“Papà, mi annoio” disse allora fissando un altro coltello che si conficcava nella testa del mirino, facendola sbuffare sonoramente.
Perché aveva un padre così testardo?
“Guarda Bumblebee; si sente solo: gioca con lui!” esclamò il moro indispettito guadagnandosi una pernacchia indignata.
“Anche lui si annoia” ribatté semplicemente guardandolo con aria innocente guadagnandosi l’ennesima occhiata in tralice.
Possibile che Callie avesse sempre la risposta pronta? Dov’era John quando c’era bisogno di lui?
 
“Cosa vorresti fare?” le domandò infine facendola sorridere contenta per poi vederla alzare dal divano e correre verso di lui, fissandolo attentamente negli occhi per alcuni istanti prima di rispondere.
“The floor is lava!” gridò battendo le piccole mani tra loro facendo alzare un sopracciglio dallo scetticismo al padre.
Davvero doveva giocare con lei a quel… gioco? Lui doveva lavorare, far correre la mente come un treno e non perdere tempo a saltare da un divano a un tavolo perché il pavimento era ricoperto da lava inesistente!
“Perché invece non facciamo il gioco del silenzio? Il primo che parla, perde” propose con enfasi facendo imbronciare la piccola.
“Quel gioco è un… in… insu-insulto!” sbottò indignata copiando senza pensarci una parola che aveva sentito nominare da John pochi giorni prima e che, secondo lei, calzava a pennello con la frase, stringendo convulsamente, nel frattempo, il transformer che aveva tra le piccole braccia, facendo sospirare l’altro.
S’inginocchiò per poterla guardare meglio senza smuoversi di un millimetro dalla superficie del tavolo, per poi sorridere grazie a una, forse, geniale idea.
“Aiutami a risolvere questo caso. Il primo che lo risolve avrà tutto il cioccolato che desidera, che ne dici?” le chiese con sorrisetto furbo, pensando già a quando John gli avrebbe urlato contro che Callie non poteva assistere ai casi perché poteva subire dei traumi, ne andava della sua infanzia e bla bla bla.
Cavolate! Un bambino poteva avere delle intuizioni che nemmeno un adulto avrebbe mai pensato.
E poi, ci guadagnavano tutti e due: una giocava e l’altro lavorava.
 
La riccioluta abbassò la testa indecisa sul da farsi, per poi giungere alla sua decisione:
“Risolviamo il caso ma, nel frattempo, sfrutteremo tutti… gli… indizi(?) come piccole isole su cui saltare… che ne dici?”
“Una specie di the floor is lava dove bisogna raggiungere, come traguardi, gli indizi posti sul divano o sulla sedia? Interessante… cominciamo, allora!”.
 
John tornò a casa dal turno letteralmente distrutto aprendo a fatica la porta di casa per poi salire le scale che lo portavano all’appartamento con la mano a scompigliarsi i capelli mentre un silenzio surreale albergava nel 221 B, interrotto solamente dalla signora Hudson che canticchiava gioiosamente preparando la cena, destando in lui una lieve preoccupazione: solitamente Callie chiacchierava e Sherlock le intimava di smettere senza successo oppure si sentiva il violino suonare, ma nulla.
Che fossero usciti senza avvertirlo?
Salì gli ultimi scalini di gran carriera per poi piombare all’interno del salotto con estrema frenesia per poi bloccarsi alla scena che gli si presentò davanti, sorridendo e boccheggiando al tempo stesso.
 
Il tappeto, cosparso di fogli e foto di prove del caso, fungeva da giaciglio a Callie e suo padre addormentati, una sulla schiena dell’altro con un rivolo di bava alla bocca che stava lentamente bagnando il completo del consulente investigativo sulla spalla.
Camminò il più silenziosamente possibile verso la cucina, ma Sherlock aprì istantaneamente gli occhi, osservando le ampie e stanche spalle dell’altro sempre dritte e fiere, immaginando per un solo, e solo, momento, come doveva essere poggiarvisi contro con il proprio corpo e inspirare a pieni polmoni il profumo del suo corpo.
Bello e impossibile.
 
“John” lo richiamò sottovoce mantenendo la stessa posizione per non far svegliare la bimba, facendo voltare il medico perplesso verso di lui.
“C’è qualche problema, Holmes?” gli chiese calcandone bene il cognome facendo scattare un campanello d’allarme nella testa dell’altro.
Qualcosa non andava. E non capiva cosa.
“E’ probabile, anzi, è certo, come puoi vedere, che ho bisogno di un piccolo aiuto per togliermela di dosso” constatò puntando i suoi occhi glaciali in quelli dell’altro, facendogli mancare un battito dall’emozione mentre lo stomaco gli si contorceva leggermente.
Non si sarebbe mai abituato a quello sguardo così… potente e incerto sui sentimenti umani al tempo stesso.
No. Doveva mantenere la concentrazione e, per farlo, gli serviva un altro punto su cui posare lo sguardo che non fosse il bel tenebroso Sherlock Holmes tenuto a bada calmo e tranquillo dalla figlia addormentata.
Rischiava di farsi venire il diabete solamente a guardarli.
Gli occhi gli caddero in maniera del tutto casuale sul manichino infilzato da svariati coltelli sospeso per aria, tramite cappio.
Quella vista bastò a fargli riprendere le redini della sua mente e impartire punizioni da bravo soldato qual era.
 
“E’ probabile, anzi, è certo, che ti debba arrangiare. E guai a te se la svegli perché mi sta venendo un bel mal di testa” decretò con un sorriso stanco e maligno stampato in faccia, facendo boccheggiare l’altro dalla sorpresa.
“Posso sapere il perché?!?” domandò irritato tenendo la voce talmente bassa da renderla quasi un sibilo di una serpe mentre Callie si sistemava meglio sulla schiena del riccioluto lasciando un piedino calzato appoggiato al pavimento.
John si avvicinò con fare calcolato, stando attento a non pestare nulla, per poi accovacciarsi nemmeno fosse il peggior torturatore del pianeta.
“Dunque, vediamo… così impari a lanciare coltelli in casa con la bambina presente, per cominciare, e la prossima volta non la immischierai in un caso, per finire”- gli spiegò alzandosi sospirando appena dalla felicità, per poi rivoltarsi e fare un’ultima osservazione- “Lo sai che sembri così docile quando fai il padre? Addomesticato da una bambina! Incredibile!”.
 
Di sicuro, Sherlock, non gliel’avrebbe mai perdonata.
 

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Capitolo 6
*** 6. Di mondi fantastici e promesse sussurrate ***


6. Di mondi fantastici e promesse sussurrate
 

 
Mille e più goccioline s’inseguivano allegre lungo il vetro della finestra della classe con il cielo bigio e piangente a fargli da sfondo mentre una voce lontana e petulante consentiva alla piccola Callie di viaggiare con la mente in posti incontaminati e magici assieme ai suoi genitori.
Sospirò per l’ennesima volta dalla noia, lo sguardo trasognato e perso nei propri pensieri… fino a quando una mano inanellata non sbatté prepotentemente sul piccolo banco, facendola sobbalzare dallo spavento.
 
“Signorina Holmes”- la richiamò all’attenzione quell’arpia di maestra dal volto consumato dalla vecchiaia o dalle, forse, troppe sottrazioni matematiche- “E’ così interessante il tempo, oggi?”.
La bambina abbassò lo sguardo lievemente imbarazzata mentre i suoi compagni se la ridevano sotto i baffi, aumentando a dismisura la vergogna.
Cosa ci poteva fare se non le piaceva affatto la matematica? Certo, se la cavava egregiamente, ma sapeva benissimo che non era la materia che le interessava: lei voleva viaggiare per il mondo, studiare le lingue delle varie culture e conoscerle, scrivere! Non fare della matematica!
“Ma… Signora Greymoore! Guardi lassù, quel piccola luce in mezzo a tutte quelle nuvole nere! Forse è un portale verso un'altra dimensione!” esclamò alzando di scatto la testa per spiegarle la sua teoria, facendo alzare un sopracciglio dallo scetticismo alla maestra senza fantasia.
“E sentiamo… cosa ci sarebbe in questa altra dimensione?” le domandò quella mimando le virgolette per le ultime due parole, mentre tutti gli altri attendevano la risposta in un silenzio carico d’aspettativa.
“Quello che vuole! Draghi… angeli, dei… o un mondo parallelo! Forse c’è una me che combatte contro il crimine!” ipotizzò lei guardando estasiata quel piccolo spiraglio di luce che stava lentamente svanendo, facendo ripiombare Londra sotto il nero del maltempo.
Tutti cominciarono a ridere di gusto e a prenderla in giro, affermando in modo convinto che non poteva esistere nulla di simile se non nelle troppe fiabe che leggeva, mentre l’anziana donna sospirava affranta per poi ritornare verso la propria cattedra e mettere a posto i libri di matematica, uscendo dalla classe quando la campanella annunciò la ricreazione.
 
La riccioluta prese la sua merendina e un foglio di carta e penna per disegnare il suo mondo fantastico per poi sentire lo sguardo di qualcuno puntato sulla sua minuta figura.
Alzò gli occhi e si trovò difronte alla bambina più bella della classe che la guardava con altezzosità assieme alle sue seguaci che ridacchiavano malevole.
Callie deglutì a vuoto un paio di volte, abbassando lo sguardo innervosita: perché non riusciva a essere distaccata come il padre? O coraggioso come il suo soldato?
Ogni volta che qualcuno le diceva qualcosa di male le veniva il magone difficile da cacciare indietro, per poi piangere quando era sola.
A volte sognava di essere come il suo fidato Bumblebee: di metallo.
“Che cosa vuoi, Dana?” domandò riportando lo sguardo su di lei mentre quella sbuffava divertita.
“Tu sei proprio strana” dichiarò senza tanti giri di parole, lasciandola basita. Perché dire una cosa simile?
“Non capisco…”
“Massì, guardati! Sei sempre nel tuo mondo impossibile e poi quella massa di capelli! Sembra un labirinto! Vero, ragazze? E poi i tuoi genitori! Siete tutti strani!” sbottò quella con cattiveria mentre le altre annuivano convinte, lasciandola ancora più perplessa, mentre un’ondata di rabbia le invadeva la mente come un toro che si vede davanti un mantello rosso sangue.
“Che cos’hanno i miei genitori? Sono persone normalissime, mi vogliono bene!” li difese a spada tratta alzandosi di scatto, protendendosi verso quella bambina impertinente che nel frattempo aveva indietreggiato nemmeno avesse davanti la Morte Nera.
“Oh, non lo metto in dubbio! Ma perché tu non hai una madre? Sei stata adottata, per caso? È morta?” chiese quella con fare ovvio, facendola innervosire ancora di più.
Nessuno poteva mettere in dubbio la sua provenienza, tantomeno che fosse la figlia del Grande Sherlock Holmes. Adottata un corno!
“Non credo te ne importi, Dana! Lascia stare i miei genitori, chiaro?!?” gridò infuriata spaventando un poco le altre bambine.
Ma quella scorbutica di Dana, con i suoi biondissimi capelli da principessa, sembrava non voler demordere.
“Non è normale avere una famiglia con due papà! Tu sei figlia di nessuno! È per questo che tu sei così diversa!” cantilenò posando le sue manine sui fianchi e sporgendosi un poco in avanti.
Peccato che non avesse tenuto conto che Callie, quando parlavano male dei suoi genitori, s’infuriasse come un piccolo leone.
Scavalcò il tavolo senza troppe difficoltà e si gettò addosso a quella smorfiosa tirandole i capelli con quanta forza poté, facendola gridare dal dolore mentre le altre bambine avevano cominciato a urlare terrorizzate e i maschi incitavano la riccioluta battendo i piedini per terra.
A volte i bambini sanno essere davvero crudeli, anche se puri d’animo.
 
“Sei solo una stupida viziata!” le gridò contro la piccola Holmes tirandole due schiaffi in faccia provocando il piagnisteo dell’altra.
Non fece in tempo a rifilargliene un altro che l’inserviente la tirò via di peso per un polso, portandola fuori dalla classe con forza, mentre gli insegnanti aiutavano la piccola principessa.
 
§§§
 
Callie era seduta sul piccolo sofà del salotto con le manine in mezzo alle gambe a fissare i suoi genitori stare in totale silenzio davanti a lei, mentre John, il più delle volte, si asciugava le mani sudate sui pantaloni e poi si alzava e camminava per un po’ nella stanza tornando successivamente a sedersi. Sembrava caduto in un loop.
Sherlock, dal canto suo, la guardava dritto negli occhi, studiandola a fondo.
La bambina non si pentiva di nulla di ciò che aveva fatto: per lei era stata legittima difesa, anche se avrebbe realmente capito più tardi quel significato, ma al momento le andava più che bene usarlo per difendere la sua famiglia.
 
“Senti, Callie… perché hai picchiato quella bambina?” domandò Watson con tono nervoso, richiamando la sua attenzione.
“Mi ha dato della strana, così come ha offeso voi” rispose per nulla toccata.
Callie sapeva benissimo che la sua famiglia era particolare, ma non le importava minimamente: quello che contava è che le volessero bene, così come lei voleva un bene dell’anima a loro due.
C’era solo una cosa che ancora non capiva e che quella bambina saccente e stupida aveva riportato alla luce nella sua mente dopo quasi un anno che non ci pensava…
 
“Non mi sembra che noi due ti abbiamo insegnato a picchiare le persone solo per un’offesa! Siamo in un mondo civile, Callie! Si discute, ma non si passa alle mani!” la rimproverò John duramente, lasciando sconvolta la bambina.
Lei li aveva solamente difesi! Perché l’attaccava a quel modo?
“Non lo trovo affatto giusto! Quella stronza se l’è meritato!” sbottò con linguaggio colorito, facendo sbiancare John dalla sorpresa che si riprese subito.
“Modera i termini, ragazzina! Non accetto simili parole da te, chiaro?!? Tu non dovevi picchiarla, fine della questione! Che se lo sia meritato o meno! Sherlock, dille qualcosa anche tu!” sbraitò irato cercando dal trattenersi dallo sbattere i pugni contro la parete.
“Come? Oh, sì, certo… hai ragione!” esclamò il riccioluto alzandosi di scatto dalla poltrona su cui era comodamente seduto andando in cucina a trafficare con Dio solo sapeva cosa.
John allargò lievemente le braccia e scosse la testa un paio di volte, non credendo assolutamente a quella scena che si era venuta a creare: era indeciso se ridere dalla rabbia o semplicemente mandare al diavolo tutto e tutti e andarsene a fare un giro per calmare i nervi.
Voleva un mondo di bene alla piccola, ma non sopportava l’idea che a otto anni picchiasse le persone per un’offesa!
Dove sarebbe arrivata con quel comportamento? Avrebbe ammazzato qualcuno per la stupidità e la crudeltà altrui?
Per non parlare di suo padre! Di sicuro non aveva ascoltato una singola parola di quello che avevano detto!
 
“Tu non stavi ascoltando!” lo rimbrottò seguendolo nel cucinino guadagnandosi un’occhiata talmente eloquente che lo fece sbuffare dal nervoso.
Si portò le mani alle tempie e chiuse fortemente gli occhi come a voler scacciare via i problemi, ma la voce tremula della bambina lo riportò alla realtà, così come guadagnò l’attenzione del consulente investigativo.
 
“Dov’è la mamma?” domandò con lo sguardo puntato costantemente sul pavimento, mentre due lacrimoni spuntavano agli angoli degli occhi, pronti a dare inizio a una potente crisi di pianto.
I due uomini si guardarono a vicenda per alcuni attimi, per poi avvicinarsi e sedersi accanto alla pargola, tenendo lei nel mezzo.
Un’altra cosa che la bambina non capiva era perché John e Sherlock non stessero insieme, provocando in lei una grande tristezza.
A volte, raramente, le era capitato di pensare che John la considerasse una figlia più per obbligo che per amor suo ma, d’altro canto, non poteva essere così bravo a mentire.
 
“Ascoltami bene, Callie… noi non sappiamo minimamente dove sia la mamma, ma tu sappi che le ti vuole bene, a modo suo…” spiegò Sherlock con enorme difficoltà, trattenendo due o tre insulti nei confronti di quella donna che l’aveva abbandonata.
Da una parte era contento che lui non avesse compiuto lo stesso gesto e, di questo, doveva ringraziare John e Mrs. Hudson.
“Se mi voleva bene veramente non mi avrebbe mai abbandonata! I-Io ho picchiato… quella… perché vi voglio bene e nessuno deve toccare la mia famiglia… nemmeno a parole” soffiò alzandosi dal divano e cominciando a piangere a dirotto, stringendo convulsamente i pugni, mentre violenti singhiozzi le scuotevano il corpicino nemmeno fosse in preda a un qualche brutto incantesimo di tortura.
Sherlock fissò stralunato la sua schiena non capendo bene perché tutti quei sentimenti contrastanti di rabbia e tristezza, sentendosi un poco in colpa per il fatto di non essere un padre empatico come John.
Il medico, dal canto suo, sospirò pesantemente e s’inginocchiò vicino a lei, facendola voltare e abbracciandola di slancio, accarezzando la sua testolina riccioluta mentre sfogava la sua disperazione.
Holmes osservò la scena e ne studiò i particolari, soffermandosi sul volto semi nascosto dell’ex soldato: sembrava stesse combattendo l’ennesima guerra.
Chissà a cosa pensava.
Non lo avrebbe mai capito, ma fu più che certo che quello era uno dei tantissimi aspetti che gli piaceva di John, anche se non glielo avrebbe mai confessato per paura di perderlo.
Solo ora si rendeva conto di quante cose dovesse ancora imparare.
 
Si alzò di scatto e raggiunse le sue due persone più importanti abbassandosi a dare un vaporoso bacio sulla nuca di Callie, toccando inavvertitamente la mano dell’altro uomo, ma non la ritrasse, beandosi del suo calore.
“Sei una bravissima guerriera” le mormorò all’orecchio con estrema sincerità, per poi allontanarsi e proseguire nel suo caso.
 
Nessuno vi farà mai del male finché avrò fiato in corpo. Fosse l’ultima cosa che faccio” pensò infine rimettendosi al lavoro mentre, dall’altra parte, John pensava la stessa, medesima cosa.

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