La Dea Bianca di Manto (/viewuser.php?uid=541466)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** D'amore e Ombra ***
Capitolo 2: *** La Leonessa ***
Capitolo 3: *** Il Ritorno della Regina ***
Capitolo 1 *** D'amore e Ombra ***
La
Dea Bianca
A
Flos Ignis,
mia stella e guida,
e
alla dolce Leaina.
I – D’Amore e Ombra
Ancora
oggi si narra che Elena fosse nata quando l’alba
già allungava le
rosee dita sulle tenebre: ed era per questo che nel suo sguardo danzava il
bagliore delle stelle morenti.
Si
narra che il Sole rifulgesse con più forza a ogni sorriso, e che a ogni movimento degli eleganti piedi, le
rose si intrecciassero intorno alle sottili caviglie; che nella calda e
multiforme luce che attraversava i suoi capelli si scorgessero le onde
del mare, e la sua voce fosse pacata e soave come l’avvento
dell’Aurora.
Si
narra questo sulla splendida Elena; ma su di me, sull’altra,
si racconta una storia diversa.
Elena
fu sempre parte solamente di metà del mondo: viveva fra la
luce e i
colori, tra le risate e i canti, e fin da bambina, quando il buio
calava, lei si rifugiava nelle sue stanze, attendendo sotto la
protezione dei tripodi sfavillanti l’avvento di un nuovo
mattino.
Sulla
soglia della Notte, a fissare i corni della Luna che ferivano il
suolo e salivano nel cielo, rimanevo solamente io.
Clitemnestra
dai lunghi riccioli bruni.
Clitemnestra
con le ombre nello sguardo e il silenzio sulle labbra.
Clitemnestra
dalla pelle nivea, dal volto severo.
Clitemnestra,
che nacque al crepuscolo, che spinse la Luna ad
abbandonare il cielo per avvicinarsi a Sparta.
La
prima volta che ascoltai queste parole sorrisi senza dare loro troppa
importanza; ma era ancora troppo presto per
capire.
Fu
solo anni dopo, infatti, che vidi per la prima volta quella che, ora
lo posso dire con certezza, sarebbe stata la mia Sorte: essa comparve
in un sogno come una piccola statua raffigurante una donna dai seni
pieni, lasciati scoperti dalla veste; lunghi erano i suoi capelli,
bianche le mani che stringevano con forza due serpenti, quasi a
strangolarli, domarli.
[1] Riposava nel ventre pietroso di un maestoso palazzo dalle
sfumature porpora [2], ma i suoi occhi non erano intrappolati dal
buio: lo sguardo vinceva ogni vincolo, osservava le onde e le
albe, le montagne e le loro genti, e dove questo si posava fiori e
piante crescevano in abbondanza, le belve feroci si acquietavano, i
fiumi impetuosi scorrevano senza far rumore e la Luna sorgeva,
portando la pace.
Veloce
e inaspettato com’era giunto, il sogno cessò; mi
ritrovai a
balzare nel letto, il petto che doleva come se non avessi respirato
per lunghi istanti, la mente e gli occhi pieni di ciò che
avevo
visto.
Mi
alzai, scossa e confusa, e mi avvicinai alla finestra per cercare il
sollievo del vento: Lei
era già alta tra le stelle, i suoi raggi una pioggia
d’argento che
bagnava la mia finestra.
In
quell’istante
compresi che tutti i racconti erano veri... e che Lei
non aveva mai smesso d’osservarmi.
◆
Tutto
ebbe inizio quando il giovane Tantalo [3], re della quieta Pisa [4],
giunse al palazzo di mio padre; Sparta lo accolse quando il Sole era
alto, e splendente come quel giorno era il suo destriero, dorata la
chioma, pari per bellezza alle opali celesti degli occhi.
Chiamate
al fianco di nostro padre, Elena, cresciuta tra gli elogi e le
promesse d’amore, lanciò verso di lui solamente
un’occhiata
prima di abbassare il capo con finto pudore, sdegnosa e tentatrice; io,
invece, non smisi di fissarlo, come sempre facevo con gli uomini. Mi
piaceva osservare la loro espressione mentre le ombre rifulgevano
nelle mie iridi, quasi sfidandoli; e ogni volta, quando gli sguardi inquieti
si spostavano dal mio viso a quello di Elena, io sapevo di aver
instillato un poco di quel timore che si prova davanti a una fiera,
a un Dio… o una Dea.
E
tuttavia… tuttavia Tantalo le mie ombre le abbracciò.
Il suo sguardo incontrò il mio, non lo lasciò per
lunghi istanti;
io lessi in quegli occhi una domanda e poi vidi nascere
l’interesse,
il desiderio.
Arrossii
con violenza, allora, e chinai il volto; quando lo rialzai, mio padre
mi fissava con intensità. Annui lievemente a ciò
che i suoi occhi
dicevano, e un sorriso gli si dipinse sul volto.
Il
mattino seguente, ancor prima che sorgesse il Sole, il mio matrimonio
fu celebrato. Sparta mi attese nelle strade per salutarmi,
danzò e
cantò per me, e l’eco delle sue benedizioni mi
seguì fino alle
porte di Pisa, la mia nuova dimora.
Ti
mancherò, sorella mia?
La voce di Elena, le sue ultime parole, continuavano a risuonarmi
nella mente, e nemmeno le grida di giubilo, la vista dei palazzi
della città o le carezze del mio sposo riuscivano
a
tacitarle. “Forse meno di quanto tu pensi”,
mormorai più volte
in risposta, cercando di ignorare il pungolo che mi pizzicava il
fianco e incrinava un poco la gioia.
Ben
presto Pisa si rivelò essere il rifugio e la pace
che il
mio cuore anelava: ogni notte attendevo di scorgere le stelle che
rilucevano su di essa e ogni mattino cercavo la fragranza dei fiori
che circondavano le mura... e, come imparai ad amare la sua semplice
bellezza, in ugual modo mi innamorai del suo custode.
Tantalo
era nobile quanto passionale, le sue mani gentili ma desiderose
quando mi spogliavano di ogni cosa, lasciando che solo
il chiarore delle fiamme nei bracieri mi ricoprisse la pelle; ma
erano i suoi occhi a tenermi incatenata, quello sguardo bruciante e
colmo di vita che mi possedeva ancor prima della carne, che mi faceva
sentir degna di essere amata.
Per
quanto poco più di un fanciullo, era saggio, legato alla sua
gente e
capace di portare ragione e luce in ogni dove, anche tra le mie
inquietudini; la sua devozione mi riscaldò come un mantello,
e tra
le sue braccia sbocciai come un fiore di croco, liberandomi da molte amarezze e rancori: al
suo fianco iniziai a risplendere, a vivere.
“Mentre
dormivi, un petalo d’ombra ha lasciato la tua chioma, mia
dolce
Clitemnestra”, mi sussurrava il re al sorgere del giorno,
quando mi
svegliava divorandomi il collo e il petto di baci.
“Alcune
di queste ombre sono parte del mio stesso corpo”, cercavo di
rispondere mentre le sue labbra scendevano a tracciare un sentiero
bollente sul mio ventre, spezzando i pensieri.
“Le
tramuterò in luce, una ad una”, rispondeva, e io
morivo e
rinascevo ogni mattino, desideravo che quegli istanti solo nostri si
prolungassero per ore e ore, diventando un’intera esistenza.
Fu
in uno di quei lenti giorni, mentre controllavo l’operato
delle
ancelle, che mi accorsi di lei.
Il portamento e la bellezza le permettevano di dominare sulle altre
come una rosa tra umili viole, quindi mi avvicinai, sicura che il suo
volto mi fosse sconosciuto.
Mi
sorrise, senza abbassare il capo, e allora le feci cenno di seguirmi,
conducendola nei giardini.
“Conosco
tutti coloro che abitano questa casa, eppure il tuo nome è
per me
come nebbia”, esordii quando fui certa che eravamo sole.
Lei
non rispose per un lungo istante, poi schioccò la lingua.
“Sei
potente, signora: il tuo re ha fatto ciò che il glorioso
Tindaro
non è mai riuscito a compiere.”
“Non
voglio lusinghe”, ribattei, “voglio sapere chi sei,
e qual è il
tuo compito qui.”
Un
altro sorriso, poi la donna abbassò lo sguardo sul mio
ventre. I
suoi occhi si illuminarono, la sua voce mutò.
“È Luna piena,
giovane regina. In una terra lontana le donne invocano la Dea:
è
grande il suo amore per noi, femmine e madri, e la sua mano non esita
a consolare chi chiede il suo aiuto. È Luna piena,
Luna
gravida; tu sia benedetta”, mormorò,
voltandosi.
Scossa
da quelle parole, rimasi immobile a guardarla andarsene nell’aria
chiara. Successivamente rientrai nel palazzo, interrogai coloro che
incontrai, ma nessuno sembrava averla vista o conoscerla; decisi
allora di mantenere quell’incontro un segreto, in attesa di
comprendere che cosa ne sarebbe seguito. Grandi cose attendono gli uomini quando gli Dèi fanno la loro comparsa tra di essi, e la mia immagine era appena stata riflessa da uno sguardo immortale.
Qualche
giorno dopo scoprii che il mio ventre ospitava un’altra
vita; e quando quel dono si rivelò essere un maschio, un
forte e
bellissimo principe, danzai per notti intere nel chiarore delle
stelle, senza riuscire a frenare la gioia. Quanto era grande, allora,
la mia sconsideratezza; infatti, come la Luna cambia volto,
così la
mia Sorte stava per intrecciarsi con le nubi di una spietata
tempesta, e mutare la propria trama.
Tutti,
in Acaia [5], conoscevano il nome dell’Atride Agamennone: la
sua
potenza sulle genti era immensa, pari solamente alla brama di
ricchezze e all’amore per la guerra. Così, quando
i suoi passi
risuonarono nel mégaron
[6],
un mattino così freddo da strangolare i fiori nei campi,
nessuno
poté reprimere un brivido.
L’aspetto
del re di Micene, per quanto gradevole, era di tenebra:
scuri i capelli, notturni gli occhi arroganti e nera la cicatrice che
partiva dalla fronte e, sfiorando l’occhio sinistro, terminava
sulla
tempia; anche la pelle, seppur bianca, sembrava emanare il buio. Era tuttavia il
suo sorriso, affilato come una lama, a spaventarmi di più.
Tantalo
si mostrò rispettoso verso le regole
dell’ospitalità, lo accolse
con calore; ma la tensione prendeva forma istante dopo istante,
ammorbava l’aria di silenziose minacce e sibili.
Mentre
guardavo l’Atride fissarci tutti con superiorità,
ghignando della
giovane età del mio sposo, desiderai che il velo che mi
copriva le
chiome mi celasse e insieme con me avvolgesse anche Tantalo, portando
entrambi via da quel luogo; e nonostante le brevi occhiate rivolte a me, per tutto il giorno continuai poi a sentire il suo respiro
sulla pelle, quasi la sua ombra si fosse staccata da lui per unirsi alla mia.
Il
re rimase una notte sotto il mio tetto, trattenendo mio marito
lontano dal talamo; non seppi mai le parole che si scambiarono, ma
quando l’alba venne e il carro di Agamennone svanì
nella polvere,
fu come se fosse ritornata la Primavera.
I mesi che seguirono furono tranquilli; ma sul volto di
Tantalo si agitava spesso uno spettro di timore, nella notte i suoi
occhi guizzavano alle mura della città, come se le stesse
valutando.
Infine,
un giorno le parole che la gente mormorava tra le strade e nel
silenzio delle loro alcove presero forma: l’esercito
dell’Atride
giunse alle porte, unito da un solo grido.
Guerra.
In
poche ore, le nostre certezze si sfaldarono come cenere nel vento,
lasciandoci sgomenti e vuoti di ogni pensiero.
Nelle
case risuonavano preghiere e lamenti, clangore d’armi; nel
palazzo, invece, si udiva solo la voce di Tantalo mormorare parole
che comprendevo solamente dopo lunghi istanti.
“Non
deve averti. Qualsiasi cosa succeda… non deve
averti.”
Qualsiasi
cosa succeda… qualsiasi cosa succeda. Perché? Che
cosa deve accadere?
“Non
oso nemmeno pensare a quello... quello che potrebbe farti.”
Il
Sole era ancora alto, eppure a me sembrava già il crepuscolo.
“Ritorna”,
dissi dopo istanti di silenzio. “Ritorna da me ogni
notte.
Questo mi basterà.”
Lo sguardo del re si posò su di me, e nei suoi occhi vidi
riflessi i miei, vacui, le iridi
un’unica nube di buio.
“Clitemnestra...”
Un sospiro. “C’è un segreto che vorrei
rivelarti: una galleria,
costruita sotto il palazzo. In caso di pericolo potrebbe essere
l’unica via di salvezza… per te e nostro
figlio.”
Non
morire.
Strinsi
con forza i pugni.
Non
morire.
Ritorna
da me.
“Sono
solamente una donna…”, risposi,
“… ma vorrei essere il tuo
scudo e la tua spada, i Numi che pregherai, la notte che
calerà e
porrà fine alle battaglie, la forza che ti
permetterà di ritornare
e ritrovare la strada di casa… vorrei…
vorrei...”
I
miei stessi pensieri mi resero impossibile proseguire, e quasi non
sentii la mano di Tantalo posarsi sui miei capelli. Lui non
replicò
alle mie parole, il suo cuore era quello di un guerriero: non avrebbe
pianto, non avrebbe implorato; avrei versato io le sue lacrime.
“Mostramela”,
mormorai allora, “mostrami la galleria”.
Nei mattini seguenti, essa divenne il mio rifugio: tra le viscere del
suolo, celata al mondo, ascoltavo ogni sussurro che si inseguiva nel
palazzo, ogni richiamo e parola strozzata, ottenendo così le
risposte a ciò che non avrei mai osato guardare.
A
qualche distanza da me, oltre le mura, ribollivano gli scontri; se
smettevo di respirare potevo udire l’eco delle armi che si
scontravano, il rumore delle ruote dei carri, le grida.
Quando
ero sul punto di svenire ingoiavo quanta più aria potessi, e
poi
ricominciavo: ascoltavo, inspiravo e respiravo; ascoltavo,
inspiravo…
respiravo. E intanto, pregavo.
Mio
figlio era sempre con me, addormentato sul mio grembo: non poteva
comprendere quello che accadeva, e ciò lo salvava.
Nutrirmi
d’aria, interrogarla; sperare, piangere, rabbrividire, un
mantello
di freddo e paura a coprire le membra esauste: così
tessevo e
disfacevo i miei interminabili attimi.
Poi,
infine, la Luna compariva e le battaglie cessavano; Pisa risuonava
dei singhiozzi strazianti delle vedove e delle madri private dei
figli, oppure dei pianti sollevati di chi ancora vedeva ritornare il
marito, il fratello, il padre, e ringraziava i Beati.
Io
attendevo; china sul suolo, cuore
a cuore
con il mio bambino, tentavo ogni cosa pur di addormentarmi e al
risveglio trovare il volto di Tantalo a vegliarmi.
Per
molte volte ciò accadde: le sue mani odorose di sangue e
ferro mi
sfioravano i capelli, e io mi ridestavo a poco a poco; riconoscevo le
sue dita, le afferravo, le baciavo. Insieme ci trascinavamo fuori
dalle tenebre, nei bagni, e con pazienza lavavo via ogni lacrima
purpurea dal suo corpo, un unico intreccio di cicatrici e ferite.
Non
parlavamo se non per consolarci e lasciavamo la notte morire nel
sonno o tra i baci, sul letto intriso di sudore e promesse.
Poi,
il mattino giungeva rapido e il tormento ricominciava, tanto
che
a volte imploravo di morire: morire, per smettere di sentire il mio
cuore spaccarsi per il terrore, per non impazzire; e poi mi
insultavo, mi gridavo di resistere. “Rafforza il
cuore”, urlavo,
“costruisci una corazza e combatti, Clitemnestra,
combatti!”
Anche
quel pomeriggio non sembrava diverso da ogni altro; fino a quando,
improvvisamente, il silenzio calò sulla città.
Drizzai
il capo, inquieta: perché nessun rumore
turbava più
il vento? Ero forse divenuta sorda, o… o era tutto finito?
Appoggiai
mio figlio al suolo, mi alzai e avanzai verso l’imboccatura
della
galleria: uno spiraglio di luce si infilava nel pavimento del piano
superiore e mi avvolgeva, riscaldandomi.
Dopo
qualche tempo, lenti passi risuonarono nel mégaron;
infine li udii avvicinarsi a me, nella galleria.
Con
il cuore in tumulto, avanzai verso Tantalo in silenzio: volevo fosse
lui a dirmi che la guerra era ormai lontana.
“Mio
re!”, gridai quando lo sentii a pochi passi da me; ma la
lingua fu
più veloce della comprensione. Questo…
questo non è il suo passo,
mi accorsi dopo un istante, indietreggiando istintivamente.
Dall’ombra
spuntarono due occhi neri; quindi,
il corpo possente di Agamennone comparve davanti al mio sguardo pieno
d’orrore. Le sue braccia… le sue braccia
sorreggevano un corpo,
avvolto in un mantello blu, il
colore dei suoi occhi,
dal quale colavano copiosi rivoli di sangue.
“I
ragazzini dovrebbero lasciare la guerra agli uomini”,
esordì il re
di Micene, violando il silenzio e il mio cuore, “e tuttavia, lui
ha combattuto a lungo e con valore.” Appoggiò il
corpo al suolo e
io caddi in ginocchio, mi trascinai verso di esso.
L’incredulità
mi rendeva impossibile parlare, reagire. “Valoroso,
ma non saggio quanto si diceva; avrebbe dovuto circondarsi di persone
fedeli… non di traditori come quello che mi ha rivelato dove
si
trovi il tesoro di questa casa.”
Chinai
il capo. Le nostre ricchezze avevano perso per me ogni valore; nessun
gioiello, nessuna veste, né oro né argento valevano un respiro del mio dolce
re. “Prenditi pure tutte le ricchezze di Pisa. Non mi servono e non le
voglio”, mormorai, sfiorando il volto di Tantalo attraverso
la
stoffa di quell’orrido sudario.
Le
dita di Agamennone mi sfiorarono il polso, lo strinsero. “Sei
tu
il tesoro che ho bramato fin dai primi attimi.”
Il
fiato mi si spezzò nel petto, e ancor prima che il terrore
mi
colpisse con tutta la sua forza, il figlio di Atreo si protese verso
di me e mi afferrò il volto, la bellezza dei tratti distorta
dalla
bramosia. “Tu, la degna sposa di un grande re”, mi
sussurrò,
avvinghiandomi nelle sue braccia. “Questi occhi non meritano di essere
ammirati da gente senza gloria: devono brillare nella reggia di
Micene, per me. Quanto, quanto ho desiderato di poterti rivedere, stupendo fiore.”
Detto
questo mi gettò al suolo, sotto il suo peso, e sordo alle
mie grida
mi spogliò di ogni cosa, per poi togliersi il suo mantello e
con
quello ricoprirmi. Per tutto il tempo tentai di oppormi e implorai di
morire, che qualcuno avesse pietà di me e mi uccidesse;
nessuno
giungeva a liberarmi da quel tormento, e nonostante questo io
continuai a gridare, fino a indebolire la voce.
In
quegli istanti, tutto ciò che Tantalo aveva fatto sbocciare si chiuse
per sempre, soffocato dalle spine dell’odio: una fiera che
avrei
nutrito per molto, molto tempo… neppure immaginavo quanto.
Tu
sia maledetto,
fu il mio ultimo pensiero mentre tutto, intorno a me, si confondeva e
svaniva, tu
sia per sempre maledetto.
NOTE
[1]
La figura qui rappresentata è quella della Potnia,
“Signora”, dea della natura e dominatrice di fiere.
In tutta
l’area mediterranea e anche in quella asiatica si riscontrano
figure di dee legate alla vegetazione e alla luna, le “Dee
Madri”,
il che ha fatto nascere delle ipotesi riguardo l’originaria
presenza di culti matriarcali, a cui sarebbero seguiti quelli
patriarcali. Alcuni studiosi vedono una reminiscenza di ciò
nella
caratterizzazione delle divinità femminili nei vari pantheon,
le quali avrebbero “adottato” prerogative che un tempo la figura della Dea
Madre
raggruppava.
Secondo
la visione di Untersteiner, anche Clitemnestra e il mito
che la vede protagonista rappresenterebbero questa concezione.
[2]
Si tratta dell’antico palazzo di Cnosso, a Creta.
[3]
Omonimo del più famoso Tantalo che venne condannato a un
infinito
supplizio nel Tartaro.
[4]
Città dell’Elide, nel Peloponneso.
[5]
Antico nome della Grecia.
[6]
La parte principale del palazzo miceneo, dove il re riceveva ospiti e supplicanti e dove
si trovava il focolare.
ANGOLO
AUTRICE
Salve
a tutti!
Allora,
inizialmente questa doveva essere una shot… ma stava
diventando
davvero lunga, quindi ho ritenuto opportuno dividerla in più capitoli.
Era
da tanto che volevo scrivere qualcosa su lei, Clitemnestra, questa
splendida figura resa immortale dai tragediografi; il mio interesse verso la sua vicenda è aumentato ancor di
più quando
mi sono imbattuta nell’interpretazione di Untersteiner, e il fatto che pochi conoscano le sue vicende prima dell’incontro
con
Agamennone mi ha dato un’ultima spinta… e quindi
eccoci qui.
Qualche
spiegazione aggiuntiva: per l’aspetto di Elena e Clitemnestra
mi
sono rifatta alla descrizione che Valerio Massimo Manfredi, nel suo
romanzo “Il mio nome è Nessuno – il
Giuramento”, fa di loro:
la prima una meraviglia di luce, la seconda descritta come bella, ma
inquietante.
Nel
testo ho insistito molto sia sul legame della regina con la luna, simbolo di potere femminile, sia sul fatto che lei sia particolare
e, secondo la concezione del tempo, anomala: Eschilo la definisce
“donna dal cuore d’uomo”, che assume su
di sé le prerogative
di un re… come poi, lo vedrete, farà.
Pochissimo
si sa sulla figura di Tantalo, e il mito non dice perché
l’Atride
gli fece guerra; quindi ho tenuto la questione misteriosa.
Per
tutto il resto, se avete dubbi, curiosità, chiarimenti e
osservazioni da presentare, non esitate a farlo.
Alla prossima ^^
Manto
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Capitolo 2 *** La Leonessa ***
II
– La Leonessa
Pisa
è stata conquistata.
Il
re è morto.
E
il principe… il principe è...
Era
notte quando il carro di Agamennone giunse a Micene; la
città era
illuminata da costellazioni di fiaccole, il cui fumo si nascondeva
nel buio e mi avvolgeva in un abbraccio soffocante.
Mio
figlio… dov’è il mio bambino?
Le
silenziose lacrime che i miei occhi erano riusciti a liberare si
erano ormai seccate sulle gote come cicatrici; la mia mente era
schiacciata da una fitta nebbia che cancellava ogni sensazione,
torturata da orrende visioni.
Dov’è
il mio bambino? Ricordo le mie grida… ma lui
dov’è?
Agamennone
mi accarezzava i riccioli sfuggiti all’acconciatura sfatta,
senza
smettere di sorridere; ogni suo gesto trasudava possessione e brama,
il suo tocco era il sibilo di un serpente.
Più
del dolore che avrebbe accompagnato la mia notte di nozze, tuttavia,
nei brevi attimi di lucidità tremavo per ciò che
il giorno dopo
avrebbe avuto inizio: una dorata vita da prigioniera, regina eppure
schiava, uno splendido trofeo di guerra. Quanto avrei preferito
essere gettata in strada come un cane, essere dimenticata ed evitata;
invece sarei stata trascinata nel letto dell’uomo a me
più odioso,
costretta ad assecondarne i desideri.
“Comportati
da regina”, mi sibilò lui a un tratto,
stringendomi con forza un
polso. “Ti ho scelto come sposa, da te pretendo un
comportamento
esemplare.” La sua presa si sciolse un istante prima che
varcassimo
la porta leonina e la folla ci accogliesse con
grida gioiose, quindi il re riprese ad assaporare la mia pelle con le
sue dita sanguinarie. “Guardati attorno”, mi
sussurrò, “osserva
la città che ti circonda: è ricca, non conosce
privazioni, e sono
certo che imparai ad amarla come hai fatto con Pisa… e anche
di
più.”
Dovetti
trattenermi fino alla spasimo dal rivolgergli le parole più
sprezzanti e astiose, ma lo sguardo che gli lanciai rivelava quali
fossero i miei reali pensieri.
I
suoi occhi mi fissarono con scherno per qualche istante, quindi si
tramutarono in pozze buie, così spaventose che dovetti
abbassare lo
sguardo per non gridare. “Che
cosa hai fatto a mio figlio?”, sentii poi pronunciare la mia
stessa
voce.
Silenzio.
“Era stirpe nemica.”
Due
sole parole, per rivelarmi la peggior nefandezza di cui si sarebbe
potuto macchiare e che il mio cuore, fino a quel momento, non aveva
voluto riconoscere. “Era solo un bambino...”,
mormorai, cercando
disperatamente l’aria e chiedendomi perché
quell’incubo non
fosse ancora cessato. Perché?
“Ne
avrai altri”, fu la fredda risposta, e a quel punto sorrisi
con
disprezzo, alzando il capo. “E se quello fosse il destino
anche dei
tuoi
figli?”, sibilai, e una piccola stilla di piacere mi
uncinò il
petto quando vidi il re afferrare con rabbia il bordo del carro.
Quelle
furono le uniche parole che ci scambiammo durante il viaggio; quando
giungemmo alla reggia, fu lo stesso Agamennone a trascinarmici
dentro, separandosi da me solo dopo avermi consegnato alle ancelle,
perché mi preparassero alla notte.
Quando
infine venni condotta alla camera nuziale, lui era già
lì, il viso
rivolto a una Luna così enorme che la grande finestra non
riusciva
ad abbracciarla nella sua interezza. Appena sentì i miei
passi si
voltò e mi fissò con i suoi occhi di pietra nera,
il candido torace
scoperto drappeggiato dal velo dell’oscurità.
Se
lo avessi conosciuto prima di Tantalo lo avrei desiderato con ardore;
ma tutta la bellezza si sfaldava nella scia di sangue che gli faceva
da mantello, moriva tra quelle mani che ignoravano la pietà.
Non
chinai il capo quando lui mi si avvicinò; non lo feci quando
mi
colpì con un violento schiaffo, né quando mi
prese per la vita e
sollevandomi mi sbatté contro la parete, graffiandomi
schiena e
braccia. “I miei figli non subiranno la sorte del tuo
bastardo”,
sibilò, “perché io non sono debole
quanto lo era Tantalo. Io
comando, ciò che voglio lo ottengo, e sono in grado di
proteggere
chi mi è caro.”
“Tantalo
non aveva la tua stessa forza, è vero”, replicai
soffiando, “ma
ricorda che tu mi hai preso con il tradimento. Non gloriarti di
questo rapimento… grande re.”
Agamennone
lasciò la presa; scivolai al suolo battendo malamente i
gomiti, e
quando mugolai dal dolore lui sorrise, compiaciuto, per poi
inginocchiarsi di fronte a me. “Dimenticati ciò
che hai visto e
sopportato, perché non ti farò del
male… se accetterai la tua
Sorte.
Se
accetterai me.”
La
mia risposta era chiara nel disprezzo che gli occhi urlavano; ma la
sua espressione non mutò, come se il rancore non lo lambisse.
In
quel momento capii: tutti i miei tentativi di resistere non sarebbero
valsi a nulla. Agamennone
vinceva sempre, e ancora una volta l’aveva
fatto, mostrandomi quanto fossi sola.
Chi
avrebbe accolto il mio grido furioso, chi avrebbe asciugato le
lacrime di una donna, un mero oggetto di scambio, chiamata
più volte
maledizione e peso? Le sue pretese erano legittimate dal potere e
dalle leggi della guerra, e per questo non temeva la mia furia: mi
giudicava debole, indifendibile... patetica.
Ma
potrebbe arrivare il giorno in cui sarai tu a temere, pensai,
potrebbe
arrivare, e allora... allora...
I
pensieri furono spezzati dai miei singhiozzi, seguiti poi da un
pianto nero come le parole che reprimevo nel cuore.
Dov’era
Clitemnestra la Fiera, allora? Era stata spezzata e uccisa insieme
alla sua famiglia? Era fuggita in luoghi dove la violenza non poteva
giungere, dove l’odio non aveva motivi per esistere?
Me
lo chiesi per tutta la notte, rannicchiata in un angolo della camera
e tenuta sotto la sorveglianza dello sguardo del re, e continuai a
farlo anche il giorno dopo, da quando il Sole apparve timidamente per
riscaldare i tetti della città.
Agamennone
lasciò il letto, andò alla finestra; sorrise al
fresco mattino e ai
canti che la brezza portava con sé, per poi voltarsi.
“Li senti,
figlia di Tindaro? Sono imenei, doni per noi”,
mi sussurrò.
Le
nozze che poche ore dopo si svolsero non furono felici come le prime:
nonostante i canti e i balli che mi circondavano, nonostante
l’aria
intessuta di profumi e musica, io sentivo solo me stessa urlare, le
narici piene dell’odore del sangue, come se mai avessi
lasciato
quella buia galleria dove avevo visto gli Inferi aprirsi e fossi
stata intrappolata per sempre là, tra le spire di un incubo.
Quell’orrenda
sensazione mi accompagnò per tutti i festeggiamenti e mi fu
al
fianco fino nel talamo, dove Agamennone, dopo avermi sussurrato
parole che la tristezza non mi fece comprendere, diede sfogo al suo
desiderio. Non ebbe alcuna importanza il fatto che usò
gentilezza e
che il mio corpo reagì alle sue carezze: tra i sospiri di
quella
notte guardai il mio futuro contorcersi in una trama indesiderata, e
quando
gridai non lo feci per il piacere; ma questo rimarrà sempre
un
segreto celato nel mio cuore, dove i ricordi non possono essere
uccisi; lì, nell’unico
luogo dove io
posso essere ancora mia... totalmente, e solamente, mia.
Nei
primi mesi furono in molti a fare considerazioni sulla mia nuova
vita: Micene mormorava che per me la Sorte non fosse mutata, dato che
il re aveva avuto la bontà
di sposarmi, salvandomi dall’ignominia della
schiavitù. Ero
ancora regina, solamente di un’altra
città; quindi, che la mia voce non osasse alzare lamentele e
richieste, che il mio temperamento fosse quieto e non rancoroso,
perché gli Dèi mi avevano concesso
l’onore di sposare la Potenza.
Ciò
mormorava la mia
gente, accusando in segreto lo sguardo con cui li osservavo avanzare
nel mégaron
ed esporre le loro sfortune, ma temendolo quando lo posavo sulle loro
teste.
Che
cosa potevano sapere, comprendere, di ciò che provavo?
Era
vero, così come a Pisa scioglievo il nodo dei giorni negli
appartamenti femminili, tessendo e controllando l’operato
della servitù, oppure occupandomi della mia bellezza, facevo
lo
stesso a Micene; ma era un’altra, in verità, a
farlo.
Quando
mi specchiavo, non riconoscevo più il mio volto: ero davvero
io
quella donna senza espressione?
Ero
davvero io quella che sgridava con furia le ancelle a ogni invisibile
imperfezione nel loro lavoro, ero davvero io quella che tesseva i
pepli più meravigliosi e poi li faceva a pezzi?
Ogni
giorno era peggiore dei precedenti: aprivo gli occhi, fissavo il
soffitto della camera e mi chiedevo cosa tenesse ancora insieme quel
grumo di schegge tremolanti in cui ero stata ridotta, e quando sarei
potuta essere libera di cadere in frantumi e divenire aria. Il
silenzio era l’unica
compagnia che non disprezzassi... ma con esso arrivava, spesso, anche
l’inquietudine: perché mai, mai avevo visto tanta
oscurità come
nella casa di Agamennone.
Non
sapevo per quale motivo, ma la stirpe a cui ero stata unita era
maledetta, e ben presto compresi che il sangue che il re si lasciava
alle spalle era molto più di quanto avessi scorto, e non
sporcava
solamente lui: era il marchio di una colpa che il tempo non avrebbe
estinto [1], che sfrigolava come fiamma sotto la pelle
dell’Atride,
pronta a mordere e condannare anche me.
Così,
tra timori e ricordi, svolsi il filo dei miei istanti per lunghi
giorni; poi, un mattino, ancor prima di aprire gli occhi compresi che
stava per accadere qualcosa. Mi alzai a sedere nel talamo con il
cuore che batteva dolorosamente, e senza nemmeno vestirmi mi diressi
alla finestra; la Luna sbiadiva nel roseo manto dell’alba,
eppure,
ne sono sicura, la scorsi rifulgere quando posai gli occhi su di Lei.
Cercai di comprendere che cosa la sua luce mi volesse dire, e quella
sensazione di attesa
mi accompagnò per tutto il giorno; così, quando
una delle ancelle
mi punse inavvertitamente la spalla con uno spillone, me ne accorsi
solamente quando una goccia di sangue piombò sul dorso della
mia
mano.
“Perdonami,
mia signora...” sentii mormorare la fanciulla, e allora le
rivolsi
lo sguardo, la vidi rannicchiata su sé stessa al suolo, in
attesa di
essere punita. Se questo fosse accaduto il giorno prima,
l’avrei
torturata con quello stesso spillone fino a farla urlare; invece,
quando allungai la mano fu per accarezzarle con calma i capelli.
“Alzati”, mormorai, “e riprendi il tuo
lavoro.” Le sorrisi,
quindi ripresi a fissare il cielo; e quando il Sole stava per
iniziare la lunga discesa, mi rifugiai nei giardini.
Le
ore scorsero veloci passeggiando senza meta tra gli alberi, fino a
quando una voce calma mi chiamò. “Lasciami sola,
chiunque tu sia”,
sussurrai, poi qualcosa mi spinse a voltarmi.
Sobbalzai
quando riconobbi nell’elegante figura che mi stava innanzi la
donna
senza nome che avevo già incontrato nel palazzo di Tantalo,
e un
brivido mi attraversò la schiena, bloccandomi.
Lei
sorrise con la stessa dolcezza con cui parlava, quasi avesse appreso
i miei pensieri, e mi si avvicinò lentamente. “La
tua fierezza è
proprio qui, davanti ai miei occhi: ma è solamente
un’ombra di
quella che era prima. Sono davvero bastati così pochi
istanti per
cambiarti e farti smarrire, regina?”
Rimasi
in silenzio, sentendomi esposta, nuda, davanti al sorriso della
sconosciuta, che abbassò lo sguardo. “Ho sofferto
con te, dolce
Clitemnestra, e ne soffro ancora. Ti avevo portato la gioiosa notizia
di un figlio, e questo bambino l’ho visto morire nel silenzio.
Stai
provando ciò che ogni madre non ha nemmeno il coraggio di
pensare, e
quanto te mi sento violata.
Questo
mondo protegge gli uomini, riduce all’impotenza noi donne: ma
noi
possiamo ancora e sempre combattere, non credi?
Una
spada non fa di sé un’arma, se non nel modo in cui
la si usa;
tutto, con intelligenza e con la giusta decisione, può
servire a
proteggerti e a riportare la giustizia.”
“Nessuna
donna avrà mai un tale potere”, ribattei dopo un
lungo istante di
silenzio, “nessuna.”
“In
realtà non è così. A volte, una donna
può rivelarsi l’inaspettato
nemico, il più subdolo e spietato. Che cosa limita
l’amore di una
madre verso i propri figli? La Morte stessa non fa che
accrescerlo.”
Scossi
il capo, e la sconosciuta annuì leggermente alla mia
incredulità.
“Il tuo dolore è inestinguibile e maligno, e le
mie parole ti
giungono incomprensibili; ma un giorno riuscirai a capirle.
Allora,
niente si opporrà a te: i fiumi placheranno la furia e le
pietre si
piegheranno... e una nuova Luna sorgerà.”
Rimasi
impietrita, mentre a quelle parole rispondeva un’immagine: la
misteriosa statua che una volta avevo sognato, la dominatrice delle
fiere e della Natura. “Io... io...”
La
donna si voltò, senza ascoltarmi. “È di
nuovo
Luna piena, regina, e lo sarà per altre tre”,
mormorò, per poi svanire nella luce.
Quando
compresi quelle parole mi premetti una mano sul ventre, tremando;
quindi mi accasciai sul terreno, e lì piansi a lungo.
Quella
notte, quando le porte del talamo si chiusero e Agamennone mi prese
tra le braccia per rovesciarmi sul letto, io lo fermai. “No,
questa
notte non mi avrai”, mormorai, “perché
ballerò a lungo, per
ringraziare gli Dèi della vita che cresce dentro
me.”
Gli
occhi del re si ingrandirono, rifulsero. Non mi mossi quando lui mi
abbracciò, non ricambiai i suoi baci: volevo allontanarmi
dal suo
sguardo, rimanere in completa solitudine.
La
sua testa infine annuì, le sue braccia si aprirono:
“Danza fino
all’alba
e anche oltre, mia regina”, mormorò, e
l’eco delle sue parole
era appena svanito che come una farfalla mi librai per i corridoi del
palazzo, raggiungendo i giardini e liberando la mia energia in una
sfrenata preghiera, bagnata dal plenilunio e dalla sua benedizione.
Nei
giorni successivi, la premura materna scacciò in parte
l’astio, e
anche il comportamento di Agamennone mutò: davanti al mio
ventre
ogni mese più gonfio, la sua prepotenza allentava il morso,
lasciando che fosse una sorta di timore reverenziale ad
accompagnarlo; e anche le sue ombre si ritraevano.
Quando
finalmente il dono tanto attese nacque, scoprimmo che era una
principessa dai capelli corvini, che colpiti dalla luce divenivano
onde violette, e dai grandi occhi ambrati: uno sguardo consapevole,
quasi antico,
li illuminava, sfiorando appena l’aria e la
realtà, rivelando una
profonda quanto inspiegabile conoscenza, unita alla più
innocente
dolcezza. Era diversa, lo comprendemmo entrambi; e come tale, seppi
subito che avrei dovuto sempre sorvegliarla.
Immersa
in quei pensieri, non mi accorsi che Agamennone si era avvicinato
alla balia e aveva preso la piccola dalle sue braccia; per un istante
tremai, poi lo guardai accostare lentamente la fronte alla sua.
“Atta
[2] ti proteggerà sempre, mio fiore.
Sempre”,
mormorò, e la bambina lo guardò con
intensità, quasi volesse
scrutargli le profondità del cuore; quindi con una delle sue
manine
gli strinse un dito, in una tenera richiesta di affetto.
Dopo
qualche istante il re la portò da me, e io le accarezzai il
capo.
“Ifigenia... mia adorata”, mormorai. Alzai poi gli
occhi su di
lui, e con un gesto secco feci allontanare tutti. “Ricordati
di
questa promessa”, gli sussurrai quando fummo da soli,
“ricordati
le parole che hai appena pronunciato. Gli Dèì ci
guardano, e non
dimenticano... non lo fanno mai.”
La
mia voce fu potente come il rombo di un tuono, resa ferma
dall’amore
che provavo per la nostra piccola rosa: avevo già perso un
figlio,
non avrei sopportato la morte di un altro... senza
rischiare di impazzire e osare l’inaudito.
Agamennone
chinò il capo; quando lo rialzò, c’era
verità nel suo sguardo.
“Ogni cosa che ho detto è una promessa; ai Beati
come a te, mia
leaina
[3], io non ho mentito.” Annuì; e quella fu la
prima volta che
tollerai le sue mani sulla mia pelle e fui contenta di sentire la
sua voce.
In
seguito, come mi era stato predetto, ebbi altri tre figli: Elettra la
Splendente, la rondine dagli occhi neri ma dalla chioma di fuoco, che
fin da subito si mostrò così legata al padre da
dormire o quietare
il pianto solamente nelle sue braccia; Crisotemi, timida e dolce,
priva di quel fuoco che le sue sorelle possedevano; e infine Oreste,
il più perfetto simulacro di Agamennone e il suo orgoglio.
Ognuno
di loro era così bello da farmi temere l’invidia
degli Dèi, e io
lo vegliavo con tutte le mie forze; tuttavia, era proprio Ifigenia e
la sua anima cangiante a trattenere il mio sguardo più a
lungo.
“È
diversa, e chi si distingue raramente trova gioia”,
sussurravo ad
Agamennone nella notte, stringendomi contro il suo petto.
Continuavo
a rimpiangere Tantalo e la mia vita precedente, ma lentamente la sua
presenza diveniva sempre più sopportabile.
Lui
mi accarezzava la schiena e i capelli, mi parlava fino a quando non
calmavo le mie paure; e se da una parte la sicurezza della sua lingua
mi intimoriva – era superbia quella che a volte percepivo,
nascosta
e sibilante tra le parole –, dall’altra mi
rassicurava: lui era
veramente potente, dove posava lo sguardo giungeva la vittoria; si
diceva che fosse lo stesso Zeus a vegliarlo, tanta era la sua forza.
E
tuttavia... tuttavia c’era una cosa che avevo imparato e mai
avrei
dimenticato: nessuno, nemmeno il Cronide [4], può cambiare
il corso
della Luna, Dea dal volto mai uguale.
Il
primo presagio, in un dolce mattino, fu il volto degli uccelli: basso
e circolare, come quando si avvicina una tempesta, e pieno di grida.
Tuttavia, il cielo rimase sereno per giorni e giorni.
Il
secondo presagio, in un lento pomeriggio, furono le campagne: il
grano si piegò sotto un vento invisibile, e dai canneti che
costeggiavano i rivi emerse un pianto; ma non c’era nessun
uomo o
animale a vagare in quei luoghi.
Il
terzo presagio, in una notte fredda, furono la terra e il cielo: la
prima si spaccò e ne uscì sangue che subito
svanì, il secondo
divorò le stelle una a una, per poi liberarle dopo
interminabili
istanti.
A
questi segni, che furono i più terribili, ne seguirono
altri, e
paura e sconcerto si riversarono sempre di più nel nostro
palazzo,
assumendo la forma di preghiere, di racconti di fuochi e tenebre.
Intimorita
da quelle orrende visioni, molte notti mi svegliai di soprassalto,
stringendo al petto Oreste e correndo dalle mie figlie, timorosa di
non trovarle nei loro letti; quando le scorgevo nei giardini urlavo
loro di rientrare, per poi abbracciarle strettamente e implorare loro
di essere prudenti, che avremmo
dovuto essere pronti.
Furono
giorni di silenzio e tremiti, quelli: temevamo ogni fruscio troppo
forte, ogni fulmine che squarciava il cielo del primo mattino, la
goccia di pioggia che si frantumava al suolo; e come Micene, anche le
altre città stavano vivendo le nostre stesse irreali vicende.
“L’aria
è priva di ogni odore umano”, mormorava
Agamennone, mentre
osservavamo le tempeste abbattersi sui tetti della città,
“perfino
di quello della vita. Il vento porta profumi mai percepiti
prima.”
Alzava poi lo sguardo verso il cielo intrappolato dalle nubi, lo
osservava. “Questa è una guerra fra
Dèi.”
“Forse
è così... ma la loro ira riguarda anche
noi”, rispondevo.
“Sì.
E nessuno può essere sicuro che la battaglia non sposti le
sue forze
tra di noi... un giorno”, terminava.
Tuttavia,
con la medesima velocità con cui tutto era iniziato,
improvvisamente
cessò: le notti divennero quiete, la Natura riprese il suo
ciclo,
nessun rombo ruppe più la tranquillità del giorno.
Io,
tuttavia, non riuscii a crederci in quella pace: non aveva ancora
nome ciò che ci sovrastava, ma non sarebbe rimasto celato
per
sempre. Io, che avevo già vissuto quella realtà,
sapevo che quello
non era stato nemmeno l’inizio, e nonostante i giorni
iniziassero a
rincorrersi sempre più velocemente, ogni nuovo mattino
scrutavo
l’orizzonte, in attesa.
Passarono
anni prima che i fili del Destino iniziassero a delineare una trama;
e tutto iniziò in un pomeriggio uguale agli altri.
Se
chiudo gli occhi, ogni istante di quel giorno perduto mi si svela: le
dita abili di Ifigenia ed Elettra che corrono sul telaio e formano un
disegno sempre più splendido, il mio sguardo che accarezza
il bruno
e il rame dei loro capelli, le risate di Oreste, ancora così
piccolo
e fragile, che gioca con l’orlo del velo e mi guarda,
cercando i
miei occhi e ridendo ancora più forte quando li trova.
“Non
tentarmi, piccolo, o potrei mangiarti”, posso ancora sentire
me
stessa sussurrare, prima di ghermirlo e ricoprirlo di baci; e in
ugual modo sento il calore del Sole scomparire, divenire solo una
striscia infuocata che non vuole abbandonare il cielo.
Ed
è lì, mentre mostro al principe il corpo sinuoso
della mia pallida
Dea che fa splendere il firmamento, che la scorgo: una minuscola luce
tremolante, una fiaccola, che velocemente si avvicina;
un’altra la
segue, e poi ancora, senza fine, e insieme a loro giunge
un’incomprensibile inquietudine. “Ifigenia,
Elettra, prendete
vostro fratello; voi, ancelle, cercate Crisotemi e portatela qui.
Subito!”, esclama, ora
come allora, la mia voce piena d’allarme, vedendo in
quell’inaspettata processione più di quanto avrei
voluto.
Sì,
ricordo… molti carri bucarono il manto del buio, quella
notte; il
palazzo si riempì di grida e sussurri, e se la voce di
Agamennone
riuscì infine a portare il silenzio, fallì
tuttavia nel recare la
calma.
In
mezzo a quella cacofonia spiccavano le dure parole di una persona che
non stentai a riconoscere: il re di Sparta Menelao, lo sposo di
Elena. Qual era il motivo della rabbia che avvelenava la sua lingua?
Il sordo vociare che lo circondava mi impediva di udirlo
chiaramente, ma percepivo i muri tremare quando lui parlava.
“Ci
stanno forse attaccando, madre?”, chiese a un certo punto
Elettra,
venendo più vicina a me.
Io
scossi il capo, cercando di calmare lei e allo stesso tempo me
stessa. “Non ti devi preoccupare di niente, mia luce. Non
c’è
alcun pericolo”, mormorai, ma la piccola non smise di guardarmi.
“Atta
sta bene, vero?”, mormorò di nuovo, alzando appena
la voce; io
sorrisi, le accarezzai una guancia. “Elettra, ritorna con le
altre
e rimani tranquilla: tuo padre è solo impegnato in questioni
di
governo e gli animi sono solo un po’ più caldi del
solito.”
Rimasi
a guardarla allontanarsi mordendomi le labbra con forza, perché stavo
provando la
sua stessa paura, e sopportai a stento le molte ore d’attesa;
infine, quando finalmente udii il palazzo cadere nel silenzio,
lasciai le miei stanze e mi misi in cerca di Agamennone, per poi
trovarlo nella nostra camera, il volto teso rivolto alla porta.
“Mio
re...”, mormorai avvicinandomi, “che cosa
è accaduto?”
Lui
alzò appena lo sguardo su di me, quindi tese una mano per
tenermi
lontana dal suo petto. “Tu e tua sorella eravate destinate ad
avere
più di un marito... a quanto pare”,
mormorò.
Corrugai
la fronte, senza capire, e lui scosse il capo.
“Siamo… siamo
stati traditi e sfidati, e non possiamo non combattere.”
“Chi-chi
ci ha tradito?”
Silenzio.
“Elena non è più qui, tra le braccia
della sua terra natale;
naviga verso la città di Troia, insieme al suo rapitore.
La
guerra degli Dèi ora è scesa tra di noi,
Clitemnestra, e ci chiama. I
giorni della pace sono finiti.”
Socchiusi
gli occhi, conscia di non aver ancora appreso appieno quelle parole.
“Sono mai esistiti? Per te… ma non per
me”, replicai tuttavia,
senza nascondere l’amarezza del tono.
Agamennone
non rispose, forse nemmeno mi udì; ma se anche lo avesse
fatto, le
mie parole non avrebbero avuto conseguenze.
Distese
di sabbia e sangue erano il suo nuovo orizzonte, gloria e potenza le
amanti; l’incerta sorte di regina o schiava sarebbe toccata
nuovamente a me, una donna… un’ombra, una piccola
pietra preziosa
su una corona che non mi sarebbe mai appartenuta.
“Partiremo
prima che il mare diventi tempestoso. Il
ritorno... il ritorno solo i Numi sapranno e vorranno concedercelo.
Non
so se ti rivedrò ancora, figlia di Tindaro.”
Nelle
sue parole c’era più tristezza di quella che io
provassi per lui.
“Sei stato forgiato dalle guerre. Tornerai”,
mormorai solamente,
allungando una mano e accarezzandogli il volto, non staccandola dalla
sua pelle per tutto il tempo che l’oscurità ci
avvolse.
“ Tu
non piangerai per me, vero?”, disse a un tratto il re.
L’armatura
di orgoglio non era riuscita a proteggerlo dal fatto che mai
l’avrei
amato come Tantalo, e in quel frangente ogni menzogna cadeva; e
tuttavia, come me lui si preoccupava dei nostri figli, li amava e
vegliava: questo affetto, seppur lievemente, mi aveva legata a lui, e
non lo avrei tenuto segreto. “No. Ma pregherò per
il tuo
ritorno... perché chi mi è caro ha bisogno di
te”, gli mormorai.
Lui
non rispose, né mi parlò più per tutti
i restanti giorni che lo
separarono dalla partenza; solamente, sul far della sera mi
raggiungeva e rimaneva a guardare un altro crepuscolo, per poi
andarsene e raggiungere le nostre figlie, giocare con loro a lungo.
Io
non lo seguivo, perché in quegli istanti i miei pensieri mi
imponevano la solitudine: tutto quello era troppo simile a
ciò che
avevo sopportato a Pisa, e ogni giorno ero più affaticata,
oppressa
nel petto, del precedente. Era paura?
Era
preoccupazione, tristezza?
Era
consapevolezza?
“Ho
paura, madre. Non per la guerra... ma a causa di qualcosa che ancora
non
riesco a capire. È una sensazione che mi toglie il
sonno”, mi
sussurrò una sera Ifigenia, mentre ultimavamo
l’ennesimo peplo.
“Tutti
noi temiamo per il re. È normale”, le risposi,
senza dare a vedere
il turbamento.
“Forse
è quello. Forse è... solo
immaginazione.”
Non
c’era la Luna l’ultima notte che Agamennone mi
strinse a sé e
sospirò tra i miei capelli, né spuntò
il Sole quando, il mattino
successivo, salì sul carro che conduceva lontano da noi.
In
un chiarore che non aveva niente di reale, guardai il grande Atride
svanire sul sentiero, cercando di non ascoltare il pianto che mi
circondava e la tempesta che ululava nella mia mente.
“A
presto... grande Agamennone”, mormorai, stringendo con
più forza
Oreste e cercando tra i suoi riccioli il profumo del padre.
Gli
Dèi non erano con noi, allora; eravamo solo noi, con la
nostra
umanità e i nostri pensieri, davanti alla Sorte.
NOTE
[1]
Si fa riferimento alla lunga scia di crudeltà e vendette che
vide
protagonisti Atreo e Tieste, rispettivamente padre e zio di
Agamennone e Menelao.
Le nefandezze che compiranno non moriranno con loro, ma macchieranno anche gli
Atridi, e solamente
con Oreste la scia di sangue avrà
fine.
[2]
Forma affettiva per definire il padre, corrisponde al nostro
“papà”
o “babbo”.
[3]
Nella tragedia di Eschilo, Cassandra definisce Clitemnestra una
“leonessa (leaina)
a due gambe”.
[4]
Patronimico di Zeus, in quanto figlio di Crono.
ANGOLO
AUTRICE
Buonasera
a tutti :)
Così,
siamo arrivati al secondo capitolo... e ancora non abbiamo finito *si
dispera*
Ebbene
sì, ancora una volta questo capitolo stava diventando troppo
lungo,
e ho deciso di dividerlo: ma ormai siamo vicini al punto cruciale...
forse.
Altre
note: non si ha menzione nei miti
di segni premonitori riguardo alla guerra di Troia, ma ho voluto
inserirli comunque, per enfatizzare l’entità del
conflitto che si
avvicinava.
Non
si è sicuri sull’esatta successione dei figli di
Agamennone e
Clitemnestra, se non che Oreste doveva essere l’ultimo nato,
mentre
ho insistito sul legame di Elettra con Agamennone così come
ci viene
presentato nelle tragedie.
Non
mi sembra che abbia altro da dire, se non che se avete precisazioni o
domande io sono qui per ascoltarvi e rispondervi.
Alla
prossima,
Manto
|
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Capitolo 3 *** Il Ritorno della Regina ***
Dea
III
– Il
Ritorno della Regina
Dopo
la partenza del re, un nuovo sovrano si insediò nella
città: il
profondo silenzio dell’Attesa si prese il palazzo e le case,
i
campi e i fiumi, sorgendo dal suolo arroventato dal mezzogiorno o
cavalcando il vento della prima sera insieme alle nubi che
scivolavano lente e morbide sopra i tetti, verso il mare.
In
alcune di quelle notti prive di luce, mi ritrovai a pregare gli
Dèi
per il ritorno del re, perché solamente Agamennone avrebbe
potuto
dissolvere un futuro angoscioso e incerto.
Elettra
liberò tutte le lacrime che i suoi piccoli occhi potevano
spremere,
ma dopo qualche giorno si calmò, e ricominciò a
dormire, seppur di
un sonno inquieto; Ifigenia era ansiosa quanto la sorella di rivedere
il padre, ma non rinunciava ai suoi lavori, mentre Crisotemi e Oreste
erano troppo piccoli per provare nostalgia.
Io
vegliavo tutti loro fino a quando il sonno non mi coglieva,
perché
la lontananza
del nostro signore non spingesse qualcuno a tentare di far loro del
male: quando il leone allenta la sorveglianza, i suoi nemici non
aspettano altro che chiudere gli artigli sui suoi cuccioli; ma, anche
se pochi lo sanno e ancor meno lo raccontano, la leonessa è
forte
quanto il suo compagno, intimorita da nulla.
Solamente
una cosa mi distoglieva dalla cura della mia famiglia: il richiamo
della Natura che cresceva libera tutto intorno a me, davanti ai miei
occhi. Fin da piccola mi scoprii legata al pacato divenire del
bocciolo in splendido fiore, alla costellazioni di gemme e foglie che
rendevano la primavera un sospiro di bellezza, alle distese di grano
impreziosite dalle chiome dei papaveri; dalle mie stanze potevo
guardare come il vento le faceva giocare, trasformandole in onde
fruscianti, e spesso mio padre mi permetteva di allontanarmi per un
poco dal palazzo e infilarmici dentro, lasciando che il cielo si
riducesse a una pozza di stelle intrappolata in un mare dorato.
Pisa
e Micene avevano allontanato quei momenti con il peso del dovere, ma
a volte il bisogno di abbandonare gli abiti regali e ritornare quella
bambina spensierata batteva forte in me, era parte del mio stesso
cuore. L’assenza
del re lo acuiva istante dopo istante, ma la realizzazione di questo
desiderio era proibita: avevo scoperto, infatti, che prima della
partenza Agamennone aveva incaricato il nostro aedo, il cui sguardo
vacuo vedeva e comprendeva
più di quanto si immaginasse, di sorvegliarmi e vigilare
sulla mia
integrità.
Ciò
non mi preoccupava in alcun modo, siccome non avevo nessuna
intenzione di cercare altri uomini, ma la mia scomparsa, anche se per
qualche ora, avrebbe potuto destare sospetti e portato a pericolose
conseguenze.
Cercai
quindi di calmare la mia smania in lunghe passeggiate notturne nei
giardini, rivolgendo canti e preghiere alla mia Dea argentea od
osservandola nel silenzio che è proprio dei fedeli.
Un
inaspettato aiuto giunse tuttavia dalle mie figlie, in un caldo
pomeriggio dove ogni cosa era immobile.
“Madre...
vorrei vedere il cielo stellato.”
La
voce d’usignolo
di Elettra fece tintinnare l’aria, spezzando la monotonia del
silenzio.
Interruppi
per un istante il mio lavoro al telaio, quindi mi voltai a guardarla.
Anche Ifigenia e Crisotemi si erano bloccate e mi guardavano con
interesse e attesa, facendomi capire che tutte e tre mi stavano
porgendo la medesima richiesta. “Che cosa intendi?”
Elettra
chinò il capo, arrossendo lievemente. “Io e le mie
sorelle...
vorremmo uscire dal palazzo di notte... e guardare le stelle.
Non
dalla finestra o dal giardino, ma all’aperto,
nelle campagne, senza mura a circondarci.”
Sorrisi
dolcemente, quindi sospirai. “Dobbiamo restare nel palazzo.
Siamo
membri della famiglia reale... e vostro padre non è qui per
proteggervi. Se vi accadesse qualcosa?”
“Madre...”,
intervenne allora Crisotemi, “... non andremmo da sole.
Vorremmo
che tu venissi con noi.”
Spalancai
gli occhi, sorpresa. “Figlie mie...”
“Madre,
ti supplico!”
“Solo
per una notte!”
“Non
fuggiremo dal tuo fianco... ma portaci a vedere le stelle, per
favore! Per favore!”
“E
la Luna! Gli alberi del giardino la coprono sempre, e io vorrei
vederla bene...”
“Ti
prego!”
I
loro occhi accesi di supplica e speranza, le loro tre voci che si
accalcavano e confondevano fecero morire le parole che già
avevo in
gola; per riportare ordine dovetti lanciare loro uno sguardo severo,
e quando si calmarono mi decisi a parlare. “Dovremmo essere
scortate, e le guardie sono indispensabili qui, al palazzo.
Tuttavia”, e qui cedetti, forse troppo presto per risultare
irritata dalla loro richiesta, “per qualche ora – e
solamente per
questa volta – potrebbe essere fattibile. Ma che poi non se
ne
riparli più.”
Lo
sguardo complice che le tre sorelle si scambiarono mi fece corrugare
la fronte, ma credevo anche che realizzare un desiderio come quello
non avrebbe portato ad alcun male. “Riprendete il vostro
lavoro,
così prima finirete e prima andremo”, terminai
quindi, realizzando
che anche per me quella breve fuga avrebbe recato giovamento. Era
passato quasi un mese da quando gli uomini erano partiti, e i giorni
trascorrevano tutti uguali, tranquilli e lenti, logorando le nostre
forze: avevamo diritto a un istante di libertà, solo per
noi,
lontano dalla quotidianità e dalle regole.
Per
questo quella sera, quando lasciammo il palazzo seguite da un paio di
guardie, inspirammo con forza l’aria
fresca come se mai avessimo respirato. “Perché
sono così
distanti?”, chiese Crisotemi più volte mentre le
campagne si
aprivano davanti a noi, gli occhi rivolti alla volta traboccante di
stelle e le mani tese in un vano tentativo di prenderle.
La
presi in braccio, la alzai sopra la mia testa. “Anche se non
puoi
afferrarle, ora sono comunque più vicine”, le
sussurrai con
dolcezza, mentre Ifigenia saltellava al mio fianco ed Elettra si
sfogava correndo e gridando, facendomi ricordare quando ero io la
bambina ribelle, spensierata e forte come lei.
Scegliemmo
un piccolo campo traboccante di fiori per osservare la notte volare e
lì rimanemmo strette l’una
all’altra,
chiedendoci se i Beati ci stessero osservando attraverso gli astri.
Tuttavia,
Ifigenia non fissava loro: la sua attenzione era sulla pallida
mezzaluna, e per questo mi chinai verso di lei. “Qualunque
forma
assuma, la Dea è sempre bellissima, non credi?”
Lei
sorrise lievemente. “Come fa a non precipitare al suolo?
Sembra più
pesante del Sole... più concreta.” I suoi occhi
rifulsero. “La
sua luce non ferisce come quella del mezzogiorno, ma rischiara con
discrezione, guidando e aiutando chi è in procinto di
perdersi nelle
tenebre. Sembra... sembra la mano di una madre.”
“Sono
parole bellissime”, mormorai colpita, quindi lei si
voltò, mi
abbracciò appoggiando la testa contro il mio ventre.
“Il Sole
regna con orgoglio, è potente e ci protegge dal freddo e dal
buio;
ma è lo sguardo della regina argentea a consolarci quando
siamo
soli.
Atta
è come il Sole... ma tu sei come la Luna; mai nessuno ci
amerà di
più.”
E
ciò vide la luce all’avvento dell’alba.
Ricordo
che fu al tramonto seguente che lo vidi per la prima volta: occhi
scuri ma dalla sfumatura purpurea, che mostravano come uno specchio
il troppo sangue che avevano visto spargere, e quello che intendevano
versare per riportare la Giustizia.
Era
bianca la sua pelle, neri come le tenebre – quanto
è sempre stato
simile a me... – i suoi capelli: gli Dèi
sembravano averci creato
insieme, e poi diviso per tutti quegli anni.
E
il suo passo non era indeciso quando avanzò nel
mégaron, il fuoco
era silenzioso al suo procedere, quasi lo conoscesse già
– ed era
così [1] – o attendesse di comprendere cosa
sarebbe accaduto.
Ricordo
bene come i suoi occhi mi penetrarono, senza vergogna o esitazione,
fino ad aprirmi il petto e il cuore. Quanta avventatezza, quanta
rabbia nel modo in cui mi sorrise: era solo un ragazzino, ma la sua
bocca ringhiava il rancore di un’anima vecchia.
E
quando chiesi il suo nome, e lui rispose: “Grande wanaxa, il
mio
nome è Egisto”, desiderai non aver mai udito una
voce così
profonda e nera, la Morte che rideva e gridava insieme.
Ed
era già la cupa notte: il giorno dopo il giovane
partì, e altri tre ne sarebbero passati prima il mio Fato giungesse a Micene.
Lui
fu il primo a vederlo, a sapere; e a mettermi in guardia, con il suo
inquietante silenzio, su ciò che più di tutto
dovevo temere.
“È
il grande Agamennone a mandarmi: richiede la vostra presenza e quella
della giovane Ifigenia in Aulide, e vi prega di partire il prima
possibile.”
Il
messaggero era stanco, ricoperto di polvere e intimorito da me: lessi
nei suoi occhi che non c’era
menzogna nelle parole che mi aveva riferito, che era veramente volere
del mio signore che lo raggiungessi; quindi presi un grande respiro.
“Per quale motivo?”
L’uomo
chinò lo sguardo, incapace di sostenere il mio.
“Mia regina... il
principe dei Mirmidoni desidera prendere la fanciulla in
moglie.”
Rimasi
immobile per qualche attimo: “Il figlio di Peleo...
Achille”,
mormorai quindi, chiudendo gli occhi.
Il
momento che da tempo avevo iniziato a temere era infine giunto: la
prima sarebbe stata Ifigenia, e dopo
di lei sia Elettra che Crisotemi avrebbero lasciato il palazzo per
diventare signore e madri al fianco di uomini che, forse, non le
avrebbero mai amate.
Ma
non volevo, né dovevo pensare al peggio: le mie figlie erano
forti,
io le avevo preparate ad affrontare la loro Sorte, qualunque forma
essa avesse assunto, ed ero certa che l’affetto del loro
padre le
avrebbe protette dal dolore; quindi, congedai il messaggero e,
lasciando in fondo all’animo la mia tristezza, disposi subito
i
preparativi per la partenza.
Ifigenia
ascoltò la notizia sorridendo nel suo particolare modo, gli
occhi
che brillavano di stupore, e così le sue sorelle, che
passarono
l’intera
notte a fantasticare di come sarebbe stato il matrimonio e della
bellezza di Achille, che si diceva immensa quanto il suo valore, e
quanto avrebbero voluto venire con noi per vederlo.
Io
sorridevo ascoltando quei sogni di dolcezza levarsi fino al cielo,
sperando che almeno a loro gli Dèi avessero concesso di
realizzarsi;
e negli occhi di Ifigenia lessi la mia stessa virginale attesa, il
ricordo di una vita diversa.
Poi,
poche ore dopo l’alba
partimmo: le parole di Agamennone erano state chiare, non potevamo
indugiare. L’esercito
doveva partire per Troia il prima possibile, e sicuramente il
principe voleva un erede dall’illustre
casa di Atreo, permettendo al sangue più prezioso di Acaia
di
vincere la morte: ecco perché un matrimonio così
tempestivo, con
l’ombra
del futuro più incerto incombente sulle sorti di ognuno.
“Sarai
una saggia regina, e una madre dolcissima”, sussurrai
più volte a
Ifigenia, acconciandole i capelli e controllando ogni istante che il
suo aspetto fosse perfetto; ma poi la strinsi solamente a me, senza
più parlare. Nonostante
desiderassi che il carro non andasse così veloce, la
distanza che ci
separava dall’Aulide
svaniva un po’ di più a ogni istante, e ben presto
il sentore del
sale ci solleticò le narici; e quando divenne troppo forte,
sentii
Ifigenia tremare tra le mie braccia. “Madre...
per favore, potete restare con me? Almeno per i primi mesi... vi
prego.”
“Lo
sai che non mi è permesso. Ma tu non devi avere paura...
Peleo è un
brav’uomo
e tu sei una giovane piena di grazia e virtuosa, sarai come una
figlia per lui e lui come un padre per te.”
Lei
annuì, quindi alzò gli occhi ambrati su di me.
“La famiglia di
Tantalo ti ha accolto così, come una figlia?”
Io
feci per rispondere, ma tacqui. Tantalo.
“Chi
ti ha parlato di lui?”, mormorai. Che cosa sapeva? Da chi lo
aveva
scoperto?
“Una
volta... una volta ho sentito le nostre ancelle parlare di te.
Si
chiedevano se il re Tantalo ti avesse dato la felicità che atta
non è mai riuscito a donarti.”
Rimasi
un attimo in silenzio. Non avevo mai parlato alle mie figlie del re
di Pisa né della sua fine, non volendo che fossero a
conoscenza di
ciò che avevo provato; ma le voci circolavano, non potevo
controllarle, e allora mi chiesi quanta verità avessero
udito le
orecchie di Ifigenia.
“Madre...”
“Quella
era un’altra
donna. Ed era un’altra
realtà.”
“Allora
è vero? Atta
non è stato il tuo primo marito?”
Chiusi
gli occhi, per poi afferrarle una mano e stringerla con forza.
“Amore
mio... ti prego, non chiedermelo più.”
Ifigenia
sgranò gli occhi, sorpresa, quindi chinò il capo
per pochi istanti.
“Avevano ragione, allora. Ti amava molto.”
Ancor
prima di lasciarmi parlare, si gettò sul mio ventre,
abbracciandomi.
“Mi dispiace, mi dispiace così tanto che tu abbia
dovuto
soffrire!”
“Ifigenia,
la tua veste si rovinerà...”
“Non
me ne importa niente della veste! Se solo immagino... se solo
immagino cos’hai
dovuto sopportare...”
La
presi per le spalle, la scossi costringendola a guardarmi.
“Ifigenia”, dissi con durezza,
“ciò che ho sopportato non deve
ferire anche te; perché tu sarai felice, lo so che lo
sarai.
Questo sarà il giorno più bello della tua vita, e
niente deve
rovinarlo.”
“Io
devo sapere”, continuò Ifigenia, e lo sguardo si
incupì. Quale
tempesta la stava sconvolgendo, e da quanto: giorni, o anni?
“No,
non devi... non c’è
bisogno. Grazie
a te, alle tue sorelle, a Oreste è tutto finito da molto
tempo, e
ricordarlo non farà bene a nessuna delle due, ma
farà molto più
male a te: un dolore che non ha alcuna utilità e nessun
onore.
Ti
prego, bambina mia... non parliamone più. Ti
prego.”
Ifigenia
mi guardò un’ultima
volta, quindi girò il viso lontano da me, ferita;
tornò a fissarmi
solamente quando il carro si fermò e dopo qualche attimo una
voce
che entrambe conoscevamo bene ci salutò: “Mia
regina, figliola...
benvenute.”
Ed
è sempre a questo punto che le mie mani tremano, che i miei
occhi
piangono ancor prima che il ricordo raggiunga il cuore.
La
mia memoria non è così coraggiosa, non lo
è mai stata e non lo
sarà mai quando si tratta di affrontare questo frammento del
mio
passato: tace per proteggermi... o forse, per proteggere gli altri.
Ma
chi deve più proteggere?
Chi
deve salvare?
Chi
deve allarmare?
Sono
morta io, così come lo saranno loro.
Sono
pazza io, così come devono esserlo loro.
Sono
spietata io... così come lo furono loro; e per questo che
stavolta
non indugerò... non cederò alla tentazione di far
fuggire i
ricordi, non questa volta.
Non
questa notte.
Quella
spiaggia è ancora risuonante del boato di tutti quegli
uomini
radunati, arsa da un Sole che il vento non poteva placare?
Il
vento, ecco il problema. Il vento che non c’era.
Il
vento che non spirava sul mare e quindi frenava le navi, il vento che
la Cacciatrice tratteneva, per ira e vendetta. [2]
Quando
Agamennone me lo rivelò, io lo guardai confusa; e
istintivamente
strinsi la mano di Ifigenia, così come cercai lo sguardo del
re, per
leggervi la verità.
<<
Clitemnestra, sii forte >> mi mormorò una
voce, forse dentro
me – era la voce di Tantalo, era il sussurro della Luna –, forse proveniente
dalla
terra stessa; ma le braccia di Agamennone mi strinsero con forza,
impedendomi di comprenderla.
“Mio
re...”, mormorai, quindi un’ombra
calò su di me, quando le mani dell’Atride
mi coprirono gli occhi; e il freddo mi invase le membra, mentre il
grido di mia figlia macchiava l’aria
e le grida degli uomini si placavano, tutte insieme, quasi ognuno
avesse smarrito la voce o uno dei Beati fosse apparso.
“Che
succede?”, gridai, cercando di divincolarmi; lacrime cocenti
mi
bagnarono i capelli e mi scottarono le pelle, e mi accorsi che il re
stava piangendo copiosamente; sembrava che i suoi occhi si stessero
tramutando in un’infinita
pioggia.
“Non
volevo tutto questo...”, lo sentii mormorare, e io urlai di
nuovo:
“Che cosa vuol dire questo, Agamennone?
Rispondimi!”, ripresi,
riuscendo infine a liberarmi dalla sua presa; e ai miei occhi
attoniti comparve, nel mezzo della spiaggia, un altare bianco,
allestito per un sacrificio.
Ma
dov’erano
i sacerdoti?
E
dov’erano
gli animali sacrificali?
E
perché Ifigenia vi veniva trasportata a forza, contro la sua
volontà... perché urlava?
E
il suo sposo... dov’era
Achille?
Non
riuscivo a capire...
… capivo,
ma non riuscivo, non volevo credere.
“No...”,
mormorai allora, girandomi verso Agamennone e prendendogli le mani,
“... dimmi che cosa vogliono dalla nostra bambina. Dimmi...
sono
qui, parlami...”
Perfino
le mie parole si rifiutavano di prendere forma.
“Clitemnestra...”
Afferrai
il volto del re, guardandolo con intensità. Oltre il velo
del
pianto, vidi la colpa e la vergogna, la disperazione.
“Perdonami”,
mi sussurrò, prima di lasciarmi cadere nella sabbia e
alzarsi,
allontanarsi da me.
“Agamennone...
non te ne andare!”, implorai, trascinandomi dietro di lui,
accecata
dalla luce e dal calore, “aspetta...”
“Mama!”,
urlò Ifigenia, e anche se non riuscii a vederla seppi che
stava per
fuggire, rifugiarsi da me.
Non
le vidi, ma seppi che le braccia di suo padre la fermarono, ci
separarono. Lui, suo padre, la divise da me; lui… che aveva
promesso di tenere il male lontano da noi.
“Agamennone!”,
urlai allora con tutto il fiato che avevo, la consapevolezza che
sbocciava ferendo come una lama, “hai promesso! Hai promesso
di
proteggerla!”
“Atta!
Atta,
ti prego!”
“Ascoltala,
Agamennone!”
Era
un unico grido, un’unica preghiera.
“Mama...
aiutami!”
“Agamennone...”
“Mama...
atta...”
“Hai
promesso!”
<<
Non voglio morire. >> Le
sue ultime parole. Non voglio morire.
Il
ruggito del vento si alzò all’improvviso,
portandomele.
“Non
voglio morire... ancora”, mormorai anch’io,
prima di alzare il capo e guardare. Non importa che il desiderio di
cavarmi gli occhi con le mie stesse mani divenne così feroce
da
dovermi mordere le dita per reprimerlo; non importa che non scorsi
altro che sangue, un rigagnolo che diveniva ruscello e fiume e onda e
mare: per la seconda volta gli Inferi mi accolsero, e allora corsi.
Corsi
via da quel luogo, corsi dovunque i miei piedi mi portarono, fino a
quando le forze mi sostennero. Via da lì, via da me stessa,
via
dalla realtà e dai suoi inganni, via da quella vita che non
poteva
appartenermi, non poteva essere vera: troppo crudele, troppo spietata
per essere mia.
<<
Mai nessuno ci amerà di più >>,
mormorava la voce.
E
al suono di un canto malinconico, una nenia funebre per me e per la
mia povera bambina, morii ancora: le ali che mi avevano sorretto si
spezzarono, mi fecero ricadere nel baratro da cui molto tempo prima
ero riuscita a emergere. Fui libera di andare in frantumi, come una
volta avevo desiderato; libera di non essere, di smettere di cercare
una cura... libera di essere completamente tenebra, senza limiti
né
freni, senza rimorsi.
In
un solo istante, gli artigli di Thanatos [3] si strinsero intorno al
mio cuore, tramutandolo in acciaio.
Un
cuore duro, freddo... un
cuore d’uomo.
[4]
Il
dolore era così profondo che faticavo a sentirlo.
La
strada era una disegno di vento e polvere, feriva la gola e gli occhi
ma senza impedirmi di avanzare.
La
sua voce fu la prima che mi raggiunse quando i miei piedi stanchi e
gonfi varcarono la soglia del palazzo; le sue mani mi afferrarono per
adagiarmi al suolo, per permettermi di respirare ed espellere
l’orrore.
Un
respiro, e l’inganno prendeva forma; un rantolo, e si svelava
la
bramosia, la crudeltà, l’immoralità.
Una
lacrima, un’altra morte.
I
suoi occhi purpurei non mi lasciarono neppure un istante; e io li
guardavo, vedendo in loro un rifugio... e un aiuto.
“Chi
sei?”, gli chiesi, seppur
già conoscessi la risposta; ma sapevo
che vi era altro, che la sua era una voce e un sospiro degli
Dèi.
Lui,
il ragazzino pallido, Egisto, tacque per un istante; poi mi prese
forte una mano. “Vendetta”, sussurrò
piano.
♦
“Wanaxa,
il segnale!
Il
re è oramai vicino!”
Dieci
anni.
Sono
dieci anni che ti attendo, Agamennone, che il mio pensiero ti
raggiunge e abbraccia ogni giorno, e desidero rivedere il tuo volto.
Non
sono una moglie fedele? Attento a ciò che risponderai, le
parole
feriscono e uccidono come una lama.
Ti
stupirà scoprire quanto siano simili.
“Clitemnestra...”
Dieci
anni.
Sono
dieci anni che mi chiamano regina: prima non lo ero, chiedi?
No,
perché come la Luna regna nel cielo solo fino a quando non
nasce il
Sole, è stata la tua lontananza ad avermi permesso di
sorgere e
guidare questa terra e la mia stessa vita.
E
ad una lunga notte, difficilmente seguirà un luminoso
giorno.
“Atta
metterà fine a tutto questo, finalmente.”
Il
mondo, Agamennone?
È
cambiato. È mutato nei sentimenti, nelle stagioni, nelle
regole.
Non
è lecito, non è consentito, gridi.
E
sei proprio tu a urlarlo... tu che per primo hai confuso e distrutto
la realtà, la legge, la pietà.
Dimmi:
in cosa sei diverso da me?
“Figlia
della Dea, sei pronta?”
Alzo
lo sguardo, sorpresa; ma non è più la voce del
messaggero, di
Egisto o Elettra a chiamarmi, ad accarezzarmi, a biasimarmi...
è la
mia, ed è l’unica che riesce a strapparmi dai
pensieri.
Per quanto sono rimasta loro prigioniera?
Ed
è già giunto il momento, dunque? Eppure solamente
un’ora fa era
ancora una debole luce... una promessa, un’attesa.
“Gioite!
Il wanax
è qui!”
Hai
vinto, dunque: la tua potenza ha piegato Ilio superba.
E
dimmi: quante ragazze hai ucciso, laggiù?
Nostra
figlia muore ogni giorno nella tua bramosia di
dominio.
“È
tutto pronto.”
Annuisco,
e con calma mi volto verso l’ancella
timorosa.
“Il
wanax
non è ancora troppo vicino, vero?”
“No,
mia signora... mancano ancora pochi istanti.”
“Benissimo.
Fai portare immediatamente un tappeto rosso [5] davanti alla porta,
perché lo calpesti da vincitore; e poi attendimi.”
Gli
ultimi istanti devono essere solo per me. Li chiamo ultimi,
perché
la realtà sta per cambiare nuovamente: ma questa volta il
volto che
mostrerà mi sarà sorridente e
benigno.
La
colpa di tutto quello che accadrà? È solamente
tua, mio sposo.
Se
solo tu avessi compreso la mia essenza, se solo tu avessi rispettato
le leggi che governano gli uomini non sarei giunta a tanto.
Mi
hai umiliato e messo in ginocchio, ma non sconfitto: dovevi
piegarmi, schiacciarmi per vincere. Non lo sapevi, vero?
Ma
ora questo non ha alcuna importanza; è solamente Passato.
È
un regno ricco [6] quello che ti attende, ma non è questo;
è una
primavera rigogliosa quella in procinto di nascere, ma tu non la
vedrai né sentirai, la potrai solamente piangere.
È
finita, Agamennone: una nuova età sta per nascere con me, e
finalmente la Madre ritornerà, indomabile e
pietosa, per
cancellare i soprusi e punire i colpevoli.
E
sorrido, mentre penso a questo e lascio il palazzo, ponendomi sulla
soglia e aprendo le braccia come per stringerti al mio cuore...
e
sorrido, mentre ti invito a entrare e a godere dei tuoi beni, del mio
amore e di ciò che Ilio ti ha fatto mancare...
e
sorrido mentre ti guardo avanzare nel mégaron,
la sala del
potere, con la tua superbia, senza che tu ti accorga che,
appesa
alla parete alle tue spalle, la scure dallo sguardo di rame
già
tramuta i miei desideri in realtà.
NOTE
[1]
Secondo una versione del mito, Egisto era figlio di Tieste, quindi
nipote di Atreo e cugino di Agamennone: alla luce delle
crudeltà che
i fratelli si perpetrarono l’un l’altro,
la
sua partecipazione all’assassinio del re si caricherebbe
così
anche dell’aspetto vendicativo che contraddistingue la storia
di
questa famiglia. In questo senso le fiamme lo riconoscono: tutto il
sangue che hanno visto scorrere sta nuovamente per sporcare il
palazzo, per opera di un animo nero quanto quello di coloro che
l’hanno preceduto.
[2]
Tutto ebbe origine per uno sgarbo di Agamennone: durante una battuta
di caccia, colpendo una cerva da una grande distanza,
dichiarò di
essere migliore della dea Artemide (la
“Cacciatrice”). Questa ne
fu offesa, e trattenendo il vento impedì per giorni alla
flotta
achea di partire per Troia.
Interpellato,
l’indovino Calcante rivelò che l’unico
modo per calmare la furia
divina
era sacrificare Ifigenia. Nonostante un primo rifiuto, alla minaccia
dell’esercito di ribellarsi e scegliere un altro capo, il re
fu
costretto ad accettare: quindi mandò dei messaggeri a
Micene,
chiedendo a Clitemnestra di raggiungerlo con Ifigenia, ingannandole
con la notizia di un matrimonio.
Nonostante
alcune versioni del mito riportino non la morte della ragazza, ma il
suo rapimento da parte della Dea e la sostituzione con una cerva
–
versione che però Eschilo non inserisce nella sua tragedia,
dove
Ifigenia viene appunto sacrificata –, non cambiano le
ripercussioni
che questo gesto avrà sulla sorte di Agamennone.
[3]
Il dio della Morte.
[4]
Così Eschilo definisce Clitemnestra. Tramite il dolore e la
ricerca
della vendetta, lei scavalcherà
tutte le imposizioni e le regole del genere femminile:
prenderà il
potere e sarà lei a governare, assumendo tutte le
prerogative del
re, mentre Egisto lo farà solo formalmente.
[5]
Scena famosa nell’Agamennone
di Eschilo: prelude al massacro – assomiglia
a un torrente di sangue –
che la donna compirà sul marito e su Cassandra, la
principessa
indovina, che Agamennone aveva ricevuto come bottino dopo il
saccheggio di Troia. Pur essendo innocente, la regina non
risparmierà
nemmeno lei.
[6] La ricchezza degli
Inferi
sta nella moltitudine di anime che lì dimorano; e il dio Ade
è
chiamato “ricco” per l’identico motivo.
ANGOLO
AUTRICE
Ben ritrovati a tutti.
Come
al solito, quando concludo una storia non so mai cosa dire: se non
un
doveroso,
enorme grazie che rivolgo
alle mie due fanciulle Flos
Ignis
e Ori_Hime,
e
alla mia dolcissima Leaina:
molte
di queste parole sono state ispirate da voi, quindi senza la vostra
presenza sarei ancora lontana dal concludere questo piccolo ma
sentito viaggio nel cuore della Regina.
Spero
che canterete ancora per me, mie Muse!
Grazie
anche a tutti coloro che hanno recensito o semplicemente letto questa
storia: avete condiviso con me molto più di quanto
possiate
pensare, e ve ne sono grata.
Va
bene, ormai abbiamo capito che sono negata nello scrivere note finali
decenti, quindi vi lascio prima di peggiorare ancora di più
le cose
-.-
Alla
prossima!
Manto
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