We're survivors

di Pleasantville
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1

"TRIIIN-TRIIIN"
Un suono fastidioso. Dal principio in lontananza, ma è così insistente e penetrante che mi raggiunge in un batter d'occhio. Apro le palpebre di colpo. Quel suono non è lontano, è solo a qualche spanna dalle mie orecchie, di preciso proviene dall'economico comodino preso un paio di mesi prima al centro commerciale durante i saldi. E' la sveglia che trilla come una forsennata.
Alzo goffamente un braccio, che mi da l'impressione di essere così pesante. Non appena esce allo scoperto ecco che un brivido lo pervade, facendo rizzare i piccoli peli: è sempre un trauma lasciare il calore delle coperte.
Uno schiaffetto alle sveglia e tutto piomba di nuovo nel silenzio.
Le 7:02.
Mi alzo, rimpiangendo subito l'azione appena compiuta, poi mi trascino in bagno ancora intorpidita dal sonno.
Un'altra giornata, le stesse cose da fare, solita monotonia.
Al lavandino lascio scorrere l'acqua per un pò, attendendo che diventi calda. Mi inondo il viso e ciò mi fa svegliare di colpo. Successivamente passo ai denti: quei infiniti due minuti in cui non ti rendi davvero conto di quello che fai, ma stai lì, davanti allo specchio ad osservarti coi capelli arruffati, mentre la mano si muove meccanicamente.
Mi vesto, poi subito a far colazione. Il momento più ambito di quella routine mattutina.
Preparo velocemente la caffettiera e durante l'attesa che il caffè sia pronto, metto a scaldare il latte e sistemo le fette biscottate a tavola. Quando finalmente mi siedo a gustare il mio caffèlatte una sensazione come di rigenerazione mi pervade. Adesso si, che posso affrontare un'altra uggiosa giornata.

Quando esco di casa l'aria è più fredda e tagliente del previsto. Il cielo è coperto da nuvole grigie e c'è un strana nebbiolina. Mi reco alla fermata del bus due strade più giù. Non c'è quasi nessuno in giro. Saranno state le notizie degli ultimi giorni che stanno passando alla radio e in TV, l'ultima è stata ieri sera: al telegiornale dicevano che a quanto pare un paziente di un ospedale in periferia, un uomo di 80 anni circa ricoverato per una polmonite, sia morto. Fino a qui nulla di strano, se non fosse che l'infermiera intervistata, ancora con la divisa sporca di sangue, affermava che era entrata nella stanza del paziente per far si che il corpo venisse trasportato all'obitorio e di essersi accorta che gli occhi dell'uomo sotto le palpebre chiuse le sembrassero muoversi, così si è avvicinata ed è stato allora che questi ha improvvisamente aperto gli occhi e le ha morso un braccio. E' assurdo, lo so. I morti che tornano in vita, che novità è questa? Da quale film post-apocalittico hanno fatto uscire questa notizia? Io trovo sia solo una trovata pubblicitaria, qualcosa con cui far spaventare la gente e spingerla a spendere i propri soldi in farmaci di cui non hanno bisogno, per curare una malattia immaginaria. Insomma, una mossa di marketing di qualche causa farmaceutica spregiudicata, quanto alla frutta se per vendere farmaci si ricorre a simili espedienti. Gli zombie, ma siamo seri?!
L'autobus è in ritardo. Strano, di solito è sempre in orario, nonostante il traffico che in genere c'è già a quest'ora. Spero non mi lasci a piedi. Non so loro, ma io non posso permettermi di perdere un giorno di lavoro a causa di storielle fantascientifiche.
Mi stringo nelle spalle: l'aria gelida si insinua subdola nelle fessure dei miei abiti, facendomi raggelare. Sospiro, preparandomi alla lunga camminata che dovrò affrontare, quando l'autobus finalmente arriva. Sospiro di nuovo: che fortuna!
Salgo sulla vettura e noto che solo due posti sono occupati; inizia a piacermi questa desolazione. L'autista mi segue con la coda dell'occhio. E' tutto imbacuccato in una pesante sciarpa che gli nasconde la bocca e il naso, lasciando scoperti solo gli occhi neri, sotto folte sopracciglia ingriggite. Tenuta anti epidemia? Forse teme che possa trasformarmi in uno zombie e saltargli alle spalle all'improvviso. Sorrido all'idea. La situazione è davvero grottesca e divertente allo stesso tempo. Nonostante siamo nel ventunesimo secolo le persone sono ancora così impressionabili...
Mi siedo a metà bus, nel sedile accanto il finestrino. Lo sguardo fisso fuori. Nonostante il ritardo arriverò comunque in tempo; le strade sono scorrevoli come mai avevo visto da quando vivo ad Atlanta.
La radio è accesa con una musica country di sottofondo, che viene interrotta all'improvviso da una voce femminile:
< Ci scusiamo per l'interruzione, ma è appena giunta notizia di alcuni disordini nella parte est della città. A quanto pare un gruppo di civili ostili ha attaccato senza alcuna ragione apparente dei passanti, scatenando il caos. Sul posto sono giunte le forze di polizia che dopo svariati avvertimenti si sono viste costrette ad aprire il fuoco. Da quanto riportato dai testimoni oculari i civili non sarebbero subito caduti sotto i colpi dei proiettili, ma avrebbero seguitato ad alzarsi più volte. I feriti sono stati prontamente soccorsi. Per il momento la situazione sembra sotto controllo. Vi aggiorneremo su ulteriori risvolti.>.
L'autista si fa il segno della croce e poi tocca il rosario che penzola dallo specchietto retrovisore.
Ecco la mia fermata, scendo e mi sbrigo a raggiungere il negozio in cui lavoro come commessa, qualche porta più giù. "Antiquaires and more... from Fred Clark" recita l'insegna dal sapore vintage. Già, un negozio d'antiquariato, dove passo gran parte della mia giornata, immersa da oggetti di ogni tipo ricoperti di polvere. Il proprietario, appunto Fred Clark come recitava l'insegna, ormai troppo vecchio per poterlo gestire personalmente, mi ha assunta un anno fa. Dice che per lui era arrivato il tempo di riposarsi e che la gente entrando, uno di questi giorni, l'avrebbe scambiato per un vecchio mobile, invece, dovevano sorprendersi di trovare una giovane ragazza tra tutto quel vecchiume. Fred è un vecchietto simpatico, così alto che con l'età si è un pò curvato su se stesso, ma ancora abbastanza vispo, con pochi capelli bianchi qua e là sulla testa e quel modo di vestire che mi ricorda tanto i gentlemen inglesi. Passa una volta al mese per consegnarmi lo stipendio e di tanto in tanto chiama per sapere come vanno le cose, ma son più chiamate che sembrano tra nonno e nipote che tra datore di lavoro e dipendente.
Il negozio in genere è un luogo tranquillo, spesso non entra nessuno, però va comunque bene. Abbiamo pochi clienti affezionati che quando comprano non badano a spese.
Sblocco la serratura e giro la maniglia, con una leggera spinta la porta si apre. Tintinna la campanella posta in cima, poi apro le tapparelle e la pallida luce di quel mattino entra nel locale illuminando il pulviscolo sospeso nell'aria. Attraverso il piccolo corridoio dai lati ingombrati da mobili e chincaglierie d'ogni tipo. Poso il cappotto e la borsa nella stanzetta del personale, poi mi metto dietro il bancone. Sono consapevole che oggi non entrerà anima viva, ma ciò non mi dispiace. Mi piace stare lì, in compagnia di quegli oggetti carichi di storia e vissuto, ad immaginare che casa avessero mai arredato o la faccia dei loro proprietari originari. Ormai conosco a memoria ogni singola cosa là dentro. Ricordo che avevo passato i primi 3 mesi a studiarli uno alla volta, tanto che se scomparisse qualcosa me ne accorgerei subito.
Mi siedo sullo sgabello, apro il mio romanzo per questo tipo di giornate e inizio a leggere.


Ore 18:00
Come previsto non è entrato nessuno. E' l'ora di chiusura e mi appresto a spegnere le luci. Fuori è già buio e le strade sono deserte da far quasi paura. Passa solo un'auto sfrecciando a gran velocità. "Ora ne approfittano per sentirsi in Fast and Furious" penso.
All'improvviso un boato e un fracasso infernale invadono l'aria circostante, tanto da farmi portare istintivamente le mani sulle orecchie, poi mi precipito fuori; l'auto di un attimo prima era andata a finire contro un idrante. La lamiera del veicolo è tutta accartocciata, mentre l'acqua esce violenta dall'idrante rotto, creando un enorme spruzzo. La portiera, causa lo scontro, è spalancata. Vedo una persona rotolare fuori. Muovo qualche passo in quella direzione con l'intenzione di dare aiuto, ma non so perché le mie gambe si fermano di colpo. Quel corpo è una donna che si sta rialzando da sola: indossa una camicia bianca grondante di sangue, che copioso le scivola sui pantaloni per andare a riversarsi a terra. I capelli lunghi, spettinati, che le ricadono sul viso. Tiene la testa bassa e barcollando si avvicina verso me.
< S-signora? > riesco a dire con un filo di voce.
Questa solleva il capo e incontro uno sguardo feroce, animalesco lanciato da due occhi di un azzurro acquoso, come fossero ciechi.
Indietreggio d'istinto, mentre lei continua ad avvicinarsi. Adesso allunga un braccio nella mia direzione, come volesse afferrarmi, accompagnata da un suono graffiante che le esce dalla bocca.
Sono confusa, pietrificata dalla paura. Cos'è quella cosa? Cosa diavolo è?! Ad un incidente del genere ci sono poche probabilità di sopravvivenza, soprattutto di uscirne in quel modo! Nessuno si sarebbe rialzato e nessuno starebbe ancora in piedi dopo aver perso quell'enorme quantità di sangue!
Sbatto le palpebre più volte e finalmente riesco a prendere di nuovo il controllo dei miei muscoli. Indietreggio altri due passi, poi mi volto e corro verso il negozio, dove mi chiudo la porta alle spalle.
Non so perché reagisco così. Tutto ciò che so è che il mio istinto di sopravvivenza mi dice di stare lontano da quell'essere e basta. Qualunque cosa sia trovarmi tra quelle mani non deve essere affatto piacevole.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2

E' ancora lì. Batte repentina contro la porta da ormai mezz'ora o un'ora, forse, non ne sono sicura; ho perso la cognizione del tempo. Sento il suo lamento: si propaga per il locale buio facendomi rabbrividire.
Sto accovacciata a terra, le spalle poggiate al bancone. La mia mente è in preda ad un ragionamento febbrile, nell'invano tentativo di trovare una spiegazione razionale. Peccato che qui di razionale ci sia ben poco, se non nulla!
I muscoli della mia bocca si contraggono in una sorta di sorriso nervoso. E' la paura.
Scuoto la testa e mi alzo in piedi di scatto < Basta! E' solo uno scherzo di pessimo gusto! > dico < Si, solo uno scherzo... > ripeto tra me e me < E non farò il loro gioco, non me ne starò barricata qui dentro! Io adesso torno a casa! E domani, chiunque sia l'autore imbecille di questa cosa, la pagherà!" >. Non appena finisco di pronunciare queste parole mi sento patetica. Non ci credo neanch'io. E' solo un maldestro tentativo di farmi coraggio e di nascondere a me stessa, che in realtà, me la sto facendo sotto dalla paura. Perché, parliamoci chiaro, chi dovrebbe aver mai interesse a far spaventare me? Una ragazza qualunque, una commessa qualunque di un qualunque e insulso negozio d'antiquariato! Andiamo, chi sarebbe tanto malato da architettare tutta questa messa in scena, con effetti speciali che neanche il miglior film di Hollywood si potrebbe sognare, per spaventare me?
Io, però, continuo a ripetermelo < E' tutto uno scherzo... > nella speranza che dopo averlo detto cinquanta volte inizi a crederci sul serio.
Mi reco nel piccolo magazzino alle spalle del negozio. Qui il signor Clark tiene la merce con poche probabilità di vendita, almeno è quello che dice lui; ma in realtà nel magazzino ci sono solo gli oggetti che non vuole vendere, quelli a cui è particolarmente affezionato. Come quel pugnale risalente alla prima guerra mondiale, appartenuto a suo padre, il tenente Jackson Clark, eroe di guerra premiato con medaglia al valore, che solo armato di esso aveva ucciso una miriade di nemici, informazioni derivanti sempre da ciò che amava raccontare il signor Clark, ovviamente.
Ed è proprio sul baule di cuoio consumato che i miei occhi si posano. Lo apro: all'interno, oltre il vestito da sposa della defunta signora Clark, c'è una custodia di velluto rosso contenente il pugnale. Questo ha la lama talmente usurata che non andrebbe bene neanche per tagliare un panetto di burro. Lo prendo comunque e lo infilo in tasca, poi vado alla porta del magazzino, che dà su una stradina secondaria. Con una mano stretta attorno al manico del pugnale e l'altra sulla maniglia, tiro un lungo respiro ed esco fuori.
L'aria fredda della sera mi colpisce in pieno viso, ma non ci faccio molto caso; sono tesa come una corda di violino.
Cammino a passi veloci, guardandomi in giro di tanto in tanto. Da fuori sono sicura di star sembrando un assassino che cerca di allontanarsi il più in fretta possibile dal luogo del delitto. Per strada non c'è nessuno e questo accresce la mia inquietudine. Voglio solo arrivare a casa, mettermi a letto e svegliarmi domani mattina come se tutto questo fosse solo un incubo. Anzi, meglio voglio svegliarmi proprio in questo istante. Magari mi sono addormentata sul bancone del negozio e adesso sto facendo uno di quei sogni super realistici.
Mi do un pizzicotto.
"Ahi".
Niente, è tutto vero.
UEEE-UEEE
Mi irrigidisco, poi mi volto. Un'auto della polizia mi si affianca. Ci sono due poliziotti, quello alla guida abbassa il finestrino e si affaccia:
< Signorina, che fa da sola per strada a quest'ora?" >.
La domanda mi stupisce. < Torno a casa dal lavoro... > rispondo come fosse una cosa ovvia < Quest'ora? Che ore sono, scusi? Non sarà più tardi delle 19:00... > osservo.
< Signorina, oggi pomeriggio è stato diramato il copri fuoco per le 18:00, non lo sa? E' stato annunciato da tutte le radio e telegiornali locali... > mi risponde lui.
< Io... no... > ribatto con un filo di voce. Da quando avevo messo piede in negozio quella mattina i miei contatti con il mondo esterno si erano praticamente interrotti.
Il poliziotto mi fissa con la fronte aggrottata.
Un brivido mi percorre la schiena. Devo avere una pessima cera. Forse sta pensando che sia sotto effetti di stupefacenti. Istintivamente stringo la mano che tengo ben salda in tasca e mi ricordo del coltello. Cavolo! Già ai loro occhi starò sembrando una sciroccata, mi manca solo che mi perquisiscano e mi trovino con un'arma addosso e abbiamo concluso questa giornata in bellezza!
< Ma non ha sentito dei disordini che si stanno verificando in città? > continua, ma fa appena in tempo a terminare la domanda che si sentono dei rumori di spari giungere da qualche isolato più in là, poi un boato ed una nuvola di fumo si solleva tra i palazzi.
< Torni a casa in fretta e faccia attenzione! > mi ordina il poliziotto, che subito sgomma via in direzione del fumo.
Che diavolo sta succedendo?!
Adesso non so perché, sarà che la mia voglia di mettermi nei guai supera di gran lunga quella di starne lontano, sarà il mio eccesso di curiosità, sarà che non mi voglio per niente bene, ma mi dirigo anch'io verso quel caos.
Voglio sapere. Se sta accadendo qualcosa di brutto, veramente brutto voglio vederlo di nuovo, una volta per tutte e come si deve. Non voglio stare sospesa tra incubo e realtà, non voglio sentirmi come una pazza. Quello che ho visto prima, l'ho visto solo io... non voglio sentirmi così ancora un istante di più... continuare a dubitare dei propri sensi, della propria mente, di se stessi...
Più mi avvicino, più il mio cuore aumenta i battiti. Di nuovo spari che squarciano il silenzio. L'allarme di una macchina inizia a squillare con insistenza.
Una parte di me dice che sono ancora in tempo per tornare indietro, correre a casa, l'altra invece mi ripete che devo proseguire.
Vedo una donna con un bambino in braccio correre nella mia direzione. Quando mi è accanto si ferma, voltandosi: ha lo sguardo sbarrato dal terrore < El diablo! > mi urla, poi riprende la sua corsa.
La strada ad un certo punto è chiusa da delle transenne, il fumo ormai è vicino e gli spari sono cessati da qualche secondo. Non mi costa fatica scavalcarle.
Ci sono auto della polizia ovunque, come a formare un muro. I poliziotti che avevo incontrato prima, insieme ad altri, rannicchiati dietro le portiere, imbracciando i fucili. Il fumo proviene da un condominio posto di fronte, di preciso esce copioso da una finestra del sesto piano. L'appartamento sta andando a fuoco.
C'è un gruppo di residenti qualche metro più là. Famiglie con bambini che piangono, avvolti nelle coperte. Qualche anziano che seguita a farsi il segno della croce.
Mi avvicino rendendomi conto che è un quartiere prettamente ispanico.
< Cosa sta accadendo? > domando.
Un uomo si gira < Guardalo da te > mi dice facendomi segno di salire sul cofano di un'auto parcheggiata, per vedere oltre il muro della polizia.
Salgo accompagnata dallo scricchiolio metallico della carrozzeria che non sembra molto d'accordo.
Ci sono delle persone in mezzo alla strada, alcuni vestiti con abiti da casa, altri sembrano dei normali passanti. Sull'asflato c'è del sangue, così come sui loro vestiti. Qualcuno è steso a terra, qualcun'altro si sta rialzando o si trascina. Dalle loro bocche esce quel verso... di nuovo quel verso. Stavolta però non è solo uno, ma più che insieme creano un coro che mi fa accapponare la pelle.
Sotto la finestra da cui esce il fumo, c'è l'auto da dove proviene il suono insistente dell'allarme. Ha il tettuccio ammaccato e un corpo riverso sopra.
< Una di quelle cose si è buttata di sotto facendo scattare l'allarme di quella dannata macchina! > mi spiega infastidito l'uomo di prima.
La polizia apre di nuovo il fuoco. Vedo i proiettili trafiggere quei corpi, entrare nella loro carne. Il sangue schizza fuori dal loro petto, gambe, braccia. C'è chi cade, ma si rialza. C'è chi continua ad avanzare imperterrito.
< Non muoiono... > sussurro strozzata.
< Sono già morti > mi risponde secco l'uomo < Questa è la fine del mondo >. 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

C'è freddo, un freddo maledetto. Lo sento insinuarsi attraverso le fessure dei miei abiti e sfiorarmi la pelle tagliente e inesorabile. C'è anche tanto buio. Non riesco a distinguere cosa mi circonda, vedo solo forme grossolane, imprecise che potrebbero appartenere ad alberi o palazzi. Sento un verso, quel verso. Il rantolio raschiato in fondo alla gola. Inizio a correre, ma i miei piedi sono pesanti ed ho come la sensazione di non stare avanzando, anzi più cerco di correre più sembro ferma. Sono stanca, ho già il fiatone, mentre il rantolo della morte si fa sempre più vicino. Mi giro, la vedo: la donna dell'incidente con l'auto sta arrancando nella mia direzione e paradossalmente è più veloce di me. La bocca aperta, i denti ben in vista. Mi volto di nuovo e continuo a correre, ma qualcosa mi afferra bloccandomi. E' lei, non so come mi ha già raggiunta. Il mio avambraccio è prigioniero nella sua morsa inaspettatamente ferrea. E' forte. Mi dimeno, cerco di spingerla via, mentre quegli occhi vitrei mi fissano famelici, i denti che scattano gli uni contro gli altri mordendo l'aria. E poi ecco altri rantolii, li sento propagarsi dall'oscurità attorno e subito dopo posso distinguere forme di corpi traballandi staccarsi dal buio e venire verso di me. Inizio a sudare freddo, il cuore palpita frenetico. Mi circondano, non posso scappare. Tutti quegli occhi acquosi che ti scrutano vuoti e bramosi allo stesso tempo, quelle mani fredde che sembrano artigli e quelle bocche minacciose... 
Chiudo gli occhi priva di forze, mi lascio andare rassegnata. Un dolore acuto mi pervade il braccio. Urlo. La mia voce viene sopraffatta dai loro versi. Poi ancora dolore, alla gamba credo. Apro gli occhi: vedo la carne che viene strappata mia dal mio corpo, il sangue che fuoriesce copioso, il muscolo della coscia scoperto, mentre più di loro si ammassano su quel punto, affamati, strappando ogni pezzo della mia pelle e gustandola. Li chiudo di nuovo. Adesso è tutto un continuo dolore straziante, le mie grida strozzate, i loro denti che affondano nei miei tessuti come fossero niente.
Spalanco gli occhi di colpo e sollevo la schiena, mettendomi a sedere. Le orecchie mi fischiano, ho l'affanno, avverto il sudore scendere lungo la nuca e la fronte. Non metto subito a fuoco ciò che mi sta attorno, mi occorre sbattere le palpebre un paio di volte.
Sono nella mia stanza, nel mio letto. Osservo le mie braccia, poi scopro le mie gambe: niente, pulite, nessun morso, nessuna parte mancante o pelle penzolante, solo i miei tatuaggi. Un grande corvo con tre occhi racchiuso in una cornice art noveau sulla coscia, un serpente attorcigliato intorno ad un pugnale lungo la caviglia ed una rosa sul braccio. Sospiro. Solo un incubo... si, un incubo.
Mi passo una mano sulla fronte < Sto perdendo la testa > mormoro tra me e me, poi mi giro a guardare la sveglia e con mia grande sorpresa mi accorgo che è quasi mezzogiorno.
Ho davvero dormito così tanto?! Non avevo comunque intenzione di andare a lavoro oggi, dopo gli avvenimenti della sera precedente: dopo essere tornata a casa dal quartiere ispanico non ero riuscita a prendere sonno, così ero ricorsa alla valeriana, ma dovevo averne presa troppa.
Mi alzo e vado in bagno. Il contatto dei piedi nudi contro il pavimento di ceramica freddo mi fa rabbrividire. Mi siedo sul bordo della vasca, lascio scorrere l'acqua e in attesa che si riempi mi avvicino al lavandino per lavare i denti. Quando ho finito mi spoglio, spargo i miei sali profumati alla lavanda nell'acqua e mi immergo nella vasca, provando una sensazione di rigenerazione. Mi sdraio lasciando fuori la testa dalle orecchie in su, poi allungando una mano accendo la radio lì vicino, poggiata su uno sgabello.
< La città è in preda ad una psicosi di massa. Nonostante le misure di sicurezza intraprese dal sindaco, quali il coprifuoco, alcune zone messe sotto quarantena e l'invito a mantenere la calma, la popolazione sembra averla persa del tutto. Le strade di Atlanta sono invase dalle auto con intere famiglie all'interno, dirette verso le uscite della città, già dalle prime ore del mattino. Non tranquillizzano i continui disordini che si stanno verificando ed espandendo a macchia d'olio nelle ultime ore. Gruppi anarchici insorgono armati, distruggendo auto e razziando negozi. Dalle 8:00 di questa mattina sono intervenute anche le forze dell'esercito per cercare di contenere il caos... ma sembra che questi avvenimenti non interessino soltanto la nostra città, ma bensì anche il resto della naz... Hey, signore... mi scusi, signore non può stare qui... cosa... ah! Ahhh! >.
La trasmissione si interrompe bruscamente.
Balzo fuori dalla vasca e grondante d'acqua cerco altre stazioni radiofoniche, ma hanno tutte la linea disturbata o non trasmettono neanche.
Mi avvolgo in un asciugamano e corro alla finestra della mia camera con ancora le tende chiuse. Le scosto e vedo fila di auto incolonnate che intasano la strada, i marciapiedi con la gente che va in su e giù come impazzita.
Improvvisamente sento degli spari dall'appartamento accanto. Sussulto. Poi la porta che si apre e i passi di qualcuno che si affretta a scendere le scale.
Apro la porta e sporgo la testa per vedere: l'uscio dell'appartamento affianco è aperto, c'è il corpo di una donna riverso sul pavimento, a faccia in giù, immerso in una pozza di sangue. E' Christine, anzi era, la moglie del vicino, Nick. Non li conosco molto bene. Lui ha un negozio di ferramenta, lei cassiera in un supermarket. Non ho mai scambiato molte parole con loro, tranne i soliti saluti convenzionali quando li incrociavo sulle scale. Lei, però, mi sembrava gentile. Ricordo che appena trasferita in quel palazzo mi preparò una torta di mele per darmi il benvenuto. Ricordo anche che non la mangiai; non amo la frutta, soprattutto nei dolci.
Mi sembra che per un attimo si sia mossa. Riduco gli occhi in una fessura, aggrotto la fronte e la osservo con attenzione. Adesso vedo con chiarezza le dita della sua mano sinistra staccarsi dal pavimento, poi le braccia e quel rantolo. E' una di loro e si sta rialzando.
Il mio cuore fa un tuffo nel vuoto, le gambe è come se fossero diventate di burro. Incontro il suo sguardo, quegli occhi iniettati di sangue...
Deglutisco e mi lancio in uno scatto in avanti, afferro la maniglia della porta e la chiudo sbattendola. Il rumore rimbomba per la tromba delle scale.
Rientro a casa < Cazzo! Cazzo! Cazzo! > dico a ripetizione, urlando l'ultima imprecazione.
La sento battere contro il legno della porta.
Trovarmi quella cosa là, nell'edificio in cui vivo, nel mio pianerottolo, nella casa del mio vicino, ad un paio di metri da me... Dio! Ormai nessun luogo era sicuro, neanche ciò che chiami casa. E questo è sufficiente a farmi decidere di andare via.
Mi vesto velocemente, indossando un paio di jeans scuri, una canottiera nera e sopra una larga ed anonima felpa grigia con il cappuccio, ai piedi degli anfibi. Prendo uno zaino ed inizio a riempierlo di cibo, acqua, un paio di maglie pulite, qualche medicinale. Vado in cucina e aprendo il cassetto estraggo un coltello ben affilato che nascondo subito nel tascone centrale della felpa, poi lancio un ultimo sguardo al mio appartamento.
Mi sono trasferita ad Atlanta da poco più di un anno, cercando una vita diversa, un nuovo inizio, qualcosa di buono che ero convinta solo una metropoli potesse offrire. Lasciare il piccolo paesino in cui sono nata e cresciuta non mi era costato niente, in termini affettivi soprattutto. Con la mia famiglia non ho mai avuto dei buoni rapporti, siamo stati sempre sopra due pianeti diversi. Mio padre mai presente, lavorava, tornava a casa, mangiava e dormiva. Non si è mai interessato, non mi ha mai chiesto < Come ti va la vita? > o semplicemente < Com'è andata a scuola oggi? >. Per lui ero come invisibile. Mia madre, la classica casalinga infelice, che ogni mese trovava qualcosa di diverso su cui focalizzare le proprie energie, che poi si trasformava in pura ossessione: il mese delle borse, quello dei gioielli, poi quello della palestra. Insomma tutto, tranne che interessarsi di sua figlia, di cosa provasse, di cosa le accadesse. E ai loro occhi ero praticamente un'estranea, costantemente la pecora nera, quella strana, quella impossibile da capire, come se ci avessero mai provato!
Amici, non ne ho mai avuti. Non sono mai stata brava ad intraprendere rapporti umani. Mi sono sentita sempre diversa dai miei coetanei. A me non interessava ciò che, invece, costituiva il mondo delle ragazzine in piena adolescenza. Niente vestiti, capelli, trucco, la boy band del momento e altre superficialità, così stavo sempre per i fatti miei. Forse era proprio quello il problema, che stavo troppo a pensare.
Quindi quando ho lasciato il mio paese non ho provato tristezza, anzi. Sono arrivata ad Atlanta con tante aspettative, ma anche qui non è andata poi diversamente. Volevo fare l'artista, diventare una pittrice affermata, ma alla fine tutto ciò che sono riuscita a fare è diventare la commessa di un negozio d'antiquariato. Non sono riuscita nemmeno a farmi degli amici. Ormai sono arrivata alla conclusione che il problema non sono gli altri, ma io. Credevo che l'origine del mio malessere, del mio sentirmi eternamente fuori posto fosse quel paesino con la sua mentalità ristretta: mi sbagliavo. La mela marcia sono io.
I miei occhi si posano su una pila di tele accatastate in un angolo della cucina. In fondo non mi mancherà quel posto, non mi mancheranno le mie cose. Sono come un animale randagio, non sono mai riuscita ad affezionarmi particolarmente alle cose.
Esco chiudendomi la porta alle spalle e insieme ad essa chiudo l'ennesimo capitolo infruttuoso della mia vita. Sul pianerottolo si sente solo lei che continua a spingere contro la porta. Scendo le scale e varco la soglia del portone. Fuori mi avvolge il caos.
Le macchine incolonnate, il suono insistente dei clacson, la gente che corre, gli elicotteri che sorvolano la città, le sirene dei soccorsi in lontananza. Adesso che ci sto in mezzo non mi impressiona neanche più. Forse è proprio nel caos che mi sento a mio agio. 
Sollevo il cappuccio della felpa.
Inizio a pensare che sono nata per la fine del mondo. Che forse per tutta la vita ho aspettato questo momento. Non essere da sola mentre si va alla deriva, non essere l'unica a porsi domande, ad essere sopraffatta dai dubbi, dalla paura dell'incognita per il futuro. A non sentirmi diversa, fuori luogo perché non sono più solo io, ma il mondo intero ad essere impazzito.

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