Fighting Duo

di Flam92
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO
 
I remember yesterday
When things were black and white
Never thought I'd get confused
On what was wrong and right
Well, I'm not unbreakable
With armor on my skin
Well, it's not unthinkable
I could be fooled again

Stolen Prayer - Alice Cooper
 
- Anja –
 
New York, due anni dopo l’attacco alieno – 7 Febbraio 2014
 
            La mia giornata non era stata diversa da tutte quelle che l’avevano preceduta. C’era qualcosa di rassicurante nella solita routine –arrivare alla sede delle Greyhound Publishing Inc., passare alla reception, ritirare ciò che serve, salutare Charlie, il tuo capo, dedicarti alla correzione delle bozze, dare l’okay per pubblicare e poi di nuovo a casa, alla fine di un altro giorno piuttosto spoglio di novità- una sorta di ordine immutabile che mi garantiva di avere tutto sotto controllo. Il che, dal mio punto di vista, era un’ottima approssimazione del Paradiso, sempre ammesso che esistesse.
            Tuttavia quella sera, dopo aver chiuso la porta del mio ufficio ed essere passata a salutare Charlie, mi si era incollata addosso una fastidiosa sensazione, una di quelle che porta a pronunciare la fatidica frase: “Ho un brutto presentimento”; l’esperienza mi aveva insegnato che, purtroppo per me, le mie fastidiose sensazioni erano un presagio di disastri apocalittici in rapido avvicinamento.
            Non appena varcai la soglia di casa fui accolta da un miagolio sommesso di Siegfried, il mio gatto Siberiano, la perfidia fatta palla di pelo.
“Ehi gatto, vieni qui” lo apostrofai a mo’ di saluto, prima di prenderlo in braccio per cominciare a fargli un po’ di meritate coccole, al che lui prese a fare le fusa tutto soddisfatto. A volte lo invidiavo sul serio, il mio pigro e indolente gatto, che viveva sui cuscini del mio divano senza una sola preoccupazione al mondo.
            Anche se l’ora di cena era passata da un pezzo, non avevo molta fame: uno spiacevole effetto collaterale dei miei brutti presentimenti. Mi trascinai in bagno e mi concessi una breve doccia, dopodiché mi infilai una camicia da notte e quasi caddi a peso morto sul letto, addormentandomi all’istante.
            Il mio risveglio, la mattina dopo, fu davvero orribile.
Avevo battuto la sveglia di un’ora buona, e tra l’altro nemmeno ricordavo di averla puntata; in più avevo passato la notte a svegliarmi a più riprese. Dulcis in fundo, mentre facevo colazione ricevetti una chiamata nientemeno che da Charlie, la quale mi disse di arrivare lì il prima possibile, perché c’era “un ospite importante che sembra odiare aspettare”, sue testuali parole, barricato nel mio ufficio.
            Maledicendo ancora una volta i miei presentimenti e la loro infallibilità, mi lavai e vestii a tempo di record, e infransi almeno una dozzina di limiti di velocità per andare al lavoro. Se queste erano le premesse della giornata, non osavo pensare a ciò che sarebbe potuto accadere ora di sera.
 
            “Oh, Anja, meno male che sei qui!” La voce squillante di Charlie mi bloccò in mezzo al corridoio del mio ufficio, dalla parte opposta del piano rispetto al suo. Attesi che mi raggiungesse, prima di chiederle spiegazioni in merito alla telefonata di un’ora prima.
“Non so cosa dire, mi dispiace”, esordì lei un po’ abbattuta, “solo che me lo sono ritrovato nel tuo ufficio quando sono passata a lasciarti l’agenda che avevi dimenticato da me. Un tizio vestito tutto di nero, alto persino più di te, che mi ha tirato un’occhiataccia da incenerirmi sul posto. Se devo essere onesta, mi ha messo i brividi” concluse Charlotte, stringendosi nelle spalle.
            Un brivido gelato mi attraversò la schiena, inchiodandomi nel punto esatto in cui mi trovavo. La mia mente cominciò a passare in rassegna le informazioni appena ricevute: non conoscevo molti uomini che fossero più alti di me –dopotutto, ero pur sempre un metro e ottanta di donna- né che vestissero di nero o incutessero timore alla sola vista. A ben guardare solo un uomo corrispondeva a quella descrizione, e io avevo sperato di non doverci più avere a che fare. Con un sospiro, alzai i tacchi e marciai a passo di carica verso il mio ufficio.
 
            “Quindi, è questo il modo di presentarsi? Mi invadi l’ufficio senza nemmeno chiedere il permesso? Non è carino da parte tua”, esordii sfoderando la mia migliore espressione da attrice consumata, corredata dal tono pesantemente sarcastico che riservavo solo agli scocciatori. L’uomo, che stava giochicchiando con una preziosa statuetta di giada a forma di cavallo lanciato al galoppo, si volse verso di me, mettendo in bella mostra un volto totalmente inespressivo e una piratesca benda nera sull’occhio sinistro.
            “Sempre un piacere rivederti, Blackwood”
“Non posso dire sia lo stesso per me, Fury. Comunque, che cosa fai qui? Ah, sappi che qualunque cosa dirai, la mia risposta è un “No” secco”, ribattei, andandomi a sedere dietro la scrivania e levandogli di mano il mio preziosissimo cavallino fermacarte.
            Fury prese posto sulla sedia di fronte alla mia, quindi puntò i gomiti sui braccioli e giunse a guglia le dita; rimase a fissarmi per un po’ con l’occhio buono, senza dire nulla.
            “Mi servono le tue competenze”, si risolse a dire alla fine, andando dritto al punto.
“No, Nick. Qualunque cosa sia, non ci pensare nemmeno.”
“Non vuoi nemmeno sapere di che si tratta, Anja?”
“Me lo dirai lo stesso, lo so. Magari cercherai di fare leva sulla mia curiosità, ma la mia risposta non cambia.”
“È per questo che mi servi, e per il tuo essere ligia alle regole. Ho un elemento problematico, tra le nuove leve, le serve più… disciplina. E tu sei l’unica che può addestrarla”. Il suo tono sottintendeva molto più delle sue parole, e questo non mi piacque neanche un po’.
            Cosa avevo detto, dei miei presentimenti? Disastro apocalittico in rapido avvicinamento, giusto? Eccomi servita, maledizione.
            Scoppiai a ridere, una risata amara e senza allegria, quindi riportai l’attenzione sull’ingombrante presenza all’altro lato della scrivania.
“Fammi capire: hai fior di agenti ai tuoi ordini, tutti molto più esperti di me per tecnica e disciplina, e vuoi che la addestri io?! Mi domando a che pro, senza contare che so-no-in-pen-sio-ne”. Replicai alla sua affermazione scandendo per bene le ultime parole, cosicchè risultassero perfettamente chiare e non fraintendibili.
Per tutta risposta, Fury mi allungò un dossier piuttosto corposo, si appoggiò allo schienale e rimase a fissarmi, senza muovere un muscolo.
            Di malavoglia, presi il fascicolo e me lo rigirai tra le mani; sul davanti lessi semplicemente un nome: “Agente Barton, Emilie”; alla fine, la curiosità ebbe partita vinta e lo aprii, cominciando a sfogliarlo: rapporti, missioni eseguite, richiami disciplinari per i motivi più svariati –e questi, a onor del vero, erano parecchi. Dalle pagine scivolò fuori anche una foto di suddetta ragazza e cominciai a studiarla con un po’ più di calma: l’espressione del viso era imperscrutabile e pacifica, non diceva nulla, ma gli occhi… quelli addirittura gridavano la moltitudine di cose che la maschera perfetta del volto celava con tanta maestria. Di primo acchito, ero sicura si trattasse di un’agente portata per l’azione e certamente restia a seguire gli ordini. Non dubitavo del fatto che sarebbe stato un caso interessante cui dedicarsi, ma gli anni dell’Interpol e di questi giochetti per me erano finiti da un pezzo.
             “La situazione è critica, per questo sono qui. So che sei ancora la stessa persona di quattro anni fa, di quella missione in Messico”.
“Ah, il Messico, certo, come dimenticarlo?”, lo interruppi infastidita, “Come dimenticare che grazie alla vostra incapacità di farvi i cazzi vostri avete quasi mandato a monte sei mesi di lavoro sotto copertura?! Sei mesi, dannazione! E come dimenticare che grazie al tuo intervento ci ho quasi rimesso il culo, e nonostante ciò ho salvato il tuo?! E ora pretendi pure che io ti aiuti?! Te lo puoi scodare. Fuori di qui, non lo ripeterò un’altra volta”.
            Con gran sorpresa di entrambi, Fury uscì dal mio ufficio senza aggiungere altro.
Non è finita qui, pensai tra me e me, non è per nulla finita qui.
 
            Passai il resto della mattinata a rassicurare Charlie, tranquillizzare Helen, mia grande amica che subito si era preoccupata per me, e sbrigare il mio solito lavoro; nonostante tentassi con tutte le mie forze di concentrarmi su ciò che stavo facendo, la mia mente continuava a tornare sui documenti di quel maledetto dossier e alla foto della ragazza, che non sembrava essere poi molto più giovane di me. Maledissi tutto e tutti, quindi decisi di prendermi mezza giornata libera per pensarci su. Dannato Fury! Sarebbe stato capace persino di vendere ad un beduino una fornitura a vita di sabbia, tanto sapeva essere persuasivo e manipolatore.
            Rientrai in casa sbattendo con forza la porta dietro le mie spalle, e quasi mi venne un infarto quando rividi quella brutta cornacchia di un metro e novanta, stavolta comodamente spaparanzata sul divano nel mio soggiorno.
“Hai avuto tempo per pensarci, Blackwood. Che cosa hai deciso?”
“Se ti dico di no, continuerai a tormentarmi fino alla fine dei miei giorni; se dico di sì, continuerai a tormentarmi fino alla fine dei miei giorni, ma per altri motivi. Quindi, cambia qualcosa? Devo davvero rispondere?” Mi odiai come mai prima d’ora per la risposta datagli.
“Bene, allora. Sei appena stata reintegrata, Capitano Blackwood, con effetto immediato”. Che gioia.
“Ho due condizioni da porre, altrimenti non mi muovo di qui: numero uno, si fa a modo mio e non tollererò interferenze, soprattutto da te; numero due, non voglio comparire da nessuna parte, niente registri, niente dossier, niente di niente. Sono un’ex agente dell’Interpol e non sono un’agente dello S.H.I.E.L.D., chiaro?”
Nick assentì: “Se non c’è altro, hai un’ora per fare le valige e sistemare le tue faccende, poi andiamo a Washington. Un SUV nero ti aspetterà qui sotto”.
            Annuii e Nick uscì da casa mia, chiudendosi silenziosamente la porta alle spalle.
Siegfried sbucò fuori da sotto la poltrona e si sedette sul tavolino da caffè, guardandomi fisso coi suoi occhioni verdi.
“Stavolta, Sieg, ho firmato la mia condanna. Mi sono completamente, totalmente fregata da sola”.
 
- Emilie -
 
Medio Oriente - 7 Febbraio 2014
 
            Mi trovavo di fronte al mio bersaglio, che faticava a collaborare anche dopo quindici minuti passati da solo con me: solitamente cedevano prima. Il mio piano aveva funzionato e Mark era riuscito ad attirarlo nella trappola da noi escogitata: il bagagliaio di un’auto pieno di armi di contrabbando. O così doveva sembrare. Non che qualcuno possa obiettare, visto che siamo nel bel mezzo del nulla… non capisco cosa ci trovino di affascinante nel deserto, c’è solo sabbia –ovunque- e un caldo pazzesco. Mi asciugai il sudore dalla fronte con un gesto stizzito.
            Guardai in faccia il terrorista un’ultima volta, non avrebbe detto altro. Quelli come lui si sarebbero fatti saltare in aria con la famiglia, piuttosto che sputare lo stramaledettissimo rospo. Aggiustai il tirapugni e gli sferrai un colpo alla tempia, caricandolo con tutta la rabbia e la frustrazione che avevo.
            “Emilie, dannazione!”
            Troppo tardi.
Mark non era riuscito a fermare il mio scatto d’ira in tempo. Mi prese per le spalle iniziando a scrollarmi. Lo lasciai fare. Ormai, il danno era fatto.
“Ma ti pareva il caso di farlo fuori? Rischi di farci venire addosso l’intera cellula!”
“Oh piantala! Troveremo un altro talebano o quello che è da spremere. Magari uno più collaborativo. E poi la cellula non sa nemmeno chi siamo.” Quell’uomo si preoccupava decisamente troppo, e per cose davvero stupide, per di più. Una volta, forse, anche io avrei potuto essere impensierita dall’eventualità di passare da cacciatore a preda, ma per fortuna mi ero ravveduta per tempo. Volevano darmi la caccia? Benissimo, gli avrei dimostrato di essere un osso troppo duro per i loro denti.
            “Ad ogni modo, non riusciremo mai ad avvicinare qualcun altro con le stesse conoscenza di Al Hamza.” Specificò Mark. Dio, quanto sei petulante Green… se stai zitto è meglio.
            Sbuffai e lo scostai. Ero stufa delle sue polemiche: qualunque cosa io facessi, aveva da ridire. Prima era bello lavorare con lui, ma ora avrei di gran lunga preferito sbrigarmela da sola. Il contatto era morto? Avremmo trovato qualcun altro, o meglio, lo S.H.I.E.L.D. lo avrebbe scovato per noi.
Uscii dall’edificio diroccato per fare rapporto. Composi in fretta un numero crittato e portai il telefono all’orecchio. Risposero al primo squillo.
            “Buongiorno agente Barton, siete riusciti a farlo parlare?”
“Non esattamente. Generale, c’è stato un probl..”
“Mi dica che non sta per dire problema.” Venni interrotta.
“Era esattamente quello che avevo intenzione di dirle, in realtà, Fury. Il contatto è morto.”
            Silenzio.
            Immaginai Fury chiudere l’occhio sano e passarsi una mano sul volto. Diversi istanti dopo, tornò a farsi sentire dall’altro capo del cellulare. Non era contento, nemmeno un po’.
“Rientrate immediatamente.”
Provai a contestare l’ordine, ma aveva già chiuso la chiamata. Furibonda, spalancai la porta della catapecchia in cui eravamo, recuperai il bagaglio e la mia balestra e dissi a Mark che si tornava alla base. Non gli diedi altre spiegazioni, nemmeno quando me le chiese. Ero troppo impegnata a bestemmiare dietro al mondo per dargli retta.
 
            “Come sarebbe a dire che mi congedi fino a nuovo ordine?!” sbraitai.
Fury mi aveva fatta incazzare e di brutto, anche. Di fianco a me, quel bacchettone di Mark sobbalzò sgranando gli occhi: temeva più di me la reazione del generale. Il solito esagerato, apprensivo-fino-alla-nausea Mark.
            “Sarebbe a dire che è congedata fino a nuovo ordine, agente Barton”, Fury ribadì l’ovvio, “e gradirei ricevere il rispetto dovutomi, quantomeno in presenza di altri agenti”, non mancò di sottolineare.
            Sbuffai, battei nervosamente il piede a terra e fissai torva il nostro superiore. Al diavolo il rispetto, Fury mi doveva delle spiegazioni, spiegazioni dannatamente buone. Capo o non capo, cosa gli dava il diritto di segregarmi dietro una scrivania?!
            “Generale, se con me ha finito, chiederei il permesso di lasciare la stanza.”
“Concesso, agente Green. Verrà ingaggiato a breve da una nuova squadra per portare avanti il progetto che stava gestendo con l’agente Barton.”
“Agli ordini, Generale.” Fatto il saluto formale, Mark lasciò l’ufficio di Fury.
            Il generale si rivolse di nuovo a me, con una strana espressione in viso. Questo non promette bene…
“Quanto a lei, ho già rintracciato una risorsa che provvederà al suo riaddestramento.”
Lo ammetto: rimasi non poco sbigottita. “Riaddestramento?! Ma stiamo scherzando?!”
“Le sembro uno che scherza, agente Barton?” Fu il suo turno di incenerirmi con lo sguardo, ma non mi lasciai certo intimidire. Dopotutto, ero pur sempre la degna figlia di mio padre e di mia madre.
“Allora deve avere bevuto qualcosa di forte. Non mi sembra che ci sia qualcosa che non vada nel mio addestramento. Sono fra i migliori agenti in servizio, non mi pare il caso di rinunciare alle mie capacità, rifilandomi una simile inezia”, ribattei piccata.
“È vero: lei è una delle migliori risorse a disposizione dello S.H.I.E.L.D., sia a livello strategico, sia pratico. Purtroppo negli ultimi tempi ha dimostrato di lasciarsi prendere troppo facilmente dall’ira, e i suoi continui colpi di testa non sono tollerabili. Non posso più passare sopra alle sue insubordinazioni.”
“E mi manda a riaddestrarmi?!”
“Precisamente. La farò mettere in riga da una persona che gode della mia totale fiducia. Sono certo che non fallirà nel compito assegnatole. E ora vada pure a sfogarsi come meglio crede, mi attende una riunione e gradirei ritrovare l’ufficio così come lo sto per lasciare.”
            Ovviamente si riferiva al mio istinto a spaccare qualsiasi cosa mi capitasse a tiro.
“Lascerò questa stanza immacolata, non si preoccupi. Ad ogni modo, può anche dire alla sua risorsa che è tutto tempo sprecato. Se non siete riusciti a farmi cambiare voi, che siete i migliori plasmatori di mente e corpo, non vedo come possa compiere quest’impresa una persona esterna.”
“Lo vedrà agente Barton. Lo vedrà.”
            Ero certa che in quell’istante avesse addirittura sorriso. O forse era solo uno spasmo involontario o una paresi momentanea.
Ad ogni modo, l’espressione sul suo volto mi lasciò scettica sul mio stesso scetticismo. Possibile che fosse così sicuro di sé? D'altronde era pur sempre Fury quello che avevo davanti. La cosa non mi piaceva nemmeno un po’.
            Lasciai l’ufficio del generale e mi precipitai nella stanza di Mark. Indossava ancora la divisa, così lo trascinai in corridoio di malagrazia e contro il suo volere.
“Ora verrai con me in palestra.” Esordii lapidaria.
“E se mi rifiutassi?” provò a protestare.
“Sai già che ti spaccherei il culo. Non rendere le cose più complicate e dolorose.”
“Oh sì, sono certo che non mi farai assolutamente del male! Mi userai solo come sacco da boxe!” sbottò risentito.
“Almeno tu sai difenderti. Il povero sacco da boxe dovrebbe subire restando inerme”, commentai caustica.
            Sospirò di rassegnazione e assunse un comportamento più docile, seguendomi senza fare storie.
Quella routine si ripeteva ormai da tempo: tornavo da una missione incazzata e sfogavo la mia rabbia combattendo corpo a corpo contro Mark. Sapevo che era un avversario alla mia altezza, ma ogni volta riportava diversi lividi. Sceglievo lui soprattutto perché era uno dei pochi con abbastanza palle da rispondere ai miei colpi.
Okay, diciamo pure che era l’unico.

N.d.A.
Eccoci ritornate entrambe a scrivere: ebbene sì, questa è una storia a 4 mani scritta da me (Flam) e Mòrrigan. Sappiate che è stato creato un mostro XD
Piccole precisazioni circa i nuovi personaggi introdotti: essi sono frutto della nostra immaginazione, pertanto è come se ne detenessimo il copyright, e si ispirano solo in parte alle loro omonime delle due FF che stiamo scrivendo in parallelo (Emilie in "Love Their Lies", Anja in "E l'amore ingannò il Dio degli Inganni"). Abbiamo deciso di mantenerne parte del loro background, ponendole in un contesto del tutto differente da quello in cui sono nate (soprattutto Emilie che ha in comune esclusivamente i genitori con l'altra storia).
Questa FF inizia poco prima degli avvenimenti presenti in "Capitan America - The Winter Soldier" e si protrarrà dopo essi, fin dopo "Avengers 2 - Age of Ulton" e "con qualche accenno a "Capitan America: Civil War". La storia è narrata in prima persona, al passato, per mezzo di POV (principalmente di 4 personaggi, a cui se ne aggiungeranno più avanti quelli di altri 6, per completezza). Non daremo un titolo ai capitoli, ma all'inizio di ognuno di essi sarà presente un pezzo di una canzone che si adatta a quanto narrato.
Avvertiamo subito che la pubblicazione dei capitoli sarà molto lenta, in quanto il materiale da scrivere è molto, le idee sono di più, e il tempo come al solito scarseggia XD Tuttavia, abbiamo deciso di iniziare a pubblicare quantomeno il prologo; i capitoli seguiranno a cadenza MINIMO mensile. Ci staremo tirando dietro le ire dei lettori, ma siamo organizzate e pronte a scappare in qualche bunker XD
Vi auguriamo buona lettura e vi chiediamo di inserire una recensione per farci sapere se abbiamo stuzzicato la vostra curiosità.
Baci,
Flam e Mòrrigan

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1
 

Lie awake in bed at night
And think about your life
Do you want to be different?
Try to let go of the truth
The battles of your youth
'Cause this is just a game

It's a beautiful lie
It's the perfect denial
Such a beautiful lie to believe in
So beautiful, beautiful it makes me

 A Beautiful Lie - Thirty Seconds to Mars
 

- Anja –
 
In viaggio verso Washington – 7 Febbraio 2014
 
            Fury era stato di parola: dopo un’ora che se n’era andato da casa mia era davvero comparso un SUV nero, che aveva accostato davanti al portone del palazzo dove abitavo e lì era rimasto.
            Mentre scendevo, fissavo assorta la mia immagine nello specchio dell’ascensore; il riflesso mi rimandava il viso pallido e tirato, gli occhi –di quella bizzarra via di mezzo tra grigio e violetto- arrossati per la stanchezza, una smorfia disgustata che mi storceva la bocca.
            Non mi era piaciuto dover raccontare una mezza verità a Elle e Charlie, ma non potevo certo permettere che loro due finissero nei guai per colpa mia. Ripensai alla conversazione che avevo avuto con entrambe –i miracoli delle video chat di Facebook-, ai visi basiti che mi fissavano, mentre dicevo di aver ricevuto una chiamata da una vecchia conoscenza che avevo fatto ai tempi dell’Interpol. La versione ufficiale era che questa persona lavorava per un’agenzia privata che si occupava di sicurezza, e che aveva bisogno del mio aiuto per addestrare delle nuove reclute per gli interrogatori. Entrambe mi avevano assicurato di coprirmi in ufficio, adducendo come motivo della mia partenza “Imprevisti in ambito familiare”.
            Sciolsi i capelli e li raccolsi di nuovo, nervosa come poche altre volte in vita mia; spontaneamente mi venne da chiedermi se le armi nel doppiofondo di uno dei borsoni sarebbero potute essere un problema, una volta arrivati in aeroporto –perché, sul fatto che sarei stata caricata su un aereo, ci avrei scommesso il mio conto in banca.
            Le porte dell’ascensore si spalancarono con un leggero trillo che mi spinse a scrollare la testa, per allontanare i ricordi. La cosa peggiore, però, era che mi sentivo ancora a mio agio con la mia vecchia e fedele Colt .45 nella sua fondina all’altezza dei reni, nascosta dal maglione largo che indossavo. Sembrava quasi che non l’avessi mai tolta di lì, durante quei due anni e mezzo di “tregua” a New York. Come pure mi era sembrato naturale portarmi appresso, smontato e ben chiuso nella sua custodia, un fucile di precisione M93 Black Arrow. Oh, giusto, c’erano anche dei coltelli a serramanico, da combattimento e da lancio a fargli compagnia. Armata com’ero, mi sembrava di essere in partenza per la guerra.
            Uscii nell’aria frizzante e quasi lanciai i miei borsoni all’agente in nero che mi aspettava accanto alla portiera del SUV prima di sedermi di fianco al grande capo.
 
            “Perché viaggi con un arsenale nel borsone col doppiofondo?” mi domandò Nick dopo circa una ventina di minuti che eravamo partiti.
“Abitudine. E non mi fido a lasciarli a casa, se non ci sono”, replicai laconica. Che si facesse i fatti suoi, una buona volta! Mi era stato insegnato ad essere sempre preparata per ogni evenienza, e inoltre mi fidavo delle armi che conoscevo. Che lo S.H.I.E.L.D. si tenesse i suoi giocattoli, io avevo i miei.
            Eccoci di nuovo: quanto ci era voluto, perché mi rimettessi a pensare come un’agente dell’Interpol? Cinque, sei secondi?
            “Quindi, Nick, pensi di dirmi altro su questa spina nel fianco, o devo chiedere al Coniglietto Pasquale?”
“Hai già letto il suo dossier, lì c’è tutto quello che devi sapere.”, mi rispose lui scrollando le spalle.
“Così non funziona, Nick”, osservai seccata, “Anche perché, se fosse come dici, di certo ora non ne staremmo parlando. Sputa il rospo, oppure gira la macchina e riportami a casa.”
“E va bene”, sbuffò lui, “Ho intenzione di sapere come riuscirai a fare quello che ti ho chiesto.”
“A parte che non mi hai risposto, come farei a dirtelo ora? Nemmeno l’ho mai vista, né ci ho parlato. Cose di questo tipo mica si possono pianificare a priori, ti pare?”. Ero parecchio confusa; non era che Fury, magari, cominciava a perdere qualche colpo? Richieste bizzarre ne avevo ricevute a iosa, ma questa le batteva tutte.
            Ritornammo a fissarci di sottecchi, in cagnesco; ben presto mi stancai di quella guerra silenziosa e mi concentrai sul mondo oltre il finestrino oscurato del SUV, e sulle righe bordeaux e beige del mio maglione, le quali erano improvvisamente diventate molto, molto interessanti. Al pari dei pantaloni neri e degli stivali alti di cuoio scuro che indossavo in quel momento.
            “Il problema dell’agente Barton è la totale noncuranza delle regole e la continua insubordinazione”, disse Fury dopo un po’, al che riportai l’attenzione su di lui. “Non è un elemento stabile, e non posso fidarmi, è troppo imprevedibile. Oltretutto, nessun agente vuole lavorare con lei. La temono e lei non fa nulla per cambiare questo fatto.”
“Mi sembrano più problemi, Nick, quelli che mi hai elencato. Comunque, ti dirò lo stesso come la penso.” Tacqui per qualche momento per riordinare le idee, quindi proseguii: “La noncuranza delle regole e l’insubordinazione si possono sistemare, volendo anche in tempi piuttosto brevi. La parte davvero preoccupante è la sua instabilità. C’è qualche motivo plausibile per cui lei sia diventata così ingestibile di colpo?”
            Fury non mi rispose subito, e già da quello capii che c’era qualcosa che bolliva in pentola. Oh sì, la situazione è precipitata di punto in bianco.
“Di questo se ne discuterà in un secondo momento”, si limitò a commentare asciutto, “Per ora, voglio sapere come intendi raddrizzarla.”
“Perdio, Nick! Provare a darmi retta una volta tanto?! Non posso dire a priori come affronterò questa gatta da pelare, perché non conosco il soggetto in questione. Dovrò probabilmente spezzarla, rimetterla insieme e poi piegarla e forzarla a seguire la logica, a volte a scapito dell’istinto. È tutto quello che posso affermare in questo momento, e nulla di più.”
“Era quello che volevo sentirti dire”, replicò Nick, una vaga espressione di trionfo in viso, che scomparve veloce com’era apparsa.
“Bastardo manipolatore. Tu ottieni sempre quello che vuoi, vero? Non ha importanza se devi calpestare e distruggere la vita altrui, purchè tu arrivi al tuo scopo. Lasciami in pace per il resto del viaggio, e ridammi quello stramaledettissimo dossier.”
 
            Il resto del viaggio era stato molto silenzioso, una vera manna dal cielo.
Senza le fastidiose -e a volte incredibilmente stupide- domande di Nick potevo concentrarmi al meglio sui rapporti che avevo davanti a me: tutti erano stati redatti con una grafia rapida e spigolosa, ma abbastanza minuta e regolare per essere femminile, senz’ombra di dubbio. Erano scarni, ridotti all’osso e a volte l’intero rapporto constava di poche frasi vergate di fretta, più simili a telegrammi che ad altro.
Un soggetto instabile e problematico? L’eufemismo del secolo. Piuttosto, io l’avrei definita come una granata innescata e sul punto di esplodere.
            Feci scorrere i fogli tra le dita e mi concentrati sui richiami disciplinari che aveva collezionato: insubordinazione, infrazione del regolamento, incapacità di lavorare in una squadra e di portare a termine un lavoro in modo discreto (ovvero, senza morti e feriti da ambo le parti), segnalazioni da parte di colleghi e superiori... Eppure nei test e nelle prove pratiche aveva sempre ottenuto i punteggi migliori.
Stupendo, perché sempre a me i casi umani?
            Il nostro silenzioso e poco socievole autista ci portò dritti all’aeroporto JFK, ma anziché lasciarci di fronte all’ingresso fece un giro strano, e parecchio lungo, fino a fermarsi davanti al portellone di un hangar isolato dal resto del complesso. La pista lì vicina era deserta, come pure l’ambiente circostante.
Smontammo dal mezzo e l’agente in nero mi porse di nuovo le mie borse: fortunatamente, pensai, avevo scansato i controlli col metal detector e le imbarazzanti conseguenze che ne sarebbero derivate.
            Entrammo nell’hangar e davanti mi trovai un aereo di piccole dimensioni, di un anonimo grigio ferro satinato, con il simbolo dello S.H.I.E.L.D. sulla coda.
            “Dopo di te”, mi disse Nick, facendomi cenno di salire sul velivolo, il cui interno era arredato in modo più simile ad un salotto elegante che alla cabina di un aereo di linea.
            Prendemmo posto su due poltroncine che si fronteggiavano e scoccai una lunga e penetrante occhiata all’uomo che mi sedeva di fronte: ero sicurissima che Nick stesse nascondendo informazioni importanti sulla ragazza in questione, nelle quali era probabilmente contenuta la chiave del suo cambio di comportamento così repentino e drastico.
            Ad un certo momento doveva essere successo qualcosa che aveva sconvolto la Barton a tal punto da farle completamente perdere il buon senso. Indipendentemente dalla sua natura, la causa scatenante doveva risalire ad almeno qualche anno prima… Purtroppo, però, le informazioni che Nick aveva inserito nel dossier che mi aveva fornito partivano solo dal gennaio 2012.
            “Quando pensi di darmi anche la prima parte di questo dossier, Nick?”, domandai in tono casuale, entrando però in modalità d’attacco, “Se mi mancano dei pezzi, come pretendi che possa finire il puzzle?”
 “Quelle informazioni sono classificate, Blackwood, il che significa…”
“So che significa, Fury”, lo interruppi stizzita, “Ma se non mi dai i mezzi per lavorare, il nostro accordo salta. Scommetto che non vuoi correre il rischio”, asserii mettendomi comoda sulla poltrona e lanciando il fascicolo sul tavolino accanto a me.
“No, non voglio rischiare. A dispetto di tutto è dannatamente preziosa come risorsa.”
“E allora cosa aspettavi a prendere provvedimenti? La pianta si piega quando è giovane, non quando è già cresciuta.”
“Ti basti sapere che credeva di essere orfana, e invece i suoi genitori sono vivi e vegeti. Dopo che l’ha scoperto per puro caso, è cominciato il macello.”
            Annuii e fissai il soffitto, assorta nelle mie riflessioni.
Chiusi gli occhi e provai a concentrarmi; di casi come quello della Barton ne avevo visti parecchi, molti dei quali quando lavoravo sotto copertura, ma nessuno aveva avuto le conseguenze poco meno che catastrofiche che c’erano invece state in questo caso e che perduravano a distanza di anni.
 
            Un’ora e un quarto dopo l’aereo atterrò all’aeroporto Ronald Regan, sempre in una zona molto poco frequentata e lontana dal resto del complesso. Anche qui, come a New York, scendemmo in un hangar isolato e salimmo su un altro SUV blindato, nero e senza contrassegni.
            “Hai già idea della strategia che adotterai?”, mi domandò Nick, rompendo la quiete una volta di più. Per essere una persona tanto taciturna, mi ritrovai a pensare, oggi mi pare fin troppo loquace. Vuoi vedere che sotto sotto ci tiene, a questa spina nel fianco? E non solo perché è una risorsa preziosa?
            “Per prima cosa, voglio vederla in un corpo a corpo, ma senza che sappia di essere osservata. Secondo, voglio potermi battere con lei per avere un’idea più precisa. Terza ed ultima cosa, fammi parlare con tutti quelli che hanno lavorato con lei. Per questa fase preliminare mi ci vorranno…”, feci mentalmente due calcoli, quindi proseguii, “un paio di giorni, tre al massimo. Poi posso cominciare a lavorare con la Barton in separata sede. Tutto chiaro?”
“Chiaro.”, asserì Nick, prima di mettersi a parlottare all’auricolare con l’agente Hill, mi sembrò di capire. Novanta secondi più tardi mi comunicò che aveva predisposto ogni cosa per esaudire le mie richieste.
            Divertente; già solo l’idea di poter dettare legge sull’inafferrabile e inflessibile capo dello S.H.I.E.L.D. mi mandava in brodo di giuggiole. Avrei potuto farci l’abitudine, davvero.
 
            Arrivati al quartier generale dello S.H.I.E.L.D., pretenziosamente chiamato Triskelion –eppure da fuori non era diverso da uno degli altri infiniti palazzi che ospitavano uffici, come ce n’erano ovunque-, entrammo in un parcheggio sotterraneo e il SUV ci scaricò accanto ad un ascensore. Avrei potuto giurare davanti alla Corte Marziale che il nostro poco loquace autista non vedesse l’ora di rendermi il favore… di lanciarmi con poca grazia i miei borsoni. Cosa che fece, e pure con somma gioia, in effetti.
            Ridacchiai tra me e me: quello di certo era un agente in sevizio da poco, perché a dispetto degli occhiali scuri avevo decifrato, senza particolare fatica, tutte le emozioni che si erano susseguite sul suo viso da quando eravamo partiti fino ad ora. Compresa la smorfia di trionfo quando mi aveva lanciato suddetti borsoni.
            Prendemmo l’ascensore e Fury dovette identificarsi e dare tutta una serie di altre informazioni; maniaci della sicurezza com’erano lì, probabilmente chiedevano loro le credenziali anche per andare in bagno o prendere un caffè
            “Hill ti accompagnerà nei locali sopra la palestra, così puoi farti un’idea di quello che ti aspetta. Se serve qualcosa, chiedi a lei, oppure a Rogers. Appena puoi voglio sapere come va.”
“Nessun problema, Nick, anche se presumo che per questa settimana non avrò molto da dire. Comunque sia, ti terrò aggiornato.”
“Sta parlando con il Colonnello Fury, signorina. Porti un po’ di rispetto ad un suo superiore”, sbottò il tizio nell’angolo, che si guadagnò un’occhiataccia terrificante da Nick e una sonora risata da parte mia.
            Vidi Fury aprire bocca per rispondere, ma lo fermai con un cenno della mano, dicendo: “Se non ti spiace, Nick, faccio io. Dunque”, esordii quindi squadrando quell’idiota, “Lei è appena entrato in servizio, ancora non sa mascherare le sue espressioni, men che meno sa trattenersi dal fare commenti fuori luogo. È mancino, ha appena cambiato pistola. Se non vado errato, una Beretta 92. La cinghia della fondina è logora, dovrebbe cambiarla. E inoltre”, continuai con un allegro sorriso da squalo, “Sono più che certa che il Colonnello Fury possa dire da sé se qualcosa lo infastidisce, non crede?”
            Persino Nick, suo malgrado, dovette nascondere una risata sinceramente divertita dietro un colpo di tosse; quindi si rivolse con tutta calma all’agente che era diventato di un poco salubre color bordeaux: “Williams, se non impara a contenersi la mando a dirigere il traffico a Hobbs, New Mexico. Inoltre, conosco il Capitano Blackwood da ben prima che lei facesse domanda per entrare qui, Williams, e gode della mia stima. Impari a stare al suo posto.”
            Finalmente quell’imbarazzante salita in ascensore ebbe fine e Williams si dileguò alla velocità della luce non appena si aprirono le porte; per parte sua, Nick si limitò ad un: “Non hai perso il tuo smalto, vedo”, che da solo, lì dentro, valeva più dei complimenti di chiunque altro.
            Maria Hill, Sua Efficienza in persona, ci venne incontro a passo di carica, pronta a prendere le consegne del suo capo.
“Bene, sai tutto quello che ti serve. Hill, la Barton è già rientrata?”
“Sì, signore. È arrivata due ore fa.”
“Mandala nel mio ufficio, insieme al suo partner. Blackwood, attendo tue notizie.”
“Contaci, Nick… Ah, un’ultima cosa: niente nomi, per favore. Mi presenterò io di persona”, replicai appena prima che il grande capo annuisse seccamente una volta e scomparisse giù per il corridoio.
Maria ed io, quindi, ci avviammo con tutta calma.
            “Come è riuscito a richiamarti all’ordine?”, mi domandò lei, curiosa, “Credevo che avessi messo la parola ‘fine’ a questa carriera”.
“Beh, Maria, ci ho provato, ma il tuo capo sa essere molto… tedioso, oltre che persuasivo. Diciamo che non contemplava un “No” come risposta”, replicai tranquilla, perché tanto avercela a morte con la maledetta cornacchia non aveva alcun senso, ormai. Fatica sprecata.
“Ti trovo in forma, Anja. E lavorare con te in Messico è stato un piacere.”
“Anche per me, Maria. Avrei voluto avere un secondo come te… Avevo quasi meditato di rubarti a Nick, dopo quella missione.”
            Lei mi elargì uno dei suoi rari sorrisi; non era mai stata portata per le conversazioni spicciole, nè amava perdersi in chiacchiere inutili, però avevamo comunque instaurato un discreto rapporto, quattro anni prima. Era bello vedere che nessuna di noi due aveva cambiato parere sull’altra.
            “Eccoci, siamo arrivate. Da qui hai la visuale completa della palestra, di chi arriva e di chi se ne va. Immagino tu abbia già visto qualche foto della ragazza, quindi saprai riconoscerla.”
“Certo, Nick mi ha mostrato il suo dossier. Grazie mille, Maria, non ti trattengo oltre.”
            La Hill assentì con un secco cenno del capo e sparì alla velocità della luce nella direzione da cui eravamo arrivate. Mi sistemai meglio i pesanti borsoni sulle spalle e percorsi lo stretto corridoio, che curvava bruscamente a sinistra dopo una dozzina di metri. A detta di Fury, lì doveva esserci una specie di pianerottolo con un paio di sedie, la cui balaustra dava direttamente sulla palestra.
Oh, una sedia, finalmente! Lanciai a terra le borse e mi sedetti, anzi, mi stravaccai, esausta. Sul fronte “viaggi con partenze rapide e improvvise”, mio malgrado dovetti ammettere che ero parecchio arrugginita. Rimasi seduta per quelli che mi parvero quindici, venti minuti al massimo, poi alzai e mi diressi verso la balaustra, le mani nelle tasche posteriori dei jeans, con l’intento di studiare un po’ l’ambiente.
            Un lampo fulvo, circa sette metri più sotto, mi fece intuire che la mia pupilla fosse finalmente arrivata, dopo la lavata di capo della mia cornacchia preferita. Oh sì, ora le cose si facevano interessanti sul serio. Con un mezzo sorriso, appoggiai i gomiti alla balaustra e sgombrai la mente, pronta a cogliere tutte le informazioni possibili.
 
- Emilie -
 
Triskelion – 7 Febbraio 2014  
 
            Entrai a passo di marcia in palestra, seguita da Mark, che era rimasto in religioso silenzio per tutto il tragitto. Tipico… io mi prendo la lavata di testa e lui fa il broncio. Lanciai occhiate di fuoco tutt’intorno, e con piacere notai che gli occupanti del mio posto preferito si dileguarono all’istante, lasciando libero il tatami. Posai con cura la mia balestra –regalo del mio non-così-morto padre- sulla rastrelliera e mi voltai, togliendomi le scarpe e sgranchendo le giunture.
“Smettila di rognare, Mark, e mettiti in posizione maledizione!” sbottai come conseguenza della sua immobilità. Sapeva che sarebbe finita così, finiva così ogni volta, ma dovevo sempre e comunque trascinarlo di peso in palestra e comandarlo a bacchetta.
            Sottolineai il concetto con un’occhiataccia e solo a quel punto anche lui tolse le scarpe, ma ancora non accennava a muoversi. Lo strattonai per un braccio, tirandomelo dietro e ricordandogli che aveva tacitamente acconsentito ad impegnarsi in quello scontro semplicemente seguendomi.
            Iniziammo a girare in tondo, studiando il momento giusto per far partire l’attacco. Se l’esperienza non mi ingannava, Mark non avrebbe mai iniziato per primo. Tardai volontariamente l’assalto, sperando di fargli perdere la pazienza, ma mi stufai, preda com’ero di una rabbia cieca e bisognosa di sfogarmi facendo andare le mani. Come sempre negli ultimi due anni, del resto.
            Mi buttai sul mio partner, ormai ridotto ad un semplice fantoccio contro cui smaltire l’ira, e il mio corpo impattò violentemente contro il suo mentre gli tiravo una poderosa spallata, più utile a sbilanciarlo e prenderlo di sorpresa che ad altro.
Mark indietreggiò di un paio di passi, incassando il colpo e reagendo spingendomi via e chinandosi in avanti, il peso sulle punte dei piedi pronto a schizzare via al mio prossimo attacco. Non tardai a fingere un destro, che schivò, quindi gli tirai una ginocchiata al fianco opposto. A questo punto Mark iniziò a reagire, bloccando i miei colpi e riversando alcune mie mosse quando poteva, mandandomi a terra un paio di volte. Quando ribaltai una caduta a mio favore, spedendolo a gambe all’aria a mia volta, proposi una tregua.
            Dopo soli dieci minuti grondavamo già di sudore e ci tamponammo con un asciugamano, senza badare troppo al dolore provocato dai lividi. Era quasi piacevole arrendersi al combattimento, dove le sole cose importanti erano colpire e cercare di non essere colpiti, con occasionali sprazzi di lucidità dovuti al dolore di calci e pugni non schivati per tempo.
            Riprendemmo a combattere dopo esserci dissetati velocemente e aver sciolto i muscoli. Ricominciai a dargli addosso come una Furia, senza badare ad impostare una vera e propria tattica e sapendo perfettamente che presto sarei diventata prevedibile. Non mi importava, in quanto mi premeva solo sfogarmi e perdermi nel torpore della lotta, quell’alienazione in cui tutto si riduceva ad uno scambio continuo di colpi, al tendersi dei muscoli, al dolere dei colpi e all’annebbiamento del cervello. Come dicevo prima, annichilimento totale.
            Con un montante ben assestato spaccai un labbro a Mark, che chiese una seconda, breve, tregua. Al terzo assalto, partì per primo, e gli bloccai immediatamente un calcio diretto al mio stomaco girandogli il piede, senza preoccuparmi del fatto che avrebbe potuto ribaltare la situazione a sua favore. Cosa che fece, sfruttando lo slancio per colpirmi all’orecchio. Finii in ginocchio parzialmente stordita e con l’orecchio ronzante, ma più furente che mai. Mi rialzai urlando e scagliandomi contro di lui, protesa in avanti e spedendolo a terra. Gli finii a cavalcioni sul torace e presi a tempestarlo di pugni in faccia e sulle braccia che aveva alzato a difesa.            
            Approfittando di un attimo di tregua che gli concessi per sciogliermi una spalla dolorante, mi levò di dosso con un colpo di reni e si rialzò, massaggiandosi guance e zigomi. Aveva un occhio leggermente gonfio, ma il naso miracolosamente illeso. Restai volutamente a terra, ma rimasi delusa: non decise di attaccarmi in quella posizione per lui più vantaggiosa.
            Mark era poco più alto di me, e decisamente più muscoloso, sulla forza l’avrebbe sempre avuta vinta lui. Purtroppo tutta quella massa lo impacciava leggermente nei movimenti, anche se compensava lo svantaggio con l’esperienza. Si era tolto la maglia e potevo vedere già i primi segni lasciati dai miei colpi fulminei sul suo fisico tonico e ben allenato.
            Mi rialzai lanciando un’occhiata all’orologio a parete: eravamo lì dentro da circa una mezz’ora a darcele di santa ragione. Non c’era più nessuno in palestra, nemmeno i due agenti che stavano combattendo sul ring al nostro ingresso nella stanza.
            “Sembra che siamo rimasti soli”, buttai lì con un sorriso sghembo e un tono  di voce volutamente provocante. Era un gioco che facevamo tempo addietro, e si sa: le vecchie abitudini sono dure a morire, e si ripresentano a tradimento.
            “Purtroppo temo significhi che mi ammazzerai di botte, ma non che poi ti prenderai cura di me, come una brava crocerossina premurosa di lenire ogni mia sofferenza”, si rammaricò scherzosamente Mark, dandomi corda.
“Forse, se ti ridurrò in fin di vita, potrei anche restare al tuo capezzale stringendoti la mano”, cercai di svicolare. Non intendevo andare oltre la mia provocazione.
“Non era esattamente ciò che pensavo…”, replicò invece Mark.
            Inaspettatamente, e lontano da ogni mia previsione in merito, mi cinse i fianchi trascinandomi verso il basso, ruzzolammo a terra e mi ritrovai Mark a cavalcioni che mi inchiodava i polsi a terra. Provai a divincolarmi, ma la sua presa era salda. Mi aveva fregata approfittando della velocità con cui tutto era accaduto.
            “Che diavolo stai facendo?!”, gli urlai in faccia.
Si chinò verso il basso, e già iniziai a pensare che avesse frainteso le mie intenzioni. Sapevo di essere stata io stessa a provocarlo, avendo ormai smaltito il grosso della rabbia, ma non avrei mai immaginato una reazione del genere da parte sua, non più perlomeno.
C’era stato un tempo in cui avrei anche apprezzato, ma ormai faceva parte del passato e Mark lo sapeva.
            Ad ogni modo, dovetti ricredermi quando, con plateale lentezza, portò le labbra ad un soffio dal mio orecchio, sghignazzando sommessamente.
“Dovresti vedere la tua faccia, Barton”, sussurrò perfido e soddisfatto.
Decisamente non avrebbe dovuto lasciarsi distrarre.
Decisamente non avrebbe dovuto rilassarsi, allentando così la presa sui miei polsi.
Decisamente non avrebbe dovuto, punto.
“Sei un cretino”, risposi al suo scherzo con un sorriso spietato.
Ribaltai al volo la situazione con una spinta, lo tirai in piedi di slancio e gli mollai un calcio al torace. Rimase boccheggiante qualche istante, incredulo ma ancora divertito.
            “Che hai da ridere?”
Alzò una mano nell’universale gesto di tregua.
“Volevo essere sicuro che sbollissi tutta la rabbia. Sai, non ci tengo a farmi dare una ripassata anche domattina. Forza, concludiamo questo scontro con un’ultima raffica di colpi!”, spiegò lui.
            Rimasi impietrita. Non avrei mai immaginato che arrivasse a tanto. Poche ore prima ce l’aveva con me per aver mandato a monte il piano, e ora eccolo lì ad immolarsi ad agnello sacrificale per farmi stare meglio. Scrollai le spalle, ormai mi prudevano le mani e nemmeno lo stupore mi avrebbe fermata.
            “Come vuoi.”
            Gli feci segno di attaccare.
Coprì la distanza che ci separava in due ampi passi, slanciandosi per tirarmi un prevedibilissimo pugno in faccia. Mi limitai a schivare e gli afferrai il braccio all’altezza del gomito, facendo leva per scaraventarlo a terra. Da lì, Mark mi falciò le caviglie e persi l’equilibrio finendo a terra a mia volta. Ci rialzammo e mi accanii su di lui, la testa incassata fra le spalle e gambe e braccia che si muovevano veloci. Mentalmente notai che le sue reazioni erano leggermente cambiate nel corso del combattimento, andando a migliorare sia la difesa che l’attacco. Mark mi conosceva bene e sapeva come lottavo, ci eravamo allenati per ore assieme, prima che la mia vita si riempisse solo di rabbia, dubbi e amarezza.
            Lo sfogo finì con un montante al mento che stordì il mio partner al punto che restò diversi istanti steso a terra. Ansimante, mi inginocchiai di fianco a lui per accertarmi che stesse bene. Lo trovai ad ansimare quanto me, e trassi un sospiro di sollievo. Mi mancava giusto mandare K.O. un agente per completare il curriculum di casini che avevo tirato in piedi.
            Ad una sua richiesta, gli tesi la mano e lo aiutai ad alzarsi.
            “Tutto a posto?” chiesi.
“Per qualche giorno mangerò solo brodini, ma poteva andare peggio. Senza contare che sono un dolore unico.”
Non mi scusai. Inoltre, la scarica di adrenalina era ormai scemata e anch’io iniziavo a risentire, e soprattutto a sentire, i colpi subiti.
Agguantai la balestra e mi defilai silenziosa e un poco claudicante, senza guardarmi indietro.
 
            “Emy aspetta!” mi sentii chiamare poco dopo essere uscita dalla palestra.
Feci finta di niente, ma Mark mi raggiunse di corsa, sfiorandomi con una mano la spalla libera.
            Camminammo per un breve tratto senza parlare, ma sentivo i suoi occhi puntati addosso; mi chiedevo perchè mi avesse raggiunta con cotanta premura, se poi non aveva nulla da dirmi.
            “Senti, Emilie,” iniziò subito dopo che ebbi formulato quel pensiero, “prima, ecco, non avrei dovuto. Credo. Insomma, non so perché l’ho fatto. O meglio, sì, cioè, era un modo per farti sbollire del tutto, perché ti conosco e sapevo che ancora non avevi dato sfogo a tutta la tua rabbia, ma forse, ecco, forse avrei dovuto trovare un altro modo per provocarti. L’ho capito dopo, quindi ti chiedo scusa.” Spiegò Mark, impacciato e imbarazzato al punto da impappinarsi diverse volte.
            Gli lanciai un’occhiata con la coda dell’occhio: era avvampato e sapevo che non c’entrava nulla con lo sforzo fisico del combattimento. Mi fermai di colpo.
            “Esatto, avresti dovuto”, esordii lapidaria, a voce relativamente bassa ma con tono fermo e deciso. “Comunque accetto le tue scuse”, conclusi. Non serviva a nulla tenergli il broncio.
Mark annuì e sorrise. Da come si rilassarono i suoi muscoli, dedussi che aveva già temuto il peggio.
            Riprendemmo a camminare in silenzio, ci salutammo con un cenno quando le nostre strade si divisero e imboccammo ognuno il corridoio che conduceva alla propria stanza.
           
            Sbattei la porta dietro le mie spalle, esausta.
Tra il sudore e tutti i lividi post-allenamento che si stavano formando, decisi che mi ero più che meritata una lunga, rilassante doccia bollente.
Mi spogliai, lanciando i vestiti in un mucchio disordinato sul pavimento del bagno, accanto al lavandino; mi infilai sotto il getto ustionante e ci rimasi per un bel po’, pensando a tutto e a niente allo stesso tempo.
            Quando la mia pelle si riempì di grinze realizzai che forse era il caso di uscire dalla doccia; arraffai un paio di pantaloni a caso e una maglietta sformata, quindi mi buttai sul letto dopo aver sgranocchiato qualche schifezza
Ripensai, involontariamente, a qualche anno prima, quando io e Mark avevamo avuto una storia.
            Era iniziato tutto pochi mesi prima che la mia vita si sconvolgesse al tal punto da trasformarmi in una mina vagante. Mark ed io avevamo già lavorato assieme, ma solo in quel periodo eravamo diventati una squadra. Partner. In una missione sotto copertura recitavamo la parte dei novelli sposi, col compito di sorvegliare un presunto terrorista biochimico che viveva, guarda caso, nella villetta di fianco a quella che lo S.H.I.E.L.D. ci aveva fornito. Fu in quei giorni che Mark mi confessò i suoi sentimenti. Non lo respinsi apertamente, ed eravamo entrambi consapevoli che una relazione fra colleghi fosse severamente proibita dal regolamento.
            Non si poteva certo negare che fosse un brutto ragazzo, con gli occhi celesti e i capelli scuri, quasi neri, e il fisico tonico di un uomo ben allenato, ma non pompato, il viso ricoperto da un sottile velo di barba ben curata. Semplicemente, non avevo mai pensato a lui sotto quell’aspetto.
Purtroppo, o forse no, gli eventi fecero sì che ci avvicinassimo sempre più, e due mesi dopo accadde che finimmo a letto insieme. Non fu una cosa voluta, semplicemente successe. Iniziammo a vederci di nascosto, anche se qualcuno, col tempo, si pose delle domande. Per parte nostra, ci limitavamo a negare su tutta la linea.
            Sempre più di frequente i nostri allenamenti si concludevano fra le lenzuola, soprattutto quando in palestra non c’era nessuno e ci divertivamo a provocarci quando avevamo ormai quasi finito la sessione quotidiana di esercizi. Spesso non ci prendevamo nemmeno la briga di uscire dalla palestra, rimettendo magliette che erano state tolte con la scusa che faceva troppo caldo e sudavamo troppo. Ogni tanto Mark mi portava in stanza tenendomi in braccio o ci fermavamo contro la porta a baciarci prima di entrare e liberarci dei vestiti. Eravamo felici e non temevamo le conseguenze delle nostre azioni.
            Poi scoprii di non essere orfana, e che i miei genitori erano agenti della stessa organizzazione segreta per cui lavoravo io: lo S.H.I.E.L.D.. Scoprii anche che erano dei pezzi grossi, e tutte quelle informazioni mi mandarono il sangue al cervello. Per un po’ continuai la relazione con Mark, ma pian piano i nostri incontri si limitarono a scontri atti a sfogare la rabbia e sempre meno di frequente si spingevano oltre come un tempo. Le voci su di noi scemarono; le conseguenze della nostra storia non arrivarono mai perché si smise di pensare che fosse esistita.
            Nel giro di sei mesi, troncai di netto.
            Il mio lento declino aveva raggiunto il punto di non ritorno: da quel giorno iniziava sul serio la lunga serie di atti sconsiderati e sguardi impauriti che avevano portato Fury a cercare addirittura qualcuno che mi riaddestrasse. La prima persona che ci aveva provato, tuttavia, aveva mollato il colpo poco dopo, sostenendo di non essere il mentore migliore. Ci sentivamo ancora, di tanto in tanto; se non altro, era il mio compagno di bevute preferito.
            Raramente tornavo quella di un tempo, e forse in palestra Mark doveva aver scorto qualcosa che lo aveva portato a pensare che fossi in uno dei miei sporadici momenti buoni.
            Sospirai.
            Aveva avuto il sangue freddo di sfruttare la cosa a mio favore.
Non vorrei ammetterlo, ma in fondo devo ringraziarti, Mark: sento di non avere più nulla di cui sfogarmi. Per ora. Almeno fino a quando Fury non mi presenterà alla fantomatica risorsa. Chissà se è un uomo o una donna. Quanti anni avrà? Sarà una risorsa dello S.H.I.E.L.D. o un esterno? Chissà da dove arriva... Chiunque sia, troverò il modo di rispedirlo da dove è venuto, di farlo scappare a gambe levate dalla disperazione.
Fu con questi pensieri che pian piano mi addormentai.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2
 
I’ve given up
I’m sick of feeling
Is there nothing you can say
Take this all away
I’m suffocating
Tell me what the fuck is wrong
With me
 Given Up - Linkin Park
 
- Anja –
Triskelion – 7 Febbraio 2014
 
            Già il modo con cui Emilie era entrata in palestra – espressione severa ed austera in viso, una balestra high tech posata sulla spalla, tenuta con mano ferma - e la rassegnazione dipinta sul viso di quello che doveva essere il suo partner dicevano molto di chi – e come - fosse quella ragazza. Nick, per una volta, era stato davvero onesto: così com’era, Emilie era una belva in gabbia, pronta ad attaccare chiunque, amico o nemico che fosse Un pericolo per se stessa e per gli altri. Aveva il vuoto attorno a lei.
            Appena Emilie ne aveva varcato la soglia, infatti, l’enorme spazio adibito a palestra si era svuotato in un battito di ciglia, fatto salvo per qualche sporadico coraggioso che era rimasto sul ring, dalla parte opposta rispetto all’ingresso e alla ragazza dai capelli rossi.
            “Smettila di rognare, Mark, e mettiti in posizione maledizione!” la sentii sbottare risentita.
            Sì, Nick doveva averle dato la ferale notizia… e io avevo il primo nome sulla lista dei colloqui. Era la parte che preferivo, a dire il vero, parlare con le persone, capirle e immedesimarmi in loro, per poi farmi dire spontaneamente ciò che volevo sapere. Il difficile, nel mio mestiere, consisteva proprio nel trovare sempre nuove strategie e cavilli per arrivare al risultato senza destare sospetti. Ciascun trucco funziona una volta soltanto. Con lei sarebbe stato un testa a testa sino alla fine, ne ero certa.
            Diede uno strattone secco al braccio del collega, un’azione significativamente diversa rispetto alla cautela e alla gentilezza con le quali aveva posato la balestra al sicuro sulla rastrelliera. La mia prima ipotesi, formulata quella mattina – Dio, erano passate così poche ore da quando avevo ricevuto la bella notizia?! - fu confermata: donna portata per l’azione e preferisce lavori in solitaria, non tollera critiche sul suo operato, legittime o meno che siano.
            I due contendenti si fronteggiavano sul tatami che copriva il pavimento, girando in cerchio, le mani appena sollevate e le ginocchia leggermente piegate, pronte a scattare come molle; una persona poco esperta avrebbe dato per scontato che sarebbe stato il ragazzo a vincere, visto che la superava per altezza e stazza, per quanto lei fosse comunque più alta della media delle donne. Per esperienza, invece, io sapevo che combattimenti corpo a corpo di questo tipo spesso si risolvevano a favore del soggetto più minuto: più veloce e agile della controparte, mirava a farla stancare in modo tale da poter mettere a segno colpi di maggior precisione e usando una minor forza, arrivando così a mettere l’avversario KO con il minimo sforzo. Una buona tattica di base, certo, ma che diventava noiosamente prevedibile dopo il primo incontro. Tuttavia, la stazza maggiore garantiva colpi più potenti e quindi la relativa sicurezza di chiudere lo scontro in tempi brevi, ma io sapevo che quest’incontro non si sarebbe concluso che con la vittoria di Emilie.
            Riportai la mia attenzione sui due contendenti, richiamata dalle esclamazioni di una e dagli improperi dell’altro; come da programma, era il ragazzo quello che stava avendo la peggio.
Emilie colpiva come una Furia, assestando pugni e calci molto potenti e con precisione chirurgica. La sua tattica – sempre che quell’accozzaglia di movimenti dettati da rabbia e frustrazione si potesse definire tale - era molto improntata sull’attacco e quasi per nulla sulla difesa. Cosa questa che la mandò schiena a terra o quasi per più di un paio di volte, evidente indice che il suo compagno conosceva bene il modo con cui lei combatteva. Vediamo vediamo… spallata per sbilanciare, finta di destro, ginocchiata al lato opposto… Banale e prevedibile. Il ragazzo invece difende molto… Ah, sì, all’ennesima finta l’ha presa in contropiede e l’ha schienata. Mhmm… ne fa troppe e tutte uguali, sempre di destro e non riesce ad imporre il proprio ritmo all’avversario. È lui che detta legge, anche se è appena finito al tappeto.
            Si fermarono per qualche minuto, tamponarono via il sudore con dei piccoli asciugamani e bevvero un po’ d’acqua; dopo alcuni esercizi per sciogliere i muscoli indolenziti ripresero a darsele come se non ci fosse un domani. Sembrava di vedere un combattimento tra cani, non un incontro di lotta tra superagenti di un’organizzazione quasi segreta.
            “Maledizione… Possibile che sia un vizio? Oh, ecco di nuovo lo stesso schema: sbilanciare, fintare, attacco, attacco, finta, parata, attacco. Nemmeno ci prova a impostare qualcosa. Meno male che è una delle migliori...”, borbottai tra me e me passandomi le mani sul viso e sbuffando come una ciminiera intasata.
            “Chiedo scusa, ha detto qualcosa?”, mi sorprese una voce maschile alle mie spalle, a causa della quale mi voltai di scatto. Rimasi esterrefatta quando vidi a chi apparteneva.
Mi trovai davanti nientemeno che Captain America in persona. Uno dei salvatori di New York e facente parte del gruppo di supereroi noti come Avengers.
            “Signorina? Si sente bene?”
Oh, miseria, io non ero davvero rimasta basita e imbambolata davanti a lui, vero? Contegno, Anja, contegno!
“Non si preoccupi, stia tranquillo”, risposi accennando un sorriso, “Va tutto bene. Solo, mi ha sorpreso: non immaginavo che ci fosse qualcun altro con me. Non l’ho sentita arrivare.”
“Oh, beh, io…”, farfugliò Rogers un po’ impacciato, “Io non volevo certo spaventarla. Le mie scuse.”
“Nessun problema, davvero”, replicai calma, stavolta sorridendo apertamente. Grande e grosso com’era, faceva pensare ad un leone indomito, ma non appena apriva bocca dava più l’idea di un tenerissimo Labrador, tutto coccole e occhioni dolci.
            “Anja Blackwood, lieta di conoscerla”, mi presentai e allungai la mano, in attesa che lui me la stringesse. Cosa che fece e non fui sorpresa di notare che la sua stretta fosse ferma e decisa, ma delicata allo stesso tempo.
“Capitano Steven Rogers, il piacere è mio”.
Sbrigati i convenevoli ci appoggiammo entrambi alla balaustra e tornai ad osservare come si stava svolgendo l’ennesima ripresa di quella rissa da bar.
            “Mi permette una domanda indiscreta?” esordì a un certo punto.
Annuii e voltai appena la testa verso di lui, per non perdere momenti salienti dello scontro giù di sotto.
“Prego.”
“È lei la risorsa che il direttore Fury ha ingaggiato?”. Alla faccia della schiettezza e della perspicacia!
“In persona. E non vedo come questa domanda potrebbe essere indiscreta”, replicai divertita, “A proposito di questo, mi è stato detto di chiedere a lei o all’agente Hill se dovessi avere bisogno di qualcosa.”
“Certo, sono a sua disposizione. E spesso tendo a dimenticare che le donne del Ventunesimo Secolo sono… sì, ecco…”
“Più emancipate e spigliate di quanto non fossero negli Anni Quaranta?”, conclusi io per lui mentre tentavo invano di non mettermi a ridere. Era così adorabilmente retrò con quella cavalleria d’altri tempi e il sorriso timido, appena accennato.
“Sono una frana in queste cose”, ammise passandosi una mano nei corti capelli dal taglio militare, “E parlare con un esponente del gentil sesso… non è molto nelle mie corde”. Si produsse in un risolino imbarazzato e diventò rosso di colpo.
“Stia tranquillo. La verità è che spesso sono troppo diretta e questo mette a disagio i miei interlocutori. E per rispondere alla sua prossima domanda, Nick Fury mi ha chiesto di dare una solenne raddrizzata alla fanciulla dai capelli rossi laggiù che, al momento, pare aver scambiato il suo collega per un sacco da boxe.”
Rogers annuì pensoso e riprese a guardare lo scontro in palestra, mentre io facevo lo stesso.
            Ricominciai a vagliare tutte le posizioni e le tecniche che Emilie usava finchè non ebbi ben chiaro in mente lo schema con cui si destreggiava nella lotta. Il mio istruttore mi aveva insegnato che non bisognava, mai, combattere sempre nello stesso modo, perché un domani un osservatore acuto avrebbe potuto capire la sequenza dei movimenti e usarla per mettermi in difficoltà. Per questo avevo appreso diversi stili di combattimento, che andavano dalle arti marziali cinesi e giapponesi al krav maga israeliano, dalla boxe e dal muai thai alla lotta libera.
            “A cosa sta pensando?”
La voce di Rogers mi riportò di nuovo al qui e ora e gli rivolsi la mia attenzione: ormai, avevo visto e assimilato tutto ciò che mi serviva.
“A nulla di particolare”, replicai tranquilla, “Stavo osservando come combatte l’agente Barton, sia per capire come è stata addestrata, sia per avere un’idea di come e dove intervenire per correggere una serie davvero spaventosa di mancanze.”
“Mancanze?”, fece eco Rogers stupito, “I suoi superiori dicono che è uno degli elementi migliori in assoluto.”
“Ma dicono anche che è instabile, troppo irascibile, non ha autocontrollo né usa il buonsenso; inoltre ha enormi problemi con la disciplina e con il rispetto dell’autorità”, gli feci notare con calma.
            Il Capitano annuì con aria stanca e una nube di tristezza offuscò per un breve attimo il suo sguardo; si passò le mani sul viso a più riprese e tacque per un po’, perso in chissà quali pensieri.
Gli ci volle parecchio per riprendere la parola.
            “Non era così, una volta”, esordì in un sussurro e non riuscii a capire se stesse riflettendo ad alta voce o l’avesse detto a mio uso e consumo.
“Come, scusi?”. Optai per una domanda neutra, curiosa di vedere quale sarebbe stata la sua risposta.
“Qualche anno fa non era così. Era… sì, era una persona diversa. Più calma, equilibrata. Sapeva quando poteva fare di testa sua e seguire l’istinto e quando, invece, era meglio attenersi alle regole. Poi ha scoperto di non essere orfana, come invece credeva, e che i suoi genitori li aveva avuti vicini per tutta la vita senza saperlo. Da lì è peggiorata a vista d’occhio. Ogni tanto le capitavano attacchi di rabbia, ma erano episodi sporadici… Ora sono l’ordine del giorno”, sospirò sconsolato, ma non senza una lievissima punta di fastidio, tipica dell’inflessibile militare.
Annuii comprensiva, ma non replicai, anche perché non avrei saputo cosa dirgli.
            Dalla risposta del Capitano, però, avevo ricavato due informazioni alquanto preziose: la prima, che se i suoi genitori erano sempre stati vicino a lei, nascosti in bella vista, dovevano essere per forza due agenti; la seconda, che Rogers non sembrava del tutto obiettivo nel giudicarla, perché si vedeva lontano un miglio che aveva un debole per lei.
            “Permette una domanda, Capitano?”
“Prego, mi dica pure.”
“Prima che il direttore mi chiamasse per riaddestrarla, ci aveva già provato qualcun altro, che lei sappia?”
Rogers ci pensò un po’, quindi rispose: “Non lo so, penso dovrebbe domandarlo a lui direttamente.”
“La ringrazio comunque.”
            “Quindi, sì è già fatta un’idea su come combatte l’agente Barton? E di come fare per correggere i suoi difetti?”, mi domandò Rogers dopo qualche tempo passato in totale silenzio, mentre ciascuno di noi rincorreva i propri pensieri fissando punti imprecisati del muro della palestra.
            “Sì, ormai ho trovato lo schema fisso che segue e bene o male si ripete sempre allo stesso modo, ogni tanto con qualche rara eccezione.” Scossi la testa impensierita: sul quel fronte c’era una montagna infinita di lavoro da fare e, conoscendo Nick, entro breve termine avrebbe preteso dei risultati.
“Ora, faccia attenzione Capitano e la osservi bene. Le dirò quale sarà la sequenza dei colpi e come parerà gli attacchi del suo collega.”
“Ci riesce davvero?! Ma come?”, domandò il Capitano con una nota di stupore nella voce.
“Come ci riesco? Mi è stato insegnato a prestare attenzione a certi particolari… e a ragionare in modo lucido e analitico anche durante un combattimento corpo a corpo. Se si inquadra bene il proprio avversario, e si riesce a capire in quale modo combatte, neutralizzarlo diventa più semplice, perché si conoscono i punti deboli su cui far leva”, spiegai tranquillamente mentre buttavo un’occhiata di sotto. Perfetto, un altro intervallino: ciò mi permetteva di dare la piccola dimostrazione che avevo promesso a Rogers partendo proprio dall’inizio del round.
“Sono curioso di vederla all’opera, allora.”
“Aspettiamo che ricomincino, così le dimostro ciò che ho detto.”
 
            Quando ripresero a combattere diedi di gomito a Rogers e dissi: “Ora, lui attaccherà con un calcio allo stomaco; lei lo bloccherà e lui sfrutterà la cosa per atterrarla, probabilmente stordendola.” E in effetti, accadde esattamente ciò che avevo pronosticato.
“Impressionante”, mormorò Rogers a mezza voce, al che non trattenni un sorrisetto soddisfatto.
“Non è finita qui. Guardi”, proseguii, “Ora la ragazza lo butterà a terra senza complimenti, lo bloccherà e comincerà a pestarlo. Lui aspetterà che finisca e se la scrollerà di dosso, oppure la coglierà di sorpresa a metà dello sfogo.” Anche questa volta il corso degli eventi mi diede ragione.
            Rimanemmo in silenzio per un attimo e anche di sotto si concessero un momento di tregua, durante la quale cominciarono a punzecchiarsi. Il ragazzo la atterrò, fulmineo, e la inchiodò a terra sfruttando tutto il suo peso.
“Bella mossa, ragazzo”, commentai a mezza voce, “Questo vuol dire che è facile coglierla di sorpresa.”
“Pensa che Emilie attaccherà di nuovo?”, domandò Rogers.
“Senza dubbio, ma aspetterà che il compagno abbassi la guardia.”
            Circa tre secondi dopo, la Barton si rimise in piedi e tirò un potente calcio in pieno petto al collega, il quale a sua volta riprese ad attaccare. Ricominciarono a tempestarsi di colpi, Emilie sempre seguendo il suo schema collaudato. Alla fine, si ritrovarono entrambi a terra, esausti e col fiatone, pieni di sudore e lividi.
            “Direi che ho visto abbastanza”, esordii stiracchiando le braccia e ruotando le spalle indolenzite, “Capitano, potrebbe mostrarmi dove posso alloggiare, per favore? Ho assoluto bisogno di una doccia e un riposino. E anche di mangiare qualcosa, ora che ci penso.”
“Certo, mi segua”, replicò lui agguantando le mie borse prima che potessi dire “Ah” e mi fece strada per lo stretto corridoio. “C’è una stanza libera proprio accanto alla mia. Si senta libera di cercarmi a qualunque orario. Inoltre, lì vicina c’è anche una saletta adibita a mensa per gli ufficiali. Se vuole la accompagno dopo che si sarà riposata un po’.”
“La ringrazio, ma non vorrei disturbarla più del dovuto.”
“Nessun disturbo, davvero. In più, penso che lei possa davvero aiutare Emy, perciò sarò ben felice di esaudire le sue richieste.”
“Oh, beh, la ringrazio, allora. Molto obbligata.”
            Proseguimmo in silenzio lungo gli stretti corridoi per una decina di minuti, più o meno, quindi arrivammo davanti ad una porta grigia e anonima. Rogers mi diede il codice per aprirla, poi mi lasciò entrare per prima e posò i miei borsoni sulla scrivania accanto al letto, il tutto sempre sorridendo con dolcezza. Mi augurò buon riposo e si dileguò a marcia indietro, chiudendo poi la porta.
Dio, la gentilezza di quest’uomo era incredibile.
 
- Emilie -
 
8 Febbraio 2014
 
            Quella mattina mi svegliai volutamente tardi. Se dovevo starmene rinchiusa al Triskelion, quantomeno volevo godermi la non-esattamente-meritata vacanza impostami da Fury.
Per una volta decisi di non recarmi in palestra per un allenamento, ma di andarmene dritta in piscina. Non amavo troppo passare il tempo a fare vasche su vasche in un ambiente che puzzava di cloro in maniera quasi nauseante, ma lo S.H.I.E.L.D. non si faceva mancare nulla e aveva installato una vasca con idromassaggio.
            Lo spogliatoio era vuoto, ed indossai con la dovuta calma il costume sportivo: il pezzo sopra era costituito da un top blu elettrico con le spalline che sul retro si incrociavano, mentre la parte inferiore consisteva in un paio di culottes dello stesso colore. Mi diressi alla mini palestra della piscina, un mero stanzino con pavimento antiscivolo utilizzato per gli esercizi di stretching pre-nuotata.
            Dopo una ventina di minuti, indossai la cuffia e mi tuffai nella vasca sul lato destro della piscina olimpionica; percorsi i primi cinquanta metri a stile libero, con calma – a quell’ora, le undici del mattino, la piscina era semideserta e potevo prendermi tutto il tempo che volevo senza intralciare eventuali rompipalle che nuotassero a tutta velocità -, quindi tornai indietro nuotando a dorso con la sola spinta delle gambe, in modo tale da permettere all’acqua di cullarmi. Chiusi gli occhi, rilassandomi per qualche istante. Quando tornai al punto di partenza, iniziai a fare alcune vasche a stile e delfino, finchè non decisi che mi stavo decisamente rompendo troppo le palle e che meritavo un po’ di idromassaggio.
            Immergermi in quell’acqua ribollente e schiumosa mi diede un senso di pace totale. Sistemai l’asciugamano sul bordo della piscina per rendere più morbido l’appoggio e reclinai la testa all’indietro, persa nel piacere dei getti ad alta pressione che massaggiavano il mio corpo, lenendo i lividi comparsi dopo lo scontro con Mark e, lo ammetto, anche le ferite dell’orgoglio.
            Scacciai subito quella considerazione: stavo vivendo uno dei miei pochi attimi di totale relax e non volevo assolutamente rovinarlo e mandarlo in fumo. Iniziai quindi a canticchiare ‘Don’t Cry’ dei Guns’n’Roses, che da sempre aveva la strabiliante capacità di calmarmi. Poi, semplicemente, la mia mente iniziò a vagare a caso, soffermandosi su tutto e niente allo stesso tempo: il rumore dell’idromassaggio a contrasto col quasi totale silenzio del resto della piscina; il ricordo di quella volta in cui io e Mark eravamo in missione sotto copertura e ci eravamo confidati sentimenti che, per parte mia almeno, appartenevano ormai ad un passato davvero troppo lontano; alla mattina precedente, quando avevo ucciso senza pietà quel bastardo che non voleva parlare, alla soddisfazione con cui avevo colpito la tempia, togliendogli la vita; ai bei paesaggi dei luoghi in cui ero stata spedita in missione, messi a contrasto con la morte che veniva seminata in quei posti; al giorno in cui, avrò avuto otto anni, lo Zio Logan mi aveva comprato un cucciolo di Malinois, che fu più tardi un fedele compagno in alcune missioni, ed un amico insostituibile.
            Quando finalmente mi riscossi da tutti quei ricordi, scoprii di essere leggermente assonnata oltre che tremendamente affamata – avevo praticamente saltato la colazione quella mattina, limitandomi a bere un succo di frutta. Buttai uno sguardo all’orologio a parete: era l’una passata. Sgattaiolai in doccia veloce come un furetto, rischiando di scivolare almeno due volte sul pavimento bagnato, mi fonai alla bell’e meglio quei dannati capelli che, in ogni caso, non avrebbero preso una piega decente nemmeno a chiederglielo in ginocchio, e mi fiondai in mensa.
            Gettai uno sguardo veloce e mi risolsi a prendere un piatto di vitello tonnato. Anzi, riflettendoci su un istante, due piatti di vitello tonnato. Arraffai quante più patatine fritte riuscii a far stare sul vassoio e trotterellai felice del mio bottino verso uno dei pochi tavoli isolati e liberi.
            Mi abbuffai di patatine, usando le mani e cacciandone in bocca anche quattro o cinque alla volta. Potrei divorare una mucca intera e avere ancora posto per un vitello, se dessi retta al mio stomaco. Quando ne avevo mangiate già più di un quarto, mi diedi un attimo di tregua e passai al vitello tonnato, piegando le fettine finchè non diventavano sufficientemente piccole per essere mangiate senza correre il pericolo di strozzarmi. Finii il primo piatto, e almeno metà delle patatine, quando realizzai che non avevo preso il pane: la scarpetta era d’obbligo! Rimediata la mia mancanza, tornai a concentrarmi sul cibo, questa volta comportandomi da persona normale e civile.
            Non notai, però, una chioma rossa quanto la mia che si muoveva fra la calca di agenti intenti a consumare un lauto pranzo.
Insomma, mi stavo finalmente godendo il secondo piatto di vitello tonnato, quand’ecco che mia madre arrivò e rovinò tutto: grazie karma, davvero! Me lo meritavo proprio!
            “Emilie, dobbiamo parlare.” Esordì con tono piatto. Stava sicuramente trattenendo la rabbia perché notai che faceva respiri controllati e il viso era completamente impassibile.
“Starei mangiando, nel caso non l’avessi notato”, ribattei piccata.
“Quindi?”, inarcò leggermente un sopracciglio, “Devo forse prendere appuntamento per discutere con mia figlia? Nick...”
“Oh certo! Ora che ti fa comodo sono tua figlia!” la interruppi sbottando e lasciando cadere le posate. “E dimmi, dove sei stata in più di vent’anni della mia vita? Sapevi esattamente dov’ero, e per citare qualcuno a caso, non avevi certo bisogno di un appuntamento per vedermi!”
            Non era facile lasciare Natasha Romanoff senza parole, ma per qualche istante ci riuscii. Ripresi a mangiare senza più degnarla di uno sguardo. Purtroppo durò poco, perché mammina riprese a tediarmi.
“Nick mi ha detto che ti manda a riaddestrarti. Non è sceso particolarmente nei dettagli, mi ha solo riferito che hai fatto fuori un bersaglio molto, molto importante. Di nuovo. Diamine Emilie, almeno guardami mentre ti parlo!”
Oh sì, era decisamente fuori di sé se interrompeva la ramanzina perché non la stavo guardando. Alzai leggermente gli occhi, ma quando riprese a parlare tornai a concentrarmi sul pranzo. Quel vitello era dannatamente sublime!
            “Dimmi, perché mai non rispetti un accidente degli ordini che ti vengono impartiti? Non ti sembra di avere superato l’età della ribellione già da un pezzo? Sei una persona adulta, Emilie, assumiti qualche responsabilità e dai retta ai tuoi superiori!” sbottò tutto d’un fiato, quasi stesse leggendo un testo in cui avessero rimosso la punteggiatura.
“Sai benissimo perché: è colpa tua, e di Clint, se ho dato di matto! Chi è che non si assume le proprie responsabilità adesso?!”, sbottai, dando definitivamente fuori di matto.
“Emilie..” provò a interrompermi mia madre.
“No, NATASHA, adesso tu ascolti me, per una buona volta! Hai una vaga idea di come mi sia sentita per tre quarti della mia vita?! Ti metti il cuore in pace se i tuoi genitori sono morti, ma non quando nessuno ti dice chi erano. Sono stata affidata a Logan che, va bene tutto, è l’uomo più simpatico dell’Universo finchè non si incazza -non so se mi spiego- ma non è esattamente il genere di famiglia in cui una bambina orfana possa crescere bene. Per carità, sono forte e son sempre stata un maschiaccio, quindi mi andava anche bene prendere lezioni di combattimento e tiro con l’arco, usare armi da fuoco e quant’altro potesse rendersi utile per un combattimento. Mi ha insegnato che qualsiasi cosa si può trasformare in un’arma, non a giocare con le bambole come ogni altra bambina sulla faccia della Terra! Finchè, un bel giorno, mi rifilò allo S.H.I.E.L.D. perché mi addestrasse, e nonostante fosse sempre stato burbero, è un burbero onesto: mi disse che ci sarebbe sempre stato, che non avrebbe mai creduto che si sarebbe, un giorno, affezionato a me tanto da detestare l’accordo preso al mio affidamento, e che mi bastava un colpo di telefono e avrebbe fatto di tutto per raggiungermi nel più breve tempo possibile. Ed è stato così. Ma la sai una cosa? Avreste dovuto esserci voi al suo posto! E questo mi manda in bestia!”
Mi fermai, ansante perché avevo sciorinato quel bel discorsetto quasi tutto d’un fiato. Ce l’avevo a morte con Natasha e Clint – non riuscivo proprio a considerarli i miei genitori – per quello che mi avevano fatto. E dire che ammiravo le loro gesta ed imprese eroiche…
            “Questo non giustifica affatto il tuo comportamento sconsiderato degli ultimi due anni. Eri una delle migliori, possibile che scoprire una cosa che avrebbe dovuto renderti felice ti abbia quasi trasformata in una fuorilegge? Finirai per avere un tappeto di cadaveri intorno, prima di morire tu stessa per i tuoi errori e le azioni sfrontate, se non ti rimetti in riga. E quello che più mi fa arrabbiare, e mi delude, è sapere che Nick ha chiamato una risorsa esterna di cui non vuole svelarmi l’identità, non ancora perlomeno, perché non sei in grado di darti una regolata! Nel KGB, e non solo, saresti già stata liquidata dai tuoi stessi compagni, cosa che non è ancora successa in parte grazie a me e tuo padre! Te ne rendi conto o no?!”
            Wow, emozionante, ma no, niente senso di colpa nei vostri confronti, mi spiace.
“Oh quindi è questo il problema con te! Miss-perfezione-sono-brava-solo-io non accetta che una risorsa esterna raddrizzi sua figlia, la quale ha smarrito la retta via che si era immaginata per lei! Ci han già provato, ma tu, né tanto meno l’uomo da cui ho ereditato la mia infallibile mira, avete mosso un solo dito. Cos’è? Eravate troppo coinvolti emotivamente?” scoppiai a ridere in modo sadico.
            Avevo persino dimenticato il mio pranzo, ma quella discussione si stava ribaltando a mio favore. Ora avevo io il coltello dalla parte del manico e, pur sentendo fra le mie risate le deboli intimazioni a non dare nell’occhio perché “Ci stanno guardando tutti”, mi fermai solo perché ero rimasta senza fiato.
Mi tenni l’addome: “Sai, la cosa divertente è che non capisci che se ho dato di matto non è poi tutta mia la colpa, ma anche – soprattutto – vostra! Vedremo, se mi darò una regolata. Ad ogni modo sappi che ce l’ho a morte con entrambi per avermi abbandonata in maniera vigliacca, senza lasciare nemmeno un messaggio, affidandomi ad un uomo che non era adatto a farmi da padre ma che si è sforzato all’inverosimile per crescermi e non gettarmi nel primo canale di scolo, come fossi spazzatura. E avete avuto persino il coraggio di credere che sarei stata felice di scoprire che i miei genitori non erano morti! Oh, avrei anche potuto, non fosse per il fatto che lavoriamo per le stesse persone e chissà quante volte vi avrò intravisti qui in giro, ma non avete mai provato a parlarmi, a cercarmi, a dirmi “Ehi, siamo i tuoi genitori ma è un segreto, quindi non dirlo a nessuno: considerala una missione top secret!”. Sarei stata meglio a non saperlo, di avere voi come genitori!”
            Avevo alzato involontariamente il tono della voce, arrivando ad urlare, ma me ne resi conto solo quando Natasha, ancora seduta di fronte a me, che ormai ero in piedi e con le mani che prudevano, aveva sgranato gli occhi e portato una mano alla bocca. Lanciai uno sguardo di fuoco intorno a noi: tutti stavano trattenendo il fiato, quasi che potessi ammazzarli se solo avessero respirato o fatto una qualsiasi mossa. Basso profilo, eh? Beh, non oggi. Karma, me ne devi due!
Mi lisciai la maglietta, agguantai il vassoio con ciò che restava del mio pranzo – le patatine ormai dovevano essersi raffreddate, dannazione! – e con aplomb inglese esordii: “Ora andrò in camera mia, finirò di pranzare e nessuno verrà a disturbarmi, chiaro Natasha? Ad ogni modo, è stato un piacere.”
            Le voltai le spalle e me ne andai, gli occhi di tutti puntati addosso.
Arrivata in camera mia, appoggiai il vassoio sulla scrivani ingombra di carte, mi presi il volto fra le mani e scoppiai in un pianto dirotto: rabbia e dolore, e una furia cieca per tutto quello che avevo passato nei miei venticinque anni per colpa delle due persone che, più di tutte, avrebbero dovuto starmi vicino ed amarmi.
 
            Quando mi fui ripresa, finii il cibo avanzato e chiamai Zio Logan.
Guarda un po’ chi si fa risentire!” rispose squillante la voce baritonale all’altro capo del cellulare. “Allora, come è andata la missione in Medio Oriente?Ma perché diavolo deve sempre porre le domande scomode al telefono?
“Diciamo che poteva andare meglio.” risposi vaga, massaggiandomi il collo teso.
In che senso? Emy, non ne avrai mica combinata una delle tue, voglio sperare.” Ecco, questa era la parte in cui Logan interpretava il genitore apprensivo. Il che, in effetti, era particolarmente ironico, considerato come tutto era iniziato…
“Oh, andiamo, tanto quello non avrebbe parlato comunque! Ad ogni modo...”
Ne hai ammazzato un altro?!” sbottò, interrompendomi.
“Sorvolando sul fatto che, come tuo solito, mi hai interrotta, sì l’ho fatto fuori, perché, come già det..” “Oh ma dannazione Emilie! Dacci un taglio!E due. Alla terza gli avrei fatto la pelle, sicuro come l’oro.
            Giurai di aver sentito in sottofondo quello che sembrava il rumore di lame sguainate e conficcate da qualche parte. Sfruttai quell’informazione a mio favore: “Non mi sembra di essere l’unica con lo scazzo facile. Era il tavolo, quel rumore di legno infranto?”, ghignai divertita.
Veramente, una sedia.” Attimi di silenzio – in cui, lo ammetto, godetti come un riccio per il mio trionfo. Prima che potessi continuare, però, Logan aggiunse: “Certo è che aver avuto me come esempio da seguire non può averti fatto bene più di un tot. Ti serve qualcosa? O hai chiamato solo per dirmi che la missione è fallita?
“Non credere che i miei genitori biologici avrebbero fatto di meglio.”, lo consolai: di certo non era colpa sua se scazzavo ogni due per tre, visto che i miei –e il mio capo- ci avevano messo il carico da undici. “Comunque, no, veramente non volevo nemmeno parlartene al telefono. Il motivo per cui ti ho chiamato è sapere se sei nei paraggi per farci una bevuta al solito pub irlandese all’angolo.”
Alle nove?” propose senza esitazioni.
“Andata.”
             Chiusi la telefonata e, lanciando in giro i vestiti, andai a farmi una doccia fredda. Uscii avvolgendomi nell’accappatoio, prima di stendermi sul letto a rilassarmi.
 
            Mi riscossi balzando a sedere all’improvviso, svegliata dalla vibrazione del cellulare lasciato sul comodino. Ma porca puttana, che infarto! Agguantai – reprimendo l’istinto di lanciarlo e contare poi in quanti pezzi si sarebbe sfracellato- quell’aggeggio infernale col cuore che batteva impazzito, rimbombandomi nelle orecchie e in gola. Guardai fisso il numero sul display: era Logan.
            “È mezz’ora che ti aspetto davanti al pub. Al freddo. Dove cazzo sei finita?!” mi urlò in orecchio, fracassandomi il timpano. Buttai uno sguardo all’orologio del telefono, quindi alla sveglia sul comodino. Le nove e trenta. Merda!
“Dammi cinque minuti”.
             Gli sbattei il telefono in faccia, prima di lanciarmelo alle spalle sul materasso, saltare fuori dall’asciugamano – dannazione avevo dormito praticamente tutto il pomeriggio!-, fiondarmi a recuperare le prime cose a caso dall’armadio – jeans neri, maglia grigio antracite con un drago sul davanti, anfibi militari -, scattare fino al bagno per vestirmi e dare una parvenza di ordine in quella specie di nido per aquile che erano i miei capelli, recuperare al volo il giubbotto di pelle, la borsa con soldi, documenti e chiavi, infilarci il cellulare e correre fuori dal Triskelion. Nemmeno in missione mi ero mai vestita tanto in fretta.
 
            Raggiunsi il pub col fiato corto, e notai un parecchio scazzato Logan che teneva le mani serrate a pugno e avrebbe potuto trucidarmi con un solo sguardo. E quando aveva quella faccia, meglio tenere un profilo bassissimo –quasi rasoterra- e girare largo. Molto largo.
            “Scusa, mi ero addormentata.”
Gli aprii la porta del pub, lasciandolo entrare per primo. Forse, in un luogo pubblico, avrebbe evitato di sfogare la sua ira. Forse. Diciamo che si sarebbe trattenuto almeno un pochino. “Ho anche saltato la cena.”, confessai, con lo stomaco attanagliato da crampi di fame.
Logan mi lanciò un’occhiata di fuoco, ma era troppo impegnato a far sloggiare un paio di ubriaconi dal tavolo che occupavamo di solito, in posizione strategica vicino alla porta d’ingresso e alla vetrata.
“Non so come sia possibile, ma dopo averti parlato mi sono fatta una doccia e sono crollata sul letto.” Continuai a giustificarmi, vedendo che la sua espressione restava dura. Sospirò, accendendosi l’immancabile sigaro, suo personale marchio di fabbrica.
            “Lascia stare, lo sai che sono impulsivo. E poi nell’attesa ho… raddrizzato due ladruncoli da quattro soldi.” Sorrise e inarcò divertito il sopracciglio, sicuramente soddisfatto di sè. Risi sommessamente e mi preparai per la parte difficile della serata: fargli un resoconto spannometrico dei casini saltati fuori negli ultimi due giorni. Mi diedi forza ordinando un paio di Sambuche - miglior calmante dal 2005! Lo Zio, per contro, si era fatto portare un’intera bottiglia di Jack Daniel’s, e quasi mi sputò in faccia una poderosa sorsata quando gli dissi che Fury aveva intenzione di riaddestrarmi.
“Riaddestrarti?!? Sul serio?! Non gli è bastata la prima volta? E poi, più che di addestramento, hai bisogni di disciplina – e non fare quella faccia, sai che ho ragione-, ma dubito ci sia qualche psicologo abbastanza coraggioso, o pazzo, o senza nulla da perdere da accettare te come paziente. Gli faresti stracciare la laurea.”
            Tirai giù un sorso dalla bottiglia di Jack prima di ribattere: “Chiunque mi appiopperà, filerà via a gambe levate. E comunque sai che odio a morte gli psicologi e li ritengo inutili: perché dovrei pagare per sfogarmi con qualcuno?” alzai braccia e occhi al cielo, quindi attirai l’attenzione del cameriere e mi feci portare la terza Sambuca con ghiaccio della serata.
            La porta del pub si aprì ed entrò una donna –molto alta- con la classica aria di superiorità, ma non del tipo ce-l’ho-solo-io-guardate-quanto-sono-figa; no, questa era piuttosto il genere di donna che sapeva di poter fare quello che voleva. Che era abituata a farsi rispettare.
Mi diede immediatamente sui nervi.
“Ma tu guarda ‘sta qui!” esclamai.
“Chi?” chiese Logan.
Dato che mi ero messa in posizione favorevole per vedere sia la porta che il bancone e, ovviamente, l’interno del pub, lo Zio, seduto di fronte a me, dava le spalle alla sala.
“Niente, una che è appena entrata”, svicolai.
            Ovviamente lui si voltò in cerca della fantomatica donna. La notò subito, ma come dargli torto: indossava dei blue-jeans aderenti, un vistoso maglione nero a pois bianchi, stivali alti di cuoio color carbone, e si era appena tolta un giubbotto da aviatore grigio fumo. In quel preciso istante stava scuotendo i capelli mossi e scuri, che le arrivavano ai fianchi, facendo gli occhi dolci al cameriere mentre indicava il bancone, al quale prese posto poco dopo. Aveva un passo indubbiamente marziale, da poliziotto, ma al tempo stesso femminile ed elegante, con tutto quell’ancheggiare.
            “Che dire, è uno schianto”, si lasciò sfuggire Logan.
“Scusa?!”. Alzai un po’ troppo la voce e i vicini si voltarono. Anche la donna si era voltata, piantandomi uno sguardo glaciale addosso, manco le avessi detto in faccia che mi pareva una puttana o una dominatrice di terz’ordine.
“Dico solo quello che penso. E ha gli occhi di tutti puntati addosso, te ne sei resa conto?”. Tornò a voltarsi con molta poca nonchalance per fissarla. Mi sporsi a prenderlo per il bavero del giubbotto di pelle da motociclista, dato che a parole non voleva saperne di rimettersi composto.
“Sono tornati tutti a fissarsi i bicchieri, idiota di un boscaiolo, girati o finirai per fare un figura di merda!”, sibilai.
“Sempre se non la stiamo già facendo entrambi…”, ribattè fissandomi con un ghigno divertito.
            Rimasi ferma un istante, quindi realizzai di essermi praticamente sdraiata sul tavolo per prendergli il giaccone, tenendo le gambe piegate così che i piedi sventolavano all’aria.
Avvampai, lanciai uno sguardo in giro – ci stavano fissando tutti -, mi diedi una sistemata e tornai a studiare la donna. Ovviamente, ci fissava anche lei e sembrava divertita dalla scena.
Oh, sì, vedrai se mi alzo a spaccarti la faccia quanto ti divertirai!
            Ordinai due Vodka, rigorosamente lisce, che tracannai a velocità disumana e senza fare una piega. L’eredità genetica dei Romanoff, pensai con amarezza.
            Continuai a parlare con lo Zio Logan, passando ad argomenti più leggeri, sempre tenendo d’occhio la sconosciuta, che non mi convinceva neanche un po’. Innanzitutto, perché era una menosa del cazzo, poi perché beveva più di un uomo – sarà stata almeno al settimo bicchiere in quaranta minuti-, e poi perché continuava a girarsi. Certo, essere all’angolo del bancone a tre lati del pub le dava una buona visuale dell’ambiente interno –anche se da lì vedeva Logan di spalle - ma poteva benissimo concentrarsi su altri soggetti. Come, ad esempio, su uno qualunque dei tizi con la bava alla bocca che cercavano di rimorchiarla.           
            “Comunque quella continua a fissarmi!” sbottai, leggermente brilla. Avevo mischiato e bevuto parecchio, quella sera, e iniziavo a risentire degli effetti dell’alcool.
“Ma piantala! Tu e le tue fisime da spia!”. Lanciai un’occhiataccia al mio compagno di bevute, poi fermai il cameriere, che ormai era abituato ai miei ritmi e non si stupiva più di quanto riuscissi a trangugiare, purchè avessi del cibo.
“Portami dei nachos e un Long Island. Vedi di fare in fretta.”
            Quando il cameriere si fu allontanato, Logan si sporse verso di me, con un’espressione un po’ stranita in viso: “Prima hai cenato con una baffa di costolette annegata nella salsa barbecue, con le patate sommerse di maionese o ketchup. Poi hai ordinato le mozzarelline impanate, una piadina cotto e formaggio e altre patatine da dividere. E adesso pure i nachos?! Non ti pare di stare esagerando? Sul serio, Emy, devi dirmi dove nascondi tutto quel cibo, prima o poi. Per non parlare di quanto stai bevendo stasera!”, mi bacchettò bonario.
“Senti, zietto caro, sono adulta e vaccinata, e credo che nemmeno uno della tua età abbia il diritto di dirmi quanto posso o non posso mangiare. In più sono nervosa, anzi decisamente incazzata, e ho voglia di bere per calmarmi i nervi; e se voglio mantenere un minimo di contegno, sai benissimo che mi conviene mangiare. Quindi non rompere le palle.” Logan fece un gesto vago con la mano e diede un sorso alla bottiglia di whiskey. Da che pulpito viene la predica, tra l’altro.
            Poco dopo, i nachos ormai erano spariti nei nostri stomaci – sì, Logan mi ruba il cibo!; la tizia che mi fissava si alzò, pagò le consumazioni e se ne andò con tutta la flemma del mondo. Prima di varcare la porta, però, si fermò con la scusa di indossare il giubbotto, fissandoci molto-poco-antisgamo. Quindi fece per uscire, ma uno dei tizi di cui prima si scapicollò per tenerle la porta, sbavandole dietro in maniera tremendamente indecente.
            “Ma quanto se la tira quella!”
“Ne ha tutti motivi.”, se ne uscì Zio Logan, candido come un cucciolo di foca, beccandosi un pugno in piena faccia. Il suo setto nasale scricchiolò.
“Ma sei deficiente o cosa?!”, sbraitò tenendosi il naso. Poco dopo smise di sanguinare e la cartilagine tornò intatta.
“No, sono solo un po’ ubriaca.”, risposi gongolando. Ero decisamente fuori se, primo, mi arrischiavo a mollare un pugno in faccia a Logan senza un motivo più che valido e, secondo, se gongolavo sapendo di essere decisamente sbronza.
“Ti riporto al Triskelion.”, disse lapidario.
“No!”
 Piantai il broncio e mi misi a braccia conserte. Non mi sarei mossa di lì.
“Ti do due possibilità, Emilie: o mi segui di tua spontanea volontà fuori di qui, o ti ci porto in braccio. Scegli. Hai giusto il tempo che mi serve per pagare.”
Sbuffai.
            Poco dopo Logan tornò chiudendo la giacca di pelle sopra la camicia di flanella a quadri rossi e bianchi, altro suo marchio di fabbrica.
“Sai che quella roba è passata di moda da un pezzo?”. Alludevo alla camicia da boscaiolo.
“Bene, questo significa che ti porto in braccio.”
Mi agguantò senza darmi la possibilità di provare a difendermi. Si muoveva in maniera estremamente veloce, pur essendo un omone grande, grosso e muscoloso. Mi issò su una spalla, e presi a martellargli di pugni la schiena possente e il petto di calci, anche se questi sembravano fargli il solletico. “Mettimi giù, Zio Logan!” iniziai ad urlare e imprecare, strascicando le parole di tanto in tanto.
“Tranquilli, è ubriaca. La porto a casa: sono davvero suo zio”, lo sentii dare spiegazioni a chissacchì, poi uscì dal pub e si incamminò nel gelo della serata con me a rimorchio.
 
            Dovevo essermi assopita, durante il tragitto, perché quando riaprii gli occhi vidi pareti grigie e luci al neon mi ferirono la vista, poi realizzai che Logan mi stava scortando nella mia stanza,  più precisamente fino al bagno. Come mi ebbe messa giù, un conato mi raggiunse e vomitai nel lavandino. Mi pulii la bocca tossendo, cercando di guardare in tralice Logan, che non ne voleva sapere di stare fermo: nulla si voleva fermare in quella piccola stanza.
            “Ti gira la testa?”, chiese. La sua voce mi arrivava lontana.
Vomitai di nuovo, aggrappandomi mollemente al lavandino. Mi sentivo le gambe di pasta frolla e la testa spaccata in due. Di nuovo fui sollevata da terra, più dolcemente e in una posizione più comoda questa volta.
Venni adagiata sul letto e crollai nell’oblio mentre qualcuno mi toglieva le scarpe.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3
 
Lost my love, lost my life, in this garden of fear
I have seen many things, in a lifetime alone
Mother love is no more […]

What you see is not real, those who know will not tell
All is lost sold your souls to this brave new world […]

Where is salvation now
Lost my life lost my dreams, rip the bones from my flesh
Silent screams laughing here, dying to tell you the truth
You are planned and you are damned in this brave new world

Brave New World - Iron Maiden
 
- Anja –
 
Triskelion – 8/9 Febbraio 2014
 
            La mattina dopo mi svegliai fresca e riposata come non mi capitava da molto tempo a questa parte. Dopo una corroborante doccia bollente, che rilassò mente e corpo, mi vestii in modo semplice – maglione, jeans e stivali - poi trotterellai in sala mensa, dove vidi Steve con in mano una tazza di caffè. E le ciambelle. Tante ciambelle. Il mio stomaco brontolò e ne afferrai una al volo, sedendomi di fronte all’uomo.
Dopo i convenevoli di rito, gli domandai se potesse farmi avere la lista dei colleghi con cui Emilie aveva lavorato per almeno due settimane: le missioni saltuarie non erano significative per i miei fini.
 
            “Signorina Blackwood, ecco quello che mi aveva chiesto”, esordì, posando l’elenco sul tavolo accanto alla mia tazza di caffè, circa venti minuti dopo la nostra conversazione.
“Caspita, che velocità! La ringrazio molto, Capitano, ma mi chiami pure Anja”, risposi con un sorriso, per poi alzarmi e rimettere in ordine dove avevo mangiato.
“C’è un qualche posto in cui potrei tenere i colloqui? Magari con una saletta in cui far accomodare questi agenti? Ho bisogno di riservatezza, anche perché non voglio che Emilie venga a saperlo.”
“Naturalmente, Anja. Prego, da questa parte”, replicò, facendomi strada con un cenno del braccio, “Se vuole, mi chiami pure Steve.”
“Sono di nuovo in debito con lei, Steve. È veramente molto gentile da parte sua provvedere ad ogni cosa.”
“Nessun problema, davvero”, ribadì usando la mia stessa espressione del giorno prima, al che non potei trattenere un sorriso divertito. Il vecchio ragazzone si stava sciogliendo un po’, finalmente.
 
            Tra gli incontri della mattina e quelli del pomeriggio mi ci vollero quasi sei ore per spuntare ogni nome della lista –che contava circa una quindicina di nomi; l’orologio a parete segnava le sette e quarantacinque, quando congedai l’ultimo agente. Gott im Himmel! Non ne potevo più, ero davvero sfinita. Non ricordavo che potesse essere così stancante fare dei colloqui, che fosse tanto difficile ottenere risposte precise a domande parimenti specifiche, ma alla fine avevo raggiunto il mio scopo e avevo la valutazione obiettiva che Nick pretendeva.
Tornando nella mia stanza mi venne spontaneo ripensare al primo colloquio che avevo tenuto dopo mangiato, quello con il compagno di allenamenti di Emilie. Mi era sembrato, tra tutti, quello che la conoscesse meglio e che sapesse come arginare gli scatti d’ira che la coglievano spesso…
 
            - “Prego, si accomodi. Può fornirmi nome e cognome, per favore?”
“Agente Mark Green, Signora”, aveva risposto lui, prendendo posto davanti a me.
“Mi dica, agente Green, da quanto tempo lavora con l’agente Barton? La prego di essere preciso e sintetico nelle risposte e di mantenere il più stretto riserbo, su questa conversazione.”
“Sì, Signora, non mancherò di farlo. Allora… lavoro con Emil… con l’agente Barton da circa tre anni. All’inizio erano missioni saltuarie, non duravano più di qualche giorno, poi abbiamo cominciato a fare squadra fissa.”
            L’aveva chiamata per nome, prima di correggersi e riferirsi a lei col suo grado… Interessante: implicava un rapporto non solo professionale, ma personale, più intimo.
“Capisco”, lo interruppi con un cenno della mano, “E mi dica: ha notato qualche differenza lampante tra l’agente Barton di tre anni fa e quella di oggi? Mi sembra di capire che lei sia quello che la conosce meglio.”
“Beh, sì, è così. All’inizio era precisa, equilibrata, sapeva valutare i rischi, i pro e i contro di decidere per conto suo. Non avrebbe mai messo in pericolo il suo partner o la sua squadra. Ma… ma quando ha scoperto che ha sempre avuto i genitori, che credeva morti, accanto a lei, è andata fuori di testa, se mi passa l’espressione.”
            Annuii comprensiva: “Quindi secondo lei è questa la causa scatenante del suo comportamento odierno? E… non sa se qualcuno ha provato ad aiutarla a superare il trauma?”
Lui si agitò sulla sedia, poi rispose: “Sì, signora, ne sono convinto. Prima di ricevere quella notizia era tutta un’altra persona. Inoltre”, proseguì dopo aver riflettuto un attimo, “Credo che il direttore l’avesse affidata ad una persona esterna per cercare di rimetterla in carreggiata. A parte questo, non so altro.”
            Andai avanti ancora per un po’ con altre domande più generali, come per esempio il suo stile di lotta, se ne avesse imparati di diversi, come si comportava durante le sedute di addestramento e le esercitazioni.
Green fu sempre puntuale nelle risposte, perciò dopo circa mezz’ora lo congedai.
“Basta così, agente Green, la ringrazio”, gli dissi alzandomi e stringendogli la mano, “Quello che mi ha detto è abbastanza. Può mandarmi dentro il prossimo collega, quando esce, per favore?”
“Sarà fatto, Signora.” –
 
            Passai una buona parte della serata –saltando persino la cena- a mettere tutto in bell’ordine, pronto per essere consegnato a Nick l’indomani mattina. Ero talmente concentrata su ciò che stavo facendo che persi del tutto la cognizione del tempo. Mi fermai solamente quando cominciai a risentire di un fastidioso mal di collo: erano quasi le dieci e trenta. Decisi perciò che potevo concedermi una libera uscita serale, visto che non era poi così tardi.  Quella mattina avevo notato un locale poco distante dal mastodontico edificio in cui mi trovavo, un pub irlandese che avrei potuto raggiungere con una passeggiata a piedi.
            Recuperai cellulare, portafogli e documenti, li infilai in una tracolla e uscii così com’ero: jeans blu aderenti, maglione nero a pois bianchi, stivali alti di cuoio color pece e giubbotto da aviatore grigio fumo, i capelli per una volta sciolti. Non sarò stata una visione celeste, ma che cavolo, ero stanca e faceva pure freddo.
 
            La mattina seguente, nonostante avessi dormito poco la notte precedente, ero pronta e attiva a tempo di record. Alle nove e trenta bussai alla porta dell’ufficio di Nick; non attesi la sua risposta, sgusciai dentro e richiusi l’uscio alle mie spalle.
            “Primo aggiornamento, e se lavorassi per te, questo sarebbe il momento in cui chiederei un aumento. Comunque… Tutti gli agenti mi hanno dato la stessa versione dei fatti, che è concorde con quanto ho letto nel suo dossier e con quello di cui abbiamo parlato venendo qui. Detto ciò, su questa pen-drive ho registrato tutti i colloqui che ho sostenuto. Ora dimmi tu cosa vuoi farci.”
“Sono impressionato, Blackwood. Hai battuto ogni record”, commentò asciutto Nick, elargendomi però un’occhiata ammirata, quindi proseguì: “Per adesso mi limiterò a guardare le registrazioni e leggere il profilo che hai stilato, ma non la convocherò, non ancora. Oggi pomeriggio, ore due in punto, te la mando in palestra. Fatti trovare già là. Hill vi porterà qui ad allenamento finito, così mi dirai cosa ne pensi della Barton anche sotto il profilo pratico.”
“D’accordo, Nick, anche se, ad essere onesti, quello che ho visto ieri in palestra non mi è piaciuto affatto.” Incrociai le braccia al petto ed espirai rumorosamente, mentre scuotevo la testa: “È un difetto che ho riscontrato anche nel partner della Barton e in altri agenti: sono tutti troppo prevedibili. Se posso farti un appunto, Nick, voi gli date solo le basi del corpo a corpo, ma non gli insegnate né la tecnica, né diversi stili. Dopo solo cinque minuti, avevo già capito il modo di combattere di quei due.”
            “Lo terrò a mente. La Barton fungerà da esempio: plasmala come meglio credi. Se mi riterrò soddisfatto, estenderemo il tuo metodo anche agli altri. Ora va’ pure, se non c’è altro.”
“Al momento non ho niente da aggiungere. Ci vediamo oggi pomeriggio, Nick.”
 
            Trascorsi il resto della mia mattinata libera leggendo, per forse la decimilionesima volta, “Il Ritratto di Dorian Gray”. Non potevo farci nulla: quello era il mio libro preferito e mi attirava come una calamita attirava il ferro. L’avevo letto per caso quand’ero una quindicenne fissata coi libri e da allora non ero mai più riuscita a smettere. Era l’unico romanzo che avevo portato con me in ogni viaggio che avevo fatto, che fosse stato di lavoro o di piacere non aveva mai avuto importanza. A dodici anni di distanza, esercitava su di me ancora lo stesso fascino.
Dopo un po’ abbandonai la lettura e mi strofinai gli occhi stanchi, un gesto che avevo fatto anche la sera precedente al pub, il che mi rimandò l’immagine di Emilie in compagnia di un grosso tizio barbuto…
 
            Non appena avevo messo piede lì dentro, le teste di tutti si erano voltate verso di me. Se c’era una cosa che davvero odiavo con tutta me stessa, era proprio essere al centro dell’attenzione. Siccome non potevo farci nulla, oltre a pestarli tutti, ovviamente, mi diressi verso il bancone, intanto che mi toglievo la giacca.
            Quel pub non era enorme: un bancone a ferro di cavallo a destra dell’ingresso, tavoli sull’altro lato, e la parete dietro questi era un’unica vetrata. Il soffitto era di legno con le travi a vista e dietro il bancone le mensole erano colme di alcolici, mentre la birra veniva servita solo alla spina.
            Mi accomodai nell’angolo tra muro e bancone, così da avere una perfetta visuale della sala; abbastanza vicino all’ingresso notai la capigliatura rosso fuoco di Emilie, e le spalle alquanto ampie e ben messe del suo accompagnatore. Mentre ordinavo un whisky doppio –rigorosamente scozzese- sentii un certo trambusto e mi voltai, un’espressione abbastanza scazzata dipinta in faccia. Possibile che in una sera infrasettimanale ci sia così tant- oh, momento, che ridere! L’amico della rossa mi fissa molto antisgamo e lei ce l’ha a morte! Per la foga di farlo girare, Emilie si era stravaccata sul tavolo a mo’ di balena spiaggiata. Naturalmente, ogni singolo individuo nel locale li stava fissando, chi sogghignando, chi scrollando la testa.
            Nonostante sperassi di potermene stare nel mio cantuccio a bere whisky tranquilla e felice –diamine, anche una ragazza vuole i suoi momenti di calma!- la processione di tizi assolutamente anonimi verso il mio sgabello mi disse che, sì, ero l’attrazione della serata. Oh, verdammt!
Tutti quegli omuncoli con la bava alla bocca smaniavano, chi più, chi meno, per avere le mie attenzioni. Risultato? Avevo bevuto tra i sette e i dieci whisky doppi, circa metà dei quali gentilmente offerti dai miei “nuovi amici”. Ribadisco: verdammt!
            Poco dopo la fastidiosa muta di mastini sbavanti –che c’è, ragazzi, mai vista una donna in un pub a bere whisky?- mi lasciò in pace, così che fui libera di concentrarmi sul bicchiere e di curiosare qui e là per la sala, scoccando qualche occhiata curiosa verso il tavolo di Emilie. Cavoli, tra tutti e due avrebbero fatto la fortuna delle distillerie di mezza Europa, oltre al fatto che i loro fegati meritavano una medaglia d’encomio e una menzione d’onore per l’eccezionale sforzo. Passasse il tipo –il gran bel tipo- che era con lei, ma non avrei mai immaginato che Emilie avesse una tale resistenza all’alcol, men che meno che avesse un buco nero al posto dello stomaco.
            Quando sentii il mio fondoschiena protestare vivacemente per il troppo tempo trascorso su uno scomodo sgabello, decisi che era ora di tornare al Triskelion Afferrai il giubbotto e la borsa, andai a pagare le -poche- consumazioni che non mi erano state offerte e mi diressi in tutta calma verso la porta; mi fermai circa all’altezza del tavolo di Emilie per indossare la giacca, e già che c’ero scoccai un’occhiata plateale in quella direzione: sì, il compagno di bevute della mia futura pupilla era davvero un gran bell’uomo.
            Non feci tempo a fare mezzo passo che il più insistente dei tizi che avevano cercato di abbordarmi quasi incespicò e cadde, pur di arrivare prima di me alla porta e tenermela aperta. D’accordo, tre hurrà per la cavalleria, ma… sul serio?!
            Scrollai la testa e me ne andai impensierita. Sono davvero curiosa di vedere come sarà Emilie domattina… chissà quanto ci mette a smaltire questa colossale sbronza…
Ridacchiai tra me e me, ma fu per non piangere, visto in che razza di situazione m’ero cacciata.
 
            Andai a mangiare un boccone verso mezzogiorno, così da avere tutto il tempo per digerire prima del grande scontro. Non ci tenevo minimamente a vomitare l’anima per un colpo ben assestato al plesso solare. Durante il tragitto ripensai a quanto accaduto al pub, e di nuovo mi misi a ridere tra me e me.
Fortunatamente la mensa era vuota: meglio un po’ di sana solitudine, non ero in vena di chiacchiere, né di vedere gente che mi avrebbe tagliato i panni addosso senza sapere un accidente della sottoscritta.
            Ritornai in camera subito dopo aver pranzato, e non appena varcai la soglia diedi un’occhiata alla sveglia sul comodino: segnava l’una meno un quarto. Con tutta calma recuperai dal borsone un paio di pantaloni neri da ginnastica, abbastanza aderenti da non svolazzare in giro, ma non troppo stretti da impacciarmi nei movimenti. Levai la T-Shirt che avevo indossato quella mattina e mi infilai una canottiera pescata a caso dal mucchio: la sorte volle che fosse quella con la stampa della cover di “Dance of Death”, uno tra gli album che preferivo degli Iron Maiden. Il mio gemello burlone mi aveva regalato CD e canotta un paio d’anni prima, al mio – nostro - compleanno. Infine, calzai un paio di vecchie Converse sformate e mi diressi senza indugio in palestra, ripassando, durante il tragitto, le mosse di Emilie.
 
            Mi piazzai al centro dei tatami con ben trenta minuti di anticipo sull’orario previsto, perciò sfruttai quel tempo per fare qualche esercizio di yoga e un po’ di stretching.
Intanto, nella mia mente continuavo a vedere e rivedere come un film tutto il combattimento del giorno prima, focalizzandomi solo sui movimenti di Emilie. Ripetei ancora una volta a mezza voce la sequenza che avevo imparato: “Sbilanciare, fintare, attacco, attacco, finta, parata, attacco e via di seguito.”
            All’una e cinquantacinque potevo dirmi pronta e soddisfatta della strategia che avevo messo a punto: mi serviva solo come linea guida, in realtà, perché molto di ciò che facevo in un corpo a corpo lo lasciavo all’istinto. Era una questione di elasticità, sia fisica che mentale, una lezione che mi era costata sudore, sangue e fatica, ma di cui alla fine avevo colto i frutti, come il mio sensei aveva promesso.
Rifeci lo chignon, assicurandomi di stringerlo bene, e mi voltai verso la porta.
Non dovetti attendere a lungo.
 
- Emilie -
 
9 Febbraio 2014
 
            Entrai con quello che voleva essere un passo deciso in palestra, la chioma rossa che ondeggiava ovunque mentre camminavo, finendomi davanti agli occhi. Purtroppo non sapevo se fossi riuscita ad ottenere il risultato che avevo sperato: mi ero alzata tardissimo, coi postumi della sbronza della sera precedente, e il mondo che mi girava attorno. Mi fermai di colpo a pochi metri di distanza da una donna che non avevo mai visto: capelli castano scuro raccolti, occhi grigi addirittura più glaciali dei miei, con un’espressione severa e lo sguardo granitico, quasi incazzato. Se ne stava lì, a fissarmi austera, dritta come un fuso, quasi volesse sembrare più alta e minacciosa. Cos’è, non le bastava il suo metro e ottanta? Ad ogni modo, mi superava di soli cinque centimetri.
            Si avvicinò senza smettere di fissarmi negli occhi, che ridussi a due fessure mentre ricambiavo squadrandola con altrettanta attenzione. Si muoveva flessuosa e fluida, e ci misi davvero poco a intuire che quella doveva per forza essere la risorsa di cui parlava Fury. Dunque era una donna, e non doveva essere molto più grande di me: poteva avere al massimo trent’anni a giudicare dalla pelle liscia del volto e dalla tonicità dei muscoli che si intravvedevano sotto quella canottiera di un concerto. Iron Maiden ad un combattimento, sul serio?! Quasi quasi vado a mettermi quella degli AC/DC…
            Mi riscossi dalle elucubrazioni mentali su quella tizia quando aprì bocca per dire con tono piatto: “Capitano Anja Blackwood. Il tuo capo mi ha incaricato del tuo riaddestramento.”
“Ah-ha”, sbuffai con fare strafottente, “Scommetto che scapperai a gambe levate prima di sera, Capitano Anja Blackwood.”
“Credimi, ragazzina, non hai la minima idea di quanto possa essere dannatamente testarda la sottoscritta. Sono tedesca, bastardaggine e ostinazione le ho nel DNA. Ora, Anna dai Capelli Rossi, vogliamo cominciare?” Ma chi diavolo si credeva di essere?!
            Prendemmo posizione e cominciammo a girare in cerchio; buttai una rapida occhiata attorno e notai che si era radunata una piccola folla.
            Dal nulla, Anja si slanciò in avanti, così balzai indietro leggermente presa alla sprovvista, ma sufficientemente all’erta, schivandola. Purtroppo la mia testa mi voleva davvero male quel giorno, e quasi persi l’equilibrio. Decisamente non era il pomeriggio migliore per uno scontro. Strizzai gli occhi per rimettere a fuoco l’avversaria e mi ci lanciai addosso con l’intento di atterrarla. Peccato che quella si spostò all’ultimo, piantandomi pure il suo gomito appuntito in mezzo alle scapole.
            Caddi. Di faccia. Sulla rigida superficie del tatami. Imprecai da quella posizione, il naso faceva un male porco, ma almeno avevo acquistato una certa lucidità. E non poca rabbia nel vedere l’espressione soddisfatta da gatto sornione dipinta sul volto della Blackwood.
            Riprendemmo la posizione e di nuovo girammo in cerchio. Caricai il colpo per sferrarle un montante al plesso solare in modo da farle cambiare espressione, e di nuovo schivò, ma riuscii a sfiorarle il costato. Mi spinse via il braccio, ruotò spostandosi dietro di me e mi beccai un calcio dritto sui reni. Mi voltai di scatto, ma quella aveva deciso di non darmi tregua: si era già slanciata in avanti e non riuscii a parare la ginocchiata al torace, poi mi spinse malamente a terra. Di nuovo.
            “Dannata bastarda figlia di puttana!” sbottai rialzandomi, decisamente incazzata.
“Non potrei essere più d’accordo, in effetti”, replicò serafica, “Hai dato una descrizione davvero esauriente della sottoscritta.”
             Ripartii alla carica con l’intento di spaccarle almeno un osso: finsi un gancio destro per assestarle una gambata al fianco, ma la parò. Quindi provai a farle perdere l’equilibrio, mirando al ginocchio, ma quella donna era più sfuggente di una biscia e schivò; senza darmi per vinta presi a colpirla come fosse un sacco da boxe, e finalmente feci breccia nelle sue difese: un pugno alla spalla destra e uno al torace, poco sopra al diaframma, che le tolse il fiato. A quel punto aveva fatto un passo indietro, ma l’avevo caricata a testa bassa e sbattuta a terra, come avevo visto fare solo ai wrestler. Soddisfatta, la degnai dello stesso sguardo che mi aveva riservato appena pochi minuti prima. Potevo vedere il fuoco bruciare in quegli occhi grigi.
            Quando si tirò su, non le diedi il tempo di reagire: la presi per un braccio, la sbilanciai lanciandomela alle spalle e, ruotando, la rispedii a terra facendole la vecchietta. Anja però fece una capriola, sfruttando lo slancio, e si rimise in piedi prontamente, alzando la guardia e invitandomi ad attaccarla di nuovo, con sguardo di sfida.
            Colsi al volo l’occasione per fintare un colpo al fianco per poi sferrarle un destro micidiale, ma lei si abbassò di scatto, facendomi lo sgambetto con la gamba tesa, e al contempo tirandomi una testata sullo sterno. Caddi con ancora gli occhi sgranati per lo stupore, ma non era finita: la Blackwood stringeva ora le mie gambe in una morsa e mi teneva i polsi oltre la testa.
            La incenerii con uno sguardo e provai a divincolarmi con un colpo di reni, dato che non riuscivo a raggiungere la sua schiena con una pedata, ma nessuno dei tentativi che feci diede frutto. Quando tentai di rotolare per invertire le posizioni e rialzarmi, mi beccai una testata poco sopra il naso.
“Lurida troia!” urlai, sia per il dolore che per la rabbia.
            Notai subito che si era alzata – non sentivo più il suo peso - e portai le mani alla testa dolorante. Mi alzai barcollando e di nuovo la placcai come un rugbista; perdemmo entrambe l’equilibrio, e la sentii espirare tutto il fiato che aveva in corpo. Doveva aver battuto per bene la parte alta della schiena, all’incirca dove ci sono i polmoni. Quando ci rialzammo, partì lei all’attacco: una manata di taglio al collo, che schivai per un soffio; un altro colpo diretto al plesso solare, che non vidi arrivare in tempo, ma che attutii stringendo gli addominali. Quindi iniziò a tempestarmi di colpi, sembrava quasi stesse utilizzando lo Stile della Gru da come teneva e muoveva le mani e il corpo. Non potevo pararli tutti, così mi sottrassi a quella raffica con un salto indietro e una capovolta. Quest’ultima me la sarei potuta risparmiare, dato che erano apparsi dei puntini luminosi nel mio campo visivo e mi aveva mandato lo stomaco in leggero subbuglio. Tuttavia sortì l’effetto desiderato: avevo guadagnato la distanza di sicurezza.
            Partimmo insieme all’attacco, fintammo entrambe e ci colpimmo a vicenda: sentii le mie nocche impattare contro sue costole, e seppi di averle fatto discretamente male, ma anche lei mi aveva centrata con un colpo allo sterno, appena sotto la gola. Un poco più sopra e addio trachea.
            Sentii la donna tossire, soffocando un’imprecazione nella sua lingua madre. Quando mi voltai, vidi che anche lei si stava girando, asciugandosi le mani sui pantaloni scuri.
“Direi che per oggi abbiamo finito” disse tra uno sbuffo e l’altro.
“Proprio ora che iniziavo a divertirmi…” commentai, ansimante quanto lei.
Nell’esatto momento in cui stava cercando di ribattere, sicuramente con una qualche frecciatina, apparve di fianco a noi la Hill, quasi fosse spuntata da sotto il pavimento o apparsa dal nulla.
“Se non ho capito male, avete finito, giusto, Anja?” attese un cenno d’assenso da parte sua prima di continuare: “Bene, il direttore vi aspetta di sopra.”
“D’accordo, Maria. Dacci un attimo per sistemarci e arriviamo”, rispose la Blackwood.
Mi attaccai alla bottiglia dell’acqua come se ne andasse della mia vita: morivo di sete, davvero. E com’era che quelle due si chiamavano per nome?
            Una volta tornate vagamente presentabili – lividi a parte, ci eravamo tamponate quel po’ di sudore che eravamo riuscite ad asciugare - seguimmo Maria per quel maledetto dedalo di corridoi che era il Triskelion, prima verso l’ascensore e poi dritte all’ufficio di Fury.
            Mentre uscivamo dalla palestra avevo sentito diverse voci e commenti, fra cui svariati complimenti per le capacità del CapitanoAnjaBlackwood. Feci una smorfia e la osservai con la coda dell’occhio: stava davvero gongolando? Alzai gli occhi al cielo. Facesse pure a meno di vantarsi e inorgoglirsi: la sera prima, al pub con Zio Logan, mi ero presa una bella sbronza dovuta alla quantità di alcol ingerito e alla varietà di bevande che mi ero tracannata, quindi non si può certo dire che mi fossi battuta al massimo delle mie forze, capacità e concentrazione. Per questo era riuscita ad anticipare così tanto le mie mosse.
            Fu solo quando si sciolse i capelli per riavviarseli che capii di averla già vista: era la tipa del bar!
 
- Anja –
 
          Quando sciolsi lo chignon per ravviarmi i capelli e raccoglierli in una coda un po’ meno tirata, sentii Emilie trattenere un mezzo respiro: quasi certamente doveva aver realizzato che la donna al pub, la sera prima, ero proprio io. Soffocai un risolino, quando con la coda dell’occhio notai la sua espressio-ne stupita, che si accigliò poco dopo. Probabilmente, riflettei, sentire commenti lusinghieri nei miei con-fronti l’ha infastidita non poco. Oh, sarà un calvario lungo e doloroso, poco ma sicuro.
            Mi strinsi il costato con entrambe le mani, massaggiando il punto in cui Emilie mi aveva colpito: avevo sperato di non vedere più quelle goccioline di sangue che invece m’ero ritrovata sulla mano, dopo aver tossito per la botta presa. Cazzo, devo starci attenta, visto che succede ancora… E dire che credevo fosse definitivamente passato.
            Maria ci disse di aspettare fuori dall’ufficio della malefica cornacchia; la donna sgusciò dentro, sentimmo qualche borbottio sommesso e poi uscì, dicendoci che potevamo entrare.
“Prego”, feci cenno ad Emilie di entrare prima di me. La ragazza mi guardò storto, ma mi precedette senza aprire bocca. Notai che si era irrigidita di punto in bianco e questo poteva voler dire due cose: o aveva una paura dannata dell’uomo che ci fissava da dietro l’enorme scrivania, oppure era incazzata a livelli inimmaginabili. Molto presto, in ogni caso, avrei scoperto qual era l’ipotesi corretta.
             “Accomodatevi, signore”, esordì Nick, facendoci cenno di prendere posto sulle sedie davanti a lui.
Emilie sedette, mentre io preferii restare in piedi, le mani dietro la schiena, appoggiandomi appena all’angolo della scrivania.
“E adesso che c’è di nuovo?!”, sbottò Emilie seccata. Buona la seconda ipotesi, Anja…
Nick le scoccò un’occhiataccia da incenerire Smaug il drago seduta stante. Tuttavia, quando le rispose, il tono era ingannevolmente calmo: “Il capitano Blackwood ieri s’è data da fare e ha sostenuto dei colloqui con i suoi colleghi, agente Barton. Colloqui che, ho avuto modo di appurare personalmente, hanno dato un esito -”
“Desolatamente deprimente. E non poco preoccupante, aggiungerei”, conclusi io per Nick.
“E allora?”, replicò la Barton inviperita, ma Nick provvide subito a zittire quella lingua lunga.
“E allora, agente Barton, se non vuole che le cuciamo letteralmente la bocca – e sa che lo faremmo- le consiglio caldamente di starsene zitta e buona. O mi vedrò costretto a legarla alla sedia.”
          Emilie avvampò e si morse le labbra, chiaramente in imbarazzo, ma perlomeno ebbe la decenza di sigillare quella boccaccia, pur scoccandoci occhiate di fuoco.
“Nick, faresti partire i video, per favore?”. Mi feci dare il telecomando del grande schermo che scese di lì a poco; mandai avanti, cercando il colloquio con Green.
“Ora, ascolta con attenzione”, mi rivolsi a Emilie, “questo è solo il primo di una lunga serie di commenti molto poco lusinghieri.”. Feci quindi partire la parte che mi interessava.
 
- “E mi dica: ha notato qualche differenza lampante tra l’agente Barton di tre anni fa e quella di oggi? Mi sembra di capire che lei sia quello che la conosce meglio.”
“Beh, sì, è così. All’inizio era precisa, equilibrata, sapeva valutare i rischi, i pro e i contro di decidere per conto suo. Non avrebbe mai messo in pericolo il suo partner o la sua squadra. Ma… ma quando ha scoperto che ha sempre avuto i genitori, che credeva morti, accanto a lei, è andata fuori di testa, se mi passa l’espressione.” –
 
         Mentre la conversazione nel filmato procedeva, vidi stupore, rabbia e fastidio susseguirsi sul viso di Emilie: non credo si aspettasse una risposta così secca da quello che probabilmente reputava un amico, là dentro.
“E non è tutto. Un altro parere che mi ha dato da pensare è stato quello dell’agente O’Neill”. A sentire quel nome, la ragazza borbottò una serie di insulti diretti alla malcapitata collega. Di nuovo, cercai e feci partire la parte che mi interessava.
 
- “Mi, dica, agente O’Neill, ha riscontrato cambiamenti significativi nel comportamento dell’agente Barton?”
“Ci può giurare! È ammattita tutta d’un colpo. Ha preso a comportarsi come se fosse superiore alle regole, ha messo in pericolo chiunque lavorasse con lei. Per colpa sua mi hanno sparato! Il proiettile mi ha quasi reciso un’arteria…”
“Perché siete arrivate a questo punto?”
“Perché quell’idiota ha ben pensato di caricare un gruppo di mercenari, armati fino ai denti, come se fosse un ariete. E io, per coprirla ed evitare di morire in due, c’ho quasi rimesso le penne.” –
 
      “Tutti gli altri colloqui hanno dato lo stesso esito. Qualcosa da obiettare, agente Barton?” domandò Nick tranquillo, mentre io spegnevo lo schermo e posavo il telecomando dietro di me.
“Ho lavorato con un branco di polli cagasotto”, fu il quanto mai pittoresco e asciutto commento della ragazza, che proseguì imperterrita: “Senza contare che Sheila O’Neill è una bugiarda patentata.”
       A questo punto, intervenni io: “Il braccio al collo e la scapola tenuta insieme da due placche di titanio sembravano alquanto realistici, a detta dei vostri medici. In più, ho passato al vaglio i rapporti di ogni singola missione che hai effettuato negli ultimi due anni… Sei una mina vagante e un pericolo per chiunque, te inclusa. Manchi di buon senso, non hai il benché minimo rispetto per l’autorità, non c’è alcuna considerazione nei confronti dei tuoi colleghi, né hai un minimo di amor proprio e umiltà. Persino il Capitano Rogers è d’accordo con loro. Come dicevo prima, un panorama davvero desolante.”, conclusi asciutta.
        Avvampò di nuovo, ma questa volta era rabbia al calor bianco quella che dardeggiava nei suoi occhi. Oh, sì, tolleranza zero per le critiche. Di bene in meglio, direi.
Nick tuttavia intervenne prima che la Barton potesse replicare in qualunque modo: “Non provare a fiatare finchè questa conversazione non sarà conclusa, agente Barton. Blackwood, per quanto riguarda il profilo pratico, qual è la tua opinione?”. Nonostante la domanda fosse rivolta a me, era Emilie quella che il suo occhio buono fissava con fare inquisitorio, una muta sfida a contrastare apertamente la sua autorità. Emilie aprì la bocca, ma la richiuse di scatto quasi subito.
     “L’aspetto pratico è un po’ il tallone d’Achille di tutti i vostri agenti, ma tu”, dissi con enfasi, rivolgendomi direttamente a lei, “sei un caso disperato. In un manuale dovrebbero mettere il modo in cui combatti e scriverci sotto  ‘Cosa non fare in uno scontro corpo a corpo.’ Sei la prevedibilità fatta perso-na, pur avendo una buona tecnica di base, questo te lo riconosco. Ma per il resto…”
“Ma sentila, la gran donna!”, m’interruppe la Barton, incazzata nera, “Chi cazzo sei per dirmi come sono e come combatto? Eh?! Pretendi di sapere tutto di me e te la tiri come se fossi l’unica competente qui dentro! Mi fai schifo, brutta troia maledetta!”
      Mentre sbraitava come un’ossessa mi appoggiai più comodamente alla scrivania e scrollai lieve-mente la testa alla volta di Nick, invitandolo a non intervenire e a lasciarla fare. Incrociai le braccia al petto e inarcai un sopracciglio, aspettando che le passassero i cinque minuti.
Una volta che tacque, mi limitai a commentare: “Hai finito? E, suggerimento per gli insulti prossimi fu-turi alla sottoscritta: sii più creativa, me ne hanno detti di peggiori all’Interpol. Puoi fare di meglio, ne sono certa.”. Vedere l’espressione da pesce rosso boccheggiante stampata sul viso di Emilie fu davvero divertente. Presumibilmente si aspettava che incominciassi ad insultarla a mia volta, ma ancora non aveva capito che con me cose di questo genere non funzionavano. Ci voleva ben altro per farmi arrabbiare sul serio. Nick mi scoccò un’occhiata di approvazione.
“Sarebbe possibile avere un confronto tra il combattimento di ieri di Emilie con il suo collega e quello di oggi?”, domandai alla malefica cornacchia, che annuì e borbottò una serie di ordini al proprio computer. Poco dopo, i due filmati partirono in contemporanea.
     “Come potete notare”, commentai mentre il video procedeva, “C’è sempre lo stesso schema di base, nei combattimenti dell’agente Barton.”
“Vorresti spiegarti meglio, Blackwood?”
“Naturalmente”, replicai con un sorriso alla domanda di Nick. “Parte sempre con una mossa atta a sbilanciare l’avversario -”
“Stronzate!”, m’interruppe Emilie seccata, “Sarà capitato forse un paio di volte.”
“Sì, e il resto mancia”, commentai sarcastica, quindi proseguii con la mia analisi. Mi stavo divertendo, davvero. Beh, d’accordo, quasi. “Dopo che ha sbilanciato l’avversario, eccola che parte con una finta e un attacco. La prima è mediocre, il secondo punta troppo sulla forza e poco sulla precisione. Il secondo attacco spesso è speculare al primo, assolutamente prevedibile.”
Emilie alzò gli occhi al cielo e borbottò qualcosa di offensivo al mio indirizzo, al che Nick la zittì con l’ennesima occhiataccia.
“Lascia che parli, Nick”, gli dissi invece io.
“Se non erro, la mia finta mediocre e i miei attacchi prevedibili e poco precisi ti hanno mandato al tappeto, no?”. Gongolò soddisfatta, ma ancora non aveva capito con chi aveva a che fare. Le risposi per le ri-me: “Ah-ha, e quante volte, invece, io ho mandato te al tappeto?”. Emilie avvampò e chiuse la bocca di scatto.
“Bene, riprendendo da dove eravamo”, proseguii imperterrita, “Tenta di nuovo una finta, spesso dallo stesso lato della prima, para l’attacco, che la coglie regolarmente con la guardia abbassata, e attacca di nuovo. E poi si riparte con la stessa solfa. Nemmeno ci provi a impostare una seppur minima parvenza di tattica, né lo fanno i tuoi colleghi. Un disastro su tutta la linea.”, conclusi lapidaria.
Le proteste, alquanto colorite, di Emilie, non tardarono a fioccare. Risi tra me e me, alcuni insulti era-no… piuttosto pittoreschi.
      Quando l’attacco isterico passò, Nick, placido e serafico come un iceberg alla deriva, riprese la parola: “Allora, cosa proponi di fare, Anja?”
“Per ora, Nick, vedremo di correggere il tiro sul fronte combattimento. Il che significa, fare tabula rasa di quello che sai e ricominciare da zero, Emilie. Imparerai le tecniche che io ti indicherò e non tollererò insubordinazioni o atteggiamenti strafottenti di sorta, come quello di poco fa. Chiaro?”
Piantai i miei occhi nei suoi, tanto per essere certa che avesse ben compreso l’antifona; mentalmente, ridacchiai per la scelta di Nick di chiamarmi per nome, un invito implicito a fare lo stesso. Presumevo l’avesse fatto per sottolineare il fatto che, se lui si fidava di me e io avevo il suo rispetto, la sua sottoposta avrebbe dovuto agire di conseguenza. Senza contare che questo aveva messo me e la cornacchia sullo stesso piano.
     “Per cui, Nick”, proseguii poco dopo, “Direi che le mie prime impressioni sono state tutte confermate -purtroppo. Come già avevo preventivato, ci vorrà molto lavoro e il riaddestramento avrà luogo in separata sede.”
“Barton, qualcosa da dire?”
“Sì, Colonnello”, ribattè lei, calcando caustica sul grado di Fury, “La sue risorsa dice un mucchio di stronzate ed è evidente che tutti i miei ex colleghi si sono messi d’accordo per dare le stesse risposte alle sue domande. Tutta questa storia è una pagliacciata.”, concluse soddisfatta, rivolgendomi apertamente un ghigno di trionfo. Smontare le sue brillanti deduzioni mi richiese davvero poco sforzo.
“Punto numero uno, è difficile che sbagli a inquadrare qualcuno, visto che era il mio lavoro. Secondo, nessuno dei tuoi colleghi sapeva il motivo dei colloqui, né lo hanno detto a quelli che ho sentito dopo. Terzo,”, e qui mi concessi un sorriso diabolico, “Dimentichi che ho letto tutti i rapporti che tu hai scritto di tuo pugno, e che mi hanno dato gran parte delle informazioni su di te. C’è altro che devo chiarire?”. Se Emilie ne avesse avuta la possibilità, mi avrebbe ucciso in quel momento. Su due piedi. A mani nude.
      “Ho sentito abbastanza”, esordì Nick, alzandosi dalla poltrona e girando attorno alla scrivania, piazzandosi quindi tra noi e la porta. “Agente Barton, come da accordi il capitano Blackwood è incaricata del tuo riaddestramento. Risponderai solo ed esclusivamente a lei –o a me, se lo riterrà opportuno. Verrai distaccata dal resto degli agenti e lavorerete voi due da sole, alle condizioni del capitano. Sei so-spesa da ogni missione finchè Blackwood non mi dirà il contrario. Tutto chiaro?”
“Non avrei saputo essere più precisa di così, Nick, ma ti ricordo l’unica condizione tassativamente da rispettare: niente interferenze, né da te, né dagli altri agenti, né dai suoi parenti. Comando io e quello che dico è legge.”
“Direttore, non può davvero -”, fece per protestare la Barton, ma Nick la zittì.
“Questo è quanto, agente Barton. Da adesso, il suo superiore è il capitano Blackwood e mi aspetto che faccia esattamente quello che le dirà quando glielo dirà. Potete andare.”
      Mi congedai da Nick con un cenno del capo e con un secco scatto del polso invitai la Barton a precedermi. Non appena fummo fuori dall’ufficio e la porta fu chiusa, mi piazzai davanti a lei.
“Domani mattina, alle sei e quindici in punto, ti voglio nella stessa palestra di oggi. Cominceremo col vedere quali sono le tue reali capacità. Seconda cosa, niente più alcolici dopo le ventuno finchè non avremo finito, e se ti presenterai di nuovo coi postumi di una sbronza, parola mia, userò la tua pelle per farci un tappeto.” Mi guardò basita, con gli occhi fissi per lo stupore.
“Come hai capito che stavo smaltendo la sbronza?”, domandò guardinga. Sogghignai.
“Me lo hai appena confermato. E quand’anche non l’avessi così stupidamente ammesso per tuo conto, alcuni tuoi movimenti erano scoordinati, e dopo capriole e giravolte eri visibilmente disorientata. Risse di ubriachi ne ho viste abbastanza da accorgermi quando uno è sbronzo.”, commentai tranquilla.
“Hai il resto della giornata per riprenderti, ma guai a te se non sarai puntuale domani mattina. Se hai bisogno di me, chiedi al Capitano Rogers. Lui sa dove trovarmi.”
       Alzai i tacchi e me ne andai tranquilla, ben decisa a farmi una bella doccia e magari dormire un po’ prima di cena. Per tutto il tragitto, tuttavia, continuai a sentire gli occhi di Emilie fissi su di me.

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