Vacanze tedesche

di theGan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il tedesco in cortile ***
Capitolo 2: *** Riflessioni mattutine ***



Capitolo 1
*** Il tedesco in cortile ***


Se aveste detto a Karl Heinz Schneider che un giorno lo strano ragazzo giapponese più bravo a fare a botte che a giocare a calcio sarebbe diventato parte fondamentale della sua felicità, probabilmente vi avrebbe creduto perché si sa: la vita è piena di misteri e possibilità.
Se però aveste aggiunto una descrizione dettagliata sui livelli di rincretinimento che l'amore sarebbe stato in grado di fargli raggiungere a quel punto, e solo a quel punto, vi avrebbe sbattuto la porta in faccia perché sarebbe stato comunque troppo signore per esprimere quello che realmente pensava di voi. Ma i fatti, ahimè, sono fatti e uno li può accettare o rimanerci strozzato. Che era un po' la sensazione che Karl Heinz Schneider stava provando in questo momento alla vista di Genzo Wakabayashi nudo. Ok, non nudo NUDO. Quasi. I boxer da che mondo è mondo non contano!
E tanti saluti al fatto di essere giapponese nel cuore e tutto quelle altre stronzate che sparava Wakabayashi o i giornalisti tedeschi. Avrebbe dovuto essere illegale per le persone alte un metro e novanta girare per casa senza maglietta.
“ .... e quindi gli ho detto di riprovare l'anno prossimo”
Ah cavolo stava parlando. Accidenti e ora lo fissava pure, Karl non aveva la più pallida idea di chi dovesse aspettare cosa ma anni da capitano di un gruppo di adolescenti pieni di ormoni prima e calciatori palestrati poi l'avevano preparato a affrontare questa e peggiori emergenze. Così rispose.
“Uh uh…”
Genzo continuava a fissarlo. Mannaggia.
“Sicuro che ti senti bene oggi?”
Maledizione voleva una risposta. Quindi, sì, si era perso un qualche tipo di discorso a cui era implicito Genzo volesse che prestasse attenzione. Karl lo guardò fisso negli occhi, di sicuro c’era un modo per uscirne senza fare la figura del pirla. La soluzione pareva a portata di mano, almeno fino a quando lo sguardo non gli andò a scivolare (per caso, è ovvio) sul torace di Wakabayashi dove i pettorali andavano su e giù al ritmo leggero del suo respiro. Ok, era quasi indecente. Karl contrasse gli occhi in una fessura sottile, ciao ciao concentrazione. Per sua fortuna Genzo lo interpretò come un momento di raccoglimento personale e fu il primo a sciogliere il ghiaccio.
“Forse sono stato un po’ brusco…”
Lo scampato pericolo e il conseguente sollievo uscirono dalle labbra di Karl con un “pf” sonoro che per sua sfortuna fu a sua volta equivocato in un moto di scherno.
“Perché, tu che avresti fatto?”
Sheisse!
“Probabilmente la stessa cosa..”
Lungo sospiro con espressione concentrata e assorta con aggiunta di sguardo che va a perdersi fuori dalla finestra verso l'infinito. A scuola era la sua mossa segreta antisgamo, brevettata e raffinata negli anni dall'uso con il mister della squadra pulcini dell'Amburgo. Imbattibile.
“Non hai sentito una mazza non è vero?!”
 Oh accidenti. La faccia di Genzo era una smorfia fatta di una risata trattenuta e sopracciglia sollevate. Adorabile.
“E' dalle medie che fai quella faccia lì quando non hai capito un cazzo”
 No, non adorabile. Scopabile. E date le ragioni di cui sopra: che l'amore rende ciechi, la libido poi non ne parliamo, Karl Heinz Schneider lo disse. A voce alta.
“Sei dannatamente scopabile”
E poi prese in prestito una delle più quotate strategie militari: dietro front e passo di corsa.
*
Kojiro Hyuga era soddisfatto di sé. Dopo un anno passato al Reggina, a scontrarsi sul campo con Shingo (e poi a seguirlo pedestremente per locali come suo personale guru della cucina italiana) e a lavorare sul suo problema di forma fisica, finalmente era pronto. Cioè era un vero juventino. Era cioè entrato, dopo un milione di problemi, esitazioni e dubbi nella crema del panorama calcistico europeo e era lì per restarci, tante grazie. La pausa invernale del campionato l’aveva trovato tra le montagne del Tirolo, che non erano “esattamente” vicinissime alla germanissima Monaco, ma Kojiro era bravo trovare scuse, specialmente con se stesso, e aveva deciso di coprire nel più breve tempo possibile quella “risibile” distanza.
Aveva un problema. Era un fatto. Aveva provato a ignorarlo, sperando che, in qualche modo, se ne andasse via da sé, ma era stato come cercare di non sentire quel sassolino che ti si infila nella scarpa: non fa proprio male, ma c’è. Rivolgersi a Tsubasa era fuori discussione. Quel ragazzo non aveva niente di umano. Cioè, un caro amico, certo, ma con la fastidiosa abitudine di vedere solo il lato migliore di ogni situazione, mentre il tarlo che gli aveva fatto cambiare due treni e un taxi, era proprio quella certa indulgenza al pessimismo estremo condivisa da circa il 90% delle persone sulla Terra (il restante 10% erano bambini, Tsubasa e gli scemi).
Wakabayashi non aveva parlato molto del suo cambio di residenza, ma quell’estate gli aveva spedito una cartolina col suo nuovo indirizzo (Kojiro era certo che simili missive fossero arrivate anche tra le mani di almeno Tsubasa, Morisaki, Taro e metà della nazionale giapponese). Non esattamente un invito a presentarsi a sorpresa davanti casa sua, ma vabbè. Kojiro lo aveva fatto abbastanza volte con Wakashimazu per non farsene più esattamente un problema.
La prima cosa (che era anche quella più evidente a dirla tutta) che saltò agli occhi di Kojiro, una volta arrivato, era che c'era un tedesco nudo in cortile. Ok, non nudo, NUDO. In mutande. Vabbè era lo stesso, nessuno, neanche un tedesco esce di casa in mutande a dicembre quando ci sono venti centimetri di neve per terra. Quello doveva essere un povero sfigato. Fiero della sua diagnosi, Kojiro inchiodò di colpo, sul volto un'espressione di puro orrore. Le ragioni erano due: la prima, il tedesco lo stava fissando, la seconda, era che (oh santa pupazzola con la maremma maiala) il tedesco era Karl Heinz Schneider.
*
Genzo si aggirava per casa come un orso in gabbia. Che diavolo era saltato in testa a Schneider di capottarsi fuori a quel modo, temeva forse che se lo mangiasse? Per una frase del genere, poi... Una cosa da niente, del tutto trascurabile. Wakabayashi si ricordava sparate decisamente peggiori uscite ai raduni della nazionale da gente irreprensibile e parzialmente sobria con l’unica colpa di aver dormito poco e male. Leggendarie erano le uscite di Tsubasa quando aveva uno o più bicchieri di sakè in corpo, lui e Misaki ne avevano fatto una raccolta personale in aggiornamento costante.
Ma Karl Heinz gestiva l’imbarazzo da schifo. Lo aveva imparato nel travagliato decorso di quell’amicizia decennale che l’aveva portato a raggiungere un’unica conclusione: Karl era un pirla. Tolta la maschera da capitano imperscrutabile e avuta indietro la propria famiglia, Schneider era rimasto soltanto Karl. Un tipo un po’ scostante, ma anche generoso e decisamente confusionario. Un tipo che non sa prendere un no come risposta e ti tartassa fino a quando non si fa come vuole lui e che però ti viene dietro fino in Cina per fare il tifo per te. E biondo. Quello rimaneva un dettaglio non secondario.
Ok, sì, Schneider era molto biondo e diversamente straordinario, ma a parte ciò, dove diavolo si era andato a cacciare? Era uscito dalla stanza sbattendo la porta. Il che di solito prevedeva a due minuti di distanza una disperata serie di botte sulla medesima (tum tum Wakabayashi tum tum) perché era rimasto chiuso fuori. Invece adesso era passato un quarto d’ora buono e di Schneider niente. Genzo aveva fatto in tempo a finire di vestirsi e elaborare una ventina di scenari apocalittici, 5 dei quali prevedevano la morte dolorosa e agonizzante del biondo. Una era il rapimento alieno. Mannaggia a lui.
Un rumore di voci lo colpì all'improvviso, le parole erano un ammasso incomprensibile di consonanti strascicate. Genzo di lingue ne sapeva tre, ma non era chissà che autorità in fatto di parlate straniere. Dall'alto della sua ignoranza avrebbe etichettato quella caciara come uno sconosciuto dialetto arabo e non ci avrebbe pensato più, se non che una di quelle voci era molto familiare. Estremamente familiare. Ok, era Karl. Il che aveva anche senso visto che il rumore proveniva dal cortile della palazzina. Che poi aveva pure nevicato quella notte ma si può sapere quanto uno poteva essere cretino a uscire in mutande? Va bene gli stereotipi sui biondi ma a tutto c'era un limite. Con passo marziale perfezionato da anni di tacchetti ai piedi e cretini di cui fare marmellata in campo, Genzo si diresse verso la camera dai più definita come "la landa di ogni orrore" perché Karl, aveva scoperto a sue speso dopo 6 mesi di coinquilinato, era schifosamente disordinato. O meglio: aveva un senso dell'ordine suo personale, probabilmente condiviso da una qualche intelligenza aliena. Genzo dribblò la pila di scatole del trasloco ancora intatta e il ventilatore a piantana (che accidenti ci faceva ancora fuori che avevano il riscaldamento a palla?) prelevò i primi indumenti capaci di sopravvivere alla prova naso e seguì le voci. Sì era Karl. Indubbiamente. Cosa stesse dicendo e con chi non era chiaro, ma tant'è. Sicuramente non un giornalista o un fan, a Karl veniva una voce di un tono più bassa,  professionale (e sexy) quando si trattava di loro. Forse la vicina.. quella col cocker pazzo che abbaiava a ogni ora del giorno e della notte. Effettivamente quella donna aveva una voce piuttosto mascolina e ciò spiegava anche quella certa familiarità che Genzo provava di istinto... Bhò ma in fondo che gli importava. Con piglio deciso spalancò la finestra e scaraventò i vestiti direttamente nel cortile. Che se li andasse a recuperare il pistola.
Kojiro sentì solo una voce, ebbe appena il tempo di pensare "Oh meno male Wakabay.." che gli piombò un paio di pantaloni in testa.
 
*
 
Kojiro Hyuga si sentiva protagonista di qualche assurdo scherzo cosmico. Poteva accettare di beccare il coinquilino del tuo “non-precisamente-amico” in mutande nella neve e andava bene pure parlarci per venti minuti buoni nella suddetta neve (anche perché si trattava sempre di Karl Heinz Schneider, migliore giocatore del campionato tedesco  per tre anni consecutivi… ci stava). Però beccarsi le cose in testa proprio no! Soprattutto perché tra una chiacchiera in inglese improbabile e l’altra, nella testa di Kojiro aveva iniziato a insinuarsi lo strisciante sospetto di essersi infilato nel bel mezzo di una lite di coppia, tipo quelle che capitavano tra Wakashimazu e il suo pettine.
Il buon senso suggeriva di tirarsi indietro, salutare, girare sui propri tacchi e tornare di filato da dove era venuto, dimenticando per sempre l’accaduto in un disperato tentativo di autoconservazione mentale. Però ormai si era messo in mezzo, anzi di testa, ragion per cui tirarsi indietro era, a questo punto, da vigliacchi. Nel frattempo Schneider aveva arpionato i pantaloni biascicando un “Shorry” che non si capiva fosse più per Wakabayashi, per i pantaloni non troppo puliti o per avergli staccato una ciocca di capelli nel tentativo di levarglieli di dosso.
“What the hell iz happenino”
Perchè se Kojiro era mai stato certo di qualche cosa, era che si meritava una spiegazione. Il volto di Schneider era contratto, quasi che così potesse strizzare meglio dal proprio cervello quelle poche parole di inglese in grado di riassumere al meglio le circostanze attuali.
“FUCK!”
Disse alla fine quasi urlando e quell’unica parola assumeva i contorni di un “Eureka”. Kojiro aggrottò entrambe le sopracciglia, lui non c’era arrivato. Shneider non tardò con i chiarimenti.
“Ich said Genzo wanna fuck”
Il volto di Kojiro perse ogni traccia rimasta di colore.
 
*
 
L'urlo albino proveniente dal piano inferiore portò Genzo a raggiungere due conclusioni: la prima, aveva beccato qualche disgraziato in testa, la seconda, sfortunatamente quel disgraziato non era Karl. Che poi chissà che male: un paio di pantaloni da neanche dieci metri di altezza... insomma, manco avevano una cintura o la cerniera, erano proprio dei normalissimi pantaloni da ginnastica, quante scene. Quindi meditando su chi potesse essere mai tanto scamorza da urlare come un gatto messo a mollo nell'acquaragia, Genzo, infine, riconobbe la voce. Kojiro Hyuga.
Che cazzo ci faceva Kojiro Hyuga in Germania? Nah non era possibile... Per puro scrupolo Genzo si affacciò alla finestra. Oh cazzo, sì. Ma che cazzo ci faceva Kojiro Hyuga in Germania?! E porca puttana gli aveva lanciato i pantaloni (quelli viola con il filo verde acido che aveva comprato Maria probabilmente per fargli dispetto) di Karl in testa. OK. Nessun problema. Ora erano amici, giusto? Giusto? E cos'erano mai dei capi disparati di abbigliamento lanciati in testa a un amico. Karl, dopotutto, con lui lo faceva sempre. Deliberato sul punto che la situazione era, in fin dei conti, perfettamente normale e che, anzi, trascendeva nel goliardico, Genzo mise fuori la testa per salutare. Lo investì la voce di Karl. CAZZO STAVA A DIRE STO PIRLA AL NEMICO?!
*
Kojiro stava sudando le proverbiali sette magliette nel vano tentativo di cavarsi da quell'impaccio in cui si era, più o meno volontariamente, ficcato. La sua giornata però subì un notevole miglioramento quando si accorse della faccia di Genzo alla finestra. E, badate, non lo stesso sollievo di quando i pantaloni gli erano piovuti in testa. No, adesso la faccia di Genzo esprimeva tutto un caleidoscopio di emozioni: rabbia (ok ma lui era sempre con il grugno incazzato manco gli avessero rubato la merenda), sconcerto (che però ci stava visto che c’era un tedesco seminudo nel suo cortile) e poi un'altra cosa indefinibile che Kojiro, dopo una breve esitazione, non ebbe altra scelta che catalogare come paura. Da che ricordasse, Kojiro non aveva mai visto Genzo spaventato. Nemmeno quando gli faceva le entrate a tacchetti tesi o lo mandava contro il palo di testa (ah bei tempi in cui il calcio era una cosa seria, senza un arbitro che fischiava ogni tre per due!). Eppure sì quella non poteva essere altro che paura. Ma di cosa esattamente?
Il pensiero non fece neanche in tempo a solidificarsi tra un neurone e l’altro, perché in quel momento Wakabayashi contrasse la mascella e proruppe nel più bel "KARL HEINZ SCHNEIDER!!!" della sua carriera. Roba da far venire i sorci verdi a mister Kira. A Kojiro si drizzarono tutti i peli del collo e, nonostante avesse abbastanza giudizio da realizzare di non essere lui l’oggetto di tanta ira, ebbe l’irrazionale impulso di mettersi al riparo. Fu quindi con una certa trepidazione mista a un sano terrore che si girò a guardare la reazione di Schneider.
Karl Heinz, le mani infilate nelle tasche della giacca caduta in venti centimetri di neve marrone, alzò la testa verso la finestra e con una noncuranza troppo fuori luogo si esibì nel più rilassato.
 "Ja?"
*
E lo guardava pure come se niente fosse ‘sto fesso. Ma che cazzo. La faccia di Karl non tradiva alcuna emozione. Il cervello di Genzo assestò un paio di calci al suo buonsenso, facendo evaporare parte di quella nebulosa furia cieca che gli si era accumulata tra un orecchio e l'altro (dicesi imbarazzo). Ok, era calmo. Perchè era così calmo? Karl lo guardava interrogativo, un sopracciglio inclinato. Ok, era calmo, perché Schneider era calmo. Ciò significava una sola cosa: forse aveva capito male lui. Anzi no, magari aveva capito pure bene, ma Karl, bravo calciatore e essere umano alquanto discreto, non sapeva spiccicare una parola in inglese manco sotto tortura, quindi forse, ma solo forse... E poi tra Schneider e le sue orecchie ci stavano un piano, una finestra e magari pure il vento. Karl continuava a fissarlo. No, no. Aveva capito male lui. Problema risolto. Perfetto. Alla sua giornata non serviva altro che un equivoco con Kojiro Hyuga per cominciare al meglio. Genzo esalò un lungo respiro, colorando l'aria attorno di un bianco appannato. "Fa freddo vieni dentro e scusati con Hyuga per averlo fatto aspettare".
Ovviamente riferito in tedesco, perché va bene l'educazione ma scusarli lui, personalmente, con Hyuga, ah no. Questo mai.
*
Karl scrollò le spalle e si voltò verso di lui, gli occhi chiusi in una fessura sottile che non lasciava trapelare alcun sentimento. Per un folle momento, Kojiro fu certo che Wakabayashi avesse comunicato al crucco una qualche frase in codice dal significato inequivocabile: non lasciare testimoni. Ma fu giusto un attimo, il tempo di ricordare che: 1) Genzo non avrebbe mai delegato a altri, ma sarebbe sceso lui stesso a terminare il lavoro, 2) quella era più o meno la solita faccia di Karl Heinz Schenider, specialmente se stava cercando di dire qualcosa in una lingua al di fuori del tedesco (e in questo aveva tutta la sua simpatia personale, perché era la stessa che faceva lui ogni volta che provava a spiccicare qualcosa in italiano). Kojiro sorrise, colto da uno strano sentimento di indulgenza e da quella solidarietà molto virile, virilissima che può provare solo un calciatore nei confronti di un altro.
Il tedesco sembrò sul punto di dire qualcosa, poi scosse la testa e se ne uscì con un generico “Up!” a cui accompagnò un gesto utile a indicare la casa dietro di loro. Non ci volle molto a Kojiro per intuire che , sì, finalmente: stava iniziando a intendersi con Schneider. Con un vigoroso cenno di assenso lo seguì verso il portone e poi su per le scale fino alla soglia di quello che doveva essere il loro appartamento. Quando entrarono (Karl sciabattando con noncuranza e Kojiro solo dopo essersi rigorosamente tolto le scarpe) la prima cosa che lo colpì fu l’odore avvolgente del thè provenire dalla cucina.
*
Schneider invece si inchiodò di botto in mezzo al corridoio con un senso orribile di disagio: come mai era tutto così pulito e ordinato? Perché c’era un odore così invitante dalla cucina (vabbè che il giorno prima aveva preparato dei biscotti, ma era naturale che il thè avesse un aroma così intenso?) Ma soprattutto, dove accidenti erano finite le sue dodici paia di scarpe spaiate? La conclusione poteva essere una sola: avevano sbagliato casa.  In quel momento la testa di Wakabayashi spuntò dalla porta della cucina.
“Ehilà Kojiro, cazzo ci fai in Germania?”
Il saluto ovviamente era in giapponese e a quello seguì uno scambio fitto fitto di battute, che forse erano più convenevoli che altro, di cui Karl non capì una cippa anche perché in quel momento il suo cervello era distratto da un pensiero decisamente più interessante. Come cazzo aveva fatto Wakabayashi a sistemare la casa in tre minuti?
Ma la mente vulcanica del Kaiser di Germania non poteva lasciarsi distrarre a lungo da una simile questione (del tutto risolvibile, tra l’altro, dall’assioma “perché Wakabayashi è Wakabayashi”) e ben presto una domanda molto più centrale prese a farsi spazio nella sua mente: perché accidenti si era preso la briga di farlo?
In quel preciso momento Kojiro scoppiò a ridere per qualche cosa detto da Genzo e subito si congelò, trafitto da parte a parte da uno sguardo di puro odio dall’unico, evidente, significato: “giù le mani dal mio orsetto”.
*
“Karl... le scarpe”
Genzo avrebbe tanto voluto dire le ciabatte, ma onestamente quelle "cose" a forma di coniglio e ora pure bagnate che stavano ai piedi dell'uomo che era stato definito il mese scorso "il calciatore più sexy di Germania" (alla facciaccia tua Shuster) gli davano una certa fitta al cuore. Specialmente quando allargavano sul pavimento chiazze d'acqua nera. Kojiro intanto lo guardava, anzi guardava Karl con una certa apprensione. Con un sospiro Genzo tornò dal suo ospite.
 “Ti recupero un paio di ciabatte”
*
Kojiro avrebbe tanto voluto dire “ti prego non lasciarmi solo con questo qui”. Poiché, tuttavia, aveva ancora il suo orgoglio e tutto il resto, si limitò a una espressione terrorizzata e a lasciarlo sottointeso.
*
Genzo si bloccò all’istante. Perché accidenti di un diavolo Hyuga aveva messo su quella faccia da pirla? Se avesse avuto una macchina fotografica e la voglia di dare fastidio c’era di che ricattarlo a vita. Ok, forse non c’era tanto da ridere, Hyuga sembrava… spaventato? In effetti sentiva anche lui una sorta di brivido, no meglio, una specie di onda di negatività ammorbare l’aria. Seguendola a ritroso trovò la faccia di Karl Heinz Schneider.
“Karl!”
Il tedesco ebbe un leggero sussulto, praticamente invisibile a un occhio meno allenato. Il sentimento di oppressione sparì di colpo. Chissà a cosa diavolo stava pensando.
“Karl…” ripetè Genzo, questa volta più dolcemente “Perché non stai fermo che ti vado a prendere un paio di ciabatte e intanto non cerchi di capire perché Hyuga è qui e quanto si trattiene?”.
Si era rivolto a lui in tedesco e infatti Kojiro si limitò a arricciare la punta del naso al suono del suo nome. Bene, ora Genzo poteva lasciare quei due pirla da soli per cinque minuti senza temere di trovarne uno morto al suo ritorno. Per sicurezza, però, si sbrigò a raggiungere la sfortunata cabina armadio dove tutto, nel tentativo di salvare le apparenze e la sua sanità mentale, era stato stipato a una velocità supersonica. Curioso, pensò intanto. Davvero curioso il legame che sembrava sussistere tra l’aura omicida di Karl e la presenza di un altro uomo in sala.
*
Lasciati soli i due migliori bomber del campionato europeo restarono a fissarsi le punte dei piedi senza riuscire a spiccicare parola. Alla fine, proprio quando l’inconfondibile sagoma di Wakabayashi appariva dal corridoio, Karl si voltò verso Kojiro e disse in un inglese, per una volta, quasi impeccabile.
“When you go away”
La cortesia, si sa, non è tipicamente tedesca.
*
Fortunatamente per Schneider nè Wakabayashi nè Hyuga erano quegli sfolgoranti esempi di educazione a loro volta. Così Kojiro si limitò a scrollare le spalle e a rispondere un secco:
“A cuppore of a days”
Che poteva dire "ho ammazzato io il cappone" o anche "a couple of days". Miracolosamente il messaggio passò. Forse merito di quel feeling misterioso che esiste tra persone il cui obbiettivo personale è o è stato tirare pallonate così assurde da costringere il portiere a scansarsi (invece che di fare come ogni altra persona ragionevole e mirare ai posti in cui il portiere al momento non è).
“Piglia”
Le ciabatte lanciate da Wakabayashi erano, per sua fortuna, prive di buffi animaletti pelosi, ma quando provò a indossarle, Kojiro le trovò due barche in cui navigare. Genzo intuì il problema e scrollò il capo.
“Sono mie... quelle che vanno bene a Karl non le vorresti...”
Kojiro gli credette sulla parola.
*
Non ci fu bisogno di tanti convenevoli per farli sedere attorno allo stretto tavolo della cucina per un the e biscotti. L’unico inconveniente a quell’idillico quadretto era che, ovviamente, Hyuga non sapeva che quella delicata pasticceria semibruciata era opera di Karl e Genzo non sembrava intenzionato a chiarire la cosa. O forse l’aveva fatto e in quel caso l’altro giapponese era pure un bell’esempio di cortesia nipponica a non fare complimenti prima di sbafarseli a quattro palmenti.
L’oggetto del personale disappunto di Schneider intanto era completamente preso a intrattenere Wakabayashi in una sorta di monologo sulla follia del calciomercato italiano. Discussione in cui Karl risultava evidentemente tagliato fuori dall’impossibilità del portiere di tradurre per lui ogni cosa. Ma in fondo non era importante, anzi era anche piacevole sentire Genzo parlare in giapponese. C’era una scioltezza, una musicalità che mancava totalmente rispetto al suo tedesco. Era una di quelle cose che ricordavano a Karl che anche dopo undici anni di residenza, per Wakabayashi casa era ancora un arcipelago di isole lungo la costa dell’Asia.
Genzo sorrideva storto, con quel ghigno che poteva solo dire che se n’era appena uscito con una frase o molto intelligente o molto bastarda e a Karl qualsiasi recriminazione sul cibo, sull’educazione o sugli amici giapponesi che si presentano a casa altrui senza invito, sparì di colpo dal cervello. Si allungò a prendere un biscotto… e la sua mano colpì l’aria. O meglio, colpì il piatto vuoto che ci stava sotto.
Rumorosamente.
Wakabayashi e Hyuga si voltarono verso di lui. Accidenti. Non era così che voleva finire al centro dell’attenzione. Manovra evasiva.
"He'z rrrgght"
Avere a che fare con giornalisti e un pubblico famelico di sapere la sua opinione su praticamente qualsiasi stronzata, aveva temprato Schneider portandolo a sviluppare una grande massima: se sei in dubbio su cosa dire, dai torto o ragione a qualcuno.
*
Gli occhi di Kojiro erano due piattini da thè, un po’ per l’insieme di consonanti sparate a caso, un po’ per il non sequitur. Chiaramente Karl Heinz Schneider era uno shock culturale a se stante. Genzo scoppiò a ridere.
"E' perchè gli abbiamo finito i biscotti"
Metti anche caso che Kojiro avesse deciso di imparare il tedesco, era certo che avrebbe comunque avuto bisogno di un traduttore per interagire con Schneider.
"Sorry?"
Non era certo del motivo per cui se la fosse presa tanto, ma un po’ di sana cautela non guastava. Schneider annuì, si alzò e, senza dire altro, sparì dalla cucina. Strano, non lo faceva così permalosetto.
"Non se l’è presa... è che a quest’ora va’ a farsi la doccia"
 Ah ecco. Sì ci voleva un traduttore.
"Potrebbe tirarsela di meno"
"Tu gli hai fottutto la colazione" touchè “E poi credo che si sentisse di troppo…”
Pigramente iniziò a diffondersi nella cucina il rumore dell'acqua infranta sulla ceramica. O le pareti erano di cartongesso o Schneider non aveva chiuso la porta. L'espressione scocciata, ma anche affezionata di Wakabayashi gli suggerì la seconda e gli confermò alcuni suoi sospetti. Ma tanto non erano affari suoi. Certo che però...
“Hyuga, basta con le stronzate. Perchè sei venuto qui?"
*
 
Voleva un favore, di questo Genzo era quasi completamente sicuro e doveva essere qualcosa di grosso. Altrimenti, scusa, cosa diavolo gliel’avrebbe fatto fare a Kojiro Hyuga (avete presente, no? Abbronzato, irascibile, violento quando incapace di esprimersi a parole e cioè praticamente sempre? Sì, lui). Dicevamo, cosa gliel’avrebbe fatto fare a Kojiro Hyuga di trascinarsi fin lì a uno sputo dalla Vigilia di Natale. D’accordo che Torino era praticamente dietro l’angolo se paragonata al Giappone, ma comunque ci stava un bel pezzo di strada.
“Hyuga, basta con le stronzate. Perchè sei venuto qui?"
Diretto, pam! Brutale come una delle sue rimesse.
“Ecco… sì, e che diavolo! Mi serve un favore”
Oh. E ti pareva. Un altro. Ma perché i casi umani dovevano sempre fare affidamento su di lui? Morisaki, da quando aveva scoperto Skype, lo teneva incollato per ore allo schermo per lamentarsi del proprio mister, per non parlare del resto del vecchio team Shutetsu. Bhè erano carini in fondo, e lui personalmente poteva aver innocentemente alimentato la cosa un paio di volte. Ok. Svariate volte. Poche palle: gli piaceva sentirsi indispensabile. Lo aiutava a prendere coscienza del fatto che in realtà non lo era per niente.
Autocommiserazioni varie a parte, Hyuga non era certo Izawa o Kisugi o Taki. Con lui poteva permettersi anche di fare un po’ lo stronzo. Incrociò le braccia sul petto e si preparò a sganciare una battuta mordace, poi Hyuga gli piantò negli occhi una faccia da tigre bastonata, che no… non poteva. Con un sospiro Genzo abbandonò ogni proposito di vendetta e si mise il cuore in pace: qualsiasi cosa Hyuga volesse da lui, e che cazzo, avrebbe fatto i salti mortali per dargliela.
“Ecco…” inciampò l’altro. “Non è che… ti posso, tipo, chiamare di tanto in tanto?” Una pausa. “Per parlare intendo!”
Oh. E questo che cazzo gli stava a significare?
“In che… senso?”
Hyuga si ingobbì ancora di più su se stesso, come se ogni parola fosse l’estrazione di un dente cariato. Ma che minchia stava succedendo? Aveva la mezza intenzione di tornare a letto e di archiviare quella giornata come un curioso delirio a occhi aperti.
“E’ che… ecco. Adesso c’è la Juventus, la serie A, la Champions… i giornalisti… insomma…”
I neuroni di Genzo cozzarono violentemente l’uno sull’altro e fu come se nel cervello si fosse accesa la proverbiale lampadina.
“Kojiro Hyuga mi stai chiedendo di essere il tuo senpai?!”
 
La faccia fatta da Hyuga era una di quelle cose che non avrebbero abbandonato Genzo molto presto.
 
 
 
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Brevissima nota dell’autrice
Questa storia nasce da un roleplay a più voci tra me e mia sorella. L’originale era un insieme piuttosto grezzo che ha subito da parte mia un lavoro di pesante editing (naturalmente pubblico col pieno consenso dell’altra persona). Spero di essere riuscita a armonizzare i numerosi “salti” presenti in originale.
La storia si ambienta nel periodo che intercorre tra il “Golden 23” e la one-shot dove vediamo Wakabayashi in compagnia di Schneider, entrambi con la maglietta del Bayern Monaco.
 

 

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Capitolo 2
*** Riflessioni mattutine ***


Era una strana mattina quella. L'aria era frizzante, ma appesantita dalla consapevolezza di avere per casa una persona in più. Di troppo. Genzo Wakabayashi non negava, almeno a se steso, di esser un tipo abitudinario. Negli ultimi anni era stato più volte costretto a scendere a compromessi con la propria faticosamente conquistata calma interiore. Tutta la faccenda della naturalizzazione tedesca, il litigio tra Kaltz e Schneider, i problemi con la squadra, il nuovo infortunio e infine il trasferimento a Monaco... Si sentiva frastornato in un certo senso. Forse era per quello che aveva accettato l'invito di Schneider a vivere insieme e che ora di fronte alla richiesta di Kojiro si sentiva strano. Inadeguato. Con un moto di stizza scrollò la testa e si infilò il resto della maglietta che durante le sue riflessioni cosmiche si era limitata a penzolare pigramente tra le sue braccia. Si diresse in soggiorno, scavalcò Hyuga abbandonato sul divano letto, infilò le scarpe e uscì. Niente allenamenti oggi. Ma era sua abitudine correre (a scatti, rigorosamente a scatti) per qualche chilometro ogni mattina, a Amburgo era la distanza che lo separava dallo stadio. A Monaco non aveva ancora una routine consolidata e quelle levatacce erano una buona scusa per conoscere la città. Piano piano quella sensazione fastidiosa di esser tornato a essere uno straniero in casa d'altri sarebbe passata. Alle cinque del mattino una città inizia pigramente a svegliarsi, pochi automobilisti iniziavano a correre verso quel lavoro o quell'appuntamento, ma erano soprattutto i camion delle consegne e i proprietari di cani suoi inconsapevoli compagni in quelle esplorazioni. L'illuminazione stradale dava a questo e a quell'altro contorni indistinguibili, quasi fosse sempre lo stesso uomo, la stessa donna e lo stesso cane. John gli mancava terribilmente. Il vecchio cane a cui Ishizaki disegnava di nascosto le sopracciglia sul pelo pezzato era mancato il mese scorso. L'aveva informato la sua governante per lettera, come se fossero altri tempi. La novità dal Giappone gli era arrivata solo la settimana scorsa. Genzo non era sicuro se quella che sentiva fosse tristezza o solo un senso soffocante di inevitabilità. La sua, dopotutto, era quella: un’esistenza vuota, costruita su fondamenta di sabbia. Macché dare consigli a qualcun'altro. Che chiedesse a Tsubasa che in Spagna si trovava nel suo sugo e che aveva un matrimonio felice e due figli tra le scatole. Lui aveva solo il calcio e tolto quello non rimaneva quel granché. Un odore improvviso gli invase le narici. Una panetteria aveva già aperto e diffondeva nell'aria gli aromi caldi dei prodotti appena sfornati. Genzo verificò di essere uscito col portafoglio e con un sorriso storto pensò alla reazione di Karl del giorno prima per quegli accidenti di biscotti. Dieci minuti dopo correva verso casa con le mani chiuse attorno a un pacchetto fumante.
*
Kojiro Hyuga non era un tipo mattiniero. Che cazzo, aveva lavorato per anni come ragazzo delle consegne e lì sì che la sveglia era presto. Ma quello era lavoro, una necessità. Adesso era in vacanza e al mattino voleva dormire. Punto.
In realtà tra le quattro e le cinque si svegliava sveglio, cioè in quell’orribile stato in cui la mente realizza che sì, è mattina, oh mio dio quante cose ci sono da fare, mentre il tuo corpo ti urla dietro “pirla torna a letto”. E Kojiro avrebbe anche dato ragione a quest’ultimo girandosi dall’altra parte e riprendendo a russare da dove aveva interrotto, se non ci fosse stata un’ombra a scavalcarlo. Mamma mia che era? Un grizzly? Quasi: Genzo Wakabayashi.
La porta dell’ingresso si aprì, facendo arrivare un fastidioso raggio di luce verdognola dritto nel suo occhio sinistro. Giusto qualche secondo, il tempo di rompere le palle, poi la porta sbatté violentemente su se stessa consegnando il salotto all’oscurità. Kojiro Hyuga era definitivamente sveglio. Mannaggia.
Con uno sbuffo abbandonò la testa contro il cuscino, respirando l’aroma di canfora che era rimasto attaccato alle federe di cotone. Cosa c’era andato a fare lui in Germania? Wakabayashi era stato stranamente cortese, non aveva neanche riso (troppo) di fronte al suo evidente imbarazzo, neanche quando alla sera erano andati fuori a bere e Kojiro aveva cercato di ordinare in tedesco e accidentalmente fatto proposte indecenti al barista. Schneider invece aveva riso. Tanto. Ne era rimasto sorpreso, non pensava che il tedesco sapesse ridere.
Ok, non pensava nemmeno che fosse un disordinato cronico e un essere umano in generale, ma tanté… del Kaiser di Germania conosceva solo la pericolosità calcistica e non gli era mai importato altro. Neanche adesso gliene fregava più di tanto, in effetti, ma interrogarsi sulle stranezze di Schneider era un buon modo per non pensare ai suoi problemi. Problemi tipo la sua immagine stampata su ogni accidente di confezione di cereali, o non potersi vedere la tivù senza incappare nel proprio faccione preso a pubblicizzare dentifrici al sapore di schifo. Soldi facili, quasi troppo. Gli aveva spediti a casa da sua madre e  sua sorella si era potuta pagare la retta di quel prestigioso istituto privato che le piaceva tanto. Sì, andava tutto bene.
Chiuse gli occhi, il sonno era lì, a un passo. Lo strozzo intestinale non avrebbe vinto… riaprì gli occhi. Oh, guarda, sul soffitto c’era una macchia tipo rotonda. Non sembrava umidità, magari era un riflesso. Espirò, non era vero che andava tutto bene. Per tutta la vita non aveva voluto altro che vivere di calcio. Ce l’aveva fatta, sogno realizzato yadda yadda, evviva evviva. Perché si sentiva così di merda?
Era un ingrato.
Si girò, mise una mano fuori dalle coperte, poi un piede, poi rimise dentro la mano e tirò fuori l’altra, si voltò sul fianco sinistro. Gli prudeva un piede… Kojiro strinse i denti, accidenti no, non avrebbe permesso al mattino di vincere. Infilò il braccio sotto il cuscino e, miracolo: la posizione perfetta.
Doveva fare pipì.
Maledicendo nel modo più silenzioso possibile l’SGGK responsabile dell’anticipato risveglio, Kojiro ciabattò nella semioscurità verso il bagno. Nel tragitto centrò due porte, una parete e un sacco di altre cose che avrebbe giurato non fossero lì la sera prima.
L’appartamento di Wakabayashi (e Schneider) era ampio, ma per quanto spazioso aveva solo un bagno. Fortunatamente nessuno dei legittimi inquilini lo stava presidiando al momento, Kojiro entrò e girò la chiave nella toppa. O almeno, tentò. La sua mano trovò solo aria: non c’era la chiave. Ma accidenti a loro. Scrollò le spalle, dopotutto cosa importava: erano tutti uomini lì dentro. Peccato che quei quattro passi che separavano il salotto dal bagno avessero fatto maturare un certo stimolo. Nel bagno non c’erano finestre. Kojiro si pose il problema solo a fatto compiuto, cercando inutilmente a tentoni il pulsante per la ventola che PER FORZA doveva essere lì, da qualche parte.
Dopo 15 minuti buoni, si arrese. Aveva bisogno di aiuto.
Uscì dalla camera a gas di nuova generazione e si diresse verso quella che, con buona probabilità, doveva essere la camera di Wakabayashi. L’imbarazzo fece balenare in testa a Kojiro un pensiero buffo: com’è che faceva Wakabayashi a sequestrare a ogni cavolo di raduno l’unica stanza singola disponibile? E che lo faceva a fare se poi tanto gli si piantava fisso in camera il trio Shutetsu più Tsubasa e Misaki a turni alterni. Ma soprattutto, come accidenti faceva a cacciarli fuori?! Liberarsi di Tsubasa era un’arte che valeva la pena di apprendere.
La porta davanti a lui era socchiusa. Kojiro non si fece troppi problemi e la spalancò completamente, in quel momento il tempo si fermò.
Pensiero uno: quella non era la stanza di Wakabayashi.
Pensiero due: anche se quella fosse stata la stanza di Wakabayashi, non ci avrebbe trovato dentro Wakabayashi visto che Wakabayashi era uscito di casa tipo dieci minuti fa.
Il caos regnava su ogni cosa, un calzino penzolava sinistramente dal lampadario sbieco, uno scaffale si ripiegava su se stesso sotto il peso di troppi premi, mentre un ventilatore a piantana cigolava sinistramente sventolando aria bollente, il condizionatore era a palla. E al centro c’era lui, il letto, fatto di lenzuola e federe spaiate; al centro il Kaiser di Germania, profondamente addormentato, ma soprattutto MOLTO NUDO.
*
La luce artificiale dei frigoriferi del minimarket riempiva l’aria di un sapore come di rarefatto. Alla sua sinistra stava un assortimento poco invitante di formaggi freschi e prosciutti con un dito di grasso. Alla sua destra capeggiavano due tristi marche di latte fresco. Genzo ricordava vagamente una conversazione con Wakashimazu su alimentari e allergeni vari (come erano finiti sull’argomento rimaneva un mistero) in quell’occasione l’altro portiere gli aveva accennato qualcosa su un’intolleranza di Kojiro per un qualche tipo di conservante del latte. Osservò storto le confezioni incriminate. Certo che faceva freddo lì dentro. Scosse la testa e le ficcò entrambe nella borsa. Una avrebbe fatto alla bisogna. Stava diventando troppo buono.
In un altro reparto agguantò uno spazzolino per Karl e una confezione di sgrassatore per piatti. Dopo un breve momento di recap mentale, si diresse verso la cassa.
Al mattino presto (e cioè VERAMENTE presto) non trovi nessuno a fare la spesa. Bhè, di solito non trovi nemmeno un minimarket aperto alle 5. Wakabayashi aveva scoperto quel negozietto circa da tre settimane a due isolati dal proprio appartamento e aveva deliberato che: era piccolo, comodo, rallegrati e non indagare.
Un commesso brufoloso in stato di seminconscienza sedeva all’unica cassa aperta, la testa abbandonata contro lo schienale della sedia, si chiamava Frank, Genzo frequentava il posto da abbastanza tempo per averne memorizzato il nome. Si fece largo tra le piramidi di lattine di merce prossima alla scadenza e si fermò: qualcuno lo stava fissando. Ma chi cazz.. Si voltò e si trovò faccia a faccia con una vecchia incartapecorita. Ok, non proprio “faccia a faccia”, più ombelico a faccia: la tipa era una vera nanerottola. Altri clienti erano una novità. Genzo sospirò mentalmente, se andava al mattino presto a fare la spesa in un posto indegno dei ratti era proprio per evitarla, la gente. La vecchia stringeva con forza le dita ossute attorno un barattolo di maionese scadente. Cosa potesse spingere un essere umano a uscire in una fredda mattina tedesca per recuperare uno stupido condimento, Genzo non riusciva proprio a figurarselo.
La vecchia continuava a fissarlo. Mister Mikami non aveva cresciuto un completo fallimento umano, con un sospiro Genzo fece un passo indietro e lasciò il proprio turno in coda alla nuova arrivata.
 “Prego”
La signora lo squadrò con sospetto, ma non si fece pregare a prendere il suo posto. Frank si riscosse dal torpore e passò, sbadigliando, sotto la fotocellula, il barattolo di maionese accompagnato da una busta con tre gambi di sedano e una bottiglietta di acqua tonica che chissà come si erano materializzate dalla giacca della vecchia. La donna affastellò le sue quattro cose in una borsa troppo brutta per essere riprodotta in serie e uscì con un grugnito generale in sua direzione. Genzo scrollò le spalle. Prego.
Frank passò la sua spesa senza nemmeno guardarlo in faccia, il portiere sorrise e si sbrigò a ritirare il tutto in una pesante busta di carta. Con un cenno di saluto verso il ragazzo, ormai profondamente addormentato, Genzo uscì. Non fece molta strada.
Non appena le porte scorrevoli si chiusero alle sue spalle gli si parò di fronte una visione insolita. Seduta su una panca stava la vecchia, la bottiglia di acqua tonica ficcata per terra tra la neve del bordo strada. Tra le mani stringeva un gambo di sedano smangiucchiato e spalmato di maionese. Matta. Le rughe della signora si contrassero in una smorfia sofferta, poi ragliò:
 “Da dov’è un po’ che vieni te?”
*
Karl Heniz Schneider dormiva a pancia in giù. Kojiro Hyuga non era mai stato religioso, ma onestamente pregava che il tedesco non si girasse. Vedere uomini nudi nelle docce dopo una partita era un conto, a casa propria decisamente un altro. Ok, non proprio a casa propria, ok quella di Wakabayashi… e Schneider. E ok a casa sua ognuno può fare come cavolo vuole, ma santo cielo, uomo! Hai ospiti. Chiudi la cazzo di porta! ( A chiave perché se no gli ospiti la aprono, accidenti…)
Schneider grugnì, l’incantesimo che aveva cristallizzato l’orologio e incollato le ciabatte di Hyuga al pavimento si spezzò. Kojiro si precipitò fuori.
Poi tornò indietro e richiuse la porta. Ma porcaccia la miseriaccia. Tutte a lui. Il tedesco, spanciato come una frittella sopra le coperte, continuò a russare.
Promemoria, promemoria per Kojiro: continuare a vivere da solo, non cedere e non prendersi un compagno di stanza, MAI. Che magari gli amici di una vita poi si rivelavano essere dei casi clinici mica da ridere. Chissà che Wakashimazu non facesse uso di bigodini o che Takeshi non gli rasasse a zero la testa nottempo. Sospirò. Come se vivesse ancora in Giappone. Ora i suoi compagni si chiamavano Gino, Lorenzo, Salvador… e non avevano alcun interesse per lui, i suoi affari, la sua famiglia. Colleghi, certo, non amici.
I quasi diecimila chilometri che lo separavano da casa si allungarono fino a abbracciare il mondo intero. In un certo senso invidiava Wakabayashi, coinquilino folle a parte, che riusciva a trovarsi nel suo sugo anche in un paese dove la gente ti chiamava solo per nome.
Kojiro sprofondò nel divano, ma il sonno era una chimera. Ormai era sveglio e la realtà era un’incognita da mille tentacoli. Tirò fuori il cellulare e spedì un messaggio dall’altra parte del mondo.
“Ehi, per te Wakabayashi e Schneider scopano?”
*
La giornata di Ken Wakashimazu fino a quel momento poteva riassumersi in un unico modo. Orrida. Da quando, terminato il liceo, aveva accettato il suo posto accanto al padre presso il dojo di famiglia, la sua vita aveva preso la piega giusta. Conciliare le proprie due anime, gli aveva donato una serenità nuova dove i problemi di tutti i giorni erano sempre lì a attenderlo, ma per la prima volta Ken sentiva di avere la capacità per affrontarli. Forse era questo, pensava, ciò che fa di un ragazzo un adulto.
Tuttavia, serenità ritrovata a parte, suo padre gli faceva girare le palle lo stesso.
“Ken… il dojo non si manda avanti da solo”
“Ken… mentre tu dai calci al pallone io invecchio”
“Ken… c’è bisogno di te qui”
“Ken… quando ti deciderai a darmi una discendenza?!”
Ecco a questo punto il miglior portiere del Giappone (sei voluto andare in Germania Wakabayashi? Ecco, restaci) si era strozzato con un pezzo di alga nori e fortunatamente la preoccupazione di sua madre aveva messo un freno alla questione. Per ora.
Perché per suo padre la cosa non era finita lì. Per niente.
Il cellulare vibrò in tasca. Ken ne approfittò per isolarsi. Kojiro… sia ringraziato il cielo per Kojiro Hyuga cha anche dall’altra parte del mondo lo tirava fuori dai guai. Era felice che il capitano fosse in Europa a inseguire i propri sogni, però non poteva negare che gli mancasse. Tremendamente. Lui avrebbe saputo cosa rispondere a suo padre, come appianare le cose. Lo schermo del cellulare brillava. Lui e Kojiro parlavano poco ultimamente, forse quel messaggio era il segno di un’ amicizia più salda, più forte.
“Ehi, per te Wakabayashi e Schneider scopano?”
Oppure no.
*
Poche cose possono descrivere la piacevolezza di quel torpore che ti prende quando fuori fa freddo e tu sei immerso nelle coperte. Kojiro Hyuga era solo un uomo. Finalmente sentiva la sonnolenza allungarsi nelle viscere. Il cellulare vibrò, la sigla dell’Uomo Tigre invase il salotto. E che cazz…
“Pronto?”
“Dove sei?”
Uh? Aspetta, chi è che lo stava chiamando? La voce era famigliare, ma non aveva guardato il nome sul display, aveva premuto il tasto verde e basta.
“Capitano… stavi dormendo?!”
Oh Wakashimazu! Caro buon, vecchio Wakashimazu. Perché diavolo lo stava chiamando alle 6 di mattina.
“Sono a casa di Wakabayashi”
E Schneider. L’immagine del biondo nudo e russante a una camera e un bagno di distanza, scaturì un brivido freddo lungo la schiena dell’attaccante. Ma come si fa? Chiudi almeno a chiave la porta, imbecille.
“Schneider dorme nudo”
Dall’altra linea solo silenzio. Kojiro si sentì in dovere di precisare.
“Completamente!”
Ancora silenzio. Che fosse caduta la linea? Dopo quella che parve un’eternità giunse infine la voce di Wakashimazu.
“Ah”
Kojiro iniziava a sentirsi stupido. Si passò una mano tra i capelli. Che ore erano in Giappone? Mezzogiorno, l’una? Doveva smetterla di mandare messaggi da mezzo addormentato alla gente sveglia. Rischiava di diventare come Tsubasa e i suoi whatsup fessi da ubriaco. Era tempo di dire qualcosa di intelligente.
“Ecco, sai com’è.. avevo bisogno di parlare con qualcuno e non sapevo a chi chiedere… Così sono andato da Wakabayashi e…”
CLUNK
“Wakashimazu?”
Oh era caduta la linea, che strano. Vabbè…
Il rumore metallico della chiave girata nella toppa, lo richiamò al qui e ora.  Qualcuno stava entrando in casa.
*
Ken Wakashimazu dall’altra parte del mondo chiuse la chiamata. Strinse la cintura del kimono. Stortò il naso e uscì a testa alta.  Kojiro Hyuga era un mostro di insensibilità e che andassero a fanculo lui, Wakabayashi e tutta la Germania. Lui se ne chiamava fuori.
*
Genzo chiuse la porta alle sue spalle con un tonfo secco che diffuse attorno l’eco morbida del legno. Scivolò fuori dalle scarpe, scrollò la maglia della tuta appesantita dall’umidità del mattino e si lasciò avvolgere dal calore del sistema di riscaldamento. Aveva bisogno di un caffè. Ma prima era il caso di fare una doccia. Trovò Hyuga a pochi passi dall’ingresso, manco fosse il suo nuovo personale cane da guardia. La tigre aveva stampata in faccia un’espressione singolare, una sorta di apprensione stordita.
“Non è che sei entrato in camera di Schneider, vero?”
Hyuga si irrigidì visibilmente, poi scrollò la testa. Sì, era entrato in camera di Schneider.
“Ho preso i Vanillekipferl. Accendi il bollitore che lo vado a svegliare”
Genzo recuperò i beni deperibili dalle buste della spesa e abbandonò il resto nel corridoio. Ci avrebbe pensato dopo. Seguì Hyuga in cucina e depositò il latte, le uova e i pomodori nel frigorifero.
I dolci presi per impulso erano ancora tiepidi e diffondevano nell’aria profumo di vaniglia. Più tardi li avrebbe scaldati nel microonde. Dopo un grugnito in direzione generale di Kojiro, uscì dalla cucina e andò a svegliare il coinquilino. Perché, accidenti, Scheneider! Avevano dei progetti per quella stramaledetta giornata!
*
Karl Heinz Schneidr sognava. Nel sogno era un budino e i budini non si devono preoccupare di stiramenti muscolari, sorelle adolescenti o cotte per i propri coinquilini. Sono budini. E basta.
Uh… era un budino alla vaniglia. Anzi no, un cornetto. Un cornetto alla vaniglia. Karl diede un morso, il suo braccio aveva il gusto della pasta frolla. E quelle che cos’erano… uh nocciole. Sì, sua madre ci metteva sempre le nocciole quando li cucinava. Maria stava chiusa in una di quelle gabbie di legno dove si mettono i bambini piccoli e lui sedeva sulla sedia, perché ormai era grande. La mamma ci metteva tutto l’uovo e cantava canzoni che Karl non riusciva proprio a ricordare al momento. Ma erano lì, sulla punta della sua lingua… Doveva solo fermarsi a riflettere.
“Lili Marleen”
“Bentornato tra i vivi”
Oh. Era Wakabayashi. Ciao Wakabayashi, che ne dici di toglierti la maglietta e sdraiarti qui con me, eh.
“Che ore sono?”
Non era più un budino o un cornetto alla vaniglia e sicuramente non era a casa di sua madre a sentire cantare di ragazze sotto i lampioni e infanzie perdute e amori che finiscono nel nulla per uno stupido punto d’orgoglio… che poi era colpa di Kaltz e lui non c’entrava nulla, ma vai a spiegarlo a tutti e due ‘sti storditi e Wakabayashi poteva anche accorgersi dei suoi sentimenti e smetterla di fare il pirla, ahem. Portò le mani agli occhi, ripulendoli da quella pasta appiccicosa che al risveglio si ostina a incollare una palpebra all’altra.
“Le sei. C’è la colazione di là”
Karl voleva sprofondare nel suo cuscino.
Genzo gli diede una botta sul naso.
“Lo so che è presto, ma abbiamo ospiti. E dobbiamo ancora recuperare i regali per la tua famiglia”
*
E per Kaltz. Ma questo il portiere si limitò a pensarlo. Non era il caso di ricordare il nome dell’amico così presto al mattino: da quanto ne sapeva, lui e Karl non si parlavano da più di nove mesi.
Il biondo bofonchiò qualche cose di inintelligibile, immergendosi nelle coperte. Era tutta una scena, ormai era sveglio. Ma a Schneider servivano sempre una decina di minuti per carburare il fatto di essersi alzato. Tempo del tutto sufficiente a Genzo per infilarsi sotto la doccia e fregargli tutta l’acqua calda. Ah ah.
“Ah e mettiti addosso qualche cosa, credo ci sia una tigre traumatizzata di là in cucina”
Schneider boffonchiò qualcosa di indistinto, chiaramente ancora più al di là che di qua. Genzo sentì qualcosa di caldo scivolargli nel petto e poi risalire fino a piegare le sue labbra in un sorriso. Allungò una mano e arruffò i capelli del biondo. Schneider grugnì qualcos’altro e il sorriso del portiere si stortò in un ghigno. Accidenti a lui.
“Vado a farmi una doccia”
E tu te la becchi fredda. Tiè.  Schneider ributtò la testa nel cuscino, ma ormai era sveglio. Genzo uscì dalla stanza e per buona misura spense il condizionatore (puntato da tutta la notte sui 30 gradi) e spalancò la finestra. Ora era solo questione di tempo.
Wakabayashi si diresse fischiettando verso la porta del bagno. Che strano, non ricordava di averla lasciata chiusa. La aprì e…. SANTISSIMA MADRE DEL CIELO!


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Brevissima nota dell’autrice

Causa nuovo lavoro (da aggiungersi agli altri due) e università, il mio tempo per scrivere si è drasticamente ridotto, quindi un capitolo al mese sarà ora in avanti il mio standard. Un saluto e un abbraccio a chi ha letto fino a qui.

 

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