Hard to say I'm sorry

di Hatsumi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Point Break (Punto di Rottura) ***
Capitolo 2: *** Every body needs time (Bisogno di tempo) ***
Capitolo 3: *** Memories (Ricordando) ***
Capitolo 4: *** Later Days (Ritardo) ***
Capitolo 5: *** Temporary (Temporaneo) ***
Capitolo 6: *** Hidden (Nascosto) ***
Capitolo 7: *** Silent Tears (Lacrime nel silenzio) ***
Capitolo 8: *** Weaknesses (Debolezze) ***
Capitolo 9: *** Demons (Demoni) ***
Capitolo 10: *** Appointmens (Appuntamenti) ***
Capitolo 11: *** Mirror, mirror (Specchio) ***
Capitolo 12: *** Pieces (Frammenti) parte prima ***
Capitolo 13: *** Pieces (Frammenti) parte seconda ***
Capitolo 14: *** The following day (Il giorno dopo) ***
Capitolo 15: *** Explanations (Spiegazioni) ***
Capitolo 16: *** Meeting Strangers (Conoscenze estranee) ***
Capitolo 17: *** Hidings behind a name (Particolari nascosti) ***
Capitolo 18: *** Dates or Appointments? (Incontri o appuntamenti?) ***
Capitolo 19: *** Waking up in a Nightmare (Svegliarsi in un incubo) ***
Capitolo 20: *** Who is what (Chi è cosa) ***
Capitolo 21: *** Living the pain (Vivere il dolore) ***
Capitolo 22: *** Road to Santa Monica (Viaggio per Santa Monica) parte prima ***
Capitolo 23: *** Road to Santa Monica (Viaggio per Santa Monica) parte seconda ***
Capitolo 24: *** Heaven is nowhere (Non c'è paradiso) ***
Capitolo 25: *** Facing Problems (Affrontare i problemi) ***
Capitolo 26: *** Real Intentions (Le Vere intenzioni) ***
Capitolo 27: *** Strange Suddenly Sadness (Strana, improvvisa tristezza) ***
Capitolo 28: *** Just Shocking (Scioccante) ***
Capitolo 29: *** Unexpected Breakdown (Crollo inaspettato) ***
Capitolo 30: *** Waiting for the day (Aspettando quel giorno) ***
Capitolo 31: *** Afraid of changes (Paura di cambiare) ***
Capitolo 32: *** Surprising Party (Festa con Sorpresa) ***
Capitolo 33: *** Goodbye, my Father (Addio, Padre) Parte Prima ***
Capitolo 34: *** Goodbye My Father (Addio, Padre) Parte Seconda ***
Capitolo 35: *** Harsh Words (Parole Dure) ***
Capitolo 36: *** Unsolved (Questioni Irrisolte) ***
Capitolo 37: *** Sorry Couldn't be enough (Scusarsi potrebbe non bastare) ***
Capitolo 38: *** Changing Habits (Cambiare abitudini) ***
Capitolo 39: *** Separate Ways (Strade Diverse) ***
Capitolo 40: *** Letting go (Ti lascio andare) ***
Capitolo 41: *** It's never a goodbye (Non un addio) ***
Capitolo 42: *** Running Out of Time (Corsa contro il tempo) ***
Capitolo 43: *** Don't go (Non andare) ***
Capitolo 44: *** No more wasted time (Basta perdere tempo) ***
Capitolo 45: *** All Comes to an End (Tutto ha una fine) Parte Prima ***
Capitolo 46: *** All Comes to an End (Tutto ha una fine) Parte Seconda ***
Capitolo 47: *** Epilogue (Epilogo) ***



Capitolo 1
*** Point Break (Punto di Rottura) ***


1. Point Break (Punto di Rottura)


!!! AVVISO !!!! (Relativo ai primi capitoli)
Ehi, sì dico proprio a te!
Vedo che hai deciso di aprire la mia storia e di questo ti ringrazio. Voglio però farti presente che il testo che stai per leggere è parecchio datato (prima metà 2009) e che ne esiste ora versione migliorata, riveduta e corretta. Lascio a te scegliere se continuare a leggere questa versione (che qui su EFP rimarrà così com'è) oppure scoprire dove puoi leggere la nuova versione (accompagnata da contenuti "speciali").
Se preferisci proseguire qui ti auguro BUONA LETTURA, in caso contrario, scorri fino ad arrivare in fondo a testo. GRAZIE!


. . . . .
-Ti voglio immediatamente fuori da questa casa.

Seduto sul letto con i gomiti appoggiati alle ginocchia e il viso bagnato dalle lacrime nascosto tra le mani, Christian parla con voce tremante. Rivolge quelle sue parole cariche di un profondo dolore, proprio all’uomo per il quale ha consacrato la sua vita e quell’uomo, se ne sta con la schiena appoggiata contro l’armadio, senza essere in grado di pronunciare una parola, quel grande uomo, così alto così ben disposto, sta forse provando paura per la prima volta nella sua vita.  

Paura di perdere l’unica cosa per la quale a detta sua fosse valsa la pena vivere in questo mondo corrotto e malato. Se sapesse, se ricordasse come si fa, potrebbe persino piangere. Sarebbe tuttavia fatica sprecata. La fossa in cui sta per essere sepolto se l’è scavata con le proprie mani.
Vorrebbe avvicinarsi a Christian, sedersi su quello stesso letto che hanno condiviso per quindici anni, accarezzargli quei suoi finissimi capelli biondi, cingere quella sua vita stretta e far finta che non sia accaduto nulla, come altre volte era capitato.  Ma questa volta è diversa dalle altre, questa volta non verrà dimenticata dopo una notte di amore e lacrime. Questa volta se la ricorderanno per sempre entrambi e rimarrà impressa sui loro corpi, come una scritta indelebile.

Jonathan non si avvicina, perché sa che verrebbe scacciato, che verrebbe rifiutato e non potrebbe esserci dolore più grande in quel momento di essere rifiutato dal suo uomo nel suo letto, nella sua casa. Si è sempre trattato di possedere qualcosa per Jonathan, aveva sempre avuto la smania di possedere tutto quanto fosse di suo interesse, forse perché convinto che possedendo una cosa, questa gli appartenesse per diritto e che nulla al mondo sarebbe riuscito a portagliela via. L’errore più grande di Jonathan era stato quello di considerare anche Christian una delle sue proprietà.
Quel giorno nella sua casa, l’aveva aspettato sul suo divano, il suo Christian con impressa sul viso un espressione di sofferenza e dolore, accompagnato ad evidenti tracce di pianto.  Ed eccoli entrambi, in camera da letto, con la porta chiusa, dopo un’ora a chiudere quella discussione nel peggiore dei modi.

-Se hai un po’ di dignità, non te lo farai ripetere di nuovo.

Christian è irremovibile, Jonathan deve andarsene. Parla di dignità e nello stesso tempo lo accusa di essere un vigliacco e a tutti gli effetti del vigliacco ha tutte le caratteristiche agli occhi di un osservatore esterno. Non parla, non mostra segni di dispiacere, non cerca nemmeno di giustificarsi.

Si sposta dall’armadio Jonathan, lo apre e prende un lungo respiro prima di guardare all’interno e riuscire a distinguere le proprie cose da quelle di Christian. Afferra rapidamente le prime quattro grucce davanti ai propri occhi dove sono poggiati alcuni dei suoi completi da lavoro e li getta sul letto alle sue spalle, a pochi centimetri da Christian che non si è mosso di un centimetro e cerca di placare il pianto soffocante.
Sentire Christian alle proprie spalle piangere e non dovere, non potere, non avere il permesso di fare nulla è per Jonathan uno strazio insopportabile.  Sapeva che avrebbe pagato un grande pegno per la propria colpa ma ciò che aveva immaginato non era minimamente paragonabile a quello che stava passando. Doveva radunare le sue cose, perlomeno quelle di necessità primaria, con la freddezza di un medico di guerra che medica un soldato ferito, avendone affianco uno oramai in fin di vita. E quel mezzo cadavere in fin di vita è la sua storia d’amore con Christian, il loro matrimonio, perché prima che la proposta N°8 fosse abrogata, avevano potuto coronare il loro sogno e sposarsi.  Avevano potuto vivere tutte le tappe di una classica coppia uomo e donna, esattamente come avevano voluto ed ora si trovavano di fronte al declino, senza mai nemmeno esserselo immaginato.  Divorzio.

Aveva parlato anche di quello un’ora prima Christian.

-Voglio il divorzio.

Una frase quasi comune al giorno d’oggi. Quante coppie si separano, quante coppie divorziano, quanti dei loro amici etero e gay si erano separati davanti ai loro occhi e quante volte avevano pensato “A noi non accadrà mai” eppure eccoli là: a vivere una situazione della quale avevano sempre avuto esperienze indirette.  Dopo aver raccolto lo stretto necessario, dopo aver preso il portafogli sul suo comodino, accanto alla lampada dal paralume rosso, dove era spesso stato appoggiato nei trascorsi quindici anni,  Jonathan apre la porta della camera e senza  voltarsi indietro esce. Qualche passo e si avvicina alla porta d’ingresso, con estrema decisione e rapidità afferra il pomello freddo ed esce, chiudendosi la porta alle spalle e sbattendola.

All’udire di quel suono il pianto di Christian si fa sempre più disperato.  E’ stato lui ad ordinare a Jonathan di andar via, di uscire da quella casa, e lui l’ha fatto, se n’è andato via.
Appoggiato ad una porta più in là, anch’esso in lacrime, sta Kyle. Figlio adottivo della coppia, ha seguito attentamente tutta la discussione dei suoi genitori e sta soffrendone proprio come loro. Vorrebbe tanto essersi coperto le orecchie quel giorno,  quando per la prima volta dalla bocca di Christian aveva udito provenire un insulto riferito a Jonathan. Non era mai successo. Christian non si era mai permesso di insultarlo, non ne aveva mai avuto modo e ragione.

-Bastardo cinico traditore!

Aveva urlato. E Kyle, ancora intento a fare i suoi compiti non aveva potuto non sentire. Si era alzato dalla sua sedia e si era seduto a terra, con l’orecchio teso, appoggiato alla porta, per seguire, per non perdere nulla o forse semplicemente per essere certo di aver sentito bene. Fino alla fine, fino allo sbattere della porta aveva sperato in uno scherzo. Non potevano davvero essersi urlati addosso in quel modo, non loro, non i suoi genitori. Li aveva conosciuti per la prima volta a cinque anni, viveva con loro da dieci e nulla del genere era mai successo.

Come le cose sarebbero proseguite, nessuno era in grado di dirlo. Com’era possibile fare previsioni riguardo al destino di una coppia che fino al quel momento era parsa perfetta?
Dopo un’ora, Kyle si mette a letto. Si siede e appoggia la schiena contro la testiera, ginocchia raccolte, sguardo verso la porta chiusa e cerca con tutte le sue forze di non sentire Christian piangere. E’ una cosa che non sopporta, che lo fa star male. Soprattutto perché sa per quale motivo sta piangendo. E’ uno sforzo enorme per lui ignorarlo quel motivo.  Ed è ancora più doloroso pensare che non c’è nessuno al mondo in grado di consolare Christian e asciugare le sue lacrime, che non sia Jonathan.  

Ed ora che è Jonathan la causa di quel pianto disperato, chi lo aiuterà a riprendersi? Kyle non ne è capace, non saprebbe cosa dire, non saprebbe da che parte cominciare e non è nemmeno sicuro di avere il diritto di intromettersi negli affari privati dei sui genitori.

Toc Toc

Christian bussa  alla porta della camera di Kyle poi la apre. E’ in piedi di fronte a lui, ancora più pallido in viso, gote lucide dal pianto, occhi arrossati e gonfi. Fa male solo a guardarlo in quello stato.

-Cosa … mangiamo stasera?

Chiede con un filo di voce, probabilmente cercando di inghiottire un ulteriore crisi di pianto che gli si legge negli occhi e dal tono tremante e instabile della voce.
Kyle si trova nella stessa situazione. Ha quasi paura ad aprir bocca. Scoppierebbe a piangere davanti a  Christian e sa bene che quello non sarebbe affatto un buon modo per confortarlo.
Si limita quindi ad alzare le spalle. Quasi a voler dire “quello che vuoi”.  

-Ti va bene se … ordiniamo cinese?

Kyle fa cenno di si con il capo. Ancora preferisce non dire nulla.

-Bene … allora chiamo. Se ti va intanto che aspettiamo possiamo … giocare con la play?

Kyle spalanca gli occhi. Christian non aveva mai giocato con la playstation con lui. Era Jonathan quello che amava i giochi elettronici, le console … Christian di solito si lamentava per quanto tempo i due perdessero incollati davanti ad uno schermo a “rincitrullirsi - per usare le sue parole – con giochini senza senso”.  Il fatto che ora, in quel preciso momento, gli stesse facendo quella proposta voleva chiaramente dire che aveva bisogno di lui.

-Va bene.

Kyle si alza dal letto e trova finalmente il coraggio di parlare.  
Uno accanto all’altro se ne stanno seduti sul divano. La televisione è ancora spenta. Christian ha appena chiamato il take-away del ristorante cinese più vicino.
Ramen, involtini primavera e biscotti della fortuna per due.

Quel due, pronunciato da Christian, aveva qualcosa di doloroso in sé.  Per Kyle era stata una fitta al cuore, una ferita pungente.
Christian si alza e raggiunge la mensola dove sono appoggiate le custodie dei numerosi videogiochi di Kyle e li osserva.

-A cosa giochiamo?

Chiede, senza però guardare il figlio negl’occhi.

-Non lo so Chris … a te cosa piace?

Christian osserva ancora per un attimo i videogiochi e poi ne sceglie uno, probabilmente a caso.

-Questo. che è … “Vampire Night”. Ti va bene?

Kyle annuisce.

-Bene allora mettilo tu io non sono molto bravo in queste cose.

Kyle si alza dal divano e prende la custodia dalle mani di Christian che nel frattempo nemmeno lo guarda e va a sedersi sul divano, portando con se il joypad. Sguardo fisso rivolto verso il mega-schermo ancora spento.  Sta pensando. E’ chiaro.

Kyle fa in fretta ad accendere il gioco. E’ convinto che un solo istante di troppo speso a pensare, potrebbe far tornare di nuovo Christian a piangere. Deve impedirlo, cercando di tenergli la mente occupata, giocando, come lui stesso gli ha proposto.

-Ecco. Possiamo iniziare. Non è difficile giocare. Devi solo sparare ai vari vampiri che saltano fuori. Io sono il mirino rosso, tu quello blu.  Capito?

Christian annuisce e cerca il mirino blu sullo schermo.

-Ah! Attento! Hai finito le munizioni! Schiaccia R1 e L1 per ricaricare, presto!

Christian obbedisce meccanicamente a ciò che gli dice Kyle. Non pare divertirsi molto. A dire la verità, non sembra neanche si stia rendendo conto di cosa sta facendo.
Dopo pochi secondi di gioco nella sua metà dello schermo appare la scritta “Game over”. Appoggia così affianco a sé la manopola e resta a fissare lo schermo.

-Vuoi giocare ancora? Puoi continuare con il mio se vuoi, tanto io questo gioco l’ho vinto tantissime volte!

Dice Kyle, mettendo il gioco in pausa e porgendo il proprio joypad a Christian, che rifiuta e si alza dal divano.

-No, grazie. Tra poco arriverà la nostra cena. Vado a mettere una tovaglia … almeno quella …

Anche Kyle si alza e raggiunge Christian.

-Ti posso aiutare?

Christian fa un mezzo sorriso, sforzato.

-Kyle, tesoro, sono ancora capace di mettere una tovaglia sul tavolo. Okay?


Una ventina di minuti dopo, la loro cena viene consegnata.  Christian si siede al suo solito posto, ad un capo del tavolo, con le spalle rivolte verso la finestra. Kyle si siede sulla sedia al capo opposto, dove solitamente si metteva Jonathan. Non sa perché ha scelto di sedersi proprio lì, forse perché pensa che per Christian vedere quella sedia occupata possa essere meno doloroso.  

Tra i due regna il silenzio. Si sente solo lo sfregarsi della bacchette di legno ogni tanto e il rumore provocato dai bicchieri di vetro quando vengono appoggiati sul tavolo.  E’ una situazione strana.  Fastidiosa.  Eppure così scontata.  Non era certo Jonathan il gran chiacchierone della famiglia di solito anzi, a dirla tutta è sempre stato il più silenzioso a tavola.  Quello che ha sempre una parola per tutto, che non sta mai zitto, che parla troppo, è Kyle. Che per la prima volta da quando ancora si trovava in orfanotrofio non sa cosa dire.

-Non hai niente da dire stasera Kyle?

Quella domanda irrompe nel silenzio. Kyle apre la bocca ma non esce alcun suono.

-No.

Dice poi, richiudendola e tornando a chinare il capo sulla scatolina contenente il ramen che sta mangiando. Christian appoggia le bacchette sul tavolo.

-Non ci posso credere. Di solito si fa il possibile per farti stare zitto! E’ davvero raro non sentire la tua voce a tavola! Non è possibile che di colpo tu non dica niente!

Kyle sospira.

Di nuovo silenzio. Altri interminabili minuti di silenzio. E poi, alla fine, Kyle parla.

-Ti ha tradito, non è vero?

Ed ecco la bomba.  Piazzata tra i due da tutto il pomeriggio, in attesa di scoppiare proprio in un attimo di massimo silenzio,  allo scopo di far sembrare il tutto più devastate.
Christian osserva Kyle quasi sconvolto. Spalanca gli occhi, apre la bocca ma senza parlare.
Kyle chiude gli occhi, stretti. Si aspetta un urlo, da un momento all’altro.

Non arriva.

Riapre gli occhi e nota che lo sguardo di Christian è tornato sul contenitore degli involtini primavera.  Una mano regge le bacchette e afferra un involtino, l’altra è sul tavolo, in un pugno serrato.  

“Mi dispiace”

Vorrebbe dire Kyle. Ma non sarebbe opportuno.

-Hai già fatto tutti i tuoi compiti oggi?

Chiede Christian, cambiando totalmente argomento, con tono impassibile.

Kyle non può fare altro se non seguire il suo discorso, cercando di sembrare naturale.

-Si, tutto quanto …









Continuazione dell'AVVISO in testata:
La novità per HARD TO SAY I'M SORRY per il 2014 è il SITO: APRIMI!



Troverete oltre ai capitoli già presenti su EFP (riveduti e corretti in modo da renderli più coerenti in linea col mio sitle di scrittura attuale), le schede dei personaggi, alcuni approfondimenti, curiosità e partire dal mese di Aprire un PREQUEL di questa storia (che pubblicherò successivamente anche qui).

Che Aspettate? APRITE SUBITO IL LINK!!!!



---> E alla fine ritorno a scrivere. Ultimamente sto scrivendo molto O_O e questa storia per me sta diventando "importante". Spero non subisca le sorti delle precendenti. Due paroline-ine, curiosità^^  Tutto è nato da quelli che io chiamo "trip", ossia sono trame "fittizie" che mi invento per giocare a the sims 2, il gioco per pc si. Mi invento un certo tipo di personaggio, una storia, e li creo. Un benetto giorno il gioco mi salta (nulla di nuovo) e per non perdere questo "trip" decido di scriverlo. Parto dall'idea di scrivere quattro cavolate, giusto per fare qualcosa e ... puff! In 2 ore ho già scritto dieci pagine. Vado a letto e afferro il mio iphone ed inizio a scrivere nelle note delle idee circa questa storia che mi vengono in mente.
Ora sono al 9 capitolo (appena iniziato^^) e beh ... non è più in "trip" ma una storia!! Dopo 2 settimane mi sono decisa a postarla qui.
Ah  riguardo al titolo ... gliel'ho dato adesso XD perchè il mio file è nominato "It". Ma non è un titolo a caso ... infatti mentre scrivevo il primo capitolo stavo ascoltando proprio questa canzone "Hard to say I'm sorry". E ho intitolato il file "It's hard to me to say I'm sorry". Visto che quella canzone secondo me è azzeccata per la mia storia ... perchè no? ^^!
Ok ... mi fermo qui!! Alla prossima <---

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Capitolo 2
*** Every body needs time (Bisogno di tempo) ***




!!! AVVISO !!!! (Relativo ai primi capitoli)
Ehi, sì dico proprio a te!
Vedo che hai deciso di aprire la mia storia e di questo ti ringrazio. Voglio però farti presente che il testo che stai per leggere è parecchio datato (prima metà 2009) e che ne esiste ora versione migliorata, riveduta e corretta. Lascio a te scegliere se continuare a leggere questa versione (che qui su EFP rimarrà così com'è) oppure scoprire dove puoi leggere la nuova versione (accompagnata da contenuti "speciali").
Se preferisci proseguire qui ti auguro BUONA LETTURA, in caso contrario, scorri fino ad arrivare in fondo a testo. GRAZIE!


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2. Everybody needs time (Bisogno di tempo)

Jonathan ha sempre avuto uno strano rapporto con gli alberghi.
Almeno una volta, in ogni fase della sua vita, aveva avuto modo di vivere in albergo. Quando aveva dieci anni aveva  pernottato quattro in un albergo fuori New York, per motivi di lavoro della madre. A sedici anni era scappato di casa e aveva vissuto in un modesto hotel fuori città, da solo. A ventitre anni vi aveva trascorso  ben tre mesi con Jonathan, in albergo. In attesa la che la casa che avevano comprato, la sua casa fino a quel momento, fosse ristrutturata. Ed ora a quarant’anni, si trova di nuovo in albergo, in attesa di trovare una sistemazione alternativa.

E’ trascorsa quasi una settimana da quando è stato costretto ad andarsene di casa e durante quella settimana non aveva ancora trovato il tempo o forse la forza, per cercare un posto dove stare, che non sia un albergo. La sorte aveva voluto che trovasse una stanza nello stesso hotel dove era stato l’ultima volta con Christian. Non la stessa camera, certo, ma l’arredamento di una stanza e l’altra non differisce in molto.
Jonathan è seduto su una poltroncina beige, a fianco della grande finestra che affaccia su Manhattan. Gambe accavallate, gomito sinistro appoggiato al bracciolo e sigaretta mezza consumata tra le dita. Nell’altra mano regge un volantino raccolto in metropolitana con degli annunci di affitti di appartamenti. Scruta con attenzione ogni proposta, cercando di trovarne una di suo interesse.

Non trova nulla.

Prende una boccata dalla sigaretta e arriva quasi al filtro.  
Sbuffa.

E’ lunedì, il suo giorno libero. Sono le due di pomeriggio. Non si è alzato da molto. Ha già fatto colazione. Non c’è un televisore nella sua stanza, ha già letto il New York Post, che ora se ne sta piegato ai piedi del letto. Si trova alla sua terza sigaretta del giorno.Si alza, butta la sigaretta nel posacenere accanto al comodino e poi si rimette a sedere sulla poltrona. Non ha altro da fare che starsene seduto a fissare il nulla.
Il suo campo visivo in quel momento comprende il cellulare, accanto al posacenere. E’ acceso ma nessuno chiama.  Non arriva alcun messaggio.

Jonathan aspetta.

Non sa esattamente cosa. Forse che qualcuno, una persona qualsiasi gli parli. Gli andrebbe bene anche uno sconosciuto, uno qualunque. Detesta rimanersene in silenzio.
Osserva l’orologio al suo polso. Un bel Cartier, che si era voluto regalare due anni prima, durante un viaggio di lavoro in Svizzera. Jonathan è un amante degli orologi. Li colleziona e ne possiede tantissimi, che variano dai più costosi, come quello che in quel momento ha al polso, ai più economici.

Non si sarebbe mai separato dai suoi orologi.

Aveva iniziato a collezionarli all’età di diciotto anni, il primo era stato un Breitling con il cinturino in pelle marrone, regalatogli da suo padre il giorno del suo sedicesimo compleanno.  
Per un’intera settimana ha portato quello stesso orologio, non era mai successo. E’ solito cambiarne uno al giorno, abbinandolo ai completi. Tuttavia, avendo lasciato la sua casa così in fretta  si era dimenticato persino dei suoi orologi. Dovevano essere ancora al loro posto, nel primo cassetto del suo comodino, tutti disposti in ordine in una teca di legno contenente anche i foglietti di garanzia e i certificati di originalità per ogni orologio.

Le due e cinque.

-Forse è meglio che inizi a fare qualcosa.

Si alza e si dirige verso la porta. Prende dalla tasca dei pantaloni la tessera magnetica, la inserisce nella fessura ed esce.
Non sa ancora dove andare. Sono solo le due di pomeriggio, andare a rintanarsi in qualche bar a bere sarebbe a dir poco squallido e poi, è una possibilità che si serba per la sera.  Decide quindi di limitarsi a fare una passeggiata per la città, vedere qualche vetrina e magari comprarsi qualche vestito.

Gliene è rimasto soltanto uno pulito tra quelli che si è portato via.  
Non ha intenzione di tornare a casa a prendere il resto.  

Dopo due ore si trova a ripercorrere la stessa strada nel senso opposto.  Ha fatto acquisti. Dei nuovi completi, un nuovo paio di scarpe e un altro orologio.
Il tutto dovrebbe bastare per un'altra settimana, non dovrebbe tornare indietro ancora per una settimana. Gli abiti sporchi li potrebbe portare in tintoria, per quando riguarda gli orologi potrebbe comprarne degli altri.
Una volta tornato all’albergo, appoggia le borse a terra e si getta sul letto. Sospira profondamente e osserva il soffitto. Poi il suo sguardo torna sulle borse a terra.
Prada, Boss, Todd’s, Cartier.
Non vuole sapere nemmeno quanto ha speso quel giorno.  Decisamente troppo. Non si è nemmeno badato di guardare i cartellini, ha comprato ad occhi bendati qualsiasi cosa gli andasse.  E tutto questo per cosa?

“Tutto questo per non tornare a casa”

Pensa.

-Tanto prima o poi …

***
Il suono della campanella.
-Finalmente!

Esclama Kyle alzandosi dal banco.

-Non passava più oggi, eh Kyle?

Chiede Morgan, la migliore amica di Kyle.

-Non dirmelo. Tral’altro domani abbiamo il test di algebra … non sono per niente preparato.

I due ragazzi si incamminano verso l’uscita della scuola.

-Davvero?  Non ti aiuta Jonathan a studiare?

Kyle non dice nulla. Morgan lo guarda, con aria inquisitoria. Non sa nulla della situazione familiare dell’amico, non le ha detto nulla perché la conosce bene, sa che lo riempirebbe di domande, che gli manderebbe sms ogni ora per chiedergli come sta, se va tutto bene. Sarebbe persino in grado di obbligarlo ad andare a dormire da lei. In quel momento non vuole parlarne con nessuno, vuole starsene solo.

-No. Lui è … impegnato con il lavoro …

Conclude, cercando di sembrare più realistico possibile. Morgan continua a scrutarlo. Nota che c’è qualcosa che non va ma non ne è sicura.

-Uhm …

Si siedono sulla panchina alla fermata dell’autobus. E’ in ritardo. Kyle guarda l’orologio al polso. Segna le 3 e un quarto.

-Wow Kyle! Che bellissimo orologio!

Morgan prende il braccio del ragazzo e lo strattona per osservare meglio l’orologio.

-Ma è un rolex! E’ bellissimo!

Kyle ritira il braccio e sistema il polsino della felpa, quasi per nascondere il suo orologio. Che proprio suo non è.

-Dove l’hai preso?

Chiede Morgan incuriosita.

-Un regalo.

Risponde Kyle frettoloso.

-Di chi?

Kyle sbuffa.

-Che stress Morgan! E’ un regalo, punto.

Morgan fa una smorfia e decide di smettere di fare domande a Kyle.  In realtà quell’orologio non è affatto un regalo. E’ un pezzo della collezione esclusiva di Jonathan.  Kyle se n’è appropriato il giorno prima, in un momento in cui Christian non era presente. Non sa nemmeno lui perché. Certo, è indubbiamente un orologio bellissimo, gli piace da molto tempo ma il fatto di averlo preso così di nascosto sembra essergli inspiegabile. Anche perché da una settimana non sente Jonathan, spontaneamente. Lo fa un po’ per rispetto nei confronti di Christian e un po’ perché è realmente in collera con lui.

-Non l’avrai mica rubato, vero?

Chiede Morgan di punto in bianco, sull’autobus.

-Ma piantala Morgan! Secondo te!

Rincasando Kyle si trova uno scenario piuttosto strano. La porta di ingresso è aperta e sulla soglia ci sono due scatoloni chiusi. Li scavalca ed entra in casa.

-Chris?!

Chiama.

-In camera.

Lo raggiunge e lo trova davanti all’armadio, mentre getta alle sue spalle, sul letto, tutti i vestiti di Jonathan.

-Cosa …?

Chris smette di fare ciò che sta facendo per dare retta al figlio.

-Almeno dei vestiti avrà bisogno, non credi?

Spiega, fingendo un sorriso.

-Non dovrebbe venire lui a prenderseli?

Chiede Kyle. Subito dopo si pente di aver parlato. Si era promesso di non esprimere la proprio opinione riguardo all’intera faccenda.

-Se non l’ha ancora fatto ci sarà un motivo, no?

Kyle si siede in punta del letto ad osservare Christian. Cercando di non dire nient’altro.  Purtroppo non riesce a starsene zitto.

-Hai intenzione di sbatterli in giardino?

Christian sbuffa, quasi seccato. Si gira e guarda Kyle.

-Non sono così bastardo. Li metterò uno sopra l’altro sul pianerottolo. Che se li venga a prendere quando io non sono a casa.

Kyle non dice nulla. Avverte però risentimento nelle parole di Christian. In tutta quell’intera settimana il nome di Jonathan è stato menzionato una volta tra i due. Eppure la sua presenza si avverte ancora in quella casa. Non mette piede lì dentro da una settimana ma è come se non se ne fosse mai andato. Sembra quasi sia presente, seduto da qualche parte e che Christian e Kyle lo stiano ignorando di proposito.
Vedere quell’armadio mezzo vuoto provoca a Kyle un tuffo al cuore. Cerca di distogliere lo sguardo dall’armadio e si ritrova a fissare la specchiera dove è ancora appoggiata l’agenda di Jonathan, aperta alla pagina del 12 marzo, il giorno prima che lasciasse quella casa. Inizia a chiedersi per quale motivo quell’agenda non sia stata chiusa. Non è possibile che Christian non l’abbia vista. Si chiede anche come avrebbe fatto Jonathan a lavorare senza la sua agenda.

Per un attimo  ha l’impulso di alzarsi e chiuderla. Allunga il braccio, quasi per raggiungerla. La manica leggera della sua felpa scivola indietro, scoprendo il braccio quasi fino al gomito e di conseguenza l’orologio.  Kyle se ne accorge e tempestivamente ritira il braccio e sistema la manica. Non vuole che Christian veda che porta al polso l’orologio di Jonathan.
Per evitare che lo scopra, si alza e va in camera sua.

Christian ha finito di togliere gli abiti di Jonathan dall’armadio. Si mette minuziosamente a piegare ogni cosa e la ripone poi in pile ordinate. Una volta fatto, prende da sopra l’armadio una valigia, la più grande, quella che di solito usa per andare in vacanza e sistema tutto quanto ordinatamente. Al momento di chiuderla respira profondamente.

Allunga la mano verso una delle linguette ed inizia a tirarla verso sé. La mano quasi gli trema. Fa in fretta e afferra anche la zip dalla parte opposta e le congiunge, in modo di chiudere la valigia. Rapidamente la solleva dal letto e trascina anche quella in corridoio, accanto agli scatoloni. Spinge con le ginocchia gli scatoloni ai lati della porta e sopra uno di questi appoggia la valigia. Poi osserva qualche istante. Infine, rientra in casa, chiudendo la porta.

Ha trascorso tre ore di quel pomeriggio a radunare tutti i vestiti di  Jonathan. Ha piegato tutti i jeans, le felpe, le t-shirt, ha lavato tutto ciò che ancora era rimasto nel cesto della biancheria e ha riposto tutto quanto con cura negli scatoloni e nella valigia. Una precisione quasi maniacale.

Era il suo giorno libero quello, lunedì, che normalmente trascorreva con Jonathan. Era il loro giorno.Averlo trascorso in quel modo è il segno che qualcosa è seriamente cambiato dopotutto.

Christian torna in camera da letto. Osserva l’armadio aperto, appese ora ci sono tante grucce vuote, che ancora oscillano. Il primo cassetto è aperto e completamente vuoto. E’ rimasta soltanto la carta da pacchi colorata, spostata, che Christian adagia sul fondo di ogni cassetto per questioni di igiene. Quel cassetto vuoto è  quello di Jonathan. Appena sopra al suo.  
Chiude l’anta dell’armadio e il cassetto poi sistema il copriletto. Alzando lo sguardo nota sulla specchiera l’agenda aperta di Jonathan. La guarda ogni giorno, quella pagina aperta, ormai conosce a memoria ogni dicitura.

Ore 12.30 appuntamento con Simon Wayne.
Ore 14.30 appuntamento Mrs. Wang.                                                                                                                                             
Ore 17.40 appuntamento rappresentante farmaceutico.                                                                                              
Ore 19.00 Cena al ristorante con Chris.

Ed è proprio l’ultima dicitura a fermarlo dall’idea di chiuderla quella maledetta agenda. Erano stati al ristorante la sera prima. Il loro ristorante preferito, un posto appartato e molto elegante chiamato “La Conchiglia”, specialità  italiane. Si erano trovati bene, loro due soli. Avevano parlato del lavoro, di Kyle, dei loro progetti di vacanza, sorseggiando del buon Chianti e gustando dell’ottimo cibo. Una scena piacevole, un quadretto ideale per la coppia ideale, eppure, la quiete prima della tempesta.

Esattamente ventiquattro ore dopo tutto era cambiato. Niente più sorrisi, solo grida, imprecazioni, insulti e tante lacrime.  Per poi arrivare alla situazione attuale.
Christian scosta di nuovo lo sguardo dall’agenda. Non la toccherà nemmeno quella volta. Non ne ha la forza. Si avvicina all’interruttore, spegne la luce e chiude la porta. E’ quasi ora di cena.



Kyle è disteso sul suo letto a pancia in giù. Sta leggendo un libro, o meglio sta studiando, algebra. Non è mai stato bravo in matematica. Un asso a scuola certo, tranne per la matematica. E’ riuscito a cavarsela sempre e soltanto grazie all’aiuto di Jonathan. Senza di lui, il test del giorno successivo sarebbe andrà sicuramente male. Continua a fissare quei numeri, potenze, radici. Non capisce nulla.

Allunga il braccio verso la tasca dei pantaloni, si sposta quel necessario per afferrare il cellulare.

Un messaggio non letto. Di nuovo. Sa già chi è.

Sblocca la tastiera e va a vedere il mittente. “John”. Senza nemmeno leggere, lo cancella. Esattamente come i precedenti messaggi ricevuti durante la settimana. Inizia a temere che Jonathan pensi che sia Christian a non permettergli di rispondere ai suoi messaggi, a far si che non lo chiami. Non vuole che pensi così. Non è la verità, è lui a non volerlo sentire.

Eppure gli manca. E se ne rende conto solo in quel momento.

Sposta la manica della felpa e osserva l’orologio. Con l'indice destro percorre la circonferenza del quadrante per poi passare al cinturino in acciaio. Decisamente un gran bell’orologio. Jonathan ha un certo gusto per gli orologi.  
Segna le sette meno dieci. Tra poco sarà ora di cena.

Toglie l’orologio, lo appoggia sul letto e per qualche secondo rimane a fissare la lancetta rossa dei secondi muoversi rapidamente lungo tutto il quadrante.

-Kyle! La cena!

Si alza dal letto, prende delicatamente l’orologio e lo ripone nel primo cassetto del comodino, facendo attenzione a nasconderlo tra i boxer e i fazzoletti poi chiude il cassetto e raggiunge Christian a tavola.











Continuazione dell'AVVISO in testata:
La novità per HARD TO SAY I'M SORRY per il 2014 è il SITO: APRIMI!



Troverete oltre ai capitoli già presenti su EFP (riveduti e corretti in modo da renderli più coerenti in linea col mio sitle di scrittura attuale), le schede dei personaggi, alcuni approfondimenti, curiosità e partire dal mese di Aprire un PREQUEL di questa storia (che pubblicherò successivamente anche qui).

Che Aspettate? APRITE SUBITO IL LINK!!!!



--> Ecco il secondo capitolo! Spiegazione veloce sui titoli. Due domande che mi faccio e mi auto-rispondo (no, non sono normale) Perchè i titoli sono due? E perchè quello in inglese non è la traduzione di quello in italiano?
I titoli sono due perchè esistono due versioni di questa storia, in inglese e in italiano. La titolatura originale dei capitoli è in inglese. Ho voluto comunque dare un titolo italiano, a volte tradotto alla lettera a volte leggermente diverso per motivi di sonorità. Tutto qui^^

E poi ringrazio Tao per il commento :) <---

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Capitolo 3
*** Memories (Ricordando) ***




!!! AVVISO !!!! (Relativo ai primi capitoli)
Ehi, sì dico proprio a te!
Vedo che hai deciso di aprire la mia storia e di questo ti ringrazio. Voglio però farti presente che il testo che stai per leggere è parecchio datato (prima metà 2009) e che ne esiste ora versione migliorata, riveduta e corretta. Lascio a te scegliere se continuare a leggere questa versione (che qui su EFP rimarrà così com'è) oppure scoprire dove puoi leggere la nuova versione (accompagnata da contenuti "speciali").
Se preferisci proseguire qui ti auguro BUONA LETTURA, in caso contrario, scorri fino ad arrivare in fondo a testo. GRAZIE!




3. Memories (Ricordando)

Morgan sbadiglia.

E’ l’ora di arte e come sempre sta ascoltando Kyle alla cattedra che spiega alla classe il suo ultimo lampo di genio. Adora le esposizioni grafiche dell’amico ma quella in particolare gliela sta mostrando da quasi in mese.  E’ una rappresentazione sulla globalizzazione.

Geniale.

Un po’ meno se si è costretti a vederlo ogni santo giorno per un mese intero.

-Abbiamo di fronte di nuovo una A+!

Esclama la professoressa, facendo compare un sorriso sulle labbra di Kyle che ritorna al posto con la sua tavola da disegno.

-Eccellente come sempre eh?!
Chiede Morgan.

-Certo! Avevi ragione a dirmi che è geniale Morgan.
Morgan sorride.

-Beh adesso mi devi un premio però!

Morgan appoggia entrambe le braccia sul banco e vi poggia sopra il capo, leggermente inclinato verso destra, per osservare meglio Kyle. L’ha visto strano nelle ultime tre settimane. Non ha parlato molto di sé, ha lasciato sempre che fosse lei a parlare e raccontare. Non che la cosa le dispiaccia, certo, però è strano e raro che Kyle si limiti ad ascoltare.

Ha i capelli arruffati quel giorno Kyle.  Probabilmente non li ha nemmeno pettinati. Si è limitato a passare una mano veloce tra quel suo disordinato cespuglio castano e ha deciso che poteva bastare.
Dopo Kyle è il turno di altri due ragazzi. Morgan osserva  l’amico mordersi il labbro inferiore durante l'esposizione di Anthony Edwards, che presenta un lavoro sullo stesso tema di Kyle, altrettanto brillante. Tra i due c’è sempre stata una certa rivalità scolastica. Morgan inoltre é  segretamente convinta si piacciano.

Non ha mai capito nulla delle preferenze sessuali di Kyle. Fisicamente è un ragazzo molto delicato, viso sottile e stretto, quasi scavato, labbra molto carnose e di un piacevole colore rosato, occhi sottili, lunghi e poco infossati e mani da pianista, con dita lunghe e affusolate.  

Per quello che sa non è mai stato con nessuno, ragazza o ragazzo che sia. Si conoscono dalle scuole elementari e non ha mai dimostrato particolari preferenze.

-Kyle, cosa ne pensi del lavoro di Tony?

Chiede, cercando di suscitare una qualche reazione in Kyle che continua a fissare il ragazzo torturandosi il labbro, ancora poco ed inizierà a sanguinare.

-Penso che sia dannatamente buono …

Ammette a denti serrati.  Morgan sorride. Dice sempre così dei lavori di Anthony.

All’intervallo Kyle e Morgan, come di abitudine, si siedono su una panchina nel cortile della scuola, collocata ai piedi di un albero, per parlare.

-Non posso credere che abbia dato anche a lui il mio stesso voto!

Dice Kyle, notando Anthony nel cortile, mentre gioca a football con un paio di amici.
Morgan sorride.

-Andiamo, hai detto tu che era un buon lavoro, no?

Kyle sbuffa seccato, senza distogliere lo sguardo dal ragazzo.

-Ha solo tanta fortuna …

Qualche secondo dopo, la stessa palla con cui un attimo primo stava giocando Anthony, arriva in direzione di Morgan e Kyle,  colpendo quasi in faccia il ragazzo, che tempestivamente la afferra.
Anthony inizia a correre in direzione dei due.

-Tutto bene?

Chiede,  ansimando per la corsa.

Kyle annuisce col capo e gli porge la palla. Mentre Morgan lo attacca.

-Fai un po’ di attenzione a dove lanci le cose Tony!

-Ho detto che mi dispiace, non l’ho fatto apposta. Scusatemi.

Spiega Tony, con gentilezza. Kyle non dice nulla.

-Non ti ho fatto niente, vero?

Kyle fa cenno di no. Nonostante la palla sia arrivata in direzione del suo viso, la più inviperita è Morgan, che si alza in piedi, cercando il confronto con Anthony.

-Voi  della squadra di football vi credete i padroni del giardino soltanto perché pensate che tutti vi amino!

Morgan  detesta profondamente la squadra di football da quando uno dei ragazzi della squadra di cui si era invaghita si è preso gioco di lei pesantemente, facendole credere di esserne innamorato, quando invece i suoi interessi erano ben differenti.

Kyle sorride guardando la piccola ed esile Morgan confrontarsi con Anthony, di almeno una ventina di centimetri più alto di lei e quasi tre volte più grosso.  

-Mi dispiace Morgan, ma ho chiesto scusa, cos’altro devo fare?!

Chiede lui, un po’ seccato dal comportamento della ragazza.

-Basta dai Morgan, non si è fatto male nessuno. Lascia stare …

Esclama Kyle, interrompendo la discussione tra i due.

-Grazie.

Dice Anthony, tornando a giocare con i suoi amici. Morgan torna a sedere vicino a Kyle, accavalla le gambe e tiene le braccia conserte. Sul  suo viso una strana espressione, dovrebbe essere irritata ma Kyle la trova semplicemente buffa.

-Morgan …

La ragazza si gira verso l’amico con tono seccato.

-Che c’è?!

Improvvisamente Kyle si avvicina e le schiocca sulla guancia un bacetto, rapido ed innocente che la fa arrossire di colpo, togliendole quell’espressione finto-seccata e dandole un’aria ancora più buffa. Kyle scoppia a ridere ma questa volta lei non ha il coraggio di ribattere.

***

-E quindi non si è nemmeno presentato per prendere le sue cose?

Domanda Ronald, collega di Christian.

-No.

Risponde lui, intento a sistemare gli appunti per la lezione che ha preparato su due piedi pochi minuti prima. Ronald si siede sulla cattedra, vicino agli appunti di Christian e inizia ad osservarlo incuriosito. Lo trova molto distratto ultimamente, è già la terza volta in due settimane che si dimentica di preparare una lezione e che gli tocca rimediare in pochi minuti tra un cambio d’ora e l’altro. Si chiede cosa stia passando per la testa del collega in quel periodo.
Raccoglie un foglio a caso tra appunti di Christian ed inizia a leggerlo o meglio, tenta di decifrarlo. Christian ha una scrittura del tutto illeggibile, disordinata, confusa, un po’ come sul suo carattere.

-Winckelmann e la teoria dell’imitazione … com’è che le tue classi stanno sveglie e le mie no? Io insegno arti cinematografiche, mentre tu la noiosissima storia dell’arte .

Christian non gli da ascolto, è troppo impegnato a leggere e sottolineare. Gli restano solo pochi minuti e deve riuscire a rendere quei suoi appunti confusi e vaghi un discorso concreto che possa avere anche un minimo senso. Sa già di non farcela e si prepara mentalmente ad improvvisare, pregando che non gli venga fatta una domanda che lo porti fuori tema.

-Tuo figlio sta con te?

Christian alza la testa.

-Chi?

Ronald porta gli occhi al cielo.

-Kyle! Sto parlando di Kyle! Quanti figli hai scusami?

Christian torna con la testa sui suoi fogli e ricomincia a scrivere. La sua mano corre veloce sul blocco ma non è sicuro di star scrivendo quello che veramente vorrebbe, ha quasi paura a rileggere quel testo. Si ripromette di preparare la prossima lezione la sera stessa, prima di andare a letto, ond’evitare la fatica di quel momento.

-Kyle sta con me.

Risponde, dopo qualche secondo.

-Non ha nemmeno cercato di contattare lui? Bel padre.

Christian sospira. Ha quasi finito.

-Senti Ron, non lo so. Non so niente e non voglio sapere niente. Se non ti scoccia preferirei non parlare di Jonathan anche in accademia, va bene?

Ronald scende dalla cattedra e si avvicina alla porta.

-Va bene, va bene. Vorrà dire che me lo racconterai stasera al Candice.

Christian spalanca gli occhi.

-Al Candice? Cielo sono dieci anni che non metto più piede in quel posto!

Esclama mettendosi le mani tra i capelli.

-Hai bisogno di qualcosa che ti tenga occupato …

Dice Ronald, facendo l’occhiolino.

-Oh no Ron. L’ultima cosa che mi serve adesso è il sesso con uno sconosciuto in un bar. Preferisco starmene a casa a guardare la televisione o leggermi un libro.

Ronald fa una smorfia.

-Oh no, ti sbagli. Stasera ti passo a prendere alle dieci. Fine della discussione.

***

- Posso comunque confermale che si tratta di una patologia alquanto comune e facilmente risolvibile. Tuttavia la mia analisi è soltanto qualcosa di superficiale, quello che intendiamo scoprire sono i motivi di questa patologia, che dobbiamo curare.

L’uomo di fronte a Jonathan non replica.

-Bene. Detto questo, ci vediamo giovedì prossimo?

Chiede, prendendo in mano l’agenda. Un’agenda nera, nuova di zecca, acquistata la settimana precedente.  Segna nella settimana successiva alle ore tredici il nome “Arthur Collow” poi si alza, stringe la mano al suo paziente e lo osserva uscire dalla porta dello studio.

Non appena quest’ultima si chiude, Jonathan si abbandona sulla poltrona di pelle nera su cui è seduto, lasciando cadere le braccia sui braccioli foderati e scivolando lentamente lungo lo schienale.
E’ venerdì e quella per lui è stata una settimana parecchio intensa,  diversi incontri, numerose visite e un sacco di soldi spesi per scarpe e completi da lavoro. Continua a rimandare il giorno in cui dovrà andare a prendere le sue cose. Christian gli ha dato del vigliacco, del codardo e il suo atteggiamento attuale inquadra perfettamente quei due aggettivi. Preferisce spendere ogni giorno più delle metà dei suoi guadagni pur di dover affrontare nuovamente il suo sguardo.

Pensando a lui non riesce a togliersi di mente quel bel viso, che lo strega da sempre,  rigato dalle lacrime e ogni volta che apre il primo cassetto a sinistra della sua scrivania in ufficio, non può fare a meno di avvertire un tuffo al cuore, nel vedere la foto ancora incorniciata di lui e Christian abbracciati. E' rimasta per otto anni nello stesso angolo di quella scrivania, un poco inclinata in modo che potessero vederla sempre oltre a lui anche tutti quelli che entrassero per un motivo e per l’altro nel suo ufficio. Da quasi un mese sta in quel cassetto. Ve l’ha gettata lo stesso Jonathan in un momento di disperazione.

Sospira.

Con i polpacci fa forza sulla sedia rotata muovendola delicatamente a destra e a sinistra mentre osserva davanti a sé le due librerie piene di libri di psichiatria.

“Psichiatria infantile”.

 Un’epigrafe vistosa e dorata appare su un listello bordeaux, è l’unica scritta che riesce a distinguere chiaramente anche senza portare gli occhiali. Collega il libro a Kyle e tempestivo tasta nel taschino della giacca per vedere se il ragazzo ha risposto almeno ad uno dei suoi messaggi. Afferra impaziente il cellulare ma nota, con non poco sconforto, che lo schermo è vuoto.

Appoggia il telefono sulla scrivania e sospira di nuovo.

Gli fa male, veramente male. Nemmeno suo figlio vuole più sapere nulla di lui. Si sente incredibilmente solo, come mai si era sentito. Si ritiene disgustoso, deplorevole. Le uniche persone che abbia mai amato in vita sua gli hanno voltato le spalle e la colpa non può che attribuirla a se stesso.

Si massaggia le tempie con l’anulare e sente scivolare in avanti la fede. Non ha ancora avuto il coraggio di togliersela. E’ il filo che ancora lo tiene legato a Christian, la corda che regge il ponte sul quale si trova e che se venisse tagliata lo farebbe sprofondare nel baratro nero della depressione. Deglutisce, cercando di ingoiare anche quel pensiero che gli  si blocca in gola e che pare non voler scendere.

***
-Promettimi che non andrai a letto troppo tardi Kyle

Ripete Christian per la seconda volta al figlio.

-Si Chris, tranquillo.

Christian è tutto fuorché tranquillo. Non ha alcuna intenzione di uscire, vorrebbe solo potersi infilare pigiama e pantofole e gettarsi sul divano a guardare qualche patetico reality show in attesa di prendere sonno. Cosa più importante, non si sente pronto per tornare in un posto del genere, un posto che gli ricordi così tanto Jonathan.

-Ti chiamo alle 11 e tu per favore vai a letto. Non fare il furbo Kyle perché se quando torno scopro che non stai dormendo io – Kyle continua la frase –“ … non ti permetterò più di stare alzato tardi nemmeno nei weekend.” Ho capito Chris, adesso vai!



Il Candice.

Non ci mette piede da almeno dieci anni eppure guardandolo all'esterno non è cambiato di una virgola. Solito buco, infilato in un palazzo di triste cemento in periferia, con una fiumana di gente di ogni tipo e razza ad attendere di entrare.

Si sente un po’ fuori target Christian, osservando i ragazzi in coda davanti a lui. Ne riesce a scorgere uno che ad occhio e croce potrebbe avere al massimo un anno in più di Kyle, inizia a sentirsi terribilmente vecchio e fuori luogo. Anche l’abbigliamento ha il suo perché in quei posti; pantaloni attillati, magliette trasparenti, di rete o addirittura torsi nudi. Il tutto per mettersi in mostra, per identificarsi come pezzi di carne da vendere a tanto al chilo.

Solo dopo un’ora e mezza di fila, Christian e Ronald riescono ad entrare. Si fanno spazio tra la gente per raggiungere il bar e cercare di accaparrarsi i primi due sgabelli disponibili.
Anche l’interno del locale non è cambiato in dieci anni. Musica assurda, assordante,  odore di sudore, gente bagnaticcia ed eccitata che ti prende a spallate. Per non parlare delle luci. Christian cerca di seguire la nuca corvina di Ronald, cercando di distinguerla tra le altre ed evitando di farsi ingannare dalle luci ad effetto slow-motion.

Arrivato finalmente al bancone si chiede per quale motivo abbia accettato di tornare in un posto del genere.  Ronald è seduto accanto a lui e gli sta parlando ma non riesce a sentire esattamente le sue parole, il volume della musica è decisamente troppo alto. Sullo sgabello alla sua sinistra si siede un ragazzetto, all’incirca ventenne, di bell’aspetto, che sorseggia un bicchiere contenente un liquido azzurrognolo.

Per un attimo rivede il  flashback di se stesso seduto a quello sgabello, dieci anni prima, quando la sua testa era ancora vuota, quando le preoccupazioni erano la metà, quando la sua relazione con Jonathan era appena iniziata e camminava per la strada, si muoveva tra la gente, sempre con il sorriso da ebete sulle labbra, conscio del fatto di aver trovato finalmente la sua anima gemella.  

Ed eccolo anche sul viso del ragazzo quel sorrisino ebete che non vedeva da anni, che invidia profondamente. Cerca di imitarlo ma non ne è capace. E’ sicuro che se si osservasse allo specchio in quel momento i suoi occhi lo tradirebbero, quel sorriso forzato.

-Prendiamo da bere?

Chiede Ronald, avvicinandosi all’orecchio di Christian, quasi urlando.  

Christian fa un respiro lungo e profondo poi accetta ed ordina un cocktail. E' passato ormai il tempo delle ubriacate nei locali, non è nemmeno sicuro di riuscire a reggere un bicchiere di Coca & Havana mezzo vuoto, pieno di cubetti ghiaccio.

-Mohito con ghiaccio.

Dice infine al barista. Non ricordandosi nemmeno del  sapore dell’alcolico.

-Allora Chris, com’è tornare alla vita?

Chiede Ronald, sorseggiando il suo drink. Christian ci mette qualche minuto a rispondere, non è certo aver compreso tutte le parole.

-Se tu questa la chiami vita.
-Perché tu come la chiami?

Christian si guarda in giro. Tutta quella frenesia, quella strana adrenalina, quella voglia di divertirsi e nient’alto. Sono sensazioni che è certo non proverà mai più.

-Io la chiamo “passato”.

Ronald sorride divertito.

-Andiamo, dimmi che non ti piacerebbe infilarti nel letto di quel tizio là davanti! Lo vedi, quello appoggiato alla ringhiera?

Christian si gira e cerca di scrutare il soggetto indicatogli da Ronald. Dopo un paio di tentavi lo inquadra. I colori psichedelici delle luci non gli permettono di vederlo chiaramente ma riconosce dalla figura che si tratta di un uomo ben piazzato, probabilmente muscoloso, di quelli che nella testa non hanno che la palestra. I capelli devono essere sono scuri, come il colorito della pelle, ma quello è senza dubbio frutto di sedute al solarium.

-Carino. Il classico pallone gonfiato, ma carino.

Commenta con indifferenza, suscitando una reazione negativa in Ronald.

-Oh andiamo! Come sei noioso! Scommetto che uno così con uno come ti ci sta sicuramente.
-Ron, basta. Non sono qui per questo. Oltretutto quello andar bene ha vent’anni! Quando ti ricordo che ho un figlio di sedici. Se ti piace così tanto fattelo tu. Io sto benissimo qui.

Ronald prende il suo bicchiere, si alza dallo sgabello e dà un buffetto sulla spalla a Christian.

-Chris, ti sei perso una grande occasione. Ci vediamo tra … un’oretta. Divertiti!

Christian osserva l’amico sparire nella folla. Non gli sembra nemmeno di essere realmente in quel posto. Si vede ancora sul suo divano, seduto a guardare un qualche spettacolo televisivo. Qualcosa tipo “Queer As Folk”, con discoteche, bei ragazzi drogati fino al midollo e una generale voglia di portarsi a letto chiunque sia disposto.

E’ tutto così confuso eppure tutti quanti sembrano così ben amalgamati tra di loro, tutti a loro agio, mentre lui se ne sta in disparte sul suo sgabello a sorseggiare poco per volta quel mezzo bicchiere di alcool che ha paura a gettare tutto d’un fiato.  E’ quasi spaventato da quella sensazione di bruciore e di piacere che provoca l’alcool  quando passa di colpo dalle labbra alla gola.  
Alla fine poggia il bicchiere, non del tutto vuoto, sul bancone e si alza. Si fa strada tra la folla e cerca insistentemente l’uscita. Ronald è indubbiamente impegnato e non c’è modo che si accorga della sua assenza. 
E’ da poco passata la mezzanotte, si è persino dimenticato di telefonare a Kyle, è certo che il ragazzo non sta dormendo, è sicuro di trovarlo ancora alzato, incollato al televisore a guardare qualche squallido film d’orrore.

Esce dalla discoteca e prende una boccata d’aria. Fa freddo, è scesa l’umidità e sta iniziando a piovigginare. Si sporge verso il marciapiede e attende l’arrivo di un taxi per tornare a casa.












Continuazione dell'AVVISO in testata:
La novità per HARD TO SAY I'M SORRY per il 2014 è il SITO: APRIMI!



Troverete oltre ai capitoli già presenti su EFP (riveduti e corretti in modo da renderli più coerenti in linea col mio sitle di scrittura attuale), le schede dei personaggi, alcuni approfondimenti, curiosità e partire dal mese di Aprire un PREQUEL di questa storia (che pubblicherò successivamente anche qui).

Che Aspettate? APRITE SUBITO IL LINK!!!!



---> Ta-dah! Ecco il terzo capitolo. Niente da dire sulla storia questa volta. Sto per partire e beh... ho voluto postare comunque in tempo ^.^ Colgo l'occasione per fare gli auguri di Buona Pasqua a chi leggerà questa storia.
E natualmente ringrazio Ytrew_Jezzy per il commento ^^ Se noti errori clamorosi nel testo fammeli pure notare, così posso migliorarmi e non ripeterli :)  

Alla prossima -m-(^o^)-m- <---

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Capitolo 4
*** Later Days (Ritardo) ***




!!! AVVISO !!!! (Relativo ai primi capitoli)
Ehi, sì dico proprio a te!
Vedo che hai deciso di aprire la mia storia e di questo ti ringrazio. Voglio però farti presente che il testo che stai per leggere è parecchio datato (prima metà 2009) e che ne esiste ora versione migliorata, riveduta e corretta. Lascio a te scegliere se continuare a leggere questa versione (che qui su EFP rimarrà così com'è) oppure scoprire dove puoi leggere la nuova versione (accompagnata da contenuti "speciali").
Se preferisci proseguire qui ti auguro BUONA LETTURA, in caso contrario, scorri fino ad arrivare in fondo a testo. GRAZIE!



4. Later Days (Ritardo)

E’ lunedì mattina. Kyle se ne sta accoccolato nel suo letto tra le coperte, assaporando quella piacevole sensazione di dormiveglia e riscaldandosi con il piumone azzurro che si è portato fino alle orecchie. Cerca di non curarsi della radiosveglia che sta suonando ininterrottamente da circa venti minuti. E’ così bello starsene a letto, vorrebbe non alzarsi mai.
Lasciandosi trasportare eccessivamente si riaddormenta. Quando si risveglia si rende conto che la sveglia ha smesso di suonare. Inizia a pensare di essersela sognata. Poco per volta riemerge dal piumone e allunga il braccio per raddrizzare la sveglia, per vedere meglio l’orario. I suoi occhi sono ancora semi-chiusi. Sbadiglia e sbatte le palpebre, accecato dalla forte luce rossa dei numeri sul quadrante. Non appena è poco più cosciente cerca di focalizzare quei due numeri.

07.57.

Dovrebbe essere a scuola in tre minuti. Un’impresa del tutto impossibile. Con un balzo scende dal letto e si sfila il pigiama, apre frenetico l’armadio e scorre velocemente i suoi jeans, afferrandone un paio, apparentemente a caso, lo stesso fa con la maglietta. Raggiunge in fretta il bagno, si lava la faccia e si veste di tutta fretta. Non ha nemmeno tempo per pettinarsi i capelli, se li sistema di corsa con le mani.

L’orologio in salone segna le 8.05,  il pullman è passato da tempo. L’unico modo per andare a scuola è quello di farsi accompagnare da Christian. E’ lunedì, il suo giorno libero, sta ancora dormendo, a giudicare dalla porta chiusa della sua stanza. Kyle prima bussa e poi entra, dperando di trovarlo già sveglio, magari vestito.
La luce nella stanza è ancora spenta, Christian è ancora completamente addormentato, non ha nemmeno sentito Kyle entrare. Il ragazzo si lancia sul letto ed inizia a chiamarlo e dargli spintoni per farlo alzare.

-Chris! Chris sveglia alzati! Ti prego!

Dopo ben tre minuti, finalmente Kyle riceveve una risposta dal padre.

-Chi …? Cosa …? Kyle. Che ore sono?

Si mette a sedere. Si stropiccia gli occhi, sbadiglia e osserva il figlio.

-Cosa c’è?

Chiede, con tono ancora assonnato.

-Sono in ritardo! Devi portarmi a scuola!!

Christian si gira per vedere la sveglia, osserva l’orario, non convinto la afferra e la avvicina di più al viso per leggerla meglio. Una volta constatato l’orario spalanca gli occhi, lascia cadere la sveglia sul letto.

-Oh Cristo santo Kyle! Sono le otto e dieci!

Scosta rapido le lenzuola e scende dal letto. Ripete gli stessi gesti di Kyle, con il doppio della fretta.

-Vai in cucina, versa quattro cereali nella tazza … sei capace?

Kyle annuisce e si precipita in cucina.





-Le nove meno venti. Ti vale la pena entrare?

Chiede Christian, fermando la macchina davanti all’ingresso della scuola di Kyle. Ha corso più non posso per arrivare in un orario decente, rischiando di investire qualche passante e un uomo in moto.

-Beh sono ancora in tempo per la seconda ora.

Kyle si slaccia la cintura, si sporge verso i sedili posteriori per afferrare lo zaino ed esce dalla macchina. Christian lo ferma, lo prende per la manica e lo strattona. Trascinandolo di nuovo dentro.

-Che c’è? E’ tardi!

Si lamenta il ragazzo.

-Aspetta un attimo. Ritardo per ritardo dobbiamo parlare.

Kyle torna a sedersi, chiude la portiera e aspetta.

-Senti, è già la quarta volta che corriamo come due pazzi a scuola perché non ti svegli. Ti conosco, so che razza di ritardatario sei. Per favore, da domani mattina punta la sveglia.

Kyle annuisce ed allunga di nuovo la mano verso la maniglia della portiera.

-Non ho finito.

Sa dove vuole arrivare Christian, per questo fa il possibile per andarsene a scuola al più presto.

-Chris ho capito. Le cose sono cambiate. Non c’è più nessuno a svegliarmi, devo pensarci da solo. Posso andare?

Christian fa un respiro profondo, si massaggia la fronte.
Ancora una volta la presenza invisibile di Jonathan torna a pesare tra i due. E’ così grave e pressante quella sua presenza che pare averli seguiti in macchina, pare quasi sia seduto dietro ad ascoltare e vivere con loro quella scena.  Hanno cercato di ignorarlo in quel tempo ma lui sembra essere ovunque, in ogni loro gesto, in ogni loro pensiero. In ogni fase della loro giornata manca qualcosa, manca una parte senza la quale non possono andare avanti, senza la quale tutto l’ordine viene sconvolto. Anche i ritardi a scuola.

Con Jonathan in casa a nessuno era mai concesso ritardare. Aveva sempre la sveglia puntata, era il primo ad alzarsi e si era sempre preoccupato di svegliare anche loro due. Da quando ha lasciato quella casa, nessuno dei due si è più preoccupato di alzarsi in orario. Basterebbe semplicemente sistemare la sveglia, certo. Eppure quella di lasciare che fosse Jonathan a svegliarli, con la sua voce profonda, con le sue frasi di routine, è un’abitudine dalla quale è dura staccarsi.
Una sciocchezza dopotutto ma evidentemente per Christian e Kyle, ricopre una notevole importanza.

-E’ giusto quello che stiamo facendo?

Chiede Christian, con un fil di voce.  Kyle non sa cosa rispondere. Fa un lungo respiro. Appoggia ai suoi piedi la cartella che fino a quel momento hs tenuto in mano. Rimane in silenzio.

-Scendi dai. Tra poco inizia la seconda ora …

Kyle obbedisce, afferra di nuovo la cartella e scende. Si chiude la portiera alle spalle e senza voltarsi si avvicina con calma verso il portone d’ingresso della scuola. Mancano ancora cinque minuti all’inizio dell’ora successiva, può anche prendersela con comodo.

***

Potrebbe fare quella strada ad occhi chiusi Jonathan.

L’ha percorsa tutti i giorni quella stessa strada negli ultimi quindici anni. Eppure è un mese che non vi ritorna. Un mese che senza vedere quel cartello di stop sbiadito dal sole, quel guard-rail arrugginito, il laghetto alla sua sinistra, fino a qualche anno prima popolato di papere e anatre, ora vuoto, ridotto ad uno stagno paludoso e ricoperto d’erba.
La segnaletica orizzontale è sparita da anni su quel manto stradale, ha scioccamente sperato che l’avessero sistemata proprio in quel mese di assenza. E invece, anche quella, va a sommarsi all’insieme di familiarità che gli fanno mancare quasi il respiro.

Non aveva mai pensato che gli potesse mancare l’ambiente in cui era solito stare. Non aveva mai pensato di avvertire un colpo al cuore vedendo quel cartello di stop sbiadito, che in quindici anni non gli ha fatto il benché minimo effetto.  Per poi arrivare infine al condominio.
Non poter mettere la freccia a sinistra, afferrare il telecomando nel portaoggetti vicino al cambio, schiacciare il bottone rosso per aprire la saracinesca del garage, gli fa avvertire una certa mancanza. Dovrà saltare quei passaggi così automatici, che non potrà più ripetere.

Se avesse saputo come si sarebbero svolte le vicende, si sarebbe fermato un istante per godere di tutte quelle quotidianità che hanno sempre riempito le sue giornate.
Parcheggia l’automobile poco distante dal condominio. Dopo qualche passo raggiunge lo stabile. Al momento di pigiare il bottone dell’ascensore si blocca. Un altro gesto meccanico.
Schiaccia il bottone rosso, attende l’apertura delle porte, entra nell’abitacolo e allunga il braccio sinistro verso la pulsantiera. Preme il terzo bottone a destra e aspetta che le porte automatiche si chiudano di nuovo.
Una volta arrivato al pianerottolo della propria abitazione rimane spiazzato, osservando due scatoloni ai due lati della porta e una valigia appoggiata su uno di questi.  Si chiede se non sia proprio la sua roba ad essere contenuta in quegli scatoloni.

Si avvicina alla valigia. La riconosce. E’ la solita valigia scozzese pesante che era solito caricare ogni estate in macchina, per partire per le vacanze. E’ gonfia e pesante.
La adagia orizzontalmente sullo scatolone su cui è posata ed apre le due cerniere. Come previsto, contiene i suoi vestiti.  Richiude la valigia, la solleva e la appoggia contro la porta. Apre uno scatolone e nota che anche in quello sono contenuti i suoi vestiti.

In quel momento non sa più a che pensare.

Dovrebbe essere sollevato dal fatto di non dover affrontare il faccia a faccia con Christian, di non dover entrare, fare quello stesso lavoro che ha fatto per lui chissà quanto tempo fa, di non sentire il suo sguardo addosso e sentirsi ancora più colpevole e ancora più sporco. Gli basta prendere la sua roba, spingerla nell’ascensore e caricare tutto sulla macchina, andando in direzione dell’albergo.

Ma gli manca qualcosa.

Aveva bisogno di vedere Christian. Non gli importava del modo in cui l’avrebbe accolto, di quello che si sarebbero detti, sarebbe stato persino pronto a sentirsi addosso di nuovo tutte le sue colpe ma non poteva resistere ancora senza vederlo.  Il timore delle sue lacrime, di leggere la tristezza nel suo viso, erano svaniti.

In un attimo di tentazione, allunga la mano verso il pomello della porta. Si blocca. Forse dovrebbe suonare il campanello o bussare. In fondo ormai non è più quella la sua casa.
Legge il suo cognome sulla targhetta sopra al campanello e non riesce. Lascia perdere. Forse è meglio così. Si affretta a radunare le sue cose, deve andarsene subito.

***

Morgan ha visto Kyle entrare in classe a lezione iniziata. Ha saltato la prima ora e adesso se ne sta seduto in fondo alla classe, nell’unico posto libero rimasto. Vorrebbe girarsi e chiedergli il motivo di quel ritardo ma verrebbe rimproverata dal professore. Decide di aspettare la fine della lezione.
E’ sempre più strano. Si chiede se davvero non gli sia successo qualche cosa di spiacevole, del quale non l’abbia messa al corrente. Non ha mai fatto un ritardo a scuola dalla prima elementare, per quanto si ricordi, mentre in quel mese è già la quarta che lo vede entrare alla seconda ora o addirittura alla terza, una volta non si é nemmeno presentato. Deve assolutamente indagare a fondo sulla faccenda.

L’ora di algebra è senza dubbio la più noiosa. Pare non finire mai. L’insegnante è la signorina Hover, una vecchia zitella inacidita, il cui unico divertimento debr essere torturare i propri alunni con esercizi complicati e irrisolvibili.
Morgan sbuffa, osservando l’esercizio assegnato. Afferra la calcolatrice e cerca una matita nel suo astuccio. Si accorge di averla dimenticata. Decide di approfittare di quell’occasione per chiederla a Kyle. Prima strappa un angolo dal foglio del proprio quaderno e scrive un biglietto da consegnare all’amico.

“Ciao. Questa dei ritardi poi me la spieghi …”

Si gira, si alza e va verso il banco del compagno. Per prima cosa appoggia il foglietto sul banco.

-Kyle, ho lasciato a casa la mia matita. Hai una 2B anche per me vero?

Kyle inizia a tastare tra le sue cose poi afferra un matita mezza mangiucchiata e la porge all’amica che prima la osserva disgustata poi la accetta e se torna al posto.



-Allora Signorino Wallace? A cosa sono dovuti questi ritardi?
Chiede la ragazza, comparendo al fianco di Kyle in corridoio.

-Morgan te l’ho detto, mi sveglio tardi.
Per Morgan quella non è una spiegazione sufficiente.

-No caro! Oggi non te la cavi con così poco. Non ti è mai capitato di arrivare così tanto in ritardo. Sputa il rospo, avanti!

Kyle accelera il passo, cercando di lasciarsi alle spalle Morgan. La ragazza non si dà per vinta e lo rincorre, cerca di superarlo in velocità e gli si piazza davanti. Allarga le braccia e gli impedisce il passaggio.

-Non vai da nessuna parte se prima non mi dici la verità!

Kyle cerca di eluderla ma non riesce, stanco di continuare ad andare a destra e sinistra la spinge, facendola cadere.  Poi in fretta se ne va, lasciandola da sola a terra.
La ragazza si trova spiazzata. Non l’ha mai spinta, neanche per gioco. Deve esserci un motivo a fronte del suo comportamento e Morgan è più che decisa di scoprirlo quel giorno, a costo di farsi spingere di nuovo a terra, a costo di farsi fare male sul serio.

***

E’ mezzogiorno. Christian ha passato l’intera mattinata in giro per la città. Ha svolto tutte le commissioni, ha fatto la spesa, ha portato degli abiti di Kyle in tintoria. Tutto per poter tenere la mente occupata. Il pensiero di Jonathan quella mattina si è fatto più insistente. Doveva fare il possibile per scacciarlo.

Molto probabilmente, non è possibile toglierselo dalla testa quel giorno.
Rincasando trova il pianerottolo sgombro. Quei due scatoloni e quella valigia, posti nella stessa posizione per un mese non ci sono più. Si era quasi abituato a vederli lì fuori, uscendo di casa,
Jonathan è stato lì, è tornato a casa. Forse è entrato, e si è preso anche gli oggetti non impacchettati, durante la sua assenza.
Rapidamente afferra il mazzo di chiavi in tasca, apre la porta, la spalanca e lascia a cadere a terra le buste di carta della spesa, per dirigersi verso la stanza da letto. Si inginocchia e apre il comodino di Jonathan. Non è stato toccato nulla.

Rimane seduto a terra e torna a pensare.

Pensa che probabilmente Jonathan neanche c’è tornato in casa. Ha solo raccolto le cose che lui stesso gli ha preparato e se n’è andato via, senza nemmeno farsi vedere.  
Ha ottenuto quello che voleva. O forse no?

***
Kyle si prepara in fretta per uscire da scuola. E’ passato anche quel giorno. Deve ricordarsi, una volta arrivato a casa, di sistemare la sveglia, per evitare il ripetersi di quella mattina.
Non ha più visto Morgan dopo averla spinta nel corridoio. Non era sua intenzione farlo, mentre percorre la strada per il pullman, spera non si sia fatta male. E’ così magrolina e delicata Morgan. Dovrebbe chiederle scusa. Afferra il cellulare ed inizia a comporre un sms.
Vede che il pullman è in anticipo quel giorno, ripone in tasca il cellulare, lo scriverà una volta seduto il messaggio. Si avvicina alla scaletta del pullman.

-Alt! Di qua non passi!

Alza lo sguardo e vede Morgan davanti a sé, che gli blocca la strada, che gli impedisce di salire.

-Allora stai bene.
-Certo che sto bene e non ti faccio passare finché non mi dici cosa sta succedendo Kyle! Quindi faresti bene a darti una mossa.

Kyle cerca di passare comunque ma non riesce.

-Morgan, spostati per piacere.
Morgan non ha alcuna intenzione di muoversi.

-No che non mi sposto.

Kyle inizia ad infastidirsi.

-Te lo chiedo per favore Morgan, spostati da lì.

Lei non si sposta e non dice nulla.

-Morgan SPOSTATI!
Grida Kyle.

-Tu parla e io mi sposto.

Kyle sbuffa seccato e annuisce col capo.

-Va bene. Lo vuoi proprio sapere cosa non va Morgan?
-Certo che si! Non me lo puoi nascondere ancora …

Kyle fa un attimo di silenzio poi inizia a parlare.  Lasciando scorrere un fiume inarrestabile di parole, pronunciate con un tono di amarezza e di risentimento.

-I miei genitori si stanno separando. Jonathan se n’è andato di casa un mese fa e non è più tornato, mi scrive messaggi che non voglio leggere ma non si degna di fare una telefonata. La situazione a casa mia è un schifo. Christian … non ci parlo per non farlo stare male. Ed io? Beh io lo lascio a te come posso stare.

Morgan rimane a bocca spalancata. Non si aspettava una spiegazione del genere.  Sta ancora cercando di rielaborare quel mucchio di informazioni che le erano state fornite.

-Adesso mi lasci passare?

Si sposta e lascia salire l’amico. Senza riuscire per il momento a ribattere in alcun modo.









Continuazione dell'AVVISO in testata:
La novità per HARD TO SAY I'M SORRY per il 2014 è il SITO: APRIMI!



Troverete oltre ai capitoli già presenti su EFP (riveduti e corretti in modo da renderli più coerenti in linea col mio sitle di scrittura attuale), le schede dei personaggi, alcuni approfondimenti, curiosità e partire dal mese di Aprire un PREQUEL di questa storia (che pubblicherò successivamente anche qui).

Che Aspettate? APRITE SUBITO IL LINK!!!!



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---> Eccomi dopo una settimana giusta giusta a postare il quarto capitolo. Avviso che al momento sono a metà del tredicesimo e... la fine è lontana xD quindi  andrò avanti ancora per un bel po'^^ per il resto...
Ringrazio di nuovo Tao per i commenti. Sei stata gentilissima a commentare l'ultimo capitolo e quello indietro^^  Mi fa piacere che ti piacciano i miei personaggi, io sono di parte ma li adoro, sono i migliori che il mio cervellino abbia partorito XD

Ok, that's all!! Alla prossima :) <---

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Capitolo 5
*** Temporary (Temporaneo) ***


5. Temporary (Provvisorio)

-Perché hai aspettato così tanto tempo a venire da me Jonathan?

Jonathan fa un lungo respiro. Ha lo sguardo fisso nel vuoto. Si accoccola nella sedia, cercando di rilassarsi. Avrebbe bisogno di una sigaretta, di una delle sue Lucky Strike, in quel momento.

Sono mesi che non vede Gregor. Gli pare invecchiato. I capelli una volta brizzolati sono quasi completamente grigi, le rughe sulla fronte sono solchi più profondi, persino i suoi particolari occhi grigi sembrano più piccoli, più infossati, più stanchi. Ha cinquant’anni Gregor ma non l’ha mai dimostrata la sua età, fino a quel momento perlomeno. Vorrebbe fargli qualche domanda ma il suo ruolo in quella situazione non glielo permette, in quello studio, quello strano studio, il paziente è lui ed è Gregor l’unico a cui è concesso fare domande.

E’ sempre stato intimorito da quell’ufficio, così antico, così buio. Libri antichi e polverosi riposti su enormi librerie, tende scure, quasi nere, dai drappeggi pesanti, per non parlare del parquet, rosso scuro, rosso sangue. E’ un ufficio molto vecchio e le pareti sono solide, i muri sono ben isolati. Jonathan è sempre stato convinto che se Gregor morisse da solo in quello studio, nessuno se ne accorgerebbe per mesi.

Nulla di ciò che entra in quel posto riesce ad eludere quei muri e allo stesso modo nulla può penetrarli.

-Non lo so perché.
Risponde Jonathan, dopo qualche minuto di silenzio.

-Quanti mesi sono che non ci vediamo… tre?

Jonathan lo corregge.

-E mezzo.

Gregor sospira.
-Eppure ti ho sempre detto che uno psichiatra ha bisogno a sua volta di una visita. O sbaglio?

Jonathan non risponde.

-Bene, dopotutto ora sei qui.

Gregor sposta la sedia un poco lontano dalla scrivania, per poter essere più comodo e inizia ad osservare Jonathan a braccia conserte, in attesa che inizi a dire qualcosa. Sono sempre così le sedute da lui. Se ne sta zitto e lo fissa in attesa che parli. Sa bene di non dover attendere troppo, perché lui non è in grado di sopportare il silenzio, lo spaventa, lo confonde, fa emergere ogni sua paura, il più recondito dei suoi pensieri.  

E quando Jonathan avrà iniziato a parlare, dovrà soddisfare le esigenze di Gregor che non parlerà, non dirà nulla, non farà nemmeno il minimo gesto, finché non avrà ottenuto le informazioni necessarie, finché non riterrà di aver saputo tutto il possibile.

Cede, Jonathan.

-Non ce la faccio più Gregor, mi sento in gabbia.

Gregor questa volta parla.

-Per questo saresti dovuto venire da me. Il tuo problema Jonathan è che tu pensi di poter fare a meno delle persone e poi, pagando il doppio del prezzo, ti accorgi che non è possibile.

Smette di parlare per qualche secondo.

-Pensi si fare a meno di me e sai che non è possibile.Hai pensato di poter fare a meno persino di lui nel momento in cui hai fatto… quello che hai fatto.

Jonathan rimane stupito.

-Quindi hai capito, quindi non c’è bisogno che parli? Possiamo passare alla fase successiva?

Gregor sorride e scuote il capo.

-Oh no. Se pensi di potertela cavare con così poco, non sai fare il tuo mestiere.

Avrebbe dovuto aspettarselo. Cala di nuovo il silenzio ed inizia a parlare.

***

Non sa come comportarsi Morgan, dopo quella rivelazione, dopo quel fiume di informazioni che Kyle le ha gettato addosso. E’ passata una settimana da quel giorno e ha cercato di non toccare l’argomento con l’amico. Non saprebbe come affrontarlo, non saprebbe cosa dirgli né quale reazione aspettarsi da parte sua.

Lo osserva, è distratto. Ha il gomito destro poggiato sul banco, il mento posato sul palmo della mano e sta scarabocchiando. Lo fa spesso quando è annoiato, quando è pensieroso. Osserva la finestra ogni tanto, studia le gocce di pioggia scorrere sul vetro.  

Poi la direzione del suo sguardo cambia.

 Morgan si sporge per osservare meglio ma non riesce a capire. Deve ritenerlo molto interessante quello che sta fissando perché dopo qualche minuto di contemplazione comincia a disegnare frenetico su un foglietto, che strappa con rapidità da un block notes.

Morgan non riesce a vedere cosa stia disegnando, il foglietto è troppo piccolo e il braccio di Kyle le copre tutta la visuale. Cerca di guardarsi intorno per scoprire quale possa essere l’oggetto d’interesse di Kyle, incrocia lo sguardo di Antony e decide.

E’ lui, Antony Edwards, il soggetto del disegno di Kyle, deve esserlo per forza. La ragazza se ne convince, senza voler pensare ad un'altra possibile alternativa.
E’ seduto in una posizione simile a quella di Kyle, Anthony, nemmeno lui sta seguendo, ha lo sguardo fisso nel vuoto, pare.

E’ un quarterback, di buona famiglia, un bravo ragazzo, tutto sommato.A a scuola se la cava egregiamente. Per questo motivo molte ragazze ambiscono ad uscire con lui e molti ragazzi cercano di entrare nelle sue simpatie. Fisicamente, togliendo il corpo da atleta, è un ragazzo comune, nessun particolare che possa distinguerlo dalla massa, carino nel complesso.

Morgan non riesce a togliersi dalla testa il pensiero che tra lui e Kyle possa esserci qualcosa. Non sa con precisione quando le sia nata questa certezza ma giorno dopo giorno è sempre più convinta. Decide di aver trovato il modo per distrarre Kyle, per non fargli pensare ai suoi problemi; deve far nascere qualcosa di concreto tra lui e Anthony.

Per i restanti minuti di lezione cerca di ideare un piano. Le vengono in mente le idee più strane, più bizzarre, poi, la campanella suona e si alza per raccogliere le sue cose. Voltandosi verso Kyle osserva che al suo banco si è avvicinato proprio Anthony. Comincia a pensare che la fortuna possa esserle amica e che forse non c’è nemmeno bisogno del suo aiuto per avvicinare i due.
Dovrebbe andare a lezione di biologia ma non ha intenzione di perdersi la scena, così svuota la cartella e cerca di sistemare lentamente i libri, gettando ogni tanto lo sguardo verso i due ragazzi.

-Davvero non ti da fastidio prestarmeli, Kyle?
Chiede Anthony, bandendo il quadernetto degli appunti di Kyle.

-No figurati. Me li hai prestati tu l’ultima volta, prendili pure.
Risponde Kyle. I due ragazzi si scambiano un sorriso reciproco, di cortesia, di circostanza. L’unica a vedere della malizia in quel sorriso è Morgan che ormai, dopo aver spostato per una ventina di volte gli stessi tre libri nella cartella, decide di avvicinarsi all’amico per evitare di far scoprire il suo tentativo di spionaggio.

-Kyle, andiamo a biologia? Oh ciao Anthony!
Esclama, fingendo di non aver nemmeno notato il ragazzo. Kyle si alza dalla sedia ed inizia frettolosamente a radunare le sue cose.

-Ciao Morgan.
Risponde Anthony.

-Quando te li devo riportare?
Domanda.

-Venerdì… ti va bene?
Chiede. Kyle annuisce.

-Benissimo.
-D’accordo allora… grazie di nuovo, ciao. Ciao ancora Morgan.

Si allontana, lasciando i due in classe da soli. Dopo qualche secondo anche loro escono, per raggiungere l’aula di biologia.

Morgan decide di indagare.
-E’ un bel tipo Anthony…
Commenta.

-Pensavo odiassi i ragazzi della squadra di football.
Risponde lui. Non era certo la risposta che Morgan si stava aspettando. Decide di azzardare di più.

-Infatti non parlavo di me… dico che in generale alla gente può piacere, un tipo come lui.
Si pente. Ha azzardato troppo. Kyle si è sicuramente accorto di ciò che vuole sapere. Si morde il labbro e attende di sentirlo sbraitare.

-Se ti piace il tipo…

Nulla. Non si è accorto di nulla. Morgan tira un sospiro di sollievo. Decide di fermarsi per il momento, attenderà venerdì, alla restituzione degli appunti, per fare altre domande.

***

Christian sta lavorando. Ronald lo guarda. E’ seduto in una posizione strana, come sempre, è quasi a gambe incrociate sulla sedia, le sue braccia sono poggiate sul tavolo e sta correggendo i suoi appunti e i testi propostigli dai suoi studenti.

Non conosce nessuno, Ronald, che abbia la stessa passione per il proprio lavoro come Christian e dubita di riuscirne trovare al mondo molti come lui. Lo invidia, lo invidia profondamente. Quel suo impegno nel lavoro, quel suo amore per quello che fa.

Lo conosce da dieci anni, da quando è arrivato, la sua passione per l’insegnamento non si è mai scalfita. Era solo in ragazzino neo-laureato, non aveva mai lavorato in una scuola, a differenza sua. Stava sulle sue, sembrava non volesse parlare troppo con nessuno, non si perdeva in confidenze, si limitava a qualche saluto, qualche sorriso timido. Era rimasto incuriosito Ronald da quel ragazzo e aveva deciso di seguire una delle sue lezioni, per osservarlo spiegare. Voleva vedere in quale modo un ragazzo così giovane fosse capace di spiegare qualcosa di antico, e generalmente poco divertente, come la storia d’arte classica.

Gli brillavano gli occhi.

Cambiava completamente in aula. Era sicuro di sé, parlava a briglia sciolta e camminava tranquillamente avanti e indietro per l’aula, gesticolando di tanto in tanto. A volte indicava uno dei suoi alunni per fare qualche domanda e sorrideva, sempre, che la risposta datagli fosse adeguata o meno.
Per Ronald Christian é un attore, il migliore, una star. Le fredde e austere aule dell’accademia sono il suo palcoscenico, il luogo dove é in grado di esprimersi nel migliore dei modi.

Ha una grande abilità Christian, sa coinvolgere i suoi studenti come nessun professore che conosca è in grado fare e Ronald, a distanza di anni , continua a chiedersi come ci riesca, quale sia questa qualità di Christian che lui invece non possiede.

Si siede anche lui, poco distante da Christian, per evitare di disturbarlo. Ha un profilo distinto, lineamenti delicati, mascella poco pronunciata e labbra molto sottili, per non parlare dei suoi occhi azzurri, dei suoi capelli.

Non è solo la capacita d’insegnamento di Christian ad attirare Ronald, è attratto da lui, dal suo carattere, dal suo bel viso, lo è da sempre ma non lo ammetterà mai, né a Christian né a se stesso.

Sta sorridendo.

Lo fa spesso mentre corregge gli appunti di qualche suo studente, quando ritrova scritto nero su bianco ciò che ha spiegato, quando si rende conto che le sue lezioni sono state rielaborate, capite, apprezzate. Gli basta questo per farlo sorridere, è così semplice Christian, ingenuo a volte. Anche Ronald sorride di riflesso, ha un sorriso particolare quel ragazzo.

-Di’ un po?, cos’hai da sorridere?
Domanda Ronald.

-Uhm?!

È completamente assorto in ciò che legge Christian, non ha attenzione per altro, non si fa distrarre da nulla, un’altra dote che Ronald gli invidia.

-Niente, niente… piuttosto, hai da fare questa sera?
Si alza e si avvicina a lui.

-Non so…

Prende la sua agendina rossa ed inizia a scorrere le pagine. Ronald non sopporta le persone che tengono la propria vita appuntata in un assurdo giornaletto. Afferra furiosamente l’agenda del collega e la spinge lontano dalla sue mani.

-Ma quale agenda! Li conosci i tuoi impegni.

Christian annuisce, si alza e raccoglie la sua agenda, finita quasi all’altro capo del tavolo.

-La verità è che cercavo un modo carino per rifiutare un tuo invito in un altro squallido bar…
Confessa, con decisione.

- E se ti proponessi qualcos’altro?

Christian si volta.

-Tipo?

Ronald gli sorride.
-Uscire io e te, insieme, da soli.

Christian spalanca gli occhi, lo fissa, senza dire niente. Il suo sopracciglio sinistro è leggermente alzato, la sua bocca semi-aperta. Quella strana espressione ha qualcosa di molto divertente per Ronald, scoppia ridere, confondendo ancora di più il povero Christian.

-Scherzavo! Scherzavo! Dio dovresti guardarti allo specchio, la tua faccia è così… ridicola!

Christian porta gli occhi al cielo, raccoglie le sue cose e lo lascia da solo nella sala.
“Già, scherzavo” pensa, non riuscendo a togliersi la curiosità di sapere cosa avrebbe risposto Christian una volta sparitagli dal viso quell’espressione buffa.

***
-E’ una nuova casa, quello che ti serve.

Così gli ha detto Gregor. Ha ascoltato tutto quanto avesse da dirgli e poi se n’é uscito con quella frase. Cammina per il centro Jonathan, sconvolto. Sapeva che non avrebbe potuto vivere in quella stanza d’albergo in eterno, che non vi si sarebbe potuto nascondere a lungo eppure, intimamente, c’aveva sperato.
Durante quel periodo ha guardato i vari volantini, raccolti per strada o nei metro, riguardanti appartamenti in vendita ma non ha mai trovato qualcosa che gli interessi o meglio, non ha mai voluto trovarlo.

La sua casa, la casa di Christian, é tutto per lui. C’é la sua vita, i suoi ricordi. Non poterla più definire propria, averne un'altra, lo farebbe sentire perduto, gli farebbe sembrare tutto quanto reale. Durante quel periodo gli é parso quasi di camminare per aria, non si é reso bene conto di cosa gli stia succedendo, se ne sta accorgendo solo ora.

In quella casa lascia la parte migliore di sé, quella che Christian e Kyle amano, quella in cui si riconosce.  Non potrà riprendersela e portarla con sé, nel nuovo appartamento ci sarà  il Jonathan attuale, il vigliacco solo e sovrastato dalle colpe di cui si è macchiato. E' con quella figura che deve convivere ora.

Cammina e calpesta un volantino, l’ennesimo annuncio di appartamenti, lo raccoglie, lo  legge e lo getta di nuovo a terra.
Prende una sigaretta, l’accende e respira. Quella situazione temporanea, provvisoria, in cui si è trovato sta diventando sempre più reale. Non ha la forza ora di pensare a concretizzarla, aspetterà a cercare l’appartamento, un altro giorno almeno, lasciandosi il tempo per dare a quella situazione dai contorni sfuocati delle forme ben definite.


--> Buondì! Beh sarebbe buonasera visto che sono quasi le 5... comunque, eccomi con il quinto capitolo! Entra in scena un personaggio molto strano in questo capitolo, Gregor. Potrete odiarlo o amarlo ma è un tipo irrimediabilmente "losco" XD Poi... mi fa molto piacere avere visto aumentare il numero dei commentatori a partire dal quarto capitolo, sono molto felice, davvero. Vorrei quindi passare a ringraziare e rispondervi uno per uno.

Mana: Mi fa piacere che ti piaccia questa storia, sì i dettagli sui motivi della rottura verranno svelati poco a poco, nello svilupparsi della storia... vi lascio un po' con la "sorpresa" ^^  Ti ringrazio poi anche per i consigli sulla forma, ho ingrandito il carattere a partire da questo capitolo, come si nota e ho anche cercato di mettere i puntini di sospensione attaccati alla parola. Se noti altre "imperfezioni" non esitare e farmele notare, mi fa piacere ricevere "dritte" e poi significa che siete attenti nella lettura ;)

Tao: Sì,la mia mente contorta ha un talento naturale per la tortura dei personaggi XD Sono contenta che continui a ritenere realistica la mia fic, anche nel capitolo 4 che è quello che personalmente mi è piaciuto di meno.

Felicity89: Si, come ho scritto a Mana, pian piano avrete tutti i dettagli, ma proprio TUTTI XD Sì, Johnathan è un personaggio molto interessante, particolare. Ha anche una serie di "turbe" mentali e di questo ve ne accorgerete nel capitolo 6...


Ok, detto questo... alla prossima!! <--

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Capitolo 6
*** Hidden (Nascosto) ***


6.Hidden (Nascosto)

Sta seduto sulle scale dell’accademia Kyle, osserva il viavai di studenti muoversi per il corridoio e vede se stesso tra qualche anno. Ha solo sedici anni ma il desiderio di frequentare il college per lui è fortissimo. Molto probabilmente perchè ci è cresciuto in quell’accademia. Lo portava spesso Christian, agli inizi della sua carriera, in quel posto. Lo lasciava in biblioteca a leggere libri, a sfogliare volumi. In questo modo è nata la sua passione per la letteratura e quella per l’arte.

Il primo libro letto nella biblioteca del college era proprio un volume parlante di un pittore italiano, Hayzez, appartenente alla corrente pittorica Romantica. L’aveva sfogliato quasi tutti i giorni per anni e si era innamorato del dipinto “Odalisca distesa”, la sua prima copia.

Riflette sul motivo della sua presenza in quel posto, dopo anni. Sono le nove passate, dovrebbe essere a scuola. Dovrebbe si, ma non è stato in grado di andarci. È iniziato tutto qualche ora prima.
A causa di numerosi ritardi a scuola, si era finalmente deciso di sistemare la sua sveglia per poter fare le proprie cose con calma ed essere puntuale alla fermata del bus scolastico.

Quella mattina era in anticipo di ben venti minuti. Si era seduto sulla panchina alla fermata ed aveva iniziato ad aspettare.Venti minuti sono tanti per non annoiarsi, così aveva deciso di prendere dalla tasca il cellulare e passare il tempo giocando ad uno di quei giochini sciocchi, scaricato qualche sera prima.

Aveva quindi afferrato il telefono, per poi notare, leggendo sullo schermo, che gli era arrivato un messaggio. In realtà, era dalla sera prima che stava lì. L’aveva notato e aveva deciso di cancellarlo il giorno successivo e, fino a quel momento, se n’era dimenticato. Conosceva il mittente; Jonathan. Aveva ricevuto parecchi messaggi da parte sua, cancellati tutti quanti. Stava iniziando a chiedersi se fosse giusto ignorarlo in quel modo, se stesse facendo bene a far finta di niente. Dopotutto in teoria a lui non aveva fatto nulla e non avrebbe avuto alcun motivo per ignorarlo.
Annoiato ed indeciso aveva deciso di aprire e il messaggio, l'aveva letto.

“Ciao tesoro. Come va? Tutto bene a casa? Ti sono arrivati i miei messaggi? Ho comprato un nuovo appartamento. Mi piacerebbe venissi a trovarmi. Fammi sapere se ti va e quando, così ti vengo a prendere. Un bacio.”

Non aveva capito subito il contenuto alla prima lettura, così l’aveva riletto una seconda, una terza, una quarta volta. Risultato; si era pentito di averlo aperto. Avrebbe voluto tornare indietro. Durante ogni lettura aveva avvertito un colpo al cuore leggendo parola “nuovo appartamento”.  L’aveva avvolto una strana sensazione di sconvolgimento. Non sapeva cosa fare, cosa rispondere. Voleva parlarne con qualcuno. Aveva bisogno di rivelarlo a qualcuno.

Non aveva più voglia di andare a scuola ora, anzi, nemmeno ci pensava alla scuola. Si era alzato e aveva iniziato a camminare, dapprima lentamente poi a passo sempre più sostenuto. Nemmeno lui era a conoscenza della propria destinazione finchè non vi si era trovato davanti. Non era nemmeno sicuro di conoscerla quella strada, non l’aveva mai fatta a piedi in vita sua, vi era sempre stato portato in macchina.

Sono passati degli anni dalla sua ultima visita a quel posto ed era bello come se lo ricordava. Si era fermato per un secondo, aveva ammirato l’ingresso finto neoclassico e poi si era gettato tra gli studenti, confondendosi tra di loro, cercando di ricordarsi la struttura dell’edificio.

Ora si trova lì seduto. Una mano nella tasca tiene fermo il cellulare. Ha bisogno di parlarne con Christian, deve saperlo anche lui. Dopo circa un quarto d’ora di attesa inizia a pensare che forse quella possa non essere esattamente una buona idea. Quando Christian lo vedrà gli chiederà sicuramente il motivo della sua visita, lo rimprovererà per non essere andato a scuola.
O magari intuirà qualcosa da solo, forse non ci sarà nemmeno il bisogno di farglielo leggere il messaggio. Si chiede se non sia solo lui ad ingigantire la cosa, magari a Christian non importa, magari non la ritiene una cosa così seria. Considera la possibilità di essere solo lui a ritenerla una cosa importante.

Si alza. Decide di andare a casa. In quel momento vede Christian nel corridoio con un suo collega. Sta sorridendo e sembra felice. E’ così bello e luminoso il sorriso di Christian, non lo vede da tempo e non gli sembra giusto spegnerlo in quel modo. Sospira e si vota per andarsene.

È troppo tardi. Christian l’ha visto e lo chiama.
-Kyle, tesoro! Cosa fai qui? C’è qualcosa che non va?

***

Un’altra notte insonne. Sono tutte così le notti di Christian da quando Jonathan ha lasciato quella casa. Non riesce a dormire da solo, non c’è mai riuscito. Fissa il soffitto e respira.
Non si è ancora abituato ad avere quel letto grande tutto per sè, rimane ancora accoccolato il quella che è sempre stata la sua metà del letto, non osa andare oltre. Non ha il coraggio di allungare le braccia verso l'altra parte.

Dorme in quella precisa posizione finchè non si sveglia di soprassalto e si accorge di aver invaso la metà opposta del letto. Le lenzuola ancora piegate e per nulla sgualcite sono così fredde. Quel  freddo gelido gli penetra nelle ossa, nella carne, non riesce più a prendere sonno. La vista di quel cuscino così rigonfio lo fa stare male, lo fa sentire ancora più solo. Gira la faccia dall’altra parte e cerca di non guardare. Sembra così grande quel letto ora.

Se ne sta fermo, immobile. È  stanco. Non riesce a sopportare quella situazione. Allunga il braccio e afferra la sveglia sul comodino. Sono solo le sei ma non fa nulla, si deve alzare. Arriverà in accademia prima, poco importa, troverà qualcosa da fare.

Si alza dal letto, sceglie con cura i propri abiti, le scarpe e poi si concede un bagno caldo di quasi mezz’ora. Si prepara una buona colazione tenendosi così occupato per una ventina di minuti circa. Dopodichè va a zonzo per la casa, fino alle sette. Prima di uscire si affaccia alla porta di Kyle, per vedere se sta dormendo.

Non l’ha ancora perso quel vizio. Lo fa ogni mattina. Apre la porta con delicatezza, si sporge leggermente e lo osserva nel buio per qualche secondo. Poi richiude la porta, prende le sue cose, le chiavi della macchina ed esce.
Arrivato in accademia nota con piacere di non essere solo.

-Mattiniero oggi Chris?

È Ronald, che sta scendendo dalla sua macchina e lo raggiunge.

-Si. Tu lo sei sempre eh?
-Non ho niente di meglio da fare…

Entrano entrambi nell’aula insegnanti. Christian prende posto sulla sedia rossa con le ruote, la sua preferita. Appoggia sul tavolo la valigetta ed estrae i suoi appunti e le cose da correggere. Ha molto tempo a disposizione, può preparare la sua lezione con calma.

C’è silenzio. Ronald è in piedi davanti ad una delle due finestre della sala che sta bevendo un caffè. Non parla, si limita ad osservare fuori.
Termina il caffè, appoggia la tazza sul tavolo e prende una sedia. La trascina vicino alla finestra, leggermente spostata, per poter osservare fuori e allo stesso tempo non dare le spalle a Christian.

Christian osserva il suo profilo illuminato dalla luce dorata del mattino.
È una persona strana Ronald. Ha un carattere estroverso, parla molto, è socievole eppure di sè e della sua vita non dice mai una parola. Christian lo conosce da dieci anni, è forse il più caro amico che ha, tuttavia si rende conto di sapere veramente poco di lui, quasi nulla. Al contrario Ronald conosce ogni possibile dettaglio della vita di Christian. Non fa mai a meno di chiedere e di informarsi. È difficile capire se gli faccia delle domande per pura e morbosa curiosità o per interesse dovuto ad una sincera amicizia. A volte Christian vorrebbe girargli le domande che gli pone, per scoprire qualcosa sul suo conto. Non ne ha mai avuto il coraggio poichè una risposta da parte di Ronald, non è sicura. Non saprebbe nemmeno del suo orientamento sessuale, se non l’avesse invitato per locali nel corso degli anni. Inoltre, parlando con i suoi colleghi, in particolare con quelli che conoscevano Ronald da più tempo, si era reso conto che nessuno sapeva di Ronald qualcosa che andasse realmente oltre ai dati anagrafici.

È quasi immobile su quella sedia, incantato da ciò che osserva. Non ha tutti i torti. Le finestre in quell’aula affacciano sul giardino dell’accademia, un bellissimo parco curato, decorato da meli, peschi, ciliegi e altre piante dai fiori delicati. È primavera e i petali di ciliegio e di pesco si librano leggeri nell’aria per poi cadere a terra creando un bellissimo tappeto rosato. Il vero protagonista però è il salice al centro, piantato ad inizio ‘900 dal rettore e fondatore dell'accademia.

Senza rendersene conto, anche Christian si trova ad osservare quello spettacolo pittoresco. Ha il mento appoggiato alla mano e osserva i petali agitarsi al vento. Quella vista l’ha distratto, si rimette a posto e torna a fare il suo lavoro.

-È incredibile, non è vero?
Commenta Ronald, senza girarsi.

-Si… godiamo di un’ottima vista qui…

Finisce il suo lavoro e poi si alza e si mette vicino a Ronald.

-È per questo che vengo così presto. Per godermi questo scenario in pace. Poi arrivano gli altri, la gente e in queste finestre non vedo riflessi che loro, i loro discorsi il loro assurdo agitarsi…

Il tono di Ronald è malinconico, anche quella sua espressione e quella sua posa lo sono. Christian non ha mai visto Ronald sotto quella luce. Non conosce quel suo aspetto, gli pare di quasi di azzardare a definirlo triste.

-Scusami… magari avresti voluto restare solo.

Ronald si gira verso di lui e gli sorride. Un sorriso strano, per nulla sereno, che conserva una punta di amarezza.

-Oh no… dovresti venire più spesso, scopriresti molte cose.
Dice, tornando a fissare fuori dalla finestra.

-Per esempio ?
Chiede incuriosito.

Manca poco all’inizio delle lezioni. Si sentono provenire passi dal corridoio, l’ambiente si affolla di voci e Ronald non risponde alla domanda di Christian.


È già passata la prima ora di lezione. Christian percorre il corridoio che porta alle aule. La voce di Ronald alle sue spalle lo ferma.

-Davvero me lo devi spiegare, come fai a tenere svegli i tuoi studenti. Io proprio non ci riesco!

Sembra un'altra persona, è il Ronald di sempre. Lo stesso tono scherzoso, la stessa ironia. Christian sospetta quasi di esserlo sognato il Ronald malinconico di poco prima. Risponde all’affermazione del collega ridendo, anche lui sorride. Camminano nel corridoio fianco a fianco.

Lo sguardo di Christian incrocia due occhi verdi a lui molto familiari. È Kyle. Non vede il motivo per cui possa trovarsi in accademia ma non ha dubbi che sia lui. Il ragazzo si gira, lo chiama.
-Kyle! Tesoro, cosa ci fai qui?  È successo qualcosa?
Lo raggiunge, lo guarda. Apre la bocca ma non gli risponde.

***

È troppo tardi per scappare, deve dargli una spiegazione. Deve inventarsi qualcosa alla svelta per motivare la sua presenza.

-Stai bene?

Il collega di Christian lo raggiunge. Kyle lo conosce è Ronald. Aveva una strana attrazione per lui da bambino. Forse semplicemente perchè gli porgeva i libri riposti sulle mensole alte che non riusciva a raggiungere altrimenti.

-Kyle! Accidenti! Sei un uomo ormai. Ti ricordi di me?
Domanda Ronald sorridente.

-Ma si certo, Ronald.

Ronald annuisce.
-Bella memoria!

Christian è nervoso, preoccupato. Vuole una risposta.
-Kyle, rispondi. È successo qualcosa? Non stai bene? Hai perso di nuovo il pullman? Non posso accompagnarti ho lezione adesso…

Ronald interviene.
-Posso portarlo io se vuoi.

Christian annuisce.
-Lo faresti?
Chiede.

-Ma certo!

Kyle non sa cosa fare, è paralizzato. Di certo però, non vuole tornare a scuola.
-No io… non sono andato di proposito.

Christian spalanca gli occhi.
-Che cosa?!

È visibilmente seccato. Kyle non sa come ribattere, cerca di trovare una scusa in fretta.
-È festa… è il giorno della bandiera!
L’ha sparata grossa e se ne rende conto. Ronald scoppia a ridere, Christian diventa sempre più furioso.

-Sei cosciente di vivere negli Stati Uniti Kyle? Perchè sai il giorno della bandiera è il 14 giugno. Sei in anticipo di giusto tre mesi!

Kyle si morde il labbro. Christian è furioso. Si è cacciato nei guai e deve trovare un’altra scusa. Ormai la punizione è imminente deve comunque iventarsi una motivazione più plausibile.
-Volevo… volevo seguire un corso d’arte serio. È tutto così noioso a scuola da me!

Christian è sempre più seccato.

-E ti sembra una motivazione valida per saltare la scuola?! Fila subito a casa! Stasera facciamo i  conti!

Christian si allontana in fretta.

-Ai miei tempi eravamo un po’ più furbi quando si marinava la scuola…
Commenta Ronald, sorridendo.



Sta tornando a casa Kyle, ha seguito il consiglio di Christian. Alla fine non gliel’ha detto. Si è sicuramente meritato una punizione per aver saltato la scuola. Se gli avesse detto la verità, se gli avesse rivelato il vero motivo della sua visita all’accademia, se la sarebbe risparmiata ma non ha avuto il coraggio, non se l’è sentita. Forse non aveva nemmeno il coraggio di dirlo ad alta voce.

Arrivato a casa si chiude in camera sua, si mette sul letto a gambe incrociate, davanti a sè il cellulare con sovraimpresso sul display il messaggio di Jonathan. Sono passate diverse ore dall’arrivo di quel messaggio. Deve dargli una risposta, non lo può ignorare, non questa volta. Non sa cosa fare. Respira profondamente. Allunga le dita sulla tastiera ma non riesce a scrivere nulla. La sua mente è completamente vuota. Si lascia cadere all’indietro e per qualche secondo fissa il soffitto, chiude gli occhi e dorme per qualche ora.

È il rumore della porta d’ingresso a svegliarlo. Sobbalza. Christian è appena tornato a casa, si aspetta di vederlo irrompere in camera sua da un momento all’altro.
Dopo qualche istante Christian spalanca la porta della sua camera, si appoggia allo stipite a braccia conserte e lo fissa. La sua ira non si è placata, glielo legge negli occhi.

-Adesso mi dai una spiegazione.
Dice, con tono rigido.

-Te l’ho detto. Volevo seguire un corso d’arte serio.
-Kyle…

Christian sbuffa. Si sposta dalla porta, entra, si siede in fondo al letto di  Kyle.
-Tesoro. Io ti capisco, davvero. Posso immaginare che tu sia confuso. Però...

Kyle lo ferma.
-No. No! È così, è come ho detto! Un corso d’arte, capisci? Un maledettissimo corso d’arte.

Christian non gli crede.
-Questa cosa sta prendendo dei risvolti che mi piacciono affatto.

Kyle vuole finire alla svelta quella discussione.
-Ok, l’hai detto. Basta! Dammi la mia punizione e sia finita qui.

Christian si alza dal letto, fa un respiro profondo.
-Per questa volta passi… ma per favore, non lo fare più.

Esce e chiude la porta.

Kyle quasi d’istinto prende il cellulare, sblocca i tasti ed inizia a comporre un messaggio. Non pensa, scrive di getto.

“Tutto bene. Un appartamento nuovo… verrò a vederlo. Ti faccio sapere io. Ciao, stai bene.”

Semplice, conciso, vago.

Preme il tasto invio e poi getta il cellulare sul letto.



--> Con un giorno di ritardo, rispetto al solito, eccomi spuntare con il sesto capitolo!! La storia più lunga mai postata su EFP!! Non ci credo XD Comunque, il mio ritardo è dovuto a vari problemi personali, il principale è lo studio, sono pienissima!! Secondo problema, sto usando il pc portatile da qualche giorno perchè ho "fuso" il fisso. Scrivere su questa tastierina ridicola è terribile!! Spero di avere un po' di tempo per reinstallarmi i vari driver sul fisso e renderlo utilizzabile XD Più che altro perché questa settimana ho scritto ZERO e dico ZERO pagine della mia storia!! Ho iniziato a malapena il capitolo 16 e un po' scoccia... comunque, dopo lo sfogo (che non interessa a nessuno, tral'altro...) Passo alle risposte... Ma prima... spero vi abbia incuriosito ancora di più la figura di Ronald, in questo capitolo. Anche perché (per quel poco che ho scritto...) è saltato fuori che ha un passato piuttosto... "interessante"...

Mana. Prima cosa ti ringrazio ancora per le correzioni. Sto cercando pian piano di corregere tutto quanto e migliorare i miei difettucci. Spero che non emergano in questo capitolo altre mie eventuali carenze (e sarà così -_-). Allora, sul personaggio di Gregor, potrete intuire qualcosina dal capitolo 8. Anche se rimarrà un personaggio di margine fino al 15, almeno. Per ora, vi dico solo che è  mooolto legato a John, come si è forse intuito nel capitolo precedente!! Per Anthony e Kyle... ti anticipo solo che accadrà qualcosa di mooolto particolare. Ma, come sempre, dovrete aspettare... e infine per Chris e Ron... beh non ho ancora deciso bene come sviluppare le cose su questo fronte XD ma... ne vedrete comunque delle belle!!

Felicity89.  Mi fa piacere ti piacciano le "new entry"... comunque, con Roger intedevi Gregor, vero? ^^ Per quanto riguarda le "fissazioni" di Morgan, chissà se sotto sotto non c'abbia visto giusto =P


Bene, è tutto per oggi!! Alla prossima!!!!  <---

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Capitolo 7
*** Silent Tears (Lacrime nel silenzio) ***


7. Silent tears (Lacrime nel silenzio)

Cammina a passi lenti, Jonathan. È per la prima volta nel suo nuovo appartamento. Ci sono ancora molte cose da fare. Gli armadietti sono ancora ricoperti dal cellophane, le pareti hanno bisogno di essere intonacate, il soffitto necessita qualche stucco. È stato fortunato tutto sommato, per aver comprato quell’appartamento a scatola chiusa.

Non lo  conosce, è per lui qualcosa di nuovo, è ancora molto impersonale, ci sono ancora le tracce dei precedenti inquilini. Presto però lo farà suo.
Non l’aveva mai visto prima d’ora. Durante la trascorsa settimana si era buttato a capofitto alla ricerca dell’appartamento. Voleva togliersi quel peso il prima possibile. Tra i vari alloggi ne aveva scelti due,  passando all’incirca quaranta minuti al telefono con i compratori. La scelta era ricaduta sull'alloggio più economico. Non gli importava poi molto di quell’appartamento, lo considerava soltanto uno spazio da riempire con i propri oggetti personali.

Entrandoci, osservandolo, ha una strana sensazione di dejà-vu. Non è la prima volta che gli si presenta una situazione simile, quell’altro, quello in cui ha vissuto fino ad ora, era ridotto anche peggio il giorno in cui lui e Christian avevano deciso di acquistarlo. Grazie a giorni di lavoro, di fatica e parecchi soldi spesi era diventato semplicemente prefetto.

Oggettivamente parlando, la nuova casa potrebbe diventare anche più bella, con la metà della fatica. Un vero peccato che a Jonathan non importi, non riesce a considerare quel loft la sua nuova casa.

Ha due enormi finestre nel salone che affacciano sulla 5th avenue. Le luci dei palazzi, i taxi incolonnati, le insegne al neon, devono essere un bello spettacolo, osservati di sera.
Non è ancora sicuro se può affermare di avere concluso un affare comprando quel loft. Ha sempre desiderato possederne uno. Ha qualcosa di classe secondo lui, di eleganza. Ed eleganza è senza dubbio l’aggettivo che calza meglio la sua personalità.

Si porta al centro della stanza e osserva dalla finestra.
Ha una strana sensazione, si sente confuso. Quel loft affaccia sulla realtà. Non può più scappare, fare finta che non sia nulla. Si è lasciato alle spalle un’altra parte della sua vita. E adesso si trova davanti ad un libro bianco interamente da scrivere, che lo spaventa.

Si guarda intorno.
Ci sono tante cose ancora fare e non sa da che parte cominciare.

È nervoso.

Prende un pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca e ne sfila una. Gli trema quasi la mano mentre avvicina la sigaretta alla fiamma dell’accendino. Ci impiega qualche secondo per accendere poi, non appena ci riesce, prende una lunga boccata di quella sua droga e inspira profondamente. Contempla il pacchetto vuoto e scuote il capo.
-Mi ci manca giusto il cancro.

Commenta, con un briciolo di sarcasmo. Se la gode tutta quella sua ultima sigaretta, non appena si avvicina al filtro si tasta nelle tasche dei pantaloni per racimolare qualche moneta per comprarsi un altro pacchetto di sigarette. Dopotutto sono le uniche compagne che ha in quella piena solitudine.

***

Non parla con Kyle da qualche giorno, precisamente da quando l’ha incrociato in accademia. Lo vede solo a cena, mangia poco e se ne torna nella sua stanza, sempre in completo silenzio, al massimo risponde sintetico a qualche domanda, niente di più. Ha cucinato il piatto preferito di Kyle quella sera, arrosto con patate. Ha cercato di prepararlo al meglio possibile per poterlo almeno vedere sorridere.

Niente.

Si è seduto al suo posto, ha preso la forchetta e ha iniziato a mangiare, quasi non si fosse nemmeno accorto di cosa precisamente stesse mangiando. Christian decide a questo punto di fargli qualche domanda.

-È buono Kyle?

Il ragazzo annuisce, senza parlare, muove leggermente la testa, che non alza dal piatto. Strano da parte di Kyle. Mangia lento, boccone per boccone, non si abbuffa.

-La carne è troppo cotta? Le patate non sono abbastanza morbide?
Chiede Christian, cercando di fargli dire qualcosa.

-No va bene così.

Sempre più meccanico, sempre più freddo. Non gli sembra nemmeno di avere affianco suo figlio. Gli sembra di cenare con uno sconosciuto.

-Credevo che fosse il tuo piatto preferito.
Dice Christian, con un poco di delusione.

-Si…

Risponde Kyle, senza riflettere. Anche il gesto di prendere la forchetta e tagliare un piccolo pezzo dalla fetta di carne nel suo piatto ha qualcosa di meccanico.

-Non si direbbe…
Commenta Christian.

Kyle non risponde, continua a mangiare. Christian lo osserva meglio, ha lo sguardo fisso nel vuoto. Quel suo comportamento lo infastidisce, non lo riconosce. Si alza in piedi e gli porta via il piatto da sotto gli occhi. Il ragazzo rimane con il braccio alzato, la forchetta impugnata nella mano, vuota. Alza lo sguardo e osserva gli occhi di Christian, inquisitori.

-Non ti obbligo a mangiare.

Abbassa il braccio, posa la forchetta sul tovagliolo. Sposta la sedia dal tavolo, si alza e gira le spalle a Christian che allunga il braccio, gli afferra il polso e lo tira a sè.

-Però ti obbligo a darmi una spiegazione.

Kyle lo guarda negli occhi, non regge lo sguardo, fissa il pavimento. Christian gli lascia il polso e appoggia di nuovo il piatto sul tavolo.

-Kyle, se ti ho fatto qualcosa, qualsiasi cosa, per favore dimmelo. Qualunque cosa ti abbia fatto. Ho bisogno di sentirti parlare! Ho bisogno di sentire la tua voce. Ho solo te!

Il tono di voce di Christian è quasi disperato, strozzato.

Non era intenzione di Kyle ferirlo, è esattamente l’ultima cosa che volesse fare.

-Ha un appartamento.

Quasi lo sussurra. Christian non capisce, lo guarda con sguardo interrogatorio, aspetta che parli di nuovo per spiegarsi meglio.

-Jonathan! Jonathan ha preso un appartamento!

Christian resta immobile per qualche secondo, gli occhi quasi spalancati, apre la bocca per dire qualcosa ma di fatto non dice nulla. Torna invece al suo posto, si siede, sistema la sedia.

-Beh… ci ha messo ancora tanto, dopotutto.

Ora è Kyle a rimanere sconvolto. Si aspettava tutt’altra reazione da parte di Christian. Non può credere che non gli importi.

-Non ti… non ti importa?
Chiede, sconvolto, sorpreso.

-Kyle, siediti a mangiare. Stai mangiando troppo poco.

Scuote la testa. Non riesce a credere quella sua reazione, non può non importargliene.

-Come può non importarti?

Christian non risponde.

-Siediti, ho detto che stai mangiando troppo poco.
Ripete.

-E poi… è passato un mese. Ci ha messo anche tanto.
Commenta, con impassibilità.

Kyle è senza parole. Ha un enorme groppo in gola, gli occhi gli bruciano, vorrebbe piangere. La bocca è semiaperta, il labbro inferiore gli trema.

-Non capisci… Tu non capisci cosa vuol dire!
Esclama, urlando.

-Vuol dire che lui non…

La voglia di piangere sta per prendere il sopravvento, spalanca gli occhi il più possibile, per trattenere le lacrime, per evitare che gli scorrano lungo il viso. Deglutisce.

- … non abita più qui.

Christian riprende a mangiare.

-Se vuoi andare ad abitare da lui, sei libero di farlo.
Commenta, con una punta di freddezza.

Le lacrime premono pesanti, vogliono uscire scorrere, il suo cuore batte forte, il respiro si fa più affannoso.  Al desiderio pungente di piangere si unisce un forte sentimento di rabbia. Kyle non è sicuro quale tra le due sensazioni prevarrà.

-Come puoi dire una cosa del genere?! Come puoi solamente pensarlo?!

Rabbia.

-Quando è chiaro, ovvio, limpido che voglia stare con te?

Risentimento.

-Perchè… facendo del male, così tanto male a te…

Considerazione.

-… l’ha fatto anche a me…

Disperazione.

Pianto.

Kyle crolla davanti agli occhi Christian, le gambe non gli reggono. Piange con disperazione, non riesce quasi a respirare. Le mani appoggiate sul pavimento di fronte a sè, le lacrime cadono sul parquet e provocano un tonfo apparentemente impercettibile ma fastidioso.
Christian si alza, si inginocchia e abbraccia il figlio. Il suo pianto è sempre più disperato, sembra quasi stia piangendo le lacrime che ha serbato per un mese.
Appoggia il mento sulla sua spalla, con una mano gli carezza la schiena, con l’altra i capelli.

-Scusami… scusami tanto. È colpa mia. Avremmo dovuto parlarne.

Sospira.

-È solo che… arrivato a questo punto, non più idea di cosa fare.

***

È sera. Jonathan è seduto nella penombra, davanti ad una delle finestre del suo loft e osserva le luci al neon all’esterno. Gli fanno quasi male agli occhi ma non riesce a smettere di fissarle. Pensa che sia arrivato il momento per comprarsi un televisore, per passare il tempo.

Preme il bottone della corona dell’orologio per illuminare il quadrante, sono le sette. È ora di cena. Non si è ancora distaccato dalle sue abitudini. Non sa se le perderà mai. Di certo i suoi pasti saranno differenti rispetto a ciò a cui è sempre stato abituato.

“Tanto lo fa Christian”

Ha sempre pensato. E  adesso, senza di lui, deve pensare da solo ai suoi pasti, in un modo o nell’altro.
Un taxi dagli abbaglianti accesi percorre tutta la via sotto la finestra di Jonathan. Gira la faccia per evitare che il fascio di luce gli colpisca gli occhi, quel raggio accecante illumina per qualche istante la stanza in cui si trova, permettendogli di osservarla meglio. È così grande e così vuota. C’è così tanto silenzio.

Jonathan si alza. Sente i propri passi sul parquet rimbombare in tutta la stanza, si ferma una volta raggiunto l’unico bancone non occupato da scatoloni o borse. Di nuovo silenzio.
Ha sempre avuto paura del silenzio e in quel momento ne è quasi terrorizzato. Inizia a frugare tra le borse, le scatole e i cassetti e cerca di prepararsi qualcosa per cena, senza pensare, solo per tenersi occupato. Spaghetti scotti e collosi. È il massimo che è riuscito a fare.

Si siede al tavolo e sistema le sue cose. Il tintinnio delle posate contro il piatto e il bicchiere posato sulla superficie del tavolo sono gli unici suoni che riesce a sentire. È così terribile il silenzio.
In quel momento vorrebbe Kyle,  seduto a quel tavolo, a raccontargli del suo ultimo videogioco, della scuola o dei suoi fumetti o sentire Christian parlare della sua giornata o qualche basso pettegolezzo.

Vorrebbe si, ma non ha che il rumore delle posate.

Si ferma. Il silenzio è sempre stato il suo peggiore nemico. Riesce a sentire il dolore delle sue colpe, il loro peso reale, i suoi pensieri, tutti. Perfino i più nascosti e impronunciabili emergono e gli sembra di morire. Fuori silenzio e dentro la sua testa un vociare insopportabile, uno strano ronzio che non vuole decifrare.
Posa la forchetta ed inizia a cercare le sigarette nella tasca della giacca. Estrae il pacchetto vuoto e si ricorda di non averle comprate quel pomeriggio. È  uscito per quel motivo ma poi ha visto in una gioielleria un orologio che gli interessava e non ha saputo resistere. L’ha comprato subito.

Osserva a terra, contro la finestra, la borsa della gioielleria contenente il Panarei nuovo e per la prima volta forse si pente di aver acquistato un orologio.

-Ho bisogno di una sigaretta.

Si alza rapidamente dalla sedia e cerca tra i suoi vestiti appoggiati al divano, nei taschini delle sue giacche, dei suoi pantaloni. Deve pur averne una avanzata. Non trova nulla. Getta a terra tutto quanto e torna a sedersi.

Sta a braccia conserte, osserva la borsa della gioielleria e il bicchiere mezzo pieno, lo afferra. È di vetro pesante. Lo rigira tra le mani, lo appoggia di nuovo sul tavolo.
Di scatto lo riafferra e lo getta a terra affianco a sè, frantumandolo.

-Merda!

Impreca. Si alza e calpesta i vetri del bicchiere, prende il cappotto ed esce.





-->Il capitolo 7... per un po' di tempo (fino alla stesura del 13) è stato il mio capitolo preferito... non chiedete perchè, non lo so XD E comunque, è di nuovo domenica... come volano i giorni. 
Vabbè... vado a rispondere ai commenti^^

Mana: Si in effetti la figura dello schizzato l'ha fatta tutta Kyle, nell'altro capitolo! In questo però penso si chiarisca il suo stato d'animo... comunque si, hai capito bene. Ho un bel po' di capitoli pronti. Per ora ne ho scritti 16 e mezzo.Quindi per un po' posterò con regolarità :) Comunque, sulla risposta di Ronald... ci vorrà ancora un po' in effetti ma i "colpi di scena" non mancheranno xD

Felicity89 : Scoprirai molte cose su Ronald, solo... più avanti. Pazienta xD


E' tutto! Alla prossima, vi avviso che sarà di sabato o lunedì. Perchè domenica non ci sarò^^ Buona domenica e... buona settimana!!
p.s. Ho alzato il rating... si sa mai.....

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Capitolo 8
*** Weaknesses (Debolezze) ***


8. Weaknesses (Debolezze)

L’eloquenza non è certo una delle caratteristiche principali di Jonathan. Gregor lo sa bene. Vederlo entrare nel suo studio e sentirlo parlare a raffica senza doverlo forzare ha un che di incredibile. Lo ascolta attentamente, gli lascia dire tutto quanto, senza interromperlo. Ha ascoltato abbastanza e ha intuito la gravità situazione dal suo sguardo perso e dal modo in cui è conciato quel giorno.
Capelli spettinati, camicia sbottonata, cravatta assente. Per un uomo elegante come lui è assolutamente raro. Ha gli occhi spalancati mentre parla e il suo tono di voce è calante.

-Non so nemmeno se è giusto che continui a praticare…

Decide in quel momento di fermarlo. Può bastare.

-Finchè sei in grado di ragionare ed ascoltare, non vedo perchè no. Ti ricordo Jonathan che hai pazienti con gravi patologie mentali. Se tu li abbandonassi ora… cosa farebbero?

Respira, Jonathan, un respiro lungo e profondo. Lo guarda negli occhi.

-Greg… ho rotto un bicchiere, solo per fare rumore. Non è normale!
Quasi urla. I suoi occhi chiedono aiuto.

-Non ti passerà mai la paura del silenzio, non è vero?

Jonathan non risponde. Si adagia meglio sulla sedia, si lascia andare.
-Sono pazzo… completamente pazzo.
Commenta.

Gregor sposta la sedia, aggira la scrivania e si mette dietro a Jonathan.

-Pazzia? No. Dovresti sapere cos’è la pazzia…
Gli appoggia le mani sulle spalle. Jonathan getta la testa indietro per osservarlo.

-Se non sono pazzo, se non morirò della mia pazzia, sarà per una cazzo di malattia ai polmoni. Sto fumando due pacchetti al giorno.

L’ha sentito Gregor, ha notato l'intensificarsi dell'odore di tabacco sulla sua pelle. Ora che gli è più vicino è quasi fastidioso. Non sopporta il fumo, le sigarette, Gregor. Non ha nemmeno un posacenere nel suo ufficio e proibisce ad ogni suo paziente di fumare nel suo ufficio. È una cosa che non tollera, è la peggiore droga, secondo lui. Eppure fumatore lo è stato.

-Si, l’ho sentito subito quando sei entrato. Questo odore acre che ti porti sempre addosso oggi è ancora più fastidioso.

Gli massaggia le spalle.  Jonathan abbassa lo sguardo, è teso.

-Rilassati. Devi rilassarti…
Gli dice, carezzandogli il viso con una mano. Non si è fatto la barba quel giorno, le sue gote sono ispide.

-Sai Greg… quella di farmi comprare un appartamento, proprio adesso, credo sia stata una pessima idea.

Si ferma Gregor.

-No, assolutamente no. Li devi affrontare i tuoi problemi… più tu li eviti e più loro si rafforzano.
Riprende il suo massaggio, Jonathan si sta lasciando andare, poco a poco.

-Non so più in che direzione stia andando la mia vita. Non vedo nessuno all’infuori dei clienti e di quella segretaria. E questo maledetto silenzio mi divora.

Il massaggio si fa più ampio, diventa più una carezza. Parte dalle spalle e arriva alla base del collo, al petto per poi interrompersi.

-Mio John… sembri così forte visto dall’esterno eppure quando stai con me sei… creta. È sempre stato così.

Jonathan non risponde.

-Te lo ricordi almeno, cosa ti ho detto quasi vent’anni fa?
Chiede. Jonathan annuisce.

-Che sarei sempre potuto tornare indietro, tornare da te.

Annuisce.
-Esattamente. Perchè solo io posso sapere di cosa hai bisogno, non è così?
Annuisce di nuovo.

Le mani di Gregor passano dalle spalle al viso. Con i pollici gli accarezza il mento, con gli indici le tempie. Jonathan socchiude gli occhi.

-Lascerai che sia io, ad occuparmi di te? Come una volta, come dovrebbe essere?

Jonathan apre gli occhi e osserva di nuovo Gregor, anche lui lo guarda negli occhi. Si avvicina di più allo schienale della poltrona e si china verso Jonathan, con delicatezza. Le sue mani scendono, fino ad arrivare al petto.  Jonathan chiude di nuovo gli occhi, lo bacia, per qualche secondo, a labbra pressochè serrate.
Erano anni che non lo baciava, che non accarezzava il suo viso, la sua pelle.

-Lascia fare tutto a me… e tu non pensare a niente.
Gli sussurra.

***
Morgan sbuffa. Ha freddo, è iniziato da poco a piovere e si trova in piedi davanti a quella porta da quasi quaranta minuti. Tra pochi minuti dovrebbe andare a lezione di danza, la scuola però è troppo distante dal posto in cui si trova ora per permetterle di raggiungerla in tempo. Ha voluto seguire Kyle, in quella sua strana idea che ancora non capisce. Inizia a pensare di aver sbagliato ad andare con lui.
Sta fissando quel campanello da quasi venti minuti ma è immobile. Guarda la targhetta vuota, non c’è un nome. Ha un espressione confusa, forse ha paura.  

Non riesce a capirlo.

-Kyle, perchè non lo suoni quel campanello una buona volta e ce andiamo a casa?
Chiede finalmente, stanca di aspettare. Lui non le risponde, forse non l’ha sentita o sta facendo finta.

-Kyle tra dieci minuti dovrei essere a lezione di danza! Non mi importa non andarci, se almeno fai qualcosa!

Questa volta l’ha sentita. Si gira verso di lei con la stessa espressione confusa, enigmatica. Morgan attende che dica qualcosa ma non lo fa, non dice nulla.

-Allora andiamo. Ho un po’ fame, che ne dici di un pezzo di pizza? Conosco una pizzeria che-

Le fa cenno di fermarsi, di non parlare.

-Non sono pazzo Morgan, voglio solo vederlo…
Dice lui, quasi sussurrando, in un tono misto tra la disperazione e lo sconforto.

Morgan si avvicina, gli appoggia una mano sulla spalla e lo guarda con compassione, gli sorride sperando che lui faccia lo stesso ma abbassa lo sguardo.

-Voglio vederlo ma non voglio mi veda.
Spiega lui.

-Per questo l’ho seguito e ho aspettato entrasse…
Morgan annuisce.
-Va bene. E ora?

Sospira.
-E ora aspetto che questa porta si apra e poi…
Si blocca.

-… e poi?
Chiede lei, incuriosita

- E poi mi nascondo da qualche parte e lo osservo, poi ti giuro che possiamo andarcene.

Accetta. Si mette a braccia conserte, si appoggia al muro dell’edificio e aspetta insieme a Kyle. Non può certo dirgli di no in quel momento, non si più rifiutare. Quel comportamento triste di Kyle la fa stare male, la fa stare in pensiero. Dal giorno in cui ha scoperto da lui cosa é successo, teme di vedergli quell’espressione sul viso. I suoi grandi occhi verdi sono lucidi, continua a chiudere ed aprire il pugno destro e si sta mordendo il labbro inferiore.

Vorrebbe abbracciarlo in quel preciso momento e non sa cosa la fermi dal farlo. Forse perchè ha paura della sua reazione. Potrebbe scacciarla oppure potrebbe piangere. Non l’ha mai più visto piangere dopo i sei anni e non vuole vederlo ora, trascinerebbe in lacrime anche lei. Hanno sempre avuto una grande empatia Morgan e Kyle. Quasi in simbiosi, dal giorno in cui si erano conosciuti all’asilo.

Era arrivato nel suo stesso asilo l’ultimo anno. Piccolo e pallido, con quegli occhi verdi smeraldo che sembravano ancora più grandi. Tutto ben vestito, ben pettinato. Era timido, taciturno e si accontentava di stare a disegnare al tavolo, anche da solo.
Lei era già una bambina molto estroversa, faceva amicizia con tutti. Non poteva non essere amica anche di quel nuovo bambino, di Kyle. Gli si era avvicinata e aveva inclinato il capo, scuotendo quei suoi due buffi codini biondi e aveva osservato il suo disegno. L’aveva ingenuamente ritenuto un capolavoro. Erano semplicemente delle righe colorate e qualche cerchio, niente di speciale, un disegno di un normale bambino. Per lei era bellissimo.

-Che bel disegno!
Aveva esclamato. E lui, senza guardarla, gliel’aveva dato, aveva preso un altro foglio ed aveva iniziato a disegnare di nuovo.
-È per me?

Aveva annuito.

-Grazie!! Vieni a giocare con me dai!
L’aveva letteralmente spinto dalla sedia e l’aveva trascinato con sè. Era nata così la loro amicizia. Morgan aveva scoperto che Kyle era molto solare, un gran chiacchierone, un po’ come lei.

-Lui ti ha invitato a casa sua?
Chiede, rompendo il silenzio.

-Si… ma non ci voglio andare. Voglio solo vederlo…

Morgan ha paura a fargli la domanda successiva. Non vuole azzardare troppo, non vuole passare per curiosa. Ma non resiste.

-Perchè no?

Ottiene il risultato temuto. Kyle si altera e le risponde con tono astioso.
-Perchè dovrei volerlo? Dopo quello che ha fatto?!

Lei non dice nulla. Non vive quella situazione, non sa cosa si provi. Non conosce nemmeno bene i fatti e cerca di essere arrogante il meno possibile.

-Tu lo conosci Christian. Lui è… radioso, allegro, sorride sempre. Ora è…
Si blocca. Deglutisce.
-… ora è… non lo so più chi è! Voglio vedere se LUI dopo tutto quello che ha fatto, ha addosso almeno un po’ di colpa.

Morgan lo guarda, con sguardo sempre più compassionevole. Riesce a leggergli la disperazione addosso, è un sentimento così forte che riesce quasi a percepire anche lei.

-Se ce l’ha può darsi che io… forse, consideri anche l’idea di andarlo a trovare. Altrimenti non mi vedrà più.

Si avvicina di nuovo Morgan, vuole stabilire un contatto fisico con l’amico. Allunga il braccio ma lo ritira non appena ricomincia a parlare.

-Ok… probabilmente prima di giudicare dovrei sentire entrambe le parti ma credimi, quello che ha fatto, che ha osato fare,  per me a prescindere da ogni cosa è imperdonabile, inscusabile.

Nessuno parla per almeno due minuti. Kyle fissa il portone, Morgan fissa Kyle. Entrambi aspettano che uno dei due dica qualcosa. Morgan non saprebbe cosa dire. Kyle ha semplicemente finito gli argomenti e non vuole andare avanti a parlare di quella cosa.

-Sono stanco Morgan… andiamo a casa.
Esclama, improvvisamente. Sorprendendola.

-Ne sei sicuro?

Annuisce.
-Andiamo via…



--> Un po' in ritardo lo so, eppure eccomi con il capitolo 8! Ho avuto molto da studiare, una serie di impegni e non sono riuscita a postare in tempo. Lo faccio oggi e molto probabilmente il capitolo 9 lo pubblicherò sabato. Per il resto... nient'altro da dire. Ringrazio Felicity89 per il commento puntuale^^

Alla prossima!! <---

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Capitolo 9
*** Demons (Demoni) ***


9. Demons (Demoni)

Era rimasto del tutto sorpreso quella mattina, da Ronald. Se ne stava seduto a bersi un caffè e a colloquiare tranquillamente con qualche collega fino a quando l’amico non l’aveva raggiunto e gli aveva letteralmente sbattuto in faccia quel volantino. C’era voluto qualche secondo prima che riuscisse a leggerlo e a capire cosa contenesse.

-Sono sicuro che tu questo lo puoi vincere!

Gli aveva urlato in faccia. Gli altri colleghi hanno sul viso un’espressione enigmatica, si aspettano una spiegazione. Ronald invece è tutto sorridente con quel suo volantino in mano in attesa di una reazione da parte sua.

È un foglietto bianco, probabilmente una fotocopia. È po’ sbiadito. Il contenuto però è ben leggibile, si tratta di una competizione canora ad un locale alternativo, uno di quei posti pieni di adolescenti con gli ormoni a mille, coperti di ferraglia, vestiti di nero e con trucco esagerato e assurdo.

Strappa il volantino dalle mani di Ronald. Lo appallottola e lo getta nel primo cestino nelle vicinanze.

-Beh allora? Che vuol dire questo?!

Chiede Ronald, smorzando il sorriso. Nel frattempo gli altri colleghi sono tornati a svolgere le loro attività e hanno iniziato a discutere tra di loro. Secondo il parere comune l’entrata di Ronald è stata soltanto una delle sue sciocche buffonate.

-Ron, per favore, spiegami cosa c’entro io con quella roba?

Ronald torna a sorridere. Christian gli volta le spalle e raccoglie le proprie cose dal tavolo dell’aula docenti per prepararsi a raggiungere la sua classe.

-Tu? Oh no tu non c’entri Christian Simmons Wallace. Ma che ne dici di… Iron Crystal?

L’ultimo libro afferrato gli scivola dalla mano e finisce di nuovo sul tavolo. Si volta di scatto, con gli occhi spalancati e le sopracciglia aggrottate.

-Cosa sai tu di Iron Crystal?

Il sorriso sulle labbra di Ronald si fa sempre più largo.

-Allora lo conosci?

Christian si guarda in giro. Gli altri colleghi sono usciti tutti quanti, nell’aula sono rimasti soltanto loro due. Strattona Ronald fino a metterlo a schiena contro il muro. L’amico rimane colpito da quel gesto, strano da parte di Christian. Il sorriso poco a poco gli scompare dalla labbra.

-Chi diavolo ti ha fatto parola di… quello?

Chiede. I suoi occhi si sono fatti più piccoli, lo sguardo è tagliente e dal tono di voce si direbbe essere infastidito.

-Ehi Chris calma, ok? Cos’è tutta questa violenza?

Christian lo strattona di nuovo.

-Violenza? Questa TU la chiami violenza?

Cerca di strattonarlo una terza volta ma Ronald lo afferra per i polsi e lo blocca.

-Senti… non so quale rotella ti sia saltata in testa in questo preciso momento Chris ma… riprenditi! Così mi spaventi.

Christian si dimena per liberarsi dalla presa stretta di Ronald ma non ci riesce.

-Non avresti dovuto fare quel nome Ronald. Non avresti dovuto nemmeno saperne l’esistenza.

Ronald allenta la presa, ha paura di fargli male. La pelle di Christian è chiara e delicata. Basta un semplice pizzico per farla arrossare.

-Ok… hai ufficialmente alimentato la mia curiosità.

Afferma, aumentando il fastidio di Christian.

-Ronald, per favore, dimmi dove hai trovato quel nome? Te l’ha detto qualcuno o…?

Lo stato d’animo di Christian cambia improvvisamente. I suoi occhi non sono più piccoli e carichi di risentimento, sono tornati della loro forma normale, avvolti un velo di paura, di preoccupazione. Ronald Inizia a pensare di aver toccato un tasto dolente.

-Ho visto una vecchia foto… sul sito di quel locale dove si svolge la competizione. Il “Nightmare” ex… “Vampiria”.

Occhi spalancati. La paura è ora terrore.

-Ci sono delle foto così… vecchie?

Annuisce Ronald.

-Nell’album della memoria…

Lo lascia andare. Sa che la sua reazione ora non potrà più essere violenta.

-Ho riconosciuto Jonathan in quelle foto e…

Christian scuote il capo.

-Va bene… basta. Fai finta di non avere visto niente.

Christian si volta di nuovo, raccoglie le sue cose e si affretta ad uscire. Lascia Ronald da solo con un’espressione a dir poco confusa.

Percorre il corridoio senza pensare a ciò che gli è appena stato detto. In pochi secondi gli tornano in mente immagini che pensava di aver cancellato dalla sua mente, immagini che si era forzato ad eliminare. Quel nome Iron Crystal, non l’ha mai abbandonato, è rimasto nel profondo del suo animo. Nascosto in attesa di essere di nuovo nominato, per poi riemergere con tutta la sua esperienza, con tutto ciò che si porta appresso.

Non vede quello che si trova realmente davanti, vede solo immagini disgustose, dolorose. Si deve fermare. Si appoggia al muro del corridoio, respira profondamente. Chiude gli occhi per qualche secondo. Ronald ha toccato quella leva, aveva aperto quel mostro teneva segregato nella sua memoria, sotto chiave. Sta male. Non è in grado di spiegare una lezione, non con lucidità. Non ne ha le capacità in quel momento. Raggiunge in fretta il parcheggio, cerca la sua macchina e si siede sul sedile. Preme il bottone della chiusura centralizzata. Afferra il volante con due mani, ad auto spenta, vi appoggia la fronte. Un turbinio di emozioni sgradevoli lo avvolge. Riemergono sensazioni di ribrezzo, disgusto e scherno dopo anni. È passato troppo tempo e non sa più come affrontarle.

Il suo cellulare inizia a suonare nella sua borsa, posata sul sedile del passeggero. Riesce a sentire quel suono solo in lontananza, mille voci, suoni e canzoni, rimbombano nel suo cervello e non c’è spazio per altro. Si sta quasi dimenticando cosa faccia in quell’auto, dove si trovi e perchè.

E il telefono suona, vibra, senza sosta.

***

-Dottor Wallace, è permesso?

Angela, la segretaria di Jonathan, bussa alla porta aperta e poi entra.

-Buongiorno Angela. Hai bisogno di qualche cosa?

Risponde lui sorridente, mentre finisce di compilare dei certificati.

-A dire il vero si dottore. Questa mattina ha telefonato Mrs. Wang.

Jonathan alza la testa. È più di un mese che non vede quella paziente. Aveva quasi temuto si fosse suicidata o peggio. L’ultimo incontro con lei l’aveva preoccupato. Aveva suggerito alla sorella della donna di controllarla e prestare bene attenzione ai suoi bisogni. Il fatto di non averla più sentita gli aveva dato l’impressione che qualcosa fosse andato storto.

-Grazie a Dio. Avevo quasi paura per lei. Cosa chiede?

Angela si avvicina alla scrivania.

-Un appuntamento con lei, entro la fine di questo mese. Ha detto che abita fuori città ora e che sarebbe comoda ad avere un colloquio in quei giorni perchè è di passaggio…

Jonathan annuisce.

-Va bene. Hai già fissato l’appuntamento? Se mi dici la data per favore, lo segno anche sulla mia agenda…

Angela annuisce.

-Il 29 marzo alle 13.15.

Jonathan prende l’agenda.

-Va bene quindi il 29 marzo… ore 13 e… quindici.

Angela rimane immobile davanti alla scrivania di Jonathan. Lui la fissa.

-C’è dell’altro?

Lei annuisce.

-Veramente si, dottore.

Si lascia andare sulla sedia, mettendosi più comodo. Poi le fa cenno di parlare.

-Avanti allora…

Lei deglutisce.

-La cartella della signora… è… non c’è. Perchè lei ce l’ha… a casa.

Jonathan annuisce.

-Va bene, a casa.

Lei scuote il capo.

-Dottore, non ha capito. A casa…

Lui annuisce di nuovo.

-Ho capito Angela.

Non ha capito, non ha capito nulla. Angela sospira.

-Quella casa, dottore.

Jonathan spalanca gli occhi. Non ci era ancora arrivato. Da qualche giorno, dopo l’ultimo incontro con Gregor, non pensa a niente. Si è immerso completamente nel lavoro.

-Oh… e non ne abbiamo una copia?

Scuote il capo.

-Quindi io devo… ?

Annuisce Angela.

-Mi dispiace dottore… posso andare adesso?

Le fa cenno con la mano di andare. La donna esce e si chiude la porta alle spalle.

Ed eccola la conferma che non può più fare finta di niente. Ci ha provato seriamente quegli ultimi giorni, ha cercato di andare avanti e ha stupidamente pensato che fosse finita lì.

Tornare a casa vuol dire affrontare faccia a faccia i suoi problemi. Si mangia le unghie. Non lo faceva da tempo, l’aveva perso quel vizio fastidioso e rozzo. Ha i nervi a pezzi. Avrebbe l’impulso di spingere quella sedia, alzarsi e prendere a calci qualcosa. Fumerebbe una sigaretta, se non si fosse imposto per la propria salute di diminuire la dose. Ne ha fumate talmente tante in quel periodo che riesce a sentire l’odore di tabacco sulle sue dita e gli da fastidio, gli secca la gola.

Ha ancora tutti i suoi oggetti a casa, non solo quella cartella, sapeva che prima o poi ci sarebbe comunque dovuto tornare. Fino a quel momento ha ricomperato ogni cosa abbia lasciato in quella casa, dagli orologi, alle scarpe, ai profumi, al dopobarba, tutto quanto potesse riprendere. Di recente ha acquistato anche un portatile per lavorare.

Doveva per forza aver lasciato qualcosa che non fosse rimpiazzabile, di cui non ne potesse comprare una copia. Non era successo in quasi due mesi quella necessità, quasi non ci pensava più. Gli unici demoni ad emergere nel silenzio pungente che lo avvolgeva al rientro a casa erano gli spettri delle sue azione, il suo senso di colpa.

Quella sera la presenza di Christian, il pensiero di quella casa e ciò che conteneva, oggetti e ricordi, faranno compagnia agli altri mostri che si materializzano nella solitudine, nel silenzio.

***

-Christian, santo dio apri questa merda di portiera!

Ronald prende a calci la macchina di Christian nel parcheggio e cerca di forzare la maniglia. È chiusa a chiave. Un calcio particolarmente rumoroso fa girare Christian. Alza la testa da volante e lo osserva, con sguardo interrogatorio.

-Ron…?

Ronald osserva che è cosciente, tira un respiro di sollievo.

-Mi hai fatto prendere un colpo! Brutto pezzo di… deficiente!

Smette di colpire la macchina e si china verso il finestrino.

-La apri questa cazzo di macchina?

Christian sblocca la chiusura. Ronald aggira l’auto, apre la portiera del passeggero, si siede e la richiude.

-Mi spieghi cosa ti sta accadendo? Hai saltato tutte le lezioni, ti sto chiamando da un’ora!

Vede la borsa di Christian al suo fianco, con il cellulare che sporge, lo afferra, legge lo schermo e lo mostra anche a Christian.

-Lo vedi? Dieci chiamate perse! Mi hai fatto prendere un colpo! Dopo quella faccia che avevi in aula insegnanti. Mi hai fatto invecchiare di dieci anni! 

Christian non risponde.

-Sono… sono corso nel parcheggio per venirti a cercare. Ti ho visto qui in macchina e… santo Dio! Adesso però una spiegazione me la devi!

Christian sposta lo sguardo da Ronald. Inizia a fissare davanti a sé, nulla in particolare, il vuoto forse.

-Cosa… cosa sai di Iron Crystal?

Chiede, con tono calmo ma confuso.

Ronald sbuffa.

-È per questo, ancora? Cosa so… ma niente! So solo che era il tuo… “nome d’arte”? Che cantavi in quel locale. Metal, giusto? E che eri parecchio bravo… Giuro, non so altro. Se vuoi aggiungere qualcosa tu…

Christian scuote il capo.

-No, niente.

Non è sufficiente per Ronald.

-Chris, mi dispiace ma non mi basta questo tuo “no, niente”. Ho avuto una fottuta paura del diavolo, mi devi una spiegazione più completa.

Christian si gira verso Ronald.

-Devi fartela bastare Ron. Io non posso proprio dirti altro. Non farmi dire altro, per favore…

Si arrende, guardando gli occhi di Christian che sembra gli implorino pietà, silenzio.

 

 

--> Si, lo so. Avrei dovuto postare sabato. Perdonatemi lettori!! Purtroppo è un periodo no e ho parecchio da fare... ma vi assicuro che la pubblicazione dei capitoli non si interromperà!! Allora... in questo capitolo, emerge un indizio su un segreto di Chris... segreto che sto iniziando a "svelare" nel capitolo 18... ehe ehe lo so sono terribile con le attese XD Comunque... ringrazio Dike Nike per il bel commento, mi ha fatto davvero piacere!! E mi scuso per i miei vari ritardi... putroppo è un mio difetto, la puntualità. Dico sempre che devo migliorarmi con i tempi, prima o poi ce la farò!!

E' tutto, alla prossima!! <--

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Capitolo 10
*** Appointmens (Appuntamenti) ***


10. Appointments (Appuntamenti)

Due mesi. Sono trascorsi due mesi da quando ha dovuto varcare quella porta, andarsene dalla propria casa, lasciare quella parte della sua vita. Mangano pochi giorni alla visita della signora Wang, cinque miseri giorni. Nella scorsa settimana ha ribaltato da capo a fondo l’ufficio per trovare quel fascicolo. Sapeva che non l’avrebbe trovato, sapeva che sarebbe dovuto tornare a riprenderselo. Deve  farsi coraggio e trovare la forza necessaria per imboccare quella strada, la solita di sempre. Ha paura di perdersi, anzi, ne è certo. Si perderà nel sentiero infinito dei suoi pensieri e starà male, al punto di doversi fermare per cercare di trovare un briciolo di razionalità proprio ove è impossibile trovarla.

Maledice di secondo in secondo quella sua brutta abitudine di portarsi il lavoro a casa. Glielo diceva sempre Christian di perderlo quel vizio, non sopportava dividerselo con il lavoro anche a casa. Chissà se gliel’avrebbe rinfacciato anche in quella sua forzata visita. Se lo chiede, Jonathan.

Si è arreso di fronte all’astinenza. Sta fumando la sua quarta sigaretta in un’ora e mezza. Ha deciso che lo stress che sta affrontando è troppo, che quella forzatura che si è auto-imposto per il bene della sua salute, lo farebbe impazzire del tutto. Non gliene frega niente di quanto male si stia infliggendo, le sigarette sono un ottimo placebo in certi casi.

Prende una boccata lunga, arriva a metà sigaretta. La cenere gli scivola addosso e se la scrolla via dagli abiti con gesti automatici. Sta cercando di costruirsi un discorso da fare con Christian, qualcosa che non lasci spazio a troppe parole o discussioni. Si rende conto che è impossibile, che se anche tacesse Christian non farebbe mai altrettanto e non gliene fa alcuna colpa, al contrario, gli da’ ragione.

Osservando in lontananza la segretaria comporre dei numeri sulla tastiera del telefono, gli sorge spontaneo valutare l’opzione di fare una telefonata per avvisare Christian della sua visita.

A conti fatti, quella non è più la sua casa e non ha il diritto di presentarsi senza dire nulla, nonostante abbia la chiave. Non l’ha voluta gettare quella chiave o restituire. È rinchiusa in quel cassetto della scrivania, insieme alla foto di lui e Christian . Deve essere scivolata sul fondo, sotto a tutte le carte e la cancelleria d’ufficio. È l’unico cassetto che non ha perlustrato per cercare la cartella medica della signora Wang. È rimasto chiuso a chiave. Se per errore la cartella si trovasse lì dentro, non lo saprebbe mai.

***

Morgan teneva d’occhio quell’evento da mesi, ha chiesto l’autorizzazione ai suoi genitori da tempo e dopo numerose suppliche c’è  riuscita.

Il giorno in cui Debbie Benson aveva iniziato a spargere la voce riguardo alla sua festa nella mega villa dei genitori senza sorveglianza, aveva esultato di gioia. Certo, non era ancora certa di essere stata invitata, Debbie è comunque una delle sue amiche dalle medie e la sua presenza a quella festa è quasi scontata.

Debbie è una delle ragazze più popolari della scuola, un’ochetta. Mancata cheerleader per colpa delle scarse abilità atletiche ma molto ambita dai ragazzi poiché obbiettivamente molto bella. Non brilla troppo d’acume ed è appena simpatica, per questo è inspiegabile la sua amicizia con Morgan.

Naturalmente Kyle non sa nulla di quella festa, non è il tipo e non gli interessa particolarmente. Di questo Morgan si ritiene fortunata per un motivo preciso; a differenza sua e di buona parte della scuola, non conosce il nome degli invitati sicuri.

Debbie è dalle medie innamorata non corrisposta di Anthony, la sua presenza alla festa è quasi scontata. Morgan essendo presente ha l’occasione di unire l’utile al dilettevole. Potrà divertirsi e ubriacarsi illegalmente come ogni teenager e potrà allo stesso tempo avvicinare Anthony e Kyle. Ha pianificato anche questo, tralasciando un piccolo e insignificante particolare: deve ancora convincere Kyle a partecipare.

Aspetta di ricevere l’invito prima di farlo. Alla vista della bustina rosa glitterata infilata nel suo armadietto decide che è arrivato il momento di agire.

-Kyle, hai per caso sentito qualche bella notizia ultimamente?

Chiede passando affianco all’amico in corridoio, cerando di risultare vaga.

-Riguardo a cosa?

Chiede lui, apparentemente senza sospetti.

-Mah, non so… in generale.

Kyle si ferma all’improvviso, facendo arrestare anche Morgan.

-Morgan, dove vuoi arrivare?

Chiede sospettoso.

-Io?! Ma da nessuna parte!! Chiedevo solo…

Il tono di voce non è affatto convincente.

-Non c’entrerà forse la bustina rosa shocking che ti spunta dal libro di algebra, vero?

Chiede lui, con tono di scherno, indicando il libro che Morgan tiene appoggiato al petto. La ragazza abbassa lo sguardo e osserva la busta. La sua copertura è ufficialmente crollata. Tanto vale essere sincera.

-Va bene, senti. C’è una festa questo sabato e volevo chiederti di farmi da… cavaliere!

Kyle ricomincia a camminare. Sbuffa.

-Morgan, sai bene che non mi interessa niente di queste cose da… liceali.

Morgan aggrotta le sopracciglia.

-Perché tu cosa sei?

Kyle non risponde.

-Comunque… me lo devi!

Si blocca di nuovo, questa volta sull’uscio della classe di algebra.

-E perché mai?

Si mette a sedere, Morgan si sistema accanto a lui.

-Perché sono tua amica, la migliore poi! Non solo un’amica qualunque!

Kyle fa finta di non sentirla ed inizia a sfogliare le pagine del libro di algebra, senza alcuna particolare intenzione.  Morgan nel frattempo gli sta parlando, sta cercando di convincerlo ad accompagnarlo a quella festa ma lui non la sente.

-Ciao Kyle, cercavo proprio te!

Kyle alza la testa e vede davanti a sé, in piedi, Anthony che gli sorride. Morgan ha smesso di parlare ma è rimasta a bocca aperta e sta osservando il ragazzo. Kyle trattiene una risata e cerca di evitare di guardare troppo l’espressione incantata di Morgan.

-Anthony. Hai bisogno di qualcosa?

Annuisce.

-Si, in effetti. Hai sentito del lavoro di scienze, il diorama?

Kyle ci pensa e si ricorda di aver sentito l’insegnante dire qualcosa poco prima della fine delle lezioni. Non ha prestato attenzione, stava disegnando sul banco o semplicemente fantasticava.

-Si… mi pare di aver sentito qualcosa del genere.

Morgan ha perso l’espressione incantata ma non ha smesso di fissare Anthony.

-Perfetto! Volevo chiederti, visto che è da fare in gruppo se hai già un progetto. Se non ce l’hai magari si potrebbe fare qualcosa insieme, ti va?

Morgan sorride e cerca di nascondere quel sorriso brillante che gli è comparso sulle labbra. È sempre più convinta di avere la fortuna dalla propria parte. Sta facendo tutto quanto Anthony, lei deve solo osservare e sperare che Kyle non si tiri indietro. Mette la mano sinistra sotto il banco e incrocia le dita.

-Si, si potrebbe fare, va bene.

Dal tono di voce Kyle non sembra essere convinto della propria risposta che è comunque un si, Morgan esulta sotto voce. Ora più che mai deve convincerlo ad accompagnarla a quella festa.

-Fantastico! Allora… uno di questi giorni ci si trova in biblioteca.  Ci metteremo d’accordo. Voi ci siete alla festa di Debbie?

Morgan sorride e annuisce. Sta iniziando ad amarlo Anthony, le toglie ogni fatica.

-Ma certo! Come potremmo mancare!

Esclama la ragazza, sperando che Kyle non controbatta e non lo fa.

-Immaginavo. Tu e Debbie siete amiche da quel che so. Allora ci si vede. Ciao!

Morgan alza la mano e lo saluta.

-Ciao ciao!

Kyle rimane in silenzio. La professoressa è entrata in classe ed inizia a spiegare la lezione. Morgan attende una qualche reazione da parte del compagno che non dice nulla.

 

Terminata la lezione si alza ed è proprio lui a parlare per primo.

-Verrò a quella stupida festa ma non pensare che lo faccia per qualche motivo. Anzi ti faccio un favore, non volevo farti fare brutta figura davanti ad Anthony.

Morgan sfoggia uno dei suoi migliori sorrisi e ringrazia Kyle. Attende con impazienza sabato.

***

Sconvolto. Non saprebbe trovare altro aggettivo per spiegare il proprio stato d’animo. Forse non è nemmeno abbastanza. Se ne sta seduto sul divano a fissare la porta. Ha ancora il telefono in mano. L’orologio di fronte a sé segna le quattro e mezza, nel giro di pochi minuti Kyle rincaserà. Dovrà spiegare anche a lui tutto quanto, raccontargli ogni particolare, riviverla quella telefonata.

Osserva il cordless bianco tra le mani e lo schermo vuoto indicante la data e l’ora. L’ha riconosciuto quel numero, come avrebbe potuto dimenticarlo? L’ha composto per anni. Sempre lo stesso, non è mai cambiato. Sperava quasi avesse deciso di cambiarlo proprio in quel periodo eppure, ancora le stesse cifre.  Per un attimo è stato indeciso sul da farsi, non voleva rispondere. Era rientrato da poco e stava facendo qualche faccenda di casa, giusto per tenerla in ordine, quando il telefono aveva iniziato a suonare.

Era corso come di suo solito ed aveva allungato la mano per afferrare la cornetta, fino a quando non aveva intravisto quel numero. Il cuore gli si era fermato per qualche secondo. La mano sospesa aveva iniziato a dare i segni di un leggero tremore. Aveva quasi iniziato a pensare che non avrebbe più visto né sentito Jonathan. Non era nemmeno entrato in casa il giorno in cui aveva ritirato sul pianerottolo le sue cose. Ora, senza aspettarselo, deve affrontare una telefonata con lui e deve di nuovo sentire la sua voce e rispondere, parlare con lui.

L’impulso di chinarsi e staccare il filo del telefono è stato forte, ci ha pensato e per poco  non l’ha fatto poi alla fine ha ceduto e ha risposto. Ha premuto la cornetta ed ha iniziato a parlare, con voce tremante, nell’attesa di sentire la sua voce.

-Sono a casa!

Esclama Kyle entrando e distraendo Christian dai suoi pensieri. Sembra felice, ha l’aria un po’ stanca ma deve essere felice.

-Com’è andata a scuola?

Chiede di routine.  Kyle getta la borsa contenente i libri a terra e poi lo raggiunge sul divano.

-Uhm… tutto ok.

C’è silenzio per qualche secondo tra i due poi Kyle ricomincia a parlare.

-Sabato… dovrei andare ad una festa. Da Debbie Benson credo. Mi ha invitato Morgan, ma se tu non mi dai il permesso, fa niente!

Christian sorride.  Conosce la repulsione di Kyle per le feste e sa che non muore di certo dalla voglia di parteciparvi. Pensa però che gli farebbe bene una serata fuori casa tra i suoi coetanei, perchè basta lui in quella casa a vivere e soffrire di ricordi.

-Se non ti va di andare non andare ma se vuoi, per me non c’è nessun problema.

Kyle fa una smorfia.

-Ah… Wow, dovrei dire.

Commenta sarcastico accasciandosi sul divano e tastando accanto a sé per cercare il telecomando.  Christian gli accarezza i capelli, lui si avvicina di più e si appoggia alla spalla di Christian.

-L’hai capito vero che non ho troppa voglia di andare?

Chiede, alzando gli occhi per cercare lo sguardo di Christian, gli sorride. Un sorriso che Kyle ritiene strano, forse triste.  Osserva il cordless ancora stretto tra le sue mani e lo guarda intensamente.

-Chris, è successo qualcosa?

Sapeva che Kyle si sarebbe accorto che qualcosa non andava. Non è molto bravo a nascondere le cose. Non sa se dirgli la verità oppure fare finta di niente. Dopotutto è sabato il giorno in cui dovrà rivedere Jonathan e Kyle sarà a quella festa. Non c’è alcun bisogno che lui sia presente, che assista ad un'altra sceneggiata, una e abbastanza. 

Cerca di stamparsi sul viso un sorriso diverso, che possa trasmettere anche un sentimento simile alla felicità. Sa che non è possibile. Gli sembra quasi che siano i muscoli della sua stessa faccia ad impedirglielo, sembrano irrigiditi.

-No. Sto solo pensando che sei cresciuto.

Kyle fa una strana smorfia poi scuote il capo con rassegnazione.

-Le solite pallose frasi da genitori!

Torna a rivolgere l’attenzione al televisore. È convinto di ciò che Christian gli appena detto.

***

Aspetta di finire l’ultima sigaretta del pacchetto prima di fare ciò che deve. Ha deciso di farla quella telefonata a Christian. Lo ferisce nell’orgoglio quel gesto, il fatto di dover telefonare, magari suonare il campanello per poter entrare in casa sua distrugge il suo ego. Pensa alle chiavi nel cassetto in ufficio. Vorrebbe tanto utilizzarle. Forse però Christian ha cambiato le serrature. Ne dubita. Non ne avrà avuto il tempo, la voglia, forse la forza.  Pensa che, al suo posto, quella di cambiare le serrature sarebbe stata l’ultima delle preoccupazioni.

Quando l’ultimo pezzetto di cenere si stacca dalla brace, prende il mozzicone e lo preme nel posacenere che ha affianco sul tavolo. Lo gira per qualche secondo, in modo da assicurarsi che sia completamente spento o semplicemente per prendere tempo poi inizia a fissare il cellulare, poco distante, appoggiato sul tavolo che aspetta solo di essere utilizzato.

Sposta il posacenere e allunga la mano verso il terminale. Si lascia andare sullo schienale della sedia e sblocca la tastiera del telefono. Compie piccoli gesti, non ha fretta, non vuole averne. In realtà vorrebbe fare ciò che deve più rapidamente possibile, parlare con un solo fiato, senza fermarsi nemmeno per respirare.

Ha il numero memorizzato in rubrica, forse è ancora nelle ultime chiamate, non ha cancellato niente, neanche i messaggi eppure decide di comporlo il numero di casa sua. Tasto per tasto, cifra per cifra, sempre più lentamente e non appena arriva al cinque finale si ferma prima di premere la cornetta verde.

Il cellulare è al centro del palmo della sua mano, il suo pollice è appoggiato con delicatezza sul tasto verde, l’indice su il tasto rosso, quello per annullare la chiamata. Vorrebbe allungare l’indice, per allentare la tensione ma sa che non risolverebbe nulla. Gli tornano in mente le parole di Gregor durante l’ultimo colloquio.

“Li devi affrontare i tuoi problemi. Più tu li eviti e più loro si rafforzano.”

Deve prendere di petto la situazione e fare ciò che deve senza farsi prendere dalla tensione. Non ha parlato a Gregor di quella visita forzata a casa, forse avrebbe dovuto farlo. Lo avrebbe aiutato a trovare l’energia necessaria per evitare sicuri ripensamenti.

Inizia a pensare di dover annullare quella chiamata e di dover comporre il numero di Gregor per parlargliene, per farsi dare un consiglio se non altro su come affrontare la situazione. Ripensa poi che probabilmente, nonostante ogni previsione, gli consiglierebbe di farsi spedire a casa da Christian il fascicolo necessario. Non è mai corso buon sangue tra Christian e Gregor. Ora che i fatti hanno preso quella piega, Gregor cercherebbe di evitare il faccia a faccia con lui.

Essendo proprio quello a spaventarlo forse è la decisione migliore. Tuttavia, in preda alla confusione, all’indecisione, preme la cornetta verde. Ormai è tardi per ripensarci.

Rimane vigile per sentire Christian rispondere dall’altra parte. Il telefono suona a vuoto almeno una decina di volte. Inizia a credere che Christian abbia riconosciuto il numero e che si stia rifiutando di proposito di rispondergli. Non sarebbe l’unico a reagire in quel modo.

Ormai arreso, allontana il telefono dall’orecchio. Non appena lo stacca sente la voce di Christian in lontananza. Riafferra il cellulare e lo riporta all’orecchio.

-Pronto…?

È Christian e il suo tono di voce è tranquillo, sembra tranquillo.

-Pronto Christian sono…

Risponde al suo posto, prima che possa farlo lui.

-Lo so.

Quella sua risposta lo spiazza, deglutisce e cerca di tagliare corto.

-Avrei bisogno di venire a ca-

Si blocca, si corregge.

- ...da te. Ho dimenticato una cosa.

Un pausa.

-Quando?

Il tono di voce di Christian è cambiato. Sembra quasi infastidito ma allo stesso tempo rassegnato.

-Ti va bene… sabato?

Aspetta una risposta da parte di Christian.

-Prima di cena?

Chiede, con lo stesso tono di rassegnazione.

-Si, va bene.

Non risponde, non dice nulla.

-Ci vediamo allora… ciao.

-Ciao.

Riattacca.

Non era certo il tipo di telefonata che si aspettava. Quella reazione non l’ha prevista. Ha pensato tutto il giorno a quale reazione avrebbe potuto avere Christian, come si sarebbe potuto comportare. Era pronto a tutto fino ad allora.

Quel tono di rassegnazione che sembrava quasi dire a ogni frase, implicitamente “fa’ quello che vuoi, non mi interessa” l’ha ferito. Il suo orgoglio già smorzato è stato ulteriormente calpestato. Non ha saputo tenere testa alla conversazione come avrebbe voluto. Si è sentito come ogni giorno, uno schifo, uno straccio. Inizia a chiedersi se sarà in grado di affrontarlo sul serio senza impazzire.

--> Ta-dah!! Ecco il capitolo dieci... Sempre in ritardo di un giorno, non so come scusarmi ragazzi. Spero che vi faccia comunque piacere che posti XD perdonatemi i ritardissimi. Allora... questo è uno dei miei capitoli preferiti tra quelli scritti. Questo e i prossimi due... capirete il perchè XD c'ho messo anche parecchio a scrivere questo e i successivi. Spero mi direte cosa pensate^^ Ringrazio twy per il commento, scusandomi di nuovo per la mia "ritardataggine cronica"

E ora... alla prossima! <--

 

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Capitolo 11
*** Mirror, mirror (Specchio) ***


11. Mirror Mirror (Specchio)

-Biondo, domani sera si va a ballare e non accetto un no come risposta.

Esclama Ronald, comparendo alle spalle di Christian che balza per lo spavento.

-Mi hai spaventato Ron.

Ronald si avvicina a Christian e si siede sul tavolo sul quale sono posati i fogli che il collega sta cercando di riordinare. Lo vede perso, distratto. Non parla e non risponde alla sua affermazione. Inizia ad intuire che gli sia successo qualcosa ma preferisce indagare un poco prima di chiederglielo direttamente.

-Allora? Per domani?

Chiede, aspettandosi una sua risposta che non arriva. Christian se ne sta con lo sguardo fisso nel vuoto, la mente vaga per chissà quali mondi e pensieri e le sue mani sembra si muovano senza precise direzioni, afferrano dei fogli, li mettono assieme in modo da farli combaciare e poi li uniscono tramite una clip. Hanno qualcosa di robotico i gesti di Christian.

-Ehilà, c’è nessuno in casa?

Chiede Ronald sporgendosi verso il collega, che scrolla la testa. Le sue mani si fermano e osserva Ronald con espressione confusa, un sopracciglio leggermente rialzato e la bocca semiaperta. Deve non aver capito una parola di quello che gli è appena stato detto . Ronald allora sospira, porta gli occhi al cielo e si ripete.

-Ho detto che domani sera esci con me, si va a ballare.

Christian rimane con quell’espressione inebetita per almeno un’altra ventina di secondi, durante i quali Ronald si prepara a ripetere di nuovo l’invito.

-No, non ci sono.

Risponde invece, radunando velocemente tutti i fogli rimasti sul tavolo e infilandoli alla rinfusa nella propria cartelletta. Ronald con un balzo scende dal tavolo e lo segue.

-È un’altra tua scusa per non uscire con me?

Christian non risponde. Gli volta le spalle e imbocca il corridoio. Non ha lezione per almeno un paio d’ore e probabilmente si sta dirigendo in biblioteca, Ronald lo intuisce dalla quantità di fotocopie e di volumi che porta sottobraccio. Ha velocizzato il passo, inizia a pensare che stia cercando di evitarlo, così fa altrettanto e lo raggiunge.

-Chris?! Allora?

Christian lo guarda, senza però fermarsi.

-E allora cosa?

Salgono le scale per il secondo piano, proprio il piano in cui è situata la biblioteca.

-Voglio sapere se è una scusa.

Chiede Ronald, tenendo il suo passo.

-Non lo è.

Risponde lui.

-E allora che hai da fare di tanto importante?

Christian si ferma, da’ la schiena a Ronald.

-Jonathan.

Riprende a salire i gradini come se niente fosse, come se avesse detto qualcosa di normale, di solito. Ronald rimane qualche gradino più in basso è ancora fermo e rielabora quell’informazione. Non appena riesce a capire giustifica il comportamento distratto di Christian. Lo raggiunge e una volta arrivato al pianerottolo lo strattona, facendolo girare.

-Che cosa c’è ancora?

Gli chiede lui, apparentemente seccato. Questo è ciò che suggerisce il suo tono di voce, l’espressione è la stessa di poco prima, persa, vaga.

-Lo dici così?

Chiede Ronald. A differenza del collega il suo sguardo è attento, accusatorio. Si aspetta una spiegazione più dettagliata.

-Ci sono ancora cose sue a casa…

Risponde, con tranquillità. È proprio questo che preoccupa Ronald; Christian è calmo, tranquillo. Se non  fosse per quello sguardo, quegl’occhi blu nei quali vede il nulla profondo, potrebbe darla a bere persino a lui. Potrebbe sembrare che ogni sentimento, sensazione forte da lui provata fino a qualche giorno, o forse ora, prima non gli faccia più effetto, che il fatto di vedere Jonathan non lo tocchi neanche.

-Te la senti di affrontarlo?

Chiede, con preoccupazione. Suscitando una reazione inaspettata; Christian si libera dalla presa e ricomincia a camminare, cercando di allontanarsi da lui il più possibile.

-Christian, ti ho fatto una domanda.

Urla Ronald volutamente, facendo girare tutti i presenti nel corridoio.

Christian si gira, si ferma e aspetta di essere raggiunto.

-E se anche non me la sentissi? Cambierebbe qualcosa?

A poco a poco i suoi veri sentimenti cominciano ad emergere. Il primo segnale è la voce, tremante, risentita.

-Cosa posso fare Ronald? Chiudergli la porta in faccia, proprio a casa sua?

Il secondo segnale è lo sguardo, non è più perso nel vuoto. I suoi occhi sembrano quasi più chiari, limpidi come il mare d’estate. Ronald lo interpreta come un segnale di aiuto inespresso.

-Potevi…  anzi, dovevi, dirgli di passare mentre sei al lavoro. Christian, non stavi più pensando a lui. Non è sano che tu lo riveda.

Christian non pensa la stessa cosa e non lo nasconde. Scuote il capo in segno di diniego, una strana smorfia compare sul suo viso. Non è più confuso o perso, sa bene dove si trova e probabilmente non è dove vorrebbe essere.

-Non ci penso più dici? Certo, come se fosse possibile. Ogni fottuta cosa lì dentro me lo ricorda. Non ho toccato niente, è tutto come è sempre stato. Senza contare le bollette, la corrispondenza. Tutto a nome suo, tutto quanto.

Ronald non sa cosa rispondere ma non vuole restare in silenzio, vuole dire qualcosa. Deve ribattere in qualche modo.

-Fai come per i vestiti. Prepara tanti scatoloni e riponici tutto ciò che gli appartiene. Sarà sempre meno doloroso di vederlo.

Christian non risponde. Involontariamente Ronald ha centrato il punto. Sogghigna, avrebbe dovuto immaginarselo.

-Tu lo vuoi vedere, non è vero?

Christian non risponde, di nuovo. Abbassa lo sguardo, non un gesto, non un segno di voler ribattere.

-Ho capito. Nel tuo profondo lo vuoi rivedere. Perché Christian? Perché dopo tutto quello che ti ha fatto?

Christian alza il capo di scatto e lo guarda di nuovo negli occhi. La sua espressione è di nuovo mutata, abbozza un mezzo sorriso.

-Tu non hai mai amato. Non mi puoi capire. È inutile che te lo spieghi.

Si sistema il libri sotto braccio e prosegue per la sua strada. Lasciando Ronald in piedi al centro del corridoio, senza parole.

***

Kyle si era dovuto sopportare per ben due giorni l’impazienza di Morgan riguardo alla festa. Non faceva che dirgli quanto si sarebbero divertiti, cosa avrebbero fatto e quanta gente avrebbero potuto incontrare. Ogni ora era la stessa cosa. Come se ciò non bastasse, il venerdì pomeriggio era stato letteralmente trascinato dalla ragazza in centro per aiutarla a comprarsi un vestito adatto per l’occasione.

Non è un particolare amante dello shopping Kyle, veste bene soltanto perché al suo abbigliamento ci pensa sempre Christian. Fosse per lui indosserebbe sempre e solo la tuta e il pigiama, per andare a letto.

Morgan è molto esigente per quanto riguarda il proprio abbigliamento. Deve essere sempre perfetta sotto ogni punto di vista. Le piace spendere, forse un po’ troppo, ed è completamente ossessionata dai propri capelli. 

Dopo aver girato senza sosta e senza meta per circa quaranta minuti ed aver osservato più di una cinquantina di vetrine, la ragazza decide finalmente di fermarsi in un negozietto. Kyle tira in respiro di sollievo, non ne poteva più delle chiacchiere di Morgan e dei suoi commenti su ogni cosa. Entrati nel negozio la perde completamente di vista per qualche secondo. La vede ricomparire poco dopo,  ha in mano una montagna di vestiti che probabilmente intende provare.

-Ecco! Me ne tieni qualcuno che li provo?

Esclama, rifilandogli circa una decina di abiti.

-Morgan vuoi veramente provare tutta questa roba? Ti ricordo che è solo una stupida festa tra adolescenti! Non è nemmeno il ballo di fine anno.

Morgan non gli da’ il benché minimo ascolto e sparisce nel camerino con i vestiti che le sono rimasti in mano. Kyle si siede su un divanetto di fronte al camerino di prova, in attesa che gli chieda di passarle anche gli altri vestiti.

Dopo pochi minuti esce con il primo abito.

Appariscente, decisamente, troppo.

-Come mi sta?

Chiede, girando su se stessa. Kyle fa una smorfia.

-Passo.

Esclama.

Lei sbuffa.

-Mi sta proprio così da schifo?

Domanda, guardandosi.

-Passo!

Ripete Kyle.

Morgan torna di nuovo nel camerino e prova un altro vestito. Esce per raccogliere l’approvazione di Kyle. Questa volta il vestito è semplicemente brutto.

-Com’è?

Kyle scuote la testa.

-Il prossimo.

Fa marcia indietro e torna nel camerino di prova. Mette e toglie in totale una ventina di vestiti. Kyle non ce la fa più, è seduto su quella poltrona da più di mezz’ora, in quel momento non vuole più saperne di vestiti o feste.  Non gli è rimasto più nessun capo in mano, spera che l’ultimo sia quello decisivo. Altrimenti è pronto ad alzarsi e tornarsene a casa. La sua scarsa voglia di partecipare a quella festa, se è possibile, è andata a zero.

-Ok, però adesso promettimi di non ridere, va bene?

Esclama Morgan da dentro il camerino.

-Morgan, non ho riso per i precedenti diciannove vestiti, perché dovrei ridere per questo?

La porta del camerino questa volta si apre pian piano e Morgan esce, con vergogna. Si copre gli occhi e aspetta il giudizio di Kyle.

-È orribile?

Chiede, scoprendosi pian piano gli occhi.

Kyle la osserva con attenzione. È bellissima. Quel vestito le sta davvero bene. È un abito molto semplice, a differenza di quelli appena provati, bianco con delle rifiniture nere, lungo fino sopra il ginocchio, senza spalline e con una leggera scollatura interna al vestito.

-Wow!

Esclama Kyle estasiato.

Morgan arrossisce.

-Mi stai prendendo in giro, vero?

Fa cenno di no.

-Assolutamente no. Fai un giro su te stessa!

Morgan obbedisce e Kyle la trova semplicemente meravigliosa. Quell’abitino è fatto decisamente per lei.  Morgan è di statura piuttosto minuta, forme leggermente accennate e quell’abito sembra quasi le sia cucito addosso. Sembra abbia la stessa forma del suo corpo, la stessa curva dei suoi fianchi e mette in bella vista le gambe, magre e diritte.

-Mi sta veramente così bene?

Chiede la ragazza, osservandosi allo specchio del camerino.

-Dovresti comprare questo Morgan! Ti sta a pennello. Non ti prendo in giro.

Morgan si lascia convincere e infine decide di acquistare quell’ultimo vestito. Kyle è sicuro che farà un figurone con addosso quell’abito.

Uscita dal negozio Morgan è contenta e soddisfatta del proprio acquisto.

-Sono così contenta di aver trovato il vestito! E tu non provarci neanche a darmi buca perché te la faccio  pagare!

Minaccia Morgan, agitando la borsa contenente il vestito.

-Tu pensi che mi sia sorbito un pomeriggio a vederti cambiare vestito dopo vestito per poi non presentarmi?

Morgan spalanca la bocca.

-Ma sentilo un po’! Che razza di amico!

Kyle scoppia a ridere e poco dopo anche Morgan.

***

Il sabato è sempre stato uno dei giorni preferiti da Christian. Non sa spiegarsi il perché, forse questa sua preferenza risale ancora ai tempi della scuola, quando non vedeva l’ora che arrivasse il weekend per potersi divertire. Di fatto non c’è nulla di speciale di sabato, da anni ormai. In pochi lavorano quel giorno e le strade della città di New York sono affollatissime, è quasi impossibile passeggiare senza essere strattonati o calpestati.

Ha sempre evitato di fare compere il sabato per quel motivo. Non sopporta la folla, gli da’ uno strano senso di soffocamento. È capace di perdersi pur conoscendo la strada, pur avendola fatta più di un centinaio di volte. Si è sempre organizzato in modo tale da non dover uscire di sabato, preferendo invece restare a casa a dedicarsi ai suoi hobby, a cucinare, a leggere.

Se ora si trova a percorrere la 5th avenue, di sabato pomeriggio, ad evitare che una decina di passanti gli pestino i piedi o lo travolgano, è solo perché ha bisogno di tenere la mente impegnata. Deve concentrarsi su dove si trova, su cosa deve fare e comprare. Non ha tempo per pensare a nient’altro.

Ha già girato un paio di negozi. È uscito per acquistare dei nuovi capi estivi per Kyle, ha dovuto sistemare il suo armadio qualche giorno prima e ha deciso che mancava qualcosa, che il suo vestiario era troppo infantile per un ragazzo di quasi sedici anni. Aveva anche cercato di portarlo con sé per scegliere insieme cosa comperare ma, come prevedibile, si era rifiutato. Non si aspettava entusiasmo o partecipazione da Kyle, non è una cosa di suo interesse lo shopping.

Osserva le vetrine attentamente, cerca di trovare quel particolare capo che possa piacere sia a lui sia a Kyle. Si ferma davanti ad una vetrina di un negozio abbigliamento giovane. Osserva i cartellini dei prezzi. Non può permettersi di spendere molto,  il suo stipendio è giusto sufficiente per pagare il cibo e le necessità primarie. Legge un paio di volte un prezzo assurdamente alto per una polo imitazione di Lacoste, alza gli occhi per osservare meglio il manichino, per vedere se almeno si tratta di una buona imitazione.

Guarda le maniche bordate, i due bottoni bianchi sul colletto e poi si distrae; vede la sua immagine riflessa. Occhiali da sole sopra la testa, braccia cariche di borse, capelli decisamente in disordine.

È da un po’ che non dedica del tempo alla cura della sua immagine. Si intravede allo specchio la mattina ma senza guardarsi veramente. È come se avesse un poster di sé stesso, risalente a qualche tempo prima, incollato sullo specchio, una sua vecchia fotografia che lo ritrae nella migliore forma. Gli basta creare nella propria mente quell’immagine di sé, non si deve osservare.

Appoggia sul braccio sinistro, già carico, le borse del braccio destro e con una mano si  percorre il viso.  Scavato, troppo. Sotto le gote due solchi profondi, sulla fronte due piccole rughe espressive iniziano ad essere percepibili al tocco.

Lascia cadere ai suoi piedi le borse e con entrambi le mani percorre il viso, affonda il polpastrelli nella pelle per sentire meglio il rilievo delle rughe sulla fronte, l’osso della mandibola.

Non si riconosce, si spaventa.

Decide di tornare a casa.

 

Si siede allo sgabello della specchiera in camera, sposta tutto ciò sia presente sul pianale e vi punta i gomiti. Tra i palmi delle mani aperte poggia il viso. Inizia ad osservarsi, a scrutarsi. Contrae e rilassa il viso in continuazione poi si avvicina di più allo specchio, si mette di profilo e osserva gli zigomi. Gli sembra quasi di vederli spuntare dalla pelle, di vederli uscire.

Non sta mangiando adeguatamente da tempo. Cucina solo per Kyle e se il ragazzo è fuori a pranzo si dimentica di preparare qualcosa per sé.  Quel viso incavo ne è la prova.

Dorme poche ore a notte, si desta di continuo e non riesce a riprendere sonno. La spiegazione per le occhiaie, due vistosi semicerchi violastri resi più evidenti dal suo incarnato color avorio. 

Mentre le rughe sono dovute al tempo o forse allo stress. Non se le spiega.

Osserva il suo viso nel complesso, la sua immagine attuale e se ne vergogna. Inizia a pensare a quali sguardi e pensieri pietosi la gente possa avergli rivolto guardandolo. Non sopporta la pietà.

È qualcosa che non tollera, pensa che le persone nascondendosi dietro questo sentimento finto buonista si permettano di giudicare una persona e in qualche modo dispregiarla.

È per questo che da quel giorno ha cercato di non mostrare ciò che sta passando, ciò che sta sentendo, non si è mai espresso con nessuno, ha tenuto ogni tipo di emozione per sé.  Ha persino creduto di esserci riuscito. Nessuno ha fatto troppe domande, nessuno ha detto nulla. 

La sua faccia, di cui è sempre andato fiero, l’ha tradito. Tutto il dolore, la sofferenza, persino il risentimento che ha provato e che prova sono impressi sul suo viso in modo indelebile e sono visibili a chiunque, giudicabili da chiunque. Ecco perché nessuno chiede, nessuno domanda, non ce n’è bisogno, basta osservare il suo viso per ottenere una risposta.

Il suo pensiero volge a Jonathan. Lui conosce bene la sua faccia, l’ha amata dal primo momento in cui l’ha vista. Si chiede a cosa penserà vedendolo ora, in quello stato. Capisce che non sarà possibile nascondergli i lividi dei colpi da lui inflitti, che sarà inutile fare spallucce e fingere di essere forte. Lui capirà, si renderà conto di quanta importanza ricopra ancora nella sua vita e di come gli sia difficile smettere di dipendere da lui, di contare sulla sua presenza.

Ripensa quel giorno in cui tutto era iniziato. Quel giorno in cui Jonathan era stato cacciato da casa sua, quando la sua mente l’aveva supplicato di mandarlo via per non soffrire, mentre il suo cuore piangeva con lui e gli batteva forte nel petto, gli rimbombava in gola quasi volesse impedirgli di parlare per dire ciò che avrebbe dovuto.

-Chris?!

Kyle rincasa e distoglie Christian dai suoi pensieri. Dovrebbe ringraziarlo, un solo secondo e avrebbe raggiunto la follia.

-Sono in camera tesoro.

Kyle lo raggiunge. È felice, sorride.

-Ho visto che hai fatto shopping!

Commenta il ragazzo.

-È tutta roba tua. Dagli un’occhiata, magari trovi qualcosa di carino per questa sera.

Kyle sbuffa.

-Chris, devi smetterla di comprarmi vestiti. Lo sai che mi basta quello che già ho nell’armadio e poi ora i soldi sono-

Christian lo ferma.

-Se mi permetto di comprarti qualcosa è perché lo posso ancora fare, Kyle.

Kyle annuisce.

-Va bene, in questo caso ti ringrazio.

Qualche istante di silenzio poi ricomincia a parlare.

-Ora… vado a preparami. La mamma di Morgan passerà a prendermi tra mezz’ora, a dopo.

Si gira e guarda la sveglia sul comodino. Sono le sei.

Vede con la coda dell’occhio Kyle in salone che spacchetta e osserva i suoi nuovi abiti. Si chiede se abbia fatto bene a non dirgli nulla. C’è sempre la possibilità che i due si incontrino, non sa con precisione quando Jonathan si presenterà. “Prima di cena” è molto vago, potrebbe essere lì in pochi minuti o in due ore. 

Come potrebbe spiegare a Kyle le sue ragioni per non avergli detto nulla? Christian conosce le proprie motivazioni; non vuole vederlo infelice. Stava sorridendo fino a poco prima e non se la sente di smorzare quel sorriso. Si dimentica troppo spesso che Kyle è ancora un ragazzo nonostante spesso sembri più maturo e deciso di lui. Si è trovato senza volerlo in mezzo a quella situazione spiacevole e forse  è proprio lui tra i tre ad averne sofferto di più. Deve sbrigarsela da solo e lasciare che Kyle pensi a divertirsi, ad uscire con i suoi coetanei e fare i pensieri di un normale adolescente.

Si sistema i capelli velocemente e si alza.

--> Perdonatemi, perdonatemi tanto!! Sono in ritardissimo, lo so, scusate. Devo ripetere ancora che è un periodo particolare, che ho una serie di problemi e cose da fare. L'appuntamento settimanale è slittato da sabato a domenica, da domenica a lunedì e oggi è martedì! Ho mancato una settimana, abbiate pazienza e continuate a seguirmi^^ la pubblicazione non si arresterà. Sono riuscita a scrivere il 20esimo capitolo, quindi penso di riuscire a postare più o meno regolarmente per un'altro po'. Intanto ringrazio More_More per il commento all'ultimo capitolo.

Buona settimana, alla prossima <--

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Capitolo 12
*** Pieces (Frammenti) parte prima ***


12. Pieces (Frammenti) parte prima

È quasi limitativo chiamare l’abitazione di Debbie Benson “casa”. La villa è situata alcuni chilometri fuori New York, in un paesino anonimo. Non ci sono molti negozi o strutture particolari, si tratta di una cittadina di passaggio, popolata dalle splendide proprietà di persone facoltose per le quali è più interessante esibire la propria casa che viverla.

È la prima volta di Kyle in quel posto e non appena scende dall’auto rimane piacevolmente stupito osservando l’abitazione. Si è sempre chiesto dove fossero le mega-ville che si vedono spesso nei film e finalmente ne ha trovata una che rispecchi perfettamente lo stereotipo. All’inizio del lungo vialetto di ciottolato che conduce all’ingresso della casa, c’è un bellissimo cancello in ferro battuto con scolpita una “B”. Il sentiero è illuminato da faretti e bellissime piante dai rami piangenti.

Si sente quasi suggestionato Kyle a percorrere quella strada. A Morgan ormai non fa più alcun effetto, cammina con il suo nuovo vestito bianco e le sue ballerine di pelle lungo la stradina, con fare da modella.

Kyle l’ha trovata bellissima quella sera. Capelli perfetti e raccolti in un fermaglio bianco brillante, borsetta coordinata e trucco leggero. Sembra quasi più grande. Non appena l’ha vista in macchina, ha pensato di dirle quanto è bella, quanto è perfetta quella sera, ma poi per un improvviso attacco di vergogna e di imbarazzo ha preferito non dirle nulla, si è limitato a salutarla  per poi continuare ad osservarla in silenzio.

All’altra estremità del vialetto, accanto alla porta di ingresso, c’è Debbie che da brava signorina di buona famiglia accoglie i suoi ospiti. Un paradosso secondo Kyle.

Tutta quell’ambientazione lo è a detta sua. Il tipo di festa, o festino per adolescenti che avrà luogo da lì a poco, non ha nulla a che fare con lo scenario nel quale si svolgerà. È tutto così elegante, perfetto. Un ballo di gala sarebbe stato decisamente più azzeccato.

Anche l’abbigliamento di Debbie è un chiaro controsenso. Indossa una versione più lussuosa e griffata di un abitino che ha provato anche Morgan il giorno prima. Un tubino di raso fucsia con una vistosa scollatura, piuttosto corto. Ha qualcosa di volgare quel vestito, su Morgan, su Debbie sta benissimo, è perfetto. Forse perché rispecchia precisamente il suo stile.

-Ma ciao tesoro! Sei bellissima!!

Esclama Debbie, abbracciando Morgan. Un saluto, un sorriso e un abbraccio più falsi non sarebbe stata in grado di farli.

-Debbie! Ma tu sei bellissima! Grazie per avermi invitato, tesoro!

Anche Morgan è poco sincera. Ogni parola che rivolge a Debbie sembra una presa in giro. Kyle sorride vedendole chiacchierare. Non ha mai capito una cosa delle ragazze; per quale motivo fingano a tutti i costi di volersi bene nonostante non si sopportino. Lui quando odia qualcuno lo evita e ritiene sia la cosa migliore da fare.

-Oh sono arrivati Samuel e Amanda! Abbiate una buona serata cari!

Esclama Debbie liquidando Morgan e Kyle.

I due ragazzi entrano in casa. L’interno è ancora più elegante; tutto impeccabile, perfetto, lussuoso.

-E tu la chiami amicizia quella che hai con Debbie?

Domanda Kyle, seguendo Morgan, che lo conduce nella sala in cui si svolge la festa vera e propria.

Un salone enorme, con una pista da ballo in parquet al centro e una serie di tavoli da buffet sui quali sono poggiati salatini, del punch e più di un centinaio di alcolici differenti. C’è persino una console da dj in quella stanza, senza contare il barman accanto al tavolo degli alcolici.

Ci sono già più di una cinquantina di ragazzi ma naturalmente ne devono arrivare ancora altrettanti.

-Per tutto questo Kyle!

Risponde lei indicando la sala.

Kyle continua a non comprenderla, probabilmente perché quello non è proprio il suo ambiente. Morgan inizia a guardarsi in giro e gli parla raccontandogli storie o particolari su alcuni degli invitati. Si ferma soltanto quando qualcuno le appoggia una mano sulla spalla. Quel qualcuno è Anthony Edwards che sta sorridendo. È molto elegante quella sera, capelli ingelati, camicia bianca, jeans neri e mocassini. È strano vederlo con abiti diversi dalle felpe della squadra di football.

-Anthony ciao!! Ma come sei carino stasera!!

Il sorriso di Anthony si allarga ancora di più. Kyle inizia a sospettare che porti un qualche tipo di dentiera. I suoi denti sono quadrati, lucidi e perfettamente allineati.

-Sei bellissima anche tu.

Si guardano negli occhi e in Kyle si insinua il sospetto che i due possano piacersi. Se così fosse, saprebbe spiegarsi il motivo delle continue domande che gli fa circa lui. Starebbero anche bene insieme, formerebbero una bella coppia, a detta di Kyle. Li fissa parlare tra di loro macchinando una serie di teorie.

-Scusami Kyle, non ti ho salutato. È che Morgan questa sera è… wow!

Esclama rivolgendosi a lui.

-Già, è bellissima, vero?

Anthony non parla ma lo osserva, osserva i suoi capelli spettinati, il suo abbigliamento rilassato. Probabilmente si sta chiedendo se Kyle sappia cosa voglia dire andare ad una festa o se ci sia mai stato.

-Non ti facevo un tipo da feste Kyle…

Commenta alla fine.

-Si, l’ho capito da come mi stavi squadrando un secondo fa.

Morgan spalanca gli occhi e rivolge un’occhiataccia a Kyle. Le sue risposte pungenti non le piacciono troppo. 

Anthony si toglie dall’impiccio sorridendo di nuovo.

-Stavo semplicemente apprezzando il tuo modo di essere. Il tuo non importarti degli altri, Kyle.

Kyle fa spallucce.

-Sai com’è, sono cresciuto con due padri. Del parere e del giudizio della gente ho imparato a fregarmene a sei anni.

Annuisce.

-È questo che mi piace di te.

Le luci si abbassano e il dj inizia a mettere canzoni e a intrattenere i ragazzi.

-Adoro questa canzone. Ti spiace se ti rubo Morgan?

Chiede a Kyle, mentre sorride alla ragazza.

-Oh fai pure. Io sono qui solo come soprammobile.

Anthony afferra Morgan per il braccio e la porta in pista a ballare. Kyle sospira e li osserva a braccia conserte.

***

Nonostante abbia cercato tutto il giorno di non pensarci, nonostante abbia deciso di affrontare la situazione al momento giusto, Jonathan si trova da quasi un’ora a camminare avanti e indietro per il salone del suo loft per far passare il tempo.

Si è imposto di tenersi impegnato, aveva fatto shopping, letto dei libri di approfondimenti psicologici. Ma nulla. Il tempo sembra non passare mai. “Prima di cena” aveva detto. E quindi? Quando si sarebbe dovuto presentare? Alle sette forse? O alle sei?

In ogni caso sono le cinque, c’è ancora molto tempo, troppo. Si sta sforzando per non fumare. Ha iniziato ad ansimare salendo le scale e non gli era mai successo, si è spaventato. Sta fumando troppo. Si passa una mano tra i capelli. Ha sempre pensato che sarebbero stati i primi ad andarsene, che li avrebbe persi presto. Ogni mattina teme di trovarseli tutti sul cuscino. È una strana fobia che ha anni ma che solo ultimamente si è accentuata. Ha scoperto leggendo volumi di psicologia che è indice di stress, ansia, depressione.

Non gli ci voleva un libro per determinarlo, dopotutto e nemmeno grandi abilità psichiatriche. Conosce bene il proprio stato d’animo.

Si ferma. È stanco di andare avanti e indietro inutilmente. Vorrebbe trovarsi qualcos’altro da fare, qualcosa che lo impegni in qualche modo e che gli permetta di passare almeno mezz’ora. Ha anche provato a dormire ma tutto inutile. Come può riuscirci?

Ogni volta che si sdraia è un inferno, ogni volta che sta fermo lo è. Una serie di voci insopportabili sembrano attendere che si fermi, che faccia un qualsiasi tipo di sosta per iniziare ad urlargli nella testa, tutte insieme ad un volume talmente alto da impedirgli quasi di sentire qualsiasi rumore esterno.

Non che ci sia questo problema nel loft. A volte si trova a parlare da solo, a dire cose ad alta voce, come se qualcuno lo ascoltasse. La delusione è sempre grande ogni volta che si accorge di parlare al vento perché nessuno lo ascolta, a nessuno importa più di quello che dice, tranne i suoi pazienti al lavoro. 

Gli sembra di essere segregato in una prigione o peggio, di essere mandato in esilio. Se ne sta nel suo nuovo e bellissimo loft completamente solo. Non ha nessuno a cui tenga con il quale possa goderselo, nessuno a cui possa interessare. Qualche amico certo ma lui non è mai stato il tipo da amici. Quelli che definisce tali sono solo conoscenze con le quali al massimo condivide un aperitivo il venerdì sera. Niente di più.

Aveva sperato in Kyle. Sperava di mostrarglielo un giorno, aspettava sue notizie per sapere quando sarebbero visti,  è passato parecchio tempo e non sa ancora nulla. Per questo l’ambiente è ancora pieno di scatoloni, per questo non ha mosso un dito per migliorare quel locale. A quale scopo se a nessuno interessa? Perchè fare quella fatica, spendere denaro senza avere ospiti, senza avere qualcuno che lo apprezzi?

E pensando a questo si sente di nuovo un esiliato, un carcerato a cui nessuno vuol far visita. Che rimane solo in qualche antro da qualche parte, dimenticato. Per un peccato, una colpa, che ha commesso e che si suppone debba scontare.

La punizione funziona, la sua pena la sta scontando, ci pensa e ripensa ogni giorno.

Ha comprato uno stereo in settimana, un Bose. Ne ha sempre voluto uno a casa ma Christian non gliel’ha mai fatto prendere, costava troppo. È vero, il prezzo non è cambiato ma sono cambiate le sue spese. Prima aveva molti conti da pagare, ora  ha soltanto le bollette sul suo conto corrente.

Spinge il bottone di accensione e lascia che parta il cd che ha dimenticato nel lettore il giorno prima. I Queen. Ha un eternità quel disco. L’ha comprato la sera in cui avrebbe poi conosciuto Christian. Si chiede come possa funzionare ancora. Ha passato diverse mensole, diversi stereo. Eppure non un graffio, non un segno. Un mezzo miracolo.

Lo stava ascoltando in macchina quella sera di quindici anni prima, stava andando al Vampiria. Un locale strano, “dark”. Non era decisamente il suo genere, il massimo del rock per lui erano i Queen. Era stato invitato e ci stava andando quasi controvoglia. Quella sarebbe stata la serata più importante della sua vita, non l’avrebbe mai detto prima di incrociare quegl’occhi azzurri  contornati dalla matita nera.

“Chissà se esiste ancora il Vampiria …”

Pensa, mentre ascolta la musica.

Tra poco li rivedrà ancora quegl’occhi. Sa che li troverà bellissimi e malinconici. Quello che ancora non sa è cosa accadrà di lì a poco e cerca di non pensarci, lasciandosi trascinare sulle note di “Bohemian Rapsody”.

 

***

Kyle non sopporta l’alcool. Non ne sopporta l’odore, il sapore ma soprattutto l’effetto che produce sulla gente. Trovarsi tra tutti quei ragazzi ubriachi che molto probabilmente non si rendono conto delle proprie azioni è a dir poco snervante per lui. È appoggiato ad un muro ed osserva.

Debbie Benson ha aperto la porta a vetri che affaccia sul cortile, scoprendo una meravigliosa piscina. Cosa c’è di più divertente ad una festa che un bel tuffo in piscina? Gli invitati si dividono tra il cortile e la pista da ballo. Lui se ne sta semplicemente ad osservare senza fare nulla di particolare.

Morgan ha ballato un paio di canzoni con Anthony, dopodiché è stata trascinata da qualche sua amica a parlare e l’ha lasciato solo in quell’ambiente per lui fastidioso. Tornerebbe a casa se potesse, se conoscesse la strada arriverebbe alla prima fermata del pullman disponibile e si farebbe riportare a casa.

-Ti ha lasciato solo, eh?

Commenta una voce accanto a lui. Si gira e vede Anthony che sorseggia del punch. Chissà quanto ne ha già trangugiato in un’ora.

-Ha lasciato solo anche te, vedo.

Commenta Kyle, con un pizzico di accidia.

-Si…

Kyle guarda il bicchiere semi-vuoto che regge e poi guarda lui.

-Abbandoni i tuoi dispiaceri nell’alcool?

Chiede, sarcastico.

-Oh? No è analcolico questo! Senti…

Glielo avvicina al naso e Kyle annuisce, nessuna traccia di alcool in effetti. Non se lo aspettava da Anthony.  Inizia anche chiedersi come mai a differenza degli altri suoi compagni di squadra non sia andato a rintanarsi in qualche stanza di quella casa enorme con qualche ragazzina. Forse perché l’unica preda che gli interessa è Morgan e lei non è certo il tipo per quel genere di cose.

-Oh Kyle, scusami se ti ho lasciato qui! Sarah doveva parlarmi del suo appuntamento con Howard Hutkins. Ti racconto tutto più tardi!

è Morgan, che è tornata in quel momento.

-E con me non ti scusi? Non ti hanno detto che non si abbandonano i ragazzi sulla pista senza dire niente?

Morgan sorride.

-È vero, scusami Tony è che …

Viene interrotta da una ragazza, una certa Angela, che la trascina per il braccio e le dice qualcosa nell’orecchio.

-Ehm… arrivo subito!

Esclama lei, scomparendo con questa sua amica.

-È molto popolare Morgan…

Commenta Anthony, osservandola sparire.

Kyle non risponde ma l’idea di uscire e andare a cercare la fermata del pullman più vicina si fa sempre più allettante. Anthony gli sta parlando, non lo sta ascoltando. Sta cercando di ricordarsi la strada percorsa sull’auto della madre di Morgan. Certo ora è sera ed è più difficile. Con il buio tutte le strade sembrano simili.

Inizia a ricordarsi un incrocio con una rotonda francese, decorata da un’aiuola. Il problema è che non si ricorda la sua precisa collocazione. È inutile, per quanto si sforzi non riesce a ricordarsi nulla, il suo senso dell’orientamento è piuttosto scarso. Certo, potrebbe dire a Morgan che vuole andarsene ma non gli sembra corretto, lei si sta divertendo molto, dovrebbe prendere esempio da lei e fare altrettanto, invece preferisce tenere il muso e starsene in un angolo a farsi infastidire da qualsiasi cosa. Dalla musica ripetitiva e troppo alta, dal dj stonato che canta e parla troppo, dagli urli dei ragazzi che si gettano in piscina, dagli ubriachi per la sala. Non c’è una sola cosa che riesca ad andargli bene.

-Potresti almeno fare finta di ascoltarmi.

Commenta Anthony. È l’unica frase che riesce a recepire di tutto ciò che ha detto. Si gira verso di lui e gli risponde.

-Scusa,  se cerchi qualcuno con cui parlare, questa sera non sono la persona giusta.

Anthony si avvicina di più.

-Sei arrabbiato perché Morgan ti ha piantato qui?

Chiede.

-No, sono arrabbiato perché questo posto mi fa schifo e voglio andarmene a casa. Magari sei tu quello arrabbiato perché ti ha lasciato solo in mezzo alla pista.

Risponde con tono seccato.

-Tu pensi? Sai ho sempre pensato che Morgan fosse la tua ragazza…

Kyle sbuffa, è quasi stanco di starlo a sentire.

-No, non lo è. Puoi farci quello che ti pare, se è questo che vuoi da me!

Anthony sorride. Forse ha centrato il punto. Quindi è davvero interessato a Morgan. Beh era comprensibile.

-Mi fa piacere e comunque, no, non è questo che voglio da te…

Kyle lo guarda confuso.

-E cosa vorresti?

Anthony indica la porta che affaccia sul giardino.

-Usciamo, c’è meno rumore e possiamo parlare.

Kyle lo segue incuriosito.

***

Suona il campanello.

Si alza di scatto dal divano e raggiunge la porta. Sono le sette passate, è lui. Deve essere lui, non aspetta nessun altro. Quindi il momento è arrivato. Raggiunta la porta afferra con la mano sinistra il pomello e con la destra le chiavi nella toppa.

Fa mezzo giro e poi si blocca. Ha suonato il campanello, non se l’aspettava. Si aspettava di vederselo comparire davanti da un momento all’altro. Le chiavi non gliele ha restituite, quindi le ha ancora, se non le ha buttate. Ha preferito suonare il campanello, come un estraneo.  L o è in fondo, lo è diventato.

Completa il giro di chiave e prima di aprire la porta fa un respiro profondo.  Il cuore inizia a battergli forte, fortissimo. Apre pian piano, vuole smorzare l’impatto ma questo non fa calmare i battiti del suo cuore, teme quasi che possa sentirlo anche Jonathan al di là della porta.

Alla fine apre ed eccolo in piedi, davanti a lui, non riesce a guardarlo negli occhi, abbassa lo sguardo. È segno di debolezza, lo sa, non può farci niente, è un riflesso incondizionato. Apre completamente la porta e vi appoggia contro la schiena, in attesa che entri.

-Ciao.

Lo saluta e lui risponde allo stesso modo.

-Ciao.

Stesso tono, forse leggermente più soffocato.

Jonathan entra e si guarda attorno. Christian chiude la porta, afferra la maniglia con una mano, l’altra è appoggiata alla porta, con il palmo aperto. Sta cercando di prendere il respiro, di calmare i battiti. Chiude gli occhi per qualche secondo. Jonathan è alle sue spalle, non sente nessun rumore, è immobile, non fa nulla.

Perché non fa nulla? La conosce la casa. Perché non cerca il suo dannato documento e non se ne va e basta?

-La cartella della signora Wang… ?

Chiede, rapidamente.

-Nel secondo cassetto della credenza vicino, alla porta della stanza di Kyle. Esattamente dove l’hai lasciata.

Chiude di nuovo la porta a chiave e poi si dirige in cucina. Fingerà di preparare qualcosa mentre lui si riprenderà le sue cose. Deve solo far finta che non sia in quella stanza, che non ci sia nessuno oltre lui. È lì in cucina e sta preparando la sua cena, come sempre, niente di strano, niente di diverso.

Deve ignorarlo, lui non c’è e non ha idea di dove sia.

Apre il rubinetto dell’acqua e la lascia scorrere, poi si abbassa e prende in un mobiletto una pentola che posa sotto il getto d’acqua. Si aggrappa con entrambe le mani al lavello.

Azzaro, pour homme.

Il suo profumo. È sempre quello.

La scia lasciata all’ingresso inizia ad arrivare anche a lui e sente quell’odore forte, così speziato, entrargli nelle narici. Si sente quasi mancare. Non riuscirà ad evitarlo finché sentirà il suo profumo. Si chiede per quale motivo non l’abbia cambiato. Non gli è mai piaciuto dopotutto, lo portava solo perché piaceva a lui. Ora che non deve più pensare a piacergli potrebbe cambiarlo. Perché non lo fa?

Piace forse a qualcun altro? Qualcuno che non sia lui? Non può essere, era il suo profumo che usava per lui. Nessuno può portargli via anche questo.

Si regge con più forza al lavandino, ha paura di cedere. Chiude gli occhi stretti.

Jonathan ha chiuso il cassetto. Forse ha preso ciò che gli serve, sta per andare via. Deve resistere solo pochi secondi. Si affaccerà alla cucina e forse  lo saluterà, quando avrà chiuso la porta, quando se ne sarà andato potrà lasciarsi andare, potrà cadere a terra, svenire.

Basta che lui non lo veda. Basta che lui non sappia quanto male gli faccia la sua presenza.

-Stai… cucinando?

Eccolo. In piedi, sulla soglia.

Gli rivolge uno sguardo veloce, riesce a guardarlo solo fino al mento, non negli occhi. Sembra che i ruoli si siano invertiti che sia lui il colpevole e Jonathan la vittima. La verità è fin troppo semplice; ha paura di piangere di nuovo, davanti a lui.

Non urlerebbe. Non ne sarebbe più capace, ha esaurito tutto quanto quella sera. Ora sarebbe solo in grado di piangere, ancora. E sarebbe penoso, ridicolo.

Si regge con sempre più forza al lavello.

-Si, sto cucinando.

Risponde, dopo qualche secondo.

-È parecchio che non mangio qualcosa di commestibile… da quando …

Si ferma.

-Fermati.

Esclama. Pentendosi poco dopo.

-Che cosa?

Chiede lui confuso. Si avvicina, troppo. C’è parecchia distanza tra i due  eppure per Christian è troppo vicino, il suo profumo troppo forte lo sta invadendo completamente.

-A cena.

Completa. Non ha idea di perché glielo stia chiedendo. Vuole che se ne vada, che lo lasci solo. Troppo tempo insieme. Si renderebbe conto di quanto sia debole, ferito. Patetico.

-Non ti obbligo ovviamente…

Aggiunge, cercando di ritornare sui suoi passi. Forse adesso gli dirà di no, che non se la sente, inventerà una scusa. Non può essere l’unico a trovare quella situazione scomoda.

-Va bene, resto.

Resta. Non c’ha pensato, ha accettato semplicemente. Christian viene toccato da un pizzico di rabbia. È possibile che averlo davanti non gli faccia effetto? Come può non sentirsi colpevole, sopportare coscientemente quel faccia a faccia senza pentirsi? Forse è lui quello che esagera, forse due mesi sono sufficienti per dimenticare una storia di quindici anni, per fregarsene completamente.

Scuote il capo e chiude l’acqua. La pentola è piena già da un bel po’ e l’acqua è trasbordata in abbondanza. Deve pensare a cucinare qualcosa di buono adesso, il resto è rimandato.

 

 

---> In ritardo ma ci sono. Per il momento sono L-I-B-E-R-A!! Potrò postare regolarmente salvo imprevisti^^ quindi... il prossimo capitolo lo pubblicherò MARTEDI' prossimo. Vi lascio anche una bella suspance in attesa del mio capitolo preferito che è un po' il "punto centrale" della storia. Bene detto questo, ringrazio twy per il commento^^  

Bene, è tutto, a martedì!!! EDIT, scusate, ho cambiato il titolo del capitolo. Purtroppo quello di prima era quello della bozza, non del definitivo. E vi avviso che posterò mercoledì, avevendo letto dello spostamento del server di martedì. scusate di nuovo. <---

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Capitolo 13
*** Pieces (Frammenti) parte seconda ***


13. Pieces (Frammenti) parte seconda

Morgan inizia a domandarsi chi abbia deciso e quando che toccasse a lei fare da cupido della situazione. Durante quell’intera serata è stata richiesta da almeno una decina di sue, per così dire,  amiche e si è sorbita descrizioni di ogni tipo, ha ascoltato non sa quanti viaggi mentali .È stanca. Dopo le prime due confidenze ha iniziato a ripetere alle altre le stesse cose, a dispensare gli stessi consigli.

Non avrebbe potuto fare altrimenti,  ha solo quindici anni, la sua vita sentimentale anche volendo non è molto sviluppata e di ragazzi sa il giusto necessario.

Annuisce alla spiegazione di Angela Wilson, che prosegue da circa mezz’ora, mentre si guarda attorno per cercare di scrutare Kyle. Si sente in colpa nei suoi confronti, l’ha trascinato in quel posto che chiaramente non gli appartiene e l’ha abbandonato senza curarsene troppo. Avrebbe voluto stare di più con lui, cercare di farlo divertire, purtroppo non ne ha avuto la possibilità.

Non riesce a trovarlo, a riconoscerlo. Perlustra angolo per angolo ma non lo vede. Forse sta ballando, ci sono tanti ragazzi in pista, non lo riconoscerebbe.

Sorride, pensando a Kyle che balla. Nulla di più improbabile.

-Perché sorridi?

Chiede Angela, interrompendo per un attimo il suo monologo.

-Oh? Nulla. Vai avanti a raccontare…

Risponde lei, fingendosi interessata.

Escludendo la pista da ballo e il tavolo degli alcolici Kyle può trovarsi solo in giardino, in piscina. È anche quella un’ipotesi piuttosto improbabile,  pensandoci. Resta comunque la meno assurda.

Spera che Angela smetta presto di parlare. La sua voce acuta la innervosisce ancora più delle sue parole frivole e ripetitive. Si chiede se anche Kyle pensi la stessa cosa di lei quando gli racconta delle sue brevi esperienze con i ragazzi.

Non avrebbe nemmeno torto, i discorsi a quell’età sono tutti uguali, tranne per rare varianti. C’è sempre un ragazzo di cui si è innamorate e non si è corrisposte oppure uno per nulla interessante che non si può corrispondere oppure ancora il bello e “ribelle” di  turno al quale ci si vuole avvicinare ma si ha paura.

A volte non vede l’ora di crescere Morgan, vede sua sorella di diciannove anni e ogni tanto ascolta qualche sua conversazione con le amiche, provando invidia. Sa bene che anche per lei arriverà quel momento, il momento in cui si inizierà a parlare di uscite in discoteche vere, di macchine, di patenti. Per quella manca poco. Durante l’estate compirà sedici anni e potrà guidare la sua prima auto. 

La sua mente si perde alla parola “patente”, si vede a bordo di un’elegante macchinina nera, magari decappottabile, la cui direzione è il mondo. Immagina anche Kyle seduto accanto a sé e torna a pensare a lui, a cercarlo nella stanza. Maledice la sua fervida immaginazione, si lascia troppo trasportare dai propri pensieri e intanto Angela ha finito di parlare e la osserva con i suoi grandi occhi nocciola in attesa di un consiglio, un commento. Non ha sentito nulla, non ha seguito troppo del discorso e nemmeno le interessa. Cerca di improvvisare.

-È una strana situazione Angela, secondo me tu dovresti essere più… chiara!

La ragazza annuisce e ricomincia a parlare, è stata fortunata Morgan, non ha nemmeno dovuto sforzarsi troppo, ora deve continuare ad annuire e fingere di essere interessata. Forse potrebbe ascoltarla almeno adesso, non lo fa perchè è sicura che finirebbe per innervosirsi.

L’occhio le cade verso l’ingresso e intravede lo scalone centrale che porta al piano superiore, alle stanze da letto. Kyle sta scendendo dalle scale in quel momento, con calma, gradino per gradino. Morgan si chiede per quale motivo sia salito. Inizia a temere che possa essersi perso. Non ha praticità di quei posti, dei posti affollati in generale, senza contare che il suo senso dell’orientamento è piuttosto scarso.

Una volta arrivato ai piedi delle scale si ferma e si guarda in giro. È troppo lontano perché Morgan possa vedere la sua espressione chiaramente, tuttavia pare essere spaesato, confuso. Forse sta cercando proprio lei. Non le interessa nulla di Angela e dei suoi problemi, la liquida velocemente, senza pensarci troppo.

-Scusa Angela, devo andare.

Si alza dal divanetto su cui era seduta e si fa spazio tra la gente, cercando di evitare di essere travolta dai ragazzi che ballano in ogni angolo della sala, sono aumentati nel corso della serata, ci sono diversi volti che non ha mai visto, ragazzi anche molto più grandi di lei.

-Kyle!

Grida, allungando la mano, con l’intento di farlo girare nella sua direzione e farsi notare. Il ragazzo si gira di scatto e la fissa. Lo raggiunge e conferma la sua impressione, ha uno sguardo perso. Si spaventa quasi nell’osservale l’espressione sul viso di Kyle, è pallido in volto, il labbro inferiore gli trema. Quello di solito è un sintomo di spavento da parte di Kyle. Il modo in cui la fissa, in cui i suoi occhi smeraldo rimangono aperti, spalancati, è quasi inquietante.

-Kyle, che cosa ti è successo?! Mi fai paura così!

Si avvicina di più a lui e lo afferra per l’avambraccio, scrollandolo, cercando di fargli perdere quell’espressione intimorente.

Il tono di voce di Morgan è tremante, anche i suoi occhi ora sono spalancati, ha paura. Non ha mai visto Kyle in quello stato. Gli è sicuramente successo qualcosa, di spiacevole, terribile. Come può scoprire cosa? Non ha quasi il coraggio di fare domande, di approfondire,  lui molto probabilmente non possiede la lucidità necessaria per darle una risposta esaustiva.

-Voglio andare a casa…

Afferma , con un filo di voce. Quasi sussurra.

Morgan glielo fa ripetere.

-Che cosa hai detto Kyle?

Il suo sguardo pian piano torna ad essere normale, il labbro cessa di tremare, le ciglia tornano a sbattere.

-Portami a casa Morgan.

Ripete, con la stessa voce flebile di poco prima.

Morgan annuisce.

-Si certo, chiamo mia madre e torniamo a casa, va bene?

Kyle asserisce con il capo ma non parla e non dirà nulla per tutta la durata del viaggio di ritorno.

***

Una pugnalata.

Ha significato questo per lui quell’improvviso invito a cena di Christian. Spiazzato, sconvolto. Questo certo non se l’aspettava, non se lo sarebbe mai aspettato e non è pronto. Forse avrebbe dovuto rifiutare, improvvisare un impegno, Christian non avrebbe avuto modo di sapere se stava mentendo. Non si vedono da due mesi, i suoi impegni possono essere cambiati.

Un’altra pugnalata.

Non lo sono. Nella sua vita non è cambiato niente, o meglio, niente che Christian non sappia. Certo ha una nuova casa. Ma in fondo, cosa cambia? La sua ruotine è sempre la stessa, si alza allo stesso orario, prende lo stesso tipo di caffè a colazione, legge lo stesso quotidiano, frequenta persino la stessa gente.

Gregor gli ha consigliato di cambiare vita, di partire dall’appartamento e poi voltare pagina. Non l’ha fatto perché non ne è stato capace ed è questo a infliggergli il colpo, quel senso di debolezza, di incapacità, di paura di non riuscirci. È qualcosa che non sopporta l’incapacità, ha vissuto la sua vita superando ostacolo dopo ostacolo con forza, tenacia coraggio, perché è sempre stato convito di poter fare ogni cosa, solo volendolo.  Presunzione?

Forse.

O semplicemente fino a quel momento, fino a quel giorno, le difficoltà da lui affrontate erano state veramente minime. Gli è bastato entrare in quella casa, tornarci, per trovarsi davanti una serie di ostacoli a primo impatto invalicabili.

Il primo vero ostacolo, quello che gli ha precluso ogni possibilità di andare avanti, è stato Christian. Gli ha aperto la porta e non l’ha guardato. Non ha avuto modo di incrociare i suoi occhi azzurri, di trovare il suo sguardo, di osservarlo, decifrarlo. Non gli ha dato questa possibilità, non gli ha permesso di leggere i suoi pensieri.

Su questo contava Jonathan. Solo osservando i suoi occhi, anche per pochi secondi, è sempre stato in grado di capire cosa gli passasse per la testa, cosa realmente provasse, senza che aprisse bocca o facesse qualsiasi gesto.

Per poter affrontare a sangue freddo quella situazione, doveva guardarlo negli occhi, capire il suo stato d’animo e comportarsi quindi di conseguenza. Non gli è stato concesso. Così ora cammina nel buio, a tastoni. Non sa dove andare e si sente messo alle strette. Non sa se Christian è ancora infuriato, se è semplicemente ferito, se non gli importa o se semplicemente finge.

Christian sta apparecchiando la tavola, senza fiatare. Esegue le sue azioni nello stesso modo di sempre, dopo aver steso la tovaglia appoggia i tovaglioli, poi le posate, i piatti, i bicchieri e infine la bottiglia d’acqua, sempre della stessa marca, stessa confezione da un litro e mezzo.

La televisione in cucina è accesa su qualche canale musicale, le luci della sala da pranzo sono basse e nell’aria un buon profumo, l’odore dolce e gradevole delle spezie che usa Christian per preparare i suoi piatti, sempre così buoni e delicati.

Sarebbe tutto come al solito, come è sempre stato e a Jonathan non sembrerebbe nemmeno di essersene andato, se non fosse per quello strano silenzio. Come unici rumori l’eco del televisore in cucina, i passi leggeri di Christian sul pavimento, l’acqua che bolle.

-Io… mi siedo allora…

Esclama Jonathan, con insicurezza. Aspetta una risposta di Christian che prevedibilmente non arriva. Forse non l’ha semplicemente sentito, forse i rumori in cucina hanno coperto la sua voce. Pensa così, mentre si siede sulla sua sedia. Il gesto di mettersi a sedere proprio in quel posto non gli è parso automatico come al solito. Ha fissato la sedia per qualche secondo poi vi si è seduto. Si sistema e si posiziona correttamente.

Christian arriva dopo circa dieci minuti e adagia sul tavolo due piatti di pasta al ragù, poi si siede, afferra la forchetta ed inizia a mangiare.

Jonathan lo osserva a braccia conserte. Non ha idea di cosa gli prenda in quel momento. Ha di fronte a sé un invitante piatto fumante di pasta e non sente il bisogno di mangiarlo. Ha pregato per settimane di riuscire a ingurgitare qualcosa di commestibile ed ora che può farlo non gli interessa. Non riesce a smetterla di fissare Christian, ha gli occhi puntati su di lui. Spera forse, continuando a fissarlo, che si giri magari infastidito e che lo  guardi in viso, anche per una frazione di secondo.

I secondi passano e Christian sembra quasi sia isolato in un altro posto, sembra sia mangiando solo, che non ci sia nessuno nella stanza con lui. Motivo per cui non ha bisogno di alzare lo sguardo dal piatto o di dire qualcosa.

Jonathan inizia a sentirsi ignorato. È confuso e si chiede per quale motivo sia stato invitato da Christian a cena, dato che la sua presenza gli pare indifferente.

Avrebbe preferito essere sbattuto fuori di casa ancora,  sentirsi rivolgere altri insulti. L’avrebbe sopportata una porta sbattuta in faccia.

Ma l’indifferenza no.

E di nuovo quel pugnale, che l’ha trafitto poco prima, si rigira e penetra più profondamente, con decisione e una mira ben precisa, la sua coscienza.

Nessuno si merita indifferenza. È qualcosa di estremamente crudele, doloroso. Ignorare una persona, rinnegare l’esistenza della sua presenza è forse ciò di più crudele si possa fare. Più crudele di ogni pena fisica o morale. Essere rinnegati significa essere cancellati, non essere nemmeno presi in considerazione e quando a farlo è qualcuno che si ama, che si ha sempre amato, il dolore raddoppia.

Riflette Jonathan su quanto possa averlo fatto soffrire per farlo arrivare a comportarsi in quel modo, proprio Christian. Non è la prima volta che riflette sulle sue colpe, in verità lo fa ogni giorno, ogni ora ma in quel momento è peggio perché ha davanti a sé la conseguenza di ciò che ha fatto, qualcosa di orrendo, straziante.

Inizia a sudare. Allunga una mano per toccarsi la fronte, sta sudando sul serio. Teme di non essere in grado di sopportare quella situazione ancora a lungo, presto il suo fisico o la sua mente cederanno ed ha paura di cosa potrà accadere. Vuole alzarsi da quella sedia, deve farlo. Allunga entrambe le mani verso il bordo del tavolo e fa forza per spingere la sedia indietro.

-Non è novelle cuisine ma è commestibile.

 Commenta Christian, buttando uno sguardo sul suo piatto, ancora intatto. Jonathan si ferma. Coglie l’occasione per spingere la mano verso la forchetta, la dirige verso il piatto e afferra una porzione di pasta, che porta in fretta alla bocca.

-Non metto in dubbio che lo sia.

Afferma, dopo aver ingoiato il primo boccone, tiepido ma comunque buono.

-Sembrava il contrario…

Jonathan smette di nuovo di mangiare e appoggia la forchetta al piatto. Forse Christian ha deciso finalmente di iniziare a parlargli. Deve ribattere in fretta e cogliere quell’occasione.

-No, certo che no. Qualsiasi cosa cucinata da te è sempre… più che perfetta, non solo commestibile.

Forse ha esagerato troppo, forse quel complimento avrebbe dovuto tenerlo per sé. Dopo averlo pronunciato gli pare quasi un patetico modo per lusingarlo.

-Lo dici perché hai mangiato male di recente.

Il suo modo di rispondere è strano. Non è facile descrivere il suo tono. Sembra abbastanza tranquillo, non c’è sarcasmo nelle sue parole, né risentimento o fastidio.

-Può darsi … immagino che tu conosca le mie abilità culinarie!

-Se non sono migliorate nel frattempo, si.

-Oh assolutamente no! Completo disastro!

Risponde Jonathan, con rassegnazione.

-Forse è arrivato il momento di imparare, non credi?!

Anche questa volta il tono è strano, sembra quasi gli stia dando un consiglio. Nessuna presunzione o canzonatura, è un semplice consiglio spassionato.  Qualcosa che comunque disorienta Jonathan e parecchio.

-Si, se trovassi un buon maestro, che non sia tu…

L’ha fatto di nuovo, è più forte di lui. Ha sempre espresso apprezzamenti su Christian, gli ha sempre detto ciò che pensava di lui. Generalmente un gesto piacevole ma in questo caso, assume un significato diverso, suona come una bassa adulazione.

-Non pensavo che usassi l’adulazione come strumento per… ottenere qualcosa.

Sarcasmo o forse un rimprovero. Quella frase ha il tono di un appunto negativo ma c’è qualcosa di più. Nasconde qualcosa.

-E infatti non è così.

Commenta Jonathan. Uno strano sorrisino compare sulle labbra di Christian, come previsto. Le sue frasi non sono a senso unico. Jonathan si aspetta una reazione animata da un momento all’altro, probabilmente Christian sta solo aspettando il giusto spunto. Jonathan ad ogni modo non risponde, finisce il suo piatto di pasta e la seconda portata.

Terminato di mangiare Christian si alza, prende il proprio piatto e allunga la mano per afferrare anche quello di Jonathan, che lo ferma e si alza a sua volta.

-Aspetta, posso  portarlo io di là.

Di nuovo il sorrisino di Christian.

-Non l’hai mai fatto in quindici anni convivenza, per quale motivo dovresti farlo ora?

Pungente ma sincero e sempre con lo sguardo rivolto verso il basso. Jonathan vorrebbe ribattere, afferrarlo per un braccio e imporgli di guardarlo negli occhi. Non lo fa, non fa niente. Si siede di nuovo al suo posto e rimane in silenzio.

-C’è della torta di mele avanzata da stamattina. Ne vuoi?

Chiede Christian dalla cucina.

-Si, per favore.

La torta di mele, quel dolce tipicamente americano, è il piatto forte di Christian, ciò che sa cucinare meglio, è anche il cibo preferito di Jonathan. Da quindici anni ogni sabato a colazione accanto alla tazza del caffè trovava una bella fetta di torta a sfoglia, ripiena di piccoli pezzetti di mela tagliati a cubetti e di cannella dolce e densa. Una bella presentazione per un sapore a dir poco delizioso.

Assapora dolcemente il primo pezzo staccato dalla fetta abbondante che gli viene offerta e socchiude gli occhi. Quanto vorrebbe rimpiazzarla al solito cornetto scotto di ogni mattina. Sono due mesi che non  assapora quel gusto, forse per quello gli sembra ancora più buona.

Dopo averla finita prova una strana sensazione, inizia a sentirsi a casa, a ritrovare la familiarità di sempre e avverte una terribile fitta al cuore, si sente come se qualcuno gli stesse premendo contro il petto, con l’intento di fermare i suoi battiti. La torta di mele il sabato mattina, il profumo di pasta sfoglia alle sette, è qualcosa di caratteristico di quella casa, qualcosa che molto probabilmente è rimasto invariato nonostante la sua assenza. È un particolare curioso, una peculiarità di quel posto che non ritroverà mai da nessun altra parte. È questo a farlo star male, il constare che per la sua mente e per il suo cuore l’unica dimora è quella, la stessa dove non ritornerà.

-Se ti è piaciuta posso metterti ciò che è resta in un piatto. Io non la mangio, Kyle non regge più di una fetta, ce n’è parecchia.

Commenta Christian, sempre in cucina.

Jonathan si alza, prende il piatto nel quale era contenuta la torta e glielo porta. Christian vedendolo comparire all’improvviso sobbalza e lascia cadere a terra un piatto che va in frantumi.

-Cristo Santo!

Esclama, facendosi scivolare quel piatto bagnato e ricoperto di detersivo dalle mani. Jonathan si china per raccogliere i pezzi, almeno i più grandi, Christian lo ferma.

-No! Non toccare, lascia stare!

Gli urla.

-Volevo solo…

Christian scuote il capo.

-No, non fare niente. Stai lontano.

Commenta Christian, abbassandosi a raccogliere i cocci. Jonathan non lo ascolta e si china nuovamente.

-Ti ho detto di stare lontano!

Ripete, urlando di nuovo.

-Dimmelo guardandomi negli occhi e lo farò.

Christian non risponde, non subito. Rimane con il pugno destro serrato, nell’altro contiene un frammento di piatto che ha appena raccolto, stringe anche l’altro pugno, non troppo forte, il necessario per evitare di tagliarsi il palmo con il pezzo rotto.

-Perché… l’ultima volta ti è servito?

Un attimo di silenzio e poi riprende.

-L’ultima volta che ti ho guardato con questi stessi occhi, è servito a qualcosa?

Finalmente alza lo sguardo, Jonathan osservandolo si spaventa. Quelle due perle colore dell’oceano gli trasmettono una grande sofferenza, un grande dolore, il suo senso di colpa aumenta. Non è la prima volta che vede quello sguardo ma l’ultima volta aveva fatto finta di niente, aveva guardato altrove, ora non può. È stato lui a chiedergli di guardarlo e solo ora se ne pente. Se avesse saputo cosa nascondevano i suoi occhi non gliel’avrebbe mai chiesto.

-E allora?

Domanda Christian in tono d’esasperazione.

-Va bene, mi alzo.

Si alza da terra ma la direzione del suo sguardo non cambia. Non vuole incrociare di nuovo gli occhi Christian, vorrebbe girargli le spalle e andarsene ma non lo fa, si sente quasi bloccato.

-Stiamo… stiamo male entrambi.

Afferma, cercando in qualche modo di discolparsi. Sa già, mentre pronuncia quelle parole, che è impossibile.

-Ah si? E come lo sai Jonathan? Sparisci per… due mesi e… DUE mesi! Te ne rendi conto?

Il tono di Christian è carico di risentimento e amarezza.

-Ho cercato di contattare Kyle… ma non mi ha risposto. Ho quasi pensato che tu gli impedissi di scrivermi…

Christian spalanca gli occhi.

-Tu hai… veramente pensato che io potessi fare una cosa del genere?

Jonathan si rende conto di avere esagerato. Si, quel pensiero gli era passato per la testa, tuttavia l’aveva ritenuto subito una possibilità improbabile, per quanto infuriato e ferito potesse essere stato Christian, non sarebbe mai stato in grado di compiere una simile bassezza.

-No, no. Ho detto “quasi”. Non… ci crederei neanche se fosse vero.

Christian si alza, chiude il rubinetto dell’acqua che nel frattempo ha continuato a scorrere e aggira Jonathan, uscendo dalla cucina per andare a prendere una scopa e una paletta per raccogliere i pezzi rotti del piatto.

-Probabilmente l’ho pensato perché… non volevo credere che la cosa avesse toccato anche lui.

Afferma Jonathan, seguendo Christian.

-Beh, una reazione piuttosto normale. Lui è parte del nostro… matrimonio o quello che è, che era! Mi sembra normale che la cosa possa averlo toccato.

Commenta Christian, con un briciolo d’asprezza.

-È il fatto di… non lo so nemmeno io.

Jonathan è confuso, parecchio. Osserva Christian che sta immobile a qualche metro da lui.

-Sai cosa mi ha veramente sorpreso?

Esclama Christian, improvviso.

-Il fatto che tu non ti sia fatto scrupoli a presentarti qui dopo due mesi, di farmi quella telefonata senza il benché minimo… segno di debolezza, quando io cretino me ne sto ancora qui, nonostante il tuo comportamento da bastardo menefreghista, con le lacrime agli occhi.

Jonathan non sa come ribattere, l’espressione di dolore di Christian gli fa male, le sue parole lo feriscono profondamente. Non si vede un bastardo o un cinico, Christian non sa che anche lui sta soffrendo, non sa che sta soffrendo per entrambi. Non vuole che lo sappia, ha uno strano principio di orgoglio testardo che gli fa tenere quella facciata apparentemente composta, una specie di collante che lo tiene integro, senza il quale crollerebbe e finirebbe in pezzi, come il piatto di poco prima. Non l’ha visto sudare a tavola, non ha percepito il suo stato di ansia. È riuscito nel suo intento quindi.

-Mi vedi in questo modo ora?

Christian annuisce.

-Non saprei in che altro modo vederti Jonathan. Non ti azzardare a negarlo, perché chiunque al posto mio la penserebbe in questo modo! Chiunque!

Quasi urla, con tono disperato, calante.

Jonathan si avvicina a lui, pericolosamente vicino, lo blocca con la schiena al muro e lo guarda negli occhi. Un momento intenso per entrambi. Nessuno dei due distoglie lo sguardo.

-Tu non sei chiunque, mi aspetto che tu scavi in profondità, a te non basta la superficie.

Commenta, quasi sussurrando. Christian apre la bocca un poco, vuole ribattere probabilmente, ma non esce alcun suono. Continuano a guardarsi negli occhi, passano pochi istanti in realtà ma il tempo sembra maggiore.

-Scopami.

Esclama Christian improvvisamente. Jonathan spalanca gli occhi, è sorpreso, spiazzato. Non è sicuro di aver ben compreso.

-Che… ?

Christian deglutisce.

-Ti ho detto di scoparmi, questo dovresti saperlo fare bene.

Jonathan lo fissa per un instante poi lo afferra per i fianchi per portarlo a sé, contro il proprio petto e lo bacia, con passione decisione. È terribilmente confuso, non capisce più cosa stia succedendo, gli pare di vivere in una dimensione parallela, che però gli piace.  Si lascia trasportare dalla passione e continua a baciare Christian.

Un bacio carico di passione, forse un po’ nostalgico. Jonathan non vuole smetterla, vorrebbe fermarsi per respirare per riordinare le idee. La sua testa è un turbinio di pensieri strani, di parole che vagano senza un particolare nesso. Alla fine cede e lentamente si allontana dal bacio. Osserva Christian, con gli occhi ancora socchiusi.

-Andiamo in… ?

Sussurra dolcemente, prendendo fiato.

-Si.

Risponde Christian spostandosi e dirigendosi verso la stanza, apre la porta. Osservare quella stanza, la sua, con il suo letto gli fa provare una strana sensazione. L’ultima volta che vi è stato l’atmosfera era così diversa, non vedeva l’ora di andarsene, gli mancava quasi il respiro. Ora la situazione è differente eppure nessun peggioramento, nessun miglioramento.

Si avvicina di nuovo a Christian e lo spinge sul letto, con decisione lo raggiunge, si mette al suo fianco. Lo osserva per qualche istante, è bello come è sempre stato anzi, bellissimo, perfetto. Amava, ama e amerà quel viso per il resto dei suoi giorni. Quasi timoroso si perde in una carezza delicata tra i capelli di Christian, per poi passare al suo viso.

Inizia ad avvertire un preciso desiderio, ora che lo guarda, ora che è lì a pochi centimetri da lui, sul loro letto. Sta cercando di ignorare le voci nella propria testa e  arriva infine a capire che l’unica da fare in quel caso è accettare l’invito di Christian.

Rapidamente lo scavalca e in attimo è sopra di lui, bacino contro bacino, petto contro petto. Nota che il cuore di Christian batte con la stessa intensità, si spinge un poco più avanti e riprende a baciarlo, doveva l’aveva lasciato, utilizzando il doppio dell’enfasi. È coinvolto, troppo, ma non gli importa.

Il bacio diventa sempre più morboso, Jonathan avverte una nota di disperazione, da parte di entrambi. Le loro labbra si congiungono e si separano quasi con violenza, si sentono colpiti da una strana forza, da una carica magnetica che impedisce loro di fermarsi, di pensare.

La mano destra di Jonathan scorre veloce, lungo la cerniera della felpa indossata da Christian, senza esitare la apre. Il contatto con la sua pelle è qualcosa di terribilmente piacevole, di familiare. Pelle pallida, lattea, ma bollente al tatto quasi da bruciarsi. Sa che si scotterà Jonathan, che si bruceranno entrambi. Si sfila la maglietta, per ottenere un contatto più diretto, più personale, con Christian. Non vuole permettere nemmeno ad un semplice pezzo di stoffa di frapporsi tra loro due in quell’istante.

Il profumo di Christian è così dolce, di una dolcezza che ferisce. Jonathan ha gli occhi socchiusi, si sta godendo quel momento, quella sensazione che non ha mai dimenticato e che temeva di non poter più provare. Il bacio frenetico si arresta, non sono liberi, non completamente. Jonathan sfila a Christian i jeans e fa lo stesso con i propri, infine i boxer.

Ora che ogni possibile impiccio non c’è più rimangono sono soltanto loro due, nella loro vera natura, niente più a nasconderli. Un nudo fisico ma anche e soprattutto psicologico. Christian ha gli occhi chiusi, il sospiro affannoso, Jonathan sembra tra i due il più contenuto, si limita a percorrere con entrambe le mani il corpo di Christian, partendo dal petto per poi fermarsi ai fianchi, sottili, delicati, morbidi, un vortice di sensazioni piacevoli poiché note.

-Dove hai messo i… ?

Chiede Jonathan in un sussurro.

-Nel primo cassetto del tuo comodino, dove sono sempre stati…

Risponde lui, con la stessa voce flebile.

Non avrebbe desiderato altro Jonathan. Il suo microcosmo, rappresentato da quella camera da letto, non ha ricevuto nessuna modifica. Si affretta a recuperare ciò che deve e ritorna a Christian, è il momento perfetto per entrambi. È arrivata alla fine la fase in cui possono tornare ad essere a tutti i sensi un tutt’uno, a fondersi completamente, perdersi uno nell’altro, ad occhi chiusi, lasciandosi guidare dalle sensazioni del momento.

L’atto in sé ha una connotazione drammatica, è tutto così disperato, così ricercato. È diverso dall’ultima volta e da qualsiasi precedente. È la situazione stessa a renderlo diverso e a far si che sembri la prima volta. La violenza del loro bacio, quel mordersi le labbra, la ricerca disperata sulla pelle di entrambi per trovare nell’altro qualcosa che è mancato, che si ha temuto di perdere.

E poi d’improvviso tutto finisce. La scena raggiunge il suo apice drammatico e poi tutto si affievolisce, un breve attimo di pace, prima di essere sbattuti di nuovo alla realtà. Sempre fianco a fianco ma a poco a poco, il muro che li ha divisi per tutta sera, mattone dopo mattone torna ad erigersi, ricostruendosi da capo, dalle macerie.

Jonathan si alza e recupera i propri vestiti.  A mente fredda, a istinti placati si rende conto di quanto ciò che è appena accaduto sia servito ad incrementare il proprio dolore.

-Non avremmo dovuto farlo.

Commenta, in tono freddo.

Christian si mette a sedere, scuote il capo con disapprovazione.

-Te ne penti forse? Di questo? Con me?

Jonathan respira profondamente e si rimette la maglietta, gettata ai piedi del letto.

-No ma… è tutto troppo assurdo.

Christian fa una smorfia.

-Assurdo? Oh certo! Come ho potuto dimenticarlo! Per l’istinto non esiste. Certo, solo se tratta di me. Non è vero?

Jonathan non risponde. La discussione sta prendendo una pessima piega, il momento piacevole ma straziante appena terminato, sembra solo un ricordo. Il discorso è ripreso esattamente dove era stato lasciato prima dell’interruzione e sta seguendo ora il suo naturale sviluppo.

-Avanti Jonathan! Psicanalizza tutto, come fai sempre! Psicanalizza me, il mio modo di implorarti di scoparmi. Fammi una bella analisi. La aspetto!

Christian afferra i propri boxer e li indossa. Non si alza dal letto, sta probabilmente aspettando una risposta da parte di Jonathan, che non arriva.

-Anzi, siamo così… teatrali io e te ultimamente! Esci di nuovo da quella porta sbattendola, così soddisfiamo il nostro pubblico, che dici?

Le parole di Christian sono lame taglienti. Jonathan cerca di schivarle per evitare di sanguinare, ancora.

-Chris, per favore…  me ne sto andando, non farmi andare di nuovo via malamente.

Christian spalanca gli occhi, le parole di Jonathan l’hanno in qualche modo infastidito.

-Così la colpa è mia! È questa la tua analisi?

Jonathan sbuffa.

-Buonanotte Christian.

In fretta raccoglie il suo fascicolo ed esce, di nuovo.

***

Non ha guardato l’orario quando Jonathan se n’è andato. Non ha guardato l’orologio per tutto il tempo. Non ne ha avuto il benché minimo bisogno, l’avanzare delle lancette in quella situazione erano l’ultima delle sue preoccupazioni.

Dopo l’uscita di Jonathan non ha fatto nulla, è rimasto sdraiato su quel letto, con le ginocchia contro il petto, a pezzi, completamente. Ha anche pianto, fino ad addormentarsi.

Apre gli occhi lentamente ed allunga un braccio, teme il tocco freddo di quell’altra metà del letto che è rimasta occupata solo quella sera, dopo tanto tempo. Tocca qualcosa, c’è qualcuno accanto a lui. Sussulta, pensando di trovarvi Jonathan. È Kyle, girato di spalle, nella sua stessa posizione.

-Kyle, amore. Cosa ci fai qui?

Chiede Christian a bassa voce. Il ragazzo è sveglio, probabilmente si sono svegliati insieme.

-Quando sono tornato a casa il mio letto era freddo e intatto. Ho visto il tuo, la porta era aperta e mi sono fermato.

Christian accarezza amorevolmente i capelli del figlio.

-Lui è stato qui, non è vero?

Christian deglutisce prima di rispondere.

-Si.

-Ho sentito il suo profumo.

Il profumo di Jonathan è dunque qualcosa che sconvolge anche Kyle e non soltanto lui.

-Chris… mi manca, mi manca tanto.

Le parole di Kyle terminano in un singhiozzo.

-Riportamelo a casa Chris, ti prego!!

 

 

 

---> Ce l’ho fatta. Con un ritardo a dir poco vergognoso vi ho postato il tanto nominato (da me) capitolo 13. C’ho messo parecchio a scriverlo, specialmente la scena “di sesso”. Tral’altro non è proprio di sesso… a conti fatti non descrivo nulla, solo sensazioni, immaginateli pure avvinghiati come vi pare^^. Ah… se vi può esser d’aiuto (o se vi interessa) nello scrivere quella scena mi sono ispirata a “Si tu no vuelves” di Bosè e Shakira. Per ispirata intendo dire che l’ho ascoltata alla nausea e che immaginavo la musica di sottofondo (senza parole) nella suddetta scena XD  No, non sono normale. Però vi suggerisco di ascoltarla su you tube mentre leggete magari vi rende meglio l’idea… detto questo. Devo annunciarvi una pausa UFFICIALE, questa volta. Sabato partirò e starò via per tre settimane quindi beh… sono giustificata, in questo caso!

E ora basta… spero mi seguirete ancora e aspetto commenti su questo capitolo che per me ha significato davvero tanto e… beh è da considerarsi il fulcro della storia. Alla prossima!

Ps. Il capitolo è assurdamente lungo per disguidi tecnici -_-“ la prima parte di Kyle sarebbe dovuta essere nel capitolo precedente ma avendo l’altra volta modificato la bozza e non il definitivo ho dovuto metterla qui… <---

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Capitolo 14
*** The following day (Il giorno dopo) ***


14. The following day (Il giorno dopo)

Avrebbe fatto meglio a restarsene in silenzio. Non avrebbe dovuto raccontare a Gregor della sua visita a Christian, non avrebbe dovuto parlare di ciò che era successo. Sembrerebbe un ragionamento insensato, considerando che è il suo psichiatra e che il suo lavoro è quello di ascoltare qualsiasi cosa lui si senta di raccontare. La questione non è così semplice.

-Mio caro John, per quale ragione hai pensato di non potermi dire di questa tua necessità?

Jonathan respira, profondamente. Conosce bene il motivo, semplicemente vuole essere meno brutale nello spiegarglielo.

-Me l’avresti impedito.

Non voleva, perlomeno. Gregor non risponde. Chiude gli occhi e si massaggia le tempie, prende un respiro profondo e sta in silenzio per un paio di minuti. Jonathan fa altrettanto.

-Se te l’avessi impedito, non sarebbe stato casuale.

Spiega, sempre ad occhi chiusi.

-Quindi ammetti che me l’avresti impedito…

Gregor apre gli occhi, si alza, aggira la scrivania e si appoggia sul bordo parte opposta, proprio di fronte a Jonathan.

-Si, certo.

Jonathan scuote il capo.

-Perchè?

-John, caro, vuoi uno specchio per vedere in quale stato ti trovi?

Jonathan si passa una mano tra i capelli. Sa che Gregor non ammetterà mai il vero motivo per il quale, se ne fosse stato a conoscenza, gli avrebbe impedito di andare da Christian. È qualcosa che l’ha sempre infastidito, quel negare l’evidenza da parte di Gregor.

-Non è questo! Lo so.

Gregor fa una smorfia, è evidentemente infastidito.

-Se sai già tutto, per quale motivo vieni da me?

Scontato, arrogante. Sempre così, quando si parla di Christian.

-Perchè spero sempre che tu lo ammetta e vada oltre, Greg.

Gregor si siede sulla scrivania, a gambe a penzoloni. È seccato, parecchio.

-E dimmi… era così, come dire, impellente la tua necessità di vederlo? Uh?!

Jonathan annuisce.

-Si, ti ho detto che mi serviva quella cartella.

Ovviamente Gregor non la pensa allo stesso modo, continua ad osservarlo in silenzio, aspettando che sia lui stesso a tirare le dovute conclusioni, lo guarda, lo squadra, lo fa sentire quasi a disagio, in questo è sempre stato un asso.

-Poteva inviarmela via posta, faxarmela ecc… lo so. C’ho pensato.

Gregor annuisce col capo ma non proferisce parola, è ancora il turno di Jonathan. Non ha sentito abbastanza. È snervante questo suo silenzio. Potrebbe starsene ore e ore a fissare Jonathan senza parlare, senza fare il benchè minimo gesto.

-Si, va bene, d’accordo. Avevo bisogno molto di vederlo.

Di nuovo nulla. Jonathan si spazientisce, sbuffa nervosamente e continua a parlare. Si chiede se abbia veramente intenzione di dire altro, Gregor.

-Greg, sono pur sempre quindici anni, quindici anni a vedere il suo viso ogni mattina! Mi è mancato! È così difficile da capire?

Gregor annuisce di nuovo. Si sistema sulla scrivania e accavalla le gambe. Prima di parlare sulle sue labbra compare uno strano sorriso, che ha qualcosa di retorico, di sadico.

-Lo chiedo a te John. Ti è stato difficile capirlo, quando hai tradito Christian dopo-

No.

È troppo, sta andando oltre.  Jonathan non può sopportare che prosegua quel suo discorso. Quello che sta per dire è qualcosa che non ha ancora avuto il coraggio di udire ad alta voce, non vuole che nessuno lo pronunci.

-NO! Basta Greg. Basta così! Sei scorretto!

Esclama, balzando in piedi dalla poltrona sulla quale è stato seduto fino a qualche attimo prima. Il suo cuore ha dato inizio ad un battito frenetico, le voci nel suo cervello hanno cominciato a urlare di nuovo. Voci strazianti e sgraziate che fanno male bruciano le orecchie, corrodono la mente.

-Proprio tu mi parli di scorrettezza Johnatan? Siediti, avanti.

Lo intima Gregor. Sicuramente era il suo intento quello di vederlo reagire in quel modo. Lo conosce piuttosto bene, sa prevedere le sue reazioni, i suoi gesti. Sa quali tasti toccare per ottenere determinati effetti.

Jonathan si siede di nuovo, è rigido. La rabbia che lo appena colto fa fatica a sbollire. Se ne sta accoccolato nella poltrona in maniera scomposta, fissa Gregor con asprezza ma non parla.

-Quando ti comporti in questo modo mi ricordi il ragazzino quindicenne che ho conosciuto.

Commenta Gregor, con compiacimento.

-È per questo che non vengo mai da te Greg, sai troppo di me e…

È Gregor a completare la frase.

-…e la cosa ti fa perdere la pazienza. Ci sono troppi particolari di te che non vuoi che gli atri vedano, conoscano. Ti piace avere quello strano alone di mistero per il quale nessuno potrà mai sapere veramente chi sei.  Non è così? Ho centrato il punto?

L’ha centrato eccome, in pieno. Jonathan non risponde, non c’è bisogno che lo faccia. Gregor sa già di avere ragione.

-Si.  So così tanto di te, troppo. E credimi, ci sono dettagli che ti riguardano che nemmeno vorrei conoscere. Ma che vuoi farci? È così.

Di nuovo silenzio. Jonathan ha i nervi a pezzi. Il suo stato d’animo è mutato, non era così quando è entrato mezz’ora prima. Era confuso, disorientato. Ora si sente soltanto colpevole. Si attribuisce anche la colpa per quanto successo la serata dell’appena trascorso sabato.

-Sei ancora quel ragazzino, Johnathan Wallace, non sei cambiato poi molto. Per questo io sono l’unico che può veramente ricostruire una mappa della tua essenza, solo io che ti ho conosciuto così… a fondo.

***

Per l’intero weekend Morgan si è chiesta cosa possa essere successo a Kyle il giorno del festino di Debbie. L’aveva lasciato svogliato e infastidito in un angolo e se l’era ritrovato confuso, spaesato, con quello sguardo strano, che fatica a dimenticarsi. Non ha detto nulla in macchina nè il giorno successivo al telefono. È tornato al suo stato normale, come niente fosse successo.

Morgan sa che non è così, vuole sapere cosa gli è successo durante la sua assenza quella sera. Non è semplice curiosità, qualsiasi cosa gli possa essere accaduto è stato in grado di disorientarlo, non è una cosa da poco e sicuramente non se n’è dimenticato.

Sta prendendo appunti o forse scarabocchia, non è facile capirlo. Ha sempre la testa china su qualche foglio, la sua mano è sempre in movimento. Potrebbe fare l’una come l’altra cosa. È un enigma Kyle, come il suo comportamento.

Morgan non fa che osservarlo per tutta la durata della lezione, non gli stacca gli occhi di dosso per un istante, è strano che non si sia accorto di nulla, è il tipo di persona che si sente subito gli occhi della gente puntati addosso. Ad osservarlo esteriormente sembra che la sua mente stia viaggiando in una strana dimensione alternativa e che il suo corpo sia rimasto invece seduto su quella sedia. Come una sottospecie di viaggio mistico alla ricerca del nirvana.  

Al suono della campanella Morgan raccoglie in fretta il materiale sul banco e lo raggiunge.

-Cosa stai disegnando di così interessante?

Chiede, puntando lo sguardo sul foglio utilizzato da Kyle per tutta la durata della lezione, un foglio a quadretti completamente scritto. Ad una prima occhiata sembrano semplicemente una serie di scarabocchi senza senso fatti a matita, osservando meglio il foglio nell’insieme si nota chiaramente che si tratta di uno schizzo di un murales.

-È un murales?

Chiede la ragazza, dopo aver inquadrato bene il soggetto del disegno.

-Si. Ho sempre desiderato farne uno, chissà magari un giorno…

Commenta Kyle alzandosi dalla sedia e radunando i fogli e le matite rimasti sul banco. Sembra decisamente sulle nuvole, anche il suo tono di voce ha qualcosa di strano, sognante forse. Ha un’aria completamente persa. Nulla che assomigli allo stato d’animo di sabato ma nemmeno a quello usuale di Kyle. Morgan vorrebbe chiedergli direttamente qualcosa ma non ne ha il coraggio, teme una risposta brusca o il silenzio, che è ancora peggio.

-Ti vedo pensieroso.

Esclama, optando per una strada più lunga, per arrivare a porre la domanda desiderata.

-Uhm? No, non particolarmente.

Risponde lui pacato. Naturalmente Morgan se l’aspettava una risposta simile.

-Hai fatto qualche bel sogno di recente?

Kyle la guarda incuriosito. Non deve aver capito le vere intenzioni di Morgan, tuttavia quella domanda deve parergli strana.

-No, almeno, non penso. Perchè, avrei dovuto?

Morgan sorride.

-Non so! Di solito hai quello sguardo quando sei perso nei tuoi sogni…

Kyle fa l’indifferente.

-Se lo dici tu…

Si mette in spalla lo zaino e si dirige verso l’uscita della classe, Morgan lo segue, frequentano gli stessi corsi quindi vanno spesso a lezione insieme. Percorrono il corridoio fianco a fianco, come sempre. Nessuno dei due parla, a differenza del solito. Morgan tiene il capo inclinato in direzione di Kyle, per osservarlo, lui prosegue dritto davanti a sé. Si direbbe che stia fissando un punto ben preciso, il suo sguardo è rigido.

-Oh! Ecco la troia di Anthony Edwards!

Esclamano una serie di ragazzi appartenenti al club di football. Morgan sente qualcosa ma è troppo impegnata a fissare Kyle per distinguere chiaramente significante e significato della parola, quando lo capisce uno strano vociare li circonda. Ai ragazzi di football se ne sono aggiunti altri.

Un coro di epiteti sgradevoli e fischi li accompagna per tutto il corridoio.

-Che hanno da urlare questi?  Ho solo fatto due balli con Anthony e mi chiamano troia?!

Esclama, spalancando gli occhi e fissando Kyle, in attesa di un commento da parte sua, che non arriva.

-Beh non dici niente?

Kyle fa un respiro profondo.

-Non ce l’hanno con te…

Morgan scuote il capo, non capisce o forse inizia ad intuire qualcosa ma preferisce chiedere.

-E con chi ce l’hanno allora?

Il coro prosegue. Una voce si distingue chiaramente dalle altre, una frase volgare, crudele ma che contiene le risposte che Morgan vorrebbe non aver mai chiesto.

-Avanti Wallace, non farti desiderare! Con Anthony non l’hai fatto!

Kyle si ferma, chiude gli occhi e respira profondamente.

Morgan è quasi senza parole. Ha capito, vorrebbe non averlo fatto, non vuole convincersene, continua a fissare Kyle che non la degna di uno sguardo.

-Kyle, che cosa… che cosa hai fatto?

***

Christian ha appena dato la prima lezione della settimana. Ha trattato uno dei suoi argomenti preferiti e sembra soddisfatto della sua spiegazione. Non vuole pensare a ciò che gli è accaduto nel weekend, si siede e si mette a rileggere i propri appunti e i propri testi. Sta cercando di tenersi impegnato da tutta la mattinata e fino a quel momento ci è riuscito. Nella sua testa ci sono stati soltanto Winckellmann, i Neoclassicisti, Jacques Louis David e il Giuramento degli Orazi. Gli argomenti della sua tesi di laurea, che ascolterebbe, studierebbe e ripeterebbe all’infinito.

Distrattamente lascia cadere a terra una decina di fogli e si lascia andare ad una imprecazione poco pertinente.

-Merda!

Immediatamente si alza dalla sedia e si china per raccoglierli. Quando raggiunge il pavimento si rende conto che ci ha già pensato qualcun altro prenderli;  la cui mano di questa persona è tesa verso di lui e regge i suoi fogli. Christian alza lo sguardo per vedere a chi appartenga quella mano, per vedere chi deve ringraziare.

-Immagino siano suoi, professore.

Quella voce e poi quel viso. Christian spalanca gli occhi e assume la stessa reazione che avrebbe tenuto se di fronte a lui si fosse presentato un fantasma. È come se lo fosse infatti, non lo vede più da mesi e non pensava l’avrebbe rivisto nella sua classe. Non voleva vederlo, questa è la verità.

-Daniel Owens.

Commenta, prendendo gli appunti e alzandosi da terra. È freddo, anzi, gelido. Si dimentica persino di ringraziarlo o forse lo fa di proposito. Forse pensa di non aver nessun motivo per ringraziarlo, gli ha solo raccolto dei fogli, dopotutto…

-Passavo di qui professore e ho pensato…

Smette di parlare, tronca completamente il discorso. Questa sua interruzione forzata è sicuramente dovuta al modo in cui Christian lo osserva, si rende conto di non essere gradito. Christian è a braccia conserte, leggermente appoggiato alla cattedra. Sembra nervoso, sicuramente seccato.

-Hai sentito nostalgia delle mie lezioni, Owens?

Chiede, tornando a sedere, togliendogli lo sguardo di dosso. Il ragazzo, Daniel, sembra sollevato dal fatto di non doversi più sentire addosso quegli occhi freddi, glaciali da gelarti il sangue.

-Ve-veramente professore, ho dato la mia tesi di laurea due settimane fa. Ora sono un professore anch’io, come… come lei.

Christian fa una smorfia, il suo viso assume un’espressione sprezzante, quasi di odio.

-Hai sempre avuto questa smania, Owens. Questo desiderio di assomigliarmi, di essere ciò che sono, avere quello che ho…

Commenta con asprezza. Una frecciatina ben precisa, che è certo Daniel saprà ben cogliere. 

Il ragazzo non risponde alla provocazione ma sa a cosa si riferisce Christian. Cambia il discorso, di proposito.

-Sto facendo domanda in un’accademia a Boston. Ho ricevuto proposte qui ma ho preferito non accettare, per… beh, ho preferito non accettare e basta.

Si aspetta un commento da parte di Christian, un commento che non arriva. Christian rimane in silenzio, con la testa chinata sui propri fogli. Afferra quelli caduti e cerca di sistemarli con gli altri in modo che seguano la loro giusta impaginazione. Stando al suo atteggiamento, pare quasi che Daniel sia uscito dall’aula quando invece è ancora davanti a lui in attesa di una qualche parola da parte sua. 

-Pensavo che…

Christian alza lo sguardo, torna a fissare Daniel, è questo a bloccarlo di nuovo, ad impedirgli di proseguire la propria frase come avrebbe voluto.

-Aspetti che ti dica che sei bravo, che hai fatto bene? O miri a qualche banale cliché come: “Almeno hai ancora buon senso” o “Almeno ti è rimasta la dignità”?

-Volevo solo ringraziarla professore, per tutto ciò che mi ha insegnato…

Christian annuisce.

-Hai già espresso il tuo ringraziamento, mi sembra…

-Arrivederci professore, mi scusi per averla disturbata.

Accelera il passo ed esce in fretta dall’aula, scomparendo poi nella folla di ragazzi nel corridoio.

Christian torna al suo mestiere. Un fastidioso principio di rabbia ha iniziato a percorrergli tutto il corpo, se Daniel fosse rimasto ancora qualche istante avrebbe finito per urlargli contro o lanciargli addosso la prima cosa che gli fosse capitata sotto mano. Cerca di sopprimere quell’abbozzo di rabbia e di concentrarsi di nuovo sui propri appunti.

Senza rendersene conto sta stropicciando un foglio, lo tiene stretto nel pugno. Respira e poi lo lascia cadere sulla scrivania. Si lascia andare sulla sedia e guarda i banchi ancora vuoti davanti a sé. Il terzo banco in prima fila, a partire da destra, era sempre stato occupato da Daniel.  Da qualche mese è vuoto.

Daniel è l’ultima persona che avrebbe voluto rivedere quella mattina, l’ultima in assoluto. Dopo la sua visita, neanche Winckellman o Jacques Luis David, saranno in grado di garantire la sua integrità. 

 

 

---> Tornata dopo TANTO TANTO tempo. Spero che abbiate letto anche i precedenti capitoli e che non mi abbiate dimenticata o meglio che non abbiate dimenticato Jonathan, Christian, Kyle e i loro problemi… che dire. In quanto a regolarità sono imperdonabile… cercherò di postare il prossimo capitolo appena possibile. Per ora… buon fine settimana! <---

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Capitolo 15
*** Explanations (Spiegazioni) ***


15. Explanations (Spiegazioni)

La campanella è suonata. Poco per volta il corridoio si svuota, uno per uno gli studenti si ritirano nelle rispettive classi per seguire la lezione successiva. Kyle è ancora fermo, pietrificato, con gli occhi di Morgan puntati addosso, in attesa di trovare il coraggio per fornire una spiegazione.

Le ha sempre raccontato la verità, le ha sempre parlato di tutto quanto, anche dei dettagli più intimi e privati della propria vita. Quel preciso particolare però, avrebbe voluto non lo sapesse. Impossibile.

Si aspettava una reazione come quella in cui sono appena stati travolti. Avrebbe decisamente dovuto parlargliene quella stessa sera, raccontarle cosa era successo, dirle quanto fosse stato confuso, sconvolto e di quanto ancora si senta spaesato. Ha avuto diverse occasioni per parlargliene, la sera successiva alla festa Morgan gli ha telefonato per avere sue notizie e lui ha fatto finta di nulla, si è creato un sorrisino fasullo, ha cercato di modificare il tono della propria voce, sicuro di poter andare avanti in quello stato.

Non osa girarsi e guardarla negli occhi. Rimane a fissare davanti a sé e rivede tutto ciò che gli è successo quella sera, ogni singola sensazione, gli pare quasi di rivivere quella scena.

Anthony si era avvicinato a lui e aveva iniziato a parlargli, gli aveva detto qualcosa di cui non aveva capito il nesso, avevano poi iniziato una discussione. Aveva seguito Anthony in giardino, per capire cosa volesse, cosa intendesse con le parole “Non è questo che voglio da te”.

Si rivede, appoggiato al muro esterno della casa, con l’orecchio teso verso Anthony e lo sguardo che si alternava tra il salone e la piscina. Aveva iniziato a trovare divertenti quei ragazzi ubriachi, non l’avrebbe mai detto.

Se n’era rimasto in silenzio, lui non aveva nulla da dire ad Anthony, si era anzi chiesto per quale motivo dovesse volere qualcosa da lui.

-Mi ascolti, non è vero?!

Aveva chiesto lui, per accertarsi di avere tutta l’attenzione necessaria, probabilmente. Kyle si era limitato ad annuire con il capo.

-Bene… ti faccio una domanda. Perché pensi abbia chiesto proprio a te di aiutarmi con il diorama?

La risposta gli era parsa così semplice, era bravo a scuola, dannatamente bravo e a molti avrebbe fatto piacere la sua collaborazione, che avrebbe assicurato quindi un voto più che positivo.

-Perché sono fottutamente bravo.

Così convinto, così sicuro di sé. Quando si parla di scuola Kyle sa di essere un asso. Sfortunatamente Anthony non era d’accordo su questo punto, non era quella la risposta esatta.

-Sono bravo quanto te Wallace, se non di più. Sii più… fantasioso!

Gli si era avvicinato, molto, troppo. Riusciva a sentire chiaramente il profumo che aveva indosso quella sera, un profumo dolciastro, che teme non si dimenticherà mai.

-C’entra Morgan?

Che domanda stupida gli aveva fatto! Se Morgan fosse stata di suo interesse, sarebbe andato direttamente da lei. Non è un tipo da farsi troppi scrupoli Anthony Edwards e pochi istanti dopo gliel’avrebbe dimostrato.

-E tu ti ritieni bravo? Non arrivi alle soluzioni più semplici.

Quella frase gli aveva chiarito tutto quanto. Quel suo avvicinarsi improvviso, quel suo trascinarlo fuori, a pensarci bene, ora, a mente fredda, si rende conto di quante volte Anthony gli abbia inviato dei suggerimenti, degli indizi. La colpa era stata sua, che non aveva voluto vederli, che non era stato in grado di scavare a fondo.

-Però Morgan se n’è accorta, di quello che c’è tra noi…

Morgan. Non avevano mai trattato apertamente l’argomento eppure l’aveva intuita quella sua teoria, secondo la quale tra lui e Anthony dovesse esserci qualche strano sentimento, al di fuori della competizione scolastica. Gli faceva troppe domande, glielo nominava troppo… Kyle era arrivato quindi a due opzioni: o Morgan era innamorata di Anthony oppure era convinta che lo fosse lui. Dopo la prima parte di quella serata aveva confidato nella prima opzione ma in quel secondo momento, con le spalle contro il muro e Anthony quasi addosso impegnato a dirgli quelle parole strane, aveva iniziato a capire.

-E cosa ci sarebbe tra noi?

Primo errore. Aveva forse involontariamente giocato con Anthony. Non sapeva se veramente fosse interessato a lui, nemmeno aveva cercato di chiederselo. Era solo stato al gioco. Quel suo tono, quasi malizioso, aveva fatto si che Anthony proseguisse nel suo intento, l’aveva solo facilitato.

-Non lo so Wallace… me lo dici tu?

Secondo errore. Non l’aveva fermato. Era ancora in tempo. Avrebbe potuto uscire con classe, uscire vincitore. Una risposta brusca, un qualcosa come “Assolutamente niente”, seguito da una sua uscita di scena, sarebbe stato d’effetto. Anthony se ne sarebbe rimasto solo in quel giardino, deluso, sconfitto. E invece, cosa aveva fatto? Era rimasto in silenzio, peggio, l’aveva guardato negli occhi fisso, intensamente.

-Qui forse c’è troppa gente… so che al piano di sopra ci sono delle belle stanze, me lo vuoi dire lì?

Terzo errore, l’ultimo, quello fatale, del non ritorno. L’aveva seguito. Era entrato volontariamente in quella che avrebbe rappresentato la sua prigione, la sua tortura. Non sa spiegarsi tutt’ora cosa gli sia balenato in testa. Era cosciente, aveva capito le intenzioni di Anthony, chiaramente ormai. A guardarla esternamente sembrava quasi che quella situazione fosse di suo gradimento, che non gli pesasse affatto esserne coinvolto.

Una volta entrati entrambi una stanza, una bella stanza con decorazioni e mobili di gusto e di classe, Anthony si era seduto sul letto.

Lui l’aveva fissato e poi l’aveva raggiunto.

Paradossalmente, riesce a ricordare persino la sensazione che aveva provato sedendosi su quel letto, morbido, soffice, pareva quasi di essersi seduto su una nuvola, quando invece si era appena gettato tra le braccia del suo aguzzino.

Anthony l’aveva trascinato verso sé e l’aveva baciato, o meglio, aveva iniziato a baciarlo.

Il suo primo vero bacio.

Se l’era immaginato diversamente Kyle. Non si era mai chiesto se sarebbe successo con un ragazzo o con una ragazza, era e resta piuttosto confuso riguardo al proprio orientamento sessuale. Gli è stato insegnato dai suoi genitori a non dare mai etichette, per questo non si è mai veramente posto il problema.

Ad ogni modo, quel primo iniziale bacio gli era piaciuto, parecchio. Certo, era l’unico mai ricevuto in vita sua, non poteva saperne troppo e si era sentito anche piuttosto impacciato, aveva cercato di seguire qualche consiglio dato tra amici, aveva seguito la direzione della frenetica lingua di Anthony. Dopo i primi cinque minuti aveva iniziato a prenderci gusto, stava iniziando ad abituarsi.

Anthony si era fermato, si era staccato improvvisamente, senza dargli in tempo di rendersene conto. Quel gesto però, aveva bruscamente segnato la fine del momento piacevole.

-Tu dovresti saperlo, come si fanno certe cose.

Senza rendersene conto, la mano di Anthony si è staccata dal suo viso e si era spostata sulla cerniera dei propri jeans.

-Cosa intendi per “certe cose”?

Non è così ingenuo, sapeva bene a cosa si stesse riferendo. Semplicemente voleva esserne sicuro. Il gesto di Anthony, era più che lampante.

-Beh, tu hai due padri. Devi per forza saperle fare certe cose o almeno conoscerle.

La scena successiva è quella che vorrebbe rimuovere dalla propria mente e sa invece che non la dimenticherà mai, che gli resterà in testa per anni. Certo, farà meno male con il tempo ma di certo non se ne dimenticherà.

-Non sono certo di…

Anthony gli aveva sorriso, uno strano sorriso, quasi sadico.

-Ti guido io…

Basta. Scrolla la testa. Non vuole ripercorrere quell’ultima parte. Gli fa troppo male. Si sente troppo sporco, se ne vergogna profondamente. Pensare che tutti quanti sono a conoscenza di quello che ha fatto, lo fa stare ancora peggio.

-Kyle io sto aspettando una tua risposta, lo sai?

Lo intima Morgan, afferrandolo per un braccio e strattonandolo.

-Alla festa di Debbie…

-Si, che cosa?

Un attimo di silenzio. Kyle deve trovare le parole, è così semplice dopotutto. Cinque parole, gli bastano cinque parole per spiegarsi. Sembrerebbe però troppo rude e non crede sarebbe in grado di pronunciarle quelle cinque parole.

-Io e Anthony…

-Tu e Anthony cosa?

La guarda. Vorrebbe avere il potere di trasmetterle i propri pensieri in quel momento, per non doverle spiegare, per non doverle dire a voce alta quello che dovrebbe.

-Gli ho… gli ho…

Deglutisce. Le ultime parole proprio non riesce a dirle.

-Gli ho fatto un…

Morgan spalanca gli occhi. Ha capito, con precisione, con esattezza, lo intuisce dallo sguardo, dall’espressione sconvolta, quasi scioccata.

-Un pompino Kyle? Tu? Ad Anthony Edwards?

Senza rendersene conto urla, Kyle abbassa lo sguardo. Il sentimento di vergogna sale, lo invade completamente. Inizia a pentirsi di averglielo detto. Si sente terribilmente sporco.

-Dio mio Kyle! Io pensavo… io credevo vi piaceste, ma… com’è successo?

Kyle scuote il capo. Non ce la farebbe a ripeterlo, a riviverlo.

-No Morgan, ti prego. Non me lo chiedere, che ti basti questo e il fatto che… sto malissimo.

Morgan gli lascia il braccio, il suo volto diviene scuro.

-Perché non me l’hai detto sabato, Quando siamo saliti in macchina?  Avevo capito che c’era qualcosa di storto ma questo Kyle!

Kyle non ribatte. Non riesce a capire se Morgan sia arrabbiata, delusa o entrambe le cose. Spera comunque di poter contare sul suo sostegno, è la sua migliore amica. Se anche lei lo abbandonasse, non saprebbe più cosa fare.

-Sto malissimo Morgan.

Morgan cambia espressione. Forse sta iniziando a capire come possa sentirsi Kyle.

-Vieni, andiamo in giardino. Tanto ormai questa lezione è persa…

Gli dà un buffetto sulla spalla e lo indirizza verso il giardino della scuola.

 

Dopo aver parlato con Morgan, Kyle si sente più forte. Sa di poter contare ancora una volta sul sostegno della sua migliore amica, sa che in ogni caso non sarà abbandonato da lei, solo con Morgan affianco sarà in grado di affrontare la situazione a scuola. Solo parlando con lei riuscirà ad ignorare le voci, gli insulti.

Arrivato a casa però, il suo stato d’animo peggiora. Vede Christian in cucina, ai fornelli. Quella sua attività denota il suo tentativo di tenersi impegnato, per evitare di pensare. Ogni volta che ha un problema, che qualcosa lo turba, si mette a cucinare, a leggere o studiare per le sue lezioni. È così da sempre, ormai ha imparato a riconoscere i suoi segnali.

Aspetta a raggiungerlo in cucina. Chiude gli occhi e sente il buon profumo di minestra. La cucina di Christian e sempre qualcosa di sublime, di eccezionale. È qualcosa che fortunatamente non cambierà mai.

“Sta pensando a Jonathan.”

Pensa Kyle.

Ovvio, ci pensa sempre, anche se non lo dà a vedere, anche se non lo ammette. Quella sua visita di sabato l’ha sicuramente sconvolto. Si chiede  se Christian sapesse del ritorno di Jonathan. L’aveva trovato diverso, prima di uscire. Non aveva fatto domande, ha smesso di farne da quando Jonathan ha lasciato quella casa, per evitare di far soffrire di più Christian.

“Se lo sapeva perché non m’ha detto nulla?”

Si chiede. Anche lui avrebbe dovuto vedere Jonathan, avrebbe anzi voluto chiamarlo, dopo quanto successo sabato sera.

In macchina, sulla strada di ritorno, la prima persona alla quale aveva pensato era stata proprio Jonathan, non riesce a capire perché, semplicemente aveva ritenuto che fosse lui la persona adatta, per consigliarlo, per confidarsi. Forse semplicemente perché uno psicologo, oltre che suo padre. Non lo sa, davvero.

Sa solo che una volta tornato a casa, alle tre di notte, era stato invaso dal profumo di Jonathan, quell’odore forte, particolare, che certo portano in molti ma che su nessun tipo di pelle assume la stessa fragranza che invece rilascia su quella di Jonathan. Aveva in cuor suo sperato di trovarlo addormentato abbracciato a Christian, come ai vecchi tempi.

Si era quindi precipitato nella stanza da letto con la porta ancora aperta. Vedendo Christian solo, nella propria metà del letto, aveva deciso di raggiungerlo e di stendersi sulla metà del di Jonathan lasciando che il profumo rimasto impregnato su quelle lenzuola lo avvolgesse, come un abbraccio, prima di svanire completamente.

-Kyle. Mi sembrava di averti sentito entrare!

Esclama Christian, facendo capolino dalla porta della cucina. In mano regge un paniere, contenente un impasto per torte. La torta di mele, il piatto preferito di Jonathan.

Si, sta pensando a lui, non c’è dubbio.

 

 -->> ta-da-dah! Tornata!! C'ho messo un po' in effetti. La scusa di questa volta? L'università >.< no, non è ancora iniziata ma sono impegnatissima a fare avanti e indietro per le pratiche e tutta la "burocrazia"! che stress! Tral'altro dovrei finire il 22esimo capitolo e oggi vi ho postato il 15esimo... cavolo, sono quasi a pari argh! Comunque... in questo capitolo si svela ciò che non si è visto nel 13, la parte di Kyle xD ... magari ho accontentato chi voleva qualcosa tra Anthony e Kyle chissà... spero che questo capitolo vi piaccia e niente, che continuate a leggere la mia storia.

Poi in questo spazietto (che diventa sempre più uno spazione) vorrei ringraziare Viviana che mi ha mandato una bellissima mail che mi ha veramente fatto piacere leggere. Avrei voluto rispondere però non so come >.< sono un po' impedita con i mezzi tecnologici. Viviana, ti ringrazio davvero. Temevo seriamente che la mia storia fosse passata nel dimenticatoio ma con le tue parole mi hai fatto sapere che non è così, grazie di nuovo!! Spero che tu legga questo mio ringraziamento (ciò significherebbe che hai letto anche questo capitolo^^).

E ora è tutto... il 28 inizio le lezioni e quindi beh, non posterò tanto presto... mi impegnerò per farlo ALMENO la prossima settimana... per il resto buon fine settimana (è giovedì^^)!! <<..--

 

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Capitolo 16
*** Meeting Strangers (Conoscenze estranee) ***


16. Meeting Strangers (Conoscenze estranee)

-Ha trovato un buon lavoro, Owens…

Commenta Ronald, aspettandosi una reazione da parte di Christian.

-Uhm… si.

Non dice altro. Sta fissando fuori dalla finestra, pensieroso. Molto probabilmente non ha nemmeno sentito quello che gli è appena stato detto.

Vive nel suo mondo da quasi due settimane, questo a Ronald non fa molto piacere, perché non è la stessa persona con la quale ama parlare e discutere. Non riesce neanche a chiedergli qualcosa sulla propria vita; come stia proseguendo, se gli sia successo qualcosa di piacevole ultimamente. Nulla. Non è dell’umore adatto e quindi non gli risponderebbe, per questo motivo Ronald si evita la fatica.

Guarda Christian. Si chiede se si riterrà mai pronto per uscire con altra gente. Sarebbe un peccato che un uomo bello e carismatico come lui rimanesse solo. Può capire come si sia sentito, dopo la rottura con Jonathan. Non l’ha mai visto, né ha mai avuto il piacere di vederli insieme eppure, da come ne parla, da come si comporta e da quanto la separazione da lui l’abbia ferito, riesce ad immaginare quanto importante possa essere stato e sia tutt’ora quell’uomo per lui.

È davvero bello Christian, bellissimo. Davvero un peccato privarsi così del piacere di conoscere gente nuova, non  poter per dare una chance a qualcun altro per conquistarlo. Non riesce a capire che bisogno possa aver avuto quell’uomo, quel Johnathan, del quale ha giusto una minima idea, di tradirlo. A detta sua per lasciarsi andare uno come Christian, bisognerebbe trovare un ragazzo perfetto, ideale. Di quelli che sanno fare praticamente tutto, una specie di robot dal bell’aspetto e dalle capacità straordinarie.

È davvero fortunato Jonathan, secondo Ronald, se nella vita è riuscito a conquistare Christian e poi un altro ragazzo, ancora meglio di lui. Pensa sarcasticamente che farebbe bene a conoscerlo quell’uomo, magari potrebbe presentarlo anche a lui un ragazzo simile. Non sarebbe male, per niente.

Gli basterebbe anche qualcuno come Christian, non gli importa nulla della perfezione.

Christian smette di fissare fuori dalla finestra, raggiunge la scrivania dei professori e si siede, raccogliendo i propri fogli. Da qualche tempo arriva presto a scuola, proprio come lui. Si chiede se anche lui non riesca ad addormentarsi.

-Ho iniziato a venire a scuola presto perché a casa non riesco mai a dormire. Sai è strano, sono sempre stato uno che… amava dormire fino a tardi la mattina. Questo fino a… una decina di anni fa circa…

Christian alza la testa dai fogli. Probabilmente ha attirato la sua attenzione, ne era certo. Non ha mai parlato di sé con nessuno e non è mai stata sua intenzione farlo.

-Io abitavo con il mio… come lo chiamo… “amico speciale”, Damian e il mio fratellino di dieci anni. Dovevamo andare ad una fiera. Qualcosa di stupido. Quelle cose delle casalinghe con oggetti da cucina e… beh, quelle cose lì.

Si interrompe, Christian lo sta fissando, è visibilmente molto attento a ciò che sta raccontando. Fa un respiro lungo, profondo. È la prima volta che racconta quella cosa a qualcuno, ancora non sa perché tra le mille cose che poteva dire abbia scelto proprio di raccontare quella a Christian, in ogni modo, prosegue.

-Eravamo tornati tardi dal ristorante la sera prima, io avevo questa abitudine di dormire fino a tardi. Così la mattina dopo non riuscii a svegliarmi in tempo. Damian mi chiamò infuriato dalla stazione del treno, dicendo che quello che avremmo dovuto prendere era già passato e che l’avevano perso per colpa del mio ritardo, che avrebbero preso il successivo, quello delle dodici e trenta e che avrei dovuto raggiungerli in auto alla fiera, da solo.

Smette di parlare, forse quella che sta per raccontare, è la parte più difficile.

-Andai quindi da solo, in macchina. In collera con Damian perché sapeva di questo mio vizio. Accesi la radio, stavano passando una canzone, qualcosa dei vecchio, i Beatles forse, quando si interruppe per fare posto al notiziario. Il treno delle dodici e trenta, che si muoveva in direzione della fiera, era uscito dal binario e si era andato a schiantare con quello in direzione opposta. Così di colpo mi ritrovai a vivere solo, in modo che nessuno potesse più lamentarsi del mio vizio di fare tardi.

Christian ha gli occhi spalancati. Ronald si rende conto di avergli involontariamente versato addosso quella confessione così particolare, così dolorosa, che l’ha evidentemente scosso. Fa uno strano sorriso, non sa proprio fare confidenze alla gente. È passato dal non dire nulla di sé a raccontargli tutto questo, davvero un pessimo confidente.

-Oh, Ron io… non avrei immaginato, mai una cosa del genere, te lo giuro io…

Ronald gli sorride. Non vuole che Christian si preoccupi anche per lui, inizia a pensare di aver sbagliato di grosso ad avergli raccontato tutte quelle cose.

-Chris! Dai, sono storie passate.

Christian scuote il capo, si avvicina a lui.

-Dio mio Ron! E io che ti ho detto che non sai amare! Non dovrei aprirla questa mia boccaccia a volte.

Sì, si ricordava di ciò che gli era stato detto ma non era quello il motivo per il quale gli aveva raccontato quella storia, motivo a lui stesso ancora sconosciuto.  

-No… hai ragione, non ho mai amato. Non come tu ami il tuo Jonathan, almeno. E poi… dai sono cose vecchie! Parliamo d’altro.

Cambia discorso, cercando di non dare a vedere il dispiacere provocato nel rivivere, raccontando, quel particolare episodio, il dolore provato quel giorno, dolore che ancora avverte la mattina quando suona la sveglia e la sera quando tornando a casa fiancheggia la stazione del treno.

Mai e poi mai avrebbe voluto tirare fuori quella vecchia storia, parlarne a qualcuno. Il fatto che l’abbia raccontato a Christian gli fa intuire quanta importanza abbia poco a poco acquisito Christian per lui.

Lo osserva sorridere e lo ascolta mentre gli racconta un buffo episodio accaduto in classe. È totalmente paralizzato dal suo sorriso, così particolare, diverso, luminoso. Conferisce a quel suo viso, già di per sé gradevole, una sfumatura più graziosa.

-Potresti fare una pubblicità del dentifricio col tuo sorriso Christian!

Un complimento, o meglio, avrebbe dovuto esserlo. Putroppo Ronald non è mai stato capace di fare complimenti, non sa usare l’intonazione giusta. Così pronunciato pare quasi una canzonatura. Christian fa una smorfia e gli risponde a tono.

-E tu con quella barba lunga potresti fare quella dei rasoi Gillette!

Si alza Christian, raccoglie le sue cose ed esce dalla stanza. Deve imparare a fare un complimento come si deve Ronald, se vuole ottenere qualche effetto su Christian.

***

Da una settimana Kyle e Morgan vengono accompagnati durante i loro spostamenti da una classe all’altra, da un insopportabile coretto di voci, di insulti, sempre riguardanti l’incontro del ragazzo e di Anthony Edward, quest’ultimo poi, non si era ancora presentato a scuola. Kyle durante quella settimana l’aveva invidiato per quella sua scelta. Un giorno era quasi arrivato a mentire a Christian, voleva fingersi malato e convincerlo a farlo rimanere a casa. Se non l’aveva fatto era stato per evitare di perdere qualche lezione importante e poi perché Morgan l’avrebbe sicuramente rimproverato.

All’intervallo Kyle si siede con l’amica, alla solita panchina in giardino. Non parla, se ne sta semplicemente in allerta per evitare qualche brutto tiro da parte dei suoi compagni di scuola, proprio mentre tiene la guardia abbassata. Scherzi stupidi e poco originali come attaccare cartellini dietro alla sua schiena, con la scritta “frocio” oppure disegni osceni sopra il suo armadietto.

Cosa che era già successa e che probabilmente non si sarebbe ripetuta, grazie a Morgan, che aveva quasi picchiato un ragazzino da lei ritenuto colpevole.

-Sai Morgan, forse dovrei veramente fare come Anthony e non presentarmi più a scuola…

Commenta, senza guardarla, con tono vago mentre osserva un punto non ben definito di fronte a sé. Morgan spalanca gli occhi, lo fissa infastidita e gli afferra un braccio scuotendolo.

-Ma stai scherzando?! Non provare nemmeno a fare una cosa simile! I senza palle come Anthony lo fanno, tu le palle le hai eccome! Lascia perdere questi quattro ignoranti, i loro insulti patetici e scontati non devono neanche toccarti, capito?

Kyle non è del tutto convinto. Non esprime il suo disappunto per non far infuriare ulteriormente l’amica, tuttavia il desiderio di andarsene via, chiudersi in camera e non uscire più è forte, fortissimo. Lo farebbe se non dovesse spiegare tutto quanto a Christian. Se l’è immaginata la sua espressione una volta sentito tutto il racconto. Rigida, fredda, aggettivi che solitamente non hanno nulla a che vedere con Christian.

È una bella giornata tutto sommato. Giugno è alle porte, il cielo è azzurro e fa abbastanza caldo. Kyle pensa che dopotutto manca poco più di un mese e mezzo alla pausa estiva. Deve sopportare quelle voci ancora per poco, una volta passata l’estate sarà qualcun altro l’oggetto di scherno in quella scuola, lui potrà rilassarsi, potrà tornare a godersi la sua vita da liceale.

Pensa alle vacanze, all’estate in generale e si perde in quel pensiero. Non aveva ancora realizzato che quelle saranno le prime vacanze solo con Christian.  Chissà quante ce ne sarebbero state poi… Chissà se avrebbero trascorso comunque le vacanze fuori o se semplicemente sarebbero rimasti a casa. In quei dieci anni con i suoi genitori, aveva sempre trascorso due piacevoli settimane in un cottage affittato in montagna, nel Montana. Aveva fatto delle amicizie in quel posto e si trovava sempre bene, adorava le passeggiate pomeridiane con Jonathan, le partite a carte alla sera con Christian e poi tutti e tre abbracciati nel divano letto a scaldarsi.

Gli sarebbe decisamente mancato tutto quello. Un’espressione malinconica e dolorosa compare sul suo viso, avrebbe pianto se Morgan non gliel’avesse impedito.

-Kyle?! Ehi! Sei andato in catalessi?

Scuote il capo per riprendersi e distogliere la mente da quei pensieri malinconici.

-Scusa Morgan, pensavo all’estate…

La ragazza non fa in tempo a rispondergli. Un uomo alto, elegante e distinto, si avvicina ai due.

-Scusatemi. Sto cercando Kyle Wallace Simmons.

Kyle prima guarda l’amica confuso, poi si alza.

-Sono io…

L’uomo in giacca e cravatta gli indica la strada.

-Ti prego di seguirmi, per favore.

Kyle è riluttante. Guarda ancora Morgan in attesa di una sua reazione ma l’amica pare essere confusa quanto lui.

È sicuro di non averlo mai visto quell’uomo a scuola. Inizia ad avere paura, lo segue prima per il cortile e poi per il corridoio della scuola, senza avere la benché minima idea di dove lo stia portando. L’uomo procede a passi veloci davanti a lui, senza rivolgergli una parola, senza nemmeno voltarsi per accertarsi che lo stia realmente seguendo.

Ad un certo punto si ferma, si gira verso Kyle e gli indica una porta. È l’ufficio del preside. Kyle non è mai entrato in quell’ufficio, certo ha visto diverse volte quella porta passando per il corridoio ma non ha mai avuto motivo di entrarci. Inizia a temere che c’entri ciò che è successo con Anthony. Deglutisce ed entra.

Il preside, il signor Harbour, un uomo sulla mezza età, pelato, leggermente in soprappeso e dalla scarsa avvenenza, lo attende seduto alla sua scrivania con le mani conserte e un grande sorriso sulle labbra, falso, costruito.

Non appena entra nella stanza l’uomo che l’ha accompagnato poco prima chiude la porta, facendo sobbalzare il povero Kyle.

-Vieni avanti ragazzo, siediti pure su una di queste sedie.

Esclama il preside, indicando le due poltrone davanti alla sua scrivania. Kyle affretta il passo e prende posto sulla poltrona di destra.

-Kyle Wallace Simmons… due cognomi, molto nobile.

Kyle non risponde, la figura di quell’uomo lo intimorisce, lo irrigidisce e il suo disagio è evidente.

-Ti stai sicuramente chiedendo per quale motivo ti abbia convocato nel mio ufficio. Non preoccuparti figliolo, quell’uomo dallo sguardo truce è semplicemente il mio segretario, Simon. Per quanto so sei un bravo studente, un bravo ragazzo. Non crei particolare scompiglio. Eccezion fatta per… gli ultimi giorni.

Dopo quella frase Kyle è sicuro che si tratti della faccenda con Anthony. Non c’è altra spiegazione. L’ha detto lo stesso preside, è un bravo studente, un ragazzo a posto che non va a cercar rogne.

-Ci sono delle voci, per così dire, che circolano per la scuola. Voci piuttosto spiacevoli che certamente non voglio riferire e alle quali non so che peso dare…

Le parole del preside lo spaventano. Inizia a temere una punizione. In quei minuti di silenzio da parte del preside, Kyle inizia ad immaginare le ipotesi più assurde. Fortunatamente il silenzio ha una breve durata.

-Immagino tu stia iniziando a capire a cosa mi riferisco…

Kyle annuisce ma non parla, vuole vedere a che punto ha intenzione di arrivare il preside.

-So che Anthony Edwards non si presenta a scuola da… diciamo l’inizio della circolazioni di queste voci. Non è affar tuo certo, ma i signori Edwards sono molto generosi, per quanto riguarda le questioni riguardarti loro figlio… Capirai quindi da te che se decidesse di lasciare questa scuola, il mio istituto ne risentirebbe...

Kyle spalanca gli occhi. La paura aumenta. Teme che tra poco il preside la pronunci quella parola, verrà espulso, ne è certo. Inizia a sudare freddo, le mani avvertono un principio di tremore, quello è decisamente il peggior quarto d’ora mai trascorso. Si fa coraggio e cerca di prevedere le mosse del preside.

-Mi sta quindi dicendo che… sono sospeso?

Silenzio. Solo qualche secondo, tempo comunque sufficiente per alimentare lo stato di terrore che aleggia in Kyle.

-Oh no! Non farei mai qualcosa del genere!

Sorride. Lo stesso sorriso falso di quando l’ha accolto. Kyle non riesce a tranquillizzarsi, per niente.

-Quello che ho in mente è ben altro. A questo proposito, vorrei che tu conoscessi una persona.

Terminata la frase del preside, la porta alle sue spalle di apre di nuovo. Sente dei passi lenti e pesanti percorrere la stanza, fino ad arrivare a lui, non si gira. Non ha idea di chi possa trovarsi davanti, probabilmente qualcuno che non conosce. Tuttavia ha quasi paura a constatarlo.

-Voglio presentarti lo psichiatra Gregor Andrew Northshare.

Si gira e vede finalmente al suo fianco quell’uomo dal nome altisonante che gli porge la mano e gli sorride. Deve avere all’incirca la stessa età del preside, tuttavia la sua presenza è completamente diversa. Alto, fisico ben curato, capelli corti grigi e occhi piccoli e profondi dello stesso colore. Bel viso, elegante, fa senz’altro un’altra figura rispetto al preside.

Kyle allunga la mano e quell’uomo la stringe, poi si siede sulla poltrona vuota accanto a lui.

-Quello che voglio… Kyle, giusto?

Il ragazzo annuisce.

-… è che tu ti confidi con quest’uomo, che poco per volta gli racconti cosa è realmente successo. In modo che lui possa aiutarti e… aiutare me a trovare un modo per far cessare queste fastidiose voci di corridoio.

Kyle spalanca gli occhi. Non è sicuro di aver compreso il concetto espresso dal preside.

-Quindi mi sta dicendo che devo raccontare i miei… fatti privati a quest’uomo che a sua volta li racconterà a lei?

Il preside annuisce.

-In parole povere, si.

Kyle scuote il capo, sta tremando. Il sentimento di paura che l’ha avvolto poco prima non l’ha del tutto abbandonato.

-Mi scusi, anzi, scusi la mia presunzione signor preside. Per quanto ne so, le confidenze fatte ad un dottore sono definite “segreto professionale”, quindi quest’uomo non ha alcun diritto di riferirle ciò che eventualmente gli dirò.

Il preside non risponde, è l’altro uomo a farlo.

-Sei un ragazzo molto intelligente, Kyle. Hai ragione naturalmente. Tant’è che non una delle parole che tu dirai a me verrà riportata alla medesima maniera al preside Harbour, di questo ne puoi stare certo.

Ha una voce profonda quell’uomo, avvolgente. Osservandolo e sentendolo parlare, Kyle nota alcune somiglianze con l’atteggiamento di Jonathan. Lo stesso mezzo sorriso sulle labbra mentre parla, lo stesso gesticolare lento, lo stesso inclinare il capo in avanti. Senza contare quel tono suadente e quasi rassicurante.

-Certo! È come ha detto il dottor Northshare!

Conferma il preside, probabilmente grato all’uomo per averlo cavato dall’impiccio di una spiegazione scomoda.

-Dovresti accettare questa opzione che ti offriamo, ragazzo.

Conclude il preside. Kyle non riesce a staccare gli occhi dallo psichiatra, si accorge solo ora che svolge anche la medesima professione di Jonathan, chissà che non lo conosca.

 -E… e se non lo facessi?

Ipotizza il ragazzo, scostando gli occhi dall’uomo e indirizzando lo sguardo verso preside.

-L’alternativa, l’hai menzionata tu stesso poco fa…

Kyle spalanca gli occhi, capisce di non avere alcuna scelta. Si rende conto di essere messo con le spalle al muro, dovrà veramente raccontare a quello sconosciuto tutta la vicenda.

L’uomo accanto a lui gli prende una mano, con delicatezza, quasi voglia rassicurarlo.

-Non devi preoccuparti di nulla. Ti sentirai a tuo agio con me, vedrai…

Si lascia ingannare. Non l’avrebbe fatto solitamente. È colpa di quell’uomo, che assomiglia così tanto a Jonathan. È così convincente, così persuasivo. Le sue parole fanno scomparire tutti i segni di paura fino a quel momento manifestatisi.

Inquietante, decisamente.

 

---> Ed eccomi qua! Dopo un po' di tempo finalmente aggiorno la mia storia. Questo capitolo è uno di quelli che chiamo "rivelatori", vi lancia qualche informazione sulla figura di Ronald, che nella mia mente è parecchio complessa... e ovviamente la "conoscenza estranea" di Kyle, voi la conoscete già bene XD con questo capitolo si entra nell'arco della storia che sto scrivendo ora, cioè c'è la causa che produce l'effetto che sto delineando in questo periodo.  Purtroppo ho veramente poco tempo tra i corsi, lo studio e altro. Sono riuscita a malapena a scrivere qualche riga ma, tranquilli! Questa storia proseguirà fino alla fine. Chris, John e Kyle per me sono diventati troppo importanti per metterli da parte e abbandonarli per sempre. La loro storia avrà SICURAMENTE una fine che sperò vi piacerà (è già tutto nella mia mente malata) Voglio ringraziare Mana per il commento e Viviana per la mail e poi, in generale, tutti quelli che hanno messo come "storia seguita" la mia fanfiction e che spero continuino a seguire fino alla fine^^

 Detto questo, alla prossima! <---

 

 

 

 

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Capitolo 17
*** Hidings behind a name (Particolari nascosti) ***


17. Hidings behind a name (Particolari nascosti)

L’estate è la stagione preferita da Jonathan. È nato e cresciuto in Texas, nei pressi di Austin, abituato al caldo torrido desertico, alle temperature eccessivamente elevate. Il trasferimento a New York aveva significato per lui un grande cambiamento. Aveva visto per la prima volta in vita sua la neve, era stato costretto ad acquistare cappelli, sciarpe e maglioni, variando quindi il suo guardaroba che fino a quel momento comprendeva solo capi di genere estivo o primaverile.

Manca ancora del tempo al solstizio d’estate, quasi un mese. Sorride osservando dalla finestra del suo ufficio il sole caldo che illumina la città e fa risplendere i grattacieli. In questo periodo solitamente iniziava il suo giro di telefonate per affittare lo stesso cottage  nel quale era solito trascorrere due settimane ad agosto con la sua famiglia. Quest’anno sarà differente, non dovrà fare, probabilmente, nessuna telefonata, non andrà da nessuna parte e il suo ufficio rimarrà aperto durante tutto il periodo estivo.

Gli era balenata in testa la mezza di idea di invitare Kyle e trascorrerla solo con lui quella settimana, salvo ricordarsi poi di non avere sue notizie da mesi e di aver avuto la conferma da parte di Christian, il giorno del loro incontro, dell’intenzione volontaria del ragazzo di non avere contatti con lui. Pensa che non avrebbe accettato in ogni caso, molto probabilmente le avrebbe passate con Christian le vacanze, forse sarebbero andati sempre in Montana oppure in California, a Santa Monica, dai genitori di Christian.

Il sorriso apparso sulle labbra di Jonathan, dovuto alla vista del sole, poco a poco affievolisce, scomparendo poi completamente. Quasi automatico afferra un pacchetto di sigarette dal taschino della giacca, ancora pieno, acquistato qualche ora prima, estrae una sigaretta e la porta alla bocca. Non fa in tempo però ad accenderla, qualcuno bussa alla porta.

-È permesso, dottore?

Adam Towens, il fratello di un suo ex paziente deceduto qualche settimana prima. Sapeva che sarebbe passato in ufficio a ritirare la cartella clinica del fratello, semplicemente non si ricordava di aver fissato l’appuntamento proprio quel giorno.

Immediatamente ripone la sigaretta nella pacchetto, si sistema ed assume una posizione più educata e composta.

-Buongiorno signor Towens.

Saluta sorridendo, come è solito fare.

-Avevo fissato l’appuntamento per questa mattina, dovrei ritirare le cartelle di mio fratello Samuel…

Jonathan annuisce, si china ed apre il primo cassetto della scrivania dove, qualche settimana prima, ha riposto tutte le cartelle richieste. Porge la cartella all’uomo che immediatamente lo raggiunge per prenderle.

-La ringrazio moltissimo per questo favore che mi fa.

Esclama, non appena prende possesso dei documenti.

Jonathan gli sorride di nuovo.

-Si figuri signor Towens, dovere.

Non conosce bene il rapporto nel quale si trovassero i due fratelli tuttavia, a giudicare dall’espressione triste di Adam, dovevano comunque avere un buon legame, qualcosa che aveva già intuito osservandoli insieme. Una perdita di un familiare è sempre qualcosa di spiacevole. Jonathan ne sa qualcosa.

Ha sofferto molto per la perdita del padre, morto quando aveva  diciotto anni, proprio mentre si apprestava a trasferirsi a New York per completare la propria istruzione, alla Columbia University. Quanto avrebbe voluto vedere il viso di suo padre, una volta laureato. Scuote il capo e riporta l’attenzione ad Adam Towens, che nel frattempo gli sta parlando.

-Quindi… io andrei. Grazie di tutto.

Jonathan si alza dalla sedia.

-Posso immaginare il dolore per la perdita di suo fratello.

L’uomo annuisce.

-È stato un duro colpo per tutti quanti in famiglia. Immagino sia normale, dopotutto.

Risponde, con tono di amarezza.

-È naturale. Mi permetta di offrirle un caffè, le va?

L’uomo annuisce.

-Molto volentieri, dottore.

Dopo aver bevuto una tazza di caffè caldo al bar accanto all’edificio nel quale è collocato lo studio di Jonathan, i due iniziano a parlare. Buona parte del discorso è incentrato sul defunto fratello di Adam, tuttavia poco a poco l’argomento muta.

-Questa sera dovrò riaprire il mio locale.

Commenta Adam.

-È proprietario di un locale?

Chiede Jonathan, quasi di riflesso. In realtà dovrebbe salutare l’uomo e salire al più presto possibile in ufficio, avendo fissato degli appuntamenti a distanza di qualche decina di minuti.

-Si, veramente è una comproprietà. Il vecchio proprietario ha avuto una serie di problemi di salute e cercava qualche ragazzo giovane con esperienza nelle pubbliche relazioni che lo aiutasse a tenere aperto il posto.

Spiega.

-Posso sapere il nome di questo locale? Se esiste da tempo è probabile ci sia stato. Certo, ora non ho più l’età per andare per locali ma sono stato giovane anch’io.

Adam sorride.

-Nightmare. È un locale piuttosto vecchio comunque, mi pare che il vecchio nome fosse “Vampiria”.

Jonathan spalanca gli occhi. Non riesce a crederci. È una coincidenza troppo strana. Certo,come ha detto, ha frequentato diversi locali ed era probabile lo conoscesse se di vecchia data. Tuttavia tra i molti aveva nominato proprio quello che per lui aveva significato tanto, il locale nel quale aveva conosciuto Christian, nel quale aveva ballato con lui, nel quale si era innamorato per la prima e probabilmente unica volta in vita sua.

-Lo conosce?

Chiede Adam, osservando l’espressione sconvolta di Jonathan.

-Se lo conosco? Si e anche molto bene… Il vecchio proprietario è ancora Abraham Dickson?

Chiede, con freddezza.

-Si, esatto. Conosce anche lui?

Jonathan stringe il pugno destro. Abraham Dickson è forse la persona che ha più odiato in vita sua. Ricorda ancora quella sua faccia rugosa, quel grugno sul viso, quei suoi modi di fare loschi e viscidi. È sicuro che se lo rivedesse tutt’ora, a distanza di anni, sarebbe capace di prenderlo a botte, quelle che gli ha risparmiato durante quegli anni di conoscenza.

Senza dubbio l’essere più spregevole mai incontrato. Non riesce a ricordare quante volte gli abbia augurato di morire. Eppure è ancora vivo. Qualche problema di salute, secondo le parole di Adam, non sa però di quale tipo.

È nervoso ora, continua a stringere il pugno desto con forza. Non è un tipo che serba particolare rancore, Jonathan, fatta eccezione per quell’uomo e i suoi motivi sono ben chiari e precisi.

-Lo conosco? Certo.

Adam avverte l’ostilità di Jonathan, presentatasi dopo la pronuncia di quel nome.

-Senta… immagino adesso lei debba andare. Comunque, se le fa piacere, posso offrirle io stasera un drink al locale, per il caffè che mi ha offerto oggi…

Jonathan annuisce.

-Sono anni che non metto piede in quel posto…

Adam gli sorride.

-Le assicuro che non è cambiato molto, a giudicare dalle foto che ho visto. Insomma, sappia che se le fa piacere, la aspetto stasera al locale.

Jonathan annuisce.

-Ci penserò. Grazie per l’offerta.

***

Kyle è seduto su una poltrona molto comoda e apparentemente elegante collocata in una stanza a scuola, della quale non era stato a conoscenza fino a quel momento. Si trova in quel posto da quasi dieci minuti, durante i quali i suoi occhi hanno avuto modo di perlustrare l’ambiente a fondo. Doveva essere stato un magazzino in origine, a giudicare dagli scatoloni e dai libri apparentemente datati e riposti un po’ ovunque nella stanza.

Sta aspettando qualcuno, quello psichiatra che ha conosciuto un paio di giorni prima. È la sua prima visita da un psichiatra, non ne sa molto e nonostante abbia vissuto con Jonathan non gli è mai stata fatta alcuna visita. Certo, ogni tanto Jonathan lo sottoponeva a sua insaputa a qualche strano test o “giochino” ma niente di più e quindi non sa cosa aspettarsi da quell’incontro. Inizia ad agitarsi al pensiero di dover raccontare a qualcuno, ad uno sconosciuto, cosa gli è successo. Se il preside non l’avesse messo con le spalle al muro, certamente si sarebbe rifiutato di sottoporsi a quelle sedute.

Quell’uomo, in ritardo di qualche minuto, l’aveva messo in soggezione. Troppe somiglianze con Jonathan, nei modi di fare, nelle espressioni, nel tono della voce. A lui non era mai riuscito a resistere, ai suoi modi così suadenti, così ammalianti. Uno dei motivi per i quali rimanda il più possibile il suo incontro con Jonathan è proprio questo; lui gli racconterebbe la faccenda della separazione secondo il suo punto di vista e sarebbe in grado di ingannarlo, confonderlo, lo ascolterebbe fino alla fine, non sarebbe in grado di tapparsi le orecchie, alzarsi e andarsene, come invece vorrebbe. Si lascerebbe trasportare in quella sua visione contorta delle cose, ne è sicuro.

-Buongiorno. Perdona il mio ritardo, il traffico a quest’ora è insopportabile.

Eccolo, lo psichiatra. È entrato nella stanza quasi di soppiatto, non l’ha sentito nemmeno aprire la porta.

-E così ci hanno lasciato uno stanzino delle scope… poco male, sempre meglio di niente.

Si siede su una sedia di fronte a Kyle, sempre con abbozzo di sorriso sulle labbra. Kyle abbassa gli occhi, ha appena rivisto il sorriso di Jonathan sul viso di quell’uomo ed è stato come pungersi con qualcosa di molto affilato, un ago spesso e lucente.

-Prima cosa, sei mai stato da uno specialista, Kyle?

Kyle scuote il capo, senza fiatare.

-Capisco. Va bene, in questo caso ti dirò come si svolgeranno le cose con me.

Si mette comodo. Kyle lo vede con la coda dell’occhio lasciarsi abbandonare sulla sedia, accavallare le gambe e mettersi a braccia conserte. Lo sta fissando, mentre lui tiene lo sguardo basso e cerca di non incrociare i suoi occhi.

-Io non faccio domande, nessuna, mai. Qui in questa stanza nessuno ne farà. Io voglio semplicemente che tu mi parli. Argomento? Quello che vuoi. Io ti ascolto, non intervengo, non ti fermo, sarai tu a fermarti, quando ti renderai conto di non aver più nulla da dire. Seriamente intendo.

Spiega, gesticolando leggermente e tornando dopo ogni gesticolo alla posizione originaria. Il cuore di Kyle batte inspiegabilmente ad una velocità fuori dalla norma. È tranquillo, nessuno lo sta obbligando a dire nulla e ora quell’uomo, il dottore, è in silenzio. Aspetta che parli. Per Kyle, con la “lingua d’acciaio”, con in molti gli hanno detto, dovrebbe essere facile.

Non lo è.

Si sente la bocca incollata, gli pare quasi, muovendo le labbra, di fare fatica, le sente pesanti e la voce fatica ad uscire. Non riesce a spiegarsi il perché, non c’è tensione nell’aria, può dire qualsiasi cosa, non deve necessariamente sputare fuori l’intera faccenda. Certo, sa che in un modo o nell’altro tutto quanto gli verrà estrapolato. Non conosce bene il metodo lavorativo degli psichiatri eppure è certo che, quella di portare le persone a dire qualcosa che non vorrebbero, è una delle loro specialità. Ripensa a Jonathan, non è mai riuscito a tenergli nascosto qualcosa o mentigli a lungo, l’ha sempre fatto confessare e più di una volta, senza nemmeno rendersene conto. Forse è per questo che ha tanta paura di parlare.

Si sente come un rubinetto chiuso e ha paura che il fiume di parole che tiene per sé inizi a scorrere senza controllo, rendendogli difficile di fermarsi, di chiudersi di nuovo.

Il silenzio sembra interminabile, osserva di sfuggita l’orologio al polso del dottore; non sono passati nemmeno cinque minuti, sembra un eternità. Si sofferma sull’orologio stesso, è molto elegante, quadrante grande, cinturino in acciaio. Nella posizione in cui è posto non riesce a leggere la marcatura ma deve essere un Cartier, riconosce il taglio. Il suo cuore ha un balzo improvviso; è simile ad uno degli orologi di Jonathan, cambia solo il colore.

Quell’uomo ha molte cose in comune con Jonathan, troppe. Alza lo sguardo e osserva la sua espressione rilassata, pacifica. Gli occhi sono leggermente pigiati e c’è ancora lo stesso sorriso sulle sue labbra. È difficile decifrare cosa stia provando osservandolo. Compassione? Interesse? Disgusto? Non riesce a darsi una risposta Kyle. L’occhio gli cade di nuovo sull’orologio e comincia a parlare, senza rendersene conto.

-Mi piacciono gli orologi da polso. Mio… padre, li colleziona da sempre, immagino. Non saprei dire da quando. Per quanto sappia li ho sempre visti. È un Cartier vero? Recente tra l’altro. L’ho capito dal cinturino, adesso li fanno tutti così.

Non riesce a smettere di parlare, vorrebbe ma non ce la fa.

-Un anno a natale io e… Christian, l’altro mio padre, gliene abbiamo regalato uno così. Due anni fa penso. Ho ancora la garanzia da qualche parte. Ogni natale la guardo. C’è il nome dell’orologio… sono sicuro di non comprarne una eventuale “riedizione”, facendo così. Tral’altro quest’anno chissà se ci sarà il Natale…

Il Natale. Non si spiega come ci sia arrivato, soprattutto come sia riuscito con facilità a parlare di Jonathan e Christian. Inizia a pensare che quell’uomo sappia veramente fare il proprio lavoro.

-Voglio dire…

Si corregge.

-Il Natale ci sarà sicuramente, solo non sarà come prima. Ma si, infondo, le cose stanno in questo modo e così le devo accettare. Ci sono delle persone spaventate dai cambiamenti, io sinceramente non saprei come vederla. Me ne sono successe tante, tanti cambiamenti insieme a volte sconvolgono…

Smette di parlare e subito interviene lo psichiatra.

-Il concetto di cambiamento è molto relativo. Certe volte si parla di evoluzione più che di “cambiamento”. Tanti fatti, tante cose della vita, portano ad una evoluzione. Lo vediamo come cambiamento solo se questa evoluzione è prematura, inaspettata.

Non sa come ribattere, Kyle.  Non lo fa, continua il suo discorso, così con scioltezza.

-Evoluzioni… quindi l’adolescenza è un evoluzione. Immagino mi risponderà che tutta la vita lo è. Ma… cosa succede quando si evolve qualcosa in cui… non ci si sarebbe dovuti evolvere?

Non risponde. Ha detto che non sarebbero state fatte domande, da nessuno. Quindi non le accetta? Difficile da dirsi, tiene la stessa espressione quasi sorridente e composta.

-Mi chiedo se… a volte evitare di dare dei nomi dei “titoli” serva.

Gira completamente il discorso. Non vorrebbe parlare, la sua testa gli dice di fermarsi prima che gli sfugga qualcosa di scomodo, eppure sembra che la sua bocca si sia scollegata e stia facendo di proprio punto.

-Mi è sempre stato insegnato a non dare titoli, che le etichette sono sbagliate. Eppure mi è capitato ultimamente di chiedermi se “etichettare” qualche cosa non serva a volte a prevenire questi cambiamenti o … evoluzioni.

Annuisce il dottore ed inizia a parlare.

-Molti sono della convinzione che le etichette siano qualcosa di sbagliato. In realtà lo sono soltanto se in grado di circoscrivere una determinata cosa. Sono molto utili invece se danno la possibilità di spiegare, di approfondire.

Esauriente, molto. Le sue parole quasi incantano, il suo tono di voce pacato, quasi rassicurante ,fa godere appieno chiunque ascolti. È un'altra cosa che ha in comune con Jonathan, questo però Kyle lo nota soltanto dopo una ventina di minuti, quando ormai la visita è arrivata al termine.

-Ora che hai finito, ti comunico che anche la seduta lo è.

Non si è accorto del passare del tempo, quell’ora è volata, senza dargli la possibilità di rendersene conto.

-Ci restano ancora quattro incontri, Kyle. Ci vediamo, buona settimana.

Agghiacciante.

 

---> Vi sono mancata, o meglio vi sono mancati John, Chris e Kyle? Spero di sì =) beh, in ogni caso eccoci qui, tutti e quattro a proseguire con la storia. Caspita! Mi sono resa conto che pubblicando, pubblicando pian piano sto raggiungendo i capitoli fin’ora completati O.O siamo già al 17! Sono a metà del 24esimo (beh, sarebbe 25esimo, visto che c’è un capitolo di due parti…) e spero di riuscire a terminarlo quanto prima!! Purtroppo il tempo è quello che è. Comunque, prima di salutarvi, voglio ringraziare ladynena per il commento al precedente capitolo, mi fa piacere che Chris e John suscitino un  sentimento odio/amore nei miei lettori  vuol dire che sono riuscita nel mio intento =)

Detto questo, alla prossima!! <---

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Capitolo 18
*** Dates or Appointments? (Incontri o appuntamenti?) ***


18. Dates or appointmens? (Incontri o appuntamenti?)

Riconsiderare le persone è qualcosa che Christian fa spesso. Ha come una strana empatia che gli permette di stabilire con uno sguardo se una persona potrà piacergli o meno. Avere la possibilità di conoscere qualcuno più a fondo, di scoprire determinati particolari su quest’ultima tali da poter cambiare la prima opinione, è qualcosa che fa sempre volentieri.

Il primo incontro con Ronald, dieci anni prima, l’aveva spiazzato. Nel momento in cui aveva stretto la sua mano e si erano presentati non aveva sentito niente. Non era riuscito a capire se a pelle quell’uomo gli piacesse o meno ed erano rare le occasioni in cui capitava qualcosa di simile. Per tutto il periodo di conoscenza Ronald per lui era rimasto un mistero.

Si era chiesto diverse volte se la sua presenza gli facesse piacere, se fosse una persona con la quale valesse la pena trascorrere del tempo al di fuori dell’orario lavorativo. Non aveva ancora amici all’accademia e tra tutte le persone alla quali aveva stretto la mano, Ronald era stato l’unico non inquadrabile.

Col passare del tempo si era ritrovato a parlare con lui, spesso a confidarsi. Questo con spontaneità e aveva così dedotto che gli piacesse. Una volta constatato ciò aveva cercato con i pochi dati disponibili di fornirgli una descrizione.

Per Christian Ronald è sempre stato un uomo riservato, forse un po’ frivolo, amante del divertimento, uno a cui piace scherzare, una persona con pochi problemi per la testa.

Evidentemente si era sbagliato dall’inizio.

Dopo il loro ultimo incontro da soli, la sua idea di Ronald è stata completamente rivoluzionata. Ha visto della sensibilità in lui, ha avvertito uno strano bisogno di confidarsi, di cercare intimità da parte del collega, i suoi pensieri non avevano la benché minima traccia di frivolezza e poi… e poi c’é sempre lo sguardo malinconico di quella mattina di un paio di mesi prima, quel Ronald pensieroso seduto davanti alla finestra, che parlava con tono flebile e nostalgico.

Christian è in classe, seduto a fissare i fogli della lezione appena spiegata e pensa a tutto questo. Pensa che non ha mai capito nulla di Ronald, che la persona che si troverà davanti d’ora in poi sarà differente. Forse finalmente riuscirà a stabilire se gli piace o meno. Spera in cuor suo che le sue preferenze per l’amico non cambino.

Ha già dovuto rivalutare qualcuno di importante negli ultimi mesi e non è sua intenzione farlo di nuovo, fa troppo male. La delusione è di dimensioni incommensurabili. Ci si sente ingenui, ma non un’ingenuità innocente e naif, bensì un atteggiamento cieco e forzato.

La sua capacità di capire le persone è sempre stato un punto fermo e sicuro, una specie di radar naturale che gli permettesse una cernita superficiale delle persone, qualcosa che gli evitasse scottature e delusioni.

Recentemente ha iniziato a pensare che il suo radar non abbia mai funzionato a dovere, che forse dovrebbe smetterla di basarsi sul proprio istinto iniziale.

Scuote il capo, non ha voglia e nemmeno tempo per mettersi a pensare a certe cose. Si trova a scuola e in dieci minuti avrà una nuova lezione. È diventato stremante e faticoso persino spiegare e dirigersi a scuola. Dopo dieci anni di insegnamento appassionato inizia a sentire il peso della fatica.

È presto, ha solo trentacinque anni, ne ha altrettanti davanti prima di poter lasciare la professione.

“forse è solo lo stress del periodo”, pensa, cercando di giustificare quella sua recente insofferenza.

Sistema i suoi fogli, rilegge i propri testi. Dopo la terza riga si ferma. È stanco delle solite cose. Appoggia i fogli sulla cattedra e si abbandona sullo schienale della sedia. Perlustra con lo sguardo l’aula, quasi cercasse in qualche angolo la voglia di lavorare  persa quel giorno. Lo sguardo gli torna sui fogli appena abbandonati. Sono anni che legge gli stessi testi, gli appunti sono ormai consumati.

Provengono ancora dai sui tempi all’università, sono scritti ancora in quella grafia confusa e disordinata che aveva da studente, oggi migliorata, seppur ancora illeggibile.

Osserva i banchi di fronte a sé e si rivede, seduto da qualche parte con la testa china sui block notes, posizione insolita come sempre, con la mano che scorre veloce sui fogli imprimendo qualche strano scarabocchio, spesso eccessivamente abbreviato.

Lo sguardo si sposta poi verso la finestra, è una giornata assolata, quasi estiva.

Chiude gli occhi e respira profondamente. Tra pochi giorni inizierà il caldo, l’estate. L’aspetta sempre con molta impazienza quella stagione. Tranne quest’anno.

È la prima volta che ci pensa e di colpo vorrebbe non averci pensato affatto.

Si alza quasi di scatto ed inizia a camminare avanti e indietro lungo la cattedra.

Il miglior rimedio per lo stress è sempre una bella vacanza, qualcosa che quest’anno molto probabilmente non avrà.

Osserva ancora i banchi e accanto a lui ragazzo, che non sta più scrivendo ma sistemando, appare un'altra figura: Jonathan, anch’egli piuttosto giovane.

Si siede, gli sorride ed inizia a parlare con lui. Lo prende un po’ in giro per l’attaccamento morboso allo studio e gli indica la finestra, dicendogli che presto arriverà estate e torneranno insieme a Santa Monica a prendere il sole, a passare la notte in spiaggia fino ad addormentarsi e lasciarsi svegliare solo dalla luce rosata dell’alba…

Gira bruscamente la testa altrove. È sicuro che si rimanesse a fissare ancora un secondo in quel punto smetterebbe di respirare, cadrebbe a terra e non sarebbe più in grado di alzarsi, di andare avanti.

Doloroso constatare quanto sia facile, anche dal nulla, arrivare al pensiero di Jonathan. Doloroso quanto inevitabile, per quanto provi e si sforzi, per quanto non sia sua intenzione, l’ha sempre davanti.

Di scatto allunga un braccio verso la scrivania, afferra tutti i suoi fogli vecchi e sdruciti e li strappa riducendoli a coriandoli. Ha l’improvviso bisogno di liberarsi del passato e non potendo liberarsi dell’immagine di Jonathan, fa a pezzi qualcosa che ha a portata di mano. Una volta finito, raccoglie i pezzi di carta e li getta nel cestino, senza guardare.

Di lì a poco l’aula si riempie di studenti. Torna quindi alla cattedra e si rivolge alla sua classe, sorridendo.

-Buongiorno a tutti! Oggi avrei dovuto spiegarvi l’importanza dei miti ellenici nell’arte neoclassica. Ma… ho deciso di cambiare! Sarete voi a dirmi cosa sapete, io vi ascolterò…

Si siede e respira profondamente, buttandosi a capofitto nel suo cambiamento.

***

-Dottor Northshare, Jonathan Wallace ha spostato l’appuntamento delle 13 alle 17.

Enuncia la segretaria di Gregor, con tono pacato e timido.

-E tu cosa gli hai detto, Patricia?

La donna spalanca gli occhi, è nuova in quell’ufficio e Gregor la intimidisce parecchio.

-Che va… bene…?

Sorride, col tentativo di tranquillizzarla ma non ci riesce, anzi, quasi peggiora la situazione.

-Jonathan Wallace è un paziente molto, molto particolare… per lui tutto è un’eccezione. Puoi andare.

La donna se ne va con rapidità, mentre Gregor inizia domandarsi per quale motivo l’abbia assunta. La verità è che l’altra, Samatha, aveva ben pensato di sposare un uomo d’affari che le aveva permesso di vivere da casalinga, lasciando quel posto vacante.

Vorrebbe essere una donna a volte, Gregor. Gli piacerebbe avere un’opportunità simile, lasciare quel lavoro che non ha mai amato troppo e potersene stare sdraiato su un letto a fissare il soffitto senza il benché minimo senso di colpa.

Non ha mai voluto essere uno psichiatra e, se non lascia quel mestiere, è solo perché è dannatamente bravo nello svolgerlo. La sua fortuna l’ha fatta con quel lavoro e non è abituato all’ingratitudine. Questo da sempre, anche quando i suoi lavori erano molto meno puliti e morali.

Senza contare che, senza volerlo o fare forzature, Jonathan l’aveva preso come un mentore e aveva deciso di intraprendere la sua stessa carriera, chiedendogli spesso consiglio, qualcosa che sicuramente gli faceva molto piacere.

A proposito di Jonathan, sorride pensando a come facilmente riuscirà a risolvere i suoi problemi una volta portato a termine il suo piano con Kyle.

Oltre ad essere bravo era sempre stato molto fortunato, il caso di Kyle gli era capitato in mano senza cercarlo e senza aspettarselo. Erano  anni che non lavorava come psichiatra nelle scuole, un lavoro spesso pesante e mal pagato. Aveva accettato la richiesta del preside, suo amico, facendola passare con un favore d’amicizia, quando il realtà era stato l’amico a fare a lui un favore grosso.

Doveva risolvere i problemi di Jonathan ed era già pronto a scendere a patti con Christian, a parlare con lui e vederlo dopo tanto tempo, nonostante l’astio reciproco. Evitare l’incontro con lui era tutto di guadagnato.

Non aveva mai avuto modo di vedere Kyle da quando era stato adottato da Jonathan e Christian, non gli era nemmeno mai interessato, fino a quel momento, appunto. A suo grande dispiacere aveva notato che c’era molto di Christian nel carattere e nell’atteggiamento del ragazzo. La strana diffidenza, l’ingenuità, sono presenti in lui quanto in Christian. Tuttavia,  ha con piacere notato delle somiglianze con Jonathan, ne era certo. Deve  semplicemente far emergere in lui le caratteristiche che lo accomunano a Jonathan, per poter arrivare a plasmarlo a suo piacimento.

Ancora un paio di sedute e il gioco è fatto.

Suona il telefono e tempestivo si appresta a rispondere, in pochi hanno il numero diretto del suo ufficio, per la precisione solo le persone importanti.

-Pronto?

La voce dall’altra parte lo sorprende, è qualcuno che non sente da parecchi mesi.

-Greg, sono Hanna. Avrei bisogno di parlarti…

-Quando?

-Anche ora, se puoi…

Gregor si mette comodo, accende il pulsante del vivace e si allontana dalla scrivania.

-Ti ascolto… che coincidenza! Tuo figlio ha appena chiamato la mia segretaria per spostare un appuntamento…

***

Kyle non ha raccontato a nessuno con precisione in cosa consistano le sue sedute psichiatriche con il dottor Gregor, nemmeno a Morgan, nonostante l’amica gliel’abbia chiesto più di una volta e abbia cercato di farglielo dire tramite qualche trabocchetto.

È da poco finita l’ora di algebra. È iniziato l’intervallo, decisamente i minuti preferiti da ogni studente. Come di consueto Kyle e Morgan sono in giardino, sotto il solito albero. Kyle è seduto in posizione abbastanza composta, mentre l’amica è distesa sulla panchina, con le maniche e gli orli dei jeans rimboccati. Fa piuttosto caldo e sta cercando di prendere il sole. Stanno parlando del più è del meno da quando sono usciti dalla classe, i soliti discorsi leggeri, iniziati tanto per far qualcosa, per avere un po’ di compagnia, niente di interessante.

Kyle ha gli occhi chiusi, i raggi di sole gli colpiscono il viso e lo infastidiscono, ogni giorno si ripete che è arrivato il momento di comprarsi un paio di occhiali da sole, dimenticandosene poi nel giro di una ventina di minuti.

-E quindi tu compreresti quel videogioco Kyle?

Chiede Morgan, proseguendo il discorso.

-Sicuro. Perché non dovrei comprarlo? Ho tutta la saga ed è uno dei miei preferiti, quindi-

Si interrompe, quando una voce a lui familiare sovrasta la sua.

-Kyle, ho bisogno di parlarti.

Apre gli occhi e rimane accecato per qualche secondo dalla luce del sole. Riesce a distinguere solo una sagoma nera dai contorni alquanto sfocati. Morgan rapidamente si alza e si mette a sedere, non parla e non è buon segno.

Poco a poco la figura comincia a delinearsi, ecco i capelli, il viso ovale, è Anthony. Kyle non crede a ciò che si trova davanti, si stropiccia gli occhi pensando che la sua vista, colpita dal sole, gli stia giocando un brutto tiro.

Non è così. Anthony è proprio davanti a lui, nel suo impeccabile ordine, indossa la sua maglietta da quarterback e i suoi jeans 501. Kyle non sa se alzarsi e andarsene indignato oppure mettersi ad insultarlo dal posto. Senza girarsi cerca di osservare con la coda dell’occhio la reazione di Morgan, gesto totalmente inutile, dato che la ragazza è ancora più confusa di lui.

-E così ti fai rivedere adesso…

Commenta Kyle, temporeggiando, cercando di assumere un tono superiore e indifferente.

-Si… fino a qualche giorno fa non avevo il coraggio di guardarmi allo specchio Kyle, figurati di venire a scuola.

Kyle non sa come ribattere, semplicemente non lo fa.

-Devi parlarmi, hai detto?

Anthony annuisce.

-Si. Ma non qui, non adesso. Lontano da tutto e da tutti.

Per un attimo sembra che Morgan voglia dire qualcosa, che voglia cantarne quattro ad Anthony, Kyle ci spera, gli risparmierebbe la fatica. Purtroppo si limita a sistemarsi sulla panchina, senza fiatare.

-E dove, Anthony?

-C’è un locale, è fuori città e poco frequentato. Sicuramente qui non lo conoscono, è il “Nightmare”.

Kyle è sicuro di aver sentito quel nome da qualche parte ma probabilmente se l’è immaginato oppure è il nome di qualche locale di un qualsiasi programma televisivo adolescenziale, dopotutto è un nome molto comune e poco originale.

-Vorrei sapere che coraggio me lo chiedi.

Quest’ultima affermazione non se l’era programmata, gli è semplicemente uscita di bocca, è qualcosa che doveva emergere a tutti i costi.

-Per favore Kyle, ti chiedo questo favore ancora…

Kyle annuisce.

-Va bene. A che ora?

-Nove e mezza.

Kyle accetta.

-Bene, ci vediamo lì.

 

--> Dopo poco più di un messe eccomi di nuovo qui a postare un nuovo capitolo della mia storia. Voglio innanzitutto ringraziare jaryshanny per il commento. Mi spiace che i miei capitoli siano corti, mi rimproverò sempre per questa cosa ma… che posso farci è più forte di me >.< beh, gli ultimi due che ho scritto sono lunghetti comunque ma… si tratta del 25 e del 25 quindi c’è tempo! Tornando a parlare della storia… purtroppo la stesura va a rilento. I vari impegni universitari mi uccidono e gli esami si avvicinano *ahi-ahi*… Cercherò comunque di postare più regolarmente nella “pausa”, studio permettendo!

Detto questo alla prossima che sarà… boh! Vedremo!  

P.s. Colgo l’occasione di augurare ai miei lettori Buone Feste, nel caso non riesca a postare prima di Natale =) <--

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Capitolo 19
*** Waking up in a Nightmare (Svegliarsi in un incubo) ***


19. Waking up in a Nightmare (Svegliarsi in un incubo)

-Senti Chris, è un locale, niente di che.

Esclama Kyle, stufo di trovare scuse per motivare la sua uscita settimanale.

Christian è nervoso ultimamente, parecchio, ed irritarlo è fin troppo facile. È sempre stato molto interessato alla scuola di Kyle e al suo rendimento. Per assicurarsi uno studio continuativo e costante da parte sua gli ha sempre proibito di uscire la sera durante i giorni scolastici. Quando quel mercoledì, di ritorno da scuola, Kyle gli ha comunicato senza nemmeno chiedere che quella sera sarebbe uscito con degli amici di scuola, la sua reazione non è stata molto positiva.

Se ne sta sulla soglia della cucina, con le braccia conserte e il grembiule con la scritta tipica “Kiss the cook” ancora addosso, il profumo di ciò che ha cucinato proviene dalle sue spalle e l’immagine nel complesso è piuttosto buffa, quanto lo è la sua espressione misto tra corrucciata e contrariata. Kyle ha trattenuto a stento un sorriso quando l’ha visto mettersi in quella posa, gli ha ricordato molto una di quelle mamme robuste ed iper-protettive dei vecchi telefilm anni cinquanta, una figura totalmente opposta a Christian, tral’altro.

-Lo sai cosa penso delle uscite in settimana, Kyle.

Kyle sbuffa. Non sa se ci tiene veramente a dare luogo a quell’incontro con Anthony. A dire il vero non ci vuole pensare perché è sicuro che finirebbe per crearsi mille e mille supposizioni in testa. Per tenersi occupato, intanto, cerca di convincere Christian a farlo uscire.

-Avanti, Chris! Non tornerò più tardi delle undici, promesso!

Christian fa una smorfia, non è del tutto convinto. Dalla sua espressione però Kyle deduce di essere quasi riuscito ad ottenere ciò che vuole.

-E poi la mia media scolastica è sempre alta. Lo sai che sono bravo Chris! Per favore…

Cerca di premere sul discorso “studente modello”, qualcosa che sicuramente sarà in grado di smuovere la decisione di Christian.

-Come si chiama questo locale?

Kyle apre la bocca ma non parla. Se n’è dimenticato, si ricorda di aver pensato di conoscere quel locale, nel momento in cui Anthony gliel’ha nominato, tuttavia ora non riesce nemmeno a ricordarselo quel nome.

-Ehm… non mi ricordo.

Christian scuote il capo.

-Non te lo ricordi o fai finta di non ricordartene perché in realtà è un postaccio?

Kyle nega e cerca intanto di ricordarsi.

-Nightwish forse…?

Christian aggrotta le sopracciglia confuso.

-Non è il nome di un gruppo musicale?

Kyle annuisce.

-Si ma deve essere anche il nome di quel locale…  Senti, non lo so! È di poco fuori dal nostro quartiere, tnon ritornerò più tardi delle undici, te lo ripeto!

Si mette una mano sul cuore, quasi ad indicare un vero e proprio giuramento, Christian sorride e rilassa quella sua posa rigida, poi sospira e porta gli occhi al cielo.

-Se torni per le undici, se mi telefoni quando arrivi e quando stai per tornare e se mi aiuti ad apparecchiare la tavola adesso, posso fare un’eccezione solo per questa volta.

Kyle sorride annuendo, ci sono voluti quasi dieci minuti ma è riuscito finalmente a convincerlo.

-Si certo Chris, tutto quello che vuoi!

 

Alle nove e mezza, dopo l’ennesima sfilza di “mi raccomando” da parte di Christian, che spaziano dai “stai attento quando attraversi la strada” a “non accettare bevande dagli sconosciuti”, Kyle finalmente è fuori di casa e cammina sul marciapiede in direzione del locale.

Il tramonto è arrivato tardi quel giorno, segno che l’estate è alle porte, ciò lo rallegra e lo fa sorridere.

Non appena è a meta strada, però, si blocca rendendosi conto del motivo per il quale sta prendendo quella precisa direzione. Tra poco vedrà Anthony, sempre che non abbia intenzione di giocargli un altro tiro mancino decidendo non presentarsi del tutto. Con lui dovrà discutere di ciò che è accaduto. È quasi stanco Kyle di dover pensare a quella faccenda, gli sembra di essere obbligato a rivivere quel preciso episodio con ogni persona che incontra.

Vorrebbe soltanto voltare le spalle e accantonare tutto da qualche parte, con l’intenzione di non riportarlo mai alla luce. Vorrebbe quasi congedare Anthony, senza parlargli e dirgli che non gli importa, che è acqua passata, solo per risparmiarsi la fatica di rimuginare su tutto quanto ancora e ancora e ancora.

Alza lo sguardo al cielo e vede la luna, quasi piena, comparire pian piano e diventare da pallida macchia bianca a splendente  semicerchio. Poco dopo arrivano le stelle ed un leggero venticello permette alla temperatura del giorno di fare posto a quella della notte. Un brivido percorre la schiena di Kyle, non sa se è per il vento o per i suoi pensieri, non si pone il problema.

Cammina, quasi in automatico, finché le luci al neon rosse dall’altro lato della strada lo bloccano, si gira e legge il nome “Nightmare”.

Era quello quindi il nome del locale. C’era andato vicino, dopotutto. Guarda attentamente prima a sinistra, poi a destra, poi di nuovo a sinistra, prima di attraversare in fretta la strada per raggiungere la parte opposta. Guarda l’orologio e segna le dieci e un quarto, non si era reso conto di aver camminato così a lungo, osserva a qualche metro di distanza e nota l’autostrada in fondo, ultimo elemento del suo campo visivo. Ha poco tempo per restare nel locale. Se non dovesse tornare per le undici Christian si infurierebbe con lui.

Si mette in fila. Davanti a lui ci sono giusto cinque o sei persone, normale, è mercoledì, non tutti escono. Lui per esempio non è mai uscito di mercoledì.

Entra nel locale e si pietrifica. È qualcosa che non ha mai visto, ha un che di perverso ed esoterico quel posto. Le pareti sono di pietra, o un materiale che gli assomiglia, sui banconi ci sono delle aste, come nei locali striptease, in alto tra il soffitto e la parete degli strani drappeggi rossi e pesanti scendono a cascata e poco più in là c’è un palco dove tre ragazzi dall’aspetto darkeggiante urlano una qualche canzone metal, qualcosa tipo Marylin Manson o Cannibal Corpse; decisamente tetro.

Si guarda intorno prima di accorgersi di Anthony a qualche metro di distanza, seduto ad un tavolino che gli fa cenno con la mano di avvicinarsi. Si sente decisamente stupido e spaesato, raggiunge il ragazzo e si mette a sedere sulla sedia vuota davanti a lui.

-Pensavo non venissi più.

Commenta Anthony, mentre Kyle si siede.

-Pensavo avessi scelto un locale più normale…

Ribatte Kyle, con un po’ d’asprezza.

-Comunque… voglio arrivare subito al sodo, se non ti dispiace.

Afferma Anthony, cerando di attirare completamente la sua attenzione. Kyle fa cenno di sì col capo.

-Mi dispiace davvero di non essere più venuto a scuola dopo quel giorno Kyle. Come ti stavo dicendo oggi, non ho più avuto il coraggio di guardarmi allo specchio, di uscire dal letto senza avere il desiderio di ritornarci. Sono stati dei giorni… infernali, credimi.

Infernale. È un aggettivo ancora poco calcato e poco efficace per esprimere ciò che ha provato lui in quel periodo di tempo. Gli insulti, le voci che lo seguivano in corridoio, il colloquio con il preside.

-Purtroppo ho raccontato della faccenda a Donald, il ragazzo di cui era innamorata Morgan e lui… ha ben pensato di spargere la voce a scuola.

Kyle sogghigna, se rivelasse a Morgan adesso chi è la persona che ha dato il via alle voci a scuola è certo che ovunque si trovi, qualunque cosa stia facendo, sarebbe capace di alzarsi e andare sotto casa sua, afferrarlo per il collo e urlargli addosso fino a stordirlo. È un immagine che lo diverte e lo distrae da ciò che sta ascoltando ora.

-È per questo che è nata tutta questa storia, è per questo che… Dio Kyle, quanto mi dispiace!

Anthony sembra veramente turbato e scosso ma Kyle non sa se credergli, vede nella sua reazione qualcosa di artificiale, qualcosa di pompato. Preferisce comunque continuare ad ascoltarlo, non lo interrompe. Aspetterà che finisca il discorso prima di fare i suoi commenti.

-Tutta quella storia dello psichiatra e degli incontri… è tutta un’idea di mio padre. Credimi Kyle, se mi dici che non ti va di farlo, di raccontare le nostre cose a qualcun altro… dimmelo. Impedirò a mio padre, per quanto posso, di portare avanti questo progetto.

Kyle trattiene a stenti una smorfia. Anthony sta cercando di mostrarsi come una sorta di principe azzurro, quando invece di principesco ha ben poco. Senza contare che il “nostre cose” appena usato che l’ha fatto rabbrividire non poco. Si contiene e non dice comunque nulla.

-Però sai Kyle, ho pensato parecchio in questi giorni e sono arrivato ad una conclusione…

Kyle si sta distraendo osservando le pareti e notando che appese ci sono diverse cornici con delle foto, alcune evidentemente vecchie, altre più recenti. I soggetti sono dei gruppi musicali, dei ragazzi che ballano, gente al bar e stripper alle aste.

Kyle sta ascoltando solo con un orecchio ciò che Anthony sta dicendo, non vede l’ora che la smetta con quelle storielle melense e false, per poterlo smentire e tornare a casa in tempo, per evitarsi la sgridata di Christian.

Sobbalza, non appena si accorge che Anthony gli ha afferrato le mani sul tavolo e il suo volto si trova esattamente di fronte al suo. Spalanca gli occhi.

-Non mi importa delle voci, né di nient’altro mi basta stare con te, Kyle.

Kyle non sa cosa dire, veramente. Era qualcosa che non si sarebbe mai aspettato. Gli sembra di colpo di trovarsi in uno scadente filmetto per adolescenti e la cosa lo scombussola, non poco. Anthony lo sta fissando con quei suoi grandi occhi nocciola, evidentemente in attesa di una risposta.

Kyle ritira le mani, sposta la sedia per alzarsi.

-Scusa, dovrei andare un attimo in bagno. Ti dispiace?

Anthony annuisce.

Kyle si alza in fretta e cerca il bagno. Intravede la scritta “toilette” da qualche parte in alto alla sua destra, cerca andare in direzione del cartello, passando sotto al palco dove un altro gruppetto di ragazzi sta suonando un brano simile a tutti quelli suonati prima.

Girando la testa per trovare la porta del bagno degli uomini, incrocia uno sguardo che non aveva occasione di vedere da tempo ma che è ancora in grado di paralizzarlo completamente.

-Kyle!

La persona si alza, si dirige in fretta verso di lui, che nel frattempo non si è mosso di un millimetro.

-Che cosa ci fai tu in un posto come questo?

Chiede, quel bell’uomo affascinante, dallo sguardo caldo, dal tono rassicurante. È come l’ancora di salvezza di Kyle in quel  posto così strano.

-John…

Dice lui, con un fil di voce.

 Jonathan. Non lo vede da così tanto tempo, non riesce a ricordarsi quante ipotesi siano create nel suo cervello riguardo ad un eventuale incontro con lui e in quel momento, in quella situazione particolare, non si ricorda niente.

Il suo profumo, lo stesso che aveva sentito qualche settimana prima in casa, lo avvolge come ha sempre fatto. Il suo mezzo sorriso lo confonde riguardo ai suoi pensieri. Osservandolo così, dopo tanto, non riesce ancora a capacitarsi come quell’uomo titanico dalle mani grandi e il bell’aspetto sia riuscito a ferire così tanto Christian e lui, di conseguenza.

-Di tutti i posti in cui ti avrei potuto trovare, proprio qui…

Commenta Jonathan, probabilmente sorpreso e spaesato quanto Kyle.

-Sei solo?

È l’unica cosa che riesce a chiedergli. Avrebbe probabilmente milioni di domande da porgli ma quella è l’unica cosa che riesce a dirgli e probabilmente avrebbe potuto evitarlo.

-Come…? Oh si, certo.

Kyle guarda in direzione del tavolino dove era seduto poco prima, vedendo se Anthony è ancora lì e lui è là, seduto a fissare un punto non preciso davanti a sé, aspettando che ritorni.

-Tu sei solo o sei con qualche amico?

Domanda Jonathan, cercando di osservare nella stessa direzione del suo sguardo.

-Io… ho un paio di amici ma… stavo giusto andando a casa.

Mente. Non dovrebbe, anche perché Jonathan è in grado di capire se mente o sta dicendo la verità, certo sempre che in quei mesi di assenza abbia perso la sua “abilità”. D’altro canto, a Kyle non interessa essere scoperto.

A poco a poco i mille pensieri riguardanti Jonathan riemergono, l’idillio dovuto dall’averlo rivisto dopo mesi è durato poco. Inizia a ricordarsi per quale motivo abbia deciso di ritardare così a lungo quell’incontro.

-E così adesso hai un nuovo appartamento…

È tutto quello che sa di lui. Non ha voluto sapere altro.

-Si, da un po’… quando vorrai venire a farmi visita io, beh, ci sarò.

Sorride ma a Kyle ora non fa più alcun effetto.

Inizia chiedersi quale sia la tortura peggiore tra Anthony e i suoi vaneggiamenti o Jonathan. Avrebbe solo voglia di mettersi a correre ed uscire da quel posto, tornare a casa, chiudersi in camera e dormire fino al giorno dopo e se non fosse sufficiente, fino alla fine di quell’incubo che sta vivendo.

-È una novità?

Chiede Jonathan irrompendo nei pensieri di Kyle.

-Come scusa?

Chiede, confuso.

-Il fatto che tu possa uscire durante la settimana.

Kyle annuisce.

-Solo per oggi.

Lo sguardo di Kyle ricade verso il polso destro di Jonathan, porta un orologio nuovo, un Panarei, una delle sue marche preferite. Si chiede quanti ne abbia comprati da quando se n’è andato e inizia a sembrargli strano che non sia tornato a riprendersi la sua collezione.

-L’ho comprato un paio di mesi  fa ma non l’ho mai messo.

Commenta Jonathan, accorgendosi dell’attenzione di Kyle per l’orologio.

Con l’altra mano, velocemente slaccia il cinturino metallico, lo toglie e lo porge a Kyle.

-Non piace neanche troppo. Se vuoi te lo regalo.

Kyle lo guarda paralizzato. In tutti quegli anni di convivenza non gli ha mai regalato un orologio. Certo, ne ha comprato qualcuno anche per lui ma regalargliene uno dei propri, non era mai successo. È qualcosa di veramente strano, che Kyle non si spiega.

-Dico sul serio, prendilo se lo vuoi.

“Non voglio niente da te.”

È una frase che per poco non gli sfugge dalle labbra, non la pensa e nemmeno vorrebbe dirla, è semplicemente il rancore che ha dentro che fa a pugni per uscire, gli stringe la gola, gli blocca il respiro. Non potrà trattenersi per molto.

-No, ti ringrazio. Non li porto gli orologi, lo sai.

Jonathan si rimette l’orologio al polso, senza rispondere. Forse sperava seriamente che Kyle lo accettasse.

-Fino a che ora puoi stare fuori?

Chiede, cambiando discorso.

-Le undici.

Jonathan controlla l’orario.

-Sono già le undici. Dovresti essere a casa.

Kyle spalanca gli occhi. È tardi. Christian lo chiamerà di lì a poco, si beccherà una bella sgridata, ne è certo. Butta un occhio in direzione di Anthony, si sta alzando in quel preciso istante e apparentemente lo cerca nel locale. Lo sguardo di Kyle passa da Anthony a Jonathan e viceversa.

-Posso portarti a casa io.

Propone Jonathan.  Kyle non risponde lo guarda soltanto, lo scruta anzi, quasi volesse leggergli la mente, per trovare un eventuale secondo fine.

-Lo faccio per te. Ti lascio in fondo al viale, se vuoi.

Eccolo. Non l’ha persa quell’abilità, ha decifrato i suoi pensieri in un battito di ciglia. Almeno quello non è cambiato in lui.

-Va bene.

Accetta.

In fretta raggiunge Jonathan alla macchina, sale, si allaccia la cintura e respira profondamente.

-In fondo alla via o davanti al cancello?

Domanda Jonathan mettendo in moto.

-Non lo so. Fai quello che vuoi.

Dice, quasi sussurrando, con lo sguardo fisso e la testa altrove. Vorrebbe girarsi e vedere se ci sono ancora i suoi fogli e i suoi cd nelle tasche dei sedili posteriori ma non ha il coraggio di farlo. Ha paura che Jonathan in un momento di decisione abbia pensato di buttare via tutto quanto. Ha paura che dopo il suo atteggiamento freddo, il suo ignorarlo di proposito, Jonathan abbia pensato di liberarsi di quei pochi ricordi che gli erano rimasti di lui.

-Ho ancora il tuo cd dei “Death Cab”, se allunghi il braccio lo trovi.

Kyle chiude gli occhi e respira. Ancora una volta gli ha letto nella mente. Non è un caso, non lo è mai stato. Constatare che nonostante i mesi di non frequentazione sia ancora in grado di capirlo lo spaventa, si sente quasi messo alle strette. Vorrebbe dirgli di fermarsi, slacciarsi la cintura e iniziare a correre lontano.

-A scuola come va?

Cambia argomento. Non sa se ha intenzione di farlo sentire più a suo agio, se sta cercando un modo di avere un qualche contatto con lui o se ha capito che ha qualcosa che non va. L’ultima ipotesi è decisamente assurda, è bravo a capirlo ma non è un veggente, come potrebbe sapere di ciò che gli sta accadendo?

-Al solito.

-Anche in matematica?

Chiede. Sta solo cercando un contatto, ne è praticamente sicuro. È normale.

-Me la cavo. Mi aiuta Morgan.

Jonathan sorride, quel suo solito mezzo sorriso.

-E lei come sta?

-Bene direi.

Risponde Kyle, lapidario. Anche volendo, non riuscirebbe a superare le due parole.

-L’altro giorno ho visto che ha ripreso la pubblicazione di quel fumetto che leggevi, come si chiama … Death Note?

Kyle annuisce.

-Si, l’ho comprato.

-E… com’è andata a finire poi? Sua sorella l’hanno uccisa?

Incredibile che si ricordi ancora. Jonathan non ha mai letto quei fumetti, quello che sa gliel’ha raccontato lui, a tavola o i macchina. Ha anche una buona memoria.

-No. Però è morto suo padre…

Jonathan annuisce, senza parlare. Guarda la strada e ascolta. Aspetta a parlare, probabilmente spera sia Kyle ad introdurre qualche tipo di discorso. Naturalmente Kyle non parla e in fretta arrivano all’ingresso del viale che porta verso casa.

-Bene. Ti lascio qui in fondo alla via?

Kyle scuote il capo, non lo guarda.

-Vai avanti.

Jonathan annuisce e prosegue dritto. Arrivati sotto casa si ferma.

-Siamo arrivati. Quindi ci sal-

Kyle si gira di scatto.

-Ci  sono dei giorni in cui mi manchi sul serio e dei giorni nei quali vorrei che tu te ne andassi per sempre.

Jonathan rimane spiazzato, anche Kyle lo è. Avrebbe voluto scendere, salutarlo e non pensarci più ma sapeva che qualche frase sconveniente gli sarebbe scappata, se l’aspettava.

-Dei giorni in cui vorrei telefonarti e raccontarti cose che vorrei sapessi solo tu, altri nei quali vorrei ti dimenticassi di me, che smettessi di cercarmi.

Jonathan non risponde ancora. Non è chiaro se non lo faccia perché realmente non sa cosa dire oppure se sia quella la sua risposta, il silenzio.

-Dei giorni in cui mi ricordo di quando mi portavi al cinema o al parco e quanto vorrei tornarci per poi pensare che forse, se non mi ci avessi portato, ora starei meglio. E…

Si blocca. Senza rendersene conto ha le lacrime agli occhi.

-… e dei giorni nei quali mi rendo conto che…  sia tu sia Christian siete soltanto degli egoisti.

Si slaccia in fretta la cintura apre la portiera e scende. Jonathan non lo ferma, sa che è inutile, aspetta però a partire, aspetta che entri.

Non appena Kyle è entrato, parte e se ne va. Il rumore della macchina fa scorrere le lacrime di Kyle, il ragazzo si siede sul pianerottolo dell’atrio, appoggia la schiena al muro e piange. Non sa che ore sono,  sa solo di essere in ritardo. Christian lo starà aspettando in salotto furioso, forse si è giocato la possibilità di uscire la sera ma in quel momento non gli interessa.

In quel momento vorrebbe soltanto chiudere gli occhi, contare fino a dieci, poi riaprirli per scoprire che tutto quanto è passato che l’incubo è finito, proprio come faceva da bambino con i mostri sotto il letto.

 

--> Ce l’ho fatta! Ho aggiornato prima di Natale^^ sono stata brava? Bene. Voglio ringraziare jaryshanny e twy per le recensioni puntuali e naturalmente gradite. È anche grazie ai vostri due commenti rapidi e interessati che mi sono data una “mossa” ho deciso di combattere (per questa volta ^^”) con la mia pigrizia! Spero che questo capitolo piaccia. Pian piano ci avviciniamo alla “fase della storia” che sto scrivendo ora e, tral’altro, in settimana sono riuscita ad andare avanti, yuppi!! Ok, questo è quanto.

Vi auguro definitivamente Buone Feste e vi do appuntamento al capitolo 20! <--

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Capitolo 20
*** Who is what (Chi è cosa) ***


20. Who is what. (Chi è cosa.)

Dopo essersi asciugato le lacrime per quanto sia possibile per cercare di mascherare un pianto disperato e farlo passare per un momento di debolezza, Kyle si alza dalla scala, respira profondamente e guarda le due rampe che ancora deve salire prima di raggiungere l’appartamento. Potrebbe semplicemente prendere l’ascensore. Non lo fa perché gli serve tempo per calmarsi, per riprendersi da ciò che si sente addosso.

Quello che ha appena detto a Jonathan lo pensa, glielo voleva dire. Non si pente di esserci riuscito, semplicemente avrebbe voluto avere più coraggio, proseguire il discorso e non fuggire in quel modo così infantile, quasi colpevole. Sa di non avere nessuna colpa, lo sa bene.  Ha tutto il diritto di dire la sua, quella situazione non dovrebbe toccarlo personalmente eppure c’è dentro fino al collo e non può fare nulla, non può uscirne. L’unico modo che ha è allentare quel nodo che gli stringe la gola, liberandosi di tutte le parole e i pensieri che si tiene dentro, che lo spaventano.

Sono già le undici e dieci. Mentre si appresta a salire tasta nella tasca posteriore dei jeans, estrae il cellulare, preme un tasto a caso e aspetta di veder comparire sullo schermo l’avviso di qualche chiamata persa, di qualche messaggio non letto.

Nulla.

Si sorprende. È strano che Chris non l’abbia cercato. Solitamente l’avrebbe tempestato di messaggi, di telefonate. Sarebbe uscito, anche in pigiama, sarebbe saltato in macchina e l’avrebbe raggiunto, ovunque si trovasse. Inizia preoccuparsi. Christian è iper-protettivo, è apprensivo. Un secondo di ritardo lo preoccupa.

Kyle velocizza il passo, raggiunge in fretta le scale, strofinandosi nel contempo gli occhi per eliminare ogni residuo di pianto. Arrivato alla porta d’ingresso si ferma. Riesce a vedere uno spiraglio di luce da sotto la porta, quindi è in casa e probabilmente in salone ad aspettarlo.

Deglutisce, afferra la maniglia e apre lentamente la porta. Christian è seduto sul divano, alza il capo non appena lo vede entrare ma non dice una parola. Kyle si chiude dolcemente la porta alle spalle, senza distogliere lo sguardo da Christian. Cerca di decifrare la sua espressione, di capire a quale livello possa essere la sua rabbia. È strano, non ha iniziato ad urlare, non l’ha assalito, c’è decisamente qualcosa che non va.

Non sa se parlare e scusarsi oppure semplicemente salutare e ritirarsi in camera, prima che cambi idea ed inizi una delle sue solite ramanzine. In ogni caso non riesce a muoversi, i suoi piedi sono come incollati al pavimento, il suo sguardo non riesce a fare a meno di staccarsi da Christian.

-Sono in ritardo…

Riesce a dire, con un filo di voce che parte con un tono moderato per poi finire in un sussurro.

Christian si limita ad un cenno col capo. È seduto in una delle sue posizioni strane, il peso del corpo poggia su una gamba, piegata sul divano, mentre l’altra è lasciata a penzoloni. È nervoso.

Kyle lo intuisce dal piede a penzoloni che si muove freneticamente, quasi ricevesse scariche elettriche. Un altro indizio sono i suoi occhi spalancati.

-Ora vai a letto.

Esclama Christian, con un tono di voce neutro. Non è un rimprovero, un ordine forse. Kyle non riesce però a intuire nulla.

Si accontenta della reazione, in parte felice per aver scampato la ramanzina ma comunque confuso, terribilmente confuso. Annuisce, guarda in direzione della sua stanza e poi si muove. I piedi gli sembrano due macigni e fa quasi fatica a sollevarli da terra, li struscia lungo  il pavimento. Non appena raggiunge la porta della camera, la voce di Christian lo blocca.

-Avrei solo voluto che me lo dicessi, che andavi da lui.

Kyle spalanca gli occhi, si gira e osserva Christian. Di chi sta parlando? Di Jonathan o di Anthony?

Christian si alza dal divano, gli volta le spalle ed inizia nevroticamente a sistemare i cuscini del divano sui quali era poggiato.

-Eppure io non ti ho impedito di andare.

Jonathan, sta parlando di Jonathan. Kyle tira un sospiro di sollievo.  Aveva temuto per un attimo stesse parlando di Anthony anche se gli sembra praticamente impossibile che ne sappia qualcosa, chi mai avrebbe potuto dirglielo?

-Chris io non lo sapevo! Non ero lì per lui, io-

Christian lo interrompe,smette di sistemare i cuscini e si mette a braccia conserte ad osservarlo e parlargli. Il suo sguardo è rigido, impassibile.

-No. Niente balle Kyle, sai bene che non le sopporto.

Kyle scuote il capo.

-Non è una balla Chris, è la verità! Io non ero lì per lui, io l’ho incontrato. Chris devi credermi!

Il cuore gli batte forte mentre parla. Teme di aver ferito Christian, di aver in qualche modo aumentato il suo dolore. Non voleva farlo, non ha pensato a lui in quel momento. Inizia a ritenere se stesso colpevole di egoismo, avrebbe dovuto affrontare i suoi problemi con Anthony e tornare al tavolo con lui invece di scappare come un vigliacco da Jonathan.

-Era il “Nightmare” il locale, vero? Stavo scendendo nell’atrio ad aspettarti,  sarei venuto a cercarti ma poi ho visto la sua macchina.

Kyle si avvicina a Christian,gli afferra un braccio e lo stringe, con decisione, lo fissa intensamente negli occhi e inizia a parlargli.

-Io non lo volevo vedere, Chris! Non mi interessava capisci?! Io non ero lì per quello!

I suoi occhi si preparano a riempirsi di nuovo di lacrime, per la seconda volta nel giro di pochi minuti. Cerca di trattenersi, chiude gli occhi e inspira, cercando di arrestare  il processo.

-Non mi importa Kyle. Hai il diritto di vederlo, semplicemente non voglio tu mi menta.  Non voglio che nessuno pensi che ti impedisca di vederlo, perché io voglio che tu lo veda.

Le sue parole sono scandite, il suo tono è freddo, rigido. Sembra stia recitando, sembra che quelle non siano le sue vere parole. Kyle improvvisamente lo abbraccia. Il gesto lo coglie di sorpresa, resta infatti rigido, non risponde all’abbraccio, non si muove.

-Scusami, scusami tanto. Io non voglio ferirti, tu non hai colpe, nessuna! È tutta colpa mia, è sempre colpa mia!

Esclama, con disperazione. Christian scioglie l’abbraccio, afferra il figlio per le spalle e lo strattona.

-Che cosa stai dicendo?! Santo Dio Kyle, per cosa ti stai incolpando, spiegamelo! Perché se è per quello che penso, inizio a temere che tu non debba più vivere con me.

Kyle spalanca gli occhi e scuote il capo.

-No, no Chris! Non è quello.

Riesce a sfuggire dalla presa di Christian, fa un lungo e lento respiro prima di riprendere a parlare, prima di cercare di spiegarsi.

-C’è qualcosa. Qualcosa che non ti ho detto . Non c’entra con Jonathan né con te è una cosa… mia. È un mio sbaglio, un mio errore. Se non l’avessi fatto…  avrei evitato accuratamente Jonathan e…

Christian scuote il capo, e sovrasta la sua voce.

-Questo non lo devi dire, non è normale che tu-

Kyle urla, interrompendolo.

-Ascoltami! Lasciami parlare!

Christian appare confuso, spaventato forse. È normale che lo sia, non sa cosa aspettarsi da Kyle e molto probabilmente quello che sentirà tra poco lo sconvolgerà, gli farà sospettare di non avere nemmeno davanti il suo stesso figlio, di parlare con un’altra persona. Almeno questo è quello che teme Kyle, mentre cerca di trovare la forza di guardarlo negli occhi, di staccare lo sguardo dal pavimento ma soprattutto di trovare le parole giuste.

-Possiamo, per favore, sederci?

Sta temporeggiando ma questa tattica gli serve a poco.

***

Jonathan cerca di non pensare alle parole appena dette da Kyle, evita di volgere lo sguardo verso il sedile del passeggero, dove vede ancora la proiezione di Kyle con uno sguardo impaurito, con un espressione rancorosa che non gli ha mai visto in viso e che gli pare tutt’ora una strana maschera che non gli appartiene.

Ha sempre compreso al volo suo figlio, tranne poco prima. Gli è sembrato quasi di parlare con uno strano manichino senza volto con le sue sembianze. Era andato a tastoni eppure il suo Kyle era cambiato. Com’era possibile? Erano passati dei mesi, certo. Ma come poteva cambiare? Era così dal giorno in cui lui e Christian l’avevano portato a vivere con loro. Non era cambiato in tutti quegli anni. Qual’era la colpa di quel cambiamento repentino?

“È colpa mia.”

Afferma a chiare lettere una voce nella testa di Jonathan. È la sua coscienza, è il suo cervello, non può fare a meno che imputarla a sé stesso quella colpa, anche quello. Tutto va a sommarsi nella lista delle pene da scontare che si fa sempre più lunga e dolorosa.

Non vuole andare a casa, non vuole tornare in quel buco buio e silenzioso, ha bisogno di rumore, di distrazioni. Decide di tornare al “Nightmare”, troverà qualcuno con cui parlare, ballare, berrà, e per un attimo dimenticherà i suoi pensieri. Come un triste omuncolo di mezza età troppo vigliacco per affrontare i propri problemi di petto.

Scrolla rapidamente la testa e sistema lo specchietto retrovisore,  accelera. Rripercorre al contrario la stessa strada di poco prima. Occupa lo stesso parcheggio ed entra. Nel frattempo il locale si è riempito. Non se lo aspettava, è mercoledì, un giorno a metà settimana. La gente lavora, cosa ci sarà mai di speciale mercoledì? Non appena entra nota che buona parte dei presenti nel locale sono addossati al palco dove un giovane trio sta suonando una qualche canzonetta vagamente orecchiabile.

Il suo sguardo incrocia quello del cantante. È vestito di nero, pantaloni di pelle nera, maglietta a rete dello stesso colore. Magrolino, asciutto, capelli chiari, occhi azzurri.

Un flash.

È Christian. Glielo ricorda terribilmente. Si avvicina al palco, si fa spazio tra la folla con frenesia, cercando di evitare le gomitate e i calci della gente, deve raggiungere quel palco. Una volta raggiunto l’osserva.

È un ragazzetto alquanto ordinario. Ha ben poco a che fare con Christian. Occhi azzurri slavati e per niente luminosi, fisico che lascia poco spazio all’immaginazione. Non è niente di speciale. Carino nel complesso, ad occhio giovane. Non gli piace, non gli piace per niente.

Forse semplicemente perché non  è lui.

Si allontana dal palco e si dirige in direzione del bar. Si pente di aver solamente pensato di paragonare Christian a quel ragazzo tanto ordinario. Christian che è così particolare, così speciale. Forse è stata semplicemente l’atmosfera ad averglielo ricordato. L’ha conosciuto in modo molto simile. I loro sguardi si erano incrociati ed era stata subito magia. Ma Christian non era è non mai stato soltanto bello, c’era qualcosa di più della mera seduzione del suo sguardo, c’era uno spirito che voleva essere liberato, uno spirito irrequieto e acerbo.

Si siede su uno sgabello al bar e si ritiene piuttosto sadico. Quel luogo è una camera delle torture. Poco meno di un’ora prima ha incontrato Kyle, un incontro che l’ha sconvolto, che ha inflitto al suo cuore l’ennesima pugnalata. Ora si trova a rivivere il suo passato, a rivedere Christian ovunque.

Deve essere decisamente pazzo, sadico e malato se non è riuscito a trovare un posto migliore per procurarsi delle distrazioni.

Ordina un Jack Daniel’s, è il secondo della serata e prevede non sarà l’ultimo. Nel frattempo la musica ha smesso di fare da sottofondo e il palco è vuoto, un vociare generale riempie l’ambiente.

Appoggia il bicchiere mezzo vuoto al bancone e osserva il liquido giallognolo. Sta pensando, non sa bene a cosa. Dopo qualche minuto di contemplazione afferra il bicchiere e beve tutto d’un sorso il contenuto.

Non è possibile distinguere il coro di voci di sottofondo ma Jonathan riesce a sentirne una, una voce roca, piuttosto profonda, che sa riconoscere perfettamente, nonostante il tempo passato.

-Proprio un bel fighetto il cantante, un colpaccio eh?!

È questo che dice. Jonathan si volta e a pochi metri da lui lo vede;  è Abraham Dickson, il vecchio proprietario del locale. Non è cambiato di una virgola, il solito maiale grasso e stempiato, viscido come sempre. Lo sente ridere mentre parla con altri due uomini.

Appoggia con decisione il bicchiere sul bancone e lo raggiunge.

L’uomo lo nota arrivare, allarga le braccia.

-Oh, gente! Guardate chi si vede! Guardate cos’ha sputato fuori l’Upper East Side questa sera!

Esclama, rivolto agli uomini con i quali stava parlando poco prima.

-Abraham Dickson. Mi sembrava di aver sentito il tuo grugnire da porco.

Risponde Jonathan, non appena lo raggiunge.

-Banale come sempre, Wallace. Signori, voglio presentarvi Jonathan Wallace,che mi piace definire “il buon sammaritano”.

I due uomini sogghignano. Jonathan fa una smorfia.

-Abbiamo sempre dei conti da regolare…

Commenta Jonathan seccato.

Abraham fa una smorfia e allunga un braccio per indicare il bancone del bar.

-Perché prima non ti unisci a me e questi signori per fare una bevuta? Ogni discussione tra veri uomini si risolve davanti un bicchiere di scotch.

Jonathan si lascia convincere e si siede con i tre al bar. Dopo una presentazione sommaria scopre il nome dei due signori che, oltretutto, sono un deputato parlamentare e un dottore del Colubus Hospital. Due personaggi alquanto distinti, a quanto pare.

-Ma dimmi un po’, Wallace, qual buon vento ti porta qui in questa tana dopo tutti questi anni? Non hai la tua bella mogliettina a casa che ti aspetta?

Jonathan respira profondamente, ogni parola di quell’uomo lo urta terribilmente.

-Avevo voglia di bere qualcosa.

Risponde, rapidamente.

-Oh, bene.  Giusto per celebrare questa tua visita, mostrerò anche a te ciò che stavo per mostrare a questi due signori.

Abraham alza mano e schiocca le dita. Dopo qualche secondo, tra la gente, si fa spazio il ragazzo di poco prima, il cantante che Jonathan aveva paragonato a Christian che si avvicina ad Abraham.

È ancora più magro e fragile, visto da vicino. Terribilmente giovane, sedici, forse diciassette anni.

-Mi hai chiamato, Big Boss?

Jonathan avverte un brivido nell’udire ancora quel nomignolo dopo molto tempo. “Big Boss”, decisamente un nome adatto a qualcuno con poca autostima e chiare manie di grandezza.

-Si. Fatti un po’ vedere da questi signori.

Le dita grasse e sudaticce di Abraham percorrono il viso acerbo e sbarbato del ragazzino, che riesce a malapena a tenere gli occhi aperti.  È spaventato, terrorizzato.

-Non è un bel pezzo di carne?

“pezzo di carne”. Jonathan si trattiene a stento dalla voglia di sputare in faccia a quell’uomo.

-Cosa ne pensi Wallace, tu te ne intendi, non è carino?

Il ragazzino spalanca gli occhi e fissa Jonathan, quasi in cerca di aiuto. Jonathan non resiste abbassa lo sguardo, gli sembra di vivere uno strano dejà-vu.

Abraham sogghigna, allontana il ragazzino e ordina altro da bere per i suoi amici.

-Sai Wallace, hai ragione. Il pezzo migliore è già andato, te lo sei preso tu.

Jonathan stringe forte il pugno destro, il desiderio di stendere a terra quell’uomo ignobile è fortissimo, inizia a chiedersi per quale motivo non l’abbia ancora fatto. Si meraviglia dell’autocontrollo che sta avendo.

-Sapete signori, quest’uomo mi ha strappato Christian Simmons  il mio “Iron Crystal”, l’affare migliore che abbia mai concluso. Quello era un ottimo pezzo di carne, perfetto, faceva di tutto. La migliore puttana del mio giro.

Jonathan si lascia scivolare il bicchiere di scotch dalle mani che cade a terra frantumandosi.

-Hai qualche problema, Wallace?

Chiede, viscidamente, osservando i vetri a terra.

-Stai zitto.

Esclama Jonathan a denti stretti, scandendo lettera per lettera.

-Oh, ti ho offeso? Non dovresti negare la verità, è quello che era no? Una puttana che si vendeva bene.

 Jonathan non resiste, non riesce più a trattenersi, sferra un pugno deciso in piena faccia di Abraham che cade dallo sgabello.

I due uomini si rivolgono sguardi increduli e osservano il padrone del locale steso a terra con la faccia sanguinante e le gambe per aria.

Jonathan osserva la mano con la quale ha appena colpito l’uomo. Non faceva a pugni con nessuno dal tempo del liceo, è una sensazione strana, quasi piacevole.

-Sicurezza!

Urla da terra Abraham. Jonathan alza una mano.

-No, non c’è bisogno. Me ne vado con le mie gambe.

***

-Di’ qualcosa Chris, ti prego!

Esorta Kyle, dopo aver finalmente trovato il coraggio per dire tutto a quanto a Christian. Non ha tralasciato nessun particolare, gli ha raccontato tutto quanto e ha visto la sua espressione mutare da preoccupata a incuriosita a sorpresa. Non ha detto nulla, non ha fatto un gesto. Si è limitato a spalancare gli occhi e ora lo sta fissando, continua a fissarlo, nell’attesa che aggiunga qualcos’altro. Sembra pensare che il discorso di Kyle debba proseguire. O forse spera che salti fuori con una trova del tipo “è uno scherzo!”. È quello che Kyle riesce ad intuire.

-Non credo di aver capito Kyle.

Afferma Christian, scuotendo il capo con disapprovazione. Si sistema meglio sul divano, si mette più comodo forse, attendendo sempre qualcos’altro da parte di Kyle, altre argomentazioni.

-Ma si, certo che hai capito! Io ho fatto ad Anthony Edwards-

Lo ferma. Gliel’ha detto una volta a chiare lettere, probabilmente non sopporta doverlo sentire un'altra volta. Kyle arrossisce e abbassa lo sguardo. Se gliel’avesse fatto ripetere, sicuramente non sarebbe arrossito.

-Questo l’ho capito. Non ho capito il problema. Hai fatto quello che hai fatto, va bene. Non condivido il modo ma… insomma, pensi che una cosa del genere potesse scioccarmi in qualche modo?

Kyle scuote il capo. Cerca di spiegarsi meglio. Ciò che gli ha appena raccontato, in fondo, è stata la parte più facile. Sapeva non si sarebbe sconvolto per così poco. Cose del genere non dovrebbero toccarlo nemmeno.

-Il punto è che… ora non so nemmeno io cosa voglio e chi sono. Non so se l’ho fatto per ribellione, curiosità o… se mi andava di farlo e basta.

Christian sospira, forse ha capito. Almeno lo spera Kyle, spera che Christian lo capisca e che sappia dirgli qualcosa.

-Beh ma è normale, sei un adolescente. Lo capirai. Era tutto qui il problema? Era questo che non volevi dirmi?

Kyle è sorpreso. Sorpreso dalla reazione positiva di Christian. Sembra che per lui sia una cosa semplice quasi banale e che non ci sia alcun problema. Forse ha ragione lui, forse è normale nell’adolescenza comportarsi in quel modo.

-Si… forse hai ragione tu. Però fatto sta che mi sono cacciato in bel casino.

-Che casino?

Chiede Christian, ancora non capendo la situazione.

-Quel ragazzo, quell’Anthony, a quanto pare non è così… “sereno” riguardo alla cosa. I suoi genitori sono piuttosto importanti a scuola e hanno considerato la cosa uno scandalo.

Christian si alza in piedi dal divano.

-Ti hanno preso in giro?! Si sono permessi di prenderti in giro?!

Sembra arrabbiato, seccato. Kyle cerca di calmarlo.

-No no, Chris. Al contrario, stanno cercando di insabbiare la cosa. La scuola mi sta facendo avere degli incontri con uno psichiatra…

Christian spalanca gli occhi.

-Uno psichiatra? Perché hai fatto un… una cosa ad un ragazzino? Ma che razza di criteri sono questi?!

Alla fine la reazione esagerata di Christian è emersa, non però nel punto nel quale si sarebbe aspettato Kyle, che prosegue con il suo discorso. Ha raccontato quasi tutto a Christian, si senti libero finalmente, sente che il peso che l’opprimeva finalmente se n’è andato. È sicuro di riuscire all’ultima seduta dallo psicologo di chiarire tutto quanto. Presto finirà tutto, potrà finire i suoi ultimi giorni a scuola in modo sereno.

-Tranquillo, non è niente di invasivo o strano. Lo psichiatra è un uomo dai buoni modi, un po’ come… lui.

La rabbia di Christian si spegne improvvisamente, quasi qualcuno avesse premuto un interruttore. I suoi occhi spalancati si socchiudono, tutto il suo corpo irrigidito pian piano si rilassa.

-Si me lo… me lo ricorda molto. Deve avere giusto qualche anno in più, si chiama Gregor, se non sbaglio.

Christian sobbalza, velocemente riassume la posa di poco prima,la sua bocca rimane semi-aperta i suoi occhi sono spalancati. È Kyle, questa volta non spiegarsi questa reazione.

-Cosa c’è?!

Christian afferra il figlio per le spalle e lo strattona, con forza.

-Mi fai male!

-Lo psichiatra Kyle… il nome è Gregor Andrew Northshare?

Kyle annuisce, continuando a lamentarsi per la presa troppo decisa del padre e cercando di liberarsi. Christian lo lascia andare.

-Quello schifoso figlio di puttana.

Kyle è sorpreso. Non sente spesso Christian imprecare in quel modo o riferirsi alla gente con quel tipo di nomignolo. Deve conoscerlo per forza quell’uomo. Non se l’aspettava.

-Lo conosci?

Christian fa una smorfia. È visibilmente innervosito.

-Se lo conosco?  Direi proprio di si.

Si morde il labbro. Passa qualche istante prima che riprenda a parlare, Kyle rimane in attesa, lo fissa. Sa che tra poco dirà qualcos’altro.

-Quell’uomo… puoi chiamarlo…  nonno.

Kyle spalanca gli occhi. Non è sicuro di aver capito, non ha capito, non può avere detto veramente quello.

-Che… che cosa…?

Christian annuisce.

-Già, nonno.

 

--> Le vacanze sono finite ed eccomi qui a postare un nuovo capitolo della mia storia. È uno dei miei preferiti, specialmente lo scontro tra Jonathan e Abraham Dickson. Tral’altro è anche un capitolo rivelatorio^^ e dà un indizio sulla figura di Gregor…  Spero piaccia anche a voi.

Ora passo a ringraziare jaryshanny e twy per i commenti.

Saluto e do appuntamento al prossimo capitolo! <--

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Capitolo 21
*** Living the pain (Vivere il dolore) ***


21. Living the pain (Vivere il dolore)

Non credeva alle sue orecchie e non può pensare che veramente quell’uomo sia riuscito ad intrufolarsi di nuovo nella sua vita. Ha fatto fatica ad allontanarlo da sé, da Jonathan. Ora probabilmente il suo intento è quello di avvicinarsi a Kyle. Cammina avanti e indietro per la stanza, incredulo e nervoso. Ha decisamente perso la pazienza. Avrebbe voglia di infilarsi un paio di scarpe e andare sotto casa di quell’uomo. Si ricorda ancora dove abita, gliene direbbe quattro, non gliela lascerebbe passare liscia, nemmeno questa volta.

Si mette a sedere sul divano, sta camminando avanti e indietro lungo lo stesso pezzo di pavimento da mezz’ora, ha paura di consumarlo. Ha mandato Kyle a letto. Sa che l’indomani o poco più tardi dovrà spiegargli il ruolo di quell’uomo che gli ha tenuto nascosto fino a quel momento e che tanto avrebbe voluto rimanesse tale. Inizia a pensare a cosa  possa avergli ficcato in testa, cosa possa avergli detto. Spera sinceramente che sia ancora presto, spera non sia riuscito a completare su di lui lo stesso lavaggio del cervello che aveva fatto a Jonathan.

Già, Jonathan.

Inizia pensare che molto probabilmente ha iniziato a vederlo di nuovo, a frequentare ancora assiduamente il suo studio. Gli vengono i brividi solo al pensiero di ciò che possa avergli detto. Sa che Gregor ha un fascino particolare, una strana charme. Sa che è in grado di incantare la gente e di sedurla. Quando ha conosciuto Jonathan era in sua balìa, eppure aveva vinto lui, quella volta.  Jonathan aveva preferito lui a Gregor e non aveva più avvertito il bisogno di averlo nella propria vita, non l’avevano presentato nemmeno a Kyle. Questa decisione era stata presa da entrambi e dopo ciò Christian aveva sinceramente sperato che Gregor avesse perso su di Jonathan ogni minimo potere.
Per Christian Gregor è semplicemente uno sciacallo ed infatti è apparso a mangiare i resti del loro rapporto frantumato nel tentativo di reimpossessarsidi Jonathan, tentando il colpo anche con Kyle.

Sa che faticherà a prendere sonno quella notte, non ci riesce normalmente ed è pressoché certo che di non riuscire a chiudere occhio dopo quanto saputo. Decide di andare a fare una doccia per cercare di calmarsi quantomeno il necessario per evitare di urlare e di impazzire completamente. Raggiunge il bagno e si siede sul bordo della vasca. Reputa che sia meglio un bel bagno, con acqua tiepida. Apre i due rubinetti miscelando opportunamente l’acqua, chiude il tappo e attende che la vasca si riempia. Respira profondamente, ad occhi chiusi e comincia a pensare, a ripensare di nuovo. Allunga un braccio per afferrare il flacone di bagnoschiuma e versarlo nella vasca. Si blocca.

“Jonathan lo saprà?”

Si chiede. Per un attimo la tentazione di chiudere il rubinetto, alzarsi e telefonargli è forte, fortissima. Salvo poi ritrovarsi a pensare che non saprebbe come spiegarsi, non saprebbe affrontare la conversazione a sangue freddo. Finirebbe per urlagli contro e, inevitabilmente, tornerebbero a parlare di loro, del loro rapporto. Litigherebbero.

Basta litigare, basta macchinare.

Vuole solo rilassarsi e passare qualche ora in un posto diverso, dove tutto questo non lo tocchi, dove possa aver modo di fare qualcosa di differente. Quando la vasca è piena fino a metà chiude il rubinetto. Si sveste rapidamente gettando tutto quanto sul pavimento e si lascia scivolare lungo le pareti della vasca. Respira il profumo del bagnoschiuma alla lavanda che poco a poco entra a contatto con la sua pelle. Da tanto tempo che non si concedeva un bagno caldo ed è sicuro di non essere mai entrato in quella vasca da solo. Non gli è mai piaciuto fare il bagno da solo, quella vasca è così grande per una persona sola, così piena e profonda da affogarci.

Pensa che non è poi così male, dopotutto. Il piacere di un bagno caldo è lo stesso, anche se lo si fa soli. Inizia a ricordare la prima volta che lui e Jonathan hanno condiviso una vasca insieme, era quella del bagno di casa sua, a Santa Monica. Era così piccola quella vasca a differenza dell’attuale e così stretta. Eppure nessuno dei due s’era lamentato.

Santa Monica.

-Andremo a Santa Monica!

Esclama improvvisamente, quasi si stesse rivolgendo a qualcuno. È tanto che non torna a casa dai suoi genitori, un paio di estati forse. Pensa sia giusto che Kyle veda i nonni e pensa anche che in quel posto potrebbe rilassarsi e distrarsi.

Si, è deciso, c’andrà. L’indomani mattina lo comunicherà a Kyle. Per il momento chiude gli occhi e si gode il suo bagno.

***

Non riesce a credere a quello che ha appena fatto. Continua a guardarsi la mano, le nocche ancora umide e con qualche goccia di sangue. Pensava di averlo passato da tempo il periodo delle botte, delle risse. Ha sempre desiderato farla pagare a quell’uomo, a quel verme. Sorride quasi. È soddisfatto, per la prima volta dopo mesi è soddisfatto di una sua azione, di qualcosa che ha fatto. È riuscito a seguire l’istinto ed è piacevole, terribilmente piacevole.

Prende un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e si asciuga la mano, afferra le chiavi dell’auto e si prepara a tornare a casa. Sale in macchina, si allaccia la cintura e accende l’autoradio regolando il volume al massimo. Prova una sensazione euforica. Canta a squarciagola una serie di canzoni degli Eagles passate a rotazione nello speciale radiofonico dedicato al gruppo. Arrivato a casa fischietta e canticchia la canzone “Hotel California”, la sua preferita degli Eagles.

-We’re all just like prisoners here.. of our own devices… na na na…

Apre il portone. Sta sorridendo, un sorriso spontaneo, sincero.

-Chissà cosa penserà Chris di questo quando… -

Si blocca.

Il sorriso si smorza. Quella breve ondata di euforia è sfuggita, se n’è andata per sempre. Si rende conto di aver ottenuto una mezza vittoria, perché non potrà condividerla con l’unica persona che avrebbe potuto goderla al suo stesso modo. Lancia furiosamente la giacca sul divano. Si era illuso per un secondo di poter essere felice, di poter toccare la felicità almeno con la punta delle dita. Gli è mancato poco, anzi, gli è mancato qualcosa. In fondo, la stessa cosa di sempre: Christian. Il suo cosmo gira e ovunque si muova va sempre a toccare lui.

Si lascia abbandonare sul divano, appoggia la testa alla spalliera, socchiude gli occhi e inspira.  Gli tornano in mente le parole avide e crudeli che quell’uomo ha detto quella sera, una dopo l’altra. L’ha chiamato buon sammaritano.

“Niente di più falso.”

Pensa, mentre afferra dalla giacca accanto a sé un pacchetto di sigarette ancora nuovo. È riuscito a non toccarle durante la serata ma sapeva che non avrebbe resistito a lungo. Estrae con le labbra una sigaretta mentre con una mano cerca l’accendino nella tasca dei pantaloni. Prende una boccata lunga e lascia che il fumo gli percorra la gola e i polmoni, chiude gli occhi. 

Non si ritiene un buon sammaritano, per niente. Quando era bambino aveva un uccellino in gabbia, un bel carino giallo dalle piume soffici. Una mattina, stanco di vederlo chiuso in quella gabbia, aveva deciso di concedergli la libertà. L’aveva strappato dalla sua gabbietta e l’aveva stretto tra le sue mani. Si era poi avvicinato alla finestra più vicina e gli aveva dato una spinta verso l’altro, aspettandosi di vederlo librare da un momento all’altro accanto a sé. Naturalmente l’uccellino era caduto a terra ed era morto.

Come avrebbe potuto volare da solo? Non gli era mai stato insegnato, era stato sempre rinchiuso in quella gabbia senza avere alcuna nozione del mondo. Ripensa a quell’episodio della sua infanzia e si rende conto di non averla capita la lezione quella volta, perché ha fatto lo stesso con Christian. Era arrivato un sabato sera, aveva puntato gli occhi su di lui e aveva subito deciso che l’avrebbe portato fuori da quel buco, da quella gabbia di vermi e  di pervertiti. Era così bello, così giovane, aveva solo diciannove anni e, nonostante l’audacia che mostrava, restava sempre indifeso e fragile. Alla fine c’era riuscito, l’aveva liberato e lo stringeva forte a sé, il suo prezioso tesoro.  Poi un giorno aveva deciso di lasciarlo andare dalle sue braccia, credendo che non gli importasse più e che comunque fosse in grado di andarsene. Eppure, proprio come l’uccellino, Christian era caduto. Non era capace di cavarsela da solo, di affrontare la situazione. L’aveva strappato da quel buco così giovane e aveva trascorso diversi anni insieme a lui, non sapeva come affrontare le cose per conto proprio, non aveva fatto mai nulla, da solo. Nasconde il viso tra le mani e scuote il capo con disapprovazione. 

-Non la imparerò mai questa lezione…

***

Christian non ha voluto che andasse a scuola quel giorno. Non l’ha svegliato, ha lasciato che dormisse quanto ne aveva voglia ma non si spiega il perché. È giovedì, un normale giorno di scuola e non gli era mai stato permesso di saltare la scuola senza un valido motivo. Per Christian la scuola è importante e la frequenza è necessaria. Inizia ad intuire che tutto possa essere collegato a quanto successo la sera prima. Esce dalla sua stanza e lo trova seduto in sala da pranzo a versare dei cereali in una tazza di latte. È ancora in pigiama, quindi probabilmente anche lui non si è svegliato da molto. Kyle si stropiccia gli occhi, si stiracchia e poi lo raggiunge.

-Buongiorno.

 Esclama, trattenendo un sbadiglio.

-Buongiorno!

Risponde Christian, stranamente sorridente.

-Stavo per chiamarti, ti ho preparato la colazione. Mangia e vestiti in fretta, abbiamo diverse commissioni da sbrigare oggi.

Kyle si siede al suo posto e afferra il cucchiaio, guardando Christian con sguardo enigmatico.

-Commissioni?

Chiede. Non comprende la situazione, gli pare quasi di vivere una realtà alternativa.

-Sì, è quello che ho detto. Devo andare al lavoro tra poco ma tornerò presto. Voglio che tu ti faccia trovare pronto.

Kyle aggrotta la fronte, non ci sta decisamente capendo nulla. Christian è terribilmente strano, sta di sicuro macchinando qualcosa di cui lui e all’oscuro.

-Scusa Chris, cosa dovremmo fare?

Christian sorride di nuovo, un sorriso inquietante, artificiale.

-Nel primo pomeriggio partiamo per Santa Monica.

Kyle lascia cadere il cucchiaio sul tavolo e si alza di scatto. Non riesce a credere alle sue orecchie, pensa quasi lo stia prendendo in giro.

-Che cosa? Santa Monica? Stai scherzando? Ho scuola domani!

Christian annuisce.

-Lo so bene.

***

Christian è in ritardo. Strano, specialmente se ripensa a quell'ultimo periodo. Ha sempre mantenuto una certa puntualità, arrivando con quasi un’ora di anticipo. Un quarto d’ora di ritardo non è da lui.
Ronald è appoggiato allo stipite della porta dell’aula. Non sa esattamente motivare il suo desiderio di vederlo, sa solo che la sua prossima ora di lezione inizierà a breve e che il caffè contenuto nella tazza che regge con la mano destra è ormai freddo. Era bollente quando l’ha preparato, la tazza scottava al punto da essergli quasi scivolata di mano. Ora è alla finestra, in piedi ad osservare la versione estiva del pittoresco giardino universitario. Realizza che è la prima volta in dieci anni che prepara un caffè per Christian, per qualcuno in generale. Non l’ha nemmeno studiato quel gesto, si è semplicemente trovato a dosare due filtri di caffè differenti, uno più carico per sé e uno più diluito per Christian. A tazza riempita ha aggiunto al caffè destinato all’amico ben due cucchiai di zucchero. Non ama particolarmente le cose dolci Christian, tuttavia detesta quelle amare. Ronald lo sa, è qualcosa che lui stesso gli ha confessato parecchi anni prima, notando la sua espressione di disgusto nell’osservare le ricche quantità di zuccherò che aggiungeva al caffè.

Si sposta dalla finestra e raggiunge la porta d’ingresso, si sporge leggermente per cercare di scorgere l’immagine di Christian. Comunque lui non sta arrivando e il corridoio nel frattempo si sta svuotando, dovrebbe affrettarsi anche Ronald, se ci tiene alla puntualità. Invece di pensare al suo lavoro si chiede se sia meglio gettare via il caffè ormai imbevibile e preparargliene dell’altro oppure propinargli quello, facendogli notare l'importante ritardo. Si ritiene piuttosto infantile, nell’anteporre tali frivolezze al suo stesso lavoro che, di norma, svolge impeccabilmente. Scuote il capo e raggiunge la zona cucina, versa la brodaglia fredda nel lavandino dove poi ripone la tazza vuota.

Mentre è con le spalle rivolte verso la porta sente una presenza avvicinarsi a passo sostenuto, è sicuro sia Christian. Si gira e lo vede entrare: è di fretta. Non l’ha guardato, sta cercando qualcosa a quanto pare. Ronald si avvicina a lui.

-In ritardo Simmons, non ci siamo.

Esclama in tono quasi rimprovero. Christian si volta di scatto, ha sicuramente pensato si trattasse di qualcun altro.

-Ron, senti, hai per caso visto dei fogli grigi e gialli scritti a penna?

Si comporta in modo frettoloso, non l’ha salutato e gli volta di nuovo le spalle, essendo impegnato per aprire tutti gli armadietti della stanza.

-Non ho idea di che parli. Comunque Chris, non per fare il rompipalle ma la tua classe ti attende con impazienza da più di venti minuti.

Christian non risponde, si limita ad un disinteressato “uh-oh”.

Ronald scuote il capo. La mente di Christian non è di facile comprensione e in momento pare essere particolarmente complessa. Dopo qualche minuto di contemplazione nota che il suo abbigliamento è curioso e a dirla tutta e nemmeno consono a un professore universitario. Indossa una camicia a maniche corte rossa di cotone leggero sbottonata sotto il collo, un paio di bermuda di colore beige di un tessuto impermeabile e ai piedi porta dei sandali semi-chiusi. Sembra più un abbigliamento da spiaggia. Qualcosa di comunque ridicolo, che spiaggia ci potrà mai essere nel centro di New York?

-Vestito così mi aspetto che tiri fuori da un momento all’altro un pallone da spiaggia e una bottiglia di tequila. La seconda la gradirei particolarmente.

Commenta Ronald sarcastico, cercando di suscitare una qualche reazione nell’amico. Anche una smorfia gli andrebbe bene, una di quelle con le linguacce che gli riserva spesso. Christian comunque non risponde, continua a frugare alla ricerca di quei fantomatici fogli.

-Seriamente, a cosa dobbiamo l’abbigliamento?

Chiede, con tono di voce meno scherzoso. Christian si gira e finalmente gli risponde.

-Me ne vado a Santa Monica e senza quei fogli, temo.

Santa Monica.

Ronald rimane con un’espressione perplessa per quasi due minuti prima di trovare il collegamento. Si ricorda poi che Christian è californiano, probabilmente di Santa Monica.

-Partirò tra poco e ho chiesto a quell’assistente… Doug, di tenere le mie lezioni oggi e domani. Tral’altro è carino, magari è il tuo tipo.

Commenta Christian, sorridente. Ora Ronald ha una spiegazione all’abbigliamento casual ma gli rimane comunque oscuro il motivo della partenza. Lo secca, il fatto Christian non gli abbia detto nulla del suo viaggio. Pensa  che forse si tratta di una cosa decisa all’ultimo minuto. Non sarebbe da Christian, perché lui è solito programmare ogni minimo particolare al dettaglio e possibilmente con parecchio anticipo. Eppure pare essere di fretta, a suggerirlo sono la frenetica ricerca dei fogli persi e i suoi capelli, spettinati e sistemati in qualche maniera.

-E… come sarebbe questo Doug?

Chiede, sviando il discorso e sperando che sia Christian a fornirgli dettagli sul viaggio.

-Giovane e molto determinato, mi ricorda me qualche anno fa.

Ronald sorride.

-È biondo?

Christian scuote il capo.

-Castano.

-Occhi?

Ci pensa prima di rispondere, probabilmente non li ha guardati bene.

-Uhm… marrone scuro.

-Culo?

Christian ride divertito.

-Oh, quello lo lascio a te!

Niente da fare, se vuole sapere qualcosa sul viaggio deve chiedere esplicitamente. Non vuole risultare invadente o eccessivamente curioso. Certo, la curiosità è tanta.

-E… i tipi di Santa Monica come sono?

Christian allarga le braccia e fa un giro su se stesso.

-Ne hai uno davanti!

Ronald sorride.

-Uhm… dovrei fare un salto laggiù! C’è posto anche per me?

Chiede, azzardando.

-Magari al prossimo giro. Questa è una cosa tra me e Kyle. Voglio che riveda i nonni e sia mai che trovi un po’ di pace!

È malinconico Christian nel pronunciare l’ultima parte della sua frase. Non è stato chiaro riguardo all’organizzazione del viaggio ma, dato il modo in cui ne ha appena parlato, ha tutti i presupposti per essere una decisione da ultimo minuto, una fuga improvvisata. Certo è che dopo quello che ha passato se lo merita un po’ di riposo.

-Buon viaggio, allora. Scrivimi una cartolina! Le venderanno ancora quelle con i bei tipi californiani pompati e sexy?

Chiede, cercando di sdrammatizzare e di rientrare nella sua parte. Christian ride, di nuovo.

-Giuro che guardo! A lunedì, Ron.

Ronald aspetta che Christian esca poi raccoglie le sue cose e corre verso l’aula di lezione, è in ritardo.

***

-Eccomi! Hai fatto quello che ti ho chiesto via messaggio?

Chiede Christian rincasando e vedendo Kyle trascinare fuori dalla sua stanza una valigia di piccole dimensioni.

-Sì, Chris. Sappi però che continuo a ritenere questa tua decisione una follia!

Esclama il ragazzo seccato, spingendo la valigia contro il divano.

-Sì, sì, me l’hai già fatto notare questo. Senti, poi avrei altro da chiederti.

Dice, guardandosi attorno per cercare di fare il punto della situazione. Kyle ha preparato la propria valigia e quella degli indumenti da spiaggia. Ora non gli resta che preparare la sua e staccare tutte le prese di corrente.

-Sarebbe?

Chiede Kyle, innervosito. Si getta in modo scomposto sul bracciolo del divano, con espressione svogliata. Kyle è un bravo ragazzo, ubbidiente e rispettoso. Tuttavia quando gli si chiede di fare qualcosa che non sia di suo gradimento diventa insopportabile.

-Ti accompagnerò da Jonathan per-

Lo interrompe. Si alza di scatto e scuote il capo con decisione.

-No. No, no, NO! Anche questo ora?

Christian capisce la sua opposizione, sa comunque che quello non è il comportamento giusto da tenere e il suo ruolo di genitore è proprio quello di insegnargli la correttezza anche se, nella maggior parte dei casi, a prevalere è il buonsenso.

-Finché sei minorenne deve conoscere ogni tuo spostamento. Ti lascerò sotto casa sua, sai dove abita, no? Ti verrò a prendere in un’ora.

Kyle spalanca gli occhi, probabilmente quest’ultimo accordo gli aggrada ancora meno del viaggio a Santa Monica.

-Quale sarà la prossima richiesta? Fare il bagno tra li squali a Santa Monica?

Christian porta gli occhi al cielo, Kyle sa davvero essere drastico ed esagerato quando ci si mette d’impegno.

 

In circa mezz’ora Christian e Kyle raggiungono l’appartamento di Jonathan.

-Se non è cambiato niente il giovedì mattina non lavora. Commenta Christian inserendo il freno a mano.

-Sì… Un’ora Chris, hai promesso!

Christian annuisce e sblocca le portiere. Kyle si toglie la cintura di sicurezza e fa un respiro profondo prima di aprire la portiera.

-Ah! Ancora una cosa!

Esclama Christian, premendo di nuovo il  bottone della chiusura centralizzata.

-A lui non devi fare una parola di Gregor, nemmeno il più lontano accenno. Capito?

Kyle sperava proprio di utilizzare il tempo con Jonathan per ottenere informazioni su quello che gli era stato etichettato come “nonno”. Si ricorda un paio di epiteti poco gentili che ha utilizzato Christian per lui, indizio che l’ha portato a pensare che tra loro non corresse buon sangue.

-E perché no?

Chiede, seccato.

-Perché lo dico io. Risponderò io ad ogni tua domanda sul suo conto.

Kyle annuisce e pensa di porgliene subito una.

-Bene. Per nonno, intendi padre di John?

Christian scuote il capo.

-A tempo debito, Kyle. Ora scendi, dobbiamo restare nei tempi.

 

Non appena Kyle scende dall’auto, Christian sfreccia a tutto velocità. Temeva forse in un accidentale incontro con Jonathan. Da codardo certo, eppure sensato, Kyle avrebbe fatto altrettanto a ruoli invertiti. Osserva il citofono davanti a sé e la situazione gli pare uno strano dejà-vu. Non ha avuto il coraggio di suonare l’ultima volta che si trovava lì ma ora deve farlo. Respira a fondo e suona. L’etichetta sopra il bottone è ancora senza nome, è il suo per forza. Allunga il dito e pigia con decisione il bottoncino dorato, stessa decisione con la quale ritira la mano, quasi avesse preso una scossa ad alto voltaggio di corrente.

Non risponde nessuno. 

Kyle pensa che forse gli orari di Jonathan sono cambiati, inizia a sperarlo. È pronto a prendere il cellulare dalla tasca e chiamare Christian per chiedergli di tornare a prenderlo.

-Sì?!

Speranza infranta. Una voce metallica ma riconoscibile risponde, è proprio quella di Jonathan.

-Sono-Kyle.

Risponde frettoloso il ragazzo, facendo sembrare le due parole una soltanto.

-Kyle, ti apro! Anzi, scendo.

Il tono di voce di Jonathan sembra sorpreso, di certo non si aspettava una sua visita, soprattutto dopo l’incontro della sera prima. In meno di cinque minuti Jonathan è davanti a Kyle. Non deve essersi alzato da molto. Indossa un paio di jeans lunghi e una canottiera nera a coste, un paio di infradito dello stesso colore e i suoi capelli sono spettinati, ogni ciuffo di capelli ha una propria direzione.

-Non ti aspettavo.

Afferma, appoggiandosi allo stipite della porta d’ingresso dello stabile.

-Non pensavo di venire. Avrei dovuto chiamare, scusa.

Jonathan scuote il capo e si sistema rapidamente i capelli con le mani.

-Ma figurati. Saliamo!

Si sposta dalla porta permettendo a Kyle di entrare. L’atrio è molto elegante, ordinato e di buon gusto, non c’era da aspettarsi di meno da Jonathan.

-Dobbiamo prendere le scale. L’ascensore è guasto.

Kyle segue Jonathan lungo la rampa delle scale, in silenzio.

-Come sapevi dove si trova l’appartamento?

Chiede Jonathan, senza voltarsi, continuando a salire i gradini davanti a sé.

Kyle si blocca. Non è preparato per quella domanda, resta in silenzio, un silenzio che fa voltare Jonathan.

-Beh…?

Kyle abbassa lo sguardo.

-Ti ho seguito, una volta.

Jonathan annuisce e capisce di averlo messo in imbarazzo, poiché si volta di nuovo e cambia discorso.

-Hai già fatto colazione?

Chiede, forse a corto d’argomenti.

-Sì, è quasi mezzogiorno.

Risponde lui, con ovvietà.

 

L’appartamento di Jonathan è piuttosto strano e disordinato, a detta di Kyle. Ci sono molti scatoloni aperti e straripanti appoggiati sul pavimento, alcuni completi eleganti ancora appesi alle grucce di ferro della lavanderia a secco e appoggiati in qualche maniera sulla spalliera di quello che si suppone sia un divano. I muri hanno l’aria di necessitare una riverniciata e il parquet, per quanto sia di buon gusto e raffinato, è opaco. Questo luogo è lontano anni luce da quanto immaginato da Kyle. Ha i tratti di una sistemazione provvisoria, eppure è abitato da tempo. Non sembra sporco ma è un caos completo.

-Non è molto accogliente ma ti assicuro che è pulito.

Esclama Jonathan, che probabilmente si è accorto dell’espressione sorpreso-delusa del figlio. Kyle non sa come ribattere, medita di rimanere in silenzio ma non ci riesce.

-Se lo vedesse Christian questo posto!

Esclama trovando poi, a frase pronunciata, pessima l’idea di nominarlo così spontaneamente e con tanta naturalezza.

Jonathan comunque sorride, annuisce e ribatte.

-Dio, no! Se Christian entrasse qui dentro impazzirebbe!

Forse è il momento giusto per parlargli del motivo della sua visita, ora che anche l’argomento più scomodo è stato toccato tranquillamente. Tuttavia non lo fa, non gli pare cortese. È appena arrivato e comunque passerà un’ora prima del ritorno di Christian, anzi, quarantacinque minuti.

-Senti, per quanto riguarda ieri sera…

Jonathan lo blocca.

-No, non importa. Non parliamone, non ce n’è bisogno. Piuttosto: come hai trovato quel locale, ti è piaciuto?

Mentre aspetta la risposta si siede sul divano, spostando i vestiti poggiati su esso e invitandolo a sedersi accanto a lui.

-Sì, carino, particolare.

Risponde, sedendosi. Il divano è piuttosto comodo. Dev’essere costoso e ha una forma elegante che gli permetterebbe di fare una bella figura sgombro e situato in una stanza ben ordinata, naturalmente.

-Uh-uh… Non ti offendere piccolo ma sembravi un po’ fuori luogo là dentro!

Esclama, sorridendo. Il suo sorriso è particolare: non è bello e luminoso come quello di Christian ma possiede un certo fascino, dovuto forse alla forma quadrata e lineare della dentatura di Jonathan, il quale ha sempre tenuto parecchio ai propri denti e, a quanto pare,  questo particolare non è cambiato.

-… come me del resto.  Non era un posto per me quindici anni o poco più  fa, adesso che di anni ne ho quaranta quasi, sfioro il ridicolo entrandoci.

Kyle inarca le sopracciglia e contrae il viso in un’espressione sorpresa.

-Ci eri già stato?

Chiede, sicuro in quel modo di ottenere una risposta.

-Sì, si chiamava Vampiria a quei tempi. Nome simpatico, eh?

Risponde Jonathan sorridendo e lasciandosi scivolare lungo lo schienale del divano.

-Ho conosciuto Christian lì.

Prosegue. Kyle avverte una nota di malinconia nelle parole del padre, data forse dai ricordi piacevoli in contrasto con la situazione attuale.

-Lui non ce lo vedrei affatto là dentro!

Esclama Kyle, trovando Christian il tipo meno indicato per frequentare quel locale. Non ha mai saputo molto sull’incontro dei suoi genitori o sulla loro storia d’amore, non gliene hanno mai parlato e lui non ha nemmeno pensato di chiedere. Sa che stanno, stavano, insieme da quindici anni e che vive con loro da dieci.

-Non ce lo vedresti eh?

Jonathan allunga il braccio destro dietro di lui per afferrare una giacca vistosamente stropicciata.

-No, affatto.

Risponde. Jonathan continua a frugare nelle tasche della giacca, le due esterne e poi quella interna finché estrae un pacchetto di sigarette spiegazzato mezzo vuoto e un accendino comune di plastica nero e bianco.

-Cantava invece. E ballava, in qualche modo.

Afferma, infilandosi una sigaretta in bocca e accendendola. Kyle spalanca gli occhi. D’accordo, non sapeva praticamente nulla sul passato dei suoi genitori eppure l’idea di Christian su un palco a cantare e ballare gli pare assurda. Lo conosce da dieci anni ed è sempre stato un tipo tranquillo, pacato. Non esclude che in gioventù avesse frequentato qualche pub o discoteca ma cantare in un locale punk-alternativo o chicchessia è fuori da ogni immaginazione.

-Stiamo parlando della stessa persona?

Chiede. Jonathan annuisce. Si alza dal divano e raggiunge il tavolo della sala da pranzo, su di esso afferra un posacenere di coccio grigio e, dopo avervi gettato un po’ di cenere, torna a sedere sul divano accanto a Kyle, appoggiando sul bracciolo dalla propria parte il posacenere.

-Oh! Piccolo scusami, mi sono messo a fumare senza chiederti se ti dà fastidio. La spengo subito.

Piccolo.

Ha utilizzato ben due volte lo stesso vezzeggiativo per riferirsi a lui. Era solito rivolgersi a lui con quel nomignolo, lo guardava teneramente con suoi caldi occhi verde scuro e lo chiamava così, sempre. Solo lui utilizzava quell’appellativo e solo lui poteva farlo. Kyle non l’avrebbe permesso a nessun altro. Jonathan spegne rapidamente la sigaretta nel posacenere e poi si sfrega le mani, quasi volesse scacciare l’odore acre del tabacco. Qualcosa di impossibile, quell’odore fastidioso gli è rimasto impregnato nella pelle. Kyle ne deduce che la sua dose di fumo giornaliera sia aumentata. Anche a casa, sul balcone o appoggiato al davanzale della finestra in sala da pranzo, gli capitava di vedergli una sigaretta tra le mani eppure si era sempre trattato di un vizio, una sottospecie di abitudine, non certo una dipendenza.

Kyle inizia a pensare che se avesse vissuto ancora a casa sua, Christian non gliel’avrebbe mai perdonata la dipendenza, gli rimproverava sempre quelle due o tre sigarette alla sera, mentre qui si parla di un numero ben più alto di due o tre. Pensa poi che probabilmente se non fosse accaduto nulla e se abitasse ancora con loro, quello del fumo sarebbe rimasto solo un vizio controllabile.

-Comunque, non solo cantava, era anche bravo. Il migliore, senza dubbio.

Prosegue Jonathan, con un tono che Kyle definisce sognante.

-Era… non lo so! Forse solo la cosa migliore che i miei occhi avessero visto fino ad all’ora. Cantava una vecchia canzone dei Juda’s Priest, la prima volta che l’ho visto. Non mi ricordo quale fosse perché non è mai stato il mio genere, so solo che cantata da lui mi piaceva. O forse era proprio il fatto che mi piacesse lui a farmela apprezzare.

Malinconia, parecchia. È come se Jonathan avesse aperto un vecchio cofanetto pieno di ricordi e glielo stesse mostrando, cercando di tenere a freno i sentimentalismi. I suoi occhi quasi brillano parlando di Christian, come se avesse in mente una sua precisa immagine o scena e la stesse osservando con ammirazione.

-Chris che canta i Juda’s Priest è fantascienza per me!

Afferma Kyle sorpreso e in parte coinvolto dalle parole di Jonathan.

-Anche i Kiss, i Sex Pistols, gli Iron Maiden… Tutte quelle cose urlate e casiniste.

Precisa Jonathan con mezzo sorriso sulle labbra.

-Non avevo mai visto un ragazzo bello quanto lui.

Aggiunge con lo sguardo sempre più perso e immerso nei ricordi. Kyle inizia a chiedersi se siano sempre così le giornate di Jonathan.

-Andiamo a Santa Monica.

Esclama dal nulla Kyle, riportando bruscamente Jonathan alla realtà, strappandolo dal suo mondo di nostalgici ricordi.

-Quindi il motivo è questo.

Constata Jonathan, con espressione meno straniata ma più tranquilla e pacata.

Kyle non capisce subito ma non chiede, si limita a rivolgere al padre uno sguardo confuso. Lui gli sorride, socchiudendo gli occhi leggermente.

-Sarebbe stato fin troppo ingenuo da parte mia pensare che non avessi un motivo preciso per essere qui ora, non credi?

Il tono di voce di Jonathan è profondo e rassicurante, ammaliante in qualche modo. Kyle capisce che, a conti fatti, ha giustamente sospettato di lui. Potrebbe sentirsi offeso per l’accusa ma non lo fa. Jonathan pronuncia le parole quasi volesse insegnare a lui qualcosa, quasi volesse fargli capire qualcosa.

-Christian ha deciso di fermarsi per il weekend, credo.

Aggiunge Kyle con tono flebile, quasi infantile.

-Le persone tendono spesso a rifugiarsi nella propria infanzia se hanno problemi, questo forse perché è l’unico periodo veramente puro e incontaminato che ci viene concesso in vita. La vedo come una scelta sensata.

Commenta Jonathan. Questa è quella che Christian ha sempre definito come la brutta abitudine di inserire il lavoro in ogni cosa. Kyle, dal canto suo, non è mai riuscito a distinguere un’analisi da una semplice affermazione.

-Non ti sto accusando di niente. È già tanto che tu venga a farmi visita, non posso permettermi di avere delle pretese riguardo ai fini di essa.

Aggiunge Jonathan,  pungente o forse sincero. Non è facile capirlo. Il restare del tempo scorre velocemente. All’una in punto Kyle riceve un messaggio da parte di Christian che lo invita a scendere. Si alza dal divano, sorprendendo Jonathan che probabilmente non si aspettava di vederlo andare via così presto.

-È già ora di andare?

Chiede, lasciando trasparire uno tono dispiaciuto.

-Sì, Chris deve stare nelle sue tabelle che io non conosco nemmeno.

Jonathan sorride, un sorriso di circostanza o forse semplicemente non sapeva come ribattere.

-Buon divertimento, allora.

Kyle annuisce.

-Già. Ciao John, ci si vede.

 

Uscito dallo stabile a Kyle sembra di essersi liberato di un peso enorme. Non gli è dispiaciuto quel tempo passato con Jonathan, ha scoperto dei dettagli sul suo conto dei quali non si sarebbe mai immaginato. Per prima cosa il disordine, il fatto che in quei mesi non abbia sentito il bisogno di spacchettare le proprie cose. Per non parlare della convulsiva ricerca della sigaretta e i ricordi, portati alla luce con estasi e malinconia.

-Vedo che sei tutto intero!

Esclama sarcastico Christian, vedendo Kyle entrare in macchina.

-Spiritoso.

Ribatte il ragazzo con una smorfia. Si mette a sedere e si infila la cintura. Guarda dritto davanti a sé, non vuole che lo sguardo gli ricada sulla palazzina di Jonathan.

-E lui…?

Chiede Christian, qualche secondo dopo aver messo in moto l’auto, irrompendo nel breve attimo di silenzio nel quale Kyle si stava appunto chiedendo se gli avrebbe posto domande circa la condizione di Jonathan.

-Lui è…

Si blocca. Vorrebbe dirgli come l’ha trovato, vorrebbe dirgli che probabilmente si trova nelle sue stesse condizioni ora, vorrebbe descrivergli l’appartamento, parlare del suo viso sbattuto, dei capelli ancora in disordine.

-Immagino se la passi alla grande nel suo bel loft in centro! Proprio quello che ha sempre sognato.

Esclama sprezzante Christian. Kyle vorrebbe ribattere per dirgli che quel loft non è altro che un buco disordinato e nemmeno gradevole alla vista, che sicuramente non è neanche lontanamente simile a quello dei suoi sogni. Fa per aprire la bocca ma non ci riesce. Non sa perché. Mentre scendeva le scale il suo pensiero era stato quello di riportare parola per parola, sensazione per sensazione, tutto quanto fosse accaduto nella passata ora.  Eppure in quel momento proprio non ci riesce.

-No guarda, non dirmi niente. A che mi servirebbe?

Aggiunge di nuovo Christian, con più disperazione questa volta. È curioso e allo stesso tempo ha paura di venire a conoscenza di dettagli che potrebbero ferirlo ulteriormente.

-Una cosa però la devo sapere: è solo?

Chiede, distraendosi per un breve secondo da guida e cercando di catturare lo sguardo di Kyle. Il ragazzo annuisce.

-Sì, abita solo.

Christian asserisce con il capo ma non pronuncia una parola.

“È ridotto ad uno straccio e convive soltanto con il ricordo di te.”

Questo avrebbe voluto aggiungere ma non ce l’ha fatta, non è riuscito. Forse per rispetto, forse perché non gli sembra giusto andare a sbandierare ai quattro venti tutto quanto. Dopotutto a Jonathan non ha parlato di Christian, delle sue notti insonni, delle sue crisi davanti alle bollette intestate a “Jonathan Wallace”.

“Se solo entrambi si potessero osservare per qualche istante…”

Pensa Kyle.

-Allora, pronto per il viaggio?

Chiede Christian, con forzato entusiasmo.

-Più pronti di così si muore! A che ora abbiamo il volo?

Chiede, con una forte intonazione sarcastica.

-Volo? Non abbiamo nessun volo, andremo in macchina!

Esclama Christian dando un pacca sul ginocchio di Kyle, il ragazzo spalanca gli occhi.

-Tu hai seriamente intenzione di fare New York- Santa Monica con questa macchina?

Christian annuisce.

-Sì! Ora rilassati e goditi il viaggio!

 

 

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Capitolo 22
*** Road to Santa Monica (Viaggio per Santa Monica) parte prima ***


22. Road to Santa Monica  (Viaggio per Santa Monica) parte prima

Kyle se ne sta con il mento appoggiato al palmo della mano, appoggiato al finestrino della portiera. La cintura lo infastidisce, è troppo corta. Vorrebbe toglierla e mettersi comodo ma è sicuro che Christian lo obbligherebbe a riallacciarla, è sempre stato piuttosto puntiglioso riguardo alla sicurezza. Osserva la strada scorrere da sotto le ruote della macchina, i segni tratteggiati delle corsie autostradali sembrano un tutt’uno.

Il paesaggio fuori è ancora abbastanza monotono, poca natura, parecchi palazzi, si chiede quando finalmente potrà vedere quelle belle vallate brulle e quelle montagne imponenti che fino a quel momento ha visto soltanto nei film.
Sospira. Non aveva voglia di andare a Santa Monica, non ha fatto in tempo ad avvisare Morgan, sta saltando le ultime lezioni di scuola e non ha ancora risolto i suoi problemi con Anthony. Non gli è stato dato nemmeno il tempo per rifletterci. In quelle ultime quarantott’ore non ha fatto una sola cosa che realmente intendesse fare.

È una giornata nuvolosa, almeno nello Stato di New York. Il cielo è completamente coperto e assume una strana sfumatura grigiastra. Forse pioverà nel giro di pochi secondi ma è più probabile che grandini. Fa caldo, troppo caldo per essere soltanto giugno. Ad ogni modo, il meteo di New York gli interessa poco dato tra qualche miglia Christian supererà il confine di Stato e si ritroveranno in Pennsylvania. È stato sempre un suo sogno quello di percorrere il Paese in macchina, è un po’ il sogno di tutti gli americani che adorano viaggiare, dopotutto. Eppure in quel momento una prospettiva di viaggio seduto per delle ore in compagnia di Christian e dei suoi assurdi cd di Don McLean, melensi e ormai privi di sonorità, lo deprime.

Osserva il padre, con lo sguardo fisso sulla strada, attento e preciso come sempre. Muove le labbra e canticchia “American Pie”, la canzone di Don Mclean che sta passando in questo momento, tamburella le dita sul volante. Canticchia ma a voce bassissima e non riesce a sentirlo, eppure il volume del cd non è nemmeno troppo alto.  Ora che ci pensa non l’ha mai sentito cantare in vita sua, neanche a casa. Ascolta spesso la radio, c’è sempre un cd nello stereo in salotto eppure non canta mai. Forse per questo motivo gli è sembrato strano sentirsi dire da Jonathan che cantava in un locale e per giunta musica rock.

Ora Kyle è curioso. Non parla con Christian da  quasi mezz’ora. Lui gli ha rivolto un paio di domande, alle quali ha risposto a monosillabi, forzato e visibilmente infastidito. Dopodiché Christian ha inserito il cd nell’autoradio e quel briciolo di conversazione si è completamente dissolto.

-Ma ti piace veramente Don McLean?

Chiede, spostando leggermente lo sguardo su di lui. Christian non distoglie gli occhi dalla strada, smette semplicemente di canticchiare.

-Certo che mi piace. Fa parte della storia musicale americana, ogni uomo in America conosce almeno una canzone di Don McLean e di solito si tratta proprio di “American Pie”. Che cosa c’è di più americano della torta di mele?

Kyle fa una smorfia. Per un attimo gli è parso di parlare con uno di quei vecchietti patriottici degli Stati del Sud, con un filo d’erba in bocca e un cappello da cowboy sulla testa. Sorride e poi gli pone un’altra domanda.

 -Anche i Judas Priest sono molto americani.

Commenta, cercando di ottenere ulteriori informazioni oltre a quelle dategli da Jonathan. Christian scuote il capo, allunga il braccio destro e tasta per spegnere la radio, impedendo a Don McLean di completare l’ultima strofa di “American Pie”.

-Non parlare se non sai le cose.

Kyle si blocca. L’ha fatto arrabbiare, ne è sicuro. Ora gli toccherà passare tutto il viaggio in silenzio cercando di evitare lo sguardo infastidito di Christian, che naturalmente continuerà a fissare la strada impassibile e non gli rivolgerà una parola fino al cartello “Santa Monica”.

-I Judas Priest sono inglesi, Kyle! Di Birmingham, poi! Sono inglesi puri quanto quei quattro capelloni dei Beatles o quel cavallo pazzo di Mick Jagger! Heavy Metal, non penserai veramente che possa essere nato qui in America? Per carità!

Kyle spalanca gli occhi, è sorpreso. Ora invece del vecchietto patriottico si trova davanti un coetaneo, leggermente dark, magari con dei bei capelli lunghi e uno strano completo di pelle nera. Si ricorda poi di averlo visto Christian indossare un paio di pantaloni di pelle, forse non è poi così strano sentirlo parlare di metal. Forse non era nemmeno una cosa che gli nascondeva e come per la maggior parte delle cose, gli sarebbe bastato chiedere.

-E ne deduco che ti piacciano anche i Judas Priest.

Commenta, forse azzardando troppo.

-No, non è roba che fa per me.

Kyle ha l’impressione abbia cercato di liquidare velocemente l’argomento.

-Sarà! Però anche a me non piace l’hip-hop eppure non ne conosco la storia.

Christian fa spallucce.

-Storia musicale, tutto qui.

Kyle non è convito e il suo sospetto di aver introdotto qualcosa di cui Christian non ha intenzione di parlargli aumenta. Non ha niente di meglio da fare e la curiosità lo uccide, decide quindi di continuare a fare domande finché non cederà o si arrabbierà. I casi sono due ma a questo punto non gli interessa.

-Ma tu non hai studiato storia musicale, o sbaglio?

Christian sbuffa. Si trovano in mezzo ad un ingorgo stradale. Davanti a loro c’è una colonna di almeno due chilometri di macchine, praticamente ferma. Distoglie per un momento lo sguardo dalla strada e osserva Kyle, nell’intento di capire, probabilmente, dove voglia arrivare.

-Kyle, mi stai facendo un interrogatorio o hai scoperto qualcosa che non so?

Kyle sorride, è arrivato il momento di essere diretto.

-Jonathan mi ha detto che cantavi il metal da solista.

Confessa, rapidamente, quasi avesse appena confessato una cattiva azione. La situazione gli ricorda un po’ quando era ancora bambino e ammetteva di aver mangiato un biscotto di troppo o di aver rotto la boccetta di dopobarba di Jonathan. Christian spalanca gli occhi, assume un’espressione quasi impaurita.

-Ti ha detto, cosa?

-Fondamentalmente niente, mi ha soltanto detto che cantavi al Nightmare da ragazzo e che eri bravo. Il genere delle tue canzoni era metal ed eri… bello.

Christian si rilassa. Kyle non riesce a spiegarsi quell’improvvisa preoccupazione di Christian, che sembra comunque essersi dissolta completamente. Ritorna con lo sguardo fisso sull’autostrada e sulla congestione del traffico che nel frattempo pare essere peggiorata. Christian sorride brevemente o almeno è quello che è parso a Kyle. Il sorriso è durato poco più di una frazione di secondo e sulle labbra di Christian è ricomparsa la solita espressione neutra e assente, solita da quando se n’è andato Jonathan, s’intende.

Kyle torna a fissare fuori dal finestrino, chiedendosi quante ore extra aggiungerà al loro già lungo viaggio quell’intoppo stradale. Chiude gli occhi e cerca di rilassarsi, in attesa che la situazione si smuova. Nel frattempo Christian ha acceso nuovamente la radio, ha tolto il cd di Don McLean ed si è sintonizzato una stazione radiofonica casuale.

***

Jonathan è appena arrivato in ufficio, è giovedì e di solito non lavora di mattina. Se si trova lì ora è perché non aveva altro da fare, nessun posto dove andare. La visita di Kyle gli ha fatto piacere, aveva da tempo perso le speranze di rivederlo e dopo le parole di astio e di rabbia che gli aveva rivolto la sera prima era sicuro non l’avrebbe nemmeno avuto sue notizie.

È buio e non c’è nessuno, nemmeno la segretaria. Accende la luce dell’ufficio e si guarda in giro: è vuoto esattamente come il suo appartamento, deserto. Si chiede se veramente cambi qualcosa a starsene seduto sul divano a fissare il vuoto, con la televisore lasciata su qualche talk-show mattutino, dallo starsene in ufficio seduto sulla poltrona.

“Almeno cambio aria”.

Ha pensato, una volta lavato, vestito e pettinato. Inizia chiedersi cosa possa avere pensato Kyle del suo appartamento, del disordine che lo caratterizza e di lui stesso. Si era sempre ritenuto un uomo interessante non bello ma affascinante, con dei lineamenti tipicamente maschili e forti, che con un briciolo di cura potevano donargli lo stesso sex-appeal di George Cloney o Richard Gere. Ultimamente non gli interessa proprio di assomigliare ad uno dei due sopraccitati. Si rasa la barba solamente per non sembrare troppo trascurato, si sistema i capelli con il pettine e poi si veste. Il tutto non lo impegna più di dieci minuti. Non vede un scopo per imbellettarsi visto che se sta chiuso in casa, tranne per le rare visite da Gregor e gli aperitivi del venerdì sera con i colleghi dello studio. Vive una vita quasi castigata e non gliene importa o forse non se ne rende conto. Non è un problema per lui non uscire, non andare fuori a bere. Si accontenta del suo stato di catalessi perenne, in balìa delle situazioni che l’hanno travolto ultimamente. 

Non è mai stato un amante della vita mondana, svolgeva il suo lavoro e qualche extra e poi se ne tornava a casa per trascorrere la serata in assoluta tranquillità, magari guardando un film con la sua famiglia, che altre volte portava fuori a cena. Se quella sera di quindici anni prima era stato in quel locale, era stato semplicemente perché il destino voleva incontrasse Christian, quella che fino a quel momento aveva creduto fosse la sua anima gemella, la persona con la quale credeva avrebbe trascorso il resto dei suoi giorni.

Dopo qualche minuto in contemplazione e in completo silenzio, Jonathan raggiunge il proprio ufficio, gira la chiave e apre la porta, la spalanca. Non c’è nessuno che può disturbarlo e quella porta chiusa lo farebbe sentire soltanto più solo, più segregato. Fa molto caldo nel suo ufficio, forse perché è esposto al sole ed è stato chiuso per tutta la mattinata. C’è odore di chiuso, di libri, di carta. C’è sempre odore di carta nel suo ufficio. Carta di documenti, carta di appuntamenti, carta di impegnative, carta di libro. È un odore che gli è sempre piaciuto parecchio quello della cellulosa.

Per questo non apre la finestra, preferendo accendere il condizionatore. La sua scrivania è molto ordinata, la donna delle pulizie deve sprecare ogni sera molto tempo a riordinarla, il disordine è qualcosa presente nel suo dna, per quanto ci provi o si sforzi ne è sempre avvolto e ne crea parecchio. Nota subito il telecomando del condizionatore, ben in vista e appoggiato su un plico di fogli ancora incartati. Lo afferra e preme il tasto di accensione abbassando la temperatura di un paio di gradi, sa bene che non è consigliato farlo eppure mal sopporta il caldo afoso delle grandi città, ogni anno è un sofferenza.

Si ripete per la centesima volta di avere bisogno di una vacanza, in molteplici occasioni  è stato tentato di telefonare ad un agenzia turistica e prenotare il primo last-minute disponibile in un posto decisamente più fresco. Se non l’ha ancora fatto è perché non sapeva se comunicarlo a Christian. Prenotare la vacanza era facile: una telefonata, un voucher mandato via e-mail e il codice di un biglietto aereo di Virgin Airlines. La parte difficile sarebbe stata afferrare di nuovo il telefono, comporre il numero di casa e cercare di trovare un modo carino per dire a Christian che se ne partiva per il Canada o l’Alaska, se avesse avuto il coraggio di spingersi così in là.

“Santa Monica…”

Pensa, ricordando quelle parole con lo stesso tono di voce con il quale Kyle le ha pronunciate quasi un’ora prima.

“Christian non si è fatto problemi a partire per Santa Monica…”

Pensa che nonostante l’abbia informato, non si sia fatto scrupoli a prendere e andare via e non si è nemmeno preso la briga di telefonargli lui stesso, ha mandato Kyle. Certo, dopo il loro ultimo e unico incontro dalla separazione è forse stata la scelta più saggia.

Sospira, quasi disperato. Sa quale sarà il prossimo passo, la sigaretta. Di colpo gli tornano in mente le estati a Santa Monica, in particolare la prima estate.


Quindici anni prima…

-Johnatan? John! Sei venuto!

Christian in shorts e canottiera bianca gli corre incontro, il sole caldo e luminoso fa risplendere i suoi capelli dorati  ed illumina il suo viso, ambrato per l'abbronzatura. Ha gli occhi socchiusi e sorride, è felice, quasi euforico e le sue guance rotonde sporgono ancora di più dal viso quando sorride rendendolo, se possibile, ancora più bello.

Jonathan ha trascorso diverse ore di volo e un paio di treno per raggiunger quel posto. Si è dovuto accontentare di uno scomodo posto in classe turistica. Odia volare, lo fa il meno possibile. Non avrebbe voluto, avrebbe preferito restarsene a casa a guardare “Beverly Hills” o qualche altro stupido programmetto per adolescenti che tanto si divertiva a guardare e criticare. Aveva deciso all’ultimo minuto di prendere i biglietti e andarsene a Santa Monica, da Christian, il suo Christian. 

Per problemi personali Abraham Dickson, il proprietario, il Vampiria era rimasto chiuso per tre settimane e Christian ne aveva approfittato per tornare a casa sua, in California. Fino a qualche ora prima, in particolare al momento della scoperta di dover prendere un treno a San Francisco per arrivare a destinazione (poiché Santa Monica è sprovvista di terminali aeroportuali), continuava a chiedersi se avesse fatto la scelta giusta e se veramente valesse la pena presentarsi a casa di Christian, senza un minimo di preavviso.  Dopo averlo visto, dopo essere stato avvolto dal calore e dalla luminosità del suo sorriso, aveva pensato che tutti quei chilometri li avrebbe percorsi anche a piedi, se poi al capolinea avesse trovato lui.

-Non potevo restare senza di te tutto questo tempo!

Commenta Jonathan, continuando ad osservare lo spettacolo che ha davanti ai suoi occhi. Osserva il ragazzo sorridergli, osserva la felicità nei suoi occhi socchiusi, nelle sue ciglia lunghe, sulle sue labbra sottili e chiare. Quando poi apre gli occhi e lo fissa vede l’oceano. I colori dell’oceano Pacifico sono tutti ben amalgamati nelle iridi celesti di Christian. Non ha mai visto l’oceano eppure è certo che deve assomigliare in qualche modo ai suoi occhi.

-Vieni, andiamo dai miei genitori!

Christian improvvisamente gli afferra la mano e lo trascina con una forza al di fuori dal normale, per un ragazzo dal fisico magro e delicato come il suo. Sente la sua mano e il tocco della sua pelle abbronzata e bollente a contatto con la propria che invece si sta iniziando a scaldare. Avverte l’impazienza in quelle dita affusolate e lunghe. Lo segue, si lascia letteralmente trascinare da lui, senza pensieri, senza preoccupazioni. Improvvisamente Christian accelera il passo e si trovano entrambi a correre come due pazzi, fianco a fianco e a sorridersi, osservando uno negli occhi dell’altro la felicità, l’euforia e l’adrenalina.

 Era inaspettatamente andato tutto bene a casa di Christian, aveva avuto modo di conoscere i suoi genitori, gli erano piaciuti e lui era piaciuto a loro, una fortuna quella di fare una buona impressione con quelli che poi sarebbero diventati a tutti gli effetti i suoi suoceri. Dopo cena Christian l’aveva trascinato sulla spiaggia, una piccola lingua di sabbia, prevalentemente occupata dalle rocce sulla quale passeggiava ogni tanto qualche coppietta e sulla quale zampettavano i gabbiani in cerca di cibo.

È stato in quell’occasione che Jonathan ha potuto ammirare Christian nel massimo del suo splendore. Se ne sta, come un ragazzino, in piedi su una roccia con le braccia aperte a respirare a pieni polmoni la brezza marina, con il sole caldo e rosso del tramonto che riflette la sua luminosità sul suo corpo e sul suo viso. Jonathan lo osserva da terra, guarda in alto e pensa che gli sembra di osservare un bellissimo animale  nel proprio habitat naturale, intento a sfoggiare inconsciamente la propria bellezza. È quello il suo posto: all’aperto, con il vento che gli scompiglia i capelli e il viso dipinto soltanto dalla naturale abbronzatura del sole. Non è fatto per starsene in quella gabbia buia a New York, con quei vestiti cupi addosso, con tutta quella gente che lo osserva con occhi avidi e maliziosi.

-Beh, dottor Wallace, mi raggiungi qua sopra o… hai paura?

Chiede, sorridendo e sporgendosi leggermente in avanti per assicurarsi che il rumore delle onde del mare non copra la sua voce. Jonathan gli sorride, lo contempla per qualche minuto, si alza e gli allunga un braccio per farsi aiutare a salire sulla roccia. Sono ora fianco a fianco, le loro mani sono l’una dentro l’altra, le loro dita si sfiorano in una stretta leggera.

-Sei bellissimo.

Commenta Jonathan quasi in un sussurro, questa affermazione spiazza e in parte offende Christian.

-Ti porto in uno dei posti più romantici di Santa Monica a vedere il tramonto e tu sei capace soltanto di guardare me?

Chiede, scocciato. Jonathan inizia a pensare che probabilmente ci tenesse davvero a portarlo con sé su quella spiaggia, su quella roccia. Lo accontenta e contempla per qualche minuto il paesaggio, osserva il sole rossastro che lentamente sparisce dall’orizzonte, osserva il riflesso dei raggi sull’acque e le onde infrangersi poco a poco la battigia. Uno spettacolo bellissimo, poetico, quadro che ogni pittore vorrebbe dipingere, scenario che ogni poeta o scrittore amerebbe descrivere eppure, ritenendosi un po’ sciocco, si rende conto di non riuscire a staccare gli occhi di dosso da Christian, di non fare a meno di pensare che una meraviglia, un prodotto di quella terra fantastica e sognata da molti viaggiatori, si trovi al suo fianco.

-Ti amo, lo sai?

Chiede, retoricamente. Non sa quante volte gliel’abbia detto, a volte si ritiene ridicolo, patetico. Da qualche mese a questa parte non fa che dirgli quanto sia meraviglioso e quanto lo ami.

-Ti amo anch’io ma… potresti almeno fare finta di guardare il mare, no?

Jonathan gli sorride e poi, improvvisamente, con la mano libera gli sfiora il viso, si avvicina e lo bacia.  Voleva baciarlo dal momento stesso in cui l’ha visto nel campo a prendere il sole, quando è arrivato stanco e sfinito dal viaggio ma ci riesce solo ora, cercando con quel bacio di evitare di risultare troppo melenso e noioso. Stacca lentamente le labbra continuando a guardarlo negli occhi, sorrisi mezzi accennati, volti felici e innamorati. Due semplici ragazzi, al pieno della loro passione, all’inizio della loro storia d’amore.

Il sole sta calando completamente. Si siedono sulla roccia, per contemplare quello scenario pittoresco, quasi stessero osservando la parte finale, o i titoli di coda, di un bel film al drive-in.  Christian appoggia la propria testa sulla spalla di Jonathan, non parla. È Jonathan a irrompere nel silenzio, solo dieci minuti più tardi.

-Ti porterò fuori da quel buco, dovessi pagarlo sulla mia stessa pelle.

Commenta, con decisione. Christian sposta la testa dalla spalla di Jonathan,  la inclina leggermente per cogliere il suo sguardo e per trasmettergli un espressione strana, un misto di paura e di piacere. Jonathan gli afferra le mani, lo stringe e lo guarda più intensamente negli occhi.

- Non mi importa delle conseguenze, non mi importa cosa dovrò fare, non mi importa proprio di niente.

Fa una breve pausa e prende fiato, prima di proseguire quel discorso che ormai sta nella sua testa da quando è entrata in lui la consapevolezza di amare quel ragazzo anche più di se stesso.

-Sei mio e resterai tale finché avrò respiro in corpo per dirti che ti amo.

Christian sorride.

-Quindi… finché non moriremo? “Finché morte non ci separi”?

Jonathan scuote il capo.

-No, ci ho ripensato. È troppo poco, non mi accontento. Resteremo insieme per la durata di un’eternità.

 

“[…] resteremo insieme per la durata di un’eternità.”

Improvvisamente gli manca il respiro. Una sensazione terribile ed è quasi certo che il suo apparato respiratorio si sia bloccato, che abbia deciso di abbandonarlo proprio in quel momento. Si alza di fretta dalla poltrona e, cercando nel profondo dei propri polmoni un briciolo di ossigeno, respira affannosamente. Apre le finestre, non gli importa del condizionatore acceso,ha bisogno di vera aria fresca. Una volta aperta la finestra appoggia entrambi i palmi della mani sul davanzale, si sporge quanto basta per inspirare una dose massiccia di aria che gli permetta di tornare a respirare regolarmente.

Una crisi di panico. Non ne ha avute per anni, dopo la morte di suo padre. È già la terza nel giro di un mese. Questa è sicuramente stata la peggiore, la più terribile. Forse perché il ricordo che la sua mente ha voluto fargli rivivere è quello che fino a quel momento ha tenuto più caro. Le frasi di quel discorso sulla spiaggia continuano a frullargli in testa.

“Quanto dura un’eternità? È possibile che sia già trascorsa senza che ne meno ce ne fossimo accorti?

Si chiede guardando fisso davanti a sé, senza comunque vedere nulla di ciò che si trova di fronte.

Era giugno, quel giugno di quindici anni prima e  da poco aveva iniziato a lavorare come psichiatra in un ospedale. 

-Se adesso facessi la stessa cosa, mi rivolgeresti ancora quello sguardo e quel sorriso?

Chiede, a bassa voce, all’immagine di Christian di quindici anni prima. 

 

 

 --> Eccomi di nuovo qui a scrivere in fondo al ventiduesimo capitolo di “Hard to say I’m sorry. In questo capitolo ho voluto regalare ai miei lettori un frammento del passato di Jonathan e Christian, quando erano ancora felici, sperando di darvi un’idea riguardo alla profondità del loro rapporto, del loro amore. Spero abbiate notato il contrasto netto tra questa situazione e quella attuale. Se non l’avete notato beh, ho fallito nel mio intento, temo…

Voglio ringraziare miss yu per il commento.

Ricordo che i commenti dei miei lettori mi invogliano sempre più a postare qui questa storia con regolarità e quindi condividerla con qualcuno.

Bene vi do quindi appuntamento al prossimo capitolo o meglio, la seconda parte di questo! Alla prossima!! <--

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Capitolo 23
*** Road to Santa Monica (Viaggio per Santa Monica) parte seconda ***


23. Road to Santa Monica (Viaggio per Santa Monica) parte seconda

Morgan è appena tornata a casa da scuola, ha cenato, ha raccontato a sua madre della sua giornata e poi è salita di fretta in camera.

Sospira buttandosi a peso morto sul suo letto, si mette a fissare il soffitto, è pensierosa. Non ha notizie di Kyle dal pomeriggio del giorno prima, non era a scuola quella mattina e non ha idea di che fine possa aver fatto. Ha persino cercato di telefonargli ma il suo cellulare era spento. Inizia preoccuparsi, spera non gli sia successo niente di grave, continua prendere in mano il proprio telefono e controllare lo schermo nella speranza di trovare una chiamata persa o di un messaggio da ore ormai, eppure niente.
Sa che ha incontrato Anthony la sera prima e il fatto di non aver ricevuto nel giro di un’ora dall’appuntamento una telefonata nel quale le venisse raccontato tutto quanto, l’ha preoccupata. Teme possa essere successo qualcosa con lui, qualcosa di cui si vergognasse al tal punto di rifiutarsi di uscire di casa.

Incolpa sé stessa. Si incolpa per essersi ficcata in testa l’idea dell’ipotetica storia tra i due, di aver continuato a premere sullo stesso tasto, di aver insistito per farli incontrare quella sera al ballo di Debbie Benson, quella stessa sera che gli era costata così tanto. Pensava che Anthony fosse quasi perfetto e che potesse raggiungere la perfezione solo con un ragazzo come Kyle accanto. Eppure, evidentemente, si sbagliava.

Si è resa conto che non è affatto perfetto, si è resa conto che non è né più né meno degli altri ragazzi della scuola, degli altri ragazzi della squadra di football. Ha evitato l’argomento con Kyle, non ha mai voluto parlargli di quanto si sentisse in colpa per quello che era successo eppure, giorno dopo giorno, si sente peggio. Se non altro per aver aggiunto altre pene ai problemi familiari di Kyle. Per un attimo è tentata di comporre il numero di casa sua, nella speranza che almeno là risponda. Afferra nuovamente il cellulare pronta a cercare quel numero di telefono, quando questo inizia a squillare. Sullo schermo compare un numero che la rubrica non riconosce, un numero che non ha mai visto o composto prima d’ora. Ci pensa qualche secondo prima di schiacciare il tasto di conferma poi lo preme e risponde.

-Pronto?

Chiede, con un briciolo di timidezza e con curiosità.

-Pronto, sei Morgan?

Non è Kyle come aveva sperato fosse ma è una voce a lei familiare, è sicura di averla già sentita prima d’ora, eppure non riesce a riconscere il possessore.

-Sì sono io, tu chi sei?

Chiede.

-Anthony, Anthony Edwards.

Lo conosce, eccome se lo conosce. Certo non si aspettava una telefonata da lui, non credeva nemmeno avesse il suo numero. Probabilmente deve averlo chiesto a quel ragazzo della sua squadra di cui si era innamorata.

-Ah… Anthony…

Esclama, senza il minimo interesse. Non vuole parlare con lui, non gli interessa. Vorrebbe soltanto sentire la voce di Kyle in quel momento. Il fatto che Anthony le telefoni è piuttosto strano.

-Ti ho telefonato per chiederti se hai notizie di Kyle.

Nemmeno lui sa nulla.  Vorrebbe chiudere la chiamata, sbattergli il telefono in faccia e comporre il numero di Kyle.

-No, non so niente e se lo sapessi non te lo direi, Anthony.

È stata dura e fredda. Ne è consapevole, sa che non è da lei rispondere in quel modo, soprattutto ad Anthony, al quale ha sempre sorriso e risposto con dolcezza.

-Oh... Sì,hai ragione. Però se lo senti, gli puoi per favore dire di dimenticarsi di quello che gli ho detto ieri sera?

Morgan non sa nulla della sera precedente. Anthony pare dispiaciuto, affranto. Vorrebbe saperne di più sulla faccenda, vorrebbe chiedergli altro. Forse è successo veramente qualcosa di terribile, Anthony sembra sincero, non è arrabbiato o arrogante, sembra più mortificato. Decide di rischiare e chiedere.

-E cosa gli avresti detto?

Il ragazzo non risponde subito. Sente il suo respiro dall’altro capo del telefono farsi più profondo.

-Che sono innamorato di lui, in pratica.

Morgan rimane a bocca aperta. Una tale confessione non se la sarebbe mai aspettata, neanche in un milione di anni. Quello che è sempre stato nella sua testa è diventato realtà. O forse è sempre stato reale? Forse non era semplice intuizione, la cosa doveva essere palese. Si chiede però se il ragazzo sia veramente sincero nella sua confessione. Stando al suo comportamento, stando a come ha trattato Kyle e a come è scomparso improvvisamente lasciando l’amico a far fronte delle conseguenze causate da entrambi completamente solo, non riesce a crederci.

-Ti rimangi tutto, quindi?

Chiede, sempre con asprezza. Non le è venuta in mente nessun altra parola, nient’altro da dirgli. Non poteva semplicemente riattaccare il telefono liquidandolo con un lascivo “Ok.”, non dopo quella confessione, non dopo le sue riflessioni.

-No, non mi rimangio niente. Non voglio farlo stare peggio di quanto stia, di quanto l’abbia fatto stare.

È indecisa se dubitare o meno sulla veridicità delle parole di Anthony. In genere è in grado di riconoscere dalla voce di una persona se mente o se è sincera. Ascoltando la voce del ragazzo avverte dispiacere, tormento. Eppure la sua testa, così complicata e così particolare, le impedisce di fidarsi delle proprie sensazioni, continuando a proporle esempi del comportamento ambiguo di Anthony.

-Perché lui, Anthony?

Chiede, così, di getto.

-Non c’è un perché. Non ho scelto io di innamorarmi di lui. Se avessi potuto scegliere, sinceramente, avrei scelto te. Sei così dolce, tenera, carina e soprattutto sei una ragazza.

Le parole di Anthony la colpiscono profondamente, non tanto per i complimenti che le ha appena fatto, quanto per la sofferenza insita stessa. Forse ha sbagliato a giudicare male Anthony, forse c’è qualcosa che non ha considerato: Anthony ha chiari problemi con la propria sessualità. È una cosa strana, che probabilmente buona parte degli adolescenti vive, eppure per lei è a dir poco assurdo. È cresciuta con Kyle, che non ha mai dato troppa importanza alle distinzioni sessuali, perché ha vissuto in un ambiente familiare dove l’amore era in grado di abbattere ogni ostacolo, ogni barriera. I suoi pensieri e il suo modo di parlare hanno fatto sì che anche lei stessa arrivasse a vedere il mondo nel suo stesso modo. Per questo motivo l’indecisione e la paura di Anthony riguardo ai suoi sentimenti verso Kyle, un ragazzo, non gli erano stati chiari. L’ha definito un approfittatore, un vigliacco, un poco di buono. Senza provare a pensare che dietro alla sua vigliaccheria ci potesse essere reale sofferenza.

-Scusa.

Quasi la sussurra quella parola. Non sa che altro dire, si ritiene quasi stupida. In quel momento vorrebbe soltanto sentire Kyle, parlare con lui e ascoltare il suo parere al riguardo.

-Non fa niente. Ora ti lascio a qualunque cosa stessi facendo, grazie per aver risposto, ciao.

Riattacca.

Morgan rimane con il cellulare attaccato all’orecchio e lo sguardo perso nel vuoto. Quella telefonata l’ha sconvolta, decisamente. Si alza e getta il telefono sul letto. Sono quasi le quatto di pomeriggio, dovrebbe studiare ma è sicura che se aprisse un qualsiasi libro, anche quello della sua materia preferita, non sarebbe in grado di combinare nulla. Decide allora di fare un po’ di ordine nella propria camera. Non è una ragazza disordinata, lascia soltanto qualche libro fuori posto e i vestiti sul letto o sulla sedia della scrivania. Raccoglie un paio di jeans sulla sedia e li piega minuziosamente, per poi appoggiarli sulla gruccia da mettere nell’armadio, al posto giusto. Una volta sistemati i propri abiti si getta nuovamente sul letto, senza pensare a nulla questa volta. La sua mente è vuota, completamente vuota. Il suo sguardo si sposta dal soffitto alla sveglia sul comodino. Dopo qualche secondo si addormenta.

-Morgan! Morgan, il telefono! Non lo senti?

Viene svegliata dalla voce della madre, che la chiama dal piano di sotto. È ancora assonnata e non si rende bene conto di cosa le stia dicendo. Nella testa le risuona il motivetto di “Wake me up before you go go” degli Wham!. Si rende conto che la musica non è semplice frutto della sua immaginazione, si tratta invece della suoneria del suo cellulare che sta squillando. Gli occhi faticano ad aprirsi, non è del tutto sveglia. Preme il tasto verde e risponde, senza guardare lo schermo.

-Pronto?

Chiede, con un tono di voce piuttosto rauco.

-Morgan sono Kyle, mi senti?

Si è svegliata.  Di colpo si mette a sedere, si schiarisce la voce e si affretta a rispondere all’amico.

-Kyle! Ma che fine hai fatto? Pensavo ti fosse successo qualcosa! Stai bene? Oh Kyle io..

-Morgan, calmati! Sto bene, ti sto chiamando da un motel a Chicago.

Morgan spalanca gli occhi. Non sa pensare ad un motivo valido per quale motivo Kyle si debba trovare in un motel e per giunta a Chicago. Le vengono in mente le ipotesi più disparate e più assurde.

-Un motel? Dio Kyle non dirmi che ti sei dato alle marchette?

Kyle sbuffa, rumorosamente. Morgan si rende conto di aver appena detto un’idiozia.

-Stai scherzando? Sono qui con Chris, ci siamo fermati per cenare e per la notte.

Ancora qualcosa le sembra strano.

-A Chicago?

-Sì e non dirmi nulla. Ha deciso di punto in bianco di andare a Santa Monica in macchina, ci vogliono quasi due giorni per arrivare, è un'idea folle!

Concorda.

-Beh, non ha molto senso.

Sorride e tira un sospiro di sollievo. È felice di sapere che Kyle sta bene e che si trova con suo padre. Anche se in questo momento è a miglia di distanza da lei.

-Avrei voluto chiamarti prima ma il mio cellulare è scarico e non trovo il caricabatterie. Ho giusto qualche minuto per parlarti prima che la tessera telefonica si esaurisca e Christian torni da… beh, ovunque sia andato a procurarci del cibo.

Morgan sorride. Kyle non è un tipo che ama le cose improvvise, per niente. Il fatto che quel viaggio a Santa Monica non sia di suo gradimento non deve essere certo un mistero nemmeno per Christian. Il ragazzo non si è mai preoccupato di nascondere al prossimo il proprio disappunto e lei ne sa qualcosa.

-Tornerai per la fine della scuola?

Chiede.

-Ma certo che sì, tornerò lunedì mattina. Assurdo! Tutte queste ore di viaggio per starsene a malapena un giorno a Santa Monica e poi partire come ladri, di notte.

Morgan scoppia a ridere. Kyle le ricorda un vecchietto lamentoso e infastidito da ogni cosa.

-Non c’è niente da ridere! Avrei preferito restare a New York, c’è la scuola e ho delle faccende in sospeso.

Anthony.

È Anthony la sua faccenda in sospeso. Vorrebbe digli della telefonata ricevuta nel pomeriggio ma non lo fa, forse per evitare di rendere ancora più sgradevole il suo viaggio.

-Oh, capisco.

Si limita a dire, fingendo disinteresse.

-Già. Scusa Morgan, devo salutarti. Vedo Christian arrivare dalla finestra della stanza! Ci sentiamo, ciao!

Riattacca.

***

Ha girato per quasi un chilometro prima di riuscire a procurarsi qualcosa di discreto da mangiare. Quel piccolo motel, ai margini di Chicago non è collegato proprio a niente, dimenticato da tutti. Le pizze che ha ordinato sono quasi fredde ormai e probabilmente immangiabili. È certo che Kyle avrà qualcosa da ridire anche sul cibo. Non ha fatto che lamentarsi per tutta la durata del viaggio. Per la musica, per l’auto, per il traffico: tutto. Comincia a pensare che quella di partire per Santa Monica possa essere stata la peggiore delle idee mai avute. Eppure gli era sembrata tanto geniale, tanto accattivante. La decisione di fare un viaggio coast to coast era per lui la ciliegina sulla torta. Ha sempre sognato un viaggio del genere e pensava che Kyle fosse il compagno di viaggio adatto. Evidentemente aveva fatto male i conti.

Varca la soglia della stanza affittata per quella notte e trova Kyle sul suo letto a fissare fuori dalla finestra. È alquanto spartana quella stanza, spoglia e neanche troppo pulita per dirla tutta. Ci sono due letti , un matrimoniale e un singolo, due comodini e un armadio a due ante. L’unica fonte di luce è la finestra rettangolare e piuttosto piccola che affaccia sull’autostrada. Non è nemmeno dotata di un bagno personale. Dopotutto è solo una stanza da quindici dollari a notte, che cos’altro si poteva aspettare?

-Ecco il padre di famiglia che porta a casa il pane!

Esclama, cercando di far sorridere il ragazzo e allo stesso tempo cercando di fingersi allegro e sereno.

-Pizza?

Chiede Kyle guardandolo e rivolgendogli una smorfia di disgusto.

-Non ho trovato di meglio e poi, andiamo! Siamo due giovani viaggiatori all’avventura! Non dovremmo neanche stare qui a mangiare pizza, dovremmo essere là fuori a raccogliere bacche nei cespugli!

Ribatte Christian, indicando là finestra e donando alle sue parole un tono fin troppo enfatico.

-E… ti devo ringraziare per non avermi costretto a fare anche quello?

Chiede Kyle, seccato. Si alza da proprio letto e raggiunge quello di Christian.

-Spiritoso. Dai, mangia! Non toccheremo cibo per un bel po’ di ore.

Kyle rivolge un’occhiata malevola Christian poi afferra uno spicchio di pizza e inizia a mangiarla disgustato. È senza dubbio la pizza peggiore che entrambi abbiano mai mangiato, fredda, scotta e gommosa. Eppure nessuno dei due si esprime. Si limitano a mangiare, senza fiatare, senza commentare. Dopo cena Kyle è piuttosto silenzioso. Se ne sta sul suo letto, quello accanto alla finestra, con la schiena al muro, le ginocchia premute contro il petto e il mento appoggiato sul ginocchio sinistro. Ha lo sguardo perso nel vuoto. Che non sia troppo felice di trovarsi in quella situazione non è un mistero, eppure deve esserci qualcos’altro sotto, qualcosa di più importante.

Il sole tramonta rapidamente e la stanza presto viene avvolta nel buio. Il silenzio che regna è a dir poco inquietante. Christian è disteso a pancia in su ad osservare il soffitto. Nota un foro sopra la sua testa, dove probabilmente in origine era stato appeso un lampadario. Si chiede che fine possa aver fatto e sorride al pensiero che possa essere di colpo caduto addosso ad una coppia di amanti intenti a dare atto al loro amore proibito.

Sono solo le nove, è presto. Nessuno dei due ha sonno o meglio, nessuno dei due se la sente di dormire. Christian chiude gli occhi, vorrebbe riposare, dovrebbe. Ha ancora parecchie miglia da percorrere al volante e le autostrade, poco più avanti, sono meno attrezzate e percorribili di quelle di New York e Chicago. Dà un’ulteriore sguardo a Kyle che non si è mosso di un millimetro. Si chiede se non si sia addormentato in quella posizione assurda.

-Sei ancora vivo, Kyle?

Chiede. La sua voce rimbomba nella stanza e si sente quasi intimorito da quell’eco. Da quasi un’ora nessuno dei due apre bocca ed è parecchio strano sentire una voce in quella stanza, anche se si tratta della sua. Kyle non risponde subito, passa qualche secondo.

-Sto solo pensando e sperando che tu domattina mi dica: “Sorpresa! C’è un aereo a Chicago per noi!”.

Christian sorride.

-Il viaggio è la componente fondamentale degli USA, Kyle! Il nostro è un paese di viaggiatori, di immigrati. Non onoreremmo i nostri avi se ce ne stessimo nel nostro bell’appartamento a New York a guardare “Ally McBeal” o quello che è.

Esclama, con falso patriottismo. Quella frase gli è stata ripetuta allo stesso modo dal suo insegnante di geografia al liceo.

-Ally McBeal è finito da anni e comunque…

Kyle alza il mento e rivolge lo sguardo in direzione di Christian, che si appoggia su un fianco, per cercare di scorgere nel buio il suo viso.

-… è inutile che ti fingi entusiasta di questa cosa Chris, non ci credo, lo sai.

Prosegue.

Christian lo sapeva, lo sapeva che Kyle avrebbe in poco tempo smascherato quel suo finto entusiasmo, sperava soltanto facesse finta di niente e cercasse di godersi il viaggio e magari, trarne qualcosa di positivo.

-È che il mese prossimo compirai sedici anni, comincerai a fare le vacanze con gli amici, starai fuori tardi la sera nonostante io te lo impedisca e ben presto ci troveremo a mandarci al diavolo, senza nemmeno accorgercene.

Christian fa una pausa, sospira. Non pensava di dover dire tutto ciò ad alta voce.

-Avevo bisogno di questo viaggio, di andare via e di staccare la spina e ho pensato: “Perché non fare questa cosa?”. Tutto qui.

Sincero. Per la prima volta in tutto quel tempo ha aperto il suo cuore a Kyle. Il ragazzo rimane probabilmente colpito. Resta a bocca aperta con lo sguardo fisso per qualche secondo, poi si alza dal proprio letto e raggiunge Christian. Si sdraia accanto a lui, nella sua stessa posizione. All’inizio lo fissa e soltanto successivamente inizia a parlare.

-Ci mandiamo già al diavolo, da tempo!

Esclama, sarcastico. Entrambi scoppiano a ridere. Una risata strana, tra complici forse.

-Ti devo delle spiegazioni, Kyle.

Afferma Christian con decisione, rompendo il momentaneo idillio.

-No Chris, quando vorrai. Adesso dormiamo, non c’è bisogno di-

Christian lo interrompe. Vuole che lo lasci parlare, gli ha tenuto nascosta quella storia per troppo tempo. Avrebbe dovuto parlargliene prima che succedesse tutto. In cuor suo vorrebbe che l’intera faccenda venisse dimenticata da entrambi, vorrebbe tenere ben chiuso a chiave l’ennesimo scheletro della sua vita. Sa purtroppo che non potrà farlo, che non ci sono più lucchetti per quel segreto. Sono stati infranti, tutti quanti.

-Prima di dirti chi è Gregor Northshare, devi sapere che provo parecchio rancore nei suoi confronti e che probabilmente ogni giudizio che ti darò su lui sarà soggettivo.

Kyle annuisce col capo, è visibilmente incuriosito e attento.

-Ti ho detto che puoi chiamarlo “nonno” perché, beh, è quanto più simile possa avere Jonathan come padre.

Kyle spalanca gli occhi.

-Io sapevo che il padre di Jonathan è morto quando aveva solo diciotto anni.

Christian annuisce.

-Si, esatto. Il suo vero padre è morto tanti anni fa. Gregor era l’amante della madre di Jonathan, il suo “compagno”. 

Kyle ascolta, non ribatte. Forse perché non sa cosa dire o semplicemente perché vuole sapere altro.

-Dopo la morte del padre di Jonathan sua madre l’ha portato in casa, presentandolo come compagno ufficiale. Ben presto però le cose sono cambiate e hanno iniziato ad allontarsi. Questo almeno è quello che ha fatto passare per vero. La verità è che lui si è invaghito di Jonathan: se n’è impossessato, l’ha plasmato e creato a sua immagine e somiglianza ed è diventato il suo mentore. L'ha portato via dal Texas e hanno iniziato a vivere insieme a New York, da dove Gregor proviene.

La voce di Christian è contratta, quasi digrigna i denti mentre racconta quella storia. Non può fare a meno di provare una sensazione di odio e di disprezzo tutto le volte la figura di quell’uomo gli si presenta in testa.

-Quindi da padre adottivo di John, è diventato il suo amante?

Chiede Kyle con tono sorpreso. Sembra confuso ma è normale che lo sia. Tutta quella storia ha dell’assurdo, dell’incredibile.

-Esattamente. Beh non proprio un amante, non stavano insieme nel senso classico della parola. Però sì, i presupposti erano questi. Tutto questo finché non sono arrivato io.

Kyle non sa cosa dire. Vorrebbe fare delle domande e sa che Christian gli risponderebbe, il problema è che non sa esattamente cosa chiedere. Tutto ciò che gli è stato detto è nuovo, inaspettato e curioso. Non ha mai sentito parlare di Gregor, non ha mai nemmeno sentito Christian e Jonathan parlarne o riferirsi a lui in qualche modo. Se veramente il legame tra di lui e Jonathan era così forte, risulta per lui inspiegabile quel nascondere a tutti i costi la sua figura.

-Perché io non ne ho mai saputo niente?

Chiede, senza una particolare sfumatura o intonazione. Non è infastidito dalla cosa, non si sente tradito o tenuto all’oscuro. Pura e semplice curiosità. Christian abbassa lo sguardo. Un qualcosa di strano, da parte sua. Lo fa raramente in sua presenza. Non gli risponde subito e prende fiato.

-Perché Jonathan ha scelto me. Volevamo essere solo lui ed io contro il mondo e Gregor ha  subito ostacolato la nostra relazione. Non parlavamo più di lui già da tempo, da prima che arrivassi tu e abbiamo finito per non nominartelo mai.

Confessa Christian, alzando solo alla fine lo sguardo e rivolgendo a Kyle uno strano sorriso malinconico ed uno sguardo che si direbbe in cerca di comprensione.

-Ovviamente so che ogni tanto gli faceva visita, visite di tipo psichiatrico. Non l'ha più frequentato e per me ha cessato di esistere.

Prosegue Christian, temendo forse di non essere stato esauriente. Kyle annuisce. Non è sicuro di capire l’intero discorso, continua a non spiegarsi la forzata rimozione di Gregor dalla vita dei suoi genitori. Inizia solo a chiedersi quale genere di ostacolo possa aver frapposto tra i due e non trova risposta. Decide comunque di rassicurare Christian.

-Va bene.

Riprende poi a parlare.

-Cioè, non va bene o non lo so! Insomma, mi hai dato una spiegazione e mi basta. Solo... adesso cosa faccio?

Chiede, con tono chiaramente confuso.

-Non lo so.

Risponde Christian, con tutta sincerità.

-Tu credi che Jonathan abbia pensato tutto questo, che l’abbia fatto per spingermi verso di lui?

Lo sguardo di Christian si fa improvvisamente scuro e il suo tono di voce è più sentito.

-Non voglio crederlo, non voglio pensarlo.  Voglio pensare che quel… quel… quell’uomo abbia fatto tutto di testa sua.

Lo difende o forse è semplice correttezza, Christian non lo sa e Kyle non riesce a capirlo.

-Io direi di andare a dormire, per adesso.

Conclude Kyle, cercando di risollevare la situazione.

Christian annuisce.

-Ottima proposta tesoro, buonanotte.

 

 

 

--> Tornata con la seconda parte ^^. La parte dedicata al viaggio è finita, nel prossimo capitolo la location si sposta a Santa Monica, California! Dopo la rivelazione sulla natura del rapporto tra Gregor e Jonathan ne verranno delle altre, già a partire dal prossimo capitolo quindi, non perdetevelo =)

Mi sento un po’ uno di quegli sciocchi reclame pubblicitari O.o comunque voglio ringraziare jaryshanny per il commento al precedente capitolo.

E penso sia tutto. Mi auguro di aver corretto tutto e… rinnovo l’appuntamento al prossimo capitolo! <--

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Capitolo 24
*** Heaven is nowhere (Non c'è paradiso) ***


24. Heaven is nowhere (Non c’è Paradiso)

Nei ricordi da bambino di Kyle, Santa Monica è sempre stato un parco giochi, un luogo dove poteva mangiare più biscotti del solito, dove poteva stare alzato fin tardi a guardare il cielo pieno di stelle, dove poteva cantare a squarciagola le sue canzoni preferite senza paura che i vicini si lamentassero e senza dove regolare il tono della voce. A Santa Monica tutto era perfetto, tutto era un paradiso. Non ci torna da due anni e non è cambiata molto. Il clima è sempre caldo e le strade sempre affollate da gente in costume che porta sottobraccio borse da mare o tavole da surf. Il sole splende a Santa Monica e tutti sembrano essere felici, in quel posto sembra essere sempre vacanza.

Non vedeva l’ora da bambino dell’arrivo dell’estate. Oltre la solita settimana o due in montagna, la destinazione fissa era Santa Monica. Non aveva mai avuto un gruppo fisso di amici, gli bastava starsene in riva all’oceano a fissare l’orizzonte, con la sabbia morbida sotto i piedi. Non c’era cosa che amasse di più al mondo. Il primo tramonto che aveva riprodotto era stato ispirato da quelli visti a Santa Monica. Aveva solo dodici anni e il disegno era alquanto approssimativo e privo di qualsiasi tecnica eppure lo trova, tutt’ora, uno dei suoi lavori più belli e lo possiede ancora in qualche cassetto della sua stanza.

È mezzogiorno passato di sabato quando finalmente la macchina di Christian si ferma e imbocca il vialetto che conduce a casa. La casa di Christian è a pochi passi dal mare, è molto pittoresca e sembra quelle classiche case da villeggiatura degli americani filo-borghesi degli anni ’50. Per buona parte costruita in legno, dotata di un porticato e di un balcone con vista mare, piuttosto ampio. Il pick-up azzurrognolo e mezzo arrugginito del padre di Christian è da anni parcheggiato sotto la finestra della cucina ed è diventato parte fissa dell’arredamento esterno.
Kyle osserva attorno a sé il paesaggio per controllare se manchi qualcosa o se sia, veramente, tutto quanto come è sempre stato.

-Siamo arrivati, quindi.

Commenta Christian, sorridendogli.

-Già, siamo qui.

I due scendono dalla macchina, sbattendo le portiere involontariamente con forza. Quel rumore cattura l’attenzione della madre di Christian che con rapidità esce di casa e si presenta sulla soglia della porta, con sguardo sorpreso.Kyle deduce dall’espressione della nonna che quella di Christian sia un’improvvisata.

-Per l’amor del cielo! Cosa ci fate voi due qui?

Chiede la donna, con sincero entusiasmo e chiaro sconcerto.

Christian allarga le braccia e sorride.

-Sorpresa!

La donna prontamente corre in contro al figlio e lo abbraccia. L’ultimo incontro risale al Natale di due anni prima, quando Angela Simmons, Angie per tutti, era arrivata a New York per festeggiare il Natale con loro. Dopo aver abbracciato Christian Angie si getta su Kyle, che stringe con il doppio della forza e il triplo dell’entusiasmo. Kyle continua chiedersi se quella donna invecchierà mai. L’ha sempre vista come una nonna diversa dalle altre, molto giovanile e straordinariamente all’avanguardia. Anche in quel momento i suoi capelli, in origine biondi ed ora bianchi candidi, sono raccolti in una coda di cavallo ben composta. Il suo viso è finemente truccato e indossa una canotta bianca a tinta unita abbinata ad un paio di jeans chiari e delle infradito rosse.

-Oh Kyle, Smettila di crescere! La prossima volta che ti vedo dovrò prendere uno sgabello per abbracciarti!

Esclama, accarezzandogli affettuosamente il viso.

-Christian, non che non sia contenta di avervi qui, ma potevi avvisare, santo cielo!

Esclama, con un briciolo di disappunto. Christian le sorride. Per pochi istanti si guardano negli occhi, gli stessi occhi. Senza dubbio quell’iride celeste limpida e perforante Christian l’ha ereditata da sua madre.

-Oh, avanti!  Preparerò la tua stanza. Su entrate e bevete qualcosa di fresco!

Anche l’interno della casa è sempre uguale e mantiene la sua principale caratteristica: il disordine. Riviste varie sono sparse su ogni mobile, senza contare grembiuli, attrezzi da giardino e tanto altro.

-Ma… lui dov’è?

Chiede improvvisamente Angela, facendo cadere di colpo il silenzio. Kyle credeva che Christian telefonasse regolarmente alla madre, che la tenesse perlomeno aggiornata riguardo alle novità e quella della separazione con Jonathan doveva essere una notizia scontata, ovvia. Poteva veramente non avergliene parlato?

-Non importa, vi va del the freddo? Ne ho appena preparato un po’ con degli infusi già pronti, venite in cucina.

Esclama poi Angela, cambiando totalmente discorso e facendo cenno ad entrambi di entrare.

Dopo aver bevuto la bevanda amarognola preparata dalla nonna, dalla quale fortunatamente Christian non ha appreso le abilità culinarie, Kyle decide di andare a recuperare il suo costume e recarsi subito in spiaggia. È l’una passata e non ha molto tempo da trascorrere in spiaggia. Fa molto caldo e  alterna i brevi tuffi in riva al mare alle soste sdraiato sulla sabbia. Non ha portato con sé una salvietta sulla quale appoggiarsi, lo ha fatto volutamente. Al contrario di buona parte delle persone, adora sentire i granelli di sabbia incollarsi sulla sua pelle e sentirli mescolarsi con la salsedine. Per qualche istante fissa il sole caldo sopra la sua testa, salvo poi dover distogliere lo sguardo per evitare di rimanerne abbagliato.

Si era sempre chiesto, da bambino, se quel sole fosse lo stesso di New York.  La lieve brezza marina rende quella sua sosta più piacevole e impedisce che la temperatura elevata produca in lui qualche effetto di stanchezza. Chiude gli occhi e cerca di lasciarsi trasportare dalla situazione piacevole. Come sempre, a Santa Monica è libero di fare qualsiasi cosa voglia. Se anche si trattenesse fino a sera inoltrata su quella spiaggia è sicuro che Christian non farebbe storie, che non si lamenterebbe affatto del suo ritardo.

Si è più volte chiesto e in parte si chiede ancora, cosa abbia spinto Christian ad andarsene per sempre da quel luogo idilliaco per gettarsi nella faticosa, affannosa e cupa vita metropolitana di New York. In fondo Barkley, una delle più prestigiose università americane, si trova in California. Avrebbe potuto vivere da pendolare e insegnare là la sua materia, non c’era motivo che lasciasse così permanentemente la California. Cosa mai poteva avere di terribile quel luogo, che l’avesse spinto ad andarsene?

Kyle non aveva mai trascorso più di due settimane di fila a Santa Monica eppure, per quanto aveva potuto osservare, la realtà in quel posto era totalmente differente. Osservava la gente e questa sorrideva, perché visi abbronzati delle persone a Santa Monica erano sempre arricchiti da sorrisi brillanti e sereni.  Per Kyle era come se in quel luogo i confini fossero segnati da arcobaleni colorati e come se i problemi della vita quotidiana e cittadina rappresentassero solo un ricordo lontano, che non toccasse minimante la gente del posto. Sapeva che quella sua visione era del tutto irreale e utopica ma non riusciva a trovare pensieri negativi. Non c’era una sola cosa in quel posto che gli facesse rimpiangere casa sua. Certo, sentiva la mancanza di Morgan e negli anni passati le telefonava spesso. Probabilmente se avesse potuto per una volta portare Morgan con sé avrebbe deciso di trasferirsi in pianta stabile a Santa Monica. Persino la questione di Anthony gli sembra lontana in quella situazione. Non vuole ammetterlo ma forse quell’idea assurda e improvvisa di Christian non era stata così malvagia, forse quel viaggio serviva anche a lui.

Si stiracchia, sbadiglia ed inizia seriamente a rilassarsi, lasciando scorrere via le preoccupazioni con la stessa rapidità delle onde dell’oceano.

 

 

Apre gli occhi e si accorge che il sole sta calando e che una bellissima sfumatura rossastra ha poco a poco preso il posto del cielo azzurro e limpido di poco prima. Si è addormentato, senza rendersene conto. Non ha un orologio con sé e non ha idea di che ore possano essere. A giudicare dalla posizione del sole, non più tardi delle sette. Si alza, raccoglie le sue cose, si riveste rapidamente e a passi lenti si avvicina a casa.  Si sente assolutamente rilassato, più leggero e svuotato. Tornando a casa sente un buon profumo di cibo lungo il vialetto, che proviene naturalmente dalla casa dei nonni.

“È sicuramente opera di Christian.”

Pensa, affrettando il passo incuriosito. Il suo appetito ha iniziato a farsi sentire dopo aver odorato quel profumo delizioso. Dopo quel pomeriggio piacevole un’ottima cenetta preparata di Christian sarebbe l’ideale e gli farebbe scordare della cene a base di pizza fredda o cibo cinese delle sere precedenti.

Rincasa e fa per avvicinarsi alla cucina, per scoprire quale gustosa pietanza stia cuocendo sui fornelli ma si blocca.

-Una cosa del genere non l’avrei mai immaginata nemmeno in un milione di anni.

Eclama Angie, con tono dispiaciuto.

Subito dopo subentra Christian.

-Tu pensi che io me l’aspettassi mamma? Dopo che…

Il suono tono di voce è rotto, spezzato.

Kyle decide di non entrare ma è curioso, vuole seguire il discorso e capire se stanno parlando veramente di ciò che pensa. Lentamente si avvicina alla porta e si lascia scivolare contro la parete, sedendosi poi a terra, con l’orecchio teso in direzione della cucina.

-Santo cielo figlio mio, se solo tu mi avessi detto qualcosa di tutta questa storia avrei preso il primo volo per New York e vi avrei raggiunti munita dei soli abiti che avrei avuto indosso!

Commenta Angie con decisione.

-Sinceramente mamma, speravo che tutto si sarebbe risolto. Credimi, lo speravo veramente.

Risponde Christian, con lo stesso tono amareggiato di poco prima.

-E adesso? Non ci speri più?

Christian non risponde, non subito perlomeno. Kyle ha ormai la conferma che, per l’ennesima volta, si stia parlando di Jonathan.

-No.

Dopo quella risposta secca e decisa, il cuore di Kyle sobbalza. È stato per lui come un colpo forte, improvviso e indubbiamente doloroso.

-L’hai più rivisto?

Chiede Angela, prontamente.

-Una volta soltanto.

-E…?

Una breve pausa. Kyle è piuttosto interessato a quel particolare. Non ha mai saputo nulla di quel loro unico incontro, non era stato avvisato e non se n’è mai parlato in casa. Ancora delle volte si chiede per quale motivo non gli sia stato detto nulla.

-E siamo finiti per andare a letto e subito dopo urlarci addosso come sconosciuti.

L’aveva immaginato, Kyle. Aveva sentito il profumo di Jonathan in camera, doveva essere successo qualcosa di simile. Quello che gli interessava, comunque, era il motivo per cui poi Jonathan se n’era andato e non era invece rimasto nel posto che gli apparteneva.

-Oh, Chris! Lasciare che i bisogni fisici abbiano il sopravvento in questi casi è la cosa peggiore! Dovevate chiarirvi, parlare.

Christian respira profondamente o almeno Kyle deduce sia lui.

-Mamma, abbiamo litigato fino a poco prima di finire a letto. Io gli ho dato del bastardo menefreghista, lui mi ha accusato di aver impedito a Kyle di fargli visita e poi, perché non ce la facevo più, perché non volevo piangere altre lacrime, ancora, l’ho implorato di venire a letto con me.

Un breve minuto di silenzio, dopo il quale Christian riprende a parlare.

-Mamma, per favore, non giudicarmi male per quello che ho fatto.

Piange, Christian. Ancora.  Kyle appoggia il capo contro il muro alle sue spalle e sospira. Da tempo voleva sapere gli esiti di quell’incontro e, ora che ne è venuto a conoscenza così, quasi in segreto, vorrebbe non averlo mai fatto, vorrebbe essere rimasto in spiaggia, un’altra ora almeno.  Jonathan e Christian: due uomini testardi e completamente distrutti. Ecco quello che vede lui, da osservatore esterno e contemporaneamente protagonista di quello scenario fatto di parole dure e sentimenti feriti.

-Oh, figlio mio. Non ti giudicherei mai male, lo sai.

Kyle, si alza, decide che ha ascoltato abbastanza.

-E Kyle, come l’ha presa?

Si blocca.

-Beh puoi immaginarlo, no? Non bene. Si comporta in modo parecchio strano, la sua solarità e la sua lingua lunga sono scomparse. Non so, forse è anche perché sta crescendo. Il mese prossimo compirà sedici anni, piena pubertà.

Commenta Christian.

-Lui l’ha più rivisto Jonathan?

Chiede Angie.

-Sì. Ho voluto che andasse personalmente a comunicargli della nostra partenza. È anche lui suo padre ed è giusto che sappia dove va e cosa fa.

Esattamente le stesse parole che ha riferito a lui spiegandogli il motivo della visita a Jonathan, questo per Kyle conferma la coerenza e la correttezza di Christian.

-Una decisione giusta. Hai scelto tu che restasse con te?

Christian esita a rispondere, questo suo esitare alimenta la curiosità di Kyle.

-No, è semplicemente successo. Francamente, credo si sarebbe trovato meglio con Jonathan. Forse resta con me perché semplicemente gli suscito compassione. La povera mammina tradita, sola e piagnucolante.

Kyle scuote il capo. Non è così, non è così assolutamente. Si ricorda di averglielo anche detto esplicitamente tempo prima, a ferita fresca. Probabilmente Christian non c’ha creduto o forse è stato lui stesso a non essere stato in grado di dimostrarglielo.Ad ogni modo, Angie non la pensa come lui e alza immediatamente il tono della voce, nell’esprimere il suo punto di vista.

-No!  Non accetto che tu dica questo Christian. Capisco il tuo dispiacere e la tua sofferenza ma questo vittimismo represso non è da te! Hai sempre preso le cose di petto, senza tirarti indietro o startene ad auto-commiserarti.

Kyle è indeciso se andarsene o meno. Osserva uno dei tanti orologi sui mobili dell’atrio e nota che sono già le sette e venti passate. Christian e Angie pensano naturalmente che sia ancora in spiaggia e si preoccuperebbero nel sapere che si trova ancora là. Tuttavia il discorso si sta facendo sempre più interessante e non riesce a smettere di ascoltare.

-Forse hai fatto male i conti, mamma. Sono due anni che non torno qui a Santa Monica e non ti ho ancora chiesto, da quando sono arrivato, notizie su papà, né sono andato a trovarlo. Oltretutto, quando i miei problemi a New York hanno iniziato a schiacciarmi ho deciso di prendere e partire, di andarmene via. Ti sembra l’atteggiamento di qualcuno che prende le cose di petto?

Kyle sente il rumore di una sedia spostarsi dal tavolo. Decide di avvicinarsi in fretta alla porta d’ingresso e fingere di entrare, cercando di fare il rumore necessario per farla sembrare una cosa naturale, evitando di essere beccato ad origliare  alla porta della cucina.

-Kyle? Sei tornato?

Chiede Christian dopo qualche secondo, facendo capolino dalla porta della cucina e strofinandosi freneticamente gli occhi, cercando forse di nascondere le tracce di pianto. È un gesto che ripete una volta soltanto, deve sapere che ormai Kyle conosce ogni sfumatura del suo viso e che non sarà in grado di ingannarlo.

-Si! È stato un bel pomeriggio di sole, saresti dovuto venire anche tu.

Esclama Kyle, cercando di sembrare più naturale possibile. Christian gli sorride, un mezzo sorriso carico di tristezza che per un attimo insinua in Kyle la voglia di ammettere di aver origliato il discorso con la nonna, per evitare ad entrambi altre bugie, altre falsità.

-Beh, io la conosco Santa Monica. Da anni non mi fa più effetto.

Risponde, passandosi nervosamente una mano tra i capelli. Deve sentirsi estremamente in disagio e in disordine, giudicando dai suoi comportamenti e dal fatto che il suo sguardo non stia in una decisione precisa.

-Sento un buon profumo, che cos’hai cucinato?

Chiede Kyle, cercando di indirizzare il discorso su un argomento completamente diverso, qualcosa che possa piacere a Christian e farlo sentire a suo agio.

-Salmone ai ferri. Qui il pesce è buono e fresco, ho deciso di approfittarne.

Kyle annuisce.

-Ottimo! Sto iniziando ad avere una certa fame!

 

La cena naturalmente è deliziosa. Durante il pasto si è discusso della enorme differenza tra le abilità culinarie di Angela e quella di Christian che, dopo anni, ha finalmente ammesso la superiorità culinaria del figlio. Un momento parecchio piacevole tutto sommato. Kyle, tuttavia, nota che la sedia a capotavola e destinata solitamente al nonno è vuota. Effettivamente non l’ha ancora visto da quando è arrivato a Santa Monica. Non è strano che stia fuori casa, è un pescatore, un uomo che ama passare tempo in compagnia di vecchi amici di gioventù. Eppure non vederlo rincasare a cena è strano. Si ricorda di aver sentito qualcosa nel discorso di qualche ora prima di Christian relativo al nonno, eppure non riesce a ricordarsi bene il frangente, per quanto si sforzi.

Sono quasi le nove. Non ha fatto molto in quella giornata, eppure è parecchio stanco. Christian e Angie sono rimasti in casa a guardare qualche programma alla televisione, mentre lui ha deciso di mettersi sul dondolo in veranda a respirare la brezza marina notturna e ascoltare le onde del mare infrangersi sui sassi a riva. Si dondola lentamente con una gamba, mentre l’altra è piegata e appoggiata sul seggiolino del dondolo.

-Il buon vecchio stile di vita americano.

Esclama Christian, comparendo improvvisamente sulla soglia della porta accanto a lui.

-Questo posto sarà sempre un cliché per me. Credo che se in questo momento qualcuno ci scattasse una fotografia, un osservatore esterno ci vedrebbe come parte di una scena di qualche film.

Commenta Kyle, sorridendo.

-Già, può darsi.

Per qualche istante nessuno parla poi, Kyle decidere di dare sfogo alla sua curiosità.

-Non ho ancora visto nonno Jack, oggi.

Christian non risponde. Kyle si volta per osservare il suo viso. È visibilmente sorpreso, di certo non si aspettava quella domanda a bruciapelo. Kyle prende la reazione come sinonimo di qualcosa di grosso.

-Già, non è a casa. Hai intenzione di entrare o stai qui ancora per molto?

Cerca di sviare l’argomento, certamente non è un buon segno. Kyle comunque non demorde.

-Rientrerò non appena mi dirai cosa mi nascondi.

Afferma, con grande decisione. Una decisione che spiazza e allo stesso tempo infastidisce Christian, che aggrotta la fronte e cambia completamente tono di voce.

-Non ti sto nascondendo niente. Ora, per favore,rientra in casa. La nonna è andata a letto e anch’io sono parecchio stanco, devo chiudere la porta.

La testa di Kyle gli dice di obbedire e fare finta di niente ma il suo istinto, semplicemente, glielo impedisce. Non riesce a ricordarsi nessun particolare dalla discussione ascoltata prima di cena e la cosa lo fa letteralmente impazzire, senza contare l’atteggiamento ambiguo e sospetto di Christian.

-Dov’è nonno Jack? Rispondimi.

Inavvertitamente alza il tono di voce, questo secca parecchio Christian.

-Non ti permetto di alzare la voce così, Kyle. Fila in casa!

Utilizza naturalmente il pretesto di una mancanza di rispetto per chiudere l’argomento. Kyle decide di obbedire, si alza svogliatamente dal dondolo e passando accanto a Christian fa in modo di rivolgergli un’espressione di disappunto. Non ha intenzione di lasciar perdere, gli chiederà di nuovo informazioni più tardi.

Kyle raggiunge la stanza da letto, la nonna ha preparato per loro la vecchia camera da letto di Christian. Il letto è grande e matrimoniale, quindi è destinato a dormire con Christian anche questa notte. Decide di approfittare dell’occasione per ottenere le informazioni che desidera. Dopo essersi lavato e preparato per la notte, si infila sotto le coperte. Non spegne la luce e aspetta l’arrivo di Christian. Non gli rivolge la parola, finché lui non si mette a sua volta a letto e spegne la luce della stanza, lasciando che quest’ultima venga avvolta dalla sola luce dei raggi lunari che filtrano dalle vecchie veneziane di legno.

-Ti ricordi quanto mi piaceva “Il piccolo principe” da bambino e quanto spesso me lo raccontavate, tu e John?

Chiede, improvvisamente.

-Come posso dimenticarmelo? Ne eri ossessionato, eri arrivato a sperare che un giorno facesse visita anche a te.

Kyle annuisce.

-Già… e ti ricordi anche quell’episodio di  sei o sette anni fa, quando mi dicesti che il nonno, come il Piccolo Principe, aveva cercato di raggiungere le stelle, lasciando qui il suo corpo perché era troppo pesante, tanto da impedirgli di volare?

Kyle teme di aver fatto infuriare nuovamente Christian, poiché questi non risponde, non fa neanche il minimo gesto. Non lo sente muoversi accanto a lui, è semplicemente immobile.

 -Mi ricordo.

Dice, infine.

Quell’episodio citato, risale a sette anni prima. In quel periodo tutto andava a gonfie vele a casa. Mancava qualche giorno al Giorno del Ringraziamento e a breve tutti e tre sarebbero andati a Santa Monica per festeggiarlo con i genitori di Christian, com’erano soliti fare da un paio d’anni circa.

Una telefonata improvvisa, da parte di Angie, aveva rotto l’armonia piacevole di quel pomeriggio, dedicato agli acquisti per preparare il classico pranzo del Ringraziamento. Senza rendersene conto Kyle si era ritrovato con i suoi genitori su un aereo con destinazione Santa Monica. L’anticipo di quel viaggio non gli era mai stato spiegato con chiarezza. Una volta atterrati e arrivati all’aeroporto Kyle, che allora aveva da poco compiuto nove anni, aveva deciso di fare chiarezza e chiedere il motivo della partenza anticipata. Dopotutto non erano riusciti nemmeno a completare la loro spesa e le borse che avevano portato sull'aereo contenevano soltanto un paio di sacchetti di frutta secca e salsa di mirtilli.

Alla sua semplice domanda, "Perché siamo partiti così presto?" Jonathan e Christian avevano risposto dapprima con un momento di silenzio e poi, dopo essersi scambiati un reciproco cenno di capo, Christian gli aveva sorriso e si era spiegato utilizzando parole che Kyle non ha mai dimenticato.

-Vedi tesoro, sai bene che nonno Jack adora guardare le stelle in cielo, con il suo telescopio su in soffitta. Ieri sera, colpito dalla bellezza di una stella, ha deciso di provare a raggiungerla.

Kyle, naturalmente, con l’innocenza e l’ingenuità tipica di un bambino, aveva chiesto:

-E l’ha raggiunta?

Christian aveva scosso il capo.

-No. Vedi, ha cercato di fare come il Piccolo Principe. Ha capito che il suo corpo era troppo pesante per permettergli di volare e toccare la sua stella e ha cercato il serpente che non è stato in grado di aiutarlo completamente.

Una spiegazione strana, basata sul libro preferito di Kyle, che conosceva la storia a memoria in ogni piccolo particolare.

-E quindi noi stiamo andando a Santa Monica per aiutarlo a cercare un bravo serpente?

Christian a quella domanda non era stato in grado di rispondere. Era stato Jonathan a subentrare e cercare, in qualche modo, di far filare quella strana teoria.

-No. Semplicemente andiamo da lui e gli facciamo compagnia. È molto triste per non essere riuscito a raggiungere la sua amata stella e sicuramente quando vedrà te tornerà ad essere felice!

 

-Nonno  Jack aveva tentato di suicidarsi, non è vero?

Chiede alla fine Kyle, con un tono di voce tremante. Da tempo ormai quel pensiero era entrato nella sua testa ma non era mai stato in grado di pronunciarlo ad alta voce, non fino a quel momento.

-Sì.

Risponde Christian senza troppo mistero.

-Sette anni fa a nonno Jack è stato diagnosticato un cancro progressivo al cervello. Non sopportava l’idea di dover vivere in qule modo e presto o tardi diventare un vegetale, così ha tentato di suicidarsi.

Confessa poi, tutto d’un fiato. Kyle non si aspettava una risposa così rapida, così schietta. Ci aveva messo anni prima di cercare dei chiarimenti riguardo a quella faccenda così offuscata e quella verità schiacciante, che gli è stata letteralmente sbattuta in faccia, lo sconvolge. Non riesce più a dire altro e spera che Christian non approfitti di quel momento di silenzio per aggiungere altri particolari, altri dettagli.

-Si trova in una clinica da oltre due anni. Ti basta questo?

Chiede, quasi con astio Christian. Evidentemente non era sua intenzione dire tutto questo. Kyle percepisce  tutto il dolore dato dall’aver nascosto la cosa e dalla cosa stessa. Si era chiesto in effetti per quale motivo da oltre due anni non si tornasse a Santa Monica a trascorrere l’estate. Per non parlare delle feste, nonna Angela li aveva raggiunti il precedente Natale, lei sola. Era rimasta poco meno di quattro ore e poi era ripartita per Santa Monica subito dopo.

Ad ogni modo Kyle decide di farsi forza, respira profondamente e dà a Christian una risposta.

-Mi basta.

Non vuole sapere altro in quel momento. Tutto quello che gli è stato appena detto, quella confessione rapida e quasi urlata l’ha sconvolto. Ci impiega diverse ore per riuscire addormentarsi, crede che anche Christian fatichi a prendere sonno. Non ne è comunque sicuro. Lo osserva. È sdraiato di fianco e gli dà la schiena, in posizione quasi fetale con la testa sotto il cuscino e le mani, sottili e affusolate premono sul guanciale per evitare che scivoli. Lo sente respirare, un respiro quasi affannoso, giurerebbe di averlo sentito piangere o singhiozzare, durante la notte, la lunga notte.

Alle tre e mezza finalmente Kyle si addormenta per poi risvegliarsi in uno strano stato confusionale solo quattro ore più tardi. La luce dell’alba è tornata ad illuminare la stanza e un ancora pallido raggio di sole gli illumina il viso, impedendogli di volgere lo sguardo verso la finestra. Si accorge subito di essere rimasto a letto solo. Le lenzuola nella parte opposta sono state tirate indietro in modo scomposto e il cuscino è stropicciato e si trova ai piedi del letto. Allunga la mano per toccare il materasso e si rende conto che è freddo, quindi Christian non si è alzato da poco.  Anche Kyle si alza, infila le infradito lasciate la sera prima ai lati del letto e scende alla ricerca di Christian. Tutta la casa è ancora buia ma la porta di ingresso è stata aperta.

Dopo aver camminato per circa dieci minuti scorge una figura sulla spiaggia, seduta su una roccia. È senz’altro Christian. Affretta il passo e lo raggiunge. Nota che è ancora in pigiama e a piedi scalzi, capelli scompigliati.

-Pensavo mi avessi lasciato da solo in California Chris…

Commenta Kyle, cercando di assumere un tono scherzoso.

-Non lo farei mai.

Risponde lui, con tono affranto. Kyle si avvicina di più a lui,  si siede sulla stessa roccia.

-Da quanto tempo sei qui in spiaggia?

Chiede Kyle.

-Non lo so. Ho cominciato a camminare e sono finito qui. Sai, su questa stess roccia Jonathan mi ha promesso di amarmi per sempre.

Ride nervosamente. Una risata isterica, malinconica.

-Quante parole al vento!

Kyle non sa come ribattere. Non vuole restare in silenzio. Deve assolutamente dire qualcosa, deve cambiare argomento. Eppure finisce proprio per non dir nulla, rimane a fissare l’orizzonte nell’attesa che sia di nuovo Christian a parlare.

-Ho riflettuto in questi due giorni Kyle e sono arrivato alla conclusione che è da Jonathan che dovresti stare.

Kyle spalanca gli occhi e rivolge immediatamente lo sguardo verso Christian. Scuote il capo.

-No, no Chris. Cosa stai dicendo?

Christian non risponde. Kyle gli afferra il polso e lo scuote con forza.

-Non dire stupidaggini, dai! Guardami e dimmi che è solo un’idea stupida!

Christian lo guarda e Kyle si rende conto, da quell’espressione cupa e stanca, di quanto poco possa aver dormito quella notte. I suoi occhi sono arrossati e gonfi.

-Che razza di esempio potrei mai darti Kyle? Come puoi continuare a vivere con me, che non ho neanche il coraggio di affrontare i miei problemi. Sono così codardo da scappare via ogni qualvolta le cose si complichino. Sono scappato da New York perché vedevo l’ombra di Jonathan dappertutto e non ce la facevo più.

Tace, per qualche secondo. Scuotendo il capo.

-… e ora sono tornato ancora qui e non ho neanche la forza di fare una visita alla clinica dove è ricoverato mio padre, dove sta trascorrendo ormai il poco tempo che gli rimane.

Quanto dolore e quanta sofferenza nelle parole di Christian. Kyle non si sarebbe mai immaginato nulla del genere. Non biasima Christian nel suo desiderio di scappare, affatto. Al contrario, è sempre più convinto che il suo posto sia al suo fianco, ora più che mai vuole stargli accanto. Lo abbraccia o meglio, letteralmente gli si getta addosso, stringendolo con più forza possibile. Il gesto sorprende Christian.

-Non sei un codardo, Chris. Hai solo paura, è normale avere paura. Ma io sono qui, accanto a te e non vado da nessuna parte, che ti vada bene o no.

Christian respira profondamente poi, con delicatezza, accarezza i capelli arruffati del figlio.

-Non mi merito la tua devozione il tuo rispetto, Kyle.

Il ragazzo stringe più forte, quasi a rimarcare quanto ha appena detto.

-Sei mio padre e ti devo rispetto più di a chiunque altro, senza contare che non c’è nessuno al mondo che mi voglia bene quanto me ne vuoi tu.

 

 

---> Salve! Poco spazio per i miei “commenti” questa volta (sono di fretta!). Scrivo giusto per ringraziare jaryshanny  che mi commenta sempre puntualmente. Detto questo, l’appuntamento è per il prossimo capitolo! <---

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Capitolo 25
*** Facing Problems (Affrontare i problemi) ***


25. Facing Problems (Affrontare i Problemi)



-Ciao papà.

Un uomo dal capo bianco come la neve si gira. È seduto su di una sedia a rotelle, indossa un paio di occhiali sottili che celano occhi grigi, stanchi e opachi.

-Chi sei?

Domanda l’uomo.

-Sono Christian, tuo figlio.

La risposta non è accolta positivamente. L’uomo scuote il capo e continua nel frattempo a scrutare quella figura abbastanza giovane e di aspetto piacevole, che pare ricordargli qualcuno.

-Ho un figlio… sei tu?

Il tono di voce dell’uomo è perso e sconnesso. Di sicuro non sa cosa sta dicendo. Pronuncia forse le uniche parole che siano rimaste nel repertorio del suo cervello, ormai ampiamente danneggiato. Christian ha timore ad avvicinarsi ulteriormente, ha paura che l’uomo possa scacciarlo il malo modo. Sa bene che non sarebbe colpa sua, in ogni caso. Vorrebbe comunque prendergli la mano, dirgli di guardarlo negli occhi e di cercare di trovare un frammento di memoria che possa contenere il suo viso. Gli è costato un grande sforzo, c’è voluto un grande coraggio per decidersi di mettere piede in quella stanza d’ospedale ben arredata. Avrebbe voluto tornare a New York con la stessa rapidità con la quale era arrivato eppure, dopo l’ennesimo gesto d’affetto e dimostrazione di forza da parte di Kyle, non ha potuto fare a meno di mettere da pare la codardia, ha afferrato con decisione il volante della macchina ed è partito in direzione della clinica, situata pochi chilometri fuori dai confini di Santa Monica.

Ora che si trova davanti a lui, sulla soglia della sua stanza, non ha però il coraggio di fare altro se non starsene impalato a fissare quell’ombra d’uomo che anche lui stenta a riconoscere. Sono passati due anni dall’ultima volta che ha visto suo padre e certamente il tempo e il decorso della malattia non sono stati generosi con lui. È magro, scarno. La pelle una volta ambrata per il sole, frutto di lunghe giornate in riva all’oceano a pescare, è ormai sbiadita. La carne muscolosa si è afflosciata e ricade mollemente dalle ossa. L’unica cosa che ancora possiede è la sua folta capigliatura, ormai bianca. Gli occhiali, che Christian da sempre ricorda, sono appoggiati pesantemente sull’osso di un naso smagrito e quasi deformato.  Porta il solito abbigliamento estivo e colorato di sempre, che sembra eccessivamente grosso ed appariscente per quel corpo deperito.

Una visione che colpisce gli occhi e il cuore.

Molto probabilmente Christian avrebbe notato in modo diverso quei cambiamenti, se fosse stato presente e se si fosse preoccupato di fargli visita più spesso. Tutto quell’insieme di terribili mutamenti in una sola volta fanno a pensare a Christian di trovarsi davanti ad un semplice sostituto che ricorda meramente l’uomo al quale si ispira.

-Sì.

Risponde, solo qualche secondo dopo.

Si guarda attorno. È una stanza molto elegante, sua madre deve averla scelta e arredata con cura. Tipico di lei, non vuole che nessun dettaglio venga lasciato al caso. Qualcosa che naturalmente gli ha trasmesso. Le pareti della stanza sono dipinte di un giallo carico e forte che dà l’impressione che i raggi che filtrano dalla finestra, rigorosamente protetta da una persiana, siano ancora più intensi e calorosi.

Jack, il padre di Christian, dà segno di volersi avvicinare. Afferra con decisione entrambe le ruote della carrozzina e inizia a spingerla con gesti ampi e lenti. Christian non si muove, lo  fissa, fissa le sue mani raggrinzite fare forza su quelle ruote sottili e osserva la riduzione graduale della distanza che li separa. Quando i due si trovano più vicini, Jack scruta con più decisione il figlio, muove il capo a destra e sinistra per cercare di cogliere ogni angolazione, dopodiché scuote il capo.

-No, non sei Christian, lui è più bello.

Detto ciò, afferra di nuovo le ruote della sedia e torna alla posizione di poco prima, compiendo gli stessi gesti meccanici. La sua frase in qualche modo ferisce Christian. È doloroso per lui, non suscitare il benché minimo ricordo nella mente del proprio padre. L’uomo infatti afferma di ricordarsi di avere un figlio, del quale però non riconosce il volto.

-Non lo vedo da anni, mio figlio. Chissà se verrà prima che muoia…

Afferma Jack, con non poca malinconia. Quella frase, per Christian, è un doloroso colpo al petto. Teme che il suo cuore da un momento all’altro cessi di battere.

Vorrebbe urlare e dirgli “Sono qui, sono tornato”. Teme però che servirebbe ben a poco. Se anche glielo dicesse, l’uomo probabilmente rimarrebbe della propria opinione, anzi rischierebbe di irritarlo.

-È impegnato, lui. Ha una famiglia e insegna l’arte. Non ha tempo per me.

Parole dure, sicuramente cariche di sofferenza e astio. Vengono tuttavia pronunciate in uno strano ton o assente e vago. Le parole vengono scandite e perdono, singolarmente, il loro effetto.

-Sono sicuro che suo figlio pensa sempre a lei.

Risponde alla fine. Credendo che dargli retta sia la cosa migliore. Non lo è comunque per lui. Si sente morire e sente come se la sua gola cercasse di trattenere ogni parola che intende pronunciare.

-Sì?

Chiede l’uomo, con tono di voce sorpreso e un’espressione compiaciuta, simile a quella di un bambino al quale è stata comunicata una piacevole notizia.

-Ma certo!

Esclama Christian, lottando con la sua bocca affinché possa apparigli un sul volto un circostanziale sorriso.

-E sai anche se verrà al mio funerale?

Christian spalanca gli occhi. L’idea di una morte prematura del padre è il motivo per il quale ha continuo a scappare, uno spettro dal quale ha cercato in tutti i modi di sfuggire. In quei venti minuti, o poco meno, l’argomento gli è stato scaraventato addosso già due volte. La prima volta è riuscito ad aggirarlo, è riuscito a tapparsi le orecchie e vorrebbe farlo di nuovo, pronunciare una frase di falso ottimismo come “Non dire così” o “Non ci sarà alcun funerale”. Sa però che non sarebbe di alcun aiuto a lui e che neanche suo padre riuscirebbe a credergli, non più. Ormai è troppo tardi.

-Certamente.

Risponde infine, mostrandosi deciso ma crollando internamente con la stessa rapidità di un castello di carte sottoposto ad una raffica di vento.

-Ora devo andare. Arrivederci-

Si blocca. Vorrebbe dire “papà” ma non avrebbe alcun senso. Servirebbe solo a confondere ulteriormente l’uomo e lui stesso. Così, si limita ad aggiungere:

-… Jack.

Così facendo gli pare quasi di salutare una persona qualunque, non il proprio padre.

-Christian!

Grida l’uomo, facendo voltare di scatto il figlio, già in procinto di andarsene.

-Così, si chiama lui…

Aggiunge in seguito, quasi in un sussurro.

Christian annuisce col capo per poi riprendere la sua strada. Ha un volo di ritorno per New York che lo attende.

***

Lunedì mattina è finalmente arrivato.

Ronald è curioso o per meglio dire, ansioso, di rivedere Christian. Spera in cuor suo di vederlo più sereno, più riposato.
Lo attende da quasi un’ora nel dipartimento di arte e cammina su e giù per la stanza nervosamente. Sono quasi le otto, ormai. Christian dovrebbe avere una lezione alle otto e mezza e non si è ancora presentato. Inizia a temere che abbia deciso di prolungare la sua vacanza.

-Buongiorno, Ronald!

Esclama una voce molto gradita, proprio quella che stava aspettando.

-Oh, Christian! Bentornato!

Esclama lui, cercando di contenere, se possibile, l’entusiasmo dato dall’averlo appena rivisto. È vestito nella solita eleganza casual di ogni giorno, un abbigliamento totalmente differente rispetto agli indumenti da spiaggia che gli aveva visto indosso durante l’ultimo loro incontro.

-Come’è andato il viaggio, tutto bene?

Chiede Ronald, avvicinandosi a lui. Christian comunque ha l’aria di essere piuttosto indaffarato. Senza rivolgergli un ulteriore sguardo si siede sulla prima sedia libera al tavolone centrale alla stanza, vi poggia la propria borsa e prende da essa una lucente cartelletta gialla, dalla quale estrae dei fogli.

-Ti sei portato il lavoro anche in vacanza, Christian?

Chiede Ronald. In verità poco sorpreso dalla cosa. Christian è sempre stato piuttosto ligio al dovere. Non ha mai dimenticato nulla, ha sempre rispettato ogni scadenza e svolto ogni mansione con la massima cura e precisione.

-No, assolutamente.

Risponde Christian, con lo sguardo fisso sui fogli che ha appena estratto. Con la mano destra, l’indice, fa scorrere le parole sul foglio che ha davanti a sé, mentre con quella sinistra tasta nella borsa, probabilmente cercando di trovare una penna. Ronald cerca di sbirciare qualche informazione su ciò che sta leggendo, senza cercare di dare troppo nell’occhio e di far pensare che si stia facendo gli affari suoi. La sua visuale gli mostra un documento sottosopra su fogli stampati al computer.

-Ah finalmente!

Esclama Christian, una volta estratta una penna dal cappuccio nero dalla borsa.

-Spero che scriva adesso!

Aggiunge.

-Non per farmi gli affari tuoi ma… che diavolo stai facendo?

Chiede Ronald. Christian alza il capo.

-Questo.

Afferra il primo foglio del plico che ha appena estratto e lo alza, girandolo, per permettere a Ronald di vederlo.

-È una richiesta di separazione.

Ronald spalanca gli occhi. Osserva il documento e legge chiaramente le diciture tipiche e il simbolo del tribunale.

-Dio mio Chris, hai trovato marito in California?

Chiede, cercando di scherzare e sperando di far sorridere Christian.

-No. Ho semplicemente deciso di prendere in mano le redini della mia vita e voglio iniziare chiudendo per sempre questa faccenda, prima che mi risucchi completamente.

Ronald non sa, forse per la prima volta, come ribattere. Osserva il viso di Christian mentre gli parla, le sue labbra, i suoi occhi. Si chiede cosa possa essere successo in quel viaggio per averlo spinto a tanto. Non riesce a decifrare la sua espressione. Non riesce a capire se sia veramente deciso in quello che sta facendo, se veramente si stia rendendo conto di tutto quanto o se semplicemente si stia forzando a fare qualcosa per cui non è pronto e nella quale non crede minimamente.

-Ti apri verso nuovi orizzonti?

Chiede Ronald. Non sa come altro ribattere. Vuole sapere di più, verificare le se intenzioni di Christian sono ferme. Sa benissimo di aver esordito nel modo sbagliato ma è l’unico che conosce e lo preferisce all'opzione di restarsene in silenzio e limitarsi ad annuire.

-Nuovi orizzonti?

Chiede Christian, facendo una smorfia.

-Sai, dicono che una nuova storia a volte aiuti. Se è così io posso… consigliarti…

Christian lo ferma. Scuote il capo e sbuffa.

-Una nuova storia? Ronald, quell’uomo si è portato via tutta la mia vita. Non ho più forze, non ho più nulla da dare e quel poco che mi rimane, credimi, lo tengo per me.

Questa volta si limita ad annuire. Una qualsiasi parola dalla sfumatura azzardata sarebbe di troppo. Ogni volta che Christian parla di quell’uomo, anche indirettamente, senza nominarlo a chiare lettere, la curiosità di Ronald di vederlo sale di più. Vuole sapere com’è fatto, vuole sentirlo parlare, vederlo muovere.

-Balle. Tu hai molto altro da offrire.

Dice, alla fine, in uno strano borbottio.

-No ho dato tutto a Jonathan, tutto quanto.

Ronald non sopporta le persone deboli, il vittimismo compassionevole e l’autocommiserazione. Christian gli piace,veramente, è una persona intelligente, responsabile. Quell’atteggiamento vile non gli si addice.

-Quante cazzate, Christian!

Urla. Stupendo probabilmente il diretto interessato.

-Vorrei proprio sapere chi diavolo è questo Jonathan Wallace! Che razza di persona è in grado di ridurti ad un mollusco senza palle! Ma ti ascolti quando parli, Christian?

Christian non è concorde con il linguaggio che Ronald sta utilizzando per descriverlo. Si alza dalla sedia e picchia entrambi i palmi della mani sulla scrivania.

-Ronald, non ti permetto in nessun modo di parlarmi così! Non sei nessuno per dirmi queste cose. Non ho mai e dico mai capito chi tu diavolo sia. Mi hai piazzato una confessione un giorno così, per caso, dopo dieci anni. Non so nient’altro di te e tu invece ti permetti di giudicami! Chi te lo conferisce questo titolo? Avanti, illuminami!

Esclama, gesticolando animatamente. Il suo viso è diventato rosso dalla rabbia. Non è affatto quello che Ronald intendeva scatenare in lui.

-Non ti ho affatto giudicato, Christian. Ma se vuoi, lo faccio adesso.

Christian aggrotta la fronte, probabilmente non capisce dove Ronald voglia arrivare con quel discorso. Non parla e lo fissa in attesa della risposta, in attesta di questo succitato giudizio.

-Non hai il coraggio di fare quello che stai facendo. La domanda per la separazione, lì davanti a te, non ci credi minimamente. Sei ancora del tutto succube di quel tipo, di quell’uomo assurdo.

Christian scuote il capo.

-Sai Ronald, non ho mai capito niente di te. Non sono mai stato in grado di dire se tu mi piacessi o meno.  Ora come ora, mi fai schifo.

Raccoglie in fretta le sue corse e si dirige a passo rapido fuori dalla stanza.

Nel frattempo, tre o quattro professori presenti nella stanza che hanno assistito a tutta la scena tra Ronald e Christian rimangono per qualche minuto in silenzio, per poi tornare a discutere separatamente dei propri affari.

Ronald si lascia cadere su una sedia e sbuffa, nervosamente, con esasperazione.

-Mi faccio schifo anch’io…

Sussurra guardando nel vuoto e pentendosi di ogni singola parola detta Christian.

 

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Capitolo 26
*** Real Intentions (Le Vere intenzioni) ***


26. Real intentions (Le vere intenzioni)

Non ha idea di come possa essere finito il quel posto.

Se ne sta seduto su un divanetto, piuttosto scomodo, un martedì sera a mezzanotte quando invece dovrebbe tornare a casa e riposare per arrivare l’indomani fresco e pronto al lavoro. È qualcosa che non gli piace, perdere ore di sonno. Quando ha qualcosa di fare l’indomani, qualcosa di importante come il lavoro o qualche impegno, preferisce non privarsi delle sue otto o nove ore di riposo.

-Allora Dr. Jonathan Wallace, ti stai divertendo?

Chiede Simon. Un vecchio collega di lavoro che Jonathan ha avuto modo di incontrare nel pomeriggio in occasione di una collaborazione professionale. Lo conosce da diversi anni quel tipo e non è mai cambiato. Non lo vedeva da qualche tempo e, dopo il lavoro, ha avuto modo di cenare con lui in un modesto ristorantino appena lontano dal suo studio psichiatrico.

-Vorrei sapere Simon, come  tu sia riuscito a convincermi a venire in questo posto.

Chiede, afferrando il bicchiere di scotch che gli è appena stato servito e posato davanti.

-Oh, Dr. Wallace! Un po’ di divertimento serve a tutti, su!

Esclama, mettendogli inaspettatamente un braccio attorno a collo e afferrando, con la mano libera, la propria ordinazione: un bicchiere di Tequila piuttosto pieno.

È sempre stato un tipo molto caloroso e affabile Simon, della stessa età di Jonathan. Abbastanza scialbo di aspetto, nessun tratto che lo renda particolare o degno di un secondo sguardo. Corporatura media e statura modesta. Era comunque sempre stato circondato da parecchi amici, questo perché è da sempre dotato di simpatia e humour, un carattere che difficilmente porta a scontri, una persona che è in grado di andare d’accordo con tipologie caratteriali differenti.

A Jonathan piaceva, un tempo, la sua compagnia. Lo conosce dai tempi del college ed è il classico compagnone universitario che ama scherzare e divertirsi, una compagnia piacevole appunto. Sennonché l’avesse sempre ritenuto un tipo poco affidabile, qualcuno che racconta delle grandi storie e nient’alto.

-Oh finalmente! Eccolo!

Esclama Simon togliendo il braccio dal collo di Jonathan e alzandosi dalla sedia. Sta guardando in direzione della porta d’ingresso e con la mano fa cenno a qualcuno di avvicinarsi.

-Jackson! Ti aspetto da quasi un’ora, accidenti a te!

Esclama mentre un uomo, alquanto avvenente, si avvicina al tavolo.

-Scusami Simon, c’era parecchio traffico questa sera.

 Risponde il ragazzo, prendendo una sedia da un tavolo vuoto e aggiungendola al posto nel quale sono seduti Jonathan e Simon.

-Jonathan ti voglio presentare Jackson Smith, un ragazzetto che da poco lavora come praticante al mio studio.

Il ragazzo di nome Jackson allunga la mano in direzione di Jonathan, che fa altrettanto stringendo quella del ragazzo.

-Piacere.

Esclama, con un sorriso quasi forzato. Osserva il ragazzo, piuttosto giovane a dire il vero. Ventidue, forse ventiquattro anni, media statura e gradevole nel complesso. Ha capelli corti di colore castano chiaro e gli occhi nocciola. Sbarbato, ben curato.

-Finalmente te l’ho presentato, hai visto Jackson?

Il ragazzo abbassa lo sguardo e arrossisce senza dire una parola. Probabilmente aveva richiesto specificamente un incontro con Jonathan. Quest’ultimo non riesce comunque a spiegarsi il motivo dell’imbarazzo di Jackson.

-Sono così famoso?

Esclama, scherzando e sorseggiando un altro goccio di scotch. Sul viso di Simon compare un largo sorriso, mentre Jackson tiene ancora lo sguardo rivolto verso il pavimento e non dà cenno di voler  guardare di nuovo Jonathan in viso.

-Sai, John…

Esordisce Simon, portando di nuovo un braccio al collo di Jonathan.

-… Jackie lavora con me da tre mesi, durante i quali gli ho parlato di spesso di te. Ammettiamolo, sei uno dei migliori psichiatri della zona.

È la prima volta che Jonathan si sente porgere un complimento del genere. Nessuno gli aveva dato mai particolari meriti riguardo al suo lavoro e non pensava neanche che lo si conoscesse. Svolgeva il suo lavoro con impegno e dedizione senza particolare fama di gloria o desiderio di riconoscimenti di qualsiasi tipo. Sentirsi definire “uno dei migliori psichiatri della zona” è qualcosa di estremamente nuovo per lui.

-Addirittura? Non pensavo ci fosse una classifica…

Ribatte, un po’ in imbarazzo a dirla tutta; cercando di ironizzare la situazione.

Simon ride divertito e anche Jackson sorride. Il suo imbarazzo comincia a venir meno, alza lo sguardo dal pavimento e rivolge delle fugaci occhiate a Jonathan.

-Mi piacerebbe essere come lei  dottor Wallace, un giorno…

Commenta timidamente Jackson, quasi con un filo di voce. Jonathan lo vede come un ragazzino impaurito e timoroso. Deve senz’altro perdere quella timidezza e farsi le spalle grosse, se vuole diventare come lui. Se semplicemente vuole riuscire nel suo mestiere, in fondo. Con un attitudine così timida e lasciva sarebbe fin troppo facile farsi mettere i piedi in testa dai pazienti, ultima cosa da fare nello svolgimento di quella particolare professione dove il controllo sul paziente è a dir poco essenziale.

Vorrebbe dirgli tutto questo ma preferisce tacere. Non è affar suo e si tratta di un apprendista di Simon, spetta a lui il compito di insegnarli il mestiere.

-Non ci vuole troppo, per essere come me.

Risponde Jonathan, con la stessa modestia di sempre. Inizia ad osservare più attentamente il ragazzo. I suoi gesti sono rapidi, tocca il bicchiere di alcool davanti a sé con la sola punta delle dita, quasi temesse di scottarsi e non è in grado di reggere uno sguardo per più di una decina di secondi. Non pensava che, al giorno d’oggi, esistesse ancora quel tipo di ragazzo timido e riservato. Non ne incontra uno da tempo o meglio, uno l’aveva incontrato, lo conosceva. Peccato però si fosse rivelato più sveglio di quanto sembrasse.

A questo pensiero  Jonathan rabbrividisce. Torna a fissare il ragazzo e cerca di non andare oltre alla semplice osservazione. Si chiede dove Simon possa averlo trovato. Non sapeva nemmeno che accettasse apprendisti. È una cosa insolita in effetti. Lui per esempio non ha mai ricevuto una proposta di apprendistato, quindi deve essere stato lo stesso Simon a cercarlo.

-Dimmi un po’, Jackson. Come mai hai deciso di andare a lavorare da Simon?

Il ragazzo fa per aprir bocca, quando la voce di Simon sovrasta completamente la sua.

-Beh! L’ho trovato io e…

Jonathan alza la mano destra in direzione di Simon, facendogli cenno di smettere di parlare. Non è la sua spiegazione che vuole sentire, è quella del ragazzo che realmente gli interessa.

-Ho chiesto al ragazzo, se non ti dispiace.

Jackson sorride e poco a poco inizia a parlare, a spiegarsi.

 

***

Morgan sta aspettando Kyle all’entrata dell’edificio da qualche minuto. È arrivata in anticipo a scuola quella mattina e dopo quel lungo weekend non vede l’ora di rivedere l’amico. Hanno potuto parlare soltanto per una decina di minuti in quei tre giorni, cosa alquanto insolita per due amici inseparabili come loro.

Vuole abbracciarlo e farsi raccontare per filo e per segno tutto ciò che è accaduto in quei giorni, non lo lascerà andare finché non avrà scoperto anche il minimo particolare.

È una tipica e calda mattinata estiva. Le fronde spesse lungo il vialetto che porta all’entrata dell’edificio filtrano dei caldi e luminosi raggi di sole. Morgan chiude gli occhi e si lascia colpire in pieno viso da quei raggi così caldi e avvolgenti. Le piace parecchio prendere il sole e non vede l’ora arrivi l’estate per poter trascorrere dei lunghi pomeriggi in riva alla piscina pubblica ad abbronzarsi e rilassarsi.

Apre gli occhi, giusto in tempo per vedere Anthony Edwards camminare, senza zaino e con abiti alquanto formali verso la sua direzione, accompagnato da due uomini adulti, anch’essi dotati di una certa eleganza. Uno dei due dovrebbe essere il padre del ragazzo, ha la stessa camminata rigida e la stessa corporatura.

I tre raggiungono l’entrata per poi varcare la soglia. Anthony, prima di entrare si blocca e guarda Morgan, senza parlare. La fissa soltanto. Anche lei fa altrettanto. Poi, dopo qualche istante, il ragazzo alza la mano destra, la saluta sorridendo e riprende la sua strada, seguendo i due uomini eleganti che ormai sono già all’interno dell’edificio.

Si chiede, Morgan, cosa possa essere successo. Quella scena ha qualcosa di estremamente insolito e a tratti inquietante. Guardandosi in giro si rende conto di non essere stata l’unica a fermarsi per guardare. Almeno una decina di ragazzi sparpagliati per il cortile scolastico sono fermi e fissano nella sua stessa direzione, dove ormai non c’è più nulla. Morgan sa che i genitori di Anthony sono più che benestanti e che buona parte dei fondi versati in beneficenza provengono dalle loro tasche. Si può dire che almeno un quarto di quella scuola sia proprietà degli Edwards. Tutte le generazioni di quella famiglia hanno frequentato l’istituto fino ad arrivare ad Anthony e suo fratello maggiore Thomas.

La ragazza inizia a sospettare che in qualche modo possa essere coinvolto anche Kyle in tutto quello. Trova assurdo che una semplice ragazzata possa scaldare tanto gli animi della famiglia Edwards da creare qualcosa di grande.

“Ragazzata.”

Inizia a dubitare della correttezza dell’aggettivo. Si ricorda della conversazione telefonica con Anthony di qualche giorno prima. Avrebbe dovuto riferire il contenuto della conversazione a Kyle, come le era stato richiesto da Anthony ma, inspiegabilmente, non l’aveva fatto. Era finita, forse per caso o forse volontariamente su tutto un altro discorso e aveva lasciato correre.

-È successo qualcosa?

Chiede, una voce che aspettava di sentire da qualche giorno ormai.

-Kyle! Finalmente!

Esclama lei, vedendoselo davanti. Il ragazzo si sta guardando in giro, probabilmente insospettito dalla calma generale del cortile.

-C’è fin troppo silenzio in questa scuola, o sbaglio?

Domanda lui.

-Si, hai ragione…

Non riesce a dire altro. Ancora una volta non riesce a nominare Anthony in sua presenza. Perché mai? L’ha sempre fatto. Ha sempre insistito sulla storia tra i due, ha sempre cercato di farli incontrare e ora fa fatica persino a raccontare un episodio che semplicemente coinvolga la figura del ragazzo.

-Questo posto è sempre più strano. Ad ogni modo, è successo qualcosa durante la mia assenza?

Morgan non sa come rispondere. A tutti gli effetti, a scuola, non è successo niente e quindi se anche rispondesse “Non è successo nulla” non mentirebbe.

-Niente di niente.

Risponde alla fine. Tacendo ancora una volta.

-Piuttosto… raccontami del tuo weekend sono molto, molto curiosa!

Esclama, cercando di metterci più entusiasmo e interesse possibile. Vuole cambiare totalmente argomento, è l’unico modo per distoglierla dai propri pensieri.

 

***

È  mercoledì mattina e Gregor è già a metà della sua settimana lavorativa. Come è solito fare ogni giorno ha sistemato le sue carte, controllato fax ed e-mail e si è infine seduto sulla sua poltrona nell’attesa dell’arrivo del primo paziente. Non ha controllato la propria agenda il giorno prima e non sa quindi chi si troverà davanti di lì a poco.

Improvvisamente la porta principale dello studio si apre con decisione, facendolo balzare dalla sedia.

-Gregor, ho assolutamente bisogno di parlarti! Scusa l’improvvisata.

Esclama Jonathan, irrompendo nello studio e avvicinandosi alla scrivania. Prende posto su una delle due sedie destinate ai pazienti e fissa Gregor nell’attesa di una risposta. L’uomo è ancora abbastanza sconvolto da quella sua visita, per così dire, a sorpresa e non riesce a decidersi ad aprir bocca.

-Certo devo dire John che nonostante ti conosca da più di vent’anni la tua capacità di sorprendermi non la perderai mai.

Afferma poi infine, deciso ad ascoltare ciò che ha intenzione di dirgli.

Il suo aspetto è alquanto singolare, fin troppo disordinato e i vestiti che indossa sono visibilmente stropicciati. Se non fosse certo di quanto tiene alla bella presenza e al suo aspetto, Gregor sarebbe pronto a scommettere che stia indossando gli stessi abiti del giorno precedente.

-Ad ogni modo, qual è il tuo problema?

Chiede Gregor, dandogli il via libera per parlare.

-Non lo so, per questo sono qui da te.

Risponde Jonathan con franchezza. Gregor annuisce.

-Bene. Raccontami qualcosa allora, avanti.

Si appoggia allo schienale della sedia, in attesa di una spiegazione. Non è sicuramente lui il paziente che stava aspettando quella mattinata ma vedendolo in quello stato non può assolutamente scacciarlo.

-Sarò breve. Ieri  sera sono uscito con un collega. Questo collega mi ha presentato un ragazzo, vicino ai trenta credo. Bell’aspetto, persona interessante. Insomma, mi piaceva. Mi piaceva al punto di volermelo portare a letto ed è esattamente quello che ho fatto.

Gregor inarca le sopracciglia. Non lo credeva tanto audace e di certo non si aspettava un simile dichiarazione. Tuttavia sapeva che prima poi avrebbe trovato un nuovo compagno, dopotutto il sesso è un bisogno fisiologico e, a dirla tutta, lui non si stava impegnando abbastanza per tenerlo al suo fianco ed evitare che andasse a sfogare i suoi bisogni su uno sconosciuto.

-Non vedo cosa ci sia di male. L’astinenza non è proprio il tuo forte, per quel che so.

Jonathan scuote il capo.

-No. Non è questo il punto.

Gregor non capisce ma non parla, si limita a rivolgergli uno sguardo confuso, attendendo che sia Jonathan stesso a fornirgli una spiegazione.

-Non ce l’ho fatta. L’ho trascinato in un motel, il primo nelle vicinanze e… niente l’ho lasciato andare.

Rimane in silenzio per qualche minuto ma Gregor è certo che il suo discorso non sia finito.

-L’ho baciato e ho rivisto in lui l’immagine di Christian. Era come se lui fosse stato lì, davanti a me. Come se il corpo di quel ragazzo fosse stato rimpiazzato dal suo e… non sono riuscito a fare assolutamente nulla. Mi sono alzato, rivestito e sono tornato a casa a piedi…

Lo sguardo di Jonathan è alquanto enigmatico. Non è disperato o confuso come nei suoi ultimi incontri con lui. Sembra quasi rassegnato eppure gli angoli della sua bocca sono inarcati in un mezzo sorriso. Gregor non vuole chiedere nulla riguardo al suo stato d’animo vuole intuirlo, dalle sue parole magari.

-Sarà il senso di colpa o… non lo so cos’è! Eppure l’ultima volta che l’ho tradito l’ho fatto senza pensarci due volte e mi è piaciuto. Il rimorso l’ho avvertito dopo, a fatto compiuto. Mi chiedo solo cosa sia cambiato. In fondo all’ora avevo qualcosa da perdere mentre ora non ce l’ho più. Non ho più niente, allora perché?

Lo guarda, lo osserva e gli rivolge uno dei suoi sguardi più profondi. Sta semplicemente cercando una risposta, una spiegazione ad un gesto che trova insensato e assurdo.

-La tua è paura John. Hai paura di rivivere lo stesso dolore che hai provato quando hai fatto la tua prima scappatella, non te ne devi vergognare.

Gregor sorride. Il caso di Jonathan gli appare sempre più interessante e crede che quello possa essere il momento giusto per fare la mossa che ha programmato da tempo.

Gli si prospettava una giornata di lavoro probabilmente lunga e noiosa. Quella visita improvvisa di Jonathan ha cambiato le sorti della sua giornata e dopo aver sentito le sue parole ed aver constato di essere ormai tornato la fonte unica ad ogni sua risposta insoluta, decide che forse è arrivato il momento per fare ciò che deve.

-Mi vuoi scusare un secondo?

Chiede. Jonathan annuisce col capo, senza parlare.

Immediatamente Gregor afferra il telefono e compone il numero interno della sua segretaria.

-Patricia, cancelli tutti i miei appuntamenti per oggi.

Riattacca e torna a fissare Jonathan.

-Come dicevo, John, la tua è paura ma… potrebbe esserci anche dell’altro.

Jonathan non capisce e fissa Gregor con curiosità.

Gregor si alza dalla sedia e raggiunge Jonathan all’altro capo della scrivania.

-Forse quel ragazzo non era la persona giusta, non credi?

Jonathan annuisce.

-Beh, probabilmente.

Gregor sorride e si avvicina di più a lui, si siede sul bordo della scrivania proprio di fronte a Jonathan.

-Lo so io, chi è la persona giusta per te.

Afferma, tenendo con lui uno sguardo sempre fisso e pronunciando le parole in una specie di sussurro.

-E chi?

Chiede Jonathan, ingenuamente.

-La stessa persona che non ha mai smesso di amarti in questi venticinque anni.

Si avvicina ulteriormente. Quel contatto spaventa e irrita Jonathan che lo respinge immediatamente.

-Non scherzare Gregor.

Gregor scuote il capo. È infastidito dall’essere stato respinto da Jonathan ma non demorde, forse non è stato abbastanza persuasivo.

-Non sto affatto scherzando.

Jonathan si alza immediatamente dalla sedia. Il suo sguardo è quasi disgustato. Anche Gregor si alza e lo raggiunge.

-Gregor, sono già abbastanza confuso, evitami queste sciocchezze per favore.

La voce di Jonathan ora è fredda, pronuncia ogni parola con astio e indifferenza. Questo suo atteggiamento inizia ad infastidire Gregor.

-Lo sai bene che ti amo John e mi ami anche tu.

Jonathan scuote il capo.

-Non puoi basarti su cose successe secoli fa Gregor. Ero un ragazzino e avevo perso mio padre. Questo cercavo in te, un padre e non di certo qualcuno da cui farmi sbattere.

Jonathan si passa nervosamente una mano tra i capelli e scuote di nuovo il capo con rassegnazione.

-John, ammetti di provare qualcosa di più di semplice affetto per me. Sei sempre qui e, se non hai perso la memoria siamo stati insieme io e te, non poco tempo fa, proprio in questo ufficio.

Esclama Gregor, con asprezza.

-Ero sconvolto e il mondo mi era letteralmente crollato addosso, non me ne rendevo conto.

Giustifica Jonathan.

-Già, non sono io la persona che ami è il tuo prezioso Christian. Uno schifoso spogliarellista, ecco cos’era e cosa resterà sempre, una puttana!

Urla Gregor, irritando John parecchio.

-Cosa? Senti da che pulpito! Tu! Proprio tu che ti sei messo con mia madre per arrivare a me!

Il viso di Jonathan è diventato paonazzo, le sue braccia sono lasciate lungo i fianchi e i suoi pugni serrati.

-Io… io me ne vado e ti assicuro che non metterò piede qui dentro finché non avrai imparato a misurare le parole che tiri fuori dal quel buco infernale che hai per bocca.

Dice Jonathan, sbollendo dalla rabbia e con un tono sempre astioso ma più tranquillo.

Gregor non può permettere di farlo andare via, non dopo tutta quella discussione, quella confessione. Rischierebbe di non vederlo più. Deve giocare la sua ultima carta.

-Se ti allontani da me non hai più nessuno John, da chi andresti? Lui non ti riprenderà con sé.  Se resti con me, presto anche Kyle ci raggiungerà.

Jonathan spalanca gli occhi.

-Cosa c’entra ora Kyle con tutto questo discorso? Nemmeno lo conosci!

Gregor fa una smorfia, si avvicina di più a lui, con fare malizioso.

-Qui ti sbagli. Per un fortuito caso ho avuto il piacere di esercitare la mia professione nella sua scuola e ho tenuto alcune sedute con lui. Ragazzino interessante, intelligente. Per certi versi assomiglia a te. Per questo mi è stato facile lavorare sulla sua mente. Mi bastano ancora un paio di sedute e… vedrai che scapperà da quell’essere smidollato di Christian e tornerà tra le tue braccia!

Lo sguardo di Jonathan è spaventato. I suoi occhi sono sgranati e la sua bocca semi-aperta. Non è la reazione che Gregor si aspettava.

-Tu sei pazzo… completamente pazzo! Stai lontano da mio figlio e da me!

Rapidamente raggiunge la porta e la chiude, sbattendola rumorosamente. 

 

 

---> Eccomi di nuovo dopo tanto, tanto tempo. Avete appena finito di leggere l’ultimo capitolo (fin’ora scritto) della mia storia. Questa sera ho intenzione di proseguire, qualche pezzo qua e là l’ho già scritto. Devo solo mettermi d’impegno e collegare e mettere in stesura tutto quanto. Ora che ho terminato gli esami della sessione estiva sono libera e spero di riuscire a fare, dopo questo, almeno un altro aggiornamento prima di partire per le vacanze. Non vi do date (non saprei cosa dire) ma, pazientate =) detto questo alla prossima!

 

 

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Capitolo 27
*** Strange Suddenly Sadness (Strana, improvvisa tristezza) ***


27. Strange Suddenly Sadness (Strana, improvvisa tristezza)

-Cosa? Anthony Edward ha chiesto il trasferimento?

Afferma una ragazza nel corridoio. Questa particolare affermazione coglie l’attenzione di Kyle che si trova in procinto di raggiungere l’aula di biologia. Si ferma e decide di chiedere spiegazioni alla ragazza, che neanche conosce.

-Scusa ho ascoltato il tuo discorso, cosa sai del trasferimento di Anthony Edwards?

La ragazza lo guarda intimorita. Molto probabilmente le voci del suo “servizietto” ad Anthony hanno raggiunto anche le sue orecchie e sembra incerta nel rivolgere la parola a Kyle. Si limita a fissarlo con la bocca aperta e lancia occhiate all’amica con la quale stava parlando prima che Kyle la interrompesse, anche lei ammutolita.

-È… è una voce che circola in corridoio da questa mattina.

Afferma poi, rapidamente e con non poca timidezza.

-Una voce…

Ripete Kyle.

La ragazza annuisce.

-Bene, grazie per l’informazione.

Deve vederci chiaro su quella faccenda. Morgan non frequenta sua la stessa lezione, si trova in un aula poco distante dalla sua, deve raggiungerla e parlare con lei di ciò che ha appena sentito.

Manca poco all’inizio della lezione di biologia, non ha intenzione di arrivare in ritardo, ne ha fatti troppi di ritardi e teme di incorrere in un punizione nel farne un ulteriore. Non ha intenzione di passare i pomeriggi estivi nell’aula delle punizioni.

Corre, senza vedere ostacoli davanti a sé, noncurante del divieto di corsa nel corridoio, che potrebbe costargli una punizione della stessa gravità di quella conseguibile con un numero elevato di ritardi.

Durante la sua frettolosa corsa contro il tempo incontra,  come prevedibile,  un ostacolo. È una persona di un imponente statura. Chiude gli occhi e prega di non essere incappato in un professore, non potrebbe capitargli nulla di peggio.

-Kyle, ti sei fatto male?

Si, qualcosa di peggio poteva capitargli, trovarsi faccia a faccia con Anthony, dover affrontare un incontro per il quale non era nemmeno pronto.

-Anthony. No, sto bene. Scusa, devo andare.

Vigliacco.

Ancora una volta scappa da lui. Non riesce a fissarlo, a reggere il suo sguardo per più di dieci secondi e non ha nemmeno il coraggio di sopportare la benché minima conversazione con lui. È un comportamento meschino, scorretto. Lui stesso odierebbe chiunque gli rivolgesse un trattamento simile.

-Aspetta.

Anthony lo afferra per un braccio e lo trattiene. Questa volta non può scappare, non ci prova perché è certo che ora, anche se si mettesse a correre, sarebbe tutto inutile; Anthony lo raggiungerebbe di nuovo. Senza contare l’infantilismo del gesto stesso.

-E così te ne vai…

Esclama di getto. Subito dopo si porta le mani alla bocca, quasi volesse evitare un’ulteriore fuoriuscita di parole indesiderate. Non è la prima volta che gli capita una situazione simile, non è la prima volta che le parole gli scappano di bocca senza riceve alcun ordine da parte del cervello. Ormai deve essere arrivato al limite, la sua bocca ha deciso di prendere statuto autonomo e di agire di proprio punto senza aspettare un suo comando.

-L’hai saputo, eh?

Kyle annuisce. Cerca timorosamente di alzare lo sguardo e di guardarlo dritto negli occhi. Nessun gesto gli è mai sembrato così difficile.

Improvvisamente la campanella suona, avvisando gli studenti di entrare immediatamente nelle aule per seguire la lezione. Il suono forte e squillante sorprende i due ragazzi che in quel momento credevano quasi di trovarsi in un universo occupato da loro due soltanto.

-Se ne sei a conoscenza, avresti potuto venirmi a salutare, almeno…

Prosegue infine, infastidendo Kyle.

-E perché avrei dovuto?

Risponde aspramente. Riconsiderando poi il tono usato da Anthony nel pronunciare la sua ultima frase; gli è parso sconsolato. Perché mai dovrebbe essere sconsolato? Una frase del genere, in una situazione analoga, lui l’avrebbe pronunciata in modo pungente, chiaramente sarcastico.

Anthony lo guarda, la sua bocca è semi-aperta, riesce ad emettere un mezzo suono. Ha sicuramente qualcosa da dire ma non parla. Dopo qualche istante richiude la bocca, serra le labbra e inclina leggermente il capo.

-Già, non c’è motivo. Beh, ti saluto allora.

Afferma, passandogli affianco per poi andarsene via.

Il corridoio si è svuotato e tutti quanti sono, probabilmente, ai loro posti nelle loro aule, tranne Kyle, ancora in piedi nel bel mezzo del corridoio a rimuginare sull’ennesimo incontro insolito con Anthony.

È tardi per presentarsi in aula e, in piena onestà, non ne ha alcuna voglia.

 

Dopo circa un’ora di attesa in cortile vede finalmente Morgan dirigersi verso di lui. I suoi capelli biondi ondeggiano al leggero venticello estivo mentre lei si affretta rapidamente a raggiungerlo.

-Kyle! Ho letto ora il tuo messaggio!

Esclama, con respiro affannoso non appena si trova davanti a lui.

-Stai bene? È successo qualcosa?

Chiede, in una seconda ripresa.

-Sapevi che Anthony si è trasferito in un’altra scuola?

Chiede Kyle, ignorando ogni domanda dell’amica, limitandosi a porne una lui stesso.

-È una voce che circola da stamattina ma onestamente non ci credo. Voglio dire, praticamente è di suo padre questo posto!

Risponde Morgan, con ovvietà.

-È vero invece.

Ribatte lui, sorprendendo l’amica che spalanca gli occhi stupita e si mette subito a sedere accanto a lui.

-Come lo sai?

Chiede infine, con un tono di live diffidenza.

-L’ho incontrato poco fa, nel corridoio. Stava andando via…

Risponde Kyle, senza guardarla, utilizzando un tono vago, perso.

Mentre parla con Morgan non riesce a smettere di pensare al comportamento di Anthony, a quel suo tono flebile. Dopo le sue parole aspre stava per dire qualcosa che pareva avere una certa importanza che, a detta di Kyle, poco aveva a che fare con le parole utilizzate nell’esprimere congedo.

-E che cosa ti ha detto?

Kyle non sa cosa risponderle, ha paura di passare per paranoico nel riportare le parole del ragazzo, aggiungendovi i propri dubbi al riguardo.

-Allora? Cosa ti ha detto?

Chiede ancora lei, con impazienza, afferrandogli un braccio e schiacciandolo inconsciamente con troppa forza.

-Ahi! Morgan ma che ti prende?

Esclama Kyle, scrollandosela di dosso.

-Scusa. Volevo solo sapere…

Risponde Morgan, con mortificazione.

***

Sono le sette di sera, il sole non è ancora tramontato, permettendo a qualche debole raggio di luce di filtrare dalle finestre.

Jonathan ha appena terminato la sua giornata lavorativa, ha congedato la segretaria e sta sistemando le ultime pratiche della giornata. È parecchio stanco. Non è stato in grado di dormire la sera prima, non dopo l’incontro con Gregor. Quest’ultimo ha cercato di chiamarlo svariate volte, sul cellulare e direttamente in ufficio. Il suo cellulare ora è spento, sulla scrivania davanti a lui.

“Lui non ti riprenderà con sè.”

La frase che continua a frullargli in testa. Non può fare altro che dargli ragione, ha maledettamente ragione. Dopo tutto quel tempo, dopo tutto quello che è successo, nemmeno lui stesso, a ruoli invertiti, sarebbe disposto a cancellare tutto quanto.

Sospira e si lascia andare sulla sedia. Chiude gli occhi e ripensa a quella sera, c’è un piccolo particolare che si era dimenticato di dire a Gregor o forse l’aveva fatto volutamente. Una volta lasciato l’albergo era tornato a casa. No, non quello squallido, sporco, disordinato e sterile appartamento. La sua casa, quella dalle pareti azzurro marino che lui stesso aveva dipinto quindici anni prima, dal tavolo da pranzo di vetro, scheggiatosi entrando dalla porta d’ingresso.

Quella sera, una volta pagato il conto alla hall del motel, aveva iniziato a camminare, sguardo vacuo, un grande peso ad opprimerlo e l’impressione che da un momento all’altro il cuore avrebbe smesso di battergli nel petto e sarebbe caduto, a peso morto, su qualche marciapiede, dove forse un passante occasionale si sarebbe accorto di lui. In quel caso, chi avrebbe chiamato? Chi sarebbe accorso a raccogliere il suo corpo esanime? Non aveva più nessuno. Quando tutti quei pensieri gli si erano raccolti in mente e urlavano fino a farlo impazzire, aveva alzato lo sguardo e si era reso conto di aver, forse senza pensarci, percorso quella strada a lui tanto familiare.

-Casa…

Aveva sussurato e subito il suo sguardo aveva iniziato a cercare quella finestra, al terzo piano, che affaccia sulla strada, quella della camera da letto. La luce era accesa, Christian era là. Leggeva probabilmente, com’era solito fare a letto da sempre. Dopo qualche minuto di pura contemplazione Jonathan si era reso conto, realmente, di dove fosse, aveva scosso il capo e si era immediatamente allontanato. Il timore che Christian si fosse potuto affacciare alla finestra, aveva iniziato a pervaderlo.

Jonathan apre gli occhi. Istintivamente guarda il secondo cassetto della sua scrivania e inizia a frugare, estrae tutto ciò che non gli interessa e lo getta sul pavimento. Le sue mani si muovo frenetiche nella sua ricerca mirata alla posizione più profonda di quel vecchio cassetto. Cartelle, fogli, penne mezze vuote si ammassano poco per volta sul pavimento, generando un innegabile caos. Infine eccolo, in fondo al cassetto, quello che cercava.

La foto di Christian e lui abbracciati e accanto a questa, la sua fede. Quel delicato cerchietto d’oro con incisa l’epigrafe:

“Insieme, per più di un’eternità. Christian”

Non ha il coraggio di rimettersela al dito eppure la rigira fra le mani, la guarda e la riguarda. È un po’ impolverata e opaca. Allunga la mano destra per afferrare nella giacca, appesa sulla sedia alle sue spalle, un fazzoletto di stoffa che dispiega e con il quale inizia a pulire l’anello, finché non ritorna a brillare, completamente.

Infine passa alla foto, conservata in una finissima cornice argentata con delicati ricami dorati, che prende in mano e osserva. Giace in fondo a quel cassetto da mesi ormai. Il suo sguardo sfugge e gli permette di notare l’ammasso di carta e quant’altro sul pavimento. Nonostante quel prezioso ricordo sia stato sepolto da quel ciarpame, non se n’è mai dimenticato.  Sapeva bene dove fosse, sapeva bene dove cercare.

Sorte ingloriosa, per quella foto, quella di finire a prendere polvere in fondo ad un cassetto raramente aperto, dopo anni nei quali veniva orgogliosamente esposta ai pari di un trofeo da caccia. Quella stessa immagine, che l’aveva fatto soffrire, pochi giorni dopo la separazione da Christian, ora gli arreca un curioso sollievo. Gli riporta alla mente quei momenti felici, nei quali i muscoli della sua bocca quasi si stancavano di stare tesi, per sorridere. Certo, una foto non può ben rappresentare una vita insieme. In quei quindici anni di relazione, c’erano stati dei momenti bui, delle discussioni. Eppure riguardando al passato, confrontandolo alla situazione attuale, non può fare a meno che pensare a quanto fossero sciocchi e insensati i  battibecchi di allora.  

Respira profondamente, distogliendo lo sguardo dalla fotografia, che le sue mani pare non abbiano intenzione di posare. Abbassando di nuovo lo sguardo nota una goccia sul vetro della cornice della foto, poi un’altra, un’altra ancora. Al momento non riesce a capire da dove queste provengano poi, con non poca incertezza, si tocca poi il viso e lo trova completamente bagnato. Sta piangendo. Aveva quasi iniziato a credere che i suoi occhi non fossero in grado di secernere lacrime.

Non riesce a ricordarsi  l’ultima volta in cui ha veramente pianto, forse per la morte di suo padre o… forse nemmeno allora.  È una sensazione strana. Ha visto Christian piangere il giorno in cui si sono separati ma lui non ha versato nemmeno una lacrima e ora, a distanza di mesi, si trova a piangere, nella più completa disperazione, davanti ad una fotografia e un anello. Due elementi strettamente legati alla cosa più importante che abbia mai fatto parte della sua vita: Christian.

 

 

 

 

--> Capitolo fresco di stesura ^^ Beh, veramente la parte di Kyle l’ho scritta mesi fa, quella di Jonathan è di ieri sera. Non è facile riprendere in un mano un testo dopo mesi, sapete? Spero di essere riuscita a produrre comunque qualcosa di decente. Ho guardato la data del mio ultimo aggiornamento e risale ad una settimana fa! Caspita, ho fatto in fretta per i miei tempi XD Scherzi a parte, penso che questo sarà l’ultimo aggiornamento fino a fine agosto. Questa fine settimana parto e starò via tre settimane circa… Il nuovo capitolo è ancora tutto da scrivere ma le idee (almeno quelle!) ci sono. Detto ciò vorrei ringraziare per i commenti .

Kiku_san, new entry tra i miei “followers” (fa tanto Twitter questa parola) che ringrazio anche per i suggerimenti di correzione. In effetti temo di abusare spesso della parola “esclama” e mi pare di ricordare di aver avuto problemi con il termine “lascivo”, piazzato *ahimè* in mancanza di una parola più adatta. Ringrazio naturalmente anche Jaryshanny che mi segue sempre e puntualmente commenta.  Per Gregor posso quasi dirti di stare tranquilla, non credo ritornerà… non nei prossimi capitoli almeno! Ma più avanti chissà… XD

Ok, ora è veramente tutto. Alla prossima =) <--

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Capitolo 28
*** Just Shocking (Scioccante) ***


28. Just Shocking (Scioccante) 

 

Kyle è a casa. È presto e Christian non è ancora tornato dal lavoro. Adora i pomeriggi di trascorrere in solitudine, ha la casa a sua completa disposizione, può aprire tutti gli armadietti, mangiare quante patatine vuole e ascoltare la musica in salone a tutto volume, senza che Christian corra ad abbassare lo stereo o gli strappi di mano il tubo maxi di Pringles alla paprika.

 

Entra nell’appartamento e richiude a chiave la porta alle sue spalle, Christian non fa che ripetergli da anni di chiudersi ben stretto in casa quando è solo e anche lui si sente più sicuro dopo i soliti quattro giri di chiave nella porta. Sbatte la cartella sul divano, si toglie le scarpe gettandole disordinatamente accanto alla porta d’ingresso e si precipita allo stereo. Non ha alcuna voglia di mettersi a scegliere un cd dallo straripante contenitore accanto alle casse. Accende lo stereo e fa partire il primo cd rimasto nel lettore, la cattiva abitudine sua e quella di Christian è quella di spegnere l’apparecchio senza preoccuparsi di estrarre il cd ascoltato. Qualcosa che Jonathan ha sempre rimproverato, inutilmente, ad entrambi e che è costato nel corso degli anni parecchi cd, buttati poiché graffiati o rovinati.

 

Lo stereo è parecchio vecchio. Era stato bello un tempo, super accessoriato. Quatto lettori di dischi, radio incorporata, mangianastri e quatto altoparlanti belli grossi e potenti. Un gioiellino invidiato, negli ormai passati anni ’90. Il tempo, l’utilizzo ripetuto e la polvere l’hanno reso purtroppo un vecchio catorcio lento e rumoroso. Nessuno aveva mai pensato di buttarlo o di rimpiazzarlo,  aveva servito quella famiglia da anni, si era sorbito cd di canzoni di cartoni animati, musica classica, canzoni per bambini, musica rock, audiolibri e quanto altro. Non poteva assolutamente essere buttato! Tuttavia, quel vecchio arnese stava vivendo ultimamente i suoi ultimi giorni di servizio. Ci voleva quasi un minuto prima che il cd partisse, qualunque esso fosse e spesso si bloccava.

 

Kyle preme il tasto start e poi si allontana in direzione della cucina per scegliere lo snack da consumare quel pomeriggio. Dopo un attento frugare tra vari pacchetti decide di scegliere dei popcorn al caramello. Christian ripone sempre sulla mensola più alta quel genere di schifezze e cerca spesso di nasconderli dietro qualche scatola di fagioli o piselli, sperando che Kyle non li noti ed eviti di mangiarli. Speranza, ovviamente, vana. Il ragazzo afferra il pacchetto con due mani e lo apre, per poi rovesciarlo in una ciotola più grande.

 

Sta canticchiando. Non sa bene cosa ma quel motivetto del quale non ricorda bene musica e parole ronza nella sua testa dall’uscita da scuola. Per quanto si sia sforzato sul pullman di ricordarlo, andando anche a cercare tutti i brani dimenticati della memoria del suo i-Pod non è riuscito a trovarlo.

 

Nel frattempo lo stereo ha iniziato a funzionare, sente una musica provenire dal salone che non subito riconosce. Prende la ciotola dei popcorn, afferrandone subito uno come primo assaggio, spegne la luce della cucina e si dirige in sala, dove la canzone sta ancora suonando.

 

“Let's hear it for the boy, let's give the boy a hand, let's hear it for my baby, you got to understand…

 

Si blocca. È proprio quella la canzone che ronzava nella sua testa. Purtroppo le casse dello stereo sono mal funzionanti, il  volume e i toni alti dell’equalizzatore sono impostati malamente. Decide quindi di posare sul tavolino del salotto la ciotola con i popcorn e di avvicinarsi allo stereo per regolare lo stereo. Continua a canticchiare mentre si avvicina, allunga la mano sul tastino regolatore degli altri e si ferma, un breve flash ripercorre la sua mente.

 

La sera della festa a casa di Debbie Benson, sta salendo la scala principale, al suo fianco c’è Anthony. Le loro mani sono vicine, quasi si sfiorano. A fare da colonna sonora a questa scena a dir poco filmica è proprio la canzone “Let’s hear it for the boy”, remixata in modo house dal dj di turno.

 

Ecco, dove l’aveva sentita. Istintivamente preme il tasto “ eject” ed estrae il cd dallo stereo, cercando anche nel frattempo di scacciare il motivetto dalla sua testa. Il cd dal quale era presa la canzone era la colonna sonora del telefilm “Queer as Folk”, una serie tv molto amata in casa e della quale gli era capitato di vedere qualche puntata.

Non ha mai voluto credere alle coincidenze ma non saprebbe spiegarsi diversamente il fatto di aver ascoltato proprio quella canzone, fra tutte.

Si getta sul divano, dimenticandosi completamente dei pop corn ed inizia a creare una improbabile teoria sulle coincidenze. Fantastica, per quasi dieci minuti per poi ammettere che tutta quella sua frenesia, quella ricerca puntigliosa per lo snack perfetto non era altro che un modo per non pensare ad Anthony, alla sua partenza.  Quella notizia l’ha sconvolto e ancora non riesce a spiegarsi il perché.

 

Fa un respiro profondo e guarda l’orologio da parete di fronte a lui. Manca ancora più di un’ora al rientro di Christian, può stendersi per qualche secondo sul divano senza preoccuparsi di mettere le scarpe nella scarpiera e di gettare i pop corn al caramello che ormai non ha più intenzione di mangiare.

È passato quasi un mese dall’ultima volta in cui ha ripensato alla sera della festa, da quando la sua mente gli ha fatto ricordare ogni singolo particolare. Ripercorre di nuovo tutta la scena e quando arriva alla fine, quando ormai non ha più nulla da ricordare, sobbalza e si mette a sedere.

 

-E allora?

 

Dice, quasi gridando. Si copre poi la bocca con la mano, sentendosi quasi pazzo a parlare da solo.

Niente, non ha provato nulla. Non ha sentito rimorso, non si è morso il labbro, non ha strizzato gli occhi in segno di disgusto, come ha fatto nei precedenti mesi. Anzi, sta iniziando a chiedersi se fosse stato necessario tutto quel trambusto. Sorride, quasi istericamente. Non ci vede nulla di male ora. Come Christian stesso gli aveva detto, è stata solo una cosa tra ragazzi, niente più.

 

“e mi è piaciuto…”

 

Conclude poi, sorprendendosi. Dopo tutto quel tempo riesce ad ammettere a sé stesso di non aver provato così tanto ribrezzo per la cosa. Aveva intuito le intenzioni di Anthony da subito, era stato al gioco, c’aveva flirtato.  Si era solo spaventato, tutta quella decisione, tutta quella sicurezza di sé. Sorride, questa volta è sollevato, felice. Si sente come se un peso da dieci chili avesse abbandonato il suo corpo dopo mesi. Deve assolutamente parlare con Morgan. Si alza e si mette in fretta le scarpe da tennis, non ha tempo di riordinare, semplicemente lascia un biglietto a Christian per fargli sapere di essere andato da Morgan. Chiude la porta di casa, inserisce l’allarme e inizia a correre giù per le scale, quasi inciampando ad un certo punto ma non se ne preoccupa.

Non ha nemmeno avvisato Morgan del suo arrivo, non ne ha il tempo e crede non riuscirebbe a formulare una parola al telefono. Pensa solo a correre, non vuole nient’altro in testa al momento.

 

***

Sono le cinque. Christian sta tornando a casa, ha da poco iniziato a piovere e detesta guidare con la pioggia. Ha finito prima quel giorno, era parecchio stanco e non aveva granché voglia di stare nel suo studio a sistemare le solite scartoffie burocratiche, ci penserà l’indomani.  Arrivando verso il condominio, attraverso ai finestrini appannati per la pioggia nota davanti al vialetto di casa una macchina rossa, una Ford, che gli sembra familiare. Accanto a questa c’è una persona che gli fa cenno di fermarsi con  le braccia. Christian, quasi preoccupato, accosta e abbassa leggermente il finestrino.

 

Non appena il suo sguardo e quello dell’altra persona si incrociano si blocca.

 

-Christian, io ti… stavo aspettando.

-Ronald…

 

Esclama Christian. Per circa un minuto non riesce a dire una parola, si limita a fissare l’amico. È completamente fradicio, sicuramente lo aspetta da tempo.

 

-Cosa ci fai qui?

 

Chiede.

 

-È una storia lunga da spiegare, mi faresti entrare in casa, se non ti spiace?

 

Christian annuisce.

 

-Si… Sali in macchina intanto.

 

Dopo aver parcheggiato, Christian e Ronald si dirigono verso l’appartamento.

 

-Ci sono parecchie domande a cui devi rispondere Ronald, lo sai?

 

Afferma Christian, disinserendo l’allarme e facendo cenno all’uomo di entrare.

 

-Primo: come fai a sapere dove abito?

 

Ronald chiude la porta alle spalle ma non si muove dall’ingresso e non risponde.

 

-e poi… sono le cinque passate. Kyle dovrebbe già essere a casa…

 

Christian inizia a girare per la stanza e si accorge dello zaino semi aperto contro la parete all’ingresso e della ciotola piena di pop corn sul tavolino della sala.

 

-Ho suonato per circa venti minuti ma non c’era in casa nessuno… non ricordavo che avessi lezione al pomeriggio oggi.

 

Christian non dà retta a Ronald. Non si è dimenticato della sua presenza ma è troppo occupato a chiedersi che fine abbia fatto Kyle e tutta quella situazione lo sconvolge non poco. Trova infine il foglietto lasciato dal figlio, un post-it giallo a forma di cuore scritto in una grafia piuttosto abbozzata.

 

“Sono da Morgan, non so quando torno. Ti voglio bene, baci.”

 

Legge, ad alta voce. Sospira e rimette il post-it dove l’ha trovato.

 

-Chissà cos’ha in mente quel ragazzino… Beh avrebbe potuto mettere in ordine perlomeno.

 

Alza lo sguardo e si accorge di Ronald, ancora sulla porta, completamente bagnato e gocciolante che lo osserva a braccia conserte in attesa di considerazione.

 

-Santo Dio! Cosa ci fai impalato sulla porta? Vieni avanti e togliti quei vestiti, ti prenderai un accidente.

 

Ronald lo guarda confuso, senza muoversi.

 

-Allora? Senti Ronald, sono ancora in collera con te per quelle…

 

Si blocca un secondo, giusto il tempo per trovare la parola più adatta.

 

-… belle parole che mi hai rivolto l’altro giorno. Non ho idea del perché tu ti sia presentato qui stasera ma di certo non voglio avere la tua salute sulla coscienza quindi, per favore, togliti quei vestiti bagnati.

 

Christian si avvicina a Ronald, per farsi dare i vestiti da mettere in lavatrice, questi si sveste in fretta e glieli porge, con non poco timore. Non è da Ronald vergognarsi per questo tipo di cose. Il Ronald che Christian conosce avrebbe colto l’occasione per fare qualche battuta volgare. Tuttavia da qualche tempo Christian si è accorto di non trovarsi più di fronte al Ronald che conosceva.

 

-Aspetta ancora un secondo, vado a prenderti  qualcosa di asciutto da mettere.  

 

Ronald annuisce con il capo mentre Christian getta tutto quanto in lavatrice, impostando anche il programma di asciugatura. Sospira ed inizia a guardarsi in giro nell’intento di cercare un accappatoio sufficientemente grande per Ronald. Si ricorda poi di averne uno, ancora incartato, ottenuto con i punti ritagliati dalle merendine di Kyle. Lo prende e lo porta a Ronald.

 

-Grazie.

 

Risponde lui, mettendoselo addosso. Non dice nient’altro e questo irrita Christian.

 

-Ora vorresti per favore spiegarti? Dimmi qualcosa per l’amor del cielo! Non ti puoi presentare a casa mia in questo modo e non dire una parola!

 

Urla Christian. Ronald lo guarda, apre bocca come per dire qualcosa ma non esce nulla nemmeno un suono. Christian è pronto a mandarlo al diavolo, non ha intenzione di tollerare un comportamento del genere quando lui, improvvisamente, si avvicina e lo bacia.

 

Un semplice bacio sulle labbra, niente di troppo passionale o veloce, sarà durato cinque secondi eppure è sufficiente per sconvolgere Christian che spalanca gli occhi in segno di stupore.

 

-Non saprei spiegarmi meglio.

 

Aggiunge Ronald, guardandolo intensamente negli occhi.

 

***

 

Kyle è arrivato a casa di Morgan, suona il campanello, sperando vivamente che l’amica sia in casa. Dopo qualche istante la madre di Morgan appare sulla porta.

 

-Oh Kyle, ciao, che sorpresa!

 

Esclama la donna, aprendo il cancello e facendo entrare il ragazzo.

 

-Buongiorno signora, sono venuto per Morgan. Spero di non disturbare…

 

Spiega, cercando di nascondere tutto il suo entusiasmo e di mostrarsi quantomeno cortese.

 

-Ma figurati. Morgan è in camera, non ho idea di cosa stia facendo veramente ma… vieni dentro, sta iniziando a piovere!

 

Kyle si pulisce le scarpe sul tappetino d’ingresso e poi entra.

 

-Permesso?

-Vieni, vieni.

 

Risponde la madre di Morgan, facendogli nel frattempo cenno di salire le scale per raggiungere la camera della figlia.

 

Kyle ringrazia e poi sale le scale. È stato diverse volte a casa di Morgan e non ha quindi bisogno che gli si mostri dove si  trova la sua stanza. La porta della camera della ragazza è chiusa e dall’interno non proviene nessun rumore, Kyle bussa.

 

-Morgan ti avviso che sto per entrare…

 

Apre la porta e trova l’amica seduta alla scrivania, davanti al computer con le cuffie nelle orecchie. La ragazza sobbalza non appena lo vede entrare e si toglie subito le cuffie dalle orecchie.

 

-Kyle! Che sorpresa! Cosa ci fai qui?

 

Chiede.

 

-Chiudi la porta, per favore.

 

Aggiunge. Kyle chiude con delicatezza la porta alle sue spalle, fa un respiro profondo e inizia a parlare.

 

-Sono venuto qui perché ho qualcosa di estremamente importante da dirti. Posso… posso sedermi?

 

Morgan annuisce e gli fa cenno di accomodarsi sul letto, lei intanto gira la sedia con le ruote su cui è seduta verso il letto e con un’espressione sorpresa ma anche preoccupata lo osserva in attesa di una spiegazione alla visita improvvisata.

 

-Sono stato uno stupido, veramente.

 

Esordisce Kyle. Morgan storce il naso.

 

-Che tu sia stupido non ci sono dubbi.

 

Kyle sorride.

 

-Sapevo avresti detto questo. Comunque, ho avuto modo di ripensare alla faccenda di Anthony.

 

L’espressione di Morgan cambia. Quel suo sguardo confuso si fa più scuro, fa respiri lunghi e non distoglie per un secondo lo guardo dagli occhi di Kyle.

 

-Ne è saltato fuori che… hai sempre avuto ragione Morgan, su tutto.

 

Morgan non capisce.

 

-Kyle, sei poco chiaro. Non ho la più pallida idea di dove tu voglia arrivare.

 

Afferma, con tono preoccupato.

 

-Lo so, scusami. Voglio dire… tu pensi non mi sia mai accorto dei tuoi tentavi di farmi mettere con Anthony. Ho negato a me stesso tutto quanto, ho fatto finta di niente e non ti ho mai detto di smetterla. Solo oggi mi sono accorto che avevi ragione: Anthony mi piace.

 

Sospira.

 

-Ecco, l’ho detto alla fine…

 

Morgan spalanca la bocca, è quasi scioccata. Una confessione del genere di certo non se l’aspettava. Aveva passato tutto il pomeriggio a chattare su Facebook e ad ascoltare musica, nulla di tutto questo era nei suoi piani quel pomeriggio. Non sa come controbattere, non sa proprio cosa dire.

 

-Ti… ti piace?

 

Chiede, con tono tremante.

 

-Se tu me l’avessi chiesto, che so, ieri… ti avrei risposto malamente e ti avrei detto che è una sciocchezza ma è così. Lo so, è una cosa sconvolgente, lo è anche per me! Sono corso verso casa tua come un pazzo perché… dovevo dirlo a qualcuno!

 

Morgan abbassa lo sguardo e non parla, non saprebbe cosa dire.

 

-Ho ripensato a quella sera per l’ultima volta e ho capito che… non c’era niente di male. E sai perché?

 

Morgan scuote il capo.

 

-Perché volevo farlo, Morgan. Io ho controbattuto alle provocazioni di Anthony, sapevo a cosa stavo andando in contro. Ero solo, non so, sorpreso dalla mia audacia.

 

Fa una breve pausa, durante la quale si sistema composto sul letto, poi ricomincia a parlare.

 

-Ho salito quelle  volutamente scale, mi sono seduto  volutamente su quel letto, ho abbassato i suoi-

 

-Basta!

 

Urla Morgan, interrompendolo.  Kyle arrossice, effettivamente stava andando oltre.

 

-Scusa…

 

Morgan si alza dalla sedia, inizia a girare per la stanza, senza rivolgere uno sguardo a Kyle.

 

-Come al solito, tu sei un passo più avanti di me Morgan… l’avevi già capito. Se solo t’avessi ascoltato prima, tutto questo disastro non sarebbe successo.

 

Morgan annuisce, meccanicamente, sempre senza guardare Kyle.

 

-Beh, grazie per avermi ascoltato. Dovevo dirlo a qualcuno. Sai, mi spiace solo di una cosa…

 

Morgan si gira di scatto verso di lui.

 

-Cosa?

 

Chiede, con tono quasi aggressivo.

 

-Di aver trattato Anthony così male… Quella sera al Nightmare l’ho abbandonato al tavolo, senza dirgli nulla… stamattina non l’ho nemmeno salutato.

 

Fa un respiro profondo e abbassa lo sguardo. Morgan nel frattempo ha smesso di girare a vuoto per la stanza e lo sta fissando, in attesa che dica altro.

 

-Ma si... infondo per lui non devo essere stato poi così importante. Mi sono comunque tolto un peso dalla coscienza. Ora sto meglio, tutto sommato.

 

Si alza dal letto e sistema il lenzuolo stropicciato.

 

-Lui ti ama.

 

Esclama Morgan, quasi d’un fiato. Kyle alza la testa di colpo, scuote il capo e la guarda con aria interrogativa.

 

-E come lo sai?

 

Chiede sorridendo. Sentendosi quasi preso in giro.

 

Morgan esita, non vuole risponde. Lo sguardo penetrante di Kyle la induce però a parlare, deglutisce.

 

-Me l’ha detto.

 

Kyle spalanca gli occhi, non capisce se le parole di Morgan siano vere o se semplicemente si stia prendendo gioco di lui. Si avvicina all’amica che nel frattempo ha iniziato a piangere.

 

-Stai piangendo! Perché Morgan?

 

Kyle le prende le mani, per consolarla. Lei si tira indietro, rifiutando il contatto dell’amico.

 

-Quando sei andato con tuo padre a Santa Monica mi ha telefonato.  Mi ha detto che si è innamorato di te ma… che se questo per te è un problema, di chiederti scusa…

 

Spiega, singhiozzando.

 

-E perché non mi hai detto niente?

 

Morgan non risponde, cerca soltanto di trattenere i singhiozzi.

 

-Morgan, rispondimi! Perché non mi hai riferito il messaggio di Anthony?

 

Morgan tira su col naso, si sfrega gli occhi per far andare via le lacrime e poi, con tono affranto, risponde.

 

-Perché ti voglio solo per me.

 

La confessione di Morgan sconvolge Kyle. È deluso per il suo comportamento e di certo non si aspettava una risposta di questo tipo. È andato da lei credendo di avere lui la notizia più sconvolgente eppure, è lui quello più confuso ora.

 

-Io non ho mai creduto che ti piacesse Anthony. Facevo così solo perché non volevo pensassi a nessun altro, se avessi attirato tutta la tua attenzione su Anthony non avresti pensato a nessun altro e saresti rimasto con me…

 

Kyle non sa come ribattere. Preferisce non dire nulla, uscirà dalla camera di Morgan e tornerà a casa.

 

 

---> Dopo taaanto tempo eccomi di nuovo a postare un capitolo della mia storia. Gli impegni purtroppo sono tanti, le lezioni universitarie sono ricominciate e il tempo per mettermi seriamente a scrivere anche poche righe della mia storia si è ridotto. Tuttavia sono sempre intenzionata a continuarla (lo ripeto ogni volta ormai) probabilmente passerà ancora tanto tempo prima della pubblicazione del capitolo 29. Vi chiedo scusa ma non posso fare altrimenti. Questo capitolo è proprio scritto di fresco, composto interamente questo pomeriggio. Nel caso ci siano errori di qualsiasi tipo vi chiedo scusa, anzi, fatemeli pure notare provvederò a correggerli.  Ho fatto una revisione veloce del testo, proprio perchè ho voluto postarvelo subito senza farvi aspettare tanto tempo (anche perchè nè domani nè dopo potrò collegarmi ad internet). Come al solito, spero il testo sia di vostro gradimento e... alla prossima <---  

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Capitolo 29
*** Unexpected Breakdown (Crollo inaspettato) ***


29. Unexpected Breakdown (Crollo inaspettato)

-Per l’amor di Dio!

Esclama Christian balzando improvvisamente dal divano. I suoi occhi sono spalancati e non può fare a meno di toccarsi la bocca, che fino ad un secondo prima si trovava coinvolta in un curioso e decisamente improvviso bacio. Anche Ronald si alza di riflesso e osserva Christian, senza però guardarlo negli occhi. Si limita a rivolgergli fugaci occhiate.

-Avresti dovuto capirlo…

Afferma poi, con tono imbarazzato, camuffato da un’intonazione seccata. Christian scuote il capo ed inizia nervosamente a camminare avanti e indietro per il salotto.

-E come avrei potuto Ronald? A stento so chi sei!

Quell’affermazione offende Ronald al punto di convincerlo, quasi, ad alzarsi e andare via, salvo poi ricordarsi di essere ancora bagnato per via della pioggia e di essere sprovvisto dei proprio abiti. Sentendosi quasi incapacitato di fare altro si rimette a sedere e osserva Christian vagare per la stanza mentre pronuncia una sorta di monologo.

-Ho quasi e dico “quasi” pensato fossi venuto qui per scusarti. Per una frazione di secondo ho anche deciso di perdonarti in questa mia testa così… confusa. E tu cosa fai? Mi baci! Ti sembra una cosa logica?

Christian parla per circa cinque minuti e Ronald riesce a stento a cogliere il significato delle sue parole. Si tratta perlopiù di farfugliamenti e ripetizioni di frasi come “è mai possibile?” oppure “non è normale” o ancora “che senso ha?”. Stanco delle parole di Christian, lo azzittisce e decide di iniziare a parlare.

-Christian basta, per favore. Ho sbagliato, lo ammetto.

Christian annuisce e apre la bocca per parlare di nuovo ma Ronald lo blocca.

-Basta! Adesso parlo io.

Christian chiude la bocca e sospira, smette finalmente di camminare e si appoggia contro lo stipite della porta della cucina a braccia conserte, batte nervosamente il piede sinistro contro il pavimento e si mordicchia il labbro. Ha sicuramente altro da aggiungere, altro per cui sfogarsi ma si trattiene e si prepara ad ascoltare Ronald. Quest’ultimo chiude gli occhi per qualche secondo, il tempo necessario per riuscire a formulare un pensiero di senso compiuto. Non è facile per lui affrontare questo tipo di conversazione, non è mai stato il suo forte.

-Non avrei dovuto baciarti, hai ragione. È solo che…

Si blocca. Non gli vengono le parole, anzi, gli vengono benissimo, semplicemente non ha il coraggio di pronunciarle. Si sente terribilmente sciocco in quel momento. Com’è possibile che una cosa frivola come quella lo imbarazzi così tanto?

-… dal momento in cui sei arrivato all’Università, dieci anni fa, mi hai colpito come nessun altro aveva fatto mai nella mia vita.

Abbassa lo sguardo. Non sarebbe in grado di reggere un qualsiasi tipo di espressione di Christian. Non tollererebbe una smorfia di sdegno e arrossirebbe ad un suo sorriso. Dal momento che il suo discorso non è ancora finito, respira e prosegue.

-Quel tuo luccichio negli occhi quando parli della tua materia, quella componente del tuo carattere così ingenua ma mai in senso negativo, hanno su di me uno strano, stranissimo potere. Devi credermi, non pensavo che certe parole sarebbero state in grado di uscire dalla mia bocca eppure, eccomi qui.

Alza lo sguardo e nota una strana espressione sul viso di Christian, espressione che non sa decifrare. Non pare infastidito ma nemmeno sorpreso, è semplicemente immobile.

-Non mi aspetto nulla da te Christian.

Esclama improvvisamente, cercando quasi di anticipare qualsiasi commento da parte di Christian.

-Non ho mai voluto avvicinarmi perché tu avevi… lui, quel Jonathan senza il quale, francamente, credo tu non possa vivere. Mi rendo conto di non avere speranze, volevo solo essere sincero.

Christian apre di nuovo la bocca con l’intento di parlare ma non esce alcun suono. Sospira e torna a sedersi sul divano accanto a Ronald. Sorride. Ronald, come aveva previsto, arrossisce e abbassa timorosamente lo sguardo. Christian si avvicina ulteriormente e prende le mani dell’amico, le stringe.

-Ti ringrazio per la tua onestà Ron, ma…

Ronald interviene.

-…ma non sei interessato, lo so.

Christian lo corregge. Il tono della discussione è totalmente cambiato, le parole di Christian sono pacate e hanno una strana sfumatura dolce, quasi paterna. Ronald alza lo sguardo e incrocia quei due bellissimi occhi blu, carichi di malinconia.

-No, non è solo questo. Ron, onestamente, in questo periodo sono veramente troppo confuso. Non è una scusa, davvero. La mia vita sta prendendo una direzione che non riesco nemmeno ad intuire e veramente, non ho le forze per concentrarmi su altro.

Ronald annuisce. Le parole di Christian gli sembrano sincere, tuttavia, una piccola parte di lui aveva sperato che Christian ricambiasse, anche se per poco, quel sentimento che prova per lui. Non lo ammette, nemmeno a se stesso. Rimane seduto a guardare il bel viso di Christian e ad ascoltare quella sua voce incantatrice.

-Sei una persona speciale Ron, veramente importante. Voglio che resti al mio fianco, per cui, dimentichiamo le ultime discussioni e ti prego, riprendiamo tutto dove l’abbiamo lasciato. Sei l’unica persona esterna a tutto questo… disastro, su cui possa veramente contare.

Quegli occhi grandi e imploranti non accettano una risposta negativa. Ronald asserisce col capo e sorride, nonostante dentro di sé prova un forte sentimento di imbarazzo e vorrebbe trovare la forza di alzarsi e andare via.

-Ma si, certo! Tu e tuoi stramaledetti occhi blu!

Christian inizia a ridere e pure Ronald ride. Tutta quella situazione tesa di poco prima pare essersi dissolta. Eppure, l’idillio ha durata breve.

A interrompere il momento è il rumore dell’ascensore del palazzo. Christian sobbalza.

-Oh, quel vecchio ascensore! Dev’essere senz’altro Kyle.

Si alza dal divano, continuando comunque a sorridere e pensando nel frattempo all’adatta punizione per Kyle per l’assenza a cena, il ritardo e l’uscita improvvisata annunciata solamente tramite biglietto. Apre la porta e, a grandissima sorpresa, non è Kyle la persona che si trova davanti agli occhi.

Il respiro gli si blocca per un istante, gli occhi non riescono a chiudersi e la mano destra sta stringendo la maniglia della porta con una forza  a dir poco stupefacente.

-Oh, avrei bussato.

Esclama, quella voce calda e avvolgente.

-Jonathan…

Si, proprio lui. Pensa a lui, seppur involontariamente, tutti i giorni, Ronald l’ha nominato poco fa eppure, trovarselo davanti è qualcosa del tutto inaspettato. È ordinato, indossa uno dei suoi soliti completi firmati che fino a pochi mesi prima Christian stirava personalmente e poi, il profumo. Quel maledettissimo profumo  penetra nelle narici di Christian dopo pochi istanti.

-Chris, tutto bene?

Ronald si alza dal divano e raggiunge il padrone di casa alla porta. Non ha mai visto quella persona prima d’ora tuttavia lo riconosce subito. Per prima cosa per la descrizione, Christian non faceva che descriverlo come un uomo dall’aspetto posato, dalla notevole eleganza nonché da un’apparenza assolutamente piacevole. Non gli chiede di presentarsi, non pensa di averne bisogno.

-E tu chi saresti?

Chiede invece Jonathan. Anche a lui Christian ha parlato più volte di Ronald, tuttavia deve essersene dimenticato o probabilmente ha altro nella testa, che non riguardi riportare alla mente ricordi circa descrizioni di possibili conoscenze di Christian.

-Ronald, collega di Christian. Non credo di aver avuto mai l’occasione di presentarmi.

Ronald porge immediatamente la mano, in segno di cortesia. Gesto non ricambiato da parte di Jonathan che continua a fissare l’ospite a lui sconosciuto per passare poi a Christian, completamente immobile e momentaneamente sprovvisto di capacità comunicative.

-Quello è il mio accappatoio?

Ronald ritrae immediatamente la mano, capisce da subito che Jonathan non ha intenzione di presentarsi e non ha alcun interesse di conoscerlo.

-Christian, mi daresti delle spiegazioni?

Christian prende fiato. Distoglie lo sguardo da Jonathan e si rivolge a Ronald.

-Ron, per favore, torna in casa.

Ronald lo guarda, non gli dice nulla, lo osserva soltanto nell’attesa di una spiegazione. Non ricevendola decide di rientrare. Tuttavia, qualcosa lo trattiene. Jonathan allunga il braccio e lo afferra per il cappuccio dell’accappatoio, con forza notevole, trascinandolo quasi fuori dalla porta.

-Chiunque tu sia, questo lo rivoglio indietro!

Christian cerca di parlare e di dire a Jonathan di smetterla quando questi, fuori da ogni previsione, sferra un pugno in pieno viso a Ronald, facendogli perdere sangue dal naso.  Christian immediatamente si precipita sull’amico, preoccupato. Ronald però lo respinge.

-E tu staresti con questo pazzo?

Esclama, pieno di rabbia cercando di bloccare con le dita l’emorragia proveniente dal naso. Christian immediatamente punta gli occhi verso Jonathan che sembra impaurito. Se non lo conoscesse così bene lo direbbe spaventato dal suo stesso gesto.

-Ma chi cazzo sei?

Esclama poi, facendosi forza, mosso da un sentimento di rabbia e disprezzo per quanto ha appena visto.

-Io… rivoglio solo la mia roba.

Esclama lui, rimarcando la frase pronunciata poco prima, la sola differenza è il tono, leggermente intimorito.

-Chi sei tu?!

Domanda di nuovo Christian, urlando questa volta.

-Ho fatto la stessa domanda al tizio con il mio accappatoio e non mi è stata data risposta.

Risponde Jonathan, apparentemente schivando lo sfogo di Christian che non ha invece intenzione di accantonare la questione così facilmente.

-Come ti permetti di presentarti qui, senza nemmeno avvisare e fare questo?

-Come ti permetti tu di dare le mie cose a qualcun altro!

Ribatte Jonathan, cercando di replicare il tono collerico di Christian.

-No, no Jonathan, questo non sei tu.

Jonathan non risponde.

-Io… ancora mi chiedo cosa ti sia passato per la mente quando hai deciso di tradirmi. Ma… questo! Tu non sei mai stato così. Io… vattene!

Esclama, con un’intonazione che da collerica passa a delusa.

-Non era mia intenzione farlo, è già la seconda volta che lo faccio…

Christian spalanca gli occhi e scuote il capo, non può credere alle parole di Jonathan e non vuole farlo in nessun modo. Deve assolutamente allontanare quello sconosciuto, quella persona dalle sembianze di Jonathan che in nessun modo riconosce.

-Via di qui!

Chiede, deglutendo e cercando di spingere più lontano possibile un singhiozzo che cerca violentemente di uscire.

-No, senti Christian io ti devo parlare…

-VATTENE fuori di qui! Non ti voglio più vedere, mai più!

Urla. Jonathan si guarda in giro spaventato. La vicina della porta accanto si è affacciata nel frattempo, probabilmente preoccupata dalle urla. La situazione è a dir poco degenerata.

Alla fine si allontana e in fretta raggiunge le scale, non ha tempo per aspettare l’ascensore.

Christian sbatte la porta e rientra. Si appoggia con entrambi le mani alla maniglia e respira profondamente. Chiude gli occhi, li stringe con forza cercando di cancellare dalla sua mente ciò a cui ha appena assistito. Ha avuto paura, parecchia.

Dopo qualche secondo si gira e vede Ronald alle sue spalle che si sta alzando dal divano. È vestito.

-Ron, perdonami davvero per quello che è appena successo. Io non sapevo, te lo giuro!

Ronald scuote il capo. Il naso non gli sanguina più e i vestiti che ha indosso hanno l’aria di essere ancora umidi.

-Ho preso le mie cose dalla lavatrice, è meglio che vada.

Non lo guarda negli occhi, pronunciando queste parole. Christian non sa che dire, non sa come scusarsi.

-Scusami, davvero!

Ronald, gli passa accanto, sempre senza guardarlo.

-Non è colpa tua, capita a tutti di innamorarsi della persona sbagliata.

Esce, lasciando Christian completamente sconvolto.



---> Tornata. In anticipo rispetto alle mie previsioni! Sorprendentemente ho avuto un po' di ispirazione e sono riuscita a scrivere di getto tutto questo capitolo. Finalmente sto per avvicinarmi alla stesura del capitolo che nella mia testa balena da parecchio tempo! Mi scuso se i capitoli precedenti sono stati fin troppo discorsivi, dovevo preparare un po' gli animi e le relazioni per quanto farò accadere a breve! Ho visto parecchie visite al capitolo precedente, anche se non ci sono stati commenti... spero che mi stiate ancora seguendo e siate interessati alla mia storia, seppure la pubblicazione avvenga in intervalli fin troppo LUNGHI! Bene, detto ciò vi do un saluto al prossimo capitolo che SPERO di pubblicare a breve. Alla prossima! <---

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Capitolo 30
*** Waiting for the day (Aspettando quel giorno) ***


30. Waiting for the day (Aspettando quel giorno)

Il compleanno di Jonathan e quello di Kyle cadono il medesimo giorno, il 16 luglio. Normalmente per festeggiare gli avvenimenti si ricorreva ad una serata in famiglia in pizzeria per poi andare al cinema o in sala giochi; assecondando i desideri di Kyle. Quell’anno, i dettagli riguardanti i festeggiamenti dei compleanni erano sconosciuti e nessuno aveva il coraggio di porre ipotesi a riguardo.

Durante la settimana precedente a quella data, Christian aveva temuto di ricevere telefonate da parte di Jonathan. Non si aspettava certo la proposta di festeggiarlo insieme come ai vecchi tempi, non lo voleva assolutamente. Pensava comunque che Jonathan si sarebbe fatto sentire per consultarsi riguardo al regalo che avrebbero fatto al ragazzo. Per la prima volta si sarebbe trattato di due regali separati. Per il quindicesimo compleanno di Kyle, gli era stata regalata una tavola da disegno elettronica, spesso utilizzata e molto apprezzata. Era costata parecchio ed erano stati ben attenti a scegliere il modello migliore e preferito dagli artisti amanti del disegno computerizzato. Avevano chiesto diversi pareri e speso una cospicua somma di denaro. Tuttavia, dopo aver visto il sorriso di Kyle, aver ricevuto i suoi baci e suoi abbracci di ringraziamento, erano stati concordi nel dire che ne fosse assolutamente valsa la pena. L’anno prima si era inoltre parlato dell’ipotesi di regalare una macchina al ragazzo per il compimento dei sedici anni. Kyle da sempre era interessato alle automobili, una passione che gli avevano trasmesso i suoi stessi genitori che, denaro permettendo, amavano cambiare l’auto di famiglia (che generalmente guidava Jonathan) ogni due o tre anni. Christian non aveva di per sé abbastanza denaro da parte per potersi permettere di comprarla lui solo. Gli seccava ammetterlo ma la quota più alta per i regali di Kyle era sempre quella di Jonathan, il cui stipendio era quasi il doppio del suo. Senza contare che per quel giorno Christian doveva pensare anche al regalo di Jonathan cosa che, quell’anno, era sicuro non avrebbe acquistato.

Ogni sera, dopo le sei, nella trascorsa settimana aveva tenuto l’orecchio teso in direzione del telefono, attendendo la chiamata di Jonathan che non era arrivata. Dopo il loro ultimo incontro tre settimane prima, dopo l’ennesima delusione, aveva giurato a se stesso che avrebbe fatto il possibile per cancellare quell’uomo dalla propria testa. L’aveva spaventato. I suoi occhi erano diversi, ardevano,  la sua voce era così calda eppure così familiare. Non aveva più davanti l’estraneo di qualche mese prima, di quella volta che erano finiti a letto, eppure non era nemmeno quello che una volta avrebbe chiamato il “suo” Jonathan. Non era da lui venire alla mani così facilmente, non l’aveva mai fatto.

Senza sapere come comportarsi l’aveva nuovamente sbattuto fuori casa, aveva inveito contro di lui. Senza contare tutta la faccenda di Gregor. Tutto ciò che era stato fatto a spese di Kyle e sue. Troppo breve il loro incontro per porgli domande a riguardo, senza contare che la sua sola presenza ora gli è sufficiente per andare in panico, toccare la follia, perdere razionalità. Quando si era presentato in comune a fare richiesta per i fogli di domanda di separazione era deciso, calmo e pacato. Aveva pensato di inviargli tutto via posta con una sobria e neutrale lettera di spiegazioni e condizioni, eventualmente fargli una telefonata. Aveva ripassato il discorso anche per quella eppure, una volta trovatoselo davanti, le parole razionalità e sobrietà erano divenute a lui estranee. Tutta la faccenda del divorzio era stata da lui completamente dimenticata. 

Senza contare che non sapeva come reagire al pugno in pieno viso inferto a Ronald, senza alcun motivo. Si era naturalmente infastidito per il gesto in sé ma parte della sua reazione era stata al quanto “solita”. Non poteva certo starsene come un idiota a guardare con la bocca aperta tutta la scena. Certo, mettersi a gridare sul pianerottolo a quel mondo era stato a dir poco eccessivo. Non sente Ronald da quel giorno. Crede che lo eviti in università, lo vede sempre più spesso rinchiudersi in piena solitudine nella saletta dove riceve i suoi studenti. Un paio di giorni prima ha tentato di parlare con lui; si era alzato dalla sedia sulla quale sedeva da quasi un’ora, fissando la porta con il cartellino del nome di Ronald e con un rapido scatto aveva raggiunto la porta. Aveva deciso di dare la colpa del suo dietrofront all’arrivo di una ragazza che aveva bussato ed era entrata nell’aula, anche se sapeva bene che quello era stato soltanto un pretesto. Si sente sempre più vigliacco. Vuole bene a Ronald,  ritiene il rapporto con lui una sincera amicizia e non ha intenzione di perderlo. Nonostante la confessione dell’amico, per quei pochi istanti che subito ha iniziato a definire come “la quiete prima della tempesta”, ha creduto di essere riuscito a risistemare le cose.

Ad ogni modo, quella di Ronald in quel momento è l’ultima faccenda a preoccuparlo. Ha approfittato dell’assenza di Kyle per andare in camera sua a fare un giro perlustrazione per cercare di farsi venire in mente qualche idea riguardo al regalo da acquistargli. Entra nella stanza e non riesce a fare a meno di notare il disordine, in dieci anni di convivenza non è riuscito a insegnargli il vero significato della parola “riordinare”. Si aspetta, abbassando lo sguardo, di vedere ancora montagne di giocattoli spuntare da sotto il letto. Si guarda in giro e non nota nulla che già non conosca.

Alle pareti ci sono appesi i soliti poster: i Death Cab for Cutie (una band che non ha mai capito), i My Chemical Romance, i 30 second to mars e stranamente i Beatles. Reputa a dir poco assurda l’idea di comprargli un cd, molto probabilmente sul suo i-Pod ha già tutta la musica che gli interessa e può facilmente scaricare da i-Tunes tutti i brani che preferisce. Lo rattrista un po’ quell’avanzare della tecnologia. Prima che arrivassero tutti questi beni “risparmia-fatica”, come lui ama definirli, fare i regali era molto più facile; un cd, un dvd (o una VHS, andando indietro con i tempi), un puzzle. Si chiede se qualcuno, che non sia un appassionato, sia ancora seriamente interessato a passare delle ore seduto a fissare pezzetti di cartone apparentemente tutti uguali. A lui per esempio quell’hobby non ha mai interessato e dubita che possa rientrare negli interessi di Kyle. Sbuffa e si siede sul letto, appoggia le mani sulle ginocchia sconsolato. Si chiede se tutti quanti i genitori abbiano i suoi stessi problemi nel fare un regalo ai figli. Per un momento una domanda gli percorre la mente “Lo conosco abbastanza?”. La risposta è comunque positiva, sa parecchie cose di lui, conosce i suoi interessi, la sua musica preferita, i suoi cibi prediletti. Conclude infine che Kyle materialmente abbia tutto ciò che gli serve.

-Gli basterà un piccolo regalino.

Afferma poi sospirando e alzandosi dal letto. Meccanicamente sistema la coperta dove si era seduto, perseguendo quella sua maniacale ossessione per la perfezione. Alzandosi, lo sguardo gli cade nuovamente suoi poster.

-Jonathan probabilmente gli regalerà i biglietti per qualche concerto in città o, perché no? In Europa! Tanto lui può permetterselo.

Afferma con asprezza, osservando i cinque visi smorti e truccati dei My Chemical Romance. Esce dalla stanza, quasi infastidito dopo quella frase che gli è uscita così liberamente dalla bocca. Richiude la porta della camera e si dirige verso il salone. Si accorge, osservando l’orologio in sala da pranzo, di dover iniziare a preparare il pasto. Kyle è fuori con Morgan, per quanto sa, e probabilmente arriverà nel giro di una ventina di minuti. Dovrebbe aver già preparato la tavola e le pentole dovrebbero essere sui fornelli. Tuttavia ha passato tutta l’intera mattinata seduto sul divano a rimuginare. Si dirige in fretta in direzione della cucina, apre il rubinetto dell’acqua, accende i fornelli e cerca nervosamente la pentola per la pasta negli armadietti pensili sopra la sua testa.
Posa la pentola sotto il rubinetto e aspetta che si riempia. Non vuole pensare a niente, per questo continua a fissare da un punto imprecisato all’altro la cucina, cercando qualche spunto di riflessione o qualche argomento su cui distrarsi e su cui concentrare i propri pensieri. Non appena l’acqua raggiunge il livello desiderato posiziona la pentola sul fornello, prende il contenitore del sale, ne afferra una manciata e lo butta, senza neanche guardare, nella pentola. Subito dopo si precipita verso l’armadietto dove è solito tenere la pasta ed inizia a scrutare le scatole senza particolare criterio. Dopo aver passato ogni scatola rimasta decide di prendere le mezze penne, che cucinerà con del tonno.
L’acqua ha raggiunto l’ebollizione ed è quindi pronta per ricevere la pasta, tuttavia, avvicinandosi alla pentola Christian vede galleggiare nell’acqua degli strani puntini neri. Osserva poi bene la pentola e si ricorda di averla messa da parte un mese prima con l’intenzione di cambiarla. Si tratta di una tegame vecchio e la vernice al suo interno, si è staccata e sta ora galleggiando.

-Ci mancava anche questa!

Esclama, rendendosi anche conto di essere in ritardo e di dover rifare tutto da capo. Bruscamente afferra la pentola dal fuoco e in un attimo di disattenzione questa gli scivola dalla mano rovesciandosi sui vestiti e parte sul braccio, nudo per via della maglietta a maniche corte.

-Merda, merda, merda!

Impreca, correndo al lavandino per rinfrescare la parte bruciata dall’acqua bollente. Chiude gli occhi e respira profondamente. Cerca di calmarsi, dopotutto non è successo nulla di male, è solo un po’ d’acqua. Chiude il rubinetto e si prepara a prendere un’altra pentola da mettere sul fuoco, quando si accorge del calendario, accanto alla finestra, ancora fermo al mese di Giugno. Si è dimenticato di aggiornarlo, a dirla tutta si era completamente dimenticato di quel calendario.  Di solito ci scriveva degli appunti, eventuali visite o programmi da registrare alla televisione.  Il mese di Giugno è stranamente candido.

Strappa la pagina per arrivare al mese di luglio e il suo occhio lo riporta ad una nota, scritta in piccolo con una penna gel blu, in una grafia che, purtroppo, conosce fin troppo bene. La data è proprio il 14 luglio. Non vuole leggere ma sa bene che se non lo facesse passerebbe il resto della sua giornata pensandoci e facendo ipotesi. Decide quindi di esorcizzare i suoi demoni, si avvicina di più e legge.

“Ricordami che mi ami, è l’unico regalo che voglio.”

Eccola, alla fine, la distrazione che cercava.

***

-Esco.
-Con chi?
-Con… Morgan.

Ecco, quanto si erano detti lui e Christian quella mattina, poco meno di un paio di ore prima. Falsi, entrambi. Christian gli era sembrato assente, gli aveva posto quelle domande con una vuotezza negli occhi da fare spavento, gli era sembrato di fissare due grandi sfere di cristallo perfettamente pulite, oltre le quali aveva scorto il nulla. Avrebbe voluto indagare, chiedergli se stava bene. Doveva certamente essergli successo qualcosa di recente. A cena era freddo, distratto. Aveva salato la pasta una volta di troppo, si era dimenticato di mettere in tavola l’acqua e si era alzato a fissare fuori dalla finestra, tamburellando nervosamente le dita sul davanzale, noncurante dei piatti ancora nel lavandino e della tovaglia ancora sul tavolo della sala da pranzo.

Kyle pensa che forse sia stato meglio così, se Christian fosse stato in piena forma, libero da ogni preoccupazione, avrebbe indagato riguardo a quell’insolita uscita mattutina. Non gli aveva mai concesso di uscire la mattina, quella parte della giornata era dedicata ai compiti per l’estate, una regola su cui era impossibile transigere. Ad ogni modo, la sua vera destinazione era la casa di Anthony, la vecchia casa, dalla quale di lì a poco si sarebbe trasferito. Aveva riflettuto molto nell’ultimo periodo. C’era stata la litigata con Morgan, con la quale non si era ancora rappacificato. Era certo ormai di provare qualcosa per Anthony e non aveva intenzione di tenersi tutto dentro ancora a lungo.

Non era mai stato a casa di Anthony, l’aveva sempre incontrato a scuola, in biblioteca o al parco. Sa bene che la famiglia di Anthony è benestante, la faccenda che l’ha spinto a trovarsi proprio davanti a quel cancello quell’afosa mattina di luglio, gliene ha dato un chiaro esempio. C’è fermento nel giardino, circa una decina di persone portano avanti e indietro scatole e pacchi più o meno grandi.
Il giardino della casa di Anthony ha qualcosa di maestoso, ricorda un po’ i giardini signorili delle ville tipiche dell’immaginario ottocentesco e, probabilmente, l’idea di base è proprio quella. Kyle rimane qualche minuto davanti al cancello d’ingresso; un maestoso cancello di ferro, completamente meccanizzato, che dà uno scorcio dell'entrata principale dell’abitazione.

Alla sua sinistra nota il citofono, dorato e con tanto di telecamera integrata posizionata sopra l’etichetta che reca il nome “Edwards”. Quand’era bambino spesso sognava di vivere in una casa del genere, una casa fuori dal caos della metropoli, completamente immersa nel verde. La periferia gli è sempre stata piuttosto stretta, per questo motivo adorava trascorrere le vacanze a Santa Monica. Si è più volte immaginato di intraprendere la carriera di pittore ed isolarsi in una di quelle ville, lontano dalla mondanità, lontano dalle strade congestionate dal traffico. Sospira mentre la sua immaginazione viaggia irrefrenabile, salvo poi ritornare alla realtà. La tentazione di andarsene è forte. Era parecchio determinato un paio d’ore prima.

La sera precedente aveva puntato la sveglia alle otto per fare tutto con calma ed arrivare davanti alla casa degli Edwards prima di mezzogiorno. Christian gli aveva insegnato la buona educazione di non presentarsi mai a casa di qualcuno a  mezzogiorno.

Tutto era andato come previsto, si era alzato regolarmente, aveva trascorso i soliti venti minuti sotto la doccia e aveva indossato i bermuda di jeans e t-shirt che aveva accuratamente preparato sulla scrivania la sera prima. Si era preparato da solo la colazione senza disturbare Christian che, pur essendosi già svegliato, sembrava ancora in dormiveglia. Aveva cercato anche di essere abbastanza credibile riguardo alla scusa per uscire; in più il giorno prima aveva svolto qualche esercizio extra per i compiti delle vacanze, in modo che se Christian avesse deciso di controllare non avrebbe avuto nulla su cui rimproverarlo. Dopo averlo visto così assente, tuttavia, si era reso conto di aver preso fin troppe precauzioni.

Ad ogni modo, nel giro di un’ora era riuscito ad uscire di casa con un foglio alla mano, sul quale si era segnato indicazioni stradali e fermate della metropolitana da rispettare. Stando ai suoi calcoli la distanza tra casa sua e quella di Anthony era di circa un’ora e un quarto, se tutto fosse andato come stabilito sarebbe riuscito ad incontrarlo entro le dieci e mezza massimo. Il percorso era piuttosto impegnativo: prima doveva prendere un pullman che lo portasse alla stazione metropolitana più vicina; una volta raggiunta questa avrebbe preso una linea sulla quale sarebbe sceso dopo tre fermate, avrebbe cambiato e avrebbe effettuato sulla seconda linea altre quattro fermate. Dopodiché sarebbe dovuto uscire per prendere un autobus che l’avrebbe portato alla stazione di sosta più vicina alla casa di Anthony. Il percorso comprendeva infine due chilometri circa da percorrere a piedi per poi trovarsi direttamente di fronte alla casa di Anthony.

Kyle non aveva mollato il suo foglio per un minuto, ad ogni passaggio non aveva mancato di controllare e ricontrollare, per essere sicuro di seguire la strada giusta. Tuttavia, dopo la scritta indicante il nome della via da imboccare per arrivare a destinazione, non c’era scritto più nulla. Aveva pensato a tutto, era stato preciso in ogni minimo dettaglio ma non aveva programmato la cosa più importante: l’incontro con Anthony.
Non aveva il coraggio di suonare il campanello. Sicuramente avrebbero risposto i genitori del ragazzo che, stando a tutta la faccenda creata per quella piccola “vicenda” con tra lui e figlio, non dovevano certo vederlo di buon occhio. Avrebbe dovuto pensarci prima, non avrebbe dovuto agire d’impulso. Tutto quel suo pianificare non era servito a nulla; non avrebbe suonato quel campanello. Per l’ennesima volta ha mentito a Christian, senza peraltro ricavarne nulla di buono. Dà un’ultima occhiata al cortile degli Edwards, in cuor suo spera di avere fortuna, spera che da un momento all’altro Anthony esca dalla porta d’ingresso e noti la sua figura al cancello. Sa bene che certe cose, certe casualità, nella vita reale non accadono mai. Sospira e, perdendo la benché minima speranza, decide di riprendere in mano le sue indicazioni e ripercorrere la strada al contrario. Volge le spalle all’abitazione e sospira. Quanto tempo sprecato inutilmente! Avrebbe potuto disegnare, è da parecchio che non lo fa, precisamente da prima del viaggio a Santa Monica. Si sente in colpa quando trascura questo suo grande dono, si ritiene colpevole d’offesa diretta alla sua vena artistica. È sempre stato dell’idea che tutti quanti siano venuti al mondo per uno scopo preciso, il suo doveva essere l’arte. Per quanto conosce di sé, non c’è altro che sia in grado di fare con lo stesso trasporto e la stessa passione. Pensa a tutto questo sulla strada di ritorno, seduto su un sedile della metropolitana fin troppo stretto.

"Non ho avuto tempo.”

Adduce, dando la giustificazione  più semplice alle sue mancanze. La scuola, la situazione burrascosa a casa e, si, tutta la vicenda che vede protagonista Anthony (dalla quale al momento non trova via di fuga) devono averlo assorbito al tal punto di non aver lasciato in lui nemmeno quella goccia di energia necessaria a mettere in moto la sua voglia di fare. Non è una scusa totalmente infondata eppure è convinto che si tratti di una bugia. Sa di non aver fatto abbastanza, sa di non aver nemmeno tentato. Il genio di per sé è inutile, il virtuosismo vale ben poco se non è combinato ad una grande forza di volontà e a un assiduo impegno.

Kyle inizia a questo punto a dubitare delle sue stesse abilità. È stato cresciuto come figlio unico, i suoi genitori hanno contribuito alla formazione di una buona autostima. Le sue abilità sono sempre state lodate, i suoi successi premiati, le sue doti incoraggiate. E se tutto non fosse nulla più del risultato dell’amore genitoriale? Lo scorso anno, come regalo per il compimento dei suoi quindici anni, gli è stata regalata una stupenda tavoletta grafica, regalo molto apprezzato, utilizzato più volte nei mesi successivi. Conosceva bene il prezzo di quel tipo di apparecchio, si era più volte fermato ad ammirarne diversi modelli nei negozi di elettronica. Quel dono era da vedersi quindi come investimento nel suo talento? Oppure era l’ennesima dimostrazione d’affetto?

A questa domanda non sa rispondere.Tuttavia, una questione che ancora non aveva considerato fino ad ora inizia a far capolino nei suoi pensieri. Tra poco meno di una settimana sarà il suo compleanno, compirà finalmente sedici anni e potrà iscriversi al corso per conseguire la patente di guida.

Fino all’anno passato il giorno del suo compleanno era un momento che attendeva con ansia. Non vedeva l’ora di svegliarsi, la suddetta mattina, e trovare sul tavolo da pranzo il pacco contenente il suo regalo. Anche se la cosa divertente era notare i visi sorridenti di Jonathan e Christian che cercavano di fare finta di niente, fingendosi impegnati in altre attività (sempre le stesse tral’altro, di anno in anno) mentre impazienti, con la coda dell’occhio, cercavano di scorgere la sua reazione. Il suo cuore per un momento sobbalza e si ritrova con la mano sul petto a cercare forse di trattenerlo per evitare che, in qualche modo, riesca a fuoriuscire. L’idea di non vivere quel meraviglioso quadretto al quale è abituato da sempre gli fa mancare il respiro. Non gli importa poi molto del regalo, a questo punto. La parte migliore di tutto è l’amore e l’impegno che Jonathan e Christian ci mettevano ad organizzare tutto. Il farfugliare sottovoce nelle settimane antecedenti riguardo al regalo, al luogo in cui avrebbero festeggiato il compleanno, inizia a mancargli terribilmente. Il susseguirsi degli eventi recenti gli ha permesso di non pensare al suo compleanno tuttavia ora, una serie infinita di immagini a cui era abituato e che molto sicuramente non potrà rivivere, gli si presentano davanti agli occhi. La casualità ha fatto si che il compleanno di Jonathan cadesse nel medesimo giorno. Cos’accadrà da lì a una settimana? Quale altro cambiamento sarà costretto a vivere? Non vuole pensarci.


--> Supersuper puntale =D Troppo presto? Spero di no! Sto sfruttando questo periodo di "vena artistica al lavoro" per scrivere più che posso prima di iniziare a rinchiudermi in camera (a computer spento) per gli esami di dicembre/gennaio/febbraio. L'ultima parte del capitolo l'ho scritta proprio stamattina sul mio blocco degli appunti dell'università, aspettando la lezione di letteratura francese. Sono abbastanza soddisfatta di questo capitolo, aspetto comunque che voi lettori mi diate il vostro parere! Che dire, quella parte della storia  su cui non vedo l'ora di scrivere si avvicina sempre più. Domani nell'ora buca mi chiuderò armata di mini-pc in biblioteca di Anglistica e farò funzionare il mio cervellino per lasciarvi un altro capitolo a breve. Voglio ovviamente ringraziare per le recensioni jaryshanny, mi fa molto piacere che tu sia ancora interessata alla mia storia dopo tutto questo tempo, mi fa sempre piacere leggere le tue recensioni! E Lal_Rouche, la tua recensione così ben scritta mi ha colpito molto e ammetto di averla "usata" come carburante per accelerare la mia vena artistica e scrivere così rapidamente il trentesimo capitolo. 

Prima di salutarvi vi dico una cosina, anzi vi chiedo una cosina che ho intenzione di chiedervi dai primi capitoli. Quasi subito (secondo o terzo capitolo) mi sono messa alla ricerca su google e vari siti di modelli che rappresentassero il mio ideale di John, Chris, Kyle, Morgan e Ronald (ancora non ho trovato un Gregor che mi soddisfi...). Se vi interessa vedere le foto di questi "modelli" per darvi un'idea di come nascono nella mia mente posso mostrarveli =) Non ho voluto scriverlo prima perchè quella di scegliere modelli in carne ed ossa per le storie è una cosa che ho già visto da altre fanfic e avevo paura di essere accusata di "plagio".  Se volete vederli bene, ve li mostrerò, altrimenti immaginateli pure come volete e... al prossimo capitolo!!! <----

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Capitolo 31
*** Afraid of changes (Paura di cambiare) ***


31. Afraid of changes (Paura di cambiare)

Da quasi una settimana Jonathan non esce di casa. Ha cancellato tutti i suoi appuntamenti, dandosi per malato il più delle volte. A conti fatti è malato, se si considera che la depressione sia ritenuta una malattia, uno psichiatra lo sa bene. Dalla sera in cui si era presentato a casa di Christian, non è più uscito. Non è stata una decisione volontaria, semplicemente, la mattina successiva, il suo corpo si è rifiutato di alzarsi. Le gambe erano rigide, gli occhi non davano cenno di volersi aprire, il cervello non dava segno di volersi attivare. Per tutto il giorno successivo non aveva fatto che stare seduto sul divano a fissare attraverso la finestra, passivamente la metropoli vivere davanti ai suoi occhi. Niente doccia, niente cambio d’abito o pasti, si trovava in uno stadio di catalessi  dal quale non gli è riuscito uscire fino al giorno successivo. Si era alzato, lavato, vestito e aveva fatto colazione. L’azione di prendere il telefono, chiamare la segretaria e motivare la sua assenza con una banalissima influenza, gli era parsa così naturale da non essersi sentito poi in colpa per aver mentito.

Siede, per il sesto giorno consecutivo, sul divano. Non sta guardando fuori dalla finestra, ha tirato la tenda il giorno precedente per evitare di rimanere bloccato di nuovo a fissare. Non che stia facendo molto altro, ora l’oggetto della sua attenzione è la televisione. Non crede essere mai stato davanti ad uno schermo così a lungo in vita sua. Ha sempre disprezzato i talk show, li riteneva il classico agglomerato di fastidios luoghi comuni e situazioni scontate che tanto fanno successo in una società bigotta come quella attuale, che ha la pretesa di dimostrarsi avanti con i tempi quando invece non dà segno di volersi scollare dalle più obsolete tradizioni. Il suo pensiero non è cambiato ed è comunque disgustato durante la visione della replica del giorno precedente dell’Oprah Winfrey Show. Non riesce tuttavia a fare altro di diverso da starsene seduto, a braccia conserte, con una smorfia infastidita sul viso, a fissare.
Gli è capitato spesso, durante le giornate precedenti, di rivivere mentalmente dei piccoli attimi del suo ultimo incontro di Christian. Faceva tutto il possibile per cancellare quell’episodio dalla sua mente, ci riusciva per una, forse due ore ma poi tutto quanto si ripresentava in modo sempre più violento. Dopo sei giorni, non ha più nemmeno la forza di scacciare via quel pensiero, è costretto a rifletterci.
Si era presentato con il proposito di parlare a Christian. Era ormai arrivato alla conclusione di non poter stare senza di lui, era disposto a qualunque condizione, qualunque cosa per riaverlo accanto a sé. Non sapeva come avrebbe fatto, credeva a malapena fosse possibile un riavvicinamento. Nel peggiore dei casi, aveva pensato, avrebbe avuto almeno l’occasione di vederlo. Tuttavia, quando finalmente l’aveva avuto davanti ai propri occhi, non sapeva cosa dire. Non sapeva come iniziare il discorso, tutta la sua attenzione si era concentrata su quell’estraneo, il collega di Christian, che aveva indosso il suo accappatoio e stava seduto sul divano che lui stesso aveva scelto e comprato per Christian tre anni prima. La tensione per l’incontro, la gelosia e forse l’invidia diretta a quello sconosciuto, lo avevano portato a reagire così bruscamente da dover alzare le mani. Normalmente ritiene la violenza qualcosa di spaventoso, un atteggiamento estremamente vile a cui fanno ricorso solo coloro il cui vocabolario e la cui intelligenza non sono ampi abbastanza da sostenere una tesi che possa reggere. Obiettivamente parlando, non ritiene se stesso parte della categoria sopraccitata e non si spiega, quindi, cosa possa averlo spinto a comportarsi in quel modo. Non era stato inoltre l’unico episodio nel quale aveva fatto ricorso alla violenza nell’ultimo periodo. Pochi mesi prima aveva colpito in pieno viso Abrahm Dickson, il vecchio datore di lavoro, per così dire, di Christian.

Eppure quella volta era stato diverso. Dopo aver sferrato quel colpo si era sentito bene, era soddisfatto ed è certo che, tornando indietro nel tempo, lo rifarebbe. La violenza è sempre violenza, in qualunque modo la si voglia vedere eppure Jonathan continua a sostenere il pugno inferno a Dickson e quello inferto al collega di Christian su piani differenti. Senza considerare che la violenza ai danni di Dickson non era stata del tutto gratuita, c’era una storia dietro tutto quanto, sofferenze, delusioni, sfruttamenti, non mancava proprio nulla nel quadro generale. Colpire quell’uomo, invece, non aveva avuto il benché minimo senso. Semplicemente, una molla incontrollata nel cervello di Jonathan era scattata, andando a colpire il suo buon senso e la ragione. Giustificare la violenza, comunque, non ha senso. Si tratta di un atteggiamento sbagliato a prescindere da ogni causa esterna o interna. Semplicemente, non avrebbe dovuto colpire Abrahm Dickson e non doveva colpire quel Ronald.

La motivazione poi, gli era ignota. Gelosia? Come poteva essere geloso! Se anche Christian si fosse visto con qualcun altro, ne avrebbe avuti tutti i diritti. A conti fatti non erano più una coppia e la decisione era stata sua, non di Christian. Se non avesse combinato tutto quel disastro, se si fosse comportato da persona responsabile, affidabile e rispettabile quale era sempre stato, non sarebbe nemmeno seduto su un divano di una casa che a stento ritiene propria, a rimuginare su comportamenti inspiegabili proprio il giorno precedente al suo compleanno.

“Il mio compleanno.”

Queste tre parole gli attraversano il cervello come un lampo e lo colpiscono con la medesima intensità. Il giorno successivo sarà il suo compleanno e quello di Kyle. Quaranta e sedici anni, due numeri molto importanti che meriterebbero di essere festeggiati in modo adeguato. Non si è dimenticato delle ricorrenze, la sua memoria è parecchio buona e non è il tipo da dimenticare date e appuntamenti molto facilmente. La sua memoria è supportata da agende sempre regolarmente aggiornate ma raramente aperte. Quello a cui non ha ancora pensato, tuttavia, è il regalo di Kyle. Non abitano più sotto lo stesso tetto e, per quanto possa sapere, i suoi gusti potrebbero essere mutati completamente. Si sentirebbe imbarazzato, presentandosi con il dvd di un film di quello che è sempre stato il suo attore preferito o l’ultimo episodio di una saga di videogiochi con i quali sovente l’aveva sorpreso giocare e scoprire che, nel frattempo, nulla di tutto ciò gli interessa più.

Crede che per quest’anno si limiterà a dargli del denaro, che lui stesso potrà poi spendere come meglio crede. Tuttavia, una volta presa questa decisione, deve pur sempre considerare che per dargli il regalo dovrà presentarsi di nuovo a casa, vedere Christian. Non saprebbe come affrontarlo. Se evitasse la discussione, probabilmente sarebbe Christian stesso a tirarla fuori se invece ne parlasse, rischierebbe di essere sbattuto fuori di casa, rovinando un giorno così importante per Kyle. Inoltre si ritrova molto indeciso riguardo alla somma da regalare a Kyle, ha paura che Christian fraintenda il dono di una cifra troppo cospicua. Potrebbe vedere il regalo come un insulto alla sua capacità di provvedere al figlio.

“Chissà cosa regalerà lui a Kyle?”

Pensa poi. La cosa migliore sarebbe fargli una telefonata, mettersi d’accordo almeno riguardo a quel particolare. In fondo, potrebbe evitare di andare direttamente a casa da Christian, gli basterebbe inviare un sms a Kyle invitandolo da lui. Gli farebbe anche parecchio piacere averlo tutto per sé per un po’ di tempo e festeggiare insieme i compleanni. Scuote il capo.

“Non sarebbe giusto, nei confronti di Christian.”

Conclude. Non potrebbe mai privare Christian della presenza di Kyle. Sicuramente avrà programmato di cucinare qualcosa di speciale, di infornare una delle sue torte più buone. Magari ha anche deciso di organizzare lui una piccola festicciola. Non può farlo, proprio no. Sospira ed inizia a pensare quanto sia diventata complicata e fastidiosa una cosa generalmente insignificante come scegliere il regalo per il compleanno del figlio, quando solo un anno fa le cose sarebbero andate diversamente…

Un anno prima

-E se gli regalassimo quell’affare che sempre si mette a fissare nei negozi?

Chiede Jonathan, mentre si trova seduto al tavolo da pranzo a consumare l’ultima enorme fetta di torta di mele rimasta. Ne toglie piccoli pezzetti, facendo attenzione di non far fuoriuscire i cubetti di mela e la cannella. Christian invece sta spazzando per terra, precisamente vicino alla sedia di Kyle immancabilmente circondata innumerevoli briciole di pane. Una cosa che fa infastidire parecchio Christian.

-Un aspirapolvere, forse! Si sa mai che sia la buona volta che impari a non sbriciolare il pane in questo modo…

Commenta Christian a voce alta. Una volta finito di pulire sistema la scopa nello sgabuzzino e si siede accanto a Jonathan. Lo osserva sorridente mentre sta mangiando, si diverte probabilmente ad osservare la sua espressione soddisfatta. Ha gli occhi socchiusi e mastica lentamente emettendo dei deboli suoni, probabilmente di apprezzamento.

-Neanche io ti faccio lo stesso effetto di quella torta.

Esclama Christian ridendo. Jonathan posa la forchetta e sorride.

-Vogliamo provare?

Chiede, maliziosamente. Christian scuote il capo.

-Ritornando al regalo di Kyle… cosa sarebbe “la cosa che fissa sempre”?

Chiede, cercando di riportare l’attenzione del discorso sul regalo del figlio. Jonathan riprende a mangiare la tua torna e ne ingoia un altro boccone prima di spiegarsi.

-Ma si! Quella sottospecie di palmare gigante che si usa per disegnare!

Christian annuisce. Si ricorda di aver notato più volte Kyle interessato a guardare quel tipo di accessorio. Tuttavia ha avuto occasione di osservarne i prezzi, indiscutibilmente proibitivi.

-La tavoletta grafica costa un sacco di soldi.

Jonathan annuisce. Ha finito tutta la torta e cerca di raccogliere nel piatto le ultime briciole rimaste e i pezzetti di mela fuoriusciti.

-Si quella!

Urla. Christian gli fa cenno di abbassare la voce. Sono da poco passate le dieci e mezza di sera e Kyle è già andato a letto, approfittando del momento si sono riuniti in salotto per decidere riguardo al regalo e alla festa.

-Non gridare, potresti svegliarlo.

Jonathan si alza dalla sedia e guarda in direzione della porta della camera di Kyle, osserva se c’è qualche fascio di luce proveniente dalla stanza ma non nota nulla.

-Sta dormendo come un ghiro. Oppure è seduto con l’orecchio teso ad ascoltare tutto ciò che stiamo dicendo.

Sistema la sedia e porta il piatto in cucina.

-A questo proposito… sarà meglio che non pronunci ad alta voce frasi compromettenti, quindi perché non andiamo direttamente in camera?

Christian sbuffa ma sorride. Apprezza l’ironia giocosa di Jonathan.

-Smettila! Domani andremo a vedere per la tavoletta ma… la cena?

Jonathan compare alla spalle di Christian e lo abbraccia. Appoggia la propria guancia a quella di Christian dandogli un bacio molto delicato.

-Solito ristorante, sala giochi e poi cinema, magari?

Propone. Christian annuisce.

-Come sempre… tutto qui? Abbiamo già deciso?

Jonathan dà un altro bacio a Christian, questa volta sulle labbra, anche l’intensità cambia.

-Ma certo! Ora… mi seguiresti in camera? O te lo devo chiedere un’altra volta?

Christian sorride e si alza dalla sedia.

***

Manca poco meno di un giorno al compleanno di Kyle. Christian si trova in centro, vaga per i negozi senza avere la benché minima idea riguardo all’entità del regalo. Ha già visitato più di dieci negozi di vestiti per poi arrivare alla conclusione di dover comprare a Kyle qualcosa di diverso dal semplice abbigliamento. Dopotutto acquista spesso per lui capi di vestiario, senza particolare motivo. Vorrebbe tanto avere il denaro necessario per potergli regalare ciò che vuole veramente, tuttavia le sue finanze sono alquanto misere.

In preda all’indecisione decide di provare a cercare qualcosa in un negozio di videogiochi, a Kyle piace parecchio giocare ai videogiochi, passa molto tempo in salone davanti allo schermo con il joystic. O meglio, passava. Prima di entrare nel negozio, Christian si siede su una panchina, posizionata all’esterno. Riflette, prima di entrare nel negozio. Non si ricorda di aver visto Kyle giocare da oltre due mesi, forse di più. Anzi, a dirla tutta l’ultima volta che l’ha visto giocare è stato proprio quella sera di qualche mese prima, quando Jonathan se n’era andato. Avevano giocato insieme ad uno di quegli assurdi giochi sui vampiri o qualcosa di simile, nemmeno ricorda il nome di quel videogioco. Inizia a chiedersi se veramente a Kyle interessino ancora i videogiochi. Ha solo sedici anni e quindi trascorrerà diverso tempo prima che abbandoni definitivamente le console per altri interessi, è ancora un ragazzino, a metà del suo percorso scolastico. Persino il college è lontano. Molte volte Christian si scopre ritenere Kyle molto più grande di quanto in realtà non sia. Alla sua età era decisamente più immaturo, si divertiva ad andare al cinema con gli amici, stava fuori a dormire in spiaggia a Santa Monica, andava nelle sale giochi a giocare a flipper o altri giochini preistorici, come lui stesso li definisce, come pac-man o tetris. I pomeriggi leggeva i fumetti di Spiderman e Batman e nient’altro.

Buona parte di queste attività rientrano anche in quelle di Kyle o forse, rientravano. Da un paio di mesi non gli chiede più denaro per acquistare i suoi amati manga, la sera è sempre in casa, anche nei weekend, anche d’estate. Non ha idea di cosa faccia rinchiuso in stanza tutta sera, non si è mai nemmeno posto il problema e si vergogna ad ammetterlo.

Mentre pensa e riflette, un ragazzo di più o meno l’età di Kyle, accompagnato da un signore, probabilmente il padre, girano fianco a fianco davanti ai suoi occhi. Il ragazzo indica svariate cose nelle vetrine: scarpe, vestiti, orologi, videogiochi, libri, tutto. Alla fine entrambi entrano in libreria. Christian immagina come sarebbe stato portare Kyle con sé. Forse avrebbe dovuto portarlo e chiedergli di scegliere lui stesso il regalo desiderato. Non l’ha fatto perché non è una cosa che rientra nelle loro tradizioni. C’è sempre stata una sorta di “mistero” attorno al compleanno. Di solito non se ne parla fino al giorno stesso e i festeggiamenti vengono annunciati circa venti minuti prima, il regalo viene presentato incartato e deve assolutamente essere una sorpresa. Si trova sciocco, Christian, a rimanere così attaccato alla tradizione, quando quest’anno di tradizionale ci sarà ben poco.

Un anno fa, si sarebbe trovato a casa a scegliere quale torta preparare, avrebbe tirato fuori il regalo già acquistato per incartarlo a regola d’arte non appena il figlio fosse andato a letto. Nel frattempo Jonathan avrebbe iniziato a telefonare al ristorante per prenotare il tavolo, trattando per ottenere il migliore e avrebbe eventualmente prenotato i biglietti per il cinema. Senza contare che si tratta anche del compleanno di Jonathan. Non dovrà fargli alcun regalo, non gli deve niente, non dovrà nemmeno telefonargli. Che senso avrebbe? Non può certo prendere in mano il telefono e fare tanti auguri alla persona che l’ha fatto stare così male, che ha reso quella situazione così familiare e solitamente divertente un vero inferno e un cumulo di dolore. Eppure quella persona è sempre Jonathan…

 

Un anno prima

- Quattrocento dollari? Stiamo scherzando!

Esclama Christian, osservando il cartellino di una delle tante tavolette grafiche in esposizione. Jonathan non risponde subito, è troppo impegnato a leggere la scheda tecnica.

-Non è nemmeno il prezzo finito, la penna è esclusa.

Commenta infine. Christian scuote il capo.

-Non possiamo comprargli una cosa del genere! Andremmo a spendere quanto, quattrocentocinquanta dollari in tutto? È troppo!

Jonathan annuisce.

-Beh però è compreso il cd, il manuale che spiega passo per passo le funzioni e poi è wireless. Ci sono anche una serie di dati tecnici che non capisco ma sono parecchi! È una cosa buona, no?

Christian non è d’accordo. Si rende conto che il compleanno è molto importante e che Kyle merita un bel regalo, soprattutto perché probabilmente sarà l’unico che riceverà, non avendo altri parenti se non loro. Tuttavia è restio riguardo alla scelta del regalo. Sa bene che Jonathan potrebbe permettersi di comprarlo da solo, senza chiedere a lui neanche un centesimo. Il suo stipendio è più che buono. Vuole comunque dargli se non la metà, buona parte della somma che è comunque molto elevata, per come la vede lui.

-John, te lo ripeto, costa troppo!

Jonathan si avvicina di più a lui e gli appoggia una mano sulla spalla.

-Posso pagarla io, per intero, se per te è un problema. Siamo sposati, il mio stipendio è il tuo stipendio.

Christian scuote il capo. Non era quello che voleva intendere, non solo quello almeno.

-No, non capisci! Al compleanno gli regaliamo qualcosa che costa cinquecento dollari, a Natale mille. E l’anno prossimo? Duemila? Non dovremmo viziarlo così tanto!

Jonathan scoppia a ridere.

-Chris, guarda che non è una gara di rialzo!

Christian arrossisce, si sente leggermente in imbarazzo. Jonathan lo abbraccia e lo bacia, senza però smettere di sorridere.

-Facciamo così, mi dai una mano a pagare quest’affare e a me non fai nessun altro regalo. Una bella torta piena di schifezze come… cioccolato,panna, crema. Niente di più, ti va bene?

Christian alla fine sorride e accetta.

--> Eccomi di nuovo ad aggiornare, spero di allietare il vostro weekend  con questo capitolo. Oggi vi propongo ben DUE flashback. La tecnica narrativa del flashback è qualcosa che mi piace parecchio, soprattutto se funge da contrasto con i momenti  del presente.  Voglio ringraziare per le splendide recensioni jaryshanny, nefene e lal_rouche.  Mi fa piacere vi interessi vedere i miei "attori", presto creero un post sul mio blog con le loro foto e vi metterò il link. Ancora due parole suella mia storia, vi rivelo di aver inizialmente avuto intenzione di finirla al capitolo 35, cosa che ormai mi sarà impossibile visto che ho ancora molto da raccontare. Ogni volta che inizio a scrivere un capitolo mi sembra quasi che siano i protagonisti stessi a raccontarmi la loro storia, con più particolari ogni volta, facendomi produrre capitoli che nella mia mente erano del tutto... inaspettati! Spero mi sopporterete ancora un po'! Questo è tutto... alla prossima! <---

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Capitolo 32
*** Surprising Party (Festa con Sorpresa) ***


32.  Surprising Party (Festa con Sopresa)

Alla fine, il giorno del compleanno di Kyle è arrivato. Sono le dieci di mattina e il ragazzo è ancora a letto, ad occhi aperti fissa svariati punti nella penombra della sua camera. La finestra non è ancora stata aperta, la porta della sua camera è socchiusa, esattamente come la trova ogni mattina. All’apparenza è un giorno come un altro, proprio questo dà segnale a Kyle che qualcosa sia irrimediabilmente cambiato.

Fino allo scorso anno veniva svegliato non più tardi delle nove da Christian, che lo chiamava dall’altra stanza invitandolo ad alzarsi per fare colazione. In sala poi avrebbe trovato la sua sorpresa e avrebbe infine ricevuto gli auguri dei suoi genitori e dato i suoi a Jonathan.

Sospira e si mette a sedere, non vuole accendere la luce, non ancora.

“E se si fosse dimenticato che giorno è oggi?” 

Pensa intimorito. I suoi pensieri sono in conflitto; da un lato non vorrebbe festeggiare il compleanno. La mancanza di Jonathan e quel clima triste e doloroso rovinerebbero l’intera giornata. Dall’altro lato però soffrirebbe se Christian si fosse dimenticato della ricorrenza. Dopotutto è pur sempre un ragazzo, ha solo sedici anni e a quell’età si ha un irrefrenabile desiderio di diventare adulti, si pronuncia la propria età a gran voce e il giorno del compleanno è troppo importante per non essere vissuto.

Si fa forza, punta i piedi a terra e si alza da letto. Non accende la luce, si avvicina invece alla finestra per aprirla. Il clima fuori è tipicamente estivo, caldo torrido e sole cocente.

Rimane qualche istante davanti alla finestra aperta con i gomiti appoggiati al davanzale, ad occhi socchiusi. Non pensa a niente e si sente bene, terribilmente bene.

Quel suo attimo di riposo viene interrotto dal cellulare, che inizia a suonare. Scrolla il capo e chiude le finestre.

Non si ricorda dove ha lasciato il telefono la sera prima, è rimasto alzato fin tardi poiché aveva visto finire un programma televisivo iniziato in seconda serata. I suoi abiti sono ancora sul pavimento: i jeans a tre quarti sono rimasti davanti alla porta, la t-shirt è poco distante dal letto. Si sorprende del fatto che Christian non abbia raccolto i panni da terra e non  li abbia sistemati sulla sedia, come è solito fare nella sua visita notturna durante la quale si assicura che Kyle stia bene e che stia dormendo. Forse perché è andato a letto prima quella sera o forse perché c’è qualcosa che non va.

Kyle è propenso a sostenere la seconda ipotesi. Sa bene che Christian è un vero e proprio maniaco dell’ordine, ha avuto e ha spesso conflitti con lui riguardo alla sua camera in perenne disordine, un singolo calzino fuoriposto lo fa imbestialire. Se non si è preoccupato del disordine quando ha avvicinato la porta di Kyle quella mattina, probabilmente aveva in testa ben altro.

Ad ogni modo, il telefono ha smesso di suonare. Kyle si inginocchia sul pavimento e recupera i jeans. Inizia a tastare e lo trova in una delle tasche laterali.

Si trattava semplicemente di un messaggio. Prima di leggerlo fa qualche ipotesi riguardo al mittente. Potrebbe essere Jonathan. Kyle è sicuro che almeno lui non si sia dimenticato della ricorrenza, dopotutto il loro compleanno cade nel medesimo giorno. Sarebbe molto strano leggere un messaggio di auguri da parte di Jonathan, doloroso in qualche modo. Questo perché Kyle, in cuor suo, spera ancora di aprire la porta e trovarlo seduto sulla sua sedia preferita del tavolo da pranzo a leggere il giornale, facendo del suo meglio per fingere di ignorarlo e alzando di tanto in tanto gli occhi per vedere una sua reazione al pacchetto opportunamente adagiato sul tavolo.

Tende l’orecchio verso la sala da pranzo e non si sente alcun rumore, nemmeno quello delle pentole di Christian.

“È inutile che mi illuda, lui non è qui e non verrà.” 

Pensa alla fine, completamente afflitto e distrutto dall’idea. Piangerebbe se un grosso nodo in gola non glielo impedisse. Non si ricorda di aver mai versato una lacrima il giorno del suo compleanno da quando vive con Jonathan e Christian. Piangeva ogni anno all’orfanotrofio nel quale aveva passato i primi quattro anni della sua vita. Non era più successo però da quando Jonathan l’aveva portato a casa con sé, quel pomeriggio di dieci anni prima.

Un altro possibile mittente è Morgan. Non si parlano da qualche giorno eppure spera di ricevere almeno un messaggio d’auguri da parte sua. Dopotutto, è l’unica amica che ha. Scuote il capo e decide che è inutile stare a pensare e fare ipotesi, preme il bottone di conferma e legge il messaggio. Il mittente è Daniel.

Ciao Kyle! Tanti auguri di buon compleanno. Sedici è un gran numero, festeggiali come si deve mi raccomando!” 

Daniel Owens. Da tanto tempo non lo sente nominare, veniva spesso a casa sua e per quanto ne sa la frequentava da ancora prima che lui stesso vi abitasse. È un ragazzo otto anni più grande, a cui Christian dava ripetizioni. Cerca di ricordarsi l’ultima volta in cui l’ha visto ma gli è difficile. Di sicuro prima della separazione dei suoi genitori. Il suo rapporto con lui era buono, giocavano ai videogiochi qualche volta e in passato era capitato che si fermasse a cena da loro.  Aveva iniziato a frequentare meno casa sua fino a non farsi più vedere. Christian non l’aveva più nominato, era completamente scomparso, fino a quel momento.

Ad ogni modo, risponde al messaggio ringraziandolo per gli auguri. Vorrebbe scrivergli qualcos’altro, chiedergli come se la stia passando e come mai abbia smesso di frequentare casa sua. Tuttavia gli sembra fuori luogo, non è si è preoccupato di lui fino a quel momento. Se non avesse ricevuto un messaggio da parte sua non è sicuro avrebbe riportato alla mente il suo nome tanto presto. Perciò si limita ad uno scarno messaggio di ringraziamento. Dopo aver premuto il tasto d’invio, posa il cellulare sulla scrivania, respira profondamente e apre la porta, raggiungendo la sala da pranzo.

L’intero appartamento sembra deserto. Osserva l’ambiente, accorgendosi poi di Christian, di spalle, appoggiato al davanzale della finestra accanto al tavolo da pranzo. Probabilmente è sovrappensiero e non l’ha sentito entrare in salone.

-Buongiorno Chris.
 

Esclama Kyle, per ricevere la sua attenzione. Nel frattempo si accorge che sul tavolo non c’è nulla per lui e il fatto Christian non si sia precipitato a fargli gli auguri, lo ferisce terribilmente.

-Oh tesoro! Buongiorno! Vado subito a prepararti la colazione, siediti. 

Risponde. A giudicare dalla sua voce sembra completamente perso. Passa accanto a Kyle e si dirige in cucina, senza degnarlo di uno sguardo. Kyle si siede, paralizzato. Non può credere che quello sia veramente il giorno del suo compleanno, non è nemmeno sicuro di trovarsi nella casa giusta. Aveva temuto di notare qualche cambiamento ma mai si sarebbe aspettato qualcosa del genere. Vorrebbe alzarsi e gridare a Christian:

Ehi? Mi vedi? Oggi è il mio compleanno.” 

Si morde un labbro e si ritiene così superficiale. Non è solo il suo compleanno, è anche quello di Jonathan. Christian probabilmente sta soffrendo. Lo capisce, eppure continua a ritenere quel comportamento ingiusto. Jonathan non c’è ma lui è lì, non gli ha voltato le spalle. Potrebbe almeno sforzarsi di pronunciare un fugace “auguri”. Non chiede nient’altro.

Chiude gli occhi e continua a scrollare il capo. Gli sembra di essere tornato in orfanotrofio, quando le suore erano troppo impegnate a occuparsi dei propri problemi e dei neonati per ricordarsi di fargli gli auguri. 

-Ecco qua, latte caldo e la torta di mele. Perdonami, non avevo gli ingredienti per cucinare altro.

Esclama Christian, posando una tazza e un piattino da dessert davanti a Kyle. Sparisce poco dopo e torna in cucina. Kyle è spiazzato. Certamente non ha fame, tutta quella situazione gli ha completamente tolto l’appetito. In condizioni normali divorerebbe la torta di Christian ma in quel caso l’impulso di gettarla a terra e rinchiudersi in camera è fortissimo.

-Lo so che non è molto ma ti ho preso questo.

Esclama poi Christian, posando un pacchetto rettangolare incartato con carta da pacco gialla e blu sul tavolo. Kyle fissa Christian, è confuso.

-Per il tuo compleanno, tanti auguri tesoro. 

Non sa come rispondere. I peggiori auguri mai ricevuti in vita sua. L’atteggiamento di Christian è alquanto bizzarro.

-Grazie. 

Risponde, con freddezza. Christian non si è dimenticato del compleanno ma pare quasi che non gli importi affatto. Ha posato quel pacchetto sul tavolo con poco riguardo e gli auguri hanno dato a Kyle l’idea di essere stati solamente la spiegazione alla consegna del pacchetto. Pensa che se si fosse limitato ad aprire il pacco nemmeno glieli avrebbe fatti. 

Christian si siede su di una sedia accanto a lui, sta sorridendo. Probabilmente aspetta che apra il suo regalo. Kyle esita, prende in mano il pacchetto e lo fissa. È di media dimensione, piuttosto leggero. Solo qualche istante dopo lo apre e al suo interno scopre un paio di cuffie vecchio stile nere e rosse per il lettore mp3. Le ritiene piuttosto carine, originali. Un oggetto completamente inutile visto che non ha intenzione di rimpiazzare le classiche cuffiette bianche in dotazione con il suo lettore. Tuttavia, per cortesia sorride e finge di gradire il regalo.

-Sono molto particolari, ti ringrazio Chris. 

Christian annuisce.

-Il commesso mi ha assicurato che sono compatibili con il tuo iPod. Immagino tu t’aspettassi tutt’altro regalo ma… 

Il tono di voce di Christian cambia, pare spezzato e affranto. Kyle teme di averlo ferito con suo apprezzamento visibilmente costruito. Cerca di porre subito rimedio.

-Non devi preoccuparti di questo Chris, il regalo va bene, davvero. 

Christian sorride, un sorriso triste e malinconico che Kyle, per una volta, finge di non vedere.
 

***

Una bustina bianca è posata sul tavolo dalla sera precedente.

Jonathan l’ha acquistata la sera prima con l’intento di scrivere un biglietto d’auguri per Kyle e per infilarci una banconota, il cui taglio non è ancora stato deciso. Ancora si chiede quale possa essere la cifra adatta ad essere ritenuta sufficiente e non offensiva. Siede a capotavola e osserva la busta. Non saprebbe nemmeno cosa scrivere sul biglietto. Sono già due di pomeriggio e ancora non ha fatto nulla.

Le sue intenzioni per quella giornata non erano comunque differenti, si è preso una giornata libera. Da qualche tempo sembra quasi che non gli importi più nulla del lavoro, quando invece per lui era sempre stato una priorità, messo tante volte al primo posto, motivo di diversi litigi e discussioni in famiglia. Christian gli ha chiesto più volte di prendersi la giornata libera per festeggiare il proprio compleanno e quello di Kyle, in serenità. Non l’aveva mai fatto, fino a quel momento.

Quella sua decisione è stata assurda, perché questo compleanno nemmeno lo festeggerà. Non ha nessuno con cui uscire e molto probabilmente non riceverà messaggi o telefonate d’auguri. È consapevole del suo stato di solitudine e di certo non era questo il modo in cui si era immaginato il suo quarantesimo compleanno.

Non gli è mai importato molto di festeggiare il compleanno, da quando Kyle è entrato nella sua vita poi, il suo interesse più grande è sempre stato assicurarsi che lui passasse una bella giornata. Compiere quarant’anni però è un passaggio importante, nemmeno lui sa perché. Molti vedono il compimento dei quarant’anni come l’inizio dei vari acciacchi dell’età, Jonathan non l’ha mai pensata in quel modo. Il suo malessere è iniziato prima, da mesi fa fatica ad alzarsi, la sera passano ore prima chi riesca a chiudere occhio e da qualche giorno si è deciso di utilizzare un paio di occhiali da vista, acquistati qualche mese prima, per leggere. La causa potrebbe essere imputabile all’avanzamento d’età, tuttavia tutto quello che gli è successo deve per forza avere una piccola parte di colpa.

Si alza dalla sedia sulla quale è seduto da nemmeno lui sa quanto e inizia a vagare per la casa, forse per alleviare la tensione. L’ambiente ora è più ordinato, tutto quel tempo libero gli ha concesso, ultimamente, di dare una ripulita. Si è finalmente deciso di sistemare tutto quanto, forse perché si è reso conto che difficilmente lascerà quel posto, nell’immediato futuro. Camminando, nota sul divano il quotidiano del giorno, il fattorino del palazzo gliel’ha consegnato qualche ora fa, proprio come lui stesso aveva richiesto, una volta trasferitosi nello stabile. Si siede sul divano e afferra il giornale. Fa molta fatica a leggere, riesce a distinguere chiaramente soltanto la testata e indovina giusto qualche parola dei titoli principali. Sbuffa, rassegnato. Se ha intenzione di leggere seriamente quel giornale deve mettersi gli occhiali, non ha altra alternativa. La custodia degli occhiali si trova alla sua sinistra, sul tavolino accanto al divano. Li ha lasciati lì la sera precedente. Non gli piacciono affatto e detesta indossarli. Se non fosse stato per le difficoltà di lettura delle carte al lavoro avrebbe continuato ad arrangiarsi sforzando la vista e spostando il giornale sempre più lontano perché da lontano ci vede benissimo, di fatti è ipermetrope.

Afferra la custodia degli occhiali e li estrae, delicatamente. Si tratta di una montatura piuttosto sottile, di colore nero. Non sono particolarmente alla moda. Li ha scelti solo perché sono leggeri e può facilmente dimenticarsi di averli indosso. Perlomeno, vorrebbe. Non avendo gravi problemi di miopia, si trova ad indossare una sorta di gigantesca lente d’ingrandimento, si tratta di occhiali utili solo per la lettura ed estremamente fastidiosi se ci si dimentica di toglierli. Una tortura, per Jonathan.

Una volta estratti dalla custodia, li rigira di mano in mano, quasi li studiasse. Sono esattamente identici a quelli che portava suo padre, il suo vero padre; Jonathan Wallace Sr.

Voleva un gran bene a suo padre e ha sofferto molto per la sua morte, quand’era ragazzo. Tuttavia ha sempre vissuto col timore di diventare la sua copia. Non ha mai sopportato il fatto di portarne il nome, troppe persone, conoscenti, si aspettavano da lui che seguisse le orme del padre e che iniziasse la carriera medica, si sposasse e tutto quanto.  

La prima volta che ha osservato la sua immagine allo specchio con indosso i nuovi occhiali si era spaventato, aveva fatto cadere le lenti a terra, scheggiandole. Gli era parso di vedere suo padre, così tremendamente simile, nonostante l’avesse sempre negato. Non gli dispiaceva assomigliare a suo padre, era ovviamente un uomo affascinante ed intelligente. Il vero problema era, che ancora una volta, non aveva retto il paragone. Dopo la morte di suo padre, era  fuggito da Austin per rifugiarsi nella caotica e rumorosa New York City. Lì nessuno l’avrebbe riconosciuto, nessuno se ne sarebbe uscito dicendo “Ehi, ma tu sei il figlio di Jonathan Wallace! Gran uomo tuo padre.”, facendolo sentire come un pezzo di carta straccia.

Il test di medicina l’aveva pure tentato, a New York, non si era nemmeno qualificato. Questa cosa l’aveva confessata solo a Christian, ovviamente, parecchi anni più tardi quando ormai stava diventando un affermato psichiatra di successo. Mentirebbe se affermasse di non aver nemmeno tentato di somigliare a suo padre ma il peso dell’eredità era troppo. Così Jonathan, ben conscio dei propri limiti, si era trovato una figura paterna più facile da emulare: Gregor. Con lui era stato molto più semplice e c’era riuscito, pienamente. Era sempre stato felice di ciò che era diventato, della fatica che aveva fatto ma in cuor suo sa bene di aver deluso suo padre. Non perché non è diventato medico, non perché è omosessuale ( suo padre sapeva tutto, da sempre) ma perché si è macchiato di quella stessa colpa, catalizzatrice della malattia che aveva condotto suo padre al letto di morte: l’adulterio.

Jonathan Wallace Sr. era morto per via di un lacerante tumore al fegato, che era progredito velocemente, fino a strappargli la vita nel giro di cinque mesi. Non aveva lottato, come i medici avevano dichiarato, con il male. Jonathan, il figlio, sapeva bene che era tutta colpa della relazione tra sua madre e Gregor. Aveva visto suo padre morire, svanire lentamente di giorno in giorno davanti ai suoi occhi, corroso da quel dispiacere datogli dalla persona che tanto aveva amato per più della metà della sua vita. Aveva visto gli occhi vuoti di suo padre, le sue mani ossute che carezzavano amaramente il bel viso della donna che gli tanto gli aveva dato e altrettanto gli aveva tolto.

Eppure, non si era fatto scrupoli dal riservare il medesimo trattamento a Christian.

Immediatamente ripone gli occhiali nella custodia e quasi li getta sul tavolino, dove li ha trovati. Scosta il giornale, non ha più interesse a leggerlo, adesso. Si alza dal divano e dopo essersi accertato dell’orario, prende il cellulare ed inizia a scrivere un messaggio per Kyle, nel quale lo invita a casa sua. Una volta spedito, prende il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni ed estrae una banconota da cento dollari, da inserire nella busta di Kyle. Arriva alla conclusione che, qualunque sia il taglio della banconota, di certo con quel gesto non potrà offendere Christian più di quanto abbia già fatto.

***

Kyle si è chiuso in camera. Sa bene che non ci sarà alcun ulteriore festeggiamento, per quella giornata. Se fosse rimasto in sala con Christian avrebbe finito col vedere qualche tristissimo film in bianco e nero sulla tv via cavo e non era affatto interessato.

Non pensava che realmente avrebbe sentito la mancanza dei festeggiamenti per il compleanno. Forse perché l’abitudine è in grado di rendere le cose più belle talmente comuni da darle per scontate.

È quasi stanco Kyle di rimuginare su pensieri di questo tipo. Vorrebbe tanto uscire e fare qualcosa ma cosa potrebbe fare? L’unica amica che abbia mai avuto importanza nella sua vita non parla con lui da settimane.

I pensieri di Kyle vengono interrotti dall’entrata di Christian in camera sua.

-Ti disturbo? 

Chiede, entrando delicatamente in camera, distaccandosi di poco dall’uscio. Kyle scuote il capo e gli fa cenno d’entrare. Spera che non sia venuto di nuovo per scusarsi riguardo al regalo di compleanno che in quel momento giace, semi-incartato, sulla scrivania, accantonato come un pezzo di roba vecchia.

-Non è proprio il compleanno che desideravi, vero?

Afferma, sedendosi sul letto. Kyle si mette a sedere, a gambe incrociate. Respira profondamente e si prepara a trattare quell’argomento così scontato.

-È solo diverso dagli altri, mi ci devo abituare. 

Risponde, sperando che Christian creda a quella sua affermazione e decida di lasciarlo in pace.

-No, è uno schifo, lo so. 

Ribatte, spiazzandolo.

-Chris, ti ho detto che va bene! Dai, è solo una situazione nuova… ci prenderemo la mano!

Christian scuote il capo e fa un mezzo sorrisetto. 

-Dovresti smetterla di parlare da adulto Kyle.

Kyle spalanca gli occhi. Non si era reso affatto conto di aver parlato “da adulto”.

-Vuoi che ti dica che non sono felice? D’accordo, non lo sono.

Pronuncia l’intera frase con lo sguardo rivolto verso il basso, fissando e giocherellando con le pieghe del copriletto.

-E il regalo ti fa schifo. Ammetti anche questo.

Kyle alza lo sguardo  ed inizia a gesticolare.

-Ma no! No, il regalo mi piace davvero e poi sono blu, io adoro il blu!

Christian indica le cuffie sulla scrivania. 

-Non vedo blu da nessuna parte, sono rosse e nere.

Kyle, spalanca la bocca, senza dire una parola.

-Mi hai dato una risposta abbastanza esaustiva.

Kyle abbassa di nuovo lo sguardo. Prova vergogna per la terribile figuraccia che ha appena fatto.

-Non importa, possiamo cambiarle con qualcos’altro. Dimmi cosa vuoi, davvero.  Almeno il regalo deve piacerti.

Kyle sospira. C’è qualcosa che desidera sul serio, profondamente e intimamente. Ci ha riflettuto per tutta la giornata ed è stata la prima cosa che ha pensato quella mattina. Sa bene che Christian non lo lascerà in pace finché non parlerà sinceramente, gli conviene quindi parlare da subito con chiarezza, evitando altre scuse o bugie.

-C’è una cosa che voglio tanto, veramente tanto. Non credo di aver mai voluto nulla più di questo.

Christian lo osserva. Dal suo sguardo Kyle deduce abbia inteso a cosa si riferisce ma preferisce continuare a parlare. Non ha intenzione di cadere in quella spirale di cose non dette e date per intese. Quando ci si riferisce a qualcosa, senza pronunciarlo a chiare lettere, ad alta voce, non si fa altro che alimentare la paura della cosa stessa che quando emerge, per caso o per sfinimento fa molto più male.

-Avrei tanto voluto vedervi insieme, tu e John, almeno per oggi. Non mi importa come e non avrei chiesto baci o finti sorrisi. Mi sarebbe bastato vedervi entrambi seduti in sala questa mattina.

Christian non ribatte.

-Se solo aveste accantonato per poche ore tutto quanto, per me, per farmi felice. Beh, avrei avuto il compleanno più bello. Ecco tutto…

Conclude, tornando a fissare il copriletto. Per qualche secondo regna il silenzio. Nessuno dei due osa parlare. Probabilmente tutti gli argomenti si sono esauriti. Quel silenzio terrificante viene interrotto dalla suoneria del cellulare di Kyle. Il ragazzo si alza e va subito a prendere il telefono, posato anch’esso sulla scrivania. Si tratta di un messaggio e il mittente è Jonathan. Kyle sospira e poi lo legge tutto d’un fiato.

“Ciao piccolo, buon compleanno! Diventiamo vecchi eh! Che ne diresti di passare da me dopo cena? Rispondi presto, un bacio.”

-È lui. 

Esclama ad alta voce Kyle, squarciando il silenzio con la stessa violenza di un lampo nella notte.

-Jonathan.

Prosegue. Christian annuisce. 

-Avevo capito.

Kyle lancia il telefono sul letto e torna a sedere.

-Mi chiede di passare da lui, dopo cena.

Si aspetta una risposta di Christian, che arriva solo dopo pochi istanti. 

-Mi sembra giusto.

Si alza dal letto, sistemando accuratamente la parte di copriletto sul quale era seduto. 

-Vado a vedere se c’è qualcosa di bello, in televisione. Vieni con me?

Kyle scuote il capo. 

-No, credo resterò qui.

 

Kyle rimane in camera sua, leggendo, ascoltando musica e navigando sul web fino all’ora di cena che trascorre in modo alquanto placido. Padre e figlio parlano, di argomenti piuttosto frivoli. 

-Ti andrebbe un pezzo di torta? Quella di stamattina.

Domanda Christian, alzandosi dalla sedia per sparecchiare la tavola. Kyle annuisce. 

-Va bene. Sai che adoro le tue torte.

Christian prende tutti i piatti e poi sparisce in cucina, riemerge dopo cinque minuti con due piatti. Il primo contiene una bella fetta di torta guarnita da una montagnetta di panna montata e fragoline di bosco, il secondo piatto e incartato con la carta stagnola.

-Questa è per te, l’altra… la puoi portare a… Jonathan. Ce n’è parecchia, è un peccato buttarla e…

Kyle lo azzittisce, facendogli cenno con la mano.

-Va bene, grazie. 

Sorride. Quel gesto, seppur di pura cortesia da parte di Christian, rasserena immediatamente i suoi pensieri.

-Ti devo accompagnare io o… cosa?

Chiede,  Christian, continuando a sistemare la tavola.

-Mi passa a prendere lui, mi aspetta giù in macchina.

Dopo aver finito la torta Kyle si alza da tavola e si dirige verso il bagno per lavarsi i denti. Apre l’acqua del rubinetto ma la richiude quando sente un telefono squillare. Pensa si tratti del suo cellulare, si accorge poi che si tratta del telefono fisso, apre nuovamente l’acqua, salvo doverla richiudere solo qualche istante dopo. Christian ha alzato la voce al telefono, teme si tratti dell’ennesima discussione Jonathan.

-Che cosa?! Quando?! 

Kyle esce subito dal bagno e, tenendo ancora in mano lo spazzolino e il tubetto di dentifricio si avvicina a Christian.

-Va bene, ho capito. Si, ho capito. 

Christian sta tremando. Con una mano tiene il telefono, in una specie di morsa strettissima, con l’altra stringe il bordo del mobiletto sul quale è posata la base del telefono. Sembra quasi si stia reggendo a stenti.

-Domani mattina, va bene. Ciao. 

Riattacca il telefono e appoggia entrambe le mani al mobile. Non deve essersi accorto della presenza di Kyle.

-Chi era? 

Chiede il ragazzo. La risposta arriva subito.

-La nonna. Nonno Jack è morto, venti minuti fa.

Christian si gira verso Kyle che si spaventa nel vederlo. Ha lo stesso sguardo vuoto di un’anima persa. I suoi occhi vanno da destra a sinistra senza sosta. Christian si sposta dal telefono e va a sedersi immediatamente sul divano, dove si accascia a peso morto, senza dire un’altra parola.

-È… morto? 

Chiede Kyle con voce tremante. Christian annuisce.

-Chiamo subito John e gli dico che non andrò. 

Christian scuote il capo.

-NO! 

Urla ma senza guardare Kyle o muoversi.

-Farai quello che devi fare, io prenoterò un volo per Santa Monica, partiremo domattina. 

Pronuncia l’intero discorso a bocca quasi chiusa, muovendo appena le labbra. A Kyle sembra quasi non sia nemmeno lui a parlare, bensì una voce di qualcun altro, nascosto da qualche parte, dietro al divano.

Ad ogni modo, per evitare di dargli problemi, decide di obbedirgli, va’ a prendere il piattino con la torta, lasciato sul tavolo da pranzo e si prepara a scendere.

-Ci vediamo più tardi. 

Christian però, non risponde.

***

*Tlac*

Il rumore della chiave infilata nella toppa della porta d’ingresso fa sobbalzare Christian. Dev’essere Kyle, di ritorno da casa di Jonathan. Osserva l’orologio sopra il televisore e vede che sono solo le 21.03. Com’è possibile che sia tornato così presto?

Si gira in direzione della porta, per rimproverare Kyle di essere tornato troppo presto o di non essere andato affatto, salvo poi vederlo entrare, accompagnato da un’altra figura, che conosce fin troppo bene.

-Ha voluto  salire lui, io non ho detto niente.

Esclama Kyle, tutto d’un fiato, quasi intenda discolparsi. Jonathan chiude la porta d’ingresso e poi si avvicina a Christian. Quest’ultimo è paralizzato e lo osserva, senza dire una parola.

-Ho dovuto venire.

Afferma Jonathan, posando una mano sulla spalla di Christian. Kyle teme che da un momento all’altro  questi si alzi ed inizi a sbraitare, sbattendolo fuori di casa, senza possibilità di replica. Tuttavia, Christian annuisce e sorride, un sorriso perlopiù impercettibile.

-Se non fossi venuto, non te l’avrei mai perdonato.

 

 

---> Ed eccomi qui, dopo MESI. Evito di accampare le solite scuse (che poi non sono affatto scuse) riguardo ai miei impegni universitari. Mi limito a salutare i miei lettori (sperando di averne ancora!) augurandomi vi sia piaciuto il capitolo che avete appena letto. Eccoci finalmente nella parte finale della storia (no, non è la fine, siamo solo nella fase finale!). Questo capitolo e quello che scriverò a breve, sono stati a lungo progettati, aspettavo solo l’attimo giusto per inserirli =P Detto ciò vi do appuntamento alla prossima, bye bye! <---  

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Capitolo 33
*** Goodbye, my Father (Addio, Padre) Parte Prima ***


33. Goodbye, my father (Addio, padre) Parte Prima

Aveva dormito sul divano quella sera, anche se Kyle ha il sospetto che non abbia dormito affatto. Si era preoccupato di preparare un the per Christian (unica cosa che sapesse fare ai fornelli) e l’aveva mandato a letto, assicurandogli che si sarebbe occupato lui stesso della prenotazione del volo per la California. Si era comportato da vero e proprio capofamiglia, com’era sempre stato. Questo suo atteggiamento aveva suscitato in Kyle una tremenda nostalgia. Gli erano venute in mente tutte quelle volte in cui Jonathan era rimasto alzato fin tardi per progettare una vacanza che piacesse a lui e a Christian. Quando c’era Jonathan in casa si poteva stare tranquilli, ogni problema si sarebbe risolto, ogni desiderio (per quanto possibile) sarebbe stato esaudito. Ma ora che il problema da risolvere era Jonathan stesso, né lui né Christian erano stati in grado di trovare una soluzione. Avevano arrancato in qualche modo, fino a quel momento, alternando brevi momenti di serenità familiare al più completo sconforto e desolazione.

Ad ogni modo, la partenza si era svolta magistralmente: Jonathan aveva caricato sull’auto la valigia di Christian e quella di Kyle, che questi avevano preparato mentre lui era tornato nel suo appartamento a prendere quattro cose per il viaggio. Il viaggio verso l’aeroporto era stato a dir poco surreale. Christian non aveva parlato per tutto il tempo, salvo per chiedere a Jonathan di abbassare di qualche grado l’aria condizionata dell’auto.  Mentre Kyle aveva parlato con Jonathan di qualche programma televisivo o film, argomenti piuttosto leggeri. A Kyle era sembrato quasi stessero partendo per le vacanze estive; anche il clima aveva contribuito e la destinazione, naturalmente.

Anche al momento dell'atterraggio Jonathan aveva preso il controllo delle situazione, aveva fatto sedere Christian e Kyle e si era personalmente preoccupato di ritirare le valigie dal nastro.

Essendo la stazione aeroportuale di Santa Monica piuttosto piccola, era necessario affittare un taxi o prendere una navetta per arrivare a destinazione.

-Il nostro taxi arriverà qui fuori non prima di un’ora, c’è parecchio traffico sull’autostrada di San Diego.

Esclama Jonathan, sedendosi su un seggiolino libero, vicino a Kyle.

-San Diego? A quest’ora è impraticabile, avrebbe dovuto prendere la Lincoln Boulevard. 

Risponde Christian, uscendo apparentemente dal suo stato di catalessi. Sia Jonathan sia Kyle sembrano essere sorpresi dal sentire la sua voce.

-Beh, l’autostrada di San Diego è la via più breve, se non c’è traffico… Ad ogni modo, non ci resta che aspettare. Avete fame? 

Christian si limita a scuotere il capo.

-Si, io ho parecchia fame! 

Afferma Kyle.

-Vado laggiù al self service a vedere cosa c’è. 

Comunica Jonathan alzandosi dalla sedia.

-Davvero non hai fame, Chris? Se c’è qualche problema, posso andare io a prenderti qualcosa. 

Chiede Kyle, cercando di instaurare una comunicazione con il padre.

-Credi che mi faccia di questi problemi, Kyle? 

Risponde lui, in tono abbastanza seccato. Il suo sguardo è perso, fissa un punto da qualche parte tra il cartellone delle partenze e la scala mobile che porta allo scalo per i voli internazionali.

-Ma poi un piccolo aeroporto a Santa Monica c’è, non capisco perché si sia sempre costretti a scendere a Los Angeles.

Esclama Kyle, cercando di cambiare discorso. Christian non risponde. 

-Immagino che i voli siano limitati.

Conclude Kyle, sempre senza avere risposta da parte di Christian. Mentre osserva il padre, sempre più distratto, vede Jonathan tornare dal ristorante self-service con una busta di carta e delle lattine di pepsi.

-Eccomi qua. Ho preso tre panini diversi: uno con il prosciutto, uno con l’hot dog e l’altro… credo sia vegetariano, tofu o roba del genere.

Kyle sa bene che il panino vegetariano è stato preso da Jonathan apposta per Christian, che più volte in presenza d’entrambi aveva espresso il suo disappunto riguardo alla pessima qualità dei panini precotti degli aeroporti.

-Io prenderò quello con l’hot dog, grazie! 

Esclama Kyle.

-Io credo sceglierò quello con il prosciutto. 

Dopo aver preso il panino, Jonathan rivolge il suo sguardo a Christian, che sta guardando da tutt’altra parte, è girato a tre quarti e ondeggia con il busto, in un movimento quasi impercettibile, sguardo perso. I suoi occhi blu sembrano molto più scuri adesso e riflettono la disperazione in modo silenzioso e terrificante.

-Ne avanza uno. Lo lascerò qui, nella busta di carta, nel caso qualcuno lo volesse.

Afferma Jonathan, sempre guardando verso Christian.

 

Come previsto, il taxi era arrivato  un’ora dopo.
È tanto tempo che Jonathan non mette più piede a Santa Monica. Mentre Christian e Kyle percorrono a piedi la strada di campagna che porta alla casa dei nonni, con indifferenza, Jonathan si guarda in giro continuamente. Ricordi di ogni genere iniziano a popolare la sua mente, rivede sé stesso con Christian anni prima, le passeggiate nel campo, i baci, le risate. Scuote il capo e si blocca a metà strada, per qualche secondo. Teme che se continuasse a camminare finirebbe per cadere a terra, in preda a qualche terribile capogiro suscitato dal mescolarsi di sensazioni e rimpianti che avverte in questo preciso momento.

 -John? Tutto ok?

Chiede  Kyle, girandosi. Christian al contrario non si volta, semplicemente rallenta il passo.

-Si, tutto ok. Sono solo un po’ stanco, per il viaggio!

 Jonathan fa un respiro profondo e raggiunge Kyle e Christian.

Angela è già sulla porta di casa, sta parlando con qualcuno, che le stringe le mani. È vestita di nero, i suoi capelli bianchi sono raccolti in un ordinato chignon. Impeccabile e perfetta eppure terribilmente formale, troppo per i suoi parametri.

 -Oh, sono arrivati mio figlio e mio nipote!

Esclama, con tono pacato, intimando implicitamente al suo interlocutore di doversi allontanare. Quest’ultimo capisce, le sorride e la saluta.

 -Mamma… non so veramente cosa dire.

 Afferma Christian, quasi a bassa voce, abbracciando la madre. Un abbraccio intenso e piuttosto lungo. Subito dopo è la volta di Kyle, al quale Angela dà un bacio sulla fronte.

-Oh, Jonathan!

 Esclama infine Angela, alzando lo sguardo e accorgendosi di quella presenza per lei così inaspettata, a giudicare dal suo tono di voce. Jonathan aveva preferito non interferire con i saluti a Christian e Kyle ed è rimasto poco distante a braccia conserte, aspettando che Angela si accorgesse di lui.

-Vieni qui, su!

 Esclama, facendogli cenno di avvicinarsi. Nel frattempo Christian entra in casa, mentre Kyle si ferma sul ciglio della porta, per assistere alla scena. Jonathan si avvicina e sorride ad Angela, un sorriso triste, circostanziale.

 -Condoglianze Angela.

 La donna lo abbraccia, sorprendendolo.

 -Preferisco un abbraccio, Johnny.

 Jonathan ricambia l’abbraccio. Non si aspettava una reazione di quel tipo da parte della suocera. Sebbene avesse sempre avuto con lei un ottimo rapporto, sapeva della visita a Santa Monica di Christian e Kyle e temeva che le fossero stati raccontati fatti tali da farle cambiare idea sul suo conto. Fortunatamente, Angela non é facile da condizionare ed è indubbiamente felice di averli tutti e tre in quel giorno così importante.

 

La casa è in completo ordine. Anche questo è un campanello d’allarme. Niente riviste in giro, niente abiti sulla ringhiera della scala, niente vasi da trapiantare sul portico; tutto in ordine, pulito, asettico. L’ambiente più strano è, senza dubbio, il salone. Il pavimento è pieno di corone di fiori, mazzi o composizioni, tutti donati da conoscenti o amici di Angela e Jack.

Christian sta seduto sul divano immobile e fissa l’orologio. Sono le cinque e a breve l’ospedale porterà la salma di Jack per la veglia funebre. Angela è impegnata a pulire il tavolo della sala da pranzo, dove verrà posata la bara. Kyle gira per la stanza a leggere tutte le dediche sulle corone di fiori mentre Jonathan è seduto fuori sul dondolo sotto il portico, a fumare. Contempla il paesaggio e neanche per un secondo riesce a calmare la corrente di pensieri che gli scorrono in testa. Davanti a sé vede il grande salice sotto il quale lui e Jonathan erano soliti ripararsi dal sole nelle torride giornate estive.

Spegne la sigaretta contro il pavimento e si alza, cammina in direzione dell’albero. Una volta trovatosi al di sotto di esso sospira, il profumo della corteccia gli fa quasi perdere i sensi, un profumo forte, di resina, che credeva di aver dimenticato. Sempre ad occhi chiusi passa una mano tronco nodoso, alla ricerca di quel buco fatto da lui tanti anni prima, nel tentavo di incidere le iniziali sue e di Christian.

 

Quindici anni prima

-Che cosa stai facendo?

Domanda Christian, apparendo improvvisamente alle spalle di Jonathan. Quest’ultimo sorride, e interrompe la sua attività.

 -Quando avrò finito, lo vedrai.

 Risponde infine. Christian scuote il capo e afferra la mano di Jonathan che tiene uno di quei piccoli coltellini tascabili multiuso.

 -No, fermati.

 Jonathan non capisce, aspetta che Christian si spieghi.

 -Stavi incidendo le nostre iniziali, non è vero? Beh, non lo fare.

 -Perché no? È una di quelle cose romantiche da “film” che tu tanti adori!

 Esclama Jonathan, sorpreso.

 -Non è romantico, è dai egoisti. Scrivere il proprio nome su qualcosa è come prenderne possesso per forza, non è giusto!

 Risponde Christian, con tono serio.

 -Ma non lo stavo facendo per impossessarmi dell’albero, era solo per esprimere il nostro amore.

 Spiega Jonathan, in realtà un po’ intimorito dall’accusa di Christian.

 -No, non è così. Il nostro amore è qualcosa di… nostro, appunto. Questo albero non c’entra nulla con noi. È come se tatuassero sulla tua schiena il nome di qualcun altro, ti sentiresti violato, non sentiresti più quella parte del corpo tua.

 Jonathan sorride. I ragionamenti di Christian sono così strani, alle volte, eppure riescono sempre a toccarlo e, come in quel caso, a dissuaderlo dalle sue azioni. Si chiede incuriosito da dove Christian possa aver tratto quel suo paragone del tatuaggio sulla schiena. Richiude il coltellino e lo mette in tasca.


***

Jonathan rientra in casa, il silenzio è piombato improvvisamente. Dall’entrata intravede la bara sul tavolo, chiude gli occhi e deglutisce. Non sarà mai in grado di affrontare in modo lucido la vista di un defunto. La prima volta che ne aveva visto uno era stato nella primavera dei suoi diciotto anni, suo padre. Sposta lo sguardo, per scorgere la figura di Christian ma non lo vede. Nella stanza c’è solo Angela, seduta su una sedia, alla destra del feretro. Le sue mani sono posate sul legno della cassa e ne ripercorrono delicatamente le venature. Si tratta di una bella bara di legno di frassino, ben levigata e lucida, per quanto bella possa essere una bara. Si avvicina a lei, facendo il possibile per evitare la vista diretta con il defunto, cosa assai dura.

 -Posso fare qualcosa, Angela?

 Chiede, quasi a bassa voce. Non vuole alzare troppo il tono della voce, lo ritiene un insulto a quella situazione così gravosa. Angela scuote il capo.

 -Vai da Christian.

 Risponde lei, senza alzare lo sguardo dalla bara.

 -Si trova in cucina. Kyle invece è di sopra, ce l’ho mandato io, non voglio che veda nulla.

 Jonathan annuisce.

 -Ah e… chiudi le porte del salone, per favore.

 Aggiunge, alzando lo sguardo fugacemente.

 Jonathan senza fiatare si allontana, afferra entrambe le maniglie della doppia porta del salone e la chiude, con delicatezza.  Si dirige poi verso la cucina. Christian si trova proprio lì seduto al tavolo, a capotavola, con la testa china su dei fogli, sta scrivendo.

 -Che cosa fai?

 Chiede, sedendosi su una sedendosi su di una sedia alla sua sinistra.

 -Scrivo dei ringraziamenti, per le corone di fiori e i mazzi.

 Risponde lui con un tono stranamente tranquillo e pacato.

 -Non devi proprio farlo adesso.

 Christian alza lo sguardo. Jonathan teme di vedere lacrime su quel viso, di incontrare nuovamente quell’espressione distrutta che tanto lo ferisce. Invece, niente. Il suo viso è pulito i suoi occhi non sono gonfi, le sue labbra non tremano.

 -Sei venuto per dirmi cosa devo fare?

 Jonathan apre la bocca per parlare ma non esce alcun suono. Christian torna a rivolgere l’attenzione ai suoi foglietti di ringraziamento, ignorando completamente la presenza di Jonathan.

 -Posso fare qualcosa?

 Chiede, infine Jonathan, sentendosi quasi inutile e d’impiccio in quella situazione.

 -No.

 Risponde fermamente Christian, senza prendersi la briga di guardarlo in faccia o di aggiungere altro. Jonathan quindi si alza. Non vorrebbe farlo, vorrebbe trovare un modo per essere utile a Christian. Sembrava quasi che avesse così bisogno di lui, la sera prima. I suoi occhi imploravano aiuto, i suoi gesti erano disperati. Ora invece è fermo, impassibile, inumano.

Sapeva che sarebbe stato strano presentarsi così, di punto in bianco, a casa dei suoceri ma il tipo di reazione che aveva previsto era completamente diverso. Nessuno l’ha trattato male o insultato, nessuno l’ha ignorato. Eppure perché si sente così inutile, così estraneo a tutto quello che sta succedendo? Gli sembra quasi che tutti abbiamo un posto, tranne lui. Tutti hanno una occupazione, qualcosa da fare, tranne lui che non può fare altro se non starsene con le mani in mano a porgere conforto a tutti, senza che la sua offerta venga accettata.

Aiutare gli altri, oltre ad essere il suo mestiere, è qualcosa che gli riesce bene. Si è sempre occupato lui di tutto e non poterlo fare lo rende impotente, infelice e inutile.

 Decide infine di raggiungere Kyle al piano superiore, temendo che anche lui rifiuti la sua presenza. Il ragazzo è seduto sul letto della vecchia camera di Christian e sta sfogliando dei libri.

 -Cosa leggi?

 Chiede Jonathan entrando nella stanza.

 -Libri di scuola di Chris.

 Risponde il ragazzo, spostandosi leggermente in modo che anche Jonathan possa sedersi accanto a lui.

 -Parlano di storia dell’arte. Alcuni sono interessanti! Non sapevo che Chris sapesse anche disegnare.

 Jonathan annuisce e si siede sul letto.

 -Non è una delle attività che gli riescono meglio ma se la sa cavare.

 Kyle chiude il libro, guarda Jonathan negli occhi.

 -Il nonno è arrivato, vero?

 Chiede, cambiando immediatamente il tono della conversazione.

 -Si.

 Risponde Jonathan, preferendo non aggiungere altro.

 -Com’è? L’hai visto?

 Domanda il ragazzo, ansioso e curioso allo stesso tempo. Jonathan, ad ogni modo, non sa come rispondere. Ha evitato la vista del cadavere, ha scorto soltanto con la coda dell’occhio i suoi vestiti: un bel completo di lino beige con una camicia bianca e delle scarpe classiche marroni.

 -È… un defunto, Kyle.

 Non vuole ammettere di non aver avuto il coraggio di guardare.

 -Beh, io non ho mai visto un defunto in vita mia, John.

 Ammette Kyle.

 -Vorresti vederlo?

 Kyle scuote il capo. Jonathan avverte una strana sensazione nel riscontrare negli occhi del figlio lo stesso sguardo da bambino impaurito che aveva tanti anni prima. Gli occhi grigi di Kyle, già piuttosto grandi, si allargano, le sue narici si dilatano, il suo corpo si muove in un tremore.

 -John, perché ai funerali lasciano le bare aperte?

 Chiede poi, sempre con tono ingenuo, quasi infantile. Il cuore di Jonathan si stringe nel vederlo in quel modo. Ha bisogno delle sue risposte, ha bisogno di lui.

 -Beh Kyle, è un rito. Ci sono delle persone che vogliono poter salutare per l’ultima volta qualcuno che se n’è andato, vederlo.

 Kyle non sembra essere d’accordo.

 -Ma se una persona se n’è andata, come la si saluta? Che senso ha stare a guardare qualcuno che non c’è più, parlare a qualcuno che non può rispondere?

 Il ragionamento di Kyle non fa un piega e Jonathan si trova pienamente in accordo con le sue parole.

 -Non ha senso, hai ragione. Tuttavia in queste situazioni, la definizione di “senso” si perde. Non c’è qualcosa di giusto o di sbagliato, quando si tratta di dover dire addio ad una persona. Si cerca sempre di restare legati, in qualche modo e se questo comprende dover parlare con un corpo senza vita, va bene lo stesso.

 Kyle si avvicina di più a Jonathan e appoggia la testa sulla sua spalla. Questo suo avvicinamento sorprende il padre ma lo rende comunque felice. Non aveva un contatto fisico di quel tipo con lui da mesi.

 -Tu l’hai visto… è ancora il nonno Jack che ricordo io?

 Chiede Kyle. Jonathan è spiazzato, ancora non ha intenzione di ammettere di non aver avuto il coraggio di guardare.

 -Non l’ho guardato bene. Stavo parlando con la nonna.

 Kyle lo osserva, ancora più intensamente, forzandolo ad andare oltre.

 -Era comunque malato, Kyle.

 Per qualche istante cala il silenzio tra i due. A romperlo è Jonathan.

 -Non c’è bisogno che tu lo veda. Se vuoi parlare con lui, puoi farlo lo stesso. I funerali, le veglie, sono tutte cose che noi uomini abbiamo creato, inutili legami con l’aldilà che non conosciamo e che per questo ci spaventa. Sei libero di salutarlo come meglio credi.

 Conclude il discorso dando un bacio sulla fronte al figlio.

 Nel frattempo al piano inferiore, si sentono passi e voci di diverse persone. Devono essere conoscenti e familiari, venuti per la veglia. Jonathan scende, lasciando Kyle da solo, a riflettere. Chiude la porta e raggiunge Angela e Christian nel salotto, adibito a camera ardente.

 Christian e la madre stringono mani, abbracciano gente. Tutto fa parte del solito rito. Jonathan ne approfitta per andare a dare uno sguardo alla salma. Kyle è ancora giovane e non ritiene necessario forzarlo a vedere il corpo, probabilmente deperito, del nonno. Lui, al contrario, ha ormai quarant’anni e crede sia arrivato ormai il momento di superare quel suo disagio.

Il salotto è già pieno di gente, molti guardano e basta, altri parlano, altri ancora firmano il registro degli ospiti. Fa un respiro profondo si china per osservare. La sua reazione è piuttosto misurata. Dopo una prima visione fugace, avverte il desiderio di voltare lo sguardo ma resiste. Parte dai piedi e nota di nuovo le scarpe, marroni con i lacci e molto lucide. I pantaloni di lino beige hanno un taglio dritto e hanno una piccola cintura di pelle, della stessa tonalità delle scarpe, in vita allacciata al primo passante. Jonathan nota subito un evidente dimagrimento di Jack, che era sempre stato un uomo corpulento e in forma. La giacca, abbinata ai pantaloni, è molto classica, tre bottoni di cui solo quello centrale è allentato. I polsini  sono allacciati per mezzo di due gemelli dorati dalla forma triangolare. Sul polso destro si intravede la differenza cromatica della pelle, dovuta al costante uso dell’orologio, ora assente.

A questo proposito Jonathan si chiede per quale motivo Angela non si sia preoccupata di lasciargli il suo solito Rolex dorato al polso. Jack non era un grande amante di orologi, riteneva infatti strana l’abitudine di Jonathan di collezionarli. Tuttavia non si separava mai di quell’unico modello che possedeva. Ad ogni modo fa un altro respiro e torna a guadare. La camicia bianca è allacciata fino al primo bottone sotto il collo. Un collo magro e sottile, dal quale la pelle ambrata, nonostante la malattia, ricade mollemente.

Infine il viso. Osservarlo è una sorta di shock per Jonathan. Non vedeva Jack da almeno un paio d’anni, sapeva della sua malattia, ovviamente. Se l’avesse visto ancora in vita in quello stato, dubita l’avrebbe riconosciuto. Un viso così scarno, ossa così evidenti, mandibola che ormai non ha più una forma definita e squadrata, come un tempo. L’unica cosa rimasta identica sono i capelli, bianchi e folti.

Prima di andarsene rimane qualche istante a contemplare la salma.

 Avendo perso il padre così presto, era abituato a collezionare figure paterne, molto spesso. Mettendo da parte Gregor con il quale aveva sempre avuto un rapporto più che particolare,  Jack Simmons era stato di sicuro ciò che più si avvicinava ad un padre, per lui. Aveva accettato serenamente la sua relazione con Christian, l’aveva accolto in casa sua qualunque volta vi si presentasse, l’aveva reso partecipe dei suoi hobby, dei suoi pensieri, gli aveva persino insegnato a pescare. Tutte cose che non aveva mai avuto occasione di fare.

 Sorride, riportando alla mente ricordi felici di quei giorni trascorsi con Jack. Posa una mano sulla bara.

 -Addio Jack, grazie di tutto.

 

--> I’m back. Questi capitoli li avevo in mente da parecchio ma, inutile dirlo, non avevo mai il tempo (e a volte l’ispirazione) per produrli in modo soddisfacente. Ho preferito dividere questo capitolo in due parti, perché voglio dedicare a questa fase della storia più tempo e scrivere qualcosa di veramente fatto bene. La fine si avvicina e non ho assolutamente intenzione di scrivere qualcosa di affrettato, solo per il gusto di postare. Spero capiate la mia decisione e continuiate a seguirmi, nonostante la mia incostanza. A questo proposito voglio ringraziare per le due nuove recensioni di Ery_87 e September_Days che mi ha fatto molto piacere ricevere e leggere!

Ora, vi saluto e vi do appuntamento alla seconda parte, sperando di ricevere pareri su questa prima. A presto (spero!) <--

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Capitolo 34
*** Goodbye My Father (Addio, Padre) Parte Seconda ***


34. Goodbye, my father (Parte Seconda)

La giornata tutto sommato é passata in fretta, superati tutti i convenevoli, gli abbracci, le parole sprecate al vento. Kyle é rimasto al piano superiore per tutta la serata, mentre Jonathan si occupava di accogliere i visitatori. Christian l’ha osservato, nelle ultime due ore. Vorrebbe reputarsi sorpreso della sua presenza in quella situazione ma non lo è. Sapeva che, nonostante tutto, si sarebbe precipitato da lui. Sarebbe rimasto invece sorpreso dal contrario e se così fosse stato, forse la sua mente non sarebbe così lucida in quel momento.

È sorpreso dal suo auto-controllo, non una lacrima in tutta la giornata, né in aereo e non si ricorda neanche di aver pianto a casa. Si aspettava tutto quanto? Oppure il meltdown deve ancora arrivare? Non vuole pensarci. Anche sua madre è estremamente decisa e composta, il dolore le si legge negli occhi ma sa che non la vedrà piangere. Angela Simmons è una donna forte, non è abituata a perdere tempo in lacrime, è stata educata da genitori di vecchio stampo che le hanno insegnato a reprimere ogni tipo di emozione debole. Quando anche l’ultimo ospite è uscito di casa, Jonathan chiude la porta e si avvicina ad Angela. Christian è seduto sul divano, spostato contro la parete destra del salotto per creare uno spazio più grande nella camera ardente.

 
-Quando lo… chiuderanno?

Domanda, sfumando leggermente il tono di voce pronunciando la parola “chiuderanno”, forse non voleva che Christian lo sentisse.

-Domattina, prima del funerale.

Risponde Angela, che nel frattempo ha già afferrato una scopa e sta iniziando a spazzare il salone per toglier la polvere e la sabbia portata dai visitatori durante la giornata.

-Mamma lascia stare, faccio io.

Christian si alza, offrendosi di pulire la stanza al posto della madre, che indossa ancora  quel completo nero elegante e dei tacchi piuttosto alti.

-Oh, figurati Chris. Se non ti dispiace invece, prepareresti la cena?

Christian accetta e volge uno sguardo verso Jonathan che in quel momento sta scrivendo qualcosa al cellulare.

Avviserà qualche suo amante di non essere disponibile.”

Pensa, causticamente, sorprendendosi poi di quel suo pensiero. Proprio in quel momento Jonathan alza lo sguardo. Christian scuote il capo e si dirige verso la cucina. Non ha idea del perché quel pensiero gli sia nato proprio ora. Dovrebbe pensare a tutt’altro, dopo tutto suo padre si trova, morto, a pochi centimetri da lui. Perché non può concentrarsi su quello e smetterla di guardare Jonathan?

La cucina di Angela, come al solito, è terribilmente vuota. C’è così poco su cui lavorare. Spera di trovare un po’ di pesce fresco nel congelatore ma ci sono solo delle bistecche sottovuoto e delle scatole di piselli surgelati. Non gli sarà molto facile cucinare, quella sera.

-Te la senti di cucinare?

Christian sobbalza. La voce di Jonathan lo fa sussultare, ancora una volta. Si trova a pochi centimetri da lui, riesce a percepirne la distanza dal suo profumo. Quella situazione gli ricorda tremendamente il loro ultimo incontro; quella cena a casa, finita in modo sconsiderato.

-Si.

Risponde, freddamente.

-Posso andare a prendere una pizza. Farebbe felice Kyle, è di sopra da più di due ore…

Christian si volta verso Jonathan.

-Non credo che mia madre sia in vena di mangiare cibo take away, al momento.

Jonathan si avvicina ulteriormente, è al suo fianco ormai e lo fissa.

-Avevi avuto occasione di parlare con Jack, quando siete stati qui l’ultima volta?

Il tono di Jonathan è pacato e gentile, le sue intenzioni sembrano buone eppure non ha nessuna voglia di parlare con lui, in quel momento. Ha paura che iniziando a parlare il suo blocco emotivo potrebbe rompersi e finirebbe a scoppiare in lacrime. È riuscito a trattenersi fin’ora e non può e non deve finire in lacrime.

-Non mi va di parlarne.

Risponde, aprendo gli armadietti, ancora alla ricerca di qualcosa da cucinare.

-Di cosa ti va di parlare?

Christian scuote il capo.

-Di niente, Jonathan. Anzi, se uscissi dalla cucina mi faresti un favore, grazie.

Il suo tono è abbastanza grave e aspro. Non era suo intento comportarsi così ma non ha saputo fare diversamente. Jonathan comunque non pare colpito dalle sue parole e non si sposta di un millimetro.

-Chris, ascolta…

Viene interrotto da Angela che compare in cucina proprio in quel momento.

-Mi sono ricordata proprio adesso che… -

Si blocca.

-Oh, scusatemi, stavate discutendo?

Domanda, con tono dispiaciuto.

-No, tranquilla.

La donna prosegue a parlare.

-Oh, bene. Dicevo, mi sono ricordata ora che in casa c’è poco e niente da mangiare. Dubito che tu riesca a preparare qualcosa.

-Stavo giusto chiedendo a Christian se gli andasse di prendere una pizza.

Risponde immediatamente Jonathan, rivolgendo lo sguardo verso Christian che, al contrario, non lo guarda.

-Non credo che mia madre voglia mangiare certe schifezze, ti ho detto.

Ripete, con tono seccato.

-Ma no, a me va benissimo.

Jonathan sorride.

-Perfetto, vado a prenderle io.




La cena, insolita come tutta la giornata, passa velocemente e così la nottata.
Christian ha dormito con sua madre ma ha puntato la sveglia alle 8, il funerale verrà celebrato alle undici e ci sono ancora le sedie da ridisporre in salotto e bisognerà accogliere il reverendo, che il giorno prima ha annunciato di aver intenzione di arrivare con mezz’ora d’anticipo per parlare con loro.
Una volta suonata la sveglia si alza dal letto. Angela dorme ancora e fa ben attenzione a non svegliarla, chiude delicatamente la porta della stanza e scende le scale. È una giornata splendida, il sole illumina completamente la casa, la porta d’ingresso è aperta e Christian scorge una figura sul portico, di spalle: è Jonathan. Non ha alcuna intenzione di parlare con lui, ha da fare. Cerca di muoversi con delicatezza ma una trave dell’ultimo gradino della scala cigola, facendo immediatamente voltare Jonathan . Christian, comunque, prosegue nel suo intento fingendo di non essersi accorto della sua presenza.

-Vedo che sei già alzato.

Afferma, entrando in casa.

-Così pare…

Risponde Christian, andando ad aprire le persiane della camera ardente, non si volta.

-Devi sistemare le sedie?

Chiede Jonathan seguendolo.

-Faccio da solo.

Risponde Christian dirigendosi sulla pila di sedie sistemate la sera prima. Si tratta di sedie di plastica bianche, noleggiate per l’occasione. Ne estrae tre e le appoggia, fa però fatica a sistemarle. Jonathan si avvicina immediatamente, per aiutarlo.

-Aspetta ti-

Christian non gli dà il tempo di parlare, con il braccio lo spinge immediatamente lontano da sé, troppo vicino, troppo insistente, troppo.

-Quale parola della frase: “Lascia fare a me.” non ti è chiara?

Urla, fissandolo con due occhi infuocati. Il suo respiro è irregolare, affannato e gesticola in modo disperato.

-Calmo, volevo solo aiutarti.

Replica Jonathan, pacatamente.

Christian sospira e si siede a terra, viso premuto contro le ginocchia, respiro sempre più affannoso.

-Chris… stai bene?

Domanda Jonathan, chinandosi.

Christian tiene il viso premuto contro le ginocchia.

-Non farmi urlare con mio padre morto sul tavolo, ti prego.

Jonathan si mette in ginocchio, vicino a Christian.

-Non era mia intenzione farti urlare, davvero.

Pronuncia queste parole con tono dolce, quasi consolatorio. Vorrebbe avvicinarsi di più, avere un qualche tipo di contatto fisico con lui ma non vuole fare mosse affrettate.

-Allora, ti prego, stammi alla larga.

Alza lo sguardo, finalmente. Jonathan si aspettava di vederlo piangere, invece no. I suoi occhi sono asciutti, completamente.

-È questo quello che vuoi?

Christian annuisce.

-Va bene.

Si alza ed esce dalla stanza, lasciando Christian da solo.


***


-Dieci minuti Kyle, preparati.

Annuncia Jonathan, scendendo dalle scale. Era salito per vestirsi e sistemarsi per il rito funebre.

Kyle è seduto sul letto. È già vestito, da quasi un’ora in effetti. Si è alzato di buon’ora. Non gli è facile dormire in un letto che non sia il suo, anche se non è stata la sua prima dormita in quel preciso letto.
Ha dormito con Jonathan, la scorsa notte. Gli è sembrato talmente strano, irreale. Non crede di aver mai dormito con Jonathan, da solo. Gli era capitato più volte con Christian quando era bambino ed era malato. Jonathan di solito abbandonava il letto per lasciargli posto è andava nella sua stanza a dormire.
Non è stato niente di speciale, avevano parlato del più e del meno per circa una ventina di minuti e poi Kyle si era addormentato.  Due ore prima, al suo risveglio, il posto accanto a lui era già vuoto.

Si alza dal letto ed esce dalla stanza. Non scende subito, si affaccia per vedere la gente che entra in casa e va a prendere posto nel soggiorno.  Controlla l’orologio, che quella mattina ha deciso di mettersi al polso. Jonathan gli ha comunicato di scendere dopo dieci minuti, tempo preciso poiché ha voluto così impedirgli di vedere quello che è sempre il momento più difficile in un funerale: la chiusura della bara.

A cinque minuti dalla chiusura, le porte di casa si chiudono. Kyle sospira e aspetta. Non scenderà finché non sentirà le parole del parroco.
È il suo primo funerale, non sa esattamente cosa aspettarsi, non sa come si svolgerà. A dirla tutta Jonathan e Christian non sono molto religiosi, di conseguenza nemmeno lui ha avuto occasione di frequentare chiese o funzioni religiose. Avrebbe voluto chiedere a Jonathan, la sera prima, quale differenza ci fosse tra l’assistere un rito funebre e una normale funzione religiosa. Dopotutto, pensa, in un funerale un parroco recita delle formule con le quali invita un ipotetico Creatore ad accogliere il defunto nel suo Regno dei cieli. Quindi, se anche soltanto si hanno dubbi riguardo all’esistenza del Creatore, a che scopo chiedere di entrare nel suo Regno? Per Kyle non ha alcun senso.
La religione non è mai stata un grande problema per Kyle, non gli è stato insegnato nulla e non ha mai sentito il bisogno di farsela insegnare. Quando da bambino aveva cercato di chiedere qualcosa ai suoi genitori, spinto dai discorsi di Morgan, riguardo alla frequentazione della chiesa, le risposte ricevute non avevano dato adito ad ulteriori domande.

-Perché noi non crediamo in Gesù?

Aveva chiesto a Christian. Questi non c’aveva pensato, aveva risposto immediatamente.

-Perché Gesù non crede in noi.

Non aveva ben capito il senso di quella risposta. All’epoca aveva solo sei, massimo sette anni,  eppure quella risposta gli era bastata per non andare oltre. Non aveva però mai sentito il parere di Jonathan a riguardo. Pensa di doverglielo chiedere, prima o poi, se capiterà l’occasione.


***

-È quasi ora.

Esclama il reverendo avvicinandosi ad Angela, ancora in piedi accanto alla bara del marito. Vicino lei c’è Jonathan, mentre Christian sta parlando con alcuni presenti.

-Lo so che in questi casi lo dicono tutti ma… Jack era proprio un brav’uomo.

Afferma una signora, sulla settantina, afferrando affettuosamente le mani di Christian.

-Grazie.

Risponde lui sorridente. È girato di spalle, dietro di lui a qualche metro c’è la bara aperta. A breve arriverà il momento che più teme: la chiusura della cassa.
Sa bene che ormai suo padre se n’è andato, che non c’è più nulla fare. Sa che quel corpo ridotto ai minimi termini e infilato in una lucida scatola di legno ormai ha la stessa utilità di una conchiglia vuota, tuttavia sentire e vedere un asse coprirgli per sempre il viso resta comunque un dolore insopportabile. Per evitare, quantomeno di assistere, ha deciso di andare ad accogliere le persone che seguiranno la funzione; ascoltando le parole della gente spera di distrarsi in qualche modo.

tic.”

Primo chiodo.

Sta parlando ancora con la signora di poco fa ma non sente più nulla.

tic.”

Secondo chiodo.

Il rumore gli penetra nel cervello e risuona all'infinito.

tic.”

Terzo chiodo.

Questa volta colpisce il cuore: sensazione insopportabile. Sembra quasi che quel chiodo sia stato inserito nel suo stesso petto. Ne manca soltanto uno.

tic

Quarto chiodo.

La fine. Christian si sente mancare. Batte gli occhi con violenza per evitare che si chiudano. Ci sono ancora delle persone che stanno parlando con lui, alla signora di poco prima se n’è aggiunta un’altra ma non sente nulla, solo il rimbombo terribile dei chiodi, anche il respiro comincia a mancargli.

Avrebbe dovuto sedersi.

-Mi dispiace interrompervi ma il funerale sta per iniziare.

Una voce forte, imponente. Quella l’ha sentita. Con la coda dell’occhio vede una mano, posata sulla sua spalla: è Jonathan.

-Vieni a sederti.

Sussurra.

Christian annuisce. Sta ritornando in sé, deve farlo. Segue Jonathan e va’ a sedersi in prima fila, accanto alla madre. Jonathan aspetta che Christian si sieda, prima di prendere posto. Una volta fatto si accomoda, lasciando una sedia libera, dove andrà poi a sedersi Kyle.

Christian osserva la sedia vuota. Le parole gli escono quasi automaticamente.

-Non lasciare posti vuoti.

Jonathan lo guarda, prima di muoversi. Evidentemente vuole una conferma.

-Siedi qui.

A quel punto si alza e va a posizionarsi su quella sedia. Poco dopo arriva Kyle.

Il funerale ha inizio, regolarmente.

Al momento del discorso degli elogi funebri, Jonathan si alza. Christian è sorpreso e si gira immediatamente verso la madre, per avere delucidazioni.

-Gli ho chiesto io di farlo. Sono certa che saprà utilizzare le parole giuste.

Sussurra Angela.
 
-Colgo l’occasione per salutarvi, di nuovo.

Jonathan è accanto al leggio dal quale il parroco ha letto poco prima un passo biblico. Prima di riprendere a parlare si mette a cercare qualcosa nel taschino. Christian immediatamente pensa che si tratti del discorso, probabilmente già preparato, se lo aspetterebbe da Jonathan. Sorprendentemente, invece, estrae una custodia marrone, dalla quale preleva un paio di finissimi occhiali che, una volta posti sul suo viso, gli conferiscono uno strano aspetto.

Ad ogni modo Jonathan si appresta per ricominciare il suo discorso e questa volta estrae dalla tasca dei pantaloni un foglietto bianco.

-Avrei voluto improvvisare qualcosa ma… beh, probabilmente non sarei riuscito a dire molto…

Christian osserva attentamente Jonathan. Non riesce a non pensare a quanto stonino gli occhiali sul suo viso. Non che gli stiano male, anzi, tuttavia sembra più maturo. Inizia inoltre a chiedersi da quanto tempo abbia iniziato a portarli. Per quanto si ricordi non ne ha mai avuto bisogno o, perlomeno, non l’ha mai dato a vedere.

-Il mio non sarà il solito discorso del tipo: “Era un brav’uomo, gli ho voluto bene. Riposa in pace, fine.” Anche perché se dicessi di aver voluto bene da subito a Jack, mentirei.  Aveva il brutto vizio di mettermi  i bastoni tra le ruote, dico sul serio.

A quel punto una risata generale sorge da parte dei presenti. Anche Christian, involontariamente, sorride riportando alla mente i primi incontri tra Jack e Jonathan.

-Lo faceva, peraltro, in modo insospettabile. Durante il nostro primo incontro ero convinto di aver fatto un’ottima impressione e invece no. Non so quanti “giochetti” o “test” ho dovuto superare, prima di andargli a genio.  Questo perché aveva anche il brutto vizio di proteggere la sua famiglia.

Jonathan smette di parlare e, per qualche secondo, il silenzio nella stanza sembra addensarsi.

-Voleva essere certo che ogni nuova entrata, ogni nuovo “personaggio”, fosse sicuro e affidabile. Di conseguenza, però, una volta entrati nelle sue preferenze ci si trovava come in un porto sicuro.

Si ferma per qualche istante, deglutisce e apparentemente cerca coraggio per proseguire.

-Ho perso anch’io mio padre, tanti anni fa. Ero solo un ragazzino a quel tempo e… avrei avuto bisogno di lui per molto altro tempo. Onestamente credo che il tempo concessoci con i nostri genitori, per quanto lungo possa essere, non sia mai abbastanza.

La commozione nella voce di Jonathan è evidente ma riesce, in qualche modo, a controllarsi e proseguire.

-Ho detto che non volevo cadere nei cliché ma credo farò uno strappo alla regola: in Jack ho ritrovato un padre. Jack mi ha insegnato che… la famiglia è il più importante dei legami umani, che si tratti di sangue o di… cuore.

Pronunciando l’ultima parola si tocca il petto. Christian si trova rapito dalle parole di Jonathan. I suoi sensi sono confusi ed è pur sempre al funerale di suo padre… tuttavia crede che anche in circostanze diverse, nonostante tutto ciò che possa essere successo tra lui e Jonathan, le parole di quest’ultimo siano sincere e sentite.

-Non ho avuto mai occasione di ringraziarlo per tutti i consigli, l’affetto e l’attenzione che mi ha sempre dato ma so che qualsiasi ringraziamento lo avrebbe imbarazzato. Jack era così: era un uomo di vecchio stampo, dalla scorza dura e il cuore grande. Era perfettamente in grado di accettare la relazione tra me e Christian ma… che non gli si dicesse “Ti voglio bene!”

Ancora una volta sale una risata generale che interrompe, momentaneamente, il discorso di Jonathan, ormai sul finire.

-Così… chiudendo il discorso non dirò “Grazie” a pieni polmoni, perché ho deciso di tenerlo per me, dirò solo: “Buon viaggio vecchio mio, stammi bene.”

Prima di mettersi a sedere, si avvicina alla bara e la accarezza, il suo ultimo vero saluto a Jack. Non appena torna a sedere, Angela lo guarda sorridente e gli fa una carezza, poi si avvicina al suo orecchio e, con la stessa dolce premura sussurra “Grazie a te”.

La funzione termina dopo circa dieci minuti e arriva, quindi, l’altro momento insopportabile nei funerali: la marcia verso il cimitero. Jonathan, essendo robusto e forte viene immediatamente scelto per essere uno dei quattro portantini della bara. Dietro alla bara seguono: Angela, Christian e Kyle. Angela è tenuta sottobraccio da Kyle, mentre Christian cammina solo, a poca distanza dai due.

Una volta arrivati al cimitero, il funzionario funebre distribuisce ai presenti le rose rosse, ultimo omaggio per il defunto. La prima a posarla è Angela che manda un bacio alla bara, il secondo è Kyle e seguono tutti gli altri presenti. Christian decide di essere l’ultimo a salutare il padre e con lui Jonathan, che lo farà poco prima di lui. Quando tutti ormai hanno posato la rosa, Jonathan si avvicina alla bara e lascia cadere delicatamente il fiore, dopodiché indietreggia leggermente, per permettere a Christian di passare. Questi getta la rosa e poi, sorprendentemente, afferra il braccio di Jonathan, al quale pare voglia reggersi. Jonathan, sebbene non si aspettasse un contatto simile da parte sua, cerca di non mostrarsi troppo stupito e immediatamente mette quello stesso braccio attorno alla sua vita, portandolo a sé.

La bara scende, lentamente, accompagnata dal solo cigolio del macchinario che la porta verso il basso e i singhiozzi di qualcuno dei presenti.
Kyle abbraccia la nonna e osserva la scena con sguardo fisso e vigile. Christian, invece, non riesce a sopportarlo e nasconde il viso, premendolo contro il petto di Jonathan, che subito gli accarezza il capo, nel tentavo di confortarlo.

-Dimmi solo quando è tutto finito.

Sussurra, quasi impercettibilmente, irrompendo poi in un singhiozzo disperato.

-Tranquillo.

Risponde Jonathan, con voce altrettanto bassa, in un certo senso sollevato nel vederlo finalmente piangere.




---> Non vi aspettavate che tornassi, vero? Beh intanto spero che qualcuno abbia tenuto nel cuore la mia storia. L'ho trascurata e non ho scuse. Mi sono sucesse delle cose (belle, perlopiù) che mi hanno completamente assorbita, non lasciandomi neanche un briciolo di voglia di proseguire. Non che non ci pensassi, ovvio, semplicemente ho dato priorità ad altro e beh... avrei potuto fare l'una e l'altra cosa. Detto ciò, sono contenta di poter dire che finalmente ho ripreso in mano questa storia. Al momento sto cercando di collegare quei (numerosi!) spezzoni che ho scritto in tutto questo tempo di assenza, per formarne dei capitoli coerenti e soprattutto di senso compiuto! Proprio oggi ho scritto delle nuove parti, che verranno immediatamente dopo questo capitolo. Nutro la speranza di pubblicare il capitolo 35 la prossima settimana, al massimo. Vi ho già detto che inizialmente avevo progettato di finirla al capitolo 35? Beh alla fine per forza di cose credo che terminerà al capitolo 40. Non manca molto, no. Quindi se qualcuno ancora legge... chiedo pazienza, di nuovo! "I'm here to stay", mi verrebbe da dire.
Ad ogni modo due paroline su questa parte della storia... Un buon 80% è stato scritto immediatamente dopo la pubblicazione dell'ultimo capitolo, infatti ho dovuto rileggere e correggere tutto quanto (nonché riprendere in mano tutta la storia, per evitare di fare qualche erroraccio!) un 15% è stato scritto lo scorso autunno e il restante 5%, beh una decina di minuti prima di postarlo qui su EFP ^^ . Ho cercato di rimanere nei miei "canoni" e spero abbiate apprezzato questo, ve lo dico, breve idillio tra John e Chris. I prossimi capitoli (quello dopo si svolgerà ancora a S.Monica, principalmente) saranno più incentrati su Kyle e su quello che "ha lasciato in sospeso". Non sono solita anticipare nulla ma... credo che uno spoiler sano e non troppo rivelatore, possa aiutare a tenervi "sulle spine". Ecco, ho scritto troppo, perdonatemi. Ad ogni modo vi saluto e vi do appuntamento al prossimo capitolo. A presto! <----

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Capitolo 35
*** Harsh Words (Parole Dure) ***


35. Harsh Words (Parole dure)

È ormai calato il sole e ognuno occupa uno spazio diverso della casa. Angela è in salotto a spazzare a terra, a ripulire. I suoi movimenti sono decisi, quasi drammatici. Pare quasi che con quell’oggetto desideri spazzare via anche il dolore e lo strazio della situazione che sta vivendo. Dopo aver ramazzato tutta la stanza per ben due volte, si ferma in un angolo preciso e si china.

Una macchia scura, una macchia nera, non vuole andarsene dal pavimento.

In quel momento Jonathan, costretto nuovamente a vagare senza una posizione propria, scende la scala.

-Jonathan ho bisogno di te.

Lo chiama, Angela. Si è accorta di lui semplicemente riconoscendo il rumore dei suoi passi. Jonatha la raggiunge subito.

-Dimmi pure.

Angela si gira e lo guarda. Non si alza da terra. Ha chiamato Jonathan per un motivo ben preciso ma rimane qualche istante ad osservarlo, prima di comunicargli le sue intenzioni. Non si è ancora cambiato d’abito da dopo il funerale, i suoi capelli sono spettinati e i primi due bottoni della camicia sono allentati.

Non ha ancora avuto occasione di guardarlo con attenzione, da quando è arrivato. L’ha sempre ritenuto un uomo dallo straordinario fascino. Non è una bellezza tradizionale, forse i suoi lineamenti sono troppo marcati, gli occhi un po’ infossati e la pelle decisamente dimostra la sua età ma la sua aura ha qualcosa di straordinario, di magnetico.
Non può fare comunque a meno di notare un’espressione stanca sul suo viso, la curvatura delle sue labbra verte verso il basso, sembra quasi che i suoi occhi non possano fare a meno di fissarsi su un punto.

-Avrei bisogno che tu andassi a prendermi secchio e spazzolone, nell’armadio delle scope in cucina. Ti dispiace?

Jonathan annuisce.

-Vado subito.

Ritorna poco dopo e porge  quanto richiesto ad Angela che ovviamente coglie l’occasione per parlargli.

-Sai… c’è questa brutta macchia nera che non vuole andare via, la vedi?

Chiede. Jonathan abbassa lo sguardo e osserva nel punto preciso in cui Angela sta passando lo spazzolone. La macchia è impercettibile e fatica a vederla, dati i suoi recenti problemi di vista, tuttavia se ne accorge.

-È molto piccola. Probabilmente si tratta del residuo della gomma di qualche scarpa.

Conclude.

-Sai Johnny, non esistono macchie impossibili da cancellare. C’è sempre un rimedio per tutto. A volte è l’acqua frizzante, a volte è l’aceto. Un po’ di olio di gomito et voilà, sparita!

Jonathan sa dove vuole arrivare Angela, con il suo discorso. Sapeva che sarebbe arrivato prima o poi il momento di confronto. La morte di Jack non avrebbe occupato interamente i loro discorsi, ne era consapevole.

-Spariscono, dici?

Si siede sul divano. Si aspetta una conversazione piuttosto pesante da affrontare, sente il bisogno di fermarsi, prima che i muscoli del suo corpo lo tradiscano.

-Si. Certo, tante volte un piccolo alone rimane e in ogni caso ti ricordi, il più delle volte, l’esatto punto in cui hai trovato la macchia. Eppure nulla è assolutamente indelebile.

Angela si alza e si siede accanto a Jonathan.

-Ora bisogna solo aspettare che asciughi.

Commenta, indicando il punto in cui è stato passato lo spazzolone.

-Vogliamo smetterla di parlare per metafore?

Domanda improvvisamente Angela, girandosi verso Jonathan. Le sue parole vengono pronunciate amorevolmente e  il suo tono è materno, come sempre. Angela non  è assolutamente la classica madre o nonna d’altri tempi, eppure nonostante i capelli ben tenuti, il viso levigato e curato e i vestiti spesso giovanili, la sua sola voce e il suo sguardo dolce e carico di compassione, suggeriscono  un preminente istinto materno.

-Cosa mi vuoi chiedere?

La risposta di Jonathan arriva istantanea.  Angela sorride, più che espressione di felicità si tratta di un riflesso incondizionato. Probabilmente si aspettava quel tipo di risposta da parte di Jonathan.

-Non credo di avere nulla da chiederti, Johnny. Il matrimonio è qualcosa che si fa in due, mi capisci?

Jonathan annuisce.

-Non mi importa cosa sia successo, nello specifico. Non mi importa chi ha fatto cosa, veramente. Solo voglio metterti a conoscenza del fatto che non sopporto di vedervi in questo stato. Siete due manichini vuoti, senza espressione, senza arti. Mutilati da quello che vi siete fatti.

Il paragone di Angela colpisce profondamente Jonathan che, in quel momento, non sa come ribattere.

-Voglio anche ripeterti che, nonostante sia a conoscenza dei fatti e non me l’aspettassi da te, non provo alcun rancore. Ti voglio ancora un gran bene Johnny. Sei e resterai sempre mio genero e il padre di mio nipote. Ti parlo come una suocera o come una mamma, se preferisci.

Jonathan sorride. Sente che le parole di Angela sono sincere, non c’è nulla di circostanziale in quello che dice.

-A tutto si può porre rimedio, come ti dicevo poco fa: vale sempre la pena fare un tentativo. Ti dico solo questo. Ah e ovviamente, per favore, presta attenzione a Kyle, lo sapete entrambi che la vera parte lesa di tutta questa faccenda è lui.

Angela si alza dal divano.

-Bene, ora credo sia ora di prepararmi per andare a letto. Il salone è abbastanza pulito. Buonanotte Johnny.

Gli dà un buffetto sulla spalla poi esce dalla stanza.


***

Dopo la conversazione avuta con Angela, Jonathan sente il bisogno di vedere Christian. Non lo stava evitando, semplicemente aspettava il momento giusto di trovarsi solo con lui, per potersi confrontare, in qualche modo.

La giornata appena trascorsa è stata piuttosto pesante e insolita. Sa bene di non dover considerare quei piccoli gesti positivi di Christian come un tentativo di riavvicinamento; in situazioni come quella nulla ha senso e nulla ha un peso.
La serata è piuttosto tiepida, pur essendo luglio. Un lieve venticello solletica la pelle e provoca dei leggeri brividi, di tanto in tanto.  Jonathan si ferma, prima di scendere alla spiaggetta. Indossa ancora le scarpe eleganti che aveva per il funerale e non ha intenzione di rovinarle con la sabbia, ragion per cui si china e le toglie. Quando finalmente riesce a posare il piede nudo sulla sabbia chiude gli occhi e sospira. Da tanto tempo quei granelli sottili non solleticavano i suoi piedi. La sabbia ormai fredda della notte, ha un che di rilassante.
Cammina, dirigendosi verso la riva, dove sa che troverà Christian. C’è bassa marea e la spiaggia è piuttosto vasta. Jonathan scorge uno scoglio verso la riva, su di esso c’è lui: Christian. Lo raggiunge, a passo lento, senza dare l’idea di averlo cercato.

-Alla fine sei venuto.

Esclama Christian. Facendo sobbalzare Jonathan che si trova ancora ad almeno dieci metri da lui. Deve aver riconosciuto i suoi passi, normale, dopo tanti anni di convivenza. A quel punto smette di fingersi disinvolto e lo raggiunge.

Sembra un ragazzino, Christian, un coetaneo di Kyle. A differenza di Jonathan si è spogliato subito dei rigidi indumenti indossati al funerale. Sta seduto a gambe incrociate e indossa una felpa a manica lunga nera o forse blu, un paio di shorts di jeans e ai piedi delle ciabatte infradito, tipicamente estive.

-Da tanto non vedevo il mare…

Afferma Jonathan mentre invece osserva Christian. Christian si volta verso di lui e lo guarda; un’occhiata fugace, per poi ritornare a fissare l’orizzonte.

-Dovrai portarlo in tintoria, quel completo.

Jonathan annuisce. Osserva la roccia su cui è seduto Christian, bella e liscia, sicuramente erosa dall’infrangersi dalle onde dell’oceano.

-Fastidioso questo vento!

Afferma Jonathan, prendendo coraggio e decidendo di sedersi accanto a Christian. Quest’ultimo gli degna ancora un rapido sguardo che distoglie immediatamente.

-Non è vento… è brezza marina.

Ribatte Christian, ispirando profondamente.

-Da quando porti gli occhiali?

Domanda poi, cambiando discorso e tono. Da vago e leggero a serio e deciso.

-Qualche settimana. Sai, a quarant’anni la vista non è più così buona.

“Quarant’anni”. Jonathan pensa che non avrebbe dovuto rimarcarlo, Christian potrebbe prenderlo come una frecciatina, un rimprovero per essersi apparentemente dimenticato del suo compleanno.

-Avrei dovuto farti gli auguri …

Jonathan scuote il capo. Esattamente la risposta che si era aspettato e che non voleva sentire.

-Non ha importanza, sai che non me n’è mai fregato niente.

Inavvertitamente, appoggiando la mano destra sulla base della roccia, Jonathan tocca la mano sinistra di Christian, un contatto breve e del tutto involontario durante il quale gli pare quasi di aver avvertito una scossa. Al contrario Christian sembra non essersene nemmeno accorto.

 -Sto iniziando ad odiarti John ed è qualcosa che non avrei mai voluto.

L’affermazione di Christian, dal nulla, colpisce profondamente Jonathan che lì per lì non è in grado di ribattere. Osserva il suo interlocutore: è immobile, nella stessa posizione da circa cinque minuti, probabilmente anche da più tempo, il suo è sguardo assente e le sue braccia sono rigide. Dietro alle sue parole non c’è solo sofferenza, c’è qualcosa di più grande, di più profondo.

-... questo perché se ti odio vuol dire che ho ancora qualcosa in sospeso con te.

Prosegue Christian. Il suo discorso ha tutta l’aria di dover proseguire, per questo Jonathan aspetta a parlare.

-Io… non sarei mai, mai stato in grado di affrontare questa situazione da solo e ho contato ancora su di te. Quando ho saputo al telefono della morte di mio padre la prima persona che mi è venuta in mente sei stato tu, solo tu.

Silenzio.

-La nostra non è una storia che finisce con una porta chiusa.

Risponde Jonathan. Christian si gira verso di lui e annuisce.

-Ma è quello che vorrei.

Afferma, con un filo di voce. Sembra che gli venga difficile pronunciare quelle parole, tutto quel discorso. Soffre sillaba dopo sillaba e Jonathan lo sente, lo vede nei suoi occhi incupiti, nelle sue sopracciglia arcuate, nelle sue mani incredibilmente salde sul basamento di quella roccia. Personalmente vorrebbe che Christian smettesse di parlare.

-Ti voglio e ho bisogno di te, sempre, per ogni cosa. Mi hai abituato ad essere incompleto John; ogni azione che faccio da solo l’avverto come fatta a metà.

Jonathan non può che asserire. Lo sapeva, aveva già riflettuto sull’argomento. La sua prepotenza ha fatto si che anche nella loro storia d’amore Christian dovesse necessariamente aver bisogno di lui.  Questo perché così facendo credeva che se lo sarebbe assicurato al proprio fianco, per sempre.  Evidentemente aveva fatto male i conti…

-Eppure… ora, dopo tutto quello che abbiamo passato, averti qui vicino per me è un sollievo e una tortura al tempo stesso.

Il discorso di Christian si fa sempre più insostenibile. Jonathan teme di non essere in grado ascoltarlo interamente e non è più sicuro di sapere dove tutto questo andrà a concludersi.

-È un sollievo perché, erroneamente, penso:  “Bene, ora che c’è lui il mondo sulle mie spalle peserà meno.” Ed è una tortura perché ogni volta che mi guardi e che mi sei vicino, è come se mi afferrassi a mani salde per la gola, togliendomi anche quel poco di respiro che mi rimane.

Jonathan deglutisce. L’immagine suggerita da Christian è terribilmente angosciante , troppo.

-Stringi.  Non tanto da farmi la cortesia di uccidermi, no,tu allenti la presa quel che basta per permettermi di assistere a tutta la mia agonia. Ti piace vedermi soffrire e vuoi che anche io assista. Mi sbatti contro un muro, mi guardi e non fai altro.  La nostra storia è diventato qualcosa di malato, di insano.

Parole dure, pronunciate con tanta, troppa sofferenza. Parole che tagliano come pezzi di vetro e si conficcano nel petto fino ad arrivare al cuore creando solchi sempre più profondi e impossibili da rattoppare.

 “Malato” e “Insano” sono due aggettivi che mai e poi mai Jonathan avrebbe pensato di dover accostare alla sua relazione sentimentale, al suo matrimonio.

Dopo quello sfogo straziante e lacerante da lasciarti in brandelli, Christian rimane in silenzio. Si aspetta una risposta da Jonathan? No. Sa, deve sapere, che quanto ha appena detto è troppo grande per essere controbattuto, deve essersi reso conto che benché abbia a malapena sussurrato la sua voce è parsa a Jonathan come un grido assordante, la cui eco rimane stridente nel cervello e tortura come una larva che spinge per arrivare al nocciolo. Il nocciolo in questione è il buonsenso di Jonathan e la larva ha già compiuto il suo viaggio, è arrivato a lacerare la ragione, senza alcuna pietà.

Per circa una decina di minuti nessuno dei due parla o si muove. Dopo di che Christian si alza.

-È meglio che me ne vada a letto.

Senza dare troppo peso a Jonathan o aspettarsi una risposta si incammina verso casa.




***

Quel biglietto gli era capitato tra le mani, quel nome non aveva potuto far altro se non saltargli all’occhio. Chiunque sarebbe potuto essere l’intestatario degli altri biglietti, perfino Bin Laden (no, Jonathan non pensa sia morto veramente) e non se ne sarebbe accorto ma quel nome é forse più pericoloso di quello di qualsiasi uomo sulla terra.

Christian si avvicina a lui. Non hanno più parlato dopo la notte precedente, hanno fatto colazione insieme, si sono passati accanto diverse volte ma non una parola, non un gesto. Non è necessario parlare, dopotutto. In quel preciso momento coesistono nello stesso spazio ma non l’hanno chiesto, sperato, desiderato o programmato: è successo.

-Hai raccolto dalla posta gli ultimi telegrammi?

Domanda ora Christian, utilizzando un tono puramente formale. Jonathan non sa se rispondere. Tra quelle lettere, proprio in cima, c’è la sua. Sa bene di doverla consegnare a Christian, eppure non vuole farlo.

-Non tutti, tanti sono… pubblicità.

Una risposta esitante, stupida e decisamente poco credibile. Christian lo osserva con insofferenza, probabilmente non sospetta che gli stia mentendo oppure neanche se lo chiede più.

-Comincia a darmi questi.

Conclude, porgendo la mano. Jonathan non si muove, è fermo, impassibile.

-Qual è il problema?

Jonathan ancora non risponde, guarda Christian negli occhi e spera di convincerlo a non insistere. Non funziona, naturalmente. Christian afferra con decisione la pila di buste dalle mani di Jonathan che in quel momento molla la presa, lasciandole cadere a terra.

-Lo trovi divertente?

Domanda Christian aspramente. Jonathan si abbassa per raccogliere le lettere, prima che lo faccia Christian. Rapidamente scorge quella indesiderata e la separa dalle altre, che porge poi a Christian.

-Ecco.

Il tentativo goffo e infantile di Jonathan non ha alcun effetto, Christian se n’è accorto e lo sta scrutando con aria emblematica.

-E quella?

Jonathan scuote il capo. Sa bene di essere ridicolo e assurdo ma non ha intenzione di consegnargliela.

-Jonathan non ho cinque anni. Cosa mi stai nascondendo?

Esclama sospirando, esasperato dai gesti apparentemente assurdi di Jonathan che, alla fine, cede e gli consegna la busta. Abbassa lo sguardo.

Per un paio di istanti tra i due regna il silenzio, cala il gelo. Christian è immobile. Nella mano sinistra tiene una decina di lettere e in quella destra tremolante regge quella, per così dire, incriminata. Non una parola, non un sospiro, non un gesto che possa in qualche modo preannunciare quanto dirà a breve.

-Daniel.  Un telegramma da parte di Daniel. Era questo che non volevi vedessi?

Chiede, sventolando la busta praticamente sotto il naso di Jonathan. Quest’ultimo non risponde, guarda Christian negli occhi ed eccola là, di nuovo, la disperazione. La voce strozzata di Christian rompe il silenzio calato poco prima, con la stessa eco di gesso che stride su una lavagna e poi di nuovo silenzio. Jonathan non sa cosa dire. Il suo cervello gli aveva suggerito di impedire che Christian vedesse quel telegramma ma poi, perché?

-Non volevo che lo vedessi.

Risponde lui, senza inventiva, senza nemmeno sforzarsi di produrre una spiegazione sensata. Non che non ce ne fosse ragione ma, arrivati a quel punto, la ragione ha veramente così tanta importanza?

-Perché mai?

Domanda Christian, con tono sempre più esasperato. In cuor suo conosce la risposta ma vuole sentire la voce di Jonathan. Quel briciolo di masochismo insito nella sua persona gli impedisce di fermarsi, deve sentire, la voce di Jonathan deve pronunciare quello che già si aspetta.

-Non volevo ferirti, di nuovo.

Ecco. Come da copione. Certo Christian probabilmente si aspettava qualche parola in più ma il resto era perfetto: lo sguardo colpevole di Jonathan, il suo tono rassegnato. Si,  c’era tutto quanto.

-Perché, ti importa forse?

Jonathan non risponde. Abbassa nuovamente lo sguardo.

-Dimmi un po’: cosa cambia? Se anche tu me l’avessi dato subito, senza generare tutto questo, cosa sarebbe cambiato?

Domanda Christian passando da un tono collerico ad uno più straziato.

-Non ti sei fatto scrupoli a…

Si blocca, deglutisce. Per la prima volta dopo mesi sta per affrontare, con Jonathan, l’argomento.

-… scopartelo. Perché mai dovresti farteli, proprio ora, quando non è rimasto più niente?!

Non voleva essere così volgare ma quella parola gli è quasi uscita di bocca, senza controllo. Sospira, si morde il labbro. Il suo cuore inspiegabilmente ha iniziato a battere forte, ha paura di crollare a terra da un momento all’altro o di piangere e non vuole che lui lo veda in nessuna delle due situazioni. Cerca di farsi forza, lo guarda dritto in faccia.

-Guardami e rispondi.

Gli dice, invitandolo ad alzare lo sguardo.  Jonathan lo guarda. Questo confronto gli riporta alla mente il loro ultimo incontro. Allora come adesso sono soli, uno di fronte all’altro in una casa vuota. Tuttavia, a anche volendo non saprebbe formulare un discorso di senso compiuto.

-Bene…

Esclama Christian.

-Suppongo e suggerisco che tu abbia un volo da prendere, a breve.

Afferma. Nel frattempo si gira e posa i telegrammi su mobile, il più vicino a lui. Jonathan sa di doversene andare, l’invito di Christian è più che palese.

-… credo o meglio, sono certo, che non sarai più qui quando ritornerò dalla mia… passeggiata.

Jonathan annuisce.

-Si, esatto.

Non può fare altrimenti.

-Saluterò Kyle, da parte tua.

Dopo quest’ultima affermazione Christian si gira ed esce, più in fretta possibile, cercando di restare calmo, di non perdere la testa.

Jonathan rimane solo, nel corridoio, completamente paralizzato.  È stato sbattuto fuori, di nuovo.





---> Ta-da-dah! Eccomi ancora. Questo capitolo è fatto di spezzoni e frammenti ed è stato scritto interamente lo scorso autunno, già sistemato e corretto, ho solo dovuto rileggerlo per accertarmi che tutto filasse. Che dire… Ultimo capitolo a Santa Monica, come avevo preannunciato, finisce l’idillio e il dolore di Jonathan e Christian riemerge, più forte che mai. So che sono passati ben tre anni dalla stesura dalla storia e che forse il “colpo di scena” sull’identità della “scappatella” di Jonathan non creerà così tanto scalpore. Beh è qualcuno che è già apparso in un paio di capitoli comunque, prima fisicamente e poi è stato nominato. Vabbè, è andata così XD Purtroppo lo schema dei capitoli nella mia testa era questo e decisamente avevo preventivato di finire la storia in un annetto circa e non tre =/ Diciamo che è importante che la finisca, dai =P
Ad ogni modo… voglio ringraziare  jaryshanny per il commento: mi fa molto piacere che dopo tutto questo tempo tu sia rimasta interessata alla mia storia, spero che continuerà a piacerti.
Bene, direi che è tutto per ora. Alla prossima! =D <---

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Capitolo 36
*** Unsolved (Questioni Irrisolte) ***


36. Unsolved (Questioni Irrisolte)

Jonathan non avrebbe mai voluto scappare da Santa Monica in quel modo ma non aveva scelta. Ancora una volta si era comportato in modo sconsiderato e doveva subirne le conseguenze.

È da poco atterrato al JFK, si trova in auto e non sente ancora la voglia di partire, di tornare a casa, la sua casa. Non è ancora pronto per tornare al buio, alla solitudine, al caos. In quella casa vuota ci sono solo lui e il suo senso di colpa, col quale non sente la voglia di convivere ulteriormente.

Sospira. Sa bene di non potersene stare in quel parcheggio a lungo e rimanerci un’altra mezz’ora o cinque minuti poco cambierebbero la sua situazione.

Non aveva grandi aspettative riguardo all’esito dell’incontro involontario con Christian ma sperava, perlomeno, che le cose finissero in modo civile. Credeva che sarebbero ritornati tutti quanti sullo stesso volo e che si sarebbero salutati non come amici ma neanche come estranei.

Il viaggio in aereo è stato quanto di più terribile potesse aver vissuto. Odia volare e sapersi solo a miglia di distanza dal suolo l’aveva angosciato ulteriormente, aveva ingerito un numero spropositato di pastiglie per il mal d’aereo che, nonostante la dose massiccia, non gli avevano provocato nemmeno un minimo di sonnolenza. Al contrario inizia a sentire dei fastidiosi crampi allo stomaco, vuoto da diverse ore e seriamente compromesso da quegli pseudo farmaci. 

Ha persino tentato di accendersi una sigaretta uscendo dall’aeroporto, spenta poco dopo perché anche questa non aveva fatto che peggiorare le sue condizioni fisiche. Il pacchetto ancora nuovo giace semi-aperto sul sedile del passeggero. L’ha gettato, infastidito, salendo in auto.

Si meraviglia di non aver fumato più di un paio di sigarette a Santa Monica. Non ne aveva avuto il bisogno. Da quando è stato mandato via da casa sua, quella continua a reputare la sua vera casa, aveva preso l’abitudine di fumare circa un pacchetto al giorno. Spera di rimanere nella media delle due sigarette ma sa bene che non ci riuscirà. Dopotutto tolte quelle, quale altra soddisfazione gli rimane?

Chiude il pacchetto di sigarette e lo mette nel cruscotto. Deve mettere in moto l’auto, deve tornare in quell’appartamento. Prima di farlo però, torna a riflettere su quanto è accaduto quel weekend. Non era solo su quell’areo, no, da Santa Monica aveva portato con sé la convinzione che lui e Christian non sarebbero mai più tornati insieme. Le parole che gli aveva rivolto la sera prima erano troppo dolorose e piene di sincera sofferenza. Essendo lui il motivo della sua sofferenza non è così sicuro che per Christian sia un bene riprendere i contatti. Inizia ad avere il timore di fargli ancora del male, qualcosa di ben più terribile, da quale potrebbe non riprendersi più.

Gira la chiave e parte. Spera che il rumore dell’auto copra quello dei suoi pensieri. Il tragitto dall’aeroporto a casa sua è di circa mezz’ora eppure gli pare così vicina. Non ha pensato nulla durante il viaggio, anzi, se credesse nel paranormale, direbbe di aver vissuto un esperienza extracorporea e di essersi teletrasportato da qualche parte, in un posto dove non è concesso pensare.

Senza nemmeno rendersene conto si trova davanti alla porta del suo appartamento, prende la chiave dalla tasca della giacca e la infila nella toppa. L’odore che lo pervade, aprendo la porta, è insopportabile. L’appartamento è rimasto chiuso per due giorni e l’insieme dato  dall’aria stagnante e il legno dei mobili gli provoca bruciore alle narici. Abbandona il trolley sulla porta ancora aperta e si precipita ad aprire tutte le finestre, una volta fatto chiude gli occhi e respira.

-Dovresti imparare a chiudere le porte.

Esclama un voce alle sue spalle, una voce che riconosce fin troppo bene.

-Che cosa ci fai tu qui?

Esclama girandosi, con il sospetto di aver già riconosciuto il viso appartenete a quella voce.

-Sto partendo e anche tu, vedo…

Deduce, osservando la valigia di Jonathan abbandonata sulla soglia della porta. Quella persona è Gregory.

-Ti avevo che non ti avrei più voluto rivedere.

Ribatte Jonathan, con disprezzo.

-Oh, non mi rivedrai. Sto tornando in Texas, da tua madre…

Jonathan spalanca gli occhi. Non può credere a ciò che ha appena sentito. Eppure Gregory sembra molto convinto, è vestito piuttosto bene, curato e impeccabile, proprio come quando si è presentato per la prima volta sulla soglia della sua vecchia casa, la casa di suo padre in Texas.

-Cosa ti fa pensare che ti riprenderà con sé?

Chiede Jonathan, rimanendo sempre a dovute distanze e continuando a scrutare il suo interlocutore.

-C’è bisogno che te lo dica?

Gregory, rimasto ancora sulla soglia, si avvicina, entra nell’appartamento ed inizia a guardarsi attorno.

-Credi ancora che questa situazione sia qualcosa di passaggio?

Chiede infine indicando genericamente la stanza. Evidentemente si sta riferendo agli scatoloni mai aperti e ai pensili della cucina ancora ricoperti dal cellophane.

-Non ti ho detto che potevi entrare.

Esclama Jonathan, quasi urlando. Quell’uomo è decisamente l’ultima persona che voleva vedere in quella giornata così terribile.

-Allora… non vuoi sapere perché sono così sicuro che tua madre mi rivoglia?

Anche Gregor ignora quanto detto da Jonathan. La loro conversazione è piuttosto strana, interamente a senso unico, sembra che nessuno dei due voglia lasciare l’ultima parola all’altro.

-Io voglio solo che tu esca da questo posto.

Gregor sogghigna, fermandosi. Tra i due intercorre una distanza di circa tre metri

-“Questo posto”.  Quindi ho ragione, tu ci speri ancora.

Jonathan abbassa lo sguardo. Non può ribattere e nemmeno vuole farlo.

-Ad ogni modo torno indietro perché so che tua madre è follemente e scioccamente devota a me.

Jonathan alza lo sguardo e rivolge a Gregor una profonda occhiata di disprezzo. La conversazione è diventata fin troppo fastidiosa.

-Come pensavo lo fossi tu prima che conoscessi il tuo biondino, il tuo Christian.

Jonathan ha sempre ritenuto offensivo il modo in cui Gregor pronuncia il nome di Christian, crede che Gregory vi ponga il suo massimo disprezzo.

-Tu non torneresti mai da me, l’ho capito. Tua madre sì. 

Jonathan non può sopportare oltre. Non sa se sia per colpa del mal di stomaco, dell’astinenza da nicotina o dalla rabbia montatagli in corpo soltanto sentendo parlare quell’uomo da lui ora così indesiderato. Vorrebbe spingerlo fuori da quella casa o magari colpirlo in pieno viso con un pugno proprio come aveva fatto con Abraham Dickson e il collega di Christian. Dopo quei due episodi il meccanismo della violenza si è innescato in lui e il suo cervello non chiede altro.

-Esci immediatamente da quella porta. Le tue manovre non sono affar mio.

Gli intima a denti stretti, cercando di trattenere quel suo fortissimo impulso che lo spinge ad attaccarlo fisicamente.

-Lo sono, perché voglio farti riflettere. Ti faccio una sola piccola domanda: il tuo caro Christian è così follemente e scioccamente innamorato, al punto di tornare da te?

L’autocontrollo di Jonathan è sempre più forzato, teme di scoppiare da un momento all’altro. Preferisce non parlare, non rispondere.

-Non rispondi? Ma certo che no… perché sai che, sotto sotto, eri tu quello follemente innamorato. Andiamo Jonathan, sai bene che ti stava vicino solo perché hai portato fuori il suo bel culetto da quel buco per marchette.

Immediatamente la rabbia di Jonathan prende il sopravvento, il sangue gli arriva completamente al cervello e non è più in grado di ragionare. In uno scatto raggiunge Gregor e lo spintona fuori dalla porta.

-Chiudi la bocca!

Dopo averlo sbattuto fuori dall’appartamento lo afferra con la mano destra per il collo della camicia, la sua bella camicia di seta grigia. Tra il suo viso e quello di Gregor intercorrono circa una decina di centimetri e fa ben attenzione e guardarlo fisso negli occhi, con uno sguardo penetrante e iracondo, che Gregory pare reggere a stento.

-Sei arrivato all’ultima fase, la violenza.

Ribatte Gregor, fingendosi poco sbalordito dalla reazione di Jonathan.

-Pensi di potermi rigirare anche questa volta?

Chiede, senza mollare la presa. Gregor sogghigna compiaciuto, anche se Jonathan legge chiaramente nel suo sguardo l’incertezza.

-Voglio vedere fin dove riesci ad arrivare.

Ribatte poi. Jonathan continua a stringere poi, di colpo lo lascia andare, facendolo quasi cadere a terra. Questi fortunatamente riesce a reggersi alla parete dell’ascensore, dietro di sé.

-Sai cosa di ti dico? Non vale più la pena di confrontarmi con te. Va’ dove ti pare, fa’ quel che vuoi.

Gregory lo scruta. Deve credersi tanto furbo e probabilmente ritiene quella di Jonathan una debolezza, anziché un gesto molto intelligente.

-Lascerò che sia mia madre a sopportarti. Anzi, ti auguro che sia più brava di me nel farlo. Buona fortuna!

Esclama, chiaramente sarcastico. Dopodiché torna nell’appartamento e chiude la porta.

 

***

Kyle e Christian avevano deciso di tornare a casa in aereo, da soli. Jonathan stando a quanto aveva detto Christian ha avuto un impegno di lavoro con un cliente con urgente bisogno di assistenza psichiatrica ed era partito il giorno prima.

Naturalmente Kyle non ci crede. Sa bene che doveva essere successo qualcosa tra i due, dovevano aver litigato. Christian era insolitamente tranquillo, sorrideva troppo per essere uno a cui è appena venuto a mancare il padre.

Sull’aereo, mentre Christian dorme, Kyle inizia a riflettere riguardo a quel giorno e mezzo di coesistenza forzata dei suoi genitori. Certo, aveva visto ostilità e dolore ma… crede che se non si fosse fermato a riflettere e se il suo cervello ogni cinque secondi non gli avesse ricordato: “Non stanno più insieme”, avrebbe avuto l’illusione di essere tornato a diversi mesi prima, quando ancora tutti gli sconvolgimenti erano lontani, quando tutti erano sereni, o quasi.

Aveva sempre osservato con invidia e con orgoglio la storia dei suoi genitori;  si amavano tanto, si completavano, davano l’illusione di una famiglia ideale, nella quale qualsiasi ragazzino avrebbe voluto vivere. Aveva sempre sognato di trovare, un giorno , la persona che lo completasse esattamente com’era successo a Chris e John e, dopo la separazione, non aveva smesso di sognare. Non aveva smesso di desiderare una relazione come la loro perché, anche nel dolore, anche nella separazione, trasmettevano un sentimento d’amore inossidabile che nonostante gli ostacoli e le situazioni puntassero a distruggere, sarebbe rimasto tale per sempre.

A tale proposito, si ritrova a pensare ad Anthony. Si è lasciato alle spalle tutta la situazione, lasciandosi travolgere dagli eventi familiari e, da un certo punto di vista, gli aveva fatto comodo. Tornare a pensare ad Anthony è qualcosa di estremamente stancante, si tratta di quei ragionamenti che portano ad una decisione, qualunque essa sia, che non vuol prendere. Segretamente spera che accada ancora qualcosa a lui o nella sua famiglia, che gli permetta di accantonare ancora tutto quando. Vede quella sua decisione come un mucchio di compiti noiosi e impegnativi che deve fare in preparazione di una qualche verifica e sa bene si ridurrà a farli la sera prima della verifica stessa, compromettendo non poco la valutazione. Sa che verrà contattato ancora da Anthony se non avrà il coraggio di farlo lui stesso e che proprio su due piedi sarà costretto a prendere una decisione, probabilmente avventata e data dal caso e non ponderata e studiata, come invece avrebbe dovrebbe essere.

Sospira, in preda all’angoscia. Cerca di distrarsi osservando gli altri passeggeri sull’aereo, c’è molto silenzio e le luci si stanno spegnendo, è quasi notte infatti e pare che sia lui l’unico a non essere in grado di prendere sonno. Le hostess si fermano a chiedere ad ogni passeggero, ancora sveglio, se desideri qualcosa, che sia essa un cuscino o una bibita. Per desiderio di non essere disturbato e soprattutto di non svegliare Christian, si gira verso il finestrino dando le spalle al corridoio, cercando anche in qualche modo di riposare. Al contrario, inizia a riflettere su un’altra questione che ha lasciato in sospeso: Morgan. Non le ha più parlato dopo discussione per Anthony e crede di esser stato davvero ingiusto nei suoi confronti, considerando anche che per motivare il suo gesto la ragazza aveva confessato di avere una certa attrazione per lui. Brutto da dire ma  Kyle è certo di non provare sentimenti diversi dall’amicizia e dall’amore fraterno per Morgan. Anche questo è  un discorso difficile che dovrà affrontare con lei vis-à-vis.

 

-Kyle, tesoro, siamo arrivati.

Esclama Christian, accarezzandogli delicatamente la spalla. Alla fine è riuscito ad addormentarsi e ha dormito per circa due ore, a giudicare dal tempo del viaggio. Si stropiccia gli occhi e annuisce. Evidentemente tutto quel pensare, alla fine, è servito a conciliargli il sonno.

 

 

Arrivati a casa, Christian si mette immediatamente a sistemare le valigie e invita Kyle ad andare a letto.

-Chris forse è meglio che vada anche tu a letto, le valigie posso aspettare.

Ribatte Kyle, senza avere però alcun risultato.

-Preferisco farlo subito, sai che non mi piace vedere il disordine. Tu va’ a letto, dai.

Kyle annuisce e dopo essersi fatto una bella doccia ed essersi infilato il pigiama si mette a dormire.

Una volta a letto, come già aveva immaginato, fatica non poco a prender sonno. Sono le 22 e nonostante la stanchezza causata dal viaggio e da quelle giornate estremamente intense, sente che sarebbe perfettamente in grado di vestirsi, uscire e fare qualsiasi cosa gli passasse per la testa. Decide però di prendere il cellulare, che come al solito si trova acceso ma in modalità “silenziosa” sul comodino accanto. Nessun messaggio o telefonata, poco gli importa, dal momento in cui la sua intenzione è quella di giocare a qualche giochino scaricato come “Angry Birds” o “Tetris”. 

  Dopo aver tentato e fallito per la terza volta uno degli ultimi livelli di “Angry Birds” si arrende e quel breve momento nel quale il suo cervello gli ha permesso di dedicarsi a cose così frivole termina. Ritorna a pensare ad Anthony e a Morgan. Ritiene che sia il caso di risolvere almeno una delle faccende al più presto.

Anthony.

Si odia e vorrebbe non averlo pensato ma in quel momento è ciò che gli preme di più. Crede forse che la sua amicizia con Morgan, così longeva e forte possa aspettare e che sia comunque possibile recuperarla ma è molto meno speranzoso per quanto riguarda la sua possibile infatuazione per Anthony. Se anche veramente il ragazzo fosse stato interessato a lui dopo quel tempo di silenzio sicuramente se ne sarà fatto una ragione. Di getto afferra di nuovo in mano il cellulare e inizia a scrivere.

Dobbiamo vederci al più presto, domani.”

Invia il messaggio e subito se ne pente. Vorrebbe tornare indietro ed essere meno impulsivo. L’impulsività non è generalmente una delle sue caratteristiche principale, pensa sempre molto prima di agire, troppo forse.

Scuote il capo e appoggia il cellulare nuovamente sul comodino. Non si aspetta una risposta immediata, non si aspetta una risposta, a dirla tutta. Inizia a credere di non volerla quella risposta. Certo, è stato facile comporre una frasetta di senso compiuto e premere “Invio” ma non lo sarà altrettanto presentarsi e dirgli chiaramente ciò che deve dire. Forse la non-risposta di Anthony potrebbe essere una valida alternativa. Si mette a fissare il soffitto, sperando di prendere sonno. La porta della sua camera è semi-chiusa e filtra un leggerlo fascio di luce proveniente dalla sala, segno che Christian è ancora alzato a sistemare o chissà cos’altro. La maniacale cura per la pulizia e l’ordine era uno degli argomenti su cui i suoi genitori dibattevano più spesso. Jonathan è sempre stato un disordinato cronico ma Christian ha sviluppato nel corso degli anni una vera e propria ossessione per la pulizia. Chissà poi per quale motivo…

Di colpo, Kyle nota una luce riflettere sul soffitto. Una luce piuttosto forte, proveniente dal suo comodino. Lo schermo del cellulare si è illuminato e può significare solo una cosa: Anthony ha risposto. All’improvviso il cuore inizia a battergli all’impazzata, ad un intensità tale che lo costringe a mettersi una mano sul petto nel vago tentativo di rallentare il battito. Si alza e si mette a sedere sul bordo del letto. Non riesce bene a capirne il motivo ma dubita riuscirebbe a leggere il messaggio stando sdraiato.

Per una frazione di secondo gli balena in testa l’idea di rimandare la lettura del messaggio all’indomani, per poter dormire in pace. Crede che, in ogni caso, non dormirebbe comunque così si fa forza e prende il telefono.

Il nome del mittente, va’ da sé, è Anthony e prima di premere il tasto “leggi” sospira. Il messaggio è piuttosto breve, a primo impatto neanche una riga, dopo questa veloce considerazione legge.

Dimmi luogo e ora, ci sarò.”

Ci sarà. Questo significa che nel giro di poco meno di 24h dovrà affrontare la situazione, per un istante teme di scoppiare a piangere, spinto dal nervosismo. Non ha idea di dove possa dare appuntamento ad Anthony. Decide che lascerà a lui la facoltà di scelta.

Per il luogo non saprei, mentre per quanto riguarda l’ora direi verso le 16.”

Invia il messaggio e aspetta la risposta, questa volta con meno impazienza, sa che riceverà a breve una risposta.

A circa due isolati da casa tua c’è un cinema per film indipendenti, troviamoci lì

Kyle annuisce. Si ricorda di aver intravisto dalla strada l’insegna luminosa del cinema, il posto sarà perfetto, fa un ultimo sforzo confermando l’appuntamento, dopodiché si mette a letto e dopo un grande sospiro, riesce finalmente a prender sonno.

 

L’indomani, al risveglio, Kyle si trova a casa solo. Christian doveva recarsi in università per l’ultima fase della sessione d’esame estiva. Tutto ciò non fa che facilitargli le cose, teme non sarebbe stato in grado di nascondere l’ansia e la preoccupazione per l’incontro tanto temuto.

La scuola, inoltre, è finita da un paio di settimane e per quanto ne sia felice, avere la possibilità di distrarsi e concentrare la propria attenzione su qualcosa di diverso gli sarebbe stato utile. Un’altra cosa che rimpiange è non poter raccontare a qualcuno il proprio stato d’animo, i propri timori. Non è mai stato facile per lui farsi degli amici, degli amici veri perlomeno. Parla e scherza con tutti quanti a scuola ma la sua unica vera confidente è stata Morgan, da sempre.

Sbadiglia e si stiracchia, allungando ogni muscolo del suo corpo. Fa molto caldo in casa, Christian deve essere uscito presto e ha preferito lasciare le finestre chiuse, ragion per cui la temperatura nell’appartamento è piuttosto elevata.

Apre le finestre della sala e viene subito colpito dal sole. È quasi mezzogiorno, l’ora più calda. Christian non gli ha comunicato i suoi orari, in effetti non hanno più avuto occasione di parlarsi dalla sera prima e a giudicare dall’ordine impeccabile della casa, dev’essere andato a letto piuttosto tardi.

11.45, l’orario preciso che segna l’orologio digitale sullo schermino dello stereo. Troppo tardi per fare colazione e troppo presto per pranzare. Kyle si limita a prendere un sacchetto mezzo vuoto di biscotti al cioccolato e si tuffa sul divano. Non ha voglia di guardare la televisione, sa di per certo che non troverà nulla di suo gradimento a quell’ora, per questo motivo si limita a sgranocchiare svogliatamente qualche biscotto.

Dopo aver quasi finito il pacchetto Kyle guarda di nuovo l’orologio dello stereo, sono le 11.57 ora.

Sbuffa. Il tempo sembra non passare e si sorprende di aver divorato almeno una quindicina di biscotti in poco più di dieci minuti. Lascia cadere il pacchetto a terra, il quale va’ a finire sul tappeto. Non appena si accorge del danno compiuto, pensa alla reazione che Christian potrebbe avere davanti alle briciole. Immediatamente si alza e corre a prendere l’aspirapolvere manuale, pulisce attentamente il tappeto e il divano, non vuole sentire l’ennesima ramanzina sul disordine e la sporcizia.

Dopo aver finito di pulire guarda di nuovo l’orologio. 12.01.

È ora di pranzo ma non ha proprio fame, non dopo essersi divorato quei biscotti così voracemente. Appoggia l’aspirapolvere sul tavolino da caffè e si getta nuovamente sul divano, ancora più svogliato. Qualche istante dopo suona il telefono, un sollievo per Kyle che spera che dall’altro capo ci sia qualcuno seriamente disposto a conversare con lui.

Scatta dal divano e corre verso il mobiletto dove è situato il telefono. Prima di rispondere guarda lo schermino digitale per vedere se riesce a riconoscere il numero del mittente, sfortunatamente riesce a leggere solo la scritta “chiamata esterna”. Christian deve essersi dimenticato di pagare il servizio di rintracciabilità dei numeri di telefono, quel mese.

-Pronto?

Attende con curiosità la risposta dall’altro capo del telefono, risposta che arriva solo qualche secondo dopo.

-Ciao piccolo.

Jonathan.

-Ciao John.

Essendo il telefono un cordless Kyle ritorna a sedersi sul divano, sempre con la speranza che la conversazione sia in grado di occupare un po’ di tempo.

-Christian è in casa?

Chiede Jonathan, poco dopo.

-No, ha l’ultima fase della sessione estiva questa settimana.

Risponde Kyle, che nel frattempo si è sdraiato completamente sul divano.

-Hai bisogno di lui?

Chiede poi, senza lasciare il tempo a Jonathan di parlare.

-Si ma… non fa niente.

Il tono di voce di Jonathan è parecchio strano, sembra quasi sconfortato.

-Se non è qualcosa di privato, posso riferirglielo.

Lo invita Kyle, decisamente curioso.

-Oh… nulla di privato, nulla di importante in verità.

Dopo quella risposta Kyle decide di desistere.

-Va bene.

È strano parlare al telefono con Jonathan. C’aveva fatto quasi l’abitudine a non averlo in casa ma la comunicazione telefonica ha  sempre qualcosa di artificioso e di imbarazzante. Vorrebbe tanto restare a parlare, chiacchierare come hanno sempre fatto faccia a faccia ma allo stesso tempo non vede l’ora che riattacchi.

-Scusami se sono andato via senza salutarti a Santa Monica, ho avuto un impegno…

Sospira Kyle. Sa che non è vero, sa che se Jonathan è praticamente scappato dalla California, il vero motivo non può essere il lavoro, stesso lavoro che ha lasciato senza troppi problemi per accompagnarli al funerale di nonno Jack.

-Non ti preoccupare.

Risponde, cercando di essere più tutt’al più rassicurante.

-Stavi facendo qualcosa in particolare?

Chiede Jonathan, cambiando discorso. Evidentemente anche lui desidera avere qualcuno con cui parlare.

-No… Stavo aspettando.

Si blocca. Questa potrebbe essere l’occasione buona per parlare con qualcuno riguardo alla sua situazione con Anthony. Potrebbe riceve un consiglio, un suggerimento o semplicemente un orecchio disposto ad ascoltare.

-Che cosa?

Domanda, naturalmente, Jonathan. Kyle riflette ancora qualche istante prima di dare una risposta. Pensa che se si sfogasse con Jonathan non sarebbe giusto nei confronti di Christian. Certo, ha già accennato a Christian di tutta la vicenda di Anthony. Beh, non proprio tutta. A ripensarci gli ha solo parlato della sua “curiosità” adolescenziale, non era ancora arrivato a pensare di poter provare dei sentimenti per il ragazzo.

-… l’ora di pranzo.

Conclude, senza altre mezze parole.

-Ti annoi?

Kyle meccanicamente sorride.

-Da cosa lo deduci?

-Dal tuo tono di voce.

Risponde prontamente Jonathan.

-Mi conosci così bene?

Jonathan ridacchia.

-Perché, hai forse qualche dubbio, bimbo?

“Bimbo”. Lo chiama sempre così quando vuole prendersi gioco di lui.

-No, affatto!

Ha una strana sensazione Kyle, di calore, nel petto. Si sente felice e forse per la prima volta quella sterile conversazione al telefono è diventata meno formale. Per qualche istante gli sembra quasi di averlo lì, accanto a sé, seduto sul divano. Ha quasi l’istinto di mettersi a sedere e di guardarlo negli occhi, per vedere la sua espressione sorridente e per un secondo il telefono che ha in mano non ha la pesantezza di un macigno e quella stanza è meno vuota.

-Credi che Christian stia fuori tutto il giorno?

Chiede Jonathan, cogliendo di sorpresa Kyle.

-Si, non credo tornerà prima di sera.

Risponde, candidamente.

-Allora… non ti andrebbe di venire da me? Possiamo pranzare insieme. Ti riporterei a casa per le cinque, ho un solo appuntamento alle cinque e mezza oggi.

Kyle è molto felice per l’invito e, senza troppi pensieri, pensa di accettare. Si ricorda poi del suo appuntamento con Anthony. Per circa una decina di minuti era riuscito a non pensarci. Dovrebbe vedersi con Anthony alle quattro.

-Non… posso.

Risponde, con titubanza. Non vuole dire quale impegno abbia realmente, dal momento in cui ha deciso di non parlare della sua situazione. Tuttavia teme che Jonathan fraintenda.

-Oh, capisco.

Jonathan è chiaramente dispiaciuto, Kyle non fa fatica ad accorgersene.

-Ho da fare, nel pomeriggio. Possiamo vederci domani, o dopodomani!

Jonathan non risponde subito.

-Temo di avere la settimana piena. Troveremo un altro giorno, non importa.

Conclude, poi.

Kyle prova un terribile senso di colpa. Vorrebbe tanto vedere Jonathan e passare del tempo con lui. Quei due giorni a Santa Monica era stato fantastico poterlo riavere con sé e qualche ora in sua compagnia non potrebbe che rallegrarlo, tuttavia sa di dovere del tempo anche ad Anthony, se non altro perché è stato lui stesso ad organizzare l’incontro.

-Beh, io andrei a pranzo.

Dice, con l’intento di chiudere la conversazione. Sa di non riuscire a proseguire tranquillamente la conversazione dopo aver rifiutato quell’invito così sincero.

-Certo! Mangia qualcosa di sano, mi raccomando.

Risponde Jonathan.

-Guarderò bene nel frigorifero! A presto.

Ribatte Kyle.

-Ciao piccolo, fa’ il bravo.

Riattacca.

Kyle preme il bottone di fine chiamata e getta il telefono dall’altro capo del divano. Non ha intenzione di guardare l’orologio, sa che ora il tempo passerà ancora più lentamente.

Disteso, a braccia conserte sul divano chiude gli occhi. Non vuole addormentarsi, ha dormito abbastanza ma spera almeno di trovare un po’ di pace.

 

-- > Tanto tempo è passato dal mio ultimo aggiornamento, decisamente troppo, me ne rendo conto. Mi meraviglierei anche nel vedere qualcuno leggere (e magari commentare) la mia storia dopo tutto questo tempo. Non ho una vera e propria scusa… a parte problemi personali con quella maledetta università che pare non voglia finire mai. Comunque, non voglio ammorbare nessuno con i miei discorsi. Ho deciso di finire davvero, questa volta, la mia storia. Buona parte dei capitolo finali è già stata stesa e devo solo trovare la voglia e il coraggio per collegare tutto.

Mi sono decisa perché ieri sera ho iniziato a scrivere una sorta di “prequel” , che ho intenzione di pubblicare qui su EFP, per chi vorrà leggerlo. Quindi per ora ecco questo 36esimo capitolo che in realtà è stato scritto ma mai pubblicato la scorsa estate. Spero che qualcuno ancora si ricordi di Jonathan, Christian e Kyle.

A presto (si spera!) e grazie a chi vorrà leggere ancora. < ---

 

 

 

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Capitolo 37
*** Sorry Couldn't be enough (Scusarsi potrebbe non bastare) ***


37. Sorry couldn’t be enough (Scusarsi potrebbe non bastare)

Jonathan è seduto al tavolo da pranzo del suo appartamento. Tiene ancora in mano il cellulare con il quale ha telefonato a casa. Ha appena terminato una strana telefonata con Kyle, una telefonata che sebbene fosse stata piuttosto tranquilla, è stata del tutto inaspettata. Aveva chiamato per poter parlare con Christian.

A dirla tutta aveva composto e cancellato il numero, quel numero, almeno una decina volte prima di convincersi a premere il tasto “chiama”. La verità è che ciò che ha intenzione di dirgli è grande, troppo grande perché lo si possa fare a cuor leggero e soprattutto senza avere il diritto di esitare per un momento. Davanti a sé ci sono dei fogli, tanti fogli, probabilmente più di quanti ne servano. Si tratta dei documenti da compilare per la separazione civile.

 É passato a prenderli in mattinata in comune e ancora si chiede da dove abbia tirato fuori tutto quel coraggio.

Non avrebbe voluto farlo e quella decisione così ferma l’ha ridotto, se possibile, in uno stato di sconforto sempre più irreparabile. Prima di andare in comune ha impiegato diversi minuti ad uscire dal letto e a vestirsi continuando a ripetersi, come un mantra, che ciò che aveva deciso di fare era, alla luce dei fatti, la cosa migliore che potesse fare, la cosa più saggia.

Non la più giusta, probabilmente. Questo perché non ritiene che esista nella vita e soprattutto nelle relazioni un metro in grado di giudicare con assoluta oggettività ciò che sia giusto e ciò che invece sia sbagliato. Se ascoltasse il suo cuore ancora irrimediabilmente innamorato benché sia a pezzi, distrutto e ridotto al più logoro dei cenci, non lo farebbe mai. Ha dedotto che il suo cuore non sia il giudice migliore per aiutarlo a prendere la decisione più adatta, ha deciso di affidarsi quindi al suo buon senso.

Ha riflettuto molto il giorno prima circa i suoi ultimi incontri con Christian ed è arrivato alla conclusione che, purtroppo, l’unico modo nel quale possa aiutarlo in questo momento, con il quale riuscire a dargli un po’ di sollievo  e  permettergli di ricominciare a vivere da capo, sia quella di farsi definitivamente da parte. Per farlo deve separarsi da lui in modo concreto, in modo ufficiale.

Forse una firma in più su un foglio scritto che attesti e certifichi che tutto ciò che avevano, che tutto ciò che hanno costruito così duramente e con così tanta fatica sin dal primo giorno nel quale i loro sguardi si sono incrociati in quel bar fuori New York quindici anni prima, non esiste più potranno finalmente farsene una ragione e andare avanti.

A conti fatti non cambia nulla poiché si tratta solo di una firma eppure, mentre premeva la penna su quel foglio per imprimere l’iniziale del suo nome e il suo cognome, tale è la sua firma, gli pareva quasi di reggere tra le dita un blocco di cemento. Si è dovuto fermare dopo aver impresso un segno che ancora non aveva una forma completa, sul primo foglio. Vuole credere che qualche muscolo del suo cuore o qualche pezzo della sua anima affranta, si siano fatte forza e siano uscite dal suo respiro per poi posarsi contro la sua mano allo scopo di premerla con forza o tutt’al più di allontanarla e farla desistere.

Queste parti di sé devono essere state davvero troppo deboli perché era riuscito a completare quella prima firma e anche le successive, senza avere ulteriori difficoltà. Arrivato all’ultimo foglio, il sesto, c’aveva quasi preso gusto, aveva impilato quell’ultimo documento sopra gli altri, aspettandosi di trovarne un altro al di sotto di esso.

fine, non era del tutto cosciente di ciò che aveva appena fatto. E di questo se n’era accorto solo nel momento nel quale, intenzionato a ordinare i fogli, aveva letto con la coda degli occhi la parola “Separazione”.

Lascia cadere quel piccolo fascio di fogli sul tavolo. Uno di essi scivola fino a finire per terra, gli altri rimangono sul piano, benché scomposti. Porta una mano alla bocca, quasi tema che possa uscirne qualche parola sconveniente o patetica, che le sue stesse orecchie non hanno intenzione di ascoltare.

Si toglie gli occhiali, senza i quali ormai non è più in grado di leggere nulla, li appoggia sul tavolo e si sfrega gli occhi con incredulità. La tentazione di prendere quei fogli, stapparli e cestinarli inizia a farsi spazio nella sua testa ma non può farlo perché se lo facesse rinuncerebbe a compiere l’azione più nobile e sensata che abbia deciso di intraprendere da mesi a quella questa parte. Inizia a pensare che questa decisione, benché si tratti proprio di mettere il sigillo ardente e inapribile della parola “fine” sull’unica cosa di cui gli sia veramente importato in vita sua, potrebbe essere ritenuta l’ultimo suo gesto d’amore, un gesto che miri a porre fine le sofferenze dell’uomo che ha amato e che continua ad amare.

Sono stronzate romantiche, sono fantasie.

Pensa, colto da una travolgente ed inarrestabile ondata di realismo. Se è riuscito a prendere quei documenti, a firmarli, a decidersi veramente di trovare in fondo a quella sua mente contorta e malata la forza per prendere quella decisione, è stata solo per cercare di togliersi il proprio senso di colpa, per liberarsi da quei panni da mostro che stanno iniziando a cucirglisi addosso quasi come una seconda pelle. É di nuovo l’egoismo, il suo fottuto egoismo, a prendere il sopravvento ed è così forte e imponente al punto da oscurare qualsiasi cosa o peggio ancora a distorcerla per farla sembrare più avvenente, più allettante, più morale.

Si alza da quella sedia, divenuta d’improvviso troppo scomoda e raggiunge in gesti meccanici e quasi spontanei la giacca nella quale è certo di trovare le sigarette, unico placebo per quella sua disperazione implacabile.

***

Kyle è appena uscito di casa e, a passi lenti, sta raggiungendo il luogo nel quale dovrà incontrarsi con Anthony. Non l’ha più sentito dopo i messaggi della sera precedente, pensa che forse avrebbe dovuto mandargli un ulteriore messaggio per essere certo che nel frattempo non avesse cambiato idea, per essere sicuro che si presenterà. La verità è che aveva quasi sperato che un avviso di rinuncia arrivasse, perché lui stesso avrebbe voluto rinunciarvi ma sa bene che tra i due quello più coraggioso, quello che avrebbe avuto effettivamente la forza di farlo, non poteva che essere Anthony.

Non appena scorge l’angolo che dovrà imboccare per raggiungere quel vecchio cinema, rallenta fino a fermarsi. Non ha preparato un discorso sul quale confrontarsi con Anthony, non sa neppure se riuscirà a dire qualcosa di concreto e, a questo punto, se si presenterà.

 Perché no, non ne è sicuro.

Si sente di vivere una sensazione di dejà-vu. Gli è già capitato di tentare di raggiugere Anthony, per poi ritrovarsi a ripercorrere i propri passi al rovescio, con la coda tra le gambe, accumulando sempre più dubbi, sempre più incertezze.

Non può farlo di nuovo, non può permetterselo. La sua situazione a casa è già fin troppo complessa perché possa concedersi il lusso di creare altre faccende irrisolte al di fuori di quelle mura. Deve cercare di prendere la questione di petto, di crearsi quella dose di coraggio necessaria da solo, se proprio il suo animo non è in grado di fornirgliela.

Allunga il passo e prosegue verso il teatro. Anthony è proprio là davanti ad aspettarlo, non può essere che lui, dal momento che non c’è nessun altro. Kyle cerca di risultare più disinvolto possibile e di raggiungerlo senza mostrargli la sua esitazione o la sua paura. Tuttavia non è in grado di rivolgergli nemmeno un saluto finché non se lo trova proprio di fronte e, pure in questo caso, viene preceduto.

-Ciao.

Il saluto di Anthony è quasi destabilizzante. Kyle si aspettava di trovarlo infastidito o teso almeno quanto lui, in realtà risulta quasi dolce, una reazione verso la quale sente di essere del tutto impreparato.

-Ciao…

Ribatte, facendo il possibile per non abbassare lo sguardo, per non guardare altrove. Non gli riesce però con facilità, dal momento che i penetranti occhi nocciola di Anthony sono difficili da sostenere per più di una manciata di secondi.

-Come stai?

Chiede di nuovo Anthony con tono sempre più pacato, sempre più cordiale.

-Bene. Tu?

Kyle è molto ermetico nella sua risposta e cerca di non lasciare che si intraveda alcuna emozione in particolare. Non sarebbe in grado di emulare la pacatezza di Anthony, ne risulterebbe solo qualcosa di confuso e ben poco cordiale.

-Non male, grazie.

Dopo quella risposta il silenzio cala immediatamente diventando il terzo incomodo la cui venuta Kyle stava aspettando già dal primo momento nel quale ha posato lo sguardo su Anthony che, neanche farlo apposta, diventa di giorno in giorno più avvenente. Mentre Kyle si vede ancora come un ragazzino dal viso acerbo e dal fisico esile, Anthony è sempre più alto con spalle grandi e robuste e segni di una mascolinità adulta più che pronta ad emergere sul suo viso.

-Senti… c’è un bar qui dietro, poco popolato dove sono sicuro che potremmo parlare in pace, ti andrebbe di andarci?

É di nuovo Anthony a gettare il salvagente per evitare che entrambi affoghino in quella situazione scomoda. Kyle si limita ad annuire senza aggiungere altro e segue Anthony, fidandosi di ciò che ha appena detto.

Il locale nel quale arrivano è un piccolo bar malmesso, che pare non essere frequentato da anima viva e Kyle non stenta a crederlo, dato l’aspetto così ben poco accogliente. I due ragazzi si siedono al primo posto che balza loro agli occhi, non che sia difficile trovarne uno.

Kyle ha ordinato una granita al limone, mentre Anthony un gelato bigusto panna e caffè.

-Ci sarà da fidarsi a mangiare queste cose?

Chiede Kyle, cercando di instaurare un qualche tipo di comunicazione partendo magari, come ha fatto, da discorsi lontani e senza particolari fini.

-Oh, lo spero!

Esclama Anthony, assaggiando la prima piccola cucchiaiata del suo gelato dopodiché appoggia il cucchiaino sul tavolo, seguito da una smorfia.

-No, decisamente, no.

Kyle sorride, un sorriso spontaneo che non avrebbe forse voluto o dovuto fare vista la situazione. Tuttavia non ha potuto farne a meno.

-Sai, mi ha sorpreso il tuo messaggio. Non credevo che mi avresti più contattato…

Commenta poi Anthony, gettando finalmente luce sull’argomento per il quale si trovano uno di fronte all’altro in quel caldo pomeriggio di luglio inoltrato.

-Non lo credevo neanche io, onestamente. Solo…

Si blocca. Dal momento in cui si trova lì, tanto vale essere sinceri.

-Solo ho già abbastanza casini di mio, senza che vada a cercamene altri.

Anthony asserisce col capo, deve aver frainteso le parole di Kyle a giudicare dalla risposta.

-Quindi sono un casino da sbrigare anche io.

Kyle è decisamente stato troppo sbrigativo nella sua spiegazione, avrebbe potuto argomentarla un poco di più ed evitare di utilizzare dei termini tanto fraintendibili. Non era sua intenzione definire Anthony un “problema da risolvere”, a dirla tutta non è sua intenzione dare a nessuno un’etichetta del genere.

-No, non è questo che volevo dire.

Esclama prontamente, con il tentativo di riparare in qualche modo.

-Ma l’hai detto.

Tentativo del tutto vano. Il tono di voce di Anthony è sempre tranquillo ma meno cordiale, rispetto a poco prima. Kyle non sa come uscire da quella situazione ed inizia a pentirsi di aver dato quell’appuntamento ad Anthony, di essere così impreparato e così insicuro. Ogni sua parola ha l’effetto di una mina lanciata in un campo aperto: pronta ad essere calpestata, pronta ad esplodere.

-Forse non è stata una buona idea, venire qui.

Esordisce quindi Anthony, leggendo in parte il pensiero di Kyle. É visibilmente deluso e il suo atteggiamento è cambiato, in peggio. Si alza dalla sedia e si allontana, Kyle lo segue.

Non aveva un piano, è vero, tuttavia di certo non doveva andare così.

-Anthony, aspetta.

Lo chiama, sperando che questi si giri e lo fa, solo ci impiega qualche secondo. È probabile che fosse intenzionato ad andarsene, a tirare dritto, ignorando la voce di Kyle.

-A che proposito mi hai fatto venire qui, se non avevi nulla da dirmi?

Kyle non risponde, non sa davvero cosa dire.

-Avresti potuto continuare ad ignorarmi, davvero, non mi avrebbe dato fastidio. Dopotutto non frequentiamo nemmeno più la stessa scuola, non avresti neanche dovuto evitarmi nei corridoi o fare finta di non vedermi fuori da scuola. Mente così è stato solo… crudele, lasciatelo dire.

Kyle osserva Anthony, la discussione ha preso decisamente una brutta piega e nella sua mente non esiste o meglio, non riesce a concretizzarsi, una risposta o una frase in grado di placare la situazione, di riportala in uno stato neutro in modo di poterla ricominciare e plasmarla nella maniera più adeguata. Per cui, poiché è risaputo che le parole contino più dei fatti, benché rischi di risultare patetico, scontato o banale, riduce la distanza tra Anthony e sè e, con non poca difficoltà data la loro notevole differenza di statura, si avvicina al suo viso, alla sua bocca e alle sue labbra rubandogli un bacio, un bacio puramente adolescenziale, un bacio acerbo ma non per questo poco piacevole. Kyle tiene gli occhi socchiusi un po’ perché crede che l’etichetta in quei casi lo richieda e un po’ perché teme in una reazione brusca da parte di Anthony.

Il bacio dura  non più di una decina di secondi, benché a Kyle sembrino molti di più. Ai termine dei quali riapre gli occhi, cercando solo gradualmente lo sguardo di Anthony.

-Le parole non sono il mio forte, sono un artista è vero ma della tela per cui…

Kyle viene interrotto, questa volta è Anthony a baciarlo. Lo afferra con un solo braccio per un fianco e lo porta contro il suo petto lasciandosi andare in un bacio molto più intenso rispetto al precedente, molto più deciso al quale senza dubbio non è necessario aggiungere alcuna parola.

 

***

-Le do una B, le va bene?

Christian sta chiudendo l’ultima interrogazione della giornata, l’ultimo giorno della sessione di esami estiva. Ha sempre odiato quella particolare sessione, anche quando era lui a trovarsi dalla parte opposta della cattedra. Il ragazzo che ha appena interrogato era piuttosto pronto ma non al punto di meritarsi il massimo dei voti.

Firmando il libretto dello studente che chiaramente ha deciso di accettare il voto, si chiede se la sua scala di valutazione non sia cambiata nel corso degli anni. Si ricorda che quando ha iniziato a lavorare come professore associato gli è capitato più volte di voler dare delle A­+ mentre da qualche tempo a questa parte gli capita molto di rado.

Ad ogni modo, dopo aver stretto la mano e salutato il suo ultimo esaminando, chiude finalmente il registro e raccoglie la sua valigetta. Fa parecchio caldo quel giorno e non vede l’ora di andare a casa farsi una bella doccia, soprattutto perché è uscito molto presto quella mattina, dovendo iniziare l’appello alle 8.30. La stanchezza inizia a farsi sentire e comincia a pensare che essere rimasto alzato fino alle tre del mattino per sistemare la casa possa non essere stata una gran mossa. D’altro canto non sarebbe riuscito a dormire comunque. Teme di non aver ancora assimilato la massiccia dose di eventi che gli si sono scaraventati addosso, negli ultimi tre giorni. Eventi ai quali non alcuna intenzione di pensare per quanto possa risultargli difficile.

Chiude la porta della sua saletta di ricevimento e mette la chiave in tasca, sperando di ricordarsi di lasciarla in portineria. Gli è successo più volte di dimenticarla in tasca, di accorgersene solo a casa per poi dimenticarsela sul mobiletto del telefono e dover fare due volte il tragitto casa-università, per andare a riprendersela.

-Hai finito anche tu adesso?

Anche Ronald esce dalla sua saletta e lo raggiunge.

-Sì, l’ultimo esame! Sono ufficialmente libero fino a settembre!

Ronald sorride.

-Beato te! Io avevo così tanti iscritti a questo appello che temo non riuscirò a finire prima della fine della prossima settimana.

Commenta, con rammarico.

-Beh, buona fortuna!

Ribatte Christian, cercando di mostrarsi più spensierato possibile.

-Già…

I due percorrono il corridoio che porta alla scala principale dell’università, in completo silenzio.

-Mi dispiace davvero per tuo padre.

Esordisce Ronald, sorprendendo Christian.

-Ti ringrazio.

Ronald appoggia una mano sulla spalla di Christian e si ferma, facendo si anche lui si fermi a sua volta.

-So di avertelo già detto ma, proprio in questo momento, vorrei ricordarti che se ti va’ di parlare, di bere un caffè o chissà cos’altro io sono sempre disponibile, ok?

Christian annuisce. I due proseguono il loro tragitto, avvolti nel silenzio interrotto solo appena fuori dall’entrata principale da Christian.

-Sai, mi andrebbe proprio un caffè.

Ronald è sorpreso dalla richiesta di Christian ma non per questo si dimostra dispiaciuto né rifiuta. Al contrario gli sorride e gli indica un posto nel quale solitamente si concede una sosta, uscendo o entrando in università.

-Quindi è venuto anche lui.

Commenta Ronald, dopo aver ascoltato il discorso di Christian, relativo alle giornate precedenti, al funerale di suo padre.

-Sì e credo che sia stata davvero la cosa giusta da fare, me l’aspettavo da lui.

Confessa Christian, che non ha ancora terminato il suo caffè poiché troppo intento a giocherellare con il cucchiaino.

-In che senso “te l’aspettavi”?

Ronald non conosce, certamente, Jonathan come lo conosce Christian.

-La verità è che volevo aspettarmelo.

La frase mal formulata di Christian è decisamente poco chiara a Ronald che gli rivolge un’occhiata di sconcerto, aspettandosi una spiegazione più chiara.

-Il Jonathan che conosco e che ho sempre amato sarebbe venuto. Se anche solo una parte di quella persona fosse rimasta nell’uomo che è diventato ora l’avrebbe di certo spinto a venire, ignorando i trascorsi, mettendo in pausa tutta questa snervante e dolorosa situazione.

Spiega quindi Christian. Una spiegazione più che esaudiente, per Ronald.

-Quindi sei sulla buona strada per sistemare la faccenda?

Ronald cerca di non darlo troppo a vedere e di non utilizzare parole che facciano a capire a Christian il suo desiderio di veder chiusa per sempre la sua relazione con Jonathan. Nonostante ne abbiano già parlato e, nonostante ci sia stata quella situazione spiacevole non molto tempo prima, continua a nutrire un forte sentimento per Christian. Non ripeterebbe però il suo gesto avventato e di certo se ne guarda bene dal fare di nuovo la prima mossa, è infatti disposto a farla solo di fronte ad una situazione certa e stabile. Essere oggetto della violenza di Jonathan non è stato affatto piacevole e non ha alcun interesse nel rivivere l’esperienza.

-No.

Commenta secco Christian. La sua risposta è franca ma non per questo priva di emozione.

-Sai, ho letto l’altro giorno forse su Facebook o su qualche altro diavolo di social network, una frase che mi ha colpito e, in un certo senso, che ben ricalca ciò che sento al momento. Non starò a ripeterla, perché potrei non ricordarmi esattamente le parole, solo parlava dell’ipotesi di gettare qualcosa per terra e di romperla. Una volta gettata questa cosa per terra suggeriva di provare a chiederle scusa ma chiaramente la cosa rotta sarebbe rimasta comunque rotta, nonostante le si abbia chiesto scusa.

La risposta di Christian ha colpito Ronald, specialmente per il modo nella quale l’ha pronunciata: con chiaro trasporto emotivo e con interesse, interesse che lo capisse. Ronald non risponde, è ancora Christian a parlare, per completare o forse giustificare quanto ha appena detto.

-Mai avrei pensato di prendere in considerazione una frase proveniente dal web, dove di solito si trova solo qualche citazione mal scritta e mal di interpretata di Wilde, Bukowski o qualsiasi altro mostro della letteratura sia in voga nel periodo. Solo… questa cosa in particolare mi è rimasta impressa e mi ha fatto riflettere, forse più di quanto avrebbe fatto un discorso più ragionato e con delle metafore più complesse e ricercate.

Fa una piccola pausa, durante la quale beve tutto d’un sorso ciò che rimane del suo caffè, divenuto ormai freddo e quasi imbevibile. La pausa tuttavia non è lunga abbastanza da permettere a Ronald di intervenire o forse semplicemente ha preferito lasciare di nuovo la parola a Christian.

-Jonathan non mi ha chiesto affatto scusa. Forse non è nemmeno il caso che lo faccia ma se anche fosse, non servirebbe a nulla. Così come cercare di porre una qualsiasi pezza sul nostro rapporto. Non reggerebbe, finirebbe per bucarsi a sua volta.

Questa volta Ronald interviene, sicuro che ciò che dirà di lì a breve sarà in grado di colpire Christian.

-Con la bocca e probabilmente con il cervello dici di essere certo che non vi sia rimedio e ti credo ma… allora perché non sei pronto a lasciarlo andare? Perché non hai mai compilato i documenti per la separazione che da tempo hai chiuso in chissà quale cassetto della scrivania?

Christian che fino ad ora non aveva chiuso bocca un attimo, che era riuscito a sostenere una tesi e a mostrarsi quanto più fermo e deciso potesse essere, inizia a vacillare. Non è in grado di rispondere a quella domanda provocatoria o forse, più semplicemente, non ne ha la forza.

 

***

Kyle rientra a casa solo alle sei. L’incontro con Anthony l’ha sorpreso, le reazioni che lui stesso ha provato l’hanno sorpreso.

Prima di entrare nella portineria del palazzo di casa si ferma per rivivere ancora un attimo quel suo piccolo ma importante atto di coraggio, che gli ha permesso finalmente di risolvere quella situazione dubbiosa che aveva con Anthony. Si sente come un ragazzino a fantasticare sul ricordo di una cosa simile e arrossisce quasi senza controllo.

Sì, lui ha solo sedici anni ed è per definizione un ragazzino. È quindi giusto che viva questo tipo di esperienze, che si senta in questo  modo, che si senta leggero e felice e che non riesca e non voglia pensare ad altro.

Il punto è che per la prima volta si sente perfettamente nel “personaggio”, nel sedicenne alle prime esperienze d’amore che vive con impaccio ma anche con il cuore in gola, la situazione del suo primo vero bacio dato con il cuore. Non essendosi mai trovato in una situazione del genere e avendo vissuto, specialmente negli ultimi mesi, con sulle spalle molti più anni di quanti effettivamente ne abbia, si era quasi convinto che certe cose adolescenziali esistessero soltanto sullo schermo e che fosse quindi normale che non gli capitasse nulla di simile. È più che felice nel potersi ricredere.

Dopo essersi calmato, dopo essere riuscito a scendere da quel mondo dei sogni nel quale libbra da qualche ora, sale le scale per arrivare nel suo appartamento. Di certo il realismo prorompente che aleggia in casa l’avrebbe in ogni caso riportato con i piedi per terra, ha però preferito mettere da parte volontariamente quel suo piccolo angolo felice, per poi essere in grado di riportarlo alla luce e di riportarlo alla memoria, non appena le situazioni saranno tornate ad essere pesanti ed insostenibili.

Nota, abbassando la maniglia della porta d’ingresso, che Christian è già tornato a casa. Entra nell’appartamento e lo trova in accappatoio, appena uscito dalla doccia. Non deve essere rincasato da molto.

-Kyle! Mi stavo giusto chiedendo che fine avessi fatto.

Kyle sta sorridendo, un riflesso involontario del quale si accorge solo osservando con la coda dell’occhio il suo riflesso nello specchio sopra al mobile del telefono.

-Ero…

Si blocca. Stava per raccontare a Christian tutta la verità ma qualcosa dentro di sé l’ha spinto a fermarsi, a chiedersi se sia il caso di farlo. Non vuole mentire a Christian, fin troppe bugie sono state dette in quella casa, eppure non è sicuro di voler condividere con lui ciò che ha appena vissuto.

-Eri?

Domanda Christian, chiaramente insospettito da quella sua frase lasciata a metà.

-Ero a sgranchirmi le gambe qui, attorno all’isolato. Sai, ero stanco di rimanere e in casa.

Risponde, con una fermezza della quale lui stesso rimane sorpreso. Non è mai stato bravo a raccontare bugie eppure, in questa situazione,  se fosse stato nei panni di Christian avrebbe creduto alle sue parole.

-Oh, hai fatto bene allora.

Risponde Christian, dirigendosi verso la sua camera da letto. Kyle fa un sospiro di sollievo, dopodiché la vibrazione del suo cellulare, tenuto nella tasca posteriore dei bermuda, lo fa sobbalzare. Afferra il telefono e si tratta proprio di un messaggio di Anthony.

“Non riesco a dimenticare oggi pomeriggio. Promettimi che non sarà solo un episodio isolato.”

Kyle sorride e si precipita a rispondere.

“Te lo prometto. Possiamo vederci, domani?”

Compone rapidamente il messaggio, quasi tema che le parole gli sfuggano dalla testa, se facesse diversamente.

-Tutto bene?

Chiede Christian. Si è appena vestito ed comparso proprio in quell’istante sulla porta della stanza da letto. Kyle si affretta a chiudere la discussione con Anthony e, cercando di non sorridere troppo, risponde.

-Sì, benissimo.

Christian non indaga oltre e Kyle è ben felice di essere riuscito a tenere per sé quell’attimo di felicità. Ha paura forse che parlandone con Christian e introducendo l’argomento in casa, questi potrebbe guastarsi e trasformarsi in qualcosa di spiacevole e, davvero, non potrebbe sopportare che ciò accadesse.

--->Eccomi di nuovo qua! Non sembra vero neanche a me ma ci sono e più carica che mai! Posto eccezionalmente DUE volte questa settimana per farvi sapere che questa volta non vi libererete di me :D "I'm here to stay", croce sul cuore. Dunque ho visto di aver ricevuto comunque un alto numero di letture nonostante il capitolo precedente l'abbia pubblicato più di un anno fa. GRAZIE!

Grazie anche al commento di  Kae_dark angel. Sì. l'episodio precedente è stato statico in questo invece Kyle FINALMENTE si è deciso. Ora tocca a Jonathan e Chris ti assicuro che definire anche solo "tempesta" ciò che accadrà a loro dai prossimi capitoli in avanti è davvero riduttivo ;) 

Dunque chiudo con due comunicazioni GENERALI:

1. Posterò una volta a settimana il SABATO. Sì, posterò ogni sabato in una fascia oraria compresa tra le 14 e le 16.  Non predendete impegni, eh? ;)

2. Ho creato un SITO della mia storia e sto pian piano sto modificando e riadattando i primi capitoli. Infatti se andrete a riaprire i primi capitoli (i primi quattro al momento) troverete il link. Ovviamente il sito non comprende solo quello. Vi troverete anche dei contenuti speciali: curiosità, schede dei personaggi (vedrete i prestanome che ho scelto per i miei personaggi!!) informazioni, approfondimenti e da APRILE il prequel del quale vi ho già parlato nel commento all'episodio precedente.

Al momento non c'è granché per i lettori più navigati ma se volete iniziare dare un'occhiata e magari rinfrescarvi la memoria con i primi capitoli, ecco a voi: 

APRIMI, SONO BELLO!

Molto presto diventerà ricchissimo, ve lo posso giurare.

Bene, ho finito (per fortuna) per oggi. Ci vediamo sabato prossimo, a presto!! <.---

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Capitolo 38
*** Changing Habits (Cambiare abitudini) ***


38. Changing habits (Cambiando Abitudini)

-Buongiorno!

Esordisce Kyle, uscendo dalla sua stanza da letto e notando che Christian è ancora seduto al tavolo da pranzo, a fare colazione.

Sono da poco passate le dieci ed è parecchio strano che Christian non sia già impegnato a lavare qualcosa o a spolverare qualche suppellettile. È ancora in pigiama e sorseggia la sua tazza di caffelatte.

-Ehi!

Risponde Christian sorridendogli. Sembra essere tranquillo. Kyle si siede vicino a lui al tavolo da pranzo e lo osserva.

-Ho qualcosa che non va?

Domanda Christian accorgendosi della sua inquietante insistenza.

-Scommetto che questo è il tuo primo giorno di ferie!

Esclama Kyle con entusiasmo.

-Da cosa l’hai capito?

Domanda, terminando la sua bevanda e asciugandosi poi gli angoli della bocca con un tovagliolo, che è solito appoggiare sotto le tazze della colazione per far sì che non restino dei segni sul tavolo.

-Dal fatto che siano le dieci e tu te ne stia ancora beato a far nulla!

Ribatte Kyle, che fin troppo bene conosce le abitudini del padre.

-Beh, è quello che fanno le persone in ferie, no?

Domanda. Si alza e afferra tazza e tovagliolo, per poi dirigersi in cucina e preparare la colazione per Kyle.

-Sì ma tu lo fai soltanto il primo giorno, la prima mattina. Già dal pomeriggio inizi a trasformarti in un nazista delle pulizie!

Prosegue Kyle.

-Esagerato!

Ribatte Christian dalla cucina. Kyle si alza e lo raggiunge. Sta già lavando la sua tazza della colazione e, a giudicare dalla direzione del suo sguardo, il prossimo oggetto della sua pulizia sarà il pensile nel quale di solito  vengono riposte le stoviglie ad asciugare.

-Oh sì è proprio sporchissimo, io lo laverei!

Esclama Kyle, prendendolo affettuosamente in giro e avvicinandosi a lui. Gli indica un punto preciso, che in realtà non è per nulla sporco, invitandolo a pulirlo. Christian rimane sorpreso da questo suo ritrovato atteggiamento scherzoso e, per ribattere, gli dà un buffetto sulla nuca.

-Che impertinente!

Commenta poi sorridendo. Kyle si sente di buon umore quel giorno, non può fare a meno che scherzare, ridere e giocare. Christian se ne accorge e la cosa lo fa sentire davvero felice. Finalmente dopo così tanti mesi è tornato a riemergere il vero Kyle: chiassoso, spontaneo e con quella voglia di scherzare sempre, di non prendere mai le cose sul serio fino in fondo.

-Cosa vuoi per colazione?

Domanda Christian, senza smettere di osservarlo. Non vuole perdersi nemmeno per un attimo la scintilla di spensieratezza che arde nei suoi occhi quel giorno.

-Uhm… pancakes!

Risponde Kyle, pensandoci un po’ prima.

-Pancakes? Vuoi veramente che mi metta a fare i pancakes alle dieci e mezza del mattino?

Kyle annuisce e sorride, dopodiché osserva Christian sbattendo le ciglia, in modo volutamente esagerato. Ha voglia di leggerezza quella mattina ed è certo che farà bene anche a Christian.

-Sì, ho capito. Dai, va’ a sederti.

Kyle va’ a sedersi al tavolo da pranzo e Christian lo raggiunge solo dieci minuti dopo, recando con sé un piatto contenente una pila di almeno una decina di pancakes.

-Ti bastano?

Gli chiede compiaciuto, non appena lo vede strabuzzare gli occhi.

-Ma sono tantissimi!

Ribatte lui, già pronto ad assaporarli.

-Sì e devi mangiarli tutti, adesso.

Risponde Christian, sedendosi vicino a lui. Kyle si sfrega le mani come gesto propiziatorio, dopodiché comincia a mangiare, con rapidità e con gusto. Christian rimane ad osservarlo in silenzio, si sente quasi incantato. Si chiede cosa possa essergli successo di recente per averlo reso così spensierato. Il fatto di vederlo tanto sereno lo tranquillizza, durante gli ultimi sei mesi ha temuto che il buon umore e il carattere vivace di Kyle sarebbero spariti per sempre. Aveva avuto il sospetto e il timore di aver spento troppo presto la fiamma della sua adolescenza, di averlo involontariamente gettato in situazioni per le quali non era e non doveva essere pronto.

Kyle si accorge solo dopo qualche istante dei suoi sguardi e, ancora con le guance piene di pancake, si blocca per rivolgergli la parola.

-Che c’è?

Chiede, in modo buffo e in maniera quasi incomprensibile.

-Mi è mancato davvero questo lato di te.

Risponde Christian con dolcezza. Kyle deglutisce e gli indirizza uno sguardo confuso.

-A cosa ti riferisci?

Christian si permette di scrutarlo ancora un attimo, di guardarlo per bene negli occhi, prima di motivare la sua affermazione.

-Ti vedo contento, davvero contento.

Kyle si blocca. Non ci aveva riflettuto ma probabilmente il suo atteggiamento, una volta considerato normale, deve essere risultato insolito a Christian. Non crede sarà in grado di tenergli nascosta la sua appena nata relazione con Anthony, né il loro incontro, né tutto il resto. È troppo agitato e troppo eccitato per tenere un comportamento contenuto, troppo euforico per essere in grado di serbare per sé quel segreto.

-Deve essere l’estate! Sai che adoro l’estate! Sono nato a luglio dopotutto, sono un segno di fuoco io!

Christian scuote il capo.

-Sei del cancro, il cancro è un segno d’acqua…

Kyle fa spallucce.

-Meglio ancora! Io sono come il mare, come la marea che travolge…

Christian lo ferma.

-Va bene, va bene, ho capito!

Kyle torna a finire i suoi pancakes. Christian si alza e mette a posto la sedia. Sono quasi le undici e in effetti non ha ancora fatto nulla, come Kyle gli ha fatto notare poco prima. Essendo luglio la giornata è molto calda, troppo.

Generalmente il weekend successivo alla fine della sessione estiva era intento a preparare le valigie, pronto a partire per le vacanze. Le destinazioni erano Santa Monica o la montagna, negli ultimi anni. Pensa che, comunque, una vacanza lui e Kyle soltanto non sarebbe una cattiva idea.

-Ti andrebbe di andare da qualche parte?

Chiede, improvvisamente.

-In che senso?

Chiede Kyle, che nel frattempo a finito tutti i suoi pancakes e si sta stiracchiando sulla sedia.

-Una vacanza.

Risponde prontamente Christian.

- Di nuovo?

Domanda Kyle, non nascondendo un nota di sconcerto.

-Sì, siamo stati a Santa Monica ma non è stata esattamente una vacanza. Pensavo di andare da qualche altra parte, in montagna o all’estero. Non c’è poi molto da fare a New York in questo periodo e l’afa è davvero insopportabile.

Risponde Christian, con sempre più convinzione.

-Oh… va bene! Solo promettimi che andremo in aereo e non in macchina!

Esclama, ricordando quasi con orrore l’ultimo loro viaggio in auto da costa a costa. Di certo era stata un’esperienza piacevole, dal punto di vista emotivo. Avevano trascorso quelle ore a stretto contatto l’uno con l’altro, avevano parlato molto e Christian era riuscito a rivelargli delle verità alle quali era sempre stato tenuto all’oscuro. Tuttavia è stato stancante, in maniera innecessaria.

-Oh, dai! Non è stato poi tanto male quel viaggio.

Ribatte Christian, in sua difesa.

-“Non è stato tanto male”? Abbiamo passato una notte in un motel dell’orrore, neanche fossimo due ricercati! Ho tenuto l’orecchio teso tutto il tempo per la paura di sentire qualche sparo o di essere coinvolto in una rissa!

Christian scoppia a ridere.

-Sei sempre il solito esagerato!

Si sporge verso il tavolo per raccogliere piatto, posate e tovagliolo utilizzati da Kyle.

-Comunque, per correttezza, dovresti chiederlo anche a Jonathan. Magari anche lui ha in programma qualcosa da fare con te…

Aggiunge, cercando di mostrarsi in modo più neutrale possibile.

-Beh, potrei sempre farmi due vacanze! Non sarebbe tanto male!

Christian rimane sorpreso da come Kyle abbia preso la cosa con filosofia, deve essergli successo qualcosa di veramente speciale. È certo che se avessero sostenuto la medesima conversazione qualche giorno prima non si sarebbe mostrato tanto disponibile.  

-Giusto! Ora che mi ci fai pensare ha telefonato ieri mattina, Jonathan. Cercava te.

Christian, sulla soglia della cucina, si blocca.

-Oh…

Non riesce a dire altro.

-Sì, scusami, me ne sono dimenticato.

Ribatte Kyle, un po’ dispiaciuto. Christian continua a fare ciò che stava facendo, cercando di non mostrarsi sorpreso o scosso. Appoggia le stoviglie sporche nel lavandino ma non apre subito il subito il rubinetto dell’acqua.

-Ti ha detto per caso cosa avesse bisogno?

Chiede.

-Uhm… no. Abbiamo finito per chiacchierare e basta.

Risponde Kyle.

Christian apre finalmente il rubinetto. Si appoggia al lavello, iniziando a chiedersi che cosa volesse ancora Jonathan da lui. L’ultimo loro accomiato era stato tutt’al più disastroso e davvero non riesce a capire con quale forza e soprattutto con quale coraggio desideri parlargli di nuovo. Dopo così poco tempo, oltretutto.

Respira profondamente, dopodiché afferra detersivo e spugna ed inizia a lavare le stoviglie, cercando di concentrarsi esclusivamente su di esse.

-Forse dovresti telefonargli tu…

Commenta Kyle apparendo in quel momento in cucina e cogliendo Christian di sorpresa.

-C’è un motivo particolare?

Chiede Christian senza girarsi, continuando a fare con fermezza ciò che sta facendo. Kyle esista nella sua risposta.

-No. Solo… non ha voluto dirmi di cosa si trattasse, forse è qualcosa di cui ha bisogno di parlare solo con te.

Ribatte il ragazzo. La sua risposta è titubante, insicura, quasi si fosse sentito accusato dalla domanda di Christian.

-Va bene.

Conclude Christian, non sapendo cos’altro dire e non volendo promettergli di farla davvero, quella telefonata.

 

Quel pomeriggio Kyle ha intenzione di uscire con Anthony. Dovrebbero trovarsi di nuovo davanti a quel vecchio cinema, che essendo poco frequentato dà a loro la certezza di potervi sostare in libertà, senza il pericolo di incappare in occhi indiscreti ai quali dover spiegare e motivare qualsiasi cosa accada.

Sono da poco passate le tre e Kyle è già pronto per uscire, si è cambiato. Non sa per quale motivo ha ritenuto che una semplice canotta a coste e un paio di bermuda di cotone non andassero bene. Ha ritenuto una scelta migliore una t-shirt e dei jeans a tre quarti. Dopo essersi cambiato, però, teme che Christian sospetti qualcosa.

Si siede un secondo sul letto a pensare, prima di uscire dalla sua stanza. Inizia ad immaginare quali possano essere i motivi per i quali una persona, un ragazzo, debba cambiarsi d’abito a metà pomeriggio. Motivi che non includano incontri con ragazze o ragazzi, s’intende.

Non gli viene in mente nulla.

Tuttavia è troppo tardi perché riesca a pensare ad una soluzione. Potrebbe portarsi uno zainetto nel quale infilare i vesti che ha indosso, uscendo con ciò che si è appena tolto. La trova comunque un’idea stupida, dal momento che uno zaino darebbe di sicuro nell’occhio.

Sospira e con rassegnazione si prepara ad uscire, sperando di trovare una scusa nel caso Christian mostrasse qualche sospetto.

-Io esco!

Esclama. Avvicinandosi rapidamente alla porta d’ingresso. Non vi è alcuna risposta e la cosa lo preoccupa.

-Chris? Ho detto che esco.

Ancora nessuna risposta. Riesce poi a scorgere un’ombra sul balcone, la cui porta è solo avvicinata e non chiusa. Si avvicina e la apre, sicuro di trovarlo lì. Dopotutto l’appartamento non è molto grande e non ci sono poi troppi posti nei quali nascondersi.

-Chris, ti ho chiamato due volte.

Esclama, vedendolo seduto sul pavimento con un libro tra le mani. Indossa gli occhiali da sole e un paio di shorts. Apparentemente si sta abbronzando.

-Oh scusa, ero sovrappensiero.

Commenta.

-Cosa ci fai qui fuori?

Chiede Kyle con tono preoccupato. Non crede di aver mai visto Christian seduto sul bacone a prendere il sole . Pensandoci bene, in casa nessuno ha mai usufruito del balcone che comunque è piuttosto piccolo, stretto e ben poco comodo.

-Prendo il sole.

Ribatte Christian, quasi si trattasse della cosa più normale del mondo, quasi fosse una delle sue abitudini.

-Non l’hai mai fatto.

Risponde Kyle.

-C’è sempre una prima volta, no?

Kyle è bloccato, non sa davvero come controbattere. La fermezza di Christian gli crea il sospetto di essere lui quello in errore, di essere lui l’unico a vedere nel gesto di suo padre qualcosa di incredibilmente sbagliato e assurdo.

-Credevo di trovarti sul tappeto in cucina con spazzolino e sapone a pulire l’argenteria della credenza.

Christian sorride. Kyle continua a non capire.

-A tutti piace fare qualcosa di nuovo ogni tanto, qualcosa che magari gli altri vedono strano. Come in questo momento io trovo strano che alle porte di agosto tu abbia deciso di indossare dei jeans.

Kyle si blocca. Si era dimenticato dei dubbi relativi al proprio cambio d’abito, la verità è che il comportamento di Christian l’ha sconvolto al punto da non farci più caso.

-Sai, siamo a New York.

Questo è tutto ciò che riesce a dire e, di certo, non è sufficiente.

-Sì, lo so. E allora?

Kyle sorride, sperando in quel modo di chiudere la discussione.

-Non ti facevo una “fashion victim”.

Commenta Christian, tornando a rivolgere l’attenzione verso il suo libro.

-Non lo sono! Sto uscendo a fare quattro passi e a New York ti guardano male se giri con la canotta e i pantaloni della tuta!

Christian trattiene a stento una risata.

-Avresti dovuto accorgertene quella volta in cui siamo andati a mangiare giapponese e hai indossato la divisa arancione di Goku.

Kyle si era dimenticato di quel particolare e, in effetti, se ne vergogna. Soprattutto perché si tratta di un episodio relativamente recente.

-Beh… è stato qualche anno fa.

-L’anno scorso.

Commenta Christian, con rapidità, sempre senza staccare gli occhi dal suo libro.

-Comunque vado, ci vediamo per cena.

Taglia corto Kyle, non essendo più intenzionato a seguire quella discussione. Dopo essere uscito, dopo aver chiuso la porta, Christian sospira profondamente, un sospiro lungo e carico di apprensione.

Si sfila gli occhiali e li appoggia accanto a sé, alla sua sinistra. Questo perché la sua destra, la parte più prossima al muro, è già occupata dal cellulare, fisso in quella posizione da quasi un’ora. Si è messo fuori, sul balcone, perché non voleva che Kyle sentisse la telefonata che avrebbe voluto  fare a Jonathan e che poi, forse per codardia, forse per evitarsi l’ennesima sofferenza, ha deciso di rimandare.

Il libro che ha posato sulle gambe è stato semplicemente una scusa, non l’ha letto veramente. Si tratta del primo che gli sia balzato all’occhio, uscendo. Passa rapidamente una mano tra i capelli, un gesto nervoso, quasi convulsivo e dà un rapido sguardo al cellulare.

Non crede che Jonathan avesse seriamente bisogno di lui il giorno precedente, dal momento che non ha trovato nessun messaggio e nessuna chiamata. Se fosse stato urgente avrebbe insistito. Perlomeno è quello che avrebbe fatto lui. Non ritiene dunque che sia il caso di telefonargli, benché nel suo profondo sia curioso ed è certo che non si darà pace finché quella telefonata non avrà luogo.

Colto da un’improvvisa ondata di coraggio afferra il cellulare e compone il numero, neanche c’è bisogno di dirlo, a memoria. Subito dopo aver premuto il tasto “chiama” vorrebbe non averlo fatto ma non sa bene come riesce ad ignorare quella voce vigliacca e debole nella sua testa, che lo invita a riattaccare. Il telefono fa diversi squilli, prima che Jonathan risponda.

-Pronto?

Christian esita. Chiude gli occhi, prende fiato. Fa il possibile per mantenere lo stesso tono freddo e imparziale che ha avuto nel momento in cui, a Santa Monica, l’aveva invitato a prendere il primo volo diretto a New York e di andarsene.

-Kyle mi ha detto che mi hai cercato.

Schietto e dritto al punto. Non era il caso di girarci attorno e ormai non c’è più spazio e non c’è più tempo per le frasi di circostanza, per le frasi di rito.

-Sì… però al momento sono occupato.

Risponde Jonathan, con tono incerto.

-Sei con qualcuno?

La domanda di Christian è volutamente provocatoria e supponente.

-Sono con un paziente.

Christian si blocca. In effetti non aveva pensato che Jonathan potesse essere ancora al lavoro. Ha sempre chiuso lo studio a luglio, allo scopo di partire per le vacanze. Il fatto che non vi sia in progetto alcuna vacanza, non con lui perlomeno, fa sì che non abbia bisogno di chiudere lo studio, né di smettere di prendere appuntamenti fin tanto che lo riterà necessario.

-Ti richiamo non appena mi libero. Va bene?

Propone subito Jonathan, in tono frettoloso.

-Va bene.

Ribatte Christian, riattaccando. Passa poco più di un’ora prima che Jonathan richiami Christian e quest’ultimo, vedendo il suo nome comparire sullo schermo, ha per un istante l’istinto di non rispondergli. Sarebbe solo un gesto infantile, stupido e del tutto senza senso, dal momento che è stata sua l’ultima telefonata e che, così facendo, non risolverebbe proprio nulla e continuerebbe a torturarsi con ipotesi e teorie più improbabili.

-Allora?

Chiede con bruschezza, subito dopo aver aperto la telefonata.

-Allora, non posso parlarti per telefono.

Risponde Jonathan, per nulla sorpreso dai toni franchi di Christian.

-Se le cose stanno così, per quale diavolo di motivo mi hai telefonato ieri mattina? Dicendo a Kyle di cercare proprio me, per dipiù.

-Non lo so…

L’ultima incerta risposta di Jonathan infastidisce Christian che però fa il possibile per calmarsi e mantenere il controllo.

-Abbiamo già perso abbastanza tempo, Jonathan. Per cui se davvero non hai null’altro da dirmi io direi che sia il caso di riattaccare.

-No.

Il “no” di Jonathan risuona fastidioso nell’orecchio di Christian. Fastidioso e preoccupante.

-Ho detto che non si tratta di qualcosa della quale posso discutere via telefono, non ho detto di non avere nulla da dirti.

-Oh… e cosa ci sarebbe di così importante, da non essere adattabile ad una telefonata?

Christian inizia a lasciar trasparire il suo senso di fastidio e di irritazione. Jonathan, al contrario, sembra molto pacato.

-Domani chiuderò lo studio, per le ferie. Se non hai degli impegni potrei passare nel pomeriggio.

Christian vorrebbe dire di no, vorrebbe rifiutarsi. Tuttavia sente che rimanderebbe soltanto, poiché qualsiasi cosa Jonathan voglia dirgli, cascasse il mondo, gliela dirà. È sempre stato così, è nel suo carattere, nella sua natura.

-È proprio necessario?

Tenta, ancora una volta.

-Sì.

La fermezza di Jonathan preoccupa Christian che non può far altro se non acconsentire.

-E domani sia.

---> Ciaooo! Allora, avete dato uno sguardo al sito :) ? NOOOO Che aspettate?



ECCOLO

Proprio ieri sera ho completato le modifiche più "grandi" e ho inserito le schede con il contenuto dei cassetti dei personaggi. I link sono ancora tutti da aggiungere ma i presta volto ci sono. Andate a dare un'occhiata e magari lasciatemi qui un parere. Voglio sapere se vi soddisfano, se li immaginavate diversi e magari chi avreste scelto al posto loro. Ci tengo, eh ;) 

Comunque, due parole sull'episodio che avete appena letto. Devo ammettere che non mi convince fino in fondo. Non tanto quello che accade, perché è il solito "preambolo" a qualcosa di MOLTO grande (eh già....) più che altro ho avuto problemi con lo stile e la forma. L'ho letto tre volte e tre volte l'ho modificato. Sono sicura che se lo riaprissi aggiungerei altre modifiche. Comunque anche se questo è un po' "fiacco", il prossimo non lo è di sicuro. TRUST ME.

Va bene, è tutto. Ci vediamo sabato prossimo!

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Capitolo 39
*** Separate Ways (Strade Diverse) ***


39. Separate Ways  (Strade Diverse)

Jonathan è nel suo studio.

Il suo ultimo paziente della giornata se n’è andato da quasi un’ora, mentre lui è ancora seduto alla sedia della sua scrivania. Sono ufficialmente iniziate le ferie ma, per la prima volta, non gli importa nulla. Se ha deciso di chiudere lo studio l’ha fatto soltanto per abitudine. Non farà nulla quell’estate, non ha progetti né ha intenzione di farne.

Ha entrambi i gomiti puntati sulla scrivania, mento poggiato sul palmo della sua mano sinistra e pensa. Pensa a molte cose ma principalmente all’incontro con Christian. Sa che prima o poi dovrà uscire da quell’ufficio, chiudere a chiave e guidare fino a casa, a casa di Christian.

La separazione renderà tutto quanto molto complicato dal momento che quasi ogni cosa, a partire dall’appartamento, sia intestata a lui. Quella decina di firme, che impiegano poco tempo e il minimo sforzo, daranno inizio ad una serie interminabile di pratiche burocratiche. Sta pensando anche a quello ma al momento non è la sua priorità. Sa che una volta trovato il coraggio per affrontare Christian e consegnargli quei documenti, la strada sarà in discesa.

Osserva la valigetta dove ha riposto i documenti quella mattina, prima di uscire. Ha deciso che sarebbe andato direttamente da Christian, senza passare prima per il suo appartamento. Tutto questo per evitare ripensamenti. Era stata una decisione dell’ultimo momento, presa tra il caffè e la prima sigaretta della giornata. Inizialmente aveva  preparato i documenti sul tavolo, deciso di passare a prenderli nel primo pomeriggio, proprio dopo quell’ultimo appuntamento. Ne era convinto, al punto da essere già vestito e sulla soglia, pronto per andare al lavoro.

Nel momento in cui aveva inserito la chiave nella toppa esterna, però, aveva cambiato idea. Doveva portarli con sé, per accorciare le procedure. Non poteva permettersi di perdere tempo né aveva intenzione di crearsi vie di fuga. La decisione era stata presa e doveva arrivare fino in fondo. Non è mai stato uno che si arrende, ha sempre portato a termine qualsiasi cosa avesse iniziato, nel bene o nel male. Non vuole fare eccezione proprio adesso, per quanto male possa farlo sentire ciò che deve fare.

Si alza dalla sedia, raccoglie la valigetta ed esce dallo studio. Compie ogni suoi movimento con molta calma, nonostante dentro di sé regnino la disperazione e il caos. Sale in auto e, straordinariamente, riesce ad arrivare senza alcun problema fino all’appartamento di Christian.

È proprio lì che si blocca.

Sente come se qualcuno avesse schiacciato sulla sua testa il pulsante “pausa” e che l’avesse tenuto premuto fino a quel momento nel quale invece era stato rimpiazzato con il tasto “avanti veloce”.  Ha percorso quasi mezz’ora di strada senza la benché minima esitazione ma ora, a nemmeno cento metri dalla meta, non si reputa in grado di andare avanti. Solo allungare il braccio e prendere la valigetta gli risulta impossibile, impensabile.

Inizia a guardarsi attorno, augurandosi che nessuno l’abbia visto.  Non c’è anima viva nei paraggi, può girare la chiave, ingranare la marcia e tornare indietro. A Christian racconterebbe una scusa. Che differenza farebbe una bugia in più, arrivati a questo punto? Sospira, gira la chiave e appoggia la mano sulla leva del cambio.

“No. Basta stronzate.”

Pensa, vergognandosi di sé stesso e di quello che stava per fare.  Spegne nuovamente il motore dopodiché, quasi con rabbia, afferra la valigetta ed esce dall’auto, sbattendo la portiera.

Ancora appoggiato alla macchina chiude gli occhi e si prefigura uno schema da seguire durante il suo incontro con Christian. Sa che dovrà sembrare autoritario, fermo e risoluto. Deve concentrarsi, farsi forza e cercare di apparire convinto. Probabilmente stramazzerà a terra dopo quell’incontro, sicuramente il suo cuore lo abbandonerà ma non gli importa, deve farcela, deve superarlo.

Entra nell’atrio del palazzo e sale le scale, a passi lunghi e rapidi. Arriva davanti alla porta e, senza concedersi il tempo di fare ulteriori ponderazioni, suona il campanello.

***

Kyle si trova con Anthony in un parco non troppo lontano da casa. Sono seduti sul prato a prendere il sole ma non hanno parlato molto da quando sono arrivati. Non perché non avessero nulla da dire e nemmeno perché fossero insicuri. Semplicemente avevano ritenuto sufficiente la reciproca presenza per poter star bene. Sono seduti  uno accanto all’altro ma non al punto da destare sospetti ad occhi indiscreti.

Kyle sa bene quanto la sua relazione con Anthony possa essere pericolosa, benché si tratti di qualcosa di ancora incerto, di adolescenziale e che potrebbe risultare alla fine una bolla di sapone. Quella “ragazzata” fatta qualche mese prima, generata da un’ingenua curiosità adolescenziale, era costata molto cara ad entrambi, trascinandoli in situazioni fin troppo eccessive, portandoli a dover affrontare conseguenze del tutto innecessarie. Probabilmente se i genitori di Anthony venissero a scoprire di loro rischierebbero di non vedersi più, per sempre.

Anthony a partire dal prossimo settembre frequenterà una scuola differente da quella di Kyle il che li porterà a potersi vedere di meno, molto meno. Kyle è consapevole di dover approfittare di quei due mesi di vacanza per stare insieme, cercando di assaporare ogni piccolo istante, senza privarsi di nulla. Questo perché a settembre inevitabilmente qualcosa cambierà. Comunque due mesi sono un tempo sufficiente per potersi godere senza rimpianti e senza rinunce le gioie date dai primi momenti di una relazione appena nata.

Kyle intende trascorrere durante quei due mesi ogni suo singolo momento libero in compagnia di Anthony, pur sapendo di non potersi concedere attimi di leggerezza e spensieratezza che di solito caratterizzano gli amori adolescenziali.

Ogni loro incontro avviene il più lontano possibile da casa di Anthony e dai luoghi che lui e specialmente il suoi genitori sono soliti frequentare. Questo significa però dover ripiegare su posti ben poco gradevoli o difficili da raggiungere, come il parco nel quale si trovano in quel momento che di parco ormai ha ben poco, essendo stato abbandonato da almeno un paio di anni ed essendo conseguentemente divenuto ritrovo serale per spacciatori o per incontri che di romantico non hanno alcuna caratteristica.

Quella distesa abbandonata non dista però molto dalla casa di Kyle. Questo perché sebbene Kyle non abbia intenzione di parlare a Christian di Anthony, sa che se fosse proprio lui a vederli non accadrebbe nulla di grave. Il tutto probabilmente si risolverebbe con una chiacchierata il cui esito non sarebbe certo l’imposizione di porre fine alla loro relazione. Spera in ogni caso non essere visto ma si è trattato di optare per la soluzione meno rischiosa.

Anthony indossa degli occhiali da sole neri e inclina il viso in direzione di sole, lasciando che ogni singolo raggio riscaldi il suo incarnato già olivastro. Kyle lo guarda e si concede qualche secondo per osservarlo, dopodiché si guarda attorno.

Sono soli.

Decide di azzardare un piccolo atto di tenerezza. Lentamente avvicina la sua mano destra a quella sinistra di Anthony e la sfiora. Sulle labbra di Anthony compare immediatamente un sorriso e poco dopo intreccia le proprie di dita con quelle di Kyle, tenendole strette.

Si tratta di qualcosa di ingenuo ed innocente ma comunque sufficiente a scaldare il cuore di Kyle, che inizia a battere con lo stesso ritmo di un martello penumatico. Si sente tanto bene che per un attimo si dimentica dell’ambiente circostante, degli ostacoli, dei problemi, persino della sua disastrosa situazione familiare. Per quella breve frazione di secondo esistono lui ed Anthony soltanto, in un piano astratto, raggiungibile solo da loro.

Non si sentiva così tanto felice da tempo e comunque la felicità provata precedentemente era diversa da quella che sta vivendo ora. Sospira e spera che Anthony, che ancora stringe la sua mano, non riesca a percepire i battiti impazziti del suo cuore, se ne imbarazzerebbe.

Sente però di non essere all’apice della felicità, che gli manca qualcosa. Sin da piccolo gli è stato insegnato che un momento felice, un successo, una vittoria, sono vissuti solo in parte se non vengono condivisi. Deciso di non poter parlare del suo stato d’animo a Christian (al quale comunque troverebbe imbarazzante descrivere determinate sensazioni), non ha nessun altro con cui confidarsi.

Morgan.

Il collegamento al suo nome è pressoché immediato così come il ritorno alla realtà. Kyle ritrae la mano, allarmando anche Anthony.

-Tutto bene?

Chiede, girandosi verso di lui.

-Sì, tutto bene.

Risponde Kyle, con ben poca convinzione.

***

Jonathan bussa alla porta e aspetta che Christian gli apra.

-Non era necessario che bussassi.

Afferma lui, comparendo sulla soglia e accostandosi il necessario per permettergli di entrare. Aspetta che sia in casa dopodiché chiude la porta, alle sue spalle.

Jonathan indossa un completo da lavoro e ha con sé una valigetta. Probabilmente non si è fermato nel suo appartamento prima di presentarsi da lui. Deve aver finito di lavorare tardi.

Rimane in piedi, fermo, in attesa di ricevere indicazioni da parte di Christian.

-Hai intenzione di startene in mezzo alla stanza come uno stoccafisso?

Domanda bruscamente Christian. Lo osserva con sguardo severo, a braccia conserte. Al telefono il giorno prima sembrava preoccupato, sembrava che ciò di cui aveva assolutamente bisogno di parlargli a quattr’occhi fosse una faccenda complicata e di un certo rilievo. Eppure non mostra alcun segno di agitazione e pare non aver alcuna fretta nel parlargli.

-Prima devo sapere una cosa: Kyle è in casa?

Chiede Jonathan, diventando tutto d’un tratto piuttosto serio. Il suo sguardo è fermo e deciso. Christian che per un attimo aveva sperato di rilassarsi, augurandosi che il motivo della visita di Jonathan fosse in realtà meno grave di quanto avesse annunciato, piomba in uno stato di angoscia e di preoccupazione.

-No.

Risponde secco. L’agitazione e l’ansia gli scorrono sottopelle e vorrebbe soltanto urlare a Jonathan di sputare il rospo, di scoprire le sue carte e di comunicargli, senza troppi preamboli, ciò che deve. Non lo fa perché non ha voglia di urlare, non se la sente. Se inizierà ad urlare già da subito probabilmente la discussione avrebbe una durata troppo breve, esattamente come è successo durante i loro ultimi incontri.

-C’è una possibilità che torni a breve?

Domanda ulteriormente Jonathan, lasciando Christian in uno stato di destabilizzante incertezza.

-Non lo so, non credo.

Si aspetta che ora, dopo quella domanda, che finalmente parli ma lui non lo fa. Rimane ancora immobile con lo sguardo sempre più fermo, sempre più duro. Christian lo osserva cercando di dedurre da ogni particolare del suo comportamento, da ogni respiro lungo ad ogni rapido battito di ciglia, cosa possa ancora volergli dire.

Si è torturato la notte precedente, nel tentativo di indovinare ciò che avrebbe potuto sentirsi dire l’indomani e non è praticamente venuto a capo di nulla. Avrebbe tanto voluto trovare una risposta per potersi preparare adeguatamente ma non ci è riuscito.

-Hai finito con le domande?

Chiede, prendendo coraggio, decisamente stremato da quella situazione ambigua e indefinita.

-Credo sia il caso di sedersi.

Propone Jonathan, indirizzandosi verso il tavolo da pranzo. Christian non si muove, rimane nello stesso punto della stanza, sempre a braccia conserte. Segue i movimenti di Jonathan con minuzia: si avvicina al tavolo e su di esso posa la valigetta, con molta cura. Dopodiché appoggia entrambe le mani sullo schienale di una sedia, quella che era sempre stata la sua sedia. La presa che tiene sullo schienale è piuttosto ferma e decisa, Christian giura di averlo visto esitare un secondo, prima di spostare la sedia dal tavolo e sedervisi. Una volta seduto appoggia entrambi gli avambracci sul tavolo.  Trascorre qualche istante a fissare un punto imprecisato davanti a sé, dopodiché si gira in direzione di lui e lo fissa.

Ogni suo gesto ha dato a Christian l’impressione di essere stato studiato, costruito. Non una singola azione, dal momento in cui ha dichiarato di volersi sedere al tavolo ad ora, è parsa naturale. È quasi come se Jonathan si fosse scritto un copione e si stesse preoccupando di interpretarlo alla lettera. Questo suo atteggiamento provoca in Christian un brivido lungo la schiena, involontariamente sussulta.

-Puoi sederti, per favore?

Lo invita infine Jonathan. Anche il tono della sua voce è impostato. Christian fa’ ciò che gli viene detto, si sente incredibilmente in soggezione e, ora più che mai, non ha idea di cosa aspettarsi. Si siede, anch’egli sulla sua solita sedia,  guarda Jonathan nell’attesa che parli, che dica qualcosa. Lui, però, distoglie lo sguardo e allunga il braccio destro in direzione della cartelletta, che apre. Estrae per prima cosa una custodia, quella degli occhiali, li indossa.

L’ha già visto al funerale di suo padre con gli occhiali e ha già avuto modo di chiedergli informazioni al riguardo. Tuttavia continua a trovarli strani sul suo viso, che ai suoi occhi pare diverso e quasi distorto. Non pensa che gli stiano male solo non è abituato o meglio, non ha avuto il tempo di abituarvisi.

-Sono venuto per questo.

Afferma, dopo aver posato sotto gli occhi di Christian alcuni fogli stampati che sembrano essere dei documenti. Christian, senza nemmeno aver bisogno di leggere, impallidisce e di colpo tutto gli è più chiaro. Gli basta scorgere il logo del municipio  per intuire e per ritenere se stesso tanto sciocco e tanto ingenuo per non aver inserito tra le ipotesi della visita di Jonathan proprio quella.

Non ha il coraggio di leggere perché sa che tutto diverrà più concreto non appena lo farà. Si concede qualche attimo di smarrimento, qualche momento nel quale attende che il suo cuore si fermi, lo sente debole, irrequieto e pronto ad abbandonarlo da un momento all’altro. Cercando di non dare a vedere nulla di tutto ciò a Jonathan, abbassa lo sguardo, chiude per un istante gli occhi e deglutisce.  Quando li riapre inizia a leggere, velocemente. Ha già visto quei documenti, infatti una copia esatta giace nel cassetto della credenza lì accanto al tavolo, proprio alla sinistra di Jonathan, infilato in una vecchia guida del telefono.

Non gli serve leggere ciò che c’è scritto, conosce già le parole e sa già cosa gli si chiede di fare. Per un attimo si irrigidisce pensando a quanto sangue freddo possa aver avuto Jonathan nel decidersi di fare il primo passo.

Lui non c’era riuscito.

Il suo tentativo era miseramente fallito e per quanto in questo momento possa provare rancore, risentimento e collera nei confronti di Jonathan è pressoché sicuro che a ruoli invertiti non sarebbe stato in grado di sbattergli sotto il naso quei fogli. Si sente ferito e tradito, ancora una volta.  Sa di essere lui la parte più lesa e quel gesto sarebbe dovuto partire proprio da lui eppure non ne ha avuto il coraggio.

È cosciente di essere stato lui stesso sei mesi prima, nel giorno nel quale tutta quella situazione si era creata, a chiedergli la separazione. Sì, aveva urlato a gran voce di volersi separare da lui. Eppure non credeva che Jonathan sarebbe arrivato a tanto, non credeva che sarebbe in grado prendere quella decisione e portarla avanti.  La persona che conosceva, che ha amato e sposato non l’avrebbe fatto, ecco perché la sera precedente riflettendo sui motivi di quell’incontro, non aveva inserito quello per cui tanto ora si sta arrovellando. Il suo Jonathan non si sarebbe spinto a quel punto.

Pensa che probabilmente se qualche mese prima avesse avuto lui stesso il coraggio di consegnargli quei documenti, questo Jonathan sarebbe stato in grado di firmarli, senza opporre resistenza.  Se l’avesse fatto ora non si troverebbe lì, tutta la sofferenza sarebbe cessata molto prima,  perché lui non si sarebbe più fatto vivo. Non sarebbe però andato con loro a Santa Monica al funerale di suo padre né gli avrebbe sussurrato che andava tutto bene nel momento più doloroso di tutta la sua vita, fino ad ora.

Si sente mancare. Tutto quel pensare gli fa girare la testa. Alza lentamente gli occhi, per paura che lo sguardo duro e impassibile che Jonathan ha tenuto fino a quel momento gli dia il colpo di grazia. Tuttavia non succede perché lui non lo sta guardando, i suoi occhi sono fissi sui fogli. Fa fatica a vedere esattamente la sua espressione ma di certo qualcosa è cambiato rispetto a poco prima: è vuoto, spento.

-Non credo sia necessario che ti dica di cosa si tratta.

Le parole di Jonathan pongono fine a quel sofferto attimo di silenzio. Smette di fissare il foglio e torna a guardarlo, mettendo Christian in una posizione disagiata.

-So leggere.

Si limita a ribattere, non essendo stato in grado di trovare nulla di più pertinente.

-Credo che ora tu capisca il motivo per il quale non ho potuto parlartene al telefono.

Aggiunge Jonathan che sembra intenzionato ad affrontare la faccenda alla larga, con le pinze. Sembra voler dare l’impressione di non esserne direttamente toccato.

“O forse non è solo un impressione?”

Pensa Christian, dubbioso. Lui stesso non è sicuro di sentirsela di approfondire, di fare domande, di chiedergli dove sia riuscito a trovare il coraggio per fare ciò che sta facendo e soprattutto quale sia stato il movente colpevole di averlo spinto ad andare fino in fondo.

-Puoi consegnarmeli quando vorrai. Prenditi tutto il tempo che ti serve, non c’è nessuna fretta. Quando avrai fatto potrai spedirmi il tutto via posta, senza il bisogno di incontrarmi.

Aggiunge con un indifferenza che fa davvero male a Christian. Dopodiché lo vede togliersi li occhiali e riporli di nuovo nella loro custodia e infine nella valigetta.

Si alza.

Mostra tutte le intenzioni di volersene andare. Forse puntava a “sganciare la bomba” per poi andarsene via in tutta fretta, senza essere costretto a voltarsi e ad osservare la desolazione da essa creata. Di primo acchito Christian si sente propenso a lasciarglielo fare.

Gli lascia prendere la valigetta, sistemare la sedia sotto il tavolo e allontanarsi, fino ad arrivare al salotto ed è proprio lì che decide di non essere disposto a stare in silenzio, a subire quel trattamento  che di certo non si merita.

-Non puoi pensare seriamente di cavatela così.

Esclama, con convinzione. Jonathan si ferma ma per il momento non si gira.

-Perché?

Prosegue, Christian. Rimanendo sempre seduto sulla sua sedia.

-Perché va’ fatto. Me l’hai chiesto quasi sei mesi fa, è fin troppo tardi.

Risponde Jonathan, di getto. Per Christian non è ancora sufficiente.

-No, non è per questo.  Se così fosse l’avresti fatto subito dopo essertene andato, non avresti aspettato.

Jonathan rimane in silenzio. Christian afferra i fogli e li osserva, accorgendosi in quell’istante che sono già stati tutti firmati.

-Faresti bene a darmi una spiegazione valida perché dopo tutto quello che mi hai fatto, non mi sogno proprio di concerti il lusso di piazzarmi questa merda sotto gli occhi, senza aggiungere nulla.

Esclama, iniziando ad alzare il tono e facendo sbattere sul tavolo il plico di fogli. Jonathan in quel momento si gira.

-Le tue parole.

Risponde, con tono sommesso. I ruoli in quel momento si sono invertiti: Christian è deciso e risoluto mentre Jonathan inizia a dare dei segni di incertezza, di instabilità.

-È stato ciò che mi hai detto a Santa Monica a portarmi a questo.

Fa una pausa, durante la quale pare voglia prendere fiato, prima di proseguire.

-Mi hai accusato di godere nel vederti soffrire, hai definito il nostro rapporto come malato e…

Christian gli fa cenno con la mano di tacere, di fermarsi.

-Sì, so bene cosa ti ho detto.

Jonathan prosegue, ignorando il segnale di Christian.

-…e io non posso sopportare di farti di nuovo del male, di essere visto ormai da te non più di un mostro.

Christian vorrebbe ribattere ma Jonathan non gliene dà modo, continua a parlare.

-Non sono riuscito a pensare ad altri modi per poterti porre fine a questa tua sofferenza, è veramente l’ultima cosa che io possa fare. Potrà sembrarti ridicolo ma è per te che lo sto facendo.

Christian scoppia nervosamente a ridere, una risata quasi isterica e dalla durata breve.

-“Lo sta facendo per me”? Sì, hai ragione. Trovo questa tua risposta ridicola, patetica e banale.

Risponde, con tono sempre più alto e disprezzante. Non avrebbe voluto comportarsi in quel modo, sa che anche quella discussione ha ormai i minuti contati ma non gli importa, anzi, desidera che finisca.

-Sapevo che avresti reagito in questo modo e infatti non volevo arrivare a doverlo dire ma è come la penso. La verità è che…

Si interrompe.

-Che? Cosa Jonathan? Cos’altro c’è?

Christian si avvicina si sposta dal tavolo, riducendo la distanza con Jonathan.

-Che sono sempre stato io tra i due ad aver tenuto di più a questa relazione. Che mai e dico MAI avrei pensato di arrivare a questo punto e che se lo faccio è solo perché voglio permettere a te di stare bene.

Christian non può sopportare oltre. Quasi senza pensarci si dirige verso il cassetto della credenza, quello dove ha gettato la sua copia dei documenti per la separazione. Prende la guida del telefono nella quali li ha infilati. Una volta estratti i fogli, getta quella stessa guida sul pavimento, con rabbia.

Si avvicina di più a Jonathan, molto vicino, quasi al punto da poter sentire il battito del suo cuore.

-Ci sono arrivato io per primo, lo sai? Ma non ho mai avuto il coraggio, non li ho neanche firmati perché mi faceva male, troppo male. Ora che lo sai avanti, dimmi ancora che lo fai per me e soprattutto dimmi ancora che sei tu, quello che ci tiene di più!

Christian stringe i fogli con forza finché, colto da un rabbia quasi accecante, li getta  in faccia a Jonathan.

 

***

-Sei sicuro di stare bene?

Chiede Anthony, sulla strada di ritorno. Sta accompagnando Kyle a casa, perlomeno fino al vecchio cinema, diventato il loro punto di incontro.

-Sì, te l’ho detto.

Conferma Kyle, ben conscio di tradirsi.

-Ho fatto qualcosa che ti ha dato fastidio?

Prosegue Anthony, con aria preoccupata. Dopodiché, in modo del tutto improvviso e spontaneo, cinge la vita di Kyle con un braccio, facendolo arrossire.

-No, no davvero.

Risponde Kyle, questa volta più deciso e sincero.

-Sai, a me andrebbe davvero di spingermi… più in là, a volte.

Confessa Anthony in un misto di dolcezza e di imbarazzo. Kyle si trova del tutto impreparato difronte a quella confessione, al punto da rispondere in modo impacciato.

-Potremmo anche farlo, ogni tanto.

Si rende conto solo dopo aver pronunciato quelle parole di quanto esse possano risultare ambigue o allusive. Cerca di correggersi immediatamente e abbassa lo sguardo, per impedire ad Anthony di vedere il colore del suo viso, decisamente alterato.

-Cioè, essere più spontanei… Più normali.

Anthony si blocca, imponendo anche a Kyle di fermarsi. Sono arrivati ormai davanti al vecchio cinema, è arrivata l’ora di salutarsi. Anthony toglie il braccio dal fianco di Kyle, prendendolo però per mano e ponendosi di fronte a lui. Kyle non lo sta guardano, ha lo sguardo fisso sull’asfalto. Anthony, con la mano libera, gli accarezza il viso e lo invita ad alzare gli occhi, a guardarlo.

-Iniziamo da adesso.

Sussurra con dolcezza. Dopodiché si sporge verso di lui per poi baciarlo in modo tenero, innocente. Un bacio dalla durata relativamente breve ma potente al punto da riportare l’umore di Kyle alle stelle. Dopo quel tenero bacio i due ragazzi si salutano, dandosi appuntamento all’indomani. Anthony aspetta che Kyle giri l’angolo e sparisca dal suo campo visivo, prima di andare via a sua volta.

Kyle ritorna a casa a passo lento. Sono le sette e il cielo sta iniziando ad assumere le romantiche e pittoresche sfumature rosse del tramonto. Non ha smesso di riflettere sull’assenza di Morgan nella sua vita, nonostante la dolcezza di Anthony, nonostante quel bel pomeriggio passato ad oziare in sua compagnia.

Ha accantonato Morgan e per di più a favore di un ragazzo, di un interesse amoroso. Si sente malissimo per averlo fatto. Non era sua intenzione e non sta certo togliendo del tempo a Morgan per darlo ad Anthony, dal momento che non le parla. Sospira profondamente e decide, per quanto ingiusto sia, di rimandare quella faccenda ad un secondo momento. Ci sta prendendo gusto a stare in quella situazione di pace e di tranquillità. Sente che chiarirsi con Anthony sia stata la decisione migliore che possa aver mai preso e un po’ si maledice per non averlo fatto prima, per aver lasciato passare così tanto tempo.

Non gli è però concesso crogiolarsi nella sua felicità, non quel giorno.

Lo scenario che si trova di fronte, una volta entrato in casa, è in grado di smorzare rapidamente anche il più resistente dei suoi pensieri felici.

Ogni finestra della casa è aperta, compreso il balcone. Le mensole sulle pareti sono vuote, così come gli altri mobili e parte della credenza. Per non parlare dei cassetti rovesciati e vuoti e della quantità impressionante di fogli sparsi per tutto il pavimento. Il suo primo sospetto è quello che qualcuno sia entrato in casa, allo scopo di svaligiarla. Pensiero che muta, non appena Kyle si accorge di una voce, proveniente dalla cucina.

“Someday love will find you, break those chains that bind you. One night will remind you how we touched and went our separate ways.”

Non sono semplici parole: è una canzone, che Kyle però non conosce. Chiude delicatamente la porta alle sue spalle, che aveva dimenticato aperta. Si avvicina alla cucina, facendo attenzione di non calpestare i fogli, la maggior parte dei quali sembrano essere dei documenti. Uno in particolare, abbassando lo sguardo, lo colpisce.

“Richiesta di Separazione”.

Si blocca. Deglutisce, improvvisamente un singhiozzo spinge prepotentemente per uscire ma non può permetterselo.

Nel frattempo quella voce, la voce di Christian, che così poche volte in vita sua aveva sentito, continua a cantare.

“If he ever hurts you…”

Non ha il coraggio di andare da lui, di varcare la soglia della cucina e guardare il suo viso. Sa che non sarà qualcosa di piacevole. Si appoggia appena a quel pezzo di parete che separa la cucina dal salotto, in attesa di prendere coraggio e allo stesso tempo si sente rapito dalla voce di Christian. A parte qualche filastrocca che gli aveva insegnato bambino e qualche sigla dei cartoni animati cantata insieme, non l’aveva mai sentito cantare.

“True love won't desert you…”

Trova la sua voce unica e impressionante. Le parole che sta cantando sono cariche di emozione e risuonano vivide nelle orecchie di Kyle. D’un tratto riesce a comprendere ciò che lo stesso Jonathan gli aveva confessato tempo prima, sulla voce di Christian. È una voce che rapisce, che ammalia.

“You know I… I still… l-love you, you…though we touched and went our separate ways”

…e che è in grado, nel caso, di struggere l’anima. Kyle non può sopportare oltre, si sposta da quella parete e si presenta davanti a Christian.

Lo trova seduto sul pavimento della cucina, attorno a lui ci sono tutti i pezzi di argenteria e i vari suppellettili mancanti. Ha davanti una tinozza piena d’acqua e indossa dei guanti di gomma, rossi.

-Chris…

Lo chiama Kyle, cercando di attirare la sua attenzione. Christian alza lo sguardo.

Per Kyle è un colpo al cuore: il suo viso è sfatto, come non lo vedeva da qualche tempo ormai. Ha sofferto e sta soffrendo, sarebbe evidente a chiunque.

-Non ti avevo sentito entrare.

Commenta. Con tono perso, che pare quasi appartenere ad un pazzo, un folle.

-Cosa stai facendo?

Chiede Kyle, con ovvietà.

-Quelle che faccio ogni anno il mio secondo giorno di ferie. Me l’hai detto tu, no?

Risponde, indicando la tinozza e sorridendo in modo quasi grottesco. Kyle è spaventato, non riesce a vederlo così. Presenta i tipici sintomi di chi si trova sull’orlo di una crisi, pronto a cadere nel baratro buio della depressione da un istante all’altro.

-Ho visto un foglio, tra tanti, là sul pavimento…

Esclama, ben sapendo che un’esclamazione del genere potrebbe peggiorare le condizioni di Christian.

-Oh, hai ragione! Ho dimenticato di mettere a posto i cassetti!

Esclama, balzando immediatamente in piedi. Gli passa accanto con apparente nonchalance, noncurante delle gocce d’acqua provenienti dai suoi guanti. Si getta sulle ginocchia e comincia a raccogliere, senza apparente cura, i fogli sul pavimento. Kyle lo osserva,  quasi incapacitato di fare anche il movimento più semplice.

Christian appoggia tutti i fogli sul tavolo finché non raggiunge proprio quello che ha visto lui poco prima. Vi posa sopra la mano, con ancora indosso il guanto bagnato. Rimane in uno stato di paralisi per qualche istante, dopodiché lentamente alza lo sguardo verso Kyle.

-Me l’ha portato un’ora fa. C’è sopra la sua firma, l’hai vista?

Kyle non si era accorto di quel particolare. Si era fermato alla testata e non era stato più in grado di andare oltre.

-È finita.

“Finita” una semplice parola, capace da sé di perforare il cuore di Kyle. Sapeva che la situazione dei suoi genitori era drastica e probabilmente irreparabile. Tuttavia, non pensava sarebbero arrivati fino a quel punto. Probabilmente nemmeno Christian, a giudicare dalle sue reazioni.

-Finita davvero, finita per sempre.

Aggiunge, abbassando di nuovo lo sguardo. Con le mani entrambe appoggiate su quell’unico foglio di carta.

---> Eccomi di nuovo. Avete visto i personaggi prestavolto? Su, non siete timidi e andate a vedere e fatemi sapere, dai ;) Non ho null'altro da aggiungere oggi. Questo capitolo l'ho scritto un paio di settimana fa (era un "collegamento" mancante) e personalmente mi piace molto. Vi voglio dire che la canzone cantata da Chris è MOLTO significativa nelle parole è "Separate Ways" dei Journeys, se non conoscete bene l'inglese o non siete sicuri vi consiglio di cercare la traduzione :) Bene, è davvero tutto. Mi aspetto sempre un parere da parte vostra, manca DAVVERO poco arrivati a questo punto. Non sono ancora sicura perché i capitoli finali sono tutti in un unico file al momento e li dovrei suddivicere comunque ho già pronto il capitolo 40 e credo che MASSIMO finirò col 45. Ok, basta. A sabato prossimo :D <---

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Capitolo 40
*** Letting go (Ti lascio andare) ***


40. Letting go (Ti lascio andare)

Settembre.

Da diverse settimane Christian ha iniziato a sentire di non poter resistere ancora a lungo in quel posto, si è reso conto che New York in quel punto della sua vita aveva inizia a stargli parecchio stretta. Non è passato poi così tanto tempo dal suo ultimo viaggio a Santa Monica, un paio di mesi.

Lo stesso lasso di tempo che è trascorso dal suo ultimo contatto con Jonathan, dal giorno nel quale gli aveva consegnato i documenti per la separazione civile, documenti che non ha ancora avuto il coraggio di consegnare, né di compilare. Jonathan aveva detto in quel loro ultimo incontro di farlo con calma, quand’ora ne avesse avuto voglia e, evidentemente, quella voglia non si è ancora presentata.

La verità è che ricevere quei documenti per Christian era stato l’ennesimo colpo al cuore, l’ennesima ferita da aggiungere alle altre che, malauguratamente, non hanno mai smesso di sanguinare. Per i primi momenti ha osservato impaurito quei fogli. La sola idea di compilarli e di dare atto ad un “dopo”, a degli sviluppi ignoti e sconosciuti per i quali non si sentiva pronto, lo terrorizzava. Mentre qualche settimana più in là aveva convenuto che la scelta meno dolorosa fosse quella di gettarli nel cassetto insieme a quelli praticamente identici e ancor più vuoti che ritirati da lui stesso diversi mesi addietro.

 Jonathan dal canto suo non doveva essere ansioso che li firmasse, non essendosi più fatto vivo. Due mesi e non una parola. Nonostante fosse stata proprio quella la premessa, Christian non aveva creduto né sperato che sarebbe arrivato a tanto. Kyle nei trascorsi due mesi ha avuto occasione di frequentare il suo appartamento  qualche volta e lo sente quasi tutti i giorni.

Anche il comportamento di Kyle si era rivelato insolito e strano nell’ultimo periodo: rincasava sempre tardi e salvo argomenti frivoli o di circostanza, non parlava. Christian i primi momenti non se n’era preoccupato, perché nonostante tutto aveva un’aria del tutto serena e rilassata.

 Una sera di fine agosto, però, dopo aver tentato di estrapolargli qualche informazione con risultati tuttalpiù scarsi, aveva deciso di seguirlo in una delle sue usuali uscite serali. Tutta quella tranquillità abbinata a risposte incerte e palesemente campate per aria ogni qual volta gli chiedesse quale fosse esattamente la destinazione delle sue uscite,  aveva innescato in Christian il dubbio che Kyle si fosse ritrovato coinvolto in qualche stupida e folle dipendenza come la droga, il fumo o l’alcool.

Quel venerdì sera aveva aspettato che uscisse ed era rimasto  un paio di minuti sulle scale del condominio, in modo da risultare sufficientemente distante. Aveva camminato per circa un isolato, poi aveva girato a destra per finire di fronte ad un piccolo cinema indipendente, collocato all’interno di un palazzo fatiscente, che subito gli aveva riportato alla mente quei vecchi cinema pornografici degli anni ’80 dove potevi gustarti un mucchio di bei ragazzi eccessivamente dotati riflessi su una parete bianca e magari terminare la visione di questi “capolavori incompresi” con un discutibile rapporto occasionale consumato in qualche stradina appartata.

Il nome del cinema era piuttosto banale: “Les Indipendence”, probabilmente scorretto e sgrammaticato.  Kyle si era fermato per qualche secondo all’ingresso poi si era recato alla biglietteria e aveva acquistato un biglietto, uno soltanto, per quanto aveva potuto notare Christian.

Dopo aver lasciato entrare il ragazzo Christian si era avvicinato, giusto per accertarsi che fosse realmente un cinema di film indipendenti e non una copertura dei già citati cinema pornografici. L’edificio vantava due vetrine alle quali erano appesi dei poster di produzioni cinematografiche provenienti da tutto il mondo. La maggior parte delle locandine erano francesi, con titoli non tradotti, i rimanenti erano asiatici, forse coreani a giudicare dagli ideogrammi quasi floreali. Aveva  trovato strano che un ragazzo di sedici anni non avesse nulla di meglio da fare il venerdì sera se non andare da solo a vedere qualche filmetto di serie B . D’altro canto Kyle era sempre stato un ragazzo particolare. Mentre tutti ascoltavano Rihanna, Lady Gaga o Katy Perry lui amava i Beatles e i Pink Floyd. L’unico gruppo vagamente contemporaneo erano stati i  “Death Cab”, nome che aveva letto sui poster in camera. Tuttavia il loro tempo tra le preferenze di Kyle  era stato breve,  poiché  aveva iniziato a ritenerli troppo “emo”, termine del quale Christian non conosceva il significato ed è tutt’ora poco interessato a conoscerlo.

Ad ogni modo, avendo constatato la destinazione delle uscite di Kyle, si era convinto di poter rientrare a casa, con tranquillità. Aveva percorso la strada di ritorno a passo lento. Settembre non era ancora iniziato ma il tiepido venticello autunnale iniziava già a farsi sentire. L’autunno pareva voler arrivare in anticipo a New York, le temperature parlavano forte e chiaro. Era vestito leggero quella sera: indossava un giacchetto di pelle color biscotto, nel quale si era stretto con forza, cercando di ripararsi dal vento e dai colpi d’aria provocati dal passaggio delle auto e dei taxi. Proprio in quel momento aveva iniziato a pensare che nemmeno la sua adolescenza era stata così tipica. Al compimento dei suoi 16 anni erano da poco iniziati gli anni ’90 e mentre tutti nella West Coast erano interessati al Rap o al Pop delle boy band, lui preferiva il buon vecchio metal anni ’70, il suo gruppo preferito rimanevano i KISS e passava tutti i pomeriggi a cantare e sfogliare libri d’arte nella sua cameretta di Santa Monica.

Era stato esattamente quello il pensiero complice di averlo spinto a credere di sentirsi stretto a New York. Quando aveva sedici anni era ancora un ragazzo felice, senza troppe preoccupazioni per la testa: sognava di studiare all’università e diventare professore di arte. Credeva ancora che avrebbe trovato il suo posto in qualche scuola in California e che avrebbe studiato alla Berkeley. Non si interrogava particolarmente riguardo alla sua sessualità poiché non aveva alcun interesse nel sesso o nell’amore, stava semplicemente bene. Non poteva immaginare che nel giro di due anni si sarebbe trovato a cantare al “Vampiria”, costretto a vendere il suo corpo e i suoi principi per poter studiare nella Grande Mela, metropoli dalle grandi aspettative, fulcro del mito del “American Dream”. Dopo il suo sedicesimo compleanno tutto era cambiato, tutto era peggiorato. La sua sessualità aveva iniziato a chiedergli di essere presa in considerazione. D’un tratto la California, che tanto aveva amato, era diventata troppo libertina per poter essere da lui vissuta senza commettere sciocchezze, senza essere trascinato dalla corrente e affogare all’interno di essa. Aveva deciso che New York, più caotica ma paradossalmente più composta, sarebbe stata la scelta migliore per lui. Di tutto ciò non s’era mai pentito, fino a quel momento.

Vorrei tornare indietro.

Questo aveva pensato, mentre imboccava il vialetto di casa. Avrebbe tanto voluto tornare a disegnare, sognare e sperare sdraiato a pancia all’aria su quel lettino, respirando a pieni polmoni l’aria dell’oceano entrare dalla porta finestra, sempre spalancata.  Faceva sempre caldo a Santa Monica, anche Settembre, anche a Dicembre.

Devo tornare indietro.

Esclama ora, balzando dal divano. Alzandosi si chiede anche, per un instante, da quanto tempo si trovasse seduto sul divano a fissare la televisione spenta. Da qualche giorno gli capitata di entrare in un assurdo stato di catalessi nel quale perde completamente la cognizione del tempo. Stare a New York  sia fisicamente sia mentalmente è diventato un peso insostenibile. Ogni giorno che passa è sempre più propenso a credere che forse sarebbe stato meglio non partire mai. Forse sarebbe comunque diventato un professore di successo e forse suo padre non si sarebbe ammalato.

No, sarebbe successo comunque.

Si corregge, scuotendo il capo. Iniziare il gioco del “se…” è sempre interessante ma tante volte si tramuta in qualcosa di tremendamente irreale, assurdo e doloroso. Certo, se fosse rimasto a Santa Monica non avrebbe mai conosciuto Jonathan e senza Jonathan non ci sarebbe stato neanche Kyle. Non riesce a pensare ad una vita senza Kyle.

Non riesco a pensare ad una vita senza Jonathan.

No, non può. Ha sofferto, sta ancora soffrendo e questa grande, grandissima ferita potrebbe non rimarginarsi mai ma sa che non cancellerebbe il passato, che non vorrebbe mai eliminare Jonathan dai suoi ricordi. Quello che gli occorre in questo momento è semplicemente di staccare la spina, andarsene un po’ da New York. Non sa per quanto tempo e non è sicuro di voler trascinare Kyle con sé. Trova egoistica l’idea di strapparlo dalla sua quotidianità per obbligarlo a seguire quella sua apparente e un po’ precoce “crisi di mezza età”.

Se la mia mezza età è questa vuol dire che la mia vita sarà piuttosto breve.

Pensa sorridendo nervosamente. Riflette sugli ultimi due viaggi a Santa Monica ed è sicuro nell’affermare che non gli siano serviti a granché. Il secondo era stato qualcosa di forzato, la situazione era particolare e in quel caso non era stato felice di trovarsi in quel posto e in quel momento, tuttavia si era sentito meglio. Abbandonato il peso della città si era sentito un'altra persona. Per questo motivo pensa che sia seriamente il caso di riprovarci.

Non ne è del tutto sicuro, per cui non è pronto a preparare immediatamente bagagli né a parlane con Kyle. Non è nemmeno certo di voler avvisare sua madre. La preoccuperebbe eccessivamente e non lo ritiene giusto.

Angela ha passato quasi metà della sua vita a prendersi cura di Jack, costretta a convivere con la scomoda  presenza della sua malattia. Ora, benché stia ancora affrontando la perdita del marito, è finalmente libera. Libera di ricominciare, libera di dedicare finalmente a sé stessa il tempo che fino ad allora ha dedicato ad altri, libera dal sentirsi scagliare addosso problemi altrui.

No, se decidesse di partire e di prendersi una pausa, non glielo comunicherebbe. Forse nemmeno ci tornerebbe a casa, in quella casa.

Non lo sa, non sa nulla. Eppure, anche solo pensarci lo fa sentire meglio.

 

***

Kyle è seduto su una poltroncina del cinema rossa di velluto, piuttosto scomoda e nemmeno troppo pulita, a dirla tutta.

-Ti ha seguito davvero?

Chiede Anthony, sorpreso. Si trova seduto accanto a lui ed è anche l’unica persona presente in sala. Piuttosto insolito.

-Sì, per questo ti ho proposto di entrare separati. Ora penserà che io sia diventato una specie di relitto sociale che si conforta con hobby alternativi.

Anthony ride.

-Pensare che basterebbe digli la verità.

Kyle scuote il capo.

-Te l’ho detto,  è qualcosa che preferisco tenere per noi al momento e credo che se gli sbattessi in faccia la nostra relazione si ritroverebbe a pensare a Jonathan.

Anthony sbuffa e si mette a sedere in posizione scomposta.

-Ancora una volta, spiegami perché dovrebbe pensarci.

Kyle deve aver esposto ad Anthony le sue motivazioni almeno una decina di volte eppure ogni qualvolta si presenti l’argomento è costretto a riparlarne, usando sempre le stesse parole e sperando ogni volta che il ragazzo capisca e che si decida a non fare più domande a riguardo.

-Perché siamo due ragazzi. Siamo giovani e siamo come lui, come loro. Siamo…

Anthony lo precede.

-Gay.

Kyle annuisce

-Gli ricorderebbe di quando erano giovani e felici lui e John e cadrebbe di nuovo nello sconforto. Non mi dimenticherò mai di quel giorno nel quale l’ho trovato per terra a lavare l’argenteria, con quello sguardo alienato. Da  qualche tempo non lo sta più nominando e io ho fatto altrettanto. Non posso entrare nella sua testa e leggere cosa pensa però credo stia meglio.

Prima della risposta di Anthony trascorre qualche minuto nel quale a parlare sono solo le voci roche e decisamente mal impostate degli attori del film. Entrambi i ragazzi stanno fissando lo schermo ma, certamente, nessuno dei due sta  prestandovi attenzione. Kyle riflette sulla situazione e Anthony si chiede se sia il caso di proseguire il discorso o se sia meglio parlare d’altro, lasciando che tutta la questione riaffiori qualche giorno più tardi, magari in modo più irruento.

-E credi anche che sia felice?

Domanda. Kyle probabilmente non si aspettava una domanda del genere ed esita prima di rispondere. Osserva Anthony intensamente nel tentativo di fargli cambiare argomento, tuttavia non ci riesce.

-No, di quello ne dubito.

Anthony notando l’imbarazzo di Kyle gli sorride e afferra la sua mano destra, dapprima accarezzandola dolcemente e poi stringendola nella sua mano sinistra, in segno di conforto.

-Guardiamo il film, dopotutto abbiamo pagato ben tre dollari per essere qui. In tempo di crisi è parecchio, sai?

Kyle sorride e volge per un istante lo sguardo verso lo schermo.

-Non ho la più pallida idea di cosa stiano dicendo.

Afferma.

-Ma dai, è francese! Chi non conosce il francese?

Ribatte Anthony, in tono canzonatore.

-Io! E… tu!

Enfatizza Kyle, puntando poi il dito verso il petto di Anthony che lo afferra, trascinando il ragazzo verso di sé, sufficientemente vicino da stampare sulle sue labbra un breve ma dolcissimo bacio, della durata di pochi secondi che fa arrossire Kyle immediatamente.

-Possiamo fargli dire quello che vogliamo, non credi?

Kyle scuote il capo e osserva Anthony  incuriosito.

-Sì, per esempio lo vedi quel tipo con i baffoni neri?

Mentre parla, con la mano libera, indica un uomo sullo schermo dai capelli neri laccati e dai lunghi baffi ancora più scuri. Il film che stanno guardando è ambientato nella Parigi degli anni ’30 e, decisamente, la scelta dei costumi è stereotipata e azzardata.

-Secondo me sta dicendo qualcosa tipo: “Se non verrò ricordato per la mia recitazione, almeno parleranno dei miei baffi!”

Esclama, scimmiottando il personaggio e utilizzando una voce piuttosto buffa che fa immediatamente sorridere Kyle.

-Tu sei pazzo!

Anche Anthony sorride.

-Ad ogni modo, anche tu nascondi ai tuoi genitori i nostri incontri.

L’affermazione di Kyle colpisce Anthony che avrebbe preferito continuare a trattare temi molto più frivoli.

-A loro poco importa che io esca o dove vada, vogliono solo essere sicuri che torni a casa in orario o che non mi vada a cacciare in qualche guaio, di quelli che potrebbero rovinare loro e soprattutto la loro reputazione.

Non è esattamente la risposta che Kyle si aspettava, per questo motivo prosegue con il discorso.

-Credo che possa essere un loro problema invece, ti hanno tolto da scuola e mi hanno pagato uno psicologo solo perché ti ho fatto un… beh, quello che ti ho fatto! Cosa farebbero se sapessero che potrei rifarlo ancora e se facessimo qualcosa di… più grosso?

Kyle arrossisce nel terminare il suo discorso e immediatamente lancia un occhiata ad Anthony, sicuro di scorgere nei suoi occhi il medesimo imbarazzo. Dopotutto hanno deciso di frequentarsi da poco e il tema del sesso non ancora stato affrontato o discusso. Anthony, invece, pare indifferente.

-Qualcosa di più grosso, tipo?

Chiede, con malizia, facendo imbarazzare ulteriormente Kyle che abbassa lo sguardo e sprofonda lentamente nella logora poltroncina.

-Non era quello il punto del discorso.

Puntualizza, a voce bassa.

-Volevo sdrammatizzare!  No ti sto facendo pressioni, ok?

Kyle annuisce, sempre senza alzare lo sguardo.

-E  poi: “Avremo sempre Parigi” … e i baffi di quel tizio! Quelli di certo hanno vita propria…

Kyle scoppia a ridere e torna a guadare il film.

 

***

Con l’arrivo del mese di settembre anche le preoccupazioni di Kyle sono tornate ad emergere.

Ha trascorso due mesi stupendi in compagnia di Anthony ed è stato così bene con lui al punto da non trovare per nulla faticoso il fatto di dover prestare estrema attenzione durante i loro incontri, per evitare occhi indiscreti e malelingue.

Non hanno fatto nulla di speciale durante l’estate, nonostante spesso avessero fantasticato circa weekend a Long Island o da qualche altra parte. Tutto ciò che avevano fatto era stare insieme, ridere, scherzare concedendosi di tanto in tanto, se possibile, qualche momento di tenerezza. Il parco abbandonato, il vecchio cinema indipendente e persino il canale al di sotto del raccordo autostradale, erano parsi ad entrambi luoghi ben più romantici di quanto in realtà fossero, per il semplice fatto che avessero permesso loro di stare insieme senza paura, senza preoccupazioni.

Da un paio di giorni Kyle ha iniziato a notare in Anthony una strana malinconia, una strana tristezza, che in nessun modo il suo affetto o le sue parole sembrano riuscire ad attenuare. Non ha avuto il coraggio di chiederglielo né di riflettervi lui stesso, eppure sa bene che le preoccupazioni e il nascente malumore di Anthony sono dovute all’inizio della scuola.

Dovrà iniziare l’anno, il penultimo, in una nuova scuola.

Kyle era a conoscenza di questa minaccia incombente e per tutta l’estate è riuscito ad evitare il confronto diretto con questa preoccupazione, allo scopo di vivere con più serenità l’estate con Anthony. Questa sua decisione si è rivelata però un’arma a doppio taglio dal momento che quel timore tanto a lungo ignorato si è presentato con la stessa travolgente irruenza del mal tempo autunnale.

Le prime avvisaglie sono stati proprio i malumori di Anthony e, di conseguenza, quelli di Kyle.

 Kyle sta rientrando dalla sua consueta uscita serale. Non si sente felice e spensierato come lo è stato nelle precedenti settimane. Poco prima, quando si sono salutati dandosi il bacio della buonanotte, al posto di quell’avvolgente calore che  fino a quel momento sentiva nel petto, causato dai battiti accelerati del suo cuore, aveva avvertito una dolorosa morsa allo stomaco.

Anthony l’ha salutato con il sorriso sulle labbra ma con la tristezza negli occhi. Entrambi benché non ne abbiamo mai parlato apertamente sentono le lancette dell’orologio indicante il periodo di serenità a loro concesso scorrere inesorabile e ogni sera è un minuto in meno che li avvicina a quella loro fatidica buonanotte definitiva.

Potranno comunque continuare a vedersi nel weekend. Questa è l’ultima speranza di Kyle, quella che gli ha permesso di proseguire quella relazione con il sorriso sulle labbra, senza il benché minimo dubbio di voler ritornare sui suoi passi, di fare marcia indietro. Non si  nemmeno pentito di aver rimandato la sua riconciliazione con Morgan, per tutta l’estate. Al contrario, per quanto gli risulti doloroso ammetterlo, tornasse indietro farebbe tutto esattamente come l’ha fatto.

-Ci vediamo domani pomeriggio?

Gli aveva chiesto Anthony, esattamente come ha fatto nei trascorsi due mesi. Eppure quella volta è stato diverso, generalmente il suo tono risuona nelle orecchie di Kyle come ansioso ed emozionato. Quel giorno, al contrario, la sua domanda è parsa più come una frase fatta, come un’abitudine.

Anche il bacio è stato più freddo. Kyle avverte un brivido lungo la schiena sulla strada di ritorno, non è sicuro di poter attribuire quel riflesso al venticello d’autunno o ai suoi pensieri.

Arriva a casa e subito nota qualcosa di insolito. Davanti alla porta della camera da letto di Christian c’è una valigia. La luce è accesa e lo sente trafficare con grucce, cassetti e ante dell’armadio. Quasi intimorito entra nella stanza e lo trova, straordinariamente sereno, intento a piegare qualche camicia.

-Ehi.

Si limita a dire, vedendolo apparire sulla soglia della porta.

-Ehi… che stai facendo?

Domanda, senza nemmeno concedersi un attimo per tirare ad indovinare. Christian piega quell’ultima camicia e poi lo osserva, con espressione seria. Dopodiché fa spazio sul letto e vi si siede, invitando Kyle a fare altrettanto.

-Così mi spaventi.

Confessa, sedendosi al suo fianco.

-Ascolta, non voglio che tu prenda male quello che ti sto per dire e non pensare che in qualche modo c’entri tu.

Anticipa Christian, sempre piuttosto serio.

-Mi hai ufficialmente terrorizzato.

Christian sorride, un sorriso quasi compassionevole ma triste. Accarezza con tenerezza il viso del figlio e lo contempla per qualche istante, prima di proseguire con il suo discorso.

-Ho un volo prenotato per dopodomani, per San Francisco.

Kyle spalanca gli occhi. Un misto di collera e fastidio gli pervade la mente, impedendogli di mantenere il controllo, rendendo inevitabile una reazione brusca.

-Di nuovo Chris, davvero?

Christian abbassa lo sguardo. Di certo se l’aspettava questa reazione perché la sua risposta è ferma e priva del benché minimo rimorso.

-Sì e andrò solo, questa volta.

Kyle si alza dal letto ed inizia a camminare nervosamente per la stanza.

-No, non posso crederci. Dimmi che scherzi.

Esclama, quasi supplicandolo.

-Sembra una decisione stupida ma è la cosa migliore per me, al momento. Non ti sto assolutamente abbandonando, tornerò.

Le parole di Christian suonano ben poco realistiche e assurde nelle orecchie di Kyle, si chiede se veramente c’abbia pensato.

-“Tornerò”?

Riprende Kyle, sprezzante.

-Non mi sembra giusto costringerti a venire via con me perché tra poco inizierai la scuola e non posso portarti via dal tuo ambiente, la tua vita per il momento è qui.

Kyle non ribatte, non saprebbe cosa altro aggiungere.

-Non starò via molto, te lo prometto. Ho solo bisogno di schiarirmi le idee.

Prosegue Christian. Kyle questa volta non riesce proprio a stare in silenzio. Lo guarda, infastidito e offeso.

-Come se l’ultima volta in cui ci siamo stati ti fosse servito!

Ribatte poi. La sua risposta pare ferire Christian che lascia trascorrere qualche secondo, prima di riprendere a parlare.

-Ho bisogno di andare in un posto dove la sua presenza non sia così soffocante. Questa casa e questa città ne sono pregne. Solo lontano da lui troverò il coraggio di firmare quei documenti, di finirla una volta per tutte.

Christian si alza, raggiunge Kyle e gli prende le mani.

-Ti lascio libero di scegliere dove stare durante la mia assenza. Ne parlerai tu con lui, io non mi voglio mettere in mezzo.

A quel punto, la collera di Kyle aumenta al punto da annebbiargli la vista, impedendogli di proseguire quella discussione in toni rilassati.

-Io non ti ho mai abbandonato da quando tutta questa situazione di merda è iniziata. Io sono sempre rimasto qui e sono sempre rimasto dalla tua parte.

Christian cerca di ribattere ma Kyle continua a parlare, ad un tono di voce talmente elevato al punto di essere difficile da contrastare.

-L’ho fatto perché ero sicuro fosse la scelta migliore, perché credevo che anche tu non mi avresti mai lasciato.

Christian riesce questa volta ad intervenire.

-Non ti sto abbandonando Kyle, starò via qualche settimana. Un mese, forse.

Kyle con rapidità e con forza si libera dalla presa di Christian e si allontana, uscendo dalla stanza. Christian si sente spiazzato e non lo segue immediatamente. Questo finché lo sente aprire la porta d’ingresso.

-Kyle, no! Dove stai andando?

Kyle esce dalla porta e percorre le scale dello stabile rapidamente, senza voltarsi e continuando ad ignorarlo. Christian non ha la forza di seguirlo. Le parole che gli ha rivolto l’hanno fatto sentire colpevole. Non è sua intenzione abbandonarlo, né metterlo in disparte. Quando ha iniziato a preparare le valigie, qualche ora prima, si era sentito leggero, sicuro e convinto della sua idea. Non per un attimo si è fermato a riflettere sulla reazione di Kyle.

Sospira e torna in casa, chiudendo la porta.

 

***

Kyle ha percorso tutto il viale di casa di corsa e solo quando il fiato ha iniziato a farsi corto, ha rallentato il passo. Sente le lacrime scendere copiosamente sul suo viso ma senza aver avvertito l’impulso di piangere. Si ferma, una volta resosi conto di non aver una destinazione o un posto dover rifugiarsi.

Sono le undici passate, non può telefonare ad Anthony. Di sicuro a quest’ora è già a casa e se uscisse di nuovo i suoi probabilmente glielo impedirebbero o tutt’al più si insospettirebbero. Prende il cellulare, rimasto nel taschino del suo giacchetto di jeans.

Apre la rubrica, cercando un’ispirazione. Non vuole prendere in giro se stesso, sa chi deve chiamare. Non vorrebbe farlo perché significherebbe intromettersi eppure, arrivati a quel punto, che differenza farebbe un intromissione da parte sua?

Apre il contatto “Jonathan” ed esita prima di telefonargli. Si è sentito ferito poco prima dalle parole di Christian, tradito in un certo senso. L’aveva trovato strano nell’ultimo periodo, tranquillo sì ma comunque piuttosto assente. Da un lato attribuisce a se stesso la colpa, dal momento che non gli ha parlato molto, poiché era troppo assorbito dalla sua relazione con Anthony, dal suo desiderio di viversi quell’estate tutta d’un fiato, senza alcuna distrazione.

Christian gli aveva parlato di vacanze, un paio di mesi addietro, vacanze che poi non avevano fatto né erano state più nominate. Mai però, nemmeno nel momento nel quale poco prima ha visto quella valigia, ha sospettato che Christian sarebbe partito, da solo.

Si era sentito ferito non tanto perché non lo volesse con sé ma perché la sua presenza non gli fosse sufficiente a superare quella situazione, ad andare avanti. Ce l’aveva messa tutta per stargli vicino, all’inizio aveva pure ignorato Jonathan, si era rifiutato di vederlo e di sentirlo.

Aveva scelto Christian, come Christian stesso aveva scelto lui dieci anni prima.

Senza nulla togliere a Jonathan e ammesso di amare in egual misura entrambi i suoi genitori, ha sempre avvertito una naturale empatia verso Christian. Tra i due è quello con il quale ha litigato più spesso, dal quale è stato spesso punito e messo in castigo eppure è il suo preferito.

Non c’è nulla di strano ad avere un genitore preferito, la maggior parte dei figli ama entrambi i genitori eppure ha una simpatia o un empatia particolare verso uno solo dei due. Per questo le parole di Christian lo hanno ferito così profondamente. Non può sopportare il fatto di non essere “abbastanza”, di non rientrare nemmeno per un attimo nei suoi progetti. Si sarebbe opposto all’idea di partire ma avrebbe voluto essere incluso, avrebbe voluto essere considerato un elemento fondamentale al suo processo di schiarimento di idee e non un peso lasciato a casa.

Un peso.

Si sente proprio in questo modo e non è una sensazione nuova per lui, dal momento che l’aveva avvertita e c’aveva convissuto fin dalla nascita, aveva creduto di potersene liberare solo quando era stato adottato da Jonathan e Christian. Loro l’avevano sempre messo al centro del loro mondo .

Prende coraggio e preme il tasto chiama sotto il contatto di Jonathan. Il telefono suona a vuoto per un po’, almeno una decina di squilli, prima che risponda.

-Sì?

Jonathan deve essere in qualche locale. Riesce a sentire della musica di sottofondo e del vociare indistinto.

-John, ti devo vedere.

Jonathan non risponde subito. Probabilmente la musica gli impedisce di capire.

-Aspetta, non ti sento. Solo un secondo… Ecco, dimmi.

La musica non si sente più, Jonathan è sicuramente uscito da ovunque si trovasse.

-Ho detto che devo vederti.

Ribatte Kyle, con tono serio.

-Ti senti bene? Ti è successo qualcosa?

Domanda immediatamente Jonathan, carico di preoccupazione.

-Non proprio. Ho bisogno di parlarti, per favore.

Risponde, sull’urlo di una crisi di pianto.

-Sono in un locale qui a Manhattan ma arrivo, ti vengo a prendere, dimmi dove sei.

Kyle si guarda in giro. Non sa esattamente dove si trovi.

-Non lo so. Ho camminato e… non saprei, non credo però di essere molto lontano da casa.

L’ambiente circostante non gli è familiare.

-Ci penso io, non ti muovere. Faccio in fretta, promesso.

Non sa esattamente quanto tempo sia trascorso ma Jonathan riesce a trovarlo. Vede la sua macchina comparire all’orizzonte e si avvicina di più al marciapiede sul quale si trova, per farsi notare. Jonathan deve averlo visto però in lontananza perché si ferma subito e lo fa salire in auto.

-Ehi… che è successo?

Gli chiede, appoggiandogli una mano sulla spalla e carezzandola con dolcezza.

-Possiamo andare via di qui?

Chiede Kyle, prima di rispondere.

-Sì, certo.

Jonathan mette in marcia. Kyle non ha il coraggio di parlare, guarda davanti a sé la strada scorrere e i semafori lampeggiare.

-Sta partendo.

Esclama poi, prendendo coraggio. Irrompendo con violenza nel silenzio fino ad ora presente in auto.

-Chi, tesoro?

Domanda Jonathan, pacatamente.

-Lui, chi sennò?

Jonathan non parla, apre per un momento la bocca con l’intento di dire qualcosa ma non esce alcun suono. Kyle si gira verso di lui e lo osserva. Ha gli occhi puntati sulla strada e, indossando gli occhiali, è difficile vedere correttamente il suo sguardo.

-Vuole andare di nuovo in California e non sa quando tornerà.

Prosegue Kyle, sperando che questa volta Jonathan risponda. Speranza, immediatamente, delusa. Jonathan continua a guidare, quasi lo ignorasse.

-Mi stai ascoltando, almeno?

Jonathan accosta. Spegne il motore, alza la leva del freno e poi si toglie gli occhiali.

-Sì, ti ho sentito.

Risponde poi, senza però aggiungere altro, senza commentare effettivamente ciò che Kyle vuole commenti.

-Andrà lui solo, senza di me. Lo capisci?

Aggiunge Kyle, con più decisione questa volta.

-Lo capisco. Presumo mi farà una telefonata per dirmelo di persona, non puoi certo stare a casa solo, se è questo che ti ha fatto preoccupare così tanto.

Kyle scuote il capo incredulo. Non era questa la reazione che si aspettava da Jonathan.

-No, non lo farà. Partirà dopodomani e vuole che decida io cosa fare.

Jonathan si sfila gli occhi ed inizia a pulirli con l’angolo della giacca che indossa. Un gesto chiaramente nervoso. Kyle sa che si sta contenendo, che non sta veramente esternando ciò che vorrebbe. Se ne sta immobile a pulire quei suoi maledetti occhiali, quasi fosse la cosa più importante in quel momento.

-Lo fa perché vuole decidersi a lasciarti andare ma non può farlo finché ti sente vicino.

Commenta Kyle, con tono più tranquillo e più riflessivo.

-Se è quello che crede giusto…

Le parole di Jonathan lo deludono.

-Come può essere la cosa giusta? Come puoi permettergli una cosa del genere?

Il tono di Kyle torna ad alzarsi. Jonathan smette di pulire gli occhiali e rivolge lo sguardo verso Kyle che si trova sorpreso nel non ritrovare nel suo viso alcuna emozione particolare. Sembra quasi si sia arreso, è del tutto passivo.

-Io non ho più il diritto di fare nulla, Kyle. Ciò che mi interessa ora è solo il tuo benessere, per cui ti riporto a casa e ci sentiremo domani o dopodomani per decidere dove starai.

Kyle scuote il capo. Ha intenzione di sentire un discorso differente da lui, quelle parole deboli e circostanziali non gli interessano. Non gli ha telefonato per quello.

-Potrebbe non tornare, lo sai? Ha parlato di un mese o forse più. Non puoi lasciarlo andare!

Jonathan rimette in moto l’auto, senza dire altro. Kyle, preso dalla rabbia, dall’agitazione, afferra con forza la leva del freno a mano, alzandola e facendo inchiodare la macchina.

-Ma che ti salta in testa?

Gli urla Jonathan, spaventato e infuriato.

-Volevo che reagissi.

Risponde Kyle, senza il benché minimo rimorso.

-Hai rischiato di farci ammazzare, ecco cos’hai fatto.

Ribatte Jonathan, sempre furibondo.

-Lo so che non vorresti che se ne andasse quindi, per favore, impedisciglielo! Sali in casa, strappa quei documenti, urlagli che non deve partire. Qualsiasi cosa ma non stare lì a guardare, ti prego!

Jonathan scuote il capo.

-Ho già fatto qualcosa Kyle, gli ho dato il modo per allontanarsi da me.

Kyle cerca di ribatte ma Jonathan lo interrompe, gli fa cenno con la mano di non parlare, di non proseguire oltre.

-Se per farlo ha bisogno di andare a Santa Monica un mese o per sempre… che sia! Starà meglio così.

Kyle non ha più la forza di ribattere. La risposta di Jonathan gli è parsa sincera e carica di dolore. Continua a credere che non voglia lasciarlo andare davvero, che la sua intenzione sarebbe quello di fermarlo ma, riflettendoci, comprende il suo punto di vista. Non è mai stato concorde con l’idea secondo la quale se si ama una persona sia necessario lasciarla andare e continua a non condividerla.

Arrivato a questo punto, nemmeno lui sa cosa veramente sperasse di ottenere telefonando a Jonathan. Forse vive ancora troppo nel mondo delle favole e nel mondo della fantasia nel quale grandi , esagerati ed estremamente possessivi gesti romantici, sono utili a porre la parola “lieto fine” anche alle situazioni più irreversibili.

La storia d’amore dei suoi genitori gli era sempre sembrata una bella favola ma solo ora si rende conto che pian piano ha assunto le tinte fosche della tragedia. È la vita reale e i lieti fine non esistono o  non sono destinati a durare, Jonathan e Christian ne hanno già avuti troppi nella loro storia e, a quanto pare, non ne sono previsti altri.

---> Eccomi anche questo sabato. Voglio intanto ringraziare  jaryshanny per la recensione, mi ricordo le tue recensioni e mi fa piacere rivederti di nuovo a commentare. Ringrazio anche per la recensione kiki4ever, mi fa piacere che tu abbia apprezzato particolarmente l'ultimo capitolo, è in effetti uno dei miei preferiti, tra quelli fino ad ora pubblicati.

Voglio anche ringraziare i lettori silenziosi, siete stati davvero in tanti questa volta e vedere che questa storia venga letta anche dopo così tanto tempo, anche dopo le mie assurde latitanze mi riempie veramente di gioia. Sono  sinceramente dispiaciuta del fatto che ormai siamo agli sgoccioli. Un paio di giorni fa ho iniziato a revisionare uno degli ultimi capitoli... ci siamo e, davvero, preparatevi!!Nel prossimo succederà qualcosa di MOLTO MOLTO grande. Spero che continuerete a leggermi e ad apprezzare questi ultimi capitoli. 

Putroppo causa studio per gli ultimi esami prima della laurea (ouch!) non ho avuto molto tempo per aggiornare il sito, ho preferito dedicare il mio tempo libero alla revisione dei capitoli da pubblicare ma vi assicuro che prima della fine (e prima della pubblicazione del Prequel) verrà arricchito. 

Grazie a tutti e... a sabato prossimo! <---

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Capitolo 41
*** It's never a goodbye (Non un addio) ***


41. It's never a "good"bye (Non un addio)

Kyle non parla con Christian dalla sera prima, da quando è uscito di casa. Quando Jonathan l’ha riportato a casa ha fatto il possibile per evitarlo, non che gli sia risultato difficile, dal momento che nemmeno Christian ha cercato il dialogo.
La situazione nella quale si trova è del tutto surreale, non gli è mai successo di mantenere le distanze con lui, non più di un paio d’ore, nemmeno da bambino quando per punirlo per un brutto voto in compito  o per una bugia gli toglieva la PlayStation o le piste delle Hotwheels. Si sente morire dentro per questo suo atteggiamento e vorrebbe tanto tornare a parlargli come se nulla fosse, eppure una parte della sua testa gli dice che non è giusto, che non è lui questa volta a sbagliare. Per quanto presuntuoso e assurdo possa sembrargli Christian si sta veramente comportando da egoista in quel suo desiderio di scappare via, egoista e immaturo. Detesta rivolgersi a lui con epiteti del genere ma non può fare altrimenti.

Sono le dieci del mattino e si trova ancora a letto, nel buio della sua stanza. Non ha ancora aperto le finestre e non ne sente la necessità. L’estate ormai è finita e mal tollera il debole e illusorio sole autunnale. Trova strano che Christian non si sia presentato in camera per svegliarlo eppure è felice che non l’abbia fatto, avrebbe finito con rispondergli male e, almeno questo, vorrebbe evitarlo. Desidera scioccamente di starsene in quel letto e in quella stanza tutto il giorno senza fare nulla, senza parlare con lui né trovarselo davanti eppure sa che non sarà possibile. Sospira sonoramente e decide di abbandonare il letto, tutto eseguito compiendo piccoli movimenti.
Appoggia appena i piedi sul pavimento dopodiché si alza e apre la finestra, facendo attenzione a non fare troppo rumore. Uscendo dalla sua stanza ha quasi paura a  rivolgere lo sguardo a destra, in direzione del tavolo da pranzo, poiché è sicuro di trovarvi Christian a leggere il giornale o a fare colazione.

Non c’è.

Kyle si sente disorientato. Per un attimo teme che sia già partito, che abbia deciso di andarsene di notte senza dirgli nulla, abbandonandolo completamente. Poco dopo, però, nota che il tavolo è apparecchiato con un tovagliolo, un tazza per fare colazione e un cucchiaio, probabilmente per i cereali. Sopra la tazza è posato un biglietto, strappato da un foglio di quaderno a righe.

“Sono andato in Università, mangia i cereali per colazione.”

Kyle tiene il biglietto tra le dita e istintivamente lo appallottola gettandolo per terra. Si siede proprio dove Christian ha apparecchiato per la colazione. Non ha fame e non crede proprio mangerà. Il suo unico desiderio in quel momento è quello uscire, di andar fuori. Si alza immediatamente e si precipita in camera per vestirsi. Manderà un messaggio ad Anthony, chiedendogli di pranzare insieme. L’unico modo nel quale crede di riuscire ad evitare tutta quell’angoscia è stando con lui.



Anthony  ha risposto in modo più che positivo al messaggio di Kyle, lo sta aspettando come di consueto davanti al vecchio cinema. Diversamente dal solito gli corre incontro non appena lo vede apparire dietro l’angolo.

-Ehi, tutto bene?

Chiede, con sguardo preoccupato.  Kyle fa spallucce, nel messaggio con il quale gli ha chiesto di incontrarsi non ha specificato il motivo.  Inoltre, al momento non se la sente di raccontare ad Anthony quanto sia successo nelle ultime dodici ore, non si sente pronto.

-Mi andava di uscire…

Risponde sommessamente, alimentando i sospetti del ragazzo che continua a fissarlo con sguardo inquisitorio, nell’attesa che aggiunga altro.

-Non ho fatto colazione e ho fame, facciamoci un panino da qualche parte, ok?

Chiede Kyle, tentando probabilmente invano di deviare il discorso che intende affrontare solo quando si sentirà realmente pronto.

***
Christian è da poco uscito dallo studio del coordinatore della sezione di Arte dell’università. È rimasto chiuso nel suo ufficio per circa un’ora, sostenendo un colloquio molto difficile e impegnativo. Sta scendendo lo scalone principale del dipartimento, in modo piuttosto rapido. Vuole abbandonare immediatamente la facoltà, senza ripensamenti, senza ulteriori rimorsi. Si sente in colpa per la sua decisione ma non avrebbe potuto fare altrimenti.

-Oh, non penserai di scappare così!

Christian sospira. Sa a chi appartiene quella voce ma cerca di tirare dritto perché non ha intenzione di parlare con nessuno, men che meno con lui. Tuttavia il suo tentativo di fuga viene immediatamente bloccato.

Si tratta di Ronald, come Christian aveva intuito. L’uomo lo afferra da dietro per un lembo della camicia, costringendolo a fermarsi, non lasciandogli altra scelta.

-Ronald, per favore…

Cerca di ribattere in tono seccato. Ronald molla la presa sulla camicia ma si pone davanti a lui, a braccia conserte, intenzionato più che mai a ricevere delle risposte.

-È vero quello che si dice da stamattina in Dipartimento?

Domanda infine, con tono serio. Christian cerca di aprire la bocca ma Ronald, con sorpresa, lo ferma facendogli cenno con la mano di tacere.

-E sappi che non voglio sentirti dire “Che cosa?” o qualsiasi altra stronzata, la verità Christian.

Christian annuisce e prende fiato, prima di parlare.

-Sto partendo. Gli esami autunnali inizieranno tra un paio di giorni e i corsi il mese prossimo, non posso andarmene senza avvisare.

Sulle labbra di Ronald appare un sorrisino di sdegno, che subito si tramuta in una smorfia. Evidentemente ciò che ha appena detto Christian non è quello che vuole sentirsi dire.

-Ti ho detto: “niente stronzate”.

Aggiunge.

-Non è una stronzata, è la verità.

Ribatte Christian, apparentemente sicuro della sua risposta. Ronald si concede qualche attimo per scrutarlo, prima di parlare di nuovo. Benché le parole di Christian possano suonare sincere, il suo volto lo tradisce.

-E hai bisogno di un anno di congedo? Cos’è, vai in missione in Congo, per caso?

Christian abbassa lo sguardo e non ribatte. Questo suo atteggiamento remissivo infastidisce Ronald. Che subito lo afferra per entrambe le spalle e lo scuote. Christian alza lo sguardo. I due si osservano intensamente negli occhi, per qualche secondo. Proprio durante quegli attimi Ronald, avendo analizzato lo sguardo di Christian, avendo intuito che c’è qualcosa di oscuro nei suoi occhi, decide di smorzare i toni.

-Qual è la verità?

Chiede, con tono decisamente più pacato.

-Andrò in California per qualche tempo.

Risponde Christian. Ronald sa che c’è dell’altro ma non glielo chiede, si limita ad osservarlo negli occhi. Allenta un po’ la presa, appoggiando appena le mani sulle spalle di Christian che nel frattempo è rimasto immobile, senza muovere un singolo muscolo.

-L’insegnamento è qualcosa che amo, qualcosa  al quale ho dedicato parte della mia vita. Per me insegnare, insegnare arte, è quasi come una missione. Dedico tanto tempo a preparare i miei discorsi e ci metto decisamente più di me di quanto vorrei e dovrei nelle mi spiegazioni. Non è solo un lavoro è una passione che va seguita, che va curata. Nelle condizioni nelle quali mi trovo non sarei in grado di farlo bene. Per questo ho bisogno di una pausa…

Aggiunge quindi Christian, con voce debole. Le sue parole sono sincere, Ronald è sicuro nell’affermare che provengano direttamente dal suo cuore. Quella dedita e profonda passione che Christian mette nel suo lavoro è qualcosa che conosce, che ha avuto modo di osservare. Sentendo quella confessione, gli pare quasi di dialogare direttamente con l’anima di Christian, un’anima sicuramente candida e innegabilmente tormentata. Quell’ombra scura che ha notato subito nei suoi occhi non è un buon presagio, è qualcosa però riconosce, che ha provato.

-Cosa ti ha fatto, questa volta?

Domanda, sicuro di centrare il punto. Christian scuote il capo.

-Nulla, ha solo deciso di lasciarmi andare.

Ronald spalanca gli occhi, vuole intervenire ma non riesce e, in ogni caso, Christian parla prima che abbia tempo di formulare anche un singolo pensiero.

-…e io non sono pronto.

Fa un’altra pausa, più breve, utile probabilmente a fargli prendere fiato.

-Ho bisogno di starmene per un po’ in un posto dove non lo veda ovunque. A casa è come se fosse sempre presente: sdraiato sul divano che abbiamo comprato da Walmart, appoggiato alle pareti verde acqua che lui ha sempre detestato, seduto sulla sedia del tavolo da pranzo sulla quale né io né Kyle abbiamo avuto il coraggio di occupare…

Ronald nota che le parole di Christian iniziano a diventare deboli e cariche di sofferenza, parole spezzate, che nascondono malinconia, dolore, disperazione. Non vuole che vada oltre per cui annuisce col capo in modo deciso, per indicargli che va bene così, che ha detto abbastanza e che non ha bisogno davvero di andare oltre.

-Va bene.

Aggiunge alla fine, lasciandolo andare. Christian annuisce a sua volta e si gira, continuando a scendere le scale. Ronald lo osserva andare via, finché non arriva proprio in fondo, all’ultimo scalino. Ha qualcosa in fondo alla gola, un pensiero che vuole uscire e che vuole tanto diventare reale. Sa che non ne avrebbe il diritto e che probabilmente concretizzarlo non servirebbe a nulla se non a ferire entrambi, eppure deve farlo. Sente che quelle parole hanno bisogno di una forma, che hanno bisogno di essere ascoltate.

-Con me sarebbe andata diversamente.

Esclama, con voce tonante. Non c’è quasi nessuno nelle vicinanze e i soffitti alti e antichi fanno sì che le sue parole vengano diffuse in modo più profondo, creando un eco piuttosto forte, decisamente difficile da ignorare. Christian si gira.

-Fa’ buon viaggio, biondo.

Aggiunge poi con un sorriso, cercando di sdrammatizzare e di rientrare più nel suo “personaggio”. Christian annuisce, gli fa un cenno di saluto con la mano dopodiché esce dall’edificio. Ronald rimane su quella scala ad osservarlo, finché la sua immagine smette di avere dei contorni ben delineati e diventa solo qualcosa di lontano, di indefinito. Non è solo Christian ad andare via, con lui se ne va’ anche la speranza di Ronald che quel sentimento che prova per lui un giorno possa effettivamente concretizzarsi.

L’amore che Christian prova per Jonathan è una forza inarrestabile. Si tratta di quegli amori travolgenti che all’apice del loro corso assumono la forma di un angelo, di una creatura di luce eterea e superiore che avvolge e protegge ma che, se viene intrapreso il percorso sbagliato, si tramuta in un terribile demone dagli artigli affilati che si conficcano nella pelle nel tentativo di strapparla e di non fermarsi fino ad arrivare in fondo, fino a toccare le ossa per poi frantumare anche quelle, senza pietà.
Non è un amore dal quale si guarisce facilmente. No, il processo di guarigione è lento, doloroso e a volte nemmeno assicurato. L’ha capito solo quando ha visto quell’ombra scura negli occhi di Christian, la stessa ombra che ha notato allo specchio nei suoi stessi occhi, dopo aver perso per sempre il suo compagno, dieci anni prima, in quel fatale incidente ferroviario.

***
 Kyle sta mangiando il cheeseburger che ha ordinato. Anthony non fa che osservarlo, aspettando con impazienza il momento nel quale confesserà finalmente le sue preoccupazioni. Non sembra minimante interessato ad aprirsi con lui, né a sostenere una qualsiasi discussione, dal momento che non ha aperto bocca se non per mangiare. Sembra veramente affamato ed è strano da parte sua. Kyle non è un tipo con particolari passioni per il cibo, sicuramente quel suo comportamento serve a mascherare qualcosa, ad aiutarlo a non pensare a ciò che realmente lo turba.

Anthony non ha per niente fame. Ha ordinato lo stesso panino di Kyle ma non è ancora riuscito a dargli un morso. La tensione e la preoccupazione gli hanno chiuso lo stomaco, vorrebbe tanto comportarsi come Kyle e fare finta di nulla ma non ci riesce. Prende in mano il panino, nel tentativo di addentarlo. Si concentra particolarmente sulla forma ben poco armoniosa del pane, sull’odore forte della cipolla a cubetti, probabilmente presente in dose eccessive e sulla bistecca contenuta nel panino, di dubbia provenienza. Generalmente è meno schizzinoso riguardo al cibo. Certo, a casa è abituato a pranzi ben più prelibati ma non disdegna un buon cheeseburger né un hot-dog comprato da un ambulante per strada. Semplicemente è troppo preoccupato perché la sua mente gli dia un qualsiasi input. Con rassegnazione appoggia il panino nel piatto di carta dove era stato fino a quel momento e torna a fissare Kyle.

Si chiede se anche lui non sia preoccupato per l’inizio della scuola. Manca veramente poco. Tra una manciata di giorni i loro incontri verranno ridotti drasticamente. Anche appuntamenti strani e confusi come quello attuale diverranno un semplice ricordo. Dovranno accontentarsi del weekend, sempre che il carico di studio fornito dalla nuova scuola non sia eccessivamente impegnativo. Anthony teme che Kyle abbia deciso di uscire così presto quel giorno per parlare finalmente di quella questione, che hanno entrambi fino a quel momento accuratamente evitato.

Si fa forza e ormai stanco di aspettare decide di intervenire.

-Kyle, è arrivato il momento di parlarne.

Kyle alza finalmente lo sguardo e osserva Anthony incuriosito.

-Di cosa vuoi parlare?

Chiede infine, continuando a far finta di nulla.

-Di come cambieranno le cose, tra qualche giorno.

Aggiunge Anthony, con sicurezza. Kyle non ribatte e agli occhi Anthony risulta confuso, disorientato. Tra i due torna a regnare il silenzio, rotto solo da Kyle, almeno un paio di minuti dopo.

-Voglio farlo.

Anthony non ribatte, aggrotta la fronte e gli rivolge uno sguardo di incertezza, del tutto insicuro di ciò che voglia dirgli.

-Che cosa?

Chiede poi, con ovvietà.

-Quello, esattamente quello che pensi.

Anthony rimane pietrificato dalle parole di Kyle, capisce finalmente a cosa si riferisca ma non era per nulla ciò a cui stava pensando. La sua mente, almeno in quel momento, non era stata nemmeno lontanamente sfiorata dal quel pensiero.

-No, non capisco. Cioè, ho capito cosa vuoi dire ma… perché tirarla fuori così, di punto in bianco?

Kyle fa spallucce. Il suo atteggiamento è sempre più strano, Anthony è sicuro che quell’affermazione gli sia uscita dalla bocca per caso, che non sia esattamente ciò che voleva dire o che, più probabilmente, ci sia dietro dell’altro

-Mio padre, Christian, se ne andrà in California per qualche tempo. Ho la casa libera, possiamo approfittarne.

In quella frase apparentemente normale, pronunciata con incredibile indifferenza e spontaneità, Anthony riesce a captare il vero motivo per il quale Kyle ha sentito il bisogno di vederlo in modo così urgente. Stesso motivo che deve averlo spinto ad esprimere quel desiderio, a fargli quella proposta. Kyle ha capito che Anthony è stato in grado di intuire la verità, dal momento che non ha ancora aperto bocca. Per questo motivo, lo anticipa.

-Sì, se ne va. Ma non voglio parlare di quello, davvero. Voglio parlare di noi, di quello che ti ho detto.

Aggiunge. Anthony non si sente convinto, ha paura che Kyle voglia utilizzare anche quella cosa come mezzo per non pensare ai suoi problemi, alle sue preoccupazioni. Non nega che quell’aspetto lo incuriosisca e che voglia effettivamente farla quell’esperienza eppure sente che Kyle non ha messo la questione sul tavolo perché si sente pronto o perché ne sente il bisogno. Vuole che quell’esperienza sia spontanea, non cercata e che di certo non sia un pretesto per dimenticare qualcos’altro. Col rischio di offendere Kyle, decide di tirarsi indietro.

-No, senti, così non mi va’.

Kyle sembra stupito.

-“Non ti va’”?

Anthony scuote il capo.

-Non così.

Kyle abbassa lo sguardo, senza ribattere. Dopo qualche istante, però, a seguito di un respiro molto profondo e con il cuore che batte all'impazzata, prende coraggio.

-Ascolta...

Una breve pausa, necessario ad aiutarlo a raccogliere i pensieri, a riordinare le idee.

-Hai detto tu stesso che tra poco inizierà la scuola e... non sappiamo come cambieranno le cose tra noi. Proprio per questo motivo voglio farlo.

Anthony apre la bocca e cerca di intervenire ma Kyle lo precede. Non ha finito e vuole che Anthony senta tutto ciò che ha da dire.

-Sì, questa cosa di Christian mi distrugge, è evidente. Però ti assicuro che non preso la mia decisione basandomi su questo, al contrario ho cercato di sftruttare la cosa a mio favore, per quanto negativa possa essere.

Anthony non è ancora convinto. Scuote il capo ma pare non voglia più ribattere. Kyle allunga la mano sul tavolo, afferrando la sua, intrecciando le sue dita con quelle di Anthony, una presa forte.

-Credimi.

Anthony continua a pensare che il ragionamento di Kyle sia condizionato e ben lontano dall'essere sentito e spontaneo, tuttavia nella stretta bisognosa della sua mano, nel suo sguardo così ingenuo e quasi supplichevole, riesce a scorgere una grande richiesta di aiuto, alla quale non può certo tirarsi indietro.

-Va bene.

Risponde, sorridendo e innescando al tempo stesso il sorriso di Kyle.


***
Il giorno della partenza di Christian è arrivato.

Sono le sette e il suo volo partirà tra due ore. Kyle è sveglio, non ha dormito neanche un minuto durante la notte precedente. Si trova nel suo letto, avvolto dal piumino quasi fino alle orecchie, è sdraiato su un fianco e parte del suo viso è affondata nel cuscino. Sta ascoltando da quasi una quarantina di minuti ogni singolo movimento di Christian: i suoi passi rapidi, le ruote dei due trolley, persino l'acqua corrente del lavandino.

Sta cercando di restare calmo ma il suo cuore non glielo permette. Ogni attimo di esitazione, ogni rumore di passo mancato, teme che sia quello decisivo, quello dopo il quale Christian uscirà definitivamente da quell'appartamento. La sera prima non hanno parlato del trasferimento. La conversazione a tavola è stata piuttosto strana e sorprendentemente tranquilla, avevano ripreso a parlarsi quasi come sempre. A Kyle era parso quasi che la partenza di Christian fosse stata solo un sogno, un frutto della sua immaginazione, dal quale si era finalmente svegliato.

Questo finché non aveva notato il passaporto di Christian appoggiato sulla credenza in sala, pronto ad essere utilizzato. Da quel momento la conversazione aveva iniziato ad assumere per lui i tratti del surreale, del grottesco. A Kyle era diventato tutto d'un lampo chiaro quanto Christian si stesse sforzando per far finta di nulla, per non fargli pensare alla partenza. Deve averlo fatto sicuramente per non dargli ulteriori turbamenti ma anche per evitare discussioni scomode. Affrontare l'argomento di nuovo li avrebbe portati sicuramente a litigare e di certo una lite non avrebbe potuto che aggravare una situazione già di per sé molto seria.

Tutto d'un tratto, la porta della stanza di Kyle si apre. Christian se ne sta andando, è pronto, il momento è arrivato. Kyle non se la sente di parlargli ora, non lo vuole salutare, non ce la farebbe. Ragion per cui finge di dormire. Non gli è difficile, ha finto spesso di dormire, solitamente però l'ha fatto per superare i "controlli" dei genitori e poter tornare a giocare con il Nintendo DS ancora acceso e in pausa, posizionato sotto il cuscino.

Kyle deglutisce e cerca di mostrarsi più rilassato possibile. Christian si avvicina a passi lenti, cerando di non fare troppo rumore. Kyle non riesce a vedere cosa stia facendo, avendo gli occhi chiusi ma dal suo respiro, più affannoso di quanto dovrebbe, sa che è li, davanti a lui, ad osservarlo. Poco dopo infatti gli accarezza il capo con dolcezza, passando le dita tra il suo disordinati capelli ricci, una carezza lunga ma molto piacevole che mette a dura prova le emozioni di Kyle. Un potente e fastidioso nodo in gola inizia a spingere, pronto per scoppiare in un singhiozzo ma lui non può permetterselo, deve resistere.

Christian smette di accarezzare i capelli però, sposta una ciocca dalla fronte di Kyle sulla quale appoggia delicatamente le labbra, lasciandovi un tenero ed affettuoso bacio. Kyle è costretto a deglutire, cerca di essere più silenzioso possibile.

-Ci vediamo presto, amore mio.

Sussurra poi. Kyle è sicuro che si sia accorto che sta solo fingendo di dormire ma che abbia deciso di non dire nulla, di stare al gioco, come ha sempre fatto con il Nintendo DS acceso, la cui luce era impossibile non notare.

Esce dalla stanza, socchiudendo la porta di Kyle. Altri due passi, tre, quattro e infine esce, chiudendo la porta a chiave. Proprio in quel momento Kyle si lascia andare, comincia a piangere con disperazione, fino quasi a perdere il respiro.





---> So a cosa state pensando: Dov'è la cosa GROSSA che sarebbe dovuta accadere? Nel prossimo capitolo, tranquilli ;) Questa settimana dubitavo sarei riuscita a postare (infatti sono in ritardissimo!!!!). Il capitolo che leggete è stata una "decisione dell'ultimo minuto". La prima parte era prevista mentre la seconda l'ho scritta proprio ora, per non lasciarvi "a bocca asciutta". Purtroppo ho avuto una settimana TERRIBILE. Ho iniziato con un'influenza spezzagambe e ho concluso con l'abbandono del mio pc.

Sto scrivendo tutto direttamente da NVU perché la suite di Office Starter non si è installata bene dopo il Ripristino sul mio pc e mi tocca chiamare quindi la Microsoft per capire come fare. Quindi perdonatemi per eventuali errori ortografici, spaziature sbagliate, paragrafi "strani". Ho voluto comunque darvi qualcosa da leggere, spero apprezzerete. Da settimana prossima tutto tornerà alla normalità, farò il possibile.

Ringrazio  pinkylu per il commento e... A sabato prossimo! <.---

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Capitolo 42
*** Running Out of Time (Corsa contro il tempo) ***


42. Running out of time (Corsa contro il tempo)

Sono le 16.30 e Jonathan si è appena alzato dal letto, dopo una lunga e pesantissima nottata. Deve aver particolarmente esagerato col fumo o con l’alcool durante ultime due sere e il suo stomaco non ha retto. Praticamente ogni sera dal giorno nel quale ha deciso di consegnare i documenti per la separazione a Christian, l’ha trascorsa in bar, discoteche, pub o qualsiasi posto affollato e pieno di gente e di distrazioni utili ad annullare le voci nella sua testa, soffocare suoi pensieri, lenire la sua sofferenza. Non è mai stato un grande frequentatore di locali a parte il “Vampiria” tanti anni prima, né un grande bevitore. Regge parecchio bene l’alcol, tutto sommato. Tuttavia c’è sempre un limite e lui deve averlo superato.

Sudore freddo, nausea, vista sempre più difficoltosa. Aveva quasi temuto di morire da solo sul pavimento di quel piccolo vuoto bagno del suo appartamento.

Il suo cuore aveva iniziato a battere talmente forte, al punto che aveva creduto fosse pronto a saltargli fuori dalla gola. In qualche modo, comunque, deve essere riuscito a raggiungere il letto quella sera, perché è lì che si è svegliato. Le gambe ancora faticano a reggere il suo peso, lo stomaco è ancora in continuo movimento e la testa duole, quasi fosse sotto la costante mira di un martello. Ha dormito per circa dodici ore filate e non ha alcuna intenzione di mangiare, non ne sarebbe in grado. Si accascia mollemente sul divano.

Dovrebbe telefonare a Kyle per decidere insieme come far fronte alla partenza di Christian, dovrà convincerlo a venire a casa sua e sa che sarà molto difficile. Non riesce però a pensarci in questo momento, è piuttosto tardi per cui se ha aspettato fino ad ora una mezz’ora in più non farà certo la differenza.

“… questo per ora è tutto, vi terremo informati circa i superstiti e le condizioni dei feriti.”

Jonathan si stropiccia gli occhi e si rende conto di essersi inavvertitamente seduto sopra il telecomando del televisore. Riesce a sentire solo delle voci confuse e non è ancora in grado di focalizzare le immagini trasmesse sullo schermo. Istintivamente allunga il braccio sinistro e afferra i suoi occhiali. Sono un po’ sporchi ma non ha intenzione di lavarli per il momento, ragion per cui li inforca e torna a fissare lo schermo.

-Incidente aereo!

Sobbalza, improvvisamente.

Immediatamente un flash fa si che una lampadina si illumini del suo cervello. Una folgorazione improvvisa gli permette di acquistare una adeguata lucidità mentale. Ad innescare tutto il processo è una paura, che ancora non ha il coraggio di formularsi nella sua testa. Rapidamente afferra il telecomando per alzare il volume, tuttavia in quel momento il telegiornale è finito. Inizia allora a fare zapping in maniera frenetica, alla ricerca di un qualsiasi notiziario che per sua fortuna non fatica a trovare.

Alza di nuovo il volume e ascolta attentamente ogni singola parola.

“Buonasera, edizione speciale delle 16.35 per tenervi informati circa l’incidente aereo che ha avuto luogo tra le 9 e le 10.30 di stamattina sulla rotta New York- San Francisco”

Il cuore di Jonathan si ferma, le sue orecchie non sono in grado di sentire altro. Balza in piedi con il rischio cadere per terra e raggiunge la giacca, dove la sera prima si ricorda di aver lasciato il cellulare. Nessuna chiamata persa, nessun messaggio. Riesce a stento a vedere lo schermo ma andando a memoria cerca i tasti cercando di comporre il numero di telefono di Christian. Non gli parla da due mesi ma non gli importa, deve sapere se sta bene. In cuor suo spera di sentirlo dall’altro capo del telefono inveire contro di lui, insultarlo ululandogli addosso tutta la rabbia che ha in corpo e sarebbe felice, la persona più felice della terra. Tuttavia, alimentando le sue più grandi paure, non risponde.

-Spento.

Commenta cercando di placare quel rapido attacco di tachicardia che lo coglie improvvisamente. Sente la pressione del sangue salire pian piano, il capo inizia a pesargli. Fa un respiro profondo e decide di telefonare a Kyle. Prima di comporre il suo numero cerca di ordinare il pensieri e tenta di formulare un discorso conciso ma che al tempo stesso non lo spaventi.

-Pronto?

Risponde Kyle dall’altra parte, con voce piuttosto tranquilla. Jonathan cerca di calmarsi.

-Kyle, tutto bene?

Chiede, non sapendo che altro dire.

-Sì, perché?

Jonathan prende fiato e con la coda dell’occhio si rende conto che la mano sinistra, quella non impegnata a reggere il telefono, sta stringendo in modo piuttosto deciso il lembo di uno dei cuscini del divano.

-Dove sei?

Chiede.

-A casa.

Risponde Kyle, in tono poco convinto. Deve essere una bugia, non è mai stato bravo a dirle. Tuttavia al momento a Jonathan non interessa, se ne potrà occupare in un altro momento.

-Hai… notizie di Christian?

-No. Perché, c’è qualcosa che non va?

Anche Kyle inizia ad agitarsi. Esattamente l’ultima cosa che Jonathan avrebbe voluto.

-No, non lo so. Non hai guardato il telegiornale?

Ribatte, facendosi forza.

-No. È successo qualcosa che dovrei sapere?

Jonathan cerca le parole per rassicurare Kyle, impresa alquanto difficile. Al momento le sue condizioni mentali e fisiche gli permettono a malapena di stare seduto su quel divano a parlare al cellulare. Anche la sola formulazione di frasi a senso compiuto gli crea problemi.

-No, sono sicuro che va’ tutto bene, tranquillo.

Kyle, naturalmente non gli crede.

-Non mi avresti chiamato. Dimmi cosa è successo!

Jonathan decide allora di spiegare cercando di essere più oggetto e tranquillo possibile, tentando perlomeno di non trasmettere le sue più grandi angosce e paure anche a Kyle.

-Dobbiamo chiamare la nonna!

Esclama subito Kyle, appena ascoltata la spiegazione.

-No, non dobbiamo preoccupare Angela.

Lo ferma subito Jonathan. Inizia a pentirsi di aver telefonato subito a Kyle, dopotutto ha solo sedici anni e non è giusto lasciargli gestire una situazione del genere. Forse avrebbe fatto meglio ad alzarsi, cercare il numero della compagnia area e informarsi riguardo all’accaduto.

-Ma vedrà il telegiornale!

La voce di Kyle si rompe in un singhiozzo. Jonathan inizia a maledirsi per il suo gesto impulsivo.

-No no, ehi! Lo sai cosa dicono, no? “Nessuna nuova; buona nuova.”

La sua sciocca frase fatta non ha alcun effetto su Kyle, il cui pianto sembra essere se possibile più disperato.

-Kyle, ascoltami. Dimmi la verità, dove sei?

Il senso e la responsabilità paterna di Jonathan gli permettono di tornare parzialmente in sé. È sicuro che se provasse ad alzarsi le sue gambe lo tradirebbero, facendolo cadere a terra senza pietà. Tuttavia inizia a riacquistare una certa lucidità, perlomeno si convince di averla riacquistata, per il bene di suo figlio.

-A casa… con Anthony.

Jonathan si ricorda di aver già sentito quel nome ma non gli ricorda nulla di particolare.

-Chi?

Kyle non risponde subito.

-Kyle, per favore, chi è Anthony? Un tuo amico? Voglio sapere se sei in un posto sicuro, con una persona affidabile.

Jonathan alza involontariamente la voce. Se ne pente poco dopo ma non si scusa.

-Il… il mio ragazzo.

Jonathan apre la bocca per parlare ma non ci riesce. Il suo cervello elabora l’informazione che gli è stata comunicata con qualche minuto di ritardo. Vorrebbe approfondire riguardo alla definizione “il mio ragazzo”. Non ha tempo però per rimanere sconvolto o chiedere spiegazioni, non è quello che al momento che gli interessa sapere.

-Sei al sicuro? Mi posso fidare?

-Sì, certo.

Jonathan sospira.

-Senti… cercherò di mettermi in contatto con la compagnia area, con l’aeroporto, chiunque!

Si passa una mano tra i capelli in modo nervoso. Al momento non è neanche di grado di capire dove poterle reperire quelle informazioni.

-E se non riuscissi a sapere nulla?

La voce di Kyle è ancora disperata. Sembra che non pianga più, tuttavia il suo stato d’animo non è certamente dei più tranquilli.

-Ci andrò io.

***

Kyle appoggia il cordless sulla base e rimane immobile, in completo silenzio. Anthony, seduto sul divano alle sue spalle, si alza.

-Cos’è successo?

Kyle si gira, lacrime agli occhi, sta tremando. D’un tratto si sente mancare, le gambe lo tradiscono, il suo equilibrio lo abbandona, scivola lentamente su di un fianco. Anthony prontamente lo prende, impedendogli di finire per terra. Dopodiché lo adagia delicatamente sul divano.

Kyle impiega almeno un minuto prima di riprendere senno.

-Ti senti bene?

Domanda Anthony, seduto accanto a lui, con sguardo terrorizzato. Kyle non ha il coraggio di rispondere. Distoglie lo sguardo e deglutisce, quasi nel tentativo di spingere via anche la sua paura, il suo terrore. La telefonata appena terminata con Jonathan l’ha sconvolto. Si sente malissimo, avverte una morsa soffocante all’altezza della gola, si sente in colpa, terribilmente in colpa. Inizia a credere che se è veramente accaduto ciò che teme e che né lui né Jonathan sono stati in grado di formulare a voce alta, parte della colpa sia anche sua. Il modo nel quale ha ignorato Christian, la loro ultima lite, la sua ostinazione a non volergli concedere nemmeno un saluto.

Tante, troppe cose che non crede di poter sopportare.

 -È colpa mia.

Riesce a dire a malapena. Anthony naturalmente non comprende la situazione e Kyle non riesce a trovare il coraggio per spiegarsi, si limita a guardarlo, a fissarlo intensamente negli occhi sperando che ci arrivi, sperando che capisca da solo.

-È successo qualcosa a tuo padre, a Christian, non è vero?

Kyle non conferma, se non con un lieve cenno col capo. Al momento non ha le forze per fare altro. Mai avrebbe pensato che la situazione che stava vivendo fino a qualche istante prima, giusto una decina di secondi prima che quel maledetto telefono iniziasse a suonare, avrebbe preso quella piega.

Aveva telefonato a Anthony alle dieci circa, invitandolo a venire da lui nel pomeriggio. Aveva programmato tutto e grazie a questo era riuscito a non pensare alla partenza di Christian, a quello che vedeva come un abbandono, un’offesa personale. Si era chiesto se dovesse prepararsi in qualche modo, occorrente a parte. Si era sentito nervoso, impaziente un po’ impaurito ma al tempo stesso innegabilmente eccitato. Dopotutto una situazione del genere l’aveva già vissuta con Anthony. Doveva soltanto cercare di comportarsi come quella volta, con totale naturalezza, lasciando che gli eventi seguissero il loro corso naturale.

Quando il campanello aveva suonato il cuore aveva iniziato a battergli in modo quasi doloroso. Si sentiva un po’ sciocco, eppure quella felicità che sempre caratterizza ogni incontro con Anthony non aveva dato segno di volerlo abbandonare. Dopo un respiro profondo aveva aperto la porta e aveva accolto il ragazzo con un bacio, aggrappandosi quasi al suo collo con entrambe le braccia. Anthony era rimasto sorpreso da tale intraprendenza, del tutto strana per non dire vietata, nei loro usuali incontri all’aperto.

-Aspetta almeno che entri!

Gli aveva detto, sorridendogli. Poco dopo però, come era prevedibile che fosse, tra i due si era creata una situazione di imbarazzo, di silenzio. Dopotutto sono entrambi solo dei ragazzi alle prime esperienze e tralasciato quel piccolo “incontro” durante quella festa sarebbe stata la prima esperienza di quel tipo per entrambi. Naturalmente Anthony essendo piuttosto popolare a scuola ha avuto modo di frequentare alcune ragazze e sperimentare con loro, Kyle però non è una ragazza e per quanto la natura dell’atto sia tutto sommato la stessa, è da considerarsi una seconda “prima volta”.

Si erano seduti sul divano, a vedere un po’ televisione, con la speranza che questa riuscisse ad aiutarli a rompere il ghiaccio o perlomeno il silenzio. Si erano ritrovati a guardare una vecchia puntata di “American Dad”, che devono aver ritenuto estremamente divertente dal momento che erano scoppiati entrambi a ridere in modo rumoroso e quasi incontrollabile. Doveva essere stato l’imbarazzo o la timidezza malcelata, fatto sta che Kyle ridendo e osservando Anthony ridere a sua volta aveva preso coraggio e si era avvicinato di più a lui, baciandolo. Il bacio, a differenza di quello di poco prima sulla porta, era stato spontaneo e travolgente. Anthony era scivolato lungo il bracciolo del divano e Kyle si era posizionato sopra di lui, contro il suo petto. Era riuscito a sentire il cuore del ragazzo battere forte, fortissimo, esattamente quanto il suo e aveva sorriso, felice che si trovassero in completa empatia anche e specialmente in quell’occasione.

Grazie a quella constatazione Kyle si era sentito pronto per andare avanti. Aveva interrotto per un attimo il bacio per aprire la zip della felpa di Anthony che a sua volta l’aveva aiutato a sfilare la sua. Si erano guardati per un istante, fermi, immobili, quasi entrambi avessero bisogno della reciproca conferma per proseguire, per andare avanti.

Drin

Il telefono.

Kyle si era girato, per osservare l’apparecchio, sperando forse che solo guardandolo avrebbe smesso di suonare. Dopodiché aveva osservato l’orologio sul muro, segnava le 16.40. Sicuramente troppo presto perché si trattasse di Christian, doveva essere Jonathan. Aveva sospirato, arrendendosi all’idea di dover interrompere ciò che stava facendo e per il quale stava iniziando a provare sincero piacere.

-Deve essere Jonathan, dobbiamo ancora decidere i dettagli della mia sistemazione.

Aveva detto ad Anthony.

-Beh dai, rispondi! Così poi possiamo riprendere…

Aveva ribattuto maliziosamente il ragazzo facendo arrossire e sorridere Kyle al tempo stesso. Si era alzato, aveva alzato la cornetta e aveva premuto quel tasto verde, quel fatale tasto che nella frazione di un secondo era stato in grado di frantumare irrimediabilmente la sua felicità. Le parole di Jonathan erano state sufficienti a fare immediatamente dissipare nel nulla quell’oasi felice che si era creato con Anthony e dalla quale non avrebbe mai voluto allontanarsi. L’eccitazione adolescenziale, la curiosità, il desiderio, erano diventate un pallido ricordo o peggio una colpa, un peccato.

Sì, perché proprio mentre lui si concedeva a tali frivolezze poteva essersi verificato l’irreparabile. Mentre si perdeva negli occhi nocciola di Anthony, mentre sentiva il suo cuore quasi scontrarsi sottopelle con il suo, Christian poteva essere…

Morto.

Pensa, arrivando di nuovo sul punto di perdere i sensi. Anthony è ancora lì accanto a lui. Gli sta tenendo la mano e lo guarda, con la preoccupazione e l’angoscia negli occhi.

-Un incidente aereo, potrebbe essere coinvolto.

Riesce a dire, con estrema fatica.

-Andrà tutto bene, non è niente, vedrai.

Risponde Anthony, cercando di rassicurarlo.

***

Jonathan aveva parlato a Kyle con franchezza e gli aveva detto sneza pensarci troppo che avrebbe risolto lui la situazione, quando in realtà brancola nel buio più profondo. Il suo intento era quello di rassicurare almeno lui ed è sicuro di aver fatto il possibile per portarlo a credere che tutto andrà bene e che a breve ogni cosa si risolverà, senza grandi complicazioni.

La verità è che una volta appoggiata la cornetta del telefono le ginocchia iniziano a tremargli. La sbornia del giorno precedente non da’ cenno di volersene andare, sembra anzi peggiorare di momento in momento. Jonathan chiude gli occhi, cerca di respirare e di concentrarsi su altro. Sempre ad occhi chiusi fa mente locale per capire dove siano le chiavi e il portafoglio con i documenti. Dovrà guidare per un imprecisato numero di chilometri. Al telegiornale si ricorda di aver sentito dello scalo a Buffalo e si augura, benché sa di dover correre come un pazzo in condizioni del tutto instabili, di trovarlo là, seduto da qualche parte.

Apre gli occhi e tutta la stanza sembra volergli crollare addosso. Il suo corpo vuole tradirlo ma non può permettersi di fermarsi, non in quel momento. Al contrario il suo cervello sta elaborando, sta macchinando pensieri sempre più tetri, sempre più angoscianti.

Morte.

Il cuore gli batte forte al punto di fargli male, privandolo di quel poco fiato che ha in corpo. Deve bere un po’ d’acqua, la sua gola è secca e la bocca è arida, al punto da far fatica a separare le labbra. Corre verso la cucina e si regge al bancone, afferrandolo quasi con le unghie. Prende la bottiglia d’acqua lasciata aperta la sera prima e inizia a bere, a canna. Detesta profondamente bere a canna ma in quel momento non gli importa, neanche se ne accorge. Quasi si strozza, per colpa di un sorso troppo rapido o forse perché la sua stessa gola, viziata solo qualche ora prima dal più scadente e devastate alcolico, ha bisogno di qualcosa di molto più forte. Inizia a tossire, l’acqua gli entra nel naso, creandogli difficoltà respirare.

Sta perdendo troppo tempo e non se lo può permettere. Abbandona la bottiglia d’acqua sul bordo del bancone e questa essendo mezza vuota immediatamente scivola sul pavimento, svuotandosi completamente.

Lo sguardo di Jonathan cade sul tavolino vicino al divano dove il simbolo in acciaio lucido della Mercedes sul portachiavi dell’auto brilla grazie ai raggi di sole che filtrano dai due finestroni. Afferra il mazzo e lo mette in tasca dove fortunatamente ha lasciato il portafogli. Gli manca ancora il passaporto, deve portarlo con sé nell’evenienza di dover prendere un aereo per raggiungere Christian. Sa che si trova in qualche cassetto nella stanza da letto ma non è in grado di ricordarsi quale, così con foga inizia a trascinare ogni cassetto nella stanza togliendolo dai binari del mobile e sbattendolo sul letto o sul pavimento.

A prima vista non nota nulla se non cartacce, vecchi giornali o orologi. Inizia quindi a riversare il contenuto dei cassetti sul pavimento, gettandovisi anche lui stesso, in ginocchio, per frugare tra quel mucchio di oggetti in quel momento inutili. Qualcosa deve essersi rotto, ci sono dei vetri per terra e delle parti plastiche che non sa bene a cosa appartengano ma non gli importa.

Il tempo sta scorrendo in modo impietoso e Jonathan è convinto di doversi muovere, di dover far presto. Crede che anche solo una frazione di secondo potrebbe essere utile. Dopo aver frugato fra i mucchi di roba si rassegna e teme di dover cercare in salotto finché, tentando di alzarsi, il ginocchio scivola in avanti sulla custodia plastificata del passaporto. Lo afferra, osserva che è sporco di sangue che pare provenire dalla sua mano. Deve essersi inavvertitamente tagliato con i vetri rotti sparsi sul pavimento. Non sente dolore, nemmeno un leggero pizzicore e probabilmente se non avesse visto il passaporto macchiato non si sarebbe accorto di essersi ferito.

Si alza senza dare al fatto troppa importanza e si prepara a dirigersi verso la macchina. Ci impiega qualche secondo per chiudere la porta di casa. Scatta quasi senza pensarci verso l’interruttore dell’ascensore ed inizia a pigiarlo con forza, salvo poi ricordarsi che non è ancora stato aggiustato. Fa un respiro profondo, preparandosi a scendere le scale.

Arrivato infine alla macchina entra nell’abitacolo, aggiusta lo specchietto ed estrae gli occhiali da vista dal portaocchiali. Detesta indossarli e in condizioni normali proverebbe prima a guidare senza, pur sforzando notevolmente la vista. Tuttavia ora non vuole, non può.

Una volta in auto cerca di raccogliere tutte le forze e concentrarsi. Sa che sarà dura guidare e, mentre inserisce la retromarcia per uscire dal parcheggio, inizia a chiedersi se la corsa contro il tempo che sta facendo varrà a qualcosa. Per un istante si ferma, proprio nel bel mezzo della manovra, un istante più lungo di quanto credesse perché un clacson lo distoglie della sue riflessioni, facendolo sobbalzare sul sedile: è in mezzo alla strada e un automobilista dietro di lui impreca e gesticola, intimandogli di spostarsi. Immediatamente scuote il capo per riprendersi, osserva nello specchietto e alza la mano per un breve cenno, con l’intento di scusarsi per la distrazione.

Durante il tragitto cerca più volte di telefonare a Christian ma il telefono risulta sempre irraggiungibile. Dopo essersi arreso cerca di accendere la radio ma abbassando lo sguardo per cercare la stazione radiofonica del notiziario si distrae dalla strada, rischiando di tamponare la macchina davanti, ferma al casello autostradale. Si accorge dell’errore e immediatamente schiaccia il piede sul pedale del freno, forse con troppa veemenza poiché la macchina inchioda, facendolo scattare in avanti.

Dopo circa quattro ore riesce ad arrivare all’aeroporto. Il suo cuore sobbalza quando vede le macchine della pattuglia della polizia. L’ingresso al terminal è bloccato, non c’è un solo parcheggio disponibile e davanti ha sé ha una colonna di una trentina di auto.

Jonathan non è una persona avventata: è riflessivo e il suo carattere è pacato eppure più osserva la fila davanti a sé e più un pensiero nella sua testa cerca di concretizzarsi. Porta gli occhi al cielo, si slaccia la cintura, spegne l’auto, tira con forza il freno a mano e abbandona il veicolo.

Inizia a correre. Corre, noncurante dei clacson che suonano. Arriva in cima alla fila e viene fermato da due poliziotti.

-Dove crede di andare, lei?

Chiede, uno dei due.

-Sono qui per l’incidente aereo. Il volo è partito da qui prima di precipitare, non è vero?

Chiede, quasi sbiasciando. Forse ha parlato troppo velocemente perché il poliziotto ci mette qualche istante prima di rispondergli.

-Siamo qui tutti per l’incidente, per favore, torni al suo posto.

Jonathan scuote il capo. Non vuole saperne di fermarsi.

-No, io… devo vedere.

Esclama, cercando di scorgere qualcosa all’interno dell’aeroporto.

-Vedere cosa?

Domanda il poliziotto, sempre più infastidito.

-Sto cercando una persona, io… la prego, mi faccia passare.

Interviene l’altro poliziotto, che fino a quel momento era rimasto in silenzio.

-Signore non c’è nulla da vedere qui. Ci hanno chiamati semplicemente per interrogare la torre di controllo che ha fatto partire l’aereo, a quanto pare l’avaria al motore è stata riscontrata allo scalo.

Jonathan annuisce. Non sa cosa dire, vorrebbe soltanto correre. Vorrebbe soltanto entrare in quel grande edificio che ha davanti a sé e vedere lui, Christian, sapere che sta bene.

-Ci sono stati feriti? Io.. arrivo da New York. Per favore, mio… marito era su quell’aereo, io devo sapere. DEVO vederlo.

“Marito”. Non chiamava Christian in quel modo da così tanto tempo eppure gli era sembrato così solito, così naturale. Formulando la frase non era riuscito a trovare una parola differente, quella è stata l’unica che il suo cervello gli avesse suggerito.

-Senta non siamo autorizzati a rivelare certi dettagli, specialmente a persone non vicine alle vittime.

Risponde, aspramente il primo poliziotto.  Discriminazione, infima e stupida discriminazione. Eppure a Jonathan in quel momento non interessa, sorvola.

-Signore, sta bloccando il traffico. Alcune persone non sono decollate, forse suo marito si trova tra quelle.

Risponde l’altro poliziotto, con pacatezza.

Jonathan sorride. Speranza. Poca, forse inesistente.

-Dice sul serio?

Chiede, tremando.

-Sì, un gruppetto di passeggeri è sceso dall’aereo durante lo scalo e ha perso il volo.

Jonathan deglutisce. Non sente più nulla. Tutto quanto attorno a sé diventa non più di un brusio. Anche il poliziotto che continua a parlare con lui è come muto. Vede le sue labbra muoversi ma non sente alcun suono. Sogghigna, in modo quasi sinistro e osserva l’ingresso.  Non sono più di duecento metri, scattando rapidamente dovrebbe riuscire a raggiungerlo. Deglutisce. Il cuore inizia a battergli forte, chiude gli occhi e stringe un pugno, quello ancora sporco di sangue, che ormai si è seccato.

Scatta e corre. Vede l’ombra di un paio di persone dietro di sé ma non gli importa, deve arrivare, deve entrare.

È sempre stato affascinato dalla caratteristica del corpo umano di sprigionare adrenalina e forza inaspettate nei momenti di pericolo o di necessità e sperimentarlo sulla propria pelle è qualcosa di sensazionale. Mentre corre si sente leggero e un lieve e quasi piacevole senso di pelle d’oca lo pervade.

Ce l’ha fatta, è dentro.

Si guarda attorno. Ci sono diverse persone, diversi poliziotti. Alcuni si girano non appena lo vedono entrare ma non è questo che attira la sua attenzione.

Di spalle: capelli biondi un po’ spettinati, camicia azzurra, jeans scuri. È lui, deve essere lui.

“Fa che sia lui, fa che sia lui.”

Pensa, mentre cerca di trovare fiato e la forza di pronunciare quel nome.

-Christian!

Urla. Un urlo così sofferto, così profondo che la gola gli duole non appena la fonazione cessa.

Non si gira.

Il cuore di Jonathan si ferma. Il corpo torna a cedere.

Cade ma non smette di guardare davanti a sé.

“No, non può non essere lui.”

Le labbra gli tremano. Sta per piangere, un pianto che parte dal cuore e sale, su, fino ad arrivare agli occhi.

Quando, improvvisamente, si gira.

È lui.

-John…

Esclama, sorpreso.

Jonathan si alza con fatica e lo raggiunge. Lacrime agli occhi.

-Sei tu! Sei proprio tu?

Chiede Jonathan, con un filo di voce.

-Cosa ci fai qui?

Chiede Christian, osservandolo.

-Ti prego, dimmi che sei tu. Urlami addosso, prendimi a schiaffi, fa’ quello che ti pare ma ti prego, dimmi che sei tu!

Christian non risponde, nota però la sua mano sinistra.

-Certo che sono io. Cosa… cosa hai fatto a quella mano?

Jonathan sospira. Quasi istintivamente si getta verso Christian e lo abbraccia. Sente il suo cuore battere contro il suo petto e d’improvviso tutto il mondo torna a farsi sentire: I poliziotti che lo chiamano, gli annunci del terminal, la musica pop nelle casse in radiotrasmissione.

-Sarei morto, te lo giuro. Ci sono stato vicino, troppo vicino.

Sussurra, senza lasciarlo andare.

---> Allora? Ve l'avevo detto che si trattava di qualcosa di grosso :) E non è finita, se ho fatto bene il mio "dovere" il prossimo capitolo vi distruggerà. Siamo veramente ad un passo dalla fine. Ho ancora un bel po' di cose da raccontarvi e da farvi leggere ma ci siamo. Questo capitolo a me personalmente piace molto, c'è un po' di azione, c'è sentimeno e riemerge il VERO Jonathan, come scoprirete nel prossimo capitolo. Riguardo alla stesura, tutta la parte di Jonathan è stata scritta diversi mesi fa, tutta d'un fiato assieme a quella successiva. Ultimamente ho solo aggiunto la parte di Kyle e Anthony. 

Vi confesso che avrei voluto lasciarvi un po' di suspance e tagliare dal punto in cui John chiama Chris sperando che sia proprio lui. Ma mi sembrava crudele farvi aspettare una settimana così ve l'ho lasciato così, sperando comunque che siate interessati di leggere il seguito. 

Bene, ho detto tutto quello che volevo. Non ho ricevuto commenti ma ho visto che si sono aggiunti nuovi lettori e ringrazio TUTTI fedeli, new entry... GRAZIE! Sapere che la mia storia è letta, seguita e apprezzata mi dà un senso di felicità che nemmeno potete immaginarvi. Come al solito vi invito a commentare su qualsiasi cosa vogliate e... vi do appuntamento a sabato prossimo :)

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Capitolo 43
*** Don't go (Non andare) ***


43- Don't go (Non andare)



-Sto bene, te l’ho detto!

Christian è al telefono con Kyle e lo sta rassicurando. È stato Jonathan a prestargli il telefono, poiché le valigie di Christian sono andate perse durante l’incidente aereo, impedendogli quindi di mettersi in contatto con casa.

-Credo mi fermerò qui a dormire. Ci sentiamo domani, buonanotte tesoro. Ti voglio bene anch’io.

Chiude la chiamata e porge il telefono a Jonathan, che nel frattempo è seduto su uno dei seggiolini dell’aeroporto, ormai vuoto. Anche Christian si siede, accanto a lui.

-Spero tu non abbia chiamato mia madre.

Esordisce Christian. Jonathan scuote il capo.

-Bene, perché non sapeva nulla del mio arrivo.

Jonathan non commenta. Il suo corpo e la sua mente si trovano in uno stato di totale rilassamento, si limita ad osservare Christian ringraziando, nemmeno lui sa chi o cosa, per averlo ancora lì davanti ai suoi occhi in carne e ossa. Vorrebbe allungare la punta dell’indice verso il suo braccio, solo per sentire la sua pelle, solo per essere certo che sia davvero vivo e che stia bene.

Mentre Christian parlava al telefono la strana idea che tutto fosse un sogno aveva iniziato balenargli in testa. Aveva ipotizzato di essersi schiantato contro qualche guardrail in autostrada, di trovarsi in uno stato di coma e lì, tra il sonno e la veglia, in un mondo a cavallo tra la vita e la morte riuscisse vedere lui, etereo, come lo era sempre stato. Nonostante la faccia stanca e nonostante gli occhi arrossati era sempre bello, il più bello.

-Credevo ti avrebbero arrestato.

Jonathan sorride, finalmente ritrova il coraggio di parlare.

-E perché? Non ho fatto nulla di male.

Christian sorride.

-No, hai solo abbandonato l’auto in mezzo alla strada e sei sfuggito ad almeno una decina di poliziotti, che sarà mai?

Commenta, sarcastico.

-Nulla.

Risponde Jonathan, prendendogli la mano. Gesto istintivo, spontaneo. Non gli importa se Christian si ritrarrà, non teme un suo rifiuto, aveva semplicemente voglia di toccarlo e di sentirlo, per un secondo o per un’ora, poco importa.

Christian non si ritrae, da’ una rapida occhiata alla mano di Jonathan e poi allontana lo sguardo, quasi con timore.

-Non mi hai ancora spiegato cosa hai fatto a questa mano. Sembra sangue…

Jonathan osserva la mano, senza però mollare la presa.

-Frugando in un cassetto devo aver urtato e rotto il quadrante di uno dei miei orologi, forse un vetro mi hai tagliato. Dico “forse” perché in realtà non ne ho idea.

Annuisce, Christian.

-Sai… sei venuto in mio soccorso ben due volte, in questa occasione.

Jonathan lo guarda, incuriosito.

-E come?

Sulle labbra di Christian appare un lieve sorriso e osservando i suoi occhi Jonathan nota un leggero senso di imbarazzo.

-Stavo per salire sull’aereo, davvero. Ero praticamente alla scaletta e mi sei venuto in mente Quando… andavamo a Santa Monica, quando Kyle era piccolo e gli dicevi sempre: “Hai fatto la pipì? È bene andarci comunque, anche se non ti sembra di doverci andare! Il viaggio è lungo…”

Jonathan annuisce e continua la frase, assieme a Christian.

-“Meglio risposare che fare la coda in bagno!”

Christian sorride, questa volta un sorriso più audace, più fermo.

-Già… Beh, sono andato in bagno e la coda era lì, invece. Ho aspettato il mio turno. Non avevo il cellulare con me e non porto orologi. L’hai sempre avuto tu quindi io, io…

Si ferma un secondo, forse per prendere fiato, poi ricomincia a parlare.

-…non mi sono mai abituato, ecco. Fatto sta che quando sono uscito dal bagno l’aereo era già partito. Credo mi abbiano chiamato, non lo so. Mi sono trovato qui, spaesato, preoccupato e ho iniziato a chiedere al personale dell’aeroporto a che ora fosse il prossimo volo quando poi, una volta stampato il biglietto, il mio volo è stato cancellato. Mi è stato poi spiegato il perché.

Silenzio.

Le parole di Christian hanno suscitato in Jonathan uno strano senso di pace, di tranquillità. Non ha più paura che non sia vero, non ha più  alcun dubbio. Lascia lentamente andare la sua mano ma, sorprendentemente, Christian lo riafferra.

-Credo mi fermerò qui questa notte. Immagino ci sia un piccolo albergo, nei paraggi.

Afferma Christian.

-Sì, sicuramente.

Conferma Jonathan, sorridendogli.

-Tu… che farai?

Domanda infine Christian, quasi a bassa voce, fissandolo poi negli occhi.

-La strada di casa è ancora lunga, credo sia il caso che mi fermi anche io.

 

***

Kyle può finalmente tirare un respiro di sollievo. Durante le ultime ore ha passato l’inferno, le peggiori scene, le peggiori ipotesi, non hanno fatto che affollarsi nella sua testa. Ha trascorso tutto il tempo con l’orecchio teso intimorito ma allo stesso tempo speranzoso che quel telefono tornasse a suonare. Anthony aveva fatto zapping su qualsiasi canale nel quale trasmettessero il telegiornale per avere aggiornamenti. Erano riusciti a venire a conoscenza dell'esistenza di un gruppetto di superstiti, rimasti a terra durante allo scalo a Buffalo.

Quando Anthony lo aveva aggiornato sull’ipotesi aveva iniziato a sperare con lo sguardo rivolto al cielo, implorando una qualsiasi entità superiore fosse disposta ad ascoltarlo e ad assisterlo. Per una buona porzione di tempo aveva maledetto i suoi stessi genitori per non averlo introdotto a nessun tipo di religione, perché non avendo alcun appiglio spirituale al quale rivolgersi in una situazione del genere si era sentito per la prima volta perso. Aveva già riflettuto in occasione della morte di nonno Jack circa l’assenza del fattore religione nella sua vita e continua a recitarsi come un mantra la frase di Jonathan: “Noi non crediamo in Dio perché Dio non crede in noi”.  Eppure egoisticamente in quel momento avrebbe voluto crederci, avrebbe voluto che gli fosse stato impartito un qualsivoglia insegnamento spirituale, che gli fosse stato insegnato come pregare e cosa chiedere.

Anthony non aveva fatto che rassicurarlo, raccontandogli la più svariate e remote ipotesi.  Tuttavia nonostante Kyle avesse apprezzato e si fosse sentito quasi sopraffatto dalla dolcezza e dalla cura che Anthony aveva impiegato in una faccenda tanto delicata, gli era parso che stesse solo cercando di arrampicarsi sugli specchi e che in realtà lui stesso fosse quasi sicuro che nulla di buono sarebbe risultato da quella faccenda.

Erano trascorse tre ore, tre ore che avrebbe voluto e dovuto impiegare diversamente. Tra le colpe che aveva iniziato ad attribuire a se stesso figuravano anche quelle di aver promesso ad Anthony qualcosa che di certo quel giorno non si sarebbe sentito pronto a dargli.

Quando le ore segnate dalle lancette avevano iniziato ad accumularsi, aveva iniziato a pensare di doversi tenere impegnato e quindi di forzarsi, benché non se la sentisse, per proseguire ciò che avevano iniziato e che in fondo avrebbe voluto continuare, solo non in quel momento. Tuttavia era ben presto arrivato alla conclusione che il risultato sarebbe stato scadente, nonché insoddisfacente. Non vuole sprecare quell’occasione con Anthony, ha già avuto un incontro abbastanza  deludente con lui. Quell’occasione di avere una seconda “prima volta”, ha intenzione di coglierla appieno, senza gettarla via per capriccio o per sconforto. Senza contare che al momento si sente appagato anche soltanto dalle attenzioni e l’interesse che Anthony sta mostrando nei suoi confronti.

Capisce nei suoi gesti, nei suoi sguardi teneri e premurosi che non si sta comportando in quel modo solo per circostanza o per raggiungere un secondo fine. No, Anthony ci tiene davvero a lui e di questo non fa che averne la conferma, istante dopo istante. È certo che in un momento del genere, accanto a lui, non avrebbe voluto nessun altro.

Nessun altro tranne Morgan.

Ecco di nuovo quel nome, il nome della sua migliore amica, che torna a ripresentarsi sotto forma di ennesima colpa, di ennesimo rimorso. Ormai stremato, disperato e senz’altra promessa alla quale tener fede, aveva giurato a se stesso che nell’eventualità che tutto si fosse risolto per il meglio, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata proprio quella di contattarla e finalmente di porre fine a quell’assurda e innecessariamente lunga incomprensione. 

Questo perché solo in quell’occasione è arrivato a capire che veramente si è in grado di apprezzare il valore delle persone e capire quale ruolo e importanza abbiano nella propria vita nell'esatto momento nel quale si è così vicini a perderle. L’ha subito capito con Christian perché benché sia suo padre e già sapesse di provare amore e affetto incondizionati nei suoi confronti, nelle ultime tre ore non ha fatto che rimproverarsi per essere stato poco chiaro, per non averglielo detto e forse dimostrato in modo che lo capisse, in modo che gli fosse chiaro e che non avesse alcun dubbio a riguardo.

Chiunque l’abbia ascoltato in cielo o in terra ha fatto sì che il suo desiderio si realizzasse. Fa fatica a crederci ma Christian è vivo, sta bene e gli ha appena parlato. Le lacrime iniziano a scorrere sulle sue gote ma per un motivo differente: si tratta di una liberazione del suo cuore che finalmente ha smesso di far male e della sua mente che da offuscata da pensieri nefasti è tornata serena e limpida.

Ha appena riagganciato il telefono, chiudendo quella chiamata con un “ti voglio bene”, una delle rare volte nelle quali l’ha detto a cuor leggero, sentendo che era qualcosa che veramente voleva dire e che non si trattava di una forzatura o qualcosa che “andava detto”. In quella sua dichiarazione di affetto sono stati rinchiusi tutti i suoi sentimenti, tutto ciò che ha provato nelle ultime strazianti tre ore.

Anthony non ha nemmeno dovuto chiedergli conferma, gli è bastato guardarlo con quel sorriso così felice, per capire che tutto si è risolto, che tutto è andato per il verso giusto. Si alza dal divano dove ha aspettato con impazienza che Kyle terminasse quell’agognata telefonata, dopodiché osserva i suoi occhi lucidi giusto per una frazione di secondi e lo abbraccia con forza ma senza fargli male, un abbraccio liberatorio, un abbraccio di supporto, che ha la forma di un grido che pare dire: “Ce l’abbiamo fatta, è andata.” che Kyle non può che ricambiare e apprezzare, appoggia il capo contro il petto di Anthony e rimangono in quella posizione per almeno un paio di minuti, in completo silenzio, assaporando ogni attimo e cercando di riprendere fiato. 

***

Jonathan e Christian stanno entrando nella stanza che hanno deciso di affittare per la notte. Christian entra per primo e Jonathan lo segue, chiudendo la porta. Si è fatto parecchio tardi.

-Ti spiace se vado prima io a fare la doccia?

Chiede Christian, girandosi verso di Jonathan.

Jonathan scuote il capo.

-Affatto, fai pure. Io mi stenderò un po’.

Jonathan decide di dormire sul letto singolo, lasciando a Christian il matrimoniale. Dubita dormirà, dal momento che non ha per nulla sonno. Finalmente sta bene, forse troppo bene. Potrebbe affrontare un’intera giornata, senza sdraiarsi, senza nemmeno chiudere un occhio. Probabilmente la scarica di adrenalina non si è ancora esaurita. O forse è davvero sta per morire, al momento ritiene probabili entrambe le ipotesi. Non vuole però pensarci, ragion per cui si getta sul letto, sospirando.

Christian entra nel bagno, chiude la porta alle sue spalle e poi si osserva, allo specchio.

“Meglio di quanto pensassi.”

Pensa. Osservando il suo riflesso nello specchio stenta a credere di avere di fronte a sé il viso di una persona che solo qualche ora prima ha schivato per il pelo il terribile spettro della morte. Non ci aveva ancora pensato e gli sembra strano di esser così sereno, così tranquillo. Sta bene ed è stato incredibilmente fortunato. Sa che se continuasse a riflettere sulla faccenda inizierebbe ad agitarsi, sa che l’angoscia e la paura inizierebbero ad avere la meglio per cui scuote velocemente il capo, quasi per allontanare ogni sorta di pensiero negativo e rivolge lo sguardo verso la doccia.

Inizia a spogliarsi e si butta immediatamente sotto il getto d’acqua calda.

L’acqua che gli scorre sulla pelle, il vapore che pervade la stanza; per un attimo crede di essere a casa e non in uno dei più scadenti alberghi della zona aeroportuale. Dopo aver cercato senza risultato una stanza in almeno tre strutture avevano deciso di fermarsi in quello, l’unico disponibile e purtroppo il più spartano.

Avevano, sì, lui e Jonathan.

Jonathan che ora si trova dall’altra parte del muro, sul letto. Aprirà la porta e se lo troverà davanti, come era stato per ogni giorno in quegli ultimi quindici anni. Quante volte l’aveva chiamato per farsi passare un asciugamano o un accappatoio perché, con quella sua testa sempre troppo tra le nuvole, si era scordato di prenderlo dal mobile della biancheria.

Chiude l’acqua e si osserva la mano, la stessa mano che Jonathan gli aveva stretto. L’ultima volta che gli era stato vicino, al funerale del padre, il tocco era stato diverso: un po’ freddo e quasi circostanziale. Non che non l’avesse apprezzato, tuttavia quello di poco prima  è stato completamente diverso, come non lo era più da tempo e non gli era sembrato neppure così insolito. Gli aveva ricordato quelle sere d’inverno davanti alla tv sul divano, quando Jonathan semplicemente gli stringeva le dita e ci giochicchiava, un po’ per non restare fermo e un po’ per averlo solo più vicino, per avere la conferma che fosse suo e che, forse, lo sarebbe sempre stato.

Esce dalla doccia, prende un accappatoio dal gancio sul muro e vi si avvolge dentro. L’accappatoio sembra aver assorbito tutto il vapore, al punto di trasmettere alla pelle di Christian una sensazione di calore, un tepore quasi rassicurante. Si avvicina allo specchio tutto appannato, che decide di pulire con la manica dell’accappatoio. Non ha voglia usare l’asciugacapelli, non sa che ore siano ma ha paura di aver perso la cognizione del tempo in quella doccia. Tampona velocemente i capelli con il cappuccio dell’accappatoio, quel tanto che basta per non bagnare completamente la federa del cuscino e poi esce.

-Il bagno è libero…

Esclama,  attirando l’attenzione di Jonathan, che probabilmente era sovrappensiero.

-Ok!

Si alza dal letto e scattante si dirige verso il bagno. Christian si siede in fondo al letto matrimoniale, facendo penzolare i piedi e rimane in uno strano stadio contemplativo, durante il quale nella sua mente non passano pensieri particolarmente profondi o sensati.

-Credevo ti fossi già addormentato.

Christian, alza lo sguardo. Jonathan è uscito dalla doccia. L’orologio sul muro dietro di lui che segna l'una e dieci passata, è molto più tardi di quanto credesse.

-Credo di essermi incantato.

Commenta Christian, non spiegandosi il suo senso di assortimento.

-Suppongo sia il caso di riposare. Se hai bisogno sono… lì!

Esclama Jonathan indicando il lettino singolo, dove passerà la notte. Christian, senza neppure rendersene conto, afferra la manica del suo accappatoio, sorprendendolo.

-No.

Jonathan si trova del tutto spiazzato. Christian gli prende entrambe le mani e lo tira verso di sè, sul letto. I loro visi sono così vicini, al punto di non essere in grado di distinguere il respiro di uno da quello dell’altro, le dita delle loro mani sono intrecciate in modo perfetto, paiono quasi appartenere ad un unico corpo. Christian non riesce a distogliere lo guardo dagli occhi di Jonathan che, al contrario, osserva le sue labbra. Prende coraggio e si avvicina per baciarlo. Christian ricambia il bacio, un bacio dolce e delicato. Il profumo dello stesso bagnoschiuma sulla pelle di entrambi da’ ancor più l’illusione che quell’unione generi un corpo soltanto, una sola anima, un solo elemento che finalmente dopo troppo tempo riesce a completarsi. Jonathan sente il cuore di Christian battere forte contro il suo e per un attimo crede siano in perfetta sincronia.

Un atto d’amore non solo per passione, una comunione delle anime e non solo dei corpi e non importa quanto distanti siano da casa o dove effettivamente si trovino, sono insieme e in quel momento quella stanza spoglia e quel letto usurato sono la loro casa.

***

Erano già le ventidue quando Kyle aveva ricevuto quella telefonata da Christian. I due ragazzi erano stanchi e provati e senza neanche rendersene conto avevano finito per addormentarsi sul divano senza neanche considerare l’ipotesi di fare qualsiasi altra cosa.

È mattina e Kyle si risveglia quasi di soprassalto. Le finestre sono chiuse e c’è ancora buio nella stanza, ragion per cui non riesce a scorgere bene le lancette dell’orologio. Osserva però il piccolo display del dvd player che segna le sei. Si trova con la testa appoggiata sulla spalla di Anthony. Si chiede come siano riusciti a dormire tutte quelle ore di filato in una posizione talmente scomoda senza lamentarsi. Anthony pare essere ancora addormentato, Kyle lo intuisce dal suo respiro pesante e dall’aria tranquilla e rilassata sul suo viso.

Vorrebbe svegliarlo e invitarlo a proseguire il riposo in un posto più comodo, dove poter distendere i muscoli che proprio in quel momento iniziano a dolere. Non vuole però disturbarlo, a giudicare da quell’accenno di sorriso che ha sulle labbra deduce che sta sognando, probabilmente un bel sogno dal quale non vorrebbe essere destato. Spera egoisticamente di essere anche lui protagonista di quel sogno. Dopodiché appoggia di nuovo la testa sulla spalla di Anthony, con delicatezza, cercando sempre di non svegliarlo.

Questa volta però il ragazzo si sveglia. Con la mano sinistra, fino a quel momento appoggiata sul divano, accarezza dolcemente la spalla di Kyle.

-Ci siamo addormentati, alla fine.

Commenta, ancora ad occhi chiusi. Kyle non risponde, si limita ad emettere un suono di assenso.

-Credo che anche metà del mio corpo sia rimasta paralizzata.

Afferma, scuotendo energicamente l’altro braccio sul quale era appoggiato.

-Possiamo spostarci sul mio letto, è solo una piazza e mezza ma sicuramente staremo più comodi che qui.

Risponde Kyle.

-No, non dormirei più in un ogni caso. Tu hai ancora sonno?

Kyle osserva Anthony e scuote il capo, dopodiché torna nella sua posizione che, per quanto possa essere scomoda, lo fa sentire bene e al sicuro. Quell’attimo di relax e di tenerezza viene interrotto da un suono che per un attimo nessuno dei due è in grado di decifrare. Dopodiché Anthony, che ha capito, sospira.

-È la vibrazione del mio cellulare, l’ho lasciato nella giacca sull’appendiabiti. I miei genitori devono essersi accorti che non sono tornato a casa. Ci hanno messo un po’, eh?

Kyle sobbalza. Non aveva pensato al fatto che Anthony avesse trascorso con lui l’intera nottata senza avvisare. Improvvisamente il suo cuore torna a battere e lo osserva impaurito, ignaro di cosa dover dire.

-Perché mi guardi in questo modo?

Domanda Anthony, apparentemente molto tranquillo e noncurante di ciò che quel suo comportamento potrebbe innescare.

-Non ci avevo davvero pensato e adesso cosa-

Anthony lo interrompe, posando delicatamente l’indice sulle sue labbra.

-Non mi interessa cosa accadrà.

Kyle non è dello stesso parere. Abbassa lo sguardo con sconforto, non riesce a credere di non aver potuto avere un solo attimo di pace. Dopo tutta quella, fortunatamente, mancata tragedia non era stato in grado di calcolare la presenza dei genitori di Anthony che certamente avrebbero trovato strana la sua assenza di oltre dodici ore. Dopotutto era stato tutto il tempo con lui a parlargli, rassicurarlo e a cercare senza sosta notizie su ogni documentario trasmesso. Non per un istante aveva controllato il cellulare né si era preso del tempo per inventare una scusa da raccontare ai suoi genitori.

-Se solo mi fosse venuto in mente avrei insistito perché li chiamassi…

Si rende poi conto che avrebbe potuto fare di più: avrebbe potuto invitarlo ad andare a casa. Si sente un po’ egoista per averlo quasi obbligato a restare con lui.

-Avrei dovuto lasciarti tornare a casa ieri sera…

Ammette poi, senza guardarlo.

-Ehi, guardami.

Lo esorta lui, con tono deciso. Kyle scuote il capo, senza alzare lo sguardo. Così, Anthony alza  il suo viso con il palmo della mano, obbligandolo a guardarlo dritto negli occhi.

-Non me ne sarei andato neanche se me l’avessi chiesto, lo sai?

Kyle arrossisce.

-Manca poco all’inizio della scuola e ogni giorno rimasto, ogni attimo, lo voglio passare con te. Che pensino o dicano quello che vogliono i  miei genitori.

Afferma Anthony deciso, imbarazzando ulteriormente Kyle che non è preparato a sentirsi rivolgere frasi tanto sincere e dirette. Anche lui la pensa allo stesso modo ma non ha il coraggio di dirlo, a differenza sua.

-Mi diano pure per disperso, chiamino pure la polizia, tornerò quando ne avrò voglia o quando tu riterrai che debba andare via.

Prosegue Anthony. La serietà delle sue parole, accompagnate al suo tono di voce già piuttosto grave, rendono il tutto più maturo, più adulto. Kyle inizia a pensare a quanto Anthony sia maturato negli ultimi mesi, a quanto sia cambiato da quel loro piccolo incontro alla festa di Debbie Benson e sorride, felice per avergli creduto, per avergli dato la possibilità di dirgli quelle parole profonde e meravigliose che mai si era sognato di sentire rivolgere proprio a se stesso, così presto.

-Io non ti manderei mai via.

Ribatte con un filo di voce, facendosi coraggio e cercando di spingere via quella timidezza che pare avere del tutto abbandonato Anthony.

-Allora non me ne andrò, resterò qui: esattamente dove voglio restare.

Kyle non sa come rispondere ma conosce un modo nel quale ribattere in modo efficace, confermando ciò che Anthony gli ha appena detto, dichiarando tacitamente di essere d’accordo. Stringe la mano che Anthony ha appoggiato sulla sua gamba e si avvicina al suo viso con delicatezza, lasciando intuire le sue intenzioni al ragazzo, dopodiché posa le proprie labbra sulle sue per un istante si ferma per guardarlo negli occhi, per cogliere la nota dolce nel suo sguardo, dopodiché lo bacia di nuovo con decisione e dolcezza.

 

***

Jonathan si sveglia, allunga il braccio ed immediatamente nota che Christian non si trova più accanto a sé. Si ricorda di essersi addormentato accarezzandogli i capelli, solo qualche ora prima. Il suo capo era posato nell’incavo della sua spalla e i capelli gli solleticavano la guancia.

Non sa che ore siano, dando un rapido sguardo all’orologio però nota che sono le sei. Non è sicuro di quanto tempo sia stato in completa estasi, inebriandosi con il profumo di Christian, cercando di memorizzare ogni singola parte del suo viso e del suo corpo.

Alzandosi lo intravede sul balcone, seduto sul pavimento e appoggiato al muro. Immediatamente indossa l’accappatoio e lo raggiunge.

-Ho quasi creduto che te ne fossi andato.

Confessa, sedendosi a sua volta.

-Sì, forse avrei dovuto…

Commenta Christian, girandosi verso di lui. I pallidi raggi di sole del mattino illuminano i suoi occhi e li accendono, portando a quell’iride cerulea ancora più luce. Jonathan vuole riuscire ad cogliere quella scintilla ancora un istante, prima di parlare.

-Immagino tu ti stia già pentendo per quanto è successo questa notte.

Christian scuote il capo.

-No, non lo pensare. Forse non avrei dovuto farlo, questo è vero, tuttavia dire che me ne penta sarebbe una grossa bugia.

Jonathan asserisce, apprezza la sua sincerità ed è contento di aver sentito proprio quelle parole provenire dalla sua bocca.

Christian si mette a sedere diritto, appoggiando meglio la schiena al muro, prima di parlare di nuovo.

-Nonostante tutto, ci sono momenti come la scorsa notte nei quali qualcosa dentro di me, nel mio corpo e soprattutto nel mio cuore, che mi spingerebbe naturalmente tra le tue braccia. Quel qualcosa passerebbe sopra a tutto, farebbe finta di nulla e non esiterebbe un secondo a mettersi in ginocchio a pregarti di tornare a casa.

Spiega Christian, giocherellando con la cintura dell’accappatoio senza, per il momento, guardare Jonathan direttamente negli occhi.

-Solo poco tempo fa mi hai detto che ogni volta che mi vedi è come se ti mettessi una mano alla gola…

Ribatte Jonathan, un po’ confuso.

-Sì, quella è quell’altra parte, quella che mi frena, quella che mi fa chiedere se veramente sono disposto ad annullarmi, ad accettare tutto quanto, a lasciartela passare liscia nonostante le ferite brucino, nonostante il cuore mi faccia male, tanto male da portarmi a credere di poter morire, di lì a poco…

Sospira e poi prosegue il discorso.

-Se quest’ultima parte ha sempre il sopravvento è solo perché, fino alla scorsa notte, i lati di te che conosco che ho amato e che amerò per sempre erano come spariti o al peggio annullati, così come le prospettive che si sarebbero ripresentati.

Jonathan non capisce a cosa si riferisca.

-Quali lati?

Chiede, con ovvietà. Naturalmente Christian si aspettava quel genere di risposta e abbozza un breve sorriso, che a stento Jonathan riesce a scorgere.

-Ieri sera hai preso la macchina, sei corso come un pazzo, hai abbandonato il veicolo senza troppi pensieri e hai rischiato di farti arrestare, solo per correre da me.  Avevi bisogno di me: avevi veramente bisogno che ci fossi, che fossi ancora vivo, che ti guardassi e ti parlassi. Questa è una delle ragioni per cui mi sono innamorato di te, dal primo istante.

Jonathan rimane a bocca aperta, stupito. Non gli era parsa gran cosa quella sua corsa in auto verso l’aeroporto eppure, sentendoselo dire da Christian, inizia a rivalutarsi.

-Io ho bisogno che tu abbia bisogno di me e non mi riferisco al fatto che io ti serva per… stirarti le camicie o… prepararti dolci o ancora ricordarti le chiavi di casa. Tu mi volevi, anche quando non ero in grado di fare nulla, anche quando tutto ciò che avevo era un bel faccino. Volevi me e me soltanto e non perché fossi un espediente per darti qualcosa, a differenza di tutti gli altri.

In quell’istante Christian guarda Jonathan, aspettandosi una risposta, questa volta.

-Hai ancora un bel faccino.

Christian scuote il capo.

-Non è questo il punto. Ieri notte ho toccato il tuo braccio sinistro e sotto i miei polpastrelli ho sentito quel pezzo di pelle cicatrizzata, molle e irregolare, che ti sei procurato ormai dieci anni fa.

Jonathan annuisce e interviene nel discorso.

-Mi sono scottato con il burro fuso di un padella.

Christian lo corregge.

-No. Ti sei volontariamente messo tra me e la padella che stava andando a fuoco, per evitare che io mi scottassi. Non c’hai pensato due volte, mi hai spinto lontano e hai afferrato il manico rovente, che ti è praticamente caduto di mano schizzandoti gocce di burro bollente sull’avambraccio.

Jonathan alza la manica e osserva quel pezzetto di pelle, non più largo di tre dita. Osservandosi si ricorda perfettamente la scena, si chiede come abbia potuto dimenticarsene.

-Tu ti saresti buttato nelle fiamme dell’inferno per me, saresti morto, lo so, ne sono certo. Non perché tu me l’abbia detto ma perché me l’hai sempre dimostrato, in ogni momento della nostra vita assieme, in ogni istante ed io… io avrei fatto lo stesso.

Le parole di Christian commuovono Jonathan. Non si sono mai detti quel genere di cose, si sono limitati ad amarsi giorno dopo giorno, vivendosi a vicenda, fino a quando non erano iniziati i problemi che li avevano portati alla situazione nella quale si trovano in questo momento.

-Lo farei ancora, anche se il giorno dovesse ripetersi incessante: dovessi correre fin qui o bruciarmi o chissà cos’altro per ogni giorno di tutto il resto della mia vita io lo farei, per te.

Ribatte Jonathan. Christian gli sorride, un sorriso che ha ben poco di felice. I suoi occhi iniziano a luccicare, fino a riempirsi di lacrime, che immediatamente si affretta a tamponare con la manica dell’accappatoio.

-Vorrei crederti. Vorrei tanto, tanto poterti credere.

 Deglutisce sonoramente, nel tentativo di bloccare un singhiozzo. Ha altro da dire e non può permettersi di lasciarsi sopraffare dai sentimenti.

-Mi hai fatto credere che ti saresti buttato a picco nel vuoto pur di proteggermi, portandomi a prometterti lo stesso eppure… io non farei mai a te quello che tu hai fatto a me. Io non ti tradirei mai, ancor meno con qualcuno che abbiamo sempre visto come un figlio.

Sembra che Jonathan rimanga spiazzato, eppure interviene, qualche istante dopo.

-Mi rendo conto di essere stato un mostro eppure… la nostra relazione ha iniziato ad andare in pezzi molto prima che andassi a letto con Daniel. Lo sappiamo entrambi…




---> Ed eccoci di nuovo a sabato. Questo è un altro dei miei capitoli preferiti, la frase finale di Jonathan ci porterà a scoprire cosa realmente sia successo nella relazione tra loro due fino ad arrivare a pochi istanti prima del famoso tradimento, giusto poche ore prima del primo capitolo. Siete pronti? Mi auguro di sì ;) 

Dunque... ancora nessun vostro pare questa settimana e ho notato che non tutti avete letto il capitolo precedente, come mai? Ci siete ancora? Dai, avete fatto uno sforzo per seguire questa storia per tutti questi anni, resistete per un altro paio di capitoli (forse 3) ancora. Non siete curiosi di conoscere l'ormai IMMINENTE epilogo? Io credo di sì, per cui fatevi sentire!!

Vi avevo scritto nel commento finale all'ultimo capitolo che qui veniamo a conscenza del vero Jonathan (che se vorrete seguirmi potrete approfondire nel Prequel che pubblicherò proprio appena avrò finito questa storia), le parole che rivolge in questi ultimi 2 capitoli a Christian sono quelle più SINCERE, lui farebbe davvero qualsiasi cosa per Christian. L'ha fatto in passato (leggerete nel Prequel.... se vorrete!) e lo farebbe ancora. Spero solo di aver reso in tutta questa storia e di aver puntualizzato negli ultimi 2 capitoli quanto veramente questa coppia si sia amata e si ami, in modo quasi FOLLE. 

Ok, non ho risposto a commenti ma ho fatto tutto io, sperando che vi faccia piacere leggere questi miei commenti/chiarimenti. A sabato prossimo e mi raccomando, NON MANCATE ;) <---

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Capitolo 44
*** No more wasted time (Basta perdere tempo) ***


44. No more wasted time (Basta perdere tempo)

TRE MESI PRIMA DELLA ROTTURA

Jonathan sta per rientrare a casa. Non ha avuto molti appuntamenti quel giorno, motivo per cui è riuscito a rincasare piuttosto presto. Sono le 17.30, Christian è ancora in facoltà e Kyle frequenta un corso d’arte pomeridiano a scuola.

Appoggia la valigetta sul pavimento per poter cercare meglio le chiavi, che si ricorda di aver messo nel taschino anteriore in della giacca. Quando le infila nella toppa, però, trova resistenza. Suppone che ci sia  una chiave inserita nella parte opposta. Si ferma un secondo, pensando se sia possibile che Christian sia già a casa. Non dando troppo peso alla faccenda afferra la maniglia e apre la porta.

-Chris?

Chiama, scorgendo una luce in cucina e intravedendo un ombra attraverso il vetrocemento della mezza parete che separa la cucina e il salotto.

-No, sono io!

Ad emergere dalla cucina non è Christian ma Daniel.

-Ehi, ciao.

Esclama Jonathan, sorridendo. Chiude la porta alle sue spalle e appoggia la valigetta sul divano.

-Ti ho fatto preoccupare? Christian mi ha lasciato le chiavi, sto preparando la tesi e aspetto che la revisioni. È un problema, per te?

Jonathan è decisamente stupito, Christian non l’aveva avvisato circa la presenza di Daniel.

-Figurati!

Risponde, scuotendo il capo. Guarda poi l’orologio da parete davanti a sé, sopra il tavolo in sala da pranzo.

-Non dovrebbe tardare molto oggi.

Commenta poi.

Daniel si avvicina a Jonathan che lo guarda quasi intimorito.

-La valigetta…

Rimarca lui, indicando l’oggetto con lo sguardo. Jonathan non capisce immediatamente. Daniel scoppia a ridere, una risata fresca e fragorosa che subito riempie la stanza.

-Se la lasci sul divano Christian se ne lamenterà!

Jonathan annuisce e si china per raccoglierla, stesso gesto che compie anche Daniel e per poco i due non si scontrano.

-Lascia, faccio io.

Commenta il ragazzo. Jonathan immediatamente lo ringrazia.

-Hai tagliato i capelli?

Chiede, avendo occasione di osservarlo con più attenzione.

-Sì! Trovi che mi stiano bene?

Domanda lui, dopo aver appoggiato la valigetta sulla sedia della postazione da lavoro di Jonathan.

-Sì, molto.

Daniel ha iniziato a frequentare casa loro quando ancora era un ragazzino delle medie, ancora prima che Kyle entrasse nelle loro vite. Era uno degli alunni a cui Christian dava ripetizioni di vario genere per arrotondare lo stipendio, quando ancora non aveva ottenuto la cattedra in università. Ha una decina d’anni in meno di Christian e per entrambi ha ricoperto la figura di un fratellino minore o anche di un figlio, il più delle volte. Non era raro che dormisse da loro di tanto in tanto, specialmente dopo una lite a casa o dopo una sessione intensa di studio. Da qualche anno aiuta Kyle a svolgere i suoi compiti, mentre Christian e Jonathan sono al lavoro.

Jonathan lo osserva e gli è difficile, ora come ora, ritrovare in quel viso l’espressione fanciullesca che aveva il primo giorno in cui mise piede in casa loro. A quei tempi, ben dodici anni prima, era un ragazzino paffutello con capelli biondo scuri a caschetto, vestito in abiti decisamente poco consoni alla propria età, troppo datati, probabilmente. Ora è snello, i lineamenti sono più duri ed è discretamente avvenente.

-Penso che mi sfinino il viso.

Commenta Daniel, toccandosi i capelli. In quel momento assume un’espressione che causa  sconcerto nei pensieri di Jonathan, che si ritrova a dover sbattere gli occhi due volte prima di poter confermare ciò che ha appena pensato. I capelli biondi corti, gli occhi chiari, il sorriso splendente. Per un attimo gli pare di rivedere Christian da giovane, il giorno in cui l’ha incontrato.

-Che c’è?

Chiede Daniel, accortosi dell’espressione spaesata di Jonathan. Quest’ultimo sorride, cercando di mascherare l’imbarazzo. Si toglie la giacca che appoggia sulla spalliera del divano e si mette a sedere. Osserva di nuovo Daniel con un’occhiata furtiva. Non è la prima volta che trova a paragonarlo a Christian, al suo Christian, vergognandosene non poco. Tuttavia in questo momento non prova alcun senso di colpa o di vergogna, perché crede sia evidente e innegabile quanto i due somiglino, esteticamente. Quel taglio di capelli poi l’ha reso un sosia quasi perfetto.

-Sei proprio un pasticcione, lo sai?

Jonathan sobbalza.

-La giacca va sull’appendiabiti!

Commenta Daniel, con le stesse parole che Christian avrebbe usato, solo con un tono decisamente più pacato, in un’espressione che ha più di un invito che un rimprovero, come invece Christian è solito fare. Jonathan inizia a pensare che tutti quegli anni passati in compagnia di Christian devono aver in qualche modo influenzato Daniel. Dopotutto era poco più di un bambino quando arrivò a casa loro, non aveva ancora una personalità formata e il fatto che i genitori fossero divorziati e vivesse da solo con la madre dovevano averlo spinto a cercare una figura paterna, ritrovata senza dubbio in Christian. Una figura paterna perfettamente emulata, in modo quasi maniacale.

Daniel aveva intrapreso gli stessi studi di Christian, aveva insistito perché gli insegnasse a cucinare (con la scusa di dover badare a sé stesso mentre la madre cercava un nuovo compagno) aveva inoltre dimostrato particolare entusiasmo quando Christian aveva iniziato a passargli gli abiti usati che non voleva più indossare e di anno in anno anche la somiglianza fisica si era fatta importante. 

Tutto questo scatena in Jonathan emozioni contrastanti: lo inquieta quella strana ossessione per Christian ma allo stesso modo, nella sua mente, si fa spazio un altro pensiero decisamente pericoloso e a detta sua impronunciabile, una sensazione più di un pensiero, che mai avrebbe creduto di provare e che vorrebbe tanto dimenticare ed eliminare.

Daniel si siede accanto a lui.

-Ti vedo strano John, stai bene?

Chiede Daniel appoggiando la mano sul suo braccio, che immediatamente ritrae.

-Sì, probabilmente sono un po’ stanco.

Risponde rapidamente, distogliendo lo sguardo, gli risulta però difficile farlo. D’improvviso il suo cuore inizia a battere con decisione. Si sposta qualche centimetro più in là, per paura che Daniel possa accorgersene.

-La mia presenza ti infastidisce? Posso tornare dopo cena, se preferisci.

Domanda il ragazzo, riducendo le distanze.

-Lo stai facendo apposta, non è vero?

Commenta Jonathan, decisamente stanco di far finta di nulla.

-A cosa ti riferisci?

Chiede il ragazzo, esibendo un sorrisetto malizioso.

-Daniel, per favore, non lo fare.

Ribatte Jonathan, a questo punto conscio del fatto che Daniel sappia benissimo cosa sta provando.

-Quindi gli assomiglio, non è vero?

Il cuore di Jonathan per un attimo si blocca, tornando poi correre all’impazzata. Si alza, non essendo probabilmente più in grado di reggere la situazione.

Anche Daniel si alza e gli afferra entrambi i polsi.

-Era così bello, fresco, giovane, spontaneo. Come lo sono io, ora.

Afferma, fissando con attenzione Jonathan negli occhi. Jonathan scuote il capo.

-No, tu non sei la metà di quello che era… di quello che è, lui!

Daniel sogghigna.

-Allora perché sei così agitato?

Jonathan non risponde. Daniel sogghigna di nuovo, abbassa poi lo sguardo e scoppia in una risatina.

-..anche eccitato, direi.

Jonathan deglutisce e cerca di liberare i polsi dalla presa di Daniel.

-Credo che tu debba andare, lo dico sul serio.

Daniel stringe la presa.

-Non lo pensi. Non lo negare, sarebbe imbarazzante per entrambi.

Ancora una volta Jonathan non risponde. Tiene lo sguardo basso, osserva il pavimento. Non ha idea di come uscire da quella situazione. Si vergogna per ciò che sta pensando, per ciò che sta provando. Vorrebbe o meglio dovrebbe sbattere Daniel fuori di casa ma non lo fa.

-Fallo.

Esclama Daniel.

-Che cosa?

Chiede Jonathan, quasi a denti stretti.

-Quello che vorresti fare.

Jonathan scuote il capo.

-Esci da solo, senza che ti ci sbatta a calci.

Esclama, in un misto di rabbia e disperazione.

-O lo fai tu o lo faccio io.

Ribatte il ragazzo, con un tono sicuro e quasi arrogante, che ancora un volta crea in Jonathan emozioni contrastanti. Scuote il capo, disapprovando sé stesso e quello che sta per fare. Si sente male ma non riesce a fermarsi, è troppo tardi. Alza lo sguardo e incrocia gli occhi di Daniel dopodiché, senza pensarci troppo, si avvicina e lo bacia.

Un bacio carico di rabbia, di vergogna e di una passione malsana e dolorosa. Bacia quelle labbra morbide e giovani con foga quasi disumana. Dopodiché si ferma, poiché avverte un terribile dolore in gola, come se una spina gli si fosse conficcata dentro. Quasi fatica a respirare, non parla.

-Credo di dover andare, ora. Dì a Christian che ci vediamo domani e che sono andato a casa perché dovevo studiare. Buona serata!

Commenta Daniel compiaciuto, lasciando l’appartamento. Jonathan immediatamente crolla sul divano incredulo per ciò che ha appena fatto.

 

***

Jonathan non ha parlato con Christian tutta la serata. Non gli è stato difficile; quando quest’ultimo è rincasato si è infilato sotto la doccia, rimanendoci per circa un’ora. A tavola la conversazione è stata interamente monopolizzata da Kyle, intento a raccontare il suo disappunto su qualche fumetto del quale nessuno dei due genitori sapeva nulla. Senza contare che, molto probabilmente, neanche Christian doveva essere stato troppo intenzionato a parlare, gli è sembrato nervoso e infastidito.

Jonathan non sa come affrontare la questione. Vorrebbe parlare a Christian di ciò che è successo, cercando di trovare una pretesto. Allo stesso tempo, però, non trova la forza né il coraggio per parlargli. Notare quanto Christian sia nervoso e silenzioso quella sera di certo non aiuta. Non parlandogli sarà difficile trovare un escamotage per introdurre il discorso.

Dopo cena Christian si mette a correggere alcuni saggi dei suoi studenti sul tavolo della sala da pranzo, mentre Kyle si ferma un paio d’ore in salone a guardare qualche strano telefilm via cavo sugli zombie. Jonathan in tutto questo scenario rimane assente. Non fa che pensare a ciò che è successo solo poche ore prima e soltanto girarsi e guardare Christian lo fa star male, veramente male. Per un attimo pensa che potrebbe semplicemente non dire nulla. Non crede che Daniel intenda parargliene.

Cerca di prendere fiato qualche istante, convito di poter convivere serenamente con quel piccolo segreto, senza che questo intacchi il suo rapporto con Christian. È una stupida illusione; sa che si ritroverà costretto a rivivere quella scena e a provare ogni volta quel tremendo senso di colpa ogni volta nella quale li vedrà insieme nella stessa stanza. Non ha mai nascosto nulla a Christian, perlomeno nulla di grosso o di serio. Iniziare nascondendogli qualcosa del genere è fuori discussione.

Prende la sofferta decisione di confessare tutto quanto. Ha paura di come reagirà, di ciò che dirà e di come il loro rapporto cambierà. Spera però che la sua sincerità sia un passo avanti per far capire al suo compagno, a suo marito, che si è trattato di un piccolo sbaglio, un errore che chiunque potrebbe aver commesso. Dopotutto, come è d’uso dire sempre più sovente al giorno d’oggi: “errare è umano”. Un piccolo errore dopo quindici anni sarà pure concesso.

“Oppure no?”

Teme Jonathan, questa volta girandosi ad osservare Christian per diversi secondi. Christian non lo guarda, è troppo intento a leggere e scrivere. La sua testa non si alza neanche un secondo dai fogli, sembra che in quel momento non gli interessi altro.

Tornando a fissare la televisione pensa a cosa succederà a Daniel, dopo che Christian  verrà messo al corrente dei fatti. Dubita che tornerà a frequentare casa loro, perlomeno nel prossimo futuro. Lui stesso se Christian avesse fatto ciò che lui ha fatto non avrebbe pensato due volte a sbatterlo fuori, probabilmente con l’auspicio di non dover mai più incrociare il suo sguardo.

Ecco che inizia la fatidica domanda nella sua testa: “Se fosse stato Christian a baciare Daniel?”. Si chiede come lui stesso avrebbe reagito. L’indulgenza verso se stesso gli fa dire, di primo impatto, che sarebbe rimasto sì ferito ma che dopotutto l’avrebbe perdonato. Si fa poi spazio la voce della verità, dritta dal suo cuore, che serba un’opinione nettamente opposta.

Sarebbe andato su tutte le furie. Avrebbe urlato, si sarebbe sentito ferito, si sarebbe vergognato di guardare Christian in viso.

-Allora, ti è piaciuto?

Chiede Kyle, irrompendo nei suoi pensieri.

-Come?

Kyle lo guarda confuso.

-“The walking dead”. Sei rimasto a guardarlo, di solito ti lamenti e ti metti a fare altro!

Jonathan sorride.

-Perdonami, ero assente.

Kyle sbuffa.

-Figuriamoci!  

Jonathan scoppia a ridere. La sua risata viene smorzata immediatamente dall’intervento di Christian.

-Kyle, vorrei farti notare che sono le undici passate.

Afferma, facendo sobbalzare Jonathan.

-Hai ragione Chris, vado a letto.

Spegne la tv, getta il telecomando sul divano e si alza.

-Lavati i denti e prepara vestiti per domani, mi raccomando!

Lo ammonisce Christian, facendogli ribaltare gli occhi seccato.

-Sì, sì… ‘notte John.

Esclama poi, dando un bacio al padre, come è consueto fare ogni sera.

-‘Notte piccolo.

Ribatte lui.

Jonathan aspetta che Kyle si metta definitivamente a letto, prima di decidersi di intavolare un discorso con Christian.

-Tu non vai a letto?

Chiede poi questi, iniziando ad ordinare i suoi fogli. Il suo tono di voce è tutt’altro che gioioso. La frase che gli ha appena rivolto è del tutto circostanziale.

-No.

Si limita a rispondere lui. Aspetta che Christian ribatta ma non accade, al contrario sparisce in cucina. Jonathan si fa forza, fa un respiro profondo e lo raggiunge, si trova davanti al lavello. Non ha ancora lavato le pentole che ha usato per cucinare, probabilmente perché le ha lasciate qualche ora in ammollo con l’intento di sgrassarle.

-Hai bisogno di qualcosa?

Chiede Christian, di spalle, rivolto verso il lavello. Jonathan esita.

-Sembri seccato.

Christian chiude l’acqua e si gira. L’espressione sul suo viso è seria. In quell’istante Jonathan inizia a temere che Christian sia già a conoscenza dei fatti. Non si spiega come sia possibile, in quel momento il sospetto che Daniel possa averlo messo al corrente non gli sembra più tanto improbabile.

-Ma davvero? Credo tu possa immaginarlo il perché.

Il cuore di Jonathan inizia a battergli all’impazzata. Non riesce a parlare, si limita a fissarlo con terrore.

-Perso la memoria?

Jonathan rimane pietrificato. Christian scuote il capo, con disapprovazione. Dopodiché afferra un asciugamano e si asciuga le mani, ancora bagnate.

-Sei un buono a nulla.

Esclama. Jonathan deglutisce. Vorrebbe ribattere ma Christian continua a parlare.

-Sono tre mesi, TRE mesi che ti dico di rinnovare l’assicurazione della tua auto e tu l’hai fatto? Ovviamente no!

Non sa nulla. Jonathan tira un sospiro di sollievo. Ad ogni modo, benché Christian non sia arrabbiato per ciò che pensa, il suo stato d’animo è tutto fuorché sereno.

-Questa mattina ho dovuto prendere la tua auto perché l’idiota dell’interno 18 ha parcheggiato davanti alla mia. Salgo in macchina e caso vuole che venga fermato ad un posto di blocco, a un paio di isolati da qui. Mi sono subito una lavata di capo da un agente per colpa tua, perché la polizza assicurativa è scaduta da un mese! Ho preso una multa, te l’ho lasciata sulla scrivania.

Jonathan annuisce.

-Spero che tu almeno abbia la decenza di comunicare i tuoi dati e assumerti le tue responsabilità.

Prosegue Christian, apparentemente più calmo.

-Lo farò domattina, senza dubbio.

Risponde, cercando di restare calmo.

-Sei veramente un disastro vivente Jonathan. Adesso l’assicurazione, la bolletta della luce il mese scorso che non hai pagato e grazie alla quale per poco non ci vengono tagliati i fili!

Christian esce dalla cucina, passando nervosamente accanto a Jonathan.

-E poi, guarda il disastro che lasci in giro per casa! Giacca sul divano, scarpe in mezzo alla stanza. Mi meraviglio quasi di non trovare anche quell’onnipresente valigetta sul tavolino o sul tappeto!

Jonathan osserva la valigetta sulla sedia della scrivania, sistemata dallo stesso Daniel.

-È mai possibile che debba starti sempre dietro a ricordati ogni cosa? Non sono tua madre Jonathan, te lo devo forse ricordare? Se è una madre che cercavi, beh… avresti fatto bene a tornartene in Texas. Forse saremmo stati meglio entrambi…

Le parole di Christian feriscono Jonathan, anche se il dolore nasce da qualcosa di più profondo. Afferra la giacca, iniziando a cercare le sigarette. Sente il bisogno irrefrenabile di fumarne una.

-Oh, no! Non ti azzardare ad accendere una di quelle merde, adesso!

Esclama Christian, strappandogli la giacca di mano. La sistema e poi la appende.

-È tutta stropicciata! Sono stanco Jonathan, stanco di doverti stare sempre col fiato sul collo per le cose più semplici. Stanco di dover passare sempre per il cattivo della situazione. Tutto questo perché sei pigro, incosciente e irresponsabile. Mi chiedo se tu lo sia sempre stato o se la trasformazione invece sia avvenuta gradualmente.

Christian si getta sul divano, palesemente abbattuto. Jonathan non può parlargli di ciò che è successo, non in questo momento.

-Ho baciato Daniel, oggi.

E, invece, lo fa.

Christian lo osserva. Spalanca gli occhi e lo guarda, aspettando che dica altro.

-Tu mi stai prendendo in giro.

La risposta di Jonathan non tarda ad arrivare.

-Vorrei tanto che fosse così.

Christian inizia a scuotere il capo, è visibilmente sotto shock.

-Dimmi che mi stai prendendo per il culo Jonathan Wallace, perché se così non fosse io… veramente non saprei come reagire.

Jonathan questa volta non risponde, lasciando intendere che ciò che ha appena confessato sia, purtroppo, la pura verità.

-No. Non puoi avermi veramente fatto questo. Non oseresti!

Istintivamente si allontana da Jonathan e si chiude in bagno. Jonathan lo raggiunge solo qualche minuto dopo. Tenta di aprire la porta ma è chiusa a chiave. Bussa, sperando che Christian apra.

- Ti prego, lasciami parlare.

Christian rimane in silenzio qualche istante prima di rispondere, dopodiché apre la porta e lascia entrare Jonathan.

-Chiudi la porta.

Gli intima, girato di spalle. Jonathan chiude la porta a chiave.

- Mi dispiace Chris, tu non hai idea di come mi senta.

Christian si gira. Jonathan nota immediatamente gli occhi lucidi e gonfi.

-Come ti senti TU?

Ribatte, rimarcando il concetto. Dopodiché abbassa il copri tavoletta del wc e si siede. Poggia i gomiti sulle ginocchia e nasconde il viso tra le mani.

-Mi vergogno, mi vergogno profondamente di ciò che ho fatto.

Commenta Jonathan, sedendosi sul bordo della vasca vicino a Christian, che rimane in silenzio e immobile.

-Mi sento veramente uno schifo per ciò che ho fatto, non ho riflettuto, non ho pensato e…

Christian lo interrompe.

-Non sperare che mi beva queste cose. Non credermi tanto stupido, te ne prego.

Commenta, glaciale.

-Non voglio farti credere nulla, ti sto solo dicendo la verità.

Ribatte Jonathan. Dal momento che Christian non aggiunge nulla, continua a parlare.

-Non ho giustificazioni, me ne rendo conto. Dal canto mio ti posso giurare che è stato solo un bacio, niente di più. Non provo nulla per lui, non so neanche cosa mi sia balenato per la testa. Se solo potessi…

Christian alza lo sguardo. Sul suo viso inizia a farsi spazio un’espressione di dolore. È visibilmente ferito. D’altronde, come biasimarlo?

-… tornare indietro? Ho una brutta notizia per te Wallace: non si può!

Jonathan annuisce. Fa un sospiro profondo.

-È solo che… era così uguale a te.

Christian scuote il capo e fa una smorfia di sdegno.

-È la scusa più ridicola che abbia mai sentito! “Uguale a me”?

Il suo tono è in parte collerico e in parte affranto. Jonathan coglie immediatamente questa sfumatura e gli è difficile dire quanto sta per pronunciare.

-Sì, com’eri quando ti ho conosciuto.

Christian apre la bocca ma non emette alcun suono, fa un respiro profondo e apre l’acqua della vasca, gesto che Jonathan non capisce immediatamente.

-Non voglio che Kyle senta nulla di tutto questo.

Jonathan annuisce.

-Cercherò di non urlare Jonathan e credimi, sarà dura. Quello che voglio chiederti questo momento è: cosa stavi cercando di ottenere, baciando quel ragazzo?

Chiede Christian.

-Te l’ho detto, mi ha ricordato te com’eri la prima volta che ti ho visto, quando mi sono innamorato di te.

L’espressione sul viso di Christian muta da afflitta a disgustata.

-Ti facevo più maturo Jonathan. Sai, le persone invecchiano, crescono. Anche tu non sei più lo stesso di quindici anni fa! Te ne rendi conto, non è vero?

Jonathan scuote il capo. Vorrebbe che Christian capisse ciò che vuole dire eppure anche a lui tutto quanto appare poco chiaro e insensato.

-Non è questo. Non mi riferisco all’età, né all’aspetto fisico. Mi ha ricordato quello che eri, la persona di cui mi sono innamorato.

Christian cerca di intervenire. Ma Jonathan lo blocca, continuando a parlare.

-Avevi tanti sogni, eri pieno di speranze e progetti. Eri così semplice, genuino e unico. So benissimo che Daniel non è nulla di tutto questo, ciò che ho visto in lui è semplicemente lo spettro di te. Prima che ti trasformassi nella copia di una stronza e frigida casalinga di alto borgo.

Jonathan si morde la lingua dopo aver pronunciato tali parole. Nemmeno le aveva pensate, gli sono semplicemente uscite di bocca, senza controllo. Christian è sconvolto, spiazzato.

-Sai, se mi avessi detto che volevi una “scappatella”, probabilmente mi avresti ferito di meno.

 Jonathan afferra la mano di Christian.

-Non volevo dire questo, o meglio non in questo modo. So bene che non c’è scusa per quello che ho fatto. Ci ho pensato e ripensato e io stesso non mi perdonerei. Per cui… non so davvero che altro dire o fare.

Christian osserva la mano di Jonathan sulla sua. Si sente profondamente ferito, avverte un dolore terribile al petto. Il fatto che Jonathan abbia baciato quel ragazzo ha avuto il suo peso ma la descrizione che gli ha fornito in giustificazione è stata sicuramente il colpo di grazia.

-Non è peggio di quanto io ti abbia detto poco fa, in salotto.

Commenta. Per qualche istante tra i due cala il silenzio. A riempire la stanza il solo rumore dell’acqua che scorre incessante nella vasca.

-Speravo che queste cose non sarebbero mai successe, non a noi.

Prosegue poi, poco prima di scoppiare in lacrime. Jonathan immediatamente si alza, si avvicina ulteriormente a lui e lo abbraccia.

-Lo so… l’ho sperato anche io, credimi.

Per qualche istante i due rimangono in silenzio. Il primo a parlare è Jonathan.

-Capirò se non mi vorrai perdonare, davvero.

Christian alza lo sguardo.

-Non mi importa di quel bacio. Vorrei solo tornare a stare bene, come lo siamo sempre stati.

Jonathan annuisce.

-Lo voglio anch’io.

Christian cerca di calmare il pianto, tentando di riacquistare quel briciolo di lucidità necessaria per dire ciò che deve.

-Ti chiedo soltanto di non farlo più, mai più.

Jonathan annuisce. Dopodiché accarezza il viso di Christian, asciugando le sue lacrime.

-No, te lo prometto: Mai più.

Si china verso di lui e lo bacia.

 

PRESENTE, HOTEL DELL’AEROPORTO

Un impietoso silenziosi è frapposto tra i due da almeno una decina di minuti. A giudicare delle espressioni sui visi di entrambi, devono essere impegnati a riflettere su ciò che è successo la notte precedente, su ciò che si sono detti. Christian ha ancora il viso rivolto verso il sole, tiene gli occhi semichiusi e all’apparenza è immobile. In realtà una serie di immagini si stanno affollando la sua testa, immagini di situazioni passate, immagini di gioia, di dolore. Sa che irrimediabilmente quella nottata trascorsa insieme, quelle emozioni tanto sincere che ha provato e ancora sa provando benché provi un forte desiderio di distaccarsene e di allontanarsene, porteranno a qualcosa. Dovranno prendere una decisione. Non possono più posticipare gli eventi, devono affrontarli, una volta per tutte.

Jonathan non ha staccato gli occhi da Christian per un istante. Nemmeno lui sa come si risolverà tutto quanto e ha paura di non poterlo più guardare con gli stessi occhi malinconici, di non poter sentire il suo profumo tanto da vicino, di non poter ascoltare il suo respiro né osservare ogni suo piccolo gesto. Sarebbe uno sciocco se pensasse che la notte precedente sia stata sufficiente a riparare le cose, uno sciocco e un sognatore. Non è mai stato né l’una né l’altra cosa e teme invece, con tutto il realismo e il pessimismo che si porta in corpo da fin troppo tempo, che quella notte d’amore non possa che aver peggiorato le cose.

Christian sospira, un sospiro profondo che scuote tutto il suo corpo. Non si volta ancora, probabilmente teme che se guardasse di nuovo Jonathan negli occhi lo scontro sarebbe inevitabile.

Proprio in quel momento un aereo passa al di sopra delle loro teste, essendo l’area aeroportuale tanto vicina non è strano che accada. Christian si era quasi dimenticato del suo volo e del motivo per quale si trova in quel momento in quel posto. L’intera faccenda della partenza per la California e del mancato incidente aereo sono stati posti in secondo piano. Fino ad ora non aveva ancora avuto modo di riflettere e di decidere se valga o meno la pena di partire. Qualche giorno prima aveva preso la decisione di andarsene per trovare il coraggio di firmare quelle carte di separazione, voleva allontanarsi da Jonathan e, paradossalmente, non era stato così vicino a lui da tanto, tantissimo tempo. Si sente ancora vacillante e ferito eppure la presenza di Jonathan, lì al suo fianco, non gli fa male quanto credesse.

Si gira e lo coglie con espressione statica, di ammirazione. Sapeva di avere i suoi occhi puntati addosso, lo sentiva, tuttavia ne rimane colpito. Jonathan non abbassa lo sguardo, gli rivolge invece un sorriso quasi impercettibile, che Christian oserebbe definire timoroso.

-E adesso?

Chiede quindi Christian, facendosi coraggio. Jonathan prende fiato prima di rispondere.

-Chi lo sa!

Ribatte, quasi con rassegnazione. Cala di nuovo il silenzio tra i due, questa volta però la durata è relativamente breve. A rompere la terribile e scomoda barriera di silenzio è Jonathan.

-Hai detto al telefono a Kyle che l’avresti rivisto l’indomani, cioè oggi. Presumo quindi che tu non voglia più partire…

Christian non risponde, si limita ad asserire col capo

-Io...

Cerca poi di parlare ma la voce gli si rompe in gola. Deve deglutire con decisione, prima di riuscire a completare la frase.

-Io… so solo di non volerli firmare, quei documenti.

Riesce ad esprimersi tutto d’un fiato, mangiandosi quasi le parole. Jonathan annuisce, dopodiché si alza e porge la mano a Christian, invitandolo a fare lo stesso.

-Andiamocene a casa. Non saremmo in grado di prendere una decisione lucida dopo tutto quello che è successo nelle ultime ore.

Christian afferra la mano di Jonathan e si alza. I due sono di nuovo molto vicini, i loro visi sono a pochi centimetri l’uno dall’altro.

-Va’ a casa Chris, riposati. Dormi una notte, un giorno, quanto ritieni sia necessario per tornare in te. Quando sarai pronto vieni da me e vedremo cosa fare.

Suggerisce Jonathan con dolcezza, con il solito tono risoluto che ha sempre utilizzato durante tutti quegli anni insieme, ogni qual volta Christian esponesse un dubbio, chiedesse un consiglio o mostrasse titubanza. Rimangono immobili, uno di fronte all’altro, in totale silenzio, aspettando entrambi che l’altro faccia la prossima mossa.

-Va bene. Ti voglio chiedere una cosa però, un’ultima cosa, prima di tornare a casa.

Aggiunge Christian. Jonathan non risponde, si limita a fare un cenno col capo, per indicargli di proseguire, di spiegarsi.

-Voglio darti un bacio qui, adesso, in questo posto dove sei solo il mio Jonathan, quello che io e solo io ho conosciuto veramente. Prima che tutto quanto torni ad avere un senso, prima che la realtà torni a sopraffarmi, a farmi chiedere quale sia il vero motivo per il quale non riesca, per quanto mi sforzi, a separarmi definitivamente da te.

L’intero discorso di Christian, quella sua strana richiesta, ha un gusto dolce-amaro per Jonathan. Lo sente vicino, sente che è il suo Christian a parlargli e che entrambi, in quel momento, sono tornati ad appartenersi. Eppure anche lui sa che, una volta varcata quella porta, una volta intrapresa la strada di ritorno a casa, tutta quella situazione verrà archiviata nel mucchio dei bei ricordi, quelli che in passato hanno fatto tanto bene al suo cuore ma che in quel momento, in quelle circostante, sono insopportabili da sostenere.

-Va bene.

Risponde, con un filo di voce. Christian, senza esitare, appoggia le proprie labbra sulle sue, ad occhi chiusi, serrati. Un bacio intenso, lungo, da portare via il respiro. Il cuore di Jonathan per un istante si ferma, nel constatare che potrebbe anche essere l’ultimo, il tanto temuto bacio di addio.

 

 

---> Sì, lo so, ho saltato una settimana. PERDONATEMI DAVVERO! Dai, questa volta è stata solo una settimana, non un anno e mezzo ;) Non l’ho fatto apposta, lo giuro, solo mi sono ritrovata d’un volo a sabato (scorso) e boh il capitolo non era pronto, io non ero pronta per revisionarlo e aggiungere gli ultimi dettagli e… ho rimandato! Volevo postare a metà settimana ma alla fine ho preferito arrivare direttamente a sabato.

Dunque, due parole sul capitolo… l’ultima volta vi ho detto che vi avrei mostrato i momenti prima della rottura *eeeek risposta sbagliata*. C’era ancora un tassello mancante prima di quel momento ed è quello che avete letto ora. Dopotutto, non penserete che Christian stia così male per una scappatellina, c’è qualcosa sotto di MOLTO più grosso e, come sempre, il tradimento è solo la celebre “goccia che ha fatto traboccare il vaso”, un vaso già all’orlo, come spero abbiate notato dalla tensione tra i due.

…e arriviamo al finale, sì. ECCOCI. Il prossimo capitolo sarà l’epilogo. Siete pronti? Io NO, decisamente NO! Tutto è nella mia testa e, devo dire, che il finale non è MAI cambiato dal 2009 ad oggi. Sapevo dove sarei voluta arrivare, mi serviva solo il coraggio per delineare il percorso che avete letto fino ad ora. Probabilmente saranno due parti.

Sulla data di pubblicazione mi spiace ma non voglio “illudervi”, inoltre settimana prossima dovrei partire per qualche giorno e non avrò il pc con me. Magari riuscirò a pubblicare comunque sabato prossimo ma non voglio darvi false speranze. Controllate COMUNQUE, ok ;)

Alla prossima e GIURO non sarà tra TANTO. Nel frattempo se volete potete lasciarmi un commento dicendomi come vi sentite ora che siamo alla fine. Grazie per le letture, le aggiunte alle “storie seguite”, “da ricordare” e “preferite” e… Buona Pasqua o Buone Ferie per chi non festeggia :D <---

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Capitolo 45
*** All Comes to an End (Tutto ha una fine) Parte Prima ***


45. All comes to an end  (Tutto ha una fine) Parte Prima

Christian e Jonathan hanno deciso di rientrare a New York separati. Dover viaggiare insieme sulla stessa auto, quella di Jonathan, li avrebbe portati inevitabilmente a confrontarsi, a parlare, a dover trattare quell’argomento che aspetta solo di prendere forma e verso il quale entrambi sono trovati concordi nel non ritenersi pronti. Non dopo quella notte, non dopo quel turbinio di emozioni forti.

Christian ha preso il treno e successivamente un taxi. Il tassista dopo aver comunicato la tariffa e arrestato il tachimetro scende dal veicolo per recuperare la sua valigia nel bagagliaio. Christian esita prima di uscire. Sa che non appena aprirà quella portiera, non appena poserà piede sull’asfalto e alzerà lo sguardo verso allo stabile nel quale è collocato il suo appartamento, tutto tornerà ad essere reale. Il dolore che fino a quel momento si è attenuato si ripresenterà,  probabilmente con più forza.

Cerca di farsi coraggio, convincendosi che dopotutto ci sarà pur sempre Kyle ad aspettarlo sulla porta di casa e il desiderio di riabbracciarlo, di rivederlo, di scompigliare quel suo cespuglio di capelli già di per sé disordinati, gli è sufficiente per spingerlo uscire da quell’auto e a bucare e quindi ad uscire da quella bolla di sapone che fino a quel momento l’ha  tenuto separato dal mondo reale.

Non appena afferra la valigia il suo cuore sussulta, eccolo sbalzato di nuovo nella realtà e la notte precedente non è più di ricordo. Prosegue verso l’atrio del palazzo e sale le scale, con rapidità. Esita prima di posare la mano sulla maniglia della porta, una volta raggiunto l’appartamento.  Prende fiato, si fa coraggio e preme la maniglia verso il basso, aprendo la porta.

Kyle è proprio davanti a lui, seduto sul divano. Lo stava aspettando. Senza nemmeno dargli il tempo di aprir bocca corre verso di lui e lo abbraccia, con una forza quasi sovraumana. Christian lascia andare la maniglia del trolley che fino a quel momento ha stretto e ricambia l’abbraccio con la stessa intensità, sempre senza parlare. Anche il minimo suono sarebbe superfluo, in questo momento.

Sente il respiro pesante di Kyle, che non dà cenno di volersi staccare da quell’abbraccio che probabilmente aspettava da fin troppe ore. Christian non ne è dispiaciuto, chiude gli occhi e si lascia inebriare dal profumo di Kyle, il profumo della sua pelle, dolce e pungente al tempo stesso. Con la mano sinistra accarezza finalmente i suoi capelli, spettinati come se li aspettava. Eppure questa volta non ha intenzione di rimproverarlo per non essersi pettinato perché fa parte di lui, del suo essere. In questo istante ritrovare tutti quei piccoli dettagli di familiarità lo fa sentire bene, meglio.

-Non partire mai più, mai, mai più.

Mormora infine Kyle, con un tono di voce flebile, appena udibile. Christian non risponde subito e lui insiste.

-Giuramelo, dimmi che non mi farai più qualcosa del genere.

Prosegue, questa volta con più decisione. Christian non può che rassicurarlo.

-Te lo giuro.

 

***

Jonathan è a casa. In confronto al viaggio di partenza il rientro gli è sembrato una passeggiata. Ha sbagliato uscita autostradale, si era convinto di non essere ancora arrivato a casa, quando invece avrebbe dovuto prendere lo svincolo una ventina di chilometri prima. Il viaggio di andata era stato una follia, una corsa adrenalinica puntata ad evitare una disgrazia che, se fosse stato destino, si sarebbe verificata comunque. Jonathan a mente fredda, seduto sul divano del suo loft, inizia a pensare a quanto in realtà fosse stato inutile quel suo gesto.

Se Christian fosse morto avrebbe dovuto accettarlo e se fosse stato vivo, come fortunatamente si è rivelato essere, sarebbe tornato comunque a casa sano e salvo. Vuole pensare di aver avuto un ruolo più o meno rilevante in tutta quanta la faccenda ma sa bene che non è stato così. Non ha salvato Christian, non quella volta. Provando una forte stretta allo stomaco inizia a pensare che forse, davvero, i giorni nei quali poteva vantarsi di assumere il ruolo del cavaliere dall’armatura scintillante il cui scopo era quello di salvare il suo amato, siano ormai giunti al termine.

Il suo amato si è salvato da solo, grazie ad un suo ricordo certo, ma pur sempre da solo. Senza contare che se non fosse stato per colpa sua nemmeno avrebbe avuto l’occasione di salire su quell’aereo, in principio. Sospira profondamente e nasconde il viso tra le mani, con sconforto.

Improvvisamente sente di nuovo bisogno di nicotina. Non ha fumato nelle ultime ventiquattro ore, non ne ha sentito il bisogno neanche per un istante. Si rende conto di quanto quegli infimi bastoncini siano non più di un riempitivo nella sua vita, gli servono a colmare un vuoto e, a giudicare dalla massiccia dose di pacchetti consumati negli ultimi otto mesi, si è trattato di un vuoto enorme, praticamente incolmabile.

E pensare che è stata proprio una sigaretta a permettergli di stabilire il primo contatto con Christian, quella sera di quindici anni prima fuori dal Vampiria. Ed era sempre stata una sigaretta a incastrarlo, otto mesi prima.

 

Tre giorni prima della separazione

Jonathan fissa la sua immagine riflessa nello specchio con la cornice dorata che trova davanti a sé. L’ultima cosa che vorrebbe fare in quel preciso momento è guardare la sua stessa faccia, tuttavia non vi è una parete in tutta la stanza nella quale non sia appeso uno specchio più o meno grande, a partire dal soffitto.

Si trova in un motel poco fuori da New York e ancora stenta a crederci. È  seduto da solo in quel momento su quel grande letto a due piazze e mezza, coperto da un sottilissimo lenzuolo bianco. Abbassa lo sguardo, avendo deciso di aver visto abbastanza. Non riconosce la persona che viene riflessa non lo specchio, non ha mai visto quella sua espressione maligna e beffarda. C’è qualcosa di sbagliato nel viso di quell’uomo dentro lo specchio. I suoi occhi ardono di lussuria accompagnati da un innegabile di senso di compiacimento e per quanto si sia sforzato, non è riuscito a cogliervi nemmeno un barlume di colpa, di rimorso.  Si sfrega gli occhi con la mano destra, sperando forse di incontrare qualche lacrima.

Non ha fortuna: i suoi occhi sono secchi, aridi.

Proprio come lo è stato il suo atteggiamento qualche ora prima. Ha telefonato a Christian dicendogli che per colpa di un paziente in ritardo aveva dovuto spostare gli appuntamenti successivi, portandolo a restare a lavoro fino a tardi. Christian gli aveva creduto senza dubitare, era quasi sembrato dispiaciuto e preoccupato. Gli aveva chiesto se avesse mangiato a sufficienza a pranzo e se fosse in condizione di resistere a digiuno fino al rientro a casa. Quella preoccupazione generata dalla sua indole quasi materna e apprensiva gli aveva fatto male. Non è una sorpresa il fatto che gli abbia creduto, non gli ha mai mentito durante tutti quegli anni insieme, al punto di non essere mai riuscito ad organizzargli una festa di compleanno a sorpresa senza tradirsi almeno un paio d’ore prima.

“Hai mangiato abbastanza a pranzo? Non il solito panino al salto, intendo.”

Sì. Quella sua domanda così tipica e così ordinaria era stata l’unica cosa che l’avesse portato a chiedersi se ciò che stava per fare fosse veramente necessario o se fosse invece poco più di un capriccio. Non era riuscito a proseguire oltre quella discussione e aveva riattaccato, con una scusa. Stava barcollando, stava per cedere.

Non l’ha fatto.

Dopo aver riattaccato ha mandato un messaggio a Daniel, invitandolo a raggiungerlo in un bar, a pochi passi dal suo ufficio. Per assurdo, non riesce a ricordarsi più di qualche frammento dell’intera serata. A partire dal ritrovo al bar fino ad ora, nell’esatto momento in cui si è ritrovato a fissarsi, quasi dal corpo di un altro, in quello specchio in un motel eccessivamente costoso considerati i servizi che offre. Novanta dollari per quattro ore soltanto e non più che qualche stupido specchio dorato sulle pareti e sul soffitto, nemmeno una maledetta vasca ad idromassaggio, che si ricorda di aver desiderato ardentemente e richiesto all’uomo alla reception,  qualche ora prima.

 Di questo si ricorda ma tutto il resto è vuoto, è nulla. Inizia a pensare di essere riuscito in qualche modo a staccare la spina del suo cervello, a spegnere il bottone che controlla le facoltà cognitive e le sue emozioni. Non saprebbe spiegarsi l’autocontrollo e il sangue freddo con i quali ha compiuto tutte quelle azioni. Ha mentito a Christian per la prima volta in quindici anni ed è stato per tradirlo. Aveva ceduto solo un paio di mesi prima, in occasione del suo compleanno, consegnandogli con ben una settimana di anticipo il sacchetto di Alessi contenente quell’orribile spremiagrumi manuale a forma di ragno in acciaio, che desiderava da anni. Un oggetto tanto inutile e quanto difficile da recuperare, essendo un pezzo praticamente fuori catalogo.

Eppure non ha esitato a mentirgli in quest’ultima occasione. Gli ha telefonato con sicurezza, si è quasi finto stressato e infastidito. Ha recitato bene,  una performance da standing ovation, se potesse darsi una valutazione. Il che lo porta a chiedersi quanto i suoi valori siano sbagliati e quanto, purtroppo, il gene della lussuria insito in sua madre gli sia stato tramandato e fosse quindi rimasto dormiente nel suo essere, per tutti quegli anni. Non aveva fatto che incolparla per la sua tresca con Gregor, ritenendola in parte colpevole della morte di suo padre. Non sarebbe guarito data la gravità della sua malattia eppure si era lasciato andare, non aveva combattuto. A quei tempi Jonathan era solo un ragazzo e ne aveva sofferto così tanto.

D’un tratto si sente come colpito da un lampo: Kyle si ritroverà a vivere le stesse sensazioni, le stesse emozioni, le stesse situazioni che ha vissuto lui. Aveva all’incirca la stessa età che ha lui ora ma era un ragazzo completamente diverso. Non crede che lui potrà sopportarlo.  Kyle così tenero e così dolce, Kyle che ne ha già passate tante e al quale sia lui sia Christian hanno promesso solo cose belle. Gli avevano promesso che sarebbero stati una famiglia felice, una famiglia normale.

Non ha tradito solo Christian, non ha mandato in fumo solo la sua relazione, ha distrutto tutta la sua famiglia, tutta la sua realtà. Con un paio di bicchieri di Dom Perignon e qualche colpo di reni ben assestato ha cancellato tutto ciò che aveva faticosamente costruito in quindici anni.

Si sente mancare, si sente soffocare. Si alza improvvisamente dal letto, noncurante di essere completamente svestito e apre la finestra della stanza, sporgendovisi per oltre metà busto. Ha bisogno d’aria fresca, quella viziata di quella stanza l’ha intossicato. Respira affannoso

-Avresti dovuto davvero provarla, la doccia.

Commenta Daniel, uscendo dal bagno. Ha terminato la doccia che Jonathan si è volutamente rifiutato di condividere. Rimane girato di spalle, con le mani salde sul davanzale della finestra. Non si sente pronto per guardare di nuovo quel ragazzo negli occhi.

-Ehi, ci resta ancora un’ora. Un altro giro? Magari potrei…

Jonathan non resiste oltre.

-No.

Ribatte, rapidamente, senza permettergli di proseguire il discorso. Senza guardare Daniel raggiunge la giacca che ha gettato sul pavimento e recupera dal taschino il suo pacchetto di sigarette e lo zippo. Dopo averne accesa una getta il pacchetto quasi pieno sul comodino, nella parte non occupata del letto, dove si siede, di nuovo.

-Ehi! Sembravi apprezzare…

Commenta Daniel, avvicinandosi a lui, accarezzandogli maliziosamente l’avambraccio. Jonathan si scuote, allontanandolo. In quel momento l’unica cosa che ha intenzione di fare è fumare quella maledetta sigaretta e poi andarsene. Benché il pensiero di tornare a casa, con tutto ciò che comporterà, lo spaventa.

-Senti, non è che puoi chiamarmi e scoparmi così perché oggi la luna ti è girata in quel modo e poi, una volta fatto, trattarmi come una merda, ok?

Prosegue Daniel, visibilmente infastidito.

-Evita queste scenate, è stata solo una cosa di una volta. Non ti ho giurato amore eterno o messo un anello al dito.

Ribatte Jonathan, prendendo una boccata lunga.

-Wow! E io che ti credevo una gran bella persona! Sei solo bravo con le parole.

Jonathan finisce la sua sigaretta e spegne il mozzicone nel posacenere sul comodino accanto a sé. Rimane in silenzio, a riflettere sul da farsi. Non che ci siano molteplici opzioni o che possa fare qualcosa per cambiare in modo sensibile le cose.

-Se te lo stai chiedendo: No, non te lo meriti proprio Christian. Non ti meriti nemmeno me, a dirla tutta.

Jonathan non può sopportare oltre. Si alza balzando giù dal letto, raccoglie tutti i suoi indumenti sul pavimento e si veste, senza troppa cura o precisione. Dopodiché afferra il portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni, estrae un singolo biglietto dal taglio di cento dollari e con rabbia lo getta sul letto. Daniel lo osserva indignato.

-I soldi per la stanza. Tieniti il resto, è ciò che vali.

Dopodiché esce dalla stanza, sbattendo la porta, senza degnare Daniel di un ultimo sguardo.

 

***

Kyle è seduto al tavolo da pranzo. Christian lo raggiunge con due tazze di the caldo fumanti. Posa una tazza di fronte a Kyle dopodiché si siede, reggendo in mano la propria. Nessuno dei due sembra ancora intenzionato a confrontarsi. Kyle afferra la sua tazza di the e avvicina appena le labbra al bordo. Gli è sufficiente per cogliere il profumo dolce del miele.

Sorride, Christian non gli concede mai di mettere dello zucchero o altri dolcificanti nel the o in qualsiasi altra bevanda calda ma da quando era bambino è solito preparargli il the con un paio di cucchiai di miele quando vuole consolarlo.

-Avrei dovuto prepararlo io il the questa volta.

Commenta, con dolcezza. Christian scuote il capo. Tra i due scende di nuovo il silenzio ed è ancora Kyle ad interromperlo.

-Non sai quanto ti ho maledetto, quanto mi ha fatto male la tua partenza…

Christian alza lo sguardo, che fino a quel momento era rivolto ad un punto imprecisato del tavolo. Kyle prosegue con il suo discorso, a giudicare dall’espressione del suo viso, piuttosto serio.

-Mi sono sentito abbandonato, tradito. Ti ho ritenuto un egoista, un ingrato.

Christian cerca di intervenire ma le parole di Kyle lo sovrastano.

-Ma non appena ho saputo dell’incidente e di quello che è successo, ho veramente capito cosa volesse dire perderti e mi sono sentito morire…

Il discorso viene interrotto da un singhiozzo. Christian appoggia la tazza sul tavolo e si avvicina di più a Kyle, spostando la sedia. Allunga il braccio e gli accarezza il capo, con dolcezza.

-Ehi! Amore mio…

Kyle, cerca di trattenersi, benché le lacrime abbiano iniziato a scorrere inarrestabili e copiose sul suo viso, al punto da offuscargli la vista.

-Ho pensato che fosse colpa mia, che qualcuno avesse voluto farmela pagare,  portandoti via da me per davvero  e…

Il pianto si fa più disperato, i singhiozzi che avevano iniziato ad intervallarsi tra una parola e l’altra iniziano a prendere il sopravvento, impedendo al ragazzo di proseguire. Christian con entrambe le mani gli afferra il viso, indirizzando il suo sguardo verso il proprio.

-No, non pensarlo neanche, ok? Non devi più dire nulla: basta! Io sono qui, tu sei qui, non ci serve altro.

Kyle annuisce e tira sul col naso, dopodiché prende fiato. Pian piano i singhiozzi cessando, permettendogli di bere il suo the al miele.

-Lui è venuto da te…

Afferma Kyle, a sorpresa, dopo aver terminato anche l’ultimo goccio della sua bevanda. Christian aveva pensato all’eventualità di doverne parlare con lui ma in questo momento non se l’aspettava. Rimane per un attimo bloccato e deve riordinare le idee nella sua testa, prima di poter anche solo annuire.

-Mi ha telefonato e senza neanche esitare ha deciso di partire e di raggiungerti.

Christian ancora non ribatte.

-Per la prima volta dopo mesi, quando ho parlato con lui al telefono, non mi è sembrato che ci fosse un estraneo all’altro capo. Era lui, davvero lui: il nostro John.

Prosegue Kyle. Christian sorride inavvertitamente, dopo aver ascoltato quell’ammissione da parte di Kyle. Non era stata dunque solo una sua impressione, anche Kyle si era accorto che in quel momento, in quell’occasione, Jonathan era tornato ad essere ciò che era sempre stato, un padre un marito, un capofamiglia che prende in mano la situazione senza rifletterci e che, alla fine, riesce a far sì che tutto finisca per il meglio.

-Lo era davvero.

Conferma Christian, accendendo una scintilla negli occhi di Kyle, un barlume di speranza.

-Credi… che sia tornato?

Chiede Kyle, con esitazione, questa volta. Christian fa un respiro profondo, prima di rispondergli.

-Non lo so…

Kyle è visibilmente deluso dalla sua risposta, ragion per cui Christian sa che deve andare avanti, dirgli tutta la verità, completare ciò che la sua mente gli suggerisce di dire, glielo deve.

-Non è cambiato solo lui, Kyle. Sono cambiato anche io e… è inutile che mi nasconda dietro  un dito. Se io non avessi fatto la mia parte, non sarebbe successo nulla…

Tre giorni prima della separazione

Christian è già a letto, sta leggendo un libro. È completamente assorto nella lettura e sobbalza non appena sente dei rumori provenire dalla sala da pranzo. Si tratta della porta di ingresso, prima aperta e poi sbattuta con forza.

Osserva la sveglia sul suo comodino, segna le dodici e trenta. Non si era accorto che Jonathan avesse fatto così tardi.

-Jonathan, sei tu?

Chiede, interrompendo per un attimo la sua lettura. La risposta non arriva subito, Jonathan si presenta sulla soglia della porta della camera da letto ma non entra nella stanza, si limita ad appoggiarsi allo stipite.

-Chi vuoi che sia?

Domanda, seccato da una domanda che prevede una risposta tanto ovvia, a detta sua. Christian non ribatte né dà ulteriori attenzioni a Jonathan. Sistema il cuscino e torna a posare gli occhi sul suo libro. Jonathan rimane ancora immobile. Non sembra intenzionato a voler mettere piede nella stanza. Sta fissando Christian, che si è isolato in un altro modo, come è solito fare da fin troppo tempo. Non l’ha salutato, gli ha rivolto a malapena tre parole. Nemmeno si è accorto che non ha indosso la giacca, si chiede se almeno l’abbia guardato o se semplicemente abbia alzato lo sguardo per forza d’inerzia. Fa un respiro profondo, entra finalmente nella stanza e si siede sul bordo del letto.

Sta pensando, riflettendo. Tutto ciò che ha fatto è stato orribile, crudele.  Eppure non si sente così tanto male. Sa di aver sbagliato, di aver commesso un’azione imperdonabile, che lui stesso riterrebbe ingiustificabile, a ruoli inverti. Eppure ciò che avverte è giusto una leggera fitta allo stomaco, che potrebbe anche essere dovuta alle lunghe ore di digiuno e a quei bicchieri di champagne consumati a stomaco vuoto, ora che ci pensa. Dopo tutti quegli anni, dopo tutto quello che ha passato e vissuto con Christian, dovrebbe sentirsi dilaniato dal dolore e consumato dai sensi di colpa.

Dovrebbe.

Ha le spalle rivolte verso Christian, per cui non riesce a vederlo in viso ma sa di per certo che non lo sta guardando. Si chiede come sia possibile essere passati dai baci tanto attesi, dall’impazienza di vedersi, dal ritenere difficile anche soltanto trascorrere una notte lontani uno dall’altro a quello. Vorrebbe tanto attribuire quel raffreddamento del loro rapporto a quel suo primo bacio a Daniel eppure, benché non sia sua intenzione togliersi delle colpe, sa che tutto quanto è iniziato prima. Entrambi si sono lasciati andare, confidando nella sicurezza e nella staticità della routine e del matrimonio.

Hanno iniziato a darsi per scontato. Difficile determinare chi sia stato il primo dei due a fare la prima mossa. Jonathan sa solo che tutta quella situazione ha iniziato a stargli stretta. Non è questo quello a cui pensava quando ha deciso di iniziare un nuovo capitolo della sua vita insieme a Christian. La persona che si trova alle sue spalle, che ha deciso che qualsiasi cosa ci sia scritto su quel dannato libro che sta leggendo sia più importante di lui, non è la stessa che ha incontrato al Vampiria e di cui si è innamorato.

Allo stesso modo, però, nemmeno lui così fermo, lucido e apparentemente in pace con sé stesso nonostante soltanto poche ore prime abbia commesso una delle azioni più basse e ignobili che un uomo possa mai commettere, sembra essere lo stesso ragazzo che quindici anni prima era rimasto incantato da quegli splendidi occhi color oceano.

Si sfrega il viso con entrambi i palmi delle mani. Il bacio a Daniel non è stato la causa della loro crisi ma quell’atto di infedeltà, che nemmeno gli ha lasciato il senso di appagamento fisico che aveva sperato di ottenere, sarà di certo la causa scatenante della loro rottura.

-Gradirei che non restassi con i vestiti sporchi sul copriletto pulito.

Queste sono le prime parole che Christian rivolge a Jonathan, sempre senza spostare lo sguardo dalle pagine del suo libro. Jonathan si gira, infastidito da quella sua esclamazione. Il fatto che continui a non degnarlo di uno sguardo lo rende nervoso, gli annebbia la vista.

-Solo questo sai dire?

Christian non ribatte, volta pagina. Il rumore della carta e il silenzio di Christian alimentano il rancore che Jonathan sta provando. Con uno scatto d’ira si alza dal letto, si sbottona la camicia la getta sulla sedia della specchiera. Questa urta uno dei flaconi di profumo di Christian che fortunatamente si ribalta ma non si rompe. Jonathan nota che Christian strizza gli occhi e sospira, con fastidio.

-Almeno guardami in faccia, cazzo!

Urla, distogliendolo finalmente dal suo libro. Christian lo guarda, lo scruta. I segni della rabbia sul suo viso sono impossibili da non notare: occhi spalancati, narici dilatate, respiro affannoso. Eppure Christian deve aver notato qualcosa  di diverso in quei suoi occhi annebbiati, qualcosa in profondità. Chiude il libro, lo appoggia sul comodino dopodiché gli rivolge uno sguardo di sdegno.

-Hai la coscienza sporca, Jonathan?

Chiede, con fermezza. Jonathan si blocca, spera che Christian non si accorga della sua esitazione, cerca di rimediare rispondendo di getto.

-Perché dovrei?

Christian fa spallucce.

-Quando mi hai telefonato, nel tardo pomeriggio, mi sembravi abbastanza tranquillo. Mentre poco fa sei entrato sbattendo la porta e ti sei messo a sbraitare. Devo dedurre che ti sia andato male qualcosa o… il contrario.

Jonathan non capisce. Teme però che Christian abbia veramente intuito qualcosa, il suo discorso è ambiguo e confuso eppure sembra sulla strada giusta per arrivare alla verità, verità che non è assolutamente intenzionato a rivelargli, non questa volta.

-Cosa vorresti dire?

Chiede, iniziando a calmarsi.

-Vorrei dire che non ho idea con esattezza di ciò che tu possa aver fatto o meno nelle ultime ore.

Spiega Christian, con tono fermo e deciso.

-Pensi che ti abbia tradito?

Sbotta Jonathan, arrivando a mettere in discussione qualcosa che non sarebbe dovuto uscire dalla sua bocca. Si trova a confermare l’ipotesi di non essere in grado di mentire a Christian. L’ha fatto qualche ora prima per telefono. Ora però davanti a lui, sente di essere sul punto di esplodere.

-Questo io non l’ho detto.

Ribatte Christian, provocandolo.

-Non essere ridicolo.

Jonathan non è in grado di aggiungere altro. Ha paura che anche la minima sfumatura del suo tono di voce, ora come ora, faccia trapelare la verità.

-Dopotutto è già successo una volta.

Aggiunge Christian. Jonathan cerca di calmarsi, si sente come in un campo minato, ogni mossa che farà, ogni frase pronuncerà, potrebbe far esplodere una mina facendo saltare in aria tutto quanto. Inizia a pentirsi di aver costretto Christian a guardarlo in viso, il suo sguardo è penetrante e ha tutta l’intenzione di volerlo  scavare fino in fondo. La verità che cerca ormai inutilmente di celare è troppo grossa perché possa restare nascosta. Sa che prima o poi salterà fuori.

Ma non ora.

-Non sopporto di essere messo sotto esame per un unico errore fatto in vita mia, come se tu fossi un Santo, Christian! Vado a farmi una doccia…

Non essendo più in grado di proseguire Jonathan gira le spalle a Christian e si dirige verso il bagno. Chiude la porta e vi si appoggia con entrambe le mani. Il respiro inizia a mancargli. Crollerà, questione di ore ormai e insieme a lui tutto quanto. Proprio in quel preciso istante quel senso di colpa che tanto si era meravigliato di non aver avvertito a fatto compiuto, lo travolge, spezzandogli il cuore. Scivola lungo la porta, inerme con la consapevolezza di essere ai pari di un condannato a morte. La parola “fine” si avvicina inesorabile e non c’è nulla che possa fare per evitarlo.

***

Kyle e Christian hanno trascorso il resto della giornata in modo piuttosto tranquillo, hanno chiacchierato del più e del meno, hanno guardato qualche film o telefilm di tanto in tanto. Una giornata pigra, che pare non aver nulla di speciale, nonostante sia iniziata in modo molto particolare e nonostante non sia mancata una buona dose di dramma e di preoccupazioni.

-Sono le undici. Sai, credo sia arrivato il momento di andare a nanna, Kyle.

Afferma Christian, stiracchiandosi sul divano sul quale entrambi sono seduti da troppo tempo. Hanno anche cenato su quello stesso divano. Hanno ordinato una pizza e l’hanno mangiata direttamente dal cartone, uno strappo alla regola bello grosso per Christian. Sa che se ne pentirà quando il giorno successivo dovrà cercare di togliere le gocce di unto dal tavolino e dal divano. Tuttavia in quel momento non gli importa, ha condiviso una giornata meravigliosamente normale con Kyle e se il prezzo da pagare sarà solo un po’ di olio di gomito e tanto detersivo, è ben disposto a farlo di nuovo.

-Oh…ok!

Kyle dà uno sguardo da lontano al cellulare, lasciato tutto il giorno in disparte. Non l’ha guardato neanche per un secondo ed è parecchio strano, di solito ce l’ha sempre in mano o in tasca. Christian ha iniziato a ritenere quell’assurdamente costoso iPhone parte integrante del corpo di suo figlio, un terzo braccio o una seconda testa, ancora non ha scelto quale possa essere il paragone migliore.

-Ci sono abituato a vederti con il cellulare incollato alla mano, potevi tenerlo vicino.

Commenta, facendolo sussultare. Era sovrappensiero, intento a fissare in lontananza il cellulare. Kyle scuote il capo. Sembra essersi incupito tutto d’un tratto e Christian non riesce ad intuirne il motivo. Solo fino a qualche istante prima aveva il capo appoggiato sulla sua spalla, un’espressione dolce e rilassata e un sorriso appena accennato sulle labbra.

-No, non ne ho bisogno, è solo che…

Kyle fa un respiro profondo che Christian non può che notare. Probabilmente sta tenendo qualcosa per sé, qualcosa che deve avere a che fare con i comportamenti strani e misteriosi che ha avuto durante tutta l’estate. 

-C’è qualcosa che vuoi dirmi?

Kyle lo guarda negli occhi, intensamente, senza dire una parola. Sul suo viso riesce a leggere la confusione, l’incertezza. Capisce che Kyle vorrebbe dirgli qualcosa ma che forse non ha il coraggio di farlo o non crede che quello sia il momento adatto.

-Va bene, possiamo rimandare.

Suggerisce, sorridendogli, sperando di rincuorarlo. Kyle annuisce e si alza dal divano, dopodiché si volta, in direzione della sua stanza.

 

 

 

Christian si mette a letto. Come di consuetudine appoggia il cuscino contro la sponda del letto, si mette a sedere, accende l’abat-jour e afferra un libro dal comodino. Non riesce ad addormentarsi senza aver letto anche soltanto qualche pagina. Apre il libro ma non riesce a leggere più di un paragrafo, poiché il suo sguardo ricade sulla radiosveglia. Segna le 23.30.

Sospira.

Ha voluto non pensarci tutto il giorno e l’aver passato la giornata con Kyle l’ha aiutato a tenere la mente occupata eppure sa che l’indomani dovrà finalmente confrontarsi con Jonathan. Gli ha detto di riposarsi, di presentarsi quando si fosse sentito pronto. Sa che non si sentirà pronto l’indomani come probabilmente non lo sarà il giorno successivo o la settimana dopo. Ciò che gli serve sono coraggio e volontà. Non si sente munito però né dell’una né dell’altra cosa.

Chiude il libro. Decide di lasciarsi guidare dall’istinto, l’indomani mattina si alzerà, preparerà la colazione per sé e per Kyle dopodiché uscirà di casa, prenderà l’auto e si dirigerà verso lo stabile nel quale si trova Jonathan senza pensarci troppo, senza riflettere su cosa dire o quale atteggiamento tenere. Pensa di dover telefonare a Jonathan per avvisarlo o al limite mandargli un messaggio. Osserva il cellulare, spento, anch’esso sul comodino.

Non sente l’impulso di afferrarlo, anzi, decide di non dire nulla a Jonathan. L’idea di dover concordare un orario, di fissare una sottospecie di appuntamento, lo rende nervoso. Sa che se facesse quella chiamata, se fissasse quell’appuntamento, tutto quanto diverrebbe più nitido, tutto quanto si ingigantirebbe facendolo sentire costretto e soffocato, impedendogli di comportarsi  e di affrontare tutto quanto come realmente vorrebbe.

Appoggia definitivamente il libro sul comodino, per questa sera rinuncerà al suo rituale di lettura. Allunga il braccio verso l’interruttore dell’abat-jour per spegnerla quando sente dei rumori provenire dalla camera di Kyle, dei passi. Lo sente alzarsi, per poi aprire la porta della sua stanza. Si blocca, aspettandosi di trovarlo sulla soglia della porta della sua stanza, da un momento all’altro.

Infatti, pochi istanti dopo, eccolo là:  aria persa, pigiama stropicciato e capo chino.

-Chris…

Quella scena gli è fin troppo familiare, l’ha vista così tante volte nel corso degli anni. Senza aspettare che dica altro, solleva il lembo del lenzuolo ancora piegato, nel lato del letto che è sempre stato di Jonathan, dopodiché  tamburellando le dita sul materasso lo invita a raggiungerlo. Kyle, sempre a testa bassa, accoglie l’invito e si sdraia afferrando le coperte che porta quasi fin sopra alla fronte. Christian scoppia a ridere, Kyle è così buffo, non può farne a meno.

-Mi comporto come un bambino, lo so…

Mormora, lasciando scivolare le coperte.  Christian si avvicina e lo guarda con dolcezza, dopodiché gli dà un bacio sulla fronte.

-Per me avrai sempre cinque anni, non importa quanto il tempo scorra veloce.

Dopodiché Christian spegne la luce ed entrambi possono finalmente riposare.  

 

***

Jonathan si è alzato da poco. Non ha appuntamenti in mattina, ragion per cui ha potuto concedersi di restare a letto più a lungo. Si è fatto una doccia, si è vestito ed ora si trova seduto al tavolo da pranzo con l’intento di fare colazione. Non ha granché fame e quel caffellatte di fronte a sé è diventato ormai freddo. L’ha preparato ma si è dimenticato di berlo, intento a fissare nemmeno lui sa cosa, al di là del finestrone principale in sala da pranzo.

Non ha ricevuto nessuna chiamata o messaggio da parte di Christian. Non ha idea di quando si presenterà e il fatto di trovarsi impreparato al loro ultimo e decisivo incontro lo rende estremamente nervoso. Non ha comprato le sigarette il giorno precedente, l’ha fatto di proposito. Ha deciso di andarci piano con il fumo e ha versato nel lavandino ogni bottiglia presente nell’appartamento che avesse anche la minima goccia di alcool. Il viaggio della speranza che ha fatto per arrivare a Buffalo deve averlo spaventato, non crede in quei quarant’anni della sua vita di essere stato tanto male per una sbornia. Eppure, da ragazzo in Texas, ha passato le sue belle serate allo sbando.

Semplicemente il suo stato psicofisico in quel momento non era adatto per permettergli di gettarsi a capofitto sugli eccessi senza doverne risentire. Si ritrova a fissare il fondo di una bottiglia di Jack Daniel sporgere dal cestino della spazzatura, abbandonato di fronte al lavello della cucina e ad interromperlo è soltanto il suono del citofono.

L’orologio che ha al polso segna le undici e trenta, si chiede chi possa essere. Si alza e va a rispondere, con il sospetto di saperlo, in fondo, chi ci sia al capo opposto.

-Sì?

Chiede, con esitazione.

-Sono io.

Risponde la persona dall’altro capo, si tratta ovviamente di Christian.

-Ti apro.

Ribatte, premendo il bottone del citofono.

---> Eccomi di ritorno. Penultimo appuntamento!

Ehm... non lo so XD Ok, devo confessarvi che sono indecisa se chiudere tutto nel prossimo capitolo o fare un "epilogo". Vedrò un po' in base al materiale che riuscirò a produrre nei prossimi giorni. 

Dunque, voglio ringraziare Kae_dark angel  per la recensione. Mi hai chiesto se avevo in mente un prestanome per Daniel, sinceramente è l'unico rimasto senza prestanome ma ci ho pensato un po' e credo che lui sia perfetto:

DANIEL

Con i capelli un po' più corti, magari!

Dunque... volevo avvisarvi che ho deciso di utilizzare lo spazio che avrei dovuto riempire con la mia presentazione come calendario. Infatti già da oggi trovate le date e gli orari nei quali ho intenzione di aggiornare.
Sì, so che è tardi per "Hard to say i'm sorry" ma sarà utile anche per il Prequel e successive storie sui nostri adorati personaggi, per chi vorrà continuare a seguirmi. (Sì, il prequel non sarà l'unica storia su di loro!). Vi invito quindi a guardarla tutte le settimane, tutti i sabati, per sapere quanto pubblicherò.

Oggi ho postato eccezionalmente di martedì perché vi ho già fatto aspettare molto ed essendo il capitolo pronto ho pensato fosse giusto non farvi aspettare fino a sabato. Spero ne siate contenti.

Aspetto vostri pareri e... alla prossima! <---

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Capitolo 46
*** All Comes to an End (Tutto ha una fine) Parte Seconda ***


Due righe prima di iniziare:

Dopo più di 4 anni, siamo arrivati alla fine. Vi avviso che il capitolo sarà decisamente più lungo del solito. Avrei dovuto dividerlo ma non mi andava di farvi aspettare altro, per cui eccovelo qui. Probabilmente lo dividerò quando lo pubblicherò sul sito. Ci vediamo alla fine del capitolo, come sempre.

BUONA LETTURA.

 

46. All comes to and End (Tutto ha una fine) Parte Seconda

 

Il giorno della separazione, tre ore prima.

Daniel si trova a casa di Christian e Jonathan. Lo stesso Christian lo sta aiutando nella revisione della sua tesi. Nonostante quell’increscioso episodio del bacio a Jonathan, ha deciso di chiudere un occhio per onorare l’impegno da relatore che si è preso con lui.

Questo non significa che Christian abbia deciso di metterci una pietra sopra o di far finta di nulla. In realtà concentra tutte le sue forze per non pensarci, per non pensare che nessuno potrebbe biasimarlo se decidesse di tagliare tutti i ponti con Daniel. Si è trattato di un bacio, di un episodio probabilmente isolato. Eppure non è qualcosa che si possa dimenticare con facilità.

Osserva Daniel con lo sguardo rivolto verso il pc, intento a inserire nel documento word della tesi le indicazioni, le citazioni e le correzioni che Christian gli ha suggerito. Daniel è stato per lui e Jonathan un figlio prima che Kyle entrasse nelle loro vite, gli ha voluto bene e ha sperato soltanto il meglio per lui. Mentre ora, per quanto cerchi di negarlo, inizia ad avvertire nei suoi confronti  un sentimento di collera e di fastidio. Lo infastidisce vederlo indossare l’orologio che Jonathan gli aveva regalato per il suo compleanno un paio d’anni prima. Si tratta in realtà di un vecchio orologio di Jonathan che non aveva però più potuto indossare perché il cinturino in pelle era diventato troppo stretto.

Christian ha avuto modo di vedere quell’orologio al polso di Daniel diverse volte ma solo in quel momento si rende conto di quanto gli dia fastidio. Pensa a quanto Daniel tenga a quell’orologio e collega il suo attaccamento a quell’oggetto non più ad una questione di affetto fraterno o paterno, volendo esagerare, bensì per un’attrazione probabilmente ben più importante di quella fisica, verso Jonathan.

Abbassa lo sguardo non appena Daniel gli fa capire di essersi accorto di essere osservato. Fa un respiro profondo e cerca allo stesso tempo di scacciare via tutti quei pensieri maligni che sembrano non voler abbandonare la sua testa.

-Ecco, ho finito, vuoi dare un’occhiata?

Chiede Daniel. Il ragazzo gira quindi il portatile verso Christian, in modo che lo legga. Christian scorre velocemente le pagine dell’estratto, oggetto principale della sua correzione.

-Va bene.

Risponde. Daniel riprende possesso del computer dopodiché lo spegne e lo infila nella sua apposita custodia.

-Quindi devo solo consegnare gli ultimi documenti in segreteria e poi ho finito?

Christian annuisce. Daniel raccoglie infine il suo cappotto, appoggiato sullo schienale della sedia sulla quale era seduto. Sollevandolo per infilare le maniche qualcosa cade da una delle tasche, un oggetto leggero, probabilmente di carta, che va’ a finire sul pavimento.

Christian osserva quell’oggetto e ci mette qualche istante prima di riuscire a focalizzare di cosa si tratti o meglio, prima di voler ammettere a se stesso che ciò che ha visto non è stato il frutto di un’allucinazione.

Non lo è: lì, ai piedi di Daniel, giace un pacchetto semiaperto di Lucky Strike.

La stessa marca che fuma solitamente Jonathan eppure, Daniel non è un fumatore, non lo è mai stato. Il ragazzo prontamente si china per recuperare quell’oggetto che non sarebbe mai dovuto uscire dalle sue tasche. Christian però lo ferma.

-No.

Il tono di voce tonante di Christian paralizza Daniel che rimane ancora chino sul pacchetto con gli occhi spalancati dalla paura.

-Lascia lì quella cosa e vattene.

Gli intima a denti stretti. Daniel si alza ma rimane ancora immobile, costringendo Christian a ripetersi.

-Vattene.

Ripete, con sguardo fulmineo. Daniel non se lo fa ripetere di nuovo, prende il pc ed esce in fretta dall’appartamento.

Christian si avvicina a quel tanto temuto pacchetto di sigarette, lo osserva quasi con timore, prima di chinarsi a raccoglierlo. Lo tocca con delicatezza, quasi abbia paura di scottarsi. Ha paura a fare i dovuti collegamenti, ha paura a dover concretizzare il pensiero che l’ha indotto a cacciare Daniel fuori casa.

Si tratta di un comunissimo pacchetto di sigarette di una marca anche piuttosto famosa. Non vi è sopra di esso un’etichetta che possa permettere di risalire al proprietario eppure, per Christian è chiaro che sia di proprietà di Jonathan. Daniel aveva quel pacchetto di sigarette in tasca, un non fumatore con un pacchetto di sigarette di una delle marche più costose. Unica marca che Jonathan abbia mai fumato, da quando l’ha conosciuto.

Christian stringe quel pacchetto tra le dita ora, quasi lo stritola. Dopodiché, in un impeto di rabbia, lo getta con violenza contro la porta d’ingresso.

 

Presente

Christian è uscito di casa senza dire dove sarebbe andato, né quando sarebbe tornato. Ha soltanto detto “Io esco.”, senza aggiungere altro. Kyle però l’ha capito, sa che sta andando da Jonathan.

Sta facendo colazione; il cellulare è posato alla sua destra, vicino alla tazza colma di cereali. Non ha notizie di Anthony da un paio di giorni e questo lo preoccupa infinitamente. Non si vedono né si sentono dalla mattina dopo il  disastro aereo e si chiede cosa aspetti a farsi vivo. Sa bene che potrebbe mandargli un messaggio lui stesso ma non vuole farlo. È stato lui l’ultimo ad aver iniziato una conversazione; dopo il rientro a casa di Christian gli ha mandato un messaggio nel quale confermava di stare bene e che Christian era tornato, al quale Anthony aveva risposto con un semplice “Ne sono felice.”

Dopo quello più nulla. Mancano solo quattro giorni prima dell’inizio della scuola, dopo quel weekend ricominceranno le lezioni. Avrebbe voluto trascorrere quegli ultimi giorni con Anthony ma teme ormai che non sarà possibile. Non è riuscito a godersi completamente la precedente giornata trascorsa in compagnia di Christian. Benché il suo desiderio di vedere Anthony e di sapere cosa stesse facendo fosse forte, sapeva che quella giornata la doveva dedicare a Christian, non avrebbe mai rinunciato alla possibilità di passare qualche attimo felice e spensierato con lui, specialmente dopo aver trascorso tutte quelle ore in apprensione temendo di non poterlo vedere mai più.

Purtroppo però le cose non sono andate esattamente come sperava andassero. Non per un istante si è sentito spensierato o tranquillo, non ha fatto che osservare da lontano il cellulare, rimanendo con l’orecchio teso nella speranza che potesse vibrare da un momento all’altro.

Continua a scorrere i messaggi scambiati con Anthony e cerca di ricordarsi mentalmente tutto quanto si siano detti nelle ultime quarantotto ore, per riuscire ad individuare ogni minima incomprensione, stortura o incertezza ma non riesce a ricordarsi nulla. Ha amato e vissuto intensamente ogni attimo trascorso con lui, ripensa ancora con il cuore che gli batte forte a come si sia addormentato con serenità tra le sue braccia sul divano quella notte. Avverte anche un po’ di nostalgia per quei momenti che ormai appartengono al passato.

Prendendo coraggio posa il cucchiaio per la colazione nella tazza e recupera il numero di Anthony dall’elenco delle ultime chiamate. Il suo cuore continua a battere forte e si sente quasi intimorito e imbarazzato all’idea dover parlare con lui al telefono.

Spento.

Il telefono di Anthony risulta spento o scarico, in ogni caso nessuna risposta. Kyle posa di nuovo il cellulare sul tavolo e d’improvviso si ricorda delle numerose chiamate perse dei genitori di Anthony, che sommate al suo non farsi sentire da quasi due giorni, potrebbero significare che il loro piccolo segreto sia infine stato scoperto, facendo realizzare quella che era stata la paura più grande da parte di entrambi dal momento nel quale avevano deciso di diventare una coppia: la separazione forzata.

Avverte un terribile senso di vuoto alla bocca dello stomaco ed inizia quindi ad osservare i cereali rimasti nella tazza con disgusto. Non può credere che non potrà più vedere Anthony, non così presto, non senza preavviso. Sapeva che il rischio di non poterlo vedere per settimane sarebbe arrivato con l’inizio della scuola, tuttavia per quella separazione anticipata e inaspettata no, non è pronto.

Non è sicuro che siano realmente quelli i fatti, forse Anthony sta ancora dormendo e ha ancora il cellulare spento, forse il giorno precedente l’ha lasciato in pace di proposito  per permettergli trascorrere del tempo con Christian e forse lo chiamerà più tardi non appena vedrà la sua chiamata.

O forse i suoi genitori hanno letto i loro messaggi, scoprendo dove avesse passato la notte precedente e dove fosse andato per tutta l’estate  ogni pomeriggio ed ogni sera e, chiaramente infastiditi per la cosa per la quale si erano già mostrati sfavorevoli, avessero deciso di sequestrargli il cellulare, impedendogli di uscire, di farsi sentire, di contattarlo anche solo per spiegargli come stanno le cose.

Qualunque sia l’ipotesi corretta e Kyle è sicuro che sia la seconda, non può fare nulla. Non conosce altro modo per contattare Anthony e non può di certo presentarsi a casa sua. Si sente incredibilmente solo e inerme e per la prima volta sente di essersi messo in qualcosa di più grande di lui.

Rimane per un’ora buona seduto sulla sedia nel tentativo di trovare una soluzione o tuttalpiù una scappatoia, senza però chiaramente venire a capo di nulla. Viene distratto proprio dal suo cellulare, un messaggio. Con la coda dell’occhio riesce ad intravedere il nome “Anthony” sullo schermo e con rapidità afferra il telefono.

“Vediamoci tra un’ora al  solito posto.”

Avrebbe tanto voluto ricevere un messaggio diverso, un messaggio meno schematico e impersonale, che potesse in qualche modo calmare il suo stato d’animo decisamene inquieto. Al contrario, quella breve frase di Anthony non fa che alimentare le sue paure.

 

***

Jonathan apre la porta e aspetta in piedi sulla soglia di veder comparire Christian dalle scale. Benché ci sia un ascensore nello stabile sa che opterà per le scale, l’ha sempre fatto e ha sempre costretto anche lui a farlo, lo conosce fin troppo bene. Eccolo infatti, poco dopo, presentarsi di fronte a lui. Sembra tranquillo, non ha particolari espressioni in viso né la solita aria di sdegno che solitamente tiene quando deve affrontare qualcosa verso la quale non sa assolutamente come comportarsi.

-Ehi…

Esclama Jonathan, troppo nervoso per restarsene in silenzio. Christian non ribatte, si limita a posizionarsi proprio difronte a lui, nell’attesa che lo inviti ad entrare in casa.

-Prego…

Lo invita quindi ad entrare, spostandosi dalla soglia il necessario per permettergli di metter piede nell’appartamento. Christian, sempre senza fiatare, entra. Vedere Christian entrare per la prima volta in quello che da diversi mesi a quella parte è diventato il suo appartamento, gli provoca inquietudine e al tempo stesso evoca in lui una curiosa sensazione di dejà-vu, che nemmeno è sicuro di poter definire tale. Si ricorda di quando quindici anni prima l’aveva portato per la prima volta in quel suo appartamento appena fuori dall’East Side, quello che Gregor gli aveva comprato come copertura e che era finito per essere il loro luogo di incontro per circa un anno. Christian osserva e scruta l’ambiente con gli stessi occhi curiosi di un tempo ma con un evidente punta di criticismo che a quei tempi non possedeva.

Jonathan sa di per certo che gli oggetti della sua attenzione sono la pila di scatoloni ancora chiusi e abbandonati contro una parete, il cestino dal quale sporge la bottiglia vuota di Jack Daniels e i pensili della cucina dai quali non ha ancora tolto la copertura protettiva in cellophane.

Jonathan chiude la porta, lasciando a Christian il tempo per osservare per bene quell’ambiente tanto disordinato e incompleto, che di sicuro non apprezza.

-Sai, la prima cosa che mi ha detto Kyle la prima volta che entrato qui dentro è stata: “Chissà cosa direbbe Chris di questo posto!”

Esclama. Jonathan sorride, sperando che anche lui faccia lo stesso e lo fa, anche solo per una frazione di secondo. Intuisce che il suo stato d’animo sia cambiato, lo nota più nervoso rispetto a quando ha messo piede nell’appartamento poco prima. Non vuole che tutto quanto prenda una brutta piega, per la prima volta dopo tempo il loro ultimo incontro, il loro ultimo accomiato, non era stato un completo disastro e vuole evitare che in quel momento, nel momento della resa dei conti, tutto torni ad essere quell’ammasso di urla, rancore e parole dure, che ha caratterizzato gli incontri precedenti.

-“Non posso credere che tu viva in un posto del genere!”

Prosegue Jonathan, imitando in modo esagerativo il tono di voce di Christian, questi lo osserva, senza aprire bocca. Non ha capito se Jonathan lo stia provocando o se semplicemente il suo sia un tentativo di rompere il ghiaccio, di arrivare nel modo più sereno e meno doloroso possibile al nocciolo del loro spinoso incontro.

-Diresti così, non è vero?

Christian annuisce.

-Probabile, sì.

Jonathan sorride e asserisce col capo.

-Avresti ragione, questo posto è una vera discarica. Lo puoi dire, non mi offendo.

Christian sembra intenzionato a commentare ma poi non lo fa, apre solo la bocca, le labbra, in modo a malapena percettibile dopodiché torna a guardare la stanza nella quale si trova, distogliendo lo sguardo da Jonathan che proprio non riesce a starsene in silenzio. Sente qualcosa muoversi sotto la sua pelle, quasi dei piccoli elettrodi attivati tutti nello stesso momento, che non vogliono dargli pace e non lo lasciano restare fermo, come invece vorrebbe. Si sente agitato e sente il bisogno di muoversi, di fare qualcosa, qualsiasi cosa.

-La verità è che… non mi sono mai arreso all’idea di dover vivere qui dentro.

Quel “qualsiasi cosa” comprende anche il pronunciare mezze frasi che celano confessioni che avrebbe preferito tenere per sé o che aveva intenzione di utilizzare in un momento successivo durante il quale sarebbero risultate più opportune, più pertinenti e meno patetiche. Christian gli rivolge uno sguardo del tutto sorpreso. Non si aspettava una frase del genere, nessuno se la sarebbe aspettata, probabilmente non avrebbe neanche voluto sentirgli pronunciare tali parole. Jonathan pensa che abbia compreso da solo ciò che gli ha appena confessato e che dopotutto non ci fosse veramente motivo di pronunciarlo ad alta voce, imbarazzandoli entrambi. Quell’ambiente lasciato al caso parla da solo.

Cerca di stare in silenzio, aspettando una risposta, un argomento o una discussione da parte di Christian che però sembra non voler parlare mai. Guardandolo si chiede se abbia ascoltato il suo consiglio, presentandosi da lui soltanto quando si fosse veramente sentito pronto per il confronto.

Non lo è.

Lui come Christian non saranno mai pronti, lo sa. Entrambi stanno giocando in difesa aspettando che sia l’altro a parlare per primo, a decidersi ad intavolare l’argomento. Non ha idea di quanto ancora riuscirà a sopportare quella situazione. Il silenzio è lacerante, la tensione è soffocante e del tutto insostenibile. Teme che da un momento l’altro uscirà con un’altra frase sciocca e del tutto innecessaria.

-Ce l’hai fatta a comprarti un Bose, alla fine.

Commenta Christian, sorprendentemente, avvicinandosi allo stereo. Lo vede sfiorare delicatamente con le dita il logo argenteo dell’apparecchio. Appoggia appena i polpastrelli, quasi per paura di prendere la scossa. Christian è girato ma Jonathan riesce ad intravedere di profilo un abbozzo di sorriso, sulle sue labbra.

-Sì, ed è assolutamente inutile. Ho un solo cd e non ho interesse a comprarne altri.

Risponde.

-“Queen: the best of”.

Christian si gira. Jonathan annuisce. Non ha lasciato la custodia del disco nelle prossimità dello stereo, in modo che Christian potesse vederlo ma lui se ne ricorda.

-Esattamente.

Jonathan deglutisce. I ricordi provocati anche soltanto pronunciando il nome di quel cd sono sufficienti a peggiorare il suo stato d’animo. Si ricorda di aver ascoltato quel disco quella sera sulla strada per il Vampiria, la prima volta che ha visto Christian, la prima parola che gli ha rivolto la parola e poi a ruota, in velocità aumentata, tutte le scene della loro vita insieme fino ad ora. Fa troppo male rivedere in modo così vivido quelle immagini, avendo Christian davanti e sapendo che fin troppe cose sono cambiate, affinché possa godere di quei ricordi serenamente e non con una prevalente tristezza nel cuore. Decide che non può più sopportare oltre, fa la prima mossa.

-Senti, giochiamo a carte scoperte, ok?

Christian non ribatte e Jonathan continua a parlare.

-Non ho la più pallida idea di come comportarmi. Vorrei tanto saperlo, vorrei che qualcuno nel mio cervello mi consegnasse un copione, un pezzo di carta, delle indicazioni, qualsiasi cosa possa aiutarmi. Ma non è così quindi…. Non lo so! Parla, esprimiti, dimmi tutto quello che non sei riuscito a dirmi, ogni cosa, di ogni genere, in ogni modo, vedrò come elaborarla.

Jonathan pronuncia il suo discorso tutto d’un fiato, perché ha paura che se avesse esitato e se avesse riflettuto meglio su cosa dire probabilmente non sarebbe stato tanto chiaro né avrebbe sensibilmente dato una scossa a quella situazione fin troppo statica.

-Credi che io sia messo meglio di te, John? Sei sempre stato tu quello che sapeva cosa fare, quello che dava le indicazioni, ricordi?

Ribatte Christian. Jonathan annuisce, ciò che Christian ha appena detto è vero eppure sperava in qualcosa di più, sperava che cogliesse il suo invito ed iniziasse a parlare, a spiegarsi.

-Non sei stato con me negli ultimi otto mesi e sono certo che tu te la sia cavata egregiamente per cui-

Christian lo interrompe con una risatina nervosa. Scuote il capo e gli rivolge un’occhiata di fuoco.

-Ne sei veramente sicuro, sei veramente sicuro di quello che dici?

 Jonathan si sente con le spalle al muro, non sa come ribattere. Si limita ad annuire col capo, un gesto rapido.

-John… veramente non capisci? Com’è possibile che tu non capisca?

Jonathan prende un respiro lungo, si frega il viso con le mani, quasi nel tentativo di schiarirsi le idee. Teme che la situazione stia degenerando, non è più sicuro di poterla tenere sotto controllo. Gli animi hanno iniziato a scaldarsi e Christian ha iniziato a guardarlo con quei suoi occhi tanto espressivi da bloccargli il respiro.

-Perché non ci sediamo, magari?

Invita, indicando il tavolo da pranzo. Christian lo guarda, dopodiché segue il consiglio e si siede.

 

***

Kyle sta raggiungendo il vecchio cinema, come gli ha chiesto Anthony nel messaggio. Ha paura di quell’incontro. Prima di voltare l’angolo si ferma. Fa un respiro profondo e cerca di raccogliere tutto l’autocontrollo possibile per permettergli di affrontare qualsiasi cosa gli aspetti dietro quell’angolo.

Ed eccolo là, Anthony. Non appena lo vede gli corre incontro. Senza dargli il tempo di capire come stiano le cose, di osservarlo e persino di salutarlo, lo afferra per fianchi sollevandolo e lo bacia. Un bacio strano che Kyle sicuramente è felice di ricevere ma che lo fa piombare ancora di più in uno stato di angoscia e di insicurezza.

-Per che cos’era questo?

Chiede Kyle infine, non appena riprende possesso delle proprie labbra. Anthony gli sorride.

-Mi sei mancato! E poi… deve esserci davvero un motivo?

Ribatte Anthony, sempre con il sorriso sulle labbra. Kyle vorrebbe tanto credergli ma c’è qualcosa nel suo sguardo, nei suoi occhi, che gli impedisce di farlo. Ha come l’impressione che gli stia nascondendo qualcosa.

-Non ti sei fatto sentire per quasi due giorni e avevi il cellulare spento questa mattina.

Afferma Kyle, convinto più che mai ad ottenere una risposta alle mille domande che si affollano nella sua testa.

-Dormivo.

Ribatte immediatamente Anthony. La sua risposta è tanto rapida da suggerire a Kyle che se la sia preparata. L’atteggiamento di Anthony è fin troppo sospetto.

-No, non è solo questo. Non è vero?

Domanda Kyle più serio e con un tono di voce più autoritario.  Anthony sembra rassegnarsi, quel sorriso così costruito che ha avuto sulle labbra fino a quel momento si spegne. Come Kyle aveva intuito, Anthony ha qualcosa da confessargli e a giudicare dall’espressione cupa e di sconforto che si fa presto spazio sul suo viso, deve trattarsi di qualcosa di  veramente importante.

-Non qui. Andiamo al parco abbandonato, ok?

Kyle annuisce. I due ragazzi raggiungono il parco. I giorni precedenti sono stati piuttosto piovosi, motivo per cui non possono sedersi sull’erba come hanno fatto durante tutta l’estate. Optano per il bordo di una vecchia fontana in pietra, ormai in disuso da anni e dentro la quale è cresciuto un cespuglio di erbacce.

-I tuoi genitori hanno scoperto di noi, non è vero?

Chiede Kyle con impazienza. Non può aspettare che Anthony parli, non può sopportare di trovarsi in quel limbo di inquietudine per altro tempo.

-Lo sapevano già da tempo…

Confessa Anthony, a voce bassa. Ha il capo chino e lo sguardo rivolto verso le scarpe, un paio di Nike Air Max nere, che frega l’una contro l’altra nervosamente. Kyle è del tutto stupito da quella risposta. Non sa come reagire, da un lato si ritrova sconvolto e dall’altro un po’ tradito. Se i suoi genitori sapevano di loro, perché hanno sempre dovuto incontrarsi in segreto? Perché ha sempre fatto finta di niente?

-Come?

Non riesce a proprio a dire altro. Prima di fargli tutte quelle domande, prima di lasciare intravedere il senso di delusione che sta provando in quel momento, vuole essere chiaro di aver capito bene e spera, in cuor suo, che Anthony abbia in servo una risposta una valida, una che possa farlo ricredere, che possa farlo quasi sentire stupido nell’aver dubitato di lui anche solo per un istante.

-L’hanno scoperto il giorno stesso nel quale ci siamo incontrati davanti al cinema, per la prima volta. Mio padre mi ha fatto seguire da un suo amico quel pomeriggio.

Risponde Anthony. La delusione di Kyle aumenta esponenzialmente. Sentire quella confessione da Anthony fa male, fa tanto male.

-Perché non mi hai detto nulla, Anthony?

Anthony non risponde. Kyle, colto dal risentimento, lo afferra per un braccio e lo scuote, cercando di farlo parlare con la forza.

-Rispondi!

Gli intima, con la voce spezzata e il cuore che avverte la prima crepa e aspetta solo che questa si allarghi per andare in frantumi.

-Perché ti avrebbero fatto del male e non potevo, non posso, sopportarlo.

Risponde Anthony, questa volta guardandolo negli occhi. Kyle si sente inerme davanti a quel suo sguardo carico di sofferenza, di insicurezza. Anthony sta soffrendo più di lui, da molto più tempo. Vederlo in quello stato placa per un attimo la collera di Kyle che lascia andare il suo braccio, stretto con forza, fino a quell’istante.

-Mio padre mi ha detto che ti avrebbe denunciato accusandoti di avermi molestato, sfruttando anche l’episodio della festa. Sarebbe valso a nulla smentire, è un uomo potente ti avrebbe incastrato e non potevo permetterglielo. Inoltre… ha detto di volermi spedire in un collegio, fino alla fine delle superiori.

Confessa Anthony. Kyle cerca di intervenire ma Anthony glielo impedisce, proseguendo il suo discorso.

-Finché non avrò compiuto diciotto anni, purtroppo, non potrò fare nulla per oppormi. Però sono riuscito a proporgli un accordo.

Prosegue.

-Un accordo?

Domanda Kyle, con spontaneità.

-Mi avrebbe lasciato in pace per tutta l’estate, permettendomi di vederti e di fare qualsiasi cosa volessi, alla condizione che non dessi, parole sue, “Troppo spettacolo di me” e che non restassi fuori la notte, con te.

Il collegamento è immediato: Anthony ha passato con Kyle la notte dopo l’incidente aereo. Kyle rimane a bocca aperta, sconvolto.

-Oh… Anthony, io…

Anthony scuote il capo.

-Non finisce qui. Ma, Kyle, prima di spiegarti tutto quanto, lascia che ti dica una cosa.

Anthony afferra entrambe le mani di Kyle, le stringe forte e intreccia le sue dita con le proprie.

-Devi sapere che tutto quello che ho detto, tutto quello che ho fatto è sincero, che la scorsa notte sono rimasto con te perché volevo farlo, pur sapendo a cosa sarei andato in contro. Mi credi, non è vero?

Kyle annuisce, non riesce a fare altrimenti.

-Bene, perché c’è un’altra cosa che purtroppo non sono riuscito ad evitare: il collegio, a Chicago. Partirò domenica sera dopo cena.

Kyle lascia andare le mani di Anthony. Non è certo di aver capito ciò che ha appena ascoltato, il suo cervello è annebbiato, i suoi pensieri sono il caos. Sente il bisogno di alzarsi, di muoversi.

-Quindi, abbiamo avuto solo questa estate? Questo, mi stai dicendo?

Chiede, confuso. Anthony apre la bocca ma non esce alcun suono, deglutisce ed asserisce col capo.

-E tu.. tu lo sapevi? Tu sapevi dall’inizio che non avremmo mai potuto avere più di questo?

Anche Anthony si alza e cerca di prendere di nuovo le mani di Kyle, cerca di calmarlo. Kyle però è tutt’altro che calmo. La situazione si è rivelata essere ben più dolorosa di quanto avesse immaginato. Anthony gli ha mentito per tutta l’estate e non può sopportarlo. Si è fidato di lui, si è lasciato andare con lui come non era mai riuscito a fare con nessuno in vita sua. Credeva finalmente di aver trovato la sua oasi felice ma si è trattato soltanto di un doloroso miraggio.

-Tra averti per un’estate e non averti affatto ho scelto la prima opzione, sì.

Ribatte Anthony, sicuro della sua scelta.

-E perché non hai pensato di chiedere anche a me cosa ne pensassi? Perché? Avevi paura che non accettassi, che mi tirassi indietro?

Chiede quindi Kyle, alzando notevolmente il tono di voce.

-No. Non ti ho detto nulla perché ho voluto viverti, viverci, come se non ci fosse una vera data di scadenza ad incombere. Ma non ti ho mentito del tutto, sapevi che avremmo iniziato la scuola in posti differenti.

Kyle vorrebbe urlare, arrabbiarsi con Anthony, esprimere tutto il dolore e il rancore che sta provando in questo momento ma non ci riesce. Non ci riesce perché benché Anthony gli abbia mentito, benché gli abbia nascosto un particolare tanto rilevante, riesce a percepire nel suo tono di voce, nel suo sguardo e nel suo continuo cercare di sfiorarlo, di prendere le sue mani, di sentire ancora una volta la sua pelle sotto le dita che non deve essere stato facile fare quella scelta, né riuscire a portarla avanti senza il minimo vacillamento, fino ad ora.

-Ma non sapevo che te ne saresti andato a Chicago, in collegio. Né che ci saresti rimasto per ben due anni.

Lo corregge, abbassando i toni e aggiungendo una punta di amarezza nelle sue parole. Anthony tenta ancora un approccio, che questa volta Kyle non gli nega. Lo abbraccia con forza e con disperazione. Kyle ricambia quell’abbraccio, che gli fa tanto male ma verso il quale prova una forte necessità.

 

***

Christian è seduto al tavolo, come Jonathan ha suggerito e lo guarda, attendendo che dica qualcosa, che sia ancora lui ad iniziare il discorso per primo. Solo dopo aver messo piede per la prima volta in quel posto, solo quando finalmente “l’appartamento di Jonathan” è diventato per lui qualcosa di reale e non soltanto un’idea senza forma, si è reso conto che presentarsi da lui senza essere pronto, senza almeno aver riflettuto su cosa dire, era stata una pessima idea.

Il loro incontro ha qualcosa di strano, è diverso dai precedenti e la cosa lo spaventa. Sa bene che questa volta il tutto non si risolverà con uno Jonathan che abbandona la stanza, lasciando lui lacrime. Principalmente perché quella non è la loro casa; è l’appartamento di Jonathan un luogo in cui Christian si sente un estraneo e in cui anche lo stesso Jonathan, come ha confessato poco prima, non sembra sentirsi a proprio agio. Christian vorrebbe dire qualcosa, vorrebbe avere l’impulso di dire qualcosa, non crede che gli manchino gli argomenti, ci sono davvero così tante cose che vuole dire a Jonathan ma non ci riesce. Ha paura che se iniziasse a parlare di un argomento subito dopo se ne pentirebbe, desiderando di aver detto altro.

Si sente combattuto e tormentato e Jonathan non deve trovarsi in uno stato migliore del suo, lo vede muovere nervosamente la gamba sotto il tavolo, è agitato e irrequieto e raramente l’ha visto in quello stato. La frase che Jonathan ha detto poco prima, sul non voler considerare quel posto come “casa”, l’ha stupito. Non tanto per la frase in sé, perché sa bene quanto Jonathan sia sempre stato attaccato alle sue cose e quanto tenesse al loro appartamento. Semplicemente per il modo nel quale l’ha detto, nella forma di una confessione forzata.

Troppa tensione in quella stanza, troppe aspettative e soprattutto troppo tempo è passato prima che entrambi si decidessero a comportarsi da adulti e ad affrontare la questione di petto. Christian non mostra segni di inquietudine fisica, riesce a controllarsi benché mille voci di mille pensieri differenti stiano urlando nella sua testa in modo confuso e aspettino soltanto che lui porga l’orecchio per ascoltarsi e distinguerli uno ad uno. Così, a sua stessa sorpresa, si ritrova a parlare per primo.

-Ti ho detto tante cose, John.

Inizia, facendo sussultare Jonathan che probabilmente era immerso nei propri pensieri in quel preciso momento.

-Ti ho detto come mi sono sentito e quello che ho provato. Francamente credo di aver espresso con molta chiarezza la mia situazione ma tu… tu non mi hai detto niente. Vuoi delle indicazioni? Eccole: parla tu, di’ tu quello che c’è nella tua testa. Perché fino ad ora sono sempre stato io quello a parlare e siamo arrivati a questo.

Christian si rende conto di quanto ciò che abbia appena detto sia vero solo dopo aver pronunciato l’intero discorso. Si chiede come abbia fatto a formulare un pensiero tanto complesso, senza nemmeno rifletterci sopra.

No, la verità è ciò che ha appena detto è soltanto un frutto di quelle sue tanto ignorate voci interiori. Da tempo sa che avrebbe dovuto chiedere a Jonathan di esprimersi, da tempo sa che avrebbero raggiunto una soluzione soltanto quando entrambi si fossero espressi completamente. Neanche troppo inconsciamente, ha sempre assunto lui il ruolo di “voce della ragione”, ha dato per scontato che le sue sensazioni fossero più importanti di quelle di Jonathan. Solo perché Jonathan l’aveva tradito e quindi solo perché aveva versato lui la goccia che aveva fatto traboccare il vaso ormai colmo, secondo Christian il suo pensiero era irrilevante, meno importante.

E perché aveva paura. Christian si sente soffocare nel considerare il fattore della paura. Aveva paura che Jonathan confessasse qualcosa, nemmeno lui sa cosa, in grado di stravolgere ogni sua certezza. Jonathan aveva sbagliato quella volta, quella decisiva, per cui Jonathan doveva essere per assimilazione il colpevole di tutto il resto.

Jonathan lo guarda, non parla ancora. Lo sta scrutando nell’attesa che gli dia conferma di intendere veramente ciò che ha appena detto. Christian regge il suo sguardo, permette che lo guardi dritto negli occhi, che lo scruti per capirlo, per intuire ciò che sente, come ha sempre fatto. Non abbassa gli occhi o il capo ma si lascia vedere dentro, dritto nell’anima. Quell’anima fragile e inquieta che Jonathan ha sempre compreso, più di quanto lui stesso fosse in grado di fare.

-Per troppo tempo mi sono sentito ospite nel corpo di un altro.

Esordisce Jonathan, con tono serio. Christian chiude gli occhi per un istante e prende fiato, sa di averglielo chiesto lui ma sa anche quanto male proverà per averlo fatto.

-Ti ho visto cambiato così, da un giorno con l’altro. Ho iniziato a chiedermi come avessi fatto ad innamorarmi di te.

Le parole di Jonathan, pronunciate in modo tanto sincero e conciso, sono per Christian un dolore intollerabile. Non se le aspettava, non si aspettava tanta schiettezza.

-Ti vedevo diverso e non riuscivo a capirne perché. Speravo ogni giorno  di svegliarmi e di trovarti com’eri prima, come ti ho conosciuto, come mi piaceva tu fossi.

Christian vorrebbe tapparsi le orecchie, vorrebbe farlo smettere di parlare. Non vuole sentire oltre, non crede di essere in grado di sopportare altro.

-Non mi guardavi più, non ti interessava più di ciò che facessi o pensassi. Qualsiasi parola mi rivolgessi era un rimprovero. Inscenavi liti tremende che duravano giorni per cose veramente stupide e insignificanti, come non aver sentito suonare il cellulare e quindi non averti risposto, oppure essere arrivato in ritardo a cena.

Jonathan fa una pausa. Osserva Christian per essere certo che lo stia ascoltando, che stia seguendo il suo discorso. Deve essersi accorto di quanto tutto ciò che ha appena detto l’abbia profondamente colpito e turbato ed esita prima di proseguire, aspetta che lui gli dia una conferma, aspetta che gli faccia cenno col capo di proseguire. Perché per quanto lo stia ferendo, per quanto si stia sentendo umiliato e toccato nel profondo, Christian deve continuare ad ascoltare.

-Da lì, ho iniziato a notare Daniel. Non ero in cerca di un’avventura, né di un’amante né di qualcosa di nuovo. Era te che stavo cercando, te soltanto. Quel… rapporto che ho avuto con lui non era necessario e credimi, non c’è giorno che passi senza che mi chieda cosa mi abbia spinto ad averlo fatto e senza che me ne penta.

Christian, che fino a quel momento non aveva potuto far altro che starsene in silenzio, sente il bisogno di esprimersi. Non crede che ciò che sta per dire possa in qualche modo farlo sentire meglio ma non può proprio rimanere in silenzio.

-Però l’hai fatto…

Jonathan asserisce col capo, la sua risposta, la sua ammissione, non si fa attendere.

-Sì ed è proprio grazie al quel mio stupido errore che ho capito.

Christian aggrotta la fronte e si lascia sfuggire un’occhiata di sdegno, alla quale Jonathan immediatamente replica.

-Può sembrare una scusa, me ne rendo conto. Eppure posso assicurarti che è stato così, perché solo dopo aver fatto…

Si blocca per un istante e deglutisce.

-…quello che ho fatto, ho iniziato a capire che anche io ero cambiato e forse anche più di te. Dopo quello che ho passato con Gregor e mia madre, non avrei mai fatto una cosa del genere a nessuno, men che meno a te. Mi sono anche reso conto che è stata colpa mia se tu sei in qualche modo cambiato. Devi sapere che… soltanto quando ho visto la disperazione nei tuoi occhi, soltanto quando ti ho visto rivolgermi quell’espressione desolante e devastante che rivolgevi a Dickson, anni fa, mi sono reso conto di non averti capito. Perché tu eri lì, eri sempre stato lì. Semplicemente, io ero diventato troppo cieco e non volevo vederti né capirti.

Jonathan interrompe nuovamente il proprio discorso, solo per osservare di nuovo Christian, per guardare di nuovo attraverso i suoi occhi.

La separazione

Jonathan sta per rientrare in casa, sono le sette e mezza. La sua giornata è stata abbastanza tranquilla: pochi appuntamenti, poco da fare, una giornata come un’altra o almeno così sperava che fosse.

Quando apre la porta si sorprende nel trovare Christian ad aspettarlo seduto sul divano. È piuttosto tardi ed era certo di trovarlo in cucina a preparare la cena o addirittura pronto a fargli la solita ramanzina per essere arrivato in ritardo e non avergli mandato un messaggio per avvisarlo. Lo guarda e nota qualcosa di molto strano.

È a braccia conserte e lo osserva, senza rivolgergli parola. Questo suo atteggiamento lo mette in soggezione al punto da aver quasi il timore di parlare lui stesso.

-Qualcosa non va?

Chiede, terrorizzato dalla sua imminente risposta. Christian ancora non parla, si limita ad indicargli un punto sul tavolino, di fronte a lui. Jonathan non capisce immediatamente ma poi, quando abbassa lo sguardo, realizza tutto quanto.

Lì davanti a lui c’è un pacchetto di sigarette. Probabilmente lo stesso pacchetto di sigarette che ha dimenticato su quel comodino in quello squallido motel tre giorni prima. Non vuole sapere come Christian ne sia venuto in possesso e il suo cervello al momento si è congelato, non riesce a pronunciare la benché minima sillaba e non è quindi in grado di improvvisare una scusa.

-È tuo, non è vero?

Chiede Christian, con voce tremante. Jonathan ancora non riesce a parlare. Appoggia a terra la valigetta del lavoro e abbassa lo sguardo. Non vuole confessare ma non ha di certo la forza per mentire. Christian si sporge per prendere il pacchetto di sigarette.

-Sto parlando con te, mi senti?

Chiede Christian alzando il tono di voce. Jonathan alza lo sguardo e lo scruta con più attenzione. Guardandolo bene nota che il suo viso è arrossato e i suoi occhi sono gonfi, segni di pianto recente che dà cenno a voler ripresentarsi di nuovo. Non sa come reagire, vorrebbe soltanto premere il tasto “Rewind” e ritornare indietro.

Non c’è nessun tasto “rewind” al contrario però sembra esserci il tasto “avanti veloce” dal momento che gli eventi, immediatamente, precipitano. Christian gli getta addosso il pacchetto di sigarette che va’ a finire ai suoi piedi.

-È caduto dalla tasca di Daniel, oggi pomeriggio. Daniel non fuma e aveva la tue sigarette, me lo vuoi spiegare?

Jonathan si fa coraggio ed osserva Christian. Vorrebbe non averlo mai fatto. D’un tratto gli occhi gli bruciano, se li sfrega. Quando ritorna a vedere con più chiarezza, la scena che ha modo di osservare lo devasta. Christian si è alzato, è sempre lì davanti a lui ma non lo sta guardando. Ha il corpo girato verso di lui ma il volto indirizzato altrove, lo vede deglutire, strizzare gli occhi e gli sembra di rivivere ancora una di quelle sere al Vampiria, quindici anni prima, quando Christian veniva chiamato in disparte per essere insultato e rimproverato perché non aveva fatto il proprio lavoro, perché aveva detto “No” o “Basta”. Purtroppo constata amaramente che la persona che l’ha reso in quello stato non è Abraham Dickson ma lui. Lui che era sempre stato al suo fianco a difenderlo, a proteggerlo.

-Hai ancora il coraggio questa volta di guardarmi negli occhi e dirmi: “Non ricapiterà più”?

Domanda Christian, sempre girato.

-Christian…

Jonathan non riesce a dire altro. In realtà non avrebbe nemmeno voluto parlare.

-Non hai neanche le palle per inventarti una balla! Sei solo un.. bastardo, cinico e un traditore!

Urla Christian, guardandolo dritto negli occhi questa volta.

-Non le tollero più le tue stronzate, Jonathan. Mi hai fatto fesso una volta, ora basta. Raccogli la tua merda e vattene, voglio la separazione.

 

Presente

Jonathan nota che l’animo di Christian si è calmato, il suo sguardo si è addolcito così come l’espressione tesa che ha avuto fino a pochi istanti prima.  Si sente più tranquillo e gli rivolge un debole sorriso, prima di continuare a parlare.

-Ti ho portato via da quell’inferno, decidendo di tenerti per me, tutto per me, senza chiederti se a te effettivamente stesse bene.  Ho comprato quell’appartamento e ti ci ho portato, facendoti fare più delle volte il ruolo di “moglie” e non ho neanche voluto considerare l’ipotesi che tu volessi altro.

Christian cerca di intervenire, riesce a malapena a muovere le labbra, Jonathan lo sovrasta proseguendo il proprio discorso. Le sue parole scorrono incontrollabili come un fiume al quale sono stati rotti gli argini ma Christian, benché si trovi nel mezzo di questo fiume straripante, non sta affogandovi.

-Ti ho accusato di essere diventato una casalinga, senza più ambizioni, senza sogni. Il fatto è che io ti ho voluto così, io implicitamente di chiesto di diventarlo. Tu ti sei impegnato al massimo per cercare di diventare quello che io ti ho fatto intendere di volere. Ti fatto credere di dovermi in qualche modo qualcosa perché ti avevo salvato da quella situazione.

Si blocca di nuovo, giusto il tempo di prendere fiato. Christian questa volta non cerca di intervenire, Jonathan non ha finito il suo discorso, è evidente.

-Il punto è che… io ho salvato te, nella stessa misura nella quale tu hai salvato me. Tu avevi Abraham Dickson ma io avevo Gregor. Io avevo una relazione con l’amante di mia madre, relazione che avrei portato avanti per chissà quanto tempo, se non fossi arrivato tu. Proprio per questo motivo non era giusto che avessi pretese, che passassi io per quello più forte, per l’eroe della situazione. Io non sono un eroe, non lo sono mai stato e quello che ho fatto a te, l’ha confermato.

Christian questa volta sente il bisogno di intervenire. Il discorso di Jonathan ha preso una piega inaspettata. Nota che i ruoli si sono invertiti: ora è Jonathan a soffrire. Non credeva che potesse aver sofferto così tanto, a malapena riesce a guardarlo senza che il suo dolore gli venga trasmesso.  Crede non sia necessario aggiunga altro.

-Basta.

Ribatte, sorprendendo Jonathan che evidentemente era intenzionato a proseguire oltre.

-Basta così.  Credo che ora tu debba ascoltare me, di nuovo.

 

***

Kyle sta tornando a casa. Non ha ancora deciso come reagire alla confessione di Anthony. Continua a sentirsi tradito eppure non può negare di aver vissuto dei momenti meravigliosi in sua compagnia. Tutto ciò che hanno provato, tutto ciò che hanno vissuto è stato reale e puro.

Anthony partirà domenica sera e gli ha chiesto di raggiungerlo poco prima che parta, per poterlo salutare. Non è sicuro di voler andare a quell’appuntamento, non è sicuro di poter sopportare di dovergli dire addio. Crede che quel loro ultimo abbraccio, poco prima nel parco, sia stato perfetto e che davvero non ci sia il bisogno di aggiungere altro. Eppure, sente che se non andasse da lui se ne pentirebbe.

Sta continuando a camminare. È da poco passato mezzogiorno ma non ha nessuna intenzione di pranzare e pare non avere nessuna intenzione di ritornare a casa, dal momento che si trova in un quartiere diverso da quello nel quale abita. Ci mette un attimo per rendersene conto e deve smettere di camminare per concentrarsi. Si guarda attorno e capisce: è il quartiere dove abita Morgan. Non torna da quelle parti da diversi mesi, da prima che iniziasse l’estate. Eppure eccolo lì, senza averlo esplicitamente deciso, a pochi passi dall’abitazione di Morgan. Riesce ad intravedere la sua casa.

Il suo subconscio deve averlo condotto lì. Non ha mai smesso di pensare alla ragazza, che ha sempre ritenuto essere la sua migliore amica. Tante volte si è ripromesso di andare da lei e cercare di parlare, nella speranza di poter recuperare quel meraviglioso rapporto che hanno sempre avuto eppure non l’ha mai fatto. Se ora si trova lì è perché ha bisogno di sfogarsi con qualcuno e non c’è nessun altro con cui vorrebbe farlo, se non lei.

Si avvicina ulteriormente alla sua casa, arriva difronte al vialetto e rimane ad osservare l’abitazione. Non c’è nessuna auto parcheggiata davanti al garage, per cui i genitori di Morgan devono essere al lavoro. Potrebbe non essere in casa neanche lei, Kyle non la frequenta da diverso tempo e non è più informato riguardo ai suoi impegni.

Vorrebbe tanto avere il coraggio per raggiungere la porta d’ingresso e suonare il campanello. Si sente talmente stupido e imbarazzato. Il suo primo impulso è quello di correre via, prima che qualcuno lo noti, prima che Morgan aprendo la finestra o uscendo lo trovi lì paralizzato davanti a casa sua. Dopo averci riflettuto decide di andarsene, dà un ultimo sguardo alla casa e si allontana.

-Kyle?!

È troppo tardi. Morgan si è accorta di lui. Kyle si gira e la guarda. È sulla porta di casa, ha una borsa a tracolla e un mazzo di chiavi in mano, probabilmente sta uscendo. Non riesce a rispondere, si limita a guardarla. La vede cresciuta, più grande. Ha tagliato i capelli, sono piuttosto corti ora, le arrivano appena sotto le orecchie. Forse è quel nuovo taglio di capelli a conferirle un’aria diversa, più adulta. La ragazza si avvicina e lo guarda incuriosita. Kyle ha paura della sua reazione: si aspetta che si metta ad urlare da un momento all’altro, che gli dica di andare via, di non farsi più vedere.

Non lo fa.

-Stai bene?

Kyle annuisce. Ancora non riesce a parlare, l’intera situazione lo imbarazza, non sa come reagire, non sa cosa dire. È di nuovo Morgan a parlare.

-Io… stavo uscendo. Mi trovo a pranzo con Ethan Warren, ultimo anno, ricordi? Ho iniziato a frequentarlo da qualche settimana.

Kyle non ricorda quel nome. Non crede di averlo mai sentito e, se anche fosse, al momento il suo cervello non è in grado di permettergli di fare qualsiasi collegamento.

-Io… sto con Anthony. O meglio, stavo…

L’ha detto. Così senza pensarci troppo, ha sputato il rospo che si teneva in gola fino a quel momento, il rospo che non gli permetteva di parlare, di pronunciare la benché minima sillaba. Morgan gli rivolge uno sguardo di apprensione.

-Stavi?

Chiede.

-Sì, stavo.

Risponde Kyle, con voce debole. Morgan esita per qualche istante dopodiché inizia a frugare nella borsa e afferra il cellulare. La osserva comporre un messaggio con rapidità, le sue dita scorrono veloci e impazienti sul touch screen del cellulare.

-Mi vedrò stasera con Ethan. Vuoi entrare?

Kyle non sa cosa rispondere ed è ancora Morgan ad intervenire, questa volta con meno delicatezza, lo afferra per un braccio e lo trascina verso di sé.

-Dai, vieni!

Aggiunge, senza mollare la presa. Kyle sorride, constatando che la determinazione che le ha sempre invidiato, non è affatto svanita.

 

***

-Se non mi fosse stato bene ciò che tu mi hai offerto, avrei rifiutato.

Afferma Christian con decisione. Si ferma, per dare il tempo a Jonathan di elaborare quanto ha appena detto.

-Mi stava bene lasciare che facessi tu quello forte, che pensassi tu a come risolvere le cose, questa è la verità. Quando prima hai detto che me la sono cava bene da solo, in questi mesi, ti sbagli. Ho impostato tutta la mia vita negli ultimi quindici anni con la consapevolezza di avere te dietro le spalle, pronto a prendermi qualora cadessi.

Confessare a Jonathan certe cose non gli è facile ma sa che deve farlo, come anche lui ha fatto poco prima. Niente più segreti, niente sottintesi.

-Svegliavi me e Kyle alla mattina quando la sveglia non suonava, tenevi i conti, risolvevi le incomprensioni e i vari disguidi tecnici e mi tenevi a terra tutte le volte che con la mia mente troppo tra le nuvole iniziavo a costruire chissà quale castello nell’aria. Ho continuato a preparare quella maledetta torta di mele ogni sabato mattina per mesi, prima di rendermi conto che ogni settimana ne buttavo nel secchio più della metà.

Jonathan sorride, probabilmente al pensiero della torta di mele. Una cosa tanto sciocca e insignificante come la preparazione di quello specifico tipo di torta è sempre stato una delle abitudini più importanti durante gli anni di convivenza tra i due. La torta di mele il sabato mattina era un rito, un punto fisso nella quotidianità che non mancava mai.

-Credi che per me sia stato molto più facile? Guarda dove vivo, guarda me, ti sembra veramente che stia bene? Io sarò anche stato la tua ancora ma tu sei stato la mia nave e, dimmi, cosa diavolo te ne fai di un ancora, senza nave?

Esclama Jonathan, irrompendo di nuovo nel discorso di Christian e stravolgendolo.  Dopo fiumi incontrollabili di parole, confessioni pronunciate con dolore e sofferenza, discorsi dettati direttamente dal cuore e dall’anima, scende il silenzio. Sia Christian sia Jonathan stanno riflettendo. Stanno entrambi valutando ciò che si sono detti. Non basterebbe qualche ora per decidere, non basterebbe un giorno intero a dirla tutta.

Jonathan si alza, sospirando. Christian lo osserva, incuriosito. È tornato ad essere irrequieto, agitato. Per la prima volta sembra davvero non essere in grado di trovare una soluzione o perlomeno di proporne una. Inizia a camminare nervosamente per il salotto, finché non raggiunge il finestrone che affaccia sulla 5th avenue. Vi si appoggia con la spalla e guarda fuori. Anche Christian si alza e lo raggiunge, rimane accanto a lui, davanti a quella finestra, con le braccia conserte.

-È stata dura e, per quanto mi riguarda, ogni giorno è stata una sfida. Non è passato un istante senza che pensassi quanto tutto fosse stato più facile prima, con te.

Afferma Christian. Un secondo di pausa, durante il quale i due si scambiano uno sguardo d’intesa, di complicità. Anche Jonathan deve essere d’accordo con ciò che ha detto.

-Eppure siamo sopravvissuti. Siamo qui, uno di fronte all’altro, come prima. Il problema è che ora dobbiamo prendere una decisione.

 Jonathan annuisce, non sembra ancora intenzionato a prendere parola, forse perché ha capito che Christian ha altro da dire.

-Inutile girarci attorno, le scelte sono due: separarci o fare finta di nulla e tornare a vivere come prima.

Conclude. Jonathan questa volta interviene. Gira le spalle alla finestra e appoggia la schiena al vetro.

-Ma nulla sarà mai come prima.

Christian si siede sul tavolino da caffè, non molto distante dalla finestra, proprio difronte a Jonathan. Annuisce.

-No, mai. Eppure come ti ho già detto, non ho intenzione di firmare i documenti di separazione.

Jonathan aggrotta la fronte, per quanto cerchi di capire, il discorso appena fatto da Christian gli sembra contraddittorio. Questi, però, si spiega subito cercando di fargli comprendere le sue motivazioni, ancora una volta.

-La scelta più facile, quella che farei con il cuore e di getto, sarebbe proprio quella di dirti di prendere la tua roba e tornare a casa, immediatamente. Mi sentirei molto più sicuro, più leggero. Eppure so anche che continuerei a pensare a te, a Daniel, a tutto quello che ci siamo detti, a tutte le mezze parole e le litigate di questi ultimi otto mesi. So che ogni cosa che tu faccia, dica o non dica, la riterrei sospetta. Non arriverei a fidarmi fino in fondo e mi sentirei un fondo un po’ morire nell’orgoglio per averti perdonato una cosa simile, solo per paura, per insicurezza.

Jonathan sembra ancora non capire, scuote il capo.

-Hai le idee parecchio confuse.

Christian ride. Non può negare quanto Jonathan ha appena detto.

-Un po’… ma  non tanto quanto pensi.

Precisa, prima di proseguire la sua spiegazione.

-Io e te siamo stati per tanto tempo una cosa sola, come abbiamo entrambi già detto. Credevamo non saremmo sopravvissuti l’uno senza l’altro, abbiamo fatto di questa convinzione il perno della nostra storia eppure, te l’ho detto, ce l’abbiamo fatta in qualche modo.

Christian si alza, appoggia una mano sulla spalla di Jonathan e l’accarezza, con delicatezza.

-Non voglio dimenticarmi di te, né di dirti addio. Tu sei e sarai sempre la mia persona, la mia anima gemella, colui che tra tutti mi comprende più. Ma…

Jonathan ribatte, immediatamente, sicuro di aver finalmente capito ciò che Christian vuole intendere.

-Se vorremmo un giorno tornare ad essere una cosa sola, dobbiamo prima imparare a vivere come entità separate.

Christian sorride. Jonathan non l’ha smentito, ha compreso esattamente ciò che volesse dire. Anche Jonathan gli sorride ed entrambi riescono dopo tanto tempo, a rivedere negli occhi dell’altro brillare la stessa scintilla d’intesa, allo stesso tempo, con la stessa intensità.

 

***

Kyle ha appena raccontato a Morgan tutto quanto, dal giorno nel quale ha deciso di frequentare Anthony, con relativi dubbi, fino a quanto è successo solo un’ora prima. La ragazza non ha battuto ciglio, ha ascoltato tutto il discorso con espressione interessata, ha lasciato che Kyle si sfogasse, che dicesse tutto quello che aveva da dirle.

Si trovano in cucina in casa di Morgan. Entrambi non avevano ancora pranzato, motivo per cui Morgan ha deciso di preparare un paio di sandwich. Sono seduti al tavolo da pranzo e a Kyle sembra quasi che non ci sia mai stato nessun motivo di discordia tra i due. Non si parlano da prima dell’estate eppure sembrano essersi visti il giorno prima e quelli precedenti. Durante tutto il suo discorso non ha nominato una volta la loro incomprensione, non ne ha sentito il bisogno.

-Io credo che tu debba andare a salutarlo.

Suggerisce lei.

-Davvero?

Chiede Kyle, non del tutto convinto.

-Sì. Mi hai detto di quanto tu sia stato bene, di quanto Anthony ti abbia reso felice in questi ultimi due mesi. Forse gli dirai addio, per un po’ ma… lo devi fare!

Aggiunge, con convinzione. Kyle si sente più sicuro, sente che Morgan ha ragione ed è certo che senza la sua conferma non avrebbe avuto il coraggio di prendere quella decisione.

-Sai, mi sarebbe piaciuto vederti felice, come dici di essere stato.

Afferma la ragazza, con una punta di malinconia. Kyle rimane colpito da questa sua affermazione si sente dispiaciuto.

-Lo avrei voluto anche io Morgan, davvero, mi dispiace tanto per-

Morgan gli fa cenno con la mano di fermarsi, di non andare oltre. Non è quello che vuole sentire, non è per sentirsi dire quanto Kyle stava per dirle, che gli ha rivolto quella frase.

-Vedevo come lui ti guardava dal banco in fondo. Vedevo come tu lo osservavi pretendendo di odiarlo quando esponeva qualche lavoro in classe. Per non parlare di quando giocava a football, non ti ho visto una volta togliergli gli occhi dosso. Tu non volevi rendertene conto e io ho voluto giocare sulla cosa, sperando che non te ne rendessi conto mai.

Confessa. Si ferma un istante, per bere un sorso d’acqua, dopodiché riprende a parlare.

-Poco fa mi hai detto che è stata la prima persona a regalarti un attimo di spensieratezza dopo mesi. Proprio per questo non mi importa esserci persi di vista, perché so che tu sei stato felice.

Kyle sorride. Morgan è una grande amante delle frasi sdolcinate, delle commedie romantiche e di tutto ciò che abbia l’amore e l’amicizia come tema principale. Eppure non è mai stata il tipo da pronunciare certe frasi senza arrossire o senza cercare di smorzare la tensione buttando il tutto sull’ironia, solo pochi istanti dopo.

-Ti voglio troppo bene per perderti per qualcosa di così stupido, ok?

Chiede infine. Kyle le afferra immediatamente la mano sul tavolo e gliela stringe, in segno d’intesa. I due scoppiano a ridere divertiti, come sempre.

 

 

Kyle torna a casa ancora un po’ agitato per il suo ormai imminente addio ad Anthony ma al tempo stesso felice per essersi chiarito con Morgan. Dopo aver smorzato la tensione, dopo essersi chiariti, hanno trascorso il pomeriggio a guardare telefilm e parlare di sciocchezze, come avevano sempre fatto. Vede il ritorno a scuola più sereno e spensierato, sapendo di avere ancora lei al suo fianco.

Quando rincasa nota, con sorpresa, che Christian è già tornato. Lo sente trafficare in cucina ed inizia a preoccuparsi. Quella scena non gli è nuova e teme di dover rivivere quanto ha vissuto un paio di mesi prima, quando Jonathan gli ha consegnato i documenti di separazione. Si fa forza e lo raggiunge in cucina. Sta preparando un impasto.

-Ciao…

Esclama, con agitazione. Christian alza lo sguardo e, al contrario di ogni previsione, ha un’espressione serena sul viso. I suoi occhi sono limpidi, il suo viso è rilassato. Non lo vedeva così da moltissimo tempo.

-Ehi! Sto preparando delle tagliatelle, non le facevo da un po’ di tempo e ho pensato: perché no! Magari chiederò a Jonathan se vuole passare a prenderne un piatto.

Afferma, sorprendendo  Kyle. Ha nominato Jonathan in modo sereno, senza stringere i denti, senza cambiare espressione.

-Sei stato da lui, quindi?

Chiede Kyle. Christian continua ad impastare, si limita ad annuire con il capo.

-E avete deciso di… tornare insieme?

Domanda, facendosi coraggio. È stata l’espressione tranquilla di Christian a convincerlo a spingersi a tanto e spera di non aver osato troppo.

-No.

Risponde Christian. Kyle, che per un attimo aveva sperato di ricevere una risposta positiva cade nello sconforto. Tuttavia, Christian aggiunge qualcosa, qualcosa che potrebbe restituirgli un po’ di speranza.

-Non ora, perlomeno. Ce lo dirà il tempo, ok?

Kyle annuisce e improvvisa un debole sorriso. Si sente in parte più sereno anche se avrebbe sperato in qualcosa di più concreto.

-Tu stai bene?

Domanda poi Christian.

-Sì cioè, abbastanza. Problemi di… ragazzi.

Christian spalanca gli occhi e sorride divertito.

-Ragazzi?!

Kyle arrossisce e ride anche lui, in modo nervoso.

-Già… è una storia lunga, te ne parlerò. Comunque ora fai pure le tagliatelle, sono certo saranno buonissime. Io… vado a farmi una doccia.

Kyle si gira. Christian si pulisce le mani dalla farina e dall’impasto, sfregandole contro il grembiule che indossa in questo momento, dopodiché afferra il figlio per un braccio, fermandolo.

-Ehi, guardami.

Kyle obbedisce, si gira di nuovo e lo guarda negli occhi.

-Andrà tutto bene, ok? È finita e staremo bene, tutti quanti.

Christian rivolge al figlio uno sguardo dolce e gli indirizza parole forti che sente profondamente. È sicuro di quanto ha appena detto, ne ha piena fiducia. Non può ancora sapere come si svolgeranno le cose in futuro ma è certo di aver fatto la scelta giusta e vuole che anche Kyle ne sia consapevole. Benché gli stia sorridendo, sa che non ne è del tutto convinto ma sente che, con il tempo, lo sarà.

Dopotutto, esistono almeno due tipi di lieti fine. Ci sono quelli da fiaba nei quali con uno schiocco di dita tutto torna alla normalità, come lo era al principio, nei quali non sembra che nulla sia mai accaduto realmente, che nessuno sia mai stato toccato e che tutto il decantato dolore e la sofferenza non siano stati in realtà più fastidiosi di una puntura di spillo.

E ci sono poi quelli più realistici, nei quali il dolore e la sofferenza sono rimangono cicatrizzati sul volto di chi li ha vissuti e probabilmente vi resteranno per sempre. Eppure coloro che hanno sofferto sono ancora lì, più forti e consapevoli di prima, pronti a combattere contro ogni cosa e ad affrontare ogni cosa il futuro serberà  loro, perché sanno che il peggio è ormai passato. Queste persone sono dei sopravvissuti, sono quelli che ce l’hanno fatta e che si sentono ora  rasserenati per la visione di un barlume di luce incontrato solo dopo interminabili tempi di buio, certi che da quel momento in poi quel barlume diventerà sempre più intenso e sempre più forte, riportando di nuovo il sole, la speranza e la felicità sul loro cammino.

 

 

---> FINE.

È davvero finita questa volta. Spero che il mio finale non vi abbia delusi, ho letto in molti vostri commenti che speravate in lieto fine e ve l’ho dato, probabilmente non come avevate sperato. Ho spiegato nelle ultime righe di chiusura come vedo io la questione “lieto fine” e, come vi avevo anticipato, non ho MAI cambiato idea dal primo capitolo ad ora. Non volevo che dopo tutto quello che è successo, dopotutto questo tempo, Christian andasse da Jonathan e tutto si risolvesse con un “Ti amo, torna a casa, dimentichiamo tutto!”. Christian e Jonathan sono personaggi che ho cercato di caratterizzare in modo piuttosto realistico e ho voluto quindi chiudere questo arco della loro storia in modo più reale possibile.

Già nel 2009 sapevo che si sarebbero “ritrovati” dopo un disastro, un incidente, che li avrebbe portati a riflettere e tirare le somme in questo modo preciso.

Badate che la risposta di Christian a Kyle è stata un: “No (non siamo tornati insieme), non ora perlomeno”.  Come spero abbiate letto nella mia pagina personale qui su EFP ho scritto che farò un EPILOGO che consisterà in  qualche pagina conclusiva che però, vi avviso, sarà scritta dal punto di vista di Kyle e collocata un paio di mesi dopo questo finale. C’è un motivo ben preciso per il quale ho deciso di scrivere l’epilogo e lo scoprirete quando lo pubblicherò che sarà suppongo non prima di metà giugno. Voglio lasciarvi il tempo per riflettere ed elaborare il finale :)

Nel frattempo voglio ringraziare TUTTI i miei lettori, TUTTI i miei commentatori e TUTTI i ragazzi che mi hanno scritto in privato per complimentarsi o per chiacchierare con me.

GRAZIE per avermi fatto compagnia, GRAZIE per aver creduto nella mia storia nonostante l’abbia lasciata incompiuta per TANTO tempo.

Vi chiederei di farvi sentire nei commenti a questi  capitolo FINALE. Per salutarci, per darci appuntamento alla “prossima” o anche solo per lamentarvi/complimentarvi per il finale. Ci tengo a sentire che ci siete, un’ultima volta ;)

Spero vorrete seguirmi nella mia prossima avventura che sarà, come ho più volte detto, il PREQUEL di Hard To Say I’m sorry. Il titolo… non ve lo dico ancora ma vi do una data:

SABATO 24 MAGGIO

Sempre ore 14/16

Segnatevi la data, continuate a controllare la mia pagina personale/bio qui su EFP e (spero) a presto!

Un abbraccio! <--

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Capitolo 47
*** Epilogue (Epilogo) ***


Epilogue (Epilogo)

Tre mesi dopo, vigilia di Natale

Kyle è seduto ad un tavolino di un bar in centro, è solo ma non lo sarà ancora per molto. Osserva attraverso l’enorme finestra accanto a sé le persone camminare frenetiche con buste, pacchi e sacchetti lungo la Fifth Avenue, tutti stretti nelle loro giacche e nei loro cappotti. La temperatura all’esterno è gelida e l’aria tagliente suggerisce che una tempesta di neve arriverà a breve. Kyle ha percorso almeno un paio di chilometri a piedi per poter raggiungere quel posto e una bella bevanda calda sarebbe perfetta in questo momento, ma ha preferito per educazione e per rispetto aspettare che la sedia davanti a lui venga riempita.

Il locale nel quale si trova è un piccolo Cafè a Manhattan, principalmente frequentato da studenti universitari riconoscibili osservando i loro tavolini coperti da libri e Macbook. Non ha scelto quel posto secondo un particolare criterio, gli è solo sembrato moderno, fresco e piacevole alla vista. Essendo sotto le feste l’intero ambiente è invaso dall’atmosfera natalizia: ghirlande decorate da ghiande di pino e palline dorate decorano il bancone e le finestre, la tipiche canzoni natalizie popolari vengono riprodotte a tutto volume e all’ingresso, su di una lavagnetta, ha potuto notare un disegno di una renna e una scritta “EggNog a soli 2,95$”.

Non ama particolarmente l’eggnog, perché l’alcool è l’ingrediente principale e lui odia l’alcool, non lo sopporta. Ciò nonostante ha sempre cercato sempre di berne almeno un bicchiere alla vigilia o durante il giorno di Natale, semplicemente perché fa parte di quelle piccole abitudini Natalizie che si ripetono di anno in anno, qualsiasi cosa succeda. Il rapporto di Kyle con il Natale, annessi e connessi, è piuttosto lungo e controverso. Non ha mai saputo cosa fosse realmente durante il periodo che ha trascorso nell’orfanotrofio, proprio per questo motivo in quegli anni di prima infanzia non gli è mai interessato granché né dei doni (del tutto assenti in orfanotrofio, ad esclusione di qualche caramella) né delle canzoni e tantomeno del significato della festa stessa.

Ovviamente tutto questo è cambiato da quando è stato adottato da Jonathan e Christian. A partire da quel suo primo Natale in casa Wallace-Simmons, avvenuto solo un paio di mesi dopo il suo trasferimento, quella festa per lui aveva assunto un significato magico, unico. Natale era diventato una bella fiaba grazie alla quale tutte le persone diventavano buone, era concesso mangiare dolci anche più del solito ed ultimo ma decisamente non meno importante: veniva trattato come un principe con doni e attenzioni di ogni tipo. Jonathan e Christian non gli hanno mai fatto mancare nulla e hanno sempre fatto il possibile per rendere ogni Natale, dal primo all’ultimo indimenticabile, perfetto, portandolo ad aspettare non solo la fatidica data con ansia bensì il mese stesso che d’abitudine era dedicato alla ricerca dell’albero e degli addobbi.

Quest’anno però sa che le cose si svolgeranno diversamente.

I preparativi si sono concentrati solo all’ultima settimana e gli addobbi in casa sono stati ridotti allo stretto necessario. Ne ha sofferto inizialmente ma poi ha deciso di farsene una ragione perché dopotutto, se anche non fosse successo ciò che è successo durante quell’ultimo e intenso anno, le cose sarebbero cambiate comunque. Ha compiuto sedici anni a luglio di quell’anno e ha ottenuto la patente recentemente. Inoltre è certo, avendo intercettato delle fatture da Jonathan, che i suoi genitori abbiano deciso di regalargli un auto nuova per Natale.
A sedici anni la strada per la vita degli adulti diventa sempre più breve, si iniziano ad abbandonare le abitudini da bambini, certe cose semplicemente “non sono più necessarie”. Eppure Kyle sente in cuor suo che se tutto fosse rimasto esattamente com’era sempre stato, gli sarebbe stato concesso altro tempo spensierato senza doversi rendere conto così, dall’oggi al domani, di essere cresciuto.  

Sospira. Non vuole pensarci, dopotutto sarà sì diverso ma non è detto che sia terribile, né che sia peggio. Il vero incubo sembra passato anche se difficilmente tutto tornerà come prima e, se fosse, ci vorrà del tempo, molto tempo, prima che le cose assumano un aspetto vagamente simile a quello originario. Inoltre tra un paio d’anni si ritroverà al college, un periodo che da un lato brama e che dall’altro teme. Sarà un ulteriore cambiamento, un grande cambiamento, che questa volta lo coinvolgerà in prima persona portandolo ad essere lui stesso responsabile di scegliere.

Accanto a sé, sotto al tavolino, ci sono due sacchetti: uno nero ed uno rosso. Ha approfittato dell’uscita per effettuare alcune compere Natalizie. Il sacchetto rosso contiene una palette di cosmetici di una marca molto amata da Morgan, acquistata da Sephora, per la quale ha dovuto sorbirsi una fila di quasi mezz’ora. Raramente gli è capitato di dover entrare in una profumeria e si ritiene fortunato a non essere una donna e quindi non essere soggetto ad interessarsi di cosmesi o particolari cure per il corpo, in questo modo è costretto ad entrare in quei posti assurdamente affollati, rumorosi e soprattutto odorosi, solo in limitate occasioni. 

Troppo distratto ad osservare i pacchetti accanto a sé, riflettendo se le scelte che ha fatto si riveleranno o meno soddisfacenti, non si accorge che la persona che stava aspettando è entrata e che in quel momento si trova proprio accanto a lui.

-Ciao.

Si limita a dire. Kyle si alza di scatto, rivolgendo ad essa uno sguardo stupito.

-Ciao.

Ripete, successivamente. Quella persona è Anthony e vederlo, nonostante aspettasse il suo arrivo da un momento all’altro, lo paralizza. Anthony al contrario sembra piuttosto rilassato, si siede sulla sedia vuota di fronte a Kyle e prende subito in mano il breve menù, che altro non è se una  breve lista su carta bianca plastificata. Kyle approfitta di quel momento di stallo per osservare Anthony. Non ha avuto modo di guardarlo con attenzione quando è entrato ma è sicuro, osservando anche l’ampiezza delle sue spalle e la lunghezza delle sue braccia, che è diventato anche più alto dall’ultima volta in cui l’ha visto. Indossa un cappotto nero classico. Non crede di averlo mai visto indossare qualcosa di diverso dall’abbigliamento sportivo. Tuttavia questa sia versione più classica, più matura sotto un certo punto di vista, si addice perfettamente alle forme del suo corpo.

-Credo prenderò un eggnog! È  pur sempre Natale, no?

Afferma Anthony alzando lo sguardo dal menù per indirizzarlo verso Kyle. Uno sguardo strano, incerto. I suoi occhi, benché puntati in direzione di Kyle, sembrano voler guardare altrove e sulle sue labbra si fa spazio un sorriso debole, a malapena percettibile. Sembra tranquillo, rilassato e completamente a suo agio eppure il suo viso lo tradisce: Kyle riesce a scorgere una grande inquietudine dietro ai suoi occhi e forse, rassegnazione. Un cameriere arriva al loro tavolo e Anthony ordina, come annunciato, una tazza di eggnogg mentre Kyle opta per la cioccolata calda.
Anthony si toglie il cappotto. Nel locale in effetti la temperatura è piuttosto alta e Kyle iniziava a chiedersi per quale motivo non se lo togliesse. Al di sotto di esso indossa una camicia beige, anch’essa un capo piuttosto fuori dall’ordinario per Anthony. Questa volta Kyle decide di farglielo notare, utilizzando l’abbigliamento come pretesto per rompere finalmente il ghiaccio ed iniziare la conversazione.

-Noto che hai cambiato stile.

Anthony dà un’occhiata alla propria camicia, probabilmente cercando di capire se Kyle si riferisca proprio a quella.

-Sì, nel mio collegio l’abbigliamento casual sportivo è concesso solo in palestra. Mi ci sono adattato e credo mi stia anche piuttosto bene.

Kyle annuisce.

-Sì, lo credo anche io.

Ammette, con non poco imbarazzo. Qualche istante dopo sopraggiunge il cameriere che posa sul tavolo le loro ordinazioni. Kyle si lascia inebriare dal profumo di cioccolata calda intenso, dolce e avvolgente con una delicata punta di cannella, come indicato sul menù. Socchiude quasi gli occhi e per un attimo non si trova più in quel bar con Anthony ma in montagna, qualche anno prima, nella casetta che Jonathan affittava per loro tre un paio di settimane a fine agosto.

-Tutto bene a casa?

Domanda Anthony con tono pacato.

-Oh no, assolutamente.

Risponde Kyle, terminando una frase con un risolino di rassegnazione. Anthony gli rivolge uno sguardo dubbioso, esortandolo a spiegarsi, ad andare oltre.

-Diciamo che va’ meglio di prima: i miei genitori ora si parlano, John viene spesso a cenare o a guardare un film e questo Natale lo passeremo comunque insieme, a casa. Arriverà anche mia nonna Angela, da Santa Monica.

Spiega, in maniera sbrigativa.

-Non mi sembra che vada così tanto male.

Afferma Anthony, di parere del tutto opposto a quello di Kyle che, effettivamente, ha esagerato. Dando uno sguardo al passato, a soltanto un paio di mesi prima, non sarebbe eccessivo affermare che Jonathan e Christian abbiano fatto dei passi da gigante nel ricostruire e riconsiderare la loro relazione.

-Non lo so, non se torneranno mai insieme davvero. Christian oltretutto ha deciso di tenere l’aspettativa di un anno dal lavoro che aveva preso per andare a Santa Monica, ha ricominciato a cantare e questa sera canterà al centro “Gay e Lesbiche di NYC”, per beneficenza. Lo vedo davvero felice e spensierato. Forse restare soli e dedicarsi completamene a sé stessi fa bene.

Conclude Kyle, pensando a quanto entusiasmo ed impegno Christian abbia messo nell’organizzazione e nelle prove di quel piccolo concerto di Natale. Non ricorda l’ultima volta nel quale è riuscito a vederlo così felice, così realizzato. Nemmeno il suo stesso lavoro, la sua adorata storia dell’arte, avevano su di lui quell’effetto rilassante.

- È questo il motivo per cui non sei venuto a salutarmi quella sera? Avevi deciso di restare solo per te stesso?

Le parole di Anthony servono prontamente a riportare Kyle alla realtà, avrebbe dovuto aspettarsela quella domanda, che ha lo stesso ruolo del fantomatico “elefante rosa” nella stanza.  Kyle però non è pronto per un faccia a faccia con il suo personale “elefante”, voleva essere lui ad introdurre l’argomento, arrivandoci magari alla lontana con discorsi apparentemente sconnessi. Anthony è stato improvviso, brutale e diretto, caratteristiche che ha sempre ritenuto notevoli in lui. Cerca di aprire la bocca ma non gli esce alcun suono, le sue stesse labbra sembrano essersi incollate e fatica a separarle l’una dall’altra.

-No e vorrei…

La voce gli si spezza in gola, impedendogli di proseguire. Deglutisce e cerca di farsi forza. È stato lui ad invitare Anthony quel pomeriggio, ha impiegato almeno un paio di settimane riflettendo sui pro e i contro di un eventuale incontro con lui e nonostante i contro, includenti principalmente una serie di paure, fossero più pesanti dei pro aveva deciso di affrontarlo, aveva creduto di potercela fare. Si sbagliava, lo capisce solo in questo momento. Tuttavia deve riuscire comunque ad andare avanti, a portare a termine ciò che ha deciso di fare e fornire una spiegazione quanto più onesta ad Anthony.

-Vorrei dirti che…

Sospira, sperando che quella sia la sua ultima pausa. Si prepara a pronunciare il discorso che intende rivolgere ad Anthony tutto d’un fiato, senza fermarsi, senza permettergli di intervenire, di fare domande.

-Vorrei dirti che l’ho fatto per via della situazione che ho a casa, perché sono stato trasportato degli eventi dei miei genitori, della mia famiglia. Sarebbe una spiegazione giustificabile, l’unica probabilmente. Tuttavia non è quella esatta. La verità è che non ne ho avuto il coraggio.

Deve fermarsi, deve prendere fiato. Anthony non sembra tuttavia interessato ad inserirsi nel discorso, deve aver capito che non ha terminato tutto ciò che intende dirgli.

-Ti ho detto addio il momento nel quale me ne sono andato dal parco, quel pomeriggio. Non avrei davvero potuto farlo di nuovo, il giorno dopo.

Anthony scuote il capo. La sua espressione è cambiata, l’aria cordiale che aveva avuto fino a quel momento è sparita. Kyle riesce a scorgere la delusione nei suoi occhi.

-Ti ho aspettato davanti al cinema per quasi un’ora. Ho litigato per l’ennesima volta con mio padre, rischiando di perdere il treno, perché speravo saresti arrivato da un momento all’altro.

Kyle vorrebbe alzarsi e scappare via. Quell’incontro è stata una pessima idea, è evidente.

-Posso capire che tu sia venuto all’incontro per avere una spiegazione e te la meriteresti, lo so. Eppure… è tutto qui, davvero.

Aggiunge Kyle, con tono conciliatore.

-Sono venuto perché ho voluto darti una seconda possibilità e forse avrei fatto bene a non venire.

Conclude Anthony. Dopodiché cerca nella tasca del cappotto appeso sulla spalliera della sua sedia il portafogli, dal quale estrae una banconota da cinque dollari che posa sul tavolino. Se ne sta andando. Kyle non vuole che se ne vada, nonostante sia chiaro la loro discussione non porti a nessun’altra soluzione.  

-Non andare via.

Lo invita, con voce affranta, quasi sul punto di scoppiare a piangere. Nervosismo forse o più semplicemente delusione, delusione per se stesso, per come si è comportato, per la sua stessa incapacità di agire da ragazzo cresciuto quale dovrebbe e vorrebbe essere. Anthony esita per un istante dopodiché si alza ed afferra il cappotto, infilando lorapidamente.

-Troppo tardi, Kyle. Evidentemente non era destino.

Abbottona il cappotto, con la testa bassa. Kyle lo osserva, senza avere il coraggio di dire altro.

-In ogni caso, mi è stata offerta una borsa di studio per Yale. Prima o poi me ne sarei andato comunque e sarebbe finita.

Anthony sospira profondamente, un sospiro talmente profondo da essere chiaramente udibile a Kyle. Un sospiro rassegnato che racchiude la delusione e al tempo stesso la collera.

-Buon Natale.

Esclama infine, scappando via. Kyle lo segue con lo sguardo: lo vede attraversare la strada, chiamare un taxi ed andare via.

Allungando le gambe rimaste troppo tempo fisse, quasi inchiodate al pavimento, urta uno dei due sacchetti fino a quel momento appoggiati  sotto al tavolino. Si tratta di quello nero da quale esce un pacchetto sottile ma ingombrante, dorato. Sotto la carta dorata di quel pacchetto si nasconde un vinile da collezione del disco “Let it be” dei Beatles, canzone preferita di Anthony che aveva canticchiato spesso, in sua presenza, la scorsa estate. Si sente così stupido per essersi fermato apposta in quel negozio di dischi e averlo comprato. Si sente stupido per aver anche solo pensato che il suo incontro con Anthony dopo due mesi, dopo non essersi presentato quella sera, rifiutandosi di salutarlo, cancellando, ignorando, tutti quei bei momenti che avevano vissuto insieme, si sarebbe risolto in modo positivo.

Prima lezione del mondo degli adulti: ogni azione ha una sua conseguenza. La conseguenza a quel suo essere così infantile a quella sua paura che tutto sia “troppo”, che tutto sia “doloroso” o che faccia troppo male per essere sopportato è stata quella di dover perdere Anthony, che lo aveva fatto sentire così bene, che era stato l’unico a restituirgli il sorriso dopo mesi di lacrime e sofferenza. Dopo aver raccolto in fretta il pacchetto raduna le sue cose. Prende la banconota di cinque dollari lasciata da Anthony, sufficiente per entrambe le consumazioni , va’ a pagare ed esce in fretta da quel café, dirigendosi verso casa.

 

Passeranno due anni prima che Kyle riesca a gettarsi quella faccenda alle spalle, etichettando tutto sotto la pretenziosa etichetta di “esperienza” e prima che lo stesso destino, nominato da Anthony nella sua frase di saluto e di addio, torni indietro come un boomerang. 

16 Maggio 2013

Caro Kyle,

Congratulazioni per la tua ammissione alla Facoltà di Arte dell’Università di Yale, classe 2013.

 

 

 

--->   L’avete capito o ve lo devo dire?

Ve lo dico: anche Kyle avrà una SUA storia! Ebbene sì! Credo che se la meriti anche lui. Non so ancora con certezza quando la pubblicherò, probabilmente quando con “I’ll stand by you” (PREQUEL di questa storia e… ehi, se ancora non l’avete letto, perché non andate a dare un’occhiata? ;D )sarò già a buon punto. Tuttavia ci sarà, SICURAMENTE. Confermati Kyle, Anthony e Morgan, naturalmente! Inoltre saranno passati due anni e quindi finalmente scopriremo come si sono evolute le cose tra Chris e John.

Come al solito vi aggiornerò sulla pubblicazione nella mia pagina bio, qui su EFP. Bene, piccola precisazione sulla data nella lettera. Io ho iniziato questa storia nel 2009 ma le schede per il sito (che ho creato solo quest’anno e che, sì, purtroppo ho trascurato ma che intendo sistemare non appena terminata la sessione d’esami estiva) le ho create attorno al 2011 quindi considero la storia ambientata nel 2011! Un po’ un casino, lo so, tuttavia non cambia nulla, dai :D

Poi… ho intenzione di scrivere, come già avevo annunciato, alcuni capitoli “extra” sui nostri protagonisti. Probabilmente creerò una raccolta apposita nella quale ho intenzione di raccontarvi il primo Natale di Kyle e quello descritto in questo epilogo ma ovviamente se ne riparlerà in periodo natalizio. Devo ammettere che a Giugno con 35° fa un po’ strano scrivere del Natale…

Per il resto… questo è davvero il capitolo dopo il quale chiuderò la storia.

Ringrazio di nuovo tutti, ringrazio per i messaggi personali ricevuti per l’ultimo capitolo, il finale. Vi invito se vi va’ a farmi sapere che ne pensate di questo epilogo… se vorrete alla prossima!

Ah... avete idea del titolo da dare alla raccolta di "Episodi" dei nostri amati protagonisti? Sono aperta a tutti i suggerimenti  ;) <---

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