Il cavaliere di Valsgärde

di Old Fashioned
(/viewuser.php?uid=934147)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 32 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


IL CAVALIERE DI VALSGÄRDE








Si diceva che il Cavaliere di Valsgärde fosse un algido aristocratico tedesco con il monocolo e la cicatrice della Mensur su una guancia, che bevesse solo champagne e uscisse a cavalcare nelle notti di luna piena in sella a un cavallo bianco.
Si diceva che già tre ragazze francesi, tutte bellissime, si fossero uccise a causa sua, disperate perché lui le aveva rifiutate.
C’erano piloti che giuravano di averlo visto con i loro occhi salutare l’avversario e andarsene se si accorgeva di avere a che fare con qualcuno di livello troppo inferiore al suo.
Altri raccontavano che una volta aveva fatto un basso passaggio su un campo inglese e aveva lasciato cadere un mazzo di rose rosse in onore di un nemico che si era rivelato particolarmente abile in combattimento.
Il Cavaliere di Valsgärde era una leggenda.
Una leggenda vivente, peraltro, dal momento che non era affatto difficile incontrarlo. Compariva nei combattimenti con un Messerschmitt 109 dal muso dipinto di rosso, si sceglieva l’avversario più capace, lo impegnava in un duello e invariabilmente lo abbatteva. Poi scompariva così com’era apparso.
Nessun servizio di Intelligence era ancora riuscito a capire a quale stormo appartenesse o da quale campo decollasse. Gli osservatori inglesi avevano scattato foto di tutte le coste della Francia nel tentativo di scovarlo, ma sembrava che il Cavaliere apparisse dal nulla e vi si dissolvesse di nuovo appena aveva abbattuto il suo avversario.
Non c’era stormo da caccia britannico che non anelasse a eliminare finalmente il Cavaliere di Valsgärde, anche perché la sua potenza mitopoietica stava lentamente erodendo il morale dei piloti.
Correva voce che fosse invincibile, che fosse un’arma segreta del Reich, addirittura che fosse il Diavolo in persona.

Tra i più determinati ad abbattere il famigerato tedesco c’era il maggiore George Stuart, del 19° Squadron.
Il maggiore era un ufficiale piuttosto giovane e molto capace, e soprattutto era un abile pilota, il che gli faceva sperare che presto il Cavaliere si sarebbe degnato di impegnarlo in combattimento.
In realtà non l’aveva ancora visto.
Aveva intravisto ogni tanto nella foga delle battaglie aeree qualche guizzo di rosso, ma invariabilmente a una seconda occhiata aveva incontrato solo il verde quasi nero e l’azzurro chiaro delle mimetizzazioni standard tedesche.
Aveva segnato su una mappa tutti gli avvistamenti del Cavaliere di Valsgärde e aveva notato con soddisfazione che corrispondevano più o meno al territorio controllato dal suo Squadron, ma l’elusivo nemico gli era sempre sfuggito: o compariva quando lui era di riposo oppure c’era un attimo prima che arrivasse o subito dopo che era atterrato con le armi scariche o il serbatoio vuoto.

Stava giusto ponderando il nugolo di puntini rossi della sua mappa quando suonarono le sirene dell’allarme antiaereo: si stava avvicinando uno stormo di caccia tedeschi.
Il maggiore indossò in tutta fretta la combinazione di volo e corse verso la pista constatando che i meccanici stavano già portando il suo aereo in linea.
“È rifornito e pronto, signore!” lo informò un armiere.
Stuart annuì, salì sull’ala e si infilò nell’abitacolo. Caratterialmente tendeva ad essere piuttosto flemmatico, ma il pensiero che avrebbe potuto incontrare il Cavaliere gli dava un’insolita eccitazione, un misto di aspettativa e frenesia venatoria.
Si costrinse all’abituale sangue freddo. Se mai l’avesse incontrato avrebbe dovuto abbatterlo, poche storie. Basta coi romanticismi, le ragazze francesi suicide per amore, lo champagne e i duelli. Sapeva che negli stormi britannici c’erano già piloti che segretamente lo ammiravano e non poche ragazze inglesi sospiravano cercando di immaginare le sue fattezze.
Di Baroni Rossi ce n’era già stato uno nella storia, non era certo necessario che ne comparisse un altro.
Si librò in volo seguito da presso dai suoi due gregari e puntò decisamente a est. Il resto dello Squadron era dietro di lui in formazione compatta.
Era mattina, per cui avevano il sole in faccia. Stuart considerò che i tedeschi avrebbero avuto invece il vantaggio di averlo alle spalle. L’aria era limpida, non c’erano nubi, quindi avrebbero visto i caccia della Luftwaffe da molto lontano. E i tedeschi avrebbero visto loro, ovviamente.
Controllò ancora una volta che le armi fossero tutte cariche e pronte.
Chi spara per primo vive più a lungo, il motto di uno stormo da caccia tedesco che si sentiva di condividere in pieno.
E poi arrivò. All’improvviso, come apparso dal nulla.
Piombò nel bel mezzo della formazione inglese, la attraversò come un fulmine dall’alto verso il basso, cabrò, fece un Immelmann e scomparve all’orizzonte lasciandosi dietro la scia di fumo di due aerei abbattuti.
Il tutto era durato meno di cinque secondi.
Stuart sbatté gli occhi attonito mentre nella frequenza radio si sovrapponevano comunicazioni concitate e gli Hurricane del 19° Squadron si agitavano come vespe inferocite.
Era lui. Finalmente aveva visto coi suoi occhi il Cavaliere di Valsgärde.
Lo cercò nel cielo con lo sguardo, pronto a impegnarlo in combattimento, ma era sparito.
Al suo posto c’era invece un Geschwader al completo, che procedeva nella caratteristica formazione a gruppi di quattro.
Si obbligò a dimenticare il Cavaliere di Valsgärde e strinse le cinghie di sicurezza preparandosi al combattimento.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Valsgärde 1 Capitolo 2

“Eccolo che torna, signore!”
Il maggiore Graf si voltò verso il limitare del campo: l'aereo dal muso dipinto di rosso si stava avvicinando.
“Quanti ne ha abbattuti stavolta?” chiese l'ufficiale.
“Due, signor maggiore. E siamo solo alla prima missione,” rispose il meccanico, orgoglioso come se le due vittorie fossero state sue.
“Andiamo ad accoglierlo come si conviene, allora,” disse Graf, e si diresse verso la pista.
Il comandante e l'uomo nero – ovvero il meccanico, nel gergo della Luftwaffe – non erano gli unici ad avvicinarsi all'aereo che stava rullando verso gli hangar. Tutti quelli che non avevano mansioni importanti da svolgere gli stavano correndo incontro. Altri meccanici, piloti liberi dalle missioni di guerra, infermieri. C'era addirittura un cuciniere con un barilotto di birra sotto il braccio e un paio di boccali nella mano libera.
Il caccia si fermò, il motore si spense. Ci fu un attimo di immobilità carica di aspettativa, poi il tettuccio si sollevò e ricadde da una parte spinto da una mano guantata.
La figura che emerse dall'abitacolo era quanto di meno algido e aristocratico si potesse immaginare: era un ragazzone dall'aria florida e gioviale, con gli occhi celesti e le guance rosse.
“Ne ha abbattuti altri due!” lo accolse il maggiore. “Ne lasci qualcuno anche per noi, capitano Müller, non sia egoista.”
“Io ci provo, signore,” rispose l'altro salutando militarmente, “ma quelli si ostinano a passare sempre davanti alle mie mitragliatrici!”
Tutti scoppiarono a ridere, qualcuno mise in mano a Müller un boccale di birra mentre gli uomini neri portavano via il suo aereo per controllarlo e rifornirlo.
“Ci sono i fotografi di Signal,” disse il maggiore Graf mentre procedevano verso le baracche del comando.
“Davvero?” chiese il capitano abbassando il boccale vuoto. Il cuciniere fece per riempirglielo di nuovo, ma l'altro rifiutò: “No, no. Devo decollare tra poco.” Poi, nuovamente rivolto al maggiore: “Cosa vogliono quelli di Signal?”
L'altro fece una breve risata, come se non si capacitasse del candore del suo subalterno. “Ma sono qui per lei, ovviamente. In Germania è famoso. È diventato un Asso, non lo sapeva?”
“Oh, bella! E da quando in qua?”
“Da quando ha preso l'abitudine di abbattere almeno cinque aerei nemici al giorno, direi.”
In quel momento spuntò dall'ufficio del maggiore una bella ragazza con un tailleur all'ultima moda e un cappellino di traverso sui riccioli biondi. “Sorrida, prego!” esclamò, e al suo fianco un soldato della PK armato di Leica scattava una foto dopo l'altra.
“Lei è il capitano Heinz Müller?” chiese poi.
Un po' frastornato da quel fuoco di fila di fotografie, l'altro si limitò ad annuire.
“Molto bene, mi chiamo Elsa Schmidt, sono una giornalista di Signal. Sono qui per intervistarla.” Poi, rivolta al fotografo: “Dal basso, Walther, dal basso.”
“Sì, signorina Schmidt,” rispose l'uomo, e si accovacciò per fare le foto in stile Trionfo della Volontà che piacevano tanto in Patria.
“Torniamo a noi, capitano Müller,” disse la ragazza con un sorriso, “c'è un posto dove possiamo parlare un po'?”
“Veramente io dovrei tornare in volo, signorina,” rispose il capitano.
“Sono sicura che il maggiore Graf le consentirà di restare per una beve intervista. Non è così, maggiore?”
L'altro annuì galante. “Può usare il mio ufficio, signorina Schmidt. Le concedo mezz'ora di tempo, poi il capitano deve tornare ai suoi doveri.”
La ragazza era una giornalista di guerra, quindi era abituata a non sprecare minuti preziosi. Ringraziò l'ufficiale, richiamò il fotografo, sfoderò un taccuino e si chiuse nell'ufficio assieme a Müller.
Graf tornò all'aperto. Guardò il cielo ancora perfettamente limpido e si rivolse al suo aiutante: “Henschel, occorre trovare qualcuno che sostituisca il capitano fino a che non avrà finito con quelli di Signal.”
“Sì, signore.”
A quelle parole si fece avanti un tenente. Era un ragazzo che non poteva avere più di vent'anni. Non tanto alto di statura, con occhi color ghiaccio e capelli di oro pallido. Portava il distintivo della Hitlerjugend appuntato sul petto.
Salutò militarmente e disse: “Mandi me, signore.”
“La smetta, von Rohr,” rispose asciutto il maggiore, “le ho già detto che è ancora troppo inesperto per le missioni di caccia.”
“Rohr e basta, signore, prego. E poi sono pronto per compiere qualsiasi tipo di missione. Sono uscito dalla scuola di volo col massimo dei voti.”
“Deciderò io quando sarà pronto, tenente.”
I Messerschmitt ripartirono seguiti dallo sguardo di nostalgia di Hans Hartwig von Rohr.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

In volo sulla Manica, il maggiore Stuart si apprestava ad intercettare con il suo Squadron uno stormo di Junkers87.
Li vedeva già all'orizzonte: grossi aerei scuri, con la caratteristica ala a gabbiano invertito e i carrelli fissi. Una preda facile, se non fosse stato per il nugolo di caccia che li accompagnava.
Visto il numero di perdite, dopo le prime missioni i tedeschi avevano cominciato a far intervenire i Messerschmitt e la pacchia era finita. Adesso per abbattere uno Stuka bisognava sudare sangue.
Diamoci di fare, ragazzi,” disse alla radio. “Carter, mi stia vicino.”
Sissignore.”
Carter era un giovane tenente da poco arrivato al 19° Squadron. Usciva quel giorno per la sua prima missione di caccia.
Stuart vide che gli altri Hurricane stavano già impegnando in combattimento i Messerschmitt. Virò per portarsi in posizione d'attacco, raccomandando di nuovo al tenente di rimanere vicino a lui.
Siss... oh mio Dio!”
Poi la comunicazione radio si interruppe.
Stuart si voltò bruscamente, in tempo per vedere l'aereo di Carter che cadeva in vite e un Messerschmitt dal muso dipinto di rosso che guizzava via.
Il Cavaliere di Valsgärde.
Stavolta non mi scappi, bastardo!” esclamò, senza curarsi del fatto che stava parlando nella frequenza radio.
Diede tutto motore e lo Hurricane balzò in avanti con un ruggito, precipitandosi sulla scia del Messerschmitt.
I due aerei si inseguirono per un po'. Stuart si trovava in una posizione di vantaggio, dietro e più in alto rispetto al tedesco, ma per quanto si desse da fare non riusciva ad inquadrarlo nel collimatore, le sue manovre evasive erano troppo rapide.
Sembrava una volpe che si facesse inseguire di proposito da un cane.
Poi d'un tratto il Cavaliere decise che il gioco aveva perso di interesse: si buttò di colpo in picchiata, una manovra che uno Hurricane non avrebbe mai potuto compiere senza prima fare una rovesciata, virò, risalì quasi in verticale e successivamente piombò come un'aquila su un caccia britannico che temerariamente si era spinto troppo avanti.
Anche quello finì in vite lasciandosi dietro una scia di fumo nero.

Stuart atterrò poco dopo esausto, triste e anche rabbioso. Un connubio decisamente fuori dell’ordinario per un ufficiale che normalmente veniva portato a esempio di pacatezza e sangue freddo.
Esausto perché quel dannato Cavaliere si era rivelato un osso durissimo. Normalmente non aveva problemi a scontrarsi con i piloti della Luftwaffe. I tedeschi erano più o meno pari a lui, sia come competenze che come aerei, e i duelli assumevano addirittura la connotazione di un’attività sportiva stimolante anche se pericolosa.
Il Cavaliere di Valsgärde invece l’aveva surclassato a qualsiasi livello, c’era poco da dire. Combattendo con lui si era quasi sentito un novellino alle prime armi.
E poi, a proposito di novellini, era triste. Aveva ancora davanti agli occhi l’immagine di Carter che precipitava in vite.
Gli si era affezionato, sarebbe potuto diventare un buon pilota.
Ma quel bastardo se l’era portato via, come fa il predatore che nel branco sceglie l’animale più giovane perché corre meno ed è inesperto.
È la guerra, si ripeteva, avresti la pretesa che il crauto venisse a sfidare proprio te in singolar tenzone? Tu lo faresti?
E la risposta era no, naturalmente, lui non l’aveva e non l’avrebbe mai fatto. Non era esattamente un modo razionale di combattere una guerra. Non se si aveva intenzione di vincerla, perlomeno.
Però la rabbia rimaneva.

Qualcosa non va, George?”
Stuart si voltò: al suo fianco c’era Poynter, uno dei piloti più vecchi dello Squadron. Il che significava che aveva quasi trent’anni, a fronte della media di ventiquattro o venticinque di tutti gli altri.
Era solo un capitano, ma con Stuart si conoscevano dai tempi dell’Accademia e si davano del tu.
Non lo so, John,” sospirò il maggiore, “forse la faccenda di Carter mi ha colpito più di quanto pensassi.”
Non è stato l’unico a cadere.”
Già.”
Tra i due calò il silenzio.
Il sole stava tramontando e sul campo ferveva l’attività dei meccanici che portavano gli aerei negli hangar. Un po' più lontano passavano le sentinelle col fucile in spalla. Più oltre si estendevano i campi ondulati del Cambridgeshire, attraversati qua e là da siepi scure.
All’orizzonte c’era una macchia di alberi.
Non lo so,” ripeté il maggiore, quasi parlando fra sé e sé.
E in effetti non sapeva cosa fosse quello strano malessere che lo faceva sentire triste e rabbioso. Il cosiddetto Cavaliere non era certo il primo tedesco che sfuggiva alle raffiche delle sue mitragliatrici e Carter non era purtroppo il primo pilota del 19° Squadron che cadeva in combattimento.
Andiamo a bere qualcosa,” lo distrasse la voce di Poynter.
Solo un goccio, domani devo volare.”
Come se tu fossi l’unico qui dentro.”

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

Se prima il Cavaliere era stato una leggenda senza volto, nei giorni successivi divenne per Stuart una specie di ossessione.
Compariva ogni volta che lui andava in volo. Sembrava quasi che lo aspettasse, dalla puntualità con cui regolarmente piombava addosso al suo Squadron.
Arrivava all'improvviso, colpiva e se ne andava.
Qualche volta Stuart aveva provato ad inseguirlo, ma il Messerschmitt era più veloce del suo Hurricane, inoltre sembrava che un destino beffardo volesse impedirgli a tutti i costi di misurarsi con lui: le poche volte che si era trovato tatticamente in vantaggio si era accorto di avere le armi scariche, aveva avuto un'avaria al motore o aveva dovuto interrompere l'inseguimento per correre in soccorso di un pilota del suo Squadron in difficoltà.
E il Cavaliere era sempre lassù, come se volesse sfidarlo.
Per togliergli un po' della sua aura mitologica lo chiamava Muso Rosso, e pretendeva che anche i suoi piloti lo facessero.
Se qualcuno si riferiva a lui chiamandolo nel modo solito, cinicamente faceva notare che nessuna nazione intenzionata a vincere una guerra può permettersi di ospitare cavalieri tra le proprie fila.

Col passare del tempo la questione finì però per scivolare sul piano personale. Tutti sapevano che quando andava in volo cercava il Cavaliere di Valsgärde, e anche la faccenda della mappa con i puntini rossi chissà come era trapelata.
Stuart si era persino accorto con disappunto che qualcuno l'aveva soprannominato Capitano Brown, come il pilota canadese cui era attribuito l’abbattimento del Barone Rosso. Era perlopiù gente di altri Squadron, i suoi ragazzi sapevano che lui non amava scherzare sull’argomento, eppure il nomignolo si stava diffondendo.
Così come si stava diffondendo una sorta di nascosta ma accanita competizione fra tutti coloro che erano intenzionati a conquistare come trofeo il celebre muso rosso dell'inafferrabile aereo tedesco.
Ad ogni missione si scatenavano le telefonate e le comunicazioni radio fra i vari Squadron:
Chapman del 12° ci è andato vicino.”
Vaughan del 15° l'ha inseguito per un po' ma gli è scappato.”
Murphy, quello del 3°, non quello del 12°, gli è andato troppo sotto e ci è rimasto secco.”
Sembra che stavolta uno del 7° gli abbia bucato un'ala.”
E cose del genere. Ad ogni uscita dei vari stormi c'era sempre qualcuno che aveva da riferire un aneddoto sul Cavaliere di Valsgärde.
Di pari passo spuntavano qua e là personalizzazioni degli aerei che ricordavano, più in piccolo ovviamente, quelle degli Assi della Grande Guerra: c'era chi si faceva dipingere di un determinato colore l'ogiva, chi le estremità delle ali, chi ancora si faceva fare delle fasce sulla fusoliera. Alcuni disegnavano sul muso simboli o stemmi.
Uno particolarmente aggressivo aveva fatto dipingere una mano colorata come l'Union Jack che stritolava un Messerschmitt dal muso rosso.

“Venga a vedere, signor maggiore!”
“Cosa c'è?”
Stuart seguiva un po' perplesso gli avieri che lo stavano conducendo nell'hangar principale.
“Vedrà, signore! È una sorpresa.”
“Non è che avete combinato qualcosa al mio aereo, vero?”
Gli uomini si guardarono l'un l'altro, fecero qualche risatina soffocata ma non risposero nulla di intelligibile.
Alla fine fu proprio dal suo aereo che lo condussero. Lo Hurricane era stato coperto con un telo mimetico dal quale spuntavano solo l'elica e le estremità alari. Tutt'intorno c'erano i meccanici dello Squadron, alcuni armati di macchina fotografica. Nell'aria aleggiava un odore sospetto di pittura ad olio.
“Abbiamo pensato di farle un regalo, signore,” disse il caporale Hall, “non ci piace l'idea che vada lassù da quel crauto senza neanche due pennellate di colore.”
“Così almeno il bastardo saprà chi è stato a spedirlo all'inferno, signore,” intervenne un aviere.
“Ma chi vi ha dato il permesso?” chiese Stuart, già immaginando una specie di congiura dei suoi piloti.
Il caporale si strinse nelle spalle. “Veramente nessuno, signore. Gliel'ho detto, sarebbe una specie di sorpresa per lei da parte dei ragazzi.”
Detto questo afferrò un lembo del telo mimetico e lo tirò giù: sul muso dello Hurricane era stato mirabilmente dipinto, da una mano che non poteva essere quella di un dilettante, un leone incoronato che azzannava un'aquila dalla testa rossa.
“Quello sarebbe lei, signore,” spiegò Hall di fronte all'imbarazzato silenzio dell'ufficiale, “dovrebbe essere una specie di allegoria o qualcosa del genere. Abbiamo fatto venire Richards del Terzo Squadron, quello che ha fatto la scuola d'arte. Ha lavorato tutta la notte. Non è una meraviglia?”
Il maggiore Stuart fece girare lo sguardo sui meccanici che lo fissavano ansiosi. Nel frattempo era comparso anche qualche pilota, segno che nonostante quello che aveva detto Hall gli ufficiali non dovevano essere del tutto estranei alla faccenda.
“È molto bello,” si risolse a dire infine, “è una vera opera d'arte, ma voi sapete come la penso su certe cose.”
Il generale clima di entusiasmo fu brutalmente sostituito da qualcosa di molto simile alla costernazione. Tutti sapevano come la pensava il maggiore Stuart su certe cose: il 19° Squadron era l'unico in tutta la zona che non aveva nessun aereo personalizzato.
Niente ogive, estremità alari o fusoliere colorate.
Nemmeno un misero stemma sulla capottatura del motore.
“Non vorrà mica che lo cancelliamo, vero, signore?” domandò un aviere di nome O'Malley, facendosi portavoce dell'inespresso timore che serpeggiava fra i meccanici.
“Non ce n'è bisogno,” rispose il maggiore, “basterà sostituire il pezzo. Questo lo metteremo nella mensa del circolo ufficiali, sono certo che farà una magnifica figura.”
Tutti lo guardarono avviliti.
“È bellissimo, davvero,” ripeté il maggiore, “è un magnifico regalo, vi sono molto grato.”
Ma più insisteva, più i meccanici apparivano demoralizzati.
“Quello si vanta perché ha il muso tutto rosso, signore,” disse un altro aviere. “Si farà l'idea che gli inglesi sono un branco di cacasotto, con rispetto parlando, che non hanno il coraggio di pitturare i loro aerei come fanno i tedeschi.”
A Stuart sfuggiva la logica di quel ragionamento, che tuttavia nell'officina sembrava ampiamente condiviso.
“Basta, non stiamo andando a fare il carnevale,” tagliò corto alla fine, anche solo per togliersi di dosso quegli sguardi a metà tra lo scoramento e il muto rimprovero. “Quel dipinto va nel circolo ufficiali e il mio aereo lo voglio pulito come se fosse appena uscito dalla fabbrica.”

Entrando nel circolo ufficiali alla ricerca di un posto dove collocare il dipinto, Stuart trovò John Poynter nella sua solita poltrona.
Il capitano vi sedeva con l’aria di un gatto davanti al focolare e sorseggiava distrattamente la sua bevanda preferita, ovvero un Old Fashioned con molta angostura e pochissimo zucchero.
“Salve, George,” lo accolse, levando il bicchiere verso di lui in un gesto di saluto. “Che fai di bello da queste parti, sei venuto a bere un goccetto?”
“No, magari ne avessi il tempo,” rispose l’altro, “devo solo cercare un posto per appendere una cosa.”
“Che cosa?”
“I ragazzi hanno fatto un dipinto per me.”
“Ma non te l’avevano fatto sull’aereo? Guarda che la parete non è abbastanza grande per metterci uno Hurricane.”
“Come fai a…” cominciò Stuart, poi si interruppe di fronte al sorrisetto del collega.
“I ragazzi ci tenevano,” disse Poynter per tutta risposta, lo sguardo apparentemente perso nella contemplazione dell'Old Fashioned.
Il maggiore sospirò. “Lo so che ci tenevano, ma voglio che in questo Squadron si mantenga un certo decoro.”
“A me non sembrava poi così pacchiano quel disegno.”
“Non ho detto che lo sia,” replicò asciutto Stuart, “però è una carnevalata inutile.”
“Sai quante cose inutili facciamo ogni giorno qui al Diciannovesimo?”
“Con questo che intendi dire?”
“Oh, niente. Niente.” rispose Poynter senza alzare gli occhi dal suo drink. “Penso solo che potresti anche farli contenti, i ragazzi. In fin dei conti non ti sei mai dovuto lamentare di loro.”
“Certo, sono tutti buoni elementi,” concesse il maggiore, “ma se comincio a cedere così sulla disciplina dove andremo a finire?”
“Quante tragedie per una pittura. Mi sembri un quacchero.”

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

Il Messerschmitt dal muso rosso passò come una freccia in sottovento, virò in base, tirò fuori il carrello e si preparò all’atterraggio.
Prese contatto con la terra con un sobbalzo morbido, e mentre ancora rullava sulla pista gli uomini neri uscirono dagli hangar preparandosi a rifornirlo di carburante e munizioni. Come sempre, chi non aveva mansioni da portare a termine nell’immediato si era unito ai meccanici per accogliere degnamente il fortunato pilota.
“Io dico che gli inglesi sono diventati tutti matti,” esclamò il capitano Müller balzando agilmente fuori dall’abitacolo. “Si sono messi a fare i quadri sugli aerei!”
“Vogliono facilitarle il lavoro, signor capitano,” esclamò un aviere, “così li può mirare meglio!”
“Come se ne avesse bisogno!” disse un altro.
Tutti risero allegramente.
“Probabilmente temono che a forza di abbattere aerei tutti uguali finisca per annoiarsi,” osservò il maggiore Graf sopraggiunto nel frattempo. “Vogliono offrirle qualche distrazione.”
“Beh, comunque sembra di volare in una specie di pinacoteca,” rispose Müller. “Oggi ce n'era uno con un leone che azzannava un'aquila dalla testa rossa.”
“Perbacco, si direbbe che ce l'abbiano con lei, capitano,” disse Graf, “chissà poi perché!”
Di nuovo tutti risero.
Il gruppetto di piloti e meccanici si spostò verso le baracche del comando.
“Bevo un sorso d’acqua e riparto,” stava dicendo il capitano Müller. “Che c’è per pranzo oggi?”
“Pollo, direi,” rispose il maggiore Graf.
“Oh, no. Ancora pollo? Ormai mi metto a chiocciare e a razzolare anch’io.”
“Sembra che l’intendenza abbia scovato un allevamento di galline qui nei dintorni.”
“Ma senta, maggiore…” Müller si scambiò un’occhiata d’intesa con un altro pilota.
“Sì?”
“Ecco, pare che al terzo Stormo abbiano gli stessi problemi con un’eccezionale fornitura di carne di maiale. Non è che si potrebbe fare uno scambio?”
“Un baratto, come nel medioevo!” intervenne il pilota dell’occhiata d’intesa.
Müller colse la palla al balzo: “Sarebbe una cosa da antichi germani, no? Quanti polli per un mezzo maiale?”
“Secondo me si va a peso, signor capitano,” propose uno dei meccanici.
“Un chilo di pollo per un chilo di porco?”
“Di solito è così.”
“No, è impossibile,” protestò il pilota di prima, un tenente di nome Faber. “Il pollo non vale mica quanto il maiale. Sarebbe come dire che un rammollito francese vale quanto un tedesco.”
“Attenzione, così viene fuori che noi saremmo dei maiali!”
“Preferiresti essere un pollo? Co-co-co…” E si mise a saltellare in giro facendo l’imitazione della gallina.
Müller lo inseguì e in breve si scatenò una scherzosa gazzarra di piloti e meccanici che si rincorrevano sullo spiazzo antistante la baracca del comando.

Dopo una telefonata con il comandante del terzo Stormo, Graf si accordò per venticinque polli già spennati e puliti in cambio di un mezzo maiale. La contrattazione fu breve, dal momento che i piloti del Terzo erano stanchi di maiale quanto quelli del Primo lo erano di pollo.
Poiché simili scambi non erano contemplati dal regolamento, per mascherare la faccenda il maggiore preparò una cartella di documenti contrassegnata con la scritta urgente da unire al trasporto.
Mandò a chiamare il tenente von Rohr.
Il giovane si presentò in combinazione di volo, era chiaro che si aspettava di essere finalmente mandato in missione con gli altri.
Salutò militarmente e rimase sull’attenti in attesa di ordini.
“Riposo, von Rohr,” disse il maggiore. “Ci sono ordini urgenti da portare al comando del Terzo.”
A quelle parole, il giovane lo squadrò freddamente e rispose: “Con il dovuto rispetto, signore, io non sono il garzone del macellaio.”
Sbalordito da quell’inconcepibile atto di insubordinazione, l’altro lo fissò dritto negli occhi. “Prego?”
“Io sono un pilota da caccia, i polli per il Terzo li può portare anche un meccanico con la Kübelwagen,” rispose il giovane senza abbassare lo sguardo.
Il maggiore rimase impassibile. Dopo qualche secondo di gelido silenzio, con durezza replicò: “Lei è un soldato, prima di tutto, e suo dovere è obbedire agli ordini. O esegue solo quelli che le paiono adeguati al suo blasone?”
Il tenente sussultò come se l’altro gli avesse dato uno schiaffo, tuttavia imperterrito ripeté: “Io sono un pilota da caccia, non è giusto che lei mi usi per queste cose.”
“Tenente von Rohr…”
“Rohr e basta, signore,” lo interruppe il giovane.
“La chiamo anche tenente Schultz, se le fa piacere, ma non è questo il punto. Il punto è che adesso lei prende lo Storch, va al terzo Stormo e fa quello che io le ordino di fare. È chiaro?”
“Sì, signor maggiore,” ringhiò il tenente rivolgendogli uno sguardo torvo.
“Ora può andare.”
“Sì, signore.”
Graf lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava con passo nervoso. Von Rohr era un buon pilota, coraggioso e abile, ma era troppo impulsivo. Doveva imparare a dominarsi o non sarebbe durato a lungo nei combattimenti contro la RAF.

Nello stesso momento, furibondo, bruciante d’umiliazione, Hans von Rohr si dirigeva a grandi falcate verso un aereo già pronto davanti agli hangar.
Si trattava di un Fieseler 156, appropriatamente soprannominato Storch, ovvero “cicogna”, per la somiglianza con il grazioso trampoliere. Era il classico aereo leggero da collegamento o ricognizione a bassa quota: un gioiellino comodo e maneggevole, ma quanto di più svilente si potesse immaginare per un pilota addestrato a sfrecciare attraverso il cielo ai comandi di un potente aereo da caccia.
Hans von Rohr salì a bordo e subito fu colto dalla nausea all’odore delle carcasse crude stivate nella fusoliera. Si guardò intorno cercando qualcosa per coprirle, ma non trovò nulla. C’era solo la cartella con i cosiddetti documenti urgenti appoggiata sul sedile di fianco.
Insensibile al suo malessere, da terra un aviere gli raccomandò: “Torni presto, signor tenente. Per arrostire un mezzo maiale ci vuole tempo!”
Senza nemmeno rispondere, il giovane ufficiale mise in moto, rullò e decollò alla volta del terzo Stormo.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6

Il piantone si affacciò nell’ufficio del maggiore Stuart e compuntamente annunciò: “Il caporale Grice chiede di vederla, signore.”
L’ufficiale alzò gli occhi dal foglio d’ordini che stava compilando. “Fa passare,” rispose.
L’uomo entrò con aria decisamente compiaciuta e si mise sull’attenti.
“Riposo, caporale Grice. Voleva vedermi?” lo incoraggiò il maggiore.
“Ho qualcosa per lei, signore.” Gli tese una rivista.
Stuart la prese: era Signal, un periodico tedesco. In copertina c’era l’immagine di un Messerschmitt 109 dal muso dipinto di rosso. Il nostro più abile pilota! recitava il titolo.
“Sarebbe un giornale che parla di quello.” disse Grice. “O almeno così mi ha detto Fraser, che ha studiato il tedesco a scuola.”
“Da dove viene?”
“Era a bordo di un bombardiere crucco che hanno abbattuto vicino alla costa. Se lo voleva prendere uno del 12° Squadron, ma io gli ho fatto capire che spettava a lei, signor maggiore.”
Stuart sorrise. Conoscendo Grice, poteva immaginare quali sottili strumenti di persuasione avesse utilizzato. Probabilmente aveva detto a quello del dodicesimo che se non gli avesse dato la rivista gli avrebbe spaccato il muso.
“Grazie, caporale. Mi sarà molto utile,” gli disse solennemente.
L’altro sorrise orgoglioso. “Lo sapevo!” rispose. “Magari se scopre le abitudini di quel bastardo, con rispetto parlando, le sarà più facile abbatterlo, vero?”
“Immagino di sì.”
“Beh, io ho scommesso una sterlina con quello del dodicesimo che sarà lei ad abbatterlo, signore.”
“Allora immagino che dovrò darmi da fare, caporale. Non posso certo farle perdere una sterlina.”
“Grazie, signore!”
Il sottufficiale se ne andò tutto soddisfatto.

Ostentando una sorta di signorile distacco, Stuart dapprima posò la rivista da una parte e riprese a compilare il suo foglio d’ordini. Sorrise con indulgenza della sollecitudine del sottufficiale, che si era accaparrato il periodico confidando in chissà quali misteriose capacità propiziatorie dello stesso, poi cominciò a rivolgergli occhiate sempre più frequenti e alla fine lo prese e si mise a sfogliarlo.
Scorse distrattamente inaugurazioni di scuole, riunioni della Hitlerjugend, consigli di economia domestica per le massaie tedesche e parate militari e alla fine trovò quel che cercava: un lungo e circostanziato articolo, ricco di illustrazioni, sul Cavaliere di Valsgärde.
Fu un’atroce delusione.
Di tutto s’era aspettato, tranne quel ragazzone biondo che dalla foto lo occhieggiava allegro brandendo un boccale di birra pieno a metà.
Si era aspettato un von Qualcosa con il monocolo e la sigaretta infilata nel bocchino di ebanite, altezzoso e severo, o magari uno di quei nazisti fanatici, segaligni e dallo sguardo di rapace.
Heinz Müller invece sembrava un contadino bavarese che avesse scambiato i Lederhosen con la combinazione di volo.
Müller, poi. Altro che aristocratico. Era come dire Smith o Brown.
Il muso rosso del suo aereo non aveva niente a che fare col Barone Rosso: era stato il risultato di una bravata compiuta dopo una notte di libagioni, ed era poi rimasto per motivi puramente propagandistici. Il nome Cavaliere di Valsgärde, che tanto accendeva le fantasie delle fanciulle inglesi e non solo, era stato quasi casuale.
Il primo aereo che mi hanno assegnato ce l’aveva dipinto sulla capottatura del motore, spiegava Müller nell’intervista, e così il nome è rimasto.
Ma chi è il Cavaliere di Valsgärde? chiedeva la giornalista.
Risposta: Non lo so. Un tizio del medioevo?
Stuart chiuse la rivista con la sensazione di essere stato vittima di uno scherzo di pessimo gusto. Aveva quasi il sospetto che di lì a poco la porta si sarebbe spalancata e qualcuno sarebbe entrato prendendolo in giro per come si era immaginato quel dannato crucco con l’aereo mezzo rosso.
Il novello von Richthofen, lo studioso di mitologia norrena, l’aristocratico di antico lignaggio… tutte fandonie.
La macchina da guerra che ogni giorno tirava giù almeno due o tre aerei inglesi era un giovanottone grande e grosso con la profondità di pensiero di un Labrador.

All'inizio aveva pensato di far vedere quella copia di Signal agli altri piloti dello Squadron, ma dopo aver letto l'articolo ci aveva rinunciato. Era rimasto troppo deluso.
Relegò la rivista nel più basso dei cassetti della scrivania, infilandola sotto un mucchio di carte. Provava quasi una vaga sensazione di imbarazzo, come se avesse appena fatto una scoperta vergognosa o sconveniente.
Andò al circolo ufficiali.
Trovò ad accoglierlo l'immancabile John Poynter, seduto nella sua solita poltrona.
“Ciao, George,” lo salutò il capitano.
Stuart si accomodò accanto a lui sprofondando a sua volta in una poltrona.
“Giornataccia?” s'informò discretamente Poynter.
“Ogni giorno di guerra è una giornataccia, direi,” replicò asciutto il maggiore.
“E abbiamo proferito la massima della sera,” rispose l'altro. “Adesso mi vuoi dire cosa c'è?”
“Quel dannato tedesco.”
“Il tuo amichetto dal muso rosso?”
“Non è il mio amichetto!” ribatté il maggiore alzando leggermente la voce, “Io lo odio quel dannato bastardo.”
Poynter si strinse nelle spalle. “Dicono che l'odio sia l'altra faccia dell'amore,” osservò distrattamente.
Stuart sbuffò indispettito: detestava i momenti di filosofia da pub dell'amico. “Non credo proprio che sia il mio caso,” brontolò.
“Eppure sei sempre a parlare di lui, ogni volta che ti alzi in volo speri di incontrarlo, se qualche pilota di un altro Squadron lo impegna in combattimento sei geloso... Non eri così preso nemmeno quando corteggiavi la tua fidanzata.”
“Non dire idiozie.”
Il capitano non replicò, ma fece il sorriso di Monna Lisa.
L’altro rimase a sua volta in silenzio. Era andato al circolo con l’intenzione di parlare a John della faccenda dell’articolo, ma vista la piega che la conversazione aveva preso non se l’era sentita, era sicuro che l’amico avrebbe fatto le più sconce illazioni sulla sua delusione di fronte alla vera identità del Cavaliere di Valsgärde.
Lui stesso, del resto, era rimasto piuttosto stupito dalla propria reazione. Si era sentito esattamente come quando da piccolo si era appostato in salotto per vedere Babbo Natale e invece era arrivata sua madre in camicia da notte e bigodini.
“Credo che mi berrò qualcosa,” disse semplicemente.
“Alla buon’ora,” rispose Poynter, sempre col suo sorriso da Monna Lisa.
“Penso di averne anche il diritto, no? È tutto il giorno che sgobbo.”
“Io non ho detto niente.”
Stuart lasciò passare qualche secondo, poi sbottò: “Cosa vorresti insinuare, che sarei una specie di invertito?”
Poynter lo guardò stupito. “Cosa?”
“Tutti quei discorsi sull'odio che sarebbe l'altra faccia dell'amore. Io non amo quel nazista bastardo, chiaro? Io lo odio e voglio vederlo morto!”
“Va bene, George, ora non ti scaldare,” rispose l'altro pacato, “la mia era solo una battuta.”
Il maggiore tacque. Si rendeva conto di aver alzato la voce più del necessario, alcuni dei presenti si erano addirittura voltati incuriositi da quel tono duro. Sperò solo che non avessero colto l'argomento della conversazione.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7

Il capitano Müller si appoggiò all'indietro sulla sedia e si stirò con aria soddisfatta. Davanti a lui c'era un piatto sul quale erano ammonticchiate le ossa di svariate costolette di maiale.
“Ci voleva proprio!” esclamò. “Non ne potevo più di mangiare pollo.”
Faber abbandonò un osso spolpato e rispose: “E a noi è andata bene rispetto a quelli delle Trasmissioni. Loro sono settimane che mangiano foie gras.”
“Foie Gras? Che meraviglia!” intervenne un altro pilota.
“Prova a mangiarlo per dieci giorni di fila e poi vedi se è una meraviglia. Ormai vomitano anche solo a sentirne l'odore. E non ti dico il mal di pancia.”
“Allora dev'essere per quello che la radio non funziona mai, sono sempre alla latrina!”
Ancora risate, giro di birra, qualche stralcio di canzoni di guerra, Gli aviatori sono vincitori e Scintillano le ali d'acciaio.
Tutti erano estremamente allegri. La preparazione del mezzo maiale aveva creato un clima vagamente festoso e i piloti del primo Jagdgeschwader, il più vecchio dei quali arrivava a stento ai venticinque anni, si stavano divertendo come matti.
L'unico che rimaneva estraneo al clima di generale ilarità era il tenente von Rohr.
Si era trovato un posto ad un'estremità della tavolata e lì sedeva in silenzio, mangiando educatamente con forchetta e coltello un pezzo di maiale arrosto. Il suo bicchiere di birra era ancora praticamente pieno.
La sua non era spocchia aristocratica. Tutt'altro, anzi: in mezzo a quel gruppo di valorosi piloti da caccia si sentiva l'ultimo dei paria. I suoi camerati parlavano con entusiasmo delle vittorie che avevano ottenuto contro gli inglesi e dei furiosi combattimenti sulla Manica, e lui che argomenti aveva per partecipare alla conversazione? Un volo a bordo di uno Storch carico di derrate alimentari.
Aveva voglia di scomparire sottoterra.
In quel momento la voce di Müller interruppe bruscamente il corso dei suoi pensieri: “Tre urrà per il nostro Hans, che con la sua provvidenziale missione di trasporto ha salvato lo Stormo dalla morte per inedia! Il Führer la ringrazia, tenente von Rohr!”
Tutti levarono i bicchieri nella sua direzione gridando urrà, qualcuno gli batté pacche sulle spalle, qualcun altro si preoccupò di mettergli in mano un boccale di birra fresca.
Von Rohr si guardò intorno frastornato. Di certo lo stavano prendendo in giro. E se non lo stavano facendo, se quella era solo una spontanea manifestazione di cameratesco affetto, ebbene era la cosa più umiliante che gli fosse mai capitata.
Si alzò in piedi repentinamente, facendo cadere la sedia nel movimento, fece girare sugli astanti uno sguardo da bestia braccata e scomparve di corsa verso gli hangar.
“E adesso che gli prende?” volle sapere qualcuno.
La domanda cadde nel vuoto. Tutti ricominciarono a far festa e l'incidente fu subito dimenticato.

Il cigolio della porta metallica turbò il silenzio dell'hangar. Seduto su una scaletta da meccanico, i gomiti puntati sulle cosce e il viso fra le mani, Hans non alzò nemmeno la testa. Era avvilito. Era così avvilito che avrebbe voluto diventare invisibile. Rimase immobile augurandosi che chiunque fosse entrato non lo vedesse e se ne andasse senza disturbarlo.
“Tenente von Rohr?” udì chiamare. “Tenente, è qui?”
Alzò la testa con uno scatto: era la voce del capitano Müller.
Ebbe un momento di panico: che fare? Dare segno di sé, passare sotto le Forche Caudine della predica che sicuramente il suo superiore era venuto a fargli? Immaginava già cosa gli avrebbe detto il capitano: lei se n'è andato come una specie di adolescente inquieta da romanzo dell'ottocento, questa non è la condotta consona ad un ufficiale.
Allora era meglio non farsi trovare? Era un atteggiamento da vile. Nessun tedesco degno di questo nome si sarebbe comportato così.
“Oh, ecco dove si è nascosto!” esclamò il capitano, sollevandolo in quel modo dal peso della decisione. “L'ho cercata dappertutto, von Rohr.”
“Rohr e basta, prego,” rispose meccanicamente il giovane.
“Perché? Non le piace il suo cognome?”
“È un cognome aristocratico.”
L'altro lo guardò senza capire. “E allora?”
“Voglio che la gente mi consideri per quello che valgo io, non per la famiglia da cui provengo.”
“Io non mi farei tanti problemi, se fossi in lei,” rispose disinvolto il capitano. “In aria non contano né gradi né famiglie altolocate. Lassù c'è il vero socialismo, in un certo senso.”
Detto questo si sedette accanto a lui sulla scala di ferro e gli diede una pacca sulla spalla.
“Magari potessi arrivarci, in aria,” sospirò il tenente continuando a guardare fisso dinnanzi a sé. “Ma se il maggiore continua a farmi fare qualsiasi cosa tranne i voli di guerra, come farò?”
“Oh, ci arriverà. Ci arriverà. Lo sa com'è fatto il vecchio: vuole essere sicuro che lei sia in grado di uscire vivo da un combattimento coi Tommies.”
“Ma io sono in grado!” protestò il giovane. “Sono stato il primo del mio corso, ero già istruttore di volo a vela a sedici anni!”
“Sì, beh, indubbiamente si vede da come pilota, ma i duelli aerei sono un'altra cosa.”
“Davvero si vede?” chiese il tenente, di colpo emozionato da quell'elogio, ignorando la seconda parte della risposta di Müller.
“Ha una buona mano,” rispose l’altro, “l’ho notato subito.”
Per quanto si fosse ripromesso di rimanere impassibile, von Rohr non poté evitare di sorridere.
“Per questo sarebbe un peccato che lei ci lasciasse le penne alla prima missione,” concluse allora il capitano. “I buoni piloti non sono così frequenti, quando se ne trova uno è meglio cercare di conservarlo.”
Scese dalla scaletta, si sistemò brevemente l’uniforme. “Ora torno dai ragazzi,” disse. “Si unisca a noi, se ne ha voglia. Le garantisco che non mordiamo.”
Se ne andò senza attendere risposta.

Il giovane tenente rimase immobile. Era soddisfatto delle parole del capitano Müller, ma non del tutto. Cosa significavano quei discorsi? Avevano tanto l’aria di disfattismo mascherato da senso pratico.
Lui si era arruolato nella Luftwaffe proprio per combattere e possibilmente per eliminare i nemici del Reich, e se il suo destino fosse stato quello di cadere alla prima missione l’avrebbe accettato serenamente. Dulce et decorum est pro patria mori, pensò, poi gli venne in mente che il latino era retaggio di una classe reazionaria e conservatrice. Nulla di ciò doveva esistere nel Terzo Reich.
Dolce e onorevole è morire per la Patria, tradusse in buon tedesco.
Ma prima di morire avrebbe dimostrato quanto valeva, pensò. Avrebbe fatto vedere al maggiore Graf, e sì, anche al capitano Müller che lui non era un bamboccio stupido, e che era perfettamente in grado di compiere missioni di guerra esattamente come tutti gli altri piloti del Geschwader.
E che i polli li facessero portare a un sottufficiale con la Kübelwagen, se avevano tutte quelle esigenze culinarie. Lui nella Hitlerjugend non si era mai lamentato per il rancio. Questo voleva ben dire qualcosa, no?
Significava che lui non faceva storie, che era un soldato né più né meno degli altri, e quindi aveva il diritto di combattere come gli altri.
Sorrise fra sé e sé. Gli avrebbe fatto vedere lui, al maggiore Graf. Oh, se gli avrebbe fatto vedere.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8

In volo a bordo del suo Hurricane, il maggiore Stuart perlustrava il cielo alla ricerca di qualcosa di rosso.
Stavolta gli aveva preparato proprio una bella trappola, al Crauto, e tutti i suoi giochetti da Asso della Grande Guerra gli sarebbero serviti a ben poco.
Per un attimo fu attraversato da una fitta di rimorso. Per quanto fosse un nemico, quel tedesco aveva sempre combattuto secondo le regole. Non aveva mai commesso scorrettezze. L’idea di attirarlo in un tranello gli dava un certo fastidio.
Avrebbe preferito affrontarlo in un combattimento onorevole.
Questa è la guerra, George, non è una partita di golf con le regole e gli arbitri. Gli sembrava ancora di sentire le parole di John Poynter, l’ideatore del piano. Lui farebbe esattamente la stessa cosa con te se tu fossi, poniamo, il Cavaliere di Westminster e tutti i giorni abbattessi da solo due o tre aerei della Luftwaffe.
Il ragionamento filava, ma non lo convinceva del tutto.
Si chiese con raccapriccio se fosse vero quello che Poynter aveva insinuato per scherzo alcuni giorni prima, ovvero che in realtà lui si fosse in un certo senso invaghito del Cavaliere.
Iddio non voglia, pensò inorridito.
“Signor maggiore, eccolo!” gridò qualcuno distogliendolo bruscamente dalle sue meditazioni. “A ore tre, contro il sole!”
Stuart si voltò: come nelle migliori tradizioni degli Assi tedeschi, il Cavaliere di Valsgärde attaccava col sole alle spalle. Come aveva fatto ad arrivare fin lì senza che nessuno se ne accorgesse? Mistero.
Alle volte i trucchi di quel mangiacrauti avevano del paranormale.
“Alzate il sipario,” disse semplicemente nella frequenza radio. Quello era il segnale convenuto: da tutte le basi della zona decollarono i caccia pronti ad intercettare il Messerschmitt.
Stuart era rimasto piuttosto stupito quando il comando gli aveva autorizzato quell’operazione. Pensava gli avrebbero detto di no, troppo dispendioso far alzare cinquanta caccia per abbatterne uno solo. E invece gli avevano detto subito di sì. Gli avevano chiesto se aveva bisogno di rinforzi, anzi, e avevano mandato due uomini dell’Intelligence nel caso il crucco fosse stato catturato vivo.
Li aveva lasciati nel suo ufficio. Due tizi grigi e torvi, dall’aria di burocrati più che di militari. Si chiese cos’avrebbero fatto una volta avuto il tedesco fra le grinfie. Probabilmente l’avrebbero portato via e interrogato. Per chiedergli cosa, poi? Non era certo un mistero quello che il Cavaliere di Valsgärde faceva tutti i giorni.
E se l’avessero torturato?
Non nel suo Squadron, stabilì categorico. Non finché era lui il comandante.
E poi si costrinse a lasciar perdere quei pensieri per concentrarsi sulla situazione contingente: il pesciolino stava arrivando ed era ora di chiudere la rete.
Ed era un pescecane, più che un pesciolino, per cui non era il caso di sottovalutarlo.

Il Messerschmitt arrivò come un fulmine. Invece di evitare lo stormo di aerei inglesi ci si buttò in mezzo, lo attraversò da una parte all’altra e quando cabrò per sganciarsi, con una virata così stretta che le ali si lasciarono dietro due grosse scie di condensa, uno Spitfire stava cadendo in vite.
Che classe, non poté far a meno di pensare il maggiore.
Il tedesco intanto si stava lasciando dietro gli inglesi con la classica manovra evasiva dei Messerschmitt, ovvero una picchiata quasi verticale non preceduta dalla rovesciata d’ala, seguita da una brusca richiamata alcune centinaia di metri più in basso.
Quella manovra era così tipica – e così impossibile da eseguire per un aereo inglese – che si erano basati proprio su di essa per elaborare il piano di cattura: la picchiata avrebbe portato il Cavaliere dritto in mezzo agli Squadron decollati per intercettarlo.
Sulle prime Stuart era stato scettico, figurarsi se una vecchia volpe come quel mangiacrauti si fa fregare da un trucco del genere, eppure vide che il tedesco stava andando a finire proprio dove avevano previsto.
La soddisfazione fu però di breve durata, perché un attimo dopo il Messerschmitt 109 si rese conto del pericolo, diede tutto motore e guizzò via con straordinaria agilità.
Si scatenò l’inseguimento. Come tante volte era accaduto, il tedesco filava come una volpe con dietro una muta di cani, schivando con abilità i traccianti degli inglesi. Il cielo però era pieno di Spitfire e Hurricane, il Messerschmitt non poteva né picchiare né cabrare senza finire di nuovo in mezzo ai nemici, per cui era solo questione di tempo e poi una raffica l’avrebbe colpito.
Stavolta qualcuno si sarebbe portato a casa le spoglie del Cavaliere di Valsgärde.
A quel pensiero il maggiore si sentì stranamente oppresso da un vago senso di tristezza.

E poi lo vide arrivare: Muso Rosso, dritto verso di lui. Gli stava sparando, raffiche di traccianti così precise che nonostante la sua brusca manovra evasiva pezzi di rivestimento alare schizzarono via luccicando al sole.
Una sferzata di adrenalina lo attraversò come una scossa elettrica. “È mio!” gridò in frequenza e si mise all’inseguimento del Messerschmitt.
Duellarono furiosamente. Il tedesco probabilmente aveva capito di essere in trappola, ma vendeva cara la pelle. Stuart si trovò a sudare ai comandi del proprio aereo con i traccianti che gli passavano a pochi centimetri dalla capottina di plexiglas o dalla fusoliera.
Muso Rosso era un diavolo di pilota, c’era poco da dire.
Alla fine il maggiore riuscì a piazzare una raffica fortunata in pieno nel motore del Messerschmitt. L’aereo sembrò inchiodarsi a mezz’aria, poi si rovesciò e cominciò a precipitare in vite lasciandosi dietro una scia di fumo nero.
Stuart rimase a guardarlo ansante, mentre la radio impazziva di congratulazioni e manifestazioni di entusiasmo e tutti i piloti dei vari Squadron si davano a sfrenate acrobazie per festeggiare l’incredibile avvenimento.
Mentre il maggiore continuava a seguire la sua caduta, il Messerschmitt precipitò per almeno duemila metri, poi inaspettatamente si riprese. Stuart si trovò a trattenere il respiro mentre il tedesco rimetteva in assetto il suo caccia e pur con il motore fermo riusciva a compiere un atterraggio di fortuna.
Scese di quota e sorvolò un paio di volte il relitto adagiato in mezzo a un campo, ma non gli parve di vedere movimenti né dentro l'aereo né intorno. Forse Müller era rimasto ferito, o magari aveva fatto come von Richthofen, che aveva portato a terra l’aereo ma era morto subito dopo.
Se ne andò con una strana sensazione di disagio.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9

Al suo rientro alla base, Stuart fu accolto come un trionfatore. I meccanici erano riusciti a scovare delle foglie di alloro e avevano fabbricato una corona che vollero a tutti i costi mettergli sulla testa. Non gli permisero di camminare, ma lo portarono a spalla fino alla baracca del comando tra sventolii di bandiere e giri di bottiglie generosamente messe a disposizione dalla mensa ufficiali.
Tutti sembravano impazziti, persino gli avieri semplici si avvicinavano per dargli pacche sulle spalle o stringergli la mano.
“Signore, lo hanno preso!” lo accolse l’operatore radio. “Lo stanno portando qui!”
“È ferito?”
“Un po’ acciaccato, signore, ma niente di grave. Ha cercato di aggredire i soldati che l’hanno tirato fuori dall’aereo e loro gli hanno fatto assaggiare il calcio del fucile.”
“Ben gli sta!” intervenne qualcuno, “maledetto mangiacrauti!”
“Silenzio!” esclamò il maggiore a quelle parole. “Silenzio, che diamine! Siamo soldati, non comari al mercato!”
Tutti si zittirono immediatamente e rimasero a guardarsi l’un l’altro come bambini redarguiti dal maestro.
“Silenzio,” ripeté il maggiore a voce più bassa, liberandosi di allori e nastri. “La guerra continua, e ci sono altri tedeschi da abbattere.”
“Comunque lo stanno portando qui,” ripeté l'operatore radio.

Poco dopo arrivò un furgone.
Tutti erano ansiosi di vedere finalmente in faccia il famoso Cavaliere di Valsgärde, per cui c'era un'insolita folla. Praticamente il personale della base al completo, compresi i piloti, stava gironzolando con aria da nulla in attesa del tedesco.
“Non hanno niente da fare?” ringhiò Stuart, che man mano passava il tempo diventava sempre più nervoso.
“Sono solo curiosi, George,” rispose pacato Poynter al suo fianco. “E lo sei anche tu, ammettilo.”
“Un po'.”
“In fin dei conti l'hai abbattuto tu. Adesso diventerai famoso.”
“Ma figurati.”
“Scommetto che ti beccherai anche una medaglia.”
“Bah.”
Il maggiore girò le spalle all'amico come a fargli capire che non intendeva insistere sull'argomento.
In quel momento il furgone si fermò al centro dello spiazzo in un silenzio carico di aspettativa. Ne scesero due soldati che un po' trascinarono, un po' spinsero con malagrazia un pilota della Luftwaffe biondissimo, con il viso pallido e rigato di sangue.
Me lo immaginavo più alto, fu la prima cosa che pensò il maggiore Stuart. Rimase a guardarlo da lontano con aria irresoluta.
“Forza, va da lui,” gli disse Poynter distogliendolo bruscamente dai suoi pensieri. “Va ad incontrare la tua preda.” Lo sospinse in avanti.
Stuart si avvicinò con vaga titubanza, elaborando frattanto una frase da rivolgere al pilota tedesco. Aveva pensato di fargli i complimenti per la sua abilità e poi di invitarlo cavallerescamente a bere.
La folla fece ala al suo arrivo ed egli si trovò finalmente faccia a faccia con il famoso nemico.
Rimase costernato, la frase che aveva con tanta cura composto gli morì in gola.
“Non è lui,” mormorò.
Ci furono alcuni secondi di silenzio, poi il capitano Poynter disse: “Come sarebbe a dire che non è lui? E allora chi è?”
“Questo non lo so.”
“Come fai a dire che non è lui? Lo conosci, per caso?”
“Sì. Cioè, no. Ho letto un articolo su Signal che parlava di lui e ti garantisco che questo non gli assomiglia nemmeno.”
“Eppure sembra piuttosto cattivello,” constatò il capitano scrutando il giovane pilota tedesco.
Tenuto per le braccia da due soldati, il prigioniero lo gratificò di uno sguardo omicida.
In quel momento sopraggiunsero i due uomini dell'Intelligence, un tenente e un capitano con l'aria torva da inquisitori domenicani. “Lo prendiamo in consegna noi,” disse il capitano, facendo cenno ai due soldati che tenevano fermo il tedesco.
“Un momento,” intervenne Stuart, indispettito dall'evidente disprezzo dei due nuovi arrivati per la sua autorità di comandante dello Squadron. “Questo non è l'uomo che state cercando.”
L'altro lo fissò con l'aria di considerare la faccenda qualcosa a metà fra lo scherzo di cattivo gusto e l'atteggiamento disfattista. “Come sarebbe a dire che non è lui?” chiese diffidente.
“Ho letto un articolo di Signal che parlava del Cavaliere di Valsgärde,” ripeté pazientemente Stuart, “e questo non gli assomiglia nemmeno.”
“Chi sarebbe allora?”
“È quello che stavo spiegando prima del vostro arrivo: non lo so.”
Il capitano scrutò il tedesco con un misto di disprezzo e schifo, quindi ripeté: “Ha letto un articolo che parlava di lui su Signal?”
“È così.”
“Letture interessanti, le sue.”
“Oh, non cominciamo,” sbuffò Stuart spazientito. “Se la mette su questo piano, il tenente è un prigioniero di guerra e fino a nuovo ordine non si muove di qui. Peraltro noto che è ferito, quindi non abbandonerà la base fino a che il medico non dichiarerà che è in grado di farlo.”
“Avrà sì e no due graffi!”
“Questo non è lei a stabilirlo. Oppure è anche un medico, per caso?”
Intervenne a questo punto l'altro uomo dell'Intelligence, che con tono velenoso lo ammonì: “Stia attento, maggiore, questo scherzo le costa caro.”
“No, costa caro a lei,” replicò duramente Stuart. “Lei sta interferendo con lo svolgimento delle operazioni belliche. Le consiglio di tornare immediatamente da dove è venuto, prima che io la faccia mettere agli arresti.”

Momentaneamente padrone del campo, Stuart seguiva con lo sguardo la macchina dei due ufficiali che spariva all'orizzonte in una nuvola di polvere. Poynter, al suo fianco, pacatamente osservò: “Torneranno.”
“Lo so che torneranno.”
“E stavolta avranno con loro le carte giuste.”
“Ci penseremo quando sarà il momento,” tagliò corto Stuart, quindi si rivolse finalmente al prigioniero. “Come si chiama, tenente?” gli chiese in buon tedesco.
“Hans Rohr.”
“Cosa ci faceva su quell'aereo?”
Il prigioniero non rispose.
“Le ho chiesto cosa faceva su quell'aereo. So che non è lei il Cavaliere di Valsgärde.”
“Nome, grado e numero di matricola. Queste sono le uniche informazioni che ha il diritto di pretendere da me sulla base della Convenzione di Ginevra.”
Detto questo, il tedesco rimase a fissarlo con aria di sfida.
“Perché vuole rendere le cose più difficili di quanto non lo siano già, tenente?” sospirò il maggiore Stuart.
“Voi siete nemici. È mio dovere rendervi le cose difficili.”
“Intendevo difficili per lei, tenente Rohr,” rispose pazientemente il maggiore, “noi siamo in casa nostra, non ci va poi così male.”
Il giovane ufficiale arrossì e si chiuse in un silenzio risentito.

“Se è furbo se ne sta buono e aspetta la fine della guerra,” disse Stuart.
Lui e Poynter passeggiavano fianco a fianco diretti verso gli edifici dello Squadron.
“Non mi sembra furbo,” osservò pacatamente il capitano. “Anzi, mi sembra tutto il contrario: un ragazzino molto ideologizzato e molto poco furbo, se vuoi la mia opinione, che di sicuro farà del suo meglio per cacciarsi in qualche guaio.”
“Del tipo?”
“Dieci a uno che prova a scappare appena ne ha l'occasione.”
A quella frase il maggiore alzò involontariamente lo sguardo verso l'infermeria, dove aveva fatto portare il tedesco affinché fosse medicato.
“Si farà ammazzare,” sospirò Poynter con l'aria di chi si arrende all'ineluttabile, e poiché Stuart non rispondeva, proseguì: “Il giovane idiota si farà ammazzare, in maniera eroica se ci riesce, e quelli dell'Intelligence se la prenderanno con te perché non gliel'hai consegnato subito.”
“Quelli dell'Intelligence non possono andarsene in giro a fare il bello e il cattivo tempo,” brontolò il maggiore.
“Se non loro, chi? Lo sai che danno ordini al Re in persona?”
“Beh, qui nella mia base non vengono a dare ordini di sicuro,” replicò il maggiore baldanzoso.
In quel momento si avvicinò un sottufficiale, che con gran sfoggio di marziale vigore annunciò: “Ho qui gli effetti personali del mangiacrauti, signore!”
“Dell'ufficiale prigioniero,” lo corresse Stuart.
“Beh, di quello, signore. La sua roba, insomma.” Porse al maggiore un piccolo involto.
L'altro lo soppesò poco convinto. “È tutto?” chiese.
“Certo, è tutto, signore! Stramaledettamente tutto!”
“Non è che per caso, per pura fatalità, sono andati persi da qualche parte orologio e soldi, per esempio?”
“Ma signore!” protestò il sottufficiale indignato. Quelle cose gli erano in effetti passate per le mani, ma lui si era tenuto solo il distintivo della Hitlerjugend, niente di prezioso. Giusto un ricordino del suo primo mangiacrauti catturato.
Come se gli avesse letto nel pensiero, il maggiore soggiunse: “Sarà meglio che tutti gli effetti personali del tenente che per qualche strano disguido sono andati persi ricompaiano domattina sulla mia scrivania, altrimenti qualcuno non andrà in licenza fino a Natale, sono stato chiaro?”
“Chiarissimo, signore!” esclamò l'altro fissando con grande impegno un punto all'infinito dietro le spalle del suo superiore, quindi salutò e scomparve con la velocità del fulmine.
Rimasti soli, i due ufficiali si concessero un sorriso indulgente. “Come se non li conoscessi”, disse il maggiore, poi scartabellò i documenti del tedesco, aprì il brevetto di pilota e scoppiò a ridere. “Ma tu guarda!” disse porgendo il documento a Poynter. “Hai proprio ragione, è un giovane idiota!”
“Ci ha scambiati per i Fratelli della Costa!” esclamò il capitano divertito.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10

“Le fa male, tenente?”
Seduto ad un tavolino del circolo ufficiali con l'aria di trovarsi sui carboni ardenti, il tedesco si limitò a rivolgere al maggiore uno sguardo torvo.
“Le ho chiesto se le fa male,” ripeté pazientemente Stuart. “Il dottor Allen dice che ha preso un brutto colpo.”
“Eh già, sbadatamente sono finito contro il calcio di un fucile inglese,” fu la tagliente risposta.
Sullo stesso tono l’altro gli rispose: “Sarà inciampato mentre cercava di prendere a pugni qualcuno.”
“In base alla Convenzione di Ginevra è mio diritto tentare la fuga.”
“Certo. E nostro diritto – e dovere – è usare ogni mezzo per impedirgliela.” Lo fissò negli occhi con durezza, ma il tedesco non abbassò lo sguardo.
“Un bel brindisi?” intervenne Poynter mettendo un bicchiere in mano al tenente. “Facciamo come nella Grande Guerra, quando si catturava un aviatore nemico.”
“Non bevo,” rispose gelido von Rohr, poi appoggiò il bicchiere sul tavolo e lo spinse lontano da sé, come a sottolineare la sua ferma intenzione di non fraternizzare col nemico.
Un mormorio di disapprovazione attraversò il gruppetto di piloti inglesi che si erano avvicinati per conoscere cavallerescamente l’avversario abbattuto.
“Anzi, forse è meglio che mi facciate portare nella mia cella,” aggiunse poi, alzandosi e indietreggiando verso il muro. Non era mai stato prigioniero, ovviamente, ma supponeva che la faccenda avesse a che fare con celle, sbarre e cose del genere e non voleva dimostrarsi impreparato.
“Qui non abbiamo celle,” disse perplesso un ufficiale inglese. “Ne abbiamo, maggiore?”
“Temo di no.”
Stuart rivolse uno sguardo al giovanotto addossato al muro, che lo guatava con espressione da bestia braccata. Era sicuramente dolorante e frastornato, probabilmente anche spaventato a morte, ma faceva del suo meglio per non darlo a vedere.
“Il nostro tenente è sicuro di essere capitato in mezzo alla Filibusta,” disse con un sorriso indulgente. “Pensate che mi ha addirittura nascosto di chiamarsi von Rohr. Forse pensava che scoprendolo nobile avremmo chiesto un riscatto come facevano i pirati.”
Ci fu qualche risata, gli astanti rivolsero al pilota della Luftwaffe occhiate di divertita curiosità. Un buontempone intonò Quindici uomini e tutti gli andarono dietro battendo il tempo sul tavolo col fondo dei bicchieri.
“Il mio nome non la riguarda!” protestò il tenente non appena finirono le strofe della canzone.
“Mi riguarda eccome,” rispose il maggiore. “Per prima cosa è mio dovere comunicarlo alla Croce Rossa, e poi tecnicamente lei mi ha dato un nome falso, quindi potrei anche pensare che è un agente segreto o qualcosa del genere. Lo sa che fine fanno gli agenti segreti, von Rohr?”
“Non lo so e non mi interessa,” ringhiò l’altro, “ne ho abbastanza di questa farsa. Siamo nemici, non vedo il motivo di bere insieme come se fossimo all’Oktoberfest! Mi mandi dove mi deve mandare e facciamola finita!”

Visto il suo netto rifiuto di interagire con i piloti del 19° Squadron, il maggiore diede ordine di portare il tenente von Rohr alla chiesa.
Situato al limitare del campo, l’edificio si chiamava così perché era una chiesa a tutti gli effetti, anche se sconsacrata. Era una costruzione gotica con un massiccio portone di rovere, finestroni muniti di sbarre posti ad un’altezza di due metri e mezzo al pavimento e mura dello spessore di un metro. Sarebbe stato difficile trovare una prigione più inespugnabile.
Peraltro era anche il luogo ove il maggiore Stuart aveva sistemato il proprio alloggio, dal momento che la canonica condivideva con la chiesa la struttura robusta ma non mancava delle moderne comodità.
“Abiterete insieme, tu e quel simpatico mangiacrauti!” l’aveva canzonato Poynter, anche se in realtà chiesa e canonica erano separate da una robusta cancellata di ferro.
Proprio perché il luogo si era rivelato così adatto ad accogliere prigionieri, il maggiore vi aveva fatto installare dei servizi igienici e collocare un letto e altri mobili. Al tedesco non sarebbe mancato nulla.
Certo fino a quel momento vi aveva soggiornato gente più amabile, che trascorreva la giornata in amene conversazioni con i piloti dello Squadron e veniva rinchiusa lì solo a notte inoltrata, la maggior parte delle volte dopo allegre bevute, e più per formalità che per reale rischio di fuga, ma il maggiore era sicuro che l’alloggio si sarebbe rivelato adeguatamente confortevole anche per quello scontroso giovanotto.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11

I passi del tenente von Rohr echeggiavano con monotona regolarità mentre lui percorreva su e giù la navata centrale della chiesa.
Erano venti in un senso, poi il leggero strisciare del dietro-front e venti nell’altro senso. Poi un altro dietro-front e la cadenzata marcia ricominciava.
E così via.
Era esausto ma non riusciva a smettere di camminare su e giù. Si sentiva come un giocattolo a molla che deve girare fino a che non si è scaricato del tutto.
E la sua testa, anche lei, era un motore in folle che non riusciva a fermarsi.
Erano passate solo poche ore da quando si era appropriato dell’aereo di Müller pronto in linea di volo ed era decollato, ma sembrava una vita. In quel breve lasso di tempo aveva fatto il suo primo volo di guerra, aveva rischiato di essere ucciso, era stato abbattuto, si era salvato per miracolo atterrando in un campo, era stato picchiato a sangue e adesso era prigioniero.
Prigioniero degli inglesi, gli sembrava un incubo. Che fare? Doveva scappare, ovviamente, doveva tornare dai suoi, ma come?
Aveva solo conoscenze teoriche sull’essere prigioniero di guerra. Sapeva che era un disonore, principalmente. Che non doveva dare confidenza, che non doveva parlare per non rivelare magari involontariamente importanti notizie al nemico, che non doveva – orrore – fraternizzare. Le sue nozioni si fermavano lì.
Di quello che gli avrebbero fatto gli inglesi non sapeva nulla. La sua mente sovreccitata gli proponeva una ridda d’immagini una più agghiacciante dell’altra, sevizie, esecuzioni sommarie, maltrattamenti, e il rassicurante pensiero della convenzione di Ginevra era un’isola sempre più lontana in un mare sempre più agitato.
Devo resistere, pensava però caparbiamente, qualsiasi cosa mi facciano devo resistere. Devo mostrare loro di che tempra sono i piloti della Luftwaffe!
A quell’idea si fermò sospirando mentre una romantica Sehnsucht gli dilagava nell’animo. Forse non avrebbe più rivisto i suoi compagni, né il capitano Müller o il maggiore Graf. Di colpo provò nostalgia per quello che aveva perso, addirittura gli mancava il sottufficiale che gli aveva raccomandato di fare presto a portare il mezzo maiale da arrostire.
Forse non avrebbe più rivisto nemmeno la Germania. Si toccò il petto in un gesto automatico, alla ricerca del distintivo della Hitlerjugend, ma si ricordò di non avere più neppure quello, qualcuno gliel’aveva tolto per tenerselo come ricordo.
Volse lo sguardo ai finestroni gotici e si accorse che fuori stava calando la sera. Doveva aver camminato in quel modo per ore.
Da una parte, su un tavolo, c’era anche un vassoio con un pasto. Chi l’aveva portato? Quando? Non si era accorto di niente.
Mentalmente si diede dello stupido.
Così non va, si disse, devi stare all’erta, non puoi farti cogliere impreparato, ma anzi devi notare e ricordare tutto. Devi scappare da qui, ricordi? E basta con questo atteggiamento disfattista, indulgere nell’auto-compatimento non è un modo di comportarsi da ufficiale tedesco.

Mentre era immerso nelle sue angosciose meditazioni percepì il rumore di una porta che si apriva e dei passi in avvicinamento. Al di là del cancello di ferro che separava chiesa e canonica comparve il maggiore Stuart, che con tono cortese gli domandò: “Come sta, tenente?”
Von Rohr rimase in silenzio.
“Io sono il maggiore George Stuart, a proposito”, disse l’inglese tendendo la mano attraverso le sbarre.
L’altro fissò la mano tesa come se avesse voluto incenerirla e non si mosse.
“D’accordo, vedo che non ha voglia di fare conversazione,” sospirò il maggiore ritirando la mano. “Si faccia una dormita,” gli suggerì allora, “mangi qualcosa. Vedrà che domattina si sentirà meglio.”
“Difficile che mi senta meglio,” non poté fare a meno di ringhiare il tedesco, “visto il posto in cui mi trovo.”
Allargando le braccia in un teatrale gesto di rassegnazione, Stuart rispose: “C’est la guerre, direbbero i francesi. La prenda con filosofia, tenente, tanto da qui non può più andarsene. Mangi e si riposi, piuttosto. Le garantisco che le farà bene.”
“La smetta!” rispose asciutto von Rohr.
“Cosa?”
“La smetta, ho detto! Cos’è lei, un ufficiale nemico o la mia governante?”
“Lo dicevo per lei, tenente.”
“I suoi consigli non mi servono!” fu la brusca risposta, poi il giovane gli girò le spalle e scomparve nella navata ormai buia.
Stuart rimase immobile per qualche secondo, poi anche lui si girò e tornò al proprio alloggio. Da una parte aveva ragione Poynter, quel tedesco era un ragazzino idiota, ma dall’altra in un certo qual modo quella sua caparbietà rabbiosa lo affascinava. Era come avere a che fare con un animale selvatico. Ringhiava e gonfiava il pelo quando sarebbe stato tanto più facile scodinzolare e tentar d'ingraziarsi i suoi carcerieri.
Indubbiamente aveva carattere.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12

L’Intelligence si rifece viva due giorni dopo. Tornò il capitano, ma questa volta era accompagnato da un maggiore. I due ufficiali scesero in fretta dalla macchina, quasi senza aspettare che l’autista aprisse loro la portiera, quindi si diressero a rapide falcate verso la baracca che ospitava il comando.
“Dov’è il maggiore Stuart?” chiese il capitano, guardandosi intorno come se si aspettasse di sorprenderlo mentre tentava di sgattaiolare via.
“In volo, signore,” rispose diligentemente il piantone.
“Quando tornerà?”
“Difficile a dirsi, signore,” rispose il soldato a disagio, “dipende da tante cose.”
Come poteva dare un’informazione del genere? Intanto bisognava vedere se il maggiore sarebbe tornato, poteva anche restarci secco, inoltre dipendeva da cosa gli avrebbero fatto trovare i Fritz lassù. Mica poteva fornire un orario come se Stuart dovesse arrivare col treno.
“Vorrà dire che lo aspetteremo,” tagliò corto il maggiore, e senza attendere risposta si diresse con risolutezza verso l’ufficio di Stuart.
Il piantone azzardò poco dopo un’occhiata all’interno e si accorse che l’ufficiale si era seduto alla scrivania e stava disinvoltamente controllando il contenuto di tutti i cassetti. Valutò cosa fare. Era meglio inimicarsi quei due mastini dell’Intelligence facendoli uscire dall’ufficio, ammesso che gli dessero retta, o contrariare il maggiore Stuart lasciando che i tizi gli perquisissero la stanza?
Non avendo alcuna voglia di finire al fronte da qualche parte, scelse la seconda opzione e con gran impegno si mise a guardare fuori dalla finestra.
Continuò a fissare con fare angelico la campagna del Cambridgeshire anche quando finalmente tornò il maggiore, che quindi sorprese il suo pari grado dell’Intelligence mentre sfogliava con grande interesse il numero di Signal.
Fermo sulla soglia, freddamente Stuart disse: “Vedo che ha trovato il modo di non annoiarsi mentre mi aspettava.”
L'altro abbassò la rivista senza la minima traccia di imbarazzo, con l'aria di quello che stava leggendo il giornale nel salotto di casa sua. “Bentornato, maggiore Stuart!” lo salutò allegramente.
L'altro si limitò a rivolgergli un'occhiata gelida.
“Ci portiamo via il prigioniero,” annunciò il capitano con un tono che sembrava volerlo sfidare a opporsi.
Il maggiore non rispose.
“Lo portiamo via adesso,” insisté l'altro. “Abbiamo aspettato anche troppo.”
Stuart si mosse a disagio riflettendo disperatamente su come prendere tempo. In tutta la faccenda c'era qualcosa che non quadrava per niente.
L'Intelligence, tanto per cominciare. Da quando in qua i servizi segreti si scomodavano per un semplice tenente della Luftwaffe? Sarebbe stato comprensibile se avessero messo le mani su un pezzo grosso, un generale magari, ma a chi poteva interessare quell'aquilotto scontroso?
E poi la fretta. Quando mai qualcuno si era preoccupato di andare a recuperare un prigioniero di guerra con tanta sollecitudine?
Si chiese se per caso quel von Rohr fosse davvero una spia nazista, come aveva scherzosamente ipotizzato quando l'aveva portato al circolo ufficiali.
Gli parve strano, sanguigno e trasparente com'era gli sembrava l'antitesi del tipico agente segreto freddo e impenetrabile, ma va a sapere. Magari era anche un ottimo attore.
“Cosa ne volete fare?” chiese.
L'espressione del capitano era senza dubbio quella di chi stava per rispondere non sono affari suoi, ma il suo superiore lo precedette. Abbassò la rivista che stava ancora sfogliando e allegramente disse: “La gente è curiosa di vedere dal vero il famoso Cavaliere di Valsgärde.”
“Ma non è lui,” non poté fare a meno di rispondere Stuart, “non ha letto l'articolo su Signal?”
“Indubbiamente ben fatto,” commentò l'altro, “molto circostanziato. I nostri avrebbero parecchio da imparare in proposito.” Infilò la rivista nella propria cartella di cuoio. “Voilà! È sparita. Niente più scomodo capitano Müller a disturbarci,” concluse.
“Non capisco,” rispose Stuart senza preoccuparsi di nascondere la propria diffidenza.
“Solo un piccolo espediente di psicologia delle masse,” spiegò il maggiore dell'Intelligence. “Non c'è niente come un bel processo a un criminale di guerra per rinfocolare l'odio nei confronti del nemico.”
“Criminale di guerra?” fece eco Stuart perplesso.
“Quel tedesco stava diventando una specie di eroe romantico, mi capisce? Niente di buono, per una sana condotta bellica. La gente deve odiare il nemico, non ammirarlo e desiderare segretamente di assomigliargli. E allora noi cosa faremo? Diremo alla gente 'vedete cosa fa il vostro caro Cavaliere di Valsgärde? Altro che Barone Rosso, è solo un volgare criminale di guerra.' E dopo il nostro piccolo show i bravi inglesi odieranno più che mai i cattivi nazisti.”
Gli rivolse un sorriso compiaciuto. Dava quasi l'idea di aspettarsi i complimenti per il suo piano machiavellico.
“Quel pilota non è un criminale di guerra,” commentò lapidario il maggiore.
“Dettagli trascurabili,” rispose disinvoltamente l'altro. “Abbiamo preso il suo aereo, lo filmeremo mentre mitraglia dei civili, fa sempre impressione la strage di civili.”
“Dimentica due piccoli particolari,” rispose allora Stuart con ira repressa. “Primo, mentre voi organizzate la vostra bella farsa il vero Cavaliere di Valsgärde è ancora lassù. Secondo, il tenente von Rohr è innocente.”
“Proprio innocente non direi, visto che è un ufficiale nemico,” replicò l'altro senza perdere il buonumore. “Quanto al Cavaliere, quello è affar suo. Se è ancora lassù lo abbatta, così chiudiamo la faccenda.”
A quelle parole fece seguito un silenzio greve. Stuart andava con lo sguardo dall'uno all'altro dei suoi interlocutori, indeciso sul da farsi. Nonostante la sua proverbiale pacatezza, l'unica cosa che gli veniva in mente era sbatterli fuori dal suo ufficio, possibilmente a calci nel sedere, e con lo stesso sistema farli risalire sulla loro preziosa autovettura assicurandosi che tornassero da dove erano venuti.
“Capisco la sua perplessità, mio caro Stuart,” intervenne mellifluo il suo parigrado.
“Non sono il suo caro Stuart,” ringhiò il pilota.
“Certo, certo,” concesse bonariamente l'altro, con l'aria di un genitore saggio che sopporta le intemperanze del figlio adolescente, “ma tenga conto che ci sono tanti modi di fare la guerra. Lei vola col suo aereo e spara addosso ai tedeschi e anch'io, con altri mezzi, faccio il mio dovere.”
“Ingannando la gente?”
“Ispirandola, direi. Si è mai chiesto cosa succederebbe se l'opinione pubblica cominciasse a pensare che i nazisti in fondo non sono così male?”
“Non credo che per far capire alla gente che non deve rubare si debba prendere il primo che passa per la strada e impiccarlo in piazza dopo averlo accusato di furto.”
“Beata innocenza! Crede che non sia mai successo, maggiore?”
Stuart avrebbe voluto rispondergli per le rime, ma in quel momento cominciò a suonare l'allarme antiaereo.
I due ufficiali dell'Intelligence si guardarono a disagio.
“I ragazzi di Goering vengono a farci una visita,” spiegò Stuart con malcelata soddisfazione, “quindi se lor signori vogliono alzarsi e seguirmi nel rifugio...”
“Dobbiamo portare via il tedesco,” lo interruppe il capitano riprendendo improvvisamente tutta la sua bellicosità.
“Non se ne parla nemmeno. Tra un po' cominceranno a cadere le bombe.”
Come a sottolineare il concetto, un'esplosione fece tremare i vetri.
“Muoviamoci!” ordinò Stuart conciso. Ormai era di nuovo nel suo elemento. Sotto un bombardamento nemico i piloti come lui sapevano esattamente cosa fare, mentre i semidei dell'Intelligence, che in condizioni normali davano ordini persino al Re, scadevano inesorabilmente al rango di contabili imbranati.

I tre uscirono precipitosamente. L'allarme continuava a suonare e qua e là si udivano altre esplosioni.
“Muoviamoci!” ripeté il maggiore. “Tra un attimo li avremo addosso!”
In quel momento si scatenò l'inferno: la macchina dei due ufficiali, che era rimasta ferma in mezzo al piazzale, scomparve in una fontana di terra e fuoco, seguita subito dopo da un camion. Gli aerei in linea di volo decollavano per non offrire un facile bersaglio agli Stuka, ma quelli che rimanevano al suolo venivano distrutti uno dopo l'altro. Tutto il personale usciva dagli hangar e dalle baracche per correre verso i rifugi e già i primi feriti venivano trascinati dai compagni.
Nel cielo fattosi caliginoso per gli incendi guizzavano le ombre nere degli aerei tedeschi, il frastuono era talmente forte che gli uomini non riuscivano a parlarsi nemmeno urlando.
Infine discesero, un po' correndo e un po' incespicando, le scale che conducevano sottoterra.
Paragonato all'apocalisse esterna, il silenzio che regnava nel rifugio pareva irreale. “Tutto bene?” chiese Stuart riprendendo l'abituale compostezza. Con un guizzo di apprensione si ritrovò a pensare a von Rohr. Probabilmente a nessuno era venuto in mente di andarlo a prendere per farlo scendere nel rifugio, col risultato che il prigioniero rischiava di essere ucciso dai suoi stessi connazionali.
La chiesa è lontana dal campo, si disse, ma la cosa non gli parve per nulla rassicurante.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13

“E poi com'è andata a finire?” Seduto nella sua poltrona preferita, Poynter si rigirava in mano l'Old Fashioned con l'aria di un vecchio gentiluomo al club della caccia.
“Se ne sono andati con le pive nel sacco. Capirai, la loro preziosa macchina era saltata in aria, e il furgone per trasportare il prigioniero non aveva fatto una fine migliore. Li ha dovuti riaccompagnare il caporale Grice.”
“Non ti vedo particolarmente dispiaciuto,” scherzò il capitano.
“Hanno avuto quello che si meritavano,” rispose Stuart con malcelata soddisfazione. “Così imparano a venire qui a fare il bello e il cattivo tempo.”
“E il tuo tedesco?”
“Non è il mio tedesco,” replicò l'altro con una punta di fastidio. “Comunque è stato furbo: quando ha visto che le cose si mettevano male ha preso il materasso del letto e si è rintanato in un angolo con quello addosso. Le vetrate sono andate in frantumi, ma lui non ha un graffio.”
“Molto furbo.”
“Tu dicevi che era un ragazzino stupido.”
“Lo è. Per certe cose ha senso pratico, per altre è un completo idiota.”
“Ad esempio?”
“Si è deciso a rivolgerti la parola?”
Stuart scosse la testa.
“Eppure lo stai proteggendo, no? Io dico che uno sveglio capirebbe subito con chi è il caso di essere gentile.”
Il maggiore aveva descritto all'amico la manovra che l'Intelligence intendeva portare avanti ai danni del pilota della Luftwaffe. Con suo stupore, lo sdegno di Poynter era stato piuttosto tiepido. “Una buona idea,” aveva anzi commentato.
“Tu faresti una cosa del genere?” gli aveva chiesto indignato.
“Io personalmente no,” era stata la diplomatica risposta, “ma mi sarebbe sembrato strano se non avessero approfittato della situazione.”

Continuarono a bere e a sfogliare distrattamente riviste. Una radio in sottofondo trasmetteva musica leggera, si udiva il chiacchiericcio sommesso di qualche conversazione.
Stuart ripensava alle parole dell'amico. Il tuo tedesco.
In effetti si era opposto con una certa veemenza quando quelli dell'Intelligence erano arrivati per portarselo via. Una veemenza davvero insolita per il suo carattere flemmatico.
Ma il motivo era legato esclusivamente a quello che avevano intenzione di fare. Pratiche del genere erano un disonore per una nazione civile, ed era suo dovere fare di tutto per impedirle.
Si chiese se gli uomini stessero facendo le stesse illazioni di Poynter. A quel pensiero involontariamente fece girare lo sguardo sulla sala, ma nessuno faceva caso a lui.
Appoggiò il bicchiere vuoto e alzandosi bruscamente disse: “Credo che me ne andrò a dormire.”
“Salutalo da parte mia,” gli rispose Poynter con un sorriso.
“Chi?”
“Ma il mangiacrauti, no? Ormai è uno di famiglia.”
“Insomma, smettila!” protestò Stuart, e senza attendere risposta uscì nel buio dell'oscuramento. Gli ci volle un po' per abituare gli occhi, poi riuscì a distinguere la chiesa che si stagliava vagamente più chiara contro il cielo nero e vi si diresse.
Ancora comodamente seduto nel circolo ufficiali, Poynter lanciò un'occhiata distratta alla porta dalla quale era uscito il collega, scosse la testa e riprese a leggere.

Essendoci il coprifuoco, anche l'interno della chiesa era completamente buio. La canonica era stata equipaggiata di pesanti tende scure in modo che vi si potessero accendere le luci, ma nessuno aveva pensato di oscurare anche i finestroni gotici, col risultato che appena calava la notte Hans von Rohr si trovava immerso nelle tenebre.
Il che era piuttosto seccante, perché non vedendo a un palmo dal proprio naso non riusciva a fare nulla. Era costretto a girare tentoni cercando di non inciampare, e senza luce non poteva nemmeno esplorare la prigione alla ricerca di eventuali vie di fuga.
C'era solo un vantaggio in quell’incresciosa situazione: l'inglese non tentava di parlargli, dal momento che non lo vedeva.
Mentre stava così ragionando udì dei passi in avvicinamento, lo scatto della serratura e un brillio di luce che filtrava dalla tenda posta tra la canonica e la chiesa.
Silenziosamente si fece indietro, di sicuro il maggiore si sarebbe affacciato e se l’avesse visto gli avrebbe detto qualcosa.
L’ultima cosa che voleva era intavolare un’amabile conversazione con un nemico del Reich.
Si acquattò come una lepre all’arrivo dei cacciatori.

Come prevedeva, l’ufficiale inglese scostò la tenda e si avvicinò al cancello. Scrutò nel buio per qualche secondo, poi chiamò: “Tenente von Rohr?”
Hans non rispose.
“Tenente?”
Di nuovo silenzio.
Il maggiore però rimase fermo. Sembrava quasi che lo vedesse, perché era girato proprio nella sua direzione. “Io credo che si possa combattere restando comunque dei gentiluomini,” cominciò. Poi dopo qualche secondo soggiunse: “Rispettando il proprio nemico, comportandosi in maniera onorevole.”
Von Rohr sbatté gli occhi incredulo: si metteva anche a fargli la ramanzina adesso?
Ma il maggiore continuò, come parlando fra sé e sé: “Certi sotterfugi sono indegni di una nazione civile. Non siamo bestie.”
A questo punto il tenente si avvicinò perplesso.
“Oh, è qui,” lo accolse Stuart. “Capita anche in Germania che si inganni la gente per suscitare l’odio nei confronti degli inglesi?”
La domanda era così inaspettata che al giovane pilota scappò detto: “Cosa?”
Si accorse troppo tardi che aveva appena fraternizzato con l’esecrato nemico.
“Che la propaganda diffonda falsità per alimentare l’odio nei confronti dei nemici,” spiegò il maggiore non notando, o signorilmente fingendo di non notare l’imbarazzo che aveva pervaso il suo interlocutore al venir meno dei ferrei propositi di riserbo che si era imposto.
“Non sono falsità, è tutto vero,” rispose prevedibilmente l’aquilotto della Hitlerjugend. “Le potenze straniere stavano strangolando la Germania, se la stavano spartendo come fanno gli avvoltoi con una carcassa. Per fortuna il Führer ha messo fine a tutto questo, e ora siamo di nuovo in grado di combattere per il nostro spazio vitale.”
“Già, il vostro spazio vitale”, rispose il maggiore con un sospiro. Poi, dopo alcuni secondi di silenzio: “Ho studiato a Heidelberg, ho imparato ad amare la cultura tedesca. Come avete potuto ridurvi così?”
Von Rohr fece una breve risata. “Il padrone protesta perché lo schiavo non ne vuole più sapere di restare in catene?” domandò sarcastico. “Ma certo, povera cultura tedesca bistrattata. Ora noi abbiamo una nuova cultura, maggiore, che non è serva di nessuno, e abbiamo smesso di vivere della vostra elemosina. Ora ci prendiamo da soli quello che ci spetta!”
Così parlando si era via via infervorato e le ultime parole quasi le gridò aggrappato alle sbarre del cancello, a un palmo dal maggiore Stuart, che indietreggiò confuso di fronte a quell’impeto.
Sturm und Drang,” commentò poi l’inglese, “lei è un romantico, von Rohr.”
“Rohr e basta.”
Seguì la domanda di rito: “Perché? Non le piace il suo cognome?”
“È un cognome aristocratico, e io odio l’aristocrazia.”
“Eppure lei ne fa parte.”
“Nel Terzo Reich non esiste l’aristocrazia, siamo tutti uguali. L’unica nobiltà è quella di Sangue e Suolo.”
“Sarebbe a dire l'appartenenza al popolo tedesco?”
“Precisamente.”
“Quindi lei è comunque un aristocratico,” concluse Stuart con un sorriso.
Ma se sperava di zittire l’interlocutore con quell’elegante sofisma si sbagliava di grosso. “L’aristocrazia non esiste,” replicò von Rohr, “è vuota forma. Le persone valgono per le azioni che compiono, non per il nome che portano. Cos’era un aristocratico prima di diventare tale? Una persona qualsiasi.”
“Beh, non direi. Un titolo nobiliare in genere viene concesso come premio per aver compiuto azioni particolarmente brillanti.”
“Oh, ma certo. La classe dominante che rinsalda i propri privilegi. E cosa sarebbe questo famoso sangue blu che l’aristocrazia conferisce? Semplicemente più terre, più popolo a cui estorcere tasse.”
“Questo mi sembra un discorso da socialista, tenente,” disse il maggiore.
“No, da nazionalsocialista.”
Il giovanotto rimase a guardarlo con aria spavalda, come sfidandolo a contraddirlo. La fioca luce che proveniva dalla tenda scostata gli investiva in pieno il volto, facendolo emergere pallido e severo dalle tenebre.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Capitolo 14

Il mattino dopo Stuart si alzò in volo di buon'ora con lo Squadron quasi al completo. Alcune unità navali avevano segnalato uno stormo di Junkers 87 in avvicinamento e la sua intenzione era quella di intercettarlo.
Li vide quasi subito. L'aria era limpida e la forma spigolosa degli Stuka si distingueva da lontano. Volavano in formazioni di tre, il maggiore si accorse che sotto la fusoliera avevano bombe da cinquecento chili.
“Fate attenzione, ragazzi,” disse in frequenza, ma già i piloti del 19° avevano avvistato i nemici e si stavano rallegrando che non si vedessero caccia di scorta.
“Sarà come andare a pesca di salmoni!” esclamò qualcuno.
Altri gli diedero ragione con entusiasmo, un paio si lanciarono addirittura in ardite acrobazie aeree.
Subito Stuart li richiamò all'ordine: “Nervi saldi, nemmeno i Fritz sono così stupidi da mandare degli Junkers 87 senza scorta.”
“Avranno pensato che fossimo ancora a letto!” rispose Evans, uno dei buontemponi dello Squadron.
La frequenza risuonò di risate e battute.
Tutti diedero motore per raggiungere i nemici e cominciare quella che si preannunciava come una facile mattanza.
Impermeabile a tanto entusiasmo, Stuart scrutava inquieto il cielo terso. Non sembrava che ci fossero dei caccia tedeschi in giro, ma tutta quell'abbondanza, praticamente offerta su un piatto d'argento, gli pareva altamente sospetta.
Gli Stuka procedevano frattanto come chi ha tutto il tempo del mondo, sembrava che stessero sorvolando l'Unter den Linden durante una parata.
Stuart si guardò intorno di nuovo. Vide il primo dei suoi ragazzi raggiungere i nemici e sparare una raffica di traccianti. Lo Junkers 87 si buttò in picchiata, lo Hurricane gli andò dietro seguito da un altro, ma in quel momento qualcosa passò come un fulmine tra il tedesco e il più avanzato degli inglesi. Un istante dopo lo Hurricane cadeva in vite emettendo una scia di fumo nero. Stuart non fece in tempo a riaversi dalla sorpresa che un altro caccia cadde abbattuto. Si voltò cercando di identificare il misterioso assalitore e riuscì a scorgere di sfuggita la sagoma scura e compatta di un Messerschmitt 109. L'aereo guizzò via con una manovra che Stuart aveva visto innumerevoli volte, si abbassò di quota quel tanto da convincere un paio di incauti a metterglisi in coda, fece un Immelmann e un attimo dopo un terzo aereo britannico cadeva in fiamme.
A questo punto il tedesco sparì, e nell'agitazione generale i piloti del 19° si accorsero che era in arrivo un nutrito stormo di caccia.
Gli Stuka divennero l'ultimo dei problemi per gli inglesi.

Stuart rientrò alla base con cinque aerei di meno, era finito in mezzo ad una trappola in piena regola. Chi la fa l'aspetti, pensò, rievocando quella che lui stesso aveva messo in atto per abbattere il Cavaliere di Valsgärde.
Camminava svelto verso la baracca del comando quando uno dei suoi piloti più giovani lo affiancò con tutta l'aria di volergli chiedere qualcosa.
“Mi dica, tenente Guthrie,” lo incoraggiò.
Il giovane lo fissò serio. Si fermò, costringendo in quel modo il suo superiore ad imitarlo. “Era lui, vero?”
“Chi?”
“Lui. Quello che ha fatto fuori anche Carter.”
Secondo le disposizioni dell'Intelligence, l'ordine era di considerare il Cavaliere di Valsgärde caduto in combattimento, ma Stuart non se la sentì di negare l'evidenza.
“Era lui,” rispose.
“Credevo che l'avesse abbattuto, signore.” Al maggiore parve di cogliere nella frase un tono di vago rimprovero.
“Lo credevo anch'io, Guthrie,” sospirò Stuart. “Ho abbattuto un aereo dal muso rosso, questo sì, ma dentro non c'era la persona giusta.”
“Capisco. Mi scusi se ho chiesto, signore.”
“Non si preoccupi.”
Rimase fermo a guardare il tenente che si allontanava. Forse avrebbe dovuto riprenderlo per la sua impertinenza, ma preferì far finta di nulla. Lui e Carter avevano fatto la scuola di volo insieme ed erano amici. Probabilmente quel ragazzo soffriva ancora per la sua perdita.

Mentre era ancora immerso nei suoi pensieri, Poynter lo raggiunse. “Mi viene in mente la barzelletta del pazzo che si credeva un chicco di grano,” disse.
Stuart lo fissò stupefatto. “Prego?”
“Dopo anni di cure viene dimesso dal manicomio e dice ai dottori: finalmente sono guarito, non mi credo più un chicco di grano. Mi rimane solo un dubbio: ma le galline lo sanno?”
“Smetti di parlare per enigmi,” rispose Stuart, che comunque aveva già capito dove volesse arrivare l’amico.
“Mi chiedevo: il Cavaliere di Valsgärde sa di essere stato abbattuto? Perché se non lo sa sarebbe il caso di farglielo presente.”
“Non ti ci mettere anche tu.”
“Ah, non te la prendere, era solo per sdrammatizzare un po'. Quel bastardo è vivo e vegeto, e adesso non riusciamo nemmeno più a distinguerlo dai suoi amichetti per metterci al riparo quando arriva. Lo sai che oggi a momenti mi staccava un'ala? La vecchia Carol ha più buchi di un colabrodo, povera piccola.”
La vecchia Carol era l'aereo di Poynter.
“Hai detto agli uomini di sistemarlo per domani?” gli chiese Stuart.
“Si capisce, Carol ci tiene a presentarsi come si deve.”
Stuart sospirò. “Che dannato problema,” brontolò fra i denti.
Lasciò vagare lo sguardo sui suoi piloti che parlottavano fra loro o se ne stavano sdraiati al sole in attesa che i loro aerei fossero riforniti e rimessi in condizioni di volo. Era certo che Guthrie non fosse stato il solo a riconoscere il Cavaliere, e se l'Intelligence poteva ordinare a lui di tenere la bocca chiusa, non poteva certo impedire a ‘radio gavetta’ di trasmettere ai quattro venti che il tedesco era ritornato più agguerrito di prima.
Nonostante le complicazioni che si preannunciavano all'orizzonte, ne provò una certa vaga soddisfazione. Tempo due giorni e tutti gli Squadron della sua zona avrebbero saputo l'importante notizia.
“Voglio proprio vederli adesso a fare il loro bel cinegiornale di propaganda,” disse.
Poynter si voltò. “Cosa?”
“Come faranno a sbandierare che il Cavaliere di Valsgärde è stato abbattuto?”
Con gesti misurati il capitano si mise una sigaretta fra le labbra, l'accese, aspirò una voluttuosa boccata di fumo e filosoficamente disse: “Non sottovalutarli.”
“Non possono mica negare l'evidenza!”
“Ah, no?”
“No!” rispose il maggiore, ma il tono non fu energico come avrebbe voluto. Stava per proseguire con un'accorata requisitoria sulla correttezza e la lealtà quando lo avvertirono che gli aerei erano di nuovo pronti al decollo.
La concione venne momentaneamente accantonata.

Per le successive due missioni il Cavaliere non si presentò. Quelli che lo Squadron si trovò a fronteggiare furono normali caccia della Luftwaffe, impegnativi ma non appesantiti dall'aura di invincibilità che invece ammantava il famigerato avversario, tanto che qualche ottimista arrivò addirittura a sperare che in realtà avessero scambiato per il Cavaliere di Valsgärde redivivo un pilota particolarmente abile o fortunato, secondo la teoria per cui chi si è bruciato con l'acqua calda teme anche quella fredda.
Fu solo nel tardo pomeriggio che il Cavaliere ricomparve: mentre Stuart era in volo con i suoi per rientrare alla base arrivò a tutta manetta sul pelo dell'acqua, così basso che i riflessi del tramonto sulle onde si confondevano con la sagoma spigolosa del Messerschmitt, poi all'improvviso cabrò andando su in verticale, attraversò la formazione britannica come un fuso e la superò scomparendo contro il disco rosso del sole. Mentre i piloti inglesi si disperdevano disorientati dalla subitanea apparizione, il Cavaliere fece una virata sfogata, picchiò per prendere velocità, puntò un caccia che era rimasto isolato dagli altri e lo abbatté con una raffica di traccianti.
Come sempre, dalla sua comparsa al primo aereo che precipitava in fiamme non erano passati più di dieci secondi.
Teso, Stuart si guardò intorno. La luce era la peggiore che si potesse immaginare: scarsa e bassa sull'orizzonte. In più i raggi aranciati falsavano pericolosamente i colori disorientando i piloti. I caccia sono aerei diurni, che hanno bisogno di molta luce e cieli sgombri. Volare in quel crepuscolo livido dava la sensazione di camminare sulle sabbie mobili.
“Poynter, chi è caduto dei nostri?” chiese in frequenza, ma non fece in tempo a sentire la risposta: una raffica di traccianti gli attraversò la fusoliera facendo schizzare via scintille e pezzi di rivestimento metallico. Il maggiore si tolse immediatamente dalla traiettoria dei proiettili con una scivolata d'ala, e pur nella luce che andava scemando vide la sagoma di un Messerschmitt che guizzava via per rimettersi in posizione d'attacco. L'aereo non aveva nulla di diverso rispetto ai suoi simili, ma ormai Stuart aveva imparato a riconoscere le manovre del Cavaliere di Valsgärde, e quello era lui senza ombra di dubbio.
Si guardò intorno: nessuno dei suoi nelle vicinanze. Il tedesco era di nuovo sul pelo dell'acqua, appariva e scompariva tra i luccichii del sole sulle onde. Picchiò per raggiungerlo, ma prima che riuscisse a metterglisi in coda, quello schizzò verso l'alto. Stuart lo imitò, ma i pochi secondi che impiegò per interrompere la picchiata e trasformarla in una cabrata furono sufficienti per far sì che il Messerschmitt gli sfuggisse.
Un istante dopo se lo vide arrivare contro a tutta manetta, i traccianti erano come un nugolo di insetti furiosi e c'era il rumore di una grandinata. Realizzò con orrore che la grandinata era prodotta dalle pallottole del tedesco che attraversavano le ali e la fusoliera del suo aereo.
Sto per morire, pensò in un lampo, e subito dopo pensò a von Rohr, dispiaciuto perché non avrebbe più potuto proteggerlo dalle mire dell'Intelligence.
Poi non successe nulla.
Non fu abbattuto, non morì, non entrò nemmeno in combattimento con il Cavaliere di Valsgärde. Dopo l'ultimo passaggio il suo avversario si sganciò e se ne andò verso le coste della Francia.
A Stuart, pallido e sudato ai comandi del suo aereo, non restarono che congetture: forse il tedesco si era accorto di avere poco carburante, o forse aveva compiuto uno degli atti cavallereschi che l'avevano reso famoso tra le ragazze inglesi. Non era dato saperlo. L'unica cosa certa era che l'aveva lasciato in vita.

Quando Stuart scese dall’aereo si accorse che le gambe lo reggevano male. Sapeva che i ragazzi lo stavano guardando, per cui fece finta di niente e si diresse verso la baracca del comando. Ovviamente non riuscì a ingannare Poynter, che lo raggiunse e a bassa voce gli disse: “Ti vedo un po’ palliduccio.”
“Non mi hai ancora detto chi è caduto dei nostri,” replicò il maggiore per tutta risposta.
“Guthrie, poveretto. Abbattuto come una beccaccia. Volevo dirtelo prima, poi quello là ti ha preso di coda e ho pensato che avessi problemi più urgenti.”
Stuart sospirò. Proprio Guthrie. Se ne sentì assurdamente in colpa.
Lanciò un'occhiata al cielo che andava virando verso un blu cobalto appena screziato di nubi e si sentì in colpa – e in imbarazzo – anche per un'altra cosa: se durante il combattimento il Cavaliere di Valsgärde l'avesse ucciso, il suo ultimo pensiero sarebbe stato per Hans von Rohr.
Non sapeva se considerare la cosa più insensata, ridicola o imbarazzante.
Si passò una mano sulla tasca sinistra dell’uniforme, dove, in un elegante portafotografie di pelle, teneva l’immagine della sua fidanzata. Fu un gesto automatico come quello di toccare legno nell’assistere ad un evento di cattivo auspicio.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Capitolo 15

Stuart rientrò al suo alloggio che era già buio. Nonostante l’oscurità si affacciò come sempre sulla navata della chiesa e la sua attenzione fu colpita da qualcosa di insolitamente bianco. Aguzzò lo sguardo incuriosito e gli parve di distinguere una figura velata vagamente somigliante ai fantasmi dei racconti gotici.
“Tenente?” chiamò stupito. Come prevedeva non gli giunse alcuna risposta.
L'insolita visione gli fece temere che il prigioniero avesse trovato il modo di evadere, per quanto non riuscisse ad immaginare come, quindi andò a prendere una candela per sincerarsi che von Rohr fosse ancora dove l’aveva lasciato.
Alla tenue luce della fiammella vide una figura seduta sul letto. Era di schiena e sembrava avvolta in un lenzuolo drappeggiato come una specie di peplo. La nuca bionda era inconfondibile, così come il portamento orgoglioso e vagamente rigido delle spalle.
“Che ci fa combinato come un imperatore romano, von Rohr?” domandò.
Il tedesco si alzò in piedi e si girò verso di lui con un movimento in apparenza solenne, in realtà probabilmente solo cauto, dettato dalla necessità di mantenere la decenza nonostante l’abbigliamento insolitamente succinto.
“Ho lavato i miei vestiti,” disse.
Il maggiore sorrise. “Oh, capisco,” rispose soltanto.
“Mi piace la pulizia,” replicò il tenente fissandolo torvo.
Rimasero in silenzio per qualche secondo. Stuart pensò che con quella luce e vestito in quel modo von Rohr sembrava uscito da un quadro di Alma Tadema. Si sorprese a notare che aveva un fisico asciutto ma muscoloso.
La voce tagliente di von Rohr lo riportò bruscamente alla realtà: “La smetta di guardarmi, non sono una scimmia dello zoo. I miei vestiti erano sporchi e non mi andava di affidarli a qualche soldato inglese che me li avrebbe rubati come è successo con il resto dei miei effetti personali. Fare il bucato viola la Convenzione di Ginevra, per caso?”
Gli girò le spalle per allontanarsi, ma il movimento fu troppo rapido e l'improvvisata toga scivolò giù, lasciando scoperto proprio ciò che egli aveva tanto lottato per nascondere.
Forse un militare con più esperienza ci avrebbe fatto sopra una risata, ma von Rohr avvampò e si ritrasse bruscamente recuperando nel frattempo il lenzuolo caduto.
Scomparve nell'ombra.
“Non si preoccupi, tenente, non è il primo uomo nudo che vedo,” gli assicurò bonariamente Stuart, ma il ragazzo non rispose e mantenne un ostinato silenzio anche ai successivi approcci del maggiore, che alla fine si rassegnò e se ne tornò nella canonica.

Quella notte Stuart fece uno strano sogno: si trovava in un museo e stava attraversando una galleria che conteneva numerose statue classiche, tutte disposte ad intervalli regolari lungo le pareti. Esse raffiguravano esempi storici e mitologici di bellezza maschile, Apollo, Ganimede, Antinoo, Adone e così via, ed erano completamente nude.
Erano poste su elaborati piedistalli e con diabolica precisione avevano tutte l’inguine all’altezza dei suoi occhi, così che lui era obbligato a procedere a passo spedito e con lo sguardo dritto davanti a sé per non dare l’impressione di indugiare sui genitali maschili, e si chiedeva nel frattempo se quel comportamento non risultasse paradossalmente ancora più sospetto di tendenze particolari.
Quel pensiero gli dava una certa ansia.
Ansia che divenne autentico panico quando finalmente uscì dalla galleria e si imbatté nella sua fidanzata a braccetto con un altro. Riconobbe l’uomo: era il bellimbusto a cui l’aveva sottratta mesi prima.
“Va pure, a che ti servo io adesso?” gli disse la giovane donna, salutandolo come se si trovasse a bordo di un piroscafo pronto a salpare. Si strinse al suo nuovo cavaliere e di colpo era davvero su un piroscafo, che si stava allontanando dalla costa a velocità vertiginosa.
Stuart si ritrovò su un aereo mentre cercava invano di inseguire la rapidissima nave. Essa scomparve all’orizzonte, e mentre lui fissava avvilito il mare ormai vuoto si accorse di essere ai comandi di un Messerschmitt 109 della Luftwaffe. Al suo fianco stava volando il Cavaliere di Valsgärde, che gli rivolse un cenno di saluto e con aria di vaga complicità gli disse: “Questo è meglio, no?”
Il maggiore rispose con entusiasmo di sì, e dimentico del piroscafo si lanciò assieme a lui in una serie di ardite acrobazie.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Capitolo 16

Stuart si svegliò ancora pervaso dalla sensazione di piacere di quel volo. Si stirò nel letto rievocando nubi così corpose da sembrare solide, di colori che andavano dall’arancio al rosa, e un mare blu cupo sul quale i raggi del sole calante si riflettevano in migliaia di luccichii.
Pensò al Messerschmitt 109 che aveva pilotato nel sogno.
In realtà gli era capitato raramente di vedere da vicino il celebre caccia della Luftwaffe. Una volta ne avevano abbattuto uno vicino alla base e lui era riuscito ad arrampicarsi sull’ala, ma mentre stava osservando l’abitacolo c’era stato un allarme antiaereo e aveva dovuto sospendere la sua ispezione. Poi ne aveva visto qualcun altro, ma sempre da fuori, e variamente danneggiato dalla contraerea o dai duelli coi caccia.
Allungò una mano per scostare la pesante tenda da oscuramento. Fuori c’era il vago chiarore che precede l’alba e la finestra era un reticolo nero su un cielo color piombo. Quell’intersecarsi di linee ortogonali gli ricordò la capottina squadrata del Messerschmitt 109, ma subito dopo gli evocò un ricordo decisamente meno gradevole: il soffitto vetrato della galleria delle statue.
Ripensandoci si accorse che il luogo non era un'invenzione del suo subconscio, ma uno degli ambienti di rappresentanza dell’Accademia Militare che aveva frequentato. Ovviamente là non c’erano le statue nude, ma l’architettura classicheggiante era tale e quale.
E ad un tratto gli tornò in mente un episodio verificatosi quando era un cadetto. Tutto pervaso di antica Grecia e sodalizio virile, si era legato a un giovane di un altro corso, e poiché stavano in due ali diverse dell’Accademia era solito lasciargli dietro il piedistallo del busto di Wellington, che troneggiava circa a metà della galleria, delle poesie composte di propria mano. Nei suoi versi lo chiamava Fair Youth, esattamente come il misterioso giovane cui si rivolgeva Shakespeare nei sonetti e che si diceva fosse stato suo amante.
Lo ricordava ancora: era un ragazzino biondo, dalle fattezze delicate, con grandi occhi azzurri dall’espressione sognante.
All’epoca si era invaghito di lui, ma probabilmente solo perché non c’erano ragazze in giro. E poi perché era giovane e non sapeva ancora niente del sesso. Fortunatamente, comunque, in tutta la loro frequentazione non si erano scambiati altro che qualche carezza e qualche casto bacio sulle labbra.
Molti palpiti, però, e molte poesie.
Sospirò a disagio. Avrebbe voluto dimenticare quell’incresciosa faccenda, ma certi ricordi rimangono piantati nella memoria come chiodi nella croce di Cristo.

Si alzò con la sensazione di dover scongiurare una tragedia incombente: quel sogno gettava una luce nuova – nuova e decisamente inquietante – sulla presenza di von Rohr.
Perché si opponeva con tanta veemenza al suo trasferimento? Non voleva che fosse accusato ingiustamente, certo, ma era davvero il solo e unico motivo? Non c’era per caso qualche sentimento strano in mezzo?
“Dio mi scampi,” mormorò passandosi una mano sul viso.
Febbrilmente cominciò a enumerare tutti gli elementi che deponevano a sfavore della paventata eventualità, con l’angoscia di un paziente che valuta i propri sintomi cercando di escludere una malattia incurabile.
Io ho una fidanzata, pensò per prima cosa, una fidanzata che amo e con la quale vado a letto tutte le volte che posso. Ce l’ho sempre in mente. Abbiamo deciso di non sposarci, questo è vero, ma solo perché c’è la guerra. Sarà la prima cosa che faremo quando finirà. E poi vogliamo bambini, tanti bambini. Nessun anormale vuole bambini. E comunque von Rohr è un maschio, e a me i maschi non piacciono, non c’è altro da dire.
Ma la cosa non gli dava la sperata tranquillità. Stralci dei versi che aveva composto in Accademia continuavano a risuonargli in mente suscitandogli un colpevole imbarazzo, inoltre le allusioni di Poynter, quelle frasi che buttava lì quando credeva di fare il simpaticone, continuavano a tormentarlo: il tuo tedesco, sei più geloso di lui che della tua fidanzata, abiterete insieme…
Davvero erano solo battute o aveva capito qualcosa?
O magari stava cercando di dirgli qualcosa, di fargli capire cosa rischiava a tenersi lì quel tedesco.
Perché in effetti von Rohr era sì un nazista dal carattere sgradevole e dai modi scontrosi, ma bisognava ammettere che era anche dotato di notevoli attrattive.
Era bello, tanto per cominciare. Nonostante la giovane età non aveva nulla dell’adolescente sgraziato che tenta con fatica di diventare uomo. Aveva anzi un bel viso dai lineamenti severi, e per quello che aveva visto anche un corpo armonioso e forte.
E poi era coraggioso, tenace e risoluto. Forse un po' rigido e ideologizzato, ma quella in realtà era una cosa che aggiungeva fascino, anziché toglierne. Tutta quell’intransigenza dava l'idea di avere a che fare con una specie di templare votato ad una santa impresa.
Quel pensiero gli evocò la navata della chiesa, e naturalmente il suo inquilino. Si voltò a disagio in quella direzione, rimase qualche secondo come in ascolto, quindi si girò bruscamente e cominciò a vestirsi in fretta per andare in servizio.
Passò davanti all'improvvisata prigione alla chetichella, quasi non volesse farsi sentire. Non c’era pericolo che von Rohr tentasse di rivolgergli la parola, normalmente quando lui passava il tedesco stava ben attento a spostarsi verso la parete più lontana e a girarsi di spalle, ma stavolta non voleva nemmeno correre il rischio.

La giornata trascorse in voli di guerra. Stuart prese parte a ognuno di essi, usando addirittura l'aereo di un altro pilota quando il suo ebbe un'ala sforacchiata e per qualche ora non fu in condizione di volare. Quando fu troppo buio per le missioni di caccia andò alla baracca del comando e attaccò febbrilmente un cumulo di burocrazia arretrata.
Dopo un tempo imprecisato, Poynter si palesò sulla porta. “Credevo che un commando di mangiacrauti ti avesse catturato,” disse semplicemente.
“Cosa?” esclamò il maggiore, alzando bruscamente la testa dal suo lavoro. Poi, a voce più bassa: “Non ti avevo sentito entrare.” Il tono aveva una nota di vago rimprovero.
“Non mi avresti sentito nemmeno se fossi entrato suonando la grancassa,” rispose noncurante il capitano. “Sembravi parecchio assorto nel tuo lavoro.” Poi, avvicinandosi: “Che roba è?”
“Stavo sistemando la corrispondenza.”
“Oh. Sembra appassionante,” lo canzonò l'amico, quindi soggiunse, imitando il tono di un maggiordomo della Casa Reale: “Il signor maggiore intende onorarci della sua presenza in mensa?”
D'istinto Stuart guardò l'orologio e subito esclamò: “Accidenti, ma è tardissimo!” Diede un'occhiata fuori dalla finestra e si accorse che era calata la notte. Scattò a tirare le tende nere e spense la luce principale lasciando solo quella da tavolo.
Imbarazzato all'idea di essere stato colto in fallo proprio sull'oscuramento, una necessità che aveva ribadito ai suoi uomini fino alla nausea, evitò di guardare in viso Poynter. “Sarà meglio che andiamo,” disse soltanto, uscendo rapido dalla stanza.
Il capitano fece spallucce e gli tenne dietro senza replicare.

Dirigendosi a grandi passi verso la mensa, il maggiore si sentiva però quasi sollevato per la prima volta nella giornata. L'apparizione di Poynter aveva in un certo senso fatto da catalizzatore per certe idee che da parecchie ore andava rimuginando senza riuscire a concludere nulla.
Vederlo sulla porta e pensare alle sue battute caustiche era stato tutt'uno. Chissà cosa direbbe se sapesse del mio sogno, si era chiesto con apprensione.
E da lì, in un immaginabile concatenarsi di pensieri, era giunto alla conclusione che era arrivato il momento di allontanare il prigioniero.
Non c'era più motivo di tenerlo lì. Anzi, con la sua destabilizzante presenza gli toglieva sonno e concentrazione, mettendolo a rischio di commettere errori potenzialmente fatali durante le missioni di guerra, quindi era imperativo che fosse allontanato quanto prima.
Era ora di consegnarlo all'Intelligence come gli era stato richiesto. Sicuramente alla fin fine non intendevano fargli chissà che, ci sono delle regole per certe cose. L'avrebbero sballottato un po' in giro, magari, l'avrebbero messo in qualche finto documentario per mostrare alla gente gli Unni cattivi e poi l'avrebbero spedito in un campo prigionieri dall'altra parte del mondo ad aspettare la fine della guerra. Certo non era corretto, e non era nemmeno una gran prospettiva per un giovane ufficiale ansioso di fare il proprio dovere, ma un sacco di gente aveva fatto una fine ben peggiore, quindi von Rohr non avrebbe potuto lamentarsi più di tanto.

Stuart trascorse la cena nel più ameno degli stati d’animo. Si sentiva sollevato come uno che fosse riuscito a scongiurare una minaccia che da tempo lo terrorizzava. Partecipò alle conversazioni, lodò il cuoco per la sua abilità e proferì addirittura alcuni garbati motti di spirito. Relegato in un angolo della sua mente come un metaforico pacco da spedire, il tedesco sembrava aver cessato di esercitare la propria nefasta influenza su di lui.
Non gli faranno niente, si ripeteva, alla fine lo strapazzeranno un po’ e poi lo manderanno in Canada, magari, o da qualche parte nel Pacifico. Clima buono e belle ragazze, sempre meglio di una trincea piena di fango. O di una fossa comune.
“George?” La voce di Poynter lo fece quasi trasalire.
“Eh?”
“Eri di nuovo nel tuo mondo, stasera mi sembri Alice nel paese delle meraviglie. Si può sapere a cosa stai pensando di così piacevole?”
Stuart ritenne che nominare von Rohr non sarebbe stata una buona idea, quindi prontamente disse: “Stavo pensando a Margaret. Credo sarebbe meglio se ci sposassimo.”
“Mi pareva che fossi stato proprio tu a dirle che preferivi aspettare la fine della guerra.”
“Lo so, ma forse non è stata una buona idea. Un uomo si deve sistemare a un certo punto, no?”
“Immagino di sì,” fu la diplomatica risposta del capitano.
“Ma certo che sì!” rispose Stuart con entusiasmo. Poynter valutò che faceva pensare a un sensale mentre cerca di piazzare un cavallo. Ostentava una strana allegria forzata, decisamente diversa dal suo solito atteggiamento pacato e silenzioso.
“Tutto bene?” s’informò con discrezione.
L’altro assunse un’espressione stupita. “Perché me lo chiedi?”
“Non lo so, mi sembri strano.”
“Strano perché parlo della mia fidanzata? E di cosa dovrei parlare secondo te per non essere strano?” E provvidenzialmente s'interruppe prima che gli scappasse detto: “Di quel dannato tedesco?”
Tese il piatto affinché fosse riempito di nuovo e riprese a mangiare in silenzio. Così non va, pensava indispettito, così non va per nulla.
Perché, nonostante tutti i suoi sforzi, quel dannato von Rohr tornava sempre fuori? Per quanto cercasse di cancellarlo dalla mente, nelle occasioni più inaspettate si trovava a pensare a lui.
Era decisamente ora di allontanarlo, se lo ripeté per l’ennesima volta. Non poteva sperare di condurre le missioni di guerra con la necessaria lucidità se l'assillo di quel giovanotto non voleva lasciarlo in pace. Molto meglio liberarsi di lui e non pensarci mai più.

Era piuttosto tardi quando Stuart fece ritorno al suo alloggio. Si era trattenuto a chiacchierare con gli altri piloti, una cosa che normalmente non faceva, e anche nel dirigersi verso la canonica aveva indugiato in modo insolito.
Si fermò per l'ennesima volta a scrutare l'edificio, che nel buio dell'oscuramento appariva come una sagoma indistinta e vagamente oppressiva. Prese in considerazione l'idea di andare a dormire nella baracca del comando. Là c'erano una brandina e un cambio di biancheria per ogni evenienza, ma soprattutto non c'era quel dannato crucco ad aspettarlo.
In realtà di sicuro il tedesco non lo stava aspettando, anzi con ogni probabilità stava già dormendo della grossa, ma la sola idea di accorciare le distanze tra sé e lui aveva il potere di metterlo a disagio.
Si voltò speranzoso in direzione della baracca del comando, ma dovette a malincuore rinunciare al suo proposito: se avesse fatto una cosa del genere avrebbe dovuto dare ai suoi piloti una giustificazione plausibile del perché abbandonava le comodità del suo alloggio in favore di una brandina sgangherata, e purtroppo non gliene veniva in mente nessuna. Si augurò che arrivasse un'incursione aerea e risolvesse lo spinoso problema obbligandolo a trascorrere la notte nel rifugio, ma quella sera i ragazzi di Goering non sembravano avere voglia di intervenire in suo favore.
Con un sospiro raggiunse a malincuore la canonica.

All'interno il silenzio era perfetto. Stuart rimase in ascolto qualche secondo, ma non udì il più piccolo rumore. Von Rohr dormiva, o se non dormiva era immobile da qualche parte come faceva di solito, ben attento a non dar segno di sé per non attirare la sua attenzione.
Invece di dargli lo sperato sollievo, quell'idea in qualche modo lo intristì. Provò fugacemente la stessa costernazione di quando da bambino aveva tentato di dare da mangiare a un cerbiatto e quello, invece di prendere il pane dalla sua mano, era scappato via.
Fece un cauto passo avanti, tastò nel buio finché non trovò una candela e l'accese.
A quella pur tenue luce notò immediatamente una cosa insolita: la tenda che separava la canonica dalla chiesa stava oscillando.
Subito si guardò intorno alla ricerca di correnti d'aria, ma la fiammella palpitava perfettamente dritta, segno che l'aria era immobile.
Fissò di nuovo la tenda, le cui oscillazioni si andavano lentamente smorzando.
Mi aspettava? pensò turbato. Poi stabilì che probabilmente von Rohr voleva solo essere sicuro di non farsi sorprendere dal suo rientro. Magari i suoi vestiti non erano ancora asciutti e non voleva correre il rischio di essere visto nudo una seconda volta.
L'idea gli strappò un sorriso. Ripensò alla comica espressione di imbarazzo che il giovanotto aveva assunto trovandosi improvvisamente in tenuta adamitica e per un attimo si sorprese a desiderare di scompigliargli affettuosamente i capelli.
Poi intervenne la voce della coscienza a ricordargli che von Rohr era un ufficiale nemico.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Capitolo 17

Provvidenzialmente, l'Intelligence arrivò proprio il mattino dopo. Tornarono i due ufficiali che aveva già conosciuto, e che frattanto aveva scoperto chiamarsi rispettivamente capitano Benson e maggiore Linwood, entrambi col sorriso delle grandi occasioni stampato in volto.
“Salve, vecchio mio!” salutò il maggiore scendendo dalla macchina. “Le porto delle ottime notizie!”
“Che genere di notizie?” chiese Stuart vagamente sospettoso.
“Notizie di suo gradimento, vedrà. C'è un posto dove possiamo parlare?”
Si spostarono nella baracca del comando.
“Ecco qui, guardi!” esclamò il maggiore Linwood non appena si furono seduti intorno al tavolo. “Guardi che bellezza.”
Solennemente tirò fuori dalla sua cartella portadocumenti un astuccio di velluto e lo fece scivolare verso Stuart.
Questi lo fissò perplesso e poi alzò gli occhi sul collega.
“Lo apra, lo apra!” disse Linwood con fare incoraggiante.
L'altro fece ciò che gli veniva suggerito: all'interno della scatoletta, adagiata su un prezioso letto di seta color porpora, c'era una croce latina d'argento. Al centro aveva un serto di foglie che conteneva le lettere R.A.F. ed era sormontato da una corona reale. Lungo i bracci orizzontali della croce si allargavano due ali.
Stuart riconobbe la decorazione: si trattava di una DFC, Distinguished Flying Cross, e veniva assegnata solo per atti di valore, coraggio o dedizione al dovere compiuti nel corso di voli di guerra contro il nemico.
Alzò gli occhi per fissare in viso il suo parigrado. “Che significa?” chiese serio.
“Questa le verrà conferita nel corso di una cerimonia ufficiale.”
“Non ne vedo il motivo.” Chiuse la scatola con un gesto secco e la rispedì al mittente.
“Oh, via, non sia modesto,” rispose Linwood, “in fin dei conti ha abbattuto un pericoloso pilota nemico.”
“Sarebbe a dire?”
“Ma il Cavaliere di Valsgärde, no?”
“Vi ho già detto che non è lui,” replicò Stuart alzando leggermente la voce. Poteva anche aver deciso di consegnare von Rohr, ma non gli andava di prestarsi a quella farsa.
Linwood assunse l'aria di paterna benevolenza che era solito opporre alle affermazioni di principio di Stuart. “Suvvia, maggiore, gliel'ho già spiegato,” disse in tono amichevole, come a cercare una qualche forma di complicità. “In realtà non importa a nessuno se quel crucco sia davvero il Cavaliere o no. L'importante è come lo presenteremo alla gente. Mostreremo un Unno cattivo che viene punito per la sua perfidia, tutti saranno felici e contenti e odieranno il dannato Terzo Reich con rinovellato vigore.”
Il maggiore Stuart lo fissò meditabondo. Dopo qualche secondo di silenzio chiese: “Non gli farete niente, vero? Intendo, niente di male.”
I due dell'Intelligence si scambiarono un'occhiata. “Assolutamente nulla,” gli assicurò il maggiore.
“Niente di niente,” ribadì il capitano, che apriva bocca per la prima volta.
“Voglio dire, non vi metterete a picchiarlo o cose del genere per fargli confessare che è il Cavaliere di Valsgärde, spero.”
Linwood parve addirittura offeso. “Che sciocchezza, non siamo mica nel Medioevo!” protestò.
Sul gruppo calò di nuovo il silenzio. Stuart avrebbe dovuto provare sollievo per quello che stava per succedere, ma chissà perché la cosa invece gli comunicava una sorda inquietudine. Fissava ora l'uno ora l'altro dei suoi interlocutori alla ricerca di una conferma che von Rohr sarebbe stato trattato adeguatamente, ma la loro espressione non lo rassicurava per nulla.
Aprì la bocca per parlare, ma prima che potesse proferire verbo Linwood lo precedette: “E c'è anche una promozione nell'aria,” disse con una strizzata d'occhio. “Dia retta a me, se gioca bene le sue carte si ritroverà tenente colonnello prima della fine del mese.”
In quel momento un aereo passò a bassissima quota sul campo, facendo tremare i vetri col rombo del motore.
Stuart non alzò nemmeno la testa, sicuramente si trattava di uno dei suoi ragazzi in vena di bravate, ma i due dell'Intelligence, non abituati a tali spettacoli, corsero alla finestra.
Vedendoli distratti, il maggiore ne approfittò per sbirciare i dattiloscritti che spuntavano dalla cartella di cuoio. Lo strano atteggiamento mellifluo dei suoi ospiti l'aveva insospettito e voleva vederci chiaro.
Sfilò un documento e gli diede una scorsa. Subito lo sguardo gli cadde su una parola: impiccagione.
“Che significa?” esclamò, balzando in piedi senza abbandonare il foglio.
Tutti i suoi bei castelli in aria crollarono miseramente: altro che strapazzarlo un po' e mandarlo in un campo prigionieri in Canada, quelli volevano ammazzarlo!
I due ufficiali dell'Intelligence si girarono bruscamente verso di lui.
“Che cosa significa tutto questo?” ripeté Stuart indietreggiando col documento sgualcito in mano.
Linwood sospirò. “Via, maggiore, non faccia il bambino.”
“Come sarebbe a dire ‘non faccia il bambino?’ Volete processare e uccidere un innocente, io non sarò mai complice di una cosa del genere, nemmeno se mi offrite dieci medaglie e il grado di generale!”
I due dell'Intelligence si scambiarono uno sguardo a metà fra il perplesso e l'esasperato. “Questa è guerra, maggiore Stuart,” cominciò poi pazientemente Linwood. “Guerra, ha presente?” Sembrava che parlasse a un bambino ritardato. “E noi avremmo anche intenzione di vincerla, possibilmente. Giusto?”
Si fermò in attesa di una risposta, ma il pilota si limitò a guardarlo torvo.
Imperterrito, Linwood riprese: “Capisce anche lei che non possiamo permetterci di perderla. È in gioco la sopravvivenza della civiltà come noi la conosciamo, e se il prezzo da pagare per mantenere le cose come sono è la testa di due o tre innocenti, chiamiamoli così, io lo accetto ben volentieri.”
Stuart continuava a tacere. I suoi occhi mandavano lampi.
“Ma insomma!” sbottò alla fine Linwood. “Mi sembra che lei gli abbia sparato per abbatterlo, no? Non ha rischiato di ucciderlo in quel frangente?”
“Non è la stessa cosa,” fu la cupa risposta. “Quello era uno scontro onorevole, questo sarebbe un assassinio.”
A quelle parole l'ufficiale dell'Intelligence si irrigidì. L'aria da curato di campagna scomparve come per incanto e lasciò il posto a un cipiglio da freddo burocrate.
“Basta così,” disse asciutto. “Il suo romanticismo mi commuove, ma io sono pagato per distruggere il Terzo Reich, non per recitare melodrammi.”
Sfilò dalla sua cartella una busta e la porse al maggiore.
“Questi sono gli ordini. Abbia la compiacenza di attenersi ad essi, se non vuole finire sotto processo per insubordinazione.”
Attese che Stuart prendesse i documenti, quindi girò sui tacchi e uscì seguito dal capitano Benson.
Dalla soglia, Stuart gli gridò dietro: “Ha sbagliato, Linwood! Invece di una medaglia e una promozione, avrebbe dovuto propormi trenta denari!”
Dopodiché chiuse la porta con un tonfo.

Per svariati minuti non fece altro che aggirarsi furente per la stanza. Camminava su e giù come una belva in gabbia senza riuscire a capacitarsi di quello che aveva appena udito.
Quel ragazzo sarebbe stato impiccato come un criminale e lui non avrebbe potuto fare niente per impedirlo.
Guardò fuori dalla finestra quasi augurandosi che qualche Heinkel 111 della Luftwaffe avesse a bordo delle bombe di troppo e decidesse di mollare l'eccedenza proprio sopra la macchina dei due ufficiali di rientro a Londra.
Com'era possibile far la guerra in quel modo?
Lui combatteva tutti i giorni contro i tedeschi. Ne aveva abbattuti parecchi, certo, sicuramente ne aveva anche uccisi, esattamente come i tedeschi avevano abbattuto e ucciso tanti dei suoi, ma non aveva mai provato odio nei loro confronti, né tentato di vincere le battaglie con gli inganni che l'Intelligence voleva portare avanti.
A suo modo di vedere ci dovevano essere delle regole nella guerra, che anche negli scontri più cruenti facevano sì che gli uomini non si trasformassero in bestie.
Sospirò interrompendo il suo nervoso aggirarsi. L'avevano definito romantico. Con disprezzo, come se fosse stata una cosa di cui vergognarsi, quando gli unici che avrebbero dovuto vergognarsi erano loro.
Scosse desolato la testa, impotente a contrastare ciò che stava accadendo, ma al tempo stesso disgustato e furioso.
Lesse gli ordini che gli erano stati lasciati: si trattava di un'asettica serie di istruzioni circa il trasferimento del prigioniero. Rifletté che se non fosse riuscito a sfilare quel foglio dalla cartella del maggiore non avrebbe mai saputo cosa stava per accadere a von Rohr. Quella era la considerazione che l'Intelligence manifestava nei confronti degli ufficiali delle Forze Armate: galoppini idioti, da tenere il più possibile all'oscuro delle sue mene.
Ripensò al giovane pilota della Luftwaffe. Era terribile che dovesse fare quella fine: accusato ingiustamente di essere un criminale di guerra e giustiziato. Si chiese per l'ennesima volta se ci fosse un modo per evitarlo, ma per quanto ci ragionasse non gliene veniva in mente nessuno.
Aprì un cassetto della scrivania per riporre la busta con gli ordini e nel movimento gli rotolò sotto gli occhi un distintivo che vi aveva dimenticato dentro giorni prima. Lo raccolse con un vago sorriso e se lo infilò in tasca, poi abbandonò la baracca del comando per andare alla ricerca di Poynter.

Quel giorno c'era burrasca sulla Manica, il che erigeva un muro pressoché invalicabile tra la caccia della RAF e quella della Luftwaffe. Condannati all'inattività, i piloti del 19° Squadron cercavano di ingannare il tempo in qualche modo. Alcuni ne approfittavano per recuperare un po' di sonno arretrato, altri scrivevano a casa, altri ancora se ne stavano semplicemente a ciondolare in giro senza saper bene che fare.
Poynter stava giocando a golf. Aveva tirato fuori il suo fedele wedge e con quello cercava di spedire delle palline dentro una tinozza. Siccome non ci riusciva quasi mai, c'erano palline disseminate un po' dappertutto in un raggio di dieci metri intorno a lui.
“Qualcuno potrebbe inciampare,” disse Stuart avvicinandosi.
Il capitano interruppe il suo allenamento. Si voltò senza fretta verso di lui e rispose: “Anch'io sono felice di vederti, George.”
Si appoggiò alla mazza assumendo una posa vagamente simile a quella del Re Sole.
“Qual buon vento?” chiese poi, visto che il suo interlocutore continuava a fissarlo cupo senza proferire parola.
“Quei bastardi!” sbottò allora Stuart.
“Prego?”
“Sono degli schifosi bastardi, non meritano di indossare l'uniforme.”
Poynter inarcò le sopracciglia assumendo un'espressione di cortese interesse. “Si può sapere di chi stai parlando?”
“I due ufficiali dell'Intelligence. Schifosi, stavolta hanno passato ogni limite.”
Il capitano notò che nel parlare l'amico stringeva nervosamente i pugni, cosa che faceva unicamente quando era fuori di sé dalla rabbia.
“Cos’è successo?” gli chiese.
“Ti conosco, alla fine darai ragione a loro,” brontolò Stuart per tutta risposta. “Dirai che non ti aspettavi niente di diverso e che è un modo molto razionale di fare la guerra.”
“Ma di cosa stai parlando, in nome di Dio?”
“Lo vogliono ammazzare!” rispose il maggiore con improvvisa veemenza. “Organizzeranno un processo farsa in cui lo faranno passare per criminale di guerra e poi lo impiccheranno.”
Prima di rispondere, Poynter si prese un mezzo minuto di riflessione. Colpì una pallina, che rimbalzò sulla tinozza e rotolò via, quindi proferì: “Non si può negare che sia una porcata.”
Tornò a concentrarsi sul golf.
“Ma?...” buttò lì Stuart, consapevole che il parere dell’amico non si sarebbe limitato a quella scarna constatazione.
“Ma non mi aspettavo niente di diverso,” rispose il capitano con un’alzata di spalle. “Hanno un’occasione e la sfruttano, tutto qui.”
Altro colpo, altra pallina a rotolare sul prato. “Piuttosto…” riprese poi cautamente.
“Cosa?”
“Forse ti stai prendendo la faccenda un po’ troppo a cuore.”
Stuart gli rivolse uno sguardo torvo e ringhiò: “Sarebbe a dire?”
“Suvvia, hai capito benissimo,” replicò Poynter prendendo di mira l’ennesima pallina, “von Rohr è un prigioniero di guerra, non hai nessun motivo per tenerlo qui.”
“Ma lo vogliono uccidere!” insisté indignato il maggiore.
“Posso ricordarti che tu hai cercato di fare la stessa cosa non più di dieci giorni fa?”
Et tu, Brute!”
“Non cominciare col latino,” lo ammonì Poynter, che ben conosceva la tendenza dell’amico a ricorrere alle citazioni classiche quando si trovava a corto di argomenti. “Te lo tieni in gabbia come una specie di animale da compagnia e sai benissimo che è una cosa fuori da ogni regola. Sicuramente in altre circostanze avrei giudicato von Rohr un simpatico giovanotto e un abile pilota, ma purtroppo adesso siamo in guerra e lui è un ufficiale nemico.”
“E quindi?”
“E quindi? Sai quanti dei nostri avrà fatto fuori? Lascialo perdere, è una porcata accusarlo ingiustamente, ti capisco, ma non è nemmeno opportuno che tu ti faccia tutti questi scrupoli per lui.”
“Oh, scusa tanto,” replicò Stuart sarcastico, “probabilmente hanno ragione quelli dell’Intelligence, sono un romantico.”
“Temo proprio di sì.”
Detto questo, Poynter riprese gli allenamenti di golf. Stuart fece qualche tentativo di proseguire il discorso, ma l’udienza era terminata. Il suo amico gli aveva già detto quello che aveva da dire, e ora lo lasciava libero di ragionarci sopra.

Il maggiore rimase per un po' a guardarlo mentre provava il suo celebre swing, poi tornò rassegnato e deluso sui propri passi. Avvertiva una sgradevole sensazione di solitudine: lui era lontano mille miglia da quei prosaici ingegneri della guerra, gente per cui lealtà e onore non erano altro che ingranaggi da oliare adeguatamente per far funzionare meglio la macchina.
Non aveva niente da spartire con loro.
Paradossalmente, gli parve di avere molte più cose in comune con von Rohr, che in fin dei conti come lui era un romantico che combatteva mosso da ideali.

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Capitolo 18

La sera, Stuart rientrò al proprio alloggio in preda a sentimenti contrastanti. Da una parte, forse per la prima volta non si sentiva a disagio all’idea di passare davanti al cancello che separava la canonica dalla chiesa. Dall’altra era terribile pensare che entro breve quel ragazzo sarebbe stato giustiziato in quel modo così atroce e disonorevole.
La guerra rendeva incerto il destino di tutti – forse solo più incerto del solito – ma guardare in faccia von Rohr sapendo quando e come sarebbe morto lo faceva stare male.
Nonostante questo non rinunciò a fermarsi davanti alla tenda scura. Accese come di consueto la candela e scostò il pesante lembo di stoffa.
Al di là tutto taceva, ma Stuart non si lasciò ingannare: sicuramente il tedesco era da qualche parte che lo scrutava nel buio.
“Tenente von Rohr?” chiamò.
Forse al giovane ufficiale la solitudine stava cominciando a pesare, perché invece di spostarsi verso il fondo della navata e girargli le spalle come faceva di solito si avvicinò adagio.
Rimase a fissarlo diffidente a qualche passo di distanza.
“Ho qualcosa per lei, tenente,” disse Stuart tendendogli attraverso le sbarre una mano chiusa.
Von Rohr non si mosse.
“Coraggio, questo era suo,” insisté l’altro, “sono sicuro che sarà contento di riaverlo.”
“Cos’è?” chiese il tedesco, sempre senza muoversi.
Il maggiore sorrise. “Non riesco ad arrivare fin lì, deve avvicinarsi lei.”
“Mi dica di cosa si tratta.”
“Venga a vedere lei stesso.”
Un passo dopo l’altro, cautamente, Hans von Rohr coprì la distanza che li separava. Stuart vide che lo fissava sospettoso, pronto a balzare indietro al minimo accenno di pericolo.
Di nuovo provò un vago senso di tenerezza nei suoi confronti, tanto che si sentì in dovere di rivolgergli un sorriso incoraggiante. “Credo che lei tenga molto a questa cosa,” gli disse, “quindi mi farebbe piacere restituirgliela.”
Aprì finalmente le dita, rivelando una piccola spilla a forma di losanga, di smalto bianco e rosso e decorata al centro da una croce uncinata nera.
“Il mio distintivo della Hitlerjugend!” non poté fare a meno di esclamare von Rohr, quindi prese quasi con reverenza l’oggetto che il maggiore gli porgeva e solennemente se l’appuntò sulla tasca sinistra dell’uniforme.
“Grazie,” disse rialzando il capo. Per un istante i suoi lineamenti severi si addolcirono in un sorriso.
“Le sono molto obbligato,” aggiunse poi tornando serio, quindi arretrò fino a scomparire nel buio.
Stuart rimase fermo dinnanzi al cancello ancora qualche secondo, ma von Rohr non si fece più vedere.
Alla fine il maggiore si risolse ad allontanarsi. Si sentiva come se un daino fosse uscito dalla foresta, gli avesse mangiato dalla mano e poi fosse tornato nel folto degli alberi. Provava una sensazione di meravigliata felicità, che però si velava di amarezza se pensava a ciò che sarebbe accaduto di lì a qualche giorno.

Se ne andò perplesso, e man mano che aumentava la distanza tra lui e l’ufficiale tedesco, la meraviglia cedeva il posto allo sconcerto.
Tutto questo è assurdo, si disse infine lasciandosi sprofondare in una poltrona, assurdo, te ne rendi conto? Von Rohr è un nemico. Un crauto, un nazista. Cosa credi che ci sia dentro gli aerei con cui ti scontri ogni giorno? Tanti piccoli von Rohr, ognuno con il suo bravo distintivo della Hitlerjugend sul petto, e ognuno pronto a farti secco se gliene dai l’occasione.
Con un sospiro afflitto si prese la testa fra le mani. Non sapeva che fare. Perché gli aveva dato quel distintivo? Cosa sperava di ottenere? Il buon senso gli avrebbe suggerito di ignorarlo fino a quando non sarebbe giunto il momento di consegnarlo all’Intelligence, ma lui non lo faceva.
Tutto il contrario, anzi: cercava di convincerlo a parlargli, addirittura gli faceva dei regali.
Si ripresentò lo spettro che aveva già cercato di allontanare senza successo giorni prima: Dio, fa che non stia diventando un anormale, pregò.

Seduto sul suo letto nelle tenebre più complete, frattanto, von Rohr meditava sugli ultimi avvenimenti.
Perché quell'inglese gli aveva restituito il distintivo? Ricordava bene che non era stato lui a rubarglielo, gliel'aveva preso un sergente corpulento quando l'avevano portato al campo, e se l'era messo in tasca. Evidentemente il maggiore in qualche modo se n’era accorto e se l’era fatto consegnare per poi darlo a lui.
Si chiese se facesse parte delle procedure. Magari era normalissimo che agli ufficiali nemici catturati venissero restituiti gli oggetti personali rubati dai cosiddetti cacciatori di souvenir. In Germania succedeva, quindi era plausibile che succedesse anche in Inghilterra.
In effetti erano state più che altro le modalità a lasciarlo perplesso: perché presentarsi di notte, con quella strana aria di complicità, e dargli il distintivo come si sarebbe data una caramella a un bambino?
Di colpo gli venne la folgorazione: sapeva bene quello che dicevano degli inglesi.
Il pensiero gli fece correre un brivido di ribrezzo lungo la schiena. Possibile che quell’ufficiale nutrisse nei suoi confronti sentimenti anormali?
Valutò che in effetti, viste sotto quella nuova e inquietante ottica, parecchie cose che gli erano sempre parse senza senso di colpo divenivano terribilmente logiche: ecco perché l'inglese cercava continuamente di parlargli, ecco perché lo teneva segregato lì invece di inviarlo a un campo di prigionia, ed ecco perché, infine, si era presentato con quell’atteggiamento da cospiratore e gli aveva restituito il suo distintivo.
Voleva sedurlo, ecco cosa voleva fare.
Quell'improvvisa consapevolezza lo rese piuttosto inquieto, tanto che nonostante il buio si alzò, desideroso di camminare in su e in giù come faceva di solito quando ponderava la soluzione di un problema particolarmente complesso.
Azzardò qualche passo, ma era un pilota da caccia e non era fatto per la navigazione strumentale: camminare senza vedere dove andava lo metteva a disagio. Dopo qualche tentativo rinunciò e riguadagnò faticosamente il letto.
Si sedette di nuovo ragionando ansiosamente sul da farsi. Aveva considerato tutto della prigionia: non dare confidenza, non fraternizzare, non lasciarsi sfuggire per sbaglio informazioni di importanza strategica e dar prova di fermezza e coraggio, ma non aveva mai pensato all'eventualità di trovarsi a dover fronteggiare voglie pervertite.
Rimase un altro po’ meditabondo, con i gomiti appoggiati alle ginocchia e il volto fra le mani, poi di colpo gli balenò in mente un’idea: e sfruttare la cosa per tentare la fuga?
Fece una smorfia come quando da piccolo doveva prendere una medicina particolarmente cattiva.
Che schifo, pensò inorridito, un ufficiale tedesco non deve nemmeno prendere in considerazione un’azione del genere!
Alzò lo sguardo verso le finestre. Durante l’ultimo bombardamento le vetrate erano andate in frantumi e si vedeva il cielo stellato.
Gli sfuggì un sospiro. Aveva come unica prospettiva quella di rimanere in gabbia fino alla fine della guerra. I suoi compagni avrebbero conquistato la gloria combattendo contro i nemici del Reich e lui sarebbe tornato in Patria a cose fatte senza aver abbattuto un solo aereo nemico.
Quella sì che sarebbe stata una vergogna per un ufficiale tedesco, altro che sfruttare le perversioni del nemico per evadere. Non doveva lasciarsi condizionare dai retaggi di una pruderie reazionaria figlia di tempi ormai passati.
C’era in corso una guerra in cui si sarebbero decisi i destini dell’Europa, sarebbe stato quanto meno egoista anteporre il proprio onore alla vittoria finale della Germania.
Ci ragionò su un altro po’. Nonostante la tensione ideologica, non riusciva a prendere a cuor leggero la decisione di cedere alle profferte di un altro uomo. E quando mi vorrà toccare? pensava raccapricciato, quando tenterà di baciarmi? Come farò?
Era certo che non sarebbe riuscito a nascondere il disgusto.
Ma doveva, ovvio, altrimenti quell’inglese si sarebbe accorto subito dell’inganno.
Come fare, però? Non poteva certo buttarsi fra le sue braccia come una specie di cocotte, anche in quel caso il maggiore avrebbe subodorato l’inganno. Doveva anzi mantenere un contegno ritroso, per cedere infine senza aver l’aria di volerlo fare.
Dio, che schifo, non poté fare a meno di pensare ancora una volta, ma cos’era meglio? Accettare supinamente la prigionia o rassegnarsi al disonore pur di tornare a combattere?

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


Capitolo 19

L'allarme antiaereo sorprese Stuart nella poltrona in cui era sprofondato la sera prima.
Svegliato di soprassalto, istintivamente il maggiore balzò in piedi, afferrò la combinazione di volo e corse fuori. Nella luce incerta dell'alba vide i suoi piloti uscire dagli alloggi infilandosi frettolosamente i vestiti.
“Uno stormo di bombardieri, signore!” lo accolse l'ufficiale di servizio. “Arrivano da sud est con forte scorta di caccia, e stando a quello che dicono gli osservatori dovrebbero passare proprio qui sopra.”
Lo raggiunse e gli mostrò un foglio.
“Decollare subito,” ordinò conciso il maggiore dopo avergli dato un'occhiata. “Voglio tutto lo Squadron in volo entro cinque minuti!”
Constatò con soddisfazione che gli avieri stavano già portando gli aerei in linea di volo.
Poco dopo il 19° al completo stava sorvolando le campagne del Cambridgeshire diretto verso la costa. Stuart avvistò quasi subito i bombardieri della Luftwaffe: erano degli Heinkel 111 dal caratteristico profilo arrotondato e procedevano in formazione diretti verso Londra.
“Guarda quanti ce ne sono di quei bastardi!” esclamò qualcuno in frequenza.
“Meno chiacchiere, Evans!” fu la secca reprimenda del maggiore, che non amava i commenti fuori luogo.
Nessun altro espresse pareri sulla formazione nemica.
Avvistati gli inglesi, frattanto, gli Heinkel 111 avevano serrato la formazione, il che rappresentava praticamente l'unica azione difensiva che un gruppo di bombardieri potesse compiere se veniva attaccato. Meno spazio c'era fra gli aerei, del resto, meno potevano infilarcisi i caccia nemici.
E a proposito di caccia, ecco spuntare quelli della Luftwaffe, i Messerschmitt 109 dalle corte ali squadrate, quasi neri nella luce tersa del mattino.
Procedevano a gruppi di quattro, nella caratteristica formazione di due più due.
“Prepararsi ad attaccare!” ordinò Stuart in frequenza, e subito vide i suoi piloti prendere quota per portarsi in posizione di vantaggio.
Lui stesso cabrò dando tutta manetta e notò che i tedeschi stavano facendo lo stesso. Carichi di ordigni, però, i bombardieri salivano molto più lentamente dei caccia, che quindi erano costretti a rallentare per non lasciarli indifesi.
Era una situazione tatticamente vantaggiosa e le sorti della battaglia volsero in breve a favore della RAF. Già diversi bombardieri erano precipitati in fiamme e i caccia dovevano difendere sia i superstiti che loro stessi, col risultato che non riuscivano a fare bene nessuna delle due cose.
E poi spuntò dal nulla una coppia di Messerschmitt. I due aerei arrivarono a tutta manetta, poi si divisero e il più avanzato passò attraverso la formazione dei bombardieri dal basso verso l'alto come una lama di coltello. Andò su in verticale per qualche centinaio di piedi, quindi fece una virata sfogata e picchiò bruscamente. Puntò uno dei caccia inglesi più spavaldi, che ormai certo della vittoria si era spinto troppo vicino agli Heinkel 111. Due brevi raffiche e lo Hurricane precipitò lasciandosi dietro una scia di fumo nero.
Il Messerschmitt si sganciò rapido, guizzò di nuovo in posizione d'attacco, ingaggiò un breve combattimento con un altro nemico e inesorabilmente lo abbatté.
“È lui!” esclamò qualcuno in frequenza. “È quel bastardo!”
A questo punto Stuart diede tutta manetta per intercettarlo, ma parve che l'altro avesse capito le sue intenzioni, perché immediatamente fece un Immelmann sfuggendogli proprio sotto il naso, quindi puntò un aereo leggermente arretrato e gli si mise in coda.
A quella vista il maggiore si sentì gelare il sangue. “John!” gridò in frequenza, “John, ce l'hai dietro!”
Corse a dare man forte all'amico, ma sotto i suoi occhi inorriditi il Cavaliere di Valsgärde sparò due raffiche di traccianti e recise di netto un'ala dell'aereo di Poynter.
Subito lo Hurricane si rovesciò a cominciò a precipitare in vite.
“No!” urlò Stuart seguendolo impotente con lo sguardo.
Dopo una caduta che sembrava non finire mai, l'aereo si riprese e uscì dalla vite quel tanto che consentì a Poynter di lanciarsi col paracadute. Il maggiore provò un attimo di fugace sollievo: dunque non era morto. Non ancora, almeno. Nervosamente si disse che era una gran fortuna che non avessero ancora raggiunto la Manica. Ammesso che non fosse ferito da qualche parte, Poynter avrebbe trovato un posto per atterrare e sarebbe stato rispedito allo Squadron prima di cena.
Se tutto fosse andato come doveva andare, ovviamente.
Fu costretto ad interrompere le sue angosciose congetture incalzato dagli aerei della Luftwaffe. Il Cavaliere era ancora nei paraggi e se continuava a perdersi così in elucubrazioni rischiava di essere la sua prossima vittima.

Atterrò esausto poco dopo. Avrebbe voluto chiedere notizie del capitano, ma stavano arrivando altri bombardieri e non poté fare altro che decollare non appena il suo aereo fu rifornito.
Fu solo in tarda mattinata, con tre piloti e cinque aerei in meno nei ranghi dello Squadron, che riuscì a trovare il tempo di cercare il capitano.
Cominciò la sequela delle telefonate: chiamò gli altri Squadron, il Comando di zona, gli ospedali e i reparti della difesa costiera, ma nessuno sembrava aver visto Poynter. Gli furono riportati diversi avvistamenti di aerei precipitati e piloti scesi col paracadute, ma nessuno corrispondeva a quello del suo collega e amico.
“Forse è caduto nel bel mezzo della campagna, signore,” azzardò il sergente Watkins, che aveva seguito tutta la trafila vedendo il suo superiore farsi sempre più mogio ad ogni risposta negativa. “Quando finiscono in mezzo a quelle dannate paludi ci mettono un sacco a recuperarli e...” Captò l'occhiata di Stuart. “Mi scusi, signore,” borbottò, tossicchiando imbarazzato.
I piloti che cadevano nelle paludi di solito ci morivano anche.
Il maggiore stava per replicare quando lo sguardo gli cadde su un notiziario delle Forze Armate che era stato abbandonato sul tavolo. Un titolo cubitale recitava: Il Cavaliere di Valsgärde sarà processato.
Seguiva un articolo che descriveva minuziosamente le malefatte del supposto criminale di guerra ed esaltava in termini a dir poco trionfalistici l'eroismo del maggiore George Stuart, l’abbattitore del torvo nazista, rivelando che entro breve sarebbe stato decorato dal Re in persona con la Distinguished Flying Cross.
Il primo impulso di Stuart sarebbe stato appallottolare il dannato notiziario e lanciarlo fuori dalla finestra, quell'articolo tronfio, pieno di boria e soprattutto falso l'aveva fatto imbestialire, ma coi suoi uomini che lo stavano guardando dovette mantenere il solito contegno.
“Diventerà famoso, signore,” osservò Watkins, ansioso di farsi perdonare la gaffe di poco prima.
“Pare proprio di sì,” sospirò il maggiore, poi uscì dalla baracca del comando per fare qualche passo sul prato antistante. Aveva un disperato bisogno di aria aperta e solitudine. La seconda, più che altro, perché gli riusciva penoso comportarsi con i suoi uomini come se niente fosse mentre l'angoscia e la rabbia gli stavano dilaniando l'anima.
“Abbiamo catturato il Cavaliere di Valsgärde, come no,” ringhiava fra sé e sé, “e allora chi è stato ad abbattere John, lo Spirito Santo?”
E intanto pregava che John fosse vivo e possibilmente incolume, e allo stesso tempo pregava che quei farabutti, cinici, bastardi e mistificatori di Benson e Linwood incappassero nel famoso Heinkel 111 con un'eccedenza di bombe che aveva invocato per loro il giorno prima.

Quando si fece troppo buio per volare, di Poynter non c’era ancora nessuna notizia. Stuart aveva chiesto dappertutto, persino ai municipi dei paesi che avevano sorvolato nel corso della missione, ma l’amico sembrava essersi dissolto nel nulla. Non era tra i corpi che erano stati recuperati, questa era l’unica notizia positiva che aveva ricevuto fino a quel momento. La cosa lo confortava, ma solo parzialmente. Sapeva bene che spesso i corpi non si trovavano, oppure rimanevano così sfigurati che a stento li si riconosceva come umani e venivano genericamente classificati come ‘caduti in azione’.
Ansiosamente si ripeteva che scendere col paracadute non era poi così pericoloso e che al massimo ci si poteva rompere una gamba, ma invariabilmente una vocina interveniva a suggerirgli che forse Poynter era già ferito quando era saltato dall’aereo, e che una volta a terra, indebolito dalla perdita di sangue, non era stato in grado di chiedere aiuto, e quindi giaceva morto o gravemente ferito in qualche posto isolato.
“Dobbiamo aspettare domattina,” disse ad alta voce, anche solo per liberarsi di quei pensieri opprimenti, “col buio le ricerche non possono proseguire.”
I piloti che avevano assistito alle telefonate si dispersero parlottando fra loro.
Guardandoli allontanarsi, il maggiore fece del suo meglio per mantenere il solito contegno. Non era né il primo né l’unico cui capitava una cosa del genere, e non poteva certo tenere per se stesso un atteggiamento diverso da quello che avrebbe tenuto per ognuno dei suoi uomini in un’analoga situazione. Aveva fatto tutto il possibile per cercare Poynter, ora doveva fermarsi e rimandare tutto all’indomani.
E togliersi quell’aria afflitta dalla faccia, soprattutto.
Ostentando la massima tranquillità si diresse verso la mensa. Si obbligò a non pensare a John, ma continuava a rivederlo mentre tirava palline da golf dentro la tinozza del bucato con il distacco dalle cose terrene di un Bodhisattva, oppure mentre sedeva nella sua solita poltrona al circolo ufficiali e sorseggiava con aria da intenditore il suo beneamato Old Fashioned con molta angostura.
Cenò con apparente imperturbabilità, quindi diede le consegne all’ufficiale di servizio e si ritirò nel suo alloggio.
Fuori era buio pesto, il cielo era coperto e non spirava un alito di vento. Il maggiore rimase fermo sulla soglia della mensa per qualche secondo aspettando che gli occhi si abituassero all’oscurità, poi cominciò a procedere a passi lenti verso la chiesa.
Poiché non voleva macerarsi sulla sorte di Poynter per tutta la notte, cercò di dirigere i pensieri verso altre cose. Per un po’ ci riuscì, ma ogni volta che si distraeva tornava a fare capolino la paura per il fato dell’amico.
Arrivò al suo alloggio profondamente avvilito e andò dritto alla poltrona in cui era sprofondato la sera prima.
Vi si lasciò cadere con un sospiro e rimase parecchi minuti immobile al buio. Pensava alla morte. A quella probabile del suo amico, e a quella certa del giovane Hans von Rohr, e pensava che in fin dei conti entrambe erano da attribuirsi all’inganno che l’Intelligence stava portando avanti. In guerra si poteva morire in qualsiasi momento e di qualsiasi cosa, ma nella fattispecie Poynter era incappato in un pilota nemico che per ordini superiori doveva essere considerato abbattuto in combattimento.
Se avessero potuto organizzare un’altra operazione per eliminare finalmente quel fantasma, forse John avrebbe trascorso quella serata bevendo un Old Fashioned al circolo ufficiali, e non chissà dove, ferito o magari morto.
E von Rohr non sarebbe stato impiccato come criminale non avendo altra colpa che quella di essere un ufficiale nemico.
Sospirò di nuovo: si conosceva bene e sapeva che avrebbe trascorso la notte a rimuginare su problemi che non avevano soluzione, diventando man mano sempre più demoralizzato e rancoroso, fino a che il mattino dopo non sarebbe andato in volo stanco, sfiduciato e colmo di risentimento, il che rappresentava la premessa ideale per essere abbattuto.
Di solito in casi del genere parlava un po’ con Poynter, ma ora che era proprio lui a mancargli, con chi poteva parlare?
Gli tornò in mente un pensiero che aveva formulato già il giorno prima dopo la visita dell’Intelligence, ovvero che in fin dei conti gli sembrava di avere molte più cose in comune con von Rohr che con la maggior parte dei suoi connazionali.
Come spinto da una volontà che non gli apparteneva, si alzò dalla poltrona e andò ad accendere una candela, quindi fece il giro di porte e finestre controllando che fossero tutte sbarrate. Quando fu certo di aver eliminato ogni possibile via di fuga si diresse al cancello che separava la chiesa dalla canonica.

Seduto sul suo letto, Hans von Rohr rifletteva sul da farsi. L’inglese era tornato, aveva sentito la porta che si apriva e i passi nel corridoio, ma non si era fermato a salutarlo.
Cosa significava? Doveva chiamarlo? Sarebbe stato troppo sfacciato, anche uno stupido avrebbe capito che c’era qualcosa sotto. E attirare la sua attenzione fingendo un incidente? Poteva fare rumore in qualche modo, l’inglese sarebbe arrivato, lo avrebbe trovato a terra e… no, troppo scontato. Dalla notte dei tempi, chiunque dovesse gestire dei prigionieri sapeva che quello era il sistema tipico per ingannare i secondini. Non avrebbe mai abboccato.
Quindi che fare? Alzò la testa, tentando di cogliere nel buio la sagoma delle alte bifore. Ogni minuto che passava in quel posto era un minuto che sottraeva al combattimento. Non poteva restare lì, doveva andarsene, in qualsiasi modo. Anche a costo di fare quello che stava per fare.
Si ripeté che la vittoria finale era più importante del suo onore.
In quel momento comparve sul pavimento una pennellata di luce. Von Rohr si volse in quella direzione e vide che la tenda era leggermente scostata. Fu attraversato da un brivido. Ci siamo, pensò con un misto di aspettativa e timore. Ce l’avrebbe fatta? Avrebbe ottenuto ciò che si proponeva? E qualora l’avesse ottenuto, avrebbe poi saputo farne il giusto uso? Si accorse di provare la stessa tensione di quando si era appropriato dell’aereo del capitano Müller pronto in linea di volo.
Si morse il labbro inferiore in attesa delle mosse dell’altro.
Passarono alcuni angosciosi secondi di silenzio, poi la lama di luce tremolò leggermente sul pavimento e la voce dell’inglese chiamò: “Tenente von Rohr?”
Hans si alzò cauto e silenziosamente raggiunse il cancello. “Cosa c’è?” domandò. Strinse gli occhi infastidito dalla fiamma della candela.
“Io… mi chiedevo se non fosse stanco di stare sempre chiuso lì dentro,” cominciò Stuart con voce esitante.
Stupito, l’altro aggrottò le sopracciglia. Cos’era, uno scherzo di cattivo gusto? Nonostante ogni suo precedente proposito, strinse le labbra mantenendo un ostinato silenzio.
“Voglio dire, anche se siamo nemici, non significa che dobbiamo necessariamente essere scortesi l’uno con l’altro,” si affrettò a spiegare il maggiore, “può venire di là con me per un po’, se le fa piacere, così magari vede un ambiente diverso.”
Von Rohr si prese qualche secondo per riflettere. Solo il giorno prima avrebbe rifiutato una proposta del genere con sdegno, ma da allora in effetti parecchie cose erano cambiate.
“D’accordo,” disse semplicemente.
“Accetta?” chiese il maggiore. Aveva l’aria così stupita che per un attimo il tenente pensò di avere esagerato.
“Sì, accetto,” confermò, facendo un passo indietro per nascondere nell’ombra il rossore che sicuramente gli aveva colorito le guance.
Subito la pesante serratura scattò e il cancello si aprì stridendo sui cardini. “Non ci sono altre uscite,” si sentì in dovere di precisare il maggiore, “e sono armato.”
“Mi avrebbe stupito il contrario,” non poté fare a meno di ribattere von Rohr.

Stuart condusse il giovane ufficiale in salotto e gli indicò una poltrona. Posò poi la candela su un tavolino che ospitava già una bottiglia e due bicchieri.
“Che significa?” chiese von Rohr, sedendosi cauto.
“Non vorrà farmi bere questo Borgogna da solo,” rispose il maggiore con un sorriso.
“Io non bevo.”
“Fa come il suo Führer, che beve solo latte?”
“Io ammiro il Führer,” rispose brusco von Rohr, rabbuiandosi in volto.
“Ma certo, lei è un ufficiale tedesco,” concesse il maggiore, “però pensavo che potremmo fare come i cavalieri antichi, che anche se erano nemici, ogni tanto sapevano dimenticare le battaglie e intrattenersi amabilmente fra loro. In fin dei conti la summa della poesia cavalleresca viene proprio dal suo paese, o sbaglio? Penso a Wolfram von Eschenbach, per esempio.”
“Una lettura alquanto classista,” commentò lapidario il giovane.
“Che intende dire?” domandò stupito l’altro.
“Cavalieri che passavano il tempo facendo tornei e banchetti, senza lavorare un solo giorno della loro esistenza, mentre nel frattempo i servi della gleba, neppure padroni della loro stessa vita, morivano di fame nelle campagne.”
“Ma i cavalieri aiutavano i deboli.”
“Oh, certo. Un debole a caso di tanto in tanto. Raddrizzavano qualche torto, a modo loro, s’intende, punivano qualche malfattore, o almeno così si dice, ma alla fin fine erano sempre gli sgherri del potere costituito. A parte Florian Geyer, che guarda caso era tedesco, ha mai sentito dire che un cavaliere abbia guidato una rivolta popolare?”
“Veramente no,” ammise il maggiore.
“Eppure avrebbero dovuto. I re e gli aristocratici affamavano il popolo, lo dissanguavano con le tasse. Se i cavalieri avevano davvero tutta questa voglia di difendere i deboli, perché non si sono mai mossi contro chi obbligava la gente a vivere nella miseria?” Fece una breve pausa, poi aggiunse: “Ipocrisia demagogica, come quella di Gesù Cristo quando faceva i miracoli.”
“Cosa?”
“Cristo prende un cieco a caso e gli restituisce la vista. Piuttosto crudele nei confronti degli altri ciechi, non le pare? Ed era anche figlio di Dio, almeno così dicono, per cui se avesse voluto avrebbe potuto ridare la vista a tutti i ciechi della Palestina. Che senso ha aiutare uno solo e lasciare che gli altri si arrangino? Tutti hanno diritto di vivere dignitosamente.”
Stuart lo scrutò pensoso. Nell’empito della discussione, von Rohr aveva assunto un’espressione risoluta che conferiva una nota di durezza metallica ai suoi occhi chiari. Come aveva intuito la prima volta che l’aveva visto, sotto quell’apparenza fredda era passionale e impulsivo: era bastato dargli uno spunto e dopo giorni di sdegnoso silenzio si era lanciato in una requisitoria che quasi non gli aveva lasciato la possibilità di ribattere.
“Diamine, tenente, i bolscevichi al suo confronto sono dei borghesi,” osservò con un sorriso.
“Questo perché come ogni buon nazionalsocialista io ho a cuore il benessere del popolo, non quello di una classe dominante tirannica e avida di privilegi.”
A corto di argomenti di fronte a tanto fervore, Stuart si risolse a stappare la bottiglia. Non era sicuro di aver avuto una buona idea a fraternizzare con quel ragazzo, perché lo stava scoprendo inaspettatamente affascinante.
“Eppure lei mi ricorda Parsifal,” disse piano. Versò il vino, che alla luce della candela era scuro e corposo come sangue.
“Dubito che Parsifal la pensasse come me,” replicò il tenente, accettando il calice che l’altro gli porgeva. Bevve cauto un sorso, e quando riabbassò il bicchiere lo sguardo di Stuart non poté fare a meno di correre al suo labbro inferiore macchiato di rosso.

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


Capitolo 20

Il mattino dopo i voli di guerra cominciarono presto: un allarme antiaereo spinse tutti fuori dagli alloggi alle prime luci dell’alba e fin quasi a mezzogiorno il maggiore Stuart, esausto e frastornato per non aver chiuso occhio tutta la notte, non ebbe modo di indugiare sui propri guai.
Al venir meno della pressione nemica, però, i pensieri che aveva accantonato tornarono uno dopo l’altro, e ricominciarono a far scempio della sua anima come un branco di lupi affamati.
Non aveva ancora ricevuto notizie di Poynter, tanto per cominciare, e ormai anche le più tenaci speranze di ritrovarlo in vita stavano cominciando a vacillare.
E se il timore – ormai quasi certezza – di aver perso un amico non fosse stato sufficiente, ci si metteva anche il dannato von Rohr a complicargli l’esistenza. Gli aveva parlato, avevano bevuto insieme, alla fine avevano addirittura riso insieme, seppur brevemente.
Era un ragazzo bello, coraggioso e determinato, orgoglioso e con le idee chiare.
Ed era un morto che camminava.
Capì perché quando era piccolo i suoi genitori gli proibivano di giocare con gli agnellini e i vitellini della tenuta.
Mentre era immerso in quelle angosciose considerazioni, un improvviso suono di tromba lo fece quasi sobbalzare. Alzò lo sguardo stupefatto e vide entrare nel piazzale una monumentale Bentley nera lucida come uno specchio, con le cromature che brillavano al sole e un autista in livrea alla guida.
Per un attimo pensò che fossero tornati quelli dell’Intelligence, ma era una macchina troppo lussuosa per qualsiasi rango delle Forze Armate. Nemmeno un capo di Stato Maggiore avrebbe potuto permettersi di andare in giro a bordo di una vettura del genere.
Sotto il suo sguardo perplesso la Bentley si fermò, l’autista scese e aprì con deferenza la portiera.
Ne uscì John Poynter, che si stirò, si guardò intorno con aria soddisfatta e disse: “Ciao, George.”
Il maggiore Stuart lo fissò senza proferire parola.
L’altro stava per replicare quando dal finestrino della vettura uscì un’avvizzita mano femminile che sventolava un fazzolettino di chiffon.
Au revoir, mio caro!” disse una voce chioccia, “à bientôt, j’espère!”
“Lady Fetherstonhaugh,” spiegò Poynter in risposta all’occhiata interrogativa del maggiore. “Ci invita tutti alla prossima caccia alla volpe, a proposito.”
Si chinò per salutare la nobildonna e continuò a fare ampi gesti con la mano anche mentre la Bentley ripartiva.
“Milady è stata molto gentile,” disse quando la vettura fu scomparsa alla vista.
Stuart continuava a tacere.
“Vecchio mio, il gatto ti ha mangiato la lingua?” s'informò cortesemente Poynter al protrarsi del silenzio.
“Ti credevo morto.”
“E invece sono qui, come vedi,” rispose il capitano con un sorriso.
“Potevi anche degnarti di dirci qualcosa,” replicò Stuart con ira repressa. Tutta la tensione accumulata nelle ultime ventiquattro ore gli si stava scaricando in rabbia.
“Scusa, George, avrei tanto voluto,” disse l'altro con un sorriso disarmante, “ma vedi, quando mi sono buttato col paracadute sono atterrato dritto dritto nella serra di quella vecchia contessa un po' eccentrica. Per un bel po' sono rimasto svenuto, poi verso sera mi sono ripreso e Milady ha voluto assolutamente invitarmi a cena. Le ho suggerito di avvertire qualcuno, e lei ha convenuto che sarebbe stata una cosa molto appropriata. Purtroppo ho scoperto solo stamattina che l'unica persona che ha pensato di avvertire è stato il giardiniere, affinché rimpiazzasse quanto prima i vetri rotti e le piante che avevo rovinato nella caduta.”
Stuart avrebbe voluto dire qualcosa, ma di fronte a tanto candore tutte le sue reprimende si dissolsero come neve al sole. “Sei ferito?” si limitò a chiedergli.
“Neanche un graffio!” rispose l'altro trionfante, allargando le braccia in un gesto vagamente messianico.
Come se quello fosse stato un segnale, tutti coloro che avevano assistito al ritorno del figliol prodigo gli corsero incontro e cominciarono a fargli festa. Poynter era benvoluto, e non c'era militare della base che non volesse almeno dargli una pacca sulla spalla o stringergli la mano.
Ancora sotto l'effetto dei sentimenti tumultuosi di poco prima, Stuart lo lasciò al suo bagno di folla e si allontanò di qualche passo.
Pensava di nuovo a von Rohr. Perché non riusciva a smettere di pensare a lui?

Von Rohr, frattanto, si aggirava per la sua cella egualmente spiazzato.
Si spostò ansante nella chiazza di sole che entrava da una delle finestre sfondate. Si terse il sudore dal corpo con un asciugamano e cercò di normalizzare il ritmo del respiro. Per mantenere intatta l’efficienza fisica passava le giornate di prigionia allenandosi. Faceva addominali, piegamenti sulle braccia, esercizi a corpo libero e cose del genere. Tutto ciò che gli veniva in mente pur di temprare il corpo.
Quella mattina, però, si era allenato con tale energia che adesso era completamente esausto e grondante di sudore.
Si era svegliato con la testa pesante per colpa dell’alcol bevuto la sera prima. La sensazione, per lui completamente sconosciuta, non gli era piaciuta per nulla. Odiava anzi l’idea di non essere perfettamente lucido e padrone di sé, perché quella era la via che portava a perdere il controllo e trovarsi in balia della volontà altrui.
Per nulla al mondo avrebbe accettato di essere soggetto a volontà diverse dalla sua, quindi aveva deciso che doveva depurarsi, e come diretta conseguenza l’allenamento era stato molto più intenso del solito.
Ricordò che aveva bevuto il primo sorso per compiacere Stuart, ma poi il vino gli era piaciuto e aveva esagerato.
Strinse le labbra, si buttò a terra prono e ricominciò a fare piegamenti sulle braccia doloranti, stando ben attento a tenere la schiena dritta e gli addominali tesi. Tocca terra col mento! si ordinò inflessibile, devi farne cinquanta, non uno di meno!
Quando ebbe finito si abbandonò esausto sulle pietre fredde del pavimento. Nonostante tutto, i suoi pensieri continuavano a tormentarlo: avrebbe fatto così anche con l’altra cosa? Avrebbe cominciato con un sorso e poi non sarebbe più stato in grado di porsi un limite?

Le chiazze di sole sul pavimento si spostarono e si allungarono, divennero aranciate e infine scomparvero lasciando il posto a una penombra silenziosa. A questo punto von Rohr, che nel corso della giornata le aveva seguite con crescente apprensione, prese a passeggiare su e giù per la navata come faceva sempre quando era nervoso.
Giunse il buio che stava ancora camminando. Arriverà? pensava. Quando arriverà?
Non aveva orologi, e immerso nelle tenebre com'era non aveva alcun modo per misurare il passare del tempo, quindi poteva solo aspettare.
Si chiese di nuovo se il maggiore sarebbe arrivato. Viene qui tutte le notti, si disse pragmatico, perché stanotte non dovrebbe?
Si sorprese a considerare con un'ombra di apprensione che ogni giorno l'inglese poteva cadere in combattimento.
E se fosse stato abbattuto?
Quel pensiero gli diede un tale inspiegabile disagio che interruppe il suo passeggiare e rimase fermo nel buio come un cavallo bendato. Se fosse stato abbattuto, addio possibilità di fuga, considerò concreto, ma il disagio non si risolse. C'era qualcos'altro che lo preoccupava, qualcosa di strano, che al momento non gli era ben chiaro ma gli comunicava una sconosciuta inquietudine.
Toccò il distintivo della Hitlerjugend che portava sul petto come un fedele avrebbe toccato in un momento di particolare apprensione la croce che teneva al collo.
Nervi a posto, si ripeté, non farti prendere dalla smania.
Nel silenzio udì il ben noto passo che si avvicinava, e prima di rendersi conto di ciò che stava facendo era al cancello e scrutava ansioso la tenda.
Non fu deluso: subito udì lo scatto del catenaccio e lo sfregamento del fiammifero sulla scatola, quindi il chiarore dorato della candela filtrò da sotto la spessa cortina.
Si morse nervosamente il labbro inferiore nell'attesa di ciò che sarebbe successo.

La stoffa nera si spostò da una parte e apparve il maggiore Stuart con una bottiglia in mano. “Buona sera, tenente,” lo salutò, “ha voglia di ripetere la conversazione di ieri sera?”
“Se a lei va”, rispose von Rohr dopo qualche secondo di esitazione, indietreggiando di un passo.
“Certo che mi va,” rispose l'altro con un sorriso, “altrimenti non gliel'avrei chiesto, non le pare?” Poi, dopo una pausa: “Mi dia giusto il tempo di preparare il nostro piccolo boudoir e sarò subito da lei.”
Scomparve prima che il tenente potesse replicare, stette via qualche minuto e tornò con la chiave del cancello.
“Inutile ricordarle che sono armato e non ci sono vie di fuga, giusto?” gli domandò prima di far scattare la serratura.
Von Rohr non rispose.
Stuart lo condusse nella stanza della sera prima. Lì c'era già il tavolino preparato con la bottiglia e i due bicchieri, ma stavolta al posto della candela c'era un candelabro a tre braccia, col risultato che l'ambiente era molto più luminoso.
“Si sieda, tenente” lo invitò l'altro.
Il tedesco obbedì. “Dove siamo, qui, maggiore?” chiese dopo essersi guardato intorno.
“Nel mio alloggio, come vede.”
Von Rohr ebbe un moto di impazienza. “Non mi dia risposte da inglese, la prego. Intendo dove siamo geograficamente, in quale località.”
“Ovviamente non glielo posso dire,” rispose l'altro con un sorriso, “sarebbe contro le procedure.”
“Anche tenermi qui è contro le procedure, eppure lo fa.”
Stuart esitò qualche secondo prima di replicare. “Si lamenta della sistemazione, tenente?” gli chiese poi senza smettere di sorridere. “Preferirebbe dividere una camerata sporca con altri cinquanta prigionieri?”
“Mi dica dove siamo”, insisté von Rohr imperterrito.
Il maggiore sospirò con fare indulgente. “Lei è davvero un tipo caparbio”, osservò. Nella pausa che seguì stappò la bottiglia e versò due bicchieri di vino. “Ci beva sopra”, gli consigliò porgendogliene uno.
“Che intende dire?”
“Si rassegni, non posso dirle dove ci troviamo, lei è pur sempre un nemico.”
A quelle parole, il carattere focoso di von Rohr prese il sopravvento nonostante ogni suo buon proposito: “E allora mi riporti in gabbia, no? Visto che sono un nemico, che senso ha tutta questa commedia?”
Rimase a fissare il suo interlocutore con gli occhi che mandavano lampi e le mani puntate sui braccioli come se fosse in procinto di scattare in piedi.
“Non ha molto senso, in effetti,” ammise il maggiore dopo un lungo silenzio, “ma sa, io sono un romantico, e mi piace pensare che nonostante tutto si possa fare la guerra in modo onorevole, combattendo per i propri ideali senza perdere umanità e compassione.”
“Mi scusi allora se non lo sono altrettanto,” rispose sarcastico von Rohr, sempre teso come per balzare via da un momento all’altro, “ma il romanticismo è un lusso che chi combatte per la sopravvivenza non può permettersi.”
“Non mi sembra proprio il caso di voi tedeschi, tenente,” replicò il maggiore, “avete invaso Polonia e Francia. Questa non è certo la condotta di chi lotta per sopravvivere.”
“Immagino che a voi faccia comodo considerare la faccenda in questo modo,” rispose l'altro, tornando lentamente alla posizione rilassata, “il cattivo Terzo Reich che opprime le povere nazioni confinanti. Posso ricordarle che quelle stesse nazioni qualche decennio fa hanno messo in ginocchio la Germania con debiti di guerra esorbitanti?”
“La Polonia no.”
“Ma la Francia sì.”
“Beh, in realtà l'Impero Tedesco se l'è cercata, non le pare, von Rohr?”
“Forse dal vostro punto di vista,” rispose l'altro imperterrito, “e di certo i debiti e gli obblighi che ci sono stati imposti erano al di fuori di ogni ragionevolezza. Come si sentirebbe per esempio lei, maggiore Stuart, se le potenze straniere venissero in Inghilterra con la pretesa di regolare persino i trasporti fluviali? Se a voi inglesi venisse impedito di avere un esercito degno di questo nome e un'aviazione militare, se vi venisse tolta la maggior parte del frutto del vostro lavoro, se foste costretti a raccogliere gli avanzi per mangiare mentre avvoltoi stranieri si ingrassano col vostro sangue? Non le verrebbe voglia di ribellarsi e far valere il suo buon diritto?”
Di nuovo fissò il maggiore con lo sguardo acceso e un'espressione spaventosamente risoluta sul volto pallido. Stuart ebbe quasi paura di lui, perché si rese conto di avere di fronte una persona disposta a combattere fino alla morte per i propri ideali.
“Beva qualcosa, tenente,” gli disse porgendogli il bicchiere.
“Ma certo, meglio evitare il discorso, vero?” lo sfidò l'altro.
“Come oratore non valgo nemmeno la metà di lei,” replicò l'inglese con un sorriso, “l'esito dello scontro sarebbe troppo scontato.”

Poche ore dopo, nel buio opprimente della camera oscurata, il maggiore Stuart si rivoltava fra le coltri in preda ad una sorda angoscia. Cercava disperatamente di distogliere il pensiero da Hans von Rohr, ma per quanto ci provasse esso tornava sempre a lui, con la pervicacia di un animale sitibondo che ha finalmente trovato una polla d'acqua.
Riuscì faticosamente ad addormentarsi, sudato e agitato, e fece sogni terribili. Vide la sua fidanzata morta, adagiata su un letto di rose rosso sangue, coperta da una bandiera della Hitlerjugend che lasciava visibile solo il volto.
Poi vide se stesso nudo, al centro dello spiazzo che si trovava di fronte alla baracca del comando. Tutti gli uomini dello Squadron lo insultavano e lo deridevano, mentre seduto nella sua solita poltrona, sordo alle sue richieste di aiuto, Poynter beveva un Old Fashioned e con un risolino diceva: “Me l'aspettavo.”
Vide anche il ragazzo di cui si era invaghito in accademia, il Fair Youth di shakespeariana memoria, che indossava l'uniforme della Luftwaffe e teneva in mano un calice di vino dal colore rosso cupo.
L'ultimo sogno però fu il più spaventoso di tutti: era nel salotto del suo alloggio e sedeva in una delle poltrone con uno strano senso di angosciosa aspettativa. Era come se sapesse che sarebbe accaduto qualcosa di molto brutto ma avesse nel contempo la consapevolezza di non poter fare nulla per evitarlo. Quel pensiero lo rendeva inquieto, era sicuro che avrebbe dovuto tentare di fare qualcosa per scongiurare ciò che stava per accadere, tuttavia non riusciva a muoversi.
Fissava poi lo sguardo sulla porta della camera da letto, certo che da lì sarebbe uscito qualcosa di terribile. Aveva paura, ma al tempo stesso avvertiva una sorta di morbosa curiosità. Ad un certo punto la porta si apriva lentamente ed egli vedeva uscire un altro se stesso. Un se stesso strano, dall'espressione viziosa, quasi laida. Con i capelli spettinati e gli abiti discinti.
Senza degnarlo di attenzione, il suo doppio andava a staccare dal chiodo cui era appesa la chiave della prigione di von Rohr, e poi si dirigeva con sicurezza al cancello che la chiudeva.
Stuart a questo punto lo seguiva ed era testimone impotente di un episodio orribile: il suo alter ego entrava deciso nella chiesa e raggiungeva il letto sul quale von Rohr stava dormendo. Dalla posizione in cui si trovava, Stuart vedeva bene il ragazzo addormentato, con il bel corpo parzialmente coperto dal lenzuolo in un seducente gioco di trasparenze.
L'alter ego afferrava il giovane ufficiale per un polso, tirandolo poi brutalmente verso di sé. Svegliato di soprassalto, l'altro cercava di divincolarsi, ma il misterioso doppio sembrava dotato di una forza sovrumana e rintuzzava facilmente i suoi sempre più convulsi tentativi di liberarsi.
Il maggiore vedeva la rabbia negli occhi di von Rohr mutarsi in paura nel momento in cui egli raggiungeva la consapevolezza di non essere in grado di difendersi.
I due comunque lottavano brevemente e alla fine l'alter ego immobilizzava al suolo von Rohr, che rimaneva a divincolarsi invano con la faccia a terra e le mani bloccate dietro la schiena.
Sotto il suo sguardo attonito, il suo doppio si calava i pantaloni, rivelando un fallo enorme, che svettava turgido e pulsante. Poi gli rivolgeva un sorriso che aveva un'odiosa connotazione di complicità e con un esperto colpo di ginocchio allargava le gambe del giovane prigioniero.

“No!” gridò il maggiore Stuart svegliandosi di soprassalto. Si rizzò bruscamente a sedere e cercò a tentoni il bicchiere d'acqua che teneva sempre sul comodino. Lo bevve affannosamente, tutto d'un fiato, con tale impeto che gliene colò addirittura un rivolo lungo il mento.
Si passò una mano fra i capelli sudati. Stava ansimando ed era – orrore – eccitato. L'erezione gli pulsava dolorosamente, obbligandolo a rievocare suo malgrado i particolari di quel sogno terribile.
Eppure era stato uno spettacolo rivoltante. Come poteva essersi eccitato assistendo ad una scena così efferata?
Rivide Hans von Rohr prono sul pavimento, nudo e immobilizzato, e con suo sconcerto un brivido di colpevole piacere gli percorse la spina dorsale.
Ne rimase allibito. Davvero nel suo subcosciente albergavano desideri di quel tipo? Non riusciva a crederci.
Si lasciò ricadere sdraiato e giacque nel buio disteso sulla schiena, cercando di ignorare ciò che aveva fra le gambe.
È stato solo un sogno, si ripeteva, niente di ciò è accaduto realmente. È stato uno scherzo della tua immaginazione.
Uno scherzo talmente realistico che doveva fare appello a tutta la sua forza di volontà per impedirsi di andare a controllare che von Rohr stesse bene.

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


Capitolo 21

Il mattino dopo c’era un tempo perfetto per volare: non una nuvola in cielo e nemmeno un filo di vento. Tutti erano ansiosi di decollare e persino gli aerei allineati sembravano impazienti di staccarsi da terra.
Sullo sfondo di tanta euforia, il volto cupo e teso del maggiore Stuart appariva fuori posto come una macchia su un vestito.
Poynter, che stava facendo gli ultimi controlli al suo aereo, gli si avvicinò e disse: “Mi chiedevo se per caso quel tuo tedesco ha degli antenati in Transilvania.”
“Non sono in vena di scherzi, John,” rispose Stuart bruscamente. Aveva dormito sì e no due ore, tormentato da incubi raccapriccianti, e l’ultima cosa che desiderava al mondo era ascoltare le arguzie di Poynter.
“Parlo sul serio, George, perlomeno sul serio a mio modo. Da quando ce l'hai in casa, ogni mattina sei più sbattuto. Non è che di notte si trasforma in pipistrello, esce dalla sua prigione e ti succhia il sangue?”
“Piantala!” rispose asciutto il maggiore. “Non succede proprio niente, di notte.”
Il capitano si strinse nelle spalle. “Visto che è nobile, magari è un parente del conte Dracula, va a sapere.”
Stuart stava per ribattere, ma l’altro gli posò una mano sul braccio e facendosi di nuovo serio disse: “Fa un favore a te stesso e ai ragazzi stamani: non andare in volo.”
Il maggiore lo fissò con tanto d’occhi. “Che intendi dire?”
“Sei troppo stanco, non sei concentrato, hai la testa altrove. Se vai in volo così, sai come va a finire.”
“Smettila, sto benissimo. E smettila anche di farmi da balia, ci stanno guardando tutti.”
“I ragazzi sono preoccupati, George.”
Il maggiore dardeggiò tutt’intorno uno sguardo sospettoso: i piloti apparivano ostentatamente assorti nelle più svariate attività. C’era chi controllava i flap, chi ripiegava con cura la mappa, chi infine si accertava che le armi fossero caricate a dovere.
A momenti si mettono anche a fischiettare, pensò il maggiore indispettito, constatando che ancora una volta il suo amico aveva ragione.
“Beh, non hanno motivo di preoccuparsi,” tagliò corto, “e se non sbaglio abbiamo del lavoro da fare, quindi mi aspetto che lo Squadron sia in volo al completo entro tre minuti.” Fece qualche secondo di pausa, quindi aggiunse: “E poi cosa dovrei dire? Scusate ma oggi non mi va di fare le missioni di guerra?”
“Potresti marcare visita.”
“Ma figurarsi. Se tutti quelli che dormono male dovessero marcare visita, qui non si alzerebbero più in volo neanche i piccioni.”

Poco dopo, ai comandi del suo aereo, il maggiore rifletteva sulle parole dell’amico.
I ragazzi sono preoccupati.
Per la prima volta ebbe la sensazione che la faccenda del prigioniero stesse sfuggendo al suo controllo. Fino a quel momento aveva pensato di essere riuscito a mantenere tutto ammirevolmente privato e di non aver fatto trapelare nulla dei suoi turbamenti per il destino di von Rohr e per altre cose, ma se Poynter gli parlava in quel modo, se persino i suoi piloti si preoccupavano per lui, era segno che in realtà quello che aveva cercato con tanto impegno di nascondere non era poi così nascosto.
Angosciosamente si chiese cosa sapessero, e quasi senza rendersene conto fece girare lo sguardo a destra e a sinistra, scrutando gli aerei in volo attorno a lui.
In quel momento, qualcuno gridò in frequenza: “Formazione nemica a ore due, quota duemila o duemila e cinquecento!”
Immediatamente Stuart accantonò le sue preoccupazioni e fissò lo sguardo nella direzione indicata: sulle prime vide solo dei puntini neri, che però in breve assunsero le sembianze spigolose di altrettanti Messerschmitt 109.
“Prepararsi ad attaccare!” ordinò, stringendo le cinghie che lo assicuravano al sedile come faceva sempre nell’imminenza di un combattimento.
I caccia della Luftwaffe si separarono in gruppi di quattro e poi si divisero ulteriormente in coppie, segno che anch'essi erano intenzionati a combattere.
Poi le due formazioni si scontrarono. Il cielo divenne un unico susseguirsi di duelli furibondi, Messerschmitt e Hurricane si passavano talmente vicino da rischiare collisioni in volo e l’aria era attraversata in ogni direzione da raffiche di traccianti.
In breve cominciarono a cadere aerei da una parte e dall’altra, lasciandosi dietro dense scie di fumo, mentre i fiori bianchi dei paracadute scendevano con assurda indolenza attraverso quella mischia infernale.

E poi Stuart lo vide: era il Cavaliere di Valsgärde. Arrivava a tutta manetta sul pelo dell’acqua, così basso che sembrava fondersi con la superficie verdastra delle onde.
Se n'era accorto troppo tardi: capì che il tedesco l'aveva sorpreso. Aveva già cabrato e gli stava arrivando addosso da sotto, come una specie di orca assassina.
Tentò una manovra evasiva in extremis buttandosi tutto da una parte con una scivolata d’ala, ma già le raffiche del Messerschmitt gli avevano bucato un serbatoio e centrato in pieno il motore.
In un attimo di bruciante consapevolezza, il maggiore realizzò che il Cavaliere di Valsgärde l’aveva appena abbattuto, che rischiava di precipitare in mare e che si era fatto fregare come l’ultimo dei novellini.
A motore fermo, le pale dell’elica in bandiera, l’aereo stava cadendo come un sasso. Gli strumenti sembravano impazziti, l’avvisatore di stallo fischiava, l’altimetro indicava una frenetica perdita di quota e l’abitacolo era ormai invaso da un fumo denso e acre che faceva lacrimare gli occhi. Il maggiore spinse la barra in avanti con tutte le sue forze, obbligando lo Hurricane a buttare il muso verso il basso. Dopo qualche tentativo riuscì a recuperare una parvenza di assetto, l’avvisatore di stallo tacque e in qualche modo l’aereo riprese goffamente a planare.
Una volta sicuro di averlo più o meno sotto controllo, Stuart cabrò leggermente e diede qualche grado di flap riducendo la velocità mentre guardava fuori alla ricerca di un posto dove atterrare. Era riuscito ad arrivare alla costa, e inclinando il velivolo vedeva già le onde infrangersi sulla battigia.
Valutò che una bella striscia di sabbia umida era l'ideale, considerando che sarebbe dovuto atterrare sulla pancia. Il carrello non funzionava, e anche se fosse stato integro non avrebbe avuto tempo di azionarlo: il suolo si stava avvicinando con una velocità decisamente sgradevole.
Ebbe solo il tempo di staccare i contatti e chiudere i serbatoi della benzina, poi con un fracasso da fine del mondo l'aereo toccò terra.
Sbalzato in avanti con violenza dall'impatto, trattenuto unicamente dalle cinghie di sicurezza, Stuart si trovò a lottare contro un velo nero che gli oscurava la vista.
Scosse bruscamente la testa per schiarirsi le idee: non era il momento di abbandonarsi ad uno svenimento. Fece saltare la capottina di plexiglas mentre l'aereo continuava a strisciare scavando un solco nella sabbia.
Poi finalmente il caccia, ormai ridotto a una carcassa informe, si fermò e sulla scena calò un silenzio spettrale, rotto solo dal lieve sibilo del vapore che usciva ancora dal radiatore sfasciato.
Il maggiore si guardò intorno attonito, realizzando di essere a terra e probabilmente tutto d'un pezzo. Vide che dal motore si levava ancora fumo, e questo lo convinse ad abbandonare immediatamente il relitto. Sganciò le cinture di sicurezza, uscì dall'abitacolo e si lasciò cadere su quello che restava dell'ala, quindi si allontanò rapidamente per portarsi fuori dal raggio di eventuali esplosioni.
Quando fu ad una distanza di qualche decina di metri da quello che restava del suo Hurricane si sedette sulla sabbia e si concesse di guardare in alto. La battaglia stava ancora infuriando, ma da lì gli riusciva difficile capire se stessero vincendo gli inglesi o i tedeschi.
Chissà se Poynter l'aveva visto cadere? C'era da scommettere di sì. Sembrava distratto e perso nel suo mondo, ma in realtà non gli sfuggiva mai nulla.
Respirò profondamente adagiandosi sulla sabbia, e guardando il cielo attraversato dalle strisce di condensa assaporò la sensazione inebriante e al tempo stesso vagamente colpevole di essere scampato per un pelo alla morte.
Si chiese se l'avesse provata anche von Rohr quando si era trovato nella stessa situazione.
Non fece in tempo a darsi una risposta: un clamore di persone in avvicinamento lo distrasse dalle sue elucubrazioni.
Arrivò un gruppetto di civili che subito lo circondò vociando. Erano per la maggior parte abitanti del vicino paese e apparivano tutti assai soddisfatti di poter dare aiuto a un eroico aviatore. Tra pacche sulle spalle e giri di fiaschette di whisky, sordi alle sue proteste lo sollevarono praticamente di peso e lo caricarono su un calessino, che subito partì al trotto alla volta del centro abitato.

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


Capitolo 22

Quando Stuart fece ritorno allo Squadron, cosa che avvenne nel tardo pomeriggio, Poynter lo accolse con un signorile silenzio. “Tieniti i tuoi piloti,” fu l'unica cosa che si degnò di dirgli. “Erano talmente preoccupati per te che non si accorgevano nemmeno di quando davo un ordine. Che gusto c'è a fare il comandante in seconda, se poi al momento buono gli uomini non ti danno neanche retta?”
“Mi dispiace,” rispose semplicemente Stuart, e non era chiaro se fosse dispiaciuto per quello che gli aveva riferito il capitano o per essersi fatto abbattere.
“Ah, lascia perdere,” replicò Poynter con un'alzata di spalle. “Piuttosto: cos'è quella fasciatura che hai lì sul braccio?”
Il maggiore fu tentato di nasconderla come un bambino avrebbe nascosto alla madre uno strappo nel vestito nuovo. “Niente, niente.”
Nel corso dell'atterraggio aveva riportato un taglio, se n'era accorto quando si era alzato dal sedile del calessino e l'aveva trovato intriso di sangue. La ferita però non era grave, ed era già stata accuratamente medicata dal dottore del paese. “Posso volare,” soggiunse.
Volare necesse est, vivere non necesse, per parafrasare Pompeo,” rispose Poynter, come se la cosa lo lasciasse del tutto indifferente.
“Adesso cominci anche tu col latino?”
“Sì, per non cominciare con gli insulti.”
Saggiamente, Stuart decise di lasciar perdere. Il capitano si trovava in una delle sue rarissime fasi di furore, e andare a stuzzicarlo avrebbe suscitato una specie di eruzione del Krakatoa.
Senza aggiungere altro uscì dalla baracca del comando e una volta all'esterno rimase a contemplare in silenzio le ombre lunghe del tramonto.
Tornò lo sgradevole senso di colpa che aveva provato poche ore prima. Aveva agito con sconsideratezza, non era andato in volo nelle condizioni adeguate e non aveva dato ascolto ai saggi consigli degli amici. Eppure lui era vivo mentre tanti altri bravi piloti erano morti.
Si sentì disperatamente solo. Quasi senza accorgersene volse allora lo sguardo verso la chiesa, e si trovò a pensare al suo inquilino con un vago senso di calore.
La cosa gli comunicò la consueta fitta di sgomento, che però inaspettatamente si stemperò nella consapevolezza che in tutta la base solo il tedesco sembrava pensarla come lui su certe cose.

Alla sera si ritirò presto con la scusa che era stanco. In realtà non lo era più degli altri giorni, ma aveva un disperato bisogno di stare da solo e possibilmente di riflettere.
Il problema di cui non riusciva a venire a capo era von Rohr.
Era a causa sua che la mattina si era fatto abbattere e ci aveva quasi lasciato le penne.
Per prima cosa, pur con stupore doveva ormai ammettere che provava attrazione nei suoi confronti. Negarlo sarebbe stato come rifiutarsi di riconoscere che il sole sorgeva tutti i giorni, o che il cielo era azzurro. Se pensava a lui sentiva il cuore accelerare i battiti e un brivido di colpevole desiderio gli percorreva la schiena.
Poi c'era la faccenda dell'Intelligence. Entro due giorni sarebbero venuti a prenderlo, e avrebbero messo in atto con lui quella loro ignobile farsa.
Però von Rohr era anche un nemico, ed era chiaro che non sarebbe potuto rimanere presso la base in eterno.
Avrebbe potuto consegnarlo, in questo modo di sarebbe liberato del primo e forse peggiore problema, però poi sarebbe dovuto venire a patti con la sua coscienza per il secondo.
Ma del resto poteva non consegnarlo? Con che autorità, con quale scusa?
Sospirò afflitto. Gli sembrava di essere una volpe con la zampa in una tagliola: aspettare il cacciatore, cercare di sfilare l'arto straziandoselo orribilmente, o troncarlo con un morso e rassegnarsi alla mutilazione?
Così meditando si accorse di essere arrivato davanti alla porta del suo alloggio. Ebbe un sorriso amaro: tutto considerato, andare a pensare lì dentro era come mandare un alcolizzato a riflettere in una cantina.
Entrò adagio, cercando di fare meno rumore possibile. Evitò di accendere la candela e sperò con tutto il cuore che Hans von Rohr avesse di nuovo il suo consueto atteggiamento di sdegnoso rifiuto e gli desse le spalle dal fondo della navata.
“Buona sera, maggiore Stuart,” lo salutò una voce nell'oscurità.
Sulle prime l'inglese sussultò, poi si trovò involontariamente a sorridere e avvertì il piacevole senso di calore che compare quando si incontra un vecchio amico.
“Buona sera a lei, tenente,” rispose dopo un attimo di esitazione.
Fece un po' di luce e vide che von Rohr era riuscito ancora una volta ad afferrare la tenda e a raccoglierla da una parte. “Mi stava aspettando?” non poté fare a meno di chiedere.
L'altro annuì in silenzio.
“Oh,” disse Stuart, mentre tutti i suoi propositi di rigore e meditazione si sgretolavano come edifici durante un terremoto. “Oh. Certo. Ha voglia di intrattenersi un po' con me?”
“Volentieri,” rispose il giovane ufficiale, poi fece un passo avanti spostandosi nell'alone di luce della candela e rimase a fissarlo negli occhi.

Poco dopo erano seduti nel salottino, con una bottiglia di sherry davanti e il candelabro a rischiarare l'ambiente.
“C'è una cosa che ho sempre voluto chiederle, von Rohr,” disse Stuart, cercando di ignorare come la luce delle candele conferisse una tonalità di oro caldo ai capelli chiarissimi del giovane ufficiale.
Il tenente si voltò verso di lui. “Che cosa?”
“Può anche non rispondermi, se preferisce.”
“Se non so la domanda...” rispose il tenente. Sul volto gli aleggiò un vago sorriso.
“Ha ragione,” disse il maggiore. “Perché c'era lei nell'aereo del Cavaliere di Valsgärde?”
Il tenente sembrò sussultare. Aggrottò le sopracciglia e negli occhi gli balenò un lampo dell'antica diffidenza. “Perché lo vuole sapere?” ringhiò.
Stuart bevve un sorso di sherry, si appoggiò all'indietro contro lo schienale e finalmente spiegò: “Non glielo so dire, in realtà. È solo che mi piacerebbe saperlo. Ho letto l'articolo di Signal che parlava del capitano Müller e mi aspettavo di trovarci lui, nell'aereo che ho abbattuto.”
“Lui non lo abbatterete mai!” replicò il tenente ergendosi con fierezza.
“Il mai purtroppo non esiste in guerra,” rispose il maggiore scrollando le spalle.
Il tenente non rispose e fra i due calò un silenzio rotto solo dal lieve crepitare delle candele.
“Non sto cercando di farle l’interrogatorio,” si sentì in dovere di chiarire Stuart al protrarsi del mutismo di von Rohr, “il mio è un interesse personale.”
Vide l'altro fissarlo stupito e subito si pentì di aver usato quell’aggettivo: non voleva che il giovane ufficiale si accorgesse dell’attrazione che provava per lui, perché era una cosa vergognosa e disonorevole.
“Voglio dire, era solo una curiosità,” spiegò abbassando lo sguardo.
Afferrò la bottiglia per riempirsi di nuovo il bicchiere, ma nel movimento la manica della camicia si spostò lasciando intravedere le bende che aveva sul braccio.
“È ferito?” chiese il tedesco.
“Niente di importante,” rispose subito il maggiore ritirando il braccio. Si vergognava a dirgli che quella mattina era stato abbattuto.
“Ma no, aspetti, questa fasciatura andrebbe rifatta.” Von Rohr si protese e gli afferrò il polso. “Vede? È tutta allentata, così non serve a nulla.”
“Davvero, non si disturbi,” si difese il maggiore, ma l’altro sembrava irremovibile. Senza dargli ascolto gli rimboccò la manica, poi cominciò a svolgere la benda con una disinvoltura che denotava una lunga pratica.
Stuart deglutì mentre un brivido gli percorreva la schiena: era la prima volta che von Rohr lo toccava. Come aveva immaginato, aveva una presa salda, ma mani fondamentalmente delicate e lisce.
Abbassò irresoluto gli occhi su di lui: era concentrato sul suo lavoro, così vicino che poteva addirittura sentire il suo odore di pulito. Un pensiero gli attraversò la mente come un lampo: per baciarlo sulla nuca gli sarebbe bastato piegarsi appena in avanti.
Ne fu sconcertato. Come poteva anche solo prendere in considerazione l'idea di baciare un ufficiale nemico – un maschio – sulla nuca?
Mentre era immerso in quelle angosciose considerazioni si fece udire la voce del tenente: “Cosa farebbe lei, maggiore, se non le permettessero di compiere missioni di guerra perché la credono troppo inesperto?”
Aveva parlato come fra sé e sé, continuando frattanto a sistemare le bende sull'avambraccio del suo interlocutore.
“Che intende dire?” gli chiese perplesso Stuart.
“Io ero già istruttore di aliante a sedici anni, e sono uscito dalla scuola di volo primo del mio corso, con il massimo dei voti. Eppure il mio comandante non mi permetteva di partecipare alle missioni di guerra.”
“Avrà voluto rendersi conto di persona delle sue capacità,” ipotizzò l'inglese, intuendo quanto l'argomento stesse a cuore all'altro da come i suoi movimenti si erano fatti improvvisamente nervosi.
“E come, facendomi pilotare un Fieseler Storch pieno di cibarie?” ringhiò il tedesco. Stuart, che non sapeva nulla dell'umiliante episodio, rimase in silenzio.
“È per questo che ho preso l'aereo del capitano Müller,” proseguì allora von Rohr, “volevo dimostrare a tutti quanto valgo come pilota.”
A quelle parole, meravigliato il maggiore chiese: “Quindi quella era la sua prima missione di combattimento?”
“Sì.”
“Forse dovrei chiamarla von Richthofen, allora, non von Rohr.”
“Non mi prenda in giro anche lei,” protestò il giovane rabbuiandosi in volto.
“No, parlo sul serio,” rispose il maggiore, “ho sudato sangue per tirarla giù e mi ha anche abbattuto due aerei.”
Intanto il tedesco aveva finito di sistemare il bendaggio. Controllò un'ultima volta il suo lavoro e con tono sbrigativo disse: “Lasci stare, non so nemmeno perché le ho raccontato tutte queste cose. Comunque adesso il braccio non dovrebbe più darle problemi.”
Stuart sorrise. “La ringrazio, è una fasciatura perfetta. Dove ha imparato a farle?”
“Nella Hitlerjugend.”
“Insegnano anche queste cose?”
“Insegnano tutto.”
Ancora sotto l'effetto del turbamento di poco prima, Stuart si versò un altro po' di sherry. Distolse lo sguardo dagli occhi di von Rohr, che in quella luce soffusa diventavano di uno straordinario blu tendente al viola, e quasi senza rendersene conto disse: “Se quella era la sua prima missione, diventerà un pilota ancora più abile del Cavaliere di Valsgärde.”
E poi realizzò che von Rohr non sarebbe diventato più niente, perché entro pochi giorni sarebbe morto.
Quella brutale epifania lacerò senza pietà il velo di illusione nel quale si era fino a quel momento crogiolato.
Vuotò il bicchiere d'un fiato, con un movimento precipitoso che provocò un'alzata di sopracciglia nel suo interlocutore. Che fare? Dirglielo? Avvertirlo della minaccia mortale che incombeva su di lui? Cosa ne avrebbe ricavato? Tanto in ogni caso non avrebbe potuto influire in alcun modo su ciò che sarebbe accaduto.
“Qualcosa non va?” chiese von Rohr.
“Io volevo dire...” cominciò il maggiore esitante, ma subito l'altro lo interruppe: “So cosa voleva dire: poiché ora sono un prigioniero di guerra, lei pensa che non avrò più occasione di dimostrare la mia abilità in volo.”
Si era di nuovo raddrizzato nella persona. Abbandonata ogni dolcezza, il suo sguardo aveva ripreso la consueta adamantina determinazione.
“Ebbene, che lei ci creda o no, io me ne andrò di qui, maggiore,” gli promise, “e lei non potrà fare niente per impedirlo.”
Vilmente Stuart non lo contraddisse.

Di nuovo nella sua cella, von Rohr camminava su e giù pensieroso.
C'era la luna e chiazze di luce lattea si disegnavano sul pavimento di pietra in corrispondenza dei finestroni sfondati.
Per contrasto il resto era così buio che sembrava scomparso nel nulla.
Avrebbe dovuto sentirsi soddisfatto della serata. Il maggiore cominciava ad abbassare la guardia, a mostrare meno cautela quando lo avvicinava.
Presto tramortirlo e fuggire sarebbe stato facile come rubare le caramelle a un bambino.
Eppure c'era qualcosa di sbagliato in tutta la faccenda, che lo impensieriva e gli conferiva uno strano disagio.
Quello che aveva raccontato a Stuart durante la loro conversazione, per esempio. Per quanto si ripetesse che l'aveva fatto per suscitare la sua fiducia e la sua simpatia, in realtà nell'intimo sapeva che il motivo non era stato quello.
O meglio: sì, forse era stato anche quello, ma c'era qualcos'altro. Il racconto gli era uscito di bocca praticamente senza che lui se ne accorgesse, come se fosse stato in compagnia di un vecchio amico, uno di quelli a cui si può dire tutto. E non era stata solo una mossa calcolata per rendersi 'simpatico' ai suoi occhi. Aveva voluto condividere qualcosa con lui, conoscere il suo parere.
Da quando in qua era importante il parere di un nemico? Forse aveva sbagliato ad accettare con quella leggerezza l'offerta di confidenza del maggiore, perché conoscerne i lati umani lo stava disorientando e distogliendo dal suo obiettivo.
Era una persona affascinante, tanto per cominciare, ed era un ufficiale che sapeva il fatto suo. Si sorprese a pensare che avrebbe accettato i suoi ordini volentieri, se fosse stato un maggiore della Luftwaffe.
E poi c'era un'altra cosa, forse addirittura più preoccupante delle precedenti: quando Stuart lo guardava in un certo modo, sentiva qualcosa di strano dentro. Come un tuffo al cuore, o una specie di brivido.
Quando gli aveva sistemato la fasciatura era rimasto piuttosto turbato dalla sua vicinanza. Turbato in un modo dal quale fino a quel momento aveva pensato di essere immune.
Sospirò fermandosi nel bel mezzo di una chiazza di luce. Forse stava diventando anche lui un anormale.
Sarebbe riuscito ad uccidere Stuart, se quella fosse stata l'unica possibilità di fuggire?
La confidenza era stata un errore, ora lo sapeva per certo.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


Capitolo 23

Quando la sera successiva si recò alla chiesa, Stuart era piuttosto inquieto.
Il maggiore Linwood aveva telefonato due volte nel corso della giornata, per ricordare che l’indomani sarebbe venuto a prelevare il prigioniero.
Astutamente aveva evitato in entrambi i casi di parlare direttamente con lui, limitandosi a lasciargli detto di attenderlo per la mattina dopo.
Una vecchia tattica: in quel modo il destinatario del messaggio poteva solo limitarsi a prenderne atto, senza alcuna possibilità di interloquire.
Era una serata pessima, si sentiva sfiduciato e stanco per vari motivi. Aveva perso due bravi piloti in combattimento, la Luftwaffe aveva tartassato ben bene tutta la costa e il nuovo aereo che gli avevano promesso era stato assegnato a un altro Squadron.
E poi c'era la faccenda di von Rohr.
Ricordava un aneddoto che aveva letto in Accademia: una volta avevano chiesto a Giulio Cesare quale fosse la morte migliore, e lui aveva senza esitazione risposto 'quella inaspettata.'
Il che era sacrosantamente vero. Tante volte aveva parlato con persone che dopo poco erano decedute, non ultimo il povero Guthrie, che era stato abbattuto in combattimento alcune ore dopo avergli chiesto se il Cavaliere era tornato, ma trovava terribile conversare con qualcuno sapendo già come e dove sarebbe morto.
Soprattutto perché quel qualcuno non gli era indifferente.

Cupo e teso entrò nella canonica, e per prima cosa andò a controllare che il salotto fosse a posto. Diede un'occhiata tutt'intorno, ma non scorse nulla di diverso dal solito, quindi pose sul tavolino la bottiglia migliore che era riuscito a trovare e accese il candelabro, poi andò a chiamare von Rohr.
Il tenente lo seguì docile, man mano che approfondivano la reciproca conoscenza appariva sempre meno ombroso, e si accomodò nella solita poltrona con un movimento che ormai denotava una certa confidenza.
“Come va la sua fasciatura, maggiore Stuart?” domandò per prima cosa.
“Me n'ero quasi dimenticato. Me l'ha sistemata così bene che non mi accorgo nemmeno di averla addosso.”
Il maggiore si passò soddisfatto la mano sull'avambraccio bendato, quindi versò due bicchieri di vino e ne porse uno a von Rohr.
Il tenente lo accettò senza difficoltà, segno che pian piano si stava abituando anche a quello.
Involontariamente, Stuart sospirò. L'idea che il giovane ufficiale stesse lentamente prendendo confidenza con lui gli faceva stringere il cuore. Ormai si fidava, e lui stava per tradirlo.
Si chiese cos'altro avrebbe potuto fare, ma per quanto pensasse non gli veniva in mente nulla a parte atti che avrebbero comportato un'accusa di alto tradimento.
Era forse un vile? Faceva il suo dovere di ufficiale e non tradiva la Patria oppure anteponeva la propria salvezza al comportarsi con onore? Se l'era chiesto tante volte, senza peraltro mai raggiungere un verdetto.
La voce di von Rohr lo distrasse dalle sue meditazioni: “La vedo pensieroso.”
Stuart alzò bruscamente la testa. “Mi scusi, ero distratto,” disse in fretta.
“L'ho notato. Qualcosa non va?”
“Io... pensavo alla mia fidanzata,” rispose il maggiore, cercando scampo nella prima cosa che gli veniva in mente. “La mia fidanzata. Margaret. Lei ha una fidanzata, tenente?”
Il giovane lo fissò esterrefatto. “Io? No di certo!”
“No?”
L'altro si strinse nelle spalle e scosse la testa.
La questione delle fidanzate era un problema che nell'arco della sua breve vita non si era mai posto. Sapeva che un giorno avrebbe dovuto sposarsi, per dare figli al Reich, ma al momento la cosa gli pareva lontana da lui come l'idea di andare sulla luna o sul fondo dell'oceano.
“Non mi interessano le ragazze,” aggiunse candidamente.
L'altro non poté impedirsi di assumere un'espressione stupefatta. “Prego?”
“È così,” fu la risposta, pronunciata con commovente innocenza. “Chi vorrebbe mai perdere tempo con quelle creature vanitose e sciocche quando ci sono così tante cose da imparare sugli aerei?”
“Oh, un sacco di gente, mi creda,” gli assicurò il maggiore, cercando di ignorare il tremito che l'aveva invaso alle parole del suo interlocutore.
“Volare è così bello,” riprese von Rohr con aria sognante dopo qualche secondo di silenzio. “Se potessi, vorrei fare come i rondoni, che trascorrono la vita in volo.”
In quell'istante un soffio di vento sollevò la tenda di una finestra.
Il maggiore si voltò inorridito in quella direzione e realizzò, in un secondo di raggelante consapevolezza, che la finestra non era chiusa. Se l'era dimenticata. Aveva controllato tutto, ma quella no.
Ed era a meno di un metro da von Rohr.
Istintivamente guardò il tenente, questi gli restituì lo sguardo. Ci fu un attimo di immobilità cristallizzata in cui persino le fiammelle delle candele sembrarono smettere di tremolare, poi, rapido come un felino, il giovane ufficiale balzò fuori e scomparve nella notte.
Subito Stuart si precipitò alla finestra, e nel debole chiarore che essa spandeva sul selciato lo vide rotolare agilmente, rialzarsi in piedi e correre via.
L'unica cosa che poté fare fu attaccarsi al telefono e dare l'allarme.

Finalmente libero, von Rohr correva con quanto fiato aveva in gola. Doveva andarsene, mettere più distanza possibile fra sé e quella base di Tommies.
Avrebbe pensato dopo, con calma, a cose pratiche come soldi, mezzi di trasporto, abiti civili e documenti. Adesso l'unica cosa che contava era andarsene da lì ed evitare di farsi catturare di nuovo.
Si appiattì ansante contro la parete di un hangar. Alle sue spalle il silenzio della notte era lacerato da clamori sempre più forti, segno che il maggiore aveva già dato l'allarme.
Provò una fitta di nostalgia al pensiero di Stuart, subito rimpiazzata da un più consono sentimento di rivalsa.
Volevi tenermi in gabbia, eh? Beh, l'uccellino è volato via.
Da qualche parte venivano accesi dei riflettori. Von Rohr si costrinse a non guardarli, sapeva che se l'avesse fatto avrebbe perso l'adattamento delle pupille all'oscurità e sarebbe diventato come cieco.
Scivolò rapidamente dall'altra parte dell'hangar e riprese la fuga.
Alle sue spalle i clamori si erano fatti più violenti, e si sentiva anche qualche sparo.
Il giovane tenente corse via e man mano che si allontanava il sentimento di rivalsa si trasformava in autentico trionfo. Maggiore Graf, sto arrivando! pensava, capitano Müller, ragazzi, torno da voi!
Gli sembrava quasi di sentire tra le mani la barra del Messerschmitt 109. Inconsapevolmente mosse il pollice come per posizionarlo sul pulsante che comandava le mitragliatrici.
Poi uno sparo echeggiò nel buio.

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


Capitolo 24

Lo ritrovarono il mattino dopo, alle prime luci dell'alba. Era nel bel mezzo dello sbarramento di filo spinato, così tenacemente avvinto dalle spire di metallo che per liberarlo furono necessarie le cesoie.
Era stato colpito a una spalla, e per quanto la ferita non fosse particolarmente grave, probabilmente il colpo l'aveva sbilanciato e fatto cadere sui cavalli di Frisia. Il giovane aveva poi spasmodicamente cercato di liberarsi, ma nel buio e ferito, alle prese con il tipo di filo spinato detto 'a rasoio', non aveva fatto altro che avvilupparsi sempre di più, ridursi a brandelli gli abiti e tagliarsi dappertutto.
Dovettero far venire una barella e portarlo via così, semisvenuto e sanguinante, talmente stremato da non reggersi neppure in piedi.
Prontamente chiamato, il maggiore raggiunse la piccola processione a metà del suo percorso verso l’infermeria.
“È vivo?” fu la prima cosa che domandò, osservando preoccupato il prigioniero.
Von Rohr giaceva immobile, gli occhi socchiusi avevano uno sguardo vacuo. Il volto era di un pallore mortale.
“Vivo, sissignore,” rispose subito il caporale Grice, che aveva sovrinteso all’operazione di recupero, “anche se non particolarmente vegeto.” Fece una breve risata, che provocò un’occhiataccia di Stuart.
“Cos’è successo?” chiese dopo qualche secondo l’ufficiale.
“L’idiota è finito lì in mezzo.” Il graduato fece un cenno con la testa verso gli sbarramenti di filo spinato. “E invece di starsene buono e fermo come avrebbe fatto qualsiasi militare di buon senso, si è agitato tutta la notte come una volpe presa al laccio.”
“Poteva ammazzarsi,” constatò il maggiore quasi parlando fra sé e sé. Si accese nervosamente una sigaretta, pregando che Grice non si accorgesse del tremito che l’aveva invaso.
Lungi dal notare simili bazzecole, il caporale rispose: “Già, peccato che non abbia finito il lavoro, non è vero, signore?” Poi si guardò intorno e con aria astuta soggiunse: “Ma stia tranquillo, possiamo pensarci io e i ragazzi. Lei vada là in fondo a fumare la sua sigaretta, e le garantisco che quando torna non dovrà più preoccuparsi di questo nazista bastardo.”
“Caporale Grice, le proibisco di parlare in questo modo,” disse freddamente Stuart.
“Mi scusi, signore,” rispose il graduato. Al maggiore parve di cogliere una nota di impertinenza nella voce dell’uomo.
Così parlando avevano infine raggiunto l’infermeria. Per vari motivi, Stuart preferì non entrare. Primo, il tono che il caporale aveva usato per rispondergli suggeriva di dimostrare apertamente che lui non era interessato al giovane tedesco. Secondo, non era certo che sarebbe riuscito a rimanere più a lungo impassibile. Vedere von Rohr ferito e sofferente l’aveva inaspettatamente gettato nello sconforto più completo: di colpo aveva realizzato che avrebbe potuto perderlo, e che se l’avesse perso avrebbe sofferto orribilmente.
Quella consapevolezza assunse la connotazione della tragedia. Che cosa gli stava succedendo? Si era davvero innamorato di quel ragazzo?
Diede un ultimo tiro nervoso alla sigaretta e si allontanò rapido, augurandosi solo che il suo cuore smettesse di martellare come se avesse voluto uscirgli dal petto.

Verso metà mattina si presentò in pompa magna l'Intelligence militare: in fila indiana arrivarono una macchina con a bordo Linwood e Benson, un furgone per il trasporto del prezioso prigioniero e un'intera camionetta di soldati per scortarlo.
I due ufficiali smontarono nervosi, al solito senza nemmeno aspettare che l'autista aprisse loro la portiera. Questa volta non recavano doni e fecero addirittura fatica a rispondere al saluto che Stuart rivolse loro intercettandoli in mezzo al piazzale.
“Siamo qui per portare via il prigioniero,” disse brusco Linwood, aggirando subito dopo il parigrado e dirigendosi spedito verso la baracca del comando.
“Non ne dubito,” rispose Stuart raggiungendolo. Poi, con una vaga nota di soddisfazione nella voce aggiunse: “Ma temo che oggi non sia possibile trasportarlo.”
“Non ricominci con le sue geremiadi sull'onore,” ringhiò l'altro, “le ho già sentite in tutte le salse, e la avverto che la misura è colma.”
Il pilota lasciò passare qualche secondo, poi con tono neutro replicò: “Non intendevo tirare in ballo concetti così alieni alla sua mentalità. Al momento il tenente von Rohr è in infermeria e non può essere spostato.”
Linwood si fermò. “Che cosa ci fa in infermeria?”
“È ferito.”
Il suo interlocutore ebbe un moto di impazienza. “E si può sapere come mai è ferito?”
“Ha tentato la fuga,” lo informò il maggiore Stuart, col tono che avrebbe usato per parlare del tempo. E al protrarsi del silenzio dell’altro, premurosamente aggiunse: “Secondo la Convenzione di Ginevra, è diritto di ogni soldato prigioniero tentare la fuga.”
“Conosco la Convenzione di Ginevra,” tagliò corto il maggiore Linwood.
“Perfetto, allora saprà che ho ragione.”
Di nuovo calò un silenzio greve come una lastra di piombo. Sembrava che anche gli uccelli si fossero zittiti. Solo il vento faceva frusciare appena le foglie degli alberi.
All'apparenza perfettamente calmo, Stuart avvertiva in realtà la tensione tipica dei voli di guerra. Stava conducendo una partita pericolosa, che rischiava di terminare in una corte marziale con l’accusa di alto tradimento.
L’Intelligence per ora non se la prendeva con lui, ma probabilmente solo perché l’effetto negativo sul morale delle truppe di un comandante di Squadron arrestato per alto tradimento avrebbe eliso quello positivo derivante della cattura del Cavaliere di Valsgärde.
Era solo una questione di algebra, in fin dei conti.
La voce di Linwood lo richiamò bruscamente alla realtà: “È stata messa in atto ogni necessaria misura per impedire la fuga al prigioniero?”
“Ovviamente sì.”
“Sa che questo andrà nelle sue note caratteristiche, vero, maggiore?”
Per tutta risposta Stuart si strinse nelle spalle con l’espressione di chi si sottomette all’ineluttabile.
Un altro silenzio.
“Conosceva l’importanza di quel prigioniero,” riprese poi Linwood, sempre più esasperato dal menare colpi e vederli andare a vuoto uno dopo l’altro, “eppure l’ha lasciato scappare.”
“Non mi sembra di averlo lasciato scappare,” replicò il pilota con distacco, “tant’è che adesso non sta correndo libero per l’Inghilterra ma è in infermeria ferito.”
“Voglio vederlo.”
“Come preferisce.”

L'infermeria era una palazzina a due piani un po' distaccata dal resto degli edifici. Per volere del capitano medico Allen, che la gestiva in osservanza ai più rigidi principi ippocratici, essa era mantenuta in uno stato di scrupolosa pulizia ed era circondata da un piccolo orto di piante medicinali, destinate ad alleviare coi loro effluvi le sofferenze degli infermi.
Sulla porta c'era un soldato di guardia, che scattò sull'attenti e salutò all'approssimarsi dei tre ufficiali.
“Riposo, Curtis,” disse il maggiore rispondendo al saluto, “abbiamo bisogno del capitano Allen.”
“Sissignore. Lo chiamo subito, signore!”
Il soldato scomparve all'interno dell'edificio. Con sollievo, suppose Stuart, dal momento che a nessuno piaceva avere a che fare con l'Intelligence.
Poco dopo arrivò il capitano, che invece si dimostrò molto meno impressionato dagli inattesi ospiti. Era un uomo di circa trentacinque anni, alto e magro, che portava un camice completamente abbottonato e occhiali dalla sottile montatura d'oro. Dava l'impressione di trovarsi quasi per sbaglio all'interno dei ranghi militari.
“Buon giorno, signori,” salutò tranquillamente.
Linwood aggrottò le sopracciglia a quell'atteggiamento decisamente poco marziale. “Siamo qui per vedere il prigioniero,” disse.
Il medico annuì, ma subito dopo rivolse lo sguardo al maggiore Stuart, come per chiedergli la conferma che doveva davvero introdurre estranei – e probabilmente profani – all'interno dell'asklepieion.
Precedendolo nell'atrio dell'edificio, il comandante del 19° Squadron spiegò: “I signori sono venuti a controllare le condizioni del tenente von Rohr.”
Non aggiunse altro, lasciando che l'assurdità di due ufficiali del servizi segreti che fanno visita a un prigioniero ferito dilagasse come acqua da un vaso rovesciato.
“Sì, signore” rispose dubbioso Allen. Si voltò verso i nuovi arrivati. “Certo, signore,” ripeté, ancora poco convinto, “è di sopra. Se i signori hanno la compiacenza di seguirmi...”
Si incamminò rapido su per le scale senza terminare la frase.
Condusse i tre ad una stanza che conteneva sei letti, uno solo dei quali occupato. “Eccolo là,” disse semplicemente, fermandosi sulla soglia.
“Bene, ora vediamo,” disse Linwood senza preoccuparsi di nascondere la propria diffidenza, quindi si diresse verso il ferito seguito dall'immancabile e silenzioso Benson.

Von Rohr era ancora di un pallore mortale. Era stato ripulito dal sangue, ma su ogni parte visibile del corpo aveva medicazioni e fasciature, alcune già macchiate di rosso. Era immerso in un profondo torpore.
“Gli ho dato un po' di morfina,” disse Allen in risposta allo sguardo preoccupato del maggiore Stuart.
“È così grave?” domandò l'altro sforzandosi di mantenere un tono neutro.
“Non particolarmente, ma avevo paura che si agitasse e ho preferito sedarlo.”
A quelle parole intervenne Linwood: “Bene, se non è così grave faccia il favore di impacchettarcelo, dottore, perché lo dobbiamo portare via.”
Il capitano medico inarcò le sopracciglia assumendo un'espressione a metà fra lo stupore e l'indignazione. Dunque aveva ragione: erano due profani!
“Il mio paziente non si muove di qui,” si limitò a rispondere, e anche da quelle poche parole trasparivano una costernazione e uno sdegno senza fine.
Linwood sospirò ostentando esasperazione. “Dottore, dobbiamo portare via questo nazista oggi,” ripeté con studiata lentezza, scandendo ogni parola. “Sia così cortese da metterlo in condizioni di viaggiare, prego.”
“No. Ha numerose medicazioni che richiedono assoluta immobilità, non è possibile spostarlo.”
Gli occhi dell'altro divennero due fessure. Con voce minacciosamente bassa chiese: “Che cosa fa, dottore, protegge un nazista?”
“Curo un ferito,” fu la risposta, pronunciata con ammirevole fermezza.
In quel momento von Rohr gemette piano, distogliendo per fortuna il medico dalla sua pericolosa presa di posizione.
“Si sta svegliando,” disse Allen dopo aver tastato il polso e sollevato una palpebra al giovane ufficiale.
“Bene, allora ce lo portiamo via,” insisté Linwood imperterrito.
Per tutta risposta, il dottore prese un oggetto che si trovava sul comodino e glielo mostrò. Era un sottile nastro metallico dai bordi irregolari, sporco di sangue.
“Che cos'è?” chiese perplesso il maggiore.
“Filo spinato a rasoio,” spiegò Allen. “Lo vede com’è fatto? È roba che taglia a guardarla. Il tenente si è dibattuto tra queste spire tutta la notte cercando di liberarsi. Questo pezzo ce l'aveva conficcato in una coscia, e non è l'unico che gli ho tolto.”
“Quindi in pratica si è macellato da solo,” non poté fare a meno di osservare Benson, guadagnandosi un'occhiataccia da parte del suo superiore.
“Precisamente,” confermò il medico.
A quel punto i due ufficiali dell'Intelligence si appartarono e si misero a confabulare animatamente a bassa voce.
Rimasto accanto al letto assieme ad Allen, Stuart abbassò gli occhi sul ferito e si sentì stringere il cuore. Era terribile vederlo così. Allungò lentamente una mano e con delicatezza gli prese il mento tra le dita, voltandogli poi adagio la testa fino a mettere in evidenza una fasciatura sul collo.
“Poteva ammazzarsi,” disse alle sue spalle il capitano medico, “quella ferita ha praticamente sfiorato la carotide, ed è un miracolo che non si sia sfigurato o accecato.”
“Povero ragazzo,” mormorò Stuart abbandonando la presa. Ricordava le serate trascorse con lui nella canonica, il suo sguardo ardente, la sua fermezza carica di sfida...
“Le fa impressione?” gli chiese improvvisamente Allen.
Stuart avvampò. “No di certo, perché?”
“È impallidito.” Poi, dopo una pausa: “Forse è meglio che venga fuori.”
“Ma no, le assicuro che sto benissimo.”
“Il ferito ha bisogno di riposare,” tagliò corto l'altro, “quindi ora sarà meglio uscire.” L'ultima frase la pronunciò alzando leggermente il tono della voce a beneficio dei due ufficiali dell'Intelligence.

Uscirono tutti dalla camera di degenza e si ritrovarono nella stanza attigua, che era quella da cui partiva la scala per andare al piano inferiore.
Ritenendo chiusa la questione del trasferimento di von Rohr, il capitano medico salutò e tornò alle sue occupazioni.
“Un bel tipo anche quell’Allen,” osservò Linwood sarcastico quando il dottore se ne fu andato. “Siete tutti cavalieri della Tavola Rotonda, qui? Non c'è nessuno che si limiti ad eseguire gli ordini senza sentire il bisogno di fornire il proprio parere in merito?”
“Probabilmente siamo gente un po' all'antica,” rispose Stuart sullo stesso tono, “non molto al passo con i tempi. Crediamo ancora che l'onore e il rispetto valgano qualcosa, pensi un po' quanto siamo strani.”
A quelle parole Linwood strinse gli occhi fino a renderli due minacciose fessure. “Non tiri troppo la corda, Stuart,” sibilò lentamente, “la mia pazienza non è infinita e comincio ad averne abbastanza delle sue sparate moraliste.”
“Che coincidenza,” replicò l'altro senza lasciarsi impressionare, “anch'io sono piuttosto stanco del suo cinismo e della sua grettezza.”
“Ma c'è una differenza fra noi due: io posso farla condannare per alto tradimento, lei no.”
“Ma certo, lei è Dio, può fare quello che vuole!” rispose Stuart alzando la voce a quell'ennesima minaccia. “Lei può anche prendere un prigioniero, farlo passare per criminale e impiccarlo senza perderci un minuto di sonno!”
“La smetta con queste idiozie! Stiamo combattendo una guerra, non una partita di cricket, e dobbiamo vincerla a qualsiasi costo, con qualsiasi mezzo!”
“Anche mentendo e ingannando?”
“Certo, se sarà necessario! E le dirò una cosa: se tirando il collo a quel maledetto crucco fossi sicuro di salvare anche una sola vita inglese, lo farei adesso con le mie mani!”
“Von Rohr non è un criminale di guerra! Lei vuole uccidere un innocente!”
“In guerra gli innocenti non esistono!”
La lite andò avanti su quei toni per un po', poi i due tacquero, ansimanti e rossi in viso, e per lunghi secondi rimasero a fissarsi immobili.
“Basta così,” disse infine Linwood, “tra una settimana verrò a prendere quel dannato nazista, e lei me lo farà trovare pronto per il trasporto, oppure ci saranno due esecuzioni e non una.”
Se ne andò senza attendere risposta.

Padrone del campo dopo una disastrosa vittoria di Pirro, per un tempo imprecisato il maggiore Stuart rimase semplicemente immobile al centro della stanza. Si guardava intorno attonito, come se stentasse a riconoscere ciò che lo circondava.
Gli sembrava di vivere in un sogno, infatti. O più che altro in un incubo. Si sentiva come un animale braccato che vede le vie di fuga chiudersi una dopo l'altra.
Che fare? Aveva sette giorni, poi Linwood sarebbe tornato per portare via von Rohr. Lo rivide come gliel'avevano mostrato all'alba, stremato e coperto di sangue, e si rese conto che non sarebbe riuscito a sopportare per la seconda volta uno spettacolo del genere.
Stava angosciosamente ragionando fra sé e sé quando sentì dei rumori provenire dall'altra stanza. In preda ad un orribile presentimento tornò nella camera di degenza e trovò von Rohr seduto sul letto.
Era spaventoso a vedersi: aveva lo sguardo febbrile e ansava per quello che doveva essere stato un tremendo sforzo. Alcune ferite si erano riaperte e il sangue scuro rigava una pelle altrimenti bianca come gesso.
“Maggiore...” mormorò faticosamente, con una voce roca che metteva i brividi. “Io... non sono un criminale di guerra. Io ho combattuto secondo le regole.”
“Ha sentito tutto?” domandò Stuart correndo verso di lui, anche se il profondo turbamento del ragazzo appariva una risposta più che eloquente.
“Non sono un criminale di guerra,” ripeté il tedesco caparbio, “non ho paura di morire, ma il disonore non lo accetto.”
In preda a chissà quale inquietudine, d'impulso si alzò in piedi. Il maggiore, che ormai era a pochi metri da lui, lo vide farsi d'improvviso cereo e barcollare alla ricerca di un appiglio.
“Tenente!” gridò raggiungendolo, “Hans!”
Lo afferrò un attimo prima che crollasse al suolo e lo strinse a sé.
Istintivamente il ragazzo gli circondò il collo con le braccia e rimase pesantemente appoggiato a lui, così vicino che il maggiore sentiva il suo cuore battere all'impazzata.
E anche il proprio, per inciso.
“Hans,” ripeté piano, “non devi alzarti.”
L'altro rinsaldò per tutta risposta la stretta intorno al suo collo. “Non lasciarmi,” mormorò con voce appena udibile.
A quel punto, le difese che entrambi avevano faticosamente eretto giorno dopo giorno crollarono di colpo, come una diga cede improvvisamente alla pressione dell'acqua tumultuosa. Come guidate dall'attrazione reciproca, le loro bocche si unirono in un lungo bacio ardente e disperato.

Un rumore al piano di sotto li fece trasalire. Con le labbra che ancora sfioravano quelle del ragazzo, Stuart mormorò: “Non qui. Se ci scoprissero sarebbe la fine.”
Ma non si risolveva a lasciare von Rohr.
Qualcuno stava salendo. Con la stessa sofferenza che avrebbe provato strappando via una parte di sé, Stuart si obbligò infine a sciogliere l'abbraccio e aiutò il ragazzo a sdraiarsi nuovamente sul letto.
Un attimo dopo entrò il capitano medico dicendo: “Mi sembrava di aver sentito qualcuno litigare.” Poi fissò il maggiore e si accorse che aveva il volto acceso e l'uniforme macchiata di sangue.
“Che è successo?” chiese stupito.
“Il tenente von Rohr voleva alzarsi,” rispose l'altro, col tono più neutro che riuscì a tirare fuori, “ho dovuto afferrarlo per evitare che cadesse a terra.”
“Oh, capisco.” disse Allen. Si avvicinò al prigioniero. “Lei deve rimanere sdraiato,” lo redarguì, “è ancora troppo debole. E poi guardi cos'ha fatto: alcune ferite si sono riaperte. Se si comporta così le resteranno delle brutte cicatrici.”
“Lo terrò presente, signor capitano medico,” mormorò il giovane tedesco, ancora turbato per quanto era accaduto solo poco prima.
Chiuse gli occhi con un sospiro lasciando che Allen gli sistemasse le medicazioni.
Stuart capì che era il momento di andarsene. Il giovane aveva interrotto volontariamente il contatto visivo per permettergli di allontanarsi prima che l’ attrazione reciproca lo rendesse impossibile.
Lasciò precipitosamente la stanza, scese incespicando le scale e uscì dall'infermeria col cuore in tumulto, pregando che il capitano medico non avesse capito il vero motivo del suo turbamento.
Una volta all'esterno, si accese una sigaretta con mani tremanti, aspirando il fumo come ossigeno dopo una prolungata apnea.
Si ravviò nervosamente i capelli, inspirò ad occhi socchiusi come per calmarsi. Doveva cambiarsi subito l'uniforme, ma dove mettere quella insanguinata che aveva addosso? Non poteva certo lasciarla da lavare, si sarebbero fatti delle domande, ma d'altra parte non poteva nemmeno lavarla lui stesso, anche quello avrebbe suscitato domande.
Sospirò irresoluto, con la sensazione di essere un assassino che tenta di nascondere le prove del delitto commesso.
Andò svelto alla canonica, deciso perlomeno a riconquistare il decoro prima che qualcuno dei suoi uomini lo vedesse in quelle condizioni.
Volutamente evitò di pensare a von Rohr. Erano tali e tante le implicazioni di ciò che era appena accaduto che al momento non se la sentiva di affrontarle.

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


Valsgärde 25 Capitolo 25

Seguirono tre giorni d'inferno per il maggiore.
Per prima cosa, non sapeva nulla di von Rohr. Il prigioniero era ricoverato in infermeria, ma lui non osava andare a chiedere sue notizie. Evitava addirittura di accennare all'argomento se per caso incontrava il capitano medico al circolo ufficiali.
Il che salvava le apparenze, o almeno così si augurava lui, ma lo lasciava a rimuginare dolorosamente per ore sulle condizioni del giovane tedesco.
L'aveva visto prostrato, nemmeno in grado di reggersi in piedi. Si era ripreso nel frattempo? E le ferite si stavano chiudendo senza problemi? Mangiava adeguatamente? Stava bene?
Domande destinate a rimanere senza risposta, che gli toglievano sonno e concentrazione.
Quelle tormentose preoccupazioni non erano peraltro il solo motivo per cui passava le notti in bianco: anche altri pensieri, angosciosi e pressanti come e forse più dei primi, lo opprimevano giorno e notte.
L’aveva baciato. Un bacio profondo, ardente. Quello che avrebbe potuto scambiarsi con l’amore della sua vita, carico al tempo stesso di passione e tenerezza. Non ricordava di avere mai baciato neanche Margaret in quel modo.
Per quanto ci rimuginasse, però, l'accaduto non gli suscitava l’orrore che si sarebbe aspettato.
Anzi, gli era piaciuto baciare Hans von Rohr.
Quella era la cosa che lo sconvolgeva maggiormente: il fatto di non riuscire a provare repulsione per un atto che lui stesso fino a quel momento aveva sempre con veemenza definito ‘contro natura’.
Era una situazione assurda, paradossale: combatteva tutti i giorni contro i tedeschi, però si struggeva per uno di essi, arrivando al punto di provare un'innaturale attrazione nei suoi confronti.
Non aveva senso.
Eppure era ciò che stava accadendo, inutile fingere. Era un'ossessione anormale, disonorevole, che avrebbe potuto costargli la carriera, la libertà e forse anche la vita, ma non riusciva a togliersela dalla testa.
Gli sembrava anzi di essere posseduto, mosso da una volontà che non gli apparteneva. Ogni suo pensiero era per lui, da quando apriva gli occhi all'alba a quando li chiudeva la notte, sempre che riuscisse a dormire e non passasse anche quelle ore a rimuginare su di lui. Con la mente riandava in continuazione a quei pochi minuti trascorsi nell'infermeria, lo rivedeva anelante, con le labbra umide per il bacio appena ricevuto, gli occhi socchiusi e la testa appena reclinata all'indietro in un atteggiamento che evocava desiderio e arrendevolezza.
E invariabilmente quando pensava a lui in quel modo il cuore gli balzava nel petto e si sentiva le cosiddette farfalle nello stomaco.
Aveva l'impressione di essere intrappolato nelle sabbie mobili: più si dibatteva e più affondava.

Il quarto giorno fu il medico a cercarlo.
Entrò nel suo ufficio con un atteggiamento che gli parve cauto in maniera sospetta e poi rimase a fissarlo con un'aria stranamente irresoluta, come se dovesse dire qualcosa di molto spiacevole ma non trovasse il coraggio di farlo.
Il maggiore si obbligò a rimanere impassibile. Non può averlo saputo, si ripeteva, anche se non riusciva a liberarsi dell'impressione di avere la colpa scritta in fronte come una specie di marchio di Caino.
“Ebbene, capitano Allen, cosa c'è?” domandò, col tono in apparenza più tranquillo e noncurante del mondo.
Il medico parve farsi decisamente imbarazzato. Evitando lo sguardo del suo superiore, dopo qualche secondo di esitazione esordì: “Ecco, signore, si tratta del prigioniero.”
Stuart sentì un brivido gelido percorrergli la schiena. Sa tutto! pensò angosciato, e subito si buttò a vagliare le possibilità di salvezza che gli si presentavano: negare? Indignarsi? O era meglio ammettere quello che era successo e cercare comprensione nel capitano Allen in quanto medico?
Forse aveva sbagliato a comportarsi come se von Rohr non esistesse nemmeno. Quell'atteggiamento di ostentato disinteresse era diventato in realtà una spudorata ammissione di colpa. Del resto, se il tenente fosse stato un prigioniero come tutti gli altri, non avrebbe visto nulla di male nell'informarsi ogni tanto delle sue condizioni.
Ma von Rohr non era un prigioniero come tutti gli altri, questo ormai doveva essere chiaro ad ogni uomo della base.
La voce del capitano lo distrasse bruscamente dalle sue tormentose meditazioni: “Temo per la sua incolumità, maggiore.”
Stuart ebbe la stessa sensazione di quando si apre il paracadute dopo centinaia di metri in caduta libera. Rimase metaforicamente appeso al salvifico ombrello, contemplando con surreale calma ciò che prima aveva visto come la morte certa che gli veniva incontro a velocità vertiginosa.
“Per... la sua incolumità?” ripeté perplesso, faticando ad articolare le parole per via della bocca secca.
“Suppongo non ignori che il caporale Grice ha il dente avvelenato con i tedeschi,” spiegò Allen.
L'altro annuì. Il sottufficiale aveva perso una parte della famiglia nel corso di un bombardamento e non faceva mistero del suo odio per i nemici.
“L'ho sorpreso un paio di volte ad aggirarsi intorno all'infermeria,” riprese il capitano medico, “e quando gli ho chiesto cosa stava facendo mi ha dato risposte piuttosto insolenti.”
“Mi sta chiedendo di punirlo, capitano?”
“No, signore. Le sto chiedendo di riportare il prigioniero nella sua cella. Mi sentirei molto più tranquillo sapendolo ben chiuso e al sicuro.”

Di nuovo nella chiesa, von Rohr giaceva immobile sul letto. Non ricordava molto del trasferimento dall'infermeria alla sua vecchia prigione. Durante la degenza il medico aveva largheggiato con la morfina, probabilmente pensava che non fosse in grado di sopportare un po' di dolore, e quindi aveva passato tutto il tempo immerso in uno sgradevole dormiveglia. Aveva qualche vago ricordo di qualcuno che lo aiutava a mangiare o gli cambiava le fasciature, ma il resto era nebbia.
Non sapeva nemmeno quanto tempo fosse passato. Quanto mancava allo scadere della settimana?
Perché una cosa la ricordava bene, nonostante i sedativi: Tra una settimana verrò a prendere quel dannato nazista.
Rammentò che quando era piccolo la sua governante tentava di spaventarlo dicendogli che se avesse fatto il cattivo il diavolo sarebbe venuto a prenderlo, e lui regolarmente si appostava dietro la porta della sua camera con qualche oggetto contundente per sorprenderlo prima che lo facesse lui.
Bei tempi.
Sospirò. Allo svanire degli effetti della morfina la lucidità pian piano ritornava, e con essa tutti i pensieri che il farmaco gli aveva fino a quel momento impedito di elaborare.
All'inizio era stato tutto molto semplice: gli inglesi sono nemici, sbagliato dare confidenza, giusto tentare la fuga con ogni mezzo.
Poi le cose si erano complicate, esattamente come una pianta che quando nasce è composta da un solo stelo, ma crescendo fa spuntare diramazioni e germogli.
Gli inglesi avevano acquisito connotazioni umane, tanto per cominciare. Non erano più un generico nemico da tenere a distanza, si erano trasformati in una persona con un carattere ben definito, con principi e ideali.
Una persona che gli aveva fatto battere il cuore, e che aveva suscitato in lui sentimenti che fino a quel momento non aveva mai provato per nessuno.
L'aveva baciato. Così, senza nemmeno pensarci. Un attimo prima era aggrappato al suo collo per non cadere, un attimo dopo aveva la bocca incollata alla sua come aveva visto accadere solo nei film.
E la cosa tragica era che ci aveva provato gusto.
Gli era piaciuto, era successo proprio quello che gli avevano sempre descritto i ragazzi che avevano già avuto delle esperienze: si era sentito leggero, euforico e con la testa fra le nuvole. Poche volte aveva provato qualcosa di così bello in vita sua.
E tutto questo con un maschio.
Avrebbe potuto invocare la debolezza, per quello che era accaduto, l'ottundimento derivante dai sedativi, ma sarebbe stata solo una patetica ipocrisia. Alla fine era successo come per il vino: aveva bevuto il primo sorso per calcolo, ma poi la cosa gli era piaciuta e non era più riuscito a porsi un limite.
Si mise cautamente seduto. Come tutte le volte che rimuginava su argomenti particolarmente impegnativi aveva bisogno di camminare, quindi scese dal letto e seminudo com'era prese a passeggiare su e giù. Gli effetti della morfina lo rendevano fastidiosamente instabile e zoppicava ancora un po' per via dei punti nella coscia, ma come sempre si impose di perseverare.

Quando nel tardo pomeriggio il maggiore tornò alla canonica, von Rohr era talmente assorto nei suoi pensieri che non si accorse nemmeno di lui.
La tenda era rimasta leggermente aperta, e da quello spiraglio Stuart poteva vedere il ragazzo che percorreva a passi lenti la navata, la testa china in un atteggiamento di faticosa ponderazione.
Pensò che sarebbe stato facile attraversare il corridoio alla chetichella e raggiungere le sue stanze senza farsi sentire, ma stranamente non si decideva a farlo. Il suo unico movimento anzi fu un impercettibile passo di lato, che lo portò ad occultare la sua persona dietro la tenda, così che se von Rohr avesse guardato da quella parte non sarebbe riuscito a scorgerlo.
E poi rimase lì a spiarlo, con un atteggiamento a metà fra la meraviglia di osservare un animale selvatico nella foresta e la morbosità del voyeur che sbircia attraverso il buco della serratura.
Il ragazzo non indossava che la biancheria intima. Le ferite più gravi erano ancora bendate, ma le altre stavano cominciando a guarire e non erano ormai che scure linee sottili.
Stuart fissava rapito il portamento orgoglioso delle sue spalle larghe, la sua schiena muscolosa, e il modo in cui la stoffa bianca delle mutande si tendeva sulle natiche sode ad ogni passo.
Poi, quando von Rohr si girava per tornare indietro, lasciava indugiare lo sguardo sui muscoli addominali, che si contavano ad uno ad uno, e sui fasci dei quadricipiti, che ad ogni passo guizzavano tonici. E qualche volta lo sguardo si spostava anche in mezzo alle gambe.
Si sorprese a deglutire.
In quel momento il giovane ufficiale si immobilizzò bruscamente e alzò nella sua direzione occhi che fiammeggiavano d'ira.
Il maggiore ebbe la consapevolezza che il tedesco si era accorto della sua presenza, e si sentì perduto. Che fare? Filarsela con discrezione? Passare come se niente fosse? Rimanere immobile nella speranza che von Rohr stabilisse di essersi ingannato?
Difficile fregare l'aquilotto con trucchi così meschini.
“C'è qualcuno?” chiese infatti il giovane, facendo un paio di passi in avanti. Continuava a scrutare con uno sguardo così acuto che dava l'impressione di riuscire a vedere anche attraverso la spessa stoffa della tenda.
“Stuart?”
“Hans,” lo chiamò il maggiore spostandosi nel suo campo visivo.
“Mi stavi... mi stava spiando?”
Il tedesco continuava a fissarlo. Stuart notò che era riaffiorata l'espressione rabbiosa e diffidente dei primi tempi, e se ne sentì profondamente dispiaciuto.
“Io...” il maggiore si frugò in tasca. “Io volevo restituirti il tuo distintivo della Hitlerjugend. So che ci tieni.”
Glielo tese attraverso le sbarre come aveva fatto la prima volta. L'aveva recuperato dal mucchio di stracci insanguinati che erano stati l'uniforme della Luftwaffe di von Rohr e l'aveva conservato sapendo quanto il giovane ufficiale tenesse a quel piccolo oggetto.
“Cosa sarebbe, lo zuccherino per ammansire il cavallo?” lo gelò il tedesco, fermandosi a qualche metro da lui.
Mentre Stuart s'arrabattava per trovare una risposta, l'altro impetuosamente lo rimbrottò: “Tu... lei mi stava guardando il posteriore!”
Il che avrebbe forse fatto ridere, se la frase non fosse stata proferita con un tragico misto di rabbia e delusione.
“Hans, io...”
Von Rohr arretrò, ma era ancora malfermo sulle gambe e inciampò in un'asperità del pavimento, finendo lungo disteso per terra. Tentò di alzarsi, ma una fitta di dolore troncò il gesto a metà.
Rimase ad ansimare semisdraiato, in un atteggiamento che ricordava quello del Galata morente, e Stuart non riusciva a pensare ad altro che alla sua avvenenza e a come in quella posizione egli fosse più bello che mai.

Superato l'attimo di smarrimento, il maggiore spalancò il cancello e corse da lui.
Vedendolo arrivare, Hans von Rohr si irrigidì. In realtà non sapeva nemmeno lui perché si stesse comportando in quel modo. Forse un qualche istinto atavico, o un'antica diffidenza nei confronti del nemico che comunque non mancava di farsi sentire.
Ipocrisia borghese, di cui era opportuno liberarsi: se non avesse voluto baciare Stuart, se non avesse voluto intimità con lui, non avrebbe dovuto fare altro che tirarsi indietro. Il fatto che ciò non fosse successo denotava chiaramente che certe cose non erano accadute contro la sua volontà.
Quindi che senso aveva adesso risentirsi per le occhiate lascive che l'inglese gli aveva rivolto?
Peraltro doveva ammettere che non gli dispiaceva la vicinanza del maggiore: Stuart riusciva a comunicargli al tempo stesso la passione di un amante e la tenerezza del vecchio amico a cui si può dire tutto. Era una persona rassicurante, alla quale si sarebbe volentieri affidato, se per la sua mentalità fosse stato concepibile affidarsi a qualcuno.
Quindi lasciò che gli circondasse il torso con le braccia, e che lo aiutasse a rialzarsi. Gli piacque, anzi, sentire le sue mani calde che lo accarezzavano, e aspirò con un certo piacere il lieve odore di colonia che emanava. Era profumo di pulito, e lui amava le cose pulite.
Quando furono in piedi, il maggiore sommessamente gli disse: “Non dovevi alzarti, sei ancora troppo debole.”
Von Rohr, che gli stava circondando il collo con un braccio, semplicemente rispose: “La debolezza non va assecondata.”
Dopo quella frase rimasero in silenzio, dritti al centro della navata, i cuori che battevano l'uno contro l'altro all'unisono.
Poi le loro labbra si unirono in un bacio. Non il divorarsi febbrile della volta precedente, ma un lento assaporarsi, un addentrarsi l'uno nell'altro come appassionati d'arte alla scoperta di una collezione preziosissima e nascosta.
“Voglio fare l'amore con te,” disse Hans von Rohr quando il bacio terminò.
La richiesta colse Stuart talmente alla sprovvista che si staccò da lui e lo fissò sconcertato. La perentorietà di quel giovanotto aveva immancabilmente il potere di spiazzarlo.
“Non... non è necessario, se non vuoi,” balbettò incerto, distogliendo lo sguardo dal suo. Non è che non avesse mai preso in considerazione l'idea di portarselo a letto, i suoi sogni ne erano la prova, ma un conto erano le fantasie, un conto era fare davvero l'amore con un maschio.
“Se te l'ho chiesto è perché lo voglio,” rispose imperterrito il ragazzo. “Ora che ho capito quello che sento per te, voglio andare fino in fondo.”
“Credo che neanche uno Spartano dei tempi di Licurgo mi avrebbe fatto una dichiarazione del genere,” mormorò interdetto il maggiore.
“Arrivati a questo punto, fermarsi sarebbe da ipocriti,” disse l'altro per tutta risposta, “le cose si fanno fino in fondo, o non si fanno per nulla.”
Stuart si astenne dal domandargli se quella determinazione adamantina fosse dovuta ai sentimenti che provava per lui o alla sua necessità di coerenza.
Alzò lo sguardo: von Rohr lo stava fissando.
“Non adesso,” gli disse, “tra un po' sarà servita la cena in mensa, e verranno a portare da mangiare anche a te. Non credo sarebbe opportuno che ci sorprendessero.”
L'altro rimase in silenzio.
“Stanotte. Verrò da te stanotte,” gli assicurò il maggiore, rinculando verso il cancello. “Stanotte” ripeté prima di uscire.

Stuart arrivò in mensa piuttosto frastornato. Come gli accadeva sempre, man mano che si allontanava dal giovane prigioniero una sorta di malia lo abbandonava e le cose cominciavano ad apparirgli sotto una prospettiva decisamente diversa.
Nella fattispecie, aveva appena promesso a un maschio che avrebbe avuto un rapporto sessuale con lui. Il che non era solo immorale e contro natura, era anche proibito. Se l'avessero scoperto ci avrebbe rimesso i gradi e sarebbe finito nel carcere militare.
Fu assalito da un dubbio atroce: e se fosse stato proprio quello il perverso intendimento del giovane nazista? Magari il Terzo Reich disseminava qua e là ufficiali avvenenti che in realtà avevano il compito di sedurre e trascinare nella perdizione i loro omologhi delle nazioni nemiche.
Ci ragionò un po' su. Piuttosto macchinoso come piano, mandare dei bei ragazzi nella speranza di far cadere in tentazione gli ufficiali inglesi. Forse sarebbe stato meglio paracadutare delle ragazze, se lo scopo era quello, magari vestite in modo succinto.
Con lui aveva funzionato, comunque.
Era a quell'imbarazzante punto delle sue elucubrazioni quando lo raggiunse Poynter. “Il tuo simpatico inquilino si è ristabilito?” gli domandò il capitano per prima cosa.
“Che vuoi che ne sappia?” gli rispose bruscamente Stuart, ancora turbato dai sospetti su cui stava ragionando.
L'altro fece spallucce. “Te l'hanno riportato in casa, immaginavo avessi dato un'occhiata a come sta.”
“E perché avrei dovuto?” ringhiò il maggiore. Nel rispondere aveva alzato leggermente la voce, e più d'uno dei piloti si girò stupito a guardarlo.
A quella vista, Stuart corresse immediatamente il tiro: “Volevo dire, non ho avuto tempo. Ma suppongo stia bene, altrimenti non l'avrebbero fatto uscire dall'infermeria.”
Prima che Poynter potesse ribattere spostò la conversazione sui nuovi aerei in arrivo. L'argomento interessava a tutti e in breve von Rohr venne dimenticato in favore delle prestazioni dello Spitfire.
Le discussioni divennero anzi così animate che dopo un po' nessuno si accorse che lui aveva smesso di prendervi parte.
Questo gli diede l'agognata possibilità di riflettere su quello che sarebbe successo di lì a poco.
Naturalmente avrebbe potuto rifiutarsi. Il prigioniero era chiuso in cella e inerme. Gli sarebbe bastato semplicemente passare davanti alla sua prigione ignorandolo e tutto si sarebbe risolto per il meglio.
Molto semplice, in teoria, ma inattuabile in pratica, dal momento che se von Rohr non aveva fisicamente alcun potere su di lui, in realtà dal punto di vista morale ne aveva moltissimo.
La sua determinazione, per esempio. Poteva forse dimostrarsi vile, di fronte ad un coraggio che sfiorava l'incoscienza?
Poteva dimostrarsi tentennante e incerto, di fronte a una volontà che sembrava in grado di smuovere le montagne?
Senza contare che una parte di lui ardeva di desiderio al pensiero di ciò che sarebbe successo. Una parte che rievocava in continuazione la voluttà del lungo bacio che si erano scambiati e gli sussurrava suadente che un piacere ben più grande era in attesa di essere delibato.
Ringraziò che la giacca dell'uniforme scendesse ben sotto l'inguine, perché altrimenti non avrebbe saputo come giustificare l'imbarazzante gonfiore che gli deformava il davanti dei calzoni.
Trascorse il tempo che mancava all'ora di ritirarsi come un condannato in attesa dell'esecuzione.
Quando si decolla, vi è un punto della pista che viene definito di non ritorno, perché passato quello non è più possibile interrompere la manovra.
Ciò che stava per accadere, Stuart lo capiva bene, era il suo personale punto di non ritorno: una volta fatto ciò che aveva in animo di fare, tutto sarebbe cambiato. Le prospettive sarebbero state stravolte, i valori redistribuiti.
Di nuovo pensò ai cavalieri di Wolfram von Eschenbach, che pur essendo nemici erano comunque uniti dall'etica e dall'onore.


Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***


Capitolo 26

La canonica non gli era mai parsa così opprimente. Le due finestre e la porta, bordate di pietra bianca, componevano nel buio la sinistra figura di un teschio, che lo fissava con vuote orbite accusatorie. Il richiamo di un uccello notturno risuonava nell'aria fredda come una lugubre trenodia.
Si fermò interdetto: che cosa stava per fare?
Avrebbe tradito Margaret, con un uomo peraltro. Avrebbe tradito il suo Paese, la fiducia dei suoi uomini...
No, era follia. Non poteva, non doveva lasciarsi tentare da quel demone lascivo.
Corse dentro, attraversò il corridoio a passi rapidi. Ebbe la fugace visione di un volto pallido che lo fissava nel buio, ma s'impose di non voltarsi. Si rifugiò nella sua camera come se qualcuno lo stesse inseguendo e sedette sul letto ansante, col cuore che gli batteva all'impazzata e le mani tremanti.
Passò così un tempo imprecisato. Stuart era immobile nel buio. Il silenzio era così perfetto che gli sembrava di sentire von Rohr che camminava su e giù per la navata.
Una cosa impossibile, dal momento che il giovane era a piedi nudi e quindi i suoi passi non producevano alcun rumore.
Quel pensiero gli fece ricordare che il tedesco indossava solo la biancheria intima, dal momento che i suoi vestiti si erano ridotti a brandelli, e quindi doveva avere molto freddo.
Subito balzò dal letto, accese la candela con gesti febbrili e corse a spalancare le ante dell'armadio. Raccolse i pochi indumenti civili che vi trovò, se li mise sottobraccio e si diresse alla chiesa.
Quando si affacciò al cancello, von Rohr era molto meno infreddolito del previsto. Giaceva prono sul letto con la coperta che gli arrivava solo fino a metà schiena, e sembrava tranquillamente addormentato.
Stuart rimase a fissarlo rapito: era come guardare Endimione, o Ganimede, o qualsiasi altro bel giovane della mitologia classica. Immaginò di affondargli le dita fra i capelli dorati, e poi di far scorrere la mano più giù, lungo la schiena, fino a spingerla sotto la coperta, alla ricerca di quelle natiche sode che tante volte avevano turbato le sue fantasie.
In quel momento, von Rohr aprì gli occhi, si sollevò appoggiandosi su un gomito e lo fissò serio. “Sei venuto per quello?” gli chiese dopo alcuni secondi di silenzio.
Stuart avrebbe voluto rispondere che no, mai e poi mai avrebbe acconsentito a quello, che non voleva fare altro che dargli dei vestiti per coprire quelle nudità che avrebbero dannato un santo, ma si trovò a lasciar cadere l'involto che aveva sottobraccio e ad avanzare verso di lui con l'incosciente pervicacia di un sonnambulo.

Lo afferrò per un polso, come nel sogno. Lo fece alzare in piedi e a passi rapidi si diresse con lui alla propria camera.
Lo spinse verso il letto. Von Rohr vi si adagiò senza una parola e rimase a guardarlo mentre si liberava frettolosamente dell'uniforme lasciandola in un mucchio sul pavimento.
Quando vide che era nudo, si spogliò completamente a sua volta, quindi sempre in perfetto silenzio si distese disciplinatamente in posizione prona, con le mani vicino alle spalle e le gambe leggermente divaricate. Sembrava che qualcuno gli avesse impartito il comando ‘a terra’.
Stuart dovette faticare per non sorridere affettuosamente. “Ma no, Hans. Non così.”
Il giovane si voltò verso di lui: per la prima volta da quando lo conosceva aveva un’espressione imbarazzata. “Non va bene?” gli chiese. Dava l’impressione di aspettarsi un rimprovero. “Non l’ho mai fatto,” si scusò dopo qualche secondo.
Il maggiore sorrise: vederlo mentre si muoveva cauto e intanto lo fissava di sottecchi alla ricerca della sua approvazione lo colmava di tenerezza.
Allungò una mano ad accarezzargli i capelli, poi si sedette sul letto accanto a lui. “Ecco, Hans…” tentò di spiegare, “quando due persone stanno insieme non dev’essere una cosa meccanica… come un’esercitazione. Ci deve essere sentimento.”
L’altro lo guardava in silenzio.
“Sentimento, capisci? Passione, desiderio.”
Mentre parlava fece scorrere la mano dalla nuca del giovane alla sua schiena, e poi più in basso. Quando arrivò alle natiche, Hans fremette mordendosi il labbro.
“Ti piace così?”
Con le guance vagamente arrossate, il giovane accennò di sì con la testa.
Stuart si sentì percorrere da un’ondata di eccitazione. Aver scoperto finalmente un ambito dell’esistenza in cui von Rohr passava da eroe adamantino a scolaretto impacciato gli conferiva tutta la sicurezza che fino a quel momento gli era mancata, e lo faceva diventare singolarmente ardito.
Approfondì il contatto rendendolo più intimo, piegandosi frattanto a baciarlo sul collo, poi lo rivoltò delicatamente sulla schiena e si allungò accanto a lui continuando a baciarlo e ad accarezzarlo.
Per un po' Hans lo lasciò fare senza quasi reagire, ma era dotato di un carattere molto passionale, e superata una prima fase di insicurezza cominciò a rispondere in modo sempre più pronto e vigoroso alle sollecitazioni dell’amante.
Stuart si scoprì peraltro depositario di una sapienza che fino ad allora non aveva nemmeno immaginato di possedere. Con una sorta di istinto, più che sulla base di considerazioni razionali, era in grado di toccare il corpo del giovane in modo da farlo letteralmente vibrare di desiderio.
Si chiese se fosse un retaggio che gli derivava dall'appartenere ad una casta militare. In fondo erano un uomo e un ragazzo, uniti dal fatto di essere entrambi soldati, come ai tempi di Licurgo.
E come in tante altre società guerriere della Storia, prima e dopo Sparta.
Abbassò gli occhi su di lui: egli lo guardava ansante, gli occhi resi liquidi dal desiderio erano più chiari e trasparenti che mai.
Mentre ricambiava il suo sguardo gli parve così naturale ciò che stava per fare, così appropriato, che si stupì di tutti gli scrupoli che l'avevano tormentato fino a quel momento.
Fu quindi con sicurezza che allungò la mano verso il flacone dell'olio per armi, con la consapevolezza di stare facendo la cosa giusta.
“Non ho altro,” si scusò con un sorriso, e prima che l'altro potesse rispondergli, se ne servì su se stesso e su di lui.
Poi si fermò mentre un brivido gli percorreva la schiena: era il momento. Ebbe una strana sensazione, come di un rituale iniziatico che doveva essere portato a compimento, e fu con quello stato d'animo che si accostò al ragazzo.
“Voglio guardarti negli occhi,” disse Hans, girandosi sulla schiena e protendendo le braccia verso di lui.
Stuart gli accarezzò piano una guancia. “Tu non fai mai niente ad occhi chiusi, vero?”
“Voglio ricordarmi per sempre di questo momento,” replicò il ragazzo.
“Anch'io.”

Tornarono attoniti alla realtà dopo un tempo imprecisato. Il fuoco della passione era ormai sopito, il rombo del sangue nelle orecchie, che prima li aveva storditi con la sua violenza, era scomparso e tutto era silenzio. Lucide di sudore, le membra rabbrividivano ora nell’aria fredda della notte.
I due erano ancora abbracciati, le gambe intrecciate, le labbra così vicine che i respiri si confondevano. Tra i loro corpi avvinti scivolava perlacea l’effusione del piacere.
Stuart fu il primo a riprendersi. Si sollevò su un gomito e rimase a fissare in volto il giovane amante, la cui severa bellezza si stemperava ora in un'espressione di sensuale appagamento.
Gli accarezzò la guancia col dorso delle dita e gli chiese: “Non ti ho fatto male, vero?”
Nella foga che l'aveva pervaso era stato piuttosto rude e probabilmente aveva dato qualche strattone di troppo agli svariati punti di sutura che Hans aveva ancora sparsi sul corpo.
Von Rohr però nel frattempo era riuscito a recuperare la sua patina inossidabile e lapidario rispose: “Nella Hitlerjugend si impara ad ignorare il dolore.”
Quella frase ebbe il potere di riportare Stuart alla realtà contingente. Si mise a sedere, si pulì sommariamente con una salvietta e tendendone una al ragazzo gli disse: “Prendi questa. Quando hai finito vieni di là con me.”
Si diresse verso il salotto.

Quando von Rohr lo raggiunse, il maggiore era seduto sulla sua solita poltrona. Non aveva altro indumento che una coperta buttata sulle spalle, e aveva davanti a sé una mappa ripiegata, un foglio e una matita. “Vieni qui,” gli disse, vedendolo avvicinarsi.
Il ragazzo prese posto a sua volta nella poltrona che era solito occupare e rimase a fissarlo in silenzio.
Stuart aprì la mappa sul tavolino. Indicò un paese. “Qui è dove siamo noi,” disse. Circondò la località con un cerchio di matita.
Prese poi il foglio, cominciò a tracciarvi linee precise.
“Questo è il perimetro del campo,” spiegava, continuando a disegnare, “qui ci sono le torrette delle guardie, questi sono gli sbarramenti di filo spinato, qui ci sono gli alloggiamenti degli uomini, questo è il percorso delle sentinelle. La ronda c'è ogni ora...”
Il foglio andava coprendosi di segni e simboli mentre il maggiore continuava ad elencare tutte le difese del campo.
Von Rohr lo fissava in silenzio, immobile come una statua.
“Ecco qui,” disse alla fine Stuart, spingendo il foglio verso di lui, “questo lo puoi tenere. La pistola e i soldi sono nel mio comodino. I vestiti che ti ho dato ti staranno un po' grandi, ma è meglio di niente. Buona fortuna.”
Sempre senza una parola, il tenente raccolse la piantina del campo e la osservò come se non avesse mai visto nulla di simile in vita sua, quindi alzò lo sguardo fino a fissarlo in quello di Stuart e avvicinò un angolo del foglio alla candela accesa. Subito la carta prese fuoco e cominciò ad ardere con una fiamma sempre più alta e chiara.
“Che fai?” esclamò il maggiore. Cercò di afferrargli la mano, ma l'altro fu rapido a sottrarsi.
Lasciò che il foglio bruciasse completamente, abbandonandolo solo quando era ormai ridotto ad un cartoccio di cenere che finì di consumarsi sul pavimento.
“Perché l'hai fatto?” gli chiese allora Stuart costernato, “hai sentito anche tu cos'hanno detto quelli dell'Intelligence: se non te ne vai, ti uccideranno.”
“Ma se me ne vado uccideranno te.”

Il maggiore rimase a fissarlo allibito per parecchi secondi, poi spostò lo sguardo dal suo viso risoluto al mucchietto di cenere sul pavimento, come per sincerarsi che ciò che aveva visto fosse realmente accaduto e non fosse stato solo uno scherzo della sua fantasia.
I resti carbonizzati del foglio erano ancora lì.
“Perché l'hai fatto?” ripeté.
“Te l'ho detto.”
“Ma quelli stavano solo cercando di fare la voce grossa!” gli assicurò l'altro con calore, “volevano spaventarmi. Non rischio nulla, sta tranquillo. Tu, piuttosto, devi andartene via subito. Non riuscirò a proteggerti ancora per molto.”
Von Rohr scosse la testa e caparbio ripeté: “No, ho sentito bene quello che hanno detto. Se non potranno portare via me, prenderanno te.”
Il maggiore sospirò esasperato.
“Ti accuseranno ingiustamente,” tentò, “morirai nel disonore. È questo che vuoi?”
“Se me ne vado, questa fine toccherà a te,” fu la risposta.
Di nuovo passarono alcuni angosciosi secondi di silenzio.
“E quindi cosa vuoi fare?” gli chiese Stuart disperato, “vuoi startene qui ad aspettare che ti vengano a prendere e ti impicchino come un criminale?”
C'est la guerre, me l'hai detto tu il primo giorno, ricordi? È andata così, recriminare non serve a nulla.”
La testa fra le mani, Stuart non replicò. Fu invece von Rohr che dopo un po' disse: “Godiamoci questi ultimi giorni insieme, è tutto quello che abbiamo.”
“Dannazione...” cominciò Stuart. Si alzò di scatto dalla poltrona. La coperta gli scivolò giù dalle spalle, ma lui parve non farci nemmeno caso. Prese a passeggiare nervosamente su e giù con i pugni stretti e lo sguardo fiammeggiante.
“Dannazione,” ripeté, “maledetto tedesco testa di legno e cocciuto, ti ho aperto la porta, ti ho fatto la mappa del campo, ti ho anche dato armi e soldi! Prendi la tua roba e vattene, fammi questo favore!”
“Se me ne vado, tu muori,” rispose freddamente il giovane.
“E se non te ne vai sarai tu a morire, lo capisci?” replicò furioso il maggiore. “E io non voglio che tu muoia, che Dio ti strafulmini!”

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***


Valsgärde 27 Capitolo 27

Silenzioso come un’ombra, il capitano Poynter scivolò all’interno dell’hangar principale. Era pomeriggio inoltrato, quell’ora a cavallo delle effemeridi in cui non si facevano più voli di guerra ma non era ancora completamente buio, ed era proprio il momento in cui i meccanici tendevano a manifestare minore entusiasmo per il loro dovere.
Se potevano sgattaiolavano via, o tiravano fuori qualche bottiglia, oppure si mettevano a fumare e a chiacchierare fra loro.
Il che alla fin fine non era poi così grave, si trattava perlopiù di bravi ragazzi volonterosi e a quell’ora avevano senz’altro diritto a un po’ di riposo, ma non era comunque male fare ogni tanto qualche controllo a sorpresa, giusto per tenere alto il livello di attenzione.
Il capitano percepì immediatamente una conversazione sulla quale si inserivano risatine soffocate.
Si avvicinò con cautela.
“Ehi, guardate questa!” diceva uno.
“Che roba, da non crederci!” rispondeva un altro.
Altre risate, altri commenti increduli e divertiti.
“Ma sul serio?”
“Se te lo dico io!”
I meccanici sembravano spassarsela un mondo.
Poynter stette ad ascoltare per un po’. I ragazzi non si erano accorti di lui, per cui ebbe modo di avvicinarsi cautamente e buttare uno sguardo a quello che stavano facendo.
C’era una bottiglia che passava di mano in mano, ma quello al momento gli parve il problema minore. Addirittura le sigarette accese all’interno dell’hangar, che normalmente scatenavano la sua ira funesta, erano poco più che bazzecole, paragonate ai disegni che gli avieri stavano con grande ilarità ammirando.
“Datemi subito quei fogli!” intimò bruscamente, palesandosi all’improvviso.
Colti di sorpresa, i ragazzi sussultarono e rimasero a fissarlo immobili, senza nemmeno fare un tentativo di nascondere i vari ‘corpi del reato’ sparsi in giro.
Il più alto in grado, un caporale, con gran sfoggio di buona volontà gli tese la bottiglia mezza vuota, ne recuperò un’altra piena e gli consegnò anche quella, poi spense la propria sigaretta e ordinò a tutti gli altri di fare altrettanto.
A questo punto lo fissò speranzoso.
Ma Poynter non era più il buon vecchio Poynter sempre pronto a scherzare. Aveva anzi un cipiglio che metteva i brividi.
“I fogli,” ordinò inflessibile, “datemeli tutti.”
“Ma signore…”
“Adesso.”
Tese la mano, che rimase immobile a mezz’aria minacciosa come un’arma.
“Signore, per favore,” tentò di nuovo il graduato, “passeremo i guai.”
“È esattamente quello che vi meritate.”
“I ragazzi non volevano fare niente di male…”
“E lei, caporale, che cosa pensava di fare?” lo interruppe bruscamente il capitano, “Perché non è intervenuto quando si è accorto di questo scempio? Perché invece di stare qui a ridacchiare come una specie di scimmia non ha preso i nomi dei colpevoli e non ha fatto rapporto?”
Seguirono alcuni lunghi secondi di silenzio.
“Io… credevo che non fosse così grave, signore,” si decise a dire il giovanotto, col tono di chi affronta la morte.
“Ah, lei credeva?” Fuori di sé dalla rabbia, con gli occhi che mandavano lampi e le mascelle contratte, il gioviale capitano era irriconoscibile. “Ora queste cose andranno a finire dal comandante, e vedremo cosa ne pensa lui delle sue credenze. Voglio i nomi di tutti i presenti, tanto per cominciare.”
Tirò fuori dalla tasca un minaccioso taccuino.

Una volta uscito dall’hangar, Poynter andò subito alla ricerca di Stuart.
Lo trovò che si stava recando al circolo ufficiali. “Devo parlarti,” gli disse asciutto, fermandolo mentre aveva già un piede sulla soglia.
L’altro parve piuttosto disorientato da quell’insolita risolutezza. “Che c’è?” gli domandò perplesso.
“Devo parlarti subito.”
“Ma… certo, entriamo e sediamoci.”
“Devo parlarti da solo.”
Incurante delle occhiate perplesse che gli rivolgevano gli altri piloti, il capitano lo afferrò per un braccio e si diresse rapido verso la baracca del comando, che a quell’ora era vuota. Lo spinse dentro.
“In nome di Dio, vuoi dirmi cosa c’è?” gli chiese il maggiore facendo qualche passo nella stanza semibuia.
Senza una parola, Poynter trasse di tasca i fogli e li sparse sulla scrivania.
Quando ebbe visto di cosa di trattava, Stuart ringraziò che ci fosse poca luce, perché era sicuro di essere sbiancato.
Erano caricature, che ritraevano in modo grottesco lui e von Rohr impegnati in attività erotiche di ogni genere.
“Io… non capisco,” balbettò, appena si fu ripreso abbastanza da ritrovare la voce.
“Detesto dire ‘te l’avevo detto’, George,” rispose Poynter.
Stuart non replicò. Andò a passi lenti verso la finestra e rimase a fissare ostinatamente il campo che andava scomparendo nel crepuscolo.
Alle sue spalle si fece nuovamente udire la voce dell’amico: “Sono ragazzi semplici, non puoi pretendere che capiscano certe cose.”
“Che intendi dire?”
“Beh…” cominciò Poynter con un certo imbarazzo, “non hai smistato von Rohr con gli altri prigionieri di guerra, te lo sei tenuto nella chiesa, hai preso a male parole quei due dei Servizi Segreti che se lo volevano portare via. Sono tutte cose che facilmente si possono prestare ad interpretazioni errate.”
“Devo preoccuparmi dell’opinione degli avieri, adesso?” ringhiò Stuart, sempre senza voltarsi.
“Non sei tenuto a farlo,” concesse l’altro, “ma tu sai bene che per un comandante di Squadron avere il rispetto degli uomini è di importanza vitale.”
Di nuovo, il maggiore non rispose. Non avrebbe saputo cosa rispondere, in effetti. Si sentiva sul ponte di una nave che affonda, o all'interno di un palazzo che sta crollando: sapeva che avrebbe dovuto fare qualcosa, ma al tempo stesso gli era chiaro che nulla di ciò che avrebbe potuto fare l'avrebbe salvato.
La voce di Poynter gli calò sulla nuca come la mannaia del carnefice: “Lascialo perdere. Forse siamo ancora in tempo a salvare la situazione, ma bisogna che ti liberi di lui.”
“Tu non puoi capire,” rispose Stuart.
E davvero era convinto che il bravo Poynter, così pieno di buon senso e ironia, non avrebbe mai capito il piacere al tempo stesso demoniaco e divino di stringere quel corpo muscoloso, di divorare di baci quelle labbra che riuscivano ad essere contemporaneamente severe e sensuali, di ascoltare sospiri che da soli valevano la dannazione eterna della sua anima.
Rievocò con un brivido di voluttà l'istante in cui si era appoggiato contro il suo corpo fremente apprestandosi a penetrarlo per la prima volta. Aveva ancora davanti agli occhi il suo volto arrossato dal piacere, sul quale si leggeva un commovente misto di risolutezza, curiosità, timore e desiderio.
“Nessuno può capire,” disse.
A quelle parole il capitano lo fissò come se lo vedesse per la prima volta. “Gesù Cristo, George, non puoi parlare sul serio!” protestò raggiungendolo.
Lo prese per le spalle, e scuotendolo vigorosamente esclamò: “Diamine, ragiona! Sei un ufficiale, sei un comandante! Siamo in guerra! Ti sembra il momento di metterti a giocare al Battaglione Sacro? Con un nemico, per di più?”
Stuart si lasciò scrollare senza opporre resistenza, ascoltò l'altro con volto singolarmente inespressivo e alla fine lapidario proferì: “Non è un gioco.”
Poynter lo mollò come se scottasse. “Come sarebbe a dire che non è un gioco?”
Poi, senza attendere risposta, rapidamente aggiunse: “Beh, lascia perdere. Qualsiasi cosa sia, qui dobbiamo salvare il salvabile. Mandalo via, liberati di lui, fatti visitare dal dottor Allen e digli che ti serve una licenza perché hai i nervi scossi, io intanto cercherò di far calmare le acque...”
S'interruppe: sembrava di parlare con un manichino. Il maggiore aveva di nuovo lo sguardo perso fuori dalla finestra.
“George?”
Nessuna risposta.
“George, Dio santo, tu ti sei bevuto il cervello!”
Il maggiore rimase ancora una volta in silenzio. Poynter stette per un po' a fissarlo preoccupato, ma era come se l'amico avesse eretto un muro fra sé e lui.
Non poté fare altro che stringergli amichevolmente il braccio e dirgli: “Non venire in mensa stasera. Hai una faccia che spaventerebbe Belzebù in persona, sembra che tu abbia visto un fantasma. Vattene da qualche parte a riflettere, io inventerò una scusa qualsiasi per giustificare la tua assenza.”
“D'accordo.”
“E pensa a quello che ti ho detto.”
Stuart non rispose.

Rimasto solo nella baracca del comando ormai buia, Stuart in effetti pensava.
Tutto stava andando a rotoli, inutile negarlo. Gli uomini sapevano. O se non sapevano, immaginavano, il che all'atto pratico faceva poca differenza.
La mattina aveva richiuso in cella von Rohr per salvare le apparenze, ma in una sorta di autodistruttiva noncuranza non gli era venuto in mente di togliere gli indizi di quello che era successo durante la notte. Cosa poteva aver pensato il suo attendente, trovando un flacone di olio per armi sul comodino e due asciugamani con macchie inequivocabili in giro per la stanza?
Non ci voleva molta fantasia per indovinarlo.
Del resto, se giravano disegni come quelli che gli aveva mostrato Poynter, era segno che gli uomini avevano già capito cosa stava succedendo.
Presto avrebbero saputo anche gli ufficiali, se non sapevano già, e poi i suoi superiori, i suoi familiari e infine Margaret.
La tragedia era che non gliene importava niente.
Per quanto ci ragionasse, per quanto pensasse alle conseguenze potenzialmente gravissime – disonore, vergogna, corte marziale – di quello che stava accadendo, tutto ciò scompariva come neve al sole allorquando rivolgeva il pensiero a Hans von Rohr.
Di più: visto che il tedesco aveva consapevolmente scelto la morte e il disonore per salvarlo, era come se lui volesse in qualche modo emularlo.
Una cosa perfettamente irrazionale, questo era chiaro, che come minimo vanificava il sacrificio di von Rohr, ma era come se una voce gli ripetesse costantemente che se non potevano salvarsi insieme almeno avrebbero bevuto insieme l'amaro calice.
Uscì dalla baracca del comando e andò alla canonica come un drogato si sarebbe diretto ad una fumeria d'oppio, consapevole che vi avrebbe trovato il più inebriante piacere ma anche la più abietta rovina.

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Capitolo 28 ***


Capitolo 28

In mensa Poynter fu accolto da occhiate indagatrici e da un silenzio carico di aspettativa.
Più d'uno aveva notato la precipitazione con cui aveva portato via Stuart, e di sicuro nel tempo che loro due avevano impiegato a discutere, i piloti dovevano aver formulato sulla faccenda le più varie ipotesi.
“Il maggiore non si sente bene,” annunciò con tono neutro.
Dal fondo della sala, a voce abbastanza bassa da non essere identificato ma sufficientemente alta da essere udito, qualcuno disse: “Avrà fatto indigestione di crauti.”
Il capitano fece finta di non aver sentito e la frase impertinente cadde in un imbarazzato silenzio.
La cena procedette in un clima da monastero di clausura. Gli unici suoni che si udivano erano il lieve acciottolio delle stoviglie e il tintinnio smorzato delle posate. Nessuno alzava la testa dal proprio piatto.
Esentato dall'obbligo della conversazione, Poynter ne approfittò per riflettere su quanto stava accadendo.
Che quel tedesco avesse una potente carica destabilizzante se n'era accorto abbastanza in fretta, come in fretta si era accorto che da quando aveva a che fare con lui George aveva cominciato a comportarsi in modo strano, ma di certo non avrebbe immaginato neanche con la più perversa delle fantasie quello che in effetti era accaduto: il suo amico, normale, fidanzato, mai dato segno di tendenze strane da quando lo conosceva, per qualche inspiegabile motivo si era innamorato di lui.
Ora, a prescindere dal perché e percome di tutta la faccenda, bisognava fare qualcosa in fretta.
La voce era corsa, bastava guardarsi intorno per averne una conferma. Gli ufficiali facevano battute, e la truppa si dilettava di vignette satiriche. In questa débâcle Stuart, perso nella sua follia, sembrava indifferente a qualsiasi cosa che non fosse il suo diabolico mangiacrauti.
In condizioni del genere lo Squadron sarebbe presto finito allo sbando, e George avrebbe fatto una brutta fine. Inutile dire che la cosa non gli andava per niente bene.
Cosa fare, però?
Mancavano pochi giorni al ritorno dei due ufficiali dell'Intelligence. Tutto perfetto, teoricamente. Si sarebbero finalmente portati via la Mata Hari in pantaloni e la faccenda si sarebbe con gran sollievo chiusa.
Sempre che Stuart non si inventasse qualche altro modo per trattenere il tedesco, sempre che non si mettesse a fare scenate come quella dell'infermeria, udita, a quanto raccontavano, persino dai segnalatori a bordo pista.
Farli venire in anticipo? Il giorno dopo, magari?
Avrebbe dovuto trovare una scusa, e soprattutto spiegare il motivo per cui aggirava l'autorità del comandante dello Squadron e agiva di sua iniziativa.
Inoltre Stuart non gliel'avrebbe mai perdonato.
E lì si pose un altro problema: il tuo migliore amico è drogato, che fai? Gli butti via la droga sapendo che poi ti odierà per tutta la vita o lo aiuti a trovare il modo di indulgere nella sua dipendenza senza subirne i danni?
Se fosse stato un vero amico, avrebbe dovuto eliminare quel tedesco con un colpo di pistola: Ha cercato di fuggire e io l'ho fermato. Ah, è morto? Pazienza, c'est la guerre. E fine della trasmissione.
In realtà non se la sentiva di abbattere quel giovanotto a sangue freddo, neanche per una motivazione assennata come quella che stava ponderando.
Ma qualcosa doveva fare, questo era chiaro. E doveva farlo in fretta.

Sprofondato sulla sua poltrona, immerso in pensieri tormentosi, Stuart guardava fisso davanti a sé senza in effetti vedere niente.
Aveva la coperta della sera prima come unico indumento, ma non sentiva freddo. Il ricordo di ciò che aveva appena fatto era sufficiente a riscaldarlo.
La candela ardeva sul tavolino ormai quasi consumata. La sua luce tremolante lasciava intravedere la stanza attigua e in essa il letto, sul quale era adagiato in un atteggiamento di languido abbandono Hans von Rohr.
Il maggiore si voltò verso di lui e per un po' ne contemplò in silenzio il corpo nudo.
“Vattene,” disse alla fine.
Il ragazzo alzò la testa e si sollevò appoggiandosi su un gomito. “No.”
“Vattene, fallo per me. Per favore.”
“No, se me ne vado ti uccideranno.”
Stuart si alzò faticosamente e lo raggiunse. “Se non te ne vai uccideranno te,” disse sedendosi sul letto e allungando una mano ad accarezzargli piano i capelli, “è questo che vuoi?”
Impassibile, von Rohr rispose: “In tutte le caserme della Germania c'è una scritta sul muro, proprio nell'atrio d'ingresso. Vuoi sapere cosa dice?”
“Sentiamo.”
“Siamo nati per morire.”
Il maggiore si morse un labbro. “Hans, hai diciannove anni,” disse, continuando ad accarezzargli lentamente i capelli.
“Non è che tu sia molto più vecchio di me.”
L'altro non replicò, cercare di spuntarla in una discussione con lui era una battaglia persa in partenza.
Con un sospiro affranto si adagiò al suo fianco e per un po' rimase semplicemente a contemplare il soffitto con un braccio dietro la testa.
Se si guardava intorno vedeva solo una distesa di metaforiche rovine. Era tutto finito: Hans sarebbe morto, la sua rispettabilità era distrutta, la sua autorità presso gli uomini perduta. Forse avrebbe addirittura subito un processo, piombando irrimediabilmente nel disonore e nella vergogna.
“Mayerling,” disse con voce incolore, rivolgendo un’occhiata al cassetto che conteneva la pistola.
Von Rohr si voltò verso di lui. “Prego?”
“La tragedia di Mayerling, il doppio suicidio dell’Arciduca Rodolfo e di Mary Vétzera.”
“Sembra che in realtà siano stati uccisi,” fu il lapidario commento del tedesco, “lui perché era sfavorevole all’alleanza con la Germania e lei perché era una testimone scomoda, e che poi per coprire il tutto sia stata inventata la storia degli amanti disperati.”
Stuart si sedette nuovamente. “Il che non cambia la nostra situazione, comunque.”
“Nulla può cambiarla ormai.”

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Capitolo 29 ***


Capitolo 29

L’esplosione fu così potente che mandò in frantumi tutti i vetri della camera, fece cadere un paio di mensole cariche di libri e scaraventò Poynter giù dal letto.
Svegliato di soprassalto, il capitano imprecò, si vestì sommariamente e corse alla finestra: in mezzo al piazzale c’era un cratere di due metri, da esso scaturivano fiamme che nel grigiore dell’alba brillavano di un vivido arancione.
La gente si stava riversando all’esterno, l’aria era lacerata dal lugubre ululato delle sirene antiaeree, dappertutto si udivano tramestio concitato, richiami e ordini.
Seguirono altre esplosioni, questa volta sul perimetro del campo. La contraerea entrò in azione, vomitando piombo contro le nubi basse. Le scie luminose dei traccianti riempirono il cielo ancora scuro.
Dall’alto proveniva il rombo di numerosi bombardieri. Non era il solito gruppetto di Stuka che scaricava un po’ di bombe e andava via, stavolta era una cosa in grande stile.
Un’altra esplosione assordante, un’ala dell’edificio crollò in un fragore da fine del mondo sollevando una nube di polvere.
Sbattuto a terra da un rovente spostamento d’aria, Poynter si rialzò rapido e corse all’esterno.
Fuori sembrava che fosse in corso l’apocalisse: l’aria era una caligine in cui vorticavano nugoli di scintille, su tutta la superficie del campo piovevano bombe e dappertutto era un fischiare di micidiali schegge. Già vi erano i primi morti, e le urla dei feriti si sovrapponevano alle deflagrazioni e al rombo sordo dei crolli.
Il bagliore degli incendi dava alla base devastata l’aspetto di un girone infernale.
Chi poteva saltava a bordo dei caccia e decollava, per sottrarre gli aerei alla distruzione, tutti gli altri sciamavano verso i rifugi.
Poynter stava correndo verso gli hangar quando vide una bomba cadere proprio accanto alla chiesa. L’esplosione scosse l’edificio fino alle fondamenta, mandando in frantumi tutte le vetrate rimaste e facendo crollare una parte del campanile.
Subito l’ufficiale fece dietro-front e si diresse più veloce che poteva all’alloggio di Stuart.

Le antiche pietre rovinarono al suolo con un rombo cupo e la navata si riempì di polvere. Dall’alto piovevano schegge di vetro e frantumi di piombo, i lampadari ondeggiavano come navi in tempesta, le vetuste catene che stridevano sinistramente prossime a spezzarsi.
Stuart e von Rohr, che si stavano dirigendo verso la porta, arretrarono precipitosamente per evitare il crollo e tornarono indietro nel tentativo di guadagnare un’altra uscita.
Attraversarono il salotto, devastato al pari del resto. Le due poltrone erano rovesciate e le librerie cadute avevano sparso in giro tutto ciò che contenevano.
Incespicando su suppellettili frantumate i due si diressero verso la finestra, solo per esserne respinti dal poderoso spostamento d’aria di un ordigno caduto a pochi metri di distanza.
L’atmosfera si fece ancora più irrespirabile, già balenava in un angolo il bagliore sanguigno di un incendio. Da fuori giungevano urlio confuso, sirene e detonazioni.
Ansante, Stuart afferrò il giovane per un braccio e lo spinse nella camera da letto, unica stanza al momento risparmiata dalla distruzione, e nel farlo si soffermò a pensare all’assurdità della situazione: stava lottando per salvare se stesso e von Rohr pur sapendo che entro tre giorni il ragazzo sarebbe stato prelevato dall’Intelligence e ucciso, e lui si sarebbe sparato un colpo alla tempia.
“Dobbiamo andare al rifugio!” esclamò nondimeno.
Era pur sempre il comandante dello Squadron, e gli uomini contavano sulla sua presenza. O almeno si augurava che fosse ancora così.
In quel momento si fece udire una voce dall’esterno: “Ehi, voi due!”
“John!” disse il maggiore stupito.
“Forza, venite fuori,” rispose Poynter, “non c’è un minuto da perdere!”
I due uscirono dalla finestra, Stuart non poté trattenere un’esclamazione di orrore nel momento in cui si rese conto a pieno della distruzione che regnava ovunque.
La voce del capitano lo riportò bruscamente alla realtà: “Muoviamoci!”
Si diresse rapido verso gli hangar.
“I rifugi sono dall’altra parte,” gli fece notare Stuart.
“Non ci servono i rifugi, abbiamo bisogno di un aereo,” fu la brusca replica del capitano.
“Un aereo? Perché?” chiese stupito il maggiore.
Un'esplosione vicinissima costrinse i tre a buttarsi a terra. “Dobbiamo andare ai rifugi prima di farci ammazzare tutti!” insisté Stuart.
“No, ho un piano,” rispose Poynter con sicurezza, poi si rialzò imitato dagli altri, spazzolandosi via la terra e i detriti che l'esplosione gli aveva scaraventato addosso. Con un sorrisetto compiaciuto spiegò: “Ora il nostro ospite germanico prende un caccia e decolla. In mezzo agli altri non sarà notato, e quando tutto sarà finito tu, George, dirai all’Intelligence che è stato spappolato da una bomba e io giurerò sulla testa di mia madre che è la pura verità. Se lui ha fortuna e non si fa abbattere, se ne torna in Francia e la faccenda è risolta.”
A quelle parole seguirono alcuni secondi di silenzio attonito. Infine von Rohr incredulo gli chiese: “Lei vorrebbe darmi un aereo e farmi scappare? Sta parlando sul serio?”
“Mai stato così serio. A prescindere dalle mie personali opinioni in merito, il mio amico tiene molto a lei. Poiché io tengo molto al mio amico e non voglio che faccia sciocchezze a causa sua, questo mi sembra un buon sistema per salvare capra e cavoli.”
“Ma... com'è possibile?”
“Conosce il proverbio? Ponti d'oro al nemico che fugge. Se lei mi fa la cortesia di togliersi da qui, sono anche disposto ad accompagnarla personalmente dal suo Führer.”
“E se tornano tutti i vostri piloti ma alla fine manca un aereo? Non si faranno delle domande?” volle sapere ancora von Rohr, apparentemente impermeabile al sarcasmo del capitano.
“Nel caso, io e George ritoccheremo un po' la lista degli aerei distrutti al suolo. Uno più uno meno, chi vuole che ci faccia caso?”
“Capisco.”
“Ma ora muoviamoci, un'occasione del genere non si ripeterà. Almeno spero.”

C'era rimasto un solo aereo nell'hangar. Nessuno aveva avuto il coraggio di prenderlo, perché si trattava dello Spitfire nuovo del maggiore.
“Che meraviglia!” non poté trattenersi dall'esclamare von Rohr vedendolo. Poi, rivolto a Stuart: “Non posso accettarlo.”
“Non è un regalo,” s'intromise Poynter prima che l'altro avesse modo di rispondere con qualche romanticheria, “è una questione di sopravvivenza. Nostra, più che sua. Ora, da bravo, ci aiuti a farlo uscire e a controllare che ci sia il pieno di benzina.”
Von Rohr annuì in silenzio e fece quanto gli era stato chiesto.
Fuori era un inferno. Decollare sarebbe stato quasi impossibile, essendo la pista l’obiettivo principale dei bombardieri della Luftwaffe, ma in effetti il capitano inglese aveva ragione, non c'era altro da fare.
Poco lontano un hangar fu colpito in pieno da una bomba e collassò con lunghi gemiti di lamiere accartocciate.
“Devi andare!” lo ammonì Stuart.
Il giovane ufficiale annuì, ma non si risolveva a muoversi.
Poynter vide come i due si fissavano negli occhi, e con molto tatto decise di spostarsi dall'altra parte della fusoliera per controllare che la semiala di quel lato fosse ancora al suo posto.
Non appena il capitano scomparve alla vista, i due si gettarono l'uno fra le braccia dell'altro, baciandosi con disperata foga.

“Va’ ora,” disse infine a malincuore il maggiore, le labbra ancora indolenzite per l’ultimo avido bacio che lui e von Rohr si erano scambiati, “non c’è più tempo, devi andare.”
Il giovane salì sull’ala, ma prima di entrare nell’abitacolo si voltò verso Stuart e solennemente gli disse: “Questo è per te.”
Gli mise in mano il suo distintivo della Hitlerjugend.
Il pugno serrato sul piccolo oggetto, il maggiore rimase a guardarlo in silenzio. Tentò di imprimerselo nella memoria così, mentre si stagliava contro il cielo tormentato in piedi sull’ala del caccia, con lo sguardo fiero e i capelli appena scompigliati.
“Addio, Hans,” lo salutò.
“Ci rivedremo lassù,” gli promise il tedesco.
Poi gli girò bruscamente le spalle e si infilò nell’abitacolo.
La capottina di plexiglas si chiuse con un rumore secco, e qualche secondo dopo il rombo del Rolls-Royce Merlin coprì il fragore delle esplosioni.
L’aereo rullò sulla pista prendendo velocità.
Sotto lo sguardo angosciato di Stuart sbandò, si riprese, sobbalzò su un detrito rischiando di finire sull’erba e infine riuscì a involarsi nell’aria caliginosa.
Il maggiore emise un sospiro.
“Andiamo?” lo richiamò Poynter tirandolo per un lembo della manica, ma l'altro non si muoveva.
“Andiamo, su. Non vorrai che ci cada una bomba sulla testa proprio adesso.”
A malincuore Stuart staccò gli occhi dall’aereo che spariva all’orizzonte e si costrinse a seguire l’amico.

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Capitolo 30 ***


Capitolo 30

Ancora frastornato dopo gli ultimi eventi, von Rohr regolava meccanicamente i parametri di volo, secondo l’adagio per cui se in aereo non hai niente da fare probabilmente stai trascurando qualcosa.
Tutto andava bene, negli strumenti.
Le cose andavano meno bene nella sua testa, dove sembrava infuriare lo stesso bombardamento che si era abbattuto sulla base inglese.
Che cosa gli era successo? Era stato un sogno, un incubo, un momento di follia? Che cosa aveva ottenebrato la sua mente fino a fargli decidere di affrontare la morte con disonore per salvare un ufficiale nemico?
Ripensò a Stuart, al breve, struggente periodo trascorso insieme a lui. Rivisse la dolcezza piena di passione con cui si erano amati fisicamente.
E forse non solo fisicamente.
Ringraziò che la comparsa delle coste francesi richiedesse tutta la sua attenzione, perché non avrebbe avuto il coraggio di addentrarsi oltre in quei ragionamenti.
Scese di quota. Non doveva dimenticare che era a bordo di un aereo inglese: se i suoi l’avessero incrociato l’avrebbero scambiato per un nemico e molto probabilmente avrebbero tentato di abbatterlo.
Sarebbe stato il colmo, sfuggire in quel modo alla prigionia – e a tutto quello che la prigionia aveva comportato – per poi finire miseramente abbattuto dai propri camerati.
Riconobbe la zona che stava sorvolando. In previsione di missioni di guerra mai effettuate aveva studiato le mappe fino a consumarle, e ora finalmente tutte le conoscenze accumulate gli tornavano utili.
Si abbassò ancora di quota, pregando che non ci fosse qualche falco in missione di caccia libera alla ricerca del primo avversario della giornata.
In mancanza di meglio, stabilì che si sarebbe girato su un fianco e avrebbe mostrato la pancia all’arrivo di un eventuale avversario, esattamente come un cane quando si imbatte un suo simile più grosso. Sperò che quell’atto di sottomissione fosse sufficiente a far capire che non aveva intenzioni bellicose.

Per sua fortuna non incontrò nessuno.
Non ci mise molto comunque a ritrovare il campo da cui settimane prima era decollato a bordo dell’aereo di Müller. Era ancora lì, esattamente come l’aveva lasciato: la lunga pista in cemento, le baracche dei soldati, gli hangar, la villa padronale che fungeva da dimora per i piloti. Se guardava bene, vedeva anche il gruppetto di alberi sotto cui erano state disposte le tavolate per la famosa ‘festa’ del maiale arrosto.
Si sentì invadere da un empito di gioia simile a quello del naufrago che vede una nave muoversi nella sua direzione.
Ma non era ancora il momento di esultare: ora doveva atterrare senza danni. Era uno Spitfire che si presentava al limitare di un campo della Luftwaffe. Non poteva certo sperare di essere accolto da un picchetto d’onore.
Fece un basso passaggio scuotendo le ali. Vide la gente buttarsi a terra, e i serventi della FLAK correre ai posti di combattimento.
Un paio di piloti uscirono in combinazione di volo dalla villa e si diressero verso i Messerschmitt allineati davanti agli hangar.
Regolò la radio sulla frequenza dello stormo. “Maggiore Graf, capitano Müller,” chiamò, “qui è il tenente Hans Hartwig von Rohr. Ci sono io a bordo dello Spitfire che sta sorvolando il campo!”
Silenzio.
La FLAK mandò un paio di colpi di avvertimento, che esplosero a poca distanza da lui.
“Signor maggiore, dica di non sparare per favore, sono il tenente von Rohr!”
Fece uscire il carrello e si mise in finale per atterrare.
“Signor maggiore!” esclamò di nuovo, peraltro con una certa concitazione, scartando bruscamente per evitare un’altra salva della contraerea.
Finalmente la radio sembrò animarsi: “È proprio lei, tenente von Rohr?”
“Sì, signor maggiore, sono io! Si ricorda il Fieseler Storch coi polli?”
Dalla radio provenne una breve risata e poi Graf rispose: “Bentornato a casa, tenente.”

Quando finalmente fu a terra e a motore spento, von Rohr si accorse di essere esausto. Faticosamente uscì dall’abitacolo per andare incontro al comandante dello stormo, ma quando posò i piedi sul cemento barcollò penosamente e due avieri dovettero accorrere per sostenerlo.
Cercò comunque di raddrizzarsi all’arrivo del maggiore Graf. Lo salutò militarmente e col tono più marziale che riuscì a tirare fuori scandì: “Tenente von Rohr a rapporto, signore!”
L’altro lo fissò serio e una ruga di preoccupazione gli si formò sulla fronte ampia. “Lei ha bisogno di essere visitato subito da un dottore,” fu l’unica cosa che disse.
“Sì, signore.”
Nel frattempo si erano avvicinati altri piloti, la maggior parte dei quali stava ora girando con curiosità intorno all’aereo inglese.
“Un bel giocattolo, quello che ci ha portato,” apprezzò il capitano Müller.
“Gli facciamo mettere le insegne tedesche?” propose Faber.
Ma von Rohr, sempre più stremato, non riusciva nemmeno a rispondere.
“Sembra che abbia bisogno di dormire,” osservò qualcuno.
Il tenente in effetti aveva un disperato bisogno di dormire. Con il venir meno della tensione che aveva accompagnato il volo erano ritornati i ricordi ed egli bramava l’oblio del sonno più di qualsiasi altra cosa.

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Capitolo 31 ***


Capitolo 31

Il tenente von Rohr dormì ventiquattro ore consecutive, senza svegliarsi nemmeno quando il medico gli applicò di nuovo dei punti di sutura che nella concitazione della fuga si erano strappati.
Alla fine riaprì gli occhi stranito, e per un po' rimase semplicemente a guardarsi intorno come se non si capacitasse di ciò che lo circondava.
Sentì qualcuno parlare in tedesco nella stanza attigua, alla parete era appeso il ritratto del Führer. Accanto a lui, sul comodino, c’era un piatto con due fette di pane nero imburrate e della salsiccia.
Tutte cose rassicuranti, rasserenanti addirittura, ma che comunque non alleviavano di molto il dolore che lo tormentava.
Cautamente si mise a sedere sul letto. Lenzuola candide, odore di pulito. La finestra aperta lasciava vedere il cielo azzurro, i rumori del campo erano solo un’eco lontana.
Si prese la testa fra le mani come aveva visto fare tante volte al maggiore Stuart. Da una parte aveva una necessità pressante di ragionare su ciò che era accaduto, ma dall'altra non voleva farlo, perché ciò significava ripensare a lui, a quello che c’era stato fra loro e al fatto che lui non c'era e non ci sarebbe stato più.
Per un po’ il sonno l’aveva pietosamente protetto, ma gli era bastato aprire gli occhi perché le Erinni gli piombassero addosso e cominciassero a fare scempio della sua mente e della sua anima.
Una voce lo distrasse dalle sue angosciose meditazioni: “Finalmente si è svegliato, tenente von Rohr.”
Hans sussultò e si voltò in quella direzione come se fosse stato sorpreso a fare qualcosa di molto sconveniente. “Buon giorno, signor maggiore,” salutò.
Il comandante dello stormo si avvicinò, prese una sedia e si sedette accanto al letto. “Come sta ora?” s’informò.
“Sono pronto a riprendere servizio, signore.”
Il maggiore Graf lo fissò serio. A dispetto di quella scarna rassicurazione, il tenente sembrava tutto meno che pronto a riprendere il servizio. Era rientrato dalla prigionia sul suolo britannico in condizioni pietose e ai comandi di uno Spitfire appena uscito dalla linea di produzione. Per quanto ci avesse pensato, non riusciva ad immaginare una sequenza di eventi che collegasse in modo logico le due cose. “Mi vuole raccontare cos’è successo laggiù?” gli chiese.
“Preferirei di no, signore,” fu la risposta, che il tenente proferì con lo sguardo ostinatamente rivolto alla finestra.
Graf ritenne che non fosse il caso di insistere. Il medico gli aveva detto qualcosa, più che altro mezze frasi rese ancora più incomprensibili da complicati giri di parole, dalle quali però era riuscito a capire che il giovane ufficiale doveva aver subito sevizie contrarie all’onore di un soldato.
Non avrebbe giovato a nessuno tormentare oltre il povero ragazzo costringendolo a imbarazzanti descrizioni.
“Mi dica solo come si è impadronito di quell’aereo, prego.”
“C'è stato un bombardamento, nel corso del quale è crollata una parte dell’edificio in cui ero detenuto. Sono uscito, ho visto lo Spitfire pronto in linea di volo e approfittando della confusione l'ho preso e sono decollato.”
Von Rohr evitò di guardare il suo superiore: era la prima volta che mentiva in vita sua.
Sospirò. Evidentemente l'abisso di depravazione nel quale era piombato l'aveva reso già talmente abietto da fargli considerare menzogna e reticenza due comodi strumenti per evitare le situazioni spiacevoli, una cosa indegna di qualsiasi tedesco.
Faticava però a collocare nell'ambito della depravazione ciò che era successo tra lui e il maggiore Stuart. A suo parere, anzi, vi erano stati in quella breve ma intensa relazione nobiltà d'animo e spirito di sacrificio, coraggio e responsabilità.
Si era trattato quindi di un vero sodalizio virile, come quelli che aveva studiato nella Hitlerjugend.
Perché allora si sentiva così male quando ci pensava?
“La lascio riposare.” La voce del maggiore Graf lo riportò bruscamente alla realtà. “Il dottor Ebersbach dice che dovrà stare qui ancora qualche giorno, poi potrà riprendere il servizio normalmente.”
“Sì, signor maggiore.”
Von Rohr rimase solo coi suoi pensieri, e le Benevole ricominciarono a perseguitarlo.

L'indomani gli fece visita il capitano Müller.
“Come sta il nostro piccolo Hans?” lo salutò con disinvoltura, sedendosi tranquillamente sulla sedia che si trovava accanto al letto.
Il tenente lo fissò stupito.
“Lei ha fatto come il piccolo Hans della canzone,” spiegò Müller allegro, “è voluto andare da solo per il vasto mondo.”
“E poi sono tornato a casa dalla mamma, è questo che vuole dire?” domandò cupo von Rohr, pensando al testo della canzone.
“Via, non sia sempre così sulla difensiva. Ha avuto una brutta avventura, ma ha riportato a casa la pelle. Questo è già qualcosa, no?”
Passò qualche secondo di silenzio. Seduto sul letto con le gambe sotto le coperte e un pigiama un po' troppo largo addosso, von Rohr faceva davvero pensare a un bambino nei panni di un adulto.
“Non mi ha ancora detto come sta,” gli giunse la voce di Müller.
“Sono pronto a riprendere servizio, signore,” rispose l'altro meccanicamente.
Il capitano gli appoggiò una mano sulla spalla. Per un attimo fu quasi sul punto di domandargli perché avesse l'aria così triste, poi ci ripensò e disse: “Le porto un paio di belle notizie, von Rohr.”
Il tenente lo fissò serio. “Quali, signore?”
Müller, che non era tipo da perdersi d'animo, sorrise e spiegò: “Per prima cosa, ho convinto il vecchio a non punirla per quello che ha fatto. È ben vero che lei ha preso un aereo senza autorizzazione, ma in fondo si è fatto abbattere al posto mio, quindi credo che dovrei anche ringraziarla. E poi ci ha portato in cambio un bello Spitfire nuovo di zecca! Come minimo le daranno una promozione, per una prodezza del genere.”
Von Rohr preferì non rispondere, trovava indegno di un ufficiale tedesco mostrarsi soddisfatto per essere scampato ad una giusta punizione. Senza contare che avrebbe quasi preferito scontarla, sarebbe stato perlomeno un atto catartico.
“Non doveva disturbarsi, signore,” disse soltanto, al protrarsi del silenzio.
“Ah, sciocchezze!” rise Müller, il cui buonumore sembrava impossibile da scalfire, “lei è il mio nuovo gregario. Visto che avrà il dovere di proteggermi in aria, come minimo devo ricambiare proteggendola a terra!”
A quelle parole von Rohr si girò di scatto e lo fissò con occhi acuti come lame. “Il suo nuovo gregario?” ripeté, quasi non si capacitasse di quello che aveva appena udito.
“Esattamente, quindi veda di rimettersi in fretta. Il suo Messerschmitt 109 la sta già aspettando in linea di volo.”
“Davvero?”
“Deve contribuire anche lei alla vittoria finale, von Rohr,” rispose Müller ostentando un tono di serietà grave.
Lungi dal cogliere l'ironia della frase, raddrizzandosi nella persona il tenente rispose: “Sono qui per questo, signore.”
L'altro parve soddisfatto. “Benissimo, allora comincia a chiamarmi Heinz, perlomeno quando siamo in volo. Non penserai mica di dire frasi tipo 'signor capitano, nemici a ore undici', vero? Ora che ho capito cosa mi stai dicendo, ci hanno già abbattuti tutti e due.”
“Sì, signore.”
“Heinz.”
“Heinz, certo. Mi scusi. Scusa.”
Il capitano Müller dava l'idea di essere felicissimo della piega che avevano preso gli eventi. “Appena Ebersbach ti molla facciamo un volo di prova, che ne dici?”
Indeciso se usare il tu o il lei, von Rohr si limitò ad annuire.
Non poteva dire di essere felice per la notizia appena ricevuta, perché ciò che provava era qualcosa di molto più profondo rispetto a una semplice felicità. Era un senso di completezza, di appartenenza. Era la consapevolezza che presto avrebbe fatto ciò che era suo dovere fare, e che questa era cosa buona e giusta.
Si sentì come un cavaliere che ha appena ricevuto l’investitura.
“Ora che sei dei nostri,” riprese Müller, accentuando inconsapevolmente il senso di appartenenza iniziatica che aveva pervaso von Rohr, “e vista la tua bella prodezza coi Tommies, penso che tu abbia diritto al tuo emblema sull’aereo. Hai già qualche idea?”
Il tenente ci pensò un po’ sopra, poi sorrise e disse: “Sì, ce l’ho.”

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** Capitolo 32 ***


Capitolo 32

C’erano voluti giorni per ridare al 19° Squadron un’operatività accettabile.
Nel devastante raid compiuto dalla Luftwaffe, strutture della base e velivoli avevano subito danni ingenti, alcuni uomini erano morti e c’era stato un gran numero di feriti.
Praticamente era rimasta in servizio poco più della metà degli effettivi, e i rincalzi tardavano ad arrivare.
Seduto al sole davanti alla baracca del comando, Stuart lasciava vagare lo sguardo sulle rovine della chiesa. Poco dopo che lui e von Rohr ne erano usciti, una bomba l’aveva colpita in pieno. La navata aveva perso il tetto, il campanile già danneggiato era collassato su se stesso e della graziosa canonica non erano rimaste che macerie, dalle quali gli avieri avevano volenterosamente scavato fuori la maggior parte dei suoi effetti personali.
Le rovine della chiesa, comunque, erano niente rispetto alle rovine della sua anima.
Il bombardamento aveva avuto se non altro l'effetto di stornare l'attenzione di tutti dal suo rapporto con von Rohr, e quindi a livello di disciplina e relazioni interpersonali le cose erano tornate più o meno come al solito.
Essendo i soldati creature superstiziose, specialmente quando sono in guerra, i militari della base avevano trovato inequivocabili collegamenti tra il loro comportamento indisciplinato e l'apocalisse che si era abbattuta sullo Squadron, quindi ora esageravano dal lato opposto nel tentativo di liberarsi della loro hybris.
Tutto quello sfoggio di zelante disciplina paradossalmente faceva sentire ancora più a disagio il maggiore Stuart, che invece della sua personale hybris era ben lungi dall'essersi liberato.
Erano tali e tanti i motivi di dolore e vergogna che non sapeva da che parte cominciare a elaborarli.
Si ergevano a silenzioso monito, esattamente come i cumuli di macerie che costellavano il piazzale dove una volta sorgevano gli hangar.
Tanto per cominciare, aveva intrattenuto rapporti contrari all'onore di un soldato con un ufficiale nemico, poi gli aveva consegnato un aereo da guerra in perfette condizioni di volo e l'aveva spinto a fuggire. E come se tutto ciò non fosse stato sufficiente, aveva poi mentito ai suoi superiori dicendo che l'ufficiale nemico era perito nel bombardamento.
Se prima di quella storia qualcuno gli avesse detto che avrebbe fatto cose del genere, l'avrebbe senz'altro considerato pazzo.
Eppure era esattamente così che erano andate le cose. Sodomia, alto tradimento, azioni tese a favorire il nemico.
C'era gente che era stata fucilata per molto meno.
Per quanto grave, quello del tradimento nei confronti della Patria non era il solo problema che si trovava a fronteggiare.
Aveva tradito anche Margaret, per gradire. Con un maschio. Provandoci gusto.
Questo cosa faceva di lui? Un pervertito? Un pederasta? Ogni volta che enumerava gli epiteti che si attagliavano a ciò che era accaduto fra lui e von Rohr rabbrividiva d'orrore, e regolarmente finiva per dibattersi nelle sabbie mobili di elucubrazioni senza capo né coda: lo era anche prima? Lo era sempre stato e aveva ingannato tutti? Lo era diventato? E adesso? Che sarebbe successo? Lo sarebbe rimasto per sempre o sarebbe guarito?
E comunque, nonostante tutto von Rohr gli mancava.
Se pensava al tempo trascorso insieme a lui provava una nostalgia struggente, che diventava quasi un dolore fisico quando rievocava i particolari degli amplessi consumati.
Lo rivedeva nei suoi atteggiamenti tipici, quando lo fissava con aria di sfida oppure quando camminava su e giù per la navata della chiesa con passo marziale.
Si chiese con apprensione dove fosse, cosa stesse facendo. Era riuscito a tornare fra i suoi camerati? Stava bene?
Immaginò di stringerlo a sé, di accarezzarlo e baciarlo finalmente con la dolcezza che il frenetico precipitare degli eventi non gli aveva mai permesso di manifestare.
L'allarme antiaereo lo sorprese mentre indugiava in quelle immagini cariche di tenerezza e rimpianto.

In volo sulla Manica, Stuart perlustrava il cielo alla ricerca degli aerei della Luftwaffe.
Erano state segnalate coppie di Messerschmitt in missione di Freie Jagd, o caccia libera, il che significava aerei con la dichiarata missione di cercare caccia nemici, impegnarli in combattimento e possibilmente abbatterli.
Il maggiore si guardò attentamente intorno, ma il cielo sembrava sgombro. O i caccia erano andati da qualche altra parte, o era uno dei soliti falsi allarmi della difesa costiera.
Ne fu quasi dispiaciuto.
Sebbene per tacito accordo nessuno al 19° Squadron alludesse più al Cavaliere di Valsgärde, lui aveva voluto che l’emblema che l’aveva reso famoso tra gli Squadron inglesi, ovvero il leone che azzanna l’aquila dalla testa rossa, fosse riprodotto fedelmente su ogni suo nuovo aereo.
Se gli veniva chiesto il perché, era solito rispondere che si trattava di un portafortuna.
In realtà il motivo era del tutto diverso, e aveva a che fare con le ultime parole di von Rohr: ci rivedremo lassù.
Voleva che Hans fosse in grado di riconoscerlo.
Razionalmente la cosa non aveva senso, lo capiva da solo. A prescindere dall’insensatezza di fornire il proprio biglietto da visita al nemico, von Rohr poteva essere stato trasferito, poteva trovarsi in licenza di convalescenza, oppure poteva anche non essere mai arrivato in Francia, magari abbattuto proprio da qualche cacciatore tedesco alla ricerca di preda.
Eppure…
“A ore tre, contro il sole!” gridò Evans, che pilotava uno dei caccia più avanzati.
Stuart si girò in quella direzione: c’erano dei puntini all’orizzonte, quattro coppie. Apparivano e scomparivano nel riverbero dei raggi solari.
“Formazione da combattimento!” ordinò in frequenza, e subito tutti i suoi caccia si mossero con rapidità e precisione per intercettare il nemico.
La Luftwaffe intanto si avvicinava. Gli aerei tedeschi si erano distanziati e stavano velocemente salendo di quota.
Pochi secondi dopo, Spitfire e Messerschmitt presero a duellare furiosamente nel cielo terso, che in breve si trasformò in un calderone ribollente di traccianti, fumo e scie di condensa.
Gli aerei si inseguivano in combattimenti serrati, dando l’impressione di belve rabbiose che si contendessero una preda.
I pezzi di rivestimento alare strappati dai proiettili fluttuavano verso terra luccicando come pesci nell’acqua profonda.

Stuart diede il colpo di grazia a un avversario, che precipitò in vite lasciandosi dietro una scia di fumo nero.
Stava per correre a dare man forte ad uno dei suoi piloti in difficoltà quando si accorse che un caccia tedesco gli veniva incontro a tutta manetta dal fianco.
Resosi conto che in quella posizione era un bersaglio indifeso, cercò angosciato di scartare, ma il Messerschmitt, arrivato ad una certa distanza, senza apparente motivo interruppe l’attacco e scivolò d’ala per togliersi dalla sua traiettoria.
Nel momento in cui lo vide di profilo, Stuart notò che sulla capottatura del motore aveva dipinto lo stemma della Hitlerjugend.
Ebbe un tuffo al cuore. “Hans!” disse a voce alta.
Si buttò al suo inseguimento.
Il Messerschmitt si lasciò prendere di coda quasi con indolenza, procedette così per alcuni secondi e poi all’improvviso guizzò via lasciando il suo antagonista stupito e disorientato. Schizzò verso l’alto in un mezzo looping, poi completò la figura con un mezzo tonneau finendo per trovarsi a quota maggiore e in direzione opposta rispetto allo Spitfire.
L’inglese lo raggiunse un attimo dopo, ma il tedesco lo vide arrivare e si buttò in una picchiata verticale che lo sottrasse alla sua mira.
Andarono avanti così per un po’, avvicinandosi e allontanandosi con terribile grazia nella danza fatale del combattimento.
Il Messerschmitt si lanciò infine in una serie di ardite acrobazie, figure intessute nel cielo di smalto per la pura gioia del volo. Scosse poi le ali in un gesto di saluto e si diresse a tutta manetta verso le coste francesi.
L’ultima cosa che il maggiore vide fu un fugace brillio nella nebbia azzurrina dell’orizzonte, mentre Hans von Rohr scompariva come un sogno sul fare dell’alba.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3483958