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C’era una volta, in un tempo lontano in cui la magia esisteva poiché
nessuno avrebbe potuto scioccamente dimostrare il contrar
PROLOGO
C’era
una volta…
C’era una volta, in un’era che scorreva a
rallentatore dando il tempo di godere di ogni singolo attimo e di credere alle
fiabe, un piccolo reame incantato in cui il cielo limpido, i boschi rigogliosi, la serenità
della vita quotidiana e la perfetta armonia della gente sembravano frutto di un
mirabile incantesimo. Artefice però dell’idilliaca atmosfera che si respirava lì era
quasi del tutto la natura, benchéa quel tempo ci fossero anche sette fate che
svolazzavano in giro benevolmente per compiere opere che addolcivano sempre più
l’esistenza di quel luogo, regalando ogni tanto una primula in autunno o una
stella cadente inaspettata.
Questo
è il dove eil
quando si svolge la nostra vicenda, ma siccome mi vorrei ben guardare dal
riserbarmi le vostre antipatie mostrandomi sin da subito un narratore poco
attento ai dettagli, specificherò che ci troviamo proprio nel X secolo e
proprio in un piccolo feudo situato nella zona meridionale dell’Impero. A
guardarlo dall’alto della rocca su cui era collocato il castello, c’era la
nobile famiglia che lì risiedeva eche governava con saggezza e giudizio. Quella posizione
riusciva ad offrire loro tutto ciò che potevano desiderare e anche più, meno che
una cosa, quella che da anni bramavano ardentemente più di ogni altra: un
erede. Né ricchezze né magia poterono aiutarli nell’ottenerlo, maquando ogni speranza si
era ridotta tanto da essere tutte quasi svanite, la fortuna volle donare loro
una splendida bimba. Ad ella fu dato il nome di Aurora poiché venne alla luce
assieme al sole, ma sembrava splendere molto più di questo.
Il
giorno dopo, il primo giorno di un nuovo anno e anche quello di una nuova vita,
fu organizzata una grande festa per celebrare il battesimo della bimba, a cui
furono invitati tutti i nobiluomini e le loro signore del regno ed anche di
quelli vicini. Eccezionalmente, alle fate Candida, Fleur,
Mietta, Chantal, Violante e
Lilac fu chiesto di fare da madrine alla piccola
Aurora. I festeggiamenti furono magnifici, con musiche edun sontuoso banchetto.
C’è chi ricorda, persino, che alle fate furono messi a disposizione per
mangiare una forchetta, un coltello, un cucchiaio e un piatto d’oro ciascuna. E
queste, per contraccambiare, porsero ognuna un dono speciale alla bambina.
Candida volle donarle la bellezza, e con un incantesimo fece sì che sarebbe
cresciuta con un viso etereo incorniciato da lunghi e fluenti capelli dorati e
illuminato da profondi e limpidi occhi turchesi. Quando fu la volta di Fleur, questa recitò delle parole che le avrebbero invece
donato la capacità di ballare perfettamente e così i suoi movimenti sarebbero
sempre stati pervasi da grazia e agilità. Mietta le
diede abilità manuali ed in particolare quella di suonare ogni tipo di
strumento. Chantal le offrì una voce armoniosa e
dolce che l’avrebbe resa piacevole da ascoltare e le avrebbe permesso di
cantare divinamente. Violante desiderò che la bimba, crescendo, sviluppasse
singolari doti intellettive:intuito
e logica. Lilac si avvicinò alla bimba piuttosto
indecisa sul da farsi, ma non appena prese fiato per annunciare il suo volere,
un’inattesa comparsa le negò la possibilità di rendere la fanciulla
semplicemente felice. La visita indesiderata in questione, che provocò un
notevole scompiglio nella folla spaurita soltanto dalla sua inquietante figura,
era da parte della fata Carabosse. Ormai tutti
avevano preso a chiamarla strega, poiché stava da sola su di una rocca remota a
far cose demoniache. E se il raccolto era scarso, o si diffondeva una malattia,
o persistevano bufere, era per colpa dell’insano piacere di quella donna per le
sventure altrui. Avvolta nel suo mantello nero, sporgeva soltanto il viso
esangue composto in un’espressione superba ma al tempo stesso offesa. Spiegò ai
presenti con voce tonante dell’oltraggio subito con quel mancato invito ad un
così importante avvenimento, e di conseguenza la sua legittima volontà diuna vendetta. Anch’ella
avrebbe fatto un dono alla piccola, ma precisamente questo sarebbe stato la
morte al suo sedicesimo compleanno a causa della puntura con il fuso di un
arcolaio. Espresso ciò, sparì, lasciando sgomento e terrorizzato il pubblico e
abbandonando la neonata ignara ad un futuro tragicamente segnato. I genitori
non poterono rassegnarsi al dover guardare come spettatori questa tragedia e
pregarono Lilac, la quale ancora doveva porgere il
suo dono alla piccola, di risolverla. La fata, però, non era purtroppo in grado
di annullare un sortilegio di tale potenza, maguardando gli occhi azzurri e
limpidi e innocenti della bimba, decise comunque di provare a fare qualcosa. Le
si avvicinò e, concentrata, proferì le seguenti parole: “Al suo sedicesimo compleanno, la fanciulla si pungerà, ma non sarà la morte ad accoglierla. Ella cadrà in un sonno profondo per cento anni, ma il bacio del vero amore di un principe senza macchia e senza paura la sveglierà per sempre”.
Nel
castello del parco abitava una strega malvagia e orribile con i suoi ratti
giganti. Lo sapevano tutti i bambini.
La
mamma e il papà di Alessio, come la mamma e il papà di Giada, lo avevano
insegnato bene ai loro bambini, per tenerli lontani da quelle rovine
abbandonate e pericolanti. Ma Giada ormai aveva dieci anni e lo aveva capito,
che le streghe non esistevano.
«Facciamo
che io ero il capitano dei pirati e tu il marinaio e affrontavamo una tempesta
e poi trovavamo il tesoro!» propose entusiasta Alessio alla sua migliore amica.
«No!
Perché il capitano devi essere tu?» contraddisse accigliata la bambina.
«Perché
io sono un maschio» rispose convintissimo della sua tesi.
«E
allora? Io sono più alta!» sfidò lei.
«Non
è vero» si innervosì l’amico, anche se era vero.
«Sì
che è vero!» confermò.
«Ma
io sono più forte» non mollò.
«Ma
per piacere! Tu credi ancora alla strega» lo derise con superiorità.
«Io
non ci credo» decise all’istante Alessio «Anzi… non ho neanche paura di andare
nel castello. Facciamo che chi lo attraversa prima è il capo.»
Giada
non se lo aspettava, ma tanto non credeva alla strega. Così accettò.
Avevano
entrambi un po’ paura in realtà. Alessio si grattò il naso e Giada sistemò
meglio il cerchietto. Si scambiarono una velocissima occhiata e poi entrarono.
L’erba cresceva alta e incolta, ostacolandoli un po’, ma Giada era velocissima,
tanto che scomparve in quel labirinto di mura e Alessio la perse di vista in
breve tempo. Pensando di essere in netto svantaggio accelerò ma si ritrovò
spesso in vicoli ciechi. Ad un certo punto vide un corridoio che si apriva sul
parco: era l’uscita, ed era stato il primo a trovarla!
«Alessio!!»
sentì strillare la voce di Giada. Era molto, molto indietro, e voleva fargli
perdere tempo. «Alessio!!» continuava a gridare, per farlo retrocedere.
Il
bambino corse avanti, verso l’uscita. Era il capo.
Dopo
più di dieci minuti lo raggiunse l’amica, con un’espressione terribile. Non poteva fare così per aver perso,
pensò Alessio.
«Sono
il capo!» sottolineò fiero.
Giada
tratteneva le lacrime. Lei non piangeva mai. Si toccò piano la caviglia: era
gonfissima.
«Che
me ne importa!» gli urlò rossa in viso. «Ti ho chiamato cento volte, mi sono
fatta male e non riuscivo a camminare! Non mi hai sentito?»
Alessio
arrossì fino alla radice dei capelli, colpevole. Giada si girò dall’altra
parte, per piangere. Non lo guardò più in faccia finché la mamma non venne a
prenderla.
Non
lo guardò più in faccia per altri sei anni.
*
Giada
Rinaldo stava organizzando la festa del secolo. Avrebbe invitato un mare di
gente, e l’ultima persona che avrebbe scelto di includere tra gli ospiti della serata era
Alessio.
Suo
padre aveva comprato i resti di quel castello nel parco e l’aveva fatto
ristrutturare: era diventato un locale splendido. Non esisteva posto più
esclusivo per la regina della scuola dove, ancora prima dell’inaugurazione, potesse
organizzare il veglione di capodanno con tutti i suoi amici.
«Lena!
Lena, muoviti!» si rivolse ad una ragazzina bassa dalla capigliatura riccissima che distribuiva foglietti a dei ragazzi nel
corridoio all’uscita di scuola. «Dobbiamo ancora consegnare gli inviti a quelli
della Quarta B». Lena corse da lei con un po’ di fiatone e si indirizzò a
recapitare gli ultimi bigliettini.
Un
clacson sembrò echeggiare autorevole proprio in richiamo della loro attenzione.
«Dai, Lena, muoviti!» esortò Giada alla vista di una signora Rinaldo un po’
spazientita che tamburellava le dita sullo sterzo.
«Sì,
fatto» pronunciò appena quello scricciolo che l’amica la trascinò per il polso
verso l’auto.
«Buongiorno!»
salutò affabile l’una, e «Eh!» mugugnò l’altra.
«Ciao,
Maddalena! Resti a pranzo da noi, vero?» Ricevette un cenno d’assenso. «Ciao,
eh, Giada!» provò poi a sottolineare.
«Guarda
che non c’era bisogno di suonare tanto…» ribatté in una smorfia «Comunque,
Lena, tu che ti metti?»
«Ho
deciso finalmente, mi vesto da fenice, ho comprato un vestito rosso stupendo,
in realtà mi va un po’ lungo ma poi vedo come aggiustarlo…»
«Ma
c’è Alessio là!» interruppe la madre di Giada «Mi sa che ha perso il pullman»
aggiunse accostando l’auto al marciapiede.
«Alessio,
qualcosa non va?»
«No,
niente, ho fatto tardi e il pullman era già partito, vado a piedi però»
«Ma
che dici! Vieni dentro che ti accompagno!»
Giada
era proprio scocciata. Quel deficiente ci mancava. Ma non poteva lasciarlo là?
«Davvero,
grazie, ma…» cercò di rifiutare il ragazzo, ma si ritrovò seduto sul sedile
posteriore accanto a Lena, a spiegare come il professore di Arte lo avesse
trattenuto per raccontargli del suo allevamento di fagiani senza dargli la
possibilità di andare.
«Ma
quello è tutto pazzo» si unì allegramente Lena «L’altra volta mi ha messo sette
all’interrogazione, io ho detto ok, e
lui devi ribattere!, devi dire che hai
studiato tanto e meriti otto! Però poi io devo dirti che non mi hai detto a chi
si è ispirato Botticelli nella “Calunnia” e tu devi rispondere che Apelle il libro non l’ha mai nominato, così io alla fine ti
accontento e ti metto otto. Alla fine l’ho accontentato e mi ha messo otto»
Tutti
si sono messi a ridere, tranne Giada, che era ancora più scocciata.
«Ci
vai anche tu alla festa di Capodanno, sì?» chiese la signora.
«No,
io non…»
«Non
gli abbiamo dato l’invito! Aspetta un attimo che te ne prendo uno nello zaino»
intervenne Lena che non si accorse dello sguardo ormai sull’orlo del
terrificato di Giada.
La
madre fermò la macchina di fronte un palazzo e mise il freno a mano.
«Fatti
vedere, ogni tanto. Sei sparito!» sorrise ad Alessio che riceveva il suo invito
e apriva lo sportello. Lui gli sorrise imbarazzato e scese.
«Grazie
mille»
«E
di cosa?»
Grazie mille,
pensò alterata Giada. Quel deficiente ci mancava!
*
Era
rimasto indeciso sull’andare alla festa fino al pomeriggio del trentun
dicembre. Ci sarebbe stata un sacco di gente che si sentiva una rampa di scale
sopra di lui. Però ci sarebbero stati anche gli imbucati con le birre e la
musica ad alto volume. Le possibilità erano due per cominciare il nuovo
millennio: nella completa vergogna o nel completo sballo.
Se
ne stava appollaiato sul letto con le cuffie sulle orecchie a consumare le
ultime ore di un’era, quando qualcuno spalancò la porta.
«Non
ti prepari?» disse sua nonna. Lei si impicciava davvero di tutto, ma il suo
fare era ben più elegante di quelle attempate pettegole di quartiere. Aveva un
intuito infallibile, oltre che una capacità di persuasione che avrebbe piegato
chiunque al suo volere senza che questi se ne fosse accorto. Era una di quelle
donne di diamante. Un nipote adolescente, però, avrebbe tagliato corto con un
“è una ficcanaso”.
«Per
cosa, scusa?» si finse sorpreso Alessio.
«Non
vorrai farmi credere che passerai il capodanno con me, il nonno e i tuoi
vecchissimi genitori» insinuò puntando gli occhi sull’invito poggiato sul
comodino.
«Non
so se ci vado là» scrollò le spalle.
«E
perché?»
«Perché
non ho un costume»
«E
cosa credi che conservo nei miei tre armadi?»
*
Il
regno era stato ereditato da un cugino della regina, che aveva governato da
molto lontano quel piccolo luogo che perdeva splendore a mano a mano che il
castello, disabitato, si copriva di erbacce.
Quando
la fata Lilac tornò, cento anni dopo, era cresciuta una foresta di rovi intorno
all’edificio. Volò sopra di essi ed entrò per una finestra, poi scese nei
sotterranei dove la sua piccola Aurora dormiva ancora, bellissima. Il procedere
del tempo e il degradarsi della materia non l’avevano neanche sfiorata. Era
ancora una meravigliosa bambina dai boccoli dorati, la pelle di porcellana con
due gemme celesti nascoste da un velo di sonno. Di lì a poco, sarebbe stata una
donna.
Non
dovette aspettare molto che sentì il nitrito di un cavallo. Un principe
impavido, col suo destriero, avanzava tra i rovi facendosi largo con la spada.
Era bello e fiero, con i suoi capelli color grano e gli occhi blu come gli
oceani più profondi. Lilac si vestì di un chiaro bagliore e, sotto forma di
luce, attrasse il giovane verso la principessa. Quando lui la vide, pensò che
fosse una stella caduta dal cielo. Si chinò su di lei e appoggiò le labbra su
quelle rosee di lei. Gli si rivelarono due mari scintillanti.
Le
nozze furono celebrate, per volere del principe, quel giorno stesso.
Ma
appena Aurora si posò sul suo nuovo letto di sposa, inebriata dalla giornata,
si addormentò come se non si fosse affatto stancata per averlo fatto da cento
anni. Il principe, temendo che col solo respiro potesse ferirla, non osò
toccare la sua piccola stella.
Non
poté farlo mai, in tutta la sua vita, perché la stella non si svegliò più.
Stette lì, per giorni, su quel letto. Lui la guardava continuamente, con gli
occhi della disperazione. Finché non prese nuovamente moglie e non la andò a
trovare che poche altre volte. Lei stette lì per anni, accanto al procedere
della vecchiaia dell’uomo. Un giorno, quando i suoi capelli del color del grano
erano ormai inceneriti dal tempo, la prese in braccio, e la riportò indietro.
Lilac
assistette, cento anni dopo, alla stessa vicenda. Un altro cavaliere, sempre
bello, con un’armatura ancora più possente, prese con sé la sua rosa. Ma lei si
addormentò anche davanti a lui.
Cento
anni dopo, un altro nobiluomo, bellissimo, fu guidato dalla fata verso la
principessa. Amò la sua perla per un giorno, poi lei tornò a dormire.
Cento
anni dopo un certo giovanotto aristocratico aveva svegliato la sua dea. Aveva
vissuto il paradiso per un giorno e poi lei era andata via. Tutti si erano
meravigliati a sentire questa storia.
Cento
anni dopo ancora, si erano diffuse certe leggende. Le leggende finivano con un
“per sempre felici e contenti”. Aurora riposò per altri cento e cento e cento
anni, perché di principi pronti ad affrontare i rovi per una principessa e a
lasciarla andare per un sortilegio incomprensibile non ce ne furono più.
*
Non
ci sperava quasi più, la fata Lilac. Una sera - una gelida sera -vide però entrare un principe nel castello.
Non l’aveva quasi riconosciuto più, qualcuno se n’era preso cura ed era tornato
magnifico. Il principe era carino, a cavallo di una moto. All’entrata consegnò
un foglietto a un guardiano. Dentro, era scoppiato l’inferno. Le luci
tiranneggiavano calde sulla quiete delle notte e la musica ruggiva selvaggia.
Migliaia di creature bizzarre si rantolavano come in preda alle convulsioni.
Scuotevano le chiome e agitavano gli arti furiosamente. Provò a cercare il
principe, ma era sparito nella folla di streghe, dame, giovanotti fluorescenti
e inquietanti figure scure.
Il
passaggio per i sotterranei era stato murato. Lilac fece dissolvere quel
cemento nel nulla e volò da Aurora. Era ancora lì, in pace, la principessa.
Fermò
il motorino nel parcheggio del locale e sfilò il casco per sostituirlo con
l’elmetto da pilota. Si sistemò anche gli occhiali gialli che la nonna gli
aveva scovato dall’armadio assieme a tutta la divisa militare del nonno. Non
avrebbe dovuto rovinarla per nulla al mondo. All’entrata c’era un buttafuori
ciccione che aspettava il biglietto. Dentro, c’era già tantissima gente. La
maggior parte si scatenava in mezzo alla pista sincronizzando i propri
movimenti con il ritmo martellante della musica. L’impianto stereo era qualcosa
di fenomenale, roba da distruggere i timpani in un attimo. Si avvicinò al
buffet per rubare due patatine e studiare un po’ tutti, a caccia di qualcuno
che conoscesse. C’era Giada in un pomposo costume veneziano che attirava l’attenzione
di tutti, Lena avvolta da un vestito rosso brillante fin troppo lungo che
inciampava continuamente, e poi, ah!, c’erano Daniele e Luca della sua classe,
l’uno con un improbabile costume da insetto e l’altro da Super Mario. Si inserì
presto nella folla, piuttosto sicuro per via della maschera, e fece scivolare
via tutte le preoccupazioni da cui era stato assalito mandando in circolo
adrenalina: con ilprocedere della
serata si erano avvicinate a lui almeno tre ragazze. Non era per niente uno
sfigato, ma in genere passava benissimo inosservato. Era anche carino, a ben
guardarlo, con i suoi occhi all’insù, il mento sottile e i capelli scuri
confusi, ma nessuno si era mai preso la briga di tenerlo in considerazione,
nella gerarchia liceale, più di un banale studente di terza. Aveva bevuto una
sola birra, semplicemente per sete, quando l’atmosfera si fece un filino più
tesa per via di due tipi che, invece, erano andati giù pesante con le bevande.
Stavano cominciando a spingersi cadenzando gli ampi movimenti provocatori con
insulti sempre più forti, facendo evolvere in breve la situazione in una rissa
alquanto partecipata. Le voci di chi voleva placare la situazione si
mescolavano a quelle che alimentavano il fuoco in un unico calderone di grida
confuse da cui ogni tanto spiccava il suono secco dei pugni e dell’impatto a
terra dei colpiti. Alessio decise di allontanarsi prima di restare in qualche
modo coinvolto e scese le scale per respirare dell’aria meno viziata. Accanto
alla stanza dove venivano conservati i cappotti c’era un tunnel buio alla fine
del quale brillava qualcosa di indefinito e curioso che lo attirò proprio in
quella direzione. Annaspò quasi nel buio in quell’ambiente umido e
all’apparenza inospitale da secoli, quando, arrivato in un ambiente abbastanza
largo, scoprì sbattendoci con le gambe un grande oggetto del tutto simile a un
letto. Si sporse per testare quell’entità quando trattenne improvvisamente il
respiro con una nota di panico nel vedere una ragazza distesa lì sopra. Era
mascherata da principessa e risplendeva di reale anche immobile, adagiata in
quel momento e in quel luogo sconvenienti in maniera così composta. Alessio non
l’aveva mai vista a scuola, ne era sicuro perché l’avrebbe indubbiamente
notata. Pensò che fosse un’amica di Giada di un altro paese. Si era
addormentata prima delle undici e trenta, ignorando la festa del millennio. Le
posò una mano sulla spalla scuotendola delicatamente, perché forse era il caso
di svegliarla, ma ella non destò alcun segno di coscienza. La scrollò un po’
meno garbatamente, perché aveva il sonno più profondo che si potesse avere. Non
apriva gli occhi. Non sussultava. Non respirava.
Era
svenuta. Si era ubriacata prima delle undici e mezza ed era svenuta soavemente
in un sotterraneo, senza scomporre un boccolo. Ma per favore, le era mancata l’aria. Alessio cominciò ad agitarsi
di fronte a quella situazione inammissibile. Le afferrò violentemente le gambe
e le alzò in aria, ricordando che era necessario far arrivare il sangue al
cervello. Doveva chiamare un’ambulanza al più presto. Mollò le gambe e digitò
sul cellulare il numero. I soccorsi sarebbero arrivati al più presto, ma fu
sollecitato a provare con un massaggio cardiaco; dieci spinte e appoggiò
impacciato la sua bocca a quella di lei per soffiarle dentro dell’aria. Lei
aprì gli occhi. Turchesi e limpidi, senza che celassero l’ombra di un malessere
o di una confusione.
«Oh
mio Dio, stai bene?» si precipitò il ragazzo. Lei annuì e aggrottò poi le
sopracciglia con circospezione verso la piccola folla che si era radunata nella
stanza allo sfuggire della notizia. Una barella si fece largo in mezzo a questa
e caricò la ragazza senza che nessuno riuscisse a dare informazioni sulla sua
identità ai paramedici. Lei, attonita, non riusciva a rispondere ad una sola
domanda mentre veniva rapita sotto i suoi occhi sgomenti.
«Non
lasciarmi» pregò Alessio mentre la caricavano in ambulanza.
*
La
ragazza uscì dalla stanza dove le avevano fatto i controlli e raggiunse Alessio
in corridoio. Stettero in silenzio, perché fino ad allora si erano sfiancati ad
acconciare spiegazioni insoddisfacenti. Si sedettero su due sedie e accolsero
disarmati un medico, il quale li informava che clinicamente era tutto nella
norma, ma ammetteva anche che l’amnesia della ragazza destava una certa
preoccupazione. Non avrebbero potuto rilasciare una minorenne senza sapere a
chi consegnarla, quindi sarebbe restata in ospedale nei successivi due giorni.
«In
che secolo siamo?» disse d’un tratto, annoiata dalle pieghe del vestito.
Alessio
guardò l’orologio: erano quasi le due.
«Ventunesimo,
ormai»
«È
passato così tanto tempo!» si sorprese un po’.
Il
ragazzo si rese conto che era molto tardi, ma non si decideva ad alzarsi. Le
aveva chiesto di non lasciarla. «Non ti ricordi di nessuno della tua famiglia?»
«Non
esiste nessuno con il mio cognome, al giorno d’oggi. Neanche io esisto, secondo
le schede di quel signore»
«Come
ti chiami?»
«Aurora»
«Alessio»
Gli
sorrise amichevolmente e lui non poté fare a meno di ammettere che non era
stato proprio male, come inizio d’anno.
*
La
fata Lilac si presentò al medico dell’ospedale come la zia di Aurora e questi,
credendole sulla parola, lasciò andare la ragazza come se fosse ipnotizzato.
Quell’atteggiamento sembrò ad Alessio tanto bizzarro almeno quanto lo era
l’abbigliamento della donna. Portava un lungo e ampio vestito color glicine e
un mantello di velluto con cappuccio, risultando fin troppo eccentrica persino
per una festa in maschera, data la sua età. Uscita dall’ospedale tenendo
sottobraccio la ragazza, fermò un taxi con uno schiocco di dita e saltò su con
lei. Alessio, che non si ricordava di aver mai visto un taxi girare nel suo
paese negli ultimi sedici anni, montò sul motorino con un immenso bisogno di
dormire e cercò di abbandonare i suoi pensieri riguardo quella coppia
singolare. Doveva piuttosto preoccuparsi di come giustificare a sua madre il
suo ritorno a un orario così indecente.
«Lilac?»
sussurrò nell’auto Aurora rivolgendosi alla madrina «Ma che cosa sta
succedendo?» riuscì finalmente a chiedere.
«Bimba,
temo che non si usi più rapire una fanciulla e sposarla il giorno stesso senza
conoscerla. E nel cercare di conoscere una persona, si usa anche non credere a
chi afferma di provenire da un altro secolo. Andiamo a casa mia»
Sul
volto della ragazza si accese un’espressione di panico. Si sentì coscientemente
persa.
«E
ora cosa farò?»
«Penseremo
a una soluzione, non preoccuparti. Dormiamoci su»
«Voglio
augurarmi che sia uno scherzo: dormo da mille anni. Ti prego spiegami cosa sta
succedendo»
Lilac
si lasciò andare un sospiro. La sua piccola principessa avrebbe dovuto dormire solo per cento anni. Il suo incantesimo
l’aveva condannata a una non esistenza ben più lunga di quanto intendeva per la
sua salvezza. Il taxi si era fermato di fronte un appartamento di periferia.
«Scendiamo
e ragioneremo su tutto di fronte una bella tazza di cioccolata»
«Cos’è
cioccolata?»
«Ragioneremo
anche su questo» le sorrise la fata vedendola scendere goffamente da quella
macchina, inconcepibile per la sua mentalità, e guardare con stupore e terrore
la velocità con cui questa sfrecciò via sulla strada.
La
ragazza si lasciò guidare nell’ascensore senza fare una domanda, fiduciosa che
tutto avrebbe trovato un senso nella tazza di cioccolata. Una volta entrata in
casa, si sedette su un divano in camoscio assaporando il dolce calore
dell’ambiente interno. Il soffitto era basso, come nelle classiche stanze della
servitù, ma al centro di questo c’era una lanterna magica che doveva avere un
pregio inestimabile. Era d’oro e s’illuminava premendo un bottone sulla parete,
facendo una luce brillante.
Lilac
si sedette accanto a lei porgendole una tazza profumatissima. Aurora ne
sorseggiò il contenuto denso, valutando che fosse la cosa più buona che avesse
mai provato.
«Alla tua
nascita» esordì l’anziana donna «ognuna delle sei fate del regno fu invitata e
ognuna ti fece un dono. Prima che io potessi offrirti il mio, Carabosse – hai
mai sentito parlare della fata malvagia? -, offesa per non essere stata inclusa
fra gli ospiti, ti diede come dono una maledizione: al compimento dei sedici
anni avresti toccato un fuso e saresti morta»
La
ragazza seguiva il racconto con gli occhi sbarrati. La fata continuò a
raccontare di come avesse cercato di aggirare questo terribile sortilegio
donandole, al posto di un sonno di morte, un sonno di cento anni, da cui
sarebbe stata risvegliata dal bacio del vero amore. Suo padre aveva fatto
bruciare tutti gli arcolai del regno, ma la profezia si era adempiuta alla
perfezione. L’incantesimo benigno, invece, non aveva funzionato per come
avrebbe dovuto.
«Non
capisco il motivo per il quale il bacio ti svegliò, ma al tuo successivo
addormentarti non ti ridestasti più. Il vero amore avrebbe dovuto salvarti per
sempre, non per un solo giorno»
«Lilac!»
esclamò Aurora dopo una breve pausa «Quali furono le esatte parole del contro
incantesimo?»
«Fammi
ricordare… Oh, sì: “Al suo sedicesimo compleanno, la fanciulla si pungerà, ma non sarà la morte ad accoglierla. Ella cadrà in un sonno profondo per cento anni, ma il bacio del vero amore di un principe senza macchia e senza paura la sveglierà per sempre”. Come vedi mia cara, è esattamente come ti ho spiegato. Ripeto
che non capisco perché non abbia funzionato con precisione»
«Lilac,
devo aver capito. L’incantesimo ha funzionato in modo precisissimo. Un bacio mi
ha risvegliata, ma non è mai stato quello del vero amore poiché la maledizione
non è stata spezzata per sempre. Filippo non è potuto essere lì dopo cento
anni, solo lui avrebbe potuto salvarmi davvero»
«Cara,
temo che tu abbia ragione! Vorrei che ci fosse un modo…»
«Ci deve
essere: sei una fata, puoi tutto»
«Non
tutto purtroppo. Ci sono leggi della natura, come la morte e l’amore, che non
si possono violare in alcun modo. E il tempo è una di quelle leggi così rigide
che i miei poteri non riescono ad influenzare. Ci vorrebbe tutta la magia di
noi fate!»
Negli
occhi di Aurora si accese il brillio di una fievole speranza. Avrebbe fatto di
tutto per cercare le altre cinque fate madrine e per riuscire ad ottenere da
loro un incantesimo. Posò sul tavolino la tazza ormai vuota chiedendo se fosse
potuta rimanere sveglia per il tempo necessario.
«Due mesi
al massimo. I miei poteri consentono fin qui»
«Sono
sufficienti» sorrise rincuorata.
Non
immaginava lontanamente, però, che due mesi probabilmente non erano affatto
sufficienti per imparare ad affrontare l’adolescenza nel ventunesimo secolo.
Le
strade del centro erano decorate con luci colorate e le vetrine dei negozi
scintillavano nel pungente freddo invernale. Si respiravano la tipica lieta
atmosfera natalizia e quella concitata dell’inizio dei saldi. Aurora strinse attorno
a sé il cappotto rosso che le aveva prestato Lilac, troppo abbondante per lei
ma indubbiamente caldo e morbido. Il giorno prima aveva ricevuto da parte della
sua madrina una preparazione condensata sugli usi e i costumi di una società
stranissima: aveva appreso di macchine volanti, radio e telefoni, di
repubbliche democratiche e di diritti, di Paesi oltre le colonne d’Ercole e di
uomini arrivati sulla luna, di pizza e di patatine fritte, di cinema e di moda.
Lilac pensò che, facendole vedere a ripetizione continua i videoclip di MTV,
non appena avesse smesso di rimanere atterrita, allora sarebbe stata pronta per
andare fuori. Quella mattina la ragazza si era ritrovata a canticchiare “Baby One More Time”, così ebbe il
permesso di uscire per comprare dei vestiti. Le macchine saettavano per le
strade rendendola tesissima nella sua passeggiata, ma non poteva fare a meno di
portare un sorriso smagliante sul viso alla vista di tanto colore e tanta
poesia in quel nuovo mondo. Passando accanto a un negozio si aprì di colpo una
porta di vetro. Fece un salto indietro per la sorpresa, ma poi interpretò
l’accaduto come un moderno invito ad entrare e attraversò la porta. C’erano
abiti d’ogni genere e avrebbe voluto provarli tutti.
«Ciao!»
si sentì dire da dietro. L’aveva salutata una ragazza della sua età dai capelli
color caramello fermati da un lucido nastro blu, con due occhi color nocciola e
il naso a punta.
«Eri
alla festa la sera scorsa, vero?»
«Sì,
ero venuta con Alessio» inventò sul momento sperando ardentemente che
quest’ultimo non avesse raccontato un’altra versione dei fatti.
«Ah!»
rise quella «Allora ti è andata bene se sei soltanto svenuta. Alessio può
nuocere gravemente alla salute di una ragazza. Comunque mi sembri troppo carina
per uscire con lui»
Aurora
non era certa se stesse scherzando oppure se stesse parlando seriamente, ma per
educazione le sorrise e si presentò.
«Io
sono Giada» le disse tendendole la mano. Aveva le unghia dipinte di viola, ma
Aurora non si distrasse e intuì subito che doveva stringergliela.
«Non
vorrai prendere quello?» chiese Giada indicando il vestito che l’altra teneva
in braccio.
«Non
va bene?» domandò dubbiosa cercando di capire da sé quale fosse il difetto in
quell’abito e come riuscire a non sbagliare gli acquisti.
«Ma
dai, è da vecchia! Vieni con me»
Aurora
la seguì cominciando a tessere la sua nuova storia. Raccontò di essersi
trasferita da poco più di una settimana in quel paese a causa del lavoro di sua
zia, con la quale viveva, e che frequentava il Liceo Classico (fu facile
scegliere perché era quello a cui era iscritta Giada e lei si limitò a
risponderle con un semplicissimo “anche io”). Alessio era il nipote di un’amica
della zia e l’aveva invitata alla festa cosicché potesse conoscere qualcuno del
paese. Pensò di essersela cavata molto bene con le sue spiegazioni e fu molto
grata a Giada per non aver insistito affatto sullo svenimento. Comprò due
jeans, un maglioncino panna, un altro rosso ciliegia e un vestito a fantasia
marrone e turchese indecentemente corto a suo giudizio, ma delizioso a detta
della sua amica. Si divertì tantissimo a fare la passerella con i tacchi,
cercando di mantenere l’equilibrio, e a farsi truccare con i tester della
profumeria.
«Allora
ci vediamo il 7» si salutarono alla fine.
Aurora
pensò che probabilmente doveva parlare a sua
zia dell’iscrizione a scuola. Avrebbe reso la copertura più solida perché
una sedicenne vista ogni giorno in giro avrebbe suscitato domande nella gente.
D’altra parte non era affatto male imparare qualcosa del mondo.
*
Chantal
Canary era seduta al magnifico pianoforte a coda nero
accanto ad una ragazzina con i codini i cui piedi arrivavano a stento ai
pedali. La maestra le ripeteva gentilmente le indicazioni da seguire, indicando
lo spartito e muovendole delicatamente la mano sinistra per correggerle la
posizione, senza curarsi dei due bambini che dietro di loro facevano un potente
frastuono con la batteria. I due l’avevano completamente smontata e ne avevano
disseminato i pezzi sul tappeto; uno si era pericolosamente seduto a gambe
divaricate sul tamburo più grande e lo percuoteva ripetutamente da un lato e
dall’altro, mentre l’altro saltellava in piedi sbattendo forte i piatti. Un
terzo bambino eseguiva il suo pezzo con il flauto traverso in maniera diligente
e con aria esperta. L’idea doveva essere quella di provare tutti insieme la
stessa melodia, ma il risultato era molto lontano da quello sperato. Chantal
impartiva lezioni di musica ai più piccoli senza chiedere in cambio alcun
compenso e, senza destabilizzare il mondo moderno con un grande impiego di
incantesimi, riusciva a regalare alla gente preziosi momenti di gioia. Il
salotto della sua casetta era adibito a scuola di musica e conteneva ogni tipo
di strumento, da eleganti corde a folkloristiche percussioni, e ognuno trovava
il suo posticino in quella stanza sovrabbondante di gingilli e disordinata, ma
calda e accogliente. In quel caos di suoni riuscì a percepire quello del
campanello e volò alla porta. Vi entrò una bella ragazza bionda che le
ricordava tanto qualcuno, ma che non riusciva ad individuare chi fosse.
«Chantal,
sono Aurora»
Poteva
essere quella Aurora? La piccola principessa?
Si
accomodarono nella cucina, ma musica dei bambini continuava a sentirsi ancora
forte nonostante la porta chiusa. La ragazza cominciò a ricapitolare
velocemente tutto ciò che le era accaduto e la donna ascoltava attentamente
senza mai interromperla. Stava seduta sulla punta della sedia curvando
leggermente le spalle minute sulle quali ricadevano le ciocche argentate di una
coda di cavallo scomposta. Aveva le mani appoggiate sul tavolo le cui lunghe
dita a tratti si tormentavano a vicenda, altre volte giocherellavano con un
anello. Le sopracciglia erano inarcate in un’espressione nervosa e le labbra
serrate mentre seguiva il discorso di Aurora facendo convinti assensi con il
capo.
«Esiste
qualcosa che una semplice ragazza può fare per una fata?» chiese infine la
giovane, sperando che Chantal potesse indicarle qualcosa per cui riuscisse a
meritare un incantesimo. Sapeva che aveva già ricevuto un dono speciale da
ognuna delle sue madrine e che non poteva esigere che la realtà fosse alterata
gratuitamente per lei. Si rendeva conto che la sua era una richiesta difficile
da accontentare, perché avrebbe potuto cambiare lo svolgersi degli avvenimenti
futuri. Il suo matrimonio con Filippo avrebbe potuto modificare le sorti del
regno e del casato; se avesse rivelato qualche invenzione o scoperta del futuro
avrebbe potuto, allo stesso modo, migliorare le condizioni del suo tempo ma
stravolgere il corso della storia con chissà quali esiti. Durante la
lunghissima notte in bianco precedente, dopo aver visto per qualche ora la tv e
aver letto un libro finché non le bruciarono gli occhi, si era accoccolata sul
divano a riflettere proprio su questi problemi. Più procedevano oltre, più i
suoi pensieri davano possibilità di esistenza a varie eventuali realtà
parallele in cui il tempo aveva fluito in modo diverso, e così il ragionamento
sfociava in vicoli ciechi, tanto che la mente di Aurora rischiava di collassare
in un buco nero così come l’idea stessa del tempo. Comprendeva che giocare con
una così inesorabile legge della natura e un così fondamentale punto di
riferimento era altamente rischioso, ma era disposta ad affrontare qualsiasi
cosa pur di equiparare, con una sua azione, il grande valore dell’incantesimo
di cui aveva bisogno. Continuava a mordersi il labbro mentre la fata pensava
alla risposta da darle, finché questa disse: «Un uovo di pernice bianca . Se
riuscirai a portarmelo, avrai la tua ricompensa».
Aurora
sorrise felicissima e balzò su dalla sedia, ringraziando la donna e
promettendole che ci sarebbe riuscita.
*
Tornò
alla fermata dell’autobus e tirò fuori dalla borsa una piantina del paese su
cui Lilac aveva segnato le abitazioni delle fate. Fece una croce sulla casa di
Chantal. Fuori uno. Decise che prima di arrivare a casa si sarebbe fermata in
libreria per cercare un volume che trattasse di uccelli e che potesse
informarla, in particolare, sulle pernici. Quando il mezzo aprì le porte
davanti a lei, questo era quasi vuoto e la ragazza si accomodò su uno dei tanti
sedili disponibili. Sulla sua stessa fila ma al di là del corridoio centrale
c’era un ragazzo intento a giocare con un game-boy che ogni tanto la guardava
di sottecchi, con due strani e inquietanti occhi gialli, mentre lei osservava fuori dal finestrino il marciapiede poco
affollato e cominciava ad imparare le vie del paese. C’era un’aria nevosa e il
cielo era grigio. Dopo tre fermate scese a due passi da una libreria che aveva
individuato già durante il tragitto verso casa di Chantal. All’interno i libri
erano accuratamente suddivisi in settori in base al genere e disposti sugli
scaffali in ordine alfabetico in base al cognome dell’autore. Indugiò un po’
troppo sulla narrativa, scoprendo tanti titoli allettanti, e si fermò a leggere
il retro copertina di tutti i grandi classici che non poteva pretendere di
trovare nella relativamente piccola biblioteca di Lilac. Alla fine lasciò
risolutamente ogni romanzo al suo posto e si spostò nel reparto dedicato alla
natura e agli animali. Sfilò delicatamente una ventina di testi prima di
scegliere quello che reputava il più adatto, poi si avviò con soddisfazione
verso la cassa tenendo fra le braccia un’enciclopedia interamente dedicata agli
uccelli. Posò il tomo sul bancone assieme ad una banconota e, aggiungendole
lentamente una ad una, delle monete. La cassiera le sorrise rivelandole che
ancora neanche lei si era abituata ad usare l’eurocon facilità, poi le porse il libro in una
bustina con lo scontrino.
Aspettò
che passasse nuovamente l’autobus e questa volta scese vicino la casa della sua
adorata Lilac, non vedendo l’ora di trovarsi davanti il pranzo che aveva
preparato.
Le previsioni meteo erano state
sfortunatamente precisissime e quella mattina stava fioccando ininterrottamente
da alcune ore senza dare segni di speranza in un miglioramento. Aurora aveva
preparato uno zainetto con il pranzo a sacco, una mappa e una bussola, un
binocolo, una lente d’ingrandimento, una macchina fotografica, una torcia,
delle bustine, garza e cerotti, un taccuino e la sua enciclopedia sugli uccelli
e se ne stava seduta con indosso la giacca a vento a guardare dalla finestra.
Aspettava di poter tranquillizzare Lilac che non c’era nulla di cui
preoccuparsi e che mai si era visto momento più favorevole ad un’escursione tra
i boschi. Più si ostinava ad osservarli, però, più quei maledetti fiocchi di
neve diventavano grossi e frequenti. Non voleva perdere un giorno per il
maltempo perché, come aveva letto sul libro, anche se le pernici non erano rare
ai piedi delle montagne tra cui sorgeva il suo paese, non era altrettanto
semplice avvistarne una se non dopo un lungo periodo di osservazione. Aveva
calcolato che poteva impiegare perfino una settimana prima di avere la fortuna
di imbattersi in quell’uccello, poiché non si sentiva sicura di montare una
tenda nei boschi, restando lì da sola tutta la notte. Le escursioni sarebbero
state di mezza giornata, finché non fosse calato il sole, decisione che fu
accolta con non poco sollievo da Lilac. Tutta questa cautela, d’altra parte,
rallentava molto i tempi con cui la ragazza avrebbe voluto procedere e un
intoppo del genere la preoccupava e irritava parecchio. Si lasciò scappare uno
sbuffo contrariato e si allontanò dalla finestra. Si erano fatte quasi le dieci
e il progetto era ormai in fumo. Era decisa, comunque, a ricavare qualcosa da
quella mattinata, così diede un’occhiata alla cartina del paese e decise che la
casa di Mietta, a sole quattro fermate di pullman, sarebbe stata la sua
prossima meta.
Si avvolse una lunga sciarpa di lana
attorno al collo cercando di coprire anche la bocca e il naso, s’infilò il
cappellino, tirò su la zip della giacca e uscì. Non c’era nessuno per le
strade. Arrivò in meno di dieci minuti e dopo una ventina di metri a piedi
suonò il campanello di una villetta rossa a due pieni con davanti un giardino
poco rigoglioso per via della stagione, ma nonostante ciò curato, e un alto
cancello in ferro.
«Mietta?» disse alla donna che venne
ad aprirla. La ricordava decisamente diversa.
«Sì?» rispose gentile quella. Aveva
il capelli corti, gli occhi castani vivaci e svegli e una lunga casacca color sabbia
con una collana etnica.
«Sono Aurora» continuò con la stessa
incertezza nella voce.
«Sì, cara, starai cercando mio
nipote. Entra, fa così freddo! Un attimo solo, te lo chiamo»
La ragazza entrò, spinta con
affabilità dall’anziana signora, anche se sospettò ancora più fortemente che
quella nonna che non l’aveva riconosciuta non fosse la fata che stava cercando.
Congelata e imbarazzata sfregò le mani l’una con l’altra e allentò la sciarpa.
Doveva venirle in mente all'istante una scusa credibile per l’equivoco.
«Alessio! È venuta una tua amica»
chiamò a voce alta.
Un ragazzo in jeans e con ancora
indosso la maglietta del pigiama, tutto spettinato, raggiunse Aurora
all’ingresso. Oh, pensò lei
riconoscendo quel viso, non sarà troppo
difficile spiegare la mia presenza qui.
«Ciao! Che ci fai qui?» le sorrise
un po’ confuso ma contento.
«Volevo solo ringraziarti. Ti ho
reso partecipe di una stravagante circostanza» non mentì del tutto, desiderando
davvero l’occasione per chiarirgli l’accaduto. Anche se non poteva rivelargli
la verità, doveva fornirgli una versione accettabile dei fatti.
«Figurati» si grattò dietro la nuca «Stai
bene ora?»
«Sì, grazie. Non è stato niente»
«Prendile il cappotto, e non farla
restare lì nell’atrio!» rimproverò la nonna dall’altra stanza.
«Sì, sì, certo» ascoltò il ragazzo
appoggiando la giacca sull’attaccapanni assieme alla sciarpa e il cappello e
facendo strada all’amica verso la cucina.
«Ti preparo un tè, mia cara?»
propose la nonna, cominciando ad aprire gli sportelli dei mobili mentre i
ragazzi si sistemavano sulle sedie attorno al tavolo.
«No, la ringrazio»
«Io una cioccolata, nonna. Ancora
non ho fatto colazione» chiese il nipote. Negli occhi della giovane si accese
un brillio.
«Anche Aurora vuole la cioccolata»
aggiunse Alessio.
«Se non le creo troppo disturbo»
accettò lei.
Mentre la donna stava ai fornelli,
si parlò di quanto freddo facesse fuori e di quanto le strade fossero già tutte
imbiancate dalla neve. Alessio sperava che la scuola restasse chiusa ancora un
po’ a causa del cattivo tempo. Dopo qualche minuto Mietta lasciò due tazze
fumanti davanti ai ragazzi e si spostò in salotto per guardare la tv, lasciando
che cambiassero argomento a loro piacere.
«Mi sono da poco trasferita qua»
attaccò Aurora «Hanno spostato mia zia sul lavoro. Io vivo con lei».
«Ho capito» disse soltanto lui.
«Potrei aver detto che sono venuta
con te alla festa» ammise con l’aria un po’ colpevole «Era l’unico nome che
conoscevo e non potevo ammettere davanti alla ragazza che ha dato la festa che
mi ero presentata senza invito!».
Alessio rise, prendendo in simpatia
quel miscuglio di ingenuità e risolutezza della ragazza. «Tutto apposto» la
rassicurò, «hai fatto bene». Poi, tornando serio, le chiese «Ah, quindi hai già
conosciuto Giada?»
La ragazza fece un cenno con la
testa. «C’è bisogno che ti avvisi sulla gente che conoscerai qui. Non vorrei
che frequentassi le persone sbagliate» suggerì semiserio. «Ad esempio Giada.
Non dovresti avere niente a che fare con lei».
«Perché? Mi è sembrata così amabile»
«Ha solo un sacco di vestiti» concesse
«In realtà è egoista, competitiva, arrogante, maligna e sprezzante. Immagino
tutto quello che ti ha detto su di me».
«Non ha detto proprio niente. Ha
soltanto alluso a una fine ben peggiore dello svenimento che una ragazza potrebbe
fare in tua compagnia e forse devo darle credito. Una ragazza potrebbe essere
denigrata con le accuse peggiori dalla tua lingua!».
«Fidati, la conosco da una vita»
confermò lui «Hai sicuramente bisogno di una guida turistica come me, si vede che da sola riusciresti a credere
amabile chiunque».
Così cominciò a descriverle tutti i
più folkloristici abitanti del paese e tutti i più tipici studenti del liceo.
C’era il barbone Geremia, un po’ pervertito ma innocuo; la professoressa Semenza,
che sembrava uscita da un romanzo ottocentesco; il professor Bino, che allevava
fagiani; un gatto rosso con la coda bruciacchiata che tutti chiamavano Lincoln;
la signora Simonetta, la pettegola più informata di una spia russa; Ottaviani,
detto Ottaviano Augusto, che un giorno sì e l’altro pure finiva dal preside per
qualche diavoleria; Lena, la “portaborse”di Giada; il Mostro dell’Ultima Aula,
che gorgheggiava da una stanza sempre chiusa a chiave; e ne ebbe da raccontare
fino all’ora di pranzo, quando la nonna Mietta decise che nevicava troppo forte
perché Aurora potesse mangiare altrove se non a casa loro.
*
A tavola si unì nonno Leonardo, che
fino ad allora aveva silenziosamente letto il giornale sulla poltrona del
soggiorno. Aveva i capelli bianchi leggermente scompigliati, un grande paio di
occhiali dalla montatura in osso e una statura eccezionalmente alta per la sua
età. Era tranquillo e pacato di carattere, dai modi galanti e un po’
all’antica, e aveva una eccellente memoria. Aveva trovato in Aurora la più piacevole
uditrice e spesso esordiva con “durante i miei verdi anni…” per raccontare
qualche aneddoto della sua gioventù, in particolare episodi della sua carriera
di pilota militare, che la ragazza ascoltava con vivo interesse. La nonna ogni
tanto gli lanciava qualche battuta ironica su quanto ricordasse meno gloriose
ed eroiche le sue gesta e così si aprivano dei comici battibecchi. Alla fine
nonno Leo concludeva ogni discussione esclamando «Mietta, ricorda che conservo
ancora il fucile!» e dopo una risata generale nonna Mietta scuoteva la testa e
prendeva la saggia decisione di introdurre nella conversazione su un argomento
più neutrale. Aurora non aveva mai avuto un nonno e una nonna, né aveva mai
avuto un momento di familiarità così intimo e piacevole con i suoi genitori.
Si venne a sapere cha ad Aurora
interessava molto la natura e che desiderava fare proprio un’escursione tra i
boschi.
«Alessio, tu sei stato uno scout!
Dovresti accompagnarla» intervenne prontamente la nonna.
«Ti prego…» mugolò il ragazzo, non
volendo ricordare l’estate più infame della sua vita. Era stato punto dalle
api, aveva toccato piante urticanti, aveva sofferto il freddo di notte, era
stato costretto ad avvicinarsi agli escrementi degli animali e aveva mangiato
malissimo.
«Hai anche conquistato quattro
spille! Devi rendere onore ai tuoi riconoscimenti scortando questa signorina»
insistette il nonno con solennità.
E infine si decise che appena il
tempo fosse stato clemente una passeggiata nel bosco non avrebbe fatto male a
nessuno. Aurora non poteva esserne più felice e non vedeva l’ora di
avventurarsi tra le montagne. Alessio avrebbe preferito portarla al cinema, ma non
si poteva dire che fosse del tutto scontento di avere quella gita in programma.
Lilac era piuttosto perplessa: non
riusciva a captare la presenza della vera
Mietta in nessun luogo. Probabilmente si era allontanata da quell’area, anche
se era molto insolito che una fata decidesse di vivere separata dal suo luogo
d’origine. Tutte le fate, infatti, pur avendo cambiato dimora secondo la moda
del secolo, erano rimaste approssimativamente nel medesimo posto, dal quale
traevano energia quasi questo rappresentasse un pezzo inseparabile del loro
spirito. Aveva promesso ad Aurora che si sarebbe impegnata a trovarla, in
qualsiasi luogo della terra risiedesse.
Le aveva promesso, poi, che avrebbe
completato l’iscrizione al liceo e che le avrebbe procurato i libri di testo.
La ragazza si sentiva estremamente
in debito con la sua fata madrina, che la stava ospitando e aiutando in ogni
modo possibile, così insistette molto affinché questa le suggerisse il modo con
cui sdebitarsi. Lilac, però, le assicurò che l’unica cosa che potesse fare per
lei era essere felice e stare nel mondo che le apparteneva.
Aurora stava studiando alcuni
argomenti di matematica, per non arrivare impreparata a scuola, mentre aveva
ormai perso le speranze che passasse Alessio. Quella mattina non nevicava
eppure lui non si era presentato per andare in montagna! L’orologio segnava le
dieci e trenta e la ragazza necessitava di una pausa dalle disequazioni, così
chiuse tutte le penne sparse sul tavolo nell’astuccio, richiuse libri e
quaderni ricomponendoli in una pila ordinata e raggiunse Lilac sul balcone. Cominciò
ad aiutarla a innaffiare i fiori che crescevano rigogliosi a dispetto del gelo
invernale e a potare le foglie secche. C’erano due lumache che strisciavano
lentissime sulla fredda ringhiera di ferro a cui erano agganciati i vasi. Le
loro antennine verde chiaro si muovevano in un rilassato ballo che teneva
segreta un’intesa tutta loro. Quella vista la allietò senza un particolare
motivo e rimase a fissarle per quasi un quarto d’ora, finché non sentì un
clacson dalla strada. Era Alessio. Aveva accostato la moto al marciapiede e le
faceva segno di scendere.
«Si è fatto tardi» evidenziò Aurora
una volta corsa giù.
«Mi sono svegliato adesso» alzò le
spalle e le rivolse un sorriso. Aurora scosse la testa, accordandogli un
sorriso un po’ meno sfavillante per risposta. «E poi fa comunque freddo»
aggiunse il ragazzo.
«Lasciamo stare, ma non trovare
scuse per domenica!» gli diede come ultimatum.
Lui si mise una mano sul cuore e
chiuse gli occhi giurando seriamente, o almeno fingendo di essere serio. «Dai,
salta su» le fece un cenno con la testa.
La ragazza era un po’ restia a
salire in groppa a quel coso. Gli
ricordò che doveva portare il casco ed era vietato salire in due sullo stesso
motorino, sorprendendosi di essere più informata sulle leggi stradali più di
quanto non fosse un ragazzo che era sempre cresciuto in quel mondo.
«Rory, ma sei stata educata in un
collegio svizzero? E muoviti!» insistette dandole il suo casco. Così cedette e
si sistemò con cautela nello spazio posteriore del sellino, indecisa sul dove
sistemare le mani. Fece per agganciarsi al giubbotto di Alessio ma poi preferì
tenersi saldamente al sedile.
Partirono piano e il vento veniva
contro di loro debolmente. Non era mortale.
«Allora, dove andiamo?» si informò
la ragazza.
«Ti piace pattinare?»
«Non ho mai provato» rispose
dubbiosa. Non aveva un’idea precisa di che pratica fosse e sperava che non si
rivelasse un’esperienza di cui pentirsi.
«Ti piacerà» decretò allegro.
Svoltò a un paio di incroci prima di
parcheggiare a bordo strada davanti ad un edificio basso e largo. Dentro, una
piccola entrata dal pavimento di legno precedeva un’ampissima pista ghiacciata che
occupava il resto del locale su cui alcune persone scivolavano con delle scarpe
particolari.
«Che numero?» chiese loro una ragazza
dai lunghissimi capelli tinti di mogano e un piercing al naso. Dietro di lei
c’era una parete piena di pattini raggruppati per misura. Ne diede un paio
numero quarantatré ad Alessio e un altro numero trentasei ad Aurora. Lei si
appoggio a una parete per infilare quelle scomode calzature e dopo un po’ di
fatica fu pronta per scendere in pista, camminando con una certa titubanza. Guardò
Alessio scivolare con sicurezza verso il centro mentre si teneva con accortezza
al bordo. Il ragazzo le si avvicinò per darle qualche istruzione e dopo pochi
minuti imparò a far strisciare le lame sulla superficie e a darsi il giusto
slancio. Anche se all’inizio era difficile e aveva paura di cadere o di urtare
le altre persone, pian piano si lasciò andare, finché non divenne abbastanza confidente
da trovare la sicurezza necessaria per seguire l’amico lontano dal bordo.
Questi la prese delicatamente per un polso, ma lei gli si appese al braccio in
cerca di un sostegno. Non passò troppo tempo che il timore fu vinto dalla voglia
di divertirsi e si staccò da lui, cominciando a guizzare velocemente. Si
rincorsero per un po’ sulla pista, fino a quando Aurora non andò oltre i suoi
limiti da principiante e, aggrappandosi ad Alessio per smettere di barcollare,
lo capovolse e finirono distesi sul pavimento gelido. Il viso di lei era rosso
per il freddo e la vergogna sotto quello di lui e restarono lì a ridere di
gusto l’uno sull’altro come due goffi salami intabarrati in voluminosi giubbini
imbottiti, senza preoccuparsi di ingombrare il centro della pista. Lui cercò
faticosamente di alzarsi e dopo due tentativi fu fortunato nel ritrovarsi in
piedi a tendere entrambe le braccia verso la ragazza, che cercava
disperatamente di mettersi anche lei in piedi. Restarono ancora mezz’ora a
volteggiare più cauti e più accostati ai bordi, poi il loro stomaco suggerì di
andare a caccia di pizza e uscirono dalla pista.
Si rintanarono in una pizzeria al
taglio dall’altro lato della strada in cui c’era uno splendido tepore e poche
persone sedute ai tavolini quadrati lungo una parete. Quest’ultima aveva appese
su di essa tante fotografie in bianco e nero che rendevano il locale un po’
fuori moda, ma dal fascino retrò molto accogliente per chi sapeva apprezzarne
la calda atmosfera. Aurora provò un trancio di Margherita tanto gustoso che
dovette ammettere che avrebbe rimpianto moltissimo ventunesimo secolo una volta
tornata nel Medioevo, se non altro per il cioccolato, il sugo, le patatine e
tutti i deliziosi alimenti importati dal Nuovo Mondo.
«Vi facevano digiunare in collegio?»
scherzò Alessio fissando stupito il piatto già vuoto della ragazza «Sembra che
tu non abbia mai assaggiato una pizza!». Aurora non aveva ancora capito la
storia del collegio, ma rise sinceramente dietro l’altro divertita dalla sua espressione
curiosa. Tante volte aveva avuto delle conversazioni confidenziali con la sua
dama di compagnia Maria e tante volte nei loro sguardi si era celato un
rapporto di simpatia, ma nessuno aveva mai saputo metterla di buon umore
soltanto con un sorriso sottile, appena tirato da un lato. Tanti cavalieri
avevano conquistato la sua fiducia con la loro nobiltà, ma lui c’era riuscito
senza fare niente. Solo Filippo prima d’ora l’aveva fatta stare così bene, ma
era diverso: quella era una sensazione ovattata e pizzicante. Con Alessio
sentiva di non dover seguire delle regole e non doversi sforzare di essere una
principessa. Poteva rilassarsi. Era bello sentirsi un’adolescente ed era
meraviglioso avere un vero amico.
*
La campanella della ricreazione
suonò prima che la professoressa di Latino potesse dire un’altra sola parola
sul periodo ipotetico. La classe si riversò fuori dalla porta interrompendola
nel bel mezzo del discorso, già irrequieta dopo sole tre ore di costrizione fra
i banchi. Il ritorno dalle vacanze produce sempre un effetto deleterio, anche
se la mattinata di Aurora non si poteva definire troppo male. Era stata
presentata nella sua nuova classe e le avevano dato la possibilità di scegliere
dove sistemarsi. Giada aveva prontamente affiancato un banco al suo,
prenotandole un posto in prima fila e assicurandosi il monopolio sulla ragazza
del momento. Aurora si sedette lì sperando che lo sguardo di tutti i compagni
che aveva addosso sin da quando aveva varcato la soglia si sarebbe presto
interessato a qualcos’altro. Nonostante temesse di agire in modo assolutamente
anacronistico e ridicolo, non fece niente di troppo diverso da una qualsiasi
studentessa nuova: stare prevalentemente in silenzio e osservare gli altri.
«Vieni anche tu in bagno con noi?»
le chiese Giada, facendo un segno con il capo verso la porta. Aurora annuì e la
seguì con Lena e altre due compagne di classe, Rita e Ludovica. Era una specie
di rituale, ci si rifaceva il trucco e ci si scambiavano gossip.
«Secondo me c’è sotto qualcosa» affermò
con enfasi Rita, facendo schioccare le labbra appena dopo aver finito di
stendere il lucidalabbra.
«Sì, anche secondo me» si accodava
Ludovica.
«Ma delirate?» scoppiò a ridere Lena
«Non c’è storia».
«Beh, hai ragione» confermò
Ludovica, aggiungendo uno sguardo eloquente, che la faceva apparire più che
altro molto tonta.
Giada mormorò qualcosa di
indefinito, evidentemente assorta in qualche altro pensiero. «Stamattina ho
visto Fabio Baldovino» disse all’improvviso, ricevendo l’attenzione delle altre.
Rendendosi conto di dover aggiungere qualcos’altro disse «Aveva la macchina».
«Ah!» fece Ludovica, convinta di
aver afferrato tutto.
«Vorresti farci un giro, eh?»
insinuò Rita lanciandole un’occhiata maliziosa.
«Macché» fece una smorfia schifata
Giada «Era giusto per dire. Ha preso la patente». Si scostò dalla parete e si
allisciò una piega inesistente sulla manica.
«Io me lo farei senza pensarci due
volte» sentenziò Rita.
«Anche io» concordò Ludovica con un
sorriso ebete.
«Un giro in macchina con lui»
precisò l’altra.
La campanella interruppe la loro
conversazione e Giada, di cattivo umore, si riavviò verso la classe seguita a
ruota dalle amiche.
*
«Buonasera, sono Aurora, c’è
Alessio?» formulò nel modo corretto al telefono.
«Sì, te lo passo» rispose una
signora che doveva sicuramente essere la madre.
«Rory?» sentì la voce del suo amico.
«Ciao! Come va?»
«Bene, tu?»
«Bene, grazie. Non ti ho visto a
scuola in questi due giorni»
«Abbiamo fatto ponte, era inutile
rientrare venerdì. C’eravate solo voi del classico»
«Ah…» risposedubbiosa la ragazza. Gli studenti di
quell’epoca consideravano la scuola alla pari dei lavori forzati. Per lei,
abituata a studiare con un maestro, era meraviglioso avere la possibilità di
apprendere così tanti insegnamenti delle più varie discipline assieme a dei
coetanei.
«Com’è andata?» le domandò curioso.
«Mi piace tantissimo qui» gli rivelò
sincera e gli raccontò delle lezioni. Dalle sue parole non poteva non
trasparire un grande entusiasmo, forse eccessivo per una normale sedicenne.
«Sì,
sì, gran bella roba Platone» la frenò Alessio «Parlando di cose meno
iperuraniche, che fai stasera?»
«Tivù»
sbuffò. Non ne poteva più di passare le notti davanti alla tivù.
«Perché
non vieni al cinema? Siamo io e un paio di amici» propose. «Passo a prenderti
fra un’ora» stabilì senza permetterle di mostrare un’esitazione.
Era una domenica mattina dal sole
splendente e niente avrebbe potuto impedire la gita fra i boschi. La sera prima
il film era stato terrificante, un horror crudo e sanguinolento, quindi Aurora
si sentiva pienamente giustificata a chiedere un piccolo sacrificio ad Alessio.
Era stabilito che alle sette in punto dovevano avviarsi, non c’erano scuse.
Sentì il citofono squillare e la ragazza
scese di volata le scale, si sistemò sul sellino della moto e partirono. Un
taglialegna che era amico del nonno Leo li avrebbe accompagnati con la sua jeep
in montagna e poi si sarebbero rincontrati per le cinque del pomeriggio, al
calar del sole.
La jeep di Romano, vecchia e quasi
tutta sfasciata, e il percorso tortuoso, pieno di buche e dossi, resero il
viaggio scomodissimo. Alla fine, anche se un po’ ammaccati, furono abbandonati
al Rifugio, che non avrebbero dovuto mai perdere come punto di riferimento. Il
sentiero era ricoperto di un sottile strato di neve adagiato sopra un umido
tappeto di foglie secche e rametti spezzati, ai lati si estendevano centinaia
di alte conifere dai rami spolverati di bianco. Il silenzio regnava sovrano e
la luce filtrava fra i rami riflettendosi nelle goccioline di brina, tanto che
il bosco sembrava permeato da un’atmosfera mitica e quasi sacra.
Alessio posò lo zainetto a terra e
ne estrasse un quadernetto verde.
«La natura in tasca» proclamò
esibendo la guida tascabile del WWF. «L’ho avuta quando facevo lo scout.
Speravo di non rivederla mai più, ma eccoci qua…».
Aurora la prese in mano e osservò
che la prima pagina andava compilata con i dati personali.
«La natura in tasca è di…»
«Andiamo, questa parte possiamo
saltarla, è fatta per i bambini delle elementari!»
«Zitto, facciamo le cose per bene»
stabilì la ragazza, prendendo una penna dallo zainetto. «Alessio» si dettò da
sola e scrisse il nome dell’amico sulla prima riga. «Anni: sedici» continuò
«classe: III A Liceo Scientifico; indirizzo: Via Napoleone 14; animale
preferito?»
«Delfino»
«Delfino» ripeté lentamente e annotò
«Albero preferito?»
«Come sarebbe a dire albero
preferito?»
«Devi dirmi quello che preferisci.
Ce ne sarà uno che ti ispira di più, no?»
«Questo» indicò sbrigativamente il
fusto che aveva affianco.
«Pino» scrisse Aurora «Fiore
preferito?»
«Margherita» rispose incerto.
«Il profumo che ti piace di più?»
«Lasagne. Oppure trucioli di gomma.
Me li fai passare entrambi?»
«Accordato. La materia che ti piace
di più?»
«Chimica»
«Perfetto!»
«Ora tocca a te, su»
«Va bene. Il mio animale preferito è
il cervo. Sono eleganti e fieri, a dispetto della loro delicatezza. Come alberi
mi piacciono i tigli. A primavera emanano un profumo meraviglioso, sono alti e
dal tronco chiaro, con le foglie di un verde tenerissimo. Il fiore che amo di
più è la genziana. Cresce sui suoli rocciosi ed è blu. L’odore che preferisco è
sempre stato quello della paglia, ma ora sono pazza della cioccolata. Me li fai
passare entrambi?»
«Accordato»
«La materia che prediligo è
filosofia» concluse. Voltò pagina e cominciò a leggere accuratamente i consigli
della guida «Cerca di restare il più possibile in silenzio e di parlare,
comunque, a bassa voce, così non disturberai gli animali e sarà più facile
vederli. Osserva ogni cosa con molta attenzione, ci sono mille particolari che a
un primo sguardo possono sfuggire. Ascolta i suoni, i rumori, la musica della
natura, la voce degli animali, il mormorio di un ruscello lontano o il fruscio
delle foglie mosse dal vento»
«Abbiamo finito?»
«Lascia i fiori al loro posto» lo
ignorò «Osservali, disegnali, fotografali ma non coglierli: sono
importantissimi per gli insetti e per molti altri animali. Magari sono anche
rari e protetti»
«Ti odio. E odio il WWF. È
terrorizzante, sai? Ti danno queste guide e ti segnano l’infanzia!»
«Ma quanto sei scemo! Adesso la
guida suggerisce di considerare le caratteristiche del terreno, l’aspetto degli
alberi, i fiori, i frutti, le foglie e i semi, le impronte degli animali, i
nidi, le tane, i funghi e le muffe»
Alessio fece una smorfia «Inverno,
neve, centinaia di conifere, nessun fiore e tutti i cuccioli in letargo» cercò
di concludere alla svelta.
Aurora guardò esasperata l’amico: la
natura era viva e meravigliosa in qualunque momento! Nelle ore successive
riempirono di bacche, pigne, aghi e pezzi di corteccia così tante bustine
trasparenti che i pregiudizi di Alessio furono presto distrutti. Quest’ultimo
si lasciò andare e ben presto svanì la sua rigidità iniziale per prendere
sempre più confidenza con quell’ambiente selvatico. Soltanto un borbottio dal
profondo dei loro stomaci quando il sole era nel punto più alto del cielo
riuscì ad arrestare per un poco la loro sete di esplorazione. Si sedettero così
a gambe incrociate in una piccola radura ed estrassero dagli zaini i panini, i
succhi di frutta e la deliziosa ciambella preparata da nonna Mietta. Una volta
saziatasi, Aurora cominciò a sfogliare la sua Enciclopedia sugli uccelli,
decisa a concentrarsi sul punto focale della spedizione: la ricerca dell’uovo
di pernice. Fino ad allora non aveva visto l’ombra di un solo uccello, ma,
cercando sul libro le piante predilette dalle pernici, avrebbe ristretto il
campo dove cercare. Ciò che la preoccupava non poco era, però, il fatto che il
loro periodo di accoppiamento fosse ovviamente la primavera: gennaio non era il
mese adatto per deporre un uovo. Tanto valeva provare, se tutto fosse andato storto,
esisteva sempre un piano B: andare sulle Ande in Argentina. Sfogliò ancora il
libro mordendosi il labbro. Improvvisamente sentì un fruscio dietro di lei e un
urlo da parte di Alessio.
«Che succede?» chiese allarmata.
«Non lo so, sembrava una belva»
rispose il ragazzo facendosi scudo dietro Aurora. Lei cercò di osservare fra i
rami fitti e, spingendosi più avanti di una decina di metri, scorse un
camoscio.
«Vieni a vedere la belva» sussurrò
con un pizzico d’ironia, facendo in modo che l’animale non scappasse. Alessio
si avvicinò cauto e appoggiò le mani sulle spalle di lei, sporgendosi per
riuscire ad avvistare il camoscio.
«È carino»
Lo spiarono per qualche minuto
tentando di non produrre il benché minimo rumore, poi un secondo suono
inaspettato fece correre via il camoscio, terrorizzato, e mozzò il respiro di
Aurora. Uno sparo. Quella volta c’era davvero una bestia che l’aveva emesso. Si
trovavano in una zona protetta in cui era vietato anche raccogliere i funghi
nelle buste di plastica, e la caccia era strettamente proibita. Corsero nella
direzione dalla quale avevano sentito provenire lo sparo, con l’intenzione che,
se avessero trovato il cacciatore, lo avrebbero denunciato. Non trovarono
traccia umana ma, con sommo orrore, videro per terra il corpo piumato di bianco
di un uccello. Aurora conosceva perfettamente quella sagoma, si trattava di una
pernice bianca. La povera bestiolina giaceva a terra inerme, vittima di quello
che era stato uno sparo errato, il cui obiettivo era probabilmente una preda
più succulenta. I ragazzi si sentirono in qualche modo traditi, traditi dalla
stessa razza a cui appartenevano, che non rispettava le leggi della natura.
«Ehi, cosa c’è qui?» richiamò
l’attenzione Alessio sull’incavo di un tronco caduto per terra.
C’era un uovo. Un uovo di pernice.
«Era la mamma» notò con tristezza.
Aurora lo prese dal nido.
«Te lo vuoi portare via?» chiese
perplesso lui. La ragazza arrossì violentemente: era ciò di cui non poteva fare
a meno. «Sì… vedi…»
«Ma è ovvio, hai ragione» Alessio si
picchiò la fronte «Morirà se lo lasciamo qui. Lo dobbiamo tenere al caldo
finché non si schiude».
La ragazza annuì, sentendosi un
mostro. Non poteva sbarazzarsi di un essere vivente e destinarlo a diventare un
ingrediente per chissà quale pozione magica.
L’amico le sorrise incoraggiante e Aurora
morì un po’ dentro, sentendosi più sola che mai. Non poteva dirgli niente.
Se
l’era chiesto per un’infinità di volte. Metà di esse aveva propeso per portare
l’uovo a Chantal: era una prova da superare e non era facile, ma doveva avere
la forza di andare fino in fondo. Poi guardava quell’involucro e immaginava
all’interno un pulcino indifeso, ricordava il sorriso smagliante di Alessio e
si vergognava. Di essere così ipocrita, egoista e insensibile. E così, per un
numero pari di volte, pensava che forse Chantal avrebbe compreso, forse le
avrebbe dato una seconda chance con un’altra sfida.
Che cosa devo fare?
Lilac
le aveva risposto che avrebbe trovato la risposta. Bastava che guardasse dentro
di sé, perché già conosceva cosa era giusto fare.
Che cosa devo fare?
Mettere
una coperta di lana sull’uovo e tenerlo al caldo e al sicuro, nel frattempo che
ci pensava. E lavorare alla seconda missione magari.
Bussò
alla porta di casa di Candida. Una signora molto alta con un’acconciatura vaporosa
fuori moda e degli occhiali dalla montatura nera la riconobbe a prima vista:
«Aurora!»
La
fece accomodare all’interno del suo appartamento spazioso e luminoso. Candida
faceva la psicologa. Era il suo modo di aiutare le perone, senza dover agitare
la bacchetta magica. Le sorrise amabilmente, aspettando di ascoltare il motivo
della comparsa della ragazza. Aurora fece un respiro profondo e ripeté, ancora,
la sua storia, mentre un gatto marrone a pelo lungo zampettava sui mobili
cercando di attirare la loro attenzione.
«C’è
qualcosa che posso fare per ottenere un incantesimo?» concluse serrando i pugni
nella speranza.
«Ma
certo» rispose immediatamente la fata «Se c’è una cosa che non posso eseguire
con la magia, quella è risolvere i problemi delle persone. Posso far comparire
ogni cosa materiale, ma la maggior parte delle volte non è utile a nulla. Per
sbrogliare il groviglio di sentimenti occorre ascoltare. Ecco, Aurora, se tu
riuscissi ad aiutare delle persone, allora sarei felicissima di ricompensarti».
«Lo farò!»
fu lietissima di promettere.
Sapeva già
cosa fare. Ringraziò di cuore la fata madrina, grattò dietro le orecchie il
gatto e, rifiutando i pasticcini, decise di tornare subito a casa.
L’uovo
stava bene, era al caldo sotto la coperta. Prese dei cartoncini colorati e i
pennarelli e si sistemò al tavolo. Aveva pensato che spesso i ragazzi avevano
paura di essere giudicati, perciò forse confidarsi anonimamente con un’amica
virtuale che dà consigli disinteressati poteva essere un’idea produttiva. Ci
pensò un po’, prima di formulare il messaggio in modo accattivante e di trovare
lo pseudonimo adatto, poi scrisse in caratteri colorati di contattare per
qualsiasi problema Fata Madrina all’indirizzo
e-mail che si curò di creare.
Ad opera
finita, raggruppò i foglietti in una fila ordinata e la sollevò per ammirarla
con soddisfazione. Aveva fatto un buon lavoro. L’indomani, avrebbe dovuto
affiggerli in bacheca, senza farsi vedere da nessuno.
*
Fino ad
allora aveva sempre preferito usare i libri, ma, dopo aver scoperto quanto
pieno di risorse era il mondo del web, ne era diventata quasi dipendente. Le
riusciva incredibile concepire una scatola che perfino la biblioteca di
Alessandria sarebbe sembrata poca roba al confronto. C’era tutto, tutto quello che
poteva immaginare. Con un po’ di timore, aveva digitato sul motore di ricerca
il suo nome. Non erano apparsi risultati, e ciò la deluse e consolò al tempo
stesso. Aveva cercato suo padre e Filippo e aveva trovato soltanto qualche
accenno alle casate reali. Seppe che il suo regno era stato ereditato dal
cugino della madre, il visconte de Malheur, ed era
stato annesso alle terre di quella famiglia, rimanendo un possedimento di
periferia. Immaginò che i dati sarebbero cambiati a distanza di qualche mese,
magari sotto gli occhi increduli di qualcuno! No, probabilmente nessuno si
interessava di sovrani morti da dieci secoli.
Controllò
per la decima volta la casella di posta elettronica e finalmente trovò un messaggio.
Con impazienza, cliccò sulla bustina per leggere il messaggio.
Una
ragazza le scriveva di vedere da settimane il suo ragazzo distante e che, pur
avendolo sempre accanto, le mancava. La cercava poco, solo per convenienza o
per routine, e lei aveva bisogno di averlo indietro. Che cosa devo fare? era il suo tormento.
Che cosa devo fare?
Aurora
dell’amore non ne aveva mai vissuto i litigi, le incomprensioni, le passioni
violente e i riti abitudinari. Aveva soltanto un’idea tiepida e ovattata. Se
fosse stata nei panni di quella ragazza, però, ciò che avrebbe cercato di fare
era parlare. Riaprire il dialogo e parlare di sé, dei propri problemi, dei propri
sentimenti, con sincerità. Trovare il coraggio di affrontare una situazione
sull’orlo di precipitare o di salvarne disperatamente una rabbuiatasi. Venirsi
incontro senza maschere.
*
«Rory»
bisbigliò Lena con la voce soffocata per non farsi scoprire.
Aurora
alzò gli occhi verso la cattedra: la professoressa stava leggendo una rivista.
Allungò un foglietto verso l’altra ragazza e tornò alla sua versione di greco.
«Grazie»
nascose prontamente il suggerimento all’interno del foglio di protocollo
l’altra.
«Cambia un
po’ le parole» si premurò di ricordare Aurora. Ricevette un assenso con il capo
e un’occhiataccia dall’insegnante, che aveva avvertito un certo movimento.
«Lena»
chiamò poi Giada a voce tanto bassa che l’altra non la sentì. «Lena!» ripeté
ansiosa, allungando la gamba fino alla sedia dell’amica per attirare la sua
attenzione. «Passa anche a me». Lena le fece segno di aspettare ancora soltanto
per un attimo, poi si allungò per passarle il bigliettino.
«Pvof, qui c’è
confusione ed io non viesco
a concentvavmi» segnalò una compagna,
Olivia, facendo in modo che la donna alzasse lo sguardo proprio sulle due che
cercavano di collaborare.
«Allora?»
intervenne, facendole sobbalzare. «Le signorine vogliono che ritiri loro il
compito? Che cos’è quel foglio?»
Aurora
divenne bianca come un lenzuolo, Giada arrossì violentemente, Lena accartocciò
il pezzo di carta e se lo infilò nel posto più inviolabile che le venne in mente:
i suoi pantaloni. «Niente!» rispose, meritandosi un’occhiataccia, ma
fortunatamente niente più.
«Pss» richiamò l’amica. Le allungò il proprio foglio e se li
scambiarono.
Olivia
boccheggiò, osservando la scena. La prof alzò lo sguardo, ma ritornò
immediatamente alla sua rivista, senza essersi accorta di niente. Piegarono
entrambe il foglio a metà e scrissero sul fronte il proprio nome su un compito
che non era il loro. Aurora cancellò freneticamente tutti i passaggi che non
rispecchiavano la sua traduzione e li modificò per come li aveva resi lei.
Proprio nell’istante in cui finiva di ritoccare il testo, passò la
professoressa a ritirare le verifiche, quasi strappandole la sua dalle mani.
«La
prossima volta provvedi a consegnarmi un compito più ordinato» commentò
osservando il groviglio di frecce e asterischi che aveva creato.
Tirò un
sospiro di sollievo.
«Oddio,
non so cosa farei senza di te!» la abbracciò Giada appena la donna fu fuori
dalla porta.
«Rory non
è umana. Da piccola le davano pane e Senofonte» scherzò Lena strattonandole le
spalle.
Il greco
era stato davvero il suo pane quotidiano, aveva studiato ore e ore i testi dei
più importanti autori classici. Inoltre, parlando correntemente il latino,
aveva una certa forma mentis per quel tipo di sintassi. Per effetto
dell’incantesimo, però, riusciva a capire e parlare l’italiano corrente. Questa
era una delle tante cose a cui non riusciva a dare una spiegazione
soddisfacente, ma su cui sorvolava perché era impossibile capire la magia.
«Questa me
la paga» garantì Giada dopo aver messo da parte tutto quell’entusiasmo,
fissando con uno sguardo bieco Olivia.
«Miss
Prima della Classe si vede gettata giù dal trono» commentò Lena.
«Ragazze,
noi abbiamo imbrogliato» si sentì in colpa Aurora.
«No, Rory,
quella lì ha una sorta di risentimento verso il genere umano. L’unico modo che
conosce per sentirsi migliore è far sentire peggiori gli altri» la dipinse
Giada, abbassando la voce poiché era entrata in classe la professoressa di
storia, la Semenza.
«Dovrebbe
trovarsi un ragazzo» la fece breve Lena, continuando a parlare noncurante della
lezione. La Semenza faceva discorsi iperbolici che nessuno stava mai a sentire.
«A
proposito…» cominciò Aurora alludendo a qualcosa che Giada sapeva.
«No»
sentenziò categoricamente «Non ti ammetterò mai che mi piace».
*
Aurora
era una principessa e, per quanto si sforzasse, non era capace di svolgere
brillantemente anche il ruolo della fata madrina e quello del principe.
Poiché
più di un paio di ragazze ricordavano la Fata Madrina unicamente per aver
trasformato i luridi stracci di una sguattera in un vestito di pizzi e merletti
correlato a scarpette di cristallo degno di una principessa, Aurora aveva
dovuto rispondere a qualche amletico dubbio su capi d’abbigliamento.Proprio lei, che si era fatta notare a scuola
per abbinamenti piuttosto improbabili e insoliti! Si era presto guadagnata il
soprannome di Bella Addormentata,
vuoi per l’episodio di Capodanno, vuoi per l’aria sognante e i boccoli biondi.
Giada le aveva messo davanti un numero di Vogue dicendo “Qualunque sia la tua
religione, d’ora in poi la tua unica Bibbia sarà questa”. E così, sfogliando quelle
pagine, si era fatta un’idea su cosa era meglio consigliare alle altre e cosa
evitare per se stessa.
Jet,
si firmava così colei che aveva perso
il ragazzo, le scrisse di nuovo. Aveva provato a dialogare con lui, ma questi
le aveva risposto semplicemente “è tutto ok”. Aurora si trovò ancora una volta
in difficoltà: pensò che ci sia della frustrazione nel lottare in modo titanico
per riavere una cosa che non si è mai lasciata andare e nel veder dissolversi
tutto ciò che si desidera. Non rispose alla e-mail, aspettando di trovare
un’idea.
La
parte del principe, che doveva salvarla dalla maledizione, le riusciva anche
meno. Certe volte si angosciava al pensiero di tutto il tempo che stava
lasciando correre inutilmente: aveva l’uovo e non si decideva a portarlo a
Chantal. Aurora se ne stava sul divano, torturando una misera pellicina del
pollice, mentre il ticchettio dell’orologio scandiva i secondi, noioso e
opprimente. A un tratto, si alzò con la risoluta fermezza di recarsi dalla fata
Chantal. Avvolse l’uovo di pernice nella sua coperta con massima cura e,
pensando che non gli sarebbe accaduto nulla di male, lo strinse fra le braccia
uscendo dal palazzo.
Si
avviò a piedi, giacché il clima non era troppo rigido e, dopo la precedente
settimana nevosa, le temperature erano risalite sopra lo zero. Mentre
camminava, sentì il richiamo di un clacson.
«Dove
vai?» le chiese Alessio accostando il motorino al marciapiede e sfilandosi il
casco. Colta in flagrante.
«Faccio
una passeggiata» mentì «Tu?» sviò il discorso.
«Al
supermercato. Nonna si sente anziana e acciaccata solo quando si tratta di
sfruttarmi per la spesa» alzò gli occhi al cielo.
«Andiamo,
è tuo dovere fare il cavaliere ogni tanto»
«Mademoiselle» scese dalla moto indicandola con la mano, con
un fare ironicamente galante. «Lasciate che vi accompagni con il mio
destriero». Sistemò l’uovo nel vano sotto il sellino e, continuando la stessa
farsa, le porse la mano per salire sul mezzo e il suo casco. Sfrecciarono sulla
strada fino a raggiungere il supermarket. Lì, dopo aver preso un carrello,
adagiarono l’uovo in quella sorta di seggiolino destinato ai bambini e
cominciarono a girare fra gli scaffali.
«Ecco,
è quello il detersivo che ci serve» Alessio indicò il ripiano più alto. Pur
sforzandosi ad allungare le braccia il più possibile, non era in grado di
arrivarci.
«Non
possiamo comprarlo di un’altra marca?» avanzò Aurora.
«Assolutamente
no: Dixan o niente. Ho un’idea» si entusiasmò
improvvisamente.
«Mi
fai paura» dichiarò la ragazza.
«Shh» la zittì «Fatti spazio nel carrello e tieniti in
piedi»
«Sono
sicura che me ne pentirò» confessò scavalcando ed entrando dentro, per poi
allungare il braccio tremolante verso il flacone «Tieni fermo il carrello»
ordinò a denti stretti. «Tienilo fermo!» urlò quando ormai era troppo tardi e,
insieme al detersivo scelto, se ne era tirata giù un’altra dozzina.
«Scappiamo!»
disse Alessio, spingendola nel carrello velocissimo.
«Ma
che stiamo facendo? Dobbiamo metterli a posto e non possiamo correre così fra i
reparti – stai investendo questa coppia! -, adesso ci beccano e… ma che ridi?»
inveì disorientata e agitata.
Alessio,
in tutta risposta, fece risuonare la sua risata più vivace e cristallina e
Aurora non poté non scoppiare anche lei, mentre entrambi continuavano a
saettare tra i corridoi del supermercato come due bambini.
«Al
volo!» avvertì il ragazzo passando vicino agli spaghetti, e lei li afferrò
mentre filavano verso i surgelati.
«Mi
scusi!» gridò Aurora dietro ad un’anziana signora alla quale aveva tirato una
gomitata, anche se continuarono inopportunamente a ridere a crepapelle.
Quando
completarono la lista e arrivò l’ora di pagare, Aurora scese con ancora gli
occhi lucidi e cercò di ravviarsi i capelli per darsi un po’ di contegno.
«L’abbiamo
rotto» sbarrò gli occhi Alessio nello scoprire l’uovo dopo mentre scaricava le
buste. Due sguardi pieni di panico si posarono sulle tre lunghe crepe che si
erano formate sul guscio. Alessio si sbatté una mano sulla fronte, imprecando.
«E ora che facciamo?» chiese ansimando Aurora.
«Aspetta…»
le strinse il polso Alessio, con un sorriso incerto. Senza che fosse stata
esercitata alcuna forzatura, sull’uovo si stavano creando delle nuove piccole
spaccature. Aurora intuì la sua speranza «È quello che credo?».
Le
crepe accrebbero e Alessio annuì con una certa sicurezza. Presto, dal guscio
fece capolino il becco di un pulcino.
I
ragazzi si fecero sfuggire un sospiro di sollievo ma anche di tenerezza.
«Sono
diventato padre!» disse Alessio quasi con commozione avvicinando il volto alla
testolina della piccola pernice.
«Gli
dobbiamo dare un nome» osservò Aurora. «Dixan?»
propose, inarcando le sopracciglia in attesa della risposta.
«Dixan, mi sembra perfetto» accordò l’amico con entusiasmo.
«Ci pensi?» continuò serio «È stato un miracolo, o un piano del destino, che
l’abbiamo trovato e che lui ha trovato noi: sarebbe stato perso senza una
mamma. E un papà».
Finalmente
Aurora capì.
Era
quello il senso della prova. Avrebbe dovuto capirlo prima di tormentarsi nel
dubbio fra consegnarlo a Chantal o meno che la fata non avrebbe mai preteso un
uovo di pernice in pieno inverno per puro capriccio o per preparare un
intruglio magico. Lei voleva che Aurora si prendesse cura di una creatura
indifesa e capisse quanto siano importanti questo e la responsabilità delle
proprie scelte.
«Ale, non credo che noi possiamo tenerlo» disse grave.
«Ma
lo terrò sul terrazzo e starà benissimo!» propose, ma incontrò lo sguardo
risoluto di lei.
«Sai
che non starà bene. Ha bisogno del suo cibo e, poi, di imparare a volare e stare
nel suo ambiente. Dispiace a tutti e due separarcene, ma conosco una signora
che saprà accudirlo nel migliore dei modi più che volentieri»
«Andiamo
da lei adesso?»
«Sì»
sorrise, «Andiamo»
*
Chantal
era sola in casa, la lezione per i bambini era appena finita e il soggiorno
super disordinato ne gravava le conseguenze.
«Prendete
un tè, ragazzi cari?»
«No,
grazie» risposero entrambi.
Porsero
il fagottino alla fata e quest’ultima lo raccolse con premura, adagiandolo in
grembo. S’impegnò di fronte ai ragazzi di svezzarlo e poi lasciarlo libero nel
bosco una volta pronto. Dopo, prese da parte Aurora e le consegnò fra le mani
un sacchetto con un pizzico di polverina dentro e le disse che, quando avesse
voluto, avrebbe potuto esaudire un desiderio.
«Che
ti ha dato?» chiese curioso Alessio.
«Oh,
niente… Un’essenza per mia zia» fece spallucce Aurora.
Chantal
inclinò la testa guardando Alessio e trattenne il sospiro, come sul punto di
dire qualcosa frenato all’ultimo secondo. «Se davvero è ciò che desideri» rimarcò in un sussurro all’orecchio
della ragazza, stringendole la mano.
*
Cara Jet,
Ricordi Cenerentola?In un momento critico, in cui tutto sembrava
perduto, ha trovato nel proprio cuore la forza e la sicurezza di andare avanti.
Quando la fata madrina è corsa in suo aiuto e ha capito di non essere sola non
ha pregato per avere il principe o essere libera dalla matrigna e dalle
sorellastre: ha chiesto un abito da ballo. Aveva bisogno soltanto di una mise
adatta all’occasione, perché era certa già dei suoi sentimenti e dei suoi
desideri.
Mi sono accorta solo
adesso che il mio compito non è quello di trovare per te una soluzione, ma di
farti sentire abbastanza forte da scorgerla tu, dopo aver fatto luce nel tuo
cuore. E non serve parlare, non serve agire, credo che l’unica cosa da fare sia
stare in silenzio. Stai certa che sentirai provenire da dentro di te forte e
chiara la risposta.
Sii paziente e rifletti su
quali siano davvero i tuoi sentimenti e i tuoi desideri. Se ti servono un abito
e un paio di scarpette, io sono sempre qui.
Lilac
aveva dato ad Aurora un altro indirizzo dove poter trovare la fata Mietta,
anche se non era affatto convinta che questa volta sarebbe stato quello giusto.
Decisamente qualcosa non andava e fu quello che la ragione di Aurora confermò
quando alla porta venne ad aprirla una bambina di appena dieci anni.
«No,
io sono Marta. La nonna Mietta non è a casa» affermò la bimba, mostrandole un
sorriso a cui mancavano due incisivi.
«Scusa,
devo aver sbagliato» fece per andare via Aurora. Le fate non possono generare e
partorire figli. Non possono morire, né invecchiare se esse non lo desiderano.
Non possono contrarre alcun tipo di malattia, ferirsi o sanguinare; non possono
amare tanto da farsi male, soffrire la perdita dei propri cari, sentirsi in
crisi. Tutto questo è un privilegio esclusivamente umano.
«Come ti chiami? La mamma mi ha detto
che non posso aprire la porta agli istriani quando sono sola a casa, ma
possiamo fare amicizia»
«Gli estranei, forse?» sorrise Aurora
e le tese la mano. «Piacere, Marta, io sono Aurora»
«Lo sai che sembri proprio la
principessa Aurora?» disse la bimba con gli occhi luccicanti dopo aver
trattenuto il respiro per la meraviglia.
Aurora rimase confusa. «Co… come la
conosci?»
«È la mia videocassetta preferita»
Aurora immaginò che lo stesso signor
Perrault che aveva trascritto la leggenda di Cenerentola – sulla quale aveva
avuto modo di documentarsi – doveva aver fatto lo stesso lavoro traendo
ispirazione dalle voci che circolavano sulla sua vicenda. Aveva sicuramente
aggiunto un lieto fine, però.
«Ti posso pettinare i capelli?»
continuò timida dopo averla fissata per un po’.
«Va bene» acconsentì la ragazza
entrando in casa. Fu fatta accomodare su una minuscola sedia di plastica rosa e
la bambina cominciò a spazzolarle la chioma con una di quelle piccole spazzole
dalle setole sottili e sintetiche per le bambole.
«Quanti anni hai?» attaccò bottone
Aurora.
«Cinque e mezzo, ma vado già a
scuola. So i numeri fino a terntaquattro e so scrivere tutte le lettere
dell’alfabeto tranne la acca in corsivo maiuscolo. Tu quanti numeri sai?»
«Infiniti, credo» rispose con una
certa esitazione, sperando che non le venisse richiesta una dimostrazione.
Marta, invece, non ribatté e restò a pensarci su, assumendo un’espressione
concentrata sul viso, di cui Aurora, ancora seduta davanti a lei, scorgeva con
la coda dell’occhio solo il profilo.
«Per ora a me ne bastano
trentaquattro. Non so dove trovarle, infinite cose da contare» disse infine,
mettendo via la spazzola. «Adesso che gioco facciamo?»
«Allora» propose Aurora ripensando a
un passatempo con cui un tempo la sua balia la faceva divertire «Io penso ad
una cosa, tu mi fai delle domande per cercare di scoprire cos’è, ma posso
risponderti solo sì o no».
«Sì!» accettò entusiasta Marta
ponendo un’altra sediolina di plastica di fronte alla ragazza e sedendosi lì
appoggiando i gomiti sulle ginocchia e il viso fra le mani. Interrogò Aurora
per un po’ di tempo, finché non arrivò alla soluzione e così si invertirono i
ruoli. Ad un certo punto si udì lo scatto della serratura ed entrò una giovane
donna in tutta fretta.
«Marta, tutto ok?» chiese agitata.
«Sono venuta ad accendere i termosifoni e preparare la cena, di’ a papà che la
lascio nel microonde, io devo tornare in ospedale. Oh…» si fermò per un attimo
di affaccendarsi fra le varie cose quando vide Aurora «Devi essere la nuova baby
sitter che ha mandato l’agenzia. Grazie al Cielo Marta non ti ha cacciato via
come tutte le altre!». Aveva un po’ gli occhi lucidi, come se quel piccolo e
insignificante fatto potesse pesare sul suo equilibrio emotivo, a giudicare
dalle occhiaie, provato.
«Sono Annachiara. Marta non è
allergica a niente, puoi prepararle quello che vuoi per merenda, ma preferirei
che non s’ingozzasse di merendine. Le medicine le teniamo nel primo sportello
dell’armadio in cucina; chiamami sul cellulare per qualunque cosa, ora ti
lascio il numero» disse prendendo un foglietto su cui scrisse il suo recapito
telefonico. I capelli, lisci, lucidi e scuri come quelli della figlia le
ricadevano a ciocche sulla fronte, scioltisi dalla morsa della pinza con la
quale erano raccolti alla ben’e meglio sulla nuca. Era molto magra, dal viso
ovale e gli occhi grandi. «Devo proprio scappare, poi parleremo del pagamento e
tutto quanto». Si rimise la borsa sulla spalle e impugnò il mazzo di chiavi.
«Grazie» bisbigliò soltanto, e uscì nuovamente.
Forse era stato il destino a farla
trovare lì per sbaglio: non poteva non essere d’aiuto per Annachiara e la sua
piccola. Avrebbe trovato il modo di far rientrare quel lavoro fra gli impegni presi
e ancora da prendere con le fate.
*
Come
ogni mattina, alle dieci e trenta, Giada, Lena, Rita e Ludovica sfilavano verso
il bagno, chiamate a rapporto dal suono della campanella.
«Rory,
non vieni?» chiese Giada vedendo che Aurora si stava avviando dall’altra parte
del corridoio.
«Vi
raggiungo dopo» la rassicurò. Era diretta verso la classe di Alessio, con cui
riusciva a vedersi pochissimo durante gli orari scolastici. Giada e la sua
cricca non potevano sopportarlo e quest’odio era reciproco, quindi non poteva
godersi la compagnia di tutti i suoi amici contemporaneamente. Così, poiché
Giada era troppo “ape regina” per poterle dare buca e Alessio troppo
condiscendente per pretendere di tenersela tutta per sé, gli intervalli di
regola erano dedicati esclusivamente alle ragazze e ai gossip scambiati in
bagno. Quella volta, però, doveva chiedere all’amico una cosa. Qualche sera
prima, lasciata la casa di Marta appena il padre era arrivato, era andata a
casa della sua fata madrina Violante. Questa era la fata dall’aspetto più
giovane e dalla personalità più carismatica. Dopo che Aurora le spiegò la sua
vicenda, acconsentì facilmente a prometterle una ricompensa se avesse offerto
il suo aiuto come baby-sitter. La ragazza fu contentissima di poter stabilire
al telefono con Annachiara di badare a Marta ogni martedì e venerdì. Sperava
così che Alessio volesse farle compagnia quella sera, magari noleggiando un bel
film.
Trovò
il ragazzo appoggiato allo stipite della porta che parlava con un suo amico
che, appena Aurora arrivò, rimase leggermente inebetito.
«Ehi,
Ale!» salutò con un gran sorriso «Ciao!» salutò anche l’altro, di cui non
riusciva a ricordarsi il nome. Alessio gliel’aveva presentato insieme a un
altro amico, Daniele, il sabato che erano andati al cinema a vedere
quell’orribile film horror. Ogni tanto l’aveva fissata in modo un po’
inquietante, ma Aurora pensò che avesse semplicemente una forma strana degli
occhi.
«Rory!
Vuoi una patatina?» le porse la busta colorata di quei curiosi snack. Ne provò
una, insaziabile di tutte le novità che scopriva, mentre gli proponeva il baby
sitting.
«Mm…
non amo molto i bambini» rispose incerto «Sporcano, gridano e fanno domande
indiscrete».
«Ti
assicuro che Marta è molto matura per la sua età» tentò di argomentare per
convincerlo. Nel frattempo quel ragazzo dagli occhi stralunati, Luca, forse si chiamava Luca, si scervellò
Aurora, stava lì ad ascoltare e a fare un non richiesto e un po’ inopportuno
palo.
«Mm…»
fece nuovamente, scettico. «Non ti prometto niente, ci sentiamo, ok?». La
ragazza annuì e lasciò i due.
«La
vuoi smettere?» sbottò Alessio verso Luca tirandogli una gomitata e quello
allargò le braccia come per mostrarsi innocente. «Che c’è?» chiese fingendo di
non capire. Alessio lo guardò torvo «Smettila di guardarla come Gollum con il
suo tesssoro».
«Avevi
detto che non era la tua ragazza» si discolpò Luca.
«E
infatti non è la mia ragazza!» confermò con una certa enfasi di troppo.
«Allora
è campo libero, amico» concluse. Alessio, improvvisamente irritato, mollò lì
Luca e rincorse Aurora.
«Ci
sono, stasera» la avvisò.
*
Aurora
guardava indecisa tutte le copertine dei DVD sistemati nel settore “commedia”
della videoteca, mentre Alessio indugiava nel settore “splatter”. Tirò da una
manica il ragazzo, imponendogli di valutare solo fra la categoria che aveva
scelto lei. Dopo aver letto qualche trama, scelsero un classico che
accontentava entrambi, Harry ti presento
Sally. Fuori si era già fatto buio mentre andavano in moto a casa di Marta
e c’era un venticello pungente. Appena la bambina vide i due ragazzi alla porta
fu felicissima di tanta compagnia. Annachiara passava la notte in ospedale con
la madre, che era in fase statica e non dava segni di miglioramento e suo
marito Paolo lavorava fino a tardi facendo degli extra. Aurora andò a cercare nel
ripostiglio un gioco da tavolo da poter fare insieme e nel frattempo Marta si
era già rubata Alessio prendendolo per mano e chiedendogli di far funzionare lo
stereo. C’erano tantissimi dischi rock anni ’80 fra cui, alla fine, ne scelse
uno dei Police.
Sistemarono
lo Scarabeo sul tappeto del soggiorno e si sedettero a terra, schierandosi in
due squadre: maschi contro femmine. Tra le proposte lessicali di Marta, che
sosteneva di conoscere la lingua usata nel paese della sua amica immaginaria
Nina, uscivano fuori parole assurde. La chiovra era un pesce, il motollo era la
serratura delle porte, le antine erano nuvole che cambiano forma, e nessuno
poteva ribattere, anzi dovettero fargliele passare tutte, cosicché lei e Aurora
vinsero stracciando miseramente il povero Alessio. Poi prepararono i popcorn e
si misero tutti e tre sul divano con un caldo plaid addosso per guardare il
film. Finalmente Marta stette zitta zitta, interessata, e si riposarono un po’.
Anzi, quando Aurora e Alessio cominciarono a confrontare i popcorn che
pescavano associando alla loro forma le più svariate cose, la bambina li
richiamò all’ordine. «Come finisce lo so, ma se non mi fate sentire non so che
succede nel frattempo!»
«Come
sai come finisce?» chiese beffardamente Aurora.
«Si
sposano, ovviamente, perché è così che deve finire» rispose con naturalezza la
bambina.
Aurora
sussultò: non avrebbe dovuto avere dubbi. Pochissimo tempo prima avrebbe avuto
la stessa fede cieca nel credere di conoscere la fine di certe favole. Chissà
perché in quel momento aveva avuto un’incertezza.
A
un certo punto, Sally cominciò ad
ansimare in un ristorante, sempre più rumorosamente, e Alessio non trattenne le
risate per la comicità di quella scena. Aurora sbiancò, trovandola
terribilmente imbarazzante ed esplicita. «Manda avanti, non far vedere questa
cosa a Marta» gli disse sottovoce in un orecchio. «Tanto non capisce» le
rispose, soffocando uno sghignazzo. Ma che c’era da ridere? Non capiva come
quella società potesse essere così volgare certe volte. Cambiò colore e diventò
paonazza e continuò a guardare lo schermo, sperando di non trovarsi più davanti
a una situazione del genere. Alla fine, quando Harry e Sally si
sposarono, Marta si era già addormentata, ma tanto la conclusione la sapeva
già. I due ragazzi la avvolsero interamente nel plaid e la lasciarono ronfare
lì sul divano, mentre raccattavano i tasselli dello Scarabeo e li mettevano a
posto.
«Tu
credi nell’amicizia fra un uomo e una donna?» domandò senza far rumore,
riprendendo una questione del film.
«Non
lo so» rispose sinceramente Alessio «Con Giada è finita prima di sapere cosa
siano gli ormoni. Abbiamo litigato e non abbiamo avuto il coraggio di sistemare
tutto. Neanche allora che bastavano il dito mignolo e una canzoncina»
«Ti
manca mai?» chiese ancora con malinconia.
«No»
sorrise «Siamo due persone diverse ora. Poi con le mie compagne delle medie
andavo d’accordo, ma con nessuna avevo un’amicizia assoluta. In primo, con
Vanessa, è finita pure, perché ci siamo messi insieme»
Aurora
sentì un pizzichino allo stomaco. Non aveva mai pensato che Alessio fosse stato
con qualcuna, ma sentì una sciocca sia per non averlo considerato, sia perché
sentiva una specie d’immotivato fastidio. «E con me?»
Indugiò
un attimo prima di rispondere «Se rispettiamo i turni nello scegliere i film,
andrà tutto bene».
Un
pizzicone. Quanti film sarebbero riusciti a vedere prima che lei andasse via?
Sarebbe comunque finita. Si lanciò in un abbraccio ad Alessio, stringendolo
forte per estinguere quel maledetto pizzico. Datasi un po’ d’animo, prese fra
le mani la scatola dello Scarabeo e andarono a riporla nello sgabuzzino. Mentre
la sistemavano, cadde improvvisamente a terra un vecchio album di foto. C’erano
le foto del diploma di Annachiara, il primo compleanno di Marta, il matrimonio
dei genitori. Si sedettero sul pavimento dell’angusto stanzino a guardare quei
ricordi. Videro un anziano signore che teneva sulle gambe la piccolissima
Marta, che sicuramente doveva essere il nonno che non c’era più. In un’altra,
invece, si vedeva la nonna ora in ospedale quando, più giovane e ancora in
piena salute, sorrideva alla macchina fotografica. Aurora rimase di sasso.
Quella volta Lilac le aveva dato proprio l’indirizzo giusto: quella era la sua
fata madrina Mietta! Come poteva essere successo che una fata avesse una
figlia, una famiglia e che stesse così male da essere in fin di vita? Non ebbe
neanche il tempo di ordinare i suoi pensieri che Alessio la sorprese con
un’affermazione, se possibile, ancora più sconvolgente e inattesa. «Ma io
questa donna l’ho già vista!» Il ragazzo tirò fuori dalla pellicola trasparente
il ritratto per osservarlo meglio. Dietro, vi era scritto Mietta, 1989. «Penserai che io sia diventato pazzo, ma la conosco».
«Perché
non dovrei crederti? Potresti averla vista in giro…».
«L’ho
vista in una foto, che tiene in braccio mia nonna. Una foto del 1930».
Salve
lettori! Che ve ne pare di questo capitolo? Io mi sono divertita più degli
altri a scriverlo, ditemi cosa ne pensate. Ringrazio tantissimo chi segue e
soprattutto chi recensisce. Ora che è finita la scuola spero di essere più
veloce nell’aggiornare e, a proposito, vi faccio i migliori auguri di buone
vacanze! Alla prossima, baci!
Mietta
Gorietti non aveva mai conosciuto i suoi genitori. Era stata abbandonata a
pochi mesi, oppure era rimasta orfana, ed era cresciuta nell’orfanotrofio delle
suore. Spesso aveva raccontato a suo nipote Alessio le avventure e le
disavventure che il suo caratterino vivace le avevano procurato in
quell’ambiente così austero e rigoroso.
Le
avevano dato il cognome di Suor Germana e il nome della sua madrina, la signora
che l’aveva trovata e portata in luogo sicuro. Quella donna sorrideva con un
fagotto fra le braccia su una vecchia foto in bianco e nero, conservata
nell’album di famiglia di Alessio, esattamente con lo stesso sorriso, gli
stessi occhi, gli stessi tratti della signora vista la sera prima a casa di
Marta. Alessio non si capacitava come, a distanza di sessant’anni, potesse
essere ancora viva e immutata. «Allora», cominciò camminando su e giù per la
stanza «Ipotesi a: uno di quegli strani casi di sosia; ipotesi b: uno strano
caso di ricorrenza genetica nella stessa famiglia; ipotesi c: siamo su Candid
Camera; ipotesi d…»
«Facciamo
un giro?» lo interruppe Aurora. Non avrebbe potuto convincere Alessio di non
pensarci più perché, conoscendolo, era un tipo che si ostinava e, talvolta, si
fissava su ciò che non riusciva a far quadrare. Così misero a posto quell’album
e si avviarono fuori: era arrivato il momento di dire la verità. Tutta.
Percorsero
una ventina di metri, prima che la ragazza raccogliesse il coraggio di parlare.
Aveva il timore che si sarebbe allontanato di corsa da lei e non sapeva come
fornirgli una prova di quello che gli avrebbe raccontato.
«Anch’io
conosco quella donna» soffiò. «Fu la mia madrina e la ricordo con quelle stesse
sembianze da una data ancora più lontana, il 984»
«Cosa?»
balbettò, senza capire.
«È
immortale: è una fata»
«Non
ho voglia di scherzare, per favore» scosse il capo.
«Sono
seria, Ale, ed è perché non ho voglia di prenderti in giro che non sto
supportando la tua ipotesi a o b o c.
Mi fido di te ed è per questo che rischio di mettermi in ridicolo dicendoti che
sono nata nel 984 e ho delle fate per madrine»
«Ok,
forse non stai bene» le appoggiò una mano sulla fronte, sperando inutilmente
che bollisse, poi la appoggiò sulla propria, appigliandosi all’ultimo
rimasuglio di speranza.
«Ti
prego, vieni a casa mia, ti devo far vedere una cosa. Dopo, se vuoi, puoi
decidere di mollare tutta questa storia… e me»
Alessio
la seguì, seppure con sospetto, ma ormai si aspettava che potessero piovere
ranocchi o gli alberi prendessero vita. Aurora suonò con impazienza il
campanello, finché Lilac non aprì e i due invasero con irruenza in casa.
«Potresti
darci del tè caldo?» chiese la ragazza una volta accomodatasi sul soffice
divano, appoggiandosi su di esso in modo lievissimo, come se questo fosse di
burro, tanto era tesa.
«Sì,
bambina, lo preparo» la accontentò guardandola con un po’ di preoccupazione.
«Non
c’è bisogno, fallo pure comparire»
replicò, facendole intuire tutto.
Tre
tazze fumanti apparvero sospese a mezz’aria, di fronte a ognuno di loro.
Alessio restò impalato con la bocca leggermente aperta. Prese a studiare quella
tazza inclinando la testa prima da un lato, poi dall’altro, poi la guardò da
sotto, alla ricerca del trucco.
Costatò che era solida al tatto e, con gravissima circospezione e senza osare
dire una parola, la portò a una vicinanza tale dalla bocca da sentirne l’odore
caldo e aromatico: sembrava proprio del comune tè. Non assaggiò la bevanda ma
la continuò a stringere fra le mani e, finalmente, guardò Lilac in attesa di
una qualunque spiegazione.
La
donna stimò che era complesso propinare a un ragazzo di sedici anni una
storiella di fate e di incantesimi che poteva avere la stessa credibilità di
quella dei bambini nati sotto i cavoli. O di Babbo Natale, o la Fatina dei
Denti.
«Conosci
il primo principio della termodinamica?» chiese, appellandosi a qualcosa
d’inconfutabile.
«Nulla
si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. In sostanza il concetto è
questo» rispose il ragazzo facendo appello a una nozione scolastica.
«Il
motore della natura è l’energia e hai detto bene: nulla si può generare dal
nulla, né può scomparire, ma tutto cambia costantemente forma. Ora immagina una
totale conoscenza e padronanza dell’energia: sarebbe possibile usarla per
ricostruire la struttura di ogni cosa. Quella tazza di tè potrebbe essere la
ricomposizione di atomi dell’aria in questa stanza e della polvere sul
pavimento» spiegò sperando di essere il più comprensibile possibile.
«Meno
scenografico di bacchette magiche, formule, filtri e amuleti» ironizzò.
«In
realtà questi non sono puri elementi decorativi della tradizione popolare.
Bacchette magiche e formule sono utili per canalizzare l’energia nella
direzione sperata ed evitare inconvenienti, ma solo per le fate più sbadate.
Filtri e amuleti, invece, permettono di conservare una certa dose di energia
per poi sprigionarla nel momento del bisogno. I cappelli a punta con la
stellina sopra, infine, te lo concedo, sono solo di scenografia; erano tanto di
moda nel quattordicesimo secolo!»
«Ammettiamo
che sia così» replicò senza abbassare le difese «Perché dovrebbe essere un
segreto?»
«Una
volta non lo era. La magia faceva parte del mondo comune, ma poi si è diffusa
l’isteria collettiva della caccia alle streghe ed è stato necessario
nasconderla. Nessun rogo avrebbe potuto annientarci, ma l’ignoranza e la
superstizione uccisero migliaia di povere e innocenti ragazze. Col tempo la
mentalità popolare fu sedata dalla ragione, ma era troppo tardi per riportarla
a quello stadio infantile di cieca credenza. Non c’è nessun obbligo di
segretezza, ma c’è la coscienza di non portare nessuno all’emarginazione
sociale e di farlo additare come pazzo» rispose esaustiva Lilac. Avevano finito
di sorseggiare il tè le tre tazze scomparvero in uno sbuffo.
«Vorrai
sapere in che modo sono coinvolta in tutto questo» suggerì in quel momento
Aurora e la fata li lasciò soli per discutere. Aurora mise i piedi sul divano e
si rannicchiò abbracciandosi le gambe, come per proteggersi. Cominciò a
raccontare una storia che Alessio aveva già sentito durante l’infanzia tenendo
lo sguardo basso a fissare le ginocchia. Il ragazzo chiese qualche dettaglio
sulla vita nel Medioevo e sulle persone e le abitudini della sua vecchia vita.
Man mano che procedeva con il racconto, alzò gli occhi, sentendosi meno sotto
esame, e passò a spiegare i suoi piani per ritornare nel suo mondo; parlò a
lungo, fino a riferire gli ultimi aggiornamenti sul suo lavoro che stava
compiendo nelle missioni affidatele dalle fate madrine. Quando ebbe terminato
tutto ciò che aveva da dire, aspettò un qualsiasi tipo di verdetto che Alessio
avrebbe pronunciato in merito.
«Ok,
mi servono almeno tre giorni per ripassare mentalmente tutti i cibi che ho
mangiato negli ultimi tempi, fare le analisi del sangue, controllare che non ci
siano tracce di sostanze stupefacenti e alla fine abituarmi a questa idea»
annunciò con dissimulando ogni sconcerto. Aurora annuì e si alzò dal divano,
accompagnando il ragazzo alla porta senza aggiungere più niente, intuendo che
entrambi avevano bisogno di spazi in cui stare soli.
«Ci
vediamo» sussurrò chiudendo la porta, più che altro come una preghiera.
Si
ributtò sul divano, provando la frustrazione dell’angoscia indefinita e
immotivata. Si ricordò, avendo da poco ricapitolato i suoi ultimi passi, che
era da un po’ che non controllava la posta elettronica e accese il computer.
C’erano due e-mail. La prima era di Jet.
Cara
Fata Madrina,
forse
stavamo facendo troppo rumore cercando di far tornare tutto come prima. Abbiamo
provato a soffocare tutte quelle pause imbarazzanti di silenzio, perché non ce
la facevamo ad affrontarle: le abbiamo spente parlando a vanvera, giusto per
far rumore, senza che le parole di uno fossero la risposta di quelle
dell’altro. Avevi ragione. Dopo aver abusato di tante parole, avevamo bisogno
di sostenere il silenzio per capirci. Un giorno si è sdraiato accanto a me e
siamo stati a fissare il soffitto. Ho pianto, perché sapevo che quella sarebbe
stata l’ultima volta. Mi ha stretto debolmente la mano finché ho finito, senza
mai guardarmi o dirmi nulla. E così è finita, senza un ultimo sguardo o
un’ultima parola. Non mi sento meglio a non avere più lui, ma mi sento
infinitamente meglio a riavere di nuovo me stessa. Si è se stessi solo quando
non ci si nasconde dalla verità, per quanto dura possa essere. Grazie per
avermi dato il coraggio,
Jet
La
seconda e-mail era di una ragazza che non le aveva mai scritto prima e che,
fortunatamente, non chiedeva consigli sull’abbigliamento.
Cara
Fata Madrina,
sono
ore che scrivo e poi cancello questo messaggio, lo riscrivo e decido che non va
bene. Spero che non deciderò di eliminare anche questa undicesima versione
perché cominciano a bruciarmi gli occhi e sento che presto avrò un crampo alla
mano destra. Vengo subito al dunque. All’inizio della scuola ho visto un ragazzo. Lo conoscevo già da
prima, ma non gli avevo mai rivolto la parola perché sembra il tipico
scansafatiche, idiota e arrogante. Poi, però, l’ho visto. O meglio, mi ha tirato una gomitata in corridoio per fare
uno dei suoi scherzi cretini e io gli ho tirato un pugno sul naso. Non sono mai
stata violenta, neanche lontanamente vicina a un qualche atteggiamento ribelle:
ottimi voti, sempre allacciato la cintura di sicurezza, niente alcol, droga,
sesso, neanche rock and roll. Avevo il terrore di essere sospesa e lui
sanguinava a fiotti, così l’ho trascinato in infermeria e sono stata lì con lui
per il resto della macchinata. Ha lasciato che circolasse la mia versione dei fatti,
che era scivolato, minacciandomi che
avrebbe trovato un altro modo per farmela pagare. Da all’ora mi è sempre stato
addosso, ma, contro la mia volontà, non riuscivo a considerarlo un dramma,
perché mi accorgevo che ha gli occhi blu, proprio blu, e i capelli scuri un po’
troppo lunghi sulla fronte. Anche lui sembrava distratto nell’obiettivo di rendermi la vita impossibile, non c’era
astio o dispetto quando, nei nostri battibecchi, lasciava che scoprissi che sa
suonare la chitarra, come si chiama il suo cane, tutti i suoi sogni. È pieno di
sogni, neanche potevo immaginarli dei sogni come i suoi. Un giorno abbiamo
litigato così tanto che abbiamo finito per metterci insieme. Mio padre ha
presto scoperto che uscivo con lui e ha fatto una scenata, proibendomi di
vederlo. Ho provato di tutto per convincerlo che è davvero un bravo ragazzo, ma
lui (diciamo che è inserito nell’ambiente scolastico) sa quante volte ha fatto
dannare compagni e professori. Vede in lui la peggiore influenza che io potrei
mai subire e teme che possa rovinarmi la vita. Siamo costretti a vederci di
nascosto e convivo con il perenne terrore che qualcuno possa scoprirci: io non
ce la faccio più e sono sicura che, per quanto lui sia sempre stato abilissimo
a nascondere il vero se stesso a tutti, questo non rende felice neppure lui.
Evito di rileggere quello che ho scritto, altrimenti vengo assalita
dall’imbarazzo, dal senso di inadeguatezza e dalla paura di venire identificata
e, sinceramente, la mia mano destra mi sta implorando di risparmiarla. Aspetto
un consiglio,
Vi
Aurora
fu colpita da come, in un secolo di massima libertà, ancora i giudizi dei
genitori arginavano le scelte sentimentali dei ragazzi. Ma d’altronde, come
poteva fidarsi dell’opinione di una ragazza innamorata, quando si sa che
l’amore è cieco? Non poteva, forse, avere ragione quell’assennato padre?
Eppure, una cosa l’aveva imparata bene: in quel secolo di massima libertà vi
era anche quella di imparare tramite le proprie esperienze e, col tempo, di
cambiare idea, senza l’ossessione di compromettere la propria virtù. Non
rispose alla e-mail alla leggera, ma dopo un’attenta riflessione capì che la
libertà di essere va difesa a tutti i
costi. Quei due ragazzi potevano essere solo l’uno con l’altro e dovevano
salvaguardare quella loro verità, ma non potevano farlo con una grande menzogna
rifilata al resto del mondo. Dovevano essere forti, per un po’, finché non
sarebbe stato possibile dimostrare la verità e rassicurò Vi che avrebbe pensato
al modo.
*
L’ospedale
del paese aveva i muri verdini e odorava di lattice e Aurora pensò che mai
aveva visto un luogo più triste. In realtà, il pronto soccorso era il primo
posto in cui era stata dopo essersi svegliata, ma era troppo confusa per
osservarlo allora. Se ne stava invece a girare un corridoio, sperando di
trovare Mietta dopo aver ricevuto delle pessime indicazioni, e intanto
respirava quell’aria depurata e guardava la luce fredda. In una camera dalla
porta aperta, riconobbe la sua fata madrina. Era più vecchia e coperta da un macchinario,
ma era indubbiamente lei. Bussò con educazione prima di farsi avanti, sperando
di non disturbare o essere inopportuna. Ricevette un cenno di entrare e si
sedette su una sedia accanto al letto dell’anziana signora, che parve non
riconoscerla all’inizio. Quando Aurora rammentò quei tempi lontani in cui
avevano vissuto, Mietta trattenne il sospiro dalla meraviglia: da troppo tempo,
ormai, aveva dimenticato quel mondo. Da quando si era creata una famiglia e
aveva vissuto come un’umana, aveva completamente rinunciato alla magia. Con
gran dispiacere, non poté fare niente per aiutare la giovane principessa per
sconfiggere la maledizione, poiché non aveva più i suoi poteri. Aveva amato un
uomo, cresciuto una splendida figlia, conosciuto le gioie delle sere in
famiglia davanti al caminetto e la speranza che i desideri si potessero
avverare, la pienezza di una vita ad un prezzo che, secondo lei, non reggeva
alcun confronto.
Aurora,
con una stretta al cuore, lasciò la camera augurando alla madrina di guarire presto
e questa annuì con serena rassegnazione. L’incantesimo per tornare indietro nel
tempo sarebbe stato più debole senza la magia di Mietta, ma la ragazza non
volle neanche soffermarsi a pensare su cosa sarebbe successo se non fosse
andato a buon fine. Qualche notte doveva lottare per scacciare via il pensiero
che avrebbe continuato a dormire per secoli e secoli, senza mai riuscire a
vivere normalmente. E, come le aveva suggerito Giada, il miglior modo per
liberarsi dalle paturnie era una bella maschera al viso e del sano
pettegolezzo: aveva decisamente bisogno di una sera fra ragazze. Appena
arrivata a casa, telefonò Giada e Lena e, in qualche modo, riuscirono ad
invitarsi da lei anche Rita e Ludovica. Ebbero tutte quante il permesso di
restare a dormire dalla loro amica e così portarono pigiami e sacchi a pelo,
oltre a un quantitativo industriale di cosmetici e riviste. Le maschere alla
frutta portate da Giada furono spalmate sui visi delle cinque ragazze in base a
un dubbissimo test della personalità: a Rory toccò un impiastro rosso fragola,
a Lena verde mela, a Ludovica blu mirtillo, a Rita giallo banana e a Giada
arancione mango. Mentre le lasciavano asciugare, Giada stendeva lo smalto sulle
dita dei piedi, Rita mangiava noccioline, Lena cantava stonatissima in piedi
sul letto e molto appassionatamente una canzone degli ABBA e Aurora tentava di
reprimerla fa forza di cuscinate, Ludovica improvvisamente annunciò che aveva
bisogno di un nuovo taglio di capelli. Nessuno pensava che avrebbe mai osato
recidere quella chioma che le arrivava fino alla fine della schiena,
semplicemente perché nessuno pensava che Ludovica avrebbe mai potuto fare una
qualche scelta. Cogliendo la palla al balzo, Giada prese la sua forbicina per
le unghie e bendò con un foulard la povera malcapitata e le altre la aiutarono
a verificare che la linea da seguire alla base del collo fosse dritta. Dopo un
bel po’ di sforbiciate, ognuna delle quali veniva discussa con più perizia di
un emendamento a un testo di legge, il risultato fu a loro detta insuperabile.
Sciolsero il foulard e fecero specchiare Ludovica: un caschetto le incorniciava
il viso a cuore e il frangettone che prima si imponeva severo sulle
sopracciglia era diventato un ciuffo più sfilzato da portare da un lato. «Mi
piace» decretò, toccandosi un po’ incredula il collo scoperto. Le altre
sorrisero soddisfatte sia del buon lavoro che per quel senso di riscossa tutto
femminile che si prova per un nuovo taglio di capelli. Ripulito il pavimento
dalle ciocche lisce e scure che avevano tagliato, si misero a cerchio a gambe
incrociate. «Cominciamo da Rory» incalzò Rita «Obbligo o verità?».
I
salti mortali per fare questo aggiornamento! Insomma, non so neanche come sia venuto
questo capitolo (sicuramente ci sono errori, incongruenze, cretinate varie),
dopo una deleteria giornata a sfornare e impacchettare più di cinquanta
biscotti della fortuna, ma ci tenevo davvero a postarlo nel mio ultimo giorno
da minorenne. Fatemi sapere, aspetto una recensione come regalo *_* Grazie a
chiunque abbia seguito finora, baci a tutti, il mondo è meraviglioso!
Il
ritmo quotidiano era scandito con rigore da una campanella alle otto in punto,
che mai indugiava con clemenza in favore delle notti brave degli adolescenti.
Quella
mattina, Aurora, in virtù dell’incantesimo, era immune al sonno, ma le altre
quattro ragazze avevano gli occhi rossi e il viso stropicciato. Giada aveva
dovuto coprire le occhiaie con del correttore, Lena si era portata un thermos
di caffè; Rita, d’altra parte, aveva subito pazientemente i rimproveri di
quegli insegnanti che la sorprendevano nel dormire bellamente sul banco.
Ludovica, dopo la sua repentina e inspiegabile metamorfosi, si beava dei
complimenti per il suo nuovo taglio e, anzi, sembrava più sveglia del solito: aveva
persino risposto a una domanda di storia, e aveva risposto in modo corretto. La
professoressa Semenza, una donna piena di merletti fuori moda da almeno due
secoli, che solitamente veniva ignorata, aveva fatto un sorriso – a cui mancava
un po’ di esercizio per sembrare un sorriso -, quasi incredula che qualcuno si
fosse interessato alla sua lezione e ancora di più perché si era trattato di un
caso perso come Ludovica. Tanto era
contenta che aveva lasciato fare ai ragazzi quello che volevano per il resto
dell’ora Quando era squillata la campanella della ricreazione, nessuna delle
ragazze aveva avuto voglia di andare in bagno, tranne Ludovica che doveva
veramente andare in bagno: i
pettegolezzi erano tutti stati ampliamente discussi la sera prima. Mentre
quella sera si trovava sull’autobus per andare a casa di Marta, stava
ripensando a tutti quei particolari intimi
e imbarazzantiche durante quel
gioco, “obbligo o verità”, le amiche le avevano chiesto di rivelare. Nella sua
epoca era impensabile una cosa del genere!
Arrivata
a destinazione, venne ad aprirla come al solito la bambina, che era sola in
casa.
«Oggi
non viene Alessio?» chiese Marta guardando dietro Aurora, sperando di scorgervi
un’altra figura, e rimase un po’ delusa nel non vedere nessun altro.
«Oggi
no» confermò Aurora.
«Allora
devi farlo funzionare tu lo stereo» proferì la bimba, trascinandosela per il
salotto.
Aurora
si approcciò con cautela al congegno tecnologico; d’altronde, se aveva saputo
far funzionare un computer, si disse, non poteva avere troppi problemi. Marta
scelse dalla ricca collezione del papà il disco
nero, quello per cui aveva sempre avuto una speciale predilezione, e la
musica cominciò a suonare a tutto rock. Marta prese la spazzola per le bambole
e Aurora il telecomando e, facendo finta che fossero microfoni, si scatenarono
a cantare con parole inventate. Scuotevano i capelli come le rockstar e
ballavano per la stanza, facendo tanta confusione che a stento sentirono il
campanello. Abbassando un po’ il volume, Aurora andò alla porta e guardò dallo
spioncino. Riconosciuto il volto, aprì con gioia.
«Frankenstein
Junior» esibì la custodia di un DVD Alessio, sorridendo. «Questa volta era il
mio turno» spiegò allo sguardo sorpreso della ragazza.
«Non
pensavo che saresti venuto!» gli confessò Aurora. Lui si limitò a continuare a
sorridere e piegò la testa da un lato. Marta aveva preso la rincorsa e gli
saltò addosso gettandogli le braccia al collo e lasciandosi prendere in
braccio.
«Stavamo
cantando come le rockstar!» gli disse la bambina, che ormai impazziva
evidentemente per lui e ne aveva fatto un mito.
«Forte!
Accettate un nuovo membro nella cover band dei Bon Jovi?»
chiese, posando Marta a terra. Aurora, che avvertiva quell’imbarazzo che si sente
sempre quando si viene interrotti e poi si deve ricominciare a fare una cosa
spontanea, disse che non sapeva le parole. Alessio ci mise meno di tre secondi
nello stampare dal computer il testo di “Living on a Prayer”
e, mentre Marta continuava a inventarsi le parole, i due ragazzi seguirono su
quel foglio. Dopo una prima strofa un po’ impacciata, si divertirono da matti e
al termine della canzone si gettarono stremati e accaldati sul divano.
«Però,
te la cavi niente male!» notò Aurora, sventolandosi con la mano e si
arrotolandosi su i capelli.
«Ma
tu hai un vero e proprio talento» la elogiò Alessio, e in effetti, per Aurora,
quello del canto era davvero un dono, un dono
di battesimo.
«Rory,»
cominciò poi, facendosi serio. Finalmente aveva deciso di toccare l’argomento.
«Ce la faremo». Aurora lo abbracciò stretto, proprio a tenaglia come aveva
fatto Marta, e sentì che tutto sarebbe andato bene: non l’aveva lasciata, l’aveva
creduta ed era lì con lei e l’avrebbe aiutata!
Aveva
la bocca premuta sulla sua maglietta e il naso che gli sfiorava il collo, umido
e caldo, solleticato dalle punte dei capelli e restò anche un po’ troppo a
lungo a sentire quell’odore di buono.
«Popcorn!»
strillò Marta, interrompendoli.
«Mais oui, mademoiselle» si asservì immediatamente Alessio.
«Mais non! Maman non vuole che mangi sempre
zuccheri e grassi» la rimbeccò Aurora: ecco perché Marta aveva divinizzato
Alessio. «Ma accomodati aunotrerestaurant, prepareremo uno spuntino délicieuse» le
propose tirandole indietro la sedia per farla accomodare, come avrebbe fatto un
accorto maitre.
«Chef Rorì,
cosa propone di cucinare?» domandò allacciandosi un grembiule bianco con dei
pomodori disegnati.
«Un
piatto tipico delle mie parti, gnocchi
di formaggio» rispose cercando in frigo e negli stipi del formaggio fresco,
uova e farina.
Aiutata
dal garçon,
schiacciò il formaggio, lo salò e unì i tuorli d’uovo, poi unì il composto con
la farina, mescolandolo con le mani, e infine gettò le polpettine di pasta
nell’acqua bollente della pentola sul fuoco. Era la prima volta che tentava di
cucinare, ma tante volte era sgattaiolata nelle cucine e aveva spiato i cuochi
del castello all’opera. Quando gli gnocchetti vennero a galla dorati capì che
erano pronti e, pensando con ottimismo che non dovevano essere venuti affatto
male dal profumino che emanavano, li dispose su un piatto spolverandoli con del
parmigiano grattugiato. Marta sembrò gradire molto e i ragazzi ne prepararono
una seconda porzione per spizzicare durante il film. Aurora, che, conoscendo
Alessio, si aspettava scene scabrose, fu piacevolmente sorpresa dalla spassosissima
visione. E di nuovo, puntualmente, Marta ai titoli di coda si era già
addormentata.
*
Il
giorno dopo Aurora e Alessio decisero di andare a trovare la fata Fleur. La donna viveva in una zona di periferia, quasi in
campagna, in un’allegra casetta in mattoni con un grandissimo albero, ora
spoglio, in giardino. C’era fuori anche un piccolo forno a legna, e sotto la
pensilina c’erano vari innaffiatoi di latta in cui erano cresciuti lunghi fili
d’erba e fiori di campo. Davanti alla porta c’era un sentiero fatto di ciottoli
bianchi e dal comignolo della casa usciva del fumo: l’insieme rievocava
un’atmosfera fiabesca e si sarebbe detta decisamente la casa di una fata, molto
più di tutte le altre, alquanto moderne, che Aurora aveva visto. La donna che
andò ad aprirgli la porticina di legno dipinta di turchese aveva una carnagione
lattea, rosata appena sulle guancie, profondi occhi grigio-verde e i capelli di
un pallido biondo cenere. Fece accomodare i ragazzi davanti al fuoco del camino
che scoppiettava e lì dentro si respirava profumo di erbe e di menta piperita. Aurora
spiegò come mai si trovasse lì, ricapitolando per l’ennesima volta la sua
storia: per lei era come farsi una lista, ogni volta aveva più chiari in mente
i suoi obiettivi e le tappe fino allora raggiunte. Fleur
ascoltò e poi espose la sua richiesta, ovvero di prestare servizio di
volontariato alla mensa dei poveri. Soddisfatti, i due ragazzi ringraziarono
per l’ospitalità e salutarono, andando via.
«Allora,
pensavo che potremmo andare all’ora di pranzo di sabato, visto che usciamo da
scuola un po’ prima, e di domenica» programmò Alessio.
«Ascolta,
non voglio che tralasci la scuola e i compiti per seguirmi, non è necessario»
cercò di dissuaderlo Aurora.
«Ma
dai, i compiti, chi se ne importa dei compiti? No, sul serio, ce la faccio:
sono un paio d’ore il martedì e il venerdì con Marta e un altro paio d’ore
sabato e domenica, non è niente di più che se facessi un qualche sport, al
massimo mi bruci il tempo alla playstation ma era pur sempre ora di smettere,
no? Mamma vorrà che ti sposi, solo per questo. Anzi, ti aiuterei pure con le
e-mail, ma se tu insisti proprio così tanto ad occupartene da sola…» rispose
con foga.
«Grazie»
mormorò commossa. «Sì, per la corrispondenza di Fata Madrina insisto: deve essere una cosa fra donne» rilevò.
«Che
ne dici se ci andiamo adesso, alla Casa del Castagno? È lì che accolgono i
senzatetto» propose Alessio. E, ricevuto un assenso, si diressero in quel
luogo.
La
Casa del Castagno, il cui nome derivava da un castagno che ormai non c’era più
da decenni, era una casa intonacata di bianco, con l’umidità che macchiava i
muri, gli infissi vecchi e un giardinetto fatto di ghiaia in cui spuntavano
sporadici ciuffi di erbaccia. Suonarono al citofono e venne ad aprirgli
personalmente il cancello un ragazzo alto e bruno, che doveva avere sui
venticinque anni.
«Salve,
ragazzi!» gli tese cordialmente la mano e la strinse con vigore e calore. «Io sono
Massimo» si presentò. Aveva una voce simpatica, portava dei pantaloni larghi e
consunti e una maglietta di un gruppo metal.
«Io
sono Aurora e lui è il mio amico Alessio » gli sorrise «È un posto carino, qui
» disse per educazione.
«Cerchiamo
di mantenerlo come possiamo, ma siamo solo il signor Orazio, la signora Flora
ed io che ce ne occupiamo. Venite, vi faccio vedere» e così dicendo gli fece
strada all’interno della casa. «Ecco, questa è la sala mensa, non è il massimo
ma almeno per questo mese non ci staccano la luce. Venite in cucina, vi
presento la signora Flora». La signora, con il grembiule allacciato, stava
girando con il mestolo del brodo in una grande pentola. Dal ripostiglio emerse
anche un signore, che si presentò immediatamente come Orazio, il quale portava
una camicia colorata e degli occhiali da vista con le lenti solari sovrapponibili,
ma in quel momento sollevate, in modo da dargli un aspetto da gufo. «Di su
abbiamo anche delle stanze per accogliere i senzatetto» continuò Massimo «È
come una famiglia, qui» sospirò «Né il signor Orazio né la signora Flora sono
sposati e ora sono entrambi in pensione, fanno quello che possono, e così anche
io, ma ho anche le spese e gli impegni universitari: ogni mese viviamo il
terrore di non poter pagare l’affitto, ma soprattutto viviamo di una speranza.
È come una famiglia qui» ripeté ancora.
«Noi
vorremmo essere d’aiuto» espresse Alessio.
«Siamo
felicissimi di darvi il benvenuto!» affermò Massimo.
*
Quel
sabato, appena usciti da scuola, Aurora e Alessio andarono alla Casa del
Castagno. Massimo all’ora di pranzo non c’era, era impegnato all’Università, e
il signor Orazio cercava di servire il pasto a tutti. Aurora gli si affiancò
subito, mentre Alessio andò ad aiutare la signora Flora in cucina. «Buongiorno,
signorina» le dicevano tutti quanti, qualcuno con accento straniero, qualcuno
borbottando tra i denti, qualcuno mormorando timorosamente. Il signor Orazio li
salutava per nome e chiedeva loro come fossero andate le loro giornate.
«Ma
è tornata la nostra Sara!» esclamò un vecchio curvo, con i capelli e la barba
arruffati, vedendo Aurora. «Come ti sei fatta bella, non ce l’hai più quel muso
lungo, eh?»
«Geremia,
questa non è Sara, è Aurora» spiegò il signor Orazio a quell’ometto quasi
cieco. Aurora gli servì la minestra e lui se ne andò al tavolo dondolando.
«Chi
è Sara?» si incuriosì la ragazza.
«Veniva
qui, quando non voleva tornare a casa. Ha la tua età, credo, e anche lei ha gli
occhi azzurri e i capelli biondi» ricordò tristemente il signor Orazio. «Abbiamo
cercato di farla smettere, con la droga, ma alla fine… ogni tanto Massimo va a
trovarla in ospedale, dicono che fa bene parlare a chi è in coma».
Aurora
intuì che era una cosa grave e divenne più silenziosa e mesta. Dopo un bel po’
servirono tutti quanti e distribuirono della frutta e Aurora si dava da fare
operosamente, correndo dove era richiesta senza che il mugugnare di ognuno le
desse noia. Quando gli ospiti andarono via arrivò per loro il lavoro più duro:
dovevano ripulire i tavoli, i pavimenti, buttare gli avanzi e lavare le
stoviglie. Alla fine, Aurora e Alessio erano stremati, nessuno dei due nella
vita aveva servito qualcun altro, o svolto faccende domestiche, ma erano
pienamente appagati.
Il
giorno dopo tornarono altrettanto pieni di buona volontà. Ormai esperti,
occuparono le postazioni del giorno precedente con più consapevolezza e
lavorarono svelti, come in una catena di montaggio. Distribuita una porzione
alla dozzina di persone che c’erano in sala, anche i due ragazzi si sedettero a
un tavolo per mangiare qualcosa. A un trattò entrò un signore vestito con cura
e con il viso rasato, su cui spiccavano due baffetti scuri precisi, che
evidentemente non era lì per il pranzo. Non salutò nessuno e andò dal signor
Orazio per parlargli in disparte; il signor Orazio gesticolava in modo
drammatico e aveva una faccia preoccupata, mentre il signore elegante restava
impassibile e ripeteva qualcosa con durezza, per poi mettere a tacere tante
inutili lamentele e andare via, senza salutare. Il signor Orazio, affranto, si
spostò in cucina dalla signora Flora. «Stavolta ci fanno chiudere» annunciò.
«Non
dire così, Orazio, troveremo come pagare l’affitto a quello spregevole De
Rossi» scosse il capo la signora Flora.
«Stavolta
ci fanno chiudere davvero, te lo dico. Non è solo l’affitto, è che manderà
un’ispezione per controllare se tutto è in regola» disse, e allora la signora
si preoccupò sul serio anche lei. Non avevano i soldi per mantenere tutto in
regola, c’era tanta umidità, non avevano i riscaldamenti, né dei bagni
adeguati.
«Proprio
ora che ci era sembrato di ricevere una benedizione, con questi ragazzi» disse
la signora Flora senza osare staccare gli occhi da terra «Dobbiamo dirglielo»
Nel
frattempo tutti gli ospiti avevano finito di pranzare e Aurora e Alessio
avevano già cominciato a sparecchiare, quando videro i due signori uscire dalla
cucina e li assalirono.
«Che
succede?» chiesero, e il signor Orazio gli spiegò la faccenda.
«Ma
ci deve essere qualcosa che possiamo fare!» protestò Alessio, aggrottando la
fronte. Il signore alzò le spalle, non sapendo che rispondere.
«Ci
deve essere» insistette Alessio.
«Dobbiamo trovare un modo per avere dei soldi» cominciò, camminando attorno al
tavolo, come faceva ogni volta che girava ostinatamente attorno a un problema
che non quadrava. Massimo, intanto, era arrivato con la macchina appena aveva
saputo e in un baleno si era trovato con loro.
«Ci
vorrebbe un evento, come una festa di beneficienza» considerò, concentrandosi
assieme agli altri. Aurora e Alessio si guardarono, illuminati dallo stesso
pensiero.
«Una
festa!» esclamò Aurora, approvando l’idea di Massimo. «Ce ne occupiamo noi, a
scuola» risolse. Sapevano esattamente a chi dovevano rivolgersi per organizzare
una festa stratosferica: Giada Rinaldo.
Ritorno,
dopo secoli ma ritorno. Non sono particolarmente contenta di questo capitolo,
ma spero che mi farò perdonare con il prossimo, che prometto arriverà molto più
velocemente. Mi farebbe un immenso piacere sentire i vostri pareri, positivi,
negativi o neutri che siano, vi prego! Alla prossima, baci.
Se l’unica persona che potesse convincere
tutta la scuola a fare qualcosa era Giada Rinaldo, l’unica persona che potesse
convincere Giada Rinaldo a fare qualcosa era Fabio Baldovino.
Fabio era al quinto anno, era alto, con i
capelli corti biondo cenere e gli occhi scuri, un sacco di ragazze gli morivano
dietro e Giada era troppo orgogliosa per ammettere che le dava le farfalle
nello stomaco. Lui era sempre simpatico e carino con lei, ma era simpatico e
carino con tutte, e Giada non abbassava la guardia.
Aurora lo incrociò al bar della scuola e
gli andò incontro. «Ciao! Fabio, vero?, il rappresentante d’istituto? Io sono
Aurora. La mia amica Giada Rinaldo sta organizzando una festa di beneficenza il
cui ricavato sarà devolto alla Casa del Castagno, la mensa dei poveri che
rischia di essere chiusa. Ci serve un po’ di aiuto e mi rivolgo a te perché
vorremmo l’autorizzazione del preside per fare l’evento a nome della scuola»
comunicò come se stesse facendo campagna elettorale.
«Che bella idea ha avuto Giada, andrò
quanto prima dal preside e potete contare su di me per qualsiasi cosa» rispose
sinceramente entusiasta.
«Stiamo raggruppando un Comitato
Organizzativo Feste, sei dei nostri allora?» colse al volo la palla.
«Certo» accettò.
Più che soddisfatta, Aurora ringraziò per
la sua disponibilità e corse in classe ad informare Giada.
«Stai organizzando una festa di
beneficienza» la mise a conoscenza.
«Come, prego?» alzò un sopracciglio e
Aurora le spiegò la situazione della Casa del Castagno. «E perché mai dovrei
farlo?» storse il naso, insensibile ai problemi del basso volgo.
«Perché è un gesto altruista e generoso da
parte di chi è più fortunato aiutare le persone in difficoltà?» suggerì Aurora.
«Che me ne frega, sarà pure un po’ colpa
loro se sono dei buoni a nulla e sono diventati barboni» biascicò infastidita.
«Perché Fabio Baldovino crede che questa tua idea sia fantastica e sarà membro
del Comitato Organizzativo che allestirai?» ritentò mostrandole i vantaggi
personali.
«In effetti può anche essere che non sia
del tutto colpa loro» cambiò idea.
«Allora lo farai?» chiese emozionata Aurora
e allargò le braccia per stringerla.
«Sì» sbuffò «via, lasciasciami
o cambio idea». Aurora mollò la stretta e la guardò riconoscente «Non potrò mai
ringraziarti abbastanza».
«Questo è poco ma sicuro» rispose Giada e
Aurora non riuscì a capire se era ironica o meno.
«Noi avremmo pensato di fare le riunioni
del comitato in quest’aula dopo l’uscita, tanto la scuola rimane aperta» avanzò
Aurora.
«Voi?» aggrottò le sopracciglia, sospettosa
«Noi, ehm, io e Alessio…»
azzardò colpevole.
«Alessio non farà parte del COF» scandì
bene «Non ho bisogno di quel deficiente». Aurora boccheggiò, cercando di
trovare come ribattere ma Giada continuò imperterrita con le sue indiscutibili
decisioni «Basti tu per intrattenere i rapporti con quell’ospizio».
«Veramente non è un ospizio…»
«Fabio è rappresentante d’istituto e ci è indispensabile; inoltre avremo bisogno
di Rita»
«Perché dovremmo aver bisogno di Rita e non
di Alessio, scusa?» obiettò.
«Perché Rita può farci ottenere un sacco di
cose gratis: fidati, ha i suoi metodi per contrattare» diede una perfetta
risposta logica «Qui non si tratta di fare favoritismi verso chi ci sta
simpatico. Mi secca da morire ammetterlo, infatti, ma dobbiamo coinvolgere
Olivia, lei è la figlia del vicepreside. Poi… ah,
Piergiorgio» sorrise soddisfatta.
«Chi è?»
«Piergiorgio Ricci Gorgoni, fa il primo e
lo possiamo mandare a fare qualsiasi lavoro»
«Capisco»
«Bene» sospirò con evidente soddisfazione
«Fai in modo che si trovino tutti qui all’orario di uscita e dì a Piergiorgio
di comprare qualcosa da mangiare a pranzo per tutti» ordinò, mettendole fra le
mani una banconota da cinquanta euro.
Aurora eseguì il compito e all’una e trenta
i sei ragazzi si trovarono seduti ai primi banchi in quella stessa aula, su
ognuno dei quali c’erano rustici, dolci e bibite. Giada stava seduta alla
cattedra, invece. «Piergiorgio, chiudi la porta» ordinò, e un ragazzino basso e
smilzo, coi i ricci castano chiaro e alcune lentiggini sul naso, vestito come
fosse uscito da un film in bianco e nero, scattò subito in piedi per chiudere
la porta. Giada si girò e cominciò a scrivere alla lavagna un elenco.
«Stabilire una data» annunciò, toccando con
una matita il primo punto. Senza aspettare gli altri, avanzò la sua proposta «A
mio parere, il sabato prima Carnevale». Tutti si trovarono d’accordo, avevano
un mese pieno per definire l’organizzazione nei dettagli.
«Punto secondo, la location. Al Castello,
da me, c’è moltissimo spazio e, cosa fondamentale, non spenderemo una lira» e
anche qui, più che mai, nessuno ebbe da ridire. «Punto terzo: i soldi. Non
riusciremo a far rientrare il costo di musica, rinfresco, decorazioni nella
vendita dei biglietti, se vogliamo devolvere una cifra ragionevole alla mensa.
Dunque, ci servono finanziamenti e sponsor» comunicò esperta. I ragazzi fecero
delle proposte e Rita disse che conosceva un ragazzo che faceva il dj e avrebbe
provveduto a farlo suonare gratis, Fabio disse che avrebbe chiesto un
finanziamento alla scuola, Piergiorgio fu deciso che avrebbe schiesto di fare da sponsor ai negozi per feste, così da
avere le decorazioni in cambio di pubblicità. Le prime linee guida
dell’organizzazione furono abbozzate in poco più di un’ora e Giada, come una
leader aziendale, sciolse la seduta.
*
Giada era ferma davanti al distributore di
bibite e sbuffava rigirandosi tra le dita la carta di credito.
‹‹Rinaldi,
che succede, sei ridotta agli sgoccioli?›› gli si
parò davanti un ragazzo con aria canzonatrice.
‹‹Sai
com’è, solitamente non me ne vado in giro con le monete!›› gli rispose senza neanche
incontrare i suoi occhi. ‹‹Che c’è, sei venuto a
prendere a calci la macchinetta per sfogare la tua frustrazione esistenziale?›› lo provocò, seppur con scarso interesse, notando che
quello non accennava ad allontanarsi.
‹‹Che
umiliazione, Rinaldi, a dover accettare la mia elemosina›› sospirò il ragazzo, inserendo degli spiccioli
nel distributore e lasciandole scegliere una bottiglietta di acqua minerale.
Giada bevette un sorso, senza ricordarsi di rispondere qualcos’altro, e stava
già andando via, ma lui la seguì tradendo una certa ansia. ‹‹Senti…››
cominciò, parandosi di nuovo davanti a lei. Aveva un’espressione diversa dal
solito, i suoi capelli coprivano gli occhi chiari in maniera meno arrogante di
come Giada ricordasse, in maniera quasi indifesa. ‹‹Hai
organizzato un comitato festivo›› continuò, con una
voce bassa come svogliata. ‹‹Un Comitato
Organizzativo Feste›› non riuscì a trattenersi dal
puntualizzare Giada, anche se non aveva voglia di perdere tempo.
‹‹Quello
che è, avrò un credito scolastico se partecipo›› si
spicciò il ragazzo.
‹‹Sono
addolorata dall’idea di dover fare a meno di te, Andrea, ma siamo al completo›› finse una voce pietosa Giada. Andrea Cervo si
ricordava dopo quattro anni di carriera in menefreghismo verso l’istruzione si
ricordava che c’erano dei crediti scolastici?
‹‹Mi
devi un favore›› le ricordò. Aveva del ridicolo che
insistesse.
‹‹Ti
farò consegnare a domicilio una cassetta d’acqua minerale››
camminò ancora in avanti Giada, ma Andrea le venne dietro. ‹‹Rinaldi,
ascolta, io…›› riuscì a dire con fatica, ma si fermò;
continuava a guardarla con quel nuovo sguardo indifeso da dietro i capelli
lunghi sulla fronte e questo infuse un fastidiosissimo senso di confusione in
Giada.
‹‹Ma
sì, fai figurare quello che ti pare per i tuoi crediti, non ti disturbare
neanche a venire alle riunioni›› lo liquidò la
ragazza, e se ne andò lungo il corridoio.
Ma Andrea il giorno dopo di disturbò di
andare, di essere puntuale e di portarsi dietro con grande dignità la sua
solita espressione sfrontata. Piergiorgio lo guardava con disapprovazione e con
terrore di mostrargliela esplicitamente, mentre eseguiva una sfilza di compiti
per compiacere Giada. Stavano valutando parecchi dettagli tra cui il rinfresco,
quando Andrea disse che non avrebbe dovuto includere bevande, ma solo snack
molto salati da indurre ognuno a comprare almeno un drink. I soldi, disse, si
facevano con i drink: tutti vanno alle feste per bere. Con un po’ di sorpresa,
si resero conto che era un’idea vincente; Giada gli affidò il compito di tenere
i conti, Piergiorgio cominciò a guardarlo come il suo nuovo mentore e Andrea si
disturbò di andare a tutte le altre riunioni, puntuale e sfrontato.
‹‹Che
succede oggi?, non viene nessuno›› sbuffò Rita
guardando l’orologio. Mancavano Giada, Olivia e Andrea e dovevano decidere una
cosa importante quale il tema della festa. ‹‹Mando un
messaggio al capo›› disse Fabio; ultimamente, notò
Aurora, quei due non facevano altro che messaggiare
nelle ore di lezione. ‹‹Ah, eccoti!›› fece poi vedendo arrivare la ragazza. Giada aveva la
faccia sorniona di un gatto che è appena riuscito a sgraffignare qualcosa di
delizioso, ma si sedette alla cattedra con noncuranza e gettò indietro i
capelli. Di tutta corsa arrivò anche Olivia, trafelata e in disordine,
sicuramente umiliata dal fatto di essere in ritardo, e si sedette facendosi
piccola piccola al suo posto, mormorando qualche
scusa.
‹‹Possiamocominciare›› annunciò Giada. ‹‹MancaAndrea›› fece notare Piergiorgio, ma fu incenerito
per tanta audacia.
‹‹Ehi››
entrò Andrea, acchiappando un pacchetto di Fonzies
che, come sempre insieme ad altri stuzzichini, erano a disposizione di tutti.
‹‹Hai
la cerniera aperta›› disse Rita con un mezzo sorriso
guardando il cavallo dei pantaloni di Andrea.
‹‹Non
riesci proprio a non guardare proprio lì, eh?››
controbatté lui, richiudendola senza imbarazzo.
‹‹Se
non vi dispiace›› scandì Giada a voce alta, per
richiamare il silenzio ‹‹dobbiamo stabilire il tema
della festa. Io immagino qualcosa di molto elegante e raffinato, in stile
Montecarlo: lunghi abiti da sera per le ragazze, luci, roulettes,
tavoli da gioco foderati in velluto verde…›› cominciò
ad elencare con gusto.
‹‹Sarebbe
bello, ma abbiamo un budget che non ce lo permette››
la riportò coi piedi per terra Fabio. ‹‹Che ne dite
degli anni ’60?››
‹‹Hollywood
degli anni ’60, come in Colazione da
Tiffany?›› chiese Giada.
‹‹Veramente
avevo in mente qualcosa più in stile Woodstock›› le
sfatò il mito Fabio.
‹‹Che
pagliacciata, non intendo incoraggiare nessuno a credere che questa festa sia
un evento in cui fumare hashish›› rifiutò la ragazza.
‹‹Rocky Horror
Show?›› propose Andrea.
‹‹Rivoltante››
‹‹Medioevo?›› suggerì Aurora.
‹‹Medievale››
Furono bocciati Star Wars,
Pirati, Antica Roma, Antica Grecia, antico Giappone, Personaggi della storia,
Personaggi dei telefilm, Personaggi dei cartoni Disney, e cominciarono tutti a
seccarsi.
‹‹Io
ci rinuncio, non ti va bene niente!›› sbottò Fabio.
‹‹Forse…››
intervenne Olivia, con un altro tentativo ‹‹L’Inghilterra
vittoriana››.
‹‹Bigotta››
la stroncò subito Giada.
‹‹Visto?›› evidenziò esasperato Fabio.
‹‹Rifletti:
è un tema elegante e raffinato, abbiamo un tratto gotico, come i racconti di
Edgar Allan Poe, uno bizzarro e fantastico, come
Alice nel Paese delle Meraviglie, è adatto a chi ama Cime Tempestose e a chi
ama Sherlock Holmes›› spiegò Olivia con diplomazia,
con le sue erre rotolanti. Erano tutti abbastanza convinti e anche Giada
dovette ammettere che l’idea era vincente.
*
Quei giorni invernali diventavano presto
bui e freddi uno dopo l’altro e l’intera settimana volò via in un baleno. Il
tempo scorreva veloce e Aurora concentrava tutta la sua forza correndogli
contro, senza mai un momento di riposo.
‹‹Basta, signorì›› la ammonì un signore della mensa, quando vide che
il brodo stava traboccando fuori dal piatto. Riemersa dai suoi pensieri e
scrollando il capo stanco, Aurora si fermò immediatamente dal versare altre
cucchiaiate e si scusò.
‹‹Appena
finiamo qua, tu ed io ce ne andiamo da qualche parte che non ha niente a che
fare con il lavoro›› le disse Alessio.
‹‹In
realtà devo rispondere a una valanga di e-mail, più si avvicina San Valentino e
più sembrano sorgere problemi›› sospirò.
‹‹Visto
che hai molto a cuore le relazioni della gente, perché oggi non ti concentri
sulla storia di un povero ragazzo a cui manca molto la sua migliore amica?›› suggerì Alessio.
‹‹Se
la metti su questo piano…›› cedé Aurora, sorridendo.
Si sbrigarono a finire di servire tutti i
senzatetto e poi ripulirono la grande sala e nel primo pomeriggio tornarono
alla pista di pattinaggio. Ricordava come la prima volta che era salita sul
motorino di Alessio era molto scettica e, doveva ammetterlo, anche spaventata,
mentre adesso si ci era talmente abituata, così come a tanti altri oggetti e
usi di quell’epoca. Arrivati alla pista, presero i pattini, scivolarono sulla
lastra di ghiaccio e Aurora non sembrava migliorata più di tanto. Aveva ancora
bisogno di tenersi saldamente al ragazzo ma completarono senza danni il primo
giro, sempre vicini ai bordi, il primo giro intorno alla pista. ‹‹Hai la grazia di un
facocero in tutù di lustrini›› sogghignò Alessio.
Aurora, spalancò la bocca, risentita, e prima di scoppiare a ridere gli diede
uno spintone. Il ragazzo barcollò all’indietro, ma al posto di pensare a
rimettersi in equilibrio, si aggrappò per vendetta alle maniche del giubbotto
di Aurora, facendo sbattere entrambi al bordo duro e ghiacciato. Si
accasciarono rannicchiati in quell’angolo, con le ginocchia incastrate le une
nelle altre, finiti a terra proprio come era successo l’ultima volta. Erano
finiti premuti l’uno contro l’altra, coi nasi tanto ravvicinati che quasi si
sfioravano, e Aurora poteva sentire il respiro di Alessio uscire dal suo
sorriso tremolante, guardandolo negli occhi mentre entrambi avevano smesso di
ridere, e il suo respiro era invece trattenuto. Non era come l’ultima volta il
cuore che accelerava, era come non lo era mai stato; non assomigliava affatto
alla sensazione soffice e tiepida che aveva provato con Filippo, perciò non
poteva essere… No, era una sensazione aguzza e
rovente, quasi da far male, ma non riusciva ad allontanarsi. Non poteva essere.
Ma quando, continuando a non capire niente e lasciando che, con incertezza, la
sua testa si sporgesse in avanti, sentì il rumore infernale di una suoneria.
Sbatterono un paio di volta le palpebre, come riportati alla realtà, salvati o abbattuti
in extremis, poi Aurora rispose al cellulare.
‹‹Dobbiamo andare, è importante›› disse immediatamente risoluta, tralasciando
ogni traccia d’imbarazzo, dopo aver chiuso la telefonata. Avrebbe capito più
tardi.
Salve, miei carissimi che seguono. È iniziata la malefica scuola,
per fortuna è il mio ultimo anno, ma se troverò il tempo per mangiare sarà
molto. Da qui in poi la storia prenderà un’accelerata (ci voleva!) e spero di
aggiornare senza far passare troppo tempo. Sarei molto felice se commentaste,
anche in modo critico, per migliorarmi (rileggendo gli scorsi capitoli mi sono
annoiata da sola, ma spero di cambiare rotta), insomma per un autore le
recensioni sono più importanti di qualsiasi altra cosa e vi costano un solo
minutino *fa gli occhi da cucciolo*.
Bando alle ciance, saluti a tutti e alla prossima!!:D
Mietta
non ce l’avrebbe fatta e quel pomeriggio Annachiara
lo capì più che mai. Sarebbe rimasta con lei in ospedale per quel poco di tempo
che ancora potevano stare insieme e chiamò Aurora perché badasse alla figlia
Marta. ‹‹Ti lascio i soldi per questo extra sul tavolo
della cucina›› le disse al telefono.
Marta aveva gli
occhi rossi perché aveva pianto come una dannata: voleva andare con la mamma,
ma lei l’aveva lasciata a casa; Aurora e Alessio, quando arrivarono, provarono con
diversi giochi, ma non sembrava entusiasmarsi per niente.
‹‹Ci vediamo un bel
cartone animato?›› le propose Alessio ‹‹Qual è il tuo preferito?››
‹‹La Bella
Addormentata nel Bosco›› pigolò, arricciando il
musino, sempre giù di corda ma non indifferente a tutte le attenzioni del
ragazzo. Alessio aprì un mobiletto sotto il televisore dove erano sistemate in
fila decine di videocassette dalla custodia colorata e ne prese una che
riconobbe subito, così la inserì nel videoregistratore. Marta stiracchiò un sorriso
sul viso mentre vedeva scorrere le immagini. Ad Aurora sembrò strano,
decisamente strano vedere il film e Alessio ogni tanto la osservava di
sottecchi, come per confrontarla al personaggio disegnato.
‹‹Non mi hanno fatta
un po’ troppo scema?›› gli chiese, quando Rosaspina ballava
con il gufo vestito da principe nel bel mezzo del bosco.
‹‹Vagamente›› rispose,
contenendo una risata. ‹‹Questo bellimbusto, invece, è
stato fatto anche lui più scemo da quelli della Disney o era veramente così?›› chiese, quando arrivò Filippo.
‹‹Non mi sembra tanto
scemo, lui, nel cartone›› costatò.
‹‹Ah no? La guarda e puff!, si innamora di lei?››
obiettò, scettico. ‹‹Non dirmi che è successo davvero
così››.
Aurora arrossì di
colpo e si rese conto che non sapeva che rispondere: si, era successo così, puff!, ma lui non poteva capire. Non ha bisogno di troppe
parole il vero amore. ‹‹Vagamente›› rispose dopo un
po’. Sentì Alessio borbottare e sbuffare ogni volta che il principe Filippo
tornava sulla scena.‹‹Ma
veramente vuoi sposarti con questo qui?›› ritornò
sull’argomento.
‹‹Di grazia, perché
non dovrei?›› chiese un attimino innervosita.
‹‹Ti ho chiesto
perché vuoi, non perché devi›› rimarcò.
‹‹È la stessa cosa!
Che c’è, ora sei geloso?››
‹‹No, non sono
geloso, non capisco tutta questa fretta di sposarsi a sedici anni, a meno che una
non è incinta non si… oh cacchio, sei incinta?!››
‹‹Santo Cielo, no!›› farfugliò, rossa fino alla punta delle orecchie e leggermente
scioccata. ‹‹Allora tutti si sposavano circa a questa
età›› spiegò.
‹‹Allora tutti credevano
che il Sole girasse attorno alla Terra›› insinuò.
‹‹Zitti›› li ammonì Marta,
ora che stavano cominciando ad alzare la voce. ‹‹Devo
vedere come finisce››
‹‹Ma lo sai come finisce›› disse Aurora. Se Marta era tanto perspicace da
prevedere immancabilmente il finale di un lungometraggio mai visto, figuriamoci
se poteva dubitare su quello di uno così noto.
‹‹Questa volta non ne
sono tanto sicura›› rifletté invece, pensierosa.
La Bella
Addormentata nel Bosco, però, quella sera finì come tutte le altre volte, ad
una certa ora tornò il papà di Marta e Aurora, andando via, non prese i soldi
per l’extra.
Il giorno dopo Annachiara le telefonò per dirle che, grazie, da allora
avrebbe avuto tutte le sere a disposizione per stare con la bambina. Le chiese
di passare solo un’ultima volta, quando le fosse stato possibile, per farsi
consegnare la paga per tutte le sere in cui aveva lavorato più quella
dell’extra, che, suppose, aveva dimenticato di prendere.Ma Aurora passò nello stesso pomeriggio
soltanto per salutarla. Si sentì un po’ ipocrita nel promettere a Marta che
sarebbe tornata spesso per giocare con lei, quando in realtà sarebbe andata via
per sempre.
Con gli stessi
magone e senso di colpa, bussò alla porta di casa della fata madrina Violante.
E quando ne uscì, con un sacchetto pieno di polverina magica come ricompensa
per il lavoro svolto, si sentiva doppiamente male, poiché non riusciva a
sopprimere del tutto, in virtù dei legami di amicizia che stava stabilendo nel
“nuovo mondo”, quel senso di soddisfazione e tranquillità che le procurava il
pensiero di essere più vicina sulla strada verso casa.
*
Motivata dal
recentissimo traguardo, nei giorni seguenti Aurora si era messa d’impegno a
rispondere alle e-mail che fioccavano nella sua casella di posta elettronica. Era
proprio vero: più si avvicinava San Valentino e più i problemi sembravano
aumentare, e un sacco di ragazze avevano bisogno di una Fata Madrina. Era
arrivato il tredici di Febbraio e c’era chi richiedeva consigli e suggerimenti
sull’abbigliamento da indossare all’appuntamento e chi sui regali da fare, ma due
no.
Cara Fata
Madrina,
Oggi ci siamo
incontrati per caso in caffetteria e ci siamo scambiati appena un accenno di
saluto. La cameriera mi ha chiesto cosa volessi e, quando ho risposto “un
cappuccino con panna montata vegetale”, lui ha aggiunto “e una bustina di sale
a parte”. Ci siamo guardati e siamo scoppiati a ridere. “Ti ricordi?” gli ho
chiesto, la chiedevamo sempre la bustina di sale. Per un attimo mi ha guardata
come quando abbiamo chiesto la prima bustina di sale, e poi basta. Domani mi
guardo Via col vento. Credo di essere
felice,
Jet.
Cara Fata
Madrina,
Le cose vanno
sempre allo stesso modo: mio padre non ne vuole sapere di lasciarmi uscire con
lui e noi, comunque, qualche modo per vederci lo troviamo. Ultimamente a scuola
si sta impegnando, i professori all’inizio pensavano che copiasse, ma ora la
sua pessima fama si sta sgretolando: e anche se questo non farà ancora cambiare
idea a mio padre, noi domani usciamo comunque. Qualsiasi cosa succeda,
Vì
Aurora sorrise
allo schermo e stampò le due lettere: era fiera di aver portato a termine con
ottimi risultati il compito che spetta a una madrina. S’infilò la giacca per
andare dalla fata madrina Candida e, mentre era indaffarata fra l’infilare le
maniche e reggere i fogli, il cellulare squillava insistentemente. Maledisse
mentalmente quell’oggetto così inopportuno e rovistò alla cieca nella borsa per
trovarlo.
‹‹Pronto?›› rispose, uscendo di casa e richiudendo la porta dietro
di sé.
‹‹CiaoRory, non indovinerai mai cos’è successo!›› attaccò una voce vivace e allegra che riconobbe subito
come quella di Giada.
‹‹Immagino di no,
un indizio?››
‹‹Non importa, te lo
dico io: Fabio mi ha invitata al bowling domani sera!››
disse, con voce squillante. ‹‹Devo comprare un
vestito, e le scarpe, e la borsa›› cominciò a
elencare.
‹‹Mi sembra che le
scarpe te le diano là›› le fece notare Aurora.
‹‹Certo, e magari per
giocare è comodo un bel paio di pantaloni di tuta!›› disse
sarcastica ‹‹Dopo il bowling mi porterà a cena e devo
essere perfetta, quindi vieni immediatamente in centro››.
‹‹Ti raggiungo più
tardi, adesso devo anda-››
‹‹Ho detto: vieni
immediatamente!›› ripeté e chiuse il telefono.
Così Aurora
decise di rimandare e prese l’autobus per andare nel centro. Trovò già lì Giada
insieme a Lena ed entrarono in una boutique dalla vetrina sfavillante.
Nonostante fosse periodo di saldi, i cartellini registravano prezzi
esorbitanti, ma Giada non si preoccupava affatto di leggerli. Raccolse una
dozzina di capi e li portò in camerino, dove li provò uno ad uno, facendoli
vedere alle due amiche.
‹‹Che ne pensate di
questo?›› si mostrò con una camicetta beige, con una
gonna a vita alta color prugna e una cintura sottile in vita.
‹‹Fantastico›› ammisero Aurora
e Lena, e Giada, rimiratasi ancora un po’, si decise a comprare quei vestiti.
‹‹Lena, devi provare
questo!›› sospirò mentre arrivava alla casa e vide
uno splendido top turchese.
‹‹Non posso
permettermi niente in questo negozio›› evidenziò in
un bisbiglio l’altra ragazza. ‹‹Perché non andiamo al
centro commerciale? Chiamiamo anche Rita e Ludovica e facciamo una grande prova
d’abito comune per i costumi della festa›› propose
invece.
‹‹Sarebbe carino invitare
anche Olivia›› disse Aurora. Giada fu d’accordo e
Aurora pensò che questo fosse il magico potere del combo Fabio + Shopping sull’umore
dell’amica. Le sei ragazze, assieme a pacchetti di patatine e riviste di
gossip, affollarono i camerini di un negozio vintage di abiti usati del centro
commerciale.
‹‹Ludo, hai finito lì
dentro?›› chiamò Lena.
‹‹Non riesco ad
infilarlo!›› mugolò l’altra, uscendo per farsi
aiutare.
‹‹Genia, dovevi aprire
la zip!›› esclamò divertita risolvendo l’arcano. Una
volta chiuso, il vestito le stava a pennello e fu deciso all’unanimità che era
la scelta definitiva.
‹‹Forza, ora Aurora dentro›› la spinse Giada, passandole un primo vestito grigio.
Era sobrio, elegante, forse un po’ troppo lungo rispetto alla moda dell’epoca,
ma si vedeva bene in quel modo.
‹‹Potresti trovare di meglio›› le disse Lena.
‹‹Ehm…›› tentennò Olivia,
che si sentiva sempre un po’ imbarazzata in mezzo a loro.
‹‹D’accordo che con
quel fisico da supermodella ti potresti anche mettere un sacco di iuta e
restare carina, d’accordo che quel tuo ragazzo è talmente perso per te che
adorerebbe la iuta, ma credimi: con questo tutti ti scambierebbero per la mia
prozia Ilde›› commentò saggiamente Rita.
‹‹Alessio non è il mio
ragazzo e – e non è per niente perso, e…›› cominciò a
farfugliare.
‹‹Oh, guarda, qua c’è
un test: “È innamorato di te?”›› disse Ludovica, che
stava sfogliando le pagine colorate di una rivista per ragazzine.
‹‹Provaquesto›› le mise fra le braccia un altro vestito Giada e la
spinse nel camerino. Mentre Ludovica leggeva le domande, Aurora si provava
tutti gli abiti che via via le passavano.
Quando parlate, ti guarda negli occhi?
Preferisce passare il suo tempo libero con te?
È sempre disponibile a fare qualcosa per te?
Si offre di accompagnarti a casa?
Ha mai cercato un “incontro ravvicinato”?
Diventa geloso se parli di un altro ragazzo?
Sì.
Per ogni sì che
le avevano strappato di bocca – sì, la guardava anche quando lei faceva altro,
sì, passavano tanto tempo insieme, la aiutava anche se non glielo chiedeva e
quando tornava a casa lui aspettava giù finché non vedeva l’ascensore arrivare
al suo piano, e poi sì, c’era stato quel
momento sulla pista di pattinaggio e, sì, era geloso di Filippo – per ogni sì,
c’era stato un secco no ad ogni vestito che aveva mostrato loro.
‹‹Il risultato è: gli
piaci›› evidenziò Ludovica.
‹‹Era un test
approssimativo e superficiale›› ribatté Aurora,
uscendo dal camerino e facendosi vedere con l’ultimo abito che avevano
individuato per lei: era grigio-azzurro molto pallido, dal corpetto stretto e
un nastro rosa cipria in vita. I volti entusiasti delle ragazze volevano dire
una cosa sola: sì.
‹‹Rory, quando ti
ostini a non voler capire le cose più semplici mi rendo conto che sei idiota
almeno quanto lui e che siete schifosamente fatti l’uno per l’altra. Tieni,›› le diede il giornalino Giada ‹‹c’è
pure il test “Sono innamorata di lui?”››. Aurora
tornò nel camerino per rimettersi i vestiti che indossava quando era arrivata e
diede un’occhiata a quelle domande. Sorridi
quando senti la sua voce? Ti batte veloce il cuore quando è vicino? Vederlo ti
risolleva una giornata no? Sei infastidita quando parla con altre ragazze? Non
riesci ad odiarne neanche i difetti? Rischieresti di perdere qualcosa pur di
stare con lui?
‹‹Quanto ci metti? Non è
che anche tu ti sei persa con la zip?›› la chiamò
Lena da fuori e, lasciando perdere quel giornalino scema, si finì di vestire
alla svelta.
‹‹E ora è il turno
di Olivia›› dissero tutte, spingendo la ragazza
dentro. Si vestiva sempre con larghi maglioni colorati che più che coprirla la
nascondevano e fu strano vederla in un abito elegante, quando finì di
indossarlo: stava davvero bene. Era esile e pallida, con i capelli a spaghetto fino
a metà collo e le linee del volto sottili e appuntite.
‹‹Bene, molto bene›› si accarezzò il mento Giada, compiendo un giro
attorno alla ragazza nel valutarla. ‹‹Di sicuro non
rischierai di fare da tappezzeria›› ammiccò verso di
lei, che di tutta risposta abbassò leggermente il capo, mentre si faceva appena
rosa.
‹‹Anzi, ci metterei la
mano sul fuoco che hai già un accompagnatore››
sorrise come di un ghigno, come deliberatamente studiato per mettere a
disagio.‹‹O
mi sbaglio?››
‹‹No, nessun accompagnatore…›› si difese Olivia.
‹‹Oh›› sospirò ‹‹Mi ero illusa che ci fosse qualcosa fra te e uno dei
membri del nostro comitato››.
‹‹Ti eri
evidentemente illusa›› acquistò un po’ di
risolutezza. Aurora guardò spaesata le altre, ma ebbe una conferma sui loro
volti che non era l’unica ad essersi persa qualcosa.
‹‹Tutto lo lasciava supporre›› continuò Giada. Olivia si limitò ad alzare le
spalle, desiderando troncare quanto prima quella conversazione, e tornò nel
camerino per rivestirsi dei suoi abiti. A un tratto, un insieme di elementi
riaffiorarono nella mente di Aurora ricomponendo un puzzle.
‹‹Ma che hai?›› rinfacciò sottovoce a Giada, tirandola per un braccio da
parte.
‹‹Di cosa stai
parlando?››
‹‹Una volta avevi
detto che era Olivia quella ad avere una sorta di risentimento verso il genere
umano, e che l’unico modo che conosceva per sentirsi migliore era quello di far
sentire peggiori gli altri, allora perché ti stai comportando così?››
Giada si scostò,
fulminata, e boccheggiò. ‹‹Non sto facendo niente›› sibilò.
‹‹Dunque se non provi
nessun rancore non è il caso di divertirsi nel metterla a disagio››
le suggerì, stanca. Giada si fece paonazza e strinse i denti, senza esplodere o
dire nulla e continuò a mantenere un gelido silenzio mentre tutte quante le
ragazze andavano alla cassa, pagavano e uscivano dal negozio con delle grandi
buste.
‹‹Ti va un gelato,
prima di andare?›› chiese Aurora, avvicinatasi a
Olivia. Quest’ultima annuì, trattenuta un po’ da un certo disagio. Si sedettero
a un tavolino di una gelateria dentro il centro commerciale stesso e ci volle
metà cono finché una delle due cominciò a parlare.
‹‹Sai che ti dico? C’è
un solo modo per non vivere più nella continua angoscia di venire scoperti:
presentarsi da soli allo scoperto›› disse Aurora.
‹‹E tu come l’hai
scoperto?›› sorrise del suo stesso gioco di parole
Olivia.
‹‹Me l’hai detto tu›› le sorrise complice ‹‹o
meglio, scritto››.
Olivia aveva
tirato un pugno in faccia ad Andrea, lì era cominciata, e nello sgabuzzino
delle scope dei bidelli, lì era finita sotto gli occhi di Giada. Solo adesso
Aurora si spiegava che l’insistenza di Andrea al far parte dell’organizzazione
della festa era un modo per vedere Olivia, che la serietà nell’impegno
rientrava nel piano di risollevare la reputazione scolastica, che il padre di
Olivia che ne sapeva tante da giudicare il ragazzo era il vicepreside, che lo
sguardo sornione di Giada quel giorno in cui erano entrambi in ritardo,
disordinati e fuori posto, era dovuto all’averli sorpresi in atteggiamenti
strettamente intimi.
‹‹Ne sei sicura, che
sia la cosa giusta?›› chiese timidamente Olivia.
‹‹Assolutamenteno›› scoppiarono a ridere. ‹‹Ma
la fata madrina è qui per questo, per supportarti anche nelle decisioni pazze e
sbagliate››.
Certo, il
consiglio disinteressato e ponderato di un estraneo che non può giudicarti può
essere utile, ma una conversazione e un buon gelato con una persona vera a
volte possono farti sentire molto meglio. Solo allora Aurora capì che aveva veramente capito e svolto appieno il suo
compito e al termine di quella lunga giornata, tornò finalmente a casa con un
nuovo, terzo sacchetto di polverina magica.
Salve a tutti!
Finalmente torno con il nuovo capitolo, spero che non sia troppo
incomprensibile nell’ultima parte perché ammetto di averla scritta di fretta. L’ultima
scena l’avevo immaginata completamente diversa, sarebbe dovuta avvenire in un
pigiama party a casa di Giada e l’avevo immaginata tantissimo tempo fa (da
quella scena è persino nata gran parte della storia!), ma alla fine ho deciso
che così andava meglio. Non so se sia stata una buona scelta o meno, sono
terribilmente criticona nei miei confronti. Datemi i vostri pareri, come sempre
la parte migliore per un’autrice. Grazie a chi segue e a presto!
Se il buongiorno si vede dal mattino, già dalle prime
luci dell’alba era chiaro che quello non sarebbe stato un buon giorno. Aurora
si ritrovò con una massa informe, crespa e sfibrata sulla testa al posto dei
capelli e capì che aveva distrattamente scambiato il balsamo con lo sgrassatore
per le stoviglie. Innervosita, fece un capitombolo per le scale, perse il
pullman e arrivò in ritardo a scuola. Fece la figura dell’idiota dicendo di non
conoscere nessun Ludovico Ariosto – chi
è?, uno del primo anno? – durante una discussione in classe; e per finire
sentiva che le stava per arrivare un bel raffreddore, tanto aveva il naso
arrossato e gli occhi lucidi. Non vedeva l’ora di trovarsi a casa, avvolta in
una calda coperta di lana sul divano, ma quando finalmente si conquistò quella
posizione, il suo momentaneorelax fu
interrotto dalla suoneria strillante del cellulare, che cominciava vivamente a
darle sui nervi, tanto era importuno. Nel tentare di afferrarlo, inciampò nella
coperta e sbatté la testa a uno spigolo.
«Pronto?» sfiatò, rispondendo.
«Dove sei?» era Alessio.
Sorridi quando senti la sua voce?
Sì.
«A casa…» gli disse, scuotendo la testa come per
liberarsi di quell’espressione che si era resa conto di aver involontariamente
assunto: che sciocca, si disse.
«Oggi dobbiamo essere alla mensa!» le richiamò alla
mente. Si era completamente dimenticata: gli disse che sarebbe volata lì in un
minuto e in tutta fretta rinunciò alla dolce attrattiva della coperta e uscì di
casa.
«No comment» premise,
arrivando alla Casa del Castagno, anticipando ogni possibile domanda di Alessio
in merito al suo aspetto disastrato. Prese a rimescolare una pentola, sotto lo
sguardo divertito del ragazzo, che non sapeva trattenersi nel vedere un
cespuglio arruffato che incorniciava due occhietti da fumata e un naso
scarlatto. «E smettila!» lo rimproverò, sibilando torva e fulminandolo con uno
sguardo bieco.
«Sembri Joker, ti giuro» scoppiò a ridere.
«Sei un insensibile immaturo sbruffone ipocrita…»
cominciò a elencare Aurora, colpendolo in testa con il mestolo, finché Alessio,
ancora ridendo, non le scoccò per tutta risposta un bacio sulla guancia.
Non riesci ad odiarne neanche i difetti?
Sì, proprio non ci
riusciva.
Vederlo ti risolleva una giornata no?
Sì, proprio non riusciva a
togliersi quel sorriso ebete dalla faccia. Sentiva ancora un pizzichio sulla guancia e si era tutta accalorata – era il
raffreddore, di certo – ed era stata
qualche secondo in apnea, scordandosi di respirare.
«Basta, signorì!» la
risvegliò dal viaggio mentale in cui si era imbarcata un vecchietto della mensa
che stava servendo, la cui ciotola ormai traboccava. Un’altra volta scosse la
testa e cercò di concentrarsi su quello che stava facendo.
«Hai freddo, Rory?» chiese
dopo un po’ Alessio, notando dei brividi dovuti all’infreddatura e
appoggiandole le mani sulle spalle. A quel tocco, Aurora lasciò la presa del
piatto che stava pulendo con uno strofinaccio, facendo sì che si rompesse in
mille pezzi con un rumore sordo. Era crollata alla fine. Era inutile fingere
con se stessa, inutile dare la colpa al raffreddore, alle coincidenze se
arrossiva e se si rendeva conto di provare qualcosa.
Se ne rese conto in quel momento, con spavento e con il senso di smarrimento di
non sapere più cosa fare.
Alessio si chinò di fronte a lei per raccogliere i
cocci e lei, con il respiro affannato, si ritrasse.
Ti batte veloce il cuore quando è vicino?
Sì. Aveva paura che
andasse in frantumi tanto pulsava.
«Devo andare» si allontanò. «Io non… non mi sento bene»
balbettò.
«Mi sembrava, forse hai la febbre» le posò una mano
sulla fronte, rendendola ancora più agitata a quel contatto.
«Devo andare» ripeté ancora, in un sussurro, e scivolò
via.
Tornò a casa cercando di svuotare la testa da ogni
pensiero e si avvolse di nuovo nella sua coperta. Aveva solo voglia di stare
tranquilla, era chiedere troppo? Era stanca dei mille impegni, delle mille
preoccupazioni – e se fallisse tutto?
– e di non poter essere nel suo posto nel mondo. Si abbandonò a uno sbadiglio e
sentì il peso di quelle angosce premerle sulle palpebre, ma, appena chiuse gli
occhi, il suo respiro fu strozzato dallo sgomento.
«Lilac!» gridò, per farsi udire dalla sua fata madrina.
«Dimmi, mia cara» accorse presto la donna, preoccupata.
«Il potere dell’incantesimo si sta esaurendo. I due
mesi sono quasi scaduti e fra un po’ non potrò più restare sveglia. Presto
dovrò partire» spiegò, con voce tremante.
«Sapevi che questo momento sarebbe arrivato, cara. Ti
preparo un bel caffè per tenerti sveglia, prepara le tue ultime cose prima di
andare» le suggerì con dolcezza.
Aurora annuì e si alzò dal divano. Prese una borsa e vi
inserì un paio di libri che aveva intenzione di leggere ma ancora non era
riuscita a farlo. Avrebbe voluto portarsene di più, ma sarebbe stato troppo
compromettente e, anzi, avrebbe dovuto nascondere bene o addirittura bruciare
quei due. Prese anche un paio di jeans: sarebbero stati comodi per una
cavalcata a cavallo, nascosti sotto le gonne dei lunghi abiti. Infilò in borsa
anche un pacchetto di patatine, una biro e un pacco di assorbenti. Intanto,
Lilac tornò nel soggiorno con un vassoio su cui vi era una tazzina fumante e un
sacchetto.
«Ecco la mia parte» disse, riferendosi al sacchetto che
conteneva della polverina magica. «Come promesso, non chiedo nulla in cambio.
Voglio solo che tu sia felice, bimba mia, per cui ascolta il tuo cuore: se ti
suggerisce di andare, con questo mio dono potrai».
Aurora prese il sacchetto e non disse nulla, sul fatto
che non riusciva a capire cosa stesse dicendo il suo cuore. Ma al di là delle
sciocchezze che avrebbe potuto sparare, Aurora doveva andare, non esisteva altra soluzione, se non dormire in eterno.
Bevve in silenzio la sua tazzina di caffè, non dicendo niente neanche del fatto
che lo trovava disgustoso, ma certamente dopo si sentì un po’ più rinvigorita e
uscì di casa. Doveva andare dalla fata Fleur, la
madrina che le aveva chiesto di fare volontariato, per ottenere la ricompensa
pattuita, l’ultimo tassello mancante di quel puzzle.
«Ci rivediamo mille anni fa!» salutò sulla porta Fleur, un paio d’ore dopo, mentre Aurora usciva. Adesso,
non mancava niente; aveva bisogno soltanto di fare un’ultima cosa.
*
Driiiiiiiiiiiiiiin!
«Il campanello!» strillò Alessio, dal piano di sopra.
«Scendi ad aprire!» disse di rimando nonna Mietta, che
era in piedi su una sedia ad aggiustare una tenda.
«Vai tu, io sto facendo» ribatté il ragazzo.
«Ma che maleducato, signorino…» lo rimbeccò la nonna,
che alla fine andò ad aprire.
«Salve, signora» disse Aurora, entrando in casa.
«Ciao, Aurora, come stai? Alessio è in camera sua di
sopra, vai, vai. Oh, vuoi qualcosa da bere?» la accolse la donna.
Aurora rifiutò e salì le scale ed entrò piano nella
stanza del ragazzo.
«Ehi» lo salutò, un po’ impacciata.
«Sei venuta a piedi? Non avresti dovuto, prima sembrava
avessi la febbre» si preoccupò lui.
«Sto meglio» lo tranquillizzò. «Io… ecco… grazie. Non
ce l’avrei fatta senza di te e… beh, devo andare» formulò in modo un po’
sconnesso.
«Sei un disco rotto, oggi? “Devo andare”» chiese, confuso dal suo comportamento.
«Voglio dire che devo andare. È arrivato il momento» spiegò,
senza riuscire a guardarlo negli occhi.
«Cosa? Tu vieni qui e mi dici “Tante grazie, ciao”?» cominciò ad alzare la voce.
«Sapevi che prima o poi ci saremmo dovuti dire addio»
si difese, continuando a evitare il suo sguardo, che ora era acceso dalla rabbia.
«Non ora, non così! Senza aspettare la festa! Ma da
quella, giusto, non ne ricavi niente. Non ti interessa, vero?, non ti è mai
interessato di fare qualcosa per qualcuno se non per ottenere la tua
ricompensa. E dopo che sei arrivata al tuo scopo, tante grazie, ciao» sfiatò, senza riuscire a contenersi, come per
volerla punire. Punirla perché l’aveva usato e ora lo stava lasciando, perché
gli faceva del male il pensiero di perderla e perché era frustrato dall’idea di
non poterla trattenere.
«Non è vero» gridò Aurora, ferita, mentre il magone le
spingeva nella gola. «Lo sai che non è vero» sussurrò, con la voce rotta e le
lacrime che ormai non riusciva a ricacciare indietro «Non c’è un altro modo per
spezzare la maledizione».
«Guardami negli occhi e dimmi non stai scappando» le
prese il volto fra le mani e la costrinse a sorreggere il suo sguardo.
«Non posso fare altro » mormorò tremante.
Alessio lasciò la presa sul suo viso e rimase in
silenzio. Non c’era più niente da dire.
Aurora si girò e chiuse la porta alle sue spalle,
scappando fuori e sfogandosi in un pianto. Frugò in tasca, aveva degli
spiccioli. Tirò su con naso e si asciugò il viso bagnato con il dorso della
mano, avviandosi verso la fermata dell’autobus. Voleva andare alla Casa del
Castagno per servire anche la cena, anche se non le avrebbero dato alcuna
ricompensa: non era un’egoista come aveva sputato Alessio.
Quando entrò nella mensa, il signor Orazio, la signora
Flora e Massimo stavano ripulendo i tavoli ormai vuoti: la cena era già stata
servita da un pezzo. Il locale era spoglio e freddo e Aurora, starnutendo, si
strinse ancora di più nella sciarpa.
«Che ci fai qua?» la apostrofò allegramente Massimo.
«Sono passata per dare una mano» rispose, spazzando via
delle briciole inesistenti dai alcuni tavoli che erano già stati puliti, giusto
per tenersi occupata e non arrendersi all’inutilità.
«Non rimane molto da fare qui. Senti, io tra poco vado
via, vuoi un passaggio in macchina? Mi sembri infreddolita e reduce da una
pessima giornata» si propose Massimo. Aurora accettò, sforzandosi di tirare su
i lati delle labbra in un sorriso. Caricarono due grandi buste di spazzatura a
bordo per buttarle nel cassonetto durante il tragitto e partirono su un relitto
degli anni ’70 la cui radio riusciva ad emettere solo stridii, ma per lo meno
era dotata di aria calda. Massimo spense la radio e le gettò una rapida
occhiata prima di ritornare con lo sguardo fisso sulla strada, come ad
invitarla a parlare, ma Aurora continuò a stare zitta.
«Ci sono volte in cui capisci di non poter fare nulla
per te stesso, allora pensi, almeno, di poter fare qualcosa per gli altri» si
lasciò andare, dopo un po’, quando le lacrime tornarono a velarle gli occhi.
Non riusciva più a trattenersi, quel giorno.
«Ti va di venire con me a trovare una persona?» chiese
Massimo. Aurora disse ok e il ragazzo
svoltò in direzione dell’ospedale.
«C’è una ragazza, qui, si chiama Sara, forse l’hai
sentita nominare da Orazio o da Flora. Era sempre da noi, una volta» spiegò
Massimo, trovando parcheggio.
«Sì; sì, ricordo: una volta mi hanno scambiata per lei»
riportò alla mente Aurora. Il ragazzo la osservò e con un sorriso vago disse:
«In effetti un po’ la ricordi».
Giunsero in un corridoio del secondo piano ed entrarono
silenziosamente nella stanza 314. Sul letto, c’era una ragazza bionda, dal
colorito spento e intubata, collegata a una macchina che ne registrava il
battito cardiaco. Era più di tre mesi che non apriva gli occhi e i medici non
erano sicuri che ci fosse ancora qualche speranza. Sara era caduta in quel
sonno come a seguito di una maledizione, che ne aveva controllato la mente e,
confusa e disperata, l’aveva avvicinata al suo fuso: un ago infilzato in una
vena del braccio con l’ennesima dose. Quella finale.
Non sarebbe arrivato nessun Principe Azzurro, però, a
salvare con un bacio quella Bella
Addormentata.
*
Alessio non riuscì a toccare nulla a tavola, si alzò e
se ne andò in camera sua. Si stese sul letto assieme alle sue cuffie e fece
finta che non gli importava niente. Dopo un po’ sentì bussare alla porta ed
entrò sua nonna.
«Non ho fame, va bene?» attaccò prima di essere
attaccato. L’anziana non ribatté e si appoggiò sul bordo del letto.
«Avevo questa al collo, quando fui trovata» disse,
mostrandogli una collana con un medaglione dorato, su cui era decorato uno
stemma araldico, con uno scudo blu e un drago rosso rampante. «È tutto ciò che
mi lega ai miei veri genitori» spiegò.
Alessio stette ad ascoltare.
«Da piccola credevo di essere una principessa e che
grazie a questa mi avrebbero ritrovata» raccontò, senza una particolare
inclinazione nella voce. «La mia madrina mise una polverina dentro, facendomi
credere che fosse magica, e mi disse che grazie ad essa avrei potuto ritrovare
i miei genitori e chiunque amassi. Quando tuo nonno fu in guerra,
nell’aviazione, avevo smesso di credere nelle magie, e ormai non avevo più
bisogno di credere di essere una principessa, ma se non altro questa mi portò
fortuna».
Gli tese la collana e Alessio la raccolse. «Che cosa
significa tutto questo?» le chiese, un po’ confuso, osservando il monile.
«Lasciala andare. Se davvero ci tieni a lei, lascia che
vada» disse soltanto, uscendo e lasciandolo col dubbio se sua nonna sapesse
proprio tutto oppure se avesse un talento eccezionale nell’intervenire inconsapevolmente
come Deus ex machina.
Si rigirò ancora la collana tra le mani e passò un dito
sul ricamo dello stemma. Doveva lasciarla andare.
No, non sono morta. Giuro che entro il 12 maggio questa
storia sarà finita. Mi scuso immensamente per essere costretta a ripubblicare
un capitolo quasi identico a quello precedente, ma se non avessi apportato
questa modifica (come ho fatto a dimenticarmi?!) non si capirebbe più niente
nella trama. Domani o dopodomani pubblicherò il prossimo capitolo, che è al 99%
il penultimo.
Aurora aveva mandato giù altre tre tazzine di caffè,
quella notte, perché ancora non era pronta a partire. In fondo, aggiungendo tre
o quattro cucchiaini di zucchero quella bevanda non era così terribile e decise
di abusarne per resistere almeno fino alla sera della festa. Non era
un’egoista, non avrebbe abbandonato la gestione degli ultimi, frenetici e
fondamentali preparativi per l’evento solo perché non avrebbe avuto una
ricompensa. Dopo aver incontrato Sara aveva capito di essere davvero fortunata
di avere una possibilità, un contro incantesimo, e voleva fare il possibile per
coloro ai quali era negato.
Con gli occhi ancora più rossi del giorno precedente a
causa della stanchezza e del raffreddore, si trascinò a scuola. Prepararsi per
il compito di matematica fissato per quella mattina era stato, il giorno prima,
il suo ultimo pensiero e tremava di paura perché di trigonometria non ci capiva
davvero niente. Neanche era sicura che esistesse, la trigonometria, prima dell’anno
Mille, eppure tutti erano riusciti a vivere più che bene anche senza!
Stava nel cortile e si apprestava ad entrare a scuola,
quando si sentì chiamare da dietro. Voltandosi, vide il volto di Alessio che
sperava in una tregua.
«Mi dispiace» le disse «Ho esagerato, ieri, ho detto
una valanga di stronzate: tu non sei un’egoista codarda, quello sono io, che ho
avuto paura di perderti e sono andato fuori di testa» si scusò, con tono
concitato. Aurora gli posò una mano sulla spalla: è tutto apposto, voleva
dirgli.
«Devo andare» si allontanò lei sentendo il suono della
campanella.
«Ma sei proprio un disco rotto!» ironizzò con un
lievissimo sorriso Alessio.
«Compito di matematica» rispose lapidaria, a mo’ di
spiegazione.
«E allora? Che te ne frega, tanto non ci tornerai mai
più in questa scuola» alzò le spalle il ragazzo «Andiamocene, passiamo
un’ultima giornata insieme senza pensare a niente, facciamo tutte le cose che
non potrai più fare quando sarai a casa, salutiamoci e ricordiamoci così»
propose, entusiasta.
«Ma la riunione del COF? Non voglio pensare solo a me
stessa, ci sono centinaia di cose da sbrigare» era restia ad accettare.
«Dimentica quello che ti ho detto, ti prego. Non hai
mai pensato a te stessa e questa è la tua unica occasione per fare l’adolescente
sconsiderata» cercò di persuaderla ancora Alessio, afferrandole una mano e
portandola verso il cancello della scuola. Non avrebbe accettato un no come
risposta «Tranquilla, Giada è più che capace di gestire tutto anche da sola».
«Mm… allora, dove mi porti?» disse finalmente Aurora,
lasciandosi portare via e cominciando a correre con lui, sfogandosi,
finalmente, in una risata.
Corsero fuori dal cancello e partirono lontano dalla
scuola con il motorino. Andavano veloce, sicuramente più del limite consentito,
e il vento si scontrava, freddo e tagliente, sui loro volti.
«Allora, dove stiamo andando?» incalzò Aurora,
stringendosi al corpo del ragazzo per riscaldarsi. Il suo cuore sembrava un
tamburo.
«Alla stazione» rispose Alessio, mentre i boccoli biondi
dell’amica gli volavano in bocca. Dopo aver saettato per la città, depose il
cavalletto davanti a un grande edificio in cemento, in cui i ragazzi si
fiondarono. Non guardarono neanche il tabellone delle partenze e salirono sul
primo treno che arrivò al primo binario, senza sapere dove fosse diretto:
consisteva in quello l’avventura. Si andarono a chiudere nel bagno per sfuggire
al controllore, in quanto non avevano i biglietti, e stabilirono che ne
sarebbero usciti alla prima fermata. Il gabinetto era troppo stretto per
contenere comodamente entrambi e si sedettero per terra, con le schiene
addossate su una parete. Il treno, durante la corsa, li sballottava e spesso
finivano per cadere l’uno sull’altra. Ad un tratto, sentirono bussare alla
porta e trasalirono per paura di essere sorpresi lì dentro.
«È occupato? Sto aspettando da venti minuti» disse
spazientita una donna, quando Aurora fece capolino con la testa dalla porta.
«Mi scusi, il treno mi dà la nausea» si inventò Aurora,
modulando una voce spezzata e malaticcia. «Se vuole vada, ma faccia presto
perché credo di non poter resistere mol…» richiuse la porta e simulò il rumore
di un rovescio. Poi sbucò nuovamente e aggiunse «Vada». La donna, con una
smorfia schifata, rinunciò con garbo, venendo incontro ai precisi intenti di
Aurora.
«Grande!» disse Alessio, battendole il cinque.
Il treno dopo un po’ si arrestò, così Aurora spiò fuori
e, dando il segnale di via libera, entrambi sgattaiolarono fuori e scesero dalla
locomotiva. Erano arrivati in un paese di periferia, perso nelle campagne, la
cui stazione era più o meno desolata.
Si avviarono a piedi in centro e presero a suonare a
tutti i campanelli delle case per poi scappare, arrivando sfiatati dalla corsa
in un bar.
«Ho bisogno di una bottiglia d’acqua» sfiatò Aurora,
afflosciandosi su una sedia di un tavolino.
«No, no, due Gin Lemon» disse Alessio ad alta voce, per
farsi udire dal cameriere che lucidava il bancone con uno straccio.
«Alle nove di mattina? Quanti anni avete?» fece di
rimando l’uomo, con tono di scherno.
«Diciotto?» rispose Alessio, sperando di essere
creduto.
«Facciamo due Aperol,
ragazzini» concluse il barman.
«Avevo sempre voluto dirlo» chiarìAlessio, accigliato, facendosi udire solo da
Aurora.
L’uomo portò due bicchieri colorati con cannuccia al
loro tavolino e aggiunse «Non dovreste essere a scuola?».
«Entriamo più tardi, manca il nostro prof» mentì Alessio
con una faccia assolutamente angelica.
«Sicuro» commentò sarcastico il barman, evitando di
indagare oltre. «Tieni» gli portò sul tavolo un bicchiere colorato. «E questo
per la tua ragazza» gli strizzò l’occhio.
«No, n-non è la mia ragazza, cioè noi due… noi non è
che, voglio dire…» farneticò Alessio, imbarazzato, mentre Aurora si tinse silenziosamente
di rosso.
«Sicuro» concluse il barista con fare saputo e mettendo
fine alla discussione.
I ragazzi stettero in silenzio a sorseggiare le loro
bevande, con un po’ di timore nel guardarsi in viso, poi Aurora ruppe il
ghiaccio. «Che sono quelle cose?» domandò, indicando dei cabinati colorati che
emettevano rumore.
«Videogiochi!» rispose Alessio. Si decise che Aurora
non poteva aver vissuto senza fare una partita ai videogiochi, così inserirono
delle monete nei cabinati e cominciarono a sparare colpi virtuali, incallendosi
al gioco per un bel po’, dal momento che l’uno voleva sempre la rivincita
sull’altro.
«Ho vinto, ho vinto, ho vinto!» esultò Aurora, beandosi
di quella che Alessio aveva definito la fortuna del principiante.
«Veramente la prima partita era solo di prova, non devi
contarla» discusse lui «Siamo pari».
«Shhh» lo zittì, scuotendo
una mano.
Uscirono dal bar e girovagarono un po’ per il paese, ma
erano capitati in un luogo totalmente insignificante, tanto che alla fine non
trovarono niente di meglio che starsene sulle altalene del parco giochi.
Il medaglione di Mietta rimbalzava nella tasca di
Alessio, ma ancora non aveva avuto il coraggio di dargliela.
«Ti scriverò» promise Aurora. «Ti lascerò tutte le mie
lettere dietro un mattone del castello e le troverai tutte lì».
Alessio annuì e sorrise. A quel punto stava per tirare
fuori la collana ma un fulmine sfregiò il cielo e un tuono agghiacciante
annunciò l’arrivo di un diluvio.
« Presto!» le afferrò una mano e
corsero via, in cerca di un riparo. Ma non furono abbastanza veloci né
fortunati e in meno di cinque minuti si erano già ridotti come due pulcini.
Aurora si lasciò andare in una risata e smise di cercare di coprirsi, volgendo
il viso al cielo e prendendosi tutta la pioggia addosso.
«Scema, sei raffreddata» l’abbracciò come per coprirla
Alessio. «Guarda che dalle tue parti non li hanno gli antibiotici» le sussurrò
appoggiando le labbra al suo orecchio e provocandole un brivido lungo tutta la
spina dorsale. In quel momento squillò la suoneria del cellulare di Aurora,
sempre più invadente nei momenti peggiori; senza pensarci troppo o anche vedere
da chi provenisse la chiamata premette il tasto rosso.
«Non mi interessa» rispose lei, ancora stretta
nell’abbraccio del giubbino del ragazzo. Poteva vedere le goccioline di pioggia
adagiate sulle ciglia di Alessio, vicina com’era. Lui le posò una mano sul
viso, per spostarle i capelli ormai bagnati e poi le labbra sulle sue. Fu un
bacio molto bagnato, titubante e con un gran scontro di nasi, fosse stato un
bacio cinematografico avrebbe richiesto un secondo ciack. A volerlo tradurre in
parole, nessuno dei due avrebbe saputo farlo, non erano ben certi di quello che
stavano facendo, ma lo stavano facendo e non avrebbero voluto che finisse.
Si staccarono e rimasero immobili per un poco.
«Vorrei che ci fosse un altro modo…» mormorò Aurora, ma
Alessio scosse la testa: non voleva rovinare quel momento. Le passò un braccio
sulle spalle, come se potesse proteggerla da quel gran scrosciare impetuoso e
incessante d’acqua, e si incamminarono di nuovo verso la stazione.
Presero due biglietti (questa volta non volevano
correre il rischio di essere buttati fuori dal treno) e attesero su una
panchina, ancora stretti per scongiurare il freddo. Il treno si fermò con un
fischio e finalmente entrarono, prendendo posto sui sedili di velluto blu.
Nella tasca dei pantaloni di Alessio pesava ancora il medaglione. Lo estrasse e
lo allacciò al collo di Aurora, spiegandole cosa fosse.
Lei appoggiò il capo sulla spalla di Alessio e chiuse
gli occhi, mentre lui le appoggiò un piccolissimo bacio sulla tempia e per
quella sera smisero di parlare. In quel momento non sapevano se erano felici di
trovarsi così vicini o afflitti per essere, al tempo stesso, destinati a
rimanere così lontani. Alessio si sentiva a disagio nel bel mezzo di questi
sentimenti e sotto lo sguardo fisso del viaggiatore seduto di fronte a loro,
che li guardava con due occhi gialli da far paura.
*
Quando Alessio aprì la porta di casa, sua madre era già
lì ad aspettarlo con la sua espressione più terribile.
«Dove sei stato?» lo assalì.
«Io – io ho fatto soltanto un giro…» cominciò ad
accampare una spiegazione, trovandosi esageratamente a disagio.
«Non hai fatto una telefonata per avvisare! Non una!»
lo rimbeccò. «Mi hai fatto stare in pensiero, ti rendi conto di che ore sono?
Dio solo sa cosa sarebbe potuto succedere».
Alessio pensò bene che non fosse il caso di rispondere.
«Scordati qualsiasi uscita al di fuori della scuola, da
domani!» asserì con decisione.
«Mamma, domani c’è la festa, è La Festa» reagì mentre
il terrore si impadroniva di lui.
«Non mi interessa di nessuna festa» sua madre non
accettò altre decisioni. «Se vuoi cenare c’è un toast».
Alessio non considerò di striscio il toast e si chiuse
in camera sbattendo forte la porta. Era da non credere, essere trattato come un
bambino!
Passò una diecina di minuti a maledire ogni cosa,
finché non sentì bussare alla porta. Si alzò per aprire e trovò per terra il
toast e un biglietto.
“Ti copro io,
domani. Non abituarti, sarà la prima e l’ultima volta che lo faccio.”
Grazie al Cielo.
*
Sul cellulare trovò sei chiamate perse e provenivano
tutte da Giada. Aurora inspirò a fondo prima di richiamarla e subirne le
conseguenze, perché certamente l’avrebbe inondata di rimproveri per essere
sparita nel giorno più importante nell’organizzazione dei preparativi per la
festa. Non squillò neanche una volta che Giada fu pronta ad accettare la
chiamata premendo il tasto verde con violenza, cosa che Aurora, da casa sua, di
certo on poté vedere ma che intuì con la più assoluta certezza.
«Non tentare neanche di giustificarti» attaccò
impetuosa Giada «Non sopporterei che mi dicessi una bugia né che mi dicessi la
verità, perché so che in qualche modo c’entra quell’idiota che non devi neanche
nominare in mia presenza».
Aurora emise soltanto un profondo sospiro e restò ad
ascoltare.
«Ma ad ogni modo, non ho intenzione di infierire. Per
quanto sarebbe stata gradita, la tua consulenza oggi non sarebbe stata
fondamentale e ho predisposto ogni cosa perché nessun particolare sia
tralasciato e volevo informarti di questo» riferì ostentando diplomazia nel suo
tono di voce.
«Ok» mormorò in risposta Aurora, a cui non era esplicitamente
stato dato il permesso di giustificarsi, più che altro perché gli eventi di
quella giornata – l’evento di quella
giornata - l’avevano messa in una condizione tale da non riuscire neanche a
tentare di farlo.
«Tutto qui?» rispose Giada, sorpresa. In fondo ci
prendeva gusto ad appiccare discussioni, probabilmente perché dopo riusciva
quasi sempre a bearsi di aver ottenuto l’ultima parola. «Ah» sospirò
profondamente, in modo esasperato, come se avesse intuito il punto focale della
situazione. «L’ho detto, in un modo o nell’altro la colpa deve essere di
quell’idiota. A casa mia tra mezz’ora: serata d’emergenza tra ragazze» risolse
con il suo pragmatismo.
Aurora non ebbe il tempo di rifletterci sopra che già
era diretta verso casa di Giada, ma a posteriori avrebbe potuto dire che era
esattamente quello che ci voleva.
Definire casa Rinaldi semplicemente una “casa” era
troppo riduttivo. Il posto dove viveva l’amica era una grande villa appartata
da altre costruzioni, immersa in quello che più che un giardino sembrava un
boschetto. Da fuori appariva enorme e bianca, mentre dentro pavimenti e mobilio
che parevano usciti da palazzi reali ottocenteschi si accostavano con insolita
armonia alle moderne apparecchiature tecnologiche più sofisticate. In camera di
Giada c’erano, già in pigiama, Lena, Rita e Ludovica, che chiacchieravano e
mangiavano salatini. Un enorme televisore era acceso e sintonizzato su MTV,
dove trasmettevano la top10 della settimana. L’atmosfera era familiare, leggera
e spensierata, come solo nella camera rosa e colma di cuscini di piume di una
teenager poteva essere. Si divertirono e Aurora si scordò di pensare che quello
era l’ultimo pigiama-party. Si fece tardi – o meglio, si fece mattina molto
presto – e chiusero le luci per rintanarsi, ancora tra qualche commento
divertente e qualche risata più o meno soffocata, nei caldi sacchi a pelo. Aurora
rimase sdraiata nel suo giaciglio a guardare il soffitto nel buio pesto della
stanza per diversi minuti o forse ore, poi, cercando di non fare il minimo
rumore, si avvicinò alla finestra per guardare il cielo. Era una notte senza
luna e stellatissima. Si sedette sul davanzale della finestra, che era
piuttosto incavata e molto lunga e contemplò la Via Lattea giocherellando
distrattamente con il medaglione che portava al collo.
«Anche tu non riesci a dormire?» sussurrò in modo
lievissimo Lena.
Aurora le fece posto sul davanzale e scosse il capo.
«Certe volte penso che sia una tale perdita di tempo,
dormire. Sai che passiamo quasi due terzi della nostra vita dormendo?» disse
Lena. «Ma, d’altra parte, per lo meno è tempo impiegato in sogni» si corresse
da sola, guardando l’altra faccia della medaglia.
«Che cos’è?» le chiese poi, alludendo al ciondolo che
Aurora continuava a rigirarsi fra le dita.
«Oh, un vecchio monile di famiglia» rispose,
mostrandoglielo meglio.
«Sembra uno stemma di quelle casate reali medievali»
commentò Lena.
Aurora spalancò gli occhi e le si accese una lampadina
in testa. Uno scudo blu e un drago rampante rosso: ricordò dove l’aveva visto.
«Ho bisogno di cercare una cosa su internet» disse con
ansia. «È veramente importante» sottolineò in una supplica.
«Giada tiene il computer nello studio, ti mostro la
strada» le venne incontro Lena, senza impicciarsi.
Poco prima dell’alba Aurora completò le sue ricerche e
quello che inizialmente era solo un sospetto diventò una supposizione più che
fondata da dati accertati. C’era un margine di possibilità che era
semplicemente la sua speranza a far combaciare con un’estremamente curiosa
coincidenza di dettagli i vari pezzi del puzzle e sapeva che la posta in gioco
era troppo alta per correre un rischio del genere, ma la posta in gioco, se
avesse rischiato e vinto, sarebbe
stata ancora più alta.
Apologia dell’autrice: mi rivolgo a un pubblico fantasma
perché credo che ormai non la segua più nessuno questa storia, ma tant’è… Non
riesco a credere che stia per concludere, per la prima volta, un progetto “a
lungo termine” come questo, ideato così tanto tempo fa e che, nel corso del
tempo, è diventato una specie di contenitore di ogni fantasia che mi saltava in
testa. Chiedo scusa se il risultato può sembrare assurdo e talvolta (anche a
causa dei miei imperdonabili ritardi fra una pubblicazione e l’altra) sconnesso.
Ma alla fine, questa è una fiaba, da cui non volevo ricavare chissà quale
merito. Forse, solo, quello di averla raccontata fino alla fine – e per me è
già un gran risultato. Che rimaniate fantasmi o meno, ringrazio tutti voi che
avete seguito o anche solo sbirciato per sbaglio. Una vostra recensione (non
per forza positiva) significa davvero TANTISSIMO per me. Al capitolo finale, il
12 Maggio (cascasse il mondo mi sono giurata il 12 Maggio!).
La
sala più grande del Castello era decorata con grandi candelabri scintillanti,
vasi pieni di fiori lilla e bianchi, tavoli con lunghe tovaglie che cadevano a
terra, coprendo le gambe nella più solida tradizione vittoriana. C’erano
orologi dorati e antichi di ogni dimensione, servizi da tè e porcellana dai
colori tenui o con ricami a fiorellini, nastri messi a guarnizione in ogni
angolo. L’aperitivo era stato organizzato con dei bigliettini “drink me”,
scritti con calligrafia elegante, attaccati ai bicchieri, la musica era il brillante
risultato del dj di coniugare, mixando a dovere o intervallandole, melodie di
archi con la disco. L’atmosfera era estremamente elegante, ma nei colori e nei
dettagli erano stati dati anche un tocco bizzarro e un tocco gotico. I ragazzi,
man mano che arrivavano, non potevano che non rimanere stupefatti.
Sul
volto di Giada, invece, c’era un’espressione completamente diversa: non era
sorpresa, ma era soddisfatta e, guardandosi intorno, per lei era come vedere un
figlio educato nel modo più opportuno e premuroso fare una bella figura davanti
agli altri. Compiaciuta che tutto fosse al suo posto e soddisfatta di averne il
merito, restava comunque all’erta, per paura che neanche a uno stuzzicadenti
infilzato in un’oliva fosse permesso di rovinare l’estetica della festa. Non
riusciva a stare ferma un attimo, andava avanti e indietro per la sala dall’alto
dei suo tacchi dodici, rincorrendo sospetti che, fortunatamente, si rivelavano ogni
volta infondati. Senza che se ne rendesse conto, gli altri si stavano godendo
la festa molto più di lei. In pista c’era tantissima gente, anche Fabio, che
alla fine aveva smesso di rincorrerla per chiederle un ballo e si era lanciato
da solo nella mischia. Rita flirtava con il dj, Ludovica era esattamente al
centro della pista con Lena, Olivia e Andrea erano insieme che ballavano senza
preoccuparsi troppo degli altri. Quando arrivò Alessio (a piedi, perché era
uscito di casa di nascosto), aguzzò la vista in cerca di qualcuno che
conoscesse. In realtà cercava Aurora, ma l’importante era riuscire a nuotare in
quel mare di gente. Fece un paio di giri, costretto a sgomitare un po’ per
farsi largo, finché non andò a finire contro una persona.
«Deficiente!»
esclamò Giada, a cui nell’uro era volato dalle mani il drink. Per fortuna era
finito sul pavimento e non sul vestito, pensò Alessio, altrimenti avrebbe
firmato da solo la sua condanna a morte.
«Scusa!»
si affrettò a rispondere, con un’aria mortificata.
«Ah,
lascia stare» esclamò stizzita Giada, accompagnandosi con un gesto della mano,
come se volesse liberarsi di una mosca.
«M-mi
dispiace» disse Alessio. «Per tutto» aggiunse in un soffio.
Giada
lo guardò a lungo senza aprire bocca, soppesando quelle parole prima di
pronunciare un giudizio. Erano sei anni che non lo guardava in faccia.
«Lascia
stare» disse alla fine, in un tono paziente. «Aurora era vicino quelle
poltroncine in fondo a destra due minuti fa» gli indicò poi.
«Grazie»
le sorrise, allontanandosi di qualche passo. «Da qualche parte c’è anche chi
stai cercando tu, vai e goditi la tua festa» le suggerì.
«Senti,
non credere che adesso siamo tornati in confidenza e domani saremo a giocare a
nascondino nel parco» lo riprese Giada, ma era ironica. Aveva deposto l’ascia
di guerra e Alessio si sentì vagamente cretino, perché era bastato
semplicemente chiedere scusa e in sei anni lo aveva capito solo allora.
«Certo»
la tranquillizzò, con un mezzo sorriso divertito. «E comunque hai vinto tu: il
Castello non l’hai attraversato, me te lo sei letteralmente preso» le rammentò,
allargando le braccia per indicare quelle che un tempo erano delle rovine e ora
era il locale che apparteneva alla sua famiglia.
«Ho
avuto paura» confessò improvvisamente. «Sapevo che non c’era nessuna strega, ma
poi ho visto – sarà stata la suggestione – due terribili occhi gialli, sono
scappata correndo a più non posso, terrorizzata, e mi sono storta una
caviglia».
«Sono
stato proprio un…» cominciò Alessio.
«Deficiente,
sì» concluse Giada con leggerezza, senza alcuna traccia di rimprovero o di
risentimento nella voce, e si allontanò.
Alessio
stava per raggiungere Aurora, quando un lampo improvviso che balenò nella sua
mente lo arrestò sul posto. La strega! Gli occhi gialli che Giada, ora, credeva
di aver soltanto immaginato anni prima erano quelli di Carabosse,
che teneva d’occhio la principessa Aurora. Immediatamente pensò allo sguardo
terribile del passeggero sul treno seduto di fronte a loro il giorno precedente
e a tutte le altre volte che avrebbe potuto osservarla di nascosto, assumendo
aspetti sempre diversi e insospettabili, per registrare ogni suo movimento.
Erano stati degli sciocchi a pensare di poter spezzare la maledizione senza
vedersela con la fata che l’aveva scagliata. Persino nel cartone animato della
Disney non si ha nessun lieto fine prima che Malefica venga uccisa.
Carabosse,
Alessio ci avrebbe scommesso qualsiasi cosa, quella sera si trovava di certo in
quella sala. Insomma, nella fiaba toccava al principe risolversela con lei e
quella volta il principe, in un certo
senso, doveva essere lui. Per prima cosa, doveva trovare un paio di inquietanti
occhi gialli, poi, cosa di certo non meno importante, aveva bisogno di un
piano. Come ci si sbarazza di una fata? Ripensando a quello che aveva imparato
dalla fata Mietta, deve essere una sua scelta, di diventare mortale e vivere e
morire come una mortale. Gran bel guaio: non l’avrebbe di sicuro persuasa con
un discorsetto cortese e garbato a tu per tu, sui vantaggi di essere una persona. I pensieri di Alessio
viaggiavano a tutta velocità e il ragazzo si arrovellava per trovare una
soluzione, quando pensò cartone animato. Meglio non sottovalutarlo, lo aveva
appena appreso. Il principe Filippo trafiggeva una Malefica trasformata in drago,
cioè una creatura mortale! Non c’era tempo da perdere, doveva agire.
*
Aurora
guardò uno dei tanti orologi che si trovavano come decorazione nella sala.
Erano le dodici meno venti. Emise un sospiro: l’unica vera ragione per cui era
a quella festa, lottando titanicamente contro il sonno per restare sveglia, era
Alessio. E lui ancora non si era visto per tutta la serata. Si sedette su una
di quelle poltroncine imbottite, sfinita soprattutto dai tacchi, e appoggiò la
testa allo schienale. Strinse in mano il medaglione che portava al collo, in
cui aveva deposto tutte le porzioni di magia che aveva ricevuto da ognuna delle
fate, con una stretta al cuore. Era la scelta più importante della sua vita e
aveva paura, ma ormai non si sarebbe tirata indietro.
*
«Quando
tornerà indietro il principe la salverà» disse Alessio a una ragazza dai
capelli corvini, abbigliata, come tutte le ragazze della festa, con un vestito
di nastri e pizzi. Solo i suoi occhi, ipnotizzanti e famelici, tradivano una
natura del tutto diversa a quella che il suo aspetto giovane e fresco voleva
mostrare. La ragazza sussultò, evidentemente impreparata ad essere scoperta e
sorpresa dall’audacia di colui che la stava affrontando. Sorrise crudele.
«Oh,
io credo invece che il suo principe troverà qualche piccolo contrattempo»
rispose con estrema sicurezza.
«Potrai
anche trasformarti in un drago per combatterlo, ma vincerà lui» continuò
Alessio, senza lasciarsi intimorire. Il bene vince. Sempre.
La
ragazza rise, sprezzante. «Un drago, eh?» fu compiaciuta dall’idea. «Non male
come idea, nel ventunesimo secolo ne sapete pensare di scene epiche. Ma questo
non è un film di Hollywood e non finirà con un per sempre felici e contenti».
Alessio
rimase immobile mentre la ragazza si volatilizzò sotto i suoi occhi: aveva
ottenuto lo scopo di metterle la pulce nell’orecchio e, se i suoi piani si
fossero dimostrati esatti, Carabosse era appena
tornata nell’undicesimo secolo per trasformarsi in un mostro alato.
Aveva
fatto il massimo che potesse, sperava solo che nel frattempo Aurora non fosse
già andata via e che avesse il tempo di salutarla, per l’ultima volta.
Fece
un giro per la sala e la trovò accomodata su una poltroncina in un angolo.
Quando si avvicinò, vedendola un peso gravissimo gli piombò sul cuore.
«Rory!» la chiamò, in prenda all’ansia. Lei non aprì gli
occhi. Il suo corpo addormentato ancora lì poteva voler dire soltanto una cosa:
aveva aspettato troppo prima tornare indietro e alla fine non ce l’aveva fatta,
si era addormentata prima. E ora era tutto perduto per altri cento anni.
La
prese ingenuamente per le spalle e la scosse, come se in questo modo potesse
risvegliarla da quel sonno maledetto.
«Che
c’è?» biascicò Aurora, sbadigliando mentre apriva gli occhi.
Alessio
la guardò sbalordito. «Tu… non…» non riusciva ad articolare una frase. Ma
Aurora non gli diede la possibilità di chiederle spiegazioni, né si apprestò a
fornirgliene, si buttò addosso a lui e lo baciò quasi con violenza. Alessio
ricambiò e la strinse, affondando una mano nei suoi capelli; fu come se niente
al mondo importasse davvero in quel momento.
«Lo
sapevo» sentenziò Aurora, sussurrandogli sulle labbra appena si separarono.
«Che
cosa?» si incuriosì Alessio, con le orecchie che gli ronzavano. E non era per
la musica altissima che impazzava nella sala.
«C’erano
due clausole per rompere l’incantesimo: era necessario il bacio di un principe
e al tempo stesso il bacio del vero amore. E ieri sono successe due cose.
Primo, mi sono scordata persino il colore degli occhi di Filippo. Secondo, mi
sono ricordata dove ho già visto questo disegno» spiegò, indicando lo stemma
araldico sul medaglione. «È il simbolo dei Beynac, i
principi del feudo contro cui abbiamo condotto una guerra nel 985. Ho fatto una
ricerca e ho seguito la loro linea dinastica fino al 1904, quando nacque
l’ultimo discendente, Luigi Monteluce di Beynac. Non si sposò né ebbe figli legittimi, ma alcuni
particolari mi hanno fatto pensare che ebbe una storia clandestina con una
giovane domestica, che partorì un bambino nel 1929. Ho dato credito a questa ipotesi
e mi sono convinta che quel bambino fosse una bambina. A cui la madre affidò,
poco prima di morire, l’unico dono prezioso che possedesse da parte di un padre
che non poteva riconoscerla: questo medaglione» raccontò Aurora.
«Fammi
capire, io sarei discendente da parte di mia nonna di questi principi?» domandò
Alessio, facendo due più due.
«Sì»
rispose sorridendo. «E credo che tu abbia spezzato la maledizione».
Se
questo non era un finale alla Hollywood in cui tutti vivono per sempre felici e
contenti!
«In
tal caso, credo che Filippo si farà una bella lotta all’ultimo sangue con un
drago senza trovare alcuna ricompensa» ironizzò il ragazzo. «E anche noi, ci
siamo dati da fare per conquistare un potere che adesso non ci serve a niente»
«Oh,
io un’idea l’avrei su come usarlo» disse invece Aurora. «Vorrei salvare un’altra
Bella Addormentata».
Va
bene, Aurora era pronta a vivere nel ventunesimo secolo: ecco che anche lei
progettava qualche scena epica degna di un kolossal.
«Rory, credo che tu abbia visto un po’ troppi film americani:
d’ora in poi solo del sano cinema polacco» sentenziò Alessio.
«Ma
la prossima volta tocca a me decidere, è il contratto della nostra amicizia
rispettare i turni!» controbatté la ragazza.
«Hmm… in realtà credevo che dopo tutto questo casino la
nostra amicizia sarebbe diventato qualcos’altro».
Aurora
sorrise e, prendendogli la mano, lo condusse al centro pista, per concedersi
finalmente un ballo insieme. Più tardi avrebbero discusso della delineazione di
un nuovo contratto. E, naturalmente, di come salvare la fiaba e il perfetto
lieto fine.
*
Alla
fine della festa, Giada era contenta si essere riuscita ad avere il suo ballo
con Fabio e poi anche di aver raccolto per la causa della Casa del Castagno i
soldi necessari per metterla in regola e salvarla.
In
seguito, Aurora e Alessio videro un solo film polacco e poi furono d’accordo
nell’abbandonare il genere. Aurora dovette abituarsi all’idea di vivere per
sempre – o almeno fino alla fine del liceo – in un mondo in cui esiste la
trigonometria e dovette studiare come una matta per recuperare il compito che
aveva perso. Col tempo, si abituò a tutte le cose strane del ventunesimo secolo
e, anche se non completò mai tutta la lista dei libri che avrebbe voluto
leggere e i film che avrebbe voluto vedere, fece anche tante altre cose che non
aveva mai progettato di fare.
Giada
continuò a definire Alessio un “deficiente”, ma almeno lo insultava con molta
più simpatia di prima. Anche se non lo ammise, erano tornati amici, con un
tacito accordo.
Sara
si svegliò dal coma. I medici dell’ospedale non sapevano come spiegare l’evento
e diedero il merito a un miracolo. Solo Aurora e Alessio sapevano quale fosse
la verità. Avevano deciso di impiegare la polvere di fata per dare una
possibilità a quella moderna Bella Addormentata, a cui il destino non si era
curato di dare un contro incantesimo.
Per
quanto riguarda Filippo, fu contento di non dover sposare nessuno, almeno per
il momento, poiché non era pronto. Un matrimonio a palazzo comunque ci fu: alla
fine la dama di compagnia Maria e Marc convolarono a nozze.
Marta
presto imparò a contare fino a novantanove e c’erano ottime possibilità che
avrebbe compreso quanto prima che si poteva andare avanti fino all’infinito.
L’estate
successiva Aurora e Alessio fecero una gita in montagna e videro volare una
pernice bianca: a loro piacque pensare che fosse il loro Dixan, anche se era
quasi improbabile la coincidenza che lo fosse davvero.
È
vero, ci furono giornate no, delusioni, strappi muscolari, brutti voti,
figuracce, punizioni, fraintendimenti e lacrime. Ma, tutto sommato, possiamo
dire che alla fine vissero tutti per sempre felici e contenti.
Grazie:
grazie a chi ha seguito fino alla fine e anche a chi ha sopportato solo fino a
metà, grazie a tutti per avermi accompagnata in quest’avventura di cui sono
super contenta di essere riuscita (anche se ho corso contro il tempo questo
pomeriggio per scrivere) a mostrarvi la fine. Ebbene, è proprio la fine. Spero
che non vi deluda, non vi confonda, non vi risulti affrettata; in ogni caso,
fatemi sapere. Sarò sempre dietro questo computer a scrivere, per cui, se
vorrete, a presto!