Sleeping Beauty

di Korat
(/viewuser.php?uid=64180)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Bacche ***
Capitolo 3: *** Il capo ***
Capitolo 4: *** Cioccolata ***
Capitolo 5: *** 2000 ***
Capitolo 6: *** Una villetta rossa ***
Capitolo 7: *** Come due salami ***
Capitolo 8: *** La pernice bianca ***
Capitolo 9: *** Fata Madrina ***
Capitolo 10: *** Pizzichi ***
Capitolo 11: *** Verità ***
Capitolo 12: *** Living on a prayer ***
Capitolo 13: *** COF ***
Capitolo 14: *** Segreti ***
Capitolo 15: *** Ascolta il tuo cuore ***
Capitolo 16: *** Quasi un addio ***
Capitolo 17: *** Per sempre ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


C’era una volta, in un tempo lontano in cui la magia esisteva poiché nessuno avrebbe potuto scioccamente dimostrare il contrar

PROLOGO

 

C’era una volta…

 

 

C 

C’era una volta, in un’era che scorreva a rallentatore dando il tempo di godere di ogni singolo attimo e di credere alle fiabe, un piccolo reame incantato in cui il cielo limpido, i boschi rigogliosi, la serenità della vita quotidiana e la perfetta armonia della gente sembravano frutto di un mirabile incantesimo. Artefice però dell’idilliaca atmosfera che si respirava lì era quasi del tutto la natura, benché a quel tempo ci fossero anche sette fate che svolazzavano in giro benevolmente per compiere opere che addolcivano sempre più l’esistenza di quel luogo, regalando ogni tanto una primula in autunno o una stella cadente inaspettata.

Questo è il dove e il quando si svolge la nostra vicenda, ma siccome mi vorrei ben guardare dal riserbarmi le vostre antipatie mostrandomi sin da subito un narratore poco attento ai dettagli, specificherò che ci troviamo proprio nel X secolo e proprio in un piccolo feudo situato nella zona meridionale dell’Impero. A guardarlo dall’alto della rocca su cui era collocato il castello, c’era la nobile famiglia che lì risiedeva e che governava con saggezza e giudizio. Quella posizione riusciva ad offrire loro tutto ciò che potevano desiderare e anche più, meno che una cosa, quella che da anni bramavano ardentemente più di ogni altra: un erede. Né ricchezze né magia poterono aiutarli nell’ottenerlo, ma quando ogni speranza si era ridotta tanto da essere tutte quasi svanite, la fortuna volle donare loro una splendida bimba. Ad ella fu dato il nome di Aurora poiché venne alla luce assieme al sole, ma sembrava splendere molto più di questo.

Il giorno dopo, il primo giorno di un nuovo anno e anche quello di una nuova vita, fu organizzata una grande festa per celebrare il battesimo della bimba, a cui furono invitati tutti i nobiluomini e le loro signore del regno ed anche di quelli vicini. Eccezionalmente, alle fate Candida, Fleur, Mietta, Chantal, Violante e Lilac fu chiesto di fare da madrine alla piccola Aurora. I festeggiamenti furono magnifici, con musiche ed un sontuoso banchetto. C’è chi ricorda, persino, che alle fate furono messi a disposizione per mangiare una forchetta, un coltello, un cucchiaio e un piatto d’oro ciascuna. E queste, per contraccambiare, porsero ognuna un dono speciale alla bambina. Candida volle donarle la bellezza, e con un incantesimo fece sì che sarebbe cresciuta con un viso etereo incorniciato da lunghi e fluenti capelli dorati e illuminato da profondi e limpidi occhi turchesi. Quando fu la volta di Fleur, questa recitò delle parole che le avrebbero invece donato la capacità di ballare perfettamente e così i suoi movimenti sarebbero sempre stati pervasi da grazia e agilità. Mietta le diede abilità manuali ed in particolare quella di suonare ogni tipo di strumento. Chantal le offrì una voce armoniosa e dolce che l’avrebbe resa piacevole da ascoltare e le avrebbe permesso di cantare divinamente. Violante desiderò che la bimba, crescendo, sviluppasse singolari doti intellettive: intuito e logica. Lilac si avvicinò alla bimba piuttosto indecisa sul da farsi, ma non appena prese fiato per annunciare il suo volere, un’inattesa comparsa le negò la possibilità di rendere la fanciulla semplicemente felice. La visita indesiderata in questione, che provocò un notevole scompiglio nella folla spaurita soltanto dalla sua inquietante figura, era da parte della fata Carabosse. Ormai tutti avevano preso a chiamarla strega, poiché stava da sola su di una rocca remota a far cose demoniache. E se il raccolto era scarso, o si diffondeva una malattia, o persistevano bufere, era per colpa dell’insano piacere di quella donna per le sventure altrui. Avvolta nel suo mantello nero, sporgeva soltanto il viso esangue composto in un’espressione superba ma al tempo stesso offesa. Spiegò ai presenti con voce tonante dell’oltraggio subito con quel mancato invito ad un così importante avvenimento, e di conseguenza la sua legittima volontà di una vendetta. Anch’ella avrebbe fatto un dono alla piccola, ma precisamente questo sarebbe stato la morte al suo sedicesimo compleanno a causa della puntura con il fuso di un arcolaio. Espresso ciò, sparì, lasciando sgomento e terrorizzato il pubblico e abbandonando la neonata ignara ad un futuro tragicamente segnato. I genitori non poterono rassegnarsi al dover guardare come spettatori questa tragedia e pregarono Lilac, la quale ancora doveva porgere il suo dono alla piccola, di risolverla. La fata, però, non era purtroppo in grado di annullare un sortilegio di tale potenza, ma guardando gli occhi azzurri e limpidi e innocenti della bimba, decise comunque di provare a fare qualcosa. Le si avvicinò e, concentrata, proferì le seguenti parole: “Al suo sedicesimo compleanno, la fanciulla si pungerà, ma non sarà la morte ad accoglierla. Ella cadrà in un sonno profondo per cento anni, ma il bacio del vero amore di un principe senza macchia e senza paura la sveglierà per sempre”.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Bacche ***


<A href="http://img200

CAPITOLO UNO

Bacche

 

 

 

 

Una carrozza si era fermata davanti al castello, lasciando scendere due donne dall’aspetto regale, una più giovane, l’altra più anziana. Il loro abbigliamento suggeriva l’estrema importanza delle ospiti arrivate quella mattina, confermata poi dalla seguente discesa dal mezzo di un nobile signore che doveva per forza essere il tanto atteso principe del regno confinante. Per ultimo scese un giovane che dimostrava meno di vent’anni. Alto e composto in un’espressione seria, stava in piedi mostrando con orgoglio e fierezza la sua figura. I capelli erano corvini, piuttosto mossi ma corti e ordinati. Spesse sopracciglia perfettamente delineate incorniciavano gli occhi, due smeraldi incastonati in due mandorle. Gli zigomi alti, il naso dritto, la mascella squadrata: più che un uomo sembrava una splendida scultura.

«Ragazza, sai che giorno è oggi?»

«Il primo gennaio, Anno Domini 1000» rispose l’interrogata leggermente intimorita.

«Oggi» contraddisse quella «è il sedicesimo compleanno della principessa e nessuno può permettersi di oziare guardando fuori dalla finestra!»

«Io… ecco… stavo per andare a riferire l’arrivo de…» cominciò a scusarsi la domestica, ma la vecchia continuò «Ah, i giovani di oggi! E le loro fantasie… Aspettano forse che il loro lavoro si compia da solo, come per magia? Non hanno imparato che la vita non è una favola. Vaneggiano al posto di agire…»

«Chiedo scusa, ma ad ogni modo il mio compito era di avvertire quando fosse arrivato…» provò ancora la ragazza a spiegare, ma l’altra continuò «Ah! Con tutto il daffare che c’è oggi… preparare il banchetto, allestire le sale, pulire, rassettare, accogliere gli ospiti…»

«Appunto, attendevo l’arrivo degli ospiti per riferirlo ed è appena arrivato…»

«Ma voi, giovani, non ve ne occupate affatto» la interruppe nuovamente «E a chi tocca fare tutto? A me, ovviamente. A me, che è rimasto il senso del dovere, a me, che non ho mai perso vigore, a me, che non spreco il tempo a guardare il vuoto!  Che poi, cosa c’è di tanto interessante fuori, son proprio curiosa, fammi vedere… Oh, il principe! È arrivato il principe! Imbranata, perché non lo hai detto subito? Tutto io devo fare, ah, che il Signore mi aiuti! Svelta, vai ad abbassare il ponte levatoio, cosa ci fai ancora qua?»

La giovane domestica corse ad eseguire gli ordini e si accinse ad armeggiare con catene ben più pesanti di quanto la sua gracilità potesse sopportare.

«Maria?»

La ragazza si girò e incontrò lo sguardo preoccupato di un altro domestico, che si affrettò ad aiutarla.

«Lascia fare me» le sorrise, ma lei mantenne le mani ferme «È il mio compito, Marc, posso farcela.»

«Chi ti ha dato questo compito?» chiese lui, sovrapponendo le sue mani a quella di lei per prendere il posto.

«Madama Giuditta»

«Vecchia pazza!»

«Ma è tua madre!»

Risero insieme mentre lui finiva di tirare la catena.

«Grazie, Marc»

«Non c’è di che» le sorrise «Beh, devo correre a sellare i cavalli per il giovane principe e il nostro signore, che a quanto pare vuole fare una galoppata e due chiacchiere per conoscere il futuro genero».

«Non lo conosce ancora?» esclamò più che stupita la ragazza. Marc alzò le spalle. «Conosce l’ammontare dei suoi possedimenti»

«E Aurora? La principessa lo ha mai visto?»

«Cosa c’entra lei?»

Maria abbassò la testa, sconfitta dalle verità che avevano distrutto il suo mondo di fanciulla sognatrice. «Mai sentito parlare dell’amore?» sussurrò.

«Ho sentito dire che ci sono ambizioni e doveri che devono essere capaci di metterlo a tacere»

«Al di là di ciò che hai sentito dire… è davvero quello che pensi?»

Lui le alzò il mento con un dito per guardarla negli occhi «Io non possiedo niente, e perciò sono così libero da poter forse anche amare». Le posò un fugace e imprudente bacio sulla guancia e si mosse verso i suoi doveri.

Anche Maria zittì il suo battito e riconcentrò la sua mente alle mansioni da svolgere, zampettando velocemente verso gli appartamenti per assicurarsi che le camere degli ospiti fossero in ordine. Due serve, Bianca e Beatrice, stavano ancora facendo il letto in quella del figlio del principe.

«Filippo è già qui?!» strillò Bianca cominciando a compiere freneticamente i loro movimenti.

Maria era stupita che conoscesse il suo nome, ma rimase ancora più stupefatta nel sentire le chiacchiere informatissime di Beatrice sul suo conto: aveva diciotto anni, era un eccellente cavaliere, forte, coraggioso, ma al tempo stesso incredibilmente romantico. Quella sera, secondo i progetti di entrambe le coppie di regnanti, avrebbe chiesto la mano della principessa Aurora.

Mentre cianciavano, le due avevano frettolosamente finito di sistemare il letto e dopo una lunga serie di elogi intervallati da sospiri liberarono Maria, la quale proseguì il suo giro di perlustrazione nelle cucine per assicurarsi che procedesse tutto per il meglio.

«Mademoiselle!» le corse incontro un ometto baffuto dall’aria preoccupata. Maffeo, il cuoco di corte. Non l’avrebbe lasciata andare finché non avesse provato un po’ di ogni singola portata per poi farle esprimere sempre la solita affermazione di eccellenza.

«Beige o écru?» le mise davanti due fazzoletti quasi identici.

«I menestrelli non sono pagati a dovere!» attaccò un giullare con voce acuta «Non credete anche voi? Voglio dire, come vengono ripagate le nostre doti canore, di intrattenimento, lo spiccato senso dell’umorismo e anche cultura, possiamo dire, con tutte le ballate che conosciamo a memoria? E lo sforzo mnemonico, sì, possiamo aggiungere, senza contare quello fisico, sempre a saltellare… Ecco, come viene ripagato tutto questo? Una miseria! Ma sia ben chiaro che noi menestrelli non facciamo solo parole: sto organizzando un sindacato per i nostri diritti. Siete sorpresa? Pensavate che noi menestrelli fossimo buoni soltanto a sorridere? No? Sono lietissimo che appoggiate la mia causa allora! Sarà una rivoluzione, oh se sarà una rivoluzione…»

«Sono arrivati i vestiti per il ballo di questa sera!» annunciò platealmente un uomo posando una cassa sul pavimento.

E a chi toccò di trascinare il baule per la ripida rampa di scale fino alla torre della principessa?

A Maria, senza dubbio.

 

 

*

 

 

Una ruota girava vorticosamente emettendo uno strano stridio. La stanza era vuota, non c’era nessuno ad azionare quello strano marchingegno, e il freddo che la pervadeva metteva a disagio tanto quanto il silenzio troncato da quelle specie di gemiti. Un pedale faceva da leva per il macchinario, cosicché si attivasse quella ruota a cui era avvolto un filo che piano piano si dissipava dalla matassa ricomponendosi in un rocchetto. E in centro spiccava un oggetto sottile e acuminato che risplendeva di un luccichio sinistro. “Toccalo” bisbigliò una voce lontana, forse inesistente, ma dentro la giovane che osservava la scena si era insinuato un profondo desiderio di farlo. Sembrava rischioso, ma la curiosità proibita forniva il motore per convincerla a superare le angosce. Il dito sottile e aggraziato si propense verso il fuso, appena incerto ma inevitabilmente attratto in modo magnetico e pericolosamente folle. Una forte luce inondò la scena rendendo indistinguibile tutto finché gli occhi della ragazza non si ritrovarono su una nuova veduta, più reale e definita. Come da ormai molti giorni accadeva il solito sogno era stato interrotto nel momento cruciale.

Aurora si trovava nella sua stanza avvolta tra le coperte, leggermente infastidita dal fatto che le erano state spalancate le tende facendola inghiottire dalla luce mattutina. Provò a girarsi dall’altro lato coprendosi il viso con un cuscino, ma fu gentilmente rimproverata dalla dama che era venuta a svegliarla.

«Il sole è già alto da ore, non vi conviene sprecare la mattina del vostro compleanno dormendo»

«Non mi conviene neanche presentarmi con gli occhi stanchi per il troppo poco sonno»

«Permettete di dirvi che la responsabilità è anche vostra se decidete di leggere fino a tarda notte»

La giovane si alzò dal letto e si diresse verso il baule portato dalla dama nella sua stanza contenente due nuovi abiti. Uno era di uno smagliante color rosa pallido, ornato finemente con ricami dorati, l’altro era di un tenue azzurro trapuntato di perle. Rivolse uno sguardo indeciso alla ragazza che indicò quello azzurro, suggerendole che avrebbe fatto risaltare molto più i suoi occhi: lui non avrebbe potuto resisterle in alcun modo.

«Maria, di chi stai parlando?»

«Sul sorgere del sole è arrivata la sua carrozza»

Aurora sapeva che erano stati invitati nobiluomini anche da luoghi lontani e cominciò a sospettare che ce ne fosse qualcuno “di maggior riguardo”. Maria, su incoraggiamento, confermò i suoi presentimenti: «È stato invitato qui per il ballo in vostro onore il principe del regno confinante e stasera suo figlio potrebbe chiedere la vostra mano»

I suoi genitori non le avevano mai parlato di questo progetto, ma sapeva bene che le notizie viaggiavano veloci dalle cucine alle stalle, agli alloggi della servitù e dunque ciò che le stava riferendo la sua dama era molto probabilmente vero.

«Sì, questa sera… Maria, sai dirmi dove alloggerebbe?»

«La vostra curiosità vi indurrebbe forse a spiarlo?»

«No, non mi comporterei mai in modo così poco distinto» si difese irritata «E non posso credere quanto si possa essere disposti a dubitare della mia educazione» enfatizzò l’affermazione scuotendo forte la testa facendo ondeggiare così i suoi boccoli dorati. «Andrò semplicemente in biblioteca. Indossando il vestito rosa»

«Esatto, lontana dai boschi dove potreste inaspettatamente incontrare qualcuno che cavalca lì» approvò fingendo di celare una certa malizia.

«Ripensandoci…» ribatté fingendo di non averla colta «L’abito azzurro era un’ottima idea».

 

 

*

 

 

Filippo cavalcava nel roseto spoglio, schiaffeggiato da un freddo pungente che sembrava non avvertire affatto. Fino ad allora era stato un’obbediente pedina nella partita di suo padre, aveva contribuito al grande progetto di espandere il territorio di famiglia ed aspirava, un giorno, a condurre lui il gioco. Allora, sarebbe stato tutto suo. Ma era davvero ciò che voleva?

Da quella sera avrebbe dovuto accogliere le responsabilità che lo iniziavano ad un futuro che, si domandava inquieto, non sapeva se si sarebbe scritto come un incantevole sogno o come una limitante esistenza.

Voleva correre, sfuggire al tempo, e incitò il cavallo a galoppare più forte, per sentire ancora di più il vento sul corpo e lasciare che la nella sua mente gli impulsi sensoriali sopraffacessero i pensieri.

«Ehi!»

Il cavallo si arrestò di brusco impennandosi nella frenata di fronte alla fanciulla che stava per investire, nitrendo sonoramente. Filippo sbarrò gli occhi al rendersi conto della figura con sguardo terrificato ma al tempo stesso irritato che la sua distrazione aveva fatto ritirare sul bordo della strada.

«Scusate!» si affrettò a rimediare, cercando di fare un alleato del suo amabile sorriso «Non vi avevo vista».

Posò gli occhi sul viso ora più rilassato della giovane, accorgendosi della debolezza della sua ultima affermazione. Come aveva fatto a non avvistare quell’angelo?

«Oh…» emise soltanto lei, aiutandosi con la mano del principe ad alzarsi. Si lisciò il vestito mentre le sue gote si tingevano di rosa per l’imbarazzo. «Pensieri per la testa?»

«Sì… sì» rispose leggermente a disagio con quella sua informalità. «Chiedo ancora scusa»

«Niente di irrimediabile» sorrise. Come un angelo, pensò lui.

«Posso fare qualcosa che mi faccia perdonare di più utile delle scuse?» si adattò alla sua naturale e piacevole spontaneità. «Cosa stavate facendo qui?»

«Bacche» diede come istantanea risposta. Il suo viso non nascose una certa perplessità, ma poi annuì con forza «Raccoglievo delle bacche».

«Lasciate che vi protegga dai rovi, allora. Non mi perdonerei mai se vi trovaste in un altro pericolo per causa della mia noncuranza» propose gentilmente e spigliatamente Filippo. L’angelo l’aveva distolto dai turbinosi pensieri, lo faceva sentire a proprio agio. Non importava se era una contadinella, una semplice e schietta, bellissima contadinella che cercava bacche, gli aveva fatto scordare Aurora, la sua dote, la sua corona.

Non c’erano bacche commestibili, in inverno. Non disponevano neanche di un cestino in cui raccoglierle. Ma i due non vi fecero alcun caso, durante la passeggiata.

«Qual è il vostro nome?»

«Devo andare» cercò di glissare lei, voltandosi. Non sospettava minimamente chi fosse. Probabilmente non era stato il modo più signorile di incontrarsi. Forse era il caso che andasse davvero, e che lui conoscesse il suo nome nel momento appropriato.

«Aspetta! Potrò rivederti?» la trattenne per un polso.

«Mi vedrai, la prossima volta?»

Le baciò la mano prima che sfuggisse via. Come avrebbe potuto non avvistare quell’angelo, la prossima volta?

 

 

*

 

 

Le luci delle migliaia di candele sembravano danzare a tempo della musica delicata e gradevole che contribuiva a rendere speciale quella già magica serata. Aurora, dall’alto della scalinata, vedeva la sala in movimento, nell’allegro fermento degli ospiti. Le sei buone fate confondevano le loro gonne preziose fra quelle di gentildonne di ogni dove, accompagnate dai nobili consorti. Il re e la regina non potevano essere più fieri. La loro figlia scese le scale, annunciata sonoramente dall’araldo. Filippo, spinto da chi aveva vicino, le andò incontro, per invitarla a danzare. Prese tra le braccia la principessa e quando incontrò i suoi occhi riconobbe il suo angelo.

«Voi…» bisbigliò meravigliato, ammirando il timido sorriso che gli rivolse.

Aurora volteggiava, sentendosi la più felice delle fiammelle che si animavano e splendevano nella sala, senza accorgersi dello scorrere del tempo. Quando la musica si fermò la sua mente era ancora in danze, ma uno strano bagliore la attrasse da lontano. In un istante sparì tra la folla, al momento in cui Filippo avrebbe dovuto fare la proposta. L’inquietante attrazione la portò giù per le scale delle segrete, in quei luoghi umidi e freddi che solo la stregoneria avrebbe potuto far desiderare di andarvi. La ragazza era magnetizzata da una forza e non riusciva a opporsi alla smania di scoprire da dove provenisse quella luce. Si ritrovò in una stanza vuota, mentre in un attimo di lucidità un brivido le corse lungo la schiena. Era la stanza del suo sogno. E, al centro, c’era l’oggetto che la ossessionava da tempo. Quello strano marchingegno che lavorava da solo ed emetteva gemiti striduli. La ruota girava, veloce, vorticosamente. Il fuso, sottile e acuminato, ammaliante e agghiacciante, risplendeva di quel luccichio sinistro che aveva scorto da tanto lontano.

«Toccalo» echeggiò sommessamente una voce.

Aurora avvicinò un dito al fuso. Desiderava toccarlo. Non aveva idea del perché, ma sentiva di volerlo come mai aveva voluto qualcosa.

Ritrasse lievemente la mano. Follia.

«Toccalo» era persuasiva la voce.

Avvicinò nuovamente il dito. Desiderava toccarlo. Era follia. Ma voleva toccarlo.

Durò un attimo, il contatto della sua pelle con il fuso.

Il corpo della principessa era disteso a terra, in attesa di un secolo.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il capo ***


CAPITOLO DUE

Il capo

 

 

 

 

Nel castello del parco abitava una strega malvagia e orribile con i suoi ratti giganti. Lo sapevano tutti i bambini.

La mamma e il papà di Alessio, come la mamma e il papà di Giada, lo avevano insegnato bene ai loro bambini, per tenerli lontani da quelle rovine abbandonate e pericolanti. Ma Giada ormai aveva dieci anni e lo aveva capito, che le streghe non esistevano.

«Facciamo che io ero il capitano dei pirati e tu il marinaio e affrontavamo una tempesta e poi trovavamo il tesoro!» propose entusiasta Alessio alla sua migliore amica.

«No! Perché il capitano devi essere tu?» contraddisse accigliata la bambina.

«Perché io sono un maschio» rispose convintissimo della sua tesi.

«E allora? Io sono più alta!» sfidò lei.

«Non è vero» si innervosì l’amico, anche se era vero.

«Sì che è vero!» confermò.

«Ma io sono più forte» non mollò.

«Ma per piacere! Tu credi ancora alla strega» lo derise con superiorità.

«Io non ci credo» decise all’istante Alessio «Anzi… non ho neanche paura di andare nel castello. Facciamo che chi lo attraversa prima è il capo.»

Giada non se lo aspettava, ma tanto non credeva alla strega. Così accettò.

Avevano entrambi un po’ paura in realtà. Alessio si grattò il naso e Giada sistemò meglio il cerchietto. Si scambiarono una velocissima occhiata e poi entrarono. L’erba cresceva alta e incolta, ostacolandoli un po’, ma Giada era velocissima, tanto che scomparve in quel labirinto di mura e Alessio la perse di vista in breve tempo. Pensando di essere in netto svantaggio accelerò ma si ritrovò spesso in vicoli ciechi. Ad un certo punto vide un corridoio che si apriva sul parco: era l’uscita, ed era stato il primo a trovarla!

«Alessio!!» sentì strillare la voce di Giada. Era molto, molto indietro, e voleva fargli perdere tempo. «Alessio!!» continuava a gridare, per farlo retrocedere.

Il bambino corse avanti, verso l’uscita. Era il capo.

Dopo più di dieci minuti lo raggiunse l’amica, con un’espressione terribile. Non poteva fare così per aver perso, pensò Alessio.

«Sono il capo!» sottolineò fiero.

Giada tratteneva le lacrime. Lei non piangeva mai. Si toccò piano la caviglia: era gonfissima.

«Che me ne importa!» gli urlò rossa in viso. «Ti ho chiamato cento volte, mi sono fatta male e non riuscivo a camminare! Non mi hai sentito?»

Alessio arrossì fino alla radice dei capelli, colpevole. Giada si girò dall’altra parte, per piangere. Non lo guardò più in faccia finché la mamma non venne a prenderla.

Non lo guardò più in faccia per altri sei anni.

 

 

*

 

 

Giada Rinaldo stava organizzando la festa del secolo. Avrebbe invitato un mare di gente, e l’ultima persona che avrebbe scelto di  includere tra gli ospiti della serata era Alessio.

Suo padre aveva comprato i resti di quel castello nel parco e l’aveva fatto ristrutturare: era diventato un locale splendido. Non esisteva posto più esclusivo per la regina della scuola dove, ancora prima dell’inaugurazione, potesse organizzare il veglione di capodanno con tutti i suoi amici.

«Lena! Lena, muoviti!» si rivolse ad una ragazzina bassa dalla capigliatura riccissima che distribuiva foglietti a dei ragazzi nel corridoio all’uscita di scuola. «Dobbiamo ancora consegnare gli inviti a quelli della Quarta B». Lena corse da lei con un po’ di fiatone e si indirizzò a recapitare gli ultimi bigliettini.

Un clacson sembrò echeggiare autorevole proprio in richiamo della loro attenzione. «Dai, Lena, muoviti!» esortò Giada alla vista di una signora Rinaldo un po’ spazientita che tamburellava le dita sullo sterzo.

«Sì, fatto» pronunciò appena quello scricciolo che l’amica la trascinò per il polso verso l’auto.

«Buongiorno!» salutò affabile l’una, e «Eh!» mugugnò l’altra.

«Ciao, Maddalena! Resti a pranzo da noi, vero?» Ricevette un cenno d’assenso. «Ciao, eh, Giada!» provò poi a sottolineare.

«Guarda che non c’era bisogno di suonare tanto…» ribatté in una smorfia «Comunque, Lena, tu che ti metti?»

«Ho deciso finalmente, mi vesto da fenice, ho comprato un vestito rosso stupendo, in realtà mi va un po’ lungo ma poi vedo come aggiustarlo…»

«Ma c’è Alessio là!» interruppe la madre di Giada «Mi sa che ha perso il pullman» aggiunse accostando l’auto al marciapiede.

«Alessio, qualcosa non va?»

«No, niente, ho fatto tardi e il pullman era già partito, vado a piedi però»

«Ma che dici! Vieni dentro che ti accompagno!»

Giada era proprio scocciata. Quel deficiente ci mancava. Ma non poteva lasciarlo là?

«Davvero, grazie, ma…» cercò di rifiutare il ragazzo, ma si ritrovò seduto sul sedile posteriore accanto a Lena, a spiegare come il professore di Arte lo avesse trattenuto per raccontargli del suo allevamento di fagiani senza dargli la possibilità di andare.

«Ma quello è tutto pazzo» si unì allegramente Lena «L’altra volta mi ha messo sette all’interrogazione, io ho detto ok, e lui devi ribattere!, devi dire che hai studiato tanto e meriti otto! Però poi io devo dirti che non mi hai detto a chi si è ispirato Botticelli nella “Calunnia” e tu devi rispondere che Apelle il libro non l’ha mai nominato, così io alla fine ti accontento e ti metto otto. Alla fine l’ho accontentato e mi ha messo otto»

Tutti si sono messi a ridere, tranne Giada, che era ancora più scocciata.

«Ci vai anche tu alla festa di Capodanno, sì?» chiese la signora.

«No, io non…»

«Non gli abbiamo dato l’invito! Aspetta un attimo che te ne prendo uno nello zaino» intervenne Lena che non si accorse dello sguardo ormai sull’orlo del terrificato di Giada.

La madre fermò la macchina di fronte un palazzo e mise il freno a mano.

«Fatti vedere, ogni tanto. Sei sparito!» sorrise ad Alessio che riceveva il suo invito e apriva lo sportello. Lui gli sorrise imbarazzato e scese.

«Grazie mille»

«E di cosa?»

Grazie mille, pensò alterata Giada. Quel deficiente ci mancava!

 

 

*

 

 

Era rimasto indeciso sull’andare alla festa fino al pomeriggio del trentun dicembre. Ci sarebbe stata un sacco di gente che si sentiva una rampa di scale sopra di lui. Però ci sarebbero stati anche gli imbucati con le birre e la musica ad alto volume. Le possibilità erano due per cominciare il nuovo millennio: nella completa vergogna o nel completo sballo.

Se ne stava appollaiato sul letto con le cuffie sulle orecchie a consumare le ultime ore di un’era, quando qualcuno spalancò la porta.

«Non ti prepari?» disse sua nonna. Lei si impicciava davvero di tutto, ma il suo fare era ben più elegante di quelle attempate pettegole di quartiere. Aveva un intuito infallibile, oltre che una capacità di persuasione che avrebbe piegato chiunque al suo volere senza che questi se ne fosse accorto. Era una di quelle donne di diamante. Un nipote adolescente, però, avrebbe tagliato corto con un “è una ficcanaso”.

«Per cosa, scusa?» si finse sorpreso Alessio.

«Non vorrai farmi credere che passerai il capodanno con me, il nonno e i tuoi vecchissimi genitori» insinuò puntando gli occhi sull’invito poggiato sul comodino.

«Non so se ci vado là» scrollò le spalle.

«E perché?»

«Perché non ho un costume»

«E cosa credi che conservo nei miei tre armadi?»

 

 

*

 

 

Il regno era stato ereditato da un cugino della regina, che aveva governato da molto lontano quel piccolo luogo che perdeva splendore a mano a mano che il castello, disabitato, si copriva di erbacce.

Quando la fata Lilac tornò, cento anni dopo, era cresciuta una foresta di rovi intorno all’edificio. Volò sopra di essi ed entrò per una finestra, poi scese nei sotterranei dove la sua piccola Aurora dormiva ancora, bellissima. Il procedere del tempo e il degradarsi della materia non l’avevano neanche sfiorata. Era ancora una meravigliosa bambina dai boccoli dorati, la pelle di porcellana con due gemme celesti nascoste da un velo di sonno. Di lì a poco, sarebbe stata una donna.

Non dovette aspettare molto che sentì il nitrito di un cavallo. Un principe impavido, col suo destriero, avanzava tra i rovi facendosi largo con la spada. Era bello e fiero, con i suoi capelli color grano e gli occhi blu come gli oceani più profondi. Lilac si vestì di un chiaro bagliore e, sotto forma di luce, attrasse il giovane verso la principessa. Quando lui la vide, pensò che fosse una stella caduta dal cielo. Si chinò su di lei e appoggiò le labbra su quelle rosee di lei. Gli si rivelarono due mari scintillanti.

Le nozze furono celebrate, per volere del principe, quel giorno stesso.

Ma appena Aurora si posò sul suo nuovo letto di sposa, inebriata dalla giornata, si addormentò come se non si fosse affatto stancata per averlo fatto da cento anni. Il principe, temendo che col solo respiro potesse ferirla, non osò toccare la sua piccola stella.

Non poté farlo mai, in tutta la sua vita, perché la stella non si svegliò più. Stette lì, per giorni, su quel letto. Lui la guardava continuamente, con gli occhi della disperazione. Finché non prese nuovamente moglie e non la andò a trovare che poche altre volte. Lei stette lì per anni, accanto al procedere della vecchiaia dell’uomo. Un giorno, quando i suoi capelli del color del grano erano ormai inceneriti dal tempo, la prese in braccio, e la riportò indietro.

Lilac assistette, cento anni dopo, alla stessa vicenda. Un altro cavaliere, sempre bello, con un’armatura ancora più possente, prese con sé la sua rosa. Ma lei si addormentò anche davanti a lui.

Cento anni dopo, un altro nobiluomo, bellissimo, fu guidato dalla fata verso la principessa. Amò la sua perla per un giorno, poi lei tornò a dormire.

Cento anni dopo un certo giovanotto aristocratico aveva svegliato la sua dea. Aveva vissuto il paradiso per un giorno e poi lei era andata via. Tutti si erano meravigliati a sentire questa storia.

Cento anni dopo ancora, si erano diffuse certe leggende. Le leggende finivano con un “per sempre felici e contenti”. Aurora riposò per altri cento e cento e cento anni, perché di principi pronti ad affrontare i rovi per una principessa e a lasciarla andare per un sortilegio incomprensibile non ce ne furono più.

 

 

*

 

 

Non ci sperava quasi più, la fata Lilac. Una sera - una gelida sera -  vide però entrare un principe nel castello. Non l’aveva quasi riconosciuto più, qualcuno se n’era preso cura ed era tornato magnifico. Il principe era carino, a cavallo di una moto. All’entrata consegnò un foglietto a un guardiano. Dentro, era scoppiato l’inferno. Le luci tiranneggiavano calde sulla quiete delle notte e la musica ruggiva selvaggia. Migliaia di creature bizzarre si rantolavano come in preda alle convulsioni. Scuotevano le chiome e agitavano gli arti furiosamente. Provò a cercare il principe, ma era sparito nella folla di streghe, dame, giovanotti fluorescenti e inquietanti figure scure.

Il passaggio per i sotterranei era stato murato. Lilac fece dissolvere quel cemento nel nulla e volò da Aurora. Era ancora lì, in pace, la principessa.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Cioccolata ***


CAPITOLO TRE

Cioccolata

 

 

 

Fermò il motorino nel parcheggio del locale e sfilò il casco per sostituirlo con l’elmetto da pilota. Si sistemò anche gli occhiali gialli che la nonna gli aveva scovato dall’armadio assieme a tutta la divisa militare del nonno. Non avrebbe dovuto rovinarla per nulla al mondo. All’entrata c’era un buttafuori ciccione che aspettava il biglietto. Dentro, c’era già tantissima gente. La maggior parte si scatenava in mezzo alla pista sincronizzando i propri movimenti con il ritmo martellante della musica. L’impianto stereo era qualcosa di fenomenale, roba da distruggere i timpani in un attimo. Si avvicinò al buffet per rubare due patatine e studiare un po’ tutti, a caccia di qualcuno che conoscesse. C’era Giada in un pomposo costume veneziano che attirava l’attenzione di tutti, Lena avvolta da un vestito rosso brillante fin troppo lungo che inciampava continuamente, e poi, ah!, c’erano Daniele e Luca della sua classe, l’uno con un improbabile costume da insetto e l’altro da Super Mario. Si inserì presto nella folla, piuttosto sicuro per via della maschera, e fece scivolare via tutte le preoccupazioni da cui era stato assalito mandando in circolo adrenalina: con il  procedere della serata si erano avvicinate a lui almeno tre ragazze. Non era per niente uno sfigato, ma in genere passava benissimo inosservato. Era anche carino, a ben guardarlo, con i suoi occhi all’insù, il mento sottile e i capelli scuri confusi, ma nessuno si era mai preso la briga di tenerlo in considerazione, nella gerarchia liceale, più di un banale studente di terza. Aveva bevuto una sola birra, semplicemente per sete, quando l’atmosfera si fece un filino più tesa per via di due tipi che, invece, erano andati giù pesante con le bevande. Stavano cominciando a spingersi cadenzando gli ampi movimenti provocatori con insulti sempre più forti, facendo evolvere in breve la situazione in una rissa alquanto partecipata. Le voci di chi voleva placare la situazione si mescolavano a quelle che alimentavano il fuoco in un unico calderone di grida confuse da cui ogni tanto spiccava il suono secco dei pugni e dell’impatto a terra dei colpiti. Alessio decise di allontanarsi prima di restare in qualche modo coinvolto e scese le scale per respirare dell’aria meno viziata. Accanto alla stanza dove venivano conservati i cappotti c’era un tunnel buio alla fine del quale brillava qualcosa di indefinito e curioso che lo attirò proprio in quella direzione. Annaspò quasi nel buio in quell’ambiente umido e all’apparenza inospitale da secoli, quando, arrivato in un ambiente abbastanza largo, scoprì sbattendoci con le gambe un grande oggetto del tutto simile a un letto. Si sporse per testare quell’entità quando trattenne improvvisamente il respiro con una nota di panico nel vedere una ragazza distesa lì sopra. Era mascherata da principessa e risplendeva di reale anche immobile, adagiata in quel momento e in quel luogo sconvenienti in maniera così composta. Alessio non l’aveva mai vista a scuola, ne era sicuro perché l’avrebbe indubbiamente notata. Pensò che fosse un’amica di Giada di un altro paese. Si era addormentata prima delle undici e trenta, ignorando la festa del millennio. Le posò una mano sulla spalla scuotendola delicatamente, perché forse era il caso di svegliarla, ma ella non destò alcun segno di coscienza. La scrollò un po’ meno garbatamente, perché aveva il sonno più profondo che si potesse avere. Non apriva gli occhi. Non sussultava. Non respirava.

Era svenuta. Si era ubriacata prima delle undici e mezza ed era svenuta soavemente in un sotterraneo, senza scomporre un boccolo. Ma per favore, le era mancata l’aria. Alessio cominciò ad agitarsi di fronte a quella situazione inammissibile. Le afferrò violentemente le gambe e le alzò in aria, ricordando che era necessario far arrivare il sangue al cervello. Doveva chiamare un’ambulanza al più presto. Mollò le gambe e digitò sul cellulare il numero. I soccorsi sarebbero arrivati al più presto, ma fu sollecitato a provare con un massaggio cardiaco; dieci spinte e appoggiò impacciato la sua bocca a quella di lei per soffiarle dentro dell’aria. Lei aprì gli occhi. Turchesi e limpidi, senza che celassero l’ombra di un malessere o di una confusione.

«Oh mio Dio, stai bene?» si precipitò il ragazzo. Lei annuì e aggrottò poi le sopracciglia con circospezione verso la piccola folla che si era radunata nella stanza allo sfuggire della notizia. Una barella si fece largo in mezzo a questa e caricò la ragazza senza che nessuno riuscisse a dare informazioni sulla sua identità ai paramedici. Lei, attonita, non riusciva a rispondere ad una sola domanda mentre veniva rapita sotto i suoi occhi sgomenti.

«Non lasciarmi» pregò Alessio mentre la caricavano in ambulanza.

 

*

 

La ragazza uscì dalla stanza dove le avevano fatto i controlli e raggiunse Alessio in corridoio. Stettero in silenzio, perché fino ad allora si erano sfiancati ad acconciare spiegazioni insoddisfacenti. Si sedettero su due sedie e accolsero disarmati un medico, il quale li informava che clinicamente era tutto nella norma, ma ammetteva anche che l’amnesia della ragazza destava una certa preoccupazione. Non avrebbero potuto rilasciare una minorenne senza sapere a chi consegnarla, quindi sarebbe restata in ospedale nei successivi due giorni.

«In che secolo siamo?» disse d’un tratto, annoiata dalle pieghe del vestito.

Alessio guardò l’orologio: erano quasi le due.

«Ventunesimo, ormai»

«È passato così tanto tempo!» si sorprese un po’.

Il ragazzo si rese conto che era molto tardi, ma non si decideva ad alzarsi. Le aveva chiesto di non lasciarla. «Non ti ricordi di nessuno della tua famiglia?»

«Non esiste nessuno con il mio cognome, al giorno d’oggi. Neanche io esisto, secondo le schede di quel signore»

«Come ti chiami?»

«Aurora»

«Alessio»

Gli sorrise amichevolmente e lui non poté fare a meno di ammettere che non era stato proprio male, come inizio d’anno.

 

 

*

 

 

La fata Lilac si presentò al medico dell’ospedale come la zia di Aurora e questi, credendole sulla parola, lasciò andare la ragazza come se fosse ipnotizzato. Quell’atteggiamento sembrò ad Alessio tanto bizzarro almeno quanto lo era l’abbigliamento della donna. Portava un lungo e ampio vestito color glicine e un mantello di velluto con cappuccio, risultando fin troppo eccentrica persino per una festa in maschera, data la sua età. Uscita dall’ospedale tenendo sottobraccio la ragazza, fermò un taxi con uno schiocco di dita e saltò su con lei. Alessio, che non si ricordava di aver mai visto un taxi girare nel suo paese negli ultimi sedici anni, montò sul motorino con un immenso bisogno di dormire e cercò di abbandonare i suoi pensieri riguardo quella coppia singolare. Doveva piuttosto preoccuparsi di come giustificare a sua madre il suo ritorno a un orario così indecente.

«Lilac?» sussurrò nell’auto Aurora rivolgendosi alla madrina «Ma che cosa sta succedendo?» riuscì finalmente a chiedere.

«Bimba, temo che non si usi più rapire una fanciulla e sposarla il giorno stesso senza conoscerla. E nel cercare di conoscere una persona, si usa anche non credere a chi afferma di provenire da un altro secolo. Andiamo a casa mia»

Sul volto della ragazza si accese un’espressione di panico. Si sentì coscientemente persa.

«E ora cosa farò?»

«Penseremo a una soluzione, non preoccuparti. Dormiamoci su»

«Voglio augurarmi che sia uno scherzo: dormo da mille anni. Ti prego spiegami cosa sta succedendo»

Lilac si lasciò andare un sospiro. La sua piccola principessa avrebbe dovuto dormire solo per cento anni. Il suo incantesimo l’aveva condannata a una non esistenza ben più lunga di quanto intendeva per la sua salvezza. Il taxi si era fermato di fronte un appartamento di periferia.

«Scendiamo e ragioneremo su tutto di fronte una bella tazza di cioccolata»

«Cos’è cioccolata?»

«Ragioneremo anche su questo» le sorrise la fata vedendola scendere goffamente da quella macchina, inconcepibile per la sua mentalità, e guardare con stupore e terrore la velocità con cui questa sfrecciò via sulla strada.

La ragazza si lasciò guidare nell’ascensore senza fare una domanda, fiduciosa che tutto avrebbe trovato un senso nella tazza di cioccolata. Una volta entrata in casa, si sedette su un divano in camoscio assaporando il dolce calore dell’ambiente interno. Il soffitto era basso, come nelle classiche stanze della servitù, ma al centro di questo c’era una lanterna magica che doveva avere un pregio inestimabile. Era d’oro e s’illuminava premendo un bottone sulla parete, facendo una luce brillante.

Lilac si sedette accanto a lei porgendole una tazza profumatissima. Aurora ne sorseggiò il contenuto denso, valutando che fosse la cosa più buona che avesse mai provato.

«Alla tua nascita» esordì l’anziana donna «ognuna delle sei fate del regno fu invitata e ognuna ti fece un dono. Prima che io potessi offrirti il mio, Carabosse – hai mai sentito parlare della fata malvagia? -, offesa per non essere stata inclusa fra gli ospiti, ti diede come dono una maledizione: al compimento dei sedici anni avresti toccato un fuso e saresti morta»

La ragazza seguiva il racconto con gli occhi sbarrati. La fata continuò a raccontare di come avesse cercato di aggirare questo terribile sortilegio donandole, al posto di un sonno di morte, un sonno di cento anni, da cui sarebbe stata risvegliata dal bacio del vero amore. Suo padre aveva fatto bruciare tutti gli arcolai del regno, ma la profezia si era adempiuta alla perfezione. L’incantesimo benigno, invece, non aveva funzionato per come avrebbe dovuto.

«Non capisco il motivo per il quale il bacio ti svegliò, ma al tuo successivo addormentarti non ti ridestasti più. Il vero amore avrebbe dovuto salvarti per sempre, non per un solo giorno»

«Lilac!» esclamò Aurora dopo una breve pausa «Quali furono le esatte parole del contro incantesimo?»

«Fammi ricordare… Oh, sì: “Al suo sedicesimo compleanno, la fanciulla si pungerà, ma non sarà la morte ad accoglierla. Ella cadrà in un sonno profondo per cento anni, ma il bacio del vero amore di un principe senza macchia e senza paura la sveglierà per sempre”. Come vedi mia cara, è esattamente come ti ho spiegato. Ripeto che non capisco perché non abbia funzionato con precisione»

«Lilac, devo aver capito. L’incantesimo ha funzionato in modo precisissimo. Un bacio mi ha risvegliata, ma non è mai stato quello del vero amore poiché la maledizione non è stata spezzata per sempre. Filippo non è potuto essere lì dopo cento anni, solo lui avrebbe potuto salvarmi davvero»

«Cara, temo che tu abbia ragione! Vorrei che ci fosse un modo…»

«Ci deve essere: sei una fata, puoi tutto»

«Non tutto purtroppo. Ci sono leggi della natura, come la morte e l’amore, che non si possono violare in alcun modo. E il tempo è una di quelle leggi così rigide che i miei poteri non riescono ad influenzare. Ci vorrebbe tutta la magia di noi fate!»

Negli occhi di Aurora si accese il brillio di una fievole speranza. Avrebbe fatto di tutto per cercare le altre cinque fate madrine e per riuscire ad ottenere da loro un incantesimo. Posò sul tavolino la tazza ormai vuota chiedendo se fosse potuta rimanere sveglia per il tempo necessario.

«Due mesi al massimo. I miei poteri consentono fin qui»

«Sono sufficienti» sorrise rincuorata.

Non immaginava lontanamente, però, che due mesi probabilmente non erano affatto sufficienti per imparare ad affrontare l’adolescenza nel ventunesimo secolo.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 2000 ***


CAPITOLO QUATTRO

2000

 

 

 

Le strade del centro erano decorate con luci colorate e le vetrine dei negozi scintillavano nel pungente freddo invernale. Si respiravano la tipica lieta atmosfera natalizia e quella concitata dell’inizio dei saldi. Aurora strinse attorno a sé il cappotto rosso che le aveva prestato Lilac, troppo abbondante per lei ma indubbiamente caldo e morbido. Il giorno prima aveva ricevuto da parte della sua madrina una preparazione condensata sugli usi e i costumi di una società stranissima: aveva appreso di macchine volanti, radio e telefoni, di repubbliche democratiche e di diritti, di Paesi oltre le colonne d’Ercole e di uomini arrivati sulla luna, di pizza e di patatine fritte, di cinema e di moda. Lilac pensò che, facendole vedere a ripetizione continua i videoclip di MTV, non appena avesse smesso di rimanere atterrita, allora sarebbe stata pronta per andare fuori. Quella mattina la ragazza si era ritrovata a canticchiare “Baby One More Time”, così ebbe il permesso di uscire per comprare dei vestiti. Le macchine saettavano per le strade rendendola tesissima nella sua passeggiata, ma non poteva fare a meno di portare un sorriso smagliante sul viso alla vista di tanto colore e tanta poesia in quel nuovo mondo. Passando accanto a un negozio si aprì di colpo una porta di vetro. Fece un salto indietro per la sorpresa, ma poi interpretò l’accaduto come un moderno invito ad entrare e attraversò la porta. C’erano abiti d’ogni genere e avrebbe voluto provarli tutti.

«Ciao!» si sentì dire da dietro. L’aveva salutata una ragazza della sua età dai capelli color caramello fermati da un lucido nastro blu, con due occhi color nocciola e il naso a punta.

«Eri alla festa la sera scorsa, vero?»

«Sì, ero venuta con Alessio» inventò sul momento sperando ardentemente che quest’ultimo non avesse raccontato un’altra versione dei fatti.

«Ah!» rise quella «Allora ti è andata bene se sei soltanto svenuta. Alessio può nuocere gravemente alla salute di una ragazza. Comunque mi sembri troppo carina per uscire con lui»

Aurora non era certa se stesse scherzando oppure se stesse parlando seriamente, ma per educazione le sorrise e si presentò.

«Io sono Giada» le disse tendendole la mano. Aveva le unghia dipinte di viola, ma Aurora non si distrasse e intuì subito che doveva stringergliela.

«Non vorrai prendere quello?» chiese Giada indicando il vestito che l’altra teneva in braccio.

«Non va bene?» domandò dubbiosa cercando di capire da sé quale fosse il difetto in quell’abito e come riuscire a non sbagliare gli acquisti.

«Ma dai, è da vecchia! Vieni con me»

Aurora la seguì cominciando a tessere la sua nuova storia. Raccontò di essersi trasferita da poco più di una settimana in quel paese a causa del lavoro di sua zia, con la quale viveva, e che frequentava il Liceo Classico (fu facile scegliere perché era quello a cui era iscritta Giada e lei si limitò a risponderle con un semplicissimo “anche io”). Alessio era il nipote di un’amica della zia e l’aveva invitata alla festa cosicché potesse conoscere qualcuno del paese. Pensò di essersela cavata molto bene con le sue spiegazioni e fu molto grata a Giada per non aver insistito affatto sullo svenimento. Comprò due jeans, un maglioncino panna, un altro rosso ciliegia e un vestito a fantasia marrone e turchese indecentemente corto a suo giudizio, ma delizioso a detta della sua amica. Si divertì tantissimo a fare la passerella con i tacchi, cercando di mantenere l’equilibrio, e a farsi truccare con i tester della profumeria.

«Allora ci vediamo il 7» si salutarono alla fine.

Aurora pensò che probabilmente doveva parlare a sua zia dell’iscrizione a scuola. Avrebbe reso la copertura più solida perché una sedicenne vista ogni giorno in giro avrebbe suscitato domande nella gente. D’altra parte non era affatto male imparare qualcosa del mondo.

 

 

*

 

 

Chantal Canary era seduta al magnifico pianoforte a coda nero accanto ad una ragazzina con i codini i cui piedi arrivavano a stento ai pedali. La maestra le ripeteva gentilmente le indicazioni da seguire, indicando lo spartito e muovendole delicatamente la mano sinistra per correggerle la posizione, senza curarsi dei due bambini che dietro di loro facevano un potente frastuono con la batteria. I due l’avevano completamente smontata e ne avevano disseminato i pezzi sul tappeto; uno si era pericolosamente seduto a gambe divaricate sul tamburo più grande e lo percuoteva ripetutamente da un lato e dall’altro, mentre l’altro saltellava in piedi sbattendo forte i piatti. Un terzo bambino eseguiva il suo pezzo con il flauto traverso in maniera diligente e con aria esperta. L’idea doveva essere quella di provare tutti insieme la stessa melodia, ma il risultato era molto lontano da quello sperato. Chantal impartiva lezioni di musica ai più piccoli senza chiedere in cambio alcun compenso e, senza destabilizzare il mondo moderno con un grande impiego di incantesimi, riusciva a regalare alla gente preziosi momenti di gioia. Il salotto della sua casetta era adibito a scuola di musica e conteneva ogni tipo di strumento, da eleganti corde a folkloristiche percussioni, e ognuno trovava il suo posticino in quella stanza sovrabbondante di gingilli e disordinata, ma calda e accogliente. In quel caos di suoni riuscì a percepire quello del campanello e volò alla porta. Vi entrò una bella ragazza bionda che le ricordava tanto qualcuno, ma che non riusciva ad individuare chi fosse.

«Chantal, sono Aurora»

Poteva essere quella Aurora? La piccola principessa?

Si accomodarono nella cucina, ma musica dei bambini continuava a sentirsi ancora forte nonostante la porta chiusa. La ragazza cominciò a ricapitolare velocemente tutto ciò che le era accaduto e la donna ascoltava attentamente senza mai interromperla. Stava seduta sulla punta della sedia curvando leggermente le spalle minute sulle quali ricadevano le ciocche argentate di una coda di cavallo scomposta. Aveva le mani appoggiate sul tavolo le cui lunghe dita a tratti si tormentavano a vicenda, altre volte giocherellavano con un anello. Le sopracciglia erano inarcate in un’espressione nervosa e le labbra serrate mentre seguiva il discorso di Aurora facendo convinti assensi con il capo.

«Esiste qualcosa che una semplice ragazza può fare per una fata?» chiese infine la giovane, sperando che Chantal potesse indicarle qualcosa per cui riuscisse a meritare un incantesimo. Sapeva che aveva già ricevuto un dono speciale da ognuna delle sue madrine e che non poteva esigere che la realtà fosse alterata gratuitamente per lei. Si rendeva conto che la sua era una richiesta difficile da accontentare, perché avrebbe potuto cambiare lo svolgersi degli avvenimenti futuri. Il suo matrimonio con Filippo avrebbe potuto modificare le sorti del regno e del casato; se avesse rivelato qualche invenzione o scoperta del futuro avrebbe potuto, allo stesso modo, migliorare le condizioni del suo tempo ma stravolgere il corso della storia con chissà quali esiti. Durante la lunghissima notte in bianco precedente, dopo aver visto per qualche ora la tv e aver letto un libro finché non le bruciarono gli occhi, si era accoccolata sul divano a riflettere proprio su questi problemi. Più procedevano oltre, più i suoi pensieri davano possibilità di esistenza a varie eventuali realtà parallele in cui il tempo aveva fluito in modo diverso, e così il ragionamento sfociava in vicoli ciechi, tanto che la mente di Aurora rischiava di collassare in un buco nero così come l’idea stessa del tempo. Comprendeva che giocare con una così inesorabile legge della natura e un così fondamentale punto di riferimento era altamente rischioso, ma era disposta ad affrontare qualsiasi cosa pur di equiparare, con una sua azione, il grande valore dell’incantesimo di cui aveva bisogno. Continuava a mordersi il labbro mentre la fata pensava alla risposta da darle, finché questa disse: «Un uovo di pernice bianca . Se riuscirai a portarmelo, avrai la tua ricompensa».

Aurora sorrise felicissima e balzò su dalla sedia, ringraziando la donna e promettendole che ci sarebbe riuscita.

 

 

*

 

 

Tornò alla fermata dell’autobus e tirò fuori dalla borsa una piantina del paese su cui Lilac aveva segnato le abitazioni delle fate. Fece una croce sulla casa di Chantal. Fuori uno. Decise che prima di arrivare a casa si sarebbe fermata in libreria per cercare un volume che trattasse di uccelli e che potesse informarla, in particolare, sulle pernici. Quando il mezzo aprì le porte davanti a lei, questo era quasi vuoto e la ragazza si accomodò su uno dei tanti sedili disponibili. Sulla sua stessa fila ma al di là del corridoio centrale c’era un ragazzo intento a giocare con un game-boy che ogni tanto la guardava di sottecchi, con due strani e inquietanti occhi gialli, mentre lei osservava fuori dal finestrino il marciapiede poco affollato e cominciava ad imparare le vie del paese. C’era un’aria nevosa e il cielo era grigio. Dopo tre fermate scese a due passi da una libreria che aveva individuato già durante il tragitto verso casa di Chantal. All’interno i libri erano accuratamente suddivisi in settori in base al genere e disposti sugli scaffali in ordine alfabetico in base al cognome dell’autore. Indugiò un po’ troppo sulla narrativa, scoprendo tanti titoli allettanti, e si fermò a leggere il retro copertina di tutti i grandi classici che non poteva pretendere di trovare nella relativamente piccola biblioteca di Lilac. Alla fine lasciò risolutamente ogni romanzo al suo posto e si spostò nel reparto dedicato alla natura e agli animali. Sfilò delicatamente una ventina di testi prima di scegliere quello che reputava il più adatto, poi si avviò con soddisfazione verso la cassa tenendo fra le braccia un’enciclopedia interamente dedicata agli uccelli. Posò il tomo sul bancone assieme ad una banconota e, aggiungendole lentamente una ad una, delle monete. La cassiera le sorrise rivelandole che ancora neanche lei si era abituata ad usare l’euro  con facilità, poi le porse il libro in una bustina con lo scontrino.

Aspettò che passasse nuovamente l’autobus e questa volta scese vicino la casa della sua adorata Lilac, non vedendo l’ora di trovarsi davanti il pranzo che aveva preparato.

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Una villetta rossa ***


CAPITOLO CINQUE

Una villetta rossa

 

 

 

 

Le previsioni meteo erano state sfortunatamente precisissime e quella mattina stava fioccando ininterrottamente da alcune ore senza dare segni di speranza in un miglioramento. Aurora aveva preparato uno zainetto con il pranzo a sacco, una mappa e una bussola, un binocolo, una lente d’ingrandimento, una macchina fotografica, una torcia, delle bustine, garza e cerotti, un taccuino e la sua enciclopedia sugli uccelli e se ne stava seduta con indosso la giacca a vento a guardare dalla finestra. Aspettava di poter tranquillizzare Lilac che non c’era nulla di cui preoccuparsi e che mai si era visto momento più favorevole ad un’escursione tra i boschi. Più si ostinava ad osservarli, però, più quei maledetti fiocchi di neve diventavano grossi e frequenti. Non voleva perdere un giorno per il maltempo perché, come aveva letto sul libro, anche se le pernici non erano rare ai piedi delle montagne tra cui sorgeva il suo paese, non era altrettanto semplice avvistarne una se non dopo un lungo periodo di osservazione. Aveva calcolato che poteva impiegare perfino una settimana prima di avere la fortuna di imbattersi in quell’uccello, poiché non si sentiva sicura di montare una tenda nei boschi, restando lì da sola tutta la notte. Le escursioni sarebbero state di mezza giornata, finché non fosse calato il sole, decisione che fu accolta con non poco sollievo da Lilac. Tutta questa cautela, d’altra parte, rallentava molto i tempi con cui la ragazza avrebbe voluto procedere e un intoppo del genere la preoccupava e irritava parecchio. Si lasciò scappare uno sbuffo contrariato e si allontanò dalla finestra. Si erano fatte quasi le dieci e il progetto era ormai in fumo. Era decisa, comunque, a ricavare qualcosa da quella mattinata, così diede un’occhiata alla cartina del paese e decise che la casa di Mietta, a sole quattro fermate di pullman, sarebbe stata la sua prossima meta.

Si avvolse una lunga sciarpa di lana attorno al collo cercando di coprire anche la bocca e il naso, s’infilò il cappellino, tirò su la zip della giacca e uscì. Non c’era nessuno per le strade. Arrivò in meno di dieci minuti e dopo una ventina di metri a piedi suonò il campanello di una villetta rossa a due pieni con davanti un giardino poco rigoglioso per via della stagione, ma nonostante ciò curato, e un alto cancello in ferro.

«Mietta?» disse alla donna che venne ad aprirla. La ricordava decisamente diversa.

«Sì?» rispose gentile quella. Aveva il capelli corti, gli occhi castani vivaci e svegli e una lunga casacca color sabbia con una collana etnica.

«Sono Aurora» continuò con la stessa incertezza nella voce.

«Sì, cara, starai cercando mio nipote. Entra, fa così freddo! Un attimo solo, te lo chiamo»

La ragazza entrò, spinta con affabilità dall’anziana signora, anche se sospettò ancora più fortemente che quella nonna che non l’aveva riconosciuta non fosse la fata che stava cercando. Congelata e imbarazzata sfregò le mani l’una con l’altra e allentò la sciarpa. Doveva venirle in mente all'istante una scusa credibile per l’equivoco.

«Alessio! È venuta una tua amica» chiamò a voce alta.

Un ragazzo in jeans e con ancora indosso la maglietta del pigiama, tutto spettinato, raggiunse Aurora all’ingresso. Oh, pensò lei riconoscendo quel viso, non sarà troppo difficile spiegare la mia presenza qui.

«Ciao! Che ci fai qui?» le sorrise un po’ confuso ma contento.

«Volevo solo ringraziarti. Ti ho reso partecipe di una stravagante circostanza» non mentì del tutto, desiderando davvero l’occasione per chiarirgli l’accaduto. Anche se non poteva rivelargli la verità, doveva fornirgli una versione accettabile dei fatti.

«Figurati» si grattò dietro la nuca «Stai bene ora?»

«Sì, grazie. Non è stato niente»

«Prendile il cappotto, e non farla restare lì nell’atrio!» rimproverò la nonna dall’altra stanza.

«Sì, sì, certo» ascoltò il ragazzo appoggiando la giacca sull’attaccapanni assieme alla sciarpa e il cappello e facendo strada all’amica verso la cucina.

«Ti preparo un tè, mia cara?» propose la nonna, cominciando ad aprire gli sportelli dei mobili mentre i ragazzi si sistemavano sulle sedie attorno al tavolo.

«No, la ringrazio»

«Io una cioccolata, nonna. Ancora non ho fatto colazione» chiese il nipote. Negli occhi della giovane si accese un brillio.

«Anche Aurora vuole la cioccolata» aggiunse Alessio.

«Se non le creo troppo disturbo» accettò lei.

Mentre la donna stava ai fornelli, si parlò di quanto freddo facesse fuori e di quanto le strade fossero già tutte imbiancate dalla neve. Alessio sperava che la scuola restasse chiusa ancora un po’ a causa del cattivo tempo. Dopo qualche minuto Mietta lasciò due tazze fumanti davanti ai ragazzi e si spostò in salotto per guardare la tv, lasciando che cambiassero argomento a loro piacere.

«Mi sono da poco trasferita qua» attaccò Aurora «Hanno spostato mia zia sul lavoro. Io vivo con lei».

«Ho capito» disse soltanto lui.

«Potrei aver detto che sono venuta con te alla festa» ammise con l’aria un po’ colpevole «Era l’unico nome che conoscevo e non potevo ammettere davanti alla ragazza che ha dato la festa che mi ero presentata senza invito!».

Alessio rise, prendendo in simpatia quel miscuglio di ingenuità e risolutezza della ragazza. «Tutto apposto» la rassicurò, «hai fatto bene». Poi, tornando serio, le chiese «Ah, quindi hai già conosciuto Giada?»

La ragazza fece un cenno con la testa. «C’è bisogno che ti avvisi sulla gente che conoscerai qui. Non vorrei che frequentassi le persone sbagliate» suggerì semiserio. «Ad esempio Giada. Non dovresti avere niente a che fare con lei».

«Perché? Mi è sembrata così amabile»

«Ha solo un sacco di vestiti» concesse «In realtà è egoista, competitiva, arrogante, maligna e sprezzante. Immagino tutto quello che ti ha detto su di me».

«Non ha detto proprio niente. Ha soltanto alluso a una fine ben peggiore dello svenimento che una ragazza potrebbe fare in tua compagnia e forse devo darle credito. Una ragazza potrebbe essere denigrata con le accuse peggiori dalla tua lingua!».

«Fidati, la conosco da una vita» confermò lui «Hai sicuramente bisogno di una guida turistica come me, si vede che da sola riusciresti a credere amabile chiunque».

Così cominciò a descriverle tutti i più folkloristici abitanti del paese e tutti i più tipici studenti del liceo. C’era il barbone Geremia, un po’ pervertito ma innocuo; la professoressa Semenza, che sembrava uscita da un romanzo ottocentesco; il professor Bino, che allevava fagiani; un gatto rosso con la coda bruciacchiata che tutti chiamavano Lincoln; la signora Simonetta, la pettegola più informata di una spia russa; Ottaviani, detto Ottaviano Augusto, che un giorno sì e l’altro pure finiva dal preside per qualche diavoleria; Lena, la “portaborse”di Giada; il Mostro dell’Ultima Aula, che gorgheggiava da una stanza sempre chiusa a chiave; e ne ebbe da raccontare fino all’ora di pranzo, quando la nonna Mietta decise che nevicava troppo forte perché Aurora potesse mangiare altrove se non a casa loro.

 

 

*

 

 

A tavola si unì nonno Leonardo, che fino ad allora aveva silenziosamente letto il giornale sulla poltrona del soggiorno. Aveva i capelli bianchi leggermente scompigliati, un grande paio di occhiali dalla montatura in osso e una statura eccezionalmente alta per la sua età. Era tranquillo e pacato di carattere, dai modi galanti e un po’ all’antica, e aveva una eccellente memoria. Aveva trovato in Aurora la più piacevole uditrice e spesso esordiva con “durante i miei verdi anni…” per raccontare qualche aneddoto della sua gioventù, in particolare episodi della sua carriera di pilota militare, che la ragazza ascoltava con vivo interesse. La nonna ogni tanto gli lanciava qualche battuta ironica su quanto ricordasse meno gloriose ed eroiche le sue gesta e così si aprivano dei comici battibecchi. Alla fine nonno Leo concludeva ogni discussione esclamando «Mietta, ricorda che conservo ancora il fucile!» e dopo una risata generale nonna Mietta scuoteva la testa e prendeva la saggia decisione di introdurre nella conversazione su un argomento più neutrale. Aurora non aveva mai avuto un nonno e una nonna, né aveva mai avuto un momento di familiarità così intimo e piacevole con i suoi genitori.

Si venne a sapere cha ad Aurora interessava molto la natura e che desiderava fare proprio un’escursione tra i boschi.

«Alessio, tu sei stato uno scout! Dovresti accompagnarla» intervenne prontamente la nonna.

«Ti prego…» mugolò il ragazzo, non volendo ricordare l’estate più infame della sua vita. Era stato punto dalle api, aveva toccato piante urticanti, aveva sofferto il freddo di notte, era stato costretto ad avvicinarsi agli escrementi degli animali e aveva mangiato malissimo.

«Hai anche conquistato quattro spille! Devi rendere onore ai tuoi riconoscimenti scortando questa signorina» insistette il nonno con solennità.

E infine si decise che appena il tempo fosse stato clemente una passeggiata nel bosco non avrebbe fatto male a nessuno. Aurora non poteva esserne più felice e non vedeva l’ora di avventurarsi tra le montagne. Alessio avrebbe preferito portarla al cinema, ma non si poteva dire che fosse del tutto scontento di avere quella gita in programma.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Come due salami ***


CAPITOLO SEI

Come due salami

 

 

 

 

Lilac era piuttosto perplessa: non riusciva a captare la presenza della vera Mietta in nessun luogo. Probabilmente si era allontanata da quell’area, anche se era molto insolito che una fata decidesse di vivere separata dal suo luogo d’origine. Tutte le fate, infatti, pur avendo cambiato dimora secondo la moda del secolo, erano rimaste approssimativamente nel medesimo posto, dal quale traevano energia quasi questo rappresentasse un pezzo inseparabile del loro spirito. Aveva promesso ad Aurora che si sarebbe impegnata a trovarla, in qualsiasi luogo della terra risiedesse.

Le aveva promesso, poi, che avrebbe completato l’iscrizione al liceo e che le avrebbe procurato i libri di testo.

La ragazza si sentiva estremamente in debito con la sua fata madrina, che la stava ospitando e aiutando in ogni modo possibile, così insistette molto affinché questa le suggerisse il modo con cui sdebitarsi. Lilac, però, le assicurò che l’unica cosa che potesse fare per lei era essere felice e stare nel mondo che le apparteneva.

Aurora stava studiando alcuni argomenti di matematica, per non arrivare impreparata a scuola, mentre aveva ormai perso le speranze che passasse Alessio. Quella mattina non nevicava eppure lui non si era presentato per andare in montagna! L’orologio segnava le dieci e trenta e la ragazza necessitava di una pausa dalle disequazioni, così chiuse tutte le penne sparse sul tavolo nell’astuccio, richiuse libri e quaderni ricomponendoli in una pila ordinata e raggiunse Lilac sul balcone. Cominciò ad aiutarla a innaffiare i fiori che crescevano rigogliosi a dispetto del gelo invernale e a potare le foglie secche. C’erano due lumache che strisciavano lentissime sulla fredda ringhiera di ferro a cui erano agganciati i vasi. Le loro antennine verde chiaro si muovevano in un rilassato ballo che teneva segreta un’intesa tutta loro. Quella vista la allietò senza un particolare motivo e rimase a fissarle per quasi un quarto d’ora, finché non sentì un clacson dalla strada. Era Alessio. Aveva accostato la moto al marciapiede e le faceva segno di scendere.

«Si è fatto tardi» evidenziò Aurora una volta corsa giù.

«Mi sono svegliato adesso» alzò le spalle e le rivolse un sorriso. Aurora scosse la testa, accordandogli un sorriso un po’ meno sfavillante per risposta. «E poi fa comunque freddo» aggiunse il ragazzo.

«Lasciamo stare, ma non trovare scuse per domenica!» gli diede come ultimatum.

Lui si mise una mano sul cuore e chiuse gli occhi giurando seriamente, o almeno fingendo di essere serio. «Dai, salta su» le fece un cenno con la testa.

La ragazza era un po’ restia a salire in groppa a quel coso. Gli ricordò che doveva portare il casco ed era vietato salire in due sullo stesso motorino, sorprendendosi di essere più informata sulle leggi stradali più di quanto non fosse un ragazzo che era sempre cresciuto in quel mondo.

«Rory, ma sei stata educata in un collegio svizzero? E muoviti!» insistette dandole il suo casco. Così cedette e si sistemò con cautela nello spazio posteriore del sellino, indecisa sul dove sistemare le mani. Fece per agganciarsi al giubbotto di Alessio ma poi preferì tenersi saldamente al sedile.

Partirono piano e il vento veniva contro di loro debolmente. Non era mortale.

«Allora, dove andiamo?» si informò la ragazza.

«Ti piace pattinare?»

«Non ho mai provato» rispose dubbiosa. Non aveva un’idea precisa di che pratica fosse e sperava che non si rivelasse un’esperienza di cui pentirsi.

«Ti piacerà» decretò allegro.

Svoltò a un paio di incroci prima di parcheggiare a bordo strada davanti ad un edificio basso e largo. Dentro, una piccola entrata dal pavimento di legno precedeva un’ampissima pista ghiacciata che occupava il resto del locale su cui alcune persone scivolavano con delle scarpe particolari.

«Che numero?» chiese loro una ragazza dai lunghissimi capelli tinti di mogano e un piercing al naso. Dietro di lei c’era una parete piena di pattini raggruppati per misura. Ne diede un paio numero quarantatré ad Alessio e un altro numero trentasei ad Aurora. Lei si appoggio a una parete per infilare quelle scomode calzature e dopo un po’ di fatica fu pronta per scendere in pista, camminando con una certa titubanza. Guardò Alessio scivolare con sicurezza verso il centro mentre si teneva con accortezza al bordo. Il ragazzo le si avvicinò per darle qualche istruzione e dopo pochi minuti imparò a far strisciare le lame sulla superficie e a darsi il giusto slancio. Anche se all’inizio era difficile e aveva paura di cadere o di urtare le altre persone, pian piano si lasciò andare, finché non divenne abbastanza confidente da trovare la sicurezza necessaria per seguire l’amico lontano dal bordo. Questi la prese delicatamente per un polso, ma lei gli si appese al braccio in cerca di un sostegno. Non passò troppo tempo che il timore fu vinto dalla voglia di divertirsi e si staccò da lui, cominciando a guizzare velocemente. Si rincorsero per un po’ sulla pista, fino a quando Aurora non andò oltre i suoi limiti da principiante e, aggrappandosi ad Alessio per smettere di barcollare, lo capovolse e finirono distesi sul pavimento gelido. Il viso di lei era rosso per il freddo e la vergogna sotto quello di lui e restarono lì a ridere di gusto l’uno sull’altro come due goffi salami intabarrati in voluminosi giubbini imbottiti, senza preoccuparsi di ingombrare il centro della pista. Lui cercò faticosamente di alzarsi e dopo due tentativi fu fortunato nel ritrovarsi in piedi a tendere entrambe le braccia verso la ragazza, che cercava disperatamente di mettersi anche lei in piedi. Restarono ancora mezz’ora a volteggiare più cauti e più accostati ai bordi, poi il loro stomaco suggerì di andare a caccia di pizza e uscirono dalla pista.

Si rintanarono in una pizzeria al taglio dall’altro lato della strada in cui c’era uno splendido tepore e poche persone sedute ai tavolini quadrati lungo una parete. Quest’ultima aveva appese su di essa tante fotografie in bianco e nero che rendevano il locale un po’ fuori moda, ma dal fascino retrò molto accogliente per chi sapeva apprezzarne la calda atmosfera. Aurora provò un trancio di Margherita tanto gustoso che dovette ammettere che avrebbe rimpianto moltissimo ventunesimo secolo una volta tornata nel Medioevo, se non altro per il cioccolato, il sugo, le patatine e tutti i deliziosi alimenti importati dal Nuovo Mondo.

«Vi facevano digiunare in collegio?» scherzò Alessio fissando stupito il piatto già vuoto della ragazza «Sembra che tu non abbia mai assaggiato una pizza!». Aurora non aveva ancora capito la storia del collegio, ma rise sinceramente dietro l’altro divertita dalla sua espressione curiosa. Tante volte aveva avuto delle conversazioni confidenziali con la sua dama di compagnia Maria e tante volte nei loro sguardi si era celato un rapporto di simpatia, ma nessuno aveva mai saputo metterla di buon umore soltanto con un sorriso sottile, appena tirato da un lato. Tanti cavalieri avevano conquistato la sua fiducia con la loro nobiltà, ma lui c’era riuscito senza fare niente. Solo Filippo prima d’ora l’aveva fatta stare così bene, ma era diverso: quella era una sensazione ovattata e pizzicante. Con Alessio sentiva di non dover seguire delle regole e non doversi sforzare di essere una principessa. Poteva rilassarsi. Era bello sentirsi un’adolescente ed era meraviglioso avere un vero amico.

 

 

*

 

 

La campanella della ricreazione suonò prima che la professoressa di Latino potesse dire un’altra sola parola sul periodo ipotetico. La classe si riversò fuori dalla porta interrompendola nel bel mezzo del discorso, già irrequieta dopo sole tre ore di costrizione fra i banchi. Il ritorno dalle vacanze produce sempre un effetto deleterio, anche se la mattinata di Aurora non si poteva definire troppo male. Era stata presentata nella sua nuova classe e le avevano dato la possibilità di scegliere dove sistemarsi. Giada aveva prontamente affiancato un banco al suo, prenotandole un posto in prima fila e assicurandosi il monopolio sulla ragazza del momento. Aurora si sedette lì sperando che lo sguardo di tutti i compagni che aveva addosso sin da quando aveva varcato la soglia si sarebbe presto interessato a qualcos’altro. Nonostante temesse di agire in modo assolutamente anacronistico e ridicolo, non fece niente di troppo diverso da una qualsiasi studentessa nuova: stare prevalentemente in silenzio e osservare gli altri.

«Vieni anche tu in bagno con noi?» le chiese Giada, facendo un segno con il capo verso la porta. Aurora annuì e la seguì con Lena e altre due compagne di classe, Rita e Ludovica. Era una specie di rituale, ci si rifaceva il trucco e ci si scambiavano gossip.

«Secondo me c’è sotto qualcosa» affermò con enfasi Rita, facendo schioccare le labbra appena dopo aver finito di stendere il lucidalabbra.

«Sì, anche secondo me» si accodava Ludovica.

«Ma delirate?» scoppiò a ridere Lena «Non c’è storia».

«Beh, hai ragione» confermò Ludovica, aggiungendo uno sguardo eloquente, che la faceva apparire più che altro molto tonta.

Giada mormorò qualcosa di indefinito, evidentemente assorta in qualche altro pensiero. «Stamattina ho visto Fabio Baldovino» disse all’improvviso, ricevendo l’attenzione delle altre. Rendendosi conto di dover aggiungere qualcos’altro disse «Aveva la macchina».

«Ah!» fece Ludovica, convinta di aver afferrato tutto.

«Vorresti farci un giro, eh?» insinuò Rita lanciandole un’occhiata maliziosa.

«Macché» fece una smorfia schifata Giada «Era giusto per dire. Ha preso la patente». Si scostò dalla parete e si allisciò una piega inesistente sulla manica.

«Io me lo farei senza pensarci due volte» sentenziò Rita.

«Anche io» concordò Ludovica con un sorriso ebete.

«Un giro in macchina con lui» precisò l’altra.

La campanella interruppe la loro conversazione e Giada, di cattivo umore, si riavviò verso la classe seguita a ruota dalle amiche.

 

 

*

 

 

«Buonasera, sono Aurora, c’è Alessio?» formulò nel modo corretto al telefono.

«Sì, te lo passo» rispose una signora che doveva sicuramente essere la madre.

«Rory?» sentì la voce del suo amico.

«Ciao! Come va?»

«Bene, tu?»

«Bene, grazie. Non ti ho visto a scuola in questi due giorni»

«Abbiamo fatto ponte, era inutile rientrare venerdì. C’eravate solo voi del classico»

«Ah…» rispose dubbiosa la ragazza. Gli studenti di quell’epoca consideravano la scuola alla pari dei lavori forzati. Per lei, abituata a studiare con un maestro, era meraviglioso avere la possibilità di apprendere così tanti insegnamenti delle più varie discipline assieme a dei coetanei.

«Com’è andata?» le domandò curioso.

«Mi piace tantissimo qui» gli rivelò sincera e gli raccontò delle lezioni. Dalle sue parole non poteva non trasparire un grande entusiasmo, forse eccessivo per una normale sedicenne.

«Sì, sì, gran bella roba Platone» la frenò Alessio «Parlando di cose meno iperuraniche, che fai stasera?»

«Tivù» sbuffò. Non ne poteva più di passare le notti davanti alla tivù.

«Perché non vieni al cinema? Siamo io e un paio di amici» propose. «Passo a prenderti fra un’ora» stabilì senza permetterle di mostrare un’esitazione.

«A dopo» lo salutò.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** La pernice bianca ***


CAPITOLO SETTE

La pernice bianca

 

 

 

 

Era una domenica mattina dal sole splendente e niente avrebbe potuto impedire la gita fra i boschi. La sera prima il film era stato terrificante, un horror crudo e sanguinolento, quindi Aurora si sentiva pienamente giustificata a chiedere un piccolo sacrificio ad Alessio. Era stabilito che alle sette in punto dovevano avviarsi, non c’erano scuse.

Sentì il citofono squillare e la ragazza scese di volata le scale, si sistemò sul sellino della moto e partirono. Un taglialegna che era amico del nonno Leo li avrebbe accompagnati con la sua jeep in montagna e poi si sarebbero rincontrati per le cinque del pomeriggio, al calar del sole.

La jeep di Romano, vecchia e quasi tutta sfasciata, e il percorso tortuoso, pieno di buche e dossi, resero il viaggio scomodissimo. Alla fine, anche se un po’ ammaccati, furono abbandonati al Rifugio, che non avrebbero dovuto mai perdere come punto di riferimento. Il sentiero era ricoperto di un sottile strato di neve adagiato sopra un umido tappeto di foglie secche e rametti spezzati, ai lati si estendevano centinaia di alte conifere dai rami spolverati di bianco. Il silenzio regnava sovrano e la luce filtrava fra i rami riflettendosi nelle goccioline di brina, tanto che il bosco sembrava permeato da un’atmosfera mitica e quasi sacra.

Alessio posò lo zainetto a terra e ne estrasse un quadernetto verde.

«La natura in tasca» proclamò esibendo la guida tascabile del WWF. «L’ho avuta quando facevo lo scout. Speravo di non rivederla mai più, ma eccoci qua…».

Aurora la prese in mano e osservò che la prima pagina andava compilata con i dati personali.

«La natura in tasca è di…»

«Andiamo, questa parte possiamo saltarla, è fatta per i bambini delle elementari!»

«Zitto, facciamo le cose per bene» stabilì la ragazza, prendendo una penna dallo zainetto. «Alessio» si dettò da sola e scrisse il nome dell’amico sulla prima riga. «Anni: sedici» continuò «classe: III A Liceo Scientifico; indirizzo: Via Napoleone 14; animale preferito?»

«Delfino»

«Delfino» ripeté lentamente e annotò «Albero preferito?»

«Come sarebbe a dire albero preferito?»

«Devi dirmi quello che preferisci. Ce ne sarà uno che ti ispira di più, no?»

«Questo» indicò sbrigativamente il fusto che aveva affianco.

«Pino» scrisse Aurora «Fiore preferito?»

«Margherita» rispose incerto.

«Il profumo che ti piace di più?»

«Lasagne. Oppure trucioli di gomma. Me li fai passare entrambi?»

«Accordato. La materia che ti piace di più?»

«Chimica»

«Perfetto!»

«Ora tocca a te, su»

«Va bene. Il mio animale preferito è il cervo. Sono eleganti e fieri, a dispetto della loro delicatezza. Come alberi mi piacciono i tigli. A primavera emanano un profumo meraviglioso, sono alti e dal tronco chiaro, con le foglie di un verde tenerissimo. Il fiore che amo di più è la genziana. Cresce sui suoli rocciosi ed è blu. L’odore che preferisco è sempre stato quello della paglia, ma ora sono pazza della cioccolata. Me li fai passare entrambi?»

«Accordato»

«La materia che prediligo è filosofia» concluse. Voltò pagina e cominciò a leggere accuratamente i consigli della guida «Cerca di restare il più possibile in silenzio e di parlare, comunque, a bassa voce, così non disturberai gli animali e sarà più facile vederli. Osserva ogni cosa con molta attenzione, ci sono mille particolari che a un primo sguardo possono sfuggire. Ascolta i suoni, i rumori, la musica della natura, la voce degli animali, il mormorio di un ruscello lontano o il fruscio delle foglie mosse dal vento»

«Abbiamo finito?»

«Lascia i fiori al loro posto» lo ignorò «Osservali, disegnali, fotografali ma non coglierli: sono importantissimi per gli insetti e per molti altri animali. Magari sono anche rari e protetti»

«Ti odio. E odio il WWF. È terrorizzante, sai? Ti danno queste guide e ti segnano l’infanzia!»

«Ma quanto sei scemo! Adesso la guida suggerisce di considerare le caratteristiche del terreno, l’aspetto degli alberi, i fiori, i frutti, le foglie e i semi, le impronte degli animali, i nidi, le tane, i funghi e le muffe»

Alessio fece una smorfia «Inverno, neve, centinaia di conifere, nessun fiore e tutti i cuccioli in letargo» cercò di concludere alla svelta.

Aurora guardò esasperata l’amico: la natura era viva e meravigliosa in qualunque momento! Nelle ore successive riempirono di bacche, pigne, aghi e pezzi di corteccia così tante bustine trasparenti che i pregiudizi di Alessio furono presto distrutti. Quest’ultimo si lasciò andare e ben presto svanì la sua rigidità iniziale per prendere sempre più confidenza con quell’ambiente selvatico. Soltanto un borbottio dal profondo dei loro stomaci quando il sole era nel punto più alto del cielo riuscì ad arrestare per un poco la loro sete di esplorazione. Si sedettero così a gambe incrociate in una piccola radura ed estrassero dagli zaini i panini, i succhi di frutta e la deliziosa ciambella preparata da nonna Mietta. Una volta saziatasi, Aurora cominciò a sfogliare la sua Enciclopedia sugli uccelli, decisa a concentrarsi sul punto focale della spedizione: la ricerca dell’uovo di pernice. Fino ad allora non aveva visto l’ombra di un solo uccello, ma, cercando sul libro le piante predilette dalle pernici, avrebbe ristretto il campo dove cercare. Ciò che la preoccupava non poco era, però, il fatto che il loro periodo di accoppiamento fosse ovviamente la primavera: gennaio non era il mese adatto per deporre un uovo. Tanto valeva provare, se tutto fosse andato storto, esisteva sempre un piano B: andare sulle Ande in Argentina. Sfogliò ancora il libro mordendosi il labbro. Improvvisamente sentì un fruscio dietro di lei e un urlo da parte di Alessio.

«Che succede?» chiese allarmata.

«Non lo so, sembrava una belva» rispose il ragazzo facendosi scudo dietro Aurora. Lei cercò di osservare fra i rami fitti e, spingendosi più avanti di una decina di metri, scorse un camoscio.

«Vieni a vedere la belva» sussurrò con un pizzico d’ironia, facendo in modo che l’animale non scappasse. Alessio si avvicinò cauto e appoggiò le mani sulle spalle di lei, sporgendosi per riuscire ad avvistare il camoscio.

«È carino»

Lo spiarono per qualche minuto tentando di non produrre il benché minimo rumore, poi un secondo suono inaspettato fece correre via il camoscio, terrorizzato, e mozzò il respiro di Aurora. Uno sparo. Quella volta c’era davvero una bestia che l’aveva emesso. Si trovavano in una zona protetta in cui era vietato anche raccogliere i funghi nelle buste di plastica, e la caccia era strettamente proibita. Corsero nella direzione dalla quale avevano sentito provenire lo sparo, con l’intenzione che, se avessero trovato il cacciatore, lo avrebbero denunciato. Non trovarono traccia umana ma, con sommo orrore, videro per terra il corpo piumato di bianco di un uccello. Aurora conosceva perfettamente quella sagoma, si trattava di una pernice bianca. La povera bestiolina giaceva a terra inerme, vittima di quello che era stato uno sparo errato, il cui obiettivo era probabilmente una preda più succulenta. I ragazzi si sentirono in qualche modo traditi, traditi dalla stessa razza a cui appartenevano, che non rispettava le leggi della natura.

«Ehi, cosa c’è qui?» richiamò l’attenzione Alessio sull’incavo di un tronco caduto per terra.

C’era un uovo. Un uovo di pernice.

«Era la mamma» notò con tristezza.

Aurora lo prese dal nido.

«Te lo vuoi portare via?» chiese perplesso lui. La ragazza arrossì violentemente: era ciò di cui non poteva fare a meno. «Sì… vedi…»

«Ma è ovvio, hai ragione» Alessio si picchiò la fronte «Morirà se lo lasciamo qui. Lo dobbiamo tenere al caldo finché non si schiude».

La ragazza annuì, sentendosi un mostro. Non poteva sbarazzarsi di un essere vivente e destinarlo a diventare un ingrediente per chissà quale pozione magica.

L’amico le sorrise incoraggiante e Aurora morì un po’ dentro, sentendosi più sola che mai. Non poteva dirgli niente.

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Fata Madrina ***


CAPITOLO OTTO

Fata Madrina

 

 

 

 

Che cosa devo fare?

Se l’era chiesto per un’infinità di volte. Metà di esse aveva propeso per portare l’uovo a Chantal: era una prova da superare e non era facile, ma doveva avere la forza di andare fino in fondo. Poi guardava quell’involucro e immaginava all’interno un pulcino indifeso, ricordava il sorriso smagliante di Alessio e si vergognava. Di essere così ipocrita, egoista e insensibile. E così, per un numero pari di volte, pensava che forse Chantal avrebbe compreso, forse le avrebbe dato una seconda chance con un’altra sfida.

Che cosa devo fare?

Lilac le aveva risposto che avrebbe trovato la risposta. Bastava che guardasse dentro di sé, perché già conosceva cosa era giusto fare.

Che cosa devo fare?

Mettere una coperta di lana sull’uovo e tenerlo al caldo e al sicuro, nel frattempo che ci pensava. E lavorare alla seconda missione magari.

Bussò alla porta di casa di Candida. Una signora molto alta con un’acconciatura vaporosa fuori moda e degli occhiali dalla montatura nera la riconobbe a prima vista: «Aurora!»

La fece accomodare all’interno del suo appartamento spazioso e luminoso. Candida faceva la psicologa. Era il suo modo di aiutare le perone, senza dover agitare la bacchetta magica. Le sorrise amabilmente, aspettando di ascoltare il motivo della comparsa della ragazza. Aurora fece un respiro profondo e ripeté, ancora, la sua storia, mentre un gatto marrone a pelo lungo zampettava sui mobili cercando di attirare la loro attenzione.

«C’è qualcosa che posso fare per ottenere un incantesimo?» concluse serrando i pugni nella speranza.

«Ma certo» rispose immediatamente la fata «Se c’è una cosa che non posso eseguire con la magia, quella è risolvere i problemi delle persone. Posso far comparire ogni cosa materiale, ma la maggior parte delle volte non è utile a nulla. Per sbrogliare il groviglio di sentimenti occorre ascoltare. Ecco, Aurora, se tu riuscissi ad aiutare delle persone, allora sarei felicissima di ricompensarti».

«Lo farò!» fu lietissima di promettere.

Sapeva già cosa fare. Ringraziò di cuore la fata madrina, grattò dietro le orecchie il gatto e, rifiutando i pasticcini, decise di tornare subito a casa.

L’uovo stava bene, era al caldo sotto la coperta. Prese dei cartoncini colorati e i pennarelli e si sistemò al tavolo. Aveva pensato che spesso i ragazzi avevano paura di essere giudicati, perciò forse confidarsi anonimamente con un’amica virtuale che dà consigli disinteressati poteva essere un’idea produttiva. Ci pensò un po’, prima di formulare il messaggio in modo accattivante e di trovare lo pseudonimo adatto, poi scrisse in caratteri colorati di contattare per qualsiasi problema Fata Madrina all’indirizzo e-mail che si curò di creare.

Ad opera finita, raggruppò i foglietti in una fila ordinata e la sollevò per ammirarla con soddisfazione. Aveva fatto un buon lavoro. L’indomani, avrebbe dovuto affiggerli in bacheca, senza farsi vedere da nessuno.

 

 

*

 

 

Fino ad allora aveva sempre preferito usare i libri, ma, dopo aver scoperto quanto pieno di risorse era il mondo del web, ne era diventata quasi dipendente. Le riusciva incredibile concepire una scatola che perfino la biblioteca di Alessandria sarebbe sembrata poca roba al confronto. C’era tutto, tutto quello che poteva immaginare. Con un po’ di timore, aveva digitato sul motore di ricerca il suo nome. Non erano apparsi risultati, e ciò la deluse e consolò al tempo stesso. Aveva cercato suo padre e Filippo e aveva trovato soltanto qualche accenno alle casate reali. Seppe che il suo regno era stato ereditato dal cugino della madre, il visconte de Malheur, ed era stato annesso alle terre di quella famiglia, rimanendo un possedimento di periferia. Immaginò che i dati sarebbero cambiati a distanza di qualche mese, magari sotto gli occhi increduli di qualcuno! No, probabilmente nessuno si interessava di sovrani morti da dieci secoli.

Controllò per la decima volta la casella di posta elettronica e finalmente trovò un messaggio. Con impazienza, cliccò sulla bustina per leggere il messaggio.

Una ragazza le scriveva di vedere da settimane il suo ragazzo distante e che, pur avendolo sempre accanto, le mancava. La cercava poco, solo per convenienza o per routine, e lei aveva bisogno di averlo indietro. Che cosa devo fare? era il suo tormento.

Che cosa devo fare?

Aurora dell’amore non ne aveva mai vissuto i litigi, le incomprensioni, le passioni violente e i riti abitudinari. Aveva soltanto un’idea tiepida e ovattata. Se fosse stata nei panni di quella ragazza, però, ciò che avrebbe cercato di fare era parlare. Riaprire il dialogo e parlare di sé, dei propri problemi, dei propri sentimenti, con sincerità. Trovare il coraggio di affrontare una situazione sull’orlo di precipitare o di salvarne disperatamente una rabbuiatasi. Venirsi incontro senza maschere.

 

 

*

 

 

«Rory» bisbigliò Lena con la voce soffocata per non farsi scoprire.

Aurora alzò gli occhi verso la cattedra: la professoressa stava leggendo una rivista. Allungò un foglietto verso l’altra ragazza e tornò alla sua versione di greco.

«Grazie» nascose prontamente il suggerimento all’interno del foglio di protocollo l’altra.

«Cambia un po’ le parole» si premurò di ricordare Aurora. Ricevette un assenso con il capo e un’occhiataccia dall’insegnante, che aveva avvertito un certo movimento.

«Lena» chiamò poi Giada a voce tanto bassa che l’altra non la sentì. «Lena!» ripeté ansiosa, allungando la gamba fino alla sedia dell’amica per attirare la sua attenzione. «Passa anche a me». Lena le fece segno di aspettare ancora soltanto per un attimo, poi si allungò per passarle il bigliettino.

«Pvof, qui c’è confusione ed io non viesco a concentvavmi» segnalò una compagna, Olivia, facendo in modo che la donna alzasse lo sguardo proprio sulle due che cercavano di collaborare.

«Allora?» intervenne, facendole sobbalzare. «Le signorine vogliono che ritiri loro il compito? Che cos’è quel foglio?»

Aurora divenne bianca come un lenzuolo, Giada arrossì violentemente, Lena accartocciò il pezzo di carta e se lo infilò nel posto più inviolabile che le venne in mente: i suoi pantaloni. «Niente!» rispose, meritandosi un’occhiataccia, ma fortunatamente niente più.

Giada fece sprofondare la fronte fra le mani.

Aurora guardò l’orologio. Mancavano dieci minuti. Forse poteva farcela.

«Pss» richiamò l’amica. Le allungò il proprio foglio e se li scambiarono.

Olivia boccheggiò, osservando la scena. La prof alzò lo sguardo, ma ritornò immediatamente alla sua rivista, senza essersi accorta di niente. Piegarono entrambe il foglio a metà e scrissero sul fronte il proprio nome su un compito che non era il loro. Aurora cancellò freneticamente tutti i passaggi che non rispecchiavano la sua traduzione e li modificò per come li aveva resi lei. Proprio nell’istante in cui finiva di ritoccare il testo, passò la professoressa a ritirare le verifiche, quasi strappandole la sua dalle mani.

«La prossima volta provvedi a consegnarmi un compito più ordinato» commentò osservando il groviglio di frecce e asterischi che aveva creato.

Tirò un sospiro di sollievo.

«Oddio, non so cosa farei senza di te!» la abbracciò Giada appena la donna fu fuori dalla porta.

«Rory non è umana. Da piccola le davano pane e Senofonte» scherzò Lena strattonandole le spalle.

Il greco era stato davvero il suo pane quotidiano, aveva studiato ore e ore i testi dei più importanti autori classici. Inoltre, parlando correntemente il latino, aveva una certa forma mentis per quel tipo di sintassi. Per effetto dell’incantesimo, però, riusciva a capire e parlare l’italiano corrente. Questa era una delle tante cose a cui non riusciva a dare una spiegazione soddisfacente, ma su cui sorvolava perché era impossibile capire la magia.

«Questa me la paga» garantì Giada dopo aver messo da parte tutto quell’entusiasmo, fissando con uno sguardo bieco Olivia.

«Miss Prima della Classe si vede gettata giù dal trono» commentò Lena.

«Ragazze, noi abbiamo imbrogliato» si sentì in colpa Aurora.

«No, Rory, quella lì ha una sorta di risentimento verso il genere umano. L’unico modo che conosce per sentirsi migliore è far sentire peggiori gli altri» la dipinse Giada, abbassando la voce poiché era entrata in classe la professoressa di storia, la Semenza.

«Dovrebbe trovarsi un ragazzo» la fece breve Lena, continuando a parlare noncurante della lezione. La Semenza faceva discorsi iperbolici che nessuno stava mai a sentire.

«A proposito…» cominciò Aurora alludendo a qualcosa che Giada sapeva.

«No» sentenziò categoricamente «Non ti ammetterò mai che mi piace».

 

 

*

 

 

Aurora era una principessa e, per quanto si sforzasse, non era capace di svolgere brillantemente anche il ruolo della fata madrina e quello del principe.

Poiché più di un paio di ragazze ricordavano la Fata Madrina unicamente per aver trasformato i luridi stracci di una sguattera in un vestito di pizzi e merletti correlato a scarpette di cristallo degno di una principessa, Aurora aveva dovuto rispondere a qualche amletico dubbio su capi d’abbigliamento.  Proprio lei, che si era fatta notare a scuola per abbinamenti piuttosto improbabili e insoliti! Si era presto guadagnata il soprannome di Bella Addormentata, vuoi per l’episodio di Capodanno, vuoi per l’aria sognante e i boccoli biondi. Giada le aveva messo davanti un numero di Vogue dicendo “Qualunque sia la tua religione, d’ora in poi la tua unica Bibbia sarà questa”. E così, sfogliando quelle pagine, si era fatta un’idea su cosa era meglio consigliare alle altre e cosa evitare per se stessa.

Jet, si firmava così colei che aveva perso il ragazzo, le scrisse di nuovo. Aveva provato a dialogare con lui, ma questi le aveva risposto semplicemente “è tutto ok”. Aurora si trovò ancora una volta in difficoltà: pensò che ci sia della frustrazione nel lottare in modo titanico per riavere una cosa che non si è mai lasciata andare e nel veder dissolversi tutto ciò che si desidera. Non rispose alla e-mail, aspettando di trovare un’idea.

La parte del principe, che doveva salvarla dalla maledizione, le riusciva anche meno. Certe volte si angosciava al pensiero di tutto il tempo che stava lasciando correre inutilmente: aveva l’uovo e non si decideva a portarlo a Chantal. Aurora se ne stava sul divano, torturando una misera pellicina del pollice, mentre il ticchettio dell’orologio scandiva i secondi, noioso e opprimente. A un tratto, si alzò con la risoluta fermezza di recarsi dalla fata Chantal. Avvolse l’uovo di pernice nella sua coperta con massima cura e, pensando che non gli sarebbe accaduto nulla di male, lo strinse fra le braccia uscendo dal palazzo.

Si avviò a piedi, giacché il clima non era troppo rigido e, dopo la precedente settimana nevosa, le temperature erano risalite sopra lo zero. Mentre camminava, sentì il richiamo di un clacson.

«Dove vai?» le chiese Alessio accostando il motorino al marciapiede e sfilandosi il casco. Colta in flagrante.

«Faccio una passeggiata» mentì «Tu?» sviò il discorso.

«Al supermercato. Nonna si sente anziana e acciaccata solo quando si tratta di sfruttarmi per la spesa» alzò gli occhi al cielo.

«Andiamo, è tuo dovere fare il cavaliere ogni tanto»

«Mademoiselle» scese dalla moto indicandola con la mano, con un fare ironicamente galante. «Lasciate che vi accompagni con il mio destriero». Sistemò l’uovo nel vano sotto il sellino e, continuando la stessa farsa, le porse la mano per salire sul mezzo e il suo casco. Sfrecciarono sulla strada fino a raggiungere il supermarket. Lì, dopo aver preso un carrello, adagiarono l’uovo in quella sorta di seggiolino destinato ai bambini e cominciarono a girare fra gli scaffali.

«Ecco, è quello il detersivo che ci serve» Alessio indicò il ripiano più alto. Pur sforzandosi ad allungare le braccia il più possibile, non era in grado di arrivarci.

«Non possiamo comprarlo di un’altra marca?» avanzò Aurora.

«Assolutamente no: Dixan o niente. Ho un’idea» si entusiasmò improvvisamente.

«Mi fai paura» dichiarò la ragazza.

«Shh» la zittì «Fatti spazio nel carrello e tieniti in piedi»

«Sono sicura che me ne pentirò» confessò scavalcando ed entrando dentro, per poi allungare il braccio tremolante verso il flacone «Tieni fermo il carrello» ordinò a denti stretti. «Tienilo fermo!» urlò quando ormai era troppo tardi e, insieme al detersivo scelto, se ne era tirata giù un’altra dozzina.

«Scappiamo!» disse Alessio, spingendola nel carrello velocissimo.

«Ma che stiamo facendo? Dobbiamo metterli a posto e non possiamo correre così fra i reparti – stai investendo questa coppia! -, adesso ci beccano e… ma che ridi?» inveì disorientata e agitata.

Alessio, in tutta risposta, fece risuonare la sua risata più vivace e cristallina e Aurora non poté non scoppiare anche lei, mentre entrambi continuavano a saettare tra i corridoi del supermercato come due bambini.

«Al volo!» avvertì il ragazzo passando vicino agli spaghetti, e lei li afferrò mentre filavano verso i surgelati.

«Mi scusi!» gridò Aurora dietro ad un’anziana signora alla quale aveva tirato una gomitata, anche se continuarono inopportunamente a ridere a crepapelle.

Quando completarono la lista e arrivò l’ora di pagare, Aurora scese con ancora gli occhi lucidi e cercò di ravviarsi i capelli per darsi un po’ di contegno.

«L’abbiamo rotto» sbarrò gli occhi Alessio nello scoprire l’uovo dopo mentre scaricava le buste. Due sguardi pieni di panico si posarono sulle tre lunghe crepe che si erano formate sul guscio. Alessio si sbatté una mano sulla fronte, imprecando. «E ora che facciamo?» chiese ansimando Aurora.

«Aspetta…» le strinse il polso Alessio, con un sorriso incerto. Senza che fosse stata esercitata alcuna forzatura, sull’uovo si stavano creando delle nuove piccole spaccature. Aurora intuì la sua speranza «È quello che credo?».

Le crepe accrebbero e Alessio annuì con una certa sicurezza. Presto, dal guscio fece capolino il becco di un pulcino.

I ragazzi si fecero sfuggire un sospiro di sollievo ma anche di tenerezza.

«Sono diventato padre!» disse Alessio quasi con commozione avvicinando il volto alla testolina della piccola pernice.

«Gli dobbiamo dare un nome» osservò Aurora. «Dixan?» propose, inarcando le sopracciglia in attesa della risposta.

«Dixan, mi sembra perfetto» accordò l’amico con entusiasmo. «Ci pensi?» continuò serio «È stato un miracolo, o un piano del destino, che l’abbiamo trovato e che lui ha trovato noi: sarebbe stato perso senza una mamma. E un papà».

Finalmente Aurora capì.

Era quello il senso della prova. Avrebbe dovuto capirlo prima di tormentarsi nel dubbio fra consegnarlo a Chantal o meno che la fata non avrebbe mai preteso un uovo di pernice in pieno inverno per puro capriccio o per preparare un intruglio magico. Lei voleva che Aurora si prendesse cura di una creatura indifesa e capisse quanto siano importanti questo e la responsabilità delle proprie scelte.

«Ale, non credo che noi possiamo tenerlo» disse grave.

«Ma lo terrò sul terrazzo e starà benissimo!» propose, ma incontrò lo sguardo risoluto di lei.

«Sai che non starà bene. Ha bisogno del suo cibo e, poi, di imparare a volare e stare nel suo ambiente. Dispiace a tutti e due separarcene, ma conosco una signora che saprà accudirlo nel migliore dei modi più che volentieri»

«Andiamo da lei adesso?»

«Sì» sorrise, «Andiamo»

 

 

*

 

 

Chantal era sola in casa, la lezione per i bambini era appena finita e il soggiorno super disordinato ne gravava le conseguenze.

«Prendete un tè, ragazzi cari?»

«No, grazie» risposero entrambi.

Porsero il fagottino alla fata e quest’ultima lo raccolse con premura, adagiandolo in grembo. S’impegnò di fronte ai ragazzi di svezzarlo e poi lasciarlo libero nel bosco una volta pronto. Dopo, prese da parte Aurora e le consegnò fra le mani un sacchetto con un pizzico di polverina dentro e le disse che, quando avesse voluto, avrebbe potuto esaudire un desiderio.

«Che ti ha dato?» chiese curioso Alessio.

«Oh, niente… Un’essenza per mia zia» fece spallucce Aurora.

Chantal inclinò la testa guardando Alessio e trattenne il sospiro, come sul punto di dire qualcosa frenato all’ultimo secondo. «Se davvero è ciò che desideri» rimarcò in un sussurro all’orecchio della ragazza, stringendole la mano.

 

 

*

 

 

Cara Jet,

Ricordi Cenerentola?  In un momento critico, in cui tutto sembrava perduto, ha trovato nel proprio cuore la forza e la sicurezza di andare avanti. Quando la fata madrina è corsa in suo aiuto e ha capito di non essere sola non ha pregato per avere il principe o essere libera dalla matrigna e dalle sorellastre: ha chiesto un abito da ballo. Aveva bisogno soltanto di una mise adatta all’occasione, perché era certa già dei suoi sentimenti e dei suoi desideri.

Mi sono accorta solo adesso che il mio compito non è quello di trovare per te una soluzione, ma di farti sentire abbastanza forte da scorgerla tu, dopo aver fatto luce nel tuo cuore. E non serve parlare, non serve agire, credo che l’unica cosa da fare sia stare in silenzio. Stai certa che sentirai provenire da dentro di te forte e chiara la risposta.

Sii paziente e rifletti su quali siano davvero i tuoi sentimenti e i tuoi desideri. Se ti servono un abito e un paio di scarpette, io sono sempre qui.

La tua Fata Madrina

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Pizzichi ***


CAPITOLO NOVE

Pizzichi

 

 

 

 

Lilac aveva dato ad Aurora un altro indirizzo dove poter trovare la fata Mietta, anche se non era affatto convinta che questa volta sarebbe stato quello giusto. Decisamente qualcosa non andava e fu quello che la ragione di Aurora confermò quando alla porta venne ad aprirla una bambina di appena dieci anni.

«No, io sono Marta. La nonna Mietta non è a casa» affermò la bimba, mostrandole un sorriso a cui mancavano due incisivi.

«Scusa, devo aver sbagliato» fece per andare via Aurora. Le fate non possono generare e partorire figli. Non possono morire, né invecchiare se esse non lo desiderano. Non possono contrarre alcun tipo di malattia, ferirsi o sanguinare; non possono amare tanto da farsi male, soffrire la perdita dei propri cari, sentirsi in crisi. Tutto questo è un privilegio esclusivamente umano.

«Come ti chiami? La mamma mi ha detto che non posso aprire la porta agli istriani quando sono sola a casa, ma possiamo fare amicizia»

«Gli estranei, forse?» sorrise Aurora e le tese la mano. «Piacere, Marta, io sono Aurora»

«Lo sai che sembri proprio la principessa Aurora?» disse la bimba con gli occhi luccicanti dopo aver trattenuto il respiro per la meraviglia.

Aurora rimase confusa. «Co… come la conosci?»

«È la mia videocassetta preferita»

Aurora immaginò che lo stesso signor Perrault che aveva trascritto la leggenda di Cenerentola – sulla quale aveva avuto modo di documentarsi – doveva aver fatto lo stesso lavoro traendo ispirazione dalle voci che circolavano sulla sua vicenda. Aveva sicuramente aggiunto un lieto fine, però.

«Ti posso pettinare i capelli?» continuò timida dopo averla fissata per un po’.

«Va bene» acconsentì la ragazza entrando in casa. Fu fatta accomodare su una minuscola sedia di plastica rosa e la bambina cominciò a spazzolarle la chioma con una di quelle piccole spazzole dalle setole sottili e sintetiche per le bambole.

«Quanti anni hai?» attaccò bottone Aurora.

«Cinque e mezzo, ma vado già a scuola. So i numeri fino a terntaquattro e so scrivere tutte le lettere dell’alfabeto tranne la acca in corsivo maiuscolo. Tu quanti numeri sai?»

«Infiniti, credo» rispose con una certa esitazione, sperando che non le venisse richiesta una dimostrazione. Marta, invece, non ribatté e restò a pensarci su, assumendo un’espressione concentrata sul viso, di cui Aurora, ancora seduta davanti a lei, scorgeva con la coda dell’occhio solo il profilo.

«Per ora a me ne bastano trentaquattro. Non so dove trovarle, infinite cose da contare» disse infine, mettendo via la spazzola. «Adesso che gioco facciamo?»

«Allora» propose Aurora ripensando a un passatempo con cui un tempo la sua balia la faceva divertire «Io penso ad una cosa, tu mi fai delle domande per cercare di scoprire cos’è, ma posso risponderti solo sì o no».

«Sì!» accettò entusiasta Marta ponendo un’altra sediolina di plastica di fronte alla ragazza e sedendosi lì appoggiando i gomiti sulle ginocchia e il viso fra le mani. Interrogò Aurora per un po’ di tempo, finché non arrivò alla soluzione e così si invertirono i ruoli. Ad un certo punto si udì lo scatto della serratura ed entrò una giovane donna in tutta fretta.

«Marta, tutto ok?» chiese agitata. «Sono venuta ad accendere i termosifoni e preparare la cena, di’ a papà che la lascio nel microonde, io devo tornare in ospedale. Oh…» si fermò per un attimo di affaccendarsi fra le varie cose quando vide Aurora «Devi essere la nuova baby sitter che ha mandato l’agenzia. Grazie al Cielo Marta non ti ha cacciato via come tutte le altre!». Aveva un po’ gli occhi lucidi, come se quel piccolo e insignificante fatto potesse pesare sul suo equilibrio emotivo, a giudicare dalle occhiaie, provato.

«Sono Annachiara. Marta non è allergica a niente, puoi prepararle quello che vuoi per merenda, ma preferirei che non s’ingozzasse di merendine. Le medicine le teniamo nel primo sportello dell’armadio in cucina; chiamami sul cellulare per qualunque cosa, ora ti lascio il numero» disse prendendo un foglietto su cui scrisse il suo recapito telefonico. I capelli, lisci, lucidi e scuri come quelli della figlia le ricadevano a ciocche sulla fronte, scioltisi dalla morsa della pinza con la quale erano raccolti alla ben’e meglio sulla nuca. Era molto magra, dal viso ovale e gli occhi grandi. «Devo proprio scappare, poi parleremo del pagamento e tutto quanto». Si rimise la borsa sulla spalle e impugnò il mazzo di chiavi. «Grazie» bisbigliò soltanto, e uscì nuovamente.

Forse era stato il destino a farla trovare lì per sbaglio: non poteva non essere d’aiuto per Annachiara e la sua piccola. Avrebbe trovato il modo di far rientrare quel lavoro fra gli impegni presi e ancora da prendere con le fate.

 

 

*

 

 

Come ogni mattina, alle dieci e trenta, Giada, Lena, Rita e Ludovica sfilavano verso il bagno, chiamate a rapporto dal suono della campanella.

«Rory, non vieni?» chiese Giada vedendo che Aurora si stava avviando dall’altra parte del corridoio.

«Vi raggiungo dopo» la rassicurò. Era diretta verso la classe di Alessio, con cui riusciva a vedersi pochissimo durante gli orari scolastici. Giada e la sua cricca non potevano sopportarlo e quest’odio era reciproco, quindi non poteva godersi la compagnia di tutti i suoi amici contemporaneamente. Così, poiché Giada era troppo “ape regina” per poterle dare buca e Alessio troppo condiscendente per pretendere di tenersela tutta per sé, gli intervalli di regola erano dedicati esclusivamente alle ragazze e ai gossip scambiati in bagno. Quella volta, però, doveva chiedere all’amico una cosa. Qualche sera prima, lasciata la casa di Marta appena il padre era arrivato, era andata a casa della sua fata madrina Violante. Questa era la fata dall’aspetto più giovane e dalla personalità più carismatica. Dopo che Aurora le spiegò la sua vicenda, acconsentì facilmente a prometterle una ricompensa se avesse offerto il suo aiuto come baby-sitter. La ragazza fu contentissima di poter stabilire al telefono con Annachiara di badare a Marta ogni martedì e venerdì. Sperava così che Alessio volesse farle compagnia quella sera, magari noleggiando un bel film.

Trovò il ragazzo appoggiato allo stipite della porta che parlava con un suo amico che, appena Aurora arrivò, rimase leggermente inebetito.

«Ehi, Ale!» salutò con un gran sorriso «Ciao!» salutò anche l’altro, di cui non riusciva a ricordarsi il nome. Alessio gliel’aveva presentato insieme a un altro amico, Daniele, il sabato che erano andati al cinema a vedere quell’orribile film horror. Ogni tanto l’aveva fissata in modo un po’ inquietante, ma Aurora pensò che avesse semplicemente una forma strana degli occhi.

«Rory! Vuoi una patatina?» le porse la busta colorata di quei curiosi snack. Ne provò una, insaziabile di tutte le novità che scopriva, mentre gli proponeva il baby sitting.

«Mm… non amo molto i bambini» rispose incerto «Sporcano, gridano e fanno domande indiscrete».

«Ti assicuro che Marta è molto matura per la sua età» tentò di argomentare per convincerlo. Nel frattempo quel ragazzo dagli occhi stralunati, Luca, forse si chiamava Luca, si scervellò Aurora, stava lì ad ascoltare e a fare un non richiesto e un po’ inopportuno palo.

«Mm…» fece nuovamente, scettico. «Non ti prometto niente, ci sentiamo, ok?». La ragazza annuì e lasciò i due.

«La vuoi smettere?» sbottò Alessio verso Luca tirandogli una gomitata e quello allargò le braccia come per mostrarsi innocente. «Che c’è?» chiese fingendo di non capire. Alessio lo guardò torvo «Smettila di guardarla come Gollum con il suo tesssoro».

«Avevi detto che non era la tua ragazza» si discolpò Luca.

«E infatti non è la mia ragazza!» confermò con una certa enfasi di troppo.

«Allora è campo libero, amico» concluse. Alessio, improvvisamente irritato, mollò lì Luca e rincorse Aurora.

«Ci sono, stasera» la avvisò.

 

 

*

 

 

Aurora guardava indecisa tutte le copertine dei DVD sistemati nel settore “commedia” della videoteca, mentre Alessio indugiava nel settore “splatter”. Tirò da una manica il ragazzo, imponendogli di valutare solo fra la categoria che aveva scelto lei. Dopo aver letto qualche trama, scelsero un classico che accontentava entrambi, Harry ti presento Sally. Fuori si era già fatto buio mentre andavano in moto a casa di Marta e c’era un venticello pungente. Appena la bambina vide i due ragazzi alla porta fu felicissima di tanta compagnia. Annachiara passava la notte in ospedale con la madre, che era in fase statica e non dava segni di miglioramento e suo marito Paolo lavorava fino a tardi facendo degli extra. Aurora andò a cercare nel ripostiglio un gioco da tavolo da poter fare insieme e nel frattempo Marta si era già rubata Alessio prendendolo per mano e chiedendogli di far funzionare lo stereo. C’erano tantissimi dischi rock anni ’80 fra cui, alla fine, ne scelse uno dei Police.

Sistemarono lo Scarabeo sul tappeto del soggiorno e si sedettero a terra, schierandosi in due squadre: maschi contro femmine. Tra le proposte lessicali di Marta, che sosteneva di conoscere la lingua usata nel paese della sua amica immaginaria Nina, uscivano fuori parole assurde. La chiovra era un pesce, il motollo era la serratura delle porte, le antine erano nuvole che cambiano forma, e nessuno poteva ribattere, anzi dovettero fargliele passare tutte, cosicché lei e Aurora vinsero stracciando miseramente il povero Alessio. Poi prepararono i popcorn e si misero tutti e tre sul divano con un caldo plaid addosso per guardare il film. Finalmente Marta stette zitta zitta, interessata, e si riposarono un po’. Anzi, quando Aurora e Alessio cominciarono a confrontare i popcorn che pescavano associando alla loro forma le più svariate cose, la bambina li richiamò all’ordine. «Come finisce lo so, ma se non mi fate sentire non so che succede nel frattempo!»

«Come sai come finisce?» chiese beffardamente Aurora.

«Si sposano, ovviamente, perché è così che deve finire» rispose con naturalezza la bambina.

Aurora sussultò: non avrebbe dovuto avere dubbi. Pochissimo tempo prima avrebbe avuto la stessa fede cieca nel credere di conoscere la fine di certe favole. Chissà perché in quel momento aveva avuto un’incertezza.

A un certo punto, Sally cominciò ad ansimare in un ristorante, sempre più rumorosamente, e Alessio non trattenne le risate per la comicità di quella scena. Aurora sbiancò, trovandola terribilmente imbarazzante ed esplicita. «Manda avanti, non far vedere questa cosa a Marta» gli disse sottovoce in un orecchio. «Tanto non capisce» le rispose, soffocando uno sghignazzo. Ma che c’era da ridere? Non capiva come quella società potesse essere così volgare certe volte. Cambiò colore e diventò paonazza e continuò a guardare lo schermo, sperando di non trovarsi più davanti a una situazione del genere. Alla fine, quando Harry e Sally si sposarono, Marta si era già addormentata, ma tanto la conclusione la sapeva già. I due ragazzi la avvolsero interamente nel plaid e la lasciarono ronfare lì sul divano, mentre raccattavano i tasselli dello Scarabeo e li mettevano a posto.

«Tu credi nell’amicizia fra un uomo e una donna?» domandò senza far rumore, riprendendo una questione del film.

«Non lo so» rispose sinceramente Alessio «Con Giada è finita prima di sapere cosa siano gli ormoni. Abbiamo litigato e non abbiamo avuto il coraggio di sistemare tutto. Neanche allora che bastavano il dito mignolo e una canzoncina»

«Ti manca mai?» chiese ancora con malinconia.

«No» sorrise «Siamo due persone diverse ora. Poi con le mie compagne delle medie andavo d’accordo, ma con nessuna avevo un’amicizia assoluta. In primo, con Vanessa, è finita pure, perché ci siamo messi insieme»

Aurora sentì un pizzichino allo stomaco. Non aveva mai pensato che Alessio fosse stato con qualcuna, ma sentì una sciocca sia per non averlo considerato, sia perché sentiva una specie d’immotivato fastidio. «E con me?»

Indugiò un attimo prima di rispondere «Se rispettiamo i turni nello scegliere i film, andrà tutto bene».

Un pizzicone. Quanti film sarebbero riusciti a vedere prima che lei andasse via? Sarebbe comunque finita. Si lanciò in un abbraccio ad Alessio, stringendolo forte per estinguere quel maledetto pizzico. Datasi un po’ d’animo, prese fra le mani la scatola dello Scarabeo e andarono a riporla nello sgabuzzino. Mentre la sistemavano, cadde improvvisamente a terra un vecchio album di foto. C’erano le foto del diploma di Annachiara, il primo compleanno di Marta, il matrimonio dei genitori. Si sedettero sul pavimento dell’angusto stanzino a guardare quei ricordi. Videro un anziano signore che teneva sulle gambe la piccolissima Marta, che sicuramente doveva essere il nonno che non c’era più. In un’altra, invece, si vedeva la nonna ora in ospedale quando, più giovane e ancora in piena salute, sorrideva alla macchina fotografica. Aurora rimase di sasso. Quella volta Lilac le aveva dato proprio l’indirizzo giusto: quella era la sua fata madrina Mietta! Come poteva essere successo che una fata avesse una figlia, una famiglia e che stesse così male da essere in fin di vita? Non ebbe neanche il tempo di ordinare i suoi pensieri che Alessio la sorprese con un’affermazione, se possibile, ancora più sconvolgente e inattesa. «Ma io questa donna l’ho già vista!» Il ragazzo tirò fuori dalla pellicola trasparente il ritratto per osservarlo meglio. Dietro, vi era scritto Mietta, 1989. «Penserai che io sia diventato pazzo, ma la conosco».

«Perché non dovrei crederti? Potresti averla vista in giro…».

«L’ho vista in una foto, che tiene in braccio mia nonna. Una foto del 1930».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salve lettori! Che ve ne pare di questo capitolo? Io mi sono divertita più degli altri a scriverlo, ditemi cosa ne pensate. Ringrazio tantissimo chi segue e soprattutto chi recensisce. Ora che è finita la scuola spero di essere più veloce nell’aggiornare e, a proposito, vi faccio i migliori auguri di buone vacanze! Alla prossima, baci!

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Verità ***


CAPITOLO DIECI

Verità

 

 

 

 

Mietta Gorietti non aveva mai conosciuto i suoi genitori. Era stata abbandonata a pochi mesi, oppure era rimasta orfana, ed era cresciuta nell’orfanotrofio delle suore. Spesso aveva raccontato a suo nipote Alessio le avventure e le disavventure che il suo caratterino vivace le avevano procurato in quell’ambiente così austero e rigoroso.

Le avevano dato il cognome di Suor Germana e il nome della sua madrina, la signora che l’aveva trovata e portata in luogo sicuro. Quella donna sorrideva con un fagotto fra le braccia su una vecchia foto in bianco e nero, conservata nell’album di famiglia di Alessio, esattamente con lo stesso sorriso, gli stessi occhi, gli stessi tratti della signora vista la sera prima a casa di Marta. Alessio non si capacitava come, a distanza di sessant’anni, potesse essere ancora viva e immutata. «Allora», cominciò camminando su e giù per la stanza «Ipotesi a: uno di quegli strani casi di sosia; ipotesi b: uno strano caso di ricorrenza genetica nella stessa famiglia; ipotesi c: siamo su Candid Camera; ipotesi d…»

«Facciamo un giro?» lo interruppe Aurora. Non avrebbe potuto convincere Alessio di non pensarci più perché, conoscendolo, era un tipo che si ostinava e, talvolta, si fissava su ciò che non riusciva a far quadrare. Così misero a posto quell’album e si avviarono fuori: era arrivato il momento di dire la verità. Tutta.

Percorsero una ventina di metri, prima che la ragazza raccogliesse il coraggio di parlare. Aveva il timore che si sarebbe allontanato di corsa da lei e non sapeva come fornirgli una prova di quello che gli avrebbe raccontato.

«Anch’io conosco quella donna» soffiò. «Fu la mia madrina e la ricordo con quelle stesse sembianze da una data ancora più lontana, il 984»

«Cosa?» balbettò, senza capire.

«È immortale: è una fata»

«Non ho voglia di scherzare, per favore» scosse il capo.

«Sono seria, Ale, ed è perché non ho voglia di prenderti in giro che non sto supportando la tua ipotesi a o b o c. Mi fido di te ed è per questo che rischio di mettermi in ridicolo dicendoti che sono nata nel 984 e ho delle fate per madrine»

«Ok, forse non stai bene» le appoggiò una mano sulla fronte, sperando inutilmente che bollisse, poi la appoggiò sulla propria, appigliandosi all’ultimo rimasuglio di speranza.

«Ti prego, vieni a casa mia, ti devo far vedere una cosa. Dopo, se vuoi, puoi decidere di mollare tutta questa storia… e me»

Alessio la seguì, seppure con sospetto, ma ormai si aspettava che potessero piovere ranocchi o gli alberi prendessero vita. Aurora suonò con impazienza il campanello, finché Lilac non aprì e i due invasero con irruenza in casa.

«Potresti darci del tè caldo?» chiese la ragazza una volta accomodatasi sul soffice divano, appoggiandosi su di esso in modo lievissimo, come se questo fosse di burro, tanto era tesa.

«Sì, bambina, lo preparo» la accontentò guardandola con un po’ di preoccupazione.

«Non c’è bisogno, fallo pure comparire» replicò, facendole intuire tutto.

Tre tazze fumanti apparvero sospese a mezz’aria, di fronte a ognuno di loro. Alessio restò impalato con la bocca leggermente aperta. Prese a studiare quella tazza inclinando la testa prima da un lato, poi dall’altro, poi la guardò da sotto, alla ricerca del trucco. Costatò che era solida al tatto e, con gravissima circospezione e senza osare dire una parola, la portò a una vicinanza tale dalla bocca da sentirne l’odore caldo e aromatico: sembrava proprio del comune tè. Non assaggiò la bevanda ma la continuò a stringere fra le mani e, finalmente, guardò Lilac in attesa di una qualunque spiegazione.

La donna stimò che era complesso propinare a un ragazzo di sedici anni una storiella di fate e di incantesimi che poteva avere la stessa credibilità di quella dei bambini nati sotto i cavoli. O di Babbo Natale, o la Fatina dei Denti.

«Conosci il primo principio della termodinamica?» chiese, appellandosi a qualcosa d’inconfutabile.

«Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. In sostanza il concetto è questo» rispose il ragazzo facendo appello a una nozione scolastica.

«Il motore della natura è l’energia e hai detto bene: nulla si può generare dal nulla, né può scomparire, ma tutto cambia costantemente forma. Ora immagina una totale conoscenza e padronanza dell’energia: sarebbe possibile usarla per ricostruire la struttura di ogni cosa. Quella tazza di tè potrebbe essere la ricomposizione di atomi dell’aria in questa stanza e della polvere sul pavimento» spiegò sperando di essere il più comprensibile possibile.

«Meno scenografico di bacchette magiche, formule, filtri e amuleti» ironizzò.

«In realtà questi non sono puri elementi decorativi della tradizione popolare. Bacchette magiche e formule sono utili per canalizzare l’energia nella direzione sperata ed evitare inconvenienti, ma solo per le fate più sbadate. Filtri e amuleti, invece, permettono di conservare una certa dose di energia per poi sprigionarla nel momento del bisogno. I cappelli a punta con la stellina sopra, infine, te lo concedo, sono solo di scenografia; erano tanto di moda nel quattordicesimo secolo!»

«Ammettiamo che sia così» replicò senza abbassare le difese «Perché dovrebbe essere un segreto?»

«Una volta non lo era. La magia faceva parte del mondo comune, ma poi si è diffusa l’isteria collettiva della caccia alle streghe ed è stato necessario nasconderla. Nessun rogo avrebbe potuto annientarci, ma l’ignoranza e la superstizione uccisero migliaia di povere e innocenti ragazze. Col tempo la mentalità popolare fu sedata dalla ragione, ma era troppo tardi per riportarla a quello stadio infantile di cieca credenza. Non c’è nessun obbligo di segretezza, ma c’è la coscienza di non portare nessuno all’emarginazione sociale e di farlo additare come pazzo» rispose esaustiva Lilac. Avevano finito di sorseggiare il tè le tre tazze scomparvero in uno sbuffo.

«Vorrai sapere in che modo sono coinvolta in tutto questo» suggerì in quel momento Aurora e la fata li lasciò soli per discutere. Aurora mise i piedi sul divano e si rannicchiò abbracciandosi le gambe, come per proteggersi. Cominciò a raccontare una storia che Alessio aveva già sentito durante l’infanzia tenendo lo sguardo basso a fissare le ginocchia. Il ragazzo chiese qualche dettaglio sulla vita nel Medioevo e sulle persone e le abitudini della sua vecchia vita. Man mano che procedeva con il racconto, alzò gli occhi, sentendosi meno sotto esame, e passò a spiegare i suoi piani per ritornare nel suo mondo; parlò a lungo, fino a riferire gli ultimi aggiornamenti sul suo lavoro che stava compiendo nelle missioni affidatele dalle fate madrine. Quando ebbe terminato tutto ciò che aveva da dire, aspettò un qualsiasi tipo di verdetto che Alessio avrebbe pronunciato in merito.

«Ok, mi servono almeno tre giorni per ripassare mentalmente tutti i cibi che ho mangiato negli ultimi tempi, fare le analisi del sangue, controllare che non ci siano tracce di sostanze stupefacenti e alla fine abituarmi a questa idea» annunciò con dissimulando ogni sconcerto. Aurora annuì e si alzò dal divano, accompagnando il ragazzo alla porta senza aggiungere più niente, intuendo che entrambi avevano bisogno di spazi in cui stare soli.

«Ci vediamo» sussurrò chiudendo la porta, più che altro come una preghiera.

Si ributtò sul divano, provando la frustrazione dell’angoscia indefinita e immotivata. Si ricordò, avendo da poco ricapitolato i suoi ultimi passi, che era da un po’ che non controllava la posta elettronica e accese il computer. C’erano due e-mail. La prima era di Jet.

 

Cara Fata Madrina,

forse stavamo facendo troppo rumore cercando di far tornare tutto come prima. Abbiamo provato a soffocare tutte quelle pause imbarazzanti di silenzio, perché non ce la facevamo ad affrontarle: le abbiamo spente parlando a vanvera, giusto per far rumore, senza che le parole di uno fossero la risposta di quelle dell’altro. Avevi ragione. Dopo aver abusato di tante parole, avevamo bisogno di sostenere il silenzio per capirci. Un giorno si è sdraiato accanto a me e siamo stati a fissare il soffitto. Ho pianto, perché sapevo che quella sarebbe stata l’ultima volta. Mi ha stretto debolmente la mano finché ho finito, senza mai guardarmi o dirmi nulla. E così è finita, senza un ultimo sguardo o un’ultima parola. Non mi sento meglio a non avere più lui, ma mi sento infinitamente meglio a riavere di nuovo me stessa. Si è se stessi solo quando non ci si nasconde dalla verità, per quanto dura possa essere. Grazie per avermi dato il coraggio,

Jet

 

La seconda e-mail era di una ragazza che non le aveva mai scritto prima e che, fortunatamente, non chiedeva consigli sull’abbigliamento.

 

Cara Fata Madrina,

sono ore che scrivo e poi cancello questo messaggio, lo riscrivo e decido che non va bene. Spero che non deciderò di eliminare anche questa undicesima versione perché cominciano a bruciarmi gli occhi e sento che presto avrò un crampo alla mano destra. Vengo subito al dunque. All’inizio della scuola ho visto un ragazzo. Lo conoscevo già da prima, ma non gli avevo mai rivolto la parola perché sembra il tipico scansafatiche, idiota e arrogante. Poi, però, l’ho visto. O meglio, mi ha tirato una gomitata in corridoio per fare uno dei suoi scherzi cretini e io gli ho tirato un pugno sul naso. Non sono mai stata violenta, neanche lontanamente vicina a un qualche atteggiamento ribelle: ottimi voti, sempre allacciato la cintura di sicurezza, niente alcol, droga, sesso, neanche rock and roll. Avevo il terrore di essere sospesa e lui sanguinava a fiotti, così l’ho trascinato in infermeria e sono stata lì con lui per il resto della macchinata. Ha lasciato che circolasse la mia versione dei fatti, che era scivolato, minacciandomi che avrebbe trovato un altro modo per farmela pagare. Da all’ora mi è sempre stato addosso, ma, contro la mia volontà, non riuscivo a considerarlo un dramma, perché mi accorgevo che ha gli occhi blu, proprio blu, e i capelli scuri un po’ troppo lunghi sulla fronte. Anche lui sembrava distratto nell’obiettivo di rendermi la vita impossibile, non c’era astio o dispetto quando, nei nostri battibecchi, lasciava che scoprissi che sa suonare la chitarra, come si chiama il suo cane, tutti i suoi sogni. È pieno di sogni, neanche potevo immaginarli dei sogni come i suoi. Un giorno abbiamo litigato così tanto che abbiamo finito per metterci insieme. Mio padre ha presto scoperto che uscivo con lui e ha fatto una scenata, proibendomi di vederlo. Ho provato di tutto per convincerlo che è davvero un bravo ragazzo, ma lui (diciamo che è inserito nell’ambiente scolastico) sa quante volte ha fatto dannare compagni e professori. Vede in lui la peggiore influenza che io potrei mai subire e teme che possa rovinarmi la vita. Siamo costretti a vederci di nascosto e convivo con il perenne terrore che qualcuno possa scoprirci: io non ce la faccio più e sono sicura che, per quanto lui sia sempre stato abilissimo a nascondere il vero se stesso a tutti, questo non rende felice neppure lui. Evito di rileggere quello che ho scritto, altrimenti vengo assalita dall’imbarazzo, dal senso di inadeguatezza e dalla paura di venire identificata e, sinceramente, la mia mano destra mi sta implorando di risparmiarla. Aspetto un consiglio,

Vi

 

Aurora fu colpita da come, in un secolo di massima libertà, ancora i giudizi dei genitori arginavano le scelte sentimentali dei ragazzi. Ma d’altronde, come poteva fidarsi dell’opinione di una ragazza innamorata, quando si sa che l’amore è cieco? Non poteva, forse, avere ragione quell’assennato padre? Eppure, una cosa l’aveva imparata bene: in quel secolo di massima libertà vi era anche quella di imparare tramite le proprie esperienze e, col tempo, di cambiare idea, senza l’ossessione di compromettere la propria virtù. Non rispose alla e-mail alla leggera, ma dopo un’attenta riflessione capì che la libertà di essere va difesa a tutti i costi. Quei due ragazzi potevano essere solo l’uno con l’altro e dovevano salvaguardare quella loro verità, ma non potevano farlo con una grande menzogna rifilata al resto del mondo. Dovevano essere forti, per un po’, finché non sarebbe stato possibile dimostrare la verità e rassicurò Vi che avrebbe pensato al modo.

 

 

*

 

 

L’ospedale del paese aveva i muri verdini e odorava di lattice e Aurora pensò che mai aveva visto un luogo più triste. In realtà, il pronto soccorso era il primo posto in cui era stata dopo essersi svegliata, ma era troppo confusa per osservarlo allora. Se ne stava invece a girare un corridoio, sperando di trovare Mietta dopo aver ricevuto delle pessime indicazioni, e intanto respirava quell’aria depurata e guardava la luce fredda. In una camera dalla porta aperta, riconobbe la sua fata madrina. Era più vecchia e coperta da un macchinario, ma era indubbiamente lei. Bussò con educazione prima di farsi avanti, sperando di non disturbare o essere inopportuna. Ricevette un cenno di entrare e si sedette su una sedia accanto al letto dell’anziana signora, che parve non riconoscerla all’inizio. Quando Aurora rammentò quei tempi lontani in cui avevano vissuto, Mietta trattenne il sospiro dalla meraviglia: da troppo tempo, ormai, aveva dimenticato quel mondo. Da quando si era creata una famiglia e aveva vissuto come un’umana, aveva completamente rinunciato alla magia. Con gran dispiacere, non poté fare niente per aiutare la giovane principessa per sconfiggere la maledizione, poiché non aveva più i suoi poteri. Aveva amato un uomo, cresciuto una splendida figlia, conosciuto le gioie delle sere in famiglia davanti al caminetto e la speranza che i desideri si potessero avverare, la pienezza di una vita ad un prezzo che, secondo lei, non reggeva alcun confronto.

Aurora, con una stretta al cuore, lasciò la camera augurando alla madrina di guarire presto e questa annuì con serena rassegnazione. L’incantesimo per tornare indietro nel tempo sarebbe stato più debole senza la magia di Mietta, ma la ragazza non volle neanche soffermarsi a pensare su cosa sarebbe successo se non fosse andato a buon fine. Qualche notte doveva lottare per scacciare via il pensiero che avrebbe continuato a dormire per secoli e secoli, senza mai riuscire a vivere normalmente. E, come le aveva suggerito Giada, il miglior modo per liberarsi dalle paturnie era una bella maschera al viso e del sano pettegolezzo: aveva decisamente bisogno di una sera fra ragazze. Appena arrivata a casa, telefonò Giada e Lena e, in qualche modo, riuscirono ad invitarsi da lei anche Rita e Ludovica. Ebbero tutte quante il permesso di restare a dormire dalla loro amica e così portarono pigiami e sacchi a pelo, oltre a un quantitativo industriale di cosmetici e riviste. Le maschere alla frutta portate da Giada furono spalmate sui visi delle cinque ragazze in base a un dubbissimo test della personalità: a Rory toccò un impiastro rosso fragola, a Lena verde mela, a Ludovica blu mirtillo, a Rita giallo banana e a Giada arancione mango. Mentre le lasciavano asciugare, Giada stendeva lo smalto sulle dita dei piedi, Rita mangiava noccioline, Lena cantava stonatissima in piedi sul letto e molto appassionatamente una canzone degli ABBA e Aurora tentava di reprimerla fa forza di cuscinate, Ludovica improvvisamente annunciò che aveva bisogno di un nuovo taglio di capelli. Nessuno pensava che avrebbe mai osato recidere quella chioma che le arrivava fino alla fine della schiena, semplicemente perché nessuno pensava che Ludovica avrebbe mai potuto fare una qualche scelta. Cogliendo la palla al balzo, Giada prese la sua forbicina per le unghie e bendò con un foulard la povera malcapitata e le altre la aiutarono a verificare che la linea da seguire alla base del collo fosse dritta. Dopo un bel po’ di sforbiciate, ognuna delle quali veniva discussa con più perizia di un emendamento a un testo di legge, il risultato fu a loro detta insuperabile. Sciolsero il foulard e fecero specchiare Ludovica: un caschetto le incorniciava il viso a cuore e il frangettone che prima si imponeva severo sulle sopracciglia era diventato un ciuffo più sfilzato da portare da un lato. «Mi piace» decretò, toccandosi un po’ incredula il collo scoperto. Le altre sorrisero soddisfatte sia del buon lavoro che per quel senso di riscossa tutto femminile che si prova per un nuovo taglio di capelli. Ripulito il pavimento dalle ciocche lisce e scure che avevano tagliato, si misero a cerchio a gambe incrociate. «Cominciamo da Rory» incalzò Rita «Obbligo o verità?».

 

 

 

I salti mortali per fare questo aggiornamento! Insomma, non so neanche come sia venuto questo capitolo (sicuramente ci sono errori, incongruenze, cretinate varie), dopo una deleteria giornata a sfornare e impacchettare più di cinquanta biscotti della fortuna, ma ci tenevo davvero a postarlo nel mio ultimo giorno da minorenne. Fatemi sapere, aspetto una recensione come regalo *_* Grazie a chiunque abbia seguito finora, baci a tutti, il mondo è meraviglioso!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Living on a prayer ***


CAPITOLO UNDICI

Living on a prayer

 

 

 

 

Il ritmo quotidiano era scandito con rigore da una campanella alle otto in punto, che mai indugiava con clemenza in favore delle notti brave degli adolescenti.

Quella mattina, Aurora, in virtù dell’incantesimo, era immune al sonno, ma le altre quattro ragazze avevano gli occhi rossi e il viso stropicciato. Giada aveva dovuto coprire le occhiaie con del correttore, Lena si era portata un thermos di caffè; Rita, d’altra parte, aveva subito pazientemente i rimproveri di quegli insegnanti che la sorprendevano nel dormire bellamente sul banco. Ludovica, dopo la sua repentina e inspiegabile metamorfosi, si beava dei complimenti per il suo nuovo taglio e, anzi, sembrava più sveglia del solito: aveva persino risposto a una domanda di storia, e aveva risposto in modo corretto. La professoressa Semenza, una donna piena di merletti fuori moda da almeno due secoli, che solitamente veniva ignorata, aveva fatto un sorriso – a cui mancava un po’ di esercizio per sembrare un sorriso -, quasi incredula che qualcuno si fosse interessato alla sua lezione e ancora di più perché si era trattato di un caso perso come Ludovica. Tanto era contenta che aveva lasciato fare ai ragazzi quello che volevano per il resto dell’ora Quando era squillata la campanella della ricreazione, nessuna delle ragazze aveva avuto voglia di andare in bagno, tranne Ludovica che doveva veramente andare in bagno: i pettegolezzi erano tutti stati ampliamente discussi la sera prima. Mentre quella sera si trovava sull’autobus per andare a casa di Marta, stava ripensando a tutti quei particolari intimi e imbarazzanti che durante quel gioco, “obbligo o verità”, le amiche le avevano chiesto di rivelare. Nella sua epoca era impensabile una cosa del genere!

Arrivata a destinazione, venne ad aprirla come al solito la bambina, che era sola in casa.

«Oggi non viene Alessio?» chiese Marta guardando dietro Aurora, sperando di scorgervi un’altra figura, e rimase un po’ delusa nel non vedere nessun altro.

«Oggi no» confermò Aurora.

«Allora devi farlo funzionare tu lo stereo» proferì la bimba, trascinandosela per il salotto.

Aurora si approcciò con cautela al congegno tecnologico; d’altronde, se aveva saputo far funzionare un computer, si disse, non poteva avere troppi problemi. Marta scelse dalla ricca collezione del papà il disco nero, quello per cui aveva sempre avuto una speciale predilezione, e la musica cominciò a suonare a tutto rock. Marta prese la spazzola per le bambole e Aurora il telecomando e, facendo finta che fossero microfoni, si scatenarono a cantare con parole inventate. Scuotevano i capelli come le rockstar e ballavano per la stanza, facendo tanta confusione che a stento sentirono il campanello. Abbassando un po’ il volume, Aurora andò alla porta e guardò dallo spioncino. Riconosciuto il volto, aprì con gioia.

«Frankenstein Junior» esibì la custodia di un DVD Alessio, sorridendo. «Questa volta era il mio turno» spiegò allo sguardo sorpreso della ragazza.

«Non pensavo che saresti venuto!» gli confessò Aurora. Lui si limitò a continuare a sorridere e piegò la testa da un lato. Marta aveva preso la rincorsa e gli saltò addosso gettandogli le braccia al collo e lasciandosi prendere in braccio.

«Stavamo cantando come le rockstar!» gli disse la bambina, che ormai impazziva evidentemente per lui e ne aveva fatto un mito.

«Forte! Accettate un nuovo membro nella cover band dei Bon Jovi?» chiese, posando Marta a terra. Aurora, che avvertiva quell’imbarazzo che si sente sempre quando si viene interrotti e poi si deve ricominciare a fare una cosa spontanea, disse che non sapeva le parole. Alessio ci mise meno di tre secondi nello stampare dal computer il testo di “Living on a Prayer” e, mentre Marta continuava a inventarsi le parole, i due ragazzi seguirono su quel foglio. Dopo una prima strofa un po’ impacciata, si divertirono da matti e al termine della canzone si gettarono stremati e accaldati sul divano.

«Però, te la cavi niente male!» notò Aurora, sventolandosi con la mano e si arrotolandosi su i capelli.

«Ma tu hai un vero e proprio talento» la elogiò Alessio, e in effetti, per Aurora, quello del canto era davvero un dono, un dono di battesimo.

«Rory,» cominciò poi, facendosi serio. Finalmente aveva deciso di toccare l’argomento. «Ce la faremo». Aurora lo abbracciò stretto, proprio a tenaglia come aveva fatto Marta, e sentì che tutto sarebbe andato bene: non l’aveva lasciata, l’aveva creduta ed era lì con lei e l’avrebbe aiutata!

Aveva la bocca premuta sulla sua maglietta e il naso che gli sfiorava il collo, umido e caldo, solleticato dalle punte dei capelli e restò anche un po’ troppo a lungo a sentire quell’odore di buono.

«Popcorn!» strillò Marta, interrompendoli.

«Mais oui, mademoiselle» si asservì immediatamente Alessio.

«Mais non! Maman non vuole che mangi sempre zuccheri e grassi» la rimbeccò Aurora: ecco perché Marta aveva divinizzato Alessio. «Ma accomodati au notre restaurant, prepareremo uno spuntino délicieuse» le propose tirandole indietro la sedia per farla accomodare, come avrebbe fatto un accorto maitre.

«Chef Rorì, cosa propone di cucinare?» domandò allacciandosi un grembiule bianco con dei pomodori disegnati.

«Un piatto tipico delle mie parti, gnocchi di formaggio» rispose cercando in frigo e negli stipi del formaggio fresco, uova e farina.

Aiutata dal garçon, schiacciò il formaggio, lo salò e unì i tuorli d’uovo, poi unì il composto con la farina, mescolandolo con le mani, e infine gettò le polpettine di pasta nell’acqua bollente della pentola sul fuoco. Era la prima volta che tentava di cucinare, ma tante volte era sgattaiolata nelle cucine e aveva spiato i cuochi del castello all’opera. Quando gli gnocchetti vennero a galla dorati capì che erano pronti e, pensando con ottimismo che non dovevano essere venuti affatto male dal profumino che emanavano, li dispose su un piatto spolverandoli con del parmigiano grattugiato. Marta sembrò gradire molto e i ragazzi ne prepararono una seconda porzione per spizzicare durante il film. Aurora, che, conoscendo Alessio, si aspettava scene scabrose, fu piacevolmente sorpresa dalla spassosissima visione. E di nuovo, puntualmente, Marta ai titoli di coda si era già addormentata.

 

 

*

 

 

Il giorno dopo Aurora e Alessio decisero di andare a trovare la fata Fleur. La donna viveva in una zona di periferia, quasi in campagna, in un’allegra casetta in mattoni con un grandissimo albero, ora spoglio, in giardino. C’era fuori anche un piccolo forno a legna, e sotto la pensilina c’erano vari innaffiatoi di latta in cui erano cresciuti lunghi fili d’erba e fiori di campo. Davanti alla porta c’era un sentiero fatto di ciottoli bianchi e dal comignolo della casa usciva del fumo: l’insieme rievocava un’atmosfera fiabesca e si sarebbe detta decisamente la casa di una fata, molto più di tutte le altre, alquanto moderne, che Aurora aveva visto. La donna che andò ad aprirgli la porticina di legno dipinta di turchese aveva una carnagione lattea, rosata appena sulle guancie, profondi occhi grigio-verde e i capelli di un pallido biondo cenere. Fece accomodare i ragazzi davanti al fuoco del camino che scoppiettava e lì dentro si respirava profumo di erbe e di menta piperita. Aurora spiegò come mai si trovasse lì, ricapitolando per l’ennesima volta la sua storia: per lei era come farsi una lista, ogni volta aveva più chiari in mente i suoi obiettivi e le tappe fino allora raggiunte. Fleur ascoltò e poi espose la sua richiesta, ovvero di prestare servizio di volontariato alla mensa dei poveri. Soddisfatti, i due ragazzi ringraziarono per l’ospitalità e salutarono, andando via.

«Allora, pensavo che potremmo andare all’ora di pranzo di sabato, visto che usciamo da scuola un po’ prima, e di domenica» programmò Alessio.

«Ascolta, non voglio che tralasci la scuola e i compiti per seguirmi, non è necessario» cercò di dissuaderlo Aurora.

«Ma dai, i compiti, chi se ne importa dei compiti? No, sul serio, ce la faccio: sono un paio d’ore il martedì e il venerdì con Marta e un altro paio d’ore sabato e domenica, non è niente di più che se facessi un qualche sport, al massimo mi bruci il tempo alla playstation ma era pur sempre ora di smettere, no? Mamma vorrà che ti sposi, solo per questo. Anzi, ti aiuterei pure con le e-mail, ma se tu insisti proprio così tanto ad occupartene da sola…» rispose con foga.

«Grazie» mormorò commossa. «Sì, per la corrispondenza di Fata Madrina insisto: deve essere una cosa fra donne» rilevò.

«Che ne dici se ci andiamo adesso, alla Casa del Castagno? È lì che accolgono i senzatetto» propose Alessio. E, ricevuto un assenso, si diressero in quel luogo.

La Casa del Castagno, il cui nome derivava da un castagno che ormai non c’era più da decenni, era una casa intonacata di bianco, con l’umidità che macchiava i muri, gli infissi vecchi e un giardinetto fatto di ghiaia in cui spuntavano sporadici ciuffi di erbaccia. Suonarono al citofono e venne ad aprirgli personalmente il cancello un ragazzo alto e bruno, che doveva avere sui venticinque anni.

«Salve, ragazzi!» gli tese cordialmente la mano e la strinse con vigore e calore. «Io sono Massimo» si presentò. Aveva una voce simpatica, portava dei pantaloni larghi e consunti e una maglietta di un gruppo metal.

«Io sono Aurora e lui è il mio amico Alessio » gli sorrise «È un posto carino, qui » disse per educazione.

«Cerchiamo di mantenerlo come possiamo, ma siamo solo il signor Orazio, la signora Flora ed io che ce ne occupiamo. Venite, vi faccio vedere» e così dicendo gli fece strada all’interno della casa. «Ecco, questa è la sala mensa, non è il massimo ma almeno per questo mese non ci staccano la luce. Venite in cucina, vi presento la signora Flora». La signora, con il grembiule allacciato, stava girando con il mestolo del brodo in una grande pentola. Dal ripostiglio emerse anche un signore, che si presentò immediatamente come Orazio, il quale portava una camicia colorata e degli occhiali da vista con le lenti solari sovrapponibili, ma in quel momento sollevate, in modo da dargli un aspetto da gufo. «Di su abbiamo anche delle stanze per accogliere i senzatetto» continuò Massimo «È come una famiglia, qui» sospirò «Né il signor Orazio né la signora Flora sono sposati e ora sono entrambi in pensione, fanno quello che possono, e così anche io, ma ho anche le spese e gli impegni universitari: ogni mese viviamo il terrore di non poter pagare l’affitto, ma soprattutto viviamo di una speranza. È come una famiglia qui» ripeté ancora.

«Noi vorremmo essere d’aiuto» espresse Alessio.

«Siamo felicissimi di darvi il benvenuto!» affermò Massimo.

 

 

*

 

 

Quel sabato, appena usciti da scuola, Aurora e Alessio andarono alla Casa del Castagno. Massimo all’ora di pranzo non c’era, era impegnato all’Università, e il signor Orazio cercava di servire il pasto a tutti. Aurora gli si affiancò subito, mentre Alessio andò ad aiutare la signora Flora in cucina. «Buongiorno, signorina» le dicevano tutti quanti, qualcuno con accento straniero, qualcuno borbottando tra i denti, qualcuno mormorando timorosamente. Il signor Orazio li salutava per nome e chiedeva loro come fossero andate le loro giornate.

«Ma è tornata la nostra Sara!» esclamò un vecchio curvo, con i capelli e la barba arruffati, vedendo Aurora. «Come ti sei fatta bella, non ce l’hai più quel muso lungo, eh?»

«Geremia, questa non è Sara, è Aurora» spiegò il signor Orazio a quell’ometto quasi cieco. Aurora gli servì la minestra e lui se ne andò al tavolo dondolando.

«Chi è Sara?» si incuriosì la ragazza.

«Veniva qui, quando non voleva tornare a casa. Ha la tua età, credo, e anche lei ha gli occhi azzurri e i capelli biondi» ricordò tristemente il signor Orazio. «Abbiamo cercato di farla smettere, con la droga, ma alla fine… ogni tanto Massimo va a trovarla in ospedale, dicono che fa bene parlare a chi è in coma».

Aurora intuì che era una cosa grave e divenne più silenziosa e mesta. Dopo un bel po’ servirono tutti quanti e distribuirono della frutta e Aurora si dava da fare operosamente, correndo dove era richiesta senza che il mugugnare di ognuno le desse noia. Quando gli ospiti andarono via arrivò per loro il lavoro più duro: dovevano ripulire i tavoli, i pavimenti, buttare gli avanzi e lavare le stoviglie. Alla fine, Aurora e Alessio erano stremati, nessuno dei due nella vita aveva servito qualcun altro, o svolto faccende domestiche, ma erano pienamente appagati.

Il giorno dopo tornarono altrettanto pieni di buona volontà. Ormai esperti, occuparono le postazioni del giorno precedente con più consapevolezza e lavorarono svelti, come in una catena di montaggio. Distribuita una porzione alla dozzina di persone che c’erano in sala, anche i due ragazzi si sedettero a un tavolo per mangiare qualcosa. A un trattò entrò un signore vestito con cura e con il viso rasato, su cui spiccavano due baffetti scuri precisi, che evidentemente non era lì per il pranzo. Non salutò nessuno e andò dal signor Orazio per parlargli in disparte; il signor Orazio gesticolava in modo drammatico e aveva una faccia preoccupata, mentre il signore elegante restava impassibile e ripeteva qualcosa con durezza, per poi mettere a tacere tante inutili lamentele e andare via, senza salutare. Il signor Orazio, affranto, si spostò in cucina dalla signora Flora. «Stavolta ci fanno chiudere» annunciò.

«Non dire così, Orazio, troveremo come pagare l’affitto a quello spregevole De Rossi» scosse il capo la signora Flora.

«Stavolta ci fanno chiudere davvero, te lo dico. Non è solo l’affitto, è che manderà un’ispezione per controllare se tutto è in regola» disse, e allora la signora si preoccupò sul serio anche lei. Non avevano i soldi per mantenere tutto in regola, c’era tanta umidità, non avevano i riscaldamenti, né dei bagni adeguati.

«Proprio ora che ci era sembrato di ricevere una benedizione, con questi ragazzi» disse la signora Flora senza osare staccare gli occhi da terra «Dobbiamo dirglielo»

Nel frattempo tutti gli ospiti avevano finito di pranzare e Aurora e Alessio avevano già cominciato a sparecchiare, quando videro i due signori uscire dalla cucina e li assalirono.

«Che succede?» chiesero, e il signor Orazio gli spiegò la faccenda.

«Ma ci deve essere qualcosa che possiamo fare!» protestò Alessio, aggrottando la fronte. Il signore alzò le spalle, non sapendo che rispondere.

«Ci deve essere» insistette Alessio. «Dobbiamo trovare un modo per avere dei soldi» cominciò, camminando attorno al tavolo, come faceva ogni volta che girava ostinatamente attorno a un problema che non quadrava. Massimo, intanto, era arrivato con la macchina appena aveva saputo e in un baleno si era trovato con loro.

«Ci vorrebbe un evento, come una festa di beneficienza» considerò, concentrandosi assieme agli altri. Aurora e Alessio si guardarono, illuminati dallo stesso pensiero.

«Una festa!» esclamò Aurora, approvando l’idea di Massimo. «Ce ne occupiamo noi, a scuola» risolse. Sapevano esattamente a chi dovevano rivolgersi per organizzare una festa stratosferica: Giada Rinaldo.

 

 

 

 

 

 

 

Ritorno, dopo secoli ma ritorno. Non sono particolarmente contenta di questo capitolo, ma spero che mi farò perdonare con il prossimo, che prometto arriverà molto più velocemente. Mi farebbe un immenso piacere sentire i vostri pareri, positivi, negativi o neutri che siano, vi prego! Alla prossima, baci.

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** COF ***


CAPITOLO DODICI

COF

 

 

 

 

Se l’unica persona che potesse convincere tutta la scuola a fare qualcosa era Giada Rinaldo, l’unica persona che potesse convincere Giada Rinaldo a fare qualcosa era Fabio Baldovino.

Fabio era al quinto anno, era alto, con i capelli corti biondo cenere e gli occhi scuri, un sacco di ragazze gli morivano dietro e Giada era troppo orgogliosa per ammettere che le dava le farfalle nello stomaco. Lui era sempre simpatico e carino con lei, ma era simpatico e carino con tutte, e Giada non abbassava la guardia.

Aurora lo incrociò al bar della scuola e gli andò incontro. «Ciao! Fabio, vero?, il rappresentante d’istituto? Io sono Aurora. La mia amica Giada Rinaldo sta organizzando una festa di beneficenza il cui ricavato sarà devolto alla Casa del Castagno, la mensa dei poveri che rischia di essere chiusa. Ci serve un po’ di aiuto e mi rivolgo a te perché vorremmo l’autorizzazione del preside per fare l’evento a nome della scuola» comunicò come se stesse facendo campagna elettorale.

«Che bella idea ha avuto Giada, andrò quanto prima dal preside e potete contare su di me per qualsiasi cosa» rispose sinceramente entusiasta.

«Stiamo raggruppando un Comitato Organizzativo Feste, sei dei nostri allora?» colse al volo la palla.

«Certo» accettò.

Più che soddisfatta, Aurora ringraziò per la sua disponibilità e corse in classe ad informare Giada.

«Stai organizzando una festa di beneficienza» la mise a conoscenza.

«Come, prego?» alzò un sopracciglio e Aurora le spiegò la situazione della Casa del Castagno. «E perché mai dovrei farlo?» storse il naso, insensibile ai problemi del basso volgo.

«Perché è un gesto altruista e generoso da parte di chi è più fortunato aiutare le persone in difficoltà?» suggerì Aurora.

«Che me ne frega, sarà pure un po’ colpa loro se sono dei buoni a nulla e sono diventati barboni» biascicò infastidita.

«Perché Fabio Baldovino crede che questa tua idea sia fantastica e sarà membro del Comitato Organizzativo che allestirai?» ritentò mostrandole i vantaggi personali.

«In effetti può anche essere che non sia del tutto colpa loro» cambiò idea.

«Allora lo farai?» chiese emozionata Aurora e allargò le braccia per stringerla.

«Sì» sbuffò «via, lasciasciami o cambio idea». Aurora mollò la stretta e la guardò riconoscente «Non potrò mai ringraziarti abbastanza».

«Questo è poco ma sicuro» rispose Giada e Aurora non riuscì a capire se era ironica o meno.

«Noi avremmo pensato di fare le riunioni del comitato in quest’aula dopo l’uscita, tanto la scuola rimane aperta» avanzò Aurora.

«Voi?» aggrottò le sopracciglia, sospettosa

«Noi, ehm, io e Alessio…» azzardò colpevole.

«Alessio non farà parte del COF» scandì bene «Non ho bisogno di quel deficiente». Aurora boccheggiò, cercando di trovare come ribattere ma Giada continuò imperterrita con le sue indiscutibili decisioni «Basti tu per intrattenere i rapporti con quell’ospizio».

«Veramente non è un ospizio…»

«Fabio è rappresentante d’istituto e ci è indispensabile; inoltre avremo bisogno di Rita»

«Perché dovremmo aver bisogno di Rita e non di Alessio, scusa?» obiettò.

«Perché Rita può farci ottenere un sacco di cose gratis: fidati, ha i suoi metodi per contrattare» diede una perfetta risposta logica «Qui non si tratta di fare favoritismi verso chi ci sta simpatico. Mi secca da morire ammetterlo, infatti, ma dobbiamo coinvolgere Olivia, lei è la figlia del vicepreside. Poi… ah, Piergiorgio» sorrise soddisfatta.

«Chi è?»

«Piergiorgio Ricci Gorgoni, fa il primo e lo possiamo mandare a fare qualsiasi lavoro»

«Capisco»

«Bene» sospirò con evidente soddisfazione «Fai in modo che si trovino tutti qui all’orario di uscita e dì a Piergiorgio di comprare qualcosa da mangiare a pranzo per tutti» ordinò, mettendole fra le mani una banconota da cinquanta euro.

Aurora eseguì il compito e all’una e trenta i sei ragazzi si trovarono seduti ai primi banchi in quella stessa aula, su ognuno dei quali c’erano rustici, dolci e bibite. Giada stava seduta alla cattedra, invece. «Piergiorgio, chiudi la porta» ordinò, e un ragazzino basso e smilzo, coi i ricci castano chiaro e alcune lentiggini sul naso, vestito come fosse uscito da un film in bianco e nero, scattò subito in piedi per chiudere la porta. Giada si girò e cominciò a scrivere alla lavagna un elenco.

«Stabilire una data» annunciò, toccando con una matita il primo punto. Senza aspettare gli altri, avanzò la sua proposta «A mio parere, il sabato prima Carnevale». Tutti si trovarono d’accordo, avevano un mese pieno per definire l’organizzazione nei dettagli.

«Punto secondo, la location. Al Castello, da me, c’è moltissimo spazio e, cosa fondamentale, non spenderemo una lira» e anche qui, più che mai, nessuno ebbe da ridire. «Punto terzo: i soldi. Non riusciremo a far rientrare il costo di musica, rinfresco, decorazioni nella vendita dei biglietti, se vogliamo devolvere una cifra ragionevole alla mensa. Dunque, ci servono finanziamenti e sponsor» comunicò esperta. I ragazzi fecero delle proposte e Rita disse che conosceva un ragazzo che faceva il dj e avrebbe provveduto a farlo suonare gratis, Fabio disse che avrebbe chiesto un finanziamento alla scuola, Piergiorgio fu deciso che avrebbe schiesto di fare da sponsor ai negozi per feste, così da avere le decorazioni in cambio di pubblicità. Le prime linee guida dell’organizzazione furono abbozzate in poco più di un’ora e Giada, come una leader aziendale, sciolse la seduta.

 

 

*

 

 

Giada era ferma davanti al distributore di bibite e sbuffava rigirandosi tra le dita la carta di credito.

‹‹Rinaldi, che succede, sei ridotta agli sgoccioli?›› gli si parò davanti un ragazzo con aria canzonatrice.

‹‹Sai com’è, solitamente non me ne vado in giro con le monete!›› gli rispose senza neanche incontrare i suoi occhi. ‹‹Che c’è, sei venuto a prendere a calci la macchinetta per sfogare la tua frustrazione esistenziale?›› lo provocò, seppur con scarso interesse, notando che quello non accennava ad allontanarsi.

‹‹Che umiliazione, Rinaldi, a dover accettare la mia elemosina›› sospirò il ragazzo, inserendo degli spiccioli nel distributore e lasciandole scegliere una bottiglietta di acqua minerale. Giada bevette un sorso, senza ricordarsi di rispondere qualcos’altro, e stava già andando via, ma lui la seguì tradendo una certa ansia. ‹‹Senti…›› cominciò, parandosi di nuovo davanti a lei. Aveva un’espressione diversa dal solito, i suoi capelli coprivano gli occhi chiari in maniera meno arrogante di come Giada ricordasse, in maniera quasi indifesa. ‹‹Hai organizzato un comitato festivo›› continuò, con una voce bassa come svogliata. ‹‹Un Comitato Organizzativo Feste›› non riuscì a trattenersi dal puntualizzare Giada, anche se non aveva voglia di perdere tempo.

‹‹Quello che è, avrò un credito scolastico se partecipo›› si spicciò il ragazzo.

‹‹Sono addolorata dall’idea di dover fare a meno di te, Andrea, ma siamo al completo›› finse una voce pietosa Giada. Andrea Cervo si ricordava dopo quattro anni di carriera in menefreghismo verso l’istruzione si ricordava che c’erano dei crediti scolastici?

‹‹Mi devi un favore›› le ricordò. Aveva del ridicolo che insistesse.

‹‹Ti farò consegnare a domicilio una cassetta d’acqua minerale›› camminò ancora in avanti Giada, ma Andrea le venne dietro. ‹‹Rinaldi, ascolta, io…›› riuscì a dire con fatica, ma si fermò; continuava a guardarla con quel nuovo sguardo indifeso da dietro i capelli lunghi sulla fronte e questo infuse un fastidiosissimo senso di confusione in Giada.

‹‹Ma sì, fai figurare quello che ti pare per i tuoi crediti, non ti disturbare neanche a venire alle riunioni›› lo liquidò la ragazza, e se ne andò lungo il corridoio.

Ma Andrea il giorno dopo di disturbò di andare, di essere puntuale e di portarsi dietro con grande dignità la sua solita espressione sfrontata. Piergiorgio lo guardava con disapprovazione e con terrore di mostrargliela esplicitamente, mentre eseguiva una sfilza di compiti per compiacere Giada. Stavano valutando parecchi dettagli tra cui il rinfresco, quando Andrea disse che non avrebbe dovuto includere bevande, ma solo snack molto salati da indurre ognuno a comprare almeno un drink. I soldi, disse, si facevano con i drink: tutti vanno alle feste per bere. Con un po’ di sorpresa, si resero conto che era un’idea vincente; Giada gli affidò il compito di tenere i conti, Piergiorgio cominciò a guardarlo come il suo nuovo mentore e Andrea si disturbò di andare a tutte le altre riunioni, puntuale e sfrontato.

‹‹Che succede oggi?, non viene nessuno›› sbuffò Rita guardando l’orologio. Mancavano Giada, Olivia e Andrea e dovevano decidere una cosa importante quale il tema della festa. ‹‹Mando un messaggio al capo›› disse Fabio; ultimamente, notò Aurora, quei due non facevano altro che messaggiare nelle ore di lezione. ‹‹Ah, eccoti!›› fece poi vedendo arrivare la ragazza. Giada aveva la faccia sorniona di un gatto che è appena riuscito a sgraffignare qualcosa di delizioso, ma si sedette alla cattedra con noncuranza e gettò indietro i capelli. Di tutta corsa arrivò anche Olivia, trafelata e in disordine, sicuramente umiliata dal fatto di essere in ritardo, e si sedette facendosi piccola piccola al suo posto, mormorando qualche scusa.

‹‹Possiamo cominciare›› annunciò Giada. ‹‹Manca Andrea›› fece notare Piergiorgio, ma fu incenerito per tanta audacia.

‹‹Ehi›› entrò Andrea, acchiappando un pacchetto di Fonzies che, come sempre insieme ad altri stuzzichini, erano a disposizione di tutti.

‹‹Hai la cerniera aperta›› disse Rita con un mezzo sorriso guardando il cavallo dei pantaloni di Andrea.

‹‹Non riesci proprio a non guardare proprio lì, eh?›› controbatté lui, richiudendola senza imbarazzo.

‹‹Se non vi dispiace›› scandì Giada a voce alta, per richiamare il silenzio ‹‹dobbiamo stabilire il tema della festa. Io immagino qualcosa di molto elegante e raffinato, in stile Montecarlo: lunghi abiti da sera per le ragazze, luci, roulettes, tavoli da gioco foderati in velluto verde…›› cominciò ad elencare con gusto.

‹‹Sarebbe bello, ma abbiamo un budget che non ce lo permette›› la riportò coi piedi per terra Fabio. ‹‹Che ne dite degli anni ’60?››

‹‹Hollywood degli anni ’60, come in Colazione da Tiffany?›› chiese Giada.

‹‹Veramente avevo in mente qualcosa più in stile Woodstock›› le sfatò il mito Fabio.

‹‹Che pagliacciata, non intendo incoraggiare nessuno a credere che questa festa sia un evento in cui fumare hashish›› rifiutò la ragazza.

‹‹Rocky Horror Show?›› propose Andrea.

‹‹Rivoltante››

‹‹Medioevo?›› suggerì Aurora.

‹‹Medievale››

Furono bocciati Star Wars, Pirati, Antica Roma, Antica Grecia, antico Giappone, Personaggi della storia, Personaggi dei telefilm, Personaggi dei cartoni Disney, e cominciarono tutti a seccarsi.

‹‹Io ci rinuncio, non ti va bene niente!›› sbottò Fabio.

‹‹Forse…›› intervenne Olivia, con un altro tentativo ‹‹L’Inghilterra vittoriana››.

‹‹Bigotta›› la stroncò subito Giada.

‹‹Visto?›› evidenziò esasperato Fabio.

‹‹Rifletti: è un tema elegante e raffinato, abbiamo un tratto gotico, come i racconti di Edgar Allan Poe, uno bizzarro e fantastico, come Alice nel Paese delle Meraviglie, è adatto a chi ama Cime Tempestose e a chi ama Sherlock Holmes›› spiegò Olivia con diplomazia, con le sue erre rotolanti. Erano tutti abbastanza convinti e anche Giada dovette ammettere che l’idea era vincente.

 

 

*

 

 

Quei giorni invernali diventavano presto bui e freddi uno dopo l’altro e l’intera settimana volò via in un baleno. Il tempo scorreva veloce e Aurora concentrava tutta la sua forza correndogli contro, senza mai un momento di riposo.

‹‹Basta, signorì›› la ammonì un signore della mensa, quando vide che il brodo stava traboccando fuori dal piatto. Riemersa dai suoi pensieri e scrollando il capo stanco, Aurora si fermò immediatamente dal versare altre cucchiaiate e si scusò.

‹‹Appena finiamo qua, tu ed io ce ne andiamo da qualche parte che non ha niente a che fare con il lavoro›› le disse Alessio.

‹‹In realtà devo rispondere a una valanga di e-mail, più si avvicina San Valentino e più sembrano sorgere problemi›› sospirò.

‹‹Visto che hai molto a cuore le relazioni della gente, perché oggi non ti concentri sulla storia di un povero ragazzo a cui manca molto la sua migliore amica?›› suggerì Alessio.

‹‹Se la metti su questo piano…›› cedé Aurora, sorridendo.

Si sbrigarono a finire di servire tutti i senzatetto e poi ripulirono la grande sala e nel primo pomeriggio tornarono alla pista di pattinaggio. Ricordava come la prima volta che era salita sul motorino di Alessio era molto scettica e, doveva ammetterlo, anche spaventata, mentre adesso si ci era talmente abituata, così come a tanti altri oggetti e usi di quell’epoca. Arrivati alla pista, presero i pattini, scivolarono sulla lastra di ghiaccio e Aurora non sembrava migliorata più di tanto. Aveva ancora bisogno di tenersi saldamente al ragazzo ma completarono senza danni il primo giro, sempre vicini ai bordi, il primo giro intorno alla pista. ‹‹Hai la grazia di un facocero in tutù di lustrini›› sogghignò Alessio. Aurora, spalancò la bocca, risentita, e prima di scoppiare a ridere gli diede uno spintone. Il ragazzo barcollò all’indietro, ma al posto di pensare a rimettersi in equilibrio, si aggrappò per vendetta alle maniche del giubbotto di Aurora, facendo sbattere entrambi al bordo duro e ghiacciato. Si accasciarono rannicchiati in quell’angolo, con le ginocchia incastrate le une nelle altre, finiti a terra proprio come era successo l’ultima volta. Erano finiti premuti l’uno contro l’altra, coi nasi tanto ravvicinati che quasi si sfioravano, e Aurora poteva sentire il respiro di Alessio uscire dal suo sorriso tremolante, guardandolo negli occhi mentre entrambi avevano smesso di ridere, e il suo respiro era invece trattenuto. Non era come l’ultima volta il cuore che accelerava, era come non lo era mai stato; non assomigliava affatto alla sensazione soffice e tiepida che aveva provato con Filippo, perciò non poteva essere… No, era una sensazione aguzza e rovente, quasi da far male, ma non riusciva ad allontanarsi. Non poteva essere. Ma quando, continuando a non capire niente e lasciando che, con incertezza, la sua testa si sporgesse in avanti, sentì il rumore infernale di una suoneria. Sbatterono un paio di volta le palpebre, come riportati alla realtà, salvati o abbattuti in extremis, poi Aurora rispose al cellulare.

‹‹Dobbiamo andare, è importante›› disse immediatamente risoluta, tralasciando ogni traccia d’imbarazzo, dopo aver chiuso la telefonata. Avrebbe capito più tardi.

 

 

 

Salve, miei carissimi che seguono. È iniziata la malefica scuola, per fortuna è il mio ultimo anno, ma se troverò il tempo per mangiare sarà molto. Da qui in poi la storia prenderà un’accelerata (ci voleva!) e spero di aggiornare senza far passare troppo tempo. Sarei molto felice se commentaste, anche in modo critico, per migliorarmi (rileggendo gli scorsi capitoli mi sono annoiata da sola, ma spero di cambiare rotta), insomma per un autore le recensioni sono più importanti di qualsiasi altra cosa e vi costano un solo minutino *fa gli occhi da cucciolo*. Bando alle ciance, saluti a tutti e alla prossima!!:D

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Segreti ***


CAPITOLO TREDICI

Segreti

 

 

 

Mietta non ce l’avrebbe fatta e quel pomeriggio Annachiara lo capì più che mai. Sarebbe rimasta con lei in ospedale per quel poco di tempo che ancora potevano stare insieme e chiamò Aurora perché badasse alla figlia Marta. ‹‹Ti lascio i soldi per questo extra sul tavolo della cucina›› le disse al telefono.

Marta aveva gli occhi rossi perché aveva pianto come una dannata: voleva andare con la mamma, ma lei l’aveva lasciata a casa; Aurora e Alessio, quando arrivarono, provarono con diversi giochi, ma non sembrava entusiasmarsi per niente.

‹‹Ci vediamo un bel cartone animato?›› le propose Alessio ‹‹Qual è il tuo preferito?››

‹‹La Bella Addormentata nel Bosco›› pigolò, arricciando il musino, sempre giù di corda ma non indifferente a tutte le attenzioni del ragazzo. Alessio aprì un mobiletto sotto il televisore dove erano sistemate in fila decine di videocassette dalla custodia colorata e ne prese una che riconobbe subito, così la inserì nel videoregistratore. Marta stiracchiò un sorriso sul viso mentre vedeva scorrere le immagini. Ad Aurora sembrò strano, decisamente strano vedere il film e Alessio ogni tanto la osservava di sottecchi, come per confrontarla al personaggio disegnato.

‹‹Non mi hanno fatta un po’ troppo scema?›› gli chiese, quando Rosaspina ballava con il gufo vestito da principe nel bel mezzo del bosco.

‹‹Vagamente›› rispose, contenendo una risata. ‹‹Questo bellimbusto, invece, è stato fatto anche lui più scemo da quelli della Disney o era veramente così?›› chiese, quando arrivò Filippo.

‹‹Non mi sembra tanto scemo, lui, nel cartone›› costatò.

‹‹Ah no? La guarda e puff!, si innamora di lei?›› obiettò, scettico. ‹‹Non dirmi che è successo davvero così››.

Aurora arrossì di colpo e si rese conto che non sapeva che rispondere: si, era successo così, puff!, ma lui non poteva capire. Non ha bisogno di troppe parole il vero amore. ‹‹Vagamente›› rispose dopo un po’. Sentì Alessio borbottare e sbuffare ogni volta che il principe Filippo tornava sulla scena.  ‹‹Ma veramente vuoi sposarti con questo qui?›› ritornò sull’argomento.

 ‹‹Di grazia, perché non dovrei?›› chiese un attimino innervosita.

‹‹Ti ho chiesto perché vuoi, non perché devi›› rimarcò.

‹‹È la stessa cosa! Che c’è, ora sei geloso?››

‹‹No, non sono geloso, non capisco tutta questa fretta di sposarsi a sedici anni, a meno che una non è incinta non si… oh cacchio, sei incinta?!››

‹‹Santo Cielo, no!›› farfugliò, rossa fino alla punta delle orecchie e leggermente scioccata. ‹‹Allora tutti si sposavano circa a questa età›› spiegò.

‹‹Allora tutti credevano che il Sole girasse attorno alla Terra›› insinuò.

‹‹Zitti›› li ammonì Marta, ora che stavano cominciando ad alzare la voce. ‹‹Devo vedere come finisce››

‹‹Ma lo sai come finisce›› disse Aurora. Se Marta era tanto perspicace da prevedere immancabilmente il finale di un lungometraggio mai visto, figuriamoci se poteva dubitare su quello di uno così noto.

‹‹Questa volta non ne sono tanto sicura›› rifletté invece, pensierosa.

La Bella Addormentata nel Bosco, però, quella sera finì come tutte le altre volte, ad una certa ora tornò il papà di Marta e Aurora, andando via, non prese i soldi per l’extra.

Il giorno dopo Annachiara le telefonò per dirle che, grazie, da allora avrebbe avuto tutte le sere a disposizione per stare con la bambina. Le chiese di passare solo un’ultima volta, quando le fosse stato possibile, per farsi consegnare la paga per tutte le sere in cui aveva lavorato più quella dell’extra, che, suppose, aveva dimenticato di prendere.  Ma Aurora passò nello stesso pomeriggio soltanto per salutarla. Si sentì un po’ ipocrita nel promettere a Marta che sarebbe tornata spesso per giocare con lei, quando in realtà sarebbe andata via per sempre.

Con gli stessi magone e senso di colpa, bussò alla porta di casa della fata madrina Violante. E quando ne uscì, con un sacchetto pieno di polverina magica come ricompensa per il lavoro svolto, si sentiva doppiamente male, poiché non riusciva a sopprimere del tutto, in virtù dei legami di amicizia che stava stabilendo nel “nuovo mondo”, quel senso di soddisfazione e tranquillità che le procurava il pensiero di essere più vicina sulla strada verso casa.

 

 

 

*

 

 

 

Motivata dal recentissimo traguardo, nei giorni seguenti Aurora si era messa d’impegno a rispondere alle e-mail che fioccavano nella sua casella di posta elettronica. Era proprio vero: più si avvicinava San Valentino e più i problemi sembravano aumentare, e un sacco di ragazze avevano bisogno di una Fata Madrina. Era arrivato il tredici di Febbraio e c’era chi richiedeva consigli e suggerimenti sull’abbigliamento da indossare all’appuntamento e chi sui regali da fare, ma due no.

 

Cara Fata Madrina,

Oggi ci siamo incontrati per caso in caffetteria e ci siamo scambiati appena un accenno di saluto. La cameriera mi ha chiesto cosa volessi e, quando ho risposto “un cappuccino con panna montata vegetale”, lui ha aggiunto “e una bustina di sale a parte”. Ci siamo guardati e siamo scoppiati a ridere. “Ti ricordi?” gli ho chiesto, la chiedevamo sempre la bustina di sale. Per un attimo mi ha guardata come quando abbiamo chiesto la prima bustina di sale, e poi basta. Domani mi guardo Via col vento. Credo di essere felice,

Jet.

 

Cara Fata Madrina,

Le cose vanno sempre allo stesso modo: mio padre non ne vuole sapere di lasciarmi uscire con lui e noi, comunque, qualche modo per vederci lo troviamo. Ultimamente a scuola si sta impegnando, i professori all’inizio pensavano che copiasse, ma ora la sua pessima fama si sta sgretolando: e anche se questo non farà ancora cambiare idea a mio padre, noi domani usciamo comunque. Qualsiasi cosa succeda,

 

Aurora sorrise allo schermo e stampò le due lettere: era fiera di aver portato a termine con ottimi risultati il compito che spetta a una madrina. S’infilò la giacca per andare dalla fata madrina Candida e, mentre era indaffarata fra l’infilare le maniche e reggere i fogli, il cellulare squillava insistentemente. Maledisse mentalmente quell’oggetto così inopportuno e rovistò alla cieca nella borsa per trovarlo.

‹‹Pronto?›› rispose, uscendo di casa e richiudendo la porta dietro di sé.

‹‹Ciao Rory, non indovinerai mai cos’è successo!›› attaccò una voce vivace e allegra che riconobbe subito come quella di Giada.

‹‹Immagino di no, un indizio?››

‹‹Non importa, te lo dico io: Fabio mi ha invitata al bowling domani sera!›› disse, con voce squillante. ‹‹Devo comprare un vestito, e le scarpe, e la borsa›› cominciò a elencare.

‹‹Mi sembra che le scarpe te le diano là›› le fece notare Aurora.

‹‹Certo, e magari per giocare è comodo un bel paio di pantaloni di tuta!›› disse sarcastica ‹‹Dopo il bowling mi porterà a cena e devo essere perfetta, quindi vieni immediatamente in centro››.

‹‹Ti raggiungo più tardi, adesso devo anda-››

‹‹Ho detto: vieni immediatamente!›› ripeté e chiuse il telefono.

Così Aurora decise di rimandare e prese l’autobus per andare nel centro. Trovò già lì Giada insieme a Lena ed entrarono in una boutique dalla vetrina sfavillante. Nonostante fosse periodo di saldi, i cartellini registravano prezzi esorbitanti, ma Giada non si preoccupava affatto di leggerli. Raccolse una dozzina di capi e li portò in camerino, dove li provò uno ad uno, facendoli vedere alle due amiche.

‹‹Che ne pensate di questo?›› si mostrò con una camicetta beige, con una gonna a vita alta color prugna e una cintura sottile in vita.

‹‹Fantastico›› ammisero Aurora e Lena, e Giada, rimiratasi ancora un po’, si decise a comprare quei vestiti.

‹‹Lena, devi provare questo!›› sospirò mentre arrivava alla casa e vide uno splendido top turchese.

‹‹Non posso permettermi niente in questo negozio›› evidenziò in un bisbiglio l’altra ragazza. ‹‹Perché non andiamo al centro commerciale? Chiamiamo anche Rita e Ludovica e facciamo una grande prova d’abito comune per i costumi della festa›› propose invece.

‹‹Sarebbe carino invitare anche Olivia›› disse Aurora. Giada fu d’accordo e Aurora pensò che questo fosse il magico potere del combo Fabio + Shopping sull’umore dell’amica. Le sei ragazze, assieme a pacchetti di patatine e riviste di gossip, affollarono i camerini di un negozio vintage di abiti usati del centro commerciale.

‹‹Ludo, hai finito lì dentro?›› chiamò Lena.

‹‹Non riesco ad infilarlo!›› mugolò l’altra, uscendo per farsi aiutare.

‹‹Genia, dovevi aprire la zip!›› esclamò divertita risolvendo l’arcano. Una volta chiuso, il vestito le stava a pennello e fu deciso all’unanimità che era la scelta definitiva.

‹‹Forza, ora Aurora dentro›› la spinse Giada, passandole un primo vestito grigio. Era sobrio, elegante, forse un po’ troppo lungo rispetto alla moda dell’epoca, ma si vedeva bene in quel modo.

‹‹Potresti trovare di meglio›› le disse Lena.

‹‹Ehm…›› tentennò Olivia, che si sentiva sempre un po’ imbarazzata in mezzo a loro.

‹‹D’accordo che con quel fisico da supermodella ti potresti anche mettere un sacco di iuta e restare carina, d’accordo che quel tuo ragazzo è talmente perso per te che adorerebbe la iuta, ma credimi: con questo tutti ti scambierebbero per la mia prozia Ilde›› commentò saggiamente Rita.

‹‹Alessio non è il mio ragazzo e – e non è per niente perso, e…›› cominciò a farfugliare.

‹‹Oh, guarda, qua c’è un test: “È innamorato di te?”›› disse Ludovica, che stava sfogliando le pagine colorate di una rivista per ragazzine.

‹‹Prova questo›› le mise fra le braccia un altro vestito Giada e la spinse nel camerino. Mentre Ludovica leggeva le domande, Aurora si provava tutti gli abiti che via via le passavano.

Quando parlate, ti guarda negli occhi?

Preferisce passare il suo tempo libero con te?

È sempre disponibile a fare qualcosa per te?

Si offre di accompagnarti a casa?

Ha mai cercato un “incontro ravvicinato”?

Diventa geloso se parli di un altro ragazzo?

Sì.

Per ogni sì che le avevano strappato di bocca – sì, la guardava anche quando lei faceva altro, sì, passavano tanto tempo insieme, la aiutava anche se non glielo chiedeva e quando tornava a casa lui aspettava giù finché non vedeva l’ascensore arrivare al suo piano, e poi sì, c’era stato quel momento sulla pista di pattinaggio e, sì, era geloso di Filippo – per ogni sì, c’era stato un secco no ad ogni vestito che aveva mostrato loro.

‹‹Il risultato è: gli piaci›› evidenziò Ludovica.

‹‹Era un test approssimativo e superficiale›› ribatté Aurora, uscendo dal camerino e facendosi vedere con l’ultimo abito che avevano individuato per lei: era grigio-azzurro molto pallido, dal corpetto stretto e un nastro rosa cipria in vita. I volti entusiasti delle ragazze volevano dire una cosa sola: sì.

‹‹Rory, quando ti ostini a non voler capire le cose più semplici mi rendo conto che sei idiota almeno quanto lui e che siete schifosamente fatti l’uno per l’altra. Tieni,›› le diede il giornalino Giada ‹‹c’è pure il test “Sono innamorata di lui?”››. Aurora tornò nel camerino per rimettersi i vestiti che indossava quando era arrivata e diede un’occhiata a quelle domande. Sorridi quando senti la sua voce? Ti batte veloce il cuore quando è vicino? Vederlo ti risolleva una giornata no? Sei infastidita quando parla con altre ragazze? Non riesci ad odiarne neanche i difetti? Rischieresti di perdere qualcosa pur di stare con lui?

‹‹Quanto ci metti? Non è che anche tu ti sei persa con la zip?›› la chiamò Lena da fuori e, lasciando perdere quel giornalino scema, si finì di vestire alla svelta.

‹‹E ora è il turno di Olivia›› dissero tutte, spingendo la ragazza dentro. Si vestiva sempre con larghi maglioni colorati che più che coprirla la nascondevano e fu strano vederla in un abito elegante, quando finì di indossarlo: stava davvero bene. Era esile e pallida, con i capelli a spaghetto fino a metà collo e le linee del volto sottili e appuntite.

‹‹Bene, molto bene›› si accarezzò il mento Giada, compiendo un giro attorno alla ragazza nel valutarla. ‹‹Di sicuro non rischierai di fare da tappezzeria›› ammiccò verso di lei, che di tutta risposta abbassò leggermente il capo, mentre si faceva appena rosa.

‹‹Anzi, ci metterei la mano sul fuoco che hai già un accompagnatore›› sorrise come di un ghigno, come deliberatamente studiato per mettere a disagio.  ‹‹O mi sbaglio?››

‹‹No, nessun accompagnatore…›› si difese Olivia.

‹‹Oh›› sospirò ‹‹Mi ero illusa che ci fosse qualcosa fra te e uno dei membri del nostro comitato››.

‹‹Ti eri evidentemente illusa›› acquistò un po’ di risolutezza. Aurora guardò spaesata le altre, ma ebbe una conferma sui loro volti che non era l’unica ad essersi persa qualcosa.

‹‹Tutto lo lasciava supporre›› continuò Giada. Olivia si limitò ad alzare le spalle, desiderando troncare quanto prima quella conversazione, e tornò nel camerino per rivestirsi dei suoi abiti. A un tratto, un insieme di elementi riaffiorarono nella mente di Aurora ricomponendo un puzzle.

‹‹Ma che hai?›› rinfacciò sottovoce a Giada, tirandola per un braccio da parte.

‹‹Di cosa stai parlando?››

‹‹Una volta avevi detto che era Olivia quella ad avere una sorta di risentimento verso il genere umano, e che l’unico modo che conosceva per sentirsi migliore era quello di far sentire peggiori gli altri, allora perché ti stai comportando così?››

Giada si scostò, fulminata, e boccheggiò. ‹‹Non sto facendo niente›› sibilò.

‹‹Dunque se non provi nessun rancore non è il caso di divertirsi nel metterla a disagio›› le suggerì, stanca. Giada si fece paonazza e strinse i denti, senza esplodere o dire nulla e continuò a mantenere un gelido silenzio mentre tutte quante le ragazze andavano alla cassa, pagavano e uscivano dal negozio con delle grandi buste.

‹‹Ti va un gelato, prima di andare?›› chiese Aurora, avvicinatasi a Olivia. Quest’ultima annuì, trattenuta un po’ da un certo disagio. Si sedettero a un tavolino di una gelateria dentro il centro commerciale stesso e ci volle metà cono finché una delle due cominciò a parlare.

‹‹Sai che ti dico? C’è un solo modo per non vivere più nella continua angoscia di venire scoperti: presentarsi da soli allo scoperto›› disse Aurora.

‹‹E tu come l’hai scoperto?›› sorrise del suo stesso gioco di parole Olivia.

‹‹Me l’hai detto tu›› le sorrise complice ‹‹o meglio, scritto››.

Olivia aveva tirato un pugno in faccia ad Andrea, lì era cominciata, e nello sgabuzzino delle scope dei bidelli, lì era finita sotto gli occhi di Giada. Solo adesso Aurora si spiegava che l’insistenza di Andrea al far parte dell’organizzazione della festa era un modo per vedere Olivia, che la serietà nell’impegno rientrava nel piano di risollevare la reputazione scolastica, che il padre di Olivia che ne sapeva tante da giudicare il ragazzo era il vicepreside, che lo sguardo sornione di Giada quel giorno in cui erano entrambi in ritardo, disordinati e fuori posto, era dovuto all’averli sorpresi in atteggiamenti strettamente intimi.

‹‹Ne sei sicura, che sia la cosa giusta?›› chiese timidamente Olivia.

‹‹Assolutamente no›› scoppiarono a ridere. ‹‹Ma la fata madrina è qui per questo, per supportarti anche nelle decisioni pazze e sbagliate››.

Certo, il consiglio disinteressato e ponderato di un estraneo che non può giudicarti può essere utile, ma una conversazione e un buon gelato con una persona vera a volte possono farti sentire molto meglio. Solo allora Aurora capì che aveva veramente capito e svolto appieno il suo compito e al termine di quella lunga giornata, tornò finalmente a casa con un nuovo, terzo sacchetto di polverina magica.

 

 

Salve a tutti! Finalmente torno con il nuovo capitolo, spero che non sia troppo incomprensibile nell’ultima parte perché ammetto di averla scritta di fretta. L’ultima scena l’avevo immaginata completamente diversa, sarebbe dovuta avvenire in un pigiama party a casa di Giada e l’avevo immaginata tantissimo tempo fa (da quella scena è persino nata gran parte della storia!), ma alla fine ho deciso che così andava meglio. Non so se sia stata una buona scelta o meno, sono terribilmente criticona nei miei confronti. Datemi i vostri pareri, come sempre la parte migliore per un’autrice. Grazie a chi segue e a presto!

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Ascolta il tuo cuore ***


CAPITOLO QUATTORDICI

Ascolta il tuo cuore

 

 

 

Se il buongiorno si vede dal mattino, già dalle prime luci dell’alba era chiaro che quello non sarebbe stato un buon giorno. Aurora si ritrovò con una massa informe, crespa e sfibrata sulla testa al posto dei capelli e capì che aveva distrattamente scambiato il balsamo con lo sgrassatore per le stoviglie. Innervosita, fece un capitombolo per le scale, perse il pullman e arrivò in ritardo a scuola. Fece la figura dell’idiota dicendo di non conoscere nessun Ludovico Ariosto – chi è?, uno del primo anno? – durante una discussione in classe; e per finire sentiva che le stava per arrivare un bel raffreddore, tanto aveva il naso arrossato e gli occhi lucidi. Non vedeva l’ora di trovarsi a casa, avvolta in una calda coperta di lana sul divano, ma quando finalmente si conquistò quella posizione, il suo momentaneo  relax fu interrotto dalla suoneria strillante del cellulare, che cominciava vivamente a darle sui nervi, tanto era importuno. Nel tentare di afferrarlo, inciampò nella coperta e sbatté la testa a uno spigolo.

«Pronto?» sfiatò, rispondendo.

«Dove sei?» era Alessio.

Sorridi quando senti la sua voce?

Sì.

«A casa…» gli disse, scuotendo la testa come per liberarsi di quell’espressione che si era resa conto di aver involontariamente assunto: che sciocca, si disse.

«Oggi dobbiamo essere alla mensa!» le richiamò alla mente. Si era completamente dimenticata: gli disse che sarebbe volata lì in un minuto e in tutta fretta rinunciò alla dolce attrattiva della coperta e uscì di casa.

«No comment» premise, arrivando alla Casa del Castagno, anticipando ogni possibile domanda di Alessio in merito al suo aspetto disastrato. Prese a rimescolare una pentola, sotto lo sguardo divertito del ragazzo, che non sapeva trattenersi nel vedere un cespuglio arruffato che incorniciava due occhietti da fumata e un naso scarlatto. «E smettila!» lo rimproverò, sibilando torva e fulminandolo con uno sguardo bieco.

«Sembri Joker, ti giuro» scoppiò a ridere.

«Sei un insensibile immaturo sbruffone ipocrita…» cominciò a elencare Aurora, colpendolo in testa con il mestolo, finché Alessio, ancora ridendo, non le scoccò per tutta risposta un bacio sulla guancia.

Non riesci ad odiarne neanche i difetti?

Sì, proprio non ci riusciva.

Vederlo ti risolleva una giornata no?

Sì, proprio non riusciva a togliersi quel sorriso ebete dalla faccia. Sentiva ancora un pizzichio sulla guancia e si era tutta accalorata – era il raffreddore, di certo – ed era stata qualche secondo in apnea, scordandosi di respirare.

«Basta, signorì!» la risvegliò dal viaggio mentale in cui si era imbarcata un vecchietto della mensa che stava servendo, la cui ciotola ormai traboccava. Un’altra volta scosse la testa e cercò di concentrarsi su quello che stava facendo.

«Hai freddo, Rory?» chiese dopo un po’ Alessio, notando dei brividi dovuti all’infreddatura e appoggiandole le mani sulle spalle. A quel tocco, Aurora lasciò la presa del piatto che stava pulendo con uno strofinaccio, facendo sì che si rompesse in mille pezzi con un rumore sordo. Era crollata alla fine. Era inutile fingere con se stessa, inutile dare la colpa al raffreddore, alle coincidenze se arrossiva e se si rendeva conto di provare qualcosa. Se ne rese conto in quel momento, con spavento e con il senso di smarrimento di non sapere più cosa fare.

Alessio si chinò di fronte a lei per raccogliere i cocci e lei, con il respiro affannato, si ritrasse.

Ti batte veloce il cuore quando è vicino?

Sì. Aveva paura che andasse in frantumi tanto pulsava.

«Devo andare» si allontanò. «Io non… non mi sento bene» balbettò.

«Mi sembrava, forse hai la febbre» le posò una mano sulla fronte, rendendola ancora più agitata a quel contatto.

«Devo andare» ripeté ancora, in un sussurro, e scivolò via.

Tornò a casa cercando di svuotare la testa da ogni pensiero e si avvolse di nuovo nella sua coperta. Aveva solo voglia di stare tranquilla, era chiedere troppo? Era stanca dei mille impegni, delle mille preoccupazioni – e se fallisse tutto? – e di non poter essere nel suo posto nel mondo. Si abbandonò a uno sbadiglio e sentì il peso di quelle angosce premerle sulle palpebre, ma, appena chiuse gli occhi, il suo respiro fu strozzato dallo sgomento.

«Lilac!» gridò, per farsi udire dalla sua fata madrina.

«Dimmi, mia cara» accorse presto la donna, preoccupata.

«Il potere dell’incantesimo si sta esaurendo. I due mesi sono quasi scaduti e fra un po’ non potrò più restare sveglia. Presto dovrò partire» spiegò, con voce tremante.

«Sapevi che questo momento sarebbe arrivato, cara. Ti preparo un bel caffè per tenerti sveglia, prepara le tue ultime cose prima di andare» le suggerì con dolcezza.

Aurora annuì e si alzò dal divano. Prese una borsa e vi inserì un paio di libri che aveva intenzione di leggere ma ancora non era riuscita a farlo. Avrebbe voluto portarsene di più, ma sarebbe stato troppo compromettente e, anzi, avrebbe dovuto nascondere bene o addirittura bruciare quei due. Prese anche un paio di jeans: sarebbero stati comodi per una cavalcata a cavallo, nascosti sotto le gonne dei lunghi abiti. Infilò in borsa anche un pacchetto di patatine, una biro e un pacco di assorbenti. Intanto, Lilac tornò nel soggiorno con un vassoio su cui vi era una tazzina fumante e un sacchetto.

«Ecco la mia parte» disse, riferendosi al sacchetto che conteneva della polverina magica. «Come promesso, non chiedo nulla in cambio. Voglio solo che tu sia felice, bimba mia, per cui ascolta il tuo cuore: se ti suggerisce di andare, con questo mio dono potrai».

Aurora prese il sacchetto e non disse nulla, sul fatto che non riusciva a capire cosa stesse dicendo il suo cuore. Ma al di là delle sciocchezze che avrebbe potuto sparare, Aurora doveva andare, non esisteva altra soluzione, se non dormire in eterno. Bevve in silenzio la sua tazzina di caffè, non dicendo niente neanche del fatto che lo trovava disgustoso, ma certamente dopo si sentì un po’ più rinvigorita e uscì di casa. Doveva andare dalla fata Fleur, la madrina che le aveva chiesto di fare volontariato, per ottenere la ricompensa pattuita, l’ultimo tassello mancante di quel puzzle.

«Ci rivediamo mille anni fa!» salutò sulla porta Fleur, un paio d’ore dopo, mentre Aurora usciva. Adesso, non mancava niente; aveva bisogno soltanto di fare un’ultima cosa.

 

 

 

*

 

 

 

Driiiiiiiiiiiiiiin!

«Il campanello!» strillò Alessio, dal piano di sopra.

«Scendi ad aprire!» disse di rimando nonna Mietta, che era in piedi su una sedia ad aggiustare una tenda.

«Vai tu, io sto facendo» ribatté il ragazzo.

«Ma che maleducato, signorino…» lo rimbeccò la nonna, che alla fine andò ad aprire.

«Salve, signora» disse Aurora, entrando in casa.

«Ciao, Aurora, come stai? Alessio è in camera sua di sopra, vai, vai. Oh, vuoi qualcosa da bere?» la accolse la donna.

Aurora rifiutò e salì le scale ed entrò piano nella stanza del ragazzo.

«Ehi» lo salutò, un po’ impacciata.

«Sei venuta a piedi? Non avresti dovuto, prima sembrava avessi la febbre» si preoccupò lui.

«Sto meglio» lo tranquillizzò. «Io… ecco… grazie. Non ce l’avrei fatta senza di te e… beh, devo andare» formulò in modo un po’ sconnesso.

«Sei un disco rotto, oggi? “Devo andare”» chiese, confuso dal suo comportamento.

«Voglio dire che devo andare. È arrivato il momento» spiegò, senza riuscire a guardarlo negli occhi.

«Cosa? Tu vieni qui e mi dici “Tante grazie, ciao”?» cominciò ad alzare la voce.

«Sapevi che prima o poi ci saremmo dovuti dire addio» si difese, continuando a evitare il suo sguardo, che ora era acceso dalla rabbia.

«Non ora, non così! Senza aspettare la festa! Ma da quella, giusto, non ne ricavi niente. Non ti interessa, vero?, non ti è mai interessato di fare qualcosa per qualcuno se non per ottenere la tua ricompensa. E dopo che sei arrivata al tuo scopo, tante grazie, ciao» sfiatò, senza riuscire a contenersi, come per volerla punire. Punirla perché l’aveva usato e ora lo stava lasciando, perché gli faceva del male il pensiero di perderla e perché era frustrato dall’idea di non poterla trattenere.

«Non è vero» gridò Aurora, ferita, mentre il magone le spingeva nella gola. «Lo sai che non è vero» sussurrò, con la voce rotta e le lacrime che ormai non riusciva a ricacciare indietro «Non c’è un altro modo per spezzare la maledizione».

«Guardami negli occhi e dimmi non stai scappando» le prese il volto fra le mani e la costrinse a sorreggere il suo sguardo.

«Non posso fare altro » mormorò tremante.

Alessio lasciò la presa sul suo viso e rimase in silenzio. Non c’era più niente da dire.

Aurora si girò e chiuse la porta alle sue spalle, scappando fuori e sfogandosi in un pianto. Frugò in tasca, aveva degli spiccioli. Tirò su con naso e si asciugò il viso bagnato con il dorso della mano, avviandosi verso la fermata dell’autobus. Voleva andare alla Casa del Castagno per servire anche la cena, anche se non le avrebbero dato alcuna ricompensa: non era un’egoista come aveva sputato Alessio.

Quando entrò nella mensa, il signor Orazio, la signora Flora e Massimo stavano ripulendo i tavoli ormai vuoti: la cena era già stata servita da un pezzo. Il locale era spoglio e freddo e Aurora, starnutendo, si strinse ancora di più nella sciarpa.

«Che ci fai qua?» la apostrofò allegramente Massimo.

«Sono passata per dare una mano» rispose, spazzando via delle briciole inesistenti dai alcuni tavoli che erano già stati puliti, giusto per tenersi occupata e non arrendersi all’inutilità.

«Non rimane molto da fare qui. Senti, io tra poco vado via, vuoi un passaggio in macchina? Mi sembri infreddolita e reduce da una pessima giornata» si propose Massimo. Aurora accettò, sforzandosi di tirare su i lati delle labbra in un sorriso. Caricarono due grandi buste di spazzatura a bordo per buttarle nel cassonetto durante il tragitto e partirono su un relitto degli anni ’70 la cui radio riusciva ad emettere solo stridii, ma per lo meno era dotata di aria calda. Massimo spense la radio e le gettò una rapida occhiata prima di ritornare con lo sguardo fisso sulla strada, come ad invitarla a parlare, ma Aurora continuò a stare zitta.

«Ci sono volte in cui capisci di non poter fare nulla per te stesso, allora pensi, almeno, di poter fare qualcosa per gli altri» si lasciò andare, dopo un po’, quando le lacrime tornarono a velarle gli occhi. Non riusciva più a trattenersi, quel giorno.

«Ti va di venire con me a trovare una persona?» chiese Massimo. Aurora disse ok e il ragazzo svoltò in direzione dell’ospedale.

«C’è una ragazza, qui, si chiama Sara, forse l’hai sentita nominare da Orazio o da Flora. Era sempre da noi, una volta» spiegò Massimo, trovando parcheggio.

«Sì; sì, ricordo: una volta mi hanno scambiata per lei» riportò alla mente Aurora. Il ragazzo la osservò e con un sorriso vago disse: «In effetti un po’ la ricordi».

Giunsero in un corridoio del secondo piano ed entrarono silenziosamente nella stanza 314. Sul letto, c’era una ragazza bionda, dal colorito spento e intubata, collegata a una macchina che ne registrava il battito cardiaco. Era più di tre mesi che non apriva gli occhi e i medici non erano sicuri che ci fosse ancora qualche speranza. Sara era caduta in quel sonno come a seguito di una maledizione, che ne aveva controllato la mente e, confusa e disperata, l’aveva avvicinata al suo fuso: un ago infilzato in una vena del braccio con l’ennesima dose. Quella finale.

Non sarebbe arrivato nessun Principe Azzurro, però, a salvare con un bacio quella Bella Addormentata.

 

 

 

*

 

 

 

Alessio non riuscì a toccare nulla a tavola, si alzò e se ne andò in camera sua. Si stese sul letto assieme alle sue cuffie e fece finta che non gli importava niente. Dopo un po’ sentì bussare alla porta ed entrò sua nonna.

«Non ho fame, va bene?» attaccò prima di essere attaccato. L’anziana non ribatté e si appoggiò sul bordo del letto.

«Avevo questa al collo, quando fui trovata» disse, mostrandogli una collana con un medaglione dorato, su cui era decorato uno stemma araldico, con uno scudo blu e un drago rosso rampante. «È tutto ciò che mi lega ai miei veri genitori» spiegò.

Alessio stette ad ascoltare.

«Da piccola credevo di essere una principessa e che grazie a questa mi avrebbero ritrovata» raccontò, senza una particolare inclinazione nella voce. «La mia madrina mise una polverina dentro, facendomi credere che fosse magica, e mi disse che grazie ad essa avrei potuto ritrovare i miei genitori e chiunque amassi. Quando tuo nonno fu in guerra, nell’aviazione, avevo smesso di credere nelle magie, e ormai non avevo più bisogno di credere di essere una principessa, ma se non altro questa mi portò fortuna».

Gli tese la collana e Alessio la raccolse. «Che cosa significa tutto questo?» le chiese, un po’ confuso, osservando il monile.

«Lasciala andare. Se davvero ci tieni a lei, lascia che vada» disse soltanto, uscendo e lasciandolo col dubbio se sua nonna sapesse proprio tutto oppure se avesse un talento eccezionale nell’intervenire inconsapevolmente come Deus ex machina.

Si rigirò ancora la collana tra le mani e passò un dito sul ricamo dello stemma. Doveva lasciarla andare.

 

 

 

No, non sono morta. Giuro che entro il 12 maggio questa storia sarà finita. Mi scuso immensamente per essere costretta a ripubblicare un capitolo quasi identico a quello precedente, ma se non avessi apportato questa modifica (come ho fatto a dimenticarmi?!) non si capirebbe più niente nella trama. Domani o dopodomani pubblicherò il prossimo capitolo, che è al 99% il penultimo.

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Quasi un addio ***


CAPITOLO QUINDICI

Quasi un addio

 

 

 

Aurora aveva mandato giù altre tre tazzine di caffè, quella notte, perché ancora non era pronta a partire. In fondo, aggiungendo tre o quattro cucchiaini di zucchero quella bevanda non era così terribile e decise di abusarne per resistere almeno fino alla sera della festa. Non era un’egoista, non avrebbe abbandonato la gestione degli ultimi, frenetici e fondamentali preparativi per l’evento solo perché non avrebbe avuto una ricompensa. Dopo aver incontrato Sara aveva capito di essere davvero fortunata di avere una possibilità, un contro incantesimo, e voleva fare il possibile per coloro ai quali era negato.

Con gli occhi ancora più rossi del giorno precedente a causa della stanchezza e del raffreddore, si trascinò a scuola. Prepararsi per il compito di matematica fissato per quella mattina era stato, il giorno prima, il suo ultimo pensiero e tremava di paura perché di trigonometria non ci capiva davvero niente. Neanche era sicura che esistesse, la trigonometria, prima dell’anno Mille, eppure tutti erano riusciti a vivere più che bene anche senza!

Stava nel cortile e si apprestava ad entrare a scuola, quando si sentì chiamare da dietro. Voltandosi, vide il volto di Alessio che sperava in una tregua.

«Mi dispiace» le disse «Ho esagerato, ieri, ho detto una valanga di stronzate: tu non sei un’egoista codarda, quello sono io, che ho avuto paura di perderti e sono andato fuori di testa» si scusò, con tono concitato. Aurora gli posò una mano sulla spalla: è tutto apposto, voleva dirgli.

«Devo andare» si allontanò lei sentendo il suono della campanella.

«Ma sei proprio un disco rotto!» ironizzò con un lievissimo sorriso Alessio.

«Compito di matematica» rispose lapidaria, a mo’ di spiegazione.

«E allora? Che te ne frega, tanto non ci tornerai mai più in questa scuola» alzò le spalle il ragazzo «Andiamocene, passiamo un’ultima giornata insieme senza pensare a niente, facciamo tutte le cose che non potrai più fare quando sarai a casa, salutiamoci e ricordiamoci così» propose, entusiasta.

«Ma la riunione del COF? Non voglio pensare solo a me stessa, ci sono centinaia di cose da sbrigare» era restia ad accettare.

«Dimentica quello che ti ho detto, ti prego. Non hai mai pensato a te stessa e questa è la tua unica occasione per fare l’adolescente sconsiderata» cercò di persuaderla ancora Alessio, afferrandole una mano e portandola verso il cancello della scuola. Non avrebbe accettato un no come risposta «Tranquilla, Giada è più che capace di gestire tutto anche da sola».

«Mm… allora, dove mi porti?» disse finalmente Aurora, lasciandosi portare via e cominciando a correre con lui, sfogandosi, finalmente, in una risata.

Corsero fuori dal cancello e partirono lontano dalla scuola con il motorino. Andavano veloce, sicuramente più del limite consentito, e il vento si scontrava, freddo e tagliente, sui loro volti.

«Allora, dove stiamo andando?» incalzò Aurora, stringendosi al corpo del ragazzo per riscaldarsi. Il suo cuore sembrava un tamburo.

«Alla stazione» rispose Alessio, mentre i boccoli biondi dell’amica gli volavano in bocca. Dopo aver saettato per la città, depose il cavalletto davanti a un grande edificio in cemento, in cui i ragazzi si fiondarono. Non guardarono neanche il tabellone delle partenze e salirono sul primo treno che arrivò al primo binario, senza sapere dove fosse diretto: consisteva in quello l’avventura. Si andarono a chiudere nel bagno per sfuggire al controllore, in quanto non avevano i biglietti, e stabilirono che ne sarebbero usciti alla prima fermata. Il gabinetto era troppo stretto per contenere comodamente entrambi e si sedettero per terra, con le schiene addossate su una parete. Il treno, durante la corsa, li sballottava e spesso finivano per cadere l’uno sull’altra. Ad un tratto, sentirono bussare alla porta e trasalirono per paura di essere sorpresi lì dentro.

«È occupato? Sto aspettando da venti minuti» disse spazientita una donna, quando Aurora fece capolino con la testa dalla porta.

«Mi scusi, il treno mi dà la nausea» si inventò Aurora, modulando una voce spezzata e malaticcia. «Se vuole vada, ma faccia presto perché credo di non poter resistere mol…» richiuse la porta e simulò il rumore di un rovescio. Poi sbucò nuovamente e aggiunse «Vada». La donna, con una smorfia schifata, rinunciò con garbo, venendo incontro ai precisi intenti di Aurora.

«Grande!» disse Alessio, battendole il cinque.

Il treno dopo un po’ si arrestò, così Aurora spiò fuori e, dando il segnale di via libera, entrambi sgattaiolarono fuori e scesero dalla locomotiva. Erano arrivati in un paese di periferia, perso nelle campagne, la cui stazione era più o meno desolata.

Si avviarono a piedi in centro e presero a suonare a tutti i campanelli delle case per poi scappare, arrivando sfiatati dalla corsa in un bar.

«Ho bisogno di una bottiglia d’acqua» sfiatò Aurora, afflosciandosi su una sedia di un tavolino.

«No, no, due Gin Lemon» disse Alessio ad alta voce, per farsi udire dal cameriere che lucidava il bancone con uno straccio.

«Alle nove di mattina? Quanti anni avete?» fece di rimando l’uomo, con tono di scherno.

«Diciotto?» rispose Alessio, sperando di essere creduto.

«Facciamo due Aperol, ragazzini» concluse il barman.

«Avevo sempre voluto dirlo» chiarì  Alessio, accigliato, facendosi udire solo da Aurora.

L’uomo portò due bicchieri colorati con cannuccia al loro tavolino e aggiunse «Non dovreste essere a scuola?».

«Entriamo più tardi, manca il nostro prof» mentì Alessio con una faccia assolutamente angelica.

«Sicuro» commentò sarcastico il barman, evitando di indagare oltre. «Tieni» gli portò sul tavolo un bicchiere colorato. «E questo per la tua ragazza» gli strizzò l’occhio.

«No, n-non è la mia ragazza, cioè noi due… noi non è che, voglio dire…» farneticò Alessio, imbarazzato, mentre Aurora si tinse silenziosamente di rosso.

«Sicuro» concluse il barista con fare saputo e mettendo fine alla discussione.

I ragazzi stettero in silenzio a sorseggiare le loro bevande, con un po’ di timore nel guardarsi in viso, poi Aurora ruppe il ghiaccio. «Che sono quelle cose?» domandò, indicando dei cabinati colorati che emettevano rumore.

«Videogiochi!» rispose Alessio. Si decise che Aurora non poteva aver vissuto senza fare una partita ai videogiochi, così inserirono delle monete nei cabinati e cominciarono a sparare colpi virtuali, incallendosi al gioco per un bel po’, dal momento che l’uno voleva sempre la rivincita sull’altro.

«Ho vinto, ho vinto, ho vinto!» esultò Aurora, beandosi di quella che Alessio aveva definito la fortuna del principiante.

«Veramente la prima partita era solo di prova, non devi contarla» discusse lui «Siamo pari».

«Shhh» lo zittì, scuotendo una mano.

Uscirono dal bar e girovagarono un po’ per il paese, ma erano capitati in un luogo totalmente insignificante, tanto che alla fine non trovarono niente di meglio che starsene sulle altalene del parco giochi.

Il medaglione di Mietta rimbalzava nella tasca di Alessio, ma ancora non aveva avuto il coraggio di dargliela.

«Ti scriverò» promise Aurora. «Ti lascerò tutte le mie lettere dietro un mattone del castello e le troverai tutte lì».

Alessio annuì e sorrise. A quel punto stava per tirare fuori la collana ma un fulmine sfregiò il cielo e un tuono agghiacciante annunciò l’arrivo di un diluvio.

« Presto!» le afferrò una mano e corsero via, in cerca di un riparo. Ma non furono abbastanza veloci né fortunati e in meno di cinque minuti si erano già ridotti come due pulcini. Aurora si lasciò andare in una risata e smise di cercare di coprirsi, volgendo il viso al cielo e prendendosi tutta la pioggia addosso.

«Scema, sei raffreddata» l’abbracciò come per coprirla Alessio. «Guarda che dalle tue parti non li hanno gli antibiotici» le sussurrò appoggiando le labbra al suo orecchio e provocandole un brivido lungo tutta la spina dorsale. In quel momento squillò la suoneria del cellulare di Aurora, sempre più invadente nei momenti peggiori; senza pensarci troppo o anche vedere da chi provenisse la chiamata premette il tasto rosso.

«Non mi interessa» rispose lei, ancora stretta nell’abbraccio del giubbino del ragazzo. Poteva vedere le goccioline di pioggia adagiate sulle ciglia di Alessio, vicina com’era. Lui le posò una mano sul viso, per spostarle i capelli ormai bagnati e poi le labbra sulle sue. Fu un bacio molto bagnato, titubante e con un gran scontro di nasi, fosse stato un bacio cinematografico avrebbe richiesto un secondo ciack. A volerlo tradurre in parole, nessuno dei due avrebbe saputo farlo, non erano ben certi di quello che stavano facendo, ma lo stavano facendo e non avrebbero voluto che finisse.

Si staccarono e rimasero immobili per un poco.

«Vorrei che ci fosse un altro modo…» mormorò Aurora, ma Alessio scosse la testa: non voleva rovinare quel momento. Le passò un braccio sulle spalle, come se potesse proteggerla da quel gran scrosciare impetuoso e incessante d’acqua, e si incamminarono di nuovo verso la stazione.

Presero due biglietti (questa volta non volevano correre il rischio di essere buttati fuori dal treno) e attesero su una panchina, ancora stretti per scongiurare il freddo. Il treno si fermò con un fischio e finalmente entrarono, prendendo posto sui sedili di velluto blu. Nella tasca dei pantaloni di Alessio pesava ancora il medaglione. Lo estrasse e lo allacciò al collo di Aurora, spiegandole cosa fosse.

Lei appoggiò il capo sulla spalla di Alessio e chiuse gli occhi, mentre lui le appoggiò un piccolissimo bacio sulla tempia e per quella sera smisero di parlare. In quel momento non sapevano se erano felici di trovarsi così vicini o afflitti per essere, al tempo stesso, destinati a rimanere così lontani. Alessio si sentiva a disagio nel bel mezzo di questi sentimenti e sotto lo sguardo fisso del viaggiatore seduto di fronte a loro, che li guardava con due occhi gialli da far paura.

 

 

 

*

 

 

 

Quando Alessio aprì la porta di casa, sua madre era già lì ad aspettarlo con la sua espressione più terribile.

«Dove sei stato?» lo assalì.

«Io – io ho fatto soltanto un giro…» cominciò ad accampare una spiegazione, trovandosi esageratamente a disagio.

«Non hai fatto una telefonata per avvisare! Non una!» lo rimbeccò. «Mi hai fatto stare in pensiero, ti rendi conto di che ore sono? Dio solo sa cosa sarebbe potuto succedere».

Alessio pensò bene che non fosse il caso di rispondere.

«Scordati qualsiasi uscita al di fuori della scuola, da domani!» asserì con decisione.

«Mamma, domani c’è la festa, è La Festa» reagì mentre il terrore si impadroniva di lui.

«Non mi interessa di nessuna festa» sua madre non accettò altre decisioni. «Se vuoi cenare c’è un toast».

Alessio non considerò di striscio il toast e si chiuse in camera sbattendo forte la porta. Era da non credere, essere trattato come un bambino!

Passò una diecina di minuti a maledire ogni cosa, finché non sentì bussare alla porta. Si alzò per aprire e trovò per terra il toast e un biglietto.

“Ti copro io, domani. Non abituarti, sarà la prima e l’ultima volta che lo faccio.”

Grazie al Cielo.

 

 

 

*

 

 

 

Sul cellulare trovò sei chiamate perse e provenivano tutte da Giada. Aurora inspirò a fondo prima di richiamarla e subirne le conseguenze, perché certamente l’avrebbe inondata di rimproveri per essere sparita nel giorno più importante nell’organizzazione dei preparativi per la festa. Non squillò neanche una volta che Giada fu pronta ad accettare la chiamata premendo il tasto verde con violenza, cosa che Aurora, da casa sua, di certo on poté vedere ma che intuì con la più assoluta certezza.

«Non tentare neanche di giustificarti» attaccò impetuosa Giada «Non sopporterei che mi dicessi una bugia né che mi dicessi la verità, perché so che in qualche modo c’entra quell’idiota che non devi neanche nominare in mia presenza».

Aurora emise soltanto un profondo sospiro e restò ad ascoltare.

«Ma ad ogni modo, non ho intenzione di infierire. Per quanto sarebbe stata gradita, la tua consulenza oggi non sarebbe stata fondamentale e ho predisposto ogni cosa perché nessun particolare sia tralasciato e volevo informarti di questo» riferì ostentando diplomazia nel suo tono di voce.

«Ok» mormorò in risposta Aurora, a cui non era esplicitamente stato dato il permesso di giustificarsi, più che altro perché gli eventi di quella giornata – l’evento di quella giornata - l’avevano messa in una condizione tale da non riuscire neanche a tentare di farlo.

«Tutto qui?» rispose Giada, sorpresa. In fondo ci prendeva gusto ad appiccare discussioni, probabilmente perché dopo riusciva quasi sempre a bearsi di aver ottenuto l’ultima parola. «Ah» sospirò profondamente, in modo esasperato, come se avesse intuito il punto focale della situazione. «L’ho detto, in un modo o nell’altro la colpa deve essere di quell’idiota. A casa mia tra mezz’ora: serata d’emergenza tra ragazze» risolse con il suo pragmatismo.

Aurora non ebbe il tempo di rifletterci sopra che già era diretta verso casa di Giada, ma a posteriori avrebbe potuto dire che era esattamente quello che ci voleva.

Definire casa Rinaldi semplicemente una “casa” era troppo riduttivo. Il posto dove viveva l’amica era una grande villa appartata da altre costruzioni, immersa in quello che più che un giardino sembrava un boschetto. Da fuori appariva enorme e bianca, mentre dentro pavimenti e mobilio che parevano usciti da palazzi reali ottocenteschi si accostavano con insolita armonia alle moderne apparecchiature tecnologiche più sofisticate. In camera di Giada c’erano, già in pigiama, Lena, Rita e Ludovica, che chiacchieravano e mangiavano salatini. Un enorme televisore era acceso e sintonizzato su MTV, dove trasmettevano la top10 della settimana. L’atmosfera era familiare, leggera e spensierata, come solo nella camera rosa e colma di cuscini di piume di una teenager poteva essere. Si divertirono e Aurora si scordò di pensare che quello era l’ultimo pigiama-party. Si fece tardi – o meglio, si fece mattina molto presto – e chiusero le luci per rintanarsi, ancora tra qualche commento divertente e qualche risata più o meno soffocata, nei caldi sacchi a pelo. Aurora rimase sdraiata nel suo giaciglio a guardare il soffitto nel buio pesto della stanza per diversi minuti o forse ore, poi, cercando di non fare il minimo rumore, si avvicinò alla finestra per guardare il cielo. Era una notte senza luna e stellatissima. Si sedette sul davanzale della finestra, che era piuttosto incavata e molto lunga e contemplò la Via Lattea giocherellando distrattamente con il medaglione che portava al collo.

«Anche tu non riesci a dormire?» sussurrò in modo lievissimo Lena.

Aurora le fece posto sul davanzale e scosse il capo.

«Certe volte penso che sia una tale perdita di tempo, dormire. Sai che passiamo quasi due terzi della nostra vita dormendo?» disse Lena. «Ma, d’altra parte, per lo meno è tempo impiegato in sogni» si corresse da sola, guardando l’altra faccia della medaglia.

«Che cos’è?» le chiese poi, alludendo al ciondolo che Aurora continuava a rigirarsi fra le dita.

«Oh, un vecchio monile di famiglia» rispose, mostrandoglielo meglio.

«Sembra uno stemma di quelle casate reali medievali» commentò Lena.

Aurora spalancò gli occhi e le si accese una lampadina in testa. Uno scudo blu e un drago rampante rosso: ricordò dove l’aveva visto.

«Ho bisogno di cercare una cosa su internet» disse con ansia. «È veramente importante» sottolineò in una supplica.

«Giada tiene il computer nello studio, ti mostro la strada» le venne incontro Lena, senza impicciarsi.

Poco prima dell’alba Aurora completò le sue ricerche e quello che inizialmente era solo un sospetto diventò una supposizione più che fondata da dati accertati. C’era un margine di possibilità che era semplicemente la sua speranza a far combaciare con un’estremamente curiosa coincidenza di dettagli i vari pezzi del puzzle e sapeva che la posta in gioco era troppo alta per correre un rischio del genere, ma la posta in gioco, se avesse rischiato e vinto, sarebbe stata ancora più alta.

 

 

 

Apologia dell’autrice: mi rivolgo a un pubblico fantasma perché credo che ormai non la segua più nessuno questa storia, ma tant’è… Non riesco a credere che stia per concludere, per la prima volta, un progetto “a lungo termine” come questo, ideato così tanto tempo fa e che, nel corso del tempo, è diventato una specie di contenitore di ogni fantasia che mi saltava in testa. Chiedo scusa se il risultato può sembrare assurdo e talvolta (anche a causa dei miei imperdonabili ritardi fra una pubblicazione e l’altra) sconnesso. Ma alla fine, questa è una fiaba, da cui non volevo ricavare chissà quale merito. Forse, solo, quello di averla raccontata fino alla fine – e per me è già un gran risultato. Che rimaniate fantasmi o meno, ringrazio tutti voi che avete seguito o anche solo sbirciato per sbaglio. Una vostra recensione (non per forza positiva) significa davvero TANTISSIMO per me. Al capitolo finale, il 12 Maggio (cascasse il mondo mi sono giurata il 12 Maggio!).

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Per sempre ***


CAPITOLO SEDICI

Per sempre

 

 

 

La sala più grande del Castello era decorata con grandi candelabri scintillanti, vasi pieni di fiori lilla e bianchi, tavoli con lunghe tovaglie che cadevano a terra, coprendo le gambe nella più solida tradizione vittoriana. C’erano orologi dorati e antichi di ogni dimensione, servizi da tè e porcellana dai colori tenui o con ricami a fiorellini, nastri messi a guarnizione in ogni angolo. L’aperitivo era stato organizzato con dei bigliettini “drink me”, scritti con calligrafia elegante, attaccati ai bicchieri, la musica era il brillante risultato del dj di coniugare, mixando a dovere o intervallandole, melodie di archi con la disco. L’atmosfera era estremamente elegante, ma nei colori e nei dettagli erano stati dati anche un tocco bizzarro e un tocco gotico. I ragazzi, man mano che arrivavano, non potevano che non rimanere stupefatti.

Sul volto di Giada, invece, c’era un’espressione completamente diversa: non era sorpresa, ma era soddisfatta e, guardandosi intorno, per lei era come vedere un figlio educato nel modo più opportuno e premuroso fare una bella figura davanti agli altri. Compiaciuta che tutto fosse al suo posto e soddisfatta di averne il merito, restava comunque all’erta, per paura che neanche a uno stuzzicadenti infilzato in un’oliva fosse permesso di rovinare l’estetica della festa. Non riusciva a stare ferma un attimo, andava avanti e indietro per la sala dall’alto dei suo tacchi dodici, rincorrendo sospetti che, fortunatamente, si rivelavano ogni volta infondati. Senza che se ne rendesse conto, gli altri si stavano godendo la festa molto più di lei. In pista c’era tantissima gente, anche Fabio, che alla fine aveva smesso di rincorrerla per chiederle un ballo e si era lanciato da solo nella mischia. Rita flirtava con il dj, Ludovica era esattamente al centro della pista con Lena, Olivia e Andrea erano insieme che ballavano senza preoccuparsi troppo degli altri. Quando arrivò Alessio (a piedi, perché era uscito di casa di nascosto), aguzzò la vista in cerca di qualcuno che conoscesse. In realtà cercava Aurora, ma l’importante era riuscire a nuotare in quel mare di gente. Fece un paio di giri, costretto a sgomitare un po’ per farsi largo, finché non andò a finire contro una persona.

«Deficiente!» esclamò Giada, a cui nell’uro era volato dalle mani il drink. Per fortuna era finito sul pavimento e non sul vestito, pensò Alessio, altrimenti avrebbe firmato da solo la sua condanna a morte.

«Scusa!» si affrettò a rispondere, con un’aria mortificata.

«Ah, lascia stare» esclamò stizzita Giada, accompagnandosi con un gesto della mano, come se volesse liberarsi di una mosca.

«M-mi dispiace» disse Alessio. «Per tutto» aggiunse in un soffio.

Giada lo guardò a lungo senza aprire bocca, soppesando quelle parole prima di pronunciare un giudizio. Erano sei anni che non lo guardava in faccia.

«Lascia stare» disse alla fine, in un tono paziente. «Aurora era vicino quelle poltroncine in fondo a destra due minuti fa» gli indicò poi.

«Grazie» le sorrise, allontanandosi di qualche passo. «Da qualche parte c’è anche chi stai cercando tu, vai e goditi la tua festa» le suggerì.

«Senti, non credere che adesso siamo tornati in confidenza e domani saremo a giocare a nascondino nel parco» lo riprese Giada, ma era ironica. Aveva deposto l’ascia di guerra e Alessio si sentì vagamente cretino, perché era bastato semplicemente chiedere scusa e in sei anni lo aveva capito solo allora.

«Certo» la tranquillizzò, con un mezzo sorriso divertito. «E comunque hai vinto tu: il Castello non l’hai attraversato, me te lo sei letteralmente preso» le rammentò, allargando le braccia per indicare quelle che un tempo erano delle rovine e ora era il locale che apparteneva alla sua famiglia.

«Ho avuto paura» confessò improvvisamente. «Sapevo che non c’era nessuna strega, ma poi ho visto – sarà stata la suggestione – due terribili occhi gialli, sono scappata correndo a più non posso, terrorizzata, e mi sono storta una caviglia».

«Sono stato proprio un…» cominciò Alessio.

«Deficiente, sì» concluse Giada con leggerezza, senza alcuna traccia di rimprovero o di risentimento nella voce, e si allontanò.

Alessio stava per raggiungere Aurora, quando un lampo improvviso che balenò nella sua mente lo arrestò sul posto. La strega! Gli occhi gialli che Giada, ora, credeva di aver soltanto immaginato anni prima erano quelli di Carabosse, che teneva d’occhio la principessa Aurora. Immediatamente pensò allo sguardo terribile del passeggero sul treno seduto di fronte a loro il giorno precedente e a tutte le altre volte che avrebbe potuto osservarla di nascosto, assumendo aspetti sempre diversi e insospettabili, per registrare ogni suo movimento. Erano stati degli sciocchi a pensare di poter spezzare la maledizione senza vedersela con la fata che l’aveva scagliata. Persino nel cartone animato della Disney non si ha nessun lieto fine prima che Malefica venga uccisa.

Carabosse, Alessio ci avrebbe scommesso qualsiasi cosa, quella sera si trovava di certo in quella sala. Insomma, nella fiaba toccava al principe risolversela con lei e quella volta il principe, in un certo senso, doveva essere lui. Per prima cosa, doveva trovare un paio di inquietanti occhi gialli, poi, cosa di certo non meno importante, aveva bisogno di un piano. Come ci si sbarazza di una fata? Ripensando a quello che aveva imparato dalla fata Mietta, deve essere una sua scelta, di diventare mortale e vivere e morire come una mortale. Gran bel guaio: non l’avrebbe di sicuro persuasa con un discorsetto cortese e garbato a tu per tu, sui vantaggi di essere una persona. I pensieri di Alessio viaggiavano a tutta velocità e il ragazzo si arrovellava per trovare una soluzione, quando pensò cartone animato. Meglio non sottovalutarlo, lo aveva appena appreso. Il principe Filippo trafiggeva una Malefica trasformata in drago, cioè una creatura mortale! Non c’era tempo da perdere, doveva agire.

 

 

*

 

 

Aurora guardò uno dei tanti orologi che si trovavano come decorazione nella sala. Erano le dodici meno venti. Emise un sospiro: l’unica vera ragione per cui era a quella festa, lottando titanicamente contro il sonno per restare sveglia, era Alessio. E lui ancora non si era visto per tutta la serata. Si sedette su una di quelle poltroncine imbottite, sfinita soprattutto dai tacchi, e appoggiò la testa allo schienale. Strinse in mano il medaglione che portava al collo, in cui aveva deposto tutte le porzioni di magia che aveva ricevuto da ognuna delle fate, con una stretta al cuore. Era la scelta più importante della sua vita e aveva paura, ma ormai non si sarebbe tirata indietro.

 

 

*

 

 

«Quando tornerà indietro il principe la salverà» disse Alessio a una ragazza dai capelli corvini, abbigliata, come tutte le ragazze della festa, con un vestito di nastri e pizzi. Solo i suoi occhi, ipnotizzanti e famelici, tradivano una natura del tutto diversa a quella che il suo aspetto giovane e fresco voleva mostrare. La ragazza sussultò, evidentemente impreparata ad essere scoperta e sorpresa dall’audacia di colui che la stava affrontando. Sorrise crudele.

«Oh, io credo invece che il suo principe troverà qualche piccolo contrattempo» rispose con estrema sicurezza.

«Potrai anche trasformarti in un drago per combatterlo, ma vincerà lui» continuò Alessio, senza lasciarsi intimorire. Il bene vince. Sempre.

La ragazza rise, sprezzante. «Un drago, eh?» fu compiaciuta dall’idea. «Non male come idea, nel ventunesimo secolo ne sapete pensare di scene epiche. Ma questo non è un film di Hollywood e non finirà con un per sempre felici e contenti».

Alessio rimase immobile mentre la ragazza si volatilizzò sotto i suoi occhi: aveva ottenuto lo scopo di metterle la pulce nell’orecchio e, se i suoi piani si fossero dimostrati esatti, Carabosse era appena tornata nell’undicesimo secolo per trasformarsi in un mostro alato.

Aveva fatto il massimo che potesse, sperava solo che nel frattempo Aurora non fosse già andata via e che avesse il tempo di salutarla, per l’ultima volta.

Fece un giro per la sala e la trovò accomodata su una poltroncina in un angolo. Quando si avvicinò, vedendola un peso gravissimo gli piombò sul cuore.

«Rory!» la chiamò, in prenda all’ansia. Lei non aprì gli occhi. Il suo corpo addormentato ancora lì poteva voler dire soltanto una cosa: aveva aspettato troppo prima tornare indietro e alla fine non ce l’aveva fatta, si era addormentata prima. E ora era tutto perduto per altri cento anni.

La prese ingenuamente per le spalle e la scosse, come se in questo modo potesse risvegliarla da quel sonno maledetto.

«Che c’è?» biascicò Aurora, sbadigliando mentre apriva gli occhi.

Alessio la guardò sbalordito. «Tu… non…» non riusciva ad articolare una frase. Ma Aurora non gli diede la possibilità di chiederle spiegazioni, né si apprestò a fornirgliene, si buttò addosso a lui e lo baciò quasi con violenza. Alessio ricambiò e la strinse, affondando una mano nei suoi capelli; fu come se niente al mondo importasse davvero in quel momento.

«Lo sapevo» sentenziò Aurora, sussurrandogli sulle labbra appena si separarono.

«Che cosa?» si incuriosì Alessio, con le orecchie che gli ronzavano. E non era per la musica altissima che impazzava nella sala.

«C’erano due clausole per rompere l’incantesimo: era necessario il bacio di un principe e al tempo stesso il bacio del vero amore. E ieri sono successe due cose. Primo, mi sono scordata persino il colore degli occhi di Filippo. Secondo, mi sono ricordata dove ho già visto questo disegno» spiegò, indicando lo stemma araldico sul medaglione. «È il simbolo dei Beynac, i principi del feudo contro cui abbiamo condotto una guerra nel 985. Ho fatto una ricerca e ho seguito la loro linea dinastica fino al 1904, quando nacque l’ultimo discendente, Luigi Monteluce di Beynac. Non si sposò né ebbe figli legittimi, ma alcuni particolari mi hanno fatto pensare che ebbe una storia clandestina con una giovane domestica, che partorì un bambino nel 1929. Ho dato credito a questa ipotesi e mi sono convinta che quel bambino fosse una bambina. A cui la madre affidò, poco prima di morire, l’unico dono prezioso che possedesse da parte di un padre che non poteva riconoscerla: questo medaglione» raccontò Aurora.

«Fammi capire, io sarei discendente da parte di mia nonna di questi principi?» domandò Alessio, facendo due più due.

«Sì» rispose sorridendo. «E credo che tu abbia spezzato la maledizione».

Se questo non era un finale alla Hollywood in cui tutti vivono per sempre felici e contenti!

«In tal caso, credo che Filippo si farà una bella lotta all’ultimo sangue con un drago senza trovare alcuna ricompensa» ironizzò il ragazzo. «E anche noi, ci siamo dati da fare per conquistare un potere che adesso non ci serve a niente»

«Oh, io un’idea l’avrei su come usarlo» disse invece Aurora. «Vorrei salvare un’altra Bella Addormentata».

Va bene, Aurora era pronta a vivere nel ventunesimo secolo: ecco che anche lei progettava qualche scena epica degna di un kolossal.

«Rory, credo che tu abbia visto un po’ troppi film americani: d’ora in poi solo del sano cinema polacco» sentenziò Alessio.

«Ma la prossima volta tocca a me decidere, è il contratto della nostra amicizia rispettare i turni!» controbatté la ragazza.

«Hmm… in realtà credevo che dopo tutto questo casino la nostra amicizia sarebbe diventato qualcos’altro».

Aurora sorrise e, prendendogli la mano, lo condusse al centro pista, per concedersi finalmente un ballo insieme. Più tardi avrebbero discusso della delineazione di un nuovo contratto. E, naturalmente, di come salvare la fiaba e il perfetto lieto fine.

 

 

*

 

 

Alla fine della festa, Giada era contenta si essere riuscita ad avere il suo ballo con Fabio e poi anche di aver raccolto per la causa della Casa del Castagno i soldi necessari per metterla in regola e salvarla.

In seguito, Aurora e Alessio videro un solo film polacco e poi furono d’accordo nell’abbandonare il genere. Aurora dovette abituarsi all’idea di vivere per sempre – o almeno fino alla fine del liceo – in un mondo in cui esiste la trigonometria e dovette studiare come una matta per recuperare il compito che aveva perso. Col tempo, si abituò a tutte le cose strane del ventunesimo secolo e, anche se non completò mai tutta la lista dei libri che avrebbe voluto leggere e i film che avrebbe voluto vedere, fece anche tante altre cose che non aveva mai progettato di fare.

Giada continuò a definire Alessio un “deficiente”, ma almeno lo insultava con molta più simpatia di prima. Anche se non lo ammise, erano tornati amici, con un tacito accordo.

Sara si svegliò dal coma. I medici dell’ospedale non sapevano come spiegare l’evento e diedero il merito a un miracolo. Solo Aurora e Alessio sapevano quale fosse la verità. Avevano deciso di impiegare la polvere di fata per dare una possibilità a quella moderna Bella Addormentata, a cui il destino non si era curato di dare un contro incantesimo.

Per quanto riguarda Filippo, fu contento di non dover sposare nessuno, almeno per il momento, poiché non era pronto. Un matrimonio a palazzo comunque ci fu: alla fine la dama di compagnia Maria e Marc convolarono a nozze.

Marta presto imparò a contare fino a novantanove e c’erano ottime possibilità che avrebbe compreso quanto prima che si poteva andare avanti fino all’infinito.

L’estate successiva Aurora e Alessio fecero una gita in montagna e videro volare una pernice bianca: a loro piacque pensare che fosse il loro Dixan, anche se era quasi improbabile la coincidenza che lo fosse davvero.

È vero, ci furono giornate no, delusioni, strappi muscolari, brutti voti, figuracce, punizioni, fraintendimenti e lacrime. Ma, tutto sommato, possiamo dire che alla fine vissero tutti per sempre felici e contenti.

 

 

Grazie: grazie a chi ha seguito fino alla fine e anche a chi ha sopportato solo fino a metà, grazie a tutti per avermi accompagnata in quest’avventura di cui sono super contenta di essere riuscita (anche se ho corso contro il tempo questo pomeriggio per scrivere) a mostrarvi la fine. Ebbene, è proprio la fine. Spero che non vi deluda, non vi confonda, non vi risulti affrettata; in ogni caso, fatemi sapere. Sarò sempre dietro questo computer a scrivere, per cui, se vorrete, a presto!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=356237