La Maledizione Di Aktanasìl

di Lilith in Capricorn
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: Il raduno di Kurenerìs ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: Una visita inaspettata ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: La schiava di Kendart ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4: Il Principe di Katils ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5: La scelta di Urem Tolban ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6: Il ragazzo di Nihibuc ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7: Il miglior esploratore dell'Impero ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8: Le battaglie del fuoco ... ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9: ... e del ghiaccio ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10: Una commissione speciale ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11: Il canyon di Tincmek XI ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



 
Prologo
 

Gli impetuosi venti d'alta quota gonfiavano le robuste ali del ruh che levitava quasi con leggiadria nell'aria rarefatta, al di sopra di una spessa coltre di nubi. A quelle altezze, il mondo assumeva un aspetto quasi surreale e l'esistenza sembrava più un sogno intangibile che una realtà concreta. La luce solare, incredibilmente dorata, si rifletteva sulle candide nuvole spandendosi con infinita grazia tutto intorno e le due lune, Zèchtos e Zechtosèa, sembravano quasi due perle sospese nell'azzurro-dorato.

Immersi in quella luce, i dilemmi e le sofferenze del mondo terreno sembravano dissolversi, come se nulla avesse più importanza. Come se tutto smettesse pian piano di esistere. Questo, sebbene placasse i tormenti del vecchio Effimero, al tempo stesso lo spaventava, poiché era ben consapevole che era fin troppo facile, per quelli come lui, perdere la memoria e poi il senno, in quella pace.

I cieli più alti, infatti, brulicavano di Effimeri che avevano perduto se stessi nella quiete infinita. Quelli che si erano "addormentati" da poco potevano facilmente risvegliarsi grazie al rombo di un tuono, ma chi non aveva avuto la fortuna di incappare in tempo in qualche tempesta sembrava destinato a vagare in eterno, senza meta e senza speranza, in quello stato di semi-incoscienza. E questo il vecchio Effimero non poteva permetterselo.

Aveva un'importante missione da compiere: c'era una storia, vecchia di molti secoli, della quale bisognava scrivere il finale. Egli era parte integrante di quella storia e doveva ancora portare a termine il ruolo che gli dèi o la sorte gli avevano assegnato. Sospettava, anzi, ne era convinto, che l'inizio del capitolo conclusivo fosse ormai vicino e non era assolutamente il caso di inciampare proprio ora, al termine di un'attesa durata più di mille anni. Che disgrazia e che vergogna sarebbe stata!

Mentre era immerso in questi pensieri, intanto, sia lui che il ruh avevano superato già da un po' la coltre di candide nubi e ora volteggiavano sull'oceano increspato da altissime onde, giusto un po' più scuro del cielo che sfiorava all'orizzonte. Proprio lì, un lembo di terra si presentò alla sua vista: ormai era quasi arrivato.

Il ruh, invece, le cui ali azzurre erano di una sfumatura così identica a quella del cielo che il cielo stesso sembrava essere le sue ali, avrebbe proseguito ancora a lungo, fino alla misteriosa nebbia impenetrabile ... e oltre. I favolosi uccelli azzurri sembravano essere gli unici al mondo a conoscere il segreto delle nebbie, oltre le quali nessun uomo e nessun altro animale era mai giunto. Un giorno, però, molto presto, qualcuno avrebbe finalmente messo piede sulle terre dimenticate al di là dell'impenetrabile barriera. Così era stato predetto.

Quando il vecchio Effimero dovette a malincuore tornare a terra, per lui fu come risvegliarsi bruscamente da un bel sogno. Per sua fortuna, non dovette vagare a lungo prima di trovare ciò per cui era venuto: una donna. Una donna in procinto di mettere al mondo un figlio. Arrivò giusto in tempo, proprio nel momento in cui il piccolo veniva finalmente a farsi conoscere. Alla sua vista, le donne che si erano prese cura della partoriente sgranarono gli occhi e lo fissarono piene di meraviglia. La madre, invece, sorrise.

«Ecco» disse, «proprio come era stato predetto.»

«Come era stato predetto» ripeté il vecchio Effimero e, a quelle parole, la donna sussultò spaventata e posò lo sguardo su di lui. Le altre, invece, non potevano in alcun modo vederlo, né sentirlo.

"Sapete molte cose, mia cara" pensò, in un dialogo immaginario, "ma lungi da voi sapere tutto."


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Qui, invece, potete trovare il video introduttivo alla storia. Buona lettura e buona visione :).

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Capitolo 2
*** Capitolo 1: Il raduno di Kurenerìs ***


ATTENZIONE: Dopo che la pubblicazione era già avviata è stato aggiunto un prologo a questa storia, ma purtroppo EFP continua ad aprire il primo capitolo pubblicato (ovvero questo), quando si clicca sul titolo. Per una lettura più completa e corretta dell'opera, aprite il menù dei capitoli e andate prima a leggere il prologo. Chiedo scusa, EFP purtroppo ha tanti di quei problemi tecnici!
 
Capitolo 1: Il raduno di Kurenerìs

Il tratto di spiaggia che si snodava davanti al tempio di Kurenerìs era gremito di gente di tutte le razze, provenienti da ogni regione del Wesmark Meridionale e Settentrionale; eppure non si udiva una sola voce umana sotto le due lune, Zèchtos e Zechtosèa, che si rincorrevano tra le stelle nella volta celeste. Ormai quasi si sfioravano e presto la prima sarebbe passata dietro la seconda, scomparendo per qualche minuto. Solo allora avrebbe avuto inizio il rito finale e i cori sacri avrebbero rotto il silenzio.

Gli unici suoni udibili, ora, erano lo scrosciare delle onde sulla spiaggia, il crepitare delle torce disposte in cerchio, il clangore delle armi e i versi feroci e affannati dei tre guerrieri che stavano lottando al centro del cerchio di luci e volti truccati. Anche i tre lottatori avevano i corpi e i visi ricoperti di scritte e disegni: il primo portava su di sé i simboli del mondo terreno, il secondo quelli del mondo dei morti e il terzo quelli del mondo divino. Era una lotta all'ultimo sangue e, secondo le antiche leggende, in base all'ordine in cui sarebbero periti, i successivi dieci anni sarebbero stati duri o prosperi.

Serementìs non sapeva se credere o meno in quella che sembrava essere più una superstizione che un responso divino: l'ultima volta era stato il regno terreno a trionfare, eppure solamente i primi quattro anni erano trascorsi in pace e serenità. Poi, queste avevano lasciato il posto alla guerra contro i Katili, ma soprattutto Mahana aveva lasciato lei. O forse le era stata portata via, questo non lo sapeva e, probabilmente, non avrebbe mai avuto una risposta ai suoi dubbi.

Improvvisamente, con uno scatto del polso il guerriero che rappresentava il mondo terreno riuscì a ferire sul fianco il guerriero del mondo divino e uno schizzo di sangue caldo raggiunse il petto di Serementìs, che si trovava in prima fila, spalla a spalla con i capiclan del Wesmark Settentrionale. Era accaduta una cosa simile anche dieci anni prima, solo che lo schizzo l'aveva colpita dritta in faccia e il sangue non apparteneva ad un anonimo guerriero del nord, ma proprio a Mahana.

Ricordava di aver sentito il cuore stringersi in una morsa dolorosa e di aver rimpianto di non aver insistito per farla desistere: anche se morire combattendo era considerato un grande onore presso il suo popolo, non sarebbe mai stata in grado di accettare la morte di lei, nemmeno se avesse ricoperto di onore il suo nome nei secoli a venire. Difatti, sebbene Serementìs avesse perduto molte persone a lei care − i suoi genitori, suo fratello, il suo sposo, una figlia, molti amici − nulla l'aveva mai sconvolta quanto la scomparsa di Mahana.

Mentre la sua mente vagava su quei tristi pensieri, intanto il combattimento andava avanti e la stanchezza iniziava ad avere la meglio sui tre guerrieri. Quello del mondo terreno fu il primo a soccombere, contro ogni aspettativa, sgozzato dallo spaventoso rappresentante del mondo dei morti. Anche Serementìs ne fu sorpresa e si lasciò sfuggire un sorriso nostalgico: Mahana, probabilmente, avrebbe saputo prevederlo.

Le mancava quella sua capacità di anticipare cose che nessun altro avrebbe saputo prevedere. Quella era la sua vera forza, ciò che spingeva Serementìs a crederla ancora viva: una persona con un dono simile non era facile da uccidere e aveva tutti i mezzi per evitare di finire nei guai. Allo stesso tempo, però, quello era il principale indizio della possibilità che avesse lasciato il Wesmark volontariamente.

Se davvero le cose erano andate così, sperava solo che lei tornasse e che tutto finisse per il meglio, proprio come dieci anni prima, quando aveva deciso di partecipare al torneo. Serementìs l'aveva ritenuta una mossa azzardata e inutile, ma Mahana era stata irremovibile: «Il semplice fatto che vi prenderò parte convincerà i clan che sono come loro, una volta per tutte; che rispetto le tradizioni di questa terra e che voglio davvero battermi per il bene di tutto il Wesmark. Quando poi vincerò, sapranno che è la volontà degli dèi.»

Ebbene, aveva davvero vinto e quel suo gesto aveva spianato la strada all'alleanza tra il regno del Wesmark Meridionale e i clan del nord, riportando unità in quelle terre. Quando poi si era presentato sulla scena il nemico comune, l'Impero Katileo, la visione di Mahana aveva dato i suoi frutti ed erano riusciti a respingere l'invasione.

Serementìs si guardò attorno: oltre la prima falange del cerchio, gli uomini del Wesmark Meridionale erano mescolati con quelli dei clan, non si vedevano armi sguainate e lungo la spiaggia non vi erano vessilli di alcun tipo, a parte le effigi degli dèi. Negli altri due raduni a cui aveva preso parte non si era mai vista una scena simile: il suo regno e i clan erano ben separati e contrassegnati e gli stessi appartenenti ai vari clan si lanciavano tra di loro sguardi diffidenti, persino arcigni. Mahana aveva davvero fatto la differenza.

Un grido di sofferenza interruppe i suoi pensieri: il guerriero del regno divino era riuscito ad avere la meglio su quello del regno dei morti. Alcuni attimi di silenzio. Poi, un coro di eteree voci femminili iniziò ad intonare primi i canti sacri, mentre alcuni uomini raccoglievano tutto il sangue dei morti in delle ampie ciotole. I due cadaveri furono sistemati sulla lunga pira lungo la quale erano già disposti i nove corpi dei guerrieri che erano periti nelle prime due fasi del torneo.

Quando tutto fu pronto e la folla si fu radunata attorno alla pira, tutti alzarono gli occhi al cielo, in attesa che Zèchtos passasse dietro Zechtosèa. Serementìs aveva sempre amato la loro leggenda: i due dèi della distruzione e della rinascita erano nati attaccati a livello della nuca e ognuno poteva vedere attraverso gli occhi dell'altro e conoscere i suoi pensieri.

Poi Nanfi, l'ultimo degli Eroi, colui che li aveva involontariamente creati, aveva provato a rimediare al suo errore separandoli con la sua spada di ossidiana, ma così non aveva fatto altro che portare caos in un mondo già devastato dalla più cruenta guerra che mai fosse stata combattuta. E poiché i due non erano in grado di coordinarsi senza essere uniti, da allora riuscivano ad incontrarsi solamente quattro volte all'anno, in prossimità dei solstizi e degli equinozi, marcando l'inizio e la fine di ogni stagione.

Ora stava volgendo al termine quella estiva e presto i venti freddi del nord avrebbero portato anche a sud neve e ghiaccio: sarebbe stato il momento perfetto per attaccare i Katili che, provenendo da una terra baciata dal sole, avevano molte difficoltà ad affrontare i rigidissimi inverni del nord. Per farlo, però, avrebbero avuto bisogno dell'appoggio dei regni vicini, in particolare di quello del Mensmark, ed era per questo che i loro re erano stati ufficialmente invitati a prendere parte al raduno di Kurenerìs.

Pochi istanti dopo, finalmente le due lune si allinearono una dietro l'altra e la cerimonia della pira poté avere inizio: un coro di profonde voci maschili si mescolò a quelle femminili e il vincitore del torneo percorse l'intero perimetro della pira con una torcia ardente, dandola alle fiamme passo dopo passo. Mentre il guerriero svolgeva questo compito, i sacerdoti raccolsero tutte le ciotole in cui era stato versato il sangue dei guerrieri periti e si incamminarono tra la folla, tracciando simboli divini insanguinati sulla gola di tutti i presenti.

Finita la cerimonia, la gente fu libera di andare dove meglio credeva, eccetto che nel grande e antichissimo tempio di pietra, dove si sarebbe tenuto il Consiglio dei re e dei capiclan. Questi, oltrepassato l'enorme portone di legno scuro con i dodici Grandi Eroi del passato rappresentati in bassorilievi, andarono subito in fondo alla sala a rendere omaggio alla misteriosa e prodigiosa Kurenerìs.

La giovane era adagiata all'interno di un magnifico sarcofago dalla forma di una barca, senza coperchio e splendidamente intagliato e dipinto. La fanciulla che vi riposava, piccola di statura, pallida e con lunghissimi capelli rossi, era florida e in salute come se si fosse appena addormentata, ma in realtà giaceva in quelle condizioni da quasi quattordici secoli. Alcuni credevano che si trattasse di un imbroglio, ma Serementìs sapeva che non era così, poiché la prima volta aveva notato una cicatrice quasi invisibile sul dorso della mano destra e nel corso degli anni era rimasta lì, assolutamente immutata.

Nessuno era mai riuscito a comprendere il mistero del sonno di Kurenerìs, la giovanissima adepta di Fezàr, dio della natura e della materia, che quasi 1300 anni prima sarebbe dovuta diventare Maestra. C'era chi riteneva che fosse una vittima della congiura del Traditore, ma non si era mai capito quale fosse stato il suo ruolo all'interno della terribile vicenda. Non si sapeva se si trovasse in quelle condizioni a causa di un maleficio, o se gli dèi stessi avessero voluto proteggerla e non c'era modo di sapere se si sarebbe mai risvegliata. In ogni caso, era sicuramente in atto un prodigio e per questo la sua famiglia aveva deciso di dedicarle quel tempio, la cui fama si era diffusa in tutto il mondo.

Dopo aver lasciato una fugace carezza sulla fronte della fanciulla addormentata, Serementìs prese posto su una sedia dallo schienale alto alla sua destra e continuò a guardarla, mentre anche gli altri le sfilavano davanti. Osservando le varie emozioni riflesse nei loro occhi, la regina tornò con la mente al suo primo raduno: all'epoca era solo una bambina, ma già i sogni di gloria le ardevano in petto e, vedendo il rispetto e la meraviglia che la gente mostrava davanti alla ragazza, aveva provato invidia verso di lei.

Era stato allora che aveva giurato a se stessa che, una volta salita al trono del Wesmark Meridionale, avrebbe realizzato qualcosa che avrebbe affascinato e ispirato i posteri, nei secoli a venire. Nei suoi trentacinque anni di vita, Serementìs aveva già compiuto molte imprese degne di nota, ma la conquista dell'Impero Katileo l'avrebbe elevata quasi al rango degli antichi Eroi del passato. Era anche per questo che desiderava sollevarsi contro l'invasore del sud: non solo perché lo doveva alla sua gente, ma anche per portare a compimento quel vecchio sogno di gloria.

Mentre si ripeteva a mente il discorso che di lì a poco avrebbe pronunciato, osservò una ad una le facce dei tre re che si erano presentati: il giovane e affascinante Lodrenlos, recentemente salito al trono di Bretsia; l'austera Fenria, zia di Lodrenlos e Regina di Hairis; e infine l'anziano, ma ancora sveglio e vigoroso Jerr, Re del Mensmark.

Il solo a mancare all'appello era Brenverìs, Re del Kinsmark e cugino di Serementìs. Un'assenza che non aveva stupito nessuno: Brenverìs non aveva mai avuto spina dorsale e già da diversi anni aveva ceduto alle pressioni dell'Imperatore Kut e stretto alleanza con i Katili. Inoltre, tutti sapevano che tra lui e Serementìs non correva buon sangue, specie da quando Mahana aveva fatto la sua ultima comparsa proprio su un'isola appartenente al suo regno.

Quando tutti ebbero preso posto nel cerchio di sedie, il capoclan più anziano, col suo volto incartapecorito che quasi sembrava una maschera, sotto la scarsa illuminazione delle poche torce, si andò a mettere al centro per il discorso di apertura del Consiglio. Sebbene le varie lingue dei clan non fossero particolarmente diverse da quella parlata negli altri regni del nord, si era deciso che fosse meglio tradurre per i sovrani a sud del Wesmark che, avendo poca familiarità con quei dialetti, avrebbero potuto fraintendere qualcosa.

«Miei fratelli capiclan e miei re e regine del Wesmark, del Mensmark, di Bretsia e di Hairis» tradusse Serementìs, quando il vecchio iniziò a parlare, reggendosi a fatica col suo bastone, «ringrazio tutti voi per la vostra presenza. Ma soprattutto ringrazio i re a sud del Wesmark per aver accettato il nostro invito, con la speranza che abbiate apprezzato i riti e le cerimonie di questi ultimi tre giorni e che ne abbiate compreso l'importanza per la nostra gente.

«Per la prima volta, vi abbiamo aperto le porte del nostro luogo più sacro per mostrarvi la parte migliore del nostro mondo, quella per cui siamo disposti a combattere fino alla morte. In verità, non siete i primi forestieri a visitare questo luogo sacro: dieci anni fa una giovane donna giusta e valorosa venne a Kurenerìs, vinse il Torneo degli Eroi e degli Dèi e poi, durante questo consiglio, ci raccontò la sua storia.

«Ella proveniva da una terra molto lontana in cui non poteva più fare ritorno, poiché la sua gente era stata spazzata via dalla barbara furia dell'Impero Katileo. Ci parlò a lungo di quella terra, di com'era vivere lì e, ad ogni parola che lei pronunciava, noi potevamo vedere che ella non era molto diversa da noi, sebbene a prima vista lo sembrasse. La giovane donna sembrava capirci come una sorella e per questo decidemmo di accoglierla come una di noi.

«Il suo nome era Mahana ed è solo grazie a lei se noi oggi siamo qui, perché grazie alla sua storia abbiamo capito che c'è un'unica risposta efficace contro i Katili invasori: l'unità. Se Mahana non ci avesse convinti a unire le forze con il Wesmark Meridionale, il tempio di Kurenerìs oggi non esisterebbe più. Il suo messaggio è penetrato a fondo nei nostri cuori, poiché noi oggi siamo ancora qui, ancora in piedi, ancora uniti, anche se lei ormai non è più nel regno dei vivi.» Nel pronunciare queste ultime parole Serementìs dovette impegnarsi per non far vacillare il tono di voce stentoreo, o contraddire il vecchio capoclan.

«Mahana è riuscita a fare qualcosa di grande, qualcosa che andava oltre se stessa, oltre gli interessi personali e le glorie terrene. Io credo, nel mio cuore, che lei parlasse con la voce degli dèi e, anche se nessuno di noi presenti ha il suo dono, spero che riusciremo a fare anche noi qualcosa di grande, oggi.» Concluso il discorso, il vecchio tornò barcollante alla sua sedia e Serementìs prese il suo posto, squadrando ogni volto con espressione austera.

«Non crediate di essere al sicuro» esordì, rivolgendosi ai tre ospiti. «Nessuno di noi lo è. È vero, l'Imperatore Kut punta direttamente al Wesmark: ha già tentato più volte di sbarcare sulle mie coste. L'ultima volta ha persino invaso i miei cieli con le sue strane navi voltanti, ma grazie anche all'aiuto dei guerrieri dei clan le abbiamo respinte.

«Ditemi: secondo voi qual è la sua strategia? Perché è così intenzionato a mettere le mani sul Wesmark? La nostra terra è aspra, difficile da coltivare. Le montagne dei clan sono ricoperte dai ghiacci e non è facile estrarre oro e pietre preziose dalle miniere. I nostri mari sono gelidi, spesso congelati, e forti raffiche di vento portano tempeste e nubifragi disastrosi. Che interesse può avere l'Imperatore per il Wesmark?

«Ve lo dirò io: nel Wesmark c'è ben poco che possa interessargli, fatta eccezione per una dolce vendetta nei miei confronti. Il suo obiettivo principale siete proprio voi, i vostri regni. Se per ora non ha ancora osato attaccarvi è perché teme che questo vi spingerà a chiedere un'alleanza con noi e questo l'Imperatore Kut non può permetterselo: non riuscirebbe ad avere la meglio su un esercito tanto grande. Ma se riuscisse a mettere le mani sul Wesmark, allora vi ritrovereste circondati e soprattutto soli.

«Non sperate di ricevere aiuto da parte degli Arcipelaghi Orientali: da quando i Katili sono sbarcati sulla perduta isola di Rinno c'è tanta paura e instabilità che neanche riescono a pensare per se stessi. In questi anni, nella guerra navale contro l'Impero mi sono stati ben più utili gli assalti e le scorrerie dei pirati di Ruhbuc, che i rinforzi dei regni degli Arcipelaghi.

«Come vi ha raccontato l'anziano, anni fa abbiamo udito la testimonianza di una vittima dell'Impero e il suo racconto ci ha convinti che contro un nemico tanto forte dobbiamo unirci, tutti. Nella sua terra questo non è stato fatto e la gente che viveva lì è stata massacrata. I pochi sopravvissuti sono stati venduti come schiavi nelle terre dell'Impero. Mahana stessa si trovava su una di quelle navi assieme a due suoi parenti, quando l'ho salvata e portata nel Wesmark. Credetemi: non volete fare quella fine miserabile e disonorevole.

«Perciò, ora vi chiedo di riflettere sulle mie parole, mentre ascolterete anche gli altri capiclan. Questa sera apprenderete molte cose su di noi e sul nostro nemico; su come siamo riusciti a resistergli e su cosa sarebbe accaduto se fosse andata diversamente. Al termine vi lasceremo l'intera notte per discutere e prendere una decisione. Domattina, dopo aver ascoltato il responso dell'Oracolo, ci darete la vostra risposta. Spero che troverete questo incontro illuminante.»

*
 
La sala dell'Oracolo non era altro che un colonnato all'aperto, circondato da una fossa poco profonda riempita di una strana acqua ribollente. Lo spiazzo in cui il veggente faceva le sue profezie non era che un modesto esagono ricoperto di sabbia bianca, ma i vapori delle acque ribollenti e le sei colonne di marmo raffiguranti gli dèi conferivano al tutto un'atmosfera mistica, soprattutto quando calavano le leggerissime tende tra una colonna e l'altra.

Il veggente era una ragazzo, poco più che un bambino in realtà, ma probabilmente conosceva l'arte della profezia da quando aveva imparato a parlare. Serementìs non aveva idea di come si facesse a capire chi possedeva il dono della veggenza, dato che la magia era scomparsa dal mondo più di mille anni addietro, dopo la congiura del Traditore. In verità, a volte dubitava persino che fosse una cosa reale e affidabile.

Dopotutto, anche l'intuito di Mahana poteva essere facilmente scambiato per veggenza, e il Grande Sacerdote stesso dieci anni prima si era detto sicuro che lei avesse il dono, sebbene la donna lo avesse subito smentito. D'altronde, chissà, forse l'intuito non era altro che l'ombra dell'antico dono della veggenza, un vecchio retaggio di un tempo lontano e ormai perduto per sempre.

Mentre il sole pian piano si innalzava nel cielo, il giovane veggente trangugiava uno strano intruglio che i sacerdoti avevano preparato per lui. A giudicare dall'espressione corrucciata che faceva ad ogni sorso, doveva essere alquanto amaro. Dopo circa mezz'ora dall'ultimo sorso, il Grande Sacerdote disse che era il momento e accompagnò il ragazzo verso il colonnato. Quando furono sul ponticello che collegava l'isoletta esagonale col resto della terraferma, il sacerdote gli sfilò la leggera toga bianca che indossava e lo lasciò entrare nudo nell'esagono, abbassando la tenda al suo passaggio.

Qui, il ragazzino rimase immobile e silenzioso per qualche istante, poi, prima lentamente e dopo sempre più veloce, iniziò a danzare con grazia, trascinando la punta dei piedi per terra. Al suo passaggio i granelli di sabbia si spostavano, assumendo la forma che lui desiderava: non erano immagini casuali, ma gli antichi caratteri della sacra lingua degli dèi e, man mano che lui li tracciava, ne cantava le sillabe corrispondenti. Era così che si faceva, un tempo, per invocare gli incantesimi degli dèi: si scriveva la formula nella loro lingua, tracciando ogni linea nella giusta sequenza, pronunciandone mano a mano le parole.

Il ragazzo andò avanti così per diversi minuti, danzando sempre più rapidamente e cantando sempre più forte, in una spirale ipnotica di suoni e movimenti ovattati dalla semitrasparenza delle tende e dal ribollire dell'acqua. Poi si fermò e crollò improvvisamente a terra, il corpo scosso dalle convulsioni. Subito il Grande Sacerdote corse verso l'esagono e, una volta scostata la tenda, coprì immediatamente il corpo del ragazzino, accarezzandogli la fronte madida di sudore.

«Vedo grandi onde di risacca» proferì con voce stentorea, ripetendo parola per parola ciò che la voce tremante dell'Oracolo sussurrava. «Onde di risacca che si abbattono una dopo l'altra sulla scogliera alta di un fiordo. L'acqua scroscia e scroscia contro la roccia, mangiandola pian piano, anno dopo anno. Le onde indeboliscono lentamente la base, finché non crolla tutta la parete, trascinando in mare alberi e piccoli animali. Per alcuni la caduta è fatale, ma ora nuovi animali abitano le rocce precipitate e alghe verdi, bianche e rosse le ricoprono.

«Cancelli che prima erano stati chiusi ora vengono riaperti. Antiche nubi grigie e impenetrabili si sollevano, mentre una grande ombra inghiotte il mondo, ma le nubi e l'ombra sono entrambe la stessa cosa. Un filo di fumo azzurro sale dalle radici di un grande albero morto, che riprende vita al suo passaggio. Poi il fumo azzurro ridiscende sulla terra e va verso l'ombra, avvolgendosi a spirale attorno ad essa.»

A quel punto, il ragazzino tacque e altri sacerdoti e sacerdotesse andarono a raccoglierlo da terra per portarlo all'interno del tempio, dove avrebbe riposato indisturbato per il resto del giorno. Serementìs osservò le espressioni meditabonde e perplesse dei tre ospiti: probabilmente non avevano mai visto nulla di simile. Chissà, forse si stavano chiedendo quanto fosse credibile quell'ennesima stranezza del tempio di Kurenerìs. Interrompendo le loro elucubrazioni, la regina andò da loro e disse: «I veggenti sono strane creature: dicono tutto e niente allo stesso tempo. Spero che le sue parole non vi abbiano fatto sorgere dubbi sulla decisione che avete preso.»

«No» disse subito il giovane Lodrenlos, riscuotendosi per primo dal torpore mistico che aveva invaso le menti di tutti i presenti. «Per quel che mi riguarda, sono ancora fermo e deciso nella mia scelta. Sono con voi, mia Regina. Con voi e con la gente dei clan.»

«Lo sono anch'io, Regina Serementìs» lo seguì subito Fenria, rivolgendole quel suo sguardo affilato e profondo. «Vi ringrazio molto per l'opportunità che ci avete offerto. Spero che questo segni l'inizio di un nuovo periodo di pace e alleanza tra i regni del nord.»

Il vecchio re Jerr esitò un momento prima di sospirare e annuire. Non un segno molto incoraggiante, ma sempre meglio di un secco rifiuto o della codardia di Brenverìs.

«Molto bene» rispose Serementìs, con un leggero inchino. «Io ringrazio voi, miei Re e Regina, per aver accettato il nostro invito e prometto di rispettare i patti suggellati quest'oggi. Sento che questo è l'inizio di una nuova Era per il nord. Un'Era di prosperità e unità. I Katili invasori saranno respinti e i nostri nomi ricoperti di gloria per i secoli a venire.»

*
 
Durante il viaggio di ritorno verso Thos, la capitale del Wesmark Meridionale, Serementìs preferì volare e, sebbene le sue guardie fossero riluttanti, pretese di farlo da sola per un breve tratto. Dopo essersi fatta strappare la promessa di fare ritorno in due ore, la Regina prese a correre e poi spiegò le ali, prendendo il volo. Poiché era una faleyon solo per metà, il suo corpo non era minuto come quello della gente dell'aria e le sue ossa erano molto più pesanti, perciò dovette aiutarsi afferrandosi le ali per rafforzare i battiti.

Quando fu in aria, finalmente si sentì libera e si lasciò sfuggire un sospiro rilassato. Non le era mai piaciuto mostrare le sue genuine emozioni davanti agli altri, non voleva assolutamente dare un'immagine di sé che non fosse quella di una regina forte e impavida. Non amava mostrarsi preoccupata, insicura, o malinconica, quelle poche volte che le capitava di esserlo.

Di solito, se c'era qualcosa che la turbava, si chiudeva nelle sue stanze finché non riusciva a venire a capo del problema. Era anche per questo che sentiva moltissimo la mancanza di Mahana: con lei sentiva di potersi confidare e spesso i suoi consigli e i suoi pareri si erano dimostrati di grande aiuto. Mahana sembrava capirla come nessun altro, ma soprattutto da lei non si era mai sentita giudicata, o messa alla prova.

Ciò che in quel momento la preoccupava era soprattutto l'indecisione e la titubanza che aveva letto negli occhi del vecchio re Jerr, quando questi le aveva confermato la sua alleanza. Doveva agire con cautela, non poteva permettersi di dipendere da un alleato tanto instabile. Per prima cosa, bisognava rassicurare l'anziano re e convincerlo di aver fatto la scelta giusta. Era il momento di allontanare i Katili dai confini del suo regno.

Serementìs non avrebbe permesso che questi lo conquistassero, o che gli estorcessero un patto di alleanza: il Mensmark era fin troppo vicino alla costa occidentale del Wesmark e, poiché l'Imperatore Kut aveva già il Kinsmark di Brenverìs sulla parte sud-orientale, non poteva permettersi di rimanere intrappolata in un fuoco incrociato; sarebbe stata la fine. C'era poco tempo, bisognava inviare al più presto delle truppe nel Mensmark.

Dopo aver riflettuto un po' sulla questione, Serementìs ripensò a quello che aveva detto il vecchio capoclan a proposito di Mahana − che non era più nel mondo dei vivi − e al criptico responso dell'Oracolo: nulla nelle sue parole sembrava suggerire un suo ritorno, né dal regno dei morti, né da una terra lontana. Forse, allora, era davvero morta anni prima, come avevano confermato gli uomini che aveva inviato alla sua ricerca: uccisa nelle terre di Brenverìs, immersa tra quelle acque popolate di pesci carnivori. Morta e perduta per sempre.

D'un tratto, una familiare figura tra le fronde catturò la sua attenzione e il suo cuore perse un battito. Senza perdere tempo, si lanciò in picchiata verso il punto in cui l'aveva scorta, ma quando giunse a terra, affannata e con gli occhi lacrimanti per il forte vento, non trovò nessuno. Sebbene lo avesse visto solo di sfuggita, sapeva perfettamente di chi si trattava: un misterioso vecchio tutto ammantato, la cui barba grigia raccolta in due trecce spuntava dal lungo cappuccio che ne celava il volto. Spesso, lo aveva visto camminare a fatica, ma senza zoppicare, come se ad incurvarlo non fosse il peso dell'età, ma di un qualche misterioso fardello.

Di solito, si faceva annunciare dal ticchettio dell'inutile bastone marcescente al quale si appoggiava, per poi svanire all'improvviso, dissolto nell'aria come un Effimero, prima che lo si potesse avvicinare. Nel corso della sua vita, Serementìs lo aveva incontrato poche volte, subito prima di eventi particolari: la prima volta era stato il giorno antecedente alla distruzione di Thos da parte della bestia degli abissi, la seconda poche settimane prima che incontrasse Mahana e la terza la notte della sua scomparsa. Inoltre, sembrava che fosse presente ad ogni raduno di Kurenerìs da tempo immemore e non era stata l'unica ad avvistarlo in quel luogo; e tutti ignoravano chi fosse, da dove venisse e cosa cercasse.

Video Introduttivo

Rileggendo il capitolo, mi è sorto un piccolo dubbio: non sarà un tantino lungo? Dato che hanno tutti più o meno questa lunghezza qui, volevo chiedervi se pensate sia il caso di spezzarli a metà.

Nelle mie bio/note, troverete tutti i link alla mia pagina Facebook, Twitter, Tumblr eccetera ecctera. Sono praticamente su quasi tutti i social. Potete trovare "La Maledizione Di Aktanasìl" anche su Wattpad (il link del mio profilo è tra le bio/note).

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Capitolo 3
*** Capitolo 2: Una visita inaspettata ***


Capitolo 2: Una visita inaspettata
 
«Prille. Prille, svegliati» sussurrò Diomas richiamandola dal sonno col suo tocco incredibilmente leggero e accorto per un uomo della sua taglia, dotato di enormi mani callose da guerriero. Stirandosi con un leggero mugolio, Prille aprì gli occhi a fatica e non ebbe bisogno di domandargli il perché del risveglio a notte fonda: il clangore delle lame e le grida degli uomini parlavano da sé.

Poiché si erano accampati a breve distanza da un avamposto dell'Impero Katileo, doveva certamente trattarsi di un'incursione notturna dei soldati del nord, anche se nessuno si aspettava che arrivassero fin laggiù tanto presto. Che strana etica che avevano da quelle parti: gli uomini dei due Regni Gemelli, Wesmark Settentrionale e Meridionale, non attaccavano mai i villaggi e le città che incontravano nella loro discesa verso sud, se questi non insorgevano per primi contro di loro, ma non si facevano scrupoli a mettere in atto incursioni e azioni di guerriglia contro gli accampamenti e gli avamposti militari.

Inizialmente, quando aveva scoperto che preferivano scontrarsi solo ed unicamente con coloro che decidevano di impugnare un'arma contro di loro, schierati in campo aperto, Prille aveva pensato che dovessero avere un grande senso dell'onore e un forte desiderio di fare buona impressione agli dèi, proprio come a Falùsh, la sua terra natia. Ma quale uomo d'onore attaccava a tradimento, nel bel mezzo della notte? Che gloria poteva esserci in una vittoria ottenuta su uomini stanchi e assonnati?

Senza perdere tempo a vestirsi, Prille si alzò dal suo giaciglio con tutta la pesante coperta che si avvolse attorno al corpo minuto, caratteristico delle genti del popolo dell'aria. Stringendosi nel tessuto ancora caldo, si diresse immediatamente fuori dalla tenda e attraversò l'accampamento dei guaritori itineranti fino al margine esterno e poi su per la collinetta, oltre la quale la luce dei fuochi appiccati le abbagliò per qualche secondo la vista.

Quando i suoi occhi si furono abituati, vide che era già stato dato fuoco a diverse tende e l'intero accampamento dei Katili era in subbuglio. La cosa interessante, e anche un po' inquietante, era che l'irruzione era avvenuta sul lato ovest dell'accampamento, dunque gli uomini del nord dovevano aver fatto un largo giro, passando a pochissima distanza dal campo dei guaritori, senza che nessuno di loro se ne fosse accorto, neanche un veterano come Diomas.

Non che per loro rappresentassero un pericolo: l'accampamento era disseminato di bandiere dell'Ordine della Mandragora e i soldati del Wesmark avevano da tempo capito che quel vessillo indicava un luogo in cui chiunque poteva trovare rifugio, accoglienza e guaritori. L'Ordine, infatti, benché fosse stato fondato nelle terre dell'Impero, era totalmente indipendente e si occupava di curare i mali di tutti, a prescindere dalla razza e dalle origini. Specie nella divisione dei guaritori itineranti, temporaneamente stanziati nelle frontiere di guerra.

«Forse domani non avremo molti feriti, dopotutto» affermò Diomas, osservando la piega che aveva preso la situazione. Di solito le incursioni erano più delle azioni di disturbo, che dei veri e propri attacchi e, dopo aver distrutto e razziato un po', i Wesmarkiani si ritiravano alla svelta, prima ancora che i soldati Katili potessero organizzarsi. Stavolta, però, gli invasori si erano spinti ben oltre quel punto.

Come se gli dèi avessero voluto dimostrare che Diomas non aveva torto, proprio in quel momento videro zoppicare nella loro direzione un soldato mezzo vestito con la divisa dell'Impero, inseguito a breve distanza dalla figura slanciata di un soldato del nord. Il primo uomo stava risalendo a fatica la collinetta al limitare dell'accampamento e forse avrebbe potuto salvarsi raggiungendo i guaritori, se a pochi metri da loro non fosse inciampato e l'uomo del Wesmark, approfittandone, non avesse lanciato un'ascia che andò a conficcarsi nella nuca del pover'uomo, schizzando di sangue le vesti bianche dei guaritori. L'uomo andò a riprendersi l'arma, fissò ansimando il gruppetto per qualche attimo, poi si voltò e si diresse di nuovo verso l'avamposto.

C'era una strana regola non scritta sulla quale entrambi gli schieramenti sembravano concordare: l'Ordine della Mandragora poteva andare in cerca di feriti solo dopo che le battaglie si erano concluse. Per nessuna ragione bisognava prestare soccorso in fase di combattimento, a meno che il ferito non riuscisse a raggiungere il campo dei guaritori con le sue sole forze. Ne andava della loro stessa vita, questo i guaritori lo sapevano bene. In particolare, i soldati del Wesmark non si facevano scrupoli ad uccidere chiunque tentasse di strappare la vita di un uomo dalle loro grinfie. Sebbene alla guaritrice che era in Prille questo non piacesse, un'altra parte di lei, più vecchia e mai dimenticata, capiva e accettava questa regola.

Ben presto, tutti i guaritori furono svegli e si unirono al gruppetto sulla collina, ad osservare lo spettacolo di fiamme e grida, col pensiero rivolto all'imminente, disperata ricerca di qualche ferito grave scambiato per morto, che forse sarebbero riusciti a salvare. Ce n'era sempre qualcuno. Una volta, Prille aveva persino trovato un soldato che si era finto morto per cercare di salvare la pelle. Memore del suo addestramento, lontano negli anni, ma sempre vivo nella mente, Prille non aveva potuto fare a meno di rimarcare quale stupida idea fosse stata e quanta fortuna lui avesse avuto.

«Avreste potuto finire calpestato da un tarkal, o peggio avrebbero potuto scoprirvi» lo aveva ammonito. «Non so che considerazione abbia la vostra gente dei codardi, ma a Falùsh vi avrebbero giustiziato seduta stante!»

Mentre ripensava a quell'uomo sconsiderato, chiedendosi distrattamente che fine avesse poi fatto, Prille venne nuovamente scossa con delicatezza da Diomas, il quale si chinò lentamente fino all'altezza delle sue spalle, per poi distendere il braccio in modo che lei, seguendolo con lo sguardo, puntasse gli occhi nella direzione da lui indicata. «La vedi, Prille?»

La donna scosse la testa. Diomas aveva sempre avuto dei sensi incredibilmente sviluppati: riusciva a vedere, sentire e odorare qualunque cosa con grande anticipo su chiunque altro; per questo era inquietante che i Wesmarkiani fossero riusciti a sgattaiolare così vicini al loro accampamento, senza essere notati. L'unico suo senso che sembrava essere normale, se non addirittura inferiore, era il gusto: riusciva a trangugiare letteralmente qualsiasi cosa, non importava quanto fosse bruciata, malandata, poco cotta, piccante, o semplicemente disgustosa. Chissà, forse era a causa di quegli alcolici così forti che tanto amava e che a volte erano sufficienti a stendere i pazienti da operare, anche senza l'aggiunta del succo di mandragora.

Continuando a osservare in direzione della costa, dopo qualche minuto Prille scorse finalmente un'enorme sagoma fluttuare dolcemente al di sopra delle acque del Mare Interno, illuminata dalle fiamme che divoravano parte dell'avamposto. Poi, improvvisamente, vide levarsi una gigantesca fiammata in una sezione dell'accampamento già totalmente occupata dagli uomini del nord con i loro vessilli. La fiammata dalla sfumatura tendente al verde si spense altrettanto velocemente, ma non prima di essersi voracemente attaccata ad alcuni degli uomini.

«A quanto pare, stavolta è andata bene all'Impero» constatò Prille, scuotendo la testa con un sorriso incredulo.

La nave volante, sulla cui prua era ora visibile una polena raffigurante un tarkal rampante, simbolo dei Katili, sganciò una seconda sfera di sangue di Mut, un liquido infiammabile noto sin dai tempi antichi, ma che solo di recente Prille aveva visto impiegare in battaglia, e subito una nuova fiammata verde divampò sul lato ovest dell'avamposto, illuminando lo scafo parzialmente incrostato di alghe e parassiti marini.

Man mano che la nave si avvicinava fluttuando e le fiammate verdi aumentavano, gli uomini del nord iniziavano a ritirarsi, abbandonando l'avamposto. Non aveva senso insistere: l'accampamento era praticamente distrutto, i soldati che vi erano stanziati quasi decimati; ci sarebbero voluti giorni, forse settimane per ricostruire tutto e rinforzare le difese. C'era tutto il tempo per organizzare un nuovo attacco, sarebbe stato sciocco rimanere lì a farsi bersagliare dalla nave.

Per un po', alcuni dei superstiti tentarono un coraggioso inseguimento, ma ben presto dovettero rinunciare. Dopo aver fatto ritorno, accolsero pieni di gratitudine i loro salvatori dal tempismo perfetto, per poi occuparsi tutti insieme dei principali danni arrecati all'accampamento, a partire dai fuochi ancora ardenti e i feriti da soccorrere.

«Forza» disse Prille rivolgendosi ai suoi compagni guaritori, «iniziamo a preparare i giacigli, i sedativi e gli strumenti per operare. Tra non molto inizieranno ad arrivare i primi feriti.»

«Coraggio» aggiunse Diomas, voltandosi e dirigendosi per primo verso l'accampamento dei guaritori, dopo aver dato una pacca sulla spalla al ragazzo alla sua sinistra.

*

Come Diomas aveva predetto, non arrivarono molti feriti, ma le ore seguenti furono comunque estenuanti. Tra arti da amputare, ferite da suturare e ossa rotte da steccare e fasciare, Prille si ritrovò a dover eseguire anche una complicata operazione su un uomo che era stato colpito con tale forza alla testa che la lama, probabilmente quella di un'ascia, aveva spaccato in due l'elmetto e rotto il cranio. Fortunatamente, la ferita non era profonda e l'osso sembrava essersi spaccato solo lungo il taglio, senza frantumarsi.

Dopo aver controllato un'ultima volta che tutti avessero sedativi a sufficienza, la guaritrice fece ritorno alla propria tenda per cambiarsi e darsi una lavata. Mentre era intenta a ripulirsi il corpo con un panno imbevuto di acqua e schiuma di erba saponaria, Diomas venne a chiamarla, rimanendo fuori dalla tenda, ma lei istintivamente si coprì ugualmente il corpo con le ampie ali, della stessa gradazione di nero dei suoi capelli.

«Prille, c'è un ufficiale della Guardia Imperiale che desidera parlarti. È venuto fin qui sulla nave volante proprio per incontrare te. È per una questione molto importante.»

«Va bene, grazie. Fallo accomodare e riferiscigli che verrò a incontrarlo al più presto» disse e subito riprese a strofinarsi nervosamente la pelle e poi a vestirsi in gran fretta.

Cosa mai poteva volere da lei l'Imperatore Kut per inviare un membro della sua Guardia personale? Sperava solo che uno dei suoi guaritori della capitale non avesse combinato qualche pasticcio, mentre aveva in cura un membro della famiglia imperiale. Sarebbe stata una catastrofe: l'Ordine avrebbe dovuto rinunciare ad una consistente quantità di fondi e donazioni. Nel peggiore dei casi, forse l'Imperatore avrebbe potuto persino pretendere la sua testa, oltre a quella del guaritore direttamente responsabile. La giovane faleyon inspirò profondamente.

Non appena si fu tranquillizzata e convinta che se fosse successo qualcosa di tanto grave lo avrebbe già saputo, si diresse con passo deciso verso il baldacchino sotto il quale facevano accomodare gli ospiti che non necessitavano di cure. Era una splendida mattina di inizio autunno e l'aria conservava ancora un po' del piacevole calore della stagione appena passata.

Sotto il baldacchino, seduto assieme a Diomas davanti ad un tavolo molto spartano, c'era uno shuriel, un uomo del popolo dell'acqua, con indosso la caratteristica divisa della Guardia Imperiale, dorata come quella dei soldati semplici, ma molto più elegante e sfarzosa. Tuttavia, dato che l'uomo era uno shuriel, l'abito era stato adattato alle sue particolari esigenze: innanzitutto, era molto più leggero, dal momento che gli uomini del mare sopportavano meglio il freddo, e i calzoni erano aperti sulla parte esterna dei polpacci, attorno ai quali erano ripiegate le particolari membrane che fungevano da pinne sott'acqua. Anche la testa era scoperta, lasciando esposta la caratteristica cresta che partiva dalla nuca e arrivava fino alla fronte, grazie alla quale, a quanto si diceva, potevano comunicare tra loro in acqua.

Prille si concesse un istante per ammirare la pelle del nuovo arrivato, prima di avvicinarsi. L'aveva sempre affascinata la pelle della gente acquatica. Forse perché era l'esatto opposto di quella irsuta dei faleyon. L'uomo, infatti, era completamente glabro e la carnagione era molto chiara, di una luminosa sfumatura azzurrina che esaltava la sinuosità e l'eleganza del suo corpo slanciato e del suo volto dagli occhi grandi.

Quando Diomas la vide arrivare, subito si alzò e iniziò immediatamente a fare le presentazioni: «Capitano Kurajan, permettetemi di presentarvi Prille Mei Larìs, fondatrice dell'Ordine della Mandragora e Prima Guaritrice. Fidatevi, se vi dico che in tutta la mia vita non ho mai conosciuto qualcuno più nobile e coraggioso di questa donna. La nostra amicizia dura ormai da molti anni e la mia ammirazione per lei cresce ogni giorno di più.»

Il Capitano Kurajan sorrise e annuì, profondendosi in un leggero inchino. «Ho sentito molto parlare di voi e del vostro leggendario viaggio attraverso il Grande Continente, dall'Isola di Falùsh nel profondo sud, fino all'Isola degli Effimeri, sul lago di Mèren Lon. Se le storie sono vere, è proprio durante quel viaggio che è nata la vostra amicizia e la vostra collaborazione, nonché l'idea di fondare l'Ordine.»

«Siete ben informato, Capitano. Non credevo che la nostra vecchia impresa fosse divenuta tanto famosa» rispose Prille che già si sentiva a suo agio, vista la cortesia e la cordialità del giovane Capitano.

L'uomo si strinse nelle spalle. «I nobili di Katils amano sentir raccontare storie e la vostra è a dir poco avvincente. Inoltre, la vostra accademia e la vostra casa di guarigione hanno riscosso un gran successo in città. Si dice addirittura che voi siate in grado di curare ogni male.»

La donna abbassò lo sguardo, lusingata e imbarazzata al tempo stesso. «Vorrei che fosse vero, ma purtroppo esistono mali che neanche gli dèi potrebbero scacciare, se esistesse ancora la loro magia.»

«Mi piace che riconosciate di avere dei limiti, credo sia una conferma del vostro valore e della vostra onestà: per quel che ho potuto vedere sinora, chi afferma di poter curare qualunque cosa non è che un millantatore.»

«Capitano, spero che non mi riteniate scortese, ma posso chiedervi il perché della vostra visita e di tutto questo interesse nei miei riguardi?» domandò Prille, sforzandosi di apparire rispettosa.

«Certamente» rispose l'uomo, tutt'altro che offeso. «Sedetevi con me e vi racconterò tutto.»

Prille si sedette di fronte al Capitato, sulla sponda opposta del tavolo, ma notando che la superficie era libera da qualunque oggetto subito domandò: «Volete che vi faccia portare dell'acqua?»

«Sì, credo sia meglio. Vi ringrazio.»

Senza neanche attendere la richiesta di Prille, Diomas andò a subito prenderne una brocca fresca. Dopotutto, era un fatto noto a tutti che gli shuriel, anche se potevano tranquillamente vivere a terra, avevano frequentemente bisogno di bere e di bagnarsi la pelle. Altrimenti, questa avrebbe iniziato a seccarsi e dopo un paio di giorni a spaccarsi e sanguinare, finché, dopo una lenta agonia, non sarebbe sopraggiunta la morte.

Dopo aver bevuto qualche sorso, l'uomo parlò: «Mi chiamo Kurajan Wegs e sono il Capitano della Guardia Imperiale, uno degli uomini più fidati dell'Imperatore Kut Menradt. Sua Altezza ripone in me la sua più totale fiducia e per questo mi ha affidato un'importantissima missione da compiere. Se riuscirò, anzi, se riusciremo a portarla a buon fine, ci sono ottime probabilità che la guerra contro il Wesmark si concluderà in pochissimo tempo, con grandi benefici per tutti noi.»

«Qual è lo scopo di questa missione, se mi è concesso saperlo?» domandò Prille, incuriosita e un po' sospettosa. «E cos'ha a che fare con me?»

«L'obiettivo è recuperare un oggetto che potrebbe aiutarci a porre fine a questa guerra. Il mio compito è quello di organizzare la spedizione che andrà a recuperarlo. Ovviamente, ne farò parte anch'io. Ho bisogno di pochi uomini, ma molto validi. Tra questi, è necessario un guaritore. Uno che non solo sia brillante nel suo mestiere, ma che sappia anche difendersi, nel caso subissimo un attacco.

«Vista la vostra preparazione sia medica che militare, ho pensato subito di proporre l'incarico direttamente a voi. Ovviamente non siete obbligata: non siete una suddita dell'Imperatore e so che avete delle responsabilità verso l'Ordine della Mandragora e verso la causa che avete abbracciato, perciò se avete un altro buon nome da suggerirmi tra i vostri guaritori, dite pure.»

A quel punto, Prille scambiò un'occhiata con Diomas e vide riflessa sul volto di lui la sua stessa perplessità. «Avrò bisogno di qualche altra informazione» disse. «Tutte quelle che vi è concesso darmi, senza che io sia tenuta ad accettare.»

«Lo immaginavo; ditemi cosa volete sapere.»

«Dunque ... Immagino che non possiate dirmi di che oggetto di tratta, esatto?»

L'uomo annuì. «Infatti, sono spiacente.»

«Potete almeno dirle dov'è che si trova, o quanto tempo starà via, se accetterà?» intervenne Diomas.

«Purtroppo non saprei dirvi con esattezza quanto durerà il viaggio: se Prille accetterà, infatti, ho intenzione di portarla via con me subito, ma mancano ancora un paio di membri alla spedizione e vorrei che li scegliessimo assieme, proprio come insieme abbiamo scelto lei, io e gli altri che già fanno parte del gruppo.»

«Dunque, non è stata un'idea soltanto vostra quella di venire a cercarmi.»

«No, anzi, in verità è stato qualcun'altro a fare il vostro nome. Una persona che avete già incontrato, molti anni fa, ma di cui non credo abbiate memoria.»

«Davvero? Di chi si tratta?»

Per tutta risposta, Kurajan fece un lieve sorriso desolato.

«Capisco, non potete dirmelo. Avete detto che cercate un guaritore che sappia difendersi. È davvero così rischioso, questo incarico?» Non c'era neanche un accenno di timore nella voce di Prille, solo una sincera curiosità.

«Potrebbe esserlo. Dovremo attraversare più di un territorio nemico e, anche se staremo alla larga dalle strade principali e avremo con noi una guida e un esploratore, non c'è alcuna garanzia che non incapperemo in qualche situazione ... spiacevole. E, anche se saremo scortati da gente forte e abile con la spada, preferirei che ognuno di noi sapesse almeno difendere se stesso. In ogni caso, faremo sempre tutto il possibile per tenervi al sicuro.»

Prille annuì silenziosa, immersa nelle proprie riflessioni.

«Territorio nemico, avete detto?» domandò Diomas.

«Sì.»

«Capitano, dov'è che andrete, esattamente?»

Kurajan esitò qualche istante. «Nel cuore del Wesmark Meridionale.»

«La città di Thos?» ribatté l'altro, sgomento.

«Sì. È lì che si trova l'oggetto che cerchiamo.»

Prille e Diomas si scambiarono una nuova occhiata incredula.

«Voi ... avete intenzione di derubare la Regina Serementìs? Nella sua stessa capitale?» domandò Prille, scettica e intrigata al tempo stesso.

«Proprio così» ribatté Kurajan Wegs, senza scomporsi minimamente.

«Beh, non c'è che dire» commentò Diomas, «di certo l'audacia non vi manca.»

«Bisogna averne per forza, se si vuole trionfare, o anche solo sopravvivere, in simili imprese. È anche per questo che cerco un guaritore che abbia fegato, oltre che ...»

«Non crediate che un qualsiasi guaritore non abbia coraggio da vendere» lo interruppe Prille, in un moto di stizza. «Non avete idea di quanto bisogna averne per fronteggiare certe situazioni, per prendere decisioni estreme con poco tempo a disposizione, o anche solo per avere nelle proprie mani la vita di un uomo.»

Kurajan Wegs la guardò negli occhi in silenzio per qualche istante, prima di annuire. «Credo che abbiate ragione voi. Perdonatemi.»

«No, perdonatemi voi per essere stata tanto brusca. È solo che i guerrieri e i soldati sono spesso convinti che esista un solo modo per essere coraggiosi e valorosi.»

Il Capitano, evidentemente colpito dalle parole di Prille, continuò a osservarla in silenzio, immerso nelle proprie riflessioni, finché Diomas non decise di interrompere quell'imbarazzante momento di impasse: «Dunque, avete intenzione di raggiungere la città di Thos?»

«Sì, è così» rispose l'altro, spostando lo sguardo su di lui.

«Posso chiedervi come avete intenzione di farlo? Voglio dire: nessuno sa dove sia stata ricostruita, dopo che fu distrutta diversi anni fa da quella bestia degli abissi, se la storia è vera. Nessun uomo dell'Impero vi ha mai messo piede, da quando Serementìs è stata incoronata regina.»

«Come ho già detto, avremo anche una guida con noi.»

«Sì, so che lo avete detto, ma ... una guida che conosce la posizione di Thos?»

Il Capitano sorrise. «So cosa state pensando: qualunque prigioniero del Wesmark morirebbe, piuttosto che portarci a Thos, se ne conoscesse l'ubicazione. Ma la persona che ho intenzione di portare con noi ha molto da guadagnare da questa collaborazione e io sono certo di poterla convincere. Nel caso non dovessi riuscirci, però, potremo sempre contare sull'esploratore.»

«Chi è quest'esploratore tanto in gamba?» domandò Diomas, ancora molto scettico.

«Il migliore di tutto l'Impero» rispose Kurajan mortalmente serio e questo bastò a zittire l'uomo.

«Sembrate molto fiducioso, oltre che determinato» commentò Prille.

«Perché lo sono. Inoltre, ho le mie buone ragioni per voler portare all'Imperatore l'oggetto che desidera.»

La guaritrice soppesò le sue parole per qualche istante. Poi sospirò e disse: «Molto bene. Prenderò in considerazione la vostra proposta, se mi garantite che tutto ciò servirà a porre fine a questa inutile e terribile guerra: va avanti da fin troppi anni, ormai, e io ho visto morire fin troppi amici.»

Kurajan annuì solennemente. «Vi assicuro che non sarà uno spreco di tempo e di forze. Avete la mia parola.»

Prille annuì silenziosamente, stropicciandosi un occhio. «Vi riferirò al più presto la mia decisione. Vogliate scusarmi, ora: è stata una lunga notte e ho molto bisogno di riposare.»

«Certamente» disse il Capitano alzandosi. «Rimarrò qui per altri tre giorni. Qualunque sia la vostra decisione, sapete dove trovarmi» concluse, inchinandosi nuovamente verso di lei. «Signore» aggiunse, congedandosi anche da Diomas.

Il Capitano stava per rimontare sul suo tarkal dalla cresta variopinta, quando si fermò bruscamente e si voltò di nuovo verso di loro. «Perdonatemi» disse, «ma credo vi siate dimenticata di farmi una domanda molto importante.»

«Non credo. Cos'altro avrei potuto chiedervi?»

«Non desiderate sapere quale sarà la vostra ricompensa?»

La guaritrice si strinse nelle spalle. «La fine di questa guerra sarà una ricompensa più che sufficiente. Anche se non rifiuterei un piccolo aumento dei fondi per l'Ordine, o qualche trattato medico in più per l'Accademia.»

Kurajan fece un altro dei suoi sorrisi frequenti, ma appena accennati. «Farò in modo che abbiate tutto ciò che desiderate.»

Detto questo, rimontò in sella e, afferrandogli le corna corte e affusolate, guidò il grosso rettile verso l'accampamento dell'Impero, o ciò che ne rimaneva.


La "e" finale di "Prille" è muta e la "j" di "Kurajan" si pronuncia come quella di "Jack".

Non dimenticate che l'est e l'ovest sono inverititi e che presto avremo una cartina :).

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Capitolo 4
*** Capitolo 3: La schiava di Kendart ***


Capitolo 3: La schiava di Kendart
 
Tac ... Tac ... Tac ...

Zap ... Zap ... Zap ...

Intervallati da qualche colpo di tosse, erano questi gli unici suoni che Mereis sentiva da giorni, per tutto il giorno. Ogni volta che veniva calata nella miniera di Kendart assieme agli altri, nei primi minuti quei suoni erano soltanto fastidiosi; poi il loro continuo ripetersi senza sosta la riempiva di un'ansia che non sapeva spiegare, infine diventavano quasi ipnotici e la sua mente li riduceva ad un rumore di sottofondo, al quale neanche faceva più caso, a meno che le sue orecchie non avvertissero qualche strana variazione.

A forza di lavorare in quei cunicoli bui e stretti, infatti, il suo udito si era affinato a tal punto che aveva imparato a riconoscere ognuno dei suoi compagni dal modo in cui maneggiava il piccone o la pala e dai colpi di tosse. Se c'era anche solo un elemento fuori posto in quella cacofonia, Mereis lo capiva subito e più di una volta si era ritrovata a dover trascinare all'esterno qualcuno che era svenuto per la fatica, o perché aveva i polmoni talmente saturi di polveri che non riusciva più ad inspirare abbastanza aria. Una volta, purtroppo, non era arrivata in tempo.

Era proprio questa la sua paura più grande, più delle sferzate dei guardiani e più del non riuscire ad andarsene mai da Kendart: morire soffocata nell'oscurità di quei cunicoli, immersa nella polvere e nello sporco sia fuori che dentro, lontana dalla luce e da qualunque cosa buona al mondo, ironicamente circondata da una miriade di pietre preziose. Era questo, infatti, che cercavano là sotto: gemme allo stato grezzo che andavano ripulite il più possibile dalla terra e accumulate in piccole casse che, una volta riempite a sufficienza, dovevano trasportare fuori, fino al campo di lavoro.

Non si usciva dalla miniera finché le cassette non erano piene e questo, il più delle volte, richiedeva interi giorni durante i quali quasi ci si dimenticava la sensazione del sole sulla pelle, la carezza del vento tra i vestiti e tra i capelli e il sapore dell'aria fresca e pulita. Era pressoché impossibile fare un po' di conversazione: gli altri schiavi, proprio come lei, provenivano dalle zone di conquista dell'Impero Katileo più disparate e le uniche parole in comune che tutti conoscevano erano gli ordini abbaiati dai guardiani.

Quando questi vennero finalmente ad annunciare che il materiale raccolto era sufficiente e che era ora di tornare in superficie, Mereis dovette trattenersi dal tirare un sospiro di sollievo, per evitare di inalare ancora più polvere. Legandosi i propri attrezzi sulla schiena, andò verso una delle cassette e aiutò lo schiavo che la stava sollevando a trasportarla. Non che fosse pesante, ma dopo qualche giorno di spalate e picconate le braccia o non te le sentivi più, o te le sentivi fin troppo.

Non appena Mereis riemerse dalle profondità della miniera, l'intensa boccata di aria fresca e libera dalle polveri la fece tossire violentemente e, sebbene la notte fosse già calata, la pallida luminescenza delle due lune, Zèchtos e Zechtosèa, bastò ad accecarla per qualche istante. Come lei, anche gli altri schiavi di Kendart dovettero fermarsi un attimo a recuperare fiato e parte della vista, prima di poter procedere giù lungo il ripido sentiero, scortati verso il campo di lavoro dallo sguardo sempre vigile dei guardiani.

Questi procedevano in mezzo a loro a cavallo dei loro robusti tarkal di montagna, del tutto identici a quelli che delle zone più calde, eccetto che per le dimensioni e per la folta peluria che ricopriva i loro corpi massicci e coriacei. In sella ai giganteschi rettili, i guardiani tenevano sempre la mano destra sul fianco, tra il bastone sottile e flessibile e la spada, in modo da poter subito sferzare o all'occorrenza uccidere chiunque, secondo loro, lo meritasse.

Nel giro di pochi minuti, la vista di Mereis si adattò alla nuova luminosità e i polmoni smisero di farle male. Non aveva idea di quanti giorni avesse trascorso là sotto. Non ce l'aveva mai, era impossibile capirlo senza il sole. Difatti, non avrebbe neanche saputo dire da quanto tempo si trovasse lì, nel campo di lavoro di Kendart, tra le vette dei Monti Luccicanti, chiamati così per l'incredibile abbondanza di metalli e pietre preziose che era possibile trovare scavando nella roccia.

Per fortuna non sarebbe dovuta tornare laggiù tanto presto, dato che le squadre di minatori si calavano a turni giù per i cunicoli. Certo, in superficie non avrebbe potuto riposarsi, ma qualunque altro compito era meglio che lavorare in miniera. Quando non sgobbavano laggiù, i guardiani affidavano loro le mansioni più disparate, a seconda delle capacità di ognuno. C'era chi puliva i loro alloggi, chi stava in cucina, chi si occupava dei tarkal e degli altri animali ... Mereis, di solito, doveva mantenere in ordine le officine in cui alcune delle pietre venivano tagliate, prima di essere vendute. Non tutti i gioiellieri, a quanto pareva, le tagliavano da sé e c'era chi preferiva comprare le gemme già pronte per essere incastonate nelle loro creazioni.

A differenza dei minatori, gli intagliatori non erano schiavi provenienti da lontane terre conquistate, o ex uomini liberi che avevano un debito da saldare verso il proprietario della miniera. La maggior parte di loro erano artigiani. Tutti gli altri, invece, erano bambini o ragazzini, molti dei quali orfani, portati lì per apprendere da loro il mestiere. Per un orfano era una gran bella fortuna, poiché non solo gli intagliatori erano discretamente retribuiti, ma anche perché alcuni dei gioiellieri che preferivano modellare da sé le gemme di tanto in tanto ne portavano qualcuno via con sé.

Certo, non era una garanzia, anzi: era una finestra di opportunità che si apriva molto di rado; ma quando accadeva tutti gli intagliatori erano eccitatissimi e la competizione raggiungeva dei livelli spaventosi, tanto che i giovani più promettenti dovevano continuamente guardarsi le spalle dalla perfidia dei più ambiziosi. L'anno precedente, ricordò Mereis, uno dei ragazzi migliori aveva avuto uno strano "incidente", in circostanze mai del tutto chiarite, in cui si era ustionato a tal punto le mani che aveva dovuto mettersi a riposo per settimane, perdendo l'occasione di dimostrare le sue capacità.

Il rapporto tra gli intagliatori e gli schiavi era alquanto tiepido: nonostante i primi guardassero i secondi con aria di sufficienza, non li maltrattavano mai, anzi, quando i guardiani punivano o picchiavano uno schiavo, talvolta senza alcun valido motivo, i loro sguardi si riempivano di compassione e qualcuno si adoperava anche a fornire al malcapitato un po' di cibo in più e qualcosa per medicare le ferite.

Fra i guardiani più sadici, con la tendenza ad abusare del proprio potere, c'era EilanTārmend, figlio del proprietario della generosa miniera di Kendart. Eilan era uno di quei giovani rampolli di famiglia altolocata convinti che sia sufficiente gridare ordini a destra e a manca per mandare avanti una miniera, un podere, o persino una nazione, senza impegnarsi a studiarne a fondo le meccaniche. Eilan era un pessimo guardiano e sarebbe stato un padrone persino peggiore, una volta ereditata la proprietà del padre, di questo Mereis ne era convinta.

Se solo Kendart non fosse stato un posto tanto orrendo, sarebbe rimasta volentieri per godersi il giorno in cui il ragazzo avrebbe sperperato tutto il suo patrimonio e si sarebbe visto portare via anche la miniera. Allora sì che avrebbe potuto vendicarsi per bene di tutte le angherie subite, assieme ai suoi compagni. Soprattutto per quella volta che aveva cercato di violentarla.

A Kendart non era insolito che gli schiavi subissero anche questo genere di violenza da parte dei guardiani e Mereis aveva sempre saputo che prima o poi qualcuno avrebbe messo gli occhi sui suoi tratti esotici. Così, quando Eilan si era fiondato su di lei una sera, mentre era intenta a riordinare le ultime cose nell'officina, Mereis aveva saputo reagire prontamente, senza curarsi delle conseguenze, riuscendo ad avere la meglio su di lui colpendolo in faccia col primo attrezzo su cui era riuscita a mettere le mani.

Per sua fortuna, il giovane era fortemente orgoglioso e non avrebbe mai rischiato di compromettere la sua immagine di uomo forte e vigoroso accusando pubblicamente una donna, per di più schiava, di avergli fatto saltare due denti mentre cercava di sottometterla. Mereis era così scampata ad una dolorosa punizione, anche se nei giorni successivi il giovane guardiano aveva continuato a negarle tutti i pasti, finché lei non aveva perso i sensi nell'oscurità della miniera.

Doveva essere un vizio di famiglia, visto che era accaduta una cosa simile anche con il suo precedente padrone, zio paterno di Eilan. Genan Tārmend, infatti, l'aveva comprata al solo scopo di farne la sua concubina e, quando lei aveva opposto resistenza, riuscendo persino a cavargli un occhio, lui si era vendicato marchiandola a fuoco sul collo e relegandola nella miniera del fratello, per non rendere pubblica la faccenda.

A Kendart, e forse in tutto l'Impero, Mereis era l'unica a portare il Marchio dello Schiavo, poiché si trattava una pratica barbara e ormai desueta. Un tempo, il triangolo rovesciato, con all'interno un ovale più grande sopra uno più piccolo, avrebbe avuto un effetto molto più concreto sulla sua vita, poiché avrebbe sottomesso la sua volontà a quella del suo padrone. Tuttavia, era dai tempi della congiura del Traditore, quasi quattordici secoli addietro, che la lingua degli dèi aveva perduto la sua magia, perciò la pratica, oltre che brutale, era anche del tutto inutile.

Certo, quando il marchio era impresso in un punto tanto esposto la sua sola presenza poteva influire comunque sulla vita di chi lo portava: Mareis sapeva che, semmai fosse stata di nuovo libera, non avrebbe potuto vivere il resto dei suoi anni nel modo semplice e sereno che aveva sempre desiderato. Non con quell'orribile grumo di pelle raggrinzita e sporgente sul collo. Nessuno l'avrebbe mai considerata davvero sua pari e nessuna magia avrebbe mai potuto cancellarlo.

Se non altro, si era rassegnata presto all'idea e ormai neanche ci pensava più: il suo unico desiderio era riuscire ad andarsene via da Kendart, non importava come, né verso quale orizzonte. Tutto ciò che voleva era allontanarsi da quel posto maledetto che stava pian piano uccidendo il suo corpo e il suo spirito. E per fortuna presto, molto presto, le cose sarebbero finalmente cambiate.

*
 
«Mereis» la chiamò piano e soltanto una volta il vecchio Dinke, scuotendola leggermente. Poiché negli ultimi tempi aveva iniziato ad avere il sonno leggero, la donna si svegliò immediatamente, osservando nella semioscurità il lungo volto del vecchio intagliatore.

«Cosa c'è?» bisbigliò stanca, stropicciandosi un occhio.

«È qui.»                   

«Chi?»

«Che vuol dire "chi"? Urem Tolban, ovviamente!»

«Cosa?» sibilò incredula la schiava, mettendosi a sedere sulla sua sporca e pidocchiosa cuccetta, uguale a tutte le altre su cui dormivano gli altri schiavi del capannone. «Non è possibile.»

«Ti dico che è qui: l'abbiamo visto arrivare questo pomeriggio, poco prima che il sole calasse. Dovevi vedere i giovani intagliatori, sembravano impazziti! Pensa che il piccoletto con i capelli rossi ha addirittura ...»

«No» ripeté Mereis sconvolta. «Non è possibile, non doveva essere qui prima di tre giorni.»

Il vecchio Dinke si strinse nelle spalle. «Che vuoi che ti dica? Non so perché sia arrivato così in anticipo, ma sta di fatto che è qui.»

«No ... No ...» ripeté lei come ipnotizzata, fissando scioccata il vuoto davanti a sé.

«Mereis» la chiamò l'intagliatore, prendendole le mani nelle sue. «Mereis, ascolta: devi finire il lavoro. Questa notte.»

«Non posso. Non ce la faccio, non posso. Sono troppo stanca, mi fa male tutto. Le braccia mi tremano e ... e non riesco nemmeno a concentrarmi! Non po ...»

«Ssh» la rimproverò il vecchio, tappandole la bocca con una mano. «Abbassa la voce.» Poi si guardò intorno, accertandosi che nessuno si fosse svegliato.

«Non posso farcela, Dinke» proseguì la schiava, stanca e rassegnata.

L'uomo portò le mani ai lati del suo viso e la costrinse a guardarlo negli occhi. «Mereis, ascoltami attentamente: tu devi andartene da questa miniera e devi farlo adesso, perché la prossima volta che si ripresenterà un'occasione del genere, e solo il dio Mechnin sa quando ciò accadrà, francamente dubito che tu sarai ancora qui per approfittarne.»

La donna lo fissò in silenzio per qualche istante, stupita e interdetta. «Ma cosa ...»

«Lo sento come respiri, Mereis. Sento il rantolo che fai ogni volta che tiri dentro l'aria e il fischio che esce quando la butti fuori. Soprattutto quando dormi.»

La schiava esitò ancora, prima di parlare. «No ... Ti sbagli. Io mi sento bene.»

Il vecchio scosse la testa. «Lavoro qui da tanti anni, mia cara, è una cosa che ho visto già altre volte. Credimi: se non smetti al più presto di respirare tutte quelle polveri, sei fortunata se vivrai ancora un altro anno.»

Mereis, per tutta risposta, continuò a fissarlo inebetita.

«È questa la verità. Mi dispiace» aggiunse l'uomo, accarezzandole il viso aggraziato e tondeggiante, anche se non più pieno e luminoso come un tempo.

«Guardami» sussurrò lei con voce rotta, porgendogli le mani e gli avambracci perché lui capisse. «Guarda.»

Dinke guardò e vide che i suoi arti tremavano incontrollati e che erano tanto indeboliti che le mani penzolavano dai polsi come se non appartenessero più a quel corpo.

Il vecchio sorrise. «Per questo ho la soluzione» disse, tirando fuori da una tasca un involucro di stoffa. Quando lo aprì, Mereis vide che conteneva delle lunghe foglie chiare e appuntite che non aveva mai visto prima.

«E queste come dovrebbero aiutarmi?»

Dinke fece un sorriso ancora più ampio. «Masticale.»

La schiava osservò di nuovo il contenuto dell'involucro, poi gli lanciò uno sguardo scettico.

«Fidati: allevieranno la fatica e ti faranno stare bene, per qualche ora.»

Allora, Mereis ne prese una e, dopo averla squadrata ancora un po', se la mise in bocca. Il sapore era amarognolo e tutt'altro che gradevole. Inoltre, per quanto masticasse, non percepiva alcun effetto particolare.

Dinke non riuscì a trattenersi dal ridere, davanti alla sua faccia disgustata. «Prendine ancora, una non basta.»

«Ma cos'è questa robaccia?»

«I guardiani se le fanno spedire della penisola Katilea. Pare che costino una fortuna.»

«Le hai rubate a un guardiano?» chiese Mereis stupita, costringendosi a masticare un'altra foglia.

«A più di uno, in realtà. Per una buona causa.»

«Beh, grazie, Dinke.» Poi, inarcando le sopracciglia, aggiunse: «Credo.»

Il vecchio rise di nuovo. «Dagli qualche attimo e vedrai che ti faranno subito sentire meglio.»

Proprio come lui aveva promesso, alcuni minuti dopo Mereis si sentiva già più sveglia e rinvigorita, oltre che sazia.

«Non so cosa fossero quelle foglie» dichiarò dopo essersi messa a lavoro in una delle officine, «ma quando sarò libera giuro che le coltiverò su ettari ed ettari di terreno. Sono meglio di un buon pasto e di una lunga dormita messi insieme.»

«Non lasciarti ingannare dai benefici di questa pianta» la ammonì il vecchio, che le faceva da palo alla porta. «È solo un inganno: quando l'effetto finirà, sarai ancora più stanca e affamata di prima.»

«Non importa: è sufficiente che duri abbastanza da farmi finire questa pietra.»

La pietra in questione era niente meno che un diamante che Mereis, dopo aver estratto dalla terra alcune settimane addietro, si era nascosta tra i folti ricci aggrovigliati. Con la complicità di Dinke, notte dopo notte, aveva iniziato tagliarlo, non più di un'ora alla volta, perché a fine giornata era esausta e non poteva permettersi di commettere errori.

Il piano era semplice: approfittare del primo gioielliere in cerca di un intagliatore per mostrargli il suo lavoro e sperare, così, di potersene andare con lui. Mereis aveva pochi dubbi sul fatto che la sua gemma sarebbe stata apprezzata: aveva visto i lavori degli altri ed era abbastanza sicura di poter fare di meglio. Dopotutto, la sua gente aveva fatto dell'intaglio una vera arte e, sebbene la loro tecnologia fosse di gran lunga inferiore, la loro abilità era impareggiabile. Anche senza l'ausilio di tutti quei macchinari complessi e rumorosi, Mereis avrebbe realizzato un taglio molto buono, se non addirittura eccellente.

Inoltre, il solo fatto di essere riuscita da sola e con pochi mezzi a realizzare un taglio superiore a quello buono su di un diamante, la pietra più dura al mondo, l'avrebbe sicuramente fatta notare. Se solo Urem Tolban non fosse arrivato così in anticipo, avrebbe potuto finire il lavoro con più calma, invece di trascorrere più di tre ore nell'officina, con il rischio di commettere errori, o di essere scoperta. Non sapeva come avrebbe reagito un guardiano trovandola lì a maneggiare un prezioso diamante, ma di sicuro non bene, visti anche i suoi precedenti.

Mereis, infatti, aveva già cercato di fuggire assieme a un manipolo di schiavi, una volta, poco dopo essere giunta a Kendart. Eilan Tārmend, purtroppo, era riuscito chissà come a trovarli nelle immense foreste e, dopo averli riportati dritti al campo, quasi li aveva ammazzati a bastonate. Era stato allora che aveva stretto amicizia con Dinke: il vecchio era stato a sua volta uno schiavo, molti anni addietro, e doveva aver rivisto qualcosa di sé nella furbizia, nella determinazione e nel senso di dignità della giovane Mereis. E la sua ammirazione per lei non avrebbe potuto non consolidarsi, dopo che la schiava era riuscita a sfuggire all'aggressione di Eilan nell'officina, poche settimane dopo.

Da allora, il vecchio intagliatore aveva sviluppato una grande simpatia nei suoi confronti e aveva sempre cercato di proteggerla e aiutarla, ogni volta che poteva. In tutta sincerità, la giovane schiava provava un profondo imbarazzo nel non poter fare nulla di concreto per ricambiare la gentilezza e le cure di Dinke, nonostante lui insistesse nel dire di non desiderare nulla in cambio.

«Il fatto che tu ricambi questo affetto e che mi permetti di prendermi cura di te è una ricompensa sufficiente» le aveva detto, dopo che lei aveva espresso il suo imbarazzo. «Sai, io non ho mai avuto figli: in gioventù sono stato uno schiavo e, quando sono stato liberato, il mio unico pensiero era riuscire a trovare un modo per tirare avanti. Non c'è tempo per pensare alle donne e a sistemarsi, mi dicevo, che razza di vita speri di poter offrire ai tuoi figli? Così, purtroppo, non ne ho mai messi al mondo, ma se lo avessi fatto probabilmente oggi avrebbero la tua età.»

Mereis, allora, non aveva aggiunto altro. Non c'era ragione di negare al vecchio quel piacere.

Perciò, quando lei gli aveva illustrato il suo piano e chiesto di coprirla mentre lavorava il diamante, non era rimasta sorpresa dall'entusiasmo con cui Dinke aveva accettato, anche se si era sentita terribilmente in colpa per averlo coinvolto in quella pericolosa faccenda. Gli aveva proposto di fingere di averla appena colta con le mani nel sacco, semmai qualcuno li avesse scoperti, ma l'intagliatore si era categoricamente rifiutato di tradirla e Mereis aveva presto capito che insistere sarebbe stato inutile.

Per questo ora stava tentando di limare e levigare la pietra alla massima velocità con la quale sentiva di poter andare, senza correre il rischio di commettere errori e danneggiare irreparabilmente il diamante. Non voleva finire nei guai, ma soprattutto non voleva che il premuroso Dinke pagasse per lei.

E l'uomo, inevitabilmente, se ne accorse: «Rallenta pure, mia cara, abbiamo ancora tempo a sufficienza davanti a noi.»

«Prima finisco, meglio è. Non voglio farci scoprire» ribatté Mereis, risistemandosi sul naso i pesanti occhialoni con le lenti a tubo, uno dei pochi e utili strumenti a lei nuovi che si fosse concessa. Quel modello in particolare, il più comodo in tutta l'officina, era stato messo a punto dallo stesso Dinke, che si intendeva di meccanica e si dilettava a costruire strumenti di vario genere.

«Non temere: non verrà nessuno. Lo sai che quando abbiamo ospiti tutti sono invitati a cena nella casa del padrone.»

«Vero, ma la ronda passa comunque almeno una volta. Anche se il guardiano di turno non avesse intenzione di entrare a controllare, potrebbe sempre notare la luce della lampada a olio.»

«E io che ci sto a fare qui, secondo te? Stai pure tranquilla: se scorgo il minimo movimento ti avviso all'istante. Sarò anche vecchio, ma ho ancora gli occhi di un ruh

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Capitolo 5
*** Capitolo 4: Il Principe di Katils ***


Capitolo 4: Il Principe di Katils
 
Il sole batteva forte sulla sua pesante armatura di cuoio e metallo e, se non fosse stato per il leggero cotone che gli proteggeva il busto, probabilmente si sarebbe già scottato la pelle. Sulla parte anteriore dell'armatura due imponenti tarkal impennati sulle zampe posteriori erano stati finemente scolpiti in bassorilievi, con la lunga e robusta coda, il collo sormontato da una cresta variopinta e le corte corna affusolate. Erano da secoli i destrieri favoriti dei Katili e in battaglia erano più che mai utili, con i loro denti aguzzi e le mascelle poderose.

Non per nulla erano stati scelti proprio loro, con quel misto di eleganza e possanza, per rappresentare il popolo dei Katili, dipinti di nero sullo sfondo dorato dei loro vessilli e delle loro divise. Erano un simbolo di forza e raffinatezza, due qualità che avevano sempre caratterizzato i Katili, anche nei periodi storici più sfortunati. Hanun, per fortuna, non era nato in uno di questi, ma il fatto che il suo modesto regno della penisola Katilea fosse tornato ad essere il grande impero che era stato un tempo non doveva costituire una ragione per essere meno cauti: anche bestie grandi e spaventose come i tarkal dovevano costantemente guardarsi da altri predatori.

La maggior parte dei regni più piccoli aveva già stipulato trattati di pace e stretto alleanze con l'Impero, pur di evitare un'invasione da parte di quel gigante inarrestabile. Talvolta, però, qualcuno trovava il coraggio di opporsi alla sua avanzata e i Katili avevano imparato che non era mai qualcosa da sottovalutare, da quando era iniziata la guerra contro i Regni Gemelli del Wesmark, sul fronte settentrionale. Inizialmente, infatti, si trattava di un solo regno di modeste dimensioni, a cui la sua famiglia aveva commesso l'errore di prestare scarsa attenzione, ritrovandosi poi a dover affrontare un'intera coalizione di clan in grado di tenerle testa.

L'Imperatore Kut non avrebbe mai permesso che accadesse una cosa simile anche a sud. Era proprio per questo che Hanun si trovava lì, a pochi chilometri dalla capitale, nella vasta e arida savana meridionale, attraversata da alcuni corsi d'acqua lungo i quali prosperavano le città dei Mei Faliùsh, gli abitanti delle ex colonie continentali dell'Isola di Falùsh. Era voce di poche settimane addietro, infatti, che un esercito si stava radunando non molto lontano dalla capitale dell'Impero. Quando la voce era stata confermata, Kut Menradt aveva subito ordinato a suo figlio Hanun di condurre alla battaglia tutti gli uomini ai suoi ordini e di sventare l'imminente attacco alla città di Katils.

Ansioso soprattutto di ricevere un po' di approvazione da parte del padre, che per qualche ragione sembrava averne per lui sempre meno con l'avanzare dell'età, Hanun era partito carico di fiducia e risolutezza. Tuttavia, ora che si trovava di fronte a quello che sarebbe presto diventato un campo di battaglia, la sua sicurezza vacillò: i Katili non erano abituati a scontrarsi in terreni così aperti e vasti. Conoscevano bene i monti, le colline e le foreste, sapevano quali strategie erano più efficaci, come e dove piazzare le trappole e in che modo tagliare eventuali vie di fuga. Ma ora, osservando quella sconfinata distesa pianeggiante ricoperta di erba gialla come il sole, Hanun si rese conto di non sapere neanche da dove cominciare.

Silenzioso come uno dei predatori notturni della foresta, un giovane pressappoco della sua stessa età, con indosso un busto di cotone rinforzato sorprendentemente resistente, raffigurante il più velenoso dei serpenti dell'arcipelago di Mīër, gli si affiancò e, inclinandosi verso di lui, sussurrò: «È meglio andare via: più restiamo, più rischiamo di essere visti.»

Hanun annuì lentamente, ma non mosse un muscolo. Il ragazzo gli mise una mano sulla spalla e si avvicinò ancora un po'. «So cosa stai pensando. Non temere, ci faremo venire un'idea. In fondo, gli uomini accampati alle porte del villaggio non sono ancora molti. Possiamo farcela.»

Con un sospiro, il Principe di Katils si staccò finalmente dalla roccia alla quale si era appoggiato e, tornando a nascondersi dietro quella più in basso, ripercorse al contrario il sentiero che lo aveva portato a quel comodo punto di osservazione.

«Non avevo mai visto niente di così sconfinato in vita mia» confessò all'altro durante il tragitto. «Sembra un enorme oceano di fili d'oro, con una striscia di seta verde distesa nel mezzo.»

Per tutta risposta, il compagno inspirò bruscamente tra i denti stretti, come se qualcosa lo avesse punto o ferito.

«Cosa c'è?» domandò Hanun, voltandosi leggermente verso di lui.

«Temi che moriremo tutti» rispose l'altro, senza però perdere il sorriso sornione che quasi niente riusciva a far vacillare.

«Non è vero: sono ottimista quanto te.»

«Hm!» fece il giovane, con tono ironico. «Anche se normalmente lo fossi, cosa di cui dubito, vorrei farti notare che l'eventualità della morte tira sempre fuori il tuo lato ... poetico, se così possiamo definirlo.»

«Sobech, io non ho paura» ribatté il Principe, mortalmente serio.

«Non ho detto questo.»

«E in ogni caso, non sei comunque rassicurante.»

Sobech fece spallucce. «Dirti quello che vuoi sentirti dire non ha mai funzionato, con te. E in ogni caso, preferisco che siamo onesti l'uno con l'altro.»

«Quindi pensi davvero che abbiamo una possibilità?»

«Sì, e francamente non capisco perché tu non lo pensi. Ragiona: non è detto che il campo di battaglia debba per forza essere quello. E se anche fosse, lo hai visto, c'è un fiume, possiamo sempre ...»

«No» tagliò corto Hanun, facendo un ampio gesto con un braccio, «non ho intenzione di chiedere all'Imperatore di far intervenire gli shuriel.»

«Ma sarebbe tutto molto più semplice, vinceremmo di sicuro!»

«Questa volta devo cavarmela da solo, Sobech. Sono certo che mio padre ha voluto mettermi alla prova. Quell'uomo mi ritiene un incapace.»

«Francamente, amico mio, non lo credo» ribatté Sobech, cingendogli le spalle con un braccio. «Ti ha affidato un compito difficile e importantissimo. Se davvero non ti avesse ritenuto all'altezza, non lo avrebbe mai fatto: non dimenticare che le sorti della città di Katils, la capitale dell'Impero, dipendono solo da te.»

«Da noi» lo corresse Hanun, con un sorriso.

«Io combatterò sempre al tuo fianco, lo sai. Te l'ho giurato. Ma anche se avrai sempre il mio aiuto, la decisone finale su cosa fare spetterà sempre e solo a te.»

«Per me è comunque importante che tu ci sia: riesci sempre ad offrirmi un nuovo punto di vista su ogni cosa.»

«Beh, questo rende più facile dirti che quell'armatura è ridicola e pesante, specie sotto questo maledetto sole» scherzò Sobech, facendo risuonare l'oggetto con un colpo di nocche.

«Sarà, ma la tua, anche se è persino più resistente della mia, dovrà presto essere sostituita.»

«Quel giorno, sarò comunque meno stanco e accaldato di te.»

Hanun sapeva che Sobech era nel giusto e infatti non avrebbe esitato ad indossare anche lui una delle comode e maneggevoli armature di Mīër, se solo non fosse apparso ridicolo agli occhi dei suoi uomini. I Katili avevano uno stile tutto loro e rifiutavano con disgusto qualunque cosa non si adattasse a quei canoni.

A Sobech poco importava di apparire buffo o strambo, ma Hanun doveva essere l'incarnazione del perfetto condottiero Katileo: uno strato di peli sul volto, non più lunghi dei capelli tagliati corti, un'armatura dorata decorata con i simboli dell'Impero e la tipica spada dei Katili, leggermente ricurva, spessa e perfetta sia per tagliare la fitta vegetazione della giungla che ricopriva gran parte dei loro territori, sia per tranciare in due un uomo con un solo, poderoso colpo.

Quando fecero ritorno al campo, Sobech si separò da lui con un sorriso sul volto affilato e Hanun fece un rapido giro per accertarsi che le difese fossero state piazzate a dovere. Aveva scelto un piccolo avvallamento nascosto tra le montagne per l'accampamento, perché sapeva bene come muoversi su un terreno simile. Certo, era a dir poco improbabile che i Mei Faliùsh passassero di lì con il loro esercito e ancor meno che vi si lasciassero attirare, ma nell'eventualità di un attacco era comunque il posto migliore in cui difendersi.

Molte delle tende dovevano ancora essere piazzate e il campo era in pieno fermento. Dei suoi comandanti, però, non c'era traccia e Hanun ne dedusse che dovevano essersi già riuniti nella grande tenda piazzata al centro del campo. Difatti, non appena scostò un lembo del ruvido tessuto che copriva l'entrata, il giovane Principe si ritrovò davanti i suoi tre uomini più fidati: suo cugino Vertran, il suo più vecchio amico, Nuss, e un abile veterano di nome Genan Tārmend che l'Imperatore in persona aveva deciso di affiancargli, qualche anno addietro.

Sebbene non nutrisse particolari simpatie per quest'ultimo, la sua lunga esperienza si era rivelata più volte decisiva in battaglia e Hanun aveva comunque fiducia in lui. Nonostante fossero spesso in disaccordo, quel giorno il Principe di Katils contava soprattutto sul suo supporto per convincere gli altri a confidare nel piano che stava iniziando a formarsi nella sua testa. Non avrebbe saputo dire quando, né come gli fosse venuto in mente: stava di fatto che ora si trovava lì, davanti ai suoi tre comandanti e, nonostante solo pochi minuti addietro brancolasse nel buio, adesso sapeva cosa era meglio fare. La dea Depna, quel giorno, doveva aver poggiato le labbra sulla sua fronte.

Al suo ingresso, i tre lo salutarono con un leggero inchino. «Dunque? Avete visto l'accampamento? Raccontateci» lo esortarono impazienti e il giovane li rassicurò subito, informandoli che l'esercito dei Mei Faliùsh era poco più grande del loro, per il momento. Tuttavia, quando descrisse l'immensità di quel campo aperto e pianeggiante, attraversato dalla sottile striscia verde del fiume, vide la preoccupazione tornare sui loro volti in un baleno, mentre tenevano gli occhi fissi sulla mappa, al centro della tenda semivuota.

«Perciò» chiese Vertran facendo scorrere il dito sulla striscia di terra che separava le montagne dal fiume, «dici che qui non c'è nulla?»

«Nulla. È un'immensa pianura arida, senza alberi, senza colline o avvallamenti. C'è solo una strana erba gialla. Forse secca.»

«E cosa potete dirci sull'accampamento?» domandò invece Genan, senza ruotare la testa un po' di più, nonostante fosse rivolto verso di lui con il lato del volto a cui mancava l'occhio, perduto in duello meno di un lustro addietro, stando a quanto egli raccontava.

«Ha quattro diversi accessi, uno per ogni punto cardinale, ma non sarebbe saggio dividere le nostre forze per attaccare contemporaneamente più di due entrate: anche se non hanno ancora molti uomini, l'accampamento è troppo vasto. Immagino che sia previsto l'arrivo di altri soldati.

«Non ho visto torri, catapulte, o altre macchine da assalto; d'altronde, nei nostri territori troveranno legno in abbondanza per costruirne. Tuttavia, nulla ci garantisce che non ve sia qualcuna nascosta, da utilizzare in caso subissero un attacco.

«Inoltre, c'erano un paio di uomini che sembrava stessero pattugliando il territorio. Forse sono i loro esploratori. La loro presenza renderebbe vano qualunque attacco a sorpresa: lancerebbero l'allarme non appena metteremmo piede in quella pianura, dov'è impossibile nascondersi.

«Non è il genere di campo di battaglia a cui siamo abituati, purtroppo; non ho mai letto di uno scontro in un territorio simile che non comprendesse due eserciti decimatisi a vicenda. E io non voglio rischiare di perdere così tanti uomini, a maggior ragione se presto arriveranno dei rinforzi per i Mei Faliùsh.»

Seguì un silenzio di riflessione carico di tensione, che Nuss ruppe azzardando: «Ma noi conosciamo diverse tattiche da adottare su questo genere di terreni.»

«Loro ne conosceranno certamente di migliori» lo interruppe subito Genan. «Hanno combattuto per anni contro i Falùshei per sottrarsi al loro dominio. E se hanno trionfato contro un popolo noto per essere eccezionale nell'arte della guerra, sarebbe da sciocchi attaccarli in questo territorio, così familiare a loro ed estraneo a noi.»

Ignorando la sottile offesa nell'ultima frase, Nuss replicò: «Il fiume, allora. C'è il fiume Tôlle, qui. Potremmo chiedere all'Imperatore di inviare qualche guerriero shuriel.»

«Mi dispiace, amico mio» ribatté Hanun, scuotendo la testa, «ma stavolta ho intenzione di farcela con le mie sole forze.»

«Con tutto il rispetto, Altezza» esordì Genan Tārmend con un sospiro, «chiedere aiuto quando se ne ha necessità non è un disonore, ma non farlo è certamente da idioti.»

Anche Hanun lasciò correre l'insinuazione e disse solo, con estrema serietà: «È molto importante per me. Inoltre, credo di avere un'idea.»

In quel momento, anche Sobech fece il suo ingresso nella tenda, esitando sulla soglia. «Chiedo perdono, Miei Signori» disse, «non era mia intenzione interrompervi.»

«No, entra, per favore. C'è una cosa che devi ascoltare anche tu» lo invitò il Principe.

Gli altri tre si lanciarono qualche occhiata infastidita, ma non osarono commentare, né contraddirlo. Non tutti vedevano Sobech di buon occhio. Forse perché era un forestiero, forse per il suo aspetto bizzarro per un guerriero, o forse perché Hanun era profondamente cambiato durante il periodo di addestramento nell'arcipelago di Mīër e loro non capivano il legame che aveva con il giovane, né perché egli lo seguisse ovunque.

«Osservate» disse Hanun, indicando un punto sulla mappa e cingendo le spalle di Vertran con un braccio, per portarselo più vicino. «Vedete questa serie di puntini che parte da Katils, attraversa le montagne e prosegue verso sud?»

«È un'antica rotta commerciale» rispose Vertran annuendo.

«Ed è anche la via più rapida e sicura per arrivare a Katils» aggiunse Sobech, col suo solito sorrisetto sghembo.

«Esatto» confermò Hanun. «È improbabile che i Mei Faliùsh tentino di risalire il fiume Tôlle perché il suo corso li allontanerebbe troppo da Katils e allungherebbe inutilmente la via.

«Seguire la catena montuosa fino alla costa e da lì risalire verso nord, invece, sarebbe rischioso, dato che sulla piccola isola nella baia c'è una nostra antica fortezza riconquistata e quella striscia di terra è ben difesa e sorvegliata.

«È vero, ci sono anche altri sentieri di montagna, ma solo questo è abbastanza ampio e praticabile per un esercito di tali dimensioni.»

«Ed è lì che avete intenzione di tendere un agguato, immagino» lo anticipò Genan Tārmend.

«Sì. Più precisamente qui» aggiunse, indicando il versante della catena che dava sulle terre dell'Impero. «Nel tratto finale la via si restringe e prosegue così per alcuni chilometri, stretta fra due pareti rocciose. È il punto perfetto per tendere un agguato.»

I quattro continuarono a fissare in silenzio la mappa per qualche istante, ognuno immerso nei propri ragionamenti. Genan, col suo volto squadrato e privo di un occhio, annuiva impercettibilmente; Sobech forse stava già pensando a quali tattiche adottare; Vertran e Nuss, invece, si stavano scambiando un'occhiata dubbiosa, consapevoli di stare pensando entrambi la stessa cosa.

Furono proprio questi ultimi a rompere per primi il silenzio, a partire da Nuss: «Questo, però, significa che dovremo aspettare che l'esercito si metta in marcia.»
«E non possiamo sapere quanto sarà diventato grande, a quel punto» proseguì Vertran, guardandolo negli occhi.

Ecco, era proprio questa la reazione che Hanun temeva e che aveva previsto. «Genan?» disse, sperando che il comandante privo di un occhio giungesse alla sua stessa conclusione.

«Se la pianura oltre la montagna è come voi la descrivete, Altezza, e se il loro accampamento è tanto vasto che saremmo costretti a dividerci in quattro piccoli schieramenti per assaltarlo, allora l'idea che proponete è forse la migliore.

Inoltre, su ordine di vostro padre, l'Imperatore, ho seguito molto da vicino la guerra fra le colonie continentali e l'Isola di Falùsh: so di cosa è capace questa gente, so quanto può essere pericoloso affrontarli nei loro territori e sono certo che abbiano piazzato molte trappole all'esterno dell'accampamento. Tentare di farvi irruzione sarebbe un suicidio.»

«Insomma, non c'è proprio alcun modo di scontrarci con loro subito, prima che ne arrivino altri?» chiese Vertran con un sospiro.

«Non senza correre il rischio di perdere molti dei nostri uomini, cugino» rispose Hanun.

«E se non riuscissimo a sconfiggerli tutti, lungo quel passo?» domandò invece Nuss.

«Possiamo fare molto lì, fidati di me, amico mio.» Poi, rivolgendosi anche agli altri, aggiunse: «Domani, miei comandanti, partirete con me, vi mostrerò com'è fatta quella zona e allora capirete anche voi che il giorno in cui i Mei Faliùsh passeranno di lì sarà un giorno di gloria, per noi» promise, scuotendo vigorosamente una spalla sia a Vertran, che a Nuss.

«Non mi avete ancora illuminato su quale sia il mio ruolo in tutto ciò, Altezza» disse allora Sobech. Quando erano in pubblico, si rivolgeva sempre al Principe con la consueta formula riverente imposta dall'etichetta, dato che non era né un parente, né un vecchio amico di nobile estrazione, ma Hanun riusciva sempre a percepire una sottile vena ironica nel suo tono, che per fortuna agli altri sembrava sfuggire, forse mascherata dal suo forte accento straniero.

Cercando di trattenere un sorriso divertito, il Principe disse, con un tono di complicità: «Ricordi la battaglia della fortezza di Priar?»

Il sorriso sul volto di Sobech si fece ancora più ampio. «Ricordo.»

«Pensi di poter realizzare qualcosa di simile?»

«Certamente. Ma devo avvertirvi che in un luogo del genere potrebbe essere pericoloso, Mio Signore.»

«Riprenderemo il discorso domani, dopo che avremo osservato e studiato il terreno. Nel frattempo, voglio delle sentinelle di guardia attorno al nostro campo» aggiunse poi, rivolgendosi ai tre comandanti. «Ma che non si avventurino troppo a sud: dubito che i Mei Faliùsh si siano accorti di noi e preferirei che continuasse ad essere così.

Se non avranno alcun sentore della nostra presenza, la vittoria ci sorriderà ancor prima che la vera battaglia abbia inizio.»

Quella notte, l'imminente scontro fu protagonista dei sogni di Hanun, tra il clangore delle armi, il ruggito dei tarkal, l'odore ferroso del sangue e il calore delle fiamme. Nonostante il sogno tutt'altro che rilassante, però, il suo sonno fu tranquillo e sereno, tanto che dovette andare Sobech a svegliarlo.

«Sai, credo di aver finalmente capito come mi sia venuta in mente quest'idea» gli confessò Hanun, ancora un po' assonnato. «È stato grazie a te, quando mi hai detto che il campo di battaglia non doveva per forza essere in quella pianura.»

Sobech sorrise con un piccolo sbuffo e disse solo: «Beh, ti conviene tenertelo per te, se non vuoi che i tuoi comandanti inizino a riconsiderarla.»

Il Principe di Katils gli affidò il comando e la gestione dell'accampamento fino al suo ritorno e, con il cuore pieno di coraggio e la mente ridondante di idee, partì di buonora in compagnia di Vetran, Nuss e Genan Tārmend.

Nonostante il nomignolo di Yon Nin affibbiatogli alla nascita e il suo presunto dono della veggenza, Hanun sapeva che i suoi sogni in realtà non avevano alcun significato, tuttavia le immagini che lo avevano accompagnato durante la notte lo avevano riempito di rinnovata fiducia e orgoglio. Immaginò che dovesse essersi sentito così anche il suo avo della dinastia Menradt che aveva dato inizio alla rinascita del popolo Katileo, conducendolo oltre i confini della sua penisola, permettendo ai suoi successori di discendere lungo il corso del grande fiume Geremendt, fino all'altro capo del continente, strappando la loro antica capitale al popolo dell'acqua.

Ora Hanun avrebbe difeso quella magnifica città eroicamente riconquistata da suo padre, dimostrandogli così il suo valore, e sarebbe stato solo l'inizio: i suoi avi avevano restituito ai Katili le loro antiche glorie, ma lui li avrebbe resi ancora più grandi e potenti, come nessun popolo era mai stato dall'Età degli Eroi.


Vista la complessità dell'universo narrativo di questa storia, ho deciso di pubblicare a breve una piccola guida con tutte le informazioni di lore e sui vari personaggi. Dato che EFP non me lo permette, però, sarà su Wattpad e ovviamente vi lascerò il link nei capitoli.

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Capitolo 6
*** Capitolo 5: La scelta di Urem Tolban ***


Capitolo 5: La scelta di Urem Tolban
 
Al volgere del nuovo giorno, Mereis si sentiva stanca e affamata come mai in vita sua. Proprio come il vecchio Dinke aveva predetto, svanito l'effetto delle misteriose foglie stava persino peggio di qualche ora prima e pregò il dio Fezàr di mantenere il suo corpo abbastanza saldo e in forze da non perdere i sensi, e la dea Depna di preservare la sua lucidità mentale ancora per qualche ora.

«Sono certo che andrà per il meglio, mia cara» la rincuorò Dinke, annodandosi il fazzoletto da collo che meglio si abbinava al suo vestito più elegante.

L'abito era ridicolmente elaborato e arzigogolato per i costumi semplici della regione in cui si trovava Kendart, ma quella era la moda ufficiale di Katils ed era così che, evidentemente, ci si doveva presentare davanti ad un raffinato signore della capitale.

«Spero che il Signor Tārmend non si arrabbi troppo con te, quando saprà che mi hai aiutata.»

«Se Urem Tolban sceglierà te, non credo che avrà da lamentarsi, dato che il gioielliere dovrà comprarti e, se ben ricordo, il tuo precedente padrone ti ha, per così dire, donata al suo caro fratello.»

«Potrebbe comunque licenziarti per essere stato mio complice.»

«Con queste parole lo fai sembrare quasi un crimine» ribatté l'altro, scherzoso.

«Ai loro occhi forse lo è.»

L'uomo esitò un momento. «Mereis, qualunque cosa accadrà oggi non pensare a me. Non preoccuparti per me: se anche dovessi perdere l'impiego, ho conservato abbastanza denaro per tirare avanti per quel poco che mi resta da vivere.»

«Non parlare così, per favore» lo rimproverò la schiava, quasi con disgusto. Odiava quei discorsi: la morte non l'aveva mai spaventata, anzi, ma da quando era arrivata a Kendart questa aveva assunto una connotazione molto più triste e oscura, del tutto priva di senso di pace o di gloria.

«Attenzione, prego! Signori intagliatori, prestate attenzione!» esordì improvvisamente il grasso e vecchio Tārmend con voce stentorea in cima ai gradini, all'ombra della sua bella veranda. «Fra poco il nostro gentile ospite, Urem Tolban, gioielliere di grande fama e raffinatezza, esaminerà le vostre pietre e più tardi sapremo chi di voi verrà scelto come suo nuovo assistente. Indipendentemente dall'intagliatore che godrà di tale onore e privilegio, auguro buona fortuna a tutti voi e che gli dèi vi sorridano. Prego, ora seguitemi» concluse, facendo loro strada all'interno della sua grande casa, decorata con tinte biancastre e dorate.

«Ricorda, Mereis» le bisbigliò Dinke, prima di unirsi alla piccola folla di uomini imbellettati che procedeva ordinatamente verso la sfarzosa dimora. «Non pensare a me. Qualunque cosa accada.»

*

Le visite dei gioiellieri costituivano uno dei pochi aspetti positivi della vita a Kendart. In presenza di ospiti, infatti, gli schiavi venivano caricati di lavoro un po' meno del solito e tutte le punizioni da impartire venivano alleggerite o rimandate. Mereis sospettava che fosse per non urtare la sensibilità della gente benestante che viveva in città, dove evidentemente gli schiavi venivano trattati con un po' più di riguardo. Non si spiegava, altrimenti, perché molti dei gioiellieri lanciassero loro fugaci occhiate in parte incuriosite e in parte mortificate.

Quel giorno, questo si rivelò particolarmente utile per Mereis, poiché già si sentiva sfinita e sul punto di crollare a terra, nonostante non fosse trascorsa neanche metà mattinata. Il suo incarico per quel giorno costituiva semplicemente nel pulire e oliare i macchinari usati dagli intagliatori e, nonostante fosse il meno faticoso dei compiti, ci stava mettendo una vita. Si sentiva le braccia incredibilmente pesanti e la stretta delle dita era tanto debole che lo straccio per oliare le era caduto di mano più volte.

A un certo punto un guardiano che aveva notato la fiacchezza dei suoi movimenti tirò fuori il bastone flessibile per picchiettarle una spalla, ma quando glielo puntò contro, spingendo appena un po', Mereis perse subito l'equilibrio e rovinò a terra. In quel momento tutta la stanchezza, la fame e l'indolenzimento che la tormentavano si tradussero in una rabbia accecante.

Serrando i pugni, prese un lento e profondo respiro per calmarsi, ma picchiettandola di nuovo il guardiano le intimò: «Alzati subito, schiava.»

«Smettetela!» sibilò lei senza riuscire a trattenersi, attirando su di sé gli sguardi degli altri schiavi.

«Come hai detto?» chiese l'altro, più incredulo che indignato.

Mereis alzò la testa e lo guardò dritto negli occhi. «Io credo che abbiate sentito.»

Il guardiano la fissò sbigottito ancora un istante, poi aggrottò la fronte e ripeté: «Alzati.» Di nuovo, la picchiettò con la punta del bastone.

«Fatelo ancora e giuro che ve ne pentirete!» Sapeva di stare rischiando grosso, ma tutto il risentimento accumulato ormai stava traboccando e, con la consapevolezza che forse sarebbe presto andata via di lì, non aveva più né la forza, né la volontà di arginarlo.

«Non lo ripeterò una quarta volta: alzati immediatamente!» disse nuovamente il guardiano, stavolta sferzandola con forza.

Mereis balzò su spinta dalla cieca rabbia e, digrignando i denti, ringhiò: «Possa Zèchtos fulminarvi a morte! E quel maledetto bastone potete anche infilarvelo nel ...»

L'ultima parola fu inghiottita dal fragore dei cardini del portone e a quel suono il guardiano sobbalzò terrorizzato. Chissà, magari avrà pensato che Zèchtos avesse esaudito l'invocazione della schiava, scagliando su di lui una saetta. Un altro guardiano varcò la soglia appena aperta e, lanciando un'occhiata attorno a sé, chiamò: «Mereis?»

«Sono io» rispose prontamente la giovane donna, sforzandosi di cancellare la rabbia e la sfrontatezza dal proprio volto.

«Seguimi.» Tirandola per un braccio, l'uomo la scortò verso l'uscita e lo sguardo sardonico del guardiano a cui si era ribellata davanti a tutti la seguì finché non fu uscita dall'officina. Senza rallentare un solo istante, l'uomo la trascinò ai confini del campo, verso la lussuosa dimora della famiglia Tārmend, spingendola all'interno.

Lo spettacolo che le si parò davanti appena varcata la soglia la lasciò stordita per qualche istante: non ricordava di aver mai visto una dimora più sfacciatamente ricca, dal mobilio dalle linee arrotondate ed eleganti, al pavimento meravigliosamente liscio e lucido; dalle tende in preziosa seta, alle colonne a spirale e ai corrimano metallici, impreziositi di luccicanti gemme variopinte. Per non parlare delle pareti immacolate, dei dipinti, dei lucernari, della scala a chiocciola ...

Mereis aveva fantasticato diverse volte sul misterioso interno della dimora del ricco proprietario di Kendart, ma nemmeno nelle sue più sbrigliate fantasie aveva mai immaginato una ricchezza tanto elegantemente ostentata. Ne era rimasta letteralmente travolta e solo quando il guardiano arrestò finalmente la loro corsa si riprese.

Nella stanza in cui era stata condotta erano presenti tutti i migliori intagliatori, schierati uno dopo l'altro davanti ad un lungo tavolo di lucido legno scuro, ognuno con il frutto del proprio lavoro orgogliosamente messo in mostra davanti a sé, su di un piccolo quadrato di seta. Ognuno di loro aveva gli occhi puntati su lei: quasi tutti la squadravano increduli, alcuni con invidia, qualcun'altro persino con astio. Dinke, il più vecchio del gruppo, le rivolse un sorriso incoraggiante.

«Per tutti gli dèi, signore, avreste potuto almeno farle indossare delle scarpe pulite!» esclamò il grasso Signor Tārmend, mettendosi un fazzoletto ricamato davanti al naso e alla bocca con un gesto plateale. Mereis trattenne a stento una risata: per una volta, non le dispiaceva tanto di essere così sudicia e puzzolente. Il guardiano, invece, era a dir poco mortificato.

«Dunque» disse un uomo imponente dalle mani ridicolmente piccole, avvolto in un abito semplice, ma decorato con un sottile filo d'oro. «È questa la brillante intagliatrice di cui mi parlavate?»

«In persona, signore» rispose fiero il vecchio Dinke.

Urem Tolban la squadrò da capo a piedi, senza tradire alcuna particolare emozione. Poi prese la pietra nella quale Mereis aveva riposto tutte le sue speranze e gliela porse dicendo: «Ditemi, avete davvero realizzato voi questo taglio?»

La donna esitò un istante: già era strano che l'avesse definita "brillante intagliatrice", invece di "schiava", e ora le dava addirittura del "voi"?

«Ebbene?»

«Sì. Sì, è opera mia.»

«Oh, ma per favore ...» bisbigliò indignato uno degli intagliatori, ma Urem Tolban lo ignorò.

«Dove avete imparato?»

«Nella terra da cui provengo conosciamo da secoli l'arte dell'intaglio. L'ho appresa dai miei genitori, come essi la appresero dai loro prima di me e così via, fino a risalire ad un tempo tanto lontano che nessuno ne ha più memoria» spiegò Mereis, orgogliosa.

«Ma sì, è ovvio» ribatté il gioielliere, rivolgendole un ampio sorriso. «Rinno!»

«Come lo avete capito?»

«Dai vostri lineamenti, dai vostri occhi, dai vostri capelli: la vostra isola è rimasta così a lungo isolata che la sua gente possiede dei tratti unici in tutto il mondo.»

Giusto, avrebbe dovuto intuirlo, dopotutto: nell'Impero Katileo c'era tanta gente con i capelli neri, gli occhi verdi e la pelle scura, ma nessuno poteva vantare un nero così lucido, o quella particolare sfumatura di verde scuro nelle iridi. Per non parlare dei tratti somatici. «Mi complimento con voi, siete un ottimo osservatore.»

Urem Tolban annuì quasi solennemente. «Una dote indispensabile, se si vuole essere un buon gioielliere. Come avrei potuto notare, altrimenti, la minuscola imperfezione in questo diamante, che voi siete riuscita a camuffare con tanta maestria?»

«Non poi così tanta, se siete riuscito a vedere la macchia.»

«Non siate così severa con voi stessa: ad un osservatore meno esperto sarebbe certamente sfuggita. Parola mia, mai visto un taglio migliore eseguito su un diamante» si complimentò il gioielliere, osservando estasiato la pietra con una lente a tubo, simile a quella degli occhiali creati da Dinke.

«Sono ... Sono onorata che un gioielliere esperto e talentuoso come voi apprezzi tanto il mio taglio.»

«Dovete esserlo» ribatté l'uomo, tornando a guardarla. «Il vostro lavoro è impeccabile. Peccato, però, che siate soltanto una schiava. E per di più una vile ladra di diamanti, a quanto pare» aggiunse severo e il sorriso svanì dal volto di Mereis.

«Co ... Cosa?» mormorò sconcertata, sentendo un tuffo al cuore.

Il gioielliere scoppiò a ridere, accarezzandole un lato del volto, senza curarsi della sporcizia che lo ricopriva. «Dovreste vedere la vostra faccia!» Mereis lo fissò ammutolita e tutt'altro che divertita. «Che importa cosa siete? Questo taglio è uno dei migliori che abbia mai visto e per di più eseguito su un diamante! È questa l'unica cosa che conta.»

«Con questo volete dire che ...»

«Esatto: la mia scelta ricade su di voi, sempre che il caro Signor Tārmend sia disposto a vendervi» disse il gioielliere, incrociando lo sguardo col diretto interessato.

Il grassoccio padrone di Kendart si strinse nelle spalle. «Se proprio ci tenete ad assumervi il rischio di avere una ladra come assistente, amico mio.»

«Con tutto il rispetto, non credo che questa donna sia una vera ladra: dopotutto, non ha preso il diamante per sé, o per venderlo. Io la definirei piuttosto intraprendente

*
 
L'ora successiva fu una delle più imbarazzanti e umilianti che Mereis potesse ricordare. Poiché era fuori discussione che lasciasse Kendart tutta sudicia e conciata come una stracciona, il Signor Tolban ordinò ad altre tre schiave di lavarla, districarle i capelli e vestirla con abiti decenti. Mereis non era mai stata particolarmente pudica, ma l'esperienza di essere denudata e strofinata da cima a fondo da tre donne che a malapena conosceva fu tutt'altro che piacevole.

Quando le tre donne ebbero finito con lei, finalmente Mereis venne lasciata in pace e, come prima cosa, si fiondò verso un grazioso specchio con l'intelaiatura argentata che sembrava abbastanza lungo perché potesse riflettere la sua immagine dalla testa ai piedi. Ad un passo dalla meta, però, si sentì come bloccata e non riuscì più ad avanzare.

Erano passati anni dall'ultima volta che aveva potuto specchiarsi ed era certa che avrebbe trovato un riflesso molto diverso da quello che ricordava. Era consapevole, ad esempio, di essere molto più emaciata. Anche i capelli dovevano essere più spenti e sottili. Per non parlare della pelle ricoperta di lividi, croste e cicatrici, soprattutto lungo la schiena. La cosa che più la spaventava, però, era l'eventualità di scoprire nei propri occhi lo stesso sguardo vuoto che avevano alcuni schiavi.

Facendosi forza, si posizionò davanti allo specchio e, quando riuscì finalmente a guardarsi in volto, vide che i tratti del viso si erano un po' induriti. I capelli erano sfibrati e informi e lo sguardo, benché non fosse spento o morto, era privo di allegria e carico di stanchezza e rimase tale anche quando le sue labbra si stesero in un sorriso. Per fortuna era ancora percepibile una scintilla di vitalità nei suoi occhi verdi e nel suo corpo emaciato.

Ciò che la colpì maggiormente, però, furono le rughe di espressione tra le sopracciglia. Non che fossero poi tanto evidenti, anzi, ma considerando che solo qualche anno prima neanche esistevano non poté fare a meno di riflettere: la sua vita era stata per lo più felice e aveva avuto moltissime occasioni di sorridere, in passato, eppure i primi segni che erano apparsi sul suo volto si trovavano nella zona che esprimeva sofferenza, rabbia e paura.

*
 
Qualche ora dopo Mereis fu portata in un confortevole studio, in compagnia di Urem Tolban. La stanza odorava di legno nuovo, cera per candele e fogli di carta; le pareti erano interamente ricoperte di libri, custoditi in scaffali dall'intelaiatura elaborata. Leggendo le scritte sul dorso, vide che si trattava per lo più di libri di conto e altri documenti che riguardavano Kendart, ma tra di essi era presente anche qualche trattato sulle pietre preziose e sulle piante tipiche dei Monti Scintillanti. C'erano persino un paio di raccolte di poesie, ma Mereis dubitava che un uomo laborioso e pragmatico come il Signor Tārmend le avesse mai sfogliate.

«Sapete leggere?» domandò sorpreso Urem Tolban, osservando il suo sguardo vagare fra i tomi.

«No» mentì Mereis, ben sapendo che molti non vedevano di buon occhio uno schiavo istruito.

«Bene. Meglio così, in fondo.»

Il suo vecchio padrone fece ritorno con una boccetta di inchiostro e vi intinse il curioso pennino meccanico, tutto rotelle e ingranaggi, che la giovane schiava non aveva mai visto prima. A quanto pareva, era in grado di risucchiare una quantità sufficiente di inchiostro da durare per una pagina intera e lasciava molte meno macchie delle tradizionali penne d'uccello.

«Dunque» esordì l'uomo, «dove eravamo rimasti? Ah, sì ... Come vi dicevo, Mereis mi è stata donata da mio fratello Genan. Forse avrete sentito parlare di lui, è un alto graduato dell'esercito Katileo.»

«Non ho molta familiarità con i gendarmi, o con i guerrieri in generale.»

«Naturalmente, è comprensibile. Come stavo dicendo, questa schiava mi è stata donata e non ho nessun contratto di vendita che la riguardi, neanche la copia di quello con il quale mio fratello la acquistò, perciò posso dichiarare e documentare con certezza che Mereis ha scontato solamente quattro dei dieci anni di schiavitù previsti dalle nostre leggi e ...»

«Ma non è giusto» protestò indignata la donna. «Dovete aggiungerci almeno due anni! Chiedetelo a vostro fratello, se voi non avete ...»

«Mereis, siediti» ordinò l'uomo. Neanche si era accorta di essere saltata in piedi, tanto era indignata.

«Signore, per favore, vi giuro che ho già scontato almeno sei anni.»

«Sono spiacente, ma non ho alcun documento che possa dimostrarlo.»

«Signore, ascoltatemi, voi dovete ...»

«Io non devo fare proprio nulla, ma ti ordino di sederti e di stare zitta, schiava!»

Mereis era sul punto di esplodere, quando la voce ferma e severa di Urem Tolban rimbombò nella stanza. «Mereis, siediti, per favore.»

La giovane si voltò a guardare la sua espressione indurita e un po' sconcertata. Che sciocca: che senso aveva rischiare di mandare tutto all'aria per un paio di anni? Cos'erano due anni in confronto alla morte nell'oscurità della miniera?

«Chiedo scusa» sussurrò imbarazzata, abbassando lo sguardo.

Dopo che si fu seduta, il Signor Tārmend riprese: «Bene. Queste sono le due copie del contratto, mio caro amico, la mia e la vostra. Ho compilato il testo con tutti i dettagli concordati, compreso il prezzo. Se volete, potete rileggerlo ancora una volta, prima di firmare.»

Urem Tolban fece scorrere rapidamente lo sguardo tra le righe vergate con una grafia perfettamente leggibile, ma tutt'altro che elegante. Poi si fece passare il curioso pennino meccanico e aggiunse la propria firma in fondo a entrambe le pagine.

«Voi, Mereis, dovete firmare qui» disse poi, indicandole il punto sul foglio. Bizzarro, pensò la giovane tra sé e sé: da quand'in qua anche gli schiavi firmavano i contratti? L'Impero dei Katili si rivelava un luogo ogni giorno più strano.

«Se non siete in grado di scrivere, potete anche ...» iniziò Urem Tolban, ma subito dovette interrompersi, quando la vide vergare il suo nome senza esitazione e in bella grafia. Entrambi gli uomini la guardarono sorpresi e Mereis, facendo spallucce, si giustificò: «So solo come si scrive il mio nome.»

*
 
Con grande sollievo di Mereis, il gioielliere decise che sarebbero ripartiti da Kendart quel pomeriggio stesso. Ancora non le sembrava vero di essere finalmente riuscita a lasciarsi quell'inferno alle spalle. Si sentiva leggera, quasi traslucida, come se avesse smesso di esistere nel proprio corpo e si fosse accomodata di nascosto in quello di qualcun'altro.

Si era appena rimessa gli stivali e stava seguendo Urem Tolban fuori dalla meravigliosa casa del suo ormai ex padrone, quando le venne in mente qualcosa che la fece pietrificare sul posto. Come aveva potuto dimenticare una cosa tanto importante? «Signore? Signore?»

«Cosa c'è, Mereis?» domandò l'uomo, paziente.

«C'è una cosa che devo fare, prima di andare. Ci vorrà solo un minuto, vi prego.»

«Cosa dovete fare?»

«Devo ... Devo salutare un amico» rispose, mentendo solo in parte.

«Il vecchio intagliatore, suppongo?»

«Sì. Sì, proprio lui.»

«Permesso accordato. Ma fai alla svelta, non voglio passare un solo istante di più in questo postaccio.»

E io meno di voi, pensò Mereis tra sé e sé, ma disse solo: «Vi ringrazio. Vi raggiungerò al più presto.»

Voltandosi di scatto, iniziò a correre a perdifiato verso il capannone nel quale aveva dormito negli ultimi quattro anni, pregando gli dèi che nessuno avesse già disfatto la sua vecchia cuccetta pidocchiosa. Era vero che voleva salutare Dinke, ma doveva anche recuperare una cosa molto importante che aveva nascosto nel rudimentale materasso di paglia.

«Mereis!» si sentì chiamare dalla voce affannata del vecchio intagliatore, a pochi passi dal capannone. «Mereis, finalmente! Ti ho cercata ovunque!»

«Perdonami. Mi hanno tenuta tutto il giorno a casa Tārmend. Stavo giusto venendo a cercarti, non volevo partire senza averti prima salutato e ringraziato.»

«Non dimentichi anche un'altra cosa?» disse il vecchio, raggiungendola e stringendola in un abbraccio. Poi si guardò furtivamente attorno e si sfilò dal collo proprio l'oggetto che la donna era tornata a recuperare: un piccolo rettangolo di cristallo trasparente, appeso ad una semplice catenina d'argento. La pietra era incastonata in una sottile cornice argentata, ricoperta di antichi segni incisi nella perduta lingua degli dèi.

«Dove lo hai preso?»

«Lo ha trovato uno schiavo che stava disfacendo la tua cuccetta. Fortuna che sono arrivato appena in tempo, o lo avrebbe sicuramente sgraffignato.»

«Cosa farei senza di te?»

«Saresti perduta, mia cara. Ma dimmi, cos'è questa? Non mi sembra una delle tue creazioni.»

La donna ponderò la risposta per qualche istante. «No, infatti. Diciamo che serve per capire dove andare.»

Il vecchio annuì sovrappensiero. Poi le mise in mano il cristallo e disse: «Beh, spero che d'ora in avanti possa guidarti nella direzione giusta, mia cara.»

Mereis lo guardò in silenzio per qualche istante. «Mi mancherai, Dinke.»

L'altro, stringendola a sé, rispose: «Lo so. Ma se gli dèi lo vorranno ci rivedremo ancora, un giorno.»

«Quel giorno saprò ripagarti di tutto quello che hai fatto per me.»

«Mereis, ti prego, te l'ho detto tante volte ...»

«Non mi importa: io sento di avere un grosso debito verso di te e giuro che riuscirò a saldarlo, un giorno.»

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Capitolo 7
*** Capitolo 6: Il ragazzo di Nihibuc ***


Capitolo 6: Il ragazzo di Nihibuc
 
L'aria all'interno della bettola si era fatta sempre più pesante, ed era ormai diventata quasi irrespirabile. Una spessa cappa di fumo oscurava il soffitto e aleggiava sulle teste degli avventori come un fantasma. La puzza di alcool, combinata con quella di sudore, stordiva per un istante tutti quelli che varcavano la soglia della squallida locanda, ma ci si faceva presto l'abitudine. Tuttavia, tra i fumi dell'alcool, l'assordante musica strimpellata e le risate squillanti delle donnacce in cerca di clienti, la testa tornava a girare in breve tempo.

Upahar, però, era perfettamente lucido e determinato a restarvi. Seduto a un tavolo assieme ad altri tre giocatori, era nel bel mezzo di una partita a Kripvec, uno dei giochi di carte a cui, solitamente, partecipavano alla fine della serata i giocatori che erano stati più fortunati e che avevano accumulato più vincite. E questa era la sola e unica ragione per la quale il ragazzo si trovava in quel posto malfamato e maleodorante. Se avesse voluto, probabilmente sarebbe riuscito ad arrivare ogni sera al Kripvec, ma così la gente avrebbe capito che barava contando le carte e allora avrebbe potuto dire per sempre addio a quella comoda e indispensabile fonte di guadagno.

Per il giovane Upahar, infatti, era sempre stato difficile trovare un lavoro decente, a causa delle malformazioni con cui era nato ad entrambi gli arti destri: il palmo della mano era tozzo e sgraziato e da esso si dipartivano solo due dita, mentre il piede si era deformato al punto tale durante la crescita che, solo qualche mese addietro, ci era inciampato ruzzolando giù per una scalinata; la gamba si era spezzata e non aveva neanche avuto il tempo di iniziare a risaldasi, che era andata in cancrena.

Il guaritore gli aveva subito detto che era necessario amputarla e, sebbene il ragazzo fosse terrorizzato al solo pensiero, l'operazione non era stata affatto dolorosa, dato che gli avevano somministrato qualche strano intruglio che lo aveva tenuto addormentato. Per fortuna che la dolce e saggia Tampìca lo aveva convinto a recarsi presso i guaritori dell'Ordine della Mandragora, invece che dal cerusico del villaggio! Alcuni non li vedevano di buon occhio, dato che erano arrivati a Kàlatlan con dall'Impero, quasi fossero l'avanguardia di un'invasione futura, ma i guaritori avevano subito messo in chiaro che la loro era un'organizzazione senza bandiera, a disposizione di ogni bisognoso.

Le loro cure non erano state molto costose, ed era stata una vera benedizione, dato che nelle settimane successive Upahar aveva speso la maggior parte delle sue monete in erbe e trattamenti per il dolore. E con le difficoltà che aveva avuto ad imparare a camminare con la gamba di legno che lui stesso, con l'aiuto di Tampìca, aveva scolpito, non aveva neanche potuto riprendere il suo vecchio lavoro al porto di Nihibuc. Per il momento, grazie alla sua abilità nel calcolo, poteva solo lavorare come assistente del doganiere, ma la paga non era sufficiente, con quel che costavano i rimedi contro il dolore.

Per questo ora si trovava lì, seduto al tavolo da gioco con cinque carte nella mano buona e un coltello legato all'altra con uno spago, nascosta sotto il tavolo. Era una pratica molto comune in quel genere di bettole, specie nei giochi in cui si puntava molto, e infatti anche gli altri tre giocatori tenevano una mano sotto al tavolo, pronti a far scattare il coltello contro chiunque beccassero a barare.

Con un sospiro rassegnato e fetente di alcool, il marinaio alla sua destra scosse la testa e gettò con irritazione le carte sul tavolo. «Basta, io mi chiamo fuori» disse, riaggiustandosi la camicia sudicia e abbandonando il tavolo con il gruzzolo che era riuscito a salvare.

I tre rimasti buttarono un'occhiata sulle cinque carte scoperte − una mano decisamente bassa − per poi tornare a fissarsi con un'intensità tale che sembrava stessero pregando la dea Depna di benedirli con la capacità di leggere nella mente altrui. D'un tratto, il faleyon coi lunghi e folti baffi biondi come le sue ali, che era seduto davanti ad Upahar, abbassò lentamente le sue carte e, alternando lo sguardo tra il ragazzo e la donna mora che odorava di farina e birra, esclamò: «Io rischio tutto ... con la pescata delle cinque carte!»

La pescata delle cinque carte era uno dei modi per concludere rapidamente una partita di Kripvec, ma se qualcuno decideva di proporla, spesso voleva dire che era ormai sicuro di vincere. Oppure stava solo bluffando. La donna stava evidentemente tentando di capire quale delle due fosse, dato che continuava a fissare dritto negli occhi l'uomo alato che, di rimando, la osservava quasi con sguardo sardonico. Alla fine, lei decise che non stava fingendo e buttò le carte sul tavolo, ma a differenza dell'altro ritirato rimase ad osservare il duello finale.

In quel momento, Upahar si rese conto che anche altri clienti e qualche puttana stavano assistendo alla partita, i primi nella speranza che il vincitore offrisse loro un giro gratis per festeggiare e le seconde con l'obiettivo di accalappiarsi un cliente con le tasche piene. Quando era lui a vincere offriva sempre un giro a tutti, nel timore che qualche ubriacone potesse innervosirsi e scatenare una rissa, ma rifiutava categoricamente le proposte indecenti delle fanciulle. In verità, erano soprattutto queste ultime a preoccuparlo, poiché più di una volta erano riuscite a sgraffignargli qualche moneta, fingendo di toccarlo nel tentativo di sedurlo.

«Allora, ragazzino?» lo provocò il suo sfidante, facendo un cenno verso di lui col mento. «Krip o vec? Rischi o rinunci?»

Tutt'intorno a loro, ognuno degli osservatori gridava il proprio consiglio, ma Upahar sapeva già cosa fare: «Krip» disse. Il baffone si sentiva fortunato? Beh, anche lui non era da meno. Inoltre, considerando le carte che erano già uscite dalla pila composta di sei mazzi, era molto probabile che tra le successive dieci carte ce ne fosse una che faceva al caso suo. Doveva solo sperare che fosse tra le sue cinque. E comunque, aveva già una mano molto alta, nel peggiore dei casi probabilmente avrebbe solo pareggiato.

Poiché era stato l'altro a lanciare la sfida, toccò a lui prendere dieci carte dalle poche rimaste nel mazzo e distribuirne cinque a testa, messe a faccia in giù sul tavolo. Le regole erano semplici: bisognava scoprire le carte una ad una, da destra verso sinistra. Tra queste, era possibile scegliere una sola carta da sostituire con una in proprio possesso, ma una volta scoperta una carta, se si decideva di lasciarla lì, non si poteva più tornare a recuperarla.

Il faleyon iniziò lentamente a voltare le proprie: l'Eterna Dormiente, solo tre punti; l'uomo passò subito oltre. L'Effimero Di Mèren Lon, ben sei punti; l'uomo esitò qualche secondo, poi passò alla carta successiva. L'Ineffabile Senza Volto, la bellezza di otto punti; qui l'uomo dovette pensarci a lungo, ma dopo aver lanciato un'occhiata al giovane Upahar decise di sfidare ancora la sorte. La Polvere D'Oro, soltanto un punto; l'uomo lanciò una sonora imprecazione e, inspirando profondamente, girò l'ultima carta. Il Cuore Di Mut, ben dieci punti. Tra le esultanze di alcuni osservatori, il giocatore prese la carta tirando un sospiro di sollievo e fece un altro arrogante cenno diretto a Upahar: «Bene, ragazzino. Vediamo cos'hai tu.»

Il giovane si fece coraggio e girò la sua prima carta: anche per lui l'Ineffabile Senza Volto, l'ultimo rimasto; la tentazione era forte, ma Upahar aveva bisogno di qualcosa in più per sentirsi sicuro. La Gemma Di Ossidiana, soltanto un punto; scuotendo la testa, il ragazzo passò oltre. La Femmina Di Kabé, quattro punti; Upahar stava iniziando a credere di aver commesso un errore, quando girò la carta successiva. La Spada di Nanfi, ben nove punti; con un sospiro di sollievo, il ragazzo la prese. Per fortuna, anche l'ultima carta aveva un valore basso.

A quel punto, i due giocatori si scambiarono una lunga occhiata e, lentamente, abbassarono i rispettivi mazzi di cinque carte sul tavolo. L'uomo aveva due carte da dieci punti e tre da nove. Upahar non riuscì a trattenere un sorriso carico di soddisfazione: proprio come aveva previsto contando le carte, l'uomo non aveva la Rosa Divina, ossia tutte e cinque le carte da dieci punti, e lui era riuscito a salvarsi proprio grazie a quel singolo punto in più per il quale aveva rischiato. La sua mano, infatti, comprendeva tre carte da dieci e due da nove.

Mentre il perdente continuava a fissarlo con astio e la folla intorno esultava, Upahar si affrettò ad infilare nella borsa la cospicua vincita. Come sempre, offrì subito una pinta a tutti i presenti e, stringendo con forza la borsa sotto le cosce per tenerla al riparo dalle mani invadenti delle prostitute, si rimise il gilet che aveva appeso allo schienale della sedia. Dopo essersi alzato, serpeggiò zoppicando tra la calca fino al bancone, dove lasciò una moneta d'argento per pagare tutto l'alcool offerto. Poi si fiondò subito verso l'uscita, dove si sentì piacevolmente accarezzato da un'ondata di aria fresca e salmastra.

Quando si chiuse dietro la porta, anche il chiasso della musica, dei bicchieri tintinnanti, delle risate, dei rutti e degli stornelli venne attutito e Upahar inspirò a fondo, alzando lo sguardo al cielo. Zèchtos e Zechtosèa percorrevano la volta celeste a breve distanza l'una dall'altra e la prima si trovava a sinistra della seconda: la stagione invernale era dunque alle porte. A Nihibuc, però, le temperature erano ancora molto calde, tanto che Upahar non indossava altro che un gilet e dei leggeri pantaloni che arrivavano fino al ginocchio, stretti in vita da una fascia. Il leggerissimo cappello a tesa larga, tipico di tutta la zona sud di Kàlatlan e indispensabile sotto il sole cocente, gli pendeva dietro la schiena, tenuto su da una cordicella che gli cingeva la parte bassa del collo.

Quando sentì di essersi rinfrescato abbastanza, si diresse con calma verso il lato sud dell'edificio, dove si trovava la scalinata che portava al piano di sopra. In quella regione di Kàlatlan, infatti, si usava costruire le case su due piani, ma mente nei tempi antichi il piano inferiore custodiva solamente i resti inceneriti dei membri della famiglia, ormai anche il piano inferiore era abitabile e accessibile dall'esterno. Le case, comunque, venivano ancora costruite abbastanza vicine perché ci si potesse tranquillamente spostare camminando di tetto in tetto, con l'aiuto di qualche ponte di corda e legno.

Il piano superiore dell'edificio in questione ospitava le camere in cui i clienti cercavano un po' di intimità con le prostitute, ma spesso vi si trovava anche qualche contrabbandiere e una maga in grado di predire il futuro con le carte. Era proprio quest'ultima la persona a cui Upahar era interessato, ma non certo per le sue presunte doti divinatorie, dato che era profondamente convinto che la magia fosse davvero scomparsa da molti secoli, come era scritto in tutti gli annali; e d'altronde, la maga stessa lo credeva.

Giunto sul tetto, Upahar si diresse verso l'apertura quadrata situata in un angolo e scese giù per la corta scaletta appoggiata al muro. La luce di qualche candela illuminava debolmente un corridoio su cui si aprivano le porte delle stanzette. Una di queste era aperta, ma subito una coppia appena arrivata, sorridente di malizia, la reclamò per sé. I gemiti giungevano molto ovattati, ma gli odori si diffondevano fin troppo bene. Davanti ad una delle porte era stata appesa una targhetta raffigurante la carta dell'Occhio di Mechnin, il dio della preveggenza e del futuro. Upahar attese che la porta si aprisse e, quando finalmente il cliente lascò la stanza, andò a bussare sull'architrave.

«Buonasera, oh grande e saggia devota del potente dio Mechnin» esordì, profondendosi in un umile inchino. «Vorreste concedere ad un vostro ammiratore l'onore di leggere per voi il vostro futuro, in questa sola e unica occasione?»

La giovane shuriel dalla meravigliosa pelle azzurrina dai profondi occhi neri trattenne a stento una risata e, stando al gioco, rispose: «Non avete alcun timore che la vostra audacia possa far adirare il mio saggio e temibile dio?»

«Per voi, mia dolce Signora» dichiarò accarezzandole e baciandole una mano, «sfiderei tutti e cinque gli dèi.»

Scuotendo divertita la testa, la maga lo invitò a prendere posto al piccolo tavolo davanti a lei e gli consegnò il mazzo di carte, identico a quello utilizzato per i giochi al piano di sotto. Upahar allisciò un po' il sottile telo variopinto steso sul tavolo e fece qualche finto gesto magico sul mazzo di carte. La ragazza si lasciò sfuggire una risata e Upahar iniziò a sfogliare il mazzo alla ricerca delle carte che desiderava.

«Dunque ... Ecco: Aktanasìl, Eroe dell'ingegno e dell'inventiva. Indica che nella vostra vita c'è una persona molto astuta, magari qualcuno a cui tenete particolarmente.»

«Mh!» fece ironica la maga, inarcando le sopracciglia e poggiando il mento su un pugno chiuso.

«Poi, la Polvere D'Oro: vedo una discreta somma di denaro in arrivo, nel vostro futuro, e ...»

«Hai vinto molto?!» lo interruppe allora la ragazza, strabuzzando gli occhi. «Quanto?» Per tutta risposta, Upahar rovesciò la borsa sul tavolo e la aprì, lasciando scivolare fuori qualche moneta. La maga ispezionò per qualche secondo tutto il contenuto, poi si sporse sul tavolo e gli prese la testa tra le mani, baciandogli la fronte. «Oh, sia lode agli dèi, che fortuna!»

«Dèi? Fortuna? Guarda che è solo merito della mia formidabile astuzia, se non mi hanno mai beccato a contare le carte!» ribatté Upahar, lasciandosi accarezzare i folti ricci neri.

«Temevo che non avremmo fatto abbastanza soldi da comprarti nuove medicazioni ed erbe. Avevo paura che avrebbero capito tutto, visto che ultimamente stai vincendo più spesso.»

«Te l'ho già detto, Tampìca: non c'è nulla di cui tu ti debba preoccupare. So quello che faccio» la rassicurò Upahar, baciandole le labbra. «Tu quanto hai tirato su?»

La shuriel sospirò, facendo tintinnare il borsellino con le monete. «Non molto, ma comunque più di ieri. Sicuramente avremo di che sfamarci per almeno una settimana.»

«Vuoi restare ancora un po' qui e aspettare qualche altro cliente?»

«No, andiamo a casa, per favore. Sono stanca ed è tardi, ormai.» La ragazza recuperò tutte le cose che aveva portato da casa e poi uscirono insieme, sul tetto dell'edificio. Qui, Upahar fece un particolare fischio con il viso rivolto al cielo e i due attesero qualche minuto. Il verso straordinariamente melodico di un uccello rispose al richiamo e l'animale venne a posarsi dolcemente sul braccio teso del ragazzo. Era incredibilmente bello, non più grande di un avambraccio, con un morbido piumaggio azzurro. Delle penne erano disposte a formare una piccola ala anche nelle zampe posteriori e degli eleganti ciuffetti di pelo gli spuntavano sia sulla testa che nella lunga coda, terminando in una strana formazione di piumette che ricordava un occhio.

Si trattava di un ruh, uno degli uccelli sacri degli Arcipelaghi Orientali, straordinariamente intelligente e dalla vista molto acuta. Apparentemente, era l'unico essere vivente che riuscisse a volare oltre le misteriose nebbie che si trovavano sulle acque ad est degli Arcipelaghi e ad ovest del Grande Continente, dalle quali nessuna nave aveva mai fatto ritorno. Era assolutamente proibito catturarli e impossibile addestrarli: era il ruh a scegliere il proprio padrone, se ne desiderava uno, mai il contrario.

Quello di Upahar accompagnava e proteggeva il ragazzo da sempre e per questo il giovane lo aveva chiamato Hanim: nella lingua di Rinno, l'isola da cui probabilmente Upahar proveniva, a giudicare dai suoi tratti e dal nome che gli era stato dato, il termine indicava una persona o un animale speciale con cui si condivide un legame molto profondo. In un certo senso, anche Tampìca era una sua hanim.

La ragazza accarezzò la testa del ruh, poi prese Upahar sottobraccio e insieme si diressero verso casa, camminando di tetto in tetto. L'edificio era molto piccolo e, fino a qualche mese prima, Upahar abitava al piano superiore, ma da quando era inciampato e piombato giù dalle scale Tampìca aveva deciso di accoglierlo al piano di sotto per prendersi cura di lui. Quando aveva acconsentito a farsi amputare la gamba, aveva davvero temuto che Tampìca lo avrebbe lasciato, che la nuova deformità l'avrebbe finalmente spinta a cercare di meglio che uno storpio squattrinato e solo al mondo, ma l'incidente non aveva fatto altro che rafforzare il loro intenso e profondo legame.

Da allora, ogni notte si coricavano assieme nel loro piccolo giaciglio, all'interno di quella casa bianca, spartana ma sufficientemente accogliente, e ogni mattina si svegliavano sereni e felici, l'una nelle braccia dell'altro. Nonostante questo, però, Upahar continuava a provare un indefinibile desiderio di qualcosa di nuovo, qualcosa che potesse cambiare le loro vite e che gli desse la possibilità di donare a Tampìca tutte le cose belle che meritava. Sapeva di non dover dimostrare nulla a nessuno e di non valere meno di un qualunque altro uomo, tuttavia in cuor suo sentiva un costante e inappagabile bisogno di mettersi alla prova.

*
 
Il porto di Nihibuc era sempre stato di dimensioni modeste, quanto bastava ad ospitare le barche dei pescatori che salpavano al sorgere del sole e rientravano la sera con la pesca del giorno. Tuttavia, da quando i tre re che si spartivano l'isola di Kàlatlan avevano deciso di iniziare a commerciare con l'Impero Katileo, era stato necessario ampliare il porto del villaggio, poiché costituiva l'approdo più conveniente della regione meridionale.

Upahar era rimasto meravigliato e si era addirittura spaventato la prima volta che aveva visto una delle strane navi volanti con cui a volte arrivavano i Katili. Volavano sempre basse, gettando la loro ombra maestosa e inquietante sulle misere barchette dei poveri pescatori. Erano tenute in aria da delle curiose strutture rotanti montate in cima agli alberi, che un marinaio aveva spiegato essere "eliche", e planavano dolcemente sull'acqua sollevando delle grosse onde, tra le quali alcuni pesci amavano sguazzare e rincorrersi. Erano molto più leggere delle normali navi e piuttosto inadatte al trasporto di merci, ma erano l'orgoglio della flotta dell'Imperatore Kut.

Quel pomeriggio, mentre Upahar era seduto sotto l'ampio baldacchino del doganiere, intento a ricontrollare i registri dei pagamenti, ne giunse una che oscurò brevemente il sole al suo passaggio. Per qualche minuto le attività del porto rallentarono: era sempre uno spettacolo mozzafiato assistere all'atterraggio in acqua di uno di quei mostri volanti meccanici. La cosa che più faceva impressione al ragazzo era vedersi quasi sopra la testa il disgustoso scafo ricoperto di alghe e parassiti marini, talvolta secchi e imputriditi se la nave era rimasta in aria troppo a lungo senza essere pulita e scrostata. Fortunatamente, quella appena approdata era una delle più nuove e lucidate che avesse mai visto.

Osservando la forma affusolata dell'agile vascello e le numerose aperture al di sotto dei parapetti, Upahar dedusse che doveva trattarsi di una nave militare; e infatti, non appena ebbe attraccato al molo più lungo, un drappello di soldati Katili sbarcò preceduto da un alto ufficiale shuriel, abbigliato con una delle divise più eleganti che il ragazzo avesse mai visto. Al suo fianco camminava una giovane faleyon dallo sguardo attento e interamente vestita di bianco; Upahar la riconobbe subito come un membro dell'Ordine della Mandragora, poiché aveva lo stemma violetto cucito sul petto.

La donna attirò presto l'attenzione di diversi pescatori, scaricatori e altri lavoratori del porto che probabilmente avevano una certa familiarità con le straordinarie cure dell'Ordine, poiché la ricoprirono di inchini, ringraziamenti e complimenti. La donna alata sembrava incredibilmente felice di quella calorosa accoglienza e si fermò a parlare con tutti loro, mostrando lo stesso interessamento e la stessa gentilezza che caratterizzavano tutti i guaritori del suo Ordine.

L'ufficiale dalla pelle azzurrina si fermò a guardarla per un po' e, quando capì che la cosa sarebbe andata per le lunghe, ordinò ad un paio dei suoi uomini di sorvegliare e proteggere la guaritrice, per poi dirigersi verso la dogana. Quando fu sotto il baldacchino, Upahar vide che era incredibilmente bello, proprio come Tampìca: avevano tutti e due lo stesso viso aggraziato e lo stesso corpo slanciato e affusolato. Non capì molto delle parole che scambiò con il doganiere: parlava solo la lingua dei Katili e il ragazzo ne conosceva giusto qualche parola. Gli parve di riconoscere, tra i vari suoni a malapena comprensibili: governatore, villaggio, riposare e cercare. Il doganiere gli diede tutte le indicazioni richieste, riscosse il pagamento per l'attracco al molo e poi lo congedò con un inchino.

Quando anche la guaritrice si unì all'ufficiale, le attività del porto tornarono alla normalità, con il consueto ritmo affaccendato. Upahar continuò a pensare per tutto il giorno ai due gentili forestieri, gettando di quando in quando un'occhiata alla loro splendida nave volante. Sperava davvero che li avrebbe incontrati di nuovo e che avrebbe potuto parlarci un po', ma sapeva che gente perbene come quella non frequentava le squallide bettole dove si potevano trovare alcool, gioco d'azzardo e sesso a buon mercato.

Difatti, per quasi tre giorni Upahar non seppe più nulla di loro e non li incontrò neanche di sfuggita. Poi, la mattina del terzo giorno, lo strillone del porto iniziò a gridare una notizia strana ai passanti, sventolando dei piccoli fogli di carta spessa e affiggendone altri alle pareti, sempre continuando a recitare a viva voce tutto quello che vi era scritto. Si trattava di un testo breve, ma a Nihibuc quasi tutti erano completamente analfabeti; Upahar stesso doveva tutto ad una bambinaia del suo vecchio orfanotrofio che aveva avuto la lungimiranza di dare a quel povero bambino storpio e senza speranza un mezzo in più per sopravvivere, quando fosse cresciuto.

Quando il ragazzino passò davanti alla dogana, Upahar chiese se poteva avere uno dei fogli e il doganiere non riuscì a trattenere una risata di scherno: dopotutto, chi mai avrebbe pensato che un orfano storpio come lui potesse essere interessato a ciò che era scritto su quel particolare foglietto, o anche solo che sapesse leggere?

Ma il doganiere non sapeva nulla di lui: non aveva idea di quanto fosse intelligente, ma soprattutto di quanto grandi fossero la sua determinazione e il suo entusiasmo. Lo erano così tanto che, sulla via del ritorno, nonostante non si fosse ancora completamente abituato alla protesi di legno, corse a perdifiato, ignorando il dolore alla ferita appena cicatrizzata, ridendo come un pazzo, con Hanim che gli svolazzava attorno cantando allegro in sintonia con il suo padrone.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7: Il miglior esploratore dell'Impero ***


Capitolo 7: Il miglior esploratore dell'Impero
 
«Quando avete affermato che saremmo stati scortati dal miglior esploratore di tutto l'Impero, credevo che la vostra sicurezza fosse data dal fatto che avevate già trovato questa persona» si lamentò Prille, non appena finì di leggere uno dei foglietti che il Capitano Kurajan stava facendo distribuire nella regione.

L'ufficiale ricambiò il suo sguardo critico e non si scompose minimamente. «Mi dispiace, se vi ho dato questa impressione. A mia discolpa, però, devo dire che in parte è vero.»

«In parte?» chiese Prille, testando la resistenza della sedia traballante su cui l'avevano fatta accomodare. La locanda presso cui lei e Kurajan avevano trovato alloggio, sebbene fosse stata raccomandata come la migliore del villaggio, era alquanto spartana, persino un po' fatiscente, ma la guaritrice era consapevole che non avrebbero mai potuto trovare di meglio: la breve passeggiata dal porto alla locanda era stata sufficiente per constatare che l'intera Nihibuc era decisamente povera, persino se paragonata ai piccoli villaggi dell'Impero.

Il suo compagno di viaggio prese un altro sorso di latte di kabé addolcito con fiori di tnywela − una delle poche cose apprezzabili di Nihibuc − e disse: «Sapete per cosa sono noti gli Arcipelaghi Orientali e quest'isola in particolare?»

«I pirati?» azzardò Prille, tutt'altro che seria, ma Kurajan probabilmente non colse l'ironia.

«Anche» rispose infatti, assolutamente serio, «ma soprattutto per gli uccelli rapaci.»

«Uccelli rapaci?»

«Sì. Anni fa, l'Imperatore mi fece dono di un libro che descriveva questi arcipelaghi. Dentro c'era un'intera sezione, lunghissima, dedicata agli uccelli, in particolare ai rapaci e agli scopi per i quali possono essere addestrati. Ce ne sono alcuni che aiutano i padroni a rintracciare i dispersi in mare, altri che possono essere utili nella caccia o nel combattimento, alcuni che fanno da vedetta, altri che sanno consegnare messaggi e piccoli oggetti e persino alcuni addestrabili per scovare criminali e fuggitivi.»

«Ho capito, volete trovare un falconiere. Immagino che lo riteniate un modo più rapido di esplorare, che non a piedi.»

«Esatto. Inoltre, sarà anche meno rischioso: non dimenticate che dovremo inoltrarci nei domini del Wesmark e un eventuale esploratore caduto in mani nemiche potrebbe tradirci e rivelare la nostra posizione, sotto tortura.»

Prille annuì in silenzio, sovrappensiero, poi strinse un po' gli occhi e disse: «Però su una cosa avete mentito.» Kurajan le rivolse un'occhiata interrogativa. «Non è il miglior esploratore dell'Impero, ma di Kàlatlan.»

Il Capitano si strinse nelle spalle. «Ancora per poco. Prima o poi, in qualche modo, i Katili si impadroniranno anche di queste terre.»

Prille sospirò, poi, forse senza neanche rendersene conto, disse: «Credevo che dopo il Wesmark l'Imperatore Kut si sarebbe fermato. Che volesse solo schiacciare il suo più grande nemico.»

«Non si fermerà mai, Prille» rispose altrettanto sovrappensiero Kurajan Wegs. «È vero, ha un conto in sospeso con la Regina Serementìs, ma la sua disfatta non è il suo sogno più dolce.»

«Voi che lo conoscete così bene, quale pensate che sia il suo scopo ultimo?»

«Quello di ogni re e imperatore Katileo: conquistare tutto il mondo conosciuto e ricostruirlo com'era nell'Età degli Eroi. Sapete, secondo alcuni storici e studiosi il popolo dei Katili discende direttamente dal grande Re Guerriero Kaat, l'antico Eroe che si dice abbia fondato Katils e dato vita alla specie dei tarkal, strappando le ali a un drago e costringendolo a divenire il suo destriero. Vi sono diverse leggende e canzoni sul suo conto e una di queste recita che il suo spirito torna a vivere in ogni grande sovrano conquistatore dei Katili e che il loro dominio sul mondo intero si compirà alla sua quinta reincarnazione consecutiva.»

Prille inarcò le sopracciglia. «E l'Imperatore crede davvero in questa sciocca leggenda?»

Kurajan fece un sorriso apologetico. «Io so solo qual è la sua ambizione, ma non saprei dirvi con esattezza da cosa sia alimentata. In ogni caso, lui è il terzo conquistatore consecutivo e il suo primogenito, che già promette bene, sarà certamente il quarto. Il tempo è agli sgoccioli e le probabilità sembrano favorevoli: tanto vale scommettere sulla sciocca leggenda.»

La guaritrice annuì nuovamente tra sé e sé, poi riprese: «Vorrei domandarvi una cosa ... ma voi dovete promettermi di non offendervi o fraintendermi.»

«Farò del mio meglio per mantenere la calma» ribatté l'ufficiale, con un sorriso ironico sul volto azzurrino. Prille sorrise a sua volta: il Capitano Kurajan, in quei tre mesi di viaggio, si era dimostrato l'uomo più calmo e composto che avesse mai conosciuto, talvolta persino glaciale, e aveva sempre risposto con cortesia ad ogni sua curiosità, anche alle più invadenti.

«Perché dite sempre "i Katili", "il popolo dei Katili", "loro", e mai "il mio popolo", "noi"?»

Per un istante, la maschera di assoluta compostezza dello shuriel vacillò e Prille temette di essersi spinta troppo oltre, ma poi, serafico come sempre, Kurajan rispose: «Perché non sono uno di loro ... non esattamente, almeno.» La guaritrice non commentò e attese che fosse lui stesso a proseguire, se lo desiderava.

Dopo un istante di esitazione, l'uomo riprese: «Io ... abitavo a Katils, sapete, da prima che l'Impero la riconquistasse. Sopravvissi all'assedio nascondendomi nelle cucine del Palazzo Sciabordante e, quando mi scovarono, per qualche ragione l'Imperatore ebbe pietà di me. Forse per dimostrare che sapeva essere anche magnanimo, non ricordo bene, ero molto piccolo. In ogni caso, mi risparmiò e mi prese con sé, sotto la sua ala, prima come paggio di corte, poi come scudiero e infine come Capitano della Guardia Imperiale.»

«Sembrate molto leale nei suoi confronti, nonostante ciò che ha fatto al vostro popolo.» Quest'osservazione sembrò mettere un po' a disagio il Capitano.

«Che volete che vi dica? Nonostante tutto, è stato buono con me: mi ha dato un tetto lussuoso, più cibo di quanto ne avessi bisogno e mi ha insegnato tutto quello che so. Mi ha trattato come un figlio, facendomi persino sentire amato. Come potrei disprezzarlo, se neanche ricordo come fosse la mia vita prima di lui? Non mi ha mai dato motivo di odiarlo.»

«Neanche dopo quello che ha fatto sull'Isola di Rinno?» Non appena quelle parole lasciarono la sua bocca, Prille si morse la lingua: non era giusto sfogare sul gentile Capitano il suo velato disprezzo nei riguardi di certe decisioni prese dall'Imperatore. Tuttavia, la sua domanda non sembrò turbarlo poi tanto.

«La crudeltà fa parte della nostra natura, persino dei più pacifici e insospettabili di noi; anche di quelli che amiamo. Ditemi, voi avete forse smesso di amare vostro padre o vostra madre per le vite che hanno spezzato, nonostante abbiate preso le distanze dalla vostra terra natia e dalle sue tradizioni marziali?» La faleyon abbassò lo sguardo e scosse leggermente il capo. «Beh, il rapporto che ho io con l'Imperatore è molto simile. Perciò, forse, ora potrete capirmi un po' meglio.»

A quel punto, Prille decise che era meglio non spingersi oltre: la tensione, ormai, era diventata quasi palpabile, nonostante l'atteggiamento apparentemente rilassato dello shuriel. La cosa migliore da fare, pensò, era cambiare argomento, perché non aveva nessuna voglia di concludere la colazione di malumore: «Pensate che avremo abbastanza candidati? Dopotutto, i Katili non sono molto ben visti, a Kàlatlan.»

«Oh, su questo ho pochi dubbi» affermò subito il Capitano, con assoluta certezza. «La ricompensa offerta farà gola a molti falconieri, considerando quanto è povera questa regione: pesca a parte, hanno poco altro su cui contare, perché l'entroterra è quasi completamente arido. Sono certo che la possibilità di una vita migliore spingerà molti a mettere da parte l'odio e la diffidenza verso l'Impero.»

Più tardi, mentre Kurajan si occupava di allestire assieme ai suoi uomini un baldacchino nei pressi del porto, dove i falconieri avrebbero potuto presentare le loro candidature, Prille decise di fare una passeggiata tra le strade di Nihibuc per meglio constatare se, effettivamente, la città fosse decadente come le era apparsa durante il tragitto verso la locanda. Su consiglio dell'oste, acquistò una delle candide mantelline di lana di kabè, per proteggere la testa, le spalle e le braccia dal rabbioso calore dei raggi solari.

Osservando una coppia di quei grossi animali dotati di quattro, robuste corna, Prille si chiese di cosa potessero nutrirsi, quando raggiunse le ultime case verso l'entroterra: al di là di esse, infatti, non vi erano campi coltivati, foreste o ampie praterie, ma solo una serie di dune aride frustate dal sole e modellate dal vento. La risposta giunse quando vide fare ritorno da quel luogo aspro e misterioso due ragazzini: uno di essi portava sulle spalle un bilanciere di legno con appesi alle estremità due secchi pieni d'acqua, mentre l'altro reggeva in una mano un cesto pieno di grossi frutti verde smeraldo e nell'altra due strani rettili che ancora perdevano un po' di sangue dalle gole tagliate. Evidentemente, dovevano esserci delle oasi, da qualche parte.

Dopo aver salutato i due fanciulli, Prille riprese a camminare in un'altra direzione. Fino ad allora, aveva percorso regolari vicoli sabbiosi, stretti fra le alte pareti delle case a due piani. Col suo attento occhio di guaritrice, inoltre, aveva potuto osservare che la gente che camminava in strada e saltava da un tetto all'altro sembrava essere piuttosto in salute: certo, nessuno di loro era particolarmente in carne, ma sembravano tutti molto in forze; vi erano persino diversi vecchi e alcuni di essi erano ancora in grado di svolgere qualche lavoro. La cosa che l'aveva colpita maggiormente, però, era l'insolita pulizia, sia della città che della gente, nonostante la povertà. Persino il mercato del pesce non aveva un odore particolarmente sgradevole e lungo il suo cammino Prille era incappata in ben quattro bagni pubblici.

Stava quasi per riconsiderare la bassa opinione che si era fatta della città, quando lo scenario spartano, ma piacevole, cambiò improvvisamente non appena svoltò a un angolo. Di colpo si ritrovò davanti ad un'abitazione a dir poco trascurata, persino un po' sgangherata e storta, e subito dopo si accorse che anche la successiva era piuttosto sporca e dismessa. Non appena si affacciò su quel vicolo, un soffocante odore di urina investì le sue narici e finalmente capì a cosa era dovuto parte del lerciume che imbrattava la base delle case.

Il suo istinto di guerriera subito la spinse ad accertarsi che non ci fosse gente malintenzionata nelle vicinanze e, quando vide che non vi era nessuno, a parte una vecchia sdentata e rugosa che la fissava con sguardo arcigno e diffidente, Prille si incamminò con cautela. Dopo quattro o cinque vicoletti tortuosi e luridi, comprese che quella doveva essere la zona accanto alla quale erano passati andando alla locanda: gli edifici erano tutti un po' malmessi e diverse porte di legno erano marce e i loro cardini cigolavano orribilmente.

Molti di essi erano bettole e bordelli pieni di gente chiassosa e nauseabonda, gli altri erano le abitazioni di gente strana e trasandata: alcuni di loro la fissavano con aria quasi affamata, altri non avevano nemmeno il coraggio di alzare gli occhi da terra e si aggiravano fra le stradine come fantasmi, oppure stavano seduti dondolandosi un po' avanti e indietro; qualcun altro le rivolse fischi e schiamazzi volgari, alcune donne seminude sghignazzarono al suo passaggio e, infine, uno shuriel dallo sguardo vuoto, ma in qualche modo penetrante, le chiese se si fosse persa e se avesse bisogno di aiuto.

Sforzandosi di non mostrare un'espressione di disgusto alla zaffata di alito alcolico che le investì la faccia, Prille rispose con alcune delle poche parole che aveva appreso nel dialetto di Nihibuc: «Sto bene. Non mi serve aiuto. Grazie.» Detto ciò, fece per voltarsi e riprendere il suo cammino, ma neanche due passi dopo si sentì afferrare con forza per un polso e lo shuriel la costrinse a girarsi di nuovo, sibilando qualcosa che la guaritrice non capì.

«Non mi serve aiuto. Grazie» ripeté guardando l'uomo dritto negli occhi. Quello, per tutta risposta, si fece una bassa risata e pronunciò di nuovo parole che Prille non conosceva. Poi si chinò verso di lei con l'intenzione di afferrarle anche l'altro braccio e la faleyon, non solo gli sfuggì, ma riuscì anche a sfilare dalla sua presa l'altro polso. Con un solo colpo d'ali, poi, indietreggiò di parecchi passi. In realtà, avrebbe preferito sollevarsi in volo ed evitare uno scontro, ma il vicolo era troppo stretto e, inoltre, temeva che la gentaglia affacciata alle finestre e sui tetti l'avrebbe afferrata e ributtata a terra.

Maledicendosi per essere stata così sciocca da inoltrarsi in quel luogo vestita di tutto punto e senza armi, la faleyon si preparò a lottare, perché era certa che fuggire sarebbe stato inutile: lo shuriel, era ben più alto di lei e un suo solo passo, probabilmente, equivaleva a due dei suoi. Assumendo una posizione più adatta, affondò impercettibilmente la punta di un piede nella sabbia scura e fetida, pronta a scagliargliela negli occhi con un calcio, quando due figure si precipitarono con un grido fra lei e lo sconosciuto.

Spuntati da chissà quale fetido buco, i due si misero proprio davanti a lei, col chiaro intento di difenderla. L'ubriacone rise di nuovo e disse qualcosa con un ringhio aspro, a cui i due risposero senza alcuna paura, mostrando i denti a loro volta. A quel punto, il balordo disse qualcosa con tono sprezzante e fece per avvicinarsi, ma dovette subito rinunciare, non appena loro sfoderarono due lunghi coltelli con manico pieghevole. A quella vista lo shuriel esitò, mentre li squadrava uno ad uno valutando la situazione. Infine, per fortuna il buon senso ebbe la meglio e, sollevando le mani, si allontanò lentamente con un'espressione e arrogante sul volto lungo.

Quando furono certi di essere al sicuro, i suoi due benefattori rinfoderarono le armi e si voltarono verso di lei. Poi le rivolsero alcune frasi che Prille non capì, così disse semplicemente: «Sto bene. Non parlo la vostra lingua.» Avrebbe voluto spiegare loro che non avevano ragione di essere così preoccupati per lei, ma loro insistettero per accompagnarla fuori da quella parte del villaggio.

«Non lì» disse uno dei due − una giovane shuriel vestita con abiti poveri, ma meravigliosamente colorati − mentre indicava le case fatiscenti. «È male.» Poi aggiunse anche qualcos'altro che Prille non capì, ma ne intuì facilmente il senso: doveva tenersi alla larga da quella zona.

L'altro, invece − un ragazzo terrestre dalla pelle scura e dai bellissimi occhi verdi, che la guaritrice sospettò essere originario dell'Isola di Rinno − le offrì il suo coltello e, abbassando lo sguardo, Prille notò che aveva una mano deforme e una gamba di legno molto rudimentale. Con un sorriso gentile, gli chiuse le dita attorno all'arma e la spinse verso di lui in segno di rifiuto: di sicuro ne aveva molto più bisogno di lei.

Il giovane la guardò con le sopracciglia inarcate, ma poi il suo sguardo si fece più attento e gli occhi si rimpicciolirono in un'espressione concentrata. Subito dopo si spalancarono e un sorriso fiorì sul suo volto glabro. Sembrava come ... come se l'avesse riconosciuta. Lo sconosciuto disse qualcosa alla sua compagna e quella strabuzzò gli occhi a sua volta, per poi puntarli su di lei; poi tirò fuori dalla piccola borsa di cuoio che aveva con sé un piccolo pezzo di carta e glielo porse. Era uno di quelli che il Capitano Kurajan stava spargendo in tutta la regione.

Prille sorrise e annuì. Allora, il ragazzo fece segno di aspettare, per poi salire sul tetto dell'edificio più vicino. Ad un suo singolo fischio, pochi minuti dopo rispose con una nota dolce un bellissimo uccello dal piumaggio azzurro che la faleyon riconobbe immediatamente: non era certo un'esperta di volatili, ma sapeva perfettamente com'era fatto un ruh. Quando il ragazzo le permise di toccarlo, rimase stupefatta dalla consistenza soffice del suo piumaggio, sotto il quale muscoli forti e agili guizzavano vivacemente. Con un sorriso meravigliato sulle labbra, Prille indicò il ruh e subito dopo il volantino; il ragazzo annuì entusiasta.

La guaritrice fece loro cenno di seguirla e, mentre i due parlottavano in quel loro dialetto pieno di consonanti brevi e secche, intervallate da vocali aperte, li condusse al vicino porto, fino al piccolo baldacchino dorato del Capitano, dove due falconieri stavano già presentando le loro candidature. Quando la vide arrivare, Kurajan le rivolse un'occhiata interrogativa e Prille disse subito: «Credo che questo ragazzo voglia proporsi come esploratore.»

In un primo momento, lo shuriel contemplò con stupore e ammirazione il bellissimo ruh, ma poi il suo sguardo scivolò sul ragazzo e, alla vista della mano deforme e della gamba amputata, si fece più perplesso e dubbioso. Anche i due soldati che erano con lui gli lanciarono occhiate stranite e divertite. Il ragazzo neanche sembrò notarlo, ma lo sguardo della sua amica si indurì e i suoi pugni si strinsero impercettibilmente. Senza ulteriori indugi, il Capitano ordinò ad uno dei due soldati di fare da interprete e di aiutarlo ad iscriversi.

Quando quest'ultimo iniziò a parlare al ragazzo nel dialetto di Nihibuc, quello spalancò la bocca e lo interruppe, dicendogli qualcosa con tono animato. Quando finì, il soldato si voltò verso la guaritrice e riferì: «Vuole sapere se state bene e cosa ci facevate in quel ... posto malfamato.»

Ignorando l'occhiataccia che Kurajan le lanciò a quelle parole, Prille sorrise e rispose: «Sto bene, stavo solo esplorando la città e sono capitata lì per caso. Digli anche che so perfettamente badare a me stessa, ma che apprezzo molto l'aiuto che lui e la sua amica mi hanno dato. È stato molto coraggioso.»

L'uomo tradusse tutto e i due le sorrisero e fecero un breve inchino. Pochi minuti dopo, si congedarono e tornarono ai loro affari, lasciando il ruh libero di tornare a volteggiare tra i venti. Il Capitano Kurajan, ovviamente, volle sapere dove fosse andata e cosa fosse successo, ma non sembrò scosso, né adirato dal racconto della faleyon, anche se le fece promettere di portare sempre con sé un'arma, in futuro. Prima che Prille si incamminasse nuovamente verso la locanda, però, aggiunse: «Devo ammettere che il ruh di quel ragazzo è formidabile e in perfetta salute. Peccato che non si possa dire lo stesso del suo padrone. Credete davvero che possa essere all'altezza della prova?»

«Io credo che quel ragazzo sia ben più di ciò appare. Dovevate vederlo quando si è lanciato tra me e quell'ubriacone: non vi era nemmeno l'ombra della paura nei suoi occhi. Ha il coraggio e la grinta di un guerriero di Falùsh e la ragazza non è da meno. Probabilmente non vincerà, ma credo che abbia molto da dimostrare. Di sicuro sarà interessante, su questo non ho dubbi. Fidatevi di me.»

«Ho moltissima fiducia in voi, Prille» ammise candidamente il Capitano, strappando un sorriso compiaciuto alla guaritrice.

*
 
«Allora? Cosa ne pensi?» domandò Upahar, mentre camminava tra le bancarelle del mercato, mano nella mano con la sua compagna.

«Penso che la faccenda sia più seria di quanto tu non creda» rispose Tampìca, con lo sguardo che vagava tra i prodotti della terra, del mare e delle mani degli artigiani.

«Che vuoi dire?»

«Ma le hai guardate bene le loro divise? Ne avevi mai viste di così belle ed eleganti?» Upahar rifletté un momento per richiamarle alla memoria, poi scosse la testa. «Quelli non erano semplici soldati. Ora capisco perché la paga è così alta.»

Il ragazzo squadrò attentamente la sua espressione per qualche secondo, poi disse: «Sembri preoccupata.»

«Dovresti esserlo anche tu. Insomma, cos'è questo velo di mistero? Perché non ci hanno detto dove vanno e a cosa gli serve un esploratore? Che cosa cercano?»

I due vagarono in silenzio tra le bancarelle ancora per un po', fermandosi spesso ad osservare qualche merce, ma molto più raramente a comprarne. Dopo che ebbero acquistato le erbe e gli unguenti per la gamba di Upahar dalla solita vecchietta che, ogni due settimane, arrivava a Nihibuc dall'entroterra, il ragazzo riprese: «Pensi che non sia stata una buona idea?»

Mentre riponeva con cura le preziose erbe nel suo cestino, Tampìca rispose quasi sovrappensiero: «Io penso che tu sia perfettamente in grado di prendere decisioni e badare a te stesso. Perciò, qualunque cosa sceglierai di fare, avrai sempre la mia approvazione e il mio aiuto.»

«Grazie, Tampìca» le sussurrò Upahar con un sorriso dolce, tirandola più vicino a sé. «Sono felice che la pensi così, anche se forse hai un po' troppa fiducia in me.»

La shuriel rise e si lasciò attirare in un abbraccio. «Probabilmente è vero, ma se tu fossi al mio posto so che faresti lo stesso per me.»

Più tardi, quella sera, un altro pensiero bussò alla mente di Upahar che, rigirandosi nel giaciglio, sussurrò nell'orecchio della compagna: «E se ... se scegliessero me, ma poi mi succedesse qualcosa durante il viaggio? Se dovessi metterci troppo tempo, o se non dovessi tornare affatto?»

«Io ti aspetterò per tutto il tempo che sarà necessario» rispose Tampìca senza alcuna esitazione. «E sono certa che tornerai: quelli cercano qualcuno che sappia il fatto suo, perciò, se dovessero sceglierti, sarà perché pensano che tu possa farcela. Ho moltissima fiducia in te, lo sai. E anche in Hanim» aggiunse, spostando lo sguardo sul magnifico uccello che sonnecchiava appollaiato sul suo trespolo.

Upahar la strinse a sé e le diede un bacio sulla fronte. «Se dovessero scegliermi, mi mancherai molto ...»

«Lo so» rispose la shuriel con un sorriso malinconico, ricambiando il bacio. «Anche tu.»

Con un piccolo sbuffo, il ragazzo ribatté: «Non ho mai capito, né mai capirò cosa ti piace tanto di me.»

Ridendo sommessamente, Tampìca rispose: «Forse durante la prova, o durante il tuo viaggio, lo capirai finalmente.»

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Capitolo 9
*** Capitolo 8: Le battaglie del fuoco ... ***


Capitolo 8: Le battaglie del fuoco ...
 
Gelidi strati di neve imbiancavano già da qualche settimana i territori a sud del Mensmark che confinavano con l'Impero dei Katili: l'intera catena dei Monti Scintillanti sembrava essere velata di un bianco accecante, fin dove gli occhi della Regina Serementìs riuscivano a spingersi. Nonostante la protezione della folta peluria, rossa come i suoi capelli, le sue ali stavano iniziando a perdere sensibilità a causa del freddo pungente.

Era già da qualche ora che volteggiava ad alta quota, osservando il paesaggio sottostante per cogliere qualche caratteristica che potesse ostacolare o favorire la loro strategia, e stava iniziando a sentirsi provata dal vento freddo e impetuoso che le irrigidiva le membra. Tuttavia, tenace com'era, si decise a tornare a terra soltanto quando i primi fiocchi di neve iniziarono a cadere: non era mai una buona idea lasciarsi sorprendere in volo da una tempesta.

Non appena i suoi piedi ebbero toccato la Fascia di Tanerìl, subito si ritrovò circondata da alcune delle sue guardie personali che avevano atteso il suo ritorno appostate lungo l'imponente muraglia. Una pesante pelliccia le venne poggiata sulle spalle e subito le ali iniziarono a pungerle per l'improvviso passaggio dal gelo a calore. Non poté trattenersi dall'inspirare bruscamente tra i denti stretti, mentre si stringeva addosso l'indumento con le dita intirizzite.

«Non dovreste trascorrere tanto tempo in volo, durante giornate così rigide e nuvolose» si sentì riprendere dalla voce profonda e vigorosa del vecchio Re Jerr. Tutto avvolto nei suoi confortevoli abiti di pelliccia di garrm, il monarca passeggiava scortato anch'egli lungo la grande muraglia.

Alla sua vista, Serementìs raddrizzò la schiena e, con il sorriso di chi la sa lunga, ribatté: «È molto premuroso da parte vostra, ma non c'è ragione di essere preoccupati: a Thos abbiamo inverni ben più rigidi.»

«Non lo metto in dubbio» disse il vecchio Re, sorridendo a sua volta, «ed è anche vero che le vostre imprese sono note in tutto il nord, ma dovete ammettere che l'età restringe di non poco il cerchio dei nostri limiti.»

Serementìs ammutolì sconcertata: già le era parso un po' fuori luogo sentirsi rimproverare di aver trascorso troppo tempo in volo, ma essere apostrofata come "vecchia" era a dir poco bizzarro e, forse, avrebbe dovuto sentirsi oltraggiata.

Davanti al suo mutismo, Re Jerr scoppiò in una risata cavernosa. «Vi prego, non guardatemi in quel modo, Regina» si scusò, «non era certo mia intenzione insultarvi, sempre che la vecchiaia possa ritenersi qualcosa di così brutto. Mentre vi osservavo, mi è semplicemente tornato alla memoria che avevo all'incirca la vostra età, quando decisi di lasciare al mio primogenito, Galam, il comando dell'esercito.»

«In tal caso, capisco le vostre intenzioni e apprezzo il vostro consiglio» rispose con sincera cortesia Serementìs, «così come apprezzo la vostra schiettezza. Inoltre, condivido il vostro pensiero: dopotutto, mio figlio è già un formidabile guerriero, ma un buon re deve sapersi muovere anche su altri terreni, oltre a quelli di guerra, perciò ho deciso di lasciare Thos nelle sue mani, per questo inverno.»

«Non si può dire che la vostra non sia una decisione altrettanto saggia. Bene» esordì poi il vecchio Re, intrecciando le braccia dietro la schiena, «avete osservato qualcosa di interessante, da lassù?»

«In effetti, ho notato alcune cose che potrebbero interessarvi. Perché non ne discutiamo ora, passeggiando sulla vostra grandiosa muraglia?»

Re Jerr annuì solo una volta, poi la affiancò, camminando lentamente. «Sono felice che la Fascia di Tanerìl sia di vostro gradimento» disse poi, accarezzando la nuda pietra.

«I Katili non avranno vita facile, qui: è un'opera imponente, maestosa. Immagino che ne siate orgoglioso» confermò Serementìs, passeggiando alla sua destra.

«Non ho particolare motivo di esserlo, in realtà: questa meraviglia non è opera della gente del Mensmark, né di Hairis, né di qualunque altro popolo del nord esistente oggi.»

«Allora chi può averla costruita?»

«C'è chi ritiene che potrebbe addirittura essere un vestigio dell'Età degli Eroi. Se così fosse, sarebbe sbalorditivo, ma temo che questo sia un dubbio destinato a non trovare mai una risposta certa. Quel che so è che esistono molte leggende sulle origini di questa muraglia. Volete che ve ne narri qualcuna?»

*
 
Proprio in quello stesso momento, nel sud del Grande Continente, anche il Principe Hanun passeggiava, accompagnato da un Sobech insolitamente silenzioso. Lo era stato per tutto il giorno, mentre correva da un versante all'altro della vallata, controllando che tutto funzionasse a dovere.

Hanun non sopportava quella strana distanza che si veniva a creare fra di loro, ogni volta che il giovane di Mīër aveva qualche preoccupazione: avrebbe tanto voluto alleggerire il fardello sulle sue spalle, ma lui non glielo aveva mai permesso, per qualche strana ragione. Nell'inquietudine, nella disperazione e nell'incertezza, Sobech sembrava preferire la solitudine.

Tuttavia, il Principe di Katils decise comunque di provare a scambiare qualche parola: «A cosa stai pensando?» chiese banalmente, non sapendo come altro cominciare.

«Sto cercando di ricordare se ho fatto tutto ciò che dovevo. Se ogni cosa è al suo posto, se ho insegnato a soldati tutto ciò che devono sapere» rispose il giovane quasi sovrappensiero, continuando a camminare a braccia incrociate, con lo sguardo puntato a terra.

«Dovresti riposare, invece: se continui a logorarti così, arriverai alla battaglia troppo stanco.»

«Non penso che riuscirei a dormire, comunque. Devo essere sicuro che sia tutto in ordine: un solo errore potrebbe provocare una catastrofe, lo sai anche tu. Hai già visto a Priar ciò che sta per accadere.»

Hanun sospirò a sua volta e afferrò delicatamente un braccio dell'amico per fermarlo e spingerlo a voltarsi. «Sobech, hai già fatto del tuo meglio: hai controllato ogni postazione e ogni uomo più e più volte, oggi. Andrà tutto bene, vedrai. Puoi e devi riposare per qualche ora.»

«Hanun ...» tentò di protestare l'altro, ma il Principe lo interruppe subito.

«Se può farti sentire più tranquillo» propose, «farò io un ultimo giro di controllo.»

Sobech sembrò prendere in considerazione l'idea per qualche istante. «Ricordi ancora come funzionano gli strumenti e cosa bisogna fare?»

«E tu ricordi che quella battaglia l'abbiamo combattuta fianco a fianco? Dubiti forse di me?»

Il familiare sorriso sornione, seppur appena accennato, tornò finalmente sul volto affilato del giovane che replicò: «E come potrei mai dubitare di Hanun "Yon Nin" Menradt?»

A sentire quell'appellativo, il Principe rise sommessamente. «Scherza poco, mio caro: i sudditi pronunciano con rispetto quel nome.»

«Io non sono un tuo suddito» ribatté prontamente Sobech, «ma credo comunque in quel nome, tanto quanto ci credono i Katili. Tanto quanto ci credi tu.»

Per tutta risposta, Hanun fece spallucce e borbottò: «È solo una sciocca superstizione.»

«Forse. Comunque, credi anche tu di essere destinato a grandi cose. Non è necessario fingere modestia, Yon Nin, Occhio Divino. Non con me.»

*
 
Acquattata tra i cespugli al limitare della boscaglia, la Regina Fenria teneva gli occhi puntati sull'avamposto dei Katili, in attesa del momento propizio per entrare in azione. Bisognava ammettere che gli invasori avevano scelto un ottimo luogo: invece di montare tende e baldacchini in una zona più vicina al confine, avevano deciso di fermarsi in una delle città strappate ai Signori dei Monti Scintillanti.

La regione montuosa stretta tra il Mensmark e l'Impero, infatti, costituiva un agglomerato disomogeneo di città indipendenti, governate dalle famiglie più importanti. Ogni villaggio aveva le sue leggi, il suo dialetto e la sua storia ed erano tanto diversi e in rivalità che, alla fine, i Signori non erano riusciti a trovare nei loro cuori alcun sentimento di unità, finendo per essere schiacciati dall'imponente esercito dell'Impero Katileo.

Per quanto la sconfitta dei Signori avesse messo in pericolo l'intero nord, Fenria non poteva fare a meno di pensare che avessero meritato quella fine: bisognava essere degli stolti per non comprendere che, in un mondo dominato da giganti come l'Impero, i Mei Faliùsh e i Regni Gemelli del Wesmark, i nani dovevano unirsi e salire sulle spalle del più grosso, invece di affrontarlo da soli.

Improvvisamente, la Regina colse un boato ovattato e distante, proveniente dalla direzione in cui si trovava la Fascia di Tanerìl. Era dunque giunto il momento: sotto il sole morente del tramonto, gli uomini di Jerr e Serementìs stavano attaccando la città caduta in mano ai Katili. A giudicare dai frenetici movimenti sulle mura, anche il nemico doveva essersi accorto dell'assalto imminente, ma quando il piccolo battaglione emerse dalla boscaglia, subito l'inquietudine si affievolì, vedendo sventolare quelli che sembravano i vessilli di una delle tante Signorie. Il piano già funzionava.

Alla testa del battaglione, sulla groppa di un imponente tarkal di montagna tutto bardato, il primogenito di Re Jerr suonava la carica con una trombetta di ottone, come era usanza presso gli eserciti dei Signori. Dietro di lui, una piccola falange avanzava con delle grosse ceste di spessi vimini appese ai lati dei loro tarkal, seguita da una doppia fila di arcieri. A chiudere la formazione, la fanteria dei soldati semplici trasportava con fatica un grosso ariete dalla punta metallica. Uno schieramento semplice, esiguo, quasi ridicolo, ma con in serbo un piano letale.

La disperata avanzata verso le robuste porte della città fu lenta e difficoltosa, ostacolata dalle continue raffiche dei balestrieri e degli arcieri. I primi, in particolare, scoccavano quadrelli che perforavano facilmente gli scudi di legno della fanteria, ferendo le braccia dei soldati. A pochi passi dalle mura, uno di quei dardi riuscì persino a penetrare oltre l'armatura di uno dei tarkal e, nonostante i disperati tentativi del cavaliere di rallentare e tenerlo in piedi, l'animale si accasciò su un fianco, schiacciando una delle ceste. Questa, sotto gli occhi increduli degli astanti, esplose in una violenta fiammata rossa, uccidendo all'istante sia il tarkal che il soldato.

"Proprio quello che speravamo non accadesse" pensò fra sé e sé Fenria, accarezzando la pesante lama della sua ascia da battaglia. Se le cose si fossero messe male, avrebbe dovuto intervenire. Fortunatamente, però, l' esplosione accidentale di una delle ceste era stata presa in considerazione e Serementìs aveva ben pensato di utilizzare una qualità di vimini dei clan dell'estremo nord talmente spessa e rinforzata che nessuna delle frecce riuscì a penetrare abbastanza a fondo.

Loro malgrado, i Katili se ne accorsero troppo tardi, quando ormai la falange si trovava già sotto le mura della città e i cavalieri avevano iniziato a scagliare le sfere di sangue di Mut contro il pesante portone di quercia. Per evitare che le fiamme si disperdessero troppo in fretta, o che le sfere esplodessero durante la carica a causa dell'instabilità del liquido, era stata scelta la varietà rossa del sangue, più aggressiva di quella verde e meno instabile di quella blu. In questo modo, le fiamme rosso cupo avvolsero piuttosto in fretta il legno secco del portone, costringendo i Katili ad allontanarsi dalla fascia di mura soprastante.

Tuttavia, questo non impedì loro di continuare a bersagliare da un altro punto il battaglione del finto Signore con i loro micidiali dardi. Molti caddero orribilmente, ma questo non spaventò la gente del nord, pronta a sacrificare ogni cosa per difendere il proprio popolo e per fare buona impressione agli dei Zèchtos e Zechtosèa. Questo totale sprezzo della morte era un lato della loro cultura che i Katili faticavano a comprendere e che temevano.

Certo, anche loro erano un popolo di impavidi, tenaci e coraggiosi, ma il loro essere profondamente fatalisti spesso li frenava. Avevano una grandissima stima dei veggenti e dei profeti, e non sopportavano di essere colti di sorpresa: se da un lato una profezia favorevole poteva colmarli di speranza e fiducia, dall'altro le sfortune non annunciate potevano devastare i loro animi e portarli a percepirle come un fato ineluttabile.

Eppure, in quella particolare battaglia l'orgoglio ebbe la meglio: i Signori dei Monti Scintillanti, con i loro eserciti esigui e il loro caparbio rifiuto di allearsi gli uni con gli altri, non godevano né del rispetto, né del timore dei Katili. Anzi, venivano spesso derisi, e per questo il solo pensiero di perdere contro un avversario tanto insignificante e stolto infervorò i loro animi e continuarono a lottare con coraggio e furore anche quando l'ariete riuscì a distruggere il portone già devastato dalle fiamme.

Lo scontro al di là delle mura ebbe vita breve: gli uomini all'interno della città erano ben più numerosi e meglio equipaggiati. Inoltre, consapevoli del loro vantaggio, due squadroni di soldati Katili erano già usciti da un'altra delle tre porte della città e stavano aggirando le mura, pronti a chiudere gli assalitori in un attacco a tenaglia. Fu proprio allora che, appena in tempo, il Principe Galam suonò la ritirata con la sua trombetta e i pochi sopravvissuti si precipitarono disordinatamente fuori dalle mura, verso gli stessi alberi da cui erano emersi.

«Bene» sussurrò Fenria più a se stessa che ai suoi uomini, «ora staremo a vedere se Serementìs aveva ragione.»

Per diversi minuti la situazione rimase stagnante, e la Regina Fenria iniziò pian piano a riconsiderare l'astuzia di Serementìs; era sul punto di ordinare la ritirata, quando due folti battaglioni di Katili ancora freschi e riposati sui loro tarkal partirono all'inseguimento degli assalitori con i vessilli dorati al vento. Alla fine, quello stesso orgoglio che li aveva salvati gli aveva fatto commettere un errore fatale, che avrebbero pagato molto caro.

Con un sorriso sghembo sul volto decorato con i simboli di guerra di Hairis, la Regina Fenria commentò: «Perfetto. Dopotutto, Serementìs aveva visto giusto.» Poi, rivolgendosi ai suoi ufficiali aggiunse: «State pronti: non appena sentiremo il corno di Thos, copriremo di rosso le mura di questa città con il sangue dei Katili.»

*
 
Quando i rumori dell'esercito dei Mei Faliùsh in marcia incominciarono finalmente a farsi sentire, lontani e ovattati, era già calata la notte da un po'. Questo, ovviamente, avrebbe rappresentato un vantaggio non da poco per i Katili, poiché il nemico sarebbe arrivato all'uscita dello stretto passaggio già esausto per la lunga giornata di marcia, ma se c'era una cosa che Nuss faticava a sopportare era l'inquietudine prima di una battaglia.

La sua tenacia, però, gli aveva permesso di non cedere mai alla paura e non avrebbe certo vacillato quella notte. D'altronde, la strategia era ineccepibile e sembrava che già stesse funzionando, dato che i Mei Faliùsh procedevano con passo regolare ed erano ormai vicini. Tuttavia, i rischi non erano da prendere a cuor leggero e anche un minimo errore avrebbero potuto pagarlo a caro prezzo. Molto dipendeva da Sobech: era stato lui a procurare tutti gli strumenti necessari e a istruire gli uomini su come utilizzarli.

In cuor suo, Nuss aveva sempre avuto delle riserve su di lui, per quanto continuasse a dimostrarsi un valido guerriero e un fedele paladino: era un individuo decisamente troppo strano, con quella ridicola armatura di cotone, la carnagione e i capelli più simili a quelli dei nordici, che a un cugino dei Katili, quel suo irritante sorrisetto e quel suo continuo alternarsi tra un'euforia contagiosa e criptici silenzi. No, non aveva mai nutrito particolari simpatie per quell'effeminato− come anche Genan e Vertran, del resto − e continuava a non capire perché Hanun avesse scelto lui come suo paladino.

Nuss non negava di provare una forte invidia nei suoi confronti: essere il Paladino del Principe era un onore e, prima che Hanun facesse ritorno dal suo periodo di addestramento a Mīë in compagnia di quel ragazzo, aveva sempre pensato che un giorno avrebbe ricoperto lui quell'incarico di grande prestigio. Dopotutto, lui era il figlio ed erede del Duca di Durs ed era sempre stato un caro amico del Principe, fin da quando erano bambini. Avrebbe dovuto esserci lui, o magari Vertan, a cavalcare alla destra di Hanun.

Invece, lui e Genan erano stati posti al comando degli uomini sul versante occidentale della vallata, mentre Vertran era a capo dello squadrone all'uscita della strettoia. Sulla scarpata orientale, invece, Sobech era nascosto da qualche parte alla destra del Principe, mentre quest'ultimo era ben visibile per chi sapeva in quale punto cercarlo, grazie al suo occhio cieco e velato, su cui la luce si rifletteva come su di uno specchio.

Sua madre, l'Imperatrice, lo aveva interpretato come la conferma di un'antica profezia e, poiché la cecità natale era un chiaro segno della benevolenza del dio Mechnin, Hanun si era guadagnato l'appellativo di "Yon Nin", Occhio Divino, benedetto con i doni della saggezza e della premonizione. Il che rendeva ancora più strampalata la sua decisione di affidare la sua preziosa vita ad un individuo bizzarro come Sobech, per di più straniero.

Per fortuna o purtroppo, il suo continuo rimuginare sul giovane Paladino venne interrotto dalla comparsa di un alone di luce, giù nella strettoia: un esploratore con una torcia procedeva a diversi passi di distanza dal resto dell'esercito schierato in file di dieci e, sebbene avanzasse con cautela, sembrava piuttosto rilassato, tanto che a un certo punto accelerò persino il passo, ignaro di ciò che avrebbe trovato di lì a pochi attimi.

Tale fu il suo sgomento, quando si ritrovò la strada sbarrata da un inquietante muro di pietre, che per poco non lasciò cadere la torcia a terra, perché lui aveva esplorato e controllato quel percorso solo poche ore prima ed era pronto a giurare che quel muro, lì, non c'era! L'uomo si guardò attorno costernato, come se si aspettasse di ricevere magicamente una risposta dalle rocce, poi si avvicinò con circospezione, a piccoli passi e con il pugnale sguainato.

Una rapida ispezione gli rivelò la presenza di strane aperture metalliche rotonde, ma ovviamente non capì di cosa si trattasse. Alla fine, l'inquietudine lo spinse ad allontanarsi, soffiando in una sorta di piccolo corno dalla vibrazione calda. A quel suono, l'esercitò si fermò di colpo e tutti sguainarono immediatamente le armi. Qualcuno gridò una breve sequenza di ordini, che rimbalzò di ufficiale in ufficiale lungo tutta la coda, poi attesero in silenzio il ritorno dell'esploratore.

Questi discusse animatamente con i due Generali alla testa dell'esercito e la conversazione si trascinò avanti per un po', finché non si decisero a fare l'unica cosa ragionevole: con estrema cautela, l'esercito si rimise in marcia, ma alcuni esploratori si staccarono dal resto degli uomini e iniziarono ad ispezionare le scarpate rocciose. Ora ai Katili non restava che aspettare: non appena il grosso dell'esercito avesse raggiunto il muro, o uno degli esploratori li avesse individuati, un vero inferno si sarebbe abbattuto sui Mei Faliùsh.

Dopo interminabili attimi di tensione, uno di questi capitò proprio davanti a Nuss, ma non ebbe neanche il tempo di gridare, che si ritrovò con la gola tagliata a inzuppare di sangue la terra. Senza esitare, Nuss balzò fuori dal suo nascondiglio e, voltandosi verso l'alfiere accanto a lui ordinò: «Suona la carica, ora!». E il ragazzo fece immediatamente come gli era stato ordinato, mentre altri due soldati issavano il vessillo di guerra dei Katili, assicurandolo alla schiena del giovane.

Gli alfieri di Hanun, Vertran, Genan e Sobech lo seguirono a ruota e improvvisamente l'intera vallata risuonò dell'assordante, cupa carica dei Katili, che per molti suonava come una sentenza di morte. Da quel momento, tutto accadde molto velocemente: un boato spaventoso in lontananza coprì il suono dei tamburi e, nei punti in cui erano stati sepolti i barili contenenti Sangue di Mut, pezzi di roccia e zolle di terra si staccarono dalle pareti a strapiombo, andando a chiudere la ritirata ai Mei Faliùsh.

Questi non ebbero neanche il tempo di capire cosa fosse accaduto alle loro spalle che la strettoia, da un momento all'altro, come se fosse appena esploso un vulcano, si trasformò in una fornace: con un grido di guerra, i Katili schierati nelle prime file iniziarono a lanciare strani cerchi infuocati, gli arcieri e i balestrieri più indietro scagliarono giù una pioggia di frecce infuocate e i misteriosi pertugi simili fissati nel muro spararono addosso alle prime file raffiche di fuoco, pietruzze e chiodini di ferro.

La battaglia era praticamente già vinta: la violenza e la rapidità con cui era iniziata avevano lasciato i Mei Faliùsh mutilati e storditi, ma Nuss sapeva che non era affatto il caso di abbassare la guardia. Difatti, quando il nemico si rese conto che i cerchi ardenti ricoperti di resina non accennavano a spegnersi, e che era impossibile avvicinarsi al muro per abbatterlo, venne dato l'ordine di scalare le scarpate rocciose e dirigersi verso gli stendardi dei Katili.

Benché i pericolosissimi cerchi di resina appiccicosa e infuocata funzionassero ancora bene, le frecce e i quadrelli ora potevano ben poco contro gli imponenti scudi a torre della fanteria dei Mei Faliùsh e persino contro i famosi guerrieri faleyon, la cui rapidità permetteva loro di combattere anche senza scudo, bersagliando il nemico dall'alto con frecce e pugnali avvelenati. Furono proprio questi ultimi a falciare le prime vittime tra le fila dell'Impero, piombando improvvisamente addosso ai soldati con l'intenzione di afferrarli e ucciderli gettandoli dall'alto.

«Indietro, indietro!» ordinò allora Nuss, quando anche la fanteria giunse pericolosamente vicina.

Senza farselo ripetere, i soldati si ritirarono in fretta oltre la scarpata rocciosa, dove avevano scavato una lunga fila di trincee sia per creare una barriera contro un eventuale incendio incontrollabile, sia per sferrare il secondo duro colpo al nemico. Anche qui, infatti, erano state piazzate delle trombe di fuoco e, non appena la fanteria fu abbastanza vicina, Nuss ordinò di sparare raffiche di fiamme, pietre e chiodi. La potenza con cui questi ultimi vennero scagliati riuscì persino ad avere successo laddove i dardi avevano fallito, perforando gli scudi e le corazze.

Dopo meno di un'ora dall'inizio della battaglia, i Katili stavano già avendo la meglio e Nuss era quasi certo che sarebbe finita presto, ma poi improvvisamente udì l'ultimo suono che avrebbe voluto sentire: una campana. Significava che qualcuno − probabilmente Vertran, a giudicare dalla direzione − aveva perso il controllo dell'incendio. Questo significava che Sobech avrebbe dovuto abbandonare i suoi soldati e correre al più presto verso chi aveva suonato: il suo fianco sarebbe rimasto scoperto.

Bentornati dalle vacanze! Come al solito, spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi invito a lasciarmi una recensione, per sapere cosa vi sta piacendo e cosa no, cosa va bene e cosa affinare. Anche se solo un utente ha messo la storia tra le seguite, dalle visualizzazioni so che una ventina di persone la stanno seguendo assiduamente e sarebbe carino sentire concretamente la vostra presenza, qualche volta.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9: ... e del ghiaccio ***


Capitolo 9: ... e del ghiaccio
 
I caratteri divini incisi sul corno da battaglia di Thos erano intervallati da alcuni piccoli teschi che toglievano ogni dubbio sullo scopo per cui quell'antichissimo strumento era stato creato. In origine, doveva essere di un rosso accesso, ma nel corso dei millenni il colore era sbiadito e il bianco sporco dell'osso era tornato a mostrarsi. Secondo alcune antiche testimonianze, si trattava nientemeno che della testa di un femore umano, ma se ciò era vero, allora doveva provenire addirittura dall'Età degli Eroi, perché nessun umano odierno aveva delle ossa di tali dimensioni.

In fondo, non era poi un'ipotesi così azzardata, poiché lo stile delle incisioni era simile a quello dei bassorilievi scolpiti lungo la Fascia di Tanerìl. Inoltre, anche le dimensioni erano un chiaro indizio: definire imponenti la muraglia e le sue fortezze era un irrispettoso eufemismo. In tutti i suoi viaggi, Serementìs non aveva mai visto delle mura tanto spesse, delle arcate tanto ampie, dei corridoi tanto spaziosi e dei gradini tanto alti. Tutto sembrava costruito su misura di creature abbastanza gigantesche da avere delle ossa grandi quanto quella da cui era stato ricavato il corno.

Scorrendo lo sguardo su ciò che restava dell'antica fortezza, Serementìs si ritrovò ad immaginare come potesse apparire quel luogo in rovina nel pieno del suo splendore: quanto poteva essere elevato l'edificio? Fino a dove si espandeva sottoterra? Ormai non era più possibile saperlo, poiché dal secondo piano in su la struttura era crollata e una falda acquifera vicina aveva allagato tutti i sotterranei: superato il barbacane semidistrutto, oltre l'accesso principale, ci si ritrovava in una sorta di chiostro che ormai somigliava più a un laghetto stagnante circondato da mura.

Insomma, nessun buon condottiero avrebbe mai issato i suoi vessilli in un luogo simile, ma il vecchio Re Jerr era ben più che un buon condottiero e godeva di tutti i preziosi doni dell'anzianità: esperienza, saggezza e conoscenza. Sebbene Serementìs non si fidasse di lui del tutto, confidava nelle sue abilità strategiche ed era stata ben felice di dare il suo contributo, a differenza della Regina Fenria che inizialmente aveva nutrito ben poche speranze nel piano.

Serementìs sospettava che ci fosse una conversazione con Re Lodrelos dietro quel poco di fiducia che sembrava aver poi ritrovato, ma il nipote della diffidente Regina di Hairis si era dimostrato un giovane piuttosto sfuggente, nonostante la sua gentilezza e pacatezza, e Serementìs stentava a comprenderlo. In questo somigliava molto a Mahana e alla sua gente: tutti gli uomini e le donne di Rinno che aveva salvato anni addietro dal loro triste destino avevano dei modi molto cortesi e solari, ma non accoglienti, anzi, sembrava che ognuno di loro avesse un suo personale, oscuro segreto da nascondere.

Proprio come era stato previsto, il giovane futuro Re del Mensmark, con il suo battaglione di sopravvissuti, fece capolino dal limitare della foresta quando il sole era ormai basso e l'aria gelida stava tornando a pungere impietosa. Lo schieramento di puntini neri in lontananza avanzava in maniera disordinata e arrancava a fatica lungo il fianco della montagna: i cavalieri in groppa ai tarkal erano ben più avvantaggiati, grazie ai lunghi artigli dei rettili piumati che si conficcavano a terra, ma i fanti scivolavano spesso sulla neve già calpestata.

Nonostante la palese spossatezza, il manipolo di soldati e guerrieri riuscì a raggiungere il barbacane nel giro di qualche minuto e proprio in quel momento anche i battaglioni dei Katili, ben più numerosi e rapidi, superarono le frange del bosco. Questi, trovandosi improvvisamente davanti ad una costruzione maestosa e intimidente come la Fascia di Tanerìl, si fermarono di colpo e il loro comandante esitò a lungo, vagando inquieto da destra a sinistra in sella al suo destriero.

Per lunghi istanti Jerr e Serementìs assistettero nervosi a quell'erratico andirivieni, mentre alcuni degli uomini appena rientrati si piazzavano sopra il barbacane semidistrutto e altri si rifugiavano oltre la porta principale, vecchia e arrugginita. Il comandante, intanto, osservava attentamente la strana struttura, chiedendosi probabilmente se celasse qualche trappola mortale o se si trattasse di un semplice rifugio di fortuna mezzo diroccato, in cui dei soldati altrettanto malandati e disperati avevano scelto di opporre un'ultima, disperata resistenza.

Quando finalmente, dopo attimi di attesa snervante, il proverbiale orgoglio dei Katili ebbe nuovamente la meglio, Serementìs non riuscì a trattenere un sospiro di sollievo e, dal suo nascondiglio, scambiò un sorriso sardonico con Re Jerr. La carica del nemico, accompagnata dal rimbombare cupo dei tamburi, fu di breve durata: in men che non si dica, le prime file furono sotto il barbacane, mentre le ultime ancora stavano lasciando la protezione della foresta.

La resistenza dei soldati rimasti schierati fuori dall'accesso principale fu a dir poco insignificante, quasi ridicola: le frecce, i quadrelli e le sfere di sangue di Mut rimasti erano ben pochi e, quando le scorte furono prosciugate, si iniziarono a lanciare giù pesanti lastre di ghiaccio e qualche mattone del barbacane abbattuto. Questo riuscì a mettere in difficoltà i Katili solo per pochi minuti, poiché trovarono ben presto il punto in cui una vecchia breccia era stata frettolosamente richiusa con i pochi mezzi disponibili − legno e qualche masso − e riuscirono a riaprirla senza troppe difficoltà.

I soldati del nord, intanto, già si erano ritirati oltre il pesante e cigolante portone di ferro, che richiese ai Katili qualche minuto in più per essere superato: i cardini, infatti, erano talmente arrugginiti e rovinati che riuscivano a ruotare a malapena affinché un paio di uomini alla volta potessero passare, perciò fu necessario aspettare l'arrivo dell'ariete per sfondare il portone.

Approfittando di quel momento di impasse, Re Jerr diede l'ordine di continuare a bersagliare il nemico dall'alto delle mura con rocce e lastre di ghiaccio, mentre i pochi sopravvissuti del battaglione del Principe Galam si schieravano dalla parte opposta del chiostro allagato celato da un robusto strato di ghiaccio.

Il tremendo clangore del portone rossiccio, scardinato dalla posizione in cui era rimasto fisso per chissà quanti secoli, risuonò assordante e fastidioso fra le mura semidistrutte della fortezza abbandonata e una pioggia di frammenti di ruggine ricoprì le teste e le spalle dei Katili. Il boato che esplose quando le pesanti lastre di ferro si schiantarono contro le mura rimbombò nella pietra e nel terreno, trasmettendo tutt'intorno minacciose vibrazioni.

Subito dopo, anche il ruggito dei tarkal e le feroci grida dei soldati si unirono alla cacofonia, mentre un rombo di piedi e zampe che pestavano il terreno all'unisono permeava l'aria. Il minuscolo battaglione del Principe Galam rimase coraggiosamente saldo e compatto, nonostante l'orda di Katili che andava rapidamente schierandosi a poche decine di metri da loro.

Questi ultimi erano ormai certi di avere la vittoria in pugno, ed era per puro e semplice amore per la teatralità che stavano schierando le proprie truppe come se avessero dovuto affrontare un esercito di migliaia di uomini, piuttosto che un manipolo di un centinaio soldati, già stanchi e provati. In perfetto stile Katileo: ogni scontro doveva essere quanto più spettacolare e memorabile possibile.

"Beh, in tal caso" pensò Serementìs tra sé e sé, "credo che apprezzeranno molto ciò che sta per accadere."

Come un garrm pronto a balzare su una preda rimasta senza via di scampo, lo schieramento iniziò ad avanzare al ritmo crescente della marcia suonata dai tamburi, prima lenta, poi sempre più rapida, fino a divenire una vera e propria carica, sovrastata dalle grida, dai ruggiti e dal calpestio. Se il massiccio strato di ghiaccio non aveva ancora ceduto sotto i loro passi, era solo grazie a quelle colonne e a quei muri che erano rimasti in piedi, dopo il crollo della pavimentazione: erano quelle vecchie strutture sotterranee, infatti, a sorreggere parte del peso e a permettere al ghiaccio di diventare così spesso.

Il calpestio delle scarpe chiodate dei soldati e gli artigli dei tarkal, però, stava mettendo a dura prova la sua resistenza e Serementìs temette che avrebbe ceduto sotto il peso dell'esercito, ma quando scambiò un'occhiata con Re Jerr non vide alcuna traccia di apprensione nel suo sguardo e questo la rassicurò. Difatti, nel giro di qualche secondo la falange fu a pochi metri dallo sparuto battaglione di sopravvissuti.

Con un movimento rapido e impaziente, finalmente Serementìs si portò alle labbra l'antico corno da battaglia della sua città. In tutta la sua vita, non aveva mai avuto modo di ascoltare il suono di quel prezioso cimelio che era rimasto custodito e celato per molti secoli; quella battaglia le era sembrata l'occasione perfetta per rispolverarlo, come una sorta di monito all'Impero Katileo, come per far sapere loro che ormai avevano i giorni contati.

Nel momento in cui soffiò con un certo sforzo la prima nota, tutto accadde molto velocemente, ma l'emozione di quegli attimi fece sì che quella scena le restasse perfettamente impressa nella memoria: una melodia ancestrale e quasi viscerale si espanse dall'ampio foro di uscita del corno, rimbalzando uniformemente fra le mura della fortezza. Le terrificanti vibrazioni si propagarono con estrema facilità e risuonarono nel ventre di tutti i presenti, trasmettendo una straordinaria sensazione di terrore.

Serementìs stessa si sentì pervadere da un'insolita inquietudine, mentre dava nuovamente fiato allo strumento e, a metà fra l'euforia e il terrore, pensò che quella dovesse essere la voce della morte stessa. Chissà, forse anche qualcuno dei Katili lo pensò, quando un clangore e uno sfregare di ferro sulla pietra si unì al coro e un'enorme grata, stavolta nuova, forgiata e assemblata solo da poche settimane, venne calata davanti all'accesso principale, tagliando ogni via di fuga.

Mentre i Katili arrestavano improvvisamente la loro marcia, storditi e colti di sorpresa, il Principe Galam diede l'ordine di issare i vessilli, rivelando così finalmente l'inganno: ora, infatti, non vi era traccia degli stendardi delle Signorie, ma erano i volti neri di Zèchtos e Zechtosèa su sfondo rosso del Wesmark e la pelle grigia di garrm su sfondo blu del Mensmark ad accompagnare la battaglia.

Battaglia che, per fortuna o purtroppo, fu di breve durata, per quanto spettacolare: delle grosse balliste fecero capolino dall'alto delle mura e dei possenti dardi lunghi almeno quanto un uomo vennero scagliati direttamente sul ghiaccio, nel quale andarono a conficcarsi creando delle crepe che si espansero rapidamente. I Katili delle frange esterne ebbero appena il tempo di accorgersene e correre verso le scalinate che portavano sulle mura.

Poi il ghiaccio iniziò a spezzarsi e grosse lastre ondeggiarono paurosamente per poi ribaltarsi, buttando in acqua chiunque ci fosse sopra, fanti, cavalieri, tarkal ... Questi ultimi, terrorizzati, mieterono più vittime del gelo stesso, squarciando spaventosamente in preda all'agitazione tutti gli sfortunati soldati che capitavano sotto i loro possenti artigli. Ben presto, l'acqua gelida iniziò a sporcarsi di rosso e da lì fu solo questione di tempo, prima che la frenesia di corpi che sconquassavano la superficie diminuisse, fino a scemare del tutto.

Molti perirono dilaniati dai tarkal, tutti gli altri annegarono nella calca, o vennero sopraffatti dal gelo. Quanto ai pochi fortunati che erano riusciti a raggiungere la salvezza, salendo i gradoni che portavano sulle mura, ingaggiarono uno strenuo scontro con i guerrieri appostati lungo il percorso che durò a lungo e richiese anche l'intervento di Serementìs, che condusse il suo squadrone di faleyon sopra il gruppo più folto, mentre Re Jerr e suo figlio Galam chiudevano l'altro in un attacco a tenaglia.

Tra un colpo di falce e l'altro, intanto, Serementìs continuava a soffiare nel terrificante corno di Thos, incitando i suoi guerrieri e intimorendo i nemici che, nonostante la situazione disperata, non si arresero mai, neanche ad un passo dalla sconfitta più totale, continuando a falciare molti uomini del nord. Il loro destino era tuttavia segnato e, quando era ormai calata la notte, finirono quasi tutti per soccombere, avvolti dalle note tombali del corno che risuonavano ben oltre le mura, fra i picchi innevati, fino a raggiungere le orecchie della Regina Fenria e di Re Lodrenlos.

Questi ultimi, non appena avevano udito le prime, sconcertanti note, sebbene non conoscessero il suono del corno di Thos, avevano compreso immediatamente che era finalmente giunto il loro momento e si erano scagliati all'unisono contro le mura della città già svuotata. La resistenza incontrata, ovviamente, era stata ben poca: la feroce Fenria aveva superato illesa il portone bruciato e sfondato, cogliendo di sorpresa i pochi uomini rimasti a sorvegliare quell'accesso.

Lodrenlos, infatti, aveva già attaccato il secondo accesso della città e, mentre gli uomini di Bretsia erano intenti a fare breccia anche in quel secondo portone, sua zia aveva potuto introdursi con estrema facilità oltre le mura e ora, mentre i soldati di Hairis setacciavano ogni via e ogni abitazione, lei si dirigeva con passo svelto verso il palazzo del Signore, dove era certa che avrebbe trovato il generale del reggimento stanziato in quell'avamposto.

Come previsto, erano rimasti ben pochi uomini a proteggere l'edificio e Fenria, non ebbe problemi ad affrontarli con la sua scure e qualche astuzia: affrontò apertamente la falange all'entrata con l'aiuto dei suoi uomini e, prima ancora che fosse decimata, si introdusse nel palazzo e falciò in breve tempo tutti gli uomini che incontrò sul suo cammino, spesso facendo saltare loro la testa con un solo, precisissimo colpo perfettamente calibrato.

Trovare la stanza del generale non fu particolarmente difficile: era l'unica ad essere sorvegliata a vista da quattro soldati in tenuta di alto grado. La Regina ne dedusse che doveva trattarsi di guerrieri letali almeno quanto ella stessa, perciò non era una buona idea affrontarli faccia a faccia.

Si guardò intorno in cerca di una buona alternativa: il corridoio ad elle in cui si trovava era piuttosto ampio e, a giudicare da alcune macchie per terra e nicchie vuote, doveva essere stato razziato di tutte le sue decorazioni, come ogni altro angolo dell'edificio. Non vi era nulla che potesse usare a proprio vantaggio.

Ripercorrendo con lo sguardo i suoi passi, però, vide che altre due stanze si affacciavano su quel corridoio: una rapida ispezione le rivelò che erano entrambe accessibili e persino fornite ancora di chiave. Tentando di non fare il minimo rumore, sfilò la chiave della prima dalla parte interna, infilandola poi dal lato della serratura che dava sul corridoio. Richiuse quindi la porta con una lentezza snervante, per poi svoltare l'angolo del corridoio lasciando che le guardie la vedessero.

Simulando sorpresa e paura, la Regina fece dietrofront non appena incontrò lo sguardo di uno degli uomini e corse a rotta di collo. Svoltato nuovamente l'angolo, riaprì la porta che aveva preparato, assicurandosi stavolta di fare tutto il rumore possibile, ma non entrò nella stanza, bensì andò a nascondersi dietro il telaio di quella successiva. Come previsto, gli inseguitori si fiondarono nella stanza aperta senza pensarci due volte e Fenria poté così chiuderli a chiave, per poi dirigersi in tutta calma verso la stanza in cui il generale aveva scelto di rifugiarsi.

La Regina di Hairis trovò l'uomo in questione − un faleyon di mezza età con le mani ricoperte di vecchie cicatrici e un'ala gravemente ferita − davanti ad un raffinato scrittoio, intento a legare un messaggio alla zampa di un corvo messaggero. Il generale non apparve sorpreso di vederla, né tantomeno spaventato, nonostante il suo sguardo finì inevitabilmente per posarsi sulla sua pesante scure grondante sangue. Raddrizzò dignitosamente la schiena, guardandola con aria di sfida, e accarezzò la testa del volatile per tranquillizzarlo.

Fenria, naturalmente, non si lasciò intimidire da quella manifestazione di orgoglio e determinazione. Sorridendo gentile, richiuse con calma la porta e, sfilando un piccolo oggetto leggermente macchiato di sangue da sotto l'armatura, disse: «Se non vi dispiace, vorrei approfittare del vostro corvo per inviare questo messaggio.»

Pochi minuti dopo, come era usanza presso la sua gente, la Regina srotolò lo stendardo di Hairis dal balcone della stanza opulenta − probabilmente quella in cui dormiva il Signore, fino a poche settimane addietro − e accanto ad esso anche quello di Bretsia. Poi con la mano sinistra sollevò una testa dal volto tanto massacrato che solamente dall'elmo si poteva intuire che era appartenuto al generale, mentre con l'altra si portò alla bocca il corno di Hairis. Il suono vagamente nasale risuonò a lungo tra gli edifici vuoti e schizzati di sangue, conclamando la prima importante vittoria del nord sui Katili. In lontananza, il terrificante corno di Serementìs rispose al suo richiamo.

*
 
Un tremendo odore di carne bruciata permeava tutta l'area in cui si era svolta la battaglia contro i Mei Faliùsh e dal fondo della strettoia salivano ancora ampie colonne di fumo nero. Davanti a quello spettacolo disgustoso il Principe di Katils teneva un panno bagnato premuto contro una ferita aperta sulla fronte, mentre cercava di recuperare un po' di energie.

A quanto pareva, Sobech era riuscito a salvargli la vita per un pelo, appena aveva potuto fare ritorno al suo fianco, lanciandosi contro l'assalitore ad una velocità pazzesca, quasi sovrumana. Nuss, ovviamente, nutriva qualche dubbio in proposito, dato che Hanun era sempre un po' troppo entusiasta, quando si trattava di tessere le lodi del suo Paladino.

L'incendio, fortunatamente, non aveva richiesto troppo tempo e sforzi, grazie anche alla vegetazione acquosa e resistente al fuoco presente in quel territorio e, anche se Nuss non lo avrebbe mai ammesso, alla tempestività di Sobech e alla sua profonda conoscenza del fuoco. Tuttavia, il fatto che quest'ultimo avesse dovuto abbandonare le sue truppe per un po', aveva purtroppo permesso a qualche Mei Faliùsh di darsi alla fuga.

Proprio come Hanun e Genan avevano previsto, lo scontro oltre le trincee non era durato molto, essendo decisamente impari numericamente e, sebbene ci fossero state delle perdite anche tra i suoi sudditi, il Principe era stato sollevato nell'apprendere che non erano ingenti come avrebbero potuto essere se avessero affrontato il nemico in campo aperto.

«È stata una grande battaglia» commentò quando tutto fu concluso, con lo sguardo puntato al cielo albeggiante ancora velato da una coltre di cenere e fumo.

«Non esattamente una delle più onorevoli a cui abbia preso parte» ribatté Genan con la sua consueta, sgarbata sincerità.

«Forse no» concordò Hanun, spostando lo sguardo sul disgustoso massacro che si stagliava in fondo alla strettoia. «Ma non era il momento giusto per essere onorevoli. Quell'esercito andava fermato con ogni mezzo.»

Genan Tārmend annuì tra sé e sé. «Beh, non si può certo dire che le ... astuzie di Mīër non abbiano funzionato» disse poi, pronunciando la parola "astuzie" con un tono a metà tra l'ironico e lo sprezzante.

Sobech, che si trovava più avanti, ma abbastanza vicino da poter ascoltare, non raccolse la provocazione: sapeva che i Katili non amavano l'arte del fuoco e che la consideravano un modo fin troppo facile e poco onorevole per vincere, ma in cuor suo nutriva la convinzione che questo apparente disprezzo fosse in realtà più una sorta di risentimento. Dopotutto, l'unico popolo vicino che mai nella storia erano riusciti a sottomettere e conquistare era proprio quello che meglio di tutti padroneggiava quella pericolosa e raffinata arte.

Decise dunque di ignorare la disapprovazione del veterano e anche quella di tutti coloro che osservavano la distesa di cenere e corpi bruciati con una detestabile, seppur vaga, aria delusa. Invece, si soffermò a pensare al vino e agli stornelli che si sarebbe goduto quella sera, assieme ad Hanun e a quei pochi che sembravano gradire la sua compagnia.

"Devo ricordarmi di offrire una preghiera di ringraziamento alla dea Mut, più tardi" stava pensando, quando il suo sguardo venne casualmente catturato da una piccola figura che avanzava a gran velocità da oriente, parzialmente celata dalla luminosità dell'alba alle sue spalle.

«Altezza!» esclamò subito, puntando il dito verso il cavaliere.

Hanun fu presto al suo fianco e puntò il suo cannocchiale d'oro in quella direzione, cercando la posizione giusta per evitare di accecarsi. «È un soldato dell'Impero. Non capisco ... Che sia un disertore?»

«Perché mai un disertore dovrebbe fare ritorno, per di più adesso?» osservò Nuss, affiancandolo.

«Perché mai disertare?» aggiunse sprezzante Genan Tārmend.

«Non credo che sia uno dei miei uomini» chiarì subito Hanun. «Che sia ... Che sia venuto fin qui dalla Fortezza Gialla?»

«Il forte riconquistato che controlla la baia?» chiese Sobech.

«Esatto.»

«Cosa potrebbe volere da voi uno dei loro uomini?»

«Non lo so. Ma ho una terribile sensazione.»

Con enorme dispiacere di Sobech, che adorava l'allegria della festa, quella volta non ci fu occasione di fare baldoria: l'uomo, infatti, era davvero un emissario della Fortezza Gialla ed era giunto per portare al Principe un messaggio urgente e preoccupante.

Davanti ad un bicchiere di vino, sotto il rinfrescante tendone personale di Hanun, l'uomo riferì: «È davvero deprimente essere ambasciatore di cattive notizie in un'ora per voi tanto gloriosa, Maestà; non vorrei davvero derubarvi dei vostri festeggiamenti, ma dovete sapere.»

«Non sentitevi in colpa» lo rincuorò Hanun con la sua tipica gentilezza, porgendogli un piatto ricolmo di pane, formaggio e un pezzetto di lardo che l'ospite accettò con una profonda riverenza e uno sguardo stupito. «Parlate subito, specialmente se si tratta di qualcosa di tanto urgente.»

L'uomo esitò solo un istante, prendendo un altro sorso di vino. «È stato quasi due settimane fa.»

«Continuate. Parlate liberamente.»

«Una flotta: proveniva da sud e l'abbiamo intravista nella foschia navigare a gran velocità. Inizialmente abbiamo pensato che fossero venuti per attaccare noi, ma non è accaduto; hanno proseguito verso nord ed è molto probabile, quasi certo, che il loro obiettivo sia Katils.»

Un terribile silenzio calò sulla tenda e fu Genan il primo a spezzarlo, ponendo subito la domanda più importante: «Avete già inviato degli emissari a Katils?»

«Naturalmente» rispose l'uomo senza alcuna esitazione. «È probabile che siano anche già arrivati. Io sono stato mandato qui perché abbiamo ritenuto che l'Imperatore potesse aver bisogno di tutte le forze disponibili.»

«Avete preso una decisione molto saggia» concordò il Principe, annuendo. «Vi ringrazio. Non appena i nostri uomini saranno pronti, partiremo per Katils.»

La conversazione tra l'emissario e i comandanti proseguì per tutta la durata della cena e, tra le varie informazioni, appresero anche che la flotta era abbastanza numerosa da poter reggere da sola un assedio alla capitale per diverse settimane. Probabilmente, era stata mandata avanti con lo scopo di semplificare il lavoro all'esercito che il Principe aveva appena decimato. Il suo intervento, dunque, aveva davvero salvato gli abitanti di Katils − e forse la sua stessa famiglia − da morte certa; tuttavia, non era comunque riuscito a sventare completamente la minaccia e questo lo fece sentire terribilmente in colpa e imbarazzato.

«Non potevi saperlo» provò a rincuorarlo Sobech, non appena l'emissario venne accompagnato fuori dal tendone, ignorando le occhiatacce critiche dei comandanti per il suo approccio informale.

«Invece avrei dovuto prevederlo» ribatté Hanun con un sospiro. «Era ovvio che i Mei Faliùsh avessero un piano più complesso di un banale assalto diretto alla città.»

«Il tuo Paladino ha ragione, cugino» intervenne allora Vertran, poggiandogli una mano su una spalla, «non avremmo potuto mai spingerci abbastanza a sud da scoprire quella flotta.»

«Inoltre Katils non è certamente un piccolo villaggio indifeso» aggiunse Nuss. «Senza l'esercito che abbiamo fermato, quella flotta potrà fare ben poco.»

«Sì, questo lo so. Solo ...» il Principe esitò un istante, poi scosse la testa chiudendo gli occhi e disse: «Non importa. Riposate, ora: non appena avremo recuperato le forze, torneremo a casa.»

Nessuno osò chiedere cosa stesse per dire: non era necessario. Chiunque conoscesse Hanun almeno un po' a fondo sapeva quanto fossero importanti per lui l'ammirazione e la stima di suo padre. Era ovvio che temesse ciò che l'inflessibile Imperatore avrebbe avuto da dire su quella faccenda.

Causa sessione autunnale, gli aggiornamenti sono momentaneamente sospesi.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10: Una commissione speciale ***


Capitolo 10: Una commissione speciale
 
Mentre da nord a sud numerose battaglie impregnavano di rosso la terra del Grande Continente, e miseria e sofferenza dilagavano nelle zone più remote dell'Impero, nella splendente Katils la vita sembrava quasi una fiaba: sullo sfondo di una meravigliosa città dalle mura candide e dai tetti dorati, lambita dalle luccicanti acque dell'oceano e del fiume Geremendt, una ridda di eleganti abiti colorati dai tessuti preziosi affollava le strade, i ponti e i canali.

Nobiluomini e nobildonne dalle maniere raffinate e cortesi si alternavano a sacerdoti dall'aria sobria e solenne, studiosi avvolti nelle loro divise austere, mercanti arricchiti dai modi spicci e gli abiti pacchiani, studenti squattrinati e chiassosi sempre con qualche libro o pergamena sottobraccio, e infine alcuni schiavi riconoscibili dal nastrino nero legato al collo; persino gli abiti di questi ultimi avevano una loro dignità ed eleganza.

Mereis, ad esempio, quella sera indossava un corto vestito rosso, sopra una leggerissima camicetta, stretto in vita da un corsetto velato da uno strato di pizzo nero. Il fiocco da schiava si armonizzava perfettamente col colletto della camicia, tanto da sembrare quasi una normale decorazione. I sandali, comunque, erano il suo capo di abbigliamento preferito, perché non aveva mai visto, né indossato una calzatura simile prima, e li trovava terribilmente graziosi sui suoi piedi.

La prima volta che Urem Tolban l'aveva fatta vestire di tutto punto, chiedendole di indossare i suoi gioielli per un'esibizione, Mereis era rimasta a dir poco basita, ma aveva presto imparato a fare tesoro di quelle piacevoli occasioni in cui le era permesso di lasciare per qualche ora il suo complicato lavoro e stare semplicemente ferma, come un manichino di legno da sartoria, a farsi ammirare dalle donne ricche di Katils.

Nei primi minuti sorridere e ammiccare non era facile, ma se c'era una cosa in cui le nobildonne eccellevano questa era mettere a proprio agio il prossimo, che si trattasse di un altro nobile, di un amico, o persino di uno schiavo. Così, non appena venivano a sapere che era stata proprio Mereis ad intagliare alcune delle pietre, subito iniziavano a conversare con lei e spesso le chiedevano consiglio su quale gioiello si sposasse meglio con la tonalità dei loro occhi, della pelle, o dei capelli.

Quella sera, però, non ci sarebbe stata occasione di parlare e Mereis non avrebbe potuto aiutare il suo gentile padrone a convincere qualche compratore indeciso, dal momento che avrebbero preso parte ad un'asta. L'occasione era il debutto in società dei giovani nobili che avevano raggiunto la maggiore età quell'anno ed era un'opportunità d'oro per attirare qualche nuovo cliente. Il vantaggio dell'invito, in effetti, era solo questo, dato che il ricavato delle aste sarebbe andato in beneficenza a tre importanti accademie: quella militare, quella per i letterati e i funzionari e quella dei guaritori della Mandragora.

Assieme a Mereis c'erano anche altre due donne e tre uomini particolarmente fascinosi ed esotici, come Nijöllar e Sasjër, i due gemelli provenienti da una delle tante Signorie dei Monti Scintillanti: avevano la pelle lattea, perfetta, e i capelli quasi bianchi, ed erano talmente identici che, osservando solo il viso, era pressoché impossibile distinguere la femmina dal maschio. Poi c'era l'ammaliante e misterioso Kretgar, arrivato chissà come a Katils dalla lontana Tselbuc, la dolce e giovanissima Orelle di Mei-Nash e infine il loquace Gresvardt, un contrabbandiere originario di Mirat Sud. Quella sera ci avrebbe pensato il gioielliere a parlare: a loro sarebbe bastato fare un sorriso per sedurre gli astanti.

Poiché il loro padrone nutriva una profonda diffidenza verso le glurendel − le leggerissime e affusolate imbarcazioni che solcavano i canali − giunsero alla villa della festa in carrozza, percorrendo le strade illuminate dai numerosi lampioni ad olio del quartiere più ricco. Come tutte le altre abitazioni, anche quella era costruita con mattoni bianchissimi, regolarmente puliti e lucidati, e probabilmente aveva anche il tipico tetto dorato, ma quella sera era stata addobbata con festoni di foglie e frutti, statuette, fiocchi di seta, piume di uccello variopinte e molti fiori.

Vennero accolti con calore e cortesia da un servitore e fatti accomodare in una stanzetta adiacente a quella dell'asta, piena di ritratti e con dei comodi divanetti accanto a delle finestre velate da preziose tende, dove iniziarono a pettinarsi a vicenda e indossare i gioielli da presentare.

«Non ci tratterremo a lungo» li rassicurò Urem Tolban, vedendoli già stanchi a causa della lunga giornata di lavoro. «Sarete presto liberi di tornare a casa a riposare, se vorrete.»

"Non è poi una cattiva idea" pensò Mereis, ma alla fine quasi certamente si sarebbe trattenuta a parlare un po', e con lei anche Gresvardt.  Aveva sempre amato le conversazioni educate, per quanto la cortesia dei nobili fosse artificiosa e di facciata. In quanto a Gresvardt, beh, semplicemente adorava fare sfoggio della sua facondia per sedurre le giovani e sentimentali nobildonne.

Difatti, conclusa l'asta, mentre gli altri schiavi facevano ritorno a casa su una glurendel, Mereis andò a consegnare i suoi bracciali e la sua collana da corpo, si rimise il fiocco nero e tornò nella sala per unirsi al suo padrone, che subito la presentò come la sua migliore intagliatrice. Davanti alla curiosità dei giovani debuttanti e dei loro ricchi famigliari, iniziarono entrambi a tessere le lodi l'uno dell'altro, come erano soliti fare.

«Dovreste vederla all'opera, Signori» diceva sempre il gioielliere, «ha delle mani talmente veloci e precise che sembrano quelle di un folletto di Fezàr

«Senza le vostre cornici» rispondeva Mereis, «le mie creazioni non sono nulla di speciale; come dei petali che assumono vera bellezza e valore soltanto se costituiscono una corolla.»

Tra una battuta e l'altra sull'arte della creazione dei gioielli, più tardi un gruppetto di giovani debuttanti avvicinò Mereis e, con un velo di imbarazzo reso meno goffo da quella particolare grazia che avevano appreso nell'infanzia, le dissero: «Hai un aspetto molto particolare: non si vedono molte donne col tuo tipo di fascino, a Katils. Ci piacerebbe sapere da dove vieni.»

Quando Mereis rispose che veniva da Rinno, subito i giovani spalancarono la bocca in maniera buffamente teatrale, scambiandosi occhiate meravigliate. «La tua gente è così rara da queste parti ... Non abbiamo mai conosciuto un barbaro di Rinno.»

A quella parola, forse pronunciata in buonafede, Mereis dovette trattenersi dallo storcere il naso e si sforzò di soddisfare la loro grande curiosità: «Parlaci della tua tribù. È vero che su quell'isola bisogna spostarsi in continuazione, per via dei vulcani e della scarsità di cibo, e che non esistono città? E che quindi non ci sono re e regine? E le enormi miniere di diamanti? Quelle sono vere? E i cannibali? Davvero ci sono tribù di cannibali a Rinno, o è solo una sciocca storiella raccontata ai bambini per mettergli paura?»

Davvero tante domande, ma nulla che non le fosse già stato chiesto, da quando era stata portata via dalla sua terra. Ciò che la stupì quella volta, però, fu la frivolezza con cui i giovani rampolli discussero con lei di quella che un tempo era stata la sua casa, dalla quale lei era stata brutalmente strappata. Sembrava quasi che non si rendessero conto della serie di ingiustizie e sofferenze che l'avevano portata lì, e che si aspettassero di ascoltare il resoconto di un viaggio di piacere.

I giovani di Katils, nati e cresciuti nella capitale, pareva che non avessero la minima cognizione del dolore e della miseria che affliggevano il mondo al di fuori della loro splendente favola. Non avevano idea delle barbarie perpetrate dalla loro stessa gente, dai loro stessi padri, o forse ce l'avevano, ma non gliene importava o erano addirittura tanto arroganti da credere di essere in diritto di usurpare liberamente la terra altrui.

*
 
Nonostante fosse ormai inverno e i venti monsonici spazzassero incessantemente i campi, le foreste, i giardini e le strade, portando dal nord un'aria fresca e asciutta, il vestiario tipico di Katils non era cambiato molto e Mereis indossava ancora gli stessi abiti leggeri, fatta eccezione per una tunica a maniche lunghe stretta in vita e larga nel gonnellino, come sempre adornata col fiocco nero, e la curiosa aggiunta di un paio di pantaloni che Urem Tolban le aveva donato quella stessa mattina.

L'insieme, sebbene non mancasse della consueta eleganza, era decisamente più sobrio e coprente e, per quanto non le dispiacessero quei nuovi indumenti, era chiaro che dietro ci fosse una ragione ben precisa, visto che tutte le atre donne continuavano ad indossare gonne, camicette e abiti elaborati. Il fatto che quella mattina fosse stato ordinato a Gresvardt di accompagnarla, come una sorta di guardia personale, non era che una conferma del suo sospetto.

Così, nel bel mezzo del suo aneddoto sulla giovane contessa che diceva − o forse millantava? − di aver sedotto la sera precedente, Mereis interruppe il suo accompagnatore: «Gresvardt, di' la verità: perché il Signor Tolban mi ha dato questi vestiti e ti ha ordinato di accompagnarmi? Ho sempre fatto le sue commissioni da sola e non ho mai cercato di fuggire, perciò non credo che abbia perduto la sua fiducia in me.»

«No, infatti» rispose il compagno schiavo, con un sospiro infastidito.

«Allora perché ...»

«Perché dove stiamo andando non è un bel posto.» Poi, ripensandoci, rettificò: «O meglio, la nostra destinazione è soltanto la villa di un celebre studioso e inventore, ma per raggiungerla, beh, dovremo passare attraverso il luogo in cui vanno a morire tutte le speranze di quelli come noi.»

A quella triste descrizione Mereis rispose con un'occhiata confusa e la fronte aggrottata, ma tutto le fu più chiaro quando raggiunsero l'ufficio di vigilanza della città e Gresvardt la indirizzò verso uno stretto vicoletto che stava fra quello e un altro edificio adiacente. Prima che potessero imboccarlo, però, uno dei vigili andò verso di loro e intimò un "altolà!".

«Chi siete e perché siete diretti verso il Promontorio?» domandò brusco il gendarme, sfiorando con le dita l'impugnatura del suo stocco − la tipica lama lunga e sottile che Mereis aveva visto portare sul fianco da molti uomini a Katils.

«Il mio nome è Gresvardt e lei è Mereis» li presentò l'uomo, puntando poi un dito sul suo fiocco nero. «Come capirete, siamo stati mandati dal nostro padrone per una commissione speciale: dobbiamo consegnare un prezioso oggetto al Signor Ferem Peregrast.»

Il vigilante sembrò rilassarsi un poco e, raddrizzando il berretto adornato con una cordicella d'oro, una penna d'uccello rossa e lo stemma della città, ribatté: «Conosco il Signor Peregrast, ma vorrei sapere chi è il vostro padrone e cosa siete stati incaricati di consegnare.»

Per tutta risposta, Mereis aprì delicatamente un pesante cofanetto foderato in seta e Gresvardt spiegò: «Il celebre gioielliere Urem Tolban ha recentemente collaborato con il Signor Peregrast per realizzarlo. Ormai è quasi completo, il nostro padrone ha già finito la sua parte del lavoro.»

Il gendarme osservò incuriosito e meravigliato il prezioso oggetto per qualche istante, poi, com'era prevedibile, domandò: «Ma ... cos'è, esattamente?»

Gresvardt si strinse nelle spalle ed esclamò: «Cosa volete che ne sappia un umile schiavo del lavoro di due grandi e brillanti maestri? A ben guardarlo, vi direi che parrebbe un doppio cannocchiale, o qualcosa di simile, ma come ho detto sono solo un semplice servitore.»

Il vigilante parve soddisfatto della risposta e, dopo aver restituito il cofanetto, si offrì di scortarli fino alla villa. Mereis stava per rifiutare con cortesia, ma Gresvardt accettò con entusiasmo, prima che lei potesse dire qualunque cosa.

«Avrebbe potuto sospettare che volessimo rivenderlo a qualche contrabbandiere» le sussurrò all'orecchio il suo compagno, mentre imboccavano il vicoletto. «E comunque, con un vigilante saremo molto più al sicuro.»

Da cosa dovessero stare al sicuro, Mereis lo capì non appena la sua attenzione si rivolse ai volti, alle case e agli odori che affollavano la strada che risaliva verso il Promontorio: pareti luride, infissi marci, carretti sgangherati pieni di frutta e verdura tutt'altro che fresche, pesce nauseabondo e pane raffermo, una folla di volti stanchi e scavati, corpi smunti e abiti cenciosi, lungo una strada piena di buche riempite di un liquame nero e fetido che scorreva in rivoletti fra le pietre.

Non c'era da stupirsi che persino la fulgida Katils avesse un quartiere abbandonato a se stesso, in cui erano radunati tutti coloro che non rientravano nel disegno di una capitale perfetta, ordinata e favolistica: contadini rovinati da una pessima annata, mercanti e artigiani sommersi dai debiti, donne ripudiate dai propri mariti, piccoli orfani abbandonati, moltissimi storpi, ciechi e malati, uomini soli e senza speranza e, ovviamente, ladri e delinquenti nascosti in ogni angolo.

Tuttavia, era la prima volta che vedeva i miserabili e gli indesiderati così ben segregati dal resto del mondo: se persino loro due che avevano cercato di entrare erano stati prontamente bloccati dall'attenta vigilanza, uscire da quel luogo, o perlomeno raggiungere i quartieri ricchi e perbene, doveva essere un'impresa degna dei più astuti e furtivi contrabbandieri. Dopotutto, lo stesso Gresvardt era stato arrestato e messo ai ceppi proprio alle porte di Katils.

Non appena si ritrovò a pensare al compagno, Mereis tornò col pensiero alle parole che aveva usato per descrivere quel luogo infelice. Vinta da una perplessa curiosità, si inclinò verso di lui e domandò sottovoce: «Perché credi che finiremo anche noi qui, un giorno?»

Il fu contrabbandiere, per tutta risposta, inarcò le sopracciglia e le rivolse un'espressione che sembrava dire: "Non è forse ovvio?".

«Che c'è? Che ho detto?» ribatté lei, scavalcando una buca piena di chissà quanto liquame nero.

«Pensa a tutti gli schiavi che hai conosciuto» le suggerì, «come hanno finito per diventarlo? Cos'erano prima?»

Dopotutto, Gresvardt aveva ragione, era alquanto ovvio: contrabbandieri, ladruncoli, debitori, truffatori, falsari, forestieri pieni di rancore provenienti dai territori conquistati ... «Persone di cui non ci si può fidare» sussurrò Mereis, quasi più a se stessa che al suo compagno.

Gresvardt annuì: «Ben pochi sono disposti ad associarsi con chi ha un passato poco ... onorevole. Mio padre era un bandito tra i più noti e odiati a Mirat Sud: derubava i mercanti e persino i nobili, assalendoli lungo le vie che attraversano le foreste. Io sono sempre stato un contrabbandiere. Quanto a te, beh, nessuno sa niente di te, se non che hai un certo simbolo impresso a fuoco sul collo» disse, indicando il carattere divino della schiavitù con cui Genan Tārmend l'aveva marchiata prima di disfarsene, «che la dice lunga sul tuo temperamento.»

A quel punto, Mereis si chiuse in un silenzio malinconico e meditabondo, mentre Gresvardt ascoltava con partecipazione il vigilante che li metteva in guardia dai pericoli del Promontorio, narrando delle pericolose imprese che aveva compiuto col suo squadrone, da quella volta in cui avevano scoperto il nascondiglio di una scaltra banda di ladri senza scrupoli, a quella in cui avevano dovuto respingere l'assalto di una folla di indesiderati che aveva cercato di distruggere i cancelli e scavalcare i muri e gli edifici per riversarsi in città.

Soltanto una volta giunti in vista della villa, finalmente Mereis si riprese dal suo profondo sconforto e il suo sguardo si fece incuriosito: la villa, sebbene fosse di dimensioni modeste, rispetto ai palazzi che si affacciavano sui canali della città, era probabilmente l'edificio più bello che avesse visto. Non perché fosse particolarmente sfarzoso ed elegante, al contrario, ma piuttosto per la sua unicità.

Per quanto le forme di Katils ispirassero raffinatezza, maestosità, forza, stabilità e armonia, infatti, bisognava ammettere che erano fin troppo uniformi, tanto da diventare persino ipnotiche, se si attraversavano velocemente i canali a bordo di una glurendel, e Mereis era persino riuscita a perdersi, qualche volta. In mezzo ad un simile contesto, la dimora di Peregrast era come una nota fuori posto, ma non stonata.

Questa sensazione era ispirata già dall'alta inferriata arzigogolata, tutta avvolta da rampicanti intrecciati che culminavano in profumatissimi fiori viola dalla forma simile a quella di un insetto alato. Al di là del cancello, tra i ferri intrecciati, era visibile una curiosa villa rotondeggiante, affiancata da una piccola torre della stessa forma. Numerose statue riempivano alcune nicchie ricavate su entrambi gli edifici, mentre altre, curiosamente, erano state svuotate e solo la presenza di aloni chiari testimoniava che un tempo erano presenti statue anche in quelle.

Osservando il tetto dell'edificio più basso e ampio, poi, Mereis notò che era adornato da una serie di anelli interrotti qui e là da delle tacche verticali e posizionati a distanze diverse secondo un criterio che non riusciva a capire. Sulla punta del tetto, invece, spiccava una sorta di punta di lancia lunghissima, la cui ombra gettata sulle tegole arrivava a sfiorare uno degli anelli. La torre, per contro, sembrava non avere affatto un tetto.

Volando con lo sguardo sul giardino meticolosamente curato, la sua attenzione rimase a lungo catturata da una curiosa fontana: questa rappresentava una donna dagli arti robusti e la tipica fisionomia delle genti dell'estremo nord, che stringeva fra le mani un'anfora sopra la testa. Sotto lo sguardo incantato della schiava, l'acqua che sgorgava dall'anfora si riversava in un lungo recipiente ricavato dal tronco sottile e flessibile delle piante della vicina giungla e, quando si fu riempito, si rovesciò ruotando sul suo perno, andando a riversare tutto il suo contenuto nel recipiente successivo.

Anche questo, una volta pieno, si rovesciò su quello sottostante e così via, in un percorso a zigzag, fino a che l'acqua non raggiunse la vasca. Ad ogni passaggio, quando i recipienti svuotati si raddrizzavano tornando sull'originario punto di appoggio, emettevano un suono battendo e ognuno aveva una sua nota personale, creando così una melodia che si fondeva armoniosamente con il gorgoglio dell'acqua, il fischio del vento e il frusciare delle foglie e dell'erba.

La gradevole sensazione di pace, controllo e comunione che tutto l'insieme trasmetteva rapì a tal punto l'attenzione di Mereis che neanche si rese conto di essersi aggrappata alle sbarre del cancello, spingendo la faccia più in là che poteva e scansando con degli schiaffetti il rampicante e i suoi fiori. La sua concentrazione era tale che solo all'ultimo vide arrivare di gran lena, gesticolando come un forsennato, un vecchietto dalla faccia lunga come quella di un kabé che, rivolgendosi proprio a lei, gridava: «Via! Via quelle manacce dalle mie carennel

Al brusco e accorato richiamo, Mereis quasi perse un battito e lasciò immediatamente la presa sulle sbarre, scusandosi umilmente.

«Hai idea di quanta fatica mi sia costata far crescere queste carennel lungo il cancello?» continuò a brontolare l'uomo, allisciando e riposizionando i suoi preziosi fiori. «Queste piante non sono mica come quei volgari rampicanti da salotto per giardinieri pigri e inetti! Questi son fiori delicati, mia cara, occorre un vero artista per farli crescere come si deve!»

«Perdonatemi» ripeté lei mortificata, «non conosco le carennel, non sapevo fossero tanto fragili.»

«Ovvio che tu non le conosca, cosa può saperne di queste cose una come te?» ribatté rudemente il vecchio e Mereis, perplessa, si chiese cosa intendesse con "una come te". Una schiava? Una straniera?

«Beh, una cosa la so» replicò, non riuscendo a trattenersi, «fossi in voi non seminerei delle piante tanto preziose proprio lungo la recinzione, dove chiunque può vederle e toccarle.»

Le occhiatacce di Gresvardt e del vigilante non tardarono ad arrivare, mentre il vecchio le rivolse uno sguardo confuso, osservandola per la prima volta negli occhi; aprì la bocca come se volesse ribattere e darle una lezione, ma poi decise che non ne valeva la pena − o magari che fosse nel torto? − e liquidò la cosa con un: «Ah!» scuotendo la testa e le braccia spazientito.

«Vi chiedo perdono, Signor Peregrast» intervenne a quel punto il vigilante, «avrei dovuto metterli in guardia dal toccare qualunque cosa nella vostra dimora.»

«Oh, non importa, Bernass, non fartene una colpa» gli rispose il vecchio Ferem, con tono più dolce, mentre apriva delicatamente il cancello, giusto quel poco sufficiente a far passare una persona alla volta. «Immagino che voi siate i due schiavi mandati dal caro Urem. Prego, entrate. Anche tu, Bernass, e» aggiunse col tono burbero di prima, «se dovessero azzardarsi a toccare qualcos'altro dagli pure una bella bastonata in testa!»

«Certamente, Signore» acconsentì il gendarme, trattenendo a stento una risata, mentre indirizzava i due verso lo stretto passaggio aperto.

Sorprendentemente, oltre il portone d'ingresso la dimora era l'esatto opposto del giardino: polverosa, disordinata, piena di inutili cianfrusaglie ammucchiate contro le pareti, e gran parte delle stanze − quasi tutte rigorosamente prive di una porta − sembrava fungere da magazzino per strampalati oggetti, macchinari e invenzioni probabilmente non riuscite.

Gli unici oggetti accuratamente spolverati e posizionati erano, appunto, alcuni di quegli strani macchinari e qualche scultura, un paio delle quali sembravano suggerire che fosse il vecchio stesso a realizzarle, poiché erano palesemente incomplete. Tutto questo, però, Mereis riuscì a vederlo solo parzialmente, poiché ogni finestra era ben chiusa e oscurata da pesanti tende e uno sgradevole odore stantio aleggiava fin dall'ingresso.

«Presto, chiudi subito la porta, Bernass: niente luce in casa! Esperimenti con le piante» spiegò sbrigativamente il vecchio Ferem, scortandoli verso una pesante porta di ferro, zigzagando tra le cianfrusaglie a terra, fra le quali Gresvardt per poco non inciampò. Superato il portone cigolante, il quartetto si ritrovò in una sorta di lunga anticamera vuota, alla cui estremità opposta un'altra porta di ferro si apriva su una stanza circolare che si prospettava molto diversa dalle altre: a giudicare dalla posizione, doveva trattarsi della piccola torre che affiancava la dimora.

Quando il vecchio li scortò all'interno e li fece accomodare attorno ad un grosso tavolo, videro che si trattava di una sorta di officina, con una piccola fornace, degli scaffali pieni di oggetti metallici di ogni sorta − armi, chiavistelli, martelli, strumenti vari, pezzi di armature, misteriose componenti per chissà quali macchinari ... − alcuni barili, una massiccia incudine e una gran quantità di fogli e pergamene sparpagliati sul tavolo centrale.

Sbirciando fra questi ultimi, Mereis riuscì a notare due cose: che fra di essi c'erano anche i progetti del "doppio cannocchiale" e che alcuni fogli più vecchi avevano una calligrafia completamente diversa. Poi Ferem Peregrast parlò e non ebbe modo di vedere altro: «Bene. Vediamo un po' come avete conciato il mio binocolo

«Binocolo» ripeté la schiava sottovoce, mentre apriva sul tavolo il cofanetto.

Se la sentì o meno, il vecchio non lo diede a vedere: aprì un fazzoletto di seta scuotendolo in aria e lo utilizzò per afferrare l'oggetto, mentre con la mano libera si risistemava sul naso quel curioso arnese che chiamavano "occhiali" e che a Katils stava guadagnando sempre più popolarità. Per un attimo, sia Mereis che Gresvardt tornarono col pensiero a quella buffa volta in cui ne avevano consegnato uno ad una cliente del Signor Tolban e lei, non appena se li era calati sul naso, aveva praticamente spiccato un balzo, esclamando sconvolta che doveva esserci per forza lo zampino degli dèi e che la magia era finalmente tornata nel mondo dei mortali.

«Davvero molto belle» mormorò tra sé e sé Ferem Peregrast, osservando le tre aggiunte incastonate da Urem Tolban sui due cannocchiali e sul ponte che li univa: due placche di diaspro rosso con sopra incise le rappresentazioni degli antichi Eroi Kaat e Shu e una di agata bianca raffigurante il blasone della famiglia Menradt, sormontato dall'Occhio del dio Mechnin.

«Se non è irrispettoso domandare, Signore» intervenne educatamente Gresvardt, «saremmo curiosi di sapere chi vi ha commissionato questo ... binocolo.» Per tutta risposta, il Signor Peregrast alzò lo sguardo su di lui e inarcò le sopracciglia. «Voi capirete: è alquanto bizzarra la richiesta di incidere entrambi gli Eroi Kaat e Shu, dato che i Katili non amano accomunare e mettere vicine le loro rappresentazioni. Insomma, per via del rapporto di dubbia moralità e decenza che, secondo alcuni racconti e canzoni, pare ci fosse fra di loro.»

«Il vostro padrone non ve l'ha detto?» chiese a sua volta il vecchio, tornando a studiare le minuziose incisioni.

«Ha detto soltanto che si tratta di una persona molto importante e molto riservata.»

«In tal caso, hai la tua risposta: no, non potete saperlo. Saremo soltanto io, il mio vecchio amico e il suo intagliatore a incontrare la persona che ha commissionato questo binocolo, quando glielo consegneremo» rispose l'inventore, mentre sollevava il cuscinetto su cui era stato adagiato il binocolo per scoprire il nascondiglio soffice e sicuro delle lenti e dei prismi che avrebbe dovuto montare nella struttura dorata.

A quelle parole, Mereis sollevò la testa e inarcò le sopracciglia. «Quindi io posso incontrarla? O incontrarlo?»

«Cosa? Ma che vai farneticando?» ribatté il vecchio con quelle maniere burbere e scortesi a cui la schiava, ormai, aveva già fatto l'abitudine.

«Ho tagliato io le pietre e modellato le lenti e i prismi. Devo ammettere che le lenti mi hanno messa a dura prova, era la mia prima volta, dopotutto. Mi ci sono voluti un po' di tentativi, ma alla fine sono venute proprio come era indicato nei progetti che ci avete mandato.»

Lo scetticismo negli occhi dell'inventore non accennò a sparire neanche dopo che ebbe alternato diverse volte lo sguardo tra Mereis e i vetri ricurvi. «Tu? Una schiava intagliatrice?»

«Se non mi credete» replicò facendo spallucce, «potete chiederlo al vostro vecchio amico, no?»

«Bene. In tal caso» disse allora Ferem Peregrast alzandosi per primo dal tavolo, «immagino non ti dispiaccia darmi una mano: dobbiamo incastonare tutti i prismi e le lenti. A quel punto, non dovremo fare altro che provarlo e scopriremo subito se hai fatto bene il tuo lavoro, intagliatrice

«Non ti angustiare» la consolò Bernass, rompendo per la prima volta il silenzio, «fa così con tutti, ha sempre qualcosa da ridire su chiunque e su qualunque cosa.»

«Lo immaginavo» ribatté Mereis con una risata, mentre udivano il vecchio bofonchiare da un'altra stanza: «Ma tu guarda, cosa avrà per la testa quel vecchio rincitrullito? Affidare ad una schiava un lavoro così delicato e importante. Mah!»

Guess who's back! Back again!

Ma salve! Eccomi di ritorno dalla sessione autunnale :). Come ho scritto anche sulla mia pagina facebook, ho corretto e aggiornato tutti i capitoli precedenti, perciò se avevate intenzione di rileggerli per riprendere un po' il filo dopo questa pausa, adesso avete un motivo in più per farlo.

Alla prossima e do il benvenuto a tutti quelli che hanno iniziato a leggere "La Maledizione Di Aktanasìl" durante le settimane di assenza!

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Capitolo 12
*** Capitolo 11: Il canyon di Tincmek XI ***


Capitolo 11: Il canyon di Tincmek XI
 
«Che tu sia maledetta, Mut!» inveì Upahar contro la dèa, quando realizzò di essere stato tratto in inganno dall'ennesimo, luccicante miraggio. «Tu e il tuo cuore infernale! Altro che dèa materna e protettiva!» Per tutta risposta, una folata di vento gli soffiò in faccia una nuvoletta di sabbia, irritandogli ulteriormente gli occhi già bruciati dalla luce intensa del sole allo zenit, e Upahar sferrò un pugno nella sabbia cocente con un ringhio di rabbia.

Fin da piccolo, all'orfanotrofio, gli era sempre stato insegnato che la dèa della fiamma e dei legami, dall'immensa forma draconica, era l'incarnazione della madre perfetta: protettiva e amorevole con i suoi figli, ma spietata e implacabile contro i loro nemici. Come il suo enorme cuore sfavillante nel cielo, portatore di luce, calore e vita, ma anche di afa, incendi e deserti. Tuttavia, come si poteva non nutrire scetticismo verso la sua presunta natura materna, vista la palese casualità con cui venivano distribuiti gli uni e gli altri?

In fondo, cos'avevano potuto fare di così terribile e sacrilego gli abitanti della regione meridionale di Kàlatlan per meritare un territorio così aspro e un calore così spietato?

Upahar scosse il capo stizzito e tentò di rialzarsi. «Basta arrovellarsi la testa su queste scemenze! Non devo sprecare energie!» si disse, mentre alzava di nuovo, cauto, lo sguardo al cielo alla ricerca del suo fidato Hanim. Dovette riabbassarlo quasi subito: erano ore che scandagliava l'azzurro con lo sguardo, e i suoi occhi erano stanchi e ustionati. Con un sospiro tremulo e rassegnato, si risistemò sulla schiena il suo leggero bagaglio e riprese a marciare in direzione nord-est, come gli aveva indicato il suo ruh il giorno precedente, l'ultima volta che si erano visti.

Aveva esaurito le scorte d'acqua solo da poche ore e già aveva la gola riarsa, la lingua impastata, le ginocchia tremanti, la testa pesante e stordita e il cuore gli batteva in petto a un ritmo frenetico e irregolare. Di tanto in tanto, gli sembrava persino di sentire il sangue ribollirgli nelle vene del collo, tanto era intenso il calore, contro il quale il copricapo e la tunica di lana di kabè potevano ben poco, a quell'ora.

«Comincio a capire il perché di quella firma!» borbottò, ricordando il breve documento che gli avevano fatto siglare, poco prima che partisse, nel quale era scritto che avrebbe dovuto assumersi ogni responsabilità per qualunque cosa gli fosse accaduta, compresa l'eventualità della sua morte. Certo, se si fosse trovato in guai grossi avrebbe potuto ritirarsi e mandare Hanim a chiedere aiuto e, inoltre, un paio di falchi dell'Impero sorvolavano regolarmente la sua pista, una o due volte al giorno, per controllare che fosse ancora vivo e in grado di camminare, ma ciò non toglieva che non avrebbe ricevuto alcuna forma di risarcimento in caso di infortuni o di morte.

Questo lo aveva messo bene in chiaro fin da subito l'allampanato e aggraziato Capitano della Guardia Imperiale, Kurajan Wegs, che aveva invitato un'ultima volta gli indecisi e gli insicuri a ritirarsi, dopo aver illustrato loro in cosa consisteva la prova: «Ognuno di voi ha un suo percorso da seguire, ed è contrassegnato da una serie di nastri sparpagliati lungo la via» aveva spiegato. «E poiché a volte può capitare che i vostri percorsi siano paralleli, o che si incrocino, ognuno di voi ha un suo colore personale, ma le estremità di tutti i nastrini sono bianche. Tutto ciò che dovrete fare, con l'aiuto dei vostri volatili, sarà seguire il percorso recuperando ogni singolo nastrino del vostro colore e sostituirli con nastrini dalle estremità nere, che vi verranno consegnati a breve.

«Come vi è già stato spiegato anche al momento dell'iscrizione, dovrete confrontarvi con gli svariati pericoli che la regione ha da offrire: in alcuni tratti troverete un calore intenso, quasi insopportabile, e poca acqua; in altri, invece, potreste ritrovarvi a dover guadare fiumi, o navigare lungo corsi d'acqua; o potrebbero essere messe alla prova le vostre capacità di orientamento all'interno di una foresta; infine, lungo gran parte del percorso, dovrete fare i conti anche col freddo, di notte.

«Inutile aggiungere» aveva detto poi, avviandosi alla conclusione, «che un'arma potrebbe farvi enormemente comodo, sia per procurarvi del cibo, che per difendervi da eventuali predatori. Veniamo dunque alle tre, semplici regole: non potete portare con voi nulla che non sia stato approvato da noi giudici, non dovete assolutamente toccare i nastri che non sono del vostro colore e, infine, è severamente proibito uccidere o arrecare danno agli altri candidati, pena l'esclusione dalla gara e l'arresto immediato.»

Avendo già letto quasi quelle stesse, identiche parole sul documento per l'iscrizione, Upahar per fortuna aveva avuto cura di munirsi di tutto quanto poteva essergli necessario: abiti di lana di kabè, ottimi sia per difendersi dal freddo, che dal caldo; un mantello cerato perfetto per contrastare le tempeste, sia di sabbia che di pioggia; una borsa di cuoio contenente una pagnotta, del formaggio, un po' di pesce essiccato e poche erbe, ma molto potenti, per lenire eventuali dolori alla gamba e, infine, due immancabili bisacce per l'acqua, il suo vecchio coltello pieghevole e un fischietto nuovo di zecca, donatogli da Tampìca, da utilizzare nel caso in cui fosse stato troppo sfinito o disidratato per poter chiamare Hanim con un fischio.

"Tampìca ..." si ritrovò inevitabilmente a pensare, mentre avanzava barcollante, cercando di concentrarsi su qualunque cosa che non fossero la fatica e la sete feroce, che in qualunque momento avrebbero potuto accendere la scintilla della disperazione.

Provò, quindi, ad immaginarsi il suo volto azzurrino sorridente, l'orgoglio nei suoi occhi larghi vedendolo tornare vincitore, un "te l'avevo detto" sussurrato a mezza voce mentre lo abbracciava e che, per la prima volta nella sua vita, non lo offendeva, perché non gli veniva detto con rimprovero o superbia, ma soltanto con allegria e tenerezza. Continuò a rivivere questa scena nella sua mente, ambientandola in luoghi diversi, modificando un po' i gesti e le parole di volta in volta, cercando, insomma, di lasciarsi assorbire completamente dalla gioia che gli trasmetteva.

Le provò tutte, pur di evitare di pensare al dolore che la disidratazione stava alimentando nel suo corpo: ormai, non si trattava più solo di una banale sete, della gola secca e della lingua impastata, ma di una sofferenza costante e persistente. Le labbra e i polpastrelli erano secchi e raggrinziti, gli occhi se li sentiva irritati e infossati, sotto la fronte talmente corrugata da far male, la bocca gli era diventata appiccicosa, la pelle era secca e ormai non sudava neanche più e il cuore gli martellava nelle orecchie con un ritmo frenetico, rendendogli ancora più fastidiose le vertigini. Persino urinare era diventato doloroso e il poco liquido che riusciva a espellere era di un preoccupante colore rossastro.

Perciò, nonostante tutti i suoi sforzi, non riuscì a trattenere un folle grido di furore e frustrazione quando, passato mezzogiorno, la direzione in cui il sole stava calando gli fece capire che, per tutto il primo pomeriggio, le vertigini e la mancanza di punti di riferimento lo avevano mandato completamente fuori pista, portandolo a vagare senza meta verso sud. L'urlo, sebbene catartico, lo privò delle sue ultime energie, prosciugandolo non solo della speranza, ma persino della forza necessaria per disperare.

Si lasciò cadere nella sabbia come un albero divorato dalle fiamme, crollando su se stesso, la base troppo indebolita per sorreggere il suo stesso peso. Non provò neanche a chiamare Hanim o a tirare fuori dalla borsa il fischietto di Tampìca, ormai era chiaro che qualcosa stava facendo tardare il piccolo ruh e Upahar, che aveva una fiducia cieca e incondizionata nel suo compagno di viaggio, confidava che presto sarebbe tornato, portando con sé, carico d'acqua, l'otre che il giovane gli aveva affidato. Per ora, tutto ciò che poteva fare era aspettare e riposare. Sperando di risvegliarsi da quel sonno ...

Cosa che accadde chissà quante ore dopo, quando il sole stava già per tramontare ed era calato a un'altezza sufficiente affinché la sua luce non raggiungesse più il volto del giovane, ostacolata da un qualche tipo di corpo o oggetto. Fu proprio questa piacevole ombra fresca sul volto a richiamarlo dal suo sonno, per cercare di scoprirne la fonte. Gli occhi, sebbene si fossero riposati, erano ancora irritati e le palpebre erano incollate da una forma di congiuntivite che era apparsa poche ore prima, perciò gli ci volle un po' per riuscire ad aprirli. Quando finalmente riuscì a separare le palpebre, scoprì che l'ombra sul suo volto era proiettata da una sagoma cilindrica, tozza e spinosa.

Aguzzando un po' la vista, Upahar la riconobbe immediatamente: «Una giustiziera del deserto!» gridò con voce roca, mentre già cominciava a fare qualche tentativo per rialzarsi.

Non riuscendo a sollevarsi stabilmente sul piede sano e sulla gamba posticcia, si slacciò quest'ultima e gattonò fino alla pianta cactacea col coltello alla mano: la giustiziera del deserto, infatti, offriva dei succulenti frutti zuccherosi di uno strano color magenta, ma per ottenerli bisognava fare molta attenzione ai suoi formidabili aculei che, oltre ad essere molto lunghi, erano a loro volta ricoperti da una serie di sottilissime spine; se si veniva punti, era molto difficile rimuovere l'aculeo e praticamente impossibile riuscirci senza fargli lasciare qualche spina nelle proprie carni, impedendo così la rimarginazione della ferita, che quasi sempre finiva per infettarsi.

Per questo era chiamata giustiziera del deserto: a Nihibuc, quando si sceglieva di rimettere agli dèi la decisione di risparmiare o punire un criminale, questi veniva abbandonato nel deserto per un mese e, se sopravviveva, la sua colpa era da ritenersi espiata; e poiché al disgraziato non veniva concesso nulla, salvo che dei vestiti leggeri, se non erano il caldo e la sete a ucciderlo, molto spesso era un'infezione causata dalle spine della giustiziera.

Perciò, con molta calma Upahar rimosse lentamente uno dei frutti dal suo alveolo, facendo attenzione a non sfiorare neanche un aculeo. Poi, una volta ottenuto il prezioso pomo color magenta, lo sbucciò e lo divorò seduta stante, godendo della sua polpa acquosa che gli diede un po' di sollievo dalla disidratazione. Per evitare un'indigestione, decise di mangiarne solo un altro e di aspettare pazientemente il ritorno di Hanim: tanto, ormai era quasi notte e Upahar non era in grado di orientarsi osservando le stelle.

Avvolto nel mantello cerato, con la testa poggiata sulla borsa, si accoccolò nei pressi del cactus, ma a debita distanza, riaddormentandosi quasi immediatamente. Purtroppo o per fortuna, venne svegliato solo poche ore dopo dal dolce canto di Hanim, che piombò su di lui e subito cominciò a beccargli leggermente la testa. Rasserenato e felice di vederlo, Upahar lo salutò, gli accarezzò debolmente le piume della coda dalla punta a forma di occhio, e gli disse di lasciarlo dormire ancora per qualche ora, ma il ruh non demorse: non appena il ragazzo si accoccolò nuovamente, ricominciò a beccarlo sulla testa stridendo insistentemente.

«Ma cosa vuoi, Hanim? Non vedi che sono stanco?» lo rimproverò il giovane, rialzando la testa; per tutta risposta, il ruh si librò in volo e, con i suoi volteggi, gli fece capire che doveva dirigersi verso est.

«Sì, va bene, però domani, Hanim, adesso non ce la faccio» ripeté Upahar, ma non fece neanche in tempo a rimettere la testa sulla borsa che il suo compagno riprese a beccarlo furiosamente.

«E va bene, va bene, ho capito! Andiamo!» sbottò allora, rialzandosi a fatica. Velocemente, prese un sorso d'acqua dall'otre che, come previsto, Hanim aveva riportato bello pieno, si riallacciò la protesi alla gamba destra, staccò dalla giustiziera del deserto tutti i frutti che aveva da offrire e, stringendosi nel mantello cerato, si preparò ad affrontare il gelo del deserto di notte, reso meno opprimente e spaventoso dalle due grandi e luminose lune bianche.

Essendo ancora un po' provato dalla giornata di stenti, Upahar avrebbe preferito camminare, ma Hanim sembrava avere una strana fretta e nessuna intenzione di aspettarlo: volava basso, ma avanzava a gran velocità e senza mai voltarsi, costringendo il suo compagno a corrergli dietro. Proseguirono così, a passo sostenuto, per tutta la notte, il ruh volteggiando apparentemente senza alcuno sforzo, il ragazzo alternandosi fra la corsa e la camminata veloce, finché le gambe non smisero di rispondere ai suoi ordini e i muscoli delle cosce gli cedettero.

Con la stessa urgenza, ma stavolta anche con più clemenza, Hanim planò dolcemente accanto a lui, dandogli qualche lento colpetto col becco, chissà se per sollecitarlo o incoraggiarlo. O magari erano entrambe le cose. Quando Upahar, con mano tremante, gli fece cenno di lasciarlo riposare un po', il ruh non insistette, ma gli saltò su una spalla, gli diede sue colpetti su una guancia e poi guardò dritto avanti.

Il ragazzo fece come ordinato e, aguzzando la vista, scorse all'orizzonte un paesaggio insolito: dune di sabbia sempre più piccole e, al di là di queste, una serie di montagne dalla strana conformazione, come una catena di barattoli e scatole di legno dai contorni irregolari.

«Ah! Quello dev'essere il canyon di Re Tincmek» sussurrò il giovane tra sé e sé, senza fiato. «Lo sai perché si chiama così, Hanim?» aggiunse poi, rivolgendosi al suo compagno. Poco importava che non potesse capire una parola del suo discorso: Upahar era sempre stato un gran chiacchierone e, quando non aveva nessuno con cui interloquire, parlava agli animali, agli oggetti, o con se stesso.

«Dico, sai perché porta il nome del nostro re? Fino all'estate dell'anno passato era un altopiano. Proprio così: un enorme altopiano roccioso nel bel mezzo del deserto! Qualcuno sosteneva anche che, in realtà, fosse un antico palazzo dell'Età degli Eroi andato perduto, sepolto da una terribile tempesta di sabbia durata cinquecento anni. Che scemenze ...

«Ebbene, il nostro Re Tincmek, undicesimo del suo nome, solo pochi giorni prima che diventasse un canyon, aveva paragonato la regalità, la solidità e la forza della sua dinastia a quelle dell'altopiano. Poi, neanche una settimana dopo ... Trak! Terremoto! E giù l'altopiano che ti diventa canyon! Ah, ah, ah! Chissà, forse almeno il dio Fezàr esiste, dopotutto i segni della sua mano plasmatrice e della sua ironia sono ovunque.»

Non appena le sue forze e il suo morale si furono risollevati a sufficienza, Upahar mangiò e bevve un poco, poi si rimise in piedi e proseguì in direzione del canyon. Lo aveva visto già una volta, quando era ancora un altopiano: a Nihibuc era considerato un luogo sacro e tutti, almeno una volta nella vita, dovevano compiere un pellegrinaggio presso di esso, se volevano continuare ad essere ben visti in città.

Lui e Tampìca, insieme ad altri orfani, ci erano andati circa cinque anni prima, quando una delle bambinaie aveva deciso di partire con i pellegrini e di portare con sé i bambini alla soglia della fanciullezza che, chissà, forse in futuro non avrebbero potuto permettersi il viaggio, visto il misero destino che attendeva la maggior parte dei trovatelli non adottati.

Allora, gli era sembrato davvero enorme, persino spaventoso con la sua mole, ma ora che si erano formati al suo interno degli stretti sentieri labirintici lo inquietava ancora di più, perché Hanim stava puntando proprio verso l'imboccatura di uno di essi. Non che avesse paura di perdersi: come si è detto, nutriva massima fiducia nel suo ruh. Ciò che lo spaventava era la quantità di bestie, magari anche velenose e aggressive, che probabilmente avevano trovato rifugio in mezzo a quelle rocce e che lui, al buio, avrebbe potuto calpestare o infastidire accidentalmente.

Ciononostante, non tentennò a lungo: raccolse subito a sé tutto il suo coraggio e imboccò l'angusto passaggio che Hanim gli aveva indicato. Le fredde pareti rocciose erano abbastanza elevate da oscurare completamente la luce delle lune e solo la debole fiammella delle stelle illuminava a stento la via. La sola cosa che almeno un po' riusciva a rincuorare il giovane, costretto ormai a camminare di profilo, era l'umidità che imperlava di minuscole gocciole la base del canyon, suggerendo la vicina presenza di qualche bacino acquoso.

Come previsto, dopo essersi inoltrati forse neanche di cinque chilometri, serpeggiando fra cunicoli talmente stretti da far salire il panico al cuore, e altri abbastanza ampi da riprendere un po' di fiato, il gorgoglio dell'acqua li guidò alla meta: improvvisamente, senza alcuna avvisaglia, si ritrovarono in un'ampia spianata, circondati dalle imponenti pareti rocciose che incorniciavano il cielo notturno in alto e un'ampia fossa di forma circolare in basso. Una curiosa conformazione che, rifletté il giovane, per Hanim che poteva vederla dall'alto doveva avere una forma simile a quella di un occhio, con iride e pupilla.

Con un misto di timore e curiosità, Upahar si diresse verso l'orlo dell'enorme fossa di cui, per quanto vi si avvicinasse, non riusciva mai a scorgere il fondo. Finalmente, quando i suoi occhi poterono affacciarsi direttamente sullo strapiombo, si ritrovò ad osservare il cielo notturno diversi metri più in basso.

«È come un enorme pozzo» sussurrò, sorridendo per la bellezza dello spettacolo naturale, talmente perfetto geometricamente che, se non fosse stato per le dimensioni Eroiche, lo avrebbe creduto un prodotto dell'ingegno umano.

Il suo sorriso, però, così come era venuto scomparve, non appena udì un rumore, come una sorta di gemito, provenire da laggiù. Col cuore in gola, smise di respirare e tese l'orecchio che, poco dopo, captò di nuovo lo stesso suono: un gemito esanime di dolore, quasi una sorta di richiamo, di richiesta di aiuto che la spossatezza aveva reso flebile e incomprensibile. Costernato, spostò lo sguardo su Hanim, che a sua volta stava guardando un punto ben preciso, giù nello strapiombo, a pochi passi dal suo compagno.

Seguendo la direzione del suo sguardo, si soffermò su uno dei piccoli arbusti che crescevano lungo le pareti umidicce: a differenza degli altri, perfettamente immobili, questo oscillava leggermente e Upahar, aguzzando la vista, riuscì a scorgere una sagoma scura abbarbicata sul tronchetto; quando questa si mosse per rinsaldare la presa, il ragazzo scorse, illuminate dalla luce lunare, delle lunghe dita azzurrognole.

«Oh, era per questo che hai insistito tanto per farmi partire subito?» constatò il giovane, tornando a guardare il ruh. Per un momento, si chiese se aiutare il pover'uomo intrappolato, quasi certamente un altro falconiere, potesse pregiudicare la sua partecipazione alla gara, ma gli bastò guardare negli occhi Hanim per togliersi dalla testa quel pensiero: era la cosa giusta fare, persino il suo ruh lo sapeva!

«Ehi! Ehi, là sotto!» chiamò a gran voce, portandosi le mani ai lati della bocca. «Mi sentite? Signore, mi sentite?!»

Una testa azzurrina si alzò lentamente, ma lo shuriel ci mise un po', prima di decidersi a rispondere. «Sì. Sì, ti sento» confermò con voce flebile, sollevando una mano verso di lui. «Aiutami, per favore. Le rocce sono troppo scivolose, non riesco a scalarle, credo di avere anche una gamba rotta. E sott'acqua non c'è via d'uscita.»

«Ho capito ... Ma come faccio a venire a prendervi, se le pareti non si possono scalare?»

«Non hai una corda?»

«No ...» ammise Upahar, mortificato. «Non ci ho pensato, purtroppo ...»

«Oh, allora è davvero così che deve finire?» mormorò lo shuriel, o almeno questo fu ciò che Upahar credé di sentire e quelle parole gli fecero venire la pelle d'oca e perdere un battito.

«Non dite così, non scoraggiatevi: resistete, troverò un modo per tirarvi fuori di lì!»

«E quale? Come, senza una corda? Dalla voce, mi sembri molto giovane: non rischiare inutilmente la tua vita per un povero vecchio. Se non c'è modo di calarsi, torna alla gara, non crucciarti per me. Va bene così, davvero ...»

Upahar non gli diede ascolto: valutò, invece, la distanza che lo separava dal vecchio shuriel, poi si guardò attorno e trovò quello che cercava. «Resistete ancora un po', sto venendo a prendervi!»

«Non hai ascoltato una parola di quello che ti ho detto?» ribatté il vecchio, in parte scocciato, in parte enormemente grato.

Temendo che ormai gli restassero poche forze, vista la parlata strascicata e fiacca, Upahar non perse tempo a rispondere: si sfilò la borsa, sganciò la fibbia, passò la fascia di cuoio attorno al tronco dell'alberello più vicino allo strapiombo − non che la scelta fosse molto vasta − e la assicurò alla base; poi fu la volta della cintura dei pantaloni, che unì alla fascia col nodo più solido che i marinari del porto di Nihibuc gli avessero insegnato; dopo toccò ai suoi abiti e infine, poiché il mantello cerato per poco non era sufficiente, a malincuore lo tagliò a metà e la sua corda improvvisata fu pronta.

Rabbrividendo, si calò mezzo nudo lungo le pareti scivolose. La deformazione alla mano destra non gli causò molti problemi, bastava avvolgersi la fune di vestiti attorno al polso e calarsi lentamente, allentando la stretta di tanto in tanto. Quella alla gamba, invece, fu ben più problematica, ma per fortuna le sue cosce erano abbastanza forti da reggere il suo peso, strette attorno alla corda. Il difficile sarebbe stato risalire.

Giunto all'arbusto, si riposò sul tronco per qualche minuto, mentre osservava il volto dello shuriel che, nonostante la vecchiaia dichiarata, era ancora piuttosto liscio e giovane di pelle. Lo sguardo, invece, l'età la esprimeva tutta, ma forse la spossatezza incrementava molto questa impressione.

«Mi chiamo Veshàs» fu, infatti, tutto ciò che riuscì a dire, mentre il ragazzo terrestre riposava accanto a lui.

«Io sono Upahar» rispose lui; lo shuriel annuì e sorrise soltanto. «Forza, io sono già pronto a risalire» dichiarò poi, aiutandolo a issarsi sul tronco e aggrapparsi a lui. La gamba rotta e le sue membra gelide attorno alle spalle nude di Upahar non resero facile questo semplice compito che richiese alcuni minuti.

Quando finalmente sentì che il corpo del vecchio era stabile contro il suo, il ragazzo di Nihibuc riprese lentamente a salire e, come previsto, fu molto più complicato che scendere, sia per le sue deformità, sia per il peso dello shuriel. Ciononostante, strinse i denti e proseguì caparbiamente, dando fondo a ogni singolo briciolo di energia che gli era rimasto in corpo. Tuttavia, giunto a metà percorso, la fatica aveva ormai reso meno efficienti i suoi movimenti, così, senza accorgersene, si avvolse male la fune umida attorno al polso: quando fece per issarsi, questo si sfilò e improvvisamente si sentì precipitare.

Grazie ai suoi riflessi pronti, riuscì a riprendersi dopo neanche mezzo metro di caduta, afferrando saldamente la corda con tutte le sue forze tra le cosce e con la mano buona, ustionandosi la pelle. Passato lo spavento, però, si accorse subito di essere molto più leggero. Troppo: non sentiva più sulle sue spalle il peso di Veshàs!

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