One week di Shige (/viewuser.php?uid=110625)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primi passi ***
Capitolo 2: *** Il saggio, il gigante e l'asino ***
Capitolo 3: *** Sbagli ***
Capitolo 4: *** Il Re senza corona ***
Capitolo 5: *** Ti regalo un sogno ***
Capitolo 6: *** Attraverso i suoi occhi ***
Capitolo 7: *** Inferno ***
Capitolo 1 *** Primi passi ***
Childhood
Primi
passi
Le strade che un uomo percorre
in vita
sono molte. Difficile anche solo immaginarne il numero. Sono tortuose,
in
salita, scivolose, si inerpicano su pendii ripidi e senza appigli,
attraversano
boschi senza sentieri o deserti aridi e senza confini.
Trascinerà i piedi su
selciati di pietre aguzze che lacerano la pelle; e il sangue
macchierà il suo
cammino nel lungo viaggio che lo riporterà verso casa.
Un uomo che di strade ne ha
percorse poche
conta i primi passi di quel figlio che di strade ne
percorrerà molte più delle
sue. Erwin avanza incespicando i piedini, gli occhi azzurri puntati sul
genitore che lo attende a braccia aperte dall’altro lato del tappeto.
Un passo, poi un altro, il
bambino
barcolla, le mani sporte in avanti che cercano di afferrare quelle del
padre e
l’espressione
decisa di chi ha scelto di non cadere mai più.
‹‹Ancora un piccolo passo›› lo
incoraggia. Un verso incomprensibile uscito dalla sua bocca
impiastricciata
intima al genitore di tacere. Ondeggia scoordinato, buffo come un
papero che
attraversa la strada, ma avanza a piccoli passi sempre più
svelti. La felicità
che illumina il suo viso paffuto e sporco di marmellata e briciole
quando
sfiora le dita del padre e finalmente si lascia cadere.
L’uomo l’afferra e lo solleva per aria,
stringendo
quel corpicino acerbo in cui risiede tanta forza e determinazione.
Guarda lo
specchio dei suoi occhi e ascolta gli strilli entusiasti di chi ce l’ha fatta e ha
raggiunto il suo scopo.
Ci sono strade che un uomo
percorre e non
saprà mai se ne vedrà la fine, ma non
è quello il caso. Erwin ha fatto i suoi
primi passi su un terreno circondato da mura che gli impediranno di
proseguire
il suo viaggio. L’uomo osserva le sue manine agitarsi
per
aria e afferrare i granelli di polvere che brillano come stelle alla
luce del
sole. Sogna qualcosa che non potrà stringere né
catturare, mentre l’uomo appoggia
al petto la sola cosa certa che la vita gli ha donato.
‹‹Il mondo è un posto
pericoloso e bugiardo›› sussurra al
suo orecchio respirando il profumo di biscotti tra i suoi capelli radi.
Mentre
parla, Erwin gioca con il bavero della sua camicia intrappolando tra le
piccole
dita i bottoni che ha deciso di staccare. Il padre gliel’afferra
dolcemente, portandosela alle labbra lasciandogli un piccolo bacio sul
palmo.
Tutta la vita. Per tutta la
vita vorrebbe
ripetere quel gesto, stringerselo più forte al petto e
proteggerlo, sempre, da
un mondo che non merita di prendersi anche la vita di suo figlio.
‹‹Ma è anche pieno di
meraviglie e di posti
incredibili da esplorare. Ti troverai sempre a dover scegliere tra due
cammini,
tra due donne, tra due destini e non saprai mai quale sarà
la scelta giusta. Ci
sarà sempre qualcuno pronto a dirti che avrai preso il
sentiero sbagliato, a
darti del pazzo ma tu continua a camminare. Avanza contro chi questo
mondo non
lo merita e vuole costringerti dentro ad una gabbia. Tu non sarai mai
lo
schiavo di nessuno, Erwin. Sarai solo, ma non schiavo e soprattutto, un
giorno,
tu diventerai un uomo››
Lo guarda mentre dorme contro
la sua
spalla.
È giusto che anche
i piccoli uomini
riposino.
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Capitolo 2 *** Il saggio, il gigante e l'asino ***
Happiness
Il
saggio,
il
gigante e l’asino
‹‹Sei un
tipo
strano››
L’aveva adocchiato
parecchi giorni prima, ma aveva aspettato solo quel pomeriggio per
renderlo
partecipe dei suoi pensieri. L’aveva fatto senza badare
all’etichetta che
presumeva ci si presentasse prima di intavolare discorsi, o come in
quel caso,
fare affermazioni poco educate.
Ma Mike Zacharius
aveva sempre considerato l’etichetta una stravaganza per
nobili, un modo per
mascherare un vaffanculo in maniera
garbata.
Sua madre lavorava come
domestica nella casa di un ricco aristocratico, per cui, non certo per
sua
scelta, era cresciuto in quegli ambienti edulcorati di cazzate e
tappezzati di
ipocrisia.
Perciò, quando si
era
ritrovato davanti quel ragazzino ben educato e rigido come il manico di
una
scopa, aveva sentito la puzza di nobile da prima che mettesse piede
nella
camerata; e lui, che aveva naso per certe cose, avrebbe scommesso la
sua stessa
madre che quel ragazzino – la cui divisa, per una qualche
ragione a lui
sconosciuta, restava immacolata anche dopo un’intesa sessione
di lotta libera –
era sicuramente il figlio di chissà quale panciuto riccone
che l’aveva spinto ad
arruolarsi per fare carriera nella Gendarmeria.
Poi era venuto fuori
che Erwin Smith era il figlio di un professore, per giunta morto, e
Mike non se
l’era proprio sentita di ammettere il suo errore di
valutazione. Dopotutto, il
suo naso non sbagliava mai perciò era sicuro che in un
qualche ramo lontano
della sua famiglia ci fosse, per ovvie ragioni, un nobile.
‹‹Ti
ringrazio››
Erwin aveva chiuso il libro di storia che teneva sulla ginocchia e
l’aveva
guardato con quell’aria saggia che si addiceva ad un vecchio
di ottant’anni e
non ad un ragazzino di dodici. Mike aveva sollevato il sopracciglio e
dall’alto
del suo metro e settanta tre aveva pensato che fosse matto o che avesse
preso
una bella botta cadendo da cavallo.
‹‹Non
è strano… è
fatto così e basta››
l’altro, che aveva fornito una spiegazione scientifica
senza che nessuno gli avesse chiesto niente, Mike l’aveva
soprannominato l’amico scemo di
quello strano; perché
Nile Dok sembrava si fosse arruolato più per fare un favore
all’amico che per
compiacere la famiglia. Ad uno così non si sarebbe sognato
di affidare le cure
di sua sorella, figuriamoci dargli una qualsivoglia carica militare.
Mike aveva inarcato
anche l’altro sopracciglio e se ne avesse avuto un terzo,
probabilmente
avrebbe sollevato
anche quello. Ma non possedendo anomalie fisiche, né tanto
meno le discutibili
sopracciglia di Erwin, aveva sbuffato archiviando la questione con un
semplice sono circondato da matti.
Si era fatto spazio
tra i due, ignorando le proteste di Nile e l’insofferenza di
Erwin nello
scansarsi di lato; fece loro la cortesia di appoggiandosi sui gomiti
per non
farli sentire bassi anche da seduti e prese a guardarli da sotto la
frangetta
che gli copriva gli occhi.
Erwin era tornato a
leggere il libro e Nile sgranocchiava un filo d’erba meglio
di quanto avrebbe
fatto un asino.
‹‹Guarda
che il test
ce lo fanno il mese prossimo››
‹‹Lo
so›› Erwin non
si era nemmeno voltato e Mike cominciava a chiedersi il
perché non si stesse
facendo gli affari suoi da tutt’altra parte.
La verità
– quella
che non avrebbe confessato a nessuno – era che si sentiva
terribilmente solo. A
mensa, a lezione, durante gli allenamenti non c’era nessuno
che gli rivolgesse
la parola senza chiamarlo Gigante.
Se non fosse stato
che quelle creature minacciavano ogni giorno di entrare nelle mura,
Mike si sarebbe
sentito orgoglioso di quell’appellativo. Ma aveva dodici
anni, era alto quanto
un adulto e i Giganti erano mostri spaventosi che realmente vivevano
oltre le
mura. Perciò, nonostante al test di logica avesse preso il
punteggio più basso,
nella sua testa si palesava chiara il principio logico per cui
Se
giganti sono mostri e io sono un gigante, allora sono un mostro anche
io.
Tutto sommato, si
considerava un tipo tosto a cui non importava un fico secco delle
opinioni
della gente, tanto meno dei suoi coetanei il cui livello di
stupidità scivolava
al di sotto delle suole degli stivali, ma l’idea di essere
accostato ad un
gigante e di essere visto come un mostro non gli andava proprio a genio.
Parafrasando i suoi
pensieri: la cosa lo faceva decisamente incazzare.
Perciò, quando
aveva
notato che né Strano né
Stupido erano desiderosi di morire
giovani per sua mano tanto quanto gli altri, aveva esordito con quel
approccio
infelice.
‹‹Ma tu
non ridi
mai?›› Erwin aveva alzato la testa e si era
voltato a guardarlo con l’aria di
chi non era sicuro di aver sentito bene. Nile, invece, aveva avuto la
compiacenza di smetterla di ruminare.
‹‹Come
scusa?››
‹‹Non ti
scomponi
mai. Voglio dire… ma una risata non te la fai
mai?››
‹‹E per
cosa dovrei
ridere?››
‹‹Che ne
so… per una
battuta, un aneddoto, per due che si picchiano››
‹‹Tu
ridi quando la
gente si picchia?››
‹‹No…
cioè… sì…
cioè…
Oh lasciamo perdere. Ma è sempre
così?›› aveva chiesto rivolgendosi a
Nile che
nel frattempo aveva pensato che infilarsi tutto il mignolo su per il
naso fosse
una buona idea. Mike l’aveva guardato disgustato ed era
tornato ad osservare
Erwin che non aveva ripreso a leggere.
Aveva gli occhi
puntati al centro del campo di addestramento, dove due loro coetanei si
stavano
sfidando in un combattimento corpo a corpo. Il primo aveva sferrato un
gancio
destro che il secondo aveva schivato prontamente, facendogli lo
sgambetto e
rovesciandolo a terra.
Mike era scoppiato in
una fragorosa risata.
Erwin era rimasto in
silenzio.
Nile stava
costringendo una lumaca ad arrampicarsi su una foglia.
‹‹Così
è questo che
ti fa ridere?››
Mike era sicuro,
osservando lo sguardo impassibile che gli aveva rivolto, di non aver
mai visto
un ragazzino più triste di Erwin Smith. Era poi tornato a
guardare quei due
imbecilli che se le davano di santa ragione.
‹‹Quando
rido mi
ricordo che non sono ancora morto. Che i titani ci hanno sottratto la
terra, ma
non la nostra umanità. Che siamo ancora liberi di ridere, di
fare stronzate, di
andarci a bere una birra, magari un giorno capiterà di
innamorarci e chi lo sa,
avremo forse la fortuna di fare una famiglia. Rido perché un
giorno non mi sarà
più permesso perché vedrò cose
così terribili che non ne sarò più
capace. Ma
adesso siamo solo reclute… abbiamo ancora tre anni di
normalità, perciò sarebbe
stupido non approfittarne, non trovi?››
‹‹Accadono
cose
terribili anche adesso. E ne sono accadute anche prima, rendendomi
ciò che
sono. Non importa se abbiamo ancora tre anni davanti, o se
passerò il resto
della mia vita al sicuro nel Corpo di Gendarmeria; ho sempre saputo di
non
avere tempo per queste cose. Forse è come dici tu: sono un
ragazzino strano che
dice cose strane che gli altri fraintendono e non capiscono. Non
nascondo che
sono diverso perché le cose terribili di cui parli io le ho
viste prima del
tempo e forse, come dici tu, ho dimenticato come si ride. Ma non penso
sia
necessario… Il mondo non cesserà di essere
crudele solo perché mi faccio una
bella risata.››
‹‹Non ho
mai detto
che smetterà di esserlo. Quello che non deve scomparire
è la tua umanità. Se
smetti di essere, di vivere, di comportarti da essere umano, allora
cosa sei?
Per cosa combatti? Se vivi di rinunce che cosa ti
resta?››
‹‹Un
sogno…mi resta
solo un sogno e per quello rinuncio a tutto ciò che mi
impedisce di
raggiungerlo. Ho perso mio padre per quel sogno e non sono
più disposto a
perdere nient’altro, perciò faccio a meno di
circondarmi di cose che potrei
perdere››
‹‹Il mio
vecchio
diceva sempre che per raggiungere uno scopo ogni tanto fa bene voltarsi
e
guardare qualcos’altro. Non ho mai capito veramente cosa
intendesse, ma forse
il succo era che ogni tanto bisogna dimenticarsi della meta che
dobbiamo
raggiungere. E comunque, non essere così arrogante da
pensare di essere l’unico
a cui questo mondo ha strappato qualcosa, Erwin. Non sei il solo orfano
che
bazzica in caserma. Alcuni di quelli che giudichi diversi da te, forse
nemmeno
l’hanno conosciuto un padre e forse non hanno avuto nemmeno
la fortuna di
ricevere un sogno come eredità. La verità
è che troppi di noi non hanno niente.
Eppure, in un modo che non so spiegarmi trovano il modo di andare
avanti
comunque, e quel poco di buono che il mondo gli offre non se lo
lasciano
sfuggire. Nemmeno tu hai rinunciato a tutto o non ti troveresti questo
asino
come amico››
Nile Dok ronfava
rumorosamente steso sull’erba e con una coccinella sul naso.
Lo sguardo di
Erwin si era addolcito e Mike aveva pensato che forse un po’
di tristezza era
riuscito a lavargliela via.
‹‹Tuo
padre non ha
mai detto quella frase, vero?›› gli aveva chiesto
gentilmente.
‹‹Non so
nemmeno che
faccia abbia mio padre, ma mi piace pensare che fosse un tipo da frasi
del
genere››
Si erano guardati,
forse per pochi secondi, ma era bastato quello scambio di sguardi a far
scattare qualcosa. Erwin e Mike erano scoppiati in una risata
liberatoria che
aveva destato bruscamente Nile dal dolce torpore in cui era caduto. Li
aveva
guardati con la fervida intenzione di dirgliene quattro ma si era
arrestato
quando aveva visto Erwin piegato in due contro le ginocchia.
Si chiese per un
istante se non fosse morto o se non stesse sognando perché
mai avrebbe pensato
che sarebbe vissuto abbastanza da vederlo con le lacrime agli occhi.
Aveva
sbattuto più volte le palpebre, incredulo a quanto stava
accadendo e si era
anche piuttosto risentito del fatto che i due avessero fatto comunella
senza
coinvolgerlo.
Li aveva guardati e
inspiegabilmente si era messo a ridere insieme a loro. Di cosa
ridessero non lo
seppero mai con esattezza e a chi li osservava dall’altro
lato del campo veniva
spontaneo chiedersi se non fossero completamente impazziti.
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Capitolo 3 *** Sbagli ***
Canon
divergence
Sbagli
Era stato così
improvviso il modo
in cui era successo che Marie non aveva avuto il tempo di chiedersi se
stava
accadendo per davvero.
E quando era successo, era stato
troppo tardi per tirarsi indietro, troppo tardi per rendersi conto che
sposare
Erwin Smith era stato un grosso, madornale errore.
Era accaduto durante la stagione
che meno si addiceva alle proposte di matrimonio e solo
perché l’inverno era il
solo periodo dell’anno in cui la Legione poteva esimersi dal
varcare i
cancelli.
Ma era arrivata e Marie aveva
accettato contro ogni tentativo dei suoi genitori di farle cambiare
idea; quando Erwin le aveva alzato il velo e l’aveva guardata
come se al mondo non
esistesse altro che lei, aveva sorriso e represso il desiderio di
rinfacciare alla sua famiglia
quanto si sbagliassero.
Invece, a sbagliarsi, era stata
solo lei.
Divennero molto presto un susseguirsi di giorni e
stagioni sempre uguali; una routine quotidiana noiosamente ripetitiva,
ma Marie
non avrebbe mai ammesso che la notte preferiva dormire sul divano
piuttosto che
in un letto tristemente vuoto. Aveva iniziato ad evitare quella stanza
come la
peste, avvertendo un senso di nausea che le impediva di aprire la
porta. Aveva
creduto, con un po’ di speranza, di aspettare un bambino, poi
la verità era
sopraggiunta come uno schiaffo improvviso: non era incinta e odiava
quel marito
che l’aveva incastrata in quella vita che non voleva
più.
‹‹Avrei voluto che avessi di
più››
‹‹Avrei voluto non
sposarti››
Marie l’aveva guardato in quegli
stessi occhi che in un giorno ormai lontano l’avevano
catturata, annebbiata e
infine conquistata. Ed era stata cieca, forse stupida, a non accorgersi
delle
menzogne che albergavano in quelle iridi azzurre e che avevano sempre
guardato
oltre le sue spalle. C’era qualcosa da cui Erwin non riusciva
a distogliere lo
sguardo e Marie si era trovata a rimpiangere che non si trattasse di
un’altra
donna; perché era sicuramente più facile
combattere contro una rivale in amore
che contro un’ideale.
‹‹Hai ragione››
La stoccata finale aveva fatto
più male della premessa con cui aveva aperto quel discorso e
continuava a
bruciare anche dopo che se ne era andato via.
Marie aveva seguito le sue spalle
fino oltre al muretto, poi aveva tirato le tende e si era voltata.
C’era stato
sicuramente un tempo in cui Erwin aveva creduto che sposarla
fosse la
cosa giusta e c’era stato un tempo in cui, probabilmente, ci
aveva creduto anche
lei.
Ed era triste ammettere che, forse,
la sola cosa che li aveva accomunati era proprio quella consapevolezza
di
essersi sbagliati entrambi.
Angolo dell’autrice
Non ho scritto niente fino ad
adesso, ma lo faccio ora. Questa flash nasce sul flixbus mentre mi
annoiavo a
morte, perciò prendetela per quella che è. Non so
nemmeno se rientri in una
canon divergence, ma vabbé… mi frullava questa
idea in testa già da un po’.
Ringrazio chi ha letto fin qui e
chi continua a seguirmi. Spero di farcela, ma ho tante ore sul treno da
spendere, perciò potrei trovare il tempo di finire questo
percorso. E spero
tanto di farcela e stare nei tempi.
Ringrazio Auriga e Ellery per
essere sempre pronte a massacrarmi e FoolthatIam per la splendida
recensione a
cui risponderò in tempi umani.
(si
spera)
Un bacio e al prossimo prompt!
Shige
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Capitolo 4 *** Il Re senza corona ***
King
Attenzione
Spoiler! Cap 69
Il
Re senza corona
Stava
in piedi cercando inutilmente di mantenere un’aria composta e
regale ma le mani
che teneva giunte all’altezza del ventre non smettevano di
tremare. Si sentiva
una sciocca; una stupida ragazzina in un abito stretto e troppo scomodo.
Non
era fatta per quella vita e non lo sarebbe mai stata. Inadeguata, come
sempre,
ad indossare panni mai completamente suoi.
‹‹Cosa
accadrà ora?›› chiese con un sussurro
all’uomo che le guardava le spalle.
‹‹Governerete
queste mura›› rispose con voce profonda.
Historia
annuì, gli occhi adombrati da un velo di tristezza. Una
risposta incisiva che
non le lasciava altra via di scampo.
Era
davvero pronta per diventare Regina? Era degna di portare il nome dei
Reiss e indossare
la corona sottratta ad un falso Re?
Le
sue mani non erano certo il luogo più sicuro in cui andare a
cercare la
salvezza dell’umanità; eppure si era dimostrata
coraggiosa, forse avventata, ma
cosa più importante Historia Reiss aveva un cuore nobile e
questo sembrava
bastasse per indossare i panni di una Regina. Non a lei,
però, che non si era
sentita mai abbastanza degna, mai abbastanza e basta.
Era
stato facile, anche troppo, mostrarsi al mondo e reclamare un titolo
che le
spettava di diritto. Non altrettanto, invece, sedersi sul trono e
mantenere
fede alla promessa fatta.
‹‹E
se non ne fossi capace?›› sorrise appena
guardando oltre la vetrata che dava
sui campi. Si trovò a pensare che tutto quello spazio vuoto
fosse un enorme
spreco di terra: non era coltivato, né ospitava villaggi, ma
solo le magioni di
nobili aristocratici che ora tremavano all’idea di perdere il
proprio
prestigio.
Un
titolo valeva così tanto? Historia non sapeva come
rispondersi. Da un giorno
all’altro aveva dismesso la divisa della Legione e indossato
una corona che le
provocava soltanto un insopportabile prurito alla testa.
Un
prurito che accentuava solo quando Erwin Smith puntava gli occhi su di
lei.
Il
Comandante stava ritto in mezzo alla stanza, indossando
l’alta uniforme che
riservava solo per occasioni importanti o, come in quel caso, quando
veniva
ricevuto da Sua Maestà. Dal giorno della sua incoronazione,
era raro vedere Erwin
Smith aggirarsi nei corridoi del palazzo. Eppure ora stava
lì perché a deciderlo
era stata lei: lo considerava ancora il suo Comandante, dopotutto, e
aveva
ancora bisogno del suo aiuto.
Erwin
Smith era un uomo instancabile, abbastanza folle da proseguire la sua
battaglia
con un braccio amputato e rischiare la pena capitale per una scommessa
contro
il caso; di certo era un rivoluzionario ambizioso che a tratti poteva
far paura
ma Historia non riusciva a temere quell’uomo stranamente
taciturno. Ne ammirava
la mente lungimirante, l’astuzia con cui tesseva i suoi
inganni e la tristezza
che adombrava quello sguardo. Perché Erwin Smith sembrava
aver perso molto più
che un semplice un braccio: per ogni sua scelta, ogni sacrificio, ogni
goccia
di sangue versato, egli aveva assistito inerme che la sua anima venisse
fatta a
brandelli e divorata da un buco nero infernale che si apriva ai suoi
piedi.
Eppure sembrava non curarsene affatto, come se già avesse
accettato
quell’ignobile destino.
Era
fatto così, il Comandante Smith, quando si trattava di
prendere una decisione:
qualcuno doveva caricarsi sulle spalle il peso delle conseguenze ed
egli
sembrava disposto a farlo. Ognuno aveva una parte da recitare e poco
importava
se ci si sentisse inadeguati o incapaci di interpretare quel ruolo.
Qualcuno
doveva farlo e come a lui era toccato di portare avanti quella
rivoluzione, a
lei spettava di ripristinare un clima di fiducia e spezzare le catene
che sottomettevano
i disgraziati figli di nessuno.
Ad
Erwin Smith non importava se lei sarebbe stata una sovrana migliore del
precedente, ma solo che ci fosse una Reiss su quel trono e non un
usurpatore.
Quindi era stato solo per un fortuito caso se le era toccata quella
sorte,
perché, se Frieda fosse stata viva, la ruota del destino
avrebbe girato
diversamente.
Invece
la sua famiglia era stata spazzata via insieme a tutti i suoi oscuri
segreti e
al sorriso di sua sorella. L’ultimo, Rod Reiss,
l’aveva ucciso lei: la figlia
bastarda nata dal ventre di una contadina.
Di
fatto, non aveva nulla di speciale che la rendesse un sovrano degno di
quel
titolo. Soltanto la coincidenza di portare un cognome che per anni
aveva temuto
di pronunciare e che Erwin Smith aveva riesumato come un cadavere ormai
in
decomposizione.
Perché
per Historia il titolo di Re era morto insieme ai Reiss quella notte di
cinque
anni prima; per quanto la corona le calzasse a pennello, quella terra non aveva bisogno di essere guidata
né da un
Re, né da una Regina, né tanto meno da lei.
Serrò
i pugni, voltandosi di scatto.
Poche
cose sapevano cogliere alla sprovvista un uomo come Erwin Smith, e
ancora meno
quelle capaci di sorprenderlo. Davanti a lui non stava più
una Regina, ma una
bambina fragile e spaventata che si era gettata di slancio contro il
suo petto,
aggrappandosi alla sua divisa e bagnandola di lacrime.
Erwin
si irrigidì appena, incapace di fare alcun ché
per calmare quel fragile
esserino tutto tremante. Historia si era abbandonata ad un gesto folle,
dettato
dalla stupida e infantile paura di essere vista come uno sbaglio.
Come ogni volta che
gli
occhi di sua madre incrociavano i suoi…
Historia
piangeva e non aveva vergogna di farlo, cacciando in un angolo
l’aria composta
che si addiceva ad una regina. In quel momento, non voleva possedere
alcun
titolo, né una corona da indossare, ma solo sentire la mano
di Erwin Smith
posarsi delicatamente sopra la sua testa.
Smise
di singhiozzare quando le sue dita scivolarono lungo la chioma bionda,
scompigliandola appena, in un gesto un po’ impacciato e
disordinato. Restarono
a lungo in silenzio: Historia avvertiva soltanto il lieve sospirare del
Comandante mentre la mano scorreva leggera sulla nuca.
‹‹Una
Regina che ha avuto l’ardire di colpire il Capitano Levi non
dovrebbe piangere››
disse ammorbidendo la voce. Il volto arrossato di Historia emerse dalla
camicia, perdendosi nelle iridi profonde del Comandante Smith. Era solo
una
stupida ragazzina che si era dimostrata ancora una volta troppo debole
e troppo
spaventata per quel mondo crudele che stava fuori dalla finestra. Era
solo una
bambola di pezza pronta a scucirsi in qualsiasi momento, mentre
quell’uomo era,
al contrario, una statua di marmo: poteva scalfirsi o perdere un
braccio ma restava
sempre in piedi.
Erwin
le sorrise sfiorandole la guancia rigata di lacrime e di nuovo
tornò prepotente
quel pensiero che il mondo non avesse bisogno né di un Re
né di una Regina.
Si
allontanò lentamente asciugandosi il volto.
Si
potevano dire tante cose di Historia Reiss: che fosse troppo gentile
per quel
mondo, troppo delicata per essere ancora viva e che avesse imparato a
leggere
negli occhi delle persone prima che sulle pagine di un libro. E in
quelle iridi
chiare, ella vi lesse la stessa tristezza che la affliggeva da quando
aveva
indossato la corona: vestivano entrambi degli abiti troppo stretti, ma
qualcuno
doveva pur farlo.
‹‹Siete
voi ciò di cui l’umanità ha bisogno,
Comandante.›› Disse scacciando via la debolezza
che l’aveva travolta.
‹‹
Non di un Re, non di una Regina, ma voi. Io non sono che una ragazzina
che ha
ancora molto da imparare ed è per merito vostro, del vostro
sogno, del vostro
coraggio, della vostra folle ambizione se ora sono seduta su questo
trono e se
un giorno l’umanità conoscerà la
verità. Ai miei occhi, voi siete un Re senza
corona che non ha bisogno di sedersi sul trono per essere un simbolo.
Pertanto,
sarò io al vostro servizio e mai il
contrario.››
Un
fascio di luce penetrò attraverso il vetro, disegnando una
sottile striscia luminosa
lungo il volto del Comandante.
‹‹E’
questo ciò che fa di voi una vera
Regina.›› Disse sorridendo.
‹‹Non
il vostro cognome né la mia folle
ambizione ma la vostra capacità di mettervi
sempre al di sotto degli altri
e mai in cima. Non fraintendetemi, non vi ritengo una debole, ma una
pura di
cuore perché per salire in cima alla vetta,
Maestà, bisogna calpestare le teste
dei propri compagni e sporcarsi le mani. Le vostre non dovranno mai
più sporcarsi
di sangue perché le mie…››
si fermò contemplando il vuoto lasciato dal suo
braccio sorridendo amaramente ‹‹la mia
lo farà al vostro posto.››
Historia
osservò i suoi lineamenti e con un gesto lento gli
afferrò la mano sfiorandone
i polpastrelli: era grande quella del Comandante Smith, capace di
contenere la
sua. C’era qualche callo e minuscoli tagli a segnare la pelle
ruvida. Ne
assaporò il calore, tracciando con la punta delle dita dei
sentieri lungo i
solchi della mano.
La
richiuse delicatamente, sfiorando le nocche e con sguardo deciso si
rivolse
all’uomo che la osservava addolcito da quel gesto.
‹‹Mi
auguro che un giorno possiate toccare la vita, oltre che la morte,
Comandante
Smith››
Angolo
dell’Autrice
La
Erwinweek è finita da un pezzo, lo so, ma ci tenevo a
completarla ugualmente.
Quando era stato il momento di scrivere King non avevo nessuna
ispirazione né
la motivazione giusta per farlo. Avevo svariate idee che ho accantonato
subito
perché sentivo che non era ancora il momento per scriverlo.
E
poi accade così che ti trovi sul treno a pensare che sia
stata l’ennesima
giornata di merda ed eccola lì, l’ispirazione che
ti fa ciaociao dal
finestrino. Forse non è la cosa più geniale che
la mia mente abbia mai
partorito, ma guardando il mio riflesso nel vetro ho visto Historia ed
Erwin
dietro di lei: e così ho scritto.
Spero
che vi sia piaciuta e se avete qualcosa da dirmi sono qui a vostra
disposizione
come sempre.
Come
al solito ringrazio Auriga e Ellery per essere sempre lì
pronte a menarmi se
non scrivo qualcosa e per esserci sempre in qualunque momento della
giornata.
Ringrazio
anche FoolThatIAm e Lady Five per averla messa tra le seguite e tutti
coloro
che leggono in silenzio.
Avevo
davvero bisogno di scrivere di Erwin. Non pensavo che un personaggio mi
sarebbe
mancato così tanto.
Un
bacio.
Shige
|
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Capitolo 5 *** Ti regalo un sogno ***
Birthday
Attenzione! Spoiler
84
Ti
regalo un sogno
Aveva
fatto irruzione nel suo
ufficio come suo solito senza bussare, sfoggiando una maschera
incazzata che
indossava sempre già di prima mattina.
‹‹Buongiorno››
aveva esordito Erwin,
annoiato davanti ad una pila di fogli, col gomito appoggiato alla
scrivania e la
testa che ciondolava in avanti. Se Levi avesse dovuto ringraziare per
qualcosa sarebbe
stato per la cortesia che gli aveva fatto Erwin di risparmiargli quella
tortura. Sottomettere i mocciosi era sicuramente più
appagante e meno noioso
che scartabellare documenti per tutto il santo giorno.
‹‹Buongiorno
un cazzo›› aveva
ringhiato a denti stretti, lasciandosi cadere pesantemente sulla sedia
con la
speranza di catturare così la attenzione del Comandante.
Se
quei dannati occhi si fossero
degnati di sollevarsi e incrociare i suoi, anche solo per un istante,
avrebbero
visto la rabbia che covava in segreto da giorni, il desiderio di
rompergli sul
serio quelle gambe e, perché no, magari amputargli anche
l’altro braccio. Se
Erwin avesse alzato gli occhi, invece di guardare quei maledetti fogli
e avesse
guardato lui – una volta, una
soltanto
- si sarebbe reso conto della cazzata che stava per fare. Invece teneva
lo
sguardo basso, come se quella rabbia potesse leggerla su quei fogli,
confusa
tra le righe d’inchiostro.
‹‹I
mocciosi sono impazienti›› aveva
tagliato corto, assottigliando lo sguardo.
‹‹Di
fare cosa?›› Erwin si era
abbandonato lungo lo schienale massaggiandosi la radice del naso,
accrescendo così
il suo nervosismo già ben oltre il limite di sopportazione.
‹‹Di
morire, immagino, visto che
tra un paio di giorni partiremo per Shingashina. O te ne sei forse
dimenticato?›› aveva esultato in silenzio
perché ora aveva la sua più completa
attenzione, ma il sorriso interiore si spense quando lo sguardo stanco
di Erwin
aveva incrociato il suo.
Dal
cortile giungevano gli
schiamazzi dei soldati appena scesi dalle brande che si apprestavano a
completare gli ultimi preparativi prima della partenza. Poteva sentire
le loro fastidiose
risate, forse le ultime che avrebbero riscaldato le pareti della
caserma,
facendolo incazzare non più di quanto facesse Erwin
semplicemente restando in
silenzio.
Parlava
molto, il Comandante, snocciolando
paroloni da aristocratico che molto spesso faticava a comprendere;
un’altra
delle sue tecniche da psicotico, aveva capito col tempo, per camuffarsi
e rovesciare
sul mondo una valanga di stronzate per nascondersi ai suoi occhi.
‹‹Lo
so...›› aveva risposto dopo
un lungo sospiro, distogliendo lo sguardo liquido e troppo stanco anche
solo di
leggere quelle cazzate.
Ed
eccolo lì.
Non
il Comandante.
Non
Erwin Smith.
Semplicemente
Erwin. E basta.
Nei
rari momenti in cui
dismetteva l’uniforme e teneva la bocca chiusa, si lasciava
andare a lunghi sospiri
con cui sembrava liberarsi dei sensi di colpa e del peso di quelle
scelte che
gli avevano sporcato la coscienza; di quell’aria, infetta e
nauseante, che
bruciava i polmoni e lo faceva camminare a schiena dritta. Si gonfiava
come un
pallone, galleggiando tra quelle teste troppo ottuse e troppo stupide
per
capire, ammirare e amare un uomo come lui; che non conoscevano il
prezzo di
stare lì, in cima, a guardare oltre quelle nuvole di
ignoranza in cui quelle
teste gravitavano e oltre cui Erwin si ergeva a guardare per loro; e lo
faceva
sanguinando in silenzio, martoriato, umiliato, deriso da quegli idioti
che non
sarebbero mai stati in grado di vedere oltre il proprio naso e vedere
lui.
Soltanto lui.
Ora,
invece, stava con le spalle
ricurve, sorreggendosi la fronte con l’unica mano rimastagli.
Eccolo,
il vero Erwin: un uomo
stanco e schifato da quell’aria malsana che era costretto a
respirare e che
tuttavia lo teneva in piedi. Stanco di un mondo e di un sogno che lo
stava
consumando, strappandogli via quel poco che di bello c’era
ancora e che era
riuscito a vedere persino lui, Levi, che in quella vita aveva solo
conosciuto
la rassegnazione di essere sempre il solo a tornare.
Guardandolo,
Levi aveva capito
che non sarebbe bastata una vita intera per conoscere Erwin Smith,
figuriamoci
cosa potevano significare sei anni a confronto.
Eppure,
non riusciva ad
allontanare il pensiero che per lui avevano significato e continuavano
a
significare ogni cosa.
‹‹Scommetto
che non hai dormito
per un cazzo›› lo aveva apostrofato.
Erwin
si era riscosso mentre un
sorriso amaro era comparso sul volto.
‹‹No.
Non molto, direi››
‹‹Beh,
dovresti… Sembri un
cadavere.››
‹‹Molto
gentile da parte tua
preoccuparti per me››
‹‹Risparmiami
le tue galanterie e
fatti una cazzo di dormita›› aveva risposto
sbrigativo allontanandosi dalla
sedia. A passo svelto aveva aggirato la scrivania piantandosi davanti a
lui.
Era
stufo marcio di quella
situazione. Stufo di ripetergli di fermarsi una buona volta e stare a
guardare
invece di buttarsi nella mischia.
Erwin
aveva alzato lo sguardo,
sfinito anche lui da quel ripetersi all’infinito della stessa
questione. A Levi
non andava giù e lui, semplicemente, non sapeva che farci.
‹‹Perché
non riesci ad accettare
che sei stanco, Erwin? Perché non puoi startene seduto su
una cazzo di sedia e
restarci tutto il giorno mentre noi andiamo a riprenderci il Wall
Maria?››
Sempre
le stesse domande.
‹‹Perché
è giusto così, Levi. Te
l’ho già spiegato.››
Sempre
le stesse risposte.
C’era
tanta stanchezza nel suo
tono di voce ma gli occhi di Levi bruciavano, letteralmente, ogni sua
difesa,
ogni suo tentativo inutile di rimandare la questione.
‹‹Ah
per quella stronzata del
sogno! Ma certo! Vai a farti sbranare dal primo titano che passa solo
per
aprire una maledetta porta!››
‹‹E’
molto di più di una semplice
porta. Lo sai anche tu››
‹‹E’
lo scantinato di uno Jaeger.
A parte polvere e vino di pessima annata, non credo proprio che
troveremo
niente di importante››
Erwin
aveva inarcato un
sopracciglio per la sorpresa di vedere, per la prima volta, le sue idee
sbeffeggiate in quel modo.
‹‹Pensavo
ti fidassi di me››
aveva commentato con una punta di fastidio.
‹‹Certo
che mi fido di te! Ma se
non fidandomi è il solo modo che mi resta di tenerti
rinchiuso qui, allora ben
venga››
Erwin
si era vagamente risentito
di quella affermazione, ma non riusciva comunque a dargli torto. Poteva
leggergli negli occhi quanto, in realtà, gli costasse tirare
avanti con quella
storia del sogno di suo padre e che forse avrebbe ucciso anche lui.
Levi non
l’avrebbe permesso. Aveva fatto e dato troppo: per quella
causa, per
quell’umanità ingrata e ottusa, per la Legione e
per lui che non aveva mai pensato di
meritare niente di tutto ciò che Erwin, in silenzio, gli
aveva regalato.
“Vuoi
un sogno da seguire, Erwin?
Ti regalo il mio! Fingiamo che sia il tuo compleanno e prenditi il mio
dannato
sogno di vederti ancora vivo al mio rientro. Di saperti qui, a leggere
i tuoi
cazzo di rapporti, a stilare piani, a rovesciare governi. Questo
è il mio
sogno, il mio regalo, vedilo come cazzo di pare, ma prendilo,
è tuo. Fanne ciò
che vuoi! O forse non è abbastanza grande quanto il tuo di
sogno? In fondo, il
mio non è nient’altro che un sogno insignificante
e stupido, ma almeno non consuma,
non logora, non uccide il mio sogno. Non ti ho mai regalato niente,
mentre tu
mi hai donato tutto… perciò prendi il mio di
sogno e abbraccialo, ed io
abbraccerò il tuo, anche se l’ho già
fatto e lo rifarei ancora…”
‹‹Che
c’è Levi?››
Era
bastato il suo sguardo a
riportarlo in quello studio, cacciando quel discorso che suonava meglio
dentro
la sua testa che non sulle sue labbra.
‹‹Niente››
si era affrettato a
rispondere per impedire ad Erwin di entrare nei suoi pensieri.
‹‹Notavo che tra
un mese è il tuo compleanno››
Sprezzante,
come sempre, era
ritornato al suo posto accettando la sconfitta; dopotutto, era
l’uomo più forte
dell’umanità solo quando stava fuori da quelle
mura.
‹‹Stai
pensando ad un regalo?››
aveva sorriso, un sorriso nervoso, ma pur sempre un sorriso che gli
aveva
rilassato i muscoli del volto e delle spalle. Per un attimo, per un
breve e
fugace istante, Erwin si era sentito libero delle sue
responsabilità. Glielo
leggeva – eccome se glielo leggeva – in quegli
occhi che non smettevano di
sorridergli in un tacito ringraziamento per aver deposto per primo le
armi.
‹‹Magari
te l’ho già fatto››
‹‹Sarebbe
la prima volta.
Potrebbe venire a nevicare››
‹‹Non
sarebbe poi tanto male, non
credi?››
Davanti
a lui stava una sedia
vuota e quelle ultime parole pendevano sopra la sua testa come una
condanna.
Era
il 14 di un ottobre lontano,
cupo e freddo. Fuori nevischiava piano; cosa insolita in quel mese
dell’anno,
ma di cose insolite ne erano accadute anche troppe in quegli ultimi
anni, e
aveva finito per non stupirsi più di nulla. Il mondo che
avevano conosciuto non
c’era più, come non c’era più
il Comandante a gustarsi la vista di quel sogno divenuto
realtà.
La
loro realtà, non la sua.
Non
si respirava aria di festa,
nemmeno ora che avevano ottenuto quella meritata libertà,
soltanto la stessa
aria malsana e putrida che Erwin aveva ingoiato per anni e da cui lo
aveva
liberato pensando di fargli un favore. Eppure, tornava ancora
l’immagine di
lui, disteso al suo fianco, con la sua mano a reggere il destino e non
più una
siringa.
Ancora
una volta a scegliere;
ancora una volta a sbagliare; ancora una volta a ricominciare senza
rimpianti.
Ma
non era la stessa cosa ora che
Erwin non era e non sarebbe più stato lì, in
quello studio o altrove a
guidarlo, a vegliarlo o stando semplicemente lì ad
ascoltarlo in silenzio. E
non perché a portarselo via era stato un Titano Bestia, una
caduta da cavallo o
lo squarcio nel fianco ma una scelta. Sua, per giunta: sconsiderata,
azzardata,
inspiegabile scelta di liberarlo da quel mondo infame che voleva
tenerlo
imbrigliato. Il mondo aveva bisogno di vedere i suoi ideali pesare
sulle spalle
di un uomo soltanto. Ed era tutto
più facile quando
qualcun altro si assumeva quella responsabilità di lottare e
sporcarsi le mani.
Finché non aveva deciso che aveva visto abbastanza. Che di sangue ne era stato versato tanto e anche troppo mentre lui stava a guardare e che un uomo non poteva reggere tutto quel peso solo sulle proprie
spalle; ed
Erwin era il tipo di uomo che avrebbe retto il peso del mondo per non farlo
pesare
sugli altri.
Era giunto il momento che il mondo imparasse a sporcarsi
le mani
da solo, come aveva fatto Erwin, come aveva fatto lui e come avevano
fatto i
mocciosi in nome di un’ideale, di un sogno –
assurdo, fantastico e meraviglioso
– e combattesse per se stesso, una volta tanto.
Rimpiangeva
solo che Erwin non
fosse più lì ad ammirare tutto quello che aveva
creato spianando la strada.
Serrò
il pugno guardando la sedia
e quel vuoto desolante che la sua morte aveva lasciato e che non sapeva
come
riempire: un intervallo tra lui e il resto del mondo in cui Erwin si
incastrava
perfettamente.
Angolo
dell’autrice
Non
posso credere di aver
completato questa raccolta. Sono seriamente combattuta
all’idea di concluderla
così, con questo pezzo che mi è costato parecchio
scriverlo. Mi ci è voluto un
po’, da quel fatidico mese di Agosto per metabolizzare quello
che è successo e
dargli una spiegazione. Alla fine mi sono arresa e ho cercato di vedere
Erwin
attraverso gli occhi di Levi, cercando di capire quello che ha fatto,
mettermi
nei suoi panni e muoverlo senza paura di sbagliare. Non è
stato semplice, ma
alla fine eccolo qui, anche se non è un regalo di compleanno
allegro e
purtroppo pieno di angst… Spero mi perdonerete se ricado
sempre nel loop del
lutto.
Vorrei
ringraziare prima di tutto
Auriga ed Ellery per leggere sempre con entusiasmo i miei racconti. Vi
voglio
un bene immenso e questa raccolta è tutta per voi (Anche se
di Eruri qui non ce
n’è manco l’ombra quindi non sforzatevi
troppo a cercarla XD)
Infine,
vorrei ringraziare
Divergente Trasversale per le sue recensioni magnifiche e per quelle
parole che
ogni autrice che bazzica da queste parti, spera sempre di sentirsi dire
una
volta nella vita.
Ringrazio
chi ha letto, chi si è
fermato, chi ha continuato e chi ha apprezzato questa raccolta.
Mi
piacerebbe proseguirla o fare
una raccolta a parte perché mi è tanto caro il
Comandante che non riesco
proprio a dirgli addio.
Un
abbraccio a tutti
Shige
|
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Capitolo 6 *** Attraverso i suoi occhi ***
Death
Attenzione
Spoiler! Cap 84-86
Attraverso
i suoi occhi
‹‹Sapevo
che eri qui››
Non
c’era stato bisogno di cercarla in
posti troppo lontani; era bastato tornare là dove tutto era
iniziato, in quella
stanza tristemente vuota che odorava ancora della sua presenza.
Sul ciglio
della porta, aveva aspettato
invano un gesto che la invitasse ad entrare e a sedersi su quel letto
dove lei
non osava posare gli occhi. E in quell’attesa logorante, si
era guardata
attorno riconoscendo a stento, in quell’ordine, la camera del
Comandante.
‹‹Sapevo mi avresti
trovata›› aveva mormorato appena; rigida
come una statua stava seduta sul bordo del letto ad osservare dalla
finestra un
cielo terso ma senza sole.
L’altra era rimasta a fissarla con la schiena appoggiata
alla parete e le braccia incrociate sul petto. Non poteva vederla in
faccia, ma
sapeva che aveva appena smesso di piangere. Si era morsa il labbro
inferiore,
reprimendo il desiderio che aveva di fumare e l’aveva
raggiunta sul letto,
sedendosi al suo fianco.
Subito lei aveva nascosto il viso arrossato dietro le
ciocche castane, ma a nulla era servito nasconderle che aveva appena
smesso di piangere.
L’altra aveva sospirato, rammaricandosi di non poter fare
nient’altro che
starle accanto.
‹‹Ci hai parlato?››
‹‹No e tu?››
‹‹Non riesco nemmeno a guardalo in
faccia››
‹‹Nemmeno io››
Il gracchiare di un corvo aveva spezzato il gelido silenzio
piombato nella stanza, riportando entrambe a rivivere
l’assurdità di quella
giornata.
‹‹E dire che l’avevi anche
previsto›› aveva detto smorzando
i toni. Tra le mani reggeva l’ultima sigaretta che le era
rimasta. La voce di
lui era tornata prepotente nella sua testa a ricordarle quella promessa
che ora
voleva infrangere. Le sue parole e quella assurda richiesta di smettere
di
fumare non avevano più alcun valore per lei. Non
più. Non ora che Erwin non
c’era più e lei stava lì, sul bordo di
quel letto, ad osservare un’altra donna
che a quell’uomo doveva tutto.
‹‹Tu ci hai creduto fino alla fine
invece›› gli occhi
arrossati la fissavano da dietro al frangia scompigliata. Un accenno di
sorriso
su quel volto smunto le aveva riportato alla memoria i giorni passati
sulla
cima di quelle mura. Ad aspettarli. Ad aspettarlo. E in
quell’attesa logorante
si erano scambiate battute per alleggerire il peso di quella
consapevolezza che
non aveva ancora il coraggio di accettare. L’altra, invece,
era stata fin
troppo realistica, quasi fatalista: “Non
torneranno” aveva detto “Lui non
tornerà più”.
E per quanto si era sforzata di ammettere che avesse torto,
per quanto si era convinta che il Comandante sarebbe tornato, aveva
dovuto
ricredersi quando sulla cima di quelle mura, Levi era tornato insieme
ai brandelli
della Legione.
E fra quelli lui non
c’era.
‹‹Non pensavo che sarebbe andata in questo
modo›› aveva
sussurrato mentre l’altra adagiava la testa sulle sue
ginocchia. Le dita
scorrevano tra i capelli sparsi sulla gonna e sul volto che con
dolcezza glieli
aveva cacciati indietro. Sapeva che a lei faceva più male
che a chiunque altro.
Sapeva che il dolore che lei provava non sarebbe mai stato possibile
paragonarlo al suo.
Per questo non aveva aggiunto altro e l’aveva cullata
dolcemente, ascoltando gli ultimi rintocchi dell’orologio che
annunciavano la
fine della veglia.
‹‹Fanculo!›› un poderoso
calcio aveva spalancato la porta
facendole sobbalzare. La figura si avvicinò a passo di
carica, masticando
insulti e sbraitando maledizioni verso colui che aveva combinato quel
disastro.
‹‹Che sia dannato lui e la sua
stirpe!›› aveva ringhiato tra
i denti marciando avanti e indietro davanti ai loro occhi.
‹‹Doveva fare una scelta! Una soltanto! Ed
è riuscito a fare
solo un casino!››
‹‹Calmati››
‹‹E se ne esce con quella stronzata del non avere
rimpianti!
Fanculo i rimpianti! Doveva salvare Erwin non quel moccioso coi
rubinetti al
posto degli occhi! Erwin, santo cielo! Era così
difficile?››
‹‹Ascolta...››
‹‹Cosa dovrei ascoltare? Cosa? Quel deficiente
aveva la
possibilità di salvarlo e non l’ha fatto! Come si
fa ad essere così…stupidi››
si era lasciata cadere mollemente sul letto e dopo lo sfogo si era
sentita più
stanca di prima.
‹‹Tu pensi a fumare e quell’altra non
ha smesso di piangere
un secondo. Come diavolo ci siamo ridotte›› aveva
sussurrato contro la sua
spalla.
‹‹E in tutto questo siamo dei fottuti
giganti.››
‹‹E siamo su una fottuta
isola››
‹‹E quel moccioso vuole andare a vedere
l’oceano››
C’era stato un lungo silenzio in cui tutte e tre erano
rimaste immobili in quella posizione un po’ patetica a
fissare il cielo farsi
sempre più scuro. Un altro giorno era trascorso e nessuna
delle tre sembrava
intenzionata a muoversi, sebbene i crampi della fame cominciavano a
farsi
sentire.
‹‹Zacklay vorrebbe
riceverci›› aveva detto sollevando la
testa dalla sua spalla. L’altra aveva abbassato lo sguardo
sulla compagna che
riposava sulle sue ginocchia.
‹‹Mi sembra un po’ tardi per ricorrere
ai ripari, no?››
‹‹Fanculo… meglio noi che lasciare
tutto nelle mani di quei
mocciosi e di quel coglione.››
Le aveva sorriso debolmente gettando lo sguardo sullo stemma
ricamato sul suo mantello.
Una colomba su uno scudo rosso.
‹‹Ogni tanto mi sveglio e penso sia stato solo un
brutto
sogno›› aveva esordito guardandosi attorno
‹‹Lo vedo ancora seduto alla sua
scrivania, circondato da pile di fogli e scartoffie in
disordine››
‹‹Come diavolo facesse a vivere in quel
casino…››
‹‹Ci pensava Levi›› aveva
detto l’altra sollevando la testa
dalle ginocchia.
‹‹Se solo si fosse fatto
una…››
‹‹Non interromperla››
l’aveva ammonita severa, addolcendo lo
sguardo solo dopo per invitare la compagna a proseguire il discorso.
‹‹Mi fa male pensare che fosse arrivato ad un
passo
dall’aprire quella dannata porta e che sia stato strappato
via in questa maniera
così…››
‹‹stupida…››
‹‹ingiusta…››
‹‹ignobile, piuttosto… Erwin era il
tipo d’uomo che si
sarebbe trascinato con i denti fino a quella cantina. Avrebbe lottato,
come
sempre d’altronde, e non si sarebbe arreso come non
l’aveva fatto quando si era
ritrovato senza un braccio. Era il tipo d’uomo che ti faceva
saltare i nervi
perché lui aveva uno scopo mentre io… mentre noi
… non riuscivamo a trovare una
ragione per alzarci la mattina. E cazzo… lui ce
l’aveva stampata negli occhi
quella voglia di uscire, di scoprire, di fuggire
da qui. E come gli brillavano quegli occhi quando parlava di
suo padre,
delle sue teorie, quando aveva scoperto di aver sempre avuto ragione;
quando
sognava di aprire quella porta… Lui non sarebbe rimasto
deluso di sapere di
essere su un’isola… Lui era un uomo che non si
sarebbe arreso nemmeno di fronte
a questa scoperta scioccante, mentre noi abbiamo perso la voglia di
andare
avanti. Abbiamo perso l’interesse… ma siamo
giganti per l’amor del cielo! E invece
siamo qui a piangerci addosso perché lui non
c’è più e non ce ne frega
più
niente di essere parte di un gioco più grande di noi.
Perché lui non c’è più a
guardare tutto questo e noi guardavamo questo mondo di merda attraverso
i suoi
occhi. E questo mondo ha smesso di interessarci perché non
c’è più lui a
guardarlo per noi… ma così facendo…
non sarebbe come ucciderlo per la seconda
volta?›› si era voltata a guardare entrambe ed
entrambe avevano abbassato lo
sguardo vergognandosi. Lei aveva sospirato stringendo loro le mani.
‹‹Abbiamo amato ogni parte di
quest’uomo più di quanto
avremmo mai potuto amare qualcun altro e ora che non
c’è più abbiamo perso
anche lo scopo che ci guidava. Ma penso che Erwin – ovunque
egli sia - sia
sufficientemente incazzato per come sia andata, senza che anche noi ci
logoriamo il fegato. Non c’eravamo noi su quel tetto, non
è toccato a noi
scegliere tra lui e Armin, non sapremo mai come sarebbe andata se ci
fossimo
state noi al posto di Levi. Possiamo solo convivere con ciò
che ha fatto…
Accettarlo no… ma conviverci è tutto
ciò che ci rimane da fare››
‹‹Oh ti prego anche tu con queste
cazzate››
Entrambe rivolsero uno sguardo accusatorio verso la compagna
che aveva appena esordito con quell’espressione colorita.
‹‹Ad ogni modo›› aveva
ripreso ‹‹credo che portare avanti il
sogno di Erwin sia il nostro scopo d’ora in poi.
Perché è giunto il momento che
sia lui a guardare il mondo attraverso i nostri occhi. Questo almeno
glielo
dobbiamo››
C’era stato un alto lungo silenzio interrotto dal vociare
sommesso dei soldati che rientravano in caserma. La veglia per il
Comandante
era ormai finita e fuori dalla finestra una sottile scia di fumo
indicava che
il rogo funebre era stato spento. Le ceneri di Erwin erano state
raccolte dal
vento e portate oltre quel limite che gli aveva sempre impedito di
andare
avanti. Forse avrebbero visto l’oceano, forse si sarebbero
spinte in quella
terra lontana che un tempo li aveva generati. Ancora una volta, Erwin
avrebbe
tracciato loro la strada da seguire, prima di dissolversi nel vento e
godersi
lo spettacolo da un punto più alto.
‹‹Zacklay ci aspetta››
aveva detto tirandosi in piedi. Tra
le mani aveva ancora quel pacchetto vuoto in cui l’unica
sigaretta rimasta la
supplicava di essere consumata.
‹‹Speriamo che ci faccia massacrare la faccia di
Levi!››
‹‹Ne dubito, fortemente››
aveva detto la più piccola delle
tre, asciugandosi le lacrime prima di seguire l’altra fuori
dalla porta.
‹‹Non vieni?›› si era
voltata a guardare la compagna che si
rigirava tra le mani il pacchetto. Aveva sollevato lo sguardo
incrociando il
suo e debolmente le aveva sorriso.
‹‹Dammi un secondo››
L’altra aveva annuito dolcemente e si era richiusa la porta
alle spalle dandole non un secondo ma tutto il tempo di cui aveva
bisogno per
chiudere quella faccenda.
Si era avvicinata allo scrittoio perfettamente in ordine e
con un dito aveva percorso il bordo intagliato fino a raggiungere la
cassettiera e lì si era fermata.
L’orribile unicorno verde stava ancora lì, a
prestare
servizio come fermacarte invece di stare in soffitta insieme a tutta la
restante paccottiglia di cui si era liberato anni prima.
Aveva scosso la testa accarezzando il dorso dell’animale di
vetro. Ancora una volta il ricordo della sua voce l’aveva
pugnalata alle spalle
e la sua mano si era ritratta come scottata.
Perché mi dite tutti
che dovrei buttarlo via?
‹‹Perché è
l’oggetto più brutto che io abbia mai visto in
vita mia, stupida vecchia volpe. E ora che sei morto, nessuna mi vieta
di
prenderlo e buttarlo via o lanciarlo fuori dalla finestra. Eppure non
posso
farlo… perché questa schifezza mi ricorda te ed
è assurdo, non ti pare? Che con
tutto quello che hai fatto io ti voglia ricordare con questo vecchio
oggetto
che per giunta ha scelto Nile. Per uno come te sarebbe stato
più consono un
ritratto, una camicia, un qualcosa che mi ricordi il tuo volto, il tuo
profumo,
i tuoi occhi… Invece non c’è
più niente di te. Sei cenere al vento e fa male realizzare
solo adesso che tu non camminerai mai più su questa
terra.››
Aveva stretto il pugno, stritolando il pacchetto di
sigarette. Le lacrime premevano di uscire ma le aveva ricacciate
indietro
perché non era più il momento di piangere.
Non avrebbe versato lacrime per Erwin Smith, ma solo fiumi
sangue.
Decisa, la mano aveva afferrato la maniglia del cassetto e
l’aveva tirata verso di sé. Con un gesto secco
aveva cacciato dentro l’ultima
sigaretta, prima di richiuderlo di colpo.
‹‹Stupida vecchia
volpe…›› un sorriso prima di volgere
le
spalle allo scrittoio e a quella stanza ‹‹Ti
avevo persino detto che saresti
dovuto morire per farmi smettere di fumare. Non pensavo mi prendessi
alla
lettera››
Chiuse la porta dopo aver osservato per l’ultima volta la
stanza.
Angolino dell’autrice
Non ho scritto né King né Birthday ma ho in
programma di
farlo, anche se tecnicamente per Birthday ho postato una foto su
tumblr. Per
chi volesse (autospammaggio mode on) potete trovarmi qui https://www.tumblr.com/blog/shige90
Comunque veniamo a noi a spiegarvi l’assurdità di
questa
One-Shot… Questa voleva essere un omaggio alle mie compagne
di avventura Auriga
e Ellery rappresentate rispettivamente da quella che piange e da quella
che
urla. Io sono quella che fuma… E lo so può
sembrare un po’ pretenzioso ma mi
piaceva l’idea di raccontare la morte di Erwin nel modo in
cui noi tre
l’abbiamo vissuta. Sarebbe stato troppo difficile per me
immedesimarmi in
questo momento nei panni di Hanji o di Levi o di chicchessia.
La storia dello stemma della colomba è una stronzata
concepita durante una delle solite chiacchierate notturne su Skype in
cui, in
preda al forte desiderio di strangolare Isayama, avevamo immaginato di
far
parte di una squadra d’élite chiamata
“Le tortorelle di Zacklay” perché,
sicuramente, se avessimo ricevuto noi l’ordine di
somministrare il siero, non
avremmo sbagliato braccio. Poco ma sicuro.
Il cavallino verde, ormai oggetto ricorrente che troverete
anche nella mia longfic, è un tributo ad Ellery e alla sua
storia. Attorno a
questa bomboniera è nata una storia che è
divenuta ben presto leggenda e vi
posso lasciare immaginare quali atrocità siano state
concepite dalle nostre
menti malate.
In tutto questo ci tenevo a ringraziare Auriga e Ellery con
questa One-shot per tutto ciò che ci siamo dette e per tutto
il supporto che
sappiamo darci l’un l’altra.
Grazie ragazze… per l’affetto, per le stronzate e
per il
tempo.
Soprattutto il tempo…
Un bacio
Shige
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Capitolo 7 *** Inferno ***
Afterlife
Inferno
L’inferno.
Che posto
è l’inferno?
È
l’ipocrisia, l’ingiustizia che ricopre la terra?
O è il
sangue misto a polvere che ricopre i cadaveri delle
battaglie che abbiamo perduto?
Stava dentro o fuori
quelle mura? Tra i giganti o tra gli
uomini?
Eravamo noi
– quell’inferno – noi con le nostre
paure, le
nostre incertezze, le nostre debolezze, o il nostro coraggio con cui
abbiamo
sfidato il mondo e superato ogni limite? Valicando barriere,
infrangendo le
regole, sradicando i sistemi che ci tenevano imbrigliati, imprigionati
come
schiavi.
O erano gli altri,
forse, con le loro sentenze, le loro
aspettative, il loro giudizi? Giudizio per cui viviamo e infine moriamo
senza
sapere mai veramente chi siamo.
Cos’è
l’inferno e cosa non lo è?
È forse
fuoco? È forse ghiaccio? È terra, è
guerra? È
trambusto, è silenzio?
È la
città da cui scappi o il porto in cui approdi?
Oppure è
quel nulla. Semplicemente il nulla.
Spazio vuoto da
riempire con l’inferno che meritiamo perché
non esiste punizione peggiore di quella che infliggiamo a noi stessi.
Il nulla.
Il bianco che acceca.
Il muto silenzio di una stanza senza
confini, una prigione senza sbarre, una libertà di cui non
sappiamo che
farcene.
Spazio dove
l’occhio vaga senza sapere cosa guardare o cosa
cercare.
Infinita
libertà di guardare un eterno nulla.
E in mezzo a quel
nulla, egli è solo un puntino, niente di
più di una macchia che sporca la tela. Chino su quella
fontana ad osservare il
suo silenzioso mutare dell’acqua nelle scelte che non si
è mai perdonato.
Cambiare scenari, sotto i suoi occhi, di quella vita che ha lasciato
troppo
presto. Imperdonabile sensazione di non aver fatto abbastanza, di non
essere
stato abbastanza; e rabbia – troppa rabbia – per
l’abbandono, il tradimento,
l’umiliazione di essere stato nient’altro che un
corpo vecchio e stanco.
‹‹Erwin…››
Il richiamo
è vicino, eppure è lì che vuole stare.
Sul bordo
di quella fontana, ad aspettare, forse, che qualcosa accada. Svegliarsi
da
quell’incubo e tornare su quel tetto: è questo
ciò che vuole.
Non sono pronto. Non adesso.
Non ancora.
Stringe gli occhi e
serra i denti.
Il pugno spacca
l’acqua.
Perché?
Perché? Perché?
Lo specchio
d’acqua si ricompone in fretta, indifferente e
sordo alle sue grida, a quella personale ingiustizia, a quel torto
subito.
‹‹Erwin…››
Non si volta. Non la
vuole quella verità.
La verità
quella per cui sarebbe morto – cento e mille volte
ancora su quel campo e non sul tetto- è oltre quello
specchio d’acqua, dove
galleggiano ancora gli occhi grigi di Levi.
E sempre
c’è una barriera tra lui e quella
verità: una fontana,
un muro, un falso re, la porta di una cantina, un sogno più
meritevole del suo
– un sogno immenso e sconfinato come l’oceano - .
Perché?
Perché proprio tu?
Liberato da un
inferno per incatenarlo ad un altro.
Condannato a fare da spettatore ad un epilogo che non è
più il suo.
Non è
così che sarei dovuto…
Morire non
come uomo ma come scelta scartata, una
possibilità troppo vecchia, un desiderio troppo stanco per
andare avanti e
scoprire quella verità.
Che ne sanno loro di
come si giunge alla verità? Del sangue
che si versa, delle scelte obbligate, dei sacrifici - utili, inutili -
per andare sempre avanti e mai voltarsi, dei
brandelli d’anima lacerati, sporcati che penzolano come
lenzuola al vento sul
filo di un’esistenza così piena eppure
così immensamente vuota.
La verità
si trova al fondo di un sentiero che passa per
l’inferno. E lui per quella verità si è
sporcato, imbrattato di sangue e
lacrime, condotto battaglie, sacrificato compagni, e ancora sangue,
fiumi di
sangue. Fino ad averne la nausea di tutto quel sangue eppure mai
abbastanza.
Insaziabile ingordigia di un pasto avariato solo per giungere a quella
verità e
morire per essa – altre cento e mille volte ancora
– su quel campo e non sul
tetto.
Lui, il
più meritevole, lui che ci ha creduto più di
tutti,
più di suo padre, più
dell’umanità… lui meritava di scoprire
la verità. Per
quel sangue versato, per quelle lacrime mai piante, per gli amori
sacrificati,
per una vita di negazioni…
Lui che fra tutti
aveva più diritto di essere lì – nel
seminterrato
e non sul letto – ora è altrove. Ancora una volta
troppo lontano, troppo
distante eppure così vicino da poterla sfiorare.
Invece sfiora gli
occhi grigi di Levi, prima che l’acqua li
inghiotta e sentirsi ancora una volta troppo lontano, troppo distante.
Svegliati, dannazione.
Svegliati!
Un incubo.
Una gabbia senza sbarre. È il nulla. È tempo o
forse nemmeno quello.
Non
c’è niente e lui non è fatto per vivere
nel niente. Lui
ha combattuto contro quel niente in cui si era affossata
l’umanità. L’ha
raschiato via, ha sputato sangue e versato quello di molti soldati per
sradicare quel niente.
‹‹Erwin…››
‹‹No!››
Non ancora. Non adesso.
‹‹Come
vorrei che avesse avuto più tempo››
‹‹Sempre
si muore troppo presto o troppo tardi››
‹‹Ma
così…›› Silenzio
‹‹è così
sbagliato…››
‹‹E
chi lo sa, Signor Smith. Il mondo è pieno di cose
sbagliate››
‹‹Anche
la morte…››
‹‹Soprattutto
la morte, eppure si muore: su un campo di
battaglia, nel letto, per una malattia, per amore, per semplice volere
di
qualcuno. Si muore e basta, ma mai come vorremo››
‹‹E
ora?››
‹‹Possiamo
solo aspettare. Aspettare che accetti o aspettare
che finisca. Che finisca presto, mi auguro, perché nessuno
merita di vivere
l’inferno due volte. Aspettiamo e basta che qualcosa accada o
che qualcuno venga
a dirci com’è andata a finire: se
l’umanità ce l’avrà fatta
anche senza di lui
o se avrà fallito nel tentativo. Perché per
quelli come lui non esiste pace
nemmeno da morti. Aspetterà la verità e noi con
lui. Non siamo altro che
l’ombra di ciò che non si è ancora
perdonato e aspetteremo con lui per sapere
se non siamo morti in vano››
Il Signor Smith
esita. Fa ancora un passo verso quel figlio
che ha finalmente ritrovato. Poi torna indietro.
Mike ha ragione.
Non esiste inferno
peggiore di quello che creiamo per noi
stessi.
Angolino
dell’autrice
Chiudo questa
Erwinweek riproponendo Inferno che avevo
scritto qualche mese fa e che secondo me è l’unica
che meglio rappresenta i
pensieri di Erwin.
La mia intenzione,
che spero si sia capita nella lettura di
tutte le ff, era di creare dei punti di vista alternativi, in modo tale
da
vedere Erwin Smith con occhi sempre diversi. Siamo passati da vedere
Erwin con
gli occhi di suo padre mente muove i primi passi, con gli occhi di Mike
quando
si arruola, con quelli di Marie nell’ipotetico mondo in cui
Erwin l’ha sposata
senza rinunciare al suo sogno. Attraverso gli occhi di Levi prima della
partenza di Shingashina e in un futuro ipotetico quando tutto
è ormai finito.
Infine con i miei di occhi e quelli delle mie compagne di viaggio.
Per Afterlife,
invece, volevo che il cerchio si chiudesse
con gli occhi di Erwin e Inferno si prestava fin troppo bene.
Considerando
anche che non ho molto tempo da dedicarmi alla scrittura, ho voluto
riciclarla
anche per questo motivo.
Con questo voglio
ringraziare tutti coloro che mi hanno
seguito, che hanno letto e che silenziosamente hanno apprezzato le mie
ff.
Un abbraccio
Shige
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