Il Buono, La Bella, Il Cattivo di Jim2233 (/viewuser.php?uid=784148)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo 1: Il Buono ***
Capitolo 2: *** Prologo 2: La Bella ***
Capitolo 3: *** Prologo 3: Il Cattivo ***
Capitolo 4: *** Capitolo 1: Giù la testa ***
Capitolo 5: *** Capitolo 2: Furia rossa ***
Capitolo 6: *** Capitolo 3: Helltown ***
Capitolo 7: *** Capitolo 4: La terra degli Apache ***
Capitolo 8: *** Capitolo 5: Il quinto uomo ***
Capitolo 9: *** Capitolo 6: Territorio nemico ***
Capitolo 10: *** Capitolo 7: L'inseguimento ***
Capitolo 11: *** Capitolo 8: Yuma! ***
Capitolo 12: *** Capitolo 9: Uno sceriffo nei guai ***
Capitolo 13: *** Capitolo 10: La cella della morte ***
Capitolo 14: *** Capitolo 11: Il guerriero Apache ***
Capitolo 15: *** Capitolo 12: Il tranello ***
Capitolo 1 *** Prologo 1: Il Buono ***
Il
sole picchiava sulla cittadina di Hangtown, in
California, quando il Cowboy a cavallo arrivò. Stanco e
affamato come solo un
viaggio attraverso il Sentiero della California rendeva un uomo, si
guardò
attorno, gli occhi socchiusi.
Quella
in cui era capitato era la tipica cittadina
ingranditasi rapidamente grazie alla corsa all’oro, che in
California impazzava
già da diversi mesi. Nonostante questo, le poche strade che
si incrociavano
erano completamente deserte, fatta eccezione per un cespuglio solitario
che
rotolava nella polvere.
Il
silenzio era totale, se non per i lontani
schiamazzi provenienti dal Saloon nella piazza principale.
Il
Cowboy seguì i rumori fino ad arrivare al locale.
Scese lentamente dal cavallo, lo legò alla recinzione e
spalancò le ante di
legno.
Provò
a capire quali fossero le reazioni degli
avventori alla sua comparsa, ma gli sembrò che nessuno lo
degnasse di
particolari attenzioni. Sorrise fra sé. Probabilmente non
era raro che dei
forestieri passassero per quel posto a fare rifornimento.
Si
diresse al bancone e ottenne un tavolo. Ordinò un
pranzo non molto abbondante ma sostanzioso, insieme a del whisky.
Mentre
mangiava scrutò fuori dal locale e
intravide una forca alla quale era ancora appesa una corda, residuo di
una
recente impiccagione.
Finito
di sorseggiare il suo whisky, si
fece assegnare una camera in cui riprendersi dal faticoso viaggio,
prima di
scendere a cenare.
Di
sera, il Saloon era affollato. Una
danzatrice, accompagnata da un abile pianista, intratteneva gli
avventori, i
quali applaudivano spesso e volentieri lanciando fischi di approvazione.
Il
Cowboy si diresse verso il bancone,
cercando di non attirare l’attenzione.
Cominciamo,
si disse, sospirando
piano.
Schiarendosi
la voce, estrasse un foglio
arrotolato e lo dispiegò davanti al proprietario del Saloon.
Il manifesto
recava il ritratto di un volto solcato da una lunga cicatrice sulla
guancia
sinistra. Sotto l’immagine del singolare viso si trovava una
scritta, «Dead
or alive», e ancora più in
basso ce n’era un’altra: 3000 $.
“Ho
bisogno di sapere se questa persona si
trova qui” chiese il Cowboy all’uomo, senza troppi
giri di parole.
Il
proprietario lo guardò strabuzzando gli
occhi. In effetti quel ceffo si trovava proprio nel suo Saloon, ne era
certo.
Quella faccia non si dimenticava facilmente.
“Si
trova a quel tavolo laggiù
nell’angolo.” Sembrava che l'uomo si sforzasse di
dire quelle parole, come se
non volesse rivelarle. “Grazie mille” fece il
Cowboy, che apparentemente non
aveva fatto una piega “Le sono grato
dell’informazione.”
Due
ore più tardi, un movimento catturò la
sua attenzione. L’uomo seduto al tavolo nell’angolo
si stava alzando. Il Cowboy
era sicuro che fosse la persona giusta, dato che lo aveva sorvegliato
tutta la
serata con discrezione. Finalmente la sua lunga caccia, che lo aveva
portato ad
attraversare una pista ostica come il Sentiero della California, stava
per
terminare. Si impose di restare calmo.
Seguì
l’uomo con lo sguardo: si stava
dirigendo verso il bancone. Vide che parlava con il proprietario, ma
sembrava
che la conversazione non gli andasse a genio, visto il modo in cui si
accigliava. Alla fine, ignorando le proteste dell’uomo,
scavalcò il bancone e
scomparve nel retro.
Quasi
immediatamente un urlo femminile proveniente
da quella direzione squarciò la sonnacchiosa atmosfera del
Saloon.
Non
ci siamo proprio,
pensò il Cowboy mentre
si alzava e a passo svelto raggiungeva il bancone. Ad
un’occhiata eloquente del
proprietario entrò nel retro.
La
voce femminile apparteneva chiaramente
alla danzatrice, che stava per essere importunata dal ricercato.
Fu
un attimo. La mano dell’uomo che si
alzava e la Colt del Cowboy che faceva fuoco. Il ricercato si
accasciò senza
vita.
“Non
ti darà più fastidio, stai
tranquilla” fece il Cowboy mentre riponeva la pistola nella
fondina.
Solo
dopo parecchi secondi la ragazza
trovò il coraggio di parlare. “Chi sei?”
Il
Cowboy si tolse il cappello rivelando
folti capelli color bronzo.
“I
miei nemici mi chiamano Biondo, ma tu
puoi chiamarmi Finnick”.
Angolo
dell’autore
Ciao a
tutti!
Questa pazza pazza idea mi è venuta durante
l’estate, quando ho “scoperto” i
bellissimi western di Sergio Leone e Clint Eastwood. Nella mia strana
testa è
scattato questo ragionamento: Hunger Games + Western = FANFICTION!
Spero di
non aver
osato troppo e di aver creato qualcosa di piacevole da leggere. Spero
di
limitare al massimo gli OOC, ma sarà un’impresa
impossibile. Questo è il primo
dei tre prologhi, il secondo e il terzo verranno pubblicati domani e
dopodomani.
Beh,
fatemi sapere
cosa ne pensate!
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Capitolo 2 *** Prologo 2: La Bella ***
La
Ballerina camminava frettolosa lungo le strade
polverose della cittadina. Dopo lunghe ore passate a pulire la casa del
ricco
uomo, era impaziente di tornare a casa.
Poteva
vedere il sole abbassarsi fino a toccare le
colline a ovest: la giornata stava per volgere al termine.
Sentiva
il corpo dolere un po’ dappertutto a causa del
duro lavoro svolto, ma sapeva che per lei quella sera ci sarebbe stato
ancora da
faticare.
Giunta
a casa, aprì la porta ed entrò. A restituirle
lo sguardo c’era una ragazzina di dieci anni, che non appena
la vide le saltò
in braccio salutandola calorosamente. La Ballerina ricambiò
con entusiasmo: era
tutta la giornata che aspettava quel momento.
“Mi
sei mancata, Paperella.”
“Anche
tu! Ho avuto paura mentre ti aspettavo.”
“Paura?
E di cosa?”
“Avevo
paura che i pellerossa venissero a prendermi”
“Perché
dovresti avere paura degli indiani?”
“La
maestra ce ne ha parlato a scuola. Ha detto che
sono cattivi e odiano noi bianchi.”
La
Ballerina sospirò. Un discorso sugli indiani non
era mai facile da affrontare, specialmente con una ragazzina di dieci
anni.
Tutto quello che poteva fare era rassicurarla.
“Devi
sapere che i bianchi hanno trattato male gli
indiani. È per questo che non gli stiamo simpatici.
Però devi stare tranquilla,
loro sono molto lontani da noi.”
“Sei
sicura?”
“Certo.
I Navajos abitano in Arizona, e i Sioux sono
talmente tanto a nord che i loro inverni non finiscono mai. Qui puoi
dormire
tranquilla.”
La
bambina sorrise e si disfece le trecce bionde.
Dopo
un rapido bagno la Ballerina, ripulita e
profumata, scelse il suo vestito migliore e si preparò ad
uscire.
“Paperella,
vado a lavorare. Buonanotte” disse
abbracciando la bambina.
“Ti
voglio bene.”
“Anch’io.
Ora però dormi.”
Con
la solita stretta al cuore, la Ballerina si chiuse
la porta alle spalle.
Mezz’ora
più tardi, ballava sotto gli occhi di tutti i
clienti del Saloon, sorridendo a tutti i fischi di approvazione che
sentiva.
Sapeva benissimo che almeno la metà della folla che la stava
guardando avrebbe
voluto passare la notte con lei, ma, come ogni sera, non si sarebbe
concessa a
nessuno.
Quando
la musica finì, trasse un sospiro di sollievo
mentre faceva un lieve inchino e si dirigeva nel retro del locale.
Sola
con i propri pensieri, si guardò allo specchio.
Nella stanza semibuia, vedeva una ragazza truccata e ben vestita. In un
ambiente del genere avrebbe suscitato un’unica impressione,
ma la Ballerina
lavorava tutto il giorno per non essere costretta a concedersi al primo
uomo
che la desiderava solo per qualche soldo in più.
“Allora,
saliamo in camera?” la voce la fece trasalire
e voltare di scatto. A parlare era stato un uomo, palesemente ubriaco.
La
Ballerina impallidì mentre lo guardava meglio: una
lunga cicatrice gli attraversava la guancia; una pistola gli faceva
pendere da
un lato il cinturone.
Ripensò
a tutti gli uomini che aveva respinto.
L’esperienza le aveva insegnato che gli ubriachi erano i
più restii ad
andarsene. Per un attimo ebbe paura.
L’immagine
della sua sorellina che la aspettava si
fece spazio nella mente, reprimendo l’ansia che la stava
bloccando. Cercò di
ragionare: probabilmente in quelle condizioni l’uomo non
sarebbe stato in grado
di spararle, ma se l’avesse aggredita in quello spazio
angusto, per lei non ci
sarebbe stato scampo.
L’ubriaco
si accorse dell’esitazione della ragazza, e
si avvicinò con passi pesanti e minacciosi.
Senza
via di fuga, la Ballerina strillò, chiamando
aiuto a pieni polmoni.
Il
tempo stringeva. Indietreggiando, la ragazza ebbe
un sussulto quando urtò il muro con la schiena.
Rifiutandosi
di cedere alla paura, si preparò a
combattere.
Uno
sparo, e l’uomo si accasciò. Non aveva avuto
neanche il tempo di toccarla.
“Non
ti darà più fastidio, stai tranquilla.”
Il
suo salvatore stava riponendo la Colt nella
fondina.
“Chi
sei?” chiese attonita la Ballerina.
Il
Cowboy si tolse lo Stetson prima di parlare,
mostrando i folti capelli color bronzo.
“I
miei nemici mi chiamano Biondo, ma tu
puoi chiamarmi Finnick”.
La
Ballerina tese la mano.
“Io
mi chiamo Katniss.”
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Capitolo 3 *** Prologo 3: Il Cattivo ***
Il
sole stava sorgendo e cominciava a disegnare ombre
oblique sul terreno.
Il
Boss cavalcava piano, per non stancare inutilmente
il cavallo. Nonostante la strada impolverata, la sua giacca restava
immacolata.
Si
lasciò sfuggire un impercettibile sbuffo di
soddisfazione quando arrivò in vista della sua destinazione.
Davanti a lui si
stagliava un edificio tozzo ma esteso, dalle pareti bianche, che il
Boss
conosceva bene. Il posto era noto a tutti come il carcere di Yuma.
Le
sentinelle in cima alle torri di guardia notarono
il suo arrivo e si misero in allarme, ma appena lo riconobbero lo
fecero
entrare.
“Devo
parlare con il direttore” esordì questo.
“Ci
segua, la condurremo nel suo ufficio” rispose una
guardia.
L’ufficio
del direttore era spoglio, così come lo era
il resto della prigione. Il Boss si schiarì la voce prima di
esporre la sua
richiesta.
“So
che oggi dovreste liberare un prigioniero. È
esatto?”
“È
esatto” rispose il direttore “La scarcerazione
è
prevista tra un paio d’ore.”
“Bene.
Se possibile, vorrei parlare con lui appena
possibile.”
“Ma
certo. Per uno come lei non sarà un problema fare
un’eccezione.”
“Grazie
mille. Aspetterò qui fuori.” concluse il Boss.
Due
ore più tardi, il tintinnio di un mazzo di chiavi
catturò la sua attenzione. Il direttore stava tornando da
lui.
“È
giunta l’ora. Se vuole seguirmi…”
Camminarono
nel silenzio più assoluto. La maggior
parte dei detenuti dormiva ancora, e i due non ci tenevano affatto a
svegliarli.
Finalmente
arrivarono alla cella giusta. Attraverso le
sbarre il Boss riusciva a vedere un giovane uomo dai capelli color
paglia,
quasi bianchi. Era già sveglio e aspettava seduto sul bordo
della sua panca.
“Cato”
fece il direttore “sembra che da oggi tu sia un
uomo libero”.
Il
giovane non rispose. Nonostante la posizione di
inferiorità il suo sguardo trasudava arroganza. I due anni
in prigione non
erano bastati a domarlo, a placare la sua sete di omicidi. La Belva,
così
veniva chiamato dalle forze dell’ordine, era pronta a tornare
in circolazione.
La
porta arrugginita sferragliò mentre veniva aperta.
Il giovane, deperito ed emaciato, seppur muscoloso, uscì con
passo incerto.
Rivolse uno sguardo sorpreso al Boss.
“Vieni”
proseguì il direttore “Ti restituisco i tuoi
effetti personali”.
Dieci
minuti dopo, Cato sembrava rinato. I vestiti
mascheravano la sua magrezza, e l’espressione sul viso lo
faceva sembrare
rilassato.
“Direttore,
non serve che lo scortiate fino a Yuma”
fece il Boss “Da qui in poi me ne occupo io”
“Gliene
sono molto grato. Vorrei salutarla con un
arrivederci, ma probabilmente non sarebbe di buon auspicio”
Il
Boss rise, prima di rispondere.
“Allora,
che questo sia un addio”.
La
città di Yuma stava cominciando ad animarsi quando
i due arrivarono.
“Non
ti ho dimenticato, Cato. Ho aspettato con
ansia questo giorno” disse il Boss “Apri la
bisaccia sul fianco del cavallo”.
Cato
eseguì e le sue mani si serrarono attorno
all’oggetto che tanto aveva desiderato avere tra le mani
nella cella in cui era
rinchiuso. Il giovane osservò stupito la pistola che aveva
appena tirato fuori.
Era carica.
“Mi
servi, Cato. Ho bisogno di uomini di valore”.
“Cosa
sta succedendo?”
“Ancora
niente, ma sta per cominciare qualcosa di
grande”.
Il
giornalista che gestiva il “Daily Reporter”,
l’unico giornale della città, cominciava ad
affiggere i manifesti con le varie
notizie, e fu proprio una di queste ad attirare l’attenzione
del Boss.
Riportava l’annullamento della taglia di un ricercato,
dovuta alla
morte del ricercato stesso.
“Non
è possibile” il Boss imprecava cercando di
dominare l’ira che saliva sempre più. Chiese al
giornalista se fosse sicuro
della veridicità della notizia.
“Certo
che è vera” rispose l’uomo
“È stato ucciso
proprio ieri a Hangtown da un famoso bounty-killer.”
Il
Boss si girò verso l’ex-prigioniero.
“Ti
ricordi Cray?”
“Certo.”
“L’hanno
ucciso.”
Il
Boss sollevò gli occhi dalla notizia, due occhi che
parlavano di odio e vendetta.
“Ho
un compito per te, Cato: vai a Hangtown e ammazza
quel bastardo di un Biondo.”
“Sarà
fatto, Mister Snow.”
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Capitolo 4 *** Capitolo 1: Giù la testa ***
Katniss
venne svegliata da un tremendo urlo e lottò
contro le palpebre pesanti cercando di recuperare la
lucidità alla svelta.
La
sua sorellina stava chiamando aiuto! Si alzò di
scatto dal letto e corse verso la direzione dalla quale proveniva la
voce.
“Prim!”
fece Katniss “Che succede?”
La
bambina era in piedi e con aria sconvolta indicava
Finnick.
“Katniss!
C’è un uomo in casa nostra!”
“È
tutto a posto, Prim. È un amico, ieri mi ha salvato
la vita”.
“Davvero?”
chiese sorpresa la bambina.
“Proprio
così.”
L’espressione
di Finnick era un misto fra
l’imbarazzato e il divertito.
“Sembri
rilassato, per uno a cui vogliono fare la
pelle” osservò Katniss.
“Hai
ragione” ribatté lui “ma non credo che
qui mi
troveranno.”
I
pensieri della ragazza tornarono alla sera
precedente.
La
voce del proprietario del Saloon rimbombava nel
locale.
“Non
c’è assolutamente niente da vedere! Andatevene a
dormire tutti quanti!”
In
poco tempo il posto si era svuotato e Finnick era
uscito dalla stanza trascinandosi dietro il cadavere del ricercato.
“La
ragazza sta benissimo, è solo un po’
scossa” aveva
detto all’uomo “Ma mi sa dire dove posso trovare lo
sceriffo?”
Ottenute
le indicazioni, si era apprestato ad uscire,
ma Katniss lo aveva fermato.
“Finnick!
Posso accompagnarti dallo sceriffo?”
Il
ragazzo aveva annuito mentre infilava il corpo del
ricercato in un grande sacco. Legatolo al cavallo, si era incamminato
con la
ragazza.
“Katniss?!”
Aveva esclamato lo sceriffo non appena
l’aveva vista “Cosa è
successo?”
“È
tutto a posto, sto bene” lo aveva tranquillizzato
la ragazza, prima di riprendere: “Dovrei presentarti
un… un amico. Mi ha appena
salvato la vita”.
“Finnick
Odair” aveva esordito il pistolero tendendo
la mano.
“Sono
lo sceriffo Peeta Mellark, piacere” aveva
risposto lo sceriffo, stringendola.
“Lì
dentro c’è un ricercato da tremila
dollari.”
Finnick
stava indicando il sacco sul cavallo “Si
tratta di un certo Cray.”
Lo
sceriffo aveva cominciato a cercare con lo sguardo
tra i ari avvisi di taglia attaccati al muro dietro la sua scrivania.
“Cray…
Ma fa parte della banda di Snow!” aveva
esclamato Peeta sbigottito “Amico, hai idea di chi ti stai
mettendo contro?”
“Certo”
aveva ribattuto Finnick con fermezza “E ho i
miei buoni motivi per farlo.”
Ora
i penetranti occhi azzurri di Peeta fissavano con
attenzione Finnick.
“In
questo mondo ognuno sceglie la propria strada,
consapevole dei rischi”
Lo
sceriffo si era girato e aveva preso i soldi della
taglia.
“Sceriffo,
è giovane per il lavoro che fa” aveva detto
Finnick prendendo il denaro “Ma da quello che vedo,
è uno che sa come gira il
mondo.”
“Ho
dovuto imparare” era stata la risposta di Peeta,
pronunciata con voce ferma.
“Piuttosto,
stanotte ti verranno a cercare” aveva
ripreso lo sceriffo “ti ospiterei in casa mia, se non fosse
il posto più probabile
da usare come nascondiglio.”
“Dormi
da me.” La voce di Katniss li aveva sorpresi
entrambi “A nessuno verrà mai in mente di cercarti
in casa mia. E poi, posso
finalmente rendermi utile.”
Finnick
aveva annuito lentamente, riflettendo.
“Mi
sembra una buona idea” Aveva detto Peeta, prima di
tendergli la mano per salutarlo.
“Ti
auguro di riuscire a finire quello che stai
facendo, Finnick.”
“Già”
aveva risposto il pistolero “Me lo auguro
anch’io.”
Katniss
tornò al presente,
“Cosa
hai intenzione di fare, adesso?”
“Di
sicuro non resterò” rispose Finnick
“Devo
sistemare un po’ di cose qui, poi
partirò.”
“Perché
fai tutto questo?”
Il
ragazzo fissò Katniss a lungo, prima di rispondere.
“Ho
un conto in sospeso con Snow. E non posso fermarmi
finché non lo avrò saldato.”
***
La
mattina seguente Finnick decise di uscire. Nella
sua mente si era già delineato un piano da diverso tempo.
Dopo aver fatto
rifornimento, sarebbe partito il giorno stesso alla volta di
Bakersfield, una
grande città mineraria situata in California. Sarebbe
arrivato di sera, per non
dare troppo nell’occhio. Una volta lì, avrebbe
cominciato a fiutare l’aria che
proveniva da Yuma, dove avrebbe potuto finalmente concludere il suo
lavoro.
Il
sole era ormai alto e le prime diligenze
cominciavano a partire, sollevando nuvole di polvere. Finnick spinse in
avanti
la porta dell’emporio cittadino, che si aprì con
uno scampanellio, ed entrò.
Ignorando
lo sguardo di sottecchi lanciatogli dal
proprietario semi-addormentato del negozio, cominciò ad
aggirarsi tra gli scaffali.
Cercava soprattutto munizioni, dato che nel lungo viaggio per arrivare
a
Hangtown ne aveva dovute utilizzare parecchie. Trovate delle pallottole
della
giusta misura, ne afferrò diverse manciate e
tornò indietro poggiandole sul
bancone.
“Sono
due dollari” fece l‘uomo.
La
porta del negozio si aprì, ma Finnick non ci fece
caso. Il ragazzo aprì la bisaccia e contò le
monete; nel farlo un paio cadde a
terra.
Si
chinò per raccoglierle e nello stesso istante udì
un potente colpo di pistola, amplificato dall’ambiente
chiuso. Percepì la
pallottola che si andava a conficcare in profondità nel
legno del bancone.
Spinto dai soli riflessi, che tante volte gli avevano salvato la vita,
rotolò
su un fianco per togliersi dalla traiettoria di tiro. Al quarto sparo,
però,
avvertì un dolore lancinante che proveniva dalla gamba
sinistra: era stato
colpito. Strinse i denti e, ignorando le fitte che la ferita diffondeva
in
tutto il corpo, fece leva con le braccia per buttarsi dietro il
bancone, in
modo da avere una copertura.
L’aggressore,
intanto, aveva finito i colpi.
Affacciandosi dal suo riparo di fortuna, Finnick lo scorse intento a
rifugiarsi
dietro l’angolo della porta d’ingresso per
ricaricare la sua arma. Il Biondo,
però, fu più veloce. Prima che l’altro
scomparisse riuscì a centrargli il
braccio con un colpo ben piazzato. Sapendo di non avere molto tempo
prima che
il bandito tornasse all’attacco, si lanciò fuori
dall’emporio cercando di
coglierlo di sorpresa.
Solo
in quel momento poté guardarlo in faccia
chiaramente. Aveva già notato i capelli di un biondo
chiarissimo, ma fu lo
sguardo folle e omicida a fargli tornare la memoria. Quello era Cato,
uno dei
più pericolosi sicari della banda di Snow.
Finnick
rimase interdetto: era convinto che fosse
ancora in carcere.
Cato
notò l’esitazione del Biondo e, messo alle
strette e senza colpi, saltò sul cavallo e lo
spronò al galoppo.
Troppo
facile, pensò
Finnick
prendendo la mira, ma al momento di premere il grilletto la gamba
ferita
cedette sotto il suo peso, facendolo stramazzare al suolo.
Rialzatosi,
il bandito era ormai troppo lontano.
Imprecando a bassa voce, si rese conto che stava buttando al vento una
ghiotta
occasione per sapere qualcosa di più sulla banda di Snow.
Soppesò per qualche
istante i rischi e decise di inseguire Cato.
Zoppicando
più veloce che poteva, raggiunse la casa di
Katniss, che per fortuna non era lontana. Stava per montare sul
cavallo, quando
la voce della ragazza lo raggiunse.
“Finnick!
Cosa stai facendo?”
“Un
sicario di Snow mi ha aggredito. Devo inseguirlo.”
“Oh
mio Dio, Finnick, sei ferito!”
“Non
è niente!” ribatté lui quasi urlando
prima di
calciare i fianchi del cavallo con gli speroni.
In
poco tempo era già fuori da Hangtown, nella
direzione presa da Cato. Seguire le sue tracce sarebbe stato facile, ma
le
condizioni della sua gamba peggioravano il tutto, non avendo avuto
neanche il
tempo di fasciarsi la ferita. Tuttavia sapeva di non poter mollare
proprio ora:
l’occasione di poter estorcere informazioni ad un membro
della banda di Snow
non si sarebbe ripresentata così facilmente.
Osservando
il paesaggio circostante Finnick storse il
naso. Tutto intorno a lui si estendeva la Sierra Nevada, la grande
catena
montuosa della California, e un inseguimento tra le montagne lo avrebbe
sfavorito non poco.
All’improvviso,
però, si vide sbarrare la strada da
dieci individui. Li identificò all’istante come
pellerossa, ma non riusciva a
capire a che tribù appartenessero. Mentre si avvicinavano
lentamente, comprese
che le loro intenzioni erano ben poco pacifiche.
Sentì
aumentare la rabbia dentro di sé, subito
soppiantata dalla preoccupazione di come salvarsi. Non poteva
combattere contro
dieci nemici contemporaneamente, né aveva il tempo di
trovare un riparo. Come
animata da volontà propria, la ferita prese a sanguinare
copiosamente.
Con
la vista che si appannava lentamente e sentendo
scemare le poche forze che gli rimanevano, Finnick avvertì
solo il rimpianto di
non aver concluso il suo compito.
Non
reagì al trambusto che proveniva da dietro:
cavalli che galoppavano, urla e spari. I pellerossa correvano via,
messi in
fuga.
Cadde
dal cavallo, atterrando nella polvere. Un
giovane in divisa dalla carnagione olivastra si era chinato su di lui,
urlando.
“È
ferito, bisogna soccorrerlo subito!”
L’ultima
cosa che Finnick riuscì a vedere furono i
suoi occhi grigi, prima che la mente si spegnesse definitivamente
facendolo
piombare nel buio.
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Capitolo 5 *** Capitolo 2: Furia rossa ***
Coriolanus
Snow camminava nervosamente nella sua
lussuosa villa. Ripensava al giorno precedente, quando aveva incontrato
Cato.
Preso dall’ira, lo aveva mandato a Hangtown ordinandogli di
uccidere quel
cacciatore di taglie. Era stata una mossa avventata: due anni nel
carcere di
Yuma rendevano inoffensivo anche l’uomo più
tenace. Cato era uscito da quel
posto stanco e denutrito e avrebbe dovuto riposare, prima di
intraprendere una
missione così impegnativa. C’erano mille
eventualità che potevano andare
storte; Snow cominciava ad avere brutti presentimenti. E nella sua
vita, si era
sempre fidato dei presentimenti.
Qualcuno
bussò alla porta, facendolo sussultare.
"Chi
è?" abbaiò.
"Sono
Thread, mister Snow" rispose una voce
ovattata dall'altro lato.
"Entra."
Thread
era un uomo alto, dai capelli grigi e gli occhi
di ghiaccio.
"Mister
Snow" iniziò "Le teste rosse
cominciano ad essere impazienti. Cosa facciamo?"
Maledetti
indiani, pensò Snow. Tutti presi dai loro
riti di guerra, una volta scatenati non potevano più essere
fermati.
"Dannazione!
Fai fare loro quello che vogliono! E
adesso vattene!"
Thread
uscì dalla stanza silenziosamente,
richiudendosi la porta alle spalle.
Snow
avrebbe voluto credere che andava tutto bene, ma
doveva ammettere che non era così. Un cacciatore di taglie
girava libero per la
California uccidendo i suoi sottoposti, una sparuta compagnia di
ribelli
disertava l'esercito, e i suoi ordini erano eseguiti da una
tribù di indiani
incontrollabili assetati di sangue.
Non
andava tutto bene.
***
Nella
mente di Katniss si affollavano tanti pensieri,
la maggior parte dei quali era rivolta a Finnick e al suo folle
inseguimento.
Da quello che aveva capito, era riuscito miracolosamente a mettere in
fuga il
sicario, nonostante avesse rimediato una pallottola, e tuttavia aveva
deciso di
mettersi sulle sue tracce.
La
ragazza sapeva che con una ferita da pistola si
andava ben poco lontano, e ormai a Finnick poteva essere successo di
tutto.
Decise di andare a parlarne con Peeta.
Lo
sceriffo ascoltò attentamente, e quando Katniss
finì di raccontare, sul suo volto si disegnò
un’espressione grave.
“Hai
detto che si è diretto verso le montagne?”
Katniss
annuì e Peeta sospirò.
“È
praticamente impossibile inseguire qualcuno in quei
posti. Possiamo solo sperare che gli sia sfuggito.”
La
ragazza stava per rispondere, quando udirono un
rombo lontano.
“Sembrano
cavalli al galoppo.” osservò Peeta.
Corsero
fuori. Lo sceriffo si avvicinò a passo veloce
ai confini della cittadina, seguito da Katniss.
“Li
vedi?” le chiese.
All’orizzonte
quello che sembrava un esercito
cavalcava verso di loro. Delle torce accese mandavano bagliori,
accentuati
dalla luce calante del pomeriggio. Si udivano dei terribili e disumani
gridi di
guerra.
L’Inferno
stava arrivando.
***
Finnick
si svegliò in preda al dolore. La sua gamba
sinistra sembrava andare a fuoco.
Il
giovane dagli occhi grigi gli stava parlando con
tono calmo.
“Amico,
hai una brutta ferita. Devo estrarre la
pallottola.”
“Farà
male” aggiunse.
“So
come si estrae una pallottola “ biascicò Finnick a
denti stretti.
“Beh,
allora questo rende tutto molto più semplice.”
Alla
sua destra un focolare acceso mandava bagliori e
aria calda; qualcuno vi stava passando un coltello, arroventandolo. Il
giovane
gli porse un oggetto simile a un sacchettino di pelle.
“Tienilo
tra i denti, ti aiuterà. Purtroppo non
abbiamo alcool per stordirti”
Finnick
sapeva benissimo a cosa stava andando
incontro. Strinse il sacchetto in bocca.
“Passami
il coltello” sentì dire.
Poi
arrivò il dolore. La lama rovente che veniva
rigirata nella carne era una tortura terribile. Cercò di
urlare, ma dalla bocca
uscì fuori solo un gemito soffocato. Sapeva di dover restare
fermo, ma il suo
corpo si divincolava automaticamente, quasi animato da una
volontà propria, nonostante
delle braccia forti lo tenessero inchiodato a terra.
Era
inutile cercare di pensare a qualcosa di sensato,
l’unica cosa che poteva visualizzare nella mente era il
dolore, acuto e
prolungato, che gli faceva perdere la cognizione della
realtà. Serrò gli occhi
talmente forte da vedere lampi di luce nel buio delle palpebre chiuse.
Poi
tutto finì. Sentì che qualcosa veniva tirato
fuori
dalla coscia, mentre il dolore diminuiva gradualmente.
Ancora
stordito, si ricordò di poter aprire gli occhi.
Poteva vedere il ragazzo in divisa che gli fasciava la gamba.
Riprendendo pian
piano il controllo di sé stesso, scoprì di poter
muovere di nuovo le braccia.
Si tolse il sacchetto di pelle dalla bocca e proruppe in una serie di
colpi di
tosse.
“Vorrei
farti riposare, ne avresti bisogno, ma
dobbiamo andarcene da qui” fece il giovane
“Troveremo un posto migliore per
organizzare un bivacco.”
Tese
la mano per aiutarlo a rialzarsi, fissandolo con
i suoi occhi grigi.
“A
proposito, io sono il capitano Gale Hawthorne.”
Mentre
cavalcava, Finnick osservò meglio i suoi nuovi
compagni di viaggio. A prima vista, sembravano essere circa una
ventina. La
divisa che indossavano comprendeva la giacca blu tipica
dell’esercito, ma c’era
qualcosa di strano. Innanzitutto erano troppo pochi per formare una
compagnia,
anche se quel ragazzo si era presentato come
“capitano”. Gale cavalcava in
testa al gruppetto e al suo fianco c’era un ragazzo nero:
Finnick era piuttosto
certo che nell’esercito questo non avvenisse.
Una
volta fermati, i soldati cominciarono i
preparativi per la notte. Quando Gale si avvicinò per
controllare la ferita,
Finnick disse:
“Non
ti ho ancora ringraziato.”
L’altro
scrollò le spalle.
“È
solo il nostro lavoro.”
“Siete
vigilantes?”
Gale
rimase in silenzio.
“Insomma”
continuò Finnick “Viaggiate in pochi, ci
sono donne e neri con voi… Nessuna compagnia
dell’esercito può essere
così.”
“Fino
a poco tempo fa ero un capitano dell’esercito”
iniziò a raccontare Gale “La mia compagnia era a
Fort Defiance, in Arizona. Poi
ho deciso di scappare.”
“Perché?”
“Perché
più passava il tempo, più mi rendevo conto che
l’esercito era manovrato da criminali. Ben presto mi sono
reso conto che il
sistema era marcio in profondità.”
“Quando
hai deciso di scappare?” Chiese Finnick.
Gale
prese a parlare in tono più concitato.
“Ci
era appena arrivata la notizia che dei banditi
avevano rapinato la banca di Flagstaff. Mi ero offerto di inseguirli,
ma un
ordine…Diciamo, improrogabile, dall’alto ci ha
impedito di farlo. Due giorni
dopo abbiamo saputo che i banditi erano stati assoldati da Coriolanus
Snow.”
Gli
occhi di Finnick mandarono un lampo, ma l’altro,
preso com’era dal suo racconto non se ne accorse.
“Non
mi ero arruolato per stare a guardare. Me ne sono
andato il giorno stesso, dopo aver radunato un po’ di
compagni fidati. Ci
identifichiamo ancora come Compagnia 451, ma a tutti gli effetti,
sì, siamo dei
vigilantes.” Concluse Gale con tono rassegnato.
Finnick
sapeva di dovergli dire la verità.
“Prima
di incontrare quei pellerossa, stavo inseguendo
un sicario di Snow.”
Gli
occhi di Gale si fecero d’un tratto più attenti.
“Perché
Snow ti vuole morto?”
"Forse
perché sa che anche io voglio morto
lui"
Finnick
scrollò le spalle.
"Ad
ogni modo, non mi interessa. Non mi fermerò
finché non avrò messo fine alle sue prepotenze. E
comunque, cosa ci facevano
degli indiani in questo territorio?"
"È
molto strano. Ultimamente alcuni gruppi di
pellerossa si stanno spingendo molto oltre le loro riserve."
“Capitano!”
Era
stato il ragazzo nero a interromperli.
“Cosa
c’è, Boggs?”
“Ho
brutte notizie. Un gruppo di indiani ha attaccato
Hangtown.”
|
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Capitolo 6 *** Capitolo 3: Helltown ***
A
Katniss sembrava di vivere in un incubo.
Nell’aria
non si sentiva altro che urla, spari e il
rombo dell’incendio che si propagava sempre più:
un gruppo di Indiani al
galoppo stava devastando Hangtown mettendola a ferro e fuoco e
uccidendo
chiunque si trovasse davanti.
La
ragazza si sentì strattonare una spalla e
trasalì,
costringendosi a staccare gli occhi da quello scenario apocalittico.
Era Peeta.
“Katniss,
resta qui!”
“Dove
vai?” urlò lei, cercando di reprimere
l’angoscia.
“Devo
difendere la mia città!” fu la risposta brusca
dello sceriffo.
“Voglio
che tu rimanga qui, non devi correre rischi!”
Senza
darle il tempo di protestare si allontanò
correndo.
La
ragazza non riusciva a realizzare che tutto quello
stesse accadendo veramente. Di primo impatto, forse per la sorpresa o
per la
paura, le sembrava che gli Indiani fossero centinaia e centinaia, ma
osservandoli
ora non potevano essere più di cinquanta, anche se con le
loro urla di guerra e
le torce accese sembravano dei diavoli usciti dall’Inferno.
Avevano appiccato
il fuoco alle prime case, e in brevissimo tempo era divampato un
gigantesco
incendio. Gli abitanti che si salvavano dal fuoco trovavano ad
aspettarli gli
aggressori che li falciavano senza pietà, senza risparmiare
nessuno. Neanche le
donne e i bambini trovavano scampo. Era un vero e proprio massacro.
L’immagine
di Prim sola e indifesa squarciò la mente
di Katniss come un lampo, facendola risvegliare dal torpore. Ignorando
le
raccomandazioni di Peeta, si alzò e cominciò a
correre verso le strade di
Hangtown, pensando a dove potesse essere la sua sorellina. Era rimasta
in casa,
impietrita dalla paura? Oppure aveva cercato di fuggire? Tra il fuoco e
gli
invasori, la ragazza non riusciva ad immaginare quale fosse il male
minore.
Degli
spari riecheggiavano in lontananza. Sembrava che
gli abitanti della cittadina, probabilmente sollecitati da Peeta,
stessero
organizzando una prima resistenza.
Con
la vista offuscata dal fumo, Katniss vedeva Prim
in ogni bambino che cercava di salvarsi dalla carneficina. La vista dei
cadaveri in mezzo alla strada aumentava il senso di disperazione che
sentiva
dentro.
L’adrenalina
la spingeva a correre verso la casa, ma
all’improvviso si vide la strada tagliata da un gruppo di
uomini armati che
arrivava da una via laterale. In fondo al gruppo c’era Peeta,
che urlava a
pieni polmoni.
“Formate
delle barricate, va bene qualsiasi cosa!”
Con
un tuffo al cuore, Katniss sentì che le urla
rauche degli Indiani si facevano più vicine.
“Stanno
arrivando! Facciamo presto!”
In
quel momento la ragazza incrociò lo sguardo di
Peeta, che si avvicinò a grandi passi.
“Ti
avevo detto di restare al riparo, perché non mi
hai ascoltato?”
“Devo
cercare Prim!” urlò Katniss in risposta cercando
di non sembrare isterica.
“Non
c’è tempo. Le senti queste urla? Stanno venendo a
prenderci! Nasconditi dietro una barricata e non muoverti”
La
ragazza si rese conto che Peeta aveva ragione. Gli
uomini avevano già formato una barriera allineando alcune
carrozze. Katniss si
rifugiò dietro una di esse e cercò di capire
quante possibilità avesse la
resistenza. Non ci mise molto a capire che sarebbe stato un disastro. I
difensori della città non erano più di una
ventina, seppure ben armati. Le
barricate sarebbero sembrate dei fuscelli, di fronte a una carica di
cinquanta
Indiani.
“Ehi,
dolcezza, ti metti anche tu a sparare con noi?”
Quella
voce la fece sobbalzare. Girandosi, si trovò
faccia a faccia con Haymitch. Conoscendo la sua fama, rimase sorpresa
di non
trovarlo ubriaco. Cliente fisso del Saloon, si diceva che alla
compagnia di una
donna preferisse quella di una bottiglia di whisky. Sembrava che fosse
solo al
mondo e nessuno aveva il coraggio di indagare il suo passato.
“Quelli
non sono indiani normali” aggiunse Haymitch
“Quelli sono Piedi Neri.”
“Cosa
vuoi dire?”
“Sono
gli Indiani più aggressivi che si conoscano.
Hanno la guerra nel sangue e non si fermeranno finché non
avranno distrutto
tutto.”
La
voce di Peeta li interruppe.
“Arrivano!”
Katniss
si chinò, rammaricandosi di non avere un’arma,
mentre gli uomini aprivano il fuoco. Le pallottole fischiavano sopra la
sua
testa, gli spari e le urla dei feriti riempivano l’aria.
Udì Haymitch imprecare
al suo fianco e si rese conto che la situazione era più
grave del previsto.
Intanto
Peeta si era avvicinato e le stava porgendo
una pistola.
“Prendila,
devi difenderti. Stiamo per rompere le
righe.”
Katniss
deglutì e afferrò l’arma. Voltandosi,
vide gli
Indiani arrivare. Era la prima volta che poteva osservarli da vicino, e
subito
capì cosa intendesse Haymitch.
I
Piedi Neri erano davvero spaventosi. I visi, dipinti
a strisce rosso sangue, erano contratti in smorfie talmente feroci da
sembrare
disumane. Le calzature nere come la pece colpivano senza sosta i
fianchi dei
cavalli, spingendoli ad un folle galoppo.
I
timidi spari dei difensori non spaventarono i Piedi
Neri, che ruppero senza problemi l’unica linea difensiva,
costringendo gli
abitanti di Hangtown a disperdersi.
Mentre
correva per cercare un riparo, Katniss sentì
una voce che la chiamava.
“Adesso,
Katniss!”
Era
Peeta.
“Vai
a cercare Prim!”
La
ragazza cambiò direzione e, nonostante fosse già
senza fiato, si precipitò verso casa. Man mano che si
addentrava nella
cittadina, il fumo dell’incendio la faceva tossire. Gli
edifici in fiamme le
sembravano tutti uguali, ma, guidata dall’istinto,
riuscì a trovare quella
giusta.
La
porta era socchiusa, ma Katniss non ci fece caso.
La aprì piano e mosse pochi passi incerti
all’interno. Nonostante il calore
soffocante delle fiamme, avvertì un brivido lungo la
schiena. Provò a chiamare
Prim, ma il rumore sordo dell’incendio non le permise di
sentire nemmeno la sua
stessa voce. Sentendo l’ansia montare rapidamente, si mise ad
urlare.
“Prim!
Mi senti?”
Non
arrivò nessuna risposta.
Osservando
meglio, Katniss notò una lunga ombra,
proveniente da una stanza adiacente, che si stagliava sul pavimento. Si
mosse
in avanti, chiamando ancora una volta il nome della sorellina, ma non
trovò ciò
che sperava. Non appena guardò cosa c’era nella
stanza, si sentì afferrare e
spingere via con una forza spaventosa. Il violento urto contro la
parete
opposta le fece cedere le gambe. Mentre scivolava a terra scorse un
pellerossa
che usciva di corsa dalla casa. I suoi mocassini neri furono
l’ultima cosa che
riuscì a vedere prima di perdere i sensi.
***
La
prima cosa che Katniss percepì una volta aperti gli
occhi fu un intenso e pungente odore di legno bruciato. La testa le
faceva un
male terribile: era come se qualcosa di molto pesante le schiacciasse
la
fronte, impedendole di pensare lucidamente. Cercò di
alzarsi, ma venne bloccata
da un forte accesso di tosse.
Non
appena fu in grado di guardarsi intorno, sentì il
modo crollarle addosso.
Hangtown,
la sua città, era ridotta ad un mucchio di
macerie fumanti, con gli ultimi rimasugli dell’incendio che
ancora bruciavano.
Ben pochi edifici si erano salvati dalla furia distruttiva del fuoco e
degli
Indiani. Corpi senza vita giacevano uno accanto all’altro, in
attesa di una
sepoltura dignitosa. I pochi soccorritori si affaccendavano qua e
là,
affannati.
Nonostante
i sensi ancora intorpiditi, udì chiaramente
il rumore di cavalli al galoppo che si avvicinava sempre
più. Stavano arrivando
degli uomini, tutti vestiti con un’impolverata giacca blu.
Sembravano attoniti
di fronte alla devastazione della città.
“Katniss!”
La
ragazza sentì una voce familiare che la chiamava.
Finnick!
Si
era completamente dimenticata del giovane
pistolero, che zoppicando vistosamente cercava di raggiungerla.
“Katniss!
Stai bene?”
“Non
credo” fece la ragazza, ancora confusa.
“Cos’è
successo?”
Katniss
trasse un lungo sospiro, ma prima che potesse
rispondere, sopraggiunse Peeta. Era sporco di fuliggine e teneva la
testa
bassa.
“Katniss”
esordì in tono grave. “L’abbiamo cercata
dappertutto, ma purtroppo Prim è…
sparita.”
|
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Capitolo 7 *** Capitolo 4: La terra degli Apache ***
Sui
resti di Hangtown era scesa una notte
insolitamente luminosa: numerose stelle brillavano nel cielo plumbeo,
come se
provassero a far sentire la loro vicinanza alle vittime
dell’attacco.
I
sopravvissuti si erano radunati nelle poche case che
avevano resistito all’incendio, ma erano ben pochi quelli che
riuscivano a
dormire. Finnick aveva preferito restare all’aperto
nell’accampamento della
Compagnia 451. Steso nella sua tenda, dall’esterno riusciva a
sentire il
crepitare del fuoco e due voci che parlavano sommesse, probabilmente
Gale e
Boggs.
Dopo
tutti gli avvenimenti della giornata, il ragazzo
si sarebbe aspettato di crollare, invece i suoi occhi rimanevano
sbarrati sotto
lo Stetson calato sulla fronte.
Cosa
avrebbe fatto ora? Il suo istinto gli
consigliava, almeno per il momento, di lasciar perdere il piano
originale.
Ripensò
a tutti gli eventi delle precedenti
ventiquattro ore: l’aggressione di Cato,
l’apparizione dei Pellerossa durante
l’inseguimento e l’attacco dei Piedi Neri. In
effetti, c’era qualcosa di
strano: non poteva trattarsi di semplici coincidenze. Si
sforzò di trovare un
filo conduttore tra tutte le vicende, ma l’unica soluzione
che riusciva a
trovare rendeva la situazione così critica che non riusciva
ad accettarla.
Aveva bisogno di più indizi, ma dubitava di poter trovare
qualcosa di utile nel
posto in cui si trovava. Avrebbe potuto chiedere a Gale, ma dalla breve
conversazione che avevano avuto qualche ora prima aveva intuito che
anche l’ex
soldato era a corto di informazioni.
Mentre
fissava il vuoto, la sua mente si soffermò su
Katniss. La ragazza era rimasta sconvolta dalla scomparsa della
sorellina.
Finnick si rendeva conto che c’erano solo due
possibilità, oltretutto per nulla
rassicuranti: Prim poteva essere morta nell’incendio, ma il
ragazzo aveva un
altro presentimento. Le tribù Indiane più
aggressive avevano la nota abitudine
di fare prigionieri durante gli attacchi, quindi l’ipotesi di
un rapimento non
era così remota.
Presa
una decisione, lentamente si alzò e uscì dalla
tenda.
Non
impiegò molto a trovare Katniss. La ragazza era da
sola, seduta sulla soglia di una casa a fissare il buio.
“Katniss”
esordì Finnick “Devo partire
all’alba”.
Per
un istante lo sguardo smarrito rivoltogli dalla
ragazza lo fece sentire in colpa.
“Perché?”
“Devo
avere più informazioni su quello che è successo.
So dove trovarle, ma bisogna che faccia in fretta”
“Potrebbero
aggredirti…” protestò Katniss, ma
Finnick
la fermò.
“Non
gli lascerò questa soddisfazione.”
“Dove
vai?” si rassegnò lei.
“A
Nord. Ho degli… amici, lì. Ora riposati”
Il
ragazzo fece per andarsene, ma prima di
allontanarsi si fermò.
“Katniss”
aggiunse “Troveremo Prim. Te lo prometto.”
Non
appena il sole fece capolino dalle colline che
circondavano Hangtown, Finnick spinse al trotto il suo cavallo,
lasciandosi
alle spalle la cittadina.
Prima
di partire, aveva parlato a lungo con Gale,
spiegandogli dove fosse diretto.
Represse
la tentazione di accelerare per l’impazienza
di arrivare: il viaggio non sarebbe durato più di qualche
ora e non avrebbe
comunque forzato l’andatura per non rischiare di riaprire la
ferita.
Pensò
alla giornata che aspettava i superstiti di
Hangtown: una continua ricerca dei dispersi. Sapeva di non poter
restare ad
aiutare: se i suoi sospetti erano fondati, non ci si poteva permettere
di
temporeggiare.
Provò
a liberare la mente da ogni preoccupazione.
Lasciò vagare liberamente lo sguardo sul pallido sole che
sorgeva, senza
concentrarsi su nulla in particolare, ma una volta arrivato nei pressi
della
sua meta la mente fu invasa da un torrente di ricordi impossibile da
arginare.
Una
giornata assolata, una diligenza che attraversa il
deserto, poi dei colpi di pistola, una voce infantile che piange.
Finnick
fu richiamato alla realtà dai rumori
quotidiani della riserva Apache, nella quale era appena arrivato. Il
villaggio
era situato in una valle verdeggiante, alla quale facevano scudo delle
colline.
L’insediamento
era costituito da decine di tepee decorati
con colori vivaci, case in legno e grandi recinti per gli animali.
Il
ragazzo si diresse verso il centro del villaggio,
dove si trovavano alcune abitazioni più grandi delle altre.
“Lupo
Vendicatore” lo chiamò un Pellerossa che si era
avvicinato.
Finnick
sapeva che sarebbe stato riconosciuto, ma
sentirsi chiamato così lo colpì.
“Hau”
rispose “Sono qui per vedere Falco Nero.”
“Sono
sicuro che ti riceverà con piacere” sorrise
l’altro “Bentornato.”
“Sei
cambiato molto, Lupo Vendicatore” esordì il capo
degli Apache, non appena Finnick gli si fu seduto di fronte.
“Sono
passate ventiquattro lune da quando te ne sei
andato, eppure sento che il tuo cuore non è
sereno.”
“La
mia missione non è ancora conclusa” ammise il
ragazzo “Ma negli ultimi giorni stanno accadendo strani
eventi.”
Falco
Nero socchiuse gli occhi e Finnick capì di dover
proseguire.
“I
Piedi Neri stanno sconfinando dai loro territori ad
Est” fece una pausa “Proprio ieri hanno distrutto
la città di Hangtown.”
Il
capo Apache rimase impassibile e Finnick continuò
in tono più concitato.
“Ho
il presentimento che abbiano preso ordini da
qualcuno. Ne sai qualcosa?”
Dopo
un lungo silenzio, Falco Nero trasse un lungo
sospiro.
“Ho
brutte notizie per te. Due lune fa, degli uomini
bianchi sono venuti a proporci un accordo.”
“Un
accordo?” chiese Finnick, sperando di aver capito
male, ma mano a mano che il capo indiano continuava, le sue paure si
materializzarono.
“Ci
promettevano la loro protezione.”
“In
cambio di cosa?”
“In
cambio di crimini. Per conto loro” concluse il
capo Apache.
“Falco
Nero” disse il ragazzo “Devi dirmi chi erano
quei bianchi.”
“Il
loro capo è l’uomo che vuoi uccidere”
rispose in
tono grave l’altro “Coriolanus Snow.”
Finnick
uscì sconvolto dall’abitazione. Falco Nero gli
aveva appena confermato che i suoi peggiori presentimenti erano
fondati. Snow
aveva capito di aver bisogno di una copertura per i suoi crimini, e
aveva
deciso di proporre un’alleanza a una tribù di
Indiani. Evidentemente, dopo che
gli Apache avevano rifiutato, si era rivolto con successo ai Piedi Neri.
Ragionando
sulla sua situazione, si rese conto che in
effetti ora i suoi due obiettivi erano collegati: per uccidere Snow, si
sarebbe
sicuramente dovuto scontrare con i Piedi Neri; probabilmente la
sorellina di
Katniss si trovava in uno dei loro villaggi.
A
interrompere le sue riflessioni fu una voce
familiare che lo chiamava.
“Finnick!”
Il
ragazzo si girò di scatto: una ragazza con i
capelli raccolti in trecce stava camminando in fretta verso di lui. Con
il
cuore che gli martellava nel petto, Finnick tese le braccia e la
strinse in un
abbraccio talmente intenso da fargli dimenticare Snow e i Piedi Neri.
“Mi
sei mancato” disse la ragazza, appoggiando la
testa sulla sua spalla.
“Anche
tu mi sei mancata, Annie” ebbe un fremito nel
pronunciare il suo nome.
La
ragazza si staccò improvvisamente da lui.
“Te
ne vai di nuovo?”
“Devo
ripartire oggi stesso” rispose Finnick con voce
spezzata.
“Ho
paura per te” fece Annie, gli occhi umidi.
“Tornerò”
la rassicurò il ragazzo “È una
promessa.”
La
strinse a sé di nuovo, sapendo che presto avrebbe
rimpianto quei momenti. Ricordava perfettamente gli eventi di due anni
prima,
quando si erano legati davanti a tutta la tribù. La ragazza
aveva insistito per
avere un nome da bianca, proprio come lui, e aveva scelto di chiamarsi
Annie,
in aggiunta al vecchio nome Apache Figlia dell’Acqua.
Anche
allora Finnick le aveva promesso che sarebbe
tornato, ma sapeva che il momento non era ancora arrivato.
Prima
di cedere alla tristezza, decise di andarsene.
Salutò Annie con un dolce bacio e ripartì alla
volta di Hangtown, sentendo una
nuova ferita al cuore per ogni passo che lo separava dalla sua amata.
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Capitolo 8 *** Capitolo 5: Il quinto uomo ***
In
una lussuosa villa a Yuma, due uomini discutevano
animatamente.
“Le
teste rosse confermano di aver raso al suolo
Hangtown, signore” disse Thread.
Il
viso di Coriolanus Snow si aprì in un ghigno
malvagio.
“Abbiamo
notizie di Cato?”
“Purtroppo
no” ammise l’altro “Sono sicuri di non
aver avvistato né Cato, né il cacciatore di
taglie.”
L’euforia
di Snow si spense.
“Cosa
significa?”
“Non
so, signore” rispose Thread, con aria assorta
“Potrebbero esserci tante spiegazioni.”
Stette
un po’ in silenzio, riflettendo, poi
proseguì.
“Cato
potrebbe aver avuto dei problemi nel viaggio
di ritorno…”
“L’unica
cosa che possiamo fare” lo interruppe Snow bruscamente
“È aspettare il suo ritorno.”
Si
sentiva tremendamente impotente e sapeva che ciò
era dovuto a un suo stesso errore. Ad un tratto sentì il
bisogno di riflettere
con calma, senza avere davanti quei maledetti occhi glaciali che lo
fissavano
senza far trasparire alcuna emozione.
“Certo”
rispose l’altro, capendo che il colloquio
era finito.
“Ora
lasciami da solo.”
Thread
uscì dalla stanza senza commentare, sentendo
Snow prorompere in un violento attacco di tosse.
***
Katniss
si osservò sconsolata le mani sanguinanti.
Aveva passato tutto il giorno a scavare nelle macerie ancora fumanti di
Hangtown,
cercando di trovare eventuali feriti e dispersi. Non c’era
alcuna traccia di
Prim. Se questo da un lato la consolava, dall’altro la
atterriva la possibilità
che fosse nelle mani degli Indiani. Cosa le avrebbero fatto? Non osava
nemmeno
pensarci. Non aveva idea del trattamento riservato dai Pellerossa ai
prigionieri di guerra, ma se pensava agli assassini con cui aveva a che
fare e all’età
della sua sorellina non riusciva a pensare nulla di buono.
Finnick
le aveva promesso che l’avrebbero ritrovata:
ormai le era rimasto solo questo a cui aggrapparsi.
Si
guardò intorno. Peeta sembrava stravolto quanto
lei; i misteriosi soldati ribelli continuavano a prestare aiuto ai
feriti.
Ancora non capiva chi fossero veramente, ma Finnick era tornato con
loro a Hangtown:
cosa significava?
“Katniss”
la chiamò lo sceriffo “Dovresti riposare.
Qui non possiamo fare più nulla.”
“Non
posso, Peeta” rispose abbattuta la ragazza “Non
ci riuscirei.”
“Non
disperarti” provò a rassicurarla “Prim
è viva,
ne sono sicuro. La troveremo.”
“Finnick
mi ha detto la stessa cosa.”
“Sei
sicura di poterti fidare di lui?”
“Cosa
vuoi dire?”
Peeta
sospirò e si sistemò nervosamente il cappello,
prima di rispondere.
“Non
lo sto accusando, assolutamente. Però, vedi,
tutto questo è successo immediatamente dopo il suo arrivo
qui.”
La
sua voce era cauta, come stesse muovendo i primi
passi su un territorio sconosciuto e pericoloso.
“Non
puoi…”
Peeta
la interruppe.
“Quello
che voglio dire, Katniss, è che non sappiamo
chi sia veramente Finnick.”
La
ragazza rimase in silenzio. Ormai si sentiva
legata al pistolero biondo, ma in un angolino della mente era cosciente
di non
sapere nulla su di lui.
“Dov’è
finito, a proposito?” chiese lo sceriffo.
Neanche
a farlo apposta, Finnick arrivò in quel
momento.
Katniss
lo guardò con aria interrogativa, fino a che
lui non parlò con tono grave.
“Devo
parlarvi. Ho delle notizie.”
***
Poco
dopo si trovavano nella tenda di Finnick, che
aveva insistito perché ci fosse anche Gale in quella strana
riunione. Il capitano
aveva conosciuto Katniss e lo sceriffo, ma le presentazioni erano state
piuttosto stiracchiate.
“Avevi
detto di avere notizie” esordì Peeta.
“Le
ho, ma non credo che vi piaceranno” rispose
Finnick “In ogni caso, ho scoperto che i Piedi Neri agiscono
sotto gli ordini
di Coriolanus Snow.”
L’affermazione
fu accolta con un’espressione
sgomenta dagli altri tre.
“Come
fai ad esserne sicuro?” chiese lo sceriffo.
Il
ragazzo esitò, prima di rispondere.
“Sono
stato nella riserva Apache, oggi” spiegò,
cauto “E mi hanno detto di avere ricevuto una visita da Snow,
due mesi fa.”
Peeta
socchiuse gli occhi e Finnick capì che stava
esaminando la sua frase parola per parola.
“Quello
che sto cercando di dire” proseguì
“È che il
nostro vero nemico è proprio Snow.”
“Allora
perché avrebbero attaccato la città?”
intervenne
Gale.
“Lui
sa chi sono” rispose “E sono abbastanza sicuro
che voglia uccidermi. Ma non credo che l’attacco sia stato a
causa mia.”
“Vuoi
dire che Hangtown potrebbe avere dei
precedenti con lui?” chiese il capitano.
“Esatto.”
Tutti
si voltarono verso Peeta.
“Non
siamo mai stati in buoni rapporti con Snow”
ammise lo sceriffo “Da sempre si è interessato
alle miniere sulle colline qui
intorno, ma abbiamo sempre cercato di respingerli.”
“Perché?”
chiese Finnick.
“Perché
la città non ne avrebbe tratto nessun
vantaggio” spiegò Katniss “Se invece a
estrarre materiali preziosi fosse stata
la nostra gente, l’economia di Hangtown sarebbe
prosperata.”
Il
ragazzo annuì. Aveva visitato abbastanza città
durante la corsa all’oro da conoscerne bene il meccanismo. Se
la situazione
economica era positiva, il posto cresceva in fretta.
“Pensi
che Snow abbia attaccato per questo?” chiese
Peeta.
“Credo
sia un motivo plausibile.”
Finnick
osservò gli altri tre tacere, mentre
cercavano di digerire le informazioni.
A
rompere il silenzio fu Gale.
“Cosa
facciamo, quindi?”
“Io
dico di muoverci” propose il ragazzo
“Avviciniamoci all’obiettivo. Quando saremo
lì decideremo come agire.”
“Non
mi sembra una cattiva idea” approvò Peeta
“Quanti saremo?”
“La
mia compagnia sarà con voi” intervenne Gale, ma
Finnick storse la bocca.
“Non
credo sia una buona idea. Dovremo essere pochi,
per non attirare l’attenzione.”
“Che
ne dite… di noi quattro?” suggerì
Katniss “Io
voglio esserci.”
“Ne
sei sicura?” chiese Finnick.
La
ragazza stava per ribattere, ma lo sceriffo la
anticipò.
“Ne
ha tutti i diritti, direi. Piuttosto, credo che
ci sia un’altra persona che debba venire con noi.”
Finnick
tratteneva a stento il sorriso, mentre
osservava Peeta cercare di convincere l’uomo a intraprendere
quel viaggio.
Haymitch,
gli sembrava si chiamasse. Dimostrava
tranquillamente una quarantina di anni; il suo periodo di massima forma
era
chiaramente un ricordo lontano, ma i suoi occhi grigi, seppur
arrossati,
mandavano lampi di intelligenza. Dal tono strascicato della voce il
ragazzo
capì che l’uomo aveva avuto un recente
“incontro” con dell’alcool.
“Andiamo,
Haymitch” stava dicendo lo sceriffo “Sai
benissimo che saresti fondamentale. Nessuno conosce gli Indiani meglio
di te.”
“Beh,
suppongo che alla fine dovrò aiutarvi” fece
l’uomo, con tono rassegnato “Ma ho bisogno di
portare del liquore.”
Agitò
una mano.
“Sapete,
mi aiuta a… concentrarmi.”
“Non
se ne parla, Haymitch” ribatté Peeta
“Non si
beve in missione. Ci servi sobrio.”
L’altro
capì di non poter prevalere e si allontanò
contrariato, scuotendo la testa e borbottando qualcosa di poco carino
sugli
sceriffi intransigenti.
A
uno sguardo interrogativo di Finnick, Katniss
rise.
“Oh,
non preoccuparti, alla fine verrà. Deve solo
andare a salutare il suo amato liquore.”
Il
pomeriggio seguente Finnick uscì dalla tenda e
cominciò a preparare il cavallo. La mattina stessa aveva
radunato i suoi averi
in una sacca di pelle che ora portava a tracolla. Fu sorpreso nel
vedere
Katniss già pronta che camminava nella sua direzione.
Sembrava perfettamente a
suo agio in quell’abbigliamento: stivali, pantaloni spessi,
camicia e cappello
a tesa larga. Poteva quasi sembrare un ragazzo se non fosse stato per
la lunga
treccia scura che spuntava da sotto il copricapo.
“Mi
fido di te” gli disse a bassa voce, e il ragazzo
capì che si riferiva alla promessa di trovare Prim. Prima
che potesse rispondere,
sentì dei passi alle sue spalle: anche Gale era arrivato.
“Peeta
e Haymitch saranno qui a momenti” fece
Katniss.
Aveva
ragione: dopo qualche minuto, uno scalpiccio
di zoccoli segnalò la loro comparsa.
“Dove
ha lasciato la stella, sceriffo?” chiese Gale
inarcando le sopracciglia, notando la mancanza del simbolo.
“L’ho
lasciata al mio vice, quindi ora sono un
reietto come te” rispose lui, sottolineando la parola reietto.
“Questo
significa che puoi darmi del tu” aggiunse
Peeta sorridendo, ed entrambi assunsero un’espressione
più pacata.
“Allora,
si parte?” fece Finnick.
“Direi
di sì” rispose Peeta “Haymitch, se ti
becco
con dell’alcool ti lascio a piedi nel deserto.”
“Certo”
rispose l’uomo con noncuranza, ma non appena
lo sceriffo si fu voltato, mostrò una bottiglia di whisky
nella tasca interna della
giacca agli altri, facendo l’occhiolino.
I
cinque partirono in quell’atmosfera rilassata,
cavalcando verso Est e lasciandosi alle spalle il luminoso sole della
California.
Ciao
a tutti! Visto che
secondo i miei piani sono arrivato più o meno a
metà della storia, scrivo due
parole qui. Bene, non posso garantire un aggiornamento costante,
perché la
storia non è assolutamente completa, e mi sono anche preso
una bella pausa causa
impegni scolastici qualche tempo fa, ma vi assicuro che non la
lascerò
incompiuta.
Come
avete notato, sto utilizzando
tre diversi POV, uno per ogni personaggio introdotto nei prologhi, e
credo
proprio di continuare così fino alla fine.
Per
i titoli dei
capitoli, sto usando titoli di film western, o in alternativa di albi
di Tex.
Voglio
ringraziare
tutti quelli che mi hanno recensito, che seguono la storia e che
l’hanno messa
fra le preferite o le ricordate: davvero, mi date uno stimolo in
più!
Un
gigantesco “grazie”
va alla fantastica beta Ninety Nine, che ha sempre la pazienza di stare
a
leggere e commentare ogni riga che scrivo.
Credo
di aver finito…
Alla prossima!
Jim
|
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Capitolo 9 *** Capitolo 6: Territorio nemico ***
Bakersfield.
Per
Katniss, che raramente abbandonava Hangtown,
quel posto era immenso. Ovunque si girasse, vedeva alti edifici e
diligenze che
attraversavano le strade, sollevando grosse nuvole di polvere.
Il
clima era ostile. I numerosi minatori che
abitavano lì si aggiravano ostili tra le strade. Katniss
notò che tutti
tenevano una mano poggiata sul fianco e nascosta dalla giacca, come se
stessero
per estrarre la pistola da un momento all’altro.
“Ormai
siamo in territorio nemico” aveva detto
Finnick. Bakersfield, infatti, non era lontana da Yuma, il quartier
generale di
Snow.
La
ragazza osservò i quattro compagni. In apparenza
erano perfettamente calmi, ma riuscì comunque a trovare in
loro segni di
agitazione: si sistemavano il cappello in continuazione
e cercavano con regolarità un contatto con il
cinturone.
In
effetti, il solo pensiero di essere trovati dagli
uomini di Snow la faceva rabbrividire, ma cercò di farsi
coraggio. Dopotutto,
era stata lei a voler partire.
“Forza,
cerchiamo un posto per la notte” propose
Haymitch.
Essendo
partiti nel pomeriggio, erano arrivati lì
quasi al tramonto; era stata una scelta forzata dalla
necessità di non avere il
sole in faccia durante il viaggio.
Entrarono
nel primo Saloon dignitoso che
incontrarono. Katniss si impose di non scrutare gli avventori, mentre
si
dirigevano verso il bancone.
“Salve.
Avete una camera libera per stanotte?”
chiese Gale.
La
ragazza rimase sbigottita quando guardò verso il
bancone: a rispondere a Gale era stata una giovane donna dai capelli
castani.
Le sembrò strano che non ci fosse un uomo.
“Buonasera,
cowboy” rispose la donna con fare
sarcastico “Certo che lo abbiamo.”
“E
dovremmo anche mangiare qui.”
“Quel
tavolo laggiù è libero” rispose
indicandolo
con un dito.
Una
volta seduti, i cinque cominciarono a parlare.
“Non
mi piace questo posto” fece Peeta.
“Neanche
a me” concordò Finnick “Ma era una tappa
obbligatoria. Yuma è troppo lontana per arrivarci in un
giorno solo.”
“In
ogni caso, io dico di tenere le armi sempre a
portata di mano. Questo ha tutta l’aria di un posto in cui le
risse cominciano
per delle sciocchezze” propose Haymitch.
“Non
è una cattiva idea. Ci sono troppi brutti
ceffi, qui” concluse Gale socchiudendo gli occhi e
guardandosi intorno.
“E
se succede qualcosa?” chiese cauta Katniss.
“Se
succede qualcosa, dolcezza… Ce ne andiamo”
rispose con voce melliflua Haymitch “E alla svelta. Dobbiamo
passare
inosservati.”
La
ragazza cedette alla tentazione di guardarsi intorno.
Tutti i tavoli le sembravano occupati da gente poco raccomandabile. Si
chiese
quanti di loro avessero una taglia sulla testa. Il suo sguardo
finì nuovamente
sulla donna al bancone. Il suo volto sembrava perennemente contratto in
una
smorfia sarcastica. Si ritrovò a chiedersi per
l’ennesima volta come facesse
una donna a gestire un Saloon: a Hangtown nessuno avrebbe immaginato
una cosa
del genere.
“Vado
a prendere qualcosa da mangiare” si offrì
Finnick.
Katniss
lo osservò con un brutto presentimento mentre
si alzava e attraversava il locale.
***
Finnick
non riusciva a scrollarsi di dosso la strana
sensazione di essere osservato. Non trovava una valida spiegazione, ma
si
sentiva come se gli occhi di tutti i clienti del Saloon fossero puntati
su di
lui.
Smettila,
si disse. Era sicuramente ancora scosso dall’attacco di Cato.
Non c’era ragione
di sentirsi così. Respirò profondamente un paio
di volte, ma la tensione non
accennava a scemare.
Raggiunse
il bancone.
“Cosa
possiamo avere da mangiare?”
“Fagioli”
fu la secca risposta della donna.
“Oppure?”
“Fagioli.”
Di
nuovo quel sorriso sarcastico. La donna proseguì:
“Non è un buon periodo, Cowboy: questo
è tutto quello che abbiamo. E…”
Si
interruppe all’improvviso, fissando un punto
oltre la schiena del ragazzo.
Poi
parlò una voce strascicata.
“Alza
le mani, Biondo. Lentamente.”
Finnick
esitò.
“Ho
detto… Alza
le mani!” ripeté l’uomo,
stavolta più minaccioso.
Il
ragazzo obbedì, digrignando i denti per la
rabbia.
“Ora
voltati. Molto
lentamente.”
“Direi
che è lui, Brutus.” disse un altro uomo.
“È
proprio lui. Ne sono sicuro.” fece un’altra voce,
più giovane.
Finnick
rimase senza fiato quando vide a chi
apparteneva. Era Cato. Sentì pulsare la ferita alla gamba.
Provò
a studiare la situazione. Sapeva che non erano
soltanto tre uomini: dietro di loro ne erano entrati altri due. Non
osò
guardare nella direzione dei suoi compagni: per il momento era meglio
che i
suoi nemici pensassero che fosse da solo.
Osservò
i suoi aggressori: non gli sembravano
affatto gli ultimi arrivati, anzi, avevano un’aria piuttosto
temibile. Cato lo
guardava con un ghigno compiaciuto.
“Dovremmo
portarlo da Snow” bisbigliò Brutus
all’uomo alla sua destra.
Ad
un tratto, dei rumori inconfondibili dall’altra
parte del Saloon attirarono la sua attenzione: gli scatti della sicura
delle
armi.
Gale
e Peeta avevano estratto le pistole e le avevano
puntate contro gli uomini di Snow. Haymitch aveva fatto lo stesso con
il suo
fucile Winchester. Dall’espressione dei nemici, Finnick
capì che tutto questo
non era nei piani.
La
tensione nell’aria era altissima: non si sentiva
volare una mosca.
Lo
sguardo del ragazzo fu catturato da Brutus: stava
per premere il grilletto della sua pistola. Senza preavviso, il fucile
di
Haymitch esplose un colpo che gliela fece saltare via di mano.
“Oh,
no, amico. Mossa sbagliata.” fece Haymitch.
“Maledizione!”
imprecò Cato.
Un’altra
sicura scattò, questa molto più vicina a
Finnick. Si girò, e vide la donna al bancone con un fucile a
canne mozze, il
quale, si rese conto con sollievo, non era puntato contro di lui.
“Fuori
di qui!” intimò agli uomini di Snow, in tono
perentorio.
Finnick
sapeva di essere in una situazione scomoda.
Era il bersaglio principale dei nemici e per di più era
completamente scoperto.
“Vi
conviene andarvene” disse Gale, da qualche parte
alla sua sinistra.
“Non
ve lo ripeterò un’altra volta” fece la
donna
“Vi voglio fuori dal mio locale, subito.”
Finnick
osservò il volto di Cato, che si stava
contorcendo in una terribile smorfia di rabbia. L’inaspettato
aiuto li aveva
messi in una posizione di vantaggio rispetto agli uomini di Snow.
“Mason,
maledetta sgualdrina!” urlò Cato, che si
faceva più paonazzo a ogni parola. “Ti assicuro
che la pagherai!”
Sputò
sul bancone, ma lei rimase impassibile finché
i banditi non furono usciti dal Saloon.
Tirando
un sospiro di sollievo, Finnick si guardò
intorno e non fu sorpreso di constatare che praticamente tutti gli
avventori
avevano abbandonato il posto. I suoi amici lo avevano raggiunto e
stavano
stringendo la mano alla donna.
“Johanna
Mason” si presentò lei “Se fossi in voi
non
resterei qui. Quei brutti ceffi non ci metteranno molto a tornare con i
rinforzi.”
“Ha
ragione” confermò Haymitch “Se hanno
impiegato
così poco tempo a trovarci, significa che qui pullula di
uomini di Snow.”
“Ragazzi”
la voce di Peeta era strozzata “I nostri
cavalli non ci sono più!”
“Maledizione!”
esplose Finnick “Adesso siamo
bloccati qui.”
“O
forse no…” Gale stava osservando qualcosa al di
fuori del Saloon.
Haymitch
lo raggiunse. Il soldato lo prese da parte
e chiese:
“La
vedi anche tu?”
“Certo”
rispose lui “Può essere una soluzione.”
Intanto
Finnick stava parlando con Johanna.
“Cosa
ti faranno quando ce ne saremo andati?” le
chiese.
“Sei
gentile a preoccuparti per me, Cowboy. Ma non è
un problema, proveranno solo a mettermi un po’ di
paura” rispose lei,
ostentando sicurezza.
“Snow
non si farebbe problemi a toglierti di mezzo.”
Sul
volto di Johanna passò un’ombra, come se lo
sapesse meglio di lui. Quando parlò, sembrava che stesse
soppesando con cura le
parole. La smorfia sarcastica era scomparsa.
“Sai,
non ci sono molte persone disposte a gestire
un Saloon in una polveriera come questa. A Snow fa comodo che lo faccia
io.
Mettiti l’anima in pace, non corro rischi.”
“Finnick,
vieni qui un attimo”
Katniss
lo stava chiamando dal fondo del locale.
Quando
si fu avvicinato, Gale gli spiegò il piano.
Il ragazzo dovette ammettere che non era una cattiva idea, ma gli
sembrava che
ci fosse una qualcosa che non andava.
“Quando
uscirai sarai completamente scoperto”
“È
vero” ammise il soldato “Ma non credo che gli
uomini di Snow mi riconoscerebbero, e in ogni caso potreste darmi
copertura
dall’alto.”
Sollevò
la testa, indicando con lo sguardo le camere
al piano superiore.
Finnick
soppesò le sue parole, annuendo lentamente.
“Dobbiamo
sbrigarci” li incitò Haymitch “Ogni
minuto
che passiamo qui dentro è un minuto in più che
hanno per venirci a prendere.”
“Vado
fuori” annunciò Gale.
“Con
me, di sopra” esclamò Finnick agli altri,
salendo di corsa le scale.
Una
volta arrivati al piano superiore, si
separarono: ognuno entrò in una camera diversa. Dalla
finestra, si aveva una
buona visione della strada sottostante. Gale la stava attraversando con
fare
circospetto, ma non troppo. Finnick imbracciò il fucile e lo
appoggiò sul
davanzale, cercando la miglior posizione per sparare. Sapeva di dover
stare
attento alla strada e non al suo amico, ma non riusciva a non tornare a
guardare Gale ogni volta. Si era avvicinato ad una diligenza ferma e
stava
parlando con il conducente. Man mano che il tempo passava, la
discussione si
faceva più animata.
Finnick
sperava con tutto il cuore che si
concludesse in fretta. Avvertì una goccia di sudore freddo
scivolargli lungo la
guancia. Dopo un tempo che gli parve interminabile, Gale estrasse un
sacchetto e
diede delle monete all’uomo, che si alzò e
camminò via con aria soddisfatta. Il
soldato rivolse un tacito segnale di esultanza in direzione delle
finestre.
Prima di andarsene, Finnick lanciò un’ultima
frenetica occhiata alla strada. Era
completamente libera.
Si
precipitò al piano inferiore: Katniss, Peeta e
Haymitch erano già lì, pronti per correre fuori.
“Forza,
andiamo!” esclamò Peeta, spalancando le ante
del Saloon.
Finnick
fu l’ultimo ad uscire, ma prima di
oltrepassare la soglia. Lanciò un fugace sguardo alle sue
spalle, e decise di
salutare la donna.
“Addio,
Johanna.”
Lei
non rispose, ma il ragazzo avrebbe giurato che
stesse sorridendo.
Saltò
all’interno della carrozza. Katniss chiuse la
porta alle sue spalle e, lentamente e non senza scossoni, la diligenza
partì,
dirigendosi lontano da Bakersfield.
|
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Capitolo 10 *** Capitolo 7: L'inseguimento ***
Finnick
non si aspettava di certo un viaggio
tranquillo, ma gli sarebbe piaciuto riposarsi un po’ dopo le
ultime ore, così
cariche di tensione. Non era passata neanche mezz’ora dalla
fuga, quando
udirono Haymitch che da fuori avvertiva: “Arrivano!”
Con
cautela, si sporse dal finestrino e guardò
indietro: la situazione non era delle migliori. C’erano circa
quindici uomini a
cavallo che li inseguivano. A guidarli, ancora una volta, era Cato.
“Com’è
lì fuori?” chiese Katniss.
Lui
si voltò, un’espressione cupa sul viso.
“Sono
troppi. Quindici, credo” rispose.
Peeta
trasalì quando sentì il numero, ma Finnick
proseguì.
“Purtroppo
saranno sempre più veloci di noi. Se non riescono
a raggiungerci, ci prenderanno per stanchezza. Dobbiamo respingerli
noi.”
“Forza,
prendiamo i fucili” li esortò Peeta.
“Voi
restate qui, io mi apposto di sopra” decise
Finnick, che afferrò il suo Winchester e posò il
piede sul bordo inferiore del
finestrino, ignorando le proteste di Katniss.
Facendo
leva, riuscì ad afferrare con una mano un
appiglio sul tettuccio della diligenza. Si sollevò
più in fretta che poteva e
finalmente raggiunse lo spazio normalmente destinato ai bagagli dei
viaggiatori. Scostò le provviste che Haymitch aveva caricato
e si distese a
pancia in giù. Con cautela alzò la testa,
cercando di studiare la situazione.
Gli inseguitori si erano fatti pericolosamente vicini, così
urlò: “Peeta,
Haymitch… fuoco!”
Mentre
Gale spronava a più non posso i due cavalli,
i suoi compagni cominciarono a sparare. I primi colpi non andarono a
segno, ma
furono sufficienti a rallentare gli uomini di Snow.
Finnick
sentiva le pallottole fischiare sopra la
testa, ma sapeva di essere ben protetto: una spessa asse di legno, che
serviva
a tenere fermi i bagagli, gli offriva una valida copertura. Tuttavia,
non
poteva rimanere fermo in eterno, o quella posizione privilegiata non
sarebbe
servita a nulla.
Si
sollevò facendo leva sui gomiti, dopo di che
sistemò alla meglio il fucile. In quel momento
l’attenzione degli inseguitori
era concentrata su Peeta e Haymitch, il cui fuoco di copertura stava
finalmente
cominciando a dare frutti, così mirò con tutta
calma e premette il grilletto. Dato
che si trovava in una posizione scomoda, il rinculo dello sparo lo fece
sobbalzare, ma vide chiaramente un uomo cadere scompostamente dal
cavallo.
Senza
lesinare sulle munizioni, colpì due
inseguitori, mentre Peeta e Haymitch ne abbatterono altri tre. Ne
rimanevano
comunque troppi, e i colpi di Cato, che ormai lo aveva individuato, si
facevano
sempre più insidiosi, rendendogli difficile anche
controllare i nemici.
“Finnick,
non va affatto bene così!” avvertì
Haymitch, la voce carica di preoccupazione.
Il
ragazzo si chiese quanto ancora sarebbero potute
durare le ruote della diligenza: non erano certo state costruite per
viaggiare
a quella velocità. Dovevano trovare una soluzione, e alla
svelta.
A
quanto pareva, Cato era un formidabile
equilibrista: riusciva a ricaricare la pistola agevolmente, nonostante
fosse in
pieno galoppo. La sua voce stentorea riusciva a superare gli orribili
rumori dello
scontro. Finnick si accorse che si stava rivolgendo proprio a lui.
“Vieni
fuori, Biondo!” strillava “Fammi vedere la
tua testolina!”
All’improvviso,
però, le sue urla si interruppero
bruscamente.
“L’ho
preso di striscio!” fece Peeta.
Capendo
di avere un’occasione, Finnick si sporse
oltre la barriera.
Tutto
sembrò svolgersi al rallentatore. Vide il
volto di Cato contrarsi in una smorfia animalesca, che ben poco aveva
di umano.
Il ragazzo avrebbe giurato che stesse ringhiando. Individuò
la ferita
procuratagli dallo sceriffo, un semplice graffio sul braccio sinistro,
che però
era riuscito a metterlo in difficoltà. Cato
sollevò la pistola, mentre Finnick
mirava alla meglio tra gli scossoni della diligenza. Nello stesso
istante in
cui premeva il grilletto, seppe che avrebbe centrato il bersaglio. Il
proiettile colpì Cato in pieno petto.
La
Belva, sbalzata all’indietro, cadde dal cavallo,
terminando così la sua scellerata esistenza.
Finnick
rimase interdetto. Quasi non riusciva a
credere ai suoi occhi: Cato, la sua nemesi, era morto. Capì
come il fallimento
di Hangtown avesse reso cieca la sua rabbia, in qualche
modo… selvaggia. Ma si
riscosse subito: nonostante avesse eliminato il loro capo, infatti, gli
inseguitori avrebbero presto avuto la meglio. Ad un tratto gli venne in
mente
un’idea. Rischiosa, certo, ma non vedeva altre soluzioni.
“Ragazzi,
fuori i fuochi d’artificio!”
***
Katniss
non riusciva a credere né alle proprie
orecchie né ai propri occhi. All’inizio non aveva
compreso l’esclamazione di
Finnick, ma ora che Peeta le stava porgendo un candelotto di dinamite
le
sembrava tutto terribilmente chiaro. Solo che ancora non riusciva a
capacitarsi
del fatto che avrebbe dovuto farne uso. Quante tranquille Saloon-girl
maneggiavano dinamite durante la loro vita?
“Katniss,
non abbiamo tutta la vita” la esortò
Peeta, sempre impegnato a tenere lontani gli uomini di Snow,
ricordandole che
da quando aveva deciso di far parte di quella compagnia aveva smesso di
essere
una tranquilla Saloon-girl. Si chiese se lo fosse mai stata.
“Tira quel
candelotto!”
Lei
deglutì, ma prese lo stesso un fiammifero e lo
strofinò sulla parete della carrozza finché non
si accese. Cercò di tenere le
mani più ferme possibile mentre lo avvicinava alla miccia
del candelotto, che
prese fuoco in un istante.
Resta
calma, resta calma.
Sapeva
di dover fare in fretta.
“Finnick,
giù!” gridò, sporgendosi dal
finestrino.
Dopodiché, con la miccia accesa che sibilava a
più non posso, lanciò il
candelotto, pregando che finisse proprio in mezzo agli inseguitori. Non
fece in
tempo a vedere dove atterrava, perché la dinamite esplose
quasi subito con un
gran boato.
“Bel
colpo!” si congratulò Peeta, posandole una mano
sulla spalla.
Ma
Katniss era troppo sconvolta per ricambiare.
Tornò a guardare indietro e vide una fitta nube nera levarsi
sopra il punto
dell’esplosione. Gli inseguitori non si vedevano
più, forse feriti, forse
disorientati. Magari morti.
“A
quanto pare hanno rinunciato” disse Finnick,
mentre si calava di nuovo all’interno della diligenza.
Katniss
sentì le palpebre farsi sempre più pesanti.
La tensione dell’inseguimento l’aveva privata di
tutte le forze. Peeta se ne
accorse e la tranquillizzò.
“Dormi,
se vuoi. Penso che ci tocchi fare ancora molta
strada prima di poterci fermare.”
Lei
non avrebbe voluto: si sarebbe sentita ancora
più inutile. Ma ben presto la stanchezza ebbe la meglio e la
fece piombare in
un sonno profondo.
Quando
si svegliò, scoprì che la diligenza si era
fermata ai piedi di una collina, poco lontano dalla strada. Era scesa
la notte
e i suoi amici stavano preparando il bivacco.
Dopo
una cena frugale, si sedettero intorno al
fuoco.
“Credo
sia ora di cominciare a pianificare le nostre
prossime mosse” esordì Finnick.
“Entro
domani mattina saremo a Yuma” li informò Gale
“Il viaggio non durerà più di qualche
ora.”
“Cosa
faremo una volta arrivati?” chiese Katniss,
che non si era mai sentita più inadeguata; non si sentiva
affatto in grado di
contribuire ai piani dei suoi amici. Si chiese, non per la prima volta,
perché
avesse insistito per partire con loro. Conosceva benissimo la risposta:
Prim.
Non sarebbe mai riuscita a
rimanere a
Hangtown, o quello che ne restava, mentre altri cercavano di salvare la
sua
sorellina.
“Saremo
vicinissimi a Snow” commentò Peeta.
A
quelle parole, Katniss scorse un lampo negli occhi
di Finnick, come se avesse aspettato tutta la vita quel momento. Forse
era
proprio così, si disse. Fu proprio lui a proporre la prima
idea.
“Io
dico di attaccarlo direttamente. Potremmo coglierlo
di sorpresa.”
“Potremmo
attirarlo fuori dalla sua residenza” disse
Gale.
Conoscendo
il suo passato nell’esercito, Katniss si
sarebbe fidata di qualsiasi tattica lui avesse proposto. Eppure, in
quelle
parole c’era qualcosa che suonava in modo sinistro.
Come
se le avesse letto nel pensiero, l’ex-soldato
proseguì: “Ma non so se sarebbe la cosa giusta da
fare.”
“No,
infatti” intervenne Peeta. “La nostra
priorità
è quella di salvare gli ostaggi di Hangtown. La mia gente.” Lo sceriffo
calcò la parola mia,
chiarendo il motivo per cui si era spinto fino lì.
Finnick
sbuffò sonoramente.
“Cosa
farai, lo chiederai direttamente a Snow?”
“Era
proprio quella la mia intenzione” ribatté Peeta.
“Sono lo sceriffo della città che ha fatto radere
al suolo. Ho tutti i diritti
di negoziare con lui.”
“In
qualche modo ha senso” fece Haymitch, che fino a
quel momento era rimasto in disparte.
“C’è una cosa di cui sono sicuro: se
uccidessimo Snow, perderemmo ogni possibilità di salvare i
prigionieri.”
Katniss
si sentì accapponare la pelle al solo
pensiero. Non avrebbe mai accettato di non rivedere Prim, dopo tutto
quello che
era successo.
“Non
stiamo parlando di normali Pellerossa, ma dei
Piedi Neri” proseguì Haymitch. “Ogni
trattativa sarà inutile, con loro. È
assurdo, lo so, ma la via più facile è quella di
provare a parlare con Snow.”
Finnick
era palesemente contrariato. Peeta si voltò
verso Katniss.
“È
l’unico modo che hai per rivedere Prim”
constatò,
cercando il suo appoggio.
“Visto
che non riusciamo a deciderci, mettiamola ai
voti” propose Haymitch.
“Io
sono per la soluzione diplomatica” affermò
Peeta.
“Io
no” ribatté Finnick. “Gale?”
“Ci
ho pensato” disse piano lui. “Snow è un
serpente
a sonagli. Non accetterebbe mai un accordo.”
“Io
sono con Peeta” fece Haymitch. “Un attacco
diretto non porterebbe a nulla.”
Ci
fu un lungo silenzio, rotto all’improvviso da
Finnick.
“Siamo
due contro due. Katniss, manchi solo tu.”
Lei
si sentì gelare. A quanto pareva, il suo voto
sarebbe stato decisivo. Nella sua mente le ipotesi turbinarono fino a
confondersi. Da quando aveva incontrato Finnick si era sentita legata a
lui.
Eppure, adesso non riusciva ad avere completa fiducia
nell’amico. Le sembrava
diverso, era come se fosse accecato dal desiderio di vendetta. Con
l’immagine
di Prim che si affacciava nella mente, decise.
“Non
so quanto possa valere il mio voto” cominciò
con voce incerta. “Ma secondo me dovremmo provare a
negoziare.”
Peeta
annuì soddisfatto.
“Hai
fatto la scelta giusta, Katniss” disse. “Domani
mattina andrò a parlare con Snow.”
“Un
momento” intervenne lei. “Non
c’è il rischio che
ci riconoscano?”
“Non
credo” rispose Haymitch. “E in ogni caso,
domani mattina le notizie dell’inseguimento non dovrebbero
essere ancora
arrivate.”
“Comunque,
credo che l’unico viso che ricordino sia
quello di Finnick” disse Peeta.
“Può
darsi” fece lui. “Ma non ne abbiamo la
certezza.”
“Sono
pronto ad assumermi ogni rischio” replicò lo
sceriffo.
“È
una follia!” scattò Finnick, ma Gale lo
interruppe.
“Adesso
basta. Abbiamo preso questa decisione, ora
dobbiamo andare fino in fondo” disse in tono fermo.
“Gale
ha ragione” disse Haymitch. “Peeta, hai
già un
piano?”
“Lascerò
a Snow l’uso delle miniere intorno a
Hangtown” rispose lui. “Ci ho pensato a lungo:
è l’unica possibilità che
abbiamo.”
“Questa
scelta ci costerà caro” commentò
Haymitch.
“Ma dopotutto, abbiamo il dovere di salvare quelle
vite.”
“Direi
che possiamo chiudere qui la discussione”
disse Finnick. “Andate a dormire, faccio io il primo turno di
guardia.”
A
Katniss sembrò molto amareggiato, ma era troppo
stanca per riflettere. Seguì il suo consiglio e, trovato un
posto confortevole
nella diligenza, si raggomitolò e scivolò in un
sonno tormentato.
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Capitolo 11 *** Capitolo 8: Yuma! ***
La
mattina seguente, le ultime ore di viaggio furono
silenziose. Man mano che sia avvicinavano a Yuma, i cinque si rendevano
conto
che non mancava molto alla fine della loro missione, e questo li
rendeva
estremamente nervosi e taciturni.
Finnick,
teso come una corda di violino, si stava
mordendo l’interno della guancia fino a farlo sanguinare. Il
loro era un piano
disperato, lo sapeva benissimo. Ma si rendeva anche conto che, una
volta persa
la votazione, sarebbe stato controproducente per tutti mettersi di
nuovo a
discutere.
Inaspettatamente,
si ritrovò a pensare ad Annie, che
lo stava aspettando da sola nella riserva Apache. Finnick si
sentì assalito da
una tremenda sensazione di nostalgia e solitudine. Rimpianse il momento
in cui
era partito, lasciandola con una promessa incredibilmente difficile da
mantenere. La sua mente si perse, fantasticando su una tranquilla vita
insieme
a lei nella riserva, senza pistole, incendi e inseguimenti. Aveva
rinunciato a
tutto questo per rischiare la vita ogni giorno. Ma in fondo al suo
cuore c’era
anche l’onore. Anni prima aveva giurato a sé
stesso che avrebbe portato a
termine quella missione, e sapeva che non avrebbe potuto vivere
tranquillo se
non l’avesse fatto.
Yuma
era ancora più grande di Bakersfield e Finnick
avrebbe scommesso qualsiasi cosa sulla presenza di manifesti con il suo
viso in
tutta la città.
A
guidare la diligenza era Haymitch, che aveva Peeta
al suo fianco. Prima di ripartire, i cinque avevano deciso che sarebbe
stato
opportuno nascondere anche Gale all’interno della carrozza.
Haymitch
fermò la diligenza poco fuori città. I
cinque scesero; inevitabilmente tutti gli sguardi erano puntati su
Peeta, che
si tolse il cinturone con la pistola. Lo porse a Finnick, dicendo:
“Tenetelo
voi. Non mi servirà, dove sto andando.”
“Peeta,
possiamo accompagnarti?” chiese Katniss.
Lui
ci pensò un po’ su, poi rispose: “Credo
sia
meglio che veniate solo tu e Haymitch. E comunque, parlerò
da solo con Snow.”
“Certo”
rispose Haymitch. “Ti aspetteremo fuori
dalla sua villa.”
“Bene”
fece lo sceriffo. “Se questo è tutto…
addio.”
Si
voltò verso gli altri due.
“Finnick”
disse, ammorbidendosi. “Non so quale sia
la tua missione, ma io devo
riportare
a casa quelle persone.”
“È
tutto a posto, Peeta” rispose lui. “Buona
fortuna.”
“Grazie”
replicò lo sceriffo. “Ne avrò
bisogno.”
E
si allontanò insieme a Haymitch e Katniss.
***
La
villa di Coriolanus Snow era un immenso edificio,
la cui facciata esterna era di un bianco immacolato, che rifletteva la
luce del
sole facendo risaltare la casa nel paesaggio. Circondata da una spessa
fortificazione in metallo, l’unico accesso visibile era un
grosso cancello
presidiato da due uomini armati.
“Più
che una villa sembra un forte militare…”
osservò Katniss, impressionata dallo sbarramento.
“Un
attacco diretto sarebbe stato impossibile”
rispose Peeta.
“Anche
un forte militare può essere colpito”
intervenne Haymitch.
“Non
da cinque uomini” fu la brusca risposta dello
sceriffo.
L’altro
non ribatté, ma Katniss notò il disappunto
sul suo viso.
Dopo
qualche minuto, Peeta ruppe il silenzio che si
era creato.
“Credo
sia arrivato il momento di separarci” disse,
tirando fuori dalla tasca una stella di metallo e sistemandola sulla
camicia.
“E
il tuo vice?” chiese Haymitch.
“Per
fortuna non ne abbiamo solo una” spiegò lo
sceriffo.
Katniss
sentì all’improvviso un groppo in gola.
“Peeta,
fa’ attenzione, ti prego!” disse,
sforzandosi di tenere ferma la voce.
“Farò
il possibile” rispose lui, prima di prendere
da parte Haymitch e sussurrargli qualcosa che Katniss non
riuscì ad afferrare.
Rimasta
sola con Haymitch, osservò preoccupata Peeta
che veniva bruscamente perquisito dagli uomini di Snow, prima che il
grande
cancello si chiudesse alle sue spalle.
***
“Una
visita per me?” chiese sorpreso Snow.
“Proprio
così” rispose serio Thread.
“È da qualche
ora che aspetta.”
“Fallo
salire” ordinò Snow, e l’altro
uscì dalla
stanza.
Rimasto
solo, l’uomo cominciò a riflettere. A quanto
pareva, c’era un ragazzino che sosteneva di essere lo
sceriffo di Hangtown e
voleva parlare con lui.
Anche
ammettendo che dicesse la verità, cosa poteva
mai volere? Era improbabile che qualcuno riuscisse a risalire a lui per
la
distruzione della città. Snow si chiese se in qualche modo
non avesse lasciato
le sue tracce dietro all’accaduto.
I
suoi pensieri furono interrotti dal rumore di
passi che percorrevano l’ultima rampa di scale. Ad entrare
per primo fu un
giovane, seguito da Thread, che gli stringeva la spalla con la mano
simile ad
un artiglio.
“Salve,
mister Snow” esordì il ragazzo. “Sono lo
sceriffo Mellark e vengo da Hangtown.”
L’uomo
lo osservò meglio. Aveva dei corti capelli
biondi e penetranti occhi azzurri. Sul viso era dipinta
un’espressione dura e
risoluta.
“Mi
perdoni la domanda, sceriffo
Mellark… Non è un po’ troppo giovane
per portare quel
pezzo di latta?” chiese Snow in tono beffardo.
“La
stella era di mio padre. Quando venne ucciso da
un ladro di bestiame in città, nessuno voleva prendere il
suo posto. Così mi
feci avanti io.”
“Una
storia davvero commovente, sceriffo” commentò
Snow. “Ma cosa vuole da me, esattamente?”
“Di
certo una persona importante come lei avrà
sentito della distruzione di Hangtown.”
“Sì,
qualche voce è arrivata fino qui” rispose
l’uomo con noncuranza.
“La
mia città è stata attaccata da pellerossa. Piedi
Neri, per la precisione” disse il ragazzo.
“E
quindi?” chiese ancora Snow, sporgendosi in
avanti.
“Quei
pellerossa hanno fatto molti prigionieri tra
la mia gente. Donne e bambini innocenti”
aggiunse lo sceriffo, sottolineando l’ultima parola.
“D’accordo”
fece l’altro. “Un gruppo di indiani ha assalito
questa cittadina, a più di cento miglia da qui, e ora
starà stuprando le sue
donne. Ma ancora non vedo come tutto questo possa
interessarmi.”
“Mister
Snow” proseguì imperterrito il giovane.
“Il
territorio dei Piedi Neri è a poche miglia da qui. Vista la
sua influenza in
questa zona, vorrei chiederle, a nome di tutti gli abitanti di
Hangtown, se potrebbe
aiutarci a salvare gli innocenti che sono stati rapiti.”
Snow
rimase in silenzio, riflettendo.
“E
a me cosa viene in tasca?” chiese infine.
“In
cambio potremmo lasciarle l’uso delle miniere
intorno a Hangtown. Siamo disposti a farlo” propose lo
sceriffo.
Snow
lo fissò a lungo. Qualcosa cambiò nella sua
espressione. E all’improvviso proruppe in
un’orrenda risata. Una risata che
aumentava di intensità, una risata perversa e gorgogliante,
che alla fine si
trasformò in un terribile accesso di tosse. Snow si
pulì la bocca con un
fazzoletto, macchiandolo di sangue, poi tornò a guardare il
giovane, che era
rimasto a dir poco sconcertato.
“Mi
perdoni, sceriffo, ma solo ora ricordo tutto.
Hangtown, le miniere… ma certo. Mi stia a sentire, sceriffo:
non è così che
funziona il…”
Fu
interrotto da Thread, che era tornato
silenziosamente.
“Ci
sono notizie urgenti, mister Snow!”
L’uomo
cercò di reprimere l’irritazione. Thread non
lo avrebbe mai interrotto per delle sciocchezze, ne era certo.
“Sarò
da lei tra qualche minuto, sceriffo Mellark”
disse con falsa cortesia, dopodiché seguì Thread
fuori dalla stanza.
Ad
attenderlo al piano terra c’erano cinque uomini, fra
cui Brutus, uno dei suoi più fidati tirapiedi. Sembravano
tutti molto malconci.
“Ebbene?”
chiese Snow.
“Veniamo
da Bakersfield, signore” iniziò Brutus.
“Avevamo trovato il Biondo, in compagnia di tre o quattro
uomini, ma purtroppo
è riuscito a sfuggirci. Si è diretto verso
Yuma.”
“Quando
è successo?” ringhiò Snow.
“Ieri
sera.”
“Dannazione,
potrebbe essere già qui. Avete notizie
di Cato?”
“Signore…
Cato è rimasto ucciso durante
l’inseguimento.”
“Non
può essere…” mormorò Snow,
stringendo i pugni.
“Non è possibile!”
Aveva
fatto tutto ciò che era in suo potere per
ridurre la pena che Cato avrebbe dovuto scontare in carcere, al fine di
riaverlo al proprio servizio il prima possibile. E ora il suo migliore
luogotenente era stato ucciso… Qualcuno avrebbe pagato per
questo, decise.
“Avete
altre…” si interruppe, folgorato da un
pensiero. Una coincidenza, troppo assurda per essere tale.
“Thread,
Brutus, con me. Se lo sceriffo prova a
scappare, tenetelo fermo.”
Poco
dopo, si trovavano tutti e quattro nella
stanza. Lo sceriffo sembrava aver notato il cambiamento nel clima.
“Stammi
bene a sentire, ragazzino” disse minaccioso
Snow. “Ora devi parlare. Dimmi in quanti siete e
perché siete venuti qui.”
“Non
so di cosa stia parlando, mister…” il ragazzo
si interruppe: un violento pugno di Thread lo aveva fatto piegare in
due, con le
mani che in modo convulso premevano sullo stomaco.
“Non
sto scherzando” continuò Snow. “Rivelami
tutto
quello che sai. Dov’è adesso il Biondo?”
Lo
sceriffo rimase in silenzio, sostenendo il suo sguardo,
finché, ad un cenno di Snow, Thread lo colpì
all’altezza della mascella con un
pugno così forte da farlo stramazzare sul pavimento di
legno. Rialzato in malo
modo dai due tirapiedi, si ritrovò faccia a faccia con Snow.
“Questa
è l’ultima possibilità, moccioso. Cosa
vuole
fare il Biondo?”
L’uomo
si era talmente avvicinato al ragazzo da
poter sentire il suo respiro affannoso.
“Non
ti dirò nulla!” esclamò lo sceriffo,
con un
rivolo di sangue che gli colava da un angolo della bocca.
Poi,
senza preavviso, sputò in faccia a Snow.
Sulla
stanza scese un terribile silenzio. L’uomo era
rimasto immobile, mentre lo sceriffo continuava a fissarlo con uno
sguardo di
sfida.
Ma
Snow non mostrò segni di rabbia.
“Molto
bene. Thread, Brutus, portatelo in cella. Da domani
me ne occuperò personalmente. In meno di due giorni ci
avrà detto anche quello
che non vogliamo sapere” concluse, mentre le labbra sporche
di sangue si
contraevano in un orribile e sadico ghigno.
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Capitolo 12 *** Capitolo 9: Uno sceriffo nei guai ***
Finnick
capì che qualcosa era andato storto quando
vide che Katniss e Haymitch stavano tornando da soli. La ragazza aveva
sul viso
un’espressione sconvolta e sembrava sull’orlo delle
lacrime.
“Dov’è
Peeta?” chiese Finnick, avvertendo un brivido
attraversargli la schiena.
Fu
Haymitch a rispondere. “Snow l’ha
catturato”
disse laconico.
Finnick
si coprì il volto con le mani, mentre alle
sue spalle Gale chiese: “Come fate ad esserne
sicuri?”
“L-lo
abbiamo visto” rispose Katniss. “Era
svenuto... lo hanno caricato su una carrozza e se ne sono
andati.”
A
quelle parole, un terribile presentimento cominciò
a farsi strada fra i pensieri di Finnick, che a voce bassa chiese:
“In che
direzione sono andati?”
“Verso
Est, ne sono sicuro” fece Haymitch.
Gale
e Finnick si scambiarono un lungo sguardo.
“Questa
non è assolutamente una buona notizia” disse
l’ex-soldato. “A Est... c’è il
carcere di Yuma. Scommetto che lo stanno
portando lì.”
“Ma
Peeta non ha fatto nulla!” protestò Katniss.
“Questo
è ovvio, ma sono sicuro che Snow abbia un
tale potere qui da poter rinchiudere chi vuole in quel posto”
spiegò Finnick.
“Non
possiamo stare con le mani in mano” disse Gale.
“Se Snow ha capito che Peeta è con te, non
esiterà a estorcergli tutte le
informazioni che può” concluse rivolgendosi a
Finnick.
Alle
loro spalle, Katniss scoppiò a piangere.
“È
colpa mia” disse tra un singhiozzo e l’altro.
“È
tutta colpa mia!”
“Andiamo,
dolcezza, non fare così” provò a
consolarla Haymitch posandole una mano sulla spalla.
Ma
la ragazza non sembrò apprezzare il gesto e, scostatasi,
continuò: “Ho avuto l’ultima parola
sulla missione e non ti ho dato ascolto,
Finnick” spiegò. “Potevo impedire che lo
catturassero. Verrà torturato!”
“Forse
no... se lo salviamo prima” la voce di Gale
li sorprese.
Haymitch
sembrava stupito. “Ho capito bene? Vuoi
tirare fuori Peeta dal carcere di Yuma?”
“Perché
no?” chiese il ragazzo tra sé e sé.
Haymitch
non riusciva a capire se stesse parlando con lui.
Finnick,
intanto, si era isolato dalla discussione.
Si rese conto che la piega che stavano prendendo gli eventi non gli
piaceva per
nulla. Era arrivato a Yuma, e ora? Gli uomini di Snow lo avevano
già trovato
due volte, non ci avrebbero messo molto a capire dove fosse adesso.
Inoltre il
suo nemico era già all’erta: aveva sicuramente
intuito la sua presenza. Come se
tutto questo non bastasse, Peeta si era fatto catturare e Finnick
sapeva bene
che il suo compagno di viaggio poteva essere una fonte inesauribile di
informazioni. Avrebbe semplicemente dovuto cedere alle terribili
torture di
Snow, e in poche ore tutti e quattro sarebbero stati trovati e uccisi
senza
pietà. Era una situazione senza via di scampo.
Finnick
perse il filo dei pensieri quando si accorse
che gli occhi grigi e pieni di lacrime di Katniss lo stavano fissando.
La
ragazza sembrava ignorare la discussione tra Gale e Haymitch. E Finnick
capì:
Katniss stava aspettando lui. Forse
si sentiva responsabile per aver deciso la votazione, o forse aveva
semplicemente bisogno di conforto, ma ormai il suo punto di riferimento
era
Finnick stesso.
“Lo
andremo a riprendere” proruppe il ragazzo. “Non
lascerò nessuno dietro di me.”
“Ho
un piano” intervenne Gale. “Dovremo muoverci
domani, prima del sorgere del sole. Sarà pericoloso: forse
sarebbe meglio se
fossimo solo tu ed io, Finnick.”
“Io
ci sto” rispose lui.
Haymitch,
però, non sembrava del tutto convinto.
“E
noi cosa faremo qui?”
Finnick
ci pensò un po’ su. “Voi potreste
raccogliere informazioni. Potreste girare intorno alla villa di Snow,
cercare
di capire cosa fanno i suoi uomini. Potreste trovare qualche punto
debole da
usare quando riavremo Peeta con noi” concluse.
Quando
Finnick e Gale si misero in viaggio, l’unica
luce era il lieve chiarore proveniente da dietro la cresta delle
colline.
Entrambi
rimasero in silenzio. A Finnick restare
sulle sue non dispiaceva; anzi, lo aiutava a pensare con
lucidità, e negli
ultimi giorni non aveva avuto molto tempo per riflettere.
Fu
Gale a rompere quel silenzio. “Ehi, Finnick”
esordì. “Cosa farai quando tutto questo
sarà finito?”
Il
ragazzo rimase sorpreso dalla domanda. “Intendi
dire se ne uscirò vivo?”
Gale
rise. “Già, ammetto che le probabilità
non sono
esattamente a nostro favore. Però chissà, magari
riuscirai davvero a concludere
la tua missione.”
Finnick
esitò. Da quando era partito dalla riserva
era diventato estremamente solitario: un cacciatore di taglie non
poteva mai
fidarsi di nessuno. Ma con Gale e gli altri, in effetti, era diverso.
Le loro
strade si erano incrociate e avevano già rischiato di morire
diverse volte. Il
ragazzo ripensò a quello che era accaduto a Bakersfield:
quando era stato
trovato dagli uomini di Snow, i suoi compagni avrebbero potuto
lasciarlo andare
in modo da continuare la missione senza essere riconosciuti. Invece,
avevano
rischiato la loro vita per proteggerlo.
E
così Finnick decise che non c’era nessun motivo
per nascondere la sua storia a Gale.
“Tornerò
nella riserva Apache” disse. “È quello
il
mio posto.”
Gale
parve sorpreso. “Un bianco in una riserva
Apache?”
“Sono
stati loro a crescermi. Mi hanno trovato
quando avevo cinque anni e mi hanno accolto. Sono diventato uno di
loro”
concluse il ragazzo, deglutendo.
“Ti
hanno trovato... eri solo?” chiese cauto Gale.
“La
mia famiglia era appena stata sterminata” disse
a fatica Finnick. “Da un uomo che si chiama... Coriolanus
Snow” concluse,
guardando dritto davanti a sé e serrando la mascella.
“È
per questo che vuoi ucciderlo? Per vendicare la
tua famiglia?”
“Esatto”
rispose Finnick. “Anni fa ho giurato a me
stesso che avrei ucciso Snow. Non mi fermerò
finché non ci sarò riuscito.”
Solo
allora il ragazzo si voltò verso il suo
compagno di viaggio, che a sua volta lo stava osservando. Negli occhi
grigi di
Gale, Finnick scorse una scintilla e capì che
l’amico riusciva a comprendere
perfettamente le sue motivazioni. All’improvviso il ragazzo
fu assalito dalla
curiosità. “E tu cosa farai quando avremo ucciso
Snow?” chiese a Gale.
“Credo
proprio che lascerò tutto e tornerò dalla mia
famiglia, a Est. Sono mesi che non li vedo”
aggiunse, con una punta
di amarezza.
“La
tua famiglia è in difficoltà?”
“Da
quando mio padre è morto in miniera, mia madre
deve badare a tre figli. Non appena mi sono arruolato ho fatto in modo
che la
mia paga fosse consegnata sempre a loro. Ma da quando ho disertato,
dubito che
arrivi loro qualcosa.”
Finnick
notò con stupore che gli occhi di Gale erano
diventati lucidi, ma prima che potesse dire qualcosa, il ragazzo
proseguì. “Li
ho abbandonati per seguire il mio orgoglio. Se succedesse loro qualcosa
non
potrei mai perdonarmelo.”
“Io
ti ammiro, Gale” disse Finnick. “Solo le persone
più coraggiose riescono a non rinnegare i propri
ideali.”
“Già,
le più coraggiose” ribatté
l’altro. “Ma sono
anche le migliori?”
***
La
porta della cella emise un lungo gemito quando
venne aperta rudemente da Thread.
Serio
in volto, Coriolanus Snow entrò nella stanza e
prese a guardarsi attorno. Non impiegò molto a trovare
ciò che cercava: un
corpo rannicchiato in un angolo. Lo osservò più
attentamente: Peeta Mellark era
cosciente e lo stava fissando. Ad un cenno dell’uomo, Thread
lo afferrò per un
braccio e lo tirò su in malo modo; il ragazzo non oppose
resistenza.
Snow
si avvicinò lentamente.
“Forse
una notte qui è servita a schiarirti le idee”
esordì. “Allora, hai deciso di parlare?”
“Non
ti dirò nulla” ribatté
l’altro.
“Vedremo
se tra qualche ora la penserai allo stesso
modo... Thread, portalo nell’altra stanza”
ordinò Snow.
Il
tragitto fu breve. Lo sceriffo sembrava aver
accettato il proprio destino, ma questo non impedì alle sue
pupille di dilatarsi,
non appena fu entrato nella nuova stanza. Non molto distanti dalla
spoglia
parete in fondo, due lunghi assi di legno erano fissati in modo da
formare una
X. Una catasta di legna era sistemata vicino a un camino.
Peeta
si fermò di colpo, ma una ginocchiata di
Thread nella schiena lo fece stramazzare al suolo, stordendolo.
“Togligli
la camicia e legalo” disse Snow.
L’uomo
eseguì e in pochi minuti Peeta si ritrovò
legato per i polsi e per le caviglie alla bizzarra croce di legno.
Snow
afferrò uno sgabello e si sedette davanti al
camino; prese un ceppo dalla catasta e un fiammifero e
cominciò ad accendere il
fuoco.
Senza
neanche guardare il ragazzo,iniziò a parlare.
“Cominciamo con una domanda semplice, sceriffo Mellark. In
quanti siete
arrivati a Yuma?”
La
bocca di Peeta rimase chiusa, fino a che Thread
non lo colpì con un violento calcio.
“A
quanto pare il moccioso ha fegato” commentò Snow.
“La prossima volta colpiscilo più
forte.” Poi continuò, in tono mellifluo:
“Forse era una domanda troppo facile per uno come te, sceriffo Mellark. Riproviamo... dove si
nascondono i tuoi amici?”
“Non
avrai nessuna informazione da me!” esclamò
Peeta.
“Thread...
procedi pure” sussurrò Snow in tono
malevolo.
L’uomo
si tirò su le maniche e, divaricate
leggermente le gambe, colpì il volto del ragazzo con un
pugno. Poi con un
altro, e un altro ancora.
“Sembra
che sia svenuto, signore.”
“Oh,
non è un problema” rispose Snow.
“Dopotutto,
direi che il fuoco è pronto. Divertiti pure,
Thread.”
L’uomo
dagli occhi di ghiaccio afferrò un lungo
pezzo di ferro, serrando le dita attorno a un’impugnatura di
legno, dopodiché lo
tenne per qualche minuto sul fuoco, che ora cominciava ad ardere vivace.
Ben
presto la sbarra si tinse di un rosso acceso, e
Thread, quasi delicatamente, la fece aderire al braccio sinistro del
ragazzo,
che in pochi istanti cominciò a gemere, fino a quando non
ebbe ripreso
conoscenza.
“Bentornato
fra noi, sceriffo Mellark. Cosa è successo,
la nostra conversazione ti ha annoiato a tal punto da farti
addormentare?” lo
canzonò Snow. “Thread, forse è il caso
di... riaccendere il suo
interesse.”
Come
un automa, l’uomo prese a picchiare il torso
nudo del ragazzo con la sbarra rovente. Dopo ogni colpo lasciava il
ferro a
contatto con la pelle, abbastanza a lungo affinché al dolore
del colpo si
sostituisse quello dell’ustione.
Ad
ogni grido di dolore, il diabolico ghigno sul
volto di Snow si allargava sempre di più, finché
l’uomo fece fermare Thread e
si avvicinò al corpo martoriato di Peeta.
“Avanti,
ragazzino, confessa.”
Dalle
labbra secche dello sceriffo uscì un sussurro
quasi inudibile.
“Cosa
hai detto?” chiese Snow, sporgendosi in
avanti. “Parla più forte!”
“Ho
detto... che sei tu quello che deve confessare”
riuscì a dire Peeta, che sembrava provare dolore a ogni
parola.
“E
cosa dovrei confessare io?” Snow era sinceramente
perplesso.
“Io
lo so” disse Peeta. “Sei tu il bastardo che ha
fatto radere al suolo la mia città. Pagherai per
questo.”
L’uomo
restò sorpreso per un istante, poi cominciò a
ridere. “Oh, ma certo, di sicuro un giorno il buon Dio me la
farà pagare. Ma
dimmi una cosa, sceriffo: dov’è il tuo Dio
adesso?”
La
fronte imperlata di sudore, Peeta rimase zitto.
“Thread,
riportalo in cella. Dovremo inventarci
qualcosa di più doloroso.”
E
con un’altra orribile risata uscì dalla stanza.
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Capitolo 13 *** Capitolo 10: La cella della morte ***
Finnick
e Gale aspettavano pazienti, senza fare il
minimo rumore.
Sapevano
bene di dover attendere il momento propizio
per agire, ed erano pronti a sfruttare la minima occasione che si fosse
presentata loro. Entrambi avevano lo sguardo fisso sul loro obiettivo:
il
carcere di Yuma. Le alte mura che circondavano l’edificio non
lasciavano
intravedere quasi nulla, se non le imponenti torri di guardia.
Irrompere nel
carcere e provocare un’evasione era un’impresa
disperata, ma tirarsi indietro
era l’ultimo dei loro pensieri.
Ad
un tratto, qualcosa catturò la loro attenzione:
il minaccioso cancello nero si stava aprendo. Qualche minuto dopo, ne
uscì una
diligenza circondata da cinque uomini a cavallo; il gruppo
imboccò la pista per
Yuma e si allontanò.
Finnick
e Gale si guardarono.
“Hai
visto?” chiese il primo.
“Certo”
rispose l’altro. “Finalmente se ne sono
andati.”
Finnick
tornò con la mente a qualche ora prima,
quando l’arrivo della carrozza e della sua scorta li aveva
sorpresi e costretti
a ritardare l’irruzione.
“E
adesso qual è il momento migliore per attaccare?”
chiese Finnick.
Gale
ci pensò su, stuzzicandosi con le dita il
sottile strato di barba incolta sul mento. “Credo subito dopo
l’ora del pranzo”
disse infine. “In genere tutti ne approfittano per
riposarsi.”
L’altro
annuì. “Sei ancora sicuro del tuo piano?”
“È
l’unica possibilità che abbiamo”
ribatté Gale.
Finnick
non avrebbe saputo dire se l’ex-soldato
stesse cercando di convincere lui o sé stesso.
“Piuttosto,
dovremmo cominciare a prepararci” continuò
Gale.
“Prepararci?”
ripeté Finnick.
“Già…
se fossi in te mi toglierei quel cinturone”
suggerì l’altro, mentre tirava fuori da una
bisaccia una giacca blu dall’aria
familiare.
Qualche
decina di minuti dopo, Finnick cominciava a
sentirsi a disagio. L’assenza del cinturone con le pistole lo
faceva sentire
fragile e indifeso, e la corda che gli stringeva i polsi a
mo’ di manette di
certo non lo aiutava.
“Non
avrai stretto troppo?” azzardò.
“Se
la corda fosse più lenta, tutti si
accorgerebbero della messinscena” rispose Gale, che era
tornato a tutti gli
effetti un capitano dell’esercito.
“Così, invece, sarai un perfetto
prigioniero.”
Il
sole brillava alto nel cielo quando i due si
misero in cammino verso il carcere.
“Alt!”
disse perentoria la sentinella, non appena si
furono avvicinati. “Identificatevi!”
“Sono
Glenn Stark, capitano dell’unità 401”
ribatté
Gale senza esitare. “Ho un prigioniero con me.”
La
sentinella li osservò per alcuni secondi, che a
Finnick sembrarono ore. Il ragazzo si sentì sollevato quando
capì che era stato
dato l’ordine di aprire il cancello.
Gale
lo spinse avanti e i due entrarono, Finnick a
passi incerti e l’ex-soldato con un’andatura molto
più sicura.
Non
appena il cancello si fu richiuso alle loro
spalle, si ritrovarono circondati e sotto tiro.
Senza
scomporsi, Gale cominciò a parlare.
“Quest’uomo è Finnick Odair. Coriolanus
Snow lo cerca vivo, e io gliel’ho
portato. Ma è un maledetto serpente a sonagli, e non mi
sentirò tranquillo
finché non l’avremo sbattuto in una
cella.”
Le
guardie si scambiarono sguardi incerti, ma alla
fine quello che doveva essere il più esperto prese la
parola. “D’accordo”
disse. “Lo porteremo in cella, seguitemi. E voi, tornate
sulla torre!”
concluse, rivolgendosi agli altri.
I
tre attraversarono il cortile e si diressero verso
l’edificio principale, una tozza e minacciosa costruzione
bianca.
Finnick
trasse un sospiro di sollievo quando capì
che ad accompagnarli sarebbe stata solo una delle guardie. Mentre
incespicava
in avanti, alle sue spalle udì i due parlare.
“Io
sono Darius Payne” si presentò la guardia.
“Come
hai detto che ti chiami, ragazzo?”
“Glenn
Stark” ripeté Gale. “Vengo da Fort
Defiance.”
“È
strano… mi sembra di aver già sentito questo
nome” disse l’altro.
Finnick
resistette all’impulso di voltarsi verso
Gale. Perché aveva scelto quel nome?
“Sai,
anche io ero nell’esercito, tempo fa”
continuò
la guardia.
“Probabilmente
mi avrai sentito nominare lì, allora”
tagliò corto Gale.
Troppo
in fretta,
pensò Finnick.
“Potrebbe
darsi” rispose Darius, in un tono che al
ragazzo sembrò tutt’altro che convinto. La guardia
si rivolse ancora a Gale. “A
quanto pare in questo periodo Coriolanus Snow cerca un sacco di
gente” disse
ammiccando.
“Cosa
vuoi dire?”
“Voglio
dire che ieri ha fatto portare qui un altro
uomo” fece una pausa, poi si corresse. “Beh,
più che un uomo, un ragazzo,
direi. Lo ha fatto sbattere in cella e stamattina si
è… soffermato
ad interrogarlo.”
“Davvero?”
chiese Gale, socchiudendo gli occhi.
“Già.
Non so cosa abbia fatto quel ragazzino, ma
direi che ora ne sta pagando le conseguenze.”
A
quelle parole Finnick sentì montare la rabbia
dentro di sé. Serrò bruscamente i pugni, ancora
legati dietro la schiena.
“Cos’hai,
biondino? Hai paura che mister Snow faccia
visita anche a te?” lo schernì Payne.
“Preparati, perché domani mattina sarà
di
nuovo qui. Scusatemi un minuto” disse poi, allontanandosi dai
due.
“Io
lo uccido” sussurrò Finnick, fremendo dalla
rabbia.
“Stai
calmo” disse piano Gale. “Lui è la
nostra
chiave per arrivare a Peeta.”
Darius
Payne tornò qualche minuto dopo con un grosso
mazzo di chiavi. I tre erano ormai giunti al grande portone del
carcere, che
emise un lungo gemito non appena venne aperto dalla guardia. Darius
condusse
Gale e Finnick lungo il grande corridoio in penombra. Le buie celle
sembravano
quasi tutte occupate, ma il silenzio era assoluto, fatta eccezione per
i loro
passi che riecheggiavano.
“Stai
tranquillo, biondino, vedrai che ti troveremo
una stanza confortevole” disse beffardo Payne.
“Goditela, perché forse domani
mister Snow ti sbatterà nella Cella Oscura assieme
all’altro ragazzino.”
Finnick
strinse i denti, ma non disse nulla e continuò
a camminare. Cominciava a chiedersi quando avrebbero dato inizio al
piano: il
tempo cominciava a stringere.
“Ehi,
Darius” disse Gale all’improvviso. “Cosa
c’è
lì dietro?”
Finnick
si voltò: il suo amico stava indicando una
porticina socchiusa sulla parete del corridoio.
“È
solo un ripostiglio… Cosa pensi di
fare con quella pistola?”
“Ti
auguro una buona permanenza nel ripostiglio”
disse Gale. Poi, senza dargli il tempo di reagire, calò con
forza il calcio
della pistola sulla testa di Darius Payne. La violenta botta lo fece
stramazzare a terra, privo di sensi.
“Bel
colpo, amico!” si complimentò Finnick con un
sorriso. “Ora però slegami. Cominciavo a pensare
che ti fossi calato fin troppo
nella parte del carceriere.”
“Dovevo
aspettare il momento giusto” ribatté Gale.
“In
effetti sei stato davvero un ottimo prigioniero, ma adesso aiutami con
questo
tipo.” Si chinò e afferrò Darius Payne
per le braccia. Finnick annuì e prese le
gambe della guardia.
Insieme
trascinarono l’uomo nel ripostiglio, che
venne chiuso a chiave da Gale. “Così non
disturberà nessuno, quando avrà
ripreso coscienza” disse.
“Questo
verme ci ha anche detto dove tengono Peeta”
disse Finnick. “Ora dobbiamo scoprire dove si trova questa
Cella Oscura. Pensi
che dovremmo dividerci?”
Gale
scosse la testa. “Non credo. Se incontrassimo
qualche sorvegliante, in due potremmo metterlo al tappeto
più facilmente.”
“Ehi,
voi” una voce strascicata li fece trasalire
entrambi. Finnick si voltò di scatto: a parlare era stato un
uomo nella cella
più vicina.
“Già, dico proprio a te,
biondino” continuò, sogghignando. “Ho
visto che avete steso quel bel tipo, e ho
visto anche che avete un mazzo di chiavi
dall’aria… invitante.”
Il suo sguardo si posò sulla mano di Gale.
Finnick
si avvicinò lentamente alle sbarre.
“Abbiamo
bisogno di informazioni, amico.”
“Apri
questa maledetta porta e ne riparliamo” disse
l’uomo in tono minaccioso.
“A
me sembra che siamo noi dalla parte giusta delle
sbarre” ribatté Finnick senza esitare.
“Quindi ti conviene aiutarci: dove si
trova la Cella Oscura?”
L’uomo
fece una smorfia. “È un gran brutto posto.
Talmente brutto che non si trova nemmeno qui.”
“Cosa
vuoi dire?” chiese bruscamente Gale.
“In
fondo a questo corridoio c’è un’uscita.
La Cella
Oscura è lì vicino, ma è parecchio
sorvegliata.”
“Non
ci sarà nessuno quando ci andremo” disse
Finnick.
“Cosa
stai dicendo, biondino?” chiese l’uomo in tono
aspro. “Le guardie si danno il cambio, è sempre
sorvegliata!”
Quando
rispose, il ragazzo aveva un sorrisetto sulle
labbra.
“Non
se farete abbastanza confusione.”
Una
decina di minuti dopo, Finnick e Gale guidavano
un gruppo di trenta persone, ormai libere dalle loro celle.
“Dovremmo
vergognarci per quello che stiamo facendo”
disse il primo. “Questi uomini sono criminali e assassini, e
noi li stiamo
rimettendo in libertà.
“Forse
hai ragione” rispose l’altro. “Ma in
mezzo a
loro ci sono sicuramente dei nemici di Snow. E di certo sono
innocenti.”
“Già”
convenne Finnick, sospirando. Poi si rivolse
agli evasi. “Va bene, ora statemi a sentire tutti quanti.
L’ultima cosa che gli
sbirri si aspettano è un’evasione di massa. Quindi
quello che dovete fare è
saltare fuori da questo maledetto posto come se foste dei diavoli
appena usciti
dall’Inferno. Siete dei pendagli da forca, quindi dovreste
saperlo fare
abbastanza bene.” Fece una pausa, temendo di avere esagerato,
ma negli occhi
degli evasi vide solo lampi di eccitazione.
Sono
davvero dei pendagli da forca,
pensò, prima di
continuare a parlare. “Sono stato abbastanza chiaro? Dovrete
mettere in corpo a
quegli sbirri una paura tale che anziché provare a fermarvi,
se ne andranno a
cercare la latrina più vicina!”
“Sai
parlare bene, biondino” disse uno degli evasi.
“Oh,
è solo un piano di evasione” rispose Finnick
con noncuranza. “E adesso, mostrate agli sbirri che i veri
uomini siete voi, e
non dei codardi in divisa. Avanti, diavoli, portate l’Inferno
fuori da qui!”
Esaltati
dal discorso, gli evasi corsero verso
l’uscita proprio mentre una guardia entrava nel corridoio.
Gli ormai
ex-prigionieri si avventarono su di lui con una tale furia che Finnick
dovette
distogliere lo sguardo.
“Li
hai caricati per bene” osservò Gale con una
smorfia.
“Quel
poveretto mi rimarrà sulla coscienza” ammise
Finnick. “Ma tutto questo ci permetterà di
liberare Peeta.”
“Già,
dobbiamo muoverci” lo esortò l’altro.
I
due attraversarono con cautela il corridoio. Non
impiegarono molto per capire quale fosse la porta che dava
sull’esterno, ma
prima che potessero raggiungerla, una flebile voce familiare
attirò
l’attenzione di Finnick.
“Lupo…
Vendicatore” lo chiamò la voce.
Il
ragazzo, incredulo, si avvicinò alla cella dalla
quale proveniva il richiamo.
“Thresh?”
chiese, incerto. “Sei davvero tu?”
“Finnick,
cosa succede?” chiese Gale, impaziente.
“Non abbiamo molto tempo!”
“Non
posso, Gale!” rispose il ragazzo.
“Peeta
ha bisogno di noi!”.
“Non
è l’unico” rispose Finnick.
“Per favore, Gale,
vai avanti. Ti raggiungo subito!” aggiunse, quasi in tono
supplichevole. Con
suo sollievo, l’ex-soldato acconsentì, non senza
riserve, e continuò ad
avanzare.
Con
le grida degli evasi che si allontanavano sempre
più, il ragazzo scrutò all’interno
della cella. Lì, appoggiato alle sbarre,
c’era un uomo dai tipici lineamenti dei Nativi. Sembrava
malconcio ed era
emaciato all’inverosimile.
“Thresh!”
chiamò ancora.
“Sono
io, Lupo Vendicatore” rispose a fatica
l’indiano.
“Come
sei finito qui?”
“Uomini
bianchi… mi hanno fatto prigioniero molte
lune fa.”
Finnick
ebbe un brutto presentimento. “Erano uomini
in divisa?” chiese ancora.
“No”
rispose subito l’altro. “Non avevano la
divisa.”
Il
ragazzo capì che i propri timori erano fondati.
Thresh era stato preso dagli stessi uomini di Snow, chissà
quanto tempo prima.
Perché Falco Nero non gliene aveva parlato? Thresh era il
capo dei guerrieri
Apache, e la sua scomparsa non era di certo passata inosservata. In
ogni caso,
doveva portarlo fuori da lì, e alla svelta: Gale poteva
già essere in
difficoltà.
Con
movimenti frettolosi cercò la chiave giusta e,
una volta trovata, la infilò nella serratura e
girò.
“Ce
la fai a camminare?” chiese a Thresh, che non
sembrava per nulla sicuro sulle sue gambe.
“Ce
la faccio” rispose lui, dimostrando che l’indole
del guerriero Apache non lo aveva affatto abbandonato.
“Allora
seguimi, svelto!” lo esortò Finnick.
Insieme
si diressero verso la porta, che trovarono
socchiusa. Gale doveva essere già uscito.
Una
volta fuori, la prima cosa che i due udirono fu
il rumore degli spari: lo scontro fra gli evasi e le guardie era
cominciato.
Lo
sguardo di Finnick guizzò in tutte le direzioni:
il posto sembrava deserto, finché non riuscì a
scorgere Gale che avanzava
rasente alla parete dell’edificio. In breve tempo, i tre si
trovarono davanti
il loro obiettivo. L’ingresso della cella era più
stretto rispetto alle altre e
sulla pietra che sovrastava le sbarre era incisa
un’inequivocabile scritta:
«Cella Oscura».
“Sembra
che il diversivo abbia funzionato” disse
Gale, e senza indugiare scelse la chiave giusta ed entrò
nella cella.
Quando
ne uscì, Finnick dovette trattenere un
gemito: l’ex-soldato sorreggeva Peeta. Il volto dello
sceriffo era tumefatto e
incrostato di sangue, ma a destare l’orrore del ragazzo fu il
suo torso nudo,
coperto di lividi e
di ustioni.
Le
avrebbero curate in seguito, decise Finnick.
“Dobbiamo
andarcene in fretta!” esclamò, rivolto
agli altri.
Gale
annuì e i quattro si misero in marcia aggirando
l’edificio.
Una
volta arrivati nei pressi del grande cancello,
lo spettacolo che si parava davanti ai loro occhi era terrificante: gli
evasi
stavano disperatamente cercando di aprirsi un varco verso
l’unica uscita
possibile, mentre le guardie li respingevano con armi da fuoco; molti
corpi
giacevano inermi a terra.
Finnick
si voltò verso Gale e scoprì che
l’ex-soldato lo stava già guardando. I due si
erano capiti all’istante: non
avrebbero mai aperto il fuoco contro i difensori della prigione.
Alla
fine, l’impeto degli evasi ebbe la meglio sulle
pallottole delle guardie e i fuggitivi riuscirono ad aprire il
cancello. Fu
allora che Finnick, Gale, Peeta e Thresh colsero l’attimo e
corsero verso
l’uscita, unendosi al gruppo degli evasi. I quattro sentivano
i proiettili
fischiare attorno a loro, ma in qualche modo ne uscirono indenni; senza
fermarsi si diressero verso la sommità della collina, dove
avevano lasciato i
cavalli.
Prima
di continuare a scappare, Finnick lanciò
un’ultima fugace occhiata alla sanguinosa battaglia e,
osservando ancora il
massacro che si stava compiendo, si chiese per l’ennesima
volta se la sua
missione valesse ancora qualcosa.
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Capitolo 14 *** Capitolo 11: Il guerriero Apache ***
Katniss
uscì lentamente dallo spaccio. Si guardò
attorno, circospetta, squadrando la strada di fronte a lei,
finché non si
lasciò sfuggire un sospiro di frustrazione. Haymitch
l’aveva tormentata con le
sue raccomandazioni, ma così facendo le aveva messo una tale
ansia che non
osava fare due passi senza temere di non avere tutto sotto controllo.
Katniss
però si era accorta che c’era qualcosa di
strano in quella città. Non era mai stata in un posto grande
come Yuma, eppure non
riusciva a scrollarsi di dosso la fastidiosa sensazione di essere
sempre
osservata da qualcuno.
Tenendo
il pane appena comprato sotto il braccio,
cominciò a camminare. Era sicura che tutto quel guardarsi
attorno avrebbe
attirato ancora più attenzione.
Eppure,
all’improvviso lo vide di nuovo. Dall’altra
parte della strada c’era un uomo dalla pelle scura, il volto
parzialmente
nascosto da un cappello a larghe tese. Era seduto per terra come uno
dei tanti
medicanti di Yuma e Katniss non poteva vedere con chiarezza i suoi
occhi, ma in
qualche modo era sicura che la stesse osservando. Ed era altrettanto
sicura di
averlo già intravisto vicino alla stalla, qualche ora prima.
In effetti, c’era
un nero dallo sguardo sfuggente anche quando si era fermata a dare
un’occhiata
all’armeria.
Non
era un buon segno, decise Katniss.
Senza
quasi volerlo, accelerò impercettibilmente il
passo. Tutto quello che voleva era allontanarsi dallo strano
mendicante. Più ci
pensava, più le sembrava che avesse un’aria
familiare.
Smettila,
si impose. Qui non ti conosce nessuno.
Ma
quei pensieri non le impedirono di camminare
sempre più velocemente.
Non
voltarti, non voltarti, si
ripeté, sapendo che era la cosa
peggiore che potesse fare. Non riuscì a dominare
quell’impulso e, senza smettere
di camminare a passo spedito, si girò.
L’uomo
non c’era più.
Presa
dal panico, Katniss cominciò a correre: adesso
aveva la certezza che l’uomo la stava cercando. Doveva
assolutamente andarsene
dalla strada principale. Pochi passi più avanti
c’era un vicolo, alla sua
destra; vi si infilò senza pensarci troppo su.
La
stradina era stretta e maleodorante: il suo naso
si arricciò in una smorfia di disgusto.
Senza
nemmeno voltarsi, cercò di riprendere fiato
nella penombra. Nella testa aveva già una mezza idea di
raggiungere Haymitch,
quando all’improvviso una mano le chiuse la bocca,
stringendola in una morsa
d’acciaio.
Con
gli occhi sbarrati dalla paura, senza poter
chiamare aiuto, Katniss si divincolò disperata, inarcando la
schiena e
scalciando con rabbia. Fu tutto inutile contro i possenti muscoli dello
sconosciuto.
“Shh!”
fece lui. “Non vorrai mica attirare gli
uomini di Snow, vero?”
A
quella domanda Katniss rimase sbigottita.
“Ora
ti lascio” continuò l’uomo.
“Ma tu non devi
strillare. Non ti farò del male.” E detto questo,
lasciò andare la ragazza, che
si voltò di scatto.
Era
proprio lui, il falso mendicante dalla pelle
scura.
“Mi
riconosci, adesso?” chiese.
Katniss
lo osservò meglio e alla fine capì. In
effetti, il cappello e il vecchio poncho sgualcito celavano bene le sue
reali
fattezze.
“Io…
certo, adesso ti riconosco” balbettò lei.
“Eri
con Gale a Hangtown.”
L’uomo
dalla pelle d’ebano sorrise. “Mi chiamo
Boggs” si presentò, tendendo la mano.
“Katniss”
rispose lei, stringendola.
“Ti
chiedo scusa per averti spaventata” proseguì
lui. “Non ero sicuro che fossi davvero tu e non volevo
metterti in allarme
davanti a tutti. È un posto pericoloso, questo”
aggiunse.
A
quelle parole Katniss sentì il cuore gonfio di
preoccupazione per Peeta e i suoi amici: non aveva idea di come stesse
andando
la pericolosa missione.
“Già,
puoi dirlo forte” rispose, cercando di farsi
forza. “Come mai sei qui?” chiese poi, curiosa.
“Il
capitano Hawthorne ci aveva ordinato di
raggiungerlo a Yuma non appena avessimo finito di dare una mano nella
tua
città” spiegò Boggs.
“L’intera compagnia è accampata poco
fuori Yuma.”
La
sorpresa di Katniss si trasformò presto in
speranza: la ragazza realizzò che con la squadra di Gale
avrebbero avuto la
possibilità di affrontare Snow.
“In
ogni caso, ero venuto in città per cercare il
capitano” disse Boggs. “Dove posso
trovarlo?”
“Gale
non è qui” rispose la ragazza. “Abbiamo
avuto
qualche… problema.”
“Che
ne diresti di parlarne nel nostro
accampamento?” propose lui. Katniss si accorse che stava
cercando di mascherare
la preoccupazione. “Le nostre tende sono più
comode di questo vicolo
puzzolente” aggiunse.
“Volentieri!”
rispose lei sorridendo.
L’accampamento
della Squadra 451 era situato ai
margini del deserto di Yuma, lontano da occhi indiscreti. Katniss era
riuscita
a contare una dozzina di tende
piantate
nel terreno polveroso. C’erano sempre due sentinelle a fare
la guardia: Boggs
spiegò alla ragazza quanto fosse fondamentale avere sempre
qualcuno che
sorvegliasse l’accampamento. Dopodiché, la
condusse nella sua tenda. Lì,
Katniss raccontò la loro avventura, compresi la cattura di
Peeta e il tentativo
di salvarlo.
“Ho
un compagno da recuperare” disse poi,
riferendosi a Haymitch. “Ci eravamo messi d’accordo
per ritrovarci al
tramonto.”
“Nessun
problema” la rassicurò Boggs. “Ti
farò
scortare da quattro persone in gamba. E farete meglio a passare dal
vostro
accampamento: è più sicuro se vi trasferite da
noi.”
***
Finnick
si sentiva sprofondare nella polvere: aveva
le gambe talmente pesanti da poter solo trascinare i piedi. Sapeva che
Gale
provava le stesse sensazioni, lo capiva dagli occhi semichiusi del suo
amico.
Entrambi stringevano in mano le briglie dei due cavalli; sulla schiena
degli
animali si reggevano a malapena Peeta e Thresh, mai del tutto lucidi.
Il
viaggio di ritorno dal carcere di Yuma si era
rivelato una vera odissea. Il solo pensiero che spingeva i quattro ad
andare
avanti era la consapevolezza di aver quasi raggiunto
l’accampamento. Eppure,
una volta arrivati, Finnick reagì sgomento a quello che
vide: l’accampamento
era completamente desolato. Sapeva che Katniss e Haymitch sarebbero
dovuti
essere lì. Era successo loro qualcosa?
Sentì
le forze venirgli meno; lasciò andare la
briglia del cavallo e si lasciò cadere sulle ginocchia. Il
cinturone che
portava alla vita adesso sembrava pesare tonnellate… eppure
a cosa serviva un
revolver carico e una mano veloce come la sua?
Aveva
rischiato la vita per salvare un compagno e
adesso ne aveva persi due. Impolverato e impotente, Finnick
sfogò tutta la sua
frustrazione prendendo a pugni la rovente sabbia del deserto.
E
senza alcun preavviso, una voce femminile fece
trasalire tutto il gruppo: “Capitano!”
Finnick
si voltò di scatto: una donna a cavallo era
appena sbucata da dietro una grossa roccia. Aveva lunghi capelli
castani e con
assoluta naturalezza portava un fucile di notevoli dimensioni sulla
schiena. I
suoi limpidi occhi verdi stavano fissando Gale, che appariva abbastanza
sbalordito da non riuscire a spiccicare parola.
“Jackson…”
mormorò il ragazzo. “Cosa ci fai qui?”
“Eseguo
i tuoi ordini, capitano Hawthorne” rispose
la donna; un sorriso obliquo le attraversava il volto. “Sei
stato tu a dire
alla Compagnia 451 di raggiungerti in questo maledettissimo deserto, o
sbaglio?”
“Credo
di sì…” borbottò Gale tra
sé e sé. Si portò
una mano agli occhi e prese a stropicciarli nervosamente.
“Avete preso voi i
nostri amici?” chiese infine.
“Sono
sani e salvi nel nostro accampamento. Al
contrario di me… Boggs mi ha mollato qui a fare il palo,
finché non siete
arrivati voi e avete cominciato a fare a botte con il deserto. Eh
sì, dico a
te, biondino” aggiunse, inclinando il capo verso Finnick e
sorridendo beffarda.
Lui
d’istinto si guardò il dorso delle mani. Le
nocche erano terribilmente scorticate e il sangue colava copiosamente
dalle
ferite fresche.
“Avrai
bisogno di una bella fasciatura, lì” riprese
Jackson, ammiccando. “Forza, vi porto al nostro
accampamento.”
Diverse
ore più tardi, Finnick sedeva nella tenda
più grande del campo. Accanto a lui si era sistemato Gale;
di fronte aveva
Boggs e Jackson. La donna sembrava non separarsi mai dal suo fucile.
“Snow
controlla il carcere di Yuma” esordì Gale.
“Lo
sospettavamo, ma ora che ci sono entrato ne ho avuto la certezza.
Lì dentro ogni
guardia risponde ai suoi ordini” concluse, in tono grave.
“Come
avete fatto ad uscirne?” chiese Boggs,
stupito.
“Abbiamo
provocato… un’evasione di massa.” Adesso
la
voce di Gale si era fatta esitante. A Finnick non sfuggì lo
sguardo accigliato
di Jackson. “Era l’unico modo per venirne fuori
vivi” riprese Gale. “C’erano
innocenti, lì dentro. In cella solo per aver ostacolato i
crimini di Snow!”
“Non
ti preoccupare, capitano. Quella prigione era
solo un postaccio da ripulire” lo rassicurò Boggs.
Gale abbassò lo sguardo, ma
solo per un attimo.
“Come
stanno i due che abbiamo riportato indietro?”
chiese.
“Oh,
lo sceriffo si rimetterà presto” rispose
Jackson. “L’indiano, invece… per come
è conciato, sarebbe dovuto morire da
diverso tempo. Evidentemente ha la pelle più dura del
previsto. Ma si può
sapere chi è?”
Finnick
sapeva che l’amico non poteva rispondere.
“Lui
è Thresh, il capo dei guerrieri Apache” si
affrettò a spiegare. “ Ed è come un
fratello, per me.”
Gale
si voltò verso di lui. “E come è finito
nel carcere
di Yuma?” chiese, sbalordito.
“Non
lo so” Finnick scosse la testa. “Forse ce
l’hanno portato i Piedi Neri, forse gli uomini di Snow.
L’unica cosa che so è
che è stato torturato per chissà quanto tempo.
Era disperso da mesi… alla
riserva lo credevano morto.”
“Non
temere, sopravvivrà anche lui” disse Jackson.
Il
respiro di Finnick si era fatto pesante. “Vorrei
parlare con lui il prima possibile.”
Thresh
sonnecchiava in una brandina troppo piccola
per lui. Dall’altra parte della tenda medica c’era
Peeta, anche lui a riposo.
Non
appena Finnick mosse un passo verso Thresh, gli
occhi dell’indiano si aprirono e un pallido sorriso si fece
strada sul suo
volto.
“Lupo
Vendicatore…” esordì con voce roca.
“Sono
davvero ancora vivo?”
“Le
grandi praterie del cielo dovranno aspettare,
prima di poterti accogliere” sorrise Finnick. “Hai
ancora delle imprese da
compiere, Thresh.”
“Se
così vorrà il Grande Spirito.”
Finnick
chinò il capo, poi riprese: “Come eri finito
nel carcere di Yuma? Alla riserva tutti ti considerano morto. Io stesso
non
credevo ai miei occhi quando ti ho visto dentro quella buia
cella.”
Thresh
gli rivolse uno sguardo carico di sofferenza.
“Ero a caccia con tre guerrieri, ma degli uomini ci hanno
accerchiato. Hanno
abbattuto i miei tre fratelli e mi hanno legato.”
Finnick
poteva sentire l’altro digrignare i denti.
“E
poi, Thresh? Ti hanno portato a Yuma?”
“No,
Lupo Vendicatore. Mi hanno portato nell’Inferno
dei Piedi Neri” Thresh chiuse gli occhi. “Quei cani
mi torturavano… e l’uomo
bianco faceva le domande.”
“L’uomo
bianco?” ripeté incredulo Finnick.
Thresh
annuì. “Faceva domande sulla nostra riserva,
domande a cui era impossibile rispondere. Ma lui lo sapeva, Lupo
Vendicatore. A
lui piaceva farmi torturare. E i
Piedi Neri hanno distrutto il mio onore. Mi hanno impresso sul petto il
loro
sciacallo… adesso non sono più un guerriero
Apache.” Thresh tacque, lo sguardo
perso nel vuoto.
Finnick
rimase interdetto. Doveva fare qualcosa, e
alla svelta: conosceva Thresh abbastanza da sapere che per un vero
guerriero
Apache l’onore e l’appartenenza alla propria
tribù erano tutto. E i Piedi Neri
gli avevano sottratto entrambe le cose.
“Ehi”
lo chiamò, afferrandolo per una spalla. Thresh
parve riscuotersi dal torpore. “Tu non hai mai smesso di
essere un Apache. Sei
rimasto vivo, hai lottato. Alla riserva ci sono i tuoi guerrieri che ti
aspettano.”
Con
enorme sollievo, Finnick notò che il volto
pallido di Thresh stava recuperando un po’ di colore,
così continuò a parlare.
“E poi, stiamo per affrontare l’uomo che ti ha
fatto questo. Lo staneremo e
vendicheremo tutti i torti che ti ha fatto. È anche la mia vendetta, Thresh.”
Come
rianimato da quelle parole, l’indiano scostò
bruscamente la coperta che aveva addosso. Sul possente torso nudo,
Finnick
distinse chiaramente la sagoma di uno sciacallo impressa sulla pelle. I
contorni della figura erano di un tremendo rosso vivo.
“I
coltelli dei Piedi Neri sono affilati, fratello”
disse Thresh, che aveva perfettamente indovinato i suoi pensieri. Poi
si alzò
e, anche se un po’ incerto, rimase in piedi.
“Torno
alla riserva, Lupo Vendicatore.”
“Non
puoi!” protestò Finnick. “Sei ridotto
male, non
ce la puoi fare ad affrontare un viaggio così lungo da
solo!”
“Sono
ancora il capo dei guerrieri Apache. E loro mi
credono morto” spiegò, ripetendo le parole di
Finnick. “Devo tornare da loro.
Lo hai detto tu stesso.”
“Hai
bisogno di riposo.”
“Non
riposerò finché non avremo vendetta.”
Finnick
chinò il capo: sapeva che insistere non
sarebbe servito. “Fai attenzione. Non voglio perderti
un’altra volta.”
“Ce
la farò. E ti porterò dei guerrieri”
promise
l’altro, incamminandosi verso l’uscita della tenda.
“Thresh”
lo richiamò Finnick. Improvvisamente aveva
la gola secca. “Ecco… salutami Annie, se
puoi.” Deglutì.
“Contaci,
Lupo Vendicatore” rispose Thresh, stavolta
senza l’ombra di un sorriso. E uscì dalla tenda.
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Capitolo 15 *** Capitolo 12: Il tranello ***
Nonostante
non avesse ancora raggiunto lo zenit, il
sole picchiava ferocemente sul deserto di Yuma. Lì, alle
soglie di un tozzo e
minaccioso edificio di pietra, Coriolanus Snow contemplava il disastro.
Il
volto impassibile, si aggirava nel cortile esterno di quello che era
stato il
carcere di Yuma. Già, come si poteva definire un edificio
che non conteneva più
i suoi prigionieri?
Numerose
guardie giacevano senza vita, uccise dai
colpi delle loro stesse armi da fuoco o, peggio ancora, trucidate a
mani nude
dalla peggiore feccia che quel posto avesse ospitato. E se fossero
state ancora
vive, Snow le avrebbe ammazzate di persona, per essersi fatte sfuggire
un’occasione così ghiotta. Finnick Odair che si
consegnava nel suo carcere…
Snow non era mai stato
tanto vicino a mettere le mani sul collo di quel maledetto ficcanaso.
Invece
ora vagava a piede libero, insieme allo sceriffo. Gli avrebbero causato
altri
problemi, questo era poco ma sicuro.
Si
voltò. Thread era appoggiato al cancello della
prigione e si dondolava pigramente su un piede. Evidentemente aveva
preferito
tenersi a distanza di sicurezza. Snow lo chiamò, facendogli
cenno di
avvicinarsi.
“Voglio
quei cani, vivi o morti” gli intimò.
Lui
si limitò a fissarlo per un po’ con i suoi occhi
di ghiaccio, poi disse: “Probabilmente sono accampati da
qualche parte intorno
alla città.”
“Allora
fai in modo di trovarli. Manda i nostri
uomini in perlustrazione già da stanotte.”
“Sarà fatto.”
“Thread…”
“Mister Snow?”
“Quando
li trovi…” Snow fece una piccola pausa.
“Spazzali
via.”
***
Katniss
si aggirava tra le tende dell’accampamento,
incurante dell’accecante sole del primo pomeriggio. Tutto
quello che desiderava
era allontanarsi il più possibile dalla grande tenda in cui
si stavano
definendo i dettagli del piano. Aveva lasciato Finnick, Peeta e Gale
con le
teste che cominciavano a fumare, sia per il caldo che per le difficili
decisioni da prendere.
Il
loro piano le sembrava completamente folle… come
d’altronde era stato il loro viaggio fino a quel momento. Ma
ciò che turbava
Katniss, in realtà, era il suo ruolo all’interno
di quella follia.
«Tu
e Haymitch siete assolutamente perfetti per
questo compito!», le aveva detto Finnick poco prima. Certo,
una ragazza da
Saloon e un ubriacone… Per un istante aveva pensato che il
pistolero biondo si
stesse prendendo gioco di lei, ma poi aveva scorto le facce serie di
Peeta e
Gale. Non era uno scherzo.
E
all’improvviso le tornò in mente Prim, la sua
paperella. Katniss si vergognò all’istante della
paura che provava: come stava
adesso la sua sorellina? Una bambina prigioniera di un branco di
selvaggi… la
ragazza si coprì il volto con le mani, scossa per un istante
da un singulto.
Poi si voltò e a grandi passi si diresse di nuovo verso la
tenda più grande.
Lo
avrebbe fatto.
Si
mossero nel tardo pomeriggio, quando finalmente
il sole cominciava a dare segni di stanchezza.
La
carrozza che la trasportava percorse lentamente
le strade di Yuma, senza farsi notare. Non appena si fu fermata,
Katniss scese
con eleganza. Sapeva che il suo obiettivo era mettersi in mostra il
più
possibile, così sollevò con le mani il suo lungo
vestito, in modo da non
sporcarlo di polvere, e cominciò a camminare ancheggiando
verso l’entrata del
Saloon.
“Mia
cara, sei assolutamente magnifica!” la accolse
Chaff, il rubicondo proprietario del locale. Katniss l’aveva
conosciuto poche
ore prima, quando si era proposta per lavorare lì, quella
sera.
Lo
ringraziò facendo una riverenza, quindi Chaff le
indicò una porta dietro il bancone. “Puoi andare a
sistemarti lì. Ricorda, fra
mezz’ora si comincia!” la avvertì,
agitando scherzosamente il dito.
Katniss
si diresse verso la stanzetta. Una volta
dentro, si concesse solo un sospiro prima di cominciare a truccarsi.
Mentre si
guardava allo specchio, una pioggia di ricordi le invase la mente .
Sembravano
passati millenni dall’ultima volta che si era vestita
così, il giorno in cui
Finnick l’aveva salvata dall’ubriaco. In
realtà erano trascorsi solo pochi
giorni, e nonostante questo, la sua vita era cambiata in modo radicale.
Continuò
a truccarsi fino a quando quasi non si
riconobbe più nello specchio. Fu allora che si
alzò e uscì dalla stanza. Quando
ancora lavorava a Hangtown, cercava di mostrarsi il più
naturale possibile, ma
quella sera sentiva l’irrefrenabile impulso di mascherarsi.
Ben
presto il Saloon si fece affollato e la musica
cominciò. Katniss cominciò a ballare sotto gli
occhi di tutti gli avventori. Fu
sorpresa nel sentirsi goffa e impacciata.
Deve
essere l’ansia,
si disse. Eppure, se avesse continuato
in quel modo, la copertura sarebbe saltata. Così chiuse gli
occhi e provò a
dimenticare tutto quanto. Continuò a tenerli chiusi fino a
quando non si sentì
di nuovo la Ballerina che infiammava le serate al Saloon di Hangtown,
la
ragazza misteriosa che sorrideva a tutti e non si concedeva a nessuno,
la
giovane donna che doveva accudire la sorellina e allo stesso tempo
esserle di
esempio. Tutto questo la faceva danzare sempre più leggera,
finché non le parve
di essersi sollevata dal pavimento polveroso e di starsi esibendo a
mezz’aria.
E
poi, all’inizio ovattati, ma pian piano sempre più
rumorosi ed insistenti, si fecero strada nel suo udito i fischi di
apprezzamento e gli applausi.
Finalmente
aprì gli occhi e quello che vide fu una
folla che impazziva per lei. Sorrise radiosa mentre percorreva con lo sguardo
l’intero locale, e fu travolta
da un moto di sollievo quando scorse Haymitch seduto ad un tavolo in
disparte,
con un sorrisetto stampato sul volto.
Finalmente
è arrivato,
pensò. Haymitch era parte integrante del piano
tanto quanto lo era lei, e aveva cominciato a pensare che non si
sarebbe più
presentato.
Ora
doveva solo aspettare il momento giusto.
Il
momento arrivò poche ore più tardi.
Quando
la musica si fermò all’improvviso e un
silenzio raggelante scese sul locale, Katniss comprese che era successo
qualcosa. Si voltò verso l’entrata del Saloon e
capì: degli uomini avevano
appena oltrepassato la soglia. Tutti gli avventori li stavano guardando.
Devono
essere loro.
Per
un istante incrociò lo sguardo di Haymitch, che
annuì impercettibilmente.
Gli
uomini di Snow si sedettero al bancone e
ordinarono da bere. Era questo l’unico punto debole che
Katniss e Haymitch
erano riusciti a trovare durante il loro tentativo di spionaggio: ogni
sera,
nulla fermava gli uomini di ronda dall’interrompere il loro
lavoro e fare una
visitina al Saloon. Solo che quella notte la visita sarebbe stata molto più lunga del solito.
Chaff
fece segno al pianista di riprendere a
suonare, poi si rivolse a quello che sembrava essere il capo degli
uomini. “Il
solito, Brutus?”
“Certo”
rise l’uomo. “Vedo che hai della nuova
merce, qui.”
Katniss
ormai non poteva più vederlo, ma era pronta
a scommettere che quella frase fosse riferita a lei. Con la coda
dell’occhio
intravide Haymitch che si alzava dal suo tavolo e si avvicinava al
bancone.
Il
piano era cominciato. Si costrinse ad attendere
diversi minuti, fino a quando la melodia del pianoforte non si
interruppe; il pianista
le fece segno di volere una pausa, così Katniss decise di
cogliere al volo
l’occasione. Si avvicinò anche lei al bancone e
senza esitazione prese posto
accanto a Brutus. Si guardò attorno con noncuranza, senza
mai incrociare il suo
sguardo. Dopo neanche un minuto fu lui a offrirle da bere.
Katniss
osservò preoccupata la bottiglia, che
sembrava contenere una Tequila invecchiata dall’aria
micidiale. Non poteva
permettersi di finire ubriaca, ma d’altronde se voleva
entrare in confidenza
con Brutus non aveva scelta. Così accettò di
farsi riempire il bicchiere e lo
vuotò tutto d’un fiato. La bevanda era talmente
forte da bruciarle la gola e
farle lacrimare gli occhi, ma Katniss riuscì a mascherare le
sue reazioni
sfoderando un sorriso malizioso con il quale ruppe finalmente il
ghiaccio.
I
due cominciarono a parlare, ma solo una parte
della mente di Katniss era concentrata sulla conversazione: rivolta
verso
Brutus, poteva finalmente vedere cosa stesse combinando Haymitch. A
quanto
pareva, aveva offerto da bere al resto degli uomini.
“…ed
è così che sono diventato il capo delle guardie
di Snow” concluse Brutus, con un’espressione di
tronfio orgoglio sul viso.
Katniss tornò immediatamente a concentrarsi su di lui.
“E
quanto ti paga Snow? Scommetto che ti dà troppo
poco” disse, strizzandogli l’occhio.
“Secondo me fai bene a prenderti queste…
piccole libertà” concluse in tono suadente. Poi
riempì di nuovo i bicchieri,
quasi inconsapevolmente.
Di
colpo, una risata rauca arrivò dall’altra
estremità del bancone: uno degli uomini di Snow si stava
rivolgendo a Haymitch.
“Reggi
bene l’alcool, amico!” esclamò in tono
ammirato.
“Lo
reggo meglio di tutti voi messi assieme” li
sfidò Haymitch.
“Ma
sentilo” proruppe un altro. “Forse è
già
ubriaco.”
Katniss
vide le guance dell’ubriacone di Hangtown
tingersi di un rosso acceso.
“Davvero?”
chiese lui. “Il prossimo giro lo offro
io, vediamo chi riesce a starmi dietro!” dichiarò.
La
proposta venne accettata a gran voce dagli uomini
di Snow.
Brutus
si accigliò. “I miei uomini tendono a farsi
distrarre quando c’è dell’alcool a poca
distanza” spiegò, sospirando. “Forse
sarebbe meglio che li richiamassi all’ordine.”
Non
posso lasciarglielo fare!
“Lasciali
divertire!” proruppe Katniss. Per un
istante vide la sorpresa sul volto di Brutus, così
continuò. “E poi, mi
lasceresti da sola con questa bottiglia da finire?” gli
chiese, ammiccando.
Vide
Brutus esitare e gli si avvicinò. “Potremmo
finirla in un posto tranquillo… la mia stanza, per
esempio” sussurrò.
A
quella proposta così allettante l’uomo,
già
brillo, cedette definitivamente. Si alzò dallo sgabello e,
nonostante fosse un
po’ malfermo sulle gambe, fece cenno a Katniss di andare. Lei
afferrò la
bottiglia e si alzò a sua volta. La testa le girava, ma in
qualche modo riuscì
comunque a dirigersi verso le scale. Prima di imboccarle, si
voltò verso il
bancone: gli uomini di Snow cominciavano già a cantare a
squarciagola canzoni
oscene, mentre Haymitch rideva di gusto.
Almeno
lui sta facendo quello che gli riesce meglio. Io, invece…
Mentre
saliva le scale percepiva chiaramente il
respiro affannoso di Brutus dietro di lei. La bottiglia di Tequila
sembrava
farsi più pesante ogni passo che faceva.
Arrivata
al piano di sopra, si guardò intorno. Si
era perfino dimenticata di prendere una camera! Fortunatamente, una
porta
aperta attirò la sua attenzione.
Quella
sarebbe andata bene, si disse.
Terrorizzata
da ciò che sarebbe successo di lì a
poco, vi condusse Brutus. L’uomo entrò e si chiuse
la porta alle spalle.
E
all’improvviso Katniss si sentì sola. In trappola.
Non ci sarebbe stato Finnick a salvarla, stavolta.
Non
posso farlo, non posso.
Non
appena vide l’uomo che si avvicinava, il suo
stomaco si rivoltò, facendo sprofondare Haymitch e il piano
in un remoto
angolino della mente.
Katniss
sollevò la bottiglia e, senza emettere alcun
suono, la calò con forza sula testa di Brutus, facendola
esplodere in una
miriade di frammenti di vetro e gocce di Tequila invecchiata.
Guardando
l’espressione sorpresa sul volto
dell’uomo, che poi stramazzò a terra con un
gemito, a Katniss sembrò di vivere
in un lontano mondo dei sogni.
Poi
si sedette sul bordo del letto e si lasciò
andare a una serie di silenziosi singhiozzi disperati.
Finnick,
Peeta, Gale… adesso tocca a voi!
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