La Dea Bianca

di Manto
(/viewuser.php?uid=541466)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** D'amore e Ombra ***
Capitolo 2: *** La Leonessa ***
Capitolo 3: *** Il Ritorno della Regina ***



Capitolo 1
*** D'amore e Ombra ***


La Dea Bianca




A Flos Ignis, mia stella e guida,
e alla dolce Leaina.





I – D’Amore e Ombra





Ancora oggi si narra che Elena fosse nata quando l’alba già allungava le rosee dita sulle tenebre: ed era per questo che nel suo sguardo danzava il bagliore delle stelle morenti.
Si narra che il Sole rifulgesse con più forza a ogni sorriso, e che a ogni movimento degli eleganti piedi, le rose si intrecciassero intorno alle sottili caviglie; che nella calda e multiforme luce che attraversava i suoi capelli si scorgessero le onde del mare, e la sua voce fosse pacata e soave come l’avvento dell’Aurora.
Si narra questo sulla splendida Elena; ma su di me,
sull’altra, si racconta una storia diversa.
Elena fu sempre parte solamente di metà del mondo: viveva fra la luce e i colori, tra le risate e i canti, e fin da bambina, quando il buio calava, lei si rifugiava nelle sue stanze, attendendo sotto la protezione dei tripodi sfavillanti l’avvento di un nuovo mattino.
Sulla soglia della Notte, a fissare i corni della Luna che ferivano il suolo e salivano nel cielo, rimanevo solamente io.
Clitemnestra dai lunghi riccioli bruni.
Clitemnestra con le ombre nello sguardo e il silenzio sulle labbra.
Clitemnestra dalla pelle nivea, dal volto severo.
Clitemnestra, che nacque al crepuscolo, che spinse la Luna ad
abbandonare il cielo per avvicinarsi a Sparta.
La prima volta che ascoltai queste parole sorrisi senza dare loro troppa importanza; ma era ancora troppo presto per capire.
Fu solo anni dopo, infatti, che vidi per la prima volta quella che, ora lo posso dire con certezza, sarebbe stata la mia Sorte: essa comparve in un sogno come una piccola statua raffigurante una donna dai seni pieni, lasciati scoperti dalla veste; lunghi erano i suoi capelli, bianche le mani che stringevano con forza due serpenti, quasi a strangolarli,
domarli. [1] Riposava nel ventre pietroso di un maestoso palazzo dalle sfumature porpora [2], ma i suoi occhi non erano intrappolati dal buio: lo sguardo vinceva ogni vincolo, osservava le onde e le albe, le montagne e le loro genti, e dove questo si posava fiori e piante crescevano in abbondanza, le belve feroci si acquietavano, i fiumi impetuosi scorrevano senza far rumore e la Luna sorgeva, portando la pace.
Veloce e inaspettato com’era giunto, il sogno cessò; mi ritrovai a balzare nel letto, il petto che doleva come se non avessi respirato per lunghi istanti, la mente e gli occhi pieni di ciò che avevo visto.
Mi alzai, scossa e confusa, e mi avvicinai alla finestra per cercare il sollievo del vento:
Lei era già alta tra le stelle, i suoi raggi una pioggia d’argento che bagnava la mia finestra.
In quell
’istante compresi che tutti i racconti erano veri... e che Lei non aveva mai smesso d’osservarmi.







Tutto ebbe inizio quando il giovane Tantalo [3], re della quieta Pisa [4], giunse al palazzo di mio padre; Sparta lo accolse quando il Sole era alto, e splendente come quel giorno era il suo destriero, dorata la chioma, pari per bellezza alle opali celesti degli occhi.
Chiamate al fianco di nostro padre, Elena, cresciuta tra gli elogi e le promesse d’amore, lanciò verso di lui solamente un’occhiata prima di abbassare il capo con finto pudore, sdegnosa e tentatrice; io, invece, non smisi di fissarlo, come sempre facevo con gli uomini. Mi piaceva osservare la loro espressione mentre le ombre rifulgevano nelle mie iridi, quasi sfidandoli; e ogni volta, quando gli sguardi inquieti si spostavano dal mio viso a quello di Elena, io sapevo di aver instillato un poco di quel timore che si prova davanti a una fiera, a un Dio… o una
Dea.
E tuttavia… tuttavia Tantalo le mie ombre le
abbracciò. Il suo sguardo incontrò il mio, non lo lasciò per lunghi istanti; io lessi in quegli occhi una domanda e poi vidi nascere l’interesse, il desiderio.
Arrossii con violenza, allora, e chinai il volto; quando lo rialzai, mio padre mi fissava con intensità. Annui lievemente a ciò che i suoi occhi dicevano, e un sorriso gli si dipinse sul volto.
Il mattino seguente, ancor prima che sorgesse il Sole, il mio matrimonio fu celebrato. Sparta mi attese nelle strade per salutarmi, danzò e cantò per me, e l’eco delle sue benedizioni mi seguì fino alle porte di Pisa, la mia nuova dimora.

Ti mancherò, sorella mia?
La voce di Elena, le sue ultime parole, continuavano a risuonarmi nella mente, e nemmeno le grida di giubilo, la vista dei palazzi della città o le carezze del mio sposo riuscivano a tacitarle. “Forse meno di quanto tu pensi”, mormorai più volte in risposta, cercando di ignorare il pungolo che mi pizzicava il fianco e incrinava un poco la gioia.


Ben presto Pisa si rivelò essere il rifugio e la pace che il mio cuore anelava: ogni notte attendevo di scorgere le stelle che rilucevano su di essa e ogni mattino cercavo la fragranza dei fiori che circondavano le mura... e, come imparai ad amare la sua semplice bellezza, in ugual modo mi innamorai del suo custode.
Tantalo era nobile quanto passionale, le sue mani gentili ma desiderose quando mi spogliavano di ogni cosa, lasciando che solo il chiarore delle fiamme nei bracieri mi ricoprisse la pelle; ma erano i suoi occhi a tenermi incatenata, quello sguardo bruciante e colmo di vita che mi possedeva ancor prima della carne, che mi faceva sentir degna di essere amata.
Per quanto poco più di un fanciullo, era saggio, legato alla sua gente e capace di portare ragione e luce in ogni dove, anche tra le mie inquietudini; la sua devozione mi riscaldò come un mantello, e tra le sue braccia sbocciai come un fiore di croco, liberandomi da molte amarezze e rancori: al suo fianco iniziai a risplendere, a
vivere.
Mentre dormivi, un petalo d’ombra ha lasciato la tua chioma, mia dolce Clitemnestra”, mi sussurrava il re al sorgere del giorno, quando mi svegliava divorandomi il collo e il petto di baci.
Alcune di queste ombre sono parte del mio stesso corpo”, cercavo di rispondere mentre le sue labbra scendevano a tracciare un sentiero bollente sul mio ventre, spezzando i pensieri.
Le tramuterò in luce, una ad una”, rispondeva, e io morivo e rinascevo ogni mattino, desideravo che quegli istanti solo nostri si prolungassero per ore e ore, diventando un’intera esistenza.
Fu in uno di quei lenti giorni, mentre controllavo l’operato delle ancelle, che mi accorsi di
lei. Il portamento e la bellezza le permettevano di dominare sulle altre come una rosa tra umili viole, quindi mi avvicinai, sicura che il suo volto mi fosse sconosciuto.
Mi sorrise, senza abbassare il capo, e allora le feci cenno di seguirmi, conducendola nei giardini.
Conosco tutti coloro che abitano questa casa, eppure il tuo nome è per me come nebbia”, esordii quando fui certa che eravamo sole.
Lei non rispose per un lungo istante, poi schioccò la lingua. “Sei potente, signora: il tuo re ha fatto ciò che il glorioso Tindaro non è mai riuscito a compiere.”
Non voglio lusinghe”, ribattei, “voglio sapere chi sei, e qual è il tuo compito qui.”
Un altro sorriso, poi la donna abbassò lo sguardo sul mio ventre. I suoi occhi si illuminarono, la sua voce mutò. “È Luna piena, giovane regina. In una terra lontana le donne invocano la Dea: è
grande il suo amore per noi, femmine e madri, e la sua mano non esita a consolare chi chiede il suo aiuto. È Luna piena, Luna gravida; tu sia benedetta”, mormorò, voltandosi.
Scossa da quelle parole, rimasi immobile a guardarla andarsene nell
’aria chiara. Successivamente rientrai nel palazzo, interrogai coloro che incontrai, ma nessuno sembrava averla vista o conoscerla; decisi allora di mantenere quell’incontro un segreto, in attesa di comprendere che cosa ne sarebbe seguito. Grandi cose attendono gli uomini quando gli Dèi fanno la loro comparsa tra di essi, e la mia immagine era appena stata riflessa da uno sguardo immortale.
Qualche giorno dopo scoprii che il mio ventre ospitava un
’altra vita; e quando quel dono si rivelò essere un maschio, un forte e bellissimo principe, danzai per notti intere nel chiarore delle stelle, senza riuscire a frenare la gioia. Quanto era grande, allora, la mia sconsideratezza; infatti, come la Luna cambia volto, così la mia Sorte stava per intrecciarsi con le nubi di una spietata tempesta, e mutare la propria trama.



Tutti, in Acaia [5], conoscevano il nome dell’Atride Agamennone: la sua potenza sulle genti era immensa, pari solamente alla brama di ricchezze e all’amore per la guerra. Così, quando i suoi passi risuonarono nel mégaron [6], un mattino così freddo da strangolare i fiori nei campi, nessuno poté reprimere un brivido.
L’aspetto del re di Micene, per quanto gradevole, era di
tenebra: scuri i capelli, notturni gli occhi arroganti e nera la cicatrice che partiva dalla fronte e, sfiorando l’occhio sinistro, terminava sulla tempia; anche la pelle, seppur bianca, sembrava emanare il buio. Era tuttavia il suo sorriso, affilato come una lama, a spaventarmi di più.
Tantalo si mostrò rispettoso verso le regole dell’ospitalità, lo accolse con calore; ma la tensione prendeva forma istante dopo istante, ammorbava l’aria di silenziose minacce e sibili.
Mentre guardavo l’Atride fissarci tutti con superiorità, ghignando della giovane età del mio sposo, desiderai che il velo che mi copriva le chiome mi celasse e insieme con me avvolgesse anche Tantalo, portando entrambi via da quel luogo; e nonostante le brevi occhiate rivolte a me, per tutto il giorno continuai poi a sentire il suo respiro sulla pelle, quasi la sua ombra si fosse staccata da lui per unirsi alla mia.
Il re rimase una notte sotto il mio tetto, trattenendo mio marito lontano dal talamo; non seppi mai le parole che si scambiarono, ma quando l’alba venne e il carro di Agamennone svanì nella polvere, fu come se fosse ritornata la Primavera.
I mesi che seguirono furono tranquilli; ma sul volto di Tantalo si agitava spesso uno spettro di timore, nella notte i suoi occhi guizzavano alle mura della città, come se le stesse valutando.

Infine, un giorno le parole che la gente mormorava tra le strade e nel silenzio delle loro alcove presero forma: l’esercito dell’Atride giunse alle porte, unito da un solo grido.
Guerra
.


In poche ore, le nostre certezze si sfaldarono come cenere nel vento, lasciandoci sgomenti e vuoti di ogni pensiero.
Nelle case risuonavano preghiere e lamenti, clangore d’armi; nel palazzo, invece, si udiva solo la voce di Tantalo mormorare parole che comprendevo solamente dopo lunghi istanti.
Non deve averti. Qualsiasi cosa succeda… non deve averti.”
Qualsiasi cosa succeda… qualsiasi cosa succeda. Perché? Che cosa deve accadere?
Non oso nemmeno pensare a quello... quello che potrebbe farti.”
Il Sole era ancora alto, eppure a me sembrava già il crepuscolo.
Ritorna”, dissi dopo istanti di silenzio. “Ritorna da me ogni notte. Questo mi basterà.”
Lo sguardo del re si posò su di me, e nei suoi occhi vidi riflessi i miei, vacui, le iridi un’unica nube di buio.
Clitemnestra...” Un sospiro. “C’è un segreto che vorrei rivelarti: una galleria, costruita sotto il palazzo. In caso di pericolo potrebbe essere l’unica via di salvezza… per te e nostro figlio.”
Non morire.
Strinsi con forza i pugni.
Non morire.
Ritorna da me
.
Sono solamente una donna…”, risposi, “… ma vorrei essere il tuo scudo e la tua spada, i Numi che pregherai, la notte che calerà e porrà fine alle battaglie, la forza che ti permetterà di ritornare e ritrovare la strada di casa… vorrei… vorrei...”
I miei stessi pensieri mi resero impossibile proseguire, e quasi non sentii la mano di Tantalo posarsi sui miei capelli. Lui non replicò alle mie parole, il suo cuore era quello di un guerriero: non avrebbe pianto, non avrebbe implorato; avrei versato io le sue lacrime.
Mostramela”, mormorai allora, “mostrami la galleria”.
Nei mattini seguenti, essa divenne il mio rifugio: tra le viscere del suolo, celata al mondo, ascoltavo ogni sussurro che si inseguiva nel palazzo, ogni richiamo e parola strozzata, ottenendo così le risposte a ciò che non avrei mai osato guardare.
A qualche distanza da me, oltre le mura, ribollivano gli scontri; se smettevo di respirare potevo udire l’eco delle armi che si scontravano, il rumore delle ruote dei carri, le grida.
Quando ero sul punto di svenire ingoiavo quanta più aria potessi, e poi ricominciavo: ascoltavo, inspiravo e respiravo; ascoltavo, inspiravo… respiravo. E intanto, pregavo.
Mio figlio era sempre con me, addormentato sul mio grembo: non poteva comprendere quello che accadeva, e ciò lo salvava.
Nutrirmi d’aria, interrogarla; sperare, piangere, rabbrividire, un mantello di freddo e paura a coprire le membra esauste: così tessevo e disfacevo i miei interminabili attimi.
Poi, infine, la Luna compariva e le battaglie cessavano; Pisa risuonava dei singhiozzi strazianti delle vedove e delle madri private dei figli, oppure dei pianti sollevati di chi ancora vedeva ritornare il marito, il fratello, il padre, e ringraziava i Beati.
Io attendevo; china sul suolo, cuore a cuore con il mio bambino, tentavo ogni cosa pur di addormentarmi e al risveglio trovare il volto di Tantalo a vegliarmi.
Per molte volte ciò accadde: le sue mani odorose di sangue e ferro mi sfioravano i capelli, e io mi ridestavo a poco a poco; riconoscevo le sue dita, le afferravo, le baciavo. Insieme ci trascinavamo fuori dalle tenebre, nei bagni, e con pazienza lavavo via ogni lacrima purpurea dal suo corpo, un unico intreccio di cicatrici e ferite.
Non parlavamo se non per consolarci e lasciavamo la notte morire nel sonno o tra i baci, sul letto intriso di sudore e promesse.
Poi, il mattino giungeva rapido e il tormento ricominciava, tanto
che a volte imploravo di morire: morire, per smettere di sentire il mio cuore spaccarsi per il terrore, per non impazzire; e poi mi insultavo, mi gridavo di resistere. “Rafforza il cuore”, urlavo, “costruisci una corazza e combatti, Clitemnestra, combatti!”
Anche quel pomeriggio non sembrava diverso da ogni altro; fino a quando, improvvisamente, il silenzio calò sulla città.
Drizzai il capo, inquieta: perché nessun rumore turbava più il vento? Ero forse divenuta sorda, o… o era tutto finito?
Appoggiai mio figlio al suolo, mi alzai e avanzai verso l’imboccatura della galleria: uno spiraglio di luce si infilava nel pavimento del piano superiore e mi avvolgeva, riscaldandomi.
Dopo qualche tempo, lenti passi risuonarono nel
mégaron; infine li udii avvicinarsi a me, nella galleria.
Con il cuore in tumulto, avanzai verso Tantalo in silenzio: volevo fosse lui a dirmi che la guerra era ormai lontana.
Mio re!”, gridai quando lo sentii a pochi passi da me; ma la lingua fu più veloce della comprensione. Questo… questo non è il suo passo, mi accorsi dopo un istante, indietreggiando istintivamente.
Dall’ombra spuntarono due occhi neri; quindi, il corpo possente di Agamennone comparve davanti al mio sguardo pieno d’orrore. Le sue braccia… le sue braccia sorreggevano un corpo, avvolto in un mantello blu,
il colore dei suoi occhi, dal quale colavano copiosi rivoli di sangue.
I ragazzini dovrebbero lasciare la guerra agli uomini”, esordì il re di Micene, violando il silenzio e il mio cuore, “e tuttavia, lui ha combattuto a lungo e con valore.” Appoggiò il corpo al suolo e io caddi in ginocchio, mi trascinai verso di esso. L’incredulità mi rendeva impossibile parlare, reagire. “Valoroso, ma non saggio quanto si diceva; avrebbe dovuto circondarsi di persone fedeli… non di traditori come quello che mi ha rivelato dove si trovi il tesoro di questa casa.”
Chinai il capo. Le nostre ricchezze avevano perso per me ogni valore; nessun gioiello, nessuna veste, né oro né argento valevano un respiro del mio dolce re. “Prenditi pure tutte le ricchezze di Pisa. Non mi servono e non le voglio”, mormorai, sfiorando il volto di Tantalo attraverso la stoffa di quell’orrido sudario.
Le dita di Agamennone mi sfiorarono il polso, lo strinsero. “Sei
tu il tesoro che ho bramato fin dai primi attimi.”
Il fiato mi si spezzò nel petto, e ancor prima che il terrore mi colpisse con tutta la sua forza, il figlio di Atreo si protese verso di me e mi afferrò il volto, la bellezza dei tratti distorta dalla bramosia. “Tu, la degna sposa di un grande re”, mi sussurrò, avvinghiandomi nelle sue braccia. “Questi occhi non meritano di essere ammirati da gente senza gloria: devono brillare nella reggia di Micene, per me. Quanto, quanto ho desiderato di poterti rivedere, stupendo fiore.”
Detto questo mi gettò al suolo, sotto il suo peso, e sordo alle mie grida mi spogliò di ogni cosa, per poi togliersi il suo mantello e con quello ricoprirmi. Per tutto il tempo tentai di oppormi e implorai di morire, che qualcuno avesse pietà di me e mi uccidesse; nessuno giungeva a liberarmi da quel tormento, e nonostante questo io continuai a gridare, fino a indebolire la voce.
In quegli istanti, tutto ciò che Tantalo aveva fatto sbocciare si chiuse per sempre, soffocato dalle spine dell’odio: una fiera che avrei nutrito per molto, molto tempo… neppure immaginavo quanto.

Tu sia maledetto
, fu il mio ultimo pensiero mentre tutto, intorno a me, si confondeva e svaniva, tu sia per sempre maledetto.




NOTE


[1] La figura qui rappresentata è quella della Potnia, “Signora”, dea della natura e dominatrice di fiere. In tutta l’area mediterranea e anche in quella asiatica si riscontrano figure di dee legate alla vegetazione e alla luna, le “Dee Madri”, il che ha fatto nascere delle ipotesi riguardo l’originaria presenza di culti matriarcali, a cui sarebbero seguiti quelli patriarcali. Alcuni studiosi vedono una reminiscenza di ciò nella caratterizzazione delle divinità femminili nei vari pantheon, le quali avrebbero “adottato” prerogative che un tempo la figura della Dea Madre raggruppava.
Secondo la visione di Untersteiner, anche Clitemnestra e il mito che la vede protagonista rappresenterebbero questa concezione.


[2] Si tratta dell’antico palazzo di Cnosso, a Creta.


[3] Omonimo del più famoso Tantalo che venne condannato a un infinito supplizio nel Tartaro.


[4] Città dell’Elide, nel Peloponneso.


[5] Antico nome della Grecia.


[6] La parte principale del palazzo miceneo, dove il re riceveva ospiti e supplicanti e dove si trovava il focolare.



ANGOLO AUTRICE


Salve a tutti!
Allora, inizialmente questa doveva essere una shot… ma stava diventando davvero lunga, quindi ho ritenuto opportuno dividerla in più capitoli.
Era da tanto che volevo scrivere qualcosa su lei, Clitemnestra, questa splendida figura resa immortale dai tragediografi; il mio interesse verso la sua vicenda è aumentato ancor di più quando mi sono imbattuta nell’interpretazione di Untersteiner, e il fatto che pochi conoscano le sue vicende prima dell’incontro con Agamennone mi ha dato un’ultima spinta… e quindi eccoci qui.
Qualche spiegazione aggiuntiva: per l’aspetto di Elena e Clitemnestra mi sono rifatta alla descrizione che Valerio Massimo Manfredi, nel suo romanzo “Il mio nome è Nessuno – il Giuramento”, fa di loro: la prima una meraviglia di luce, la seconda descritta come bella, ma inquietante.
Nel testo ho insistito molto sia sul legame della regina con la luna, simbolo di potere femminile, sia sul fatto che lei sia particolare e, secondo la concezione del tempo, anomala: Eschilo la definisce “donna dal cuore d’uomo”, che assume su di sé le prerogative di un re… come poi, lo vedrete, farà.
Pochissimo si sa sulla figura di Tantalo, e il mito non dice perché l’Atride gli fece guerra; quindi ho tenuto la questione misteriosa.
Per tutto il resto, se avete dubbi, curiosità, chiarimenti e osservazioni da presentare, non esitate a farlo.
Alla prossima ^^


Manto

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** La Leonessa ***


II – La Leonessa




Pisa è stata conquistata.
Il re è morto.
E il principe… il principe è...

Era notte quando il carro di Agamennone giunse a Micene; la città era illuminata da costellazioni di fiaccole, il cui fumo si nascondeva nel buio e mi avvolgeva in un abbraccio soffocante.
Mio figlio… dov’è il mio bambino?
Le silenziose lacrime che i miei occhi erano riusciti a liberare si erano ormai seccate sulle gote come cicatrici; la mia mente era schiacciata da una fitta nebbia che cancellava ogni sensazione, torturata da orrende visioni.
Dov’è il mio bambino? Ricordo le mie grida… ma lui dov’è?
Agamennone mi accarezzava i riccioli sfuggiti all’acconciatura sfatta, senza smettere di sorridere; ogni suo gesto trasudava possessione e brama, il suo tocco era il sibilo di un serpente.

Più del dolore che avrebbe accompagnato la mia notte di nozze, tuttavia, nei brevi attimi di lucidità tremavo per ciò che il giorno dopo avrebbe avuto inizio: una dorata vita da prigioniera, regina eppure schiava, uno splendido trofeo di guerra. Quanto avrei preferito essere gettata in strada come un cane, essere dimenticata ed evitata; invece sarei stata trascinata nel letto dell’uomo a me più odioso, costretta ad assecondarne i desideri.
Comportati da regina”, mi sibilò lui a un tratto, stringendomi con forza un polso. “Ti ho scelto come sposa, da te pretendo un comportamento esemplare.” La sua presa si sciolse un istante prima che varcassimo la porta leonina e la folla ci accogliesse con grida gioiose, quindi il re riprese ad assaporare la mia pelle con le sue dita sanguinarie. “Guardati attorno”, mi sussurrò, “osserva la città che ti circonda: è ricca, non conosce privazioni, e sono certo che imparai ad amarla come hai fatto con Pisa… e anche di più.”
Dovetti trattenermi fino alla spasimo dal rivolgergli le parole più sprezzanti e astiose, ma lo sguardo che gli lanciai rivelava quali fossero i miei reali pensieri.
I suoi occhi mi fissarono con scherno per qualche istante, quindi si tramutarono in pozze buie, così spaventose che dovetti abbassare lo sguardo per non gridare.
“Che cosa hai fatto a mio figlio?”, sentii poi pronunciare la mia stessa voce.
Silenzio. “Era stirpe nemica.”
Due sole parole, per rivelarmi la peggior nefandezza di cui si sarebbe potuto macchiare e che il mio cuore, fino a quel momento, non aveva voluto riconoscere. “Era solo un bambino...”, mormorai, cercando disperatamente l’aria e chiedendomi perché quell’incubo non fosse ancora cessato. Perché?
Ne avrai altri”, fu la fredda risposta, e a quel punto sorrisi con disprezzo, alzando il capo. “E se quello fosse il destino anche dei tuoi figli?”, sibilai, e una piccola stilla di piacere mi uncinò il petto quando vidi il re afferrare con rabbia il bordo del carro.
Quelle furono le uniche parole che ci scambiammo durante il viaggio; quando giungemmo alla reggia, fu lo stesso Agamennone a trascinarmici dentro, separandosi da me solo dopo avermi consegnato alle ancelle, perché mi preparassero alla notte.
Quando infine venni condotta alla camera nuziale, lui era già lì, il viso rivolto a una Luna così enorme che la grande finestra non riusciva ad abbracciarla nella sua interezza. Appena sentì i miei passi si voltò e mi fissò con i suoi occhi di pietra nera, il candido torace scoperto drappeggiato dal velo dell’oscurità.
Se lo avessi conosciuto prima di Tantalo lo avrei desiderato con ardore; ma tutta la bellezza si sfaldava nella scia di sangue che gli faceva da mantello, moriva tra quelle mani che ignoravano la pietà.
Non chinai il capo quando lui mi si avvicinò; non lo feci quando mi colpì con un violento schiaffo, né quando mi prese per la vita e sollevandomi mi sbatté contro la parete, graffiandomi schiena e braccia. “I miei figli non subiranno la sorte del tuo bastardo”, sibilò, “perché io non sono debole quanto lo era Tantalo.
Io comando, ciò che voglio lo ottengo, e sono in grado di proteggere chi mi è caro.”
Tantalo non aveva la tua stessa forza, è vero”, replicai soffiando, “ma ricorda che tu mi hai preso con il tradimento. Non gloriarti di questo rapimento… grande re.”
Agamennone lasciò la presa; scivolai al suolo battendo malamente i gomiti, e quando mugolai dal dolore lui sorrise, compiaciuto, per poi inginocchiarsi di fronte a me. “Dimenticati ciò che hai visto e sopportato, perché non ti farò del male… se accetterai la tua Sorte.
Se accetterai me.”
La mia risposta era chiara nel disprezzo che gli occhi urlavano; ma la sua espressione non mutò, come se il rancore non lo lambisse.
In quel momento capii: tutti i miei tentativi di resistere non sarebbero valsi a nulla.
Agamennone vinceva sempre, e ancora una volta l’aveva fatto, mostrandomi quanto fossi sola.
Chi avrebbe accolto il mio grido furioso, chi avrebbe asciugato le lacrime di una donna, un mero oggetto di scambio, chiamata più volte maledizione e peso? Le sue pretese erano legittimate dal potere e dalle leggi della guerra, e per questo non temeva la mia furia: mi giudicava debole, indifendibile... patetica.

Ma potrebbe arrivare il giorno in cui sarai tu a temere,
pensai, potrebbe arrivare, e allora... allora...
I pensieri furono spezzati dai miei singhiozzi, seguiti poi da un pianto nero come le parole che reprimevo nel cuore.

Dov’era Clitemnestra la Fiera, allora? Era stata spezzata e uccisa insieme alla sua famiglia? Era fuggita in luoghi dove la violenza non poteva giungere, dove l’odio non aveva motivi per esistere?
Me lo chiesi per tutta la notte, rannicchiata in un angolo della camera e tenuta sotto la sorveglianza dello sguardo del re, e continuai a farlo anche il giorno dopo, da quando il Sole apparve timidamente per riscaldare i tetti della città.
Agamennone lasciò il letto, andò alla finestra; sorrise al fresco mattino e ai canti che la brezza portava con sé, per poi voltarsi. “Li senti, figlia di Tindaro? Sono imenei, doni per noi
”, mi sussurrò.
Le nozze che poche ore dopo si svolsero non furono felici come le prime: nonostante i canti e i balli che mi circondavano, nonostante l’aria intessuta di profumi e musica, io sentivo solo me stessa urlare, le narici piene dell’odore del sangue, come se mai avessi lasciato quella buia galleria dove avevo visto gli Inferi aprirsi e fossi stata intrappolata per sempre là, tra le spire di un incubo.

Quell’orrenda sensazione mi accompagnò per tutti i festeggiamenti e mi fu al fianco fino nel talamo, dove Agamennone, dopo avermi sussurrato parole che la tristezza non mi fece comprendere, diede sfogo al suo desiderio. Non ebbe alcuna importanza il fatto che usò gentilezza e che il mio corpo reagì alle sue carezze: tra i sospiri di quella notte guardai il mio futuro contorcersi in una trama indesiderata, e quando gridai non lo feci per il piacere; ma questo rimarrà sempre un segreto celato nel mio cuore, dove i ricordi non possono essere uccisi; lì, nell’unico luogo dove io posso essere ancora mia... totalmente, e solamente, mia.



Nei primi mesi furono in molti a fare considerazioni sulla mia nuova vita: Micene mormorava che per me la Sorte non fosse mutata, dato che il re aveva avuto la bontà di sposarmi, salvandomi dall’ignominia della schiavitù. Ero ancora regina, solamente di un’altra città; quindi, che la mia voce non osasse alzare lamentele e richieste, che il mio temperamento fosse quieto e non rancoroso, perché gli Dèi mi avevano concesso l’onore di sposare la Potenza.
Ciò mormorava la
mia gente, accusando in segreto lo sguardo con cui li osservavo avanzare nel mégaron ed esporre le loro sfortune, ma temendolo quando lo posavo sulle loro teste.
Che cosa potevano sapere, comprendere, di ciò che provavo?

Era vero, così come a Pisa scioglievo il nodo dei giorni negli appartamenti femminili, tessendo e controllando l’operato della servitù, oppure occupandomi della mia bellezza, facevo lo stesso a Micene; ma era un’altra, in verità, a farlo.
Quando mi specchiavo, non riconoscevo più il mio volto: ero davvero io quella donna senza
espressione?
Ero davvero io quella che sgridava con furia le ancelle a ogni invisibile imperfezione nel loro lavoro, ero davvero io quella che tesseva i pepli più meravigliosi e poi li faceva a pezzi?
Ogni giorno era peggiore dei precedenti: aprivo gli occhi, fissavo il soffitto della camera e mi chiedevo cosa tenesse ancora insieme quel grumo di schegge tremolanti in cui ero stata ridotta, e quando sarei potuta essere libera di cadere in frantumi e divenire aria. Il silenzio era l
’unica compagnia che non disprezzassi... ma con esso arrivava, spesso, anche l’inquietudine: perché mai, mai avevo visto tanta oscurità come nella casa di Agamennone.
Non sapevo per quale motivo, ma la stirpe a cui ero stata unita era maledetta, e ben presto compresi che il sangue che il re si lasciava alle spalle era molto più di quanto avessi scorto, e non sporcava solamente lui: era il marchio di una colpa che il tempo non avrebbe estinto [1], che sfrigolava come fiamma sotto la pelle dell’Atride, pronta a mordere e condannare anche me.
Così, tra timori e ricordi, svolsi il filo dei miei istanti per lunghi giorni; poi, un mattino, ancor prima di aprire gli occhi compresi che stava per accadere qualcosa. Mi alzai a sedere nel talamo con il cuore che batteva dolorosamente, e senza nemmeno vestirmi mi diressi alla finestra; la Luna sbiadiva nel roseo manto dell’alba, eppure, ne sono sicura, la scorsi rifulgere quando posai gli occhi su di Lei. Cercai di comprendere che cosa la sua luce mi volesse dire, e quella sensazione di
attesa mi accompagnò per tutto il giorno; così, quando una delle ancelle mi punse inavvertitamente la spalla con uno spillone, me ne accorsi solamente quando una goccia di sangue piombò sul dorso della mia mano.
 Perdonami, mia signora...” sentii mormorare la fanciulla, e allora le rivolsi lo sguardo, la vidi rannicchiata su sé stessa al suolo, in attesa di essere punita. Se questo fosse accaduto il giorno prima, l’avrei torturata con quello stesso spillone fino a farla urlare; invece, quando allungai la mano fu per accarezzarle con calma i capelli. “Alzati”, mormorai, “e riprendi il tuo lavoro.” Le sorrisi, quindi ripresi a fissare il cielo; e quando il Sole stava per iniziare la lunga discesa, mi rifugiai nei giardini.
Le ore scorsero veloci passeggiando senza meta tra gli alberi, fino a quando una voce calma mi chiamò. “Lasciami sola, chiunque tu sia”, sussurrai, poi qualcosa mi spinse a voltarmi.
Sobbalzai quando riconobbi nell’elegante figura che mi stava innanzi la donna senza nome che avevo già incontrato nel palazzo di Tantalo, e un brivido mi attraversò la schiena, bloccandomi.
Lei sorrise con la stessa dolcezza con cui parlava, quasi avesse appreso i miei pensieri, e mi si avvicinò lentamente. “La tua fierezza è proprio qui, davanti ai miei occhi: ma è solamente un’ombra di quella che era prima. Sono davvero bastati così pochi istanti per cambiarti e farti smarrire, regina?”
Rimasi in silenzio, sentendomi esposta, nuda, davanti al sorriso della sconosciuta, che abbassò lo sguardo. “Ho sofferto con te, dolce Clitemnestra, e ne soffro ancora. Ti avevo portato la gioiosa notizia di un figlio, e questo bambino l’ho visto morire nel silenzio.
Stai provando ciò che ogni madre non ha nemmeno il coraggio di pensare, e quanto te mi sento violata.
Questo mondo protegge gli uomini, riduce all’impotenza noi donne: ma noi possiamo ancora e sempre combattere, non credi?
Una spada non fa di sé un’arma, se non nel modo in cui la si usa; tutto, con intelligenza e con la giusta decisione, può servire a proteggerti e a riportare la giustizia.”
Nessuna donna avrà mai un tale potere”, ribattei dopo un lungo istante di silenzio, “nessuna.”
 In realtà non è così. A volte, una donna può rivelarsi l’inaspettato nemico, il più subdolo e spietato. Che cosa limita l’amore di una madre verso i propri figli? La Morte stessa non fa che accrescerlo.”
Scossi il capo, e la sconosciuta annuì leggermente alla mia incredulità. “Il tuo dolore è inestinguibile e maligno, e le mie parole ti giungono incomprensibili; ma un giorno riuscirai a capirle.
Allora, niente si opporrà a te: i fiumi placheranno la furia e le pietre si piegheranno... e una nuova Luna sorgerà.”
Rimasi impietrita, mentre a quelle parole rispondeva un’immagine: la misteriosa statua che una volta avevo sognato, la dominatrice delle fiere e della Natura. “Io... io...”
La donna si voltò, senza ascoltarmi. “È di
nuovo Luna piena, regina, e lo sarà per altre tre”, mormorò, per poi svanire nella luce.
Quando compresi quelle parole mi premetti una mano sul ventre, tremando; quindi mi accasciai sul terreno, e lì piansi a lungo.
Quella notte, quando le porte del talamo si chiusero e Agamennone mi prese tra le braccia per rovesciarmi sul letto, io lo fermai. “No, questa notte non mi avrai”, mormorai, “perché ballerò a lungo, per ringraziare gli Dèi della vita che cresce dentro me.”
Gli occhi del re si ingrandirono, rifulsero. Non mi mossi quando lui mi abbracciò, non ricambiai i suoi baci: volevo allontanarmi dal suo sguardo, rimanere in completa solitudine.
La sua testa infine annuì, le sue braccia si aprirono: “Danza fino all
’alba e anche oltre, mia regina”, mormorò, e l’eco delle sue parole era appena svanito che come una farfalla mi librai per i corridoi del palazzo, raggiungendo i giardini e liberando la mia energia in una sfrenata preghiera, bagnata dal plenilunio e dalla sua benedizione.
Nei giorni successivi, la premura materna scacciò in parte l’astio, e anche il comportamento di Agamennone mutò: davanti al mio ventre ogni mese più gonfio, la sua prepotenza allentava il morso, lasciando che fosse una sorta di timore reverenziale ad accompagnarlo; e anche le sue ombre si ritraevano.

Quando finalmente il dono tanto attese nacque, scoprimmo che era una principessa dai capelli corvini, che colpiti dalla luce divenivano onde violette, e dai grandi occhi ambrati: uno sguardo consapevole, quasi antico, li illuminava, sfiorando appena l’aria e la realtà, rivelando una profonda quanto inspiegabile conoscenza, unita alla più innocente dolcezza. Era diversa, lo comprendemmo entrambi; e come tale, seppi subito che avrei dovuto sempre sorvegliarla.
Immersa in quei pensieri, non mi accorsi che Agamennone si era avvicinato alla balia e aveva preso la piccola dalle sue braccia; per un istante tremai, poi lo guardai accostare lentamente la fronte alla sua. “
Atta [2] ti proteggerà sempre, mio fiore. Sempre”, mormorò, e la bambina lo guardò con intensità, quasi volesse scrutargli le profondità del cuore; quindi con una delle sue manine gli strinse un dito, in una tenera richiesta di affetto.
Dopo qualche istante il re la portò da me, e io le accarezzai il capo. “Ifigenia... mia adorata”, mormorai. Alzai poi gli occhi su di lui, e con un gesto secco feci allontanare tutti. “Ricordati di questa promessa”, gli sussurrai quando fummo da soli, “ricordati le parole che hai appena pronunciato. Gli Dèì ci guardano, e non dimenticano... non lo fanno mai.”
La mia voce fu potente come il rombo di un tuono, resa ferma dall’amore che provavo per la nostra piccola rosa: avevo già perso un figlio, non avrei sopportato la morte di un altro...
senza rischiare di impazzire e osare l’inaudito.
Agamennone chinò il capo; quando lo rialzò, c’era verità nel suo sguardo. “Ogni cosa che ho detto è una promessa; ai Beati come a te, mia
leaina [3], io non ho mentito.” Annuì; e quella fu la prima volta che tollerai le sue mani sulla mia pelle e fui contenta di sentire la sua voce.
In seguito, come mi era stato predetto, ebbi altri tre figli: Elettra la Splendente, la rondine dagli occhi neri ma dalla chioma di fuoco, che fin da subito si mostrò così legata al padre da dormire o quietare il pianto solamente nelle sue braccia; Crisotemi, timida e dolce, priva di quel fuoco che le sue sorelle possedevano; e infine Oreste, il più perfetto simulacro di Agamennone e il suo orgoglio.
Ognuno di loro era così bello da farmi temere l’invidia degli Dèi, e io lo vegliavo con tutte le mie forze; tuttavia, era proprio Ifigenia e la sua anima cangiante a trattenere il mio sguardo più a lungo.
È diversa, e chi si distingue raramente trova gioia”, sussurravo ad Agamennone nella notte, stringendomi contro il suo petto.
Continuavo a rimpiangere Tantalo e la mia vita precedente, ma lentamente la sua presenza diveniva sempre più sopportabile.

Lui mi accarezzava la schiena e i capelli, mi parlava fino a quando non calmavo le mie paure; e se da una parte la sicurezza della sua lingua mi intimoriva – era superbia quella che a volte percepivo, nascosta e sibilante tra le parole –, dall’altra mi rassicurava: lui era veramente potente, dove posava lo sguardo giungeva la vittoria; si diceva che fosse lo stesso Zeus a vegliarlo, tanta era la sua forza.
E tuttavia... tuttavia c’era una cosa che avevo imparato e mai avrei dimenticato: nessuno, nemmeno il Cronide [4], può cambiare il corso della Luna, Dea dal volto mai uguale.


Il primo presagio, in un dolce mattino, fu il volto degli uccelli: basso e circolare, come quando si avvicina una tempesta, e pieno di grida. Tuttavia, il cielo rimase sereno per giorni e giorni.
Il secondo presagio, in un lento pomeriggio, furono le campagne: il grano si piegò sotto un vento invisibile, e dai canneti che costeggiavano i rivi emerse un pianto; ma non c’era nessun uomo o animale a vagare in quei luoghi.
Il terzo presagio, in una notte fredda, furono la terra e il cielo: la prima si spaccò e ne uscì sangue che subito svanì, il secondo divorò le stelle una a una, per poi liberarle dopo interminabili istanti.
A questi segni, che furono i più terribili, ne seguirono altri, e paura e sconcerto si riversarono sempre di più nel nostro palazzo, assumendo la forma di preghiere, di racconti di fuochi e tenebre.
Intimorita da quelle orrende visioni, molte notti mi svegliai di soprassalto, stringendo al petto Oreste e correndo dalle mie figlie, timorosa di non trovarle nei loro letti; quando le scorgevo nei giardini urlavo loro di rientrare, per poi abbracciarle strettamente e implorare loro di essere prudenti, che avremmo dovuto essere pronti.
Furono giorni di silenzio e tremiti, quelli: temevamo ogni fruscio troppo forte, ogni fulmine che squarciava il cielo del primo mattino, la goccia di pioggia che si frantumava al suolo; e come Micene, anche le altre città stavano vivendo le nostre stesse irreali vicende.
L’aria è priva di ogni odore umano”, mormorava Agamennone, mentre osservavamo le tempeste abbattersi sui tetti della città, “perfino di quello della vita. Il vento porta profumi mai percepiti prima.” Alzava poi lo sguardo verso il cielo intrappolato dalle nubi, lo osservava. “Questa è una guerra fra Dèi.”
Forse è così... ma la loro ira riguarda anche noi”, rispondevo.
Sì. E nessuno può essere sicuro che la battaglia non sposti le sue forze tra di noi... un giorno”, terminava.
Tuttavia, con la medesima velocità con cui tutto era iniziato, improvvisamente cessò: le notti divennero quiete, la Natura riprese il suo ciclo, nessun rombo ruppe più la tranquillità del giorno.

Io, tuttavia, non riuscii a crederci in quella pace: non aveva ancora nome ciò che ci sovrastava, ma non sarebbe rimasto celato per sempre. Io, che avevo già vissuto quella realtà, sapevo che quello non era stato nemmeno l’inizio, e nonostante i giorni iniziassero a rincorrersi sempre più velocemente, ogni nuovo mattino scrutavo l’orizzonte, in attesa.
Passarono anni prima che i fili del Destino iniziassero a delineare una trama; e tutto iniziò in un pomeriggio uguale agli altri.
Se chiudo gli occhi, ogni istante di quel giorno perduto mi si svela: le dita abili di Ifigenia ed Elettra che corrono sul telaio e formano un disegno sempre più splendido, il mio sguardo che accarezza il bruno e il rame dei loro capelli, le risate di Oreste, ancora così piccolo e fragile, che gioca con l’orlo del velo e mi guarda, cercando i miei occhi e ridendo ancora più forte quando li trova.
Non tentarmi, piccolo, o potrei mangiarti”, posso ancora sentire me stessa sussurrare, prima di ghermirlo e ricoprirlo di baci; e in ugual modo sento il calore del Sole scomparire, divenire solo una striscia infuocata che non vuole abbandonare il cielo.
Ed è lì, mentre mostro al principe il corpo sinuoso della mia pallida Dea che fa splendere il firmamento, che la scorgo: una minuscola luce tremolante, una fiaccola, che velocemente si avvicina; un’altra la segue, e poi ancora, senza fine, e insieme a loro giunge un’incomprensibile inquietudine. “Ifigenia, Elettra, prendete vostro fratello; voi, ancelle, cercate Crisotemi e portatela qui. Subito!”, esclama,
ora come allora, la mia voce piena d’allarme, vedendo in quell’inaspettata processione più di quanto avrei voluto.
Sì, ricordo… molti carri bucarono il manto del buio, quella notte; il palazzo si riempì di grida e sussurri, e se la voce di Agamennone riuscì infine a portare il silenzio, fallì tuttavia nel recare la calma.
In mezzo a quella cacofonia spiccavano le dure parole di una persona che non stentai a riconoscere: il re di Sparta Menelao, lo sposo di Elena. Qual era il motivo della rabbia che avvelenava la sua lingua? Il sordo vociare che lo circondava mi impediva di udirlo chiaramente, ma percepivo i muri tremare quando lui parlava.
Ci stanno forse attaccando, madre?”, chiese a un certo punto Elettra, venendo più vicina a me.
Io scossi il capo, cercando di calmare lei e allo stesso tempo me stessa. “Non ti devi preoccupare di niente, mia luce. Non c’è alcun pericolo”, mormorai, ma la piccola non smise di guardarmi.
Atta sta bene, vero?”, mormorò di nuovo, alzando appena la voce; io sorrisi, le accarezzai una guancia. “Elettra, ritorna con le altre e rimani tranquilla: tuo padre è solo impegnato in questioni di governo e gli animi sono solo un po’ più caldi del solito.”
Rimasi a guardarla allontanarsi mordendomi le labbra con forza, perché stavo provando la sua stessa paura, e sopportai a stento le molte ore d’attesa; infine, quando finalmente udii il palazzo cadere nel silenzio, lasciai le miei stanze e mi misi in cerca di Agamennone, per poi trovarlo nella nostra camera, il volto teso rivolto alla porta.
Mio re...”, mormorai avvicinandomi, “che cosa è accaduto?”
Lui alzò appena lo sguardo su di me, quindi tese una mano per tenermi lontana dal suo petto. “Tu e tua sorella eravate destinate ad avere più di un marito... a quanto pare”, mormorò.
Corrugai la fronte, senza capire, e lui scosse il capo. “Siamo… siamo stati traditi e sfidati, e non possiamo non combattere.”

Chi-chi ci ha tradito?”
Silenzio. “Elena non è più qui, tra le braccia della sua terra natale; naviga verso la città di Troia, insieme al suo rapitore.
La guerra degli Dèi ora è scesa tra di noi, Clitemnestra, e ci chiama. I giorni della pace sono finiti.”
Socchiusi gli occhi, conscia di non aver ancora appreso appieno quelle parole. “Sono mai esistiti? Per te… ma non per me”, replicai tuttavia, senza nascondere l’amarezza del tono.
Agamennone non rispose, forse nemmeno mi udì; ma se anche lo avesse fatto, le mie parole non avrebbero avuto conseguenze.
Distese di sabbia e sangue erano il suo nuovo orizzonte, gloria e potenza le amanti; l’incerta sorte di regina o schiava sarebbe toccata nuovamente a me, una donna… un’ombra, una piccola pietra preziosa su una corona che non mi sarebbe mai appartenuta.
Partiremo prima che il mare diventi tempestoso. Il ritorno... il ritorno solo i Numi sapranno e vorranno concedercelo.
Non so se ti rivedrò ancora, figlia di Tindaro.”
Nelle sue parole c’era più tristezza di quella che io provassi per lui. “Sei stato forgiato dalle guerre. Tornerai”, mormorai solamente, allungando una mano e accarezzandogli il volto, non staccandola dalla sua pelle per tutto il tempo che l’oscurità ci avvolse
.
 Tu non piangerai per me, vero?”, disse a un tratto il re. L’armatura di orgoglio non era riuscita a proteggerlo dal fatto che mai l’avrei amato come Tantalo, e in quel frangente ogni menzogna cadeva; e tuttavia, come me lui si preoccupava dei nostri figli, li amava e vegliava: questo affetto, seppur lievemente, mi aveva legata a lui, e non lo avrei tenuto segreto. “No. Ma pregherò per il tuo ritorno... perché chi mi è caro ha bisogno di te”, gli mormorai.
Lui non rispose, né mi parlò più per tutti i restanti giorni che lo separarono dalla partenza; solamente, sul far della sera mi raggiungeva e rimaneva a guardare un altro crepuscolo, per poi andarsene e raggiungere le nostre figlie, giocare con loro a lungo.
Io non lo seguivo, perché in quegli istanti i miei pensieri mi imponevano la solitudine: tutto quello era troppo simile a ciò che avevo sopportato a Pisa, e ogni giorno ero più affaticata, oppressa nel petto, del precedente. Era paura?
Era preoccupazione, tristezza?
Era
consapevolezza?
Ho paura, madre. Non per la guerra... ma a causa di qualcosa che ancora non riesco a capire. È una sensazione che mi toglie il sonno”, mi sussurrò una sera Ifigenia, mentre ultimavamo l’ennesimo peplo.
Tutti noi temiamo per il re. È normale”, le risposi, senza dare a vedere il turbamento.
Forse è quello. Forse è... solo immaginazione.”
Non c’era la Luna l’ultima notte che Agamennone mi strinse a sé e sospirò tra i miei capelli, né spuntò il Sole quando, il mattino successivo, salì sul carro che conduceva lontano da noi.
In un chiarore che non aveva niente di reale, guardai il grande Atride svanire sul sentiero, cercando di non ascoltare il pianto che mi circondava e la tempesta che ululava nella mia mente.
A presto... grande Agamennone”, mormorai, stringendo con più forza Oreste e cercando tra i suoi riccioli il profumo del padre.
Gli Dèi non erano con noi, allora; eravamo solo noi, con la nostra umanità e i nostri pensieri, davanti alla Sorte.





NOTE


[1] Si fa riferimento alla lunga scia di crudeltà e vendette che vide protagonisti Atreo e Tieste, rispettivamente padre e zio di Agamennone e Menelao.
Le nefandezze che compiranno non moriranno con loro, ma macchieranno anche gli Atridi, e solamente con Oreste la scia di sangue avrà fine.


[2] Forma affettiva per definire il padre, corrisponde al nostro “papà” o “babbo”.


[3] Nella tragedia di Eschilo, Cassandra definisce Clitemnestra una “leonessa (leaina) a due gambe”.


[4] Patronimico di Zeus, in quanto figlio di Crono.




ANGOLO AUTRICE


Buonasera a tutti :)
Così, siamo arrivati al secondo capitolo... e ancora non abbiamo finito *si dispera*
Ebbene sì, ancora una volta questo capitolo stava diventando troppo lungo, e ho deciso di dividerlo: ma ormai siamo vicini al punto cruciale... forse.
Altre note: non si ha menzione nei miti di segni premonitori riguardo alla guerra di Troia, ma ho voluto inserirli comunque, per enfatizzare l’entità del conflitto che si avvicinava.
Non si è sicuri sull’esatta successione dei figli di Agamennone e Clitemnestra, se non che Oreste doveva essere l’ultimo nato, mentre ho insistito sul legame di Elettra con Agamennone così come ci viene presentato nelle tragedie.
Non mi sembra che abbia altro da dire, se non che se avete precisazioni o domande io sono qui per ascoltarvi e rispondervi.


Alla prossima,
Manto

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il Ritorno della Regina ***


Dea

III – Il Ritorno della Regina





Dopo la partenza del re, un nuovo sovrano si insediò nella città: il profondo silenzio dell’Attesa si prese il palazzo e le case, i campi e i fiumi, sorgendo dal suolo arroventato dal mezzogiorno o cavalcando il vento della prima sera insieme alle nubi che scivolavano lente e morbide sopra i tetti, verso il mare.
In alcune di quelle notti prive di luce, mi ritrovai a pregare gli Dèi per il ritorno del re, perché solamente Agamennone avrebbe potuto dissolvere un futuro angoscioso e incerto.
Elettra liberò tutte le lacrime che i suoi piccoli occhi potevano spremere, ma dopo qualche giorno si calmò, e ricominciò a dormire, seppur di un sonno inquieto; Ifigenia era ansiosa quanto la sorella di rivedere il padre, ma non rinunciava ai suoi lavori, mentre Crisotemi e Oreste erano troppo piccoli per provare nostalgia.
Io vegliavo tutti loro fino a quando il sonno non mi coglieva, perché la lontananza
del nostro signore non spingesse qualcuno a tentare di far loro del male: quando il leone allenta la sorveglianza, i suoi nemici non aspettano altro che chiudere gli artigli sui suoi cuccioli; ma, anche se pochi lo sanno e ancor meno lo raccontano, la leonessa è forte quanto il suo compagno, intimorita da nulla.
Solamente una cosa mi distoglieva dalla cura della mia famiglia: il richiamo della Natura che cresceva libera tutto intorno a me, davanti ai miei occhi. Fin da piccola mi scoprii legata al pacato divenire del bocciolo in splendido fiore, alla costellazioni di gemme e foglie che rendevano la primavera un sospiro di bellezza, alle distese di grano impreziosite dalle chiome dei papaveri; dalle mie stanze potevo guardare come il vento le faceva giocare, trasformandole in onde fruscianti, e spesso mio padre mi permetteva di allontanarmi per un poco dal palazzo e infilarmici dentro, lasciando che il cielo si riducesse a una pozza di stelle intrappolata in un mare dorato.
Pisa e Micene avevano allontanato quei momenti con il peso del dovere, ma a volte il bisogno di abbandonare gli abiti regali e ritornare quella bambina spensierata batteva forte in me, era parte del mio stesso cuore. L
’assenza del re lo acuiva istante dopo istante, ma la realizzazione di questo desiderio era proibita: avevo scoperto, infatti, che prima della partenza Agamennone aveva incaricato il nostro aedo, il cui sguardo vacuo vedeva e comprendeva più di quanto si immaginasse, di sorvegliarmi e vigilare sulla mia integrità.
Ciò non mi preoccupava in alcun modo, siccome non avevo nessuna intenzione di cercare altri uomini, ma la mia scomparsa, anche se per qualche ora, avrebbe potuto destare sospetti e portato a pericolose conseguenze.
Cercai quindi di calmare la mia smania in lunghe passeggiate notturne nei giardini, rivolgendo canti e preghiere alla mia Dea argentea od osservandola nel silenzio che è proprio dei fedeli.
Un inaspettato aiuto giunse tuttavia dalle mie figlie, in un caldo pomeriggio dove ogni cosa era immobile.

Madre... vorrei vedere il cielo stellato.”
La voce d’usignolo di Elettra fece tintinnare l’aria, spezzando la monotonia del silenzio.
Interruppi per un istante il mio lavoro al telaio, quindi mi voltai a guardarla. Anche Ifigenia e Crisotemi si erano bloccate e mi guardavano con interesse e attesa, facendomi capire che tutte e tre mi stavano porgendo la medesima richiesta. “Che cosa intendi?”

Elettra chinò il capo, arrossendo lievemente. “Io e le mie sorelle... vorremmo uscire dal palazzo di notte... e guardare le stelle.

Non dalla finestra o dal giardino, ma all’aperto, nelle campagne, senza mura a circondarci.”
Sorrisi dolcemente, quindi sospirai. “Dobbiamo restare nel palazzo. Siamo membri della famiglia reale... e vostro padre non è qui per proteggervi. Se vi accadesse qualcosa?”
Madre...”, intervenne allora Crisotemi, “... non andremmo da sole. Vorremmo che tu venissi con noi.”
Spalancai gli occhi, sorpresa. “Figlie mie...”
Madre, ti supplico!”
Solo per una notte!”
Non fuggiremo dal tuo fianco... ma portaci a vedere le stelle, per favore! Per favore!”
E la Luna! Gli alberi del giardino la coprono sempre, e io vorrei vederla bene...”
Ti prego!”
I loro occhi accesi di supplica e speranza, le loro tre voci che si accalcavano e confondevano fecero morire le parole che già avevo in gola; per riportare ordine dovetti lanciare loro uno sguardo severo, e quando si calmarono mi decisi a parlare. “Dovremmo essere scortate, e le guardie sono indispensabili qui, al palazzo. Tuttavia”, e qui cedetti, forse troppo presto per risultare irritata dalla loro richiesta, “per qualche ora – e solamente per questa volta – potrebbe essere fattibile. Ma che poi non se ne riparli più.”
Lo sguardo complice che le tre sorelle si scambiarono mi fece corrugare la fronte, ma credevo anche che realizzare un desiderio come quello non avrebbe portato ad alcun male. “Riprendete il vostro lavoro, così prima finirete e prima andremo”, terminai quindi, realizzando che anche per me quella breve fuga avrebbe recato giovamento. Era passato quasi un mese da quando gli uomini erano partiti, e i giorni trascorrevano tutti uguali, tranquilli e lenti, logorando le nostre forze: avevamo diritto a un istante di libertà, solo per noi, lontano dalla quotidianità e dalle regole.
Per questo quella sera, quando lasciammo il palazzo seguite da un paio di guardie, inspirammo con forza l
aria fresca come se mai avessimo respirato. “Perché sono così distanti?”, chiese Crisotemi più volte mentre le campagne si aprivano davanti a noi, gli occhi rivolti alla volta traboccante di stelle e le mani tese in un vano tentativo di prenderle.
La presi in braccio, la alzai sopra la mia testa. “Anche se non puoi afferrarle, ora sono comunque più vicine”, le sussurrai con dolcezza, mentre Ifigenia saltellava al mio fianco ed Elettra si sfogava correndo e gridando, facendomi ricordare quando ero io la bambina ribelle, spensierata e forte come lei.
Scegliemmo un piccolo campo traboccante di fiori per osservare la notte volare e lì rimanemmo strette l
’una all’altra, chiedendoci se i Beati ci stessero osservando attraverso gli astri.
Tuttavia, Ifigenia non fissava loro: la sua attenzione era sulla pallida mezzaluna, e per questo mi chinai verso di lei. “Qualunque forma assuma, la Dea è sempre bellissima, non credi?”
Lei sorrise lievemente. “Come fa a non precipitare al suolo? Sembra più pesante del Sole... più concreta.” I suoi occhi rifulsero. “La sua luce non ferisce come quella del mezzogiorno, ma rischiara con discrezione, guidando e aiutando chi è in procinto di perdersi nelle tenebre. Sembra... sembra la mano di una madre.”
Sono parole bellissime”, mormorai colpita, quindi lei si voltò, mi abbracciò appoggiando la testa contro il mio ventre. “Il Sole regna con orgoglio, è potente e ci protegge dal freddo e dal buio; ma è lo sguardo della regina argentea a consolarci quando siamo soli.
Atta
è come il Sole... ma tu sei come la Luna; mai nessuno ci amerà di più.”



E ciò vide la luce all’avvento dell’alba.
Ricordo che fu al tramonto seguente che lo vidi per la prima volta: occhi scuri ma dalla sfumatura purpurea, che mostravano come uno specchio il troppo sangue che avevano visto spargere, e quello che intendevano versare per riportare la Giustizia.
Era bianca la sua pelle, neri come le tenebre – quanto è sempre stato simile a me... – i suoi capelli: gli Dèi sembravano averci creato insieme, e poi diviso per tutti quegli anni.
E il suo passo non era indeciso quando avanzò nel mégaron, il fuoco era silenzioso al suo procedere, quasi lo conoscesse già – ed era così [1] – o attendesse di comprendere cosa sarebbe accaduto.
Ricordo bene come i suoi occhi mi penetrarono, senza vergogna o esitazione, fino ad aprirmi il petto e il cuore. Quanta avventatezza, quanta rabbia nel modo in cui mi sorrise: era solo un ragazzino, ma la sua bocca ringhiava il rancore di un’anima vecchia.
E quando chiesi il suo nome, e lui rispose: “Grande wanaxa, il mio nome è Egisto”, desiderai non aver mai udito una voce così profonda e nera, la Morte che rideva e gridava insieme.
Ed era già la cupa notte: il giorno dopo il giovane partì, e altri tre ne sarebbero passati prima il mio Fato giungesse a Micene.
Lui fu il primo a vederlo, a sapere; e a mettermi in guardia, con il suo inquietante silenzio, su ciò che più di tutto dovevo temere.







È il grande Agamennone a mandarmi: richiede la vostra presenza e quella della giovane Ifigenia in Aulide, e vi prega di partire il prima possibile.”
Il messaggero era stanco, ricoperto di polvere e intimorito da me: lessi nei suoi occhi che non c
’era menzogna nelle parole che mi aveva riferito, che era veramente volere del mio signore che lo raggiungessi; quindi presi un grande respiro. “Per quale motivo?”
L’uomo chinò lo sguardo, incapace di sostenere il mio. “Mia regina... il principe dei Mirmidoni desidera prendere la fanciulla in moglie.”
Rimasi immobile per qualche attimo: “Il figlio di Peleo... Achille”, mormorai quindi, chiudendo gli occhi.
Il momento che da tempo avevo iniziato a temere era infine giunto: la prima sarebbe stata Ifigenia, e
dopo di lei sia Elettra che Crisotemi avrebbero lasciato il palazzo per diventare signore e madri al fianco di uomini che, forse, non le avrebbero mai amate.
Ma non volevo, né dovevo pensare al peggio: le mie figlie erano forti, io le avevo preparate ad affrontare la loro Sorte, qualunque forma essa avesse assunto, ed ero certa che l’affetto del loro padre le avrebbe protette dal dolore; quindi, congedai il messaggero e, lasciando in fondo all’animo la mia tristezza, disposi subito i preparativi per la partenza.

Ifigenia ascoltò la notizia sorridendo nel suo particolare modo, gli occhi che brillavano di stupore, e così le sue sorelle, che passarono lintera notte a fantasticare di come sarebbe stato il matrimonio e della bellezza di Achille, che si diceva immensa quanto il suo valore, e quanto avrebbero voluto venire con noi per vederlo.
Io sorridevo ascoltando quei sogni di dolcezza levarsi fino al cielo, sperando che almeno a loro gli Dèi avessero concesso di realizzarsi; e negli occhi di Ifigenia lessi la mia stessa virginale attesa, il ricordo di una vita diversa.

Poi, poche ore dopo l
’alba partimmo: le parole di Agamennone erano state chiare, non potevamo indugiare. Lesercito doveva partire per Troia il prima possibile, e sicuramente il principe voleva un erede dallillustre casa di Atreo, permettendo al sangue più prezioso di Acaia di vincere la morte: ecco perché un matrimonio così tempestivo, con lombra del futuro più incerto incombente sulle sorti di ognuno.
Sarai una saggia regina, e una madre dolcissima”, sussurrai più volte a Ifigenia, acconciandole i capelli e controllando ogni istante che il suo aspetto fosse perfetto; ma poi la strinsi solamente a me, senza più parlare. Nonostante desiderassi che il carro non andasse così veloce, la distanza che ci separava dall’Aulide svaniva un po’ di più a ogni istante, e ben presto il sentore del sale ci solleticò le narici; e quando divenne troppo forte, sentii Ifigenia tremare tra le mie braccia. “Madre... per favore, potete restare con me? Almeno per i primi mesi... vi prego.”
Lo sai che non mi è permesso. Ma tu non devi avere paura... Peleo è un brav’uomo e tu sei una giovane piena di grazia e virtuosa, sarai come una figlia per lui e lui come un padre per te.”
Lei annuì, quindi alzò gli occhi ambrati su di me. “La famiglia di Tantalo ti ha accolto così, come una figlia?”
Io feci per rispondere, ma tacqui.
Tantalo. “Chi ti ha parlato di lui?”, mormorai. Che cosa sapeva? Da chi lo aveva scoperto?
Una volta... una volta ho sentito le nostre ancelle parlare di te.
Si chiedevano se il re Tantalo ti avesse dato la felicità che
atta non è mai riuscito a donarti.”
Rimasi un attimo in silenzio. Non avevo mai parlato alle mie figlie del re di Pisa né della sua fine, non volendo che fossero a conoscenza di ciò che avevo provato; ma le voci circolavano, non potevo controllarle, e allora mi chiesi quanta verità avessero udito le orecchie di Ifigenia.
Madre...”
Quella era unaltra donna. Ed era unaltra realtà.”
Allora è vero? Atta non è stato il tuo primo marito?”
Chiusi gli occhi, per poi afferrarle una mano e stringerla con forza. “Amore mio... ti prego, non chiedermelo più.”
Ifigenia sgranò gli occhi, sorpresa, quindi chinò il capo per pochi istanti. “Avevano ragione, allora. Ti amava molto.”
Ancor prima di lasciarmi parlare, si gettò sul mio ventre, abbracciandomi. “Mi dispiace, mi dispiace così tanto che tu abbia dovuto soffrire!”
Ifigenia, la tua veste si rovinerà...”
Non me ne importa niente della veste! Se solo immagino... se solo immagino cos’hai dovuto sopportare...”
La presi per le spalle, la scossi costringendola a guardarmi. “Ifigenia”, dissi con durezza, “ciò che ho sopportato non deve ferire anche te; perché tu sarai felice, lo so che
lo sarai. Questo sarà il giorno più bello della tua vita, e niente deve rovinarlo.”
Io devo sapere”, continuò Ifigenia, e lo sguardo si incupì. Quale tempesta la stava sconvolgendo, e da quanto: giorni, o anni?
No, non devi... non c’è bisogno. Grazie a te, alle tue sorelle, a Oreste è tutto finito da molto tempo, e ricordarlo non farà bene a nessuna delle due, ma farà molto più male a te: un dolore che non ha alcuna utilità e nessun onore.
Ti prego, bambina mia... non parliamone più. Ti prego.”
Ifigenia mi guardò un
’ultima volta, quindi girò il viso lontano da me, ferita; tornò a fissarmi solamente quando il carro si fermò e dopo qualche attimo una voce che entrambe conoscevamo bene ci salutò: “Mia regina, figliola... benvenute.”



Ed è sempre a questo punto che le mie mani tremano, che i miei occhi piangono ancor prima che il ricordo raggiunga il cuore.
La mia memoria non è così coraggiosa, non lo è mai stata e non lo sarà mai quando si tratta di affrontare questo frammento del mio passato: tace per proteggermi... o forse, per proteggere gli altri.
Ma chi deve più proteggere?
Chi deve salvare?
Chi deve allarmare?
Sono morta io, così come lo saranno loro.
Sono pazza io, così come devono esserlo loro.
Sono spietata io... così come lo furono loro; e per questo che stavolta non indugerò... non cederò alla tentazione di far fuggire i ricordi, non questa volta.
Non questa notte.


Quella spiaggia è ancora risuonante del boato di tutti quegli uomini radunati, arsa da un Sole che il vento non poteva placare?
Il vento, ecco il problema. Il vento che non c’era.
Il vento che non spirava sul mare e quindi frenava le navi, il vento che la Cacciatrice tratteneva, per ira e vendetta. [2]
Quando Agamennone me lo rivelò, io lo guardai confusa; e istintivamente strinsi la mano di Ifigenia, così come cercai lo sguardo del re, per leggervi la verità.
<< Clitemnestra, sii forte >> mi mormorò una voce, forse dentro me – era la voce di Tantalo, era il sussurro della Luna –, forse proveniente dalla terra stessa; ma le braccia di Agamennone mi strinsero con forza, impedendomi di comprenderla.

Mio re...”, mormorai, quindi unombra calò su di me, quando le mani dellAtride mi coprirono gli occhi; e il freddo mi invase le membra, mentre il grido di mia figlia macchiava laria e le grida degli uomini si placavano, tutte insieme, quasi ognuno avesse smarrito la voce o uno dei Beati fosse apparso.
Che succede?”, gridai, cercando di divincolarmi; lacrime cocenti mi bagnarono i capelli e mi scottarono le pelle, e mi accorsi che il re stava piangendo copiosamente; sembrava che i suoi occhi si stessero tramutando in uninfinita pioggia.
Non volevo tutto questo...”, lo sentii mormorare, e io urlai di nuovo: “Che cosa vuol dire questo, Agamennone? Rispondimi!”, ripresi, riuscendo infine a liberarmi dalla sua presa; e ai miei occhi attoniti comparve, nel mezzo della spiaggia, un altare bianco, allestito per un sacrificio.
Ma dov
erano i sacerdoti?
E dov
erano gli animali sacrificali?
E perché Ifigenia vi veniva trasportata a forza, contro la sua volontà... perché urlava?
E il suo sposo... dov
era Achille?
Non riuscivo a capire...

capivo, ma non riuscivo, non volevo credere.
No...”, mormorai allora, girandomi verso Agamennone e prendendogli le mani, “... dimmi che cosa vogliono dalla nostra bambina. Dimmi... sono qui, parlami...”
Perfino le mie parole si rifiutavano di prendere forma.

Clitemnestra...”
Afferrai il volto del re, guardandolo con intensità. Oltre il velo del pianto, vidi la colpa e la vergogna, la disperazione.

Perdonami”, mi sussurrò, prima di lasciarmi cadere nella sabbia e alzarsi, allontanarsi da me.
Agamennone... non te ne andare!”, implorai, trascinandomi dietro di lui, accecata dalla luce e dal calore, “aspetta...”
Mama!”, urlò Ifigenia, e anche se non riuscii a vederla seppi che stava per fuggire, rifugiarsi da me.
Non le vidi, ma seppi che le braccia di suo padre la fermarono, ci separarono. Lui, suo padre, la divise da me; lui… che aveva promesso di tenere il male lontano da noi.

Agamennone!”, urlai allora con tutto il fiato che avevo, la consapevolezza che sbocciava ferendo come una lama, “hai promesso! Hai promesso di proteggerla!”
Atta! Atta, ti prego!”
Ascoltala, Agamennone!”
Era un unico grido, un’unica preghiera.

Mama... aiutami!”
Agamennone...”
Mama... atta...”
Hai promesso!”
<< Non voglio morire. >>
Le sue ultime parole. Non voglio morire.
Il ruggito del vento si alzò all’improvviso, portandomele.

Non voglio morire... ancora”, mormorai anchio, prima di alzare il capo e guardare. Non importa che il desiderio di cavarmi gli occhi con le mie stesse mani divenne così feroce da dovermi mordere le dita per reprimerlo; non importa che non scorsi altro che sangue, un rigagnolo che diveniva ruscello e fiume e onda e mare: per la seconda volta gli Inferi mi accolsero, e allora corsi.
Corsi via da quel luogo, corsi dovunque i miei piedi mi portarono, fino a quando le forze mi sostennero. Via da lì, via da me stessa, via dalla realtà e dai suoi inganni, via da quella vita che non poteva appartenermi, non poteva essere vera: troppo crudele, troppo spietata per essere mia.

<< Mai nessuno ci amerà di più >>
, mormorava la voce.
E al suono di un canto malinconico, una nenia funebre per me e per la mia povera bambina, morii ancora: le ali che mi avevano sorretto si spezzarono, mi fecero ricadere nel baratro da cui molto tempo prima ero riuscita a emergere. Fui libera di andare in frantumi, come una volta avevo desiderato; libera di non essere, di smettere di cercare una cura... libera di essere completamente tenebra, senza limiti né freni, senza rimorsi.
In un solo istante, gli artigli di Thanatos [3] si strinsero intorno al mio cuore, tramutandolo in acciaio.
Un cuore duro, freddo...
un cuore d’uomo. [4]



Il dolore era così profondo che faticavo a sentirlo.
La strada era una disegno di vento e polvere, feriva la gola e gli occhi ma senza impedirmi di avanzare.
La sua voce fu la prima che mi raggiunse quando i miei piedi stanchi e gonfi varcarono la soglia del palazzo; le sue mani mi afferrarono per adagiarmi al suolo, per permettermi di respirare ed espellere l’orrore.
Un respiro, e l’inganno prendeva forma; un rantolo, e si svelava la bramosia, la crudeltà, l
immoralità.
Una lacrima, un’altra morte.
I suoi occhi purpurei non mi lasciarono neppure un istante; e io li guardavo, vedendo in loro un rifugio... e un aiuto.
Chi sei?”, gli chiesi, seppur già conoscessi la risposta; ma sapevo che vi era altro, che la sua era una voce e un sospiro degli Dèi.
Lui, il ragazzino pallido, Egisto, tacque per un istante; poi mi prese forte una mano. “Vendetta”, sussurrò piano.









Wanaxa, il segnale!
Il re è oramai vicino!”


Dieci anni.
Sono dieci anni che ti attendo, Agamennone, che il mio pensiero ti raggiunge e abbraccia ogni giorno, e desidero rivedere il tuo volto.
Non sono una moglie fedele? Attento a ciò che risponderai, le parole feriscono e uccidono come una lama.

Ti stupirà scoprire quanto siano simili.




Clitemnestra...”


Dieci anni.
Sono dieci anni che mi chiamano regina: prima non lo ero, chiedi?
No, perché come la Luna regna nel cielo solo fino a quando non nasce il Sole, è stata la tua lontananza ad avermi permesso di sorgere e guidare questa terra e la mia stessa vita.

E ad una lunga notte, difficilmente seguirà un luminoso giorno.




Atta metterà fine a tutto questo, finalmente.”


Il mondo, Agamennone?
È cambiato. È mutato nei sentimenti, nelle stagioni, nelle regole.
Non è lecito, non è consentito, gridi.
E sei proprio tu a urlarlo... tu che per primo hai confuso e distrutto la realtà, la legge, la pietà.

Dimmi: in cosa sei diverso da me?




Figlia della Dea, sei pronta?”


Alzo lo sguardo, sorpresa; ma non è più la voce del messaggero, di Egisto o Elettra a chiamarmi, ad accarezzarmi, a biasimarmi... è la mia, ed è l’unica che riesce a strapparmi dai pensieri.
Per quanto sono rimasta loro prigioniera?
Ed è già giunto il momento, dunque? Eppure solamente un’ora fa era ancora una debole luce... una promessa, un’attesa.




Gioite! Il wanax è qui!”


Hai vinto, dunque: la tua potenza ha piegato Ilio superba.
E dimmi: quante ragazze hai ucciso, laggiù?

Nostra figlia muore ogni giorno nella tua bramosia
di dominio.




È tutto pronto.”


Annuisco, e con calma mi volto verso l’ancella timorosa.
Il wanax non è ancora troppo vicino, vero?”
No, mia signora... mancano ancora pochi istanti.”
Benissimo. Fai portare immediatamente un tappeto rosso [5] davanti alla porta, perché lo calpesti da vincitore; e poi attendimi.”


Gli ultimi istanti devono essere solo per me. Li chiamo ultimi, perché la realtà sta per cambiare nuovamente: ma questa volta il volto che mostrerà mi sarà sorridente e benigno.
La colpa di tutto quello che accadrà? È solamente tua, mio sposo.
Se solo tu avessi compreso la mia essenza, se solo tu avessi rispettato le leggi che governano gli uomini non sarei giunta a tanto.
Mi hai umiliato e messo in ginocchio, ma non sconfitto: dovevi piegarmi, schiacciarmi per vincere. Non lo sapevi, vero?
Ma ora questo non ha alcuna importanza; è solamente Passato.
È un regno ricco [6] quello che ti attende, ma non è questo; è una primavera rigogliosa quella in procinto di nascere, ma tu non la vedrai né sentirai, la potrai solamente piangere.
È finita, Agamennone: una nuova età sta per nascere con me, e finalmente la Madre ritornerà, indomabile e pietosa, per cancellare i soprusi e punire i colpevoli.
E sorrido, mentre penso a questo e lascio il palazzo, ponendomi sulla soglia e aprendo le braccia come per stringerti al mio cuore...
e sorrido, mentre ti invito a entrare e a godere dei tuoi beni, del mio amore e di ciò che Ilio ti ha fatto mancare...
e sorrido mentre ti guardo avanzare nel mégaron, la sala del potere, con la tua superbia, senza che tu ti accorga che, appesa alla parete alle tue spalle, la scure dallo sguardo di rame già tramuta i miei desideri in realtà.






NOTE


[1] Secondo una versione del mito, Egisto era figlio di Tieste, quindi nipote di Atreo e cugino di Agamennone: alla luce delle crudeltà che i fratelli si perpetrarono l’un l’altro, la sua partecipazione all’assassinio del re si caricherebbe così anche dell’aspetto vendicativo che contraddistingue la storia di questa famiglia. In questo senso le fiamme lo riconoscono: tutto il sangue che hanno visto scorrere sta nuovamente per sporcare il palazzo, per opera di un animo nero quanto quello di coloro che l’hanno preceduto.


[2] Tutto ebbe origine per uno sgarbo di Agamennone: durante una battuta di caccia, colpendo una cerva da una grande distanza, dichiarò di essere migliore della dea Artemide (la “Cacciatrice”). Questa ne fu offesa, e trattenendo il vento impedì per giorni alla flotta achea di partire per Troia.
Interpellato, l’indovino Calcante rivelò che l’unico modo per calmare la furia d
ivina era sacrificare Ifigenia. Nonostante un primo rifiuto, alla minaccia dell’esercito di ribellarsi e scegliere un altro capo, il re fu costretto ad accettare: quindi mandò dei messaggeri a Micene, chiedendo a Clitemnestra di raggiungerlo con Ifigenia, ingannandole con la notizia di un matrimonio.
Nonostante alcune versioni del mito riportino non la morte della ragazza, ma il suo rapimento da parte della Dea e la sostituzione con una cerva – versione che però Eschilo non inserisce nella sua tragedia, dove Ifigenia viene appunto sacrificata –, non cambiano le ripercussioni che questo gesto avrà sulla sorte di Agamennone.


[3] Il dio della Morte.


[4] Così Eschilo definisce Clitemnestra. Tramite il dolore e la ricerca della vendetta, lei scavalcherà tutte le imposizioni e le regole del genere femminile: prenderà il potere e sarà lei a governare, assumendo tutte le prerogative del re, mentre Egisto lo farà solo formalmente.


[5] Scena famosa nellAgamennone di Eschilo: prelude al massacro – assomiglia a un torrente di sangue – che la donna compirà sul marito e su Cassandra, la principessa indovina, che Agamennone aveva ricevuto come bottino dopo il saccheggio di Troia. Pur essendo innocente, la regina non risparmierà nemmeno lei.


[6] La ricchezza degli Inferi sta nella moltitudine di anime che lì dimorano; e il dio Ade è chiamato “ricco” per l’identico motivo.




ANGOLO AUTRICE

Ben ritrovati a tutti.
Come al solito, quando concludo una storia non so mai cosa dire: se non un doveroso, enorme grazie che rivolgo alle mie due fanciulle Flos Ignis e Ori_Hime, e alla mia dolcissima Leaina: molte di queste parole sono state ispirate da voi, quindi senza la vostra presenza sarei ancora lontana dal concludere questo piccolo ma sentito viaggio nel cuore della Regina.
Spero che canterete ancora per me, mie Muse!
Grazie anche a tutti coloro che hanno recensito o semplicemente letto questa storia: avete condiviso con me molto più di quanto possiate pensare, e ve ne sono grata.
Va bene, ormai abbiamo capito che sono negata nello scrivere note finali decenti, quindi vi lascio prima di peggiorare ancora di più le cose -.-


Alla prossima!


Manto

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3585761