One week

di Shige
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primi passi ***
Capitolo 2: *** Il saggio, il gigante e l'asino ***
Capitolo 3: *** Sbagli ***
Capitolo 4: *** Il Re senza corona ***
Capitolo 5: *** Ti regalo un sogno ***
Capitolo 6: *** Attraverso i suoi occhi ***
Capitolo 7: *** Inferno ***



Capitolo 1
*** Primi passi ***


Childhood
 
Primi passi
 
 
 
Le strade che un uomo percorre in vita sono molte. Difficile anche solo immaginarne il numero. Sono tortuose, in salita, scivolose, si inerpicano su pendii ripidi e senza appigli, attraversano boschi senza sentieri o deserti aridi e senza confini. Trascinerà i piedi su selciati di pietre aguzze che lacerano la pelle; e il sangue macchierà il suo cammino nel lungo viaggio che lo riporterà verso casa.
 
Un uomo che di strade ne ha percorse poche conta i primi passi di quel figlio che di strade ne percorrerà molte più delle sue. Erwin avanza incespicando i piedini, gli occhi azzurri puntati sul genitore che lo attende a braccia aperte dallaltro lato del tappeto.
Un passo, poi un altro, il bambino barcolla, le mani sporte in avanti che cercano di afferrare quelle del padre e lespressione decisa di chi ha scelto di non cadere mai più.
‹‹Ancora un piccolo passo›› lo incoraggia. Un verso incomprensibile uscito dalla sua bocca impiastricciata intima al genitore di tacere. Ondeggia scoordinato, buffo come un papero che attraversa la strada, ma avanza a piccoli passi sempre più svelti. La felicità che illumina il suo viso paffuto e sporco di marmellata e briciole quando sfiora le dita del padre e finalmente si lascia cadere.
Luomo lafferra e lo solleva per aria, stringendo quel corpicino acerbo in cui risiede tanta forza e determinazione. Guarda lo specchio dei suoi occhi e ascolta gli strilli entusiasti di chi ce lha fatta e ha raggiunto il suo scopo.
Ci sono strade che un uomo percorre e non saprà mai se ne vedrà la fine, ma non è quello il caso. Erwin ha fatto i suoi primi passi su un terreno circondato da mura che gli impediranno di proseguire il suo viaggio. Luomo osserva le sue manine agitarsi per aria e afferrare i granelli di polvere che brillano come stelle alla luce del sole. Sogna qualcosa che non potrà stringere né catturare, mentre luomo appoggia al petto la sola cosa certa che la vita gli ha donato.
‹‹Il mondo è un posto pericoloso e bugiardo›› sussurra al suo orecchio respirando il profumo di biscotti tra i suoi capelli radi. Mentre parla, Erwin gioca con il bavero della sua camicia intrappolando tra le piccole dita i bottoni che ha deciso di staccare. Il padre glielafferra dolcemente, portandosela alle labbra lasciandogli un piccolo bacio sul palmo.
Tutta la vita. Per tutta la vita vorrebbe ripetere quel gesto, stringerselo più forte al petto e proteggerlo, sempre, da un mondo che non merita di prendersi anche la vita di suo figlio.
‹‹Ma è anche pieno di meraviglie e di posti incredibili da esplorare. Ti troverai sempre a dover scegliere tra due cammini, tra due donne, tra due destini e non saprai mai quale sarà la scelta giusta. Ci sarà sempre qualcuno pronto a dirti che avrai preso il sentiero sbagliato, a darti del pazzo ma tu continua a camminare. Avanza contro chi questo mondo non lo merita e vuole costringerti dentro ad una gabbia. Tu non sarai mai lo schiavo di nessuno, Erwin. Sarai solo, ma non schiavo e soprattutto, un giorno, tu diventerai un uomo››
Lo guarda mentre dorme contro la sua spalla.
È giusto che anche i piccoli uomini riposino.
 

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Capitolo 2
*** Il saggio, il gigante e l'asino ***


Happiness
 
Il saggio,
il gigante e lasino
 
 
‹‹Sei un tipo strano››
L’aveva adocchiato parecchi giorni prima, ma aveva aspettato solo quel pomeriggio per renderlo partecipe dei suoi pensieri. L’aveva fatto senza badare all’etichetta che presumeva ci si presentasse prima di intavolare discorsi, o come in quel caso, fare affermazioni poco educate.
Ma Mike Zacharius aveva sempre considerato l’etichetta una stravaganza per nobili, un modo per mascherare un vaffanculo in maniera garbata.
Sua madre lavorava come domestica nella casa di un ricco aristocratico, per cui, non certo per sua scelta, era cresciuto in quegli ambienti edulcorati di cazzate e tappezzati di ipocrisia.
Perciò, quando si era ritrovato davanti quel ragazzino ben educato e rigido come il manico di una scopa, aveva sentito la puzza di nobile da prima che mettesse piede nella camerata; e lui, che aveva naso per certe cose, avrebbe scommesso la sua stessa madre che quel ragazzino – la cui divisa, per una qualche ragione a lui sconosciuta, restava immacolata anche dopo un’intesa sessione di lotta libera – era sicuramente il figlio di chissà quale panciuto riccone che l’aveva spinto ad arruolarsi per fare carriera nella Gendarmeria.
Poi era venuto fuori che Erwin Smith era il figlio di un professore, per giunta morto, e Mike non se l’era proprio sentita di ammettere il suo errore di valutazione. Dopotutto, il suo naso non sbagliava mai perciò era sicuro che in un qualche ramo lontano della sua famiglia ci fosse, per ovvie ragioni, un nobile.
‹‹Ti ringrazio›› Erwin aveva chiuso il libro di storia che teneva sulla ginocchia e l’aveva guardato con quell’aria saggia che si addiceva ad un vecchio di ottant’anni e non ad un ragazzino di dodici. Mike aveva sollevato il sopracciglio e dall’alto del suo metro e settanta tre aveva pensato che fosse matto o che avesse preso una bella botta cadendo da cavallo.
‹‹Non è strano… è fatto così e basta›› l’altro, che aveva fornito una spiegazione scientifica senza che nessuno gli avesse chiesto niente, Mike l’aveva soprannominato l’amico scemo di quello strano; perché Nile Dok sembrava si fosse arruolato più per fare un favore all’amico che per compiacere la famiglia. Ad uno così non si sarebbe sognato di affidare le cure di sua sorella, figuriamoci dargli una qualsivoglia carica militare.
Mike aveva inarcato anche l’altro sopracciglio e se ne avesse avuto un terzo, probabilmente
avrebbe sollevato anche quello. Ma non possedendo anomalie fisiche, né tanto meno le discutibili sopracciglia di Erwin, aveva sbuffato archiviando la questione con un semplice sono circondato da matti.
Si era fatto spazio tra i due, ignorando le proteste di Nile e l’insofferenza di Erwin nello scansarsi di lato; fece loro la cortesia di appoggiandosi sui gomiti per non farli sentire bassi anche da seduti e prese a guardarli da sotto la frangetta che gli copriva gli occhi.
Erwin era tornato a leggere il libro e Nile sgranocchiava un filo d’erba meglio di quanto avrebbe fatto un asino.
‹‹Guarda che il test ce lo fanno il mese prossimo››
‹‹Lo so›› Erwin non si era nemmeno voltato e Mike cominciava a chiedersi il perché non si stesse facendo gli affari suoi da tutt’altra parte.
La verità – quella che non avrebbe confessato a nessuno – era che si sentiva terribilmente solo. A mensa, a lezione, durante gli allenamenti non c’era nessuno che gli rivolgesse la parola senza chiamarlo Gigante.
Se non fosse stato che quelle creature minacciavano ogni giorno di entrare nelle mura, Mike si sarebbe sentito orgoglioso di quell’appellativo. Ma aveva dodici anni, era alto quanto un adulto e i Giganti erano mostri spaventosi che realmente vivevano oltre le mura. Perciò, nonostante al test di logica avesse preso il punteggio più basso, nella sua testa si palesava chiara il principio logico per cui
Se giganti sono mostri e io sono un gigante, allora sono un mostro anche io.
Tutto sommato, si considerava un tipo tosto a cui non importava un fico secco delle opinioni della gente, tanto meno dei suoi coetanei il cui livello di stupidità scivolava al di sotto delle suole degli stivali, ma l’idea di essere accostato ad un gigante e di essere visto come un mostro non gli andava proprio a genio.
Parafrasando i suoi pensieri: la cosa lo faceva decisamente incazzare.
Perciò, quando aveva notato che né Strano Stupido erano desiderosi di morire giovani per sua mano tanto quanto gli altri, aveva esordito con quel approccio infelice.
‹‹Ma tu non ridi mai?›› Erwin aveva alzato la testa e si era voltato a guardarlo con l’aria di chi non era sicuro di aver sentito bene. Nile, invece, aveva avuto la compiacenza di smetterla di ruminare.
‹‹Come scusa?››
‹‹Non ti scomponi mai. Voglio dire… ma una risata non te la fai mai?››
‹‹E per cosa dovrei ridere?››
‹‹Che ne so… per una battuta, un aneddoto, per due che si picchiano››
‹‹Tu ridi quando la gente si picchia?››
‹‹No… cioè… sì… cioè… Oh lasciamo perdere. Ma è sempre così?›› aveva chiesto rivolgendosi a Nile che nel frattempo aveva pensato che infilarsi tutto il mignolo su per il naso fosse una buona idea. Mike l’aveva guardato disgustato ed era tornato ad osservare Erwin che non aveva ripreso a leggere.
Aveva gli occhi puntati al centro del campo di addestramento, dove due loro coetanei si stavano sfidando in un combattimento corpo a corpo. Il primo aveva sferrato un gancio destro che il secondo aveva schivato prontamente, facendogli lo sgambetto e rovesciandolo a terra.
Mike era scoppiato in una fragorosa risata.
Erwin era rimasto in silenzio.
Nile stava costringendo una lumaca ad arrampicarsi su una foglia.
‹‹Così è questo che ti fa ridere?››
Mike era sicuro, osservando lo sguardo impassibile che gli aveva rivolto, di non aver mai visto un ragazzino più triste di Erwin Smith. Era poi tornato a guardare quei due imbecilli che se le davano di santa ragione.
‹‹Quando rido mi ricordo che non sono ancora morto. Che i titani ci hanno sottratto la terra, ma non la nostra umanità. Che siamo ancora liberi di ridere, di fare stronzate, di andarci a bere una birra, magari un giorno capiterà di innamorarci e chi lo sa, avremo forse la fortuna di fare una famiglia. Rido perché un giorno non mi sarà più permesso perché vedrò cose così terribili che non ne sarò più capace. Ma adesso siamo solo reclute… abbiamo ancora tre anni di normalità, perciò sarebbe stupido non approfittarne, non trovi?››
‹‹Accadono cose terribili anche adesso. E ne sono accadute anche prima, rendendomi ciò che sono. Non importa se abbiamo ancora tre anni davanti, o se passerò il resto della mia vita al sicuro nel Corpo di Gendarmeria; ho sempre saputo di non avere tempo per queste cose. Forse è come dici tu: sono un ragazzino strano che dice cose strane che gli altri fraintendono e non capiscono. Non nascondo che sono diverso perché le cose terribili di cui parli io le ho viste prima del tempo e forse, come dici tu, ho dimenticato come si ride. Ma non penso sia necessario… Il mondo non cesserà di essere crudele solo perché mi faccio una bella risata.››
‹‹Non ho mai detto che smetterà di esserlo. Quello che non deve scomparire è la tua umanità. Se smetti di essere, di vivere, di comportarti da essere umano, allora cosa sei? Per cosa combatti? Se vivi di rinunce che cosa ti resta?››
‹‹Un sogno…mi resta solo un sogno e per quello rinuncio a tutto ciò che mi impedisce di raggiungerlo. Ho perso mio padre per quel sogno e non sono più disposto a perdere nient’altro, perciò faccio a meno di circondarmi di cose che potrei perdere››
‹‹Il mio vecchio diceva sempre che per raggiungere uno scopo ogni tanto fa bene voltarsi e guardare qualcos’altro. Non ho mai capito veramente cosa intendesse, ma forse il succo era che ogni tanto bisogna dimenticarsi della meta che dobbiamo raggiungere. E comunque, non essere così arrogante da pensare di essere l’unico a cui questo mondo ha strappato qualcosa, Erwin. Non sei il solo orfano che bazzica in caserma. Alcuni di quelli che giudichi diversi da te, forse nemmeno l’hanno conosciuto un padre e forse non hanno avuto nemmeno la fortuna di ricevere un sogno come eredità. La verità è che troppi di noi non hanno niente. Eppure, in un modo che non so spiegarmi trovano il modo di andare avanti comunque, e quel poco di buono che il mondo gli offre non se lo lasciano sfuggire. Nemmeno tu hai rinunciato a tutto o non ti troveresti questo asino come amico››
Nile Dok ronfava rumorosamente steso sull’erba e con una coccinella sul naso. Lo sguardo di Erwin si era addolcito e Mike aveva pensato che forse un po’ di tristezza era riuscito a lavargliela via.
‹‹Tuo padre non ha mai detto quella frase, vero?›› gli aveva chiesto gentilmente.
‹‹Non so nemmeno che faccia abbia mio padre, ma mi piace pensare che fosse un tipo da frasi del genere››
Si erano guardati, forse per pochi secondi, ma era bastato quello scambio di sguardi a far scattare qualcosa. Erwin e Mike erano scoppiati in una risata liberatoria che aveva destato bruscamente Nile dal dolce torpore in cui era caduto. Li aveva guardati con la fervida intenzione di dirgliene quattro ma si era arrestato quando aveva visto Erwin piegato in due contro le ginocchia.
Si chiese per un istante se non fosse morto o se non stesse sognando perché mai avrebbe pensato che sarebbe vissuto abbastanza da vederlo con le lacrime agli occhi. Aveva sbattuto più volte le palpebre, incredulo a quanto stava accadendo e si era anche piuttosto risentito del fatto che i due avessero fatto comunella senza coinvolgerlo.
Li aveva guardati e inspiegabilmente si era messo a ridere insieme a loro. Di cosa ridessero non lo seppero mai con esattezza e a chi li osservava dall’altro lato del campo veniva spontaneo chiedersi se non fossero completamente impazziti.

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Capitolo 3
*** Sbagli ***


Canon divergence
 
Sbagli
 
 
 
Era stato così improvviso il modo in cui era successo che Marie non aveva avuto il tempo di chiedersi se stava accadendo per davvero.
E quando era successo, era stato troppo tardi per tirarsi indietro, troppo tardi per rendersi conto che sposare Erwin Smith era stato un grosso, madornale errore.
 
Era accaduto durante la stagione che meno si addiceva alle proposte di matrimonio e solo perché l’inverno era il solo periodo dell’anno in cui la Legione poteva esimersi dal varcare i cancelli.
Ma era arrivata e Marie aveva accettato contro ogni tentativo dei suoi genitori di farle cambiare idea; quando Erwin le aveva alzato il velo e l’aveva guardata come se al mondo non esistesse altro che lei, aveva sorriso e represso il desiderio di rinfacciare alla sua famiglia quanto si sbagliassero.
Invece, a sbagliarsi, era stata solo lei.
 
Divennero molto presto un susseguirsi di giorni e stagioni sempre uguali; una routine quotidiana noiosamente ripetitiva, ma Marie non avrebbe mai ammesso che la notte preferiva dormire sul divano piuttosto che in un letto tristemente vuoto. Aveva iniziato ad evitare quella stanza come la peste, avvertendo un senso di nausea che le impediva di aprire la porta. Aveva creduto, con un po’ di speranza, di aspettare un bambino, poi la verità era sopraggiunta come uno schiaffo improvviso: non era incinta e odiava quel marito che l’aveva incastrata in quella vita che non voleva più.
 
‹‹Avrei voluto che avessi di più››
‹‹Avrei voluto non sposarti››
Marie l’aveva guardato in quegli stessi occhi che in un giorno ormai lontano l’avevano catturata, annebbiata e infine conquistata. Ed era stata cieca, forse stupida, a non accorgersi delle menzogne che albergavano in quelle iridi azzurre e che avevano sempre guardato oltre le sue spalle. C’era qualcosa da cui Erwin non riusciva a distogliere lo sguardo e Marie si era trovata a rimpiangere che non si trattasse di un’altra donna; perché era sicuramente più facile combattere contro una rivale in amore che contro un’ideale.
‹‹Hai ragione››
La stoccata finale aveva fatto più male della premessa con cui aveva aperto quel discorso e continuava a bruciare anche dopo che se ne era andato via.
Marie aveva seguito le sue spalle fino oltre al muretto, poi aveva tirato le tende e si era voltata. C’era stato sicuramente un tempo in cui Erwin aveva creduto che sposarla  fosse la cosa giusta e c’era stato un tempo in cui, probabilmente, ci aveva creduto anche lei.
Ed era triste ammettere che, forse, la sola cosa che li aveva accomunati era proprio quella consapevolezza di essersi sbagliati entrambi.
 
 
 
Angolo dell’autrice
 
Non ho scritto niente fino ad adesso, ma lo faccio ora. Questa flash nasce sul flixbus mentre mi annoiavo a morte, perciò prendetela per quella che è. Non so nemmeno se rientri in una canon divergence, ma vabbé… mi frullava questa idea in testa già da un po’.
Ringrazio chi ha letto fin qui e chi continua a seguirmi. Spero di farcela, ma ho tante ore sul treno da spendere, perciò potrei trovare il tempo di finire questo percorso. E spero tanto di farcela e stare nei tempi.
Ringrazio Auriga e Ellery per essere sempre pronte a massacrarmi e FoolthatIam per la splendida recensione a cui risponderò in tempi umani.  (si spera)
 
Un bacio e al prossimo prompt!
 
Shige

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Capitolo 4
*** Il Re senza corona ***


King

Attenzione Spoiler! Cap 69
 

 
Il Re senza corona
 
 
 
Stava in piedi cercando inutilmente di mantenere un’aria composta e regale ma le mani che teneva giunte all’altezza del ventre non smettevano di tremare. Si sentiva una sciocca; una stupida ragazzina in un abito stretto e troppo scomodo.
Non era fatta per quella vita e non lo sarebbe mai stata. Inadeguata, come sempre, ad indossare panni mai completamente suoi.
‹‹Cosa accadrà ora?›› chiese con un sussurro all’uomo che le guardava le spalle.
‹‹Governerete queste mura›› rispose con voce profonda.
Historia annuì, gli occhi adombrati da un velo di tristezza. Una risposta incisiva che non le lasciava altra via di scampo.
Era davvero pronta per diventare Regina? Era degna di portare il nome dei Reiss e indossare la corona sottratta ad un falso Re?
Le sue mani non erano certo il luogo più sicuro in cui andare a cercare la salvezza dell’umanità; eppure si era dimostrata coraggiosa, forse avventata, ma cosa più importante Historia Reiss aveva un cuore nobile e questo sembrava bastasse per indossare i panni di una Regina. Non a lei, però, che non si era sentita mai abbastanza degna, mai abbastanza e basta.
Era stato facile, anche troppo, mostrarsi al mondo e reclamare un titolo che le spettava di diritto. Non altrettanto, invece, sedersi sul trono e mantenere fede alla promessa fatta.
‹‹E se non ne fossi capace?›› sorrise appena guardando oltre la vetrata che dava sui campi. Si trovò a pensare che tutto quello spazio vuoto fosse un enorme spreco di terra: non era coltivato, né ospitava villaggi, ma solo le magioni di nobili aristocratici che ora tremavano all’idea di perdere il proprio prestigio.
Un titolo valeva così tanto? Historia non sapeva come rispondersi. Da un giorno all’altro aveva dismesso la divisa della Legione e indossato una corona che le provocava soltanto un insopportabile prurito alla testa.
Un prurito che accentuava solo quando Erwin Smith puntava gli occhi su di lei.
Il Comandante stava ritto in mezzo alla stanza, indossando l’alta uniforme che riservava solo per occasioni importanti o, come in quel caso, quando veniva ricevuto da Sua Maestà. Dal giorno della sua incoronazione, era raro vedere Erwin Smith aggirarsi nei corridoi del palazzo. Eppure ora stava lì perché a deciderlo era stata lei: lo considerava ancora il suo Comandante, dopotutto, e aveva ancora bisogno del suo aiuto.
 
Erwin Smith era un uomo instancabile, abbastanza folle da proseguire la sua battaglia con un braccio amputato e rischiare la pena capitale per una scommessa contro il caso; di certo era un rivoluzionario ambizioso che a tratti poteva far paura ma Historia non riusciva a temere quell’uomo stranamente taciturno. Ne ammirava la mente lungimirante, l’astuzia con cui tesseva i suoi inganni e la tristezza che adombrava quello sguardo. Perché Erwin Smith sembrava aver perso molto più che un semplice un braccio: per ogni sua scelta, ogni sacrificio, ogni goccia di sangue versato, egli aveva assistito inerme che la sua anima venisse fatta a brandelli e divorata da un buco nero infernale che si apriva ai suoi piedi. Eppure sembrava non curarsene affatto, come se già avesse accettato quell’ignobile destino.
Era fatto così, il Comandante Smith, quando si trattava di prendere una decisione: qualcuno doveva caricarsi sulle spalle il peso delle conseguenze ed egli sembrava disposto a farlo. Ognuno aveva una parte da recitare e poco importava se ci si sentisse inadeguati o incapaci di interpretare quel ruolo. Qualcuno doveva farlo e come a lui era toccato di portare avanti quella rivoluzione, a lei spettava di ripristinare un clima di fiducia e spezzare le catene che sottomettevano i disgraziati figli di nessuno. 
Ad Erwin Smith non importava se lei sarebbe stata una sovrana migliore del precedente, ma solo che ci fosse una Reiss su quel trono e non un usurpatore. Quindi era stato solo per un fortuito caso se le era toccata quella sorte, perché, se Frieda fosse stata viva, la ruota del destino avrebbe girato diversamente.
Invece la sua famiglia era stata spazzata via insieme a tutti i suoi oscuri segreti e al sorriso di sua sorella. L’ultimo, Rod Reiss, l’aveva ucciso lei: la figlia bastarda nata dal ventre di una contadina.
Di fatto, non aveva nulla di speciale che la rendesse un sovrano degno di quel titolo. Soltanto la coincidenza di portare un cognome che per anni aveva temuto di pronunciare e che Erwin Smith aveva riesumato come un cadavere ormai in decomposizione.
Perché per Historia il titolo di Re era morto insieme ai Reiss quella notte di cinque anni prima; per quanto la corona le calzasse a pennello, quella terra non aveva bisogno di essere guidata né da un Re, né da una Regina, né tanto meno da lei.
Serrò i pugni, voltandosi di scatto.
Poche cose sapevano cogliere alla sprovvista un uomo come Erwin Smith, e ancora meno quelle capaci di sorprenderlo. Davanti a lui non stava più una Regina, ma una bambina fragile e spaventata che si era gettata di slancio contro il suo petto, aggrappandosi alla sua divisa e bagnandola di lacrime.
Erwin si irrigidì appena, incapace di fare alcun ché per calmare quel fragile esserino tutto tremante. Historia si era abbandonata ad un gesto folle, dettato dalla stupida e infantile paura di essere vista come uno sbaglio.
 
Come ogni volta che gli occhi di sua madre incrociavano i suoi…
 
Historia piangeva e non aveva vergogna di farlo, cacciando in un angolo l’aria composta che si addiceva ad una regina. In quel momento, non voleva possedere alcun titolo, né una corona da indossare, ma solo sentire la mano di Erwin Smith posarsi delicatamente sopra la sua testa.
Smise di singhiozzare quando le sue dita scivolarono lungo la chioma bionda, scompigliandola appena, in un gesto un po’ impacciato e disordinato. Restarono a lungo in silenzio: Historia avvertiva soltanto il lieve sospirare del Comandante mentre la mano scorreva leggera sulla nuca.
‹‹Una Regina che ha avuto l’ardire di colpire il Capitano Levi non dovrebbe piangere›› disse ammorbidendo la voce. Il volto arrossato di Historia emerse dalla camicia, perdendosi nelle iridi profonde del Comandante Smith. Era solo una stupida ragazzina che si era dimostrata ancora una volta troppo debole e troppo spaventata per quel mondo crudele che stava fuori dalla finestra. Era solo una bambola di pezza pronta a scucirsi in qualsiasi momento, mentre quell’uomo era, al contrario, una statua di marmo: poteva scalfirsi o perdere un braccio ma restava sempre in piedi.
Erwin le sorrise sfiorandole la guancia rigata di lacrime e di nuovo tornò prepotente quel pensiero che il mondo non avesse bisogno né di un Re né di una Regina.
Si allontanò lentamente asciugandosi il volto.
Si potevano dire tante cose di Historia Reiss: che fosse troppo gentile per quel mondo, troppo delicata per essere ancora viva e che avesse imparato a leggere negli occhi delle persone prima che sulle pagine di un libro. E in quelle iridi chiare, ella vi lesse la stessa tristezza che la affliggeva da quando aveva indossato la corona: vestivano entrambi degli abiti troppo stretti, ma qualcuno doveva pur farlo.
 
‹‹Siete voi ciò di cui l’umanità ha bisogno, Comandante.›› Disse scacciando via la debolezza che l’aveva travolta.
‹‹ Non di un Re, non di una Regina, ma voi. Io non sono che una ragazzina che ha ancora molto da imparare ed è per merito vostro, del vostro sogno, del vostro coraggio, della vostra folle ambizione se ora sono seduta su questo trono e se un giorno l’umanità conoscerà la verità. Ai miei occhi, voi siete un Re senza corona che non ha bisogno di sedersi sul trono per essere un simbolo. Pertanto, sarò io al vostro servizio e mai il contrario.››
Un fascio di luce penetrò attraverso il vetro, disegnando una sottile striscia luminosa lungo il volto del Comandante.
‹‹E’ questo ciò che fa di voi una vera Regina.›› Disse sorridendo.
‹‹Non il vostro cognome né la mia folle ambizione ma la vostra capacità di mettervi sempre al di sotto degli altri e mai in cima. Non fraintendetemi, non vi ritengo una debole, ma una pura di cuore perché per salire in cima alla vetta, Maestà, bisogna calpestare le teste dei propri compagni e sporcarsi le mani. Le vostre non dovranno mai più sporcarsi di sangue perché le mie…›› si fermò contemplando il vuoto lasciato dal suo braccio sorridendo amaramente ‹‹la mia lo farà al vostro posto.››
Historia osservò i suoi lineamenti e con un gesto lento gli afferrò la mano sfiorandone i polpastrelli: era grande quella del Comandante Smith, capace di contenere la sua. C’era qualche callo e minuscoli tagli a segnare la pelle ruvida. Ne assaporò il calore, tracciando con la punta delle dita dei sentieri lungo i solchi della mano.
La richiuse delicatamente, sfiorando le nocche e con sguardo deciso si rivolse all’uomo che la osservava addolcito da quel gesto.
‹‹Mi auguro che un giorno possiate toccare la vita, oltre che la morte, Comandante Smith››
 
 
 
 
Angolo dell’Autrice
 
La Erwinweek è finita da un pezzo, lo so, ma ci tenevo a completarla ugualmente. Quando era stato il momento di scrivere King non avevo nessuna ispirazione né la motivazione giusta per farlo. Avevo svariate idee che ho accantonato subito perché sentivo che non era ancora il momento per scriverlo.
E poi accade così che ti trovi sul treno a pensare che sia stata l’ennesima giornata di merda ed eccola lì, l’ispirazione che ti fa ciaociao dal finestrino. Forse non è la cosa più geniale che la mia mente abbia mai partorito, ma guardando il mio riflesso nel vetro ho visto Historia ed Erwin dietro di lei: e così ho scritto.
Spero che vi sia piaciuta e se avete qualcosa da dirmi sono qui a vostra disposizione come sempre.
Come al solito ringrazio Auriga e Ellery per essere sempre lì pronte a menarmi se non scrivo qualcosa e per esserci sempre in qualunque momento della giornata.
Ringrazio anche FoolThatIAm e Lady Five per averla messa tra le seguite e tutti coloro che leggono in silenzio.
 
Avevo davvero bisogno di scrivere di Erwin. Non pensavo che un personaggio mi sarebbe mancato così tanto.
 
Un bacio.
 
Shige

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Capitolo 5
*** Ti regalo un sogno ***


Birthday
 
Attenzione! Spoiler 84
 
 
Ti regalo un sogno
 
Aveva fatto irruzione nel suo ufficio come suo solito senza bussare, sfoggiando una maschera incazzata che indossava sempre già di prima mattina.
‹‹Buongiorno›› aveva esordito Erwin, annoiato davanti ad una pila di fogli, col gomito appoggiato alla scrivania e la testa che ciondolava in avanti. Se Levi avesse dovuto ringraziare per qualcosa sarebbe stato per la cortesia che gli aveva fatto Erwin di risparmiargli quella tortura. Sottomettere i mocciosi era sicuramente più appagante e meno noioso che scartabellare documenti per tutto il santo giorno.
‹‹Buongiorno un cazzo›› aveva ringhiato a denti stretti, lasciandosi cadere pesantemente sulla sedia con la speranza di catturare così la attenzione del Comandante.
Se quei dannati occhi si fossero degnati di sollevarsi e incrociare i suoi, anche solo per un istante, avrebbero visto la rabbia che covava in segreto da giorni, il desiderio di rompergli sul serio quelle gambe e, perché no, magari amputargli anche l’altro braccio. Se Erwin avesse alzato gli occhi, invece di guardare quei maledetti fogli e avesse guardato lui – una volta, una soltanto - si sarebbe reso conto della cazzata che stava per fare. Invece teneva lo sguardo basso, come se quella rabbia potesse leggerla su quei fogli, confusa tra le righe d’inchiostro.
‹‹I mocciosi sono impazienti›› aveva tagliato corto, assottigliando lo sguardo.
‹‹Di fare cosa?›› Erwin si era abbandonato lungo lo schienale massaggiandosi la radice del naso, accrescendo così il suo nervosismo già ben oltre il limite di sopportazione.
‹‹Di morire, immagino, visto che tra un paio di giorni partiremo per Shingashina. O te ne sei forse dimenticato?›› aveva esultato in silenzio perché ora aveva la sua più completa attenzione, ma il sorriso interiore si spense quando lo sguardo stanco di Erwin aveva incrociato il suo.
 
Dal cortile giungevano gli schiamazzi dei soldati appena scesi dalle brande che si apprestavano a completare gli ultimi preparativi prima della partenza. Poteva sentire le loro fastidiose risate, forse le ultime che avrebbero riscaldato le pareti della caserma, facendolo incazzare non più di quanto facesse Erwin semplicemente restando in silenzio.
Parlava molto, il Comandante, snocciolando paroloni da aristocratico che molto spesso faticava a comprendere; un’altra delle sue tecniche da psicotico, aveva capito col tempo, per camuffarsi e rovesciare sul mondo una valanga di stronzate per nascondersi ai suoi occhi.
‹‹Lo so...›› aveva risposto dopo un lungo sospiro, distogliendo lo sguardo liquido e troppo stanco anche solo di leggere quelle cazzate.
Ed eccolo lì.
Non il Comandante.
Non Erwin Smith.
Semplicemente Erwin. E basta.
Nei rari momenti in cui dismetteva l’uniforme e teneva la bocca chiusa, si lasciava andare a lunghi sospiri con cui sembrava liberarsi dei sensi di colpa e del peso di quelle scelte che gli avevano sporcato la coscienza; di quell’aria, infetta e nauseante, che bruciava i polmoni e lo faceva camminare a schiena dritta. Si gonfiava come un pallone, galleggiando tra quelle teste troppo ottuse e troppo stupide per capire, ammirare e amare un uomo come lui; che non conoscevano il prezzo di stare lì, in cima, a guardare oltre quelle nuvole di ignoranza in cui quelle teste gravitavano e oltre cui Erwin si ergeva a guardare per loro; e lo faceva sanguinando in silenzio, martoriato, umiliato, deriso da quegli idioti che non sarebbero mai stati in grado di vedere oltre il proprio naso e vedere lui. Soltanto lui.
Ora, invece, stava con le spalle ricurve, sorreggendosi la fronte con l’unica mano rimastagli.  
Eccolo, il vero Erwin: un uomo stanco e schifato da quell’aria malsana che era costretto a respirare e che tuttavia lo teneva in piedi. Stanco di un mondo e di un sogno che lo stava consumando, strappandogli via quel poco che di bello c’era ancora e che era riuscito a vedere persino lui, Levi, che in quella vita aveva solo conosciuto la rassegnazione di essere sempre il solo a tornare.
Guardandolo, Levi aveva capito che non sarebbe bastata una vita intera per conoscere Erwin Smith, figuriamoci cosa potevano significare sei anni a confronto.
Eppure, non riusciva ad allontanare il pensiero che per lui avevano significato e continuavano a significare ogni cosa.
‹‹Scommetto che non hai dormito per un cazzo›› lo aveva apostrofato.
Erwin si era riscosso mentre un sorriso amaro era comparso sul volto.
‹‹No. Non molto, direi››
‹‹Beh, dovresti… Sembri un cadavere.››
‹‹Molto gentile da parte tua preoccuparti per me››
‹‹Risparmiami le tue galanterie e fatti una cazzo di dormita›› aveva risposto sbrigativo allontanandosi dalla sedia. A passo svelto aveva aggirato la scrivania piantandosi davanti a lui.
Era stufo marcio di quella situazione. Stufo di ripetergli di fermarsi una buona volta e stare a guardare invece di buttarsi nella mischia.
Erwin aveva alzato lo sguardo, sfinito anche lui da quel ripetersi all’infinito della stessa questione. A Levi non andava giù e lui, semplicemente, non sapeva che farci.
‹‹Perché non riesci ad accettare che sei stanco, Erwin? Perché non puoi startene seduto su una cazzo di sedia e restarci tutto il giorno mentre noi andiamo a riprenderci il Wall Maria?››
Sempre le stesse domande.
‹‹Perché è giusto così, Levi. Te l’ho già spiegato.››
Sempre le stesse risposte.
C’era tanta stanchezza nel suo tono di voce ma gli occhi di Levi bruciavano, letteralmente, ogni sua difesa, ogni suo tentativo inutile di rimandare la questione.
‹‹Ah per quella stronzata del sogno! Ma certo! Vai a farti sbranare dal primo titano che passa solo per aprire una maledetta porta!››
‹‹E’ molto di più di una semplice porta. Lo sai anche tu››
‹‹E’ lo scantinato di uno Jaeger. A parte polvere e vino di pessima annata, non credo proprio che troveremo niente di importante››
Erwin aveva inarcato un sopracciglio per la sorpresa di vedere, per la prima volta, le sue idee sbeffeggiate in quel modo.
‹‹Pensavo ti fidassi di me›› aveva commentato con una punta di fastidio.
‹‹Certo che mi fido di te! Ma se non fidandomi è il solo modo che mi resta di tenerti rinchiuso qui, allora ben venga››
Erwin si era vagamente risentito di quella affermazione, ma non riusciva comunque a dargli torto. Poteva leggergli negli occhi quanto, in realtà, gli costasse tirare avanti con quella storia del sogno di suo padre e che forse avrebbe ucciso anche lui. Levi non l’avrebbe permesso. Aveva fatto e dato troppo: per quella causa, per quell’umanità ingrata e ottusa, per la Legione e per lui che non aveva mai pensato di meritare niente di tutto ciò che Erwin, in silenzio, gli aveva regalato.
 
“Vuoi un sogno da seguire, Erwin? Ti regalo il mio! Fingiamo che sia il tuo compleanno e prenditi il mio dannato sogno di vederti ancora vivo al mio rientro. Di saperti qui, a leggere i tuoi cazzo di rapporti, a stilare piani, a rovesciare governi. Questo è il mio sogno, il mio regalo, vedilo come cazzo di pare, ma prendilo, è tuo. Fanne ciò che vuoi! O forse non è abbastanza grande quanto il tuo di sogno? In fondo, il mio non è nient’altro che un sogno insignificante e stupido, ma almeno non consuma, non logora, non uccide il mio sogno. Non ti ho mai regalato niente, mentre tu mi hai donato tutto… perciò prendi il mio di sogno e abbraccialo, ed io abbraccerò il tuo, anche se l’ho già fatto e lo rifarei ancora…”
 
‹‹Che c’è Levi?››
Era bastato il suo sguardo a riportarlo in quello studio, cacciando quel discorso che suonava meglio dentro la sua testa che non sulle sue labbra.
‹‹Niente›› si era affrettato a rispondere per impedire ad Erwin di entrare nei suoi pensieri. ‹‹Notavo che tra un mese è il tuo compleanno››
Sprezzante, come sempre, era ritornato al suo posto accettando la sconfitta; dopotutto, era l’uomo più forte dell’umanità solo quando stava fuori da quelle mura.
‹‹Stai pensando ad un regalo?›› aveva sorriso, un sorriso nervoso, ma pur sempre un sorriso che gli aveva rilassato i muscoli del volto e delle spalle. Per un attimo, per un breve e fugace istante, Erwin si era sentito libero delle sue responsabilità. Glielo leggeva – eccome se glielo leggeva – in quegli occhi che non smettevano di sorridergli in un tacito ringraziamento per aver deposto per primo le armi.
‹‹Magari te l’ho già fatto››
‹‹Sarebbe la prima volta. Potrebbe venire a nevicare››
‹‹Non sarebbe poi tanto male, non credi?››
 
 
 
 
 
 
 
Davanti a lui stava una sedia vuota e quelle ultime parole pendevano sopra la sua testa come una condanna.
Era il 14 di un ottobre lontano, cupo e freddo. Fuori nevischiava piano; cosa insolita in quel mese dell’anno, ma di cose insolite ne erano accadute anche troppe in quegli ultimi anni, e aveva finito per non stupirsi più di nulla. Il mondo che avevano conosciuto non c’era più, come non c’era più il Comandante a gustarsi la vista di quel sogno divenuto realtà.
La loro realtà, non la sua.
Non si respirava aria di festa, nemmeno ora che avevano ottenuto quella meritata libertà, soltanto la stessa aria malsana e putrida che Erwin aveva ingoiato per anni e da cui lo aveva liberato pensando di fargli un favore. Eppure, tornava ancora l’immagine di lui, disteso al suo fianco, con la sua mano a reggere il destino e non più una siringa.
Ancora una volta a scegliere; ancora una volta a sbagliare; ancora una volta a ricominciare senza rimpianti.
Ma non era la stessa cosa ora che Erwin non era e non sarebbe più stato lì, in quello studio o altrove a guidarlo, a vegliarlo o stando semplicemente lì ad ascoltarlo in silenzio. E non perché a portarselo via era stato un Titano Bestia, una caduta da cavallo o lo squarcio nel fianco ma una scelta. Sua, per giunta: sconsiderata, azzardata, inspiegabile scelta di liberarlo da quel mondo infame che voleva tenerlo imbrigliato. Il mondo aveva bisogno di vedere i suoi ideali pesare sulle spalle di un uomo soltanto. Ed era tutto più facile quando qualcun altro si assumeva quella responsabilità di lottare e sporcarsi le mani.
Finché non aveva deciso che aveva visto abbastanza. Che di sangue ne era stato versato tanto e anche troppo mentre lui stava a guardare e che un uomo non poteva reggere tutto quel peso solo sulle proprie spalle; ed Erwin era il tipo di uomo che avrebbe retto il peso del mondo per non farlo pesare sugli altri. Era giunto il momento che il mondo imparasse a sporcarsi le mani da solo, come aveva fatto Erwin, come aveva fatto lui e come avevano fatto i mocciosi in nome di un’ideale, di un sogno – assurdo, fantastico e meraviglioso – e combattesse per se stesso, una volta tanto.
Rimpiangeva solo che Erwin non fosse più lì ad ammirare tutto quello che aveva creato spianando la strada.
Serrò il pugno guardando la sedia e quel vuoto desolante che la sua morte aveva lasciato e che non sapeva come riempire: un intervallo tra lui e il resto del mondo in cui Erwin si incastrava perfettamente.
 
 
 
Angolo dell’autrice
 
Non posso credere di aver completato questa raccolta. Sono seriamente combattuta all’idea di concluderla così, con questo pezzo che mi è costato parecchio scriverlo. Mi ci è voluto un po’, da quel fatidico mese di Agosto per metabolizzare quello che è successo e dargli una spiegazione. Alla fine mi sono arresa e ho cercato di vedere Erwin attraverso gli occhi di Levi, cercando di capire quello che ha fatto, mettermi nei suoi panni e muoverlo senza paura di sbagliare. Non è stato semplice, ma alla fine eccolo qui, anche se non è un regalo di compleanno allegro e purtroppo pieno di angst… Spero mi perdonerete se ricado sempre nel loop del lutto.
Vorrei ringraziare prima di tutto Auriga ed Ellery per leggere sempre con entusiasmo i miei racconti. Vi voglio un bene immenso e questa raccolta è tutta per voi (Anche se di Eruri qui non ce n’è manco l’ombra quindi non sforzatevi troppo a cercarla XD)
Infine, vorrei ringraziare Divergente Trasversale per le sue recensioni magnifiche e per quelle parole che ogni autrice che bazzica da queste parti, spera sempre di sentirsi dire una volta nella vita.
Ringrazio chi ha letto, chi si è fermato, chi ha continuato e chi ha apprezzato questa raccolta.
Mi piacerebbe proseguirla o fare una raccolta a parte perché mi è tanto caro il Comandante che non riesco proprio a dirgli addio.
 
Un abbraccio a tutti
 
Shige
 

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Capitolo 6
*** Attraverso i suoi occhi ***


Death

Attenzione Spoiler! Cap 84-86
 
 
Attraverso i suoi occhi
 
 
 
‹‹Sapevo che eri qui››
Non c’era stato bisogno di cercarla in posti troppo lontani; era bastato tornare là dove tutto era iniziato, in quella stanza tristemente vuota che odorava ancora della sua presenza. 
Sul ciglio della porta, aveva aspettato invano un gesto che la invitasse ad entrare e a sedersi su quel letto dove lei non osava posare gli occhi. E in quell’attesa logorante, si era guardata attorno riconoscendo a stento, in quell’ordine, la camera del Comandante.
‹‹Sapevo mi avresti trovata›› aveva mormorato appena; rigida come una statua stava seduta sul bordo del letto ad osservare dalla finestra un cielo terso ma senza sole.
L’altra era rimasta a fissarla con la schiena appoggiata alla parete e le braccia incrociate sul petto. Non poteva vederla in faccia, ma sapeva che aveva appena smesso di piangere. Si era morsa il labbro inferiore, reprimendo il desiderio che aveva di fumare e l’aveva raggiunta sul letto, sedendosi al suo fianco.
Subito lei aveva nascosto il viso arrossato dietro le ciocche castane, ma a nulla era servito nasconderle che aveva appena smesso di piangere. L’altra aveva sospirato, rammaricandosi di non poter fare nient’altro che starle accanto.
‹‹Ci hai parlato?››
‹‹No e tu?››
‹‹Non riesco nemmeno a guardalo in faccia››
‹‹Nemmeno io››
Il gracchiare di un corvo aveva spezzato il gelido silenzio piombato nella stanza, riportando entrambe a rivivere l’assurdità di quella giornata.
‹‹E dire che l’avevi anche previsto›› aveva detto smorzando i toni. Tra le mani reggeva l’ultima sigaretta che le era rimasta. La voce di lui era tornata prepotente nella sua testa a ricordarle quella promessa che ora voleva infrangere. Le sue parole e quella assurda richiesta di smettere di fumare non avevano più alcun valore per lei. Non più. Non ora che Erwin non c’era più e lei stava lì, sul bordo di quel letto, ad osservare un’altra donna che a quell’uomo doveva tutto.
‹‹Tu ci hai creduto fino alla fine invece›› gli occhi arrossati la fissavano da dietro al frangia scompigliata. Un accenno di sorriso su quel volto smunto le aveva riportato alla memoria i giorni passati sulla cima di quelle mura. Ad aspettarli. Ad aspettarlo. E in quell’attesa logorante si erano scambiate battute per alleggerire il peso di quella consapevolezza che non aveva ancora il coraggio di accettare. L’altra, invece, era stata fin troppo realistica, quasi fatalista: “Non torneranno” aveva detto “Lui non tornerà più”.
E per quanto si era sforzata di ammettere che avesse torto, per quanto si era convinta che il Comandante sarebbe tornato, aveva dovuto ricredersi quando sulla cima di quelle mura, Levi era tornato insieme ai brandelli della Legione.
E fra quelli lui non c’era.
‹‹Non pensavo che sarebbe andata in questo modo›› aveva sussurrato mentre l’altra adagiava la testa sulle sue ginocchia. Le dita scorrevano tra i capelli sparsi sulla gonna e sul volto che con dolcezza glieli aveva cacciati indietro. Sapeva che a lei faceva più male che a chiunque altro. Sapeva che il dolore che lei provava non sarebbe mai stato possibile paragonarlo al suo.
Per questo non aveva aggiunto altro e l’aveva cullata dolcemente, ascoltando gli ultimi rintocchi dell’orologio che annunciavano la fine della veglia.
 
‹‹Fanculo!›› un poderoso calcio aveva spalancato la porta facendole sobbalzare. La figura si avvicinò a passo di carica, masticando insulti e sbraitando maledizioni verso colui che aveva combinato quel disastro.
‹‹Che sia dannato lui e la sua stirpe!›› aveva ringhiato tra i denti marciando avanti e indietro davanti ai loro occhi.
‹‹Doveva fare una scelta! Una soltanto! Ed è riuscito a fare solo un casino!››
‹‹Calmati››
‹‹E se ne esce con quella stronzata del non avere rimpianti! Fanculo i rimpianti! Doveva salvare Erwin non quel moccioso coi rubinetti al posto degli occhi! Erwin, santo cielo! Era così difficile?››
‹‹Ascolta...››
‹‹Cosa dovrei ascoltare? Cosa? Quel deficiente aveva la possibilità di salvarlo e non l’ha fatto! Come si fa ad essere così…stupidi›› si era lasciata cadere mollemente sul letto e dopo lo sfogo si era sentita più stanca di prima.
‹‹Tu pensi a fumare e quell’altra non ha smesso di piangere un secondo. Come diavolo ci siamo ridotte›› aveva sussurrato contro la sua spalla.
‹‹E in tutto questo siamo dei fottuti giganti.››
‹‹E siamo su una fottuta isola››
‹‹E quel moccioso vuole andare a vedere l’oceano››
C’era stato un lungo silenzio in cui tutte e tre erano rimaste immobili in quella posizione un po’ patetica a fissare il cielo farsi sempre più scuro. Un altro giorno era trascorso e nessuna delle tre sembrava intenzionata a muoversi, sebbene i crampi della fame cominciavano a farsi sentire.
‹‹Zacklay vorrebbe riceverci›› aveva detto sollevando la testa dalla sua spalla. L’altra aveva abbassato lo sguardo sulla compagna che riposava sulle sue ginocchia.
‹‹Mi sembra un po’ tardi per ricorrere ai ripari, no?››
‹‹Fanculo… meglio noi che lasciare tutto nelle mani di quei mocciosi e di quel coglione.››
Le aveva sorriso debolmente gettando lo sguardo sullo stemma ricamato sul suo mantello.
Una colomba su uno scudo rosso.
‹‹Ogni tanto mi sveglio e penso sia stato solo un brutto sogno›› aveva esordito guardandosi attorno ‹‹Lo vedo ancora seduto alla sua scrivania, circondato da pile di fogli e scartoffie in disordine››
‹‹Come diavolo facesse a vivere in quel casino…››
‹‹Ci pensava Levi›› aveva detto l’altra sollevando la testa dalle ginocchia.
‹‹Se solo si fosse fatto una…››
‹‹Non interromperla›› l’aveva ammonita severa, addolcendo lo sguardo solo dopo per invitare la compagna a proseguire il discorso.
‹‹Mi fa male pensare che fosse arrivato ad un passo dall’aprire quella dannata porta e che sia stato strappato via in questa maniera così…››
‹‹stupida…››
‹‹ingiusta…››
‹‹ignobile, piuttosto… Erwin era il tipo d’uomo che si sarebbe trascinato con i denti fino a quella cantina. Avrebbe lottato, come sempre d’altronde, e non si sarebbe arreso come non l’aveva fatto quando si era ritrovato senza un braccio. Era il tipo d’uomo che ti faceva saltare i nervi perché lui aveva uno scopo mentre io… mentre noi … non riuscivamo a trovare una ragione per alzarci la mattina. E cazzo… lui ce l’aveva stampata negli occhi quella voglia di uscire, di scoprire, di fuggire da qui. E come gli brillavano quegli occhi quando parlava di suo padre, delle sue teorie, quando aveva scoperto di aver sempre avuto ragione; quando sognava di aprire quella porta… Lui non sarebbe rimasto deluso di sapere di essere su un’isola… Lui era un uomo che non si sarebbe arreso nemmeno di fronte a questa scoperta scioccante, mentre noi abbiamo perso la voglia di andare avanti. Abbiamo perso l’interesse… ma siamo giganti per l’amor del cielo! E invece siamo qui a piangerci addosso perché lui non c’è più e non ce ne frega più niente di essere parte di un gioco più grande di noi. Perché lui non c’è più a guardare tutto questo e noi guardavamo questo mondo di merda attraverso i suoi occhi. E questo mondo ha smesso di interessarci perché non c’è più lui a guardarlo per noi… ma così facendo… non sarebbe come ucciderlo per la seconda volta?›› si era voltata a guardare entrambe ed entrambe avevano abbassato lo sguardo vergognandosi. Lei aveva sospirato stringendo loro le mani.
‹‹Abbiamo amato ogni parte di quest’uomo più di quanto avremmo mai potuto amare qualcun altro e ora che non c’è più abbiamo perso anche lo scopo che ci guidava. Ma penso che Erwin – ovunque egli sia - sia sufficientemente incazzato per come sia andata, senza che anche noi ci logoriamo il fegato. Non c’eravamo noi su quel tetto, non è toccato a noi scegliere tra lui e Armin, non sapremo mai come sarebbe andata se ci fossimo state noi al posto di Levi. Possiamo solo convivere con ciò che ha fatto… Accettarlo no… ma conviverci è tutto ciò che ci rimane da fare››
‹‹Oh ti prego anche tu con queste cazzate››
Entrambe rivolsero uno sguardo accusatorio verso la compagna che aveva appena esordito con quell’espressione colorita.
‹‹Ad ogni modo›› aveva ripreso ‹‹credo che portare avanti il sogno di Erwin sia il nostro scopo d’ora in poi. Perché è giunto il momento che sia lui a guardare il mondo attraverso i nostri occhi. Questo almeno glielo dobbiamo››
C’era stato un alto lungo silenzio interrotto dal vociare sommesso dei soldati che rientravano in caserma. La veglia per il Comandante era ormai finita e fuori dalla finestra una sottile scia di fumo indicava che il rogo funebre era stato spento. Le ceneri di Erwin erano state raccolte dal vento e portate oltre quel limite che gli aveva sempre impedito di andare avanti. Forse avrebbero visto l’oceano, forse si sarebbero spinte in quella terra lontana che un tempo li aveva generati. Ancora una volta, Erwin avrebbe tracciato loro la strada da seguire, prima di dissolversi nel vento e godersi lo spettacolo da un punto più alto.
‹‹Zacklay ci aspetta›› aveva detto tirandosi in piedi. Tra le mani aveva ancora quel pacchetto vuoto in cui l’unica sigaretta rimasta la supplicava di essere consumata.
‹‹Speriamo che ci faccia massacrare la faccia di Levi!››
‹‹Ne dubito, fortemente›› aveva detto la più piccola delle tre, asciugandosi le lacrime prima di seguire l’altra fuori dalla porta.
‹‹Non vieni?›› si era voltata a guardare la compagna che si rigirava tra le mani il pacchetto. Aveva sollevato lo sguardo incrociando il suo e debolmente le aveva sorriso.
‹‹Dammi un secondo››
L’altra aveva annuito dolcemente e si era richiusa la porta alle spalle dandole non un secondo ma tutto il tempo di cui aveva bisogno per chiudere quella faccenda.
Si era avvicinata allo scrittoio perfettamente in ordine e con un dito aveva percorso il bordo intagliato fino a raggiungere la cassettiera e lì si era fermata.
L’orribile unicorno verde stava ancora lì, a prestare servizio come fermacarte invece di stare in soffitta insieme a tutta la restante paccottiglia di cui si era liberato anni prima.
Aveva scosso la testa accarezzando il dorso dell’animale di vetro. Ancora una volta il ricordo della sua voce l’aveva pugnalata alle spalle e la sua mano si era ritratta come scottata.
Perché mi dite tutti che dovrei buttarlo via?
‹‹Perché è l’oggetto più brutto che io abbia mai visto in vita mia, stupida vecchia volpe. E ora che sei morto, nessuna mi vieta di prenderlo e buttarlo via o lanciarlo fuori dalla finestra. Eppure non posso farlo… perché questa schifezza mi ricorda te ed è assurdo, non ti pare? Che con tutto quello che hai fatto io ti voglia ricordare con questo vecchio oggetto che per giunta ha scelto Nile. Per uno come te sarebbe stato più consono un ritratto, una camicia, un qualcosa che mi ricordi il tuo volto, il tuo profumo, i tuoi occhi… Invece non c’è più niente di te. Sei cenere al vento e fa male realizzare solo adesso che tu non camminerai mai più su questa terra.››
Aveva stretto il pugno, stritolando il pacchetto di sigarette. Le lacrime premevano di uscire ma le aveva ricacciate indietro perché non era più il momento di piangere.
Non avrebbe versato lacrime per Erwin Smith, ma solo fiumi sangue.
Decisa, la mano aveva afferrato la maniglia del cassetto e l’aveva tirata verso di sé. Con un gesto secco aveva cacciato dentro l’ultima sigaretta, prima di richiuderlo di colpo.
‹‹Stupida vecchia volpe…›› un sorriso prima di volgere le spalle allo scrittoio e a quella stanza ‹‹Ti avevo persino detto che saresti dovuto morire per farmi smettere di fumare. Non pensavo mi prendessi alla lettera››
Chiuse la porta dopo aver osservato per l’ultima volta la stanza.
 
 
Angolino dell’autrice
 
Non ho scritto né King né Birthday ma ho in programma di farlo, anche se tecnicamente per Birthday ho postato una foto su tumblr. Per chi volesse (autospammaggio mode on) potete trovarmi qui https://www.tumblr.com/blog/shige90
 
Comunque veniamo a noi a spiegarvi l’assurdità di questa One-Shot… Questa voleva essere un omaggio alle mie compagne di avventura Auriga e Ellery rappresentate rispettivamente da quella che piange e da quella che urla. Io sono quella che fuma… E lo so può sembrare un po’ pretenzioso ma mi piaceva l’idea di raccontare la morte di Erwin nel modo in cui noi tre l’abbiamo vissuta. Sarebbe stato troppo difficile per me immedesimarmi in questo momento nei panni di Hanji o di Levi o di chicchessia.
 
La storia dello stemma della colomba è una stronzata concepita durante una delle solite chiacchierate notturne su Skype in cui, in preda al forte desiderio di strangolare Isayama, avevamo immaginato di far parte di una squadra d’élite chiamata “Le tortorelle di Zacklay” perché, sicuramente, se avessimo ricevuto noi l’ordine di somministrare il siero, non avremmo sbagliato braccio. Poco ma sicuro.
 
Il cavallino verde, ormai oggetto ricorrente che troverete anche nella mia longfic, è un tributo ad Ellery e alla sua storia. Attorno a questa bomboniera è nata una storia che è divenuta ben presto leggenda e vi posso lasciare immaginare quali atrocità siano state concepite dalle nostre menti malate.
 
In tutto questo ci tenevo a ringraziare Auriga e Ellery con questa One-shot per tutto ciò che ci siamo dette e per tutto il supporto che sappiamo darci l’un l’altra.
 
Grazie ragazze… per l’affetto, per le stronzate e per il tempo.
 
Soprattutto il tempo…
 
Un bacio
 
Shige

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Capitolo 7
*** Inferno ***


 
Afterlife
 
Inferno
 
 
 
L’inferno.
Che posto è l’inferno?
 
È l’ipocrisia, l’ingiustizia che ricopre la terra?
O è il sangue misto a polvere che ricopre i cadaveri delle battaglie che abbiamo perduto?
Stava dentro o fuori quelle mura? Tra i giganti o tra gli uomini?
Eravamo noi – quell’inferno – noi con le nostre paure, le nostre incertezze, le nostre debolezze, o il nostro coraggio con cui abbiamo sfidato il mondo e superato ogni limite? Valicando barriere, infrangendo le regole, sradicando i sistemi che ci tenevano imbrigliati, imprigionati come schiavi.
O erano gli altri, forse, con le loro sentenze, le loro aspettative, il loro giudizi? Giudizio per cui viviamo e infine moriamo senza sapere mai veramente chi siamo.
 
Cos’è l’inferno e cosa non lo è?
È forse fuoco? È forse ghiaccio? È terra, è guerra? È trambusto, è silenzio?
È la città da cui scappi o il porto in cui approdi?
 
Oppure è quel nulla. Semplicemente il nulla.
Spazio vuoto da riempire con l’inferno che meritiamo perché non esiste punizione peggiore di quella che infliggiamo a noi stessi.
Il nulla.
Il bianco che acceca. Il muto silenzio di una stanza senza confini, una prigione senza sbarre, una libertà di cui non sappiamo che farcene.
 
Spazio dove l’occhio vaga senza sapere cosa guardare o cosa cercare.
Infinita libertà di guardare un eterno nulla.
 
E in mezzo a quel nulla, egli è solo un puntino, niente di più di una macchia che sporca la tela. Chino su quella fontana ad osservare il suo silenzioso mutare dell’acqua nelle scelte che non si è mai perdonato. Cambiare scenari, sotto i suoi occhi, di quella vita che ha lasciato troppo presto. Imperdonabile sensazione di non aver fatto abbastanza, di non essere stato abbastanza; e rabbia – troppa rabbia – per l’abbandono, il tradimento, l’umiliazione di essere stato nient’altro che un corpo vecchio e stanco.
 
‹‹Erwin…››
 
Il richiamo è vicino, eppure è lì che vuole stare. Sul bordo di quella fontana, ad aspettare, forse, che qualcosa accada. Svegliarsi da quell’incubo e tornare su quel tetto: è questo ciò che vuole.
 
Non sono pronto. Non adesso. Non ancora. 
 
Stringe gli occhi e serra i denti.
Il pugno spacca l’acqua.
 
Perché? Perché? Perché?
 
Lo specchio d’acqua si ricompone in fretta, indifferente e sordo alle sue grida, a quella personale ingiustizia, a quel torto subito.
 
‹‹Erwin…››
 
Non si volta. Non la vuole quella verità.
La verità quella per cui sarebbe morto – cento e mille volte ancora su quel campo e non sul tetto- è oltre quello specchio d’acqua, dove galleggiano ancora gli occhi grigi di Levi.
E sempre c’è una barriera tra lui e quella verità: una fontana, un muro, un falso re, la porta di una cantina, un sogno più meritevole del suo – un sogno immenso e sconfinato come l’oceano - .
 
Perché? Perché proprio tu?
 
 
Liberato da un inferno per incatenarlo ad un altro. Condannato a fare da spettatore ad un epilogo che non è più il suo.
 
Non è così che sarei dovuto…
 
Morire non come uomo ma come scelta scartata, una possibilità troppo vecchia, un desiderio troppo stanco per andare avanti e scoprire quella verità.
Che ne sanno loro di come si giunge alla verità? Del sangue che si versa, delle scelte obbligate, dei sacrifici - utili, inutili -  per andare sempre avanti e mai voltarsi, dei brandelli d’anima lacerati, sporcati che penzolano come lenzuola al vento sul filo di un’esistenza così piena eppure così immensamente vuota.
La verità si trova al fondo di un sentiero che passa per l’inferno. E lui per quella verità si è sporcato, imbrattato di sangue e lacrime, condotto battaglie, sacrificato compagni, e ancora sangue, fiumi di sangue. Fino ad averne la nausea di tutto quel sangue eppure mai abbastanza. Insaziabile ingordigia di un pasto avariato solo per giungere a quella verità e morire per essa – altre cento e mille volte ancora – su quel campo e non sul tetto.
Lui, il più meritevole, lui che ci ha creduto più di tutti, più di suo padre, più dell’umanità… lui meritava di scoprire la verità. Per quel sangue versato, per quelle lacrime mai piante, per gli amori sacrificati, per una vita di negazioni…
Lui che fra tutti aveva più diritto di essere lì – nel seminterrato e non sul letto – ora è altrove. Ancora una volta troppo lontano, troppo distante eppure così vicino da poterla sfiorare.
Invece sfiora gli occhi grigi di Levi, prima che l’acqua li inghiotta e sentirsi ancora una volta troppo lontano, troppo distante.
 
Svegliati, dannazione.
Svegliati!
 
Un incubo. Una gabbia senza sbarre. È il nulla. È tempo o forse nemmeno quello.
Non c’è niente e lui non è fatto per vivere nel niente. Lui ha combattuto contro quel niente in cui si era affossata l’umanità. L’ha raschiato via, ha sputato sangue e versato quello di molti soldati per sradicare quel niente.
‹‹Erwin…››
‹‹No!››
 
Non ancora. Non adesso.
 
‹‹Come vorrei che avesse avuto più tempo››
‹‹Sempre si muore troppo presto o troppo tardi››
‹‹Ma così…›› Silenzio ‹‹è così sbagliato…››
‹‹E chi lo sa, Signor Smith. Il mondo è pieno di cose sbagliate››
‹‹Anche la morte…››
‹‹Soprattutto la morte, eppure si muore: su un campo di battaglia, nel letto, per una malattia, per amore, per semplice volere di qualcuno. Si muore e basta, ma mai come vorremo››
‹‹E ora?››
‹‹Possiamo solo aspettare. Aspettare che accetti o aspettare che finisca. Che finisca presto, mi auguro, perché nessuno merita di vivere l’inferno due volte. Aspettiamo e basta che qualcosa accada o che qualcuno venga a dirci com’è andata a finire: se l’umanità ce l’avrà fatta anche senza di lui o se avrà fallito nel tentativo. Perché per quelli come lui non esiste pace nemmeno da morti. Aspetterà la verità e noi con lui. Non siamo altro che l’ombra di ciò che non si è ancora perdonato e aspetteremo con lui per sapere se non siamo morti in vano››
Il Signor Smith esita. Fa ancora un passo verso quel figlio che ha finalmente ritrovato. Poi torna indietro.
Mike ha ragione.
 
Non esiste inferno peggiore di quello che creiamo per noi stessi.
 
 
 
 
Angolino dell’autrice
 
Chiudo questa Erwinweek riproponendo Inferno che avevo scritto qualche mese fa e che secondo me è l’unica che meglio rappresenta i pensieri di Erwin.
La mia intenzione, che spero si sia capita nella lettura di tutte le ff, era di creare dei punti di vista alternativi, in modo tale da vedere Erwin Smith con occhi sempre diversi. Siamo passati da vedere Erwin con gli occhi di suo padre mente muove i primi passi, con gli occhi di Mike quando si arruola, con quelli di Marie nell’ipotetico mondo in cui Erwin l’ha sposata senza rinunciare al suo sogno. Attraverso gli occhi di Levi prima della partenza di Shingashina e in un futuro ipotetico quando tutto è ormai finito. Infine con i miei di occhi e quelli delle mie compagne di viaggio.
Per Afterlife, invece, volevo che il cerchio si chiudesse con gli occhi di Erwin e Inferno si prestava fin troppo bene. Considerando anche che non ho molto tempo da dedicarmi alla scrittura, ho voluto riciclarla anche per questo motivo.
Con questo voglio ringraziare tutti coloro che mi hanno seguito, che hanno letto e che silenziosamente hanno apprezzato le mie ff.
 
Un abbraccio
 
Shige

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